Crime of Passion

di tabata
Quando scendo dall'auto, il vento gelido mi spazza il viso portandomi il sapore della neve.
Mancano poche settimane a Natale, il primo senza di te. Mi chiudo la portiera alle spalle: ho voglia di rientrare nell'abitacolo e partire, magari per non fermarmi più. Sono giorni che mi sembra di non avere niente di concreto sotto i piedi, l'idea di stringere il volante e macinare chilometri d'asfalto sembra più allettante che passare le ore a guardare il soffitto in casa di Tomi, ad evitare le sue domande che sono sempre silenziosissime ma fanno più rumore di qualsiasi altra cosa. Lo sa che c'è qualcosa che gli nascondo, ma sa anche che non gliela dirò stavolta. Così sta zitto, chiede con gli occhi e quando non ottiene risposta sospira, e mi siede vicino. Non so quanto ho pianto negli ultimi giorni, non so quante volte gli ho nascosto il viso nel collo e ho pregato di trovarci una soluzione. A volte mi chiedo se non ho cercato la stessa cosa tra le braccia di Peter.
Mi avvio lungo il vialetto. Ho comprato un'altra calla bianca; mi piacciono le calle, sono fiori eleganti e raffinati. Mi piace pensare che ne avremmo avuto la casa piena, un giorno, io e te. In realtà mi piace pensare che la sala del rinfresco ne sarebbe stata piena ma è un pensiero sul quale indugio poco perché è sciocco, e me ne vergognavo anche quando eri vivo; non mi sognavo neanche di dirtelo: avevo paura mi prendessi in giro. Non ci saremmo mai sposati comunque, io e te non ne avevamo bisogno. Il fioraio mi ha detto che la calla significa stima e ammirazione, che è il fiore delle spose.
Ho sorriso. Facciamo che la tua morte era anche il nostro matrimonio, Anis? Facciamo che ti hanno sotterrato col mio bouquet?
La tomba tua madre l'ha voluta proprio al centro del cimitero. Di solito queste cose non te le lasciano fare, ma i soldi per fare quello che volevamo c'erano e quindi adesso hai un marmo bellissimo, che guarda verso Sud, esattamente dove lo voleva lei. Naturalmente non mi ha chiesto niente, ma anche se l'avesse fatto, l'avrei lasciata scegliere da sola. Preferisco pensare che a me toccasse occuparmi di te da vivo. Di quello che resta del tuo corpo non mi interessa granché, perché non significa niente. La tua tomba non è sfarzosa, c'è solo una lapide arrotondata col tuo nome inciso sopra, tutto quanto - Anis Mohamed Youssef Ferchichi - e le due date: 1978 - 2008. La foto l'ha scelta tua madre, è una bella foto. Sei tu che sorridi, e sei sempre stato bello mentre sorridevi. Il tuo vicino ha l'enorme statua di un angelo bendato a fare la guardia sulla sua tomba, è una roba immensa, credo sia a grandezza naturale - ammesso che gli angeli abbiano una misura conosciuta - è alto quanto me e tiene i palmi delle mani rivolte verso il cielo. E' notevole, ma esagerato. La tua lapide sembra piccola piccola lì di fianco. Tu però non hai bisogno di angeli custodi, ci siamo noi. Anzi, ci sono i ragazzi - che vengono a trovarti a turno quasi tutte le settimane - e ci sono io, che sto evidentemente impazzendo perché ho iniziato a parlarti che ancora non ero sceso di macchina.
"Ciao," quando mi fermo di fronte alla lapide, c'è un'altra di quelle folate di vento gelido. Mi stringo nel cappotto e fisso il tuo nome nel marmo. Ci sono solo io in questa parte del cimitero, così la mia voce risuona più forte e sembra che io stia urlando. "Scusa se la settimana scorsa non sono venuto. Ho avuto... dei problemi."
Intorno alla tua tomba ci sono sempre tantissimi fiori. Tolgo quelli più vecchi e secchi e li getto nel cestino. Riempio il vaso d'acqua e ci metto dentro la mia calla fresca. Non so esattamente come iniziare il discorso. E' un po' come quella volta che non potevo accompagnarti a quella premiazione perché Tom era geloso e voleva che stessi con lui, ti ricordi? Tu lo avevi già capito il perché ma volevi che te lo dicessi io e allora hai aspettato e aspettato finché alla fine non te l'ho detto. Quindi, in sostanza, io credo che tu lo sappia perché sono qui; se è come penso che sia una volta che si è morti, allora lo devi sapere per forza. "Abbiamo riportato Chakuza a casa," espiro alla fine. Un punto vale l'altro da cui iniziare, immagino. Tanto non è com'è cominciata, il problema, ma com'è finita. "I medici gli avevano dato venti giorni di ricovero ed è stato un inferno tenerlo in ospedale anche solo per due settimane. Sai che Fler ha dovuto ribaltarlo di peso sul materasso?"
La scena è stata memorabile in effetti: Chakuza che tenta fisicamente di uscire dalla stanza e Fler che, dopo aver cercato di farlo ragionare più volte, lo placca sulla porta e lo trascina urlante verso il letto. Sento ancora la risata di Eko, a volte. "Avresti riso, sai?" Ti dico, accarezzando il vetro della fotografia che con il gelo si è un po' appannato. Rimango in silenzio per un po' e gioco con la neve che ricopre l'erba intorno alla tomba. E' morbida.
L'anno scorso, in questo periodo, era poco che stavamo ufficialmente insieme e non avevamo voglia di andare in giro, con i fotografi sempre dietro ogni angolo nella speranza di trovarci. Però c'era la neve. Ed era tanta, bianca e soffice come questa. Ricordo che quando mi sono lamentato perché non potevamo andare da nessuna parte, mi hai tirato su di peso, hai aperto la portafinestra del giardino sul retro e mi ci hai buttato in mezzo, così com'ero vestito, con la tuta e basta. Ricordo che mi guardavi e ridevi di gusto, in piedi con le mani sui fianchi. Ricordo anche il bagno caldo, dopo. Ricordo tutto, in realtà. Non c'è un singolo istante di noi che io mi sia dimenticato. E' proprio questo il punto, credo.
Mi alzo da terra, comincia a farmi freddo sul serio: la sciarpa che ho rubato dall'armadio di Tomi stamattina - perché era rossa e bella, e stava bene con una maglia che neanche si vede sotto al cappotto - non mi tiene più abbastanza caldo, è umida di neve. "C'è una cosa che devo dirti," mormoro alla fine. Devo dirtela, questa cosa, perché mi rode dentro; anche se poi non lo so cosa farò una volta che l'avrai saputa. Per tutta la vita ho creduto che se mai fosse morto qualcuno di importante non avrei mai avuto bisogno di parlare sulla sua tomba perché sarebbe stato sempre con me; avrebbe saputo tutto quello che c'era da sapere della mia vita perché mi avrebbe osservato dall'alto. Lo penso ancora, in un certo senso, però ho bisogno di essere qui, adesso, e di dirlo alla tua foto, perché confessarlo senza guardarti negli occhi è troppo facile. "L'ho baciato, Anis," pensavo di mormorarlo e invece te lo dico forte e chiaro. La fitta al cuore che mi aspettavo non arriva. Non arriva niente, ogni cosa rimane la stessa, così provo a dirti tutto: magari cambia qualcosa; magari mi sento meno male. "Lo abbiamo quasi fatto sul suo letto," dico ancora. "Mi ha fermato il tuo braccialetto," sollevo il braccio e te lo mostro, ma lo sai qual'è. Sai che l'avrei preso io, mi piaceva così tanto. "Se non lo avessi avuto, l'avrei lasciato fare. Credo."
In realtà lo so. Quando ho baciato Peter sapevo cosa stavo facendo e sapevo cosa volevo; probabilmente era lui a non averne idea. Non so da quando ho cominciato a guardare Chakuza in modo diverso, non so fissare un punto preciso; so che ad un certo punto sedersi sul suo divano non era più come prima. Ho avuto paura, Anis. Ho pensato che fosse troppo presto e troppo all'improvviso. Mi sono detto che non potevo davvero volere Peter, perché tu mi manchi ancora. L'ho baciato lo stesso, però, e sono stato bene. E allora capisco perchè quella fitta non arriva: ti sto dicendo tutto questo perché sento ancora il bisogno disperato di renderti partecipe della mia vita, ma non sento quello di scusarmi. Baciare Peter è stato bello, tra le sue braccia sono stato bene. Non voglio scusarmi. Voglio solo dirtelo perchè lo devi sapere. Perchè dovrei dirtelo se fossi vivo; dentro di me lo sei ancora, perciò te lo dico.
"Lo avrei lasciato fare," annuisco alla fine. Non sono qui di fronte alla tua tomba per mentirti, non avrebbe alcun senso, ti pare?
Rimango in silenzio per un po': si è alzato il vento e dovrei tornare in macchina ma sto aspettando l'impossibile. Sono abituato a dirti tutto e a sentirmi rispondere, questa conversazione univoca non mi dà soddisfazione.
Alla fine mi mordo un labbro e decido di andare. Lo avrei lasciato fare, mi ripeto ancora. Lo ripeto a te. Lo avrei lasciato fare ma l'ho fermato. Non ci siamo sentiti per giorni e quando ha chiamato, mi tremavano le mani; ho pensato che volevo soltanto essere lì con lui ma che non conoscevo affatto il significato di quella voglia.
Gli ho detto di no per darmi il tempo di trovarlo. E per dirtelo.
Quando sono di fronte alla tua tomba è sempre difficile allontanarmi, è come se mi chiedessero di lasciarti di nuovo; ma fa troppo freddo, Anis. Posso andare? Torno presto, te lo prometto. Mi bacio le dita e le poso sulla tua foto, prego che tu senta il mio calore, come io sero di sentire il tuo. Torno presto, davvero.

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