Eine Kugel Reicht

di tabata
"... Bill?"

Quando le sue telefonate iniziano così, so che non devo aspettarmi niente di buono. Mi chiama per nome soltanto quando si tratta di qualcosa di serio, per tutto il resto del tempo sono Principessa.

Stringo la presa sul telefono e faccio un respiro profondo, chiudendo e aprendo gli occhi nel tentativo di trovare una calma che non ho. Non devo sentirlo spiegare per sapere che si è messo nei guai, perché lo fa sempre. A volte si tratta solo di andarlo a recuperare in qualche schifo di posto, ubriaco da far paura, prima che lo trovino i giornalisti, alle volte si tratta della sua fottuta gang. E quelle sono le volte peggiori.

Mi chiedo quale delle due situazioni sia stavolta, se mi vomiterà addosso o se all'ospedale gli daranno quattro punti per una coltellata al braccio. Non sarebbe la prima volta e probabilmente neanche l'ultima.

Due mesi fa mi ha costretto a trascinarlo di peso al pronto soccorso, stivali di pelle e occhiali di Prada, io che lo sorreggo fino al banco dell'accettazione da solo. No Bill, niente polizia. E' una cosa che ci risolviamo fra di noi. Tu non puoi capire.

Io non capisco, e intanto ho sempre il suo sangue sulle mani, perché di me si fida. Ecco qual'è il problema con lui: ci mette tanto a fidarsi, ma quando lo fa ti scarica addosso ogni cosa: voglia, amore, sesso. I suoi guai.

Siedo sul letto e mi passo una mano tra i capelli, ero già pronto per andare a dormire e il mio viso struccato mi guarda attraverso il riflesso nello specchio. "Dimmi," sussurro stanco.

"Ascolta, adesso non andare nel panico, d'accordo?"

Il miglior modo per farmi andare nel panico è dirmi di non farlo. Adesso so che la cosa è perfino più grave di quanto avessi pensato. "Anis, dove sei?"

"Sto venendo lì," mi dice.

"Anis, cosa-"

Riattacca prima che io possa chiedergli niente.
Chiudo il telefono e lo getto sul letto con uno scatto nervoso. Non so cos'altro fare se non sfogare la rabbia contro gli oggetti inanimati. Vorrei chiamare Tom ma so già quello che mi direbbe, abbiamo avuto questa discussione così tante volte prima di stasera che potrei non aver bisogno della sua persona dall'altra parte del telefono per ripeterla tutta, parola per parola.

A Tom Bushido piaceva.

Anzi, forse piaceva più a lui che a me. Lo adorava, letteralmente.
A chiederlo a lui, Bushido era l'uomo perfetto, un modello di vita, da imitare sotto ogni punto di vista: la musica, lo stile, le fighe. Dalla bocca di mio fratello non uscivano che parole di amore assoluto per quell'uomo.

Il giorno che gli dissi che, oltre a cantare il suo passato nel ghetto e il suo presente nell'oro, aveva trovato anche il tempo di infilarsi nel mio letto Tom dette di matto. Non avevo pensato che la prendesse bene ma non mi aspettavo nanche una reazione del genere.

Non avevo mai visto nessuno riunire insieme tutti i cd del suo cantante preferito e saltarci davvero sopra per spregio fino a distruggere tutto ciò che fino a quel momento aveva venerato come un Dio.

Il mio tentativo di fermarlo fu del tutto inutile.
In quindici minuti mio fratello riuscì a dedicarmi una quantità di offese tale che avrebbe fatto impallidire perfino Anis. Mi accusò di qualunque cosa, in particolar modo di essere un maledetto frocio.

Disse proprio così: un maledetto frocio.
Esattamente come lo avrebbe detto un rapper serio; non uno come Bushido, evidentemente, che con quelli come me ci si trastullava.

In realtà non mi arrabbiai, capivo Tom come lo avevo sempre capito e non potevo davvero offendermi. Mio fratello si era sentito tradito: da me, che gli avevo confessato di essere omosessuale andando a letto con il suo idolo e da Bushido, il suo idolo, che si era portato a letto suo fratello. Era una situazione così surreale che non c'è da sorprendersi se non trovò la forza di tenere a freno le parole.

Quando finalmente venne a patti con quello che gli avevo detto, rendendosi conto che ero sempre io e che niente era davvero cambiato, allora gli rimase solo un sacco di rabbia che doveva pur sfogarsi da qualche parte e l'obbiettivo naturale finì per essere Bushido.

Cominciò a dirmi che uno così non andava bene per me e che se dovevo stare con un ragazzo allora doveva essere uno che mi volesse bene e che non mi sfoggiasse in giro come un trofeo; si attaccò al fatto che Anis continuava ad entrare ed uscire di prigione, che non mi avrebbe portato niente di buono, che non mi meritava.

Feci l'errore più grosso, convincendolo a parlare con lui: vennero quasi alle mani e Tom si rifiutò di sentire qualsiasi ragione. Da quel momento non ne vuole sentire parlare. Posso chiedergli qualunque cosa ma non vuole avere niente a che fare con la merda che devo affrontare per colpa di Bushido. Dice che me l'aveva detto, e l'unico consiglio che mi dà è quello di mollarlo.

Ho sperato che si ricredesse ma non è successo e ora che sono passati sei mesi e Bushido nel mi letto ci ha fatto il nido, non mi aspetto più di far capire a Tom come stanno le cose. Mi prendo quella parte di lui che ancora mi vuole bene e lui si accontenta di ciò che può sopportare di me. Il resto facciamo finta che non esista.
 
Lo sento bussare alla porta. Un colpo breve, uno lungo e uno breve di nuovo: lo abbiamo stabilito qualche settimana fa. A me è sembrata una stronzata ma lui ha insistito, ha detto che dovevamo avere un segnale per le emergenze. Quando gli ho chiesto a quali emergenze si riferisse non ha risposto e abbiamo finito per fare sesso.

Per Anis il sesso è la soluzione a tutte le risposte che non sa o non può darmi.
E' così importante per lui realizzare tutti i miei desideri che quando non può farlo, s'incazza e cerca di fare ammenda nell'unico modo che conosce. A volte il suo corpo dentro di me è più che sufficiente, a volte invece vorrei che mi parlasse.

Che se devo lavare a secco i miei pantaloni per togliere il sangue, vorrei almeno sapere il perché.

Quando apro la porta lo trovo appoggiato allo stipite, che mi sorride. "Hey Principessa," esala. Cerca di fare l'uomo del ghetto ma è a pezzi. Mi si accascia addosso un attimo dopo e sono costretto a fare un passo indietro per sostenerlo.

"Anis!" Esclamo, quando sento il freddo della pistola contro un fianco.

"Tranquillo, sono intero," mi risponde. "Chiudi la porta, svelto."

Cerca di tirarsi su e barcolla verso il letto mentre obbedisco e sprango la porta del mio appartamento. Lui si siede, ha gli occhi pesanti.

"Che diavolo è successo?"

"Niente."

"Niente un cazzo," ribatto perché sono infuriato e perché ha la maglia piena di sangue e non so se sia il suo. "Guarda come sei ridotto!"

Mi avvicino e mi afferra per la nuca, attirandomi a sè. Mi bacia e sento il sapore del ferro nella sua bocca. "Calmati, va tutto bene," mi dice.

Appoggio la fronte alla sua ed espiro, i miei nervi si distendono sotto le sue carezze ruvide. "Perchè deve sempre andare così?" Mugolo, chiudendo gli occhi.

"Piccolo, lo sai il perchè."

E' il suo mondo. E Tom ha ragione su questo: il suo mondo fa schifo.
Finché lo canti va bene, quando ci entri dentro è tutto una merda.
La crew non è la tua band, è la tua famiglia. Non la lasci e non la perdi mai, e viene prima di tutto: soldi, fama, donne. Amore.

Io so che Anis mi ama.

A modo suo, certo, ma lo fa.
Da lui non posso aspettarmi fiori e cioccolatini, non posso aspettarmi che mi tratti bene, che passi con me il natale o che si faccia in quattro per piacere a mia madre. A lui di mia madre non frega niente e non vuole portarmi a cena, al cinema o a passeggiare nel parco.

Lui vuole che io sia suo.

Che a differenza di tutte le puttane che si è fatto prima di incontrare me, significa che mi ama. Io ho il mio spazio nella crew, nessuno può toccarmi, nessuno può dire niente.
Questo è l'amore del ghetto: sono la ragazza del capo.

"Sei ferito?" Gli chiedo.

"E' solo un graffio," risponde, con una smorfia, strappandomi dalle mani il braccio che gli ho sollevato per controllare meglio.

Il suo graffio è lungo almeno dieci centimetri ed è abbastanza profondo perché ci vogliano dei punti che io non posso dargli. "Vado a prendere la cassetta del pronto soccorso."

"Aspetta," mi afferra per il braccio e mi bacia di nuovo.
Lascia scorrere la mano lungo il fianco e lo stringe con una disperazione che non gli ho mai visto addosso e che mi fa paura. Quando mi allontano mi sembra che tutto questo significhi molto di più

A curare le ferite ho imparato con Tom che ha passato l'infanzia a saltare ovunque, sbucciandosi le ginocchia. Le coltellate non sono esattamente la stessa cosa ma con Anis ho imparato ad occuparmi anche di quelle. "Chi erano stavolta?" Chiedo, mentre gli pulisco la ferita sul bicipite.

"Non hai bisogno di-"

"Dmmelo e basta. Mi pare un po' tardi per parlare del tempo, no?"

"Sono stati gli uomini di Fler," cede lui alla fine. O forse pensava di dirmelo fin dall'inizio, queste cose le programma sempre. "C'è stata una rissa, con i coltelli."

 "Perché hai in mano la Heckler, allora?"

"Bill lo sai come vanno queste cose, maledizione!" Sbotta e allontana il braccio, lasciandomi con la mano a mezz'aria mentre reggo il batuffolo di cotone. "Prima ci sono gli insulti, poi i coltelli. Alla fine qualcuno tira fuori la pistola e-"

"E qualcun altro muore!" Replico io. "Non ve le siete tirate abbastanza tu e Fler?"

Guarda altrove, come un bambino che è stato appena sgridato. "Tu non puoi capire, bimbo," butta lì, con la voce bassa da gangster che alle volte mi fa ridere e certe volte, come questa, mi fa venire voglia di picchiarlo.

"Spiegamelo, allora."

Quando faccio così, so che gli dò fastidio; rientra tutto nell'immagine che dovrebbe avere, che si era costruito prima del mio arrivo e che piano piano è andata frantumandosi per colpa mia fino a ridursi soltanto ad un pallido riflesso.

Un rapper dev'essere brutto, sporco e cattivo.
Deve spendere soldi e spandere merda. Prendersela col sistema ed essere politicamente scorretto con tutto e con tutti.

Ma soprattutto: un rapper non si innamora di un uomo.

Per una cosa del genere non c'è giustificazione.
La tua crew è autorizzata non solo a disconoscerti ma a dartele di santa ragione. E' quello che hanno fatto all'inizio, finché Anis non ha mostrato i denti e ha deciso lui per tutti che io stavo dove diceva lui.

E' a questo che Fler si è attaccato.
Ha cominciato a ridicolizzarlo, a mettere in chiaro i punti sconnessi tra la vita del rapper e la vita di Anis. E' difficile mantenere la credibilità, è difficile chiedere ai tuoi uomini di sopportare gli insulti, solo perchè ti piace avere un maschietto nel letto.

Per questo Anis non vuole che io metta bocca nelle sue questioni: è' l'unico modo che ha per mantenere in piedi la maschera del rapper; ha combattuto per me, e quello che mi si chiede è di non immischiarmi nei nessi logici del ghetto. Se lo faccio, si innervosisce.

E di solito obbedisco e seguo le istruzioni, godendomi i miei privilegi.
Godendomi lui, oltre ogni previsione. A me va bene tutto, anche fare la bambolina al suo fianco, ma se devo aprirgli la porta alle due di notte e ricucirgli un braccio, vorrei che mi mettesse al corrente degli eventi che mi hanno portato a farlo.

Anche la donna del capo ha i suoi limiti.

"Anis," chiedo ancora.

"Non sono cose che ti riguardano," replica di scatto. Poi alza gli occhi nocciola su di me e sospira, accarezzandomi la testa. "E' un fottuto casino, Bill, non voglio che tu ci vada di mezzo."

"Il mio copriletto lo ha già fatto," indico sorridendo il letto su cui è seduto e sul quale è colato del sangue. "Quindi perché non io?"

"Perchè non è uno scherzo," replica lui, senza che l'atmosfera si sia alleggerita. "Ci sono quattro dei suoi là fuori che mi stanno cercando e non so neanche se mi hanno seguito. Ho fatto male anche solo a chiamarti."

"Resta qui," dico deciso. "Domattina, ti fai venire a prendere dalla sicurezza della Universal. Una volta a casa non ci saranno problemi."

"Vuoi che mi prendano per un vigliacco?"

Espiro seccamente. Vorrei dirgli che non saprei che farmene del suo coraggio da sano maschio etero quando mi chiamerebbero all'obitorio per riconoscerlo ma mi trattengo perché litigare sarebbe una perdita di tempo. "Allora chiamiamo la polizia!"

Non mi risponde neanche.
Si avvicina alla finestra e scruta la strada dalle mie veneziane. "Merda!"

"Che succede?" Faccio per raggiungerlo.

"Stai lontano dalla finestra!" Mi ordina secco, voltandosi per un solo istante. Poi la sua voce si addolcisce. "E' pericoloso. Voglio che stai dall'altra parte della stanza."

Obbedisco e arretro, fermandomi solo quando ho il muro alle spalle, lo osservo mentre torna a voltarsi verso la strada. Stringe la presa sulla pistola, e vedo che è nervoso. "Sono qui?"

Annuisce.

In quel momento la mia percezione della situazione cambia. Ho sempre sentito parlare di crew e di faide, di patti d'onore e di vendetta; ma tutto è sempre stato molto lontano, a dire la verità. Perfino quando ho visto la Heckler per la prima volta, non mi è sembrata nient'altro che un giocattolo, con Anis ci ridevamo anche mentre cercavo di tenerla in mano e sembrava così assurdamente fuori posto tra le mie dita magre.

Le ferite mi preoccupavano, ma Anis era ancora in piedi, accanto a me.
E quindi niente poteva essere andato veramente male. Fler era un uomo ombra, troppo lontano per farmi del male.

Ora però sono sotto casa mia, Anis è alla finestra e mi ha appena urlato di stare lontano.
La mia testa non mi permette di credere che possa davvero succedere qualcosa di serio; sono i miei occhi a farlo.

Faccio due passi avanti e ripeto ad Anis che dovremmo chiamare la polizia, lui si gira per una frazione di secondo. E' soltanto un attimo e io non capisco esattamente cosa succede.



.....Denn eine Kugel reicht



Il frantumarsi del vetro non si sente, è una questione di colori.

Vedo la sua maglietta farsi rossa e il pavimento scuro riempirsi di mille frammenti di vetro trasparente. E' un fermo-immagine più colorato di quanto mi aspettassi. Il rosso del sangue non disegna nessun arco, ma colora la stoffa e poi mi accorgo che è spruzzato anche a terra. In tutto questo Anis è ancora in piedi.

Abbassiamo entrambi lo sguardo.
Il foro è lì dove prima non c'era; mi ritrovo a pensare che è immensamente piccolo.
Non so cosa mi aspettassi.

Quando lo guardo, nei suoi occhi c'è qualcosa che mi rifiuto di leggere.
"Bill," mi dice e io sto già scuotendo la testa e lui mi stringe i polsi.
Non so con che forza, ma lo fa.

Non faccio in tempo a sentirlo davvero che sento un secondo sibilo e lui si accascia su di me con un gemito strozzato e sono troppo occupato a tenerlo in piedi per rendermi conto che il sangue che mi scende sulla coscia e il mio.

Lo trascino a fatica sul letto mentre fuori il mondo sembra essersi svegliato tutto insieme.
Sento le sirene della polizia e le grida, c'è sicuramente qualcuno che corre; ma sono dettagli che non colgo al momento. Tutto ciò che vedo è Anis che socchiude gli occhi.
Non voglio gridare.

Gattono sul letto e lo raggiungo. Lo tocco freneticamente, come se volessi assicurarmi che è ancora lì. Ho bisogno di sentire la sua pelle ruvida. "Va tutto bene," mormora, mentre gli accarezzo il viso. "E' solo un graffio."

"Dobbiamo chiamare un'ambulanza," singhiozzo.
E il rumore che emetto mi spaventa, perché non mi ero accorto di piangere.

"Shh..." mi tira verso di lui e mi bacia piano sulle labbra. Sto piangendo così tanto che quasi mi soffoco. Mi sembra che i miei capelli siano ovunque, come il suo sangue. "Non piangere. E' tutto a posto."

So che dovrei chiamare un'ambulanza, ma lui mi tiene stretto a sè e non voglio allontanarmi dal suo calore. "Tuo fratello sarà contento," sorride. "Mi sono tolto dalle palle."

"Non dire così!" Strido. Cerco di liberarmi. "Devo chiamare un'ambulanza."

Lui mi trattiene giù, mi tira per i capelli gentilmente, come fa di solito, e mi guarda. Non ha bisogno di dirmelo, lo vedo dai suoi occhi. "Anis, no..."

"Se dipendesse da me, ti assicuro che starei qui," si sforza di sorridere. "La compagnia è senz'altro migliore.

Dio, Dio, Dio... cosa devo fare? Tutto questo sangue.
Penso stupidamente che adesso il disinfettante non mi basta più.

E mentre non so cosa fare, lui decide per entrambi.
Come sempre.

Chiude gli occhi e questa volta non li riapre.
Il suo respiro si ferma sulla mia bocca.

Tutto quello che segue lo faccio senza rendermene conto.
Mi dico che se Anis fosse qui saprebbe senz'altro cosa fare in questi casi.
Poi mi viene in mente che lui è qui, ma che non gli posso più chiedere niente.

Non riesco a pensare a nient'altro.

Su quel letto di solito ci scopavamo e adesso non è che il feretro del suo corpo.
L'uomo che amo è disteso là sopra in malo modo, con le braccia e le gambe che pendono fuori come se vi si fosse buttato sopra a casaccio. Sembra che dorma, o che finga di dormire, e aspetti me come fa sempre. Solo che c'è un lago di sangue che gocciola sul parquet e l'unica cosa che riesco a fare è contare le gocce, una dopo l'altra.

Aspetto l'ambulanza che se lo porti via, che me lo porti via.

Forse devo chiamare Tom.
Mi gira la testa e mi raggomitolo sul letto accanto a lui.
Spero che mio fratello non urli: Anis odia essere svegliato in malo modo.

Spero solo questo. Che Tom non gridi.

Il resto è quel che rimane del calore di Anis contro il mio corpo e io che ci piango sopra, come un bambino.

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Nie Wieder

di lisachan
Sulla pista oggi il vento è così forte che devo camminare per forza un po’ inclinato in avanti, mentre mi muovo verso la scala per salire sull’aereo. Intorno a me la gente si muove frenetica trascinando borsoni e sacchetti di plastica, sorridono quasi tutti. Partire per Miami, d’altronde, è una cosa che in genere rende allegri. È un bel posto per una vacanza ed è un bel posto anche per gli incontri lavorativi, come dimostrano i numerosi uomini d’affari che si ritagliano un po’ di spazio fra una famiglia e l’altra, avvolti nei loro completi gessati e in compagnia delle loro onnipresenti ventiquattrore. Io forse avrei potuto essere una persona così, una persona che va in giro in gessato e ventiquattrore. Forse potrei esserlo anche adesso, il mio mestiere non me lo vieterebbe, e forse è proprio perché non voglio che invece mi ostino ad andare in giro in jeans, maglietta e giacca di pelle, quando le circostanze non mi obbligano all’abito formale – ed anche lì, in genere, riesco comunque a piegarle al mio volere, le circostanze.
In sostanza sembro un pesce fuor d’acqua in mezzo a tutta questa gente che si muove inequivocabilmente o per turismo o per lavoro. Io perché mi muovo? A guardarmi non lo si saprebbe dire, ho con me solo uno zaino. Se mi guardassi da fuori, non saprei indovinarlo, il perché della mia partenza. In realtà ho difficoltà a capirlo anche guardandomi da dentro. Questo è un po’ un problema, ma penso me ne occuperò a tempo debito – cioè quando sarò già arrivato, perché trovare una risposta a questo perché potrebbe essere sufficiente a costringermi a rimanere qui, e nonostante tutto non voglio farlo. Anche se non so perché sto partendo, voglio partire lo stesso.
Oggi è il ventotto settembre. Quando, stamattina, ho chiamato Tom, per assicurarmi che fosse tutto a posto, attraverso la cornetta e sotto la voce agitata del mio stupido chitarrista preoccupato ho sentito il flusso persistente delle lacrime di Bill venare l’aria in un lamento continuo e regolare, ed ho sospirato.
Io penso che Bushido sia entrato dentro Bill fino ad impossessarsi di ogni singola cellula del suo corpo. Ci sono molti modi di sentire la mancanza di una persona e tutti coloro che hanno vissuto al fianco di quell’uomo – l’avessero fatto per mesi, per anni o per pochi giorni – adesso sentono il vuoto causato dalla sua assenza in modi molto diversi. Ognuno ha il proprio ed ogni modo è intimo e personale, ma nessuno – nessuno – si sente mancare un pezzo di sé come sta succedendo adesso a Bill. Bill, che era una persona della quale si poteva dire tutto meno che fosse incompleta – perché lo vedevi da come andava in giro, da come sorrideva, da come gli brillavano gli occhi, che non gli mancava niente – Bill adesso è una cosa spezzata in due e non riesce a recuperare il pezzo di sé che ha perso. Non oso immaginare cosa dev’essere stato per Tom scoprire che l’altra metà di suo fratello non era più lui, ma so che sono fiero di lui per come si sta comportando adesso, soprattutto perché con Bushido lui non era mai veramente venuto a patti e Bill non l’ha mai neanche aiutato ad avvicinarglisi, quindi è molto bello da parte sua, adesso, mettere da parte il proprio risentimento per stringersi attorno a suo fratello mentre lui piange e strepita come Bushido fosse morto ieri, solo perché oggi è il suo compleanno e non possono più festeggiarlo insieme.
Bushido, naturalmente, non è morto, e questo dovreste già saperlo. Solo che oggi, ventotto settembre duemilaotto, lo so solo io. E lui, dall’altro lato dell’oceano. Anche se non sono proprio sicuro che, nonostante sia sopravvissuto, al momento sia propenso a credersi vivo. Ci sono molti modi anche di morire, in fondo; non mi sembra di mentire, quando ripeto a me stesso che meno di tre mesi fa noi quell’uomo l’abbiamo seppellito per sempre. Quello che c’è adesso in quell’appartamento a Miami non è Bushido e non è nemmeno Anis Mohamed Youssef Ferchichi, e non è il King of Kingz e non è niente di quello che Bushido è stato quando era ancora se stesso ed era qui. Quindi sì, Bushido è morto. Pensarla in questi termini non è sbagliato.
Solo che è morto un nome. Un nome significa tanto, ma non tutto. C’è ancora un corpo, c’è ancora un uomo, quell’uomo è vivo e non riesce ad esserlo.
Questo è probabilmente il motivo per cui sto partendo, dopotutto.
Un bambino sfugge al controllo della madre e si mette a girare in tondo per la pista, facendo lo slalom fra i viaggiatori che un po’ ridono e un po’ sono infastiditi dal suo muoversi così frenetico. Io sbuffo un mezzo sorriso e resto appena il tempo di osservare il bimbo inciampare sui propri stessi piedini incerti e cadere per terra con un tonfo, subito seguito da uno scoppio di pianto accorato e lamentoso che mi ricorda moltissimo il pianto di Bill, motivo per cui distolgo lo sguardo e smetto di restare lì in attesa del niente: stringo una mano con forza attorno alla cinghia dello zaino e risalgo la scala, andando alla ricerca del mio posto. Quando lo trovo, mi siedo ed allaccio la cintura. Sistemo lo schienale del sedile perché sia ben dritto ed infilo lo zaino sotto il sedile di fronte al mio. Poi mi rilasso. Chiudo gli occhi. E non resto sveglio abbastanza da sentire la hostess spiegarmi come dovrò salvarmi la vita in caso di pericolo.
*
Bushido non sa che sono qui e probabilmente neanche se lo aspetta. Quando l’ho sentito l’ultima volta, ieri sera, non sembrava essere abbastanza presente a se stesso da aspettarsi alcunché, d’altronde. Di certo non poteva aspettarsi che avessi già il biglietto in mano mentre lo ascoltavo biascicare qualcosa sulla birra americana che sembra piscio, scuotendo il capo mentre si fracassava il ginocchio contro un mobile non meglio identificato e cominciava poi a mugolare di dolore accasciandosi a terra. Ora – che è più o meno lo stesso orario del giorno dopo – mi auguro solo di non ritrovarlo nello stesso posto in cui l’ho immaginato mentre parlavamo al telefono ieri, ed è con un sospiro sfiduciato che mi infilo in un taxi e ripeto a memoria l’indirizzo al conducente, recuperando poi il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans e componendo il numero di Tom.
Lui non risponde subito, e quando lo fa il suo tono di voce è soffice e un po’ assonnato.
- David…? – mugola, - Che ore sono…?
Io sorrido appena.
- Un ottimo orario per fare la nanna, in realtà. – lo prendo in giro, - Un po’ presto per i tuoi standard, ma potrebbe diventare un’ottima abitudine.
- Sei un cretino. – borbotta lui in un mezzo sussurro, - Bill dorme. – dice poi, senza attendere che sia io a chiederglielo, - È rimasto qui a parlare piangendo per ore, e poi s’è addormentato. Dovresti vederlo. È sfatto.
Serro la mascella, annuendo meccanicamente, anche se lui non può vedermi.
- Lo immagino. Lo tieni da te, stanotte?
- Ovvio. Che pretendi, che lo riporti a casa sua? – poi sospira e lo sento allungarsi sul materasso, stendendo un braccio. Bill mugola mentre lui lo stringe, ma sento nella cornetta il suo respiro tranquillo e regolare e so che non s’è svegliato, perciò sorrido. – Non ha fatto che parlare di lui. – continua Tom, la voce bassa venata di tristezza. – Non sono riuscito a farlo parlare d’altro.
- È ancora presto… - gli spiego, sospirando appena, - Starà meglio. Fra un po’.
- No, io non credo, David. – dice lui, e ne è talmente sicuro che non trovo la forza di rispondergli che è convinto così solo perché è piccolo e perché, come suo fratello, in questo momento è convinto che, morto Bushido, sia morto anche tutto il resto. Bill e Tom non sono mai stati tanto distanti l’uno dall’altro come lo sono adesso. Al contempo, però, non sono nemmeno mai stati tanto vicini. – Io non credo. – ripete più nervosamente. – Non so cosa fare con lui.
- Devi solo stargli vicino, Tom. – cerco di rassicurarlo, - Solo questo. Andrà meglio.
- Mi sono rotto di sentirtelo ripetere. – singhiozza lui, ed io mi rendo conto che questo ragazzino, perché di ragazzino si tratta, ha ascoltato per tutto il giorno il pianto disperato della persona cui tiene di più al mondo, e non ha potuto versare con lui neanche una lacrima. Perché quando Bill si dispera tu devi restare lucido, perché a Bill viene facile lasciarsi ricadere così profondamente nella propria tristezza da non essere più in grado di tirarsene fuori. E quindi serve qualcuno che resti lì pronto ad afferrarlo saldamente quando cade. Tom oggi non ha versato una lacrima. Tom piange adesso, al telefono con me. – Perché cazzo è dovuto succedere? – si lamenta, - Riportalo indietro. – ed io ho i brividi, perché Tom non sa che potrei farlo davvero, quello che mi chiede. Potrei e al contempo non posso.
- Tom… - lo chiamo a mezza voce, ma lui mi interrompe tirando su col naso.
- Scusami. – dice, asciugandosi le lacrime, - Ora passa. A me passa.
- Mi dispiace. – sospiro io, muovendomi a disagio sul sedile, - Appena torno a casa-
- Sei in viaggio? – cambia subito argomento lui, e nella sua voce non c’è quasi più traccia di pianto, - Dove vai?
- Affari. – rispondo io, vago, - Non preoccupartene. Cerca di badare ad una cosa per volta. – sorrido un po’.
- Sì. – annuisce lui. Non perde neanche tempo a domandare oltre, sa che se avessi voluto dirgli qualcosa l’avrei semplicemente fatto. Ed ha comunque altro cui pensare, al momento. – Allora ci sentiamo.
Annuisco e lo saluto a bassa voce, ascoltando la chiamata interrompersi ed il segnale della linea caduta sostituirsi alla voce impastata di Tom, mentre i freni del taxi stridono sotto di me e l’automobile si ferma di fronte al palazzo di Bushido. La strada è illuminata e piena di gente. Il tassista si volta e dice “arrivati, io pago e scendo dalla macchina senza dire una parola, guardandomi distrattamente intorno per recuperare la memoria fisica dell’ultima volta che sono stato qui e lasciare che siano i miei piedi a guidarmi verso il palazzo giusto, la scala giusta, la porta giusta. Apro con le chiavi, tengo il doppione nel mazzo che uso comunemente in Germania anche per quelle di casa mia.
L’appartamento è buio e, se non sapessi che per forza Bushido deve trovarsi qui, lo penserei disabitato. Le finestre sono tutte chiuse, peraltro, con le serrande abbassate, l’aria è pesante e densa e non si sente volare una mosca. Mi chiudo la porta alle spalle con delicatezza, ed evito di accendere la luce, muovendomi all’interno della casa con un po’ di difficoltà, finché non mi abituo all’oscurità.
Bushido sta dormendo sul divano. O almeno suppongo stia dormendo: non lo sento respirare, mi auguro che non sia morto davvero proprio quando io ho deciso di alzare il culo per venire a trovarlo.
Mi siedo sul bracciolo del divano ed inspiro profondamente.
- Tarek. – chiamo ad alta voce.
Lui non si sveglia.
Io sospiro ancora.
- Anis. – sussurro più dolcemente. E il suo respiro cambia ritmo. S’è svegliato.
Lo sento muoversi sul divano, la pelle crocchia sotto di lui, e poi lo osservo sbadigliare e stendere le braccia per stiracchiarsi, mettendosi seduto. Resta in perfetto silenzio finché non ha chiaro a grandi linee chi sia, dove si trovi, chi sono io e perché sono qui.
- David. – mi chiama quindi, - Andato bene il viaggio? – e la sua voce è ancora impastata di sonno ed alcool. Muovo un piede e si rovesciano per terra due o tre bottiglie di birra. Io sospiro, Bushido ride. – Spero non fossero ancora piene. – commenta. Io evito di rispondere che ho i miei dubbi al riguardo.
- Dormivi già? – chiedo, - È presto.
Lui scrolla le spalle.
- Avevo sonno. – risponde. Non “ero triste”, non “è meglio se dormo perché altrimenti mi ubriaco fino a vomitare l’anima”, nemmeno “mi annoiavo e non c’era nulla da fare”, che sarebbe sì una bugia ma comunque meno sfacciata di quella che ha detto. “Avevo sonno”, dice lui.
- E quando hai sonno non ti viene mai in mente di andare almeno a letto? – lo rimprovero, - Ti fotterai la schiena, continuando a dormire qua sopra.
Lui scrolla ancora le spalle. Giustamente, non gliene frega un accidenti di quello che succederà alla sua schiena da questo momento in poi.
Io, ancora appollaiato sul bracciolo, resto in silenzio qualche secondo in più, prima di parlare ancora.
- Ti ho portato un regalo. – affermo, recuperando lo zainetto e sistemandomelo in grembo mentre lo apro e comincio a rovistare all’interno. – Tanti auguri, a proposito.
Lui lascia andare un ghigno e sbuffa.
- Non ho voglia di festeggiare i trent’anni. – risponde, - Sto diventando vecchio.
- Ah, grazie mille. – ringhio io, tirandogli addosso il pacchetto avvolto nella carta argentata e lucida, - Ora chiudi la bocca e aprilo.
Lui frena la caduta del pacco lungo il suo petto, con una mano sola, e poi lo solleva all’interno del viso, guardandolo attentamente, come potesse sbirciare oltre la carta per scoprire di cosa si tratti.
- Cos’è? – chiede, rigirandoselo con cura fra le mani.
- Dio, ma aprirlo e basta no? – borbotto scivolando giù dal bracciolo sul cuscino accanto a lui.
Lui segue il consiglio, fortunatamente. Prende il pacchetto con entrambe le mani e lo scarta con una lentezza esasperante, stando bene attento a non strappare la carta né l’adesivo dorato che la teneva sigillata. Mi viene quasi voglia di rubarglielo di mano ed aprirlo io, il più in fretta possibile. Bushido è un uomo che le attese e i silenzi sa manipolarli bene. Io, in questo momento, non dovrei stare praticamente saltando sul divano, frustrato dall’aspettativa di vedere come reagirà a ritrovarsi il regalo sotto gli occhi, quando l’avrà aperto. Eppure lo sto facendo.
Quando il CD viene fuori dalla carta, Bushido lo guarda a lungo in silenzio, prima di voltarsi e sollevarlo a mezz’aria, guardandomi da sotto le sopracciglia inarcate. Non dice niente, me lo mostra e basta, e non capisco cosa mi stiano chiedendo i suoi occhi.
- Be’? – chiedo alla fine, - Il packaging è come lo volevi?
- Potevate usare la foto della sega elettrica. – borbotta lui, tornando a rimirare la custodia da ogni lato, - Mi piaceva di più, lo sapevi anche. E poi in questa sembro una specie di meccanico appena uscito da sotto una macchina.
- E questo ha mandato in delirio la Germania intera, se t’interessa saperlo. – comincio con entusiasmo, - Non hai nemmeno idea della quantità di ragazzine che… - ma mi fermo, quando capisco, dalla sua espressione, che no, non ha idea della quantità di ragazzine che, e soprattutto non gli interessa. – Comunque abbiamo usato anche quella. Quella della sega elettrica, dico. Lo so che ti piaceva di più.
Lui annuisce distrattamente.
- Come stanno andando le vendite? – chiede. Non che gliene freghi qualcosa. Comunque è già tanto averlo trovato in stato semicosciente e non semicomatoso, immagino, perciò se vuole fare un po’ di conversazione io di certo non gliela negherò.
- Ovviamente benissimo. – rispondo con un sospiro, - La Germania ti idolatra, Bushido. Sei diventato una specie di santo.
- E non sono nemmeno dovuto morire sul serio… - commenta con un ghigno fra l’ironico e l’incattivito, - L’Ersguterjunge?
Scrollo le spalle.
- Non si può pretendere si rimettano già al lavoro. È stato abbastanza faticoso costringere la Universal a fare pressione su Saad perché si decidesse a finire di produrti l’album e metterlo in commercio. Non erano mica d’accordo. Chakuza ha tirato su il bordello.
Lui sbuffa una mezza risata, rilassandosi contro lo schienale del divano.
- È ancora arrabbiato, Chaky? – chiede, gli occhi socchiusi e la testa reclinata all’indietro. Mi chiedo se non abbia intenzione di riaddormentarsi qui ed ora. E questo mi ricorda Bill durante tutto il suo primo mese di lutto, dopo la sua morte. Non faceva che dormire. Si svegliava, piangeva fino a sfinirsi e poi dormiva ancora. Tom mi ha detto che pensava fosse l’unico modo in cui suo fratello riuscisse a far trascorrere le giornate. Se non si fosse esaurito e poi addormentato, quelle non sarebbero mai passate. Credo che per Bushido sia più o meno la stessa cosa, adesso.
- È scosso. Come tutti. – sospiro. A Bill non accenno. – La settimana prossima saremo a TRL. Hanno organizzato con l’occasione del tuo compleanno, ma sono riuscito almeno a farla spostare di modo che non cadesse proprio oggi. Non sarebbe stato il caso.
Bushido annuisce lentamente.
- Suppongo di no. – concorda, stendendosi appena sul divano. Il CD è poggiato sul cuscino accanto a lui, e lui nemmeno lo tocca più. – Queste cose potevi anche dirmele per telefono, comunque. – ride poi, - Non c’era bisogno del viaggio transoceanico.
- Dico, uno si prodiga tanto… - borbotto, rimettendomi in piedi e tirando su i jeans che, nel mentre, minacciano di rovinare a terra. Poi gli tendo una mano. – Coraggio, in piedi.
Lui schiude gli occhi e mi guarda come fossi un alieno.
- Eh? – chiede, sollevando il capo dal divano.
- In piedi, ho detto. – ripeto, scandendo bene le parole perché siano chiare. – È il tuo fottuto compleanno. Per i miei trent’anni, sono andato in giro per bar fino alle sei del mattino. Non intendo riportarti a casa prima di allora.
Lui si irrigidisce, schiude le labbra e fa per dire qualcosa – so anche precisamente cosa: sta per dire “no”. E siccome i no di Bushido non sono semplici no, sono “no, non se ne parla, toglitelo dalla testa e se solo fai tanto di ostinarti ti faccio del male fisico”, gli impedisco di dirlo afferrando un cuscino proprio lì di fianco a lui e schiacciandoglielo contro il viso.
- Jo- - annaspa lui, agitando le mani mentre io premo contro la stoffa col palmo bene aperto, - Jost! – abbaia, e si libera della pressione scivolando sotto al cuscino e poi in piedi, - Avevi intenzione di ammazzarmi sul serio, Cristo santo?! – urla, a due centimetri dal mio viso.
- Be’, - lo affronto a muso duro, - sempre meglio farlo io che non osservarti mentre ti… ti consumi su questo divano, Bushido! Dico, ma ti sei guardato allo specchio, ultimamente?! Da quanto non ti radi? Da quanto non ti lavi, Dio mio, da quanto non mangi? – e lo spintono, rimettendolo a sedere sul divano e guardandolo dall’alto, i pugni piantati sui fianchi, piegandomi appena in avanti per fissarlo negli occhi. È così che rimprovero i piccoli, quando è necessario. È così che rimprovererò anche lui. – Sei magro, sfatto e inguardabile. Ti ho permesso di sopravvivere senza sputtanarti e sono intenzionato a costringerti a sopravvivere anche con dignità, se tu non senti il bisogno di farlo per te stesso. D’accordo? Quindi ora – lo afferro per le spalle e lo rimetto dritto. È dimagrito davvero. – alzati in piedi e muovi il culo, stronzo. Ti aspetto il tempo della doccia.
Lui mi fissa per un minuto buono con un paio di occhi da pesce lesso che mi fanno venire il nervoso. Sto giusto chiedendomi se non dovrei farlo cadere a terra con uno sgambetto e poi pestarlo con violenza fino a lasciare di lui solo un mucchietto d’ossa sanguinolente, quando lui prende e ride. Saranno mesi che non lo sento ridere così, Dio. Una bella risata piena, di quelle fatte con convinzione. Lo vedo gettare indietro il capo – i capelli arruffati che gli si scompongono appena sulla testa – e stendere il collo mentre chiude gli occhi e schiude le labbra, pressandosi una mano contro lo stomaco, la maglia bianca e larghissima che si arriccia in sbuffi attorno alle sue dita scure e bene aperte.
Imbarazzato, aggrotto le sopracciglia.
- E allora… - borbotto, spintonandolo contro una spalla. Lui ride ancora un po’, ed asciuga una lacrima dall’angolo di un occhio, scuotendo il capo.
- D’accordo, papà. – continua a ridere in singhiozzi minuscoli. Dico, che cretino. – Vado a rendermi guardabile, visto che me lo chiedi con tanta insistenza.
Quando esce dal bagno, in realtà, è molto più che guardabile. Faccio fatica a non distogliere lo sguardo perché – davvero – sarebbe ridicolo abbassare gli occhi adesso, ma è dura. È dura perché lui è seminudo, ancora un po’ umido di doccia, sbarbato e coi capelli scompigliati sulla testa. Stanno crescendo, e il fatto siano ancora pesanti d’acqua li porta ad appiccicarglisi sulla fronte. Lui li scosta con un gesto lento e distratto, sistemando meglio l’asciugamano attorno ai fianchi e piazzandosi davanti allo specchio del salotto – le gambe semidivaricate e il bacino lievemente sporto in avanti – per riavviarli con più cura sulle tempie e sulla nuca.
- Stanno allungando. – mi fa notare, guardando la propria immagine riflessa, - Non ho pensato di tagliarli.
- Non ti stanno male. – rispondo io con una scrollata di spalle, decidendomi finalmente a smettere di fissarlo.
- Vanno bene per Tarek. – continua lui, perso in chissà che cosa dentro la propria testa, - Magari li faccio allungare ancora.
- Potrebbe essere una buona idea. – annuisco io, fingendo interesse per la sua copertura qui, - Saresti ancora meno riconoscibile. – e ancora più bello, anche, ma è un pensiero che mi attraversa solo marginalmente, senza colpirmi in pieno. Ho imparato ad evitare cose simili, nei tre anni che hanno visto quest’uomo frequentare i miei ambienti più spesso di quanto già non facesse prima per cause lavorative.
Bushido non risponde alla mia ultima nota. Pianta le mani sui fianchi, sospira e si volta a guardarmi.
- Allora. – comincia quindi, - Dove mi porti?
Io inarco le sopracciglia.
- Nudo, da nessuna parte. – rispondo, accennando col capo all’asciugamano che è ancora l’unica cosa che lo copre, - Se ti vesti, andiamo a bere da qualche parte. E se fai il bravo magari ti compro anche una torta.
Lui sorride e non aggiunge altro, voltandomi le spalle ed infilandosi in camera da letto. Quando ne viene fuori, ha addosso una camicia bianca e un paio di jeans scuri. Infila le scarpe da tennis saltellando prima su un piede e poi sull’altro, quindi mi si para davanti a braccia larghe.
- Be’? – chiede, - Bello?
- Bushido, piantala. – ringhio io, tirandogli una spinta contro una spalla, - Ti preferivo depresso. – borbotto, muovendomi verso la porta.
- Balle. – ghigna lui, - E poi sciogliti un po’, Jost, è il nostro primo appuntamento, in fondo!
- Bushido, sei avvertito. – insisto, chiudendo la porta quando lui esce dietro di me, - Continua a fare il deficiente e prima ti ubriaco e poi ti lascio ad un angolo di strada.
Lui ride e solleva le mani all’altezza del viso, bene aperte, in segno di resa.
- Okay, okay, Jost. Hai vinto. Te lo concedo.
- Da quando… - mi lamento, girando le chiavi nella toppa, - Da quando le vittorie si concedono? Di solito le vittorie le vince chi le ha vinte.
Bushido ride ancora.
- Mi sono perso alla prima ripetizione del verbo vincere. – commenta, sistemandosi addosso la camicia mentre io cerco disperatamente di non guardarlo, - Comunque l’idea di andare in giro a bere mi piace. Anche se non saprei dove portarti. – e ride un po’, - Dovrei conoscerlo, questo posto, ormai. Sono tre mesi.
Mi volto a guardarlo con aria un po’ sconvolta.
- E non sei mai uscito di casa?
- Per la verità sì… - borbotta lui, scrollando le spalle, - Ma il minimarket è proprio qui sotto. Quindi, insomma, non è che abbia avuto veramente occasione di spingermi tanto in là nell’esplorazione del quartiere.
Io sospiro, passandomi una mano sulla fronte.
- Va bene, va bene… non mi va di litigare. – mi arrendo, sconfitto, - Adesso ti porto al Palms. O al Chico Loco. Magari se non vogliamo casino ci infiliamo al Tropical Paradise, conosco personalmente il proprietario e potrebbe trovarci un privè. O magari… - e continuo sulla stessa traccia per quelli che mi sembrano una decina di minuti, sciorinando un nome di locale alla moda dietro l’altro, al punto che al quindicesimo la cosa comincia a diventare disturbante perfino per me, ed è a quel punto che alzo lo sguardo su di lui e capisco che non è disturbante solo per me.
- Tu – dice Bushido, indicandomi con un dito, - sei veramente un esemplare perfetto di omosessuale in carriera. Io non ho parole.
Io cambio colore e lo sferzo con un’occhiataccia che spero lo uccida definitivamente, risolvendo in un colpo sia i miei che i suoi problemi. Bushido però non muore, la cosa non mi stupisce ed io smetto di arrabbiarmi. D’altronde, non è che possa dirgli “no, non sono un perfetto esemplare di omosessuale in carriera”. Sono un esemplare, sono un omosessuale, sono in carriera e sono indubbiamente perfetto, anche. Perciò pace.
- Diamoci una mossa. – dico quindi, - Se arriviamo tardi potremmo non trovare più privè. – e mi muovo verso l’ascensore. Bushido mi segue, e nello specchio dell’ascensore, quando le porte si aprono, scorgo l’ombra di una smorfia ad increspargli le labbra. – Qualcosa non va? – chiedo immediatamente.
- Niente di particolare. – scrolla le spalle lui, - Solo che pensavo che magari, invece di andarci a chiudere in un qualche locale alla moda pieno di fighetti ubriachi, potremmo andare in qualche pub meno frequentato. Una roba tranquilla, insomma. – lui osserva il mio sopracciglio sinistro inarcarsi in maniera convincentemente dubbiosa, e si affretta a precisare. – Mi diverto, Jost, promesso. Solo che non c’ho voglia di casini. Non mi va di vedere gente.
- Sono sconosciuti. – gli faccio notare. Non vedo che problema debba esserci ad avere a che fare con gente che non ti conosce, non vuole nemmeno conoscerti e probabilmente dimenticherà il tuo viso prima del sorgere del sole, il giorno dopo.
- Sono gente. – risponde semplicemente Bushido, e il suo tono di voce è netto e deciso. – Ora, visto che sai perfettamente che faccio già abbastanza fatica ad uscire di casa, al momento, - ed è raggelante la calma serafica con cui ne parla. Come fosse normale. Magari è convinto lo sia, - potresti almeno cedere se ti dico che non voglio vedere gente? Mi basti tu. Davvero.
Ed io cedo, che altro dovrei fare? D’altronde, Bushido è il mio datore di lavoro – e praticamente nient’altro – mi paga profumatamente per ciò che faccio ed io non dovrei prendermi certe libertà come cercare di salvarlo dalla depressione, quando è palese che l’ultima cosa che vuole è proprio essere salvato. Non mi paga per questo. Io dovrei ricordarmelo. Anche se probabilmente, proprio perché non è per questo che mi paga, questa è la cosa che dovrei fare con maggiore attenzione.
Alla fine non andiamo al Palms, non andiamo al Chico Loco e non posso neanche passare a salutare Micah al Tropical Paradise. Passeggiamo sul lungomare, invece, ed io osservo Bushido prendere lentamente coscienza del luogo in cui si trova. Quando mi ha detto che probabilmente Miami sarebbe stata la soluzione migliore per quella fuga assurda, io ho approvato per due motivi: primo, era abbastanza lontano da essere un luogo sufficientemente sicuro; secondo, era abbastanza bello da rappresentare una distrazione.
Il problema è che Bushido, in questi mesi, non s’è mai concesso di distrarsi. Lo sta facendo ora per la prima volta e si sta rendendo conto di aver vissuto in un paradiso senza mai lasciarsi la possibilità di esplorarlo. I suoi occhi si perdono seguendo la linea dell’orizzonte affogata nel mare, e la sua pelle si colora dei toni aranciati del tramonto che si sfuma in sera, e quando lo sento respirare a pieni polmoni respiro improvvisamente meglio anch’io. Perciò non mi lamento quando ci fermiamo in un localino proprio lì, sulla spiaggia, una specie di casotto di legno col tetto spiovente e un sacco di ghirlande di fiori che pendono dal soffitto decorando cocchi, manghi, papaye ed altri frutti di cui non conosco nemmeno il nome.
Il bancone gira tutto attorno al locale, io e Bushido prendiamo posto su due sgabelli e cominciamo a farci servire da bere. So che non dovrei permettergli di ingurgitare altro alcool dopo tutto quello che sicuramente ha mandato giù negli ultimi giorni, ma cazzo, è il suo compleanno. Non intendo impedirgli niente proprio oggi. Che beva pure. Tra l’altro, avere a che fare con lui ubriaco è comunque molto più semplice che avere a che fare con lui da lucido. Che poi è il motivo per cui lo stronzo cerca di ubriacarsi il meno possibile, quando è in compagnia. Gli piace rendere complicate le cose alla gente.
Oggi no, però. Evidentemente il divertimento che proverebbe nel rendermi difficile l’esistenza è surclassato in necessità dal bisogno che ha di stordirsi, perciò non ci pensa nemmeno a mantenersi lucido, e butta giù una birra dopo l’altra, chiedendo di tanto in tanto anche un cocktail o qualcosa di diverso per cambiare gradazione alcolica e stordirsi di più e più in fretta. Io bevo il minimo indispensabile, se non altro perché almeno uno dei due dovrà ricordarsi la strada di casa, quando questo strazio sarà finito.
Nel mentre lo ascolto parlare, e Bushido mi dice un sacco di cose, anche se nei fatti non mi sta dicendo praticamente niente. Lo so che Miami è un bel posto, Bushido, è assurdo che ancora non lo sapessi tu. Lo so che ti manca Berlino, Bushido, lo so. Lo so che ti manca tua madre. Sta bene tua madre, Bushido. Lo so che ti mancano i tuoi ragazzi, manchi tantissimo anche a loro. Lo so che qui fa troppo caldo per te, no, non ti ci potevo mandare in Antartide, Bushido. Lo so che non riesci a chiedermi di Bill. Sta male, Bushido. Sta un sacco male. Ma visto che non chiedi non rispondo. Per ora è meglio così.
Quando ci allontaniamo dal locale, molte ore più tardi, la luna è alta nel mezzo di un cielo nerissimo ed abbiamo speso un capitale in bibite. Bushido si regge a stento sulle gambe, tant’è che devo sostenerlo io, e meno male che è leggerissimo altrimenti ci accasceremmo entrambi per strada in un angolo e dovrebbero venirci a recuperare con un carro attrezzi prima di bloccare il traffico, domattina.
L’appartamento è sempre buio e incasinato, quando torniamo, e Bushido sta ancora blaterando roba, con la differenza che adesso lo sta facendo completamente steso contro di me, ad un centimetro dal mio orecchio, e mi sfiora piano il lobo con le labbra ogni volta che dice una parola.
- Sono stanco, - mi dice, - non mi piace stare qui. Posso tornare a casa?
- No, Bushido. – rispondo stendendolo sul proprio letto perfettamente rifatto e immacolato al punto che mi chiedo se ci abbia mai veramente dormito, - Non puoi, lo sai.
- Ma mi sento solo. – borbotta. Come fosse una giustificazione alle sue richieste assurde. Non lo è, Bushido, non ci sono giustificazioni per le tue richieste e non potrei lasciarti tornare anche se invece ce ne fossero. Mi dispiace. Dio sa che mi dispiace, cazzo. Ma non posso proprio.
Sfilo via le coperte da sotto il suo corpo e cerco di rimboccargliele sotto il mento, ma lui prima le scosta con una mano e poi, quando io insisto, si mette a scalciare come un moccioso.
- Va bene, va bene! – mi arrendo, - Dormi scoperto, come preferisci! Io vado di là. – affermo irritato, e faccio per mollarlo lì e trasferirmi sul divano, che ho sonno, il jet lag comincia a farsi sentire nonostante l’abitudine e domani a non-mi-ricordo-che-orario-devo-ricontrollare-la-carta-d’imbarco ho l’aereo per rientrare in Germania. Scemo io e fanculo ai viaggi transoceanici.
E invece niente, non mi allontano, non faccio nemmeno un centimetro, perché le dita della sua mano si chiudono come una tenaglia attorno al mio polso ed io quasi finisco steso sul letto accanto a lui. Riesco a tenermi in piedi per puro miracolo, e mi volto a guardarlo con un sopracciglio inarcato in segno di muta richiesta.
- Resti? – mi chiede a mezza voce. Ha gli occhi chiusi. Credo non voglia vedermi. Credo non voglia vedere niente.
- Sto già restando. – gli faccio notare, senza neanche provare a forzare la sua stretta, - Sono qui a due metri, se hai bisogno.
- Resta qui. – specifica lui, stringendo con maggiore decisione e tirandomi un po’, - Nel letto.
Mi giro per guardarlo attentamente, anche se lui ha ancora gli occhi chiusi e quindi di certo non può accorgersene. Schiude appena le dita per permettermi di girare anche il polso, così da non dovermelo torcere, e poi torna a stringermi. Non è che abbia bisogno di trattenermi. Vuole solo sentirmi sotto i polpastrelli.
- Bushido… - lo chiamo a bassa voce, - Non fare il coglione.
Lui stringe ancora la presa e non dice niente. Non dice niente tanto a lungo che finisco per sentirmi io il coglione della situazione. E quindi pianto un ginocchio sul materasso e lui, quando sente la pressione del mio corpo, si scosta per farmi spazio, così da lasciarmi distendere accanto a lui.
La situazione è assurda. La nostra posizione, anche. Io non dovrei essere qui disteso e lui non dovrebbe volere da me ciò che penso voglia. Sono io che dovrei volere queste cose da lui. Sono io che le voglio, in realtà, ma non dovrei potermele prendere. Bushido non dovrebbe volermele dare.
- Toccami. – dice piano, la sua voce è un sussurro pieno di bisogno.
- Bushido… - cerco di richiamarlo un’ultima volta, ma lui mi ferma.
- Ssh. – sospira, stendendosi meglio sul materasso. – Toccami.
Io mi mordo un labbro e sollevo una mano, e per un secondo la lascio lì a mezz’aria perché non ho idea di come dovrei o potrei toccarlo. Insomma, non è un uomo qualsiasi. È Bushido. Non so nemmeno da che lato prenderlo.
Mentre penso che farò sicuramente qualche cazzata colossale, e che anzi probabilmente la mia cazzata colossale la sto già facendo, poso una mano sul suo petto e la lascio scorrere verso il basso. Le dita si impigliano una ad una fra i bottoni della camicia e li slacciano uno dopo l’altro. Bushido rabbrividisce ogni volta che mi muovo. Schiude le labbra e stira indietro il capo, i capelli che si scompigliano contro il cuscino.
- Di più. – mormora fra le labbra, e spinge il bacino verso l’alto nello stesso momento in cui la mia mano ci finisce sopra, sfiorandolo appena. Slaccio i pantaloni e lo accarezzo piano, stringendo le dita attorno alla sua erezione ancora incompleta e pompando lentamente. Dio mio, cosa sto facendo? Perché lo sto facendo? Resto qui, il gomito piantato sul materasso, lievemente sollevato per guardarlo meglio, e lo osservo inarcarsi sotto i miei movimenti, ed è praticamente l’unica cosa che fa. Non mi cerca con le mani, non mi cerca con le labbra, non mi cerca neanche coi pensieri, Bushido, lo so perfettamente cos’è che sta cercando. Non posso ridartela io la tua principessa, Bushido. Non può ridartela nessuno. Ti toccherà accontentarti.
Quando smette di farsi bastare la mano, quando comincia a volere di più, io non lo capisco perché me lo dice. Lo capisco perché si mette seduto in un movimento lento e strascicato, insospettabilmente sensuale – ci resto a bocca aperta, non me lo aspettavo per niente, ma Dio mio, appena lo vedo sollevarsi in quel modo, la testa piegata su una spalla e le braccia tese, deglutisco a fatica e respiro con difficoltà se possibile ancora maggiore.
Sfilo la mano e lui si volta verso di me, mettendosi in ginocchio sul materasso.
- Stenditi. – sussurra piegandomisi addosso, - Voltati.
Obbedisco e in aggiunta mi spoglio anche. È chiaro che lui non lo farà ed è chiaro che invece si aspetta lo faccia io per lui. continua a tenere gli occhi chiusi, non mi guarda, non mi parla se non per lo stretto indispensabile e soprattutto non mi bacia nemmeno. Da nessuna parte. Si regge sulle braccia, sospeso sopra di me, sento il suo calore intorno ma non addosso, e aspetta che io mi sia spogliato abbastanza per lasciarmi scivolare un paio di dita umide fra le natiche. Rabbrividisco sotto la leggera pressione dei suoi polpastrelli e mi inarco contro di lui, lasciando scivolare fra le labbra un ringhio roco.
- Mi manchi. – lo sento sussurrare contro la mia spalla, - Dio… mi manchi. – ed affonda dentro di me, sostenendosi sul materasso con entrambe le mani, - Cazzo, mi manchi. – lo so che ti manca, Bushido. Cazzo, lo so. Lo so che stai male. Non avrei mai dovuto permetterti niente di simile. Non avrei mai dovuto lasciarti uscire dai confini della fottuta Germania, non avrei mai dovuto lasciarti andare, non avrei – cazzo, sì – non avrei mai dovuto permetterti di mettere su questa commedia del cazzo – Dio, Bushido, più forte – e adesso dovrei prenderti a ceffoni – – dovrei riportarti a casa per i capelli – sì, cazzo, sì – dovrei – cazzo, sì – non lo so, affondo il viso nel cuscino mentre vengo e lo sento spingere ancora un paio di volte, ma lui non viene. Non viene, cazzo. Le spinte si smorzano e basta, il suo respiro, da concitato che era, si regolarizza, ed esce dal mio corpo insoddisfatto, lasciandosi rotolare sulla schiena e poi su un fianco senza guardarmi neanche per sbaglio.
Mi volto anch’io, mettendomi seduto a fatica e passandomi una mano sulla fronte.
- Bushido… - lo chiamo a bassa voce. Lui non mi risponde. Respira piano. Non dorme. Resta immobile.
Mi risistemo appena ed esco dalla stanza, abbandonandomi esausto sul divano appena incrocia la mia traiettoria, perché non mi reggo più in piedi. Quando chiudo gli occhi, lo faccio esattamente per lo stesso motivo per cui l’ha fatto Bushido. Non voglio più vedere niente. Anche se dubito che stanotte riuscirò a dormire.

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Schwarze Seite

di tabata
Saad è morto da meno di cinque minuti e il mio cervello non ha ancora realizzato niente. Quando lo farà - e prego che sia tardi, molto tardi - probabilmente succederà qualcosa di imprevedibile. Se mi va bene me la farò soltanto addosso dalla paura, se mi va male farò una cazzata. Per questo spero di realizzare molto tardi, così magari Fler avrà finito di fare qualunque cosa stia facendo e sarà con me. Lui mi impedirà di farla, la cazzata. Lui la prevederà - qualunque cosa sia - e mi impedirà di farla prima ancora che io abbia capito di cosa si tratta.
Il corpo di Saad è riverso a terra, e la neve si sta sporcando di sangue. E' una poltiglia, fa schifo. E fa schifo anche lui, cazzo. Il viso è una maschera di sangue, anzi il viso non c'è. E tutto un casino. Penso che gli dovremmo rispetto, comunque, non tanto perché è Saad ma perché è un essere umano, cazzo. E non lo uccidi un essere umano e poi pensi che il viso che gli hai appena spappolato fa schifo. Eppure non mi riesce neanche guardarlo.
Fler si passa una mano su gli occhi, inspira ed espira e so che sta cercando di inquadrare la situazione. Io sono ancora confuso, lui sta già pensando a cosa dobbiamo fare. Le direzioni da prendere, i danni da arginare. Il suo cervello viaggia ad una velocità diversa dalla mia, e sarebbe fantastico se non fosse così mostruosamente preoccupante. Questi meccanismi mentali li ha perché in mezzo a questa merda c'è cresciuto e, se in questo momento mi serve che sappia cosa fare con un morto ammazzato, in generale non lo so se mi piace la sua praticità.
"C’è un mucchio di lavoro da fare," dice. E io penso, sì c'è un sacco di lavoro da fare. Però non so neanche immaginare di che lavoro stiamo parlando esattamente. Siamo qui con un morto, e io l'ultimo morto che ho visto era mio nonno e se l'era preso l'ictus non Bill con una colpo dritto in testa. Che poi, cazzo, Anis gli ha insegnato a sparare o lo ha trasformato in un fottuto cecchino? In mezzo alla testa, lo ha preso.
"Chaku, riportalo a casa," ordina all'improvviso. Io alzo lo sguardo e vedo che indica Bill. Il mio cervello ancora molto confuso se ne strafrega istantaneamente del morto e della polizia che probabilmente qualcuno avrà chiamato e che sarà qui prima che possiamo decidere un bel niente. Se ne frega di tutto, il mio cervello, e per un attimo penso che non lo porto proprio da nessuna parte. Bill lo guarda come lo guardo io. E non so se il terrore nei suoi occhi dovrebbe compiacermi o farmi del male. "Da Tom," precisa Fler alla fine. E lo fa con rassegnazione. Mi sento incredibilmente stupido di fronte a lui, e non me ne frega niente nemmeno di questo. I due unici pensieri che ho in testa sono Saad morto e Bill da riportare a casa. E si scornano fra di loro perché non c'entrano un cazzo l'uno con l'altro. In tutto questo io non ho ancora capito che ho ucciso un essere umano. Non ho sparato, ma è come se lo avessi fatto perchè se qualcuno me lo chiedesse, sarei stato io di certo. O anche Fler. Uno dei due, ma non Bill. Quindi sì, ho ucciso Saad. Solo che non me ne sono ancora accorto. "Gliel’abbiamo promesso un po’ tutti, che gliel’avremmo riportato presto."
Tom si aspetta che glielo riportiamo, possibilmente intero. Fisicamente ce lo abbiamo un gemello intero da ridargli, ma la testa non so come sta messa. Da fuori sembra star bene, ma anche io sembro star bene. Nella testa ho un gran casino, però. Annuisco a Fler e stringo la presa sulla spalla di Bill, lui abbassa la testa e mi segue. Non dice una parola.
Qua non è come a Templehof che è un fottuto labirinto di vicoli luridi e ogni volta che ne imboccavamo uno mi chiedevo se ne saremmo usciti. Il quartiere di Saad è un quartiere non proprio di lusso come quello dei gemelli, ma la gente sta bene qui. Hanno abbastanza soldi per avere cancelli automatici e case di cinque o sei stanze. Per avere un garage e un'auto. Che poi non parte.
Se penso che ci siamo quasi fatti due isolati di corsa sui tetti non so come mi sento. Da una parte l'adrenalina lo rende qualcosa di fico - abbiamo corso, dietro a Saad, sui tetti, di notte. Lo abbiamo preso, il bastardo. Dall'altra c'è sempre la sua faccia che è uno schifo e non so cosa Fler abbia intenzione di fare al riguardo. Quindi forse a me sarebbe bastato prenderlo, il bastardo. Prenderlo e basta. Niente sangue, solo adrenalina.
Bill non parla e cammina svelto, stringendosi nel piumino. Non so come si senta, non so se chiederglielo. "Bill..." inizio.
Lui solleva un po' la testa ed espira, e non so come interpretare quello sguardo che lancia di lato. "Sto bene." Annuisco prima ancora che si giri. Quando lo fa però l'espressione è dolce. "Davvero."
Non parliamo più finché non raggiungiamo la macchina, che è ancora parcheggiata vicino al palazzo dove vive Saad. C'è una luce accesa al quarto piano e non voglio sapere che camera sia. Non voglio neanche sapere con che faccia guarderò Greta la prossima volta che mi capiterà di incrociarla. La luce si spenge e vedo Bill che abbassa lo sguardo, infila in macchina senza un'esitazione e mi ghiaccia sul posto mentre metto in moto. La sua voce è fredda, ma calma. "Almeno lei non dovrà lavarsi le mani per ore nella speranza che il sangue scompaia," dice.
Partiamo in silenzio, e la mia macchina fa un rumore d'inferno. Mi chiedo dove sono, e con chi sono. Mi chiedo se non ci toccherà prenderlo al volo questo qui, domattina, quando si renderà conto. Ringrazio che Tom sia lì. Ringrazio che Fler sia qui; perchè da soli io e Bill non so cosa faremmo stanotte.
Il viaggio lo facciamo tutto in silenzio. Lui guarda dritto davanti a sé e tiene le mani in tasca. So che in una stringe ancora la Heckler e so anche che probabilmente mi staccherebbe la testa a morsi se gli chiedessi di lasciarla andare. Non mi piace che la impugni ancora, non mi piace nemmeno che l'abbia tenuta. Ora capisco cos'è successo il giorno dopo il funerale, che noi l'abbiamo cercata per ore in quella casa enorme. E Saad - dio... - era incazzato come una bestia perché non riusciva a trovarla e ha infamato chiunque urlando e sbraitando che da qualche parte doveva pur essere. L'abbiamo data per persa, e invece era logico che l'avesse lui. Era così logico che non c'ho neanche pensato. E lui non ha pensato di dirmelo, per altro.
Sono le quattro del mattino quando parcheggio nell'enorme parco macchine del palazzo dove vive Tom. Anche la sua luce è accesa e ci sta aspettando. In pratica ci viene incontro nell'atrio prima ancora che prendiamo l'ascensore. Suo fratello mette piede nel palazzo e lui lo stringe a sé - lo ingloba - senza lasciargli il tempo di fare niente. "Stai bene," esala e socchiude gli occhi. Glielo si legge in faccia che ha pensato di tutto. Vedo Bill rilassarsi in quella stretta, lo vedo proprio sciogliere i muscoli e quando gli affonda il viso nel collo capisco che per stanotte va tutto bene. Da Tom non si allontanerà.
Entriamo tutti e tre nell'ascensore. Io non so perché li sto seguendo, probabilmente perché non so dove altro andare. Una parte di me vorrebbe ancora che Bill si staccasse da quella maglia enorme e si attaccasse alla mia felpa, come la notte in cui Bushido è morto. Vorrei che avesse bisogno di me, questo mi darebbe un motivo per fare le cose stanotte.
"Cos'è successo?" Chiede il biondo, e guarda me.
Faccio per aprire bocca, anche se non so che cosa dirgli, ma Bill mi precede. "Lo abbiamo trovato," dice, e il modo in cui struscia il naso contro il collo di suo fratello mi fa venire i brividi. E non voglio sapere di cosa. "E' morto."
"Morto?" La voce di Tom schizza due ottave sopra in maniera quasi ridicola. Cerca di scostarsi Bill di dosso per guardarlo in faccia ma Bill si tiene tenacemente a lui e gira il viso, nascondendolo al fratello e a me.
"Se qualcuno te lo chiede, Bill è sempre stato qui," intervengo io. Tom sgrana gli occhi e sussulta.
"Che cazzo avete combinato?"
"Niente," io e Bill lo diciamo insieme. E sono io ad insistere. "Lui era da te, e dormiva."
Tom è agitatissimo, quando le porte dell'ascensore si aprono guarda fuori come se si aspettasse di trovarci chissà cosa. Esala di continuo, e mi guarda e poi guarda Bill e so che vorrebbe dire qualcosa ma non sa esattamente cosa.
Una volta dentro casa, decide di essere arrabbiato. "Lo avete messo in pericolo," sibila nella mia direzione. Ha fatto sedere Bill sul divano ma, dal momento che Bill non lo lascia, si è dovuto sedere anche lui.
"Tomi, no..." arriva da Bill.
"E' sempre stato con noi," rispondo.
"Appunto," è furioso ed è spaventato. Una combinazione che condivido con lui stasera. Odio non potermene occupare io come ho fatto fino a qualche settimana fa e ho paura per tutti qui. E anche per quello che ho lasciato in mezzo alla strada a fare solo lui sa cosa. "Saad è morto," abbassa la voce. "Mio fratello non doveva essere lì."
Bill solleva la testa, ma continua a stringerselo contro. "Tomi, ti prego," chiede con un filo di voce stanchissima. "Ti prego. Non adesso."
"Bill-"
"Tomi," questa volta lo guarda e io non saprei dire esattamente a cosa sto assistendo. Riconosco quell'autorità nella voce di Bill, l'ha usata spesso. La usava anche quando Bushido era vivo, quando si era preso confidenza con noi. Che certe volte, nei giorni di partita, ci presentavamo tutti alla casa gialla e lui ci diceva di andare nell'altra sala a guardarla, che lui stava già guardando un dvd sulla tv al plasma. Ce lo diceva con quel tono lì, che di severo non ha nulla ma c'è tutto un mondo dietro. E noi cambiavamo stanza, più per lui che per Bushido ormai. Quanto rideva, Atze.
Solo che non è solo il tono, è anche il modo in cui lo guarda che è strano, e mi rendo conto che non l'ho mai visto quello sguardo lì. Mi disturba più di quanto dovrebbe, temo.
Tom però annuisce. "Ne parliamo domani," dice. E in quel momento mi suona il telefono.
Fler al telefono non è mai piacevole, neanche in situazioni normali. E' uno a cui le cose piace dirtele in faccia, che usa il telefono solo se deve darti appuntamento e quindi parla il minimo indispensabile. In questo frangente, è anche peggio. "Chaku?"
"Sì?"
"Bill è a posto?"
Istintivamente guardo Bill e lui guarda me. "Sì," dico ancora. "Siamo qui da suo fratello."
"Allora muoviti, ho bisogno di una mano."
"Cosa pensi di...?"
"Cazzo, vieni e basta." Mi aspetto che riattacchi senza salutare come fa di solito ma sento che esita. "La Heckler deve sparire."
E' il mio turno di stare zitto.
Lui sospira. "Spiegagli che non può tenerla lui, che nessuno di noi può. Capirà, le capisce queste cose."
Come prevedevo riattacca senza dire nient'altro. "Tom, credo che tuo fratello abbia bisogno di qualcosa di caldo," commento mentre mi rimetto il telefono in tasca.
Lui vorrebbe ammazzarmi ma si alza, forse perché non è una cattiva idea quella di fare un po' di camomilla, anche se è una scusa. Gli sorrido incoraggiante e lui si allontana con il consenso del gemello.
"E' mia," mormora Bill, non appena rimaniamo soli. Non so se ha sentito Fler o se pensava già che qualcuno gliel'avrebbe chiesta. Non si è levato il piumino ma vedo comunque la sua mano che stringe l'arma nella tasca.
"Dobbiamo farla sparire," dico con calma e mi sento in un film poliziesco. Queste sono cose da Fler, io non sono capace di dirle. "Lo sai anche tu che adesso è pericoloso."
Mi guarda a lungo con quegli occhi allungati e strani che cambiano sempre colore a seconda della luce. Sono color cioccolato adesso, ben più scuri del solito. Alla fine apre e chiude le ciglia un paio di volte prima di estrarre l'arma dalla tasca e appoggiarla sul mio palmo teso, coperto da un fazzoletto. Pesa tantissimo, più di quanto sembri, e suona sbagliata perfino nelle mie mani, figuriamoci nelle sue. "Grazie," dico.
Lui non dice niente, ma la osserva con attenzione mentre la copro con i lembi del fazzoletto e me la infilo in tasca, come se non volesse perderne neanche un dettaglio.
Tom rientra con una teiera e qualche bicchiere. "Non ho tazze," si scusa con una scrollata di spalle.
"Devo andare," annuncio, alzandomi. Bill mi segue con lo sguardo e all'improvviso vedo quanto sia stanco. Ha lo stesso sguardo solo e perso di quando a casa mia passava le notti a piangere sul pavimento del bagno.
"Peter?"
"Sì?"
C'è una lunga pausa di silenzio, carica di centinaia di cose che sono l'inizio di questa storia, e l'inizio della nostra storia e di quel pomeriggio maledetto in cui l'ho toccato. Questo silenzio è fatto di cose che appartengono a questa notte e di tutte le bugie che racconterà a suo fratello e a se stesso per superarla. Sento in bocca il sapore di parole che avremmo dovuto dirci e che rimarranno in questo silenzio per sempre perché non abbiamo avuto né il tempo né il coraggio.
Alla fine piega un po' gli angoli della bocca in un minuscolo sorriso. "Grazie."
"Di niente, Principessa."

*



Quando torno da Fler, lui è da solo in mezzo al vicolo dove io e Bill lo abbiamo lasciato. Mi fa specie dire che è solo, come se quando me ne sono andato fosse stato lì con qualcuno. I cadaveri non contano, immagino. Questa volta parcheggio più vicino, tanto che ci metto neanche due minuti a raggiungerlo e lo trovo seduto sulle scale antincendio che si è fatto di testa.
La ferita, per altro, gli perde ancora sangue. "Devi andare al pronto soccorso," esordisco, fermandomi di fronte a lui.
"Dopo," dice lui sbrigativo. "Prima dobbiamo occuparci di lui."
Lui è quello che posso solo supporre sia il corpo di Saad avvolto in un telo, che ora giace appena dietro la scala antincendio, all'ombra.
"Il telo dove lo hai trovato?" Chiedo sconvolto. O forse sono sconvolto perché non è davvero possibile che io sia qui nel cuore della notte pronto a trasportare un cadavere chissà dove. Io volevo fare il cuoco.
"Tra i cassonetti," risponde, intanto che si alza e afferra Saad per i piedi. "Forza, prendilo dall'altra parte."
Non mi muovo. "Aspetta, cosa stiamo facendo?"
"Lo stiamo mettendo nella tua macchina," risponde e tira su.
"Fler è follia! Non.. non possiamo prendere e caricarlo in macchina! Per far cosa poi? Buttarlo nel canale di Templehof col favore delle tenebre?"
Lui non fa una piega. Dio non fa una piega! Perché non fa una piega? Anzi mi guarda e fa un cenno del capo quasi impercettibile. "Questa era più o meno l'idea. Ora, per cortesia, vorresti tirarlo su dall'altra parte?"
Obbedisco e non so nemmeno perché lo faccio esattamente. E' probabile che la mia decisione dipenda dal fatto che se mi sembra assurdo buttarlo nel canale, mi sembra assurdo anche lasciarlo dietro una scala antincendio e intanto che capisco cosa fare posso pure caricarlo in macchina. Ma cosa sto dicendo?
In strada non c'è ancora nessuno, il che è una fortuna perché Saad è alto più di un metro e ottanta e pesa non so più nemmeno quanto quindi non facciamo che fermarci e stringere meglio la presa sul telo lurido con il quale lo trasportiamo.
Lo gettiamo nel baule, e non vorrei ma lo facciamo perché pesa, mi fa schifo e perché Fler non ha garbo. Lo tratta come fosse un sacco. Quando Fler chiude la bauliera gli chiedo stupidamente per quale motivo lo abbiamo infilato qua dentro.
"Vorrei evitare di avere un cadavere disteso sul sedile posteriore nel caso ci fermassero, tu cosa ne dici?" Risponde, e fa per salire in macchina. In effetti non ha tutti i torti.
"Credi che ci fermeranno?" Chiedo, e suono più spaventato di quello che vorrei.
Fler si stringe nelle spalle e mette la cintura, che per uno che ha appena infilato un cadavere nella mia bauliera con l'intenzione di disfarsene in un canale è un bell'accorgimento, ecco. "Sono quasi le cinque, quindi direi di no," ragiona. "Ma è meglio essere prudenti. Dobbiamo pure darci una mossa, tra poco non sarà più tanto buio."
Guido e sto in silenzio e per un po' mi sembra anche che per stanotte non ho fatto altro che guidare e stare in silenzio. E gli avvenimenti di qualche ora fa sembrano questioni di mesi e di anni fa. Di Saad ho una visione già sfocata. Continuo a pensarlo vivo eppure coscientemente so che è accartocciato nella mia bauliera e tutto questo è assurdo.
Una volta a Templehof parcheggio nei pressi del canale che è avvolto nel solito buio e ha sempre lo stesso fetido odore. Quando Fler diceva che Templehof era un posto schifoso ma che finivi per tornarci sempre, non lo capivo. Non capivo come si potesse voler rientrare in un ghetto del genere, dove la cosa meno pericolosa che ti può capitare è che qualcuno ti apra un sorriso da un orecchio all'altro con un coltello di venti centimetri. Ora, però, mi è tutto più chiaro. Templehof è un rifugio e com'è bravo ad ammazzarti è bravo anche a nasconderti, a coprirti, a farti sparire quando ti serve che il mondo là fuori, quello "a posto" non sappia di te. Come stasera. Non avrei mai pensato di dirlo, ma Templehof è tutto quello che spero ora: un posto che ci permetta di liberarci di Saad e tornare a casa. E dimenticare, credo. Non so se si possa.
In giro non c'è nessuno, qui meno che altrove, anche se ho imparato che da queste parti si trova sempre il modo di sapere le cose. Siamo sulla strada, appena sopra il canale e in questa zona franca tra la notte e l'alba, l'acqua sembra nera e compatta come pece. Fler scende dall'auto prima di me e quando lo raggiungo ha già aperto il bagagliaio e sta trascinando fuori Saad reggendolo per i piedi. Tira e non faccio in tempo a dargli una mano, il cadavere scivola fuori e guardo con orrore la testa del libanese che segue tutto il resto del corpo e si schianta in terra con poca grazia e un suono sordo - tipo un THUD - che mi immagino quello che c'è dentro al sacco, e mi sale la nausea. Fler sembra che non faccia una piega. "Ci servono delle zavorre," commenta con aria critica. "Ne hai qualcuna in macchina?"
"Zavorre?" Esclamo e non so se la veda l'atrocità della cosa. Se non la vede abbiamo un problema perché significa che per lui è normale e non voglio che pensi che sia normale. "Fler è un'auto! Ci vado in centro a Berlino con questa, ti pare che mi servano le zavorre?"
Quello che mi colpisce di più di Fler, stanotte, è che non ha nessuna reazione e il suo non cambiare espressione rasenta l'apatia. Il suo cervello è tutto concentrato nel trovare soluzioni, tant’é che ha già pronta un'altra possibilità. "Ci basta la ruota di scorta," esclama. "Ce l'hai la ruota di scorta?"
Io sono talmente stordito che ci penso anche. "Eh? No, l'ho usata l'anno scorso e non ce l'ho più rimessa."
Impreca e fa un gesto di stizza. "Cazzo Peter, sei un danno davvero!" Se la prende con me come se fosse colpa della mia ruota di scorta mancante. "Non hai neanche quella vecchia? Basta il cerchione."
Scuoto la testa.
"Ok, d'accordo, ora cerchiamo qualcos'altro," parla da solo. Alla fine lo vedo che si mette a scrutare il mio bagagliaio e un po' mi preoccupo. Faccio bene, d'altronde. Non conosco Templehof ma conosco un po' lui e lo so come ragiona. S'infila nel bagagliaio alla ricerca di qualcosa e ne esce fuori trionfante con il cric in mano. Me lo passa e io lo prendo meccanicamente. "Smonta il portellone. Ce lo distendiamo sopra e poi lo leghiamo, dovrebbe bastare," mi dice.
"Cosa?" Lo guardo con le braccia lungo i fianchi, e le spalle un po' cadenti. Il cric mi tira i muscoli della spalla in questa posizione ma non ci faccio caso. "E' la mia macchina, non smonto proprio un bel niente."
"Andiamo, è un catorcio!" Insiste. "Te ne compro una nuova."
Lo guardo malissimo. E' la mia macchina. Il mio catorcio. E, per la cronaca, ho un sacco di ricordi legati a questa macchina. Non voglio smontarla. "Fler tu sei fuori," commento.
"Ci serve qualcosa di pesante perché resti giù."
"Allora perché non lo abbracci e ti butti in acqua?" Replico.
Lui non si abbassa neanche a rispondermi a tono. "Smonta il portellone," ripete. "Io cerco una corda su uno dei barconi giù al canale."
Si allontana senza darmi nemmeno il tempo di rispondere e io rimango lì con Saad avvolto nel suo telo lurido. Mi chiedo se qualcuno sentirà i colpi del cric. Siamo piuttosto distanti dalle abitazioni ma immagino che in questo silenzio perfetto, rotto solo dagli uccelli che gracchiano sopra la mia testa, io che prendo a mazzate il portellone della mia macchina non passerei molto inosservato. Così decido che posso tirare due colpi alle giunture e vedere se si allentano. In effetti la macchina non è in buone condizioni: ha più di sei anni e l'ho comprata usata che già ne aveva tre, però ovviamente le giunture non cedono di un millimetro. Tiro un altro paio di colpi che per altro riecheggiano pure e quindi decido che così non va. Contemplo la mia macchina per qualche istante prima di rendermi conto che c'è un unico modo.
Quando Fler ritorna, con 3 metri di gomena arrotolata intorno ad una spalla, mi sto schiantando in retromarcia contro il muro di una piccola rimessa.
Lo vedo che sgrana un po' gli occhi mentre il portellone impatta contro la parete del casottino con un clangore tremendo. L'auto sobbalza e gira a vuoto mentre il portellone preme contro il muro e le ruote stridono.
"Cosa stai facendo?" Mi chiede lui, affiancandosi alla mia portiera aperta.
"Secondo te?" Replico e in quel momento il portellone si sganghera. Faccio appena in tempo a fermare la retromarcia evitando di schiantarmi con il resto dell'auto contro la rimessa che il portellone è in terra, divelto. Spengo l'auto.
"Visto?"
Fler mi guarda malissimo. "Perché non fai un po' più di casino, già che ci sei?" Mi sibila a bassa voce, raccogliendo di terra il pezzo di lamiera. "Dammi una mano, muoviamoci."
Stendiamo a terra il portellone e ci issiamo sopra Saad che sta albeggiando. Fler mi passa la corda mentre sistema bene il telo in modo che non si apra. "Fai passare la corda sotto la lamiera e stringi bene il nodo."
Io obbedisco ma mi passa per la testa un pensiero che forse avrebbe dovuto colpirmi prima, più o meno quando ho visto che lo aveva avvolto nel telo. "Queste cose le fai spesso tu?"
Non mi risponde ma riesce a congelarmi solo con lo sguardo. Mi pianta in faccia quei suoi occhi azzurrissimi, duri e freddi, e io mi rifiuto di leggerci dentro perché non voglio sapere. In qualche modo mi viene da pensare che a sapere proprio tutto quello che Fler nasconde poi sarebbe difficile accettarlo. Alle volte è meglio non sapere e basta. Giro di nuovo la corda intorno al corpo ma più in basso, all'altezza delle ginocchia. "Credi che gli avesse insegnato a sparare per questo?"
Lui rimane in silenzio così a lungo che finisco col credere che non mi abbia sentito, poi però si stringe nelle spalle e sbuffa una risata. "Se conosco Anis l'avrà fatto dicendogli qualcosa, tipo, che era necessario che lui le sapesse, queste cose... però forse sì. Pare che abbia dato un ruolo a tutti, in questa storia, prima di morire."
L'occhiata che mi lancia faccio finta di non sapere a cosa sia riferita. Non mi piace che si sia reso conto e non mi piace che mi ricordi che ruolo ho, io, visto che palesemente ho fatto un casino dopo l'altro.
“Cosa succederà, ora?” Cambio discorso. Cambio domanda. Ho bisogno che mi parli, e che mi dia soluzioni.
“Denunceranno la scomparsa e non lo troveranno,” Fler non mi guarda, continua a controllare bene i nodi. “Sai quanti ne sparisce al giorno?”
“Sì ma non era un senza tetto,” gli faccio notare. “Era Baba Saad e Greta sa che eravamo lì per farlo fuori.”
Fler rimane in silenzio un po’ più a lungo. “Quella donna sa solo che ce l’avevamo con lui,” dice alla fine. “Saad, però, ci ha seminati quasi subito. Eravamo troppo lenti.”
“Ha visto Bill.”
“No, non lo ha visto e neanche noi,” insiste Fler, “perché lui era con Tom.”
Mi rendo conto che nel tragitto che abbiamo fatto per venire qui deve aver pensato a tutto. Forse ci pensava da prima, in ogni caso continuo a credere che ci siano troppe incognite. “E se…”
“Quando siamo arrivati, lo stava coprendo,” mi interrompe. “Questo significa che sapeva perfettamente perché eravamo lì. E sapeva anche che prima o poi saremmo arrivati. Non parlerà, perché dovrebbe spiegare troppe cose. E in ogni caso non ha prove.”
Greta, in effetti, non può provare niente, tranne forse che quella notte siamo arrivati a prelevare suo marito. Nient’altro. Quello che è successo dopo è un segreto che io, Fler e Bill ci porteremo nella tomba. Voglio fidarmi di Fler perché finora non mi ha mai deluso, e in ogni caso non ho molte altre alternative. Ormai ci sono dentro, direi.
Alla fine tiriamo su di peso quella specie di lettiga e cerchiamo un punto dove lanciarla. L'ideale sarebbe avere una barca e portarla a metà canale dove l'acqua è più profonda ma non abbiamo né i mezzi né il tempo per farlo. Così scegliamo un punto in alto, nei pressi del porto, e lo lasciamo cadere. Seguo il volo oltre il parapetto e vedo il corpo e la lamiera che carambolano in aria prima di infrangere lo specchio d'acqua con un suono tutto sommato ovattato, per via della superficie ghiacciata. Non rimaniamo a guardare l'acqua che torna calma sotto il foro creato dal nostro lancio, ce ne andiamo subito via. "Dobbiamo ancora riportare la Heckler a casa di Anis," dice Fler.
Questa è la notte più lunga della mia vita.

*



La villa di Bushido è una specie di maniero giallo limone, tutto quadrato col tetto a spioventi e una serra all'ultimo piano che non è altro che il segno più smaccato lasciato dall'eccentricità di quell'uomo. In realtà, se aveva tempo, qualcosa ci coltivava ma perlopiù serviva a far colpo sulle ragazze che si portava a casa. Prima che arrivasse Bill, naturalmente. Dopo il suo arrivo, le piante aveva iniziato a farcele crescere davvero, che tanto quella sala enorme, con il lucernario e l'atmosfera romantica non poteva più usarle e su Bill non facevano più molto effetto.
La casa, a dire il vero, è sempre stato troppo grande per lui solo e la sua governante tunisina ma era perfetta come ritrovo per la crew, così finivamo sempre per organizzare le cose nel suo salotto che era una specie di piazza d'armi. Ci abbiamo passato le giornate dentro a giocare ai videogiochi o a guardare la partita. Alle volte ci lavoravamo anche.
"Io però non ho le chiavi," dico non appena usciamo dall'auto. "Le aveva Saad."
"Scavalcheremo il cancello," conclude subito lui.
Lo fermo prima che si arrampichi e indico con un cenno della testa. "Non da qui. Sul fianco della casa c'è un muretto dal quale poi è facile oltrepassare la cancellata. Bushido ha sempre detto che lo avrebbe buttato giù ma poi non lo ha mai fatto."
Fler mi segue senza protestare. Una volta dentro, ci guardiamo intorno. "Dovremo rompere una finestra," commenta pratico.
"Non ce ne sarà bisogno. La porta della cantina cade a pezzi, basterà tirargli una spallata."
Lui mi guarda, poi fa quel mezzo sorriso triste che gli vedo ogni tanto. "Si può sapere perché hai tirato fuori quella storia della chiave, allora?"
"Sarebbe stato più comodo," rispondo mentre percorriamo il vialetto sul retro della casa, "ma Bushido ne aveva distribuita solo una copia."
"E Bill?"
"Due copie," mi correggo, mentre testo la maniglia della vecchia porta in ferro che, come ricordavo, è fuori sagoma. Tendo a dimenticare che Bill ha le chiavi di questa casa, così come ce ne dimenticavamo quando Bushido era vivo. E' successo più di una volta che fossimo già tutti lì per qualche motivo a caso e che nessuno avesse avvertito lui che noi c'eravamo. Ho ricordi molto vividi di momenti discretamente imbarazzanti. Faccio presa sulla maniglia, quindi assesto una spallata secca alla porta che quasi mi rimane in mano.
"Bushido non era cambiato poi molto," commenta Fler, mente mi segue all'interno. Tasto il muro per trovare gli interruttori. "Gli piaceva avere sempre la sua corte intorno. Quando eravamo ragazzini sua madre l'abbiamo fatta impazzire. Eravamo sempre tutti lì buttati a casa sua..."
Non fatico ad immaginarlo, era esattamente questo che eravamo: una corte. Il Re e la Principessa c'erano dopotutto. E anche il nemico che, come in ogni buon film che si rispetti, non è mai estraneo. Mai dall'esterno. E nessuno di noi se n'è accorto. Ci vuole un attimo perché le ultime due ore mi ritornino in mente, e mi stupisco della facilità con la quale il mio cervello finga di ignorarle.
Gli faccio strada attraverso i meandri di questa villa enorme. "Dov'è la camera da letto?"
"Quella patronale è al secondo piano."
Lo sento emettere un suono di gola, una specie di grugnito e gli rivolgo un'occhiata interrogativa.
"Niente, lascia perdere. E' che mi fa specie che tu conosca questa casa tanto bene," mi liquida con un gesto della mano e riprende il discorso. "Ad ogni modo, se mi ricordo ancora qualcosa di Anis, scommetto che la teneva nel cassetto del comodino."
"Così l'aveva sempre sotto mano, immagino."
Annuisce. "L'hai pulita?" Mi chiede poi, e tende la mano.
Tiro fuori la Heckler dalla tasca del giubbotto e gliela porgo, ancora avvolta nel fazzoletto. "Solo un po'."
Lo vedo che procede a rimuovere ogni possibile impronta. Quando apro la porta della camera da letto, troviamo la stanza come l'ho vista l'ultima volta: un campo di battaglia con tutte le antine spalancate e i cassetti aperti.
Fler si guarda intorno. "Cos'è successo qui dentro? Un uragano?" Chiede, mentre usa un lembo della felpa per aprire il cassetto del comodino.
"No, noi che cerchiamo la pistola."
Fa un altro di quei sorrisi spenti. "Il ragazzino vi ha fregati per bene. Anis sarebbe orgoglioso," commenta. Quindi richiude il cassetto. "Io qui ho finito."
Annuisco mentre fuori albeggia. Quando i primi raggi di sole filtrano attraverso le tende tirate e disegnano una striscia sul letto sfatto, mi prende l’ansia. Voglio che usciamo fuori di qui, il prima possibile. "Andiamo."
Mi segue fuori dalla villa e aspetta che abbiamo scavalcato di nuovo il cancello prima di chiedere: "Ti dispiace riportarmi a casa? Sono stanco di andare a piedi."
“Non resti da me?” La domanda mi esce di bocca prima ancora che l’abbia pensata e mi do mentalmente dell’imbecille perché non ho tredici anni, ne ho ventisette e dovrei sapermi controllare. Soprattutto, dovrei poter evitare di sentirmi deluso se un altro uomo non vuole dormire con me. Da me. Al diavolo, chi sto prendendo in giro? La verità è che in una notte di merda come questa ho bisogno di lui più che in ogni altra notte di merda che abbiamo passato.
“...non mi pare il caso,” biascica appena, mentre saliamo sull’auto che adesso ha una bella presa d’aria sul retro e fa un freddo cane. “E poi non sei stanco? Vorrai pur dormire tranquillo nel tuo letto.”
Mi tiro su il colletto del giubbotto, incassando la testa nelle spalle mentre metto in moto. “C'è posto per due nel mio letto. Non dobbiamo necessariamente scopare, Fler,” dico secco.
Mentre mi avvio sulla strada lo vedo che si agita imbarazzato. Non credo lo imbarazzi la parola scopare, quindi suppongo che il problema sia scopare con me. Il che a conti fatti dovrebbe essere un problema anche per me; ma non me ne frega niente. Non stasera. Qui, in quest’auto, stanotte, la mia più grande preoccupazione dovrebbe essere che ho ucciso un cristiano, l’ho legato ad un portellone e l’ho gettato in un canale, ma così non è. Evidentemente le mie giuste priorità sono andate tutte a fanculo durante il corso degli ultimi quattro o cinque mesi. Vorrei poter dire che è tutta colpa di Bushido, ma un morto profanato basta e avanza per stanotte. Intanto Fler sta parlando e io mi sono perso a conversare con il mio cervello. “Sì, lo so,” dice incerto. “Ma non è il caso che resti e basta, credo.”
I semafori sono ancora tutti spenti, passo con attenzione un incrocio. “E' tardi, e dovrei fare due viaggi. E poi mi fa piacere.“
“Sì, anche a me farebbe...” comincia, ma poi scuote il capo. “Non puoi riportarmi a casa e basta? Non scompaio, giuro.”
Non rispondo subito perché quello che vorrei dirgli non è contemplato. Quindi svolto altre due volte prima di scendere a patti col cervello che non ne può più – sono stremato – e ammettere l’unica cosa che non era il caso di rendere nota. “E' stata una nottata di merda, pensavo fosse meglio non passare quello che ne resta per i cazzi nostri”, non lo guardo. Cambio marcia e controllo la strada. “Comunque, come vuoi.”
Sto imboccando la strada per casa sua quando lo sento bisbigliare quel: “D’accordo.” E poi subito dopo aggiunge, “Tanto dovevamo comunque fare un’altra fermata ed è più vicina a casa tua.”
Ormai non chiedo neanche più. Mi fa girare per una serie di stradine fino a casa di Dio e quando finalmente ci fermiamo, lo facciamo di fronte ad una rimessa che cade a pezzi più della mia macchina.
“Cosa ci facciamo qui?” Chiedo, sbattendo la portiera che se non le dai un gran colpo non si chiude. Fler infila una mano nella tasca dei pantaloni e ne tira fuori un mazzo di chiavi enorme. Ne sceglie una a colpo d'occhio e quindi si china ad alzare la saracinesca che sopra ha uno di quegli enormi disegni fatti con le bombolette spray.
"Ci mettiamo la tua auto," risponde. Segue con il braccio alzato la saracinesca finché non è quasi tutta su e poi quella segue i binari e scompare all'interno del muro. "Non possiamo lasciarla in giro in questo stato. Domani, con calma, vedremo come disfarcene." La rimessa è poco più larga della mia macchina, e sulla parete di fondo sono stipati quintali di oggetti alla rinfusa. Anche i muri interni sono pieni di murales.
"Che posto è?"
"Mi serviva quando spacciavo," mi dice, mentre sposta scatoloni polverosi pieni di chissà cosa. Li ammassa tutti in fondo. "Ci tenevo la roba. Anis lo usava come magazzino."
La notizia non la registro nemmeno, un po' perchè ora come ora non è poi così eclatante e un po' perché dei murales ho sempre avuto l'idea che fossero solo un modo molto complesso di scrivere offese sui muri. L'equivalente elaborato delle parolacce sulle porte dei bagni pubblici, insomma. Invece questi disegni sono bellissimi e me ne accorgo anche io che non sono un critico d'arte. "Li hai fatti tu?"
Fler si gira solo un istante. "Sì," dice sbrigativo. "Metti la macchina dentro, comincia ad esserci gente."
Mezz'ora dopo stiamo finalmente aprendo la porta di casa mia e credo di non averle mai voluto così bene. Fler mi segue senza dire una parola, chiude la porta e si toglie il giubbotto e la felpa con un grugnito più che un vero lamento. Quando tocchiamo il letto, inizio a sentire il peso della notte appena trascorsa. Scivolo sotto le coperte che sono così incredibilmente soffici da commuovermi. Guardo il soffitto che quasi non si vede nella penombra delle tende tirate. Berlino si è svegliata, sento i rumori, ma sono lontanissimi ed irreali. So solo chi sono e dove mi trovo, e non sono sicuro nemmeno di quello, tutto il resto non mi riguarda.
So che la scomparsa di Saad avrà delle conseguenze e che ci sarà un’inchiesta.
Fler si è appallottolato tutto sul suo lato - è strano dirlo di lui che non è esattamente piccolo - e mi dà la schiena. Quello che faccio mi viene istintivo: rotolo su un fianco e lo avvolgo in un abbraccio. Sento che si irrigidisce, come lo avessi colto di sorpresa, ma poi si rilassa e il suo corpo è scosso da un brivido.“Fler?” Mormoro, incerto.
“Hmn?”
Lo stringo di più perché qualcosa non va e il vago tremolio della sua voce mi fa pensare a cosa che probabilmente lui non vuole che veda. Non mi solleverò a controllare, so che queste lacrime deve piangerle per conto suo. “E’ finita,” dico soltanto e appoggio appena le labbra sulla sua spalla nuda.
Rimane in silenzio, poi lo sento annuire. “Già. E’ proprio finita.”

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Ersguterjunge

di tabata
Mi chiamo Anis Mohamed Youssef Ferchichi ma è una vita che il mio nome lo sento pronunciare soltanto in tribunale.

Per il resto del mondo, io sono Bushido.

Tra meno di quattro ore potrei essere un cadavere steso sull'asfalto, o forse potrei vincere una guerra di cui cerco la conclusione dal momento in cui è iniziata. Comunque vada a finire, stanotte questa faccenda vedrà la sua naturale conclusione.

Le probabilità che ho di sopravvivere sono le stesse che ho di morire; è per questo che io e Fler abbiamo deciso di chiuderla in questo modo. Solo io e lui, da uomo a uomo, su un campo di battaglia neutro che ci consegni e ci sottragga le stesse opportunità.

Non ho voluto nessuno stanotte.
Li ho mandati tutti a casa dalle loro donne, solo Saad mi aspetterà fuori dalla porta quando sarà il momento di andare. Non potevo chiedere a Chakuza di farmi da padrino, non è il momento.

E poi il suo compito è un altro.

A Bill non ho detto niente perché altrimenti so che sarebbe venuto immediatamente qui.
Lo conosco fin troppo bene; tanto da sapere che avrebbe martirizzato una delle sue guardie del corpo per farsi portare al mio appartamento e rispedirla subito indietro, per poi dirmi che non può tornare a casa perché è senza auto.

E' così che ha dormito a casa mia la prima volta.

Bill è una di quelle persone abituate ad avere tutto ciò che vuole; ma i suoi non sono capricci da diva, è determinazione. E' uno che quando pensa di meritarsi qualcosa, prima la chiede con gentilezza, e poi, se gliela neghi, ti rompe le palle finché non lo accontenti.

A me ha rotto le palle con una costanza che andava premiata, in qualche modo. E a distanza di mesi mi sono convinto che se non avessi ceduto, mi avrebbe fatto fuori perché la prova del suo fallimento venisse insabbiata per sempre. Era convinto che avesse il diritto di infilarsi nelle mie mutande, io la pensavo diversamente.

E ha vinto lui.

Mentre l'acqua riempie la vasca da bagno penso che vorrei tanto tornare indietro nel tempo e negargli la mia compagnia per l'ennesima volta, girarmi dall'altra parte mentre mi si offre disteso sul mio letto sfatto e poi rispedirlo a casa con un taxi e una risatina.

Quando ero piccolo mia nonna aveva una scatola dove teneva i suoi gioielli. Una volta che avevo bisogno di soldi, rubai un paio di orecchini col pendente di perla, convinto che non se ne sarebbe mai accorta, dal momento che non li metteva mai, e li consegnai ad un ricettatore che conoscevo per altri motivi.

Quando tornai a casa, trovai mia madre che consolava mia nonna. Quegli orecchini glieli aveva dati il marito prima di crepare in guerra e lei non li metteva mai perché aveva paura di rovinarli. Tornai dal ricettatore ma li aveva già venduti, riaverli era impossibile. Ricordo che mia nonna mi strinse a se abbracciandomi, totalmente ignara che fosse stata colpa mia.

Per anni l'unica cosa che ho desiderato era rimettere gli orecchini in quella scatola.

Anche Bill è uscito da quello scrigno.
E sono stato io ad aprire il coperchio di legno e a sottrarlo al velluto che lo proteggeva. Come da bambino, anche ora farei qualunque cosa per riporre la perla dove l'ho trovata, così stanotte non dovrei mentire.

Così stanotte questo non sarebbe necessario, forse.

Quello che mi aspetta, in realtà, io non l'ho mai passato.
Le risse le conosco, ci sono dentro fin da quando ho imparato a tenere in mano un coltello, ma i duelli sono tutta un'altra cosa. Le risse si basano sulle offese, sulle infamie, è un gioco a chi grida più forte e a chi fa più paura. Sono davvero rare le volte in cui si va oltre ad un paio di coltellate, sono ancora più rare le volte in cui il morto ci scappa di mezzo.

Bill è terrorizzato dalle risse; forse perché è tanto magro che ogni volta che lo stringo penso che gli romperò qualcosa. O forse, più probabilmente, è perché è cresciuto in un luogo che io non ho mai visto. Una campana di vetro che la sua famiglia prima, la Universal poi, gli hanno costruito intorno per preservarlo da qualsiasi cosa. Lui il male non lo tocca mai, anche se nelle sue canzoni si lagna sempre di conoscerlo da vicino. La gente che si perde nella droga, che si butta dai palazzi perché la sua vita fa veramente schifo, lui non l'ha mai vista. Quella campana lo tiene distante dalla realtà, insieme a suo fratello che se lo tiene così vicino che la gente pensa male. Nella campana ci ha sempre vissuto e ci vive tutt'ora, a parte le volte che esce per venire a trovare me che vivo nella merda dalla quale lo tengono lontano.

Per questo ha paura delle risse, e ha paura di me che ci finisco in mezzo.

Questa però non è una rissa.
Fler e io ci guarderemo negli occhi e poi all'improvviso uno dei due non sarà più qui a raccontare quello che è successo. All'altro spetterà il compito di riportare la storia così com'è avvenuta, senza puttanate. E' finito il tempo di insultarsi. Questo Fler me lo deve, e i lo devo a lui, in caso.
Sono così stanco di questa storia che non so neanche più quale conclusione preferirei. E' così fottutamente ironico che qualunque cosa succeda, avrò comunque un buco nel cuore.

Da una parte c'è stato un tempo in cui Fler era mio amico. Non uno qualsiasi però, uno di quelli che ti para il culo quando comincia a scendere la merda vera. Era qualcuno su cui contavo, non posso pensare di ammazzarlo e di dormirci la notte. Dall'altra c'è un tempo presente in cui se muoio io, qualcuno dovrà spiegare a Bill perché dopo un anno e quattro mesi che vive dei miei respiri, sono stato così coglione da farmi ammazzare lasciandolo solo con quell'amore che si è preso lo sbattimento di provare per entrambi.

Nel bagno ho acceso solo quattro candele, agli angoli della vasca come le mette lui. Osservo l'acqua che scende e mi perdo nei riflessi delle fiamme che ci danzano in mezzo. Dal marmo bianco della vasca, alle candele, all'acqua, alla luna che entra dalla finestra e mi battezza mentre mi tolgo la camica e la lascio scivolare a terra, tutto ha un che di sacrale e cerco di perdermici dentro perché mi sembra importante, anche se non so il perché.

A me non piace capire il senso delle cose, mi piace toccarle.
Voglio sentirle sotto le dita, è l'unico modo che ho per conoscerle. Come nella vita, non mi basta sapere che qualcosa fa male, devo farmi male. Così in questo bagno comprendo che c'è un significato importante dietro al rito di purificazione qualche ora prima di buttarmi per strada e vedere chi fra me e Fler tornerà a casa, ma tutto ciò che riesco veramente a capire è che se tocco il marmo, lo sento freddo contro la pelle.

Che se ce la faccio, forse stasera tornerò ad immergermi di nuovo in quest'acqua. Forse da solo, o forse con Bill. Che se non ce la faccio, non sarà questo il marmo che mi accoglierà, mentre chiudo gli occhi.

Mi sento un templare, anche se non ho una missione divina da portare a termine, né una terra santa da conquistare. Un guerriero il cui compito è uccidere. Mi chiedo come si possa dimenticare tutto il resto, come si possa annullare ogni pensiero, ricordo o motivazione e vibrare la spada. O premere il grilletto. Sfioro con le dita appena bagnate la Heckler appoggiata sul pavimento contro il bordo della vasca e mi fa rabbia rendermi conto che sono ore che non mi separo da lei.

Non mi sento sicuro.

Scivolo sotto il pelo dell'acqua e guardò verso l'alto ad occhi aperti. Non sento i suoni e tutto ciò che vedo è un soffitto scuro. Immagino che morire sia esattamente questo: nè suoni, né colori, nè odori.
Non è mia questa frase. L'ha detta Bill, una notte che era ubriaco fradicio e non aveva neanche la forza di reggersi in piedi. Nel buio della mia stanza mi si è aggrappato addosso, sistemando quel corpo magro contro il mio fianco come se non ci fosse stato altro posto al mondo in cui metterlo e ha detto proprio questo: Quando morirò non andrò da nessuna parte. Sarò sempre lì, ma non sentirò nessun profumo, nè sentirò nessuna voce o vedrò niente di ciò che ho visto fin'ora. Non sarò io ad andarmene, sarete voi.

E io me la ricordo bene quella frase, perché mi colpì. Bill dice troppe parole al minuto per essere una persona sola, ma a volte - in quella marea di cazzate che produce - c'è qualcosa che ti va dritta al cuore e da lì non si schioda più. Quando muore qualcuno, di lui ti mancano i dettagli fisici prima di tutto il resto. Prima di dire che gli volevi bene, o che era tutta la tua vita, dici che ti manca la sua voce a riempire i silenzi.

L'odore tra le lenzuola. Il colore dei suoi capelli quando ti svegli al mattino.

Ti manca lo spazio fisico che occupava e che all'improvviso è vacante, orfano di una forma, di un corpo che potevi toccare e annusare. Di cui conoscevi ogni cosa. Non è la mente delle persone che viene a mancare, quella ce l'hai dentro perché vive tramite parole che ricordi. E' il corpo che si rovina due metri sotto terra a farti più male. La pelle non ha memoria, ha bisogno di toccare sempre.
E mentre sono ancora sott'acqua a contare i secondi che mi tolgono il respiro, mi pento di non aver toccato Bill prima di iniziare questa giornata.

Avrei dovuto farlo.
Vorrei che avesse il mio odore addosso, in questo momento. Vorrei averglielo lasciato ovunque, perché vi si aggrappi se non resterà nient'altro di me.

Riemergo con uno schizzo e spargo acqua ovunque, respiro più aria che posso e sento che mi manca, che non è abbastanza. Esco, mi copro e recupero la Heckler. Devo trovare il modo di dimenticare tutto quello che lascerei e concentrarmi su quello che avrò se...

La mia vita è appesa ad un condizionale.

*



Saad è un uomo puntuale.

In trent'anni che lo conosco non l'ho mai visto arrivare tardi agli appuntamenti, così anche questa volta - anche se magari potrebbe - bussa alla mia porta all'una spaccata. Gli apro che sono già pronto. Sono pronto da ore, in effetti. Ho passato le ultime tre a guardarmi intorno e ad imprimermi nella testa ogni singolo dettaglio della mia casa.

Ogni angolo su cui ho posato le mani, o le ha posate lui.
Ormai non fa più differenza. E mi dico, ancora una volta, che se tutti i miei pensieri si fondono nell'unico che Bill rappresenta sono fottuto.

E lo so che sono fottuto.

"Hey, Atze." Quando entra, Saad mi dice soltanto questo. Hey, Atze. Niente Anis, Bushido. Niente. Anche se è mio cugino, la famiglia l'ha lasciata a casa. La sua donna in questo momento non esiste. Non esiste la sua bella bimba bionda che mi chiama zio.
Non c'è famiglia, non c'è casa, non c'è nessun posto dove tornare.

Ci siamo solo io e lui, e quell'Atze è la misura della nostra distanza, ma anche quella del nostro legame: siamo compagni.

Compagno è quello che ti cammina a fianco mentre ti dirigi sul campo di battaglia e calpesta con te la terra che potrebbe accogliere il tuo sangue. L'unica differenza è che lo fa senza la paura. Un fratello t'impedisce di fare cazzate, un amico ti supporta.

Un compagnio sa che devi farlo e lascia il cuore a casa per evitare di fermarti.
Non c'è giusto o sbagliato. C'è solo il dovere, e Saad è lì per ricordarmelo.

Per questo Chakuza non può essere qui stasera, ha una visione delle cose che gli impedirebbe di fare esattamente questo: caricarmi la pistola e controllare le pallottole una per una, immergendole nella rabbia perché colpiscano il bersaglio.

Per questo lui è a casa e sa già cosa fare se non lo chiamo prima di domattina.
Mi serviva qualcuno che non credeva ancora ciecamente nella vendetta e nel sangue per proteggerne un altro che vive per amore.

Saad guida in silenzio e non mi guarda.
La città fuori dal finestrino non è affatto silenziosa come mi aspettavo di trovarla. Ci sono mille voci e mille luci. C'è un casino d'inferno e mi chiedo se volevo che la mia guerra venisse combattuta tra il rumore di centinaia di persone che non hanno la minima idea di cosa stia avvenendo.

Forse è un bene.
Tra me e Fler la battaglia si è svolta sempre all'aperto. Io contro di lui, lui contro di me, di fronte a milioni di occhi adoranti che si crogiolavano nelle nostre stupide parole di vendetta.
Poi Bill che mi fa letteralmente impazzire, Fler che crede di avermi distrutto.

L'ho quasi sentito il boato della folla quando ho perso il controllo anche sulla crew.

E' sempre avvenuto tutto in mezzo al frastuono.
E Bill ha urlato più degli altri, pur senza dire una parola. E' bastato che fosse se stesso - che fosse, e basta - ed è stato come se avesse un megafono in mano.
Era troppo palese perché non urlassero.

Era un'eresia troppo grossa per non ribellarsi.
Ed ecco la mia Guerra Santa: io non ho portato la parola del Signore in una terra di barbari. Ho imposto l'eresia nella mia terra, che era già sacra.

E' per questo che ho dovuto urlare più forte.
Perché le voci erano già troppo alte. Bill troppo blasfemo.
E io volevo farla finita.

*



Trovo Fler seduto su un lastrone di cemento, mi guarda e getta il mento in alto senza sforzarsi ad aprire la bocca e a sputar fuori un saluto, come invece faccio io. Saad è rimasto in auto e non lo vedo.

"La puttanella l'hai lasciata a casa?" Mi chiede, con un ghigno sul viso quadrato.

Lascio che l'offesa mi scivoli addosso senza toccarmi.
Quando è stato necessario, ho difeso Bill da quelle parole perché le ho sentite pronunciare dalla bocca di chi mi aspettavo lo rispettasse. In quel caso sì, le offese avevano una forza e io ne ho usata altrettanta per vendicarmi.

Ma quelle di Fler sono offese di rito. Fa parte del gioco.
"Questa è una cosa tra me e te, Atze," gli dico.

"Non chiamarmi Atze. Per me tu non sei più niente." Sputa in terra, come a scongiurare il malocchio.

Ci ho provato, Dio mi è testimone.
Per mesi ho dedicato più attenzione all'uomo che ho di fronte che non a quello che mi dormiva nel letto. Ho parlato con Fler in ogni lingua che conosco per spiegargli come stavano le cose e trovare una via fuori dalla rabbia che provava.

Ma non ha ascoltato, mai.

Io non sono capace di rimettere a posto le cose. Bill una volta mi ha detto che con le persone sono come un bambino che smonta gli oggetti per vedere cosa nascondono: capisco sempre che cos'hanno dentro ma poi le rendo così vulnerabili che quelle non sono più capaci di ricomporsi. L'ho fatto con lui.

E l'ho fatto con Fler.

So che la rabbia che prova viene tutta da un'altra parte.
Fler ce l'aveva con me già da prima. Da quando ho lasciato l'Aggro Berlin per provare a farcela da solo. Si è sentito tradito e ha cercato una stronzata qualsiasi a cui aggrapparsi per offendermi e farmi del male. Lui voleva che reagissi, che m'incazzassi. Voleva che se lui stava male per colpa mia, allora io facessi lo stesso. Col tempo, la questione iniziale si è mutata in qualcos'altro, un mostro di cui nessuno in realtà ricorda l'origine e l'intera faccenda ha passato il punto di non ritorno.

E mi viene da ridere a pensare che si potrebbe dire la stessa cosa di me e di Bill. Quando abbiamo scopato la prima volta, non era niente. C'ero io e c'era lui, per una notte sola.
Il fatto che ora nell'armadio di Bill ci siano i miei vestiti e nel suo bagno il mio fottuto spazzolino da denti significa che anche noi abbiamo passato il punto di non ritorno.

"Fler, ascoltami. Non abbiamo bisogno di questo."

"Quando mi interesserà sapere cosa pensi riguardo ciò di cui ho bisogno, te lo chiederò. Fino ad allora, tappa quella fottuta bocca e comportati da uomo, non da frocio accomodante," mi dice. Inizia a girarmi intorno e mi costringe a seguirlo con lo sguardo.

Estrae il coltello dalla tasca e fa scattare la lama.
E io impreco: avrei voluto che ne parlassimo prima, il che non fa che dargli ragione. Un anno fa gli sarei saltato alla gola e poi forse gli avrei chiesto cosa ne pensava. Ora è tutto diverso, ora devo parlare.

Devo parlare sempre, e chiedere. Spiegare. Mediare.
E questa sì, è colpa di Bill.

Fler mi è addosso un attimo prima di quanto mi aspettassi, ma mi manca. Cadiamo a terra entrambi e faccio in tempo a rotolare di fianco prima che sollevi il coltello di nuovo. Si rialza e tenta di colpirmi ancora, si abbatte su di me con la furia di un animale e al momento non posso fare altro che tentare di difendermi: ho il coltello incastrato nella tasca posteriore dei pantaloni.

Lo afferro per i polsi e cerco di tenerlo a distanza perché mi tiene la lama a qualche centimetro dal viso. Non so per quanto rimaniamo in stallo in quel modo, le mani mi tremano per lo sforzo ma le sue dita sono così strette intorno al manico del coltello che non sono certo che si fermerebbe se lo lasciassi andare. Faccio forza sulle gambe e lo ribalto con un ringhio, provo a tenerlo giù ma è molto più incazzato di me.

Ha una forza che io non riesco a tirare fuori, semplicemente perché non vorrei trovarmi qui.

"Fler, piantala!" Ringhio.

"Vaffanculo, Anis," digrigna i denti così vicino al mio viso che le vedo le lacrime nei suoi occhi, per questo s'incazza. Per questo mi chiama per nome.

Vorrei fare la stessa cosa, dirgli quel Patrick mi dispiace, che vuole sentirsi dire da anni e che non gli basterebbe comunque perché pretendere scuse e ricevere scuse non è abbastanza virile. Deve pestarmi. E' la legge della giungla che però non condivido più.

Ed è questo il punto di tutto. Di me, di Bill, di Fler.
L'ho tradito una volta, lasciando l'etichetta. Lo tradisco ora voltando le spalle a ciò in cui credevamo insieme. E' per questo che Fler è così incazzato e forse non ha neanche tutti i torti.

Mi grida addosso e rotoliamo ancora sul cemento che mi strappa la felpa di acetato scuro. Lo colpisco tra le costole e cerco di piegargli il braccio ma non molla la presa. Mi piego di lato, cercando spazio in cui infilarmi per recuperare il serramanico. Lui schiaccia una mano sulla mia gola e preme.

Recupero il coltello con le dita che tremano, rischia di sfuggirmi di mano. Mi manca il fiato e il collo mi fa male: quasi non riesco più a tenere lontana la mano che regge il coltello.
"Non ti arrendere," mi dice. E ripete quello che gli ho detto io quando sono uscito dagli studi di registrazione, l'ultimo giorno all'Aggro Berlin. Ci sento dentro tutta l'ironia e tutta la rabbia. "Non ti arrendere... Bushido."

La lama scatta e lo colpisco ad una gamba. Non troppo in alto, sopra una coscia. Voglio solo che si allontani. Ulula e si scosta, e io ne approfitto per farmi indietro. "Chiudiamola qui," sibilo ansante passandomi una mano sulla gola.

"Col cazzo!" Mi sbatte addosso e non so nemmeno come ha fatto a muoversi tanto veloce. Mi schianta contro un muro e mi pianta un ginocchio nelle palle così forte che vedo bianco. E un istante dopo sento lo strappo della pelle e la maglietta che si bagna lungo il braccio. Il colpo è stato casuale, non volutamente innocuo. Voleva prendere il cuore, solo che non è abbastanza lucido per pensare di mirare. Anzi, non vuole pensare perché gli richiede tempo e lui vuole chiuderla subito prima che la rabbia si esaurisca e lui corra il rischio di non ottenere il suo scopo. E' andato e non mi riesce di fermarlo.

Lottiamo ancora e non voglio.

Questa volta sono io a ringhiare. Prima che mi blocchi di nuovo gli tiro un calcio nello stomaco e lo stendo a terra con due pugni in faccia ben assestati. Il coltello gli vola dalle mani e io gli tiro una pedata in modo che finisca il più lontano possibile. Sto in piedi a fatica e il braccio mi fa fottutamente male, ma gli tiro altri due calci su un fianco e lo guardo arrotolarsi su se stesso con un gemito strozzato. "La chiudiamo qui," ripeto con più convinzione.

Non si muove mentre mi allontano, e spero che non lo faccia fino a che non avrò messo abbastanza distanza tra di noi.

*



A quest'ora di notte e con la faccia che mi ritrovo, se incrocio la polizia mi fermano. Non sarebbe la prima volta che mi costringono a seguirli in centrale. Non è mai facile provare che sono tedesco con il sangue di mio padre che mi scorre nelle vene.

O il mio che mi cola lungo il braccio, magari.

Mi sono allontanato di corsa e non so dove sia Saad. Non ho il tempo di cercare la sua macchina e ad ogni modo non ci penso neanche. Ho una sola cosa in testa, ed è Bill.
E' una questione di adrenalina e di paura. Prima di uscire di casa volevo dimenticarmi anche solo della sua esistenza perché non mi frenasse, ora che Fler non mi ha ucciso, voglio vederlo.

Vederlo e toccarlo.

Sono nervoso, ed esaltato. E le due emozioni fanno a pugni una con l'altra perché non so quale delle due devo seguire. Non è finita proprio per un cazzo, ma per stasera respiro ancora. E voglio respirare addosso a Bill.

Il suo telefono squilla a vuoto almeno dieci volte e ringhio tra i denti pensando che forse sta dormendo e non mi risponderà. Nè aprirà la porta. Dio, ho voglia di sentire la sua voce.

"Pronto?"

"... Bill?" Chiudo gli occhi ed espiro. Sentirlo non fa che peggiorare la mia situazione. Adesso che mi parla all'orecchio, voglio stringerlo tra le braccia.

"Dimmi."

Sembra stanco, e non mi stupisce. Quando lo chiamo di notte, sa già cosa deve aspettarsi. E' coraggioso il mio ragazzino, anche quando irrompo nella sua campana di vetro lui non si scompone. "Ascolta, adesso non andare nel panico, d'accordo?" Dico, e mi scappa un sorriso perché mi sembra di essere tornato indietro a quando ho chiamato mia madre la prima volta che mi hanno portato in centrale. Ho iniziato la telefonata proprio così.

"Anis, dove sei?"

Mi piace quando pronuncia il mio nome. Quelle quattro lettere gli si sciolgono sulla lingua e poi rotolano fuori, è quasi ipnotizzante seguire il movimento dietro le labbra. "Sto venendo lì," rispondo. Non voglio spiegargli, voglio solo raggiungerlo. Chiudo il telefono e chiamo un taxi.

*



Bill è una visione.

Ho sempre pensato che fosse bellissimo ma stasera, quando mi apre la porta, penso che non ho mai posato gli occhi su qualcosa di più bello. E non importa che sia in pigiama e che sia struccato. Il fatto che io possa vederlo lo rende già di per sé meraviglioso. "Hey, Principessa," lo saluto, con un mezzo sorriso stanco.

Sono stati i ragazzi a chiamarlo così la prima volta, per prenderlo in giro. Eppure io ho sempre pensato che fosse un soprannome perfetto: Bill è davvero una principessa. E' viziato, elegante e abituato a farsi servire. Quando ha varcato la soglia di casa mia, con tutti i ragazzi svaccati in salotto che davano il peggio di sè tra rutti e volgarità, non c'era possibilità che lo accogliessero bene. Nè che lui accogliesse bene loro, naturalmente.

Erano due mondi che si infrangevano come onde sullo stesso frangiacque. Me.

Mi appoggio allo stipite della porta e cerco di apparire al meglio, ma la verità è che non mi reggo in piedi. La mia pantomima dura due secondi, poi gli frano addosso senza preavviso e lui mi sostiene con la forza nervosa che ha sempre addosso.

"Anis!" Mi grida direttamente nell'orecchio e io strizzò gli occhi, un po' ridendo.
E' un impiastro.

"Tranquillo, sono intero," rispondo. "Chiudi la porta, svelto."

Per una volta non protesta e obbedisce, e io ringrazio il Signore perché non sono proprio dell'umore di discutere sul fatto che lui non è uno dei ragazzi e io non posso dargli ordini; già me lo vedo che si mette la mano su un fianco e mi seppellisce sotto venti minuti di motivazioni. Intanto mi trascino sul suo letto e mi ci lascio andare sopra con un sospiro, chiudendo gli occhi.

"Che diavolo è successo?"

"Niente."

"Niente un cazzo," dice lui. Pensano tutti che Bill non dica parolacce, ma non è vero. Solo che c'è una differenza tra lui e gli scaricatori di porto come me. Bill quando impreca è perché proprio non ha più pazienza. Le impregna d'odio e frustrazione le sue parolacce. Valgono di più. "Guarda come sei ridotto!"

In questi casi c'è solo una cosa da fare. Lo afferro per la nuca e lo bacio, senza scomodarmi a farlo con gentilezza. Non voglio trattarlo con i guanti, adesso. Lo voglio e basta. Per un secondo fa resistenza e poi mi si scioglie in bocca, come sempre. Bill non è contento se prima non fa finta che non gli piaccia. "Calmati, va tutto bene."

Mi si appoggia addosso e io gli accarezzo i fianchi. Lo sento rilassarsi sotto le dita e per un attimo inspiro il suo odore, quello che ha quando non si è ancora messo il profumo. E' deciso, ma morbido. Esattamente come lui. "Perchè deve sempre andare così?" Mugola, chiudendo gli occhi.

Bill mugola di continuo, ed è una tortura.
La prima volta che l'ho sentito mugolare in quel modo ero dentro di lui, da allora associo il momento al suono e tutto si traduce in brividi lungo la schiena. Ogni volta che mugola, vorrei vederlo e sentirlo fare anche tutto il resto che ha accompagnato il suono la prima volta.

E' così che mi ha completamente fottuto il cervello. Con quel suo mugolare candido, che poi è la cosa più zozza che c'è.

"Piccolo, lo sai il perchè," deglutisco.
Mi perdo da quanto è caldo e morbido sotto le mie dita.

"Sei ferito?" Mi chiede.

"E' solo un graffio," rispondo e gli strappo via dalle mani il braccio che sta toccando per controllare. Vorrei evitare di fare smorfie e lamentarmi di fronte a lui, anche se il graffio è lungo almeno dieci centimetri e forse dovrò mettermi i punti. Fà un male d'inferno.

"Vado a prendere la cassetta del pronto soccorso."

A Bill piace fare la crocerossina, e io gliela lascio fare perché fondamentalmente mi piace che mi tocchi. In qualsiasi eccezione del termine. Però non può farlo subito, perché io vengo dal brutto mondo là fuori e potrei morire se non lo bacio di nuovo. "Aspetta," lo afferro per un braccio e me lo trascino addosso. Gli forzo le labbra e voglio che mi risponda, voglio sentirlo. Gli stringo forte un fianco, portandolo più vicino e quello che ci scambiamo è un bacio umido e rozzo.

E' un bacio mio.

E voglio che se lo senta ovunque, perché è così che mi piace che sia: devo essere su di lui e in lui anche quando non sono fisicamente presente. E' questo che significa appartenermi.
Deve avermi addosso.

"Chi erano stavolta?" Chiede, mentre mi pulisce la ferita delicatamente.

"Non hai bisogno di-"

"Dmmelo e basta. Mi pare un po' tardi per parlare del tempo, no?"

"Sono stati gli uomini di Fler," mento alla fine. "C'è stata una rissa, con i coltelli."
Non posso dirgli che eravamo soltanto io e lui, quindi evito di guardarlo negli occhi.
Lo sguardo mi cade sulla mia mano, su ciò che vi ho fatto tatuare sopra.

Non è la stessa cosa, mi dico.

Ci sono verità che fanno più male della menzogna. E Bill non vuole affatto sapere che io e Fler ci siamo saltati alla gola nel vano tentativo di dimostrare quanto siamo migliori l'uno dell'altro.

"Perché hai in mano la Heckler, allora?"

Perchè mi sono cagato in mano in quel vicolo, piccolo.
Come faccio a dirgli che per tutto il viaggio in taxi l'ho tenuta stretta tra le dita con la convinzione che mi sarebbe servita? Non so come giustificare il brivido freddo che non mi ha mai abbandonato, nonostante l'entusiasmo di aver vinto, di aver visto lui. Di essere lì. La Heckler mi serve, ma lui non può capire. "Bill lo sai come vanno queste cose, maledizione!" Sbotto e allontano il braccio di scatto. Non volevo essere così stronzo ma è un meccanismo di difesa che ho fin da quando ero un ragazzino e questo nemmeno lui è riuscito a togliermelo. "Prima ci sono gli insulti, poi i coltelli. Alla fine qualcuno tira fuori la pistola e-"

"E qualcun altro muore!" Replica lui. "Non ve le siete tirate abbastanza tu e Fler?"

"Tu non puoi capire, bimbo," dico.

"Spiegamelo, allora."

Quando fa così, mi dà veramente sui nervi. Per quanto abbia ragione e per quanta pazienza io abbia nei suoi confronti, odio la sua insistenza su certi argomenti. Il mio mondo ha un codice comportamentale così stretto che ad allargare le maglie per farci passare lui ci ho quasi rimesso ogni cosa. La faccia, il nome. E stasera anche la vita. Vorrei dirgli che la coltellata che sta disinfettando me la sono presa proprio perché lui non dovrebbe farmi domande del genere.

"Anis."

"Non sono cose che ti riguardano," replico di scatto, imbestialito. Poi però lo vedo che trasale e non posso fare a meno di accarezzargli la testa e addolcirmi perché proprio non se le merita le mie urla. Lui che cazzo c'entra se il mio mondo fa schifo? "E' un fottuto casino, Bill, non voglio che tu ci vada di mezzo."

"Il mio copriletto lo ha già fatto," sorride e mi indica il letto. E penso che quel sorriso dovrebbe dedicarlo a qualcuno che non gli sanguina addosso così spesso. Bill è una cosa troppo bella perché la tenga io. "Quindi perché non io?"

"Perchè non è uno scherzo," replico. E invento, la mia nottata si riempie di persone con le quali ho inbastito una guerra. "Ci sono quattro dei suoi là fuori che mi stanno cercando e non so neanche se mi hanno seguito. Ho fatto male anche solo a chiamarti."

"Resta qui," esclama alla fine. "Domattina, ti fai venire a prendere dalla sicurezza della Universal. Una volta a casa non ci saranno problemi."

"Vuoi che mi prendano per un vigliacco?"

"Allora chiamiamo la polizia!"

Lo sento, anche se è appena percettibile. Lo usavamo per avvertirci a vicenda dell'arrivo della polizia quando rubavamo nei negozi di notte, da ragazzini. Un fischio con un suono preciso.
L'ho inventato io, quindi lo riconosco.

Le mie mani si stringono intorno alla pistola quasi istintivamente mentre mi avvicino alla finestra e scruto la strada là fuori tra le veneziane. Lo vedo praticamente subito, dall'altra parte del marciapiede; ha il viso pesto ma ride nella mia direzione e mi saluta con due dita sulla visiera del cappello. "Merda!"

"Che succede?"

Mentre mi chiedo come cazzo ha fatto Fler ha sapere l'indirizzo di Bill, lui viene verso di me. E io ho un brivido di terrore. "Stai lontano dalla finestra!" Gli ordino nel panico. "E' pericoloso. Voglio che stai dall'altra parte della stanza."

"Sono qui?"

Annuisco.

Il mio cervello gira più veloce del normale e il cuore pompa adrenalina come stava facendo prima che la presenza di Bill lo inducesse a calmarsi. Ora quella stessa presenza allerta i miei sensi e il mio primo pensiero non è per me, ma per lui. Non voglio che mi stia vicino perché potrebbe essere pericoloso.

Guardo Fler due piani sotto di me e i miei occhi si agganciano ai suoi. Mi guarda e per la prima volta in più di dieci anni che lo conosco non riesco a leggergli dentro niente. Se ne sta semplicemente lì, in piedi sul marciapiede e mi guarda: so che può vedermi attraverso le veneziane e, anche se così non fosse, saprebbe perfettamente dove sono.

Fler è stato un Atze prima ancora che lo fosse Saad. E forse si era scavato un posto dentro di me prima che lo facesse Bill. E in un istante mi dispiace veramente che tutto questo sia successo; davanti a questa finestra vorrei trovare un modo per rimettere a posto le cose, perché so di averle mandata a fanculo io.

So che mollando l'Aggro Berlin, ho mollato anche lui. E l'ho fatto solo per me e per i soldi che poi ho guadagnato. Dico sempre che la crew viene prima di tutto, ma con lui non l'ho fatto.

So che presentando Bill come l'ho presentato, gli ho dato un posto che non era giusto avesse. Ed è di questo che Fler mi accusa.

Vorrei poter ricostruire quest'enorme puzzle che ho distrutto, ma certi pezzi ormai non si trovano più e certi altri sono rotti senza rimedio.

Bill, poi, viene da un'altra scatola.
E mi chiedo se le sue estremità si incastreranno mai nel mio disegno, magari forzando un po'.

"Anis, ti prego! Chiamiamo la polizia!" Lo sento dire e mi giro.
Niente polizia, piccolo. Lo sai, no?

.....Denn eine Kugel reicht





Fa male, cazzo.

E' la prima cosa che penso. In realtà nell'attimo preciso non ho sentito niente, soltanto il sibilo del proiettile che frantumava la finestra. In una frazione di secondo ho capito che mi avrebbe colpito, e subito dopo è succeso. Il dolore è arrivato con la consapevolezza che non ho uno straccio di speranza. E' il fegato.

Fa male, cazzo. Cazzo.

Abbasso lo sguardo sulla maglietta macchiata di rosso e l'unica cosa che mi riesce di pensare è che non sembra affatto sangue. A casa ho una maglietta bianca con sopra il mio simbolo che è dello stesso identico colore. L'ho sempre guardata pensando che quel rosso fosse innaturale, fatto apposta per le magliette. E invece no, guarda qui: è rosso sangue. Bello limpido e chiaro.

Non ho veleno nelle vene, solo sangue.
Il King of Kingz è umano. E' questo il problema, stasera.

Ho lo sguardo fisso su quel foro minuscolo che fa un male del cazzo, porca puttana e Bill lo guarda con me. Cristo, Bill. Mi ero dimenticato che fosse qui: sta così immobile che non sembra neanche vivo. Ironico. "Bill..." lo chiamo, e lo prendo per i polsi. Voglio portarlo via dalla finestra. Se devo crepare, lo farò ma devo prima distrarlo.

Un secondo dannato sibilo.
Ancora una volta il collegamento è immediato, il movimento invece no. Il proiettile mi trapassa una gamba e mentre soffoco un gemito lo sento entrare ed uscire dall'altra parte.
Mi accascio su di lui e spero che mi regga perché stavolta proprio non ce la faccio.

Sento il rumore di gente che corre alle mie spalle, forse qualcuno ha sentito gli spari ma non m'importa. L'unica cosa che percepisco davvero è il dolore forte che ormai si è preso tutto il corpo. Anche le mani di Bill sono una presenza vaga, da qualche parte. Mi sento in dovere di rassicurarlo, non fosse altro perché mi sta andando nel panico e non è così che voglio lasciarlo. "Va tutto bene," gli dico con un po' di voce che tiro fuori non so da dove, mentre mi accarezza il viso. "E' solo un graffio."

"Dobbiamo chiamare un'ambulanza," singhiozza.

Cristo, non piangere. Non piangere. Resta qui. Allungo una mano e lo tiro verso di me. Voglio baciarlo prima di perdere sensibilità. "Shh..." Le sue labbra sono calde, morbide e umide di lacrime. "Non piangere. E' tutto a posto."

Me lo godo per quel che mi resta e me lo stringo addosso.
La sua lingua sulla mia fà ancora un dannato bene e ringrazio chi di dovere per sentire ancora i brividi lungo la schiena quando lo sento rispondere ai baci. Tra le lacrime e i singhiozzi e il sangue, è tutto dannatamente bagnato.

Non avevo mai pensato veramente a come sarebbe stato, e non ci penso neanche adesso a dire il vero. Forse non mi rimane altro che qualche minuto e non voglio sprecarlo a cercare chissà dove il senso di una vita che forse non ce l'ha mai avuto. L'unico motivo per cui è valsa la pena di un'infanzia schifosa, di essere arrestato, delle risse, l'unico motivo per tutto ce l'ho tra le braccia e tanto mi basta. Penso a suo fratello e a quante volte deve avermelo augurato mentre gli portavo via Bill notte dopo notte. "Tuo fratello sarà contento," sorrido. "Mi sono tolto dalle palle."

"Non dire così!" Stride. Quando è nervoso gli si alza la voce di botto. Cerca di liberarsi ma glielo impedisco. "Devo chiamare un'ambulanza."

Lo tengo giù con le ultime forze che mi sono rimaste e gli tiro i capelli gentilmente, perché mi guardi. Perché capisca. Non c'è più niente da fare, piccolo. Basta, smetti.
Non te ne andare. Resta qui. Voglio chiudere gli occhi con il tuo odore e le tue mani addosso.

"Anis, no..."

"Se dipendesse da me, ti assicuro che starei qui," mi sforzo di sorridere, ma non vedo già più niente. Il suo viso posso solo immaginarlo, e me lo porterò dietro. "La compagnia è senz'altro migliore.

L'ultima cosa che penso è che...


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Verräter

di lisachan
A quattordici anni, quando non hai un padre, la prima cosa che fai è cercartelo. Sei piccolo e stupido, perciò non pensi; l’unica cosa che vuoi è avere un figo davanti agli occhi e dirti “Cazzo, sì, è così che voglio essere quando sarò cresciuto. Esattamente così”.
Il primo padre che mi sono scelto era un coglione di dimensioni notevoli. Era sempre completamente fatto, l’unica cosa buona che si potesse dire di lui era che aveva un talento mica male per la… scrittura artistica, se così si può dire. È stato lui a mettermi la prima bomboletta spray in mano ed a mostrarmi come, dove e quando usarla.
E così sono finito di fronte al tribunale minorile.
Di quel giorno ricordo solo mia madre piangere sul più grande errore della sua vita ed il sollievo che provai quando il giudice mi condannò a sei mesi di servizio sociale.
Per la verità era anche ironico trovarsi a coprire il proprio stesso nome con la vernice bianca per le strade. Avevo scritto un enorme “Patrick” sul muro che delimitava il campo giochi di un asilo, ed era una scritta coi controcoglioni, azzurra e gialla, stupenda. Il pensiero di trovarmi di nuovo di fronte a quella scritta con l’obbligo di cancellarla mi dava i brividi, ma non erano brividi del tutto spiacevoli.
Annulli il passato e ti muovi verso il futuro. O qualcosa di simile.
Comunque sia, quando mi ripresentai ai servizi sociali per ricevere l’attrezzatura, i permessi e sapere chi avrebbe condiviso lo strazio con me per quel periodo di tempo, avevo rinunciato all’idea di cercarmi un nuovo padre. In qualche modo, pensavo, se non ce l’hai non ti serve.
E poi lo vidi.
Anis, tanto per cominciare, sembrava più grande di tutti gli altri. Forse perché era già così alto, così scuro, e l’atteggiamento era di quelli tipici di chi ti fa sapere senza dirtelo che è una persona pericolosa, e che perciò ti conviene stare alla larga se non vuoi trovarti coinvolto in qualcosa di brutto.
L’assistente sociale me lo indicò con un cenno del capo. Stava seduto su una sedia di plastica gialla, un piede sollevato sul sedile, la posizione svaccata di chi ha già vissuto troppo per badare alla buona educazione ed uno stecchino immobile fra le labbra.
La stanza era piena di ragazzetti ricoperti di piercing e bianchi come il latte, che si facevano fighi fra loro parlando delle loro ultime meravigliose imprese – tipo entrare nella casa del vicino per mettergli paura e rubare qualche centinaio di marchi – e che a causa di ciò avrebbero passato i prossimi mesi a portare il pranzo e la cena ai vecchi del quartiere.
Anis restava immobile. Nessuno gli rivolgeva la parola e la cosa non sembrava turbarlo.
- Ehi. – lo avvicinai, cercando di mostrarmi tosto quanto lui, - Sembra che dovremo farla insieme, questa cosa.
Lui mi lanciò un’occhiata assolutamente incomprensibile, sfilando lo stecchino di bocca senza neanche cambiare posizione.
- Tu che hai fatto? – chiese con una certa curiosità.
- Eh? – chiesi di rimando io, lasciando ricadere la mano che gli avevo porto e che lui, ne sono sicuro, non aveva pensato di stringere nemmeno per un secondo.
Anis rise.
- Come mai sei finito qui? – precisò, alzandosi lentamente in piedi.
Mi superava in altezza almeno di una ventina di centimetri. Era disturbante.
- Sono un tagger. – risposi con un certo orgoglio.
Lui non si scompose.
- E basta?
E a me diede i brividi.
Quella fu la nostra prima conversazione. Da quel momento in poi, Anis passò la sua intera esistenza a sfottermi.
So che può sembrare allucinante da dire così, ma io mi adattai subito. Voglio dire, mi adattai quando mi disse che lui era finito in galera perché spacciava. Io, che mi sentivo tanto figo ad andare in giro scrivendo il mio stupido nome sui muri di Tempelhof, mi sentii improvvisamente, oltre che scemo, anche puro come un neonato. Quello spacciava, cazzo. E gli spacciatori lo sapevamo tutti, com’erano. Non erano come noi, che giravamo col serramanico in tasca solo perché faceva figo. Loro lo usavano, il fottuto serramanico.
Mi sfotteva per il mio nome, mi sfotteva per il mio stile, perché ero troppo bianco, perché non avevo ancora mai accoltellato nessuno, mi sfotteva di continuo. Io gli davo del coglione ed ogni tanto un pugno sulla spalla o sul petto, ma Anis sembrava di ferro, cazzo. Incassava senza muoversi. E rideva. Di continuo. Di me e di qualsiasi altra cosa.
Non decidemmo noi di chiamarci Frank White e Sonny Black. Lui l’avevano già soprannominato così da tempo, come il capomafia, perché aveva tutto un suo giro di gente che già gli pendeva dalle labbra – ed aveva solo diciassette anni, cazzo, quando si dice il potenziale – perciò quando cominciai a farmi vedere sempre al suo fianco ai ragazzi venne naturale darmi del Frank White.
Anis mi sfotteva anche per quello.
- Lo sai chi è Frank White?
- No.
- Ma l’hai mai visto King of New York?
- No.
E giù risate.
- C’è questo qui, - mi spiegò, - che è Cristopher Walken, l’attore, dico, ma nel film è il signore della droga di New York. Uno cazzuto. Tu non ti sai neanche preparare gli spinelli.
Altre risate.
- E come finisce questo? – chiesi io, sbuffando, - Conquista l’America e diventa presidente?
- Ci prova. – rise lui, - Ma finisce morto ammazzato. Ovviamente. – un sospiro, - Perché, come pensi che finiremo noialtri?
Non mi spaventò, perché da quando andavo in giro con lui il pensiero della morte era molto meno spaventoso di prima. Voglio dire, puoi avere paura le prime due, tre volte che ti puntano un coltello alla gola. Ma quando la scampi – quando cominci a scamparla puntualmente – il brivido lo perdi. Ti riempi un po’ di stupido orgoglio e un po’ di presunzione, e ti ficchi in testa che morirai solo quando lo deciderai tu, perché fino a quando hai voglia di lottare puoi sempre tirare fuori un coltello più grosso o un calcio meglio assestato.
Però la sua rassegnazione aveva un che di deprimente.
Lui era in assoluto il più forte del quartiere, non avrebbe dovuto avere paura di nessuno. Eppure conosceva perfettamente la propria situazione e sapeva esattamente cosa aspettarsi dalla vita.
Era triste, in qualche modo.
- Comunque, sta’ tranquillo. – mi disse quel giorno, lanciandomi una pacca tale sulla spalla che io quasi caddi dal muretto sul quale c’eravamo arrampicati, - Prima di morire, altro che Re di New York. Io diventerò il Re dei Re.
Sul muretto, sotto di noi, avevamo appena finito di scrivere “King of Kingz”. Avevo eseguito gli ordini senza capire. Era un bel lavoro.
Scoppiai a ridere. Lui con me.
Decisi ciò che volevo essere. Uno di quei kingz ai quali lui avrebbe dato ordini. Era tutto ciò che volessi dalla vita.
*
Io lo so, cosa credono tutti. Io so tutto perfettamente. Perché Bushido mi ha chiamato traditore per anni, ma lui è così, ha un modo proprio di vedere la vita che, anche quando cozza contro la realtà, non cambia di un millimetro. Io non ho tradito proprio nessuno. Se qui qualcuno ha tradito qualcosa, quel qualcuno è Bushido e quel qualcosa siamo noi. Sono io. È ciò che c’era, ciò che sognavamo insieme.
Per la verità ogni tanto sospetto lui non abbia mai sognato in coppia con nessuno. Quando lui parlava di Re dei Re, non lo faceva come per dire “io sto sopra ma anche voi non siete malaccio, vi porto con me con piacere”. No, l’intento era un altro.
Stare sopra. Sopra tutti. Sopra tutto.
Io non ho tradito proprio nessuno. Quando siamo entrati all’Aggro Berlin, l’abbiamo fatto insieme. Quando abbiamo cambiato nome, l’abbiamo fatto insieme. Quando è uscito King Of Kingz, io ero lì. Ero in tutte le tracce. Ero nei sampler ed ero con Bushido quando Sido non gli avrebbe dato un centesimo.
Poi Bushido ha cominciato a fare i soldi. Quelli veri. Quelli che perfino Sido gli invidiava.
Chi è il traditore se, quando le cose cominciano a girarti bene, prendi e te ne vai?
Il traditore sei tu che sei andato via, o quelli che restano e che cominciano ad odiarti?
Bushido ha le idee chiare in merito. Tradisce chi resta ed odia. Chi non riesce proprio a dimenticarsi un vecchio sogno, e ci resta aggrappato con tutte le proprie forze.
Anche io ho le idee chiare in merito. Tradisce chi va via. Chi, quel sogno, lo prende e lo calpesta senza pensarci su neanche mezza volta.
In questi mesi, sia io che lui non abbiamo fatto altro che ribadire costantemente le nostre idee. Spalandoci merda addosso a vicenda. Per quanto inutile possa sembrare come modo di condurre un litigio, in realtà non abbiamo fatto altro che preparare questo giorno.
Tu non puoi adorare qualcuno e poi ficcargli un coltello nello stomaco da un giorno all’altro.
Hai bisogno di una scusa. E come scusa non basta che quella persona ti molli nella merda. Noi abbiamo avuto bisogno di lunghi mesi di diffamazione. Di dircelo in pubblico, cosa pensavamo l’uno dell’altro. Di far sapere al mondo che ora ad unirci c’era solo l’odio.
E così, giorno dopo giorno, abbiamo costruito le basi per stanotte. Offesa dopo offesa, insulto dopo insulto.
Sido pianta il freno e si lascia andare contro il sedile.
- Era qui? – chiede disinteressato. È chiaro che vorrebbe trovarsi da tutt’altra parte.
Sido ha una moglie ed una figlia. Sido è un rapper, non un criminale. Sido, con tutto questo, non c’entra niente.
- Sì. – rispondo, aprendo lo sportello, - Puoi andartene. Non c’è bisogno che resti.
Lui sospira.
- Fler, io lo voglio morto almeno quanto te. – borbotta, fissandomi con l’espressione tipica di quando vuole farmi una paternale, - Però non mi pare il caso… avanti, che ne sai che non ti si presenta con tutta la crew e ti lascia bucato come groviera sull’asfalto?
Scuoto il capo. Non può proprio capire.
- È una cosa fra me e lui. Bushido sarà di parola.
- Sì. – sospira esasperato, - Di solito lo è, eh?
Ghigno. Punto per lui.
Bushido è scorretto con chi non ritiene degno della sua onestà.
E sono in pochi.
Io, forse, avanzo delle pretese che non merito, ma voglio fidarmi. Stavolta voglio farlo.
- Non ti preoccupare, stanotte non crepo di certo. – butto lì, più per rassicurare me stesso che non per rassicurare lui. In realtà, ciò che rende questo buio così scuro, questa luna così brillante e queste strade così silenziose è proprio il brivido dell’incertezza.
Io non ho nessuna garanzia di sopravvivenza, perché la persona che un tempo mi difendeva oggi mi affronterà con una pistola in mano.
Io non ho nessuna garanzia di sopravvivenza anche perché tutto ciò cui ho potuto pensare in questi ultimi anni si condensa in stanotte. Tutti i miei obiettivi sono qui. Tutte le mie ossessioni, oggi finiranno.
La mia più grande ossessione. Me la troverò faccia a faccia in un vicolo vuoto. E toccherà a me ucciderla. O esserne ucciso.
Quando la mia ossessione arriva, mi trova seduto su un lastrone di cemento. Svaccato e perfettamente a mio agio. Per qualche secondo spero che questo possa servire a ricordargli due ragazzini in un tribunale minorile che aspettano i rulli, le tute e la vernice bianca.
M’illudo, lo so.
- Fler. – mi saluta con un cenno del capo. Io sollevo solo il mento.
- La puttanella l’hai lasciata a casa? – ghigno cattivo, mettendomi in piedi.
Lui non fa una piega. Non si muove. Neanche si offende, lo stronzo.
- Questa è una cosa tra me e te, Atze. – mi dice.
Il moto di stizza mi porta a serrare i pugni. Gli darei un cazzotto qui ed ora, senza pensarci. Ma non è il momento.
- Non chiamarmi Atze. Per me tu non sei più niente. – e sputo in terra. Sputo in terra perché lui è qui e può vederlo. Che ciò che eravamo era perfetto. E ciò che siamo adesso fa schifo.
Sputo su ciò che siamo. Sputo perché odio ciò che siamo. E perché stanotte lo ucciderò.
Lui sospira ed abbassa lievemente lo sguardo. Posso leggere perfettamente, al di là dei suoi occhi scuri come il petrolio, che sta cercando una via. Un modo per farmi ragionare, per convincermi a rivedere la mia posizione.
Questo atteggiamento un po’ mi indispone ed un po’ mi fa ridere. Bushido non è abituato a convincere gli altri con le parole. Bushido le impone, le cose. Come ha imposto la sua fidanzata nel mondo del rap tedesco, come ha imposto i propri soldi sulla giustizia austriaca quando ne ha avuto bisogno, come ha imposto se stesso su un mercato che non credeva di avere bisogno di un tunisino incazzato col mondo e pronto a sputare in faccia alla Germania per farle vedere tutte le sue brutture.
Bushido convince così, imponendosi. Ed il rap tedesco ha dovuto accettare Bill Kaulitz. E l’Austria ha dovuto chinare il capo. E la Germania ha capito che non aspettava altri che quel tunisino.
Però, con me vuole parlare.
- Fler, ascoltami. – dice a bassa voce, mettendo quasi le mani avanti, - Non abbiamo bisogno di questo.
- Quando mi interesserà sapere cosa pensi riguardo ciò di cui ho bisogno, te lo chiederò. Fino ad allora, tappa quella fottuta bocca e comportati da uomo, non da frocio accomodante.
Anche perché non lo sai, di cosa ho bisogno. Non più.
Infilo una mano in tasca. Il coltello arriva subito, neanche l’avessi chiamato. Forse lo stavo facendo. Comincio a girargli intorno come un predatore, fissandolo negli occhi.
- Cazzo. – dice lui. È frustrato. È deluso. È arrabbiato.
Ha paura.
Gli salto addosso. Non gli lascio neanche il tempo di guardarsi intorno, lo getto a terra e lo spingo sul marciapiedi con tutto il peso del mio corpo. Mi sfugge, il bastardo – ci tiene alla pelle, si vede. È cambiato anche in questo. Rotola su un fianco, io mi sollevo sulle ginocchia e lo attacco ancora, puntandolo col coltello. Ghigno, perché non è riuscito a recuperare il suo. Cerca di tenermi lontano a mani nude, ma io ho la lama. Io taglio.
Sono il traditore e faccio più male di te.
Sono il tradito, ed odio molto di più.
- Fler, piantala! – ringhia, mentre cerca di tenermi stretto per i polsi.
Forzo la sua stretta. È sempre dannatamente potente. Mi fa un male cane. Vorrei ficcargli questo coltello nella gola e risolvere il problema, ma non so se ne sarei veramente capace. Probabilmente, se mi lasciasse andare, mi fermerei.
- Vaffanculo, Anis. – digrigno i denti e gli sono così vicino che mi sento addosso il suo fiato. Ed è orribile, è tremendo, mi fa pensare cose che non dovrei, mi fa ricordare cose che non dovrei, cose che toglierebbero a chiunque la voglia di ammazzare chicchessia, pomeriggi noiosi passati a tirare le pietre nel canale, notti adrenaliniche e silenziose per fare la posta a questo o a quel debitore insolvente, fargli il palo mentre sgattaiola silenzioso fuori dal letto di una donna non sua ma che s’è preso lo stesso, ed io c’ero, io ero lì, ero davanti al suo sorriso e al suo “grazie, Atze, ti devo un favore”. E quanti favori mi devi, adesso? Te li inciderei tutti sulla pelle, Anis, uno dopo l’altro. Ma non so se ne ho davvero la forza.
Grido, rotoliamo sul marciapiedi, la felpa gli si strappa, io mi distraggo e ricevo in cambio una gomitata fra le costole che mi mozza il fiato. Cerca di riprendersi, lo stronzo, di recuperare il solito coltellino sul fondo della tasca dei jeans, ma non posso lasciarglielo fare.
Lo afferro per la gola. Stringo forte e premo fino a farmi sentire sottopelle. Fino a lasciargli addosso l’impronta delle mie dita, che poi è l’unica impronta che possa lasciargli, oltre allo strappo di una coltellata o al foro di una pallottola.
Lo sento che cede. Lo sento che smette di crederci. Lo sento e gli leggo negli occhi – annebbiati, confusi, tristi? – gli stessi sentimenti che agitavano me quando ha mollato l’Aggro Berlin. Quando mi è passato davanti come se, dentro di lui, di me fosse rimasto solo un ricordo sbiadito. Mi ha guardato sorridendo, mi ha detto “Non arrenderti”, ed io ho pensato “Allora è così che finisce, coi sogni? Ti esplodono dentro e ti lasciano devastato come neanche dopo una guerra, ma da fuori non si vede? È questo tutto quello che resta, una traccia invisibile?”.
E perciò gli faccio il verso.
Gli faccio il verso perché anche di lui resterà solo una traccia invisibile.
- Non ti arrendere. – sibilo, - Non ti arrendere… Bushido.
Ed io non so se è stata una distrazione o se in qualche modo volevo che recuperasse quel fottuto coltello e lo usasse contro di me, ma tutto quello che sento è un dolore acuto e forte sulla coscia, una quindicina di centimetri sopra il ginocchio.
Mentre grido e mi sposto di lato, tocco la ferita e sento il sangue. E penso che è giusto così. Che ce ne ha messo, di tempo, per farmi sanguinare. Ma alla fine è la cosa più giusta, perché io in realtà sanguino da anni, il problema è che il sangue non riusciva a venire fuori. Ed ora è ovunque – sulle mie mani, sui miei vestiti, sul marciapiedi. Ed è giusto così.
Ma manca ancora qualcosa.
- Chiudiamola qui. – ansima lui, tirandosi indietro.
No, non la chiudiamo qui. Manca qualcosa. Ora la sua traccia io ce l’ho addosso. Manca la mia su di lui.
- Col cazzo! – mi slancio in avanti e lo sbatto contro un muro.
Prima un calcio nelle palle, stronzo, così impari ad andare col primo fighetto di turno fottendotene perfino di ciò che sei.
E poi la coltellata. Il mio marchio. Avrei voluto piantartelo nel cuore, lo sai? Però è vero, non ci riesco.
Forse volevo solo il tuo sangue addosso. E non come le mille volte in cui sono andato recuperandoti per le strade dopo una rissa o un regolamento di conti, no. Volevo essere io a ferirti.
Sulle mie mani, il nostro sangue si mescola.
Ora siamo davvero fratelli. Ironia della sorte.
E mentre io sento il tepore del suo sangue sui polpastrelli, lo sente anche lui, scendere silenzioso lungo il braccio. E ne ha davvero paura. Sangue significa che puoi morire. Paura significa che hai qualcuno che ti aspetta.
Bushido non vorrebbe davvero essere qui.
Bushido ha qualcuno che lo aspetta.
Bushido non è più un criminale e nemmeno un rapper.
Bushido non ha più niente a che vedere con me.
Cerco ancora di schiacciarlo contro il muro, ma c’è qualcosa che non va. Si riprende. Mi tira nello stomaco un calcio tale che mi viene da vomitare. Mi allontano e ricevo come ringraziamento due cazzotti che mi fanno vedere doppio. Cado a terra. Mi fa male la gamba ed anche tutto il resto del corpo. Il coltellino è volato via. Lo vedo ad un metro circa da me, mi basterebbe allungare un braccio e recuperarlo, ma nonostante la ferita Bushido è più veloce. Lo scalcia lontano, ed io non lo vedo più.
La sua voce mi raggiunge alle spalle.
- La chiudiamo qui.
È netta e cupa.
È dolorosa.
È stupido, ma non ho più voglia di lottare. Lo ascolto allontanarsi e non mi muovo più.
*
Terremoto.
No. Mani. Mi scuotono.
- ‘ca puttana, Fler, riprenditi.
La voce. È Sido.
Apro gli occhi.
- Cazzo. – continua lui, - Cazzo. Sei ferito.
- Sì… lo so da me, grazie. – ansimo, cercando di rimettermi quantomeno seduto.
- È profonda?
Lancio un’occhiata alla mia gamba. Ovviamente non posso guardare attraverso i jeans, ma quello che sento lo so benissimo.
- Ho visto di peggio. – mormoro, mentre lui mi aiuta ad alzarmi, - Tranquillo. Te l’ho detto che non crepo, stanotte.
- Sì, certo. – borbotta Sido, tirandomi in piedi, - Ce la fai a reggerti?
Mi allontano da lui e ci provo. Annuisco.
- Perfetto. Allora vieni in macchina, ti porto all’ospedale.
Rifletto.
- Ho da fare.
- ‘Cazzo hai da fare, Fler, hai un buco in una gamba! – mi rimprovera lui, evidentemente esasperato dalla situazione. Per un attimo mi dispiace. Se sono rimasto lì arrotolato per terra non era per il dolore alla gamba. Era per il dolore a tutto il resto. Mi dispiace che si sia preoccupato per qualcosa di così stupido, Sido non merita niente del genere. Lui è un uomo d’affari ed un cantante. Non merita questo.
- Ho un conto da regolare. – spiego, il più pacatamente possibile, - E se non lo risolvo stanotte, non lo risolvo più.
C’è assolutamente qualcosa che devo dire ad Anis.
A me basta così. Io sono stato abbastanza male. Anche lui. Possiamo… siamo pari. Lo siamo davvero.
- Mi sono rotto i coglioni. – risponde Sido in un ringhio di frustrazione. Poi sospira. – Dov’è che devo portarti?
Gli sollevo addosso un’occhiata incredula.
- Come, scusa?
- Sei ferito ad una gamba. Prima risolviamo qui, prima ti porto all’ospedale. – ragiona nervosamente, - Devo ricordarti che sei la punta di diamante dell’Aggro Berlin? – chiede poi con un cipiglio dittatoriale che è ciò che ha permesso a questa sua faccia da nerd di sopravvivere nonostante tutto in questo mondo assurdo. – E certi legami contano sempre, Atze. – aggiunge poi, - Perciò, dimmi dove devo portarti.
Mi viene un po’ da ridere e lo seguo fino alla BMW. So esattamente dov’è andato Anis. So anche come raggiungerlo, il posto, perché una cosa non è riuscito a farla, ed è stato tenere nascosto l’indirizzo di casa sua. Cose che capitano, quando la tua fidanzata campeggia sulla copertina di Bravo una volta ogni due settimane. Qualcuno fa una foto e tu casualmente riconosci il quartiere e magari anche il palazzo.
Indico a Sido dove andare e, quando ci arriviamo, mi faccio lasciare a qualche metro dalla traversa giusta.
- Aspetta qui. – dico piano.
Lui non risponde, spegne il motore, le luci ed accende la radio.
Io mi muovo piano. La gamba mi fa un cazzo di male, ma non è il momento di pensarci. Il palazzo lo riconosco subito. Sto qui che cerco di capire se posso suonare il campanello o qualcosa del genere, ed oltretutto mi chiedo se conosco davvero Bushido al punto da indovinare le sue mosse – non è mica detto sia qui, in fondo – quando sento qualcosa che mi confonde.
Mi confonde perché è il nostro fischio. Ma non è Bushido a farlo, perché lo riconoscerei. E non sono nemmeno io. Posso esserne ragionevolmente certo.
Non so chi è che abbia fischiato, ma non avrebbe dovuto farlo.
Sollevo lo sguardo sul palazzo e vedo una figura scura affacciarsi ad una delle finestre. È lui. Lo vedo. Lo saprei anche se non lo vedessi. Mi guarda, lo guardo, non capisco cosa sta succedendo. Vorrei avvertirlo, c’è qualcosa che non mi torna. Vorrei dirgli che siamo a posto, più di ogni altra cosa.
Siamo a posto, Atze.

.....Denn eine Kugel reicht

- Cazzo è successo?! – è la prima voce che sento. Ed è Sido che, evidentemente, m’ha seguito. – Fler!
- Non sono stato io! – urlo a mia volta, agitato. Al primo sparo si sovrappone il secondo. L’eco dal primo non s’è ancora spenta nel vicolo vuoto. Si aggiunge un urlo. È la voce di Kaulitz. Passi. Non so di chi. Luci che si accendono, qualche cane che abbaia.
La sinfonia distorta di un omicidio.
Sollevo lo sguardo sulla finestra, che è ancora buia, ma non c’è più nessuna sagoma. Siamo solo io e Sido in un fottuto vicolo deserto, e questo è molto male.
Sido mi tira via.
- Vieni, porca troia! Merda… - mormora furioso, - Merda, siamo nella merda…
Ed io penso che è vero.
Fisso la finestra. Non urla più nessuno.
Cominciano a sentirsi le voci delle altre persone, però. Fra poco qui sarà un disastro, ed io so esattamente con chi se la prenderà l’universo intero quando Bushido sarà morto.
…la mia ossessione è morta.
Ed io non posso prendermela neanche con me stesso.
*
L’ultima settimana della mia vita è stata in assoluto la peggiore. Non mi hanno neanche lasciato il tempo di soffrire in pace. E questo, per uno come me – che s’è crogiolato nel dolore e nel risentimento per anni, prima di decidersi a farne qualcosa – è stato tremendo. Ho risposto a non so quante domande. Sido ha continuato a rimproverarmi per ore, ed io mi sono sentito molto un bambino. Molto stupido.
Stavo molto male.
Ecco tutto.
Ma sono qui. Sono qui perché c’è anche lui, qui. È dentro una bara e non può sentirmi, ma cazzo, mi ha visto, prima di morire. E quindi io dovevo esserci. Anche se forse non sono abbastanza uomo da farmi vedere – perché non hanno potuto incriminarmi, visto che la mia pistola non ha sparato, ma l’ersguterjunge non ha bisogno di documenti ufficiali per sapere su chi gettare il biasimo di questa morte.
Solo che no, non sono stato io.
Io non volevo neanche.
La signora Luise piange rumorosamente. Abbraccia Saad, che la sostiene come un cavaliere, fissando gelido di fronte a sé. La signora Luise mi fa una pena infinita.
La signora Luise probabilmente adesso mi odia, anche se è l’unica donna oltre mia madre che ricordi la mia data di nascita, e questo perché le feste di compleanno le ho organizzate a casa sua per anni, prima di entrare all’Aggro Berlin con Anis.
Prima di diventare grande.
Troppo grande.
Mi mancano, quei pomeriggi.
Sto molto male, vaffanculo.
Sido è quasi in prima fila, in rappresentanza dell’Aggro Berlin. So che non vorrebbe essere qui, ma lui è uno responsabile, ed è uno con le palle, perciò s’è presentato. Davanti a tutti e senza chinare il capo, anche se, lo so, tutta l’ersguterjunge lo tratta come fosse un mandante o chissà che.
Tutte balle. Non so come faremo ad uscire da questa rete di stronzate.
Quando arriva la macchina nera che accompagna Kaulitz, ce ne accorgiamo tutti. Si irrigidiscono tutti. È una sensazione che rende elettrica l’aria, ed arriva fino a me, che sono nascosto dietro una stupida enorme tomba di famiglia a metri e metri di distanza.
Lo osservo scendere dalla macchina. È in nero, sembra minuscolo e stravolto. Mi fa pena anche lui. C’è il fratello, al suo fianco, ma resta in disparte. Lo vedo che gli stringe appena una spalla, come per consolarlo, e poi Kaulitz si muove da solo. La fidanzata che si cerca un posto.
Fosse stato davvero una donna, la donna di Anis, l’avrebbero lasciato passare con tutti gli onori. Ed invece guardalo, non lo lasciano nemmeno avvicinarsi. Deve andare a prenderlo Chakuza. Chakuza, Cristo santo. Non ha diritti, il ragazzino.
Saad s’irrigidisce e lascia la signora Luise alle cure della propria madre. Si allontana e poi lo perdo di vista. Non ci bado molto, osservo il prete che si lancia in un discorso privo del benché minimo senso, che Anis odierebbe. Cazzo, la saltavamo insieme, la messa della domenica. Ed in ogni caso lui era sempre troppo scuro per piacere alle brave famiglie che trovavamo fra le panche in chiesa.
Io mi appoggio contro la parete del mausoleo e mi viene un po’ da ridere.
Sarebbe una bella cosa, farsi una risata. Peccato io stia piangendo come non mi capitava da anni.
- Bella faccia tosta a presentarti qui.
Mi volto, accanto a me c’è Saad.
Non rispondo.
- Sappiamo tutti che sei stato tu.
- Allora sapete molto più di quanto non sappia io. – rispondo seccamente.
Faccio per voltarmi ed andarmene, perché questo confronto è proprio l’ultima cosa che voglio.
- Ti incastreremo. – dice lui, freddo e pratico.
Scrollo le spalle.
Saad non piange.
È tutto ciò che riesco a pensare.

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Chained To You

di lisachan
Questa serata si conclude come si concludono tutte le mie serate da una quantità di settimane così enorme da risultare quasi disturbante, se ci penso.
Io non sono una persona molto paziente. So esserlo, certo, quando ne riconosco l’utilità – o quando preferisco così – ma tendenzialmente la mia pazienza si esaurisce nel momento stesso in cui, dopo aver detto no, mi trovo ad ascoltare nient’altro che una richiesta più insistente di prima.
Se dico no è no. Ed è sempre stato così.
Per un qualche motivo che non comprendo, i miei no non hanno alcun effetto su Bill.
E questo è disturbante.
Mi aspetta sotto casa come al solito; stringe fra le mani un sacchetto di plastica e sta tutto avvoltolato in una specie di piumino dentro al quale il suo corpo magro e ossuto si perde senza speranza. Mi avvicino con un sospiro poco convinto.
È stata una giornata pesante e non ho voglia di dire no a nessuno.
Negare è sfiancante. Per negare devi motivare il tuo rifiuto. Accettare è molto più semplice, basta un mezzo sorriso.
Quando arrivo al suo fianco, stringendo in mano le chiavi di casa, so già che non sarò in grado di negare alcunché.
- Immaginavo che saresti tornato tardi… - sorride lui, serrando le dita attorno alle maniglie del sacchetto, - Avevi le registrazioni per quel video… - lo vedo che si sforza, mi viene quasi da ridere. – Reich…
- Sì. – taglio spiccio, infilando le chiavi nella serratura e facendola scattare poco dopo, - Quello. – preciso con un ghigno, sapendo che non ricorderà mai a memoria il titolo. Mi chiedo se abbia mai ascoltato la mia musica, o se tutta questa storia che si trascina da eternità non sia solo ciò che resta di un fratello che mi idolatrava e di qualche flirt un po’ troppo spregiudicato in televisione.
Nonostante la luce gialla dei lampioni renda l’aria della notte quasi fosforescente, lo vedo per un secondo illuminarsi di qualcosa di più puro del neon.
- Reich mir nicht deine Hand! – conclude con un sorriso, - Era questa, giusto? Mi avevi parlato di un video in riva al mare…
Sinceramente stupito, inarco un sopracciglio.
- Già. – annuisco aprendo la porta, - Be’?
Lui deglutisce e sembra ricordarsi solo adesso perché è qui. Solleva il sacchetto all’altezza del viso.
- Ti ho portato qualcosa da mangiare. – dichiara tranquillo, - Spero che ti piacciano gli hamburger.
- A chi non piacciono? – chiedo retorico, facendogli strada in casa.
Karima si affaccia dalla cucina. Dalle sue spalle arriva l’odore sottile e insinuante del soffritto di cipolle appena messo sul fuoco.
- Buonasera, signor Ferchichi. – mi saluta educatamente, - Il signor Kaulitz si ferma per cena? – chiede poi, salutando con un cenno del capo Bill al mio fianco.
- Sì. – annuisco io, rimpiangendo già qualsiasi cosa meravigliosa stesse preparando, mentre il mio buongusto abdica in favore di Bill, - Ma non c’è bisogno di preparare. Bill ha portato qualcosa.
Questa donna, che conosco da anni, sorride in un modo che mi fa un po’ paura, annuisce e si ritira in cucina per tirar giù la padella dal fuoco. Io sospiro ancora – perché ci sono volte in cui mi sento molto una pedina di qualcosa che non mi piace affatto – e faccio strada a Bill all’interno della casa, per quanto mi renda conto sia ridicolo, visto che ormai la conosce fin troppo bene.
- C’era freddo? – mi chiede all’improvviso, mentre sistemo i panini – una quantità industriale – sul tavolo di fronte a noi.
Sollevo lo sguardo.
- Cosa? – ribatto, vagamente confuso.
- …dove avete girato. – precisa con imbarazzo palpabile, giocando nervosamente con un paio di fazzolettini di carta sottilissima tirati fuori dal sacchetto, - Era in riva al mare, perciò ho pensato… forse faceva freddo.
Non so davvero cosa dovrei rispondere.
- Avevo il giubbotto. – dico alla fine. Non so se sia la risposta giusta, perché non ho la minima idea di cosa mi abbia chiesto.
- Ah. – annuisce Bill, e scosta la sedia dal tavolo per accomodarsi di fronte alla distesa di panini. – Tu quali preferisci? – chiede ancora, esitando nello scegliere la propria cena, - Ne ho presi di tutti i tipi, ce ne sono con le cipolle, coi cetriolini, senza niente, e poi col pollo, col manzo, credo, col vitello, forse uno col pesce ma non ricordo, è che non so che-
- Uno qualsiasi andrà bene. – lo fermo, sedendomi al suo fianco un po’ stordito, - Sei la solita macchinetta. – commento con un mezzo sorriso.
Lui aggrotta le sopracciglia ed io mi mordo un labbro. L’ho offeso.
- Tu, invece, sei il solito pezzo di ghiaccio. – ritorce. Il suo tono è glaciale almeno quanto mi accusa di essere, e le parole suonano come stilettate in un posto che non saprei identificare, ma fa un po’ male.
Forse è questa l’abitudine. Quando sei affezionato ad un sorriso e quello, all’improvviso, si spegne.
E tu non hai neanche capito che in realtà ti piaceva.
Scrollo di dosso i pensieri molesti, perché devo cercare di ricordarmi che qui si sta parlando di me e di Bill Kaulitz, non di una coppia da fotoromanzo. Queste idee malsane non dovrebbero neanche sfiorarmi.
- Vuoi litigare? – chiedo stancamente. Spero che risponda no, perché io non voglio.
Bill sospira.
- No. – risponde mesto. Bravo bambino. – Ma potresti essere un po’ più gentile, magari.
Sbuffo un mezzo sorriso e mi allungo verso di lui. Non ho la minima idea di cosa sto facendo, dev’essere il sonno. Gli passo una mano fra i capelli – sono morbidi e tiepidi – e poi la lascio scivolare sulla sua spalla – appuntita e spigolosa – stringendola con una sorta di affetto mal dissimulato.
- Sono esausto. – ammetto, dirigendo la stessa mano che l’ha toccato verso i panini, per recuperarne uno a caso, - Tu che hai fatto, oggi?
Lo osservo soffermarsi un attimo sul mio volto, come incuriosito dalla mia espressione. La mia espressione dev’essere piuttosto stupida, perché lui si mette a ridere. Non è fastidioso – non completamente, ma…
- Ti ho fatto una domanda, potresti anche rispondere. – protesto, aggrottando le sopracciglia.
- Sì, certo. – dice lui, spegnendo la risata e scacciando via una piccola lacrima di divertimento dagli occhi, - Sono stato un po’ in giro. Nulla da fare. Una noia. Ho giocato con Tomi.
- Il ritratto perfetto della giornata di un bimbo diligente. – dico con un sorriso, addentando il panino e rendendomi conto di avere in effetti un certo appetito.
- Be’, poi sono scappato e ho preso la cena. – completa lui, scrollando le spalle, - Non tanto diligente.
- Bill. – sospiro, mandando giù il… sarà pollo? Non riconosco il gusto. Potrebbe non essere neanche carne, per ciò che so o che m’importa. – Il tuo manager sa perfettamente che sei qui, così come sa perfettamente che sarai a casa prima di mezzanotte. Come Cenerentola.
Bill s’arruffa tutto come un pulcino, quando è arrabbiato.
È quello che fa anche adesso.
- Ci tieni tanto a guadagnarti la fiducia di David? – scocca a bruciapelo, - Fai sempre quello che dice lui!
- Ma non lo faccio perché lo dice lui. – preciso sorridendo, - Quello è il tuo compito.
- Be’, nemmeno io faccio le cose perché le dice lui. Anzi, - sospira pesantemente, - in genere, quando le dice, non le faccio e basta.
Ridacchio.
- E quindi sei qui per una sorta di ribellione adolescenziale nei confronti della tua figura paterna del momento?
Se lui può arruffarsi, posso anch’io.
Bill si morde l’interno di una guancia ed abbassa lo sguardo, offeso. Improvvisamente, me lo rivedo com’era due giorni fa, in questo stesso salotto, mentre cercava di convincermi a lasciarlo dormire con me. Allora dissi qualcosa di molto simile – qualcosa di molto stupido tipo “sei qua solo perché ti sei fatto un film che con la realtà non c’entra niente”. Non si dovrebbero mai dire cose simili a qualcun altro, perché in fondo non puoi sapere niente che cosa gli gira per la testa.
Un sentimento è un sentimento.
Ciò che provi non smetti di provarlo se ti dicono che non è reale.
Questo vale per Bill e purtroppo vale anche per me.
- Ora che ci penso… - commento distaccato, cercando di darmi un tono e farmi forza: se riesco a rimandarlo a casa anche stasera, magari non si ripresenta più. – È giusto l’ora della nanna. Se ti chiamo un taxi adesso, magari arrivi a casa in orario.
Scatta in piedi con la furia di un cucciolo in pericolo di vita. Non ha la minima idea di come difendersi, ma lo farà finché ne avrà la possibilità.
- Posso restare a dormire qui. – propone pacatamente, stringendo una mano attorno al bordo del tavolo, come volesse aggrapparvisi per non volare via.
A causa di cosa, non lo so, visto che sono tutto meno che forte come un uragano.
- No che non puoi. – nego risoluto.
- Hai milioni di stanze! Non devo stare per forza da te!
- Sì, e poi finisce come, quand’era?, la settimana scorsa? Devo ricordarti come mi sono svegliato?
Bill arrossisce ed abbassa lo sguardo.
- Non posso fidarmi di te. – continuo, - Non se t’intrufoli in camera mia nottetempo e cominci a… Bill, avanti, siamo seri. – scuoto il capo, il pensiero confonde anche me. Quella notte s’è stretto al mio corpo come non volesse più lasciarlo andare. Mi ha baciato, e d’improvviso ho realizzato quanto pericolosa fosse questa relazione, e quanto ancora più pericolosa potrebbe diventare se si concretizzasse in qualcosa di serio. Non posso lasciare accadere niente di simile. Io non sono un pazzo e non sono un suicida. – Torna a casa. – sollevo lo sguardo su di lui e non ci metto molto a capire che fra un po’ scoppierà a piangere. Mi avvicino, sfiorandogli una guancia con due dita. – Sei piccolo e molto molto avventato. Non hai idea di cosa sta succedendo.
E non hai idea di cosa mi stai facendo.
Lui solleva una mano e stringe con forza le mie dita fra le sue. Ho fatto male a toccarlo. Ho fatto malissimo.
- Non mandarmi via. – sussurra avvicinandosi ancora, fino ad aderire completamente al mio corpo, - Io non sono un problema. Cazzo, io ti amo.
Non so come faccio a trattenere il lamento di puro dolore che mi nasce in gola.
Io non so come governarlo.
Non so come fermarlo.
Non ho idea di come dovrei gestirlo, questo ragazzino così stupido.
So che fino ad un secondo fa il suo corpo era premuto contro il mio solo perché lui lo voleva. Adesso, però, adesso che me lo stringo contro, lo voglio anche io.
Io non sono bravo a mentire.
A me le menzogne non piacciono.
La verità è importante al punto che me la sono scritta addosso.
Lo bacio senza la minima delicatezza, perché nessuno di noi due la vuole. Non sono io. Quello che si contiene e quello che rimane impassibile e quello che non tocca e quello che nega e quello che rifiuta. Non sono io. Questa cosa fredda non sono io.
Il corpo di Bill è così caldo che riscalda tutto.
Lo sento sotto le dita, mentre le lascio scivolare sotto la sua maglietta, e lo sento sulla pelle del mio collo, dove il suo viso si posa alla ricerca di un riparo dall’imbarazzo, e dove le sue labbra si fermano, incerte su cosa fare. Così imparo la sua forma: la linea dritta dei suoi fianchi, la curva morbida della sua pancia, le colline e le valli della sua spina dorsale. La magrezza delle sue braccia e la pelle un po’ ruvida sui tatuaggi. La fragilità della sua nuca e l’impeto della sua eccitazione, premuta forte contro la mia in una sfida senza vincitori che è solo la dimostrazione fisica del nostro desiderio.
Lo spingo indietro fino al tavolo, buttando giù i panini per terra, e penso distrattamente che Karima domani mi maledirà in tunisino finché non mi verrà la nausea per le mie stesse radici.
Bill ride contro il mio orecchio.
- Ops.
Rido anche io.
- Sei una peste. – commento baciandolo in punta di labbra, un attimo prima di liberarmi dell’ingombro della sua maglietta.
- Ehi… - biascica imbarazzato, stringendosi a me come ad una coperta, - Li hai fatti cadere tu…
Le mie mani sfidano l’orlo dei suoi jeans e lo sconfiggono, passando oltre. È morbido e dolce, Bill, e fa dei mugolii deliziosi quando scendo a stuzzicarlo fra le natiche.
Mi piace il suono. Ne voglio ancora.
I pantaloni che indossa sono così stretti che mi rendono i movimenti difficili. Lui se ne accorge e sbuffa, agitato.
- Tirali via! – biascica ansiosamente sulle mie labbra, mentre le cerca per un altro bacio.
Obbedisco su tutti i fronti, i pantaloni scompaiono ed il mio movimento si fa più libero. Posso stuzzicarlo anche fra le gambe. La morbidezza delle sue cosce si chiude attorno al mio polso, mentre lo sfioro per tutta la lunghezza della sua erezione, prima di afferrarlo saldamente alla base e cominciare ad accarezzarlo con più decisione.
Bill si aggrappa con forza alle mie spalle. Poi cambia idea e mi si stringe al collo, come non si sentisse sicuro di restare in piedi, se non può avvolgersi completamente attorno a qualcosa. Alla fine, lascia andare un mugolio di pura frustrazione e, mentre io sto quasi abituandomi all’idea di stare facendo una sega ad un maschio che non sono io stesso e che è Bill Kaulitz, stringe i pugni attorno alla mia maglietta e la solleva furiosamente, tirandomela via di dosso.
- Non è giusto che stia così solo io… - borbotta scendendo e mordicchiarmi nervosamente le spalle ed il petto.
Io lo trovo tenero, non posso farci niente.
Lo afferro sotto le ginocchia, mettendolo seduto sul tavolo ed interrompendo i suoi lamenti con un altro bacio, mentre mi sistemo fra le sue gambe ed i nostri bacini collidono, azzerando la mia capacità di pensiero razionale.
- Fai piano… - sussurra lui ad un millimetro dalle mie labbra, ed io sorrido divertito, perché non ho ancora cominciato a fare niente.
Lo sento tremare sotto le mie mani. Non so se sia nervoso perché non si fida o perché l’aspetta da tanto tempo che non vedeva l’ora. In ogni caso, sono nervoso anche io. Ed il motivo proprio non lo so. So, però, che non devo perdere la calma. Né la lucidità.
Perché qua io potrei tranquillamente lasciarci il cervello.
E non è proprio il caso.
La logica stringente del mio raziocinio si scontra contro i baci di Bill. Che sono peggio di qualsiasi droga io abbia mai provato – e credo non me ne sia sfuggita nemmeno una – perché mi sento completamente fottuto nel momento stesso in cui lui artiglia i miei pantaloni e li sbottona, e quelli, totalmente dimentichi della mia volontà, proprio non ci pensano a restare su, e si lasciano ricadere inermi a terra.
Il tessuto che ci separa adesso è niente.
Anche del mio cervello non resta più niente.
Cerco di pensare. Cerco di riportare alla memoria la planimetria del mio appartamento. Quanti metri ci separino dalla camera da letto – chilometri, se ricordo ancora la disposizione delle stanze. Chilometri, la maggior parte dei quali su scale. Ma poi: ci sono dei preservativi, in casa? Be’, quelli dovrebbero esserci. C’è del lubrificante? Mi sembra già più improbabile.
- Bill… - faccio per chiamarlo, e non so se essere felice o triste o completamente rincoglionito e basta, - Non c’è-
- La mia borsa. – mugola lui, come la ricordasse solo in quel momento, stendendosi lungo tutta la superficie del tavolo per raggiungerla dov’è, agganciata allo schienale di una sedia.
Dio mio, è bellissimo.
Ma cos’ho guardato, fino ad oggi?
Scendo sul suo petto e gioco con un capezzolo, lingua e denti. Bill chiude gli occhi e ferma il braccio; poi si fa forza, recupera la borsa e la lascia ricadere con un tonfo accanto a noi. Io non mi separo da lui neanche per un secondo, e lui continua a lanciare mugolii che mi mandano fuori di testa, mentre cerca qualcosa sul fondo di un borsone che sembra profondo come quello di Mary Poppins.
Alla fine, riemerge con un tubetto in plastica bianca che si posa sulla pancia. Lo prendo tra le mani e lascio un bacio sopra al suo ombelico, mentre lui torna a cercare i preservativi e li trova immediatamente.
Mi allontano da lui, eliminando i restanti indumenti di troppo, ed indosso il preservativo.
Lui mi guarda come mi vedesse per la prima volta.
- Problemi? – chiedo sarcastico, inchiodandolo al tavolo fra le mie braccia.
Lui si copre il viso con entrambe le mani, ma riesco a vedere il rossore sulle sue guance, nonostante tutto.
- È bellissimo! – butta lì velocemente, in un singhiozzo imbarazzato che è semplicemente una delle cose più carine del mondo.
Rido a bassa voce e mi avvicino a lui, cercando a tentoni il tubetto di lubrificante che ho lasciato da qualche parte sul tavolo.
La sua morbidezza accoglie prima i miei polpastrelli, che la accarezzano in lungo e in largo, cercando di lubrificare il più possibile, e poi le mie dita. Non ho la minima idea di cosa dovrei fare, cerco di pensare a cosa preferirei fosse fatto a me ma non riesco molto bene nell’impresa. Mando un indice in avanscoperta, Bill ansima contro il mio collo e mi chiede di non fermarmi. Lo tocco piano, non mi sembra una cosa strana, mi sembra strano non averlo fatto prima.
- Ancora… - bisbiglia dopo un po’, - Ancora, ti prego…
A me sembra presto, per ciò che chiede. Mando in avanscoperta anche il medio, ed in effetti era presto, perché lo sento irrigidirsi a disagio tutto intorno a me, e le sue unghie si chiudono con forza sulla mia pelle.
- Tutto okay? – chiedo soprapensiero, mentre lo bacio su una guancia.
Lui annuisce.
- È un po’ ingombrante. – risponde, - È un po’ come te.
Per un attimo, mi preoccupo.
Sta parlando di due dita.
Non so davvero come potremo arrivare a sopravvivere a questa notte.
Lascio il suo corpo e lui mugola contrariato, spingendosi contro di me come a voler cercare di recuperare ciò che lo riempiva.
- Aspetta, aspetta… - sussurro fra i suoi capelli. Ho come l’impressione che dovrò essere io a imporre il passo successivo. Dannazione. Così sembra colpa mia.
Sono pensieri stupidi, comunque.
Mi spingo lentamente contro la sua apertura e, come immaginavo, la resistenza è ostinatissima.
- Non ti fermare. – ordina lui, trattenendo il fiato.
Io scuoto il capo e lo stringo a me.
- Puoi mordere, se vuoi. – annuisco deciso.
Bill schiude le labbra e poi le richiude attorno alla mia spalla.
Io aspetto. Poi mi muovo.
I suoi denti si conficcano nella mia carne con tanta forza che la sento strapparsi e cedere. Ma non è il mio turno di provare dolore, perciò non dico una parola.
Rimango fermo per qualche secondo, e faccio una fatica disumana perché qua dentro si sta bene da impazzire. Bene proprio da morirci senza rimpianti. Ho voglia di sentirlo mugolare ancora, vorrei sentirgli chiamare il mio nome, ma tutto ciò che sento sono respiri spezzati e la difficoltà di un bambino di abituarsi a qualcosa di troppo difficile.
- È davvero come te… - lo sento ansimare alla fine, già esausto.
Riprendo a muovermi con un sospiro di sollievo, e lui non riesce neanche a lamentarsi.
- Mi dispiace, piccolo. – sospiro baciandolo, - Sei bellissimo, lo sai?
Ha le lacrime agli occhi ed è bellissimo davvero.
- Sì, lo so. – trova le palle di rispondere, e d’improvviso penso che lo amo anche io. Che non me ne fotte un cazzo di niente, posso tenerlo fra le braccia anche se è maschio ed anche se tutto ciò si tramuterà in un disastro enorme.
Posso perfino andarne orgoglioso.
Ne vado orgoglioso, cazzo.
- Oddio. – si lamenta quando le mie spinte si fanno più potenti, - Ti manca molto?
Ghigno un po’.
- Che domande…
- Scusa! – biascica, - È che non so… fa un po’… non me ne sto pentendo! – si affretta a precisare, - …cosa devo fare…?
Tu niente, penso con fin troppa naturalezza, faccio io.
E lo faccio davvero. Ricomincio ad accarezzarlo fra le gambe, e le mie spinte e le mie carezze diventano un movimento unico. Vanno a ritmo coi suoi sospiri, coi suoi mugolii strozzati e con le spinte del suo bacino incontro al mio. Per un attimo sorrido, perché questo sì che è senso musicale.
Affondo con forza, così in profondità che ho paura di spaccarlo in due, ed è allora che lui rilascia un mugolio completamente diverso dai precedenti, e la sua stretta si fa più forte.
- Lì… - implora a mezza voce, - Era lì…
Annuisco e mi nascondo contro il suo collo. Non so se sono imbarazzato o ho solo voglia di lui. Comunque il suo collo è un buon rifugio, mentre torno a spingere ad un ritmo più serrato, cercando di colpire di nuovo il punto che l’ha fatto godere. I suoi lamenti scompaiono. Si fanno richieste. Ed io, a sentir dire certe cose da questa vocetta da bimbo mai cresciuto, perdo pure il senso del limite. Spingo con violenza, ma lui non protesta. Continua a riempirmi le orecchie, così, più forte, ancora, Dio, Anis, e quando lui lo dice, davvero, quando dice il mio nome, scarico una spinta che mi stordisce, come mi stordisce l’orgasmo mentre si schianta contro il preservativo e lascia me in stato di semicoscienza, completamente abbandonato contro il suo corpo.
La mia mano attorno alla sua eccitazione è umida.
Sorrido trionfante. Lui lo nota e mi dà uno schiaffo sulla nuca.
- Sei tremendo. – decreta alla fine, serrandosi attorno a me come il disastro che è.
Io mi riservo il diritto di non rispondere. Ed anche di non pensare.
Quando il sangue tornerà a circolare naturalmente nelle mie vene, e quando l’ossigeno tornerà ad arrivare al cervello, forse capirò per bene l’immenso casino in cui mi sono appena cacciato. Un immenso casino che sono le dita magre ed agili di Bill che disegnano il tatuaggio sul mio collo. Un immenso casino che sono i suoi capelli a solleticarmi il naso. E le sue gambe ancora attorno ai fianchi.
È un immenso casino che realizzerò dopo.
Adesso, devo solo ritrovare la camera da letto.

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Del Perché Bill Si Ritrovò A Dover Comprare Una Casa Nuova

di lisachan
Io e Tom non abbiamo ancora imparato ad andare d’accordo e, per come mi sta guardando in questo momento – come volesse prendermi a cazzotti ma non si sentisse ancora fisicamente pronto a farlo, un atteggiamento tipico dei ragazzini – penso che non impareremo mai. È una cosa di cui in un certo senso mi dispiaccio, è una cosa di cui si dispiace Bill – per il quale è fondamentale che le persone che ama vadano d’accordo – è una cosa di cui si dispiace Jost – che vorrebbe sempre pace intorno a sé, mentre io e questo scricciolo coi rasta seguitiamo a privarlo in questo senso – ed è una cosa di cui si dispiace pure la mia crew, soprattutto Chakuza e soprattutto quando lo mando a prendere Bill in momenti in cui è con Tom. Ammetto di farlo apposta, ecco. Solo che Chakuza non sono io e Tom non si permette di guardarlo con gli occhi con cui guarda me. E, in ogni caso, sa bene che a Chaky non dà fastidio prendere a tirargli uno scappellotto sulla nuca per rimetterlo a cuccia. Io, invece, Tom non posso toccarlo.
Per questo motivo – perché devo fare il bravo, insomma – adesso cerco di stare tranquillo e non farlo rotolare fino alla parete di fronte con una schicchera sul naso, e mi appoggio allo stipite della porta, reggendo il mio pacco regalo ben stretto sotto il braccio. Lui mi guarda come un leoncino incazzoso, e stringe la presa sulla porta. Sembra indeciso sulla possibilità di scostarsi o sbattermela in faccia.
- Cosa. Ci. Fai. Tu. Qui.
È incredibile come, attraverso lo schermo di un televisore o fra le pagine patinate di una rivista, possano passare messaggi così distorti. Il mondo intero è convinto che il gemello rompiballe sia Bill. Bill – e posso assicurarlo di persona, perché io sono un uomo paziente ma ho dei limiti molto rigidi – è delizioso. Una volta che chiarisci bene patti e regole, andare avanti con lui è meraviglioso, perché non sgarra di niente. Cammina sempre lungo la linea tratteggiata, non inciampa e, se deve farti il casino, te lo fa privatamente.
Tom, invece, è una piaga solenne. Dio mio, è intollerabile. Io non so come faccio a non spaccargli la faccia come meriterebbe ogni volta che posso o ogni volta che me ne dà occasione – tipo quando parla con l’aria di una checca oltraggiata, calcando le sillabe ed usando punteggiature opinabili.
- In quella domanda, se era una domanda, - preciso rimettendomi dritto, visto che gli atteggiamenti fascinosi che mandano Jost in brodo di giuggiole su Tom non hanno il minimo effetto, - tanto per cominciare ci andava un punto interrogativo sul finale. E poi ho come l’impressione che-
- Tu non dovresti essere qui! – mi fa notare, ignorando apertamente la lezione di grammatica che stavo faticosamente tirando su solo per lui, - Tu e Bill avete litigato! Gli hai tirato un pacco enorme per il compleanno!
Sospiro pesantemente e non fatico ad immaginare perché Tom abbia il dente così avvelenato sul punto. Bill, in genere, non si lagna con lui di me, visto che sa che il fatto che stiamo insieme non gli va giù. Ma suppongo che la faccenda del compleanno mancato l’abbia mandato abbastanza su di giri da impedirgli di considerare chi – della massa indistinta di spalle su cui piangere che vede quando è depresso – fosse la persona con cui stavaparlando.
- Questo è esattamente il motivo per cui sono qui, Tom. – rivelo quindi, sospirando ancora, - Mi dispiace non essere potuto venire a festeggiare con voi i diciott’anni-
- Per quello che mi riguarda, mi hai fatto un regalo bellissimo!
- …ma ho avuto da lavorare. – proseguo, cercando di trattenere le mani. – E comunque sia, sono venuto a chiedere scusa a Bill. – annuisco, indicando compiaciuto il pacco regalo. – A te non ho portato nulla, s’intende. – ghigno poi, infilando una mano nella tasca interna della giacca, - Almeno a voler considerare “nulla” il Fler 90210 Mixtape. – rivelo poi, estraendo il cd e sventolandoglielo davanti agli occhi neanche fosse una caramella.
Tom si mette a brillare. Io sorrido soddisfatto. Bill ricordava bene, questo Mixtape è stato fra le vittime innocenti del massacro della mia discografia ad opera dell’Escalade. Lo vedo che allunga le mani verso il disco neanche fosse un’apparizione divina, le labbra dischiuse e gli occhi enormi.
Sollevo il braccio.
- Sai quanto m’è costato? – lo prendo in giro, - Non tanto in termini economici, quanto in termini di orgoglio. Voglio dire, roba di Fler…!
Lui si mette a saltellare.
- Oh, dammelo! Dammelo! – borbotta, allungandosi su di me per raggiungerlo, mentre io lo sollevo sempre più in alto, ben deciso ad arrivare anche a mettermi sulle punte per impedirgli di toccarlo prima dell’esatto momento in cui vorrò io.
L’esatto momento in cui lo voglio arriva pochi secondi dopo, quando – a seguito delle manovre per cercare di impossessarsi del disco – l’occhio di Tom cade inavvertitamente sulla confezione del regalo.
- Bushido… - borbotta rimettendosi in piedi ed allontanandosi di qualche centimetro, - Ma quella carta…
Io comincio a sudare freddo. Non gli do il tempo di finire, comunque: gli faccio passare Fler sotto il naso e lui ne segue tipo l’odore, è una cosa buffissima. Certe volte penso che mi basterebbe andare dalle parti dell’Aggro Berlin, dire a Fler che magari si può tornare amici e poi tornare qui a regalarlo a Tom, e tutti i miei problemi sarebbero risolti, potrei entrare e uscire impunemente da questa casa senza causare scompensi ormonali a nessuno e il mondo vivrebbe in pace. Poi mi ricordo che certe cose non dovrei pensarle nemmeno per scherzo, e che comunque Fler non si meriterebbe di essere usato a questo modo, nonostante tutto, e lascio perdere.
Lascio Fler nelle mani del suo legittimo proprietario – che a pensarla così mi fa pure un po’ senso, nonché darmi del fastidio indistinto che comincerò immediatamente ad ignorare – e mi dirigo verso la camera di Bill mentre Tom biascica che non me la farà passare liscia e il momento in cui pagherò per tutte le mie colpe è solo rimandato. Però lo dice con un’aria talmente sognante, mentre accarezza la copertina e fluttua verso il mega-impianto stereo che è stato il primo regalo che ho fatto a Bill quando ci siamo messi insieme, che non mi preoccupo nemmeno.
Busso piano alla porta e aspetto. Il singhiozzo che mi raggiunge dall’altro lato, dato che siamo appena al due settembre, non mi stupisce.
- Non voglio guardare The Notebook un’altra volta, Tomi! – si lagna la principessa, probabilmente immersa in un caos di cuscini e lenzuola, come ogni sua degna compagna di fiabe, - Piango già abbastanza anche senza stimolo, mi pare!
Mi viene un po’ da ridere, a sentirlo così depresso. Se lo conosco bene – ed è così – saranno già ventiquattro ore almeno che pensa senza sosta che evidentemente io non lo amo abbastanza, che devo essermi completamente dimenticato di lui e del suo compleanno e che sicuramente mi starò divertendo con un branco di groupie seminude come niente fosse stato. Mi starà ricoprendo di improperi e si starà dicendo che non vuole più vedermi né sentirmi. E piange perché non è vero che non vuole più vedermi né sentirmi.
Non gli rispondo, voglio vedere la sua faccia prima che abbia il tempo di prepararsi alla mia presenza, perciò mi limito a poggiare una mano sulla maniglia e ruotarla, spingendo lievemente la porta.
- E non entrareeee! – continua a lagnarsi lui, - Sono impresentabile! – ma io entro lo stesso.
La sua espressione, quando si rende conto di chi sono, è un capolavoro. Spalanca gli occhi – liquidi e persi – e schiude le labbra – vagamente gonfie e un po’ umide – e resta lì, immobile, un ammasso di capelli scomposti sulla testa e il faccino più confuso che gli abbia mai visto addosso. È tutto raggomitolato in uno spicchio di letto, le ginocchia al petto e le braccia a stringere le gambe. Solo la testa si solleva e mi dà modo di capire che quello è ancora il mio ragazzo e non una palla di emodepressione da piagnisteo immotivato.
- Principessa… - lo saluto con un cenno del capo e un sorriso un po’ stronzo, - sono venuto a fare ammenda per i miei peccati.
- Anis… - esala lui, con lo stesso tono con cui mi è capitato di sentirgli chiamare il mio nome mentre ancora dormiva. Resta con quell’espressione deliziosa addosso ancora solo per un secondo. Poi ricorda di essere Bill Kaulitz, di aver appena compiuto diciott’anni e di avere tutti i diritti di questo mondo di farmi sentire una merda perché non c’ero. Perciò aggrotta le sopracciglia e stringe le labbra in una smorfia piccata e delusa. – Anis. – ripete, più duramente, - Hai finalmente trovato il tempo per ricordarti della mia esistenza?
Io sospiro e roteo gli occhi, entrando in camera e chiudendomi la porta alle spalle.
- Ti ho chiamato, ieri, piccolo. – gli ricordo, - Non mi sono dimenticato della tua esistenza.
- Non c’eri! – mi attacca subito lui, saltando in ginocchio con uno scatto da capriolo imbizzarrito, - Io ero lì che spegnevo le mie diciotto candeline… diciotto candeline!... e tu non c’eri!
Mi lascio andare ad un altro sospiro, mettendomi seduto ai piedi del suo letto. È meraviglioso come, quando mi ha sotto gli occhi, Bill non riesca a fare a meno di starmi vicino. Non so com’è che abbia sviluppato questo bisogno, probabilmente dipende dal fatto che io ho la necessità fisica di toccarlo di continuo. Quando siamo nella stessa stanza, è molto raro che non gli stia addosso in qualche modo. Se succede, ho qualche motivo serio per non stargli appiccicato – tipo stare lavorando o stare litigando con Saad. Ma in genere quando litigo con Saad sto anche bene attento a tenere Bill il più vicino possibile. Giusto perché il messaggio sia sempre chiaro e mai contraddittorio.
Comunque sia, appena mi appoggio sul materasso, Bill gattona verso di me, e subito dopo me lo trovo accucciato al fianco. Visto che è ancora arrabbiato, però, tutto il contatto che condividiamo è la sua mano stretta attorno al mio braccio, come volesse tenermi lì per tutto il tempo della sfuriata. E infatti, subito dopo ricomincia a parlare.
- E poi non ha nessuna importanza che tu abbia chiamato! – mi rinfaccia, le labbra strette in un broncino da baci, - Chissà cosa stavi facendo mentre eri al telefono con me! – ripesco dai file di memoria: stavo pestando Chakuza perché si ostinava a non collaborare attivamente per il duetto che devo infilare nell’album. Niente di compromettente. – E comunque avresti dovuto esserci! – conclude quindi, strattonando il braccio un po’ qui e un po’ lì, come a richiamarmi dal punto in cui mi sono perso. Bill sa sempre quando smetto di ascoltarlo.
- Ho capito, principessa, ho capito. – annuisco, - Avrei dovuto esserci. – allungo un braccio e me lo tiro contro. Bill non fa la minima resistenza, si lascia avvolgere e si schiaccia contro di me aderendo immediatamente al mio corpo, neanche fosse nato apposta. Mi stringe le braccia attorno al collo e nasconde il viso sulla mia spalla, strusciando il naso contro la maglia come a volersi scavare una via per la pelle. – Ho pensato a te di continuo. – gli sussurro fra i capelli, - E mi è dispiaciuto sentirti così arrabbiato, al telefono. Avrei preferito farti un po’ di coccole.
- Ma eri tipo lontanissimo… - mugola, risalendo il mio collo con le labbra.
- Avrei potuto coccolarti lo stesso. – rido, e lui arrossisce e mi dà un pizzicotto poco convinto sulla nuca.
- Non dire queste cose… - borbotta, strusciandosi un po’.
Io sogghigno.
- Ti ho portato un regalo. – dico poi, separandomi controvoglia dal calore del suo corpo, - Non vuoi aprirlo?
Lui mi guarda con un paio d’occhi enormi e brillanti, gli nasce il sorriso sulle labbra ed io, invece di sentirmi in colpa come sarebbe giusto, comincio a gongolare pensando alla faccia che farà quando vedrà cosa gli ho portato. Certe volte raggiungo picchi di infantilismo tali da stupirmi da solo, davvero.
- Un regalo…? – cinguetta estasiato, giungendo le mani sotto il mento nella posa tipica da ragazzino innamorato che mi somministra sempre quando vuole intenerirmi, - Cos’è? Cos’è? È per farti perdonare?
- Già. – annuisco compitamente, recuperando il pacchetto e consegnandoglielo. Bill non è come suo fratello, davvero, Bill è allo stesso tempo una delle cose più diverse ed uguali che esistano rispetto a Tom, e comunque sia gli manca la conoscenza di base di cui invece suo fratello è anche troppo pieno. Per dire, Tom l’ha capito subito che questo pacco viene da un sexy shop. Bill, invece, si ferma ad osservare la carta nera con il nome del negozio traslucido e quasi irriconoscibile se non in controluce e l’enorme fiocco rosso che chiude il tutto, e si limita a squittire di gioia perché è un pacchetto molto elegante e potrebbe contenere qualsiasi cosa, da un rolex a un bracciale di diamanti al microfono originale usato da Nena al suo primo concerto, per dire.
Lo osservo con un compiacimento probabilmente illegale e decisamente inopportuno, mentre scioglie con navigata grazia il fiocco – anni e anni di gavetta come cucciolo di casa e favorito dalle fan, suppongo – e spacchetta il tutto, ficcando le mani nella carta velina e riemergendo due secondi dopo con un’espressione adorabilmente sconvolta e un dildo nero e arancione da trenta centimetri per le mani.
Ah, che soddisfazione. Dio, potessi tirare fuori una macchina fotografica e scattargli una foto in questo preciso istante, giuro che lo farei. È strepitoso: mi guarda come non riuscisse a capacitarsi della mia esistenza in questo momento e in questo luogo, stringe le mani attorno al giocattolo ed ha le labbra dischiuse come volesse dirmi qualcosa ma non sapesse cosa.
È stupendo, giuro.
- Anis! – urla alla fine, agitandomi il coso davanti agli occhi come se da solo bastasse a farmi sentire inopportuno. Io, naturalmente, scoppio a ridere, - ‘Cazzo ridi?! – si lamenta lui, mettendosi dritto sulle ginocchia e attaccandomi con entrambi i pugni chiusi, finendo inevitabilmente per lasciarsi intrappolare i polsi fra le mie dita.
- Be’, è una cosa utile e simpatica! – mi giustifico ridendo e trattenendolo mentre lui si sforza di essere minaccioso, - E poi sono i tuoi colori preferiti!
- I miei colori preferiti! – ripete lui, incredulo, - Ma sentilo!
Io rido ancora e lo tiro giù, e quando lo bacio lui mi si scioglie sulle labbra. Mugola e si dibatte solo un secondo – mentre già la sua lingua gioca a nascondino con la mia – poi cede e mi sbuffa contro, stringendomi nuovamente al collo con le braccia. Mi tiene così stretto che il giocattolo quasi si intromette fra di noi, dato che lui si ostina a tenerlo in mano, ed io lo scosto con un gesto sbrigativo, prima di accarezzarlo morbidamente su una guancia e seguire i suoi movimenti mentre inclina il capo e mi si sistema a cavalcioni in grembo, approfondendo il bacio.
Lo attiro contro di me stringendolo con un braccio alla vita, e lui lascia andare un versetto acuto e stupito che mi fa sorridere. Sorride anche Bill, mi sorride addosso e so che abbiamo già fatto pace. È fantastico che io non abbia nemmeno dovuto chiedere scusa. Io e Bill siamo perfetti per questo, perché non possiamo stare lontani, perché non abbiamo bisogno di dire le cose, perché c’incastriamo con una facilità sconvolgente. Perché non vedo niente quando me lo trovo in giro, perché non vede niente nemmeno lui, perché quello che è stato prima e quello che sarà poi, quando stiamo così vicini, non importa nemmeno. Perché siamo liberi, quando siamo insieme. Anche se poi liberi non siamo affatto, visto che non facciamo che imprigionarci a vicenda. Ma è giusto così.
- Ho pensato che non ci saremmo più rivisti, perché ti ho chiuso il telefono in faccia a quel modo… - biascica confusamente, tirando la mia maglia verso l’alto mentre io scendo a sfiorare con le labbra la pelle tenera e calda del suo collo, - Ho pensato… Anis, la maglietta… - mi scosto con una mezza risata, così che lui possa finalmente togliermela di dosso, e poi lo lascio riprendere a parlare, perché quando la principessa ha bisogno di sfogarsi, inutile lamentarsi, la si deve lasciar fare, - Ho pensato che avresti cominciato ad odiarmi perché mi ero arrabbiato… e poi ti ho odiato anch’io perché c’erano tutte le persone alle quali voglio bene, a quella festa, e però non c’eri tu…
- Lo so, piccolo… - lo zittisco, mozzandogli il respiro con un morso lieve, - La tua testa è un disastro, sai? – lo prendo in giro, stringendogli i glutei attraverso il tessuto leggero del pigiama. Lui mugola, a metà fra l’imbarazzato e il compiaciuto.
- Non è un disastro… - borbotta, - I pantaloni…
Lo ribalto sul materasso e lo spingo un po’ indietro. Lui non ha ancora lasciato andare il giocattolo, cosa che un po’ mi fa ridere, se devo dire la verità.
- Cos’è… - lo prendo in giro mentre, guardandolo dall’alto, comincio a sfibbiare lentamente la cintura, - ti ci sei già affezionato? – chiedo, indicando il dildo con un cenno del capo, - Il prossimo passo è dargli un nome?
Lui arrossisce istantaneamente e lo lascia andare di peso sul materasso, ma non riesce a staccarmi gli occhi di dosso. Io ghigno e lascio la cintura a pendere dai fianchi, retta solo dai passanti dei jeans, afferrando Bill per la vita e sistemandolo sul materasso, introducendomi fra le sue gambe perché ogni mio movimento ed ogni suo movimento coincidano con uno sfiorarsi dei nostri bacini.
- Togli… - lo sento lamentarsi, mentre sfiora con le dita il bottone e la zip dei miei pantaloni, - Per favore…
Annuisco compiaciuto, sfibbiando il bottone ed aprendo la zip, e non potrei essere più lento di come sono. Sto impazzendo di desiderio ma adoro guardarlo quando è così perso, adoro guardarlo quando noi siamo l’unica cosa che riesce a realizzare e adoro guardarlo quando fissa il mio corpo con quest’aria innamorata e confusa, come non sapesse dove vuole mettere le mani prima e solo per questo motivo sta fermo immobile senza toccare niente.
- Anis… - mi chiama, e quando mi chiama io non resisto più. È sempre stato così, fin dalla prima volta, e se vado ancora più indietro con la memoria, alle notti in cui ancora non stavamo insieme, ad esempio, e mi chiedeva di restare, ricordo che è sempre grazie a quello che ha avuto la meglio su di me. Gli bastava chiamarmi per nome ed io ero finito, non potevo più dirgli no. È incredibile, se ci penso. Mi sento anche un po’ un cretino, volendo. Gli è bastato chiamarmi per nome, davvero, tutta la nostra storia è questo, lui mi ha chiamato per nome e mi ha sconfitto così. Penso che quando basta così poco è amore. È amore e basta.
Resto semivestito solo perché ho voglia di spogliare lui. Resto semivestito anche perché ho altri progetti per la serata, in realtà, e se mi spogliassi – se la mia pelle toccasse la sua, se non ci fosse più niente fra di noi – di sicuro perderei il controllo e finirei con il non riuscire a realizzarne neanche uno. Ed invece è giusto che la mia principessa si goda il suo regalo. Prima che, Dio, io mi goda lei, finalmente.
- Ora aspetta un secondo, principessa… - gli sussurro all’orecchio, dopo essermi liberato del suo pigiama, - ti va di giocare?
Bill mi fissa con aria supplichevole, poggiando le mani sulle mie spalle ed attirandomi a sé.
- No… - mugugna scontento, - Non mi va di giocare, mi vai tu…
Io rido, sfiorandogli lentamente il collo in una scia di baci umidi.
- Anche a me vai tu, ma prima voglio vederti giocare un po’. Avanti, non vuoi provarlo, il tuo regalo?
- Noo-oh… - mugola, spingendo in alto il bacino alla ricerca del mio, - Per favore, Anis…
- A-ha. – scuoto il capo, mettendomi dritto e poi sistemandomi seduto fra i cuscini, poggiandomi di schiena alla testiera del letto e sporgendomi verso il comodino per aprirne il cassetto e tirare fuori un preservativo e un tubetto di lubrificante semivuoto. – Tu fai contento me, io faccio contento te, principessa. Le conosci le regole.
Bill, ancora disteso sul materasso, mi guarda al contrario per qualche secondo – i capelli dispersi ovunque sulle lenzuola bianchissime – e poi sospira pesantemente e si mette seduto, andando a tentoni fra le coperte per recuperare il giocattolo e poi gattonando con aria impacciata e infantile fino a me.
- D’accordo… - pigola arreso, - però posso starti addosso? Almeno sentirti… - e struscia un po’ il viso contro il mio petto.
Annuisco sorridendo e lui lascia andare un sospirone felice che mi fa ridere, perché non c’è mai davvero stata la possibilità che potessi rifiutargli una concessione simile. Dopodiché lo aiuto a sistemarsi seduto sul mio grembo. Il che vuol dire che impazzirò per tutto il tempo in cui vorrò guardarlo.
Dannazione.
Bill si volta a lanciarmi un’occhiatina furba e io gli mordo una spalla per protesta.
- Come sei scorretto… - lo rimprovero. Lui ride, gettando indietro il capo e strusciandosi contro di me.
- Tu fai contento me, io faccio contento te, mio signore. – dice, per tutta risposta. – Le conosci le regole.
- Ti sei fatto troppo furbo, sai? – rido, baciandolo lentamente. Lui risponde mugolando, mi ruba dalle mani il tubetto di lubrificante e poi si scosta un po’, restando a cavalcioni ma puntellandosi sul materasso con le ginocchia, in modo da restare sollevato.
- E ora sta’ a guardare e pentiti. – sussurra a bassa voce, spargendo un po’ di lubrificante su due dita e scendendo ad accarezzarsi da solo fra le natiche, stuzzicandosi con lentezza assassina e godendo del mio sguardo perso che segue i suoi movimenti come mi stesse ipnotizzando. Si mordicchia distrattamente un labbro, gli occhi chiusi, i capelli cadono liberi e selvaggi sulle spalle, lungo la schiena, solleticandomi il petto, e mentre lui si muove per accogliersi più disinvoltamente io lascio scivolare una mano dentro i pantaloni e cerco di darmi un po’ di sollievo. Bill mi lancia un’occhiataccia glaciale – come mi abbia visto è un mistero – ed io smetto subito. – Tu no. – borbotta, - Tu guardi.
Tiro fuori la mano, sorridendo divertito.
- Agli ordini, principessa.
Bill lascia andare una risata leggera ed allunga una mano.
- Me lo passi…? – chiede, stendendo bene le dita per accogliere il giocattolino. Io comincio a pensare concretamente all’eventualità di mettergli in mano ben altro che il dildo, ma lascio comunque scivolare le dita fra le lenzuola e recupero l’affare dal punto in cui Bill l’ha lasciato cadere mentre mi si sistemava addosso, passandoglielo un po’ di controvoglia. – Grazie. – sorride, recuperandolo dalle mie mani. Lo stringe un po’, guardandolo da un lato e dall’altro come a volerne memorizzare per bene la struttura, per poi poterlo utilizzare al meglio – ha guardato così anche me, qualche volta, agli inizi – e mentre io sono qui che immagino le sue manine sottili ricoperte di lubrificante che accarezzano il dildo in tutte le direzioni, ecco che lui mi stupisce. Ravvia una ciocca di capelli dietro l’orecchio, di modo che possa guardarlo bene in viso, e chiude gli occhi, mentre lascia scivolare il giocattolo fra le labbra e comincia a succhiarlo come fosse un gelato molto gustoso. Facendo pure un sacco di rumorini compiaciuti, peraltro.
- Sei… - ringhio, allungando una mano ad accarezzargli possessivamente il collo e la nuca, - Sei una cosa incredibile.
Lui solleva la mano libera e la posa sulla mia, è così pallida che il contrasto con la mia pelle e coi suoi capelli la rende quasi abbagliante. Combatto contro una forza di gravità tutta particolare – quella che spinge il mio corpo verso il suo – per non cedere all’impulso di tirarmelo contro, sfilargli quella roba dalle labbra e mettere al suo posto qualcosa di decisamente più interessante, qualcosa su cui lascerebbe scorrere la lingua allo stesso modo che ora mi fa vedere con aria sfacciata, qualcosa che sparirebbe fra le sue labbra a profondità ancora maggiori, perché Bill quando mi prende non mi prende solo in bocca, mi tira giù fino in gola, si fa sentire ovunque, ed è odioso che invece a godersi questo trattamento privilegiato sia un dannato pezzo di plastica che nemmeno se ne accorge. Deficiente io, come ho potuto pensare che potesse essere un regalo appropriato?
- Bill… - lo chiamo confusamente, tirandolo un po’. Lui sbuffa una mezza risatina e scuote il capo.
- No-oh. – mi rimprovera, sfilando il dildo dalla bocca, - Volevi guardare, no? – “no”, risponde una voce dentro di me, ma va be’, - Guarda.
Mi guarda, mentre accoglie disinvoltamente il dildo dentro di sé. So che vorrebbe sorridere, lo vedo da come gli brillano gli occhi; so anche, però, che la mia principessa è tanto brava a fingersi adulta quanto poi non è capace di mantenersi tale quando ciò che si aspettava in un modo va in un altro. Ed ecco che piange se non mi presento alla sua festa di compleanno. Ed ecco che adesso, con un cazzo di gomma da trenta centimetri a farsi strada dentro il suo corpo, il bambino proprio non ce la fa a fare il furbo e sorridere come volesse sfidarmi. Resta lì, gli occhi pesanti e il respiro ridotto a singhiozzi. Mi guarda e si muove piano, lentamente, in gesti lunghi e un po’ irregolari, confusi. Sorrido, perché fa tenerezza. Ci sono dei momenti in cui ricordo d’un tratto quanto Bill sia piccolo, e finisco sempre per sentirmi in colpa.
Me lo tiro contro. La sua schiena aderisce al mio petto e lui mugola scontento quando il movimento causa un effetto troppo brusco sul modo in cui regge il dildo, che gli sfugge di mano e rotola sul materasso, lontano da noi. Si allunga a recuperarlo - le dita che scivolano fra le lenzuola alla cieca, confuse ma bene aperte - ed io lo fermo, trattenendolo per un polso e conducendolo verso di me. Mi stringe subito, la principessa, appena mi tocca. Come fossi una cosa sua e ci tenesse a ribadirlo. Sa che può farlo, perché sa che è vero.
- Non ti serve. - gli sussurro all’orecchio, baciandolo lievemente sulla linea della mascella.
- Ma me l’hai regalato tu… - borbotta, e lo fa solo per prendersi gioco di me, visto che sento nei tremiti dai quali è scosso che brucia del mio stesso desiderio.
- E adesso non ti serve. - ripeto, la voce bassa che vibra direttamente sulla sua pelle, mentre lo sollevo appena e mi faccio strada dentro di lui, seguendo la via già aperta dal dildo e sentendolo adattarsi lentamente alla mia forma con un mugolio soddisfatto.
- Anis… - mi chiama in un sospiro pesante, sollevando entrambe le braccia ad allacciarmi al collo mentre io lo stringo fermamente per la vita e, con una mano, accarezzo la sua erezione, seguendo il ritmo dei miei movimenti. I miei ansiti si perdono nei suoi, la sua voce nella mia, non so più, a un certo punto, se è lui che continua a ripetere il mio nome o sono io che continuo a ripetere il suo. Seguo la traccia fisica dei suoi suoni sul suo corpo. Il petto che si gonfia aritmicamente, le labbra umide che si arrossano sotto la scia di morsi coi quali le tortura, i muscoli del collo e delle spalle che si flettono e si tendono mentre lui si muove per assecondare i miei gesti. È la nostra musica. La sentiamo solo noi.
Getta indietro il capo quando gli mordo una spalla. Si appoggia contro di me e si muove più velocemente; quando la principessa smania è perché c’è vicina, ed io sorrido fra me e me stringendolo con maggiore decisione ed affondando dentro di lui con maggiore forza, perché odio farlo aspettare. Odio deluderlo, in realtà. Succede già abbastanza spesso fuori dalle lenzuola, perché io possa permettere di ripetere l’errore anche quando siamo a letto. Questi momenti sono perfetti. Devono esserlo. Ci sono coppie per le quali il sesso non è che l’appendice in aggiunta di tutto il resto. Io e Bill ci esprimiamo col corpo. La voce è per cantare, non per le dichiarazioni d’amore. Io e Bill ci dichiariamo facendolo.
Quando mi piego un po’ in avanti, alla ricerca delle sue labbra, noto che, per quanto tenga gli occhi chiusi e tutto il suo corpo sia rilassato contro il mio, si sta trattenendo. Perché dalla sua gola vengono fuori solo singhiozzi strozzati. Il che è uno spreco addirittura offensivo, perché la voce della mia principessa è stupenda, quando geme ed ansima. È stupenda quando chiama il mio nome. È stupenda quando urla.
- Piccolo… - gli sussurro, mordendogli il collo, - non ti stai facendo sentire…
- Anis… - borbotta lui, aggrottando appena le sopracciglia, - perché devi sempre… c’è Tomi di là…
- Non è qua. - concludo, baciandolo sotto l’orecchio, - Avanti. Fammi sentire quanto mi senti.
Lo stringo ancora e lui mi accontenta. Mi chiama a bassa voce. Mi chiama di nuovo, il tono che si alza al ritmo delle mie spinte. E quando viene, lo fa urlando. Urlando e stringendosi attorno a me in quel modo che mi fa impazzire, che mi fa sentire a posto e senza fiato. In quel modo che mi fa ringhiare direttamente sulla sua pelle, il modo che mi costringe a morderlo e leccarlo e succhiarlo fino a lasciargli i segni. Perché li veda e sappia che gli sono addosso anche quando non lo sto toccando.
Restiamo fermi il tempo necessario per riprendere fiato e tornare lucidi. È incredibile quanto sia facile spegnere il cervello quando sono in compagnia di Bill. In realtà ogni tanto penso che i momenti che passiamo insieme e nei quali non ci stiamo toccando - non necessariamente in senso sessuale: il più delle volte basta anche solo una carezza - non siano altro che diversivi in attesa del momento in cui ci toccheremo. E poi, in quel momento lì - quello in cui finalmente ci tocchiamo - è tutto perfetto. Mettiamo il punto alla frase e diamo un senso alla giornata.
Non so da quando il nostro rapporto sia diventato così di dipendenza. Probabilmente dal primo momento in cui l’ho sfiorato ed ho sentito che mi piaceva la consistenza della sua pelle sotto i polpastrelli, almeno quanto a lui piaceva la pressione delle mie mani sul suo corpo.
- Non sono più tanto arrabbiato con te… - confessa, stirandosi sonnacchioso sul materasso prima di appallottolarsi nuovamente contro il mio petto, - Ti ho perdonato. - annuisce poi, con aria seria, - Il regalo, comunque, me lo tengo.
- Assolutamente no. - borbotto io, giocando distrattamente coi suoi capelli mentre lui disegna cerchi inesistenti sul mio petto, - Lo buttiamo dalla finestra appena riprendo a muovere le gambe.
- A parte che dovrei essere io quello con difficoltà di movimento… - si lamenta, pizzicandomi appena un fianco, - Ormai mi sono affezionato! Potrei davvero dargli un nome e sarebbe un’ottima compagnia per le fredde notti in cui tu non ci sei…
Lascio scorrere la mano lungo il suo collo, fino alla spalla, e lì mi fermo, stringendo forte.
- Magari potremmo evitarle, queste fredde notti in cui non ci sono.
Lui solleva appena il viso. I suoi occhi ambrati si fanno enormi - sono ancora liquidi e un po’ annebbiati, ma brillano di una luce incredibilmente intensa, tutta sua - e lo osservo schiudere le labbra e cercare le parole per una sequela di infiniti, terribili minuti.
- Cosa-
- Non dobbiamo per forza pensarci adesso. - sorrido conciliante, - E’ solo un’idea. Almeno non dovresti dare un nome al dildo. - sdrammatizzo, baciandogli la fronte.
Bill mugola un assenso confuso, ma è imbarazzato e il rossore sulle sue guance si diffonde con tonalità così carine che mi viene voglia di prenderlo a morsi o a pizzicotti, neanche avesse due anni. Lo stringo a me, coccolandolo un po’. Non sono mai stato così tenero con nessuno, nella mia intera esistenza. Mai.
- Quando devi andare…? - mi chiede in un miagolio scontento, stringendomi le braccia attorno alla vita e strusciando il naso contro il mio petto.
- Presto, piccolo. - sospiro, - Mi aspettano agli studi. Sono scappato di nascosto da Saad.
Lui ride, cristallino e divertito, e scuote il capo.
- Ti farai buttare fuori dalla tua stessa etichetta.
- Per riuscirci dovranno farmi fuori, principessa. - gli faccio notare ridendo a mia volta, - E comunque guarda che io sono immortale.
- Sì, certo! - mi rimbrotta, omaggiandomi anche di un piccolo pugno sul petto. - Rivestiti, dai. Ti accompagno alla porta.
- Nudo?
Finisco a rivestirmi sul pavimento, dopo che mi ci ha spinto. Adoro - Dio, adoro - prenderlo in giro.
*
Appena usciamo nel corridoio, realizzo all’improvviso che la nostra musica, quella mia e di Bill, non l’abbiamo sentita solo noi. La prima cosa che vediamo è Tom. Tom, per la precisione, sta tutto raggomitolato sul divano come se per terra fosse stato pieno di scorpioni fino ad un minuto prima che noi venissimo fuori dalla stanza di Bill. Tiene stretta fra le braccia la copertina del CD che gli ho regalato e, mentre la voce di Fler si diffonde per la stanza riempiendomi di una certa nostalgia che non riesco ad ignorare come vorrei, ci fossa con gli occhioni spalancati, come avesse paura di noi. Guarda suo fratello e sembra vederlo per la prima volta. Guarda me e fa come se nemmeno mi vedesse.
Palesemente non era pronto a sentirci scopare. Posso comprenderlo, neanche la mia crew era pronta, quando è successo a loro.
Bill sospira pesantemente e mi scorta fino all’ingresso senza lasciarmi andare neanche per un secondo. Mi bacia sulla soglia e mi dice che mi chiamerà più tardi.
- Per la buonanotte? - chiedo io, con un sorrisetto stronzo.
Lui sorride nello stesso modo.
- Per la buonanotte. - annuisce compiaciuto.
Faccio per ridere e baciarlo, prima di andare via, ma mi fermo, perché Tom si mette in ginocchio sul divano e solleva un dito come a chiedere il permesso di parlare. Io e Bill ci voltiamo a guardarlo, siamo ancora così vicini che posso sentirmi il suo profumo addosso. Non è mai facile dare retta a qualcun altro che non sia lui, a queste condizioni, ma Tom è tutto sommato speciale. Quando Tom parla, lo si ascolta. Se non altro perché ascoltare Tom è una delle attività preferite di Bill, nonostante tutto.
- Io credo… - comincia il principino, un po’ incerto, - …che a te serva un appartamento nuovo, Bill. - annuisce compunto, - Un posto dove startene per i fatti tuoi, ecco. - si interrompe un secondo, ci guarda e poi annuisce ancora. - Già, già. - conferma, immergendosi nello sfoglio del libretto accluso al CD.
La risata, stavolta non la trattengo. Ride anche Bill. Nella sua risata c’è una nota incerta che non fatico a ricondurre alla mia proposta di qualche minuto fa, ma suppongo sia giusto che esiti al riguardo. È ancora piccino, in fondo. Ha appena fatto diciott‘anni.
Lo saluto con un bacio, lui mi si appende al collo come una scimmietta per qualche secondo e poi mi lascia andare con un mugolio piagnucoloso. Uscendo dall’appartamento ed entrando in ascensore, tiro le somme della giornata odierna e stabilisco che, in fin dei conti, il bilancio non è affatto negativo. Suppongo che, anche stasera, Saad sbraiterà a vuoto.

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Gunning Down Romance

di lisachan
Neanche ci provo, a pensare sia venuto qui per qualcosa di diverso dal sesso.
Io so quando Anis è in vena di chiacchiere. So quando è in vena di cazzate, so quando è in vena di relax, so quando è in vena di tenerezze. Lo so perché i suoi occhi sono scuri e incomprensibili solo per chi non li guarda con la dovuta attenzione ed il dovuto rispetto.
Per me è sempre tutto molto chiaro.
Neanche ci provo, a pensare sia venuto qui per qualcosa di diverso dal sesso.
Non stasera.
- Piccolo, questa casa è un casino più del solito. – butta lì con un ghigno affamato che mi fa correre brividi caldi lungo tutta la schiena.
Io mi inumidisco le labbra e faccio un passo verso di lui. I miei piedi mostrano un’incertezza che non vorrei possedere, fermandosi a metà del movimento e facendomi inciampare comicamente sulla punta degli stivali.
Anis ride e la sua risata mi scivola sulla pelle come lava bollente. In questi momenti mi viene voglia solo di chiudere gli occhi e lasciarmi scivolare sulla prima superficie disponibile.
Il pavimento.
Una parete.
Il letto.
Lui.
- Passata una bella giornata? – continua a parlare. Il tono è malizioso, non è quello che utilizzeresti per una conversazione casuale. Non fa che confermarmi ulteriormente le sue intenzioni. Me le confermano la sua voce ed anche le sue dita, quando afferra con studiata lentezza il risvolto della giacca e se la sfila di dosso, posandola con disinteresse sul divano.
Lui sa che lo trovo sexy.
Lo sa che, quando gioca a fare il padrone della situazione, io gli impazzisco dietro.
Fortunatamente, così come lui sa tutte queste cose, io so che mi desidera da matti. Questo mi consola un po’, e mi aiuta a superare gli angoscianti momenti d’attesa durante i quali mi accerchia, prima di sbattermi sul materasso.
Gli piace farmi sentire desiderato.
Gli piace perché, quando lo fa, io non riesco a staccargli gli occhi di dosso.
- Così. – rispondo, cercando di eliminare qualsiasi traccia di ansia nella voce. A giudicare dal suo sorriso consapevole, non mi riesce bene. – Un po’ noiosa.
- Che cosa disdicevole. – commenta, avvicinandosi come un predatore. È scuro e misterioso e pericoloso e, quando vuole, come adesso, anche sinuoso come una pantera. Mi mordo un labbro. – Questa giornata va migliorata. – conclude, chinandosi su di me.
Non annulla la nostra distanza, però. Non è molto più alto di me, ma riesce sempre a mantenere quei due, tre centimetri di spazio fra le nostre bocche, che se solo provo a contarli davvero mi sento morire dentro.
Aspetta.
Io capisco cosa vuole.
Sollevo le braccia e le stringo attorno al suo collo. Mi tiro su e gli sfioro piano la bocca con la mia. Asciutto e timoroso. Dio solo sa se vorrei divorarlo qui seduta stante, ma ogni gioco ha le sue regole, e le regole di questo gioco Anis le ha decise molto tempo fa.
Mi sbuffa una mezza risata sulle labbra, stringendomi alla vita senza la minima gentilezza. La collisione dei nostri bacini genera nella mia testa una reazione tale che vedo le scintille, e mi lascio sfuggire un mugolio per metà sofferente e per metà talmente soddisfatto che ho quasi paura lui possa pensare mi basti così.
Poi mi rilasso: forse potrebbe bastare a me, ma di sicuro non basta a lui.
- Sei sexy quando sei così eccitato. – commenta a voce bassa contro il mio orecchio, mentre lascia scivolare una mano giù lungo la mia schiena, fino a stringere forte una natica. Mentre lo fa, mi spinge con maggiore decisione contro il proprio bacino, ed io sento la forza prepotente della sua erezione premere contro la mia.
Lo voglio. Adesso. Subito. È già tardi.
Mi attacco alla sua maglietta con l’urgenza ed i lamenti di un bambino capriccioso, strattonandola qua e là senza neanche capire esattamente da che lato tirarla per togliermela di torno.
- Pazienza, bimbo. – aggiunge in un’altra risata, scendendo a leccarmi voluttuosamente il collo, mentre una sua mano, quella non impegnata a stringermi il sedere come fosse una cosa sua, scende in lenta esplorazione della mia pancia e s’infiltra agile ed esperta oltre l’orlo dei jeans, alla ricerca della mia dolorosa erezione.
- Dio, sì… - ansimo, abbandonandomi contro la sua spalla, già a corto di fiato, - Bu…
- Mmmh… - mugola lui, soddisfattissimo, accarezzandomi dal basso verso l’alto, - Sì?
Vuole farmelo dire. Gli piace il suono di quella parola, penso. Posso capirlo, a ma piace quando lo dice lui.
- Scopami… - sussurro piano, tirandomi indietro abbastanza da poterlo baciare ancora.
Lui ride e stringe di più la presa attorno al mio cazzo, ed io per poco non mi lascio cadere per terra davvero.
- Stanotte ti scoperò finché non ne potrai più. – ringhia direttamente sulle mie labbra, artigliando l’orlo della mia maglietta e tirandolo su fino a sfilarmela dalle braccia.
Penso distrattamente che la possibilità che dica “adesso basta” sembra lontana come la fine del mondo, e corro con le mani ai bottoni dei suoi jeans.
Troppi vestiti inutili. Troppi, Dio, troppi.
Mi afferra sotto le cosce, prendendomi in braccio e muovendosi velocemente verso la prima parete disponibile, addosso alla quale mi schiaccia, prima di chiudermi addosso le labbra come una trappola. Chiudo gli occhi e mi lascio andare contro il muro, cercando di respirare senza riuscirci in maniera particolarmente convincente. Le sue labbra divorano centimetri di collo, petto, pancia, non so neanche come faccia ad essere ovunque contemporaneamente. Quest’uomo ha un dono.
Sospiro con forza, piantandogli le unghie nelle spalle, e mi infastidisce sentire sotto i polpastrelli il tessuto morbido in cotone. Preferirei di gran lunga la grana liscia e calda della sua pelle. E la resistenza ostinata dei suoi muscoli tonici.
Ricomincio a tirare la maglietta, ma lo faccio evidentemente dal punto sbagliato. Non lo so, non viene via, la stronza. Anis ride ancora e si allontana un attimo, lasciandomi andare, per esaudire il mio desiderio.
Nel mentre, per tenermi al mio posto, mi schiaccia con più forza contro il muro. La tensione del mio desiderio sta cominciando a farsi fastidiosa. Anche la sua, ci scommetto.
- Anis… - lo chiamo, ma esce fuori un’implorazione davvero vergognosa. Però pregarlo non mi dispiace. Lui, almeno, ascolta sempre. E fa anche i miracoli. Non è male, come Dio personale.
- Piccolo, se mi chiami così non mi trattengo. – mi avverte, fissandomi negli occhi con aria assassina.
Ci sono momenti in cui mi guarda e non riesco a sentirmi al sicuro. Non riesco a sentirmi a mio agio. Non voglio. Mi fa sentire come un pezzo di carne. Un pezzo di carne vivo e fottutamente bello.
- Non farlo… - sussurro piano contro la sua guancia, lasciandogli addosso una scia di baci umidi che si fermano e muoiono sulle sue labbra, come sempre, come tutto, come le mie proteste quando si ostina ad ignorare il mio bisogno per concentrarsi sui miei capezzoli, come i miei mugolii quando finalmente torna ad accarezzarmi fra le gambe, come l’ansito di pura sorpresa che mi coglie all’improvviso quando sento la punta della sua erezione stuzzicare insistentemente la mia.
Mugolo rocamente, spingendomi verso il basso, nel tentativo di procurarmi un po’ di sollievo con qualche strusciatina. La verità è che niente di quanto potrò provare così sarà anche solo lontanamente paragonabile a quello che sentirò quando lui sarà dentro di me, quando mi si spingerà contro con tanta forza da darmi l’impressione di volermi spaccare in due, quando toccherà quel punto segreto che ogni volta mi fa urlare come un pazzo, aggrappandomi al suo collo e ai suoi fianchi per non cadere dal letto in preda ad una spaventosa vertigine.
Anis è perfetto per me. Non è troppo. Non è appena giusto. È perfetto.
La prima volta che l’ho visto nudo, mi ha fatto una paura bestiale. Stava lì, di fronte a me, evidentemente compiaciuto, e mi si mostrava come la nostra fosse una competizione. Io, buttato sul materasso fra i cuscini, pallido, smorto e livido dalla paura per com’ero, mi sentivo veramente miserevole. Lui, dritto in piedi accanto al letto, liscio e teso, si stagliava in tutta la sua fottuta odiosa perfezione contro le mie tende bianchissime. Era il contrasto più eccitante che mi fosse mai capitato di guardare.
Quella notte, Anis ha osservato il mio sguardo perso posarsi addosso ad ogni centimetro del suo corpo, ed ha ghignato soddisfatto quando mi sono fermato vergognosamente proprio lì dove guardarlo era più piacevole, a causa della voglia indomabile che mi bruciava nei lombi non appena sfioravo l’idea.
“Non preoccuparti”, mi ha detto piano, salendo sul materasso al mio fianco, “se ti piace, non può farti male”.
Io ho chiuso gli occhi e l’ho ricordato esattamente come l’avevo visto contro le tende: le braccia rilassate lungo i fianchi, la linea tonica della schiena, le gambe leggermente divaricate, il suo profilo appena intuibile nel buio.
Se ha fatto male, non lo ricordo più.
Adesso non m’interessa.
Anis è perfetto per me. Non fa male neanche per sbaglio. Mi piace, mi piace e basta.
Mi si schiaccia contro ed io rilascio un sospiro che al dolore somiglia soltanto, mentre lo sento farsi strada dentro di me. Rude, veloce, come fosse arrabbiato. Riesce a mantenere ritmi simili anche per mezz’ora, ed è una cosa alla quale non riuscirò mai a rassegnarmi, perché dovrebbe essere fisicamente impossibile.
Ma non me ne frega niente: finché posso sentire la sua pelle contro la mia, finché posso sentire il calore assurdo della sua voglia dentro di me, finché lui è mio ed io sono suo in questo modo così speciale da farmi male al cuore, a me non interessa più niente.
Gli mordo forte una spalla mentre vengo contro la sua mano, sporcandogli la pancia. Ho voglia di scendere e leccare ogni centimetro del suo addome, giocare a nascondino contro il suo ombelico e poi prenderlo tutto in bocca fino in gola, fino a sentirmi stordito, ma Anis mi afferra forte per la vita e mi si stringe contro una, due, tre volte, fino ad esplodermi dentro, ed io respiro direttamente dalle sue labbra, senza pensare a nient’altro. Così accompagno gli ultimi tremiti dell’orgasmo, ed assieme alle sue spinte viene meno anche la voglia.
Lo abbraccio con una tenerezza che in genere non mi appartiene.
Rimango ad occhi chiusi e stringo le gambe attorno al suo bacino, quando lo sento muoversi piano per portarmi in camera da letto.
Appena tocco il materasso – fresco contro la mia pelle sudata e bollente – realizzo che non ci vedevamo da una settimana. E capisco la sua urgenza, i suoi occhi da predatore ed anche il mio desiderio folle.
Anis mi lascia scivolare una mano lungo la guancia, e la posa sulla curva del mio collo, attirandomi a sé per un altro bacio.
- Ci riposiamo un po’? – chiede con aria stupidamente tenera, aiutandomi ad accoccolarmi sul suo petto.
Sarà una notte sfiancante, penso, mentre sento le sue braccia stringersi possessivamente attorno alle mie spalle ed alla mia vita.
- Sì. – annuisco, continuando a guardarlo senza nemmeno battere le palpebre.
La seconda volta sarà più dolce. Lo è sempre.
La terza sarà una dichiarazione mancata. Lo è sempre.
Alla quarta non arriveremo, crolleremo addormentati l’uno fra le braccia dell’altro. Come sempre.
Le regole del gioco sono sempre le stesse. Anis le ha decise tanto tempo fa. Io le ho sottoscritte e continuo a farlo con ogni bacio che poso sulle sue labbra.
Finché possiamo – il più a lungo possibile – giocare è tutto.

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Kalter Krieg

di tabata
Io non so che cosa vi abbiano raccontato ma sono quasi certo che sia una montagna di cazzate.

Niente di ciò che per mesi si è detto in giro era mai completamente vero, perché alla gente piace inventarsi le storie. Ma soprattutto gli piace crederci. A rileggere adesso i giornali di un anno fa, sembrava che la cosa fosse stata organizzata a tavolino e che tutti e due fossero d'accordo a fingersi quello che non erano per guadagnare più soldi e recuperare quel po' di attenzione mediatica su cui non avevano ancora messo le mani.

Se fosse stato così, noi non saremmo in questa situazione.

E forse ci saremmo anche divertiti del resto. A reggergli il gioco, intendo. Se la casa discografica avesse deciso, di punto in bianco, che la punta di diamante della Erguterjunge dovesse spacciarsi per uno a cui piacevano i ragazzi, tutta la crew si sarebbe aggregata di conseguenza.

Con un po' di perplessità, magari. Un po' molta.

D'accordo, forse ci saremmo incazzati; ma non ci sarebbe stato di che sorprendersi. Siamo rapper: siamo brutti, sporchi, cattivi ed etero. Cos'avevamo a che fare noi con un ragazzino effeminato che cantava finto rock pre-adolscenziale? Cos'aveva a che fare Bushido con lui, con suo fratello e con tutta quella banda di mocciosi?

Il punto però non è questo. Il punto è che se fossimo stati messi al corrente, se avessimo dovuto discuterne e avessimo potuto dire la nostra, allora nessuno di noi si sarebbe sentito preso per il culo. E invece no. Invece siamo stati gli ultimi a saperlo, insieme a tutta la Universal.

Quindi no, non fu una cosa organizzata.
E io c'ero, per cui lo so meglio di qualunque giornalista che ebbe la voglia e il modo di scrivere di Bushido e di Bill in quel periodo.

Potrei dirvi che, di quando in quando, l'idea che qualcosa non stesse girando per il verso giusto c'era venuta e passeremmo tutti per persone un po' più furbe. In realtà, nessuno si accorse di niente.
Bill ci è passato non so quante volte sotto il naso, nascosto in camera da letto mentre tutti quanti noi eravamo in salotto a vedere la partita, in casa di Bushido. E lui un mese sì e uno no spariva e - se anche uno solo di noi avesse avuto una sorella dell'età giusta - avremmo scoperto che se ne andava sempre dov'erano loro, i Tokio Hotel.

Avremmo dovuto sospettarlo, d'accordo.

Ma sinceramente, voi lo avreste fatto? Da uno che ha passato metà della sua vita a porsi come un gangester del ghetto e l'altra metà a girare video con più figa che ritornello, voi vi aspettereste che all'improvviso decida di cambiare sponda?

Ve lo dico io: no.

E' per questo che nessuno di noi si è mai chiesto perché Bushido partisse nel cuore della notte, per raggiungere mete a noi sconosciute. Né perché quel ragazzino che sembrava una femmina, avesse improvvisamente così tanto spazio tra un testo e l'altro delle sue canzoni.

Non ce lo siamo mai chiesto perché non avevamo motivo di credere che Bushido avesse una relazione con Bill Kaulitz.

Questo finché Saad non entrò in sala registrazione incazzoso come una scimmia a cui hanno appena bruciato il culo e dichiarò solennemente che suo cugino era impazzito.

Dunque, le cose andarono piu' o meno in questo modo.
Io, Eko e gli altri siamo allo studio di registrazione e Bushido non c'é, anche se non ricordo bene dove si trovi. Fatto sta che Saad entra e sta già imprecando.

Saad è uno che se gli dai la possibilità ti tira giù tutti i santi, non solo quelli cristiani ma anche i profeti musulmani, quelli ebrei e, avendo tempo, un gran numero di dei egizi. Alle volte è troppo scurrile perfino per noi. Comunque, lo lasciamo fare e lo seguiamo con lo sguardo mentre si aggira per la stanza urlando improperi. Quando vedo che forse un po' si è calmato, gli chiedo: "Atze, che diavolo succede?"

E Saad mi dice che Bushido ha perso la testa e si è messo a fare dichiarazioni in televisione. Chiedo delucidazioni e lui mi dice: "Toh, guarda da solo," si appropria del computer e cerca su You Tube. I ragazzi si affollano tutti intorno a noi e attendiamo che il filmato finisca di caricarsi. Qualche attimo dopo, Bushido è seduto su quel divano e dice che vuole un pompino da Bill Kaulitz.

In un primo momento, nessuno dice niente. Quando succedono cose come questa, che il capo della tua etichetta, quello che dovrebbe un po' rappresentare l'immagine del gruppo e tutto dice una cosa simile, tu inizialmente non è che t'incazzi subito. Cerchi di capire. In un qualche modo stonato ti rendi conto che non puoi semplicemente sparare a zero come se Bushido fosse il primo coglione che passa per strada. Non getti merda così, a caso. Quindi li sento, tutti, che si spostano a disagio alle mie spalle. Eko finge un colpo di tosse.

Noi tutti sappiamo chi sia Bill Kaulitz.

Da un paio d'anni a questa parte, se vivi in Germania e hai un paio d'orecchie non puoi non conoscere Bill Kaulitz. Neanche se vivi su un albero e non possiedi un televisore; sicuramente qualche ragazzina invasata passerà sotto il tuo ramo e ti dirà chi diavolo é.

La sua apparizione nelle nostre vite, Bill Kaulitz l'ha fatta due mesi prima di quel filmato, ad una festa della Universal. Era con suo fratello, se non ricordo male. Noi invece eravamo tutti insieme e, come un branco di coglioni, in massa gli abbiamo sbavato dietro tutta la sera. Ci abbiamo messo due ore a capire che era un ragazzino, un po' di più per superare il trauma. Eko, per dire, non si è ancora ripreso del tutto.

Da quella festa, però, niente. Voglio dire, lui i suoi video, noi i nostri. Nient'altro. Certo non ci aspettavamo di risentire il suo nome in bocca a Bushido, in quel modo poi.
"Lo avete sentito," dice Saad. "Era lì seduto e mi spara fuori la vaccata senza neanche prendersi il fottuto disturbo di avvertirmi prima." E non è che puoi dargli torto se è un po' alterato. Insomma, non le prendi bene queste cose se sei costretto anche a reggere il gioco per non sfondare la faccia a tuo cugino davanti alle telecamere.

Dal momento che nessuno dei miei compagni si azzarda a dire una parola che sia una, provo ad avanzare l'ipotesi che forse voleva soltanto fare lo spiritoso. "Lo sai come fa, no?" Cerco di risultare poco colpito dalla faccenda ma la verità è che non lo so nemmeno io come fa. Sono uno degli ultimi arrivati, dovrei avere il diritto di starmene in silenzio e attendere che gli altri che lo conoscono da più tempo lo difendano, trovino una giustificazione, adducano delle spiegazioni razionali. E invece no, tocca a me dare un senso a quell'uomo. Che, per dire, mi fa anche piacere ma - cazzo - mi dessero un po' una mano...

"Io conosco mio cugino," sbotta Saad. "Lo so quando scherza. E non stava scherzando."

"Ragioniamo Saad, con tutta la figa di cui si circonda ogni giorno, per quale motivo dovrebbe volere una cosa del genere da un maschio," io in questo momento vorrei davvero aver accettato quel posto da magazziniere l'anno scorso. In questo modo starei scaricando furgoni invece di discutere sui gusti sessuali di un tunisino. "In diretta nazionale, per di più."

Saad si lascia andare su una sedia e guarda fisso davanti a sè, tanto che ad un certo punto comincio a pensare che non si senta bene. Sono un po' a disagio, lo ammetto. Mi volto a cercare supporto e quei bastardi mi lasciano a piedi. Eko sta addirittura leggendo! Tutti che fingono di fare qualcos'altro. Grazie.

"Saad, scusa? Ma lui dov'é?" Chiedo.

"Sono qui," risponde Bushido, entrando in quel preciso momento. "Devo mancarvi di brutto quando vado via! Bambini non piangete, papà è tornato."

In questo stanzino si sta compiendo un dramma epocale e lui entra tranquillo, come se non fosse lui la causa della pressione alta di suo cugino. Lo guardiamo tutti senza dire una parola.

"Beh?" Chiede, guardandosi intorno. Le facce su quei divani sono tutto un programma. L'occhio gli cade sul computer ancora acceso. E lo vedo sorridere in maniera così stronza che mi viene pure da ridere. "E io che volevo trovare un modo carino di dirvelo!"

A questo seguono due o tre secondi di agghiacciante silenzio.
Non so se avete idea di quello che è appena avvenuto. Bushido ha fatto una battuta che non fa ridere. Non fa ridere proprio per un cazzo, non quando siamo tutti qui a chiederci se è frocio o meno, e quanta credibilità perderemo nelle prossime ventiquattrore perché lui spara cazzate in televisione. Quando la situazione è simile e qualcuno fa una battuta di merda, tu tendenzialmente gliele tiri di santa ragione. Oppure lo mandi a fanculo, perché è quello che si merita.

Bushido non lo possiamo mandare a fanculo.

Quindi stiamo zitti. Stiamo zitti e ci guardiamo le unghie, perché non c'è altro da fare.
E la cosa finisce clamorosamente lì perché così com'è entrato, così si siede e si mette a lavorare al nuovo singolo. In quel momento, a nessuno viene in mente che cosa ne pensi Bill Kaulitz della faccenda.

Bushido con Bill, è sempre stato così: normale.
Qualunque cosa lo avesse spinto a cambiare sponda, lui dava l'impressione di non essersi mai chiesto perché. L'aveva saltata e basta, e tanti saluti. In questo senso, per lui, ho sempre provato un profondo rispetto. Non so se avrei avuto il coraggio di alzarmi una mattina e decidere di fare quello che ha fatto lui. Voglio dire, all'inizio anche a me sembrò una grande stronzata ma poi, cazzo, lo vedevi con Bill e ti rendevi conto che qualcosa c'era.
E anche se non eri finocchio, un po' ti veniva da chiederti se non ne valesse la pena.

A me veniva.

Per un certo periodo mi sono chiesto quando fossero iniziate le cose tra Bushido e Bill Kaulitz, quale fosse il momento preciso in cui quei due si erano trovati a condividere qualcosa. Ho poi saputo da Bill che quando Bushido fece quella dichiarazione, loro se la intendevano già da un po'. Anche se Bill non ha detto proprio così, perchè lui ha un modo tutto suo di discutere di queste cose.

E allora ho capito una cosa.
Bushido è sempre stato un tipo che le questioni le prendeva di petto.
Se era convinto di un'idea, una qualsiasi, e pensava si trattasse della svolta che avrebbe cambiato il corso degli eventi, non te la presentava come una possibilità. Te la presentava e basta, perchè di solito non c'era altro da dire. Era già pronta, l'aveva già confezionata lui e a te non rimaneva che scartarla, aprirla e vedere cosa c'era dentro; e di solito poi, andava tutto secondo i piani.

Bushido aveva questo potere di fare esattamente quello che doveva essere fatto; che non era automaticamente la cosa giusta: era solo la cosa giusta da fare in un certo momento. Quindi io credo che quando si sedette su quel divano e chiese a Bill un pompino, sapeva perfettamente che si sarebbero incazzati tutti - forse perfino Bill - ma sapeva di doverlo fare. Sapeva che quello era il momento di fare una cosa simile.

E di dircelo in quel modo.

In fondo, se ci avesse presi tutti da parte - come in un consiglio speciale delle Giovani Marmotte - e ci avesse spiegato che era innamorato perso di un uomo, lo avremmo preso per il culo fino alla terza generazione. E ne avremmo avuto il diritto, perchè tu alla crew non dici così neanche se stai con una femmina, figuriamoci con maschio.

Si comportò da rozzo e da coglione, come ci saremmo aspettati da lui in una situazione che non coinvolgesse Bill Kaulitz. E lo fece perché noi capissimo quanto era serio. Saad lo capì subito d'altronde. E noi dopo qualche mese.

Ora come ora, se mi chiedessero che cos'avvenne e quando, non saprei ricordarlo.
Io so solo che ad un certo punto, Bill è diventato un argomento di discussione costante insieme ai testi da scrivere, alle promozioni da fare e a Fler che, isterico, ci sputava veleno addosso per essere sicuro che non ci dimenticassimo di lui tra un premio e l'altro che vincevamo alla faccia sua.

Quando dico che Bill era un argomento di discussione, mi riferisco a liti furiose, non ad amabili discussioni tra pasticcini e té tunisino. Una in particolare me la ricordo bene perchè ero convinto che Saad e Bushido sarebbero venuti alle mani.

Io arrivo che loro due stanno già litigando. Eko mi apre la porta della casa di Atze e mi dice soltanto: "Ci risiamo, lui e quel fottuto ragazzino."

Io entro, ho con me la birra e l'appoggio sul tavolo della cucina. Intanto ascolto cosa si dicono dal salotto. A quanto pare Bill ha richiesto la presenza di Bushido a due stati da qui. E lui stanotte parte, con un album da promuovere e quattro esibizioni da fare. Saad è furioso, come al solito: d'altronde non lo vedo calmo da settimane. "Tu non puoi mollarci così."

"Non sto mollando nessuno," dice Bushido. Lo scorgo attraverso la porta aperta. E' in piedi vicino alla finestra ed è calmo quanto Saad si sta agitando. "Prenderò il primo aereo domenica pomeriggio e sarò qui in tempo per esibirmi sul-"

"Non me ne fotte un cazzo se prendi il fottuto aereo domenica pomeriggio! Cristo!" Lo interrompe Saad. "E' questa storia di merda che non ha senso."

"Questa storia di merda sto cercando di gestirla."
Qui avrebbe potuto dire che sono cazzi suoi e non lo fa. E io che sto ancora togliendo le birre dalla busta del supermercato penso che è una grande prova da parte sua.
La crew viene prima di tutto, se non ammettesse neanche questo potrebbero esserci problemi.

"Non la gestisci proprio per un cazzo," replica Saad. "Se la gestissi avresti mandato quel ragazzino a fanculo molto tempo fa."

"Non permetterti di dirmi che cosa devo fare, Saad."

Saad ride, che è un po' il suo modo di avvertirci tutti che ha perso l'ultimo barlume di lucidità mentale. "Dovremmo stare tutti zitti alla corte di sua maestà, allora?" Chiede.

Bushido si massaggia le tempie. Mi dirigo verso il salotto e incrocio la gente che ne esce e mi viene in contro. Vedo Kay One scuotere la testa. Mi dice "E' pazzo" a mezza voce. Io ascolto.

"Non mettermi in bocca parole che non ho mai detto."

"Non le hai dette tu, Anis. Le ho dette io," replica Saad. "Ti stai comportando da stronzo e prima o poi finiremo tutti quanti nella merda per colpa della tua fottuta Principessa. Se ci avessi detto subito che ti piaceva scopare gli uomini, ci saremmo risparmiati la fatica di stare dietro alle tue idiozie del cazzo!"

A quel punto io penso che Bushido lo attaccherà al muro e lo pesterà a sangue, perché ha quella faccia, quella di quando non gliene importa un cazzo se finirà in galera per averti spaccato tutte le ossa. Lo fa comunque. E' capitato giusto due mesi fa che qualcuno dicesse due parole sbagliate in una discoteca.

Quello che Saad ha detto non sono esattamente due parole sbagliate. E' tipo far notare a Bushido che è una testa di cazzo. Ora, al tizio della discoteca lo hanno ricoverato d'urgenza in terapia intensiva. A Saad non so cosa succederà. Un'altra volta mi ritrovo in prima fila ad assistere mentre gli altri dietro fingono di essere altrove. Qualcuno stappa una bottiglia di birra e il tappo fa un rumore tremendo. E' Eko, sicuramente.

Siamo tutti lì col fiato sospeso. Mi sporgo quasi in avanti, che sarebbe una bella figura di merda, se permettete. Tre secondi, e poi Bushido ghigna. Dio, ci credete? Ghigna e gli dice la cosa più fuori di testa in assoluto. Lo guarda ridendo e gli dice: "Le mie idiozie del cazzo ti pagano le ville, le feste e la scuola della bambina. Se le mie idiozie del cazzo non ti piacciono, sai dov'è la porta."

E la discussione finisce lì; cioè non c'è più storia.
Saad può solo uscire dalla porta o stare zitto. E sceglie di stare zitto, che a mio avviso è anche la scelta migliore. Comunque in tutto questo, e si parla di mesi ormai, noialtri Bill Kaulitz lo abbiamo visto solo sulle copertine di Bravo.

Col tempo, i ragazzi cominciarono a chiedersi che tipo fosse, perché dalla televisione non ne usciva fuori benissimo. Ogni volta che passavano un suo video o una sua intervista, ci mettevamo sempre dieci minuti a capire che non era una donna. A vederlo, come si muove e come sorride, Bill sembra una checca. E questo non era un punto a favore di nessuno, quando questa storia è iniziata. Nè nostro, nè suo. Se almeno fosse stato un po’ più maschile; non lo so, in realtà.

Bill non puoi sapere com’è fatto finché non lo conosci di persona.
La gente crede che, siccome è tanto grazioso, sia anche clamorosamente stupido come certe bionde che sculettano sui palchi di mezzo mondo. Lo pensavamo anche noi. E invece no. Bill sa esattamente quello che vuole e fa di tutto per ottenerlo. Se n’è fregato di noi che lo prendevamo per il culo dalla mattina alla sera, e di tutta la gente che lo odiava, accusandolo di aver rovinato Bushido. Bill ha sempre scrollato le spalle. E a chi lo accusava di stare insieme a Bushido solo per pubblicità, ha risposto presenziando al suo funerale nonostante fosse pericoloso. Nonostante nessuno lo volesse lì. Quando hanno calato in terra la bara, piangeva. E sfido chiunque a trovare lacrime più sincere delle sue, quel giorno.

Io Bill l’ho conosciuto prima di tutti gli altri, quando Bushido mi chiese di andarlo a prendere all’aeroporto perché lui non poteva. La curiosità della crew, quando tornai agli studi il giorno dopo, era oltre i livelli di guardia. Io lo so che quanto sto per dire non fa del bene né a mé ne agli altri ragazzi, voglio dire loro - ma anche io - ci terrebbero a passare per un gruppo di duri, ci terrebbero a farci una figura un po' meno di merda di quanta non ne abbiano già fatta in tutto questo periodo con Bushido che ama Bill e il resto, ma dal momento che ho promesso a Bill di essere sincero mentre racconto, devo dire la verità.

Quel giorno, io lascio Bill di fronte a casa di Bushido alle dieci spaccate perché questi sono gli ordini che ho ricevuto. E sono precisi. Quando Atze mi ha detto al telefono quello che dovevo fare - compreso il pagare di tasca mia la cena di uno che sembra anoressico ma, vi assicuro, non lo è per niente - mi ha pure informato che se non glielo riportavo puntuale non avrei visto la luce di domani. E io non mi azzardo a ritardare neanche di un secondo, anzi parto parecchio in anticipo: ho la sua macchina, il suo ragazzo; vorrei evitare di finire ingessato solo perché ho trovato traffico sui viali.

Saluto Bill e recupero la mia auto, e intanto penso che è stata una gran sorpresa.
Non so cosa mi aspettassi di preciso ma di certo non è quello che ho trovato: Bill è simpatico. E nonostante le frecciatine che mi ha tirato tutta la sera, è molto facile parlare con lui. Come se lo conoscessi da sempre. Forse comincio a capire cosa ci veda Bushido in quel ragazzino. A parte che quando lo guardi, in qualche modo, ti disturba qualcosa dentro.

Quando il giorno dopo apro la porta degli sudi di registrazione, sono ancora immerso in un ragionamento tutto mio che vede un po' troppo Bill Kaulitz per i miei gusti. E quelli mi assalgono.

"Che tipo è?"

"Sei stato ben attaccato al muro, Chaku?"

Sollevo lo sguardo e ce li ho tutti lì davanti, in formazione a ventaglio. E mi guardano come se possedessi le chiavi dell'universo. Perfino Saad è curioso, anche se lui se ne sta seduto sul divano e fa finta che tutto ciò non gli interessi affatto. Io mi tolgo il giubbotto. "E' un essere umano," annuncio alla fine.

"Che cazzo significa!" Esclama Kay One, che è rimasto in tensione fino a quel momento.

"Ma è un maschio o una femmina, alla fine?" Mi chiede Eko, con quella faccia da topo che si ritrova. E io giuro che sbatto gli occhi perché a volte davvero non so come comportarmi con lui.

"E' un maschio, Eko," esclamo esasperato. "Mi pare che questo lo avessimo chiarito mesi fa!"

"Beh, beh non si sa mai!" Proclama lui, agitando la bottiglia di birra che tiene per il collo e guardando di fronte a sè. "Potrebbe essere una femmina che è diventata maschio."

"E' un maschietto," ripeto scuotendo la testa.

"E tu come lo sai? Glielo hai visto nelle mutande?" Replica lui, stizzito.

A parte che mi agghiaccio. Un po' perchè non ho assolutamente voglia di vedere cosa ci sia nelle mutande di Bill Kaulitz, un po' al pensiero che se anche ne avessi voglia probabilmente non vivrei abbastanza per raccontarlo, una volta scoperto. "E' una pertica," rispondo a quel cretino del mio compagno di crew. "Sarà un metro e 87, tipo. Non ci sono donne così."

"Ecco, vedi!" Mi indica con la bottiglia, sparge birra. E lo odio perché ho su le scarpe nuove che costano quanto l'ultima rata dell'auto.

"Vedo, cosa, deficente?" Ribatto, mentre afferro un tovagliolo di carta che c'è sul tavolo e me lo passo sui pantaloni.

"E' altissimo. Quindi forse non è una donna diventata un uomo," esclama, colto dall'illuminazione di un qualche dio minore. Quello che lo tiene misericordiosamente in vita, probabilmente. "E' un uomo che si è fatto donna!"

"E tu sei evidentemente un coglione senza speranza!" Ritorco, tirandogli uno scappellotto sulla testa rasata. "E' solo un ragazzino molto effemminato. Punto."

In quel momento si apre la porta. Anzi, s'è già aperta prima, solo che non ci abbiamo fatto caso. Ci facciamo caso quando Bushido ci guarda tutti uno per uno come se volesse darci fuoco. "Quel ragazzino effeminato prima o poi lo porto qui," dice. "E voi lo conoscerete."
E ci abbiamo pure fatto una gran figura di merda, aggiungerei.

Prima o poi, sono due settimane più tardi, quando meno ce l'aspettiamo: durante la partita.
Io credo che ci voglia una grande quantità di sadismo per decidere di portare il proprio ragazzo a conoscere i tuoi amici quando non dovresti avere un ragazzo e i tuoi amici sono impegnati ad urlare all'arbitro che è un cornuto e che sua madre si fa scopare da un gran numero di animali da fattoria.

Bushido è sadico, evidentemente.

L'idea è quella di riunirsi tutti a casa di Bushido per vedere l'ultima di campionato. Il che, tradotto, significa: divano, casino, cibo e birra. Pacifico, per noi. Bushido ci dice che arriverà più tardi, di fare come a casa nostra. Le chiavi le abbiamo.

Le abbiamo sì. Le ha Saad, in effetti.

Siamo arrivati alle cinque, ci siamo svaccati. E quando la porta si apre, Eko è in piedi sul divano senza le scarpe, Kay One sta imprecando contro ogni singolo giocatore della squadra avversaria e io sono piegato in due a terra a maledire quell'accidenti di portiere che se n'è fatta scappare una così.

Voglio dire, quello non è il giorno per portarsi Bill Kaulitz a casa.

Bushido entra per primo e saluta: non se lo caga di pezza nessuno, perché abbiamo appena subito ed è un offesa che prendiamo sul personale. Ci stiamo lamentando come prefiche perché non possiamo finire il primo tempo sull'1-0 per loro. "Abbiamo un ospite," dice.

La parola ospite riesce ad attraversare anche i nostri cervelli ottenebrati dalla partita. Alziamo tutti lo sguardo e ci fermiamo lì dove stiamo. Bill è un passo dietro a Bushido e si guarda intorno con aria spaesata. Io l'ho già visto, a me non fa effetto ma per gli altri è come assistere alla comparsa di una creatura mitologica. Il Bill Kaulitz.

Bushido lo spinge avanti e lui fa due passi incerti. Ci guarda tutti e poi sorride. Non è il sorriso sicuro di sé che gli ho visto fare quando all'aeroporto c'ero soltanto io. E' un sorriso più tenero, più dolce e quasi spaventato. "Ciao," dice soltanto, agitando la mano con le dita divaricate. A quel gesto vedo Saad che chiude gli occhi ed inspira, chiedendo a Dio di dargli la forza suppongo.

Bill è così... fuori dal ghetto.

Quando nessuno risponde, abbassa la mano e anche lo sguardo. Mi chiedo se si senta incredibilmente stupido come mi sento io per tutti gli altri, mentre me ne sto qui per terra e lo fisso. Lo vedo fare un passo indietro, sembra voler sprofondare in Bushido che gli sta alle spalle e sembra bloccargli ogni via di fuga. Mi alzo da terra e gli sorrido. "Hey, quanto tempo!" Esclamo. E spero che quei rincoglioniti dietro di me si diano una svegliata.

Bill si sistema una ciocca di capelli dietro l'orecchio e mi guarda, con gli occhi grandi spalancati. "Già. Cha...kuza, giusto?" Mi dice.

Annuisco. "Vieni, ti presento gli altri," lancio un'occhiata a Bushido e lui mi fa un cenno positivo con la testa. Bill mi segue, io non lo tocco. Lo vedo che si volta verso Bushido una volta ma poi mi ascolta. "Questo è Kay One."

"Ciao, Bill." Gli afferra una mano alla nostra maniera, Bill è un po' frastornato ma cerca di ricambiare la stretta.

"Eko Fresh." Il topo gli fa un cenno con la testa. Bill alza di nuovo la mano. Non posso fare a meno di pensare che sia tenerissimo e mi viene in mente la figlia della mia vicina di casa, quando ero più piccolo e sua madre la costringeva a giocare con noi. Quando le presentavo i miei amici era esattamente così. "E Baba Saad."

Saad non si muove. Rimane lì a fissarlo e io non capisco cosa gliene venga a fargli così soggezione. "E' un po' burbero," sussurro per finta all'orecchio di Bill e lui ride.

"E' un piacere conoscerti," dice, un po' più convinto.

Il disagio è comunque palpabile. Il suo, il nostro. Nessuno sa dove guardare e Bushido non ci aiuta per niente perché, come al solito, lui crede che tutto questo sia normale semplicemente perché a lui va così. Anzi, sparisce pure in cucina. "Bill, vuoi qualcosa da bere?"

"Abbiamo solo la birra," fa notare Eko.

"La birra andrà bene," esclama Bill.

Di nuovo silenzio. Bill guarda sempre per terra, o le sue scarpe. Noi invece, guardiamo lui perché è una specie di attrazione. E' una cosa nuova, in qualche modo. Ci siamo perfino dimenticati della partita. Ha addosso dei vestiti che mi turbano, seriamente. Non ho idea di come ci sia entrato dentro perchè quei pantaloni sono stretti. O non ha le ossa, oppure non è umano. E anche la maglia è due taglie più piccola di quello che dovrebbe essere. Quattro o cinque se prendiamo il nostro abbigliamento come termine di paragone.

Ha un po' di pancia scoperta.
Credo sia questo il motivo per cui Saad è diventato verde. Le uniche persone che girano con la pancia scoperta dalle nostre parti sono le ballerine vestite da zoccola dei nostri video. O le danzatrici del ventre nei locali tunisini in cui Bushido ci trascina. Il fatto che quella stella stia sopra un bacino maschile lo sta turbando profondamente.

Turba chiunque in quella stanza.

Bushido torna e gli porge la bottiglia di birra già stappata. Bill se la porta alla bocca e come ci appoggia intorno le labbra sento Kay One trattenere a stento una risatina. Eko gli va dietro e ridono come due ragazzini deficenti, neanche avessero dodici anni. E non dovrebbero farlo, che poi viene da ridere anche a me. Bill diventa rosso, allontana la bottiglia dalle labbra e guarda a terra. Non ha neanche bevuto.

Eko ridacchia ancora. Provo a tirargli una gomitata, così mi distraggo. Lo prendo pieno nelle costole e almeno smette di ridere. Bushido ci guarda tutti come se si aspettasse che risolviamo la cosa tra di noi. Ci suggerisce soltanto di spostarci tutti quanti in salotto a vedere la partita, così finisco schiacciato sul divano tra il bracciolo e Bill che si tiene la birra sulle ginocchia e non guarda nessuno.

Il fatto è che finché lo abbiamo insultato e abbiamo fatto ogni tipo di congettura su di lui mentre non c'era, andava bene. Ora che ce lo abbiamo seduto sul divano e non è nè la diva isterica nè una specie di zoccola al maschile ma un ragazzino che ha dieci anni meno di noi, non è così facile dargli addosso. Il problema è che Bushido magari ha qualcosa in comune con lui - non so cosa, per dio - ma noi come crew, cosa dobbiamo farcene?

Abbiamo un modo tutto nostro di stare insieme. Di solito ci prendiamo a male parole e urliamo e facciamo casino; qua nessuno ha il coraggio di urlare più nemmeno contro l'arbitro perché Bill è seduto sul divano e tiene le ginocchia così strette che sembra un'educanda. Vorrei dirgli di lasciarsi un po' andare, che l'ho sentito imprecare, che io lo so che è un maschio e che è un essere umano ma penso che sarebbe un po' stupido farglielo notare.

La tortura di questa partita dura più di quello che pensavo, ma arriva il momento di ordinare la pizza, di mangiare. A mangiare la gente è più amichevole; almeno io la penso così. Quando sono arrivato alla ErGuterJunge, proprio dentro intendo, quando mi hanno fatto il contratto. Bushido mi ha invitato a cena e c'erano anche gli altri. Ed è stato facile conoscerli, perché mentre mangi, viene naturale parlare di cazzate.

Bill siede accanto a Bushido, ma anche accanto a me. Sembra che degli altri non si fidi, il che è ancora più tenero. "Guarda, mangia," mi sussurra Eko. Mi giro verso di lui lentamente e basito. Sono senza parole. La mia faccia dev'essere abbastanza esplicativa, perchè aggiunge in fretta. "Voglio dire, è normale!"

"E cosa pensavi che facesse?"

"Non lo so, che si agitasse, un po' così sai?" Mi fa il verso di uno che muove le braccia in maniera sconclusionata. Credo voglia indicare una persona omosessuale particolarmente palese, ma gli viene fuori la brutta imitazione di un tarantolato.

Lo guardo, apro la bocca per dire qualcosa e non so nemmeno cosa. "Eko, è gay non epilettico!" Esclamo, proprio nel momento in cui tutti gli altri si zittiscono e nella stanza si sente solo la mia voce. Mi guardo intorno e desidero ardentemente di avere con me una vanga per sotterrarmi. Sono quasi certo che i pavimenti della casa di Bushido siano fatti di marmo pregiato ma posso ben scavare anche lì se mi si dà una buona motivazione.

Bill mi sta guardando e non riesco a decifrare la sua espressione. Alla fine inghiotte il pezzo di pizza che stava masticando e si pulisce la bocca col tovagliolo, educatamente. "Io non sono gay," dice con tutta la calma di questo mondo; che detto da uno truccato con kajal e matita e le unghie con la french manicure, diciamo che è un po' un azzardo. La tavolata si zittisce. Cosa gli dici ad uno così? Guarda, forse ti sei confuso, tu sei gay. "A me piace soltanto Anis," dice.

E lì capisco che cos'è che hanno in comune lui e Bushido: ti impongono la loro visione delle cose. Ed è quella giusta, porca puttana. Bill è seduto qui, a questo tavolo, ed è timido, sperso, si sente fuori posto - anzi, lo è! Perchè lui qui, davvero, non c'entra niente - eppure ti dice che gli piace Bushido. E te lo dice come se fosse la cosa più normale del mondo, come se non ci fosse un bel nient'altro da dire a quel punto. Può non capire un cazzo di tutto il resto ma lui una cosa la sa: che gli piace Anis, e quello ti dice.

Anche se è seduto ad una tavolata piena di rapper che lo prendono in giro per come si veste, si trucca e beve a bottiglia. Anche se è solo contro noi tutti qui, senza nemmeno Bushido che lo appoggia perché lo ha lasciato praticamente a nuotare da solo in questo acquario di piranha. Lui ce lo dice. E non perché sia scemo, ma perché sa che le cose stanno così e noi non ci possiamo fare un bel niente.

Cazzo, è vero.

"Nemmeno io ero mai riuscito a zittirli in questo modo," Bushido ride, per metà orgoglioso e per metà divertito. "I miei complimenti."

Lì vedo Bill sorridere, lo vediamo tutti. Ed orgoglioso anche lui: di se stesso e di Bushido. Spero che lo sia anche un po' di noi, che alla fine non ce lo siamo mangiati vivo proprio per niente. China la testa graziosamente in un mezzo inchino.

E io penso che la nostra Principessa sia appena salita al trono.

La Principessa sul trono c'è rimasta più di un anno.
Fin quando Eko non mi chiama alle quattro del mattino e io mi sveglio con la precisa idea di strangolarlo non appena vedo il suo numero sul cellulare.

E lo farei. Mi vestirei, prenderei la macchina e salirei su fino a casa sua per stringergli le mani intorno al collo se la prima cosa che mi dicesse non fosse: "E' morto."

"Quando?"

"Due ore fa."

E io non trovo niente da dire se non "Bill, lo sa?"

Sento Eko sospirare, non so se di dolore o esasperazione. "Era da lui," mi dice.
E io non mi fermo a chiedermi perché Bushido fosse a casa di Bill la notte in cui avrebbe dovuto battersi con Fler. Mi chiedo come stia Bill perché so già che da qui in poi nessuno sarà lì a dargli una mano. Morto lui, Bill non conta un cazzo.

E a me questa cosa non va giù. "Dov'è?"

"Chi?"

"Bill."

"Cristo, Chaku! Bushido è morto e mi chiedi di quel fottuto ragazzino?" Mi sbraita Eko. "Chi se ne frega di dove cazzo è. Chiediti piuttosto dove sia quello stronzo di Fler che ha premuto il grilletto. Due colpi ha sparato. Due, il bastardo! Kay lo sta già cercando."

Allora gli urlo di dirmi dove cazzo è Bill e mi risponde il nome di un ospedale, così posso riattaccargli in faccia. Bill lo trovo che fissa il vuoto, nella sala d'aspetto. Bushido in sala operatoria c'è arrivato già morto e a lui non lo fanno entrare a vedere il cadavere. La signora Luise Maria è dentro, sento le urla. Con lui c'è Tom che gli tiene la mano, ma è come se non vedesse niente. Quando entro si gira però, mi guarda e poi scoppia a piangere.

Quella notte lo abbraccio per la prima volta.

La Principessa sul trono c'è rimasta più di un anno.
E per quanto mi riguarda c'è seduta anche adesso, perchè non posso fingere che Bill non abbia mai fatto parte della vita della crew solo perché Bushido è morto. Purtroppo non è così per tutti. Per dirne una, il corpo di Bushido non era ancora freddo quando Saad ha dichiarato che voleva Bill fuori dai piedi immediatamente. E io ho pensato che non potevamo, che lui l'ha visto morire, che fino a ieri mangiava con noi. Solo che, a quanto pare, conto quanto lui, o poco più. E non ce n'è uno che mi dia ragione, qui.

Il funerale è oggi, e c'è un casino di gente. E mi viene da pensare che Atze sarebbe stato contento: i sudditi del King of Kingz ci sono tutti, anche quelli che forse avrebbero dovuto evitare di presentarsi.

Bushido era ateo ma sua madre no, quindi il funerale è una sfarzosa cerimonia cristiana. Ci sono centinaia di gigli ovunque. La signora Luise è vicina alla fossa vuota e la reggono in tre - c'è il padre di Bushido ma c'è anche Saad che la stringe forte sotto un braccio perché lei continua a lasciarsi cadere a terra. Piange così forte che sembra che non respiri e mi chiedo se abbia mai smesso da quando l'ho vista in ospedale. Adorava suo figlio. Ha in mano un fazzoletto nero tutto stropicciato. Continuo a fissarlo perché se guardo lei sto male. E' come se provasse troppo dolore. Forse si sfalderà sotto le dita di chi la sta sostenendo e di lei non rimarrà più niente dopo questo giorno.

Dietro di lei, come un corteo di avvoltoi, ci sono i pezzi grossi della Universal. Quasi tutti, almeno. In pochi sono venuti a piangere la perdita di un uomo. Sono molti di più quelli che stanno già calcolando quante volte possono ristampare l'ultimo album e farlo viaggiare sull'onda del mito: il rapper dalla vita sregolata, morto per un regolamento di conti.
Ne ho visti abbastanza di funerali come questo per sapere come vanno le cose.

Noi, l'Erguterjunge al gran completo, siamo dall'altra parte della fossa. Siamo una grossa macchia nera di dolore e di rabbia. Sento Eko, accanto a me, tirare sul col naso di tanto in tanto ma non piange. Al funerale di un atze non si piange, si odia: il bastardo che l'ha ucciso, l'ultimo giorno che l'ha visto in vita e anche la fossa vuota che attende il cadavere.
Guardo Saad e cerco sul suo viso tracce di un dolore che fatica a mostrare. La sua espressione è indecifrabile, tesa e scura. Da quando è successo non parla molto. Credo che sia il suo modo di affrontare la cosa. Io ho dovuto distruggere parecchi oggetti: in casa mia non c'è più un soprammobile.

Fler non si è più visto.
So che Kay lo ha cercato per ore quella maledetta notte; ha battuto ogni strada ma senza successo. Quelli dell'Aggro Berlin lo proteggono, ovvio. L'avremmo fatto anche noi se le cose fossero andate al contrario. Sido però è qui, e nessuno gli ha detto di andarsene. E' un segno di rispetto, dicono. L'Aggro Berlin rispetta il Re. L'Aggro Berlin rispetta un compagno, un collega e un avversario. Sono solo cazzate. Sido è qui per coprire quello stronzo di Fler e per non coprire di merda tutta la loro fottuta etichetta.

Per la polizia, Fler non c'entra perché la sua pistola non ha sparato. Non hanno prove, dicono. Ma chi altri poteva essere se non lui? Bill dice che c'era qualcuno sotto casa quella notte, che Bushido l'ha visto in faccia ma non ha fatto nomi. Non sa altro, guarda solo il vuoto. E non abbiamo avuto le palle di chiedergli nient'altro dopo che la polizia lo aveva tenuto dentro per ore. Suo fratello, sua madre, il suo manager hanno creato una cortina di protezione intorno a lui. Non ci fanno avvicinare. Non mi fanno avvicinare. Non ci vogliono.

Bill arriva a bordo di un Mercedes nero, tirato a lucido. E' una macchina enorme che occupa metà della strada e, quando si ferma, lo sanno tutti chi scenderà. Lo aspettavano. Vedo i giornalisti correre per essere i primi a piantargli in faccia le macchine fotografiche non appena metterà piede fuori. Sputerei in terra se non fossimo su un campo santo.

Prima di Bill scende suo fratello Tom. Poi la guardia del corpo che gli apre la portiera. Bill è magrissimo, sembra ancora più magro del solito. cammina fiero e diritto ma è stretto tra le spalle e nella giacca a tre quarti che gli pende addosso come se fosse stata inventata per lui. Anche oggi, se non ci fossero centinaia di persone morbosamente incuriosite dal fatto che è un maschio, tutti penserebbero che c'è una ragazza sotto le lenti scure e il cappellino.

Suo fratello lo accompagna fino al limitare dell'erba, poi gli stringe una spalla e lo lascia andare da solo. Cammina fiero e diritto e non guarda nessuno. Stringe una calla bianca tra le dita. Lo guardano tutti e nessuno muove un dito. Ci sono solo i flash dei fotografi che lo seguono finché possono, finché il servizio di sicurezza non li rispedisce indietro: ma hanno già quello che vogliono. Ed è un pezzo di Bill al funerale di Bushido. Ricordo quanto hanno ricamato su quello che c'era tra loro, adesso mi chiedo quanto inventeranno su quello che invece non c'era.

Lo perdo di vista per un istante, mi aspetto di vederlo ricomparire ma non succede. E allora capisco: non lo stanno facendo passare. Se ne stanno in piedi e fingono di non vedere che sta cercando un varco per coprire i sei metri che lo separano dalla tomba della persona che ama. Non dice una parola. Non chiede niente, come non ha mai chiesto niente. Non ha mai voluto veramente infastidire nessuno, eppure sembra quasi che sia colpa sua.

Sido è qui. Sido che spalleggia l'omicida. Sido che non rappresenta soltanto l'Aggro Berlin, ma anche Fler; lui è qui e nessuno ha detto niente. Perchè la morte nel ghetto si giustifica in qualsiasi caso, l'amore invece... beh, quello evidentemente bisogna passarlo al vaglio. Sempre.

"Che pezzi di merda," sibilo ad Eko, che è il solo lì di fianco che può sentirmi. Ma lui ovviamente guarda in terra, come tutti gli altri non crede che Bill dovrebbe essere qui. E allora vaffanculo anche a lui. Bushido lo avrebbe voluto vicino, loro lo sanno perfettamente.
Faccio una corsa fino a raggiungerlo. La gente guarda anche me adesso, bene. Sono qui per reggere gli sguardi che Bill da solo non può sopportare. Non lo tocco, gli faccio soltanto spazio perché lo so che non vuole crollare, non vuole sembrare un bambino. O una donna.

Vuole arrivarci in piedi in fondo al vialetto.

Lo scorto passo dopo passo. Sento i mormorii della gente che si chiede cosa ci faccia lui qui. C'è chi anche davanti al cadavere di Bushido ha la faccia tosta di fare battute su di lui e sul fatto che era la fidanzata. Le ha fatte anche Saad, cazzo. Ha detto che non voleva la vedova a piangere sulla bara del cugino. Mi giro a cercarlo ma non so dove sia sparito.

Bill mi ringrazia in un sussurro quando lo porto fuori dalla massa di gente e lo lascio davanti alla fossa. Le lacrime che gli scendono sulle guance io le vedo bene. E sono chiare e corpose, e crudelmente vere. Non ho idea di cos'abbia provato a vederselo morire davanti. E vorrei poter fare qualcosa.

Il prete lo guarda ma non dice niente. La cerimonia è lenta e impersonale. Quell'uomo non sa niente di Bushido, ma non importa. Va bene così. Le sue parole al vento mi danno modo di pensare a quello che Bushido era davvero, come me lo ricordo io. E probabilmente non andrà in paradiso, e non andrà neanche all'inferno. Lui non ci credeva. Diceva che per le settanta vergini del Corano, non aveva bisogno di crepare, gli bastava aspettare il backstage di un concerto.

La bara nera la calano lentamente, un pezzo alla volta. E per ogni centimetro che affonda, sento che mi sale la rabbia. E le lacrime anche, cazzo. La mano di Bill trema, la vedo da qui.
Quando il prete finisce, la prima ad avvicinarsi è la signora Luise. Getta un po' di terra sulla bara e poi fa una cosa bellissima perché alza lo sguardo di fronte a sè e annuisce a Bill.

La calla finisce sulla bara un attimo dopo.
Il re è morto, ora.

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Sleeping With Ghosts

di lisachan
Chaku è appena andato di là a dormire. So che non voleva perché di solito aspetta che io mi sia addormentato, così può posarmi una coperta sulle spalle, augurarmi una buona notte silenziosa e scivolare calmo nel suo letto ripetendosi che anche per stasera ha salvato la Principessa dal tracollo emotivo.
Stasera però il sonno non arriva. Sono già le quattro del mattino e Chaku è andato a letto solo perché ho insistito nel fargli notare che la sveglia alle sette sarebbe passata del tutto inosservata se non fosse andato immediatamente a riposarsi. Non che in genere la cosa basti a farlo rassegnare, di solito quando dico cose simili mi rimpinza di birra e a quel punto il sonno viene come conseguenza naturale, ma stasera i miei occhi erano troppo vispi e svegli, credo, per dargli ad intendere ci fosse una possibilità di mandarmi in stand by.
Non ce n’è. Lo so. Stasera non sono proprio riuscito a salvarmi dal tracollo emotivo.
Il salotto – o almeno, questa stanzetta minuscola che Chaku fa passare per salotto, cosa che mi fa ridere molto se penso alla villa gialla di Anis ed alle mille sale che la componevano come una reggia – è scuro e silenzioso attorno a me. Il plaid scozzese che mi sono tirato su fino al naso non è fisicamente in grado di scaldarmi ed io non so se sia perché c’è freddo o perché lo sento e basta.
Alla fine, immagino non faccia molta differenza. Le sensazioni sono quelle, il corpo non mente mai. Se alla mia pelle manca il calore di un abbraccio, se mi manca la pressione di dita che conoscevo a memoria e che non potrei mai confondere con quelle di nessun altro, allora è semplicemente così che sto ed è quella la mia verità. L’unica che conti. Poco importa se in genere dopo tre settimane dalla chiusura di un rapporto si ha già dimenticato tutto e si va alla ricerca di un altro.
Il mio rapporto non s’è chiuso. Il mio rapporto è morto.
Anis è morto.
A volte questo pensiero non c’è. O c’è ed io non me ne rendo conto. Ma se non lo vedo posso almeno fingere che non ci sia, perciò diciamo che non c’è. A volte la realtà è più forte dei miei ricordi, perché comunque la realtà è un po’ così: fastidiosa ed invasiva. E c’è David che mi dice cosa devo fare e mi chiede come sto, e c’è Tomi che mi spintona qua e là per negozi e poi mi piazza davanti al DVD di The Notebook dandomi un motivo valido per piangere ancora, e ci sono Georg e Gustav che fanno i pagliacci e c’è Andi che mi chiama per descrivermi la nuova sfumatura di platino dei suoi capelli e c’è mamma che mi compra i regali e me li manda via posta o me li porta di persona, e naturalmente quando sono tanto triste da non farcela più c’è Chaku che non mi rifiuta mai una birra ed un posto sul divano, perciò sì, il più delle volte ce la faccio e provo pure a dirmi che sono forte e non sto affatto male.
Di notte, però, capita che mi ritrovi senza niente da fare e con nessuna voce nelle orecchie. Nessuno che mi distragga, nessuno che mi indichi dove andare a sbattere la testa per mandare la memoria in coma e staccarle definitivamente la spina. Perciò resto così, come adesso, avvolto da una coperta inutile che non è calda la metà dell’abbraccio che non avrò più, e fisso il soffitto come se da lì dovesse venire una qualche risposta, e mi ritrovo terrorizzato all’improvviso quando comprendo che la risposta che aspetto non arriverà, semplicemente perché non esiste.
E perché i morti non parlano, ovviamente.
Tranne che nella mia testa. L’ultimo luogo dove sono sicuro di poter ritrovare la voce di Anis sempre, e non nelle sfumature metalliche di un lettore musicale, ma nella sua completezza. In tutto lo splendore dei toni cupi di quando era triste, di quelli più acuti della sua risata da bambino mai cresciuto e in quelli ruvidi e caldi di quando era eccitato e mi sussurrava nell’orecchio sapendo che mi avrebbe ridotto ad un mucchietto di voglia da rigirarsi fra le mani.
La cosa peggiore è che non sono davvero memorie, non sono cose riconducibili a momenti ben precisi. Di quelli ne ho pieno il cervello. Di lui esausto buttato sul divano dopo una giornata intensa che mi chiede per piacere di parlare a bassa voce, per fare un esempio. O di lui che squittisce – e lo faceva davvero, un suono acuto e pungente come la risata dei bambini insopportabili, ma che sulle sue labbra era dolce tanto quanto tu eri impreparato a sentirlo – di fronte a qualcosa di particolarmente buono da mangiare. Aprire gli occhi e trovarlo addormentato al mio fianco con le braccia e le gambe larghe fino ad avermi rubato tanto di quel materasso da costringermi a rotolargli addosso. E dargli una gomitata in pieno petto mugugnando che proprio non sa dormire in coppia, mentre lui mi chiude le braccia attorno alle spalle e mormora “dormi e basta” direttamente sul mio collo. Che poteva esserci freddo da morire o un caldo intollerabile ma fra quelle braccia si stava bene comunque, regolavano la temperatura dell’aria attorno a me.
Questi sono ricordi. Sono contestualizzabili. Mi basta chiudere gli occhi e non guardare divani cibi letti eccetera, per non pensarci. Mi basta concentrarmi abbastanza su un foglio di carta e su tutto lo schifo che ci voglio gettare sopra, per dire.
Con le sensazioni è più difficili, perché le sensazioni non sono contestualizzabili. Quelle, bastarde, strisciano sopra e sotto la pelle, ed una volta che le hai provate diventano parte di te, ti scorrono dentro e non hanno neanche bisogno di azionare un interruttore per risalire a galla.
Soprattutto, quando ce la fanno, non le puoi fermare. Non basta chiudere gli occhi. Restare da solo le amplifica. Circondarsi di voci rumori e suoni le rende solo più urgenti. Non scappi. Che tu sia solo su un divano o in mezzo a una folla vociante, sei solo tu e l’eco della tua voglia che ti si arrampica addosso e ti colonizza il cervello.
Anis è una sensazione. I ricordi non contano, ma la sua presenza resta. Ce l’ho sempre qui, attaccata alla pelle, come fosse una cosa viva. Come se lui fosse ancora vivo. E non me lo sono tatuato addosso ma lui c’è rimasto lo stesso. Lì, dove non l’ho mai messo. Dove è arrivato da solo. Nel posto che s’è guadagnato in mezzo al mio petto. In realtà, andandosene non ha lasciato un buco: perché non è mai andato via.
La coperta scivola via alla terza volta che mi rigiro sul cuscino del divano di Chaku che ormai ha preso la mia forma. Mi ci sono scavato una tana a forza di premerci contro le ossa, è diventato un po’ il mio posto qua dentro. È strano che casa di Chaku mi ricordi tanto Anis, perché casa di Anis era un palazzo maestoso e questo è un trilocale che sembra una topaia, ma a pensarci capisco subito che il collegamento è diverso: non è una questione di ricordi, sono appunto le sensazioni. Qui c’è l’odore di Anis. C’è l’odore della sua presenza, che è rimasta attaccata alle pareti. Chissà quante volte è venuto qui a passare una serata in compagnia, o per recuperare Chaku prima di andare da qualche parte o chissà che altro. E il suo odore s’è imposto su queste pareti, su questi cuscini e pure sulle particelle di ossigeno, tanto che lui ora è ovunque.
Un po’ ho paura di realizzare che potrebbe essere uscito da me. Potrei avercelo portato io respirando, muovendomi, rigirandomi sul divano.
Chino il capo ed annuso la pelle della mia spalla.
Anis è ancora lì, lo sento. È denso e scuro com’era da vivo. Se chiudo gli occhi abbastanza forte sento la pressione dei suoi polpastrelli, ed è calda e dolce, premurosa. Me lo vedo che si china su di me e borbotta “Ma perché ti sei addormentato sul divano?”, e per un attimo mi chiedo che cosa ci faccia qui, visto che teoricamente non dovrebbe – potrebbe – esserci, ma poi guardo la curva apprensiva delle sue labbra serrate e scuoto lentamente il capo. “Non lo so”, rispondo, “guardavo la tv”, ed è una bugia ma mi secca rispondergli che pensavo a lui, lo so che gli dispiacerebbe sapermi ancora triste e debole.
Lui scuote il capo rassegnato e si china, è in ginocchio proprio qui accanto, se mi sporgo solo un po’ lo sfioro con le labbra, ed ho davvero voglia di farlo ma mi sento stanco e pesante, perciò mi limito a guardarlo, così è lui che deve chinarsi. Lo fa dondolandosi appena sui talloni, un movimento oscillatorio un po’ infantile, si china e me lo sento sulle labbra. Si allontana quasi subito ed io assaggio il suo sapore, o ciò che ne resta, direttamente dalla mia bocca. D’improvviso mi rammarico di non averlo baciato più a fondo.
“Torna qui…”, mugolo pietosamente, ma Anis si rimette in piedi facendo leva sulle ginocchia e guida la mia mano a recuperare la coperta da terra.
“Mi fai spazio?”, mi chiede poi, ed io mi raggomitolo tutto diventando un pallina minuscola, così lui, che a dormire in due non ha mai imparato, può prendersi tutto lo spazio che vuole.
Crolla accanto a me ed i cuscini sbuffano, fanno puff, si gonfiano e si sgonfiano sotto di noi. Anis ride divertito ed io mi sciolgo. Mi sciolgo da me stesso e mi sciolgo su di lui, ed è una sensazione così nostalgica e liberatoria che mi viene quasi da piangere, perciò pigolo un lamento a caso mentre mi adatto nuovamente alla superficie dura del suo petto e del suo ventre.
“Che c’è, piccolo? Cos’è che ti manca?”, chiede, e mi prende in giro. Mi manchi tu, stupido, mi manchi da morire. Mi uccide non poterti seguire. Ma tu ora sei qui, quindi va bene.
Mi sollevo pressando le mani sulle sue gambe. Lui tende i muscoli per non farsi male ed io li sento gonfiarsi sotto di me e per un secondo vorrei ricadergli addosso e basta, ma so che me ne pentirei, perciò finisco di mettermi seduto e lo bacio. Cerco le sue labbra con una voracità che credevo di avere perduto, e lui mi risponde con un’ansia che non credevo possibile, sento la pressione delle sue braccia forti attorno alla vita, mi tira verso di sé ed è tutto un concentrato di calore e fermezza mentre io sono debole e mi arrendo una dieci cento mille volte ai tocchi della sua lingua e delle sue dita, mentre s’insinua sotto la maglietta leggera ed oltre l’orlo dei pantaloni ed io mi ricordo che lo faceva sempre, non sopportava di avermi così vicino e tollerare i vestiti, erano di troppo, sempre, sono di troppo anche i suoi ma per qualche motivo non riesco a trovare abbastanza lucidità mentale da toglierglieli e basta, perciò lascio che sia lui a guidarmi, come ha sempre fatto, e va bene così.
Si separa da me con una risatina divertita ed io me la sento trillare nelle orecchie. Rispondo con un sorriso perché mi fa felice vederlo felice. Tutto qua.
“Sei morbido…” mi dice contro un orecchio.
“Sei tu.”, rispondo io in un singhiozzo, e lui ride ancora. Non credo che capisca. Non credo che realizzi.
Nemmeno io credo di capire o di realizzare. È lui. Dio, è lui.
Scende a sbottonarmi i jeans ed io ridacchio.
“Non sei cambiato affatto”, lo apostrofo, baciandolo sulla punta del naso.
“E perché avrei dovuto?”, borbotta lui, aiutandomi a sollevarmi un po’ per liberarmi dai pantaloni il minimo indispensabile per mettermi le mani addosso, “Non ho mica fatto niente, di recente. Una noia mortale”. E mi viene voglia di prenderlo a pugni ed invece mi abbatto contro di lui e rido, rido, rido piano per non svegliare Chaku e per non svegliarmi neanche io, presso il naso contro la sua spalla e sento l’odore pulito e fresco del cotone – conosco questa maglietta, la B rossa sul davanti, non dovrei pensarci, la ignoro – Anis mi fa scorrere una mano lungo la schiena e l’altra davanti s’infila oltre l’orlo dei boxer e prende a giocare col mio corpo, che risponde subito. Dio, ne ho sentito così tanto la mancanza… così tanto…
Stringo le braccia attorno al suo collo e mi lascio solleticare dalla barba un po’ ispida, ansimando forte sulla sua pelle.
“Ti piace, piccolo?”, bisbiglia lui baciandomi sotto l’orecchio.
“Sì…”, sì che mi piace, vorrei di più ma mi piace, faccio per muovermi e scendere giù, cercando a tentoni la zip dei suoi jeans perché lo voglio davvero, non mi sembra possibile poterlo toccare ancora ed allora lo voglio tutto, ma non capisco perché quando tocco non tocco niente, le mani vagano a vuoto, c’è solo aria; apro gli occhi e lui è ancora qui che mi sorride e mi accarezza, ed io stringo i denti e contraggo i muscoli sperando di non venire ancora, non ancora, non ancora, ti prego, lo voglio sentire dentro, prima, ma lui bisbiglia “lascia perdere, piccolo, lascia perdere” e mi bacia ancora, ed io lo sento che è fisico e vero, non è solo aria, ma le mie mani non toccano più nulla, non c’è più nulla da toccare e non c’è più nulla da sentire, eppure le labbra sono lì, le mordo con forza mentre mi libero contro la sua mano, ed è allora che riesco a toccare qualcosa, qualcosa che è duro e consistente ed umido – umido? – e nudo – nudo? – ed apro gli occhi e lui non c’è.
Lui non c’è.
Ed io non sono seduto, sono ancora disteso.
E la coperta è ancora per terra.
E le mie mani stanno toccando me stesso.
Ho il fiatone e mi sanguina un labbro. Mordevo me stesso. Toccavo me stesso. Lui non c’era. Non c’è mai stato. Dormivo o sognavo ad occhi aperti o qualsiasi cosa fosse – lui non c’era. Non c’era. Non c’è.
Mi alzo in piedi di scatto e non so come faccio ad arrivare fino al bagno senza inciampare nei pantaloni che cascano o nella coperta aggrovigliata sul pavimento. Arrivo fino al bagno e mi abbatto contro il water, stringo forte le dita attorno al bordo della mezza vasca che lo fiancheggia e svuoto il niente che mi tengo dentro, perché stasera non ho neanche mangiato. La bile è acida e amara contro il palato, ha un sapore orrendo che mi fa venire voglia di vomitare ancora di più.
Sono amare pure le lacrime, vaffanculo a loro. Perché? Perché lo faccio? Perché mi prendo in giro? Perché non posso semplicemente mandare via o buttare giù o lasciare indietro o tirare avanti o qualunque sia la banale espressione che si usa per dire che rivoglio la mia vita, merda, la rivoglio sana, non voglio guardarmi allo specchio e ritrovarmi ogni volta disperso in un milione di pezzi…
Io non so come fare a ricompormi, non ne ho la più pallida idea… ho sempre lasciato che fosse Tomi a rimettermi insieme, e non capisco perché non ci riesce proprio stavolta che ne avrei più bisogno in assoluto…
- Bill? – la voce di Chaku è assonnata e confusa, all’inizio, ma poi lo sento muoversi dietro di me e capisco che sta cominciando a ragionare. La seconda volta che mi chiama, infatti, è più deciso. – Bill. – ripete, raggiungendomi in due passi ed accucciandosi accanto a me, - Che hai? Stai male?
Annuisco perché non ho la forza neanche di mentire.
- Cos’è? Lo stomaco? – chiede lui, lanciando un’occhiata poco convinta all’acqua torbida nel water, - Vuoi che ti prenda qualcosa? – ma tanto non c’è niente che possa farmi bene. – Bill?
Mi trascino sul pavimento verso di lui e mi schiaccio contro il suo petto. Che è caldo e si muove un po’ ansiosamente al ritmo del suo respiro.
- Bill…?
- Ho bisogno… - faccio fatica a parlare e mi nascondo contro di lui perché mi sento terribilmente in imbarazzo, - …posso stare un po’ così?
Lui annuisce appena e mi circonda con un braccio, mentre con la mano libera recupera un pezzo di carta igienica e si sporge verso la vasca, aprendo il rubinetto ed inumidendolo per poi passarmelo sulle labbra.
- Non riuscivi a dormire? – mi chiede, palesemente perché il silenzio s’è fatto insopportabilmente pesante.
Scuoto il capo. Dormivo ed il mio corpo andava fuori controllo. Vorrei non dormire mai più. Vorrei che non calasse più il sole.
- Sicuro di non volere usare il mio letto? – chiede ancora lui, imbarazzato e a disagio. – È davvero più comodo ed ho… - esita, - ho cambiato le lenzuola stamattina, se questo ti preoccupa e-
- Non sono preoccupato. – mando giù un po’ di saliva. Mi brucia la gola. – Non possiamo rimanere un po’ così e basta?
Chakuza si arrende. Smette, probabilmente, di cercare di scavarmi nella testa. Tanto sa che, se volessi dirgli qualcosa, gliela direi.
Restiamo immobili finché alla luce artificiale del bagno non si aggiunge quella del primo sole che filtra dalla finestra in alto. Non sembra meno artificiale dell’altra, ma io non sono neanche più tanto sicuro che riuscirei a distinguerle.

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Ich hab dich nicht vergessen

di tabata
Bushido è morto tre mesi fa.

La EsguterJunge è un'enorme macchina da soldi ferma perchè manca il suo ingranaggio principale.
Abbiamo fatto tre riunioni nel tentativo di decidere cosa farne di noi e dell'etichetta, e non ne abbiamo cavato un ragno dal buco. La prima volta siamo stati tutti in silenzio. Le altre due abbiamo iniziato ad azzannarci alla gola, come era ovvio che succedesse. Saad sostiene che dobbiamo trovare un altro leader e metà della crew vuole lui al comando. L'altra metà di noi è convinta che così non vada. E non troviamo un accordo.

Io credo che l'EsguterJunge debba morire con il suo re.
Che senso avrebbe trovare un altro uomo, un'altra faccia, un altro nome? Bushido era l'Esguterjunge. Senza di lui, non esiste neanche il gruppo. A dire la mia, comunque, non ne ricavo niente. Non sono ancora così in basso da prendermi le urla, ma il silenzio quello sì. Smettono tutti di parlare, mi guardano e poi abbassano la testa, fanno finta di non aver sentito. Per loro l'importante è mandare avanti la baracca, forse hanno paura che a scioglierci ora andremo tutti a vendere pesce al mercato, non so.

Bill è tornato alla sua vita, o a quel che ne resta.
Dopo il funerale è partito con suo fratello ed è stato via tre settimane, per una destinazione sconosciuta perfino al suo stesso management. Il suo manager è arrivato a telefonarmi per chiedere se ne sapessi qualcosa; io mi sono guardato bene dal dire a David Jost che le cartoline mi arrivavano dalle Maldive. I giornalisti hanno cominciato a dire che era finito lui, e che era finita la band. Per questo quando i gemelli sono tornati a casa, la Universal li ha fatti uscire con un nuovo disco, due dvd e una tabella di marcia così serrata da farmi pensare che più che promuoverli volessero ammazzarli. Sia mai che il ragazzino possa crogiolarsi nel suo dolore. Per i Tokio Hotel, Bushido non è mai esisito.
Per l'EsguterJunge non è mai esistito Bill.

A volte mi chiedo se sono l'unico a ricordarsi che questi due sono stati insieme.

In realtà Bill esiste eccome, e ci vediamo di continuo; molto più di quanto sarebbe logico vedersi. E per lui Bushido non è un ricordo, è un qualcosa di tangibile che gli è rimasto ancora addosso, come il giubbotto che indossa, o l'anello di Atze che non si toglie mai. Qualche volta ne parliamo, di Bushido intendo. Bill ha gli occhi tristi, ma sorride. Credo che non sopporti il silenzio che gli hanno imposto. Lui vuole parlare. Gli fa bene.

In televisione, hanno smesso di scavare a fondo perché la loro storia non fa più notizia, ma le cose non vanno meglio; anzi. Hanno ripreso a fare le stesse fottutissime domande, a cui però Bill non può dare la stessa risposta. Quando gli chiedono del suo grande amore, non può rispondere L'avevo trovato. Deve dire che è là fuori, da qualche parte. E quando mi capita di vederle, queste interviste, mi chiedo chi è la testa di cazzo che prepara le domande e vorrei spaccargli la faccia. Trattano ancora Bill come se avesse quindici anni e fosse divertente farlo parlare della fidanzatina. O del fidanzatino. Non è divertente per un cazzo. E Bill non è più un adolescente che guarda in camera dicendo che crede nell'amore vero.

Ci credeva, ma gliel'hanno ammazzato a sangue freddo.

Le cose sono cambiate, ma tutti fanno finta che non sia così. E' per questo che io e lui finiamo a passare le serate a giocare a monopoli sul pavimento del mio salotto, perché quando parliamo non facciamo mai finta che Bushido sia vivo. Io non fingo che lui non sia diventato adulto e lui non finge di stare bene. Questo è il tipo di sincerità che fa male, cazzo; ma è giusta così. Le cose che vanno fatte non sono sempre quelle migliori.

Ad ogni modo, stasera è una di quelle sere.
Quelle in cui Bill mi telefona per dirmi che è sotto casa mia, se gli apro per favore. Mi guardo e cerco di togliermi le briciole dalla maglietta: stavo svaccato sul divano a guardare un film mal doppiato quando ha chiamato. La casa è un macello, non aspettavo ospiti e, diciamocela tutta, anche se li avessi aspettati sarebbe stata un macello uguale. Io ci vivo solo, qui.

"Questa casa fa schifo, Chaku," esordisce lui, non appena gli apro la porta e lo lascio passare. Si tira su gli occhiali da sole, incastrandoli bene sulla testa.

"Lo so, me lo dici sempre." Richiudo la porta e lo seguo in cucina. Benedico la lavastoviglie che mi permette di non avere la pila dei piatti sporchi da rigovernare nel lavandino. Sbatto tutto là dentro, quando ho voglia. Quando cucino, in effetti. Di solito è tutto precotto.

"Perché ogni volta spero che mi ascolti, e ti prenda una cameriera," dice annuendo, con un sorriso. "Una di quelle portoricane rotonde, magari. Tomi dice che sono carine."

Lo guardo divertito. "Tomi dice che sono carine?" Chiedo. Lui si stringe nelle spalle, come a dire che non gli interessa. Le uniche volte che ci siamo trovati insieme a fare apprezzamenti su una donna, io parlavo delle tette, lui parlava delle scarpe. E lo abbiamo capito dopo due ore di discussione: per me non erano mai troppo grandi, e lui si ostinava a dirmi che se erano troppo grandi non poteva camminare. "Ti va un po' di pizza avanzata?" Offro.

"Da quanti giorni è lì?" Chiede dubbioso. Quando solleva un sopracciglio, gli si muove tutta una parte della fronte. E' il suo sguardo da diva intransigente.

"Solo due," rispondo orgoglioso, mostrando le dita.

Bill si issa sul tavolo, e quei due metri di gambe che si ritrova quasi toccano ancora terra mentre è la sopra. "Accidenti, allora sono fortunato," esclama spalancando gli occhi. Poi solleva una busta. "Ho portato il cinese, uomo del ghetto."

"Come facevi a sapere?"

Mi sorride, un sorriso a metà, tutto di traverso. Furbo. "Che ti andava il cinese o che non avevi niente in casa?"

"Ehm..."

"Le due cose sono collegate, comunque: tu non hai mai niente in casa, ergo ti serviva del cibo." Mi spiega, infilando la testa nel sacchetto. "E so che ti piace il cinese... ti va l'involtino primavera o l'insalata di polpo? Mi lasci l'insalata che sono a dieta?"

Recupero la confezione di cartone che mi sta passando.
"Suppongo che mi vada l'involtino," rispondo.

Si sistema meglio, sempre seduto sul tavolo. Gli piace stare là sopra, o sullo schienale del divano. Non l'ho mai visto seduto per bene. Io afferro una sedia e lui mi passa le bacchette che ha tirato fuori dalla busta. "Com'è che sei a dieta?"

"Ho messo su qualche chilo," risponde, mettendosi in bocca un pezzo di polpo.

"Dove?" M'informo. Da qualunque parte lo guardi, è bidimensionale. Come quelle scarpiere che stanno anche dietro la porta del bagno. "Se dimagrisci un altro po', finisce che scompari!"

Lui sorride, e abbassa lo sguardo sulla sua insalata. Rimaniamo in silenzio per un po', finchè non sento cambiare qualcosa nell'aria. Succede tra il mio pollo al curry e il suo riso alla cantonese. E' una cosa che mi capita spesso con Bill, quando sta per dire qualcosa su cui ha pensato molto. Si prepara, si tende tutto. Lo vedo giocare con le bacchette nella scatolina. "Chaku?"

"Hmm?"

"MTV sta preparando una trasmissione su Anis," mormora. "Uno di quegli speciali, sai, per la morte dei cantanti con le interviste e... le testimonianze."

Non dico niente.

"Credo che faranno qualche stupido gioco d parole con King of Kingz nel titolo, roba così," gioca ancora con le bacchette, sembra pensieroso e non alza lo sguardo finché non aggiunge: "Mi hanno invitato."

Rimango lì con la mia scatola di cartone in mano. Non me la sento di evitare il suo sguardo, perché lo capisco che ha alzato la testa per vedere la mia reazione. "Che cos'hai deciso di fare?"

"Non ho deciso niente," si stringe nelle spalle. "Ho detto che ci pensavo."

Annuisco e ficco le bacchette nel pollo più forte di quanto volessi. Mi alzo e appoggio tutto sul tavolo, sento lo sguardo di Bill seguirmi mentre recupero la birra dal frigo. "Vuoi andarci?" Gli chiedo.

"Non lo so," risponde. Si guarda le mani, le unghie sono dipinte di nero stavolta. "Tu pensi che dovrei?"

"Non devo decidere io, Bill."

Si gira, sul tavolo, e appoggia una mano di fianco a sé. "Voglio solo sapere che cosa ne pensi."

Io penso che non abbiamo bisogno di una trasmissione ultra-sponsorizzata che infastidisca tutte le persone che ancora si ricordano bene di Bushido e svenda le sue immagini con musiche da commiato e interventi in diretta di vicini in lacrime. E penso che lo faranno a pezzi in quello studio.

Ma non posso dirgli quello che penso, perchè so cosa pensa lui.
Quella trasmissione è un modo per parlare di Bushido, del suo Bushido, e magari dire la sua su quello che è successo tra di loro. Forse lo sa anche lui che non è una grande idea, ma ha una gran voglia di andarci lo stesso e glielo leggo sul muso. Sul broncio della labbra. Non vuole dirmi che vuole andarci, però, se io penso che sia una stronzata.

Solo che io non lo so se sia davvero una stronzata. Non so un cazzo di niente. Proprio come lui. In questi momenti, quando crede che io conosca tutte le risposte, vorrei dirgli che è davanti alla persona sbagliata. Io non sono Bushido. E poi mi sento uno stronzo perchè magari lui non pretende niente da me, magari vuole solo parlare dal momento che a casa sua non può farlo. Gli dico solo la metà passabile dei miei pensieri. "Penso che ci saranno un sacco di stronzi in quello studio."

"Beh, ci saresti anche tu," mi guarda fisso.

Gli passo la birra che ho in mano, solo per potermi infilare di nuovo nel frigo a prenderne un'altra. "Fino a prova contraria, non mi hanno invitato."

"Lo faranno. Chiameranno tutta l'Ersguterjunge, è questione di ore," mi dice lui. Poi abbassa la voce. Lo fa sempre quando deve dire qualcosa che sa provocherà un cataclisma. "Chiameranno anche l'Aggro Berlin. E Fler."

"Cosa?" Mi tirò su di scatto e batto la testa contro lo spigolo di un mobile. "Cazzo!"

"Chaku!" Bill salta giù dal tavolo e mi raggiunge. La scena è un po' surreale perché me lo ritrovo piegato addosso ed è almeno dieci centimetri più alto di me. Non dovrebbe esserlo. E non so nemmeno perché non dovrebbe esserlo. La testa mi fa un male cane.

"Non è niente."

"Togliti il cappello."

"Non è niente!" Insisto e cerco di allontanarmi, ma dimentico sempre che non è una ragazza e ha la mia stessa forza, se non di più. Mi afferra per una spalla e mi toglie il cappello nonostante le mie proteste.

"Ti esce il sangue," commenta. Lo vedo che afferra i tovaglioli di carta e li bagna, me li preme sulla testa con l'aria di chi sa cosa sta facendo.

"Cazzo!" Sibilò di nuovo.

"Stai fermo," dice, mentre scruta la ferita e la pulisce piano. "Non è niente, comunque. E' solo un taglietto."

Incrocio il suo sguardo e lo sento smettere di premermi il tovagliolo sulla testa. Apre le labbra per dire qualcosa, ma poi se le inumidisce e basta. Mi passa il tovagliolo. "Tieni," dice, "Tienilo premuto ancora per un po', così smette."

Annuisco, perchè mi sembra la cosa più sensata da fare mentre lui fa tre passi indietro. "Ti capita spesso di curare musicisti feriti?"

"Mi capitava," risponde e incrocia le braccia al petto, tanto per darsi qualcosa da fare. Io mi sento un cretino.

"Scusa, pessima battuta."

"Non importa."

Ci sono momenti in cui prendo in seria considerazione l'idea di suicidarmi, anche se va contro tutto quello in cui credo. Farmi ammazzare con una coltellata per strada, forse, ma togliermi volontariamente la vita, quello mai. Mia madre ha sempre sostenuto che fare il lavoro che faccio, con il rischio altissimo che qualcuno mi spari, è un po' come suicidarsi, e forse ha ragione. Ad ogni modo non è questo il punto. Sto per aprire bocca e tentare di rimediare alla gloriosa figura di merda che ho fatto quando Bill parla prima di me.

"Chaku," mi dice. "Io credo di volerci andare."

E il Chaku ti accompagna, Principessa. Perché col cazzo che ti faccio entrare in quello studio da solo. Annuisco e poi getto il tovagliolo sporco di sangue nel cestino. "Va bene, ci andiamo."

Bill solleva lo sguardo e si illumina tutto. E' una roba un po' difficile da spiegare: spalanca gli occhi e vedi che brilla, come se avessero acceso le luci da dentro. Le prime volte ci rimanevo un po' come un ebete a fissarlo.

"Ci vieni davvero?"

"Vuoi andarci da solo?"

"No," esclama lui. "No. Io voglio che vieni anche tu. Vieni?"

Rido, perchè si è agitato e quando si agita si muove troppo.
E' troppo magro, quindi è come vedere un attaccapanni che ondeggia, un qualcosa di simile. Non credo che gli piacerebbe sapere che ho avuto quest'immagine mentale di lui. "Ti ho detto di sì!" Rido e poi lo spintono verso il salotto. "Ti va un film?"

Bill si stringe nelle spalle e annuisce.

Quando Bill viene qui, faccio in modo che sul tappeto del mio salotto non ci siano i panni sporchi di una settimana. Capita, a volte. Non che io mi impegni a rimettere a posto, ma devo dargli un posto in cui sedersi o rimarrà in piedi: l'ho visto. Le prime volte dimenticavo che Bill non ha niente a che spartire con Eko e Kay One, i quali sono in grado di mangiare cose dal mio frigorifero che non ho idea di quando vi sono entrate. Tanto per darvi un'idea.

Scelgo un flm qualsiasi. Uno che abbia un po' di sparatorie, ma che contenga un minimo di trama: qualcosa che Bill possa guardare e struggersi un po'. Credo abbia voglia di struggersi. Non ho mai capito perché, quando è depresso, abbia voglia di deprimersi ancora di più, è qualcosa che sfugge alla mia logica. Qualcosa che è tipicamente femminile, per altro, perchè anche la mia ex passava le ore a guardarsi film strappalacrime quando gli ormoni del mestruo la gettavano nel suo mensile baratro di disperazione.

Ora, dal momento che Bill non ha le mestruazioni - e ancora mi rivedo Eko che insiste col dirmi che secondo lui in realtà è una donna - ne devo dedurre che la sua ricerca di depressione inizia quando qualcosa gli va storto. Il che è anche peggio, perchè tu puoi avere le palle girate ben più di una volta al mese.

"Chaku?"

Mi giro, rendendomi conto che mi sono perso nei miei pensieri di nuovo. Capita spesso, di recente. "Sì?" Mi volto verso di lui e lo vedo che si trascina sul divano, accoccolandosi con la testa sul bracciolo opposto al mio.

"Ti dispiace se dormo qui? Non ho voglia di tornare a casa."

Lo avevo dato per scontato. "Certo. Puoi usare la mia camera, se vuoi."

Lui scuote la testa. "No, il divano va bene. Mi piace il tuo divano."

Bill non ha mai voluto dormire nella mia stanza.
Inizialmente pensavo che fosse una forma di cortesia: già si auto-invitava a casa, non voleva disturbare oltre. Poi sono arrivato alla conclusione che il divano gli piaccia davvero e non ho idea di come questo sia possibile. E del perchè mai una persona della sua misura possa trovare piacevole dormire appallottolato in metà dello spazio che gli servirebbe. Bill è una creatura aliena che è entrata nella mia vita un po' troppo in fretta perché l'abbia ancora studiata per bene. "Sei sicuro?" Chiedo. Lo faccio sempre. "Non starai scomodo?"

Lui ha gli occhi semichiusi e tanto sonno, ma sorride guardandomi di traverso. "Sto bene, voglio dormire qua sopra, però."

"Ai tuoi ordini, Principessa." Rido.

Mi tira un cuscino. "Piantala di chiamarmi così, stronzo."

"E come dovrei chiamarti?"

Lui tira su un sopracciglio, che con lo sguardo che ha - quello assonato - è tutto un programma. Non so come spiegarlo, ma smette di essere femminile. Quel sopracciglio, quello sguardo. E' strano. "Con il mio nome magari. Che ne dici, Peter?"

"Tu non dovresti sapere quel nome," faccio una smorfia. Devo averglielo detto chissà quando, in un momento in cui eravamo tutti quanti molto ubriachi, temo.

Bill si stringe nelle spalle. "Lo avrei comunque trovato su Wikipedia."

"Mi hai cercato su Wikipedia?"

Lui annuisce. Recupera la sua birra e tira giù un sorso. "Te e tutti gli altri, ovviamente. Dovevo sapere con chi avrei avuto a che fare quando Anis mi portò a conoscervi."

Annuisco, sgranando gli occhi come se fossi meravigliato. "E certo Wikipedia poteva aiutarti in quel senso," esclamo sarcastico. "Avresti potuto chiedere direttamente a lui."

"L'ho fatto, ma non era obbiettivo," commenta. "Eravate tutti dei bravi ragazzi, per lui."

"E non lo siamo?" Sollevo le sopracciglia un paio di volte.

"Tu lo sei."

Non riesco a dire niente, a questo punto. E lui comunque non si aspetta una risposta, torna a guardare il film.
Mi viene in mente una serata precisa, quella prima della morte di Bushido. Ci siamo io, lui e due birre come stasera. Solo che Bushido mi sta seduto di fronte e non stiamo guardando uno stupido film. Ricordo i suoi occhi e la serietà che c'era dentro, mi veniva quasi da ridere, ero nervoso: le cose non erano mai state davvero così serie da aver bisogno di quella faccia lì. E poi Bushido mi guarda e mi dice che potrebbe morire, che Fler potrebbe ucciderlo intendo, e che io devo prendermi cura di Bill.
Ho sentito il cuore finirmi in gola e non ho mai capito se fosse per lui che moriva o per Bill che rimaneva da solo. E io gli dico di sì, ovviamente, perché sono suo amico e perché Bill mi piace e non voglio che finiscano per mangiarselo vivo solo perché non sa come funzionano queste cose. Non lo sa che nessuno osa dirgli niente solo perchè c'è Bushido a proteggerlo. O forse lo sa, ma non ha idea di che cosa vorrebbe dire non vivere più nell'ombra di uno come lui.
Certo a me non daranno retta al punto di lasciarlo in pace, ma io so difendermi dal branco. Bill no.

E quindi, d'accordo Atze, fidati di me.

Ho sperato che non ce ne fosse mai bisogno, che Bushido tornasse a riprenderselo dopo aver fatto il culo a Fler.
E invece la Principessa è sul mio divano, e non sa che farsene di se stesso ora che non verrà nessuno a portarlo via.
Siamo in due però. Nemmeno io so cosa cazzo fare. Con lui, con me. Stiamo aspettando, e non sappiamo che cosa.

Due ore dopo, Bill ha finito la sua birra e questo è bastato a stenderlo definitivamente.
Si è appallottolato tutto su un angolo del divano, con le mani sotto la guancia e io ho dovuto andare a cercare una coperta, nel casino del mio supidissimo armadio, per coprirlo. Sennò domattina si sveglierà con il raffreddore, il mal di gola e chissà cos'altro e non voglio che centinaia di ragazzine nel mondo rimangano deluse se lui non può più cantare.

Certo, centinaia di ragazzine nel mondo...

Quando bussano alla porta, sono a metà strada tra la mia stanza e il divano, con in mano un piumino azzurro a nuvolette bianche che non so come sia finito nel mio armadio. Non è mio. O meglio, non è più mio da quando avevo dodici anni: suppongo che mia madre sia passata da queste parti mentre non c'ero.

Copro Bill e poi raggiungo la porta, dove continuano a bussare neanche stesse andando a fuoco il corridoio. "Arrivo!" Sibilo, che poi è inutile perchè se parlo piano dall'altra parte nessuno può sentirmi. Quando apro, comunque, sono pronto a trovarci chiunque, ma non lui.

Non lui, e la sua faccia di merda che mi fissa.
M'incazzo così tanto e così istantaneamente che non mi rendo nemmeno conto che non è in sé; lo afferro per la maglietta e lo sbatto di violenza contro il muro dall'altra parte del corridoio. "Cosa cazzo ci fai tu, qui?" Gli ringhio in faccia.

Fler si lascia schiantare contro il muro e alza le mani. "Devo parlarti," alita e il fiato gli puzza così tanto che potrei indovinare cosa cazzo ha bevuto. Lo tiro via dalla parete e ce lo sbatto contro di nuovo, solo per il gusto di vedere la sua testa che ondeggia e colpisce le mattonelle. Si lamenta.

"Non hai un cazzo da dirmi, stronzo!"

Lo lascio andare e cade per terra, dove lo prendo a calci un paio di volte. Dio, sono così fottutamente incazzato che potrei spaccargli la testa qui, nel corridoio del mio palazzo. Lo vedo piegarsi a riccio mentre lo prendo a pedate nello stomaco e l'unica cosa che mi viene in mente è: ha ucciso Bushido. Ha sparato due colpi. Bushido è morto. Bushido è morto per colpa sua.

Voglio ammazzarlo.

Il pensiero che Bushido sarebbe qui se lo stronzo ai miei piedi non avesse premuto il grilletto è l'unica cosa che riesco a razionalizzare. E mi viene voglia di pestarlo. E lo faccio, porca puttana. Mi chino in terra sulle ginocchia e gliele tiro dirette in faccia. Un pugno dopo l'altro. "Con che coraggio ti presenti qui?" Gli grido, e colpisco. "L'hai fatto fuori bastardo!" Grido e colpisco. E non mi importa se si sveglierà il palazzo. Se si sveglierà Bill.

Voglio il sangue.

E lo voglio perché mi ha presentato la sua faccia qui, come se niente fosse. Come se non fosse tutto un fottuto casino dopo la morte di Bushido. Vaffanculo. Vaffanculo. Vaffanculo.

E poi lo dice. "Non sono stato io, Chakuza!"
La prima volta lo colpisco lo stesso, perché le sento a stento le sue parole. Si copre il viso, ma gli esce sangue dal naso e dalla bocca.

"Stai zitto!"

"Cristo Santo!" Impreca. "Fermati! Io non c'entro un cazzo!"
Grida e Grida. Lui non colpisce. Lui se ne sta lì a farsi picchiare e dice che non è stato lui. E mi fermo.

Lascio che si alzi a sedere e vedo che si pulisce la bocca. Sputa nel corridoio. "Cazzo!" Si guarda le mani che sono sporche di sangue e poi si passa l'avambraccio sulla bocca. "Mi hai quasi spaccato la faccia."

"Che cosa cazzo vuoi?"

"Te l'ho detto: parlare," risponde lui, sarcastico. "Pensavo si usasse dalle vostre parti." Si tampona il naso.

"Ti dò un minuto per spiegarti, poi ti butto fuori di qui a calci nel culo."

"Peter-"

"Chakuza."

"Chakuza, ascoltami-"

"Cinquanta secondi..." scandisco.

Fler sospira. "Non sono stato io," ripete. "Quella notte ero sotto casa sua ma non ho sparato. Qualcuno lo ha chiamato e sono partiti i colpi. Io non ho fatto niente."

"Perché dovrei crederti?"

"Perchè cazzo sarei qui?" Ringhia lui. "Pensi che sarei così coglione da venire a bussarti a casa se fossi stato io?"

Ci penso, e ha ragione. Quale motivo avrebbe avuto di uscire allo scoperto per venire da me?
Seriamente, Fler non è mai stato una cima ma non è mai stato davvero così stupido. Sa che noi, noi dell'Esguterjunge, lo vogliamo tutti morto.
Quindi ghigno. "Non si sa mai con voi dell'Aggro Berlin," replico. E poi gli tendo una mano. "Alzati."

Lui si aggrappa e si tira su a fatica. Barcolla, un po' perché è ancora ubriaco e un po' perchè gliele ho tirate veramente. "Guarda che anche il tuo Re era uno dei nostri, te lo ricordi?" Biacica.

"Stai zitto, prima che te le tiri di nuovo. Hai ancora venti secondi." Lo trascino in casa e lui si accascia su una sedia. Lo lascio a guardarsi intorno e vado a prendergli uno straccio perchè eviti di grondarmi sangue sul pavimento. Glielo tiro praticamente in faccia quando ritorno.

"Mi metti in conto anche questi, di secondi?"

"Dieci," rispondo, incrociando le braccia al petto. "Ti conviene sbrigarti."

"Okay, okay," mette le mani avanti. "Ascolta, sono qui solo perchè dovevo dirlo a qualcuno, va bene?"

"Perchè a me?"

"Perchè sembri il meno stupido," mi fulmina lui. "Ora me li lasci usare questi fottuti dieci secondo o no?"

"Sette."

"Io e Bushido ci siamo presi a coltellate, poi lui me le ha tirate e se n'è andato lasciandomi in terra come uno stronzo. Immaginavo che sarebbe corso dal suo ragazzino, quindi sono andato lì anche io. L'ho visto attraverso la finestra. Volevo soltanto... cazzo, non lo so... ma ad un certo punto qualcuno ha fischiato. Il nostro fischio, intendo, roba mia e sua di quando eravamo due ragazzini e lui si è affacciato per quello. Cristo. E poi gli hanno sparato. Due colpi."

"Chi?"

"Non lo so."

E i suoi sessanta secondi sono finiti, ma non posso mandarlo via.
In questo preciso momento non so cosa pensare. Non lo so perchè ho davanti quello che credevo l'omicida di uno dei miei migliori amici, e invece non lo è. O dice di non esserlo. Ma io non trovo un solo motivo per cui dovrebbe mentire.

La polizia già lo crede innocente. Io potevo solo ammazzarlo a sprangate, quindi a venire qui, a sparare cazzate, non ci guadagnava niente. Fler sta dicendo la verità. E questo forse mi preoccupa più di tutto il resto; uno, perchè mi sono accorto che tra Fler e Bushido non c'è un cazzo di differenza. Hanno lo stesso sguardo incazzato, gli stessi occhi scuri che ti guardano e non capisci mai cosa cazzo c'è dentro il più delle volte. Però ci sono volte che ci leggi dentro tutto, perchè lo fanno apposta. Ci parlano con gli occhi questi due.

E due, due perchè se non è stato Fler - che aveva un motivo, che lo conoscevamo, che ce l'ho davanti e potrei pure strangolarlo - allora significa che è stato qualcun altro. E potrebbe essere chiunque.
Anche uno che non aveva un cazzo di motivo valido e quindi potrebbe pure venire ad ammazzare me, o Saad.

O Bill, cazzo.

"E comunque dovevo togliermi il peso prima di quella fottuta trasmissione," dice Fler.

"Quale trasmissione?"

"Quella di TRL. Hanno chiamato anche noi dell'Aggro Berlin," risponde e stringe la mano a pugno. "Sono dei bastardi, è chiaro che vogliono vedere come ci ammazziamo in televisione."

A quel punto mi chiedo perché Bill lo sapesse, e lo sapesse anche Fler mentre io ero a casa mia e non sapevo un cazzo. Devo parlare con Saad. In quel momento, però, sulla soglia compare Bill e la sequenza di eventi che ne segue è surreale.

Fler si gira verso di me e mi chiede "Cosa ci fa il ragazzino a casa tua?" E ha uno sguardo e un ghigno che non voglio interpretare per quelli che sono perché sennò ricomincio a pestarlo. Solo che non farei in tempo.

"Tu!" Bill percorre lo spazio che lo separa da noi ad una velocità impressionante e gli si fa addosso come una furia.

Fler fa in tempo a dire, "Kaulitz, lascia che-" poi si prende un'altra scarica di botte e scopre che Bill sembra fragile, ma ha delle mani enormi. Ed è tutt'ossa. Quindi fa male. Malissimo.

"L'hai ammazzato!" Grida Bill. "Sei un maledetto bastardo."
Fler si copre di nuovo la testa, gli cade lo straccio di mano. E quando Bill lo butta giù dalla sedia e gli si avventa addoso io comincio seriamente a temere per la sua vita.

"Bill, fermo!" Provo, ma non mi ascolta. E giustamente.
Ha per le mani l'assassino del suo ragazzo, se non lo fa a brandelli ora è un miracolo.

"Cristo, Chakuza! Toglimelo di dosso!"

"Bill! Bill, adesso calmati!" Lo afferro da dietro e me lo stringo addosso. Cerco di strapparlo da Fler che è ancora in terra e lo tiro via mentre scalcia e urla e tenta di liberarsi.

"Mi è morto tra le braccia, cazzo!" Ringhia verso Fler. Lo stringo più forte, e lo sento tremare. "Lo sapevi questo, figlio di puttana? Te lo hanno detto che gli ho pianto addosso finchè non se n'è andato? Ti sei divertito all'idea?" In quel momento si calma, perde come tutte le forze. "Bastardo!" Mormora. Sto per lasciarlo andare ma fa uno scatto in avanti e così lo riprendo al volo. Non pesa niente, niente. Ma è un fottuto fascio di nervi. "Vaffanculo!" Ringhia. "Chaku lasciami!"

"No!" Grido quanto lui. "Lui non c'entra niente!"

"Cosa?"

"Adesso ti lascio andare e tu ti siedi," gli dico. "E ti spiego tutto. Va bene?"
Bill non reagisce, così stringo la presa. "Va bene?" Chiedo di nuovo.

Lui fa un cenno secco con la testa e io, lentamente, lo lascio andare.
Rimane in piedi e guarda Fler come se volesse incenerirlo. Lo prendo come un miglioramento, quindi dico a Fler di ripetere tutto da capo. Lui lo fa e Bill non gli crede proprio per un cazzo, ovvio.

"Non è vero," dice.

"Io non ho sparato," ripete Fler. E Bill mi guarda e io annuisco, per rassicurarlo.

"Se non sei stato tu, chi diavolo è stato?" Chiede. "Soltanto tu avevi un buon motivo per ucciderlo."

"Io e altre centinaia di persone. Forse non te lo ricordi, ma la buonanima non era uno stinco di santo," risponde Fler. "Era un bastardo, come me."

Per qualche istante rimaniamo tutti quanti in silenzio, il che è un bene, Credo che Bill abbia bisogno di tempo per metabolizzare la novità e per superare lo scatto omcida nei confronti di Fler. A me, per dire, prudono ancora le mani e non tanto per la morte di Bushido, quanto per tutto il resto. Fler ne avrebbe di cose per farsi pestare.

Poi Fler abbassa la testa, e sospira. "Mi dispiace, ragazzino. Lo so come ti senti."

Bill gli dà un ceffone talmente forte che sento lo schiocco. D'istinto incasso la testa nelle spalle perché sberle del genere a me le dava solo mia madre. Perfino Fler ha due occhi che sembra un gufo. Sibila un, "Cazzo," tenendosi la guancia.

"Tu non lo sai come mi sento," mormora alla fine Bill. La testa bassa anche lui. "Ma Grazie."

La mattina successiva, riporto Bill a casa e lo scarico praticamente tra le braccia tese di suo fratello che non è per niente contento di vederlo passare la notte da me. Non che dica niente, sia chiaro, ma so che se sta zitto lo fa solo perché Bill di me - o della mia casa - sembra avere bisogno. Fosse per lui me ne avrebbe già dette chissà quante.

La mia seconda tappa è Saad: se Fler non è l'omicida di Bushido, allora lo deve sapere. E poi dobbiamo pensare a come muoverci perché qui la cosa è piuttosto seria.
Gli suono direttamente a casa e attraverso il citofono mi arriva la voce di sua figlia.

"Chi è?"

"Sono Chakuza. Papà è in casa?"

Sento un trambusto, quindi la bimba che strepita un "Papà c'è CaZUka!" e subito dopo la risata di Saad e lo scatto del cancello che si apre. La casa di Saad non è come la mia: è pulita. D'altronde lui non deve farsi il bucato, non deve cucinare e non deve pulire per terra.

E non deve farlo nemmeno sua moglie: hanno una cameriera.

"Hey Atze, cosa ci fai qui?" Mi accoglie.

"Devo parlarti." Lui evidentemente capisce che non sono venuto lì a cazzeggiare così mi indica il suo studio con un cenno della testa. La bimba attraversa la stanza con la palla in mano e lui la sgrida leggermente, dicendole che finirà per rompere qualcosa.

"Che cosa c'è?" Mi chiede, chiudendosi la porta dello studio alle spalle.

"Fler è venuto da me, ieri."

Si ferma per un istante con la mano ancora sulla maniglia della porta, poi raggiunge la poltrona girevole della sua scrivania e ci si lascia andare sopra. "Spero che tu lo abbia ammazzato di botte," risponde gelido.

"Per un po' l'ho fatto."

"Che bastardo. Con che faccia-"

"Dice che non è stato lui," butto lì, sedendomi.

Saad ride e scuote la testa. "Lo ha sempre fatto. Non è stato lui, la sua pistola non ha sparato," dice. Poi il suo sguardo si fa serio e batte un indice sul piano del tavolo. "Però Anis è morto. La sua tomba è al cimitero, coperta di fiori. Sua madre ci piange ancora tutti i giorni sopra."

"Lo so. Lui però dice che era lì e che i colpi che ha sentito li ha fatti partire qualcun altro," insistito. "Qualcuno che sapeva come richiamare Bushido alla finestra."

"E tu credi ad un traditore?"

"Credo ad uno che ha rischiato di farsi ammazzare di botte pur di dirmi questo," rispondo, guardandolo dritto negli occhi. Io e Saad abbiamo sempre avuto un qualche problema di fondo ma è sempre andato tutto bene finché io non ho cominciato a pensarla diversamente da lui.

Rimane in silenzio per un tempo lunghissimo e guarda il vuoto di fronte a sé. Saad lo fa spesso, ci mette ore a rispondere e a formulare pensieri perchè ogni parola è studiata al dettaglio. Saad è l'esatto contrario di Eko, che vomita parole ancora prima di averle pensate. "Anche ammettendo che non sia stato lui, cosa a cui non credo. Questo non cambia le cose." Mi dice alla fine.

"C'è qualcuno là fuori che ha seccato Anis per un motivo," rispondo. "Potrebbe essere chiunque e potrebbe non aver finito."

Voglio sperare che stia solo meditando e che progetti di rispondermi, così attendo; ma non lo fa. Rimane immobile a fissare qualcosa che non vedo appena oltre la mia spalla.

Saad è alto e ha la pelle chiara. Non ha niente del libanese. Chiunque lo incontri per la prima volta non dubita per un solo istante che sia tedesco: la mascella quadrata, i capelli biondi e gli occhi verde scuro. Pura razza ariana, insomma. In realtà è solo una versione di Bushido messa in candeggina: una minoranza etnica che si è messa a gridare la merda di questa nazione quando ad un certo punto non ce l'ha fatta più. Credo che sia questo che li ha resi entrambi così incazzati e così uniti nella loro incazzatura: nel caso di Bushido, è stato un padre che se n'è andato lasciandolo mezzo tunisino in un mondo di tedeschi. Nel caso di Saad è stata una guerra civile che lo ha vomitato in Germania, dove ne ha trovata un'altra.

Bushido, però, di quella rabbia ne aveva fatto un lavoro. E una volta diventato il King of Kingz, quella rabbia l'aveva relegata tutta nei suoi cd. Saad no. Saad ha sempre continuato ad odiare, è sempre rimasto incazzato lui. E lo è anche adesso. Lo è quando non mi sta neanche a sentire se gli dico che Fler è venuto a farsi prendere a sberle pur di ammettere la propria innocenza. Per Saad sembra non esserci un'altra realtà, se in quella che conosceva ha riposto tutto il suo odio.

Sospiro. Cambio discorso. "Perchè non sapevo niente della trasmissione di TRL?" chiedo.

Lui alza lo sguardo su di me e mi osserva per qualche istante prima di tornare al presente, credo. Non so, non è facile seguire i suoi pensieri perché non gli passano dagli occhi. "Contavo di dirtelo oggi," mi dice. "Ti avrei chiamato in mattinata, ma mi hai battuto sul tempo."

Avrebbe potuto chiamarmi ieri, mi dico.
"Ci sarà anche Bill," lo informo. Lui non mi risponde una parola, ha solo un'aria vagamente irritata. "Forse sarebbe il caso che ci organizzassimo per proteggerlo."

"Proteggerlo non è affar nostro," replica lui. "In generale, lui non è affare nostro."

"Era il ragazzo di-"

"Non era niente," mi interrompe lui. "Anis ha sempre fatto così: si ostinava nelle cose quando gli dicevi di non farle. Si è impuntato perchè eravamo contrari."

Tu eri contrario, vorrei dirgli. Invece gli dico: "Bushido voleva bene a Bill."

"Se lo scopava," mi corregge lui, con tanto disgusto nella voce che mi aspetto che vomiti da un momento all'altro. "Non so quale contatto gli fosse saltato nel cervello, ma di certo non era amore."

"Si è fatto sparare, per Bill,"

"Si è fatto sparare perchè era un coglione," replica lui. "Trattare quel finocchio come la sua ragazza. Cosa pensava che lo avrebbero applaudito?"

Mi sorprende che Saad sia così esplicito.
Sono mesi, anzi ormai è più di un anno, che la pensa così ma non si è mai azzardato a dire niente quando Bushido era ancora in vita. Non ha detto niente nemmeno quando ci siamo trovati tutti all' Esguterjunge a discutere se eleggere o meno un nuovo leader. Se l'è tenute tutte dentro le sue cose; ora, però, al sicuro tra le quattro mura del suo ufficio le spara fuori una dietro l'altra.

"Quindi chiunque gli ha sparato ha fatto bene?"

"Non ho detto questo," si riappoggia alla poltrona di pelle. "E' stata una cargona, ma una carogna che si è aggrappata a qualcosa che lui stesso gli aveva fornito. Non puoi vivere in questo ambiente e pensare di cambiare le regole nel modo in cui pensava lui. Non lo fai e basta. Credi forse che gli sia andato contro, giorno dopo giorno, per il gusto di farlo? Io non mi divertivo a scornarmi con lui, tentavo solo di farlo ragionare."

Non dico niente. Che cazzo dovrei dire?

"Ho solo tentato di salvarlo," conclude poi, battendo una mano sul piano del tavolo. "Solo questo. Ma credi che mi abbia dato ascolto? Lo sai anche tu com'era!"

Sì lo so, com'era: innamorato.
E' una parola che non ho mai usato così spesso come in questi ultimi mesi. Con Bill intorno, però, è impossibile non usarla perchè il suo mondo è fatto esclusivamente d'amore. Se anche lui e Bushido facevano sesso, lui non te lo dirà mai. Ti dirà che facevano l'amore. Ti dirà che Anis lo amava e che lui amava Anis. Quando parli con Bill non c'è spazio per tutto lo schifo che Saad ci vedeva e ci vede dentro. E se provi a guardare quello che è successo con gli occhi di Bill, ti accorgi che ha ragione lui.

Bushido non ha mai cercato di dire che stare con un maschio effemminato era la nuova via da seguire per i rapper. Ha solo detto che lui aveva scelto Bill, cos'altro poteva fare? Cos'altro poteva fare Bill se a lui Anis piaceva?

"Non siamo riusciti a proteggere Bushido, forse dovremo provarci con Bill," dico ancora. "Presentandosi a quella trasmissione rischia più di quanto abbia fatto nell'ultimo anno."

"Che non si presenti, allora."

"Ne ha il diritto."

"E allora ne paghi le conseguenze."

"Saad, lui non ha idea di cosa significhi," esplodo. "Non immagina nemmeno che potrebbe essere pericoloso."

Saad si alza in piedi e sbuffa. E quando fa così, con quegli occhi cattivi che si ritrova, sembra uno di quei capomafia italiani nei film. "Lo scoprirà, allora. Tu cosa ne dici?"

"E' un ragazzino."

"Viziato e cresciuto nella bambagia," mi fa notare. "Ha solo 4 anni meno di me e l'unica cosa che è in grado di fare è mettersi lo smalto sulle unghie. Non è affar mio se vuole cacciarsi in qualcosa di più grande di lui. Il fatto che Bushido sia morto sul suo letto avrebbe dovuto dargli la misura delle cose."

"Non puoi davvero-"

"Posso, perchè non me ne frega niente, Chakuza." Ed è così netto, freddo e deciso che non so più chi diavolo mi ritrovo davanti. Penso che no, proprio non ce lo voglio all'Esguterjunge. "E poi ha le sue guardie del corpo."

"Addestrate per tenere a bada branchi di ragazzine semi-nude..."

"Che lui comuque non guarderà," sorride sarcastico. "Ascolta, te l'ho già detto, Bill Kaulitz non è un problema nostro e, se mai lo è stato, ha smesso di esserlo quando mio cugino ha lasciato questo mondo. Ora, se vuoi scusarmi, devo andare a trovare Luise Maria. Qualcuno fra di noi deve pur farlo."

Saad si alza e mi accompagna alla porta senza lasciarmi nemmeno il tempo di provare di nuovo a convincerlo. Rimango seduto in macchina di fronte a casa sua finché non lo vedo uscire, diretto alla casa della madre di Bushido. Non so cosa cazzo fare, sinceramente. Bill vuole andare a quella trasmissione e, con in giro un bastardo assassino di cui non sappiamo niente, la cosa equivale ad un suicidio. Io però sono da solo. Così non mi resta altro che fare qualcosa che mi sarei volentieri evitato.

Quattro ore dopo, io e Fler siamo seduti in un caffé a metà strada tra la sede dell'Esguterjunge e quella dell'Aggro Berlin. C'è un sacco di gente e un sacco di traffico.
"D'accordo, ripetemi perché sono qui?" Fler si guarda intorno come una volpe inseguita da una muta di cani da caccia. Ha un occhio completamente chiuso e l'altro violaceo. Il labbro è tagliato e così anche la fronte. Uno dei due polsi è fasciato e ricordo distintamente di averlo colpito io.

"Chiamiamola una zona franca," rispondo.

Lui solleva l'unico sopracciglio sano e mi guarda come se fossi un pazzo.

"Tu non hai ucciso Bushido," dico.

"Cristo, no," sbotta lui. "Non ti sono bastate quelle che mi hai tirato ieri. Vuoi ripetere lo spettacolo di fronte ad un pubblico pagante? Non gli ho sparato, non ho premuto il grilletto ma non ho idea di chi sia stato. Ora, da quale parte mi salterà addosso quella strega indemoniata?"

"Chi?"

"Kaulitz."

Rido. "Non c'è, stai tranquillo e comunque no, sono qui per un'altra cosa. Alla trasmissione di TRL ci sarà anche a lui e io credo che abbia bisogno di protezione."

"Noi non gli faremo niente. Sido è contro la violenza - povero pazzo - e io sono un po' stanco della faccenda," commenta.

"Mi riferivo a chi ha ucciso Bushido."

"Quello è un problema vostro. Kaulitz è uno di voi, voi lo proteggete."

Mi piacerebbe che fosse così. Se Bill avesse fatto parte della crew, Saad avrebbe avuto poco da protestare ma Bill ne è sempre rimasto fuori. Era un'altra cosa. "Saad non ci sta e gli altri lo seguono a ruota. Sono col culo a terra."

"E questo dovrebbe interessarmi perchè?"

"Perchè se ti interessa dimostrare la tua innocenza, allora questa potrebbe essere la tua occasione. Aiutami a proteggere Bill come prova di tutto ciò che hai detto."

Fler mi guarda a lungo, e io guardo lui come è successo la prima volta a casa mia, ma non riesco a leggere niente sul suo viso se lui non vuole. Infine fa un cenno impercettibile col capo. "Siamo d'accordo."

Sorrido. "Siamo d'accordo... Atze."

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Dieser Eine Wunsch

di lisachan
Sapevo che sarebbe stato un disastro fin dal momento in cui Bill entrò nel mio ufficio e mi guardò con quegli occhi lì. Che non sono i suoi occhi normali, perché in genere Bill quando ti guarda in maniera normale non ti fa paura. È quando dà alle sue occhiate quell’inflessione cucciolosa ed amorevole e apparentemente innocua che mira a scioglierti il cuore per assoggettarti al suo volere, che tu cominci a tremare. Ma tremare davvero.
Perciò, quando lo vidi entrare nella stanza, timido e timoroso e tutto occhi, io tremai, e cercai di farmi minuscolo sulla poltrona in pelle marrone, quasi per sparirci dentro.
Naturalmente non c’era alcuna possibilità che una cosa simile avvenisse. Eravamo solo io e lui nella stanza, lui non parlava ancora ma io sapevo perfettamente che l’avrebbe fatto da lì a poco, e che quello sarebbe stato l’inizio della fine. E non c’era niente che potessi fare se non prepararmi al peggio e sperare di contenere i danni.
Che sarebbero stati enormi.
Lo seppi con certezza nel momento in cui si sedette – senza avere ricevuto alcun invito in proposito, s’intende – e si dedicò per qualche secondo alla complicata operazione di torturarsi le dita, prima di sollevarmi addosso quelle pozze castane e schiudere le labbra per garantire una via di fuga a cinque minuscoli sussurri – l’inizio della fine, appunto: sai, David, Anis ed io…
- No. – risposi pacatamente, sistemando dei documenti sparsi sulla scrivania. Avrebbero tranquillamente potuto essere carta straccia o fogli bianchi, non era importante: ciò che importava era darsi un tono e, soprattutto, dare ad intendere a Bill fossi indaffaratissimo e non fossi perciò disposto ad ascoltare le sue follie.
Lo vidi combattere per un secondo fra la possibilità di mantenere l’espressione da cucciolo o mettere su un broncio molto indispettito. Probabilmente non sapeva quale fra i due potesse avere, a lungo andare, maggiore effetto sul sottoscritto. Sperai imboccasse la strada sbagliata.
Lui si mantenne cucciolo ed io imprecai contro il mio cattivo karma.
- Non sai neanche cosa stavo per dirti… - mugolò dispiaciuto, sorridendo appena in un modo lieve e lontano da diva delusa dalla vita.
Io finii di rassettare le inutili scartoffie e mi chinai verso di lui, guardandolo severamente.
- Non ne ho bisogno, Bill. – spiegai, - Hai nominato Bushido. Qualsiasi cosa sia, non può che essere un disastro, visto che saremo in giro per la Germania per tutta la prossima settimana. – mi fermai un attimo. – In tour. – precisai poi, nel caso l’avesse dimenticato.
Bill annuì freneticamente, un sorriso un po’ più fiducioso a farsi strada sul suo volto.
- È proprio per questo che pensavo che magari Tom avrebbe potuto trasferirsi nel tourbus di Georg e Gustav e-
Lo fermai con un cenno della mano, guardandolo negli occhi con la fissità di un pazzo.
- Cioè tu vuoi mandare tuo fratello da Georg e Gustav per tenere Bushido nel tuo tourbus. – esplicai con aria assente, - Vuoi distruggere ciò che resta dei Tokio Hotel, Bill?
Lui inarcò le sopracciglia ed abbassò lo sguardo, palesemente colpevole.
Niente da dire riguardo le capacità quasi schizofreniche di Bill di cambiare umore ogni qualvolta se ne presenti la necessità. E io ci casco come un cretino, sempre.
- Bill, non puoi chiedermelo. – cercai di farlo ragionare. Sarebbe stata la guerra. Io non potevo permettermi di dare all’unico chitarrista che accettasse di suonare nei Tokio Hotel un’occasione per mollarli definitivamente e diventare un uomo del ghetto come desiderava. Soprattutto perché, se fosse diventato un uomo del ghetto in quel periodo, come minimo avrebbe scatenato una guerra fra bande nel tentativo di massacrare di botte Bushido e tutta la sua compagnia. Il che mi avrebbe portato a dover organizzare un funerale che non ero davvero sicuro di voler organizzare – anche se avrebbe risolto un mucchio di problemi alla base.
- Ci vediamo così poco, David… - rispose semplicemente lui, riprendendo a torturarsi le dita, - È davvero troppo poco. È riuscito a ritagliarsi una settimana libera. Lo capisci, David? Tu lo sai perfettamente quanto costi una settimana di libertà. – tornò a guardarmi, improvvisamente serio. Nei suoi occhi, una luce matura che mi spaventò non poco. – Per favore. Solo questa volta.
Sospirai.
- Naturalmente dovrò vedermela io, con tuo fratello. – borbottai irritato, ricominciando ad affastellare fogliame di fronte a me, sperando, chissà, di creare una pila e nascondermi agli occhi dei miei impegni.
Bill ridacchiò lievemente.
- Ancora con me non parla. – disse a bassa voce, e non aggiunse altro.
Feci un vago gesto con la mano.
- Sparisci. – buttai lì, disperdendo la pila di inutili fogli e cercando di capire cosa farne, - E digli di venire solo all’ultimo momento! – aggiunsi mentre Bill letteralmente scattava in piedi, scavalcava la scrivania e mi saltava addosso, affogandomi nei propri capelli.
Non riuscii a scollarmelo di dosso per tutta la successiva mezz’ora, ma non posso dire che mi dispiacque.
Mi dispiacque moltissimo ciò che fui costretto a fare dopo, però.
Entrai in camera di Tom che lui già subodorava guai. Tom ha questo talento particolarissimo per le situazioni di pericolo: quando sa che nel giro di poco tempo potrebbe succedere qualcosa di brutto per se stesso o per suo fratello, scatta sull’attenti e dà il via alle manovre di fuga. Chessò: fugge alle Maldive, o torna a casa a Loitsche o si dà alla macchia. In ogni caso, scompare e si tira fuori d’impaccio.
Quella volta arrivai in anticipo – se sia stata fortuna o sfortuna non saprei dirlo – e lo trovai nel bel mezzo di una frenetica preparazione di borsone per la notte.
Guardai lui. Il borsone. Di nuovo lui.
- Dove stai andando? – chiesi in tono casuale, come fosse una normale curiosità di manager.
Lui deglutì e rispose con la stessa falsa neutralità.
- Da Andi. – disse annuendo, - Mi andava di cambiare aria, per un po’. Almeno fino all’inizio del tour.
Annuii.
- Perfetto. – concordai, - Mi sembra un’ottima idea. Ma prima dobbiamo parlare.
E lì Tom naturalmente cominciò ad andare fuori di testa. Probabilmente non immaginava cosa stessi per dirgli di preciso, ma dalla curva delle mie sopracciglia doveva averne intuito la generica gravità. Fui per un attimo orgoglioso di lui, ma tornai subito in me.
- Tu non ti arrabbierai. – ordinai tranquillamente, puntandolo con un dito.
Tom aggrottò le sopracciglia.
- David, non dirmelo neanche.
Sospirai.
- Devo prepararti al-
- Non dirmelo neanche!!! – ripeté, strillando come un indemoniato, - Non dirmelo, cazzo, no!
- Tom, calmati! – cercai di fermarlo afferrandolo per le braccia, prima che cominciasse a lanciare tutto intorno il contenuto del borsone. Lui mi ignorò.
- Dimmi che viene stasera. Cazzo, dimmi che sta con lui stasera perché io stasera non ci sono, David. Posso sopportarlo, se sto a chilometri di distanza!
- Tom… - sospirai pesantemente, spingendolo con tanta forza da mandarlo seduto sul letto. Non ne servì molta, in realtà. Tom è piuttosto gracile, ed anche quando è davvero arrabbiato la sua forza non aumenta, perché con la rabbia Tom ci si svuota del tutto. - …tuo fratello ci tiene moltissimo. – partii, sperando che questa fosse la via giusta.
Non lo era, naturalmente, ma non me ne stupii più di tanto. Qualcosa nel mio karma era decisamente storto.
- Non me ne frega un cazzo di ciò a cui tiene lui! – sbraitò furiosamente, cercando di rimettersi in piedi. Glielo impedii.
- Si vedono poco.
- Potrebbero non vedersi mai!
- Bushido ha faticato per prendersi una settimana di ferie.
- Poteva risparmiarselo! – si fermò. - …quale settimana?
- Tom, tu non ti arrabbierai.
- Io. Sono. Già. Arrabbiato. – e lo disse con freddezza. Con una specie di furia immobile che mi diede i brividi. Guardandomi negli occhi, lo disse, senza evitare i miei neanche per un secondo.
Sospirai ancora.
- Starai nel tourbus con Georg e Gustav.
- No.
- Solo per una settimana!
- No, Cristo!
Scattò nuovamente in piedi e non fui abbastanza veloce da fermarlo. Me lo trovai che mi fissava dai dieci e passa centimetri di cui mi stacca in altezza, ed il fuoco che bruciava nei suoi occhi nocciola aveva veramente qualcosa di inestinguibile che faceva paura.
Non mi stupì che Tom non volesse parlare con suo fratello. Probabilmente quello sguardo era l’unica cosa che si sentisse davvero in obbligo di risparmiargli. Più degli insulti o delle incomprensioni o della mancata accettazione.
- Qualsiasi cosa tu possa dire o fare, Tom, non cambierà la situazione. – mi sforzai di dire seccamente. Lui aggrottò le sopracciglia ed il suo sguardo si fece distante. Io non stavo parlando solo del tour e lui l’aveva capito.
- Ho bisogno di… - biascicò scuotendo il capo e passandosi una mano sulla fronte. Poi si rese probabilmente conto del fatto che ripetere la stessa lagna di sempre – ho bisogno di tempo per abituarmi, la colonna sonora delle ultime settimane – sarebbe stato completamente inutile, e lasciò perdere. – Tanto devo per forza accettarlo, no? – ringhiò cattivo, - Bill ha sempre ragione, alla fine dei giochi.
Sospirai e scrollai le spalle.
- Bill è innamorato.
Tom ringhiò ancora e non rispose. E meno male, perché non so cosa avrebbe potuto dirmi con precisione, ma immagino piuttosto bene che sarebbe stato qualcosa di davvero poco piacevole.
Viste le premesse, avrei dovuto aspettarmi che la cosa potesse solo peggiorare, da quel momento in poi. Ed infatti me lo aspettai. Tornai da Bill, lo rassicurai sul fatto che suo fratello non avrebbe compiuto una strage ma che gli sarebbe convenuto comunque stargli alla larga se non voleva mettere alla prova la propria fortuna e poi mi preparai ad accogliere Bushido in casa mia. Più o meno.
Con Bushido avevo avuto pochi scambi ridotti al minimo, fino a quel momento. Il periodo di tempo più lungo mi fosse capitato di condividere con lui era stato quando, asfissiato dalle lamentele di un Tom sull’orlo di un crisi isterica per la preoccupazione, m’ero diretto all’infausta Villa Gialla degli Orrori e mi ero eretto contro la porta per poi sgonfiarmi subito dopo nel ritrovarmi davanti una donnina alta un metro e venti che mi invitava ad accomodarmi e chiedeva al padrone di casa, all’interno, se mi sarei fermato a cena.
Bushido non mi chiese se mi andasse di mangiare con loro. Aspettò che lanciassi uno sguardo un po’ incerto a Bill – accucciato in un angolo del divano in una tuta palesemente ottomila taglie più larga di quella che gli sarebbe servita – e poi mi fece strada all’interno della villa.
Restai solo per il tempo della cena e, per qualche strano motivo, Bushido mi convinse. Non dovette fare nulla di particolare – nulla più che sorridere e… suppongo indossare una camicia bianca sotto un maglione blu. Ma questo non deve necessariamente essere reso noto. – ma lo fece. Andai via che mi sentivo bene.
Ciò non toglieva che Bushido rappresentava la fonte primaria dei miei problemi, in quel momento. Non potevo prenderlo alla leggera.
Allora non immaginavo che sarebbe stata una maledizione dura a morire. A ripensarci adesso è quasi divertente. Quasi.
La partenza era fissata per le quattro del pomeriggio. Erano le due e Bill stava saltellando, chiaro segno che Bushido sarebbe arrivato a minuti. Osservai il minore dei Kaulitz specchiarsi in qualsiasi superficie riflettente lo circondasse e poi decidere che doveva necessariamente andare in bagno a darsi una risistemata. Sparì nel corridoio e sentii i suoi passi frenetici muoversi ticchettando sul pavimento e poi la chiave girare nella toppa.
Suonò il campanello in quel preciso istante e la casa venne avvolta nel silenzio.
Deglutii profondamente e mi diressi verso la porta. Quando la aprii, mi trovai di fronte Bushido in posa plastica, un braccio mollemente poggiato contro lo stipite ed una mano in tasca. Il solito sorriso brevettato. Il maglioncino e la camicia.
Mi diedi dell’idiota.
- Tu. – notificai, cercando di mantenere un’impassibile freddezza che non mi facesse sembrare uno stronzo irritato – perché non lo ero – ma neanche gli desse a intendere che lo trovassi simpatico – perché così non era.
Il sorriso sul volto di Bushido si allargò e lo vidi rimettersi dritto in una posa che non dovesse necessariamente ricordare quella di una foto da poster, prima di farsi avanti, trascinandosi alle spalle una valigia di dimensioni – ringraziando il cielo – piuttosto contenute.
- Non sono qui per te, Jost. – mi prese giovialmente in giro, - Anche se possiamo organizzarci.
Mi allontanai, aggrottando le sopracciglia. Alle mie spalle, risuonò la voce di Bill.
- Anis! – lo sentii sillabare in tono di rimprovero, - Che dici?!
Bushido mi staccò gli occhi di dosso e li portò su Bill. E per un istante potei capire esattamente per quale motivo Bill fosse disposto ad andare perfino contro l’altra metà di se stesso, per tenersi attaccato a lui. Lo si vedeva chiaramente nei loro sguardi che in fondo – ma neanche troppo in fondo – ne valeva semplicemente la pena.
- Vieni qui. – rise Bushido, giocosamente.
Bill gli si catapultò fra le braccia. Quando lo sentii mormorare “un’intera settimana! Puoi crederci?”, ritenni più opportuno farmi da parte. Tom andava aiutato a preparare valigie che non voleva assolutamente essere costretto ad usare.
*
Bushido era, invero, un uomo molto discreto. Non si sarebbe detto, e in effetti forse “discreto” non è la parola più adatta per descriverlo. Probabilmente era solo… opportuno, ecco. Era la grande differenza che correva fra lui e Tom, una differenza motivata principalmente dallo scarto d’età che li separava. Bushido aveva imparato a memoria pregi e difetti della propria posizione e della propria personalità, e li usava con discernimento e disinvoltura. Tom no. Tom era un bambino che si agitava a casaccio. Proprio per questo motivo, creò molti più problemi lui che non l’uomo, durante il passare della lunga settimana di tour che ci accompagnò in giro per tutta la Germania.
Bill non si accorse di nulla. Un po’ perché, quando scendeva dal palco, si catapultava nel tourbus e da lì non usciva fino al giorno dopo. Un po’ anche perché le manovre contenitive a base di birra pizza e cazzeggio sul tourbus di Gustav e Georg sortirono i loro positivi effetti e Tom riuscì non dico a rasserenarsi ma almeno a svagarsi un po’.
In ogni caso, non successe nulla di irreparabile. Bill uscì da quella settimana come trasfigurato. Mi piaceva vederlo in quel modo. Era raro vederlo così felice, prima di Bushido.
- Non sei proprio una completa e totale dannazione. – gli dissi una mattina, preparando il caffè sul loro tourbus. Bill dormiva felicemente, mi aspettavo lo facesse anche lui e mi stupii non poco quando invece me lo vidi apparire accanto in maglietta e pantaloncini.
Lui rise, palesemente divertito.
- Non sapevo mi considerassi una dannazione. – commentò distrattamente, mentre si allungava a recuperare dei biscotti dal ripiano.
Risi anch’io.
- È difficile considerarti un miracolo, visto lo sconvolgimento che porti.
Scrollò le spalle, aprendo il frigorifero e mandando giù circa mezzo litro di latte direttamente dal cartone.
- Tu sei uno bravo a sistemare le cose, vero, Jost? – chiese, senza aggiungere niente al mio precedente commento.
Inarcai le sopracciglia, inclinando lievemente il capo.
- Quando serve. – risposi vagamente, tornando a concentrarmi sul caffè.
Lui annuì.
- Perfetto. – rispose con una mezza risata ed una scrollatina di spalle, - Allora non hai nulla di cui preoccuparti, sistemerai anche me.
Lo fissai, ancora un po’ intontito dal sonno, mentre recuperava una tazza, versava il latte rimanente e vi lasciava piovere sopra una cascata di biscotti, spezzettandoli distrattamente a colpi di cucchiaio prima di tornare verso le cuccette.
- …non si mangia in zona notte! – fu tutto ciò che riuscii a dire. Passai naturalmente ignorato.

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Driving Bill Kaulitz

di tabata
Sono all'areoporto di Parigi a fare scalo in attesa dell'aereo che finalmente mi porterà a Berlino.

Sono in volo da 12 ore e sono così stanco che potrei mettermi ad urlare. Non so chi me lo ha fatto fare di lasciarmi alle spalle un albergo a quattro stelle, il mio management e mio fratello per passare due - giorni - due a Berlino, accampato come un profugo in casa d'altri.

In realtà so che cosa me lo ha fatto fare. E' un perché con la pelle color cioccolata che mi aspetta al Berlin-Schönefeld. Un po' sorrido e un po' gongolo; non ci vediamo da tre settimane, sono così in fibrillazione che mi viene difficile non saltellare.

Le due ore d'aereo che mi mancano mi sembrano un'eternità.
Non voglo salire su un altro aereo, e voglio salirci subito per arrivare più in fretta.

Mi alzo di nuovo dalla scomoda sedia in pura plastica che mi ha accolto all'arrivo e che non ha fatto il suo lavoro per niente bene. Ho il sedere indolenzito e la schiena a pezzi, voglio qualcosa da bere ma la macchinetta è troppo lontana. E poi non voglio lasciare la valigia.

Che poi non è che sia proprio una valigia. Anis mi ha detto che se mi presentavo con un bagaglio che pesava più di cinque chili mi lasciava fuori di casa, così ho dovuto scegliere bene cosa portarmi dietro e far star tutto nella vecchia borsa da viaggio che mi ha prestato David.

Sospiro e mi guardo intorno.
Sono le cinque del pomeriggio e il sole sta calando. C'è una luce arancione meravigliosa sulla pista d'atterraggio e io mi annoio. Nel giro di mezz'ora riesco a rifarmi il trucco, a contare tutti i voli in partenza e a fare l'inutile somma dei minuti presenti sul tabellone: 374, per inciso.
Leggo perfino Marie Claire, ma non m'intrattiene nemmeno quello. Odio quando la moda non è sufficiente a distrarmi. E al mio volo manca ancora un'ora.

Quell'orologio va sicuramente più lento del normale.
E' rotto di certo. Manca un'ora da venti minuti.

Recupero il pacchetto di caramelle gommose che mio fratello mi ha sicuramente infilato nella borsa, lo fa sempre. E difatti eccolo lì, ben riposto nella tasca laterale. M'infilo l'i-pod nelle orecchie e mastico: da uno a dieci quanto sono indecente se ascolto Schmetterling?

Gioco con le borchie del polsino. Lo faccio girare avanti e indietro, e dentro e fuori.
Mi.Sto.Annoiando.Da.Matti.

E manca ancora mezz'ora.

Decido che è meglio controllare sul cellulare. Lo estraggo dalla borsa e mentre guardo con astio i numeri sul display che sono gli stessi che compaiono sull'orologio a muro dell'aeroporto, il telefono si mette a squillare. E' Anis.

"Ciao!" Premo il bottone e rispondo nello stesso istante. "Ciao," ripeto poi, perché non sono certo che la chiamata fosse già attiva la prima volta.

"Eri attaccato al telefono?" Lo sento ridere. Divento rosso e non mi riesce di trovare una cosa intelligente da dire. Con lui finisce sempre che faccio di queste figure. E sì, se posso, controllo il display del telefonino più di quanto dev'essere legalmente possibile. "Ascolta," riprende. "Quando parte il tuo aereo?"

"Alle sei."

"Hm-mh," lo sento che rimugina. "Quindi sarai qui per le otto."

Sorrido. Lo so che è stupido, ma questa frase mi fa un effetto strano, come se la sua attesa avesse tutto un altro significato. Come se fosse un qui che vuol dire casa nostra e non casa di Anis. Poi magari non è vero ma io un po' mi ci crogiolo in queste cose. "Allora mi vieni a prendere?" Chiedo.

"C'è un problema, Piccolo."

"Quale?" Io odio i problemi.
Rimango in attesa per sapere se devo arrabbiarmi oppure no.

"Mirko mi ha appena chiamato, devo andare a ritirare un premio. Una cosa da niente, ma devo esserci," mi dice. "Non riesco a venirti a prendere."

Qui urge un silenzio imbronciato. Ma io non so stare in silenzio. "Avevi promesso," pigolo.

"Lo so, ma possiamo vederci a casa."

Non è la stessa cosa, e glielo dico. "Non è la stessa cosa."
So che fa fatica a capire cosa ci trovi di così importante nello scendere dall'aereo e trovarlo lì ad aspettarmi. In linea di massima, arrivare in taxi fino a casa sua, aprire la porta e trovarlo seduto sul divano sarebbe un'emozione altrettanto bella. Ma diversa.

Quando scendo dall'aereo e lo trovo lì in piedi, invece, in mezzo a tutte le altre persone che aspettano i loro parenti a me il cuore batte forte. Perchè è una cosa normale, da persone normali. Io voglio prendere la mia valigia e sapere che lui mi aspettava già da un po', che ha seguito l'arrivo del mio aereo sul tabellone, che ha visto la lucetta lampeggiante ed è corso agli arrivi per vedermi non appena mettevo piede in aeroporto.

E poi voglio lasciare la valigia in terra e correre per qualche metro aggrappandomi al suo collo, che tanto siamo entrambi così coperti tra cappuccio e occhiali che nessuno si accorgerebbe di noi due in un posto in cui si stanno abbracciando tutti.

Se ci vediamo direttamente a casa è bello, sì.
Ma non è la stessa cosa.

Lo sento sospirare. "Mi dispiace," mormora.

Non so cosa dirgli, perché in questo momento non me ne importa se gli dispiace. E poi aveva promesso, e io c'ho fatto un viaggio di 12 ore con quella promessa.

"Bill?"

"Hm?"

Sorride. Non lo vedo, ma so che lo fa. "Non tenermi il broncio."

"Sono arrabbiato," preciso, come se qualcuno non lo avesse ancora capito.

"No non sei arrabbiato, sei solo deluso," mi corregge saggiamente. E io lo odio quando fa il saggio perché generalmente c'azzecca. "Lo so che volevi fare tutta la scena di venirmi incontro correndo e tutto il resto, ma non è colpa mia. E' stato un impegno imprevisto."

"Rimanda."

"Stai facendo il bambino."

"Io SONO un bambino."

"Certo, solo quando vuoi tu." Sospira di nuovo. "Ascolta, per farmi perdonare ho fatto in modo che tu non debba venire da solo in taxi."

La proposta, in effetti, è allettante.
"Sarebbe?" Chiedo, facendo il sostenuto.

Lo sento sorridere di nuovo. Non so come spiegarlo, forse è una vibrazione del respiro o il tono con cui poi parla ma io so sempre quando sorride. "Verrà a prenderti Chakuza con la mia auto."

"Chakuza?"

"Sì."

"Anis, chi diavolo è Chakuza?" Sbotto. Ho tirato le gambe sulla sedia e me le sono strette al petto. Non so se sono più arrabbiato perché non viene a prendermi, perché non è sufficientemente contrito o perché mi sta facendo venire a prendere da Dio-solo-sa-chi.

"E' uno dei miei ragazzi."

"Ah, perché siamo in molti?" Chiedo sarcastico.

Alza gli occhi al cielo. Lo so che lo fa, già me lo vedo.
"Intendo," precisa, "che è uno della crew."

Controllo l'orologio. Manca un quarto d'ora all'imbarco, così tirò su la borsa e me la sistemo su una spalla mentre mi guardo intorno in cerca del gate giusto. "Sì ma io questo non lo conosco."

"Lo conosco io," mi dice lui. Grazie, adesso sì che sto più tranquillo.

"E questo cosa dovrebbe significare?"

"Che può venirti a prendere lui e portarti a casa mia. Dovrei liberarmi per le nove, massimo per le dieci se devo esibirmi."

"E io cosa dovrei farci con questo Cha-"

"Chakuza," ride lui.

"Quello che è."

"Bill, deve solo accompagniarti a casa."

"Sì, ma non so nemmeno che faccia abbia, siete tutti uguali voi rapper," sbotto.

"Grazie, eh."

Mostro il mio biglietto alla hostess e passo oltre. "Vedi? Se venissi tu di persona ti riconoscerei."

Lui mi ignora. "Non dovresti già essere sull'aereo?"

"Ci sto salendo."

"Bravo bimbo"

*


Alla fine ha vinto lui. Non che non lo faccia sempre del resto.
E adesso io sono qui agli arrivi, ad aspettare uno che non so nemmeno che faccia abbia.

Ed è pure in ritardo.

Mi siedo con la borsa tra le gambe e ricomincio a mangiare le mie caramelle. Non era esattamente così che me lo aspettavo l'arrivo a Berlino. Insomma, che razza di week-end romantico è se già mi tocca aspettare le ore che qualcuno mi venga a prendere? Qualcuno che nemmeno conosco, per giunta.

"Scusami, mi sono perso due volte venendo qui. Mi dispiace."

Alzo lo sguardo e lo so che non è uno sguardo gentile. Anzi, è uno sguardo scostante e incazzoso, le caramelle gommose che mastico non migliorano la situazione. Lo fisso: ho le lenti scure che mi coprono metà viso per cui lui non ha idea del sopracciglio alzato e di tutto il resto. Indossa gli stessi abiti di mio fratello e, nonostante il triste esordio da sfigato, si atteggia a grand'uomo vissuto.
"Tu devi essere Chakuza," commento asciutto.

"Esatto," mi sorride. Cioè, mi sorride giulivo. La prossima volta che Tom mi dice che quello del rap è un mondo di duri e puri gli rido in faccia. Questo sembra il cugino degli orsetti del cuore. Gli mollo la borsa da viaggio e stringo sotto braccio la mia di Prada.

"Possiamo andare?" Chiedo.

"Certo."

Si prende la borsa senza fare una piega e cammina come se i pantaloni gli stessero per cadere da un momento all'altro; ho sempre ringraziato che Anis non si vesta in questo modo. Certo devo combattere con i suoi mocassini ma c'è di peggio al mondo.

"Fatto buon viaggio?" Mi chiede.

Non pensavo che avremmo fatto conversazione. "Dopo quattro ore qualunque viaggio non è più buono," rispondo. "Ho il culo quadrato." Lo vedo che sgrana gli occhi. "Che c'é?"

"No, niente," mi risponde grattandosi la nuca. "E' che pensavo... non so"

"Che fossi un educata signorina dei quartieri alti?" Ghigno.

Lui diventa color pomodoro e giuro che la linea tra la tenerezza e il sadismo a quel punto diventa veramente sottile. "Qualcosa del genere."

Sorrido e scuoto la testa. "Dove hai parcheggiato?" Chiedo, mentre usciamo dall'aeroporto. Mi guardo intorno, accendendomi una sigaretta.

"Vieni, di qua."

L'auto di Anis è un transatlantico, esattamente come quella di Tom. I due hanno in comune così tante cose che ci sono dei momenti in cui un po' m'inquietano le mie scelte. Chakuza si preoccupa di infilare nel bagagliaio la mia borsa da viaggio e sembra indeciso se debba o meno aprirmi la portiera: temo che abbia l'impressione di trovarsi di fronte alla Donna del Capo, o qualcosa di straordinariamente simile.

Quando si è ormai quasi deciso e ha la mano sulla maniglia, intervengo. "Vuoi che guidi io?" Esclamo con un ghigno.

Diventa rosso. "No, certo che no" si affretta a dire. E circumnaviga la macchina facendo l'indifferente mentre io entro. E' così semplice farlo andare nel panico che mi sento potente.
E' così che deve sentirsi Anis quando è con me.

Per un po', in auto, stiamo in silenzio. Fingo di annoiarmi mentre lo guardo, perché quest'uomo m'incuriosce. Intanto mi chiedo come sia possibile che un collega di Anis - perché è un collega, per dio, mica ha un patto di sangue con lui - accetti di fare da chaperon al suo ragazzo quando lui non può.

Cioè, questo Chakuza, che nella vita fa il cantante rap, è dovuto partire da quella che presumibilmente è la sua casa dall'altra parte di Berlino per venire a prendere me, di venerdì sera, quando magari c'aveva altro da fare anche lui. Voglio dire, avrà una vita no? O sta anche lui accanto al telefono ad aspettare che Anis lo chiami e gli dia degli ordini?

"Non ti dispiace farmi da autista?" Chiedo.

Si stringe nelle spalle. "No, anzi, mi fa piacere. Volevo conoscerti." Sollevo un sopracciglio e lui prosegue, guardando la strada. "Atze non fa che parlare di te."

"Chi?"

"Ehm... Bushido," si corregge. "E' così che ci chiamiamo fra di noi, sai.. Atze, Man.. roba così."

"Hm, carino."

Svolta a destra e riconosco la strada che stiamo facendo. Mi sistemo meglio sul sedile e mi prendo la libertà di mettere i piedi un po' dove voglio, tanto è la macchina di Anis. Lui mi ammazzerebbe se lo sapesse, ma Chakuza questo non lo sa.

"Sai, non aveva voglia di andare a quella premiazione-"

"Non ha bisogno che tu lo difenda," lo fermo lì.

"Difatti non ci pensavo neanche," ride lui. "Mi aprirebbe in due come un melone, se mi azzardassi a farlo."

"Non è il vostro compito?"

"Credo che tu ti confonda con la mafia," mi dice sorridendo. Ecco una cosa che insieme mi stupisce e trovo piacevole: Chakuza sorride sempre. E' da quando è arrivato a prendermi che non fa altro, come se fosse imprescindibilmente felice.

"Pensavo che doveste coprirgli le spalle durante le risse e cose di questo genere," commento dubbioso mentre ci fermiamo ad un rosso.

"Oh se ce ne fosse una, sicuramente lo faremmo," dice convinto. "Ma di solito ci pensano prima quelli della security."

"Quindi?"

Si prende un attimo per guardarmi, poi torna ad occuparsi della strada. "Siamo la sua crew. E' un po' come dire... la sua band, anche se è un po' diverso."

"Dubito che Georg sarebbe mai andato a prendere Anis se io non avessi potuto," ragiono.

"Te l'ho detto che è diverso."

A questo punto io potrei fare altre domande, perché la cosa mi incuriosisce in maniera viscerale. Io non so niente di questo Chakuza che mi siede accanto, nè tantomeno della crew. Anis non mi dice mai niente di loro, a parte il fatto che prima o poi li dovrò conoscere.

Non se vorrò, o se potrò. Dovrò. Non si è mai parlato di un mio possibile rifiuto a riguardo.

Sto per aprire bocca e sommergerlo con le mie domande, quando mi anticipa - il che è un caso più unico che raro nella storia della Germania, credo. Nessuno anticipa Bill Kaulitz. Nutro improvvisamente del profondo rispetto per Chakuza.

"Ti va di mangiare qualcosa?" Propone.

Sorrido di traverso.
"Chaku, cos'è? Ci stai provando?"

Rosso, di nuovo. "NO!" Esclama allarmato. Lo vedo che si arruffa tutto, maglie e contro maglie e gli si sposta pure il cappellino. "Io intendevo così, vista l'ora! Tanto per aspettare Atze che finisca..."

Rido di gusto. Lo so, sono stronzo.
"Calmati, scherzavo!" Gli comunico. Quindi tiro indietro gli occhiali scuri e me li sistemo tra i capelli con attenzione. Sorrido. "Dove mi porti?"

"In un posto che dovrebbe piacerti."


*


Chakuza ha capito tutto nella vita.

E non perchè è entrato a far parte della crew del secondo uomo più influente della Germania (che poi è mio, tra l'altro. Quindi insomma...). No. Lui ha capito tutto nella vita perché, diciamocelo, ha capito tutto ciò che c'era da capire di me.

"McDonald's!" Esclamo, e non mi riesce di tenere bassa la voce. Cioè, quest'uomo mi ha portato nel luogo dove avvengono tutti i miei sogni erotico-gastronomici che non comprendano Anis. E a volte perfino alcuni di quelli. Io i fast-food li adoro.

Chakuza si è già messo in fila alla cassa, e io lo seguo indegnamente trotterellante. Provo a darmi un contegno prima che si giri e chieda. "Che cosa prendi? Offro io," e poi aggiunge. "Ordini di Atze."

Quando ci avviamo al tavolo, sul mio vassoio c'è un Big Mac Menu grande, due porzioni di patatine, ali di pollo, Mcflurry al cioccolato e anche un Happy Meal perché mi piaceva la sorpresa. Lui ha preso un insalata. Mi sembra David.

Solo che David è un salutista vegetariano.
Chakuza, in teoria, dovrebbe essere un gangesta spietato che mangia le vacche a morsi. Da qui mi viene il sospetto che la sua non sia voglia di restare in forma, quanto pecunia di denaro.

"Dove la metti tutta quella roba?" Mi chiede, mentre appoggia il vassoio sul tavolo. Sono certo che non abbia cercato di tirarmi indietro la sedia solo perché aveva le mani occupate. E' ancora un po' intimorito da questa cosa che io vado a letto con il suo Atze.

"Sulla pancia, come tutti," rispondo. "Solo che faccio molto movimento."

"Sport?"

Chakuza è tenerissimo. Lo realizzo quando reagisce in questo modo. Mio fratello, con una hint del genere, si sarebbe buttato sulla prima volgarià disponibile e sarebbe andato avanti per ore e ore ridendo della sua stessa idiozia. "Più o meno," rispondo evasivo. "Allora, che cosa ti ha detto Anis di me?"

"Fà strano sentirlo chiamare così."

"Anis?"

Annuisce.

"Non hai risposto alla domanda. Lo fai di continuo."

Lui si schernisce dietro al bicchiere di CocaCola. "Atze ha un modo strano di dire le cose. Non sappiamo quasi niente di te, in realtà, ma ti tiene sempre in considerazione."

Credo di capire. E' così che mi parla di loro. Io non so come si chiamano, né quello che fanno o quale sia il loro ruolo nella vita di Anis però ci sono sempre quando prende delle decisioni, anche quelle che riguardano noi due. La crew fa parte di lui. Sapere che dall'altra parte della faccenda lui riserva un trattamento del genere anche a me mi riempie di orgoglio. E di gioia. Cristo, non è nemmeno presente e lo adoro.

Il resto della cena lo passiamo a parlare del più e del meno e scopro che io e Chakuza abbiamo un sacco di cose in comune. E che forse Anis me lo ha mandato di proposito questo qui a prendermi, perché passare le due ore che mi separano da lui insieme a Chakuza è di sicuro più piacevole che stare ad aspettarlo sul divano di casa sua.

"Credo sia l'ora di andare," mi dice ad un certo punto, guardando l'orologio patacca che si ritrova. Non possono davvero andarsene in giro in questo modo, offendono il mio senso estetico. Per un istante mi chiedo quanto sarebbe offensivo da parte mia offrirmi di rivestirli tutti.

Chakuza parcheggia sotto casa di Anis e mi aiuta a recuperare la borsa. Quell'enorme casa gialla al buio sembra fosforescente e, se quando vengo qui non mi interessasse soltanto rinchiudermi nella stanza di Anis e non uscirne per due giorni, lo costringerei a farla ridipingere. "Beh, grazie per essermi venuto a prendere e avermi fatto compagnia," dico.

Lui chiude il bagagliaio e mi sorride. "E' stato un piacere Bill."

"Quando racconterai agli altri che ti sei dovuto scarrozzare in giro il fidanzato di Bushido cerca di non farmi risultare troppo antipatico, intesi?" Scherzo.

"Cercherò di fare il possibile," mi dice lui, sparendo in macchina.

Quando entro in casa, è tutto buio. Mi aspettavo di trovare la cameriera di Anis che non perde mai un secondo, quando arrivo, per portarmi via borse e cappotto e invece oggi mi lasciano da solo a trascinare un borsone che pesa il doppio di me.

"Anis?" Chiamo.

Nessuna risposta. Continuo ad aggirarmi per le diecimila stanze di questa villa che è palesemente solo uno sfoggio di denaro. Anche se ci venisse a vivere con tutta la sua crew, i Tokio Hotel e anche il resto della mia famiglia, la casa sarebbe ancora troppo grande.

E comunque non sono sicuro di volere mio padre e Anis sotto lo stesso tetto. Ho il forte dubbio che non andrebbero molto d'accordo. Per questo ho istruito Tom perché menta se papà gli chiede qualcosa riguardo alla mia attuale relazione sentimentale. Come un disco ben registrato, Tomi risponderà: rapper tunisino? Papà ma cosa stai dicendo? Guarda là, hai visto che sole?

Attraverso il corridoio fino alla sala. "An-"

L'enorme soggiorno è illuminato soltanto da decine e decine di piccole candele bianche sparse per ogni dove e Anis è in piedi in mezzo alla stanza, con un cartello bianco in mano che recita: "BILL KAULITZ."

Sorrido e lascio andare a terra la borsa, correndogli incontro. Gli getto le braccia al collo e mi stringe a sè, poggiando la fronte contro la mia. "Fatto buon viaggio?"

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Affirmation

di lisachan
Mezz’ora fa il letto era caldo di noi. Era caldo del mio corpo teso e sfatto sotto le sue mani, ed era caldo del suo, forte ed ostinato sotto le mie. Ad Anis piace quando dormo da lui. Succede di rado, perché casa sua finisce sempre per essere casa della crew, ma quando succede lui si esalta.
Dal momento che io sono un dormiglione, non mi sveglio mai prima di lui. Quando apro gli occhi, è sempre perché ho già le sue mani addosso.
Alle volte perfino dentro.
Mentirei, se dicessi che all’inizio non mi abbia turbato. Credo di aver fatto un salto di tre metri e di averlo pure schiaffeggiato, nell’incoscienza del dormiveglia, la prima volta che l’ha fatto.
Poi però è entrata in gioco l’abitudine – e soprattutto mi sono reso conto che questo modo appiccicoso e bruciante di desiderio che ha di porsi con me, non è altro che il suo modo di fare l’amore.
Lui non si esaurisce col sesso.
Io sono suo. Sempre. Soprattutto quando non scopiamo.
Adesso, la sua parte del letto è fredda; la mia, invece, è calda solo del mio scazzato rigirarmi fra le lenzuola. Che poi, mi sento assurdo quando penso cose simili: io non ho una mia parte del letto. Questo è solo lo stupido letto matrimoniale della stupida camera in cui dorme quando non sta con me. Dovrei odiare questo fottuto posto. E invece il suo profumo è ovunque.
Dal soggiorno arrivano le risate sguaiate di Saad. Eko si sta lamentando di qualcosa, sento la sua vocetta noiosa che si muove come in un flusso sotterraneo sotto le risate.
Anche Anis sta ridendo. Però la sua voce la sento nel petto, e mi scuote.
Mezz’ora fa, c’era la sua voce ovunque. Le sue mani ovunque.
Ed io, adesso, sono qui: nudo solo e disperatamente vuoto.
Mi sfioro da sopra le lenzuola.
Anche se chiudo gli occhi e provo a immaginare lui, le mie mani fanno schifo, come sostituto.
Piccole, magre, fragili. Gli artigli, poi.
Io amo le mie mani, cazzo. Prendere ad odiarle solo perché non mi scivolano addosso bene come le sue è… disturbante. Ecco. Non dovrei pensare queste cose.
Penso che dovrei scivolare silenziosamente fuori da questa stanza, ficcarmi in bagno e farmi una bella doccia per calmare i bollenti spiriti. Magari, se una doccia non basta, anche due. O una sega, Dio, qualsiasi cosa.
Mi stendo a pancia sotto, arrotolo il lenzuolo fra le gambe ed abbraccio il cuscino. Resto a pensare un po’. L’odore di Anis sta svanendo, il mio stupido profumo se lo sta mangiando tutto. Odio profumare così tanto, anche se ad Anis piace. Ciò che piace a me dovrebbe venire sempre prima, ed io vorrei essere inodore ed insapore, così da annusarmi e sentirmi addosso lui quando ci separiamo.
Invece, quando lui va via io resto solo io e non sono niente.
E dovrei veramente smetterla di pensare.
Sospiro, faccio per alzarmi, rimango seduto a fissarmi le punte dei piedi.
Dal fondo del corridoio sento un “’cazzo fai, Atze?” che mi costringe ad un ghigno irritato, perché io odio questo stupido nomignolo che si scambiano a vicenda. Non posso usarlo, perché ci sono cose che non potrò mai fare. Anche se un giorno questo mondo stronzo che s’è scelto o gli è capitato – non so – dovesse accettarmi, ci sono determinate cose che io non sarò mai e non potrò mai fare.
Sono giusto ad un centimetro dalla sponda del letto – cercò già con gli occhi le scarpe sul parquet – quando la serratura scatta e la porta si apre.
Vado nel panico.
Cristo.
Non sanno che sono in casa.
Anis non lo dice mai.
Io in genere resto buono zitto e tranquillo finché non vanno via.
Oddio.
Chi cazzo è?
Afferro il lenzuolo e lo porto a coprirmi di scatto, così di scatto che mi sfugge dalle dita e mi do da solo un pugno sul mento.
Sono ridicolo.
Ed infatti, chiudendosi la porta alle spalle, Anis ride.
- Solite seghe mentali di primo mattino, Bill? – chiede sarcastico, muovendosi perfettamente a proprio agio dalla porta al letto e lasciandosi ricadere con un tonfo sul materasso accanto a me.
Guardo altrove, imbarazzato.
- Sono quasi le undici. – mormoro incerto, - Il primo mattino è passato da un pezzo.
Si china e mi bacia sulle labbra, senza preavviso e senza un perché.
È una cosa che, Dio, adoro di lui. Mi tocca sempre. Come volesse lasciarmi un’impronta addosso.
- Non contraddirmi. – dice poi. Il tono è rude, ma sorride. – O almeno, se vuoi farlo, contraddicimi sulle cose importanti. Non sull’orario.
- Non mi stavo facendo le seghe mentali! – mi giustifico mentendo. È un giochino stupido, lui sa sempre quando mento. S’è tatuato addosso la verità mica per caso: ha un talento per riconoscerla.
Mi si spinge un po’ contro, pretendendo centimetri di materasso. Io mi scosto borbottando, finendo dalla sua parte e lasciandolo distendersi sulla mia. Ne prende possesso con tutto il corpo, allarga le braccia, allunga il collo, stira le gambe e tende la schiena. La camicia si stringe sul suo petto, i bottoni tirano un po’. Vorrei staccarli a morsi, uno dopo l’altro.
- Mi dispiace di essermi interrotto, prima. – sospira, socchiudendo gli occhi sul cuscino, - Non potevo lasciarli fuori dalla porta.
- Certo che no. – mugugno, guardando altrove. – La crew prima di tutto.
- Be’, per te la famiglia viene prima di tutto, no?
- La tua famiglia è tua madre. Non avrei niente in contrario se aprissi a tua madre, anche se nel mentre stiamo facendo sesso. – mi fermo, lui ride di cuore. – Cioè! – mi agito immediatamente, - Ovviamente ci fermeremmo! Avanti… hai capito.
Si rimette seduto e si allunga, afferrandomi con un braccio attorno al collo e trascinandomi verso di sé.
- Ho capito che sei geloso come un adolescente in calore. – spiega annuendo, - Cosa che peraltro sei. Spiegami chi me l’ha fatto fare.
Mi lascio andare ad un ghigno cattivo.
- La tua irrefrenabile libidine e il mio culo da ragazzina?
Sul culo da ragazzina lascia uno schiaffo che è una provocazione e un pegno d’affetto.
- Forse. – sorride furbo, - Per quanto debba ammettere che anche quello che hai davanti non mi faccia particolarmente schifo… - continua, insinuando una mano sotto al lenzuolo, fra le mie cosce.
Rabbrividisco ma mi lascio andare contro il suo petto, incapace di protestare.
- Non hai decenza. – sospiro sul suo collo, - Come fai a dire cose così palesemente…
- …dillo, su.
- …be’, gay!
Anis mi ride fra i capelli, il suo respiro arriva fino al mio orecchio e lo accarezza.
Sono eccitato come non mai, lui mi accarezza lentamente. Io chiudo gli occhi.
- Per quanto tu possa continuare a truccarti, piccolo, resti un maschietto. Sto toccando con mano la prova, al momento. – ride ed io rabbrividisco ancora. È vero, non ha decenza. – Ora, se io sono venuto a patti con la tua virilità, perché tu non ci sei ancora riuscito?
Perché forse mi piacerebbe essere donna.
Forse, se fossi donna, le pretese che ho su di te sarebbero legittime.
Forse nessuno mi guarderebbe come fossi un fenomeno da baraccone.
Forse quelle teste di cazzo dei tuoi amici mi avrebbero già accettato un casino di tempo fa.
Potrei prenderti dentro senza sensi di colpa. Potrei accoglierti come meriti.
Ed invece ti ritrovi con un surrogato di sesso. Con un maschio. Con uno che ti complica la vita.
Ma sono contento che resti.

- Io e la mia virilità stiamo benissimo. – protesto a denti stretti. La sua carezza si fa più decisa, ora mi stringe con sicurezza fra le dita. – Dio, continua… - sospiro, stendendomi meglio sopra di lui, per rendere i suoi movimenti più agevoli.
- Ho voglia di scoparti adesso, piccolo. – dice fra una carezza e l’altra, scendendo a lambire un lobo con le labbra, - Ti va?
- Ci sono quelli, di là… - mugugno lamentoso. In realtà sto pensando che non me ne frega un cazzo. Allargo le gambe e ruoto il bacino, sedendomi direttamente addosso a lui, proprio sopra la sua eccitazione.
- …ti va. – risponde lui per me, ridendo contro il mio collo e baciandomi sulla nuca, umido e caldo, proprio sul tatuaggio del simbolo dei Tokio Hotel. Questo mi fa sorridere, perché in fondo anche io ho un mio mondo al quale lui non appartiene ed all’interno del quale sarebbe stonato come un bucaneve ai tropici, però la cosa non lo mette a disagio come mette a disagio me.
Sospiro e mi lascio andare contro di lui. Vorrei pregarlo di smettere di accarezzarmi, o verrò subito ed odio venire quando non l’ho ancora sentito dentro, ma capisco in fretta di non avere bisogno di chiedergli niente: il ritmo delle sue carezze diminuisce e poi si ferma del tutto, mentre sbottona i jeans e vaga con la mano verso il comodino, alla ricerca dei preservativi.
Lo afferro e lo riporto verso di me.
- Piantala coi convenevoli. – sbotto a un centimetro dalle sue labbra, - Voglio sentirti mentre vieni.
Lui rilascia un sospiro improvviso e più profondo degli altri. Gli vedo brillare negli occhi una luce che è soddisfazione, orgoglio e desiderio. Una mistura che conosco bene, perché è la stessa che illumina me.
Mi spinge in avanti. Cado in ginocchio sul materasso e poi mi piego, piantando i gomiti nella gommapiuma per non scivolare col viso fra le lenzuola. Lui mi morde il collo e si sistema dietro di me, stuzzicando la mia apertura con la punta della sua erezione, già lievemente bagnata. La strofina lentamente avanti e indietro, forzandomi appena e ritirandosi subito dopo, cercando di lubrificare l’entrata nel modo più naturale possibile.
Questa frizione è così tesa ed erotica che mi mozza il respiro.
Cerco di mugolare a bassa voce e stringo le mani attorno alle lenzuola.
- Fatti sentire anche tu, però. – sibila ad un centimetro dal mio orecchio.
Scuoto il capo con una nettezza che è resa ridicola dalla mia ansia.
- Ci sono quelli, di là. – ripeto con più decisione.
Anis sorride ed entra dentro di me in un solo colpo, secco e deciso. Mi mordo un labbro per non urlare. Fa male, ma è lui. Ed è così lui che fa male.
- Anis… - mormoro in un lamento spezzato, strizzando forte le palpebre mentre mi chiudo attorno a lui, sentendolo mugolare di piacere contro la mia schiena. Tirargli fuori dalla bocca lamenti simili è oltremodo eccitante ed emozionante. Non te li aspetti, da uno come lui, ma quando si tratta di darsi Anis si dà e basta. Smette perfino di pensare.
Lo sento pompare velocemente dentro il mio corpo; stringe forte i miei fianchi tra le dita, e d’istinto capisco che è troppo preso per occuparsi di me. Scendo a sfiorarmi fra le gambe e lui sospira compiaciuto, sporgendosi per guardarmi.
- Cristo, sei bellissimo quando ti tocchi… - si complimenta con voce roca, baciandomi la nuca.
Sorrido e continuo a farlo, ma sono un completo disastro. Non riesco ad andare incontro alle sue spinte, ogni volta che lo sento battere dentro di me vorrei soltanto spingere e urlare, ma devo trattenermi perché cazzo, va bene fare sesso con gli altri di là, ma dare anche spettacolo no; e perdo il ritmo, e mi confondo, ed Anis ride dietro di me e mi dà un bacino sullo zigomo.
- Impiastro… - mormora, mordendomi la spalla e scendendo a sfiorarmi fra le gambe, - Devo fare tutto io?
Per dimostrare che anche io sono ancora in grado di fare qualcosa, contraggo i muscoli attorno a lui. Anis sorride e mi tira per il mento con la mano libera, baciandomi profondamente per attestare un assenso che non ha veramente bisogno di esplicitare. Però i suoi baci mi piacciono, perciò lo accetto con tutti i sentimenti.
- Oddio, Anis… - lo chiamo, cercando di reggermi in ginocchio senza tornare a cadere in avanti. Spero che lui continui a tenermi per la vita, o avrò poco da tentare in ogni caso, - Sto venendo… più forte… dai… - non so neanche cosa sto dicendo, è imbarazzante da morire. Cerco almeno di tenere la voce bassa. Oddio, spero che non ci senta nessuno.
- Piccolo… - spinge, spinge, accarezza e spinge, - Non ti sento…
- Anis…
- Cazzo, dillo forte!
Ed io lo urlo, cazzo, lo urlo e vaffanculo al resto, Anis, vaffanculo la crew, Anis, vaffanculo il non essere soli e l’ostinazione a non accettarmi e le umiliazioni che mi riservano quando non posso sentire ed anche i contrasti e le diffidenze, Anis, Anis, Anis, chiudo forte gli occhi e lui viene dentro di me, mi spingo contro il suo bacino e lo seguo col battito di cuore successivo.
Mi lascia andare ed io, prevedibilmente, cado in avanti. Meno prevedibilmente, lui mi segue, stendendosi su di me. Non pesa. È dolce.
- Non ti allontanare subito… - mormora. Sento le sue ciglia contro il collo, è una sensazione stupenda. – Abbiamo tempo.
- Non ne abbiamo. – rido a bassa voce, - Quelli sono ancora di là. – preciso.
- Sai che è insopportabile, quando lo dici? – ride, stringendomi alla vita. Poi sospira e scioglie le braccia, allontanandosi da me e rimettendosi in piedi. – Faccio subito. – commenta, abbottonando alla buona i jeans ed uscendo velocemente dalla camera.
Incuriosito, metto su un mezzo broncio che mi dispiace lui non possa vedere e mi avvolgo nel lenzuolo, alzandomi a mia volta in piedi e spiando attraverso la porta dischiusa ciò che avviene in soggiorno. C’è una bella visuale, piena e completa, da qui. Saad, Chakuza ed Eko stanno seduti sul divano, l’aria fra lo scazzato ed il forzatamente disinteressato. Eko ha le braccia incrociate ed un’espressione furiosa a stravolgere i tratti del viso, ma quell’uomo è così naturalmente divertente che non posso fare a meno di lasciarmi andare ad una risatina stupida.
Non dicono niente, si limitano a guardarlo mentre lui, controllatissimo, si china a recuperare una bottiglia di birra aperta e ne beve un sorso, tenendola saldamente per il collo.
Manda giù, la ripone sul tavolo e inarca le sopracciglia.
- Cosa? – chiede gelido, guardando tutti in generale e nessuno in particolare.
- Cosa, chiede lui. – borbotta Saad, alzandosi furiosamente in piedi, - Stavamo-
- Per concludere. – completa con aria assassina e sorriso sereno. – A domani?
Saad lo manda a fanculo. Eko scuote il capo e lo segue, borbottando qualcosa sull’amore che è una fregatura e basta. Chakuza non può fare a meno di ridacchiare. “Tu sei pazzo, Atze”, commenta – è una cosa che dice spesso – ma non mi sembra lo faccia con cattiveria. I rapper, comunque, valli a capire.
Sento battere la porta di casa meno di due secondi dopo.
Anis beve un altro sorso di birra.
- Finalmente soli, eh? – ghigna divertito, facendomi un cenno col capo per informarmi che sa esattamente che lo sto spiando da quando è andato via.
Sorrido, apro la porta e lascio cadere per terra il lenzuolo.

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This Moment Is Eternity

di lisachan
Se dovessi provare a descrivere quanto è bello in questo momento, neanche ci riuscirei. Anis non è una persona cupa, anzi, ride spesso, ma ci sono dei momenti in cui vedi che non sta solo ridendo, no, dietro c’è tutto un universo che sta nella sua testa e che è ciò che l’ha portato a sorridere in quella maniera. Sono i momenti in cui capisco che non ha fatto altro che pensare a me per ore, fino ad avere nella mente un’idea più che chiara di ciò che avrebbe dovuto dirmi, e quando ride così io so che lo fa perché ha progettato qualcosa di assolutamente meraviglioso e non vede l’ora di dirmelo.
Così si presenta oggi, apro la porta e lui è lì, appoggiato allo stipite, che mi fissa con un sorriso furbo da bambino monello che mi fa venire voglia di lasciargli addosso baci a stampo finché non gli vengo a noia.
- Principessa. – mi saluta con un cenno del capo vagamente simile ad un inchino, mentre io mi lascio contagiare dal suo sorriso e mi scosto dall’uscio per farlo passare. – Hai qualcosa da mangiare? Non ho ancora toccato cibo oggi.
Vorrei dirgli che non ricordo di aver comprato niente di commestibile, ma lascio perdere quando lo osservo infilarsi risolutamente in cucina ed uscirne subito dopo con una fetta di prosciutto che pende dalle labbra ed un bicchiere di succo d’ananas in una mano.
- Non so da quanto fossero in frigo… - lo avverto con una risatina.
Lui scrolla le spalle.
- Il sapore non è male. – mi rassicura, mandando giù il prosciutto. – A casa di Chakuza abbiamo preso tante di quelle intossicazioni epiche che mi sa che ormai ho l’intestino di ferro. – conclude bevendo d’un fiato anche il succo e dandosi un pugnetto sull’addome come a dimostrarmene la resistenza.
Penso che ho davvero un po’ paura di casa di Chakuza, me ne parlano tutti come di un posto molto pericoloso. A dare un po’ di corda ad Eko ti racconta di certi incontri ravvicinati con scarafaggi multiformi, nel bagno, da lasciarti agghiacciato. Non so, ho come l’impressione che quell’appartamento non vedrà la mia persona tanto presto.
Nel mentre, Anis si stiracchia soddisfatto ed il secondo dopo mi si abbatte addosso, strizzandomi in un abbraccio che sa di voglia e di una certa nostalgia stupida e pure molto tenera.
- Sono distrutto. – borbotta, - Voglio andare in pensione.
- Non sei ancora abbastanza vecchio. – lo rassicuro, visto che so che è esattamente quello che vuole sentirsi dire.
Lui ride e si china a baciarmi stringendomi per la vita, ed io sono già lì che allungo le mani cercando di eliminare lo stupido giubbotto che ancora lo avvolge per arrivare a toccare qualcosa di caldo, qualcosa di buono, qualcosa di suo, quando lui si allontana ridendo ancora, in uno sbuffo che riesco a soffocare fra le labbra solo in parte.
- Aspetta, aspetta. – mi dice facendo sfoggio di una pazienza che, dipendesse da me, schiaccerei sotto le scarpe per poi schienarlo sul letto, - Ho altri programmi per oggi.
- Io no! – biascico cominciando a spingerlo verso la camera da letto, piantandogli entrambe le mani sul petto. Lui ride e scuote il capo ma non protesta, indietreggia mentre lo spingo e continua a guardarmi come se fossi una cosa bellissima e inspiegabile. Adoro quando lo fa.
Impatta contro il letto e ci si lascia schienare davvero, mi fiondo entusiasta su di lui e sfilo via il dannato giubbotto che è peggio dei vestiti, perché è ruvido e freddo dell’aria della notte. Faccio per lasciarlo ricadere per terra ma lui mi ferma - “aspetta, aspetta!”, sempre ridendo, è meraviglioso il suono che fa – lo prende fra le mani e lo adagia con cura sul pavimento. Poi nota il disappunto nel mio broncio ed allarga le braccia – “okay principessa, riprendi da dove hai lasciato” – ed è tutto ciò che ho bisogno di sentirmi dire, afferro la maglia e la tiro via, resisto all’impulso di baciarlo ovunque solo perché devo disfarmi di tutti gli altri vestiti – i miei, i suoi, sono solo barriere inutili – e solo quando ci sono finalmente riuscito mi sistemo meglio sul suo grembo e mi struscio come un gatto contro la sua pelle, mi nutro del suo calore, lo sfioro ovunque ed ovunque mi lascio sfiorare. E lui continua a ridere. Ed è stupendo. Sono arrossito fino alla punta dei capelli e mi sento una liceale, ma in questo preciso istante non me ne frega un accidenti.
Mugolo un po’, rimettendomi seduto e incrociando le braccia sul petto.
- Ma non stai facendo niente! – mi lamento, imbronciandomi di nuovo.
Anis ride e solleva le mani a cingermi i fianchi, passa il pollice sul tatuaggio a forma di stella e lo disegna distrattamente, dandomi i brividi ovunque.
- Te l’ho detto che avevo altri programmi. – mi prende in giro con un sorrisino stronzo, ed io inarco un sopracciglio.
- E non li puoi cambiare? – chiedo, e sottolineo la richiesta spingendomi col bacino contro di lui.
Grazie a Dio Anis ha sempre reazioni corporee molto prevedibili, perciò mi prendo giusto un secondo per esultare interiormente quando vedo il suo sorriso cambiare colore e mi ritrovo all’improvviso rivoltato sul letto con tutto il suo peso addosso e le labbra schiacciate con forza contro il collo.
Lo abbraccio stretto, mugolando compiaciuto e sorridendo trionfante, visto che lui non può vedermi. Lui ride ancora – mi ride dritto sulla pelle – e borbotta “sarai la mia rovina, principessa”, ed io penso che mi va benissimo, perché lui è già la mia.
Non passa molto prima di ritrovarmi le sue mani ovunque, e rido divertito bisbigliando “non eri stanco…?”, mentre lui mi morde sul collo per mettermi a tacere. E d’accordo, penso io, non dico altro, da qui in poi solo mugolii, anche perché so che gli piacciono. E mugolo. Mugolo mentre mi sfiora e mi bacia e mi accarezza piantandomi le mani addosso di prepotenza, scrivendomi sul corpo l’intensità del suo desiderio, un desiderio che gli pulsa fra le gambe con una furia incontrollata, lo stesso desiderio che accolgo dentro di me fra i suoi, i miei, i nostri sospiri, il desiderio che lui spinge con forza fino in fondo al mio corpo, fin dove fa male e fin dove mi fa godere di più, il desiderio che mi costringe a piantargli le unghie nella schiena e i denti nella spalla, il desiderio per cui ansima contro la mia pelle, lo stesso desiderio per cui ansimo anche io. Il desiderio per cui vengo fra le sue dita è lo stesso per cui lui viene dentro di me. Siamo identici. Siamo uno. Siamo perfetti e questo momento è eterno.
Riprendo a respirare lentamente, fra le sue braccia, schiacciato fra il suo corpo e il materasso. Inspiro il suo odore, quello un po’ acre del suo sudore che si mischia all’odore del tabacco ed a quello del dopobarba. Rimango semplicemente immobile, gli occhi chiusi, e so che finirei per addormentarmi se lui non si riscuotesse e si mettesse seduto sul letto al mio fianco. Non si copre, non ha il minimo senso del pudore. Gli getto addosso il lenzuolo solo perché, in caso contrario, non riuscirò mai a smettere di guardarlo.
- Allora, questi grandi piani che avevi? – sbotto, cercando di darmi un tono mentre mi sistemo a mia volta, coprendomi come posso e ritrovandomi immediatamente addosso le sue mani che tirano via le coperte un po’ per infastidirmi ed un po’ perché gli piace fissarmi.
- Ah, già! – e gli ricompare sulle labbra il sorriso giocoso col quale è arrivato, mentre si sporge oltre il mio corpo e recupera il giubbotto da terra, posandoselo in grembo, - Hai dei peluche?
Inarco le sopracciglia.
- …quando sono venuto a vivere qui, Tomi mi ha obbligato a portarmi dietro i regali delle fan, c’è uno scatolone da qualche parte… - rifletto, - Tipo sull’armadio, controlla. Perché, comunque?
Anis annuisce ma non risponde. Si alza in piedi ed io distolgo lo sguardo perché altrimenti da questa situazione non uscirò mai vivo, ma lo osservo comunque tirarsi dritto sulle punte per raggiungere lo scatolone in cima all’armadio e poi tirarlo giù, rovistando all’interno. Ne tira fuori un paio di slip e cinque o sei reggiseni di cui non ricordavo l’esistenza. Li tiene su due dita, inarca le sopracciglia e un po’ mi prende in giro, un po’ è infastidito dalla loro presenza.
- Buttali via! – protesto imbarazzato, e lui ride e li rimette a posto. Dopodiché comincia sistematicamente a tirar fuori ogni singolo peluche mi sia stato regalato nell’ultimo anno, e li sistema ordinati sul pavimento, a ridosso della parete, proprio di fronte al letto. Uno accanto all’altro, come un plotone d’esecuzione.
Comincio giustamente a temere.
Lui rimira il lavoro soddisfatto ed io gli tiro addosso i pantaloni sperando indossi almeno quelli. Li ignora felicemente, lasciandoli ricadere a terra per poi voltarsi e tornare a sedersi accanto a me sul letto, prendendomi fra le braccia e costringendomi a sedermi praticamente addosso a lui. Non che mi dispiaccia, ma palesemente non uscirò vivo da questa situazione.
- Allora, principessa, stasera ti insegno una cosa che, in quanto mio compagno, devi saper fare per forza.
Io dovrei preoccuparmi, ma mi ha appena detto che sono il suo compagno, perciò decido che me ne frego, qualsiasi cosa sia la farò.
- Cosa? – chiedo curiosamente mentre mi sistemo contro di lui cercando di non scatenare imprevedibili reazioni a catena né nel mio né nel suo corpo.
È lì che lui si allunga verso il giubbotto, lo riporta vicino e fruga un po’ nelle tasche. E poi riemerge con la Heckler. Io la guardo con un po’ di timore perché generalmente evita di tirarla fuori in mia presenza. È una cosa tremenda, mi ricorda pezzi di lui che preferirei ignorare del tutto – e che per contro non posso ignorare affatto. Perché sono il suo compagno, appunto.
- …Anis, tu non vuoi, vero, che io-
- Userai i peluche come bersagli. – annuisce tranquillamente lui, - Non preoccuparti, ti aiuterò io, le prime volte.
- Anis, io non posso sparare ai peluche! – cerco di tirarmi indietro, ma lui ride, posa la pistola e mi stringe in un abbraccio fermo e deciso, soffiandomi sul collo.
- Calmati. – dice a bassa voce, - Sono solo pezzi di stoffa. Non sono neanche tuoi. E poi devi saperlo fare.
Il suo fiato sulla pelle non è veramente sostenibile. Cerco di distrarmi.
- Sentiranno gli spari…
Torna a sollevare la pistola.
- Vedi questo? – dice, indicando una specie di cilindro sulla punta, - È il silenziatore. Sai cosa significa? Che, quando spari, si sente solo una specie di psiuh.
Rido un po’ perché il suono che ha fatto è abbastanza ridicolo. All’improvviso, mi viene voglia di sentirlo, questo psiuh. Allungo una mano, il palmo bene aperto, ed Anis sorride e mi consegna la pistola. Naturalmente, è pesante da morire. La mia presa fa schifo e sia la mia mano che la pistola cadono sul materasso. Anis ride ed io mi imbarazzo furiosamente, distogliendo lo sguardo.
- Riprendila, dai. – annuisce incoraggiante. Io obbedisco. La tengo con due mani, me la rigiro fra le dita. È fredda ed enorme e così dannatamente impersonale che vorrei gettarla via.
- Fosse mia, le metterei un po’ di teschi qua e là… - rifletto a mezza voce, - È così spoglia…
Anis ride di cuore, la sua risata vibra tutta attraverso il mio corpo ed io mi ritrovo a pensare senza un perché che mi piace amplificare la sua voce. Dovrebbe parlare solo attraverso di me.
- Avanti. – riprende lui, stringendo le mie mani fra le sue e puntando la pistola verso il primo peluche della fila, una specie di topo deforme con le ali viola. – Spariamo a lui. È brutto, vero?
Lo osservo.
- È un insulto al decoro, direi.
Anis annuisce.
- Ora lo togliamo di mezzo. Uno psiuh e resterà solo un mucchietto di ovatta. Ci sei? – annuisco e mi concentro, aggrottando le sopracciglia. Anis ride ma so che lo fa perché mi trova tenero. Le sue risate hanno toni così differenti e precisi che, una volta imparate tutte a memoria, potrebbe anche solo ridere senza dire una parola per tutto il resto della sua vita, e lo capirei comunque.
Socchiudo gli occhi. Non intendo prendere la mira. Lascio che lo faccia Anis, dietro di me. Premo l’indice sul grilletto e lui preme il proprio sul mio. Pressa più forte di me.
Fa davvero psiuh. È un suono talmente ridicolo, e il topo viola si sfalda con una facilità così sciocca che non so, per un secondo dimentico di stare maneggiando una pistola e scoppio semplicemente a ridere. Così, piegandomi pure un po’. Anis si abbatte contro la mia schiena e ride a propria volta, lasciandomi un bacio su una vertebra a caso, ed io riapro gli occhi e vedo la pistola enorme fra le mie mani piccolissime fra le sue che invece sono grandi e forti e sono felice di una felicità molto molto stupida. Che forse non dovrei provare. E che però è qui e mi riscalda tutto.
- Bene! Abbiamo tolto di mezzo il topo viola. – commenta entusiasta Anis, - Passiamo al prossimo. – e punta contro il successivo.
- Ma no, è un gattino… - mi lamento io, mugolando infelice, - È carino, lasciamolo per ultimo!
- Vero. I belli sempre per ultimi, prima li si scopa, poi li si ammazza. L’arte della guerra. Sei un talento! – mi prende in giro lui, baciandomi sul collo. Io rido.
- Quell’altro. – dico, indicando un drago con due orribili occhi rossi e pallati, - Mi inquieta, posso sparare a lui?
Anis sorride compiaciuto.
- Provi da solo? – io annuisco. – Se fai centro, un bacio in premio.
Psiuh.
Il drago è illeso, in compenso la carta da parati non può dire lo stesso.
Il bacio in premio, però, visto che sono la principessa, lo prendo comunque.

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Natural Disaster

di lisachan
La casa di Anis mi ha sempre messo un po’ di paura.
Prima di tutto perché, oltre ad essere spaventosamente gialla, è anche spaventosamente grande. La odio proprio concettualmente, perché è una stupida casa da single straricco. Una casa da rimorchio, ecco. Quella che, quando la ragazza di turno si avvicina, provoca gridolini isterici e oh, mio dio, hai anche la terrazza? E me lo vedo lui, che sorride e risponde non è una terrazza, e poi le porta su, all’ultimo piano, e c’è la serra con il soffitto in vetro completamente apribile, come un’enorme finestra sul cielo.
No, dico, una serra.
Che se ne fa un rapper di una serra?
Neanche la cura lui!
Però gli piace, dice che dentro ci si trova bene e che ogni tanto gli piace fare crescere le cose. Vallo a capire.
Comunque sia, odio questa casa e ne ho pure paura. Poco da fare.
Ogni tanto, però, mi ritrovo a passarci giornate intere completamente da solo. Non è neanche così inusuale: ultimamente, poi, col fatto che passiamo a Berlino la quasi totalità del nostro tempo, è questione quasi quotidiana. Non ce la faccio a stare tutto il giorno appresso a Tom, non ce la faccio perché per Tom ogni occasione è buona per ricordarmi che odia il mio uomo ed odia il fatto che io ci stia insieme.
Visto che, per quanto mi riguarda, parlerei di Anis tutto il giorno, le occasioni per Tom si moltiplicano all’infinito, e la cosa è… frustrante.
Perciò, visto che non ci vuole niente ad afferrare Saki e strillare “scortami”, lo faccio spesso. Di solito qui c’è sempre Karima ad attendermi. Anche se ha sempre qualcosa da fare – e ci credo: questa casa è enorme e lei la governa praticamente da sola – trova sempre un po’ di tempo per farmi il tè al gelsomino, ed è una cosa fantastica. Anche perché di solito poi ci mettiamo a parlare e vengono fuori cose meravigliose tipo “quella volta che il signor Ferchichi si ritrovò un gatto in balcone e per poco non si ammazzò cadendo di sotto nel tentativo di recuperarlo prima che s’infilasse nella serra”, o altre amenità simili.
Il mio uomo, ovviamente, non si degna di farsi vedere prima delle otto di sera, minimo. Mi chiedo cosa se ne faccia di questa casa – cosa se ne faccia di tutti i suoi appartamenti, in genere – se poi ne usa solo le camere da letto, per dormire o altro, dipende. Dovrebbe imparare ad usare gli ambienti in maniera più creativa. Che so… dormire in salotto, o sul tavolo della cucina. Così tutte le stanze avrebbero un loro perché.
Oggi, quando sono arrivato, la casa era desolatamente vuota. Ho lasciato scivolare le chiavi sulla consolle all’ingresso, ho buttato in un angolo la borsa ed ho improvvisamente realizzato che è venerdì: ciò significa giornata libera di Karima e… per Anis non lo so, lui è sempre pieno di impegni, non ha un giorno libero neanche a pagarlo. Che poi lo pagano per tenersi impegnato, quindi mi pare pure normale.
Mi sono aggirato con aria da zombie per le stanze che conosco – vale a dire l’ingresso, il salotto e la cucina – poi sono andato a spalmarmi sul suo letto in camera, ho rotolato fra le lenzuola, ho disfatto tutto, combinato un casino epocale e poi, sorridendo come un bambino, sono tornato nella sala e mi sono gettato sul divano a peso morto, andando alla ricerca del telecomando per accendere la tv e vedere se per caso beccavo qualcosa di interessante – lui. Me. Nena. E così via.
Alla fine, mi sono rassegnato. Il vuoto regnava incontrastato ovunque e l’unica cosa interessante che ho scoperto dalla televisione è che VIVA non ci passa più spesso quanto prima. In compenso, ha i Killerpilze in rotazione continua, e ciò è oltremodo irritante. Dovrò parlarne con David.
Rimango accucciato sul divano, le adidas a strisciare con una certa crudele lentezza sulla pelle nera e – precedentemente – immacolata del cuscino, e proprio quando mi sembra di cominciare a sentire le voci nella testa per la noia – tipo: c’è mio fratello che continua a ripetermi “te l’avevo detto, che ti avrebbe trascurato!” – ricordo un particolare fondamentale e importantissimo che potrebbe cambiare la mia giornata.
Ultimamente, Karima s’è fatta prendere da una certa mania salutista che non so sinceramente da chi abbia preso – posso solo pensare all’unica, singola e mai ripetuta volta in cui David è passato di qui per riportarmi a casa ed Anis l’ha invitato a restare per cena.
No, la cosa va raccontata. A parte il fatto che mi sono sentito enormemente orgoglioso del mio uomo, per come in due-sorrisi-due sia riuscito a stregare David al punto che dopo cena ha accettato anche di andarsene a mani vuote, cioè senza il sottoscritto. Ma poi quest’uomo che in teoria mi ha quasi cresciuto ha fatto in dieci minuti più capricci di quanti ne faccia io in una settimana intera. E non vuole mangiare carne, e la salsa è troppo piccante, e nella pasta non ci saranno mica dei fegatini, perché io non li posso mangiare!
Insomma, la povera Karima gli ha dato da mangiare una ciotola di biada, tipo, e lui le ha fatto un sorriso talmente enorme e grato che credo l’abbia turbata nel profondo.
Perciò ha deciso che in questa casa si mangia solo lattuga.
Ora, se qui ci vivesse David, la cosa sarebbe pacifica: lui e Karima continuerebbero a ruminare erbacce e si amerebbero per tutto ciò che resta delle loro vite. Purtroppo, però, in questa casa orribile ci vive Anis, che è tutto meno che vegetariano, e quando torna a casa in genere è così affamato che bisogna ringraziare non ci mangi me e la cameriera crudi e vestiti per come siamo.
Si può immaginare bene che per un uomo impegnato come lui tornare a casa e trovare una vasca di roba verdognola e umidiccia non sia esattamente il ritratto di una cena perfetta. Certe volte guarda Karima con occhio triste, chiedendosi dove sia finita la brava cuoca tunisina cipolla-friendly che credeva di conoscere.
E poi, una o due notti fa, me l’ha confessato. Stavamo arrotolati sul suo letto, io stavo cercando di convincerlo a scoparmi ancora ma con scarsi risultati – anche Anis ha i suoi limiti, c’è da dirlo – e lui ha grugnito un dissenso random e poi ha detto “Ho fame. Mi mangerei un vitello. Karima mi affama. Voglio del kebab”. Così, tutto di seguito. I punti neanche c’erano, li aggiungo io per facilità di pensiero, perché mi dà fastidio ammettere che qualcuno oltre me possa pensare senza punteggiatura.
Ed ecco che ogni mio problema si risolve. So cosa fare!
Balzo in piedi senza spaccarmi in due per un motivo che posso imputare solo al sacro fuoco dell’amore che mi sostiene – altrimenti la mia schiena non avrebbe retto, posso giurarlo – e mi fiondo in cucina. Questo posto che mi è totalmente alieno. Io non cucino mai. Io faccio cucinare mio fratello, e non perché sia bravo, ma perché non voglio prendermi responsabilità in questo senso.
Vengo colto da un momento di panico.
Cosa sto facendo? Non voglio veramente farlo.
Poi mi torna in mente il mio Bu senza virgole e con tanta fame e sospiro.
Dunque, il manuale delle ricette di Karima dev’essere qui da qualche parte. Lei lo tira fuori solo in occasioni speciali, per piatti inusuali o che comunque non prepara da tempo, ma fortunatamente ha appuntato anche un sacco di ricette più semplici, più che altro perché quando è solo Anis lo usa per cucinare le uova coi piselli in tegame, per dire. Ha bisogno delle spiegazioni passo dopo passo.
Mi guardo intorno. La mensola. Ci sono tutta una serie di gioiosi libri. Mi avvicino con aria sprezzante e godo internamente nel non aver bisogno dello sgabello su cui Karima si arrampica di continuo, per arrivare a vedere i titoli sulle costine. In mezzo a un sacco di roba inutile, una copertina in pelle marrone un po’ logora mi colpisce, ed io sorrido. Ecco qua la mia Bibbia per le prossime due ore.
Tiro giù il volume e lo apro sul tavolo con una certa sacralità. Non posso credere che ci sia la ricetta per il latte e biscotti – comprensiva di conteggio preciso dei secondi per i quali il singolo biscotto può stare a mollo senza sfaldarsi – o quella per montare la moka, eppure ci sono. Se non fosse ridicolo sarebbe tenero. Prendo nota mentalmente di sfottere Anis fino alla morte per tutto ciò e passo avanti.
La ricetta del kebab ovviamente c’è. È verso la fine – ricette di livello avanzato, leggo scritto sulla pagina che le precede – e già ad una prima occhiata so che non le sopravvivrò. Intanto, già qua mi dice che ho bisogno di una cinquantina di fette di carne. Ora, non esiste. Sarò già fortunato a trovarne due. Facciamo che cerco di moderare le quantità degli ingredienti, ecco.
Corro verso il frigorifero giallo come la casa che domina incontrastato la cucina dall’alto dei suoi quasi tre metri d’altezza, e mi fiondo nel reparto carne – che poi è un cassetto accanto al reparto salumi, che è un altro cassetto.
In effetti, sono piuttosto fortunato: ben tre bistecche attendono solo che io le trasformi in qualcosa di commestibile.
Per un attimo mi chiedo se le bistecche vadano bene, come tipo di carne. Non ne sono proprio sicuro, qua la figura – sì, ci sono le foto, fissate alla pagina con le puntine da disegno rosse a pallini neri, come le coccinelle – sembra completamente diversa, ma comunque. Scrollo le spalle: in fondo è l’unica carne che c’è.
La ricetta ora dice che devo insaporirla con le spezie e marinarla.
Marinare non so nemmeno cosa significhi, sinceramente. Dovrei metterla a mollo in acqua salata?
Be’, le spezie, prima. Apro uno stipetto e tiro fuori tutto ciò che mi sembra possa corrispondere alla descrizione. Origano, menta, peperoncino, cannella… coriandolo? Che razza di nome è coriandolo, per una spezia? Ma poi, dovrò metterle tutte insieme?
La ricetta non è così specifica. Forse Karima sapeva che Anis non ci avrebbe mai messo su le mani, perciò non l’ha resa Bushido-friendly.
Mi piace questo modo di appellarmi alle cose.
Questa ricetta non è Bill-friendly, comunque. Ma è ciò che Anis vuole, perciò lo preparerò.
Dunque, afferro un pentolone da uno dei ripiani sotto il lavello, lo riempio d’acqua, spargo un po’ di sale e ci butto dentro le tre fette di carne. Fanno splash e si posano sul fondo senza ribellarsi. Annegano, ed io spargo sopra le ceneri di questo funerale. Origano, menta, peperoncino, cannella e pure coriandolo, che in realtà me l’aspettavo più simpatico, e invece e una roba fatta di palline inquietantissime.
A questo punto, suppongo vada cotta. Lancio un’occhiata a caso al ricettario e vedo un “un’ora e mezza circa” che immagino sia il tempo di cottura. Sinceramente, il tutto mi fa un po’ senso, perciò decido che basta così: accendo il fuoco sotto la pentola, ci metto su un bel coperchio e chiudo il tappo in alto, così il vapore non fugge via, e poi abbandono la cucina. Tornerò a controllare quando sarà scaduto il tempo.
Nel mentre, vagolo un po’ per casa. Questo posto è noiosissimo, quando non c’è nessuno in giro. Tanto per cominciare, c’è un silenzio di tomba, e questa cosa è inquietante. Continuo ad aspettarmi che salti fuori qualcuno random da un angolo, brandendo un coltello o qualcosa di peggio. È spettrale. Il fatto che qui intorno sia tenuto d’occhio da qualcosa come dieci o quindici guardie del corpo non mi rassicura minimamente.
Saltello in salotto e mi riapproprio del divano. Il telefono, dal tavolino alto qui a fianco, mi guarda e mi fa l’occhiolino. Potrei chiamare Tom, ma suppongo che litigheremmo. Potrei chiamare Anis, ma poi capirebbe che sono qui e vorrei fargli una sorpresa. Magari chiamo Chaku. No, e se poi è con lui e glielo dice? Be’, potrei sempre aprire la telefonata strillando “Non dirgli assolutamente che sono io!”, ma poi succederebbe come l’ultima volta, che lui sarebbe costretto a rintanarsi in un angolo e tutti si metterebbero a sfotterlo dicendogli che se ha una donna deve presentarla alla crew come tutti gli altri. E così poi lui dovrebbe dire che ero io e, a parte rovinare la sorpresa, Anis s’incazzerebbe pure, perché quando va in modalità è-mio-e-nessuno-lo-tocca io posso anche dirgli che Chaku è adorabile ma non ci combinerei mai niente, lui non mi ascolta comunque.
Insomma, non mi resta che annoiarmi. Annoiarmi e aspettare che il mio kebab – che, visto l’amore che ci ho messo nel prepararlo, non potrà che risultare buonissimo – sia pronto.
Un’ora e mezza.
Magari, se metto la sveglia nel cellulare, posso farmi una dormita…
*
Mi sveglio presto. Nel senso che la suoneria del cellulare non è ancora suonata. Lo so perché l’orologio piccolo tondo e giallo che fa da indicatore è ancora lì sul display. Quando suona, scompare. E invece è ancora lì. E io sono già sveglio. Il mio orologio biologico è molto ingiusto, nei miei confronti.
Poi realizzo di botto che il mio orologio biologico sta cercando di salvarmi la vita. Lo realizzo nel momento stesso in cui sento un fischio dannatamente spaventoso provenire dalla cucina e svegliarmi del tutto.
Salto giù dal divano e corro verso il mio povero kebab. Il tappo della pentola salta – è come un’esplosione, batte contro il soffitto e poi cade a terra, io strizzo gli occhi terrorizzato.
- Cristo! – rantolo in un impeto di frustrazione, mentre cerco di avvicinarmi alla pentola senza finire ustionato dagli schizzi d’acqua o abbrustolito dal fumo. Acqua, per la verità, ne è rimasta ben poca, e s’è trasformata in una brodaglia rappresa e schifosa che fa un puzzo infernale. La carne s’è carbonizzata quasi tutta, e le uniche cose che riesco davvero a distinguere sono le palline di coriandolo, ancora perfettamente sferiche, solo un po’ tostate, mescolate a granelli e fogliette di ogni tipo di schifezza.
Mi viene da vomitare.
Allungo una mano e faccio girare la manopola del fornello, spegnendo il fuoco.
Oddio, non so che fare.
Provo a prendere la pentola dalle maniglie, ma mi rendo conto anche a qualche centimetro di distanza che sono incandescenti. Dio, farò del male a Karima per tutto ciò. La sua ricetta era tutta sbagliata e troppo complicata da seguire, e vaffanculo!
Non so come mettere a raffreddare questa cosa.
Dio, è così calda che ho paura si possa sciogliere.
Ma l’acciaio inossidabile sarà pure… inscioglibile? Ma esiste, la parola?
Dio. Dio, dio, dio. Mi odio così tanto, cazzo.
Rifletto un po’. Mi viene da piangere, merda. Non ci riesco, a riflettere.
Penso solo al frigo. È mezzo vuoto, il giorno della spesa è domani, non c’è quasi più niente. Ci sarà lo spazio per una pentola. Apro lo sportello e vedo che, in effetti, c’è un ripiano completamente vuoto. È quello dei dolci, sta in alto, più vicino al freezer. Magari è pure più freddo. Magari, se la metto lì, si rinfresca più in fretta, ed avrò pure il tempo di pulire tutto questo disastro prima che Anis torni. Magari la scampo.
Dio. Voglio piangere.
Prendo la pentola con due strofinacci umidi e la metto là in alto. È una cosa tremenda. Stavo per morire! Stavo anche per fargli esplodere la casa, ma soprattutto stavo per morire! Già me lo vedo, tutto in nero al mio funerale, con un completo sobrio e semplice, le scarpe nere e lucide ed una camicia scura, senza cravatta, un cappello a tesa larga calato sul viso. Bellissimo! Ed io in una stupida bara a farmi mangiare dai vermi. Non posso credere di avere quasi privato il mio Bu della mia presenza, è una cosa indecente.
Piagnucolo un po’ mentre esco dalla cucina e vado di nuovo verso il telefono. Ho dannatamente bisogno di parlare con qualcuno. Accarezzo l’idea di chiamare comunque Tom, senza un perché, non m’interessa che mi rimproveri o mi prenda in giro, ho voglia di sentire un essere umano che mi parla. Potrei chiamare Anis e dirgli di venire subito, ma fare la solita figura del cretino che non sa come risolvere i guai in cui si caccia, e sinceramente non voglio che sia questa l’idea che ha di me. Non voglio che pensi di non potermi lasciare solo a casa senza che io combini qualche danno, anche se è vero che se mi lascia solo a casa ne combino.
Mentre sto qui ad accarezzare la cornetta di questo stupido e vecchio telefono d’epoca che non sono neanche sicuro funzioni, perché quando è in casa Anis va in giro col cordless ed usa solo quello, sento uno strano frizz frizz proveniente dalla cucina. Ho appena il tempo di sollevare il capo e dirmi “oddio, ancora no, ti prego”, che sull’intera villa cala un buio pesto e sconvolgente.
- Oddio… - mugolo terrorizzato, portandomi una mano sul petto, - Oddio… - cerco di muovermi senza urtare niente, ma non è facile perché i mobili non ricordo esattamente dove sono, sono troppi, perciò sbatto un po’ ovunque e domani avrò tanti di quei lividi che cominceranno tutti a pensare Anis mi picchi, ne sono sicuro.
Raggiungo la cucina e cerco di capire se sia successo qualcosa di irreparabile o se sia solo un guasto momentaneo, quando poso il piede su qualcosa di umido e scivoloso e casco a terra di schiena.
- Merda… - cerco di muovermi. Sono praticamente immerso in una pozza d’acqua. Mi sono infradicito tutto. Mi fa male la schiena ed anche il sedere, vaffanculo. Non so cosa sia successo ma di sicuro è una cosa tremenda, qui è tutto bagnato ed io non so più dove sbattere la testa, e la voglia di piangere non è più nemmeno una voglia, perché sto piangendo davvero. Coi singhiozzi e tutto. È tremendo. Sono un cretino.
Mi sollevo sui gomiti e, già che ci sono, mi bagno pure lì. Questo fottuto frigorifero non voglio neanche provare ad aprirlo. Che esploda pure, se vuole. Fanculo lui e tutto il resto.
Mi trascino stancamente fino all’angolo più lontano della cucina, e se non divento un disgustoso ammasso di schifezze devo ringraziare solo Karima che passa lo straccio due volte al giorno. Mi raggomitolo contro la parete e chiudo gli occhi, perché tanto non vedo niente ed in ogni caso, anche se vedessi qualcosa, non mi andrebbe di guardarla.
Resto così non so per quanto tempo. Posso sentire solo i miei singhiozzi e i miei respiri strozzati. Sono esattamente il bambino per cui mi piace farmi passare. Non esiste un Bill Kaulitz più maturo, sono una stupida maschera da palcoscenico. Non c’è niente di maturo o di adulto, in me, e non ho la minima idea del perché Anis mi trovi attraente o possa desiderare di stare con me, difendermi o mettersi nei casini mentre lo fa. Non me lo merito. Non mi merito niente. Faccio schifo.
Quando sento le chiavi girare nella toppa e la porta aprirsi e poi richiudersi, vorrei davvero chiamarlo. Ma un po’ mi vergogno, un po’ ho paura di ciò che potrebbe dire, un po’ proprio non mi riesce di smettere di piangere, perciò rimango qui a singhiozzare come un deficiente e neanche mi muovo, anzi, stringo ancora più le ginocchia al petto, fino a scomparirmi dentro.
Un interruttore scatta a vuoto. Una volta, due volte.
- Ma che…?
La voce di Anis mi fa saltare in cuore in gola. Mi sento soffocare e tossisco un po’.
- Chi c’è? – chiede lui, il tono fermo e deciso col quale immagino sia pronto ad affrontare qualsiasi devastazione.
Ma eri pronto per una devastazione simile, Anis…?
- Sono io… - piagnucolo disperato, stringendomi nelle spalle, - Sono in cucina…
La gomma delle suole delle sue scarpe da tennis striscia sulle piastrelle in marmo misto e si muove velocemente nella mia direzione.
- Bill? – chiede dolcemente, - Piccolo, ma dove sei? Da quando se n’è andata la luce?
- Non se n’è andata… - continuo a piangere, mentre lui prova a far scattare l’interruttore della cucina, anche stavolta senza successo, - L’ho fatta andare via io… - motivo confusamente, raggomitolandomi a palla.
Lui ridacchia, un po’ incerto.
- Non sei affatto così brutto. – cerca di consolarmi, - Ma mi dici dove sei?
- Qua in fondo! – strillo istericamente, sollevando il capo e battendolo forte contro qualcosa che non voglio identificare. – Ahi… - mugolo, - Mi va tutto storto, è un disastro…
- Okay, senti, calmati. – dice lui, conciliante, - Vado a prendere una torcia. Non ti muovere.
E chi ci pensa. Rimango in silenziosa attesa del suo ritorno, e sollevo lo sguardo solo quando sento la luce giallastra e calda della torcia scivolarmi curiosamente sul corpo.
- Cazzo, piccolo, ma che è successo…? – chiede lui, fissandomi sgomento dalla porta della cucina, - Ma stai bene?
- No. – rispondo a bassa voce, tornando ad abbassare lo sguardo.
La torcia mi abbandona. Vaga intorno al mio corpo, davanti al frigo, sui fornelli.
- Non dirmi che hai provato a cucinare… - esala lui, senza fiato e senza muoversi.
Io non rispondo.
- Bill, dai. – mi richiama pazientemente, - Vieni qui. Su.
- No! – ripeto ancora, più deciso.
Non so cosa sto facendo. Mi sento una merda e basta.
Anis sospira ed evita la pozzanghera, raggiungendomi ed accucciandosi al mio fianco, stringendomi immediatamente fra le braccia. Mi ci sciolgo senza pensare, affondando nella felpa che ha il suo profumo ed è morbidissima, al contrario della merda che mette Tom e che mi irrita sempre il viso.
- Mi dici cosa è successo? – chiede dolcemente.
- Tu volevi il kebab! – rispondo ansioso, aggrappandomi con forza alla sua maglia.
- Aha. – annuisce, - Okay, è colpa mia?
- …vaffanculo.
Anis ride fra i miei capelli. Capisco che stava scherzando. Non è che non lo sapessi, ma la sua risata mi conforta, un po’.
- Senti, è tutto okay. Ci sarà stato un corto circuito. Adesso tu mi reggi la torcia e lo sistemiamo, d’accordo?
È carino che abbia usato il plurale. Voglio dire, io non sarò mai e poi mai in grado di riparare un guasto all’impianto elettrico, non so neanche cambiare le lampadine, voglio dire, non sono nato per fare cose simili!, ma è lo stesso carino che lui provi a farmi sentire parte di questa cosa.
- Ti tengo la torcia… - annuisco piano, rimettendomi in ginocchio e poi in piedi, mentre lui continua a sorreggermi come avesse paura di vedermisi sfaldare fra le mani.
Lascia la cucina e torna qualche secondo dopo con una cassetta degli attrezzi.
No, vorrei ripeterlo: una cassetta degli attrezzi.
C’è qualcosa che non sappia fare?
- Vieni qui, dai. Diamoci una mossa. – dice spiccio, afferrando quei millemila quintali di frigorifero e spostandoli come niente.
- Ma… è pesante… - commento annichilito.
- Ha le rotelle, sotto. – risponde lui con un mezzo sorriso, chinandosi sul pavimento. – Aspetta. – borbotta, - La maglia è nuova, non la posso distruggere così. – la tira via con un gesto accorto e immediato, e me la tende educatamente, - Reggi?
Prendo la maglia e gli pianto la torcia addosso.
- Sì, ma non negli occhi. – sorride lui, riparandosi dalla luce - Tanto vuoi guardare più in basso, no?
Arrossisco e gli punto effettivamente la torcia sul petto.
- Ma la smetti di fare il cretino? – ride ancora, ed io non posso fare altro che seguirlo. – Puntamela qui sulla presa. – ordina poi, tornando serio. Io ubbidisco e lo sento mugugnare. – Eh, infatti, guarda, è perché s’è bagnato tutto. Magari dentro non s’è neanche bruciato. Il salvavita in teoria dovrebbe scattare prima. Mi passi il cacciavite a croce?
- Il che…? – chiedo, un po’ disorientato. Mi fa stranissimo sentirlo parlare così. L’uomo del ghetto, voglio dire. Ma com’è che non lo prendono a calci dalla mattina alla sera, quelli della crew? Io lo farei. Chakuza, che è un peluche, in confronto mi sembra un vero uomo di strada, al momento.
- Lo riconosci subito. – dice lui senza scomporsi, - Ha il manico rosso e giallo, è praticamente fosforescente.
Facilmente individuabile al buio. Sono ufficialmente sconvolto.
Lui stacca la presa, la apre, la tasta un po’.
- Sì, è bagnato ma non è andato in corto. – si volta e mi sorride. Io non lo vedo, perché la torcia è di nuovo puntata altrove, visto che la presa e gli addominali sono troppo vicini per puntare una ed ignorare gli altri, però lo sento lo stesso. – Siamo stati fortunati. – decreta alla fine, - Questa la lasciamo asciugare tranquilla ed ora riattacchiamo la luce. – annuisce e si rimette in piedi. Io me lo ritrovo improvvisamente a due centimetri dal mio corpo, mezzo nudo, lievemente sudato e coi pantaloni fradici d’acqua.
Non so come faccio a resistere alla tentazione di schienarlo e farmi scopare ora e subito.
- Passato lo spavento? – chiede, inclinando lievemente il capo.
Io annuisco senza neanche respirare.
- Perfetto. – annuisce anche lui, - Aspetta qui, vado a riattaccare l’interruttore principale.
Fa per muoversi e lasciare la cucina. Lo afferro per la cintura e lo tengo fermo.
La torcia cade a terra, per un qualche miracolo non si rompe e rotola oltre il suo corpo, proiettando le nostre ombre sulla parete di fronte.
Non dico niente. Socchiudo gli occhi. La sua ombra si china sulla mia e poi mi sento addosso le sue labbra.
- La luce può aspettare. – sussurra contro il mio collo.
Sorrido e mi lascio sollevare sul tavolo.

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Gegen Meinen Willen

di tabata e lisachan
Io mi chiamo Tom Kaulitz e in questa storia di me non sentirete parlare.
Forse vi hanno abituato a sentire il mio nome affiancato a quello di mio fratello ma la mia presenza, negli eventi che seguono, non è rilevante. Io con Bushido e con Bill non c'entro niente. L'Esguterjunge e l'Aggro Berlin erano e sono rimaste per me soltanto due etichette che sfornavano buona musica. Del loro incontro, del loro stupido fidanzamento e della catastrofe che ne è conseguita io non sono che uno spettatore, e neanche uno dei più attivi. Non sono mai stato d'accordo con Bill per le scelte che ha fatto e i fatti, alla fine, mi hanno dato ragione. La sua storia con Bushido è durata un anno. Adesso, qualche mese dopo la sua morte, Bill è un mucchio di cocci rotti che non sa rimettersi insieme.
Ovviamente, l'inizio di questa storia non coincide col momento in cui essa è iniziata per me. Bill e Bushido stavano già insieme da un sacco di tempo prima che io venissi a saperlo, ma dei mesi che hanno preceduto la mia scoperta della faccenda non mi interessa. Anzi, non voglio proprio saperne niente. Bill ha cercato tante volte di raccontarmi, ma non gliel'ho mai permesso.
Non voglio sapere come sia stato possibile che uno come Bushido sia finito a farsela con mio fratello. Non voglio sapere cos'ha provato Bill a baciare - o qualsiasi altra cosa - un altro uomo. Io voglio bene a Bill e lo accetto per quello che è. Ma i dettagli no, grazie.
Dunque, ricordo molto bene il giorno in cui tutto questo è iniziato per me. Me lo ricordo per due motivi precisi: il primo è che non vedevo mio fratello da una settimana; il secondo è che se tuo fratello ti dice, tutto in una volta, che è omosessuale e si scopa il tuo cantante preferito, te lo ricorderai a vita. Ve lo assicuro.
Io e Bill abbiamo appuntamento in questo ristorante che io adoro, ed è una specie di RoadHouse americana dove servono bistecche grosse come cavalli. Dovrei sapere che quando Bill si offre di pagare e acconsente a pranzare in un posto del genere deve farsi perdonare qualcosa ma in quel momento non ci penso. E non ci penso perché Bill è appena tornato da chissàdove. Non ha voluto dirmi dove andava quando è partito sette giorni fa, e nonostante mi telefonasse quattro volte al giorno, tutti i giorni, si è sempre rifiutato di dirmelo. Così, quando lo trovo già seduto ad un tavolo in quel cazzo di ristorante, non vado a pensare che abbia prenotato e mi offrirà il pranzo perchè nasconde qualcosa. Cioè, lo penso, ma me ne frego.
Bill se ne sta seduto in un angolo dell'enorme sala del ristorante. Sta giocando distrattamente con la forchetta, facendo le righe sulla tovaglia. E' un po' nervoso, lo vedo da come ciondola i pedi. Sorrido perchè quando è solo Bill non ha la minima percezione di se stesso ed è bello da guardare. Non è in posa. Rimango accanto ad una colonna, seminascosto e lo osservo mentre gioca con una ciocca di capelli e poi se la sistema dietro un orecchio. Col fatto che sono sette giorni che non lo vedo, mi batte forte il cuore.
A me batte sempre forte il cuore quando non ho Bill accanto a me, mi manca l'aria; e non perchè io lo ami in quel senso, o puttanate simili. E che penso che per un lungo periodo di tempo non ce l'ho avuto sotto gli occhi e non avrei potuto farci niente se gli fosse successo qualcosa. Ho paura. E quando posso rivederlo, toccarlo e abbracciarlo di nuovo tiro un sospiro di sollievo, perchè a quel punto niente può più andar male. In realtà sì, ma non è questo il punto.
Che poi non è proprio un pensiero cosciente, è più una sensazione. Dal momento che non abbiamo mai davvero bisogno di parlare, il mio rapporto con Bill è fatto di sensazioni. Io percepisco quello che prova in qualche modo che ovviamente non so spiegare, ma c'è. E' lì.
Ed è lo stesso tipo di capacità che permette a lui di sentire che io sono arrivato. Difatti si gira e mi sorride. "Tomi!"
Faccio finta di non essere così estremamente felice di vederlo che lo stritolerei in un abbraccio e non lo lascerei più andare. Lo voglio intensamente ma Bill se n'è andato senza dirmi dov'era diretto - in altre parole: mi ha mollato a casa come un cretino - quindi sarò felice di vederlo, ma non lo coccolerò come ho intenso desiderio di fare. Si merita almeno una punizione. Quando si alza e mi si stringe addosso, però, tutti i miei buoni propositi vanno alle ortiche. Il mio fratellino è qui, non è finito in un fosso senza un rene. Non. Importa. Nient'altro. Lo stringo fortissimo e gli piazzo un bacio sulla guancia, tanto nel ristorante non c'è quasi nessuno e poi non me ne frega un cazzo. Bill non è nemmeno passato da casa quando è sceso all'aeroporto. Mi ha dato appuntamento direttamente qui. Io non ho avuto modo di sdarmi in smancerie, quindi lo faccio adesso. E chi se ne frega.
"Dove sei stato?"
"Tomi!" Miagola lui e sbuffa, tornando a sedersi.
"Non cominciare. Sei stato via una settimana," dico imitandolo. "Avresti almeno potuto avvertirmi."
"L'ho fatto," risponde. "Ti ho detto che andavo via."
"Ah beh allora!" Commento sarcastico. La cameriera ci porta i menu e io lo apro, sfogliandolo distrattamente. "Potevi essere chissà dove!"
"Non sono andato molto lontano," mormora. Sollevo gli occhi e vorrei essere arrabbiatissimo, ma lo fa anche lui e mi stende. Bill quando vuole è un maledetto bastardo, conosce tutti i miei punti deboli. E lui che mi fa gli occhioni è un punto debole. Questo perché Bill sa che mostrarsi incredibilmente fragile e delicato fa leva sul mio senso di protezione.
"D'accordo, non fa niente," cedo alla fine, scuotendo la testa. "Se avevi bisogno di levarti dalle palle per un po', non sarò certo io a dirti che non potevi farlo; però mi hai sempre detto dove andavi. Anzi, ci andavamo insieme."
Si morde un labbro e abbassa di nuovo lo sguardo, quindi sospira.
"Volevo dirtelo, Tomi, davvero. E' solo che è successa una cosa e io dovevo rifletterci sopra."
"Che cos'è successo?"
Lui sorride. "Prima mangiamo, va bene?"
Lo fisso negli occhi e cerco di trovarci la risposta che mi serve. Non posso leggere nella testa di mio fratello, ovviamente, ma sono bravo a cogliere le sfumature delle sue espressioni. Per esempio, adesso so che è nervoso e preoccupato, quindi teme la mia reazione. Qualsiasi cosa sia successa, forse non è grave in generale, ma di certo avrà un forte impatto su di me. Comunque so che non devo metterlo sotto pressione. "Va bene," dico. "D'altronde mi stavo giusto preparando la salsa prima che tu mi chiamassi dall'aeroporto."
"La salsa senza di me?" Chiede oltraggiato lui, spalancando gli occhi e poi scoppiando a ridere.
Rido anche io e poi ordiniamo.
Mi faccio portare un piatto di carne bello sostanzioso perchè so che mi aspetta qualcosa di assurdo. Bill non ha mai fatto un colpo di testa simile, di andarsene senza lasciare tracce. Deve passargli qualcosa di grosso per la testa. Lui, comunque, mangia almeno quanto me. Segno che gli serve coraggio, o che sta prendendo il tempo, il che un po' mi fa ridere e un po' m'innervosisce. E' quando arriva il dolce che gli chiedo: "Allora?"
Lui annuisce e butta giù il pezzo di cheescake. Si pulisce la bocca e poi si tortura le mani. "Sai tutte quelle cose che mi dicono sempre?"
"Quali cose?"
"Su di me, sul fatto che io sia..." si stringe nelle spalle.
"Gay?" Concludo per lui e, quando annuisce, aggiungo: "Stai ancora dietro a quello che dicono? Fregatene. Lo sappiamo che non-"
"Lo sono." Mi fissa.
Sono ancora a metà della frase precedente, ho la bocca aperta, la mano in aria che si agita. "Cosa?" Mi esce fuori una specie di lamento strozzato, come se mi fosse rimasto incastrato un pezzo di pane in gola. Tossisco, mi batto anche. "Come?"
"Io sono gay," sussurra.
D'accordo, mi aspettavo che fosse una cosa grossa; ma non così grossa. Cioè, cosa diavolo significa che lui è gay? Lui non è gay. E' mio fratello! "Bill che cosa stai dicendo? Sei... sicuro?"
Lui sorride, un po' imbarazzato. "Tu cosa ne dici?"
"Non lo so!" Mi agito. Lo so che mi agito e non vorrei. Inizio a muovere le braccia ovunque quando sono agitato, sembro un pazzo. "Magari credi di essere gay. Magari è una fase, poi ti passa. Insomma, quelle cose lì. Siamo adolescenti, no? Sei solo confuso."
Scuote la testa. Dio, la scuote. Dovrebbe dirmi Sì, hai ragione Tomi. Dev'essere come dici tu e invece scuote la testa. "Ci penso da tanto sai?" Sbatte gli occhioni. "Non è una cosa che ho scoperto l'altro giorno. E poi sono successe delle cose. Volevo dirtelo subito ma..." sospira. "Avevo paura che non l'avresti presa bene."
Vorrei chiedergli quali cose sono successe, ma non lo faccio.
Bill aveva paura di non essere compreso. Da me. Scherziamo? Io sono il suo gemello. Il solo fatto che abbia anche solo vagamente pensato che non avrei capito è un fatto gravissimo che cancella tutto quanto il resto. Io sono Tom Kaulitz. Io sono suo fratello gemello. Qualunque cosa mi dica, io sono con lui. Lo vedo che tiene gli occhi bassi e si guarda le mani. "Ok, ok non importa. Bill, guardami." Mi affretto a dire. E lui alza la testa. "Senti, va bene. Insomma, non è niente di che, d'accordo? Io ti voglio bene lo stesso."
Lui mi guarda.
"Dico davvero," annuisco. Sto mentendo spudoratamente. Io non voglio che mio fratello sia gay. Ma non voglio neanche che pensi che non lo accetterò per quello che è perchè, cazzo, non è così. E' Bill, lo accetterei in qualunque modo. "Non ha nessuna importanza. Io... sono contento che tu me lo abbia detto."
Mi fissa ancora per un po' e poi sorride. Il suo sorriso, quello bello, chiaro e solare che illumina tutta la stanza. Quello di mio fratello. "Grazie Tomi, sapevo che avresti capito."
Eh, capito un cazzo.
Non faccio neanche in tempo a recuperare quel poco di cervello che avevo e che mi ha letteralmente disintegrato con questa splendida bomba, che me ne tira subito un'altra. "Io sono... innamorato di una persona."
Ok, questa è più difficile. Insomma, voglio dire, è la solita storia: finchè il discorso si fa in generale, non ci sono problemi. Gli omosessuali? Io non ho nessun problema con gli omosessuali. Io sono una persona con la mente aperta. Però se penso che c'è uno che vuole mettere le mani addosso a mio fratello, mi viene voglia di spaccargli la faccia; se poi penso che Bill mi sta dicendo che quelle mani addosso le vuole, mi viene da spaccare la faccia anche a lui. E non posso. No, Tom, non puoi proprio, mi dico. Bill ti sta confessando la cosa più importante della sua vita e tu non puoi mollarlo lì così solo perchè il tuo cervello fatica ad ingranare.
"D-davvero?" Butto lì, cercando di essere disinvolto. Mi verso un bicchiere d'acqua che basterebbe ad annegarmi. "E' qualcuno che conosco?"
Lui annuisce. Un po' sorride, ma è nervoso. Comunque lo sa che la situazione non è ancora esattamente stabile. Mi sembra che stiamo entrambi camminando su un tappeto di uova, neanche troppo sode. "... Sì."
A questo punto ci sono due opzioni.
O si tratta di Andi, e giuro su mia madre che se ha toccato Bill più del dovuto prima che io gli dessi la mia benedizione lo faccio a pezzi. Oppure è Georg, che fino a ieri non era gay; ma non lo era neanche mio fratello. E se Bill dice che lo conosco, e non è Andi, allora non può essere che Georg, che con quella piastra per capelli un po' di dubbi me ne ha sempre fatti venire. E per quanto sia il mio migliore amico non uscirà vivo dal tourbus.
Ovviamente non mi fermo neanche lontanamente a pensare che forse - forse - magari i due non hanno affatto circuito mio fratello. Non me ne frega niente di questa possibilità. Nè Andi nè Georg dovevano permettersi di... permettersi di cosa? Andare con mio fratello se mio fratello voleva? Cristo, che casino. "Chi è?"
"Prometti che non ti arrabbierai?"
Quindi è Andi. "E' Andi?" Lo ammazzo. Probabilmente gli andava dietro da anni, avrà giocato sul fatto che Bill dice di non fidarsi delle fan perché amano la maschera pubblica e non lui. Lo avrà intortato con le cazzate, Andi è bravo a parlare. In effetti non ha mai veramente detto di essere gay, ma lo abbiamo sempre pensato tutti, aspettavamo solo che trovasse il coraggio di uscire dall'armadio. Certo poteva evitare di uscirci a braccetto con mio fratello! Che cazzo!
Eppure era chiaro, si comportavano allo stesso modo. E alla fine che Bill sia davvero gay non è poi questa novità sconvolgente. Ok, non l'ho presa bene, ma cioè... non è come se me lo dicesse Gustav, per dire. Che poi è il motivo per cui non penso si tratti del mio batterista. Gustav non potrebbe mai essere gay. E' Gustav!
Intanto, mentre sono perso nel mio delirio, mi rendo conto che Bill mi sta parlando e lo guardo, seguo il labiale dal momento che i miei pensieri stanno coprendo la voce. "No, non è Andi," dice.
"Georg?" Sbraito allora. Tutto ciò non è davvero possibile. "Dio Mio, come puoi essere innamorato di Georg? Non si ama nemmeno lui, guarda come va in giro!"
"Cosa c'entra Georg? Non sapevo che fosse gay," commenta lui.
"Non lo è!" Replico. "O almeno non lo so, chi se ne frega! Non è Georg?"
"No."
A quel punto mi trovo un pò spiazzato. Se non è nè Andi nè Georg, direi che non so proprio di chi si possa trattare e che io lo conosca, sinceramente, mi pare un po' improbabile. Continuo a guardare mio fratello in attesa di delucidazioni. Lui si morde nervosamente un labbro. "Tom, prometti davvero che non ti arrabbierai?"
"Perchè dovrei farlo?"
"Perchè è un po' più grande di me," risponde.
"Un po' quanto?"
"Un po'," insiste. Allunga un braccio sul tavolo a cercare le mie dita e le stringe. "Ma è davvero una persona fantastica."
D'accordo, questa persona fantastica verrà investita dall'Escalade, alla guida della quale ovviamente ci sarò io. Chiunque egli sia. Che poi, se ci penso, l'unica persona che racchiude in sé tutte le caratteristiche - gay, che io conosco, più grande di Bill - è David. E io voglio sperare, per il mio manager soprattutto, che non sia lui perché altrimenti scorrerà il sangue. E no, non sarò io a tirargliele. Pagherò qualcuno più grosso e più incazzato di me. Offenderò delle madri a nome suo, se necessario.
Solo che Bill non mi dà il tempo. Non mi dà il tempo di chiedergli se si tratta del nostro manager, non mi dà il tempo di prepararmi. Apre la bocca e lo dice.
"E' Bushido."
In quel preciso istante le lettere che compongono il nome del rapper più famoso della Germania non trovano un senso nella mia testa. Bill deve aver cambiato discorso mentre ero perso tra le mie paranoie. "Cosa c'entra Bushido?"
"E' lui," dice. "Mi sono innamorato di lui."
Mi vengono a mente le cose che Bushido ha detto a mio fratello nelle varie interviste. L'ultima, neanche tanto tempo fa, era assolutamente indecente. Solo che questo fa parte dello spettacolo, è il suo modo di fare. Sono dei gran coglioni all'Eguterjunge: Bushido tratta Kay-One come se fosse il suo cagnolino da compagnia...
"E' per via di quello che ha detto?" Chiedo. A volte Bill è così ingenuo che-
"Siamo andati a letto insieme."
"Cosa?"
A quel punto mi aspetto da lui qualunque cosa, prima fra tutte quella che neghi. Che rida e mi dica che mi sta prendendo per il culo. Bill può essere una merda, quando vuole. Può tirarti scemo e farti lo scherzo più stronzo del mondo e poi continuare a ridere anche quando tu ne hai avuto abbastanza e preferiresti piantarla lì. Ci sono certe volte che ti viene da picchiarlo da quanto fa il cretino. Però questa volta proprio non ride, neanche un secondo. "Bill, cosa cazzo stai dicendo?"
"E' successo tre mesi fa."
"Tre mesi... tre mesi fa?" Sono fuori di me, solo che non sono mai stato il tipo da urlare. Batto un pugno sul tavolo che ribalta sia il mio che il suo cucchiaino. "Tre fottuti mesi fa? Cosa aspettavi a dirmelo? Chi cazzo lo sa?"
"Nessuno," poi ci ripensa. "David."
"David," mi sento scemo a ripetere tutto quello che sento ma se dicessi quello che mi passa per il cervello, finirei per litigare con lui. Che poi, cazzo, ci voglio litigare. Ho tutto il diritto di litigare con lui perchè se ne sta lì seduto, dopo una settimana che non lo vedo, dopo tre mesi di puttanate in cui mi ha nascosto una cosa del genere. Vaffanculo, Bill. "Avresti dovuto dirmelo."
"Non volevo dirtelo finché non era una cosa sicura."
"Perchè avete intenzione di sposarvi?" Esclamo sarcastico. "Oppure stavi solo aspettando che ti scopasse per dirmelo? Come funziona fra voi?"
Bill serra le labbra in una linea sottilissima, lo vedo stringere il tovagliolo con forza; però non ho voglia di ragionare. Non ho proprio un cazzo di voglia di rimanere seduto a questo tavolo e razionalizzare quello che Bill si è premurato di farmi sapere tutto quanto insieme.
Allontano con forza la sedia dal tavolo e mi alzo senza dirgli una parola. Lo sento vagheggiare alle mie spalle ma non mi volto. In questo preciso istante non voglio saperne niente di lui. Capita di rado che non m'importi di Bill ma quando succede è una cosa violenta. Esco dal ristorante senza guardare in faccia nessuno e raggiungo la macchina.
Apro la portiera quasi scardinandola e so di avere lo sguardo fisso del pazzo. Sto per fare qualcosa che mesi fa pensavo impossibile. Recupero il porta-cd, che fra l'altro è nero con dei disegni tribali, una roba che poteva regalarmi soltanto mio fratello, e comincio ad estrarre ogni singolo cd di Bushido che possiedo. Tutti. Gli originali, i masterizzati, le B-side, qualunque cosa contenga anche una sola delle sue canzoni. Li getto a terra di fronte all'Escalade, velocemente ma con soddisfazione. Ogni volta che ne cade uno sull'asfalto sento un moto di gioia sadica. Ora come ora penso che sono stato un cretino, in quel preciso momento penso che questa è la cosa più vicina a Bushido su cui posso passare sopra con la macchina.
Risalgo in auto e vedo Bill in lontananza uscire dal ristorante. Sento che mi chiama, ma io sono troppo impegnato a disintegrare i cd del suo fottuto amante con le ruote della mia Escalade. Sono talmente incazzato che sto andando avanti e indietro con la portiera ancora aperta.
"Tom!" Mi si piazza davanti al cofano, col rischio che metta sotto anche lui.
"Bill, levati di lì"
"No."
Lo metto sotto, penso esattamente questo. Ora premo l'acceleratore e lo metto sotto. Fine di Bushido. Fine di mio fratello. Ma, soprattutto, fine di Bushido che si fotte mio fratello. Faccio pure per mandare avanti l'auto e lui piazza entrambe le mani sul cofano. "Tomi, aspetta!"
Stringo le mani intorno al volante, inspiro ed espiro. Poi ringhio perchè tanto l'ha sempre vinta lui. "Che cos'altro devi dirmi?"
Fa il giro dell'auto, tenendoci sopra una mano e guardandomi dritto negli occhi. Quindi sale, si chiude dietro la portiera ed espira. "Non volevo che andasse così."
"Così come? Con te che sei gay e ti scopi Bushido?"
Lo vedo stringere le mani a pugno e la cosa un po' mi sorprende perchè di solito Bill scatta e basta, non ragiona. E' isterico. Si fa sempre come dice lui e basta. Questa volta no però, e il fatto che non si comporti come il solito Bill mi innervosisce perchè è come se volesse dimostrarmi che sta facendo la persona adulta, mentre io no.
"Tom, è una cosa importante," prova a dire. Alza lo sguardo su di me e ha quegli occhioni da cerbiatto di nuovo. "Lo so che ci sei rimasto male, e mi dispiace."
"Non abbastanza," ritorco.
"Che cosa avrei dovuto fare?"
"Dirmelo."
"Mi dispiace," ripete. "Ma sapevo che l'avresti presa così. E poi non ero sicuro.. è stato tutto un casino."
"E' stato?"
"E'. E' un casino," precisa. Poi sospira. "Non volevo tagliarti fuori, avevo soltanto bisogno di tempo."
"Tempo per trasformare uno rapper perfettamente normale in una checca," esplodo. E lo sguardo che mi lancia è così assurdamente incredulo che per un istante mi viene quasi da ritirare tutto. Poi penso che mio fratello se la fa con Bushido - Bushido, capite? - e la rabbia mi prende alla gola di nuovo. "Che cazzo! Sei infettivo!"
"Io... cosa?"
"Fino a qualche mese fa, a quello piacevano le ragazze!"
"Quello, come lo chiami tu, ha dichiarato di voler far sesso con me di fronte a milioni di spettatori," mi ricorda. "O te lo sei dimenticato?"
"Scherzava, Cristo! Faceva parte del personaggio!"
"Quel personaggio già veniva a letto con me quando diceva quelle cose, come la mettiamo?" Mi urla contro. "Io e Bushido stiamo insieme da molto prima!"
Rimango pietrificato. Il mio bel mondo dorato si frantuma in tante piccole schegge e su ogni scheggia c'è il viso di Bushido, serissimo. E lì tutta la rabbia che ho dentro esplode, o lo farebbe se non me ne andassi. Tutto si concentra in un'unica lunga sequenza di follie: il mio mito non è un mito proprio per un cazzo, e mio fratello è frocio, e io non l'ho saputo finché ormai non era troppo tardi. Tardi per cosa non lo so, ma di certo è tardi. E io sono incazzato nero. "Scendi."
"Cosa?"
"Scendi, porca puttana!" Grido. "O oltre ad essere un maledetto frocio, hai anche perso l'udito?"
Bill fà come gli ho detto. Scivola giù dall'Escalade e chiude la portiera, quasi delicatamente. Non mi fermo a guardarlo perchè so che mi fermerei. So di avergli detto delle cose orrende, so che dovrei scusarmi, ma non voglio. E' il mio momento di ribellione.
Se sta male, sono contento.
Le cose, comunque, non migliorano nei mesi successivi. Bill sembra non essersela presa affatto per quello che gli ho detto e vuole a tutti i costi che accetti questa relazione. Credo che lo faccia perchè, in effetti, non è mai succeso che uno di noi due prendesse una decisione senza l'approvazione dell'altro. Quando voglio qualcosa chiedo sempre a Bill cosa ne pensa e, se a lui non sta bene, allora non sono più tanto sicuro di volerla.
Forse sono arrabbiato anche per questo: io non voglio che lui si faccia scopare da Bushido, eppure questo non gli impedisce di sparire ogni volta che può e passare giorni interi murato vivo in casa di quell'uomo. Vuole che io sia felice della sua scelta, lo vuole disperatamente, ma se io non lo sono non sembra aver comunque intenzione di rinunciare a Bushido.
Questo dovrebbe darmi un'idea di quanto ci tenga, naturalmente, ma è chiaro che in quel momento non me ne frega niente. Per me Bill sta solo facendo una grandissima stronzata e si ostina a non darmi retta per il solo gusto di farlo. E se pensa che cambierò idea, si sbaglia.
Le cose continuano ad andare sempre peggio, principalmente perchè io non voglio che migliorino. Non voglio che lo porti a casa. Non voglio che me ne parli. Non voglio vederli insieme. Più Bill prova a parlarmene, meno voglio starlo a sentire. E lo so che sto facendo gratuitamente lo stronzo ma mio fratello deve farsi perdonare ancora un mucchio di cose, prima fra tutte il fatto che David lo abbia saputo prima di me.
Questo non mi va giù. Bill è mio fratello, avrei dovuto saperlo per primo. Dentro di me sono ancora convinto che se lo avessi saputo prima, avrei potuto impedire questa catastrofe. Perchè è così che la vedo io: come un disastro naturale di proporzioni epiche. E mi sono anche convinto di come sono andate le cose: Bill è finalmente venuto a patti con la propria sessualità e Bushido se n'è approfittato. Lo ha blandito con due moine, lo ha fatto sentire il centro del mondo - e Dio solo sa se Bill è egocentrico - e gli ha fatto due o tre regali, solo per portarselo a letto, ovviamente. Magari si è anche vantato con quelli della sua crew.
Le donne nel mondo del rap non contano un cazzo (okay, Bill non è una donna ma è come se lo fosse perchè se mi viene a dire che è lui a farsi Bushido, allora ho un problema molto più grave), io lo so. Mia madre odia il rap per questo, dice che le donne vengono trattate come pezzi di carne. E ora quel pezzo di carne è mio fratello. E io dovrei lasciarglielo così, senza dire niente? Già immagino quando Bushido si stancherà di lui e lo scaricherà così come lo ha tirato sue e di mio fratello non rimarrà che un mucchietto di pezzi rotti sul pavimento.
Bill non va a letto con la gente se non s'innamora prima. Quindi adesso ho un fratello innamorato di uno che se lo scoperà finchè non gli sarà venuto a noia. E poi tanti saluti, torna da dove sei venuto. E poi toccherà a me rimetterlo insieme, e mi dirà che è stato un cretino, che avrebbe dovuto capirlo. E io non potrò dirgli sì, è vero, sei stato un cretino. Dovrò consolarlo e basta; tenermi per me i miei 'te l'avevo detto'.
E poi Bushido ha quasi 30 anni: è indecentemente troppo vecchio per Bill.
Non so neanche per quale motivo odiarlo di più: se perché mi ha deluso profondamente come idolo o perché per farlo ha usato mio fratello. Vorrei dirgliele tutte queste cose e Bill deve captare una volta di più il vorticoso roteare dei miei neuroni perché una mattina entra in camera mia e ha sulle labbra il sorriso tirato che esce sempre quando fra di noi c'è una tensione irrisolta e lui non sa come reagirò.
La sera prima abbiamo litigato selvaggiamente, con tanto di piatti e padelle che volavano da tutte le parti, finchè io non l'ho insultato come non avevo mai fatto prima. Come un bambino di otto anni mi sono attaccato alle cazzate e gli ho dato della troia, insinuando che con ogni probabilità se la fa un po' con tutti quelli della crew, non solo con Bushido.
Sono geloso del tempo che passa con quella gente, in posti in cui io non posso essere. Non so quello che fa, non so quello che gli succede e non voglio farmelo dire. E' una situazione di merda.
Lui a quell'affermazione si è morso soltanto un labbro e mi ha mormorato che lo sapevo che non era vero. E infatti lo so. Bill non lo farebbe mai. L'ho detto solo perchè sono incazzato. Mi sento in colpa per le parole che mi sono uscite di bocca ma non ho intenzione di cedere, nè di ritrattare.
Però, quando entra nella mia stanza e mi dice che vorrebbe che ci incontrassimo - io e Bushido -, che se ci parlassi capirei che sto sbagliando, alla fine cedo. Cedo perchè mi sento in colpa e perchè in fondo voglio proprio parlarci con questo pezzo di merda. Voglio chiudere questa storia e riprendermi mio fratello.
Secondo la mia logica, Bushido non ha alcuna ragione di esistere vicino a mio fratello perché è un uomo e perchè è Bushido. E se potrò, un giorno, venire a patti col fatto che sia un uomo, non potrò mai venire a patti col fatto che sia Bushido.
Dal momento che lui è il King of Kingz e io sono solo il gemello della sua stramaledetta fidanzata, devo incontrarlo a casa sua. La casa di Bushido è una specie di reggia color giallo limone e ovviamente non ci vive da solo. Dentro ci trovo tutta la crew - fino a qualche tempo fa incontrarli era un mio sogno, ora farei ben a meno di loro - e ci trovo mio fratello che fa la sua figura, in piedi dietro Bushido, come si addice alla donna del capo.
Questa cosa non inizia affatto bene.
Bushido è seduto su una poltrona di pelle e mi guarda, non sembra nè divertito nè incazzato. E' perfettamente a suo agio, e la cosa è irritante. Mi chiedo come ho fatto a voler comprare tutti i suoi cd. Rimpiango di essere stato a due sue concerti. Lo odio.
Bill semba nervoso, si sistema una ciocca di capelli dietro l'orecchio e poi mi fa cenno di sedermi su un'altra poltrona. Questo salotto sembra l'interno di una tenda araba. Alchè il fatto che Bushido sia mezzo tunisino acquista improvvisamente un senso. Ci sono cuscini ovunque, anche per terra, e un basso tavolino con sopra un narghilé. L'idea di mio fratello vestito da odalisca mi balena nel cervello e mi viene voglia di vomitare.
Si siede sul bracciolo della mia poltrona e mi sorride. "Grazie per esser venuto," sussurra.
Io non gli rispondo, intanto una cameriera entra e ci serve dei pasticcini e del té, credo.
Non che abbia voglia di mangiare. L'ospitalità è comunque notevole. Quindi mi arrabbio di più. Bushido si sporge e mi tende la mano: al polso ha un orologio che costa all'incirca come la mia auto; si vede che gli piace sfoggiare le sue cose. "Tom, è un piacere rivederti."
"Non posso dire altrettanto."
Vedo Bill irrigidirsi. "Tom," sibila.
Bushido alza una mano. "No, va bene. E' normale che ce l'abbia con me," esclama.
E riesce a farsi odiare in maniere che non credevo possibili. Sento una linea netta che separa me da tutti i presenti e all'improvviso credo che avrei dovuto portarmi dietro Gustav e Georg. E magari anche Andi. Mi piacerebbe far sentire Bill come mi sento ora io: messo da parte. Vorrei che provasse questo. Adesso ha gli uomini del suo uomo a spalleggiarlo, vorrei vederlo al mio posto. Vorrei ridere. "Serviti pure," mi indica il vassoio dal quale gli altri della crew stanno prendendo cibo senza problemi. Incontro lo sguardo di Eko Fresh che ha in bocca due pasticcini e ne tiene un terzo in mano. Mi guarda come un topo appena sorpreso a rubare del grano. Chakuza gli dà una di quelle pacche sulla schiena che penso gli abbia smontato i polmoni.
Tutto questo è assurdo. Io non dovrei essere qui. Bill non dovrebbe essere qui. E tutta questa gente dovrebbe essere su un palco a cantare. Invece mangiano i pasticcini tunisini.
Ad ogni modo, non m'interessa se Bushido mi offre da mangiare o fà il grand'uomo in casa sua. Non ho intenzione di farmi incantare. "Che intenzioni hai con Bill?"
"Tom!" Bill scatta isterico.
"Mi hai detto che dovevo parlarci, giusto? Bene. Allora voglio sapere questo," mi volto di nuovo verso Bushido. "Che cosa credi di fare con mio fratello?"
"Io amo Bill," mi dice lui, senza scomporsi di una virgola.
"E ti aspetti che io ci creda?"
Bushido scrolla le spalle. "No e neanche m'interessa," risponde. "Non ho nessun bisogno che tu mi approvi, Tom. Se ho accettato di discuterne è solo perché Bill ci teneva ma so già che qualunque cosa io ti dica, tu non sarai d'accordo."
"Hai la coda di paglia."
"No, ho 30 anni mentre tu ne hai 19, e so molte più cose di te." Mi guarda, forse per vedere come reagisco, ma io tengo duro. Alla fine sospira. "Senti lo so che ce l'hai con me perchè mi vedi come una minaccia, ma ti assicuro che non lo sono."
"Bill non è roba per te."
"Lascialo decidere a lui," replica.
Ci guardiamo a lungo, in silenzio. Con la coda dell'occhio vedo gli altri che sono rilassati quanto lui, con i loro pasticcini e il loro té, ma sono pronti a scattare ad un suo cenno. Vorrei menare le mani, non l'ho mai fatto in vita mia ma mi viene voglia di farlo adesso, solo che lui non me ne dà la possibilità. Rimane serio e controllato. Mi usa il tono da paternale.
"Tu vuoi bene a tuo fratello e vorresti proteggerlo. Lo capisco questo, ma non c'è niente al mondo che mi spingerebbe a fargli del male."
"Stronzate!" Esclamo, stringendo le mani a pugno. "Cosa succederà quando ti stancherai di lui?"
"Tomi, adesso basta!" Esclama Bill.
"Non lo farò," mi guarda dritto negli occhi. Ignoriamo entrambi Bill, come se non esistesse e una parte di me neanche troppo nascosta sa che questo significherà danno tra qualche minuto. Bill odia essere ignorato. "Puoi arrabbiati se vuoi, va bene, è un tuo diritto, ma non ti aspettare che le cose cambino semplicemente perchè sei venuto qui a battere i piedi. Tu non sei mai stato un ostacolo."
"Anis!" Grida Bill.
"Oh sarò un ostacolo eccome, stronzo," a quel punto sbotto perchè se qui c'è qualcuno che gli romperà le palle, e gliele romperà anche bene, quello sono io. Nessuno mi porta via mio fratello, nemmeno i miei che divorziano, figuriamoci un mezzo-tedesco saltato fuori da due stradine luride a cantare cazzate. E divento anche razzista, già che ci siamo. "Scommettiamo che le dichiarazioni che hai fatto sono passabili legalmente?"
Mi alzo, si alzano tutti. Bushido no, però.
"Avanti fà pure," mi dice.
"Adesso basta!" Bill esplode e usa tutta la voce che possiede, ed è tanta. Ci guarda entrambi, e ha lo sguardo di nostra madre quando è veramente molto arrabbiata. "Tom, non ho bisogno che tu mi difenda, davvero, soprattutto quando non sono minacciato. Ti ho chiamato per ascoltare non per offendere. E Anis-"
Bushido lo anticipa. "Bill ha ragione. Non ci siamo comportati da persone civili. Tom, vogliamo ricominciare da capo?"
Cala il silenzio e la crew è un po' vagamente allibita. Credo che Bill non abbia mai urlato da quando è qui. Non di fronte a loro, le loro facce mi dicono questo e anche altro. Questi qui non hanno idea di che vipera diventi mio fratello quando vuole, altro che geisha servizievole.
Bill mi guarda così male che mi viene praticamente naturale non provarci nemmeno ad essere conciliante. "No, non vogliamo," rispondo. "E ora che ho fatto i conti, so che potrei denunciarti per molestie sessuali ai danni di minore, stupro, plagio mentale. La lista è molto lunga," pausa. Lo guardo negli occhi e perdo definitivamente la testa. "Pedofilo di merda."
A quel punto c'è una stasi. A ripensarci ora è una roba da film ed è divertente, in quel preciso momento lo è un po' meno. Solo che non ci penso perchè comincio a dubitare di me stesso, soprattutto, comincio a credere che forse anche questo gruppo di mangiatori di pasticcini tunisini potrebbe effettivamente essere pericoloso. Si ferma il tempo, quindi, e anche il vento. L'aria. Il respiro di mio fratello.
Bushido mi lancia uno sguardo che non riesco a decifrare. "Toglietemelo da davanti," esclama. Quindi si solleva dal divano e, con la coda dell'occhio, vedo Chakuza fare altrettanto. Lui solo. Bushido prende mio fratello per un fianco e se lo tira dietro. Incrocio il suo sguardo e vedo che abbassa gli occhi. Bill, che cazzo...
Solo qualche mese fa, mio fratello e io ci spalleggiavamo a vicenda. Ora arriva Bushido, gli fa conoscere le gioie del sesso, e mio fratello non vede altro. Sono qui per cercare di farlo rinsavire e quello nemmeno ha le palle di guardarmi mentre stanno per massacrarmi.
In realtà non mi massacrano, Chaku mi tira solo una sberla sulla nuca e mi spinge in avanti con quella. "Fidati, è meglio se la chiudi qui, per oggi," mi dice, con quella voce roca.
Mi butta praticamente fuori di casa e io, come un cretino, rimango sulla porta di quell'orrenda casa gialla per almeno due ore. Spero che mio fratello esca e mi raggiunga. Ogni minuto che passa fisso sempre di più lo sguardo su quella porta, neanche potessi aprirla col pensiero. Cazzo, è la dentro. Ha lasciato che mi buttassero fuori. Vaffanculo. E' rimasto lì. Bill è là dentro con quell'uomo, a fare chissà cosa. Uno che lo tratta come se fosse roba sua. "BILL, VAFFANCULO!" Lo urlo forte, senza rendermene conto. Mi spavento da solo con la mia voce.
La cosa si chiude lì, per un po'. Sono così arrabbiato e geloso e deluso e mille altre cose che non mi va di parlare con Bill. In realtà mi va, ormai mi capita così raramente di vederlo - lavoro a parte - che quando rimane in albergo con noi invece di raggiungere Bushido, vorrei sommergerlo di parole e raccontargli tutto, però non lo faccio. Non lo faccio perchè ho un orgoglio e non lo faccio perchè so che ci sta malissimo. Bill odia non potermi parlare. Lo vedo che ci prova di continuo ma io faccio in modo che le mie risposte siano sempre più scostanti. Ormai un po' ci provo gusto a vederlo abbassare gli occhi tristi. Ti sta bene.
Ti sta bene un paio di palle, mi manca da matti.
Quando esce a volte lo seguo finchè non lo vedo entrare in qualche albergo o in qualche discoteca e allora lì mi fermo, davanti all'entrata. Quando si danno appuntamento in un locale, non è mai Bushido ad aspettarlo. Bill dice il suo nome al buttafuori, quello controlla sulla lista e poi, puntualmente, Chakuza esce e se lo viene a prendere. Questa cosa mi fa girare le palle, lo tratta come una fottuta groupie. E lui che gli va dietro come un cagnolino.
Quando esce lo fa dopo ore. A volte non esce nemmeno e io dormo in macchina. David dà di matto quando torno perchè sono impresentabile. Scusa se non me ne frega niente di come mi stanno i capelli quando mio fratello ha palesemente perso la testa e nessuno sembra rendersene conto.
Una di queste sere, comunque, quando arrivo di fronte all'ennesimo locale sono già troppo ubriaco per rendermi conto che non ha senso raggiungere l'entrata del locale e farmi ridare Bill. Non ha senso perchè Bill ci và di sua spontanea volontà là dentro, e non ha senso perchè io sono solo e loro sono parecchi di più. Quella sera mio fratello non lo vedo nemmeno dipinto, non vedo neanche Bushido però. Quando torno a casa ho un occhio viola, ma so per certo che anche un paio di loro ne ha una copia identica. E qualche graffio, forse.
La telefonata che temo da quando mio fratello si è messo con Bushido arriva alle due di notte di quasi sei mesi dopo, in uno di quei momenti in cui sono pacificamente adormentato e il problema di Bill non è più tale. Ci siamo visti oggi ed era così bello e felice che per un po' mi sono dimenticato che è fidanzato col capo dell'Ersguterjunge e che è così innamorato che si respira già aria di convivenza. Quando il telefono squilla, io sono stranamente in pace con il mondo.
Poi arriva la voce spezzata di mio fratello, e mi prende il panico.
"Bill?"
Solo fottuti singhiozzi.
"Bill che succede? Stai bene?"
"E' morto," mormora. "Tomi, è morto."
"Chi? Bill che cosa stai dicendo?" Mi alzo dal letto, portandomi dietro il cellulare. Cerco a tentoni la luce sul comodino e cerco di capirci qualcosa.
"Anis..." e quel nome è appena un sussurro. Bill lo dice piano piano, e mi sembra quasi di vederlo - ranicchiato come poi lo troverò dopo - che mormora quelle quattro lettere come se a dirle troppo forte si avverasse qualcosa. "E' morto. Dio, è morto ed è qui. Me lo porteranno via, Tomi..."
Mi vesto mentre lo sento scoppiare in lacrime, i suoi singhiozzi sono rochi e violenti, e mi si spezza il cuore. "Adesso, ascoltami," cerco di superare il sibilo del suo respiro. "Dimmi dove sei."
"E' morto, Tomi."
"Bill, dimmi dove sei."
"A casa."
Non sento altro, sono già in macchina. Guido come un pazzo, infilo un rosso dopo l'altro e rischio quasi di ammazzarmi ad un incrocio ma non me ne frega niente. Voglio essere lì prima che arrivino i medici perchè non sapranno come trattarlo. Devo essere lì quando caricheranno Bushido sull'ambulanza. Devo essere lì e prendere Bill al volo quando cadrà. Parcheggio sotto casa quando anche i medici lo stanno facendo. Salgo con loro, appena dietro l'ultimo ma sono io ad aprire loro la porta. Chi è lei? Sono il fratello. Non gli serve altro, non importa al momento.
Quando raggiungo la stanza da letto, per un attimo non vedo assolutamente niente. Voglio dire, il letto, il pavimento, la finestra, è tutto lì ma non ha senso. Il vetro è rotto, il parquet, le coperte, tutto quanto è coperto di sangue. "Bill!"
Bill non alza lo sguardo. E' ranicchiato in posizione fetale contro il fianco di Bushido che è disteso sul letto, le gambe e le braccia che pendono. Ha lo sguardo rivolto al soffitto. I medici sciamano alle mie spalle, mi spostano senza guardarmi due volte e si avventano sull'uomo che è così assurdamente immobile in mezzo alla frenesia di questa stanza.
"Si sposti, per favore," dice uno dei paramedici.
Bill risponde: "No," poi guarda la donna che gli ha appena parlato e aggiunge, "Non portatelo via."
I medici non lo ascoltano, sono in due e si sistemano accanto al corpo. Bill cerca di mettersi in mezzo perchè continuano ad allontanarlo, così lo abbraccio. "Vieni via," gli mormoro premendogli il naso contro una guancia. "Bill, ci sono qua io."
"No," ansima. Non sembra sicuro di quello che dice, sembra che non sappia nemmeno dove si trovi e il mio cuore si spezza ancora un po'. "No..."
Lo tiro via, lui guarda solo Bushido che appare e scompare dietro ai medici che si muovono intorno a lui. "NO!" E' un grido rauco e violento, i medici non si voltano neanche. La freddezza con la quale ignorano il suo dolore fa male anche a me. So che devono farlo, che non avrebbe senso per loro girarsi ora. Che Bill deve strillare e loro devono ignorarlo, ma quando si piega in due contro il mio braccio che lo regge e scoppia di nuovo a piangere, li odio perchè non stanno facendo niente, perchè Bushido è morto e Bill sta male; e io non posso impedire che succeda. Bill si lascia andare in terra, sono costretto ad andargli dietro. Lo costringo a voltare la testa e lo schiaccio contro il mio petto. Fa resistenza ma poi rinuncia e mi si preme contro. "Tomi..."
Io continuo a guardare. Cerco di capire perchè gli girano ancora intorno, perchè provano e tentano e provano ancora. Il respiro è lievissimo, ma c'è. Lo sento dire ad uno dei medici, ma è solo un sussurro. Un sussurro soltanto. Non lo dicono a Bill. Io non glielo dico, perchè Bushido non sembra respirare. L'aria che esce dalle sue labbra è così poca che è come se non ci fosse. Non c'è. E' meglio che Bill non lo sappia. Soltanto dopo David mi dirà che Bushido è morto in ambulanza mentre lo portavano all'ospedale, che il più debole dei respiri c'era ancora quando sono arrivato io.
Io e Bill siamo seduti in terra, lui fra le mie braccia, e io gli accarezzo i capelli e penso che Bushido abbia aspettato che arrivassi. Non voleva lasciarlo solo.

*


Le lacrime di mio fratello non si sono ancora asciugate – nel senso che la traccia c’è ancora, la vedo distintamente che spicca appena un po’ più scura sulla sua pelle arrossata – quando mettiamo piede nell’appartamento di Bushido. La casa è enorme esattamente come l’ultima volta che ci sono stato, ma solo oggi riesco a comprenderne veramente le dimensioni. Quando ci sono stato io era pieno di rapper e pasticcini. Oggi è vuota, ci siamo solo io e Bill e l’eco di tanti di quei ricordi che non riesco a ignorarli nemmeno io, anche se mi danno il voltastomaco e mi fanno un male cane.
Non riesce ad ignorarli neppure mio fratello, però. E per lui è peggio, quindi sto zitto. Sto zitto tutto: non parlo e non penso neanche.
Malgrado tutto, comunque, Bill si muove con disinvoltura. È chiaro che non ci vede – perché a piangere così non vedi a un palmo dal tuo naso – ma non sbatte contro niente, va dritto per la sua strada con una sicurezza invidiabile. Lo guidano i piedi. Lo guidano i ricordi. Forse, qua dentro, c’è ancora qualcosa di Bushido. Ed è quello che lo guida.
- Tomi… - mi chiama debolmente, ed io stringo lo zaino nero fra le mani e gli vado dietro deglutendo appena, mentre mi guardo intorno, terribilmente a disagio. Non abbiamo nemmeno acceso le luci perché tanto Bill non ne ha bisogno ed io seguo lui, e non mi serve vederlo, per farlo.
Bill apre una porta e si ferma sulla soglia. Lo vedo che trattiene il respiro. Ho paura che possa soffocare perciò tiro giù un respiro tale che spero valga per due, e l’errore è quello perché il loro odore, qui dentro, è fortissimo. C’è il profumo di Bill, su tutto, e c’è la colonia di Bushido che lo segue e lo completa e si intreccia senza creare nessun fastidio.
Mio fratello è immobile e non respira, io respiro per due e ho gli occhi pieni di lacrime.
Distrattamente, penso che ogni volta che abbraccio mio fratello i nostri profumi si intrecciano allo stesso modo. E capisco perché mio fratello non vuole respirare. Perché l’amore è anche questo, profumi che s’intrecciano. Anche io ho desiderato smettere di respirare l’odore di Bill, quando lui si è allontanato da me. È per questo che Bill adesso non vuole più respirare l’odore di Bushido.
Gli poso una mano sulla spalla e lui lascia andare un singhiozzo che spezza l’incantesimo. Se non l’avessi toccato, penso che avrebbe potuto continuare a non respirare per sempre. Ma si sgonfia tutto, appena lo sfioro, e lui è già così piccolo che quasi scompare, perciò per non annullarsi del tutto alla fine a respirare è costretto per forza, e lo fa.
- Sì. – annuisce, come a rassicurarmi, - Di qua. – e mi porta verso una cassettiera che non è né grande né piccola ma non c’entra assolutamente niente con l’arredamento minimale della camera da letto. Il legno è più chiaro e un po’ rovinato e ci sono dei decori floreali che stonano eccome con il legno liscissimo e scuro del letto dallo scheletro quasi invisibile e i comodini sottilissimi. David – che è l’unica persona io conosca con un minimo di gusto, in generale – non sarebbe d’accordo con una scelta stilistica simile. Mi chiedo cosa ci faccia un mobile del genere in questa stanza, e Bill indovina la mia domanda e sorride appena, sfiorando lievemente la superficie un po’ ruvida e impolverata del ripiano colmo di portagioie che, in effetti, c’entrano poco pure loro. – È di sua madre. – illustra intenerito, - C’è un po’ di roba di sua madre sparsa per casa.
Annuisco, anche se non so bene a cosa. Non mi sento a mio agio perché non c’entro niente con questa casa e con questo buio e con queste serrande abbassate, né tantomeno con questa cassettiera ed i suoi portagioie. Bill mi sta aprendo davanti un mondo che non volevo conoscere – che non dovrei affatto conoscere.
Apre un cassetto e passa una mano fra le magliette ordinatamente piegate una sull’altra. Ne viene fuori un buon profumo di cotone appena lavato, e sono quasi sicuro che là dentro ci sia pure una di quelle bustine di granelli che tengono lontane le tarme. Non mi stupisce, la cassettiera sembra vecchia. È lavanda, ecco. È un buon profumo.
Bill tira fuori una maglietta dopo l’altra ed io apro lo zaino e tendo le braccia, tenendolo fermo davanti a lui. Mio fratello scuote il capo. No, queste non le porta via. Queste vuole tenerle un po’ fra le dita e basta.
Ogni maglietta si prende un pezzo di ripiano – Bill le drappeggia con cura sui portagioie così sembrano un po’ gonfie, così c’è dentro qualcosa che somigli a un po’ di vita – e quando lo spazio finisce Bill impila le nuove magliette sulle vecchie. E ci sono miriadi di disegni e colori che io ho visto solo ai concerti e nelle apparizioni pubbliche, ma che per Bill hanno un sapore e un significato tutto diverso.
Non fa niente di melodrammatico, mio fratello. Non schiaccia il viso contro il tessuto e non piange fino a sputare i polmoni. Sta lì a guarda le magliette. Il profumo arriva lo stesso e le lacrime scendono lo stesso, ma non c’è bisogno di esibire niente. Il dolore è già abbastanza vivo così.
- Cosa vuoi prendere…? – chiedo un po’ timoroso, poco dopo.
- Non lo so ancora con certezza. – confessa in una breve risatina che è un singhiozzo mascherato. Chiude il primo cassetto ma non posa le magliette, ed apre il secondo. Io mi giro mentre tutto il resto della biancheria di Bushido viene prelevato e riposto meticolosamente sul legno chiaro del mobile. Mio fratello guarda tutto con una sorta di soddisfazione e vorrei dirgli che sono solo vestiti, ma dubito servirebbe a qualcosa, com’è sempre servito poco in genere qualsiasi cosa gli abbia detto a proposito dell’uomo che amava.
Dell’uomo che amava, Dio. Quanto tardi l’ho capito? Quanti sorrisi di Bill mi sono perso? Ed ora mi ritrovo solo con le sue lacrime.
Quando torno a guardarlo, sulla cassettiera non c’è più niente. In compenso, ogni capo d’abbigliamento è stato spostato sul letto. Il letto è grande e li contiene tutti meglio, perciò non c’è niente che si accavalli su nient’altro e Bill può guardare tutto in un’unica volta, godendosi lo spettacolo. Si morde un labbro e quasi sicuramente si sta chiedendo perché non può portare via qualcosa. E si sta anche rispondendo che non gli servirebbero a niente, perché lui il suo amore non lo vuole nascondere, no, vuole sfoggiarlo. E vestiti simili non potrebbe indossarli comunque. Ecco perché a un certo punto lo vedo voltarsi nuovamente verso la cassettiera e scoperchiare un portagioie in legno nero, per scoprirne i tesori.
Stringo lo zaino fra le mani e mi chiedo se ci metteremo dentro qualcosa. Bill infila le mani fra i gioielli e ne tira fuori un bracciale di brillanti che luccica anche al buio. Se le pietre fossero solo un po’ più grandi ci si potrebbe specchiare dentro, e invece sono piccole e piuttosto discrete. È un gioiello piuttosto femminile. Mi chiedo se ce l’abbia lasciato Bill. Dall’ansia con la quale Bill lo stringe fra le dita e poi lo lega al polso, però, intuisco piuttosto facilmente che no, non è suo. Bill non tratta i suoi gioielli con quest’urgenza, perché sono la sua normalità. Il bracciale è di Bushido.
Fruga ancora un po’, mentre io ripiego lo zaino desolatamente vuoto sul braccio.
L’indice di Bill riemerge addobbato da un piccolo cerchietto opaco che intuisco appena nel buio.
- Cos’è? – chiedo curioso, e sul viso di Bill si apre un sorriso che è il primo sincero e pieno che gli vedo fare da quando… da mesi.
- Sapevo che l’avrei trovata… - commenta trasognato, rimirandola da ogni angolo, - È la sua fede.
- La fede…? – per un attimo, mi attraversa la mente un pensiero completamente idiota: si sono sposati? Vedo Las Vegas e costumi ridicoli, un finto prete drogato di caffè che si regge in piedi per forza di volontà mentre loro, completamente ubriachi alle cinque del mattino, si scambiano una promessa che vale molto più di quanto non stiano dicendo. Vorrei quasi dirlo a Bill, magari riderebbe. Lui non me ne dà il tempo, comunque.
- È stato sposato, in passato. – rivela tranquillo, - Non era facile che si decidesse a parlarne.
Faccio una smorfia.
- E tu ti metti addosso un anello che prova che un tempo era di qualcun altro?
Bill sorride.
- Non capisci. – dice, - È la parte di lui che non dava a nessuno, invece. L’ha data solo a me. – ed infila l’anello all’anulare sinistro. Adesso capisco, comunque, perciò annuisco compitamente.
A questo punto, però, mi sento inutile. Oltre a fare da pubblico mentre mio fratello si riappropria di ciò che di Bushido gli è sempre appartenuto – e che non poteva prendere perché, finché Bushido era in vita, non ne aveva bisogno – io ed il mio zaino vuoto non serviamo assolutamente a niente. Siamo fuori posto e fuori fase e fuori tutto.
- Questo…? – chiedo, sollevando lo zaino all’altezza del viso.
- Sì, qui ho finito. – annuisce Bill, e si avvia verso il letto. Sfila le federe dai cuscini e me le passa. – Queste. – dice spiccio, mentre volteggia veloce dal letto alla cassettiera per riporre i vestiti. Spoglia il materasso dalle lenzuola. – Anche queste. – io metto tutto dentro senza una parola, appallottolando ogni cosa. Mio fratello si sposta ed apre il cassetto del comodino a destra. Mi passa un orologio. – Il tempo. – dice piano. Un pacchetto di preservativi ed una confezione di lubrificante. – Questi. – ed arrossisce. Io non chiedo e non abbasso lo sguardo, non posso. Un pacchetto di sigarette quasi vuoto. – Questo. – si alza, fa il giro, apre l’altro cassetto.
Una pistola.
- La Heckler.
Deglutisco. La nascondo fra le lenzuola.
Bill sospira e si guarda intorno, le mani sui fianchi, un cipiglio critico ad aggrottare le sopracciglia.
- Ho fatto un disastro… - commenta fissando le magliette gettate alla rinfusa nel primo cassetto, assieme ad altra biancheria che in realtà stava nel secondo. – Tu sei più bravo a riordinare.
- …anche tu sai piegare le magliette. – borbotto.
Lui annuisce.
- Non voglio. – singhiozza poi. – È pieno lo zaino?
Non c’entrerebbe altro neanche volendo.
- Sì.
- Andiamo?
- Sì.
Quando Bill si chiude la porta alle spalle il profumo scompare e mi sembra un po’ di riuscire a riappropriarmi dello spazio e del tempo. Della giusta dimensione, insomma. In quella stanza l’aria non era viva, era ghiacciata in un passato in cui viva era stata.
La casa è ancora avvolta nell’oscurità. Le serrande sono abbassate e le tende tirate. La poca luce che filtra si perde inevitabilmente prima di poter essere in qualche modo utile. Brancolo nel buio ed anche mio fratello, ora che ha perso il motivo per stare qui, non sembra stare molto meglio.
Stiamo qui immobili a non capire cosa fare di noi stessi almeno fino a quando non gira una chiave nella toppa della porta d’ingresso. Bill si volta a guardarla con uno scatto isterico e la luce nei suoi occhi parla di un’intimità violata troppo presto e del tutto impunemente.
La porta si spalanca su cinque uomini che parlano animatamente fra loro. Litigano, direi. La luce si accende e l’espressione di Bill si addolcisce solo quando, fra i presenti, riconosce Chakuza. L’espressione di Bill si addolcisce perché negli occhi di quell’uomo ritrova un po’ dell’intimità di cui gli altri quattro non fanno parte – come potessi dimenticare il modo in cui Bill l’ha abbracciato quando è arrivato all’ospedale. Come potessi dimenticare il modo in cui gli si è attaccato al collo, ai vestiti, al petto, alla vita, per non cadere. Io ero lì per tenerlo e Bill si attaccava… a uno sconosciuto. Come potessi dimenticarlo.
Abbasso lo sguardo e mi mordo un labbro. Bill fissa i cinque. Chakuza solleva gli occhi mentre sta dando del coglione ad Eko Fresh. E strilla “Cristo!”, tirandosi indietro spaventato.
Bill lascia andare un sorriso timido un po’ sperduto. Io lo guardo solo per un attimo e poi mi concentro sui nuovi arrivati. Saad fissa mio fratello come fosse un prodotto di scarto di un’operazione necessaria. L’operazione necessaria era Bushido. Finché c’era Bushido, si teneva anche lo scarto. Adesso quei suoi occhi così spaventosamente verdi stanno dicendo che non c’è proprio più nessun motivo di tenere le scorie. Qualcosa di simile vedo riflessa negli occhi di Nyze, mentre in quelli di Eko Fresh c’è solo una leggera ansia ed in quelli di Kay One un’incredulità un po’ confusa.
Chakuza è solo stupito. E intenerito, credo.
- Bill… - sussurra incerto, abbozzando un sorriso, - Mi hai spaventato! Che… che ci fai qui?
Mio fratello sorride ancora e si stringe nelle spalle. Io mi stringo contro lo zaino come se fosse una cosa mia, perché ho paura che se lo portino via. E se Bill non potrà avere queste cose nel suo letto, stasera, me ne farò una colpa finché vivrò.
- Sono venuto a… prendere delle cose che avevo lasciato. – spiega mio fratello, senza perdere la calma, - Immaginavo che sareste venuti a ripulire, non volevo portaste via per sbaglio anche qualcosa di mio.
Chakuza annuisce comprensivo e Saad avanza nell’ingresso borbottando che, ora che ha preso tutto, può anche andare. Bill lo vede muoversi deciso verso il corridoio e gli saetta negli occhi la consapevolezza che, se entrerà in camera di Bushido, capirà che ha rovistato fra le sue cose.
La pistola, penso come in loop, oddio, la pistola.
- Dovrebbe esserci ancora un po’ di birra, in frigo. – dice Bill all’improvviso, facendosi avanti con un coraggio tutto nuovo, - Vi va di bere qualcosa?
Saad rotea gli occhi.
- Come se mi andasse di bere con te!
- Saad! – lo riprende Chakuza. Teoricamente sta un gradino più in basso di lui, ma credo questi siano i momenti in cui l’età conta di più. Sai meglio cosa fare. Smussi gli angoli. Penso con un po’ di tenerezza a Bushido che è morto a trent’anni e gli angoli li smussava benissimo, tanto che fra un angolo e l’altro è riuscito a far passare pure mio fratello. Che sarà pure sottile, ma resta ingombrante comunque.
Il libanese ringhia qualcosa di indistinto, ed Eko gli va vicino.
- Coraggio, Atze, è solo una bevuta.
Bill non perde quel cipiglio serio e fiero neanche per un secondo.
Mio fratello si muove fra il salotto e la cucina con la disinvoltura del padrone di casa. Mi fermo a riflettere sul fatto che questo pavimento gliel’ha insegnato Bushido, metro dopo metro. Bill se n’è appropriato un passo dopo l’altro, nel modo più naturale possibile. Questa è anche un po’ casa sua. La sta lasciando con uno zaino pieno di odori e simboli. Una fede non sua al dito e una pistola nascosta che vale molto molto molto più di una promessa di matrimonio.
A me dispiace un po’ non esserci stato mentre il suo amore si consumava. Sono qui mentre consuma il suo lutto, comunque. Non è la stessa cosa, ma ci sono. Ci sono e Bill lo sa. Per me è okay.
Scivoliamo fuori dall’appartamento mezz’ora e cinque bottiglie di birra dopo. I cinque cavalieri di Bushido stanno sul divano e non sanno davvero da che parte girarsi. Bill aveva un obiettivo semplice, loro devono passare al setaccio una quantità oscena di metri quadri di casa. E ciò che cercano, probabilmente, neanche lo troveranno. Perché viene via con noi. E quando loro se ne accorgeranno, noi saremo già al sicuro a casa.
Ci dormirà, con quella pistola sotto il cuscino, mio fratello. Così potrà difendersi e un pezzo di Bushido gli resterà sempre addosso. Sotto la testa. Ancorato al dito. Legato al polso. Dentro e tutto intorno a lui.
Sono quasi orgoglioso del mio cucciolo. S’era scelto un brav’uomo, in fondo.

*


Quando squilla il telefono, nel dopocena stanco e nervoso che precede la notte di sonno che, domani, ci condurrà a TRL – non solo Bill, anche io. Suppongo vogliano qualcuno di molto scenografico per reggergli la mano, ed io rispondo in pieno a tutti i requisiti. Sono scenografico e gli reggo la mano con un qualche perché. – la prima cosa che penso è che non ho fatto in tempo a finire di essere geloso di un uomo che posso subito cominciare ad essere geloso di un altro.
So che Chakuza non ha intenzioni di questo tipo, con mio fratello, ma Bill… Bill non ha nessuna voglia di allontanarsi dal mondo di Bushido, e sospetto sarebbe in grado di attaccarsi a qualsiasi cosa, pur di non cedere. È per questo che ci sono notti in cui ho semplicemente smesso di aspettarlo. Quando va male – ma proprio male – lui va da Chakuza.
- Pronto? – rispondo svogliatamente, andandomi a trincerare in camera mentre Bill, che fino a due secondi fa stava guardando The Notebook spiaccicato contro la mia spalla, frana sul divano con un mugolio di disapprovazione. “Tomi…?”, mi chiama. “Torno subito”, rispondo. Dall’altro lato della cornetta, la voce roca di Chakuza si esprime in una risata quasi dolce.
- Sta bene? – mi chiede curioso.
- Non è una brutta serata. – rispondo io, chiudendomi la porta alle spalle. – Forse è anche un po’ emozionato.
- Capisco. – annuisce, ma c’è una nota di nervosismo, nella sua voce, che inquieta anche me.
- Hai chiamato per un motivo specifico, - chiedo sbrigativamente, - o volevi solo fare conversazione? No, perché in questo caso hai sbagliato gemello.
- Potresti smettere un istante di stare sulla difensiva? – protesta lui, quasi annoiato, - Vengo in pace, sai?
Io sbuffo come un bambino viziato e mi viene un po’ da ridere perché io e Bill siamo davvero – ma davvero – gemelli.
- Va bene, smetto di ringhiare. – concedo, - Quindi, parliamo del tempo o…?
- Parliamo della trasmissione di domani. – mi informa lui, atono e pure un po’ offeso, come se fossi io il cretino colpevole di non averlo capito subito. – Bill può sentirmi?
Dovrei cominciare a preoccuparmi, immagino.
- …no, ma… che problema c’è per domani?
Chakuza tira fuori un sospirone paziente. Io comincio ragionevolmente ad irritarmi.
E poi la butta lì.
- Sarò sincero con te, Tom. – ma anche no, vorrei dire. Solo che sarebbe troppo da irresponsabile perfino per uno come me. – Dal momento che non è stato Fler ad ammazzare Bushido, non abbiamo più il controllo della situazione. Non sappiamo chi sia stato né perché.
Trattengo il fiato.
- Che… - annaspo confusamente, - che mi sono perso? Non dicevate che la polizia l’aveva lasciato andare per mancanza di prove ma che eravate certi… voi eravate certi!
- Sì, lo so. – concede lui con la stessa pazienza di prima. Dovrei ringraziarlo per questo, immagino. – Adesso però siamo certi che non sia stato lui, e questo significa che sono cambiate le carte in tavola. Chiunque abbia premuto il grilletto quella notte, potrebbe avere un altro movente. – si interrompe un secondo, come aspettasse di lasciarmi digerire tutte le informazioni. - …o un altro obiettivo. Quella a TRL sarà la prima uscita pubblica di Bill, e… insomma. – conclude quindi con un mezzo sospiro.
Bill. Bill. Il pensiero mi esplode nel cervello all’improvviso e mi devasta. Mi devasta, Cristo. Bill. Il mio fratellino. Bill.
- La security, abbiamo… - ansimo, agitato, - noi siamo protetti e… - mi fermo. Chakuza non avrebbe chiamato, se avesse ritenuto la security abbastanza per proteggere Bill. - …cosa pensi di fare?
- Crediamo che i momenti più pericolosi saranno all’entrata e all’uscita degli studi. – espone lui, freddo come un generale, - All’interno non può arrivare nessuno, senza autorizzazione, ma in mezzo alla folla è tutto molto più semplice. – fa pause strategiche all’interno del discorso, perché sa che io con tutta questa roba non c’entro davvero niente. Avevo un bel coraggio a fare la voce grossa con Bill parlando di dinamiche di crew e di cose che ero certo lui non sarebbe mai riuscito a capire, ma io? Ero davvero diverso da lui? Mi sembra che Chakuza stia parlando di cose assurde, eppure la paura che provo è reale. È reale perché Bushido c’è morto davvero, per queste cose assurde. – La security terrà indietro la gente. – riprende, - ma non si aspetta davvero un attacco violento. Dovremo fargli muro intorno, renderlo un bersaglio meno isolato. Chiunque voglia colpirlo, dovrà prima incontrare noi.
Io. Non so. Che dire.
- S… sì. – tiro fuori a fatica, - Okay, io che devo fare? – cerco di prendere coraggio così, dandomi un perché, un motivo di esistere in mezzo a tutto questo casino, perché non ci sto a guardare mio fratello che va via, non di nuovo, non sul serio, non così. – Chaku, che devo fare?
- Tu devi scortarlo all’entrata. – risponde lui, un po’ meno freddo di prima. – E sarai da solo, perché noi non possiamo arrivare con te.
Mi sento come quando, da piccolo, Bill aveva la febbre e mamma doveva badare ai bambini degli altri per tirar su qualche soldo. Doveva badare ai bambini degli altri e non poteva davvero badare anche ai propri, perciò, tenerissima com’è sempre stata, mi tirava da parte e mi diceva “Tom, tu sei il fratello maggiore, devi prenderti cura di Bill. Devi fare in modo che stia bene e non gli accada niente, mentre io sono impegnata. Okay?”. Ed io mi facevo grande e gonfiavo il petto perché allora combattevo contro una febbre ed un broncio triste e sapevo di poterli gestire tranquillamente con un abbraccio e qualche caramella. Adesso sto combattendo contro qualcosa di molto più grande e non è cambiato niente: sono il fratello maggiore e devo gestirlo per forza.
- Va bene. – dico con sicurezza, annuendo al mio riflesso spaurito che mi fissa dallo specchio sulla parete di fronte, - Me ne occuperò io. Non ci saranno problemi. – sospiro perché adesso che l’ho detto sto meglio. Mi sento svuotato. Ma quando ti senti svuotato va bene, è un’occasione per riempirti di nuovo. Io devo diventare tutto coraggio. Per Bill. Posso farlo. – Chakuza, ma voi chi? – chiedo alla fine, più che altro per capire esattamente con quali dei cavalieri di Sua Maestà dovrò avere a che fare domani.
Lui fa una pausa, ma stavolta non è una pausa per me. È per se stesso. Come stesse cercando di fare mente locale.
- …io e Fler. – risponde alla fine.
- Fler! – strillo io, agitando il braccio non impegnato e reggere il telefono, - Chakuza, se per caso ‘sto stronzo è veramente quello che ha ammazzato Bushido e si sta infiltrando per far fuori anche mio fratello, e tu ci stai cascando come una pera, giuro che di te non rimarranno neanche le ossa! – vorrei anche capire cosa sto dicendo. Penso di essere arrabbiato e basta, perciò sparo cavolate. Io devo fidarmi del Chaku di Bill. Devo farlo per forza, non posso sbagliare di nuovo.
Chakuza ride, giustamente. Io non rido con lui solo per imbarazzo.
- Molto intimidatorio, davvero. – mi prende in giro, anche se non riesco a sentirmi offeso, - Ad ogni modo, Fler è uno dei nostri, adesso. Garantisco io per lui.
Sospiro e roteo gli occhi.
- Ah, be’, se garantisci tu… - Bill mi chiama dal salotto. “Tomi!” pigola con quella sua vocetta estenuata. Credo che il film sia finito, per carità, quando finisce The Notebook Bill non è felice se non mi scarica addosso almeno due ore di lacrime. – Senti, devo andare… - avviso Chakuza dall’altro lato della cornetta, - Un’ultima curiosità: come diavolo hai avuto il mio numero?!
- Uh? – sembra stupito, - L’ho chiesto al vostro manager, naturalmente. – spiega in breve, - Che ti aspettavi?
Eh, non lo so che mi aspettavo. Dovresti dirmelo tu cosa aspettarmi, Peter Pangerl detto Chakuza.
Peter Pangerl, poi. Che razza di nome è per un gangsta rapper?

*


Note: Come nelle migliori tradizioni del rap, questa è una collaborazione. D'accordo, tutta la serie lo è, ma questa one-shot è proprio scritta a quattro mani. E' una Tabata feat. Liz, ecco.
Dunque, Gegen Meine Willen è stato un po' il mio dramma personale. Amavo l'idea di dare voce a Tom, l'ho amata un po' meno quando poi mi è toccato scriverla. Tom mi dà dei problemi e forse me li dà perché è una voce totalmente estranea a tutta la serie. Tomi è fuori dal ghetto; ed è un personaggoi totalmente esterno. Come dice lui stesso: non c'entra niente. Ma potevano mancare il suo giudizio, la sua rabbia, il suo supporto ma, soprattutto... la sua versione della morte del Bushido?! XD. Prima che mi dimentichi, ho creato un gioioso schemino della timeline di EKR, così potete vedere la porzione temporale coperta da ogni singola fanfic. Enjoy.
Liz, in queste note, vuole aggiungere che ama Tomi!
E basta.

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Set Adrift on Memory Bliss

di tabata e lisachan
Questi ultimi giorni sono stati piuttosto stancanti.
Un po' perchè sono i giorni peggiori, quelli dove manca poco. Un po' perchè per questo motivo, chiunque mi conosca ha cercato di fare qualcosa per distrarmi intanto che aspettavo quel poco che rimaneva. Il problema è che nessuno mi ha chiesto cosa volessi fare io, e io volevo starmene in casa da solo, magari a rilassarmi. Ovviamente nel via vai di gente che andava e veniva, di stendersi due minuti in vasca o anche solo di svaccarsi davanti alla televisione di tempo non ce ne stato per niente.
Gustav prima, David poi; e quindi Andi, Georg e Chakuza che ha fatto la spola tra casa sua, l'Ersguterjunge e il mio appartamento, incrociandosi con Tom. Sembrava si fossero messi d'accordo: lui arrivava, mio fratello partiva. Uno dietro l'altro sono venuti tutti, da ogni angolo del mio personalissimo universo. Non mancava nessuno.
Qualche giorno fa, seduto sul mio letto, ho visto anche lui che mi guardava e sorrideva, con quel modo che aveva di guardarti che non sapevi mai se ti stava prendendo in giro oppure no. Mi stavo asciugando i capelli, è stato solo un istante ma nella mia memoria è ancora così nitido che mi è bastato per vederlo tutto.
Mi ha fatto notare che non dovevo lamentarmi di tutta quella gente che andava e veniva, che sono ancora la principessa ed è per questo che mi viziano tutti.
Nella mia testa, la sua voce è chiara quanto il suo viso.
Non è come ricordare vagamente il suono di come diceva le parole, è sentirlo parlare, come se in realtà fosse ancora qui.
Così mi ha detto che sono sempre la principessa e ho stretto forte la spazzola per aggrapparmi a qualcosa. Tom dice che se non smetto di piangere mi scioglierò e non rimarrà più niente di me; e io mi chiedo se voglio che resti qualcosa di me ora che non c'è più niente di lui. Poi ricordo che mio fratello morirebbe se morissi anche io, e all'idea di una morte effetto domino mi viene da ridere. Lo so che non è bello, ma so che lui riderebbe.
Anis rideva sempre quando qualcosa lo spaventava. Così fa meno paura, diceva.

Comunque sia, sono le due del pomeriggio e mio fratello ha passato qui la notte.
A dire la verità credo che sia solo il fortunato vincitore di una complicatissima partita a morra cinese in cui se la sono giocata un po' tutti questa nottata della vigilia; mi piace vedermeli riuniti ad un tavolo che tirano giù veloci sequenze di sasso forbice carta per vedere a chi tocca stare con la vedova la notte prima dello speciale di TRL. Ha vinto mio fratello, a quanto sembra. Ieri sera non avevo ancora finito di chiudere la porta dietro le spalle di mia madre, venuta fin da Loitsche per quattro splendidi giorni con suo figlio, che Tom si è presentato a casa mia, la sua sacca da viaggio e la chitarra, pronto per una serata fra gemelli: la salsa, The NoteBook, tutto il necessario da manuale, insomma.
Per un istante l'ho odiato, dico davvero. Volevo solo togliermi i vestiti, mettere quattro candele agli angoli della vasca e stare in ammollo finché non mi fossi rattrappito come una prugna; trovarmelo lì sulla soglia, che sorrideva amabile come me stesso quando non sono così sbattuto, mi ha fatto anche un po' girare i coglioni.
Poi mi sono reso conto che non ho mai veramente voluto stare da solo, che se mio fratello non si fosse presentato lì, probabilmente avrei finito per passare la serata avvolto nel plaid a guardare il mio album di fotografie. In realtà non ne avevo uno finché Anis non è morto; avevo un sacco di foto, quello sì, ma erano mucchi sparsi in giro per casa. La sera del funerale le ho riunite tutte sul pavimento del salotto, e ho cominciato a dividerle prima per mese, poi per occasione, poi in base al fatto che fosse da solo o ci fossi anche io, poi per i vestiti, e per un altro centinaio di caratteristiche stupide; tanto che sono rimasto alzato fino a tardi e non avevo ancora deciso quali inserire nell'album e quali scartare.
Alla fine le ho messe a caso. Ho cominciato a tirarle su dal mucchio con gli occhi chiusi, le guardavo e mi sorprendevo dell'espressione che avevo pescato. Era un po' come averlo lì, che non potevi controllare le sue reazioni.
Allora gli ho raccontato com'era andata la giornata: - C'era un sacco di gente, sai, amore?
E ho tirato su la foto e l'ho visto che sorrideva; gliel'ho fatta io quella, sul tourbus, una mattina che aveva detto qualcosa di stupido e ci stava ridendo su. Era ancora tutto scombinato, era Anis; non Bushido.
Quindi ho continuato a parlare. Gli ho spiegato che nessuno voleva farmi passare ma l'ho rassicurato: - Chakuza mi ha aiutato a farmi largo tra la folla.
Nella foto che ho tirato su c'era lui impegnato a cantare: gliel'ho fatta durante un concerto. Ero dietro le quinte, quindi il taglio è strano e lui è concentratissimo. Mi è sembrata un'espressione solenne. Anche quella è andata nell'album.
Sono andato avanti per un po', gli ho raccontato che Eko quasi piangeva e che lui mancava disperatamente a tutti. Foto dopo foto mi ha regalato di nuovo tutti i suoi sorrisi e tutte le sue facce buffe. Era anche arrabbiato a volte, con la mascella tesa e gli occhi scuri scuri, che a volte ti ci perdevi dentro e altre volte erano un muro, proprio.
Erano le quattro del mattino quando sono rimasto senza pagine nell'album, e avevo ancora un mucchio di fotografie da sistemare. - Ti ho messo una calla; ho detto all'improvviso. Non lo so perchè, ma in quel momento ho realizzato che la bara era chiusa e che forse non può vedere un bel niente. Ho detto: - Ti ho messo una calla. Sopra al legno però, perchè non ti hanno esposto. Eri già chiuso. David dice che lo hanno fatto per tua madre, che era meglio così. Comunque la calla te l'ho messa lì. Ecco.
E la foto che ho tirato su era bellissima. Era lui, con me; e tranne noi non si vede niente, ma io lo so che è stata scattata tra le coperte del mio letto, che ad inquadrare più in basso ci sono i nostri vestiti, io sono nudo e lui mi stringe attorno alla vita con le braccia forti, color nocciola. Nella foto però si vedono solo i nostri visi, fianco a fianco e io che rido come non ho più fatto da quando non c'è lui.
Sto guardando una foto anche adesso, comunque, quella che ho sullo specchio. E' una foto molto speciale, è quasi uno scherzo ecco, però a me piace. C'è tutta la crew, proprio tutta, non solo i ragazzi che mi odiano meno; Kay e Chaku sono di fianco ad Anis, come i cavalieri del re. Era una foto ufficiale, cioè, ne esiste una ufficiale proprio uguale, per un articolo di Backspin se non ricordo male. Quella che ho io, però, è lo scatto precedente; quello dove ci sono anche io che passavo di là e Anis mi ha portato di peso sul set e ha detto al fotografo di scattarne una. Così io sono lì, che sembra ritagliato da un’altra fotografia e incollato tra le braccia di Anis.
"Bill, sei pronto?" La voce di mio fratello arriva da dietro la porta della mia stanza chiusa.
"Un attimo! Arrivo!"
Tom ha dormito sul divano, stanotte. Il letto è solo mio, non può più toccarlo nessuno. Mi da fastidio anche solo che ci si siedano sopra. Ieri ho urlato a mia madre che si stava azzardando a rifarlo. Io cambio le lenzuola, io lo rifaccio, io sistemo i cuscini. E, ovviamente, io ci dormo dentro. Da solo. Anis ha dormito qui e ci abbiamo fatto l'amore. C'è morto sopra. Non posso dormirci che io, adesso. Qualsiasi altra persona sarebbe come profanarlo, non lo so.
Le prime due settimane non ho avuto nemmeno il coraggio di entrare in camera. Poi mi è presa la nostalgia e allora tornare in questo letto mi è sembrata la cosa più logica da fare. Per un po' ho dormito solo dalla mia parte, ma la metà di Anis rimaneva troppo fredda, così adesso sto esattamente in mezzo e allargo le braccia e le gambe, scaldo tutto così quando mi giro la notte, posso rannicchiarmi dalla sua parte al calduccio e fingere che si sia alzato per andare in bagno. Nel dormiveglia è consolante, e la mattina dopo non ho mai il tempo di pensarci davvero perchè passa sempre qualcuno a prendermi, parlare, distrarmi.
"Bill!" Di nuovo la voce di mio fratello. "Stiamo facendo tardi, posso entrare?"
Gli dico di sì e mi trova di fronte allo specchio mentre finisco di mettermi il mascara. Gli sorrido attraverso lo specchio: il mio riflesso è splendido. Sono in piedi da ore, mi ci sono impegnato, voglio apparire meglio del solito. Anis lo avrebbe voluto, credo.
Nella mia testa risuona il:- Fatti bello, stasera usciamo; che mi diceva al telefono. E io gli rispondevo sempre che ero già perfetto.
"Sicuro di volerti truccare?" Mi chiede. Lo guardo e capisce di aver detto un'idiozia. Come potrei non volermi truccare? Devono ricordarsi che sono io. Io per come sono, non per come sarebbe stato meglio che fossi. Che poi dovrei essere donna, per quello. "D'accordo, lascia perdere. Ho detto una stronzata. Comunque, tra due minuti usciamo."
Annuisco e lo vedo che scappa via di nuovo. Tom è nervoso e non capisco seriamente perchè. La situazione sarà difficile, ma lui non c'entra. Lui serve a me, probabilmente lo faranno parlare solo un paio di volte. Non dovrebbe essere nervoso, davvero.
Schiocco le labbra, quindi mi schiodo dallo specchio. Non faccio in tempo ad uscire dalla camera che mio fratello mi recupera e m'infila, letteralmente, nel mio cappotto. Mi chiude perfino i bottoni. "David è qui fuori. Tobi ci aspetta giù," mi dice sbrigativo mentre cerco di capire perchè mi sta trattando come avessi otto anni. Quindi mi tiene per la vita e mi guarda negli occhi. "Bill..."
"Che c'è?"
"Quando arriviamo, stammi vicino." Dice.
"Tomi, cosa?"
"Non ti allontanare da me," ripete. "Solo questo."
Mi ritrovo ad annuire senza averci capito granché, e poi mi abbraccia e preme le labbra contro la mia guancia per qualche secondo, per un attimo credo che non voglia lasciarmi più andare. Quando torna a guardarmi, sorride un po' di più. "Sei bellissimo," mi dice, accarezzandomi le braccia. "Li stenderai tutti."

Agli studi di TRL ci sono già stato quel milione di volte, eppure sono nervoso lo stesso.
Dal momento che di fronte agli studi c'è moltissima gente, David ha dato ordine che passassimo dal retro ma la situazione non cambia molto. La nostra auto viene bloccata dalla folla qualche metro prima di arrivare alla porta. Vedo David espirare dalle narici, segno che è così nervoso che potrebbe esplodere qui e ora. Dentro la macchina.
Guardo fuori e vedo quello che non mi aspettavo di trovare. Ci sono delle fan dei Tokio Hotel abbarbicate sulle transenne; le riconosco subito e non tanto dai cartelli, quanto dal fatto che urlano con tutto il fiato che hanno e sono seminude. Continuano a cantilenare il mio nome - Bill! Bill! Bill! - e sorrido perchè nonostante tutto mi fa piacere.
Quando è saltata fuori la mia storia con Anis, per davvero intendo, non le stupide dichiarazioni che fece per farmi arrabbiare, fra le mie fan ci fu una scossa di terremoto. Qualcuna dichiarò di amarmi comunque - perchè io ero io, indipendentemente dal fatto che fossi gay - e molte altre si dichiararono molto deluse. Mi dispiacque, ma mi sono sempre chiesto in che cosa le avessi deluse di preciso.
Ad ogni modo, David fu bravissimo a gestire la cosa ed organizzò la conferenza stampa del mio coming out, tra le urla di mio fratello e quelle della Universal. In barba a tutto la risposta del pubblico fu meravigliosa. E comunque io non avrei accettato qualcosa di diverso, non avevo nessuna intenzione di giustificarmi oltre.
Sono felice di ritrovarle qui, che mi urlano che sono dalla mia parte in una situazione così dove ho veramente bisogno di supporto. E, se mi fanno piacere loro, mi fanno ancora più piacere le ragazze con la maglietta bianca con la B rossa che spuntano qua e là tra le mie emo-vampire vestite di nero. Sono le fan di Anis, quelle. E quando finalmente con l'auto riusciamo a passare, sono lì che gridano il mio nome insieme alle mie fan.
E mi sento bene, dannatamente bene.
Fermiamo l'auto proprio davanti alla porta; quando Tobi scende, le urla si fanno più forti e Tom mi stringe la mano. Parla prima ancora che lo faccia David, e David sta zitto e guarda fuori.
"Tu scendi per ultimo," mi informa mio fratello. "Prima David, poi io. Aspetta che ti aprano la portiera, intesi?"
"Tom, calmati, ti prego," lo guardo negli occhi e cerco di capirci qualcosa. "Non è la prima volta che devo scendere da una macchina circondato dalle fan, ricordi?"
Lui non mi ascolta. "Fà come ti ho detto."
Ci mancava mio fratello a dirmi cosa devo fare. Prima mia madre, poi la Universal, poi David, Anis... e in fine lui. Che razza di Principessa sono se non posso mai fare di testa mia?
Sento gli scatti delle portiere, David esce col volto tirato. Nemmeno un sorriso per le ragazze che - se non lo vogliono morto credendolo un negriero - lo amano quanto amano me. Tom lo segue a ruota e non esce dalla macchina, rotola fuori. Sento il boato: non so se sapevano che ci sarebbe stato anche lui ma credo di sì, lo sanno sempre.
Due secondi e Tobi apre la mia portiera. Tom è lì accanto a lui e mi chiedo perchè non stia spargendo se stesso un po' ovunque, come al solito. Poi penso che forse non è il caso che lo faccia, siamo qua per un altro motivo.
Come metto piede fuori, mi trascinano via. Cerco di sorridere alle ragazze, anche solo per ringraziarle ma Tomi è molto sbrigativo, se non mi tira dentro gli studi di corsa poco ci manca.
Una volta dentro, è il solito turbinare di tecnici e assistenti che ci circondano parlando tutti insieme. Ho imparato che non ho nessuna necessità di ascoltarli perchè paghiamo David apposta per quello. Sarà poi lui a farmi un riassunto di tutto ciò che devo sapere. Tom mi indica i camerini e ci muoviamo in quella direzione. Mentre passiamo dò un'occhiata allo studio, il pubblico è già dentro ma nessuno, grazie a Dio, fa caso a noi.
"Nervoso?" Mi chiede Tom, stringendomi il braccio all'altezza del gomito.
"No," scuoto la testa. "Solo terrorizzato." Sorrido.
Svoltiamo l'angolo subito dopo Tobi, e vedo Chakuza parlare con Fler da una parte. Fler tiene le braccia incrociate al petto e lo ascolta attento anche se sembra un po' annoiato. Chakuza è tutto agitato e muove le braccia come a ribadire qualcosa. Sapere che è qui, che sarà in quello studio con me, un po' mi tranquillizza, e non me l'aspettavo. Insomma, mi sembrava che fosse un me contro loro. E mi rendo conto che è un noi contro l'Aggro Berlin. O forse no. Forse è semplicemente un noi, e altri, e mio fratello e i fan. Contro nessuno, perchè tanto il motivo di combattere lo abbiamo perso tre mesi fa.
Chakuza alza lo sguardo e mi vede, ha il viso tirato sotto quel cappellino. "Hey!" Saluta mio fratello con un cenno del capo e poi mi si avvicina e mi guarda. "Tutto bene? Mi hanno detto che non vi lasciavano passare."
"Al solito," mi stringo nelle spalle. "Le fan erano ovunque."
E lui fa quella cosa lì, quella che fa ogni volta che mi chiede come sto e io gli rispondo che sto bene. Non ci crede mai; e mi scruta tutto, da capo a piedi, neanche ce lo avessi scritto in fronte se mi sento male. E finché non è convinto non mi molla. Alla fine sembra capire che non sto per collassare perchè annuisce.
Forse sta anche per dirmi qualcosa, ma uno dei tecnici si avvicina e ci avverte che la trasmissione inizierà tra cinque minuti, di prendere posto. "Dobbiamo microfonarvi," spiega poi. Ci muoviamo tutti verso lo studio, intanto che Chaku si sente in dovere di spiegarmi la situazione. "Voi due siete con noi," dice. "Hanno diviso lo spazio in due zone nette."
"E dall'altra parte, l'Aggro?"
Chaku annuisce. "Ma non ci sono tutti, soltanto Sido e Fler."
Fler, tra l'altro, ci ha seguiti ma non ci parla. Quando oltrepassiamo l'entrata dello studio, raggiunge Sido e si siede, col microfono già al suo posto. La stanza non è piccola, ma lo spazio è ridotto dalla quantità enorme di pubblico, che in effetti non mi aspettavo. Sono tutti zitti e fermi, però, e questo è un bene. I nostri divani sono di un giallo fulminante, e mi viene in mente che assomiglia al giallo delle pareti di casa di Anis; Saad, Eko e Kay-one sono già seduti e l'ultimo poso vuoto fra loro è quello di Chakuza. Io e mio fratello abbiamo un divanetto più piccolo alla loro destra, il resto dell'Ersguterjunge è ammassato nello spazio che resta. Lascio malvolentieri che Chakuza si sieda lontano mentre mio fratello mi aiuta a sistemare il microfono dietro ai pantaloni. Uno dei tecnici ci scandisce di nuovo il tempo.
David mi ha fatto avere una copia della scaletta qualche ora fa, l'ho letta ma non ne ricordo nemmeno un pezzo. David non voleva che venissi, mi ha fatto una paternale più lunga di mia madre e poi, quando si è reso conto che non avrei mai cambiato idea, ha parlato con la redazione e ha preteso e ottenuto che non mi facessero domande troppo private.
Uno studio televisivo, dall'interno, non è come lo si vede in televisione. Innanzi tutto ci sono molte più persone di quelle che ti fanno vedere, e ci sono più tempi morti. Quando passeranno i filmati, a casa li vedranno a tutto schermo, noi avremo un solo piccolo televisore lì a terra per controllare quando il video finisce, e un sacco di minuti da sprecare a guardarci tra di noi. Solo che questa volta, invece di avere accanto la mia band, ho quella di Anis - che non mi può vedere - e quella di Fler - che mi ha sempre preso per il culo. Mi stringo involontariamente a Tom che se mi stesse anche solo un po' più vicino probabilmente mi ingloberebbe. "Va tutto bene?" Mi sussurra.
Annuisco.
"Due minuti!" Annuncia il tecnico, sollevando le dita. Lo studio si mette in fermento, lo vedi proprio il cambiamento. Un attimo prima sono tutti lì che parlano, l'attimo dopo si muovono tutti: ordinano, sistemano cose, si preparano. Scorgo David in fondo alla stanza, dove non inquadreranno, appoggiato con una spalla al muro. Mi fa cenno con le dita che è tutto okay.
Inspiro ed espiro, la mano di Tom apparentemente appoggiata a caso dietro di me sullo schienale. Non può accarezzarmi la schiena, così cerca metodi sostitutivi per confortarmi.
"Quattro secondi... tre... due... " il numero uno, il tecnico lo conta muto e poi parte la sigla di TRL.

Subito dopo la sigla ci siamo noi in studio.
L'inquadratura è concentrata su Patrice che saluta il pubblico e dà il benvenuto a questa puntata speciale di TRL, che s'intitola King of Kingz - Ghetto Tribute. Un notevole sforzo di fantasia; mi chiedo che cosa sarebbe venuto fuori se avessero lasciato l'incombenza di trovare un nome a questa trasmissione ad un branco di scimmie lobotomizzate. "Anis Moahamed Youssef Ferchichi, in arte Bushido, era uno dei rapper più amati della Germania," Patrice scandisce il suo nome con voce partecipe ma introduce l'argomento come se fosse una cosa da niente. Come se stesse presentando l'ultimo singolo di Anis piuttosto che una trasmissione in suo onore dopo la sua scomparsa. Non gliene frega niente, ma finge il contrario.
Blatera per ore sulla grave perdita del mondo della musica con aria contrita, come se avesse perso un caro amico oltre che un grande artista di fama nazionale. Dio, e dire che ero davanti alla televisione, l'ho visto quando ha detto in diretta nazionale "Se avete qualcosa da risolvere, tu e Fler, risolvetevelo fra voi". Io so che quest'uomo non provava per Anis il minimo rispetto, ma dalle sue parole adesso non lo direbbe nessuno.
Devo fingere di non odiarlo, o di non odiare quello che la trasmissione rappresenta in realtà: un enorme occasione per fare su quintali di ascolti. Devo ricordarmi perchè mi trovo qui, su questo divano, così mi inumidisco le labbra e faccio finta di ascoltarlo con interesse. "E adesso il live di Zeiten Ändern Sich tratto dal 7 Live DVD, poi di nuovo in studio con la sua crew e con gli altri numerosi ospiti di oggi," la regia fa una carrellata dello studio e poi sfuma sulle prime note della canzone.
Il tecnico ci fa cenno che il video è partito. Patrice perde tutta la sua aria solenne e si mette a parlare con la truccatrice che lo ha raggiunto immediatamente; io, invece non riesco a staccare gli occhi dal monitor.
E' un colpo. Uno di quelli forti al cuore, che non ti aspetti e per il quale non sei preparato. Io vedo Anis sempre: nei miei ricordi, nei miei pensieri, nelle foto e in ciò che di lui vive ancora dentro la mia testa, però non ho più guardato un solo filmato da quando gli hanno sparato. Se l'ho fatto vivere è stato solo dentro di me. Quando lo vedo su quello schermo, quando compare sotto il cappuccio di quella felpa grigia e lo vedo muoversi - Dio, muoversi - il cuore mi si stringe così tanto che non lo sento più neanche battere. Per i primi minuti del video c'è solo il palco, e il fumo, e lui è tutto coperto ma non mi serve niente per riconoscerlo: le spalle, le braccia, la linea dritta dei fianchi.
Inspiro, perchè il mio cervello è impazzito. Una parte di me grida che è vivo, che è lì, e se è lì dev'essere vivo per forza. Il resto di me si ricorda che ha chiuso gli occhi dicendomi di non volersene andare. Il video è un montaggio del live e di alcuni momenti del backstage, quindi c'è Anis che canta - ed è bellissimo, e preso, e la folla si agita al suo comando - ma c'è anche Anis che scherza, e gioca con gli altri ragazzi. Ridono. E mi rendo conto che forse ho sbagliato anche solo a pensare di poter stare qui. Vorrei alzarmi e correre perchè proprio mi sembra di non farcela. Vederlo là dentro, voler allungare una mano e toccarlo e non poterlo fare è devastante. Tom mi accarezza un braccio e mi tira un po', vuole che smetta di guardare.
"Bill, girati," mi dice. E io lo faccio, perché la voce di Tom ha un potere particolare. Quando lo faccio, ed incontro i suoi occhi, Tomi sorride. "Va tutto bene. Io sono qui."

Patrice accoglie il rientro in studio, spiegando di nuovo brevemente la situazione perchè - mi pare di capire - siamo anche andati in pubblicità. E' difficile stare dietro a tutto quello che succede quando non sei inquadrato. David ci ha raggiunti sul divanetto durante la pausa, mi ha detto di calmarmi anche lui, devo avercelo scritto in faccia che non sto proprio benissimo. Secondo la scaletta, adesso dovremmo commentarlo questo video e per un attimo sono felice di non fare parte della crew. La parola tocca a Saad che era già pronto lì a parlare.
"Abbiamo appena visto nel video uno dei vostri show," sta chiedendo Patrice, con lo sguardo intenso puntato su Saad. "Che tipo era Bushido sul palco?"
"Atze era una forza della natura," risponde Saad, e un po' sorride. Io so che lui mi odia, ma so anche che voleva bene ad Anis. In quel momento capisco che se fa male a me stare qui, probabilmente fa male anche a lui. "Non stava fermo un momento, a volte era devastante. E fuori dal palco era anche peggio."
"Ti ha inseguito con un carrello," commenta Patrice.
Saad ride, ridiamo un po' tutti. "In realtà lì non si è visto," spiega, indicando il monitor,"ma poi ha cominciato a ridere e non ha smesso per dieci minuti. Era un bambino."
Patrice annuisce, condividendo l'ilarità generale. Guarda la sua cartelletta con le sue belle domande infilate una dietro l'altra. "Bushido fonda l'Ersguterjunge," la regia inquadra Fler che ha sul viso un'espressione indecifrabile, "nel 2004, giusto?"
Segue un coro di assenso generale, si parlano addosso e io li trovo carini. Seguo la discussione con interesse stavolta, non mi capita spesso di sentirli parlare di lui tutti quanti insieme. "E io leggo qui che avete fatto uscire moltissimi lavori fra album, sampler e singoli vari."
"Cinquantasette, dall'apertura a oggi," annuisce Chakuza, spostandosi sul divanetto. Appoggia la gamba destra in orizzontale sull'altra e ci gioca sopra col microfono.
Patrice annuisce a propria volta, accarezzandosi il mento con una mano. Non fa una piega.
Ed io mi preoccupo, perché dai conduttori imperscrutabili non sai mai cosa aspettarti.
Trattengo il respiro quando apre bocca, ed appena lo sento parlare capisco di avere avuto ragione a farlo.
“Ed in tutti questi anni di collaborazione non avete mai dubitato del suo operato o delle sue scelte? Mai nemmeno un contrasto?”
Ci sono cose che senza l’ausilio visivo non si capiscono. Il senso della sua frase… non sarebbe lo stesso, se il monitor di fronte a noi – quello oltre le telecamere, quello che ci mostra la messa in onda – non rimandasse il riflesso del mio volto.
Sono io la scelta della quale avrebbero dovuto dubitare.
Mi mordo un labbro e provo a non fissare la telecamera perché ho dannatamente paura di cominciare a piangere e non voglio farlo di fronte a tutti. Cerco la mano di Tom, di nascosto, strisciando sul divanetto, e la trovo immediatamente, come se mio fratello non avesse fatto altro che aspettare quella stretta da che ci siamo seduti.
Chakuza si agita subito, si inumidisce le labbra e riporta il microfono alla bocca.
“Noi non-”, comincia incerto, ma Saad lo ferma con un colpo di tosse, e Chakuza torna subito al proprio posto, in silenzio.
“Naturalmente,” dice con estrema tranquillità, “di fronte a certe cose ci ritrovavamo spesso un po’ spiazzati,” annuisce, “ma Bushido da noi non è mai stato in discussione. E perciò,” conclude deciso, guardandomi dritto negli occhi, “nessuna delle sue decisioni lo era.”
Io ricambio la sua occhiata e trattengo a stento le lacrime quando lo vedo annuire nella mia direzione. Vorrei piangere per un milione di motivi diversi che non c’entrano niente l’uno con l’altro. Ed ho voglia di alzarmi in piedi e ringraziare Saad, ma anche di prenderlo a pugni fino a fargli dimenticare da che parte è il cielo e da che parte la terra, perché una concessione come questa sarebbe stata molto più utile quando Anis era ancora vivo e respirava e dell’approvazione poteva farsene qualcosa. Adesso è sepolto a chissà quanti metri sotto terra, e che mi venga concesso un posto quando lui non c’è è del tutto inutile.
Ma immagino che siano anche queste leggi del Ghetto. Probabilmente, se Anis non fosse morto, io questo posto non l’avrei avuto mai.
“Naturalmente,” ripete Patrice, annuendo per l’ennesima volta come sapesse esattamente di cosa Saad stia parlando. In realtà non ne ha la più pallida idea, perché su una cosa quest’uomo aveva ragione, quando invitava Bushido e Fler a vedersela fra loro: la televisione non è il posto adatto per risolvere queste questioni. La televisione non c’entra niente, con queste questioni. E quindi Patrice non ne sa niente e non ne capisce niente. “E non vi ha stupito nemmeno la sua uscita a TRL?” chiede senza il minimo filtro – la telecamera mi inquadra di nuovo ed io lancio un sospiro stremato mentre colgo con la coda dell’occhio David agitarsi nel backstage – “Insomma, non è una cosa tanto comune, vedere un uomo di quasi trent’anni che espone in questo modo la presunta omosessualità di qualcuno.”
Sento Fler sopprimere a stento una risatina. È senza microfono, ma non può proprio risparmiarsi di sputare un “Ma se non facciamo altro dalla mattina alla sera?” che Sido blocca con un’occhiataccia e per il quale io invece mi ritrovo a ridacchiare a bassa voce. Ridacchia anche Chakuza, ma lui al contrario di me cerca di mantenersi serio perché forse non ha ancora realizzato quanto tutto ciò sia una farsa. La sua espressione tesa nel tentativo di non lasciarsi andare all’ilarità è tenerissima.
Patrice si comporta come non l’avesse nemmeno sentito. Il suo sorriso di circostanza è una delle cose più odiose su cui mi sia mai capitato di posare gli occhi. Ed il fatto che, in questo preciso istante, sia rivolto proprio contro di me, è ancora più irritante.
“E tu come l’hai preso, quell’episodio?” chiede, dando finalmente voce a ciò che tutti stanno pensando.
Questo ragazzino, com’è che si ritrova qua in mezzo a parlare di un rapper morto ammazzato?
Questo ragazzino è qua perché quel rapper lo amava. E se l’è visto morire fra le braccia, cazzo.
Scorgo appena David che mi fa cenni da dietro una telecamera, ma se lo guardassi probabilmente coglierei della disapprovazione, nei suoi occhi. O il tentativo di impormi dei limiti. In questo momento, non ne sento affatto il bisogno. Stringo la mano di Tom e parlo.
“In realtà quando disse quelle cose a TRL stavamo già insieme,” rivelo candidamente.
Osservo con un certo divertimento la consapevolezza farsi strada negli occhi di chi non c’era ancora arrivato. Patrice, per primo, e poi il regista, l’aiuto-regista, i cameraman, truccatori, parrucchiere e via dicendo.
Il conto è semplice. Ci arriva anche chi non è tanto bravo in matematica.
“Quindi…” esplicita per la folla il nostro conduttore, a disagio, “tu eri ancora minorenne, quando la vostra storia è cominciata.”
…mi rendo improvvisamente conto di ciò che ho detto, nel momento in cui realizzo che, se da un lato ho ottenuto ciò che volevo – zittirli tutti dicendo qualcosa che decisamente non si aspettavano – dall’altro è probabile che io possa aver detto anche qualcosa che probabilmente avrebbe fatto meglio a stare nascosto.
La pacca che David si dà sulla fronte la sento fin da qui, nonostante il brusio del pubblico di fortunati che è stato ammesso in studio. Tom stringe ancora la presa sulla mia mano.
“Bushido non ha fatto niente di sconveniente, finché mio fratello non ha compiuto diciott’anni,” dice, e sta mentendo, naturalmente, ma in questo momento non è un problema.
“E non trovi sia piuttosto sconveniente parlare di ciò di cui ha parlato Bushido a TRL, dato che allora Bill aveva solo diciassette anni?” chiede Patrice, spostando la propria attenzione su di lui.
L’Ersguterjunge tutta, dal divanetto, si mette in agitazione. Ho come l’impressione che metà del gruppo – in particolare Kay, sta scalciando come un puledro imbizzarrito – vorrebbe alzarsi e pestare quest’uomo dimenticandosi completamente della televisione.
Saad li tiene tutti fermi usando semplicemente la propria stessa calma. Li vedo tutti, si voltano a guardarlo uno per uno, e quando vedono che sta zitto e buono cominciano a tranquillizzarsi anche loro.
Vorrei essere altrettanto bravo a gestirmi.
Mi faccio forza, comunque. Tom non risponde, all’ultima domanda di Patrice, ed ha ragione a non farlo.
“Anis…” riprendo quindi io, lo sguardo basso, “era una persona a cui piaceva stupire gli altri. Era tremendamente egocentrico, perciò era naturale che, dovendo scegliere un modo per farlo capire al mondo, avrebbe scelto il più fragoroso.” Perché Anis era davvero così, lo penso ma non lo dico ad alta voce, era rumore. Non ci s’infila nella vita degli altri col silenzio, non si diventa la vita degli altri rimanendo in disparte. “Io non ne ho saputo niente, finché non ho visto la trasmissione in tv.”
Patrice annuisce e mi si avvicina.
“E quando l’hai visto, come hai reagito?”
Scrollo le spalle.
“Ho riso,” e ride l’intero studio, “No, davvero,” rincaro la dose, sorridendo a mia volta, “mi sono perfino chiesto per quale motivo fare la richiesta pubblica, visto che già in privato ne avevamo a sufficienza,” aggiungo con un sorriso serafico, così che tutti la prendano per la battuta che, in parte, non è per niente, “Però alla fine ci sono arrivato. Era il modo che aveva scelto di dirlo al mondo.”
Patrice sorride bonario, tornando a spostare l’attenzione su mio fratello.
“E tu, invece? Come l’hai presa?” gli chiede, inarcando curiosamente le sopracciglia.
Tom le sue sopracciglia le aggrotta e si dà quell’aria seria e sicura con la quale in genere affronta tutti i drammi nella propria vita – ed anche nella mia.
“Quale delle due cose?” chiede di rimando, “Bushido che richiede un pompino pubblico o il suo stare con mio fratello?”
Patrice ride.
“Il suo stare con tuo fratello,” risponde.
Tom annuisce piano e dosa le parole, stringendomi più forte la mano.
“È stata una scelta di mio fratello, e in quanto tale meritava rispetto.”
Ricambio la sua stretta e sorrido fra me. Tomi sta dicendo un sacco di bugie, ma le sue scuse sono sincere.
“E su questo andiamo in pubblicità,” avverte Patrice, rivolgendosi gioviale alla camera, “A fra poco col resto della storia di Bushido e dell’Ersguterjunge. Restate con noi!” e le telecamere vanno in stand-by.
Sembra che lo stacco pubblicitario sarà piuttosto lungo, perché quando Eko chiede se può andare in bagno gli dicono di sì e non aggiungono di far presto. Lo vedo scivolare via dal divanetto mentre Chakuza si alza per sgranchirsi le gambe e Saad, invece, si rilassa contro i cuscini, lasciando andare un respiro di pura tensione. Chaku fa per venire da questa parte, ma guarda oltre la mia spalla e si ferma, perciò guardo anche io e vedo che c’è David che si sta avvicinando minaccioso. Mi faccio minuscolo ed attendo la strigliata.
“Io non ho parole!” lo sento sibilare tra i denti, “Volete darvi un contegno? Tom, tu sei sempre il solito porco, e tu, Bill…” sospira e scuote il capo, “…cerca di non esporti troppo, d’accordo?”
Si allontana scuotendo il capo ed io faccio per voltarmi a guardare Chakuza per fargli cenno che sì, ora può avvicinarsi, ma non lo trovo dove l’avevo lasciato e vedo che sta girellando come un avvoltoio attorno al divano su cui sono seduti Sido e Fler. Sido sta dicendo qualcosa sul non parlare a sproposito, sembra un padre severo, e Fler si disinteressa di ciò che dice con la stessa espressione annoiata di un bambino disubbidiente. Lo vedo alzarsi in piedi e raggiungere Chakuza dopo aver lasciato Sido a parlare da solo, e vedo che, appena lo raggiunge, Chaku si volta immediatamente e si ferma a guardarlo.
“Ma allora eri davvero ubriaco!” gli dice prendendolo in giro, io ripenso all’uscita di Fler di prima e mi viene di nuovo da ridere, ma mi trattengo.
“Non sono ubriaco!” risponde Fler, tirandogli un calcio contro uno stinco, “Era una battuta, e almeno tu potevi ridere! Ho fatto la figura del cretino!”
“Ah, che strano…”
Il loro dialogo sfuma nel brusio dello studio e s’interrompe del tutto quando l’aiuto-regista ci fa segno di riprendere posto.
Quando finisce lo stacco pubblicitario mi accorgo che mi batte forte il cuore. Realizzo che ho paura delle altre domande che potrebbe pormi Patrice e cerco di ripassare mentalmente tutte le altre occasioni in cui Anis ha parlato di me o io ho parlato di lui. Ce ne sono tante e sono tutte potenzialmente imbarazzanti, o almeno, sono state tutte precedute o seguite da cose che potrebbero potenzialmente essere imbarazzanti se le raccontassi.
La scelta della camicia che ho indossato ai Comet nel 2007, per esempio. Quando tutti si sono chiesti per quale motivo gli ultimi due bottoni fossero sganciati e mi si vedesse tutta la pancia. Anis mi aveva letteralmente imprigionato nel camerino ed ero riuscito ad uscirne solo un minuto prima del red carpet. A riabbottonare il tutto con discernimento non avevo nemmeno provato – il mio discernimento aveva smesso di esistere nel momento stesso in cui Anis mi aveva posato le mani addosso.
Oppure la volta in cui gli chiesero se fosse serio nei miei confronti e lui rispose che sì, le sue intenzioni erano molto serie, mi avrebbe portato ad Amsterdam e mi avrebbe sposato e poi saremmo partiti per una lunga luna di miele. La sera prima avevamo litigato per chissà che motivo idiota – non è vero, li ricordo tutti, i motivi dei nostri litigi, volevo invitare Tom a mangiare da noi e lui aveva protestato dicendomi che era già abbastanza stanco dopo una giornata di lavoro per non sentirsi in vena di tollerare anche mio fratello, ed io l’avevo presa malissimo – e insomma, Anis non era davvero tipo da scuse, però sapeva lo stesso come farsi perdonare, e quello era stato il suo modo.
Ed a cercare, a grattare appena un po’ la superficie dei miei ricordi, ne trovo a migliaia, di aneddoti simili. E d’improvviso mi rendo conto che mi hanno chiamato in questo posto per affondare le mani nella mia testa e buttare la mia vita su un palco, davanti ad una telecamera, molto più di quanto non sia già stato fatto con me fino ad adesso.
E mi fa piacere ricordare Anis per i suoi fan. Però non so se voglio davvero dividerlo col resto del mondo, in questo momento.
Mi salva un miracolo, è evidente, perché so che, se fossimo tornati in studio ed avessimo ricominciato a parlare di me, non avrei potuto frenarle ancora, le dannate lacrime. Ed invece, dopo la pubblicità, non si torna subito in studio, parte un filmato. Guardiamo tutti nel monitor e vedo una cosa che decisamente non mi aspettavo. Davanti a me c’è un Anis che ho visto solo su YouTube e in qualche foto a casa di sua madre, una delle volte in cui mi sono ritrovato da quelle parti con lui. È magro e incasinato, più magro e incasinato di quanto fosse quando stava con me. Non è fisicamente piccolo, però lo sembra.
È un Anis talmente lontano dal mio tempo che quasi mi stordisce.
È l’Anis che conosceva Fler.
Nel filmato stanno tutti e due su un palco. O meglio, si danno il cambio: uno dei due sta sul palco, l’altro scende e passeggia lungo l’intercapedine che separa il palco dal pubblico. Tutti tendono le mani, tutti vogliono toccarli, sia Fler che Anis cantano con una rabbia ed una passione che Anis non ha mai mostrato all’Ersguterjunge. In effetti, ora che ci penso, anche nelle sue canzoni più cattive, Anis non sembrava mai arrabbiato. Solo amareggiato, deluso, il più delle volte semplicemente tronfio e fiero del proprio successo. La rabbia era una cosa distante, perché anche quando se la prendeva con l’Aggro Berlin era più derisorio che infuriato.
Su quel palco, invece, all’Aggro Berlin c’era ancora. Ed Anis cantava con rabbia. Lui e Fler cantavano insieme gridando al vento che la Germania non se li meritava, che la Germania non li capiva, che la Germania poteva anche andare a farsi fottere, loro i soldi li avrebbero fatti comunque, ed alla fine sarebbero diventati re e l’avrebbero governata tutta.
Li guardo nel video e mi sembrano così simili che quasi mi confondo. Cantano le stesse cose. Con la stessa voce. Con la stessa furia. È un Anis che non mi appartiene affatto, questo; lo trovo bellissimo, ma non ne avrò mai alcun ricordo. Mi volto impercettibilmente a guardare Fler e lo trovo con lo sguardo azzurrissimo fisso sul monitor. Si morde un labbro, non sembra agitato né a disagio, è solo… concentrato. Come non volesse perdersi un attimo di ciò che sta guardando.
Chi, invece, sembra davvero parecchio a disagio, è Sido. Ho come l’impressione che quest’uomo tutto vorrebbe tranne che trovarsi qui. Che è un po’ una sensazione che ci accomuna tutti, d’accordo, ma noialtri – io, Fler, Saad, Chakuza – lo sappiamo perché ci troviamo qui davvero. Per nessuno di noi questa è solo una trasmissione. Ci stiamo facendo gratuitamente del male perché è così che funzionano i lutti, qualsiasi cosa sia ciò che hai perso: ti ci immergi, lasci che ti ricopra tutto come un velo. Ne risorgi solo dopo. È un processo lento. Noi ci siamo nel mezzo.
Sido, con questo, c’entra poco. Eppure è qui e mi sento un po’ orgoglioso, per Anis.
Il filmato si conclude e noi torniamo in studio, Patrice non perde tempo a recuperare la propria cartellina e leggere ad alta voce. “Settembre duemilatre,” racconta con aria partecipe, “il successo di Bushido è appena all’inizio ed ancora nessuno immagina che, a solo un anno da questa data, lascerà l’Aggro Berlin per fondare la propria etichetta.”
Si prende una pausa ad effetto, la sfrutta per muoversi verso il divano su cui stanno seduti Sido e Fler. La telecamera stringe sugli occhi di Fler, il pubblico da casa non può vederlo ma io sì: sono ancora fissi sul monitor, che non è spento, è solo in pausa, precisamente sull’ultimo fotogramma di Anis prima della fine del video. Sembra uno sguardo perso, a guardarlo in televisione, ma io lo vedo che non è perso: Fler cerca gli occhi di Anis con i suoi. Mi sento disturbato.
Il fatto è che Fler è qualcosa di cui Anis parlava spesso, ma mai davvero. A toccare l’argomento con lui si ricevevano occhiatacce infastidite, tanto per cominciare, oppure una risata sprezzante, e sempre la solita solfa: un traditore, un codardo, uno stupido, ecco cos’è Fler.
Io non so.
Anis lo conosco- lo conoscevo: l’unico motivo per il quale provava della rabbia era per le cose che non era riuscito a trattenere abbastanza a lungo. Per suo padre, ad esempio. Per la storia fra Eko e Valezka, quand’era finita.
Credo che, quando Anis ha lasciato l’Aggro Berlin, l’abbia fatto sperando che Fler l’avrebbe seguito. Forse è questo, il tradimento di cui parla.
Ma io posso solo immaginarlo, perché Anis con me di questo non ha mai parlato davvero.
“È, questo, qualcosa che non si è mai veramente capito, nel passato di Bushido. Un po’ la parte oscura-”
“L’Aggro Berlin non è la parte oscura del passato di Bushido.”
Quando Fler parla, interrompendo Patrice, non se l’aspetta nessuno. Nemmeno il conduttore, che si volta a guardarlo come se, invece di averlo contraddetto, l’avesse preso a insulti senza un motivo. Ma è bravo, Patrice, a gestirsi gli ospiti, si muove con sicurezza: si riprende subito e si volta verso di lui, appoggiandosi al bracciolo del divano con aria complice, come un confidente navigato.
“Prego, prego,” incita con un cenno del capo. Sido lancia a Fler un’occhiataccia, ma Fler non la vede – o la ignora volutamente, non saprei. I suoi occhi sono cupi. Anche Anis aveva momenti del genere. E non lo si capiva più.
“L’Aggro Berlin non è stato un periodo oscuro,” ribadisce, e parla come non si trovasse davvero qui. Non guarda Patrice, non guarda la telecamera, continua a fissare l’immagine di Anis nel monitor. Non posso fare a meno di pensare che forse è proprio con lui che sta parlando. “Semmai, è stato il suo periodo d’oro. Eravamo giovani, ma la fama non ci aveva ancora istupiditi. E non cantavamo per spalarci merda addosso, cantavamo perché avevamo qualcosa da dire,” sospira pesantemente, torcendosi le mani in grembo. Lo guardiamo tutti, è un momento molto particolare. Mi sembra che Fler stia mettendo di fronte alle telecamere qualcosa di perfino più privato rispetto a quello che ho messo io. “I soldi danno alla testa solo ai deboli, comunque,” conclude scuotendo il capo, “è questo che non gli ho mai perdonato.”
Il nostro conduttore annuisce comprensivo. Mi chiedo perché non poggi una mano sulla sua spalla, s’intonerebbe perfettamente con quest’immagine melensa che vuole dare di sé, dell’uomo che sa tutto e che comprende tutto. Se io fossi davvero la principessa di qualcosa, l’avrei già messo a morte. Siccome mi sa che non lo sono, mi mordo un labbro e resto zitto.
“Sembra ci fosse proprio un bel rapporto, fra voi.”
Fler è preso in contropiede, non sa che dire, torna a guardarlo per la prima volta da quando siamo tornati in studio. “…ci conoscevamo da molto tempo…” butta lì, come servisse a spiegare.
“E come hai preso le accuse che ti sono state rivolte? Di averlo ucciso tu, intendo.”
Spalanchiamo gli occhi. Tutti, ma proprio tutti. Perfino Tom, che questa vicenda l’ha seguita solo marginalmente, si sente in dovere di dimostrare il proprio sgomento dischiudendo le labbra. Dopo quello che ha detto Fler, Dio, dopo quello che ha detto adesso, non puoi fare una domanda simile. È una scorrettezza tale che, stupidamente, penso che quest’uomo nel ghetto non resisterebbe un giorno. Lo farebbero fuori tempo niente. Devi capirlo subito, quando sei in quell’ambiente, cosa puoi dire e cosa non puoi dire.
“Puttanate,” boccheggia lui, e vedo Chaku agitarsi sul posto. Lo capisco, anche a me sta salendo un nervosismo assurdo. Vorrei prendere e alzarmi. “Se qualcuno ci crede ancora, quel qualcuno è un idiota,” rincara la dose, evidentemente ferito.
“Eppure,” continua Patrice, perfettamente conscio di aver trovato terreno fertile, “chi ti accusa parla di un movente piuttosto chiaro, e ce l’hai quasi confermato adesso. Ed eri lì, la notte in cui è successo, no?”
Vorrei davvero prendere e alzarmi. Le mani so menarle anche io. Ho le unghie lunghe. Di sicuro gli lascerei addosso qualche sfregio che ricorderebbe per un bel po’.
Invece si alza Fler, e nel suo sguardo c’è tanta fierezza e indignazione che arrivo a sentirmi inadeguato e sporco e meschino pure io che ormai alla sua colpevolezza non ci credo più da tempo.
“Sono puttanate,” ripete deciso, “come questo cazzo di programma,” e, senza una parola di più, si allontana verso il backstage.
Patrice non cerca neanche di fermarlo, un po’ di dramma era esattamente ciò che voleva, e visto che non mi ha ancora visto piangere – e non gliela darò questa soddisfazione, a questo figlio di puttana – provare con Fler era la cosa più veloce e più sicura. In sala cade il silenzio e Patrice sorride prima di voltarsi verso la telecamera e scusarsi col gentile pubblico per questa scena assolutamente imprevista ed alla quale cercheranno tutti di porre rimedio durante lo stacco pubblicitario.
Prima di andare in pausa, però, Sido chiede la parola. Prende il microfono che Fler ha lasciato sul divano, ed è calmo ed educato, addirittura cortese. Lo guardo bene in viso e mi chiedo se sia veramente questo l’uomo contro il quale Anis urlava tanto, nelle sue diss. Ha un aspetto incredibilmente innocuo.
“Fra le etichette discografiche,” comincia pacatamente, “è esattamente come fra gli esseri umani. Arriva un momento in cui smetti di capirti e non puoi più coesistere con l’altro,” scrolla le spalle. Anche lui parla con aria assente, però è una distanza diversa da quella di Fler. Continuo a pensare che quest’uomo non c’entri niente, con tutto questo, però è una presenza rassicurante, in un certo qual modo. “Ma Fler non ha ucciso nessuno,” dice deciso, guardando dritto in camera, “Fler c’è solo finito in mezzo. Ed è stato così un po’ per tutti noi, perciò io eviterei domande di questo tipo, da qui fino alla fine del programma.”
La pubblicità parte prima che Patrice possa rispondere.

Mi rendo conto di essere andato in stand-by solo quando vedo tornare Chakuza e Fler insieme. Fler ha addosso un’aria talmente scazzata che penso potrebbe esplodere da un momento all’altro. È palese che non ha nessun motivo di stare ancora in questo posto, e neanche nessun desiderio. Non ho idea di come abbia fatto Chaku a convincerlo a tornare dentro. Non ho idea neanche di dove sia andato a ripescarlo. Non mi interessa più niente, in tutta sincerità anche io sono decisamente stufo. Posso crogiolarmi nel mio lutto anche a casa, ho lasciato in mezzo le fotografie, posso ricominciare da lì. E invece mi tocca star fermo.
Mi consola solo il fatto che mancano meno di venti minuti alla fine della trasmissione, il che significa che probabilmente faranno un paio di domande a caso a qualcuno che decisamente non sono io ed alla fine mi permetteranno di andare a casa, dove dormirò fino a dopodomani, lo giuro.
Sono spossato.
Patrice riaccoglie il pubblico, che applaude, e non può proprio risparmiarsi un commento sul ritorno di Fler. “Le acque si sono calmate,” dice con un sorrisetto stronzo. Fler sbuffa, infastidito al massimo, ma non aggiunge niente.
Io sto quasi per rilassarmi contro lo schienale del divano, quando Patrice ricomincia a parlare.
“Fino ad ora abbiamo esaminato la parte più professionale e pubblica della vita di Bushido,” racconta serio, “ma Bushido era soprattutto un uomo. Con degli affetti, degli interessi ed una vita privata. È anche di questo che parleremo adesso con Bill Kaulitz, sicuramente la persona che, in quel senso, lo conosceva meglio.”
Ed io mi sento morire.
Lancio un’occhiata a David, che s’è pietrificato accanto ad una telecamera. Le domande private non erano proibite? Finché le cose le racconto io, d’accordo, ma che quest’uomo s’intrufoli nella mia vita, nel mio rapporto con Anis, nella mia cazzo di storia, questo no, non lo posso accettare. Non lo posso tollerare.
Non lo reggo.
David scuote lentamente il capo, non sa che pesci prendere. Aveva fatto firmare ai produttori un contratto, io lo so, David è sempre attentissimo a queste cose. Vedo già nei suoi occhi i meccanismi del cervello che si mettono in moto, lui che pensa a come risolvere, a chi fare causa, a chi togliere in tribunale perfino le mutande, ed io continuo a pensare che Patrice nel ghetto non sarebbe sopravvissuto un giorno. Penso questo, lo guardo e basta.
“Bill,” chiede comprensivo, “te la senti di parlarne?”
Non so che dire. No che non me la sento, mi pare ovvio. Non so perché non ho pensato a quest’eventualità, quando ho deciso che volevo venire ed aprirmi il petto in due. Non so perché non ho pensato che al mondo non bastasse vedere il mio cuore, che preferisse di gran lunga afferrarlo fra le dita e strapparlo via. Io lo sapevo che sarebbe finita così. Solo che la prospettiva di affondare un po’ fra i ricordi con una giustificazione valida per poterlo fare mi ha annebbiato la vista.
Tom mi guarda preoccupato. Cerco di nuovo David nel backstage, ma è scomparso. Mi prendo un secondo per avercela con lui, deve essere colpa sua, in qualche modo.
Sospiro.
“Suppongo di sì…” concedo distrattamente, con un mezzo sorriso. Sul divanetto dell’Ersguterjunge vanno tutti in tensione, come stessi per sputtanare chissà che.
In effetti è vero.
“Tu ed Anis…” mi salta il cuore in gola e spalanco gli occhi, “Posso chiamarlo così, sì?” non rispondo perché mi manca il fiato, ma no, testa di cazzo, non puoi chiamarlo così, non puoi chiamarlo così perché lo fai per pietismo in virtù di una libertà che non ti è mai stata concessa. Non commuovi nessuno, Patrice, ficchi le mani dove non devi, solo questo. “Com’è che vi siete conosciuti?”
Il mio sguardo si perde nel vuoto per qualche secondo. Poi stringo le mani in grembo – ho lasciato andare Tom molto tempo fa e non intendo tornare a chiedergli aiuto proprio adesso – e deglutisco, sperando di rimandare il mio cuore al proprio posto.
“Una festa,” racconto a bassa voce, “lui era ancora sotto contratto alla Universal. Chiacchierammo un po’, e…”
“Fu lui a provarci con te?”
Sollevo lo sguardo e lo omaggio di una smorfia infastidita.
“Assolutamente no,” dico, velenoso, “Non capisco cosa impedisca di pensare che sia stato io a provarci. È esattamente così che è andata.”
“E lui ti ha subito fatto sapere che anche da parte sua c’era dell’interesse…”
Comincio seriamente a chiedermi che razza di storia sia girata alle nostre spalle nello show business, perché ciò di cui sta parlando Patrice non c’entra niente con la nostra verità.
“Sono stato io ad insistere,” spiego asciutto. Non so perché non sto piangendo. Forse perché sono più arrabbiato che triste, in questo momento. “Anis s’è innamorato di me solo perché io, il suo amore, me lo sono guadagnato. E questo è quanto.”
Patrice annuisce tranquillamente e si siede sul bracciolo del mio divano. Io faccio fatica a non scostarmi disgustato.
“E dimmi, nella vostra vita privata-”
“La nostra vita privata” lo interrompo con un’occhiata glaciale, “è appunto la nostra vita privata.” Sorrido un po’. “Vuoi chiedermi com’era quando si svegliava alla mattina? Se era dolce con me? Se mi tradiva? Com’era a letto?” sbuffo e scuoto il capo, mi vanno un po’ di capelli davanti agli occhi ma li tiro dietro un orecchio con decisione. Non sto piangendo e voglio che lo vedano tutti. Voglio che lo capiscano tutti: Anis mi manca, ma non lo rimpiango. Non ho nessun motivo di rimpiangere niente. “Lui era perfetto,” dico fieramente, fissando dritto negli occhi Patrice, “è tutto quello che dovete sapere.”
Lui si tira impercettibilmente indietro. Vedo Tomi che ghigna soddisfatto, al mio fianco, mentre il pubblico si scioglie in un applauso scrosciante che non era previsto, dato che, teoricamente, non lo era neanche questa mia uscita.
Mi rilasso contro lo schienale e guardo Chakuza. Mi fa un cenno d’approvazione, una cosa piccolissima, china appena il capo e sorride. Gli sorrido di rimando, mentre ascolto distrattamente Patrice riassumere ciò che è stato fatto e detto durante la serata e salutare il pubblico ricordando l’orario di TRL del giorno dopo.

Non aspetto neanche un secondo. Appena ci danno il segnale di libero, mi alzo in piedi e tolgo il microfono. Non guardo nessuno e non vedo nessuno: voglio solo uscire da qui il più presto possibile, infilare in macchina e poi chiudermi in casa con le mie foto, i miei ricordi e il mio Anis che con le stupide insinuazioni di Patrice non ha niente a che spartire.
Imbocco il corridoio, incurante del fatto che, alle mie spalle, Chaku e Tom mi stiano chiamando. Trovo David che sta già litigando com'era prevedibile. Urla e strepita, minaccia ripercussioni legali su ogni fronte. "Il ragazzo è provato," sta dicendo e punta vagamente il dito nella direzione dalla quale provengo, finendo per indicarmi davvero senza volerlo. "Avevamo concordato per delle domande molto più generiche."
"Signor Jost, il signor Kaulitz si è dichiarato in grado di rispondere," gli risponde una donna ben vestita e pettinatissima. Ha la coda così tirata dietro la testa che dà l'impressione di smontarsi se solo le si togliesse l'elastico. Purtroppo quello che dice è vero. Il contratto sarebbe passato in secondo piano se Patrice fosse riuscito ad ottenere la liberatoria direttamente dalle mie labbra. E lo ha fatto, prendendomi in contropiede in diretta.
Nonostante questo, mi viene da sorridere stupidamente di fronte a David che mi chiama affettuosamente il ragazzo. Non posso essere il Signor Kaulitz per lui, neanche quando si parla di affari legali, non quando la prima volta che ci siamo incontrati avevo undici anni e lui mi superava ancora in altezza. Quello è durato poco, comunque.
Ad ogni modo sono stanco, l'ho già detto, e di ridere davvero non ho molta voglia.
"David, lascia stare," dico e lui si volta. E' così furioso che ci mette due secondi a capire che lo sto chiamando e gli ho chiesto di smettere. "Voglio andare a casa."
David si riprende e non discute. Qualunque disaccordo tra band e manager si discute in privato, è la prima regola.
E' così che ci ha insegnato a non fare capricci davanti a nessuno, ad obbedire ai suoi ordini per poi - in caso - protestare anche violentemente sul tourbus. E' per questo che la stampa non ha ancora avuto modo di sapere quanto io sia capace di battere i piedi e quanto si lamentino anche le due G, che passano per due tipi tranquilli.
David, difatto, non discute. "Va bene. Tra cinque minuti usciamo, allerto la security."
Mi sforzo di sorridere. "Grazie."
Il mio manager annuisce e si allontana, senza dimenticarsi di indicare la donna ben vestita e annunciarle decisissimo: "Avrà notizie dai miei avvocati."
Io mi stringo a Tom e sospiro. Se dio vuole è finita: niente più tributi, niente più inquadrature strettissime sui miei occhi. Non sono pentito - non ho la forza per esserlo - ma sono contento di essermi ripreso il mio Bushido e di potermelo riportare a casa. Ve l'ho fatto vedere, ma ora basta.
"Bill..." la voce tesa di Chakuza mi risveglia dai miei pensieri. Apro gli occhi e gli faccio cenno di continuare. Sta per parlare, ma David ci raggiunge di nuovo e quindi non ne ha il tempo materiale.
"E' tutto a posto, andiamo." E poi aggiunge: "Niente autografi, niente foto. Non vi fermate. Vi voglio fuori da questo posto il più in fretta possibile."
Sono perfettamente d'accordo, quindi annuisco. Tom e Chakuza scivolano al mio fianco immediatamente, imitano perfino i miei passi. Sorriderei se fossimo altrove.
Vedo Fler con la coda dell'occhio e mi pare che ci segua.
David ci fa uscire da dove siamo entrati ma la situazione è totalmente diversa. Quando ci affacciamo sulla porta si scatena il delirio: c'è un mucchio di gente in più. Hanno transennato ulteriormente e le ragazze scalpitano, chiamano il mio nome e quello di mio fratello. Qualcuno batte le mani e mi si solleva il sopracciglio in automatico.
David apre la fila e cammina spedito, dettando il passo a noi che gli stiamo dietro. Prima di uscire, abbiamo assunto la solita formazione: una delle guardie del corpo mi sta incollata addosso, l'altra è con Tom che scalpita - anche lui - e, per qualche strana ragione vorrebbe camminare più avanti con me.
Appena metto piede fuori, localizzo con un'occhiata le altre guardie della security; anche questo me l'ha insegnato David: devo sempre sapere chi mi può aiutare e dove trovarlo. Ironico che da lì a due minuti saperlo non mi servirà assolutamente a niente.
Facciamo soltanto cinque metri. Non c'è modo di arrivare alla macchina senza passare attraverso il corridoio umano transennato. Mi sforzo di tenere la testa alta e un'andatura non troppo sostenuta. Mi secca apparire scostante.
Le cose vanno fuori controllo un attimo prima che io - chiunque di noi, credo - me ne accorga.
Quando il pubblico grida, tu senti solo un vociare indistinto; alle volte ti arriva chiaramente il tuo nome e qualche frase imbarazzante, sì, ma per il resto sono solo grida.
Le urla di qualcuno che viene buttato a terra e spintonato, i suoni di una rissa insomma, non li puoi distinguere.
Ecco perché quando la transenna va giù è già tutto iniziato e tu non lo sapevi. Quando il ferro tocca terra con quel rimbombo di campana è già perfino tutto finito.
Da qualche parte alla mia sinistra volano offese. Io mi guardo intorno spaesato e l'unica cosa che mi preoccupa è che Tom si trova proprio da quella parte.
Guardo in quella direzione e la mia guardia del corpo fa lo stesso. Sull'errore umano ci puoi sempre contare, alla fine.
La rissa, in realtà, è solo davvero una rissa ma lo capiamo quel secondo troppo tardi. Quello è il secondo che ci mette la transenna vicino a me a cadere.
Mi volto di nuovo e lo vedo, l'uomo col passamontagna armato di coltello. Lo vedo così bene che penso: è una lama di dieci centimetri, sono morto.
Poi non capisco più niente. Sento correre, sento il mio nome e poi mi buttano a terra. Il grido di dolore che ne segue non è mio, però. Ho solo battuto una spalla, e neanche tanto, non ho fiatato.
Quando riapro gli occhi sono disteso a terra e Tom sta gridando: "Lasciatemi andare, cazzo!"
Il mondo ci mette più di qualche secondo a ritrovare un senso. La prima cosa che noto è che si sono zittiti tutti. Non è che stanno in silenzio, ma non gridano più; c'è come un mormorio.
La seconda cosa che noto è che ho le ginocchia immerse in una pozza di sangue. E che a seguirne la traccia collosa trovo Peter che non si muove e ha gli occhi chiusi. Peter che sembra morto.
"Chaku..." lo dico piano, perchè so che se mi esce di bocca poi è vero. Alla fine però urlo, perchè il sangue è sempre lì. "CHAKU!"
Gattono fino a lui e non me ne frega niente di niente. Del sangue. Della gente. Del brusio e delle mille voci che mi sembra di riconoscere. Non me ne frega.
Lo guardo e sta fermo, disteso sulla schiena. Lo guardo e ogni secondo c'è più sangue di prima. Mi ritrovo a pensare: non anche lui! Non anche lui!
E sento il panico che mi prende alla gola. Non ho materialmente la forza per prendere in considerazione l'idea che qualcuno gli abbia infilato un coltello nello stomaco, che stia morendo. Che perderò anche lui.
E' tutto come tre mesi fa. Tutto, tutto uguale. Il rumore di fondo, la gente che urla, il sangue. Il rosso, sulla maglietta bianca che si tinge ad una velocità spaventosa. Lo afferro e me lo tiro addosso, in ginocchio lì dove sono. "Chaku..." le lacrime che ho trattenuto di fronte a quel figlio di puttana di Patice escono fuori adesso. Mi ci soffoco mentre lo chiamo ininterrottamente. "Peter, Dio mio rispondi!"
Mi dondolo e dondolo lui. Una parte di me mi dice che è già morto, l'altra mi dice che non può esserlo e io non ascolto nessuna delle due e mi convinco che se rimaniamo tutti fermi non cambierà niente. Non morirà. Si fermerà tutto, anche il sangue.
Mio fratello continua a gridare e poi arriva Fler. "Bill spostati adesso," mi dice. La sua voce è tesa e netta e autoritaria. Non l'ho mai sentita una voce così, con quel tono particolare. Invece sì, penso vago. E' la voce di Anis, lui parlava allo stesso modo.
Io però continuo a stringere Peter perchè se mi muovo, se cambio qualcosa, il sangue riprenderà ad uscire. E lui a morire. "SPOSTATI!" Lo urla stavolta, e me lo strappa dalle mani, mi spinge via. Io cado all'indietro e c'è mio fratello pronto a recuperarmi al volo.
Sto piangendo così forte che non sento nemmeno le mie parole. So di pronunciarle, ma non le sento. "E' vivo? Fler?" Chiamo, lui non si gira. "FLER! Non si muove... Tomi, non si muove.. non si muove."
Tomi mi stringe, ho le sue mani sullo stomaco e mi appoggio contro il suo petto. Non è un abbraccio tenero, mi stringe forte perché sa che mi getterei di nuovo in avanti. Tom non dice niente, non lo dice e io penso che se non parla è perché non può consolarmi. E se non può consolarmi allora vuol dire che è morto. Peter è morto.
Fler solleva la testa, si guarda intorno con rabbia. Quei suoi occhi azzurrissimi quasi lampeggiano. Quando dice: "Qualcuno chiami una fottuta ambulanza," non guarda nessuno eppure tutti si sentono tirati in causa.
L'ambulanza arriva dopo pochissimo. Qualcuno doveva averla già chiamata, oppure sono stati molto veloci. Non so. I paramedici scendono dall'automezzo uno dietro l'altro come le squadre speciali della SWAT nei film americani. E anche Fler è un film americano perchè è lui a dire tutto, a fare tutto. "Ferita da arma da taglio sull'addome, il coltello probabilmente era seghettato, avrà bisogno di... non lo so, almeno quattro punti, ed assistenza immediata," dice ad uno dei medici mentre issano Chakuza su una barella. E la sua voce è di nuovo in quel modo, netta e secca. Il medico annuisce e Fler ha il viso tirato. Si china sulla barella, su Peter e sussurra: "Stai tranquillo, Atze, ne vieni fuori. Non preoccuparti."

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The Hardest Part

di tabata e lisachan
Mi chiamo Anis Mohamed Youssef Ferchichi e l’ultima volta che ho parlato avevo un buco nel petto, uno nella gamba ed uno squarcio sul braccio, ero ricoperto di sangue e stavo morendo. L’ultima volta che ho parlato è stata proprio l’ultima volta che il mondo ha sentito la mia voce, perché io su quel letto ci sono morto davvero. D’accordo, non lì, su quel letto ci ho solo lasciato il cuore e sono morto dopo, in ambulanza, proprio un attimo prima di arrivare in ospedale. Non sono mai stato davvero un uomo fortunato.
Comunque la sostanza non cambia. La sostanza è il mio corpo che si decompone metri e metri sotto terra. Io con la sostanza non c’entro più niente. Un corpo non ce l’ho più. Il mucchio d’ossa che si polverizza nella bara non mi appartiene. Di me è rimasto solo questo. Voce che nessuno sente. Presenza che nessuno percepisce. La capacità di guardare il mondo – una capacità che non ho chiesto e che, sinceramente, al momento preferirei non avere.
Bill si stira contro il materasso, getta indietro il capo ed ansima forte, gli occhi chiusi, l’espressione rilassata, è completamente assente. Il mio bracciale brilla prepotente attorno al suo polso nonostante l’oscurità della camera ed io vorrei evitare di guardare, ma quando non hai occhi, quando sei tutto e non sei niente – cose che capisci solo da morto, davvero – non puoi davvero evitare scene simili. Sono la realtà e tu ne fai semplicemente parte.
*
L’ospedale è buio e silenzioso, nonostante non sia affatto notte. Jost – sempre bravo a risolvere i problemi – ha dato disposizioni perché il caos generato dalla rissa dopo TRL sia tenuto fuori dalla bolla di vuoto assoluto in cui ha infilato Bill per evitare di sconvolgerlo più di quanto già non sia. Allo stesso modo, dottori ed infermieri passano per il corridoio antistante la sala operatoria come fossero fantasmi, scivolando sul pavimento lucido in perfetto silenzio.
Occhi bassi e lacrime cristallizzate sulle ciglia, Bill resta immobile sulla sedia. Tom, seduto accanto a lui, gli stringe una mano e gioca con la fede attorno al suo anulare sinistro. È enorme, per le dita sottilissime di Bill – e d’altronde era mia, perciò la cosa non mi stupisce – fa tutto il giro e Tom ogni tanto la tira verso la nocca come volesse sfilarla. La rimette al suo posto ogni volta che Bill stringe appena le dita, quando la sente sgusciare via.
Oltre la porta che Bill sta fingendo di non fissare, c’è Chakuza sotto i ferri. L’intervento sta andando bene, fortunatamente il coltello era maneggiato da un incompetente. Avrebbe sicuramente ucciso Bill, se fosse arrivato a mettergli le mani addosso, ma Chakuza è un uomo forte ed è riuscito a salvare la pelle. La lama non è arrivata nemmeno a ferire lo stomaco – quello sarebbe stato un problema – c’è solo una lacerazione piuttosto ampia da ricucire. Fler è stato bravo a dare le giuste direttive.
Fler.
Fler sta vagando nervosamente per il corridoio, le sue scarpe da ginnastica sono l’unica cosa che fa rumore, mentre la suola scricchiola nervosamente sulle piastrelle grigie. Non si sente nient’altro fino a quando il cellulare di Jost non squilla. Suona La Bamba, negli anni ottanta era un pezzo che andava forte. Probabilmente sarebbe il caso di ridere, di fronte ad una cosa del genere, ma non ride nessuno ed ognuno ha i propri motivi per farlo.
L’uomo si affretta a rispondere non appena scorge il numero sul display. È nervoso ed agitato.
- Sì? – attende che dall’altro lato della cornetta dicano qualcosa, mentre Tom gli scocca un’occhiata infastidita e Fler si appoggia contro una parete incrociando le braccia e sollevando un piede ad ancorarsi al muro. Lascerà una macchia, ma non può più camminare perché faceva rumore, e però deve darsi qualcosa da fare, perciò picchietta la parete con la punta del piede ed ogni volta che solleva la scarpa si intravede al di sotto l’alone scuro della traccia che lascia la suola.
Bill non dice una parola.
- No. – continua Jost, ignorando volutamente qualsiasi cosa lo circondi per concentrarsi solo sul suo interlocutore, - No, non preoccuparti. È tutto a posto. Non sappiamo ancora i dettagli, ma è tutto sotto controllo.
- Ma con chi cazzo parli, David?! – sbotta Tom, stringendo un braccio attorno alle spalle di Bill, che si riscuote appena ma non solleva lo sguardo.
David si allontana un po’ dalla cornetta, incerto.
- …Briegmann. – risponde evasivo, guardando altrove.
- Be’, - continua Tom, insoddisfatto, - non mi pare il cazzo di momento in cui stare a parlare del cazzo di lavoro, David.
Bill singhiozza e solleva il viso verso il fratello. Sono tanto vicini che gli sfiora una guancia con le labbra, mentre gli parla.
- Tomi, ti prego…
Fler deve intercettare il tremito nella sua voce. Non so quando abbia imparato a capire così bene Bill. So che da Fler non potevo aspettarmi niente di meno, perché gliel’ho insegnato io come si sta al mondo e come si controllano le situazioni, gliel’ho insegnato io che i problemi non vanno risolti ma prevenuti, quando è possibile. Ed infatti Fler previene. Le lacrime di Bill potrebbero essere un problema ed io già le vedo – posso immaginarle – scorrere lungo le sue guance.
- Adesso ci calmiamo, Kaulitz. – utilizza apposta il cognome, non vuole essere invasivo, solo razionale. – Non c’è affatto bisogno di-
- Te lo dico io di cosa non c'è bisogno! – lo interrompe Tom, ben deciso a non cedere di un passo. La conosco l’ostinazione dei Kaulitz. – Non c'è bisogno che mio fratello sia qui, che pianga un amico con un buco in pancia, che tu venga a farmi la predica e che David parli con la fottuta Universal in questo cazzo di preciso momento! Ecco di cosa non c’è bisogno!
Nel silenzio che cala dopo quest’attacco, si sente distintamente il click che annuncia l’interruzione della chiamata da parte dell’interlocutore di David. Se quello era davvero il presidente della Universal Music Deutschland, Tom avrà dei problemi seri da risolvere, già a partire da domani. Ma posso immaginare che al momento la cosa non gli interessi granché.
Si volta invece a guardare Bill, sollevando anche l’altra mano a stringerlo attorno una spalla e cercando i suoi occhi.
- Ti riporto a casa. – dice, secco ma dolce. Conosco anche quel tono. È il tono con cui in genere convince Bill a fare qualsiasi cosa, perché a Bill piace moltissimo sentirsi amato e quel tono gronda amore da ogni lato, dannazione.
Bill si tende tutto sotto le sue mani.
- No. – risponde, e suo fratello aggrotta le sopracciglia, - Voglio restare qui.
- Non esiste. – protesta Tom con veemenza, - Tu vieni a casa con me. Non ci resti qui, stanotte.
Fler solleva un braccio come a chiedere il permesso di parlare.
- Posso restare anche io e-
- Non ci resta qui, stanotte. – precisa lui, senza staccare gli occhi dal fratello.
Bill lo guarda ancora ed in fondo alle sue pupille c’è un pizzico di rabbia che me lo fa ricordare esattamente com’era nei suoi momenti migliori. Quando era lui, non il fantasma piangente di se stesso. Quando s’imponeva e pretendeva conto e ragione di tutto, quando richiedeva attenzione e quando dichiarava candidamente che in ogni caso avrebbe fatto solo ciò che gli interessava o che sarebbe stato meglio per lui. Quando era ancora una cosa mia.
- Non sei tu a dover decidere. – dice duramente. Poi il suo sguardo si fa più dolce, e forza perfino un sorriso stremato mentre sfiora con due dita la guancia del fratello, - Fammi restare, per favore.
Tom sospira e sposta le mani dalle sue spalle al suo volto. Lo tiene come una cosa preziosa, delicatamente.
- Sei sfatto, cucciolo. Devi riposare. – suggerisce pacatamente, - Ti porto qui come prima cosa domani mattina, promesso. Ti prego, torna a casa.
Bill scuote il capo e si morde un labbro, sollevando entrambe le mani a stringersi attorno alla maglietta di Tom.
- Lo hanno portato dentro, Tomi, ed io voglio vederlo uscire. – dice a bassa voce, perfettamente lucido, - Deve uscire. Almeno lui.
Se avessi ancora un cuore che batte si fermerebbe adesso. Ma io non sono più sostanza da tempo. Non sono più corpo da tempo. Non sono più niente da tempo. Bill aveva torto. Il problema non è solo di chi resta. È anche di chi va via.
- E va bene, va bene. – ringhia Tom, scuotendo rassegnato il capo, - Però io resto. Voialtri – avverte infastidito con una breve occhiata a Fler e David, - potete andare via.
Negli occhi di Fler si fa strada una preoccupazione nuova. Mette giù il piede e scioglie le braccia lungo i fianchi, schiude le labbra per dire qualcosa ma Jost lo precede.
- Tom… - chiama piano, con lo stesso tono sommesso di un padre ormai da lungo tempo rassegnato.
- Non hai altro da fare, cazzo? – sibila il ragazzo, interrompendolo e squadrandolo cupamente.
David si tira indietro e non aggiunge altro. Fler non ha nessuna voglia di litigare ma qualcosa deve dirla comunque.
- Io non posso andare via con Chakuza là dentro. – dice pianamente, perfettamente a proprio agio, - Starò di fuori, per qualsiasi evenienza sapete dove trovarmi.
Seguo Fler finché non esce dal corridoio, svoltando nella sala accettazione dell’ospedale e dirigendosi verso la porta scorrevole che porta al parcheggio tutto intorno alla struttura, scomparendo nella notte com’è sempre stato bravo a fare all’occorrenza, e poi torno a guardare Bill, che s’è slacciato dal fratello ed ha ancora due lacrime immobili appena sotto le palpebre. Non so cosa aspettino, per scendere. I suoi lineamenti sono tesi e contratti, se non avessi impresso la sua forma – tutte le sue forme – così profondamente nella mia memoria – e la memoria è davvero l’unica cosa che resta – probabilmente faticherei a riconoscerlo.
Capisco cosa aspettavano quelle due lacrime per cadere quando la porta della sala operatoria si apre discretamente e ne esce fuori un esserino delizioso, biondo e pallido, con un paio di enormi occhi azzurri ed un sorriso incoraggiante sulle belle labbra rosse. L’infermiera perfetta, davvero. Tom la squadra compiaciuto dall’alto in basso, in fondo non è un suo amico quello che ha rischiato di morire. Ovviamente, Bill non ha occhi che per lei, anche se non è lei che sta guardando ma la sua divisa.
- Com’è andata? – chiede, la voce rotta, scattando in piedi mentre le lacrime caracollano giù lungo le sue guance ripercorrendo la scia ormai asciutta di un pianto già vecchio.
La signorina sorride più apertamente, inclinando il capo e lasciando la lunga coda bionda ondeggiare sulla schiena.
- Il signor Pangerl sta bene. – dice, ed il sospiro di sollievo che sfugge alle labbra di Bill non potrebbe ignorarlo nemmeno un sordo. La bionda sorride teneramente, prima di continuare. – Al momento è ancora sotto anestesia e non potrà ricevere visite almeno fino a domattina, ma l’intervento è andato bene, resterà solo una cicatrice. Purtroppo – sospira, - il coltello era seghettato, - e Bill sorride un po’, - perciò la lacerazione è stata complessa da ricucire, ma un buon chirurgo plastico dovrebbe poter risolvere il problema.
Viene un po’ da ridere anche a me – ed è tremendo voler ridere quando non puoi. Non so nemmeno se la mia risata riecheggerebbe sinistramente lungo questo corridoio semivuoto. La mia condizione non è molto simpatica. Comunque mi viene da ridere perché l’unica cicatrice che ha – quella sul sopracciglio – Chakuza se l’è fatta sbattendo contro un armadio. Non gli sembrerà vero di avere una vera e propria cicatrice da eroe. Secondo me la tiene.
- Non potrei… - Bill si interrompe mentre suo fratello, dietro di lui, comincia a raccogliere giubbotti e borse, dato che, se lo conosco bene, non intende restare nei paraggi se non si può entrare e visitare il povero ferito, - …vederlo? Solo per un attimo?
L’infermiera finge di esitare perché sa che non dovrebbe ma in realtà il linguaggio del suo corpo parla chiarissimo: il sorriso è dolce, le sopracciglia inarcate verso il basso, le lunghe ciglia battono su un paio di occhi incredibilmente lucidi. Bill se l’è già conquistata.
Parla chiaro anche la lunghissima occhiata che lancia a Tom, e che Tom le ricambia senza problemi di sorta, condendola pure con un sorriso malizioso. Il ragazzo lascia cadere i giubbotti sulle sedie di plastica e resta in piedi, mentre David sospira ed interrompe minuti interi di imbarazzato silenzio per salutare i ragazzi e dire che ripasserà domattina, mentre già armeggia alla ricerca del cellulare – probabilmente per riprendere la telefonata bruscamente interrotta qualche tempo prima.
- Solo qualche minuto. – dice l’infermiera agitando un dito ungulato perfettamente laccato di rosso sotto al naso di Bill. Apre la porta e Bill scivola di soppiatto oltre l’uscio; non nota affatto Tom avvicinarsi alla donna con aria predatoria. In una situazione normale gli tirerebbe dietro improperi fino a farlo diventare sordo.
Quando la porta gli si chiude alle spalle, Bill si ritrova in un ambiente stretto e poco confortevole. Ci sono un paio di sedie di plastica in un angolo, un tavolino spoglio con sopra una cartella medica che non capirebbe neanche se provasse a leggerla con attenzione e nient’altro. È pulito, ma vuoto in maniera desolante. A riempire più di metà della parete a destra, comunque, c’è un’enorme vetro spesso e lindo. Al di là del vetro c’è tutto ciò che gli interessa al momento.
Alcuni infermieri spostano Chakuza dal lettino operatorio alla barella sulla quale lo porteranno nella stanza che Saad ha esplicitamente richiesto per lui, pretendendo di sistemare tutto da solo nonostante David si sia impuntato fino all’ultimo per occuparsi dell’intera faccenda.
Bill fissa il corpo dell’uomo che viene spostato con delicatezza. Osserva gli occhi chiusi ed il tessuto leggero del ridicolo camice che gli hanno messo addosso sollevarsi appena al ritmo del suo respiro, che è debole e lento ma c’è.
Poggia una mano sul vetro. La fronte, subito dopo. Socchiude gli occhi e sorride.
Mi sento come se stessi spiando uno sconosciuto. Fa male anche se non ho più un corpo per sentire dolore.
*
L’indomani mattina Bill arriva all’ospedale ad un orario assolutamente indecente. Suo fratello è riuscito a trascinarlo controvoglia a casa nel momento in cui l’infermiera è tornata a riprenderlo nella saletta antistante la sala operatoria – visibilmente più scarmigliata e meno perfettamente truccata di prima – e Bill s’è sentito dire che tutto ciò che avrebbe potuto fare per il resto della notte sarebbe stato mettersi a fissare insistentemente il muro. Quando Bill ha chiesto a suo fratello se poteva comunque restare, Tom gli ha dato del pazzo da ricovero. Bill s’è sentito in dovere di dargli ragione e s’è lasciato scortare a casa.
Durante la notte non è cambiato molto. Fler è rientrato in ospedale verso le due del mattino, congelato e con un principio di raffreddore già in atto, stretto in una felpa bianca e nera che non sarebbe riuscita a proteggerlo dal ghiaccio della notte tedesca neanche se fosse stata in lana pura – ed era solo cotone pesante. S’è guardato in giro, ha individuato l’infermierina bionda vagolante di fronte alla camera di Chaky e le ha chiesto se il signor Pangerl stesse là dentro.
Lei ha risposto di sì ma che le visite non erano ammesse.
Fler ha flirtato in maniera veramente spudorata. Alla signorina non dev’essere sembrato vero beccarne due in una sera, comunque per tutto c’è un prezzo e Fler lo sa bene: il quarto d’ora passato a soddisfare l’infermiera nello sgabuzzino delle scope gli è valso la possibilità di starsene al caldo in camera di Chakuza, affondato in una poltrona in pelle marrone, per tutto il resto della notte.
Quando s’è seduto, tirando una gamba su un bracciolo e lasciandola penzolare nel vuoto mentre poggiava il viso contro le nocche del pugno chiuso e piantava il gomito nel bracciolo opposto, ha sospirato e borbottato “Atze, non hai idea del freddo che fa. Comunque lo sapevo che te ne saresti tirato fuori. E, oh, non hai idea di cosa ho dovuto fare per riuscire ad entrare qua dentro!”.
Avrei voluto ridere di nuovo, in tutta sincerità. Vedere Fler così dopo averlo visto per tutti gli ultimi cinque anni in una luce completamente diversa mi fa bene, credo. Le sensazioni di benessere non sono chiare come quelle di malessere. Ma non lo sono mai, non lo erano neanche quand’ero vivo.
Bill arriva, comunque, accompagnato da un fratello così gloriosamente scazzato da non lasciare adito a dubbio alcuno sulla sua voglia di trovarsi da tutt’altra parte. Oltretutto, come sono arrivati la biondina ha ripreso a ronzargli intorno, e Tom la guarda con lo stesso interesse col quale guarderebbe una merda di cane per strada, perciò la situazione in sé non è che sia esattamente idilliaca.
A me viene ancora da ridere, per inciso.
Bill entra di soppiatto nella stanza di Chakuza e vede Fler sonnecchiare sulla poltrona, il capo penzolante avanti e indietro. Gli si avvicina con un sorriso tenerissimo in viso, è un bel po’ che non lo vedo splendere in questo modo. I capelli sono sciolti e morbidi sulle spalle e non ha addosso un filo di trucco, solo qualche catenina, il mio bracciale e il mio anello.
Gli si piega addosso e lo scuote per una spalla.
- Fler, - lo chiama piano, per non disturbare Chaky, - ehi, ci siamo qui noi adesso… vuoi andare a casa?
Fler gli spalanca un paio d’occhi acquosi e assonnati addosso e si riscuote.
- No… - mormora confusamente, - sto bene, vado solo… - non si capisce cosa borbotti mentre torna a chiudere gli occhi. Bill ridacchia e lo scuote ancora, mentre Tom si appollaia letteralmente su un tavolino nell’angolo opposto della stanza. – Sì, sì! – si sveglia lui a quel punto, - Okay, ho capito… vado a darmi una sciacquata al viso e… volete del caffè? – i gemelli annuiscono in contemporanea, Fler si alza dalla poltrona e si sgranchisce le gambe e le braccia, prima di passarsi una mano sugli occhi e sbadigliare sonoramente. – Allora resti tu qui mentre sono via? – chiede un’ultima volta, come rassicurazione, muovendosi già verso la porta.
Bill annuisce tranquillo e si siede sulla poltrona.
- Oh, ma è caldissima! – ride.
Fler ride a propria volta, la mano già sulla maniglia.
- Sì, te l’ho tenuta così apposta. – scherza uscendo.
Abbiamo appena il tempo di sentire il mezzo strillo concitato dell’infermiera che se lo ritrova davanti agli occhi, prima che lui chiuda la porta gridando “no, ancora?!” e fuggendo verso i bagni degli uomini – di fronte alla cui porta non sono nemmeno sicuro che lei si fermerebbe – che la stanza ripiomba nel silenzio e tutto ciò che riusciamo a sentire è il bip continuo del macchinario che ci informa che Chakuza sta bene, così come i suoi respiri profondi e regolari.
- Senti, ma se continua a fare il bell’addormentato possiamo andare? – si lagna Tom, piantando le mani sul tavolo ed accavallando le gambe, facendo dondolare una seggiolina di plastica con un piede.
Bill si volta a guardarlo con aria estremamente disapprovante.
- Dobbiamo restare finché non si sveglia! Pensa tu se apre gli occhi e si ritrova da solo!
- Oh, sì. – ridacchia Chakuza. Bill sente la sua voce e si volta a guardarlo con la lentezza impaziente e desiderosa di conservare la meraviglia dell’attimo con la quale in genere si guarda alle sorprese più belle, - Avrei potuto spaventarmi moltissimo.
Bill gli getta le braccia al collo all’istante.
- Chaku! – urla, saltandogli letteralmente addosso, - Oddio, sei sveglio! Come stai?
- Ouch… - borbotta un po’ lui, cercando di scostarsi da Bill che preme contro la ferita ancora fresca di sutura, - Sono stato meglio, ma devo dire che pensavo che le coltellate facessero più male.
- Che uomo. – lo prende in giro Tom, inarcando un sopracciglio, - Quasi te ne facciamo avere un’altra, va’.
Bill gli lancia un’altra occhiataccia, rinunciando alla poltrona per accucciarsi sul letto accanto a Chakuza, una gamba piegata sul materassino, l’altra a reggere saldamente il peso sul pavimento.
Vorrei un corpo solo per poter uscire da questa stanza, adesso.
Fler rientra affannato, stringendo tra le braccia tre bicchierini colmi di caffè annacquato.
- Dio mio, ma è una strega… - biascica confusamente, tirando giù col gomito un lembo della felpa incastrata nella cintura dei pantaloni, - Ragazzi, ma anche a voi…? – solleva lo sguardo e lo punta su Chakuza, che nel mentre s’è sollevato a sedere ed ora lo sta guardando a propria volta, sorridendo come un bambino ed agitando una mano in segno di saluto nella sua direzione. - …lo sapevo. – ride, avvicinandosi e scuotendo il capo, - Bushido non poteva averti preso in crew senza che valessi veramente qualcosa.
È strano sentir parlare di se stessi da morti. Non è una cosa che dovrebbe naturalmente accadere. Forse invece accade sempre, ma io ne avrei comunque fatto volentieri a meno.
Bill si irrigidisce così all’improvviso e così repentinamente che il suo disagio si estende anche a tutti gli altri. Tom si fa teso sul tavolino, Chakuza rabbrividisce leggermente ed osserva il ragazzo – il mio ragazzo – scivolare sul materasso fino a lasciarsi ricadere sulla poltrona.
Fler capisce qualcosa che capisco anche io. Pure se preferirei non capirlo affatto. E si scusa.
Il silenzio che si prolunga dopo è tanto imbarazzante quanto confortante. Sorseggiano tutti i loro caffè avvolti in una bolla di disagio che si risolve scoppiando all’improvviso nel momento in cui Tom salta in piedi ed annuncia a gran voce che sono già in ritardo per l’appuntamento alla Universal e che David li starà sicuramente aspettando di fuori. Bill si morde un labbro e posa il proprio bicchierino ancora mezzo pieno sul comodino accanto al letto, alzandosi in piedi.
- Torno questo pomeriggio, d’accordo? – dice a Chakuza, ed io so che vorrebbe dirgli altro perché conosco i suoi occhi e so quando stanno nascondendo ciò che la sua voce non può ancora dire. Giuro che se potessi distoglierei lo sguardo.
Fler e Chakuza restano soli il secondo successivo. Fler riprende posto sulla poltrona e gli allunga una pacca amichevole sulla spalla. Chakuza si lamenta sonoramente.
- Un po’ di delicatezza, cavolo, sono stato ferito! – borbotta sistemandosi contro il cuscino.
Fler ride, incrociando le gambe sulla poltrona.
- Molto eroico, da parte tua. – commenta con un sorriso furbo.
Chakuza scrolla le spalle.
- Bill era in pericolo.
Fler sbuffa un’altra mezza risata e scuote il capo, sistemandosi meglio sul cuscino.
Chakuza si inumidisce le labbra e poi sorride lievemente.
- Sai che stanotte ti ho sentito?
Fler spalanca gli occhi su di lui, schiudendo appena le labbra ed arrossendo.
- Come, prego…? – chiede ansioso.
Chakuza ride con più convinzione.
- Non ero mica in coma, dormivo e basta! – spiega, - Mi hanno svegliato i rumori e poi ti sei messo a parlare…
- Ma farmi sapere che mi stavo sputtanando, no…?
Chakuza scuote il capo e ride ancora, piegandosi lievemente in avanti.
- Hai bevuto? – s’informa interessato, lanciandogli un’occhiata dubbiosa.
- Nemmeno un goccio. – risponde fieramente Fler. Poi ci riflette. – Be’, una birra. Ma sono stato in giro tutta la notte, rischiavo la morte per congelamento, avevo bisogno di un po’ d’alcool.
Chakuza lo guarda, disapprovandolo gravemente.
- Patrick… - comincia severo.
- Niente Patrick, non me la merito la strigliata! – borbotta Fler in risposta, incrociando le braccia sul petto.
Tutto quello che mi interesserebbe, al momento, sarebbe uscire da questa stanza e raggiungere Bill. Dovunque si trovi. Fargli sentire che ci sono, dannazione, che da qualche parte ci sono ancora, anche se lui non può vedermi né sentirmi. Anche se sono morto, cazzo, io esisto ancora. Resto bloccato – imprigionato – qui. Non sono più parte di questo mondo.
È incredibilmente crudele essere costretto a sapere comunque tutte queste cose.
*
Eko Fresh entra nella stanza – Dio, mi fa piacere rivederlo, non credevo l’avrei mai detto, pensato o qualsiasi cosa sia quella che sto facendo adesso – e lo dice. Così. Senza preavviso e senza nemmeno spiegarsi.
- Atze, l’hanno chiamato Flerkuza.
Su quella sua faccia allungata da topo lo stupore è comico da morire. Quand’è stupita, la faccia di Eko si allunga a dismisura.
- Hanno chiamato cosa in che modo? – sbotta Fler, riconoscendo immediatamente il proprio nome e non altrettanto immediatamente quello di Chakuza. È meraviglioso che non sappia di cosa Eko stia parlando. Io ci sono già passato, quindi sono un passo avanti.
- Ma sei ancora qui tu? – chiede Eko, notando solo in quel momento la sua presenza rannicchiata sulla poltrona, - Ma non ce l’hai una vita? – poi scrolla le spalle, voltandosi verso Bill che staziona ai piedi del letto di Chakuza ed avvolge un gomitolo di lana dal lungo filo che Chakuza tiene appallottolato in grembo e sbroglia con attenzione. – Ohi, principessa. – lo saluta con un cenno del capo, - Che combinate?
- Volevo fare un maglione! – borbotta Bill, imbronciandosi e gonfiando le guance, - Ma non sono stato capace.
Eko ridacchia.
- Ma per chi? Per Chaku?
Bill scuote il capo.
- Per Fler! – spiega, mentre Fler solleva un braccio come a dire “presente” e si stringe nelle spalle, tirando su col naso. – S’è preso un raffreddore assurdo, ma è perché va sempre in giro in felpa. Visto che si ostina a passare le notti all’addiaccio, volevo almeno che avesse qualcosa di caldo…
- Ruberò una borsa dell’acqua calda da casa di Sido. – biascica Fler, allungandosi a recuperare un fazzolettino dal comodino per soffiarsi il naso.
- Potresti dormire sulla poltrona e basta. – suggerisce Chakuza con un sorriso furbo, - Giuro che non origlio più. – aggiunge quando Fler gli lancia un’occhiataccia offesa e imbarazzata.
- Oppure potresti tornartene a casa tua, tanto per cambiare, e dimostrarci di averne una. – rincara Eko, recuperando la seggiolina di plastica e trascinandola fino al letto per poi sedersi a gambe divaricate e chinarsi in avanti con aria cospiratoria.
Bill si china immediatamente verso di lui. Ha sempre adorato dargli corda, parlare con Eko lo diverte oltremodo.
- Allora, cos’è che dicevi quando sei entrato? – lo stuzzica, tirando un po’ il filo per dire a Chakuza di darsi una mossa.
Eko annuisce con aria seria al punto che Fler si sente turbato e si china a propria volta, e tutti e tre fanno capannello attorno ad Eko che solleva un dito e si mette a raccontare.
- Stavo vagando su fanfiktion.de con Kay, e ci siamo imbattuti nel primo esemplare di Flerkuza della storia.
- Ma si può sapere che cazzo è ‘sto Flercoso? – sbotta Fler irritatissimo, tirando su il colletto della felpa e tirando su pure col naso, già che c’è.
Eko lo guarda con fastidio palese.
- Ma sei sempre così lento di comprendonio o che? – commenta impietosito, - Fler e Chakuza insieme fanno il Flerkuza.
- No… non ci credo! – ride Bill, battendo entusiasta una mano su un ginocchio e rischiando di disfare nuovamente il gomitolo che, rotolando sul materasso, raggiunge le mani di Chakuza, che possono così salvarlo prima di distruggere ore di lavoro per l’esaltazione di un momento, - Hanno già cominciato a scriverci su?
Chakuza si passa una mano sugli occhi, disperato.
- Non è possibile… - sospira affranto.
Fler continua a non capire, ma è giusto così, lui con le fanfiction non ha mai avuto a che fare.
- Ma scrivere su cosa? – chiede quindi, ed Eko rotea gli occhi battendosi una mano sulla fronte.
- Quando c’è stato il casino a TRL, non è che sia stata ripresa perfettamente proprio tutta la scena. – spiega pazientemente, - Diciamo che le riprese si sono focalizzate più che altro su te che prendi in mano la situazione ed aiuti a caricare Chaku sull’ambulanza improvvisandoti George Clooney dei poveri in un episodio di Ghetto-ER.
A Fler continua a sfuggire il passaggio fondamentale.
Chakuza lo esplicita per lui. O almeno ci prova.
- Credo che scrivano su noi due, Pat.
- Scrivano chi? E cosa?
Bill ha pietà delle nostre anime – soprattutto della mia che, a quanto pare, esiste davvero – risolvendo il problema con una lezioncina semplice ed accurata delle sue.
- Le fangirl, Fler. – spiega annuendo, - Mi sa che vi hanno preso in simpatia ed ora scrivono fanfiction su di voi. Ciò che Eko sta tentando di dire-
- Eko può dirlo da solo. – annuisce lui, interrompendolo e rivolgendosi a Chakuza, - Quindi insomma, c’era questa storia incredibile in cui tu stai all’ospedale in punto di morte e Fler è lì al tuo capezzale che piange e quindi tu ti risvegli e gli dici che in realtà l’hai sempre amato, e-
- Ma che roba è?! – scatta in piedi Fler, giustamente terrorizzato, - Cristo, ma è da malati mentali!
Eko agita una mano come a dirgli di aspettare.
- No, ma poi migliora! – commenta con competenza, ma a Fler non sembra interessare molto.
- Ma può pure essere il nuovo capolavoro della narrativa tedesca, fanculo! – si tira indietro, soffiandosi ancora il naso, - Vado a farmi un giro, cazzo. E dopo magari me ne vado davvero a casa.
- Volesse Iddio. – implora Eko, per poi tornare a guardare Chakuza, - Dicevo, tu l’hai sempre amato, e…
Bill salta giù dal materasso, rischiando di mandare all’aria Chakuza con tutto il letto.
- Fler! Aspetta! – lo richiama mentre lui esce dalla porta, - Ti accompagno.
Fler scrolla le spalle come se la cosa non gli importasse minimamente, ma aspetta comunque che Bill sia uscito dopo di lui per richiudere la porta. Dall’interno della stanza giungono le risate soffocate di Eko e di Chakuza, e Fler rotea gli occhi, infastidito.
- Non prendertela troppo… - cerca di consolarlo con un sorriso tenero dei suoi, - Ti va una cioccolata calda? – suggerisce indicando la macchinetta a qualche metro di distanza da loro.
Fler ghigna stanco.
- Se me la correggi con una dose abbondante di vodka, possiamo cominciare a parlarne.
Bill gli lancia un’occhiata curiosa, inclinando lievemente il capo, e Fler ride e scuote il capo.
- Prendiamo questa cioccolata, - concede, - e dopo andiamo a farci un giro fuori. Ti va, ragazzino?
Bill annuisce freneticamente e trotterella verso la macchinetta automatica, recuperando due cioccolate che insiste per pagare e seguendo Fler all’esterno dell’ospedale. Il suo sguardo si fa enorme e brillante quando si posa sul manto bianco che copre le strade.
- Ha nevicato…! – esala estasiato, stringendosi nel cappottino.
Fler rotea gli occhi.
- Perfetto, ci mancava solo questo. Morirò.
Bill ride e muove qualche passo sul marciapiedi, attento a non scivolare.
- Se ti rassegnassi a stare al chiuso, di notte, come tutte le persone normali… - suggerisce, giocando con la punta di una scarpa in un cumulo di neve attorno al lampione.
- Ci sono abituato, non è un problema. – borbotta Fler, agitando una mano, - Tu non ficcare i piedi là dentro, ti prenderai una polmonite.
- Guarda che sei tu quello che starnutisce da giorni! – ride Bill, socchiudendo gli occhi su una folata di vento particolarmente freddo.
Fler lo liquida con un cenno della mano e sbuffa, il suo fiato si condensa e lui e Bill lo osservano disperdersi nell'aria. Tirano giù un sorso di cioccolata bollente quasi contemporaneo e li sento sospirare di sollievo nello stesso modo, a distanza di pochissimi secondi.
- Dovresti veramente riguardarti, un po'... – borbotta Bill affiancandoglisi e cominciando a camminare lungo il marciapiedi, - Peter era preoccupato l'altra sera, quando non ti ha visto arrivare...
- Ah, davvero? – Fler arrossisce vagamente, è comico vederlo arrossire così, e poi si perde in un ghigno un po' più furbo, lanciando un'occhiatina allusiva a Bill, - E tu che ci facevi l'altra sera da Peter?
Bill sorseggia la cioccolata, incerto.
- Ogni tanto... – biascica fissando il vapore acqueo che risale dal bicchierino plastificato, - ...mi piace passare un po' di tempo con lui. Mi sento più a casa nel suo appartamento che non nel mio. È strano... – aggiunge con un sorriso triste, - perché casa mia è piena di ricordi di Anis, quindi dovrei trovarmi meglio lì, e invece...
Fler sbuffa una mezza risata, finendo la cioccolata e gettando il bicchierino in un cassonetto dell'immondizia.
- Guarda che non devi nasconderlo con me, se state insieme. – butta lì semplicemente, infilando le mani in tasca per proteggerle dal gelo, - Non ve la scrivo una diss contro.
Bill si volta a guardarlo come se avesse detto contemporaneamente la cosa più offensiva e la cosa più ridicola del mondo.
- Ma... non... – si agita arrossendo e stringendo il bicchierino fra le mani, - Non stiamo insieme!
Fler inarca un sopracciglio e lo fissa. La sua espressione non è incredula come dovrebbe essere, se davvero pensava stessero insieme. Ci sono un sacco di cose che mi sfuggono, in tutto questo. O forse la cosa spaventosa è che in realtà non mi sfugge niente e capisco tutto, e questo mi infastidisce perché non dovrei – sono morto, non dovrei davvero – e neanche vorrei.
- No? – insiste, mentre Bill butta via il bicchierino ancora mezzo pieno e tira fuori dalla borsa un paio di guanti, - Strano.
- Strano perché? – chiede lui, infilando i guanti con fin troppa cura per non dare chiaramente ad intendere di star cercando un pretesto per non guardare Fler, il quale scrolla indifferentemente le spalle.
- È stata la prima cosa che ho pensato quando ti ho visto a casa di Chakuza. – rivela in un mezzo sospiro, - Ho pensato che steste insieme.
Bill annuisce compitamente torcendosi le mani in grembo.
- Potresti… - biascica imbarazzato, - …non dirglielo? – Fler inarca un sopracciglio, incerto, e Bill si affretta a spiegarsi, - Ecco, - borbotta, - non vorrei che… cioè, io mi trovo bene con lui, non vorrei che decidesse di allontanarsi per un pettegolezzo. – sospira, - Io lo so, come sono fatto. Lo so che è difficile stami accanto senza che la gente pensi di tutto e di più. – sorride stancamente, - Sapessi quello che si pensa in genere di quella povera anima di mio fratello. – Fler ridacchia perché evidentemente lo sa, cosa si pensa di Bill e Tom, ed anche Bill si concede una risata. – Insomma, ci tengo che Chaku resti dov’è. Quindi non dirgli niente, ok? – conclude un po’ ansioso.
- Okay, okay, ragazzino, calmati! – sbotta Fler, divertito, sollevando entrambe le braccia in segno di resa, - Non avevo comunque alcuna intenzione di andare da Chakuza a chiedergli conferma né niente di simile. Tranquillo. – Bill annuisce ed abbassa lo sguardo, in imbarazzo. Fler sospira e cambia discorso, vedo un brillio di gratitudine negli occhi di Bill ed un po’ mi infastidisce davvero che qui si viva perfettamente anche senza di me. – Comunque, davvero, non preoccuparti per il sottoscritto. – lo rassicura stringendosi nelle spalle, - Ci sono abituato al freddo. Bushido mi teneva fuori anche fino alle quattro del mattino.
Bill annuisce e sulle sue labbra si forma un mezzo sorriso intenerito mentre si muove lentamente sul marciapiede. È un sorriso che anticipa una domanda che non sa se può fare. Potessi, tratterrei il respiro. Poi mi rendo conto che, in un certo senso, lo sto già facendo.
- Com’era? – chiede a bassa voce, stringendo le mani in grembo, - Da ragazzo, dico. Io ne so molto poco.
Fler inarca un po’ un sopracciglio, ma non sembra molto stupito di sentirsi chiedere una cosa simile.
- Be’, non era esattamente il tipo che a uno facesse piacere frequentare. – riflette, scavando fra i ricordi, - Voglio dire, era uno stronzo. Ed era pericoloso, ma non nel senso del romanzetto per ragazzine, cioè, non era il classico tipo cupo che al limite poi però ti tiene fuori fino all’una e mezzo e torna a casa. Quello rideva sempre ma ci metteva niente a infilarti un coltello nel fianco, all’occorrenza.
Bill ridacchia e si stringe nelle spalle.
- Sì, lo so che rideva spesso. – annuisce, guardando i mucchietti di neve ammassati lungo il marciapiedi.
- Nah, non lo sai. – Fler lo butta lì con indifferenza, Bill aggrotta le sopracciglia e fa per rispondergli male, ma si ferma appena si volta a guardarlo e lo vede sorridere nostalgico. – A diciott’anni Anis non rideva come ha cominciato a ridere dopo aver fatto i soldi.
- Certo che tu… - borbotta con un mezzo broncio, - quando te la leghi al dito è proprio per sempre, eh?
Fler scrolla le spalle.
- Non proprio per sempre. – risponde noncurante, - Per quanto merita.
Bill si morde un labbro e palesemente non sa se porre la domanda che gli trema sulle labbra. Alla fine lo fa. Mi fa tenerezza e sono anche un po’ contento – Bill non era davvero tipo si tenesse qualcosa dentro. Vorrei che tornasse a sorridere come faceva con me, anche se pare io non sorridessi con lui come facevo con Fler. C’è decisamente qualcosa che non va in quest’equazione.
- …Bushido meritava di essere odiato fino a quando non fosse morto?
Fler riflette. Fissa dritto di fronte a sé. Ho paura di ciò che potrebbe dire. Anche se sono morto e per me non cambierà niente, qualsiasi sia la sua risposta.
- …avrebbe meritato che continuassi ad odiarlo anche dopo.
*
A Chakuza, i medici hanno prescritto venti giorni di ricovero che lui ha passato tutti - uno per uno - a borbottare che stava bene e che non c'era bisogno lo tenessero lì. Ha insistito per alzarsi due giorni dopo l'operazione, fingendo che la sutura non gli facesse un male d'inferno e finendo per farsi saltare i punti. Due volte, nel giro di una settimana.
Fler, ad un certo punto, si è così spazientito di vederlo grondare sangue a casaccio che lo ha rimesso di peso sul letto urlando che era un coglione, e poi ha chiamato l'infermierina deliziosa che lo perseguitava da giorni e lo ha fatto sedare.
Il tutto tra le risate di Eko e gli occhioni sgranati di Bill che davanti al sangue ha ancora delle brutte reazioni. Fortuntamente, aggiungerei. Non voglio assistere al giorno in cui il sangue non gli farà più effetto.
In questi venti giorni, Chakuza non è mai rimasto solo. A parte sua madre - le cui visite meriterebbero un resoconto tutto loro, perché quella donna gli è ossessivamente attaccata e questo genera e ha generato scene di panico miste a scenate furiose ben poco austriache -, qualcuno della crew era sempre presente nella sua stanza. E questo mi ha reso molto orgoglioso di loro. E di me, che li ho tenuti insieme fino all'ultimo.
Da quando lo hanno portato in sala operatoria a quando hanno deciso di dimetterlo, ogni singolo membro dell'Ersguterjunge ha attraversato i corridoi dell'ospedale almeno una volta, per portargli i suoi saluti o per offrirsi di dare una mano a Bill e Fler che, invece, quella stanza non l'hanno praticamente mai lasciata.
Fler è uno che se si prende a cuore qualcosa, la fa fino in fondo. Fino a che la questione non è risolta e lui non ha più niente da fare al riguardo. Ha fatto così con l'Aggro Berlin - ci credeva, e ha continuato a crederci anche quando me ne sono andato. Sapeva di poterci lavorare sopra, e non l'ha mollata - e sta facendo così con Chakuza.
Nel momento in cui lo ha raccolto di terra con le budella di fuori e ha dato istruzioni ai medici, si è preso la responsabilità di vederlo arrivare vivo alla fine della faccenda. E la fine è fuori dall'ospedale, quindi Patrick è andato a trovarlo ogni giorno, dalla mattina fino alla sera.
I primi tre giorni, le infermiere - tutte, non solo quella che ha continuato a scoparsi nello sgabuzzino delle scope come prima cosa quando arrivava in ospedale, così poi lo lasciava in pace - hanno tentato di cacciarlo via perché si ostinava ad arrivare prima dell'orario di visita e ad andarsene solo a notte inoltrata. Poi hanno smesso, un po' perché Katrina - l'infermierina deliziosa - ha cominciato a parlare in giro del suo sguardo penetrante e poi perché lui il suo sguardo penetrante, quello vero, ha cominciato ad usarlo con le infermiere, così che gli sono cadute tutte ai piedi come sacchi di patate e perfino Karla, l'infermiera sessantenne di pediatria, si faceva quattro piani d'ascensore avanti e indietro per portargli un paio di cuscini in più per il Chaku. Una volta comprata la metà femminile della clinica, Fler non ha più avuto problemi, e si è perfino organizzato per andare a prendere Bill a casa e riportarcelo ogni giorno, con grande disappunto di Tom che pensava di essersi liberato di ogni rivale quando sono morto io e invece ora se ne ritrova due.
Bill, d'altronde, è un'altra storia. Quello che l'ha spinto a stazionare in quella stanza d'ospedale a chiacchierare per ore e giocare a carte - a guardare telenovelas anche. Ho visto Peter con il suicidio negli occhi - supera il senso dell'onore di Fler e di certo non ha niente a che vedere con l'amicizia di Eko o l'appartenenza della Crew.
Chakuza per Bill non è mai stato crew, ed ha smesso di essere un semplice amico il giorno in cui gliel'ho mandato all'aeroporto, ormai quasi un anno e mezzo fa. Chakuza è stato il primo ad accettarlo, e Bill gli vuole così bene che adesso che io non sono lì con lui, vederli insieme mi strappa il cuore.
Il medico è stato lì ieri sera e ha dato a Chakuza il permesso di tornare a casa.
Adesso Bill gli sta facendo la sacca, mentre Patrick gli passa le sue cose una ad una, semi-appoggiato al letto perché è ancora debole. Scherzano e fanno cose assolutamente innocenti; un anno fa pregavo che questo avvenisse in fretta - perché volevo Bill felice con la mia gente - e adesso anche solo il fatto che Chakuza rida alle battute di Bill mi infastidisce.
All'improvviso mi sembra che Chakuza stia oltrepassando una linea, che Bill glielo stia lasciando fare. O viceversa, non lo so. Eppure sono anche consapevole che non è vero, che quello che sto guardando è solo ciò che io capisco e che forse loro non sanno ancora.
E' come vedere il futuro scritto nei loro occhi. E non è lontano che dieci chilometri.
L'auto di Bill li aspetta nel parcheggio dell'ospedale.
Fler non è venuto, e se potessi lo costringerei ad esserci. Si è presentato qui per venti giorni consecutivi, uno dietro l'altro, ad orari improponibili e oggi che mi serve - oggi che Katrina è in ferie, per altro - Bill si offre di riportare Chakuza a casa e Fler non fa una piega. Dice sì, va bene. E io lo so perché lo ha fatto, e solo per questo vorrei pestarlo.
Bill è un pessimo guidatore, per questo Tom continua a portarlo in giro in auto nonostante abbia la patente: è terrorizzato all'idea che suo fratello finisca per schiantarsi contro un palo una delle tante volte in cui usa lo specchietto retrovisore per sistemarsi la frangia. Bill è vanesio, e questo contrasta in maniera pericolosa con la sua sicurezza in auto. Chakuza però non se ne accorge nemmeno, è troppo impegnato a godersi il viaggio e le parole di Bill che si srotolano nell'abitacolo senza soluzione di continuità, come al solito. Non so nemmeno che cos'abbia di nuovo da raccontargli, dal momento che non si sono persi di vista un secondo, ma Bill trova sempre qualcosa da dirti quando gli piace la tua compagnia. Ed è così bello mentre parla e si entusiasma che spesso non senti nemmeno quello che dice, ti perdi nel movimento delle sue labbra o nella luce che gli si accende negli occhi.
Bill parcheggia di fronte al palazzo dove abita Chakuza ma lui non gli permette di tirare fuori la sacca dal bagagliaio. "Ce la faccio, tranquillo," lo rassicura sorridendo.
Mi ritrovo a sperare che lo ringrazi e che poi si salutino, ma so perfettamente che è una speranza davvero stupida: Bill sale sempre, da tre mesi.
E adesso sembra anche più sensato che lo faccia: ci sono i punti ancora un po' aperti di Chaku. C'è la sua sacca pesante. Deve salire.
L'appartamento per una volta è in ordine. La madre di Peter ha approfittato dell'assenza del figlio e ha dato una pulita e una sistemata a tutte le cianfrusaglie che quell'uomo tiene in giro. Bill ridacchia e glielo fà notare. "Sembra tutta un'altra casa," dice scherzando.
"Non preoccuparti, non ci vorranno più di tre giorni a farla tornare come prima," risponde lui, che si è già avviato in camera.
Bill lo segue. Ha lasciato la borsa e il cappotto in salotto, come fa sempre. Ormai si muove a suo agio, sa quasi tutto di quella casa. Gli manca solo di capire dove riporre gli abiti, perché i cassetti della stanza da letto sono l'unica cosa che non ha mai avuto modo di aprire.
Eppure non sembra a disagio, tira fuori le maglie e i pantaloni, chiede dove vanno e poi le ripone. Lascia di proposito la biancheria, così a quella ci pensa Peter: cerca di non creare motivi di imbarazzo perché nell'aria ce n'è anche troppo. Anche se non è imbarazzo, e vorrei dirglielo. Quando la sacca rimane vuota, Bill si dà da fare a ripiegarla e Chakuza si dà da fare a prendergliela dalle mani e ad infilarla nell'armadio. Non si fermano e non si sfiorano, perchè lo sentono a pelle che a guardarsi e a toccarsi poi sarà difficile dare la colpa a quella sacca se Bill è ancora in piedi di fronte a Chakuza, entrambi protetti dall'anta dell'armadio aperta.
Prendono fiato insieme, ma è Chakuza a parlare. "Grazie," dice.
"Di niente," Bill scuote la testa con troppa forza. Si è fatto triste, all'improvviso. "Allora io... vado." Indica alle sue spalle, senza voltarsi e sforza un sorriso che però muore subito, perchè non è sincero. Non è felice, non vuole andare. Sorride solo perché è l'unico modo che ha per evitare che Chakuza gli chieda cosa c'è che non va.
Ringrazierei di non avere un cuore, se le mie sensazioni non fossero ancora tutte al loro posto e i miei battiti, sempre più forti, non li sentissi lo stesso, come un boato nelle orecchie. Succede quando Chakuza allunga una mano ad accarezzargli appena una guancia con il pollice. E' un gesto automatico, non ha pensato davvero di farlo ma quando la mano si è mossa lui non ha trovato un motivo per fermarla. Il motivo sono io, cazzo, ma sono morto quindi non valgo più.
Bill socchiude gli occhi e si appoggia contro il palmo della sua mano. Il suo sospiro di sollievo fa più male dei colpi di pistola che mi hanno ucciso. Significano: finalmente. Ed è un finalmente che non mi contiene più. L'attimo dopo Bill gli si spinge addosso, preme le labbra contro le sue e Peter lo considera un permesso sufficiente a proseguire. Sto male perchè non c'è un luogo preciso da cui sto guardando, sono ovunque. E non ho ostacoli. Fra me e loro non c'è niente che blocchi la visuale. Niente dietro cui possa nascondermi. La cosa avviene davanti ai miei occhi, senza che io possa veramente chiuderli.
Così vedo Bill schiudere le labbra e lasciarlo entrare. Lo vedo gettargli le braccia al collo e vedo il suo corpo che si accomoda in quell'abbraccio, si lascia stringere; le curve morbide della sua pancia si appoggiano contro gli addominali di Chakuza e io mi sorprendo che si incastrino bene, ancora convinto che questo possa accadere solo con me.
E allora realizzo che adesso è suo, o lo sarà presto. Che manca poco. In ogni caso il bacio di Bill è sincero ed è innamorato, è la concessione di un permesso che Chakuza desiderava da mesi senza saperlo e che Bill aveva tanta voglia e tanta paura di dargli.
Il bacio è dolce, ma breve. Per me i secondi si dilatano in eternità, ma non è passato che qualche istante quando riaprono gli occhi e si allontanano impercettibilmente senza un suono. Si guardano attraverso palpebre rese pesanti dalla voglia di conoscersi in altro modo, dal bisogno di toccarsi in maniera completamente differente. La distanza che hanno posto tra loro la coprono insieme, nello stesso istante. Il suono delle loro labbra che si incontrano di nuovo affonda nei sospiri di Bill e nei mugolii di Chakuza che lo stringe alla vita e lo spinge indietro, verso il letto.
Chakuza è impacciato, non ha mai avuto un ragazzo tra le braccia. Non ne ha mai toccato uno, a parte se stesso, e non sa dove mettere le mani; ma è una cosa che s'impara in fretta. Le sue dita trovano la strada sotto la camicia di Bill fin troppo velocemente. Bill esala il suo nome mentre Chakuza gli scivola addosso e prende il mio posto tra le sue gambe. Non ha idea di cosa sta facendo, ma lo fa comunque. Le mani di Bill sono abbastanza esperte da condurlo esattamente dove deve andare.
Bill gli toglie la maglia e la getta a caso oltre il bordo del letto, si aggrappa alle sue spalle e si spinge contro di lui per sentirlo ringhiare. L'assoluta padronanza di se stesso e dei suoi movimenti mi manda in bestia ora che la sta usando su qualcun altro. Vorrei gridare e non posso. Vorrei fermarli e non posso, perchè non sono lì. Perchè non sarebbe giusto. Perchè Bill è felice e io devo accettarlo. Si stira su quel materasso mentre getta indietro la testa e mugola. Chakuza ha il viso affondato nel suo collo e le mani sulla cintura dei suoi pantaloni. Lo sta spogliando a fatica, perchè vorrebbe anche accarezzarlo e strusciarglisi addosso, e ringhia di frustrazione per non poter fare tutte le cose insieme.
Bill è lì disteso per lui, senza più la camicia, che s'inarca sotto le sue dita. C'è da perderci il fiato e la testa. L'ho persa anche io così, allo stesso modo. Bill sembra sciogliersi tra un morso e l'altro che Chakuza gli lascia sul collo ma poi apre gli occhi e la magia s'infrange, in qualche modo. Ha il mio braccialetto ancora al polso, luccica nel buio e mentre io mi chiedo come possa farsi toccare da Chakuza avendolo ancora addosso, lui pensa la stessa cosa.
"Peter..." pigola incerto. E non so se lo faccia perchè è sull'orlo delle lacrime o se ha paura della reazione di Chakuza.
L'uomo solleva lo sguardo e si riprende quando vede quello negli occhi di Bill. Quando vede le lacrime che scivolano lente ai lati del suo viso. "Bill!" mormora nel panico. "Che succede?"
Lo so che nella sua testa si sta chiedendo se per caso non gli ha fatto male. Lo so perché c'è da chiederselo con Bill, non pesa niente. Sembra fatto di niente.
"Io non posso," sussurra Bill. "Non... non ci riesco. E' ancora troppo presto."
Mi prendo la soddisfazione di gustarmi la consapevolezza che si fa strada negli occhi di Chakuza. Capisce che lui c'entra poco in quelle lacrime; Bill sta piangendo per me.
Bill esita. "Mi dispiace."
"Non preoccuparti," Chakuza cerca di essere comprensivo. Ha capito, perché è un uomo sensibile, ma è anche incredibilmente frustrato perchè è un uomo, appunto. Si scosta da lui e gli dà modo di arrotolarsi su se stesso, perchè ne ha bisogno. Così come ha bisogno di piangere. "Ti lascio la stanza per... risistemarti," sceglie la parola con cura. Deve dirgli di rimettersi addosso i vestiti ma deve fargli capire che non può restare. Risistemarti è una buona scelta. Non troppo fredda e abbastanza chiara.
Bill annuisce, ma non dice niente. Lo lascia uscire prima di iniziare a singhiozzare.
Osservo quel suo corpo lunghissimo farsi minuscolo, mentre si abbraccia.
Le prime settimane dopo la mia morte le ha passate così, avvolto in se stesso a cercare un po' del calore residuo del mio corpo. E ora mi sento in colpa perché era tornato a sorridere e io in qualche modo, stanotte, quel sorriso gliel'ho strappato via di nuovo.
Aspetto con lui che il dolore si attenui; il mio o il suo, non ha importanza. Alla fine è passata un'ora quando si alza dal letto di Chakuza e si riveste. Aggancia la camicia nera di fronte allo specchio. Lo guardo e per un attimo il suo riflesso sembra fissare un punto indefinito alle sue spalle, dove mi piace immaginarmi. Fingo che ci stiamo guardando, ma non gli chiedo scusa per averlo turbato perché so che lui non la sta chiedendo a me.
Qualche minuto dopo si presenta da Chakuza che è seduto sul divano - il loro divano - e si tiene la testa fra le mani. Alza lo sguardo quando lo sente arrivare.
Bill gli mostra le chiavi dell'auto solo per un istante e poi torna a stringerle con violenza nel pugno chiuso. Sono i nervi a tenerlo insieme e ha paura che, parlando, andrà di nuovo in pezzi.
Ha paura anche Chakuza, per cui non si scambiano una parola.
Si annuiscono e basta.

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Crime of Passion

di tabata
Quando scendo dall'auto, il vento gelido mi spazza il viso portandomi il sapore della neve.
Mancano poche settimane a Natale, il primo senza di te. Mi chiudo la portiera alle spalle: ho voglia di rientrare nell'abitacolo e partire, magari per non fermarmi più. Sono giorni che mi sembra di non avere niente di concreto sotto i piedi, l'idea di stringere il volante e macinare chilometri d'asfalto sembra più allettante che passare le ore a guardare il soffitto in casa di Tomi, ad evitare le sue domande che sono sempre silenziosissime ma fanno più rumore di qualsiasi altra cosa. Lo sa che c'è qualcosa che gli nascondo, ma sa anche che non gliela dirò stavolta. Così sta zitto, chiede con gli occhi e quando non ottiene risposta sospira, e mi siede vicino. Non so quanto ho pianto negli ultimi giorni, non so quante volte gli ho nascosto il viso nel collo e ho pregato di trovarci una soluzione. A volte mi chiedo se non ho cercato la stessa cosa tra le braccia di Peter.
Mi avvio lungo il vialetto. Ho comprato un'altra calla bianca; mi piacciono le calle, sono fiori eleganti e raffinati. Mi piace pensare che ne avremmo avuto la casa piena, un giorno, io e te. In realtà mi piace pensare che la sala del rinfresco ne sarebbe stata piena ma è un pensiero sul quale indugio poco perché è sciocco, e me ne vergognavo anche quando eri vivo; non mi sognavo neanche di dirtelo: avevo paura mi prendessi in giro. Non ci saremmo mai sposati comunque, io e te non ne avevamo bisogno. Il fioraio mi ha detto che la calla significa stima e ammirazione, che è il fiore delle spose.
Ho sorriso. Facciamo che la tua morte era anche il nostro matrimonio, Anis? Facciamo che ti hanno sotterrato col mio bouquet?
La tomba tua madre l'ha voluta proprio al centro del cimitero. Di solito queste cose non te le lasciano fare, ma i soldi per fare quello che volevamo c'erano e quindi adesso hai un marmo bellissimo, che guarda verso Sud, esattamente dove lo voleva lei. Naturalmente non mi ha chiesto niente, ma anche se l'avesse fatto, l'avrei lasciata scegliere da sola. Preferisco pensare che a me toccasse occuparmi di te da vivo. Di quello che resta del tuo corpo non mi interessa granché, perché non significa niente. La tua tomba non è sfarzosa, c'è solo una lapide arrotondata col tuo nome inciso sopra, tutto quanto - Anis Mohamed Youssef Ferchichi - e le due date: 1978 - 2008. La foto l'ha scelta tua madre, è una bella foto. Sei tu che sorridi, e sei sempre stato bello mentre sorridevi. Il tuo vicino ha l'enorme statua di un angelo bendato a fare la guardia sulla sua tomba, è una roba immensa, credo sia a grandezza naturale - ammesso che gli angeli abbiano una misura conosciuta - è alto quanto me e tiene i palmi delle mani rivolte verso il cielo. E' notevole, ma esagerato. La tua lapide sembra piccola piccola lì di fianco. Tu però non hai bisogno di angeli custodi, ci siamo noi. Anzi, ci sono i ragazzi - che vengono a trovarti a turno quasi tutte le settimane - e ci sono io, che sto evidentemente impazzendo perché ho iniziato a parlarti che ancora non ero sceso di macchina.
"Ciao," quando mi fermo di fronte alla lapide, c'è un'altra di quelle folate di vento gelido. Mi stringo nel cappotto e fisso il tuo nome nel marmo. Ci sono solo io in questa parte del cimitero, così la mia voce risuona più forte e sembra che io stia urlando. "Scusa se la settimana scorsa non sono venuto. Ho avuto... dei problemi."
Intorno alla tua tomba ci sono sempre tantissimi fiori. Tolgo quelli più vecchi e secchi e li getto nel cestino. Riempio il vaso d'acqua e ci metto dentro la mia calla fresca. Non so esattamente come iniziare il discorso. E' un po' come quella volta che non potevo accompagnarti a quella premiazione perché Tom era geloso e voleva che stessi con lui, ti ricordi? Tu lo avevi già capito il perché ma volevi che te lo dicessi io e allora hai aspettato e aspettato finché alla fine non te l'ho detto. Quindi, in sostanza, io credo che tu lo sappia perché sono qui; se è come penso che sia una volta che si è morti, allora lo devi sapere per forza. "Abbiamo riportato Chakuza a casa," espiro alla fine. Un punto vale l'altro da cui iniziare, immagino. Tanto non è com'è cominciata, il problema, ma com'è finita. "I medici gli avevano dato venti giorni di ricovero ed è stato un inferno tenerlo in ospedale anche solo per due settimane. Sai che Fler ha dovuto ribaltarlo di peso sul materasso?"
La scena è stata memorabile in effetti: Chakuza che tenta fisicamente di uscire dalla stanza e Fler che, dopo aver cercato di farlo ragionare più volte, lo placca sulla porta e lo trascina urlante verso il letto. Sento ancora la risata di Eko, a volte. "Avresti riso, sai?" Ti dico, accarezzando il vetro della fotografia che con il gelo si è un po' appannato. Rimango in silenzio per un po' e gioco con la neve che ricopre l'erba intorno alla tomba. E' morbida.
L'anno scorso, in questo periodo, era poco che stavamo ufficialmente insieme e non avevamo voglia di andare in giro, con i fotografi sempre dietro ogni angolo nella speranza di trovarci. Però c'era la neve. Ed era tanta, bianca e soffice come questa. Ricordo che quando mi sono lamentato perché non potevamo andare da nessuna parte, mi hai tirato su di peso, hai aperto la portafinestra del giardino sul retro e mi ci hai buttato in mezzo, così com'ero vestito, con la tuta e basta. Ricordo che mi guardavi e ridevi di gusto, in piedi con le mani sui fianchi. Ricordo anche il bagno caldo, dopo. Ricordo tutto, in realtà. Non c'è un singolo istante di noi che io mi sia dimenticato. E' proprio questo il punto, credo.
Mi alzo da terra, comincia a farmi freddo sul serio: la sciarpa che ho rubato dall'armadio di Tomi stamattina - perché era rossa e bella, e stava bene con una maglia che neanche si vede sotto al cappotto - non mi tiene più abbastanza caldo, è umida di neve. "C'è una cosa che devo dirti," mormoro alla fine. Devo dirtela, questa cosa, perché mi rode dentro; anche se poi non lo so cosa farò una volta che l'avrai saputa. Per tutta la vita ho creduto che se mai fosse morto qualcuno di importante non avrei mai avuto bisogno di parlare sulla sua tomba perché sarebbe stato sempre con me; avrebbe saputo tutto quello che c'era da sapere della mia vita perché mi avrebbe osservato dall'alto. Lo penso ancora, in un certo senso, però ho bisogno di essere qui, adesso, e di dirlo alla tua foto, perché confessarlo senza guardarti negli occhi è troppo facile. "L'ho baciato, Anis," pensavo di mormorarlo e invece te lo dico forte e chiaro. La fitta al cuore che mi aspettavo non arriva. Non arriva niente, ogni cosa rimane la stessa, così provo a dirti tutto: magari cambia qualcosa; magari mi sento meno male. "Lo abbiamo quasi fatto sul suo letto," dico ancora. "Mi ha fermato il tuo braccialetto," sollevo il braccio e te lo mostro, ma lo sai qual'è. Sai che l'avrei preso io, mi piaceva così tanto. "Se non lo avessi avuto, l'avrei lasciato fare. Credo."
In realtà lo so. Quando ho baciato Peter sapevo cosa stavo facendo e sapevo cosa volevo; probabilmente era lui a non averne idea. Non so da quando ho cominciato a guardare Chakuza in modo diverso, non so fissare un punto preciso; so che ad un certo punto sedersi sul suo divano non era più come prima. Ho avuto paura, Anis. Ho pensato che fosse troppo presto e troppo all'improvviso. Mi sono detto che non potevo davvero volere Peter, perché tu mi manchi ancora. L'ho baciato lo stesso, però, e sono stato bene. E allora capisco perchè quella fitta non arriva: ti sto dicendo tutto questo perché sento ancora il bisogno disperato di renderti partecipe della mia vita, ma non sento quello di scusarmi. Baciare Peter è stato bello, tra le sue braccia sono stato bene. Non voglio scusarmi. Voglio solo dirtelo perchè lo devi sapere. Perchè dovrei dirtelo se fossi vivo; dentro di me lo sei ancora, perciò te lo dico.
"Lo avrei lasciato fare," annuisco alla fine. Non sono qui di fronte alla tua tomba per mentirti, non avrebbe alcun senso, ti pare?
Rimango in silenzio per un po': si è alzato il vento e dovrei tornare in macchina ma sto aspettando l'impossibile. Sono abituato a dirti tutto e a sentirmi rispondere, questa conversazione univoca non mi dà soddisfazione.
Alla fine mi mordo un labbro e decido di andare. Lo avrei lasciato fare, mi ripeto ancora. Lo ripeto a te. Lo avrei lasciato fare ma l'ho fermato. Non ci siamo sentiti per giorni e quando ha chiamato, mi tremavano le mani; ho pensato che volevo soltanto essere lì con lui ma che non conoscevo affatto il significato di quella voglia.
Gli ho detto di no per darmi il tempo di trovarlo. E per dirtelo.
Quando sono di fronte alla tua tomba è sempre difficile allontanarmi, è come se mi chiedessero di lasciarti di nuovo; ma fa troppo freddo, Anis. Posso andare? Torno presto, te lo prometto. Mi bacio le dita e le poso sulla tua foto, prego che tu senta il mio calore, come io sero di sentire il tuo. Torno presto, davvero.

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Staatsfeind Nr. 1

di lisachan
Sono le sei del pomeriggio circa. In realtà non so, potrei anche stare cannando completamente orario – il che sarebbe molto male, visto che ho un appuntamento in Alexanderplatz fra mezz’ora e come ci arriverò in tempo è un mistero. Comunque sia sono entrato in questa casa verso ora di pranzo portando con me un tipo di pasta che non avevo mai visto in vita mia ma che la signora Lotte mi aveva assicurato essere meravigliosa. In realtà né io né Chakuza sapremo mai di cosa sapesse quella pasta quando era calda e buona da mangiare. Abbiamo fatto altro appena sono arrivato – praticamente sulla soglia della porta. Ci sono momenti in cui ci penso e mi viene da ridere – poi abbiamo provato a mangiare ciò che era diventato un impasto gelido e colloso dal colore verdastro per nulla invitante, ma ci abbiamo rinunciato subito. Ci siamo svaccati sul letto ed è lì che siamo rimasti a parlare del nulla assoluto – non saprei richiamare alle mente nemmeno un argomento di conversazione spuntato fuori nelle ultime due ore – fino a quando non ho commesso il grave errore di sporgermi verso di lui per recuperare l’orologio da polso abbandonato sul comodino e controllare l’orario e, prima di riuscirci, mi sono sentito tirare verso il basso con una forza ed un’urgenza addirittura preoccupanti. E lì poi il senso del tempo l’ho perso del tutto.
Mi infilo la maglietta ed ho appena il tempo di sistemarmi i capelli quando la testa viene fuori dal colletto, che mi sento tirato all’indietro per un lembo e quasi cado di nuovo sul materasso. Mi volto e c’è Chakuza che mi fissa con l’aria di un ragazzino furbo e molto divertito. Mi strattona a intervalli regolari di due secondi e poi d’improvviso cambia il ritmo nell’evidente tentativo di sbilanciarmi.
- Be’? – chiedo, tirando l’orlo della maglia sul davanti, visto che il fatto che lui la tiri da dietro mi riduce continuamente seminudo, - La piantiamo?
- Eddai, resta! – continua a ridere, prendendomi palesemente in giro e continuando a tirarmi, - Tanto non hai niente da fare!
- E invece se proprio vuoi saperlo ho un appuntamento! – borbotto offeso, sottraendomi a questo ridicolo tira e molla ed abbottonando i jeans un attimo prima che la gravità riesca a farli cadere sul pavimento.
Chakuza inarca un sopracciglio, incerto.
- Donna?
Io sospiro e vorrei quasi rispondere “una specie”, ma mi trattengo.
- Sido. – rispondo. E sto mentendo. – Ti risulta femmina?
Lui annuisce, prendendo atto.
- Ma tu cosa c’entri con l’Aggro Berlin, Fler? – butta lì curiosamente, sistemandosi meglio sotto il lenzuolo, - Sono palesemente i cattivi di Berlino. Tu sei una specie di bambino sperduto.
- Tu che sei suor’Anna di carità cosa c’entri col rap? – rispondo acido, recuperando la felpa dall’angolo di letto in cui è finita. La apro per infilarla. – Chakuza, l’hai sporcata, cazzo! – mi lamento, tirandogliela addosso, - Quante volte ti devo dire che se mi togli i cazzo di vestiti devi buttarli in un posto in cui non possono sporcarsi?!
Lui impallidisce e si passa una mano sugli occhi.
- Fler, tu sei troppo schietto. – commenta fra il disperato e il rassegnato, - E comunque non posso averla sporcata io. Io non posso aver sporcato niente, sei tu quello che si sparge costantemente sul materasso.
Arrossisco e spalanco gli occhi, sento il calore ovunque sul viso.
- Chi è schietto, poi? – sospiro stremato. – Non posso andare in giro in maglietta, Chaku. Si gela. – gli faccio notare poi, stringendomi nelle spalle.
Lui indica casualmente l’armadio di fronte al letto.
- Prendi una delle mie felpe. – suggerisce.
- Potresti anche fare qualcosa, di tanto in tanto. – borbotto io, raggiungendo comunque l’armadio e rovistando all’interno alla ricerca di qualcosa che non sia irrimediabilmente corto di maniche.
- Non intendo rivestirmi. – si lamenta lui, stiracchiandosi sul materasso, - E non intendo neanche andare in giro nudo.
- Tanto, a meno che non sia spuntato qualcosa di nuovo negli ultimi dieci minuti, ho già visto tutto. – lo prendo in giro, infilandomi una felpa rossa che giudico abbastanza anonima perché il mio appuntamento non possa riconoscerla.
Ci credo poco. Ci spero, comunque.
- Torni a cena? – chiede vago in un mezzo sbadiglio.
- Punto primo: - mi volto io, sul piede di guerra, piantando un pugno sul fianco, - non ne hai ancora abbastanza, della mia presenza? – Chakuza ride. – Punto secondo: se vuoi mangiare la roba della signora Lotte, schioda il culo e valla a prendere! – Chakuza mi tira un cuscino ed io lo evito. – Punto terzo: - ed ora comincio a blaterare, lo so, perché non avevo un punto terzo ma faceva figo dirlo, dopo il cuscino evitato. - …dovremmo cambiare posto all’armadio. – butto lì. Mi do del cretino due secondi dopo, ma almeno ho detto qualcosa.
Chakuza mi guarda con aria allucinata.
- E perché? – chiede. Giustamente.
- …non cade bene la luce nella stanza. – motivo, del tutto a caso. – Cadrebbe meglio – ma che cazzo sto dicendo? La luce non cade! Che cazzo ho in testa? – se fosse tipo lì. – indico un punto random vicino al letto, - Capito?
Lui annuisce lentamente, come si fa coi pazzi. Mi prendo il mio assenso condiscendente e sospiro.
*
Sono per strada due minuti dopo e congelo. Congelo tipo all’istante, appena metto piede fuori dal palazzo di Chakuza. Odio dovermi muovere a piedi ma è questo il dramma di quando mi fermo a dormire qui. Cioè, non è come passare per caso mentre vado a lavorare, io vengo qui e non mi muovo fino al giorno dopo, perciò visto che non abito tanto lontano vengo a piedi ed evito…
…va be’.
Comunque sto andando da Bill e di sicuro non potevo dirlo a Chakuza. Tanto non credo abbia ancora preso l’abitudine di chiamare Sido per chiedergli se sono davvero con lui o se per caso non sono scappato da qualche altra parte. E lui e Bill… di sicuro in quest’ultimo periodo non si sentono granché. Perciò posso ragionevolmente pensare che questa piccola bugia non verrà mai alla luce.
So che è da cretini dirlo adesso, e infatti non lo dico, non l’ho mai detto neanche a Bill, che comunque è un ragazzino intelligente e quindi non ha bisogno delle conferme verbali, il più delle volte, comunque io non ho mai avuto un problema con Bill Kaulitz. In un periodo in cui tutto il mondo aveva un problema con chi Bill era e con come si conciava, il mio unico problema era che lui fosse il tipo con cui Anis andava a letto. Per quanto assurdo e malato possa sembrare, non era un problema di gelosia, era un problema di appartenenza ad un certo gruppo. Un problema di ideali, in un certo qual modo. Non sto dicendo che uno non possa andare a letto coi maschi - … - sto dicendo che tu non puoi dare del frocio a destra e a manca a chi t’ha aiutato ad emergere dalla merda in cui stavi sepolto da adolescente, e poi diventare frocio davvero. C’è qualcosa di sbagliato in questo. Era questa, la cosa che non concepivo.
…e poi avevo bisogno di un pretesto per insultarlo. Un pretesto che suonasse diverso dal “mi hai mollato senza un fottuto perché”. Perché dopo cinque anni cominciava a perdere in forza, come argomentazione per le diss.
Insomma, in definitiva io Bill non l’ho mai odiato. Non gli ho mai voluto male neanche per un cazzo. In buona sostanza lo trovo pure vagamente tenero, è un cosino piccolo che non c’entra niente con tutto questo e che s’è visto morire l’amore della vita fra le braccia, e insomma, anche se non ero lì anche io più o meno lo so come ci si sente in questi casi. Quindi mi dispiace pure.
Mi dispiace anche di più perché comunque non sono mai stato un cretino e, fra le tante cose che Anis m’ha insegnato, c’è anche la capacità di capire al volo le situazioni. Perché è più facile sbrogliare i casini quando capisci subito il problema.
Stavolta non ha aiutato – io il problema l’ho capito subito ma non sono stato in grado di arginarlo. Io l’ho capito subito che fra Bill e Chakuza c’era qualcosa. L’ho capito probabilmente prima che lo capissero loro.
Non è giusto quello che io e Chakuza stiamo facendo a Bill.
Non è giusto neanche quello che stanno facendo Bill e Chakuza a loro stessi, comunque.
Bill mi chiama sul cellulare e mi strilla entusiasta che s’è ricordato di un posto meraviglioso in Oranienburgerstraße.
- Si chiama Cafè Zapata, ci sono stato solo una volta con Anis ed è bellissimo! Mi raggiungi lì? Sono già seduto! – che suona più o meno come “non vorrai mica farmi alzare per andare altrove?!”.
- Bill, - sospiro, - Bushido aveva i soldi che gli crescevano pure nelle mutande. Quanto intendi farmi spendere per una cioccolata calda?!
- Ma possibile che tu sia sempre squattrinato? – borbotta lui. Lo immagino già con un broncio enorme e le braccia incrociate sul petto, - Che razza di rapper sei?
- Quello che non ha mollato l’etichetta per diventare multimilionario. – gli ricordo, e Bill ride. Mi piace che rida alle battute che faccio su Anis. In realtà mi piace che, per noi due, parlare di Anis sia ancora normale. Non lo facciamo con nessun altro.
- Avanti, offro io. – mi rassicura lui, ed io biascico qualcosa ma poi mi ricordo che sono uscito tipo con venti euro nel portafogli stamattina, perciò tanto vale lasciarlo fare, il ragazzino è meglio della zecca dello stato quanto a produzione di banconote.
- D’accordo, arrivo. – e quando arrivo lo trovo tutto stretto in un piumino enorme, gli occhiali da sole calcati sul naso ed un berretto di lana a cuffia che gli schiaccia tutti i capelli attorno al viso. Un paio di ciocche nere svolazzano a causa del vento debole ma penetrante che spazza la via, e Bill se le scosta infastidito dalle guance e dal naso quando sente il solletico.
Sollevo una mano per farmi notare e lui sorride appena mi individua, rispondendo con un ampio gesto del braccio.
- Ma perché ti sei seduto fuori, perdio? – mugolo disperato, stringendomi nella giacca e facendomi minuscolo sulla sedia gelata del cortile esterno del bar, - Ci sarà un cazzo di grado centigrado ed in questo cazzo di cafè c’è anche la galleria d’arte! Perché siamo qui?!
Bill sorride appena, stringendosi nelle spalle.
- Era estate, quando sono venuto qui con Anis.
E questo dà senso alla sua scelta e toglie forza alle mie polemiche, perciò sto zitto.
Io e Bill abbiamo preso quest’abitudine di vederci, da quando lui e Chakuza hanno smesso di farlo. Per quanto possa sembrare assurdo, non è stato lui a cercare me nella speranza di estorcermi qualche informazione su come stesse Peter o chissà che altro – anche solo per sentirsi di nuovo un po’ vicino a lui tramite me, chissà. Sono stato io a chiamarlo. Perché quando Chakuza mi ha chiesto di proteggere il ragazzino non intendeva soltanto “metterlo in salvo in caso di pericolo”. Ed anche se lui lo intendeva, non è questo che si intende con “proteggere”, per me. Proteggere vuol dire che mi preoccupo. Proteggere vuol dire che ci sono se ti servo ma anche se non ti servo, giusto per vedere se hai bisogno o meno. È una cosa complessa ed è una cosa che possono fare solo le persone oneste.
Io sono finito nei guai con la legge un bel po’ di volte, ma sono una persona onesta. Anis, prima di diventare uno stronzo, mi ha insegnato ad esserlo. È la parte di lui che non ho perso, e me la tengo stretta.
È stato in un’occasione simile – ma eravamo in un pub, era sera e c’era decisamente più caldo – che ho chiesto a Bill di raccontarmi come fosse morto. Ho visto i suoi occhi brillare all’improvviso e l’ho visto tendersi e irrigidirsi tutto come avessi provato a pungerlo con cattiveria, ma poi l’ho visto sciogliersi e sorseggiare piano la sua cola al limone, le dita a disegnare figure astratte sul legno ruvido del tavolo, mentre a mezza voce mi diceva del suo arrivo, del sangue, dei baci, della cassetta del pronto soccorso, del letto. Dei proiettili. Del suo sorriso. Del suo respiro sottilissimo.
Gli ultimi istanti della vita della persona più importante di tutta la mia intera esistenza. Una persona che avevo perso, da qualche parte, ma che era sempre rimasta dentro di me, in qualche modo. Quelli erano i suoi ultimi battiti. Le sue ultime parole. I suoi ultimi istanti. Bill me li ha regalati senza un tremito nella voce e con una lacrima incerta sulle ciglia, una lacrima che non è mai scesa e s’è sciolta in un sorriso quando, alla fine del racconto, m’ha visto chinare rassegnato il capo e scusarmi.
“Figurati,” mi ha detto, “sai quanto ho aspettato di poterlo raccontare così a qualcuno? Certe volte, finché non lo dici tutto per bene…” e s’è interrotto, ma io ho annuito lo stesso perché avevo capito dove voleva andare a parare: perché certe volte, finché non lo ascolti tutto per bene non ti sembra vero. Il meccanismo è lo stesso.
Bill mi lascia scorrere addosso lo sguardo ed abbassa appena gli occhiali sul naso, fissandomi curiosamente.
- Ma quella… - inizia, indicando i pezzi di felpa rossa che escono dal giubbotto semiaperto, - è di Chakuza?
Mi chiedo sinceramente come diavolo abbia fatto. Non ha senso dirmi “non dovresti stupirti, lo sai cosa c’è dietro”, è assurdo che riconosca una felpa rossa che ho scelto appositamente perché fosse il più anonima possibile, perché potesse essere di chiunque, perfino mia. Mi passa per la testa in un pensiero distratto che questo ragazzino ama troppo intensamente. Si farà un male cane, così. Vorrei dirglielo. Ci sono passato, ragazzino. Tiratene fuori finché puoi. Ma non ho alcun diritto di farlo.
- Sì, mi sono sporcato con della roba… - mugugno gesticolando a caso e implorando perché non chieda di che tipo di roba io stia parlando, - mi ha prestato una felpa per venire qui.
Solleva repentinamente gli occhi nei miei, rimettendo a posto gli occhiali.
- Eri con lui?
Sì e non posso dirtelo, ragazzino. Non posso dirtelo perché non dovrei nemmeno farlo, ma di farlo in qualche modo ho un bisogno fottuto, perciò mi dispiace ma non mi fermerò. Prima o poi ti passerà. Forse. Ed allora andrà meglio. O passerà a me – Dio, lo spero – e sarà perfetto.
- No, mi sono sporcato e lui mi veniva di strada. Mi sono fermato, gli ho rubato una felpa e sono corso qui perché ero già in ritardo. – racconto con un mezzo sorriso.
- Lo tratti proprio male, povero Chaku. – ridacchia lui.
Io annuisco e rido a mia volta.
Il cameriere ci chiede se siamo pronti per ordinare. Bill resta mezz’ora a domandarsi se sarebbe il caso di prendere una birra alla fragola – “la fanno solo qui, Fler!”, il che dovrebbe dargli un’idea di quanto faccia schifo, visto che nessun altro ha seguito il geniale esempio – oppure non sarebbe più saggio ripiegare su una più normale cioccolata. Lo costringo moralmente a prendere la cioccolata ricordandogli che non ho una macchina per portarlo in ospedale se sviene. Lui prova a dirmi che potrei chiamare un’ambulanza, in caso, ma quando lo guardo ed inarco un sopracciglio lui borbotta “okay, okay!” ed ordina un pastrocchio con panna, granella di cioccolato, granella di noci, una spruzzatina di caramello, una spruzzatina di caffè e litri di latte, al che io mi chiedo dove sia finita la cioccolata e suppongo sia meglio che almeno quella manchi, altrimenti questa roba invece di dieci euro ne costerebbe quindici.
Bill affonda il naso nella tazza appena se la ritrova fra le mani. Squittisce di gioia stringendola fra le dita e non sfalda la complicata coreografia di panna e decorazioni che esce da sopra come una montagnola innevata; sorseggia direttamente da lì, poggiando appena le labbra sul bordo, e quando risolleva il viso ha due baffi irregolari di panna sotto il naso. Rido e glieli indico, lui li cancella con una leccatina da gatto e si gratta la nuca, imbarazzato.
- Stai ancora da tuo fratello? – chiedo, sgranocchiando le arachidi che mi hanno portato con la Beck’s.
Bill annuisce.
- Tomi è molto preso. – racconta divertito, - Era da un po’ che non gli lasciavo fare il fratello maggiore con tutti i crismi. È tutto una coccola, è così servizievole! – ride e manda giù altra cioccolata, - E poi non mi si stacca mai di dosso. Mi mancava, devo ammetterlo. – aggiunge, arrossendo lievemente.
- Che fai, ragazzino? – lo prendo in giro, bevendo un sorso di birra, - Invece di progredire, regredisci? Dovresti crescere, diventare grande… e invece torni a vivere dal fratellone.
Bill aggrotta le sopracciglia e si morde un labbro.
- È una cosa temporanea, non sono tornato a vivere da lui. – borbotta offeso, - E poi io sono grande. Non sono un ragazzino. – sospira, - Però tu ormai hai deciso che ti piace chiamarmi così.
- Mi piace chiamarti così perché mi piace chiamare le cose col loro nome. – ridacchio, e lui annuisce, ridacchiando a propria volta. – Senti… - aggiungo poi casualmente, quasi a mezza voce. Un po’ spero che neanche mi senta. – Perché non ti fai vedere, di tanto in tanto, a casa del Chaku? – lui mi solleva addosso due occhioni terrorizzati, ed io mi affretto a sollevare entrambe le mani, come per rassicurarlo. – Magari quando siamo tutti insieme, ecco! O, se ti dà fastidio sentire quel coglione di Eko blaterare, magari andiamo da qualche parte noi tre. Potrebbe essere divertente. Che dici?
Bill sospira, abbassa un po’ lo sguardo sul fondo di panna che è rimasto nella tazza e poi torna a guardarmi. Dritto negli occhi. Vedo anche i suoi, nonostante la barriera ostile delle lenti scure.
- Dico che non posso. – risponde deciso, quasi freddo, - Lo sai.
Annuisco piano e ricomincio a sorseggiare la birra. Resto in silenzio mentre lui sfila gli occhiali e li posa sul tavolino in un gesto stanco accompagnato da un sospiro ancora più stanco. Lo osservo passarsi due dita sugli occhi – neanche un velo di trucco addosso – e massaggiarsi esausto la radice del naso. Non riapre gli occhi e non rimette gli occhiali. Però riprende a parlare.
- Fler… - chiede in un sussurro, - …tu pensi che questa situazione sia colpa mia?
Deglutisco appena, posando la birra.
- Quale situazione? – chiedo. Non perché voglio infastidirlo o forzarlo a parlare, ma perché davvero non so, fra tutte le situazioni, a quale si stia riferendo.
- Tutta questa situazione. – chiarifica lui, scuotendo il capo, - …Anis. Quello che gli è successo. E Chaku… - quello che ci è successo, ma lui non lo aggiunge.
Prendo un respiro profondo e metto in circolo un po’ dell’aria congelata di Berlino, sperando che possa aiutarmi a chiarire le idee. Sì che è colpa tua, ragazzino. Sì che, chiunque ha fatto fuori Bushido, l’ha fatto perché c’eri tu di mezzo. Sì che hai fatto impazzire Chakuza e sì che quello che è successo a me è una tua responsabilità indiretta.
- No. – rispondo deciso. E lo rispondo perché lo penso. Amare ed essere amati… non è veramente una colpa. E nemmeno una responsabilità.
*
- Stasera si esce.
Sono le mie prime parole quando Chakuza apre la porta. Mi guarda con aria incuriosita e poi si sporge appena per controllare se per caso non sto nascondendo del cibo dietro la schiena. Sospiro e roteo gli occhi, piantandogli una mano sul petto e spingendolo all’interno dell’appartamento, lontano dalla soglia, così da poter entrare.
- Non mangiamo? – mi chiede con l’aria di un cucciolo molto affranto, e mi viene un po’ voglia di pestarlo, quando fa così.
- Prenderemo un panino al volo, fuori. – spiego autoritario mentre recupero la sua giacca e gliela lancio.
- Fler, ma fuori c’è un freddo polare! – si lamenta, - Se ti va di bere qualcosa possiamo farlo anche qui!
Roteo di nuovo gli occhi, recupero il cappellino dall’appendiabiti e mi avvicino a lui, calcandoglielo sulla testa.
- Copriti che prendi freddo. – lo avverto. Perché è vero che fuori si congela e che, in una situazione normale, non avrei proprio nessuna voglia di uscire. Dio solo sa se non preferirei mettermi sotto le coperte e lasciare perdere.
Però Bill mi ha fatto pensare. In realtà Bill mi fa sempre pensare, per un motivo molto semplice che io capisco perché ho sempre addosso la solita maledizione-premio di Bushido che m’ha insegnato a sopravvivere, mentre a Bill e Chakuza sembra sfuggire completamente.
Qui ci stiamo tutti abbondantemente usando per non pensare.
E questo non va bene, perché c’è una persona che proprio non si merita di essere dimenticata prima di scoprire almeno chi l’ha gettata sotto terra dopo avergli sparato senza nemmeno avere il coraggio di guardarlo in faccia prima.
Io e Bill siamo gli unici che non si usano per distrarsi a vicenda; io e Bill, quando siamo insieme, siamo ancora perfettamente concentrati sull’obiettivo. E quindi uscire con Bill è come tornare a focalizzare la realtà per quella che è, ogni volta.
- Senti, ma almeno mangiamo qualcosa, prima. – borbotta Chakuza, richiudendo il giubbotto con la zip.
Lo gelo con un’occhiata infastidita.
- Mi sembra che abbiamo perso già abbastanza tempo. – commento serio.
Anche l’espressione di Chakuza cambia. Realizza.
- Dove stiamo andando, Fler?
Mi lascio andare ad un mezzo ghigno soddisfatto.
- A casa.
*
Sto vivendo un assurdo perché Chakuza è un maschio. Al di là di tutto il resto, se Chakuza fosse una femmina tanto per cominciare non sarebbe qui, e tanto per continuare non avrebbe una fissa tanto stupida quanto purtroppo comprensibile che suona più o meno come “la macchina è mia e la guido io”. “Anche se palesemente non so dove sto andando”, aggiungo io.
Insomma, gli sono girate le palle quando gli ho fatto capire che stavo manovrando la serata per cominciare ad andare un po’ in giro e provarci, almeno, a trovare ‘sto fottuto assassino. Perciò ha deciso di fare ostruzionismo e l’ostruzionismo si traduce nel restare alla guida in un posto che non conosce mettendoci peraltro in condizione di pericolo, perché Tempelhof non ti aiuta e non conoscerla è un peccato mortale.
Non credo lo stia facendo perché l’assassino di Bushido non vuole trovarlo affatto. Credo lo stia facendo perché sta provando ad andare avanti con la sua vita ed invece si ritrova da ogni lato gente che lo tira indietro. Sia Bill che io. Lo capisco, perciò non è questo quello che gli rinfaccio.
- Chakuza, se sbagli un’altra volta e non giri dove ti dico io al prossimo incrocio, giuro che ti butto nel canale. – è questa assurda cocciutaggine che contesto. È irritante.
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile ed addenta il panino strabordante di kebab che ha preteso di comprare una mezz’ora fa, quando stavamo ancora seguendo la via che avevo in mente e non c’eravamo irrimediabilmente invischiati in questo dannato reticolo che ci porterà a ritrovarci all’improvviso con la macchina semi-immersa nell’acqua, se ci va bene, o circondata da ragazzini in aria di fermo se ci va male. Faccio mente locale. Ce l’ho la pistola? Ce l’ho. Chakuza ce l’ha? Gli lancio un’occhiata poco convinta, lui sbrodola cipolle. Sospiro e alzo gli occhi al cielo.
- Basta, basta. – imploro, - Ferma la macchina. Posa quella merda. – mai capito come Anis potesse anche vivere solo di questa roba, sul serio. – E scendiamo.
- Continuiamo a piedi?! – dice lui, fermando la macchina ed aggrappandosi al panino come ad uno scoglio in mezzo al mare, - Fler, si congela!
- Sì. – annuisco sospirando ancora, - Non hai fatto che ripeterlo da che siamo usciti. Posteggia qui.
- Questo è un vicolo. Me la rubano.
- Tanto è un catorcio. – scrollo le spalle, - Vai mica in giro in BMW, tu. Avanti! – gli do un colpo sulla spalla, - Piantala di fare il coglione, è già quasi l’una!
Mugugna scontento ma posteggia dove gli ho detto e scende subito dalla macchina, seguendomi mentre io faccio gli onori di casa, accompagnandolo verso il canale. La strada che fiancheggia il corso d’acqua è sgombra e solitaria come sempre, non vedo nessuno in giro, tutta la vita del luogo è concentrata nei dintorni del porticciolo ed oltre gli alberi, sulla via puntellata di bar e kebaberie, e sembra distante chilometri da questo spiazzo silenzioso illuminato in pieno dalla luce della luna. L’acqua brilla di riflessi azzurri e bianchi e mi perdo un po’ a fissarli, questi bagliori che non vedevo da anni, mentre l’unico suono che sento oltre allo scorrere del fiume ed a quello dei miei pensieri, è lo scalpiccio delle suole delle scarpe di Chakuza, qualche metro indietro rispetto a me.
- Cosa stiamo facendo esattamente qui, Fler? – chiede, affiancandomisi mentre prendo posto sull’argine, le gambe che penzolano in basso verso il corso d’acqua e le mani ben piantate sul cemento, lo sguardo fisso alla luna senza nemmeno vederla. Mi manca questo posto. È assurdo perché non è poi così lontano rispetto al luogo in cui vivo adesso, ma sembra comunque tutta un’altra realtà. Può darsi che io non sia cambiato granché, ma sembra cambiato tutto il resto. Eppure anche tutto il resto è sempre uguale.
- Devo riprendere confidenza. – gli spiego, sentendo la grana un po’ irregolare della colata di cemento sotto i polpastrelli, - Ci sei già tu che non hai idea di dove andare a sbattere la testa. È bene che almeno uno di noi sappia dove stiamo andando.
- Perché diavolo dovremmo cercare qui? – chiede ancora lui, vagamente irritato, - Non è detto che l’assassinio di Bushido abbia a che fare con Tempelhof. Potrebbe venire da tutt’altro posto. Cristo, potrebbe essersi trattato anche solo di un cazzo di mitomane…
- …che l’ha seguito proprio la notte in cui io e lui ci accoltellavamo in un vicolo, per poi pensare bene di concludere il lavoro al mio posto? – scuoto il capo. Evito di dirgli che io i miei sospetti li ho, come tutti. Che essere stato a mia volta un sospetto non mi ha impedito di pensare. Però non posso parlare con Chakuza di questo, al momento, perché è troppo presto e non saprei nemmeno cosa dire, in realtà, perciò scrollo le spalle. – Qualsiasi problema di Bushido è sempre venuto da qui, comunque.
Chakuza inarca un sopracciglio e mi guarda, curioso.
- Storia della tua vita? – chiede con un mezzo sorriso sarcastico.
Io aggrotto le sopracciglia e lo fisso, offeso.
- Non sono così ciarliero. – mi lamento.
- Oh sì che lo sei. – ride lui, annuendo, - Ogni volta che cominci a raccontare qualcosa con una frase enigmatica, l’unica cosa che resta da chiedersi è per quante ore andrai avanti. Quanto all’argomento di conversazione, - aggiunge, tirandomi una gomitata affatto discreta, - è sempre lo stesso.
- Stronzo. – borbotto a bassa voce, allontanandomi un po’, - Volevo solo dire che quando vivi in questo posto e non riesci a scappare da piccolo, ti resta dentro. E te lo porti dietro. Dovunque vai, la tua origine è sempre questa. Tu ti porti ancora qualcosa dell’Austria?
Lui mi fissa incerto, scrollando le spalle.
- Non saprei dirti. – ammette a bassa voce, - È Berlino casa mia.
- Appunto. – annuisco, - Chi viene da Tempelhof invece non ha altra casa rispetto a Tempelhof. Chi viene da Tempelhof, ci ritorna, prima o poi, in qualche modo.
- Quindi l’assassino è di queste parti?
Mi mordo un labbro.
- L’assassino è uno che sapeva dove andare a cercare qualcuno che potesse aiutarlo a concludere il lavoro. – cerco di suggerire. Mi aspetto che colga un po’ il riferimento, ma Chakuza scuote il capo e sospira.
- Sei peggio di Bushido, quando parli per enigmi. – esala piegandosi in avanti, i gomiti sulle ginocchia, e prendendo a fissare lo scorrere lento del fiume.
Lascio perdere e sbuffo un mezzo sorriso, piegandomi come lui per poterlo guardare negli occhi.
- Tu vorresti essere da tutt’altra parte. – gli dico serenamente. Lui fa per aprire bocca e protestare, ma lo fermo scuotendo il capo. – Quando avremo finito qui… avrai tutto il tempo per andare dove vorrai. Non starò più tra i piedi.
Chakuza spalanca gli occhi e per un attimo dà segno di non capire, ma quando io annuisco tranquillo vedo la consapevolezza farsi strada dentro di lui e costringerlo a tendere nervosamente i tratti del viso.
- Tu non- - ritorce, ma non lo lascio concludere.
- È giusto. – annuisco ancora, raddrizzando la schiena, - Voi… - ed è chiaro chi sia l’altro di chi sto parlando, - non siete di qui. Non avete nessun conto in sospeso con Tempelhof, a parte Anis. Risolto quello… - sospiro e scrollo le spalle.
Chakuza non aggiunge niente. Si alza, però, puntando le braccia per terra e rannicchiandosi tutto per un attimo prima di scattare in piedi. Io rimango seduto e per qualche secondo lo guardo dal basso, mi rivedo appena quindicenne e vedo Anis che va per i venti e sta in piedi accanto a me, esattamente come Chakuza in questo momento, e mi dice “tanti auguri, ragazzino”, e improvvisamente ricordo anche perché mi piace chiamare Bill in questo modo. Non c’entra chiamare le cose col loro nome. È a causa di Anis.
Bill non ha davvero colpa, in questa storia.
Però sarebbe troppo facile, adesso, dare la colpa al morto.
- Avanti. – dice Chakuza, la voce incredibilmente cupa, tendendomi una mano per aiutarmi ad alzarmi, - Qui non troveremo un bel niente.
Annuisco ed afferro la mano che mi porge. Mi tiro in piedi e capisco quello che sta succedendo solo quando è già successo: ho messo male un piede e sono scivolato. Chakuza non mi ha lasciato anche se avrebbe tranquillamente potuto farlo ed il risultato è che ci siamo sbilanciati in due e siamo caduti, rotolando per tutta la parete obliqua del canale e rovinando in acqua alla fine della corsa, con un sonoro splash che spezza la quiete della notte ed anche il riflesso della luna sul fiume, le cui acque si allargano in cerchi attorno a noi ed attorno ad ogni singola gocciolina generata dal nostro tuffo. Riemergo tossicchiando e lanciando imprecazioni in giro, mentre osservo Chakuza trascinarsi stancamente verso la parete di cemento tentando di asciugarsi un po’ il viso.
- Fler, Cristo santo… - si lamenta, rabbrividendo dentro il giaccone zuppo, - Ma stare un po’ più attento, no?
Io tiro su col naso e mi appoggio sul cemento al suo fianco.
- Scusa. – biascico, scrollandomi un po’ d’acqua di dosso, - Bagneremo tutta la macchina.
- Sì, è il problema minore. – ringhia lui, - Il problema maggiore al momento è come usciamo da questo pantano, visto che gli argini qui sono inclinati a sessanta fottuti gradi. – constata passando una mano sulla parete e guardando in alto alla sponda che sembra irraggiungibile.
- C’è un ammasso di pietre, più giù, verso il ponte… - borbotto indicando un punto nella notte con un cenno del capo, - C’era già quando ero piccolo io, lo si usava per scendere a recuperare la palla quando cadeva.
Chakuza annuisce lentamente, aguzzando la vista per cercare di individuarlo e rinunciando pochi secondi dopo.
- Mi fido. – concede alla fine, scuotendo stremato il capo, - Ora possiamo per favore tornarcene a casa prima di morire di freddo?
Annuisco con aria assente e non so se è perché oggi ho parlato con Bill o perché siamo venuti per cercare l’assassino di Bushido ed invece non abbiamo trovato niente, oppure perché il fatto che abbia detto “andiamo a casa” mi ha fatto scorrere brividi strani lungo la schiena, ma realizzo all’improvviso che quello che penso quando in genere rifletto su me e Chakuza è sbagliato. Non passerà, se non lo faccio passare. Ed io devo farlo passare.
- Chaku… - lo chiamo, lui si volta e quando si volta mi presso contro di lui, labbra contro labbra. È un contatto che conosciamo a memoria ed al quale ormai sappiamo reagire bene, perciò non mi stupisco quando lui solleva una mano a stringermi per la vita, combattendo contro la giacca bagnata che si gonfia e si sgonfia ovunque, e lui non si stupisce quando infilo le mani sotto il suo giubbotto, raggiungendo la felpa e strizzandola fino a spremerla, bagnandomi più di quanto già non sia fradicio.
Quando ci separiamo, lui sorride appena.
- E questo? – chiede in uno sbuffo divertito e un po’ incredulo, - Così, in mezzo alla strada…
- Non c’era nessuno. – mi giustifico con una scrollatina di spalle, - E poi stanotte dormo a casa mia.
Lui aggrotta le sopracciglia.
- Pe-
- Passa a prendermi Sido domani. – mento sfacciatamente, zittendolo prima che possa anche solo pensare di cominciare ad imbastire una protesta.
Ho idea che sarà una lunga serie di menzogne, questa.
E devo anche sbrigarmi a vedere se ho ragione e se l’assassino di Bushido è chi io penso sia. Prima lo trovo, prima mi stacco. E poi sì che sarà davvero tutto perfetto.
*
Gli ultimi quattro giorni sono stati pesanti. Hanno cominciato ad essere pesanti quando, la sera del giorno dopo il nostro primo incontro con Tempelhof – il primo di Chakuza, almeno, per me più che altro s’è trattato di rivedere un’ex-ragazza che non so se avevo davvero tutta questa voglia di rincontrare – mi sono ritrovato appeso al citofono di Chakuza a litigare per farlo uscire di casa. In un dialogo delirante cominciato con un “ti sto aspettando” e concluso – fra un “sali, prima!” ed un “Chakuza, stai rompendo i coglioni” – con me che strillo “d’accordo, resta dentro, vado da solo” che sapeva di suicidio, dato che ero a piedi.
Grazie al cielo mi sono sentito afferrare da una mano fortissima circa due minuti dopo, mentre mi facevo strada nella neve per tornare verso casa e recuperare un mezzo di trasporto, e c’era Chakuza che mi fissava con estrema disapprovazione, dandomi silenziosamente della merda ed annunciandomi ad alta voce che non dovevo prendere iniziative, visto che avevamo un accordo.
Avrei voluto chiedergli se nell’accordo fosse compreso il diritto da parte sua di incazzarsi e rompere le balle qualora avessi smesso di darglielo. Mi sono trattenuto solo per educazione – e dire che in genere non passo per uno educato.
Al momento siamo in macchina e Chakuza sta cercando posteggio nel vicolo che ormai è diventato il nostro riparo durante queste ronde notturne. Stasera la zona è frequentata e non c’è un buco neanche a pagarlo oro, perciò Chakuza sta ringhiando ed io sto cercando di ignorarlo, ma non è così semplice quando, fra un ringhio e l’altro, colgo allusioni su come io sarei palesemente l’inizio e la fine di tutti i suoi problemi.
Sei tu stesso l’inizio e la fine di tutti i tuoi problemi, Chakuza. Mi ripeto che non posso dirtelo, ma in realtà sto smettendo di crederci e, quando mi convincerò, probabilmente ti prenderò a cazzotti come meriti, e magari ti dai una svegliata.
- C’è posto qui. – dico indicando un gigantesco parcheggio vuoto accanto al cancello di una ditta di trasporti.
- Non rompere i coglioni. – risponde lui con l’ennesimo ringhio, - Non ci entro.
- Non ci entri perché sei un’enorme testa di cazzo. – rispondo a tono, incrociando le braccia sul petto.
- Aha, hai anche tastato con mano. – ritorce Chakuza, velenoso, ed io sussulto.
- Potremmo tenere fuori questa roba dalle nostre uscite? – chiedo pacatamente, cercando di non far scoppiare una guerra che, nella testa di Chakuza, sta già infuriando da giorni.
- Certo. – sibila lui, infilandosi miracolosamente in un altro parcheggio e spegnendo il motore, - Teniamo fuori la roba dalle uscite. E tu ti tieni fuori dalla roba, invece. Senza un cazzo di motivo.
Spalanco lo sportello e lo schianto senza tanti complimenti contro la fiancata della macchina accanto a quella di Chakuza.
- Cazzo, non siamo mica sposati, Peter, datti una calmata!
- Vaffanculo. – risponde semplicemente lui, - E stai attento alla macchina, è l’unica che ho.
Agito stizzito una mano, il danno è stato veramente minimo. Volevo giusto scheggiargliela un po’. Visto il catorcio che è, nemmeno se ne accorgerà, se non glielo faccio notare.
- Comunque al momento abbiamo altre priorità che non siano scopare, Chakuza. Mi era sembrato di essere stato chiaro a riguardo.
- No, Fler, non sei stato chiaro, perché non ne abbiamo mai parlato, Cristo santo. – si interrompe e sospira, richiudendo la zip del giubbotto e sollevando il cappuccio per schermarsi dai fiocchi di neve che ricominciano a cadere appena ci immettiamo nel marasma di persone che entrano ed escono dai locali sulla via principale, - E comunque, non si tratta solo del sesso.
Lo dice come non avesse la minima importanza e come fosse perfettamente ovvio.
Io ci resto come uno stronzo, ovviamente.
- Che-
- Non avevamo altre priorità? – sbotta sarcastico, voltandosi prima che possa vederlo arrossire come un liceale.
Sarà difficile staccarmi da questa cosa. Sarà fottutamente difficile.
- Senti… - sospiro, tirando su il cappuccio della felpa, visto che la giacca non ce l’ha, e mettendomi al suo fianco per esplorare la via, - guarda che comunque non potevamo continuare in quel modo.
Chakuza solleva il capo e si guarda in giro, sta imparando a conoscere il quartiere e mi piacciono gli occhi con cui lo guarda. L’ha presa sul serio, alla fine, questa cosa, e sono contento che ce la stia mettendo tutta, scazzo a parte, ma in realtà mi piace solo come guarda Tempelhof. Mi piace che voglia impararlo a memoria e mi piace che lo stia facendo per non farmi ripetere continuamente sempre le stesse indicazioni.
- Perché, in che modo stavamo andando avanti? – chiede distrattamente, infilando le mani in tasca.
- Scopavamo, Chakuza. – gli ricordo con aria rassegnata, sperando di dirlo abbastanza schiettamente da fargli cogliere l’assurdo.
Non lo coglie.
- Non ha senso farmi un discorso simile. – mi dice infatti, scrollando le spalle, - A me piaceva.
- E questo era un nuovo episodio della fortunatissima serie televisiva ghetto-gay di ProSieben. – sospiro scuotendo il capo, - Chaku, ripigliati.
- E tu cerca di essere meno stronzo, piaceva anche a te. – odio che Chakuza riesca a mantenere l’attenzione su un argomento anche quando faccio di tutto per deviarla. Se non funzionano nemmeno le prese in giro, non so più a cosa attaccarmi. Potrei prenderlo a mazzate ma non so quanto servirebbe.
Sospiro.
- Sì, Chakuza, mi piaceva. Contento?
- No. – si ferma e mi guarda, io mi fermo a mia volta e mi cade un fiocco di neve sul naso. Incrocio gli occhi per guardarlo sciogliersi e Chakuza rimane interdetto un paio di secondi, prima di scuotere il capo e scoppiare a ridere. Questo suono non lo sentivo da un bel po’. Sorrido anch’io. – Sei un cretino. – mi riprende dandomi una spintarella, - Facciamo che stanotte resti da me anche perché nevica che sembra Natale, e poi domani ne parliamo con calma.
- Facciamo che prima il dovere e poi… tutto il resto, Chakuza. – cerco di mantenermi serio, spingendolo a mia volta. – Dai, entriamo là. – concludo indicando una kebaberia ad angolo di un vicolo poco invitante.
Lui annuisce ma adesso sorride, il che è molto male perché non gli piacerà come si concluderà questa serata – con me che gli do picche di nuovo, cioè – ma comunque entriamo nel locale e prendiamo posto e non abbiamo neanche il tempo di sederci che già Chakuza sta chiamando il cameriere per ordinare qualche quintale di questa schifezza di cui s’è innamorato ed alla quale io sinceramente non riesco a trovare un senso. Trovo difficile dare un senso alle cose di cui s’innamora Chakuza, in effetti, ma penso di poterlo accettare per com’è.
- Invece di mangiare a sbafo, guardati un po’ intorno. – ordino infastidito, attaccandomi come di consueto alla bottiglia di Beck’s, - Non siamo qui per cenare, siamo qui per individuare qualcuno a cui chiedere qualcosa.
- Sì, ma si dà il caso che non abbiamo cenato, in tutto questo, quindi prendiamo due piccioni con una fava e… Fler, metti giù quella bottiglia, non è acqua, prendi un respiro fra una sorsata e l’altra.
- Chaku, facciamo così, tu t’ingozzi ed io faccio il resto, d’accordo? – lui borbotta e ricomincia a mangiare, mentre io sollevo lo sguardo e vado alla ricerca di un tipo ben preciso di persone. Non mi aspetto certo di trovare l’assassino alla prima botta, cerco solo qualcuno a cui chiedere se magari sa qualcosa.
Sono circondato da bianchi che mangiano e bevono allegramente e mi chiedo se non ho sbagliato completamente posto. Non è questa la gente a cui dovrei rivolgermi. Non sono loro quelli che possono sapere qualcosa. Questi sono lavoratori che si concedono un’uscita con le loro donne di sabato sera. O ragazzini che non hanno nulla da fare e scendono nei quartieri bassi per vedere di cosa sa l’aria.
I miei obiettivi li individuo in un tavolo distante dal nostro, addirittura dall’altro lato del locale. Sono già abbondantemente ubriachi – li riconosco gli ubriachi, non stanno in piedi e ridono senza un perché – e chiacchierano del più e del meno gesticolando ed urtando le bottiglie vuote che tappezzano il tavolo.
Sono tunisini, soprattutto. Lo sanno tutti che è a loro che si chiede, quando si vuole sapere cosa gira e cosa non gira in questo quartiere. Lo sanno tutti e soprattutto lo so io. Sempre perché me l’ha insegnato Anis. Come tutto, dannazione. Sarà orgoglioso di me, il King. Gli sto facendo giustizia, piano piano.
Mi alzo in piedi e Chakuza mi guarda curiosamente per un attimo, ma quando gli faccio cenno di seguirmi molla immediatamente il panino e mi si mette alle calcagna. Se è nervoso o agitato, di certo non lo dà a vedere. Mi complimento interiormente con lui e mi avvicino al tavolo.
- Buonasera. – mi introduco con un sorriso. I due tunisini sollevano lo sguardo e non capiscono un accidenti di quello che sto dicendo, naturalmente. – Mi hanno mandato da voi perché pare che siate due che ne capiscono, di questo quartiere del cazzo. – cerco di farmeli amici, mentre Chakuza prova con tutte le proprie forze a non fare una piega, fermo al mio fianco come una bodyguard.
- Sei di fuori, ragazzino? – dice uno dei due, ridendo selvaggiamente, - Che ci fa uno come te qui? Quanti anni hai, dodici? Occhioni!
- Uno come te è carne da macello in questo posto! – gli dà man forte l’altro, - Quanto costa quella felpa? Duecento euro?
- Duecentocinquanta. – preciso, mentre Chakuza mi fissa sgomento. Ora, non è che se uno esce con venti euro nel portafogli non deve avere nient’altro in banca, dico. – E ne ho altrettanti da spendere, stasera.
I due ridono ancora, uno si abbatte sul tavolo e fa cadere tutta una serie di bottiglie per terra. Una va in pezzi, qualcuno si lamenta, torna tutto tranquillo dieci secondi dopo.
- Cos’è, ragazzino, vuoi la roba?
- Noi non ne vendiamo merda. Lo facciamo fare ai quattordicenni bianchi di pelle, finiscono in galera molto più raramente. Quando li beccano i poliziotti si accontentano di fare un giretto nelle loro mutande, non ce li mandano in galera, che poi si rovinano!
Cerco di trattenermi dal recuperare la bottiglia in frantumi e fare una cosa che non faccio da fin troppo tempo, e li ignoro, sedendomi accanto a loro su una sedia che rubo al tavolo di una coppietta poco distante. Chakuza resta in piedi dietro di me.
- Non cerco droga. – rispondo sorridendo, - Cerco informazioni.
I due ridono ancora e Chakuza sospira dietro di me.
- Questi non sanno un cazzo. – borbotta.
- Ehi, pupetto, dì al tuo amico di tenere a freno la lingua! – si agita uno dei due, il più vecchio, avrà una cinquantina d’anni. Lo osservo alzarsi in piedi e stendere un pugno in direzione di Chakuza, il quale afferra la mano chiusa fra le dita e torce il braccio del tunisino fino a farlo mugolare di dolore, - E Cristo, tieni a bada il nano forzuto, bimbo! Ce la siamo dimenticata l’educazione?
Scrollo le spalle.
- Non è che tu sia molto educato con me o con lui. – mi piace giocare con questi ruoli, mi sto divertendo. Anche Chakuza dietro di me, scommetto che non vedeva l’ora di sfogare un po’ di frustrazione contro qualcosa che non rimbalzasse quando cade per terra.
- D’accordo, d’accordo… - dice l’altro tunisino, sulla quarantina, sistemandosi meglio sulla sedia, - Parliamone un po’ da persone adulte, vi va? Il tuo amico si siede, bimbo?
- Tu chiamalo bimbo un’altra volta, - risponde Chakuza, - e mi siederò con le scarpe sulla tua testa, stronzo.
Il tunisino ride ed io mi passo una mano sugli occhi.
- Chaku, lascia parlare me. – lo imploro, mentre i due tunisini insieme cominciano a prenderci allegramente in giro parlando di fidanzamenti e accoppiamenti vari ed eventuali coi quali battezzare casa nuova appena papino e mammina ce la regaleranno, dopo il matrimonio. – Allora, io ho duecentocinquanta euro che scalpitano per uscirmi dalle tasche. – affermo, cercando di riportare la conversazione su un terreno che posso controllare, - Però se non intendete collaborare…
- Ma sì che collaboriamo, sì! – dice il cinquantenne, battendo una mano sul tavolo.
- Senza perdere tempo, su. – aggiunge l’altro, intrecciando le dita sotto il mento, - Cos’è che vi serve sapere?
Sorrido furbo, chinandomi verso di loro.
- So che sono venuti a reclutare gente in questa zona, per rompere i coglioni al ragazzino di Bushido, un mese fa. – insinuo, e vedo il cinquantenne ridacchiare.
- Chiamalo rompere i coglioni! – dice ilare, - Volevano che gli succedesse ben altro!
Il quarantenne gli tira una gomitata fra le costole. È più lucido dell’altro. Questo potrebbe essere un problema.
- Chi cazzo siete? – chiede.
No, così non va bene per niente.
- Amici. – rispondo con sicurezza.
Il tizio annuisce e si alza in piedi.
- Bene, allora da amici chiuderemo questa conversazione e da amici ci perderemo di vista.
L’altro si alza assieme a lui e Chakuza va in agitazione.
- Ehi, dove cazzo- - inizia, ma lo fermo con un cenno del capo.
- Sentite, non ce l’abbiamo con voi. – preciso conciliante, - Voglio solo sapere se potete dirmi chi è stato assoldato per portare a termine il lavoro. Tutto qua. Li troveremo noi.
- Li troverete anche senza il nostro aiuto. – dice il quarantenne con un vago gesto della mano, - Qui a Tempelhof le voci corrono in fretta.
Chakuza si fa avanti, bene intenzionato a menare le mani, ma lo fermo puntandogli una mano sul petto e scuotendo il capo.
- Agli ordini del bimbo, mi raccomando, eh! – ride il cinquantenne, - Sbaglio o è per questo che Bushido c’ha lasciato le penne? – continua sguaiato, mentre il quarantenne gli tira un’altra gomitata e lo spinge verso l’uscita del locale.
Chakuza ringhia – lo sento tremare sotto le dita nonostante il giubbotto imbottito e mi scosto per motivi che non capisco in pieno nemmeno io – e mi si piazza davanti con aria scazzata.
- Perché li abbiamo lasciati andare via?! – chiede infastidito, - Sapevano qualcosa!
- Sì, ma oggi è sabato sera e ci siamo già fatti notare abbastanza senza metterci dentro anche una rissa, Chaku. – cerco di spiegargli pazientemente, - Stai tranquillo, queste non sono cose che si risolvono in fretta…
- Sì, ma noi stiamo andando alla cieca da giorni! – protesta ancora lui mentre io mi avvio verso l’uscita, - E quando finalmente troviamo qualcosa-
- Quando finalmente troviamo qualcosa, quel qualcosa ci resta in mano, no? – sospiro, - Ora abbiamo la conferma che sì, è qui che l’assassino di Bushido è venuto a cercare una mano d’aiuto.
Chakuza sospira ed annuisce, rimettendosi a posto il cappuccio mentre ci immettiamo nuovamente nella strada principale, diretti alla macchina.
- Pensi che potrebbero essere stati quei due a…
- E cosa vuoi che ne sappia io? – scrollo le spalle, - Forse sì, forse no. Più probabilmente, sanno qualcosa ma non vogliono finirci di mezzo. – ghigno, - Non che non li capisca.
Chakuza annuisce ancora e resta in silenzio mentre ci facciamo strada nella folla stando attenti a non scivolare sulla neve mezza sciolta che ricopre quasi tutto il marciapiedi. Lo sento irrigidirsi qualche secondo dopo, ma non cambia l’andatura del passo e non si volta indietro. È solo più teso, lo sento a pelle. Mi volto a guardarlo.
- Be’? – chiedo curiosamente.
Lui si inumidisce le labbra.
- Credo che ci stiano seguendo.
Inarco un sopracciglio e sono già sul punto di dirgli “Chaku, ricordati che tu sei quello che sbatte negli armadi”, quando mi accorgo che in effetti ha ragione, c’è una figurina incappucciata e vestita di bianco che ci pedina e cerca di dissimulare tenendo un passo diverso. Mi accorgo che segue noi perché non è capace e quando perde il ritmo deve correrci dietro.
Sospiro, lanciando un’occhiata indietro ed individuandolo. È un nanetto. Sarà un ragazzino.
Annuisco a Chakuza e gli indico un vicolo che naturalmente non è quello in cui abbiamo infilato la macchina. Il nostro misterioso inseguitore, comunque, non dovrebbe saperlo. Faccio affidamento su quello quando io e Chakuza svoltiamo nella stradina laterale un po’ buia, e faccio affidamento sul giusto, perché quando ci voltiamo indietro la figurina bianca si ritrova spiazzata a fronteggiare due uomini con un’espressione vagamente incazzata sulla faccia e poca voglia di chiacchierare. Si tira un po’ indietro ed allarga le braccia, sulla difensiva, la tuta in acrilico bianco che brilla appena dei riflessi dei lampioni che costeggiano la strada principale, che da questa penombra umida e fredda sembra lontana chilometri e invece non disterà più di tre o quattro metri.
- Tranquillo. – dico con un mezzo sorriso, mentre lo osservo indietreggiare spaventato, - Scopriti il viso.
Chakuza resta zitto e buono al mio fianco ed il ragazzino si ferma e ficca le mani in tasca.
- Nevica. – risponde scaltro, - Ed anche voi avete i cappucci.
Mi viene da ridere ma non lo faccio. Sfilo il cappuccio, invece, e faccio cenno a Chakuza perché faccia lo stesso. Lui ghigna divertito e poi insieme osserviamo il ragazzino esitare, confuso, e scoprirsi, restando fiero e dritto nella neve che cade, il volto pallido arrossato dal freddo sulle guance e sulla punta del naso ed i capelli corti e biondi disordinati sulla fronte, scossi appena dal vento. Ci fissa con un paio d’occhi azzurrissimi resi scuri dall’ansia e dalla paura, sotto le sopracciglia aggrottate in una posa da duro che conosco benissimo.
Chakuza ride apertamente e io gli do una spinta.
- La pianti di prendere per il culo?! – lo rimprovero, ma sto ridendo anch’io, e colgo l’espressione del ragazzino distendersi e poi arricciarsi nuovamente in un broncio offeso e deluso. – Avanti, è stato bravo fino ad ora!
Chakuza annuisce e pianta le mani sui fianchi, guardandolo bonario.
- Quanti anni hai? – gli chiede, il vocione rude modulato da una nota di tenerezza che è davvero impossibile da ignorare.
Il ragazzino incrocia le braccia sul petto.
- Sedici! – protesta stizzito, battendo un piede per terra.
Io annuisco e cerco di frenare Chakuza prima che ricominci a ridere. Mi avvicino con le mani bene in vista, trattandolo da pari, è così che si gioca con questi ragazzini qui. Mi dispiace un po’ sapere che a continuare a vivere in questo postaccio diventerà davvero ciò che adesso sta solo imitando.
- Okay, e ti chiami? – mi informo fissandolo dritto negli occhi.
Lui è un po’ incerto, guarda altrove, non sa se è giusto dirlo o meno. È molto piccolo, dovrebbe stare a casa.
- Daniel. – risponde alla fine, mascherando con un cipiglio sicuro l’esitazione nella voce.
- E ci hai seguito perché…? – chiede Chakuza affiancandosi a noi. Daniel esita ancora, si tira un po’ indietro, poi si rimette dritto e ci fronteggia con sicurezza.
- Io lo so cosa state cercando. – dice annuendo, - Ma qui non ve ne parlerà nessuno, dovete per forza risalire alla fonte.
Mi verrebbe da ridere per come parla, se non sapessi perfettamente che da ridere, in questa situazione, non c’è niente.
- E come mai nessuno dovrebbe parlarcene? – indago, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
- Perché c’è gente importante invischiata. – risponde lui, - Gente importante del quartiere, intendo. Posso farvi i nomi, se volete.
Chakuza inarca un sopracciglio ed incrocia le braccia.
- E questo slancio di generosità è dovuto a…? – chiede curiosamente, ed io ridacchio.
Gli occhi di Daniel saettano prima su di lui, fulminandolo – o almeno provandoci – e poi tornano su di me e si fanno più imbarazzati e liquidi, prima di chinarsi ad osservare la punta delle scarpe da tennis macchiate di fango.
- …sono un fan dell’Aggro, io. – biascica a mezza voce, ed io spalanco gli occhi e rido compiaciuto, battendogli una pacca sulla spalla.
- Grazie! – rispondo con entusiasmo, mentre Chakuza borbotta al mio fianco, - È bello vedere che i giovani hanno ancora degli ideali.
Chakuza coglie la frecciatina e fa per tirarmi un cazzotto sulla spalla, ma io lo evito e smetto di ridere, riportando l’atmosfera su un piano meno divertito e più serio.
- Dunque, Daniel. – inizio piano, - Questi nomi?
- Devi cercare Samir Azad. – risponde pacato lui, tirando su la zip della felpa fino a coprirsi il mento. Comincia a fare più freddo, e già prima non si stava bene. Mi passa per la mente in un pensiero confuso che dovrò fare i salti mortali per fuggire da casa di Chakuza, stanotte, se mai ci rimetteremo piede. – Spaccia per suo fratello Jad, che si rifornisce da certa gente di Cuba… non li conosco molto bene, non sono ancora arrivato a quel livello là. Io per ora lavoro per un tizio che ho incontrato in riformatorio e che li conosce.
Annuisco lentamente, Chakuza è già confuso e scalpita al mio fianco ma la mia calma lo tranquillizza.
- E io questo Samir Azad dove lo trovo?
Daniel scrolla le spalle con aria navigata.
- È sempre in giro. – risponde con un cenno del capo.
- In giro dove? – chiede Chakuza, - Sii più preciso.
- Verso Alter Park… - dice, indicando con un gesto distratto oltre il canale, che s’intravede appena oltre la gente, le luci, la strada e gli alberi, - Lo riconosci subito perché è mezzo zoppo, ha perso un pezzo di piede quando lavorava in fabbrica.
Chakuza annuisce.
- Lo conosco Alter Park. – commenta, - È un posto carino.
Io ghigno.
- Non dopo mezzanotte. – e Daniel ride con me. Infilo le mani in tasca e tiro fuori il portafogli, guardando questo ragazzino che ridacchia come se fosse molto figo essere uno spacciatore e dare una mano a due spiantati per trovare due cazzo di quasi-assassini. Forse perché non sa come si finisce, a camminare su questa strada. O forse perché lo sa e crede di non avere alternativa.
Spero che questi duecentocinquanta euro lo tengano lontano dalle strade, per un po’.
Lui mi guarda mettere mano ai soldi e mi ferma, scuotendo il capo.
- Non l’ho fatto per farmi pagare. – dice col cipiglio serio del ragazzino che crede di sapere cosa sta facendo, - L’ho fatto perché sei tu. – aggiunge più candidamente.
Ripongo il portafogli nella tasca, annuendo lento. Poi sorrido.
- Adesso hai un amico che conta, Daniel. – aggiungo dandogli una pacca sulla spalla. Sospiro. – Sei mai stato arrestato? – chiedo a bruciapelo, e Daniel aggrotta le sopracciglia.
- No. – risponde con orgoglio, - Sono stato bravo.
- Fortunato. – correggo, stringendo la presa sulla sua spalla, - Cerca di mantenerla, questa fortuna.
Lui esita per un attimo e poi risponde con un sorriso più sincero prima di salutarci, scomparendo oltre il vicolo. Quando ne veniamo fuori io e Chakuza, ritornando in strada e guardandoci intorno per capire il da farsi, sembra svanito nel nulla.
- Non so se ridere di più per l’amico che conta o perché hai fatto colpo su un sedicenne. – mi prende in giro Chakuza dandomi una gomitata in pieno petto e ridendo sonoramente, - Guarda che è illegale, eh?
- Sì, be’, - arrossisco in maniera indecente io, - Non è che ora improvvisamente solo perché tu sei frocio lo sono anche tutti gli altri, Chaku.
Lui ride ancora, calandomi il cappuccio sulla testa.
- Tu te ne tiri fuori? – chiede, e nella sua voce c’è una nota un po’ più profonda di quella che usa in genere quando prende in giro e basta.
Non ti va giù che possa andarmene, vero, Chaku? Capissi perché, forse non me ne andrei.
Riprendiamo a camminare e mi accorgo solo dopo qualche passo che stiamo andando in due direzioni completamente diverse. Mi volto a guardarlo e lui si volta nello stesso momento, ed immagino che sulla mia faccia ci sia la stessa espressione ebete che c’è sulla sua.
- Dove stai andando? – chiedo curiosamente, senza muovermi dalla posizione plastica in cui mi sono praticamente congelato, interrompendo il passo a metà.
Lui solleva un dito ed indica una direzione ideale che è quella del vicolo in cui abbiamo posteggiato. Mi chiedo se saprebbe arrivarci da solo.
- A casa. – risponde quindi, - Non l’hai detto tu che queste cose non si risolvono mai in fretta e che ci siamo già fatti notare abbastanza?
- Sì, ma abbiamo ricevuto una soffiata! – dico io, voltandomi per intero, finalmente, e guardandolo sconvolto, - Non possiamo perdere l’occasione, rischiamo che li avvertano e non si facciano più trovare!
Chakuza sembra incerto ma annuisce e mi si affianca. Sono consapevole di stargli chiedendo uno sforzo. In realtà lo sto chiedendo anche a me stesso. È un po’ spaventoso essere così vicini alla soluzione. Fa paura anche perché la soluzione in realtà porterà un mucchio di problemi con sé. Con quest’assassino, cosa ci facciamo, una volta che l’abbiamo trovato? E se è chi io penso sia, come la mettiamo?
- Ehi… - Chakuza mi dà una mezza gomitata sul fianco, - che hai?
Scrollo le spalle.
- Tu non sei nervoso? – chiedo, guardando altrove mentre ci avviamo lenti verso Alter Park.
Chakuza sbuffa una mezza risata.
- Tu, il padrone delle strade!, chiedi a me se sono nervoso? – mi prende in giro, inarcando le sopracciglia, - La birra ti ha dato alla testa in ritardo?
- Ma perché devi essere sempre così stronzo? – ritorco, tirandogli un cazzotto sulla spalla, - Era solo una domanda.
Chakuza guarda dritto davanti a sé e si gratta la nuca, sotto il cappuccio.
- Non tantissimo. – ammette, - Mi preoccupa di più che tu sia nervoso, che non la situazione in generale.
Lo fisso, stupito.
- Come, scusa?
Lui scrolla le spalle.
- Eri a tuo agio, fino a poco fa. Se cominci a preoccuparti vuol dire che hai paura di qualcosa. Se ne hai paura tu, praticamente io posso già cominciare a scappare, in sostanza.
Ridacchio.
- Allora ammetti che è vero? Sei l’uomo che sbatte negli armadi?
Lui cerca di farmi lo sgambetto ma io lo evito.
- Non intendevo dire quello. – ride, - È che io la mia vita te la affiderei, Atze. – e mi si ferma l’aria in gola, - Quindi hai una responsabilità.
Arriviamo ad Alter Park e sinceramente credo che i miei piedi abbiano ricordato da soli la strada, perché Chakuza ha questa cosa che dice parole di cui secondo me non si rende conto. O meglio, lui se ne rende conto, lui lo sa perfettamente quanto vale quell’Atze o quando vale sentirmi dire che la sua vita è nelle mie mani, però non capisce che ci sono cose che quando le senti ti annullano i pensieri. Lui le dice e basta, lo fa con una certa innocenza, non è che voglia mandarti in black out. Però lo fa.
Ci sono momenti in cui mi è veramente semplice capire perché Bill sia perso fino al punto in cui è.
Chaku si guarda intorno con aria tranquilla, scruta il buio della notte attraverso i viali alberati e le fontane spente. Il cielo è coperto e continua a nevicare ma l’acqua bassa nelle fontane è ancora liquida, così com’è liquido il fiumiciattolo che scorre sotto il ponticello arcuato verso il quale ci avviciniamo.
- Dove stiamo andando, Fler? – mi chiede quando comincia a sospettare il nostro girovagare non abbia veramente un senso.
- Non lo so. – ammetto scrollando le spalle, - In giro. Se vedi uno storpio, dimmelo.
Chakuza fa una smorfia.
- Che vorrebbe dire, “se vedo uno storpio”? – borbotta, - A parte che, se vedo qualcosa, lo vedrai anche tu, visto che stiamo andando nella stessa direzione. E comunque qui non c’è nessuno. Con questo tempo da cani, non capisco nemmeno perché ci siamo noi…
Sospiro e roteo gli occhi, indicando un’ombra scura appoggiata sotto un albero.
- Lì c’è qualcuno. – gli faccio notare con aria tranquilla come fosse ovvio e scontato trovare lì quella figura incappucciata.
Chakuza annuisce e deglutisce.
- Lui? – chiede.
- Non mi pare storpio. – dico, osservando il tipo dondolarsi da un piede all’altro e cominciare a giocare con un sasso per terra. – Però è probabile sia un palo. Stammi vicino e non aprire bocca.
- Ehi-
- Non mi avevi affidato la vita? – ghigno furbo, e lui si zittisce mentre ci avviciniamo al tipo. Mi schiarisco la voce e pianto una mano sul fianco, fissando il tipo con aria non propriamente ostile ma neanche propriamente ben disposta. – Ci hanno detto che da queste parti c’è roba buona.
Quello solleva lo sguardo e mi scruta da sotto il cappuccio, masticando rumorosamente una gomma.
- Mai visti da queste parti. – risponde secco, - Sbirri.
Aggrotto le sopracciglia, le mani bene in vista.
- Io ci sono nato qui.
Lui sbuffa e tira su col naso.
- Io non ti ho mai visto.
Chakuza resta in silenzio al mio fianco ma percepisco il nervosismo nel suo respiro appena trattenuto.
Io roteo gli occhi.
- Quindi nessuno ti ha mai raccontato niente di Frank White? – ghigno sicuro di me. Potrebbe essere la cazzata più grande della mia vita. Se questo tizio c’entra con tutto il casino che è successo, o se anche solo il suo capo gliene ha detto qualcosa, siamo fregati. Se non sa niente, però, questo nome potrebbe essere il nostro lasciapassare definitivo.
Il tipo solleva lo sguardo e mi fissa, incerto.
- Tu saresti… - mi libero del cappuccio e lascio che mi guardi bene in faccia. - …oh. – prego vivamente che Chakuza non si faccia riconoscere. Il tipo, comunque, annuisce brevemente. – Al gazebo. – indica oltre il ponte, - Samir è là.
Annuisco e mi allontano, tirandomi dietro Chakuza. Il gazebo, se è ancora come lo ricordo io, è una struttura in legno bianco con una cupola di tegole nere, tutta circondata da una ringhiera ad assi incrociate che fa molto recinto di campagna da ricca famigliola americana, e da schiere di aiuole piene di cespugli che in primavera sono colorate e profumatissime. Il classico luogo che in genere viene adottato dalle coppie di fidanzatini per pomiciare, ed infatti succedeva eccome, almeno ai miei tempi, solo che, calato il sole, questo posto cambia faccia.
Quando arriviamo, lo scenario è molto più adatto allo spaccio che non ai flirt, comunque. Un po’ perché è inverno, e quindi delle aiuole colorate non è rimasto poi molto. Un po’ anche perché sono passati più di dieci anni. Quindi, anche del resto, non è che sia rimasto tanto.
Samir Azad, avvolto in un giubbotto in piuma d’oca, il viso nascosto da un ampio cappuccio col pelo sull’orlo, sta contrattando con un tizio dal volto semicoperto da berretto e sciarpa, e si muove avanti e indietro lungo le pareti del gazebo per non stare fermo, anche perché a star fermi si gela. Chakuza mi guarda, un’occhiata ferma e sicura, ha visto che zoppica: è lui, sì Chaku, è lui.
Mi appoggio contro una parete, incrociando le braccia e sollevando un piede contro il legno, che tanto è così pieno d’impronte da non farmi nemmeno più sentire in colpa per il fatto che sto calpestando la mia gioventù ed usando il mio nome – cose di cui vado abbastanza orgoglioso, insomma – per vendicare un uomo che mi ha mandato a fanculo e dal quale non mi sono mai sentito dire grazie. O scusa. Lui e tutte quelle canzoni del cazzo come quella in cui mi diceva che sperava stessi bene. Come se per me fosse possibile stare bene senza che mi desse una fottuta occasione per perdonarlo. Ma Bushido il mio perdono non lo voleva. Lui non ha mai sbagliato.
Il tipo col volto coperto si allontana e lascia il gazebo mentre Samir conta i soldi e li infila nella tasca posteriore dei jeans, prima di voltarsi verso di noi e farci cenno col capo. Mi avvicino e mentre lo faccio metto bene a fuoco la situazione. Samir probabilmente è armato. Così come saranno probabilmente armati anche i numerosi pali che ha sparso per il parco. Noi siamo in due, io ho una pistola ma dubito che Chakuza abbia la mia stessa fortuna, il che vuol dire che devo prendere immediatamente in mano la situazione, farmi dire ciò che mi serve di modo che poi lui non abbia più nulla da difendere e scappare via da qui il più in fretta possibile. Prima che lui allerti qualcuno, almeno.
Mi chiedo per un attimo chi mi abbia convinto a ficcarmi in una situazione che puzza di suicidio lontana chilometri. Poi ricordo che mi ci sono ficcato da solo. E ricordo anche che mi piacerebbe poter tornare da Bill e dirgli “visto? Te l’abbiamo preso, il figlio di puttana”. Ricordo, soprattutto, che sulla fottuta tomba di Bushido voglio tornarci presto. Magari lanciare un’occhiataccia a quella foto sorridente incastonata sulla lapide e poi dirglielo. Mi devi un favore enorme, stronzo, perciò… perciò non lo so. Mi piacerebbe credere in Dio e poter pregare, in una situazione del genere. Almeno non starei rischiando la vita per qualcosa di così inutile ma che sento come assolutamente inevitabile.
Chakuza non lo capisce, quello che sto facendo. Mi osserva con la coda dell'occhio ficcare una mano in tasca e quando fa per aprire bocca e chiamarmi se lo risparmia, perché capisce che è già tardi: c'è la mia pistola pressata con forza contro lo stomaco di Samir, e la mia mano libera è salita a chiudergli prepotentemente la bocca. Samir mi fissa con gli occhi spalancati, respira forte contro la mia mano e il suo fiato caldo scioglie il gelo dei miei polpastrelli. Stringo la presa attorno al suo viso fino a fargli male, lui si lamenta sotto di me e continua a fissarmi con quegli occhi enormi – è più giovane di me, avrà vent'anni, cazzo, forse nemmeno – ed io lo spingo indietro violentemente, cercando la ringhiera contro cui schiacciarlo. Lui incespica, il piede monco non lo aiuta, non cade a terra solo perché gli sto stringendo la mascella fra le dita come una tenaglia.
- Cristo... Fler! – strilla Chakuza venendomi vicino per nascondere la scena col corpo, - 'Cazzo stai facendo?
Io sorrido.
- Pubbliche relazioni. – rispondo, ripescando dalla mia adolescenza una faccia di culo che mi sembrava di avere perduto – anche perché non credevo ne avrei più avuto bisogno – e che invece viene fuori con una semplicità disarmante, come fosse sempre stata lì in agguato in attesa del momento giusto per rifarsi viva. Probabilmente è stato così per davvero. Ed io avevo proprio ragione a dire a Chaku che chi viene da questo quartiere di merda prima o poi, in qualche modo, ci ritorna e basta. – Ciao, Samir. – ghigno cattivo, affondandogli la canna della pistola nella pancia, - Serata fredda, mh? – lui mugola e cerca di liberarsi, ma Chakuza scatta a tenerlo fermo per le braccia ed ora siamo in due a schiacciarlo contro la ringhiera. Non ha cosa fare. – Ho qualche domanda da farti, quindi ora devo liberarti la bocca. Però tu non urli, altrimenti io ti ammazzo. Sono stato chiaro?
Samir annuisce freneticamente ed io sollevo la mano, lasciandolo libero di parlare. Lo stringo per la spalla, però, così che non gli venga in mente di fare qualche stronzata che, teso come sono, mi porterebbe a sparargli per davvero, anche se non ho la minima voglia di concludere la serata in un bagno di sangue.
- Che cazzo volete? – chiede lui, una nota di terrore profondissima nella voce tremante.
Io sospiro e mi avvicino a lui.
- Guardami bene in faccia. – gli dico, - Mi riconosci, Samir? Lo sai chi sono?
Chakuza mi lancia un'occhiata allarmata ed io spero che non si faccia saltare in testa qualche idea geniale delle sue tipo scoprirsi il viso. Ne basta già uno nella merda fino al collo, ed è più giusto che quell'uno sia io, perché se stasera andasse tutto a puttane e per uno di noi qualcosa dovesse andare storto, non me la sentirei proprio di restare io con Bill ed i fantasmi di due uomini che hanno contato tanto. Meritatamente o meno.
Samir, comunque, annuisce e chiude la bocca, mandando giù a vuoto.
- Lo volevi morto anche tu, Bushido. – dice con rabbia, cercando di scattare in avanti, ma lo riporto indietro a sbattere contro la ringhiera.
- Errore. – sibilo, stringendolo al collo, - Non mi pare di aver autorizzato nessun omicidio, negli ultimi tempi, tantomeno quello di Bushido. – gli faccio presente, - Ma non fare l'avvocato del diavolo, stronzo, so che non sei stato tu a farlo fuori. – ghigno, - Tu hai fatto il gradasso col suo ragazzino, vero? – ipotizzo, e so che non sto toppando perché ad ammazzare Bushido non può davvero essere stato lui. Io c'ero, quella notte, io lo so che qualche stronzo ha fischiato. Ma non può essere stato questo stronzo qui. Lui non ne sa niente, di fischi e simili. – Coraggio. – lo incito, - Sì o no? Posso farti un sacco di male, Samir.
- Fler, cazzo! – mi chiama Chakuza, ma io lo ignoro.
- Cristo! – geme Samir quando sente la pistola schiacciarsi più profondamente contro il ventre, - È vero, Cristo, è vero! Lo sapevo che era una cazzo di storia pericolosa, quello stronzo di un libanese non mi ha lasciato scelta, cazzo!
E lì il tempo, per un bel po', si ferma. Non contano i secondi e la neve che cade, Chakuza diventa un pezzo di ghiaccio al mio fianco e la sua stretta attorno alle spalle di Samir si fa fortissima per un istante, prima di disperdersi lentamente e diventare nulla.
Io riesco solo a pensare che, cazzo, avevo ragione. C'era un solo stronzo cui Bushido potesse aver parlato del nostro fottuto fischio. Quello stronzo non poteva che essere il suo braccio destro. Quello che doveva accompagnarlo quella notte. Quello che doveva essere il testimone della sua morte. Baba Saad. Il libanese. Alla fine, è stato testimone della sua morte per davvero. Lo stronzo figlio di puttana.
Mollo Samir e mi tiro indietro, tenendogli sempre la pistola puntata contro. Lui solleva le mani in segno di resa ma Chakuza non si muove. Non lo sta stringendo, però è ancora lì, lo fissa e gli tiene le mani addosso.
- Peter. – lo chiamo, ed uso apposta il nome di battesimo, perché Peter può essere chiunque e Chakuza non dovrebbe essere qui. Lo guardo dove dovrebbe esserci la sua faccia, ma non vedo niente. C’è buio ed il cappuccio è tirato così in basso che quasi gli sfiora il naso. – Peter! – lo chiamo ancora, e lui si volta appena, - Vieni via.
Lo vedo che solleva un po’ il viso e mi lancia una mezza occhiata incerta. Samir ha ancora le mani bene in alto e respira con fatica, probabilmente pensa abbia una pistola anche lui e trova la sua vicinanza un tantino troppo spaventosa.
Chakuza si schiarisce la voce un paio di volte, inspira ed espira e poi inspira ancora e trattiene il fiato, tant’è che davanti a lui non si forma più condensa e dopo un po’ comincio perfino a preoccuparmi. Ma poi apre la bocca e parla, e quando lo fa mi si attorciglia qualcosa dentro perché il tono che usa è tremendo. Non è debole, non trema, non è allarmato. Non è neanche freddo e distaccato come dovrebbe, però. È qualcosa che si avvicina molto ad un’incredulità allucinata che fa un po’ male. Mi viene da pentirmi di un mucchio di cose. Tipo di averlo portato qui. Tipo di averlo costretto a sentire una cosa simile. Insomma. Non è stato giusto.
- Stai parlando di Baba Saad? – chiede, e Samir annuisce senza aspettare un attimo.
- Cazzo, chi altri? – rincara la dose, - Ehi, amico, dì a questo tizio di mollarmi, non so nient’altro, cazzo, e non gliel’ho infilato io il coltello nello stomaco, al tuo uomo!
Ringhio e lo mando a fanculo, per un attimo ho perfino paura che Chakuza reagisca in maniera troppo infastidita, cosa che darebbe modo a Samir di capire o almeno intuire chi ha davanti – ma a Chakuza non interessa del suo stomaco, adesso. Credo di poterlo capire.
Lo lascia andare e si allontana, venendo verso di me.
- Tutto a posto? – gli chiedo quando è abbastanza vicino, lui non risponde.
- Cristo, dovreste chiederlo a me se è tutto a posto! – sbotta Samir, massaggiandosi lo stomaco.
Tendo il braccio, puntandolo alla testa.
- Tu mi fai il favore di strozzarti con la tua stessa lingua, grazie. – dico, per chiarire nuovamente le posizioni, - Prima che io ti faccia qualcosa di peggio.
Samir solleva di nuovo le mani ed annuisce.
- Okay, okay, amico, ti ho detto tutto quello che sapevo! Mi lasci andare?
Annuisco e faccio cenno di muoversi con la pistola, Samir si china a raccogliere la sua roba e poi lo vedo allontanarsi zoppicante ed agitato verso il ponte. Mi avvicino a Chakuza, e comincio a preoccuparmi davvero perché la situazione non è bella, dobbiamo decidere cosa fare e lui continua a fissare il vuoto. La cosa non mi piace.
- Chaku, ehi. – gli do una pacca sulla spalla, non ho la più pallida idea di come cazzo consolarlo perché tutto ciò cui riesco a pensare è che la voglia di concludere la serata in un bagno di sangue è tornata all’improvviso quando Samir ha parlato. Solo che ora so con precisione di chi voglio che sia, il fottuto sangue. – Ehi, ci sei?
- Sì. – risponde seccamente lui, guardandomi. – Cazzo. Saad. – e lo dice come se si aspettasse da me un “assurdo, vero?”. Boh, non so, forse dovrei accontentarlo, ma la verità è che non lo penso. E però non posso stare qui a dirgli “guarda che io l’ho sempre sospettato, eh”. Cioè, con che faccia gliela dico una cosa simile? Perciò mi limito a stringere ancora di più la presa sulla sua spalla, e cercare di guardarlo comprensivo.
- Lo so, Atze, lo so. Senti, dobbiamo muoverci da qui. – gli faccio presente, - Non è sicuro e dobbiamo vedere cosa fare.
Lui si scosta con un ringhio frustrato.
- Ma cosa cazzo vuoi fare, Fler?! – strilla, ficcandosi le mani in tasca e muovendosi nervosamente in tondo nel gazebo, - Cristo, proprio lui! Cazzo! Fler, che cazzo facciamo?!
Mi passo una mano sugli occhi e sospiro pesantemente.
- Ci pensiamo dopo, Chaku. – gli vado dietro, riprendendolo per le spalle per cercare di tenerlo fermo, - Ehi, senti, mi servi calmo e concentrato, ok? – lui fa per divincolarsi. Lo stringo con più forza e lo costringo a girarsi e guardarmi negli occhi, e poi lo fisso nel modo in cui fisso sempre la gente quando voglio farmi ascoltare e obbedire. Come se non vedessi altro, cioè. – Chakuza, ho davvero bisogno di te. Non mi mollare adesso, stai calmo.
Lui respira con forza.
- Stiamo parlando di Bushido, qui. – mi fa notare, come non ne fossi perfettamente consapevole, - Cristo, è Saad che ha ammazzato Bushido! Ti rendi conto?!
- Sì che me ne rendo conto. – rispondo annuendo, - E credimi, non c’è nessuno che vorrebbe saltargli addosso e strangolarlo più di me, al momento, ma… - mi interrompo, perché realizzo all’improvviso che invece c’è qualcuno che vorrebbe saltargli addosso e strangolarlo più di me. E quel qualcuno è un ragazzino pallido e magro che gela nell’inverno di Berlino per andare a bere una cioccolata disgustosa nel posto in cui è andato con Bushido magari anche solo una volta, ma che continua a ricordare come se le volte invece fossero state mille. Deglutisco. – Chaku… - lo chiamo, mentre lui continua a fissarmi smarrito, - Dobbiamo andare da Bill.
Chakuza non dice niente. Neanche una parola. Chiude la bocca e spalanca gli occhi e non fiata, ma tutto quello che deve dirmi lo sta dicendo in silenzio, guardandomi in questo dannato modo che mi manda fuori di testa ed al quale vorrei tanto rispondere “okay, dai, Chaku, torniamo a casa e vediamo se c’è ancora un po’ di pollo con le patate avanzato dall’ultimo rifornimento dalla signora Lotte e poi guardiamo un po’ di tv fino a che non ci viene sonno e poi si vede”, ma non posso, cazzo, non posso assolutamente farlo, perciò lo stringo ancora per le spalle e cerco di sorridere un po’.
- Chakuza, io glielo devo, al ragazzino. Ho bisogno di dirglielo. Non lo metterà in pericolo, questa cosa la risolviamo stasera. – mi fermo ed esito un po’, - …o la risolvo. Se preferisci… restare con lui, dico.
- Fler… - si passa una mano sulla fronte come stesse realizzando solo adesso tutta l’intera situazione per com’è. Sembra che voglia dire qualcosa, si ferma e poi riprende lo stesso. - …non lo vedo né sento da settimane. – dice a bassa voce. Il suo tono è talmente cupo e profondo che mi dà i brividi. Mi viene voglia di dargli un cazzotto e non capisco neanche bene perché.
- Sì, lo so. – cerco di fermarlo, ma lui scuote il capo e si ostina.
- No, non lo sai, Fler, la situazione fra me e Bill è… complicata.
Mi manca il fiato. Vorrei che questa serata fosse già finita. Non avrei mai voluto parlare di questa cosa, non con Chakuza, almeno. Con Bill è diverso, con Bill è tutto sempre molto più etereo e meno realistico. Cristo, se anche Bill mi dicesse in faccia e a chiare lettere che è innamorato di lui, non farebbe male nemmeno un quarto di quanto potrebbe fare male se invece…
- Lo so. – deglutisco a fatica. E quando lui prova a riprendere a parlare gli poso una mano sulle labbra e lo zittisco definitivamente. – Ti dico che lo so. Okay? Lo so. Ma, Chakuza, forse è vero che io ho la responsabilità della tua vita, d’accordo, però è molto più vero che invece tu hai la responsabilità della sua. Quindi ora basta con le cazzate, d’accordo? – sospiro e scuoto il capo. – Andrà tutto… esattamente per il verso migliore. Chiaro? Perciò ora piantala e torna in te. Non esiste farti vedere dal ragazzino in queste condizioni. Okay?
Quando lo lascio libero di parlare, Chakuza mi manda a fanculo. Proprio così, senza pensarci nemmeno un secondo, mi dice “vaffanculo, Fler”, e non aggiunge altro. Rimane lì con una mano sugli occhi a massaggiarsi le tempie col pollice e l’indice ed io continuo a tenergli le mani sulle spalle e stringere un po’ per fargli coraggio, e lui resta zitto per un sacco di tempo, mentre io non faccio altro che guardarlo. Quel vaffanculo era pieno di roba, Chakuza ce l’ha con me per un sacco di motivi, adesso, ma non si scosta, quindi va bene. Cioè, è incazzato ma non vuole davvero mandarmi a fanculo, e questa è una cosa buona, almeno per il momento.
Solleva lo sguardo solo qualche secondo dopo.
- D’accordo. – annuisce, - Andiamo.
Il tragitto in macchina non è silenzioso come mi aspettavo. Non so, credevo che avrebbe guidato in silenzio assoluto fino a casa di Bill e che avrebbe sclerato solo una volta lì, magari prima di entrare. E che poi si sarebbe calmato automaticamente, giocoforza, quando avremmo detto tutto a Bill e sarebbe stato il turno suo, del ragazzino, dico, di sclerare come si deve.
E invece no, sclera da subito, già in macchina, e per nascondere il fatto che sta sclerando si mette lì a farmi domande assurde delle quali non capisco il senso, perché se si aspetta da me che abbia una risposta a cose tipo “e quando lo prendiamo, che facciamo?” è veramente fuori strada. Come cazzo fa uno ad avere risposte simili?
- Cristo, Fler, ma non hai pensato a niente, prima di venire fino a qui?! – ringhia, costeggiando il canale per uscire da Tempelhof.
- Non contavo di dover fare niente di simile, stasera. – cerco di farlo ragionare, - E comunque calmati, Chaku.
- Non dirmi di stare calmo! Cosa facciamo? Lo portiamo alla polizia? Ma non ci crederà nessuno, Cristo, non possiamo portare uno spacciatore zoppo come testimone di un omicidio che non ha visto e per il quale non ha prove, cazzo!
- Ci inventeremo qualcosa, dai. Calmati.
- Non dirmi di stare calmo, Cristo santo, Fler! Non senti come suona male la frase? Stai calmo non puoi dirmelo mentre andiamo a casa di Bill per parlargli dell’assassino di Bushido!
Batto un pugno contro lo sportello.
- E allora vaffanculo, diventa isterico! – concedo urlando, - Cristo, sei una piaga!
Lui non risponde, si lascia andare ad un grugnito frustrato e stringe le dita attorno al volante. Riprende a parlare solo dopo molti minuti, quando siamo già nei paraggi di casa di Tom. Gli ho detto io di venire qui. Chakuza non sapeva che Bill si fosse trasferito da suo fratello, nell’ultimo periodo.
- Fler. – mi chiama, nella voce una strana tranquillità rassegnata che mi preoccupa un po’. – Voglio che, quando questa faccenda si sarà risolta, torni tutto come prima.
Esito per qualche secondo, mordendomi l’interno di una guancia.
- Prima quando? Quando non ci conoscevamo e Bushido era vivo?
Chakuza scuote il capo.
- Prima di venire a Tempelhof. – risponde senza guardarmi, – Quel prima lì.
Abbasso lo sguardo.
Non ce la farò mai a dirgli che voglio andare via.
- D’accordo. – annuisco, – Ora però sta’ tranquillo.
Ed annuisce anche lui.
Arriviamo a casa di Tom e per un po’ ci guardiamo intorno spaesati come non riconoscessimo l’ambiente. Chakuza ride nervosamente e rido anche io. È incredibile, sono questi i paesaggi urbani cui siamo abituati, ma per qualche ragione questo condominio che non c’entra niente con Tempelhof in questo momento ci disorienta.
Suoniamo educatamente al citofono e per un attimo dimentichiamo pure che abbiamo fretta e un assassino da recuperare: come fai ad attaccarti al campanello e suonare come ne andasse della tua vita, in un posto simile? Svegli i condomini. Ti insegue il custode coi dobermann, tipo, soprattutto a quest’orario indecente della notte. Mentre suono, guardo Chakuza e lui guarda me e ci passano per la mente gli stessi pensieri idioti: magari dormono, per dire. Non dovrebbe interessarci che i gemelli dormano o no, questa cosa è decisamente più importante, ma ci pensiamo lo stesso. È assurdo e mi viene di nuovo da ridere. Chakuza in effetti una mezza risata la sbuffa, ma poi scuote il capo e si ferma, così evito anche io.
- Sì? – la voce che mi risponde dall’altro lato è impastata e profonda, sa di sonno nonostante il citofono ne deformi i toni verso una nota fastidiosamente metallica. È una cosa tipica dei citofoni moderni iperfunzionali, ti scombussolano la voce. Quando parlo con Chaku al suo citofono scassato mi sembra quasi di avercelo davanti ed invece qui mi pare che la voce di Tom provenga da un altro pianeta.
- Tom? – chiedo un po’ incerto. Guardo Chakuza e, mentre realizzo che questo ragazzo fino a un anno fa andava in giro dicendo che adorava l’Aggro Berlin, lui mi fa cenno di spostarmi e prende la parola.
- Sono Chakuza. – dice con sicurezza, - Mi apri?
Lui resta un attimo in silenzio.
- Ma quello era Fler? – chiede, senza rispondere alla domanda.
Io inarco le sopracciglia e guardo Chakuza. Lui solleva gli occhi al cielo e sospira.
- Sì, Tom. Mi apri?
- Ma che ci fa qui Fler? – continua a chiedere Tom, come neanche lo sentisse, - Ma sono le tre del mattino! Cosa ci fa qui Fler? – un secondo di pausa, - E cosa ci fai qui tu?
- Grazie per aver ricordato la mia esistenza. – grugnisce Chakuza, appoggiandosi al muro, - Mi apri o no?
- Ma cosa vuoi?! – chiede ancora lui, ed io sospiro pesantemente. Un attimo prima che Chakuza si metta a lanciargli improperi di ogni tipo, gli tappo la bocca e lo scanso dall’altoparlante del citofono, schiarendomi la voce.
- Tom? – lo chiamo senza presentarmi, visto che ormai sono ragionevolmente sicuro che, nonostante le distorsioni del citofono, mi riconoscerà comunque, - Abbiamo bisogno di parlare con tuo fratello.
- Bill sta- - fa per lamentarsi lui, ma lo fermo.
- Lo so che è molto tardi e probabilmente Bill starà dormendo, ma abbiamo davvero bisogno di parlargli. – chiarisco calmo. – Ci fai salire, per favore?
Tom esita solo un attimo.
- Okay. – dice infine, facendo scattare la serratura del portone.
- Potevi aprire anche a me, Tom! – sbraita al citofono Chakuza, alle mie spalle.
- Lui ha chiesto per favore! – risponde piccato Tom, spaccando per l’ultima volta il silenzio della notte, prima di riagganciare.
Quando le porte scorrevoli dell’ascensore gigantesco con cui saliamo al settimo piano si spalancano, annunciando il nostro arrivo con un avviso sonoro da chiamata aeroportuale, mi ritrovo di fronte Bill che mi fissa con gli occhi spalancati dalla soglia di casa. Indossa una vecchia tuta azzurra ed una felpa nera con un logo talmente sbiadito da essere ormai irriconoscibile, ha i capelli tirati in una coda bassa dietro la nuca e, nel complesso, non sembra avere molto più di quindici anni. Sospiro pesantemente e mi faccio avanti.
Il guaio è che, appresso a me, viene pure Chaku. L’aria cambia consistenza appena mette piede sul pianerottolo, la sento tendersi tutta. Bill stringe le mani attorno agli stipiti della porta affondando quasi le unghie nel legno. Mi viene paura per la forza che ci mette, potrebbe farsi male. Le nocche sono diventate bianchissime per lo sforzo.
Chakuza rimane immobile e lo guarda, non s’è mosso molto dall’ascensore, è rimasto lì a due passi. La porta non si richiude perché lui continua a stare nel raggio d’azione della cellula fotoelettrica, e questo particolare insignificante mi irrita così tanto che mi viene voglia alternativamente sia di spingerlo di nuovo in cabina che di tirarlo via di lì per un orecchio.
Il primo a parlare è Bill. Deglutisce di prepotenza – sul suo collo magro il pomo d’adamo fa un viaggio difficilissimo, prima di tornare al proprio posto – e poi forza un mezzo sorriso.
- Ciao… - dice a bassa voce. E sta parlando solo con lui. Aggrotto le sopracciglia e tossicchio, e lui si volta a guardarmi, - Ciao, Fler. – aggiunge con calore, dimostrando ampiamente, neanche a farlo apposta, che in effetti fino ad un secondo fa non aveva nemmeno registrato la mia presenza in questo dannato corridoio.
Rispondo con un cenno del capo mentre Chakuza finalmente mi si affianca e solleva una mano per salutarlo. Il momento d’imbarazzo che segue il suo avvicinarsi a Bill è talmente deprimente che mi ritrovo ad incrociare le braccia e sospirare come una vecchia madre esasperata, e batto nervosamente un piede per terra. La moquette che ricopre tutto il corridoio impedisce alle mie scarpe di fare rumore, perciò fortunatamente non se ne accorge nessuno.
- Io direi – sbotto irritato, - che la questione fra voi due potete tranquillamente risolverla dopo. – e fatto entrambi una specie di mezzo salto, sollevano gli sguardi su di me e mi fissano allarmati come avessi appena pronunciato una qualche parola proibita. Me ne frego altamente e continuo, - Bill, io e Chakuza siamo stati un po’ in giro, ultimamente.
Lui annuisce senza capire. Non mi stupisce, è che mi blocco un po’ perché avrei preferito fosse più ricettivo. Sì, ok, sono le tre del mattino. Ma non è per niente facile quello che sto per dirgli e vorrei un po’ d’aiuto, solo che naturalmente non posso aspettarmelo da Chakuza, che ha palesemente smesso di pensare quando siamo entrati in ascensore, e non posso aspettarmelo neanche da Bill, che non è messo tanto meglio di lui e continua a fissarmi con questi occhi da cerbiatto sperduto.
Sospiro e gliela butto lì tutta. Nella maniera più semplice che posso. Gli parlo delle nottate a Tempelhof, dei tunisini, del ragazzino, di Samir e quando arrivo a Saad cerco di non esitare perché so che se esito è la fine, perciò mi faccio forza e lo dico. Avevi il nemico nascosto fra gli alleati, ragazzino, e non sei riuscito ad accorgertene. Non è posto per te, questo. Ma, chissà perché, piuttosto che allontanartene preferisco proteggerti e tenertici.
Bill non dice niente per un sacco di tempo, quando finisco di parlare. Continua a guardarmi in maniera quasi fastidiosa, come se si aspettasse altro. Ma non ho altro da dargli. Posso offrirgli la testa dello stronzo su un piatto d’argento, se vuole, ma dovrà concedermi un po’ di tempo in più se è questo il suo desiderio.
Deglutisce ed allenta un po’ la presa sugli stipiti prima di tornare a stringerli.
- Cosa avete intenzione di fare, adesso? – chiede pacatamente, e per qualche strana ragione a lui riesco a rispondere. Quando me l’ha chiesto Chakuza non ho avuto idea di cosa dirgli, ma di fronte agli occhi di Bill – che adesso brillano di rabbia in un modo del tutto nuovo rispetto alle altre volte in cui li ho visti brillare – so esattamente qual è il mio dovere.
- Gli andiamo dietro. Cerchiamo di beccarlo prima che lo avvertano ed abbia il tempo di scappare. – rispondo deciso.
Chakuza mi solleva addosso uno sguardo allucinato, ma io lo ignoro. Tutto ciò che mi importa è che invece Bill annuisce con approvazione.
E poi dice una cosa assurda.
- Vengo con voi.
- No! – sbottiamo contemporaneamente io, Chakuza e Tom. Allungo il collo per osservare dietro le spalle di Bill, ed in effetti suo fratello sta lì e lo guarda con aria inorridita, le mani piantate sui fianchi e una cascata di dread sciolti sulle spalle.
- Bill, sarà molto pericoloso. – gli fa presente Chakuza.
- E faticoso. – aggiungo io, inarcando le sopracciglia.
- E sono le tre del mattino! – conclude Tom, cercando di staccare il fratello dalla porta, senza peraltro riuscirci.
Bill ci guarda tutti e tre con tanta di quella supponenza da mettermi addosso i brividi, e per un attimo mi chiedo da dove venga quello sguardo. È solo un attimo, comunque, perché poi lo ricordo subito e sospiro: so già cosa dirà.
- Non sono affari vostri. – ci ricorda freddo, - E non mi sembra di aver chiesto nessun permesso. – si volta e guarda suo fratello. – Tomi? Fammi passare. – lui deglutisce e si fa da parte. Bill fa un passo e poi torna a guardarci, - Aspettatemi qui. – dice annuendo, - Metto le scarpe da tennis e torno. Faccio in un attimo. – ed è l’ultima cosa che sentiamo prima di vederlo scomparire in corridoio.
Io e Tom restiamo a guardarci per un po’ e non è affatto piacevole. Non lo so, mi fissa come se nemmeno mi vedesse, eppure per certi versi mi pare anche che mi guardi come se in tutto il resto del mondo non riuscisse a vedere altro. Dio quant’è fastidioso. Mi volto verso Chakuza e gli dico di aspettare lui Bill, mentre io comincio a scendere, ma lui mi arpiona per un polso e mi sibila un “non ci provare nemmeno” che mi fa spalancare gli occhi, perciò ammutolisco e resto lì, ma mi appoggio contro il muro, così da interrompere il contatto visivo. Tant’è che la cosa successiva che vedo, a parte l’ascensore che resta immobile in attesa che qualcuno lo chiami, è Bill stesso, che mi si presenta davanti avvolto in un piumino che lo ingloba praticamente tutto ed un cappello a cuffietta sulla testa. E le scarpe da tennis, ovviamente.
Mi guarda e sorride appena. Io mi rimetto dritto e faccio strada verso l’ascensore – quello che mi succede alle spalle, oltre il brusio insoddisfatto di Tom e la voce di Bill che lo rassicura sul fatto che tornerà presto, non più tardi dell’alba, mentendo palesemente, perché io non so nemmeno se torneremo, figurarsi avere un orario preciso, insomma, quello che sta succedendo dietro di me, non voglio saperlo. Vale a dire che se Bill e Chakuza si stanno lanciando occhiate particolari o che so io, se si stanno bisbigliando qualcosa, qualsiasi cosa stiano facendo, io non voglio saperla. Sto bene così.
Quando c’infiliamo in macchina e ci dirigiamo verso casa di Saad – e Chaku si trova finalmente qualcosa da fare, concentrandosi solo sulla guida e sulla strada da percorrere – Bill, che sta seduto dietro, sui sedili posteriori, si mette al centro e si sporge in avanti, incastrandosi fra i nostri sedili e sporgendo la testa a guardarmi. L’immagine in sé è molto tenera, sembra un bambino a spasso coi genitori. Però, appena questo pensiero mi attraversa la mente, mi sale una pelle d’oca assurda ovunque, perciò lo accantono e gli do retta, visto che nel mentre ha anche cominciato a parlare.
- Fler. – mi chiama pacatamente, - Quando lo prenderemo, cosa pensi che succederà?
La sua calma un po’ mi rassicura, perciò scrollo le spalle e sbuffo con naturalezza.
- Non lo so ancora, ragazzino. – ammetto. Poi sorrido, - La principessa ha qualche suggerimento?
Lui non abbassa lo sguardo neanche un secondo, e nei suoi occhi non passa neanche un’ombra d’incertezza.
- Io voglio farlo fuori. – dice, con un candore inquietante. E capisco che forse della sua serenità dovrei preoccuparmi. E un po’ m’incazzo con Anis, perché se Bill oggi è così, se è qui con noi che mette a rischio la propria vita e parla di uccidere Saad, se non è in giro con un gruppo di diciannovenni scemi a sfondarsi di rum e cola e scopare in giro, è colpa sua. Che non è stato capace di tenerlo lontano da questa mentalità del cazzo fino a che non è stato troppo tardi.
Mi lascio andare ad una risatina nervosa, mentre Chakuza stacca gli occhi dalla strada per la prima volta da quando è salito in macchina e lancia un’occhiata allarmata prima a lui e poi a me. Scrollo le spalle e gli indico il semaforo, deve fermarsi. Cerco di ignorare le ultime parole di Bill, perché l’eventualità che Saad possa rimetterci la pelle stasera c’è. E non so se sarebbe un bene o un male, se succedesse.
Quando arriviamo sotto al palazzo, mi guardo istintivamente intorno per cercare la macchina di Saad – e la voce di Anis mi risuona in testa: “quando prepari un agguato, ricordati sempre di controllare che lo stronzo che vuoi fare fuori non possa fuggire” – ma poi ricordo che non ho la minima idea di che macchina sia la macchina di Saad, e quando faccio per chiederlo a Chakuza lo vedo già muoversi tranquillamente verso il citofono, con estrema calma. Quando si accorge che lo sto guardando, si ferma un attimo – Bill è ancora impegnato a non affondare nel proprio giubbotto mentre si tira fuori dal catorcio di Chaku – e mi lancia un’occhiata incerta, come a chiedermi se sta facendo le cose per bene. Annuisco ed indico con un cenno del capo il citofono, per dirgli che va bene, l’intuizione era giusta, può andare.
Quando suona il campanello noi restiamo tutti tesi e in silenzio, e dopo un po’ sentiamo una voce di donna che risponde un po’ incerta. Faccio cenno a Bill di restare in silenzio e guardo fisso Chakuza mentre dice alla donna che si scusa per l’orario, ma ha urgentemente bisogno di parlare con Saad. La donna si lamenta, gli chiede se può passare domattina e lo fa con una certa confidenza, perciò immagino si tratti della moglie. Chakuza insiste, la signora esita e tergiversa, Saad dorme, la bambina pure – c’è una bambina? – insomma, Peter, ti sembra modo di presentarti così a casa dalla gente per bene?, e Chakuza insiste, si scusa e chiede di entrare, per favore Greta, è una cosa urgente, altrimenti non sarei mai venuto, e così alla fine lei cede, “d’accordo,” dice, “ma Saad non ne sarà contento”, ed io e Bill ci scocchiamo un’occhiata supponente inarcando lo stesso sopracciglio ironico. Non ne sarà contento eccome.
Quando scatta l’apertura del portone, Bill fa per passarmi davanti e prendere per primo le scale, ma io e Chakuza scattiamo ad afferrarlo uno per braccio e lui si ritrova tirato indietro in una mossa un po’ comica. Chaku lo lascia andare subito, come scottasse, io invece lo tengo ben stretto.
- Dietro, ragazzino. – borbotto contrariato, - Niente colpi di testa.
- Non volevo fare niente di male. – dice lui con un mezzo broncio. Non ci credo nemmeno se lo giura.
- Dietro. – ripeto, e faccio cenno a Chaku di darsi una mossa ad entrare.
Lui obbedisce e ci ritroviamo a salire le scale in fila indiana, lui davanti, io nel mezzo e Bill dietro che saltella e si sporge oltre le mie spalle per cercare, non lo so, di essere il primo a vedere Saad quando saremo di fronte alla porta. Lo fa con un’ansia tutta particolare, neanche fosse possibile uccidere con gli occhi e lui volesse assicurarsi di essere proprio il primo a farlo. Penso che no, non è possibile uccidere con gli occhi. Penso che però un po’ Bushido ci riusciva a farti male in quel modo. E Bill ha imparato tanto da lui.
Capisco che c’è qualcosa che non va nel momento in cui arriviamo sulla porta e ad attenderci troviamo la signora. Le abbiamo detto che volevamo parlare con Saad. Ma non c’è Saad assieme a lei. È sola. E non capisco perché.
Lancio un’occhiata allarmata a Chakuza, che però mi dà le spalle e quindi non mi vede, e fa un gran sorriso alla tipa, chiamandola pure per nome e sporgendosi a salutarla – lei risponde quasi senza toccarlo, tesa come una corda di violino.
- Allora, dov’è Saad? – chiede Chakuza, e lo sguardo di lei vaga un po’ oltre le sue spalle ed incontra noi, me e Bill, dico, che non facciamo una piega.
- Loro che ci fanno qui? – domanda con un filo di voce. Chakuza fa fatica a non balbettare una scusa a caso.
- Mi hanno accompagnato. Ma non entrano, tranquilla. – cerca di rassicurarla, continuando a sorridere, - Non entra nessuno, non vogliamo disturbare la bambina. Fai solo uscire Saad, per favore?
Lei esita ancora, e mentre io sono lì che sbuffo contro queste madri iperprotettive moderne – mia madre volendo mi lasciava fuori casa anche fino all’una del mattino, non che fosse una cattiva donna, solo che aveva capito di che pasta ero fatto, ecco tutto – vedo un’ombra che si muove alle sue spalle e capisco che no, non sta iperproteggendo nessuno, la bambina non c’entra, questa qui non ha intenzione né di farci entrare né di fare uscire nessuno.
- Chaku, togliti di mezzo. – sibilo burbero, e quando arrivo di fronte alla donna la guardo e dico “mi scusi” prima di prenderla di peso e spostarla letteralmente dall’altro lato della stanza, così improvvisamente che lei perde l’equilibrio e si accascia sulla moquette, e la prima cosa che fa è puntellarsi al pavimento e strillare “scappa!”, ed è lì che solleviamo tutti e tre gli occhi e quella che era solo un’ombra scura diventa Saad che afferra un paio di chiavi e prende un corridoio del quale da qui non riusciamo a vedere la direzione. – Cristo! – impreco furioso, ignoro la donna che cerca di fermarmi e mi lancio al suo inseguimento. Mi guardo indietro solo una volta, giusto per vedere se Bill e Chaku mi stanno seguendo, e quando mi accerto che lo stiano facendo e che Chaku stia dietro a Bill – che va un po’ troppo lento, per i miei gusti – mi concentro solamente sulla corsa.
La voce di Anis si fa sentire ancora. Me che continuo a girarmi indietro mentre scappiamo da non mi ricordo chi e lui che ride e dice “Guarda che devi scappare guardando in avanti, Frank. È la fine della strada, quella che ti interessa, non l’inizio”. Ed io che comincio a correre guardando solo lui. Perché tanto sta davanti a me. Lui e la fine della strada sono la stessa cosa.
Mentre imbocco il corridoio passo davanti ad una camera con la porta aperta e c’è una ragazzina seduta sul letto. Avrà dodici anni, tipo, è bionda e sottilissima, non riesco a vedere molto, un po’ perché la stanza è buia ed un po’ perché vado di fretta. È bionda e sottilissima, però, e indossa un pigiama bianco. Il padre di questa bambina è un assassino e probabilmente morirà prima di stasera.
Mi ripeto che è la vita che mi sono scelto e tiro dritto.
Saad è un corpo che si allontana. Imbocca una porticina laterale alla fine del corridoio e quando lo raggiungo lo trovo che cerca di mettere in moto la macchina. I passi di Chakuza e Bill mi inseguono, sono lenti, cazzo, così non va, se poi quello prende la macchina siamo fottuti, ma la macchina non parte ed io lo vedo attraversarla tutta fino ad uscire dallo sportello del passeggero e lanciarsi in una corsa furiosa oltre la saracinesca del garage, che si apre così lentamente che lui è costretto a piegarsi in due per uscirne.
Quando riesco ad uscire anche io, lo vedo arrampicarsi sulla scala antincendio che risale esternamente tutto il palazzo fino alla terrazza e, dopo essermi chiesto cosa cazzo voglia fare, mi metto a sperare che non chiuda la questione in qualche modo da bastardo tipo gettandosi di sotto.
- Stronzo! – gli urlo dietro, faccio per salire a mia volta ma mi guardo alle spalle e Chakuza e Bill non ci sono, perciò mi fermo e continuo a urlare, - Stronzo! Non ci pensare neanche! – e vorrei aggiungere che non ce l’ha il diritto di togliersi di mezzo, e poi penso per un attimo che quel diritto è di Bill, ma è un pensiero fugace: in realtà c’è qualcosa dentro di me che sta urlando di rabbia perché io a quest’uomo voglio strappare il cuore, cazzo. Ha ammazzato Bushido. Ha fatto passare me per un assassino. Cristo… ha ammazzato Anis.
Scalpito per cominciare la scalata e quando Chakuza e Bill escono finalmente dal garage mi metto a urlare anche contro di loro.
- Chakuza, Cristo santo, muovetevi!
Lui ringhia e posa una mano sulla schiena di Bill, spingendolo in avanti. Il ragazzino ansima neanche avesse corso in tondo per tutta la città.
- Te l’avevo detto. – grugnisco impaziente, - È salito di sopra. Dobbiamo andargli dietro. – e cerco di spiegare in fretta, perché lo vedo allontanarsi verso l’alto e non ho la minima idea di dove potrebbe andare una volta in terrazza.
Bill lancia una lunga occhiata terrorizzata alla scala antincendio e poi guarda me.
- Sì, fin lassù, Bill. – confermo senza attendere la sua domanda. Dopodiché, ho appena il tempo di scorgere con la coda dell’occhio Chakuza che gli posa una mano sulla spalla e gli chiede se ce la fa, che comincio a salire sbraitando che se non vogliono essere lasciati indietro faranno meglio a darsi una fottuta mossa.
La situazione è incasinata perché, se da un lato vorrei concentrarmi solo su Saad – che nel mentre sarà circa tre piani sopra di noi, il che vuol dire che fra meno di due minuti raggiungerà la terrazza, lo stronzo – dall’altro non riesco proprio a disinteressarmi di quello che mi succede alle spalle, ed il respiro forte di Chakuza si mischia a quello stremato di Bill, così ogni tanto mi volto e mi fermo. Un po’ li aspetto, un po’ li aiuto – al quinto piano Bill è talmente stanco che continua a incespicare negli scalini, perciò mentre Chakuza lo regge per la vita io lo tiro per le braccia e stiamo lì in due a sussurrare “coraggio Bill, ci siamo quasi”, e lui lì a fare l’ometto, “sto bene, tranquilli”, ma è stravolto al punto che mi viene un po’ voglia di tirarlo su di peso e trascinarmelo in braccio fino al tetto. Chakuza, d’altronde, non è che stia poi tanto meglio. Ed anche io, cazzo, non corro con ritmi simili da quando avevo sedici anni. La situazione è davvero incasinata.
E noi siamo davvero troppo lenti, me ne accorgo quando riusciamo ad arrivare in terrazza e, mentre lascio qualche secondo a Bill per riprendersi – e commentare che i tetti almeno sono tutti pianeggianti, perciò può risparmiarsi l’arrampicata – vedo Saad che è già passato sul tetto del palazzo accanto e sta correndo spedito verso il successivo.
Mi passo una mano sulla fronte, si gela e sono sudatissimo. Bill, imbacuccato nel giubbotto, s’è rimesso dritto.
- Stai bene? – gli chiedo, - Sei un danno. – aggiungo mentre lui annuisce e sorride un po’, intimidito. – Lo capisci che dobbiamo inseguirlo ancora, vero?
- Fler, lo sa. – mi interrompe Chakuza, aggrottando un po’ le sopracciglia. Io gli lancio un’occhiataccia inviperita.
- Tu bada a stargli dietro. – lo rimprovero, ed il fatto che lui si rifiuti di abbassare lo sguardo e continui a fissarmi con rabbia mi dà un po’ la misura di quanto io stia passando il segno, stasera. – Scusa. – mi correggo sospirando, - Non volevo essere-
- D’accordo. – mi dà una pacca sulla spalla ed indica Saad che si allontana. – Fai strada.
Io annuisco, guardo Bill e vedo che annuisce anche lui, perciò mi volto e riprendo a correre. Passare da un tetto all’altro è perfino facile, in questo condominio di blocchi di cemento tutti uguali, alti e monotoni. C’è solo da seguire la traccia, quell’ombra che si allontana senza variare di un millimetro il proprio percorso in linea retta.
Dobbiamo solo essere un po’ più veloci.
In effetti, l’assenza di scale aiuta: sul terreno pianeggiante Bill se la cava decisamente meglio e, dovendo badare meno a lui, anche Chakuza è molto più svelto. Saad è agitato e corre come una dannata antilope, fanculo a lui, mentre al quarto tetto io comincio a sentirmi un po’ appesantito. Prego non mi prenda un crampo. Non manderei Bill e Chakuza avanti neanche se ne andasse della mia vita. I motivi sono troppi per realizzarli tutti, adesso.
Ho un po’ perso il conto delle terrazze, quando Saad si decide ad imboccare una scala antincendio che lo riporterà in strada. Non so quante terrazze abbiamo passato, ma so che adesso siamo abbastanza vicini. Lo so perché assieme agli ansiti sconnessi e affaticati di Bill e Chakuza – ho un attimo di panico nel pensare che dovrò far scendere le scale a Bill, ho paura che ceda e cada, Cristo – riesco a sentire anche gli ansiti del bastardo. È talmente vicino che sento quasi l’odore del suo sudore. E sento che è terrorizzato.
- Ci siamo. – ansimo appoggiandomi al corrimano ghiacciato della scala che ha imboccato Saad, - Dobbiamo riprenderlo adesso. Per forza. – guardo in basso, non è tanti piani sotto di noi. Dobbiamo darci una mossa. – Bill. – lui solleva lo sguardo ed è talmente stanco che ha gli occhi annebbiati. Non sono neanche sicuro che mi veda bene. – Bill, ascoltami. Ci siamo quasi. Ci sei?
Lui annuisce debolmente.
- Sto bene… - esala in un fiato.
- No che non stai bene. – lo correggo io, mentre Chakuza lo sostiene tenendolo per un braccio, - Ma pensa che dopo potrai farti una bella vacanza. A costo di portarti io personalmente da qualche parte. D’accordo? Solo stanotte. Poi basta correre. Okay?
Bill annuisce ancora e raddrizza la schiena.
- Ce la faccio. – dice con più sicurezza, - Davvero.
Lancio un’occhiata a Chakuza, lui annuisce ed è tutto quello che mi serve sapere. Non lo lascerebbe mai cadere di sotto, questo lo so. E tanto mi basta. Mi lancio giù per la rampa senza assicurarmi che Bill e Chakuza mi seguano: devo riacciuffare Saad. Devo farlo e devo farlo per primo. Ci sono momenti in cui lo vedo così vicino che penso che se allungassi una mano lo toccherei, ma quando faccio per stendere il braccio ed afferrarlo davvero non ci riesco mai. Continuo a corrergli dietro per tutti i fottuti piani di questo fottuto palazzo che mi sembra alto quanto un grattacielo.
Quando riesco a prenderlo, succede all’improvviso. Come succede sempre tutto nella vita. Quello che ti aspetti non succede mai. Quello che non pensi si verifica sempre. Perdi di vista l’amico di una vita. Quell’amico muore. Finisci a letto con la persona sbagliata.
Io allungo il braccio e prendo Saad. Mi butto addosso a lui con violenza, col preciso intento di gettarlo a terra, e così perdiamo l’equilibrio e rotoliamo lungo tutta l’ultima rampa di scale, al punto che la prima cosa ferma che sento sotto la schiena è la consistenza granulosa e umida dell’asfalto bagnato. La neve sciolta impregna il giubbotto e i vestiti di sotto. C’è un freddo fottuto. Stringo Saad fra le braccia e non so com’è che non l’ho ancora fatto fuori personalmente.
Lui si dibatte, prova a tirarmi un calcio, io sento dolore a una tempia e non capisco se le gocce che mi bagnano lo zigomo al momento sono di sudore o di sangue. Sulla scia bagnata soffia un vento gelido che mi fa rabbrividire, ma non mollo la presa e lo tengo immobilizzato a terra.
- Cristo santo, stai fermo o giuro su Dio che ti ammazzo a sangue freddo e poi torno indietro ed ammazzo anche tua moglie e tua figlia, stronzo! Dico sul serio, cazzo! – gli urlo nell’orecchio, e per fargli capire che faccio sul serio lo stringo alla gola con un braccio. Stringo tanto e stringo forte, al punto che lo sento tossire affaticato ed il suo fiato si disperde in un incerto sbuffo di condensa tutto intorno a lui.
- Fler! – urla Chakuza, esausto, quando lui e Bill riescono a completare la discesa delle scale.
- Alla buon’ora, cazzo! – urlo io. Ed urlo come un pazzo. Non ho il minimo controllo sulla mia voce e neanche su quello che sto dicendo, - Toglietemelo dalle mani, toglietemelo dalle mani perché altrimenti gli spezzo il collo! Toglietemelo dalle mani! – e continuo a stringerlo. Ed ho anche un po’ l’impressione che se solo Bill o Chakuza si avvicinassero per cercare di liberarlo, mangerei loro il cuore.
E invece non mangio il cuore di nessuno, quando Chakuza mi si avvicina e si china su di me nemmeno mi muovo. Lo vedo che tiene Saad fermo per le braccia e poi annuisce, come a dirmi “ok, ora puoi lasciarlo”. Ed io lo lascio. Lo lascio, Cristo. Potrei ammazzarlo e lo lascio, invece. E rimango lì accovacciato in terra come un coglione, fissando in cagnesco lo stronzo che ha ammazzato Bushido mentre Chakuza lo tira lontano – e non fa neanche molta fatica, visto che la caduta dalle scale ha rincoglionito molto più lui che me.
Bill mi è accanto in un attimo.
- Fler! – mi chiama, inginocchiandosi al mio fianco, - Sei ferito! – mi passa una mano sulla tempia ed è gelida, nonostante abbia corso fino ad adesso. Quando mi volto a guardarlo vedo che ha le dita ricoperte di sangue.
- Non è nulla di grave. – borbotto, rimettendomi in piedi. Passo il dorso della mano sulla ferita per ripulirmi, ma quando lo faccio brucia da morire e sento la pelle tirare. Dev’essere un brutto taglio, ma ci penserò dopo.
Nel mentre Saad si riscuote, si rende conto di non riuscire a muoversi e comincia ad agitarsi, tant’è che Chakuza mi grida di avvicinarmi e cerca di tenerlo stretto come può. Saad scoppia a ridere ed è una risata che ho sentito qualche volta, quand’ero ragazzino. Bushido, quand’era ancora Sonny Black, le riduceva così le persone. Lui ghignava e quelli davano di matto e ridevano. Ridevano e ridevano, eccome. E lui continuava a ghignare e in genere quello che seguiva non era mai una bella cosa. Quando lo seguivo, di notte, ogni tanto mi chiedevo come fosse possibile che uno che faceva ciò che faceva lui fosse ancora a piede libero. Questo mi ha insegnato che la libertà non te la guadagni, te la prendi e basta, che tu la meriti o meno. È una lezione importante, perché è molto più realistica di qualsiasi cazzata sulla giustizia possano infilarti in testa mentre cercano di farti crescere come un essere umano normale.
Mi avvicino per dare una mano al Chaku e Saad mi guarda dritto in faccia con quegli occhi verdi e scuri che brillano di rabbia nella notte, e parla.
- Alla fine sei venuto allo scoperto. – mi dice, sorridendo strafottente, - Lo sapevo che quello veramente pericoloso saresti stato tu. Bushido è per sempre, eh? Una volta che ti mette le mani addosso…
- Sta’ zitto, stronzo! – urlo, restando a qualche passo da lui per il semplice fatto che, se dovessi davvero avvicinarmi di più, in questo momento, lui non sopravvivrebbe. Ed invece leggo negli occhi di Chakuza il desiderio chiaro e preciso di evitare altro sangue, per oggi, perciò mi fermo.
Saad ride ancora.
- Non lo sai? – continua a prendermi per il culo, - All’EGJ lo dicevamo sempre, anche quando Bushido era ancora vivo. Che in realtà ti aveva scopato ed era questo, il tuo problema, eri geloso della principessa. Ci ridevamo un casino, diglielo anche tu, Chaku. Ci rideva anche Anis.
Gli salto addosso che, sospetto, Bill e Chakuza non hanno ancora avuto nemmeno il tempo di registrare quello che ha detto. Mi abbatto su di lui con la furia di un animale, Chakuza insieme non ci regge e ci lascia andare, col risultato che rotoliamo sull’asfalto ed io ho la prontezza di spirito di mollargli un cazzotto sul naso prima che lui possa reagire in alcun modo. Il sangue comincia a scorrere a fiotti, Saad urla ed io continuo a prenderlo a pugni ovunque, sul viso, sulla testa, perfino sul collo e sul petto, ovunque, pur di fargli sputare sangue.
- Chiudi – cazzotto sui denti, mi faccio male anch’io, - questa fogna – un occhio che diventerà presto nero, sempre che io non l’ammazzi prima, - di merda! – e il respiro che gli manca, perché non gli do tregua neanche il tempo minimo per aprire la bocca ed inspirare da lì, dato che il naso è fuori uso.
Sento appena Chakuza chiamarmi per nome – “Patrick, Cristo santo!” – e Bill esalare un “oddio” sconvolto, ma li ignoro. Non sono io che mi fermo. È Chakuza che mi tira su di peso, ed anche quando lo fa io continuo ad agitarmi e sporgermi in avanti per colpirlo. Anche se so che non serve. Anche se mi accorgo che lo stronzo è praticamente svenuto e non riuscirebbe a muoversi neanche volendo. Lo voglio lasciare morto a terra. Lo voglio lasciare morto nel suo cazzo di sangue come immagino sia morto Bushido su quel fottuto materasso, e voglio esserci, alla morte di Saad, perché quella di Bushido non ho potuto vederla, ma quella di questo stronzo voglio godermela tutta, fino in fondo.
Chakuza mi tiene stretto, mi ha fatto passare le braccia sotto le ascelle e mi ha arpionato per le spalle. Sento la sua voce vicinissima all’orecchio – “Pat, Pat… calmati. Calmati. È tutto ok. Ha detto un mucchio di stronzate, non è vero niente. Ti calmi, sì?” – e sì, Chaku, mi calmo. È solo per questo che mi calmo. E me lo scrollo subito di dosso, il Chaku, non appena mi sono calmato, perché là dietro c’è Bill e non voglio che pensi cose. Non voglio che pensi niente. Non dovrebbe neanche essere qui o aver assistito a questo spettacolo. Ci sto male davvero, per lui. Se sopravvivo a me stesso, se non faccio qualche cazzata stanotte, qualcosa di pericoloso davvero – non so nemmeno se Saad è armato – giuro che me lo porto in vacanza davvero. In qualche bel posto che non ho mai visto, o in qualche posto che non ha visto nemmeno lui, anche se immagino abbia girato più o meno tutto il mondo. Non importa, a costo di dover arrivare fino in Groenlandia.
Mi avvicino al corpo quasi immobile di Saad e lo tiro su per un braccio.
- Una mano, Chaku. – ordino perentorio, e lui annuisce e si avvicina, aiutandomi a rimetterlo in piedi e tenendolo fermo per l’altro braccio. Sembriamo due cazzo di guardie giurate che piantonano un condannato.
Bill si avvicina e guarda Saad come lo stesse vedendo per la prima volta.
E lì ho la netta sensazione che Saad lo sia davvero, un condannato. E decido: non ho intenzione di fermare niente che possa portare alla sua morte, stasera.
- L’hai ucciso davvero tu? – chiede, con una vocina incerta ma molto meno malferma di quanto non mi sarei mai aspettato. Sembra tremi solo per il freddo. Sembra non c’entri niente la paura. I suoi occhi sono puri e cristallini. Mi ricordano Anis. Lui non aveva paura quasi mai.
Saad solleva appena il capo. Sanguina un po’ ovunque, è tutto sporco di fango e bagnato fino alle ossa, ma ghigna ancora. L’espressione di chi non ha niente da perdere ormai ce l’ha attaccata addosso. Se la porterà nella tomba.
- Sì. – annuisce, respirando a fatica.
- Perché? – chiede Bill, senza aspettare un secondo di più.
Saad ride, un suono roco e spaventoso.
- Per colpa tua, ovviamente. Ma questo lo sai già.
Bill annuisce.
Saad sorride più apertamente.
- Te la porterai dietro per sempre, questa colpa, eh, puttana? – gli parla proprio come se si stesse rivolgendo ad una femmina. E Bill non fa una piega. – Io spero di sì. Se non ci fossi stato tu, non ci sarebbe stato nessun motivo di ammazzarlo. Stava svendendo l’immagine dell’Ersguterjunge per il tuo bel culo. Ho sperato lo ammazzasse Fler, quella notte, così avremmo chiuso il conto ed io non mi sarei neanche dovuto sporcare le mani. Ma lui no, non ha avuto le palle nemmeno per fare questo… - sogghigna ed io faccio per ficcare la mano in tasca a recuperare il serramanico, ma Bill mi ferma con un’occhiata di ghiaccio.
- Continua. – dice, perfettamente a proprio agio. E non so proprio da dove gli arrivi, tutto questo autocontrollo.
Saad ghigna ancora.
- Nient’altro, principessa. Soddisfatto?
E Bill annuisce.
- Sì. – dice. Lo dice proprio. Non me lo sogno, lo sente anche Chakuza, tant’è che ci guardiamo negli occhi come due scemi e non capiamo. Non capiamo nemmeno quando lo vediamo pararsi davanti a Saad e mettersi ben dritto, neanche stesse cercando la posizione più adatta per tirargli un calcio nelle palle, per dire, e non capiamo nulla neanche quando abbassa la zip del giubbotto ed infila una mano all’interno.
Capiamo, però, quando tira fuori la pistola. Che è la Heckler.
- La riconosci questa, Saad? – dice freddissimo, avvicinandogliela al viso mentre io e Chakuza scattiamo a stringerlo con più forza attorno alle braccia, perché non possa fare niente di pericoloso.
- Bill… - lo chiama debolmente Chakuza, ma il ragazzino usa con lui lo stesso identico sguardo che ha usato con me poco fa, e Chakuza si congela ubbidiente sul posto.
- La pistola di Bushido… - esala Saad, ridendo appena, - Vorresti farmi paura, maneggiando quell’arma?
E lì Bill sorride. Per la prima volta oggi. Ed è un sorriso che spaventa. Mi dà i brividi per tutta la schiena. È Bushido, in questo momento. No, non è nemmeno Bushido. E non è Anis. È quello che ho conosciuto io. È Sonny, lo spiantato che governava Tempelhof a diciott’anni. Mi chiedo dove l’abbia visto Bill. Mi rendo conto che gliel’ha fatto vedere Anis.
- Dovrei. – risponde tranquillo il ragazzino, ed arretra di un passo. – So usarla.
Saad ride, io fisso attonito Chakuza e lui mi risponde col mio stesso sguardo sconvolto riflesso negli occhi. Al che guardo Bill. E lui invece mi sorride. Ed è un sorriso dolcissimo.
- Mi ha insegnato Anis. – spiega pacato.
Saad ride ancora e scuote il capo in un gesto di rassegnazione. Solleva il viso e lo guarda dritto negli occhi. Bill lo sta fissando e sorride ancora come ha sorriso a me. È tutto tremendamente fuori posto, in questo momento. Non so se Bushido avrebbe apprezzato una cosa simile.
Forse sì. Probabilmente, se esiste un cazzo di paradiso o di inferno e lui c’è finito dentro, e se da lì sta guardando, si sta sentendo perfino orgoglioso del suo ragazzino.
- Non puoi farlo. – ringhia Saad, sollevando supponente il mento.
- È un mio diritto farti fuori, - risponde Bill, - e tu lo sai.
Saad scuote il capo.
- La legge del ghetto non vale con te, principessa. Tu non sei dei nostri. Non te lo puoi permettere.
Bill sorride ancora.
- Io sono dei vostri, Saad. – solleva l’arma. – Sono la donna del capo. – punta l’obiettivo. – Se c’è una cosa che posso permettermi, è proprio questa. – e spara.
E Saad sta qui immobile, il suo corpo è pesante e c’è un buco precisissimo proprio nel mezzo della sua fronte. Dietro non voglio guardarlo perché lo so com’è quando ti sparano in testa.
Per un secondo vorrei fermare il tempo e ritornare indietro. Togliere la pistola dalle dita di Bill e premerlo io, il fottuto grilletto. Per sentire in qualche modo la vita scivolare via dal corpo di questo pezzo di merda con ogni goccia di sangue. Sentirla colorare il marciapiedi di rosso, sentirlo perdere forza e respiro, sentirlo morire e prendermi la mia soddisfazione, riappropriarmi di ciò che è mio – che avrei voluto fosse mio, che avrei voluto prendermi, che non ho mai avuto il coraggio di prendermi – ma poi lascio perdere.
È giusto che a fare questo sia stato Bill.
È giusto.
Non è ancora sorto il sole e tutto intorno c’è solo silenzio, quando io e Chakuza lasciamo cadere il corpo di Saad per terra. Si accascia ai nostri piedi con un tonfo pesantissimo che la neve sciolta ovatta un po’. Lo guardo di sfuggita e mi viene da vomitare, perciò distolgo subito gli occhi. Bill invece lo guarda a lungo, come volesse sincerarsi che sia proprio tutto come doveva essere, e poi annuisce ancora.
- Bill… - Chakuza lo chiama e gli si avvicina, gli mette una mano sulla spalla come a volerlo consolare, ma Bill non sembra aver bisogno di consolazione. I suoi lineamenti sono tesi e rigidi e di sicuro non sembra felice, però tutto sommato sembra stia bene. Lo vedo abbozzare un sorriso.
- È tutto ok. – ci rassicura, e poi si volta a guardarmi. – Perdi ancora sangue.
Io annuisco.
- Sto bene anch’io. – dico comunque, e Bill mi sorride.
- Se vieni da me, ho la cassetta del pronto soccorso e-
- No, credo… - sorrido appena, interrompendolo, - credo che un cerotto non basterà, Bill. Mi serviranno un paio di punti.
Bill lascia andare una risata soffice e cristallina.
- E stai qui a fare il grand’uomo?
Sospiro e guardo ancora il cadavere.
- C’è un mucchio di lavoro da fare. – metto da parte la nausea. Non è il caso di perdersi adesso, devo risolvere il problema. – Chaku, riportalo a casa. – dico, indicando Bill, e quando vedo una luce strana e vagamente terrorizzata farsi strada nei loro occhi, preciso: - Da Tom. Gliel’abbiamo promesso un po’ tutti, che gliel’avremmo riportato presto.
Chakuza annuisce e Bill abbassa lo sguardo. Li vedo allontanarsi per la strada – Chakuza si guarda intorno cercando di riprendere familiarità con l’ambiente e, quando ci riesce, punta un dito verso il palazzo di Saad che si vede ancora in lontananza, ed è in quella direzione che scompaiono entrambi, proprio mentre io mi chino a recuperare il corpo e cerco di fare il conto per vedere quanti chilometri mi separano da casa mia, dalla mia macchina e, poi, da Tempelhof. Ci tornano tutti, prima o poi. La cosa importante, però, è che in genere nessuno ci vada a cercare niente.

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Collide

di tabata
Io sono una persona che sa sempre esattamente ciò che vuole e quello che voglio, in un modo o nell'altro, lo ottengo sempre. Questo mi è possibile per due motivi fondamentali: il primo è che sono testardo. Il secondo è che conosco sempre le conseguenze dei miei desideri e, essendone a conoscenza, so sempre cosa mi aspetta una volta che li ho ottenuti..
Ora, in questo preciso momento, io voglio Tom Kaulitz fuori da casa mia. E, pur sapendo che questo mio bruciante desiderio porterà ore di sventura sulla mia persona, non penso neanche per un istante di rinunciarvi e prendo atto del mio destino.
Dunque, quando decido di dare l'ordine, so esattamente che cosa seguirà alle mie parole. Conosco la sequenza esatta delle azioni che andranno a compiersi un secondo dopo la mia.
Esclamo un generico, "Toglietemelo di torno," ed è sufficiente a farmi capire.
Non ho bisogno di fare nomi, rimangono tutti seduti tranne quello che sa di doversi alzare, ossia Chakuza. La situazione è palesemente chiara: Tom sta facendo il cretino, lo voglio soltanto fuori di qui, ed è Chakuza ad occuparsi di queste cose di solito.
E' il mio mediatore. Se avessi voluto pestarlo - se avessi dato loro l'impressione che volessi - si sarebbe alzato Nyze, o Saad. O molto più probabilmente lo avrei fatto io.
Chakuza è capace di fare molto male alla gente se decide di menare le mani ma, di solito, prima di farlo, ci pensa parecchio ed è per questo che mi piace.
In un branco di teste calde - me compreso - ne serve uno che nel bel mezzo di quella che potrebbe diventare una rissa abbia il candore di riportare tutti coi piedi per terra facendo notare che è ora di cena.
Lo vedo che si alza con un mezzo sorriso bonario; è alto la metà di Tom, praticamente, ma è grosso il doppio e, non so come, ma riesce ad apparire quasi minaccioso. Solo che non ne ha assolutamente intenzione. Gli allunga uno scappellotto e se lo porta via per lasciarlo appena fuori dalla porta. Sa che voglio solo questo: che quel ragazzino capisca che non può venire in casa mia a darmi del pedofilo e pensare che io chini la testa benevolo come se fossi suo padre. Non sono così fuori di testa da farlo gambizzare per un po' di capricci, ma non sono neanche abbastanza buono per sopportarlo oltre.
Tom in questo periodo è oggettivamente insopportabile e soltanto Bill potrebbe trovare il modo di giustificare le sue parole, le sue azioni e - in linea generale - quell'atteggiamento che ha deciso di assumere, strafottente nel mio caso, e disgustosamente protettivo nei confronti di suo fratello.
Difatti, come del resto avevo previsto, nel momento stesso in cui finisco di dare l'ordine, sento la stilettata degli occhi di Bill direttamente nel collo. Non mi volto a guardarlo, continuo a fissare suo fratello che mi ringhia contro come un cane rabbioso mentre Peter se lo porta via ridendo. E lì comincia.
Bill ha imparato che ha un posto ben preciso nel mio universo. E' un posto di riguardo, il posto migliore che si possa avere in casa mia se non si è un rapper e contemporaneamente si è anche un ragazzino effeminato con nessun diritto apparente di dormire nel mio letto. Bill non è una scopata qualunque che magari ha avuto la fortuna di rimanermi intorno per quella settimana lì, con gli altri che le danno più o meno l'importanza di un nuovo paio di scarpe. Bill è il mio compagno, che è una roba folle - forse - ma è anche una roba che ha un prezzo.
Il prezzo di Bill, nello specifico, è quello di stare zitto, che per lui è senza dubbio un grosso sforzo. Il realtà, nel nostro privato, può dirmi quello che vuole - e lo fa. Dio solo sa se lo fa! - ma davanti ai ragazzi no. Ho già dovuto prenderli a mazzate quasi uno per uno perché la piantassero di incazzarsi o prendermi per il culo perché avevo scelto lui, gradirei che non ricominciassero chiedendosi se non lo tengo a bada. E Bill, in effetti, sta zitto. Rimane rigido accanto a me, si fa prendere per la vita e non dice una parola. Il fatto che abbia i lineamenti così contratti da sembrare un'altra persona, però, non è affatto un buon segno.

*



Una volta fuori dalla visuale dei ragazzi, che alle nostre spalle hanno ripreso ad abbuffarsi con i pasticcini di Karima, Bill si divincola dalla mia stretta con quello che non posso che registrare come un movimento estremamente infastidito. Infila il corridoio che porta alle camere da letto senza una parola. Io conosco il corpo di Bill a memoria e so leggerlo come una cartina. Dal momento che è una creatura complicatissima, l’analisi del suo corpo è l’unico modo che ho di capirlo davvero. E’ il suo libretto di istruzioni. Adesso cammina spedito, una gamba dietro l’altra a ritmo costante, lunghe falcate in linea retta, con le braccia strette ai fianchi in una posa stizzita. E’ furioso e tutta quella furia, che finora è rimasta pressata nel suo stomaco, finirà per essere liberata, percorrere a gran velocità la lunghezza esagerata del suo busto ed esplodere con un fragore assordante. Da quando deve trattenerle, le sue incazzature sono dieci volte più violente, funzionano come polvere da sparo caricata nel suo corpo come fosse un mortaio. Una principessa pericolosa.
Lo guardo storto anche se non può vedermi, questo perché sono esasperato. Lo sono ancora prima di cominciare questa discussione, lo sono pur sapendo che alla fine lo sarò ancora di più. Forse sono esasperato proprio perché so con certezza che mi manderà fuori dalla grazia di Dio. “Bill,” lo chiamo.
Mi ignora, ovviamente, come la diva che è. Spalanca la porta con più forza del necessario e la sento sbattere contro la mia cassettiera da molti, molti euro. Odio quando lo fa, e lui lo fa perché sa che lo odio. Lo seguo all’interno con un sospiro e mi chiudo la porta alle spalle dal momento che la mia crew è ancora tutta al piano di sotto e io non voglio che assistano alla piazzata. Una certa parte di me ci tiene a dare l’immagine che sia tutto perfetto, senza mai un litigio. Devono credere che io abbia tutto sotto controllo. Tutto sotto controllo un cazzo, con lui. Bill fa sempre quello che vuole. Come me.
“Bill, ti ho chiamato, mi pare,” ripeto. Faccio fatica a non mandarlo a quel paese già ora. Lui di nuovo non mi risponde e lo trovo di fronte al cassettone che si toglie i braccialetti con gesti secchi, quasi tirandoli sul pianale. Così me lo graffia.
“Intendi tornare a parlarmi, prima o poi?” Incrocio le braccia al petto.
Lui mi dedica un’espressione talmente altezzosa che potrei fargli del male se solo non fosse Bill. Tra le altre cose, lui sa perfettamente che le mani addosso non gliele metterei nemmeno se fossi costretto, per cui ci marcia sopra. Fa così lo stronzo solo con me.
“E cosa dovrebbe dire la donna del capo in questi casi?”
“Suppongo che la donna del capo abbia abbastanza cervello per saperlo da sé, cosa deve dire.”
“Non avresti dovuto trattarlo in quel modo,” sputa fuori.
Eccolo qui, il problema. Non che non lo sapessi, ma pensavo ci avrebbe girato intorno molto di più. Di solito si scazza per qualcosa ma sbotta per tutt’altro, finché dopo una sequela assurda di motivazioni fuori luogo, quella vera non salta fuori quasi per caso.
“Avrei dovuto lasciare che mi insultasse in casa mia?” Chiedo.
Appoggia una mano sul cassettone e smette di togliersi anelli e catene come se provasse per loro del disgusto incontrollato. “La tua reazione è stata assurda,” dice, guardandomi. “Sembrava uno di quegli stupidi film di mafia. Doveva essere una discussione di famiglia, accidenti!”
Ci risiamo. “I ragazzi sono famiglia qui, lo sai.”
“No!” Scuote il capo. “La mia famiglia, Anis! Io, te, mio fratello. I parenti. Questa famiglia!”
“Per me le due cose si equivalgono,” dico. “E’ come se fossero davvero miei fratelli.”
“Non cercare di darmela a bere!” Replica. “Non erano tuoi fratelli su quel divano, e tu lo sai. Li hai usati per darti importanza. Tom da solo e tu con tutti i tuoi.”
“Questo non è assolutamente vero,” dico. E’ una mezza verità.
Lui nemmeno mi ascolta, si pinza la radice del naso. “Io riesco a convincerlo a venire a conoscerti per dimostrargli che non sei un delinquente e tu ti presenti come il capobanda. Grazie mille!”
E’ chiaro che in una situazione di questo tipo, quell’angelo di suo fratello non ha alcuna colpa. Ho avuto molta pazienza con entrambi i ragazzini. Il mio perché era il mio. E l’altro perché era il suo, cazzo. E io questa cosa la odio. “Tuo fratello non è certo partito ben disposto, nei miei confronti,” ritorco. E mi rendo conto che può sembrare un po’ infantile ma non ne posso più. “Perché credi che si sia lasciato convincere a venire fino a qui? Per dirmi quello che poi mi ha detto, è ovvio!”
Scuote la testa incredulo e anche vagamente esasperato, cosa inaccettabile. Qui quello esasperato sono io. “Tu avresti dovuto passarci sopra, Anis! None eri tu quello maturo?”
“A lasciar correre coi ragazzini si ricavano solo guai.” E lui ne è una prova evidente. Non mi pento mai di averlo fatto entrare nella mia vita, tranne quando diventa così insopportabile. In questi casi tremendi la prima cosa che mi viene da chiedermi è perché quella sera, invece di buttare a terra tutti gli hamburger che aveva portato e stenderlo sul tavolo, non ho rimesso tutti i panini nella loro bella bustina e gliel’ho restituiti, parcheggiandolo sullo zerbino come ogni altra dannata sera prima di quella.
A volte penso che la mia sanità mentale dipenda da quel soffritto di Karima che non ho mai assaggiato.
“Quello non è un ragazzino a caso, Anis. E' mio fratello, e tu non lo fai buttare fuori di casa come uno stronzo qualunque, chiaro?”
Quando gli trovo questo tono in bocca mi sale il sangue al cervello. Io a Bill permetto quasi tutto ma non di dirmi come mi devo comportare. Con il sottoscritto è prendere o lasciare, non mi si cambia. “Quando smetterà di comportarsi come uno stronzo qualunque, forse!” Alzo la voce e al diavolo la discrezione.
Pianta le mani sui fianchi e mi guarda minaccioso. “Non alzare la voce con me!” E la alza anche lui. Qui finisce che ce le diamo di santa ragione, o che scopiamo. Una delle due.
Ringhio un po’ e poi mi rendo conto che Bill ha diciannove anni e di queste cose, per quanto io lo ami, non ha capito una sega finora e dubito la capirà mai. “Bill,” cerco di calmarmi e di spiegargli per la milionesima volta come e perché io mi comporti così. “Mi conosci. Sai come gira da queste parti. E conosci tuo fratello, sai che non potevo lasciare che facesse il bello e il cattivo tempo. Non con me, in casa mia.”
Ci sono volte in cui Bill arriva a comprendere.
“Non me ne frega niente se quel branco di scimmie di là in salotto capisce solo la legge della giungla. Mio fratello non rientra nel gioco.”
A volte proprio no.
TU rientri nel gioco. Quello che Tom vuole è che tu ne esca ed io non sono disposto a cedere sul punto.”
“Non sei tu che devi decidere, te ne rendi conto? Sono io. E decido da solo, grazie.”
Ci mancava solo il bisogno di autoaffermazione, come se già io e altri otto uomini adulti e, in gran parte, con la fedina penale sporca, non fossimo ai suoi piedi per qualsiasi cazzata. “Ogni decisione ha le sue conseguenze, Principessa. Se tu decidi di restare, resti alle mie regole. Lo sai.”
Bill apre la bocca e quindi la richiude subito dopo, segno inequivocabile che è già oltraggiato oltre i limiti del concepibile. Bill risponde sempre, se quando schiude le labbra non esce alcun suono significa che il suo cervello ha registrato determinate parole ma fatica a crederci e non riesce ad inviare parole utili in un tempo di risposta adeguato. Ha un momento di stasi, ma si riprende quasi subito. “Io non sono uno dei tuoi uomini, Anis! Tu con me questi discorsi non li fai. Ho accettato un sacco di cose, sono anche disposto a fare la bella statuina al tuo fianco ma c'è un limite a tutto e quel limite è mio fratello! Regole o non regole!”
Se non fossi così mostruosamente alterato da questo suo atteggiamento, dal fatto che dovrei dimostrarmi maturo e non mi riesce per niente e dall’idea che per quanto io urli e sbraiti suo fratello me lo ritroverò sempre intorno – e lo so che è così! -, se non ci fossero tutte queste incognite, troverei Bill delizioso. E’ in piedi di fronte al mobile, l’anca un po’ spostata, in quella posa che lo aiuta a darsi un tono alle volte, e agita entrambe le braccia in una maniera non propriamente aggraziata che lo rende molto tenero. E’ un cucciolo che ringhia e si prende molto sul serio.
Io però non gliela do vinta nemmeno se paga. “Non sei uno dei miei uomini, d'accordo, ma sfortunatamente per te, non sei nemmeno una donna, quindi in queste cose rientri per forza. Non posso trattarti come se fossi la mia ragazza, non posso sorriderti e dirti Ci penso io, amore. Sei un maschio. Ragiona coi maschi. Le regole si seguono.”
Sì irrita e si arruffa tutto. Sa che ho ragione su questo, che se ha deciso di protestare, deve farlo con raziocinio. Non può semplicemente pestare i piedi perché non lo ascolterò. Mi mostri delle ragioni valide, e forse ne riparleremo. Passare sopra le cazzate di suo fratello solo perché è suo fratello non esiste proprio.
“Tu e le tue dannate regole!” Sbotta. E’ furente. “Tratti Tom come se fosse uno dei tuoi stupidi nemici giurati! Con lui potresti piantarla di fare il gangster di strada e parlare come una persona normale. Che cazzo, se tu fossi venuto a parlare con lui e ti avesse fatto buttare fuori dalla security, non sarebbe stata una bella cosa ti pare? C'ero già io lì che stavo zitto per non contraddirti di fronte agli oranghi - sia mai che il tuo ragazzino passivo, e quindi checca, ti tenga i piedi in testa- non c'era alcun bisogno di trattare Tom in quel modo. La tua supremazia assoluta da vero uomo del ghetto c'ero già io a dimostrarla.”
Sbuffo una risata sarcastica. “Non mi pare che questo abbia impedito a tuo fratello di insultarmi, però. Come la mettiamo?” Non è una domanda, quindi non mi aspetto che risponda, non gliene do nemmeno il tempo. “O gli metti una museruola, oppure non so che farmene del tuo silenzio-assenso, Bill.”
“Di certo tu non mi aiuti comportandoti in questo modo!” Sbraita ancora, mentre prende a togliersi il giubbotto che indossa, gettandolo a caso per la stanza. Cosa, anche questa, che mi dà sui nervi. E lui lo sa. “Io passo settimane a dirgli che non sei pericoloso e tu fai scene del genere! Chissà perché mio fratello non mi crede, vero?”
“A me non frega assolutamente niente di quello che crede!” Gli faccio notare, intanto che mi siedo sul letto e sfilo le scarpe. “L’unica cosa che mi importa è che stia alla larga.”
“Questo te lo puoi scordare, Anis.” Osserva nello specchio difetti che non ha.
“Non era una richiesta.”
“E la mia è un’affermazione,” replica, tornando a guardarmi con quell’aria strafottente.
“Tuo fratello lo voglio fuori dalle palle, Bill,” chiarisco. “Non farti dire chiaro e tondo che questo è un ordine.”
Smette di tirarsi la pelle degli zigomi come una quarantenne e mi osserva a dir poco sconvolto. “Spero che tu stia scherzando.”
“Mai stato più serio.”
“Anis, tu non puoi chiedermi una cosa simile!”
Mi stringo nelle spalle e mi tolgo la camicia. Sono stanco, voglio dormire e se potessi chiudere la conversazione in questo preciso istante con uno schiocco di dita non vorrei nient’altro. “Come vedi lo sto facendo. Tanto, in ogni caso, che rapporti avete adesso? Vi vedete, lui mi insulta e tu torni qui. Fai un favore a tutti ed evita di andare da lui e basta.”
“Sto cercando di recuperarlo, il mio rapporto con Tom, in caso ti fosse sfuggito.” Lo vedo che si spoglia e decido di non guardarlo perché finisce sempre che mi distraggo e poi quel pigiama assassino mi manda sempre in confusione il cervello. Ripongo il mio braccialetto e l’orologio nel cassetto del comodino. “Non mi sembra ci sia un granché da recuperare.”
“Oh certo!” Il sibilo mi si conficca nella schiena, tra le scapole. “A te non interessa niente, ti basta aver ottenuto quello che volevi! Non ti passa per il cervello che possa tenerci, io, vero? Tutto quello che mi deve interessare sei tu e il cazzo di mondo in cui vivi!”
Mi giro di scatto e non mi trattengo dal lanciargli l’occhiata peggiore che mi possa venire. Adesso ho raggiunto il limite, seriamente. Se vogliamo parlare di chi ha perso, rischiato e ottenuto cosa, avrei un paio di cose da dirgli su di noi e su quello che ho fatto per tenerci in piedi. “Vogliamo fare il gioco del chi ha ottenuto quello che voleva, Bill? E’ questo che vuoi?” Abbaio. “Devo rifare il conto di quante volte ti ho chiesto di tornartene a casa e non entrarci, nel cazzo di mondo in cui vivo? Chi è che si è ostinato? Chi è che vedeva solo quello che voleva e non pensava a nient'altro?”
Lo vedo stringere pericolosamente le dita intorno alla spazzola. “Quindi adesso mi tieni qui solo perché ho insistito al punto di romperti le palle? E' questo che stai dicendo?”
“Ma certo Bill. Tanto presentarti ai miei amici e farti accettare da mezzo mondo era una cosa da niente, potevo pure farlo a tempo perso. In realtà di te non mi interessa niente, sei qui solo perché non ho avuto tempo di buttarti fuori,” ironizzo.
“Cretino,” borbotta, prendendo a spazzolarsi i capelli come se volesse strapparseli dalla testa.
“In questo casino ti ci sei voluto ficcare anche tu. Prova a negarlo se ci riesci.”
“Questo non-“
“E ora che ci sei, ci resti, perché a questo punto sono io quello che non vuole lasciarti andare.”
Non mi risponde. Sulla stanza cala il silenzio, interrotto solo da lui che si spazzola e da me che finisco di cambiarmi e appoggio le mie cose su una sedia.
“Non ho mai pensato di andarmene,” dice alla fine. “Ma non sceglierò tra te e mio fratello, Anis. Scordatelo.”
“Puoi fare quello che vuoi, ma io non tollererò più di averlo intorno, libero di dirmi ciò che mi ha detto oggi,” replico. “Sono stronzate.”
“Lo sa anche lui,” risponde. “E’ solo che non ha altro modo di reagire. E’ evidente che hai più potere tu, lui…è solo arrabbiato.”
Mi passo una mano sugli occhi. Voglio dormire. Voglio dormire e basta, cazzo. Con lui o senza di lui, a questo punto e in questo momento, non m’interessa proprio. “Sono arrabbiato anche io, ma per qualche strano motivo questo sembra sfuggirti. Tom non è un bambino di tre anni, che si arrabbia e allora tira i capelli agli altri bambini. Si atteggia da adulto, quindi lo tratterò come tale.”
Bill sbuffa. “Non ha veramente intenzione di denunciarti.”
“Probabilmente no, ma se continua così, finirà per sparare le solite cazzate in un posto in cui non può permetterselo. Quindi, dal momento che è il tuo adorato gemello, vedi di tenerlo alla larga.”
Bill fa un mezzo inchino sarcastico. “Sì, padrone.”
“Non mi serve che tu annuisca e poi continui a fare il cazzo che ti pare, Bill. Cerca di essere una persona matura.”
“Tu cerca di fare meno lo stronzo, e poi ne riparliamo.”
“Se volessi fare lo stronzo ti spedirei in camera degli ospiti,” sibilo. “Così ti chiariresti le idee.”
Sento la spazzola sfrecciarmi a due millimetri dall’orecchio e faccio di tutto per non far vedere la mia sorpresa. Non mi giro, decidendo di ignorare dove sia andata ad atterrare, fracassando qualcosa che è andato in mille pezzi. “Sei fuori?” Sbraito.
“No sei tu quello fuori! Sai cosa ti dico? Sono io che vado nella camera degli ospiti!” Replica stizzito.“Non ho nessuna intenzione di dormire con te! Mai più!”
I capelli li ha tirati indietro con la sua fascia e gli ricadono ai lati del viso. Ha un musino comico. Io però sono incazzato e devo decidermi a ricordarlo. “Vai dove cazzo ti pare Bill!” Replico. “Da tuo fratello magari!”
“Sarebbe sicuramente meglio di te!” Bercia, prima di chiudersi la porta alle spalle con uno schianto.
Mi faccio prendere da uno scatto d’ira e con un gesto butto giù tutto quello che c’è sul comodino, per poi prenderlo a calci. Devo sfogarmi o finirò per tirargli davvero due ceffoni.
Come se potessi.

*



Anis è un cretino.
Anzi è più di un cretino, è un deficiente. Un deficiente stratosferico. Prepotente, egoista, supponente, arrogante e stronzo. Stronzo un sacco. Tom aveva ragione e io sono stato un imbecille a stargli dietro finora. Uno si sforza di capirci qualcosa qua dentro, che dovrebbero essere tutti cantanti e invece non ce n’è uno che lo faccia, e si sparano addosso. E l’onore. E le regole. Se sento un’altra volta la parola regole ammazzo qualcosa. Mi parla di regole! Lui che non le segue mai! Vogliamo parlare di regole quando decide anche per me senza consultarmi? Quando mi mette le mani addosso mentre dormo – e sì che gliel’ho detto un milione di volte che deve dirmelo prima. Le regole per lui non esistono, esistono solo per gli altri. E io non lo guarderò mai più per tutta la vita. Il sottoscritto se lo può scordare, da qui in avanti. Mai più, anche tornasse strisciando. E siccome lo so che Anis non striscia, allora non ci vedremo mai più. Da domani in poi. Torno da Tomi, e poi lo vedremo. Cretino.
Col cavolo che dormo con lui – che poi dormire con lui significa quasi sempre fare l’amore con lui. Che ci pensi da solo il grand’uomo del ghetto! Dormo nella camera degli ospiti. Sono pure uscito senza il cuscino, e ho su soltanto il pigiama bianco che è meraviglioso ma è trasparente, tipo.
E ci sono quelli, giù. ‘Fanculo!
Svolto l’angolo per scendere le scale perché, tra le altre amorevoli cose, la camera degli ospiti sta pure al piano di sotto, e mi scontro con Eko che deve aver, tipo, svuotato la dispensa perché ha in mano un panino che pesa quanto me, imbottito di prosciutto fino ad esplodere. “Frinshifeffa?” Mi chiede con la bocca piena.
“Eko, tu cosa diavolo ci fai qui?” Che poi lo so cosa ci fa qui. Ci fa che si accampano sempre in salotto, nemmeno fosse casa loro.
Lui si sfila il panino di bocca e non cambia espressione che, nel suo caso, significa guardarmi con due occhi rotondi come palline da golf. Lui, fra tutti, è quello che ho capito meno; in particolare non ho capito se c’è o ci fa, e cosa ne pensa di me, questo qui. Se non altro con Saad e Nyze è facile: non mi possono vedere e non si preoccupano di nascondermelo. Ma Eko? Si comporta come se non fosse mai nella stanza in cui si trova fisicamente. A volte non ho capito nemmeno se si è accorto che esisto.
“Stavamo mangiando qualcosa coi ragazzi,” mi dice. “Sono avanzati dei pasticcini. Tu, piuttosto, perché vai in giro nudo.”
“I ragazzi? Dico ma non ce l’avete una casa voi?” Replico. “E comunque non sono nudo, ho su il pigiama.”
Il pigiama me lo sono regalato da solo due mesi fa. Costa un occhio della testa ed è praticamente fatto di niente. Lo tengo da Anis, come un mucchio di altri vestiti. Il suo era un armadio perfettamente in ordine prima che decidessi di colonizzarne uno sportello con la mia roba. D’altronde non faccio che fare avanti e indietro da questa casa, non posso mica sempre portarmi le valige.
“Ma è tipo trasparente,” commenta Eko, con un notevole slancio di entusiasmo. Mi guarda e non so cosa stia vedendo. Sembra più sorpreso dal fatto che la stoffa è effettivamente trasparente piuttosto che dal mio ombelico che s’intravede. “Comunque tiriamo fino a tardi, Atze ci lascia fare… anzi, lo hai visto per caso?”
Questo è esattamente quello che intendevo, Eko sembra analizzare le situazioni che lo circondano con un metro tutto suo, che prende in considerazione solo certi dettagli e non altri che, per dire, sarebbero anche più logici ed evidenti per il resto del mondo. Io vivo praticamente qui, anche se non ufficialmente. Io e Anis siamo stati in camera negli ultimi quaranta minuti. Non è che passavo di qui per caso, cristo, è il mio uomo. E questa è una casa. E sono le una. L’avrò visto, ti pare? Dove vuoi che fosse se non in camera? Con me. Magari dovreste pure togliervi di torno, concederci privacy. E io sto parlando con Eko senza dirglielo da almeno mezz’ora. “Sì, è in camera il tuo Atze,” borbotto, incrociando le braccia. Quindi sospiro perché continua a fissarmi. “Eko ti dispiace smetterla di fissarmi? Cos’è, non hai mai visto un uomo nudo?”
Lui mi guarda sempre con quegli occhi a palla. “Beh, sì. Mio fratello quando facevamo la doccia insieme perché mancava l’acqua ma che c’entra? Tu non sei mio fratello,” mi fa notare. “Sei…”
“E’ meglio se non lo dici.”
“Non lo dico,” concorda lui. “Ma vai sempre a dormire così?”
“Beh, no. Ho anche altri pigiami-EKO!” Faccio un passo indietro e lui lascia andare l’orlo del pigiama che aveva preso con due dita e sollevato. Mi guarda come se non avesse fatto niente di sconveniente e io avessi urlato per nulla.
“Che c’è!” Mi dice infatti. “Sei tu che appari nel corridoio, seminudo e all’improvviso. Dov’è che stai andando? Ti serve qualcuno?”
Le domande me le fa una dietro l’altra, con lo stesso tono e un po’ credo di sapere da dove vengano. Qualcuno deve avergli detto come trattare con me perché, altrimenti, lui non è capace. Non ha ancora capito che cosa sono, figuriamoci se sa come comportarsi. Così adesso che ha visto che vago per i corridoi – sperduto, ai suoi occhi – ha pensato bene di informarsi, casomai la sua persona servisse a qualcosa.
“Sto andando nella camera degli ospiti,” dico un po’ mogio.
“E perché?” Mi solleva di fronte agli occhi quel panino assurdo. “Vuoi un pezzo? Ho preso solo roba non scaduta.” E vorrei vedere che ci fosse qualcosa di scaduto con Karima in casa. Quella è capace di tirarti scemo a furia di chiacchiere se trova anche solo un limone un po’ marcito nel cassetto del frigo.
Scuoto la testa e lui riprende a mangiare, stringendosi nelle spalle. “Perché il tuo capo è stronzo,” rispondo, invece, all’altra domanda. “Ecco perché.”
“Che cos’ha fatto?”
Sospiro e quindi mi siedo su una delle sedie imbottite che sono appoggiate al muro lungo il corridoio. Mi stringo nelle spalle mentre Eko mi staziona davanti. “Secondo te?”
“E’ per quello che abbiamo fatto a tuo fratello? Guarda che Chaku gli ha dato solo un buffetto, eh,” mi assicura, ingoiando pezzi di panino grossi come la sua testa. “Lo ha portato solo fuori di casa, sullo zerbino proprio. Non gli ha fatto niente.”
“Non è questo il punto,” sbuffo. “E’ il principio che ci sta dietro che è sbagliato.”
“Quale principio?” Mastica lui, beato. “Quello per cui Atze non ti toglie le mani di dosso nemmeno se gli sparano?”
“Certo che no! Si può sapere di cosa parlate voialtri quando non possiamo sentirvi?” Lo guardo un po’ storto. “Comunque mi riferivo al fatto che ha trattato Tom come il peggiore dei suoi nemici…. Fler, tipo.”
Eko ridacchia e si scuote tutto. “Spero che tu non lo abbia nominato di fronte a lui. Comunque, secondo me, stai un po’ esagerando. E’ stato solo un po’ severo.” Tira fuori una fetta di formaggio e me la sventola davanti. “Sicuro di non volere?”
“Dio no… mi sta salendo la nausea.”
“Comunque, è tutto qui il problema?” Riprende lui, peraltro pulendosi con la manica. “Che è stato severo con tuo fratello?”
“Non è stato severo,” puntualizzo. “E’ stato una specie di capomafia. E voi tutti dietro come cagnolini.”
Eko mi guarda come uno che sa tutto e deve spiegare questo tutto ad uno che non sa nulla, cioè io. E’ la stessa espressione di Bushido ma, a differenza di Anis, Eko sembra farlo controvoglia. “Dovevamo soltanto mettergli un po’ di strizza, al Principino.”
“P-principino?”
Eko sbuffa, evidentemente convinto di dovermi spiegare anche quello. “Visto che tu sei la Principessa, lui è il Principino, capito?”
Penso che mio fratello ammazzerebbe qualcuno – un bambino, un gatto, Eko… - se lo venisse a sapere. Non solo il nome non è virile per niente ma gliel’hanno dato solo in funzione del sottoscritto, donna del capomafia, praticamente l’onta massima. Mi immagino la faccia che farebbe, davvero, a sentirsi chiamare così e mi viene da ridere. Eko mi guarda un po’ confuso. “Che cos’altro non so?” Chiedo divertito.
“Beh, così su due piedi non saprei,” riflette Eko. “Lo sapevi che sfottiamo Bushido continuamente su chi porti i pantaloni fra voi due, sì?”
“Ah sì?” Sorrido compiaciuto. In questo preciso momento di rabbia verso quell’uomo che non mi avrà mai più nel suo letto, sento le campane per una rivelazione del genere.
“Sì, perché è piuttosto palese che quello mica ragiona quando ci sei di mezzo tu.”
Lo guardo scettico. “Ti assicuro che ragiona anche troppo,” borbotto, giocando con le dita. “Non fa che dare ordini.”
Eko annuisce come se sapesse di cosa sto parlando ma con lui non sono troppo sicuro che lo sappia davvero. Annuisce un po’ sempre lui. “E’ solo che è un tipo dispotico,” decreta. “E poi ha paura del Principino, devi tenere conto di questo.”
“Come scusa?”
“Ma sì,” mi liquida, come fosse una cosa da niente. “Questa cosa che siete legati, voi due gemelli; che non è come avere un fratello… è come avere tipo, un’anima gemella. E a lui questa cosa gli rode. E poi c’è anche che all’altro Kaulitz piace l’Aggro Berlin. Anche questo lo devi tenere in conto, Principessa, mica puoi pensare di non pensarci. Capito?”
Ho capito che Eko non si sa esprimere e non so come sia arrivato all’età che ha. In ogni caso quello che ha detto getta una nuova luce sulla questione. Improvvisamente scopro che Anis non è così palese come mi sembrava, che il suo cervello è capace di giri mentali contorti quanto i miei. “Quindi è per questo che si comporta così? Perché…è geloso?”
“Non è geloso, Principessa, gli girano le palle.”
“Perché è geloso,” insisto.
“Tu non lo dire mai, questo,” commenta lui, annuendo saggiamente. “Dai retta ad Eko. Comunque, gli girano le palle, ha paura che tu prenda e te ne torni da tuo fratello, che manco fosse tua madre, dico io!”
Sono senza parole. Bushido si pone in maniera molto epica col mondo, quindi tu ti aspetti che sia una persona epica, e abbia problemi epici. E invece no, col cazzo. E’ rimasto a Templehof, quando aveva quindici anni. “Mi pare giusto, da parte sua, comportarsi così e trattare male Tom, così starò sicuramente con lui. Che bambino!” Borbotto, per altro alzandomi e costringendo Eko ad andare a ruminare quattro passi indietro. “Siete tutti dei bambini!”
“Siamo maschi, ragioniamo a livello base,” mi dice candido, come se io non fossi un maschio. E a questo punto credo che sia convinto che non lo sono. Eko è meraviglioso, in questo senso, il mondo può girare per un certo verso e lui sarà comunque fuori dall’asse di rotazione. E senza un problema, anche.
“No, siete maschi col cervello di un bambino di cinque anni! Vi arruffate tutti per delle cazzate immani e poi fate le stronzate! E quel cretino del tuo capo mi ha praticamente buttato fuori di camera per far cosa poi? Lo sai cosa starà facendo adesso?”
Mi sgrana tanto d’occhi. “No, non ho idea di cosa faccia Bushido a letto.”
“Beh, sta borbottando! Sta borbottando perché aveva dei piani e se li è rovinati da solo,” replico, agitando le mani.
Eko va nel panico. Mi mette il panino davanti e con l’altra mano si copre un orecchio. “Okay, alt! Fermo! I piani di Bushido non mi interessano.”
“Eko, calmati. Non avevo alcuna intenzione di metterti al corrente della mia vita sessuale…”
“Sempre meglio specificare.”
“…che comunque, per la cronaca, prima di questa storia era ricca e godeva di ottima salute.”
“Principessa!” Sbraita lui, coprendosi l’altro orecchio col panino. “No, no, no! Di quello che fai, se lo fai, non voglio sapere niente. E’ roba tua… quella roba lì che fa te voi. Niente confessioni.”
Rido un po’, perché è terrorizzato dal sottoscritto impegnato a copulare con il suo capo. “Non preoccuparti, quelle toccano a Chakuza,” rispondo. In realtà mi è capitato una volta sola di uscirmene fuori con Chakuza riguardo ad una mia serata con Anis e non so nemmeno bene per quale motivo. Ricordo solo l’imbarazzo di quell’uomo che finge di non trovare niente di strano in quello che gli sto dicendo.
“Non lo invidio per niente,” commenta Eko.”Io comunque adesso scendo.” Fa un pausa come a valutare la situazione. “Vuoi che ti accompagni in camera degli ospiti?”
Che è solo al piano di sotto, lo ricordiamo. Dubito che mi possano assalire. “No, grazie,” sorrido. “Penso di aver cambiato idea.”
“Contento tu, Principessa,” si stringe nelle spalle, mentre infila le scale. “’Notte!”
“Buonanotte Eko e…” si ferma sulle scale e si gira, invitandomi a continuare. “Non fate troppa confusione, va bene? Sto per farci pace.”
Eko rimane immobile, ma proprio fisso, come morto. E mi guarda con l’occhio da gufo. “Pace pace,” mi chiede con cautela, “oppure pace.”
“Pace.” Tiro fuori la lingua. “Almeno credo.”
Eko annuisce, ma guarda un punto imprecisato sopra la mia spalla, sembra in stato confusionale. “Raduno gli altri. Aspetta dieci minuti, okay?” Fa per riprendere a scendere le scale ma torna indietro e questa volta mi guarda. “Dieci minuti, davvero. Non iniziare, capito? Niente… pace mentre io sono qui. Ho sentito troppa pace in questi mesi.”
Rido mentre lo sento buttare gli altri fuori di casa a forza di urla isteriche.

*


Sto scarabocchiando frasi senza senso da un tempo interminabile. In realtà non saranno che venti minuti ma sono passati lentissimi da quando la porta ha sbattuto e io gli ho gridato dietro di andare da suo fratello. In realtà so che se davvero salisse in macchina e raggiungesse Tom, probabilmente darei di matto. La sola idea che possa farlo sul serio - decidere che pretendo troppo e tornare da suo fratello, dico - mi manda nel panico perché non posso davvero prevedere le decisioni di Bill quando si tratta di Tom. I parametri che lo riguardano sono tutti sballati. Io sono certo di venire prima di qualunque cosa nella vita di Bill. Qualunque cosa, tranne Tom. E il dubbio che sia davvero così mi irrita in maniera inconcepibile.
La porta si apre e, un attimo dopo, Bill ci è appoggiato contro, le mani ripiegate dietro la schiena. Abbasso lo sguardo quasi subito, non voglio dargli attenzione. “Sei ancora qui?” Chiedo gelido, continuando a scrivere.
Anche senza guardarlo so che si è irrigidito. Bill non è abituato a sentirsi trattato con freddezza dal sottoscritto; io sono caldo con lui. Gli sono sempre addosso, non lo allontano mai, nemmeno quando invece dovrei. Quindi sta male se per caso sorge un muro tra me e lui.
“Possiamo… parlarne ancora un po’?” Lo sento tentennare.
“E per dire cosa?” Sollevo gli occhi dal mio foglio e lo trovo tutto stretto nelle spalle, che gioca con le dita dei piedi sul pavimento. E’ fin troppo tenero per quanto è lungo. “Mi sembra che non ci sia altro da aggiungere.”
Si stacca dalla porta e raggiunge i piedi del letto. “Posso?” Mi chiede, incerto.
Questa è la parte delle litigate che odio di più, quando Bill si sente rifiutato e torna a chiedermi il permesso per cose per le quali non dovrebbe mai chiederlo. Lui non vive qui, ma è come se fosse casa sua. Non dovrebbe farmi domande simili, è come sentirlo fare un passo indietro. “E’ anche il tuo letto,” gli ricordo. Come mi è venuto in mente di spedirlo in un’altra stanza. In un’altra casa. Da un’altra persona?
Si arrampica sul letto e poi si appallottola seduto contro la testiera. Si dondola un po’ e rimane in silenzio, io mi rimetto a scarabocchiare in attesa che si decida a dire o fare qualcosa. “Non…” inizia alla fine. Io lo guardo e lui sta seguendo con le dita il disegno del piumone. “Non devi pensare che io voglia andarmene,” dice alla fine, incontrando il mio sguardo.
Stavo pensando esattamente questo ma ovviamente non glielo dico. Mi limito ad emettere un mugugnio indistinto, con un cenno veloce del capo.
“Non voglio scegliere tra te e lui,” insiste.
Quando pronuncia quelle parole, mi sale di nuovo la rabbia. Tom non c’entra niente fra me e lui, per la miseria, dovrebbe fare il fratello, non il fidanzato abbandonato. La verità è che sono stati troppo attaccati quei due, finora, e questo è male. Molto male. L’ossessione di Tom per suo fratello sfiora quasi la malattia. “Non sopporto che lui ci metta in discussione,” sputo fuori alla fine, perché non ce la faccio più a trattenermi. Sospiro. “Noi non siamo in discussione, vero?”
Bill scuote la testa e il peso nel mio stomaco un po’ si alleggerisce. “Lui può dire quello che vuole, ma io non cambierò idea. Non l’ho mai neanche pensato.”
Mi allungo ad afferrargli la mano e lascio scorrere le dita tra le sue, intrecciandole. “D’accordo,” sospiro. E non so se di sollievo o rassegnazione per quella che non è una sicurezza nemmeno a parlarne.
“Tu però,” dice subito lui, infatti. “Dovresti cercare di non prendertela. Per Tomi è stato un trauma e io gli manco in un modo che non puoi capire.” Fa un mezzo sorriso triste. “E lui manca a me.”
Mi chiedo vagamente che cosa questo significhi. A volte mi sembra di non aver strappato Bill al suo mondo, ma di averlo strappato via da qualcosa di ben più profondo. Questo legame gemellare ha una forza che non comprendo, e la vedo negli occhi di Bill quando dice cose simili. Non gli ho impedito di vedere suo fratello, lavorano insieme, sta più con lui che con me… eppure gli manca. Non riesco ad immaginare come potessero essere più vicini di così, prima.
“Ci proverò,” lo accontento alla fine. “Ma è difficile non prendersela quando viene in casa mia ad insultarmi, ti pare?”
Bill sorride. “Hai messo le mani su suo fratello, è un’onta che va lavata col sangue.”
”Veramente sei tu che le hai messe addosso a me, se non ricordo male.”
Lui tira su il nasino e si dà un’aria tutta compunta. “Che discorsi, tu sei l’uomo maturo e io il ragazzino che ha 11 anni meno di te. E’ ovvio che sia tu il maniaco,” poi scoppia a ridere. “Ricordati che gli ho detto che ero gay e che venivo a letto con te nello stesso giorno. Non ha ancora superato il primo trauma, figurati il secondo...”
Mi sarebbe piaciuto essere presente quando Bill ha smontato suo fratello con una semplice abile mossa. Se mi avesse consultato prima, forse, suo fratello non avrebbe distrutto la mia intera discografia e anche qualche disco che con me non c’entrava niente ma c’è andato di mezzo comunque. “E va bene,” sospiro alla fine. D’altronde con i ragazzini non puoi fare altro. Sono ragazzini. “Facciamo, però, che per un po’ tu non me lo porti davanti e magari con il tempo la cosa migliora. Poi vedremo più avanti, che ne dici?”
Bill annuisce immediatamente, agitando la testolina. I capelli gli si muovono appena, sulle spalle. E quella fascetta che tiene dietro le orecchie a sventola mi manderà ai pazzi. “Allora dormi qui, stanotte?”
“Vuoi che dorma qui, stanotte?” Chiede con gli occhioni.
Stanotte, domani. E per tutta la vita, credo. Lo afferro per la nuca e me lo trascino contro, baciandolo piano. Bill sorride e schiaccia il naso contro il mio, la sua risatina è una di quelle leggere.
Mi lascio andare sul materasso e lui si distende con me, accoccolandosi nell’incavo del mio braccio. “Quelli sono ancora di sotto a brutalizzare il mio frigorifero?”
“Sì. Ho incontrato Eko nel corridoio,” risponde.
“Non c’è mai verso di stare tranquilli in questa casa,” borbotto e faccio per alzarmi. “Devono capire che devono smetterla di accamparsi qui le ore. Voglio un po’ di privacy...”
“No aspetta, lasciali stare!” Bill mi arpiona le spalle e mi tira giù. Mi bacia e come al solito mi perdo nella morbidezza della sua lingua sulla mia. Parla piano, lo sento appena. “Non danno fastidio.”
Disegno con il naso il suo profilo e poi lo bacio di nuovo. “Ai tuoi ordini, Principessa.”
Bill socchiude gli occhi, il brivido che lo percorre lo sento sulla pelle e capisco che non sono l’unico che sta pensando di fare altro. Gli scivolo addosso e lui si sistema sotto di me in un attimo, il movimento collaudato delle nostre notti insieme. “Eko mi ha chiesto dov’eri,” mi espira tra le labbra.
“E tu cosa gli hai detto?” Rispondo ma non me ne frega niente. Fingiamo ancora che non stiamo per fare l’amore. Gli bacio uno zigomo e la guancia prima di tornare a baciarlo sulle labbra ancora una volta.
”… che stavi borbottando perché i tuoi piani erano andati in fumo,” risponde, inarcandosi per strusciarsi contro di me. Mugola perché lo tengo giù. Troppa fretta, amore.
Un po’ rido e catturo le sue labbra, mordendo quello inferiore. “Si vede che mi conosci bene.”
”Hai sempre un solo piano tu!” Protesta lui, ad occhi chiusi. I baci che gli do li mugola tutti, uno per uno. E ogni volta che mugola lo bacio di nuovo.
Intrufolo una mano sotto la maglia del suo pigiama che è qualcosa di scandaloso. La stoffa è leggerissima e quasi trasparente, quando si muove si modella sul suo corpo e si vede qualunque cosa. “…Dio, questo pigiama,” mormoro mentre le mie dita gli stringono forte un fianco e affondo le labbra nell’incavo del suo collo per sentire il respiro che aumenta.
“Ce l’avete tutti col mio pigiama,” ridacchia lui e di nuovo si spinge in alto, ma lo tengo giù.
“Tutti chi?” Sollevo la testa di scatto, aggrottando la fronte.
Lui apre gli occhi e mi guarda un po’ confuso. “Beh, Eko…” risponde. “Me lo ha visto addosso prima, nel corridoio.”
Io coscientemente so che Eko non è una minaccia in questo senso, però mi irrita l’idea che abbia visto il pigiama addosso a Bill; che poi, dal momento che il pigiama è questo, significa aver visto Bill, così com’è. Tutto. Le spalle, la curva appena accennata dei fianchi, il pancino rotondo. Lo tocco mentre penso a tutte le cose che Eko deve aver intuito sotto questo pigiama.
“Non ha fatto niente,” dice subito Bill, che mi capisce sempre al volo. “Era solo stupito che me ne andassi a letto così.
Mi bacia e le sue labbra mi aiutano a dimenticare l’irritazione. La cancellano, a dire il vero, perché Eko può aver intravisto la sua pelle sotto la stoffa, ma sono io quello che sfiora e bacia e preme tra le sue gambe adesso. “Ha ragione, in effetti è indecente,” gli soffio sull’ombelico, su quel triangolo di pelle lasciato scoperto da un bottone slacciato di proposito. “… che tu ce l’abbia ancora addosso dico.”
“Chi doveva togliermelo non lo ha fatto.”
Mi presenta l’ombelico che mi batte sulle labbra e io sorrido, baciandolo piano. “Ma Principessa, sei grande ormai,” dico, risalendo il suo corpo molto lentamente. “Saprai spogliarti da solo, no?”
Solleva il bacino e io allontano il mio, con un ghigno.
“E’ più bello quando lo fai tu,” protesta.
“E non posso avere neanche un po’ di spettacolo?” Lo bacio e continuo a stare abbastanza sollevato perché lui non possa strusciarsi. Mugola frustrato.
“Per te c’è tutto il dopo,” offre con un soffio mentre lo bacio ancora.
Mi getta le braccia al collo e mi accarezza la nuca mentre il bacio si fa più urgente e più profondo, e per un attimo perdo anche il filo di quello che sto facendo.
“Anis…”
”Se vuoi che ti spogli, devi dirlo.”
“Spogliami.” Lo dice immediatamente, guardandomi dritto negli occhi con la voglia che era appena sotto la superficie un attimo fa e che ora gli scurisce le iridi e gli affretta il respiro.
La maglia mi rimane in mano dopo due bottoni. Bill ne scivola fuori facilmente, tornando a baciarmi l’attimo dopo che l’ho lasciata cadere per terra. “Anche questi?” Chiedo, lento e irritante, artigliando l’elastico dei pantaloni.
“Togli tutto!”
“Agli ordini,” sorrido e finisco di spogliarlo. Rimango incantato a fissare il suo corpo che non mi stanco mai di guardare, anche se lo so a memoria. Anche se è mio, come tutto il resto.
E’ Bill a trascinarmi di nuovo su di sé e questa volta non gli nego niente. Si spinge contro di me con un mugolio compiaciuto e per un po’assecondo i suoi movimenti, solo per vederlo reclinare la testa e mordersi un labbro.
Ci baciamo e non so se capita perché abbiamo bisogno di mordere qualcosa o perché non possiamo stare troppo a lungo senza farlo. Bill continua a muoversi, ha le braccia mollemente appoggiate ai cuscini ed è straordinariamente bello, adesso. E’ bello perché è abbandonato ed è bello perché è mio, senza che quasi lo tocchi.
“Hai deciso di non fare proprio niente?” Gli sussurro, baciandolo sulle labbra.
Lui non apre gli occhi e sorride. “Ho voglia di fare la Principessa,” risponde. Poi le sue dita mi tirano giù ancora una volta, finché non mi chiude i denti intorno al lobo e sospira. “E voglio che tu mi faccia urlare un po’, così mi sentiranno se sono ancora qui.”
Ringhio e mi abbasso a toccarlo tra le gambe. La sua voce si scioglie in un sospiro soddisfatto. Fa posto al mio corpo e mi cerca con le mani e con le labbra. Per un po’ non c’è nient’altro che lui che si muove e preme contro le mie dita e la sua lingua che accarezza la mia con desiderio. Anche il mio respiro si è fatto corto, ogni volta che si struscia contro di me perdo un po’ di lucidità. Gli mordo il collo piano, la sua pelle è umida dei baci che gli ho dato. “Ti farò urlare,” prometto, “ma tu pensa a recuperare quello che ci serve.”
Lo vedo che si scuote dal torpore e allunga un braccio ma non ci arriva. E’ disteso proprio al centro del letto e il comodino – col suo cassetto – è troppo lontano. “Aspetta,” si divincola. Scivola dalla mia stretta e gattona verso il bordo del letto.
Io mi ritrovo la forma rotonda del suo sedere davanti al viso – quel culo da ragazzina! Come gli dico quando voglio prenderlo in giro – e non resisto a chinarmi e lasciare un bacio su una delle natiche.
“Ehi!” Arriva la sua risata, accompagnata dal rumore delle cianfrusaglie che sta scostando. “Sono impegnato in una ricerca seria, qui!”
Mi spoglio per fare prima. “Dimmi che Karima non c’ha rimesso le mani.” Lo fa di continuo. Apre, asporta preservativi e lubrificante, quindi richiude senza colpo ferire. Il tutto nella speranza che l’incredibile peccato di sodomia che si compie tra le mura di questa casa non si compia mai più.
“C’è un casino…”
Gli scivolo addosso e mi stringo a lui in modo che mi senta. M’intrufolo tra le sue gambe, una mano che scivola sulla sua pancia e riprende da dove avevamo interrotto. Non credo di poter aspettare ancora a lungo. “Non puoi lasciar perdere?” Gli sussurro in un orecchio. Lui si spinge indietro ma il versetto che fa non è convinto. Mi spingo appena, premendo solo vagamente. “Dai…” cerco di convincerlo. Adesso che ho avuto l’idea, non voglio nient’altro. “Faccio piano, promesso.” Lo accarezzo ancora e lo stringo fra le dita. Lui mugola ed espone il collo ai miei morsi. “E’ un po’ che non ti sento senza niente in mezzo, piccolo.” Lo lecco così lentamente che rabbrividisce, finché non lo bacio dietro l’orecchio “Hm?”
Deglutisce e chiude gli occhi. “Okay…”
Annuisce e si lascia stendere sulla schiena. M’inumidisco le dita e lui mi guarda ipnotizzato mentre scivolo tra le sue gambe. Punta i piedi sul materasso quando entro in lui con il medio soltanto e io trattengo i suoi gemiti tra le labbra mentre lo muovo.
E’ rigido e in tensione, così riprendo ad accarezzarlo per distrarlo. Il secondo dito scivola dietro al primo e i suoi gemiti si fanno più forti e meno dolorosi. “Bill?” Gli sussurro piano all’orecchio.
Scuote la testa. “Aspetta… soltanto un po’.”
Potrei morire ma è lui che comanda. Così stringo i denti e mi concentro su di lui e non sul mio corpo del quale sto palesemente perdendo il controllo. Bill ha le gambe divaricate, per me e per le mie mani, e la testa gettata all’indietro mentre artiglia la coperta tra le dita. Il suo bacino segue i movimenti del mio polso e non aspetto altro che lo dica. Amore, dillo, per favore.
“Anis…”
Scivolo tra le sue gambe prima che abbia finito di pronunciare il mio nome. E solo dopo ricordo di cercare sul suo viso un cenno d’assenso che arriva, anche se leggerissimo. “Fermami se non va più bene, d’accordo?” Sussurro contro il suo orecchio mentre premo piano contro di lui.
Anche se non so se riuscirei davvero a fermarmi perché è caldo e morbido e stretto. Ed è Bill, qui. Per me e con me. Non so se mi fermerei. Non ho un solo pensiero razionale da quando sono affondato in lui, l’unica cosa che so è che è bellissimo. Ogni volta. “Cristo, Bill… sei…”
Non lo so che cos’è. Volevo solo renderlo partecipe, dirgli che è dannatamente bello averlo così e fra qualche secondo mi ricorderò che vorrei lo fosse anche per lui. Solo qualche secondo.
Lo bacio, perché non trovo le parole, e lui si attacca disperatamente a quel bacio, mi artiglia le spalle mentre entro in lui. Il suo respiro affannoso e il mio ansimante sono tutto ciò che sento al momento.
La sensazione è troppo forte, perdo il controllo, e la prima spinta e un po’ troppo violenta. Lo sento gemere. “Scusami,” lo bacio. “Stare fermo è impossibile.”
Stringiamo i denti entrambi, solo che i suoi occhi, a differenza dei miei, sono pieni di lacrime. “Lo so,” mormoro accarezzandogli i capelli. “Vuoi che mi fermi?”
Ti prego, non mi dire di no.
Lui però scuote la testa, così abbasso una mano ad accarezzarlo. “Fammi sentire la voce, piccolo, “ sussurro e cerco di calmarlo, cerco di farlo concentrare su qualcos’altro e non sul dolore che gli sto provocando. Speravo fosse più semplice, non è la prima volta. E’ la prima dopo tanto tempo, ma pensavo che non avrei visto le lacrime. Odio vederlo piangere per una cosa che a me fa stare così bene.
Lui grida, ancora indeciso tra il piacere il dolore. Il mio nome gli esce strozzato dalla gola tesa.
“Mi fai impazzire,” la verità che c’è in questo sussurro gliela lascio scivolare umida nell’orecchio e lungo il collo. Le mie spinte si fanno più forti, ma lui sta cedendo intorno a me e vedo il suo viso rilassarsi. “Ancora…”
Questa volta grida forte. Il mio nome si schianta contro il soffitto e lui si aggrappa a me e punta di nuovo i piedi sul materasso, mi viene incontro e io posso godermi il suo corpo senza sentirmi in colpa.
Il dolore gli abbandona il viso velocemente, più veloce ad ogni spinta, e non rimangono che i suoi gemiti contro la mia bocca che non riesce più a fare a meno della sua.
L’ultima carezza e mi viene tra le dita, caldo e umido come i suoi baci. Lo seguo l’attimo successivo e una parte di me lo sente più mio del solito, perché lo sto toccando di più e perché adesso sono in lui più di quanto sia mai stato prima.
Il silenzio che segue dura un tempo che non so quantificare. Io devo ritrovare la testa che ho perso e lui il fiato che gli mancava già qualche minuto fa. Mi accascio sulla sua spalla e quando poso un bacio sulla sua pelle accaldata lo sento ridere.
"Va tutto bene?" Ed è lui a dirlo, non io.
Mi sollevo a guardarlo e lo bacio di nuovo. "Non ne uscirei più, potendo."
Lui intreccia le caviglie "Beh, resta ancora un po', allora."
Rotolo sul letto e me lo porto dietro, stringendomelo addosso. "Di certo non vado giù a controllare che se ne siano andati," commento. In realtà credo che non ci sia più nessuno. La mandria se ne sarà andata al primo gemito. Meglio così.
Bill si muove, tra le mie braccia, e la smorfia che ha sul viso mi ricorda che ho delle responsabilità stasera. "Fa male?"
"Vuoi la risposta vera o quella diplomatica?"
Sorrido. "Dimmele tutte e due e poi deciderò quale tenere a mente."
Mi tira un pugno su una spalla. "Stronzo," commenta. "Comunque, nell'ordine, fà malissimo e non preoccuparti, Amore."
Gli prendo il mento e lo bacio con dolcezza. "Mi dispiace."
"Sei un uomo impegnativo," sospira. "Impegnativo e ingombrante."
"Non è sempre un male, no?" Lo guardo allusivo.
L'occhiata velenosa che mi lancia è troppo bella per non ridere. Alla fine, scoppia a ridere anche lui e poi mi bacia il petto, rannicchiandosi con uno sbadiglio che lo scuote tutto. Tra meno di un anno, qualcuno mi sparerà due colpi e morirò.
Nel preciso istante in cui uno dei proiettili mi trapasserà il fegato, ogni cosa perderà importanza. Le litigate, la mia crew, Tom che ci ha reso la vita un inferno.
Tutto ciò che conterà, allora, sarà ciò che stringo tra queste coperte adesso.
Ma lo capirò davvero solo insieme a quel proiettile.

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I Will

di tabata e lisachan
Ci sono dei momenti in cui Bill è bellissimo. Sono momenti molto precisi e specifici, perché Bill è generalmente bello, ma in quei determinati istanti splende. Quando è felice di vedermi, per esempio. Capita si passi settimane intere senza poter fare altro che sentirsi al telefono, e quando finalmente riusciamo a metterci le mani addosso sul suo viso si apre un sorriso così enorme che lui sembra illuminarsi tutto.
Adesso è uno di quei momenti. La stanza è immersa nella penombra del primo mattino, il sole non è ancora sorto e Bill sta dormendo al mio fianco. Non è carino e delicato come ci si aspetterebbe da uno con la sua faccia. Sta steso sul materasso, le braccia e le gambe larghissime, e dorme a bocca aperta, russando un po’. È così che finisce puntualmente per rovinarsi la voce, ogni volta si ritrova con la gola gonfia come un canotto e fa fatica perfino a parlare. È che qui siamo circondati da un terreno piuttosto ampio, somiglia un po’ all’aperta campagna, ed anche il freddo è quello dell’aperta campagna. Bill non riesce a ficcarselo in testa o, più probabilmente, non gli importa.
Mi rigiro su un fianco e pianto il gomito sul cuscino, tenendomi dritto per poterlo osservare dall’alto, e mi mordo subito un labbro. Io e Bill abbiamo un tacito accordo per il quale col suo corpo posso fare tutto ciò che voglio, ma sarebbe carino se almeno, prima di toccarlo, lo avvertissi che sto per farlo. Questo non perché Bill sia infastidito dall’idea di avere le mie mani addosso mentre dorme. No, è che Bill ha un estremo bisogno di sentirsi parte di questa coppia. Col fatto che nelle occasioni pubbliche è richiesto da lui il più religioso silenzio, Bill ha necessità di fare casino, quando siamo chiusi in casa, nel nostro mondo. E quindi vuole avere diritto di parola, se decido di toccarlo.
Bill, comunque, ci mette ore a svegliarsi. Ed in queste condizioni non posso certo aspettarlo.
Gli faccio scivolare un braccio dietro la schiena e l’altro sul ventre, stringendomelo contro. Lui non reagisce immediatamente ma, appena il suo corpo tocca il mio e ne percepisce il calore, si raggomitola sul mio petto come un gatto in cerca di coccole.
Sorrido appena, infilando una mano sotto la maglietta e scorrendo la traccia della sua spina dorsale lungo la schiena magra. Bill mi sbava un po’ sulla maglietta, mugolando scontento. “Tomi…”, borbotta, tirando un mezzo calcio al vuoto, ed io sbuffo una mezza risata e scuoto il capo. Fino a qualche mese fa, una cosa del genere mi avrebbe indisposto in maniera furiosa. Mi sarei alzato e Bill non mi avrebbe più rivisto fino a sera. Fino a qualche mese fa, un “Tomi” mugolato in questo momento sarebbe stato, più che un’offesa, il tentativo inconscio di Bill di ricordarmi che l’avevo portato via dal suo mondo. Che sì, d’accordo, lui forse aveva fatto uno sforzo per intrufolarsi nel mio, ma ero stato io a portarlo via definitivamente, stabilendo che stare con me significava anche stare solo con me.
Non lo nascondo e non me ne vergogno, so bene di quali colpe mi sono macchiato nel corso della mia vita: il rapimento di Bill rientra nell’elenco, assieme a tutto il resto, ma è una delle poche cose di cui nemmeno mi pento.
Lo bacio su una tempia e Bill si rilassa subito. Scioglie i lineamenti tesi del sonno disturbato e solleva le braccia a stringermi al collo. Il respiro profondo e quieto che gli scuote appena il petto mi conferma che sta ancora dormendo, ed io comincio apposta a muovermi piano, per non svegliarlo. Gli disegno addosso il mio nome, tutto per esteso, lungo il fianco. È da un po’ che parliamo di questo fianco, Bill vuole assolutamente scriverci su qualcosa ed è da quando me l’ha detto che non faccio che ripetergli che ho un nome abbastanza lungo da starci per esteso, fino all’inguine. Ogni volta lui ride e mi guarda e dice “Anis, lo sai che non si può…”, ma è più deluso che razionale. Lo so che gli dispiace. Potesse, mi starebbe attaccato addosso giorno e notte, altro che tatuaggi. Solo che non può. Perciò ho preso l’abitudine di scriverglielo addosso con la punta delle dita. A lui piace.
Insinuo le dita oltre l’orlo dei pantaloni. È ancora caldo di sonno. Respiro forte contro il suo collo e lui piega un po’ il capo, appoggiandosi sulla mia spalla e sfiorandola con le labbra umide. Io sorrido sulla sua fronte e vago un po’ lungo le cosce magre e i fianchi stretti prima di risalire lungo la cucitura dei boxer e poi superare l’orlo anche di quel sottile strato di cotone, sfiorandolo appena fra le natiche. Caldissimo e morbidissimo, Bill mi accoglie dentro di sé senza la minima difficoltà, ancora provato dalla notte appena trascorsa. Lo sento trattenere per un attimo il respiro mentre le dita da una diventano due, e quando scendo a succhiare avidamente la pelle liscia e sottile del collo avverto il ritmo dei suoi respiri cambiare all’improvviso, e quando il mugolio che trema dentro la sua gola mi annuncia che sta per svegliarsi rallento appena il ritmo con cui le mie dita si muovono dentro di lui, così che svegliandosi non debba sentirsi troppo invaso.
- Anis… - borbotta contro la mia spalla riprendendo conoscenza, il bacino che si muove indipendentemente dalla sua volontà per seguire il ritmo imposto dalle mie dita, - Lo stai facendo di nuovo…
- Mh-hm. – annuisco, baciandolo piano lungo il profilo della mascella, fino alle labbra, - Ti spiace?
- Quante… - ansima, piantandomi le unghie sul braccio, - quante volte… devo dirti… di chiedere…?
Sorrido e scendo a mordergli il collo, ipnotizzato dal movimento lento dei suoi fianchi.
- Posso entrare, principessa? – chiedo ironico, mordendo piano.
- Sei… - i suoi occhi chiusi fanno fatica a restare tali, le ciglia tremano impercettibilmente nel buio della stanza, - sei già dentro…
Rido un po’, stringendomelo addosso di modo che possa sentirmi alla perfezione.
- Non parlavo delle dita, Bill. – mormoro ad un centimetro dal suo orecchio, rallentando il ritmo, - Ho voglia di sentirti.
Bill ansima forte sulla mia pelle, gli occhi serrati.
- Ma… David-
- Aspetterà.
- …Anis, tutta la notte, noi…
- Dimmi che non vuoi e ti lascio subito in pace.
Bill ansima pesantemente e mi si abbandona addosso, cercando sollievo per la propria eccitazione pulsante fra le gambe.
- …come faccio a dirti che non voglio? – mugola, cercando le mie labbra per un bacio che gli concedo immediatamente.
- Non dirlo, principessa. – e Bill infatti non lo dice. Dimentica Jost, che probabilmente starà già tartassando il suo povero cellulare di chiamate che resteranno senza risposta, e si solleva sulle braccia, scavalcandomi e sedendosi su di me, allacciandomi al collo.
- Facciamo in fretta, però? – chiede con aria rassegnata, strofinandosi contro di me.
- Dammi il mio tempo, Bill. – obietto baciandolo velocemente.
- Anche se non te lo do… - mugugna lui sulle mie labbra, - te lo prendi lo stesso.
Rido a bassa voce, sistemandomelo per bene in grembo ed entrando lentamente dentro di lui. Bill si tende tutto intorno a me e getta all’indietro il capo, gli occhi serrati e le labbra dischiuse, il respiro debole e un po’ affannoso. È il mio modo di fare con tutto, credo. Se penso che qualcosa mi spetti, me la prendo. E le cose mi spettano se anche solo le voglio. Finché non pensavo che Bill mi spettasse, Bill nel mio letto non è entrato. O meglio, lui è entrato nel mio letto perché è un ragazzino cocciuto e testardo, ma io non sono entrato dentro di lui, e questa era una sfumatura molto importante. Ma quando l’ho voluto, me lo sono preso. E succede sempre così: quando voglio tempo, quando voglio attenzioni, quando voglio la sua presenza, quando voglio lui, io me lo prendo. Ho fatto così anche con altri, prima che lui arrivasse. In modi e per motivi diversi, ma l’ho fatto.
Suppongo sia una colpa anche questa.
Suppongo sia questo, anche, il motivo per cui questa sera uscirò con Chakuza e metterò in chiaro quello che a grandi linee sto cercando di fargli capire da quando l’ho mandato all’aeroporto a recuperare Bill.
Io mi sono messo nei casini da solo.
Si sta avvicinando il momento di pagare, in un modo o nell’altro.
Fra le tante cose che mi ha insegnato Tempelhof – ed è assurdo pensarci mentre Bill si muove lentamente su di me, sollevandosi ed abbassandosi in sincrono con le mie spinte – c’è anche la massima fondamentale della vita per cui non importa affatto chi ha ragione e chi torto. Il punto non è essere dei bravi ragazzi o dei cattivi ragazzi: la vita riserva solo merda per tutti. Il punto non è come ti comporti, il punto è se resti in piedi alla fine della serata. Se ancora respiri. Se non perdi sangue. E, in caso tu lo perda, se sei forte abbastanza da rimarginare la ferita prima che ti uccida. È questa l’unica cosa che conti.
Prima di Bill, non mi sarebbe importato di andare da Chakuza e spiegargli per bene che, per qualsiasi evenienza, toccherà a lui prendersi cura di Bill. Non mi sarebbe importato perché non avevo nessuno di cui m’importasse anche oltre me stesso. Io per Bill non ho paura solo finché resto in piedi. È il periodo che seguirà la mia caduta, che mi terrorizza. Non mi era mai successo, prima d’ora. L’unica altra persona per la quale ho provato un simile trasporto è stata mia madre, ma lei è troppo distante dal mio mondo e da ciò che sono ora, per essere davvero in pericolo. Al momento, a rischiare sono solo io, ma se io muoio non ho idea di cosa potrebbe succedere in giro. Non ho idea di cosa la mia assenza potrebbe scatenare.
Se Fler darà inizio alla fine del mondo facendomi fuori, voglio che Bill abbia un cavaliere dalla sua parte. E voglio che quel cavaliere sia Chakuza.
- Anis… - Bill mi chiama a bassa voce, stando bene attento a come pronuncia il mio nome, lasciando scivolare la s fra i denti e la lingua, ed io scendo ad accarezzarlo lentamente fra le gambe. Subito i suoi movimenti si fanno più ansiosi e concitati, e non passa molto prima di sentirlo tendersi e stringersi attorno a me, mentre lascia andare il capo all’indietro e viene fra le mie dita, arrendendosi alla mia stretta. Continua a muoversi anche dopo l’orgasmo, continua a farlo anche se è spossato e indolenzito. Non gli importa, sa che non vuole fermarsi finché non sarò venuto anch’io e quindi, testardo, continua ad agitarsi.
Io sorrido appena e cerco di trattenermi quanto possibile, perché adoro quando si muove in questo modo. Languido, sensuale, lento. Bill non lo è quasi mai, in genere è una pertica imbizzarrita priva della benché minima grazia, ma in questi momenti, quando è stanco e sopraffatto dalla sensazione indomabile dell’orgasmo che ancora lo scuote a tratti, riesce ad essere davvero sexy. Senza nemmeno volerlo, ed è quello il punto. Quando si atteggia, Bill può attrarre al massimo qualche sedicenne in aria di bisessualità. Sono i momenti in cui non si controlla, quelli in cui è veramente sensuale.
Venti minuti dopo – ha appena avuto il tempo di riprendere fiato, io sto ancora cercando il mio – sta già volteggiando confusamente dall’armadio allo specchio, impegnatissimo nell’attività di vestirsi nella maniera più adatta per andare alla Universal, affrontare suo fratello e fargli credere per lui sia indifferente ottenere la sua approvazione o meno. Bill, ogni tanto, tira fuori una combattività che non c’entra niente col ghetto e nemmeno con i capricci ostinati di una principessa. È una cosa propria del suo essere com’è, un misto di testardaggine infantile ed orgoglio spaventosamente adulto che costringono gli altri a chinare il capo. Con la crew c’è già riuscito. Suo fratello, però, è uguale a lui. Quindi servirà più tempo.
Mi sollevo dal materasso, lasciandomi ricadere di dosso le lenzuola, e scorgo l’occhiata imbarazzata che Bill mi lancia dallo specchio, prima di tornare a concentrarsi sul proprio riflesso e sulla sequela di bottoni che deve preoccuparsi di affibbiare assennatamente sul petto. Sorrido nell’ombra, non visto. Poche cose mi compiacciono come la consapevolezza che, ad avermi davanti ogni ora del giorno e della notte, Bill non riuscirebbe mai a staccarmi gli occhi di dosso. Non riuscirò mai a capire davvero a cosa pensasse la principessa bianca come la luna quando ha deciso di innamorarsi dell’uomo nero, ma so per certo che, quando l’ha fatto, l’ha fatto per davvero. E perciò, di fronte a me, Bill è arreso.
Lo stringo ai fianchi con le braccia ed a lui basta sentire la lieve pressione del mio sesso già quasi nuovamente pronto a prenderlo, per irrigidirsi ed arrossire.
- Anis… - sussurra piano, mentre io mi chino a baciargli il collo e lo solletico appena con le labbra, - Ma abbiamo appena finito, e poi è già tardi, e-
- Farò da solo quando sarai andato via. – gli respiro addosso. Bill mugola e stende il collo, ripiegando il capo contro la mia spalla.
- …è uno spreco. – biascica, spingendosi verso di me, - E non sono ancora completamente vestito…
Ghigno e gli mordicchio un lobo.
- Ma è già tardi. – concludo, chiudendo i bottoni dei jeans e poi allacciando la fibbia della cintura, - Stai attento che salti bottoni. – dico, accennando col mento alla sua immagine nello specchio. Mi fermo un po’ a guardarlo, mentre lo faccio. Respira profondamente, le sue mani seguono il profilo delle mie ed i suoi occhi sono lucidi e pieni di voglia. – Sei bellissimo.
Bill mi si rigira fra le braccia, allacciandomi al collo e strofinandosi sfacciatamente contro di me. La chiusura metallica della cinta, contro la mia pelle bollente, è quasi dolorosa.
- …posso restare a guardarti? – chiede, lasciando baci piccoli ed umidi lungo la linea delle mie clavicole, - Solo un po’…
- Devo fare da solo perché tu devi andare via, principessa. – gli faccio notare, stringendolo alla vita, - Se resti, non ho motivo di fare da me. Ti pare?
- È che… - si morde un labbro, sospirando pesantemente, - non ti ho mai visto, e invece tu…
Lo bacio lentamente, profondamente, fino a sentirlo confuso ed abbandonato in punta di lingua.
- Mi vuoi guardare, piccolo? – gli chiedo fra le labbra, e lui annuisce in silenzio, gli occhi socchiusi, le palpebre che tremano appena. Rido e lo bacio di nuovo. – Non adesso. – concludo, lasciandogli una sonora pacca sul sedere, - Jost poi mi insulta. – e mi allontano.
Bill rimane quei due, tre secondi a fissarmi dall’alto in basso – la linea dei pettorali, gli addominali, l’ombelico, le ossa sporgenti delle anche, il desiderio che svetta imponente fra le gambe – e poi si lascia andare ad un ringhio piccolo e frustrato, incrociando le braccia sul petto.
- Hai sempre avuto in testa questa cosa dell’obbedire a David, tu… - borbotta, ravviandosi i capelli dietro le spalle con un gesto stizzito.
Io rido.
- Be’, è un alleato utile, in ogni caso. Per dire, ti copre ancora con tuo fratello, quando lui accidentalmente dimentica che stiamo insieme da tre anni.
I lineamenti del volto di Bill si rilassano e la sua bocca si piega in un sorriso delizioso. Fare la conta degli anni con lui funziona sempre. In realtà funziona sempre anche con me – quando ci penso non mi sembra vero finché non realizzo che è davvero così. Certe lunghezze ti sembrano irreali, se non le misuri costantemente.
Sospira e torna ad aggrottare le sopracciglia, rimettendo su il broncio tipico delle finte offese.
- Be’, d’accordo, visto che non vuoi accettare la mia generosa offerta, resta qui da solo. – mi si avvicina di un passo e mi spinge all’indietro. Io lo lascio fare e cado sul letto. Mi tengo sollevato piantando i gomiti sul materasso e lo fisso di rimando, con aria di sfida. Lui mi fa una linguaccia. – Riprendi confidenza con la tua mano, mi sa che è troppo tempo che non ti do occasione di usarla. – io rido ed obbedisco, accarezzandomi lentamente un paio di volte. Bill arrossisce e si morde un labbro, guardandomi attentamente. – Ricordami di chiedertelo più spesso. – pigola poi, deglutendo a fatica. – Comunque ti odio! – borbotta, ed esce dalla camera sculettando infuriato, battendosi oltraggiato la porta alle spalle.
Rido e mi lascio andare disteso sul letto, rinunciando subito al proposito iniziale. Senza Bill non è lo stesso. E stasera penso che, per un po’, mi farò guardare.
Prima, però, ho una faccenda da risolvere.
Allungo una mano verso il comodino e recupero il cellulare, componendo a memoria il numero di Chakuza e restando in attesa finché lui non risponde.
- Chaky? – lo chiamo, mentre sento in sottofondo la voce di sua madre che gli chiede se per caso non sono Klaudia, e di salutarmi, in caso fossi lei. Ridacchio. – Ho un favore da chiederti. – lui annuisce, un “uh-hu” confuso che mi fa ridere ancora. – Possiamo vederci, più tardi? – lui risponde con un “ma sì, ovvio, a che ora?”. Io sospiro. – Nel pomeriggio. – poi ghigno un po’, - A patto che tu dica a tua madre che non sono la tua ex.

*

Bushido mi chiama che sto riparando un lavandino in casa di mia madre e un po' quella telefonata me l'aspettavo. Non che sapessi quello che poi mi avrebbe detto ma è evidente che in questi giorni sta accadendo qualcosa e che lui ci avrebbe chiesto favori.
A dirla tutta, sono due settimane che a casa sua facciamo finta che gli attacchi di Fler non si siano fatti più aggressivi e che le sue risposte non si siano automaticamente regolate di conseguenza. In questi ultimi tempi, Atze ha sempre tentato di essere diplomatico ma quando le offese pesanti hanno cominciato a piovere sulla Principessa, ha smesso con la convivenza pacifica e non ha più risparmiato una virgola a quel cretino di Fler.
Comunque lui non parla e noi non chiediamo. Sediamo nel suo salotto e beviamo birra. La nostra attività principale, tendenzialmente, è quella di ignorare: le diss di Fler, l'incazzatura che tende il viso di Bushido e Bill, ovvio.
Bill siamo bravissimi a fingere che non sia in casa e che non si stia facendo la doccia. Quando compare in salotto vestito, truccato e perfetto come sempre, noi fingiamo che le ore precedenti non le abbia passate a scopare con Bushido. Perfino Eko butta sempre lì un "Ciao Principessa" che sembra che Bill venga da fuori piuttosto che dalla camera da letto.
Una roba così, però, la reggi solo per poco; poi la tensione ti sfonda il fegato. Quindi sono contento quando quella telefonata arriva. Quasi sospiro di sollievo.
Esco fuori da sotto il fottuto lavandino che non ne vuole sapere di farsi rimettere in sesto - dovrò chiamare un cazzo di idraulico - e do a mia madre un nuovo buon motivo per ricominciare a dirmi che secondo lei dovrei stringere di più, oppure farlo di meno, o anche chiudere l'acqua che l'ho già fatto quattro ore fa quando sono arrivato qui ma ancora continua a dirmelo. Quando apro il flick, lei smette di improvvisarsi idraulico per chiedermi "E' Klaudia? Me la saluti?"
Klaudia non è più la mia ragazza da un mese e mezzo ma mia madre finge che non sia così. Le ho detto più volte che io e lei non ci vediamo più, che si è addirittura trasferita dall'altra parte della città e che ha rivoluto indietro quel quintale di ciarpame che aveva lasciato nei miei cassetti ma mia madre niente, da quell'orecchio non ci sente.
La verità è che la prolungata presenza di Klaudia nella mia vita l'aveva portata a convincersi - mia madre, non Klaudia - che ci saremmo sposati di lì a poco e che c'era un nipotino in arrivo, in non più di sei mesi, massimo un anno. Klaudia non stava pensando di avere figli e io comunque non stavo pensando di sposare Klaudia. In ogni caso ci siamo lasciati, per motivi - tra l'altro - che non posso spiegare a mia madre, per cui...
"No, mamma, non è Klaudia," sospiro alla fine e sento Bushido che ride. "Atze?"
Spingo gentilmente mia madre fuori dalla stanza e la sento borbottare che a lei quel Bushido non piace mica tanto.
"Disturbo?"
Incastro il telefono tra il collo e la spalla e mi lavo le mani. "No, figurati. Anzi, mi salvi da una mattinata di morchia giù da un lavandino."
"Conosco un paio di ragazze che pagherebbero per vederti in canotta e sporco di morchia."
Rido mentre m i asciugo le mani. "Grazie ma sono a posto così."
"E Klaudia?"
Dio, anche lui con questa Klaudia. "Andata," rispondo e mi siedo sul water coperto.
Per terra c'è un casino di attrezzi e di cenci luridi, nonché quel catino appena sotto il sifone che è pieno di roba schifosa.
"Un vero peccato," commenta lui. "Era un amore, Klaudia."
"Non so se avresti detto lo stesso, conoscendola," sorrido. "Era un po' isterica."
"Credo di essere abituato all'isteria," risponde lui. "Klaudia almeno non aveva 19 anni, Chakuza."
Qui evito proprio di rispondere. Ho paura ad aprire bocca su Bill, con Bushido non sai mai cosa puoi dire e cosa no. Per dire, io lo so che Bill a volte va fuori controllo - tipo che l'altro giorno che l'ho accompagnato al supermercato per ordine di Atze e non ha trovato le caramelle che cercava. Per venti minuti non gli ho potuto parlare perché qualunque cosa dicessi mi mangiava la testa. E questo è solo un esempio. Io però mica posso fare notare ad Atze che il suo fidanzato è fuori come un citofono. "C'era qualcosa che volevi dirmi?" Cerco di deviare il discorso, che di Klaudia mi sono anche un po' rotto.
"Sì, ho un favore da chiederti."
"Uh-uh" annuisco vago perché forse mi è venuto in mente che il problema del lavandino potrebbe essere il tubo stesso. E se devo cambiare un tubo, piuttosto compro a mia madre un bagno nuovo.
"Possiamo vederci più tardi?"
La voce non smette di essere divertita, ma cambia tono. E' più bassa, più netta e questo mi fa capire che c'è un certo grado di serietà dietro al cazzeggio. Klaudia serviva a coprire la pesantezza di una motivazione che non mi dice. "Sì, ovvio, a che ora?"
"Nel pomeriggio," ghigna. "A patto che tu dica a tua madre che non sono la tua ex."
Fissiamo in una birreria non lontana da casa mia. Quando riattacco, con il lavandino che gocciola in sottofondo, so che questa telefonata significa più di quello che sembra e, per quanto assurdo sia, mi incazzo all'idea che mi abbia raggiunto mentre riparavo il lavandino. Questa non è una telefonata normale, doveva arrivarmi nel momento meno normale del mondo. Invece sono a casa di mia madre, a fare una cosa per lei come faccio sempre ogni volta che riesce ad acchiapparmi e so che da lì a quattro ore Bushido mi dirà qualcosa che non mi piacerà per niente. Ma proprio no.

*

La birreria è un buco incastrato tra due palazzi giganteschi, in una via praticamente invisibile appena dietro casa mia. Quando mi sono trasferito, ci venivo quasi ogni sera perché era comoda e perché ci si mangiava bene e il mio frigo era sempre vuoto. La situazione della mia dispensa non è cambiata molto negli ultimi due anni, in effetti. Il mio problema non è che non mi vada di cucinare, anzi, io adoro cucinare. E' che non ho la testa per fare la spesa, tenere a mente le scadenze o comprare le cose giuste nella quantità giusta. Anche quando andavo all'istituto professionale - ho studiato da cuoco. Sì, io. - il mio problema non era mai preparare qualcosa ma avere tutti gli ingredienti, o gli utensili. Ero molto distratto. Il tipico caso di E' bravo ma non si impegna. Ad ogni modo, anche ad aver voglia di cucinare, non avevo mai niente in casa con cui farlo, per cui scendevo, mi facevo due passi a piedi e andavo a farmi sfamare dalla proprietaria del locale, che era una donna gigantesca e mi faceva quasi più paura di suo marito. Poi, più o meno sei mesi fa, i due hanno venduto e la birreria ha cambiato gestione, diventando di proprietà di una famiglia di tunisini, che le zuppe non te le fanno, ma ti preparano il kebab. Tra le altre cose, ho poi scoperto che questi sono parenti di Bushido. In effetti non so se siano parenti veri o parenti di altro tipo, con Bushido non si sa mai: ha le mani in pasta ovunque e la tendenza a chiamare parenti tutta una serie di persone diverse, per motivi che no so e neanche voglio sapere.
Quando spingo la porta, di fatto, lo trovo già dentro seduto ad uno dei tavoli riservati che parla con uno dei proprietari che indossa una canotta bianca tragica e ha al collo una patacca da far rabbrividire il buon gusto. Mi rendo conto che ho appena fatto dei giudizi di stile sul tunisino proprietario di una bettola della semi-periferia berlinese. Questa è evidentemente l'influenza malefica della Principessa e dei suoi giudizi cinici sulle donne in carne coi pantaloni a vita bassa. Devo decisamente chiedere a Bushido di trovare a Bill un'altra guardia del corpo che non sia io.
I due parlano fitto e Bushido ride in quella maniera un po' sguaiata che ha quando siamo fra di noi. E' da segnali come questo - il tipo di risata, le sue braccia che si appoggiano sullo schienale della sedia dove sta seduto al contrario - che capisci che è tranquillo e, di conseguenza, che in quel posto ti ci puoi rilassare. E' un posto amico.
Il tipo si chiama Fouad, se non ricordo male, ed ha una sorella bellissima, che si chiama Halida e non è quasi mai presente nel locale. E' timidissima, e l'abbiamo vista spuntare solo un paio di volte da dietro la porta delle cucine. Intanto che mi perdo nella mia testa e negli occhi di quella donna, che li ho visti una volta sola e potrei ricordarmeli finché campo, Bushido si accorge di me. "Chaky, da questa parte," mi chiama a gran voce, agitando la mano.
Mi siedo al tavolo e Bushido ordina per entrambi due birre rosse senza chiedere il mio parere. Fouad sparisce all'istante e solo allora noto che il locale è praticamente quasi vuoto.
"Allora? Che succede?" Chiedo quando il tunisino ritorna con le birre per poi eclissarsi di nuovo.
Bushido beve un sorso dal suo bicchiere e ci guarda dentro con un'aria pensosa che non mi piace. Quando uno si perde in mezzo litro di birra e sembra vederci dentro il futuro del mondo, significa che sta cercando le parole da dirti e che quelle parole sono le più pesanti che ti sia mai capitato di sentire.
"Immagino che tu sappia come stanno le cose tra me e Fler in questo periodo," dice alla fine.
E' un esordio che non mi aspettavo. Voglio dire, sapevo che avremmo parlato di Fler, ma non con questo tono. Me lo aspettavo arrabbiato, non così, come se Fler fosse il preambolo trascurabile di una questione ancora più seria. Al momento non ci sono questioni più serie di Patrick Losensky che spara minchiate sulla Principessa, su Bushido e sull'Ersguterjunge.
Mi sbaglio.
"Sì, direi di sì," rispondo, senza fargli notare che questa è una cosa che hanno capito anche i muri. Io dico che anche la signora Lotte, la mia vicina di casa, ormai lo ha capito che Fler e Bushido si odiano e che Fler lo prende in giro perché ha un fidanzato. "Credo che Fler abbia passato ogni limite."
Lui fa un mezzo sorriso intenerito, senza alzare lo sguardo. E' uno di quelli che fa incazzare Saad, che non li sopporta perché, generalmente, sono rivolti a due persone soltanto. Uno è Bill - e lasciamo perdere che cosa Saad pensi di quel ragazzino -, e l'altro è Fler al quale, nonostante tutto, Bushido si ostina a rivolgere una sorta di rispetto nostalgico che gli impedisce di riempire le nostre canzoni di merda vera. Urliamo a Fler da mesi ma Bushido non ci ha mai permesso di dirgli veramente chissà cosa. Saad per questo potrebbe uccidere, proprio non riesce a capire come faccia Bushido a permettergli tante delle cose che gli permette. E dire che è piuttosto semplice da capire: lui e Fler sono cresciuti insieme e si sono divisi per una cazzata tanto grossa che era quasi impossibile non rimanere con l'amaro in bocca. Voglio dire, sì d'accordo i soldi e gli ideali, ma erano cose di cui forse si poteva discutere, cose che non erano sufficienti a troncare i ponti, ad offendere madri e fidanzati. Quei due si rispettano perché erano amici e quando rispetti un'amicizia che non c'è più, in realtà quella c'è ancora o non la rispetteresti. E Saad, cazzo, mica lo vede. Va avanti per la sua strada e non c'è verso di farglielo capire.
"Ho visto Fler tre giorni fa," la voce di Bushido cambia tono e si fa più calda. Questa volta alza lo sguardo e mi osserva mentre io spalanco la mascella su una birra che ho appena assaggiato. "Abbiamo stabilito una tregua di qualche ora per poter parlare."
Annuisco lentamente. Certo, ha senso. Credo.
"E abbiamo deciso che chiuderemo la questione una volta per tutte."
Nella mia testa quelle parole suonano un po' come l'enorme gong di una chiesa buddista e rintronano sulle pareti del mio cervello, stordendomi neanche troppo leggermente.
Bevo. "E per chiudere, intendi...?"
"Intendo finirla," dice subito lui. "E' andata avanti troppo a lungo."
Io per un momento rimango immobile e mi chiedo se quello che ho capito ha un senso oppure no. Bushido non può veramente avere in mente di far fuori Fler. Quello canta e basta, cazzo. Noi cantiamo e basta. Mica puoi pensare sul serio di uccidere un cristiano come se fossimo in un film di Tarantino. Lui deve leggere la confusione sul mio viso, anche perché ce l'ho stampata in faccia - lo so perché mi conosco e quando trovo che qualcosa sia assurdo senza possibilità d'appello, la mia faccia riporta esattamente il mio pensiero. Ho i lineamenti di gomma, mi muovo tutto. Sono un pessimo giocatore di poker.
"Immaginavo che avresti reagito così," mi dice con uno sbuffo divertito.
"Non ho reagito in nessun modo."
Lui annuisce un po', come uno che vuole dirti di sì quando pensa tutto il contrario e poi beve di nuovo. "Tu quando non vuoi parlare, le cose le dici lo stesso," commenta. "Il viso, le mani, il modo in cui ti muovi. Se qualcosa non ti va o ti confonde, in qualche modo traspare. Non menti mai, per questo sei qui stasera."
"Non capisco," ammetto.
Lui prende un sospiro lungo, che fa ancora più paura del tempo che si è preso per cercare le parole che hanno dato il via a questa serata. E' un sospiro per darsi coraggio. E io mi chiedo a cosa gli serva questo coraggio. Cosa può far paura a Bushido che coinvolga me, Fler e questa birreria?
"Tra quattro giorni, io e Fler ci incontreremo e chiariremo la cosa fra di noi."
"Ma Atze, non-"
Mi ferma sollevando una mano, l'indice e il medio diritti e il resto delle dita leggermente piegato, come a chiedermi tempo più che a darmi ordini. E io mi fermo perché come al solito mi sono buttato senza aspettare.
"Quello che avrà luogo da qui a tre giorni è già stato deciso e non deve interessarti, se non per un motivo soltanto," quelle dita sollevate diventano una "Ed è lo stesso motivo per cui ti ho chiamato."
Questa volta sto zitto.
"Come ti ho detto al telefono, ho bisogno di un favore."
"Qualunque cosa, Atze."
"No." Mi ghiaccia con quel rifiuto e l'occhiata che mi lancia è sufficiente perché io mi senta in dovere di guardarlo. "Non accettare prima di sapere di cosa si tratta. Se dirai d sì, lo farai consapevole dell'impegno che ti sei preso."
L'aria è tipo elettrica, non ho idea di come ci sia riuscito. Fatto sta che sono in ansia e ora più che mai vorrei essere sotto il lavandino in casa di mia madre piuttosto che qui di fronte a quest'uomo che è visibilmente sul punto di rivelarmi qualcosa che non voglio sentire.
"Quando io e Fler ci scontreremo, non so come andrà a finire," esclama poi, dopo interminabili minuti di silenzio. "Fler ci sa fare con le armi, gliel'ho insegnato io."
Non so se dovrei preoccuparmi del fatto che sorride, anche se è sempre uno di quei sorrisi amarissimi che gli sollevano un solo angolo della bocca. "Quindi potrei creparci se quella sera decidesse di incazzarsi sul serio." Poi mi guarda. "E credimi, è sulla buona strada."
Il mio cervello non potrebbe girare più a vuoto di così perché adesso ho due interrogativi. In primo luogo mi sto chiedendo ancora una volta in che razza di universo parallelo sono finito per ritrovarmi nella condizione di ascoltare questa discussione. In secondo luogo, adesso devo anche cercare di capire quale sia il mio ruolo in tutto questo.
Rimango in silenzio e attendo il resto che mi arriva dritto in faccia, senza nessun preavviso. Con Bushido è facile capire quali siano le cose importanti: sono quelle che ti dice senza giri di parole. "Se io muoio, voglio che sia tu a prenderti cura di Bill."
Vorrei che avesse detto qualcos'altro. Il mio primo pensiero coerente dopo quelle parole è che vorrei non averle sentite, non male da parte della persona a cui le hai appena dette. Lui ha la prontezza di spirito di continuare a parlare e riempire il baratro che si è aperto tra me e lui e che è pieno di tutto ciò che quella richiesta implica. La morte di Bushido, la sofferenza di Bill e io che devo tenerlo insieme quando è chiaro che cadrebbe a pezzi.
"Dopo la mia morte," e lo ripete di nuovo, con quella calma assurda, "ci sarebbe un gran casino, credo. O almeno io lo spero che se crepo ci sia casino."
Fa un sorriso e ne strappa uno anche a me. La tensione un po' si scioglie, che è quello che ci vuole perché le cose serie vanno affrontate con un certo grado di rilassamento o non si ha abbastanza cervello per reagire nel modo giusto.
"Bill in questo casino ce l'ho trascinato io," dice poi, "ma non voglio che ci resti se io non sono con lui."
Annuisco perchè questo lo so già. Ho visto come lo tratta e con che cura lo guarda. Bushido non lo perde mai di vista, Bill, lo tiene sempre sott'occhio anche se non sembra. Anche quando non è lì fisicamente. E nessuno osa dirgli o fargli niente - Fler è un caso a parte - proprio perchè quel ragazzino il marchio di Bushido è come se lo portasse addosso. E' roba sua, lo sanno tutti. Però credo che lo distruggerebbero se sapessero che Bushido non può vederli né sentirli. E se conosco un po' Bill, non vorrà andarsene di qui se Bushido non ci sarà più. Anzi, si aggrapperà ancora di più a tutto quello che gli ricorda il suo uomo e non ci sarà verso di schiodarlo. E Dio solo sa come gli ridurrebbero la vita una merda se si arrogasse il diritto di far parte del giro anche senza avere più il letto di Bushido da scaldare.
Per quanto io possa ancora fare fatica ad accettare l'idea di un duello e di un morto, non mi è difficile capire che Bill avrebbe bisogno di protezione. Questo non c'entra niente con il ghetto e con le bande, c'entra con le persone. Se sei circondato da gente che ti odia, vorresti sempre qualcuno che sia dalla tua parte. Questo lo capisco anche io. E Bill ne avrebbe bisogno, se Bushido morisse. Ce l'avrà qualcuno che lo protegge, perché la possibilità di rifiutare non l'ho nemmeno presa in considerazione e me ne rendo conto all'improvviso, come una rivelazione divina.
Negli ultimi tempi io e quel ragazzino abbiamo passato un sacco di tempo insieme perché Bushido mi manda a prenderlo e riportarlo, e Bill mi parla un sacco - mi sfianca a furia di chiacchere, non sta mai zitto. E io un po' mi sono affezionato a quella pertica che urla e strepita davanti ai negozi di scarpe. Non voglio che stia male e non voglio neanche che qualcuno si azzardi a pensare di poterglielo fare solo perché Bushido non è più lì.
Ci sarò io con lui. "Conta su di me, Atze," gli dico.
"L'ho già fatto," e sorride.

Quattro giorni dopo, Bushido è morto e io stringo tra le braccia un Bill scosso dai singhiozzi che non si riprenderà se non quasi quattro mesi dopo, quando ogni cosa è ormai precipitata e io ho imboccato un casino dietro l'altro senza fermarmi in tempo.
Di quella sera in birreria mi resta ogni dettaglio, come se ce lo avessi marchiato addosso nella testa, perché di fronte a quei bicchieri di birra io a Bushido ho fatto una promessa importante e nel bene o nel male, quella promessa l'ho mantenuta.
Lui lo sa.

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Schmetterlingseffekt

di lisachan
C’è il sole, oggi. È una bella giornata, bella davvero, di quelle che poi da queste parti sono rare, perché il cielo di Berlino è quasi sempre una macchia grigia uniforme che ti dà l’impressione di essere un blocco di cemento. Ti sembra pesante allo stesso modo, almeno, ti sembra che a lasciartela cadere sulla testa ti schiaccerebbe a morte.
Dentro l’Audi nera d’ordinanza che mi è stata esplicitamente richiesta per mantenere il più possibile l’anonimato, io guardo il cielo di oggi – che non è grigio, ma di un bel celeste arioso e fresco – e penso che sto andando a tirarlo giù. Lo sto facendo consapevolmente e colpevolmente. Ed anche se, col cemento, quest’azzurro non c’entra niente, penso che, quando ci cadrà in testa, sarà pesante comunque.
Mi chiedo se Bill sia diventato forte abbastanza da reggere il colpo. Mi chiedo se sia maturato abbastanza, se le sue spalle si siano inspessite, se le sue gambe siano diventate più robuste, le sue braccia più salde. Me lo chiedo e lo rivedo come l’ho visto due giorni fa, prima che Chakuza lo caricasse in macchina per portarlo a Disneyland. Lo vedo piccolo e sottile e stupidamente felice come ha reimparato ad essere solo di recente. E realizzo che potrebbero passare anche anni, ma un colpo simile Bill non riuscirebbe a sostenerlo proprio mai.
*
Osservare le cose dall’esterno, in questi ultimi mesi, è stato come osservare delle piante ricrescere in giardino dopo l’inverno. Tra l’altro, il paragone è più che appropriato – suppongo che le metafore azzeccate siano ciò che mi resta in eredità dei Bed&Breakfast e degli aiuti a Bill quando ancora si rivolgeva a me se doveva scrivere una canzone – perché intorno a dicembre io mi sono guardato intorno e, proprio come un giardiniere, ho portato con desolazione le mani ai capelli e mi sono detto che, come niente, avrei perso tutto il roseto.
I problemi sono cominciati la notte – o meglio, l’alba – in cui Tom, strillando come una scimmia isterica, mi ha chiamato al telefono, implorandomi di andare subito a casa sua, perché Bill “palesemente s’era rincoglionito e lui aveva bisogno di una mano per tirarlo fuori dal pantano di merda in cui era caduto”.
Tom tende ad iperreagire, quando si tratta di suo fratello, questo c’è da dirlo. Basta toccarglielo e lui impazzisce. Gli ho visto fare delle cose assurde – investire la discografia di Bushido non è stata neanche la più allucinante; per dire, sono stato io ad applicare cerotti su cerotti su quella sua allucinante faccia da schiaffi, quando è tornato una notte alle quattro abbaiando che “quelli non erano rapper ma animali”. Alla mia domanda legittima – “Cosa hai fatto per meritare le botte, Tom?” – lui ha risposto altrettanto legittimamente – “Ho dato a Bushido del pedofilo” – e, a quel punto, sono stato io ad abbaiare “tu non sei un chitarrista, sei un microcefalo”. Questo per dire che, quando entra in conto Bill, Tom smette di ragionare e segue il flusso dell’amore indiscusso che prova per lui. Solo che è un cretino, quindi come si muove sbaglia.
In ogni caso, questa tendenza all’esagerazione di Tom mi ha portato a prendere sottogamba la questione. Voglio dire, io dormivo, quando lui ha chiamato. Per cominciare a ragionare con un minimo di senso, a me serve del caffè. E non ho mai del caffè in casa prima delle sette, perché per preparare del caffè devo prima alzarmi dal letto, naturalmente, e ciò non avviene quasi mai prima di quell’orario, a meno di casi straordinari. Quindi, in poche parole, ho cercato di calmarlo e rimandarlo a nanna – sperando che ci fosse stato, a nanna, almeno per qualche ora.
Il problema – enorme – di Tom è che, quando sragiona, si fissa. Non ne esce più. Ha odiato Bushido per anni, cominciando vagamente ad accettare l’idea della sua presenza – e più con rassegnazione che con piacere – solo qualche mese prima che morisse, per dire. E tutt’ora prova dell’antipatia palese per Chakuza, nonostante non sappia cosa c’è in realtà fra lui e suo fratello, perché a suo dire è troppo presente nella vita di Bill. E, ripeto, Tom non ha idea dei modi e delle misure in cui Chakuza è presente nella vita di Bill. Non sa che la vita di Bill è ancora una vita e non un insieme di vuoti solo perché Chakuza li riempie tutti. Non sa che c’è lui dietro ad ogni sorriso, ad ogni occhiata dolce, ad ogni gesto tenero di suo fratello. Non sa che Bill ha ricominciato a respirare davvero solo perché ora può farlo anche dalle sue labbra. E, pur non sapendo tutte queste cose, lo malsopporta.
Tom si è fissato anche quella notte. Mattina. Insomma. Non c’è stato verso di scollarlo dal telefono, perciò alla fine mi sono rassegnato, mi sono vestito, ho mandato giù del latte di soia nella speranza che risvegliare il mio apparato digerente servisse anche a risvegliare il resto del mio corpo e mi sono messo in macchina, alla volta dell’appartamento del mio angosciato chitarrista.
All’arrivo, Tom mi ha accolto con aria tesa. In genere, quando sclera, Tom è molto buffo, perché si agita tanto, strilla e strepita. Se ritiene tu non stia capendo abbastanza profondamente il motivo del suo sgomento, ti scuote per le spalle. Come se servisse a qualcosa. Quella mattina, invece, me lo sono ritrovato che mi fissava serio, le sopracciglia aggrottate, tutto intento a torturare coi denti il labbro inferiore, fino a screpolarlo.
“Sono sconvolto,” mi ha detto, mentre mi invitava ad entrare ed a chiudermi la porta alle spalle.
“Sì, lo vedo,” ho risposto io, appendendo la giacca all’attaccapanni e sbirciando lungo il corridoio verso l’unica luce che vedessi, e che proveniva dal salotto, “Qual è il problema?”
Tom ha esitato, prima di rispondere. Ha deviato un po’ lo sguardo verso un punto vuoto oltre le mie spalle, e poi è tornato a guardarmi fisso ed ha schiuso le labbra.
“Che Bill non lo è. Non è sconvolto. È questo, il problema.”
In realtà, questo era parte del problema. Io sono abituato a guardarli tutti in faccia e nel complesso, i drammi. Il mio mestiere è sbrogliarli. Risolverli. Fare in modo che tutto si concluda bene. E sono bravo a farlo – è questa la ragione per cui mi trovo oggi in questa posizione del cazzo. Tom no, Tom del problema vede solo quello che gli interessa. Come quando suo fratello è stato male e ciò ci ha costretti a cancellare un tour; per Tom, l’unica cosa importante era il dolore di Bill, non il dramma economico e pubblicitario che da quelle cancellazioni sarebbe derivato. In quel caso, fu la stessa cosa.
Suo fratello aveva ucciso Saad. Saad era l’uomo che aveva ucciso Bushido. Fler e Chakuza gli erano rimasti accanto per tutto il tempo e non avevano mosso un dito che fosse uno per fermarlo. Questo era il problema nella sua completezza. Ovviamente, però, a Tom interessava solo che suo fratello non fosse turbato quanto sarebbe stato giusto dall’aver premuto il grilletto e spedito un proiettile nel mezzo della fronte di un altro essere umano.
L’apatia di Bill – se poi di apatia si poteva parlare; io, per dire, l’avrei descritta più come serena accettazione – non era dunque tutto il problema. Ne era però una consistente parte, e questo era abbastanza chiaro. Io, Bill, lo trovai seduto sul divano che guardava fisso davanti a sé senza particolare interesse, come stesse guardando scorrere l’acqua di un fiume. Pure un po’ annoiato, per la verità.
Quando mi raccontò cos’era successo – ripetendo le stesse parole che aveva già detto al fratello, immagino, perché sembravano rodate. Di quei discorsi che vengono fuori dopo che te li sei ripassati mentalmente almeno una ventina di volte – lo fece con incredibile calma. Con enorme compostezza. Le mani rigide strette in grembo, le ginocchia che si sfioravano, il petto scosso appena dai respiri. Sul volto, un sorriso rassicurante e serafico che mi diede i brividi. Me li dà ancora, a ripensarci.
Bill non ha omesso niente, nel racconto. Tant’è che quando, per scrupolo, sono andato da Fler a chiedergli la sua versione dei fatti – anche per capire cosa ne avessero fatto del corpo. Ed è incredibile con quanta freddezza si possa arrivare a pensare, quando hai già visto un altro uomo morire – non l’ho trovata differente nemmeno in un punto.
Bill non ha cominciato ad avere un problema quel giorno. Bill ha cominciato ad avere un problema quando il suo problema principale è svanito.
Durante i mesi precedenti all’assassinio di Saad, Bill aveva vissuto con l’unico obiettivo di mettere il punto a quella storia. Voleva essere lui a farlo perché lo sentiva come un suo diritto. Anzi: perché Bushido gli aveva dato quel diritto. L’aveva fatto portandoselo a letto, dicendogli di amarlo, rendendolo una parte tutt’altro che ininfluente della propria esistenza. Facendolo suo, in pratica. Bill, quel diritto, l’aveva per concessione regale, per dirla con parole che a Bushido farebbero anche un gran piacere. Non credo che Bill pensasse di farlo fuori fin dall’inizio, eh. Penso però che volesse essere lui a trovare il modo in cui concludere la storia. E penso che, quando ha guardato Saad negli occhi – forse anche prima, forse anche solo pensando a come si sarebbe sentito guardando Saad negli occhi – abbia deciso che quello andasse bene. Che un proiettile fosse sufficiente.
Risolta la questione, Bill ha cominciato ad appassire. È una cosa piuttosto normale, credo: il fiore ha un fine. Il fine del fiore è il frutto. Il fiore muore, appena il frutto nasce.
Cosa sia successo fra Bill e Chakuza, io non lo saprò mai con certezza. Bill non ne parla volentieri. Neanche con me, pure se ha dovuto per forza informarmi almeno in parte di ciò che stava succedendo, visto che – come sempre – a me è toccato coprirlo. Con suo fratello, con la stampa, col mondo, sostanzialmente. Mi è sembrato di ripetere l’esperienza Bushido, per certi versi. Quasi avrei voluto dire a Bill “l’hai visto, com’è andata la prima volta. Allora?”.
Bill non parla di Chakuza perché Bill ha un modo molto intenso di vivere le storie d’amore, quando iniziano. Visto che è una testa dura e si caccia sempre in situazioni complicate, è naturale che poi abbia paura di distruggere tutto e vedere il frutto della propria fatica spargersi sul tavolo come un castello di carte abbattuto da un soffio. “Meno ne parlo”, pensa, “più facile sarà che resti tutto in piedi”. Quindi, anche se io so dove va a dormire, e con chi esce, e con chi scappa a Disneyland, e di chi sono i segni rossi che ha sul collo quando arriva agli studi brillando di luce propria, non saprò mai nel dettaglio com’è che i fatti si sono svolti. Come si siano mossi. Quando abbiano cominciato.
Per certi versi, è molto meglio così. Perché sono bravo a coprire le cose, ma ci sono persone alle quali non riesco a nascondere quasi niente.
Purtroppo, da un annetto a questa parte, lavoro alle dirette dipendenze di una di queste.
*
Fatto sta: Bill e Chakuza stanno insieme, e per quanto io abbia svariati milioni di motivi per pensare questo sia l’errore del secolo, per quanto io continui intimamente a credere che probabilmente avrei dovuto recuperare Bill per i capelli e riportarlo dalla parte giusta della Germania quando Bushido è morto, devo purtroppo ammettere che Bill non sarebbe qui – bello, in salute, possibilmente neanche vivo – se non ci fosse stato Chakuza. La tensione che ha tenuto Bill insieme quando Chakuza non c’era era la furia con la quale lui cercava di sfuggire a ciò che stava provando nei suoi confronti. Quando quella tensione si è sciolta – quando Bill ha smesso di fuggire – si sarebbe certamente disfatto, se a quel punto non ci fosse stata una forza di tutt’altro tipo a tenerlo insieme. La forza di tutt’altro tipo, nel caso di specie, è quella delle braccia di Chakuza. Delle sue spalle, della sua strana, complicata maturità e di quello che prova per Bill.
Chakuza, Dio mio, lo adora. Anche Bushido lo adorava, ma c’è qualcosa di fondamentalmente diverso, nei loro sguardi, che è evidente se solo li si sa guardare. Bushido guardava Bill come fosse una cosa propria, quasi un pezzo di corpo. I suoi occhi riflettevano un senso di appartenenza che rendeva Bill orgoglioso.
Chakuza, invece, lo guarda come se fosse un regalo. Qualcosa di totalmente inaspettato, che è nuovo ogni volta che cambia la luce, il giorno, l’angolazione o la prospettiva. Qualcosa di diverso che non riesce ancora a capire perfettamente e che, anche per questo, lo avvince. I suoi occhi riflettono un senso di gratitudine che rende Bill orgoglioso. Ancora. Credo che Bill abbia pensato che non avrebbe mai più provato niente del genere. Ed invece è capitato di nuovo. È per questo che Bill guarda Chakuza con la stessa gratitudine con la quale viene osservato.
Per certi versi, ciò che lega loro due è molto più maturo di ciò che un tempo ha legato Bill a Bushido.
Questa sarebbe una cosa bellissima. Se solo io oggi non fossi in questa dannata Audi nera di merda. Direzione aeroporto.
*
Bushido era un uomo molto organizzato. Il fatto che, generalmente, si comportasse come un cretino – divertendosi a tirare scemo chiunque, per esempio – mi ha spesso fatto perdere di vista la verità fondamentale per la quale, per fare il suo mestiere e gestirsi adeguatamente, uno debba per forza esserlo.
Il mestiere di Bushido… è complicato definirlo. Bushido era un cantante. Fin qui, tutto chiaro. Bushido era anche un personaggio pubblico, e questo faceva mestiere a sé indipendentemente anche dal canto. Era famoso perché cantava, ma non era rimasto famoso solo perché aveva cantato. Mantenere un’immagine pubblica che ti tenga di continuo sulla cresta dell’onda non dipende solo da quanti biglietti riesci a vendere in occasione di un concerto, o da quanti dischi d’oro riesci a piazzare appesi alle pareti dei tuoi studi. Serve altro, servono le sbruffonate, l’iperpresenza sugli schermi – di qualsiasi tipo – serve del fascino e serve saperlo usare. Bushido, in tutto questo, è sempre stato bravissimo. Suppongo fosse così perché s’è sempre gestito da solo, fin da piccolo. Errori su errori, a un certo punto impari.
In aggiunta a tutto questo, l’altro mestiere di Bushido – un lavoro a tempo pieno – era quello di non perdere contatto con le proprie origini. Quando vivi in un bel quartiere residenziale, circondato da alberi rigogliosi, con una piccola piscina sul retro, Spongebob in televisione e World Of Warcraft sempre acceso sul pc, ci può anche stare che ogni tanto ti dimentichi di essere venuto da un ghetto, dallo spaccio e da tutto il resto.
Bushido non era un criminale.
Non più, almeno.
Ma c’era un pezzo di lui che era rimasto a Tempelhof. Era un pezzo di lui che aveva il suo valore. E che in caso di bisogno doveva farsi valere.
Quindi no, Bushido non era un criminale. Ma aveva ancora un nome che sapeva farsi rispettare, se qualcuno aveva bisogno di un favore.
Ed anche questi sono mestieri, suppongo.
È evidente, comunque, che quando devi gestire tre situazioni così diverse fra loro – devi cantare e devi essere un pagliaccio e devi anche ricevere all’Ersguterjunge gente che ti parla dei suoi problemi in stile Padrino, ecco cosa intendo – devi anche saperti organizzare. Devi essere uno che guarda piuttosto avanti nel futuro, uno che capisce come andranno le cose prima ancora che quelle comincino a muoversi in una determinata direzione. Perché non puoi permetterti di essere impreparato di fronte ai casi della vita, no, devi prevederli sempre e devi prevederli tutti.
Nella maggior parte dei casi, non puoi nemmeno farcela da solo. Anche se Bushido, ammetto, si destreggiava più che bene anche prima che arrivassi io.
Io non ho capito cosa Bushido intendesse esattamente quando mi ha chiesto se ero bravo a sistemare le cose, almeno fino a che non ho avuto qualcosa da sistemare per lui. E questo è successo tre giorni prima che morisse.
Tre giorni prima che morisse – prima ancora di andare da chiunque altro, sospetto – Bushido è venuto da me. Mi ha detto chi era, mi ha tenuto fermo in una kebaberia per circa tre ore solo per descrivermi da dove veniva, cosa c’era nella sua testa e, soprattutto, cosa stava preparandosi ad affrontare.
Dopodiché, senza nemmeno chiedermi se per caso mi andasse di farmi assumere da lui, ha cominciato a darmi direttive.
Non è che abbia dato per scontato il mio assenso, eh. Questo ci tengo a precisarlo, perché Bushido non ha mai dato per scontato nulla. Anzi, è probabilmente l’uomo che si aspetta di meno in assoluto, dalla vita. Direi quasi che non si aspetta proprio un bel niente. E tutto il suo modo di pensare, di agire e di risolvere le cose, si esprime così. Proprio perché non si aspetta nulla di gratuito, lui le cose se le prende. Il mio assenso – la mia complicità… quello che ora si esprime in me che viaggio verso l’aeroporto – lui non l’ha dato per scontato. Se l’è preso. Punto.
Insomma, gli ordini erano molto semplici: “nel caso dovessi morire – nel caso, Jost, non fare quella faccia, lo so che ti mancherei più di quanto potresti sopportare, ma cerca di essere uomo e forte” “Bushido, fottiti” “Oh! Come sei sboccato” una risata delle sue, “Nel caso dovessi morire, Jost, a Bill sto già pensando da adesso. Chakuza, uno dei miei, non è ancora nel giro come gli altri. Non che sia un pivello, è solo che la sua testa fa più resistenza. Sarà che è austriaco. Sarà che è un cuoco. Sarà che stava in fattoria coi genitori, tipo. Sarà che era biondo ossigenato, quando l’ho conosciuto” e giù altre risate, “Comunque a Bill penserà lui. Lo terrà su di morale. Ma non posso contare sul suo lavoro per tenerlo anche lontano dai guai con la stampa. Quello posso tranquillamente affidarlo a te – posso, vero? – tu le sai sistemare, queste cose”.
Al di là del suo essere come al solito un intollerabile buffone, si capiva lontano un miglio stesse parlando con estrema serietà. Questo per il semplice fatto che Bushido era un uomo molto orgoglioso. Non arrivava a chiedere niente, se non sapeva di averne effettivo bisogno. È uno dei motivi per cui, quando Bushido chiedeva, la gente non si tirava mai indietro. Perché ci si rendeva tutti immediatamente conto del fatto che c’era evidente necessità.
Quando, tre giorni dopo, Tom mi chiamò per dirmi che lo stronzo era morto, che Bill piangeva avvinghiato al suo dannato cadavere fino a pochi minuti prima e che adesso il corpo era in viaggio verso l’ospedale – “…l’ospedale, Tom?” “…sì. Era ancora… respirava. Poco. Ma respirava. A Bill non l’ho detto.” – io sono andato lì solo perché dovevo preparare l’ospedale all’arrivo del mio protetto. Era ciò che mi aveva chiesto Bushido, in fondo, no? E conoscevo Bill abbastanza da sapere che, una volta realizzato che il corpo del suo uomo non era più lì, non gli stava piangendo addosso e non lo stava sentendo sotto le mani, la prima cosa che avrebbe chiesto – e l’avrebbe anche ottenuta, perché Tom, alla fine, non riesce a negargli mai niente – sarebbe stato farsi portare dovunque fosse lui.
Dovevo disporre la sicurezza. Dovevo parlare coi medici. Dovevo parlare con le infermiere.
Di certo non mi aspettavo che, appena messo piede nell’edificio, un medico mi raggiungesse e, con aria piuttosto seria, mi rivelasse candidamente che “avevano avuto esplicita richiesta di conferire solo con me”.
A ripensarci, rivedo la scena con una perfezione tale che non sembrano passati nemmeno due giorni. E invece è quasi un anno. Il medico che mi si avvicina – “Il signor Jost?” – io che esito – “Sono qui perché-…” – lui che mi interrompe – “Abbiamo ricevuto esplicita richiesta di conferire solo con lei” – io che lo fisso disorientato – e penso: è arrivato fino a questo punto, quell’essere assurdo? È venuto a parlare perfino coi medici, in previsione della propria morte? – e lui che mi poggia una mano sulla spalla e mi conduce di là. E Bushido sul lettino.
Mentre i miei ricordi indugiano sul suo volto pallido e provato – Bushido aveva la capacità di diventare, tipo, bianco, quando stava male. Non un bianco da carnagione chiara, un bianco spaventoso, cadaverico. Appropriato, direi, vista la situazione in cui si trovava in quel momento – le porte a vetri smerigliate e scorrevoli della sala arrivi dell’aeroporto si spalancano, ed io osservo il flusso di turisti americani che sfilano allegramente fra i nastri trasportatori per recuperare i bagagli e godersi un po’ di sane vacanze europee; osservo anche i tedeschi che tornano dalle spiagge d’oltreoceano, arrossati dal sole e con certi sorrisi da pubblicità – non tanto per la perfezione, quanto per la felicità che mostrano – che ti riempiono il cuore; e fra una persona e l’altra, un po’ mescolato fra la folla, i capelli lunghi che sfiorano il collo, gli occhiali da sole a coprire quasi metà del viso ed il pizzetto curato a rendere anonima e irriconoscibile l’altra metà, osservo anche lui.
Si guarda intorno. Sta cercando me. Le linee nere e definite del tatuaggio sul collo spuntano appena, giocando a nascondino col colletto della camicia bianca che spunta dallo scollo a v del maglioncino di cotone blu che indossa. È, forse, un po’ troppo leggero per il periodo in cui siamo. È roba primaverile, mentre qui le porte dell’autunno si schiudono lasciando passare i primi spifferi di freddo. Immagino che i lunghi mesi di soggiorno a Miami abbiano un po’ sfasato il suo termostato naturale. Ed era già sfasato di suo, eh, capacissimo di andare in giro in maniche corte in pieno inverno. L’ho visto coi miei occhi.
Quando finalmente mi trova, sorride. Ed anche se al momento vorrei alternativamente prenderlo a cazzotti, rispedirlo negli Stati Uniti con un calcio o terminare il lavoro che Saad non è stato evidentemente capace di concludere, sorrido anch’io. Perché mi tira fuori uno di quei sorrisi brevettati ai quali non puoi sfuggire. Sono cose solo sue.
Peraltro…
- Ma lo fai apposta a mettere sempre questi maglioncini qua, quando devi incontrarmi?
Bushido ride ad alta voce e posa l’enorme trolley rosso che si trascina alle spalle.
- Ti sono mancato, Jost? – chiede con aria fascinosa, piantando una mano sul fianco.
Io inarco un sopracciglio.
- Meno ti vedo, più felice sono. Questo mi sembrava fosse chiaro.
Lui finge disperazione ed inarca le sopracciglia verso il basso, sfilando gli occhiali da sole per potermi somministrare più disinvoltamente quella specie di occhiata da cucciolo bastonato che non so come riesca a tirare fuori all’occorrenza, dall’alto del suo abbondante metro e novanta.
- Ma mi hai fatto tornare tu! – si lamenta con aria affranta.
Io sospiro.
- Sì. – ammetto, - Ti ho chiamato io. – “e me ne sto già pentendo”, vorrei aggiungere. Ma lui ha ricominciato a sorridere. E insomma. – L’ho fatto per un motivo serio, comunque, e lo sai perfettamente. E invece, come al solito, stai facendo il deficiente.
- Sdrammatizzo, Jost. – mi corregge, riprendendo a muoversi disinvoltamente verso l’uscita. Ricorda ancora tutto perfettamente, un po’ mi fa pensare che sia venuto altre volte, nel corso dell’ultimo anno. Altrimenti non si spiega la sicurezza con la quale si riappropria degli ambienti. Poi però ricordo che lui è Bushido, che le cose non le vive, le possiede, perciò non mi pare più nemmeno tanto strano che ricordi ancora perfettamente Berlino-Schönefeld.
Io sospiro ancora e gli vado dietro. Non ho nemmeno bisogno di guidarlo verso la macchina, ricorda anche lei. Pure se l’ultima volta che l’ha vista è stata quando l’ho accompagnato proprio a questo aeroporto, un anno fa. L’altra volta era in partenza, però. Stavolta è di ritorno. E non so ancora per quanto.
- Allora. – comincia tranquillamente, aspettando che abbia aperto il portabagagli per posare al suo interno la valigia, - Cos’è cambiato, mentre ero via? A parte il fatto che la gente non ascolta più buona musica perché il Chaky mi chiude l’azienda, ovviamente. – aggiunge con una risata naturale.
È cambiato, tanto per cominciare, che il Chaky non ti vuole solo chiudere l’azienda, ma si diverte anche a chiudere il tuo ex ragazzo nel proprio appartamento. Con la di lui complicità e per la sua gioia, peraltro. Gioia che condividono solo loro due, inoltre, perché in quei periodi Tom sclera – e sto finendo le scuse plausibili al riguardo, lo ammetto. Credo di aver raschiato il fondo con “è in beauty farm”, la settimana scorsa – ed io non me la passo mai in maniera piacevole, quando Tom sclera. C’è di nuovo anche che, ricordi l’altra tua ex? Cassandra? Ecco, quando Tom non è impegnato a sclerare perché non capisce con chi sta uscendo suo fratello, si vede con lei. E non credo giochino a scacchi, quando lo fanno. C’è poi quell’altro tuo ex ragazzo, quello che non è mai diventato tale, Patrick, lo ricordi lui? Ecco, lui me lo sto perdendo. Non credo di aver mai visto Fler triste com’è in questo periodo. Ed è un anno che ci gira intorno, sai? Non è bello quando vedi uno che sta decorosamente bene ridursi così. Ed i motivi, peraltro, sfuggono a tutti meno che a me, perché grazie a te – o per colpa tua – ho imparato ad osservare.
Sono cambiate un mucchio di cose, Bushido. Del tipo che prima si stava bene. E adesso è un casino. Ma come si fa a dirtelo?
- Be’, fa più freddo. – annuisco con aria competente, - Sicuro di aver portato abbastanza roba pesante?
Lui scrolla le spalle ed entra disinvoltamente in macchina.
- Non ho lasciato niente lì. – risponde sovrappensiero, quando mi osserva sedermi al posto del guidatore. Lo guardo con sincero sgomento. – Intendo… tranne i soprammobili, ovviamente. E qualche vestito che-
- Bushido… - lo recupero dal vortice di pensieri assolutamente inopportuni in cui si sta allegramente gettando, - ne abbiamo già discusso, di questa cosa, e-
- Tranquillo, Jost. – mi interrompe con uno sbuffo infastidito, - Non ho intenzione di restare più del necessario.
Al che, giustamente, mi viene da rispondere “No, noi avevamo concordato che non saresti rimasto più di un mesetto, giusto il tempo di risolvere la questione. Com’è che adesso un mesetto è diventato il necessario? E perché il necessario mi fa paura, come periodo di tempo?”. Però non lo faccio.
- Sarà. – borbotto scontento, mettendo in moto. – Comunque sia-
- Non mi farò vedere da anima viva. – mi interrompe ancora, - Briegmann a parte, naturalmente, altrimenti come faccio a riprendermi l’EGJ?
- Sì… quello lo do per scontato, Bushido. Comunque sia, stavo dicendo, - sbuffo e guardo fuori dal finestrino. Non mi fa bene sentirmi in imbarazzo, al momento. Non mi fa bene sentirmi in imbarazzo perché ricordo fin troppo bene che nove mesi fa le dita che adesso pestano sulla tastiera del cellulare, scrivendo messaggi diretti non so e non voglio sapere a chi, sfioravano la mia pelle. Non mi fa bene. Non mi fa bene per niente. Sono evidentemente un cretino. - …bentornato, ecco.
Bushido ride, non solleva gli occhi dal cellulare e mi molla un paio di pacche sulla spalla.
- Anche io sono contento di rivederti, Jost. Mi sei mancato anche tu.
E se da un lato penso che, grazie a questa sfacciata naturalezza, per certi versi avere a che fare con lui è incredibilmente facile, dall’altro lato penso che lo odio. La mia giornata di oggi è un continuo realizzare che, da questa situazione, non riusciremo mai ad uscire vivi.
*
Ho appena lasciato Bushido in uno dei numerosi appartamenti che ha continuato a tenere qua a Berlino nonostante, quando è andato via, non si pensasse minimamente all’eventualità che potesse tornare. In realtà, il fatto che ci fossero ancora tutti questi appartamenti a suo nome, qui nei dintorni, avrebbe dovuto darmi da pensare in tal senso. Voglio dire, non tieni la zavorra inutile di dieci dannati posti vuoti, se non pensi che prima o poi tornerai a utilizzarli. Soprattutto, non li tieni quando sai che la tua etichetta è destinata a chiudere e sai anche perfettamente che, vendendo quelli, potresti tranquillamente sopravvivere di rendita per tutto il resto della tua esistenza. Quindi sì, in effetti avrei dovuto pensarci. O avrei dovuto costringerlo – convincerlo, Bushido non lo costringi mai – a venderli.
Gli ho promesso il kebab per cena. Quell’uomo, alle volte, è un bambino. Nel senso che se gli prende un capriccio, vallo a smuovere, poi. Non si può. Avrei potuto fargli la spesa e preparargli un buon piatto di pasta – dice di aver imparato a cucinare, mentre stava a Miami, ma che vuoi che si impari a cucinare in America? Gli hot dog? – ma lui no, lui vuole il suo intruglio malefico e disgustosamente piccante che peraltro io non posso mangiare in quanto riempito fino a esplodere di carne varia ed eventuale, ovviamente. Niente pasta, il kebab, per lui. È stato palesemente troppo lontano da casa.
Perciò, è cercando una kebaberia che chiamo Bill al cellulare. Giusto per capire se sta bene e se si diverte. O forse solo perché mi sento in colpa.
- David! – strilla lui, la voce che sprizza gioia ad ogni nota, come nei migliori casi di esaltazione zucchero-indotta. Chakuza deve averlo ingozzato di dolcetti.
Sorrido intenerito, anche se, da qualche parte dentro di me, sto strillando “santo cielo” in tutte le lingue che conosco. E non sono così poche.
- Bill, ciao. – lo saluto, individuando finalmente una kebaberia ed introducendomi all’interno dell’ambiente caldo e saturo dell’odore forte delle cipolle, delle olive, delle salse piccanti e della carne che ruota sullo spiedo. – Dove sei?
- Disneyland! – riprende a strillare. E lo immagino sollevare un braccio in segno di gioia. Come il bambino che sta ricominciando ad essere da quando può. – Puoi crederci? Siamo appena usciti… entrati… cioè, siamo usciti dal parco ed entrati in albergo! – e sottolinea l’imbarazzante confusione da allegria con una risatina sottile e divertita.
- Aha, capisco… - mugugno, indicando al ragazzo dietro al bancone di preparare due panini con… be’, tutto quello che vuole metterci, è indifferente. – Sei con… - ed esito, perché ho paura a parlarne con Bushido che mi aspetta in quell’appartamento buio e silenzioso a qualche strada da qui.
Bill, comunque, non mi lascia rispondere. È ansioso di dirlo lui, quel nome.
- Sìsì! – miagola entusiasta, - Sono con Peter, stiamo decidendo se andare fuori a cena! E oggi mi ha comprato un mucchio di caramelle, non è carino?
- …già. – annuisco a fatica, - Molto. Senti… pensate di rientrare in settimana? O comunque a breve?
- Assolutamente no! – ride ancora lui, - Avanti, David, è il nostro mesiversario, te l’ho detto tre giorni fa! Non starai mica per dirmi che c’è del lavoro da fare…
Per un secondo, accarezzo l’opportunità di smontargli i piani. Non perché non voglia che sia felice, tutt’altro, dubito che esista un’altra persona al mondo – a parte Tom – che voglia Bill felice più di quanto lo voglia io. Solo che mi viene da pensare che fra poco ricorrerà il compleanno di Bushido. Sarebbero trentun anni, se non fosse morto. Che poi non è morto davvero, d’accordo, ma certe volte – in maniera del tutto irrazionale – mi viene da pensare che Bill questo lutto non l’abbia vissuto per niente bene. Che si sia distratto troppo.
Non lo so, in realtà non mi pare che il lutto di Bushido sia stato davvero vissuto per bene da qualcuno. Forse solo da sua madre. La cosa è un po’ ironica e un po’ – tanto – triste. Vorrei solo che Bill non fosse con Chakuza, adesso. E lo penso mentre il ragazzo dietro al bancone mi consegna i due panini incartati e insacchettati.
- No, no. – lo rassicuro con una mezza risata, porgendo al ragazzo una banconota da dieci, e attendendo il resto, - È tutto a posto. Volevo solo esserne sicuro. Per stasera non ci sentiamo più, giusto?
- No, infatti. – annuisce lui, più tranquillo, - Pensavamo di fare tardi. – aggiunge poi, con una mezza risatina.
Sospiro profondamente, intascando le monetine e tornando in strada.
- D’accordo, Bill. Avete il mio benestare, anche se volete andare fuori a cena. Però, ti prego, non costringermi a correre dietro i paparazzi sventolando assegni nella speranza di salvaguardare la tua carriera e la tua immagine pubblica, d’accordo? – anche perché, vorrei aggiungere, pure se non lo faccio, dato che il giorno si avvicina, ovunque si stanno organizzando trasmissioni celebrative, concerti all’onore e bla bla bla. Tutta roba che quando la racconto a Bushido lo fa ridere di gusto. “Non sono mai stato amato tanto,” si lamenta giocosamente, “quando ero vivo”. Mi sa che ha ragione.
Bill non coglie il sottinteso del mio discorso. Meglio così, in fondo.
- Sì, sì, lo so. – si lagna sbuffando, - Niente baci, niente carezze, niente di niente in pubblico.
- Bravo. – mi complimento subito. – E… per quando tornerete a Berlino… - mi faccio forza perché devo dirlo. Devo dirlo per forza, perché non posso rischiare niente e se Bushido è in città io non posso mettere Bill nelle condizioni di farsi beccare da lui con Chakuza. Anche per un caso fortuito. Anche se quell’idiota decidesse davvero di non uscire ma si limitasse a guardare fuori dalla finestra e casualmente li vedesse. - …ho saputo da fonti fidate che Bravo è in cerca della paparazzata del secolo. Mi sa che non siete stati granché discreti ultimamente. – non è vero, sto inventando. Bill, però, non può saperlo. – Magari è meglio che tu e Chakuza vi vediate un po’ di meno, per le prossime settimane. D’accordo?
Il suo silenzio mi raggiunge come una stilettata in mezzo ai polmoni. Sento voci di persone, risate di bambini ed altri miriadi di rumori, tutti attorno a lui, ma lui resta in silenzio.
- …ma non ci siamo visti per niente, la scorsa settimana… - mugola scontento, - E presto dovremo rimetterci al lavoro…!
Ha ragione, insomma. Ha ragione.
- Bill, non mi deludere adesso. – ringhio, e sono irritato perché ho torto. – Un po’ di professionalità, Cristo.
Dall’altro lato della cornetta, lui esita, incerto.
- Non… - balbetta insicuro. Poi sospira. - …mi dispiace. È che ci vediamo così poco che… mi dispiace. Faremo come vuoi tu, David.
Il mio sospiro fa eco al suo. È ugualmente profondo e ugualmente affranto, almeno.
- Lo so, Bill. Lo so che è difficile. – e sono triste per Bushido, ma è Bill il mio bambino, in fondo. – Facciamo che alla prima pausa disponibile vi do due settimane solo per voi. – suggerisco con un mezzo sorriso che spero lui senta fra le vibrazioni delle mie parole.
- …due settimane? – chiede Bill, incredulo, - Intere?
- Sì. – confermo io senza un’esitazione. E non m’importa, in questo momento, se ciò significa che dovrò rispedire Bushido a Miami quanto prima, anche a costo di fare carte false. – Due settimane piene, senza nemmeno un impegno. Dì a Chakuza di organizzarsi. – concludo con una risatina.
L’urlo di gioia di Bill si fa attendere solo un secondo. Poi arriva, come previsto, spaccandomi i timpani e, in buona misura, anche il cuore. Io, davvero, non so che pesci prendere. Dovunque guardo vedo profilarsi disastri a lungo termine. Di quelli che rovinano la vita a lungo.
Io non ci credo che Bushido potrà passare per il suolo tedesco per poi tornarsene negli Stati Uniti senza colpo ferire. Io non ci credo, per il semplice fatto che quell’uomo non… non passa mai senza lasciare traccia. Non è neanche colpa sua. Non gli riesce e basta.
Allontano la cornetta dall’orecchio e parto con le lamentele di routine. Del tipo “Sono troppo buono, palesemente ti vizio, sei venuto su diva perché ti ho lasciato fare tutto quello che volevi” e così via. Bill mi ferma come al solito, ringraziandomi con quel tono dolce che non ammette repliche per il semplice fatto che, quando lo usa, ti sta parlando col cuore in mano.
- Saremo buoni buonissimi, David. Promesso. – cinguetta al settimo cielo.
Sorrido, inspiegabilmente soddisfatto di me stesso.
- Bravo. Ora vai, su. E divertiti.
Lui ridacchia appena.
- Lo farò. Grazie, David.
Mi si stringe il cuore.
- Figurati. Buonanotte.
Chiudo la telefonata prima che possa dire altro. Me lo vedo già che corre verso Chakuza, che chissà dove lo stava aspettando per non disturbarlo. È discreto, con lui. È gentile. È palesemente la scelta perfetta. La più perfetta che Bill poteva fare dopo Bushido.
Sospiro pesantemente.
- E tutto questo… - borbotto, incamminandomi verso l’appartamento, - perché quello mi ha scopato, una volta. Io devo essere completamente pazzo.

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Typisch Ich

di lisachan
Fler si attacca alla bottiglia con un’urgenza stranissima, e siccome non gliela vedo addosso da un sacco di mesi, questa necessità spasmodica di bere, un po’ mi preoccupo. Anche se mi rendo conto che forse avrei dovuto preoccuparmi già da prima, quando mi ha chiesto di uscire insieme perché doveva assolutamente parlarmi, ma io no, non mi preoccupo mai al momento giusto. Mi sono sentito dire “Usciamo? Ho bisogno di parlarti” ed ho pensato solo “Ah”. Ed era un “ah” ironico, del tipo “ma allora esisto ancora nel tuo mondo, pure se non ti fai più vedere e quando ti cerco sei evasivo e scostante”. Come se non sapesse che a me ‘ste cose danno fastidio.
A tutti gli effetti, l’ultima volta che ci siamo guardati negli occhi è stato circa due settimane fa, quando l’ho… quando gli ho di nuovo messo le mani addosso dopo una pausa che durava da… da Bill, praticamente. Analisi non ne ho fatte, conclusioni non ne ho tirate. Ho smesso di cercare di trovare un senso razionale al mio rapporto con Fler. Non c’è un senso razionale, siamo partiti col piede sbagliato e con quello continuiamo a camminare.
- Be’? Che mi dici? – provo a chiedere sorridendo, mentre rubo dal suo piatto gli stuzzichini che ci hanno portato con la birra. I miei sono già finiti perché sono così nervoso che li ho buttati giù senza nemmeno accorgermene.
Fler si guarda intorno con aria allarmata e posa la bottiglia. Gli rimane sul labbro inferiore una goccia di birra e la cancella velocemente con la lingua. Ci resto un tantino. Sulla lingua e sulle labbra. Il sapore di Fler lo conosco così bene che mi sembra quasi di sentirmelo addosso mentre lo guardo.
Devo calmarmi un po’.
Mando giù un altro stuzzichino.
- Non sono stato molto chiaro, quando ci siamo visti l’ultima volta. – comincia lui con una lucidità sorprendente. Fler è un tipo schietto ma s’imbarazza per un niente, che è una cosa che posso capire benissimo, visto che per me è uguale. Cioè, io sono meno schietto. Però m’imbarazzo lo stesso. Comunque adesso mi sta guardando negli occhi e non è imbarazzato neanche un po’. È perfettamente lucido e tranquillo, come se questo discorso se lo fosse ripetuto in testa per mesi.
Mi fa un po’ paura, come cosa. I discorsi si preparano solo quando sono importanti.
Annuisco vagamente ed allungo di nuovo la mano verso il suo piattino. Lui la schiaffeggia a mezz’aria.
- La pianti di mangiarti la mia cena? – ride, rilassandosi un po’ contro lo schienale, - Oggi sono da solo, non mi va di tornare a casa e cucinare. Fammi mangiare.
- Be’, potresti venire da me, passiamo dalla signora Lotte e… - mi fermo quando mi rendo conto che io per primo non capisco se lo sto invitando a mangiare o a fare altro. Nella mia testa c’è la stessa incertezza che leggo nei suoi occhi. La cosa è veramente spaventosa.
Fler sospira e mordicchia un crostino pieno di mozzarella filante, ma lo riposa subito. I suoi lineamenti si tendono all’improvviso, perché c’è crollato addosso il silenzio e non è facile riprendere un discorso in una situazione simile. Non è facile anche perché io lo sto guardando come se avessi paura di farlo sparire muovendomi, me ne rendo conto. Ma è tutto troppo strano, troppo serio forse, le nostre interazioni non sono quasi mai così. Spariamo cazzate o ci insultiamo, ma non siamo mai seri.
- Di cos’è che volevi parlarmi? – cerco di aiutarlo, chinandomi un po’ nella sua direzione.
Fler sospira, si morde l’interno di una guancia e manda giù un altro po’ di birra.
- Chaku, io adesso te lo dico, ma tu non dai di matto, okay? – e me lo chiede col tono incerto di chi sa perfettamente che ciò che dirà provocherà esattamente la reazione che sta cercando di scongiurare.
- Fler…? – lo chiamo incerto, aggrottando un po’ le sopracciglia.
- No, sul serio. – si sistema sulla sedia lui, mettendo le mani avanti, - Prima di tutto non è una cosa a lungo termine, e poi potrebbe essere la soluzione migliore, credo, e-
- Fler, tu stai giustificando qualcosa che non so. – gli faccio notare, vagamente allarmato, - Ti rendi comprensibile?
Sospira ancora, più forte, con aria quasi rassegnata. Poi cambia di nuovo posizione sulla sedia, e proprio mentre sto pensando che il suo non riuscire a stare comodo mi ricorda cose che non vorrei mai più richiamare alla memoria – e che però ogni tanto mi tocca ricordare comunque, se non altro perché me lo merito – lui parla.
- Ho pensato… - comincia piano, - che potrei andare un po’ fuori città. Non mi sembra che la mia presenza qui sia di aiuto a nessuno, dico, non a te né a me sicuramente, e Sido sta per andare in tour e pensavo che potrei andare con lui, anche perché è da tanto che non vado un po’ in giro a cantare e mi manca. Così sarebbe tutto molto più semplice, non credi?
Finisce di parlare ed io resto in silenzio. Lo fisso. E leggo nei suoi occhi lo stesso naturalissimo ragionamento che passa per il cervello a me: fosse un amico, sorriderei e direi “perfetto, Atze, mi sembra una cosa meravigliosa!”, gli allungherei una manata sulla spalla, gli offrirei il secondo giro di birra e poi lo saluterei augurandogli buona fortuna.
- Perché? – chiedo invece. Quindi mi sa che nel ragionamento perfettamente naturale di cui sopra c’è una falla. O che la falla sta nelle nostre teste. Per lo meno nella mia.
- Come, perché? – chiede Fler, spiazzato, inclinando il capo.
- Dico… - continuo, - l’altra sera… quando ti ho chiesto se non volevi più vedermi, hai detto che non era così, e ora-
- Ma non è che non voglia più vederti! – si affretta a correggermi lui, ma non mi guarda negli occhi. Cerco di resistere al bisogno di afferrarlo per il mento e costringerlo a farlo. – È solo per questo periodo, tu sei un po’ confuso ed è meglio che non ti stia intorno.
Aggrotto le sopracciglia e mi lascio andare ad un mezzo ringhio.
- Piantala di parlare come se capissi tutto. – borbotto contrariato.
Fler mi lancia un’occhiata supponente.
- E tu piantala di parlare come se io non capissi niente. – ribatte asciutto. – Hai questo brutto vizio, Chakuza, di considerarmi un cretino. È un errore madornale che continui a ripetere.
Incrocio le braccia sul petto.
- Io non penso che tu sia un cretino. – cerco di convincerlo, ma lui mi zittisce con un cenno della mano.
- Non ti stavo chiedendo il permesso. – dice duramente, - Parto dopodomani.
Spalanco gli occhi.
- …senti. – protesto a bassa voce, - Tu non puoi prendermi così per il culo, Fler. Tipo, non puoi dirmi… - abbasso la voce e mi avvicino, cercando di non attirare l’attenzione, - non puoi dirmi che non ti andava, l’altra sera, e pensare che io ci creda. Ti stavo toccando. Lo so che ti andava. Tu non capisci che non puoi dirmi no quando io so che dentro la tua testa c’è un sì. – lui fa una smorfia contrariata, ma io non mi fermo e non gli lascio il tempo di negare, - E non puoi dirmi che devi parlarmi di qualcosa e poi, vedendo che la mia risposta non ti piace, sperare di darmi a bere che non stavi chiedendo il permesso. Tu non sei mai sincero con me. Questa cosa deve finire.
Fler stringe le dita attorno alla bottiglia e mi fissa, sconvolto. Io trattengo il respiro.
- Chakuza… - comincia, ma si ferma subito. Ha gli occhi spalancati e ci posso vedere dentro tanto di quello schifo che mi sento male. Esita un po’ e per un secondo ho quasi paura che lo dica. Che finalmente lo ammetta a chiare lettere. Che lo sa, Cristo, che sa tutto, e che quindi sono io che dovrei smetterla di prenderlo per il culo. Piantarla e basta. Ma non lo dirà, io lo so. Infatti lo vedo abbassare lo sguardo e mordersi un labbro, posando un pugno chiuso sul tavolo, - …smettila. – conclude semplicemente. – È meglio per tutti.
Tiro un sospiro di sollievo e mi avvicino ancora un po’.
- Intanto, io non credo che sparire sarebbe meglio né per te né per me. – spiego, - Basta solo cercare di calmarsi un po’ tutti e due… - sono io che devo calmarmi, ma va be’, - Possiamo tranquillamente stare nello stesso posto senza che-
- Pensavo la stessa cosa mentre spostavamo l’armadio. – mi interrompe lui, occhi bassi, - E mi sbagliavo.
- Be’, quello magari è stato un errore. – non so dove voglio andare a parare, visto che ha ragione lui. Se resta, ricapiterà. È matematico. Lo so come funziona. Lo so come funziono. Funzioniamo così. – Possiamo evitarlo, in futuro.
- No che non possiamo. – protesta.
- Oh, avanti. – sbotto io, agitando una mano, - Non è che abbia voglia di saltarti addosso ogni volta che ti vedo. – Fler trasale e si irrigidisce sulla sedia. È offeso e io mi stupisco di quanto sia facile portarlo dove voglio. Poi mi ricordo che dovrei smetterla di stupirmi. In realtà io e Fler non facciamo che metterci agli angoli da quando ci siamo conosciuti. Il nostro non è un rapporto, è un incontro di boxe perenne. Lui mi spinge alle corde ed ottiene quello che vuole, e la stessa cosa faccio io nel momento successivo. È un meccanismo talmente rodato che pensare di interromperlo non è veramente possibile. – Non sempre, Fler, ma ogni tanto succede. – ammetto semplicemente. – Che dovrei fare? Ignorarlo?
La risposta è sì, ovviamente. La risposta che passa sul viso di Fler è “sì, stronzo, sì che dovresti”. Ma resta un riflesso sul suo viso, non si traduce in parole ed io sono ancora in vantaggio. Sono in vantaggio solo perché lui non mi sputtana, d’accordo, ma è un vantaggio comunque.
Paghiamo e usciamo in strada qualche secondo dopo; il vento secco e freddo del primo autunno mi sferza in pieno viso e tiro su il cappuccio della felpa, rimpiangendo immediatamente il tepore dell’interno del locale. Fler è teso e nervoso come mai, sento a pelle che, potesse, mi schiaccerebbe contro un muro e mi pesterebbe a sangue fino a farmi dimenticare come mi chiamo. È una sensazione che per certi versi posso capire: fino a due settimane fa ero perfettamente felice e sereno, non mi mancava niente. Da due settimane a questa parte, però, non faccio che darmi motivi per spaccarmi la testa contro un muro.
Forse dovrei farlo: risolverei un mucchio di problemi.
Passeggiamo in silenzio per un po’, mi pare di non avere una direzione, però a un certo punto ci fermiamo e Fler mi guarda.
- La tua macchina… è da queste parti? – mi chiede.
A me viene un po’ da sorridere. Certe volte si comporta in maniera assurda.
- No, dobbiamo andare da tutt’altro lato, verso-
- No. – riprende, scuotendo il capo, - La mia macchina è qui. – si ferma ed indica una mastodontica Escalade nera all’interno della quale la mia utilitaria entra due volte. Anche se me l’ha fatta sistemare per il compleanno – con il bagagliaio nuovo, la vernice nuova, la tappezzeria nuova, così bella come non mi sembrava fosse nemmeno quando l’ho comprata – resta comunque una cosa ridicola in confronto a questo gigante su ruote. Io rimango a boccheggiare qualche secondo e lui ne approfitta per continuare, - Io ora salgo e me ne torno a casa mia. Se vuoi, ti do un passaggio fino alla tua macchina. Poi tu ci sali e te ne torni a casa tua. – si ferma ancora, esita. – E poi sarebbe meglio non sentirci né vederci più, Chaku.
Odio che mi abbia detto una cosa simile col tono in cui l’ha fatto. Dolce, rassegnato, tranquillo. I toni della voce di Fler sono sempre molto chiari, perché quasi sempre lui sa esattamente cosa ti sta dicendo. Non parla a caso, Fler. Non apre la bocca per darle aria. È un uomo pratico, dice lo stretto indispensabile e te lo dice esattamente come deve dirtelo.
Odio che mi abbia detto una cosa simile con questo tono, perché adesso so che non stava mentendo quando mi diceva che no, non voleva. Non voleva davvero.
Odio che mi abbia detto una cosa simile. Lo odio e basta.
- Fler-
- No. – mi sorride appena, - Mi dispiace. Io ci tengo a te. È il massimo che sono disposto a dirti, Chakuza, ma tu sai esattamente cosa significano queste parole. Io ci tengo a te. Però non esiste, Chaku. Pensavo di… pensavo di star via per un po’ e credevo che, lasciando andare le cose com’era giusto andassero, quando fossi tornato avrei trovato una situazione migliore. Ma tu ci ricaschi, Chaku.
- Aspetta, Fler-
- No, guardati. – vorrei che la smettesse di cominciare tutte le sue frasi con un no. – Lo sai da quanto non mi guardavi così? – io deglutisco, ma mando giù solo aria. – Odio quando mi costringi a dirti cose simili. – riprende lui, un po’ infastidito, - Comunque questi occhi li ho aspettati per mesi e non sono mai arrivati. Tornano adesso quando decido di andarmene… ci ricaschi troppo facilmente, ed io sto cominciando a pensare che fra noi due non ci sia proprio niente, Chakuza.
Lo afferro per una spalla e lo sbatto contro lo sportello dell’Escalade. Lui non fa una piega, continua a guardarmi.
- Questo non puoi dirlo. – ringhio a bassa voce, - Non puoi dirlo, Fler.
- E invece lo dico. – non accenna nemmeno a scostarsi da me. Anzi, mi prende per il bavero della felpa e mi tira più vicino, così vicino che sento il suo respiro caldo addosso. Non capisco se mi sta torturando o se è solo dannatamente indeciso. Le sue parole non denunciano indecisione, comunque. – Lo dico perché mi stai mandando fuori di testa. Quando ho deciso di restarti intorno, Chaku, l’ho fatto dicendoti chiaramente di fare in modo che ne valesse la pena. Ti sembra di averlo fatto?
Lo afferro per i fianchi, di prepotenza, e mi schiaccio contro il suo corpo. Non mi interessa se siamo per strada. Non mi interessa se possono vederci. Non mi interessa neanche se vuole andarsene, io non lo lascio.
- Non in quel senso. – scuote il capo lui. Fra noi c’è la solita tensione di sempre. Fra me e Fler sono sempre scariche elettriche, non è mai una cosa tranquilla. Com’è che non le ho sentite, in questi mesi? Dov’ero con la testa?
E penso a Bill.
Lo penso a casa sua.
Lo penso che mi aspetta.
E penso a me e mi sento una merda.
Mi allontano.
- …no, credo di non averlo fatto, Patrick. – ammetto a bassa voce, - Mi dispiace.
Lui annuisce e si sistema i jeans, tirandoli su per i passanti della cintura. L’ho scombinato un sacco. Ha anche il giubbotto sollevato e un lembo di felpa incastrato nell’orlo dei pantaloni.
- Non ce l’ho con te. – dice, ma non è sincero. Vorrebbe non avercela con me. Però mi sta detestando. Probabilmente perché non riesco a trovare il modo giusto di trattenerlo.
So che un modo c’è.
So anche che dire addio a Bill per Fler, però, non è una possibilità contemplabile.
- Vorrei solo chiuderla nella maniera più semplice e tranquilla possibile. – continua lui, finendo di sistemarsi. Poi sbuffa un mezzo sorriso. – È patetico che io e te ci si decida a parlare chiaro solo alla fine, vero?
Mi inumidisco le labbra.
- Non volevo neanche che arrivasse, la fine. – dico sinceramente.
Lui ride un po’, è una risata per nulla risentita.
- Preferivi continuare a prenderci in giro tutti? – alzo lo sguardo e mi arrabbio, e lui ride ancora. – Te stesso compreso, ovviamente. – io sospiro e torno a guardarmi la punta delle scarpe. Sento ancora la sua risata, sottile e breve, e poi lo vedo chinarsi un po’ per recuperarmi: appoggia le labbra sulle mie e poi si rimette dritto, così che io sono costretto a risollevare il viso a mia volta, se non voglio perderlo. È un bacio così, asciutto e semplice. Non è per nulla una cosa nostra, noi non ci baciamo mai così. È sempre una cosa molto più fisica e bagnata, ed anche più violenta. Questa è una cosa che con noi non c’entra, ed è quello che mi fa pensare che un noi non c’è già più.
Però c’era. Io lo so. Che Fler ci creda o no, noi c’eravamo.
Le nostra labbra schioccano appena quando lui si allontana, ed io non ho il coraggio di chiedere di più, anche se lo vorrei. Anche se, mentre tenevo gli occhi chiusi e mi lasciavo baciare, non esisteva davvero nient’altro. Probabilmente dipende dal fatto che io e Fler abbiamo sempre usato il sesso principalmente come scacciapensieri. Più di ogni altra cosa, quelli erano i momenti in cui smettevamo di ragionare. Ed io decisamente avrei bisogno di smettere di ragionare, in questo momento. O di ricominciare a farlo, forse.
- Quello nel canale doveva essere l’ultimo. – mi dice piano, - Però potrebbe essere l’ultimo anche questo, suppongo.
Io sbuffo un po’.
- Ci pensi da tanto, eh?
Fler annuisce.
- Da molto più di tanto.
Restiamo in silenzio per qualche secondo, e nel tempo che passa Fler infila le chiavi nella serratura ed apre lo sportello, arrampicandosi disinvoltamente sul sedile e restando lì con una gamba penzoloni verso la strada e l’altra ben piantata sul bordo della portiera.
- Allora non ci vediamo più. – chiedo conferma, mentre sulle sue labbra affiora un sorriso tranquillo.
- Penso proprio di no. – annuisce.
- E non ci sentiamo più.
- No, Chaku. Non ci sentiamo più.
Annuisco anche io. Ho improvvisamente voglia di tornarmene a casa e prendere a cazzotti qualcuno dei soprammobili di gomma che mamma mi compra ogni tanto. Se ne esce con certe cose assurde. C’è un vaso – un vaso enorme, ha dentro fiori di plastica impolveratissimi – che servirebbe proprio bene allo scopo.
- Addio. – gli sussurro, mentre lui tira su l’altra gamba.
Fler ride.
- Come sei epico. – e sono le ultime parole che mi dice prima di chiudere lo sportello e farmi cenno con la testa di togliermi di mezzo, se non voglio finire investito dall’Escalade mentre la tira fuori dal posteggio.
Non lo seguo con gli occhi perché non voglio vederlo scomparire dietro un angolo. Cristo, non ricordo un giorno della mia vita nell’ultimo anno in cui Fler non ci sia stato, fra alti e bassi. Non può andarsene così, cazzo. Anche se l’ho lasciato andare, non avrei dovuto. Non è stato giusto.
Risalgo sul marciapiedi e comincio a dirigermi verso la macchina, le mani nelle tasche e lo scazzo che vortica a mille nella testa, quando squilla il telefono. Tiro fuori l’apparecchio con stizza e fisso lo schermo. È tardi per Bill, a quest’ora già dorme. E infatti non è lui.
- Eko…? – spalanco gli occhi e lo dico pure ad alta voce. Eko non mi chiama quasi mai, lo fa solo in momenti di reale bisogno. Quando è morto Bushido, per esempio.
Accetto la chiamata e rispondo.
- Pro-
- Chakuza, Cristo santo, ho un fantasma in casa!
Mi perdo.
Letteralmente.
Stringo il telefono fra le mani e deglutisco.
- Tu hai cosa dove, Eko?
- Cristo santo! – ripete lui, senza il minimo senso, - Il cazzo di fantasma! È tornato perché abbiamo fatto qualcosa di sbagliato! Cristo santo, Cristo santo! Chakuza, quando hai fatto fuori Saad tu eri sicuro che fosse lui l’assassino, vero? Perché se non era lui e quell’altro è tornato per vendicare il cugino morto, Cristo, giuro che ti appendo per le palle in Alexanderplatz, Chakuza!
Seriamente, non ho la più pallida idea di cosa stia parlando. So solo che quando ha nominato Saad m’è salito il cuore in gola e che spero vivamente non sia per strada a parlare di tutte queste cazzate, altrimenti lo appendo io per le palle in Alexanderplatz.
- Eko… - sospiro pesantemente, - È una serata di merda. Seriamente. Ma proprio di quelle che vorresti non fossero mai iniziate.
- Dillo a me! Apro la porta mentre aspetto il ragazzo delle pizze e mi ritrovo davanti il cazzo di fantasma che-
- Una serata di merda, dicevo, perciò… - controllo l’orario, - Eko, ‘cazzo chiedi la pizza a mezzanotte passata, scusa?!
- Ma non è la pizza il punto fondamentale, Chakuza! Tu hai dei problemi seri! – mi sbraita all’orecchio. E poi chiarisce una volta per tutte: - Il punto è che io ho aperto la porta e davanti mi sono ritrovato Bushido. Bushido, capisci?
No. Non capisco.
- Eko…?
- Un cazzo di fantasma, capito? Un fantasma. Cristo. – fa una pausa. – Io non ci rientro in casa, quindi tu ora mi passi a prendere e mi porti da te. E domani torno con un estintore bello pesante o qualcosa di più adatto. Come si uccidono i fantasmi, Chakuza?
- …dubito che la schiuma chimica funzioni. – sospiro. È evidentemente ubriaco. – Eko, senti. – non ci tengo a portarmelo a casa, stanotte, - Ora vengo da te e poi saliamo insieme. Così ti faccio vedere che non c’è nessun fantasma, in casa tua. Soprattutto non quello di Bushido.
- Fa’ un po’ quel che cazzo credi. – dice lui, improvvisamente compunto, - Comunque sono sicuro quasi al cento per cento che il fantasma sul pianerottolo sia colpa tua, in qualche modo contorto. Sei la fonte di tutti i mali. Magari dall’alto dei cieli ha saputo che vuoi chiudergli l’Ersguterjunge ed ora ci perseguiterà a vita.
- Eko, ti prego!
- Comunque il succo è: vieni perché sennò scappo da Kay. E tu non vuoi che io scappi da Kay, perché Kay vive in un porcile peggio di casa tua, e se sarò costretto a stare da lui poi vorrò le tue palle su un piatto d’argento.
- Per mangiarle? – sbotto irritato, - La tua fissazione per le mie palle è inquietante.
Mi manda a fanculo e chiude la conversazione senza neanche abbassarsi ad aggiungere altro.
Raggiungo la macchina in tempi ragionevoli ma non supersonici, ecco, se Eko è ubriaco può anche stare per strada a rinfrescarsi la testa per un po’. Intendo, non è il tipo cui salterebbero tutti addosso come Bill, e non è neanche il tipo da sfondarsi al punto da rotolare per i marciapiedi come Fler, perciò posso stare abbastanza tranquillo.
Quando arrivo sotto casa sua lo trovo a camminare avanti e indietro con aria furiosa, proprio di fronte al portone del palazzo. Accosto senza posteggiare, sperando di cavarmela in una decina di minuti, e scendo dall’auto.
- Cristo, Chaku, ci hai messo un’era! – mi assale lui, - Il senza-tetto? – chiede poi, guardandosi intorno. Si riferisce a Fler. Ogni volta che me lo vede piantato accanto parte col solito teatrino per il quale Fler in realtà non ha una casa e vive da me perché non ha i mezzi per pagarsene una propria, visto che è un rapper sfigato. Sarà meglio non parlare dell’Escalade con Eko.
Digrigno i denti e ringhio un po’.
- Non siamo mica sposati. – sbotto acido, - Non so nemmeno dove cazzo sia.
Lui annuisce.
- Questo spiega la tua ira, Atze. – dice con aria comprensiva, - Non dovresti rinnegare i tuoi sentimenti. Prendi esempio da Bushido, buon’anima: il suo fantasma sarà irrequieto, ma almeno nella vita s’è goduto tutto quello che ha voluto.
Per un attimo accarezzo con amore la possibilità di afferrare il cric dal portabagagli e prendere Eko a mazzate fino a lasciarlo svenuto per terra.
- A proposito di fantasma… - sbotto esasperato, - Non sono venuto qui per questo?
Lui annuisce come lo stesse ricordando in questo preciso momento.
- Eccome. – mi afferra per un braccio e comincia a trascinarmi, - Mi dirai tu se è vero o meno. Io, comunque, là dentro non ci torno.
- Va bene, va bene! Cristo! Ma non mi spingere così, so camminare da solo! – protesto quando prende a spintonarmi su per le scale, fino al secondo piano.
Facciamo tutto di corsa, che è una cosa che detesto – fare le cose di corsa, dico – e quando arriviamo di fronte alla porta dell’appartamento – ovviamente spalancata, Eko ha le pecore turche a pascolargli in testa, lo so – lui mi molla lì e si rifugia verso l’ascensore.
- Vai avanti. – dice con aria sconvolta, - Io aspetterò qui fuori il tuo urlo di terrore.
Sospiro pesantemente ed agito una mano, mandandolo a quel paese senza troppe cerimonie. Mi introduco nell’appartamento buio e silenzioso, convinto che tutto ciò che troverò sarà al limite qualche ladro che si è intrufolato qua dentro mentre Eko era fuori a sclerare e rompermi le palle, perciò mi sento addirittura fortunato quando vedo che l’ingresso è vuoto e così anche il salotto. Mi dirigo spedito verso la camera da letto, so che è là che Eko tiene gli orologi e le chiavi della Mercedes, perciò se c’è qualche malintenzionato sarà lì. L’idea del fantasma l’ho abbandonata da un pezzo. Era delirante, in fondo.
Per questo, quando mi si spalanca la porta del bagno di fronte al viso, quasi ci resto secco. Ma sul serio.
Perché questo non è un cazzo di fantasma. Qui non c’è proprio niente di simile. Qui c’è qualcosa di molto peggiore.
Qui c’è Bushido. Vivo.
Cristo.
Stringe una salvietta fra le mani e si asciuga lentamente i palmi, perfettamente a proprio agio. Io resto lì a guardarlo, troneggia su di me come una specie di statua di qualche dio antico. Ma ha un’espressione del cazzo che poi immagino sia la stessa che ho io. Voglio dire, mi fissa come se mi stesse vedendo per la prima volta. La luce giallastra del bagno lo colpisce in pieno da dietro, così che dal corridoio buio io non posso vederlo perfettamente in ogni dettaglio, ma scorgo la sagoma di una coda corta a svettare dietro la nuca e mi rendo conto del tempo passato.
Nove mesi.
Un anno fa sembra un altro universo.
Bushido è vivo.
- Chaky. – mi chiama lui, ed il tono è morbido e divertito. È esattamente la voce che ricordo. È lui. – Ho saputo che stai cercando di mandarmi in bancarotta. – e ride appena, uno sbuffo ironico e per nulla cattivo.
Continuo a guardarlo e non riesco a spiccicare una parola. Non riesco neanche a capire cos’è che dovrei dirgli.
Eko non mi sente urlare e si affaccia alla porta, fissandoci con aria allibita.
- Chaku… - mi chiama con voce tremante, - Perché non stai scappando?
Io deglutisco.
Non stacco gli occhi da Bushido.
Cerco a tentoni la tasca sui jeans ed il cellulare nella tasca. Quando lo trovo e lo sollevo all’altezza del viso, mi schiarisco la voce.
- Credo che chiamerò Fler. – esalo. E sono le prime ed ultime parole che dico, mentre Bushido ride e scuote il capo, per nulla stupito.
Cristo.
Non è stupito.
Se non è stupito da Fler… quante altre cose sa?
*
Riesco a sentire solo tre cose, in questo momento. Una è la voce di Eko, isterica e nasale e concitata, che si confonde nella raffica di domande con cui sta tartassando Bushido, che, per proprio conto, sta mangiucchiando pistacchi perfettamente a proprio agio, sul divano. Un’altra è la risata di Bushido stesso, che si intervalla alle domande di Eko quando si fanno troppo assurde. Tipo quando lui chiede se all’Inferno fa caldo e gli dà dello stronzo per non essere tornato prima.
Sopra tutto, comunque, sento il suono della linea libera sul cellulare di Fler. Che non mi risponde. Ovviamente.
Un po’ lo capisco. Me lo vedo, seduto al volante di quella cazzo di macchina enorme, che fissa il display del telefonino e impreca ad alta voce. “Che cazzo vuole ancora questo?”. Ti voglio qui perché c’è qualcosa che hai perso e abbiamo ritrovato. Ti voglio qui perché, anche se non lo sai, ho trovato qualcosa che hai perso e non volevo ritrovassi.
Ti voglio qui perché qui c’è l’unica cosa Bill abbia mai perso davvero.
E un po’ spero ancora che, se tu passassi attraverso quella porta, non vedresti niente, solo me ed Eko in paranoia di fronte al vuoto. Diresti “Be’? ‘Cazzo mi hai chiamato a fare, Chaku?”. Ed io mi guarderei intorno, Bushido sarebbe sparito e allora potrei ridere e dirti “Niente, non mi andava che te ne andassi, tutto qua”. E potrei avere ancora una possibilità di decidere per i giorni a seguire.
- Non ti ha voluto manco il diavolo in persona, Atze! – sento Eko che si affloscia sul divano accanto a Bushido con un tonfo pesante. Mi volto e lo vedo che sta lì, vicinissimo al bracciolo, come avesse paura di toccarlo, - Stai sul cazzo anche a lui!
E Bushido ride ancora.
Io interrompo la chiamata – che tanto squilla a vuoto – ed allo stronzo in fuga mando un messaggio. “Devo parlarti di Bushido”. Speriamo che almeno così la smetta di fare l’adolescente ribelle.
Bushido sta ancora ridendo e sgranocchiando pistacchi, nel mentre. È perfettamente tranquillo, neanche non fosse andato mai via. E invece di mezzo c’è una morte – la sua – un coltello in una pancia – la mia – un bacio – sbagliato – una relazione – la nostra, mia e di Fler – un’altra morte – di Saad – e un’altra relazione – la nostra, mia e di Bill.
Una resurrezione, francamente, mi pare eccessiva.
Lo stronzo in fuga non richiama. Ringhio e lo richiamo io. Non mi aspetto che risponda, voglio solo rompergli i coglioni, e invece eccolo che risponde al primo squillo, furioso.
- Chakuza, sei patetico, tirare fuori Bushido per-
- È vivo. – lo interrompo, senza aspettare che abbia concluso il cazziatone.
Lui rimane zitto e non respira nemmeno.
- Sei pessimo. – riprende a fatica dopo un po’, - Se era un tentativo di zittirmi per-
- Era un tentativo di zittirti. – ammetto, - Per poi spiegarti che è vivo davvero.
Fler esita. Io guardo ancora Bushido ed Eko – Eko gli sta rubando il pacchetto di pistacchi dandogli del fantasma egoista del cazzo – e Bushido solleva lo sguardo verso di me e mi sorride. Lo fa con calma e naturalezza, come ha sempre fatto. Sorrideva di continuo. È una cosa di cui ho parlato anche con Fler, in un tempo che mi sembra lontano secoli, ed anche lui ha ammesso che era vero, Bushido da quando era all’Ersguterjunge sorrideva sempre. Fler ha aggiunto acido anche “perché i problemi li aveva lasciati a noi poveri stronzi e di tutto il resto si era dimenticato”, ma il punto della questione era un altro: Bushido sorrideva sempre perché non aveva motivo di essere triste. La sua vita era perfetta.
È assurdo che sia morto e poi tornato in vita per ritrovarsi in mano un qualcosa che non esiste più. Non so nemmeno come farò a dirglielo.
- Chakuza. – mi richiama Fler dall’altro lato della cornetta, - Cosa cazzo stai dicendo?
Sempre che in qualche modo non lo sappia già, ovviamente.
- Vieni a casa di Eko. – ordino, comunicandogli l’indirizzo. Lui fa una smorfia infastidita di cui sento l’eco in un lamento. Lo zittisco. – È una cosa seria, Fler. Vieni. – vienitelo a riprendere.
Lui interrompe la chiamata imprecando ad alta voce, io ripongo il cellulare in tasca e torno in salotto, aggirandomi con aria inquieta attorno al tavolino basso davanti al divano.
- Lo stronzo sta a due isolati da qua. Ci puoi pensare? – mi dice Eko, che continua a fissarmi con gli occhi a palla come fosse ancora sicuro che l’ipotesi fantasma sia più razionale rispetto all’ipotesi “sono ancora vivo”. – Da due settimane. E indovina dov’è stato prima, per tutto questo tempo.
Bushido ride.
- …non ne ho idea. Sotto terra? – provo, fissando Bushido con lo stesso sguardo allucinato col quale Eko fissa me.
Bushido ride ancora ed io, sinceramente, vorrei la piantasse.
- A Miami! – sbotta Eko, allargando le braccia in segno di profondo sgomento.
In un primo momento non capisco. Penso solo: è a Miami che si va, dopo morti?
Poi realizzo.
E un po’ mi viene anche voglia di mandarlo a fanculo. A Miami va, il bastardo. A Miami.
Prendo fiato.
- Bushido, tu eri morto. – metto bene in chiaro, così che nessuno di noi possa scordarlo, visto che qui mi pare si stia passando sopra la cosa con un po’ troppa leggerezza. Lui annuisce e mi fa segno di sedermi in poltrona. Io obbedisco senza fiatare.
- È complicato da spiegare, Chaky. – dice, con una certa tenerezza, - Ma vi dirò tutto, piano piano. Prima, però, ho delle questioni da risolvere.
Ed io sono lì che tremo e prego in un centinaio di lingue che fra le varie questioni da risolvere non ci sia anche Bill, che suonano al campanello.
Io guardo Eko ed Eko guarda me.
- Mbe’? – sbotta, sollevando supponente il mento, - È il tuo uomo, tu l’hai chiamato, vai ad aprirgli.
Lo mando a fanculo e mi alzo in piedi mentre Bushido ride ancora – anche se c’è una sorta di tensione, nella sua risata, una nota un po’ stridente che nelle risate di prima non c’era. Non fatico a ricollegarla alla presenza di Fler oltre quella porta. A meno che non sia il ragazzo delle pizze che Eko minaccia di denunciare da ore.
Apro la porta e di fronte a me c’è un Fler che non ho mai visto in vita mia. Ha quattordici anni negli occhi, non uno di più. Poi non è cambiato per niente, ma gli occhi bastano: sono enormi, liquidi e persissimi. E dovrebbero essere gelidi, perché quando Fler è scazzato i suoi occhi diventano pezzi di ghiaccio, ma non c’è traccia di freddo in fondo alle sue pupille. Non ce n’è davvero per niente. Sono caldi, anzi. E non stanno guardando me.
- Sei venuto davvero… - esalo, un po’ sconvolto. A saperlo, avrei usato la scusa di Bushido per quando ha continuato a darmi picche nell’ultimo periodo.
Stupido Peter. Piantiamola un po’. Me lo dico da solo, va’.
Lui annuisce, comunque.
- Se scopro che è una cazzata, Chakuza, ti prendo a calci nelle palle fino a fartele uscire dalla gola.
Sospiro e mi lamento anche un po’.
- Ma che avete tutti stasera con le mie povere palle? – mugolo, scostandomi lievemente dall’uscio per farlo entrare.
- Le tue palle sono un pericolo pubblico. – precisa lui con una mezza risata, sfilandosi la giacca ed appendendola all’attaccapanni. Poi torna a guardarmi. È ancora un ragazzino e questa cosa mi distrugge in un modo che non capisco. Mi fa venire un groppo in gola che non so decifrare. – Mi spieghi un po’? – chiede appena, - E… a proposito… quello stronzo del padrone di casa?
- Eko è di là… - spiego, indicando il corridoio con un dito. Esito un po’, prima di aggiungere il resto. - …con lui.
Fler deglutisce e stringe le labbra.
- È tornato dalla morte?
Io scuoto il capo. No, è tornato da Miami.
Mi mordo la lingua.
- Pare non sia morto affatto, in realtà. E… sappia un mucchio di cose.
Fler annuisce anche troppo tranquillamente. Guarda un punto a caso nel vuoto e socchiude appena le palpebre, come si stesse perdendo nei propri pensieri ed avesse bisogno del giusto tempo per farlo. Poi sbuffa una mezza risata.
- Mi scazza e mi sembra anche un po’ assurdo da dire, - confessa alla fine, - ma è così schifosamente da lui che non fatico neanche a crederci. – poi scuote il capo e torna a guardarmi. – Mi ci porti? – e lo dice con lo stesso identico tono di un bambino un po’ impaurito che chiede al padre burbero di accompagnarlo sull’ottovolante.
Annuisco senza volerlo fare davvero e lancio un’occhiata alla porta come a chiedermi se esista la possibilità di afferrare Fler per il cappuccio della felpa, uscire da quest’appartamento e riprendere il corso della nostra vita esattamente per com’era prima di stasera. Non ho il tempo di concludere il pensiero che sto già portando Fler al cospetto di Bushido – ed è una cosa molto epica, a pensarci; questi due si sono lasciati accoltellandosi. Voglio dire. È assurdo.
Entro prima di Fler e non so bene come annunciarlo. Ci vado giù in maniera tranquilla.
- Atze? – e mi sento vagamente in colpa ad usare ancora questo soprannome, - Senti, c’è Fler.
Bushido ride e la voce di Patrick mi arriva dritta alle spalle come una pugnalata. È vicinissimo.
- Non ho mica bisogno del permesso, per ricevere udienza, io. – mi supera e si para davanti a Bushido con una calma impressionante, - Ho il lasciapassare automatico.
Bushido non si alza. Nemmeno si muove. Resta seduto sul divano e lo guarda con un sorriso strafottente sul volto. Sembra incredibilmente più giovane anche lui, il che è strano. Immagino sia l’effetto della presenza di Fler.
Ci sono un sacco di cose che mi vanno di traverso, stasera. Non mi piace proprio come si sta mettendo la situazione in generale.
Fler sorride appena e si siede sul tavolino basso, proprio di fronte a Bushido. Le loro ginocchia quasi si sfiorano e Fler si piega un po’ in avanti per guardarlo dritto negli occhi.
- Ero lì, quella notte, perché volevo dirti che eravamo a posto, Atze. – lascia scivolare le parole fuori dalle labbra con naturalezza disarmante, - Ero lì sotto per questo. Non sono stato io. Volevo dirtelo. Non sono stato io. E siamo a posto.
Bushido inspira ed espira, senza perdere il sorriso.
- Lo so. – dice a bassa voce. Non aggiunge nient’altro.
Vorrei poter dire qualcosa anch’io. Vorrei poterli mandare a fanculo entrambi, tanto per cominciare. Bushido perché è tornato, Fler per altre duemila ragioni. Cazzo, a guardarlo mi viene un nervoso che non so nemmeno descrivere. Mi prudono le mani. Ha ancora sulla faccia quel sorrisino di prima e lui e Bushido che si guardano negli occhi senza dire altro sembrano una cosa unica nata insieme. E mi viene da ridere perché Fler me l’aveva pure detto: non esplicitamente, ma tutte le volte che partiva in quarta a parlare di Anis, dietro ciò che diceva c’era sempre un concetto di base che lo vedeva coinvolto con lui in un modo diverso rispetto al modo in cui era stato coinvolto con chiunque altro nella sua vita. Ed io lì a ridere e prenderlo in giro. Io lì a pensare che fra noi ci fosse… io lì come un cretino.
Aveva ragione Fler. Se mai c’è stato qualcosa, non c’è più nulla già da un pezzo. E se pure un qualche frammento era rimasto, nell’ultimo minuto è stato spazzato via.
O almeno così mi sembra.
Non facesse così fottutamente male, forse lo capirei meglio.
Bushido si piega in avanti a propria volta. Lo fa con un sorriso strafottente sul volto. Si piega in avanti e sfiora quasi la fronte di Fler con la sua.
- …non so come chiamarti. – ride alla fine, e Fler lo segue, socchiudendo gli occhi e scuotendo il capo, - Mi viene in mente di tutto. – c’è Eko che li fissa sconvolto e poi guarda me quasi in imbarazzo, ma loro lo ignorano. Ci ignorano. – Ragazzino, Frank, Fler…
- Patrick andrà bene, Anis. – lo interrompe Fler, sorridendo più apertamente.
Patrick non va bene neanche per un cazzo. Io lo chiamo Patrick solo quando lo rimprovero. Neanche quando scopiamo. Fanculo. Patrick non va bene neanche per un cazzo.
- Io comunque non sono tornato dall’altro mondo per una rimpatriata. – dice ad un tratto Bushido, alzandosi in piedi e venendo verso di me, mentre Fler prende e si mette comodo sul tavolino, piantando i palmi sul vetro e stirandosi un po’ indietro con un mezzo sorriso soddisfatto sul volto. Non mi vede più da almeno mezz’ora e quella posizione lì mi fa incazzare oltre ogni dire. – Potrà sembrarti assurdo, Chaky, ma sono venuto per parlare con te.
Sollevo lo sguardo e lo fisso, sconvolto.
- Con me?
Ma vaffanculo, anche.
Lui annuisce.
- Volevo dirti personalmente, - dice con tono scherzoso, - di piantarla di mandare in malora la mia attività, prima che io ti prenda per le palle e te le stacchi di peso per usarle come bolas. – Fler scoppia a ridere. Anche Eko. Vorrei che lasciassero tutti in pace le mie palle ma mi rendo conto da solo che hanno ragione loro a volerle su un piatto. – Poi naturalmente lo ripeterò anche agli stronzi della Universal, ma con te ci tenevo a discutere la cosa in maniera più rilassata. – continua tranquillamente. – Quindi, magari, ora che sai che sono vivo, me la lasci aperta l’Ersguterjunge?
Avrei solo una domanda, da fargli, ed è: se dico sì, poi scompari?
Naturalmente, però, non chiedo. Mi limito ad annuire. E lui mi stringe al collo in un mezzo abbraccio grato che fa sorridere Fler.
Ironico. È la prima volta che mi vede da minuti interi. L’ha fatto solo quando Bushido mi ha toccato.
*
Eko non riesce fisicamente a stare zitto. Probabilmente è una reazione allo spavento e allo stupore ed anche alla felicità di ritrovarsi Bushido vivo e vegeto in carne ed ossa, proprio di fronte agli occhi. Continua a porgli domande allucinanti stile “e con cosa andavi in giro a Miami? Camicie hawaiane?”. Chiede e gesticola e chiede ancora e Bushido non fa che ridere e rispondere, “sì, Eko”, “no, Eko”, “nella maniera più assoluta e totale no, Eko, mai”, e tutto quello che io riesco a registrare, di tutto questo, è che Fler non gli ha ancora staccato gli occhi di dosso.
È una cosa incredibile, non l’ho mai visto comportarsi così: è come se ci fossero delle calamite, addosso a Bushido. Ovunque vada, comunque si muova, gli occhi di Fler non lo abbandonano mai, neanche per un secondo. È stato così anche durante quella dannata puntata di TRL, ma allora Bushido era un’immagine su uno schermo piatto a cristalli liquidi, non era una minaccia.
…ed allora io ero ancora una persona migliore. Una persona che non pensava a Bushido come ad una minaccia, appunto.
Comunque sia, sono ancora infastidito. Da qualche parte nel corso di questa serata, mentre Eko parlava e Bushido rideva e rispondeva senza guardarlo, ricambiando solo gli occhi azzurri di Fler con un compiacimento addirittura irritante, m’è venuta voglia di mettere una mano fra di loro. Una cosa proprio da bambini, mettere la mano ed agitarla, come a dire “allora? Vi ricordate che ci sono anch’io, qua di lato?”. Ma la verità è che non mi hanno messo loro in un angolo, mi ci sono rifugiato da solo, perché non ho la più pallida idea di cosa fare. Quest’uomo, prima di morire, mi ha affidato delle cose. Ed io dovrei, tipo, fare rapporto, no? Aggiornarlo sullo stato dei suoi beni.
Solo che il bene che mi ha lasciato io me lo sono preso.
E questo è un problema enorme.
Mi alzo in piedi.
- Mentre Eko continua a chiederti… cos’è che gli hai appena chiesto, Eko?
- Se ha visto qualche donna che s’infilava una noce di cocco su per il-
- Mentre Eko continua a chiederti delle discutibili abitudini sessuali delle flori… comunque si chiamino le donne che vivono in Florida, - Fler e Bushido ridono contemporaneamente, e Fler scuote pure un po’ il capo con rassegnazione. Mi sento vagamente in imbarazzo, - …io vado a preparare un caffè. Sarà una nottata lunga.
Bushido annuisce semplicemente ed io mi rifugio fra le quattro mura piastrellate della cucina di Eko. Una cucina palesemente vuota, peraltro, perché pare che tutti i rapper abbiano la brutta abitudine di non passare mai del tempo in casa propria. Tant’è che Eko è sempre buttato da Kay. Il quale però è sempre buttato dalla madre, perciò alla fine passano entrambi tutto il tempo a casa della povera donna. Col risultato che casa di Eko è quasi sempre vuotissima.
Armeggio qua e là spalancando tutti gli stipetti, perché non può davvero esistere un uomo che non tenga in casa del caffè ed una moka, ed infatti alla fine trovo tutto e, sospirando di sollievo, mi metto a preparare, sperando di perdere abbastanza tempo per… non so nemmeno io per che cosa. Per far riposare il cervello e tornare di là con una scorta di lucidità sufficiente ad affrontare quello che mi aspetta, suppongo. Anche se non ho idea di cosa mi aspetti, perché mi fa paura immaginarlo.
Mentre metto la caffettiera sul fuoco, sento Fler ridacchiare alle mie spalle ed aggrotto istantaneamente le sopracciglia, voltandomi a guardarlo. Lo trovo con le braccia incrociate sul petto, appoggiato con una spalla allo stipite della porta. Mi fissa, palesemente divertito, con un sopracciglio inarcato. Dio, odio quando è così… così.
- Be’? – chiedo sgarbatamente, ricominciando ad aprire ante e sportelli alla ricerca di qualche tazzina o, al limite, dei bicchierini di plastica. Il punto è che non posso pensare eroicamente cose tipo “mi aspetta la morte ma non cederò di un passo”, e pensarlo a riguardo di Bill, e poi vedermi apparire Fler sulla soglia e provare il desiderio praticamente irresistibile di tirarlo in cucina, chiudere la porta e stenderlo sul ripiano accanto al lavello. Non è… non posso continuare a fare così. Non posso.
Lui mi viene accanto ridacchiando serenamente, e mi aiuta nella ricerca.
- Sei troppo nervoso. – mi dice, - È un comportamento sospetto.
Be’, grazie, lo so anch’io.
- Non dovresti essere di là a ricordare a Bushido che non hai mai avuto occhi per altri che per lui? – ringhio infastidito, e lui si ferma e mi guarda per un secondo. Poi scoppia a ridere.
- Tu sei assurdo! – commenta ironico, - Come puoi essere geloso in questo momento?!
- Non sono geloso! – cerco di difendermi, anche se dovrei cominciare a ricordarmi più spesso che mentire a Fler serve a poco. Un po’ perché fiuta le menzogne – come quell’altro, accidenti a lui – ed un po’ perché comunque si convince di quello che vuole e poi ci marcia indipendentemente da come stiano le cose in effetti. Insomma, proprio come quell’altro. Stramerda.
- Chakuza, Dio mio, ma il fatto che io sia andato via, poco fa, non ti è servito a niente?
Spengo il fuoco sotto la caffettiera.
- Sei stato via praticamente mezz’ora. – borbotto a bassa voce, - Cosa vuoi che sia cambiato, in mezz’ora?
Vorrei che Fler si offendesse – in genere, quando lo prendo per il culo, lo fa – ma non fa che ridacchiare ancora e scuotere il capo.
- È che il discorso sulle noci di cocco aveva cominciato ad inquietare anche me. – dice, ignorando la frecciata e riprendendo il dialogo dall’inizio, - E poi volevo vedere come stavi.
- Oh, ma guarda. – sbotto, con la maturità di un bambino di dieci anni, - T’interessa?
Lui mi fissa per un secondo, ed in quel secondo i suoi occhi azzurrissimi brillano in maniera spaventosa.
- Certo che mi interessa, Chaku. – sospira, - Proprio perché m’interessa-
- Ora non partirtene col discorso di rito stile “è per te che lo faccio”. Non l’hai fatto per me, quando te ne sei andato.
Si appoggia al mobile ed allunga una mano ad aprire lo stipetto più in alto. Le tazzine sono là. Lui nemmeno le guarda, continua a fissare me.
- In ogni caso, sono stato via solo mezz’ora. E sono tornato quando mi hai chiamato.
- Perché ti ho parlato di Bushido.
Scrolla le spalle.
- Il motivo non è importante.
“Col cazzo”, vorrei rispondere, ma lo trattengo in punta di lingua perché questa discussione è già abbastanza assurda così.
- Dimmi la verità, Fler. – lo sfido, versando il caffè, - Perché sei tornato?
Lui sospira pesantemente e infila le mani nelle tasche. Sotto la spinta, i pantaloni si abbassano appena, scivolando lungo la sua vita e lasciandomi intravedere un lembo di pelle appena sopra i fianchi. Deglutisco.
- Cosa vuoi sentirmi rispondere, Chaku? – chiede lui, quasi dolcemente. – A questo punto, posso dirti tutto quello che vuoi. Non è importante.
- Sei tornato per vedere lui? – ringhio, voltandomi improvvisamente a guardarlo. Lo trovo che già ride.
- Sì. – dice tranquillamente, - O, in alternativa, per sventrarti in caso mi avessi detto una balla solo per farmi tornare. Soddisfatto così?
Soddisfatto un cazzo.
Sospiro pesantemente, mentre Fler recupera due delle quattro tazzine colme di caffè, allontanandosi verso la porta.
- Ah, dimenticavo. – dice con aria falsamente casuale. E lì capisco che mi sta prendendo in giro, o torturando, o comunque non si sta comportando in maniera corretta nei miei confronti. Odio avergli dato abbastanza ragioni per farlo senza sentirsi in colpa. – Anis vuole il riassunto delle puntate precedenti. Ed io quello che dovevo dirgli gliel’ho già detto.
- No, manca ancora la dichiarazione d’amore. – sbotto acido.
Fler non si abbassa al mio livello, inarca un sopracciglio e ghigna.
- Dici? – domanda allusivo, e poi scompare oltre la soglia.
Quando torno di là con la tazzina mia e quella di Eko, Fler è di nuovo seduto sul tavolino e sta di nuovo guardando Bushido come non vedesse altro. Mi rassegno: non è come, è così.
Resto in piedi, passo la tazzina ad Eko ed osservo Bushido che beve il proprio caffè e poi posa la tazza sul tavolino, proprio accanto al punto in cui è seduto Fler. Lo sfiora col braccio, proprio lì sul fianco, e per un attimo io guardo i loro corpi che vengono a contatto, colgo il leggero brivido che scuote le spalle di Fler e colgo anche quel breve lampo di compiacimento che increspa le labbra di Bushido, e mi chiedo cosa stia esattamente succedendo in questa stanza. Se si stiano comportando così solo perché sanno perfettamente che Eko certe cose non le vede – o fa finta di non vederle – e che io piuttosto che parlarne con anima viva mi farei volentieri sparare.
Non lo so.
Mi viene voglia di menare le mani, comunque.
Mi riscuoto quando Bushido si schiarisce la voce e mi chiama.
- Allora, Chaky… - dice, mettendosi comodo sul divano ed incrociando le braccia sul petto, - Cosa mi racconti?
Ed io per un attimo mi sento confuso. Cosa gli racconto? Cioè, davvero, cosa tiro fuori dal cappello? Cosa gli dico? Cosa, che non abbia a che fare con Bill – perché non voglio nemmeno che ci pensi – o con me e Bill – perché il solo pensiero che lo scopra in questo momento mi terrorizza – o con me e Fler – perché ho la vaga impressione che sarebbe perfino capace di uccidermi, se sapesse i dettagli di quest’ultimo anno.
Cosa mi invento?
Lancio un’occhiata a Fler e lui non è d’aiuto. I suoi occhi sono freddi e vuoti, mi guarda quasi con la stessa curiosità con cui mi guarda Bushido. Come se si stesse chiedendo anche lui “vediamo come se ne tira fuori”.
Io mi seggo su una poltrona e richiamo alla memoria i brevi stralci di racconto che sono riuscito a cogliere dalla conversazione fitta di domande e risposte assurde fra Bushido ed Eko, prima che Fler arrivasse. Bushido è qui da due settimane. Due settimane fa – come quasi sempre, quando abbiamo potuto, negli ultimi mesi – Bill era con me. Probabilmente era con me anche mentre lui era in volo. E mentre quest'uomo atterrava, il suo ragazzino urlava il mio nome, nel mio letto. E, cazzo, stavamo da Dio. Ora Bushido mi chiama Chaky, e la cosa mi devasta. Non so più nemmeno se odiarlo perché è tornato o chiedergli di essere comprensivo prima ancora di avergli detto perché.
Mando giù a fatica un respiro che sembra di cemento, tanta è la resistenza che fa mentre mi scende per la gola, e poi guardo il pavimento e comincio a parlare.
- I primi mesi dopo che sei morto – parlo come stessi parlando ad un fantasma. Forse perché quasi preferirei che fosse così. – sono stati un casino. Non sapevamo davvero dove voltarci o cosa fare. Era tutto un chiedere, interviste di continuo. Ci siamo gestiti abbastanza bene, ma è stato pesante.
Bushido sorride appena.
- Mi dispiace. – lascia scivolare fra le mie parole, senza interrompermi davvero. Io annuisco e riprendo.
- TRL ci ha un po’ scombussolati. Ma d’altronde già allora avevo parlato con Fler, e quindi sapevo che lui non c’entrava niente. È stato… molto d’aiuto, in quel periodo. – e mi stupisco di essere riuscito a non nominare Bill nemmeno una volta. Bushido inarca le sopracciglia. Se ne accorge, forse. Capisce che c’è qualcosa che non va. Non lo so. Io continuo. – Poi Fler mi ha convinto a fare qualche indagine. E così abbiamo scoperto chi era stato a farti fuori. – mi prendo un attimo di pausa per capire come dirglielo, perché credo che queste non siano notizie facili da dare. Queste non sono nemmeno notizie che si danno, in genere. Non dici a un morto chi l’ha ucciso. Non quando ti può ascoltare, almeno.
Lui, comunque, mi anticipa.
- Saad. – dice, ed io sollevo gli occhi nei suoi e lo fisso come se lo stessi vedendo adesso per la prima volta. – L’ho immaginato quando ho saputo che era morto. – mi spiega lui con un mezzo sorriso. – Sono stato… mi sono tenuto informato, ecco.
Io annuisco e deglutisco ancora, con maggiore difficoltà. Mi sembra che più cose io tiri fuori più ciò che resta dentro si allarghi e prenda tutto lo spazio. E mi rendo conto che in realtà non è così. In realtà è solo Bill che si espande. Prima stava compresso nel mio petto assieme a tutto il resto, ma adesso tutto il resto sta uscendo. E lui si sta riprendendo il suo spazio. Ed io non voglio buttare fuori anche lui. Non voglio.
- Quindi siete stati voi a- - comincia Bushido, ma non finisce, perché Fler lo ferma.
E, visto che Fler mi conosce, lo fa.
Sa che io non lo tirerò mai fuori. Sa di doverlo fare lui al mio posto.
- Ti ha vendicato Bill, Anis.
Bushido si irrigidisce sul divano. Lo faccio anch’io, sulla mia poltrona.
Fler respira per tutti e due. È l’unico che lo faccia, d’altronde.
Eko si schiarisce la voce e si alza in piedi.
- Me ne vado al cesso. – borbotta con tono serio, - Voi raccontategli pure dei mesi in cui piangeva di continuo, io non voglio più sentirne nemmeno accennare. – commenta, sparendo in corridoio. Eko ha tutta una serie di problemi, quando si parla della sofferenza di Bill. Un po’ perché l’ha sempre considerato una lagna, un po’ però anche perché ricordo che i primi tempi, quando passava a trovarmi e lo trovava piangente sul mio divano, non sapeva mai che pesci prendere. La principessa in lacrime lo confonde, non sa come consolarla. E c’erano serate in cui i suoi soliti movimenti goffi e sgraziati non bastavano a far sorridere Bill. Di quelle serate, Eko non vuole più sentir parlare.
Quando sento la porta chiudersi, Bushido sta già preparando quella faccia lì. Quella delle domande gravi e importanti. L’ultima volta gliel’ho vista addosso quando mi ha spiegato cosa avrei dovuto fare con Bill in caso lui fosse morto. Rivederla adesso, quando ho mancato in quasi tutti i compiti che mi erano stati assegnati – tranne in quello di tenerlo vivo – è tremendo.
- Come sta Bill?
Lo chiede a voce bassissima. È il tono delle grandi occasioni. Delle grandi domande. Di quelle che non ammettono rispose elusive.
Ed io non so che dirgli.
Sta bene, perché sta con me.
Sta bene, e non so come starebbe se sapesse di te.
Sta bene, e non voglio che scopra di te.
Sta bene, ed ho paura di immaginare che starebbe meglio se gli dicessi che sei vivo.
- Sta bene. – ma è la voce di Fler a parlare. – Sta bene, Anis. Non preoccuparti.
Lui annuisce e vedo chiaro nei suoi occhi il desiderio di chiedere di più. Però non sa cosa, e di questo ringrazio, perché giuro che io non so più neanche cosa pensare. Figurarsi se riuscirei anche a dirgli qualcosa. Comunque solleva lo sguardo e lo fissa nuovamente su di me, riprendendo a sorridere.
- Grazie, Chaky. Sei stato un ottimo braccio destro.
Io lo guardo ed è la prima volta in mesi che mi viene da piangere.
Fler si alza in piedi.
- Credo che dovremmo andarcene tutti a casa a dormire, Anis. – dice a mezza voce, sorridendo sereno, - Te compreso.
Lui ride.
- Io da qui non mi muovo, Eko ha una camera degli ospiti che è un paradiso. – scherza, alzandosi a propria volta. – E poi credo che abbia ancora qualche altra curiosità su noci di cocco e signorine di facili costumi, da soddisfare. Visto che comunque… - si prende una pausa e deglutisce, - …sono stato via a lungo, mi sembra giusto restare finché non sarà completamente a posto.
Andiamo via con Eko che ci strilla alle spalle di non lasciarlo solo con il fantasma. Bushido lo afferra per il collo e se lo tira dietro, strofinandogli forte le nocche contro la testa, fra i suoi addolorati lamenti di protesta, e Fler ride ad alta voce e dice ad Eko che ognuno ha quello che si merita, e mentre lui lo dice io non posso che pensare che è una delle cazzate più enormi che gli siano mai uscite di bocca. Mi chiedo se ci creda e, mentre lo osservo smorzare il sorriso fino a lasciarlo scomparire del tutto appena la porta si chiude, realizzo che no, non ci crede affatto, e ritrovo un pezzo del mio Fler – intendo, quello che ho conosciuto io, quello con cui ho praticamente diviso tutto per gran parte dell’anno scorso e quello a cui ho continuato a pensare mentre andavo avanti con la mia vita intrecciandola alla vita di Bill.
Sospiro.
- Sei stato insopportabile. – commento mentre ci avviamo verso l’uscita.
- Sì, me ne sono reso conto. – annuisce lui, tranquillissimo, - Mi dispiace. Non è una cosa che controllo. Dovresti averne una mezza idea.
Sospiro ancora, mentre apro lo sportello della macchina posteggiata qua davanti.
- Stai continuando ad essere insopportabile. – gli faccio notare, infilandomi nell’automobile. Aspetto che faccia il giro della macchina e prenda posto al mio fianco, lo aspetto con una naturalezza perfino disturbante, ma mi accorgo che è disturbante solo nel momento in cui lui è effettivamente seduto e ci guardiamo come non avessimo idea di cosa fare adesso.
- Ti accompagno a casa? – chiedo a mezza voce, continuando a guardarlo incerto.
- Ovviamente sì. – risponde lui, quasi inorridendo. – Che pensavi?
- Non pensavo. – mi mordo un labbro. – Ci credi, se ti dico che non pensavo, vero?
- Ovviamente no.
Ingrano la marcia e metto in moto la macchina.
- L’Escalade la lasci qui?
- Sì. – annuisce lui, - Ma se deve essere tutto questo dramma, riportarmi al mio fottuto appartamento, la recupero e vado da solo.
- Fler, ti prego, è stata una serata abbastanza difficile-
- Ed io dovrei già essere a letto con i bagagli pronti per dopodomani. – ringhia ancora lui, guardando la notte fuori dal finestrino. – Cazzo. Ora come lo dirò a Sido?
Lo guardo, fermandomi al semaforo.
- Dirgli cosa?
Lui sospira pesantemente, scuotendo il capo.
- Che non parto più.
Scatta il verde ma io non mi muovo. Nessuno suona perché sono le due del mattino e questa zona a quest’ora non è affatto frequentata, perciò resto lì a due passi dall’incrocio e l’unica cosa che riesco a pensare è…
- Non parti?
Fler sospira ancora e si volta finalmente a guardarmi. Lo vedo che fa fatica. Mi dispiace che debba fare tutta questa fatica. So che era più facile per lui, quando poteva concentrarsi solo su Bushido. So che non è facile restare da solo con me. Lo vedo dal modo in cui trema appena la luce nei suoi occhi.
- No. – risponde alla fine, - Qualcuno dovrà pure essere nei dintorni a raccogliere i pezzi, quando dirai a Bushido che il suo ragazzino ora è il tuo ragazzino.
Mi si ferma il cuore in gola e ripenso all’inizio di questa serata. A me che, sicurissimo, riflettevo e mi dicevo che era impossibile Fler lo ammettesse ad alta voce. Assolutamente impossibile. E parlavo, sicuro del mio vantaggio. Adesso mi sento vulnerabile come un bambino.
- …già. – annuisco, rimettendo in moto. – Mi dispiace. – aggiungo poi. Mi ci sento quasi costretto.
Lui ride.
- Pensi davvero che ce l’abbia con te per questo? – chiede a mezza voce. Io non lo so. So solo che dovrebbe avercela con me e basta, per un motivo qualsiasi. Scelga lui. – Noi siamo a posto, Chaku-
- Non è vero. – mi guarda, io lo evito. – Non è vero che siamo a posto. Non dirlo.
Lo sento sospirare ancora.
- Okay. – annuisce alla fine.
Non diciamo più nemmeno una parola, fino a che non arriviamo sotto casa sua. È lì che, quando lo vedo scivolare fuori dalla macchina, mi viene voglia di fermarlo. Ci sono delle serate che ho trascorso con Fler che ricordo come infinite. Una è quella in cui l’ho violentato. Una è quella in cui abbiamo ammazzato Saad. Questa è un’altra. Sono sempre sere che è difficile lasciare andare via. Lasciare che si concludano sembra assurdo. Lo fermo afferrandolo saldamente per un polso e lui ricasca sul sedile. Ha fatto la stessa cosa quella notte lì, la prima delle nostre notti infinite, solo che allora cadere l’ha costretto a mugolare di dolore. Ora sospira soltanto, rassegnato, come se lo aspettasse.
- Dimmi, Chaku.
Sospiro anch’io.
- Allora ci vediamo domani?
Lui si volta a guardarmi.
- Potresti… non lo so, fregartene? Fare finta che io non esista? Dimenticarti di me, cancellarmi completamente da quella testaccia di cazzo che ti ritrovi? È un’ipotesi contemplabile, Chakuza?
La risposta viene fuori naturale.
- No.
Restiamo immobili solo per un secondo. Lui ha già le gambe fuori dalla macchina ed una mano piantata nel sedile a sostenere il peso del corpo. Quando la solleva per afferrarmi per il bavero del giubbotto, si avvicina quasi automaticamente, e prima di poterlo realizzare davvero ci stiamo già baciando – frenetici e sconvolti, pure con una certa rabbia, come se nessuno dei due lo volesse davvero, o odiasse dover ammettere di volerlo, invece.
Si stacca da me con violenza, ansimando, ed io lo trattengo per la maglia. Non lo vedo, perché lascio gli occhi chiusi.
- Cristo. – me lo sussurra sulle labbra, - Vaffanculo. A te, ai tuoi no del cazzo e a questa situazione di merda. Vaffanculo.
Non rispondo, continuo a cercare di recuperare un ritmo più decente per il mio respiro. E continuo anche a trattenerlo.
- Lasciami andare, Chakuza, Cristo santo. – mi implora lui, quasi con dolore, ma non mi toglie le mani di dosso. Continua a stringermi per il giubbotto.
- Ti lascio appena mi lasci tu.
- Vaffanculo.
- Piantala.
- Vaffanculo, Chakuza.
Restiamo a respirarci addosso ancora per qualche secondo, in perfetto silenzio. Poi mi lascia andare e, quando lo fa, anche io lascio andare lui. Mi ritrovo i suoi occhi addosso appena apro i miei. Sono furiosi e gelidi. Deglutisco.
- Ora sono io che dovrei chiederti perché l’hai fatto. Dopo avermi detto che non volevi più vedermi, poi. – dico duramente, reggendo lo sguardo, - Ma non te lo chiedo, Fler. Perché lo so già. Tu che dici?
Dice che mi tira un cazzotto, evidentemente.
Batto con la testa contro il finestrino, dietro, e mi faccio un male cane. Non so se mi fa più male la testa o lo zigomo su cui è arrivato il cazzotto.
- Cazzo! – mi lamento, cercando di massaggiarmi ovunque contemporaneamente, - Fler?
Lui è già uscito dalla macchina.
- Sei un pezzo di merda. – mi dice, furioso, - Ci vediamo domani. – e poi chiude con violenza lo sportello ed entra nel palazzo, scomparendo alla mia vista.
Rientro in casa mezz’ora dopo con un mal di testa allucinante e lo zigomo gonfio e bollente. Vorrei ficcare la testa nel freezer, almeno… non so se servirebbe a qualcosa, in realtà, ma è quello che voglio fare adesso – anche solo per andare alla ricerca di un qualche cosa di freddo da mettermi in faccia – quindi apro lo sportello, e prendo a smadonnare quando chiaramente il cazzo di aggeggio è del tutto allagato, dal momento che ha deciso di rompersi. Fanculo anche a lui. L’acqua è colata fin nello scompartimento di sotto, e ne viene fuori un odore disgustoso. Dio che schifo.
Dovrei pulirlo, probabilmente, ma non mi va per niente. Sfilo il maglione che odora di Fler e mi viene la nausea. Sarà il senso di colpa: visto che sono troppo incasinato per percepirlo davvero, si presenta come voglia di vomitare. Sono già a due passi dal bagno, quando squilla il cellulare.
Il nome sullo schermo mi gela il sangue nelle vene. Lo fisso per un tempo che mi pare lungo minuti interi e non riesco a decidermi su cosa fare. Sono quasi le tre. Dovrebbe stare dormendo.
- Bill? – chiamo piano appena riesco a convincermi ad accettare la chiamata, - È successo qualcosa?
- Aaaah, Peter! – mi strilla nell’orecchio, ma non è un urlo spaventato, è solo concitato e un po’ ansioso e c’è anche una traccia di quell’eccitazione irrazionale che prende Bill quando è preoccupato per qualcosa di stupido che sa perfettamente andrà nel migliore dei modi ma sul quale si diverte a ricamare drammi senza motivo. – Ci hai messo una vita a rispondere, mi stavo preoccupando!
- Bill… - sospiro, - ma hai visto che ore sono?
- Sì, naturalmente, ma dovevo chiederti se sei riuscito a fermare Fler, non pretenderai mica che aspettassi domattina! Se non ci sei riuscito dovrò andarlo a recuperare io personalmente. – borbotta con aria cospiratoria, - Scommetto che hai fatto fiasco. Devo mettermi il cappotto? Metto il cappotto. Mi passi a prendere? Andiamo insieme.
Mi passo una mano sulla testa, cercando il bernoccolo. Lo trovo e lo pesto un po’. Cristo che male.
- Bill… - lo richiamo, mugugnando, - …sono quasi sicuro che tu mi abbia nascosto qualcosa.
Lui si lascia andare ad una mezza risatina imbarazzata.
- Fler mi aveva chiesto di non dirti che voleva andarsene. Perché voleva parlartene lui per primo, capisci?, non potevo tradirlo.
Mi si conficca uno spillo nel petto solo a sentire la parola. Solo a sentire lui parlare di tradimento. Lui che per me ha sfilato l’anello e il bracciale di Bushido. Li ha tolti di mezzo – e li aveva tenuti addosso per mesi, prima – solo per far spazio a me. Ed io… Cristo.
- Non devi preoccuparti per lui. – lo rassicuro, deglutendo a fatica, - Ha deciso di restare, alla fine.
Bill strilla contento.
- Davvero?! Ma è fantastico! E come ci sei riuscito?!
Ha provato ad andarsene e me lo sono stretto contro, Bill. Tutto qui.
- Gli ho fatto capire che avevamo ancora tutti bisogno di lui.
Bill ride ancora.
- Bravo! – si complimenta, - È vero.
- Già.
Mi lascio andare sul divano e poi affondo il naso fra i cuscini. C’è l’odore di Bill, qui. È un odore piacevole, un odore tranquillo. È sempre lui, sempre uguale, sempre lo stesso da mesi. Non è un intruso, non è sbagliato, è l’odore che dovrei avere addosso sempre. Poi ripenso a Bushido vivo in casa di Eko. Non so più quale sia l’odore giusto. Non lo capisco più.
- Peter? – mi chiama lui, - Sei stanco, vero? Lo sento dal modo in cui respiri.
Sbuffo una mezza risata.
- Capisci se sono stanco dai miei respiri?
Ridacchia anche lui.
- Ovviamente sì. – dice con una punta di orgoglio. – Ci sentiamo domani verso mezzogiorno? Così dormiamo e poi ci organizziamo per la giornata, okay? Ho voglia di vederti…
Inspiro ed espiro e penso solo al profumo.
- Sì, anch’io ho voglia di vederti.
Bill ride.
- Allora ci sentiamo domani. Buonanotte. – dice a bassa voce, prima di interrompere la conversazione.
Tutte le luci di casa sono spente ad eccezione di quella del bagno. Sento il bisogno fisico di una doccia, ma sento molto più il bisogno di dormire qui, perciò lascio perdere l’odore di Fler. Lo butto fuori dalla testa a calci. Affondo ancora più profondamente fra i cuscini e mi addormento.

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Scritto Sul Corpo

di lisachan
Quando apro la porta di casa, Bill è così slanciato in avanti che praticamente mi cade fra le braccia. Siccome non pesa niente, reggerlo non è difficile e non è che a ritrovarmelo addosso io faccia fatica a sostenerlo. Siccome, però, è illegalmente alto, se mi si getta addosso in questa maniera, mantenere il giusto equilibrio è un po' problematico, ed è per questo che, appena me lo vedo cadermi sopra, lascio andare un lamento un po' stupito e cerco – invano – di reggermi sulle due gambe che la natura mi ha dato. Purtroppo fallisco nel tentativo e in meno di due secondi io e Bill ci ritroviamo a terra. Io ho anche battuto con una certa forza – tra l'altro contro qualcosa che non sono certo di volere identificare – ma Bill sta ridendo, perciò è tutto ok.
Lo sento chinarsi un po' sul mio collo, mentre mi stringe con più convinzione e continua a ridere. Per un secondo penso voglia solo baciarmi, poi lo sento strusciare il naso contro la mia pelle e vado nel panico – solo un momento, il momento che in genere uso quando Bill sta per dirmi “sei stato con Patrick”. È un momento che mi serve perché “stare con Patrick” ha valenze tremende, nella mia testa. Sono valenze che non esistono, nella testa di Bill. Io non so lui cosa creda facciamo io e Fler quando stiamo insieme. Probabilmente è convinto che giochiamo a scacchi o qualcosa del genere. Comunque questo momento mi serve per tranquillizzarmi e convincermi del fatto che no, Bill non sta per accusarmi di alto tradimento, sta solo per annunciarmi che ho l'odore di Patrick addosso. Che per me equivale all'alto tradimento di cui sopra, ma per lui no. Quindi devo calmarmi per forza, se non voglio fare qualche cazzata delle mie.
- Hai ancora il suo odore addosso! - ride quindi, sistemandomisi in grembo e scatenandomi una guerra fra le gambe. Che poi, veramente, vorrei alzarmi e dare una testata contro il muro, ma di quelle forti, perché è indecente la successione di eventi che mi ha portato a questo momento. Cioè, io ieri ho quasi schienato Fler contro lo sportello della sua Escalade, eh. Ed eravamo tipo in mezzo alla strada. Io non so con che diritto faccio certe robe, giuro. Le faccio senza volerlo, forse. Che poi non è vero, è che probabilmente voglio un po' troppe cose tutte insieme.
Oltretutto, non è mica tanto normale che Bill mi riconosca addosso l'odore di Fler. Non è tanto normale che lo riconosca e non è tanto normale nemmeno che lo accetti lì com'è. Però c'è anche da dire che Bill probabilmente è davvero convinto noi si giochi, quando si va insieme da qualche parte. Che poi io e Fler non siamo mai andati da nessuna parte, tipo. Solo quando s'è trattato di Saad, e lì non si andava certo per divertirsi, comunque.
- Sì, ci... – invento palesemente, - è che aveva freddo.
Non che io mi renda conto di cosa ho detto. Cioè, aveva freddo. Che vuol dire, che l'ho scaldato? E come? Prego che Bill non me lo chieda perché non saprei come nascondergli che avevo una buona metà della sua lingua in gola, ieri sera, mentre ci dibattevamo come due ossessi fra il volante, il cruscotto e la leva del cambio. Penso a Fler, al cruscotto, alla leva del cambio, alla sua lingua in gola e cerco di calmarmi.
Bill, comunque, annuisce come se la mia fosse stata la risposta più logica possibile. E se me ne stupisco io davvero nella testa di questo ragazzo c'è qualcosa che non va. E d'altronde è il mio ragazzo. Sarebbe strano se fosse normale.
- L'importante è che sia rimasto. – dice quindi con una tranquillità addirittura inquietante. Dico io, d'accordo. Pure per me va bene se è rimasto. L'ho limonato perché rimanesse. Avrei probabilmente fatto di tutto purché rimanesse – e nemmeno sapevo che anche a Bill l'idea che lui partisse dava fastidio.
Non intendo sentirmi giustificato sul punto o pensare roba del tipo "eh, ma se alla fine Bill è d'accordo, il sacrificio è valso la pena". Baciare Fler ieri – e comunque mi ha baciato lui, credo – è stato quanto di più lontano da un sacrificio abbia mai vissuto nella mia intera vita.
Ma ho problemi più seri di questo, al momento. In realtà Bushido è vivo quindi io, a Fler, non dovrei nemmeno pensare. Così come non dovrei pensare a nient'altro che al fatto che Bushido è vivo anche ora che Bill mi si sistema addosso con la palese intenzione di farmi impazzire.
Oltretutto, pensare a Fler ieri mi dà ancora fastidio, soprattutto se lo associo a Bushido. Ma ho già detto che non dovrei pensarci, quindi perché lo sto facendo?
Comunque annuisco, anche perché Bill – a vedermi qua immobile che lo fisso con la solita occhiata da triglia che riservo di default a tutti gli uomini che scopo, per un motivo o per l'altro, quando dicono cose che mi sconvolgono – potrebbe pure insospettirsi. Quindi, appunto, annuisco e forzo un mezzo sorriso, incerto sul da farsi. Bill risolve il problema alla radice sporgendosi in avanti e baciandomi.
Io mi ci perdo tempo niente, nel senso che non si può davvero pretendere della razionalità, da me, perché io non ne ho in questi frangenti. Non riesco davvero nemmeno a colpevolizzarmi del tutto per aver baciato Fler, perché non è una cosa che mi stupisca. Io, davvero, non ce la faccio a frenarmi, di fronte a certe cose. Non lo faccio per cattiveria, lo faccio per affetto. Il mio enorme problema è che io Bill lo amo. Quindi se Bushido dovesse mettersi in testa che lo rivuole indietro, non so davvero come riuscirei a staccarmene. O come potrei fare a trattenermi e non saltargli addosso anche sapendo che non è più mio. Il problema si ripropone con Fler: io con quell'uomo c'ho una roba, non ho idea di cosa sia, mi fa paura la possibilità di capirlo un giorno, ma se mi si piazza davanti, io non ce la faccio a tener giù le mani. E' più forte di me, ma non è che voglio fargli del male. Non voglio fare del male a nessuno, io li voglio solo per me.
Lo stringo per i fianchi, attirandolo contro di me con una mano e cercando di eliminare la roba che ho sotto il sedere con l'altra. Il pavimento non è mai stato in cima alla lista dei posti in cui scopare, ma non ricordo di averlo fatto per terra con Bill neanche una volta, potrebbe essere un'esperienza. Bill mi mugola e mi sorride fra le labbra, io sorrido fra le sue e mi preparo a sentire dolore alla schiena per il resto dei miei giorni mentre lui mi appoggia le mani sulle spalle con una leggerezza che non ha bisogno di chiedere niente, e mi spinge a stendermi sul parquet, che scricchiola un po' sotto il nostro peso mentre Bill si solleva leggermente per sfibbiare i pantaloni e guardarmi con un sorriso sornione che mi manda fuori di testa.
Si tira su sulle ginocchia ed i jeans scivolano lungo i suoi fianchi stretti e magri. Io mi mordo un labbro e lui ansima pesantemente quando sollevo una mano a sfiorarlo attraverso il tessuto sottile dei boxer. Mi lascia fare, seguendo col bacino i movimenti della mia mano e strusciandosi lentamente contro il mio palmo aperto, e nel mentre afferra la maglia per gli orli inferiori e la tira su.
E lì i miei problemi vengono di nuovo fuori tutti nel loro ordine di importanza. Lì metto da parte le cazzate, veramente, perché c'è un particolare del corpo di Bill che tendo ad ignorare, dimenticare, cancellare – dato che lo odio – ma che esiste. È lì ed è enorme, è impossibile fingere che non esista.
Perciò deglutisco e, anche se continuo a muovere la mano sul suo corpo, so già che fare l'amore adesso non sarà bello come avevo sperato. Perché vedere quel tatuaggio a me mi manda fuori di testa. E non in senso positivo, per una volta.
Quattro mesi fa, Bill si è presentato a casa mia con un sorriso smagliante sul volto ed i lineamenti un po' tesi e provati. Bill ha quella faccia lì solo quando litiga con Tom, quando è stato ingiustamente privato della propria settimanale dose di Fler – che è peraltro una cosa che posso capire benissimo, anche se mi auguro che fra loro due non funzioni esattamente come funziona fra noi due – e quando torna stanco da un qualche impegno lavorativo. Al che, quando l'ho visto spuntare sulla soglia con quel faccino, mi sono giustamente preoccupato. Gli ho chiesto cosa ci fosse che non andava, lui ha risposto con un mezzo sorrisino scuotendo il capo e aggiungendo "è stata solo una giornata un po' faticosa", poi mi ha baciato, io l'ho tirato su per i fianchi, l'ho steso sul materasso e, quando gli ho sfilato di dosso la maglia, l'ho visto.
E lì mi sono fermato. Per la prima e unica volta nella mia intera esistenza – io non mi fermo mai – io mi sono fermato. Mi sono fermato, l'ho guardato, ho cercato di trattenermi e gli ho chiesto cosa cazzo fosse quel fottuto tatuaggio.
Sul suo fianco sinistro, ancora un po' arrossato e macchiato qua e là di inchiostro e qualche gocciolina di sangue già vecchio, campeggiava un'enorme frase il cui senso intrinseco ancora mi sfugge - "non smetteremo mai di gridare, torneremo alle radici", non è una frase che davvero significhi qualcosa: le radici dei Tokio Hotel sono i Devilish ed io mi auguro che Jost sia un uomo abbastanza furbo da impedire che questo crimine contro l'umanità possa avvenire. Comunque non era importante che quella frase avesse o meno un senso. Il punto non era la frase. Il punto era la forma del tatuaggio.
Quel tatuaggio è una B.
Mi si potrebbe dire che no, non è vero, non è una B, sono due dannate frasi che si intrecciano l'una con l'altra e l'illusione ottica di quell'intrecciarsi forma qualcosa di simile ad una dannata B – che peraltro, se anche fosse una B, potrebbe tranquillamente essere l'iniziale di Bill, Bill è un egocentrico e da lui un po' queste cose uno se le aspetta.
Se io non conoscessi Bill bene quanto lo conosco, probabilmente darei anche ragione a motivazioni simili. In realtà io lo conosco. In realtà so che, se non me ne ha parlato, è perché sapeva che non avrebbe avuto niente da dirmi al riguardo. Che la decisione era già presa ed io avrei anche potuto tirar giù la casa a cazzotti e urlargli in testa la qualsiasi, il risultato non sarebbe cambiato, lui quel tatuaggio l'avrebbe avuto.
Bill agisce così solo quando si tratta di Bushido. L'ho visto succedere. Ho visto venir giù un temporale epico, una roba da arca di Noè, verso i primi di gennaio, l'anno scorso. Ho visto Tom e Fler uniti nel tentativo di convincere Bill non fosse il caso di andare al cimitero a dare alla lapide di Bushido la lieta novella della morte di Saad per sua mano. Ma Bill è stato irremovibile, lui doveva andare e sarebbe andato, e l'ha fatto, alla fine. Fler l'ha accompagnato – Tom s'è giustamente rifiutato – ed al suo ritorno, quando me lo sono ritrovato congelato sulla soglia di casa che implorava per una secchiata d'acqua bollente in testa, mi ha raccontato scene allucinanti che vedevano Bill immobile davanti alla lapide che raccontava alla foto sorridente di Bushido ogni singolo minuto di quella notte disastrosa, mentre la bufera gli agitava i capelli e gli congelava le lacrime sulle ciglia e il sorriso sul volto.
Bill fa così, quando si tratta di Bushido. Ed è per questo che questo tatuaggio parla di lui.
Gli lascio scorrere addosso la mano libera, Bill geme ed io corro con le dita oltre l’orlo del boxer, perché si sta perdendo nelle mie carezze ed adoro quando lo fa. Adoro osservarlo quando chiude gli occhi ed il mio nome comincia a tremargli sulle labbra come volesse pregarmi e non riuscisse a capire bene per che cosa – come non riuscisse a capire se mi vuole più veloce, più lento, più a fondo o appena più indietro, semplicemente perché tutto ciò che vuole è avermi ovunque in ogni modo e non sa come chiedermelo.
- Peter… - mi chiama piano, ed io gli sfilo lentamente i boxer. E mentre lo faccio lo guardo e lo trovo ad accarezzarsi piano il fianco, dal basso verso l’alto. Mi ha detto che lo fa perché lì la pelle è molto sensibile e passarci sopra con la punta delle unghie gli dà i brividi.
Io credo che ogni tanto Bill abbia bisogno di accarezzarsi addosso Bushido. Credo che non lo faccia coscientemente, però ci sono dei momenti in cui ha bisogno di sentirselo sulla pelle, e questo ormai è l’unico modo in cui può farlo.
Fa male. Fa malissimo pensare che Bill ha tolto il bracciale e la fede e che togliere di mezzo quelle cose ha portato solo a peggiorare la situazione. Prima non c’era Bushido scritto sul suo corpo. Adesso sì. Adesso quell’onda di inchiostro nero gli marchia la pelle e resterà lì per sempre. Bill non se la strapperà mai di dosso, fa parte di lui. Come Bushido, in realtà: lui è sempre stato lì; questo tatuaggio, più che esserselo impresso sulla carne, Bill l’ha lasciato affiorare passo dopo passo. Ed io lo so. Lo so mentre lo stringo e mentre lo accarezzo fra le gambe e mi inumidisco le dita ed entro dentro di lui con tutti i dannati riguardi del caso, piano piano, lentamente, con delicatezza. E lo so mentre mugola e geme il mio nome, e smette perfino di accarezzarsi il fianco. Bushido resta lì, ed il fatto che resti lì è spaventoso adesso come mai prima, perché adesso Bushido è qui per davvero.
Ogni tanto mi chiedo se Bill non abbia tolto i gioielli pensando già a quando si sarebbe tatuato quella B addosso. O se forse sia stato un bisogno nato successivamente, proprio perché mancava il peso dell’oro e dell’argento e dei brillanti di Bushido attorno al suo polso ed al suo anulare sinistro. Mancava quel peso e lui s’è inciso addosso un peso diverso ma ugualmente importante, forse.
Non lo so.
Non riesco davvero a pensarci quando lo sento stringersi ritmicamente attorno a me, seguendo la traccia delle mie spinte lente e calibrate. Non riesco a pensarci anche se vorrei e forse dovrei, e per un attimo – solo uno – riesco perfino a dimenticare che Bushido è ancora vivo, che questa storia non può che finire male e che in questo momento ho l’impressione che la storia fra me e Bill non sia ancora nemmeno cominciata, che sembra già sia costretta a concludersi.
Riesco a dimenticare tutto per un solo momento, per il momento in cui Bill trattiene il respiro e poi viene fra le mie dita, per il momento in cui lo sento stringersi convulsamente un’ultima volta attorno a me e vengo anch’io, soffocando gli ansiti pesanti sulla pelle morbida e profumata del suo collo. Lo dimentico e spengo il cervello per tutti i secondi successivi, cercando di prolungare le dimenticanze il più possibile, cercando di infilare in quel buco nero di tutto – Bushido, Fler, perfino il mio incasinatissimo cervello – lasciando riaffiorare solo Bill.
- Mi sei mancato così tanto ieri… - mi sussurra Bill direttamente all’orecchio. I suoi capelli sono ovunque addosso a me, mi solleticano il naso e mi s’infilerebbero negli occhi se non tenessi le palpebre abbassate. Il pavimento è duro e scomodo ed io dovrei dire al mio ragazzo che il più grande amore della sua vita non è morto come crede. Ma non posso farlo, perché dirglielo implicherebbe perderlo. Ed io forse pecco di egoismo, ma non sono disposto a cederlo. Così come non sono disposto a cedere nient’altro.
Non so davvero come farò a guardare nuovamente negli occhi Bushido.
Non so davvero come farò a guardare nuovamente negli occhi nemmeno me stesso.
Non so davvero, soprattutto, come farò a guardare nuovamente negli occhi Bill.
- Anche tu mi sei mancato tanto. – rispondo tirandomelo contro per la nuca ed aiutandolo a sistemarsi per bene contro il mio corpo. – Resti un po’?
- Sono scappato col benestare di David! – mi informa lui con una risatina, mentre si stringe contro di me in cerca di un po’ di calore, - Resto a cena ed anche per la notte. Contento?
Io mi lascio sfuggire un sorriso un po’ triste. Fortunatamente, Bill non può vederlo.
- Sì, molto. – sussurro piano, prima di baciarlo ancora. E tapparmi la bocca. Perché è sicuramente meglio così.

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Crash Into Me

di tabata e lisachan
Io sono un tipo piuttosto abitudinario, nonostante il lavoro che faccio. O forse proprio per il lavoro che faccio. Quando passi periodi lunghissimi a dormire in una città diversa ogni notte, ti attacchi alle piccole cose pur di ricreare un minimo di atmosfera di casa. Per questo quando sono in tour faccio colazione con una certa marca di cereali, e solo con quella, che poi è la stessa che uso quando sono a casa. Voglio oggetti per il bagno precisi, voglio camerini che contengano più o meno tutti le stesse cose e il mio tour bus, per quanto è umanamente possibile, contiene tutto ciò che possa farmi dimenticare che mi trovo su un mezzo semovente. Nella mia cuccetta ho una specie di versione da viaggio della mia camera vera: stesse foto, stesse creme, stessi oggetti sul comodino.
Tom dice che sono quasi maniacale, io dico solo che questo è il mio modo di non alienarmi. Ci si perde facilmente senza punti fissi. Dopo due settimane di tour, per dire, già ti senti un po' fuori fase. Tre mesi lontano da casa, dormendo su un camion, possono avere delle conseguenze non indifferenti sul cervello umano. Mio fratello ovviamente non condivide i miei metodi. Lui per combattere l'alienazione ci entra dentro con tutte le scarpe. Dice che ha due vite diverse, una quando è a casa e una quando invece a casa non c'è. La differenza sostanziale tra le due vite è che in tour si permette di cambiare ragazza ogni notte e di scopare come se non ci fosse un domani, cosa che non fa quando è a Berlino perché quando è a Berlino non ha bisogno di scaricare nessuna tensione, né tantomeno di farsi bello raccogliendo donne come la rete per la pesca a strascico perché non abbiamo i giornalisti attaccati al sedere così spesso come invece uno pensa. Perché la verità su mio fratello, alla fine, è che fa sesso perché gli piace, certo, ma lo fa anche perché non fa nessuno sport e quello è il modo che gli rimane per scaricare lo stress. Beh, quello e la Wii, ma diciamo che preferisce la prima opzione per ovvie ragioni. Questo, tra le altre cose, mi fa venire in mente che Chakuza è uguale. Lui farà anche sport, credo, a dire il vero non lo so, ma quelle due spalle lì deve averle per qualche motivo, comunque il fatto è che Chakuza fa sesso per lo stesso motivo. E al momento la cosa mi riguarda da vicino perché, insomma, lo fa con me e questo significa che non c'è momento che passiamo insieme senza che lui mi spalmi su qualche superficie, così, senza nemmeno grandi discorsi a volte. Alché c'è da chiedersi se non sia molto, molto stressato ma credo di no. Credo che nel suo caso oltre allo stress, ci sia anche il fatto che gli piace proprio. E a me piace che a lui piaccia perché piace anche a me. E comunque mi sono perso.
Dicevo che io sono un tipo piuttosto abitudinario quando sono in tour, e anche a casa non scherzo. Se sono nel mio appartamento, e quindi non ho niente da fare, e quindi posso fare più o meno tutto quello che voglio, di solito non faccio assolutamente niente; che per uno che di solito lavora dalle sei del mattino alle tre di notte con l'obbligo di sorridere a chiunque, è la vacanza migliore del mondo.
Mi sveglio, faccio colazione e telefono a Peter per parlargli essenzialmente di nulla e distogliere la sua attenzione da qualunque cosa stia facendo per farlo concentrare su di me, che mi sono appena svegliato e ho assoluto bisogno di sentirmi amato. Lui di solito la mattina è un amore - Peter è sempre un amore, in realtà, tranne quando s'incazza per qualcosa, che di solito non sono io, però, quindi, in sostanza, per me è sempre un amore - e sta a sentire tutto quello che gli dico e ride. Ed è un bel suono il Chaku che ride al mattino. Quindi, di solito, dopo averlo tenuto un tempo indecente al telefono, telefono a mio fratello, che si ingelosisce se non faccio perdere almeno quaranta minuti anche a lui. A quel punto mi faccio la doccia, scelgo i vestiti e raggiungo Peter a casa sua, o lui viene qui. A volte vado alla Beatlefield se sono sicuro che Stickle non c'è. Ma di solito c'è, perché lui lavora.
In queste ultime settimane, però, la mia routine è stata ampiamente devastata dalle paranoie di David. Mentre ero a Disneyland con Peter mi ha fatto promettere che per un po' ci saremmo visti di meno, io e lui, e con più attenzione perché i giornalisti stanno cercando lo scoop. Averglielo promesso, in realtà, un po' mi scoccia perché quando prometto, poi mantengo anche e questo significa che per vedere Peter devo fare delle acrobazie che nemmeno il Cirque du Soleil, tipo che devo uscire di casa struccatissimo e con il viso tutto coperto e devo prima andare da qualche parte che con la casa di Peter non c'entra niente, qualcosa di poco interessante per i giornalisti nel caso fossero appostati, tipo, non lo so, il supermercato o un negozio qualunque - anche se poi non è vero che non gli interessa perché si inventano storie su qualunque cosa. Tipo vado al mercato, compro due mele, e all'improvviso sto seguendo una nuova dieta di qualche guru indonesiano che prevede solo due frutti al giorno. Vado in farmacia, e sono sicuramente sotto anti-depressivi. Entro in un negozio di animali e voglio comprare un chihuaua come Paris Hilton. In sostanza ovunque vada, se loro mi stanno dietro, uscirà un articolo. Però questo serve, li depista. Dopo un po' che compro mele, anti-depressivi e chihuaua torno a casa, loro si stufano e quindi io esco e vado da Peter.
Peter di questi problemi non ne ha, a lui non lo segue nessuno. A lui basta arrivare in macchina e lasciarla nel parcheggio interno del complesso residenziale. Lì dentro i paparazzi non possono entrare, per cui lui può anche scendere dall'auto con una freccia sulla testa e la scritta al neon - CHAKUZA - che lampeggia, tanto non lo vede nessuno. Comunque, dicevo, per via della paranoia di David, ho promesso di non andare di continuo da Peter. Quindi stamattina, dopo la mia colazione, dopo aver chiamato il mio amore e aver saputo che è a casa, si annoia, gli manco - e se fossi lì faremmo l'amore tipo ovunque, tipo in ogni modo, tipo che è meglio se non ci penso perché sono tre giorni che non lo vedo e non ho nemmeno la testa impegnata a preparare concerti e quindi lo voglio. Uffa. - dopo tutto questo, anche dopo Tom, la doccia, i vestiti e David che mi telefona per farmi promettere di fare il bravo - d'altronde lo fa solo quelle quattro o cinque volte al giorno - non ho niente da fare. Quindi mi accoccolo sul divano e decido che posso anche dare un'occhiata a quel mezzo quintale di riviste che mi arrivano per posta e che di solito ammucchio tutte insieme per leggerle quando proprio non riesco a cazzeggiare in altro modo. Ci sono un sacco di cataloghi di moda, qualche rivista del settore e tutta la stampa che per un motivo o per un altro possa contenere articoli che mi riguardano. Mi piace sapere cosa dicono su di me e tenere il conto delle volte che sono diventato anoressico, ho tentato il suicidio, oppure ho litigato con il mio manager per qualche motivo da diva. E poi, visto che sono chiuso in casa perché qualcuno cerca di capire con chi me la faccio, allora voglio sapere quanto ci sono andati vicino. L'ultima volta che abbiamo avuto un allarme del genere avevano puntato su Jimi Blue. Andiamo! Ma vi pare? Quando l'ho detto a Chakuza ha riso così forte che non riuscivo nemmeno a farlo smettere. Quando poi lo ha incontrato ad una serata, una settimana dopo, poca ci mancava che riprendesse a ridergli in faccia.
Se hanno pensato a Jimi Blue allora stanno seriamente pescando a caso, non sono davvero preoccupato. Tolgo di mezzo le riviste di moda, recupero le altre e ci do un'occhiata per vedere da quale partire. Di solito le metto in ordine di interesse, prima le notizie o gli articoli più noiosi, poi quelle che davvero vorrei leggere, così mi godo di più l'attesa. Solo che questa volta non funziona, perché mentre sto impilando le riviste, l'occhio mi cade sulla copertina di Bravo e mi congelo.
Chiunque ci sia dietro a tutto questo, ha un pessimo senso dell'umorismo e se solo riuscissi a staccare gli occhi da quello che vedo, allora starei già chiamando la redazione, David e chiunque in questo momento meriti le mie urla.
La foto in copertina mostra l'entrata della Unversal Music Deutschland, e un uomo che sta uscendo dal portone. E' alto e indossa un cappotto elegante, nero a tre quarti ma questo non importa, per certi versi non lo guardo nemmeno. E' il titolo che mi fa incazzare, perché Bravo ne ha dette tante, ma adesso ha passato ogni limite.
Sono tornato, dice il titolo. Chi sono? E poi i suoi due nomi. Sono le parole di Wer Ich bin e io voglio ammazzare qualcuno.
All'interno l'articolo è semplicemente disgustoso. Ci sono solo due foto, prese da angolazioni diverse, ma le tre pagine che compongono l'articolo le riportano all'infinito: ingrandite, speculari, sgranatissime, nel dettaglio. E ogni didascalia è peggio di quella che la precede, e sono così arrabbiato che mi viene da piangere. E piango, cazzo, perché non ne avevano il diritto. Dicono che Bushido è tornato, come se fosse andato - che cazzo ne so, in America! - e ora fosse di nuovo qui. Anis è morto, stronzi, non può tornare. L'articolo non lo leggo tutto, perché non ne ho bisogno. Già alla prima pagina sono nauseato e non m'importa neanche delle loro congetture. Vaffanculo.
Dicono che lo hanno visto, che era lui, giocano con un uomo che è morto un anno fa e con i sentimenti miei e di tutti gli altri. E non riesco nemmeno ad immaginare come si possa essere così stronzi da sfruttare un dolore simile pur di vendere.
Tornato un cazzo, se fosse tornato - come poi? COME? E' morto, lo sanno bene - se fosse tornato, in qualunque modo, è da me che sarebbe venuto. E invece lo abbiamo seppellito e sono stato a guardare ogni singolo grammo di terra che gli abbiamo versato sulla bara fin a ricoprire tutto per bene. E' morto e questi non riescono a lasciarlo in pace nemmeno dopo il suo funerale. Vaffanculo.
Sono in piedi e recupero il cappotto un attimo dopo. Al diavolo le paranoie di David, ho bisogno di vedere Peter. E ne ho bisogno adesso.
Se mi seguono, almeno scriveranno qualcosa di vero.
*
A casa di Peter ci sono arrivato con la mia auto, ignorando la guardia del corpo che ho sempre fra i piedi. Non ho nemmeno sentito cosa diceva, l'ho evitata e basta. Mi hanno anche fotografato, mentre uscivo, ho visto i flash e me ne sono fregato anche di quelli. Venitemi dietro, nessun problema. Se non capite con chi scopo, siete liberi di inventarvelo, venirmelo a chiedere, pedinarmi. Ma giocare con i morti, no.
Parcheggio di traverso, male e di fretta, in mezzo alla strada perché Peter si ostina ad abitare in un palazzo popolare, tipo, non lo so. C'è un sacco di gente nel suo condominio, alla faccia dell'anonimato. E non c'è portiere, il portone fa schifo. Mi attacco al campanello perché le chiavi di casa sua le ho nella borsa. E la borsa è a casa, col mio cellulare, per cui non ho nemmeno avuto modo di chiamare David ed urlargli contro mentre venivo qua.
"Chi è?"
"Bill. Apri."
Sono dentro praticamente mentre il portone scatta e mi faccio le scale a piedi, che tanto l'ascensore non funziona mai. Arrivo su che sto già imprecando e non so nemmeno che cosa dico, in realtà. "Ehi, che sorpresa, non ti... aspettavo." Lui mi guarda perché sono un disastro, sono tipo in tuta e sto urlando da solo. E piango. "Che succede?"
Chakuza si allarma subito se io sono sconvolto. O meglio, i primi tempi si agitava tutto perché - in effetti - non era abituato al fatto che io faccio un dramma di qualunque cosa, per cui era sempre in agitazione. Poi un po' ha imparato. Solo che ora sto piangendo e sono visibilmente fuori di me, quindi è preoccupato.
"Io non posso crederci!" Sbraito e lui mi fa entrare e chiude la porta. Mi guarda con gli occhioni rotondi sgranati. "I redattori di Bravo sono esseri ignobili sono la... la feccia dell'umanità. Io non capisco come si possano fare cose del genere e poi tornare a casa a dormire, cazzo! Ci sono cose su cui non si può scherzare, non si deve! Ma che cazzo di gente è, questa? Eh? Me lo spieghi?"
"... non lo so?" Poi mi ferma per le spalle. "Bill, non capisco niente se fai così. Mi dici che cos'è successo, per favore?"
E io tiro su col naso e poi annuisco. Quindi gli passo il giornale. "Sono dei bastardi," dico soltanto. E aspetto che anche lui legga il titolo e veda la foto. E s'incazzi. E lo voglio proprio il Chaku incazzato.
Aspetto. Lui legge. E io aspetto e non esplode.
"Quando è uscito questo numero?" E' la prima cosa che chiede quando finalmente alza gli occhi dalla rivista. Si è letto tutto l'articolo.
Mi stringo nelle spalle. "Non lo so, ieri credo. Non lo so! Chi se ne frega!" Replico. "Hanno preso le foto di uno che ci assomiglia e hanno messo su questa... questa cosa! Non è giusto! Non dovrebbero avere il permesso di fare cose del genere, loro-"
"Bill."
Io lo guardo per due motivi: il primo perché mi ha chiamato con un tono preciso, che mi mette una gran paura anche se non so perché. Il secondo è che mi rendo conto che non è affatto inorridito da tutta la faccenda. E dovrebbe. Chakuza riesce ad inorridirsi per molto meno. Quindi mi chiedo perché sia sbiancato, perché mi guardi e dentro i suoi occhi io ci veda un senso di colpa che non ha senso di trovarsi lì.
"E' meglio se ti siedi, vuoi?"
"Sedermi? No, non voglio sedermi, Peter," sbraito. "Voglio che andiamo da David, lo carichiamo in macchina e quindi andiamo a spaccare la faccia al direttore di Bravo. Ecco cosa voglio." Non mi risponde. Guarda me, guarda il giornale e non capisco cos'abbia da stare tranquillo. "Chakuza, questi bastardi usano Anis per aumentare le ven-"
"E' lui."
Per un istante io non registro esattamente le parole che dice, il concetto, di per sé, è già troppo da sopportare. La prima cosa che penso è che non ho capito, o che è impazzito, insomma che è assurdo. "Che cosa stai dicendo?" Chiedo. "Anis è morto." E non mi trema nemmeno la voce mentre lo dico perché è una cosa che non dovrei dirgli, dovrebbe già saperla. E' come dirgli che la Terra gira.
Chaku, vienimi incontro, Cristo.
"Bill, ti prego, siediti."
"No," insisto. "Si può sapere che ti prende?"
Lui si gratta la nuca, a disagio. Si siede lui al posto mio, sul bracciolo di una poltrona, posa la rivista sul tavolo e quella si arriccia tutta perché non abbiamo fatto che stropicciarla e tenerla arrotolata. "Bushido non è morto," mormora.
"Che cazzo stai dicendo?"
"Bill, ascolta."
"No! Che.Cazzo.Stai.Dicendo!" E urlo, perché sembra un incubo. Da una parte mi dicono che è tornato, dall'altro vengo qui e lui non trova niente di meglio da fare che prendermi per il culo. "Lo trovi divertente? Credi che sia divertente startene lì con la faccia seria e dirmi che è vivo? Non sei spiritoso!"
"Non sto scherzando!" E grida anche lui per sovrastare la mia voce, e forse anche i suoi pensieri. E la situazione, lo capisco dopo.
Sto zitto e lo guardo. Gli occhi di Peter sono bellissimi, di un verde non troppo chiaro e sono screziati. Bisogna stargli vicino per vederli bene e io li ho guardati così tanto in questo ultimo anno che li so leggere. Hanno paura, adesso, e sono occhi un po' tristi. E quel senso di colpa è sempre lì. C'è tutto questo, là dentro, ma non c'è nessuna bugia.
"Non è possibile," dico. Faccio un passo indietro, inconsciamente diretto alla porta e lui si alza di corsa e mi viene vicino, mi prende per i polsi.
"Bill, calmati, ti prego!"
"No!" Sbraito. "Ero al suo funerale, c'eri anche tu, cazzo, la bara! L'hai vista! E i proiettili e tutto quel sangue, Peter. Che cosa stai dicendo?" Scuoto la testa e piango senza rendermi conto di farlo. Lo so quando sento il sale sulle labbra mentre lui mi stringe le mani intorno ai polsi ancora più forte.
"Non abbiamo mai visto il corpo, Bill."
"Era là dentro," singhiozzo.
"No, non c'era," insiste lui. "Ricordi che volevi vederlo e non te lo hanno permesso?"
Ho urlato quel giorno e urlo adesso. "Non è possibile! Dov'era se non è morto? Dov'è stato? Perché? Peter, non dire cazzate!"
Lui non dice niente, mi guarda e basta. E io semplicemente so che è vero perché in realtà Chaku scherzi di merda come questi non me ne farebbe mai e perché ora sono sull'orlo della crisi isterica e lui piuttosto che ridurmi così si fa investire, quindi no. E' tutto vero. "Tu come lo sai?" Realizzo all'improvviso. "Tu lo sapevi da quanto?"
"Da poco," mi risponde subito lui. "Molto, molto poco."
"Perchè non me l'hai detto?"
"Bill, come facevo?"
"Come hai fatto adesso!" Replico. "Voglio vederlo. Dov'è?"
Scuote la testa. "Non lo so."
"Cazzate, Peter. Dimmelo."
"Io-"
"Dimmelo!" Stavolta urlo e lo spingo indietro, colpendolo al petto.
"Bill, è la verità!"
"Dimmi dov'è!" Urlo ancora, alzo le braccia, lo colpisco forte, e lui un po' si difende, un po' cerca di bloccarmi. "Tu lo sai dov'è e non vuoi dirmelo!"
"NON LO SO!" La voce di Chakuza rimbomba per tutta la stanza e mi zittisce, come sempre. Lui non lo sa. Bushido è vivo. E se è vivo la Terra può anche smettere di girare. Non so neanche cosa significhi davvero tutto questo. Singhiozzo mentre lui mi stringe a sé, forte, come volesse avvolgermi tutto, e la mia voce si sostituisce alla sua, nell'eco della stanza. "L'ho visto una sola volta. Non so dove sia adesso. Non pensavo nemmeno che fosse... ancora qui, Bill."
"Voglio vederlo," gli nascondo il viso addosso. "Peter, ti prego, dimmi chi lo sa."
Alla fine cede. "Fler," mormora e io non penso al perché Fler lo sappia, penso solo che lo sa e che sono già due persone che lo sapevano mentre io ero all'oscuro di tutto. Chakuza recupera il cellulare e mi trascina sul divano.
Io non voglio stendermi, voglio urlare, ma non ho la forza, così ascolto gli squilli mentre mi accoccolo contro di lui e penso che da qualche parte, in questo momento, Bushido è vivo. E respira. E penso che non sia possibile.
La voce di Fler è un borbottio, non sento cosa dice. Lo sento fare una pausa quando Chakuza gli dice che io so. E io trattengo il fiato, Fler conosce il posto. Penso solo questo. Peter gli dice che va bene, annuisce.
"Dov'è?" Chiedo subito.
Lui mi guarda, sempre a disagio. "E' meglio chiamare David," risponde.
"David? Il mio David?" Mi sollevo e mi scosto, sedendomi sul divano.
"Bill..."
"Non chiamarmi per nome!" Esclamò e lo sguardo oltraggiato che gli lancio lo costringe a guardare altrove. "Tu, Fler, David, qualcun altro a parte me? Il mondo intero, forse, visto che Bravo gli fa pure le foto come se fosse normale?" Mi ripeto che questa cosa non è possibile ma anche che se esiste una possibilità surreale che tutto ciò sia vero, allora sono così incazzato, oltre che sconvolto, che farò del male a qualcuno.
Lui espira, piano. "Solo noi tre," dice. "Ed Eko."
"Perfetto!" Ho già il telefono in mano. "Anche lo scemo del villaggio lo sapeva. Questa cosa è... è... vaffanculo!"
"Gli telefono," si offre lui.
"Non ti azzardare nemmeno," lo congelo sul posto. "David è roba mia."
Il cellulare di David è sempre occupato. A volte con gli altri ragazzi lo prendiamo in giro dicendo che, evidentemente, tutte le linee telefoniche dell'universo devono passare da lui perché a qualunque ora lo chiami, alla prima non ti risponde mai. E nemmeno alla seconda o alla terza. Finisce che devi riattaccare e riprovare in un secondo momento e ancora finché non hai il culo di beccarlo tra una telefonata e l'altra.
Io sono furioso, però, quindi non mi fermo. Compongo il numero, attendo e quando sento il segnale di occupato, riattacco, ricompongo il numero e ricomincio.
"Bill, calmati, per favore." Peter si è alzato e mi gira intorno come un condor. Sa che non deve neanche provare a toccarmi adesso, non può fare niente. Può solo sperare che mi tranquillizzi ma non ho intenzione di farlo perché Bushido è vivo. Penso con rabbia che mi deve delle spiegazioni. E poi, proprio mentre riattacco per richiamare David ancora una volta, mi rendo conto che se è vivo anche io ne dovrò una a lui.
"Pronto?"
"Dov'è?"
Mi sembra quasi di vederlo, David che aggrotta le sopracciglia. "Bill?"
"Lo so come mi chiamo," dico spiccio. "Dov'è?"
"Dov'è chi?" Fa lui. "Cosa stai dicendo? Hai per caso bevuto?"
Mi alzo perché non riesco a stare fermo, quasi mi scontro contro Chakuza che non sta fermo nemmeno lui. "Anis. Bravo lo ha fotografato."
"Bill," risponde piano e io so che sta per dirmi che è morto. "Bushido è morto."
"Già, questo è quello che credevo anche io ma quello nella foto è lui e Chakuza lo conferma. Quindi adesso tu mi dici dov'è."
Dall'altra parte della cornetta il silenzio è pesantissimo. Non lo sento nemmeno respirare. So che è ancora lì perché non è caduta la linea. "Sei a casa di Peter?"
"Sì."
"Fatti accompagnare da me. Ci andiamo insieme," la sua voce è professionale, quasi gelida. Ha una paura fottuta. E fa bene perché sono incazzato.
"Bushido è vivo e tu lo sapevi," dico. "Ti conviene avere un buon motivo per tutto questo David, perché giuro su Dio che me la paghi."
Quello che dice non lo sento, ho già riattaccato.
Io e Peter siamo fuori di casa l'attimo dopo ma in quel momento neanche mi rendo conto di quanto immenso sia il disastro che ho per le mani.
Io voglio solo vedere Anis.
*
Per tutto il tragitto in macchina di Peter, io non faccio che stringere un labbro tra i denti così forte che sento il sapore del sangue sulla lingua. Mi accorgo a malapena di quello che succede intorno a me. Colgo i lineamenti tesi e lo sguardo ansioso di Peter, colgo la calma surreale di David – che poi mi irrita oltremodo, perché è la calma con la quale in genere affronta le grane sul lavoro. Il fotografo è in ritardo? È con questa faccia che cerca di rintracciarlo al telefono. Le camere in albergo non sono ancora pronte? È con questa faccia che invita il consierge a darsi una mossa. Un giornalista fa una domanda eccessivamente personale? È con questa faccia che lo minaccia di trascinarlo in giudizio alla prima occasione favorevole. Qui, però, non si parla di lavoro. Si parla della mia vita. Della vita di Anis. David non dovrebbe avere quest’espressione addosso, e io riesco a tollerarla solo perché, appunto, in realtà tutto mi sta passando vicino senza sfiorarmi, come fossi fatto d’aria.
Sto guardando fisso davanti a me, vedo quello che mi passa davanti agli occhi – per dire, riconosco i quartieri, le strade, so che nei paraggi abita Eko – ma ne prendo nota come di particolari marginali. In realtà sto ripercorrendo a memoria gli ultimi nove mesi della mia esistenza e sto cercando il punto dal quale cominciare per parlare con Anis. Sto cercando di capire se dovrei cominciare picchiandolo perché mi ha spezzato il cuore fingendo di essere morto, o se forse sarebbe meglio cominciare spezzando il suo, confessandogli che sto con Chakuza.
E la cosa più assurda, la cosa più incredibile, è che sto dando per scontate così tante cose che, se solo penso di fermarmi a rifletterci e contarle tutte, mi viene quasi da ridere. Do per scontato che voglia rivedermi, do per scontato che provi ancora qualcosa per me, do per scontato anche di provare ancora io qualcosa per lui. Io amo Peter. Lo amo, no? Dio, sì che lo amo. L’ho aspettato per tanto di quel tempo, e sono così felice, Cristo, certo che lo amo. Ma la sola idea di rivedere adesso Anis mi confonde al punto che non so se le farfalle ce le ho nello stomaco o nella testa. O se quello che mi agita sia una folata di vento o un dannato uragano.
La macchina si ferma davanti al portone di un palazzo che non conosco. Mi sembra perfino di non averlo mai visto, il che è surreale, perché questa è Berlino, la Berlino di Anis, ed io con lui questa città l’ho vista tutta. Mi ha portato ovunque, me l’ha insegnata metro dopo metro, “la mia città sono io, principessa,” mi diceva, “se non conosci lei, non conosci me” ed io lo seguivo senza fare storie e mi perdevo nella sua voce mentre mi parlava delle cose più stupide, di come contava i metri per ricordare dove fossero posizionati i vicoli sicuri quando scappava dalla polizia in servizio la notte, di come avrebbe potuto girare senza sbagliare strada perfino ad occhi chiusi, dei locali che frequentava, dei posti in cui si nascondeva, delle case in cui dormiva quando si riduceva stremato al mattino dopo una notte di lavoro e cazzeggio. Dovrei ricordarmelo, questo posto, devo necessariamente esserci passato davanti, almeno una volta. Dovrei ricordare tutto, di quello che mi ha detto Anis. Ogni cosa che mi ha mostrato ed ogni parola con cui l’ha accompagnata. Ma ho il vuoto nel cervello, adesso, e questo posto non lo riconosco per niente.
- È qui.
Sento la voce di David come un’eco lontana. Peter non parla, e gliene sono grato, in questo momento. Vorrei voltarmi e dire a David che ha poco da fare l’epico, lui, ora come ora. Che è qui lo so, perché è qui che mi ha portato e lui sa perfettamente che, se solo avesse osato prendermi in giro e portarmi da qualche altra parte, gli avrei cavato gli occhi con le mie stesse mani. Che è qui lo so, anche perché me lo sento sotto la pelle. Guardo in alto, scorro tutto il palazzo – non ho idea di quale sia il piano in cui sta – e so che è lì dentro. So che è a qualche metro da me. So che fra meno di un minuto lo rivedrò. E mi copro di brividi, al punto che comincio a tremare.
Peter mi si avvicina. È discreto, lo è quasi sempre quando sa che a toccarmi male potrei esplodere. E invece non esplodo perché, come al solito, lui mi tocca benissimo. Allunga una mano e stringe la mia. La accarezza un po’, solo lievemente, sa che, se in questo momento si comportasse in maniera eccessivamente tenera, lo allontanerei. E invece non è eccessivo, è solo giusto, mi sfiora, mi stringe ed io mi calmo un po’. Abbastanza da voltarmi verso David e seguirlo con gli occhi senza ucciderlo mentre tira fuori dalla tasca dei jeans un mazzo di chiavi ed apre il portone, tenendolo dischiuso mentre mi fa cenno di entrare alla svelta. Obbedisco non perché me lo sta ordinando, ma perché la voglia di vedere Anis mi sta facendo bruciare da dentro.
Il tempo sta scorrendo a rilento. Vorrei poter essere più veloce, vorrei potermi muovere prima, vorrei essere già dov’è lui e vorrei averlo già sotto gli occhi. Ho paura che potrebbe andarsene di nuovo – ne ho paura e non l’ho ancora nemmeno rivisto – ho paura che, ad aprire quella porta in ritardo, Anis potrebbe non esserci. Non posso continuare a sopravvivere in questo stato ancora a lungo, perciò devo sbrigarmi e non mi riesce. Non mi riesce di essere più svelto e non mi riesce di essere già lì, cerco di divorare le scale di corsa e invece mi sento paralizzato.
David non so dove sia. È rimasto indietro, suppongo. Peter è sempre qui accanto a me. Continua a stringermi ed è d’aiuto davvero. Se mi lasciasse andare, probabilmente mi metterei a correre. E non posso correre, perché le mie gambe sono troppo rigide. Se solo mi muovessi nel modo sbagliato, penso che mi spezzerei. Sono un fascio di nervi e sento dolore ovunque, sudo freddo e sto male. Sto malissimo, cazzo. Forse mi sto già spezzando. Forse Peter non può aiutarmi anche stavolta.
Mi fermo quando Peter mi tira. Peter mi tira perché David gli ha indicato la porta giusta. Io seguo il cenno di David e fisso il legno fino ad impararne a memoria le venature. Poi David suona al campanello e sento i passi.
Non sono di Anis.
E infatti, quando la porta si apre, di fronte a me c’è Patrick. Che mi guarda come se fosse perfettamente normale. Tutto, poi. Che lui sia lì, che io sia lì, che Anis sia lì, da qualche parte. Neanche avessimo tutti avvisato per tempo e questa fosse una cordiale cena di famiglia. Non lo è, cazzo. Mi sta esplodendo il cuore. Non riesco nemmeno a respirare.
Patrick non parla. Però mi sorride. È intenerito, o forse no, i sorrisi di Fler sono sempre molto morbidi e questo è perfettamente uguale a tutti gli altri. Non so se sia sempre intenerito quando mi sorride, o se sia proprio il suo sorriso così. Dovrei chiedere a qualcuno che lo conosca meglio di me. Non mi viene in mente neanche un nome a parte Anis, e di decifrare i sorrisi di Patrick col suo aiuto, al momento, non mi interessa per nulla.
Mi faccio avanti di un solo passo, Fler tiene entrambe le mani sugli stipiti della porta ed ingombra l’entrata per intero. Potrei spostarlo solo a testate, e non sono sicuro che ci riuscirei davvero, anche provandoci. Comunque, nel movimento mi tiro dietro Peter, gli occhi di Patrick scendono sulle nostre mani ancora strette insieme e gli passa un lampo scuro negli occhi. I suoi lineamenti si tendono tutti e so che sta pensando che non dovrei stringere questa mano con Anis così vicino a noi. Lo so che lo sta pensando. Lo sto pensando anch’io. Ma se lascio Peter adesso vado in pezzi, perciò la mano resta dov’è.
La mano resta dov’è, sì, ma si irrigidisce anche lei, come i lineamenti di Fler. Sento le scintille nel punto in cui dovrebbe esserci Peter. Questa cosa la capisco meno, ma in realtà sto capendo pochissimo di quello che sta succedendo. Continuo a prendere nota dei particolari come dovessi riutilizzarli più tardi per ricostruire la scena di un crimine. Quello che vedo ora non sono che tasselli sparsi di qualcosa che non riesco a realizzare nella sua completezza. Vedo solo pezzi di cose. La mano di Peter, gli occhi di Fler, quel poco che si intravede oltre le sue spalle dell’appartamento illuminato poco e male. Nient’altro.
Mi inumidisco le labbra, prima di parlare.
- Voglio vederlo.
Fler inspira profondamente e poi trattiene il fiato per un secondo, prima di rispondermi.
- Lui vuole vedere te. – dice a bassa voce. E poi si scosta.
Forse perché sono un bambino, forse perché sono uno stupido, mi aspetto di trovarmi subito Anis davanti agli occhi come dovesse apparire per una qualche ragione. Non lo so, ci resto male quando non lo vedo. Resto fermo per un sacco di tempo. Lui lì all’ingresso non c’è.
- Dov’è? – chiedo, voltandomi a guardare Fler. Ho gli occhi pieni di lacrime, Patrick è una macchia sfocata che sbuffa una risata e mi precede. Seguo l’oscillare incerto delle mie lacrime che si colorano delle tinte della sua felpa, è una felpa ridicola che gli ho regalato io, bianca con le stelline verdi. Non posso credere che la indossi sul serio, è assurdo.
Gli vado dietro e Peter mi segue, continua a stringermi la mano ma è da quando ho messo piede nell’appartamento che ho perso sensibilità su tutto il corpo. So che le lacrime stanno scendendo – perché erano troppo pesanti perché le ciglia potessero tenerle intrappolate ancora a lungo – ma non me le sento scorrere addosso. So che mi sto muovendo, ma non sento i piedi toccare terra. So che Peter mi stringe, ma non sento il calore della sua pelle. Non sentirò più niente per tutto il resto della mia vita, lo so. Non ci riuscirò più. Però almeno ho smesso di sentire male. Anche se non posso dire di stare meglio così.
Patrick apre una porta senza bussare prima. Il mio cuore esplode. Di nuovo. E ancora.
Resta sulla soglia e si scosta per farmi passare. La mano è ancora lì. La stringo fortissimo, so che lo sto facendo. La stringo talmente forte che non posso evitare di accorgermene, quando la sento scivolare via.
Me ne accorgo e non vedo più niente, in un solo attimo.
Anis è lì. Sta in piedi davanti ad una poltrona, come si fosse appena alzato. Mi guarda dritto negli occhi ed ha quell’espressione buffissima che non si capisce mai se diventerà uno sorriso o uno sbuffo ironico. Ha i capelli lunghi – Dio mio, sono lunghissimi – ma li tiene stretti in un codino che spunta da dietro e gli solletica la nuca.
Sto piangendo, lo so. Devo essere un disastro. Ci stiamo vedendo adesso dopo un anno e sono tremendo.
Non riesco a spiccicare una parola, ho paura perfino ad aprire le labbra perché non so che mugolio in frantumi potrebbe venirne fuori. Parla Anis per me. Mi si avvicina piano, un passo dopo l’altro, e quando arriva tanto vicino che devo per forza sollevare lo sguardo per continuare a tenerlo piantato nei suoi occhi, si inginocchia. Così che lo sguardo posso fare a meno di alzarlo, e lo abbasso. Le lacrime scendono in goccioloni enormi. Le vedo e non le sento.
Ma ricomincio a bruciare nel momento esatto in cui la mano che prima stringeva quella di Peter finisce stretta fra le dita lunghe e forti di Anis. La tiene con una delicatezza che è solo sua, neanche fossi fatto di porcellana. La stringe appena. La bacia piano.
- È bello rivederti, principessa.
Ed io mi sento sciogliere. Non mi reggo più, gli frano addosso, non so come faccio a reggermi al suo collo mentre piango e mi lamento e lo stringo e non capisco più niente, ed è un bene che avesse un ginocchio piegato e sollevato da terra, o sarei caduto sbattendo contro pavimento così forte che avrei avuto un motivo molto più stupido per piangere. E invece sto piangendo per lui. Perché lo sto sentendo sotto le dita. Perché è vivo, perché è qui, perché sento il suo sorriso tenero contro il collo, perché sento il suo profumo, perché posso seguire con le labbra il profilo del suo viso e posso perdermici, posso farlo perché è vivo ed è tornato da me, ed al momento non mi interessano i motivi, non mi interesserebbe neanche se fosse morto davvero e poi risorto, anche se so che non è possibile: sarebbe comunque tornato da me, ed è tutto ciò che conta ora.
Sento solo distrattamente la porta che si chiude alle nostre spalle, ho gli occhi semichiusi e quel po’ che riesco a vedere resta filtrato dalle lacrime. Anis è una macchia scura con un buon profumo e un buonissimo sapore. Lo assaggio piano sulle labbra e in punta di lingua quando lui prova a baciarmi. E ci prova davvero, per la prima volta nella sua intera esistenza – comunque per la prima volta da quando mi tocca – non sta pretendendo niente. Mi sta solo dicendo che è qui e se lo voglio è ancora mio. Ed io lo voglio. Voglio che sia mio perché io non ho mai smesso di essere suo.
La sua fronte sfiora la mia e non si allontana dalla mia bocca, quando parla.
- Dovrei dirti un milione di cose, piccolo. – mi sussurra addosso, una mano che scivola contro il mio fianco, sotto la maglia.
Lo bacio lentamente.
- Dovresti. – annuisco senza schiudere gli occhi. Il suo naso sfiora il mio e mi solletica appena. Mi viene un po’ da ridere e lo faccio. È una risatina così piccola che mi stupisco che lui riesca a sentirla. Comunque la sente e ne fa una un sacco simile. Mi scoppia il cuore di gioia, cazzo.
Si tira in piedi, mi tiene saldamente per la vita e finisco per rimettermi dritto anch’io. Cerco di stringerlo forte al collo, o cadrò di nuovo.
- Ce la fai? – chiede a bassa voce, scivolandomi addosso lungo una guancia, il mento, il collo, - Ti tengo, se non ce la fai.
- Non ce la faccio. – ammetto spossato. Lui sorride e mi tira su di peso, allacciandomi sotto le gambe. Stringo le cosce così forte attorno alle sue anche, che quasi mi faccio male da solo.
Anis mi spinge contro una parete ed io piego il capo mentre bacia e morde ovunque riesca ad arrivare, sussurrandomi addosso cose stupende, o magari sono cazzate, però è la sua voce, e se la sento dire che gli sono mancato, se la sento dire che so ancora di buono, se la sento dire che sono esattamente come mi ricordava, anche se non è vero, anche se fa male, è bellissimo. È talmente bello che continuo a piangere, continuo a piangere anche se ormai sto ansimando e non faccio che agitarmi contro di lui perché non ce la faccio più, voglio sentirmelo contro e voglio sentirmelo dentro, e se non lo avrò immediatamente comincerò a piangere così forte che mi faranno male i polmoni.
Anis spoglia me e se stesso in un arco di tempo che non riesco a quantificare. Il suo calore e la sua forma pressati sulla pelle già da soli bastano a farmi mugolare di piacere. Non ricordo quando, sono riuscito a infilare due dita fra le maglie dello stupido elastico che gli teneva stretti i capelli, perciò ho sciolto la coda. Ora le mie dita passano attraverso le sue ciocche scure e mosse, le sento morbidissime sotto i polpastrelli e sorrido. Non li avevo mai potuti accarezzare così, i suoi capelli. Mi piacciono così tanto, spero che non li tagli più.
Lo chiamo pianissimo e stringo le dita sulle sue spalle, affondando quasi le unghie nella sua pelle. Lui ringhia e mi bacia con maggiore convinzione. Fa bene, ha ragione, gli ho detto che può farlo, voglio che lo faccia.
- Ti prego… - mugolo stremato, e lui non perde neanche un altro minuto prima di spingersi lentissimo contro di me. Si fa sentire appena, si tira subito indietro, - Ti prego! – ripeto, mordendogli le labbra, e l’attimo dopo è lì dentro di me. Esattamente al suo posto.
Si muove piano, così piano che a stento lo riconosco. Non è il suo ritmo questo, non è il suo modo di toccarmi. Questo continuo esitare e chiedersi se può – glielo leggo negli occhi, lo vedo oltre le ciglia lunghissime ed oltre la nebbia del piacere che prova – questo continuare a stringermi appena, questo non è lui. Io lo ricordo, com’era. Ricordo come mi sentivo a sbattere di schiena sulla testata del letto perché mentre mi scopava mi aveva tirato su di peso e mi ci aveva appoggiato contro per spingersi con più forza dentro di me. Ricordo com’era sentirlo affondare fino al limite, finché quasi faceva male, e ricordo com’era forte e salda la stretta delle sue mani contro i miei fianchi. Ricordo la sua lingua insinuarsi fra le mie labbra e giocare a rincorrere la mia senza chiedere per favore. È questo che voglio. Rivoglio il mio Anis. Lo rivoglio com’era. So che c’è ancora, lo rivoglio con me.
Lo chiamo pianissimo, gli mordo le labbra, gli chiedo di andare più veloce. Glielo chiedo, lo imploro, la voce spezzata dagli ansiti, le sue mani mi scorrono lungo i fianchi e così fanno anche i suoi occhi. Non mi ha ancora nemmeno accarezzato ed il solo modo in cui si muove dentro di me, colpendo tutti i punti giusti come se non avesse fatto altro fino al giorno prima, mi sembra già abbastanza per urlare e gemere ed ho paura di poter venire anche solo così, senza l’aiuto delle sue mani. Ne ho paura perché sarebbe stupendo – c’è riuscito solo lui – e ne ho paura perché sarebbe assurdo.
Lo sento sorridere contro il mio collo, sbuffando appena.
- Un tatuaggio nuovo… - commenta scivolando con le dita sulla scritta che si arrotola su se stessa fino alla mia anca, - È recente?
- È fra le cose di cui possiamo parlare dopo. – mi lamento cercando le sue labbra.
Lui si tira indietro apposta per non concedermele.
- È una B. – ride appena, e mi prende in giro sporgendosi un po’ solo per poi ritirarsi.
Lo tengo fermo chiudendo le mani a coppa sui suoi zigomi, e tirandomelo contro.
- Sei tu scritto addosso. – confesso, ed allora lui mi bacia. E ricomincia a spingere. Ed è duro, è forte, è veloce e impetuoso. È lui.
Smetto di trattenere la voce anche se fra noi e tutto il resto del mondo c’è solo una porta. Qui dentro siamo solo noi due, quindi – per quanto mi riguarda – anche in tutto il resto del mondo ci siamo solo noi due. Ci sono solo le dita di Anis, c’è solo il suo cazzo che si fa strada di prepotenza dentro di me, c’è solo lui che ricorda il mio corpo centimetro per centimetro, ci sono io che cerco il suo sapore ovunque, c’è solo il momento in cui mi stringe e trattiene il fiato, c’è solo il momento in cui una spinta più forte e mirata delle altre colpisce proprio il punto che mi fa urlare di piacere, c’è il momento in cui vengo, c’è il momento in cui viene lui, c’è un momento perfetto in cui esiste solo questo ed io non ho bisogno di nient’altro.
Ed è solo un momento. Purtroppo, dannazione, è solo un momento. Esito – le dita perse fra i suoi capelli – solo qualche secondo, il tempo di riprendere fiato, prima di cominciare a realizzare cosa è successo. Cosa ho lasciato succedesse, meglio. Ricomincio a fare la conta delle persone che popolano il mio mondo. Ricordo David – e che voglio pestarlo. Ricordo Patrick – e che voglio parlargli, anche se non so nemmeno di cosa.
Ricordo Peter.
Cristo.
Ricordo Peter. E non ho idea di come farò a guardarlo negli occhi quando sarò uscito da qui e lo troverò ad aspettarmi.
Anis mi poggia a terra ed ho di nuovo paura che mi cedano le gambe. Mi aggrappo con forza alle sue spalle, uso le unghie e lui si lamenta un po’.
- Fai piano, principessa… mi hai devastato abbastanza, ti pare?
Schiudo gli occhi – bruciano da impazzire per quanto ho pianto e per quanto forte li ho strizzati – e tutto quello che vedo, per un lungo periodo di tempo, è la pelle di Anis. Mi ci perdo come fosse un paesaggio di un nuovo mondo, annego nei suoi colori caldi e nel suo profumo aspro e forte, lo sfioro piano con la punta del naso e poi gli pianto le mani sul petto. E lo allontano.
Il mio movimento è molto più violento e repentino di quanto non volessi. Questo perché sento fisicamente che se non me lo allontano di dosso il prima possibile potrebbe succedere qualcosa di irreparabile.
Poi ci rifletto. E capisco che qualcosa di irreparabile è già successo.
Sollevo lo sguardo e trovo gli occhi di Anis. Mi fissano con un misto di confusione ed incredulità, e lui è tenerissimo, in questo momento: le labbra semidischiuse sono ancora umide dei baci che ci siamo scambiati e i capelli sono arruffati perché ci ho perso le mani dentro così a lungo che hanno perso il senso che la coda aveva loro imposto prima che la sciogliessi. Ha gli occhi grandi, il mio Anis, e li sta usando per chiedermi cosa mi prende. Perché non lo capisce. E mi viene di nuovo da piangere e mi dispiace che non capisca, e so che non potrebbe neanche volendo, perché io non ho la forza di dirgli cosa mi passa per la testa. Non ho la forza neanche di dirgli cosa è passato per la mia vita nell’ultimo anno. Non ho la forza di fare niente perché non ce la faccio a pensare che a solo pronunciare il nome di Peter affiancato al mio, come sarebbe giusto, potrei perdere Anis. Perderlo adesso dopo averlo ritrovato… io non posso farcela. Io non ho abbastanza sangue in corpo, non sono abbastanza forte e non ho altre lacrime da versare. Perciò faccio l’unica cosa che posso fare senza rischiare troppo.
- Stronzo. – sibilo astioso, e lo faccio perché ho ragione, perché voglio litigare e perché i litigi sono una cosa che io e Anis conosciamo bene. Sono una cosa dalla quale sappiamo come uscire. Ogni volta che litigavamo, prima che morisse, era come subire gli scossoni di un terremoto. Crollava la casa e dopo, con una serie interminabile di scosse di assestamento durante le quali lui concedeva qualcosa a me ed io concedevo qualcosa a lui, ricominciavamo ad andare d’accordo. Era tutto davvero così semplice. Voglio che torni ad essere tutto semplice com’era allora. – Stronzo. Tu… come hai potuto, Anis?
Lui inspira profondamente e le sue labbra diventano sottili come linee, mentre tutti i suoi lineamenti si tendono. Gli vedo passare negli occhi qualcosa che suona più o meno come un “ecco, ci siamo”, e stringo forte i pugni.
- Era necessario, piccolo. – risponde seccamente, - Eri in pericolo.
- Ero… - annaspo, stringendomi nelle spalle e cominciando a cercare in giro i miei vestiti, - Ti avevano sparato! Eri tu quello in pericolo! Cos’è, appena hai visto che eri riuscito a salvare la pelle, piuttosto che tornare da me dove saresti stato di nuovo in pericolo, hai preferito andartene?!
Gli passa sul volto un’ombra di offesa, la vedo nel modo caratteristico in cui aggrotta le sopracciglia, ma non ho il tempo materiale di soffermarmi su quello che gli ho detto – non ho modo di realizzare quanto sto essendo cattivo in questo momento – perché lui prova a fermarmi con un “Bill” stentato ed io non voglio lasciarglielo fare. Perché potrebbe consolarmi, e non voglio che sia lui a farlo. Perché voglio urlargli di tutto e non voglio lasciare che lui me lo impedisca.
- Tu… tu sei vivo, Cristo santo! Da quanto? Dove cazzo sei stato, Anis, nascosto qui dentro per tutto l’ultimo anno? Ti sei divertito, qui da solo? Come le hai passate le giornate, spiandomi? Mandando… mandando David a… il mio manager, cazzo, Anis, tu… non avevi il diritto di farlo!
- Piccolo, - cerca di avvicinarmisi, mettendo le mani avanti come avesse paura che potessi scattare improvvisamente a morderlo al collo, - non sai cos’è successo. Noi non dovremmo litigare, dovremmo parlare.
- No, sei tu che non sai cos’è successo! – urlo spintonandolo lontano, - Io sono quasi morto di dolore, stronzo! Ho pensato che non ce l’avrei fatta, mi sono sentito finito! Io ho ucciso un uomo per te! Lo sai questo? Te l’ha detto David? Ho ucciso un uomo perché quell’uomo aveva ucciso te, e tu non eri morto! – mi fermo a riprendere fiato ed Anis è lì fermo che mi guarda. Non c’è più traccia di offesa nella sua espressione, adesso è solo triste. Non riesco a capire se avergli detto queste cose fa di me una persona ingiusta o se semplicemente dovessi farlo e basta. Io non ho torto. Io non ho torto, cazzo. Io non posso pensare di avere torto, perché se ammettessi di aver sbagliato tutto fino ad ora, con questo litigio, con quello che abbiamo fatto prima, col modo in cui ho vissuto l’ultimo anno… se ammettessi di aver sbagliato tutto, io non saprei più da dove ricominciare. Anis non potrebbe aiutarmi. Non potrebbe aiutarmi Peter. Non potrebbe aiutarmi Tomi, non potrebbe aiutarmi Patrick, non potrebbe aiutarmi nemmeno David. E io non potrei farcela comunque. Sarei una persona finita. Non voglio. Io non ho torto. Io ho ragione. – Noi possiamo solo litigare, Anis. – dico infine, distogliendo lo sguardo e finendo di rivestirmi, - Perché non ho nient’altro di cui parlare con te.
E non aggiungo nient’altro. Non lo fa neanche lui. Restiamo a guardarci a lungo e io vorrei fare una cosa che, quando stavamo insieme prima, facevo spesso, dopo le litigate. Anis non è mai stato davvero morbido, con me, se mi meritavo di essere mandato a fanculo ci andavo anche. Nel senso che mi ci mandava senza problemi. Ed io ero sempre troppo cocciuto e arrabbiato e isterico e tutto per capire che quel “vaffanculo” era un “riprenditi, Bill, perché io non posso avere a che fare con un sedicenne, ne ho le palle piene”. E quindi sì, urlavo “d’accordo, come preferisci!”, ma prima di uscire sbattendo la porta dicevo sempre “a più tardi!”. Ed era una cosa carina perché succedeva sempre che dopo un paio d’ora, quando sentiva che la mia rabbia era sbollita ed ero di nuovo pronto al dialogo, Anis mi raggiungeva dovunque fossi – dovesse anche essere casa di mia madre a Loitsche – e veniva a riprendermi. Era il suo modo silenzioso di chiedermi scusa. Tornare a casa con lui era il mio modo silenzioso di chiedere scusa a lui.
Ora non posso farlo. Non po