Pick Me Up When I'm Feeling Blue

di lisachan
Sipping whiskey out the bottle
not thinking 'bout tomorrow
singing Sweet Home Alabama all summer long

Quando ieri notte sono andato a dormire – molto tardi, ho una regola personale secondo la quale non importa quando scatti la mezzanotte, il nuovo giorno comincia sempre quando mi sveglio dopo aver dormito. Sì, lavorando per i Tokio Hotel mi è capitato spesso che certi giorni durassero quarantotto o anche settantadue ore – l’ho fatto sperando che l’indomani non dovesse mai arrivare. Ieri sera sono uscito, ho acciuffato Dave – unico essere umano rimastomi amico da quando la mia intera esistenza ha smesso di ruotare attorno a quattro ragazzini con evidenti comportamenti asociali per spostarsi sull’asse di un tunisino pazzo, immortale e rompipalle – e l’ho portato in giro per locali come usavamo fare quando eravamo ancora entrambi single, in cerca di ragazzo e disperati abbastanza da pensare che, mal che andasse, potevamo sempre ritirarci in una villetta sul mare nel Devonshire ed allevare gatti finché la senilità non ci avesse uccisi nei nostri letti.
Ogni tanto, ad un uomo, cose come questa servono. Intendo, gli serve recuperare un buon vecchio amico, uno che non c’entri niente con tutti i casini che ha vissuto nel passato recente della sua esistenza, ed uscire con lui, recandosi in qualche allegro posto sperduto di periferia in cui uomini che di giorno fanno i lavascale indossano un costume da pompiere e si denudano per la tua gioia. Ad un uomo serve stare con quell’amico in quel posto e perdersi dentro una pinta di birra nel ricordare episodi divertenti della propria giovinezza, gli serve giusto per ricordarsi che, per quanto tremenda possa essere la sua vita in questo momento, c’è stato un periodo della sua esistenza in cui è stato giovane e stupido, mortalmente stupido, e nessun guaio può essere abbastanza da rimpiangere una cosa del genere.
Io, per dire, sapendo che, il giorno dopo, mi sarei svegliato quarantenne, avevo un bisogno estremo di chiacchierare con Dave e rivangare quell’agghiacciante periodo della mia esistenza in cui indossavo jeans oversize, portavo i capelli come Nick Carter dei Backstreet Boys ed osavo presentarmi in queste condizioni per dei photoshoot che poi finivano fra le pagine patinate di riviste per ragazzine preadolescenti.
Perfino compiere quarant’anni è meno imbarazzante di questo.
Intorno alle tre del mattino, ed intorno alla quinta birra, con gli occhi semichiusi e pesanti di sonno, Dave s’è voltato verso di me e, guardandomi con palese sofferenza, mi ha detto che, se non intendevo salire su un cubo e rimorchiare uno spogliarellista, sarebbe stato molto meglio chiudere lì la serata. Io ho guardato l’uomo dagli ondeggianti pettorali che si agitava come un tarantolato indossando solo un tanga leopardato ed un papillon rosso annodato attorno al collo, ed ho sospirato. “D’accordo,” ho detto, “torniamocene a casa.”
Sono arrivato sano e salvo al mio appartamento dopo un’ora e una decina di chilometri percorsi a passo d’uomo per evitare di attirare l’attenzione di qualche vigile urbano di pattuglia – perché sui rotocalchi mi bastano le facce della gentaglia che rappresento per un motivo o per l’altro, non ho alcun interesse a finirci anch’io ritratto dall’obbiettivo dell’autovelox, peraltro dopo non essere neanche riuscito a mettermi in posa – e dopo aver salutato Dave mi sono ritirato in camera da letto.
Attirato come una falena dalla luminescenza dello schermo del portatile rimasto acceso quando ero uscito, mi sono seduto per qualche istante davanti al computer ed ho lanciato un’occhiata falsamente distratta alla mia bacheca su Facebook ed ai circa cinquecento messaggi d’auguri che s’erano andati accumulando da mezzanotte alle quattro.
Sospirando pesantemente, mi sono alzato in piedi, ho tirato fuori il cellulare dalla tasca posteriore dei pantaloni, l’ho riacceso – dopo averlo colpevolmente tenuto spento per tutta la serata, completamente incurante del fatto che qualcosa di grave avrebbe potuto succedere e qualcuno avrebbe potuto avere bisogno di sentirmi con urgenza – ed ho aspettato che, per i successivi venti minuti, tutti gli sms, i messaggi in segreteria e gli avvisi di chiamata di chi mi aveva cercato per farmi gli auguri finissero di scaricarsi. Dopodiché, ho posato il telefono sul comodino, mi sono lasciato ricadere a quattro di bastoni sul letto e, nascondendo la testa sotto il cuscino in un’abile imitazione di struzzo africano, e sono crollato in coma etilico.
Qualche mese fa, quando sono stato trascinato in un capannone in periferia e lì sono stato aperto in due, nel momento in cui ho chiuso gli occhi mi sono sentito tragicamente depresso, perché ero convinto che la mia vita stesse per finire e trovavo questo pensiero assolutamente inaccettabile.
Qualcuno avrebbe dovuto dirmi allora che, qualche mese dopo, mi sarei addormentato fra le comode e morbide lenzuola di seta del mio letto indossando ancora i miei mocassini scamosciati blu, ed avrei desiderato di non svegliarmi più solo per non dover per forza compiere quarant’anni.
Sono sicuro che, se l’avessi immaginato, avrei accolto la possibilità della morte imminente con minor sconforto.
*
Non c’è niente nella vita che possa prepararvi a compiere quarant’anni, lasciate che ve lo dica. Se pensate di aver sofferto, nella vostra esistenza, se pensate di aver avuto una vita sufficientemente difficile da poter dire che passare dagli –enta agli –anta non sarà in grado di sconvolgervi nemmeno un pochettino, be’, vi sbagliate. Non è neanche una questione di vecchiaia in sé – naturalmente è anche una questione di vecchiaia in sé, chi voglio prendere in giro? Ma non è solo quello il problema, ecco – ma piuttosto una questione di traguardi.
A quarant’anni sei più o meno a metà della tua vita. Poi okay, magari arrivi a cento, ma quando hai quarant’anni questo non lo puoi sapere, ti basi sull’aspettativa di vita che la tua società di riferimento, le tue condizioni fisiche e psicologiche ed il modo generico in cui stai al mondo ti danno, e dici d’accordo, ci sono, sono al giro di boa, sono sulla cima del monte, da qui è tutta discesa, devo solo rotolare a valle. Ma mentre mi arrampicavo fino a qui, che cosa ho fatto?
E questa domanda, te la poni lì. A quarant’anni. Non a trenta, quando sei ancora troppo giovane per pensare di poter essere arrivato da qualche parte, e non a cinquanta, che peraltro è un’età talmente lontana che quando ti immagini nel futuro neanche la pensi, ma a quaranta. Quaranta è un bel numero, tondo, rassicurante, e allo stesso tempo spaventosamente netto. Quaranta è quel numero di anni raggiunto il quale per la società che ti ha cresciuto tu devi esserti realizzato.
Credetemi, è un bel casino, quando ci arrivi, capire se ci sei riuscito o meno.
Passare dai ventinove ai trenta, a ripensarci oggi, non è stato così traumatico. Insomma, sì, naturalmente avevo la sensazione di stare entrando in un nuovo periodo della mia vita, cominciavo a sentirmi sulle spalle il peso degli anni, cominciavo a notare in me stesso certi cambiamenti che mi obbligavano a rendermi conto di quanto fossi cresciuto nel tempo, ed anche a chiedermi come fosse stato possibile non notarlo tanto a lungo, ma lì è finita. Sapete quella sensazione che ogni tanto ti prende quando ti convinci che un certo avvenimento cambierà la tua vita, o quantomeno la tua percezione delle cose, e invece poi quella cosa accade ed il giorno dopo tu ti svegli e, di base, non è cambiato niente? E da un lato ti senti deluso per tutta quell’aspettativa sprecata, ma dall’altro sorridi perché ti senti quasi rassicurato dal fatto che la tua vita sia rimasta la stessa, perfettamente controllabile, perfettamente monotona come, in fondo, ti piace che sia?
Ecco, per me i trent’anni sono stati questo. Non ho fatto grandi tragedie, ho accolto con sorrisi di circostanza le battutine degli amici e dei parenti circa le rughe, gli anni che passano e l’essere ormai dei bimbi grandi, sono rimasto al telefono più di mezz’ora ascoltando pazientemente e senza risentimento le lagne di mia madre sul suo essersi ormai rassegnata a non diventare mai nonna, poi mi sono fatto una doccia, mi sono cambiato, sono uscito e mi sono presentato alla festa a sorpresa che i miei amici credevano di avere organizzato tanto perfettamente da non avermi fatto capire dove si fosse tenuta. È stata una bella serata, ne ho ricordi piuttosto chiari.
Ho riso senza falsità, mi sono concesso un capriccio o due, ho bevuto più di quanto non faccia di solito ma senza mettermi in ridicolo e, quando sono andato a dormire, l’ho fatto pensando che dal giorno dopo tutto sarebbe stato diverso, più bello, più entusiasmante, più vero, ma quando mi sono svegliato e ho capito che invece non sarebbe successo, non mi sono sentito triste. Per niente. Ho sorriso, ho fatto colazione, mi sono lavato i denti e sono andato a lavorare, e mi sono sentito contento così, anche se era palese che la mia pelle non fosse più la stessa dei vent’anni, anche se era vero che probabilmente non avrei mai dato un nipote a mia madre, anche se non avevo passato la notte con nessuno ed in generale non avevo diviso la mia vita con qualcuno in un lungo periodo di tempo. Ero a posto. Felice non direi, la felicità è un sentimento così breve e fugace, una scintilla che si accende ed è così preziosa proprio perché si smorza subito. Felice no, ma contento, contento sì.
Alla fine, sapete, la grande questione della gioia, nella vita, sta tutta lì. Nel tuo grado di contentezza quando vai a dormire dopo una giornata pesante, e nel tuo grado di contentezza quando ti svegli al mattino prima di affrontarne un’altra. È davvero tutto lì, in quel pensiero minuscolo col quale di coccoli prima di addormentarti e in quell’altro altrettanto minuscolo col quale ti dai la forza di uscire dal letto.
Ogni tanto può capitare che quel pensiero dolce, quel pensiero incoraggiante, manchino del tutto.
Che poi è il motivo di base per cui io, stamattina, non voglio neanche aprire gli occhi.
*
E invece squilla il telefono.
Tra le svariate miriadi di cose che lo squillo del telefono rappresenta – quasi tutte brutte, specie quando hai un incarico di responsabilità come il mio – ce n’è una molto reale, tangibile e particolarmente sgradevole: il suono del telefono è sempre forte, penetrante ed improvviso. Spezza il silenzio, fa automaticamente sobbalzare, non tanto per la paura, ma per quell’automatica reazione di allarme con la quale l’organismo umano reagisce a suoni simili.
Negli ultimi anni, la gente ha provato in ogni modo ad attutire questa sensazione spiacevole; ha cambiato le classiche suonerie con i toni polifonici, poi ha sostituito anche loro con suoni più particolari e scherzosi, come il miagolio di un gatto o una buffa voce che ti chiama in modi stupidi per attirare la tua attenzione, e poi anche questi suoni sono spariti per lasciare posto alle canzoni che più ci piacciono in un determinato periodo, o alle nostre preferite di sempre.
L’effetto non cambia. Il nostro cellulare potrebbe squillare anche con la canzone con cui ci addormentava nostra madre da bambini, e l’effetto continuerebbe a non cambiare. Quando squilla, improvviso, spaccando il silenzio che ti eri costruito attorno ed all’interno del quale ti eri rifugiato come in un bozzolo caldo e rassicurante, perdi il controllo sul tuo corpo e sobbalzi, sgrani gli occhi, ti volti automaticamente verso la fonte del suono per assicurarti che sia tutto a posto.
Il mio cellulare suona la Lambada, quando mi chiamano, e Dio solo sa se non ho ricordi meravigliosi legati a questa canzone e ad un avvenente portoricano di nome Gael col quale ho ballato su una spiaggia a notte fonda mentre l’eco di questa canzone giungeva a noi tramite la radiolina accesa di una panineria lì vicino, ma nonostante questo, quando squilla io sobbalzo, mi volto a guardarlo con terrore per un secondo e poi, già il secondo successivo, aggrotto le sopracciglia, fissandolo adesso con astio.
Sono ufficialmente le dieci del mattino del dodici agosto, io mi sono appena svegliato e perciò non posso più fingere di avere ancora trentanove anni e di essere ancora fermo al giorno prima, e fa un caldo tale che anche qualcuno con molta più voglia di vivere di me farebbe fatica a trovarne, se dovesse necessariamente alzarsi dal letto.
Sospiro ed allungo una mano verso il telefono, sollevandolo per scrutare il display. È Bill, naturalmente. Se non è mia madre, è sempre Bill.
Mentre sospiro un’altra volta chiedendomi quante possibilità ci siano che il mio figlioccio adottivo onorario decida di chiamare la polizia e denunciare la mia scomparsa se persisto nel non rispondergli, realizzo che a conti fatti non posso continuare ad ignorare la questione. Non è che ci siano possibilità che scompaia, che il tempo torni indietro o che in qualche modo i compleanni vengano cancellati dalla legislazione mondiale, se io insisto a non rispondere al telefono. In realtà, che io risponda o meno, non cambierà proprio niente, nella mia età. Ma almeno, se risponderò potrò smettere di ascoltare la Lambada.
Devo decisamente cambiare suoneria.
- Pronto?
- David! – Bill mi strilla nelle orecchie, la voce già rotta dal pianto liberatorio che immagino si starà lasciando scorrere lungo le guance assieme agli usuali venti chili di kajal, - Dio mio, David, ma sei impazzito? Ma sei impazzito? Hai idea di quanto mi hai fatto preoccupare? Ma come ti è saltato in testa di ignorare le mie chiamate, con tutto quello che è successo negli ultimi mesi?
In realtà, negli ultimi mesi non è successo niente di particolarmente assurdo, fatta eccezione per un viaggio negli Stati Uniti che si è concluso con un matrimonio inatteso e per la breve parentesi di momentaneo dolore emotivo durante la quale il mio ragazzo mi ha lasciato per andare a curare la malaria in Africa con la sola imposizione dei propri pettorali scolpiti nel marmo. L’avvenimento al quale Bill si riferisce, invece, è accaduto mesi fa, ha coinvolto solo me, le mie budella e un coltello non particolarmente affilato, e non avrebbe più modo di ripetersi, dal momento che Bushido, dopo l’accaduto, ha cominciato a pagare uomini perché mi proteggessero seguendomi nell’ombra e terrorizzandomi a morte quando, tornando a casa alle tre del mattino dopo una bevuta, me li vedo spuntare di fronte avvolti nei loro completi neri mentre mi rassicurano dicendo “è tutto a posto, signor Jost, vada pure”.
- Sono vivo, Bill. – annuncio pazientemente, staccandomi di dosso le lenzuola appiccicate alle gambe e sollevandomi faticosamente a sedere mentre ascolto Bill confermare il mio attuale stato in vita a qualcuno accanto a lui, qualcuno che deduco essere Bushido dal modo annoiato in cui risponde “ma te l’avevo detto, Bill”. – Posso andare, adesso? Ho bisogno di una doccia.
- No. – risponde Bill, perentorio, - Cioè, sì, potrai andare a farti una doccia presto, ma prima: tanti auguri! – mi strilla nelle orecchie, inutilmente eccitato per qualcosa che non eccita nemmeno me, figurarsi se dovrebbe avere lui qualche diritto a sentirsi eccitato al mio posto.
- Grazie. – concedo svogliato, - Ora posso andare?
- No! – sbotta Bill, offesissimo, - Ma che ti prende? Ho bisogno di sapere a che ora sei libero, stasera.
- No, Bill, non hai bisogno di saperlo. – gli spiego io con un sospiro stanco mentre costringo il mio vecchio corpo a sollevarsi dalla dolce comodità del materasso memory foam.
- No? – chiede lui, vagamente smarrito. Posso immaginarlo sbattere le lunghe ciglia ricurve, gli occhi di quel brillante castano dorato che fanno capolino da sotto le palpebre pittate di grigio metallizzato.
- No. – confermo, dirigendomi serenamente verso il bagno, - Perché non intendo partecipare ad alcuna festa, per i miei quarant’anni, - spiego, cercando di utilizzare il tono di voce più pacato che i nervi repressi che tremano sottopelle mi consentano, - Non intendo organizzarla a casa mia, non intendo lasciartela organizzare a casa tua, non intendo aprire regali e sorridere fingendo di essere contento nel festeggiare l’inesorabile restringersi della finestra di tempo che mi separa dalla morte e non intendo neanche stare ad ascoltarti mentre cerchi di convincermi che invece sarà una bella festa e ci divertiremo un sacco.
Dall’altro lato della cornetta, Bill resta in silenzio per tre minuti netti. Un record.
- Bill? – lo chiamo, - Sono stato chiaro?
- È scappato. – mi risponde Bushido. Non riesco a decifrare il tono della sua voce. – Gli hai detto che non vuoi saperne niente?
- In sostanza, sì. – annuisco, - Ed è quello che ripeto adesso anche a te. Inoltre, sto per spegnere il cellulare. Ti prego di non inscenare il finimondo, se non mi senti nell’arco delle prossime ventiquattro ore. Gradirei trascorrere questo giorno senza che mi venga ricordato continuamente che sono un vecchiaccio.
Bushido ride appena, lo immagino scuotere il capo.
- Jost, sei un cretino. – mi rimprovera, - Ma d’accordo.
Mi fermo, immobile, una mano sulla maniglia della porta del bagno, l’altra stretta attorno al telefono.
- D’accordo? – domando per conferma.
- D’accordo. – ribadisce lui con sicurezza, - Ci sentiamo, Jost.
D’accordo. Mi sarei aspettato una maggiore insistenza.
*
È una doccia lunga e rilassante, all’avocado e ai minerali del Mar Morto – sebbene io non abbia idea di quale sia l’odore dei minerali del Mar Morto, per cui principalmente è una doccia all’avocado e basta – quella che mi concedo e alla quale mi concedo come non mi sono mai concesso a nessun altro essere con una declinazione al femminile. Lei è buona, con me, mi tratta con rispetto, non sente il bisogno di farmi gli auguri e, pertanto, di farmi sentire vecchio.
Per la verità, dal momento che è una doccia ipertecnologica di ultima generazione, dotata di ogni comfort e di un dispositivo elettronico incredibilmente efficiente che le permette di esprimersi attraverso una voce femminile dalle tonalità suadenti e placide, se avessi attivato il programma “buongiorno del mattino” so che, dopo aver acceso la radio, mi ricorderebbe la data di oggi, l’orario di inizio della doccia, le principali notizie del mattino, gli aggiornamenti sulla viabilità e il traffico e, alla fine, mi farebbe anche gli auguri di compleanno. Fortunatamente, sono stato abbastanza furbo da disattivare quella modalità al secondo giorno di utilizzo, e pertanto la voce di Serafine, che poi è il nome con cui la voce suadente s’è presentata durante la configurazione al primo utilizzo, si limita ad augurarmi il buongiorno e a chiedermi se preferisco doccia semplice, idromassaggio o cromoterapia.
Opto per la doccia semplice, all’avocado e ai minerali del Mar Morto, come vi dicevo, e ne vengo fuori qualcosa come tre quarti d’ora dopo, raggrinzito come una prugna e stupefatto dal fatto che il guanto di crine che ho usato per lo scrub mi abbia lasciato ancora della pelle addosso. È una sensazione abbastanza meravigliosa, e posso sorridere sinceramente mentre, dopo essermi accuratamente asciugato, esco dal bagno avvolto in un microasciugamano che mi copre appena i fianchi. Vado in cucina, bevo una tazza del caffè che la caffettiera ha provveduto a preparare da sé una mezz’oretta fa, poi recupero il nuovo numero di Vanity Fair e passo la successiva ora seduto al tavolo della colazione, le gambe stese sull’unica altra sedia libera, a fingere di leggere mentre in realtà fantastico su immaginari lavori di ristrutturazione alla facciata del palazzo e immaginari operai unti di sudore e sporchi di gesso e cemento armato che fanno educatamente irruzione in casa mia dalla finestra, chiedono un bicchiere d’acqua per dissetarsi dalla calura estiva e poi mi prendono ripetutamente contro il piano in marmo bianco sopra la lavastoviglie. Uno dopo l’altro, a volte anche in coppia.
Dopodiché, ho bisogno di un’altra doccia.
*
Decidere dove andare, o cosa fare del resto della mia giornata, non è così semplice. Non facciamo mai caso a quanto i nostri impegni, intendo quelli che ci scandiscono le giornate, siano per lo più dipendenti dagli altri, più che da noi stessi, fino a quando non spegniamo il telefono. Nel momento in cui quel dettaglio viene a mancare, ecco che improvvisamente ci ritroviamo con un mucchio di tempo libero per le mani e nessuna idea su come impiegarlo.
Dopo essermi assicurato che il sole splenda e che la temperatura esterna oscilli fra i ventinove e i trentadue gradi, stabilisco che restare a casa non ha senso. Primo perché è un luogo facilmente identificabile. Chiunque volesse pensare di volermi trovare, cercherebbe qui per prima cosa. E io non intendo farmi trovare.
Secondo perché fa veramente troppo caldo, ed un uomo attento all’ambiente e al riscaldamento globale quale io sono non può in alcun modo sopportare di risolvere questo problema chiudendosi in una stanza col condizionatore a temperature polari. Qualche pinguino mi ringrazierà per questo, penso con orgoglio mentre indosso il costume da bagno, un paio di bermuda ed una maglietta e, infradito ai piedi, mi lancio verso Steglitz-Zehlendorf.
Tutte le mie buone intenzioni, il mio accorato sostegno verso la causa ambientalista e il mio affetto per i pinguini disagiati che perdono le loro case di ghiaccio a causa del riscaldamento globale, viene meno in un soffio quando, arrivato alla spiaggia del Wannsee, la trovo gremita di gente come non l’ho mai vista da che sono al mondo. E, ricordiamolo, stiamo parlando di quarant’anni. Evidentemente, oggi tutti devono avere avuto la mia stessa idea. Quanti eroi che vogliono salvare il mondo un condizionatore spento alla volta. Greenpeace sarà soddisfatta.
Tanto vale, mi dico, ormai sono qui. Recupero il borsone e mi faccio strada fra ragazzini impegnati a tirare su monumenti di sabbia, donne impegnate a diventare esse stesse monumenti cospargendosi abbondantemente il corpo di creme solari di ogni tipo e uomini che preferirebbero diventare monumenti anch’essi, pietrificandosi possibilmente sul posto, in modo da non dover passare un secondo in più della loro vita ad annoiarsi disperatamente sotto quel sole cocente.
In mezzo a questo acquerello di umanità varia, trovo un posticino grande abbastanza per ospitare il mio telo da mare e me stesso, entrambi piegati in due in modo da occupare il minor numero di metri quadrati possibile.
Ci sono tanti di quei colori, su questa spiaggia, tanti di quei suoni. Gli ombrelloni di ogni dimensione, aperti e puntati verso il sole, sono così tanti che sono sicuro che, se sorvolassi la spiaggia, li vedrei come pois multicolori sul vestito di una ragazza. I gabbiani strillano con forza, ma non abbastanza forte da sovrastare il mormorio incessante del chiacchiericcio delle persone, ognuno perso nelle proprie cose, ognuno annodato nel groviglio dei propri drammi personali, o coccolato nel tepore di qualcosa di bello. Una donna sta parlando del vestito da sposa di sua figlia con un’amica, lo descrive così minuziosamente che quando ha finito potrei disegnarlo senza sbagliare un dettaglio. Una bambina di una decina d’anni sta cercando di spiegare al fratellino, credo, o ad un amichetto più piccolo, come funzionano le onde del mare. Lui fatica a starle dietro e ad un certo punto lei, frustrata, strilla “ma sei stupido?!”, e corre a tuffarsi in acqua. Un uomo parla con un coetaneo, probabilmente un amico. Ha lo sguardo triste, dice “non ce la faccio più”. Non riesco a cogliere i dettagli del discorso, in realtà nemmeno voglio.
Mi appoggio al telo con entrambe le mani, le braccia tese ai lati del corpo. Mi piego indietro e scruto il cielo terso, macchiato qua e là da qualche sbuffo di nuvola. Sembrano fiocchi di panna montata. Nei pressi del sole, il colore del cielo si fa più chiaro, sbiadito, brillante, quasi trasparente. Dà proprio l’impressione di non essere altro che una campana di vetro, tutta attorno al pianeta, attraverso la quale i raggi del sole passano appena. Tuttavia, riesco a sentirli sulla pelle, ed è una sensazione piacevole.
Dietro di me, una famiglia composta da una madre e tre ragazzini di varia età si decide ad andare via, liberando un po’ di spazio. Me ne approfitto, prima che arrivi qualcun altro. Stendo per bene il telo, e mi ci stendo per bene sopra anch’io. Chiudo gli occhi, sorridendo appena. Li tengo chiusi a lungo.
*
La giornata scorre così tranquillamente da sembrare finta. Intorno a mezzogiorno, mi rifugio in uno dei numerosi ristoranti che affollano il lungolago, ed in barba a tutti i miei principi etici e morali passo un paio di piacevolissime ore rifocillandomi – cioè gozzovigliando come un maiale su metà del menu del giorno – e pascendomi nell’aria freddissima che riempie la stanza al punto che, entrando, pare di non essere nemmeno più in estate. Tutta questa gente con le loro giacchettine addosso mentre fuori le persone vorrebbero strapparsi ogni indumento e bruciarlo pur di sentire un minimo di fresco, sono esilaranti. Li osservo con divertimento, facendo punto d’onore nel restare in maniche corte per tutto il tempo nonostante la pelle d’oca da freddo.
Quando comincio a sentire le estremità del mio corpo perdere sensibilità, decido che ne ho avuto abbastanza. Pago, esco dal ristorante e l’escursione termica fra interno ed esterno è tale che un qualsiasi uomo meno fisicamente preparato di me sverrebbe all’istante. Fortunatamente, io sono ancora in forma, e sopporto con stoica testardaggine gli schiaffi del vento caldissimo che scompiglia i capelli di tutte le signore presenti, e poi torno in spiaggia.
C’è molta meno gente, adesso. Il sole sta cominciando ad abbassarsi, le ore migliori per la tintarella sono già finite e chi è qui dalla mattina comincia ad avere troppo caldo, e ad essere troppo stanco, per non desiderare di trovarsi altrove.
Io mi approprio di un paio di metri di sabbia umida in riva, e mi seggo a guardare il lago. L’acqua è meravigliosa, tutta azzurra e bianca, e si arriccia capricciosa attorno ai corpi dei ragazzi e delle ragazze che fanno il bagno. Con ogni schizzo, sembra di sentirla ridere.
Ci vogliono ore, prima che qualcosa cambi. Osservo il sole disegnare un arco perfetto nel cielo, e perdo completamente di vista la cognizione del tempo e dello spazio. È come essere solo, su questa spiaggia. Siamo solo io e il sole che scandisce i minuti e le ore fino alla fine di quella giornata, e gli sono grato, perché da un certo punto in poi sembra che si sia messo a correre, per far calare la notte il prima possibile. Molto premuroso, da parte sua. Starò sicuramente molto meglio, quando queste ventiquattro ore saranno finalmente passate.
E poi, improvvisamente, appena il sole fa tanto di bagnarsi la punta dei piedi, qualcuno si siede accanto a me, posa una bottiglia di whiskey sul mio telo, in mezzo a noi, e tira fuori un walkman – un walkman – dalla borsa nera che porta a tracolla.
Nel momento in cui capisco che si tratta di Bushido, lui mi ha già infilato un auricolare in un orecchio, e le note di Sweet Home Alabama cominciano a farsi strada dentro di me.
- Sul serio? – dico, voltandomi verso di lui con gli occhi sgranati, - Vuoi consolarmi per la mia triste vecchiaia e mi porti un walkman, del whiskey e una cassetta dei Lynyrd Skynyrd?
Bushido ride, il suono della sua voce è dolce, quasi tenero. Non mi guarda nemmeno, impegnato com’è a fissare il lago ormai praticamente vuoto.
- Hai il coraggio e la faccia tosta di dirmi che questa canzone non ti piace? – domanda.
Io sospiro, abbassando lo sguardo.
- La adoro. – ammetto, - Ma questo non significa—
- Bill c’è rimasto malissimo, sai? – mi interrompe. Io faccio una smorfia. Naturalmente, Bill. Lo dico senza risentimento, come il dato di fatto che è: con Bushido, tutto, sempre, è una questione di Bill. Qualsiasi cosa quest’uomo faccia o non faccia, la fa o non la fa tenendo sempre in considerazione Bill per primo, e poi, secondariamente, se necessario, tutto il resto del mondo. – Ci teneva un sacco.
- Non mi stupisce affatto. – commento con un mezzo sorriso, - Adora dare feste.
- Non è solo quello. – mi corregge Bushido, perfettamente calmo, - Tu sei stato come un padre, per lui. Tom ha avuto Gordon, ma Bill ha avuto te. Sei stato il suo mentore, e ricordati che è completamente a causa tua che oggi lui è quello che è. – lo osservo sospirare e poi sorridere, - Devi capire che è così felice di non averti perso che non farebbe che dare feste in tuo onore. E tu pretendi che non festeggi il tuo compleanno? – ridacchia appena, scuotendo il capo, - Ma non capisci che, se facessi il compleanno ogni giorno, lui organizzerebbe ogni giorno una festa diversa, solo ed esclusivamente per celebrare il fatto che esisti?
Non fingo nemmeno di provare a trattenere le lacrime. La cosa più odiosa è che tutto questo io lo so. L’ho sempre saputo, Bushido non è venuto qui a snocciolarmi verità sconosciute come il dio immortale che in realtà sospetto sia veramente. È solo venuto qui al momento giusto, nella cornice giusta, perfino con la giusta colonna sonora, per ricordarmelo.
- Sono veramente egoista, - sospiro, asciugandomi gli occhi, - vero?
- Sì. – risponde lui, sinceramente, - Ma dal momento che lo siamo tutti, almeno sei in buona compagnia. Tieni, - aggiunge poi, sollevando la bottiglia verso di me, - bevi. Ne avrai bisogno.
Obbedisco senza neanche chiedergli perché.
- Come hai fatto a trovarmi? – chiedo fra un sorso e l’altro. Bushido si limita ad indicare con un cenno del capo i due uomini vestiti di nero che mi sorvegliano attentamente dal molo. Poveretti, devono soffrire parecchio, con le cravatte annodate e le maniche lunghe. Chissà da quanto sono qui. – Lo sai, questo è stalking.
Bushido scrolla le spalle.
- Fammi causa. – butta lì, rubandomi la bottiglia. Gliela richiedo indietro pochi istanti dopo, e per molti minuti, finché non ne vediamo il fondo, restiamo lì in riva a bere e a lasciarci bagnare i piedi dalle onde.
*
Il motivo della bottiglia di whiskey lo capisco solo qualche ora dopo, intorno a mezzanotte. La festa, per la gioia di Bill, è stata splendida. Non è che mi abbia fatto dimenticare che sono depresso e che probabilmente mi chiuderò in una SPA per tutto il resto della prossima settimana per farmi massaggiare da giovani tailandesi finché non sarò ringiovanito abbastanza da poter mostrare nuovamente la mia faccia in pubblico, ma almeno è stato un modo piacevole per passare le ultime ore di questa giornata da cancellare con persone di cui m’importa, ed alle quali importa di me. La spiaggia era un luogo bellissimo, impersonale e rassicurante, ma in effetti il calore umano ha qualcosa in più rispetto a quello del sole. Quando capiranno cos’è e riusciranno a imbottigliarlo, scommetto che gran parte dei problemi del mondo potrà essere facilmente risolta.
Al momento, Chakuza è sdraiato a terra con un imbuto di dimensioni preoccupanti in bocca. Fler è disteso al suo fianco, e conta “uno! Due! Tre!” per ogni secondo che il suo nuovo marito riesce a passare in apnea bevendo birra bavarese che Eko Fresh versa direttamente nell’imbuto dalla spalliera del divano sul quale è appollaiato. Tom, che ha bevuto pure lui come un tacchino, è seduto su un divano, arrabbiato per chissà quale oscuro motivo, mentre suo fratello, ridendo come un deficiente per chissà che battuta, gli tira le treccine a casaccio.
Bill è raggiante. C’è come un alone di gioia e santità, attorno a lui. Praticamente vederselo passare di fronte è come avere una visione della vergine Maria quando era un’adolescente dark. O forse, appunto, è solo il whiskey ad aver reso più semplice una cosa complicata, più piacevole una cosa dolorosa. A volte anche fuggire così va bene, sapete, purché ci siano le braccia di qualcuno a tenerti ancorato a terra.
- Ehi. – mi saluta Bushido, il quale, con questo bicchiere di vino rosso che tiene in mano e il completo elegante che indossa, sembra quasi l’uomo serio che in realtà non è. Non potrò mai dimenticarmi che quest’uomo è venuto a recuperarmi su una spiaggia, al tramonto, portando con sé un walkman e i Lynyrd Skynyrd. – Tutto a posto?
- Direi di sì. – sorrido, accettando l’altro bicchiere di vino che mi porge, - Non sono già abbastanza ubriaco? – rido.
- No, sei ubriaco al punto giusto. – ride anche lui, e poi si sistema accanto a me, osservando la festa andare avanti con curiosità e divertimento, proprio come ho fatto anch’io fino ad ora. – Senti, - dice quindi, - lo sai qual è la cura per la malattia del non avere più vent’anni? – domanda.
Mi volto a guardarlo, inarcando un sopracciglio.
- Avere qualcuno che ce li abbia ancora. – ghigna lui. Io spalanco gli occhi. – Seconda stanza a destra al piano di sopra. – dice quindi, consegnandomi una chiave di ottone. – Va’ e riproduciti.
- Stai scherzando. – balbetto sconvolto.
Ma no, non sta scherzando. Ed ecco che il whiskey torna utile mentre scoppio a ridere, accettando di buon grado il suo gentile presente e lasciando che il giovanotto al piano di sopra mi aiuti a dimenticare quanti anni ho – e il mio nome, anche – prima di tornare a dormire.

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