Ersguterjunge
Per il resto del mondo, io sono Bushido.
Tra meno di quattro ore potrei essere un cadavere steso sull'asfalto, o forse potrei vincere una guerra di cui cerco la conclusione dal momento in cui è iniziata. Comunque vada a finire, stanotte questa faccenda vedrà la sua naturale conclusione.
Le probabilità che ho di sopravvivere sono le stesse che ho di morire; è per questo che io e Fler abbiamo deciso di chiuderla in questo modo. Solo io e lui, da uomo a uomo, su un campo di battaglia neutro che ci consegni e ci sottragga le stesse opportunità.
Non ho voluto nessuno stanotte.
Li ho mandati tutti a casa dalle loro donne, solo Saad mi aspetterà fuori dalla porta quando sarà il momento di andare. Non potevo chiedere a Chakuza di farmi da padrino, non è il momento.
E poi il suo compito è un altro.
A Bill non ho detto niente perché altrimenti so che sarebbe venuto immediatamente qui.
Lo conosco fin troppo bene; tanto da sapere che avrebbe martirizzato una delle sue guardie del corpo per farsi portare al mio appartamento e rispedirla subito indietro, per poi dirmi che non può tornare a casa perché è senza auto.
E' così che ha dormito a casa mia la prima volta.
Bill è una di quelle persone abituate ad avere tutto ciò che vuole; ma i suoi non sono capricci da diva, è determinazione. E' uno che quando pensa di meritarsi qualcosa, prima la chiede con gentilezza, e poi, se gliela neghi, ti rompe le palle finché non lo accontenti.
A me ha rotto le palle con una costanza che andava premiata, in qualche modo. E a distanza di mesi mi sono convinto che se non avessi ceduto, mi avrebbe fatto fuori perché la prova del suo fallimento venisse insabbiata per sempre. Era convinto che avesse il diritto di infilarsi nelle mie mutande, io la pensavo diversamente.
E ha vinto lui.
Mentre l'acqua riempie la vasca da bagno penso che vorrei tanto tornare indietro nel tempo e negargli la mia compagnia per l'ennesima volta, girarmi dall'altra parte mentre mi si offre disteso sul mio letto sfatto e poi rispedirlo a casa con un taxi e una risatina.
Quando ero piccolo mia nonna aveva una scatola dove teneva i suoi gioielli. Una volta che avevo bisogno di soldi, rubai un paio di orecchini col pendente di perla, convinto che non se ne sarebbe mai accorta, dal momento che non li metteva mai, e li consegnai ad un ricettatore che conoscevo per altri motivi.
Quando tornai a casa, trovai mia madre che consolava mia nonna. Quegli orecchini glieli aveva dati il marito prima di crepare in guerra e lei non li metteva mai perché aveva paura di rovinarli. Tornai dal ricettatore ma li aveva già venduti, riaverli era impossibile. Ricordo che mia nonna mi strinse a se abbracciandomi, totalmente ignara che fosse stata colpa mia.
Per anni l'unica cosa che ho desiderato era rimettere gli orecchini in quella scatola.
Anche Bill è uscito da quello scrigno.
E sono stato io ad aprire il coperchio di legno e a sottrarlo al velluto che lo proteggeva. Come da bambino, anche ora farei qualunque cosa per riporre la perla dove l'ho trovata, così stanotte non dovrei mentire.
Così stanotte questo non sarebbe necessario, forse.
Quello che mi aspetta, in realtà, io non l'ho mai passato.
Le risse le conosco, ci sono dentro fin da quando ho imparato a tenere in mano un coltello, ma i duelli sono tutta un'altra cosa. Le risse si basano sulle offese, sulle infamie, è un gioco a chi grida più forte e a chi fa più paura. Sono davvero rare le volte in cui si va oltre ad un paio di coltellate, sono ancora più rare le volte in cui il morto ci scappa di mezzo.
Bill è terrorizzato dalle risse; forse perché è tanto magro che ogni volta che lo stringo penso che gli romperò qualcosa. O forse, più probabilmente, è perché è cresciuto in un luogo che io non ho mai visto. Una campana di vetro che la sua famiglia prima, la Universal poi, gli hanno costruito intorno per preservarlo da qualsiasi cosa. Lui il male non lo tocca mai, anche se nelle sue canzoni si lagna sempre di conoscerlo da vicino. La gente che si perde nella droga, che si butta dai palazzi perché la sua vita fa veramente schifo, lui non l'ha mai vista. Quella campana lo tiene distante dalla realtà, insieme a suo fratello che se lo tiene così vicino che la gente pensa male. Nella campana ci ha sempre vissuto e ci vive tutt'ora, a parte le volte che esce per venire a trovare me che vivo nella merda dalla quale lo tengono lontano.
Per questo ha paura delle risse, e ha paura di me che ci finisco in mezzo.
Questa però non è una rissa.
Fler e io ci guarderemo negli occhi e poi all'improvviso uno dei due non sarà più qui a raccontare quello che è successo. All'altro spetterà il compito di riportare la storia così com'è avvenuta, senza puttanate. E' finito il tempo di insultarsi. Questo Fler me lo deve, e i lo devo a lui, in caso.
Sono così stanco di questa storia che non so neanche più quale conclusione preferirei. E' così fottutamente ironico che qualunque cosa succeda, avrò comunque un buco nel cuore.
Da una parte c'è stato un tempo in cui Fler era mio amico. Non uno qualsiasi però, uno di quelli che ti para il culo quando comincia a scendere la merda vera. Era qualcuno su cui contavo, non posso pensare di ammazzarlo e di dormirci la notte. Dall'altra c'è un tempo presente in cui se muoio io, qualcuno dovrà spiegare a Bill perché dopo un anno e quattro mesi che vive dei miei respiri, sono stato così coglione da farmi ammazzare lasciandolo solo con quell'amore che si è preso lo sbattimento di provare per entrambi.
Nel bagno ho acceso solo quattro candele, agli angoli della vasca come le mette lui. Osservo l'acqua che scende e mi perdo nei riflessi delle fiamme che ci danzano in mezzo. Dal marmo bianco della vasca, alle candele, all'acqua, alla luna che entra dalla finestra e mi battezza mentre mi tolgo la camica e la lascio scivolare a terra, tutto ha un che di sacrale e cerco di perdermici dentro perché mi sembra importante, anche se non so il perché.
A me non piace capire il senso delle cose, mi piace toccarle.
Voglio sentirle sotto le dita, è l'unico modo che ho per conoscerle. Come nella vita, non mi basta sapere che qualcosa fa male, devo farmi male. Così in questo bagno comprendo che c'è un significato importante dietro al rito di purificazione qualche ora prima di buttarmi per strada e vedere chi fra me e Fler tornerà a casa, ma tutto ciò che riesco veramente a capire è che se tocco il marmo, lo sento freddo contro la pelle.
Che se ce la faccio, forse stasera tornerò ad immergermi di nuovo in quest'acqua. Forse da solo, o forse con Bill. Che se non ce la faccio, non sarà questo il marmo che mi accoglierà, mentre chiudo gli occhi.
Mi sento un templare, anche se non ho una missione divina da portare a termine, né una terra santa da conquistare. Un guerriero il cui compito è uccidere. Mi chiedo come si possa dimenticare tutto il resto, come si possa annullare ogni pensiero, ricordo o motivazione e vibrare la spada. O premere il grilletto. Sfioro con le dita appena bagnate la Heckler appoggiata sul pavimento contro il bordo della vasca e mi fa rabbia rendermi conto che sono ore che non mi separo da lei.
Non mi sento sicuro.
Scivolo sotto il pelo dell'acqua e guardò verso l'alto ad occhi aperti. Non sento i suoni e tutto ciò che vedo è un soffitto scuro. Immagino che morire sia esattamente questo: nè suoni, né colori, nè odori.
Non è mia questa frase. L'ha detta Bill, una notte che era ubriaco fradicio e non aveva neanche la forza di reggersi in piedi. Nel buio della mia stanza mi si è aggrappato addosso, sistemando quel corpo magro contro il mio fianco come se non ci fosse stato altro posto al mondo in cui metterlo e ha detto proprio questo: Quando morirò non andrò da nessuna parte. Sarò sempre lì, ma non sentirò nessun profumo, nè sentirò nessuna voce o vedrò niente di ciò che ho visto fin'ora. Non sarò io ad andarmene, sarete voi.
E io me la ricordo bene quella frase, perché mi colpì. Bill dice troppe parole al minuto per essere una persona sola, ma a volte - in quella marea di cazzate che produce - c'è qualcosa che ti va dritta al cuore e da lì non si schioda più. Quando muore qualcuno, di lui ti mancano i dettagli fisici prima di tutto il resto. Prima di dire che gli volevi bene, o che era tutta la tua vita, dici che ti manca la sua voce a riempire i silenzi.
L'odore tra le lenzuola. Il colore dei suoi capelli quando ti svegli al mattino.
Ti manca lo spazio fisico che occupava e che all'improvviso è vacante, orfano di una forma, di un corpo che potevi toccare e annusare. Di cui conoscevi ogni cosa. Non è la mente delle persone che viene a mancare, quella ce l'hai dentro perché vive tramite parole che ricordi. E' il corpo che si rovina due metri sotto terra a farti più male. La pelle non ha memoria, ha bisogno di toccare sempre.
E mentre sono ancora sott'acqua a contare i secondi che mi tolgono il respiro, mi pento di non aver toccato Bill prima di iniziare questa giornata.
Avrei dovuto farlo.
Vorrei che avesse il mio odore addosso, in questo momento. Vorrei averglielo lasciato ovunque, perché vi si aggrappi se non resterà nient'altro di me.
Riemergo con uno schizzo e spargo acqua ovunque, respiro più aria che posso e sento che mi manca, che non è abbastanza. Esco, mi copro e recupero la Heckler. Devo trovare il modo di dimenticare tutto quello che lascerei e concentrarmi su quello che avrò se...
La mia vita è appesa ad un condizionale.
Saad è un uomo puntuale.
In trent'anni che lo conosco non l'ho mai visto arrivare tardi agli appuntamenti, così anche questa volta - anche se magari potrebbe - bussa alla mia porta all'una spaccata. Gli apro che sono già pronto. Sono pronto da ore, in effetti. Ho passato le ultime tre a guardarmi intorno e ad imprimermi nella testa ogni singolo dettaglio della mia casa.
Ogni angolo su cui ho posato le mani, o le ha posate lui.
Ormai non fa più differenza. E mi dico, ancora una volta, che se tutti i miei pensieri si fondono nell'unico che Bill rappresenta sono fottuto.
E lo so che sono fottuto.
"Hey, Atze." Quando entra, Saad mi dice soltanto questo. Hey, Atze. Niente Anis, Bushido. Niente. Anche se è mio cugino, la famiglia l'ha lasciata a casa. La sua donna in questo momento non esiste. Non esiste la sua bella bimba bionda che mi chiama zio.
Non c'è famiglia, non c'è casa, non c'è nessun posto dove tornare.
Ci siamo solo io e lui, e quell'Atze è la misura della nostra distanza, ma anche quella del nostro legame: siamo compagni.
Compagno è quello che ti cammina a fianco mentre ti dirigi sul campo di battaglia e calpesta con te la terra che potrebbe accogliere il tuo sangue. L'unica differenza è che lo fa senza la paura. Un fratello t'impedisce di fare cazzate, un amico ti supporta.
Un compagnio sa che devi farlo e lascia il cuore a casa per evitare di fermarti.
Non c'è giusto o sbagliato. C'è solo il dovere, e Saad è lì per ricordarmelo.
Per questo Chakuza non può essere qui stasera, ha una visione delle cose che gli impedirebbe di fare esattamente questo: caricarmi la pistola e controllare le pallottole una per una, immergendole nella rabbia perché colpiscano il bersaglio.
Per questo lui è a casa e sa già cosa fare se non lo chiamo prima di domattina.
Mi serviva qualcuno che non credeva ancora ciecamente nella vendetta e nel sangue per proteggerne un altro che vive per amore.
Saad guida in silenzio e non mi guarda.
La città fuori dal finestrino non è affatto silenziosa come mi aspettavo di trovarla. Ci sono mille voci e mille luci. C'è un casino d'inferno e mi chiedo se volevo che la mia guerra venisse combattuta tra il rumore di centinaia di persone che non hanno la minima idea di cosa stia avvenendo.
Forse è un bene.
Tra me e Fler la battaglia si è svolta sempre all'aperto. Io contro di lui, lui contro di me, di fronte a milioni di occhi adoranti che si crogiolavano nelle nostre stupide parole di vendetta.
Poi Bill che mi fa letteralmente impazzire, Fler che crede di avermi distrutto.
L'ho quasi sentito il boato della folla quando ho perso il controllo anche sulla crew.
E' sempre avvenuto tutto in mezzo al frastuono.
E Bill ha urlato più degli altri, pur senza dire una parola. E' bastato che fosse se stesso - che fosse, e basta - ed è stato come se avesse un megafono in mano.
Era troppo palese perché non urlassero.
Era un'eresia troppo grossa per non ribellarsi.
Ed ecco la mia Guerra Santa: io non ho portato la parola del Signore in una terra di barbari. Ho imposto l'eresia nella mia terra, che era già sacra.
E' per questo che ho dovuto urlare più forte.
Perché le voci erano già troppo alte. Bill troppo blasfemo.
E io volevo farla finita.
Trovo Fler seduto su un lastrone di cemento, mi guarda e getta il mento in alto senza sforzarsi ad aprire la bocca e a sputar fuori un saluto, come invece faccio io. Saad è rimasto in auto e non lo vedo.
"La puttanella l'hai lasciata a casa?" Mi chiede, con un ghigno sul viso quadrato.
Lascio che l'offesa mi scivoli addosso senza toccarmi.
Quando è stato necessario, ho difeso Bill da quelle parole perché le ho sentite pronunciare dalla bocca di chi mi aspettavo lo rispettasse. In quel caso sì, le offese avevano una forza e io ne ho usata altrettanta per vendicarmi.
Ma quelle di Fler sono offese di rito. Fa parte del gioco.
"Questa è una cosa tra me e te, Atze," gli dico.
"Non chiamarmi Atze. Per me tu non sei più niente." Sputa in terra, come a scongiurare il malocchio.
Ci ho provato, Dio mi è testimone.
Per mesi ho dedicato più attenzione all'uomo che ho di fronte che non a quello che mi dormiva nel letto. Ho parlato con Fler in ogni lingua che conosco per spiegargli come stavano le cose e trovare una via fuori dalla rabbia che provava.
Ma non ha ascoltato, mai.
Io non sono capace di rimettere a posto le cose. Bill una volta mi ha detto che con le persone sono come un bambino che smonta gli oggetti per vedere cosa nascondono: capisco sempre che cos'hanno dentro ma poi le rendo così vulnerabili che quelle non sono più capaci di ricomporsi. L'ho fatto con lui.
E l'ho fatto con Fler.
So che la rabbia che prova viene tutta da un'altra parte.
Fler ce l'aveva con me già da prima. Da quando ho lasciato l'Aggro Berlin per provare a farcela da solo. Si è sentito tradito e ha cercato una stronzata qualsiasi a cui aggrapparsi per offendermi e farmi del male. Lui voleva che reagissi, che m'incazzassi. Voleva che se lui stava male per colpa mia, allora io facessi lo stesso. Col tempo, la questione iniziale si è mutata in qualcos'altro, un mostro di cui nessuno in realtà ricorda l'origine e l'intera faccenda ha passato il punto di non ritorno.
E mi viene da ridere a pensare che si potrebbe dire la stessa cosa di me e di Bill. Quando abbiamo scopato la prima volta, non era niente. C'ero io e c'era lui, per una notte sola.
Il fatto che ora nell'armadio di Bill ci siano i miei vestiti e nel suo bagno il mio fottuto spazzolino da denti significa che anche noi abbiamo passato il punto di non ritorno.
"Fler, ascoltami. Non abbiamo bisogno di questo."
"Quando mi interesserà sapere cosa pensi riguardo ciò di cui ho bisogno, te lo chiederò. Fino ad allora, tappa quella fottuta bocca e comportati da uomo, non da frocio accomodante," mi dice. Inizia a girarmi intorno e mi costringe a seguirlo con lo sguardo.
Estrae il coltello dalla tasca e fa scattare la lama.
E io impreco: avrei voluto che ne parlassimo prima, il che non fa che dargli ragione. Un anno fa gli sarei saltato alla gola e poi forse gli avrei chiesto cosa ne pensava. Ora è tutto diverso, ora devo parlare.
Devo parlare sempre, e chiedere. Spiegare. Mediare.
E questa sì, è colpa di Bill.
Fler mi è addosso un attimo prima di quanto mi aspettassi, ma mi manca. Cadiamo a terra entrambi e faccio in tempo a rotolare di fianco prima che sollevi il coltello di nuovo. Si rialza e tenta di colpirmi ancora, si abbatte su di me con la furia di un animale e al momento non posso fare altro che tentare di difendermi: ho il coltello incastrato nella tasca posteriore dei pantaloni.
Lo afferro per i polsi e cerco di tenerlo a distanza perché mi tiene la lama a qualche centimetro dal viso. Non so per quanto rimaniamo in stallo in quel modo, le mani mi tremano per lo sforzo ma le sue dita sono così strette intorno al manico del coltello che non sono certo che si fermerebbe se lo lasciassi andare. Faccio forza sulle gambe e lo ribalto con un ringhio, provo a tenerlo giù ma è molto più incazzato di me.
Ha una forza che io non riesco a tirare fuori, semplicemente perché non vorrei trovarmi qui.
"Fler, piantala!" Ringhio.
"Vaffanculo, Anis," digrigna i denti così vicino al mio viso che le vedo le lacrime nei suoi occhi, per questo s'incazza. Per questo mi chiama per nome.
Vorrei fare la stessa cosa, dirgli quel Patrick mi dispiace, che vuole sentirsi dire da anni e che non gli basterebbe comunque perché pretendere scuse e ricevere scuse non è abbastanza virile. Deve pestarmi. E' la legge della giungla che però non condivido più.
Ed è questo il punto di tutto. Di me, di Bill, di Fler.
L'ho tradito una volta, lasciando l'etichetta. Lo tradisco ora voltando le spalle a ciò in cui credevamo insieme. E' per questo che Fler è così incazzato e forse non ha neanche tutti i torti.
Mi grida addosso e rotoliamo ancora sul cemento che mi strappa la felpa di acetato scuro. Lo colpisco tra le costole e cerco di piegargli il braccio ma non molla la presa. Mi piego di lato, cercando spazio in cui infilarmi per recuperare il serramanico. Lui schiaccia una mano sulla mia gola e preme.
Recupero il coltello con le dita che tremano, rischia di sfuggirmi di mano. Mi manca il fiato e il collo mi fa male: quasi non riesco più a tenere lontana la mano che regge il coltello.
"Non ti arrendere," mi dice. E ripete quello che gli ho detto io quando sono uscito dagli studi di registrazione, l'ultimo giorno all'Aggro Berlin. Ci sento dentro tutta l'ironia e tutta la rabbia. "Non ti arrendere... Bushido."
La lama scatta e lo colpisco ad una gamba. Non troppo in alto, sopra una coscia. Voglio solo che si allontani. Ulula e si scosta, e io ne approfitto per farmi indietro. "Chiudiamola qui," sibilo ansante passandomi una mano sulla gola.
"Col cazzo!" Mi sbatte addosso e non so nemmeno come ha fatto a muoversi tanto veloce. Mi schianta contro un muro e mi pianta un ginocchio nelle palle così forte che vedo bianco. E un istante dopo sento lo strappo della pelle e la maglietta che si bagna lungo il braccio. Il colpo è stato casuale, non volutamente innocuo. Voleva prendere il cuore, solo che non è abbastanza lucido per pensare di mirare. Anzi, non vuole pensare perché gli richiede tempo e lui vuole chiuderla subito prima che la rabbia si esaurisca e lui corra il rischio di non ottenere il suo scopo. E' andato e non mi riesce di fermarlo.
Lottiamo ancora e non voglio.
Questa volta sono io a ringhiare. Prima che mi blocchi di nuovo gli tiro un calcio nello stomaco e lo stendo a terra con due pugni in faccia ben assestati. Il coltello gli vola dalle mani e io gli tiro una pedata in modo che finisca il più lontano possibile. Sto in piedi a fatica e il braccio mi fa fottutamente male, ma gli tiro altri due calci su un fianco e lo guardo arrotolarsi su se stesso con un gemito strozzato. "La chiudiamo qui," ripeto con più convinzione.
Non si muove mentre mi allontano, e spero che non lo faccia fino a che non avrò messo abbastanza distanza tra di noi.
A quest'ora di notte e con la faccia che mi ritrovo, se incrocio la polizia mi fermano. Non sarebbe la prima volta che mi costringono a seguirli in centrale. Non è mai facile provare che sono tedesco con il sangue di mio padre che mi scorre nelle vene.
O il mio che mi cola lungo il braccio, magari.
Mi sono allontanato di corsa e non so dove sia Saad. Non ho il tempo di cercare la sua macchina e ad ogni modo non ci penso neanche. Ho una sola cosa in testa, ed è Bill.
E' una questione di adrenalina e di paura. Prima di uscire di casa volevo dimenticarmi anche solo della sua esistenza perché non mi frenasse, ora che Fler non mi ha ucciso, voglio vederlo.
Vederlo e toccarlo.
Sono nervoso, ed esaltato. E le due emozioni fanno a pugni una con l'altra perché non so quale delle due devo seguire. Non è finita proprio per un cazzo, ma per stasera respiro ancora. E voglio respirare addosso a Bill.
Il suo telefono squilla a vuoto almeno dieci volte e ringhio tra i denti pensando che forse sta dormendo e non mi risponderà. Nè aprirà la porta. Dio, ho voglia di sentire la sua voce.
"Pronto?"
"... Bill?" Chiudo gli occhi ed espiro. Sentirlo non fa che peggiorare la mia situazione. Adesso che mi parla all'orecchio, voglio stringerlo tra le braccia.
"Dimmi."
Sembra stanco, e non mi stupisce. Quando lo chiamo di notte, sa già cosa deve aspettarsi. E' coraggioso il mio ragazzino, anche quando irrompo nella sua campana di vetro lui non si scompone. "Ascolta, adesso non andare nel panico, d'accordo?" Dico, e mi scappa un sorriso perché mi sembra di essere tornato indietro a quando ho chiamato mia madre la prima volta che mi hanno portato in centrale. Ho iniziato la telefonata proprio così.
"Anis, dove sei?"
Mi piace quando pronuncia il mio nome. Quelle quattro lettere gli si sciolgono sulla lingua e poi rotolano fuori, è quasi ipnotizzante seguire il movimento dietro le labbra. "Sto venendo lì," rispondo. Non voglio spiegargli, voglio solo raggiungerlo. Chiudo il telefono e chiamo un taxi.
Bill è una visione.
Ho sempre pensato che fosse bellissimo ma stasera, quando mi apre la porta, penso che non ho mai posato gli occhi su qualcosa di più bello. E non importa che sia in pigiama e che sia struccato. Il fatto che io possa vederlo lo rende già di per sé meraviglioso. "Hey, Principessa," lo saluto, con un mezzo sorriso stanco.
Sono stati i ragazzi a chiamarlo così la prima volta, per prenderlo in giro. Eppure io ho sempre pensato che fosse un soprannome perfetto: Bill è davvero una principessa. E' viziato, elegante e abituato a farsi servire. Quando ha varcato la soglia di casa mia, con tutti i ragazzi svaccati in salotto che davano il peggio di sè tra rutti e volgarità, non c'era possibilità che lo accogliessero bene. Nè che lui accogliesse bene loro, naturalmente.
Erano due mondi che si infrangevano come onde sullo stesso frangiacque. Me.
Mi appoggio allo stipite della porta e cerco di apparire al meglio, ma la verità è che non mi reggo in piedi. La mia pantomima dura due secondi, poi gli frano addosso senza preavviso e lui mi sostiene con la forza nervosa che ha sempre addosso.
"Anis!" Mi grida direttamente nell'orecchio e io strizzò gli occhi, un po' ridendo.
E' un impiastro.
"Tranquillo, sono intero," rispondo. "Chiudi la porta, svelto."
Per una volta non protesta e obbedisce, e io ringrazio il Signore perché non sono proprio dell'umore di discutere sul fatto che lui non è uno dei ragazzi e io non posso dargli ordini; già me lo vedo che si mette la mano su un fianco e mi seppellisce sotto venti minuti di motivazioni. Intanto mi trascino sul suo letto e mi ci lascio andare sopra con un sospiro, chiudendo gli occhi.
"Che diavolo è successo?"
"Niente."
"Niente un cazzo," dice lui. Pensano tutti che Bill non dica parolacce, ma non è vero. Solo che c'è una differenza tra lui e gli scaricatori di porto come me. Bill quando impreca è perché proprio non ha più pazienza. Le impregna d'odio e frustrazione le sue parolacce. Valgono di più. "Guarda come sei ridotto!"
In questi casi c'è solo una cosa da fare. Lo afferro per la nuca e lo bacio, senza scomodarmi a farlo con gentilezza. Non voglio trattarlo con i guanti, adesso. Lo voglio e basta. Per un secondo fa resistenza e poi mi si scioglie in bocca, come sempre. Bill non è contento se prima non fa finta che non gli piaccia. "Calmati, va tutto bene."
Mi si appoggia addosso e io gli accarezzo i fianchi. Lo sento rilassarsi sotto le dita e per un attimo inspiro il suo odore, quello che ha quando non si è ancora messo il profumo. E' deciso, ma morbido. Esattamente come lui. "Perchè deve sempre andare così?" Mugola, chiudendo gli occhi.
Bill mugola di continuo, ed è una tortura.
La prima volta che l'ho sentito mugolare in quel modo ero dentro di lui, da allora associo il momento al suono e tutto si traduce in brividi lungo la schiena. Ogni volta che mugola, vorrei vederlo e sentirlo fare anche tutto il resto che ha accompagnato il suono la prima volta.
E' così che mi ha completamente fottuto il cervello. Con quel suo mugolare candido, che poi è la cosa più zozza che c'è.
"Piccolo, lo sai il perchè," deglutisco.
Mi perdo da quanto è caldo e morbido sotto le mie dita.
"Sei ferito?" Mi chiede.
"E' solo un graffio," rispondo e gli strappo via dalle mani il braccio che sta toccando per controllare. Vorrei evitare di fare smorfie e lamentarmi di fronte a lui, anche se il graffio è lungo almeno dieci centimetri e forse dovrò mettermi i punti. Fà un male d'inferno.
"Vado a prendere la cassetta del pronto soccorso."
A Bill piace fare la crocerossina, e io gliela lascio fare perché fondamentalmente mi piace che mi tocchi. In qualsiasi eccezione del termine. Però non può farlo subito, perché io vengo dal brutto mondo là fuori e potrei morire se non lo bacio di nuovo. "Aspetta," lo afferro per un braccio e me lo trascino addosso. Gli forzo le labbra e voglio che mi risponda, voglio sentirlo. Gli stringo forte un fianco, portandolo più vicino e quello che ci scambiamo è un bacio umido e rozzo.
E' un bacio mio.
E voglio che se lo senta ovunque, perché è così che mi piace che sia: devo essere su di lui e in lui anche quando non sono fisicamente presente. E' questo che significa appartenermi.
Deve avermi addosso.
"Chi erano stavolta?" Chiede, mentre mi pulisce la ferita delicatamente.
"Non hai bisogno di-"
"Dmmelo e basta. Mi pare un po' tardi per parlare del tempo, no?"
"Sono stati gli uomini di Fler," mento alla fine. "C'è stata una rissa, con i coltelli."
Non posso dirgli che eravamo soltanto io e lui, quindi evito di guardarlo negli occhi.
Lo sguardo mi cade sulla mia mano, su ciò che vi ho fatto tatuare sopra.
Non è la stessa cosa, mi dico.
Ci sono verità che fanno più male della menzogna. E Bill non vuole affatto sapere che io e Fler ci siamo saltati alla gola nel vano tentativo di dimostrare quanto siamo migliori l'uno dell'altro.
"Perché hai in mano la Heckler, allora?"
Perchè mi sono cagato in mano in quel vicolo, piccolo.
Come faccio a dirgli che per tutto il viaggio in taxi l'ho tenuta stretta tra le dita con la convinzione che mi sarebbe servita? Non so come giustificare il brivido freddo che non mi ha mai abbandonato, nonostante l'entusiasmo di aver vinto, di aver visto lui. Di essere lì. La Heckler mi serve, ma lui non può capire. "Bill lo sai come vanno queste cose, maledizione!" Sbotto e allontano il braccio di scatto. Non volevo essere così stronzo ma è un meccanismo di difesa che ho fin da quando ero un ragazzino e questo nemmeno lui è riuscito a togliermelo. "Prima ci sono gli insulti, poi i coltelli. Alla fine qualcuno tira fuori la pistola e-"
"E qualcun altro muore!" Replica lui. "Non ve le siete tirate abbastanza tu e Fler?"
"Tu non puoi capire, bimbo," dico.
"Spiegamelo, allora."
Quando fa così, mi dà veramente sui nervi. Per quanto abbia ragione e per quanta pazienza io abbia nei suoi confronti, odio la sua insistenza su certi argomenti. Il mio mondo ha un codice comportamentale così stretto che ad allargare le maglie per farci passare lui ci ho quasi rimesso ogni cosa. La faccia, il nome. E stasera anche la vita. Vorrei dirgli che la coltellata che sta disinfettando me la sono presa proprio perché lui non dovrebbe farmi domande del genere.
"Anis."
"Non sono cose che ti riguardano," replico di scatto, imbestialito. Poi però lo vedo che trasale e non posso fare a meno di accarezzargli la testa e addolcirmi perché proprio non se le merita le mie urla. Lui che cazzo c'entra se il mio mondo fa schifo? "E' un fottuto casino, Bill, non voglio che tu ci vada di mezzo."
"Il mio copriletto lo ha già fatto," sorride e mi indica il letto. E penso che quel sorriso dovrebbe dedicarlo a qualcuno che non gli sanguina addosso così spesso. Bill è una cosa troppo bella perché la tenga io. "Quindi perché non io?"
"Perchè non è uno scherzo," replico. E invento, la mia nottata si riempie di persone con le quali ho inbastito una guerra. "Ci sono quattro dei suoi là fuori che mi stanno cercando e non so neanche se mi hanno seguito. Ho fatto male anche solo a chiamarti."
"Resta qui," esclama alla fine. "Domattina, ti fai venire a prendere dalla sicurezza della Universal. Una volta a casa non ci saranno problemi."
"Vuoi che mi prendano per un vigliacco?"
"Allora chiamiamo la polizia!"
Lo sento, anche se è appena percettibile. Lo usavamo per avvertirci a vicenda dell'arrivo della polizia quando rubavamo nei negozi di notte, da ragazzini. Un fischio con un suono preciso.
L'ho inventato io, quindi lo riconosco.
Le mie mani si stringono intorno alla pistola quasi istintivamente mentre mi avvicino alla finestra e scruto la strada là fuori tra le veneziane. Lo vedo praticamente subito, dall'altra parte del marciapiede; ha il viso pesto ma ride nella mia direzione e mi saluta con due dita sulla visiera del cappello. "Merda!"
"Che succede?"
Mentre mi chiedo come cazzo ha fatto Fler ha sapere l'indirizzo di Bill, lui viene verso di me. E io ho un brivido di terrore. "Stai lontano dalla finestra!" Gli ordino nel panico. "E' pericoloso. Voglio che stai dall'altra parte della stanza."
"Sono qui?"
Annuisco.
Il mio cervello gira più veloce del normale e il cuore pompa adrenalina come stava facendo prima che la presenza di Bill lo inducesse a calmarsi. Ora quella stessa presenza allerta i miei sensi e il mio primo pensiero non è per me, ma per lui. Non voglio che mi stia vicino perché potrebbe essere pericoloso.
Guardo Fler due piani sotto di me e i miei occhi si agganciano ai suoi. Mi guarda e per la prima volta in più di dieci anni che lo conosco non riesco a leggergli dentro niente. Se ne sta semplicemente lì, in piedi sul marciapiede e mi guarda: so che può vedermi attraverso le veneziane e, anche se così non fosse, saprebbe perfettamente dove sono.
Fler è stato un Atze prima ancora che lo fosse Saad. E forse si era scavato un posto dentro di me prima che lo facesse Bill. E in un istante mi dispiace veramente che tutto questo sia successo; davanti a questa finestra vorrei trovare un modo per rimettere a posto le cose, perché so di averle mandata a fanculo io.
So che mollando l'Aggro Berlin, ho mollato anche lui. E l'ho fatto solo per me e per i soldi che poi ho guadagnato. Dico sempre che la crew viene prima di tutto, ma con lui non l'ho fatto.
So che presentando Bill come l'ho presentato, gli ho dato un posto che non era giusto avesse. Ed è di questo che Fler mi accusa.
Vorrei poter ricostruire quest'enorme puzzle che ho distrutto, ma certi pezzi ormai non si trovano più e certi altri sono rotti senza rimedio.
Bill, poi, viene da un'altra scatola.
E mi chiedo se le sue estremità si incastreranno mai nel mio disegno, magari forzando un po'.
"Anis, ti prego! Chiamiamo la polizia!" Lo sento dire e mi giro.
Niente polizia, piccolo. Lo sai, no?
.....Denn eine Kugel reicht
Fa male, cazzo.
E' la prima cosa che penso. In realtà nell'attimo preciso non ho sentito niente, soltanto il sibilo del proiettile che frantumava la finestra. In una frazione di secondo ho capito che mi avrebbe colpito, e subito dopo è succeso. Il dolore è arrivato con la consapevolezza che non ho uno straccio di speranza. E' il fegato.
Fa male, cazzo. Cazzo.
Abbasso lo sguardo sulla maglietta macchiata di rosso e l'unica cosa che mi riesce di pensare è che non sembra affatto sangue. A casa ho una maglietta bianca con sopra il mio simbolo che è dello stesso identico colore. L'ho sempre guardata pensando che quel rosso fosse innaturale, fatto apposta per le magliette. E invece no, guarda qui: è rosso sangue. Bello limpido e chiaro.
Non ho veleno nelle vene, solo sangue.
Il King of Kingz è umano. E' questo il problema, stasera.
Ho lo sguardo fisso su quel foro minuscolo che fa un male del cazzo, porca puttana e Bill lo guarda con me. Cristo, Bill. Mi ero dimenticato che fosse qui: sta così immobile che non sembra neanche vivo. Ironico. "Bill..." lo chiamo, e lo prendo per i polsi. Voglio portarlo via dalla finestra. Se devo crepare, lo farò ma devo prima distrarlo.
Un secondo dannato sibilo.
Ancora una volta il collegamento è immediato, il movimento invece no. Il proiettile mi trapassa una gamba e mentre soffoco un gemito lo sento entrare ed uscire dall'altra parte.
Mi accascio su di lui e spero che mi regga perché stavolta proprio non ce la faccio.
Sento il rumore di gente che corre alle mie spalle, forse qualcuno ha sentito gli spari ma non m'importa. L'unica cosa che percepisco davvero è il dolore forte che ormai si è preso tutto il corpo. Anche le mani di Bill sono una presenza vaga, da qualche parte. Mi sento in dovere di rassicurarlo, non fosse altro perché mi sta andando nel panico e non è così che voglio lasciarlo. "Va tutto bene," gli dico con un po' di voce che tiro fuori non so da dove, mentre mi accarezza il viso. "E' solo un graffio."
"Dobbiamo chiamare un'ambulanza," singhiozza.
Cristo, non piangere. Non piangere. Resta qui. Allungo una mano e lo tiro verso di me. Voglio baciarlo prima di perdere sensibilità. "Shh..." Le sue labbra sono calde, morbide e umide di lacrime. "Non piangere. E' tutto a posto."
Me lo godo per quel che mi resta e me lo stringo addosso.
La sua lingua sulla mia fà ancora un dannato bene e ringrazio chi di dovere per sentire ancora i brividi lungo la schiena quando lo sento rispondere ai baci. Tra le lacrime e i singhiozzi e il sangue, è tutto dannatamente bagnato.
Non avevo mai pensato veramente a come sarebbe stato, e non ci penso neanche adesso a dire il vero. Forse non mi rimane altro che qualche minuto e non voglio sprecarlo a cercare chissà dove il senso di una vita che forse non ce l'ha mai avuto. L'unico motivo per cui è valsa la pena di un'infanzia schifosa, di essere arrestato, delle risse, l'unico motivo per tutto ce l'ho tra le braccia e tanto mi basta. Penso a suo fratello e a quante volte deve avermelo augurato mentre gli portavo via Bill notte dopo notte. "Tuo fratello sarà contento," sorrido. "Mi sono tolto dalle palle."
"Non dire così!" Stride. Quando è nervoso gli si alza la voce di botto. Cerca di liberarsi ma glielo impedisco. "Devo chiamare un'ambulanza."
Lo tengo giù con le ultime forze che mi sono rimaste e gli tiro i capelli gentilmente, perché mi guardi. Perché capisca. Non c'è più niente da fare, piccolo. Basta, smetti.
Non te ne andare. Resta qui. Voglio chiudere gli occhi con il tuo odore e le tue mani addosso.
"Anis, no..."
"Se dipendesse da me, ti assicuro che starei qui," mi sforzo di sorridere, ma non vedo già più niente. Il suo viso posso solo immaginarlo, e me lo porterò dietro. "La compagnia è senz'altro migliore.
L'ultima cosa che penso è che...