Schwarze Seite

di tabata
Saad è morto da meno di cinque minuti e il mio cervello non ha ancora realizzato niente. Quando lo farà - e prego che sia tardi, molto tardi - probabilmente succederà qualcosa di imprevedibile. Se mi va bene me la farò soltanto addosso dalla paura, se mi va male farò una cazzata. Per questo spero di realizzare molto tardi, così magari Fler avrà finito di fare qualunque cosa stia facendo e sarà con me. Lui mi impedirà di farla, la cazzata. Lui la prevederà - qualunque cosa sia - e mi impedirà di farla prima ancora che io abbia capito di cosa si tratta.
Il corpo di Saad è riverso a terra, e la neve si sta sporcando di sangue. E' una poltiglia, fa schifo. E fa schifo anche lui, cazzo. Il viso è una maschera di sangue, anzi il viso non c'è. E tutto un casino. Penso che gli dovremmo rispetto, comunque, non tanto perché è Saad ma perché è un essere umano, cazzo. E non lo uccidi un essere umano e poi pensi che il viso che gli hai appena spappolato fa schifo. Eppure non mi riesce neanche guardarlo.
Fler si passa una mano su gli occhi, inspira ed espira e so che sta cercando di inquadrare la situazione. Io sono ancora confuso, lui sta già pensando a cosa dobbiamo fare. Le direzioni da prendere, i danni da arginare. Il suo cervello viaggia ad una velocità diversa dalla mia, e sarebbe fantastico se non fosse così mostruosamente preoccupante. Questi meccanismi mentali li ha perché in mezzo a questa merda c'è cresciuto e, se in questo momento mi serve che sappia cosa fare con un morto ammazzato, in generale non lo so se mi piace la sua praticità.
"C’è un mucchio di lavoro da fare," dice. E io penso, sì c'è un sacco di lavoro da fare. Però non so neanche immaginare di che lavoro stiamo parlando esattamente. Siamo qui con un morto, e io l'ultimo morto che ho visto era mio nonno e se l'era preso l'ictus non Bill con una colpo dritto in testa. Che poi, cazzo, Anis gli ha insegnato a sparare o lo ha trasformato in un fottuto cecchino? In mezzo alla testa, lo ha preso.
"Chaku, riportalo a casa," ordina all'improvviso. Io alzo lo sguardo e vedo che indica Bill. Il mio cervello ancora molto confuso se ne strafrega istantaneamente del morto e della polizia che probabilmente qualcuno avrà chiamato e che sarà qui prima che possiamo decidere un bel niente. Se ne frega di tutto, il mio cervello, e per un attimo penso che non lo porto proprio da nessuna parte. Bill lo guarda come lo guardo io. E non so se il terrore nei suoi occhi dovrebbe compiacermi o farmi del male. "Da Tom," precisa Fler alla fine. E lo fa con rassegnazione. Mi sento incredibilmente stupido di fronte a lui, e non me ne frega niente nemmeno di questo. I due unici pensieri che ho in testa sono Saad morto e Bill da riportare a casa. E si scornano fra di loro perché non c'entrano un cazzo l'uno con l'altro. In tutto questo io non ho ancora capito che ho ucciso un essere umano. Non ho sparato, ma è come se lo avessi fatto perchè se qualcuno me lo chiedesse, sarei stato io di certo. O anche Fler. Uno dei due, ma non Bill. Quindi sì, ho ucciso Saad. Solo che non me ne sono ancora accorto. "Gliel’abbiamo promesso un po’ tutti, che gliel’avremmo riportato presto."
Tom si aspetta che glielo riportiamo, possibilmente intero. Fisicamente ce lo abbiamo un gemello intero da ridargli, ma la testa non so come sta messa. Da fuori sembra star bene, ma anche io sembro star bene. Nella testa ho un gran casino, però. Annuisco a Fler e stringo la presa sulla spalla di Bill, lui abbassa la testa e mi segue. Non dice una parola.
Qua non è come a Templehof che è un fottuto labirinto di vicoli luridi e ogni volta che ne imboccavamo uno mi chiedevo se ne saremmo usciti. Il quartiere di Saad è un quartiere non proprio di lusso come quello dei gemelli, ma la gente sta bene qui. Hanno abbastanza soldi per avere cancelli automatici e case di cinque o sei stanze. Per avere un garage e un'auto. Che poi non parte.
Se penso che ci siamo quasi fatti due isolati di corsa sui tetti non so come mi sento. Da una parte l'adrenalina lo rende qualcosa di fico - abbiamo corso, dietro a Saad, sui tetti, di notte. Lo abbiamo preso, il bastardo. Dall'altra c'è sempre la sua faccia che è uno schifo e non so cosa Fler abbia intenzione di fare al riguardo. Quindi forse a me sarebbe bastato prenderlo, il bastardo. Prenderlo e basta. Niente sangue, solo adrenalina.
Bill non parla e cammina svelto, stringendosi nel piumino. Non so come si senta, non so se chiederglielo. "Bill..." inizio.
Lui solleva un po' la testa ed espira, e non so come interpretare quello sguardo che lancia di lato. "Sto bene." Annuisco prima ancora che si giri. Quando lo fa però l'espressione è dolce. "Davvero."
Non parliamo più finché non raggiungiamo la macchina, che è ancora parcheggiata vicino al palazzo dove vive Saad. C'è una luce accesa al quarto piano e non voglio sapere che camera sia. Non voglio neanche sapere con che faccia guarderò Greta la prossima volta che mi capiterà di incrociarla. La luce si spenge e vedo Bill che abbassa lo sguardo, infila in macchina senza un'esitazione e mi ghiaccia sul posto mentre metto in moto. La sua voce è fredda, ma calma. "Almeno lei non dovrà lavarsi le mani per ore nella speranza che il sangue scompaia," dice.
Partiamo in silenzio, e la mia macchina fa un rumore d'inferno. Mi chiedo dove sono, e con chi sono. Mi chiedo se non ci toccherà prenderlo al volo questo qui, domattina, quando si renderà conto. Ringrazio che Tom sia lì. Ringrazio che Fler sia qui; perchè da soli io e Bill non so cosa faremmo stanotte.
Il viaggio lo facciamo tutto in silenzio. Lui guarda dritto davanti a sé e tiene le mani in tasca. So che in una stringe ancora la Heckler e so anche che probabilmente mi staccherebbe la testa a morsi se gli chiedessi di lasciarla andare. Non mi piace che la impugni ancora, non mi piace nemmeno che l'abbia tenuta. Ora capisco cos'è successo il giorno dopo il funerale, che noi l'abbiamo cercata per ore in quella casa enorme. E Saad - dio... - era incazzato come una bestia perché non riusciva a trovarla e ha infamato chiunque urlando e sbraitando che da qualche parte doveva pur essere. L'abbiamo data per persa, e invece era logico che l'avesse lui. Era così logico che non c'ho neanche pensato. E lui non ha pensato di dirmelo, per altro.
Sono le quattro del mattino quando parcheggio nell'enorme parco macchine del palazzo dove vive Tom. Anche la sua luce è accesa e ci sta aspettando. In pratica ci viene incontro nell'atrio prima ancora che prendiamo l'ascensore. Suo fratello mette piede nel palazzo e lui lo stringe a sé - lo ingloba - senza lasciargli il tempo di fare niente. "Stai bene," esala e socchiude gli occhi. Glielo si legge in faccia che ha pensato di tutto. Vedo Bill rilassarsi in quella stretta, lo vedo proprio sciogliere i muscoli e quando gli affonda il viso nel collo capisco che per stanotte va tutto bene. Da Tom non si allontanerà.
Entriamo tutti e tre nell'ascensore. Io non so perché li sto seguendo, probabilmente perché non so dove altro andare. Una parte di me vorrebbe ancora che Bill si staccasse da quella maglia enorme e si attaccasse alla mia felpa, come la notte in cui Bushido è morto. Vorrei che avesse bisogno di me, questo mi darebbe un motivo per fare le cose stanotte.
"Cos'è successo?" Chiede il biondo, e guarda me.
Faccio per aprire bocca, anche se non so che cosa dirgli, ma Bill mi precede. "Lo abbiamo trovato," dice, e il modo in cui struscia il naso contro il collo di suo fratello mi fa venire i brividi. E non voglio sapere di cosa. "E' morto."
"Morto?" La voce di Tom schizza due ottave sopra in maniera quasi ridicola. Cerca di scostarsi Bill di dosso per guardarlo in faccia ma Bill si tiene tenacemente a lui e gira il viso, nascondendolo al fratello e a me.
"Se qualcuno te lo chiede, Bill è sempre stato qui," intervengo io. Tom sgrana gli occhi e sussulta.
"Che cazzo avete combinato?"
"Niente," io e Bill lo diciamo insieme. E sono io ad insistere. "Lui era da te, e dormiva."
Tom è agitatissimo, quando le porte dell'ascensore si aprono guarda fuori come se si aspettasse di trovarci chissà cosa. Esala di continuo, e mi guarda e poi guarda Bill e so che vorrebbe dire qualcosa ma non sa esattamente cosa.
Una volta dentro casa, decide di essere arrabbiato. "Lo avete messo in pericolo," sibila nella mia direzione. Ha fatto sedere Bill sul divano ma, dal momento che Bill non lo lascia, si è dovuto sedere anche lui.
"Tomi, no..." arriva da Bill.
"E' sempre stato con noi," rispondo.
"Appunto," è furioso ed è spaventato. Una combinazione che condivido con lui stasera. Odio non potermene occupare io come ho fatto fino a qualche settimana fa e ho paura per tutti qui. E anche per quello che ho lasciato in mezzo alla strada a fare solo lui sa cosa. "Saad è morto," abbassa la voce. "Mio fratello non doveva essere lì."
Bill solleva la testa, ma continua a stringerselo contro. "Tomi, ti prego," chiede con un filo di voce stanchissima. "Ti prego. Non adesso."
"Bill-"
"Tomi," questa volta lo guarda e io non saprei dire esattamente a cosa sto assistendo. Riconosco quell'autorità nella voce di Bill, l'ha usata spesso. La usava anche quando Bushido era vivo, quando si era preso confidenza con noi. Che certe volte, nei giorni di partita, ci presentavamo tutti alla casa gialla e lui ci diceva di andare nell'altra sala a guardarla, che lui stava già guardando un dvd sulla tv al plasma. Ce lo diceva con quel tono lì, che di severo non ha nulla ma c'è tutto un mondo dietro. E noi cambiavamo stanza, più per lui che per Bushido ormai. Quanto rideva, Atze.
Solo che non è solo il tono, è anche il modo in cui lo guarda che è strano, e mi rendo conto che non l'ho mai visto quello sguardo lì. Mi disturba più di quanto dovrebbe, temo.
Tom però annuisce. "Ne parliamo domani," dice. E in quel momento mi suona il telefono.
Fler al telefono non è mai piacevole, neanche in situazioni normali. E' uno a cui le cose piace dirtele in faccia, che usa il telefono solo se deve darti appuntamento e quindi parla il minimo indispensabile. In questo frangente, è anche peggio. "Chaku?"
"Sì?"
"Bill è a posto?"
Istintivamente guardo Bill e lui guarda me. "Sì," dico ancora. "Siamo qui da suo fratello."
"Allora muoviti, ho bisogno di una mano."
"Cosa pensi di...?"
"Cazzo, vieni e basta." Mi aspetto che riattacchi senza salutare come fa di solito ma sento che esita. "La Heckler deve sparire."
E' il mio turno di stare zitto.
Lui sospira. "Spiegagli che non può tenerla lui, che nessuno di noi può. Capirà, le capisce queste cose."
Come prevedevo riattacca senza dire nient'altro. "Tom, credo che tuo fratello abbia bisogno di qualcosa di caldo," commento mentre mi rimetto il telefono in tasca.
Lui vorrebbe ammazzarmi ma si alza, forse perché non è una cattiva idea quella di fare un po' di camomilla, anche se è una scusa. Gli sorrido incoraggiante e lui si allontana con il consenso del gemello.
"E' mia," mormora Bill, non appena rimaniamo soli. Non so se ha sentito Fler o se pensava già che qualcuno gliel'avrebbe chiesta. Non si è levato il piumino ma vedo comunque la sua mano che stringe l'arma nella tasca.
"Dobbiamo farla sparire," dico con calma e mi sento in un film poliziesco. Queste sono cose da Fler, io non sono capace di dirle. "Lo sai anche tu che adesso è pericoloso."
Mi guarda a lungo con quegli occhi allungati e strani che cambiano sempre colore a seconda della luce. Sono color cioccolato adesso, ben più scuri del solito. Alla fine apre e chiude le ciglia un paio di volte prima di estrarre l'arma dalla tasca e appoggiarla sul mio palmo teso, coperto da un fazzoletto. Pesa tantissimo, più di quanto sembri, e suona sbagliata perfino nelle mie mani, figuriamoci nelle sue. "Grazie," dico.
Lui non dice niente, ma la osserva con attenzione mentre la copro con i lembi del fazzoletto e me la infilo in tasca, come se non volesse perderne neanche un dettaglio.
Tom rientra con una teiera e qualche bicchiere. "Non ho tazze," si scusa con una scrollata di spalle.
"Devo andare," annuncio, alzandomi. Bill mi segue con lo sguardo e all'improvviso vedo quanto sia stanco. Ha lo stesso sguardo solo e perso di quando a casa mia passava le notti a piangere sul pavimento del bagno.
"Peter?"
"Sì?"
C'è una lunga pausa di silenzio, carica di centinaia di cose che sono l'inizio di questa storia, e l'inizio della nostra storia e di quel pomeriggio maledetto in cui l'ho toccato. Questo silenzio è fatto di cose che appartengono a questa notte e di tutte le bugie che racconterà a suo fratello e a se stesso per superarla. Sento in bocca il sapore di parole che avremmo dovuto dirci e che rimarranno in questo silenzio per sempre perché non abbiamo avuto né il tempo né il coraggio.
Alla fine piega un po' gli angoli della bocca in un minuscolo sorriso. "Grazie."
"Di niente, Principessa."

*



Quando torno da Fler, lui è da solo in mezzo al vicolo dove io e Bill lo abbiamo lasciato. Mi fa specie dire che è solo, come se quando me ne sono andato fosse stato lì con qualcuno. I cadaveri non contano, immagino. Questa volta parcheggio più vicino, tanto che ci metto neanche due minuti a raggiungerlo e lo trovo seduto sulle scale antincendio che si è fatto di testa.
La ferita, per altro, gli perde ancora sangue. "Devi andare al pronto soccorso," esordisco, fermandomi di fronte a lui.
"Dopo," dice lui sbrigativo. "Prima dobbiamo occuparci di lui."
Lui è quello che posso solo supporre sia il corpo di Saad avvolto in un telo, che ora giace appena dietro la scala antincendio, all'ombra.
"Il telo dove lo hai trovato?" Chiedo sconvolto. O forse sono sconvolto perché non è davvero possibile che io sia qui nel cuore della notte pronto a trasportare un cadavere chissà dove. Io volevo fare il cuoco.
"Tra i cassonetti," risponde, intanto che si alza e afferra Saad per i piedi. "Forza, prendilo dall'altra parte."
Non mi muovo. "Aspetta, cosa stiamo facendo?"
"Lo stiamo mettendo nella tua macchina," risponde e tira su.
"Fler è follia! Non.. non possiamo prendere e caricarlo in macchina! Per far cosa poi? Buttarlo nel canale di Templehof col favore delle tenebre?"
Lui non fa una piega. Dio non fa una piega! Perché non fa una piega? Anzi mi guarda e fa un cenno del capo quasi impercettibile. "Questa era più o meno l'idea. Ora, per cortesia, vorresti tirarlo su dall'altra parte?"
Obbedisco e non so nemmeno perché lo faccio esattamente. E' probabile che la mia decisione dipenda dal fatto che se mi sembra assurdo buttarlo nel canale, mi sembra assurdo anche lasciarlo dietro una scala antincendio e intanto che capisco cosa fare posso pure caricarlo in macchina. Ma cosa sto dicendo?
In strada non c'è ancora nessuno, il che è una fortuna perché Saad è alto più di un metro e ottanta e pesa non so più nemmeno quanto quindi non facciamo che fermarci e stringere meglio la presa sul telo lurido con il quale lo trasportiamo.
Lo gettiamo nel baule, e non vorrei ma lo facciamo perché pesa, mi fa schifo e perché Fler non ha garbo. Lo tratta come fosse un sacco. Quando Fler chiude la bauliera gli chiedo stupidamente per quale motivo lo abbiamo infilato qua dentro.
"Vorrei evitare di avere un cadavere disteso sul sedile posteriore nel caso ci fermassero, tu cosa ne dici?" Risponde, e fa per salire in macchina. In effetti non ha tutti i torti.
"Credi che ci fermeranno?" Chiedo, e suono più spaventato di quello che vorrei.
Fler si stringe nelle spalle e mette la cintura, che per uno che ha appena infilato un cadavere nella mia bauliera con l'intenzione di disfarsene in un canale è un bell'accorgimento, ecco. "Sono quasi le cinque, quindi direi di no," ragiona. "Ma è meglio essere prudenti. Dobbiamo pure darci una mossa, tra poco non sarà più tanto buio."
Guido e sto in silenzio e per un po' mi sembra anche che per stanotte non ho fatto altro che guidare e stare in silenzio. E gli avvenimenti di qualche ora fa sembrano questioni di mesi e di anni fa. Di Saad ho una visione già sfocata. Continuo a pensarlo vivo eppure coscientemente so che è accartocciato nella mia bauliera e tutto questo è assurdo.
Una volta a Templehof parcheggio nei pressi del canale che è avvolto nel solito buio e ha sempre lo stesso fetido odore. Quando Fler diceva che Templehof era un posto schifoso ma che finivi per tornarci sempre, non lo capivo. Non capivo come si potesse voler rientrare in un ghetto del genere, dove la cosa meno pericolosa che ti può capitare è che qualcuno ti apra un sorriso da un orecchio all'altro con un coltello di venti centimetri. Ora, però, mi è tutto più chiaro. Templehof è un rifugio e com'è bravo ad ammazzarti è bravo anche a nasconderti, a coprirti, a farti sparire quando ti serve che il mondo là fuori, quello "a posto" non sappia di te. Come stasera. Non avrei mai pensato di dirlo, ma Templehof è tutto quello che spero ora: un posto che ci permetta di liberarci di Saad e tornare a casa. E dimenticare, credo. Non so se si possa.
In giro non c'è nessuno, qui meno che altrove, anche se ho imparato che da queste parti si trova sempre il modo di sapere le cose. Siamo sulla strada, appena sopra il canale e in questa zona franca tra la notte e l'alba, l'acqua sembra nera e compatta come pece. Fler scende dall'auto prima di me e quando lo raggiungo ha già aperto il bagagliaio e sta trascinando fuori Saad reggendolo per i piedi. Tira e non faccio in tempo a dargli una mano, il cadavere scivola fuori e guardo con orrore la testa del libanese che segue tutto il resto del corpo e si schianta in terra con poca grazia e un suono sordo - tipo un THUD - che mi immagino quello che c'è dentro al sacco, e mi sale la nausea. Fler sembra che non faccia una piega. "Ci servono delle zavorre," commenta con aria critica. "Ne hai qualcuna in macchina?"
"Zavorre?" Esclamo e non so se la veda l'atrocità della cosa. Se non la vede abbiamo un problema perché significa che per lui è normale e non voglio che pensi che sia normale. "Fler è un'auto! Ci vado in centro a Berlino con questa, ti pare che mi servano le zavorre?"
Quello che mi colpisce di più di Fler, stanotte, è che non ha nessuna reazione e il suo non cambiare espressione rasenta l'apatia. Il suo cervello è tutto concentrato nel trovare soluzioni, tant’é che ha già pronta un'altra possibilità. "Ci basta la ruota di scorta," esclama. "Ce l'hai la ruota di scorta?"
Io sono talmente stordito che ci penso anche. "Eh? No, l'ho usata l'anno scorso e non ce l'ho più rimessa."
Impreca e fa un gesto di stizza. "Cazzo Peter, sei un danno davvero!" Se la prende con me come se fosse colpa della mia ruota di scorta mancante. "Non hai neanche quella vecchia? Basta il cerchione."
Scuoto la testa.
"Ok, d'accordo, ora cerchiamo qualcos'altro," parla da solo. Alla fine lo vedo che si mette a scrutare il mio bagagliaio e un po' mi preoccupo. Faccio bene, d'altronde. Non conosco Templehof ma conosco un po' lui e lo so come ragiona. S'infila nel bagagliaio alla ricerca di qualcosa e ne esce fuori trionfante con il cric in mano. Me lo passa e io lo prendo meccanicamente. "Smonta il portellone. Ce lo distendiamo sopra e poi lo leghiamo, dovrebbe bastare," mi dice.
"Cosa?" Lo guardo con le braccia lungo i fianchi, e le spalle un po' cadenti. Il cric mi tira i muscoli della spalla in questa posizione ma non ci faccio caso. "E' la mia macchina, non smonto proprio un bel niente."
"Andiamo, è un catorcio!" Insiste. "Te ne compro una nuova."
Lo guardo malissimo. E' la mia macchina. Il mio catorcio. E, per la cronaca, ho un sacco di ricordi legati a questa macchina. Non voglio smontarla. "Fler tu sei fuori," commento.
"Ci serve qualcosa di pesante perché resti giù."
"Allora perché non lo abbracci e ti butti in acqua?" Replico.
Lui non si abbassa neanche a rispondermi a tono. "Smonta il portellone," ripete. "Io cerco una corda su uno dei barconi giù al canale."
Si allontana senza darmi nemmeno il tempo di rispondere e io rimango lì con Saad avvolto nel suo telo lurido. Mi chiedo se qualcuno sentirà i colpi del cric. Siamo piuttosto distanti dalle abitazioni ma immagino che in questo silenzio perfetto, rotto solo dagli uccelli che gracchiano sopra la mia testa, io che prendo a mazzate il portellone della mia macchina non passerei molto inosservato. Così decido che posso tirare due colpi alle giunture e vedere se si allentano. In effetti la macchina non è in buone condizioni: ha più di sei anni e l'ho comprata usata che già ne aveva tre, però ovviamente le giunture non cedono di un millimetro. Tiro un altro paio di colpi che per altro riecheggiano pure e quindi decido che così non va. Contemplo la mia macchina per qualche istante prima di rendermi conto che c'è un unico modo.
Quando Fler ritorna, con 3 metri di gomena arrotolata intorno ad una spalla, mi sto schiantando in retromarcia contro il muro di una piccola rimessa.
Lo vedo che sgrana un po' gli occhi mentre il portellone impatta contro la parete del casottino con un clangore tremendo. L'auto sobbalza e gira a vuoto mentre il portellone preme contro il muro e le ruote stridono.
"Cosa stai facendo?" Mi chiede lui, affiancandosi alla mia portiera aperta.
"Secondo te?" Replico e in quel momento il portellone si sganghera. Faccio appena in tempo a fermare la retromarcia evitando di schiantarmi con il resto dell'auto contro la rimessa che il portellone è in terra, divelto. Spengo l'auto.
"Visto?"
Fler mi guarda malissimo. "Perché non fai un po' più di casino, già che ci sei?" Mi sibila a bassa voce, raccogliendo di terra il pezzo di lamiera. "Dammi una mano, muoviamoci."
Stendiamo a terra il portellone e ci issiamo sopra Saad che sta albeggiando. Fler mi passa la corda mentre sistema bene il telo in modo che non si apra. "Fai passare la corda sotto la lamiera e stringi bene il nodo."
Io obbedisco ma mi passa per la testa un pensiero che forse avrebbe dovuto colpirmi prima, più o meno quando ho visto che lo aveva avvolto nel telo. "Queste cose le fai spesso tu?"
Non mi risponde ma riesce a congelarmi solo con lo sguardo. Mi pianta in faccia quei suoi occhi azzurrissimi, duri e freddi, e io mi rifiuto di leggerci dentro perché non voglio sapere. In qualche modo mi viene da pensare che a sapere proprio tutto quello che Fler nasconde poi sarebbe difficile accettarlo. Alle volte è meglio non sapere e basta. Giro di nuovo la corda intorno al corpo ma più in basso, all'altezza delle ginocchia. "Credi che gli avesse insegnato a sparare per questo?"
Lui rimane in silenzio così a lungo che finisco col credere che non mi abbia sentito, poi però si stringe nelle spalle e sbuffa una risata. "Se conosco Anis l'avrà fatto dicendogli qualcosa, tipo, che era necessario che lui le sapesse, queste cose... però forse sì. Pare che abbia dato un ruolo a tutti, in questa storia, prima di morire."
L'occhiata che mi lancia faccio finta di non sapere a cosa sia riferita. Non mi piace che si sia reso conto e non mi piace che mi ricordi che ruolo ho, io, visto che palesemente ho fatto un casino dopo l'altro.
“Cosa succederà, ora?” Cambio discorso. Cambio domanda. Ho bisogno che mi parli, e che mi dia soluzioni.
“Denunceranno la scomparsa e non lo troveranno,” Fler non mi guarda, continua a controllare bene i nodi. “Sai quanti ne sparisce al giorno?”
“Sì ma non era un senza tetto,” gli faccio notare. “Era Baba Saad e Greta sa che eravamo lì per farlo fuori.”
Fler rimane in silenzio un po’ più a lungo. “Quella donna sa solo che ce l’avevamo con lui,” dice alla fine. “Saad, però, ci ha seminati quasi subito. Eravamo troppo lenti.”
“Ha visto Bill.”
“No, non lo ha visto e neanche noi,” insiste Fler, “perché lui era con Tom.”
Mi rendo conto che nel tragitto che abbiamo fatto per venire qui deve aver pensato a tutto. Forse ci pensava da prima, in ogni caso continuo a credere che ci siano troppe incognite. “E se…”
“Quando siamo arrivati, lo stava coprendo,” mi interrompe. “Questo significa che sapeva perfettamente perché eravamo lì. E sapeva anche che prima o poi saremmo arrivati. Non parlerà, perché dovrebbe spiegare troppe cose. E in ogni caso non ha prove.”
Greta, in effetti, non può provare niente, tranne forse che quella notte siamo arrivati a prelevare suo marito. Nient’altro. Quello che è successo dopo è un segreto che io, Fler e Bill ci porteremo nella tomba. Voglio fidarmi di Fler perché finora non mi ha mai deluso, e in ogni caso non ho molte altre alternative. Ormai ci sono dentro, direi.
Alla fine tiriamo su di peso quella specie di lettiga e cerchiamo un punto dove lanciarla. L'ideale sarebbe avere una barca e portarla a metà canale dove l'acqua è più profonda ma non abbiamo né i mezzi né il tempo per farlo. Così scegliamo un punto in alto, nei pressi del porto, e lo lasciamo cadere. Seguo il volo oltre il parapetto e vedo il corpo e la lamiera che carambolano in aria prima di infrangere lo specchio d'acqua con un suono tutto sommato ovattato, per via della superficie ghiacciata. Non rimaniamo a guardare l'acqua che torna calma sotto il foro creato dal nostro lancio, ce ne andiamo subito via. "Dobbiamo ancora riportare la Heckler a casa di Anis," dice Fler.
Questa è la notte più lunga della mia vita.

*



La villa di Bushido è una specie di maniero giallo limone, tutto quadrato col tetto a spioventi e una serra all'ultimo piano che non è altro che il segno più smaccato lasciato dall'eccentricità di quell'uomo. In realtà, se aveva tempo, qualcosa ci coltivava ma perlopiù serviva a far colpo sulle ragazze che si portava a casa. Prima che arrivasse Bill, naturalmente. Dopo il suo arrivo, le piante aveva iniziato a farcele crescere davvero, che tanto quella sala enorme, con il lucernario e l'atmosfera romantica non poteva più usarle e su Bill non facevano più molto effetto.
La casa, a dire il vero, è sempre stato troppo grande per lui solo e la sua governante tunisina ma era perfetta come ritrovo per la crew, così finivamo sempre per organizzare le cose nel suo salotto che era una specie di piazza d'armi. Ci abbiamo passato le giornate dentro a giocare ai videogiochi o a guardare la partita. Alle volte ci lavoravamo anche.
"Io però non ho le chiavi," dico non appena usciamo dall'auto. "Le aveva Saad."
"Scavalcheremo il cancello," conclude subito lui.
Lo fermo prima che si arrampichi e indico con un cenno della testa. "Non da qui. Sul fianco della casa c'è un muretto dal quale poi è facile oltrepassare la cancellata. Bushido ha sempre detto che lo avrebbe buttato giù ma poi non lo ha mai fatto."
Fler mi segue senza protestare. Una volta dentro, ci guardiamo intorno. "Dovremo rompere una finestra," commenta pratico.
"Non ce ne sarà bisogno. La porta della cantina cade a pezzi, basterà tirargli una spallata."
Lui mi guarda, poi fa quel mezzo sorriso triste che gli vedo ogni tanto. "Si può sapere perché hai tirato fuori quella storia della chiave, allora?"
"Sarebbe stato più comodo," rispondo mentre percorriamo il vialetto sul retro della casa, "ma Bushido ne aveva distribuita solo una copia."
"E Bill?"
"Due copie," mi correggo, mentre testo la maniglia della vecchia porta in ferro che, come ricordavo, è fuori sagoma. Tendo a dimenticare che Bill ha le chiavi di questa casa, così come ce ne dimenticavamo quando Bushido era vivo. E' successo più di una volta che fossimo già tutti lì per qualche motivo a caso e che nessuno avesse avvertito lui che noi c'eravamo. Ho ricordi molto vividi di momenti discretamente imbarazzanti. Faccio presa sulla maniglia, quindi assesto una spallata secca alla porta che quasi mi rimane in mano.
"Bushido non era cambiato poi molto," commenta Fler, mente mi segue all'interno. Tasto il muro per trovare gli interruttori. "Gli piaceva avere sempre la sua corte intorno. Quando eravamo ragazzini sua madre l'abbiamo fatta impazzire. Eravamo sempre tutti lì buttati a casa sua..."
Non fatico ad immaginarlo, era esattamente questo che eravamo: una corte. Il Re e la Principessa c'erano dopotutto. E anche il nemico che, come in ogni buon film che si rispetti, non è mai estraneo. Mai dall'esterno. E nessuno di noi se n'è accorto. Ci vuole un attimo perché le ultime due ore mi ritornino in mente, e mi stupisco della facilità con la quale il mio cervello finga di ignorarle.
Gli faccio strada attraverso i meandri di questa villa enorme. "Dov'è la camera da letto?"
"Quella patronale è al secondo piano."
Lo sento emettere un suono di gola, una specie di grugnito e gli rivolgo un'occhiata interrogativa.
"Niente, lascia perdere. E' che mi fa specie che tu conosca questa casa tanto bene," mi liquida con un gesto della mano e riprende il discorso. "Ad ogni modo, se mi ricordo ancora qualcosa di Anis, scommetto che la teneva nel cassetto del comodino."
"Così l'aveva sempre sotto mano, immagino."
Annuisce. "L'hai pulita?" Mi chiede poi, e tende la mano.
Tiro fuori la Heckler dalla tasca del giubbotto e gliela porgo, ancora avvolta nel fazzoletto. "Solo un po'."
Lo vedo che procede a rimuovere ogni possibile impronta. Quando apro la porta della camera da letto, troviamo la stanza come l'ho vista l'ultima volta: un campo di battaglia con tutte le antine spalancate e i cassetti aperti.
Fler si guarda intorno. "Cos'è successo qui dentro? Un uragano?" Chiede, mentre usa un lembo della felpa per aprire il cassetto del comodino.
"No, noi che cerchiamo la pistola."
Fa un altro di quei sorrisi spenti. "Il ragazzino vi ha fregati per bene. Anis sarebbe orgoglioso," commenta. Quindi richiude il cassetto. "Io qui ho finito."
Annuisco mentre fuori albeggia. Quando i primi raggi di sole filtrano attraverso le tende tirate e disegnano una striscia sul letto sfatto, mi prende l’ansia. Voglio che usciamo fuori di qui, il prima possibile. "Andiamo."
Mi segue fuori dalla villa e aspetta che abbiamo scavalcato di nuovo il cancello prima di chiedere: "Ti dispiace riportarmi a casa? Sono stanco di andare a piedi."
“Non resti da me?” La domanda mi esce di bocca prima ancora che l’abbia pensata e mi do mentalmente dell’imbecille perché non ho tredici anni, ne ho ventisette e dovrei sapermi controllare. Soprattutto, dovrei poter evitare di sentirmi deluso se un altro uomo non vuole dormire con me. Da me. Al diavolo, chi sto prendendo in giro? La verità è che in una notte di merda come questa ho bisogno di lui più che in ogni altra notte di merda che abbiamo passato.
“...non mi pare il caso,” biascica appena, mentre saliamo sull’auto che adesso ha una bella presa d’aria sul retro e fa un freddo cane. “E poi non sei stanco? Vorrai pur dormire tranquillo nel tuo letto.”
Mi tiro su il colletto del giubbotto, incassando la testa nelle spalle mentre metto in moto. “C'è posto per due nel mio letto. Non dobbiamo necessariamente scopare, Fler,” dico secco.
Mentre mi avvio sulla strada lo vedo che si agita imbarazzato. Non credo lo imbarazzi la parola scopare, quindi suppongo che il problema sia scopare con me. Il che a conti fatti dovrebbe essere un problema anche per me; ma non me ne frega niente. Non stasera. Qui, in quest’auto, stanotte, la mia più grande preoccupazione dovrebbe essere che ho ucciso un cristiano, l’ho legato ad un portellone e l’ho gettato in un canale, ma così non è. Evidentemente le mie giuste priorità sono andate tutte a fanculo durante il corso degli ultimi quattro o cinque mesi. Vorrei poter dire che è tutta colpa di Bushido, ma un morto profanato basta e avanza per stanotte. Intanto Fler sta parlando e io mi sono perso a conversare con il mio cervello. “Sì, lo so,” dice incerto. “Ma non è il caso che resti e basta, credo.”
I semafori sono ancora tutti spenti, passo con attenzione un incrocio. “E' tardi, e dovrei fare due viaggi. E poi mi fa piacere.“
“Sì, anche a me farebbe...” comincia, ma poi scuote il capo. “Non puoi riportarmi a casa e basta? Non scompaio, giuro.”
Non rispondo subito perché quello che vorrei dirgli non è contemplato. Quindi svolto altre due volte prima di scendere a patti col cervello che non ne può più – sono stremato – e ammettere l’unica cosa che non era il caso di rendere nota. “E' stata una nottata di merda, pensavo fosse meglio non passare quello che ne resta per i cazzi nostri”, non lo guardo. Cambio marcia e controllo la strada. “Comunque, come vuoi.”
Sto imboccando la strada per casa sua quando lo sento bisbigliare quel: “D’accordo.” E poi subito dopo aggiunge, “Tanto dovevamo comunque fare un’altra fermata ed è più vicina a casa tua.”
Ormai non chiedo neanche più. Mi fa girare per una serie di stradine fino a casa di Dio e quando finalmente ci fermiamo, lo facciamo di fronte ad una rimessa che cade a pezzi più della mia macchina.
“Cosa ci facciamo qui?” Chiedo, sbattendo la portiera che se non le dai un gran colpo non si chiude. Fler infila una mano nella tasca dei pantaloni e ne tira fuori un mazzo di chiavi enorme. Ne sceglie una a colpo d'occhio e quindi si china ad alzare la saracinesca che sopra ha uno di quegli enormi disegni fatti con le bombolette spray.
"Ci mettiamo la tua auto," risponde. Segue con il braccio alzato la saracinesca finché non è quasi tutta su e poi quella segue i binari e scompare all'interno del muro. "Non possiamo lasciarla in giro in questo stato. Domani, con calma, vedremo come disfarcene." La rimessa è poco più larga della mia macchina, e sulla parete di fondo sono stipati quintali di oggetti alla rinfusa. Anche i muri interni sono pieni di murales.
"Che posto è?"
"Mi serviva quando spacciavo," mi dice, mentre sposta scatoloni polverosi pieni di chissà cosa. Li ammassa tutti in fondo. "Ci tenevo la roba. Anis lo usava come magazzino."
La notizia non la registro nemmeno, un po' perchè ora come ora non è poi così eclatante e un po' perché dei murales ho sempre avuto l'idea che fossero solo un modo molto complesso di scrivere offese sui muri. L'equivalente elaborato delle parolacce sulle porte dei bagni pubblici, insomma. Invece questi disegni sono bellissimi e me ne accorgo anche io che non sono un critico d'arte. "Li hai fatti tu?"
Fler si gira solo un istante. "Sì," dice sbrigativo. "Metti la macchina dentro, comincia ad esserci gente."
Mezz'ora dopo stiamo finalmente aprendo la porta di casa mia e credo di non averle mai voluto così bene. Fler mi segue senza dire una parola, chiude la porta e si toglie il giubbotto e la felpa con un grugnito più che un vero lamento. Quando tocchiamo il letto, inizio a sentire il peso della notte appena trascorsa. Scivolo sotto le coperte che sono così incredibilmente soffici da commuovermi. Guardo il soffitto che quasi non si vede nella penombra delle tende tirate. Berlino si è svegliata, sento i rumori, ma sono lontanissimi ed irreali. So solo chi sono e dove mi trovo, e non sono sicuro nemmeno di quello, tutto il resto non mi riguarda.
So che la scomparsa di Saad avrà delle conseguenze e che ci sarà un’inchiesta.
Fler si è appallottolato tutto sul suo lato - è strano dirlo di lui che non è esattamente piccolo - e mi dà la schiena. Quello che faccio mi viene istintivo: rotolo su un fianco e lo avvolgo in un abbraccio. Sento che si irrigidisce, come lo avessi colto di sorpresa, ma poi si rilassa e il suo corpo è scosso da un brivido.“Fler?” Mormoro, incerto.
“Hmn?”
Lo stringo di più perché qualcosa non va e il vago tremolio della sua voce mi fa pensare a cosa che probabilmente lui non vuole che veda. Non mi solleverò a controllare, so che queste lacrime deve piangerle per conto suo. “E’ finita,” dico soltanto e appoggio appena le labbra sulla sua spalla nuda.
Rimane in silenzio, poi lo sento annuire. “Già. E’ proprio finita.”

Bookmark and Share

Gorgeous Waves Of Sorrow

di lisachan
Allora, la cosa è andata così: stavo cercando di scrollarmi di dosso Chakuza, quando prende e mi squilla il cellulare. Il mio cellulare non squilla quasi mai perché tutti sanno che odio usarlo per parlare. Preferisco che mi si mandi un messaggio in cui mi si dice “fatti trovare lì alla tale ora”, ed io eseguo. Ma stare lì a discutere mi scazza a livelli profondi, perciò non mi chiama mai nessuno, con l’eccezione di mia madre per ovvi motivi e di Chakuza, che però, al più, mi dice “mbe’?” quando non sono già a casa sua per le nove massimo.
Comunque mi squilla il cellulare ed io sono schiacciato fra Chakuza e il suo armadio, perché la cosa è cominciata con lui che mi dice “okay, devo fare il cambio stagione, dammi una mano”. Ora, era palesemente una scusa, perché Chakuza ha un solo armadio e ci tiene dentro tutto, dalle maglie alle felpe ai jeans ai numeri di playboy, quindi cambio stagione il cazzo. Però io sul momento non ci ho pensato, il cambio stagione è una cosa normale, in fondo. Gli ho detto solo “ma a Natale?”, e lui ha risposto “non è ancora Natale”, ed era vero, in effetti, perciò amen.
Quindi, in sostanza, io qui ho lo spigolo dell’anta che mi pressa proprio nel centro della schiena e Chakuza tutto pressato addosso davanti, e palesemente sento squillare il cellulare per miracolo, perché fra il dolore e tutto il resto non è mica semplice. Comunque lo sento, e infilo una mano in tasca a dispetto delle dita di Chakuza che mi si stringono immediatamente attorno al polso, nel vano tentativo di fermarmi.
Peraltro, la scena è ridicola perché io sono qui che mi rifiuto di baciarlo da almeno mezz’ora, eh. Cioè, io l’ho baciato lì, nel canale, a Tempelhof, e dopo non l’ho più fatto e non intendo riprendere adesso. Contando poi il fatto che Sido mi ha chiesto se mi va di accompagnarlo in tour quando partirà, l’anno prossimo, e che quindi ho una possibilità effettiva di andarmene in modo che sembri normale, non intendo ricadere in qualche brutta abitudine.
Quindi niente, lui ha provato un po’ a baciarmi, ma visto che io continuavo a girarmi e dire “no”, “piantala” e via discorrendo, a un certo punto s’è arreso ed è passato al piano B, che generalmente è prendermi per sfinimento. Prendermi per sfinimento vuol dire infilarmi una mano nei pantaloni e posare le labbra… ovunque, tipo. Come ci riesca è un mistero, fatto sta che ci riesce, lo sento ovunque quando fa così, ed è un dramma, sul serio, continuare a dire no in queste condizioni. Lui lo sa, peraltro, certe volte lo vedo uscirsene con certi ghigni che mi viene voglia di dargli uno scappellotto e fargli volare il cappellino borbottando “abbassa un po’ la cresta”. Non lo faccio perché in genere ha ragione a ghignare, io cedo.
Stavolta, però, squilla il benedetto cellulare, e malgrado i suoi sforzi io riesco a recuperarlo e tirarlo su all’altezza del viso, per vedere almeno chi è.
Il display recita “numero privato”. Io non rispondo mai ai numeri privati. Se già non ho voglia di parlare con amici e parenti, figurati se ho voglia di stare a sentire un Cristo qualsiasi che chissà da chi ha avuto il mio numero e si sente in vena di dirmi roba, chiedermi favori o sa Dio solo cos’altro. Non esiste. Quindi no, in genere non rispondo. Stavolta, però, ho decisamente bisogno di una scusa per scrollarmi di dosso Chakuza, anche perché quella mano là sotto mi sta facendo impazzire e lui si sta strusciando da abbastanza tempo per essere già abbondantemente perso, quindi se qui non prendo in mano la situazione – possibilmente senza che questo mi porti a prendere in mano lui – finisce male.
Insomma, poggio il pollice sul tasto verde e Chakuza mi solleva addosso un’occhiata stile “ma fai sul serio?” cui rispondo spintonandolo malamente lontano da me. Solo che ha la mano incastrata nei miei jeans, quindi si allontana tipo trenta centimetri e poi il braccio lo tira e me lo ritrovo di nuovo schiacciato contro, mi dà pure un colpetto involontario sulla pancia, al che io faccio un verso tipo “ahuff” e lui ride. Gli do un pugno nel mezzo del petto e lui continua a ridere, massaggiandosi il punto dolorante, ed io approfitto dell’ilarità momentanea per rispondere.
Quello che sento dopo aver detto “pronto?” mi turba un po’. Non per altro: a parte mia madre, non mi chiama una donna da… be’, mesi, tipo. Perciò boh, mi fa un effetto strano sentire questa voce calma e gentile dall’altro lato della cornetta. Tant’è che faccio una smorfia allucinata e Chakuza mi guarda, inarcando interrogativo le sopracciglia. Io sollevo due dita per dirgli di far silenzio, mentre quella, dal telefono, mi fa “parlo col signor Losensky?”. Una donna che mi chiama Losensky è, tipo, una cosa mai sentita prima dai tempi della scuola. Ma sul serio. Ci resto un po’.
- Sì, sono io. – rispondo quando riesco a raccogliere abbastanza lucidità, - Scusi, con chi parlo?
- Sono Greta… - risponde lei. Faccio l’elenco delle groupie del mio periodo di gloria, tristemente defunto quattro o cinque mesi fa. Non mi pare di ricordare nessuna Greta. Non mi pare neanche di aver chiesto nomi, in realtà. Mah. – El-Haddad. – aggiunge lei. Vuoto. “Pure araba”, mi dico, e dico anche “ma che cazzo, quand’è che smetterà di rompere le palle la fottuta Africa?”, e mentre lo penso borbotto questo dannato cognome a mezza voce, giusto per vedere se facendolo mi torna in mente qualcosa, ed ho la malaugurata idea di sollevare gli occhi su Chakuza. E lo trovo che mi fissa congelato, pallido come un cencio.
El-Haddad. Ok. Saad.
Non so bene cosa dirle. Lei resta in silenzio.
- Buonasera. – butto lì, un po’ confuso. Mai vissuta una situazione simile. E di situazioni particolari posso vantarne un casino, io. – Posso fare qualcosa per lei?
- Sì, può… - comincia lei, vagamente incerta, - può darmi del tu e chiamarmi Greta, per cominciare, e poi… - si ferma ancora, e resta di nuovo in silenzio.
Io deglutisco.
- Sì? – la incito. Non posso davvero stare avendo questa conversazione con questa donna. E in tutto questo Chakuza continua a fissarmi come se fossi un unicorno sputafuoco apparso improvvisamente nel centro della sua stanza al posto dell’uomo che stava limonando o provando a limonare fino a pochi secondi prima. Giuro che se non la pianta lo prendo a cazzotti.
Lei si schiarisce un po’ la voce.
- Avrei bisogno di parlarti, Patrick.
Patrick. Cioè, parliamone. Io sono Patrick per mia madre, per Bill quando è in vena di tenerezze, per Chakuza quando è in vena di scazzi o quando faccio qualcosa di particolarmente fantasioso in un momento in cui non se la aspetta e per Sido quando è in vena di paternali – e neanche sempre. Patrick mi chiama, lei. C’è da andarci fuori di testa, davvero. Io ero lì mentre il suo uomo veniva ammazzato, Cristo santo.
- Sì. – rispondo a mezza voce, - Naturalmente. – anche se sto pensando “naturalmente il cazzo”. – Dove?
Lei sembra stupita. Resta in silenzio ancora un po’.
- Verrai? – chiede, incredula.
- Eh. – annuisco io, grattandomi la nuca, - Sì, se mi dici dove.
Lei mi fa il nome di un locale che solo a sentirlo mi vengono i brividi. So dov’è, è un posto sciccosissimo appena fuori città, una specie di enorme sala da tè riadattata a locale di lusso. Classico posto da tavolini tondi e piccoli con ampie tovaglie rosse drappeggiate che strisciano sulla moquette nera immacolata che copre il pavimento.
- Ci metterò un po’, non è esattamene dietro l’angolo. – le faccio presente, e lei mi rassicura: non ha fretta, non c’è problema.
- E potresti… hai qualche possibilità di portare con te anche Peter?
Guardo fisso davanti a me, Chakuza mi sta ancora lanciando occhiate terrorizzate.
- Sì, lo chiamo. – annuisco. – A fra poco.
Interrompe la chiamata prima che possa dire o anche solo pensare qualsiasi altra cosa.
Chakuza deglutisce.
- Era… - comincia, ed io lo fermo.
- Sì. – rispondo sbrigativamente, - Coraggio, datti una mossa, abbiamo un mucchio di strada da fare. – lui mi fissa allucinato ancora per un po’, gli occhi verdi enormi nella penombra della stanza, ed io lo squadro supponente dall’alto in basso. – Sì, ma devi cambiarti, non puoi mica-
- Fler! – mi ferma lui, esasperato, sistemandosi il cappellino sulla testa dopo aver finalmente rimosso le mani da dove ha continuato a tenerle per tutto il tempo della telefonata, - Ma di che cazzo stai parlando?!
- Prima di tutto, Cristo santo, vai a lavarti le mani prima di toccarti in giro! – sbotto io, tirandogli via la mano dal cappellino e trascinandolo in bagno, - E che cazzo, mi stavi facendo una sega fino a due secondi fa!
- A proposito-
- Concentrazione, Chaku, dobbiamo uscire. – borbotto aprendo il rubinetto e lavandogli le mani. Col sapone e tutto. Dio mio, che cosa sto facendo? Io dovrei essere a casa mia a dormire.
- Quando tu mi chiedi di uscire è sempre l’inizio di un guaio enorme. – risponde lui, occhi bassi e voce cupa, mentre si lascia maneggiare neanche avessi due anni. Questo è il modo in cui Chakuza mi dice che non ha proprio alcuna voglia di fare qualsiasi cosa sia quella che vorrei chiedergli. Diventa svogliato e insopportabile. Sono momenti tremendi, sono i momenti in cui la mia voglia di massacrarlo di legnate raggiunge i suoi picchi storici.
- Chaku, ti prego, non cominciare. Greta mi ha chiesto di vederci, ha bisogno di parlare con noi. Ci sei, fino a qui?
Lui annuisce controvoglia.
- Vieni, sì?
Annuisce ancora.
- Chaku?
- Mhn?
- Non mi costringere a fare qualcosa di cui poi dovrei pentirmi, d’accordo?
Lui grugnisce e si allontana da me, asciugandosi le mani con un panno.
- Prendermi a cazzotti, strillare che non vuoi più vedermi, buttarmi una secchiata d’acqua in testa…?
- Baciarti perché so che dopo mi ascolti. – rispondo, afferrandolo per una spalla e rivoltandolo, inchiodandolo contro la parete e guardandolo fisso negli occhi. – Devo proprio?
Lui mi guarda con tanto d’occhi e a me viene un po’ da ridere. Credo che Chaku abbia di me un’idea incredibilmente distorta. Come faccio ora a spiegargli che inseguivo con la spranga i debitori insolventi, in quel di Tempelhof, nel fiore dei miei sedici anni?
- …ti sto ascoltando. – mi rassicura lui, annuendo lentamente.
- Bene. – annuisco io a mia volta, - Dicevo che era la cazzo di moglie di Saad. Che ci ha chiesto un cazzo di appuntamento. A me e te. Non potevo dirle di no.
- Certo, le abbiamo solo ucciso il marito, in fondo. – risponde lui a muso duro. Io roteo gli occhi e lo lascio andare, rubandogli il panno dalle mani per asciugarmi.
- Appunto, Chakuza. – ritorco, rimettendo l’asciugamano al proprio posto. – Quindi muovi il culo. Ce l’hai un completo elegante?
Lui riprende a guardarmi con aria sconvolta e io sospiro di nuovo. Visto che io e Chakuza abbiamo un buon feeling, ogni tanto dimentico che lui non è nella mia testa e non segue perfettamente la linea dei miei pensieri. Che non è com’era con Anis, ecco, perché con lui davvero bastava mezza parola, a volte, e si capiva esattamente dov’è che si voleva andare a parare. Senza sprechi inutili, anche solo con gli sguardi. Con Chaku non posso fare così, lo dimentico spesso, ma non dovrei.
- Greta mi ha chiesto di raggiungerla in un locale molto elegante. Se ci presentiamo conciati così, - e gesticolo, indicando i nostri abiti scomposti da svacco casalingo, - neanche ci fanno entrare, figurarsi metterci a sedere con una signora.
Lui annuisce.
- Capisco. – biascica, - Però non credo di avere niente di adatto.
Faccio mente locale, cercando di riportare alla memoria i vestiti di Chakuza, ma oltre alle felpe, alle magliette e ai jeans di cui sopra ci sono davvero solo le riviste sconce, in quell’armadio, perciò poco da fare.
- Okay, senti. – sospiro, - Andiamo da me.
Lui mi solleva addosso uno sguardo incuriosito.
- A casa tua?
- Sì. – annuisco, - Vediamo se posso darti qualcosa io.
- Tu hai dei completi?
Dio mio, quanto lo odio quando fa così.
- Sì, Chaku. Non è che siccome Eko Fresh ha deciso che sono un pezzente, allora lo sono davvero.
Riusciamo ad uscire da quell’appartamento dieci minuti dopo, e quando arriviamo a casa mia ne sono passati altri dieci ed io comincio a darmi mentalmente dell’idiota per aver accettato e non aver chiesto a Greta di andare da qualche altra parte. È una situazione complicata: so che ora vuole parlarci, ma non so se sarà di questo stesso avviso fra una o due ore, e più tempo le diamo per riflettere maggiori sono le possibilità che cambi idea. Questa, vista la situazione contingente, è un’eventualità che non posso ammettere.
Soprattutto perché la scomparsa di Saad non è ancora stata denunciata. C’è questo “forse” enorme che pende su tutte le nostre teste, su quella di Chakuza, su quella di Bill, sulla mia, ed è veramente pesante. Se posso risolverla andando a parlare con la vedova, allora devo farlo, e devo farlo subito.
Casa mi accoglie come al solito – che poi è il motivo principale per cui evito di tornarci, la maggior parte delle volte. Non è che sia disordinata o sporca, non ha veramente modo di disordinarsi o sporcarsi. È solo desolatamente vuota. Non sono abituato a vivere da solo. Io e Bushido abbiamo diviso una topaia fino a che lui non ha cominciato a fare i soldi. E da quel momento in poi, cioè, da quando lui si è allontanato in poi, praticamente, ricordo di aver dormito più spesso da Sido che non in qualsiasi altro luogo, alberghi compresi quando si andava in tour.
L’appartamento è vuoto, freddo e buio. C’è ancora il letto sfatto dell’ultima volta che ho dormito qui – non ricordo nemmeno a quando risalga – lo intravedo dalla porta della camera semiaperta. C’è polvere ovunque. Non tantissima, ma è uno strato ben visibile. Chakuza si guarda intorno e deglutisce.
- È spettrale, questo posto. – commenta lanciando occhiate incerte al piccolo divano ed al tavolino che compongono, in sostanza, l’arredamento totale del soggiorno.
Scrollo le spalle.
- Vieni. – biascico, guidandolo verso la camera da letto, - Comincia a spogliarti. Qualcosa per te dovrò pure averla. – ed entrando in camera sfilo velocemente la felpa e la maglietta, dirigendomi deciso verso l’armadio e prendendo a rovistare fra gli abiti. Certe cose non le ho nemmeno mai messe. Doreen, la moglie di Sido, è una donna molto buona e gentile, ed ogni volta che esce a far shopping per la bambina – cosa che accade con cadenza regolare di una volta a settimana – prende sempre qualcosa anche per me. A volte, dal modo in cui mi hanno palesemente adottato in quella famiglia, non sembra nemmeno che Sido sia più grande di me di soli due anni.
Nel mentre, Chakuza mi fissa come se non avesse ancora capito un cazzo di ciò che sta succedendo. So che non è così perché so che non è stupido, perciò suppongo si tratti del fatto che adesso sono seminudo e mi sto sbracciando e tendendo per cercare qualcosa che gli stia.
Sospiro.
- Chaku, piantala di guardarmi a quel modo.
Stranamente, non comincia a lamentarsi come fa quasi sempre in questi casi. Questa è la conferma che ha capito perfettamente il casino in cui ci troviamo, e la cosa mi rassicura parecchio. Lo vedo annuire e cominciare a spogliarsi, mentre riesco a recuperare nel fondo dell’armadio un abito che non indosso da secoli e le cui maniche spero riesca a compensare con quelle spalle enormi che si ritrova. Quanto ai pantaloni, al limite gli faccio un paio di svolte verso l’interno.
Gli tiro il tutto e lo prendo in faccia mentre sbottona i jeans.
- Fanculo. – sbotta, ma ha praticamente il valore di un “okay”, quindi non perdo neanche tempo a rispondergli a tono e sfilo i pantaloni, recuperando il completo nero lucido che è stato l’ultimo regalo di Doreen in ordine di tempo, ed una camicia scura.
Posiamo entrambi la roba sul letto e già un secondo dopo i vestiti son tutti mischiati. Nel tirare su i pantaloni, Chakuza ha spedito la camicia che dovrebbe mettere fra le mie cose, ed io nel tirare su i miei ho mandato all’aria la giacca, che ora copre quasi per intero la sua roba. Perciò finiamo per vestirci a pezzi passandoci vicendevolmente la roba. Che è pure una cosa divertente, infatti ridiamo. Ed almeno ho la scusa del divertimento che si trascina, quando vedo che il mio abito gli cade addosso in maniera ridicola, e posso ridere senza offenderlo troppo, anche se immagino che lui capisca il motivo della mia ilarità.
Lo sento sospirare e lo osservo scuotere un po’ il capo, rassegnato.
- Quanto sono ridicolo, da uno a dieci? – borbotta.
- Be’, dai… - cerco di rassicurarlo, ridendo ancora, - Non sei poi così assurdo. Ti si potrebbe anche dare una botta, volendo.
Mi tira un calcio sul ginocchio che mi costringe a saltellare su un piede per un minuto buono, mentre continuo a ridere tranquillamente.
- Certo che sei stronzo forte, tu. – sbotta, riallacciando le scarpe da tennis. Quelle erano e quelle restano, peraltro, anche a me pesa il culo a cambiare le scarpe.
Quando ci rimettiamo in piedi, lui mi guarda un po’ con aria compiaciuta.
- …stai bene. – annuisce alla fine, come fosse una gran concessione. In realtà la concessione non è il complimento, è l’occhiata che mi lancia, che già da sola basterebbe a farmi capire a cosa sta pensando, anche se non fosse ulteriormente precisato dalla sua lingua che si muove lentamente a inumidirgli le labbra.
- Sono uno schianto. – preciso inarcando un sopracciglio. – Sto sempre bene, vestito elegante.
- E te la tiri come una fottuta primadonna, anche. – grugnisce per tutta risposta, scazzottandomi contro una spalla.
Ridiamo ancora un po’ e sono abbastanza contento della piega che ha preso la situazione. Intendiamoci: so perfettamente che, quando saremo a due passi da Greta, Chakuza comincerà a sclerare. Com’era prevedibile, non ha mai preso bene quello che è successo quella notte, ed ha continuato a vivere in uno stato di angoscia perenne per tutto questo tempo fino ad ora, mentre aspettavamo un segno. Non posso dire di capire davvero questo suo atteggiamento, perché io sono disabituato all’ansia. Non so più com’è essere agitati per qualcosa. Però suppongo sia una cosa abbastanza normale, che poi è il motivo per cui non me la prendo davvero con lui quando mi fissa con occhi confusi come ha fatto per quasi tutta questa sera.
Quindi, insomma, so che non sarà facile gestirlo quando saremo lì. Però se riesce a mantenersi almeno un po’ calmo è già un enorme passo avanti, e non può che semplificarmi le cose.
Quando arriviamo al locale, Chakuza fissa l’ingresso con la solita aria da poveraccio sperduto. Ma io dico, perché Eko Fresh ha deciso arbitrariamente che il pezzente fra i due sono io, se poi è ovvio che è Chakuza quello che certe cose non le ha viste mai in tutta la propria esistenza?
Io qui ci sono stato con Sido e famiglia un’abbondanza di volte, perciò sono abbastanza a mio agio mentre entro ed osservo il cameriere travestito da pinguino – che si muove così elegantemente da volteggiare quasi a qualche centimetro dal pavimento – avvicinarsi a noi e chiederci se abbiamo prenotato.
Dico che siamo attesi dalla signora El-Haddad e lui annuisce compitamente, facendoci strada verso l’interno. Il posto è elegante e riservato, i tavoli – piccoli e tondi, coperti da drappi rossi pesanti e lucidi che scendono in sbuffi fino a sfiorare la moquette nera che tappezza il pavimento – sono tutti piuttosto distanti l’uno dall’altro. Abbastanza da concedere a tutti il riserbo di cui hanno bisogno.
Dio sa se ne abbiamo bisogno anche noi.
Greta è semplicemente stupenda. La notte in cui abbiamo fatto fuori Saad non me ne sono accorto, un po’ perché avevo altro a cui pensare ed un po’ anche perché lei era sfatta, agitata e in vestaglia. Però a vederla adesso è palese, tant’è che io resto pure un po’ senza fiato. Chakuza fa una mezza risatina e mi dà una gomitata nel fianco.
- È sempre stata così. – mi sussurra, - Saad aveva un ottimo gusto.
Annuisco senza neanche rendermene conto, sono ancora un po’ imbambolato quando ci sediamo al tavolino di fronte a lei. Ha dei capelli biondi che sembrano grano, di quello delle pubblicità delle merendine ai cinque cereali, però, non di quello vero. Quello vero ha sempre un colorito un po’ smorto, soprattutto nelle campagne intorno alla città, mentre quello delle pubblicità è sempre, tipo, il biondo più bello che possa esistere – sarà che non esiste davvero; forse è per quello. Comunque il biondo di Greta è ancora più biondo di quel biondo lì, ed io mi perdo un po’ sulla frangia ondulata che le scende lungo la fronte e si ferma sulla tempia, guidata da un fermaglio nero molto elegante, con delle decorazioni floreali.
I capelli li ha raccolti in uno chignon alto e piccolo dietro la testa, sono sistematissimi, tanto da sembrare finti. Non ce n’è uno fuori posto. Però fanno un buon profumo di shampoo alle more, quindi finti decisamente non sono. E stanno bene un sacco con i suoi occhi, che sono azzurrissimi e tristi e un po’ stanchi, ma fieri.
Per un momento penso che adoro le donne del ghetto, perché hanno sguardi che ti sanno dire tutto in un niente. Mia madre è così, Luise Maria è così. Bill è così ed anche Greta è così.
Sistema per qualche secondo le numerose pieghe dell’abito bianco lungo che indossa, e che si perde in un morbido strascico che brilla quasi contro la moquette scura. Le mani sono pallide e curate, e si muovono con grazia appianando gli sbuffi di tessuto. Sia io che Chakuza restiamo interdetti e silenziosi per tutto il tempo; non c’è proprio niente da dire a riguardo: è bellissima, punto.
Quando solleva lo sguardo, io e Chaku facciamo quasi un salto sulle sedie. Ci guarda a lungo, dritti negli occhi, prima lui, poi me, e non sembra nemmeno respirare. Non sembra una creatura di questo mondo. Poi, lentamente, inspira. E quando apre la bocca Chakuza va immediatamente in tensione.
- Io ed Anis, - dice, e giuro che il suo nome era proprio l’ultimo, l’ultimo davvero, che potessi aspettarmi di sentire stasera, - eravamo molto amici.
Per un secondo, ci resto un po’. Voglio dire: mia madre ha sempre adorato Anis. Anche Luise Maria ha sempre adorato suo figlio. La Steen se l’è portato a letto per un considerevole quantitativo di tempo e ciò che faceva con Bill è abbastanza noto a livello mondiale, ormai, ed ora veniamo a scoprire che aveva le mani in pasta anche con la moglie di Saad. Quell’uomo non aveva limiti, cazzo. È assurdo a pensarci, non so se ricordarlo con un sorriso o con un “fanculo”.
Anche Chakuza sembra non fosse preparato alla cosa, tant’è che resta pure lui a guardarla come stesse recitando l’alfabeto al contrario o che so io.
- Mio fratello Thomas, - continua lei, intrecciando le dita sul tavolo, - ha avuto dei problemi piuttosto seri. Io e Saad eravamo sposati da poco ed eravamo… molto giovani e molto stupidi. Io, soprattutto, non sono stata in grado di accorgermi di niente, e quando ho scoperto dei debiti enormi che aveva accumulato a causa della droga non ho saputo cosa fare. Mi sono sentita persa, e le cose sono peggiorate ancora quando l’hanno arrestato. S’era messo a spacciare anche lui, per cercare di rimborsare i debitori. – fa una pausa, un po’ per riprendere fiato, perché si vede che fa fatica, nonostante sia piuttosto calma, ed un po’ per lasciare anche a noi il tempo di metabolizzare. Ci mette più tempo Chakuza, che pare si stia rendendo conto solo adesso di aver vissuto in mezzo ai criminali fino ad ora. Per me è vagamente più normale. Vagamente. – Ne ho parlato con Saad. Ci abbiamo riflettuto a lungo e l’unica cosa che siamo riusciti a capire era che da soli non potevamo tirarcene fuori. Saad ancora, sapete, non era sotto contratto all’Ersguterjunge. Lui ed Anis però si conoscevano, si conoscevano da un sacco di tempo, perciò l’idea iniziale era chiedere a lui. Solo un prestito, ovviamente, volevamo solo pagare gli avvocati. Thomas era costretto a stare in galera, in attesa del processo. E lui era… - si passa una mano sul collo, come a voler sciogliere i muscoli tesi, - Diciassette anni sono troppo pochi, per certe cose.
Vorrei dirle che io a diciassette anni ci avevo già abbondantemente fatto il callo, a questioni simili, ma non le dici certe cose a una sorella che parla del fratello in galera, così come non le dici ad una madre che dice lo stesso del figlio. Ci sono cose che uno non può dire.
Quando mi schiarisco la voce e parlo, è per dire tutt’altro.
- Cos’è che ha fatto Anis? – chiedo. Perché è questo il punto della questione. È attorno a questo che ruota tutto, altrimenti lei non l’avrebbe tirato in ballo.
Greta mi guarda a lungo, lo fa con una certa curiosità. E poi sorride appena.
- Ha risolto la questione. – dice, la voce modulata su un tono più dolce e caldo rispetto a prima, - Tutta l’intera questione, senza che noi neanche glielo chiedessimo. Gliela esponemmo e basta, gli chiedemmo dei soldi e lui rispose con uno strano sorriso buffo, dicendoci “vi sembro tipo da fare l’elemosina, io?”. E Thomas era fuori la settimana successiva. Fuori e senza più un debito.
Mi limito ad annuire. Così tipico di lui, mi dico con un mezzo sorriso. Anis era uno che le situazioni se le prendeva a cuore, in genere. Non tanto per altruismo o per ricavarne un utile, direi piuttosto per una specie di strano orgoglio. Abituato com’era a considerare propria qualsiasi cosa toccasse, era per lui un’offesa intollerabile che qualcuno si azzardasse a metterci sopra le mani. Perciò il fratello di un amico non può restare in galera, soprattutto se ha diciassette anni ed è palesemente carne da macello.
Greta sorride ancora.
- Lo conoscevi molto bene? – mi chiede, ed io sento Chakuza agitarsi al mio fianco. È la classica situazione che preferirei non vivesse, questa, ma ormai l’ho portato fino a qui, non ho più molto da fare a riguardo.
- Quanto bastava. – rispondo, - Quindi?
Lei inspira ed espira ancora, sistemandosi un po’ sulla sedia ed accavallando elegantemente le gambe.
- Quindi io amavo mio marito. Ma quello che c’era con Anis non era solo un debito. E non era solo affetto. – si interrompe ancora, sorseggiando il drink ancora intoccato che ha di fronte, - Mio marito l’ha ucciso. Voi avete ucciso lui. Io lo so. E ci metterei poco a scoprire quello che mi serve per incastrarvi. – Chakuza suda freddo, io cerco di tranquillizzarlo sfiorandogli una mano con due dita, da sotto il tavolo, ma serve a poco. E poi lei lo dice. – Ma non intendo farlo. Le regole valgono per tutti e… non siete stati voi ad infrangerle. È stato Saad.
Questo, molto semplicemente, chiude la questione. Le chiude tutte, anzi. Non voglio soffermarmi a riflettere sul legame che stringeva questa donna ed Anis, ho imparato tempo fa e a mie spese che con quell’uomo definire è molto pericoloso. Definire, ma anche non farlo, in fondo. Non ricordo di aver mai definito niente di ciò che c’era fra noi, con lui, e forse è per questo che mi pesa ancora addosso.
In tutto questo, da quando siamo arrivati, Chakuza non ha ancora spiccicato parola. D’accordo, non che io abbia fatto chissà che grandi discorsi – diciamo che Greta ha parlato abbastanza per tutti – ma fa strano davvero non sentirgli dire niente. Sospiro e stringo un po’ la presa sulla sua mano, lasciandolo andare subito dopo. Lui si riscuote e mi guarda, decidendosi finalmente a chiudere le labbra – fino ad ora semiaperte in un’espressione di sgomento mal dissimulato – e schiarirsi la voce, annuendo. Si sistema sulla sedia, a disagio, e io sorrido un po’.
Chakuza, ti regalerei un ristorante tutto tuo, certe volte. O anche un agriturismo in campagna, chissà. Bill sarebbe bravo ad accogliere i clienti ed accompagnarli nelle loro stanze mentre elenca i benefici della campagna senza crederci neanche un po’, visto che lui la odia. Però probabilmente con te ci verrebbe.
Greta freme e intreccia più strettamente le dita, prima di deglutire faticosamente e tornare a guardarci con una luce vagamente intimorita negli occhi.
- Potrei sapere dov’è? – chiede quindi, inumidendosi nervosamente le labbra. Al momento non saprei stabilire se sia più giusto che sappia o no. È passato un bel po’ di tempo da quando abbiamo buttato Saad nel canale. Io non credo che lo vorrei vedere un cadavere in quelle condizioni. Per quanto l’abbia amato quand’era in vita. Non so se vorrei vedere neanche quello di Anis, per dire.
Mentre mi perdo sul punto, Chakuza raddrizza la schiena e guarda Greta con una certa intensità.
- Non credo che sia il caso, Greta. – le dice dolcemente. Lei annuisce subito, e sorride un po’ timidamente.
- Sì. – esita un secondo, - Sì, Peter, credo che tu abbia ragione. Ma sai… - e gesticola un po’ con una mano, un movimento elegante e fluido, che dice tutto quello che abbiamo bisogno di sapere. Abbassiamo lo sguardo, ed è la prima volta da quando Saad è morto che mi sento veramente in colpa. – In ogni caso, - riprende dopo qualche secondo, - non denuncerò la sua scomparsa. Mi ha lasciato una lettera, prima di andare via, in cui mi diceva di dimenticarlo e perdonarlo. – Chakuza ci mette un po’ a realizzare che Greta non sta raccontando dei fatti ma inventando una nuova verità. Io sorrido un po’, perché anche questo è un lascito di Anis. La verità non è niente più che la descrizione di qualcosa su cui tante persone sono d’accordo. “Il fuoco brucia” non è verità perché sì, è verità perché tutti siamo d’accordo sul fatto che, se ci ficchiamo dentro la mano, la ritiriamo carbonizzata. Quindi la verità basta inventarla e poi fare in modo che nessuno possa o voglia contestarla. Bushido lo faceva continuamente. – Nyzaad è ancora arrabbiata, ma le passerà. Le dirò la verità, prima o poi.
Io annuisco. Nyzaad dev’essere la bimba bionda. Chakuza mi guarda. Realizza. Annuisce anche lui.
Greta sorride un’ultima volta, prima di alzarsi dignitosamente in piedi.
- Questa conversazione non ha mai avuto luogo. – dice, il sorriso ancora sulle labbra. – Restate pure quanto volete.
Non la osserviamo allontanarsi. Posso immaginarla passare davanti al guardaroba e farsi portare una pelliccia dall’addetto, prima di uscire sorridendo ancora, come non avesse appena discusso di morti e denunce con gli assassini di suo marito.
Chakuza inspira ed espira e l’attimo dopo lo vedo piegarsi in avanti e piantare i gomiti sul tavolo, mentre poggia la fronte contro i palmi aperti e si massaggia un po’, come avesse un gran mal di testa.
- Chaku…? – lo chiamo a bassa voce, chinandomi nella sua direzione. Lui, inizialmente, mi risponde solo con un mugolio esasperato. Poi parla.
- Non potrei dimenticarmi l’ultima mezz’ora neanche se volessi. – ammette insolitamente quieto, senza guardarmi, - Tutto quello che è successo… non potrò dimenticarlo mai.
Mi appoggio contro la sua spalla, discretamente, e mi sporgo verso il suo orecchio.
- Non devi. – sussurro, - È un pezzo di te. Ti renderà una persona migliore.
- Di queste cose, quante ne hai viste tu? – chiede a bruciapelo, restando immobile.
- …tante. – ammetto io, scrollando le spalle, - Troppe.
- E questo ha fatto di te una persona migliore?
La risposta è “no”. La risposta, anzi, è molto simile a “no, Chaku, io sono quasi una delle persone peggiori possa capitare di incontrare nella vita”. Ma dirlo ad alta voce non servirebbe a niente, perciò mi allontano da lui e mi alzo in piedi.
- Torniamo a casa, Chaku. Non abbiamo più niente da fare, qui.
*
Chakuza ha provato come al solito a farmi restare da lui per la notte. Io, come al solito, gli ho dato picche, e l’ho fatto anche con un certo fastidio, dicendomi “ma quanto gli ci vuole, a capire?”. La verità è che non è che Chaku abbia proprio torto, in questo senso. Voglio dire, io continuo a tornare. E se ripenso a prima, quando ha provato a scoparmi contro l’armadio… intendo, quella non è una scena così distante dalla nostra routine. Perché non so come sia successo o per quale motivo, o magari lo so e mi girano solo le palle ad ammetterlo, ma so che c’è comunque una cosa che, insomma, quando ci vediamo scatta. Magari la teniamo a bada per un po’, ma poi esplode. Prima della notte in cui abbiamo chiuso la questione con Saad, capitavano cose allucinanti del tipo: io stavo svaccato sul divano a guardare la tv, lui stava in bagno a farsi la barba, e lo vedevo spuntare ancora umido di risciacquo per dirmi “oh, ma non è che ti va, per caso?”. Frase cui ho risposto più di una volta con una risata e un vaffanculo, prima di alzarmi in piedi e schiacciarlo contro la prima parete disponibile. Perché sì, mi andava.
Quindi sì, insomma, non mi stupisce tanto che Chakuza non capisca cosa mi passa per la testa. Per la verità anche io ho dei momenti in cui mi chiedo che cazzo sto facendo. Suppongo sia normale.
Riassunto: sono riuscito a sganciarmi solo due minuti fa e, per riuscirci, ho dovuto tirare fuori Bill. Quando conosci tanto bene una persona è molto facile rigirartela fra le dita. Io so che per far cambiare umore al Chaku basta nominare il ragazzino, e lui si spegne subito. Non è affatto facile spegnere Chakuza, eh. Onore al merito del ragazzino che è riuscito a devastare il cervello di due degli uomini più cocciuti ed eterosessuali mi sia mai capitato di incontrare. Per quanto mi renda conto che dare ad Anis e Chakuza degli eterosessuali adesso suoni quantomeno ridicolo. Ma comunque.
Appena gli ho detto “Chaku, io devo andare a parlare con Bill”, lui ha immediatamente smesso di cercare il bottone dei miei jeans sotto il giubbotto, nell’androne del palazzo, e mi ha guardato con aria persa e supplichevole. Suppongo volesse guardarmi solo con aria persa, ma era anche supplichevole, io lo so. Lui non se ne rende conto, quando ti sta implorando di dargli una scusa per rivederlo. Però è così.
Insomma, gli ho sorriso e gli ho dato una specie di pugno sulla spalla, dicendogli “lo sai che non puoi venire. Devo dirgli cose importanti, e tu me lo distrai”, al che lui è sclerato ed ha cominciato a strillare che dovrei smetterla di dire cazzate sul punto. Avrebbe anche ragione – perché in teoria non sarebbero fatti miei – se non sapessi perfettamente di avere ragione, sulla questione. Però lui ha difficoltà enormi a parlarne con me, e inoltre sospetto che il giorno in cui gli dirò a chiare lettere “guarda che lo so, che ti piace”, gli verrà un infarto, perciò almeno per oggi me lo sono risparmiato e l’ho osservato salire le scale a passo di carica augurandomi di andarmi a schiantare contro un muro appena uscito di là. Ho riso perché non avevo nemmeno la macchina, visto che mi sono mosso con lui, quindi anche a schiantarmi contro un muro, camminando, al più mi schiacciavo il naso.
Bill lo chiamo solo quando sono già sotto casa sua. Guardo dritto alla finestra del suo appartamento e porto il cellulare all’orecchio, dopo aver composto il suo numero a memoria. Lui mi risponde con una vocina sonnacchiosa e pigolante.
- Fleeeer… - borbotta, - Ma che c’è?
- C’è freddo ed ho voglia di un caffè. – rispondo ridacchiando, - Mi fai salire?
Lui biascica qualcosa di incomprensibile ma sento un fruscio di lenzuola tutto intorno e poi il suo ciabattare annoiato per il corridoio. Pochi secondi dopo, la serratura del portone scatta ed io mi ritrovo nell’ingresso sobrio ed elegante. Le suole delle mie scarpe da tennis sono umide perché fuori c’è un po’ di ghiaccio sui marciapiedi, e nello strisciare contro il pavimento in marmo misto producono un rumore fastidiosissimo che riecheggia per tutto l’ambiente. Sospiro e questi due piani me li faccio a piedi, se non altro perché ho bisogno di riscaldarmi un po’.
Quando arrivo, Bill sta dormendo in piedi sulla porta. Senza esagerazioni, Bill è così, si addormenta ovunque. Lo trovo appoggiato con una spalla allo stipite, gli occhi chiusi e il capo dondolante avanti e indietro, e mi metto a ridere. Lui solleva appena le palpebre e si strofina gli occhi coi pugni chiusi, mugolando scontento.
- Fler, è tipo l’alba…
È appena mezzanotte e mezza, eh.
- Bill, - lo prendo in giro, spingendolo dolcemente all’interno dell’appartamento e chiudendomi la porta alle spalle, - quando ero un ragazzino come te, io arrivavo senza chiudere occhio dalle sei del mattino alle sei del mattino del giorno dopo!
Lui si lascia spingere ciabattando rumorosamente, e mi si accuccia contro la spalla appena ci sediamo sul divano.
- Io non sono un ragazzino… - biascica, la voce impastata di sonno, - sono una principessa, le principesse a quest’ora dormono…
Rido ancora, annuendo.
- Naturalmente. Ehi, ti svegli un po’? Il caffè devo farmelo da solo?
Lui mugola e mi tira per il giubbotto, che non ho ancora sfilato.
- Vieni a dormire? – borbotta, riuscendo finalmente a togliermi la giacca sbavandomi un po’ sulla spalla, - Cioè… - si riprende un po’, sforzandosi pure di aprire gli occhi, almeno uno spiraglio, - Se mi porti a letto poi giuro che ti ascolto… però c’è freddo qui, e voglio andare a letto…
Rido ancora.
- E come fai a sapere che devo parlarti? – ghigno, sgomitando un po’ per metterlo dritto.
Lui mi si riappoggia addosso e socchiude gli occhi.
- Hai addosso l’odore di Peter, quindi siete stati insieme… e quando state insieme succede sempre qualcosa… quindi cos’è successo?
Chiaramente, il cuore prima mi sale in gola e poi sprofonda fino al centro dello stomaco, quando glielo sento dire. All’odore di Chakuza, poi, non avevo nemmeno fatto caso. Non ci faccio più caso, in realtà, da un mucchio di tempo.
- D’accordo, ragazzino, - sospiro, e mi sento schifosamente in colpa, anche se non ne ho il dovere, - per stasera e solo per stasera, sei principessa sul serio. – dopodiché, mi alzo dal divano. Lui sonnecchia ancora, quindi rotola un po’ sui cuscini e poi apre gli occhi e mi fissa con aria persissima, asciugandosi le labbra col dorso della mano.
- Fler…? – mi chiama, ed io mi chino a prenderlo fra le braccia.
Non pesa niente, il ragazzino. Mi si accoccola contro e mi allaccia al collo, posando il capo sulla spalla e mugolando soddisfatto.
- La tua ragazza sarà fortunata un sacco, sai? – sussurra sulla mia pelle, sistemandomisi addosso.
Io rido, perché mi viene in testa che non sono mai stato innamorato di una donna. Scopare, d’accordo, ma a parte mia madre tutto ciò che posso dire di amare o aver amato con le femmine non c’entra niente. Eppure, con Bill fra le braccia che mi parla di un’ipotetica fidanzata, un po’ me ne viene voglia. Una bella ragazza gentile e fedele, una casa sul mare, dei bambini, un cane pigro. È una cosa che non c’entra niente con me, me ne rendo conto. È una cosa che probabilmente non mi piacerebbe nemmeno. Però un po’ ci si pensa, quando ti dicono che una donna potresti renderla felice. Che per lei potresti essere più che abbastanza. Soprattutto quando sai perfettamente che invece non potrai mai essere abbastanza per qualcun altro, insomma, ti viene un po’ voglia di provare a vedere come sarebbe avere la certezza assoluta della totalità dell’affetto di un’altra persona. Probabilmente con una donna sarebbe più facile. Non lo so.
Bill mi indica la strada per camera sua e, quando ci entro, smetto istantaneamente di pensare. È la prima volta che metto piede qua dentro. Questa è la stanza in cui è morto Bushido, quello è il letto su cui si è disteso e su cui è rimasto mentre moriva. Per un attimo immagino le lenzuola zuppe di sangue ed esito, nell’adagiare il corpo sottilissimo di Bill sul materasso. Mi sembra di vederci delle tracce rosse che non ci sono davvero, e non voglio lasciarlo andare. Lui però allarga entrambe le braccia e si riappropria di quello spazio come di un pezzo stesso del proprio corpo. Infila le mani sotto il cuscino e lo stringe fortissimo, ed io adocchio la federa e noto che c’è scritto Ferchichi sull’orlo. E mi viene un sacco da ridere. Perciò rido e basta.
Lui apre gli occhi e ridacchia di riflesso.
- Che c’è…? – chiede, tirandomi una mezza ginocchiata mentre mi siedo al suo fianco.
Io indico il cuscino.
- Il nome... – e Bill ride a voce più alta.
- Lo ha ricamato Karima. – dice, e poi, di fronte al mio sguardo smarrito, aggiunge – La domestica. – con aria un po’ più cupa.
- Si divertiva proprio a mettere il suo nome ovunque, mh? – chiedo teneramente, stendendomi un po’ sul fianco accanto a Bill e tenendomi sollevato dal materasso col gomito. Bill annuisce e sorride, e quando lo vedo posare per bene la testa sul cuscino e socchiudere nuovamente gli occhi, mi schiarisco la voce e riprendo a parlare, - Oggi mi ha chiamato Greta.
Lui torna a guardarmi, vagamente confuso. Poi capisce di chi sto parlando.
- Perché? – chiede. Non si muove, resta lì steso a guardarmi fisso dal basso, ma il punto è proprio questo: mi guarda fisso, non c’è più sonno nei suoi occhi, tiene le palpebre ben sollevate e i suoi occhi castani sono perfettamente lucidi e attenti.
Mi metto più comodo, sistemandomi con una mano un cuscino sotto la testa. Bill mi si sposta più vicino e mi copre col lenzuolo – ovviamente non serve a niente ed è una cosa assurda, anche perché ho ancora su le scarpe, quindi sto per metà fuori dal letto e il lenzuolo finisce per coprirmi solo con un triangolino sullo stomaco, ma è una cosa tenera lo stesso. Tutto quello che so dopo è che comincio a sentirmi un po’ più caldo, ed è perché Bill mi sta abbracciando. Mi viene naturale fargli passare un braccio dietro le spalle e stringerlo. Non sembra strano.
Io e Bill ci tocchiamo spesso. Intendo, quando ci vediamo lo cerchiamo spesso, questo tipo di contatto. Sappiamo entrambi perfettamente che è perché io ho preso da Anis l’abitudine di toccare tutto. E lui, invece, a quell’abitudine lì ci si era abituato.
Suppongo che la cosa dovrebbe stupirmi di più.
Sono un po’ stupito dal non stupirmi affatto.
Bill, in ogni caso, sa abbracciare. L’unico modo per godersi un abbraccio è che chi te lo dà sappia farlo. Sappia, per dire, che sono le tue forme che devono adattarsi a quelle dell’altro corpo, non quelle degli altri che devono modificarsi per farti spazio. Uno che sappia dosare la forza, che sappia modulare la stretta, uno che sappia come alterare il ritmo del respiro perché non dia fastidio all’altro sfiorandogli la pelle. Non è una cosa da tutti. Chakuza, per dire, ha un sacco di pregi ma abbracciare non è proprio la sua cosa. È anche tenero, quando lo fa, ma proprio perché si vede che non lo sa fare. È troppo impetuoso e, quando ti stringe, lo fa perché ti sta dicendo chiaramente che ti vuole vicino. Non è una cosa che fa con altruismo, è una cosa che fa con desiderio. È bello anche quello, a suo modo, ma non è la stessa cosa.
Bill sa abbracciare, non mi stupisce, e siccome so abbracciare anch’io ci incastriamo un sacco bene. Perciò, quando riprendo a parlare, lo faccio con molta meno ansia.
- Anis ti ha mai spiegato perché lui e Saad erano così amici?
Bill stringe la presa attorno alla mia maglia ed aggrotta le sopracciglia. Sento proprio i suoi lineamenti cambiare fisionomia perché, nella ricerca di una posizione comoda, ha finito per nascondere il viso nell’incavo del mio collo. Ora potrebbe dirmi qualsiasi cosa, del tipo “amici il cazzo”, che è un po’ quello che viene da pensare anche a me, in effetti, però non lo fa.
- No. – risponde, - Anis era sincero, non stupido. E io non ho mai preteso di ficcare il naso in faccende che non mi riguardassero.
Rido un po’.
- Bravo ragazzino. – commento, stringendo la presa sulla sua spalla, - Avevi un talento, come donna del capo.
Bill annuisce lentamente.
- Era la mia strada. – dice, e sta scherzando, è evidente, però la nota seria nella sua voce non mi sfuggirebbe neanche se fossi sordo. – Insomma, quindi…?
- Be’, - comincio a raccontare, - pare che sia cominciato tutto perché il fratello di Greta… Greta ha un fratello, lo sapevi?
Lui ride appena contro la mia pelle, e scuote il capo.
- Tu di mestiere non dovresti fare il rapper, sai? – mi prende in giro.
- Sì, infatti mi sto un tantino rompendo le palle di fare il detective da strada. – sbotto, agitandomi pure un po’, fra le sue risate. Approfitto del momento rilassato perché mi sa che se non vuoto il sacco col ragazzino adesso, non lo faccio più, - A proposito di questo, sai che pensavo di andare in tour con Sido, con l’anno nuovo? – Bill si irrigidisce e si allontana un po’, lanciandomi un’occhiata allarmata, - No, ehi, niente lagne. – lo avverto, guardandolo come stessi rimproverando un bambino di tre anni, - Fai il ragazzino grande.
- Ma Patrick! – comincia, sottolineando il mio nome in tono di rimprovero.
- Niente nemmeno “Patrick”, ragazzino. – borbotto ancora, tornando a stringermelo contro di prepotenza, così che lui smette di agitarsi come un’anguilla e sceglie la via del tentativo di commozione stritolandomi in un abbraccio pieno di bisogno.
- Non puoi andartene così… - biascica confusamente.
- Non vado mica via per sempre… - lo rassicuro, accarezzandogli piano la nuca, - Solo qualche mese.
- Ed io e Chaku faremo in tempo a impazzire, nel mentre. – lo dice a bassa voce, in tono quasi spettrale. Perfettamente consapevole di ciò che questa frase significa. O meglio, perfettamente consapevole di cosa significhi per lui. Di cosa significhi per me suppongo che non ne avrà mai idea. Anche perché io non gliela posso fare questa, al ragazzino. Non posso proprio. Sono destinato a perderli tutti in favore suo, penso, e mi viene un po’ da ridere mentre lo faccio. Anis era molto epico, nelle sue manifestazioni; immagino questi siano gli strascichi che si fanno sentire su di me.
La verità è che spero impazziscano sul serio. Impazziscano, una buona volta, e facciano questo dannato passo avanti. Io – cazzo – non voglio essere quello che andrà da Chakuza, fra uno o due mesi, per dirgli “be’? Guarda che ti sta aspettando”. Non voglio assolutamente, e il pensiero che invece potrebbe essere quello che mi toccherà fare, se resto troppo a lungo, mi tortura. Quindi voglio togliermi di mezzo e voglio farlo in fretta e voglio che, quando sarò tornato, tutto si sia già mosso nel modo giusto, e sia ormai irreversibile. Come quando Anis mi ha detto che sarebbe andato via solo a giochi fatti. Quando non potevo più nemmeno seguirlo, anche volendo. Perché così è più facile, Anis l’ha sempre saputo: è più facile quando sei di fronte a un fatto che non puoi cambiare. Ti metti il cuore in pace.
Comunque non ce la faccio ad affrontare un discorso alla “non ti lascerò andare via”, in questo momento. Soprattutto perché se Bill me lo chiedesse nel modo giusto, non potrei davvero farlo. Se davvero, guardandolo negli occhi, sospettassi che ciò che vuole davvero è avere me qui, perché senza non può stare, resterei. Sarebbe lo stesso con Chakuza. Se lui mi dicesse che il motivo per cui non può togliermi le mani di dosso è che sono io che faccio motivo da me, resterei. Ma sia il ragazzino che Chakuza mi vogliono tra i piedi solo perché così è più facile, inciampando in me non corrono il rischio di inciampare l’uno nell’altro.
Io non voglio dare adesso a Bill la possibilità di farmi pensare che mi voglia qui. Perciò lo tengo buono e ricomincio a parlare.
- Vedrai che non sarà così drammatico. – scrollo le spalle, riducendo la faccenda a una cosa di minima importanza, - Comunque sia questo benedetto fratello di Greta ha avuto dei brutti problemi con certi brutti tipi con i quali uno non dovrebbe mai avere a che fare. E in men che non si dica s’è ritrovato con la merda al collo. E indovina chi è arrivato sul suo fottuto cavallo bianco in una riedizione ghetto-style del principe azzurro?
Bill dimentica istantaneamente il resto della nostra conversazione e mi si abbatte addosso, ricominciando a ridere.
- Anis? – chiede, cercando di riprendere fiato fra una risata e l’altra.
- Cazzo, sì. – rido anch’io, scuotendo il capo, - Tra l’altro pare che abbia risolto sia i problemi coi brutti tizi che i problemi legali che ne erano derivati. Cioè, te lo vedi? Infilato in un completo nero che va a disquisire con gli avvocati fino a mezzogiorno, e poi avvolto in una tutaccia da svacco che va a minacciare di morte gli spacciatori per i vicoli di Tempelhof. Assurdo.
- Grandioso. – corregge lui con un sorrisino dolce.
Io rido ancora un po’.
- Già. – concedo alla fine. – Comunque, - riprendo con un sospiro, - questo è quanto. Anis salva il culo al ragazzino, gratitudine eterna da parte della donna del ghetto. Ovvio.
Bill ride ancora, scuotendo rassegnato il capo.
- Questo però non spiega tu cosa sia venuto a fare qui… - mormora confusamente. Poi sembra realizzare, e solleva lo sguardo a cercare il mio, - …a meno che tu non stia cercando di dirmi che è grazie a questo che…
Annuisco prima ancora che possa finire.
- Pare di sì. – aggiungo per rafforzare il concetto, - Insomma, siamo a posto. È andata. Finita. Ora puoi dormire tranquillo. – dico sbrigativamente, rimboccandogli il lenzuolo sotto il mento.
Bill si lascia maneggiare come stesse già dormendo, ma ha un’espressione assorta e lo vedo giocare con la fede che porta al dito, quella che mi ha detto di aver rubato da uno dei portagioie di Anis, perciò non lo lascio solo. È evidente che ha ancora qualcosa da dire.
- Quindi… - biascica infatti dopo un po’, mettendosi bene disteso sul materasso, - parentesi chiusa. È questo che intendi.
Scrollo le spalle.
- Be’, sì. – ammetto, - Dubito che sentiremo ancora parlare del fatto. Credo che, a domanda, Greta risponderà che è stato Saad a lasciarla senza farsi più vedere.
Bill annuisce. Prende atto. E poi sospira.
- Tu non ti muovi di qui, stanotte. – borbotta, appendendosi alla mia maglia – sono contento di essere passato a cambiarmi, prima di venire qui – e tirandomi scompostamente verso di sé.
- D’accordo, d’accordo! – concedo, sfilando le scarpe ed infilandomi sotto le coperte, - Sei viziato da morire. E Sido domani mattina mi farà il culo, arriverò con un ritardo stratosferico.
- Non ti ci faccio andare, da Sido! – continua a lagnarsi lui, ma già lo vedo che sta riprendendo sonno, - Tu poi non torni…
Sospiro profondamente.
- Torno, ragazzino, torno. Ti devo ancora una vacanza.
Mezzo addormentato per com’è, lo vedo sorridere mentre mi si adagia sul petto e crolla, esausto. Sistemo per bene le coperte, sistemo per bene i cuscini, sistemo per bene lui. E poi metto il punto alla giornata.

Bookmark and Share

Il Leone, La Strega E L'Armadio

di lisachan
Sono a casa di Chakuza perché s’è messo in testa di spostare i mobili della camera da letto.
…sono a casa di Chakuza perché io gli ho messo in testa che spostare i mobili della camera da letto sarebbe stato utilissimo, vista la pendenza con cui entra il sole nella sua stanza. E no, non avevo idea di cosa stessi dicendo. Ed è successo mesi fa, oltretutto, lui non avrebbe dovuto ricordarlo. E nemmeno io.
Sono a casa di Chakuza, fondamentalmente, perché credo di avere voglia di stare con lui. Non in qualche senso strano, solo perché avevamo un bel rapporto, al di là di tutto, e vederlo sfumare così nel niente è, non so, fastidioso? Irritante?
Sa dolorosamente di già visto, immagino. Tutto qui. Siccome ne ho già visto morire uno – prima ancora che Anis morisse davvero, oltretutto – non ci tengo a lasciarne morire anche un altro. E visto che non sono ancora riuscito a trovare le palle per andare via, tanto vale che, finché sono qui, continui a vederlo. Non facciamo niente di strano. So che non possiamo.
Quando sono arrivato qui, lui stava guardando la televisione con aria assente, e m’ha accolto con un sorriso da salvatore della giornata. Per la serie: meno male che sei arrivato tu, perché a stare qui da solo altri dieci minuti avrei potuto uscire pazzo. “Fler!”, mi ha detto, “Sei venuto per l’armadio?”. Io ho annuito ed ho tirato su un sacchetto pieno di bottiglie di birra, che è un po’ il prezzo che pago ogni volta che metto piede qui dentro. Non che Chakuza me l’abbia mai chiesto, naturalmente, è che io ho sempre bisogno di una scusa per presentarmi a questa porta. Ne ho bisogno per me ed ho bisogno di darla a lui.
Insomma, ho posato le birre in frigo e siamo andati in camera da letto perché – anche se non avevo la più pallida idea di come far pendere meglio il sole in camera sua – sarebbe stato allucinante arrivare fino a lì e poi dire “no, va be’, lasciamo perdere e guardiamo un film”. Abbiamo svuotato l’armadio trovandoci dentro roba che non ero sicuro di volere vedere, abbiamo guardato la finestra, ho finto di sapere cosa stessimo facendo ed ho cercato di ricordare dov’è che avevo detto di spostarlo quando gliene ho parlato la prima volta. Ho indicato un punto a caso sulla parete opposta. “Dovrebbe stare lì”, ho detto, “ingombrerebbe meno”. Chakuza ha riso ed ha annuito per inerzia, immagino.
Dopodiché abbiamo provato a spostare l’armadio prima sollevandolo e poi facendolo strisciare per terra, ma il peso non indifferente e la palese mancanza di rotelline sotto hanno reso entrambe le manovre impossibili. Perciò il risultato di più di un’ora di “aspetta, reggi lì” e “no, no, tienilo così” è stato che siamo riusciti a muovere la struttura di tre-centimetri-tre e solo dopo abbiamo capito che andava smontata e rimontata altrove, se non volevamo morire giovani.
Dal momento che il sole pendeva anche fin troppo bene, e batteva su di noi attraverso la finestra spalancata al punto che mi sono chiesto per quale motivo dovessimo davvero spostare l’armadio, ci siamo ritrovati in dieci minuti sudati come avessimo corso la maratona di New York. La conseguenza è stata che abbiamo sfilato le magliette, recuperato le istruzioni di montaggio e cercato di concentrarci su quelle perché stare seminudi e vicini non è più facile come lo sarebbe stato un anno fa. Nonostante tutto.
Quindi abbiamo smontato la struttura pezzo per pezzo – le ante, la base, la copertura, gli scaffali, la cassettiera – ed abbiamo spostato il tutto sull’altra parete. Abbiamo ottenuto solo che adesso armadio e letto distano tipo un metro, cioè niente, e la prossima settimana ci toccherà quasi sicuramente rismontare tutto da capo, perché così la camera da letto non è vivibile. Sul momento, però, eravamo stanchi morti, il sole aveva rotto le palle e quindi Chakuza ha detto “fanculo la pendenza, basta così” ed io ho annuito entusiasticamente. Ricordando peraltro di dover andare a pranzo con Sido entro le successive due ore, se non volevo farmi silurare anzitempo e perdere così la mia ultima occasione di fuga.
“Senti, mi faccio una doccia”, ho detto a Chakuza, grattandomi distrattamente la nuca, “Non ce l’ho il tempo di tornare a casa per farla”.
Lui ha annuito tranquillamente, biascicando un “Lo sai dove sono gli asciugamani e l’accappatoio” prima di recuperare la propria maglietta e ricominciare a riempire l’armadio con tutte le cose che avevamo buttato un po’ a casaccio fra letto e pavimento.
Mi sono diretto in bagno pieno di una certa soddisfazione. Stare nella stessa stanza e non saltarsi addosso era ancora un obiettivo possibile e la cosa non era di poco conto. Il sesso tende a rovinare tutti i rapporti, ed ero felice di sapere che invece qualcosa di salvabile fra me e Chakuza c’era ancora.
La doccia e l’acqua ghiacciata con cui ho sedato i pezzi di corpo ribelli che non erano d’accordo sulla parte del non saltarsi addosso mi sono sembrati rigeneranti. Sono uscito dal box con un sorriso di una soddisfazione tale da rasentare l’ebetismo.
E mentre recuperavo l’asciugamano e mi asciugavo, ho sentito le voci. Prima delle voci, anzi, la porta. E prima della porta i passi. Passi, porta, voci. “Chaku…”. Bill.
All’inizio è terrore panico. Non dovrei essere qui. Non dovrei essere nudo in questo bagno e non dovrei essermi fatto una doccia e in realtà non avrei neanche dovuto smontare e rimontare l’armadio di Chakuza. Non abbiamo fatto niente oggi, ma non è questo il punto. Bill non è stupido. Bill è tante cose ma purtroppo non è stupido.
Trattengo il fiato e sento la porta richiudersi e Bill muoversi all’interno dell’appartamento – l’inconfondibile ticchettio dei tacchi dei suoi stivali, l’unico segno di movimento perché Chakuza non fa alcun suono, quando si muove. O almeno da qui non riesco a sentirlo.
- Come mai qui? – chiede Chakuza premuroso, - Successo qualcosa?
Bill ridacchia.
- Ho una riunione fra un’ora, ho pensato di passare a trovarti… - il che mi riporta a Sido. Non arriverò mai in tempo. Non se dovrò stare nascosto qui per tutta la prossima ora. Devo trovare un modo di scappare e in realtà non voglio.
- Oh. – la prima esclamazione di Chakuza è atona. – Oh! – la seconda è più entusiasta ed è talmente ridicolo che vorrei ridere ma chissà perché non lo faccio. Non mi sento a mio agio. – Allora… ti va una birra? – c’è la mia birra nel frigo. È la mia tassa d’ingresso, non può darla al ragazzino.
In realtà può. Mi stringo nell’accappatoio perché sto cominciando a sentirmi davvero un idiota e lo sguardo che mi rimanda lo specchio non aiuta affatto.
Chakuza passa svelto di fronte al bagno – adesso i suoi passi li sento perché sono pesanti e frettolosi. Sento il frigo che si spalanca – il tintinnio delle bottiglie l’una contro l’altra – e poi si richiude, e Chakuza ripassa a due centimetri da me e ho come l’impressione che si sia dimenticato della mia esistenza. Scuoto il capo: non è mica possibile. Abbiamo spostato un armadio fino a mezz’ora fa.
Comunque non posso uscire e resto qua a guardarmi negli occhi da solo – il che è ridicolo, a pensarci – mentre sento Bill lamentarsi in lontananza dei ritmi assurdi che David impone loro, e di quanto sia stupido continuare a presenziare ovunque “se poi tanto non scrivo una parola, Chaku, e ci sto impazzendo, dietro questa cosa”.
Chakuza lo rassicura – anche se non sento di preciso cosa dice; colpa della sua voce, quella di Bill è chiara e squillante e la sentiresti a chilometri di distanza, quella di Chakuza invece è cupa come un tuono lontano e non capisci quello che dice a meno di non sentirtelo dire praticamente addosso – e sento solo le bottiglie fare avanti e indietro dal tavolo alle loro bocche, tintinnando contro gli anelli sulle mani di Bill e riempiendo il silenzio della loro conversazione quando, inevitabilmente, sfocia nel vuoto.
“Perfetto”, mi dico, anche se non ci credo neanche un po’. Perché anche io sono tante cose, ma non sono stupido. “Argomento esaurito. Ora si alza e se ne va”. È più una speranza che altro, ma in effetti sento dei suoni che possono darmi ad intendere qualcosa del genere – rumori ovattati, stoffa che striscia contro altra stoffa, gli anelli di Bill che continuano inesorabilmente a tintinnare – e mi sporgo per affacciarmi alla porta, giusto per capire esattamente quanto tempo passerò ancora qua dentro.
D’altronde Chaku non può veramente decidere di scopare col proprio ragazzo. Non mentre ci sono io qui. No?
Schiudo l’uscio.
Ed è come quando senti rumori strani in camera da letto dei tuoi genitori e, quando vai a curiosare, vedi qualcosa che non capisci ma che, per qualche strano motivo, ti fa schifo e ti disturba nel profondo.
Io, quello che vedo, non lo capisco perfettamente. So cosa sta succedendo – Bill e Chakuza in piedi, schiacciati contro lo schienale del divano, che si divorano l’un l’altro con gli occhi talmente serrati da sembrare in trance – ma mi rifiuto di capirne il perché. E questo nonostante io sappia esattamente cosa è successo. Nonostante sia stato proprio io a dargli il via, anzi. In questo preciso istante, con loro negli occhi e il silenzio della casa a riempirmi le orecchie, non riesco a fare altro che chiedermi quando sia successo. Dove fossi io mentre succedeva tutto questo. Penso “in questo bagno sto chiuso da mezz’ora o da… quanti mesi?”, e vorrei prendermi a schiaffi da solo. Per essere stato tanto cretino da pensare che il fatto che loro stessero insieme potesse sfiorarmi senza toccarmi. O farmi del male.
Il loro non è un bacio ansioso e non è un bacio frettoloso. È un bacio umido e aperto, sensuale e lento, di quelli ai quali tieni, di quelli dei quali vuoi conservare il sapore. È una cosa rodata. È una cosa che fra me e Chakuza, nonostante i mesi – mesi interi, Dio – che abbiamo passato a scopare, non c’è mai stata. Bill gli tiene le mani sul petto e lo esplora con competenza, ne traccia gli angoli e le curve, si sofferma a torturarlo con le unghie. Chakuza lo stringe alla vita e se lo tira contro, lo fa con una prepotenza che mi fa salire il sangue alla testa, e Bill gli mugola fra le labbra ed il suo mugolio mi s’infila nelle orecchie e si ripete come un’eco.
Vedo Chakuza che si allontana un po’, prende aria e la lascia prendere a Bill. Il ragazzino è perso, non riapre gli occhi e respira lentamente, pesantemente, appoggiandosi un po’ a Chakuza e un po’ al divano. Solleva le braccia e si aggrappa al suo collo, le punte delle dita sfiorano la sommità del tatuaggio di Chakuza che esce in parte dalla canotta scollata.
- Non pensavo… - gli mormora sulle labbra, e Chakuza s’irrigidisce.
- Non vuoi? – chiede con una certa premura, stringendolo teneramente attorno ai fianchi.
Bill esita qualche secondo, mordicchiandosi l’interno di una guancia, e poi lo bacia ancora. È lì che Chakuza comincia a tirarlo verso la camera da letto. Ma non sembra affatto che lo tiri, in realtà, perché i piedi di Bill si muovono senza particolari problemi.
Io so che dovrei avere almeno la decenza di chiudermi qua dentro e non uscirne più – possibilmente affogarmi da qualche parte, perché non è proprio possibile che io sia qui in questo momento ed abbia visto tutto questo – ma non riesco. Apro la porta e la richiudo silenziosamente alle mie spalle, cammino a piedi nudi sul pavimento come un criminale – e un po’ mi ci sento – e mi accosto alla soglia della camera da letto.
Io non sto bene. Non ci sto con la testa.
Quello che resta del mio cervello esplode quando vedo Bill sedersi sul letto cercando il materasso a tentoni con una mano dietro di sé, incapace di staccarsi dalle labbra di Chakuza, che lo guida come può – poco e male, visto che tiene gli occhi chiusi, ma a loro sembra bastare.
Bill afferra la canottiera di Chakuza per l’orlo e la tira su – adesso è affamato, lo vedo anche io, adesso c’è la fretta di sentirselo addosso pelle contro pelle – e Chakuza ringhia qualcosa di indistinto, qualcosa che fa mugolare Bill. I mugolii di Bill mi spaventano a morte. Il ragazzino è proprio perso.
Chakuza gli si stringe contro con una passionalità che mi sconvolge. Come volesse inglobarlo e tenerselo dentro. E lì penso che sono innamorati. Che sto guardando due innamorati che fanno l’amore. Sono un innamorato e sto guardando due innamorati che fanno l’amore. E non so quale delle tre cose sia la più sbagliata. Fanno male tutte, in un modo o nell’altro.
Il resto non ho veramente voglia di guardarlo. Mi nascondo dietro lo stipite e fisso gli occhi sulla parete vuota di fronte a me. Vorrei diventare un pezzo di arredamento. Ma non lo sono, posso sentire tutto e forse è meglio così, perché sento e immagino. L’immaginazione non è fisica quanto la realtà. E quindi io immagino Bill che gli si struscia addosso, immagino Chakuza che s’insinua fra le sue cosce, sento Bill trattenere il respiro e rilasciarne poi uno spezzato e sofferente. I fruscii delle lenzuola. E i respiri mozzati di Bill che diventano ansiti incerti, via via sempre più convinti. E so che Chakuza è dentro di lui e so che Bill lo voleva e so che stanno godendo insieme. Lo sento nelle loro voci, negli ansiti che rilasciano, nello schiocco dei baci che mi rimbomba nelle orecchie – e non riuscirò più a liberarmene, lo so.
I loro corpi battono l’uno contro l’altro e fanno un rumore che ricorda quello degli schiaffi.
Bill viene sospirando. Chakuza quasi in silenzio, soffocandosi contro la sua pelle. Lo schiocco dei baci è sempre lì e non va via, ma non so se si stanno baciando ancora o lo sento solo io.
Comunque si disincastrano – scivolano contro le lenzuola e se le tirano un po’ dietro, sudati come sono – solo per incastrarsi nuovamente due secondi dopo, mentre cercano di ridare un ritmo al loro respiro. Gli anelli di Bill tintinnano ancora mentre le sue mani scivolano addosso a Chakuza.
Non so quanto tempo è passato, quando sento Bill mugolare che non vuole andare via. E questo mi ferisce più di tutto il resto, ed ho quasi voglia di prendere e andarmene senza pensarci un secondo di più.
Chakuza ride e nella sua risata c’è soddisfazione. Ed io mi chiedo se ho la pistola nei pantaloni. Ma devo stare calmo. Devo stare assolutamente calmo.
- Devi andare. – gli ricorda pacato, - Ti aspettano.
Bill annuisce stancamente – mi sporgo di nuovo a spiarli sperando di non essere visto – e fa per alzarsi.
- Poi torno. – annuncia timidamente, e Chakuza sorride ancora. È il sorriso del salvatore della giornata. Era mio, fino a un’ora fa.
Si aggira per la stanza recuperando i vestiti. Solleva lo sguardo sull’armadio.
- E questo che ci fa qui?
Ed io vedo Chakuza trasfigurare. Non so se avere paura o sentirmi irrazionalmente e crudelmente felice. Il suo sguardo saetta per la camera e incontra la mia maglietta che è ancora lì sul letto a due centimetri dal suo corpo. Ci hanno praticamente scopato sopra. Dovrò andare via con addosso il loro odore, perché non posso farmi prestare qualcosa di Chakuza, non posso andare via con addosso un odore che è il suo e solo il suo.
- L’ho… spostato. – spiega brevemente.
Bill ridacchia.
- E perché?
Chakuza abbassa lo sguardo.
- …il sole illumina meglio la stanza, così.
Il ragazzino si guarda un po’ intorno, dubbioso.
- Ma ne sei sicuro? – chiede soprappensiero. Poi scrolla le spalle, - È un po’ ingombrante qui, comunque. – butta lì come un commento casuale. Si riveste e si china a baciarlo lievemente sulle labbra, prima di allontanarsi da lui.
Riprendo facoltà di muovermi. Mi costringo a farlo. Mi nascondo in bagno appena un attimo prima che Bill esca in corridoio. Stringo con forza il lavandino fra le mani – la ceramica fredda oppone una strenua resistenza contro i miei polpastrelli, e io stringo fino a farmi male e sentirla scricchiolare sotto i palmi.
Chakuza sta battendo alla porta del bagno un attimo dopo che la porta s’è richiusa dietro alle spalle magre di Bill.
- Sei ancora lì, vero? – chiede attraverso il legno.
Io respiro – ci provo, almeno – prima di rispondere.
- Sì, sto uscendo! – lo rassicuro, - Ho perso un po’ di tempo, scusa. Tanto l’appuntamento con Sido è fra mezz’ora!
Mi rivesto ed abbandono l’accappatoio sul mobile. Quando esco dal bagno, Chakuza è appoggiato al muro e posso leggergli in viso così chiaramente che si sente una merda che, anche se non avessi visto nulla, comincerei a sospettare.
- Ho dimenticato la maglietta da te.
Lui la solleva, stringendola in una mano.
- Grazie. – annuisco stringendola con la mia. Per un secondo lui non la lascia andare. Ridacchio. – Guarda che devo mettermela. – solo allora molla la presa.
- Senti, ci vediamo più tardi? – chiede con una certa urgenza, mentre io infilo la maglietta e mi dirigo verso la porta.
Vorrei urlargli che più tardi torna Bill. Che io in questa casa non dovrei mai più metterci nemmeno un piede.
- Magari, sì. – dico distrattamente. La maglietta sa davvero di loro. Mi toccherà chiamare Sido e dirgli che ritarderò una mezz’ora, perché devo per forza tornare a casa e indossarne un’altra. – Poi ci sentiamo.
Poi non so cosa succede, perché non ho il tempo di accorgermene. Non ho il tempo di osservare l’espressione di Chakuza cambiare, o di notare la luce nei suoi occhi farsi più intensa. So solo che mi blocca sulla porta e mi bacia di prepotenza. Non riesco a realizzare subito, sento solo la pressione. Non chiudo gli occhi, i suoi sono serrati.
- Ehi, ehi… - mi allontano con una mezza risata, scivolandogli via fra le braccia, - Cos’era? – mi viene da vomitare.
Chakuza distoglie lo sguardo.
- Ci vediamo più tardi, per favore? – dice semplicemente, ed io annuisco perché non trovo nulla di meglio da fare.
Esco da quell’appartamento e mi sembra di ricominciare finalmente a respirare. Appena arrivo alle scale, sento il primo soprammobile cadere. Chakuza sta distruggendo casa. Di nuovo. Mi toccherà accompagnare lui e Bill all’IKEA domani o dopodomani. Seguiranno scene deliranti delle quali non potrò fare a meno di ridere, perché ogni volta che Chaku distrugge casa Bill si mette in testa di riarredargliela, ma alla fine Chaku è cocciuto e compra sempre le stesse cose, dice che ci si è abituato.
Tornare indietro e fermarlo non è un’opzione contemplabile. Ma mi sa che passo il giro di compere, stavolta.
*
Sbatto di schiena contro la parete e per un secondo tutto ciò che riesco a sentire è un dolore lancinante un po’ ovunque su tutto il corpo. Parte dalla testa e si diffonde sulla nuca e lungo la spina dorsale, e da lì viaggia attraverso i nervi fino a quando ogni singola parte del mio fottuto corpo non sta soffrendo. Per un attimo penso che mi sta bene, perché cazzo, la situazione è quella che è ed io decisamente non dovrei essere qui adesso. Poi Chakuza mi si spinge contro ed io sento il suo cazzo battere contro il mio attraverso i vestiti e mi esplode il cervello. Così, boom, tutto bianco.
Lo afferro per le spalle e lo tiro lontano da me. M’è esploso il cervello e non dovrei poter pensare, ma in realtà è un attimo e dura niente, il momento dopo non c’è più bianco, ci siamo solo io e lui pressati contro un muro in una camera da letto buia con un armadio fuori posto e la serranda abbassata.
Otto, nove ore fa al massimo, stavo oltre quella porta e lo spiavo mentre scopava con Bill. Bill Kaulitz. Il ragazzino di Bushido.
Da allora, ho passato la giornata a cercare di capire come sia stato possibile ridursi a questo modo, partendo dai presupposti dai quali siamo partiti noi. Non è facile venire a capo di cose simili, soprattutto quando all’improvviso ti rendi conto che ti sei rovinato la vita quasi da solo. Avrei potuto evitare di spingerli l’uno fra le braccia dell’altro, e d’accordo, avrei avuto un ragazzino triste ed un Chakuza infelice, ma magari avrei ancora potuto dire di possedere qualcosa di mio. Sarebbe stata un’illusione stupida – Chakuza non è mio, non lo è mai stato, probabilmente non lo sarà mai – ma almeno sarebbe stato qualcosa, Dio.
È buffo che mi venga in mente solo adesso che una situazione simile è stata la prima dannata cosa che ho pensato quando sono entrato per la prima volta in questa casa. Chakuza mi aveva appena pestato a sangue, io avevo appena finito di raccontare la mia versione dei fatti e mi spunta il ragazzino tutto arruffato in palese rintontimento da sonno, ed io penso “cazzo, c’ha messo poco a dimenticarsi del morto. Come si chiama, passaggio del testimone?”. Ma è stato un pensiero fugace, poi l’ho capito – me l’ha fatto capire il ceffone di Bill – che non era niente del genere.
E però, ora che Chakuza forza la mia spinta e mi bacia con violenza, non riesco a fare a meno di pensare che forse in realtà la cosa era esattamente come l’avevo capita io. Solo che questi due ancora non lo sapevano.
- Chakuza. – faccio per chiamarlo, ma lui grugnisce e ritorna a schiacciarmisi contro. Si sente fottutamente in colpa, ed io ne sono felice; non intende parlare – di questo sono meno felice; quanto alla sua intenzione di scoparmi stanotte, non so che pensare. Lancio un’occhiata all’orologio a muro: sono le otto. Bill non aveva detto che sarebbe tornato? – Chakuza! – lo chiamo con più insistenza, e lui si separa da me e poggia la fronte contro la mia, tenendo gli occhi chiusi e sospirando pesantemente. È una cosa che fa sempre, o almeno, la fa quando cerco di fermarlo. È capitato spessissimo nove mesi fa ed aveva smesso di capitare negli ultimi mesi solo perché lui aveva smesso di provarci, per ovvi motivi. Non so se gli dispiaccia sentirsi dire no in generale o sentirselo dire da me.
- Cosa…? – chiede senza aprire gli occhi. È così vicino che sporgendomi un po’ potrei sfiorarlo senza problemi. Forse sarebbe meglio, almeno sarebbe una procedura brevettata, io che lo bacio, lui che mi afferra e mi rovescia sul letto e così via.
- Che stiamo facendo? – chiedo invece, senza muovermi di un millimetro, tenendo lo sguardo fisso sui suoi lineamenti tesi.
Lui si lascia andare ad un sorrisino frustrato. È a disagio.
- Devo spiegartelo con le diapositive? – scherza scendendo ad afferrarmi per i fianchi e trascinandomi verso di sé. I nostri bacini collidono ed io vedo di nuovo bianco. E poi torno di nuovo in me.
Realizzo d’improvviso che sono almeno… oddio, non lo so. Sei mesi circa, che non scopiamo. Sei mesi, forse di più. Dannatamente di più.
- Credevo fosse… passata. – butto lì in un sussurro, perché non saprei come altro metterla. Non c’era niente, in realtà. Sei mesi fa – di più, decisamente di più. Fanno nove mesi, mi sa. Nove mesi sono un’eternità – lui mi ha preso e mi ha scopato su un fottuto tappeto sul quale ora c’è il mio sangue. Almeno credo, il tappeto è sparito. Dopodiché abbiamo continuato a – non lo so. Cos’era? Affogavamo frustrazione? – insomma, per un mesetto circa. Poi la storia s’è conclusa, Bill ha fatto fuori Saad, la Vendetta di Bushido è stata compiuta ed io questo letto non l’ho più visto se non passandoci davanti per sbaglio.
Credevo fossimo tornati solo amici. Per quanto assurdo possa essere questo modo di mettere la questione – amici non lo siamo mai stati. Alleati, compagni, colleghi?, non so, decisamente non amici – credevo che Bill avesse risolto la nostra questione.
Chakuza mi scivola addosso con la punta del naso, disegna tutto il profilo della mia mascella e poi sale a sfiorarmi le labbra con le proprie. Sono delicatezze che nove mesi fa non esistevano neanche per ipotesi. Sono cose nuove, fanno parte di un modo completamente diverso di vedere la situazione. Sono cose che con me non ha mai fatto e so esattamente da chi le ha imparate. Ho la pistola nella tasca posteriore dei jeans e sono così eccitato che questi fottuti pantaloni sembrano stretti da morire. Schiacciato come sono contro il muro, il revolver mi pressa contro la schiena come volesse ricordarmi che esiste e posso usarlo.
È già la seconda volta oggi che vorrei ammazzare Chakuza per gelosia.
C’è qualcosa che non va in me.
- Mi sei mancato. – confessa in un sospiro.
Bianco. Bianco bianchissimo. Se continua così non capirò più niente, e però non è normale che non debba neanche più pressarmisi contro, per farmi andare fuori di testa. Non è normale che gli bastino un respiro e tre parole.
Sollevo le braccia e lo sfioro attraverso la maglietta. Lui mugola e si ripiega sul mio collo, lo sfiora con le labbra ma non fa altro. Per un attimo, oggi, mentre spostavamo l’armadio, sono stato felice. Io, cazzo, sono completamente uscito pazzo per quest’uomo. Lui no, ma poter passare del tempo insieme anche senza scopare era bello.
Ma lui si scopa il ragazzino. E ora vuole scoparsi anche me. Ed io continuo a ripetermi che è uno stronzo ma so che non è vero, Chakuza non è uno stronzo, non lo è mai stato, però cazzo. Cazzo, Chakuza.
E ciò che è peggio – io lo voglio. Io lo voglio, fanculo, lo voglio. È mancato anche a me, Dio, mi è mancata la forma dei suoi pettorali pressata contro la mia schiena, mi è mancato aggrapparmi alla sua vita mentre cercavamo una superficie sulla quale lasciarci andare, mi è mancata la sua bocca e mi è mancata la sua lingua, mi sono mancati i suoi denti e queste spalle assurdamente imponenti, che chiamano per dirti “appoggiati, tanto finché ci sono io non cadi”.
Le mie mani arrivano fino al suo collo e lì si abbandonano, rimanendo immobili.
Lo sto abbracciando. Dovrei sentirmi fuori posto. Chakuza solleva le braccia e mi stringe a propria volta. Sono a postissimo.
- Fler… - mi chiama, e si ferma. Non vuoi dirmelo, Chaku. Non dirmelo. - …mi dispiace. – non è vero. – Ci siamo un po’ allontanati, noi, ma… non volevo che accadesse. – sono bugie. Al ragazzino non le dici, ci scommetto. L’unica cosa che gli tieni nascosta siamo noi. Ma noi non siamo niente, quindi va bene. – Sono contento di-
Gli tappo la bocca nell’unico modo che so essere risolutivo, perché mi fa male sentirlo parlare così. Lo fa sembrare sincero. Io voglio credere che sia sincero. E allo stesso tempo non voglio. Ma se continuo ad ascoltarlo impazzirò del tutto, e non posso permettermi di impazzire. Forse avrei potuto permettermelo mesi fa, quando tutto quello che Chakuza voleva era proteggere il ragazzino e scopare con me. Ora Chakuza vuole scopare col ragazzino e proteggere me.
Ma io non ho bisogno di protezione. Anis mi ha insegnato a difendermi da solo. Me l’ha insegnato prima di diventare Bushido, prima di andarsene, prima di morire e lasciarci tutti nella merda. Ci sono cose che non dimenticherò mai – la prima tag, la prima volta in galera, la prima consegna da spacciatore, la prima scopata – e fra queste cose c’è Anis che, nel mezzo di un assalto così pieno di coltelli da farmi venire le lacrime agli occhi dalla paura, trova il tempo di lanciarmi un’occhiata sarcastica e ringhiare “Difenditi, Frank, o New York non ce l’avrà mai, il suo King”.
Ricordo le imprecazioni dei nostri avversari, la risata brillante di Anis, perfino la mia – divertita e sincera, nonostante la situazione. E ricordo il coltello che affonda nel fianco del fottuto stronzo che mi voleva morto perché pretendevo ci pagasse la merda che gli avevamo venduto.
Io so difendermi.
Io sono forte.
Mi separo da lui e lui grugnisce scontento, perché immagino abbia pensato che il mio bacio sarebbe stato solo il preludio al resto del nostro brevettatissimo rituale di riavvicinamento. Ma niente, Chakuza, non adesso, non per ora, non col ragazzino di mezzo, assolutamente no.
- Dormo a casa mia, stanotte. – dico con decisione, spingendolo via senza fretta, delicatamente. Non voglio che si senta rifiutato su tutta la linea. Voglio solo che sia chiaro che non mi scoperà.
Mi guarda come se l’avessi appena pugnalato alle spalle.
- Non resti…? – chiede, ha l’aria persa, gli occhi liquidi, brillano nel buio perché sono troppo luminosi per non farlo.
Scuoto il capo.
- È meglio così. – lo rassicuro con una pacca sulla spalla.
L’orologio segna quasi le nove. Non capisco se Chakuza abbia dimenticato la promessa di Bill, o se l’abbia sentito nel pomeriggio ed abbiano deciso di non vedersi, alla fine. Comincio un po’ a pentirmi della mia decisione di andarmene, perché lui continua a fissarmi come se lo stessi tradendo e mi sono sentito dare ingiustamente del traditore per tanti di quegli anni che ormai penso di essere condannato a sentirmi male ogni volta che anche solo penso la parola.
- Ci vediamo domani? – chiede lui, arrendendosi e lasciandomi passare. Quando nella mia testa si forma un ringhio rabbioso che dice esattamente “perché non mi fermi?”, scuoto il capo per scacciare i pensieri. Lui lo prende per un no. – Non vuoi più vedermi? Cazzo, Fler-
- No, no! – mi affretto a rassicurarlo, cercando di sorridere, - Sì, ci vediamo domani. Ho da fare all’Aggro ma quando finisco passo per l’Ersguterjunge, così se sei libero mangiamo un panino insieme.
Annuisce. Non è convinto. Si sente ancora in colpa, non gli ho dato modo di fare ammenda come avrebbe voluto.
Realizzo che nella sua testa la situazione è molto più semplice di quanto non sia nella mia. Si sente in colpa solo perché ha scopato con Bill mentre io ero qui, non perché sa che ho visto. Io, invece, sto male proprio perché ho visto. Per questo motivo penso che potrebbe scusarsi in tutti i modi del mondo e la cosa non avrebbe il minimo effetto, su di me: non si starebbe scusando per la ragione giusta, in ogni caso.
- Buonanotte. – dico a bassa voce, dandogli un’altra pacca sulla spalla.
Lui mi afferra per un polso. Non mi lascia andare.
- Sicuro che non vuoi restare a dormire? Anche sulla poltrona. È tardi.
Non è affatto tardi, ovviamente. Le nove non sono “tardi” neanche se hai dodici anni, figurarsi. Mi guardo intorno e vedo che gli effetti della devastazione di stamattina sono ancora visibili sul pavimento e sui mobili ingombri di roba rovesciata. Sembra abbia dato una sistemata, ma è ancora tutto un casino, il che vuol dire che prima di rassettare qui doveva davvero somigliare tantissimo al caos primordiale.
Non so. Se vado via, domattina questo palazzo sarà ancora in piedi?
Decido che non mi importa. È una bugia, ma per stanotte va bene così.
- Ci vediamo domani, Chakuza. – concludo. Sono fuori dalla porta appena in tempo per risparmiarmi la vista di un lume del comodino che si schianta contro il pavimento.

Bookmark and Share

Girls Just Wanna Have Fun

di lisachan
Io e Bill siamo alle Canarie. Non è la prima volta, perché la prima vacanza che ci siamo concessi insieme – solo io e lui, gliel’avevo promesso mentre inseguivamo Saad nel gelo di una notte che al momento non mi va di ricordare, e io le mantengo sempre, le mie promesse – l’abbiamo organizzata qui di proposito. Le Canarie sono un bel posto, sono piene di gente ma sono a misura d’uomo. Nel senso che è tutto molto carino e compatto, non ti ci perdi. Il che è fondamentale, quando devi andare dietro ad uno come Bill, che in pratica non fa che inseguire farfalle – sotto forma di borse Prada e pantaloni D&G.
Comunque sia, la prima volta che siamo venuti qui è stata proprio la prima volta in assoluto che ci siamo mossi da soli – e per quanto riguarda me era pure la prima volta che mettevo piede su un dannato aereo, la qual cosa mi ha fatto del male fisico che ho superato solo in virtù del fatto che non potevo lasciare Bill lì al check-in e tornarmene a casa correndo, urlando ed agitando le braccia sulla testa. Non sarebbe stato per niente qualcosa di cui andare orgoglioso e Chakuza mi avrebbe preso per il culo a parole – mentre cercava di prendermi per il culo anche in altri sensi – finché fossi rimasto in vita. La cosa non era proponibile.
Insomma, le Canarie – non so se ce le avete presenti – comunque sono questo arcipelago di isole paradisiache, ed è meraviglioso, perché uno non se la aspetta una roba simile in Europa. Cioè, quando uno immagina isole di questo tipo pensa automaticamente di dovere andare per forza oltreoceano. E invece niente, a due passi – più o meno – da casa, tu arrivi e c’hai tutto. Il mare e le spiagge e le lunghe vie affollate piene di palme e turisti in shorts che fanno tanto L.A. E sei sempre in Spagna, eh, non sei nemmeno uscito dall’Unione Europea. Secondo me è una cosa stupenda.
Comunque sia, la prima volta che siamo partiti eravamo entrambi un po’ scossi. Cioè, Bill lo era. O meglio, non lo era, la qual cosa era anche più preoccupante. E io ero circondato da gente che non riusciva a venirne a capo, nel senso che Jost non riusciva a capire come farlo tornare un essere umano normale che si preoccupasse di avere ucciso un uomo, e Tom era del tutto fuori di testa. A me, sinceramente, ha fatto paura, Tom, quando sono passato a prendere Bill per portarlo al Cafè Zapata ed offrirgli un gelato. Cioè, mi ha ringhiato contro e mi ha strillato “no che non te lo lascio portare fuori!”. A me. Tom mi venera, tipo.
E poi c’era il Chaku, naturalmente.
Gesù, un uomo incapace di comprendere cos’ha nella testa. Sempre, questo, ma in quel momento in maniera particolare. Perciò niente, nessuno poteva aspettarsi delle soluzioni da loro, perciò io ho arbitrariamente deciso che avrei risolto la situazione, ho preso Bill e l’ho portato in vacanza.
Il primo viaggio, quindi, l’ho pianificato io. Bill non ha fatto resistenza, quando l’ho invitato a partire, però non ha nemmeno mostrato chissà che entusiasmo, ecco, quindi mi sono dato da fare per portarlo in un posto carino e sono andato da un amico giù nel ghetto a chiedergli “ma tu un bambino dove lo porteresti, tipo, per farlo riprendere da un trauma di quelli belli grossi?”. E quello prende e mi trascina a casa sua, dove tira fuori chili di depliant pieni di roba su queste isole fantasmagoriche a due passi da casa, che sono cose che ti turbano, anche, non te l’immagini che uno spacciatore possa prendere a brillare come un bambino mentre ti illustra le meraviglie di un delfinario, perdio.
Così l’ho portato a Tenerife, che praticamente è un’isola per famiglie. Nel senso, c’è il parco acquatico e c’è, appunto, il delfinario e ci sono un sacco di posticini carini in cui portare i ragazzini, perciò niente, non ho fatto per nulla fatica, perché poi a Bill piace stare in mezzo alla gente, non è mica felice quando lo rinchiudi in una casa, quale che sia il motivo. Siccome vive con un bisogno costante di adorazione, ha sempre questa necessità spasmodica di trovarsi in mezzo a gente che possa venerarlo come si deve. Quindi, in sostanza, o è in famiglia e tutti lo venerano per partito preso – perché come fai a non volergli bene, al ragazzino? Andiamo, non puoi – oppure va per negozi a farsi venerare per un qualche motivo valido da commessi e commesse.
Insomma, la nostra prima vacanza, proprio perché l’ho progettata io, è andata alla grande. Ho portato Bill in un sacco di posti carini, l’ho portato anche al delfinario e l’ho osservato riacquistare poco a poco tutte le sue espressioni. Una cosa un sacco carina, peraltro, perché poi i sorrisi di Bill quando si aprono sono come quelli dei bimbi, grandi e improvvisi, e tu resti lì a fissarlo e ti chiedi come sia possibile che un ragazzo sia così tremendamente bellino. Suppongo che Bill ignori un sacco di regole, compresa quella per cui un ragazzo non può essere carino.
Quindi, la prima volta è andato tutto a meraviglia. Poi Bill s’è preso bene – anche troppo – ed ha deciso in primo luogo che le nostre vacanze andavano ripetute; in secondo luogo, che della progettazione delle altre si sarebbe occupato lui. Io avevo, in effetti, una mezza idea di dirgli “no, guarda, grazie mille ma ho altro da fare, nella mia vita”, ma insomma, il ragazzino, mente stavamo lì a guardare i delfini, mi si è sciolto in lacrime per la prima volta da quando eravamo partiti, e... e poi, insomma, non è che avessi molto da rimpiangere, io, lì a Berlino. Non è che abbia molto da rimpiangere anche adesso, d’altronde.
Per dire, al momento la situazione a Berlino è: ho un Chaku che, per ovvi motivi, s’è completamente dimenticato della mia esistenza – non ce l’ho con lui, lo capisco, l’ho mandato da Bill un paio di mesi fa e sono in pieno delirio romantico, al momento, non c’è spazio per me… il Chaku nemmeno lo cerca, lo spazio per me, d’accordo, ma lui è così, non ci si può fare niente, gli si vuole bene per il disastro che è o non gli si vuole bene affatto. Quindi, il risultato di tutto questo è che io un Chaku non ce l’ho per niente. E Sido non s’è ancora deciso a partire con il tour, per inciso, perciò se stessi a Berlino dovrei praticamente stare tutto il giorno in casa – solo – sperando di non vedermi spuntare all’improvviso Tom in aria di fanatismo. Non esattamente un paradiso.
Comunque, anche stare lì solo in casa tutto il giorno sarebbe rilassante e piacevole, al confronto con ciò che sto vivendo in questo preciso momento della mia esistenza. E se sapete almeno un po’ di quanto odi stare in casa da solo, immaginerete facilmente cosa voglia dire questa frase pronunciata da me medesimo.
Sto vivendo una tortura.
- Ommioddio!!! Pat!!! Guarda lì!!! Oddio, le voglio… oddio, le voglio tutte!
Bill sta gemendo in maniera surreale, qui accanto a me. Ed il fatto che stia gemendo così per delle caramelle già basterebbe ad inquietarmi. Il problema è che ho qualcosa di anche peggiore, intorno a me, al momento. Ed è questo quello che mi preoccupa di più.
Siamo sulla Gran Canaria, terza isola dell’arcipelago in ordine di grandezza. Per la precisione, in questo momento siamo sulla Playa dal Inglés.
Non ho idea del punto fino al quale si spinga la vostra conoscenza delle Canarie: io, comunque, le conosco abbastanza per sapere che ci troviamo in uno dei più importanti centri turistici omosessuali dell’intera comunità europea.
Sapevo che non avrei dovuto lasciare a Bill la possibilità di organizzare il viaggio senza consultarmi prima.
Lo vedo che si fionda letteralmente all’interno del negozio di dolciumi e lo afferro per l’orlo della maglietta, trascinandomelo dietro mentre avanzo per la strada, portando entrambe le nostre valigie – il suo trolley per il manico, il mio borsone a tracolla – e guardandomi intorno alla ricerca del nostro albergo, mentre cerco di tenere il depliant con l’immagine dell’hotel in equilibrio sulla testa, così da potere lanciare qualche occhiata all’immagine ed alla strada, alla ricerca del posto giusto.
- Non se ne parla, ragazzino. – lo rimprovero, mentre lui miagola e mugola e cerca in tutti i modi di farmi sentire in colpa per averlo trascinato lontano dall’amore della sua vita, - Prima ci sistemiamo in camera, poi se ne parla.
- Ma io-
- Ma tu niente. – insisto trascinandolo verso l’entrata dell’albergo. – E ora comportati bene, su. Non facciamoci rimproverare subito.
Lui si lascia andare ad una mezza risatina maliziosa e divertita e poi mette su la maschera della signorina di buona famiglia, le braccia strette lungo i fianchi e le mani intrecciate in grembo. Roteo gli occhi e lo lascio fare, pensando che il ragazzino certo si diverte in modi stranissimi.
Il consierge ci accoglie con estrema sollecitudine. Bill, oltre gli occhiali enormi e scurissimi, le labbra che brillano del riflesso dei raggi del sole contro il lipgloss, sembra una ragazzina, più che un ragazzino.
- I signori hanno prenotato?
Bill fa un sorriso piccolissimo e si stringe appena nelle spalle, in un’imitazione di timidezza che da sola mi fa venire voglia di sbottare “oh, andiamo!”. E invece niente, mi limito a tirare l’ennesimo sospiro stremato della mia giornata e poggio per terra tutta la roba che mi trascino dietro da ore, allungandomi sul banco della reception in cerca di un po’ di refrigerio dalla calura assurda che attanaglia questa città. Il legno, almeno, è fresco.
- Una matrimoniale a nome Losensky.
Bill lascia andare la risatina di rito, coprendosi le labbra con una mano. Il consierge inarca entrambe le sopracciglia ed io gli lancio uno sguardo tra l’esausto ed il pietoso, come a dirgli “vede con cosa devo avere a che fare ogni giorno?”. Però niente, lui non sembra interessato al modo in cui devo espiare ciò che secondo lui è così palese – cioè che io questa ragazzina me la porti a letto. Nella sua testa c’è sicuramente qualcosa di molto simile ad uno scocciato “sì, ma che cazzo vuoi? Te le cerchi adolescenti? Problemi tuoi”. Solo che io non me le cerco per niente adolescenti, Bill non è veramente una ragazzina e io, comunque, vivaddio non me lo scopo. Quindi un po’ di comprensione me la merito e quest’uomo è ingiusto nel non darmela.
Un facchino che sarà anche più piccolo di Bill recupera il nostro bagaglio e ci precede verso l’ascensore. Noi lo seguiamo qualche passo più indietro.
- Dico, era necessario? – ringhio, afferrando Bill per un gomito e tirandomelo vicino.
Lui ride ancora e non risponde, ma quel trillo argentino mi basta a capire che sì, era proprio necessario, perciò sospiro e lo lascio andare, dandogli modo di prendermi sottobraccio spalmandomisi addosso neanche fossimo fidanzati da anni.
Non so perché Dio – se esiste davvero – mi abbia circondato solo di piaghe sociali, al posto di darmi degli uomini normali. Devo aver fatto qualcosa di orribile in un’altra vita, ma proprio pesante. Magari ero tipo Giuda, perciò reincarnandomi… ma mi sa che sto facendo confusione fra le religioni.
Il motivo per cui Bill si sta comportando in questo modo disdicevole e disturbante, è che questo ragazzino, fondamentalmente, è un animale da palcoscenico. Soffre, quando non può esibirsi. E non sto parlando di esibizione di tipo canonico, quella in cui sali sul palco e fai ciò che sai fare meglio. No, Bill si esibisce nel senso che esibisce se stesso. Per questo soffre tanto, a Berlino: non può mostrarsi. Qui, invece, può godere dell’anonimato del mio nome – non sono esattamente uno che attiri la presenza dei paparazzi, io, ed anche a prenotare come Losensky tendenzialmente non ho nulla di cui preoccuparmi – e del fatto che nessuno si aspetti di vederlo qui in giro con uno sconosciuto. Così, mentre sui giornali lo accoppiano con Jimi Blue, lui passa una settimana a fingere di essere la fidanzata di questo sconosciuto me stesso in terra straniera, per poi tornare a Berlino più tranquillo. E tornare anche ad essere la fidanzata del suo legittimo proprietario.
Dopo esserci sistemati, lavati e cambiati, scendiamo giù e Bill decide che lo shopping può aspettare: vuole un cocktail e lo vuole a bordo vasca, nell’immenso giardino che ospita la piscina dell’albergo. Io lo squadro dal basso verso l’alto. In effetti, tra le infradito, la quantità oscena di ciarpame metallico che s’è gettato addosso apparentemente alla rinfusa e l’enorme cappello di paglia bianco che gli copre la testa e metà del viso, penso che gli manchi solo un ampio vestito scollato, morbido e con una stampa floreale, per essere indicato come una perfetta signora dell’alta borghesia che si concede un breve aperitivo in piscina.
- Ti sei almeno reso conto di essere ridicolo? – chiedo con una certa curiosità, spostandogli la sedia perché possa sedersi e prendendo poi posto di fronte a lui.
Lui fa un mezzo broncino deluso.
- Ma come… - biascica, - E io che mi sono messo tutto in ghingheri per te…
- Bill!
Lui ride ancora, gettando un po’ indietro il capo, ed io sospiro pesantemente.
- Avanti… - pigola, piegandosi tutto in avanti fino a guardarmi dal basso come una lolitina innocente, - fammi divertire un po’. Sei sempre così serio…
- Io non sono serio. – borbotto, - Mi limito ad avere un cervello.
Il cameriere ci si avvicina, sorridendo amabilmente. Bill fa per afferrare il menu e sbizzarrirsi con le richieste, ma lo fermo piantando una mano fra lui e il libriccino, schiacciandolo sul tavolo.
- Un succo alla pesca. – dico, rivolgendomi direttamente al cameriere per evitare l’occhiata da cucciolo oltraggiato che Bill mi rivolge, - E per me un caffè.
Il cameriere annuisce compitamente e scompare verso il piano bar – un bel bancone bianco sormontato da un sacco di ombrelloni colorati, dietro al quale svariate ragazze si dividono i gravosi compiti dell’agitare gli shaker per preparare i cocktail e dell’agitare i sederi per attirare i clienti. Cerco di salvare in memoria i tratti dei loro visi senza lasciarmi – troppo – distrarre dai suddetti sederi, per poi tornare a fare un giro da queste parti quando verso le dieci di sera Bill, stremato, sarà crollato fra i cuscini in camera, e poi torno a guardare la principessina oltraggiata. La quale mi sta a propria volta fissando come fossi una specie di barbaro che l’ha rapita e la sta trattando con ingiustificabile rozzezza.
- Be’? – chiedo con un sorrisetto divertito, - Che ti prende adesso? Non ti diverti più?
Bill aggrotta le sopracciglia ed incrocia le braccia sul petto, accavallando teatralmente le gambe.
- Tutti uguali, voi rapper. – borbotta a bassa voce, sciogliendo l’intreccio delle braccia solo per sistemare il cappello di paglia di modo che possa schermare la sua pelle – che deve restare bianchissima; Bill, quando prende il sole, diventa dello stesso colore di Anis. Dal momento che fuggiamo dalla Germania di nascosto come ladri, non posso riportarlo a casa troppo colorato, pena morte istantanea per mano di Jost, che sarà pure piccolo e carino ma sa farsi temere. – Anche Chakuza, quando vede Eleonor, non vede più niente.
Mi fermo e faccio mente locale, perché qui c’è qualcosa che non mi torna.
- Eleonor? – chiedo quindi, inarcando un sopracciglio, - Ma non si chiamava Ingrid?
Ingrid è la groupie inesistente che Bill ha affibbiato al Chaku. Quando il Chaku ha da fare perché, tipo, vivaddio Stickle l’ha incatenato al mixer e lo sta costringendo a tirare fuori qualcosa che non sia un delirio erotico-romantico dalla sua testaccia bacata, Bill, per farlo sentire in colpa per finta, comincia a tirare fuori la storia di questa Ingrid che dovrebbe essere – a quanto ho capito quell’unica volta che il Chaku, mentre gli pulivo casa, mi ha fatto una testa così lamentandosene – questa signorina bellissima e perdutamente innamorata del Chaku col quale il Chaku, appunto, va a letto, tradendo ripetutamente Bill. Ovviamente nulla di tutto ciò è mai avvenuto – suppongo che me ne sarei accorto – ma Bill la tira fuori di tanto in tanto, e ne parla proprio come fosse una persona vera, la descrive, le ha dato un carattere e tutto, quindi ormai la conosciamo come se fosse reale sul serio. L’ho detto, io, che il ragazzino si diverte in modi stranissimi.
- Dettagli. – sbuffa Bill, tirandosi un po’ indietro quando il cameriere arriva a portare la roba che abbiamo ordinato, e cominciando a sorseggiare il succo.
- Be’, - annuisco io, zuccherando il caffè – che è una cosa che ho preso per abitudine dormendo a casa del Chaku… lo prendevo amaro, prima, ma lui ha questo vizio di zuccherarlo a chili di default, quindi quando mi portava la tazzina o mandavo giù o gliela tiravo in testa. Quando ho capito, alla terza volta, che anche tirandogliela in testa all’infinito avrebbe continuato a zuccherarla, mi sono rassegnato. Questo, immagino, dice molto del Chaku e anche di me. Comunque, mando giù un sorso di caffè e continuo. – d’altronde, essendo una donna inesistente, può cambiare nome quando vuole, immagino.
Bill mugugna qualcosa di assolutamente incomprensibile e poi si stende contro lo schienale della sedia, occhi socchiusi e capelli che si agitano appena nel venticello del pomeriggio. Il sole è ancora altissimo nel cielo e non sembra che siano le cinque passate. Questo posto è meraviglioso, anche se siamo palesemente in una specie di riserva naturale gay, realizzo mentre lascio scorrere lo sguardo tutto intorno a noi e vedo solo uomini dai fisici perfetti ed anche perfettamente oliati. Per un secondo mi infastidisco e mi viene anche da chiedermi, allora, ‘cazzo sculettassero le signorine dietro il bancone. Poi realizzo tutto d’improvviso che probabilmente stanotte sarò l’unico essere umano vagamente eterosessuale nel raggio di chilometri, e la vita mi sembra improvvisamente stupenda.
- Lo sai che me l’ha detto? – sento improvvisamente arrivare la voce di Bill come provenisse da un altro pianeta, sottilissima e trasognata. Quando mi volto a guardarlo, lo trovo che fissa un punto imprecisato nel nulla, giocando con le dita sulla cannuccia. Ha le labbra piegate in un sorriso tanto piccolo e tanto tenero che mi viene voglia di dargli un bacio. Una cosa stupida, niente di malizioso, solo un bacetto a fior di labbra, sarà che io sono molto fisico, però glielo darei un bacio, in questo momento. Anche se mi ha appena confessato che Chakuza gli ha detto di amarlo.
Cerco di fingere che questa cosa non sia esattamente l’ultima che avessi voglia di sentire, in questo momento – ma anche in qualsiasi altro – e che non sia anche il motivo per cui sto cercando disperatamente di farmi trascinare da Sido in qualsiasi posto che sia lontano da questi due, e sorrido appena.
- In un momento di particolare entusiasmo? – chiedo, trasformando il sorriso in un ghigno stronzo.
Bill sbuffa, voltandosi a guardarmi con occhi colmi di disapprovazione.
- Ma no! – sbotta, - Che idea hai di Peter, Pat?! – ho quella che mi ha dato lui di se stesso, ragazzino. – Mica passiamo tutto il nostro tempo insieme a letto!
Che è, in effetti, molto più di quanto non possa essere detto di me e lui. Ed anche questo, suppongo, dice tanto sia di Chakuza che di me.
- E quando è successo, allora? – chiedo comunque, perché è evidente che il ragazzino vuole parlarne ed è evidente anche che l’unica persona con cui può farlo sono io.
Bill si entusiasma subito. Posa il bicchiere col succo sul tavolino e si tende tutto, voltandosi verso di me e cominciando a saltellare sul posto.
- Sapessi, Pat! – e comincia a raccontarmi questa storia incredibilmente romantica che è molto probabile abbia esagerato nei toni, per la quale Chakuza si è presentato a casa sua il giorno di non mi ricordo quale mesiversario – il sesto? Il settimo? Sto cercando di non tenere il conto – facendo apparentemente finta di aver dimenticato l’importanza fondamentale della data, per poi mostrarsi incredibilmente stupito nel momento in cui un facchino ha bussato alla porta di Bill portando con sé un enorme mazzo di rose rosse che poi, ovviamente, aveva ordinato lui perché arrivassero precisamente nel momento di maggiore sconforto di Bill – cioè una mezz’ora prima che il Chaku dovesse tornarsene a casa. E poi niente, gliel’ha detto.
- Assurdo. – commento con una mezza risata.
Bill sorride dolcissimo.
- Grandioso.
Il che, invece, dice molto di Bill e di Chakuza insieme.
*
Restiamo qui in piscina finché non si svuota. Piano piano, tutti gli uomini – e anche tutte le poche donne che ci sono in giro – cominciano a tornare all’interno dell’albergo. È quasi ora di cena. Bill sonnecchia sulla propria sedia e temo proprio che stasera non mangerà. Il che vuol dire che domani mattina dovrò avere l’accortezza di passare da qualche parte a prendergli qualcosa di buono, prima di tornare in camera e stendermi al suo fianco per abbracciarlo e rassicurarlo sul fatto che sì, ho dormito con lui, anche se in realtà non l’avrò fatto. Sì, lo so, non dovrei mentirgli. Però non mi sento per niente in colpa a farlo, il ragazzino non ha bisogno di sapermi a scopare in giro. Ci sono delle bugie che puoi dire. Ci sono delle cose che puoi tralasciare. Il ghetto – Anis – mi ha insegnato anche questo. La verità prima di tutto il resto – ma oh, quante facce possono avere il vero e il falso?
Ghigno un po’ mentre il sole tramonta sulla spiaggia che da qui si vede benissimo, e ripenso all’espressione concentrata e presuntuosa con la quale Anis mi spiegava questa sua illuminata teoria, e prima di cominciare a pensare cose di cui mi pentirei – tipo che mi manca; tipo che dovrei cominciare ad andare avanti come stanno facendo tutti intorno a me; tipo che a volte ho come l’impressione di voler continuare a frequentare Bill proprio per impedirmi di dimenticare quello che tutti gli altri sembrano aver già rimosso abbondantemente – mi tiro in piedi, sospirando pesantemente.
- Ragazzino? Dai, andiamo in camera.
- Ma non ho sonno… - si lamenta, la testa che penzola avanti e indietro.
- No, naturalmente. – rido io, tirandolo su di peso e stringendolo forte perché non cada, mentre lo trascino per il cortile e poi all’interno dell’albergo e nell’ascensore, fino in camera.
Quando lo adagio sul letto, lui mi trascina con sé, ed io faccio i salti mortali – quasi letteralmente – per non cadergli addosso e planare invece sul materasso al suo fianco.
- Resti? – mi chiede con un filo di voce, e io mi sollevo su un gomito e resto steso sul fianco mentre lui mi si accoccola contro.
- Mh-hm. – annuisco, riavviandogli i capelli dietro un orecchio in una carezza distratta che lo fa sorridere.
- Io ti voglio sempre bene, sai…? – continua a blaterare. Sta già praticamente dormendo. Fra dieci minuti russerà e domani mattina neanche ricorderà di avermi detto queste cose. – Anche se il Chaku mi ha detto che mi ama e gliel’ho detto anch’io, io ti voglio bene tantissimo…
Annuisco ancora, ridendo appena più forte. Non so più nemmeno se sta parlando con me o con la persona che i miei abbracci gli ricordano.
- Lo so, ragazzino. Ti voglio bene anch’io.
Bill sorride e poi, sfinito, crolla con la testa sul cuscino, profondamente addormentato. Gli rimbocco le coperte cercando di muovermi il più silenziosamente possibile, e poi medito sulle numerose possibilità che mi offre la mia serata.
Ovviamente, come a ricordarmi che nella mia testa non posso fare troppo spazio, visto che lui è assolutamente intenzionato a riempirla tutta, Chakuza mi chiama sul cellulare. Rispondo prima che la suoneria possa svegliare Bill, e sospiro pesantemente.
- Ma non hai mai niente da fare, tu?
Chakuza si lamenta borbottando a bassa voce, rigirandosi il telefono fra le mani.
- Ero solo preoccupato. – si giustifica, - Mica mi fido, a mandarvi in giro da soli.
- Siamo grandi e forti. Possiamo sopravvivere ad una vacanza.
- Bill non è grande e forte.
- Io lo sono.
Chakuza non risponde, non subito, almeno. Si prende il proprio tempo per inspirare ed espirare, e solo dopo parla.
- È tutto a posto, sì?
Vorrei rispondergli che può anche fare a meno di essere così discreto. Che lo so che lui e Bill stanno insieme. Che non è nemmeno tanto giusto non si senta in diritto di dirlo chiaramente. Che l’ho sempre saputo, e se non ho ancora cominciato a lamentarmi sul punto è ragionevole immaginare non comincerò mai. Perciò puoi stare tranquillo, Chaku. Puoi anche dirmelo, se ti manca e vuoi sentirlo.
- Sì, è tutto a posto. Bill già dorme. Dovresti anche tu.
- Alle otto di sera? – ride lui, una risata piccolissima e veramente divertita.
- Be’, almeno così non corri il rischio di fare cazzate perché ti senti solo. – rispondo io con una risata uguale.
- Avanti, - borbotta lui, - lo sai che non c’è verso di prendere sonno prima dell’una del mattino.
Io rido ancora.
- Sì, sei una piaga sociale. Comunque ti mollo, ho di meglio da fare che stare al telefono con te. Lo sai che sono tipo l’unico essere umano eterosessuale sull’isola?
- Che?! – strilla lui all’improvviso, - …okay, ci sono tante di quelle cose che non funzionano, in questa frase, che fatico a processarle tutte.
- Tranquillo, nessuno attenterà alla nostra virtù. – lo rassicuro, continuando a ridere, - In compenso non ti assicuro che non attenterò io alla virtù di qualche bella fanciulla, perché ho solo l’imbarazzo della scelta.
Lui mugugna qualcosa di assolutamente incomprensibile.
- Ovvio. – aggiunge poi, - Appena ti si toglie un attimo le mani di dosso… - e lì, per un secondo, mi si ferma il tempo nella testa. E si ferma anche nella testa del Chaku. - …scusa. – si affretta a correggersi subito dopo, - Non so da dove mi sia uscita.
Io sospiro.
- Fa niente. – rispondo con una scrollatina di spalle che lui non può vedere. – Ora mi fai riattaccare?
- Sì, - annuisce subito, - sì, naturalmente. Comunque richiamo domani.
Roteo gli occhi.
- Peggio di una vecchia madre. – biascico acido, - Buonanotte.
Lui ride. Il suo buonanotte mi arriva forse un po’ troppo dolce di quanto non sarebbe giusto suonasse, ma non sono in vena per lamentele di questo tipo, al momento.
Bill mugola nel sonno e mi si schiaccia addosso, sgomitandomi in mezzo alle costole e stringendomi come un peluche.
Sospiro.
Stasera non si scopa.

Bookmark and Share

Cure For The Itch

di lisachan
Una Klosterbräu, una Becks e una Charly Brau. Poi una tequila. Poi dello scotch. Un’altra Klosterbräu e poi ho meditato se ricominciare il giro con un’altra Becks ed un’altra Charly Brau. Alla fine ho preso una Zipfer e sono sicuro all’ottanta per cento che sia a causa della fottuta birra austriaca se adesso sono qui. Avrei dovuto ricominciare il ciclo con la Becks, magari sarei svenuto nel locale. Il proprietario mi trova simpatico, dato che probabilmente gli sto pagando l’università per la figlia, visto quanto spendo lì ogni giorno. È meglio che non sappia che la ragazzina me la sono scopata un paio di volte la settimana scorsa, o finisce che invece di chiamarmi un taxi come ha fatto fino ad ora mi getta lungo disteso sul marciapiedi e lì mi lascia.
Comunque non l’ho presa, la Becks. Ho preso la fottuta Zipfer e mi ha rovinato il sapore in bocca per tutta la serata, che poi è il motivo per cui mi sono alzato e sono andato via e adesso sono qui in questa strada e mi sto dirigendo verso quel portone scassato là sotto.
Sbatto contro un tizio un attimo prima di attraversare la strada, e me ne accorgo solo perché lui mi mette le mani addosso e mi rimette dritto prima che io possa cadere sull’asfalto.
- Vattene a casa, ubriacone! – si lamenta quello, non vedo neanche che faccia abbia, lo ignoro. – Stai barcollando!
- Non sono nemmeno brillo… - rispondo a mezza voce, ma quello naturalmente non può sentirmi perché è già lì che se ne va avvolto in quel suo bel cappotto scamosciato beige e giusto che ci penso sto morendo di freddo, si vede che siamo a novembre, non ci posso più andare in giro in felpa, è meglio che me lo ricordi per il futuro, Dio, mi viene da vomitare.
Attraverso la strada e sbando un po’ di qua e un po’ di là, non tanto, insomma, non tantissimo, ecco, so che crollo sul muro e pesto un po’ di pulsanti a caso sulla placca del citofono. Speriamo di beccare quello giusto, nel mucchio. In questo momento non mi ricordo neanche come fa di cognome Chakuza. Un qualche stupidissimo cognome austriaco come la stupidissima birra austriaca che è quella che mi ha portato qui questa notte.
Mi risponde una voce di donna che decisamente non è Chakuza.
- Chi è? – chiede, per un attimo mi domando se non sia qualcuna che lui s’è portato a casa, ma il tono è quello della signora anziana e non sono ancora tanto ubriaco da pensare credibile un’ipotesi del genere… o magari a Chakuza piacciono vecchie, chissà, è pure possibile.
Okay, forse sono davvero ubriaco.
Non rispondo e premo un altro pulsante a caso, la tipa continua, “chi è? Chi è? Guardi che chiamo la polizia!” e vorrei rispondere che non è la prima volta, ma da un lato ho una nausea che già la metà basterebbe a stendermi se non ci fosse tutto questo fottuto freddo, e dall’altro sento una voce ruvida e profonda che si intreccia con quella acuta e spaventata della vecchina e penso “bingo! L’ho beccato!”, ed in effetti dall’altro lato del citofono c’è Chakuza che mi chiede chi sono.
- Sono Fler… - rispondo, e mi viene da ridere perché il mio nome è comico quando sono ubriaco, si allunga. Fleeeer.
Chakuza non dice nulla, per qualche secondo si prolunga un silenzio stranito e poi la serratura del portone scatta ed io posso rotolare dentro l’ingresso, che è congelato e odora di muffa. Sarei dovuto andare a casa di Sido, casa di Sido è stupenda e c’è il tappeto rosso all’ingresso e lungo tutte le scale, però non posso presentarmi da Sido in queste condizioni. Avrei dovuto andarmene a casa mia, che è congelata e odora di muffa esattamente come qui, ma almeno lì non mi sputtanerei con nessuno.
Arranco sulle scale maledicendo l’assenza di un ascensore, mi aggrappo al corrimano cercando di non scivolare ma ho le dita congelate e non fanno granché presa – peraltro è freddo anche lo stupido metallo, qui. Odio questo posto.
Chakuza mi aspetta sul pianerottolo, ha una mano sulla porta e la tiene aperta mentre si sporge per osservarmi emergere dalla rampa di scale, io lo individuo ed individuo anche una signora avvolta in una vestaglia felpata di un verde smeraldo così brillante che secondo me luccica sul serio, non per colpa della tequila.
- E questo chi sarebbe? – chiede la donna, è quella del citofono.
Chakuza è imbarazzato.
- Non si preoccupi, signora Lotte, è un amico.
- Sono un amico! – confermo annuendo. E tutto all’improvviso vedo il pavimento che si avvicina verso la mia faccia. Così, senza preavviso. Dico, ma dove vive Chakuza? In una casa che si muove per i fatti suoi? Non è una bella cosa.
Mi sento afferrato per le spalle un attimo prima che il pavimento mi dia uno schiaffo e quando sollevo lo sguardo vedo Chakuza che mi fissa allucinato, mentre mi rimette in piedi e cerca la mia vita per stringermi e aiutarmi a camminare.
- Diosanto, ma quanto hai bevuto?! – mi chiede, sconvolto, mentre la signora con la vestaglia fosforescente si rintana preoccupata in casa propria.
- Una birra! – rispondo con un mezzo broncio, nessuno crede che non sono ubriaco, dico, che sta succedendo in questa città?!
Chakuza si chiude la porta alle spalle mentre incespichiamo entrambi su qualcosa che c’è buttato sul suo pavimento, anche se non capisco cos’è… in realtà ci sono tante cose buttate sul suo pavimento, solo che è scuro e non è che riesca ad identificarle proprio tutte… forse quella era una maglietta, comunque. Rido.
- Non sono io che cado, è la tua casa che è piena di trappole, Chakuza! – ha un nome lunghissimo anche lui! Però è spigoloso, il mio è più divertente. – Chakuza, Chakuza… - lo richiamo, a forza di dirlo è carino, - te ne sei mai accorto che ho un nome lunghissimo? – lui mi guarda strano ed io gliene do la prova, - Fleeeer… - cantileno dondolandomi un po’.
- Ma se sono solo quattro lettere… - protesta lui. Evidentemente non sa contare le e! Sono molto deluso, - Cristo, Fler, ma lo sai che ore sono?!
Scrollo le spalle, non ne ho idea.
- Sono le tre del mattino! – mi informa, irritato.
- E tu già facevi la nanna? – lo prendo in giro, mi accorgo solo adesso che ha addosso solo una maglietta e un paio di pantaloncini, non so perché lo trovo divertente. Comunque rido.
Lui arruffa le penne e mi fissa come se mi dovesse rimproverare.
- “Già” è un concetto molto meno relativo di quanto non pensi tu! È oggettivamente tardi!
Mi lascia andare ed io cado su una poltrona. Cioè, prima sbatto col sedere su un bracciolo e poi scivolo con un tonfo sul cuscinone che fa puff e mi scappa un’altra risata perché questa casa sembra viva.
- Parli difficile, Chaku… - borbotto e sbadiglio perché ho sonno. Mi alzo in piedi. – Dov’è il letto?
Lui mi guarda stralunato, tira fuori un paio di occhi enormissimi.
- Il letto?
Mi avvicino e lo fisso male.
- Voglio dormire! – spiego. Perché non mi capisce?! Mi sembra di parlare facile!
- Oh. – prende atto, forse mi ha capito, - Oh, no! – aggiunge, e mi riprende per le spalle, riportandomi indietro neanche fossi un bambino piccolo. E va bene, se vuole che faccia il bambino piccolo farò il bambino piccolo!
Mi metto a piagnucolare.
- Chakuzaaaa… - lui ha un sacco di a. Ma le mie e sono più belle. – Fammi dormire!
- Quello che vuoi, Fler, ma non nel mio letto! – precisa, e mi sa che ha ragione, non si dorme nel letto coi maschi, me lo diceva sempre pure Anis, cioè, me l’ha detto una volta che è rimasto da me per la notte e gli ho detto che se voleva poteva dormire con me, tanto avevo il letto a una piazza e mezzo, ci stavamo, e lui ha riso e ha detto “non ci dormo mica nel letto con un maschio”, ed oggi se fosse vivo mi verrebbe un po’ da tirargli un cazzotto, ad Anis, eh, ma giusto perché è uno stronzo, cioè, era uno stronzo, mica per altro.
Ricado indietro sulla poltrona – sempre prima sul bracciolo, non c’è verso di centrare il cuscino, la bastarda si sposta – e mugolo. Chakuza mi guarda come se avessi le antenne.
- Che vuoi?! – gli tiro dietro un cuscino a caso, lui lo prende in faccia senza muoversi.
- Ma sei la stessa persona con cui ho parlato le altre volte…? – mi chiede sconvolto. Io mi accuccio sulla poltrona.
- No, il gemello cattivo. – rispondo tirando su le gambe, - O buono. Non lo so. A te piacciono i gemelli, eh Chakuuuu? – ha anche un sacco di u.
Scuote la testa e mi sento molto preso in giro, perciò chiudo gli occhi e mi volto dall’altro lato facendomi male ovunque perché la poltrona è dura, accidenti a lei, e proprio mentre sto per addormentarmi mi sento piovere addosso una cosa calda e morbida e apro gli occhi e ci sono cavallucci marini ovunque.
- L’oceano! – rido e batto le mani. Chakuza si è seduto sul divano, volto la testa e lo guardo dal basso verso l’alto, continuando a ridere, - Sono caduto in acqua!
Ride anche Chakuza, e mi dà una pacca sulla fronte.
- Cerca di dormire, sei completamente fuori…
Io annuisco perché, anche se mi tratta come un bambino, è stato tipo un bravo papà. Cioè, io non ce l’ho mai avuto un papà, e quando ho fatto tanto di trovarmene uno ho combinato un disastro, però Chakuza potrebbe essere un bravo papà, forse, ha delle belle coperte morbide con dei disegni carini. Gli dico buonanotte e lo sento ridere ancora prima di tornarsene in camera, e la sua risata un po’ roca è l’ultima cosa che sento e penso che uno a queste cose può anche abituarcisi in fretta.
*
Cristo che mal di testa del cazzo. Io non posso aprire gli occhi, stamattina. Cioè, mi fa male la testa al solo pensiero di aprire gli occhi e fare passare della luce attraverso le palpebre. Già quella che filtra è abbastanza da mandarmi in confusione. Dio mio come mi pulsa il cervello. Cazzo, non ricordo cosa ho bevuto ieri ma deve essere stato qualcosa di davvero disgustoso. Ma davvero tanto.
Faccio per muovere un braccio – non ho ancora aperto gli occhi né intendo farlo a breve – ma lo trovo incastrato. Non capisco cos’è che lo tenga incastrato perché ha perso totalmente sensibilità. Non sono neanche tanto sicuro di avercelo ancora, un fottuto braccio.
Dovrei aprire gli occhi e guardare ma sono terrorizzato dal dolore.
E però a un certo punto sento una risatina provenire da qualche parte alla mia destra e mi spavento al punto che gli occhi li spalanco di scatto.
E morire trafitto da un centinaio di lance sarebbe stato meno doloroso.
- Cristo! – sbotto, e tutto il mio intero corpo scatta e si richiude a riccio. Così scopro che, tanto per cominciare, il mio braccio era incastrato sotto la mia gamba, e non l’ho capito prima perché non è solo il mio braccio ad essere privo di sensibilità, è anche la mia gamba. E probabilmente pure tutto il resto del mio corpo.
Cerco di schermarmi contro la luce del sole che non ne vuole sapere di lasciarmi in pace e riesco perfino a dimenticare la risata che mi ha tanto spaventato. Solo che poi la risata ritorna.
Ed io mi volto lentamente verso la sua fonte.
E scopro altre due cose: primo, sto su una poltrona. Lo scopro perché, come mi giro, casco sul pavimento. Mi accoglie un tappeto peloso mica tanto pulito, ma almeno morbido.
La seconda cosa che scopro è, appunto, di aver comprato un tappeto peloso e sporco.
In alternativa, questa non è casa mia.
Sollevo lo sguardo e c’è Chakuza – no, dico, Chakuza! – che mi fissa.
Ok.
- Dove sono?
Chakuza ride ancora, ma stavolta non è una risatina, è proprio una risata, allegra, tonante, divertita, mi rimbomba nel cervello con una violenza inaudita ed io mi accoccolo sul tappeto, la testa fra le braccia, piagnucolando disperatamente.
- Cristo, pietà… parla piano… - imploro stremato, tornando a fingermi una palla incosciente mentre Chakuza si piega sulle gambe e molleggia un po’, battendomi un paio di pacche sulle spalle.
- Fleeeeer, - mi chiama divertito, - dovevi svegliarti, prima o poi.
Dolore. Perché strascica così il mio nome? Dio mio.
- Che hai da chiamarmi così? – protesto schiudendo un occhio e cercando di metterlo a fuoco con scarsissimi risultati.
- Fleeeeeer! – ripete lui, e ride ancora, sempre più divertito. Rinuncio a capirci qualcosa.
- Ma dove sono? – chiedo, aggrappandomi alla poltrona e rimettendomi in ginocchio mentre medito sulla possibilità di alzarmi perfino in piedi. Mentre io seguo questo logicissimo processo mentale, Chakuza salta in piedi con l’entusiasmo di un bambino di sei anni che va verso l’albero la mattina di Natale, e si dirige verso la cucina.
- A casa mia, naturalmente. – risponde serafico maneggiando la caffettiera.
- Questo è impossibile. – affermo issandomi sulla poltrona e asciando mici ricadere sopra, esausto, - Io non so dove abiti.
Chakuza ride.
- Sì che lo sai.
- Lo sapevo ma l’ho dimenticato! – cerco di spiegare. Non è facile fargli capire che in questo momento, se lui non avesse ripetuto il mio nome cantilenandolo come un deficiente, non ricorderei nemmeno quello. Che poi, Fler non è il mio nome. Non voglio chiedermi come mi chiamo, ho paura di non avere una risposta da darmi.
Chakuza annuisce e mette la caffettiera sul fuoco, appoggiandosi al cucinino con aria navigata mentre torna a guardarmi.
- Dì un po’, quanto hai bevuto ieri?
Imbarazzato, abbasso lo sguardo.
- …non me lo ricordo. – ammetto in un soffio.
- Hai dimenticato anche questo? – mi prende in giro lui, avvicinandosi e sedendosi sul divano qui accanto. Io non torno a guardarlo. – Seriamente, Fler, questa cosa si ripete spesso? Eri mezzo ubriaco pure la prima volta che sei venuto qui, ti ho dovuto riportare in te a cazzotti-
- Tu non mi hai preso a cazzotti per riportarmi in me, la prima volta che sono venuto a casa tua. – preciso con una smorfia colma di disappunto, tornando finalmente a guardarlo. Lo trovo che mi sorride tranquillo. - …succede ogni tanto, comunque. – mi ritrovo controvoglia a rispondere, con un sospiro.
Chakuza annuisce con competenza e mi guarda con compassione.
- Non ti sei ancora ripreso da- - fa per chiedermi, ma non intendo sostenere questa discussione, visto che so già dove va a parare, perciò mi alzo in piedi e combatto contro la mia debolezza, contro il dopo sbornia ed anche contro la forza di gravità per restarci, dritto come sono, e lo guardo dall’alto in basso.
- Non ti preoccupare per me. – ringhio infastidito, - Sono perfettamente in grado di badare a me stesso.
Chakuza inarca le sopracciglia e si solleva a fronteggiarmi da una posizione di svantaggio minore.
- Fler, tu non puoi presentarti a casa mia alle tre del mattino svegliando tutto il palazzo, crollare sulla mia poltrona, svenire, dormire dodici ore e poi dirmi che sei perfettamente in grado di badare a te stesso! È palese che non lo sei!
- L’alcool non mi ha ucciso in ventisei anni, dubito fortemente che comincerà a farlo adesso! – ribatto con veemenza, ed al momento non mi interessa se il discorso in sé non ha senso. Voglio solo ingannare il tempo mentre aspetto che il caffè sia pronto, poi scroccargli una doccia, magari, e tornarmene a casa, riprendere possesso dei miei spazi e fare finta che tutto questo non sia mai avvenuto.
E, già da stasera, ricominciare a sbronzarmi perché non so cosa farmene di me stesso ora che la mia ossessione è morta.
- Fler, potrebbe succederti di tutto! Potresti svenire per strada o sentirti male, che cazzo, vuoi proprio rimetterci la pelle?! – si infuria lui, dirigendosi a grandi passi verso la cucina e spegnendo il fornello per versare il caffè in due tazzine, - Cerca di volerti un po’ bene, Cristo, piantala di bere.
- Ma tu sei un rapper o una suora di carità? – mi lamento avvicinandomi a mia volta ed allungando una mano. Lui mi porge la tazzina senza che neanche io abbia bisogno di chiedergliela. – Grazie.
- Smetterai di bere? – mi chiede lui, invece di rispondere un più che adeguato “prego”.
- Non sei mica il mio frate confessore, eh. – protesto, - Anzi, per la verità non ti ho confessato proprio nulla, stai facendo tutto da solo.
Lui incrocia le braccia sul petto e non beve il suo caffè. Cerco di capire a cosa gli serva l’altra tazzina, ma avviene tutto molto naturalmente quando poso sul ripiano la mia ormai vuota, allungo di nuovo la mano e lui me la porge. Ecco a cosa serviva l’altra, penso, buttandone giù il contenuto amarognolo.
Torno a guardarlo. Adesso almeno sono sveglio.
- Posso farmi una doccia? – chiedo titubante. La domanda successiva è “mi presti qualcosa di pulito da indossare?” e non so perché la cosa mi manda nel panico.
- Intanto puoi dirmi che smetterai di bere. – insiste lui, fissandomi deciso.
- Sì, ma io non voglio dirtelo. – cerco di fargli capire, e quasi mi viene voglia di ticchettargli con le nocche sulla testa per vedere se si sente l’eco del vuoto. – Perché io non voglio smettere di bere.
- Stai facendo il bambino. – mi fa notare lui mentre io roteo gli occhi disapprovando ogni attimo di questa conversazione.
- Veramente, sto solo facendo quello che mi pare e piace. – correggo in uno sbuffo.
- Appunto. – annuisce lui con aria critica, - Fler, hai promesso che mi avresti aiutato a proteggere Bill.
Sibilo fra i denti, infastidito. Era proprio necessario andare a battere sui sensi di colpa? Come fossi un uomo sereno e rilassato, io. Come se mi servisse, tanto per cominciare, mettermi al servizio di un ragazzino che palesemente sta in un posto in cui non dovrebbe stare.
Poi ricordo che sì, mi serve, perché devo chiedere scusa a Bushido, in qualche modo. E questo è l’unico modo.
- Posso farmi una doccia? – ripeto, passandomi una mano sugli occhi.
- Smetti di bere o no?! – ritorce lui, un po’ indispettito, piantandosi mani sui fianchi fra me e il bagno.
- D’accordo, d’accordo! – concedo senza neanche rendermene conto davvero. Voglio solo farmi scorrere addosso un po’ d’acqua calda e tornarmene a casa, penso che direi di sì pure se mi chiedesse di vendergli mia madre per tenersela in salotto come scultura vivente. – Ora posso farmi una doccia?!
Chakuza sorride trionfante.
- Domani sera alle nove. – risponde.
Io lo fisso.
- Devo aspettare domani sera alle nove per farmi una doccia? – chiedo stupito, - E intendi tenermi qui per tutto il tempo?
Chakuza ride e mi tira una pacca sulla spalla. Io potrei anche morire, sento l’eco di quel ciaff in tutto il corpo.
- Domani sera alle nove ti voglio qui a rapporto per farmi vedere che non hai bevuto, Fler. – precisa bonario, - La doccia puoi anche farla ora.
Continuo a fissarlo.
- Come, scusa?
Chakuza annuisce come a rassicurarmi sulla perfetta normalità di ciò che ha detto. Potrei essere d’accordo, se non avesse appena deciso di essere il mio babysitter o qualcosa del genere.
- Hai detto che smetterai di bere, ma non pretenderai mica che ti creda sulla parola. – mi spiega.
- Cioè, cazzo, - sbotto io, allucinato, - mi stai chiedendo più garanzie ora per questa cazzata che non quando ti ho detto di credermi sulla mia innocenza per l’omicidio di Bushido! Hai qualcosa che non va nella testa, tu!
Scrolla le spalle.
- Be’, allora si trattava di una persona già morta. – illustra tranquillo, facendomi strada verso il bagno, - Potevo fidarmi o non fidarmi ma non sarebbe cambiato poi molto. Adesso invece si tratta di te che sei vivo. – sorride, - Quindi, fidarmi o non fidarmi può cambiare un sacco di cose.
Rimango un attimino a fissarlo imbambolato, lo ammetto.
Poi scoppio a ridere e neanche il mal di testa può fermarmi.
- Verrà fuori che sei vegano ed iscritto al movimento per la difesa dei diritti delle donne, io lo so. – lo prendo in giro, piegandomi un po’ sulle ginocchia perché questa risata è soddisfacente ma mi sta sfiancando. – Senti, ce l’hai qualcosa da prestarmi? – chiedo, decisamente più rilassato, mentre lo osservo distogliere lo sguardo imbarazzato. Scommetto che pensava di fare il gran figo, dicendo quella cosa prima. È quasi tenero. – Questi vestiti puzzano ed ho bisogno di un cambio, dopo la doccia. Prometto che poi ti riporto tutto lavato.
Chakuza borbotta qualcosa di indefinito mentre scompare in camera da letto e ne riesce qualche secondo dopo con un paio di asciugamani, una maglietta, un paio di pantaloni, dei calzini e dei boxer.
- Mai prestato roba mia ad un altro essere umano. – ci tiene a precisare porgendomi il tutto, - Ritieniti onorato. E appena domani ti presenti qui sbronzo, ti prendo a cazzotti. Di nuovo.
Rido e m’infilo in bagno senza una parola di più.
*
Aaah, non ricordo cosa ho bevuto. Mi irrita, questa cosa, a me piace fare la conta delle cose che ho bevuto, quando faccio la conta delle cose che ho bevuto vuol dire che riesco ancora a ricordarmele e quindi forse alla fine non ne ho bevute poi così tante, solo un pochino. E invece non riesco a fare la conta quindi mi sa che ho bevuto un tantino troppo.
Però sono in orario! Controllo di nuovo l’orologio al polso, le lancette sono un po’ sfocate però le vedo! La lunga fa “meno cinque”, la corta fa “nove” ed io ho ben cinque minuti per attraversare la strada, raggiungere l’altro marciapiedi e ricordare a che altezza sta il pulsante del citofono di Chakuza! Che si chiama Pangerl. Oggi me lo ricordo! Forse non sono poi così tanto ubriaco!
…o forse sì, l’asfalto è troppo vicino alla mia faccia e mi sa che non è la città che si muove, sono io che cado. Mi sa che non era nemmeno la casa di Chakuza che si muoveva ieri. Ero sempre io che cadevo.
Pianto le mani per terra e mi tiro in piedi mugugnando, c’è la gente intorno che mi dice cose ma io non le capisco. Faccio per guardare una signorina e chiederle cosa c’è, mica sto male!, però la tipa scappa via. Mi offendo, non sono abituato ad avere questo effetto sulle donne.
Attraverso la strada con le macchine che mi sfiorano, fanno woosh passandomi accanto, ed arrivo fino al citofono, suono a caso e mi risponde la vecchina di ieri.
- Chi è? – chiede ed io sospiro, il citofono di Chakuza non lo beccherò mai al primo colpo, è una maledizione.
- Sono Fler… - rispondo direttamente a lei, e mi aspetto un sacco di parolacce, perciò mi appoggio al portone in attesa della sfuriata e mi stupisco non poco quando invece sento solo un sospiro ed il clack della serratura. Comunque non ho tempo di stupirmi troppo, perché la porta si spalanca sotto il mio peso ed io rotolo indietro e faccio una mezza capriola sul pavimento.
Faccio per alzarmi ma ricado seduto. Mi sa che ho bevuto veramente troppo. Sto peggio di ieri. Chakuza si arrabbierà.
Nel frattempo, sopra la mia testa, sento il suono di una porta che si apre e di ciabatte che battono sulle mattonelle ed immagino la signora Lotte che bussa all’appartamento di Chakuza per dirgli che ha visite, ed in effetti poi sento l’eco di un campanello ed un’altra porta che si apre e c’è la voce cupa di Chakuza che probabilmente si aspettava la mia faccia, visto che sono le nove, ed invece vede quella della sua vicina di casa.
- Sono qua sotto… - lo informo, lui mi sente, io sollevo lo sguardo e lo vedo che si affaccia sulla tromba delle scale e mi guarda, sconvolto.
- Fler?
- Non ce la faccio ad alzarmi in piedi… - e sto un po’ piagnucolando perché mi dispiace dare spettacolo così.
Lo sento sospirare – l’eco amplifica pure il sospiro, è molto fastidioso – e poi scende giù per le scale e lo sento che mi afferra da dietro, sotto le ascelle, e mi tira in piedi di peso.
- Ma si può sapere come cazzo hai fatto, Fler? Sono le nove!
Mugolo mentre lui si fa passare un mio braccio sopra le spalle e mi regge con una mano per il polso e con l’altra per la vita, stringendo forte così che non possa cadere ancora.
- Mi sono portato avanti col lavoro… - biascico sperando di suonare divertente.
- Il che vuol dire che già alle sei eri in giro a bere, stronzo? – sbotta lui aiutandomi a salire le scale.
- Alle cinque. – preciso ridendo, - Se cominciavo alle sei non ce la facevo.
- Sei proprio uno stronzo. – la sua voce è cupissima e mi fa un po’ paura. Mi sa che si è arrabbiato davvero. – Avevi promesso.
- Io volevo solo farmi una doccia… - protesto, e manco il gradino successivo. Già mi vedo sbattere la faccia contro lo spigolo e svenire, però Chakuza è forte, stringe il braccio e mi tiene strettissimo, perciò invece di cadere in avanti mi sento tirato su e gli sbatto contro. Solo che non sono esattamente un fuscello, perciò lui finisce pressato contro la ringhiera ed io mi schiaccio contro di lui e decido che è comodo, perciò mi lascio andare e mi appoggio.
- Fler, Cristo santo! – si lamenta lui, cercando di rimettermi dritto, - Avanti, spostati!
- Ho sonno… - vorrei dirgli che è comodo, è per questo che mi addormenterei bene qui, però non trovo le parole, e poi mi sa che qualsiasi cosa, detta in questa situazione, suonerebbe tremendamente gay, che è una cosa che vorrei evitare, perciò non dico altro e mi appoggio meglio.
Lui tira fuori un tono paziente che mi intenerisce.
- Siamo quasi arrivati e poi dormi, ok? Un ultimo sforzo.
Mugolo un assenso e provo a rimettermi dritto. In realtà non ci riesco perché sto veramente crollando di sonno, perciò mi rimette dritto Chakuza e non so, per quanto mi riguarda potrebbe anche muovermi le gambe come un burattinaio per farmi arrivare fino al suo appartamento. Non ho la forza. Dio mio, non berrò mai più così, lo giuro.
Riprendo un po’ conoscenza solo quando sento aleggiarmi sotto il naso l’aroma familiare del caffè. Apro gli occhi e mi accorgo che sto sulla poltrona di Chakuza e lui sta in piedi davanti a me e mi porge una tazzina piena di caffè fino all’orlo. Ho la sensazione che, se non avesse pensato che una dose del genere potesse uccidermi, me ne avrebbe rifilato un bricco intero.
- Non lo voglio… - mi lamento voltandomi di scatto, ho la nausea.
- Tu lo prendi e cerchi di darti una sistemata. – ordina lui, afferrandomi per il mento e riportando i miei occhi su di sé. – Non ricominciare a fare il bambino. Hai quasi trent’anni.
- Anche tu! – protesto offeso. Io non sono vecchio.
- Sì, e infatti mi comporto come tale! Avanti, Fler! – e spinge la tazzina in avanti.
- Okay, okay… - borbotto io, la prendo fra le mani, cosa pure piacevole, perché è calda ed io ho le dita freddissime, e butto giù tutto in un sorso.
Il secondo successivo sono piegato in avanti e sto vomitando come non mi capitava da anni. Come avessi bevuto litri d’alcool, cazzo. Addosso a Chakuza.
- Fler! – è sconvolto e schifato, io comincio ad andare nel panico perché so già che quando l’alcool sarà tutto uscito dal mio corpo vedrò questa situazione con occhi completamente diversi e non mi verrà più tanto da ridere. Odio tornare sobrio. – Fler, cazzo!
Non riesco a fermarmi, mi piego ancora e sto per cadere a terra, sollevo un braccio e mi aggrappo alla sua spalla col terrore che mi prenderà per la mano, mi staccherà da sé e mi lascerà cadere a terra nel mio vomito, ma non lo fa. Posa una mano sulla mia e mi tiene ancorato alla sua spalla in quel modo, mentre con l’altra mano mi regge per il collo.
E se ne frega bellamente se gli sto vomitando addosso, se gli sto sporcando casa, se sto sporcando lui.
Tossisco un po’ e sputo per terra – tanto, peggio di così… - e penso che potrebbe anche lasciarmi andare, a questo punto, non rischio più niente. Ed invece continua a tenermi.
- Stai meglio? – chiede, e non è sarcastico. Cioè, non è come stesse cercando di dirmi “ora che ti sei svuotato sul mio tappeto va meglio, eh?”. È più come si fosse preoccupato davvero.
Annuisco impercettibilmente, con gli occhi chiusi. Mi fa male la testa.
Chakuza si alza in piedi e mi tira con sé, io apro gli occhi e vedo che gli ho veramente sporcato tutta la maglietta ed anche buona parte dei pantaloni. Cristo. Non facevo così neanche a sedici anni. Ma cosa cazzo mi sta succedendo?
- Vieni, ti aiuto a pulirti un po’… - sussurra, accarezzandomi lentamente il collo, che peraltro mi fa un male cane. Ci sa fare con gli ubriachi. O con le persone in generale, forse, non lo so.
Arriviamo in bagno e lui mi fa sedere sul coperchio del water.
- Togliti quella maglietta, avanti. – mi incita mentre apre il rubinetto del lavandino e miscela l’acqua. Vede che io non mi muovo e continuo a fissare il vuoto perciò sospira e mi viene vicino, togliendosi la maglietta lurida e ripetendo lo stesso gesto anche con me. – Coraggio, alzati in piedi, ti aiuto a lavarti. – sbotta, - Cristo, sei in condizioni pietose.
Mi sollevo appoggiandomi al lavandino e cado sopra Chakuza. Sbattiamo l’uno contro l’altro ed io sono congelato e lui è caldissimo, vorrei stargli un po’ più vicino ma non sono più nemmeno tanto ubriaco da concedermi una cosa simile. Mi rimetto dritto con un lamento, Chakuza mi fa passare un braccio attorno alla vita e mi tira vicino.
- Se stai a tre metri non posso lavarti. – spiega ficcando una mano sotto il getto d’acqua.
Poi fa esattamente come faceva mia madre quando mi sporcavo col cioccolato, da piccolo. Mi lava con una certa ruvida tenerezza bonaria, sospirando esattamente come un genitore. Il sapone profuma di lavanda e la sua mano un po’ ruvida mi passa sulla faccia, sul collo, sul petto. Mi riscalda e lava via lo schifo che mi sono gettato addosso.
Quando finisce, mi accompagna direttamente in camera da letto. Io non ho il coraggio di dire niente, non riesco nemmeno a sollevargli gli occhi addosso, mi sento davvero in difetto come un bambino piccolo. È irritante che mi faccia quest’effetto, non è davvero così tanto più grande di me. Questo rapporto dovrebbe essere più equilibrato.
Poi realizzo che questo non è un rapporto. Lo realizzo nel momento esatto in cui Chakuza mi sistema sul letto e mi dice di dormire un po’ e che domattina mi farà una paternale tale da farmi dimenticare perfino come mi chiamo. Socchiudo gli occhi sulla sua figura che si allontana e lo vedo ripassare davanti alla porta con un secchio ed un mocio in mano solo qualche minuto dopo. Mi addormento col suono consolante dello straccio che strofina con forza il pavimento. Mi sembra di avere di nuovo tredici anni. La sensazione non è completamente spiacevole.
*
Alla fine, quella mattina non mi ha rimproverato. Mi sono svegliato in un casino di lenzuola e l’ho trovato che dormiva accucciato sul divano, con il viso completamente affondato in un cuscino rovinatissimo. Mi è venuto da sorridere ed ho fatto un po’ come fossi a casa mia, nel senso che ero completamente sobrio e pure tanto in imbarazzo, visto che gli avevo praticamente rubato il letto da sotto il culo, perciò sono andato in cucina ed ho preparato il caffè. Quando lui ha aperto gli occhi mi ha trovato appollaiato su uno degli sgabelli attorno all’isola con una tazzina in una mano e l’altra mano sollevata a metà in un saluto. Per prima cosa, ho chiesto scusa. Quindi lui ha scosso il capo e si è alzato, ha chiesto un po’ di caffè ed ha detto “okay. Però stasera alle nove sei di nuovo qui”.
Un po’ mi scazza esserci sì, di nuovo qui, ma anche di nuovo ubriaco. Mi scazza perché non sono ubriaco come le altre volte – al secondo scotch qualcosa dentro di me ha detto “no” e non voglio pensare a quanto somigliasse alla voce di Chakuza – e se fossi almeno seriamente ubriaco tutto questo, adesso, sarebbe più facile. E invece sto qui, meno incosciente del solito, arrotolato sulla poltrona mentre Chakuza mi fissa con aria di disapprovazione dietro le braccia incrociate sul petto.
- Non sono ubriaco. – borbotto confusamente, abbassando lo sguardo.
- Ti puzza l’alito a chilometri, Fler. – mi fa notare serio.
- Sono solo un po’ brillo. – nego, tirando su le gambe sulla poltrona.
Lui si china su di me e mi inchioda con le mani alla spalliera, così che sono costretto a sollevare gli occhi e guardarlo.
- Tu l’alcool non lo devi toccare più neanche con un dito, Fler, hai capito? E non perché ti fa male e nemmeno perché in queste condizioni sei inutile, ma perché te l’ho chiesto io e tu hai promesso. Ti fai sempre grande con le questioni di onore ed onestà, quando canti, e poi con me ti comporti così.
Mentre mi rimprovera, penso distratto che Chakuza sa perfettamente che sono meno ubriaco del solito, altrimenti non mi starebbe facendo questo discorso. Non mi parla, se non è certo che io capisca alla perfezione ciò che mi sta dicendo.
Potrebbe almeno apprezzare la buona volontà, mi dico. E poi però ricordo che non c’è nessuna buona volontà dietro al mio essere meno sbronzo: solo la sua voce che mi minaccia e l’immagine tremenda di me stesso che vomita su di lui, sul suo tappeto e sul suo pavimento e che poi, per questo, finisce a dormire nel suo letto.
- Insomma, che cazzo. Mi sembrava di parlare con un adulto, ma sei un ragazzino. – continua lui, ed io torno ad abbassare lo sguardo, ma solo per un secondo: poi mi afferra per il mento e mi tira di nuovo su. – E guardami, quando ti parlo. Guarda che io ho davvero bisogno del tuo aiuto, ma non me ne faccio niente di uno in queste condizioni, d’accordo? Sei inutile.
Mi lascia andare, io torno a guardare in basso con un mugolio di dolore e lui si allontana di qualche passo.
- Se domani devi presentarti di nuovo così, Fler, risparmiati di venire. – annuncia, tirandomi addosso la coperta coi cavallucci marini che è andato a prendere in camera prima di cominciare la paternale. Mi lascia solo il secondo dopo ed io resto lì con la coperta piegata fra le mani. E non ho proprio nessuna voglia di dormire.
*
Lo fisso. Lui mi fissa.
Lo facciamo per un sacco di tempo ed alle mie spalle c’è la signora Lotte che fissa entrambi come fossimo due creature molto strane.
È uscita fuori perché, appena sono arrivato – in ritardo di dieci minuti – ho citofonato a Chakuza e lui mi ha strillato in testa che ero in fottuto ritardo e che per quanto gli interessava potevo pure andarmi a sfondare di tequila per tutto il resto della notte, com’era sicuro avessi fatto fino a quel momento, altrimenti sarei stato in orario. Poi mi ha chiuso il citofono in faccia.
A quel punto, ho citofonato alla signora Lotte ed il dialogo seguente s’è svolto più o meno in questi termini: “Signora Lotte? Sono Fler. Le dispiacerebbe cortesemente aprirmi? Ho litigato con Peter e vorrei risolvere la questione, ma lui non mi lascia entrare.” Silenzio allucinato. “…d’accordo, caro. Entra pure.” Tutto qui.
Quando sono arrivato davanti alla porta lui ha aperto già sul piede di guerra – probabilmente aveva immaginato avessi corrotto qualcuno pur di salire – e si è ritrovato me a fissarlo come sto facendo adesso. Cioè serio e perfettamente lucido. È per questo che anche lui, in questo momento, mi sta fissando.
- …non sei ubriaco. – commenta sinceramente stupito, una mano sullo stipite della porta, l’altra a ciondolare inerme lungo il fianco.
Sorrido trionfante.
- Oggi neanche un goccio. – rispondo tranquillo, - Me la offri tu una birra?
Scoppia a ridere all’improvviso, ed io lo imito poco dopo. Mi trascina dentro continuando a ridere e, fra una pacca sulla spalla e l’altra, mi dico che forse un rapporto c’è. Di quest’uomo posso fidarmi.

*

Non vedo Bill da tre giorni. Da quando ha stretto le chiavi nel pugno ed è andato via dopo avermi fermato, dopo averci fermati, non l’ho più visto né sentito. Sono state settantadue ore di assenza e non mi è mai successo di sentire così tanto la mancanza di qualcuno in vita mia. L’assenza di Bill sa di qualcosa di incompleto. C’era qualcosa, c’era qualcosa che si stava muovendo e che si stava creando e mi è veramente difficile accettare questo pensiero. Ma è molto più difficile accettare che invece possa all’improvviso non esistere più nulla solo perché…
…ho messo le mani dove non dovevo. Ho dannatamente messo le mani dove non dovevo. Cristo.
Questo pensiero non mi dà pace.
- Insomma, non ne posso più, non so perché le ho dato il numero di telefono ma mi sa che adesso mi toccherà cambiarlo perché chiama cinquemila volte al giorno. Mi sono rotto.
Fler sta parlando a macchinetta da circa un quarto d’ora ed io non faccio che pensare che a questa casa manca il chiacchiericcio infinito di Bill. Che manca a me. Che la voce di Fler non è la stessa, non ha gli stessi toni né gli stessi colori, non ha lo stesso entusiasmo e non raggiunge gli stessi picchi di dolcezza quando invece è triste. Per la verità non riesco a riconoscere proprio un cazzo, nella voce di Fler. E invece mi infastidisce da morire che sia quella che ho sentito più spesso, negli ultimi tre giorni, perché davvero, Fler non ne ha saltato uno: è venuto ogni santa sera da quando sono tornato a casa.
- Mhmh. – grugnisco in risposta, perché comunque sentirlo parlare è sempre meglio che sentire silenzio.
- Davvero, se avessi saputo che finiva così avrei dormito in un angolo per strada. – continua a borbottare lui, irritatissimo dal fatto che l’infermiera che ha rimorchiato mentre stavo in ospedale continui a non lasciarlo in pace. Non capisco cos’abbia Fler per la testa: la tipa è chiaramente interessata, lui non se la sarebbe scopata se non lo fosse stato a propria volta… perché non si rilassa e fa come farebbe un qualsiasi altro uomo normale al suo posto?
- Così invece di prenderti il raffreddore avresti preso una polmonite coi controfiocchi, Fler. – gli faccio notare distrattamente, - Ed ora non saresti qui a lamentarti.
- E sarebbe stato meglio! – sbotta lui, fissandomi malissimo. Mi viene un po’ da ridere perché Fler quando vuole sa tirare fuori degli occhi cattivissimi, ma in questo momento sta solo facendo il buffone. È facile vedere quando si arrabbia, gli si oscurano gli occhi. Adesso invece sono di un celeste purissimo e brillano, quindi non è arrabbiato. Non so, quando fa discorsi come questo – quando borbotta contro le stupidaggini – mi sembra sempre che voglia sentirsi solo dire “sì, piccolo, hai ragione”. Come non gliel’avessero detto abbastanza quando piccolo lo era davvero.
In realtà comunque non ho una cazzo di voglia di ridere. In genere le cavolate di Fler mi aiutano un sacco – se non altro perché ne ha sempre una riserva infinita da tirare fuori all’occorrenza – ma stasera sono irritato e di ridere proprio non mi va.
- Ti va una birra? – gli chiedo alzandomi in piedi e dirigendomi verso la cucina senza neanche aspettare la sua risposta.
- Oh, sì, grazie. – risponde comunque lui, annuendo, - In ogni caso se chiama di nuovo giuro che la mando a fanculo. Mi sei testimone tu!
- Sì, Fler, naturalmente. – sospiro annoiato, recuperando le due birre dal frigo e tornando di là per consegnargli la sua.
Fler la prende fra le mani e mi fissa con un broncio amareggiato, stendendosi un po’ contro lo schienale del divano.
- Certo che sei proprio una merda, quando ti ci metti, tu. – commenta con rabbia, attaccandosi alla bottiglia, scazzato.
Io spalanco gli occhi e mi lascio ricadere al suo fianco, fissandolo sgomento.
- Come, scusa?
Scrolla le spalle e posa la birra sul tavolino.
- È da quando sono arrivato che rispondi a monosillabi e grugniti. E quando le tue risposte superano le due sillabe, allora sono acide o comunque si capisce che non te ne frega un cazzo di quello che sto dicendo. – apro la bocca per negare e lui mi ferma con un’occhiataccia, di quelle vere, però, - E non provare a dire di no perché ti prendo a cazzotti!
Poso anche io la bottiglia ed incrocio le braccia sul petto.
- Non è vero! – e un po’ lo sto sfidando. Perché lo so che è vero.
Fler mi guarda per un secondo come volesse staccarmi la testa. Poi guarda altrove e dice una cosa che mi terrorizza. E che mi fa incazzare. Ed un altro milione di cose.
- Non hai visto Bill, oggi, eh?
Lo dice così. Come se sapesse perfettamente l’importanza che ha. Lo dice esattamente con l’importanza che merita. Perdo un respiro e poi due e poi tre ed alla fine mi rendo conto che mi sto impedendo di respirare perché ho paura di cosa mi potrebbe uscire dalla bocca se lo facessi. Sicuramente urlerei. Sicuramente ci andrebbe di mezzo Fler. Insomma, tutte cose che non ho il diritto di far accadere.
- Che cazzo intendi dire? – ritorco con ansia. E so che è la cosa peggiore potessi dire in assoluto, so che suona come una dannata ammissione quando non dovrei sentirmi in diritto neanche di ventilare l’ipotesi, ma al momento non mi interessa.
Fler scrolla le spalle e continua a non guardarmi.
- Niente. – risponde in un soffio, - Ipotizzavo.
- Ipotizzavi cosa, esattamente? – insisto.
Lui torna a guardarmi e lo fa con la stessa rabbia di prima.
- Secondo te sono un deficiente, Chakuza? O un cieco? Che cazzo. Non trattarmi come un bambino.
- Abbiamo già discusso di questo tempo fa. – rispondo con un ghigno incattivito, - Ed abbiamo stabilito che sei un bambino, perché ti comporti come tale. Anche adesso, - spiego con presunzione, - lanci il sasso e nascondi la mano. Butti lì l’insinuazione ma non mi spieghi cosa cazzo ti gira in testa. Dovrei trattarti come un adulto?
Lui volta di nuovo lo sguardo e non c’è verso di tirargli qualcosa fuori dalla bocca.
- Fler? – lo chiamo, già irritato, - Fler!
Stringe le labbra e continua a non guardarmi.
- D’accordo! – sbotto, tirandomi in piedi, - Fai il cazzo che vuoi, continua pure a pensare tutte le cazzate che preferisci-
- Cazzate, eh? – mi interrompe lui con un sorrisino strafottente, - Dio, odio quando mi si prende per il culo!
- Stai rompendo i coglioni, Fler! – gli urlo contro, combattendo l’impulso di buttarlo fuori di qui a calci, - E piantala di rispondere solo quando ti conviene! Sei un cazzo di ragazzino impossibile!
- Non sono un ragazzino! – si alza in piedi da solo, fronteggiandomi direttamente, - E tu sei un vigliacco, Chakuza!
Lo afferro per una spalla e lo sbatto contro la parete, che è molto più vicina di quanto non pensassi. Fler non se l’aspetta, perciò spalanca gli occhi e batte con forza, aggrotta le sopracciglia e si morde un labbro per il dolore e poi fatica un po’ a rimettersi in piedi da solo. Si appoggia con falsa casualità al muro, come non avesse bisogno di alcun supporto per stare dritto e invece ne ha bisogno eccome.
Mi fissa stordito, apre la bocca, so che – cazzo – sta per dire qualcosa e non ho alcuna intenzione di starlo a sentire. È solo per questo che lo afferro di nuovo per la stessa spalla di prima e lo trascino un po’ indietro, prima di spingere con forza ed obbligarlo a rovinare a terra, in ginocchio.
Batte sul pavimento, posso vedere il brivido di dolore correre lungo tutto il suo corpo, lo sento sotto il palmo della mano mentre stringo le dita attorno al suo braccio per torcerglielo dietro la schiena.
- Fanculo. – ringhia lui, fissandomi di sbieco mentre si piega in avanti per assecondare quanto più può il movimento innaturale del braccio, - Se devi pestarmi non fare tante cerimonie.
Non so se voglio pestarlo. So che voglio farlo stare zitto. So che mi dà fastidio che abbia parlato di Bill perché continuo a pensare che Bill dovrebbe essere una cosa mia e so che invece non lo è. E non lo sarebbe neanche se stessimo insieme. E non lo saremmo stati neanche se l’altro giorno mi avesse lasciato continuare, cazzo.
So che, merda, io lo volevo davvero. So che lo voglio davvero. So che mi sta montando una rabbia incredibile e che si sta traducendo in un desiderio indecente perché Fler è qui, arreso sotto le mie dita, e se stringo ancora un po’ posso fargli abbastanza male da farlo urlare.
Voglio sentirlo urlare.
Stringo e ruoto il polso. La spalla di Fler scricchiola un po’ e, come previsto, lui urla. Urla e si piega in avanti, sfiorando con la fronte il pavimento ghiacciato e digrignando i denti.
- Cristo, Chakuza! – ringhia furioso, - Cazzo, lasciami!
Ma non lo lascio. Mi schiaccio contro di lui perché mi piace questa posizione di vantaggio. Mi piace sentirlo debole e mi piace sapere che un minuscolo movimento del mio corpo basta a mandarlo fuori di sé dal dolore. Mi piace perché a Bill basta sbattere le ciglia per mandarmi fuori di me dal dolore. Gli basta respirare. Gli basta esistere, cazzo. Voglio anche io questo potere. Mi piace questo potere. Mi piace anche troppo, lo percepisco io e lo percepisce Fler che, quando sente la mia erezione premere contro la sua gamba, spalanca gli occhi e si irrigidisce, ma non dice una parola.
È una realizzazione improvvisa e un po’ assurda, ma so anche che è assolutamente vero: Fler non dice niente. Fler non dirà niente in ogni caso. Non so se sia sconvolto da ciò che sta succedendo o se dietro questo silenzioso assenso ci sia dell’altro, francamente in questo momento non mi interessa. Fingo di non prendere atto della sua eccitazione mentre lo lascio andare – il suo braccio batte sul pavimento e lui lo usa per tenersi dritto quando riesce a recuperare sensibilità, ma non combatte, non si oppone, non fa nulla – e gli sfibbio la cintura, sfilandola dai passanti dei jeans e lanciandola lontano. Fa un rumore assordante mentre striscia sul pavimento e va a incagliarsi contro la parete qualche metro più in là.
Sbottono i jeans e mi fermo un secondo. Mi sembra impossibile che non cominci a protestare. Ma non comincia, cazzo. È assurdo. D’un tratto mi viene da ridere se penso che fino a mezz’ora fa mi stavo chiedendo cosa ci fosse di strano nella sua testa, per portarlo a rifiutare così l’infermiera che gli muore dietro. Ora mi sa che lo capisco cosa c’è.
Lo vedo che stringe i pugni sul tappeto e socchiude gli occhi. Trattiene il respiro, in attesa. Mi sembra assurdo continuare a stare qui a tergiversare. Cazzo, non posso credere di stare facendo una cosa simile. Tiro giù jeans e boxer tutti assieme, incontro la resistenza della sua erezione e la ignoro ancora, gli faccio male, è palese nel suo ringhio frustrato, ma lui continua a non protestare e questo è assurdo ed eccitante allo stesso tempo. Lo lascio un attimo, non mi chiedo neanche se scapperà, so che non lo farà. Sbottono i miei jeans, mi libero di qualsiasi impedimento ancora esista fra me e lui e poi mi prendo un secondo – solo un fottuto secondo – per darmi ripetutamente del coglione.
È solo un fottuto secondo – e subito dopo spingo e mi dibatto per entrare dentro di lui.
È stretto e chiuso e non dovrei davvero poter entrare qua dentro. Mi chiedo se con Bill sarebbe lo stesso. Se sarebbe la stessa sensazione. Se urlerebbe come sta urlando adesso Fler.
Se sarei così violento, così impaziente, così sconsiderato anche con lui.
Se non baderei alle protezioni, con lui, se me ne fregherei di fargli male.
Mi chiedo se sia un problema del sesso, che faccia così schifo e sia così dannatamente appagante – mentre scavo a fondo nel corpo di Fler, mi ci ricavo un posto e comincio a spingere e lo sento stridere e fremere sotto le mie mani mentre lancia lamenti di cui non capisco il senso e che mi fanno rabbrividire fin dentro allo stomaco. Lo afferro per i fianchi per tenerlo fermo, perché voglio arrivare fino in fondo, perché Dio, la sensazione di calore umido attorno al mio cazzo è veramente irresistibile, e mi rendo conto che sto ansimando e che mi sta piacendo, e vorrei prendermi a cazzotti da solo, vorrei che me li desse anche Fler, i cazzotti, vorrei che si alzasse e se ne andasse ma non lo fa, non dà neanche cenno di volerlo fare. Tutto ciò che fa è chiudere gli occhi e stringere con più forza il tappeto. Non si tocca. Non fa niente. Rimane qui e, cazzo, si fa violentare. Si fa violentare, cazzo.
Mi spingo forte dentro di lui devastandolo fino all’ultimo centimetro e lo sento che si apre sotto di me. È una sensazione di potenza incredibile. È una sensazione meravigliosa, potrei non saziarmene mai. Mi piego sulla sua schiena con un grugnito e lo tengo stretto per la vita mentre vengo dentro di lui e lo sento che sibila di dolore e fastidio, perciò presso con più forza, fino a zittire perfino i lamenti, perché adesso non voglio sentire più niente.
Lo lascio andare solo quando sono certo di essermi del tutto svuotato. Scivolo fuori da lui e resto in ginocchio sui talloni, mentre lui crolla a terra, sfatto ed esausto, distrutto. Si trascina sul tappeto perché il suo corpo è per metà sul pavimento ed immagino senta freddo. Lo vedo strisciare e poi girarsi a pancia in su, una mano sugli occhi, la traccia delle lacrime evidente sulle guance. Distolgo lo sguardo perché non la reggo, questa vista. Il pensiero di essere stato io a ridurlo così è straziante. Non ne avevo alcun diritto.
Cerco di respirare.
- Fler… - lo chiamo debolmente.
- Sta’ zitto. – risponde lui in un rantolo arreso. Non ha neanche la forza di ricoprirsi. Cristo. Cosa ho fatto?
Mi rivesto velocemente mentre lui si asciuga stremato il viso. Quando toglie la mano vedo che ha gli occhi rossissimi. Mi fissa senza parlare. Non riesco a capire cos’è che vorrebbe dirmi e questo mi spaventa.
- Come ti-
- Una merda. – risponde senza neanche farmi finire la domanda, - Tu come cazzo ti sentiresti, Chakuza?
Mi mordo un labbro e mi muovo sulle ginocchia verso di lui.
- Non ti avvicinare. – allungo una mano, - Non mi toccare, Cristo, non ti avvicinare!
- Fler… - poso comunque la mano sul suo braccio, - Fler, ti prego-
- Cristo… - si copre di nuovo gli occhi con una mano ed io so che dovrei stare zitto ma non ci riesco.
- …non piangere… - lui ride amaramente e scuote il capo.
Mi avvicino ancora e mi piego su di lui. Cerco di essere delicato – mi rendo conto di essere in ritardo – mentre gli rassetto i vestiti, provando a coprirlo senza fargli troppo male. Lui si lascia maneggiare come fosse senza vita, non scosta la mano dagli occhi ed io vorrei lasciare stare tutto e scappare. Però allo stesso tempo non voglio. Non voglio affatto lasciarlo qui così.
- Ce la fai a rimetterti in piedi? – chiedo a bassa voce, sfiorandogli il collo con due dita.
Lui si scosta infastidito.
- No. – risponde sinceramente, ma fa comunque forza sulle braccia e si mette a sedere. Rinuncia immediatamente. Torna a distendersi, una ventina di centimetri più in là.
Sul tappeto c’è una macchia larghissima di sangue e sperma mescolati insieme.
Mi viene da vomitare.
- Cristo. – mormora Fler, - Sparisci. – chiede, la voce rotta.
Mi alzo in piedi e faccio per obbedire e nascondermi da qualche parte, magari in bagno, ma faccio solo un paio di passi e poi torno indietro. Mi siedo al suo fianco ed allungo una mano verso la sua. La stringo appena e mi stupisco di non sentirlo ritirarsi di nuovo.
- Mi dispiace. – dico a bassa voce, - Appena riesci a muoverti ti porto in ospedale. D’accordo?
Non mi aspetto che risponda e lui infatti non lo fa. Resto lì a tenergli la mano per tutto il tempo che passa a piangere in silenzio.

Bookmark and Share

Weird Carpet Thoughts On A Weirder Night

di lisachan
Resto lì a tenergli la mano per tutto il tempo che passa a piangere in silenzio. Sono quindici, venti minuti, una cosa del genere. Non è mai facile quantificare il tempo che passa quando è scandito dalle lacrime. Ricordo che quando morì mio nonno fu più o meno la stessa cosa, con mia madre. Non capii che erano passate quattro ore, da quando eravamo entrati nella camera ardente, fino a quando non uscimmo fuori e vidi che era già sera. Avevo dodici anni e la cosa mi turbò parecchio.
Insomma, potrebbero essere passate ore. Tutto ciò che so è che la mano di Fler è congelata anche se la sto stringendo da tutto questo tempo. E che i suoi singhiozzi invece sono caldissimi, anche se non dovrei sentirmeli addosso.
Lo chiamo a bassa voce, non credo neanche che mi senta. Stringo un po’ la presa attorno alle sue dita ed è lì che lui mi risponde.
- Sì. – dice, - Ora provo ad alzarmi. – ci riflette qualche secondo ed io lo guardo per tutto il tempo, ha gli occhi umidissimi, - Me la dai una mano? – chiede dopo un po’, - Non ce la faccio a mettermi seduto. Devo tirarmi subito in piedi.
Le cose che questo discorso implica sono troppe perché io possa pensarci con razionalità, perciò lascio perdere ad annuisco senza esitazione, mettendomi in ginocchio e passandomi un suo braccio sopra le spalle. L’ultima volta che siamo stati in questa posizione, lo stavo trascinando su per le scale ed era ubriaco perso. Lo stavo rimproverando ed avevo un motivo per farlo. Sembrano secoli fa. Ora dovrebbe rimproverarmi lui, ne avrebbe tutti i motivi, ma non mi dice niente.
Ci muoviamo lentamente e lui trattiene un gemito di dolore ad ogni passo. È palese che si lascerebbe volentieri ricadere sul pavimento senza protestare, se lo lasciassi. Non intendo lasciarlo e questo non riesce a lenire nemmeno in parte i miei sensi di colpa.
- Ti senti un po’ meglio? – chiedo titubante mentre raggiungiamo a stento la mia macchina, appena sotto casa.
- No. – sibila lui nel gelo della notte. – Piantala di chiedermelo.
Ed io la pianto.
Il viaggio in macchina verso l’ospedale – luogo ormai più che familiare per entrambi – e silenzioso e teso. Non riesco a fare a meno di sbirciare il suo profilo dritto e serio per tutto il tragitto. So che dovrei stare più attento alla strada che non ai mutamenti della sua espressione, ma non mi riesce. S’è seduto come un bambino capriccioso, una gamba sotto il sedere e l’altra penzolante in avanti. La gamba sotto il sedere lo tiene decisamente sollevato dalla superficie del sedile. Cerco di non pensare al perché abbia scelto proprio questa posizione qui.
Arriviamo in ospedale che è già praticamente notte fonda. Saranno le tre e mezza, probabilmente quasi le quattro del mattino. C’è giusto qualche infermiere scazzato in giro, nessuno che mi sembri di conoscere se non di sfuggita, il che è bene.
Naturalmente, all’accettazione troviamo Katrina.
Lancio un’occhiata allarmata a Fler – che zoppica ancora al mio fianco, anche se ora non sembra più avere bisogno di aiuto per camminare – e lo vedo irrigidirsi come congelato all’istante. Mi viene voglia di stringergli di nuovo la mano. Grazie a Dio mi fermo in tempo.
Katrina si mette letteralmente a saltellare non appena gli posa gli occhi addosso. Sarebbe comico, se la situazione non fosse quella che è. Fler sospira e rotea gli occhi. Ci avviciniamo lentamente al bancone e lei guarda subito me.
- Qualcosa che non va coi punti? – chiede con un sorriso affascinante, tornando subito a guardare Fler.
- No. – risponde lui al mio posto, - Qualcosa che non va col mio culo.
Cala un velo di ghiaccio su tutta la sala d’attesa, lo sento. È una sensazione veramente fisica. Katrina lo fissa, sconvolta.
- Col tuo…?
- Il Chaku, qui, mi ha scopato con un tantino di violenza in più rispetto al necessario. – sibila velenoso, ed io vorrei morire qui ed ora. Qui ed ora, giuro. – Lo dici al medico di turno che mi sa che ho qualcosa da ricucire?
Katrina abbassa lo sguardo, le guance rossissime, e sparisce subito in corsia. Io guardo Fler, allucinato.
- Fler…? – lo chiamo a bassa voce, e lui mi lancia un’occhiataccia furiosa.
- L’ho detto nel modo migliore possibile, credimi. – sbotta acido. – Senza indugiare sui particolari schifosi.
Non protesto perché so che è vero, c’è un particolare schifoso che avrebbe potuto menzionare. E non l’ha fatto.
Dal modo in cui il dottore ci accoglie in sala visite, capisco che Katrina è stata un’infermiera diligente e gli ha riferito per esteso la versione dei fatti fornita da Fler. Ci guarda bonario e, prima ancora di chiedere a Fler come sta, stringe ad entrambi la mano e ci fa accomodare.
- Non lei. – dice con un mezzo sorriso a Fler, - Lei si distenda pure sul lettino. A pancia sotto.
- …io devo restare? – chiedo indicandomi, e sono convinto di avere sulla faccia un’espressione da perfetto idiota, al momento.
- Oh, sì, tanto non c’è niente che verrà esposto stasera che lei non abbia già visto, a quanto pare, signor Pangerl.
Vorrei rispondere che invece sì, c’è qualcosa che non ho mai visto, e cioè la dignità di Fler che si perde come niente. Mi ricordo poi che ho visto la dignità di Fler perdersi ogni sera in troppe bottiglie di birra, ma non è la stessa cosa. Ora Fler è lucido.
- Oltretutto, se lei sta qui ci sbrigheremo molto più in fretta. Potrò medicarlo e parlarvi contemporaneamente ed avremo risolto molto prima. – il tono è pratico e professionale e mi rendo conto che probabilmente non mi sta obbligando a restare per cattiveria, ma la situazione nel complesso è veramente troppo grave per rassegnarmi al pensiero. Ciononostante, mi seggo su una poltroncina. Abbasso lo sguardo, però, appena gli occhi celesti di Fler me lo chiedono.
- Si spogli. – sento dire al dottore con tono asciutto.
- Tutto? – chiede Fler curiosamente.
- Solo i pantaloni andranno bene. – ride l’altro. È chiaro che il dottore l’abbia presa come una barzelletta. Se io veramente… se io veramente avessi solo esagerato durante una scopata normale, probabilmente la prenderemmo a ridere anche io e Fler. Probabilmente.
I bottoni vengono sganciati uno dopo l’altro ed i jeans di Fler cadono a terra assieme ai boxer. Entrambi gli indumenti sono macchiati di sangue. Mi volto.
- Prego, si distenda. – invita il dottore. Sento il fruscio del lenzuolo di carta sul lettino e non passano nemmeno trenta secondi prima che l’aria della stanza diventi satura dei sospiri e dei lamenti di Fler. Cerca di trattenerli invano. Non ho voglia di guardare cosa il dottore gli stia facendo, per la verità i movimenti del dottore non li sento neanche. Però sento ogni singola sfumatura dei gemiti di Fler e sento il rumore che fa la carta del lenzuolo quando lui la stropiccia sotto il pugno, chiudendolo, e sento anche i sospiri di sollievo che lancia quando il dottore smette per qualche secondo di toccarlo. E poi ricomincia da capo a rantolare.
- Con coppie formate da ragazzi giovani come voi, - comincia il dottore dopo un po’, coprendo la voce di Fler, - è normale ogni tanto fare errori come questo. Scommetto che era la prima volta, vero? – si interrompe appena e poi continua, - La prima volta dopo un bel po’, almeno. – precisa poi, ed io non ho nemmeno il tempo di chiedermi cosa intenda nello specifico, perché devo prima realizzare coscientemente che ci sta facendo una paternale. La cosa è assurda.
- Dottore, senta, - comincio, senza sollevare lo sguardo, ma lui mi ferma con un sospiro.
- Dicevo, - riprende serafico, - siete molto giovani e suppongo sia trascurabile se per una volta vi siete lasciati un po’ prendere la mano. Ma dovete assolutamente capire che il sesso anale presenta dei problemi non indifferenti. La lubrificazione non è automatica ed il preservativo non è solo una protezione contro le malattie veneree, ma soprattutto una protezione contro l’attrito inevitabile che lo sfregamento produce.
Sollevo lo sguardo. La visuale di Fler disteso ed esposto che colgo è abbastanza per costringermi a riabbassarlo.
- Dottore, guardi che-
- Non ho finito. – borbotta lui, - Mi lasci dire. Non la sto rimproverando, solo informando.
Fler ricomincia a gemere ed io mi concentro sul suono della sua voce. Non mi sono mai fermato a riflettere su quanto i gemiti di dolore siano simili ai gemiti di piacere durante il sesso. In effetti la cosa non mi stupisce quanto dovrebbe.
- Dovrò visitare anche lei, signor Pangerl. – dice il dottore subito dopo. Dovrei stupirmi del fatto conosca il mio nome? No, mi rispondo, gliel’avrà detto Katrina.
- Io sto benissimo. – rispondo cupamente, - Si concentri su Patrick.
Fler lancia un grugnito random del quale non capisco il significato. Suppongo sia una protesta ma ne ignoro il destinatario. La tengo per me, comunque: è giusto che sia arrabbiato.
- Ecco fatto! – continua il dottore dopo qualche minuto di silenzio, - Era meno grave del previsto.
- Ha perso molto sangue! – torno a sollevare il capo io. Fler è su un fianco, ha le lacrime agli occhi, è ancora seminudo e sta cercando di ricomporsi. Mi alzo e gli sono vicino in tre passi. Il modo in cui mi chino su di lui è equivoco pure nella mia testa, non oso immaginare quanto possa esserlo in quella del dottore che ci guarda con aria paterna e sorride. – È sicuro che non abbia bisogno di niente?
- Ha bisogno di stare a riposo e di qualche coccola fuori dalle lenzuola. – risponde in tono compiacente. Io e Fler ci guardiamo mentre lui rimette a posto boxer e pantaloni, e ci scorre un brivido identico lungo la schiena. Però non saprei dire cosa significa. – Oh, be’… - riflette poi, - magari anche dentro le lenzuola, se proprio dev’essere, ma starei lontano dal punto critico, se fossi in voi, almeno per i prossimi due, tre giorni.
Fler abbassa gli occhi e lo sento distintamente ridacchiare. Non è come la risata amara di quando piangeva. È un bel suono. Tiro il primo respiro a pieni polmoni della serata.
- Per quanto riguarda le precauzioni… - riprende il dottore poco dopo, mentre noi ci avviamo stancamente verso la porta, - vorrei darvi quest’opuscolo che potrebbe esservi utile. – si china sulla scrivania, apre un cassetto e ne tira fuori un libriccino colorato di una ventina di pagine, che sfoglia vagamente mentre si muove verso di noi.
Adesso ho voglia di tirargli un cazzotto, così, giusto per togliermi lo sfizio, ma Fler ride ancora, un po’ più convinto di prima, e lo ferma con un cenno della mano.
- Staremo più attenti, la prossima volta. – dice ironico, - Lo sappiamo, come si scopa. È che Peter era un po’ arrabbiato, stasera, tutto qua. – spiega. Io deglutisco. Non so. Cosa si fa in queste situazioni? La si abbraccia, una persona così?
Usciamo nel freddo di Berlino che devono essere le cinque passate e già albeggia. La temperatura è così bassa che perfino Fler ha difficoltà a reggerla. Anche se forse la sua difficoltà ha radici molto più profonde dell’inverno teutonico.
Raggiungiamo la macchina e m’infilo all’interno in due secondi netti. Fler perde un po’ più di tempo, resta a fissare il sedile con aria critica, prova quasi a sedersi come una persona normale ma poi ci rinuncia e si rimette nella stessa posizione da bambino scazzato che ha usato all’andata, ed io abbasso subito lo sguardo.
- Dove… - comincio a bassa voce, ma mi sento molto in imbarazzo e non riesco a concludere.
- A casa mia. – risponde lui, indovinando i miei pensieri, - Non è molto distante da qui. Saranno un quattro, cinque chilometri. Vai dritto di là. – ed indica la strada da prendere con la mano tesa, che trema un po’.
Potrebbe essere solo per il freddo. Potrebbe.
Distolgo lo sguardo – di nuovo – e seguo le indicazioni fino al suo appartamento, che è una bettola – il palazzo cade letteralmente a pezzi – e sta in una stradina laterale in cui penso non mi muoverei mai di mia spontanea iniziativa ma solo se costretto… e comunque molto armato.
- …è qui che tengono il cantante di punta dell’Aggro Berlin? – dico, fra lo stupito e l’ironico.
Fler grugnisce qualcosa di decisamente poco carino. Io penso che avrei fatto meglio a stare zitto.
Scivola fuori dalla macchina in un movimento troppo fluido per non sembrare sollevato. Mi fa male che sia così, soprattutto contando che durante il corso dell’ultimo mese era difficilissimo schiodarlo dalla poltrona, figurarsi mandarlo via dal mio appartamento. Non so, me ne rendo conto adesso che si allontana, che potrei non vederlo più e che mi mancherebbe. Cerco di evitare di pensare che queste sensazioni potrebbero essere solo un effetto collaterale dell’assenza di Bill. Facciamo che mi mancherebbe Fler. Facciamo così.
Allungo una mano quasi senza accorgermene, lo tiro per un polso e lui ne è preso così alla sprovvista che cade indietro sul sedile. Lo vedo irrigidirsi e tendersi e rabbrividire e soffocare un lamento, ma gli riesce malissimo.
- Oddio… - mi agito, sporgendomi verso di lui per controllare sia tutto a posto, - Scusami!
- Cristo, Chakuza! – si lamenta lui, spostandosi sul sedile in modo da trovare una posizione meno dolorosa, - ‘Cazzo t’è preso?
Resto in silenzio perché non ho idea di cosa dirgli.
- Mi lasci andare? – chiede Fler dopo qualche secondo, guardandomi con un misto di ansia e curiosità. Noto solo ora che lo sto ancora tenendo stretto per il polso.
- Sì… - annuisco lasciandolo libero, - Solo… buonanotte, okay?
Fler scrolla le spalle, rimettendosi in piedi.
- Quello che ne resta, almeno. – mugugna, indicando il sole ormai quasi alto nel cielo con un cenno del capo. – Fatti una dormita, Chakuza. Ne hai bisogno. – suggerisce poi. Mi muovo solo quando lo vedo sparire su per la tromba delle scale attraverso il vetro spaccato in più punti del suo portone.
*
Me lo vedo apparire di fronte la sera dopo alle nove precise e non ci voglio credere. Lo fisso per un tempo lunghissimo, mesi, anni, intere epoche, eppure la realtà non cambia. È qui davanti a me, mani ficcate a fondo nelle tasche dei jeans ed un sopracciglio inarcato con aria spavalda, come a voler rimarcare il fatto che io non me l’aspettassi ma lui, eh!, lui è proprio qui, altroché.
- Patrick…? – chiamo a bassa voce, del tutto sconvolto, continuando a fissarlo con l’aria, lo so, di un pesce lesso.
Lui fa una smorfia.
- Non devi mica fingere che siamo fidanzati, Chakuza, - sbotta acido, calcando con forza sul mio pseudonimo ed incrociando le braccia sul petto, - siamo soli, il dottore non c’è e non intendo averne bisogno in tempi brevi. Perciò chiamami col mio nome. Fler, dico.
Annuisco lentamente, come un automa.
- Be’? – continua Fler, sbuffando sonoramente, - Non mi fai entrare?
Mi scosto dall’uscio senza dire una parola. Fler mi sta guardando come fossi un cretino epocale e non mi sento di dargli torto. Sposta gli occhi da me – ringrazio parecchi santi, quando accade – soltanto per lanciare occhiate disapprovanti in giro. Stanotte – o meglio: nella fascia oraria fra le cinque e mezza e le sette del mattino – ho devastato un po’ casa. Solo un po’, ero incazzato. Voglio dire, avevo le mie ragioni. Poi ho rimesso tutto a posto, più o meno, però già che c’ero ho tolto il tappeto. Voglio dire, chi terrebbe una cosa simile in casa dopo… insomma, dopo aver combinato ciò che quella cosa testimonia?
Fler la nota subito, quell’assenza. Me la fa notare con un ghigno cattivo.
- Elimini le prove a tuo carico? – chiede furbo, sporgendosi un po’ verso di me. Io indietreggio, terrorizzato.
- Non era… - biascico incerto, - Voglio dire, non l’ho buttato, è ancora di là nello stanzino!
Fler mi spalanca gli occhi addosso e scoppia a ridere il secondo successivo.
- Chaku… calmati. – mi incita poi, muovendo qualche passo verso il divano, - Non intendo denunciarti né niente di simile. È già stato abbastanza faticoso parlarne ieri in ospedale. – rimane un attimo fermo sospeso fra il dire e il non dire, guarda il divano, la poltrona, poi me. – Me la offri una birra?
Io cerco di riacquistare le mie capacità di ragionamento basilari. Non che mi riesca del tutto, ma almeno recupero le funzioni motorie. Voglio dire, mi fa piacere vederlo. Non credevo che sarebbe successo. Non così presto. Non come fosse tutto… normale. Perché mi sembra assurdo pensarla in questi termini? È giusto che io mi senta in colpa dopo quello che ho fatto, ma negli occhi di Fler non vedo una richiesta simile. Non mi sta dicendo “pentiti!”, mi sta dicendo… non lo so. Sinceramente non lo capisco bene, cos’è che sta cercando di dirmi. Sempre che stia cercando di dirmi qualcosa, s’intende.
Annuisco e mi muovo lentamente verso la cucina. Scorgo con la coda dell’occhio Fler accucciarsi sul divano nello stesso modo in cui s’è seduto ieri in macchina. La suola delle scarpe da tennis striscia contro la fodera ma non sarò certo io a chiedergli di tirare giù i piedi.
Quando torno con la birra – una sola bottiglia, solo per lui – mi seggo direttamente al suo fianco e gliela porgo incerto. Lui la prende e la soppesa fra le mani per lunghi istanti. La guarda da ogni lato con falsa indifferenza, in realtà ci si perde un po’, fra le bollicine. Come stesse aspettando di trovare le parole giuste, o il momento più adatto per tirarle fuori.
Alla fine, torna a guardarmi e si china appena a posare la bottiglia sul tavolo.
- Ti stai comportando in maniera condiscendente. – afferma serio e quieto, accomodandosi meglio contro il bracciolo in modo da – me ne accorgo subito – mantenersi un po’ sollevato rispetto al cuscino del divano ed anche alla gamba che lo sostiene.
Chino il capo, torcendomi le mani in grembo. Un po’ vorrei tiragli uno scappellotto e cazziarlo, eh, voglio dire, dirgli qualcosa tipo “guarda che sei tu quello che si comporta in modo strano! Arrabbiati!”, ma mi rendo conto di non essere nella posizione più adatta per fare un discorso simile, perciò cerco delle parole migliori. Qualcosa che possa servire come una scusa. Non mi sembra di essermi scusato abbastanza.
- In realtà… - confesso a mezza voce, gli occhi bassi, - non ho la minima idea di cosa sto facendo, Fler. Non so cosa dirti o cosa fare con te, mi sento… insomma, capisci, è strano. Cosa dovrei fare?
Lui scrolla le spalle e mi guarda dritto negli occhi. È un’occhiata assassina, è troppo sincera. Non… non c’è neanche un cazzo di risentimento, in fondo a tutto quel celeste. Questa cosa è sconvolgente.
- Comportati come sempre. – suggerisce pacato, e sarebbe un suggerimento molto sensato e corretto se non fosse palesemente una cazzata. Non capisco, si aspetta che dica “oh, sì, certo!” e ricominci a… non lo so, gli faccia posto sulla poltrona e gli prenda la coperta e lo metta a nanna per poi rimproverarlo domattina? Per quale motivo dovrei rimproverarlo? Non si ubriaca più da secoli e l’unica cosa che gli si potrebbe additare come colpa è il non aver capito in tempo che cazzone tremendo io sia ed aver continuato a frequentare quest’appartamento.
Ma non è colpa sua, è colpa mia. Ce l’ho tenuto io, qui.
In questa situazione ci sono solo un carnefice ed una vittima. I ruoli non sono confusi. È solo colpa mia.
- Fler… - comincio, sporgendomi verso di lui e massaggiandomi una tempia. Cerco qualcosa da dire, qualcosa che suoni diversamente da “non dire puttanate!”, anche se è quello che penso. Cerco di andarci piano. Forse è un po’ confuso, dev’essere un po’ confuso. - …tu ti rendi conto di quello che ti ho fatto?
È allucinante che a fare questo discorso sia io. Allucinante.
Fler si tira indietro ed aggrotta le sopracciglia, infastidito probabilmente dall’ovvietà indegna delle mie parole.
- Sì, mi sembra di rendermene perfettamente conto, Chakuza. – butta lì freddo e spietato, sistemandosi sul cuscino nell’evidente tentativo di farmi impazzire dal rimorso.
È palese che non usciremo mai da questo discorso. È un labirinto. Lui vuole – se ho capito bene – che io sia lo stesso di sempre. Che lo tratti come se lui fosse lo stesso di sempre. Il problema è che io non sono più quella persona e non lo è nemmeno lui. Non possiamo andare avanti – qualsiasi cosa sia questa che si muove, intendo – senza prenderne atto e… accettarlo, credo. Ma Fler non vede niente, è convinto che si possa risolvere tutto con un cerotto. Con una bottiglia di birra. Tornando a comportarsi come prima.
- Senti… - borbotto, massaggiandomi la radice del naso e sospirando, - mi dispiace davvero, Fler. Non ho la minima idea di cosa mi sia preso ieri, ti giuro che non mi è mai passato neanche per l’anticamera del cervello di farti male a quel modo. E se pure avessi pensato che fra noi due potesse esserci qualcosa di simile, - sto palesemente blaterando. Vorrei che Fler mi fermasse ma lui non lo fa. – insomma, non avrei mai voluto che cominciasse in quella maniera. È stato tutto sbagliato e me ne scuso, ma tu non puoi-
Non faccio in tempo a finire la frase perché lui si sporge in avanti e me lo ritrovo pressato contro il secondo successivo. In realtà niente del suo corpo mi tocca, solo le labbra. Ma sono ferme sulle mie. Ferme e calde e sicure sulle mie. È già abbastanza per mandarmi in crisi.
Non mi muovo, comunque, resto con gli occhi aperti come un gufo e fisso il volto teso di Fler che invece gli occhi li tiene chiusi, ma non serrati. Le sopracciglia sono distese, le ciglia tremano appena. Continuo a non muovermi e questo ha un effetto collaterale piuttosto evidente: dopo qualche secondo, Fler si scosta. Si tira indietro con l’incertezza di un bambino che si è reso conto di aver fatto qualcosa di molto stupido, tipo dare fuoco alla coda del gatto coi petardi.
Riapre gli occhi sulla mia faccia basita e sconvolta e mi fissa con imbarazzo palese, stringendo le mani in grembo. La domanda muta nei suoi occhi mi sconvolge, perché non so bene cosa rispondere. “Cosa si fa?”, mi sta chiedendo. Ed io cosa devo dire? Cosa devo fare?
Mi allungo verso di lui. Rimango un po’ fermo, lo guardo. Lui mi guarda e non dice una parola. Nemmeno un fiato. Neanche un lamento, neppure quando lo afferro per le spalle e me lo tiro contro. E giuro che non so perché lo sto facendo. O meglio, lo so, ma non posso pensare a Bill anche in questo momento. Non posso farlo a Fler, non di nuovo. Non posso perché ci pensavo già mentre me lo scopavo, non posso perché ci pensavo mentre lo vedevo andare via, non posso perché è evidente che la sua mancanza mi manda fuori di testa, ma è Fler che tengo fra le braccia adesso, è Fler che sto baciando ed è Fler che ansima fra le mie labbra. Bill è il motivo, cazzo. Ma io non posso pensarci.
Chiudo gli occhi e mi lascio andare e non è per niente difficile. Fler è caldissimo, mi si stringe contro in un modo tremendamente impacciato che è similissimo al mio. Non so dove mettere le mani e non lo sa nemmeno lui, perciò andiamo completamente a casaccio e mi ritrovo una sua mano pressata forte sulla nuca e l’altra a tirarmi per la maglietta, mentre una delle mie cerca un posto sotto il suo braccio per stringerlo alla vita e l’altra si fa strada da qualche parte dietro la schiena alla ricerca di qualcosa di più caldo di un maglioncino di lana da toccare. Dio, la sensazione è quasi identica a quella che ho provato con Bill. La confusione e l’ansia e la smania di arrivare in fondo… è quasi identico. Quasi, cazzo. È il quasi che mi fotte ma è sempre il quasi che mi salva, allo stesso tempo, perciò stringo forte le palpebre ed affondo con la lingua fra le labbra di Fler, che mugola qualcosa che non comprendo e smette immediatamente di tirarmi la maglietta.
Non lo prendo come un segnale di cambiamento. Ho modo di pentirmene subito dopo, quando Fler si scosta imbarazzato e resta lì, ad un centimetro da me, il respiro pesante e gli occhi socchiusi, entrambe le mani pressate forte contro il mio petto per tenermi distante, anche se, cazzo, io continuo ad avvicinarmi neanche fosse una calamita.
- Aspetta… - mormora confusamente, cercando di scostarsi ancora, - Non… - esita appena, poi sospira, - Non voglio.
Avrebbe potuto dire qualsiasi cosa. Non me la sento, non è il momento, stiamo facendo una cazzata. Qualsiasi cosa. Ma “non voglio” è peggio di una coltellata nello stomaco. E so esattamente di cosa sto parlando.
- Patrick…? – chiamo con ansia, cercando di sporgermi ancora nella sua direzione.
- Fler. – mi ricorda lui, allontanandosi ancora, - Non voglio. – ripete poi, scuotendo il capo. – Mi lasci andare? Per favore.
Lo ammetto, esito un po’ prima di lasciarlo. Stringo la presa sui suoi fianchi – quand’è che le mie mani sono finite là sotto? – e lui viene scosso da un tremito appena percettibile di cui riconosco immediatamente le motivazioni. Solo allora lo lascio andare. E lui ha la delicatezza di non alzarsi all’istante come so vorrebbe fare. Si prende il suo tempo, invece, e mi lascia il mio. Quello di percepire il calore del suo corpo che si allontana, quello di sentirmi raffreddare contro la mia volontà, quello di prendere atto di un problema piuttosto fastidioso all’altezza del cavallo dei jeans ed anche quello di chiedermi se non sono davvero del tutto ammattito.
Mi saluta a bassa voce. Io non rispondo. Non sono arrabbiato – Cristo, in realtà sono furioso, ma non con lui – è che non so cosa dirgli. Questa situazione non mi è familiare. In nessuno dei suoi aspetti. Non sono in grado di gestirla.
Non lo guardo, mentre esce dalla porta. E penso per l’ennesima volta che probabilmente stavolta non tornerà davvero.
*
Non so che cosa sia veramente successo con Fler l'altra sera però continuo ad avere il forte sospetto che il problema sia Bill. E anche se le due cose non fossero collegate – io che mi limono Fler e Bill, dico – è comunque vero che Bill mi manca.
È una roba strana da dire, e da qualche parte credo che non dovrei dirla affatto. Non dovrebbe mancarmi Bill. Non dovrei aver limonato Fler. Non dovrei aver fatto niente di quello che ho fatto nelle ultime settimane – questo me lo dico soprattutto ogni volta che apro lo sgabuzzino e ci trovo dentro quel tappeto. Devo levarlo di lì, prima che lo trovi mia madre per sbaglio – e quando mi rendo conto di questo mi rendo anche conto che sto vivendo a casaccio e che è l'ora di finirla, in qualche modo. Chiamo Bill. Sì, lo chiamo.
Bill non si fa sentire da una settimana. Non è passato da casa, all'Ersguterjunge, non ha chiamato. Nemmeno un messaggio. Capisco che abbia tutto il diritto di comportarsi così ma sto facendo così tanti casini in così poco tempo che vorrei per lo meno parlarci. Se mi deve mandare a fanculo per quello che è successo, voglio che lo faccia. Vederlo sparire così nel nulla non mi va giù. In realtà non mi va giù neanche che mi mandi a fanculo, perché a me quello che è successo tutto sommato, non lo so... stamattina mi sono svegliato chiedendomi che cosa implica il fatto che mi sia piaciuto. Bill. Ma anche Fler. E non so nemmeno se il problema devo farmelo perché sono due, o perchè sono due uomini.
Non mi rispondo. Telefono; che non è una soluzione, ed è pure un danno perché se questa volta risponde non so cosa dirgli.
"... pronto?"
Ecco, appunto.
Mi passo il telefono da un orecchio all'altro. Sono in casa, in piedi in mezzo al salotto e, fra tutte le cose che potrebbero passarmi per il cervello, mi viene da chiedermi dove mettermi per avere quella conversazione. Non sul divano, è l'unica conclusione che raggiungo. Quindi sto in piedi, che è meglio. "Bill, sono... Peter."
Il mio nome suona sempre strano se non è lui a dirlo. Mi sento scemo a pronunciare quelle cinque lettere, perché ormai sono abituato all'altro. A Chakuza. Il mio vero nome non mi sembra più nemmeno tanto vero.
"Chaku..." lo sento inspirare e non so se è un sospiro rassegnato o se non se lo aspettasse. Se è emozionato, io ci provo a sperarlo. Mi fa male che non mi chiami Peter, però. Mi aspettavo che lo facesse. È una situazione da Peter. No?
"Ti disturbo?"
"No," risponde. Dovrei essere contento, in realtà è così incerto quando lo dice che forse dovrei prenderlo per quello che è: un modo carino di dirmi che invece lo disturbo. Solo che non lo faccio, ovvio. Un po' perché io non li ho mai capiti i velati suggerimenti e un po' perché ora che ho sentito la sua voce mi manca ancora di più. Sembra passato un secolo dall'ultima volta che eravamo seduti vicini a ridere.
"... volevo," metto il muto sul televisore. "... volevo sapere come stai."
"Bene," non lo dice con la convinzione con cui vorrei che lo dicesse e per qualche motivo me lo immagino che guarda in basso e giocherella con qualcosa a caso, tipo il laccio di una scarpa o l'orlo della maglietta. Quando è nervoso – lo so – stropiccia sempre qualcosa. Quand'era qui a cena e parlava di Bushido, finiva sempre con il piegare il bordo della tovaglia su se stesso finché non aveva più stoffa. Allora si fermava, rendendosi conto di aver ridotto la tovaglia ad un grosso serpente e rideva. La risata di quando si rende ridicolo, una specie di sbuffo, e gli diventano tutte le guance rosse.
"Dove sei?" Chiedo, cercando di far suonare la domanda casuale. Fino a quando non è successo il casino, sapevo sempre dov'era. Non si muoveva senza avvertirmi che sarebbe arrivato tardi, o a che ora sarebbe arrivato. Se andava da qualche parte, e da che parte andava. Ora che ci penso, ha passato i mesi prima della trasmissione a casa mia, e le settimane dopo in ospedale. E quando non c'era, raccontava dov'era stato. In ogni caso è stato sempre con me, in un modo o nell'altro. E' chiaro che mi manchi. Non è chiaro perché fosse così prima che gli mettessi le mani addosso. Non è chiaro perché gliele ho messe, le mani addosso.
"Sono da Tomi," mi dice.
Da Tomi non è una buona risposta. Da Tomi significa che sta male. Significa che ha pianto più di quanto sia normale che faccia, perché l'unica persona che si può sciroppare tutte le sue lacrime e che – soprattutto – sappia come fermarle, quello è Tom. All'improvviso mi chiedo che cos'abbia raccontato a suo fratello.
"Io sono a casa," gli dico, che è una cosa stupida dal momento che lui non me l'ha chiesto. E mi rendo anche conto che potrebbe suonare male, tipo che dal momento che sono qui, potrebbe venirci anche lui. Insomma, non è che l'avevo intesa così. "Cioè, così.. per dire," aggiungo. E riesco a peggiorare la situazione in molti modi diversi contemporaneamente. Tipo che faccio la figura dell'imbecille. Tipo che è chiaro a cos'ho pensato e perché ho dovuto specificare.
"Come vanno i tuoi punti?" Mi chiede lui. E lo stomaco mi fa un verso strano, mi si annoda, ecco. Poi ride, ed è ancora più bello. "Non li avrai fatti aprire di nuovo!"
Rido anche io. "No, è tutto a posto," già che ci sono uso la vetrinetta della credenza per darci un'occhiata, alzando la maglia. "Sta guarendo, devo andarli a togliere in settimana."
"Ti rimarrà la cicatrice?"
"Assolutamente sì," rispondo fiero senza nemmeno rendermene conto. Faccio una smorfia e mi do del cretino.
Lui però ride di nuovo. "Non dovresti essere tanto entusiasta," commenta, "ma immagino che per voi gangster sia motivo di vanto."
"Le cicatrici hanno il loro fascino."
"Già," la sua risata rimane, ma è un po' più spenta di prima. Capisco che stiamo di nuovo camminando su un terreno minato. "Gli altri come stanno?"
Intende Kay One ed Eko, ovviamente. E La domanda non mi sorprende, Bill si è sempre trovato bene anche con loro. Anche se Eko finge che di lui gli interessi meno della mia aragosta di peluche.
"Stanno bene," annuisco. "Sono stati a cena qui un paio di giorni fa."
"E sei riuscito ad offrire loro qualcosa di commestibile che non si muovesse già sulle sue gambe?"
"Hey, guarda che io so cucinare!" Protesto.
"Sì, ma non hai mai cibo in casa," ride lui. "Hai il metodo ma non la materia prima."
"Avevo fatto la spesa," specifico, "E hanno mangiato come maiali, per inciso."
"Beh Eko pesa poco più di me," commenta lui. "Non può aver fatto grossi danni."
Sollevo un sopracciglio. Non bene quanto lui, però. "Bill, tu mangi molto più di quanto sarebbe logicamente possibile."
"Mi stai dicendo che mangio troppo?"
"No!" E sbraito. Mi chiedo perché sbraito sempre quando sono agitato. Mi chiedo perché Bill abbia il potere di agitarmi tanto. "Sto solo dicendo che tutto quello che mangi poi non si sa dove lo metti. Ecco."
Lo sento ridere un po'. "Stavo scherzando, tranquillo."
A quel punto penso che potrei farlo, dirglielo ecco. Ci sto rimuginando da stamattina, da quando mi sono svegliato e ho pensato che fosse ora di telefonargli. Ho voglia di vederlo, e mi sembra che anche lui... non lo so, ecco. Non sembra infastidito. "Senti," comincio. E lo sento che si irrigidisce. Trattiene il respiro. Insomma, lo sento che siamo di nuovo tra le mine ma non mi fermo perché se lo faccio poi non avrò più il coraggio. "...magari potremmo prenderci una pizza una di queste sere..."
"Peter..."
Questo non è un discorso da Peter, cazzo.
"Possiamo andare al cinema, se non vuoi venire qui," mi correggo. "O andiamo a bere qualcosa. Sicuramente lo troviamo un posto in cui non ci siano fotogra-"
"Forse è meglio se non ci vediamo, per un po'," mormora. E ha la vocina sottile e dispiaciuta. Lo so che è dispiaciuto, ma io ho voglia di spaccare qualcosa lo stesso. Non gli dico niente, perché sicuramente di bocca mi uscirebbe la cosa sbagliata.
"Solo per un po'," insiste lui. La sua voce si è addolcita, sta cercando di convincermi di una cosa a cui non crede nemmeno lui. Quel poco di cui parla si trasformerebbe in molto. Forse in sempre. E tutto perché ho messo le mani dove non dovevo, quel pensiero continua a tormentarmi.
"Non succederà niente," esclamo alla fine. Non voglio rassegnarmi all'idea di una pausa. Lo so che è infantile e che me la sta chiedendo per favore, però non voglio dargliela. Ho paura che se lo lascio andare adesso e gli dico di sì, poi non lo recupererò più. "Te lo prometto, Bill."
Lui rimane in silenzio per qualche secondo. "Non puoi prometterlo," dice alla fine. "E nemmeno io."
Non posso dargli torto su questo. Non lo so cosa succederà davvero se me lo ritrovo davanti, perché nemmeno la prima volta so cos'è successo. Era lì, avevo voglia di toccarlo e l'ho fatto. Se non lo avessi fatto, questa telefonata non sarebbe mai esistita. E lui sarebbe qui adesso, sarebbe stato qui anche l'altra sera. La mia vita non sarebbe il disastro che è se io quella sera non lo avessi toccato. Eppure ho una gran voglia di rifarlo. Quindi forse ha ragione lui. Cazzo.
"Va bene," concedo alla fine, ma lo faccio controvoglia e solo perché è chiaro che se insistessi potrei ottenere quello che voglio e dovrei mantenere la mia promessa. La promessa non la manterrei. Ora lo so. La voce di Bill da sola basta a ricordarmi le sensazioni. E no, non la manterrei.
"Solo per un po'," ripete lui, ma tanto non serve a niente. "Ti chiamo io, va bene?"
Che vuol dire Non mi cercare. E nello specifico Questa è l'ultima volta che mi senti.
Non glielo dico che va bene, perché non va bene. "Io sono sempre qui, quando vuoi."
"Lo so," sussurra. Lo sento appena. E poi: "Mi ha fatto piacere sentirti."
"Anche a me."
Quando ci salutiamo gli trema la voce, e mi maledico perché non voglio che pianga. L'ho fatto piangere anche troppo nei giorni precedenti. Non gli dico niente però, perché sono nervoso e non saprei controllarmi. "Allora, ciao," mormora.
"Ciao principessa," chiudo il telefono prima di sentire qualunque cosa.
Né lacrime, né singhiozzi.
*
Non riesco più a stupirmi della presenza di Fler. Il che è allucinante, se si pensa che è effettivamente assurdo lui sia qui. D’accordo, dovrei fermarmi a pensare più approfonditamente al fatto che è stato lui a… farsi avanti andrà bene, come verbo? Comunque, a fare quello che ha fatto ieri sera. Io ci sono solo stato.
Dio.
Lancio un’occhiata all’orologio a muro, ovviamente sono le nove. Torno a guardare Fler che solleva una recipiente in plastica, quadrato e con un tappo rosa.
- Lasagne. – annuncia seriamente, - La signora Lotte mi aspettava sul pianerottolo.
Spalanco gli occhi.
- La signora Lotte ti ha dato delle lasagne per me?
- Be’, se vuoi mangiartele da solo, d’accordo, ma io non ho ancora cenato. Sempre che t’interessi. – borbotta facendosi strada all’interno del mio appartamento sgomitandomi in piena pancia.
- Attento! – blatero infastidito, - I punti!
- Tanto li togli giovedì. – scrolla le spalle posando il contenitore sul cucinino ed allungandosi verso uno stipetto per recuperare dei piatti che naturalmente non trova perché io non ho un servizio di stoviglie. Lo raggiungo e mi chino, ripescando un paio di piatti di plastica da un cassetto e posandoli accanto a lui. – Grazie. – annuisce aprendo il contenitore ed afferrando un coltello per dividere le porzioni, - Era giovedì, giusto?
Annuisco con aria assente e la mia porzione di lasagne si spiaccica sul mio piattino di plastica. La guardo: cola olio e mozzarella fusa e besciamella e tritato da ogni parte e tutto ciò è meraviglioso. Mi sale una fame boia, così all’improvviso, mangerei qualsiasi cosa. Fler mi allunga una forchetta ed io la affondo nella pasta il secondo successivo.
- Come mai così silenzioso? – mi chiede lui, osservando con aria critica lo sgabello. Ma pure seriamente, nel senso che lo squadra da ogni lato come se dovesse riprodurlo.
- Niente di particolare… - rispondo io, un po’ distratto perché mi perdo un attimo a cercare di capire cos’abbia di tanto sbagliato il mio sgabello perché Fler lo fissi in questa maniera intensa, - Fler, ma che c’è?! – chiedo alla fine, quando l’ansia si fa intollerabile.
Lui torna a guardarmi ed inarca un sopracciglio.
- Me lo dai un cuscino? – chiede quindi, indicando la superficie in legno sulla quale si suppone debba sedersi.
Potrebbe prendermi a ceffoni, di tanto in tanto. Sono sicuro che mi servirebbe.
- Subito! – mi agito, scattando in piedi e correndo letteralmente verso la camera da letto, dalla quale esco col cuscino che fa pendant con la sua coperta coi cavallucci marini. Lo agito tipo bandiera, come a rassicurarlo, sì, ce l’ho il tuo cuscino, Fler, ora puoi sederti.
Lui ride e me lo toglie di mano, arrampicandosi sullo sgabello – adesso morbido – con qualche problema di troppo, nonostante tutto.
- …come va? – mi forzo a chiedere mentre torturo le lasagne, chiedendomi se sia educato mangiare mentre si chiede una cosa simile.
Fler scrolla le spalle e manda giù una porzione di lasagne che probabilmente sarebbe stato meglio mangiare in due morsi differenti. Ma non posso fargli la paternale su questo.
- Oggi non è uscito sangue. – rivela alla fine. Non mi guarda ed io mi sento crollare qualcosa addosso e mi viene voglia di urlare.
- …ah. – annuisco imbarazzato.
- Credo sia una cosa buona. – continua lui, mandando giù un altro morso di lasagne, meno convinto del primo. Poi si volta a guardarmi e deve vedere lo sgomento nei miei occhi, perché riprende subito a parlare. – Non dovevo dirlo, mh?
- No, io-
- È che non ne parlo con nessuno. – aggiunge poco dopo, e su di noi cala il silenzio.
Annaspo.
- Sì! – cerco di dire con sicurezza, - Voglio dire, certo! Guarda che con me puoi parlarne! – annuisco deciso, - Sono contento che si stia… risistemando tutta la… situazione, mi fa piacere, ecco. Magari vieni in ospedale con me giovedì e… non so, ti fai controllare anche tu?
Fler scuote il capo.
- Io sto bene. – aggiunge, e manda giù altre lasagne. – Sul serio. Guarisco da solo.
- Fler-
- Mi hanno dato… delle cose. – è incerto, si mordicchia un labbro e i suoi occhi saettano confusi da una parte all’altra della stanza, - Intendo, lo so come devo curarmi. Non ti preoccupare.
Annuisco e lui finisce le lasagne mentre le mie sono ancora tutte qui. E dire che avevo fame sul serio.
Scende giù dallo sgabello e butta via il piattino, per poi dirigersi tranquillo verso il lavandino e cominciare a lavare la forchetta. Quando ha concluso mette le mani pure sul contenitore ormai vuoto ed unto, e mi sale un qualcosa dentro che mi fa scattare in piedi e muovermi verso di lui.
- Aspetta, aspetta… - sussurro, sfilandogli il contenitore di mano e chiudendo il rubinetto, - Non metterti a lavare i piatti, dai… - suggerisco con un sorriso.
Fler scrolla ancora le spalle e continua ad evitare i miei occhi.
- Era giusto per fare qualcosa. – dice, e nel suo tono c’è una certa ansia che non saprei identificare.
- Be’, lascia perdere. – dico, tirandolo un po’ verso il divano, - Faremo altro.
Fler si agita ancora, sento chiaramente che mi sta sfuggendo dalle mani e non ci sto.
- Okay, forse è meglio che me ne torni a casa. – borbotta, ma no, non voglio che se ne vada a casa. Dobbiamo risolverla, questa cosa, dobbiamo risolverla adesso o non ne usciremo davvero più.
Mi fermo e lo fronteggio, lo guardo dritto negli occhi e non intendo lasciarlo andare via prima di aver… concluso qualcosa. Qualsiasi cosa.
- Senti, non c’è bisogno di fare così. – dico con sicurezza, - Non voglio… farti male. – e stringo la presa sulle sue spalle. Solo che dopo scendo un po’. All’altezza dei gomiti. È troppo tardi quando mi accorgo di starlo stringendo per i polsi, lo sto già facendo. Non posso scendere più in giù di così, alle mani non posso arrivare, perciò mi accontento.
Fler deglutisce.
- Lo… lo so. – ma è incerto.
- No, non lo sai.
- No, no, credimi, - borbotta, cercando di liberarsi i polsi, - lo so che non era tua intenzione e che non ci pensi nemmeno a farmi niente, l’ho capito, stai tranquillo, sono solo-
Il calore umido della sua lingua lo incontro subito perché stava parlando senza guardarmi. Quindi non mi ha visto avvicinarmi. Non se n’è accorto. Ed è stato facile scivolare dentro di lui, perché era esattamente quello che volevo ed è facile zittire qualcuno che blatera così. Stringo e me lo tiro un po’ contro, Fler lancia un mugolio incerto ma quando schiudo gli occhi per controllare se sia con me vedo che lo è. Lo è eccome. Le palpebre sono distese e chiuse e le sue labbra si muovono morbide seguendo le mie.
Cristo, perché me lo lasci fare, Fler?
Lascio i polsi e lo stringo alla vita, è sottile per essere quella di un uomo, e lo attiro contro di me. Ci scontriamo l’uno contro l’altro e dal mio bacino parte una scarica elettrica che si diffonde nello stomaco e poi lungo le braccia, che scattano e lo stringono con più forza. Fler solleva le mani e le posa sulle mie spalle. Non stringe e non mi spinge, si posa lì e basta.
Mi muovo un po’ in avanti perché voglio trovare una superficie – una qualsiasi – contro la quale posarlo, perché voglio… non lo so nemmeno io cosa voglio ma voglio più libertà e stando così in mezzo alla stanza non ce l’ho, perciò avanzo ed alla fine trovo una parete, che non sarà il massimo della comodità ma almeno è solida e liscia. Fler ci si adagia contro ed io mi spingo contro di lui e rivoglio quella scarica lì, quella che ho sentito quando mi si è spinto addosso, arrivo a sentirla e mi ci perdo.
E lui allunga le mani e mi allontana. Un gesto secco ed affatto fraintendibile. Un attimo gli sono addosso, l’attimo dopo mi sta guardando come se non sapesse come darmi due di picche.
Vorrei dirgli che sto cominciando a farci il callo e di non preoccuparsi. Lascio perdere – mi chiedo quanto suonerebbe ridicolo e decido che sarebbe tanto.
- Pa- - comincio, ma mi fermo subito. – Fler?
- È tutto okay. – mi rassicura immediatamente lui, annuendo un po’ incerto, - Solo… basta così, per oggi, d’accordo?
Annuisco anche se vorrei mettermi ad urlare, nell’ordine, sull’okay che non esiste – perché niente è okay – sul basta così che non mi va giù – perché sono palesemente fuori di testa – e sul per oggi che mi fa ammattire su così tanti livelli che non posso nemmeno stare a contarli tutti.
- Senti, posso dormire qui stanotte? – mi chiede titubante.
Continuo ad annuire come uno stupido piccione e gli faccio strada verso la camera da letto – sono fuori di testa, è palese – se non che lui mi tira per la maglia e mi ferma ed io per poco non cado per terra ma mi volto a guardarlo come nulla fosse.
- Sì…? – cerco di informarmi sperando di non suonare come un completo deficiente, ma non mi viene bene.
- Dormo in poltrona. – annuisce tranquillo lui, - Mi dai solo la coperta?
Lo fisso.
- Ma non stai scomodissimo? – chiedo.
- No, va bene. – insiste lui, - Sul serio. Mi dai la coperta?
Penso che dovrei chiedergli perché non vuole tornare a casa sua. Ma ho un po’ paura di sentirmi rispondere che il problema non è che non vuole tornare a casa propria, ma che vuole restare qui nella mia. Il che è… decisamente troppo perché io possa decidere di affrontarlo adesso e con coscienza.
Sparisco in camera da letto e quando torno con la coperta lui s’è già rannicchiato in poltrona in una posizione incomprensibile. Lo copro e resto seduto sul divano finché non sono sicuro che dorma.
*
È giovedì. Gli ultimi tre giorni della mia vita sono riassumibili in pochi semplicissimi concetti e la mia mente è così stremata che ringrazio di essere ancora in grado di formularli.
Niente Bill. Che è in assoluto la cosa peggiore. Perché vuol dire che avevo ragione a pensare che “un po’” sarebbe diventato “sempre”. E non riesce ancora ad andarmi giù.
In compenso, Fler è venuto qui ogni giorno ed ogni notte s’è fermato a dormire. Sempre in poltrona. Ogni sera ha portato qualcosa da mangiare, tranne martedì, che s’è presentato senza niente ed io sono andato nel panico perché non c’era niente di veramente commestibile in tutto l’appartamento – forse la piantina di bambù che mi ha portato mia madre domenica, ma non sono sicuro che non sia già marcita anche quella. Alla fine gli ho fatto un uovo. Ce n’era uno solo, l’ho fatto a lui. Ha insistito per darmene a mangiare metà ed abbiamo passato il resto della notte piegati sul cesso a vomitare. Mercoledì, naturalmente, s’è presentato lui con del cibo chiesto palesemente in elemosina alla signora Lotte, che comunque l’ha preso in simpatia e lo fa con piacere.
Io sono tornato due ore fa dall’ospedale. I punti non ci sono più, è rimasta una striscia di pelle di un colore completamente differente rispetto al mio. È così diverso che sembra non mi appartenga neanche. Ma è un po’ una ferita di guerra e… me la sono procurata per Bill. Perciò resta dov’è, poco da fare.
Fler e ciò che sembra un’intera coscia di capretto attraversano puntualmente la soglia di casa alle nove. Fler sorride. Il capretto profuma di rosmarino.
Il terzo concetto base che sarebbe il caso io smettessi di farmi casualmente sfuggire di quando in quando, è che io e lui – Fler, non il capretto – continuiamo a saltarci addosso da quando ha stabilito che può dormire sulla mia poltrona. Prima o dopo succede comunque, e la cosa si muove sempre nello stesso modo. Io mi avvicino – o lui si avvicina – io lo sfioro – o lui mi sfiora – io lo bacio – insomma, ci baciamo – e poi lui mi allontana. E non è facile, non è facile neanche per un cazzo separarti da un corpo caldo che ti si stringe contro confondendoti al punto che non sai più neanche su che superficie lo stai schiacciando, non è facile fermarti anche se l’altra persona ti fa capire chiaramente che non vuole più andare avanti.
Mi sembra assurdo metterla in questi termini ma sono così frustrato che penso potrei esplodere. Così la scena che ha luogo fra me e Fler è del tutto surreale.
- Ho portato il capretto! – dice lui con entusiasmo, - Ti hanno tolto i punti?
- Sì, sì. – dico distrattamente io, avvicinandomi, - Ma quanti chili di capretto sono?
- Non così tanti… - borbotta lui soppesando l’enorme cosciotto con gli occhi. Questo non è un capretto, peraltro, come minimo è un vitello. – Comunque ora ci mettiamo qui tranquilli e lo mangiamo, se resta… no, non lo conservo nel tuo frigorifero. Finiamolo tutto. – annuisce alla fine.
- Ma non finirà mai! – mi sporgo e cerco di metterlo via, - E poi non ho fame!
Non so perché sto facendo così. Non è che voglia saltargli addosso, sono solo incredibilmente nervoso, voglio darmi qualcosa da fare e se questo qualcosa sarà tagliare fettine dalla coscia del capretto gigante geneticamente modificato fino a domattina per poi avvolgerle nel cellophane e metterle in freezer, d’accordo.
Ho voglia di urlare.
- Come mai non hai fame? – chiede Fler curiosamente. Ed io ho ancora più voglia di urlare. – Non ti senti bene?
- Sto benissimo! – ansimo agitato, mettendo le mani sul capretto e tirandolo via, - Parliamo d’altro! Tipo, fa un freddo cane, ti pare? Accendo i termosifoni.
- Non funzionano. – mi informa lui, cercando nuovamente di raggiungere il capretto. Io riprendo a tirarlo via. Mi sembra di stare giocando.
- Come non funzionano? – chiedo allibito. È casa mia, saprò cosa funziona e cosa no.
- Sentivo freddo ieri ed ho provato ad accenderli, ma niente. Dovrai sistemarli.
Per un attimo accarezzo l’idea di strillare “be’! visto che palesemente conviviamo e l’unica cosa che ci manca per dichiararci coppia di fatto è che, Cristo santo, non si scopa neanche a morire, direi che mi aiuti tu a sistemarli, i fottuti termosifoni, no?!”, ma poi lascio perdere. È evidente che non posso dire una cosa del genere. Piuttosto mi butto dalla finestra.
- …insomma! – biascico, e vado ad abbattermi sulla poltrona.
Fler mi viene vicino lasciando perdere finalmente il dannato capretto, e mi fissa con aria preoccupata.
- Chakuza, tu non stai bene. – annuncia seriamente, chinandosi un po’ verso di me, - Vai a letto, guarda, domani mattina ti sembrerà tutto più semplice. – annuisce convinto. Non so di cosa cazzo stia parlando. Probabilmente s’è convinto io sia ubriaco.
Non sono lucido, è vero, ma l’alcool non c’entra. Rilasso le spalle e mi passo una mano sugli occhi, sospirando pesantemente. Fler sospira a propria volta e resta dritto davanti a me, le mani sui fianchi, chiedendosi probabilmente cosa dovrebbe farsene di questa versione isterica di me stesso. Mi chiedo cosa dovrei farmene anche io. Mi servirebbe una doccia congelata.
Ed invece sollevo le mani e gliele stringo attorno alla vita, accarezzandogli vagamente i fianchi con i pollici.
- …ah. – prende atto lui, e resta immobile.
- …“ah” non è una risposta, Fler. – mi sgonfio io, stremato.
Lui trasale.
- Ma vuoi pure una risposta?! – chiede allucinato.
- Senti, ha senso non parlarne?! – chiedo io, ugualmente allucinato, tornando all’improvviso a guardarlo negli occhi.
Lui non se l’aspetta, tant’è che lo trovo che mi guarda con l’aria di una quattordicenne che non abbia proprio capito per quale motivo l’insegnante di ginnastica continui a fissarla con quegli occhi strani.
- Fler, mi dici qualcosa? – chiedo esasperato, stringendo la presa sui suoi fianchi, - Una qualunque cosa! Mandami a fanculo, se preferisci, però così non può continuare.
Lui esita. Mi guarda ancora un po’, poi si china su di me e cerca le mie labbra.
D’accordo, non è una risposta. Ma chi se ne frega.
Lo attiro per la nuca, lui si stupisce giusto per un attimo – è un attimo di rappresentanza, sapeva che l’avrei fatto – e poi, visto che la posizione così è scomoda, incastra le ginocchia ai lati del cuscino, vicino ai braccioli, così che sta a cavalcioni sopra di me ma non mi sta seduto addosso, che è una cosa intollerabile perché sta un casino lontano ed io invece me lo voglio sentire addosso sennò do di matto.
Faccio per tirarlo verso il basso e mi preparo a costringerlo se si rifiuta, ma non si rifiuta. Battiamo l’uno contro l’altro ed è la solita scarica, solo che poi continua, perché lui si muove ed ottiene uno strusciamento che Dio, mi manda in blackout, perciò lo tengo stretto per i fianchi e comincio ad odiare i vestiti, tutti, in blocco.
Decido che qui non possiamo più stare e scatto in piedi. Me lo trascino dietro, chiaramente rischiamo entrambi di morire perché non si può pretendere di alzarsi insieme da una poltrona e sopravvivere, comunque sopravviviamo per un qualche miracolo che non comprendo ed io comincio a spingerlo verso la camera da letto. Non mi sono ancora staccato dalla sua bocca neanche per un secondo. Non ci stiamo toccando moltissimo, per la verità, suona tutto un po’ troppo strano per prenderlo normalmente, però capita di sfiorarsi a caso, di tanto in tanto, ed i brividi sono fortissimi.
Non ci arriviamo, in camera da letto, Fler si abbatte contro la parete di fronte incespicando sulla moquette rovinata del corridoio ed io gli vado dietro, mi schiaccio contro di lui e lo sento che si ancora con un braccio al mio collo per non cadere. Non ci capisco molto, ho gli occhi chiusi, lui lancia un piccolo lamento ed io mi stacco dalle sue labbra – che sono gonfissime, Dio mio – e scendo a caso a morderlo sul collo, pure con una certa violenza, ma lui non sembra lamentarsi ed io penso Cristo, Cristo, Cristo, ci siamo, e dura tipo tre secondi.
Tre secondi sono il tempo che impiega Fler a schiudere gli occhi e visualizzare la camera da letto. Questi tre secondi li usa anche per irrigidirsi tutto, piantarmi le mani sul petto e spingermi via, come al solito.
- Fler… - mugugno affranto, perfettamente consapevole di stare riducendo in ginocchio la mia dignità, anche se alla fine mi pare di aver poco da perdere, nella situazione contingente, - cazzo, lo vuoi anche tu… - e non ho nemmeno il tempo di realizzare quanto stronza e cretina e fuori luogo suoni questa frase, che sono lontano già più di venti centimetri ed il calore del suo corpo non lo sento neanche per sbaglio.
- Forse è meglio che torni a dormire a casa mia. – borbotta confusamente, cercando di allontanarsi dalla parete senza per questo doversi avvicinare a me. Capisco che vuole veramente andarsene e cazzo, mi allontano. Cosa devo fare? Mi allontano e basta, cazzo.
Fler si muove lungo il corridoio ed io lo fisso e non so se vorrei uccidere lui o ammazzarmi da solo. Comunque non lo fermo. Quando sento il clack della porta che mi annuncia che è andato via, in compenso, mi dirigo serenamente verso il salotto e comincio metodicamente a distruggere casa. Prima i soprammobili – ormai mia madre porta solo roba di gomma. Qualsiasi cosa rimbalza sul pavimento e si perde sotto i mobili, ma non si rompe niente – poi i mobili – rovescio tutti gli sgabelli, uno dopo l’altro, ci finisce di mezzo pure il cosciotto del capretto geneticamente modificato che cade per terra e no, non si rompe ma di sicuro non sarà più mangiabile. Non so quanto tempo passi, so che me la prendo pure con i fornelli e con le cassettiere e so che per tutto il tempo non faccio che darmi del cazzone e non so neanche perché. Continuo ad avere difficoltà ad identificare il motivo del mio scazzo. Non so più neanche se è solo colpa di Fler. C’è ancora Bill, Cristo, è ovunque. È come se tutto partisse da lui. Non ce la faccio più.
Non so quanto tempo è passato quando arrivo di fronte alla poltrona. Mi viene voglia di farla a pezzi e bruciarla, almeno mi scalderei, ma poi la prendo per le gambe e la ribalto, sto accarezzando l’idea di saltarci sopra, sono sudato ed ansimo e non so come, sopra i miei respiri e sopra la rabbia, riesco comunque a sentire il campanello.
Fisso la porta con aria allucinata per un tempo lunghissimo, ci metto un po’ a rendermi conto che mi tocca comunque andare ad aprire. Prego in svariate lingue che non sia la signora Lotte – potrei averla svegliata. O qualche altro inquilino del palazzo, chissà fino a dove s’è sentito l’eco della devastazione.
E invece è Fler. Lo guardo e non riesco a realizzarlo, ma è lui. Mi fissa come non sapesse che dirmi, poi lancia uno sguardo all’appartamento, spalanca gli occhi e schiude le labbra.
Vorrei mandarlo a fanculo ma, quando apro la bocca, esce una cosa completamente diversa.
- Sei tornato…
Lui torna a serrare le labbra ed annuisce, semplicemente.
- E questo significa? – cerco di capire io, stringendo una mano attorno alla porta.
Palesemente non sa cosa dirmi. Abbassa lo sguardo, si tortura il bordo della felpa con le dita, poi torna a guardarmi e si fa avanti. Pressa le labbra contro le mie e sinceramente non mi serve sapere altro. Se mi manda in bianco di nuovo, però, giuro che l’ammazzo.
Mentre lo strattono con poca delicatezza verso la camera da letto – almeno quello posso offrirglielo – Fler cerca di ricavarsi lo spazio per qualche domanda fra le mie labbra.
- Chakuza… - ansima incontrollatamente, - ma come facciamo?
- In qualche modo. – rispondo deciso io, cercando di zittirlo, - Poi ci pensiamo.
- Poi è adesso. – insiste lui, cercando di allontanarsi, - Senti, è pericoloso, forse-
- Cristo. – lo interrompo, posandogli una mano sulla nuca e fermandomi un attimo prima di baciarlo ancora, - Sei tornato. Un modo lo troviamo. Non sarò… faccio attenzione, ok?
Lui esita un secondo e poi annuisce, io non ho la minima idea di cosa sto facendo né di cosa farò a breve ma lui mi lascia fare e finché lui mi lascia fare io sono a posto. Si stende sul letto ed io mi stendo sopra di lui, mi reggo sulle braccia e mi chino solo per baciarlo, non lo tocco quasi. Questa cosa non ha senso e non mi interessa. Lo prendo per un fianco e lo spingo di lato, spero che capisca che voglio che si giri perché non posso dirglielo ad alta voce.
Grazie a Dio lo capisce, lo vedo voltarsi ed affondare il viso contro il cuscino. Da qui in poi so come si fa, non bene ma posso intuirlo. Lo spoglio appena, solo quello che serve, la situazione è già abbastanza assurda così com’è e possiamo prenderla solo come una soddisfazione momentanea, se non ci spogliamo del tutto. Voglio dire, cazzo, sono giorni che mi tira scemo. È una soddisfazione e basta. Non è niente di che.
Cerco di fare piano. Il preservativo lo trovo in fondo al cassetto. Non ricordavo ci fosse, lo speravo e basta. Cerco di lubrificarmi con un po’ di saliva – abbondante, okay, lo ammetto, sono terrorizzato, cazzo – non so esattamente quanta ne serva, direi che vado ad intuito. Spero di non combinare disastri.
Mi fermo al primo gemito. Fler lo soffoca contro il cuscino ma io lo sento lo stesso. Non gli chiedo se devo smettere perché non voglio smettere. Prego che mi lasci andare avanti. Ma è un po’ difficile rispondere “no” ad una domanda che nessuno ti pone, perciò io non chiedo e lui non risponde. Lo prendo per un assenso e mi muovo ancora.
- Piano. – mormora lui, ma non solleva il viso dal cuscino. Non so cosa fare. Avanzo piano, è l’unica cosa cui riesco a pensare; questa, e quanto sia simile la sensazione rispetto a quella che ho provato la prima volta. Sentirlo aprirsi al mio passaggio è ancora inebriante. Sentirlo tendersi sotto di me è eccitante.
Faccio sinceramente fatica a tenermi fermo.
E quando lo vedo scendere ad accarezzarsi fra le gambe tiro un sospiro di sollievo e comincio a muovermi più velocemente. Mi piego su di lui e scorgo un pezzetto della sua faccia – l’espressione è tesa ed addolorata – non sta bene proprio per niente ed ho il timore che accarezzarsi non sia altro che una distrazione neanche tanto efficace. Vorrei poter fare di più, vorrei provarci almeno, ma non lo faccio. Continuo a spingere ed a me, cazzo, piace tantissimo. Lui ansima e geme ma non sta bene. Non sta bene ed io dovrei smetterla di essere la causa di questo suo non stare bene.
Cazzo.
È così stretto che mi muovo a stento.
Al momento spero solo che non sanguini.
Vengo e lui probabilmente nemmeno se ne accorge. Lui non viene affatto. Smette di accarezzarsi nel momento esatto in cui io smetto di spingere, confermando che sì, si trattava solo di una distrazione.
Tutto ciò è deprimente.
Non posso neanche dire non sia stato bello. Ma cosa cazzo è stato?
Mi seggo sul materasso al suo fianco e lui rimane immobile a lungo, si prende un sacco di tempo solo per riprendere fiato. Almeno non sanguina. Non sembra nemmeno felice, comunque. Rimango in silenzio ed aspetto che sia lui a dire qualcosa. Il problema è che non dice niente. Passato qualche minuto, tira su i jeans e si rimette in piedi.
Lo fisso, sconvolto.
- Fler? – chiedo, - Dove… come va?
Se mi sta guardando, non lo so. È buio, non lo vedo.
- Tutto a posto. – dice a bassa voce.
- Sì, okay. – insisto io, - Dove stai andando?
Solleva un braccio, indica la porta della stanza.
- Sulla poltrona. – risponde piano, - La coperta… - si china a recuperarla dal comodino dove l’ha posata lui stesso stamattina, prima di andare via.
- Aspetta… - mi agito e mi rivesto, allungandomi sul materasso verso di lui, - Non puoi andare sulla poltrona, Fler-
- Sto bene. – mi interrompe lui. È durissimo. Mi fermo come paralizzato, lui se ne accorge e sospira, moderando il tono di voce. – Sto bene. – ripete, più conciliante, - Preferisco dormire lì. Dormo meglio. – sorride, sento lo sbuffo nel buio. – Buonanotte.
Vedo solo la sua sagoma che si allontana. Fler non dimentica di chiudersi la porta dietro alle spalle, quando se ne va.

Bookmark and Share

Es Gibt Kein Wir

di lisachan
L’aria è tesa, in casa di Chakuza. È così più o meno sempre. Il problema – enorme – di quest’uomo è che Bill non si fa più vivo – lo so perché ci sono andato io, da lui. Ormai è anche una mia responsabilità, non può pensare di sparire e che a me la cosa non importi – ma dentro questa casa il suo profumo è ancora fortissimo, perfino attaccato ai cuscini del divano, perciò non me ne stupisco. Non stupirmene, però, non mi impedisce di percepire la tensione allargarsi attorno a lui come una macchia d’olio. E finisce per sporcare anche me, è naturale.
D’altronde, con la vita che ho fatto sia prima che dopo la fama, ho imparato in fretta l’importanza delle sensazioni. Come della paura, per esempio. Riconoscere la paura nell’avversario che ti fronteggia è fondamentale, perché spesso è la paura che ti fa estrarre l’arma e ti convince ad usarla.
Al momento, Chakuza non ha paura. È frustrato, però. E forse sarebbe meglio se fosse solo spaventato. Anche con una pistola in mano. Saprei gestirmelo, saprei calmarlo – è un talento che impari per strada, minaccia dopo minaccia; impari a renderle tutte inoffensive. Anis me l’ha insegnato puntandomi contro il coltello per ogni cosa, durante i primi tempi della nostra conoscenza. Io dicevo una qualche cazzata o facevo qualche casino con un fornitore o con un cliente, lui puntava il coltello e diceva “Dammi un motivo per non farlo”. La lama contro la mia pelle era ghiacciata ed io tremavo, ma lui mi guardava con quegli occhi così seri da non lasciare dubbio che l’avrebbe fatto davvero, se non mi fossi inventato immediatamente qualcosa, perciò lo facevo. Inventavo. Toglievo i freni alla lingua e parlavo parlavo parlavo. Alla fine, la cosa giusta la dicevo. Lui metteva via il coltello con un mezzo sorriso compiaciuto e mi diceva che ne avevo di strada da fare prima di diventare davvero Frank White. Ed io riprendevo puntualmente a respirare.
Togliere i freni. È una cosa che Bushido ha insegnato a tutti noi.
I limiti non esistono davvero, a meno di volerli vedere per forza.
È per questo che Bill Kaulitz ha continuato a frequentare questa casa – almeno prima di decidere, per motivi di cui non mi parla ma che io so lo stesso, che non fosse più il caso – è per questo che Chakuza si sta mettendo contro la propria stessa etichetta per permettere a Bill di farlo – con scarsi risultati, visto che appunto Bill non vuole più – ed è anche per questo che io sono qui adesso, che meno di due settimane fa mi sono fatto scopare su un fottuto tappeto che adesso per qualche motivo – che immagino benissimo – non c’è più ed è anche per questo che Chakuza trema d’ansia su questo divano, al mio fianco, ed io non mi muovo e non faccio niente che non sia fissare un punto a caso davanti a me e mordermi una guancia.
Abbiamo perso il senso del limite.
Anis ce l’ha tolto quando ha deciso di spingere il limite stesso oltre il possibile, ficcando Bill Kaulitz in una crew, ed è morto portandoselo via, quel fottuto limite del cazzo.
Siamo rimasti senza. È palese che non sappiamo dove andare a sbattere la testa. È palese che stiamo in mezzo ad un casino e non riusciamo a tirarcene fuori. Anche se, cazzo, vogliamo.
- Ti va un’altra birra?
Chakuza non vuole che vada via. Probabilmente perché non vuole ritrovarsi domattina con i mobili divelti e l’appartamento che sembra un campo di battaglia. Ognuno ha il suo modo di esorcizzare la rabbia, io la butto nelle canzoni e smerdo la gente, Chakuza distrugge casa.
Scrollo le spalle. Non è né un sì né un no, lascio che Chakuza interpreti come gli pare e, come immaginavo, interpreta per un cenno positivo. Ecco qua, tutto chiaro, non vuole che vada via perché ci tiene ad avere ancora un tetto sopra la testa, punkt.
Lo vedo che s’infila in cucina e ne viene fuori con altre due birre. Le birre sono la salvezza di Chakuza. Saranno anche il motivo per cui io palesemente non riuscirò mai a smettere di bere, ma fondamentalmente sono la salvezza di Chakuza. Quando è in crisi e non sa cosa dirti e neanche cosa fare con te, ma l’importante è che tu resti lì dove sei e non ti muova, così lui non deve fronteggiare situazioni inaspettate, eccolo che tira fuori la birra.
Prendo la Beck’s fra le mani e mi lascio congelare un po’ i polpastrelli.
Sono nervoso come di fronte a un giudice. Ho voglia di menare le mani per il puro gusto di lasciare scivolare via l’ansia coi cazzotti e pure con un po’ di sangue, se è il caso. Non so se Chakuza stia pensando la stessa cosa. Ho un po’ paura del nostro modo di lasciare scivolare via l’ansia.
- Stanotte resti qui? – chiede poco più tardi, casualmente, mandando giù l’ultimo sorso di birra.
Io ci metto effettivamente un po’ a capire che intende “come le altre volte, prima”. Cioè vuole che mi alzi dal divano, mi trasferisca sulla poltrona e mi avvolga come uno straccio vecchio, così lui può tirarmi addosso una coperta ed illudersi di stare facendo qualcosa di buono tenendomi qui invece che mandandomi allo sbaraglio a sbronzarmi nel primo pub disponibile oltre l’angolo.
Il primo pensiero, quando mi ha chiesto se sarei rimasto, non è stato un bel pensiero.
Non è stato un pensiero corretto.
Non avrei dovuto pensarlo.
Faccio per scuotere il capo. Chakuza mi guarda strano.
- Vado a casa? – non so perché esca come una domanda.
Ma che cazzo sto facendo?
- Non resti?
Ma chi gli ha insegnato a rispondere alle domande con altre domande?
…Anis.
Ma che cazzo di disastro è questo? Cazzo.
- Resto, ok. – sbotto, cercando di sembrare tranquillo e rilassato. Era più facile quando arrivavo qui sbronzo, intendo, non dovevamo discutere. Io arrivavo, mi buttavo sulla prima superficie disponibile, mi lagnavo un po’, poi crollavo addormentato. Al resto pensava Chakuza, io poi mi risvegliavo l’indomani mattina e a quel punto il mio compito era combattere contro il mal di testa e rendermi utile in qualche modo tipo preparando la colazione o qualche altra cazzata simile. Così eravamo pari, buttavamo lì un paio di battute del cazzo, decidevamo cosa mangiare per cena e poi ognuno per i fatti propri.
Era semplice, lineare, preciso.
Certe volte la lucidità mentale ti porta solo complicazioni, è assurdo.
Lo leggo negli occhi di Chakuza, in questo momento. Lo vedo che se lo sta chiedendo anche lui. Come ci siamo arrivati, a questo punto? Com’è che adesso non è più normale dormire sulla poltrona? Com’è che c’è da chiedere se devo restare, se voglio andarmene, se questo, se quest’altro, cosa voglio fare di me stesso e di lui e di questo noi assurdo che non ha nessun motivo di esistere ma esiste lo stesso ed io posso pure smettere di guardarlo per tutto il giorno, ma quando torno qui, di sera, torna fuori, e di prepotenza.
Tutto negli occhi verdissimi di Chakuza che sono freddi come pezzi di vetro e trasparenti allo stesso modo.
Mi avvicino senza un perché e mi aspetto che sia lui a fare qualcosa. Deve essere lui, a fare questo benedetto maledetto qualcosa, perché io non saprei da che parte cominciare. Stasera è diverso. Non è come l’altra volta. Non è come le altre volte in mezzo. Stasera ci stiamo guardando negli occhi e ci stiamo dicendo la verità, in qualche modo. È una verità un po’ storta e un po’ sporca, ma io non mi tiro indietro.
Io sono qui, Chakuza.
E ci sei anche tu.
Ci baciamo. Ci baciamo sempre, quando lo facciamo, e le bocche il suo cazzo e il mio culo sono le uniche fottute cose che si toccano. È una cosa straniante, perché mi sarò fatto centinaia di scopate nella mia vita ed in tutte, tutte, perfino con la figa più di legno, perfino con la più cozza, i corpi erano avvinghiati così stretti che sembravano uno. Quando scopi non cerchi solo l’orgasmo, tu vuoi tenere qualcosa fra le mani. Vuoi tenerlo stretto e sentire che c’è e che per quella mezz’ora, se sei bravo, sarà tuo.
Fra me e Chakuza non è così. Ci baciamo perché la sensazione del bacio – umido e caldo e lento oppure ruvido e veloce, quasi prepotente, dipende dalla serata e dalla quantità d’alcool – è piacevole, ma non ci tocchiamo quasi mai, se non il minimo indispensabile.
Che poi è il motivo che mi porta a chiedermi perché scopiamo, se il punto non è tenere qualcosa.
Non so se sono io a muovermi indietro perché Chakuza avanza, o se è lui ad avanzare perché io mi sto allontanando verso la camera da letto. Entrambe le possibilità mi terrorizzano, perché c’è una fame nelle nostre bocche che non si sazia mai. È una cosa senza fine. Che certe volte mi sento i suoi denti addosso e mi chiedo se dieci cento o mille volte gli basterebbero. O se basterebbero a me. Se mi basterebbe sentirlo in quel modo altre dieci cento o mille volte, per saziarmene e non desiderarlo più. Dentro di me. In quel punto preciso che mi fotte il cervello.
Quando sbatto con le gambe contro lo scheletro in legno, le ginocchia si piegano un po’ per stanchezza e un po’ per confusione e un po’ anche perché voglio lasciarmi cadere da qualche parte, perché questo so farlo bene. Tanto poi ci pensa Chaku. Mi tira su, e la poltrona, e la coperta, e la colazione domani.
Che casino. Vaffanculo, che casino.
Cado indietro, non sbatto da nessuna parte. Il letto è disfatto e mi accolgono le coperte ancora arruffate da ieri. C’è qualcosa di sbagliato in tutto questo, ma non m’interessa più.
Mi disturba che Chakuza mi cada fra le gambe, però. Mi disturba perché non è quello che succede di solito. Io mi volto, di solito. Io non guardo – almeno questo, Dio, non guardo, di solito.
Voglio dire “no”. Mi rendo conto di quanto sia assurdo, perché non sto pensando “no”. Però voglio dirlo lo stesso, anche solo per… non lo so, salvare le apparenze? Con Chakuza? Non lo so. Non dovrei essere qui adesso. Non dovrei essere così. Chakuza mi bacia ancora ed io sto zitto. Cristo, mi piace baciare. Mi piace un casino baciare.
Quando i pantaloni e i boxer scompaiono, le nostre gambe si scontrano e Chakuza si irrigidisce. Lo sente anche lui che c’è qualcosa che non va, di solito il contatto è molto minore. Non ci sono gambe che intralciano. Non c’è niente di troppo duro da dover guardare per forza – perché è lì davanti, ed è colpa tua che non mi hai fatto girare. Come se a me facesse piacere prendere atto del fatto che mi piace, vaffanculo, mi piace proprio così.
Allargo le gambe e mi sento una troia. Ma non lo faccio perché voglio lasciargli via libera – almeno, non del tutto – lo faccio perché le gambe che si incastrano mi fanno impressione e pure un po’ schifo, se devo dire la verità. Non ci sono abituato.
Chakuza non parla. Mi guarda. Si tiene sul materasso coi gomiti.
Io lo guardo di rimando perché non posso dargli anche la mia vergogna.
Lo sento che fa per premersi contro di me – sempre occhi negli occhi, vorrei che abbassasse il fottuto sguardo ma non glielo chiederò mai – ma poi esita, penso che la prima esperienza senza preservativo gli sia abbondantemente bastata, tant’è che da allora abbiamo seguito i consigli del dottorino e siamo sempre stati ligi al dovere – che schifo, merda, che schifo – ed infatti lo vedo che si allunga, raggiunge il cassetto del comodino, neanche mi sfiora – è bravissimo – recupera il preservativo – lo voglio dentro – lo indossa – subito, cazzo – sta lì ad un centimetro e non si sbriga – muoviti muoviti muoviti – e poi si decide, tutto dentro in un solo colpo, vorrei urlare e non lo faccio perché l’unico limite che mi impongo è quello di non mostrare dolore, mai. Se devo, sanguinerò, parlerà il sangue per me; ma io non urlo.
Spinge forte e veloce, vuole concluderla in fretta, vuole sempre concluderla in fretta perché i momenti che precedono quello in cui entra dentro di me sono colmi di aspettativa e di desiderio. Me lo immagino che si chiede “stavolta sarà diverso? Magari mi farà meno schifo, mi sentirò meno in colpa, in fondo a questo corpo qualcosa la trovo?”. Ed invece è sempre uguale. È sempre lo stesso schifo. Perciò entra e ce ne rendiamo conto entrambi. La consapevolezza arriva a me col dolore ed a lui col fastidio e il disgusto. Ci muoviamo per inerzia. Ci muoviamo perché almeno a cercare e trovare l’orgasmo hai l’impressione di averci guadagnato qualcosa.
Ed il succo della questione è solo questo. Il succo della questione è che lui spinge con una violenza tale che io mi allontano. Non perché lo voglio, ma perché proprio mi getta indietro. E non ho abbastanza forze – Cristo, fa male – per tenermi incollato a lui.
Perciò solleva una mano e mi afferra per un fianco. Mi tocca ancora. Il fianco brucia dove lo tocca lui. Stringe e fa male. Fa più male di tutto il resto. Fa male perché dietro ai suoi occhi non c’è niente e nemmeno dietro a miei. E dieci cento mille volte non cambierebbero questa realtà.
Abbiamo fame di cose che non possiamo avere.
Abbiamo fame di cose che non siamo noi.
Tutto questo non serve a niente.
Quando lui mi viene dentro, quando io vengo fra di noi, non succede niente. Perché tutto questo non è stato niente.
Le lenzuola, comunque, sono calde. Ed io sono mezzo nudo. Mezzo nudo, Cristo. Mi sono fatto scopare come una donna. Come una fottuta femmina. E Chakuza mi ha guardato dritto negli occhi per tutto il tempo. Cosa volesse trovarci in fondo, non lo so. So che quello che ho visto io non m’è piaciuto. So che mi sento una merda. So che in genere mi alzo, mi abbottono i pantaloni e vado ad accucciarmi su quella poltrona, e lì resto fino all’indomani mattina, ma adesso non ho pantaloni da abbottonare, perché Chakuza me li ha tolti e li ha lanciati chissà dove assieme ai boxer, ed io non posso andare in giro mezzo nudo per la stanza a cercarli tentoni nel buio.
Resto immobile sul letto. Chakuza riprende fiato accanto a me.
- Allora, resti? – chiede alla fine, passandosi una mano sugli occhi e sistemando la coperta con pochi gesti essenziali, di modo che ci copra entrambi – e ne abbiamo bisogno davvero.
Cerco di respirare ad un ritmo umano. Cerco di rispondere. Un “sì” secco e sicuro, così che non veda che sono turbato. Viene fuori un “mh” poco convinto, ma Chakuza lo prende comunque per un assenso ed annuisce, senza aggiungere niente. Sfila la canottiera e la getta di lato. Si volta e so che non dormirà. Non dormirò neanche io. È la prima volta che non dormo.
Mi rigiro su un fianco. La schiena di Chakuza si muove lentamente verso l’alto, poi verso il basso, e da capo. Il tatuaggio che la ricopre praticamente per intero è maestoso. Non ho la minima idea di cosa voglia dire, ma dev’essere stato doloroso farlo. Il cerchio e lo strano simbolo all’interno si allargano e si rimpiccioliscono mentre lui respira. Il movimento ed il suono sono quasi ipnotici.
Fisserò questa schiena per tutta la notte.

Bookmark and Share

One Step Closer

di lisachan
Il budino al cioccolato che la signora Lotte ci ha mandato oggi era così tanto che non so com’è che non siamo morti nel tentativo di divorarlo tutto. Il problema è che era anche troppo buono per non cercare di mandarne giù il più possibile – che poi immagino sia un problema piuttosto grave; voglio dire, per quanto buona sia una cosa, non puoi mandarla giù se fa male. Dovrei cominciare ad imparare dal mio stomaco. Che per ora, giustamente, si sta lamentando dolorante, mentre io cerco di riprendere coscienza sul divano accanto a Fler, che sta svaccato nel mio stesso identico modo ed anche lui si tiene una mano sulla pancia e cerca di recuperarsi dal fondo di indigestione nel quale è caduto.
Sul tavolino, il contenitore di plastica non mantiene che qualche traccia di ciò che è stato il budino più buono della mia vita. Io non sono male in cucina, è che mi pesa il culo a cucinare, e comunque il budino così buono non so farlo. Dovrò chiedere lumi alla signora Lotte. Magari in un momento in cui Fler non mi vede, così mi risparmio almeno la presa in giro.
- Cristo… - mugugna lui in una mezza risatina, provando senza risultati a rimettersi in piedi, - …non ce la faccio a tornare a casa. – ammette, tornando ad abbattersi sul divano.
Io ghigno, battendogli una pacca rumorosa su un ginocchio.
- Siccome in genere ti servono scuse, per restare…
Fler mi allunga un calcio contro uno stinco – lo fa spesso e, anche se gioca, non si trattiene mai dal fare male, stronzo che è – e mi lancia un’occhiataccia offesa.
- Se preferisci mi trascino fino in macchina e dormo lì, bestia.
Rido ed affondo fra i cuscini, chiedendomi per un attimo se non potrei spedire Fler sulla poltrona e dormire qua sopra. Voglio dire, non sarebbe male. Fler che respira tranquillo qui accanto e il profumo di Bill ovunque, appiccicato sui cuscini, sulla stoffa, alla mia pelle. Non sarebbe affatto male.
- No, dai. Non si mandano i bambini da soli per strada di notte. – lo prendo in giro. Lui mi guarda malissimo ed io non gli tiro un cuscino in piena faccia solo perché sto raccogliendo le ultime forze per rimettermi in piedi lo stretto necessario per trascinarmi a letto. Ho deciso che no, non è il caso di dormire su questo divano. Dovrò togliermelo dalla testa, Bill, in qualche modo.
Faccio presa con entrambe le mani sul bordo del divano e mi tiro su con un grugnito di fatica. Fler mi aiuta a suo modo, sollevando una gamba e piantandomi un piede nel centro della schiena, spingendo per mettermi in piedi neanche fosse un dannato argano.
- ‘Fanculo. – borbotto massaggiando il punto dolente e voltandomi a guardarlo con irritazione scherzosa, - Guarda che ti metto a dormire sullo zerbino all’ingresso.
- Non hai uno zerbino all’ingresso, Chaku. – ride lui, accomodandosi meglio e prendendosi più spazio sul divano.
- Be’, allora ti metto a dormire sul nudo pavimento. Ti piace di più, come ipotesi?
Fler sospira e scrolla le spalle.
- Vado dalla signora Lotte. O da Sido. Vuoi che non trovi qualcuno che mi ospita? La gente fa a calci per avermi intorno, sono un ottimo inquilino.
- Io ti ho visto solo scroccare, da che ti conosco. – rido, anche se so che quello che ho detto non è esattamente vero.
- Io non scrocco! – s’infuria prevedibilmente lui, scattando repentino a sedere. L’effetto ovvio è che lo vedo accasciarsi come stesse svenendo sui cuscini, mugolando un dolore di cui non capisco le parole precise. – Morirò. – afferma quando riesce a riprendersi almeno un po’, rotolando sul divano, - Peggio: vivrò per sempre e non riuscirò mai a digerire.
- Coraggio, piantala di lamentarti e vieni di là. – lo rimprovero tendendogli una mano per aiutarlo a rimettersi in piedi, - Così ti do la coperta e ti puoi mettere tranquillo.
Fler mugola e si agita come un bambino, ma poi si rassegna e prende la mia mano, giocando un po’ a cercare di farmi cadere prima di lasciarsi tirare su.
- Ma perché non la vai a prendere e me la porti tu…? – implora stremato mentre allunga una mano piena d’amore verso la poltrona che è ormai diventata né più né meno che la sua cuccia, in pratica.
- Col cazzo che io arrivo fino in camera da letto e poi torno qui, Fler. – annuncio sgomento, cominciando a trascinarmelo deciso dall’altro lato della casa.
Lo mollo appena arriviamo in camera, mi dirigo verso l’armadio e lo vedo lasciarsi ricadere sul letto con aria esausta, piantando entrambe le mani sul materasso e sospirando pesantemente.
- Vomiterò, me lo sento. – mugugna disperato.
- Non sarebbe la prima volta. – commento io recuperando la coperta da un cassetto e voltandomi a guardarlo. Quando lo faccio vedo che nel mentre lui s’è steso sul materasso. Le gambe sporgono fuori dal letto e sfiorano il pavimento, ha una mano ferma sul ventre e l’altra aperta sul piumone. Ha anche gli occhi chiusi e l’espressione più rilassata che gli vedo addosso da… troppi giorni.
Mi muovo piano e mi seggo accanto a lui, guardandolo dall’alto. Quando mi sente pesare sul materasso, Fler apre gli occhi e mi guarda. Non dice niente e nemmeno io, ed in quei due secondi ho la netta impressione che mi stia chiedendo qualcosa e che io gli stia rispondendo di sì. Però non ho la minima idea di cosa significhi questa risposta.
- Vuoi mica dormire di nuovo qui? – faccio ironia, inarcando le sopracciglia.
Fler scuote il capo.
- Ora mi alzo. – mi rassicura.
Si tira su con un colpo di reni ed il suo viso passa vicinissimo al mio. Combatto contro la prima idea – che è quella di puntargli una mano sul petto, rimetterlo disteso e poi andare con la corrente – ma non riesco a vincere contro la seconda idea – sporgermi e baciarlo, dannazione – perciò depongo le armi ed i premi sono un calore ed una morbidezza cui sto cominciando controvoglia – ma davvero? – ad abituarmi. Fler mi si avvicina strisciando sul materasso ed io osservo un po’ i suoi occhi chiusi prima di chiudere a mia volta i miei – non so perché, mi piace vederlo rilassato com’è quando ci baciamo. O meglio, lo so perché. Non è quasi mai rilassato come quando ci baciamo. E smette subito di esserlo quando passiamo avanti, cazzo. Io questa cosa non la tollero. Dovrebbe essere… un momento piacevole, Cristo. Per me lo è.
Quando infilo le mani sotto la sua maglia lo faccio per un’intuizione improvvisa che non ha davvero un senso. Non ne sono nemmeno pienamente cosciente. Fler trema d’agitazione e stupore sotto le mie dita, lo sento scostarsi con un certo fastidio e lo tengo stretto per un fianco, tirandomelo contro.
- Stai tranquillo. – gli sussurro sulle labbra, prima di riprendere a baciarlo.
Lui si scosta con un mugolio.
- Chakuza… - comincia incerto. Sospetto non sappia nemmeno cosa vuole dirmi, perciò mi scosto e gli lascio il tempo di dimostrarmelo. Lui mi guarda e si morde un labbro, ed ovviamente non dice niente. Mi risparmio un sorriso furbo, lo bacio e basta. Come al solito, non ho la più pallida idea di cosa sto facendo, però evito anche di chiedermelo quando afferro la maglia per gli orli e tiro verso l’alto per togliermela di torno.
Non so, credo sia cambiato qualcosa la volta in cui è effettivamente rimasto a dormirci, in questo letto. Non mi dà veramente fastidio che lo faccia, ecco. Non sono abbastanza rilassato da pensarci con calma e cercare di capire cosa questo significhi, però è così. Non mi dà fastidio, la presenza di Fler. Non mi dà fastidio sentirmelo vicino o sentire la sua pelle sotto i polpastrelli. Non mi dà fastidio toccarlo – mi piace farlo.
È caldissimo e me lo stringo addosso. Riesco a sentire il calore anche attraverso la felpa. Percepisco subito che c’è qualcosa di diverso nel modo in cui si muove e respira, lo percepisco ma non capisco cos’è almeno fino a quando non lo vedo sistemarsi a disagio sul materasso. La consapevolezza della sua eccitazione mi colpisce, mi stordisce e per certi versi mi esalta anche. Non ho fatto niente – l’ho solo baciato ed accarezzato un po’ – e lui è qui, occhi chiusi e respiro pesante – che mi si abbandona addosso con aria persa e chiede di più senza neanche un fiato.
Lo lascio un po’ andare e lui afferra la mia felpa con entrambe le mani, strattonandola rudemente. Ridacchio e lui mi lancia un’occhiataccia offesa.
- Che fai, sfotti? – ha il coraggio di chiedermi, ed io rispondo annuendo lievemente.
- Non sei nella posizione di impedirmelo, comunque. – aggiungo facendomi avanti e tappandogli la bocca mentre avanzo sul materasso, costringendolo fisicamente a distendersi.
Lui obbedisce e non oppone resistenza, ma striscia indietro sul materasso fino ai cuscini, di modo che io devo andare inseguendolo ed alle fine sono costretto a tirarlo giù di peso e schiacciarmi addosso a lui.
- Allora, stai un po’ fermo? – borbotto sfiorandogli il collo con le labbra. Lui rabbrividisce e forza un sorriso incerto.
- Non scappo mica. – butta lì con aria navigata, ma suona più come la promessa di un bambino coraggioso che come altro, ed infatti io rido e ricomincio a baciarlo perché così almeno gli evito altre figure ridicole di questo tipo.
Fler protesta per il tempo di un mezzo borbottio che si smorza subito sulla mia lingua e sulla sua che si incontrano sempre meno incerte e sempre più consapevoli di cosa vanno ad accarezzare e di come lo fanno. Perdo il controllo del mio corpo, so solo che voglio sentire più calore e che Fler mi si sta strusciando contro una gamba da almeno un minuto, perciò è lì che vado, lascio scivolare la mano lungo il suo petto stupendomi di non trovare fastidiose le forme piatte e dure del suo profilo maschile e vado a spingermi oltre l’orlo del jeans.
È un po’ davvero come toccare me stesso, queste forme qui le conosco alla perfezione, sono quelle tipiche di tutti i maschi. Non fosse per il respiro forte di Fler nel mio orecchio, il suo calore sul mio corpo e le sue mani strette con forza sulle spalle, potrei perfino dimenticare di stare toccando qualcun altro.
Però il respiro il calore e le mani sono lì, quindi non dimentico.
- Non ci posso credere che lo stai facendo… - ansima Fler ad un centimetro dalle mie labbra. Io sono un po’ imbarazzato e non so bene che rispondere, perciò butto lì un “sono un uomo pieno di sorprese” prima di tornare a baciarlo e troncare la conversazione – almeno fino al prossimo commento.
Commento che arriva qualche secondo dopo quando – dal momento che io palesemente non so calcolare i tempi e sono troppo confuso per stare attento alle variazioni dei respiri di Fler – lui mi afferra il polso e mi stringe con una certa violenza.
- Chaku… - ansima disperatamente, - Ho capito, sei bravo. Basta così o… - non conclude la frase ma intuisco lo stesso dove vuole andare a parare e non so se dovrei sentirmi più imbarazzato o più orgoglioso. Decido che non mi frega e lo bacio, tirando via la mano mentre lui sbottona i jeans e li tira via con impazienza.
È la prima volta che lo fa.
La prima volta che si spoglia di sua iniziativa, intendo.
Resto a guardarlo finché non ha finito – il broncio concentrato con cui si libera dei vestiti inutili è di una tenerezza addirittura allarmante – e quando torna a guardarmi lo fa con un’espressione traducibile con un “fammi immediatamente dimenticare ciò che ho appena fatto o mi butto all’istante dalla finestra”, ed a me pare giusto concedergli almeno questo, perciò torno a baciarlo e mi sistemo fra le sue gambe, strusciandomi contro di lui.
Per certi versi non posso nemmeno crederci. Stiamo per scopare e lui lo vuole davvero – lo vuole perché sa che potrebbe piacergli, intendo, è una cosa stranissima, non è mai successo. Anche le altre volte lo voleva – lo sentivo distintamente nei morsi affamati che mi lasciava sulle labbra e nel modo imperioso con cui mi piantava le dita nelle spalle – ma sapeva già che ne avrebbe ricavato solo dolore. Stavolta è tutto diverso. È una cosa incredibile.
Mentre lascio che Fler mi sbottoni i jeans – ringrazio Dio che sia lui a farlo, io mi impiccherei da solo con la cintura, immagino – vago alla cieca sul comodino, trovo la maniglia del cassetto, lo spalanco e ci ficco dentro una mano. Fler nemmeno se ne accorge, preso com’è dalle sue attività, comincia a capire qualcosa solo quando la mia mano piena di roba si posa proprio accanto alla sua spalla, sul cuscino, rilasciando il proprio carico. Cioè tre o quattro preservativi in più di quanti ne serviranno ed un tubetto di lubrificante.
Pagherei non so quanto perché i prossimi minuti di questa sera fossero evitabili, ma ovviamente non lo sono. Fler si interrompe, guarda la roba e poi guarda me, spalancando gli occhi che mi scrutano come due fanali nell’oscurità.
- Ti sei attrezzato? – mi chiede a mezza voce, ed io mi abbatto accanto a lui con un sospiro stremato, sgonfiandomi di botto.
- Fleeeer… - lo chiamo, strascicando il suo nome, e lui mi dà uno schiaffo sulla nuca.
- Piantala di chiamarmi così, è imbarazzante. – mi rimprovera, spingendo in alto il bacino per costringermi a riprendermi. Ci riesce più che bene, stupida meccanica del corpo umano.
- Potresti… non chiedermi spiegazioni? – imploro disperatamente, lasciandogli un bacio leggero sulle labbra come a chiedergli di stare zitto. Lui risponde sporgendosi appena, ma non coglie la preghiera.
- Ma non chiedevo spiegazioni… - motiva incerto, - ti prendevo in giro…
- Sì, il che è anche peggio. – borbotto con grande disapprovazione, facendo saltare il tappo del tubetto di lubrificante e spargendomene un po’ sulle dita, - Non solo uno cerca di essere gentile…
- …Chaku, che stai facendo? – chiede Fler allarmato, del tutto sordo alle mie lamentele.
Speravo di distrarlo. Speravo di distrarre anche me stesso, ma evidentemente non è possibile, dovrò prendere atto di ogni secondo di questa nottata, lo so. Non voglio, ma succederà. È una fottuta trappola.
- Fler, ti prego. – grugnisco impaziente, - Ti sollevi un po’?
Lui obbedisce senza chiedermi perché ed io non ho la prontezza di spirito di scostarmi prima che lui mi tocchi. Il risultato è che vado nel pallone per un tempo indefinibile ed alla fine è lui che deve risvegliarmi borbottando che gli fa male la schiena e quindi, se intendo fare qualcosa, sarebbe il caso la facessi subito. Annuisco distrattamente e lo reggo per la vita di modo che non debba fare tutto da solo mentre con la mano ricoperta – mi sa eccessivamente, ma insomma, abbondare è meglio che difettare – di lubrificante scendo fra le sue natiche e cerco di prepararlo in modi che posso solo immaginare, perché non te le spiega nessuno queste cose, cazzo.
Fler sussulta, sbalordito, e cerca di allontanarsi.
- Chaku, - ripete ansimando, - cosa stai facendo?
- …devi proprio chiedermelo? – sbotto fra il rassegnato e il disperato, continuando ad accarezzarlo mentre lui continua a rabbrividire ed io non capisco se sia perché gli piace o perché lo trova strano. O perché gli piace e lo trova strano, che è anche un’opzione. – Sto cercando di semplificare le cose. – rispondo comunque, messo alle corde dalla sua occhiata confusa.
Lui annuisce e nasconde un po’ il viso, prendendo a respirare forte e tornando a rilassarsi sul materasso. Io lo accarezzo ancora per qualche secondo, prima di decidere che è il momento giusto per suicidarmi e spingere la punta di un dito dentro di lui.
Mi manca poco per esplodere, me lo sento. Sono eccitato e terrorizzato e imbarazzato oltre ogni dire, Fler continua a sussultare ed io continuo a non capire perché lo faccia e sto facendo una cosa incredibilmente opinabile, per quanto io stesso mi renda conto dell’assurdo di un commento simile, visto che la mia vita nelle ultime settimane è stata costellata di episodi opinabili e questo non è neanche il peggiore.
Mi spingo un po’ contro di lui sperando che la cosa lo aiuti – in realtà aiuta anche me, devo dire, smetto di pensare appena collidiamo – e lui apprezza al punto che schiude le labbra e se le inumidisce con la punta della lingua. Mi trattengo a stento dal baciarlo ancora, alla fine decido che non c’è niente che mi impedisca di farlo, perciò lo faccio ed approfitto del momento di distrazione per intrufolare anche il secondo dito. Devo fare spazio, Cristo…
- …sei stretto. – mi sfugge che ho ancora le labbra pressate sulle sue, neanche mi rendo conto di dirlo. Fler fa come sempre quando si imbarazza, si agita e cerca di scostarsi per voltarsi dall’altro lato e fingere che nulla di tutto ciò che lo manda in confusione stia avvenendo, ma col cavolo che glielo lascio fare nella situazione contingente, perciò lo tengo fermo e lo bacio ancora. – Calmati. Ti prego. È un casino se ti agiti.
- E tu smettila di dire… cose. – sbotta lui, a metà fra l’arrabbiato e il confuso, stringendo fortissimo le dita sulla mia nuca e spingendosi in avanti mentre le mie dita continuano a scavarsi un posto dentro il suo corpo.
- Scusa. – cerco di metterci una pezza, imbarazzato quanto lui ma probabilmente un po’ meno isterico. Solo un po’, - Mi sembrava una cosa… cioè, è vero.
- Sì, d’accordo. – taglia corto lui, stringendomisi addosso, - D’accordo. – si prende un secondo per respirare, ed io sono ancora lì che mi muovo e lui è ancora lì che ansima quando lo sento esalare un “è… piacevole” che mi fa suonare i campanelli in testa.
È così che dev’essere. È così che voglio che sia. Me ne frego se è assurdo.
Le mie dita scivolano fuori dal suo corpo e lui sbuffa qualcosa che non capisco. Cerco di ignorare quel pezzetto di “no” che mi è sembrato di cogliere fra i sospiri e lo aiuto a rotolare sullo stomaco – lui non oppone la minima resistenza ed io non so se sentirmi felice o preoccupato a riguardo, visto che Fler non oppone mai la minima resistenza – spingendomi subito contro di lui perché ho davvero bisogno di sentirmi… come mi sento quando gli sto dentro. Che è una cosa difficile da spiegare perché non è mai completamente piacevole, perché tutto questo è sempre troppo strano per essere completamente piacevole.
Però è caldo. È umido. Mi si sfrega addosso così bene che perdo il senso del limite e mi riprendo all’improvviso nei brevi momenti in cui Fler mi costringe a spingere più lentamente stringendosi attorno a me come una tenaglia per impormi un ritmo più quieto, mi riprendo e mi ritrovo ad ansimare senza controllo, mi accorgo per caso che lo sto mordendo o baciando costringendolo a torcere il collo in modi assurdi, ed ecco che mi si stringe addosso, ecco che torno in me, spingo più lentamente ed ecco anche che mi accorgo che lo sto ancora accarezzando per tutta la sua lunghezza, seguendo il ritmo delle mie spinte. E lui si tiene coi gomiti sul materasso, un po’ sollevato, per venirmi incontro più comodamente.
C’è una naturalezza, in quello che stiamo facendo, che mi coglie del tutto impreparato. Come fosse completamente ovvio. Ed invece non lo è. So che non è ovvio che noi due ci si ritrovi in situazioni simili ogni sera. So che non è normale.
Cristo, so che non è nemmeno giusto.
E non moralmente. Non perché siamo uomini e non perché siamo rapper.
…solo perché Fler nella mia testa non c’è.
Non in questo modo. Non… non abbastanza.
I suoi muscoli si rilassano ed io cerco di ritrovare il ritmo che mi toglieva il fiato qualche minuto fa, ci metto un po’ di fatica perché ci sono dei pensieri che non mi piacciono e che continuano ad affollarmi il cervello – o forse il problema è proprio che quei pensieri mi piacciono, Cristo, il problema è quello, dannazione, che a me Bill piace – cerco di distrarmi, poi cerco di concentrarmi, non ci riesco e la cosa mi frustra, ma Fler si solleva ancora un po’ ed inarca la schiena e mormora “più forte” ed io non ci vedo più. Giuro. Non ci vedo più.
Lo stringo per i fianchi e mi muovo veloce dietro di lui, ritrovo il ritmo e quando lo sento ansimare a voce più alta capisco di aver toccato un punto importante, e noto che lui non si sta toccando nemmeno per sbaglio, e per certi versi mi sento in colpa, per altri mi dico “Cristo, Fler, perché resti immobile?” e il perché non lo capisco, però allungo di nuovo la mano e ricomincio ad accarezzarlo, con una semplicità disarmante. Fler sussulta e mi si spinge contro con più sollecitudine. Ho una mano che lo stringe alla vita così forte che sono sicuro rimarrà il segno. Ne sono sicuro.
- Cha- - mi sento chiamare in un’implorazione mozzata, una mano di Fler corre a stringermi il polso nel tentativo di fermarmi, ma io sono più forte ed anche più lucido, in questo momento – fra due secondi non lo sarò più, cazzo, fra due secondi esplodo, cazzo – perciò lo scosto facilmente e lo accarezzo ancora, una volta, due volte, con più convinzione, e Fler viene sul materasso e, anche se non è la prima volta che succede, è come lo fosse. Perché non riesce a trattenere i gemiti. Ed il “Cristo” affannato che gli sfugge dalle labbra è abbastanza per mandarmi in tilt e costringermi a svuotarmi contro il preservativo, dentro di lui.
Mi lascio ricadere su un fianco e poi di schiena sul materasso, Fler resta sollevato e incerto perché il lenzuolo sotto di lui è sporco. Giustamente. Dovrei cambiarlo ma lo farò solo quando sarò sicuro di potermi alzare da questo letto senza farmi venire un infarto.
Si raggomitola in un angolo un po’ distante e, mentre mi copro con il lenzuolo ed il piumone, non posso che essergliene grato. C’è sempre questo momento stranissimo, quando finiamo di scopare, in cui non importa per quanto a lungo e quanto intensamente possiamo essere stati vicini, abbiamo bisogno di un po’ di tempo per tornare tranquilli e quindi ci serve la distanza. La distanza è una buona cosa, quando gli esseri umani non la usano per farsi del male. O per dimenticarsi a vicenda.
Fler mi guarda e poi si allunga a recuperare i jeans ai piedi del letto.
- Avrebbe dovuto essere così anche la prima volta. – dice seccamente, infilandoseli distratto, - Sarebbe andato tutto meglio.
- Cioè mi saresti caduto fra le braccia il giorno stesso invece di farmi ammattire per settimane? – faccio ironia io. Fuori luogo, magari, okay. Comunque quest’occhiataccia tremenda non me la merito, e deglutisco a fatica mentre cerco di reggerla.
- Non fare lo stronzo, Chakuza, stai giocando col fuoco. – mi avverte glaciale, rimettendosi in piedi, - Se io fossi solo un po’ meno coglione di quanto sono, la mia faccia non l’avresti più rivista. Figurarsi il mio culo.
Stringo le dita attorno alla coperta, ansioso.
- Perché cazzo ti sei voltato così male, adesso? – protesto lamentandomi un po’, - Siamo stati bene fino ad ora…
Ghigna ed afferra la coperta che ho posato sul letto prima che la situazione degenerasse. La prima volta. Ora sta degenerando per la seconda volta, e comunque la prima degenerazione m’era piaciuta di più.
- Tu non ascolti mai niente di quello che ti si dice, vero? – ride, sistemandosi la coperta sulla spalla e trattenendone un lembo fra le dita come fosse una giacca, - Tu, quando ti perdi in quel casino che hai al posto del cervello, smetti di ascoltare. L’ho capito.
- Questo discorso ha un senso o ti diverti solo a tirarmi scemo, Fler? – sbotto alla fine, sistemandomi per dormire come se fossi già stufo di sentirlo blaterare. In effetti lo sono.
Lui prende un respiro enorme e mi guarda dritto negli occhi, prima di continuare.
- Non sei stato il fottuto primo, a prendermi in quel modo. – ed io sento qualcosa dentro di me che scompare. Non esplode e non muore ma io lo perdo lo stesso. – Se sono tanto coglione da tornare, Chakuza, fai almeno in modo che ne valga la pena. Perché io non sono ripassato di nuovo attraverso lo stesso calvario per trovarmi davanti uno stronzo, chiaro?
Mi metto seduto in un movimento repentino, un attimo prima di osservarlo voltarsi e muoversi verso la porta.
- Fler? – lo chiamo. Lui si volta appena. – Cristo, Fler… - non so cos’altro dire.
- Guarda che non devi scusarti. – scuote il capo, - Vado a dormire. Dormi anche tu.
Vorrei dirgli che la sua è una richiesta inesaudibile. Non dico una parola e lascio che si chiuda la porta alle spalle. Come sempre.

Bookmark and Share

EXP +10%

di lisachan
La signora Lotte mi sta stordendo da mezz’ora con la ricetta del budino al cioccolato, perché io ho fatto il grave errore di essere per una volta fedele a me stesso e fare davvero qualcosa che avevo pianificato di fare. Nel caso specifico, andarle a chiedere la ricetta di quel benedetto budino al quale io e Fler pensiamo costantemente da giorni senza riuscire a togliercelo dalla testa per quanto era buono. Siccome la signora Lotte è molto buona e gentile, e soprattutto non ha nulla da fare tutto il giorno, sarebbe entusiasta di non fare altro che cucinare budino per noi, ma io sono già abbastanza imbarazzato del fatto che Fler si sia autoeletto suo figlio e certi pomeriggi passi da lei le ore a tenerle il gomitolo mentre lavora a maglia, per accettare che questa routine continui. Perciò io volevo soltanto la dannata ricetta.
- E poi imburri la terrina, caro, ma ci va la giusta quantità di burro! – insiste lei, per la tredicesima volta negli ultimi dieci minuti, - Devi prendere solo lo stretto indispensabile! Durante la guerra una noce di burro era già considerata una ricchezza incredibile… - e su quello mi perdo perché squilla il cellulare.
Ringrazio un paio di santi e mi scuso a mezza voce con la signora Lotte – lei ovviamente mi ignora e continua a parlare al vuoto di guerra e burro e terrine – mentre rispondo.
Non ho nemmeno il tempo di finire la parola “pronto”, che la voce di Fler impatta contro la mia e la annulla. E non è facile annullare la mia voce.
- Sto venendo da te. – dice seccamente. Oltre lui sento i rumori del traffico, le macchine, le persone che parlano, un clacson.
Io ho ancora la signora Lotte che mi parla del budino, nell’altro orecchio.
- Cosa? – chiedo, cercando di estraniarmi dalla descrizione della densità esatta della crema, - Non ho capito.
Dall’altro lato della cornetta, Fler sospira pesantemente. Sento il suono di uno sportello che batte e capisco che è entrato in macchina, anche perché subito dopo si accende il motore.
- Sto. Venendo. Da. Te. – scandisce bene, con lo stesso tono fra lo scazzato e l’ansioso che ha usato prima, - Vedi di farti trovare in casa.
Spalanco gli occhi e la voce della signora Lotte letteralmente svanisce dai miei processi mentali.
- Stai venendo perché? – chiedo curiosamente, - Avevamo da fare?
Fler si limita ad un altro sospiro pesantissimo, di quelli che ricordo aver sentito solo da mia madre quando mi sbucciavo un ginocchio, tipo, e mi chiude il telefono in faccia senza una parola di più. Quando torno a dare attenzione alla signora Lotte, lei è già arrivata al punto in cui si infila il budino in frigo per lasciarlo riposare.
- Facciamo così. – dico, mettendole una mano sulla spalla e fissandola intensamente, - Lei me la scriva. Io poi passo a prenderla dopo.
Lei sorride angelica, stringendosi nella sua vecchissima vestaglia verde.
- Aspetti Patrick, caro?
Io annuisco distrattamente.
- Sì, pare che voglia parlarmi, sembrava importante… - mugugno mentre torno verso la porta di casa, - A più tardi, signora Lotte.
- A più tardi, caro. – mi saluta lei con la manina, prima di ritornare in casa.
Una volta dentro mi guardo appena intorno: casa è un bordello, quindi è tutto nella norma. Ci sono vestiti sparsi ovunque perché mamma questa settimana ha avuto la febbre e non è potuta passare a prenderli, e sinceramente a me non andava di prendere un borsone e presentarmi a casa sua come a dire “embè, anche se stai male questi calzini sporchi non si laveranno certo da soli!”, perciò ho tenuto tutto qui ammucchiato in un angolo. Il problema è che, non so perché, i mucchi in casa mia non resistono. Si spargono. È come fossero animati di vita loro.
Comunque, insomma, c’è un disastro e ci sono pure i piatti da lavare da ieri sera, mi sa, ma Fler è abituato a questo tipo di casino, perciò neanche faccio finta di riordinare. Mi svacco sul divano e resto ad attendere, rimuginando ossessivamente sul tono secco della telefonata. Fler non chiama quasi mai, in genere sono io che, quando lui non si presenta automaticamente qui, afferro il cellulare e gli rompo i coglioni finché non rientra nei ranghi. L’ultima volta che mi ha chiamato è stato perché aveva bisogno di una mano a scalare la grondaia del suo palazzo, visto che aveva dimenticato le chiavi in casa. Quindi sono ragionevolmente preoccupato dall’aver ricevuto una sua telefonata, oggi.
Resto a rigirarmi i pollici sul divano per un tempo lunghissimo – sarà che quando non fai niente i minuti si dilatano, ma a un certo punto mi viene perfino voglia di prendere a mazzate qualcosa, tanta è la noia – e, quando alla fine bussano, scatto in piedi e corro verso l’uscio, afferrando la maniglia ed aprendo la porta con furia assassina, bene intenzionato a spiegare a Fler che “sto venendo” vuol dire, in poche parole, “sono già qua sotto, comincia a metter su il caffè”, per dire, e che non può tirarmi scemo per intere mezz’ore per poi presentarsi col suo comodo quando gli va, ma lui mi ferma. Io sono lì con tutte le mie buone intenzioni ed appena apro la porta non riesco a parlare perché me lo ritrovo schiacciato contro, le sue mani mi arpionano per il maglione e mi spingono all’indietro. Quando le nostre bocche si scontrano mi tira via il respiro, e faccio un suono tipo “unf” mentre cerco di respirare col naso. Lui ha gli occhi chiusi e tira un calcio tale alla porta che ho paura che, invece di chiuderla, la scardini.
Quando ci separiamo mi ritrovo schienato contro i fornelli della cucina e non ho nemmeno ben capito come abbiamo fatto ad arrivare fino a qui. Ho una delle manopole piantata nel fianco, mi fa un male cane ma Fler mi sta praticamente ansimando addosso e lo sento durissimo oltre il tessuto pesante e ruvido dei jeans, perciò in realtà non mi restano tanti neuroni liberi per pensare a quanti metri separino la porta d’ingresso dal cucinino. Prendo la nostra presenza qui come un dato inconfutabile e mi rassegno.
Lui si allontana da me solo per lanciare un’occhiata inferocita alla mia povera cintura – le sta dicendo qualcosa tipo “tu, stronza!, cosa ci fai ancora lì?!” – e lo vedo chinare il capo per stare attento alla chiusura, mentre armeggia per scioglierla.
- Ah, era questo, che volevi! – preciso con sincero stupore, quando realizzo che palesemente non aveva nulla di importante di cui parlare. – Scusami, Fler, se volevi pomiciare un po’ bastava che-
- Vuoi tacere, pezzo di coglione che non sei altro? – mi interrompe lui, mordendomi le labbra quasi a sangue, - Non è di pomiciare che ho voglia.
Spalanco gli occhi. Magari mi è saltato addosso solo per introdurre la conversazione? Ora prende e se ne esce con un “mi si è rotto lo scaldabagno, aiutami a ripararlo”, oppure, “Sido mi ha chiesto di ritinteggiare casa, ti voglio armato di rullo domani mattina alle sette di fronte al suo palazzo”, me lo sento. Se mi dice qualcosa del genere lo sbrano. Sono scemo io che l’ho abituato ad una routine per cui se mi limona dopo lo ascolto con più attenzione, vaffanculo.
- Ah, no? – chiedo, lo scazzo che già si fa strada fra i nervi, - E allora cos’è che vuoi? E se devi parlare, piantala di armeggiare con la mia cintura, mi stai facendo uscire di testa! – strillo, cercando di divincolarmi mentre lui continua a strusciare quelle dannate mani contro il cavallo dei miei pantaloni con falsa noncuranza.
Fler si ferma e mi guarda con occhi enormi, sconvolto. Poi schiude le labbra e inclina appena il capo, prima di lasciarsi andare ad un mezzo ghigno astioso.
- Tu non vedi l’ora di sentirmelo dire, vero? – e mentre io sono qui come un coglione che mi chiedo di cosa stia parlando e medito sulla possibilità di afferrare il soprammobile oblungo di gomma arancione che adorna l’isola e scaraventarglielo sulla testa, lui lo dice. – Voglio scopare. Voglio sentirti dentro.
Ci resto.
Cioè, io sono uno che si abitua in fretta alle cose, nel senso, non faccio drammi quando mi sento dire le cose perché quelle sono e in quanto tali le accetto. In genere.
Però ci resto comunque.
Insomma, lo fisso con aria sconcertata per un tempo variabile fra i cinque e i millemila minuti, e lui per tutto il tempo resta lì a fissarmi a propria volta come chiedendosi “ma dov’è che ho sbagliato?”. Nella scelta dell’uomo hai sbagliato, Fler, ma questa è un’evidenza, non posso mica ripetertelo. Anche perché se non l’hai capito da solo al primo giorno, posso pure fartelo uscire dalle orecchie, mica ti scolli. Vivaddio.
Dopo questo tremendo momento di silenzio, io deglutisco e lui lo prende per un assenso. Non è che io abbia annuito, ma tanto se mi prende e mi schiena io di certo non gli dico “no, grazie, ripassa domani”, perciò lascio fare e mi ritrovo coi pantaloni alle caviglie due secondi dopo. Lui mi fissa per un po’, con l’aria di un critico soddisfatto.
- Certo che ti basta poco. – commenta, grattandosi il mento con aria pensierosa.
- Poco?! – mi lamento io, - Mi hai ficcato la lingua in gola senza ritegno appena entrato in casa! E poi mi hai detto che vuoi essere scopato!
- Che voglio scopare. Sono due cose diverse!
- Non quando mi dici che vuoi sentirmi dentro. – concludo incrociando le braccia sul petto. Solo che la metà inferiore del mio corpo è nuda, perciò questa posizione è ridicola. Torno a stendere le braccia lungo i fianchi.
Lui arrossisce istantaneamente, che è una cosa ridicola visto quanto mi ha detto prima.
- Per come lo dici tu passo per una groupie del cazzo. – mi fa notare imbronciato.
Mi spingo in avanti e lo bacio.
- In un certo senso lo sei.
Lui ringhia – e questa storia del ringhiare ogni volta mi fa impazzire, perché i mugolii sono piacevoli e sono piacevoli i sospiri e sono piacevoli gli ansiti e i respiri pesanti, ma nulla, nulla è come i ringhi, perché i ringhi sono cose tipo “Cristo, ti voglio ora e subito” – e comincia a trascinarmi per il colletto fino alla camera da letto.
Io rido.
- Mi spezzerò l’osso del collo! – gli faccio notare, mentre continuo ad inciampare comicamente nei jeans.
Quando mi spinge sul materasso e si accovaccia al mio fianco lo vedo sorridere apertamente.
- Sano e salvo. – mi fa notare chinandosi a zittirmi prima che io possa dire, fare o anche solo pensare una qualsiasi cosa, - E ora lascia fare.
Vado nel panico.
- Fler?
- Non preoccuparti, non ho ancora intenzione di ribaltarti. – mi rassicura ridacchiando lui, intuendo i miei pensieri, - Se dico che ti voglio dentro, ti voglio dentro. E sto cominciando ad abituarmi a dirlo.
E io sto anche cominciando ad abituarmi a sentirlo, ma per qualche strano motivo questa cosa i brividi me li dà comunque. Sarà che Fler non è esattamente tipo da fregola. O meglio, quando si prende bene può dare soddisfazioni insperate, ma in genere sono sempre io quello che gli mette le mani addosso, e diciamo che lui si adatta, non pretende. Stavolta è diverso e lo trovo inquietante, ma per certi versi è anche molto piacevole. Se non altro perché fa tutto lui.
Insomma, sono qui mezzo nudo sul materasso e pure lui è qui sul materasso, però completamente vestito – il che mi mette vagamente a disagio – e lo vedo che mi osserva con interesse scientifico chiedendosi cosa dovrebbe farsene di me o da che parte dovrebbe prendermi. Al che io faccio per indicargli che la parte è coperta e dovrebbe farmi il favore di mettersi in posizione, quando lui si china ed io muoio.
Manco tutta una serie di battiti e respirare diventa difficilissimo, e la sensazione calda e umida che mi circonda è sconvolgente. La morte somiglia un casino ai pompini, Cristo santo.
Apro gli occhi. Guardo in basso.
Mi copro con un braccio.
- Cristo… Fler…? – chiamo incerto, ansimando pericolosamente.
- Mhpf. – risponde lui, un grugnito senza inflessioni, come a dire “non rompere”. Il dramma è che il grugnito mi trema intorno ed io mi sento morire di nuovo. Saranno secoli che non mi fanno un pompino, CRISTO-SANTO.
Rilascio la testa contro il materasso ed evito di pensare, perché le cose a cui sto pensando sono tremende. Del tipo che lo prenderei e lo rivolterei di peso sul letto adesso, perché sto impazzendo, e però è troppo bello quello che sta facendo con la lingua, Cristo, indugia sulla punta che è un piacere, non mi pare neanche lui, ha una cazzo di bocca morbidissima. Io qui ci resto, lo so. Non mi rialzo più. Cristo, erano secoli, mi sento commosso.
Mi sollevo sui gomiti e mi lascio pure andare a un mezzo sorriso mentre lo guardo dall’alto, lui è così preso che nemmeno se ne accorge. Oh, Cristo, deve assolutamente portarmi da chiunque gli abbia insegnato a mordicchiare in questa maniera. È tipo la nuova frontiera del sesso. E, oh, cazzo, adesso mi accarezza pure.
Inclino il capo, socchiudo gli occhi e gemo, lui mi sbuffa soddisfatto attorno ed io gemo ancora e giochiamo così per un po’, io che aumento il volume della voce e lui che continua a sbuffa e ringhiare di gola e io lo sento tutto attorno troppo bene per non pensare che Cristo, sono così dentro di lui che mi fa quasi impressione, e tutta la tiritera del volermi dentro adesso ha assunto un significato completamente diverso.
È quando comincia effettivamente a muoversi avanti e indietro che comincio a temere, perché questa sensazione è tutta diversa da prima e non è più solo la lingua, c’è proprio tutto, sento tutto, Dio mio, con un’intensità spaventosa, e quando capisco che sto ansimando in maniera indegna lo afferro per la nuca e resto un attimo indeciso – lo tiro su? Lo tiro giù? Lo tiro su? No, più giù… su, su, su! – e però quando riesco ad afferrarlo e staccarmelo di dosso è drammaticamente tardi. La parola “tremendo” non ha davvero un significato finché non vieni in faccia a un altro uomo. È così.
Fler lascia andare un mugolio strano – una cosa tipo “mmhn!”, con tanto di punto esclamativo – e strizza un occhio mentre mi rovescio su di lui. Praticamente ovunque. Sulla guancia, sulla punta del naso, sulle dannate labbra. È una cosa tremenda. Voglio morire e voglio smetterla di guardarlo ma c’è un po’ del mio orgasmo proprio lì, dannazione, sull’angolo della sua bocca, e potrebbe tirarla via in un attimo se solo volesse, e cosa diavolo sto pensando?!, Dio mio, qualcuno mi sopprima.
Insomma, lui mi solleva gli occhi addosso e ci guardiamo per un tempo indefinito. Io guardo lui e lui guarda me e mi fissa con un candore disarmante. C’ha un paio d’occhi che sembrano due fanali, Cristo. Sono enormi e troppo chiari. Deglutisco.
- Fler…? – lo chiamo appena, giusto per capire se si è imbambolato a vita o riprenderà a funzionare.
Lui deglutisce a propria volta e poi la sua lingua saetta appena fra le labbra mentre va a catturare quella diavolo di goccia di sperma nell’angolo. L’attimo prima c’è, l’attimo dopo non c’è più, e il suo pomo d’adamo si fa un breve viaggio su e giù per la gola, mentre lui deglutisce.
Panico.
- Fler!!!
- Cosa?! – strilla lui, attirato dal mio terrore. Però mica si ferma, eh. No. sale con una mano ed usa l’indice per ripulirsi la guancia, e l’indice finisce dritto in bocca, Cristo santo. Sto bestemmiando un sacco, mia madre mi ucciderebbe. Oddio. Perché penso a mia madre adesso? Perché mi ucciderebbe! Oddio.
- Cosa stai facendo?!
Lui arrossisce e succhia un po’ il dito, prima di tirarlo fuori e ripulirsi la punta del naso – allo stesso modo, poi. L’ho detto che io qui ci resto.
- Non voglio sporcarti le lenzuola. – dice candidamente, ma sta sorridendo. Stronzo. È una tortura, questa. – E poi, in tutta sincerità, credevo peggio.
Ed io spalanco la bocca e faccio per urlargli in testa di tutto, giuro, di tutto!, ma lui mi zittisce baciandomi, e quello che gli sento sulla lingua non è il solito sapore di Fler, c’è qualcosa di diverso. E mentre me ne rendo conto capisco anche che è palesemente quel po’ di me che ha mandato giù, e che il sapore che sto sentendo adesso è il mio mescolato col suo, ed è un buon sapore. Perciò mi lascio andare e me lo tiro contro, e lui sbuffa una mezza risata e si lascia trascinare, e non mi ferma quando lo metto giù sul materasso e lo spoglio, cercando di toccarlo ovunque contemporaneamente senza riuscirci granché bene.
È bello perché Fler non mi ferma davvero mai ma quando vedo che vuole anche lui è tutto diverso. C’incastriamo in una maniera tutta nuova. È che ci stiamo abituando bene alla forma dei nostri corpi pressati l’uno contro l’altro. È che lui mi dà quasi tutto quello che voglio anche senza che io abbia bisogno di chiederglielo. È che sento che gli piace tantissimo, alle volte, e questa cosa mi manda fuori di testa, perché quando lo sento tremare tremo anch’io e quando lo sento ansimare è come una specie di trionfo. È che quando tocco il punto giusto lui mi si stringe attorno e sento che c’è qualcosa di speciale cui non so dare un nome, che è proprio qui, sospesa fra le nostre scopate e i pomeriggi passati a guardare la tv, so che c’è e la sento tantissimo nei momenti in cui Fler geme sotto di me. Quando sono io a farlo gemere, Cristo.
Crollo sul letto esausto e stringo il pugno, ed un po’ rabbrividisco per la sensazione di umido appiccicaticcio che ho fra le dita. Mi ribalto di schiena, Fler è ancora immobile accanto a me che riprende fiato e tiene gli occhi chiusi. Il petto si gonfia e si sgonfia al ritmo irregolare dei suoi respiri pesanti, e mi viene voglia di baciarlo.
Mi sollevo su un gomito e lo guardo dall’alto.
- Ehi… - lo chiamo, e lui apre gli occhi. Quando sono certo che mi stia guardando per bene, gli sorrido e mi ripulisco il palmo esattamente come ha fatto prima lui. Okay, non con la stessa accuratezza, diciamo che do una leccatina veloce, però il suo sapore lo sento comunque. E poi lo bacio, così può sentirlo anche lui.
Quando mi allontano, lui mi sta già sorridendo.
- Indecente. – mi sussurra, passandosi una mano sulla fronte e stiracchiandosi un po’.
- Tu, invece, sei stato pudicissimo. – lo prendo in giro, mentre lui mette su un broncio offeso.
- Stronzo. – mi rimbrotta, spintonandomi un po’, - Era un sacco che volevo farlo. E se sapevo che ti prendeva così bene lo facevo prima. È stato… intenso.
Sento l’alleluja nella testa. Wow.
- Tu sei sicuro di non essere una proiezione fisica dei desideri di qualche pervertito?
- Qualche pervertito tipo te?
- Io non sono un pervertito! – sbotto, - Dicevo, di qualcun altro. E poi per sbaglio sei finito nel mio letto.
Fler sospira, rigirandosi su un fianco.
- L’unico altro pervertito di cui posso essere il sogno è morto da un pezzo. – mi dice, fissandomi dritto negli occhi, - E comunque, quando stava dalla parte giusta della barricata era tutto meno che interessato all’articolo.
Spalanco gli occhi.
- Intendi…? – chiedo curiosamente, perché quello che mi è sembrato di intravedere non mi piace e voglio che lui invece mi dica che sto prendendo fischi per fiaschi. Lo pretendo.
- Che a Bushido non piacevano i maschi, prima di Bill. – dice lui tranquillamente.
- Ed a te…?
- Ed a me non piaceva l’idea di un cazzo su per il culo, Chakuza. – sbotta irritato, sistemandosi il cuscino sotto la testa.
La sua voce ha il tono secco e autoritario col quale in genere chiude i discorsi, perciò lascio perdere e mi accomodo al suo fianco, ripulendo ciò che mi resta di lui sul palmo contro il lenzuolo spiegazzato ed arrotolato accanto a noi.
- Sai che… - comincio, giusto per cambiare discorso, perché da quando è venuto fuori Bushido non si respira, quasi, in questa stanza, - sei stato bravo? Non sembrava nemmeno la prima volta che lo facevi…
Lui si volta a guardarmi come gli avessi dato della troia.
Cristo.
- Mi stai dando della troia?
Stracristo.
Deglutisco pesantemente.
- Voleva… essere un complimento. A suo modo. – mi scuso, - È… uscito male.
- No. – si mette seduto lui, guardandomi malissimo dall’alto, - Tu che mi vieni in faccia sei uscito male. Tu che mi dai della troia, Chakuza, sei uscito malissimo. Ma proprio da schifo. – si guarda intorno e so che, quando lo fa, è sempre perché è alla ricerca dei vestiti. Si alza in piedi e li trova un po’ tutti, sparpagliati fra il pavimento e il letto.
- Ehi… ehi. – lo richiamo, camminando ginocchioni fino ai piedi del materasso ed afferrandolo per la manica della felpa che sta faticosamente cercando di infilare fra i movimenti resi ansiosi e concitati dalla rabbia, - Mi dispiace, okay?
Lui fa sbucare la testa dalla scollatura e mi fissa offesissimo.
- Sì, certo. – borbotta, sedendosi sul materasso. Io mi metto accanto a lui. Odio quando è vestito ed io invece sono nudo, che cazzo.
- Fler…?
- Non pensavo – mi interrompe lui, senza guardarmi, - che una cosa simile da me potesse interessarti. Insomma… è una cosa intima. È della mia bocca che si parla. Quindi, visto che io ho fatto uno sforzo, potresti farlo anche tu e cercare di essere meno testa di cazzo del solito, magari.
Resto lì seduto per un po’ e poi torno a guardarlo. Lui non mi ha mai tolto gli occhi di dosso.
- Io sono una testa di cazzo, Fler. – confesso semplicemente visto che so che è vero, - Te ne sarai pure accorto, fra una cazzata e l’altra. Faccio sempre casino e rovino anche le cose perfette. Cerca di ricordartelo, la prossima volta che ti farò del male.
Lui abbassa lo sguardo, imbarazzato.
- Non ti montare la testa. – borbotta, - Non mi fai del male.
Io scuoto il capo.
- Okay, allora la prossima volta che ti do fastidio. – concedo, accarezzandogli vagamente la nuca.
Lui torna a guardarmi e si piega appena a baciarmi sulle labbra.
- Prima o poi, se continuo a darti del coglione ogni volta che sbagli, ti sistemerai. No?
Annuisco. Anche se ci credo poco.
- Possiamo provare.
E posso provarci anch’io. Magari.

Bookmark and Share

Gli uomini moderni sono informati

di tabata
E’ una giornata tremenda come tutte le altre incastrate tra quello che è successo – io che faccio del male a Fler sul pavimento del mio salotto, io che lo porto dal medico, il medico che ci prende per una coppia gay – e gli avvenimenti che devono accadere, dei quali, per altro, io seduto sul divano in quel momento, non so ancora proprio niente. Per dire, non lo so che Bill ucciderà Saad. Non so nemmeno che è Saad l’assassino. E mi rendo conto soltanto adesso che se state leggendo queste pagine nell’ordine sbagliato, allora vi ho appena svelato il finale.
Fler mi chiederebbe se così coglione ci sono nato o se ho fatto un corso apposta.
Ad ogni modo, mi sto annoiando. Lì in quel momento, dico, non ora. Ed è una benedizione. Qualche mese fa io pensavo che annoiarsi fosse una cosa tremenda, la più grande piaga che potesse capitarmi, tipo. Dovevo sempre fare qualcosa – qualsiasi cosa – perché a star fermo mi prendeva il nervoso. Di solito, fra tutto ciò che poteva distrarmi, io tendenzialmente scopavo.
Il sesso per me è una cosa fisiologica. Come respirare, mangiare e dormire, per dire. Ne ho fisicamente bisogno in quantità maggiore rispetto a qualunque altra persona mi sia mai capitato di conoscere. E questo, qualche sporadico caso a parte, non è mai stato un grosso problema. Anzi, è sempre stata una soluzione. Difatti, oltre a stendermi i nervi quando sono incazzato, che sennò inizio a distruggere casa, mi fa anche passare il tempo. In sostanza, è la cosa migliore del mondo, non solo perché in effetti lo è – il giudizio è oggettivamente condiviso dall’universo mondo – ma perché è utile a livello pratico. Questo fino a, diciamo, una settimana fa. Anzi, no, facciamo due o tre. Facciamo da quando è morto Bushido. Fino a quel momento, se mi annoiavo trovavo qualcosa da fare e quel qualcosa – vivaddio – era scopare.
Poi tutto è precipitato. I momenti di noia sono scomparsi nel nulla. C’è stato che mi hanno sbudellato, che mi sono salvato per miracolo, che ho steso Bill sul mio letto e gli ho messo le mani ovunque. C’è stato Fler che mi ha macchiato il tappeto – anzi no, ci sono stato io che ho macchiato il tappeto con Fler – c’è quel dottore che ci ha preso per quello che non siamo e tutto questo dove finisce? Finisce con me che scopo con Fler.
Ora, non so se seguite il nesso. Nelle ultime settimane il concetto mi annoio e quindi scopo, si è trasformato alternativamente in: non mi annoio ma rischio la morte, non mi annoio ma scopo o rischio di scopare con un altro uomo. A questo punto è chiaro che improvvisamente voglio annoiarmi. Voglio annoiarmi tantissimo. Fino alla morte, tipo.
Questo è il primo giorno dopo un numero che non so quantificare che non sto facendo niente e sono contento così. La televisione fa schifo, non ho niente da leggere, il frigo è vuoto e l’Ersguterjunge è chiusa per sempre, quindi non ho nemmeno da lavorare. Potrei, per dire, alzarmi, raggiungere DJ Sickle alla Beatlefield e vedere di dare un ascolto a quelle tre demo che ci hanno spedito non so più nemmeno quanto tempo fa ma non mi va - non mi va, mi piace il suono – e comunque quell’uomo se l’è cavata alla grande anche senza di me durante tutto il periodo in cui sono stato impegnato a raccogliere tutti i minuscoli pezzetti di Bill e a ricomporli, per poi permettergli di fare a pezzi me. Ma questo è un altro discorso e io in questo momento sono più dell’umore per mangiare rimasugli di patatine vecchi di settimane e coca sgasata, che non per l’autocommiserazione. Che poi non sono nemmeno depresso – per dire, mi sono fatto la doccia e la barba e mi sono cambiato. Sono uno che si annoia ma profumo e so di buono, che mia madre ha fatto perfino il bucato e ce l’ho tutto accuratamente appoggiato sul letto. Io non mi deprimo mai. Ho un’unica soluzione per tutto, del resto. Sì, quella. Non ricominciamo.
Il mio soggiorno sul divano si prolunga diciamo fino all’ora della merenda. Durante le ultime quattro ore mi sono chiesto dove accidenti sia Fler, perché non l’ho sentito – ma d’altronde quello, morire se ti telefona! – e cosa devo aspettarmi stasera. Mentre valuto i pro e i contro di alzarmi da questi cuscini che hanno ormai la mia comoda forma, mi cade l’occhio su un libricino color carne che spunta da sotto la guida tv ed è in bilico sul mio tavolino. Ora, non è che io oggettivamente possa sapere con esattezza tutto ciò che si trova sparso in questa stanza, sopra e sotto i mobili, però di solito a colpo d’occhio capisco sempre che cosa sto guardando perché gli oggetti rimangono in certi posti per mesi e alla fine, passa oggi, passa domani, diventano parte dell’arredamento e ti abitui a trovarli lì dove sono. Quello non è lì da molto. Compio il primo vero gesto della giornata e mi allungo a recuperarlo, scoprendo che il color carne deriva dal fatto che in copertina ci sono due enormi tette sfocate. D’accordo, questo mi incuriosisce. I miei playboy sono l’unica cosa in questa casa che abbia un’ubicazione precisa e una catalogazione. Se mia madre vedesse con quanto impegno sono stati numerati nel corso degli anni, probabilmente si commuoverebbe. E comunque le copertine di playboy non sono sfocate. Anche perché, diciamocelo, la bella foto è un po’ il concetto principale della rivista in questione. Quindi, cos’è?
Mi basta sfogliarlo, anzi mi basta prenderlo in mano, per ricordarmi esattamente com’è arrivato in casa mia. Due di picche, Bill, Fler, il dottore. Ed ecco l’opuscolo.
Lo guardo con molta attenzione e non solo perché ci sono due tette sopra che sono contento di scoprire sono ancora oggetto di grande interesse per la mia persona, ma anche perché sulla copertina – tra le tette – l’opuscolo cita: Sei un uomo che vive la propria sessualità. Questo opuscolo è per te. A parte che mi fa ridere che non mi chieda se vivo o meno la mia sessualità, ma lo sappia già, il tono di travolgente entusiasmo collettivo per la mia vita sessuale è troppo ridicolo per non leggere. E poi in fondo alla pagina, in un blu molto virile, l’opuscolo ci tiene a dirmi che Gli uomini moderni sono informati. E quindi suppongo sarà il caso che mi informi.
Il libricino in questione conta quasi cinquanta pagine e mi propone una carrellata di tutto ciò che dovrei sapere sul sesso in tutte le sue varie forme, compresa quella omosessuale, relegata nell’ultima sezione di due pagine, conclusiva, un po’ imboscata, del tipo: te lo dico proprio se ci tieni, eh. A me il dottore l’ha consegnata per quella ma sfoglio anche tutto il resto perché gli slogan di sostegno continuano un po’ ovunque e sono discretamente notevoli, tipo Il sesso è bello, affascinante, seducente, appassionante.... Ho appena detto la stessa cosa nemmeno una pagina fa.
Sto ancora leggendo le prime mirabolanti pagine introduttive quando suonano il campanello e io sono così preso dalle percentuali che apro la porta senza chiedere al citofono e continuando a leggere, per altro. Due minuti dopo Patrick è sul mio zerbino e mi guarda.
“Mi fai entrare o hai deciso che da qui in avanti gli ospiti li ricevi nel corridoio?” Esordisce.
Alzo gli occhi, lo vedo e capisco che non ha senso che sia qui visto che non è calato il sole. Poi capisco che quello che ho appena pensato ha ancora meno senso. “Devo portarti dentro in braccio?”
Mi guarda serio e poi ride. “Cosa stai leggendo?”
L’opuscolo è nelle sue mani prima che io abbia finito di sentire la domanda. E’ bravo con quelle mani, nel senso lato del termine – no, anche in quello che abbiamo pensato tutti – e penso che potrebbe rubarmi il portafoglio dalla tasca come niente.
“Fler dai qua!”
”Aspetta, è quello che ti ha dato il dottorino?” Chiede e ha quel sorriso da schiaffi sul viso. E’ una di quelle cose di lui che da sole mi fanno uscire dalla grazia di Dio. E’ come il cugino un po’ più grande di te che quando sei piccolo prende le tue mani chiuse a pugno e te le tira sul viso, e poi ti sfotte perché ti stai picchiando da solo. Ecco, quel sorriso lì. Patrick quand’è di buon umore ce l’ha tatuato addosso, perché ci si diverte a tirarti scemo.
“Sì,” rispondo. “Stavo solo… non lo so, era lì sul tavolo.”
“Ti informavi, bravo Chaku,” si appoggia all’isola della cucina e sospira. “Allora, vediamo un po’…”
Io vorrei protestare che non mi sembra il caso di fare una conferenza sul sesso sicuro nella mia cucina ma lui non mi ascolta, ovviamente. Cioè, mi sente, ma se ne frega. Anzi, in realtà legge a mente prima di farlo ad alta voce, quindi ride prima di dirmi perché. E quando si schianta in questo modo, finisce che rido anche io. “Che diavolo c’è scritto?” Chiedo e quindi faccio una cosa che non mi accorgo di fare finché non l’ho fatta. Solo che ormai sono lì così e mica posso far finta di niente. Gli scivolo accanto e gli passo le mani intorno alle spalle e lui asseconda la mia follia. Non fa una piega si stacca dal tavolo, mi da modo di sistemarmi al suo posto e quindi si appoggia a me come fossi l’isola della cucina. Non si gira nemmeno, lo fa e basta. “Dunque…Sesso con un uomo
Anche gli uomini che amano le donne qualche volta si lasciano tentare da un’avventura con un uomo – nel parco, in una sauna, o in un’altra occasione
,” annuisce. “Noi, altra occasione.”
Rido per il modo in cui l’ha detto, non tanto per l’occasione. Anzi, per quella non ci sarebbe proprio niente da ridere eppure Fler non la tira mai fuori, non ne parla mai, non la cita mai. Difficilmente me la fa pesare. E quindi il modo in cui commenta quella parte di opuscolo è buffa, come se stesse parlando direttamente alla carta stampata. “Continua,” gli dico.
Lui mi si sistema addosso comodo. “Oh, questo è interessante,” commenta convinto. “Quindi: insisti in ogni caso sull’uso del preservativo – indipendentemente dal fatto che tu assuma la parte attiva o quella passiva – e utilizza sempre del lubrificante in abbondanza!” Ride e batte la mano sull’opuscolo. “Ecco vedi? Di questa facciamo una gigantografia e l’appendiamo sulla testata del letto, così magari te lo ricordi.”
“Potremmo farlo scrivere tipo murales da qualche ragazzino di Templehof,” esclamo e mentre lo stringo con il braccio destro, col sinistro mimo la scritta a mezz’aria. “Uz’it. O qualcosa di altrettanto pacchiano.”
Fler annuisce, quindi continua a leggere e poi scoppia a ridere. “Oh, qua mi sa che ho sbagliato io,” commenta senza staccare gli occhi dal foglio. Sbircio sopra l’opuscolo e seguo le parole quando lui le pronuncia. “Nel sesso orale: niente sperma in bocca, non inghiottire lo sperma.
“Decisamente poco igienico,” commento e mi scappa da ridere. E non dovrei ridere, è una cosa che non avrebbe dovuto fare lui. Mio Dio. Però rido, insomma… andiamo, fa ridere! E il fatto che io trovi divertente fino alle lacrime un serissimo (e tutto sommato utile) opuscolo medico sulla prevenzione sessuale la dice lunga sulla mia età mentale che attualmente equivale alla metà esatta dei miei anni reali. Proprio quando penso che la situazione non può più diventare più comica di così, Fler attira di nuovo la mi attenzione continuando a leggere. “Qua però dice… Mettiti d’accordo prima con il tuo partner, affinché si ritiri prima o ti dia un segnale chiaro prima dell’orgasmo.” Quando si volta a lanciarmi un’occhiata molto dubbiosa, in realtà, tutto ciò che vedo è quel paio di fanali azzurri che si ritrova al posto degli occhi. E, come al solito, parte dei miei vasi sanguigni si svuota e comincia l’esodo verso Sud. “Immagina la scena, con te che ti sbracci e fai cenni con le bandiere di segnalazione.”
“La vedo estremamente difficile,” commento. “Non credo di poterlo fare.”
“Oh assolutamente no,” insiste lui, sicuro come se stesse parlando di se stesso, per altro.
“Com’è che da un momento all’altro ne sai più tu di me stesso che io?” Faccio una smorfia e lui ride. Quando ride senza voler fare lo stronzo, Fler è uno spettacolo. Ha una risata buona, che è un casino quando sei un rapper cattivo del ghetto. Credo.
“Dal momento che ragioni con l’uccello,” dice lui con un candore che ti viene da prenderlo a ceffoni da qui a domani, “a saperlo maneggiare, di te si capiscono tante cose.”
“Fler!”
“Mai vergognarti di quello che fai, Chakuza,” lo dice sempre sorridendo e mentre scorre velocemente l’opuscolo alla ricerca di altre cose su cui fare battute ma riesce comunque ad essere serio, che vai tu a capire come fa. E’ roba di Templehof, immagino. Quando non capisco come funziona, o come fa a fare qualcosa, è sempre merito o colpa del ghetto. “Quando arrivi a vergognarti delle tue azioni significa che sei un perdente. E noi non lo siamo.”
Non so nemmeno cosa rispondergli. Io, a dire il vero, non ci ho nemmeno mai pensato a vergognarmi di essere andato a letto con lui. Chiariamo, la cosa mi sembra tutt’ora molto strana – cioè stranissima, folle ecco – ma la vergogna non c’è mai stata. Non c’è spazio, sono troppo occupato a chiedermi come esattamente sono finito a rotolarmi nel letto con lui regolarmente. Ecco, sì, insomma, magari mi chiedo come sia possibile ma le mani nei capelli – metaforicamente parlando, s’intende – non me le sono mai messe.
Lui, comunque, continua. “Eccoti qui, infatti,” dice.”Attenzione: tanti uomini non riescono a controllare l’eiaculazione!
“Ehi, un attimo. A me funziona tutto perfettamente.”
“Chaku, ho detto che non sai controllarla, non che non ti si rizza,” mi guarda di nuovo e quando si volta sento la scia del suo dopobarba. La cosa si sta facendo preoccupante come al solito. Penso che forse mi dovrei allontanare, tipo, ma sto bene. E quindi niente, si sta qui. “Significa che avresti dei problemi ad avvertirmi per tempo. E difatti non mi avverti. Sei l’uomo dell’opuscolo, te lo hanno scritto addosso. Chissà se dice anche che mancando di sangue al cervello, gli uomini come te fanno fatica anche ad afferrare i concetti più semplici.”
“Coglione,” lo apostrofo.
“Ne ho due, sì.” Ride da solo. “Comunque negalo, se hai il coraggio. Potrei derubarti di tutti i tuoi soldi quando mi ci metto d’impegno.”
“Perché non lo hai mai fatto, allora?” Sibilo.
“Perché sei un morto di fame e ti cade a pezzi pure lo zerbino d’ingresso,” commenta lui, sfogliando altre pagine. “Quindi a questo punto conviene farti divertire, che poi almeno ci guadagno qualcosa. Andiamo avanti, guarda qui…”
Guardo lì, anche perché sennò poi mi perdo nel significato di ciò che ha appena detto. Tipo che ha preso a divertirsi anche lui, che per me è ancora un miracolo. Ogni volta che mugola, geme, mi chiama, mi chiede, ansima o esala – qualunque cosa esprima della positività rispetto a me che me lo sto scopando, insomma – a me non sembra neanche vero.
Forse appartieni a quegli uomini che vedono il preservativo come qualcosa che disturba, che compromette il piacere … appartieni, tu?” Mi chiede e inverte verbo e soggetto, un tormentone che ci portiamo avanti da tre giorni, da quando eravamo svaccati sul mio letto – e ci stavamo anche mangiando sopra, perché non avevamo nessuna voglia di alzarci e apparecchiare a quel punto, quindi l’unico sforzo l’ho fatto io per andare a recuperare la pizza fredda dalla cucina – e nel girare i canali Fler ha trovato Alice nel Paese delle Meraviglie ed ha passato il resto della serata, nonché buona parte della giornata successiva, e anche adesso pare, a ripetere COSA.ESSERE.TU in tutte le sue varianti. Come questa, appunto.
Ad ogni modo non mi lascia rispondere - non che ci fosse qualcosa da rispondere, comunque – e riprende ad illustrarmi le meraviglie dell’opuscolo infernale. “C’è scritto qui, bello grande, in alto. Dimostra di essere un uomo e assumi le tue responsabilità. Sii uomo, Chaku!”
Io assumo un’espressione molto seria. “Non preoccuparti, starò attento. Non ti metterò incinta prima del matrimonio, fidati di me.”
Lui mi tira una gomitata da manuale ma continua a ridere e, come il coglione che è, prosegue pure sullo stesso tono: “Vorrei ben vedere, stronzo. Altrimenti dovresti vedertela con la mia famiglia.”
“Che è composta da tua madre. E io vado forte con le madri, mi adorano.”
Piega la testa e mi si appoggia su una spalla. “Non te la caveresti tanto facilmente,” mi dice. “Ovviamente ti manderei Sido. E allora sì che sarebbero cazzi tuoi.”
“Busserebbe alla mia porta con la sua maschera del terrore e mi costringerebbe a sposarti e a lavorare per voi all’Aggro Berlin, in modo da mantenerti?”
Lo sguardo che ha si trasforma in qualcosa di tanto dubbioso che comincio a chiedermi se non devo offendermi. “Non avresti bisogno di mantenermi. Io guadagno più di te.”
“Questo mi renderebbe molto frustrato. Litigheremmo e finiremmo col divorziare.”
Fler riprende a sfogliare l’opuscolo con noncuranza. “Ti avverto che io mi tengo la casa, l’auto e buona parte del conto in Svizzera.”
“Abbiamo anche un conto in Svizzera?” Chiedo, incrociando le braccia sul suo stomaco.
“Come minimo,” sfoglia altre pagine e si ferma a contemplare le fotografie di quelli che dovrebbero essere due omosessuali felici ma che – nonostante gli ultimi sviluppi – trovano nei nostri due cervelli solo la definizione di checche. Il che è surreale perché lui mi sta spalmato addosso e io lo sto abbracciando e insomma… che cazzo. “Comunque abbiamo divorziato prima ancora di sposarci. Come coppia facciamo schifo Chaku. Niente bambini, okay? Non voglio rovinare creature, io.”
“D’accordo. Un cane, magari?”
“Quello sì. Mi piacciono i cani, fanno compagnia.”
Alla fine si ferma su una pagina di un marrone tristissimo e poco invitante, sulla quale compaiono delle illustrazioni. “No, dico, ci sono anche le istruzioni per immagini!” Esclama Fler, a metà tra l’entusiasta e lo sgomento. “… tutto il processo passo dopo passo per infilare il preservativo. Questo lo sai fare, mi auguro, avrai pure scopato nella tua vita, in generale, mi auguro.”
Ed è qui che mi viene a mente che scopavo – mi viene a mente di nuovo – e che scopavo con delle donne. Un tempo al posto di quell’opuscolo avevo un agendina tascabile piena di numeri di telefono di ragazze. E quelle ragazze rispondevano e – generalmente – dicevano anche di sì. Sono sempre stato organizzato da quel punto di vista, è per questo che poi ho avuto problemi con Klaudia, credo. Io sono un caso particolare, lei era da sola. Era molto più semplice risolvere la cosa con l’agendina.
Comunque lancio a Fler un’occhiata. “Credo di superarti di gran lunga in quantità, Fler.”
“Sei mica l'unico che abbia mai scopato, sai? Guarda che a me mi venivano dietro a centinaia!”
Sbuffo una risata. “Non le hai nemmeno viste cento donne tutte insieme.”
“Perché tu sì?” Commenta lui. “Che tu sia uno che ha bisogno di passare metà del suo tempo a scopare, siamo tutti d’accordo. Che tu poi lo faccia davvero, è tutto un altro discorso.”
“Devo darti dimostrazione pratica?”
“Lo farai fra meno di dieci minuti a giudicare da quanto sei diventato scomodo,” mi risponde lui, sistemandosi meglio contro il mio bacino e peggiorando la situazione, il bastardo. “E ricorda, una piccola scorta di preservativi – al posto giusto – è ideale, indipendentemente dal fatto che servano oggi o no."
L’isola ha una cassettiera in cui finisco per insabbiare qualunque cosa non trovi già posto su ogni altra superficie della mia casa. Nel primo cassetto ci sono anche dei preservativi. La cucina è un posto che si presta e quando mi ci ritrovo non ho voglia di camminare fino in camera per recuperare quello che mi serve. In realtà non ho mai voglia di camminare quindi ci sono preservativi ovunque in questa casa.
“A proposito di preservativi,” riprende lui e, senza scollare gli occhi dalle pagine, infila una mano nel cassetto, recupera un preservativo, me lo passa e richiude. “Per il sesso anale si possono utilizzare tutti i tipi di preservativi, tranne quelli supersottili o quelli con borchiette o scanalature. Le cosa?”
“Non ne ho idea!” Esclamo e me ne sto lì, con il mio quadratino in mano. “Ai miei tempi non esisteva niente di simile. Era tutto quanto molto semplice.”
Lui ride. “Ai tuoi tempi? Oh…questa è buffa,” dice. “Ogni anno in Svizzera si vendono oltre 18 milioni di preservativi… Ma la Svizzera è uno sputo di terra. Devono scopare un sacco, fra le vacche e il cioccolato!”
“Beh quando intorno hai solo i monti e la neve, non hai un cazzo da fare, eh!”
Fler ride. “Sento dell’empatia nei confronti degli svizzeri da parte tua.”
A quel punto mi accorgo che ho ancora le mani intrecciate intorno a lui, lo tengo stretto e lui non fa una piega. Quando lo bacio sul collo, lui chiude l’opuscolo e commenta: “Dieci minuti esatti, spacchi il minuto.”
Io gli sbuffo addosso, ridendo. “Devo fermarmi?”
“No,” piega il collo e ascolto il suo respiro mentre infilo una mano nei suoi pantaloni. “Vedi di fare lo Svizzero.”
“Sono Austriaco,” gli ricordo.
Si spinge un po’ contro di me quando lo stringo, ma continua a guardare avanti come se non stessimo affatto per scopare. In cucina. L’ho detto che la cucina si presta. “Ingegnati,” mi dice. “Li avete anche voi i monti e la neve, no?”
In Austria, monti e neve. E infatti non abbiamo un cazzo da fare.
Questo spiega tutta la mia persona.

Bookmark and Share

Washing Dishes

di lisachan
- Toh, asciuga qui. – Fler mi passa un piatto bagnato ed io mugugno a bassa voce, avvolgendolo nella pezzuola di cotone e cominciando a strofinarlo per poi metterlo a posto.
- Ma dovevamo per forza? – mi lagno, tirando su le maniche della maglia larga che stanno decidendo arbitrariamente di scivolare lungo gli avambracci fino ai polsi.
- No, Chaku. – risponde lui, concentrato sul piatto che sta lavando adesso, - Potevamo lasciarli qui in eterno a fare la muffa e venire a guardarli solo fra due o tre anni, quando avrebbero sviluppato un ecosistema proprio, così ci saremmo spacciati per i loro dei e ci avrebbero venerato per sempre come forme di vita superiore.
Lo fisso.
- Ma tu non avevi mollato la scuola prima di finirla?
Mi fissa anche lui e solleva un sopracciglio.
- Ho guardato i Simpson come tutti i ventenni del mondo.
Scrollo le spalle e lui sospira pesantemente, alzando gli occhi al cielo e passandomi un altro piatto. Io lo prendo senza lamentarmi, lo asciugo e lo rimetto a posto nello scaffale sopra la mia testa. Lancio un’occhiata distratta a Fler, nel mentre, e vedo che anche la sua maglia larga sta dicendo di ribellarsi al suo volere: una delle maniche sta scendendo lungo il braccio, e lui non può rimetterla a posto perché ha le mani piene di schiuma. Fa una smorfia infastidita, io me ne accorgo ed allungo una mano a tirarla su, tornando un po’ controvoglia a mettere in bella mostra i due tatuaggi che gli ricoprono la parte interna degli avambracci.
A guardarli adesso, tra l’altro, mi torna in mente un discorso che, in fase di produzione di Heavy Metal Payback, continuava a girare all’Ersguterjunge. Il fatto è che c’era quella canzone lì, Ich Hoffe Es Geht Dir Gut, che aveva questo testo incredibilmente romantico, ma davvero, che a non conoscere Bushido – cioè, a immaginarlo per lo stronzo senza cuore che non era – sembrava una cosa stranissima, e invece è tipo la canzone più sua che quell’uomo abbia mai scritto, probabilmente. Comunque niente, quella canzone era palesemente dedicata a Fler e, in sostanza, gli augurava di andarsene per la propria strada e stare bene comunque, nonostante tutto. Una cosa che, veramente, ti scioglieva il cuore. Io non li avevo mai visti dieci maschi adulti circa sciogliersi in quel modo, sul serio. Ma nemmeno quando era nata la bambina di Saad ci si era commossi in quella maniera indecente.
È che glielo vedevi proprio negli occhi che, insomma, c’era qualcosa di importante, dietro. Che voleva davvero farle sapere quelle robe, a Fler, che le pensava, che ci teneva, ecco. Heavy Metal Payback, peraltro, è uscito postumo. Io non voglio nemmeno immaginarlo che cosa abbia fatto Fler appena l’ha sentita, quella canzone.
Comunque, il punto è che quella canzone lì era veramente romantica, perciò dopo il primo momento di smarrimento e “avanti, siamo uomini!, non ci commuoveremo certo per così poco!, dov’è che sono i kleenex?”, è partito lo sfottò. Bushido un po’ se l’aspettava ed un po’ proprio lo voleva – per stemperare un po’ la tensione – perciò, miracolosamente, non ha sventrato nessuno di noi mentre lo prendevamo per il culo circa la possibilità che Fler potesse tornare strisciando e chiedere di essere ammesso alla corte dell’Ersguterjunge.
Ci ripenso adesso perché guardo i tatuaggi di Fler – che sono tutto un fioccare di simbolismo dell’Aggro Berlin – e mi viene spontaneo dirmi che in realtà l’ipotesi che Fler potesse arrivare all’EGJ era solo un po’ meno insolita dell’idea che, chessò, potesse cascare la luna, per dire. Era una cosa che non stava né in cielo né in terra, ecco.
Però secondo me un po’ Bushido ci sperava. Magari sbaglio.
Fler, mentre io mi perdo come al solito, si gira a guardarmi con aria un po’ scettica. Tiene le mani ferme sotto il getto d’acqua, la schiuma sul piatto scivola via dentro lo scarico e lui mi guarda, gli occhi grandi, le sopracciglia sollevate, le labbra dischiuse. Poi le richiude, le labbra, e le piega in un sorriso un po’ malizioso. Sono convinto di essere arrossito, ma cercherò di ignorarlo.
- Grazie. – dice con tono falsamente casuale, - Ci stai molto attento, eh?
- Uh? – rispondo io, dando prova di non avere un cervello molto più sviluppato di quello di un merluzzo, al momento.
Fler lascia andare una risatina leggera e divertita.
- A come mi cadono i vestiti addosso. – precisa poi a mezza voce.
Manca poco che lasci cadere per terra il piatto che mi passa.
- Mi è solo caduto l’occhio!
Lui ride di gusto, prendendo a lavare un’insalatiera incrostata di schifezze che non intendo neanche provare ad identificare.
- Ma sì, lo so. – annuisce sfregando bene con la spugnetta di metallo la superficie unta della scodella, - Ti prendevo in giro.
Ed io mi mordo un labbro perché lui magari mi prende in giro, però è vero che ci sto attento. Cioè, ci faccio caso. È una cosa strana ma è così, intendo, quando entra in casa e sfila via il giubbotto, per dire, ci faccio caso a come gli cade addosso ciò che ha indossato. Tipo… la linea del maglione attaccata ai fianchi. O la cintura larga attorno alla vita. O le magliette strette sulle spalle che tirano un po’ sui muscoli tesi del torace. Cioè, me ne accorgo. Magari, ecco, non è che ci passo proprio le ore a fissarlo, però un po’ sì, mi ci perdo.
Mi avvicino e gli tiro una mezza gomitata fra le costole, ricevendo in cambio una risata sbuffata e l’insalatiera che mi plana fra le braccia, sullo strofinaccio già umido, mentre lui si scosta per evitare il mio colpo. Quando si muove, dai suoi vestiti si solleva un buon odore di pulito, ed io sorrido serenamente un attimo perché è un odore familiare che mi ricorda casa. Poi però il sorriso si smorza e diventa più simile ad una smorfia stupita, quando mi rendo conto che non è semplicemente l’odore che mi ricorda casa: l’odore è quello di casa. È l’odore del detersivo che usa mia madre per i carichi della lavatrice, è sempre lo stesso da vent’anni e dubito cambierebbe anche dandogli altri vent’anni di tempo.
È lo stesso odore dei miei vestiti. Io e Fler adesso abbiamo lo stesso odore e questo non è dovuto all’essersi rotolati per ore fra le lenzuola, sul materasso. È una cosa a prescindere dal sesso. Mia madre ha lavato insieme i nostri vestiti. È una cosa comica, ma non mi riesce di ridere, mi limito a continuare a fissare Fler con quella smorfia lì, mentre lui continua placidamente a lavare stoviglie, e lo fisso fino a che non se ne accorge.
- Be’? – mi chiede quindi, tirandosi un po’ indietro come se guardarmi da un’altra prospettiva lo aiutasse a comprendere meglio quello che mi gira per la testa. – Che hai ora?
Non è che sappia bene cosa dirgli. Intendo, inventare una balla ed uscirmene con uno “stavo pensando che c’è proprio un bel sole, oggi!”, sarebbe allucinante, contando poi il fatto che oggi non abbiamo ancora neanche messo il naso fuori di casa. Perciò scrollo le spalle e mi arrendo alla palese incompetenza della mia mente, che di fronte alle domande non è mai in grado di inventare bugie convincenti in tempi brevi. Devo pensarmele, certe robe. E pure a lungo.
- È che abbiamo lo stesso odore. – rispondo quindi, continuando a fissarlo candidamente.
Lui mi guarda per un attimo con lo stesso identico candore. Palesemente non capisce di cosa sto parlando, ed è anche giustificato, voglio dire, uno non può andare in giro a dire agli altri “abbiamo lo stesso odore”, così a caso, ed aspettarsi anche di essere compreso. Non mi aspettavo di essere compreso, io, volevo solo rispondergli e gli ho risposto con quello che m’è passato per la testa. E ora mi sto riempiendo il cervello di pensieri inutili, e lo faccio per il semplice motivo che osservare la consapevolezza farsi strada negli occhi di Fler ed il suo sorriso aprirsi in una smorfietta divertita sarebbe troppo da sopportare, se non fossi un po’ stordito. Quindi mi stordisco di pensieri, perché quando li sento riecheggiare fra le pareti della scatola cranica le cose in genere mi sembrano meno strane. Voglio dire, cosa c’è di più strano dei pensieri che rimbombano? Niente, perciò non può esistere niente di più strano della mia testa, e siccome è mia e la conosco non può esistere niente di più strano che io non possa comprendere. Tutto qui.
- Lo stesso odore? – chiede un po’ perplesso, riponendo nel lavabo il bicchiere che stava pulendo.
- Sì, hai… - gesticolo, indicando i suoi vestiti in generale, finendo per indicare lui nella sua totalità, - voglio dire, quello che indossi, l’ha lavato mia madre, mi sa.
Lui solleva appena una spalla e ci struscia il naso contro, inspirando un po’. Poi si piega verso di me, e quello che succede dopo ha dell’incredibile, perché è una cosa che in genere fa solo quando limoniamo o stiamo già scopando. Cioè mi annusa. Voglio dire, durante il sesso è una cosa ok, anche io lo annuso quando scopiamo – lungo il collo e le spalle e ovunque riesco ad arrivare, insomma – ma che lo faccia adesso è… è diverso.
Inspira a lungo, gli occhi semichiusi, le mani ancora sotto il getto dell’acqua. Per un po’ è l’unico suono che sento – quello dell’acqua, dico – sento solo quello perché Fler è discreto, mentre mi scivola appena addosso con la punta del naso. Non frusciano nemmeno i vestiti, non si muove niente. Solo lui, e lui è silenzioso come un gatto.
Risale col viso lungo il mio braccio, si ferma appena contro la spalla e poi segue la linea del collo, della mascella e del mento, e si ferma a un centimetro dalle mie labbra.
- È vero. – mi soffia addosso, annuendo piano, - Abbiamo lo stesso odore. È un buon odore.
Lo sto già spingendo contro il lavandino il secondo successivo. Fra me e Fler, tutto sommato, è sempre così. Non siamo mai preparati al momento in cui ci mettiamo le mani addosso, perché il momento in cui lo facciamo non è mai premeditato. Non viene come il risultato di una cosa tranquilla, è una roba improvvisa che ci prende allo stomaco senza preavviso. Quando ci guardiamo negli occhi. Quando ci voltiamo e ci sfioriamo per caso. Quando abbiamo voglia e lo sentiamo nell’aria – non so come succeda, non so se abbia un odore, un sapore, una consistenza, so solo che lo sento, certe volte non devo nemmeno essere nella stessa stanza con lui per saperlo. Succede e basta.
Non siamo mai preparati, quindi, e restiamo sempre a corto di fiato per questo. Mi piace quando Fler resta senza fiato, il suo respiro pesante ha un suono profondo che è solo suo e non ho mai sentito a nessun altro. È una cosa che fa solo quando sta con me. Quindi è anche una cosa solo mia. Non so perché abbia tanta importanza che lo sia, so solo che ce l’ha, è importante sapere che c’è un pezzo di lui che mi appartiene e che non c’entra con Bushido o con l’accordo che abbiamo fatto per proteggere Bill e redimere lui. È una cosa che forse è il risultato di tutti questi fattori, ma ne è anche indipendente. E mi piace che lo sia, mi piace pensarci mentre stringo il bordo del lavandino con le mani, usandolo come perno per spingermi in avanti contro di lui e contrastare la sua spinta verso di me, altrettanto forte e testarda.
Il movimento continua lento per un po’, almeno fino a quando lui non si decide a mollare il bordo del lavandino al quale anche lui s’era aggrappato, probabilmente per evitare di cadere. Vorrei quasi dirgli “guarda che di cadere proprio non se ne parla, non se continuo a spingerti in questo modo”. Alle volte sono davvero troppo… irruento, penso, e credo che, visti i precedenti, sarebbe di buon gusto da parte mia evitarlo. Però non ci faccio troppo caso. E finché sento nei respiri di Fler che il modo in cui mi muovo gli sta bene, allora non mi fermo. Dio… non mi fermerei mai.
Comunque stacca le mani dal lavandino e le appoggia sulle mie spalle. Sono così bagnate che, non appena mi tocca, la maglietta si inumidisce all’istante, e riesco a sentirmelo addosso con una facilità che mi sorprende, per quanto è improvvisa e chiara. La pressione dei suoi polpastrelli è così precisa che mi sembra quasi mi stia toccando pelle contro pelle, mi sembra che non ci sia tessuto di mezzo. Mi separo da lui allontanandomi apposta di un passo. Lui fa per trattenermi, aggrappandosi alle mie spalle, ma scivolo via dalla presa e lui ha appena il tempo di guardarmi perplesso e rabbioso per un secondo, che io afferro la maglietta per l’orlo e la tiro su, sfilandola dalla testa e lasciandola ricadere distrattamente per terra. Gli sono addosso l’attimo dopo, non prima di aver colto il lungo sguardo con cui mi ha misurato la linea degli addominali, e fingo di ignorare il mugolio soddisfatto che mi lascia andare fra le labbra quando mi schiaccio contro di lui – e adesso sì, adesso posso sentirlo alla perfezione – e comincio ad armeggiare con la cintura dei suoi pantaloni.
Lui ringhia forte quando riesco a tirarla via – è il ringhio frustrato col quale in genere vuole dirmi “piantala di cazzeggiare, Chakuza”. Lo so perché una volta me l’ha detto chiaro e non ho riso per mezz’ora solo perché la situazione in sé era… intendo, non si prestava granché alle risate. Mi ha rimproverato perché stavo un po’ perdendo tempo; questo perché Fler ha dei talenti nascosti niente male, e fra questi talenti ce n’è uno per il quale, quando è preso ad un certo livello, scollega la mente e fa cose incredibili. Un po’ sono anch’io così – intendo, ci sono cose che ho fatto con lui che mai e poi mai nella vita avrei pensato di fare, e non sto parlando solo di quella cazzo di prima volta di merda – ma lui lo è in maniera molto più… non lo so, sincera, forse, intendo, davvero non si fa problemi e se ha voglia di chinarsi e prenderlo in bocca lo fa, per dire. Non è – ed è fantastica, questa cosa – non è una roba che fa perché vuole compiacere me, perché sospetto che, in quei momenti in cui è scollegato, a me in quanto me neanche ci pensi davvero, è una cosa che fa perché la vuole, e questo è semplicemente incredibile e assurdo e strepitoso e se ci fossero altri aggettivi userei quelli, ma al momento lo vedo che mi allontana e si strappa la maglietta di dosso con un’urgenza che mi fa paura, e quindi gli aggettivi si annullano, e anche buona parte di tutto il resto del mio vocabolario.
Il suono dell’acqua che scorre dovrei continuare a sentirlo – so che il rubinetto è aperto, so che l’acqua continua a scendere, lo so perché mi basta sollevare appena lo sguardo dalle labbra di Fler, che continuo a mordere, per vederlo – però non mi riesce. L’aria è piena dei nostri sospiri, è piena dei ringhi coi quali continuo a chiedere a Fler di darmi di più, togliersi di dosso più roba, sollevarsi ancora un po’, ed è pieno dei lamenti coi quali lui mi risponde, dei mugolii che lascia andare quando ci scontriamo bacino contro bacino, degli ansiti spezzati che gli mozzano il fiato quando lo accarezzo e dei sospiri estenuati coi quali mi chiama per nome – un misto confuso, Chakuza, Peter, Dio, ancora. Non riesco a sentire altro, non c’è altro, l’acqua, per quel che mi interessa, può pure inondare tutta la cucina ed annegarci.
Quando poggia le labbra contro il mio collo e sospira, quando mi sussurra addosso “scopami”, io per un secondo mi guardo intorno con terrore. Siamo fra il lavandino e l’isola, il solo pensiero di prendere e incamminarci verso la camera da letto, in questo momento, mi scazza oltremodo. Non penso che mi smonterebbe – saranno circa una decina di passi in tutto. A voler esagerare, eh – e non penso che smonterebbe neanche Fler, ma Cristo, siamo qui e ci siamo incastrati in una maniera così deliziosa che mi girano le palle al pensiero di dovermi separare da lui e farli, quei cazzo di dieci passi. Non li voglio fare. Voglio prenderlo qui ed ora, ed anche lui lo vuole, perciò alla fine mando a fanculo tutto – compreso il fatto che probabilmente dopo Fler avrà un mal di schiena per il quale mi maledirà finché sarà in vita – e lo trascino verso l’isola, spingendocelo contro finché non ci resta seduto sopra.
Lui mi guarda dall’alto, perplesso, per una considerevole quantità di secondi. Ecco, questo potrebbe smontarmi, se continua.
- Sdraiati. – grugnisco quindi, spingendolo per una spalla.
- Eh? – domanda giustamente lui, opponendo resistenza e piantando un gomito sul ripiano.
Sospiro e mi sollevo sugli avambracci, raggiungendolo sul tavolo.
- Sdraiati. – ripeto, fissandolo seriamente negli occhi, - Vuoi che ti scopi? Era il posto più vicino.
- Ma potevamo- - prova a farmi notare lui, sollevando una mano e puntando l’indice verso la porta della camera da letto, ma lo fermo baciandolo di prepotenza, avanzando finché non si stende.
- Ti voglio adesso. – gli confesso sulle labbra, mordendolo appena, - Allarga le gambe.
Il brivido che gli scorre addosso lo sento sotto i palmi delle mani. Lo scuote tutto e lui mi trema contro per un solo attimo. Deglutisce guardandomi negli occhi. E poi sorride.
- Sei una cosa incredibile. – borbotta ubbidendo, mentre io mi sistemo fra le sue cosce e mi inumidisco le dita. Lui mi afferra per un polso e se le porta alle labbra, infilandole immediatamente in bocca. Le accarezza divertito con la lingua, continuando a guardarmi con quegli occhi assurdi che mi smuovono cose nello stomaco. Esattamente come dicevo, quando è preso fa cose da sballo. C’è da perderci la testa.
Scendo ad accarezzarlo fra le natiche appena mi lascia andare, prima un dito, piano, ha ancora un casino di difficoltà ad abituarsi alla presenza esterna e provare a distrarlo serve a poco perché è sempre teso come una corda di violino, quando iniziamo. Poi si rilassa, ma gli inizi sono sempre un dramma. Sorrido appena, perché è stato così anche per noi in generale, e spingo dentro di lui un altro dito. Lui lo accoglie con un mugolio infastidito, ed io resto fermo mentre lui si adatta alla forma, stringendosi a me.
Lo bacio, non è che possa fare molto altro, e resto immobile a farmi torturare – perché di tortura si tratta, né più né meno – finche Fler non riprende a respirare ad un ritmo accettabile. Mi piace sentirlo ansimare ma odio che siano ansiti di dolore. Li riconosco, peraltro, perché non potrei dimenticarli neanche volendo. Mi fermo sempre, quando fa così. È più forte di me. È più forte anche della voglia.
Lui chiude gli occhi e si muove un po’.
- Ci sei? – sussurro prima di baciarlo ancora, - Dimmi che ci sei.
Lui ride a bassa voce, annuendo distrattamente.
- Ci sono. – risponde, - Sto andando fuori di testa. Ma fai piano.
Annuisco anch’io, tirando fuori le dita e sistemandomi meglio contro di lui. Lo tengo fermo per i fianchi, spingendo appena. Solo la punta e già stringe i denti. Avanzo piano, lo sento aprirsi al mio passaggio e mi rendo conto che probabilmente avrei dovuto fare più spazio, con le dita. Avrei dovuto prepararlo meglio con quelle, adesso sta opponendo una resistenza che da un lato, Cristo, mi lascia senza fiato, ma dall’altro è tremenda per tutto quello che significa.
Cerco di contenermi, cerco di non esagerare. Ci provo, anche se non vedo l’ora che mi dica che va meglio, per potermi muovere più facilmente. Per poterlo sentire meglio, per potermi fare sentire meglio. Queste sono cose così rare. Mi sono organizzato, un po’, tengo tutta la roba giusta nei cassetti, non ricordo nemmeno l’ultima volta che l’abbiamo fatto senza preservativo, e probabilmente è stata una sveltina del cazzo prima di uscire una sera, non so. Vorrei che fosse un bel ricordo, quando lo sento nudo contro la pelle, ma c’è sempre qualcosa che non va. Fler stringe i denti e chiude gli occhi, mi lascia fare respirando pesantemente ed io gli vado incontro in spinte lente e lunghe, baciandolo ovunque riesca, per fargli capire che lo apprezzo. Che mi dispiace essere uno stronzo, certe volte. Mi dispiace anche quando non glielo dico. Mi dispiace che debba darmi del coglione così spesso, che debba rimproverarmi e dirmi chiaramente quando sto esagerando, vorrei riuscire a capirlo da solo, ma gliel’ho detto, sono una testa di cazzo, e quando mi perdo dentro di lui è dannatamente difficile riuscire a mantenere il controllo.
Però ci provo. Lui lo sa, che ci provo.
Lo accarezzo lentamente, per tutta la lunghezza. Lui lascia andare un mezzo singhiozzo stupito e trattiene il fiato, aprendo gli occhi – che sono annebbiati e confusi, un po’ ci si è perso anche lui – e guardandomi. Gli sorrido e lui mi risponde con un altro sorriso, ed è un momento strano perché siamo molto più tranquilli del solito. Il dolore che sente posso percepirlo chiaramente in mezzo al calore umido che mi circonda, però è tranquillo. È ok. È una cosa che sta volendo ed è una cosa che gli sta bene. Mi… me la sta dando con piacere, questa cosa. È bello, credo.
Riprendo a baciarlo e riprendo anche a muovermi, e lui non si lamenta. I sospiri che gli sfuggono dalle labbra non sono più così insopportabilmente sofferenti, e le braccia che mi stringono al collo non mi si aggrappano addosso per sfogare il dolore, stanno lì morbide e abbandonate, perché è lì che vogliono stare. Le nostre lingue si accarezzano piano, inclino il capo per approfondire il bacio e lui mi segue, mi si spinge contro, mi morde le labbra, ed è il mio lasciapassare, questo: lo stringo saldamente ai fianchi ed entro dentro di lui con più decisione. Non sbaglio il colpo, e lui getta indietro il capo.
- Chaku… - mi chiama, ed io lo accontento prima che possa chiedermelo, spingendo ancora, e ancora. Serro le dita attorno alla sua erezione e continuo ad accarezzarlo, lui si stringe tutto attorno a me ed io non vedo niente per dei secondi interi, mi sembra perfino di non respirare tanto è stretto e caldo, non c’è spazio per i respiri, non c’è aria, non c’è nulla, stringo i denti e vengo dentro di lui accarezzandolo ancora, finché non viene a propria volta. Non lo lascio nemmeno per un secondo, finché ancora i brividi dell’orgasmo lo scuotono. Voglio sentirlo tremare.
Quando riesco a riprendere davvero coscienza di ciò che sto facendo, lo sto baciando. È un bacio lento e stanco, una sorta di “scusami” ma anche di “però è stato grandioso”. Cose palesemente fuori dal mondo, me ne rendo conto, ma in realtà ho un po’ la tendenza a perdermi nella mia testa, e finché le cose nella mia testa suonano bene, allora funzionano. In questo momento, baciare Fler in questo modo suona dannatamente bene, perciò chi se ne frega.
Lui ridacchia piano, quando mi decido a lasciarlo in pace.
- Siamo distesi sull’isola della cucina, Chaku. – mi fa notare ironico, - È, tipo, la cosa più ridicola che abbiamo mai fatto.
- …ridicolo non era esattamente quello che stavo pensando. – borbotto, abbattendomi esasperato contro la sua spalla.
Lui ride e mi lascia un bacio sulla nuca.
- E cosa pensavi? – chiede.
Mi sollevo a baciarlo ancora.
- Fai tu. – rispondo, - Sei stato bravo.
Mi aspetterei, non so!, della riconoscenza. O anche dell’imbarazzo. Lui, invece, mi scoppia a ridere in faccia. Non capisco perché Fler rida sempre, quando cerco di fargli un complimento. È una cosa frustrante, dovrebbe smetterla. Anche perché così non so mai se il complimento l’ha recepito o l’ha preso per una buffonata a caso.
- Bravo?! – rincara la dose, asciugandosi una lacrima di divertimento dall’angolo di un occhio, - Sono stato bravo? Oh, cielo…
- Be’, magari se la pianti… - biascico contrariato, sollevandomi sui gomiti per guardarlo dall’alto con maggiore disapprovazione.
- Scusa, scusa… - continua a ridacchiare lui, - È che boh… non ti suona allucinante?
Lo sfioro con un dito lungo il profilo dello zigomo e del mento. Lo guardo per bene, lo guardo negli occhi.
- Dovrebbe? – chiedo. E sono abbastanza serio da costringerlo a smettere di ridere.
Lui si solleva a baciarmi profondamente, attirandomi a sé per la nuca. Be’, può anche ridere, se dopo chiede scusa così, eh.
- Il guaio è che dovrebbe. – risponde poi, stiracchiandosi pigramente sotto di me e sistemandosi per non dovermi per forza chiedere di spostarmi, - Però non suona davvero allucinante neanche a me. Dici che è un problema?
Dico, pensando al casino in cui siamo immersi, che sì, è un problema enorme.
Dico anche che al momento non mi frega, però.
Il mio bacio vuol dire questo. Negli occhi troppo chiari di Fler, quando ci separiamo, leggo che l’ha capito. Il sospiro un po’ scocciato che rilascia ne è la conferma. Il fatto che non vada via, però, è un incoraggiamento niente male.

Bookmark and Share

Staatsfeind Nr. 1

di lisachan
Sono le sei del pomeriggio circa. In realtà non so, potrei anche stare cannando completamente orario – il che sarebbe molto male, visto che ho un appuntamento in Alexanderplatz fra mezz’ora e come ci arriverò in tempo è un mistero. Comunque sia sono entrato in questa casa verso ora di pranzo portando con me un tipo di pasta che non avevo mai visto in vita mia ma che la signora Lotte mi aveva assicurato essere meravigliosa. In realtà né io né Chakuza sapremo mai di cosa sapesse quella pasta quando era calda e buona da mangiare. Abbiamo fatto altro appena sono arrivato – praticamente sulla soglia della porta. Ci sono momenti in cui ci penso e mi viene da ridere – poi abbiamo provato a mangiare ciò che era diventato un impasto gelido e colloso dal colore verdastro per nulla invitante, ma ci abbiamo rinunciato subito. Ci siamo svaccati sul letto ed è lì che siamo rimasti a parlare del nulla assoluto – non saprei richiamare alle mente nemmeno un argomento di conversazione spuntato fuori nelle ultime due ore – fino a quando non ho commesso il grave errore di sporgermi verso di lui per recuperare l’orologio da polso abbandonato sul comodino e controllare l’orario e, prima di riuscirci, mi sono sentito tirare verso il basso con una forza ed un’urgenza addirittura preoccupanti. E lì poi il senso del tempo l’ho perso del tutto.
Mi infilo la maglietta ed ho appena il tempo di sistemarmi i capelli quando la testa viene fuori dal colletto, che mi sento tirato all’indietro per un lembo e quasi cado di nuovo sul materasso. Mi volto e c’è Chakuza che mi fissa con l’aria di un ragazzino furbo e molto divertito. Mi strattona a intervalli regolari di due secondi e poi d’improvviso cambia il ritmo nell’evidente tentativo di sbilanciarmi.
- Be’? – chiedo, tirando l’orlo della maglia sul davanti, visto che il fatto che lui la tiri da dietro mi riduce continuamente seminudo, - La piantiamo?
- Eddai, resta! – continua a ridere, prendendomi palesemente in giro e continuando a tirarmi, - Tanto non hai niente da fare!
- E invece se proprio vuoi saperlo ho un appuntamento! – borbotto offeso, sottraendomi a questo ridicolo tira e molla ed abbottonando i jeans un attimo prima che la gravità riesca a farli cadere sul pavimento.
Chakuza inarca un sopracciglio, incerto.
- Donna?
Io sospiro e vorrei quasi rispondere “una specie”, ma mi trattengo.
- Sido. – rispondo. E sto mentendo. – Ti risulta femmina?
Lui annuisce, prendendo atto.
- Ma tu cosa c’entri con l’Aggro Berlin, Fler? – butta lì curiosamente, sistemandosi meglio sotto il lenzuolo, - Sono palesemente i cattivi di Berlino. Tu sei una specie di bambino sperduto.
- Tu che sei suor’Anna di carità cosa c’entri col rap? – rispondo acido, recuperando la felpa dall’angolo di letto in cui è finita. La apro per infilarla. – Chakuza, l’hai sporcata, cazzo! – mi lamento, tirandogliela addosso, - Quante volte ti devo dire che se mi togli i cazzo di vestiti devi buttarli in un posto in cui non possono sporcarsi?!
Lui impallidisce e si passa una mano sugli occhi.
- Fler, tu sei troppo schietto. – commenta fra il disperato e il rassegnato, - E comunque non posso averla sporcata io. Io non posso aver sporcato niente, sei tu quello che si sparge costantemente sul materasso.
Arrossisco e spalanco gli occhi, sento il calore ovunque sul viso.
- Chi è schietto, poi? – sospiro stremato. – Non posso andare in giro in maglietta, Chaku. Si gela. – gli faccio notare poi, stringendomi nelle spalle.
Lui indica casualmente l’armadio di fronte al letto.
- Prendi una delle mie felpe. – suggerisce.
- Potresti anche fare qualcosa, di tanto in tanto. – borbotto io, raggiungendo comunque l’armadio e rovistando all’interno alla ricerca di qualcosa che non sia irrimediabilmente corto di maniche.
- Non intendo rivestirmi. – si lamenta lui, stiracchiandosi sul materasso, - E non intendo neanche andare in giro nudo.
- Tanto, a meno che non sia spuntato qualcosa di nuovo negli ultimi dieci minuti, ho già visto tutto. – lo prendo in giro, infilandomi una felpa rossa che giudico abbastanza anonima perché il mio appuntamento non possa riconoscerla.
Ci credo poco. Ci spero, comunque.
- Torni a cena? – chiede vago in un mezzo sbadiglio.
- Punto primo: - mi volto io, sul piede di guerra, piantando un pugno sul fianco, - non ne hai ancora abbastanza, della mia presenza? – Chakuza ride. – Punto secondo: se vuoi mangiare la roba della signora Lotte, schioda il culo e valla a prendere! – Chakuza mi tira un cuscino ed io lo evito. – Punto terzo: - ed ora comincio a blaterare, lo so, perché non avevo un punto terzo ma faceva figo dirlo, dopo il cuscino evitato. - …dovremmo cambiare posto all’armadio. – butto lì. Mi do del cretino due secondi dopo, ma almeno ho detto qualcosa.
Chakuza mi guarda con aria allucinata.
- E perché? – chiede. Giustamente.
- …non cade bene la luce nella stanza. – motivo, del tutto a caso. – Cadrebbe meglio – ma che cazzo sto dicendo? La luce non cade! Che cazzo ho in testa? – se fosse tipo lì. – indico un punto random vicino al letto, - Capito?
Lui annuisce lentamente, come si fa coi pazzi. Mi prendo il mio assenso condiscendente e sospiro.
*
Sono per strada due minuti dopo e congelo. Congelo tipo all’istante, appena metto piede fuori dal palazzo di Chakuza. Odio dovermi muovere a piedi ma è questo il dramma di quando mi fermo a dormire qui. Cioè, non è come passare per caso mentre vado a lavorare, io vengo qui e non mi muovo fino al giorno dopo, perciò visto che non abito tanto lontano vengo a piedi ed evito…
…va be’.
Comunque sto andando da Bill e di sicuro non potevo dirlo a Chakuza. Tanto non credo abbia ancora preso l’abitudine di chiamare Sido per chiedergli se sono davvero con lui o se per caso non sono scappato da qualche altra parte. E lui e Bill… di sicuro in quest’ultimo periodo non si sentono granché. Perciò posso ragionevolmente pensare che questa piccola bugia non verrà mai alla luce.
So che è da cretini dirlo adesso, e infatti non lo dico, non l’ho mai detto neanche a Bill, che comunque è un ragazzino intelligente e quindi non ha bisogno delle conferme verbali, il più delle volte, comunque io non ho mai avuto un problema con Bill Kaulitz. In un periodo in cui tutto il mondo aveva un problema con chi Bill era e con come si conciava, il mio unico problema era che lui fosse il tipo con cui Anis andava a letto. Per quanto assurdo e malato possa sembrare, non era un problema di gelosia, era un problema di appartenenza ad un certo gruppo. Un problema di ideali, in un certo qual modo. Non sto dicendo che uno non possa andare a letto coi maschi - … - sto dicendo che tu non puoi dare del frocio a destra e a manca a chi t’ha aiutato ad emergere dalla merda in cui stavi sepolto da adolescente, e poi diventare frocio davvero. C’è qualcosa di sbagliato in questo. Era questa, la cosa che non concepivo.
…e poi avevo bisogno di un pretesto per insultarlo. Un pretesto che suonasse diverso dal “mi hai mollato senza un fottuto perché”. Perché dopo cinque anni cominciava a perdere in forza, come argomentazione per le diss.
Insomma, in definitiva io Bill non l’ho mai odiato. Non gli ho mai voluto male neanche per un cazzo. In buona sostanza lo trovo pure vagamente tenero, è un cosino piccolo che non c’entra niente con tutto questo e che s’è visto morire l’amore della vita fra le braccia, e insomma, anche se non ero lì anche io più o meno lo so come ci si sente in questi casi. Quindi mi dispiace pure.
Mi dispiace anche di più perché comunque non sono mai stato un cretino e, fra le tante cose che Anis m’ha insegnato, c’è anche la capacità di capire al volo le situazioni. Perché è più facile sbrogliare i casini quando capisci subito il problema.
Stavolta non ha aiutato – io il problema l’ho capito subito ma non sono stato in grado di arginarlo. Io l’ho capito subito che fra Bill e Chakuza c’era qualcosa. L’ho capito probabilmente prima che lo capissero loro.
Non è giusto quello che io e Chakuza stiamo facendo a Bill.
Non è giusto neanche quello che stanno facendo Bill e Chakuza a loro stessi, comunque.
Bill mi chiama sul cellulare e mi strilla entusiasta che s’è ricordato di un posto meraviglioso in Oranienburgerstraße.
- Si chiama Cafè Zapata, ci sono stato solo una volta con Anis ed è bellissimo! Mi raggiungi lì? Sono già seduto! – che suona più o meno come “non vorrai mica farmi alzare per andare altrove?!”.
- Bill, - sospiro, - Bushido aveva i soldi che gli crescevano pure nelle mutande. Quanto intendi farmi spendere per una cioccolata calda?!
- Ma possibile che tu sia sempre squattrinato? – borbotta lui. Lo immagino già con un broncio enorme e le braccia incrociate sul petto, - Che razza di rapper sei?
- Quello che non ha mollato l’etichetta per diventare multimilionario. – gli ricordo, e Bill ride. Mi piace che rida alle battute che faccio su Anis. In realtà mi piace che, per noi due, parlare di Anis sia ancora normale. Non lo facciamo con nessun altro.
- Avanti, offro io. – mi rassicura lui, ed io biascico qualcosa ma poi mi ricordo che sono uscito tipo con venti euro nel portafogli stamattina, perciò tanto vale lasciarlo fare, il ragazzino è meglio della zecca dello stato quanto a produzione di banconote.
- D’accordo, arrivo. – e quando arrivo lo trovo tutto stretto in un piumino enorme, gli occhiali da sole calcati sul naso ed un berretto di lana a cuffia che gli schiaccia tutti i capelli attorno al viso. Un paio di ciocche nere svolazzano a causa del vento debole ma penetrante che spazza la via, e Bill se le scosta infastidito dalle guance e dal naso quando sente il solletico.
Sollevo una mano per farmi notare e lui sorride appena mi individua, rispondendo con un ampio gesto del braccio.
- Ma perché ti sei seduto fuori, perdio? – mugolo disperato, stringendomi nella giacca e facendomi minuscolo sulla sedia gelata del cortile esterno del bar, - Ci sarà un cazzo di grado centigrado ed in questo cazzo di cafè c’è anche la galleria d’arte! Perché siamo qui?!
Bill sorride appena, stringendosi nelle spalle.
- Era estate, quando sono venuto qui con Anis.
E questo dà senso alla sua scelta e toglie forza alle mie polemiche, perciò sto zitto.
Io e Bill abbiamo preso quest’abitudine di vederci, da quando lui e Chakuza hanno smesso di farlo. Per quanto possa sembrare assurdo, non è stato lui a cercare me nella speranza di estorcermi qualche informazione su come stesse Peter o chissà che altro – anche solo per sentirsi di nuovo un po’ vicino a lui tramite me, chissà. Sono stato io a chiamarlo. Perché quando Chakuza mi ha chiesto di proteggere il ragazzino non intendeva soltanto “metterlo in salvo in caso di pericolo”. Ed anche se lui lo intendeva, non è questo che si intende con “proteggere”, per me. Proteggere vuol dire che mi preoccupo. Proteggere vuol dire che ci sono se ti servo ma anche se non ti servo, giusto per vedere se hai bisogno o meno. È una cosa complessa ed è una cosa che possono fare solo le persone oneste.
Io sono finito nei guai con la legge un bel po’ di volte, ma sono una persona onesta. Anis, prima di diventare uno stronzo, mi ha insegnato ad esserlo. È la parte di lui che non ho perso, e me la tengo stretta.
È stato in un’occasione simile – ma eravamo in un pub, era sera e c’era decisamente più caldo – che ho chiesto a Bill di raccontarmi come fosse morto. Ho visto i suoi occhi brillare all’improvviso e l’ho visto tendersi e irrigidirsi tutto come avessi provato a pungerlo con cattiveria, ma poi l’ho visto sciogliersi e sorseggiare piano la sua cola al limone, le dita a disegnare figure astratte sul legno ruvido del tavolo, mentre a mezza voce mi diceva del suo arrivo, del sangue, dei baci, della cassetta del pronto soccorso, del letto. Dei proiettili. Del suo sorriso. Del suo respiro sottilissimo.
Gli ultimi istanti della vita della persona più importante di tutta la mia intera esistenza. Una persona che avevo perso, da qualche parte, ma che era sempre rimasta dentro di me, in qualche modo. Quelli erano i suoi ultimi battiti. Le sue ultime parole. I suoi ultimi istanti. Bill me li ha regalati senza un tremito nella voce e con una lacrima incerta sulle ciglia, una lacrima che non è mai scesa e s’è sciolta in un sorriso quando, alla fine del racconto, m’ha visto chinare rassegnato il capo e scusarmi.
“Figurati,” mi ha detto, “sai quanto ho aspettato di poterlo raccontare così a qualcuno? Certe volte, finché non lo dici tutto per bene…” e s’è interrotto, ma io ho annuito lo stesso perché avevo capito dove voleva andare a parare: perché certe volte, finché non lo ascolti tutto per bene non ti sembra vero. Il meccanismo è lo stesso.
Bill mi lascia scorrere addosso lo sguardo ed abbassa appena gli occhiali sul naso, fissandomi curiosamente.
- Ma quella… - inizia, indicando i pezzi di felpa rossa che escono dal giubbotto semiaperto, - è di Chakuza?
Mi chiedo sinceramente come diavolo abbia fatto. Non ha senso dirmi “non dovresti stupirti, lo sai cosa c’è dietro”, è assurdo che riconosca una felpa rossa che ho scelto appositamente perché fosse il più anonima possibile, perché potesse essere di chiunque, perfino mia. Mi passa per la testa in un pensiero distratto che questo ragazzino ama troppo intensamente. Si farà un male cane, così. Vorrei dirglielo. Ci sono passato, ragazzino. Tiratene fuori finché puoi. Ma non ho alcun diritto di farlo.
- Sì, mi sono sporcato con della roba… - mugugno gesticolando a caso e implorando perché non chieda di che tipo di roba io stia parlando, - mi ha prestato una felpa per venire qui.
Solleva repentinamente gli occhi nei miei, rimettendo a posto gli occhiali.
- Eri con lui?
Sì e non posso dirtelo, ragazzino. Non posso dirtelo perché non dovrei nemmeno farlo, ma di farlo in qualche modo ho un bisogno fottuto, perciò mi dispiace ma non mi fermerò. Prima o poi ti passerà. Forse. Ed allora andrà meglio. O passerà a me – Dio, lo spero – e sarà perfetto.
- No, mi sono sporcato e lui mi veniva di strada. Mi sono fermato, gli ho rubato una felpa e sono corso qui perché ero già in ritardo. – racconto con un mezzo sorriso.
- Lo tratti proprio male, povero Chaku. – ridacchia lui.
Io annuisco e rido a mia volta.
Il cameriere ci chiede se siamo pronti per ordinare. Bill resta mezz’ora a domandarsi se sarebbe il caso di prendere una birra alla fragola – “la fanno solo qui, Fler!”, il che dovrebbe dargli un’idea di quanto faccia schifo, visto che nessun altro ha seguito il geniale esempio – oppure non sarebbe più saggio ripiegare su una più normale cioccolata. Lo costringo moralmente a prendere la cioccolata ricordandogli che non ho una macchina per portarlo in ospedale se sviene. Lui prova a dirmi che potrei chiamare un’ambulanza, in caso, ma quando lo guardo ed inarco un sopracciglio lui borbotta “okay, okay!” ed ordina un pastrocchio con panna, granella di cioccolato, granella di noci, una spruzzatina di caramello, una spruzzatina di caffè e litri di latte, al che io mi chiedo dove sia finita la cioccolata e suppongo sia meglio che almeno quella manchi, altrimenti questa roba invece di dieci euro ne costerebbe quindici.
Bill affonda il naso nella tazza appena se la ritrova fra le mani. Squittisce di gioia stringendola fra le dita e non sfalda la complicata coreografia di panna e decorazioni che esce da sopra come una montagnola innevata; sorseggia direttamente da lì, poggiando appena le labbra sul bordo, e quando risolleva il viso ha due baffi irregolari di panna sotto il naso. Rido e glieli indico, lui li cancella con una leccatina da gatto e si gratta la nuca, imbarazzato.
- Stai ancora da tuo fratello? – chiedo, sgranocchiando le arachidi che mi hanno portato con la Beck’s.
Bill annuisce.
- Tomi è molto preso. – racconta divertito, - Era da un po’ che non gli lasciavo fare il fratello maggiore con tutti i crismi. È tutto una coccola, è così servizievole! – ride e manda giù altra cioccolata, - E poi non mi si stacca mai di dosso. Mi mancava, devo ammetterlo. – aggiunge, arrossendo lievemente.
- Che fai, ragazzino? – lo prendo in giro, bevendo un sorso di birra, - Invece di progredire, regredisci? Dovresti crescere, diventare grande… e invece torni a vivere dal fratellone.
Bill aggrotta le sopracciglia e si morde un labbro.
- È una cosa temporanea, non sono tornato a vivere da lui. – borbotta offeso, - E poi io sono grande. Non sono un ragazzino. – sospira, - Però tu ormai hai deciso che ti piace chiamarmi così.
- Mi piace chiamarti così perché mi piace chiamare le cose col loro nome. – ridacchio, e lui annuisce, ridacchiando a propria volta. – Senti… - aggiungo poi casualmente, quasi a mezza voce. Un po’ spero che neanche mi senta. – Perché non ti fai vedere, di tanto in tanto, a casa del Chaku? – lui mi solleva addosso due occhioni terrorizzati, ed io mi affretto a sollevare entrambe le mani, come per rassicurarlo. – Magari quando siamo tutti insieme, ecco! O, se ti dà fastidio sentire quel coglione di Eko blaterare, magari andiamo da qualche parte noi tre. Potrebbe essere divertente. Che dici?
Bill sospira, abbassa un po’ lo sguardo sul fondo di panna che è rimasto nella tazza e poi torna a guardarmi. Dritto negli occhi. Vedo anche i suoi, nonostante la barriera ostile delle lenti scure.
- Dico che non posso. – risponde deciso, quasi freddo, - Lo sai.
Annuisco piano e ricomincio a sorseggiare la birra. Resto in silenzio mentre lui sfila gli occhiali e li posa sul tavolino in un gesto stanco accompagnato da un sospiro ancora più stanco. Lo osservo passarsi due dita sugli occhi – neanche un velo di trucco addosso – e massaggiarsi esausto la radice del naso. Non riapre gli occhi e non rimette gli occhiali. Però riprende a parlare.
- Fler… - chiede in un sussurro, - …tu pensi che questa situazione sia colpa mia?
Deglutisco appena, posando la birra.
- Quale situazione? – chiedo. Non perché voglio infastidirlo o forzarlo a parlare, ma perché davvero non so, fra tutte le situazioni, a quale si stia riferendo.
- Tutta questa situazione. – chiarifica lui, scuotendo il capo, - …Anis. Quello che gli è successo. E Chaku… - quello che ci è successo, ma lui non lo aggiunge.
Prendo un respiro profondo e metto in circolo un po’ dell’aria congelata di Berlino, sperando che possa aiutarmi a chiarire le idee. Sì che è colpa tua, ragazzino. Sì che, chiunque ha fatto fuori Bushido, l’ha fatto perché c’eri tu di mezzo. Sì che hai fatto impazzire Chakuza e sì che quello che è successo a me è una tua responsabilità indiretta.
- No. – rispondo deciso. E lo rispondo perché lo penso. Amare ed essere amati… non è veramente una colpa. E nemmeno una responsabilità.
*
- Stasera si esce.
Sono le mie prime parole quando Chakuza apre la porta. Mi guarda con aria incuriosita e poi si sporge appena per controllare se per caso non sto nascondendo del cibo dietro la schiena. Sospiro e roteo gli occhi, piantandogli una mano sul petto e spingendolo all’interno dell’appartamento, lontano dalla soglia, così da poter entrare.
- Non mangiamo? – mi chiede con l’aria di un cucciolo molto affranto, e mi viene un po’ voglia di pestarlo, quando fa così.
- Prenderemo un panino al volo, fuori. – spiego autoritario mentre recupero la sua giacca e gliela lancio.
- Fler, ma fuori c’è un freddo polare! – si lamenta, - Se ti va di bere qualcosa possiamo farlo anche qui!
Roteo di nuovo gli occhi, recupero il cappellino dall’appendiabiti e mi avvicino a lui, calcandoglielo sulla testa.
- Copriti che prendi freddo. – lo avverto. Perché è vero che fuori si congela e che, in una situazione normale, non avrei proprio nessuna voglia di uscire. Dio solo sa se non preferirei mettermi sotto le coperte e lasciare perdere.
Però Bill mi ha fatto pensare. In realtà Bill mi fa sempre pensare, per un motivo molto semplice che io capisco perché ho sempre addosso la solita maledizione-premio di Bushido che m’ha insegnato a sopravvivere, mentre a Bill e Chakuza sembra sfuggire completamente.
Qui ci stiamo tutti abbondantemente usando per non pensare.
E questo non va bene, perché c’è una persona che proprio non si merita di essere dimenticata prima di scoprire almeno chi l’ha gettata sotto terra dopo avergli sparato senza nemmeno avere il coraggio di guardarlo in faccia prima.
Io e Bill siamo gli unici che non si usano per distrarsi a vicenda; io e Bill, quando siamo insieme, siamo ancora perfettamente concentrati sull’obiettivo. E quindi uscire con Bill è come tornare a focalizzare la realtà per quella che è, ogni volta.
- Senti, ma almeno mangiamo qualcosa, prima. – borbotta Chakuza, richiudendo il giubbotto con la zip.
Lo gelo con un’occhiata infastidita.
- Mi sembra che abbiamo perso già abbastanza tempo. – commento serio.
Anche l’espressione di Chakuza cambia. Realizza.
- Dove stiamo andando, Fler?
Mi lascio andare ad un mezzo ghigno soddisfatto.
- A casa.
*
Sto vivendo un assurdo perché Chakuza è un maschio. Al di là di tutto il resto, se Chakuza fosse una femmina tanto per cominciare non sarebbe qui, e tanto per continuare non avrebbe una fissa tanto stupida quanto purtroppo comprensibile che suona più o meno come “la macchina è mia e la guido io”. “Anche se palesemente non so dove sto andando”, aggiungo io.
Insomma, gli sono girate le palle quando gli ho fatto capire che stavo manovrando la serata per cominciare ad andare un po’ in giro e provarci, almeno, a trovare ‘sto fottuto assassino. Perciò ha deciso di fare ostruzionismo e l’ostruzionismo si traduce nel restare alla guida in un posto che non conosce mettendoci peraltro in condizione di pericolo, perché Tempelhof non ti aiuta e non conoscerla è un peccato mortale.
Non credo lo stia facendo perché l’assassino di Bushido non vuole trovarlo affatto. Credo lo stia facendo perché sta provando ad andare avanti con la sua vita ed invece si ritrova da ogni lato gente che lo tira indietro. Sia Bill che io. Lo capisco, perciò non è questo quello che gli rinfaccio.
- Chakuza, se sbagli un’altra volta e non giri dove ti dico io al prossimo incrocio, giuro che ti butto nel canale. – è questa assurda cocciutaggine che contesto. È irritante.
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile ed addenta il panino strabordante di kebab che ha preteso di comprare una mezz’ora fa, quando stavamo ancora seguendo la via che avevo in mente e non c’eravamo irrimediabilmente invischiati in questo dannato reticolo che ci porterà a ritrovarci all’improvviso con la macchina semi-immersa nell’acqua, se ci va bene, o circondata da ragazzini in aria di fermo se ci va male. Faccio mente locale. Ce l’ho la pistola? Ce l’ho. Chakuza ce l’ha? Gli lancio un’occhiata poco convinta, lui sbrodola cipolle. Sospiro e alzo gli occhi al cielo.
- Basta, basta. – imploro, - Ferma la macchina. Posa quella merda. – mai capito come Anis potesse anche vivere solo di questa roba, sul serio. – E scendiamo.
- Continuiamo a piedi?! – dice lui, fermando la macchina ed aggrappandosi al panino come ad uno scoglio in mezzo al mare, - Fler, si congela!
- Sì. – annuisco sospirando ancora, - Non hai fatto che ripeterlo da che siamo usciti. Posteggia qui.
- Questo è un vicolo. Me la rubano.
- Tanto è un catorcio. – scrollo le spalle, - Vai mica in giro in BMW, tu. Avanti! – gli do un colpo sulla spalla, - Piantala di fare il coglione, è già quasi l’una!
Mugugna scontento ma posteggia dove gli ho detto e scende subito dalla macchina, seguendomi mentre io faccio gli onori di casa, accompagnandolo verso il canale. La strada che fiancheggia il corso d’acqua è sgombra e solitaria come sempre, non vedo nessuno in giro, tutta la vita del luogo è concentrata nei dintorni del porticciolo ed oltre gli alberi, sulla via puntellata di bar e kebaberie, e sembra distante chilometri da questo spiazzo silenzioso illuminato in pieno dalla luce della luna. L’acqua brilla di riflessi azzurri e bianchi e mi perdo un po’ a fissarli, questi bagliori che non vedevo da anni, mentre l’unico suono che sento oltre allo scorrere del fiume ed a quello dei miei pensieri, è lo scalpiccio delle suole delle scarpe di Chakuza, qualche metro indietro rispetto a me.
- Cosa stiamo facendo esattamente qui, Fler? – chiede, affiancandomisi mentre prendo posto sull’argine, le gambe che penzolano in basso verso il corso d’acqua e le mani ben piantate sul cemento, lo sguardo fisso alla luna senza nemmeno vederla. Mi manca questo posto. È assurdo perché non è poi così lontano rispetto al luogo in cui vivo adesso, ma sembra comunque tutta un’altra realtà. Può darsi che io non sia cambiato granché, ma sembra cambiato tutto il resto. Eppure anche tutto il resto è sempre uguale.
- Devo riprendere confidenza. – gli spiego, sentendo la grana un po’ irregolare della colata di cemento sotto i polpastrelli, - Ci sei già tu che non hai idea di dove andare a sbattere la testa. È bene che almeno uno di noi sappia dove stiamo andando.
- Perché diavolo dovremmo cercare qui? – chiede ancora lui, vagamente irritato, - Non è detto che l’assassinio di Bushido abbia a che fare con Tempelhof. Potrebbe venire da tutt’altro posto. Cristo, potrebbe essersi trattato anche solo di un cazzo di mitomane…
- …che l’ha seguito proprio la notte in cui io e lui ci accoltellavamo in un vicolo, per poi pensare bene di concludere il lavoro al mio posto? – scuoto il capo. Evito di dirgli che io i miei sospetti li ho, come tutti. Che essere stato a mia volta un sospetto non mi ha impedito di pensare. Però non posso parlare con Chakuza di questo, al momento, perché è troppo presto e non saprei nemmeno cosa dire, in realtà, perciò scrollo le spalle. – Qualsiasi problema di Bushido è sempre venuto da qui, comunque.
Chakuza inarca un sopracciglio e mi guarda, curioso.
- Storia della tua vita? – chiede con un mezzo sorriso sarcastico.
Io aggrotto le sopracciglia e lo fisso, offeso.
- Non sono così ciarliero. – mi lamento.
- Oh sì che lo sei. – ride lui, annuendo, - Ogni volta che cominci a raccontare qualcosa con una frase enigmatica, l’unica cosa che resta da chiedersi è per quante ore andrai avanti. Quanto all’argomento di conversazione, - aggiunge, tirandomi una gomitata affatto discreta, - è sempre lo stesso.
- Stronzo. – borbotto a bassa voce, allontanandomi un po’, - Volevo solo dire che quando vivi in questo posto e non riesci a scappare da piccolo, ti resta dentro. E te lo porti dietro. Dovunque vai, la tua origine è sempre questa. Tu ti porti ancora qualcosa dell’Austria?
Lui mi fissa incerto, scrollando le spalle.
- Non saprei dirti. – ammette a bassa voce, - È Berlino casa mia.
- Appunto. – annuisco, - Chi viene da Tempelhof invece non ha altra casa rispetto a Tempelhof. Chi viene da Tempelhof, ci ritorna, prima o poi, in qualche modo.
- Quindi l’assassino è di queste parti?
Mi mordo un labbro.
- L’assassino è uno che sapeva dove andare a cercare qualcuno che potesse aiutarlo a concludere il lavoro. – cerco di suggerire. Mi aspetto che colga un po’ il riferimento, ma Chakuza scuote il capo e sospira.
- Sei peggio di Bushido, quando parli per enigmi. – esala piegandosi in avanti, i gomiti sulle ginocchia, e prendendo a fissare lo scorrere lento del fiume.
Lascio perdere e sbuffo un mezzo sorriso, piegandomi come lui per poterlo guardare negli occhi.
- Tu vorresti essere da tutt’altra parte. – gli dico serenamente. Lui fa per aprire bocca e protestare, ma lo fermo scuotendo il capo. – Quando avremo finito qui… avrai tutto il tempo per andare dove vorrai. Non starò più tra i piedi.
Chakuza spalanca gli occhi e per un attimo dà segno di non capire, ma quando io annuisco tranquillo vedo la consapevolezza farsi strada dentro di lui e costringerlo a tendere nervosamente i tratti del viso.
- Tu non- - ritorce, ma non lo lascio concludere.
- È giusto. – annuisco ancora, raddrizzando la schiena, - Voi… - ed è chiaro chi sia l’altro di chi sto parlando, - non siete di qui. Non avete nessun conto in sospeso con Tempelhof, a parte Anis. Risolto quello… - sospiro e scrollo le spalle.
Chakuza non aggiunge niente. Si alza, però, puntando le braccia per terra e rannicchiandosi tutto per un attimo prima di scattare in piedi. Io rimango seduto e per qualche secondo lo guardo dal basso, mi rivedo appena quindicenne e vedo Anis che va per i venti e sta in piedi accanto a me, esattamente come Chakuza in questo momento, e mi dice “tanti auguri, ragazzino”, e improvvisamente ricordo anche perché mi piace chiamare Bill in questo modo. Non c’entra chiamare le cose col loro nome. È a causa di Anis.
Bill non ha davvero colpa, in questa storia.
Però sarebbe troppo facile, adesso, dare la colpa al morto.
- Avanti. – dice Chakuza, la voce incredibilmente cupa, tendendomi una mano per aiutarmi ad alzarmi, - Qui non troveremo un bel niente.
Annuisco ed afferro la mano che mi porge. Mi tiro in piedi e capisco quello che sta succedendo solo quando è già successo: ho messo male un piede e sono scivolato. Chakuza non mi ha lasciato anche se avrebbe tranquillamente potuto farlo ed il risultato è che ci siamo sbilanciati in due e siamo caduti, rotolando per tutta la parete obliqua del canale e rovinando in acqua alla fine della corsa, con un sonoro splash che spezza la quiete della notte ed anche il riflesso della luna sul fiume, le cui acque si allargano in cerchi attorno a noi ed attorno ad ogni singola gocciolina generata dal nostro tuffo. Riemergo tossicchiando e lanciando imprecazioni in giro, mentre osservo Chakuza trascinarsi stancamente verso la parete di cemento tentando di asciugarsi un po’ il viso.
- Fler, Cristo santo… - si lamenta, rabbrividendo dentro il giaccone zuppo, - Ma stare un po’ più attento, no?
Io tiro su col naso e mi appoggio sul cemento al suo fianco.
- Scusa. – biascico, scrollandomi un po’ d’acqua di dosso, - Bagneremo tutta la macchina.
- Sì, è il problema minore. – ringhia lui, - Il problema maggiore al momento è come usciamo da questo pantano, visto che gli argini qui sono inclinati a sessanta fottuti gradi. – constata passando una mano sulla parete e guardando in alto alla sponda che sembra irraggiungibile.
- C’è un ammasso di pietre, più giù, verso il ponte… - borbotto indicando un punto nella notte con un cenno del capo, - C’era già quando ero piccolo io, lo si usava per scendere a recuperare la palla quando cadeva.
Chakuza annuisce lentamente, aguzzando la vista per cercare di individuarlo e rinunciando pochi secondi dopo.
- Mi fido. – concede alla fine, scuotendo stremato il capo, - Ora possiamo per favore tornarcene a casa prima di morire di freddo?
Annuisco con aria assente e non so se è perché oggi ho parlato con Bill o perché siamo venuti per cercare l’assassino di Bushido ed invece non abbiamo trovato niente, oppure perché il fatto che abbia detto “andiamo a casa” mi ha fatto scorrere brividi strani lungo la schiena, ma realizzo all’improvviso che quello che penso quando in genere rifletto su me e Chakuza è sbagliato. Non passerà, se non lo faccio passare. Ed io devo farlo passare.
- Chaku… - lo chiamo, lui si volta e quando si volta mi presso contro di lui, labbra contro labbra. È un contatto che conosciamo a memoria ed al quale ormai sappiamo reagire bene, perciò non mi stupisco quando lui solleva una mano a stringermi per la vita, combattendo contro la giacca bagnata che si gonfia e si sgonfia ovunque, e lui non si stupisce quando infilo le mani sotto il suo giubbotto, raggiungendo la felpa e strizzandola fino a spremerla, bagnandomi più di quanto già non sia fradicio.
Quando ci separiamo, lui sorride appena.
- E questo? – chiede in uno sbuffo divertito e un po’ incredulo, - Così, in mezzo alla strada…
- Non c’era nessuno. – mi giustifico con una scrollatina di spalle, - E poi stanotte dormo a casa mia.
Lui aggrotta le sopracciglia.
- Pe-
- Passa a prendermi Sido domani. – mento sfacciatamente, zittendolo prima che possa anche solo pensare di cominciare ad imbastire una protesta.
Ho idea che sarà una lunga serie di menzogne, questa.
E devo anche sbrigarmi a vedere se ho ragione e se l’assassino di Bushido è chi io penso sia. Prima lo trovo, prima mi stacco. E poi sì che sarà davvero tutto perfetto.
*
Gli ultimi quattro giorni sono stati pesanti. Hanno cominciato ad essere pesanti quando, la sera del giorno dopo il nostro primo incontro con Tempelhof – il primo di Chakuza, almeno, per me più che altro s’è trattato di rivedere un’ex-ragazza che non so se avevo davvero tutta questa voglia di rincontrare – mi sono ritrovato appeso al citofono di Chakuza a litigare per farlo uscire di casa. In un dialogo delirante cominciato con un “ti sto aspettando” e concluso – fra un “sali, prima!” ed un “Chakuza, stai rompendo i coglioni” – con me che strillo “d’accordo, resta dentro, vado da solo” che sapeva di suicidio, dato che ero a piedi.
Grazie al cielo mi sono sentito afferrare da una mano fortissima circa due minuti dopo, mentre mi facevo strada nella neve per tornare verso casa e recuperare un mezzo di trasporto, e c’era Chakuza che mi fissava con estrema disapprovazione, dandomi silenziosamente della merda ed annunciandomi ad alta voce che non dovevo prendere iniziative, visto che avevamo un accordo.
Avrei voluto chiedergli se nell’accordo fosse compreso il diritto da parte sua di incazzarsi e rompere le balle qualora avessi smesso di darglielo. Mi sono trattenuto solo per educazione – e dire che in genere non passo per uno educato.
Al momento siamo in macchina e Chakuza sta cercando posteggio nel vicolo che ormai è diventato il nostro riparo durante queste ronde notturne. Stasera la zona è frequentata e non c’è un buco neanche a pagarlo oro, perciò Chakuza sta ringhiando ed io sto cercando di ignorarlo, ma non è così semplice quando, fra un ringhio e l’altro, colgo allusioni su come io sarei palesemente l’inizio e la fine di tutti i suoi problemi.
Sei tu stesso l’inizio e la fine di tutti i tuoi problemi, Chakuza. Mi ripeto che non posso dirtelo, ma in realtà sto smettendo di crederci e, quando mi convincerò, probabilmente ti prenderò a cazzotti come meriti, e magari ti dai una svegliata.
- C’è posto qui. – dico indicando un gigantesco parcheggio vuoto accanto al cancello di una ditta di trasporti.
- Non rompere i coglioni. – risponde lui con l’ennesimo ringhio, - Non ci entro.
- Non ci entri perché sei un’enorme testa di cazzo. – rispondo a tono, incrociando le braccia sul petto.
- Aha, hai anche tastato con mano. – ritorce Chakuza, velenoso, ed io sussulto.
- Potremmo tenere fuori questa roba dalle nostre uscite? – chiedo pacatamente, cercando di non far scoppiare una guerra che, nella testa di Chakuza, sta già infuriando da giorni.
- Certo. – sibila lui, infilandosi miracolosamente in un altro parcheggio e spegnendo il motore, - Teniamo fuori la roba dalle uscite. E tu ti tieni fuori dalla roba, invece. Senza un cazzo di motivo.
Spalanco lo sportello e lo schianto senza tanti complimenti contro la fiancata della macchina accanto a quella di Chakuza.
- Cazzo, non siamo mica sposati, Peter, datti una calmata!
- Vaffanculo. – risponde semplicemente lui, - E stai attento alla macchina, è l’unica che ho.
Agito stizzito una mano, il danno è stato veramente minimo. Volevo giusto scheggiargliela un po’. Visto il catorcio che è, nemmeno se ne accorgerà, se non glielo faccio notare.
- Comunque al momento abbiamo altre priorità che non siano scopare, Chakuza. Mi era sembrato di essere stato chiaro a riguardo.
- No, Fler, non sei stato chiaro, perché non ne abbiamo mai parlato, Cristo santo. – si interrompe e sospira, richiudendo la zip del giubbotto e sollevando il cappuccio per schermarsi dai fiocchi di neve che ricominciano a cadere appena ci immettiamo nel marasma di persone che entrano ed escono dai locali sulla via principale, - E comunque, non si tratta solo del sesso.
Lo dice come non avesse la minima importanza e come fosse perfettamente ovvio.
Io ci resto come uno stronzo, ovviamente.
- Che-
- Non avevamo altre priorità? – sbotta sarcastico, voltandosi prima che possa vederlo arrossire come un liceale.
Sarà difficile staccarmi da questa cosa. Sarà fottutamente difficile.
- Senti… - sospiro, tirando su il cappuccio della felpa, visto che la giacca non ce l’ha, e mettendomi al suo fianco per esplorare la via, - guarda che comunque non potevamo continuare in quel modo.
Chakuza solleva il capo e si guarda in giro, sta imparando a conoscere il quartiere e mi piacciono gli occhi con cui lo guarda. L’ha presa sul serio, alla fine, questa cosa, e sono contento che ce la stia mettendo tutta, scazzo a parte, ma in realtà mi piace solo come guarda Tempelhof. Mi piace che voglia impararlo a memoria e mi piace che lo stia facendo per non farmi ripetere continuamente sempre le stesse indicazioni.
- Perché, in che modo stavamo andando avanti? – chiede distrattamente, infilando le mani in tasca.
- Scopavamo, Chakuza. – gli ricordo con aria rassegnata, sperando di dirlo abbastanza schiettamente da fargli cogliere l’assurdo.
Non lo coglie.
- Non ha senso farmi un discorso simile. – mi dice infatti, scrollando le spalle, - A me piaceva.
- E questo era un nuovo episodio della fortunatissima serie televisiva ghetto-gay di ProSieben. – sospiro scuotendo il capo, - Chaku, ripigliati.
- E tu cerca di essere meno stronzo, piaceva anche a te. – odio che Chakuza riesca a mantenere l’attenzione su un argomento anche quando faccio di tutto per deviarla. Se non funzionano nemmeno le prese in giro, non so più a cosa attaccarmi. Potrei prenderlo a mazzate ma non so quanto servirebbe.
Sospiro.
- Sì, Chakuza, mi piaceva. Contento?
- No. – si ferma e mi guarda, io mi fermo a mia volta e mi cade un fiocco di neve sul naso. Incrocio gli occhi per guardarlo sciogliersi e Chakuza rimane interdetto un paio di secondi, prima di scuotere il capo e scoppiare a ridere. Questo suono non lo sentivo da un bel po’. Sorrido anch’io. – Sei un cretino. – mi riprende dandomi una spintarella, - Facciamo che stanotte resti da me anche perché nevica che sembra Natale, e poi domani ne parliamo con calma.
- Facciamo che prima il dovere e poi… tutto il resto, Chakuza. – cerco di mantenermi serio, spingendolo a mia volta. – Dai, entriamo là. – concludo indicando una kebaberia ad angolo di un vicolo poco invitante.
Lui annuisce ma adesso sorride, il che è molto male perché non gli piacerà come si concluderà questa serata – con me che gli do picche di nuovo, cioè – ma comunque entriamo nel locale e prendiamo posto e non abbiamo neanche il tempo di sederci che già Chakuza sta chiamando il cameriere per ordinare qualche quintale di questa schifezza di cui s’è innamorato ed alla quale io sinceramente non riesco a trovare un senso. Trovo difficile dare un senso alle cose di cui s’innamora Chakuza, in effetti, ma penso di poterlo accettare per com’è.
- Invece di mangiare a sbafo, guardati un po’ intorno. – ordino infastidito, attaccandomi come di consueto alla bottiglia di Beck’s, - Non siamo qui per cenare, siamo qui per individuare qualcuno a cui chiedere qualcosa.
- Sì, ma si dà il caso che non abbiamo cenato, in tutto questo, quindi prendiamo due piccioni con una fava e… Fler, metti giù quella bottiglia, non è acqua, prendi un respiro fra una sorsata e l’altra.
- Chaku, facciamo così, tu t’ingozzi ed io faccio il resto, d’accordo? – lui borbotta e ricomincia a mangiare, mentre io sollevo lo sguardo e vado alla ricerca di un tipo ben preciso di persone. Non mi aspetto certo di trovare l’assassino alla prima botta, cerco solo qualcuno a cui chiedere se magari sa qualcosa.
Sono circondato da bianchi che mangiano e bevono allegramente e mi chiedo se non ho sbagliato completamente posto. Non è questa la gente a cui dovrei rivolgermi. Non sono loro quelli che possono sapere qualcosa. Questi sono lavoratori che si concedono un’uscita con le loro donne di sabato sera. O ragazzini che non hanno nulla da fare e scendono nei quartieri bassi per vedere di cosa sa l’aria.
I miei obiettivi li individuo in un tavolo distante dal nostro, addirittura dall’altro lato del locale. Sono già abbondantemente ubriachi – li riconosco gli ubriachi, non stanno in piedi e ridono senza un perché – e chiacchierano del più e del meno gesticolando ed urtando le bottiglie vuote che tappezzano il tavolo.
Sono tunisini, soprattutto. Lo sanno tutti che è a loro che si chiede, quando si vuole sapere cosa gira e cosa non gira in questo quartiere. Lo sanno tutti e soprattutto lo so io. Sempre perché me l’ha insegnato Anis. Come tutto, dannazione. Sarà orgoglioso di me, il King. Gli sto facendo giustizia, piano piano.
Mi alzo in piedi e Chakuza mi guarda curiosamente per un attimo, ma quando gli faccio cenno di seguirmi molla immediatamente il panino e mi si mette alle calcagna. Se è nervoso o agitato, di certo non lo dà a vedere. Mi complimento interiormente con lui e mi avvicino al tavolo.
- Buonasera. – mi introduco con un sorriso. I due tunisini sollevano lo sguardo e non capiscono un accidenti di quello che sto dicendo, naturalmente. – Mi hanno mandato da voi perché pare che siate due che ne capiscono, di questo quartiere del cazzo. – cerco di farmeli amici, mentre Chakuza prova con tutte le proprie forze a non fare una piega, fermo al mio fianco come una bodyguard.
- Sei di fuori, ragazzino? – dice uno dei due, ridendo selvaggiamente, - Che ci fa uno come te qui? Quanti anni hai, dodici? Occhioni!
- Uno come te è carne da macello in questo posto! – gli dà man forte l’altro, - Quanto costa quella felpa? Duecento euro?
- Duecentocinquanta. – preciso, mentre Chakuza mi fissa sgomento. Ora, non è che se uno esce con venti euro nel portafogli non deve avere nient’altro in banca, dico. – E ne ho altrettanti da spendere, stasera.
I due ridono ancora, uno si abbatte sul tavolo e fa cadere tutta una serie di bottiglie per terra. Una va in pezzi, qualcuno si lamenta, torna tutto tranquillo dieci secondi dopo.
- Cos’è, ragazzino, vuoi la roba?
- Noi non ne vendiamo merda. Lo facciamo fare ai quattordicenni bianchi di pelle, finiscono in galera molto più raramente. Quando li beccano i poliziotti si accontentano di fare un giretto nelle loro mutande, non ce li mandano in galera, che poi si rovinano!
Cerco di trattenermi dal recuperare la bottiglia in frantumi e fare una cosa che non faccio da fin troppo tempo, e li ignoro, sedendomi accanto a loro su una sedia che rubo al tavolo di una coppietta poco distante. Chakuza resta in piedi dietro di me.
- Non cerco droga. – rispondo sorridendo, - Cerco informazioni.
I due ridono ancora e Chakuza sospira dietro di me.
- Questi non sanno un cazzo. – borbotta.
- Ehi, pupetto, dì al tuo amico di tenere a freno la lingua! – si agita uno dei due, il più vecchio, avrà una cinquantina d’anni. Lo osservo alzarsi in piedi e stendere un pugno in direzione di Chakuza, il quale afferra la mano chiusa fra le dita e torce il braccio del tunisino fino a farlo mugolare di dolore, - E Cristo, tieni a bada il nano forzuto, bimbo! Ce la siamo dimenticata l’educazione?
Scrollo le spalle.
- Non è che tu sia molto educato con me o con lui. – mi piace giocare con questi ruoli, mi sto divertendo. Anche Chakuza dietro di me, scommetto che non vedeva l’ora di sfogare un po’ di frustrazione contro qualcosa che non rimbalzasse quando cade per terra.
- D’accordo, d’accordo… - dice l’altro tunisino, sulla quarantina, sistemandosi meglio sulla sedia, - Parliamone un po’ da persone adulte, vi va? Il tuo amico si siede, bimbo?
- Tu chiamalo bimbo un’altra volta, - risponde Chakuza, - e mi siederò con le scarpe sulla tua testa, stronzo.
Il tunisino ride ed io mi passo una mano sugli occhi.
- Chaku, lascia parlare me. – lo imploro, mentre i due tunisini insieme cominciano a prenderci allegramente in giro parlando di fidanzamenti e accoppiamenti vari ed eventuali coi quali battezzare casa nuova appena papino e mammina ce la regaleranno, dopo il matrimonio. – Allora, io ho duecentocinquanta euro che scalpitano per uscirmi dalle tasche. – affermo, cercando di riportare la conversazione su un terreno che posso controllare, - Però se non intendete collaborare…
- Ma sì che collaboriamo, sì! – dice il cinquantenne, battendo una mano sul tavolo.
- Senza perdere tempo, su. – aggiunge l’altro, intrecciando le dita sotto il mento, - Cos’è che vi serve sapere?
Sorrido furbo, chinandomi verso di loro.
- So che sono venuti a reclutare gente in questa zona, per rompere i coglioni al ragazzino di Bushido, un mese fa. – insinuo, e vedo il cinquantenne ridacchiare.
- Chiamalo rompere i coglioni! – dice ilare, - Volevano che gli succedesse ben altro!
Il quarantenne gli tira una gomitata fra le costole. È più lucido dell’altro. Questo potrebbe essere un problema.
- Chi cazzo siete? – chiede.
No, così non va bene per niente.
- Amici. – rispondo con sicurezza.
Il tizio annuisce e si alza in piedi.
- Bene, allora da amici chiuderemo questa conversazione e da amici ci perderemo di vista.
L’altro si alza assieme a lui e Chakuza va in agitazione.
- Ehi, dove cazzo- - inizia, ma lo fermo con un cenno del capo.
- Sentite, non ce l’abbiamo con voi. – preciso conciliante, - Voglio solo sapere se potete dirmi chi è stato assoldato per portare a termine il lavoro. Tutto qua. Li troveremo noi.
- Li troverete anche senza il nostro aiuto. – dice il quarantenne con un vago gesto della mano, - Qui a Tempelhof le voci corrono in fretta.
Chakuza si fa avanti, bene intenzionato a menare le mani, ma lo fermo puntandogli una mano sul petto e scuotendo il capo.
- Agli ordini del bimbo, mi raccomando, eh! – ride il cinquantenne, - Sbaglio o è per questo che Bushido c’ha lasciato le penne? – continua sguaiato, mentre il quarantenne gli tira un’altra gomitata e lo spinge verso l’uscita del locale.
Chakuza ringhia – lo sento tremare sotto le dita nonostante il giubbotto imbottito e mi scosto per motivi che non capisco in pieno nemmeno io – e mi si piazza davanti con aria scazzata.
- Perché li abbiamo lasciati andare via?! – chiede infastidito, - Sapevano qualcosa!
- Sì, ma oggi è sabato sera e ci siamo già fatti notare abbastanza senza metterci dentro anche una rissa, Chaku. – cerco di spiegargli pazientemente, - Stai tranquillo, queste non sono cose che si risolvono in fretta…
- Sì, ma noi stiamo andando alla cieca da giorni! – protesta ancora lui mentre io mi avvio verso l’uscita, - E quando finalmente troviamo qualcosa-
- Quando finalmente troviamo qualcosa, quel qualcosa ci resta in mano, no? – sospiro, - Ora abbiamo la conferma che sì, è qui che l’assassino di Bushido è venuto a cercare una mano d’aiuto.
Chakuza sospira ed annuisce, rimettendosi a posto il cappuccio mentre ci immettiamo nuovamente nella strada principale, diretti alla macchina.
- Pensi che potrebbero essere stati quei due a…
- E cosa vuoi che ne sappia io? – scrollo le spalle, - Forse sì, forse no. Più probabilmente, sanno qualcosa ma non vogliono finirci di mezzo. – ghigno, - Non che non li capisca.
Chakuza annuisce ancora e resta in silenzio mentre ci facciamo strada nella folla stando attenti a non scivolare sulla neve mezza sciolta che ricopre quasi tutto il marciapiedi. Lo sento irrigidirsi qualche secondo dopo, ma non cambia l’andatura del passo e non si volta indietro. È solo più teso, lo sento a pelle. Mi volto a guardarlo.
- Be’? – chiedo curiosamente.
Lui si inumidisce le labbra.
- Credo che ci stiano seguendo.
Inarco un sopracciglio e sono già sul punto di dirgli “Chaku, ricordati che tu sei quello che sbatte negli armadi”, quando mi accorgo che in effetti ha ragione, c’è una figurina incappucciata e vestita di bianco che ci pedina e cerca di dissimulare tenendo un passo diverso. Mi accorgo che segue noi perché non è capace e quando perde il ritmo deve correrci dietro.
Sospiro, lanciando un’occhiata indietro ed individuandolo. È un nanetto. Sarà un ragazzino.
Annuisco a Chakuza e gli indico un vicolo che naturalmente non è quello in cui abbiamo infilato la macchina. Il nostro misterioso inseguitore, comunque, non dovrebbe saperlo. Faccio affidamento su quello quando io e Chakuza svoltiamo nella stradina laterale un po’ buia, e faccio affidamento sul giusto, perché quando ci voltiamo indietro la figurina bianca si ritrova spiazzata a fronteggiare due uomini con un’espressione vagamente incazzata sulla faccia e poca voglia di chiacchierare. Si tira un po’ indietro ed allarga le braccia, sulla difensiva, la tuta in acrilico bianco che brilla appena dei riflessi dei lampioni che costeggiano la strada principale, che da questa penombra umida e fredda sembra lontana chilometri e invece non disterà più di tre o quattro metri.
- Tranquillo. – dico con un mezzo sorriso, mentre lo osservo indietreggiare spaventato, - Scopriti il viso.
Chakuza resta zitto e buono al mio fianco ed il ragazzino si ferma e ficca le mani in tasca.
- Nevica. – risponde scaltro, - Ed anche voi avete i cappucci.
Mi viene da ridere ma non lo faccio. Sfilo il cappuccio, invece, e faccio cenno a Chakuza perché faccia lo stesso. Lui ghigna divertito e poi insieme osserviamo il ragazzino esitare, confuso, e scoprirsi, restando fiero e dritto nella neve che cade, il volto pallido arrossato dal freddo sulle guance e sulla punta del naso ed i capelli corti e biondi disordinati sulla fronte, scossi appena dal vento. Ci fissa con un paio d’occhi azzurrissimi resi scuri dall’ansia e dalla paura, sotto le sopracciglia aggrottate in una posa da duro che conosco benissimo.
Chakuza ride apertamente e io gli do una spinta.
- La pianti di prendere per il culo?! – lo rimprovero, ma sto ridendo anch’io, e colgo l’espressione del ragazzino distendersi e poi arricciarsi nuovamente in un broncio offeso e deluso. – Avanti, è stato bravo fino ad ora!
Chakuza annuisce e pianta le mani sui fianchi, guardandolo bonario.
- Quanti anni hai? – gli chiede, il vocione rude modulato da una nota di tenerezza che è davvero impossibile da ignorare.
Il ragazzino incrocia le braccia sul petto.
- Sedici! – protesta stizzito, battendo un piede per terra.
Io annuisco e cerco di frenare Chakuza prima che ricominci a ridere. Mi avvicino con le mani bene in vista, trattandolo da pari, è così che si gioca con questi ragazzini qui. Mi dispiace un po’ sapere che a continuare a vivere in questo postaccio diventerà davvero ciò che adesso sta solo imitando.
- Okay, e ti chiami? – mi informo fissandolo dritto negli occhi.
Lui è un po’ incerto, guarda altrove, non sa se è giusto dirlo o meno. È molto piccolo, dovrebbe stare a casa.
- Daniel. – risponde alla fine, mascherando con un cipiglio sicuro l’esitazione nella voce.
- E ci hai seguito perché…? – chiede Chakuza affiancandosi a noi. Daniel esita ancora, si tira un po’ indietro, poi si rimette dritto e ci fronteggia con sicurezza.
- Io lo so cosa state cercando. – dice annuendo, - Ma qui non ve ne parlerà nessuno, dovete per forza risalire alla fonte.
Mi verrebbe da ridere per come parla, se non sapessi perfettamente che da ridere, in questa situazione, non c’è niente.
- E come mai nessuno dovrebbe parlarcene? – indago, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
- Perché c’è gente importante invischiata. – risponde lui, - Gente importante del quartiere, intendo. Posso farvi i nomi, se volete.
Chakuza inarca un sopracciglio ed incrocia le braccia.
- E questo slancio di generosità è dovuto a…? – chiede curiosamente, ed io ridacchio.
Gli occhi di Daniel saettano prima su di lui, fulminandolo – o almeno provandoci – e poi tornano su di me e si fanno più imbarazzati e liquidi, prima di chinarsi ad osservare la punta delle scarpe da tennis macchiate di fango.
- …sono un fan dell’Aggro, io. – biascica a mezza voce, ed io spalanco gli occhi e rido compiaciuto, battendogli una pacca sulla spalla.
- Grazie! – rispondo con entusiasmo, mentre Chakuza borbotta al mio fianco, - È bello vedere che i giovani hanno ancora degli ideali.
Chakuza coglie la frecciatina e fa per tirarmi un cazzotto sulla spalla, ma io lo evito e smetto di ridere, riportando l’atmosfera su un piano meno divertito e più serio.
- Dunque, Daniel. – inizio piano, - Questi nomi?
- Devi cercare Samir Azad. – risponde pacato lui, tirando su la zip della felpa fino a coprirsi il mento. Comincia a fare più freddo, e già prima non si stava bene. Mi passa per la mente in un pensiero confuso che dovrò fare i salti mortali per fuggire da casa di Chakuza, stanotte, se mai ci rimetteremo piede. – Spaccia per suo fratello Jad, che si rifornisce da certa gente di Cuba… non li conosco molto bene, non sono ancora arrivato a quel livello là. Io per ora lavoro per un tizio che ho incontrato in riformatorio e che li conosce.
Annuisco lentamente, Chakuza è già confuso e scalpita al mio fianco ma la mia calma lo tranquillizza.
- E io questo Samir Azad dove lo trovo?
Daniel scrolla le spalle con aria navigata.
- È sempre in giro. – risponde con un cenno del capo.
- In giro dove? – chiede Chakuza, - Sii più preciso.
- Verso Alter Park… - dice, indicando con un gesto distratto oltre il canale, che s’intravede appena oltre la gente, le luci, la strada e gli alberi, - Lo riconosci subito perché è mezzo zoppo, ha perso un pezzo di piede quando lavorava in fabbrica.
Chakuza annuisce.
- Lo conosco Alter Park. – commenta, - È un posto carino.
Io ghigno.
- Non dopo mezzanotte. – e Daniel ride con me. Infilo le mani in tasca e tiro fuori il portafogli, guardando questo ragazzino che ridacchia come se fosse molto figo essere uno spacciatore e dare una mano a due spiantati per trovare due cazzo di quasi-assassini. Forse perché non sa come si finisce, a camminare su questa strada. O forse perché lo sa e crede di non avere alternativa.
Spero che questi duecentocinquanta euro lo tengano lontano dalle strade, per un po’.
Lui mi guarda mettere mano ai soldi e mi ferma, scuotendo il capo.
- Non l’ho fatto per farmi pagare. – dice col cipiglio serio del ragazzino che crede di sapere cosa sta facendo, - L’ho fatto perché sei tu. – aggiunge più candidamente.
Ripongo il portafogli nella tasca, annuendo lento. Poi sorrido.
- Adesso hai un amico che conta, Daniel. – aggiungo dandogli una pacca sulla spalla. Sospiro. – Sei mai stato arrestato? – chiedo a bruciapelo, e Daniel aggrotta le sopracciglia.
- No. – risponde con orgoglio, - Sono stato bravo.
- Fortunato. – correggo, stringendo la presa sulla sua spalla, - Cerca di mantenerla, questa fortuna.
Lui esita per un attimo e poi risponde con un sorriso più sincero prima di salutarci, scomparendo oltre il vicolo. Quando ne veniamo fuori io e Chakuza, ritornando in strada e guardandoci intorno per capire il da farsi, sembra svanito nel nulla.
- Non so se ridere di più per l’amico che conta o perché hai fatto colpo su un sedicenne. – mi prende in giro Chakuza dandomi una gomitata in pieno petto e ridendo sonoramente, - Guarda che è illegale, eh?
- Sì, be’, - arrossisco in maniera indecente io, - Non è che ora improvvisamente solo perché tu sei frocio lo sono anche tutti gli altri, Chaku.
Lui ride ancora, calandomi il cappuccio sulla testa.
- Tu te ne tiri fuori? – chiede, e nella sua voce c’è una nota un po’ più profonda di quella che usa in genere quando prende in giro e basta.
Non ti va giù che possa andarmene, vero, Chaku? Capissi perché, forse non me ne andrei.
Riprendiamo a camminare e mi accorgo solo dopo qualche passo che stiamo andando in due direzioni completamente diverse. Mi volto a guardarlo e lui si volta nello stesso momento, ed immagino che sulla mia faccia ci sia la stessa espressione ebete che c’è sulla sua.
- Dove stai andando? – chiedo curiosamente, senza muovermi dalla posizione plastica in cui mi sono praticamente congelato, interrompendo il passo a metà.
Lui solleva un dito ed indica una direzione ideale che è quella del vicolo in cui abbiamo posteggiato. Mi chiedo se saprebbe arrivarci da solo.
- A casa. – risponde quindi, - Non l’hai detto tu che queste cose non si risolvono mai in fretta e che ci siamo già fatti notare abbastanza?
- Sì, ma abbiamo ricevuto una soffiata! – dico io, voltandomi per intero, finalmente, e guardandolo sconvolto, - Non possiamo perdere l’occasione, rischiamo che li avvertano e non si facciano più trovare!
Chakuza sembra incerto ma annuisce e mi si affianca. Sono consapevole di stargli chiedendo uno sforzo. In realtà lo sto chiedendo anche a me stesso. È un po’ spaventoso essere così vicini alla soluzione. Fa paura anche perché la soluzione in realtà porterà un mucchio di problemi con sé. Con quest’assassino, cosa ci facciamo, una volta che l’abbiamo trovato? E se è chi io penso sia, come la mettiamo?
- Ehi… - Chakuza mi dà una mezza gomitata sul fianco, - che hai?
Scrollo le spalle.
- Tu non sei nervoso? – chiedo, guardando altrove mentre ci avviamo lenti verso Alter Park.
Chakuza sbuffa una mezza risata.
- Tu, il padrone delle strade!, chiedi a me se sono nervoso? – mi prende in giro, inarcando le sopracciglia, - La birra ti ha dato alla testa in ritardo?
- Ma perché devi essere sempre così stronzo? – ritorco, tirandogli un cazzotto sulla spalla, - Era solo una domanda.
Chakuza guarda dritto davanti a sé e si gratta la nuca, sotto il cappuccio.
- Non tantissimo. – ammette, - Mi preoccupa di più che tu sia nervoso, che non la situazione in generale.
Lo fisso, stupito.
- Come, scusa?
Lui scrolla le spalle.
- Eri a tuo agio, fino a poco fa. Se cominci a preoccuparti vuol dire che hai paura di qualcosa. Se ne hai paura tu, praticamente io posso già cominciare a scappare, in sostanza.
Ridacchio.
- Allora ammetti che è vero? Sei l’uomo che sbatte negli armadi?
Lui cerca di farmi lo sgambetto ma io lo evito.
- Non intendevo dire quello. – ride, - È che io la mia vita te la affiderei, Atze. – e mi si ferma l’aria in gola, - Quindi hai una responsabilità.
Arriviamo ad Alter Park e sinceramente credo che i miei piedi abbiano ricordato da soli la strada, perché Chakuza ha questa cosa che dice parole di cui secondo me non si rende conto. O meglio, lui se ne rende conto, lui lo sa perfettamente quanto vale quell’Atze o quando vale sentirmi dire che la sua vita è nelle mie mani, però non capisce che ci sono cose che quando le senti ti annullano i pensieri. Lui le dice e basta, lo fa con una certa innocenza, non è che voglia mandarti in black out. Però lo fa.
Ci sono momenti in cui mi è veramente semplice capire perché Bill sia perso fino al punto in cui è.
Chaku si guarda intorno con aria tranquilla, scruta il buio della notte attraverso i viali alberati e le fontane spente. Il cielo è coperto e continua a nevicare ma l’acqua bassa nelle fontane è ancora liquida, così com’è liquido il fiumiciattolo che scorre sotto il ponticello arcuato verso il quale ci avviciniamo.
- Dove stiamo andando, Fler? – mi chiede quando comincia a sospettare il nostro girovagare non abbia veramente un senso.
- Non lo so. – ammetto scrollando le spalle, - In giro. Se vedi uno storpio, dimmelo.
Chakuza fa una smorfia.
- Che vorrebbe dire, “se vedo uno storpio”? – borbotta, - A parte che, se vedo qualcosa, lo vedrai anche tu, visto che stiamo andando nella stessa direzione. E comunque qui non c’è nessuno. Con questo tempo da cani, non capisco nemmeno perché ci siamo noi…
Sospiro e roteo gli occhi, indicando un’ombra scura appoggiata sotto un albero.
- Lì c’è qualcuno. – gli faccio notare con aria tranquilla come fosse ovvio e scontato trovare lì quella figura incappucciata.
Chakuza annuisce e deglutisce.
- Lui? – chiede.
- Non mi pare storpio. – dico, osservando il tipo dondolarsi da un piede all’altro e cominciare a giocare con un sasso per terra. – Però è probabile sia un palo. Stammi vicino e non aprire bocca.
- Ehi-
- Non mi avevi affidato la vita? – ghigno furbo, e lui si zittisce mentre ci avviciniamo al tipo. Mi schiarisco la voce e pianto una mano sul fianco, fissando il tipo con aria non propriamente ostile ma neanche propriamente ben disposta. – Ci hanno detto che da queste parti c’è roba buona.
Quello solleva lo sguardo e mi scruta da sotto il cappuccio, masticando rumorosamente una gomma.
- Mai visti da queste parti. – risponde secco, - Sbirri.
Aggrotto le sopracciglia, le mani bene in vista.
- Io ci sono nato qui.
Lui sbuffa e tira su col naso.
- Io non ti ho mai visto.
Chakuza resta in silenzio al mio fianco ma percepisco il nervosismo nel suo respiro appena trattenuto.
Io roteo gli occhi.
- Quindi nessuno ti ha mai raccontato niente di Frank White? – ghigno sicuro di me. Potrebbe essere la cazzata più grande della mia vita. Se questo tizio c’entra con tutto il casino che è successo, o se anche solo il suo capo gliene ha detto qualcosa, siamo fregati. Se non sa niente, però, questo nome potrebbe essere il nostro lasciapassare definitivo.
Il tipo solleva lo sguardo e mi fissa, incerto.
- Tu saresti… - mi libero del cappuccio e lascio che mi guardi bene in faccia. - …oh. – prego vivamente che Chakuza non si faccia riconoscere. Il tipo, comunque, annuisce brevemente. – Al gazebo. – indica oltre il ponte, - Samir è là.
Annuisco e mi allontano, tirandomi dietro Chakuza. Il gazebo, se è ancora come lo ricordo io, è una struttura in legno bianco con una cupola di tegole nere, tutta circondata da una ringhiera ad assi incrociate che fa molto recinto di campagna da ricca famigliola americana, e da schiere di aiuole piene di cespugli che in primavera sono colorate e profumatissime. Il classico luogo che in genere viene adottato dalle coppie di fidanzatini per pomiciare, ed infatti succedeva eccome, almeno ai miei tempi, solo che, calato il sole, questo posto cambia faccia.
Quando arriviamo, lo scenario è molto più adatto allo spaccio che non ai flirt, comunque. Un po’ perché è inverno, e quindi delle aiuole colorate non è rimasto poi molto. Un po’ anche perché sono passati più di dieci anni. Quindi, anche del resto, non è che sia rimasto tanto.
Samir Azad, avvolto in un giubbotto in piuma d’oca, il viso nascosto da un ampio cappuccio col pelo sull’orlo, sta contrattando con un tizio dal volto semicoperto da berretto e sciarpa, e si muove avanti e indietro lungo le pareti del gazebo per non stare fermo, anche perché a star fermi si gela. Chakuza mi guarda, un’occhiata ferma e sicura, ha visto che zoppica: è lui, sì Chaku, è lui.
Mi appoggio contro una parete, incrociando le braccia e sollevando un piede contro il legno, che tanto è così pieno d’impronte da non farmi nemmeno più sentire in colpa per il fatto che sto calpestando la mia gioventù ed usando il mio nome – cose di cui vado abbastanza orgoglioso, insomma – per vendicare un uomo che mi ha mandato a fanculo e dal quale non mi sono mai sentito dire grazie. O scusa. Lui e tutte quelle canzoni del cazzo come quella in cui mi diceva che sperava stessi bene. Come se per me fosse possibile stare bene senza che mi desse una fottuta occasione per perdonarlo. Ma Bushido il mio perdono non lo voleva. Lui non ha mai sbagliato.
Il tipo col volto coperto si allontana e lascia il gazebo mentre Samir conta i soldi e li infila nella tasca posteriore dei jeans, prima di voltarsi verso di noi e farci cenno col capo. Mi avvicino e mentre lo faccio metto bene a fuoco la situazione. Samir probabilmente è armato. Così come saranno probabilmente armati anche i numerosi pali che ha sparso per il parco. Noi siamo in due, io ho una pistola ma dubito che Chakuza abbia la mia stessa fortuna, il che vuol dire che devo prendere immediatamente in mano la situazione, farmi dire ciò che mi serve di modo che poi lui non abbia più nulla da difendere e scappare via da qui il più in fretta possibile. Prima che lui allerti qualcuno, almeno.
Mi chiedo per un attimo chi mi abbia convinto a ficcarmi in una situazione che puzza di suicidio lontana chilometri. Poi ricordo che mi ci sono ficcato da solo. E ricordo anche che mi piacerebbe poter tornare da Bill e dirgli “visto? Te l’abbiamo preso, il figlio di puttana”. Ricordo, soprattutto, che sulla fottuta tomba di Bushido voglio tornarci presto. Magari lanciare un’occhiataccia a quella foto sorridente incastonata sulla lapide e poi dirglielo. Mi devi un favore enorme, stronzo, perciò… perciò non lo so. Mi piacerebbe credere in Dio e poter pregare, in una situazione del genere. Almeno non starei rischiando la vita per qualcosa di così inutile ma che sento come assolutamente inevitabile.
Chakuza non lo capisce, quello che sto facendo. Mi osserva con la coda dell'occhio ficcare una mano in tasca e quando fa per aprire bocca e chiamarmi se lo risparmia, perché capisce che è già tardi: c'è la mia pistola pressata con forza contro lo stomaco di Samir, e la mia mano libera è salita a chiudergli prepotentemente la bocca. Samir mi fissa con gli occhi spalancati, respira forte contro la mia mano e il suo fiato caldo scioglie il gelo dei miei polpastrelli. Stringo la presa attorno al suo viso fino a fargli male, lui si lamenta sotto di me e continua a fissarmi con quegli occhi enormi – è più giovane di me, avrà vent'anni, cazzo, forse nemmeno – ed io lo spingo indietro violentemente, cercando la ringhiera contro cui schiacciarlo. Lui incespica, il piede monco non lo aiuta, non cade a terra solo perché gli sto stringendo la mascella fra le dita come una tenaglia.
- Cristo... Fler! – strilla Chakuza venendomi vicino per nascondere la scena col corpo, - 'Cazzo stai facendo?
Io sorrido.
- Pubbliche relazioni. – rispondo, ripescando dalla mia adolescenza una faccia di culo che mi sembrava di avere perduto – anche perché non credevo ne avrei più avuto bisogno – e che invece viene fuori con una semplicità disarmante, come fosse sempre stata lì in agguato in attesa del momento giusto per rifarsi viva. Probabilmente è stato così per davvero. Ed io avevo proprio ragione a dire a Chaku che chi viene da questo quartiere di merda prima o poi, in qualche modo, ci ritorna e basta. – Ciao, Samir. – ghigno cattivo, affondandogli la canna della pistola nella pancia, - Serata fredda, mh? – lui mugola e cerca di liberarsi, ma Chakuza scatta a tenerlo fermo per le braccia ed ora siamo in due a schiacciarlo contro la ringhiera. Non ha cosa fare. – Ho qualche domanda da farti, quindi ora devo liberarti la bocca. Però tu non urli, altrimenti io ti ammazzo. Sono stato chiaro?
Samir annuisce freneticamente ed io sollevo la mano, lasciandolo libero di parlare. Lo stringo per la spalla, però, così che non gli venga in mente di fare qualche stronzata che, teso come sono, mi porterebbe a sparargli per davvero, anche se non ho la minima voglia di concludere la serata in un bagno di sangue.
- Che cazzo volete? – chiede lui, una nota di terrore profondissima nella voce tremante.
Io sospiro e mi avvicino a lui.
- Guardami bene in faccia. – gli dico, - Mi riconosci, Samir? Lo sai chi sono?
Chakuza mi lancia un'occhiata allarmata ed io spero che non si faccia saltare in testa qualche idea geniale delle sue tipo scoprirsi il viso. Ne basta già uno nella merda fino al collo, ed è più giusto che quell'uno sia io, perché se stasera andasse tutto a puttane e per uno di noi qualcosa dovesse andare storto, non me la sentirei proprio di restare io con Bill ed i fantasmi di due uomini che hanno contato tanto. Meritatamente o meno.
Samir, comunque, annuisce e chiude la bocca, mandando giù a vuoto.
- Lo volevi morto anche tu, Bushido. – dice con rabbia, cercando di scattare in avanti, ma lo riporto indietro a sbattere contro la ringhiera.
- Errore. – sibilo, stringendolo al collo, - Non mi pare di aver autorizzato nessun omicidio, negli ultimi tempi, tantomeno quello di Bushido. – gli faccio presente, - Ma non fare l'avvocato del diavolo, stronzo, so che non sei stato tu a farlo fuori. – ghigno, - Tu hai fatto il gradasso col suo ragazzino, vero? – ipotizzo, e so che non sto toppando perché ad ammazzare Bushido non può davvero essere stato lui. Io c'ero, quella notte, io lo so che qualche stronzo ha fischiato. Ma non può essere stato questo stronzo qui. Lui non ne sa niente, di fischi e simili. – Coraggio. – lo incito, - Sì o no? Posso farti un sacco di male, Samir.
- Fler, cazzo! – mi chiama Chakuza, ma io lo ignoro.
- Cristo! – geme Samir quando sente la pistola schiacciarsi più profondamente contro il ventre, - È vero, Cristo, è vero! Lo sapevo che era una cazzo di storia pericolosa, quello stronzo di un libanese non mi ha lasciato scelta, cazzo!
E lì il tempo, per un bel po', si ferma. Non contano i secondi e la neve che cade, Chakuza diventa un pezzo di ghiaccio al mio fianco e la sua stretta attorno alle spalle di Samir si fa fortissima per un istante, prima di disperdersi lentamente e diventare nulla.
Io riesco solo a pensare che, cazzo, avevo ragione. C'era un solo stronzo cui Bushido potesse aver parlato del nostro fottuto fischio. Quello stronzo non poteva che essere il suo braccio destro. Quello che doveva accompagnarlo quella notte. Quello che doveva essere il testimone della sua morte. Baba Saad. Il libanese. Alla fine, è stato testimone della sua morte per davvero. Lo stronzo figlio di puttana.
Mollo Samir e mi tiro indietro, tenendogli sempre la pistola puntata contro. Lui solleva le mani in segno di resa ma Chakuza non si muove. Non lo sta stringendo, però è ancora lì, lo fissa e gli tiene le mani addosso.
- Peter. – lo chiamo, ed uso apposta il nome di battesimo, perché Peter può essere chiunque e Chakuza non dovrebbe essere qui. Lo guardo dove dovrebbe esserci la sua faccia, ma non vedo niente. C’è buio ed il cappuccio è tirato così in basso che quasi gli sfiora il naso. – Peter! – lo chiamo ancora, e lui si volta appena, - Vieni via.
Lo vedo che solleva un po’ il viso e mi lancia una mezza occhiata incerta. Samir ha ancora le mani bene in alto e respira con fatica, probabilmente pensa abbia una pistola anche lui e trova la sua vicinanza un tantino troppo spaventosa.
Chakuza si schiarisce la voce un paio di volte, inspira ed espira e poi inspira ancora e trattiene il fiato, tant’è che davanti a lui non si forma più condensa e dopo un po’ comincio perfino a preoccuparmi. Ma poi apre la bocca e parla, e quando lo fa mi si attorciglia qualcosa dentro perché il tono che usa è tremendo. Non è debole, non trema, non è allarmato. Non è neanche freddo e distaccato come dovrebbe, però. È qualcosa che si avvicina molto ad un’incredulità allucinata che fa un po’ male. Mi viene da pentirmi di un mucchio di cose. Tipo di averlo portato qui. Tipo di averlo costretto a sentire una cosa simile. Insomma. Non è stato giusto.
- Stai parlando di Baba Saad? – chiede, e Samir annuisce senza aspettare un attimo.
- Cazzo, chi altri? – rincara la dose, - Ehi, amico, dì a questo tizio di mollarmi, non so nient’altro, cazzo, e non gliel’ho infilato io il coltello nello stomaco, al tuo uomo!
Ringhio e lo mando a fanculo, per un attimo ho perfino paura che Chakuza reagisca in maniera troppo infastidita, cosa che darebbe modo a Samir di capire o almeno intuire chi ha davanti – ma a Chakuza non interessa del suo stomaco, adesso. Credo di poterlo capire.
Lo lascia andare e si allontana, venendo verso di me.
- Tutto a posto? – gli chiedo quando è abbastanza vicino, lui non risponde.
- Cristo, dovreste chiederlo a me se è tutto a posto! – sbotta Samir, massaggiandosi lo stomaco.
Tendo il braccio, puntandolo alla testa.
- Tu mi fai il favore di strozzarti con la tua stessa lingua, grazie. – dico, per chiarire nuovamente le posizioni, - Prima che io ti faccia qualcosa di peggio.
Samir solleva di nuovo le mani ed annuisce.
- Okay, okay, amico, ti ho detto tutto quello che sapevo! Mi lasci andare?
Annuisco e faccio cenno di muoversi con la pistola, Samir si china a raccogliere la sua roba e poi lo vedo allontanarsi zoppicante ed agitato verso il ponte. Mi avvicino a Chakuza, e comincio a preoccuparmi davvero perché la situazione non è bella, dobbiamo decidere cosa fare e lui continua a fissare il vuoto. La cosa non mi piace.
- Chaku, ehi. – gli do una pacca sulla spalla, non ho la più pallida idea di come cazzo consolarlo perché tutto ciò cui riesco a pensare è che la voglia di concludere la serata in un bagno di sangue è tornata all’improvviso quando Samir ha parlato. Solo che ora so con precisione di chi voglio che sia, il fottuto sangue. – Ehi, ci sei?
- Sì. – risponde seccamente lui, guardandomi. – Cazzo. Saad. – e lo dice come se si aspettasse da me un “assurdo, vero?”. Boh, non so, forse dovrei accontentarlo, ma la verità è che non lo penso. E però non posso stare qui a dirgli “guarda che io l’ho sempre sospettato, eh”. Cioè, con che faccia gliela dico una cosa simile? Perciò mi limito a stringere ancora di più la presa sulla sua spalla, e cercare di guardarlo comprensivo.
- Lo so, Atze, lo so. Senti, dobbiamo muoverci da qui. – gli faccio presente, - Non è sicuro e dobbiamo vedere cosa fare.
Lui si scosta con un ringhio frustrato.
- Ma cosa cazzo vuoi fare, Fler?! – strilla, ficcandosi le mani in tasca e muovendosi nervosamente in tondo nel gazebo, - Cristo, proprio lui! Cazzo! Fler, che cazzo facciamo?!
Mi passo una mano sugli occhi e sospiro pesantemente.
- Ci pensiamo dopo, Chaku. – gli vado dietro, riprendendolo per le spalle per cercare di tenerlo fermo, - Ehi, senti, mi servi calmo e concentrato, ok? – lui fa per divincolarsi. Lo stringo con più forza e lo costringo a girarsi e guardarmi negli occhi, e poi lo fisso nel modo in cui fisso sempre la gente quando voglio farmi ascoltare e obbedire. Come se non vedessi altro, cioè. – Chakuza, ho davvero bisogno di te. Non mi mollare adesso, stai calmo.
Lui respira con forza.
- Stiamo parlando di Bushido, qui. – mi fa notare, come non ne fossi perfettamente consapevole, - Cristo, è Saad che ha ammazzato Bushido! Ti rendi conto?!
- Sì che me ne rendo conto. – rispondo annuendo, - E credimi, non c’è nessuno che vorrebbe saltargli addosso e strangolarlo più di me, al momento, ma… - mi interrompo, perché realizzo all’improvviso che invece c’è qualcuno che vorrebbe saltargli addosso e strangolarlo più di me. E quel qualcuno è un ragazzino pallido e magro che gela nell’inverno di Berlino per andare a bere una cioccolata disgustosa nel posto in cui è andato con Bushido magari anche solo una volta, ma che continua a ricordare come se le volte invece fossero state mille. Deglutisco. – Chaku… - lo chiamo, mentre lui continua a fissarmi smarrito, - Dobbiamo andare da Bill.
Chakuza non dice niente. Neanche una parola. Chiude la bocca e spalanca gli occhi e non fiata, ma tutto quello che deve dirmi lo sta dicendo in silenzio, guardandomi in questo dannato modo che mi manda fuori di testa ed al quale vorrei tanto rispondere “okay, dai, Chaku, torniamo a casa e vediamo se c’è ancora un po’ di pollo con le patate avanzato dall’ultimo rifornimento dalla signora Lotte e poi guardiamo un po’ di tv fino a che non ci viene sonno e poi si vede”, ma non posso, cazzo, non posso assolutamente farlo, perciò lo stringo ancora per le spalle e cerco di sorridere un po’.
- Chakuza, io glielo devo, al ragazzino. Ho bisogno di dirglielo. Non lo metterà in pericolo, questa cosa la risolviamo stasera. – mi fermo ed esito un po’, - …o la risolvo. Se preferisci… restare con lui, dico.
- Fler… - si passa una mano sulla fronte come stesse realizzando solo adesso tutta l’intera situazione per com’è. Sembra che voglia dire qualcosa, si ferma e poi riprende lo stesso. - …non lo vedo né sento da settimane. – dice a bassa voce. Il suo tono è talmente cupo e profondo che mi dà i brividi. Mi viene voglia di dargli un cazzotto e non capisco neanche bene perché.
- Sì, lo so. – cerco di fermarlo, ma lui scuote il capo e si ostina.
- No, non lo sai, Fler, la situazione fra me e Bill è… complicata.
Mi manca il fiato. Vorrei che questa serata fosse già finita. Non avrei mai voluto parlare di questa cosa, non con Chakuza, almeno. Con Bill è diverso, con Bill è tutto sempre molto più etereo e meno realistico. Cristo, se anche Bill mi dicesse in faccia e a chiare lettere che è innamorato di lui, non farebbe male nemmeno un quarto di quanto potrebbe fare male se invece…
- Lo so. – deglutisco a fatica. E quando lui prova a riprendere a parlare gli poso una mano sulle labbra e lo zittisco definitivamente. – Ti dico che lo so. Okay? Lo so. Ma, Chakuza, forse è vero che io ho la responsabilità della tua vita, d’accordo, però è molto più vero che invece tu hai la responsabilità della sua. Quindi ora basta con le cazzate, d’accordo? – sospiro e scuoto il capo. – Andrà tutto… esattamente per il verso migliore. Chiaro? Perciò ora piantala e torna in te. Non esiste farti vedere dal ragazzino in queste condizioni. Okay?
Quando lo lascio libero di parlare, Chakuza mi manda a fanculo. Proprio così, senza pensarci nemmeno un secondo, mi dice “vaffanculo, Fler”, e non aggiunge altro. Rimane lì con una mano sugli occhi a massaggiarsi le tempie col pollice e l’indice ed io continuo a tenergli le mani sulle spalle e stringere un po’ per fargli coraggio, e lui resta zitto per un sacco di tempo, mentre io non faccio altro che guardarlo. Quel vaffanculo era pieno di roba, Chakuza ce l’ha con me per un sacco di motivi, adesso, ma non si scosta, quindi va bene. Cioè, è incazzato ma non vuole davvero mandarmi a fanculo, e questa è una cosa buona, almeno per il momento.
Solleva lo sguardo solo qualche secondo dopo.
- D’accordo. – annuisce, - Andiamo.
Il tragitto in macchina non è silenzioso come mi aspettavo. Non so, credevo che avrebbe guidato in silenzio assoluto fino a casa di Bill e che avrebbe sclerato solo una volta lì, magari prima di entrare. E che poi si sarebbe calmato automaticamente, giocoforza, quando avremmo detto tutto a Bill e sarebbe stato il turno suo, del ragazzino, dico, di sclerare come si deve.
E invece no, sclera da subito, già in macchina, e per nascondere il fatto che sta sclerando si mette lì a farmi domande assurde delle quali non capisco il senso, perché se si aspetta da me che abbia una risposta a cose tipo “e quando lo prendiamo, che facciamo?” è veramente fuori strada. Come cazzo fa uno ad avere risposte simili?
- Cristo, Fler, ma non hai pensato a niente, prima di venire fino a qui?! – ringhia, costeggiando il canale per uscire da Tempelhof.
- Non contavo di dover fare niente di simile, stasera. – cerco di farlo ragionare, - E comunque calmati, Chaku.
- Non dirmi di stare calmo! Cosa facciamo? Lo portiamo alla polizia? Ma non ci crederà nessuno, Cristo, non possiamo portare uno spacciatore zoppo come testimone di un omicidio che non ha visto e per il quale non ha prove, cazzo!
- Ci inventeremo qualcosa, dai. Calmati.
- Non dirmi di stare calmo, Cristo santo, Fler! Non senti come suona male la frase? Stai calmo non puoi dirmelo mentre andiamo a casa di Bill per parlargli dell’assassino di Bushido!
Batto un pugno contro lo sportello.
- E allora vaffanculo, diventa isterico! – concedo urlando, - Cristo, sei una piaga!
Lui non risponde, si lascia andare ad un grugnito frustrato e stringe le dita attorno al volante. Riprende a parlare solo dopo molti minuti, quando siamo già nei paraggi di casa di Tom. Gli ho detto io di venire qui. Chakuza non sapeva che Bill si fosse trasferito da suo fratello, nell’ultimo periodo.
- Fler. – mi chiama, nella voce una strana tranquillità rassegnata che mi preoccupa un po’. – Voglio che, quando questa faccenda si sarà risolta, torni tutto come prima.
Esito per qualche secondo, mordendomi l’interno di una guancia.
- Prima quando? Quando non ci conoscevamo e Bushido era vivo?
Chakuza scuote il capo.
- Prima di venire a Tempelhof. – risponde senza guardarmi, – Quel prima lì.
Abbasso lo sguardo.
Non ce la farò mai a dirgli che voglio andare via.
- D’accordo. – annuisco, – Ora però sta’ tranquillo.
Ed annuisce anche lui.
Arriviamo a casa di Tom e per un po’ ci guardiamo intorno spaesati come non riconoscessimo l’ambiente. Chakuza ride nervosamente e rido anche io. È incredibile, sono questi i paesaggi urbani cui siamo abituati, ma per qualche ragione questo condominio che non c’entra niente con Tempelhof in questo momento ci disorienta.
Suoniamo educatamente al citofono e per un attimo dimentichiamo pure che abbiamo fretta e un assassino da recuperare: come fai ad attaccarti al campanello e suonare come ne andasse della tua vita, in un posto simile? Svegli i condomini. Ti insegue il custode coi dobermann, tipo, soprattutto a quest’orario indecente della notte. Mentre suono, guardo Chakuza e lui guarda me e ci passano per la mente gli stessi pensieri idioti: magari dormono, per dire. Non dovrebbe interessarci che i gemelli dormano o no, questa cosa è decisamente più importante, ma ci pensiamo lo stesso. È assurdo e mi viene di nuovo da ridere. Chakuza in effetti una mezza risata la sbuffa, ma poi scuote il capo e si ferma, così evito anche io.
- Sì? – la voce che mi risponde dall’altro lato è impastata e profonda, sa di sonno nonostante il citofono ne deformi i toni verso una nota fastidiosamente metallica. È una cosa tipica dei citofoni moderni iperfunzionali, ti scombussolano la voce. Quando parlo con Chaku al suo citofono scassato mi sembra quasi di avercelo davanti ed invece qui mi pare che la voce di Tom provenga da un altro pianeta.
- Tom? – chiedo un po’ incerto. Guardo Chakuza e, mentre realizzo che questo ragazzo fino a un anno fa andava in giro dicendo che adorava l’Aggro Berlin, lui mi fa cenno di spostarmi e prende la parola.
- Sono Chakuza. – dice con sicurezza, - Mi apri?
Lui resta un attimo in silenzio.
- Ma quello era Fler? – chiede, senza rispondere alla domanda.
Io inarco le sopracciglia e guardo Chakuza. Lui solleva gli occhi al cielo e sospira.
- Sì, Tom. Mi apri?
- Ma che ci fa qui Fler? – continua a chiedere Tom, come neanche lo sentisse, - Ma sono le tre del mattino! Cosa ci fa qui Fler? – un secondo di pausa, - E cosa ci fai qui tu?
- Grazie per aver ricordato la mia esistenza. – grugnisce Chakuza, appoggiandosi al muro, - Mi apri o no?
- Ma cosa vuoi?! – chiede ancora lui, ed io sospiro pesantemente. Un attimo prima che Chakuza si metta a lanciargli improperi di ogni tipo, gli tappo la bocca e lo scanso dall’altoparlante del citofono, schiarendomi la voce.
- Tom? – lo chiamo senza presentarmi, visto che ormai sono ragionevolmente sicuro che, nonostante le distorsioni del citofono, mi riconoscerà comunque, - Abbiamo bisogno di parlare con tuo fratello.
- Bill sta- - fa per lamentarsi lui, ma lo fermo.
- Lo so che è molto tardi e probabilmente Bill starà dormendo, ma abbiamo davvero bisogno di parlargli. – chiarisco calmo. – Ci fai salire, per favore?
Tom esita solo un attimo.
- Okay. – dice infine, facendo scattare la serratura del portone.
- Potevi aprire anche a me, Tom! – sbraita al citofono Chakuza, alle mie spalle.
- Lui ha chiesto per favore! – risponde piccato Tom, spaccando per l’ultima volta il silenzio della notte, prima di riagganciare.
Quando le porte scorrevoli dell’ascensore gigantesco con cui saliamo al settimo piano si spalancano, annunciando il nostro arrivo con un avviso sonoro da chiamata aeroportuale, mi ritrovo di fronte Bill che mi fissa con gli occhi spalancati dalla soglia di casa. Indossa una vecchia tuta azzurra ed una felpa nera con un logo talmente sbiadito da essere ormai irriconoscibile, ha i capelli tirati in una coda bassa dietro la nuca e, nel complesso, non sembra avere molto più di quindici anni. Sospiro pesantemente e mi faccio avanti.
Il guaio è che, appresso a me, viene pure Chaku. L’aria cambia consistenza appena mette piede sul pianerottolo, la sento tendersi tutta. Bill stringe le mani attorno agli stipiti della porta affondando quasi le unghie nel legno. Mi viene paura per la forza che ci mette, potrebbe farsi male. Le nocche sono diventate bianchissime per lo sforzo.
Chakuza rimane immobile e lo guarda, non s’è mosso molto dall’ascensore, è rimasto lì a due passi. La porta non si richiude perché lui continua a stare nel raggio d’azione della cellula fotoelettrica, e questo particolare insignificante mi irrita così tanto che mi viene voglia alternativamente sia di spingerlo di nuovo in cabina che di tirarlo via di lì per un orecchio.
Il primo a parlare è Bill. Deglutisce di prepotenza – sul suo collo magro il pomo d’adamo fa un viaggio difficilissimo, prima di tornare al proprio posto – e poi forza un mezzo sorriso.
- Ciao… - dice a bassa voce. E sta parlando solo con lui. Aggrotto le sopracciglia e tossicchio, e lui si volta a guardarmi, - Ciao, Fler. – aggiunge con calore, dimostrando ampiamente, neanche a farlo apposta, che in effetti fino ad un secondo fa non aveva nemmeno registrato la mia presenza in questo dannato corridoio.
Rispondo con un cenno del capo mentre Chakuza finalmente mi si affianca e solleva una mano per salutarlo. Il momento d’imbarazzo che segue il suo avvicinarsi a Bill è talmente deprimente che mi ritrovo ad incrociare le braccia e sospirare come una vecchia madre esasperata, e batto nervosamente un piede per terra. La moquette che ricopre tutto il corridoio impedisce alle mie scarpe di fare rumore, perciò fortunatamente non se ne accorge nessuno.
- Io direi – sbotto irritato, - che la questione fra voi due potete tranquillamente risolverla dopo. – e fatto entrambi una specie di mezzo salto, sollevano gli sguardi su di me e mi fissano allarmati come avessi appena pronunciato una qualche parola proibita. Me ne frego altamente e continuo, - Bill, io e Chakuza siamo stati un po’ in giro, ultimamente.
Lui annuisce senza capire. Non mi stupisce, è che mi blocco un po’ perché avrei preferito fosse più ricettivo. Sì, ok, sono le tre del mattino. Ma non è per niente facile quello che sto per dirgli e vorrei un po’ d’aiuto, solo che naturalmente non posso aspettarmelo da Chakuza, che ha palesemente smesso di pensare quando siamo entrati in ascensore, e non posso aspettarmelo neanche da Bill, che non è messo tanto meglio di lui e continua a fissarmi con questi occhi da cerbiatto sperduto.
Sospiro e gliela butto lì tutta. Nella maniera più semplice che posso. Gli parlo delle nottate a Tempelhof, dei tunisini, del ragazzino, di Samir e quando arrivo a Saad cerco di non esitare perché so che se esito è la fine, perciò mi faccio forza e lo dico. Avevi il nemico nascosto fra gli alleati, ragazzino, e non sei riuscito ad accorgertene. Non è posto per te, questo. Ma, chissà perché, piuttosto che allontanartene preferisco proteggerti e tenertici.
Bill non dice niente per un sacco di tempo, quando finisco di parlare. Continua a guardarmi in maniera quasi fastidiosa, come se si aspettasse altro. Ma non ho altro da dargli. Posso offrirgli la testa dello stronzo su un piatto d’argento, se vuole, ma dovrà concedermi un po’ di tempo in più se è questo il suo desiderio.
Deglutisce ed allenta un po’ la presa sugli stipiti prima di tornare a stringerli.
- Cosa avete intenzione di fare, adesso? – chiede pacatamente, e per qualche strana ragione a lui riesco a rispondere. Quando me l’ha chiesto Chakuza non ho avuto idea di cosa dirgli, ma di fronte agli occhi di Bill – che adesso brillano di rabbia in un modo del tutto nuovo rispetto alle altre volte in cui li ho visti brillare – so esattamente qual è il mio dovere.
- Gli andiamo dietro. Cerchiamo di beccarlo prima che lo avvertano ed abbia il tempo di scappare. – rispondo deciso.
Chakuza mi solleva addosso uno sguardo allucinato, ma io lo ignoro. Tutto ciò che mi importa è che invece Bill annuisce con approvazione.
E poi dice una cosa assurda.
- Vengo con voi.
- No! – sbottiamo contemporaneamente io, Chakuza e Tom. Allungo il collo per osservare dietro le spalle di Bill, ed in effetti suo fratello sta lì e lo guarda con aria inorridita, le mani piantate sui fianchi e una cascata di dread sciolti sulle spalle.
- Bill, sarà molto pericoloso. – gli fa presente Chakuza.
- E faticoso. – aggiungo io, inarcando le sopracciglia.
- E sono le tre del mattino! – conclude Tom, cercando di staccare il fratello dalla porta, senza peraltro riuscirci.
Bill ci guarda tutti e tre con tanta di quella supponenza da mettermi addosso i brividi, e per un attimo mi chiedo da dove venga quello sguardo. È solo un attimo, comunque, perché poi lo ricordo subito e sospiro: so già cosa dirà.
- Non sono affari vostri. – ci ricorda freddo, - E non mi sembra di aver chiesto nessun permesso. – si volta e guarda suo fratello. – Tomi? Fammi passare. – lui deglutisce e si fa da parte. Bill fa un passo e poi torna a guardarci, - Aspettatemi qui. – dice annuendo, - Metto le scarpe da tennis e torno. Faccio in un attimo. – ed è l’ultima cosa che sentiamo prima di vederlo scomparire in corridoio.
Io e Tom restiamo a guardarci per un po’ e non è affatto piacevole. Non lo so, mi fissa come se nemmeno mi vedesse, eppure per certi versi mi pare anche che mi guardi come se in tutto il resto del mondo non riuscisse a vedere altro. Dio quant’è fastidioso. Mi volto verso Chakuza e gli dico di aspettare lui Bill, mentre io comincio a scendere, ma lui mi arpiona per un polso e mi sibila un “non ci provare nemmeno” che mi fa spalancare gli occhi, perciò ammutolisco e resto lì, ma mi appoggio contro il muro, così da interrompere il contatto visivo. Tant’è che la cosa successiva che vedo, a parte l’ascensore che resta immobile in attesa che qualcuno lo chiami, è Bill stesso, che mi si presenta davanti avvolto in un piumino che lo ingloba praticamente tutto ed un cappello a cuffietta sulla testa. E le scarpe da tennis, ovviamente.
Mi guarda e sorride appena. Io mi rimetto dritto e faccio strada verso l’ascensore – quello che mi succede alle spalle, oltre il brusio insoddisfatto di Tom e la voce di Bill che lo rassicura sul fatto che tornerà presto, non più tardi dell’alba, mentendo palesemente, perché io non so nemmeno se torneremo, figurarsi avere un orario preciso, insomma, quello che sta succedendo dietro di me, non voglio saperlo. Vale a dire che se Bill e Chakuza si stanno lanciando occhiate particolari o che so io, se si stanno bisbigliando qualcosa, qualsiasi cosa stiano facendo, io non voglio saperla. Sto bene così.
Quando c’infiliamo in macchina e ci dirigiamo verso casa di Saad – e Chaku si trova finalmente qualcosa da fare, concentrandosi solo sulla guida e sulla strada da percorrere – Bill, che sta seduto dietro, sui sedili posteriori, si mette al centro e si sporge in avanti, incastrandosi fra i nostri sedili e sporgendo la testa a guardarmi. L’immagine in sé è molto tenera, sembra un bambino a spasso coi genitori. Però, appena questo pensiero mi attraversa la mente, mi sale una pelle d’oca assurda ovunque, perciò lo accantono e gli do retta, visto che nel mentre ha anche cominciato a parlare.
- Fler. – mi chiama pacatamente, - Quando lo prenderemo, cosa pensi che succederà?
La sua calma un po’ mi rassicura, perciò scrollo le spalle e sbuffo con naturalezza.
- Non lo so ancora, ragazzino. – ammetto. Poi sorrido, - La principessa ha qualche suggerimento?
Lui non abbassa lo sguardo neanche un secondo, e nei suoi occhi non passa neanche un’ombra d’incertezza.
- Io voglio farlo fuori. – dice, con un candore inquietante. E capisco che forse della sua serenità dovrei preoccuparmi. E un po’ m’incazzo con Anis, perché se Bill oggi è così, se è qui con noi che mette a rischio la propria vita e parla di uccidere Saad, se non è in giro con un gruppo di diciannovenni scemi a sfondarsi di rum e cola e scopare in giro, è colpa sua. Che non è stato capace di tenerlo lontano da questa mentalità del cazzo fino a che non è stato troppo tardi.
Mi lascio andare ad una risatina nervosa, mentre Chakuza stacca gli occhi dalla strada per la prima volta da quando è salito in macchina e lancia un’occhiata allarmata prima a lui e poi a me. Scrollo le spalle e gli indico il semaforo, deve fermarsi. Cerco di ignorare le ultime parole di Bill, perché l’eventualità che Saad possa rimetterci la pelle stasera c’è. E non so se sarebbe un bene o un male, se succedesse.
Quando arriviamo sotto al palazzo, mi guardo istintivamente intorno per cercare la macchina di Saad – e la voce di Anis mi risuona in testa: “quando prepari un agguato, ricordati sempre di controllare che lo stronzo che vuoi fare fuori non possa fuggire” – ma poi ricordo che non ho la minima idea di che macchina sia la macchina di Saad, e quando faccio per chiederlo a Chakuza lo vedo già muoversi tranquillamente verso il citofono, con estrema calma. Quando si accorge che lo sto guardando, si ferma un attimo – Bill è ancora impegnato a non affondare nel proprio giubbotto mentre si tira fuori dal catorcio di Chaku – e mi lancia un’occhiata incerta, come a chiedermi se sta facendo le cose per bene. Annuisco ed indico con un cenno del capo il citofono, per dirgli che va bene, l’intuizione era giusta, può andare.
Quando suona il campanello noi restiamo tutti tesi e in silenzio, e dopo un po’ sentiamo una voce di donna che risponde un po’ incerta. Faccio cenno a Bill di restare in silenzio e guardo fisso Chakuza mentre dice alla donna che si scusa per l’orario, ma ha urgentemente bisogno di parlare con Saad. La donna si lamenta, gli chiede se può passare domattina e lo fa con una certa confidenza, perciò immagino si tratti della moglie. Chakuza insiste, la signora esita e tergiversa, Saad dorme, la bambina pure – c’è una bambina? – insomma, Peter, ti sembra modo di presentarti così a casa dalla gente per bene?, e Chakuza insiste, si scusa e chiede di entrare, per favore Greta, è una cosa urgente, altrimenti non sarei mai venuto, e così alla fine lei cede, “d’accordo,” dice, “ma Saad non ne sarà contento”, ed io e Bill ci scocchiamo un’occhiata supponente inarcando lo stesso sopracciglio ironico. Non ne sarà contento eccome.
Quando scatta l’apertura del portone, Bill fa per passarmi davanti e prendere per primo le scale, ma io e Chakuza scattiamo ad afferrarlo uno per braccio e lui si ritrova tirato indietro in una mossa un po’ comica. Chaku lo lascia andare subito, come scottasse, io invece lo tengo ben stretto.
- Dietro, ragazzino. – borbotto contrariato, - Niente colpi di testa.
- Non volevo fare niente di male. – dice lui con un mezzo broncio. Non ci credo nemmeno se lo giura.
- Dietro. – ripeto, e faccio cenno a Chaku di darsi una mossa ad entrare.
Lui obbedisce e ci ritroviamo a salire le scale in fila indiana, lui davanti, io nel mezzo e Bill dietro che saltella e si sporge oltre le mie spalle per cercare, non lo so, di essere il primo a vedere Saad quando saremo di fronte alla porta. Lo fa con un’ansia tutta particolare, neanche fosse possibile uccidere con gli occhi e lui volesse assicurarsi di essere proprio il primo a farlo. Penso che no, non è possibile uccidere con gli occhi. Penso che però un po’ Bushido ci riusciva a farti male in quel modo. E Bill ha imparato tanto da lui.
Capisco che c’è qualcosa che non va nel momento in cui arriviamo sulla porta e ad attenderci troviamo la signora. Le abbiamo detto che volevamo parlare con Saad. Ma non c’è Saad assieme a lei. È sola. E non capisco perché.
Lancio un’occhiata allarmata a Chakuza, che però mi dà le spalle e quindi non mi vede, e fa un gran sorriso alla tipa, chiamandola pure per nome e sporgendosi a salutarla – lei risponde quasi senza toccarlo, tesa come una corda di violino.
- Allora, dov’è Saad? – chiede Chakuza, e lo sguardo di lei vaga un po’ oltre le sue spalle ed incontra noi, me e Bill, dico, che non facciamo una piega.
- Loro che ci fanno qui? – domanda con un filo di voce. Chakuza fa fatica a non balbettare una scusa a caso.
- Mi hanno accompagnato. Ma non entrano, tranquilla. – cerca di rassicurarla, continuando a sorridere, - Non entra nessuno, non vogliamo disturbare la bambina. Fai solo uscire Saad, per favore?
Lei esita ancora, e mentre io sono lì che sbuffo contro queste madri iperprotettive moderne – mia madre volendo mi lasciava fuori casa anche fino all’una del mattino, non che fosse una cattiva donna, solo che aveva capito di che pasta ero fatto, ecco tutto – vedo un’ombra che si muove alle sue spalle e capisco che no, non sta iperproteggendo nessuno, la bambina non c’entra, questa qui non ha intenzione né di farci entrare né di fare uscire nessuno.
- Chaku, togliti di mezzo. – sibilo burbero, e quando arrivo di fronte alla donna la guardo e dico “mi scusi” prima di prenderla di peso e spostarla letteralmente dall’altro lato della stanza, così improvvisamente che lei perde l’equilibrio e si accascia sulla moquette, e la prima cosa che fa è puntellarsi al pavimento e strillare “scappa!”, ed è lì che solleviamo tutti e tre gli occhi e quella che era solo un’ombra scura diventa Saad che afferra un paio di chiavi e prende un corridoio del quale da qui non riusciamo a vedere la direzione. – Cristo! – impreco furioso, ignoro la donna che cerca di fermarmi e mi lancio al suo inseguimento. Mi guardo indietro solo una volta, giusto per vedere se Bill e Chaku mi stanno seguendo, e quando mi accerto che lo stiano facendo e che Chaku stia dietro a Bill – che va un po’ troppo lento, per i miei gusti – mi concentro solamente sulla corsa.
La voce di Anis si fa sentire ancora. Me che continuo a girarmi indietro mentre scappiamo da non mi ricordo chi e lui che ride e dice “Guarda che devi scappare guardando in avanti, Frank. È la fine della strada, quella che ti interessa, non l’inizio”. Ed io che comincio a correre guardando solo lui. Perché tanto sta davanti a me. Lui e la fine della strada sono la stessa cosa.
Mentre imbocco il corridoio passo davanti ad una camera con la porta aperta e c’è una ragazzina seduta sul letto. Avrà dodici anni, tipo, è bionda e sottilissima, non riesco a vedere molto, un po’ perché la stanza è buia ed un po’ perché vado di fretta. È bionda e sottilissima, però, e indossa un pigiama bianco. Il padre di questa bambina è un assassino e probabilmente morirà prima di stasera.
Mi ripeto che è la vita che mi sono scelto e tiro dritto.
Saad è un corpo che si allontana. Imbocca una porticina laterale alla fine del corridoio e quando lo raggiungo lo trovo che cerca di mettere in moto la macchina. I passi di Chakuza e Bill mi inseguono, sono lenti, cazzo, così non va, se poi quello prende la macchina siamo fottuti, ma la macchina non parte ed io lo vedo attraversarla tutta fino ad uscire dallo sportello del passeggero e lanciarsi in una corsa furiosa oltre la saracinesca del garage, che si apre così lentamente che lui è costretto a piegarsi in due per uscirne.
Quando riesco ad uscire anche io, lo vedo arrampicarsi sulla scala antincendio che risale esternamente tutto il palazzo fino alla terrazza e, dopo essermi chiesto cosa cazzo voglia fare, mi metto a sperare che non chiuda la questione in qualche modo da bastardo tipo gettandosi di sotto.
- Stronzo! – gli urlo dietro, faccio per salire a mia volta ma mi guardo alle spalle e Chakuza e Bill non ci sono, perciò mi fermo e continuo a urlare, - Stronzo! Non ci pensare neanche! – e vorrei aggiungere che non ce l’ha il diritto di togliersi di mezzo, e poi penso per un attimo che quel diritto è di Bill, ma è un pensiero fugace: in realtà c’è qualcosa dentro di me che sta urlando di rabbia perché io a quest’uomo voglio strappare il cuore, cazzo. Ha ammazzato Bushido. Ha fatto passare me per un assassino. Cristo… ha ammazzato Anis.
Scalpito per cominciare la scalata e quando Chakuza e Bill escono finalmente dal garage mi metto a urlare anche contro di loro.
- Chakuza, Cristo santo, muovetevi!
Lui ringhia e posa una mano sulla schiena di Bill, spingendolo in avanti. Il ragazzino ansima neanche avesse corso in tondo per tutta la città.
- Te l’avevo detto. – grugnisco impaziente, - È salito di sopra. Dobbiamo andargli dietro. – e cerco di spiegare in fretta, perché lo vedo allontanarsi verso l’alto e non ho la minima idea di dove potrebbe andare una volta in terrazza.
Bill lancia una lunga occhiata terrorizzata alla scala antincendio e poi guarda me.
- Sì, fin lassù, Bill. – confermo senza attendere la sua domanda. Dopodiché, ho appena il tempo di scorgere con la coda dell’occhio Chakuza che gli posa una mano sulla spalla e gli chiede se ce la fa, che comincio a salire sbraitando che se non vogliono essere lasciati indietro faranno meglio a darsi una fottuta mossa.
La situazione è incasinata perché, se da un lato vorrei concentrarmi solo su Saad – che nel mentre sarà circa tre piani sopra di noi, il che vuol dire che fra meno di due minuti raggiungerà la terrazza, lo stronzo – dall’altro non riesco proprio a disinteressarmi di quello che mi succede alle spalle, ed il respiro forte di Chakuza si mischia a quello stremato di Bill, così ogni tanto mi volto e mi fermo. Un po’ li aspetto, un po’ li aiuto – al quinto piano Bill è talmente stanco che continua a incespicare negli scalini, perciò mentre Chakuza lo regge per la vita io lo tiro per le braccia e stiamo lì in due a sussurrare “coraggio Bill, ci siamo quasi”, e lui lì a fare l’ometto, “sto bene, tranquilli”, ma è stravolto al punto che mi viene un po’ voglia di tirarlo su di peso e trascinarmelo in braccio fino al tetto. Chakuza, d’altronde, non è che stia poi tanto meglio. Ed anche io, cazzo, non corro con ritmi simili da quando avevo sedici anni. La situazione è davvero incasinata.
E noi siamo davvero troppo lenti, me ne accorgo quando riusciamo ad arrivare in terrazza e, mentre lascio qualche secondo a Bill per riprendersi – e commentare che i tetti almeno sono tutti pianeggianti, perciò può risparmiarsi l’arrampicata – vedo Saad che è già passato sul tetto del palazzo accanto e sta correndo spedito verso il successivo.
Mi passo una mano sulla fronte, si gela e sono sudatissimo. Bill, imbacuccato nel giubbotto, s’è rimesso dritto.
- Stai bene? – gli chiedo, - Sei un danno. – aggiungo mentre lui annuisce e sorride un po’, intimidito. – Lo capisci che dobbiamo inseguirlo ancora, vero?
- Fler, lo sa. – mi interrompe Chakuza, aggrottando un po’ le sopracciglia. Io gli lancio un’occhiataccia inviperita.
- Tu bada a stargli dietro. – lo rimprovero, ed il fatto che lui si rifiuti di abbassare lo sguardo e continui a fissarmi con rabbia mi dà un po’ la misura di quanto io stia passando il segno, stasera. – Scusa. – mi correggo sospirando, - Non volevo essere-
- D’accordo. – mi dà una pacca sulla spalla ed indica Saad che si allontana. – Fai strada.
Io annuisco, guardo Bill e vedo che annuisce anche lui, perciò mi volto e riprendo a correre. Passare da un tetto all’altro è perfino facile, in questo condominio di blocchi di cemento tutti uguali, alti e monotoni. C’è solo da seguire la traccia, quell’ombra che si allontana senza variare di un millimetro il proprio percorso in linea retta.
Dobbiamo solo essere un po’ più veloci.
In effetti, l’assenza di scale aiuta: sul terreno pianeggiante Bill se la cava decisamente meglio e, dovendo badare meno a lui, anche Chakuza è molto più svelto. Saad è agitato e corre come una dannata antilope, fanculo a lui, mentre al quarto tetto io comincio a sentirmi un po’ appesantito. Prego non mi prenda un crampo. Non manderei Bill e Chakuza avanti neanche se ne andasse della mia vita. I motivi sono troppi per realizzarli tutti, adesso.
Ho un po’ perso il conto delle terrazze, quando Saad si decide ad imboccare una scala antincendio che lo riporterà in strada. Non so quante terrazze abbiamo passato, ma so che adesso siamo abbastanza vicini. Lo so perché assieme agli ansiti sconnessi e affaticati di Bill e Chakuza – ho un attimo di panico nel pensare che dovrò far scendere le scale a Bill, ho paura che ceda e cada, Cristo – riesco a sentire anche gli ansiti del bastardo. È talmente vicino che sento quasi l’odore del suo sudore. E sento che è terrorizzato.
- Ci siamo. – ansimo appoggiandomi al corrimano ghiacciato della scala che ha imboccato Saad, - Dobbiamo riprenderlo adesso. Per forza. – guardo in basso, non è tanti piani sotto di noi. Dobbiamo darci una mossa. – Bill. – lui solleva lo sguardo ed è talmente stanco che ha gli occhi annebbiati. Non sono neanche sicuro che mi veda bene. – Bill, ascoltami. Ci siamo quasi. Ci sei?
Lui annuisce debolmente.
- Sto bene… - esala in un fiato.
- No che non stai bene. – lo correggo io, mentre Chakuza lo sostiene tenendolo per un braccio, - Ma pensa che dopo potrai farti una bella vacanza. A costo di portarti io personalmente da qualche parte. D’accordo? Solo stanotte. Poi basta correre. Okay?
Bill annuisce ancora e raddrizza la schiena.
- Ce la faccio. – dice con più sicurezza, - Davvero.
Lancio un’occhiata a Chakuza, lui annuisce ed è tutto quello che mi serve sapere. Non lo lascerebbe mai cadere di sotto, questo lo so. E tanto mi basta. Mi lancio giù per la rampa senza assicurarmi che Bill e Chakuza mi seguano: devo riacciuffare Saad. Devo farlo e devo farlo per primo. Ci sono momenti in cui lo vedo così vicino che penso che se allungassi una mano lo toccherei, ma quando faccio per stendere il braccio ed afferrarlo davvero non ci riesco mai. Continuo a corrergli dietro per tutti i fottuti piani di questo fottuto palazzo che mi sembra alto quanto un grattacielo.
Quando riesco a prenderlo, succede all’improvviso. Come succede sempre tutto nella vita. Quello che ti aspetti non succede mai. Quello che non pensi si verifica sempre. Perdi di vista l’amico di una vita. Quell’amico muore. Finisci a letto con la persona sbagliata.
Io allungo il braccio e prendo Saad. Mi butto addosso a lui con violenza, col preciso intento di gettarlo a terra, e così perdiamo l’equilibrio e rotoliamo lungo tutta l’ultima rampa di scale, al punto che la prima cosa ferma che sento sotto la schiena è la consistenza granulosa e umida dell’asfalto bagnato. La neve sciolta impregna il giubbotto e i vestiti di sotto. C’è un freddo fottuto. Stringo Saad fra le braccia e non so com’è che non l’ho ancora fatto fuori personalmente.
Lui si dibatte, prova a tirarmi un calcio, io sento dolore a una tempia e non capisco se le gocce che mi bagnano lo zigomo al momento sono di sudore o di sangue. Sulla scia bagnata soffia un vento gelido che mi fa rabbrividire, ma non mollo la presa e lo tengo immobilizzato a terra.
- Cristo santo, stai fermo o giuro su Dio che ti ammazzo a sangue freddo e poi torno indietro ed ammazzo anche tua moglie e tua figlia, stronzo! Dico sul serio, cazzo! – gli urlo nell’orecchio, e per fargli capire che faccio sul serio lo stringo alla gola con un braccio. Stringo tanto e stringo forte, al punto che lo sento tossire affaticato ed il suo fiato si disperde in un incerto sbuffo di condensa tutto intorno a lui.
- Fler! – urla Chakuza, esausto, quando lui e Bill riescono a completare la discesa delle scale.
- Alla buon’ora, cazzo! – urlo io. Ed urlo come un pazzo. Non ho il minimo controllo sulla mia voce e neanche su quello che sto dicendo, - Toglietemelo dalle mani, toglietemelo dalle mani perché altrimenti gli spezzo il collo! Toglietemelo dalle mani! – e continuo a stringerlo. Ed ho anche un po’ l’impressione che se solo Bill o Chakuza si avvicinassero per cercare di liberarlo, mangerei loro il cuore.
E invece non mangio il cuore di nessuno, quando Chakuza mi si avvicina e si china su di me nemmeno mi muovo. Lo vedo che tiene Saad fermo per le braccia e poi annuisce, come a dirmi “ok, ora puoi lasciarlo”. Ed io lo lascio. Lo lascio, Cristo. Potrei ammazzarlo e lo lascio, invece. E rimango lì accovacciato in terra come un coglione, fissando in cagnesco lo stronzo che ha ammazzato Bushido mentre Chakuza lo tira lontano – e non fa neanche molta fatica, visto che la caduta dalle scale ha rincoglionito molto più lui che me.
Bill mi è accanto in un attimo.
- Fler! – mi chiama, inginocchiandosi al mio fianco, - Sei ferito! – mi passa una mano sulla tempia ed è gelida, nonostante abbia corso fino ad adesso. Quando mi volto a guardarlo vedo che ha le dita ricoperte di sangue.
- Non è nulla di grave. – borbotto, rimettendomi in piedi. Passo il dorso della mano sulla ferita per ripulirmi, ma quando lo faccio brucia da morire e sento la pelle tirare. Dev’essere un brutto taglio, ma ci penserò dopo.
Nel mentre Saad si riscuote, si rende conto di non riuscire a muoversi e comincia ad agitarsi, tant’è che Chakuza mi grida di avvicinarmi e cerca di tenerlo stretto come può. Saad scoppia a ridere ed è una risata che ho sentito qualche volta, quand’ero ragazzino. Bushido, quand’era ancora Sonny Black, le riduceva così le persone. Lui ghignava e quelli davano di matto e ridevano. Ridevano e ridevano, eccome. E lui continuava a ghignare e in genere quello che seguiva non era mai una bella cosa. Quando lo seguivo, di notte, ogni tanto mi chiedevo come fosse possibile che uno che faceva ciò che faceva lui fosse ancora a piede libero. Questo mi ha insegnato che la libertà non te la guadagni, te la prendi e basta, che tu la meriti o meno. È una lezione importante, perché è molto più realistica di qualsiasi cazzata sulla giustizia possano infilarti in testa mentre cercano di farti crescere come un essere umano normale.
Mi avvicino per dare una mano al Chaku e Saad mi guarda dritto in faccia con quegli occhi verdi e scuri che brillano di rabbia nella notte, e parla.
- Alla fine sei venuto allo scoperto. – mi dice, sorridendo strafottente, - Lo sapevo che quello veramente pericoloso saresti stato tu. Bushido è per sempre, eh? Una volta che ti mette le mani addosso…
- Sta’ zitto, stronzo! – urlo, restando a qualche passo da lui per il semplice fatto che, se dovessi davvero avvicinarmi di più, in questo momento, lui non sopravvivrebbe. Ed invece leggo negli occhi di Chakuza il desiderio chiaro e preciso di evitare altro sangue, per oggi, perciò mi fermo.
Saad ride ancora.
- Non lo sai? – continua a prendermi per il culo, - All’EGJ lo dicevamo sempre, anche quando Bushido era ancora vivo. Che in realtà ti aveva scopato ed era questo, il tuo problema, eri geloso della principessa. Ci ridevamo un casino, diglielo anche tu, Chaku. Ci rideva anche Anis.
Gli salto addosso che, sospetto, Bill e Chakuza non hanno ancora avuto nemmeno il tempo di registrare quello che ha detto. Mi abbatto su di lui con la furia di un animale, Chakuza insieme non ci regge e ci lascia andare, col risultato che rotoliamo sull’asfalto ed io ho la prontezza di spirito di mollargli un cazzotto sul naso prima che lui possa reagire in alcun modo. Il sangue comincia a scorrere a fiotti, Saad urla ed io continuo a prenderlo a pugni ovunque, sul viso, sulla testa, perfino sul collo e sul petto, ovunque, pur di fargli sputare sangue.
- Chiudi – cazzotto sui denti, mi faccio male anch’io, - questa fogna – un occhio che diventerà presto nero, sempre che io non l’ammazzi prima, - di merda! – e il respiro che gli manca, perché non gli do tregua neanche il tempo minimo per aprire la bocca ed inspirare da lì, dato che il naso è fuori uso.
Sento appena Chakuza chiamarmi per nome – “Patrick, Cristo santo!” – e Bill esalare un “oddio” sconvolto, ma li ignoro. Non sono io che mi fermo. È Chakuza che mi tira su di peso, ed anche quando lo fa io continuo ad agitarmi e sporgermi in avanti per colpirlo. Anche se so che non serve. Anche se mi accorgo che lo stronzo è praticamente svenuto e non riuscirebbe a muoversi neanche volendo. Lo voglio lasciare morto a terra. Lo voglio lasciare morto nel suo cazzo di sangue come immagino sia morto Bushido su quel fottuto materasso, e voglio esserci, alla morte di Saad, perché quella di Bushido non ho potuto vederla, ma quella di questo stronzo voglio godermela tutta, fino in fondo.
Chakuza mi tiene stretto, mi ha fatto passare le braccia sotto le ascelle e mi ha arpionato per le spalle. Sento la sua voce vicinissima all’orecchio – “Pat, Pat… calmati. Calmati. È tutto ok. Ha detto un mucchio di stronzate, non è vero niente. Ti calmi, sì?” – e sì, Chaku, mi calmo. È solo per questo che mi calmo. E me lo scrollo subito di dosso, il Chaku, non appena mi sono calmato, perché là dietro c’è Bill e non voglio che pensi cose. Non voglio che pensi niente. Non dovrebbe neanche essere qui o aver assistito a questo spettacolo. Ci sto male davvero, per lui. Se sopravvivo a me stesso, se non faccio qualche cazzata stanotte, qualcosa di pericoloso davvero – non so nemmeno se Saad è armato – giuro che me lo porto in vacanza davvero. In qualche bel posto che non ho mai visto, o in qualche posto che non ha visto nemmeno lui, anche se immagino abbia girato più o meno tutto il mondo. Non importa, a costo di dover arrivare fino in Groenlandia.
Mi avvicino al corpo quasi immobile di Saad e lo tiro su per un braccio.
- Una mano, Chaku. – ordino perentorio, e lui annuisce e si avvicina, aiutandomi a rimetterlo in piedi e tenendolo fermo per l’altro braccio. Sembriamo due cazzo di guardie giurate che piantonano un condannato.
Bill si avvicina e guarda Saad come lo stesse vedendo per la prima volta.
E lì ho la netta sensazione che Saad lo sia davvero, un condannato. E decido: non ho intenzione di fermare niente che possa portare alla sua morte, stasera.
- L’hai ucciso davvero tu? – chiede, con una vocina incerta ma molto meno malferma di quanto non mi sarei mai aspettato. Sembra tremi solo per il freddo. Sembra non c’entri niente la paura. I suoi occhi sono puri e cristallini. Mi ricordano Anis. Lui non aveva paura quasi mai.
Saad solleva appena il capo. Sanguina un po’ ovunque, è tutto sporco di fango e bagnato fino alle ossa, ma ghigna ancora. L’espressione di chi non ha niente da perdere ormai ce l’ha attaccata addosso. Se la porterà nella tomba.
- Sì. – annuisce, respirando a fatica.
- Perché? – chiede Bill, senza aspettare un secondo di più.
Saad ride, un suono roco e spaventoso.
- Per colpa tua, ovviamente. Ma questo lo sai già.
Bill annuisce.
Saad sorride più apertamente.
- Te la porterai dietro per sempre, questa colpa, eh, puttana? – gli parla proprio come se si stesse rivolgendo ad una femmina. E Bill non fa una piega. – Io spero di sì. Se non ci fossi stato tu, non ci sarebbe stato nessun motivo di ammazzarlo. Stava svendendo l’immagine dell’Ersguterjunge per il tuo bel culo. Ho sperato lo ammazzasse Fler, quella notte, così avremmo chiuso il conto ed io non mi sarei neanche dovuto sporcare le mani. Ma lui no, non ha avuto le palle nemmeno per fare questo… - sogghigna ed io faccio per ficcare la mano in tasca a recuperare il serramanico, ma Bill mi ferma con un’occhiata di ghiaccio.
- Continua. – dice, perfettamente a proprio agio. E non so proprio da dove gli arrivi, tutto questo autocontrollo.
Saad ghigna ancora.
- Nient’altro, principessa. Soddisfatto?
E Bill annuisce.
- Sì. – dice. Lo dice proprio. Non me lo sogno, lo sente anche Chakuza, tant’è che ci guardiamo negli occhi come due scemi e non capiamo. Non capiamo nemmeno quando lo vediamo pararsi davanti a Saad e mettersi ben dritto, neanche stesse cercando la posizione più adatta per tirargli un calcio nelle palle, per dire, e non capiamo nulla neanche quando abbassa la zip del giubbotto ed infila una mano all’interno.
Capiamo, però, quando tira fuori la pistola. Che è la Heckler.
- La riconosci questa, Saad? – dice freddissimo, avvicinandogliela al viso mentre io e Chakuza scattiamo a stringerlo con più forza attorno alle braccia, perché non possa fare niente di pericoloso.
- Bill… - lo chiama debolmente Chakuza, ma il ragazzino usa con lui lo stesso identico sguardo che ha usato con me poco fa, e Chakuza si congela ubbidiente sul posto.
- La pistola di Bushido… - esala Saad, ridendo appena, - Vorresti farmi paura, maneggiando quell’arma?
E lì Bill sorride. Per la prima volta oggi. Ed è un sorriso che spaventa. Mi dà i brividi per tutta la schiena. È Bushido, in questo momento. No, non è nemmeno Bushido. E non è Anis. È quello che ho conosciuto io. È Sonny, lo spiantato che governava Tempelhof a diciott’anni. Mi chiedo dove l’abbia visto Bill. Mi rendo conto che gliel’ha fatto vedere Anis.
- Dovrei. – risponde tranquillo il ragazzino, ed arretra di un passo. – So usarla.
Saad ride, io fisso attonito Chakuza e lui mi risponde col mio stesso sguardo sconvolto riflesso negli occhi. Al che guardo Bill. E lui invece mi sorride. Ed è un sorriso dolcissimo.
- Mi ha insegnato Anis. – spiega pacato.
Saad ride ancora e scuote il capo in un gesto di rassegnazione. Solleva il viso e lo guarda dritto negli occhi. Bill lo sta fissando e sorride ancora come ha sorriso a me. È tutto tremendamente fuori posto, in questo momento. Non so se Bushido avrebbe apprezzato una cosa simile.
Forse sì. Probabilmente, se esiste un cazzo di paradiso o di inferno e lui c’è finito dentro, e se da lì sta guardando, si sta sentendo perfino orgoglioso del suo ragazzino.
- Non puoi farlo. – ringhia Saad, sollevando supponente il mento.
- È un mio diritto farti fuori, - risponde Bill, - e tu lo sai.
Saad scuote il capo.
- La legge del ghetto non vale con te, principessa. Tu non sei dei nostri. Non te lo puoi permettere.
Bill sorride ancora.
- Io sono dei vostri, Saad. – solleva l’arma. – Sono la donna del capo. – punta l’obiettivo. – Se c’è una cosa che posso permettermi, è proprio questa. – e spara.
E Saad sta qui immobile, il suo corpo è pesante e c’è un buco precisissimo proprio nel mezzo della sua fronte. Dietro non voglio guardarlo perché lo so com’è quando ti sparano in testa.
Per un secondo vorrei fermare il tempo e ritornare indietro. Togliere la pistola dalle dita di Bill e premerlo io, il fottuto grilletto. Per sentire in qualche modo la vita scivolare via dal corpo di questo pezzo di merda con ogni goccia di sangue. Sentirla colorare il marciapiedi di rosso, sentirlo perdere forza e respiro, sentirlo morire e prendermi la mia soddisfazione, riappropriarmi di ciò che è mio – che avrei voluto fosse mio, che avrei voluto prendermi, che non ho mai avuto il coraggio di prendermi – ma poi lascio perdere.
È giusto che a fare questo sia stato Bill.
È giusto.
Non è ancora sorto il sole e tutto intorno c’è solo silenzio, quando io e Chakuza lasciamo cadere il corpo di Saad per terra. Si accascia ai nostri piedi con un tonfo pesantissimo che la neve sciolta ovatta un po’. Lo guardo di sfuggita e mi viene da vomitare, perciò distolgo subito gli occhi. Bill invece lo guarda a lungo, come volesse sincerarsi che sia proprio tutto come doveva essere, e poi annuisce ancora.
- Bill… - Chakuza lo chiama e gli si avvicina, gli mette una mano sulla spalla come a volerlo consolare, ma Bill non sembra aver bisogno di consolazione. I suoi lineamenti sono tesi e rigidi e di sicuro non sembra felice, però tutto sommato sembra stia bene. Lo vedo abbozzare un sorriso.
- È tutto ok. – ci rassicura, e poi si volta a guardarmi. – Perdi ancora sangue.
Io annuisco.
- Sto bene anch’io. – dico comunque, e Bill mi sorride.
- Se vieni da me, ho la cassetta del pronto soccorso e-
- No, credo… - sorrido appena, interrompendolo, - credo che un cerotto non basterà, Bill. Mi serviranno un paio di punti.
Bill lascia andare una risata soffice e cristallina.
- E stai qui a fare il grand’uomo?
Sospiro e guardo ancora il cadavere.
- C’è un mucchio di lavoro da fare. – metto da parte la nausea. Non è il caso di perdersi adesso, devo risolvere il problema. – Chaku, riportalo a casa. – dico, indicando Bill, e quando vedo una luce strana e vagamente terrorizzata farsi strada nei loro occhi, preciso: - Da Tom. Gliel’abbiamo promesso un po’ tutti, che gliel’avremmo riportato presto.
Chakuza annuisce e Bill abbassa lo sguardo. Li vedo allontanarsi per la strada – Chakuza si guarda intorno cercando di riprendere familiarità con l’ambiente e, quando ci riesce, punta un dito verso il palazzo di Saad che si vede ancora in lontananza, ed è in quella direzione che scompaiono entrambi, proprio mentre io mi chino a recuperare il corpo e cerco di fare il conto per vedere quanti chilometri mi separano da casa mia, dalla mia macchina e, poi, da Tempelhof. Ci tornano tutti, prima o poi. La cosa importante, però, è che in genere nessuno ci vada a cercare niente.

Bookmark and Share

Typisch Ich

di lisachan
Fler si attacca alla bottiglia con un’urgenza stranissima, e siccome non gliela vedo addosso da un sacco di mesi, questa necessità spasmodica di bere, un po’ mi preoccupo. Anche se mi rendo conto che forse avrei dovuto preoccuparmi già da prima, quando mi ha chiesto di uscire insieme perché doveva assolutamente parlarmi, ma io no, non mi preoccupo mai al momento giusto. Mi sono sentito dire “Usciamo? Ho bisogno di parlarti” ed ho pensato solo “Ah”. Ed era un “ah” ironico, del tipo “ma allora esisto ancora nel tuo mondo, pure se non ti fai più vedere e quando ti cerco sei evasivo e scostante”. Come se non sapesse che a me ‘ste cose danno fastidio.
A tutti gli effetti, l’ultima volta che ci siamo guardati negli occhi è stato circa due settimane fa, quando l’ho… quando gli ho di nuovo messo le mani addosso dopo una pausa che durava da… da Bill, praticamente. Analisi non ne ho fatte, conclusioni non ne ho tirate. Ho smesso di cercare di trovare un senso razionale al mio rapporto con Fler. Non c’è un senso razionale, siamo partiti col piede sbagliato e con quello continuiamo a camminare.
- Be’? Che mi dici? – provo a chiedere sorridendo, mentre rubo dal suo piatto gli stuzzichini che ci hanno portato con la birra. I miei sono già finiti perché sono così nervoso che li ho buttati giù senza nemmeno accorgermene.
Fler si guarda intorno con aria allarmata e posa la bottiglia. Gli rimane sul labbro inferiore una goccia di birra e la cancella velocemente con la lingua. Ci resto un tantino. Sulla lingua e sulle labbra. Il sapore di Fler lo conosco così bene che mi sembra quasi di sentirmelo addosso mentre lo guardo.
Devo calmarmi un po’.
Mando giù un altro stuzzichino.
- Non sono stato molto chiaro, quando ci siamo visti l’ultima volta. – comincia lui con una lucidità sorprendente. Fler è un tipo schietto ma s’imbarazza per un niente, che è una cosa che posso capire benissimo, visto che per me è uguale. Cioè, io sono meno schietto. Però m’imbarazzo lo stesso. Comunque adesso mi sta guardando negli occhi e non è imbarazzato neanche un po’. È perfettamente lucido e tranquillo, come se questo discorso se lo fosse ripetuto in testa per mesi.
Mi fa un po’ paura, come cosa. I discorsi si preparano solo quando sono importanti.
Annuisco vagamente ed allungo di nuovo la mano verso il suo piattino. Lui la schiaffeggia a mezz’aria.
- La pianti di mangiarti la mia cena? – ride, rilassandosi un po’ contro lo schienale, - Oggi sono da solo, non mi va di tornare a casa e cucinare. Fammi mangiare.
- Be’, potresti venire da me, passiamo dalla signora Lotte e… - mi fermo quando mi rendo conto che io per primo non capisco se lo sto invitando a mangiare o a fare altro. Nella mia testa c’è la stessa incertezza che leggo nei suoi occhi. La cosa è veramente spaventosa.
Fler sospira e mordicchia un crostino pieno di mozzarella filante, ma lo riposa subito. I suoi lineamenti si tendono all’improvviso, perché c’è crollato addosso il silenzio e non è facile riprendere un discorso in una situazione simile. Non è facile anche perché io lo sto guardando come se avessi paura di farlo sparire muovendomi, me ne rendo conto. Ma è tutto troppo strano, troppo serio forse, le nostre interazioni non sono quasi mai così. Spariamo cazzate o ci insultiamo, ma non siamo mai seri.
- Di cos’è che volevi parlarmi? – cerco di aiutarlo, chinandomi un po’ nella sua direzione.
Fler sospira, si morde l’interno di una guancia e manda giù un altro po’ di birra.
- Chaku, io adesso te lo dico, ma tu non dai di matto, okay? – e me lo chiede col tono incerto di chi sa perfettamente che ciò che dirà provocherà esattamente la reazione che sta cercando di scongiurare.
- Fler…? – lo chiamo incerto, aggrottando un po’ le sopracciglia.
- No, sul serio. – si sistema sulla sedia lui, mettendo le mani avanti, - Prima di tutto non è una cosa a lungo termine, e poi potrebbe essere la soluzione migliore, credo, e-
- Fler, tu stai giustificando qualcosa che non so. – gli faccio notare, vagamente allarmato, - Ti rendi comprensibile?
Sospira ancora, più forte, con aria quasi rassegnata. Poi cambia di nuovo posizione sulla sedia, e proprio mentre sto pensando che il suo non riuscire a stare comodo mi ricorda cose che non vorrei mai più richiamare alla memoria – e che però ogni tanto mi tocca ricordare comunque, se non altro perché me lo merito – lui parla.
- Ho pensato… - comincia piano, - che potrei andare un po’ fuori città. Non mi sembra che la mia presenza qui sia di aiuto a nessuno, dico, non a te né a me sicuramente, e Sido sta per andare in tour e pensavo che potrei andare con lui, anche perché è da tanto che non vado un po’ in giro a cantare e mi manca. Così sarebbe tutto molto più semplice, non credi?
Finisce di parlare ed io resto in silenzio. Lo fisso. E leggo nei suoi occhi lo stesso naturalissimo ragionamento che passa per il cervello a me: fosse un amico, sorriderei e direi “perfetto, Atze, mi sembra una cosa meravigliosa!”, gli allungherei una manata sulla spalla, gli offrirei il secondo giro di birra e poi lo saluterei augurandogli buona fortuna.
- Perché? – chiedo invece. Quindi mi sa che nel ragionamento perfettamente naturale di cui sopra c’è una falla. O che la falla sta nelle nostre teste. Per lo meno nella mia.
- Come, perché? – chiede Fler, spiazzato, inclinando il capo.
- Dico… - continuo, - l’altra sera… quando ti ho chiesto se non volevi più vedermi, hai detto che non era così, e ora-
- Ma non è che non voglia più vederti! – si affretta a correggermi lui, ma non mi guarda negli occhi. Cerco di resistere al bisogno di afferrarlo per il mento e costringerlo a farlo. – È solo per questo periodo, tu sei un po’ confuso ed è meglio che non ti stia intorno.
Aggrotto le sopracciglia e mi lascio andare ad un mezzo ringhio.
- Piantala di parlare come se capissi tutto. – borbotto contrariato.
Fler mi lancia un’occhiata supponente.
- E tu piantala di parlare come se io non capissi niente. – ribatte asciutto. – Hai questo brutto vizio, Chakuza, di considerarmi un cretino. È un errore madornale che continui a ripetere.
Incrocio le braccia sul petto.
- Io non penso che tu sia un cretino. – cerco di convincerlo, ma lui mi zittisce con un cenno della mano.
- Non ti stavo chiedendo il permesso. – dice duramente, - Parto dopodomani.
Spalanco gli occhi.
- …senti. – protesto a bassa voce, - Tu non puoi prendermi così per il culo, Fler. Tipo, non puoi dirmi… - abbasso la voce e mi avvicino, cercando di non attirare l’attenzione, - non puoi dirmi che non ti andava, l’altra sera, e pensare che io ci creda. Ti stavo toccando. Lo so che ti andava. Tu non capisci che non puoi dirmi no quando io so che dentro la tua testa c’è un sì. – lui fa una smorfia contrariata, ma io non mi fermo e non gli lascio il tempo di negare, - E non puoi dirmi che devi parlarmi di qualcosa e poi, vedendo che la mia risposta non ti piace, sperare di darmi a bere che non stavi chiedendo il permesso. Tu non sei mai sincero con me. Questa cosa deve finire.
Fler stringe le dita attorno alla bottiglia e mi fissa, sconvolto. Io trattengo il respiro.
- Chakuza… - comincia, ma si ferma subito. Ha gli occhi spalancati e ci posso vedere dentro tanto di quello schifo che mi sento male. Esita un po’ e per un secondo ho quasi paura che lo dica. Che finalmente lo ammetta a chiare lettere. Che lo sa, Cristo, che sa tutto, e che quindi sono io che dovrei smetterla di prenderlo per il culo. Piantarla e basta. Ma non lo dirà, io lo so. Infatti lo vedo abbassare lo sguardo e mordersi un labbro, posando un pugno chiuso sul tavolo, - …smettila. – conclude semplicemente. – È meglio per tutti.
Tiro un sospiro di sollievo e mi avvicino ancora un po’.
- Intanto, io non credo che sparire sarebbe meglio né per te né per me. – spiego, - Basta solo cercare di calmarsi un po’ tutti e due… - sono io che devo calmarmi, ma va be’, - Possiamo tranquillamente stare nello stesso posto senza che-
- Pensavo la stessa cosa mentre spostavamo l’armadio. – mi interrompe lui, occhi bassi, - E mi sbagliavo.
- Be’, quello magari è stato un errore. – non so dove voglio andare a parare, visto che ha ragione lui. Se resta, ricapiterà. È matematico. Lo so come funziona. Lo so come funziono. Funzioniamo così. – Possiamo evitarlo, in futuro.
- No che non possiamo. – protesta.
- Oh, avanti. – sbotto io, agitando una mano, - Non è che abbia voglia di saltarti addosso ogni volta che ti vedo. – Fler trasale e si irrigidisce sulla sedia. È offeso e io mi stupisco di quanto sia facile portarlo dove voglio. Poi mi ricordo che dovrei smetterla di stupirmi. In realtà io e Fler non facciamo che metterci agli angoli da quando ci siamo conosciuti. Il nostro non è un rapporto, è un incontro di boxe perenne. Lui mi spinge alle corde ed ottiene quello che vuole, e la stessa cosa faccio io nel momento successivo. È un meccanismo talmente rodato che pensare di interromperlo non è veramente possibile. – Non sempre, Fler, ma ogni tanto succede. – ammetto semplicemente. – Che dovrei fare? Ignorarlo?
La risposta è sì, ovviamente. La risposta che passa sul viso di Fler è “sì, stronzo, sì che dovresti”. Ma resta un riflesso sul suo viso, non si traduce in parole ed io sono ancora in vantaggio. Sono in vantaggio solo perché lui non mi sputtana, d’accordo, ma è un vantaggio comunque.
Paghiamo e usciamo in strada qualche secondo dopo; il vento secco e freddo del primo autunno mi sferza in pieno viso e tiro su il cappuccio della felpa, rimpiangendo immediatamente il tepore dell’interno del locale. Fler è teso e nervoso come mai, sento a pelle che, potesse, mi schiaccerebbe contro un muro e mi pesterebbe a sangue fino a farmi dimenticare come mi chiamo. È una sensazione che per certi versi posso capire: fino a due settimane fa ero perfettamente felice e sereno, non mi mancava niente. Da due settimane a questa parte, però, non faccio che darmi motivi per spaccarmi la testa contro un muro.
Forse dovrei farlo: risolverei un mucchio di problemi.
Passeggiamo in silenzio per un po’, mi pare di non avere una direzione, però a un certo punto ci fermiamo e Fler mi guarda.
- La tua macchina… è da queste parti? – mi chiede.
A me viene un po’ da sorridere. Certe volte si comporta in maniera assurda.
- No, dobbiamo andare da tutt’altro lato, verso-
- No. – riprende, scuotendo il capo, - La mia macchina è qui. – si ferma ed indica una mastodontica Escalade nera all’interno della quale la mia utilitaria entra due volte. Anche se me l’ha fatta sistemare per il compleanno – con il bagagliaio nuovo, la vernice nuova, la tappezzeria nuova, così bella come non mi sembrava fosse nemmeno quando l’ho comprata – resta comunque una cosa ridicola in confronto a questo gigante su ruote. Io rimango a boccheggiare qualche secondo e lui ne approfitta per continuare, - Io ora salgo e me ne torno a casa mia. Se vuoi, ti do un passaggio fino alla tua macchina. Poi tu ci sali e te ne torni a casa tua. – si ferma ancora, esita. – E poi sarebbe meglio non sentirci né vederci più, Chaku.
Odio che mi abbia detto una cosa simile col tono in cui l’ha fatto. Dolce, rassegnato, tranquillo. I toni della voce di Fler sono sempre molto chiari, perché quasi sempre lui sa esattamente cosa ti sta dicendo. Non parla a caso, Fler. Non apre la bocca per darle aria. È un uomo pratico, dice lo stretto indispensabile e te lo dice esattamente come deve dirtelo.
Odio che mi abbia detto una cosa simile con questo tono, perché adesso so che non stava mentendo quando mi diceva che no, non voleva. Non voleva davvero.
Odio che mi abbia detto una cosa simile. Lo odio e basta.
- Fler-
- No. – mi sorride appena, - Mi dispiace. Io ci tengo a te. È il massimo che sono disposto a dirti, Chakuza, ma tu sai esattamente cosa significano queste parole. Io ci tengo a te. Però non esiste, Chaku. Pensavo di… pensavo di star via per un po’ e credevo che, lasciando andare le cose com’era giusto andassero, quando fossi tornato avrei trovato una situazione migliore. Ma tu ci ricaschi, Chaku.
- Aspetta, Fler-
- No, guardati. – vorrei che la smettesse di cominciare tutte le sue frasi con un no. – Lo sai da quanto non mi guardavi così? – io deglutisco, ma mando giù solo aria. – Odio quando mi costringi a dirti cose simili. – riprende lui, un po’ infastidito, - Comunque questi occhi li ho aspettati per mesi e non sono mai arrivati. Tornano adesso quando decido di andarmene… ci ricaschi troppo facilmente, ed io sto cominciando a pensare che fra noi due non ci sia proprio niente, Chakuza.
Lo afferro per una spalla e lo sbatto contro lo sportello dell’Escalade. Lui non fa una piega, continua a guardarmi.
- Questo non puoi dirlo. – ringhio a bassa voce, - Non puoi dirlo, Fler.
- E invece lo dico. – non accenna nemmeno a scostarsi da me. Anzi, mi prende per il bavero della felpa e mi tira più vicino, così vicino che sento il suo respiro caldo addosso. Non capisco se mi sta torturando o se è solo dannatamente indeciso. Le sue parole non denunciano indecisione, comunque. – Lo dico perché mi stai mandando fuori di testa. Quando ho deciso di restarti intorno, Chaku, l’ho fatto dicendoti chiaramente di fare in modo che ne valesse la pena. Ti sembra di averlo fatto?
Lo afferro per i fianchi, di prepotenza, e mi schiaccio contro il suo corpo. Non mi interessa se siamo per strada. Non mi interessa se possono vederci. Non mi interessa neanche se vuole andarsene, io non lo lascio.
- Non in quel senso. – scuote il capo lui. Fra noi c’è la solita tensione di sempre. Fra me e Fler sono sempre scariche elettriche, non è mai una cosa tranquilla. Com’è che non le ho sentite, in questi mesi? Dov’ero con la testa?
E penso a Bill.
Lo penso a casa sua.
Lo penso che mi aspetta.
E penso a me e mi sento una merda.
Mi allontano.
- …no, credo di non averlo fatto, Patrick. – ammetto a bassa voce, - Mi dispiace.
Lui annuisce e si sistema i jeans, tirandoli su per i passanti della cintura. L’ho scombinato un sacco. Ha anche il giubbotto sollevato e un lembo di felpa incastrato nell’orlo dei pantaloni.
- Non ce l’ho con te. – dice, ma non è sincero. Vorrebbe non avercela con me. Però mi sta detestando. Probabilmente perché non riesco a trovare il modo giusto di trattenerlo.
So che un modo c’è.
So anche che dire addio a Bill per Fler, però, non è una possibilità contemplabile.
- Vorrei solo chiuderla nella maniera più semplice e tranquilla possibile. – continua lui, finendo di sistemarsi. Poi sbuffa un mezzo sorriso. – È patetico che io e te ci si decida a parlare chiaro solo alla fine, vero?
Mi inumidisco le labbra.
- Non volevo neanche che arrivasse, la fine. – dico sinceramente.
Lui ride un po’, è una risata per nulla risentita.
- Preferivi continuare a prenderci in giro tutti? – alzo lo sguardo e mi arrabbio, e lui ride ancora. – Te stesso compreso, ovviamente. – io sospiro e torno a guardarmi la punta delle scarpe. Sento ancora la sua risata, sottile e breve, e poi lo vedo chinarsi un po’ per recuperarmi: appoggia le labbra sulle mie e poi si rimette dritto, così che io sono costretto a risollevare il viso a mia volta, se non voglio perderlo. È un bacio così, asciutto e semplice. Non è per nulla una cosa nostra, noi non ci baciamo mai così. È sempre una cosa molto più fisica e bagnata, ed anche più violenta. Questa è una cosa che con noi non c’entra, ed è quello che mi fa pensare che un noi non c’è già più.
Però c’era. Io lo so. Che Fler ci creda o no, noi c’eravamo.
Le nostra labbra schioccano appena quando lui si allontana, ed io non ho il coraggio di chiedere di più, anche se lo vorrei. Anche se, mentre tenevo gli occhi chiusi e mi lasciavo baciare, non esisteva davvero nient’altro. Probabilmente dipende dal fatto che io e Fler abbiamo sempre usato il sesso principalmente come scacciapensieri. Più di ogni altra cosa, quelli erano i momenti in cui smettevamo di ragionare. Ed io decisamente avrei bisogno di smettere di ragionare, in questo momento. O di ricominciare a farlo, forse.
- Quello nel canale doveva essere l’ultimo. – mi dice piano, - Però potrebbe essere l’ultimo anche questo, suppongo.
Io sbuffo un po’.
- Ci pensi da tanto, eh?
Fler annuisce.
- Da molto più di tanto.
Restiamo in silenzio per qualche secondo, e nel tempo che passa Fler infila le chiavi nella serratura ed apre lo sportello, arrampicandosi disinvoltamente sul sedile e restando lì con una gamba penzoloni verso la strada e l’altra ben piantata sul bordo della portiera.
- Allora non ci vediamo più. – chiedo conferma, mentre sulle sue labbra affiora un sorriso tranquillo.
- Penso proprio di no. – annuisce.
- E non ci sentiamo più.
- No, Chaku. Non ci sentiamo più.
Annuisco anche io. Ho improvvisamente voglia di tornarmene a casa e prendere a cazzotti qualcuno dei soprammobili di gomma che mamma mi compra ogni tanto. Se ne esce con certe cose assurde. C’è un vaso – un vaso enorme, ha dentro fiori di plastica impolveratissimi – che servirebbe proprio bene allo scopo.
- Addio. – gli sussurro, mentre lui tira su l’altra gamba.
Fler ride.
- Come sei epico. – e sono le ultime parole che mi dice prima di chiudere lo sportello e farmi cenno con la testa di togliermi di mezzo, se non voglio finire investito dall’Escalade mentre la tira fuori dal posteggio.
Non lo seguo con gli occhi perché non voglio vederlo scomparire dietro un angolo. Cristo, non ricordo un giorno della mia vita nell’ultimo anno in cui Fler non ci sia stato, fra alti e bassi. Non può andarsene così, cazzo. Anche se l’ho lasciato andare, non avrei dovuto. Non è stato giusto.
Risalgo sul marciapiedi e comincio a dirigermi verso la macchina, le mani nelle tasche e lo scazzo che vortica a mille nella testa, quando squilla il telefono. Tiro fuori l’apparecchio con stizza e fisso lo schermo. È tardi per Bill, a quest’ora già dorme. E infatti non è lui.
- Eko…? – spalanco gli occhi e lo dico pure ad alta voce. Eko non mi chiama quasi mai, lo fa solo in momenti di reale bisogno. Quando è morto Bushido, per esempio.
Accetto la chiamata e rispondo.
- Pro-
- Chakuza, Cristo santo, ho un fantasma in casa!
Mi perdo.
Letteralmente.
Stringo il telefono fra le mani e deglutisco.
- Tu hai cosa dove, Eko?
- Cristo santo! – ripete lui, senza il minimo senso, - Il cazzo di fantasma! È tornato perché abbiamo fatto qualcosa di sbagliato! Cristo santo, Cristo santo! Chakuza, quando hai fatto fuori Saad tu eri sicuro che fosse lui l’assassino, vero? Perché se non era lui e quell’altro è tornato per vendicare il cugino morto, Cristo, giuro che ti appendo per le palle in Alexanderplatz, Chakuza!
Seriamente, non ho la più pallida idea di cosa stia parlando. So solo che quando ha nominato Saad m’è salito il cuore in gola e che spero vivamente non sia per strada a parlare di tutte queste cazzate, altrimenti lo appendo io per le palle in Alexanderplatz.
- Eko… - sospiro pesantemente, - È una serata di merda. Seriamente. Ma proprio di quelle che vorresti non fossero mai iniziate.
- Dillo a me! Apro la porta mentre aspetto il ragazzo delle pizze e mi ritrovo davanti il cazzo di fantasma che-
- Una serata di merda, dicevo, perciò… - controllo l’orario, - Eko, ‘cazzo chiedi la pizza a mezzanotte passata, scusa?!
- Ma non è la pizza il punto fondamentale, Chakuza! Tu hai dei problemi seri! – mi sbraita all’orecchio. E poi chiarisce una volta per tutte: - Il punto è che io ho aperto la porta e davanti mi sono ritrovato Bushido. Bushido, capisci?
No. Non capisco.
- Eko…?
- Un cazzo di fantasma, capito? Un fantasma. Cristo. – fa una pausa. – Io non ci rientro in casa, quindi tu ora mi passi a prendere e mi porti da te. E domani torno con un estintore bello pesante o qualcosa di più adatto. Come si uccidono i fantasmi, Chakuza?
- …dubito che la schiuma chimica funzioni. – sospiro. È evidentemente ubriaco. – Eko, senti. – non ci tengo a portarmelo a casa, stanotte, - Ora vengo da te e poi saliamo insieme. Così ti faccio vedere che non c’è nessun fantasma, in casa tua. Soprattutto non quello di Bushido.
- Fa’ un po’ quel che cazzo credi. – dice lui, improvvisamente compunto, - Comunque sono sicuro quasi al cento per cento che il fantasma sul pianerottolo sia colpa tua, in qualche modo contorto. Sei la fonte di tutti i mali. Magari dall’alto dei cieli ha saputo che vuoi chiudergli l’Ersguterjunge ed ora ci perseguiterà a vita.
- Eko, ti prego!
- Comunque il succo è: vieni perché sennò scappo da Kay. E tu non vuoi che io scappi da Kay, perché Kay vive in un porcile peggio di casa tua, e se sarò costretto a stare da lui poi vorrò le tue palle su un piatto d’argento.
- Per mangiarle? – sbotto irritato, - La tua fissazione per le mie palle è inquietante.
Mi manda a fanculo e chiude la conversazione senza neanche abbassarsi ad aggiungere altro.
Raggiungo la macchina in tempi ragionevoli ma non supersonici, ecco, se Eko è ubriaco può anche stare per strada a rinfrescarsi la testa per un po’. Intendo, non è il tipo cui salterebbero tutti addosso come Bill, e non è neanche il tipo da sfondarsi al punto da rotolare per i marciapiedi come Fler, perciò posso stare abbastanza tranquillo.
Quando arrivo sotto casa sua lo trovo a camminare avanti e indietro con aria furiosa, proprio di fronte al portone del palazzo. Accosto senza posteggiare, sperando di cavarmela in una decina di minuti, e scendo dall’auto.
- Cristo, Chaku, ci hai messo un’era! – mi assale lui, - Il senza-tetto? – chiede poi, guardandosi intorno. Si riferisce a Fler. Ogni volta che me lo vede piantato accanto parte col solito teatrino per il quale Fler in realtà non ha una casa e vive da me perché non ha i mezzi per pagarsene una propria, visto che è un rapper sfigato. Sarà meglio non parlare dell’Escalade con Eko.
Digrigno i denti e ringhio un po’.
- Non siamo mica sposati. – sbotto acido, - Non so nemmeno dove cazzo sia.
Lui annuisce.
- Questo spiega la tua ira, Atze. – dice con aria comprensiva, - Non dovresti rinnegare i tuoi sentimenti. Prendi esempio da Bushido, buon’anima: il suo fantasma sarà irrequieto, ma almeno nella vita s’è goduto tutto quello che ha voluto.
Per un attimo accarezzo con amore la possibilità di afferrare il cric dal portabagagli e prendere Eko a mazzate fino a lasciarlo svenuto per terra.
- A proposito di fantasma… - sbotto esasperato, - Non sono venuto qui per questo?
Lui annuisce come lo stesse ricordando in questo preciso momento.
- Eccome. – mi afferra per un braccio e comincia a trascinarmi, - Mi dirai tu se è vero o meno. Io, comunque, là dentro non ci torno.
- Va bene, va bene! Cristo! Ma non mi spingere così, so camminare da solo! – protesto quando prende a spintonarmi su per le scale, fino al secondo piano.
Facciamo tutto di corsa, che è una cosa che detesto – fare le cose di corsa, dico – e quando arriviamo di fronte alla porta dell’appartamento – ovviamente spalancata, Eko ha le pecore turche a pascolargli in testa, lo so – lui mi molla lì e si rifugia verso l’ascensore.
- Vai avanti. – dice con aria sconvolta, - Io aspetterò qui fuori il tuo urlo di terrore.
Sospiro pesantemente ed agito una mano, mandandolo a quel paese senza troppe cerimonie. Mi introduco nell’appartamento buio e silenzioso, convinto che tutto ciò che troverò sarà al limite qualche ladro che si è intrufolato qua dentro mentre Eko era fuori a sclerare e rompermi le palle, perciò mi sento addirittura fortunato quando vedo che l’ingresso è vuoto e così anche il salotto. Mi dirigo spedito verso la camera da letto, so che è là che Eko tiene gli orologi e le chiavi della Mercedes, perciò se c’è qualche malintenzionato sarà lì. L’idea del fantasma l’ho abbandonata da un pezzo. Era delirante, in fondo.
Per questo, quando mi si spalanca la porta del bagno di fronte al viso, quasi ci resto secco. Ma sul serio.
Perché questo non è un cazzo di fantasma. Qui non c’è proprio niente di simile. Qui c’è qualcosa di molto peggiore.
Qui c’è Bushido. Vivo.
Cristo.
Stringe una salvietta fra le mani e si asciuga lentamente i palmi, perfettamente a proprio agio. Io resto lì a guardarlo, troneggia su di me come una specie di statua di qualche dio antico. Ma ha un’espressione del cazzo che poi immagino sia la stessa che ho io. Voglio dire, mi fissa come se mi stesse vedendo per la prima volta. La luce giallastra del bagno lo colpisce in pieno da dietro, così che dal corridoio buio io non posso vederlo perfettamente in ogni dettaglio, ma scorgo la sagoma di una coda corta a svettare dietro la nuca e mi rendo conto del tempo passato.
Nove mesi.
Un anno fa sembra un altro universo.
Bushido è vivo.
- Chaky. – mi chiama lui, ed il tono è morbido e divertito. È esattamente la voce che ricordo. È lui. – Ho saputo che stai cercando di mandarmi in bancarotta. – e ride appena, uno sbuffo ironico e per nulla cattivo.
Continuo a guardarlo e non riesco a spiccicare una parola. Non riesco neanche a capire cos’è che dovrei dirgli.
Eko non mi sente urlare e si affaccia alla porta, fissandoci con aria allibita.
- Chaku… - mi chiama con voce tremante, - Perché non stai scappando?
Io deglutisco.
Non stacco gli occhi da Bushido.
Cerco a tentoni la tasca sui jeans ed il cellulare nella tasca. Quando lo trovo e lo sollevo all’altezza del viso, mi schiarisco la voce.
- Credo che chiamerò Fler. – esalo. E sono le prime ed ultime parole che dico, mentre Bushido ride e scuote il capo, per nulla stupito.
Cristo.
Non è stupito.
Se non è stupito da Fler… quante altre cose sa?
*
Riesco a sentire solo tre cose, in questo momento. Una è la voce di Eko, isterica e nasale e concitata, che si confonde nella raffica di domande con cui sta tartassando Bushido, che, per proprio conto, sta mangiucchiando pistacchi perfettamente a proprio agio, sul divano. Un’altra è la risata di Bushido stesso, che si intervalla alle domande di Eko quando si fanno troppo assurde. Tipo quando lui chiede se all’Inferno fa caldo e gli dà dello stronzo per non essere tornato prima.
Sopra tutto, comunque, sento il suono della linea libera sul cellulare di Fler. Che non mi risponde. Ovviamente.
Un po’ lo capisco. Me lo vedo, seduto al volante di quella cazzo di macchina enorme, che fissa il display del telefonino e impreca ad alta voce. “Che cazzo vuole ancora questo?”. Ti voglio qui perché c’è qualcosa che hai perso e abbiamo ritrovato. Ti voglio qui perché, anche se non lo sai, ho trovato qualcosa che hai perso e non volevo ritrovassi.
Ti voglio qui perché qui c’è l’unica cosa Bill abbia mai perso davvero.
E un po’ spero ancora che, se tu passassi attraverso quella porta, non vedresti niente, solo me ed Eko in paranoia di fronte al vuoto. Diresti “Be’? ‘Cazzo mi hai chiamato a fare, Chaku?”. Ed io mi guarderei intorno, Bushido sarebbe sparito e allora potrei ridere e dirti “Niente, non mi andava che te ne andassi, tutto qua”. E potrei avere ancora una possibilità di decidere per i giorni a seguire.
- Non ti ha voluto manco il diavolo in persona, Atze! – sento Eko che si affloscia sul divano accanto a Bushido con un tonfo pesante. Mi volto e lo vedo che sta lì, vicinissimo al bracciolo, come avesse paura di toccarlo, - Stai sul cazzo anche a lui!
E Bushido ride ancora.
Io interrompo la chiamata – che tanto squilla a vuoto – ed allo stronzo in fuga mando un messaggio. “Devo parlarti di Bushido”. Speriamo che almeno così la smetta di fare l’adolescente ribelle.
Bushido sta ancora ridendo e sgranocchiando pistacchi, nel mentre. È perfettamente tranquillo, neanche non fosse andato mai via. E invece di mezzo c’è una morte – la sua – un coltello in una pancia – la mia – un bacio – sbagliato – una relazione – la nostra, mia e di Fler – un’altra morte – di Saad – e un’altra relazione – la nostra, mia e di Bill.
Una resurrezione, francamente, mi pare eccessiva.
Lo stronzo in fuga non richiama. Ringhio e lo richiamo io. Non mi aspetto che risponda, voglio solo rompergli i coglioni, e invece eccolo che risponde al primo squillo, furioso.
- Chakuza, sei patetico, tirare fuori Bushido per-
- È vivo. – lo interrompo, senza aspettare che abbia concluso il cazziatone.
Lui rimane zitto e non respira nemmeno.
- Sei pessimo. – riprende a fatica dopo un po’, - Se era un tentativo di zittirmi per-
- Era un tentativo di zittirti. – ammetto, - Per poi spiegarti che è vivo davvero.
Fler esita. Io guardo ancora Bushido ed Eko – Eko gli sta rubando il pacchetto di pistacchi dandogli del fantasma egoista del cazzo – e Bushido solleva lo sguardo verso di me e mi sorride. Lo fa con calma e naturalezza, come ha sempre fatto. Sorrideva di continuo. È una cosa di cui ho parlato anche con Fler, in un tempo che mi sembra lontano secoli, ed anche lui ha ammesso che era vero, Bushido da quando era all’Ersguterjunge sorrideva sempre. Fler ha aggiunto acido anche “perché i problemi li aveva lasciati a noi poveri stronzi e di tutto il resto si era dimenticato”, ma il punto della questione era un altro: Bushido sorrideva sempre perché non aveva motivo di essere triste. La sua vita era perfetta.
È assurdo che sia morto e poi tornato in vita per ritrovarsi in mano un qualcosa che non esiste più. Non so nemmeno come farò a dirglielo.
- Chakuza. – mi richiama Fler dall’altro lato della cornetta, - Cosa cazzo stai dicendo?
Sempre che in qualche modo non lo sappia già, ovviamente.
- Vieni a casa di Eko. – ordino, comunicandogli l’indirizzo. Lui fa una smorfia infastidita di cui sento l’eco in un lamento. Lo zittisco. – È una cosa seria, Fler. Vieni. – vienitelo a riprendere.
Lui interrompe la chiamata imprecando ad alta voce, io ripongo il cellulare in tasca e torno in salotto, aggirandomi con aria inquieta attorno al tavolino basso davanti al divano.
- Lo stronzo sta a due isolati da qua. Ci puoi pensare? – mi dice Eko, che continua a fissarmi con gli occhi a palla come fosse ancora sicuro che l’ipotesi fantasma sia più razionale rispetto all’ipotesi “sono ancora vivo”. – Da due settimane. E indovina dov’è stato prima, per tutto questo tempo.
Bushido ride.
- …non ne ho idea. Sotto terra? – provo, fissando Bushido con lo stesso sguardo allucinato col quale Eko fissa me.
Bushido ride ancora ed io, sinceramente, vorrei la piantasse.
- A Miami! – sbotta Eko, allargando le braccia in segno di profondo sgomento.
In un primo momento non capisco. Penso solo: è a Miami che si va, dopo morti?
Poi realizzo.
E un po’ mi viene anche voglia di mandarlo a fanculo. A Miami va, il bastardo. A Miami.
Prendo fiato.
- Bushido, tu eri morto. – metto bene in chiaro, così che nessuno di noi possa scordarlo, visto che qui mi pare si stia passando sopra la cosa con un po’ troppa leggerezza. Lui annuisce e mi fa segno di sedermi in poltrona. Io obbedisco senza fiatare.
- È complicato da spiegare, Chaky. – dice, con una certa tenerezza, - Ma vi dirò tutto, piano piano. Prima, però, ho delle questioni da risolvere.
Ed io sono lì che tremo e prego in un centinaio di lingue che fra le varie questioni da risolvere non ci sia anche Bill, che suonano al campanello.
Io guardo Eko ed Eko guarda me.
- Mbe’? – sbotta, sollevando supponente il mento, - È il tuo uomo, tu l’hai chiamato, vai ad aprirgli.
Lo mando a fanculo e mi alzo in piedi mentre Bushido ride ancora – anche se c’è una sorta di tensione, nella sua risata, una nota un po’ stridente che nelle risate di prima non c’era. Non fatico a ricollegarla alla presenza di Fler oltre quella porta. A meno che non sia il ragazzo delle pizze che Eko minaccia di denunciare da ore.
Apro la porta e di fronte a me c’è un Fler che non ho mai visto in vita mia. Ha quattordici anni negli occhi, non uno di più. Poi non è cambiato per niente, ma gli occhi bastano: sono enormi, liquidi e persissimi. E dovrebbero essere gelidi, perché quando Fler è scazzato i suoi occhi diventano pezzi di ghiaccio, ma non c’è traccia di freddo in fondo alle sue pupille. Non ce n’è davvero per niente. Sono caldi, anzi. E non stanno guardando me.
- Sei venuto davvero… - esalo, un po’ sconvolto. A saperlo, avrei usato la scusa di Bushido per quando ha continuato a darmi picche nell’ultimo periodo.
Stupido Peter. Piantiamola un po’. Me lo dico da solo, va’.
Lui annuisce, comunque.
- Se scopro che è una cazzata, Chakuza, ti prendo a calci nelle palle fino a fartele uscire dalla gola.
Sospiro e mi lamento anche un po’.
- Ma che avete tutti stasera con le mie povere palle? – mugolo, scostandomi lievemente dall’uscio per farlo entrare.
- Le tue palle sono un pericolo pubblico. – precisa lui con una mezza risata, sfilandosi la giacca ed appendendola all’attaccapanni. Poi torna a guardarmi. È ancora un ragazzino e questa cosa mi distrugge in un modo che non capisco. Mi fa venire un groppo in gola che non so decifrare. – Mi spieghi un po’? – chiede appena, - E… a proposito… quello stronzo del padrone di casa?
- Eko è di là… - spiego, indicando il corridoio con un dito. Esito un po’, prima di aggiungere il resto. - …con lui.
Fler deglutisce e stringe le labbra.
- È tornato dalla morte?
Io scuoto il capo. No, è tornato da Miami.
Mi mordo la lingua.
- Pare non sia morto affatto, in realtà. E… sappia un mucchio di cose.
Fler annuisce anche troppo tranquillamente. Guarda un punto a caso nel vuoto e socchiude appena le palpebre, come si stesse perdendo nei propri pensieri ed avesse bisogno del giusto tempo per farlo. Poi sbuffa una mezza risata.
- Mi scazza e mi sembra anche un po’ assurdo da dire, - confessa alla fine, - ma è così schifosamente da lui che non fatico neanche a crederci. – poi scuote il capo e torna a guardarmi. – Mi ci porti? – e lo dice con lo stesso identico tono di un bambino un po’ impaurito che chiede al padre burbero di accompagnarlo sull’ottovolante.
Annuisco senza volerlo fare davvero e lancio un’occhiata alla porta come a chiedermi se esista la possibilità di afferrare Fler per il cappuccio della felpa, uscire da quest’appartamento e riprendere il corso della nostra vita esattamente per com’era prima di stasera. Non ho il tempo di concludere il pensiero che sto già portando Fler al cospetto di Bushido – ed è una cosa molto epica, a pensarci; questi due si sono lasciati accoltellandosi. Voglio dire. È assurdo.
Entro prima di Fler e non so bene come annunciarlo. Ci vado giù in maniera tranquilla.
- Atze? – e mi sento vagamente in colpa ad usare ancora questo soprannome, - Senti, c’è Fler.
Bushido ride e la voce di Patrick mi arriva dritta alle spalle come una pugnalata. È vicinissimo.
- Non ho mica bisogno del permesso, per ricevere udienza, io. – mi supera e si para davanti a Bushido con una calma impressionante, - Ho il lasciapassare automatico.
Bushido non si alza. Nemmeno si muove. Resta seduto sul divano e lo guarda con un sorriso strafottente sul volto. Sembra incredibilmente più giovane anche lui, il che è strano. Immagino sia l’effetto della presenza di Fler.
Ci sono un sacco di cose che mi vanno di traverso, stasera. Non mi piace proprio come si sta mettendo la situazione in generale.
Fler sorride appena e si siede sul tavolino basso, proprio di fronte a Bushido. Le loro ginocchia quasi si sfiorano e Fler si piega un po’ in avanti per guardarlo dritto negli occhi.
- Ero lì, quella notte, perché volevo dirti che eravamo a posto, Atze. – lascia scivolare le parole fuori dalle labbra con naturalezza disarmante, - Ero lì sotto per questo. Non sono stato io. Volevo dirtelo. Non sono stato io. E siamo a posto.
Bushido inspira ed espira, senza perdere il sorriso.
- Lo so. – dice a bassa voce. Non aggiunge nient’altro.
Vorrei poter dire qualcosa anch’io. Vorrei poterli mandare a fanculo entrambi, tanto per cominciare. Bushido perché è tornato, Fler per altre duemila ragioni. Cazzo, a guardarlo mi viene un nervoso che non so nemmeno descrivere. Mi prudono le mani. Ha ancora sulla faccia quel sorrisino di prima e lui e Bushido che si guardano negli occhi senza dire altro sembrano una cosa unica nata insieme. E mi viene da ridere perché Fler me l’aveva pure detto: non esplicitamente, ma tutte le volte che partiva in quarta a parlare di Anis, dietro ciò che diceva c’era sempre un concetto di base che lo vedeva coinvolto con lui in un modo diverso rispetto al modo in cui era stato coinvolto con chiunque altro nella sua vita. Ed io lì a ridere e prenderlo in giro. Io lì a pensare che fra noi ci fosse… io lì come un cretino.
Aveva ragione Fler. Se mai c’è stato qualcosa, non c’è più nulla già da un pezzo. E se pure un qualche frammento era rimasto, nell’ultimo minuto è stato spazzato via.
O almeno così mi sembra.
Non facesse così fottutamente male, forse lo capirei meglio.
Bushido si piega in avanti a propria volta. Lo fa con un sorriso strafottente sul volto. Si piega in avanti e sfiora quasi la fronte di Fler con la sua.
- …non so come chiamarti. – ride alla fine, e Fler lo segue, socchiudendo gli occhi e scuotendo il capo, - Mi viene in mente di tutto. – c’è Eko che li fissa sconvolto e poi guarda me quasi in imbarazzo, ma loro lo ignorano. Ci ignorano. – Ragazzino, Frank, Fler…
- Patrick andrà bene, Anis. – lo interrompe Fler, sorridendo più apertamente.
Patrick non va bene neanche per un cazzo. Io lo chiamo Patrick solo quando lo rimprovero. Neanche quando scopiamo. Fanculo. Patrick non va bene neanche per un cazzo.
- Io comunque non sono tornato dall’altro mondo per una rimpatriata. – dice ad un tratto Bushido, alzandosi in piedi e venendo verso di me, mentre Fler prende e si mette comodo sul tavolino, piantando i palmi sul vetro e stirandosi un po’ indietro con un mezzo sorriso soddisfatto sul volto. Non mi vede più da almeno mezz’ora e quella posizione lì mi fa incazzare oltre ogni dire. – Potrà sembrarti assurdo, Chaky, ma sono venuto per parlare con te.
Sollevo lo sguardo e lo fisso, sconvolto.
- Con me?
Ma vaffanculo, anche.
Lui annuisce.
- Volevo dirti personalmente, - dice con tono scherzoso, - di piantarla di mandare in malora la mia attività, prima che io ti prenda per le palle e te le stacchi di peso per usarle come bolas. – Fler scoppia a ridere. Anche Eko. Vorrei che lasciassero tutti in pace le mie palle ma mi rendo conto da solo che hanno ragione loro a volerle su un piatto. – Poi naturalmente lo ripeterò anche agli stronzi della Universal, ma con te ci tenevo a discutere la cosa in maniera più rilassata. – continua tranquillamente. – Quindi, magari, ora che sai che sono vivo, me la lasci aperta l’Ersguterjunge?
Avrei solo una domanda, da fargli, ed è: se dico sì, poi scompari?
Naturalmente, però, non chiedo. Mi limito ad annuire. E lui mi stringe al collo in un mezzo abbraccio grato che fa sorridere Fler.
Ironico. È la prima volta che mi vede da minuti interi. L’ha fatto solo quando Bushido mi ha toccato.
*
Eko non riesce fisicamente a stare zitto. Probabilmente è una reazione allo spavento e allo stupore ed anche alla felicità di ritrovarsi Bushido vivo e vegeto in carne ed ossa, proprio di fronte agli occhi. Continua a porgli domande allucinanti stile “e con cosa andavi in giro a Miami? Camicie hawaiane?”. Chiede e gesticola e chiede ancora e Bushido non fa che ridere e rispondere, “sì, Eko”, “no, Eko”, “nella maniera più assoluta e totale no, Eko, mai”, e tutto quello che io riesco a registrare, di tutto questo, è che Fler non gli ha ancora staccato gli occhi di dosso.
È una cosa incredibile, non l’ho mai visto comportarsi così: è come se ci fossero delle calamite, addosso a Bushido. Ovunque vada, comunque si muova, gli occhi di Fler non lo abbandonano mai, neanche per un secondo. È stato così anche durante quella dannata puntata di TRL, ma allora Bushido era un’immagine su uno schermo piatto a cristalli liquidi, non era una minaccia.
…ed allora io ero ancora una persona migliore. Una persona che non pensava a Bushido come ad una minaccia, appunto.
Comunque sia, sono ancora infastidito. Da qualche parte nel corso di questa serata, mentre Eko parlava e Bushido rideva e rispondeva senza guardarlo, ricambiando solo gli occhi azzurri di Fler con un compiacimento addirittura irritante, m’è venuta voglia di mettere una mano fra di loro. Una cosa proprio da bambini, mettere la mano ed agitarla, come a dire “allora? Vi ricordate che ci sono anch’io, qua di lato?”. Ma la verità è che non mi hanno messo loro in un angolo, mi ci sono rifugiato da solo, perché non ho la più pallida idea di cosa fare. Quest’uomo, prima di morire, mi ha affidato delle cose. Ed io dovrei, tipo, fare rapporto, no? Aggiornarlo sullo stato dei suoi beni.
Solo che il bene che mi ha lasciato io me lo sono preso.
E questo è un problema enorme.
Mi alzo in piedi.
- Mentre Eko continua a chiederti… cos’è che gli hai appena chiesto, Eko?
- Se ha visto qualche donna che s’infilava una noce di cocco su per il-
- Mentre Eko continua a chiederti delle discutibili abitudini sessuali delle flori… comunque si chiamino le donne che vivono in Florida, - Fler e Bushido ridono contemporaneamente, e Fler scuote pure un po’ il capo con rassegnazione. Mi sento vagamente in imbarazzo, - …io vado a preparare un caffè. Sarà una nottata lunga.
Bushido annuisce semplicemente ed io mi rifugio fra le quattro mura piastrellate della cucina di Eko. Una cucina palesemente vuota, peraltro, perché pare che tutti i rapper abbiano la brutta abitudine di non passare mai del tempo in casa propria. Tant’è che Eko è sempre buttato da Kay. Il quale però è sempre buttato dalla madre, perciò alla fine passano entrambi tutto il tempo a casa della povera donna. Col risultato che casa di Eko è quasi sempre vuotissima.
Armeggio qua e là spalancando tutti gli stipetti, perché non può davvero esistere un uomo che non tenga in casa del caffè ed una moka, ed infatti alla fine trovo tutto e, sospirando di sollievo, mi metto a preparare, sperando di perdere abbastanza tempo per… non so nemmeno io per che cosa. Per far riposare il cervello e tornare di là con una scorta di lucidità sufficiente ad affrontare quello che mi aspetta, suppongo. Anche se non ho idea di cosa mi aspetti, perché mi fa paura immaginarlo.
Mentre metto la caffettiera sul fuoco, sento Fler ridacchiare alle mie spalle ed aggrotto istantaneamente le sopracciglia, voltandomi a guardarlo. Lo trovo con le braccia incrociate sul petto, appoggiato con una spalla allo stipite della porta. Mi fissa, palesemente divertito, con un sopracciglio inarcato. Dio, odio quando è così… così.
- Be’? – chiedo sgarbatamente, ricominciando ad aprire ante e sportelli alla ricerca di qualche tazzina o, al limite, dei bicchierini di plastica. Il punto è che non posso pensare eroicamente cose tipo “mi aspetta la morte ma non cederò di un passo”, e pensarlo a riguardo di Bill, e poi vedermi apparire Fler sulla soglia e provare il desiderio praticamente irresistibile di tirarlo in cucina, chiudere la porta e stenderlo sul ripiano accanto al lavello. Non è… non posso continuare a fare così. Non posso.
Lui mi viene accanto ridacchiando serenamente, e mi aiuta nella ricerca.
- Sei troppo nervoso. – mi dice, - È un comportamento sospetto.
Be’, grazie, lo so anch’io.
- Non dovresti essere di là a ricordare a Bushido che non hai mai avuto occhi per altri che per lui? – ringhio infastidito, e lui si ferma e mi guarda per un secondo. Poi scoppia a ridere.
- Tu sei assurdo! – commenta ironico, - Come puoi essere geloso in questo momento?!
- Non sono geloso! – cerco di difendermi, anche se dovrei cominciare a ricordarmi più spesso che mentire a Fler serve a poco. Un po’ perché fiuta le menzogne – come quell’altro, accidenti a lui – ed un po’ perché comunque si convince di quello che vuole e poi ci marcia indipendentemente da come stiano le cose in effetti. Insomma, proprio come quell’altro. Stramerda.
- Chakuza, Dio mio, ma il fatto che io sia andato via, poco fa, non ti è servito a niente?
Spengo il fuoco sotto la caffettiera.
- Sei stato via praticamente mezz’ora. – borbotto a bassa voce, - Cosa vuoi che sia cambiato, in mezz’ora?
Vorrei che Fler si offendesse – in genere, quando lo prendo per il culo, lo fa – ma non fa che ridacchiare ancora e scuotere il capo.
- È che il discorso sulle noci di cocco aveva cominciato ad inquietare anche me. – dice, ignorando la frecciata e riprendendo il dialogo dall’inizio, - E poi volevo vedere come stavi.
- Oh, ma guarda. – sbotto, con la maturità di un bambino di dieci anni, - T’interessa?
Lui mi fissa per un secondo, ed in quel secondo i suoi occhi azzurrissimi brillano in maniera spaventosa.
- Certo che mi interessa, Chaku. – sospira, - Proprio perché m’interessa-
- Ora non partirtene col discorso di rito stile “è per te che lo faccio”. Non l’hai fatto per me, quando te ne sei andato.
Si appoggia al mobile ed allunga una mano ad aprire lo stipetto più in alto. Le tazzine sono là. Lui nemmeno le guarda, continua a fissare me.
- In ogni caso, sono stato via solo mezz’ora. E sono tornato quando mi hai chiamato.
- Perché ti ho parlato di Bushido.
Scrolla le spalle.
- Il motivo non è importante.
“Col cazzo”, vorrei rispondere, ma lo trattengo in punta di lingua perché questa discussione è già abbastanza assurda così.
- Dimmi la verità, Fler. – lo sfido, versando il caffè, - Perché sei tornato?
Lui sospira pesantemente e infila le mani nelle tasche. Sotto la spinta, i pantaloni si abbassano appena, scivolando lungo la sua vita e lasciandomi intravedere un lembo di pelle appena sopra i fianchi. Deglutisco.
- Cosa vuoi sentirmi rispondere, Chaku? – chiede lui, quasi dolcemente. – A questo punto, posso dirti tutto quello che vuoi. Non è importante.
- Sei tornato per vedere lui? – ringhio, voltandomi improvvisamente a guardarlo. Lo trovo che già ride.
- Sì. – dice tranquillamente, - O, in alternativa, per sventrarti in caso mi avessi detto una balla solo per farmi tornare. Soddisfatto così?
Soddisfatto un cazzo.
Sospiro pesantemente, mentre Fler recupera due delle quattro tazzine colme di caffè, allontanandosi verso la porta.
- Ah, dimenticavo. – dice con aria falsamente casuale. E lì capisco che mi sta prendendo in giro, o torturando, o comunque non si sta comportando in maniera corretta nei miei confronti. Odio avergli dato abbastanza ragioni per farlo senza sentirsi in colpa. – Anis vuole il riassunto delle puntate precedenti. Ed io quello che dovevo dirgli gliel’ho già detto.
- No, manca ancora la dichiarazione d’amore. – sbotto acido.
Fler non si abbassa al mio livello, inarca un sopracciglio e ghigna.
- Dici? – domanda allusivo, e poi scompare oltre la soglia.
Quando torno di là con la tazzina mia e quella di Eko, Fler è di nuovo seduto sul tavolino e sta di nuovo guardando Bushido come non vedesse altro. Mi rassegno: non è come, è così.
Resto in piedi, passo la tazzina ad Eko ed osservo Bushido che beve il proprio caffè e poi posa la tazza sul tavolino, proprio accanto al punto in cui è seduto Fler. Lo sfiora col braccio, proprio lì sul fianco, e per un attimo io guardo i loro corpi che vengono a contatto, colgo il leggero brivido che scuote le spalle di Fler e colgo anche quel breve lampo di compiacimento che increspa le labbra di Bushido, e mi chiedo cosa stia esattamente succedendo in questa stanza. Se si stiano comportando così solo perché sanno perfettamente che Eko certe cose non le vede – o fa finta di non vederle – e che io piuttosto che parlarne con anima viva mi farei volentieri sparare.
Non lo so.
Mi viene voglia di menare le mani, comunque.
Mi riscuoto quando Bushido si schiarisce la voce e mi chiama.
- Allora, Chaky… - dice, mettendosi comodo sul divano ed incrociando le braccia sul petto, - Cosa mi racconti?
Ed io per un attimo mi sento confuso. Cosa gli racconto? Cioè, davvero, cosa tiro fuori dal cappello? Cosa gli dico? Cosa, che non abbia a che fare con Bill – perché non voglio nemmeno che ci pensi – o con me e Bill – perché il solo pensiero che lo scopra in questo momento mi terrorizza – o con me e Fler – perché ho la vaga impressione che sarebbe perfino capace di uccidermi, se sapesse i dettagli di quest’ultimo anno.
Cosa mi invento?
Lancio un’occhiata a Fler e lui non è d’aiuto. I suoi occhi sono freddi e vuoti, mi guarda quasi con la stessa curiosità con cui mi guarda Bushido. Come se si stesse chiedendo anche lui “vediamo come se ne tira fuori”.
Io mi seggo su una poltrona e richiamo alla memoria i brevi stralci di racconto che sono riuscito a cogliere dalla conversazione fitta di domande e risposte assurde fra Bushido ed Eko, prima che Fler arrivasse. Bushido è qui da due settimane. Due settimane fa – come quasi sempre, quando abbiamo potuto, negli ultimi mesi – Bill era con me. Probabilmente era con me anche mentre lui era in volo. E mentre quest'uomo atterrava, il suo ragazzino urlava il mio nome, nel mio letto. E, cazzo, stavamo da Dio. Ora Bushido mi chiama Chaky, e la cosa mi devasta. Non so più nemmeno se odiarlo perché è tornato o chiedergli di essere comprensivo prima ancora di avergli detto perché.
Mando giù a fatica un respiro che sembra di cemento, tanta è la resistenza che fa mentre mi scende per la gola, e poi guardo il pavimento e comincio a parlare.
- I primi mesi dopo che sei morto – parlo come stessi parlando ad un fantasma. Forse perché quasi preferirei che fosse così. – sono stati un casino. Non sapevamo davvero dove voltarci o cosa fare. Era tutto un chiedere, interviste di continuo. Ci siamo gestiti abbastanza bene, ma è stato pesante.
Bushido sorride appena.
- Mi dispiace. – lascia scivolare fra le mie parole, senza interrompermi davvero. Io annuisco e riprendo.
- TRL ci ha un po’ scombussolati. Ma d’altronde già allora avevo parlato con Fler, e quindi sapevo che lui non c’entrava niente. È stato… molto d’aiuto, in quel periodo. – e mi stupisco di essere riuscito a non nominare Bill nemmeno una volta. Bushido inarca le sopracciglia. Se ne accorge, forse. Capisce che c’è qualcosa che non va. Non lo so. Io continuo. – Poi Fler mi ha convinto a fare qualche indagine. E così abbiamo scoperto chi era stato a farti fuori. – mi prendo un attimo di pausa per capire come dirglielo, perché credo che queste non siano notizie facili da dare. Queste non sono nemmeno notizie che si danno, in genere. Non dici a un morto chi l’ha ucciso. Non quando ti può ascoltare, almeno.
Lui, comunque, mi anticipa.
- Saad. – dice, ed io sollevo gli occhi nei suoi e lo fisso come se lo stessi vedendo adesso per la prima volta. – L’ho immaginato quando ho saputo che era morto. – mi spiega lui con un mezzo sorriso. – Sono stato… mi sono tenuto informato, ecco.
Io annuisco e deglutisco ancora, con maggiore difficoltà. Mi sembra che più cose io tiri fuori più ciò che resta dentro si allarghi e prenda tutto lo spazio. E mi rendo conto che in realtà non è così. In realtà è solo Bill che si espande. Prima stava compresso nel mio petto assieme a tutto il resto, ma adesso tutto il resto sta uscendo. E lui si sta riprendendo il suo spazio. Ed io non voglio buttare fuori anche lui. Non voglio.
- Quindi siete stati voi a- - comincia Bushido, ma non finisce, perché Fler lo ferma.
E, visto che Fler mi conosce, lo fa.
Sa che io non lo tirerò mai fuori. Sa di doverlo fare lui al mio posto.
- Ti ha vendicato Bill, Anis.
Bushido si irrigidisce sul divano. Lo faccio anch’io, sulla mia poltrona.
Fler respira per tutti e due. È l’unico che lo faccia, d’altronde.
Eko si schiarisce la voce e si alza in piedi.
- Me ne vado al cesso. – borbotta con tono serio, - Voi raccontategli pure dei mesi in cui piangeva di continuo, io non voglio più sentirne nemmeno accennare. – commenta, sparendo in corridoio. Eko ha tutta una serie di problemi, quando si parla della sofferenza di Bill. Un po’ perché l’ha sempre considerato una lagna, un po’ però anche perché ricordo che i primi tempi, quando passava a trovarmi e lo trovava piangente sul mio divano, non sapeva mai che pesci prendere. La principessa in lacrime lo confonde, non sa come consolarla. E c’erano serate in cui i suoi soliti movimenti goffi e sgraziati non bastavano a far sorridere Bill. Di quelle serate, Eko non vuole più sentir parlare.
Quando sento la porta chiudersi, Bushido sta già preparando quella faccia lì. Quella delle domande gravi e importanti. L’ultima volta gliel’ho vista addosso quando mi ha spiegato cosa avrei dovuto fare con Bill in caso lui fosse morto. Rivederla adesso, quando ho mancato in quasi tutti i compiti che mi erano stati assegnati – tranne in quello di tenerlo vivo – è tremendo.
- Come sta Bill?
Lo chiede a voce bassissima. È il tono delle grandi occasioni. Delle grandi domande. Di quelle che non ammettono rispose elusive.
Ed io non so che dirgli.
Sta bene, perché sta con me.
Sta bene, e non so come starebbe se sapesse di te.
Sta bene, e non voglio che scopra di te.
Sta bene, ed ho paura di immaginare che starebbe meglio se gli dicessi che sei vivo.
- Sta bene. – ma è la voce di Fler a parlare. – Sta bene, Anis. Non preoccuparti.
Lui annuisce e vedo chiaro nei suoi occhi il desiderio di chiedere di più. Però non sa cosa, e di questo ringrazio, perché giuro che io non so più neanche cosa pensare. Figurarsi se riuscirei anche a dirgli qualcosa. Comunque solleva lo sguardo e lo fissa nuovamente su di me, riprendendo a sorridere.
- Grazie, Chaky. Sei stato un ottimo braccio destro.
Io lo guardo ed è la prima volta in mesi che mi viene da piangere.
Fler si alza in piedi.
- Credo che dovremmo andarcene tutti a casa a dormire, Anis. – dice a mezza voce, sorridendo sereno, - Te compreso.
Lui ride.
- Io da qui non mi muovo, Eko ha una camera degli ospiti che è un paradiso. – scherza, alzandosi a propria volta. – E poi credo che abbia ancora qualche altra curiosità su noci di cocco e signorine di facili costumi, da soddisfare. Visto che comunque… - si prende una pausa e deglutisce, - …sono stato via a lungo, mi sembra giusto restare finché non sarà completamente a posto.
Andiamo via con Eko che ci strilla alle spalle di non lasciarlo solo con il fantasma. Bushido lo afferra per il collo e se lo tira dietro, strofinandogli forte le nocche contro la testa, fra i suoi addolorati lamenti di protesta, e Fler ride ad alta voce e dice ad Eko che ognuno ha quello che si merita, e mentre lui lo dice io non posso che pensare che è una delle cazzate più enormi che gli siano mai uscite di bocca. Mi chiedo se ci creda e, mentre lo osservo smorzare il sorriso fino a lasciarlo scomparire del tutto appena la porta si chiude, realizzo che no, non ci crede affatto, e ritrovo un pezzo del mio Fler – intendo, quello che ho conosciuto io, quello con cui ho praticamente diviso tutto per gran parte dell’anno scorso e quello a cui ho continuato a pensare mentre andavo avanti con la mia vita intrecciandola alla vita di Bill.
Sospiro.
- Sei stato insopportabile. – commento mentre ci avviamo verso l’uscita.
- Sì, me ne sono reso conto. – annuisce lui, tranquillissimo, - Mi dispiace. Non è una cosa che controllo. Dovresti averne una mezza idea.
Sospiro ancora, mentre apro lo sportello della macchina posteggiata qua davanti.
- Stai continuando ad essere insopportabile. – gli faccio notare, infilandomi nell’automobile. Aspetto che faccia il giro della macchina e prenda posto al mio fianco, lo aspetto con una naturalezza perfino disturbante, ma mi accorgo che è disturbante solo nel momento in cui lui è effettivamente seduto e ci guardiamo come non avessimo idea di cosa fare adesso.
- Ti accompagno a casa? – chiedo a mezza voce, continuando a guardarlo incerto.
- Ovviamente sì. – risponde lui, quasi inorridendo. – Che pensavi?
- Non pensavo. – mi mordo un labbro. – Ci credi, se ti dico che non pensavo, vero?
- Ovviamente no.
Ingrano la marcia e metto in moto la macchina.
- L’Escalade la lasci qui?
- Sì. – annuisce lui, - Ma se deve essere tutto questo dramma, riportarmi al mio fottuto appartamento, la recupero e vado da solo.
- Fler, ti prego, è stata una serata abbastanza difficile-
- Ed io dovrei già essere a letto con i bagagli pronti per dopodomani. – ringhia ancora lui, guardando la notte fuori dal finestrino. – Cazzo. Ora come lo dirò a Sido?
Lo guardo, fermandomi al semaforo.
- Dirgli cosa?
Lui sospira pesantemente, scuotendo il capo.
- Che non parto più.
Scatta il verde ma io non mi muovo. Nessuno suona perché sono le due del mattino e questa zona a quest’ora non è affatto frequentata, perciò resto lì a due passi dall’incrocio e l’unica cosa che riesco a pensare è…
- Non parti?
Fler sospira ancora e si volta finalmente a guardarmi. Lo vedo che fa fatica. Mi dispiace che debba fare tutta questa fatica. So che era più facile per lui, quando poteva concentrarsi solo su Bushido. So che non è facile restare da solo con me. Lo vedo dal modo in cui trema appena la luce nei suoi occhi.
- No. – risponde alla fine, - Qualcuno dovrà pure essere nei dintorni a raccogliere i pezzi, quando dirai a Bushido che il suo ragazzino ora è il tuo ragazzino.
Mi si ferma il cuore in gola e ripenso all’inizio di questa serata. A me che, sicurissimo, riflettevo e mi dicevo che era impossibile Fler lo ammettesse ad alta voce. Assolutamente impossibile. E parlavo, sicuro del mio vantaggio. Adesso mi sento vulnerabile come un bambino.
- …già. – annuisco, rimettendo in moto. – Mi dispiace. – aggiungo poi. Mi ci sento quasi costretto.
Lui ride.
- Pensi davvero che ce l’abbia con te per questo? – chiede a mezza voce. Io non lo so. So solo che dovrebbe avercela con me e basta, per un motivo qualsiasi. Scelga lui. – Noi siamo a posto, Chaku-
- Non è vero. – mi guarda, io lo evito. – Non è vero che siamo a posto. Non dirlo.
Lo sento sospirare ancora.
- Okay. – annuisce alla fine.
Non diciamo più nemmeno una parola, fino a che non arriviamo sotto casa sua. È lì che, quando lo vedo scivolare fuori dalla macchina, mi viene voglia di fermarlo. Ci sono delle serate che ho trascorso con Fler che ricordo come infinite. Una è quella in cui l’ho violentato. Una è quella in cui abbiamo ammazzato Saad. Questa è un’altra. Sono sempre sere che è difficile lasciare andare via. Lasciare che si concludano sembra assurdo. Lo fermo afferrandolo saldamente per un polso e lui ricasca sul sedile. Ha fatto la stessa cosa quella notte lì, la prima delle nostre notti infinite, solo che allora cadere l’ha costretto a mugolare di dolore. Ora sospira soltanto, rassegnato, come se lo aspettasse.
- Dimmi, Chaku.
Sospiro anch’io.
- Allora ci vediamo domani?
Lui si volta a guardarmi.
- Potresti… non lo so, fregartene? Fare finta che io non esista? Dimenticarti di me, cancellarmi completamente da quella testaccia di cazzo che ti ritrovi? È un’ipotesi contemplabile, Chakuza?
La risposta viene fuori naturale.
- No.
Restiamo immobili solo per un secondo. Lui ha già le gambe fuori dalla macchina ed una mano piantata nel sedile a sostenere il peso del corpo. Quando la solleva per afferrarmi per il bavero del giubbotto, si avvicina quasi automaticamente, e prima di poterlo realizzare davvero ci stiamo già baciando – frenetici e sconvolti, pure con una certa rabbia, come se nessuno dei due lo volesse davvero, o odiasse dover ammettere di volerlo, invece.
Si stacca da me con violenza, ansimando, ed io lo trattengo per la maglia. Non lo vedo, perché lascio gli occhi chiusi.
- Cristo. – me lo sussurra sulle labbra, - Vaffanculo. A te, ai tuoi no del cazzo e a questa situazione di merda. Vaffanculo.
Non rispondo, continuo a cercare di recuperare un ritmo più decente per il mio respiro. E continuo anche a trattenerlo.
- Lasciami andare, Chakuza, Cristo santo. – mi implora lui, quasi con dolore, ma non mi toglie le mani di dosso. Continua a stringermi per il giubbotto.
- Ti lascio appena mi lasci tu.
- Vaffanculo.
- Piantala.
- Vaffanculo, Chakuza.
Restiamo a respirarci addosso ancora per qualche secondo, in perfetto silenzio. Poi mi lascia andare e, quando lo fa, anche io lascio andare lui. Mi ritrovo i suoi occhi addosso appena apro i miei. Sono furiosi e gelidi. Deglutisco.
- Ora sono io che dovrei chiederti perché l’hai fatto. Dopo avermi detto che non volevi più vedermi, poi. – dico duramente, reggendo lo sguardo, - Ma non te lo chiedo, Fler. Perché lo so già. Tu che dici?
Dice che mi tira un cazzotto, evidentemente.
Batto con la testa contro il finestrino, dietro, e mi faccio un male cane. Non so se mi fa più male la testa o lo zigomo su cui è arrivato il cazzotto.
- Cazzo! – mi lamento, cercando di massaggiarmi ovunque contemporaneamente, - Fler?
Lui è già uscito dalla macchina.
- Sei un pezzo di merda. – mi dice, furioso, - Ci vediamo domani. – e poi chiude con violenza lo sportello ed entra nel palazzo, scomparendo alla mia vista.
Rientro in casa mezz’ora dopo con un mal di testa allucinante e lo zigomo gonfio e bollente. Vorrei ficcare la testa nel freezer, almeno… non so se servirebbe a qualcosa, in realtà, ma è quello che voglio fare adesso – anche solo per andare alla ricerca di un qualche cosa di freddo da mettermi in faccia – quindi apro lo sportello, e prendo a smadonnare quando chiaramente il cazzo di aggeggio è del tutto allagato, dal momento che ha deciso di rompersi. Fanculo anche a lui. L’acqua è colata fin nello scompartimento di sotto, e ne viene fuori un odore disgustoso. Dio che schifo.
Dovrei pulirlo, probabilmente, ma non mi va per niente. Sfilo il maglione che odora di Fler e mi viene la nausea. Sarà il senso di colpa: visto che sono troppo incasinato per percepirlo davvero, si presenta come voglia di vomitare. Sono già a due passi dal bagno, quando squilla il cellulare.
Il nome sullo schermo mi gela il sangue nelle vene. Lo fisso per un tempo che mi pare lungo minuti interi e non riesco a decidermi su cosa fare. Sono quasi le tre. Dovrebbe stare dormendo.
- Bill? – chiamo piano appena riesco a convincermi ad accettare la chiamata, - È successo qualcosa?
- Aaaah, Peter! – mi strilla nell’orecchio, ma non è un urlo spaventato, è solo concitato e un po’ ansioso e c’è anche una traccia di quell’eccitazione irrazionale che prende Bill quando è preoccupato per qualcosa di stupido che sa perfettamente andrà nel migliore dei modi ma sul quale si diverte a ricamare drammi senza motivo. – Ci hai messo una vita a rispondere, mi stavo preoccupando!
- Bill… - sospiro, - ma hai visto che ore sono?
- Sì, naturalmente, ma dovevo chiederti se sei riuscito a fermare Fler, non pretenderai mica che aspettassi domattina! Se non ci sei riuscito dovrò andarlo a recuperare io personalmente. – borbotta con aria cospiratoria, - Scommetto che hai fatto fiasco. Devo mettermi il cappotto? Metto il cappotto. Mi passi a prendere? Andiamo insieme.
Mi passo una mano sulla testa, cercando il bernoccolo. Lo trovo e lo pesto un po’. Cristo che male.
- Bill… - lo richiamo, mugugnando, - …sono quasi sicuro che tu mi abbia nascosto qualcosa.
Lui si lascia andare ad una mezza risatina imbarazzata.
- Fler mi aveva chiesto di non dirti che voleva andarsene. Perché voleva parlartene lui per primo, capisci?, non potevo tradirlo.
Mi si conficca uno spillo nel petto solo a sentire la parola. Solo a sentire lui parlare di tradimento. Lui che per me ha sfilato l’anello e il bracciale di Bushido. Li ha tolti di mezzo – e li aveva tenuti addosso per mesi, prima – solo per far spazio a me. Ed io… Cristo.
- Non devi preoccuparti per lui. – lo rassicuro, deglutendo a fatica, - Ha deciso di restare, alla fine.
Bill strilla contento.
- Davvero?! Ma è fantastico! E come ci sei riuscito?!
Ha provato ad andarsene e me lo sono stretto contro, Bill. Tutto qui.
- Gli ho fatto capire che avevamo ancora tutti bisogno di lui.
Bill ride ancora.
- Bravo! – si complimenta, - È vero.
- Già.
Mi lascio andare sul divano e poi affondo il naso fra i cuscini. C’è l’odore di Bill, qui. È un odore piacevole, un odore tranquillo. È sempre lui, sempre uguale, sempre lo stesso da mesi. Non è un intruso, non è sbagliato, è l’odore che dovrei avere addosso sempre. Poi ripenso a Bushido vivo in casa di Eko. Non so più quale sia l’odore giusto. Non lo capisco più.
- Peter? – mi chiama lui, - Sei stanco, vero? Lo sento dal modo in cui respiri.
Sbuffo una mezza risata.
- Capisci se sono stanco dai miei respiri?
Ridacchia anche lui.
- Ovviamente sì. – dice con una punta di orgoglio. – Ci sentiamo domani verso mezzogiorno? Così dormiamo e poi ci organizziamo per la giornata, okay? Ho voglia di vederti…
Inspiro ed espiro e penso solo al profumo.
- Sì, anch’io ho voglia di vederti.
Bill ride.
- Allora ci sentiamo domani. Buonanotte. – dice a bassa voce, prima di interrompere la conversazione.
Tutte le luci di casa sono spente ad eccezione di quella del bagno. Sento il bisogno fisico di una doccia, ma sento molto più il bisogno di dormire qui, perciò lascio perdere l’odore di Fler. Lo butto fuori dalla testa a calci. Affondo ancora più profondamente fra i cuscini e mi addormento.

Bookmark and Share

Scritto Sul Corpo

di lisachan
Quando apro la porta di casa, Bill è così slanciato in avanti che praticamente mi cade fra le braccia. Siccome non pesa niente, reggerlo non è difficile e non è che a ritrovarmelo addosso io faccia fatica a sostenerlo. Siccome, però, è illegalmente alto, se mi si getta addosso in questa maniera, mantenere il giusto equilibrio è un po' problematico, ed è per questo che, appena me lo vedo cadermi sopra, lascio andare un lamento un po' stupito e cerco – invano – di reggermi sulle due gambe che la natura mi ha dato. Purtroppo fallisco nel tentativo e in meno di due secondi io e Bill ci ritroviamo a terra. Io ho anche battuto con una certa forza – tra l'altro contro qualcosa che non sono certo di volere identificare – ma Bill sta ridendo, perciò è tutto ok.
Lo sento chinarsi un po' sul mio collo, mentre mi stringe con più convinzione e continua a ridere. Per un secondo penso voglia solo baciarmi, poi lo sento strusciare il naso contro la mia pelle e vado nel panico – solo un momento, il momento che in genere uso quando Bill sta per dirmi “sei stato con Patrick”. È un momento che mi serve perché “stare con Patrick” ha valenze tremende, nella mia testa. Sono valenze che non esistono, nella testa di Bill. Io non so lui cosa creda facciamo io e Fler quando stiamo insieme. Probabilmente è convinto che giochiamo a scacchi o qualcosa del genere. Comunque questo momento mi serve per tranquillizzarmi e convincermi del fatto che no, Bill non sta per accusarmi di alto tradimento, sta solo per annunciarmi che ho l'odore di Patrick addosso. Che per me equivale all'alto tradimento di cui sopra, ma per lui no. Quindi devo calmarmi per forza, se non voglio fare qualche cazzata delle mie.
- Hai ancora il suo odore addosso! - ride quindi, sistemandomisi in grembo e scatenandomi una guerra fra le gambe. Che poi, veramente, vorrei alzarmi e dare una testata contro il muro, ma di quelle forti, perché è indecente la successione di eventi che mi ha portato a questo momento. Cioè, io ieri ho quasi schienato Fler contro lo sportello della sua Escalade, eh. Ed eravamo tipo in mezzo alla strada. Io non so con che diritto faccio certe robe, giuro. Le faccio senza volerlo, forse. Che poi non è vero, è che probabilmente voglio un po' troppe cose tutte insieme.
Oltretutto, non è mica tanto normale che Bill mi riconosca addosso l'odore di Fler. Non è tanto normale che lo riconosca e non è tanto normale nemmeno che lo accetti lì com'è. Però c'è anche da dire che Bill probabilmente è davvero convinto noi si giochi, quando si va insieme da qualche parte. Che poi io e Fler non siamo mai andati da nessuna parte, tipo. Solo quando s'è trattato di Saad, e lì non si andava certo per divertirsi, comunque.
- Sì, ci... – invento palesemente, - è che aveva freddo.
Non che io mi renda conto di cosa ho detto. Cioè, aveva freddo. Che vuol dire, che l'ho scaldato? E come? Prego che Bill non me lo chieda perché non saprei come nascondergli che avevo una buona metà della sua lingua in gola, ieri sera, mentre ci dibattevamo come due ossessi fra il volante, il cruscotto e la leva del cambio. Penso a Fler, al cruscotto, alla leva del cambio, alla sua lingua in gola e cerco di calmarmi.
Bill, comunque, annuisce come se la mia fosse stata la risposta più logica possibile. E se me ne stupisco io davvero nella testa di questo ragazzo c'è qualcosa che non va. E d'altronde è il mio ragazzo. Sarebbe strano se fosse normale.
- L'importante è che sia rimasto. – dice quindi con una tranquillità addirittura inquietante. Dico io, d'accordo. Pure per me va bene se è rimasto. L'ho limonato perché rimanesse. Avrei probabilmente fatto di tutto purché rimanesse – e nemmeno sapevo che anche a Bill l'idea che lui partisse dava fastidio.
Non intendo sentirmi giustificato sul punto o pensare roba del tipo "eh, ma se alla fine Bill è d'accordo, il sacrificio è valso la pena". Baciare Fler ieri – e comunque mi ha baciato lui, credo – è stato quanto di più lontano da un sacrificio abbia mai vissuto nella mia intera vita.
Ma ho problemi più seri di questo, al momento. In realtà Bushido è vivo quindi io, a Fler, non dovrei nemmeno pensare. Così come non dovrei pensare a nient'altro che al fatto che Bushido è vivo anche ora che Bill mi si sistema addosso con la palese intenzione di farmi impazzire.
Oltretutto, pensare a Fler ieri mi dà ancora fastidio, soprattutto se lo associo a Bushido. Ma ho già detto che non dovrei pensarci, quindi perché lo sto facendo?
Comunque annuisco, anche perché Bill – a vedermi qua immobile che lo fisso con la solita occhiata da triglia che riservo di default a tutti gli uomini che scopo, per un motivo o per l'altro, quando dicono cose che mi sconvolgono – potrebbe pure insospettirsi. Quindi, appunto, annuisco e forzo un mezzo sorriso, incerto sul da farsi. Bill risolve il problema alla radice sporgendosi in avanti e baciandomi.
Io mi ci perdo tempo niente, nel senso che non si può davvero pretendere della razionalità, da me, perché io non ne ho in questi frangenti. Non riesco davvero nemmeno a colpevolizzarmi del tutto per aver baciato Fler, perché non è una cosa che mi stupisca. Io, davvero, non ce la faccio a frenarmi, di fronte a certe cose. Non lo faccio per cattiveria, lo faccio per affetto. Il mio enorme problema è che io Bill lo amo. Quindi se Bushido dovesse mettersi in testa che lo rivuole indietro, non so davvero come riuscirei a staccarmene. O come potrei fare a trattenermi e non saltargli addosso anche sapendo che non è più mio. Il problema si ripropone con Fler: io con quell'uomo c'ho una roba, non ho idea di cosa sia, mi fa paura la possibilità di capirlo un giorno, ma se mi si piazza davanti, io non ce la faccio a tener giù le mani. E' più forte di me, ma non è che voglio fargli del male. Non voglio fare del male a nessuno, io li voglio solo per me.
Lo stringo per i fianchi, attirandolo contro di me con una mano e cercando di eliminare la roba che ho sotto il sedere con l'altra. Il pavimento non è mai stato in cima alla lista dei posti in cui scopare, ma non ricordo di averlo fatto per terra con Bill neanche una volta, potrebbe essere un'esperienza. Bill mi mugola e mi sorride fra le labbra, io sorrido fra le sue e mi preparo a sentire dolore alla schiena per il resto dei miei giorni mentre lui mi appoggia le mani sulle spalle con una leggerezza che non ha bisogno di chiedere niente, e mi spinge a stendermi sul parquet, che scricchiola un po' sotto il nostro peso mentre Bill si solleva leggermente per sfibbiare i pantaloni e guardarmi con un sorriso sornione che mi manda fuori di testa.
Si tira su sulle ginocchia ed i jeans scivolano lungo i suoi fianchi stretti e magri. Io mi mordo un labbro e lui ansima pesantemente quando sollevo una mano a sfiorarlo attraverso il tessuto sottile dei boxer. Mi lascia fare, seguendo col bacino i movimenti della mia mano e strusciandosi lentamente contro il mio palmo aperto, e nel mentre afferra la maglia per gli orli inferiori e la tira su.
E lì i miei problemi vengono di nuovo fuori tutti nel loro ordine di importanza. Lì metto da parte le cazzate, veramente, perché c'è un particolare del corpo di Bill che tendo ad ignorare, dimenticare, cancellare – dato che lo odio – ma che esiste. È lì ed è enorme, è impossibile fingere che non esista.
Perciò deglutisco e, anche se continuo a muovere la mano sul suo corpo, so già che fare l'amore adesso non sarà bello come avevo sperato. Perché vedere quel tatuaggio a me mi manda fuori di testa. E non in senso positivo, per una volta.
Quattro mesi fa, Bill si è presentato a casa mia con un sorriso smagliante sul volto ed i lineamenti un po' tesi e provati. Bill ha quella faccia lì solo quando litiga con Tom, quando è stato ingiustamente privato della propria settimanale dose di Fler – che è peraltro una cosa che posso capire benissimo, anche se mi auguro che fra loro due non funzioni esattamente come funziona fra noi due – e quando torna stanco da un qualche impegno lavorativo. Al che, quando l'ho visto spuntare sulla soglia con quel faccino, mi sono giustamente preoccupato. Gli ho chiesto cosa ci fosse che non andava, lui ha risposto con un mezzo sorrisino scuotendo il capo e aggiungendo "è stata solo una giornata un po' faticosa", poi mi ha baciato, io l'ho tirato su per i fianchi, l'ho steso sul materasso e, quando gli ho sfilato di dosso la maglia, l'ho visto.
E lì mi sono fermato. Per la prima e unica volta nella mia intera esistenza – io non mi fermo mai – io mi sono fermato. Mi sono fermato, l'ho guardato, ho cercato di trattenermi e gli ho chiesto cosa cazzo fosse quel fottuto tatuaggio.
Sul suo fianco sinistro, ancora un po' arrossato e macchiato qua e là di inchiostro e qualche gocciolina di sangue già vecchio, campeggiava un'enorme frase il cui senso intrinseco ancora mi sfugge - "non smetteremo mai di gridare, torneremo alle radici", non è una frase che davvero significhi qualcosa: le radici dei Tokio Hotel sono i Devilish ed io mi auguro che Jost sia un uomo abbastanza furbo da impedire che questo crimine contro l'umanità possa avvenire. Comunque non era importante che quella frase avesse o meno un senso. Il punto non era la frase. Il punto era la forma del tatuaggio.
Quel tatuaggio è una B.
Mi si potrebbe dire che no, non è vero, non è una B, sono due dannate frasi che si intrecciano l'una con l'altra e l'illusione ottica di quell'intrecciarsi forma qualcosa di simile ad una dannata B – che peraltro, se anche fosse una B, potrebbe tranquillamente essere l'iniziale di Bill, Bill è un egocentrico e da lui un po' queste cose uno se le aspetta.
Se io non conoscessi Bill bene quanto lo conosco, probabilmente darei anche ragione a motivazioni simili. In realtà io lo conosco. In realtà so che, se non me ne ha parlato, è perché sapeva che non avrebbe avuto niente da dirmi al riguardo. Che la decisione era già presa ed io avrei anche potuto tirar giù la casa a cazzotti e urlargli in testa la qualsiasi, il risultato non sarebbe cambiato, lui quel tatuaggio l'avrebbe avuto.
Bill agisce così solo quando si tratta di Bushido. L'ho visto succedere. Ho visto venir giù un temporale epico, una roba da arca di Noè, verso i primi di gennaio, l'anno scorso. Ho visto Tom e Fler uniti nel tentativo di convincere Bill non fosse il caso di andare al cimitero a dare alla lapide di Bushido la lieta novella della morte di Saad per sua mano. Ma Bill è stato irremovibile, lui doveva andare e sarebbe andato, e l'ha fatto, alla fine. Fler l'ha accompagnato – Tom s'è giustamente rifiutato – ed al suo ritorno, quando me lo sono ritrovato congelato sulla soglia di casa che implorava per una secchiata d'acqua bollente in testa, mi ha raccontato scene allucinanti che vedevano Bill immobile davanti alla lapide che raccontava alla foto sorridente di Bushido ogni singolo minuto di quella notte disastrosa, mentre la bufera gli agitava i capelli e gli congelava le lacrime sulle ciglia e il sorriso sul volto.
Bill fa così, quando si tratta di Bushido. Ed è per questo che questo tatuaggio parla di lui.
Gli lascio scorrere addosso la mano libera, Bill geme ed io corro con le dita oltre l’orlo del boxer, perché si sta perdendo nelle mie carezze ed adoro quando lo fa. Adoro osservarlo quando chiude gli occhi ed il mio nome comincia a tremargli sulle labbra come volesse pregarmi e non riuscisse a capire bene per che cosa – come non riuscisse a capire se mi vuole più veloce, più lento, più a fondo o appena più indietro, semplicemente perché tutto ciò che vuole è avermi ovunque in ogni modo e non sa come chiedermelo.
- Peter… - mi chiama piano, ed io gli sfilo lentamente i boxer. E mentre lo faccio lo guardo e lo trovo ad accarezzarsi piano il fianco, dal basso verso l’alto. Mi ha detto che lo fa perché lì la pelle è molto sensibile e passarci sopra con la punta delle unghie gli dà i brividi.
Io credo che ogni tanto Bill abbia bisogno di accarezzarsi addosso Bushido. Credo che non lo faccia coscientemente, però ci sono dei momenti in cui ha bisogno di sentirselo sulla pelle, e questo ormai è l’unico modo in cui può farlo.
Fa male. Fa malissimo pensare che Bill ha tolto il bracciale e la fede e che togliere di mezzo quelle cose ha portato solo a peggiorare la situazione. Prima non c’era Bushido scritto sul suo corpo. Adesso sì. Adesso quell’onda di inchiostro nero gli marchia la pelle e resterà lì per sempre. Bill non se la strapperà mai di dosso, fa parte di lui. Come Bushido, in realtà: lui è sempre stato lì; questo tatuaggio, più che esserselo impresso sulla carne, Bill l’ha lasciato affiorare passo dopo passo. Ed io lo so. Lo so mentre lo stringo e mentre lo accarezzo fra le gambe e mi inumidisco le dita ed entro dentro di lui con tutti i dannati riguardi del caso, piano piano, lentamente, con delicatezza. E lo so mentre mugola e geme il mio nome, e smette perfino di accarezzarsi il fianco. Bushido resta lì, ed il fatto che resti lì è spaventoso adesso come mai prima, perché adesso Bushido è qui per davvero.
Ogni tanto mi chiedo se Bill non abbia tolto i gioielli pensando già a quando si sarebbe tatuato quella B addosso. O se forse sia stato un bisogno nato successivamente, proprio perché mancava il peso dell’oro e dell’argento e dei brillanti di Bushido attorno al suo polso ed al suo anulare sinistro. Mancava quel peso e lui s’è inciso addosso un peso diverso ma ugualmente importante, forse.
Non lo so.
Non riesco davvero a pensarci quando lo sento stringersi ritmicamente attorno a me, seguendo la traccia delle mie spinte lente e calibrate. Non riesco a pensarci anche se vorrei e forse dovrei, e per un attimo – solo uno – riesco perfino a dimenticare che Bushido è ancora vivo, che questa storia non può che finire male e che in questo momento ho l’impressione che la storia fra me e Bill non sia ancora nemmeno cominciata, che sembra già sia costretta a concludersi.
Riesco a dimenticare tutto per un solo momento, per il momento in cui Bill trattiene il respiro e poi viene fra le mie dita, per il momento in cui lo sento stringersi convulsamente un’ultima volta attorno a me e vengo anch’io, soffocando gli ansiti pesanti sulla pelle morbida e profumata del suo collo. Lo dimentico e spengo il cervello per tutti i secondi successivi, cercando di prolungare le dimenticanze il più possibile, cercando di infilare in quel buco nero di tutto – Bushido, Fler, perfino il mio incasinatissimo cervello – lasciando riaffiorare solo Bill.
- Mi sei mancato così tanto ieri… - mi sussurra Bill direttamente all’orecchio. I suoi capelli sono ovunque addosso a me, mi solleticano il naso e mi s’infilerebbero negli occhi se non tenessi le palpebre abbassate. Il pavimento è duro e scomodo ed io dovrei dire al mio ragazzo che il più grande amore della sua vita non è morto come crede. Ma non posso farlo, perché dirglielo implicherebbe perderlo. Ed io forse pecco di egoismo, ma non sono disposto a cederlo. Così come non sono disposto a cedere nient’altro.
Non so davvero come farò a guardare nuovamente negli occhi Bushido.
Non so davvero come farò a guardare nuovamente negli occhi nemmeno me stesso.
Non so davvero, soprattutto, come farò a guardare nuovamente negli occhi Bill.
- Anche tu mi sei mancato tanto. – rispondo tirandomelo contro per la nuca ed aiutandolo a sistemarsi per bene contro il mio corpo. – Resti un po’?
- Sono scappato col benestare di David! – mi informa lui con una risatina, mentre si stringe contro di me in cerca di un po’ di calore, - Resto a cena ed anche per la notte. Contento?
Io mi lascio sfuggire un sorriso un po’ triste. Fortunatamente, Bill non può vederlo.
- Sì, molto. – sussurro piano, prima di baciarlo ancora. E tapparmi la bocca. Perché è sicuramente meglio così.

Bookmark and Share

Hass

di lisachan
La prima cosa che ha fatto Fler quando Jost ci ha detto che forse era meglio lasciare Bill e Bushido da soli per un po’, è stata poggiarmi una mano sulla spalla. Il primo pensiero che è saltato fuori dalla nebbia confusa che avevo al posto del cervello in quel momento, è stato “fottiti, non mi serve la tua cazzo di mano sulla spalla, il mio ragazzo sta baciando il suo ex qui di fronte a me, come se io neanche esistessi più. Cazzo vuoi che mi serva la tua mano?”.
Ho capito poi che, in quel momento, lui la mano lì sopra l’ha messa non per consolarmi, ma per trattenermi. Questo perché Fler lo conosce bene, il mio corpo. Lo legge alla perfezione, ed anche in un tempo brevissimo. Perciò si è accorto della tensione nei miei muscoli e dello scatto in avanti che ho fatto, e l’ha fermato prima ancora che potessi realizzare coscientemente di aver desiderato quel movimento. In sostanza, non mi sono mosso di un millimetro. Ho realizzato che avrei voluto farlo solo dopo. E adesso ho in corpo una furia repressa che non riesco ad incanalare in nessun modo.
La mano di Fler, comunque, è ancora lì.
Mi volto appena e c’è Jost ancora nei paraggi della porta che s’è chiuso alle spalle. Sembra incerto fra la possibilità di andarsene e quella di restare.
- Quindi tu lo sapevi. – sibilo guardandolo, gli occhi ridotti a due fessure, - Ci hai presi tutti per il culo. Per tutto questo tempo.
I suoi occhi sfidano i miei. Sono azzurri ma non tanto azzurri. Fler mi ha abituato a sguardi ben più pesanti. Jost non ha possibilità di competere, perciò reggo tranquillamente la tensione dello scontro. La mano è lì e non si sposta.
- Ho fatto il mio lavoro.
- Il tuo lavoro – urlo, stringendo i pugni, - dovrebbe essere prenderti cura di Bill!
- Il mio lavoro – risponde lui, gelido, - è stato prendermi cura della situazione perché non degenerasse.
Ghigno ironico.
- Bel lavoro hai fatto. Questa ti sembra una situazione non degenerata?!
Esita per un attimo, probabilmente perché lo sa, cazzo, se ne rende conto che è vero, ho ragione io, questa situazione è degenerata sì. Eccome se è degenerata. Siamo in un fottuto casino. E se Bill ha spento il cervello e magari al momento non l’ha ancora realizzato, la stessa cosa non si può dire di noi tre. Che stiamo qui a dare aria alla bocca – David davanti alla porta, neanche stesse facendo la guardia, io immediatamente di fronte a lui e Fler poco dietro di me, la mano sempre lì – e siamo in assoluto le persone che l’entità di questo casino indescrivibile la capiscono meglio.
- Non sono affari tuoi. – risponde infine, rilassando disinvoltamente le spalle. – Io non rispondo a te.
- Risponderai a Bill. – gli faccio notare, ringhiando sottovoce. Lui annuisce.
- Sì. Appena porrà le domande, risponderò a lui. Fino ad allora, io rispondo solo a Bushido.
E io, cazzo, li odio. Odio lui, odio Bushido, odio Bill ed odio anche la fottuta mano di Fler. Odio chiunque non si senta come mi sento io in questo momento. Ed odio anche quelli che ci si sentono. Perché la rabbia mi sta divorando e mi sembra di essere l’unico che abbia il diritto di perdercisi.
Grugnisco frustrato, voltandomi di scatto. La mano di Fler e la mia spalla perdono contatto per un secondo netto. Il tempo di girarmi. Poi è di nuovo lì.
- E mollami, Cristo. – chiedo burbero, lanciandogli un’occhiataccia irritata.
Lui scuote il capo.
- Ti dà fastidio? – chiede, indicando la mano con un cenno del capo.
Io sbuffo.
- Non particolarmente.
- E allora resta lì dov’è. – conclude serio, - Almeno finché non la pianti di voler sfondare la porta a calci.
- Non voglio niente del genere. – nego, distogliendo lo sguardo.
Fler sorride. Non lo vedo ma lo sento nell’aria.
- Come preferisci. – risponde. E la mano non si sposta.
Resta lì mentre mi chiede se voglio andarmene. La risposta è “no”, ma annuisco. Perché è meglio che Fler mi porti via. Resta lì anche mentre scendiamo le scale verso il piano di sotto, oltrepassiamo la porta, il vialetto e il cancello, e ci infiliamo in macchina. Eravamo in tre, in questa macchina, quando siamo arrivati. Tutto mi aspettavo meno di trovarci Fler, qui da Bushido. O meglio, un po’ me l’aspettavo, ma evitavo di pensarci. Comunque era qui. In macchina c’eravamo io, Bill e Jost. Adesso ci siamo io e Fler. Alla fine della giornata, qualsiasi sia la cazzo di macchina coinvolta, qualsiasi cosa sia successa durante il giorno, se è stata una giornata di merda c’è sempre Fler al mio fianco sul sedile. Sempre lui. E la mano non si sposta. È scomparsa solo mentre ci mettevamo seduti. È di nuovo lì, adesso.
Rilasso la schiena contro il sedile e sospiro profondamente, gettando indietro il capo e chiudendo gli occhi. Sono furioso. Non serve a niente che faccia la sceneggiata dell’uomo triste ma tranquillo, Fler me lo sente addosso che non sono niente del genere. Non sono triste, sono furioso. Per niente tranquillo. Potessi, prenderei a mazzate un muro. Per il solo piacere di sentirmi dire “guarda che non puoi abbatterlo” ed abbatterlo comunque, fottuto mattone dopo fottuto mattone.
Un po’ mi dispiace che ci sia Fler in giro mentre sto così. Fler non ha molta fortuna. Almeno non con me. Finisce sempre che mi gira intorno quando ho voglia di devastare qualcosa. Non voglio finire di nuovo a devastare lui.
La mano di Patrick si stringe attorno alla mia spalla, massaggia un po’ i muscoli contratti – le dita bene aperte, il palmo aderente al tessuto della mia maglietta – e poi si ferma.
- Chaku, andiamo un po’ a casa tua, ti va? – e lo dice con un tono dolce che gli ho già sentito usare, qualche volta. Quelle volte in cui io e lui continuavamo a stare bene l’uno con l’altro anche quando non stavamo scopando, per esempio. Fler non ha una voce cattiva, ha una voce che può diventare tremenda se è gelida e furente, ma a livello base, quando è di buon umore, quando la ammorbidisce coi toni dolci, quando sorride, non è cattiva affatto. È piacevole.
Lo guardo, gli occhi socchiusi, e lui per qualche motivo arrossisce.
- Vuoi venire da me? – glielo chiedo non perché sono uno stronzo, ma perché voglio essere sicuro di aver capito bene. “Venire da me” non è mai stato privo di conseguenze, fra me e Fler. Ha sempre significato una cosa ben precisa. Stranamente, non mi sento in colpa nei confronti di Bill, a pensarlo adesso. Sarà perché so perfettamente cosa sta succedendo dietro la porta cui Jost sta facendo la guardia.
Fler spalanca gli occhi e, invece di ritrarsi come sarebbe ovvio, buono e giusto, stringe di più la presa.
- Peter… - mi dà i brividi che mi chiami per nome. Ultimamente, questo nome l’ha usato quasi solo Bill. Mi piace sentirlo su labbra non sue, da una voce non sua. Per una volta, cazzo, voglio che le prossime ore siano differenti dagli ultimi mesi della mia vita. C’è stato solo Bill nella mia vita, per nove fottuti mesi. Ciò che ho in cambio adesso è la sua bocca su quella di Bushido, le sue braccia attorno al suo collo e lui stretto al suo corpo come nel mondo intero non esistesse nient’altro. E allora no. Allora no, vaffanculo. Fa male. Non ci sto.
- Patrick. – lo chiamo a mia volta. Non distolgo lo sguardo e non mi muovo. La sua mano è ancora lì. Mi piace che sia ancora lì. Sono contento di non averlo scacciato.
È ridicolo, ci siamo appena chiamati per nome senza un perché.
- Forse è meglio se andiamo da qualche altra parte, invece di andare a casa tua.
- Forse è meglio se la smettiamo di nasconderci dietro un dito.
Fler arretra un po’. Solo qualche centimetro, poi si rende conto che è comunque seduto in macchina e non può certo attraversare lo sportello come fosse un fantasma. Si rende conto che per allontanarsi ancora dovrebbe per forza lasciarmi andare, voltarsi, tirare la maniglia, spingere ed uscire. Per qualche motivo che non comprendo – come al solito: non l’ho mai capito, io, perché Fler si ostinasse a restare – non si muove oltre. Resta lì. La mano trema appena, incerta.
- Peter, - continua a chiamarmi per nome, - io non ti sto mentendo. Mi manchi. Mi andrebbe. Ma non possiamo.
Mi muovo, accendendo la macchina ed ingranando la marcia, dirigendomi verso casa.
- Loro stanno potendo. Eccome. – ringhio, aggrottando le sopracciglia.
- Non sai se sta succedendo davvero. – dice lui, lasciando scivolare la mano lungo il mio fianco. Non può più tenerla lì dov’era ma non vuole interrompere il contatto. Comunque questo discorso potrebbe anche concludersi qui, perché io non gli ho neanche detto cosa penso e lui l’ha già capito. L’ha già capito perché anche lui l’ha pensato. E se lui l’ha pensato – e lui lo conosce bene, Bushido. E conosce bene anche Bill – allora sta succedendo. Cristo, io me lo sento nelle ossa, che sta succedendo. È una cosa così evidente e palese che mi sembra perfino ridicolo starne a discutere. – Non ti fidi?
- No. – sbotto senza neanche pensarci, - Non c’è scritto da nessuna parte che amare qualcuno significhi fidarsi di lui. Oltretutto, non mi pare che Bill mi abbia dato modo di fidarmi, negli ultimi dieci minuti. – mi fermo al semaforo, schiacciando la frizione con furia. – Magari, ok, glielo concedo, magari non scoperanno. Mi viene da ridere a pensarci, perché è una cosa ridicola, tu lo sai ed io lo so che scoperanno, ma ammettiamo per un istante che non lo facciano. In ogni caso, appena l’ha visto gli è saltato fra le braccia. Classica scena epica, ci aveva abituati tutti così, giusto?, Bushido gli si è inginocchiato di fronte, gli ha fatto il baciamano, “ciao, principessa”, e il secondo dopo eccolo che gli si scioglie addosso. A questo punto, scusa la franchezza, me ne sbatto il cazzo se scoperanno o meno. Mi sembra di avere già motivi a sufficienza per essere incazzato.
Non ribatte – ovviamente non ne ha il coraggio: ‘cazzo puoi ribattere se uno ha ragione? – perciò è così che restiamo – in silenzio, io mani sul volante, lui mano sul mio fianco – finché non arriviamo a casa mia. Non gli chiedo se vuole salire, a questo punto o sale con le sue gambe o lo trascino su io per il cappuccio della felpa.
Fortunatamente sceglie le proprie gambe. Io non so dove trovo la forza, la decenza e la presenza di spirito per non saltargli addosso appena ci chiudiamo la porta alle spalle. Fatto sta che, malgrado io non mi senta né forte né armato di decenza né tantomeno presente – allo spirito, a me stesso o a chicchessia – decido di prendermela comoda. Fler è qui, non penso intenda scappare ed al momento, se gli metto le mani addosso, mi sfogo. Non voglio sfogarmi. Non mi piace sfogarmi su di lui. Se dev’esserci qualcosa, oggi, non sarò io che gli faccio male. Non è questo che voglio. Lui è gentile a restare. Non se lo merita.
Comunque è nervoso. Lo vedo dal modo in cui cammina e si muove per l’appartamento, tirando su da terra le cose che incontra al proprio passaggio e continuando a lanciare occhiate incerte al frigorifero.
- Magari ci prendiamo qualcosa da bere? – biascica, indicandolo da qualche metro di distanza.
Scrollo le spalle.
- Non funziona. Non aprirlo. Ne viene fuori un odore nauseante. Non ti ci avvicinare nemmeno, fidati, è meglio. – e così dicendo, visto che non ho niente di meglio da fare, sfilo il cappellino e la felpa, restando in maglietta e pantaloni. Fler deglutisce.
- Potremmo provare ad aggiustarlo. – suggerisce a bassa voce, distogliendo lo sguardo.
Tolgo anche la maglia. Non intendo dirglielo ad alta voce. Non intendo dire ad alta voce che scoperò con qualcun altro che non sia Bill. Però voglio farlo. Voglio farlo ma non voglio dirlo, perché me ne vergogno. Mi torna in mente Fler che mi dice “mai vergognarsi delle proprie azioni, è da sfigati e noi non lo siamo”. Mi sa che sbagliavi, Pat. Sbagliavi alla grande.
- Sei un elettricista, per caso?
- No, ma so-
- Non mi interessa. – sfibbio il primo bottone dei jeans, - Non ti ho chiesto aiuto per sistemare il fottuto frigo.
Fler si inumidisce le labbra e resta in silenzio per qualche secondo. E poi indietreggia. Cristo, mi viene quasi da ridere. Indietreggia! Neanche lo stessi minacciando di pestarlo o chissà che. Cazzo. Si tratta di una scopata, cazzo. Ne abbiamo a decine in memoria, è una cosa quasi logica. A toccarsi solo un po’, andiamo avanti senza nemmeno rendercene conto. Lo so. Lo so che sarebbe così. Dovrebbe solo lasciarsi toccare, Cristo santo, e dopo sarebbe tutto normalissimo e naturalissimo. Dovrebbe concedermi solo questo.
- Patrick. – lo chiamo. Non so perché mi ostino ad usare il suo nome di battesimo. Sarà che oggi è strano. Se uso un nome che non uso spesso, posso fingere che non sia lui, posso fingere di non stare distruggendo qualcosa di bello che c’è nella mia vita per la frustrazione di una sera.
Fler mi ha detto no più volte di quante io riesca a contare. Mi ha detto una quantità sconcertante di no prima che mi mettessi con Bill ed ha ripreso a dirmi no quando io ho ripreso a mettergli le mani addosso. Posso tranquillamente dire che, da quando è morto Saad, le mie uniche costanti immancabili sono state Fler e i suoi no. Adesso, solo perché sono incazzato con Bill, le sto calpestando entrambe. E non mi va di farlo a Fler, perciò lo faccio a Patrick.
Lui mi guarda. È fantastico che non riesca a staccarmi gli occhi di dosso. Non posso dire che avessi dimenticato che era questo, l’effetto che facevo a Fler, perché in realtà non ho mai smesso di leggergliela negli occhi, la voglia. Così come lui non ha dimenticato come si fa a leggerla nei miei, suppongo. Ecco perché se n’è uscito con la questione dell’andare via. Perché ha visto la voglia tornare ed ha avuto paura di combinare qualche danno.
A me, in questo preciso momento, non frega più un cazzo. A non combinare danni per nove mesi, non ho guadagnato niente. La principessa mi perdonerà se, per qualche ora, la mando a fanculo, visto che lei lo sta facendo in favore di un re che dovrebbe – cazzo – essere morto.
Perciò niente, mi avvicino ancora e sfibbio un altro bottone. Fler indietreggia di un altro passo e trova il muro. Mi fissa con sgomento, quando solleva gli occhi su di me e mi trova a ghignare.
- Sei un tantino arrivato alla parete. – gli faccio notare con un mezzo sorriso.
Lui stringe le labbra, prima di parlare.
- Mi dai i brividi. – dice. E lo so. Do i brividi anche a me stesso. – Non voglio, Chaku.
- Peter.
- Chaku.
Scrollo le spalle e sfibbio l’ultimo bottone.
- Come vuoi. – faccio un altro passo verso di lui e siamo distanti appena un paio di centimetri. Sta schiacciato contro il muro, tanto è il bisogno che ha di non toccarmi. – Fler. Visto che ci tieni.
- Per favore. – chiede, ed a me viene ancora voglia di ridere. Potrebbe stendermi a cazzotti, se solo volesse. Potrebbe mandarmi a sbattere contro la parete opposta con uno spintone. Potrebbe rimettermi a posto in due minuti, non gli costerebbe nemmeno della vera fatica. Ma non lo fa. È debole, contro di me, ha una soglia di resa bassissima. Non so se questa consapevolezza, in questo momento, mi esalta o mi diverte di più. – Smettila.
- No. – dico seccamente, - Mi sono rotto i coglioni di smetterla. – lo afferro per i fianchi, tirandomelo contro. Impatto, scariche elettriche. Come sempre. Questo non cambia mai, Fler, come fai a non sentirlo?
- Chakuza! – mi chiama, più deciso, e fa il grave, gravissimo errore di posarmi le mani sul petto per cercare di spingermi via. Lo fa con una convinzione tutta particolare. Quella che sembra vera solo a guardarla dall’esterno. Perché io che mi sento le sue mani addosso non l’avverto per niente. E mentre mi tocca se ne accorge anche lui, che non mi sta allontanando davvero. Glielo leggo negli occhi, che lo capisce. E che si chiede che cazzo stia succedendo. Che cazzo stia facendo io e che cazzo stia permettendomi di fare lui.
- Andiamo, Fler. – lo schiaccio contro il muro, le mani sotto la maglietta a divorare centimetri di pelle, - Non mi prendere in giro.
- Non voglio. – dice a fatica. La sua voce mi vibra sulle labbra mentre gli mordo il collo.
- Vuoi. – lo correggo, sporgendomi un po’ verso la sua bocca, - Non mentire.
- Tu sei uno stronzo. – ansima mentre armeggio con la cintura dei suoi pantaloni, - Sei uno stronzo e sei un bugiardo. Non dire a me di non mentire.
- In questo momento, non ti sto mentendo. – ringhio, infilando una mano oltre l’orlo dei jeans ed accarezzandolo lentamente attraverso il tessuto sottile dei boxer, - Quello che voglio lo sai. Manca solo che te lo chieda ad alta voce. Devo farlo?
- No! – ringhia, piegando un po’ il capo e socchiudendo gli occhi, lasciandomi scivolare le mani dal petto fino alle spalle e stringendo forte, - Cristo, no. Smettila. Non voglio.
E non l’ho ancora baciato. Non riesce nemmeno a lasciarmi andare. Non ho ancora neanche fatto finta di baciarlo.
Lo faccio, perché a Fler piace baciare. Ci si perde. Mi spingo in avanti e gli catturo le labbra con le mie. Le sto forzando con la lingua il secondo successivo, anche se forzare non è il termine più adatto, perché le trovo già schiuse in attesa di me appena le sfioro. Come dicevo, a Fler piace baciare, oh sì, gli piace un monte. Ci si perde del tutto e non capisce più niente. È l’effetto che su di me ha il sesso. A lui bastano i baci. Ciò dimostra che è un ragazzino, lo è sempre rimasto malgrado tutto ed io sono davvero lo stronzo che dice lui. Molto semplice. Non ho voglia di sentirmi in colpa anche per questo, al momento. Basta già il pensiero di star tradendo Bill. Che, cazzo, se lo merita. Ma mi fa sentire in colpa lo stesso.
- Chaku… - ansima esausto quando mi allontano da lui e faccio per tirargli via la maglietta di dosso, - Cristo, sei una merda. Smettila, per favore.
- Stai piagnucolando come un ragazzino. – gli faccio notare, mordendogli una spalla da sopra il tessuto, - Se mi vuoi fuori dai coglioni, prendimi a calci. Altrimenti lasciami fare senza lamentarti.
- …sto cercando… - deglutisce, piegando il capo mentre risalgo con le labbra la linea del suo collo, - …di non farti del male. Stai già male.
- Sto alla grande. – ritorco, spogliandolo di prepotenza, - Mai stato meglio.
Lui non mi guarda. Quando non mi guarda è perché sa che mi basterebbe guardarlo negli occhi per leggerci dentro che pensa io abbia torto. Non vuole darmi torto. Cristo. Perché dev’essere così? Sarebbe molto più facile – sarebbe molto, molto più facile – se fra me e Fler non ci fosse niente. Almeno non lo conoscerei così a memoria. E non potrei elencare così alla perfezione tutte le centinaia di modi in cui gli sto facendo del male adesso.
Lo so, Fler. Lo so che ti sto passando addosso come un fottuto carro armato. Lo so che ci stai di merda. Lo so. So anche perché non riesci a dirmi no, cazzo, da qualche parte dentro di me l’ho sempre saputo. Ma non ce la faccio a fermarmi. Non voglio. Non riesco a trovare un motivo per farlo, non ci riesco neanche provandoci. Bill non è un motivo, in questo momento. E Bill è stato un motivo per quasi tutto l’ultimo anno della mia esistenza. Perciò mi fa male che non lo sia più. E non ce la faccio a fermarmi, a queste condizioni. Non ce la faccio e basta.
- Spegnimi il cervello. – glielo soffio addosso come un’implorazione. Suona affranto e sconfortato allo stesso modo, almeno alle mie orecchie. Gli sfioro una guancia con le labbra, non è un vero bacio, è solo uno sfregamento, però è una cosa intensa. Lui si irrigidisce e si tende tutto sotto le mie mani. Lo guardo negli occhi, prima di continuare. – Spegnimi il cervello. – ripeto, - Sei sempre stato bravo a farlo. Non dirmi di no. Per favore.
E lui in effetti non me lo dice. Le sue mani – che sono ancora sulle mie spalle. Lo sono come lo erano quando siamo usciti da quella dannata stanza. Il modo in cui Fler mi tocca non è mai davvero cambiato – scivolano verso l’alto, lungo il mio collo. Mi aggancia alla nuca e mi accarezza con una tenerezza che con il sesso non c’entra niente.
Ecco, questo mi calma.
…questo mi calma.
La sua fronte sfiora la mia e restiamo a guardarci negli occhi da una distanza minuscola.
- Devo farlo. – mi sussurra sulle labbra, con un mezzo sorriso, - Bill non resterà per sempre chiuso in quella stanza, Peter. Quando ne uscirà, dovrete parlare. Ed allora desidererai di non aver scopato con me. – si prende una pausa, continua ad accarezzarmi la nuca ed io mi sento esplodere il cuore. – Non voglio essere un rimpianto. Tu me lo devi, questo. Non puoi fare di me un rimpianto.
Saranno le carezze, non lo so. Sarà la sua voce, che è di nuovo dolcissima.
Sarà che ha ragione. Non posso. Nemmeno voglio. Fare questo, che sia a Fler o che sia a Patrick… no, non voglio.
Comunque mi allontano. Lo faccio senza piacere, perché staccarmi da lui è difficile. Dio, lo è sempre stato, anche quando passavamo il tempo a cazzeggiare, figurarsi se non lo è adesso che è tutto diverso, tutto complicato e tutto doloroso.
Mi allontano e gli lascio spazio. Lui mi ringrazia con un sorriso e si china a recuperare la maglietta. La indossa, riabbottona i jeans e si dà una sistemata generale senza guardarmi. Io non gli stacco gli occhi di dosso. Non sono pentito di aver lasciato perdere. Mi manca il suo calore, la forma del suo corpo e il suo odore, sì, ma in un certo senso mi mancano sempre. Quando non c’è Bill, quando sto facendo qualcosa di insopportabilmente noioso, quando guardo una cosa a caso che mi ricorda lui, queste cose mi mancano sempre. Quindi non c’è niente di diverso. Sono calmo. È riuscito a calmarmi e vorrei poterlo odiare per questo, ma non ci riesco.
- Mi dispiace. – ammetto a mezza voce mentre lui recupera la giacca e si muove verso la porta.
Lo sento ridacchiare piano.
- Lo so. – annuisce indossandola, - Tu sei un disastro. Ormai ci ho fatto il callo.
- …mi dispiace anche per questo. – sospiro. Lui annuisce ancora e mi saluta. È già sparito, chiudendosi la porta alle spalle, prima ancora che possa realizzare che lo sta facendo.
A questo punto mi guardo intorno. I soprammobili sono a posto. Non c’è quasi niente per terra. È tutto molto ordinato.
Conto le opzioni che ho per passare il resto della nottata. Non sono molte, penso, mentre afferro soprammobili a caso e comincio sistematicamente a lanciarli in giro per la stanza.

Bookmark and Share

Ewige Nacht

di lisachan
Quando Bill mi ha chiamato al cellulare, oggi, io ho ringraziato una buona quantità di dei, perché non ne potevo già più di stare sul divano a fissare ed odiare ogni singolo centimetro del dannato pavimento di casa mia. Per quanto negli ultimi mesi abbia avuto modo di stare spesso a casa – sono stato più spesso da Sido, sì, ma non potevo pretendere di stabilirmi lì per sempre, non c’erano i motivi e sarebbe stato allucinante – non sono mai davvero riuscito ad appropriarmi di questo appartamento. Sarà che non lo voglio davvero, sarà che non me ne frega niente, sarà che gli unici due posti in cui sento di aver davvero vissuto sono la topaia che ho condiviso con Anis ai tempi dell’Aggro e la topaia che ho condiviso con Chakuza in tempi più recenti, insomma, non lo so cosa sarà, so solo che io questo posto lo odio e non lo ripeterò mai abbastanza.
Comunque, ho risposto pure con gioia – anche perché, ‘cazzo ne sapevo io che, mentre stavo a rigirarmi i pollici sul divano, in casa di Anis aveva luogo l’Apocalisse? – ma ho fatto in fretta a tornare coi piedi per terra. Bill ha un modo tutto suo di dirti che sta male anche senza dirtelo effettivamente. È qualcosa nel ritmo del suo respiro, nel modo in cui senti che sta cercando di trattenere perfino i battiti del proprio cuore, perché fanno male pure quelli e lui non sa come uscire da questo groviglio di dolore enorme che gli si è abbattuto contro. Bill è una persona che dovrebbe essere sempre felice, perché è evidente che il suo corpo non ha la costituzione adatta per resistere alla sofferenza. Ci vogliono spalle, per restare in piedi quando ti prende in pieno una valanga. Ci vogliono spalle e muscoli e la pelle di cuoio, non ti bastano i coglioni. Lui quelli ce li ha, ma gli manca tutto il resto.
Insomma, non ho avuto bisogno che mi dicesse niente. Peraltro, anche quando sono passato a prenderlo per portarlo a prendere una cioccolata da qualche parte, non ho esattamente avuto l’impressione che gli andasse di parlare. A volte è così, c’hai solo bisogno, tipo, di fare qualcosa. Hai quasi l’impressione che provando a spiegarti faresti solo danni maggiori, perciò niente, hai bisogno di distrarti, fare roba, andare in posti, vedere cose. Poi torni in te, poi puoi anche parlare, sul momento però no, e Bill era scosso e le sue guance erano ancora rosse e i suoi occhi ancora rossi, ma io non ho chiesto. E lui in genere risponde anche quando non chiedo, quindi il fatto che non rispondesse a prescindere mi ha dato l’idea che volesse, appunto, solo fare robe, andare in posti, vedere cose. E perciò gli ho fatto fare robe, l’ho portato in posti e gli ho dato da vedere cose.
E lui è stato anche un po’ meglio, mi ha sorriso e tutto, e poi niente, non mi ricordo com’è che abbiamo deciso di passare da Chakuza – probabilmente avevamo solo entrambi voglia di vederlo, solo questo, anche se non ce lo siamo detti, primo perché non ho bisogno che Bill mi dica quando ha voglia di vedere il Chaku, glielo sento addosso, e secondo perché non ho bisogno di dire a Bill quando ho voglia di vederlo io, perché non esiste – e lì è ovviamente precipitato tutto, perché fra le mille cose che potevamo aspettarci – o almeno, che poteva aspettarsi Bill, visto che effettivamente io non sapevo niente di quello che era successo fra lui e Bushido solo poche ore prima – l’immagine di Chakuza seduto su uno sgabello accanto all’isola con una borsa del ghiaccio spiaccicata sulla faccia era proprio l’ultima che potesse venirci in mente, ecco.
Il resto io l’ho visto accadere. Ci sono dei momenti – è una cosa che ho imparato a fare da ragazzino – ci sono dei momenti in cui smetto di viverlo, quello che mi sta succedendo, e mi limito a guardarlo. Non serve che sia una cosa necessariamente dolorosa o sconvolgente, basta che mi accorga che in un altro modo non potrei tollerarla. Perciò ho osservato Bill avvicinarsi a Chakuza, sussurrargli “è stato lui, vero?”, ho osservato Chakuza annuire, confermare, vuotare il sacco su tutto anche lì di fronte a me, e poi ho osservato Bill andare in bagno a prendere la cassetta del pronto soccorso, e lì – quando gli occhi verdi e pesti di Chakuza si sono spostati sui miei – lì mi sono tolto dalle palle, come suppongo avrei già dovuto fare da mesi e in maniera ben più radicale di quanto non abbia fatto.
E me ne sono tornato a casa.
Sono passate due ore da quando ho lasciato Chakuza appollaiato lì sullo sgabello, con Bill che si prendeva cura delle varie ferite e abrasioni che c’erano ovunque sul suo viso, sul suo collo, sulle nocche delle sue mani, dopo la scazzottata che ha avuto luogo a casa sua. Quello che dev’essere successo prima che io e Bill arrivassimo posso solo immaginarlo. Posso solo immaginarla, l’espressione di Anis, mentre si presenta a casa di Chakuza intenzionato a rivoltarlo come un fottuto calzino per l’imperdonabile colpa di aver messo le mani sul suo ragazzino quando non doveva. Posso solo immaginarla e mi viene anche un po’ da ridere, perché cazzo, Anis, tu sei morto. I morti non hanno diritti, ed i diritti non sono retroattivi: se resusciti, non puoi riavere indietro quelli che hai perso.
Ecco, se resusciti non puoi riavere indietro ciò che hai perso. Qualcuno dovrebbe dirglielo chiaro, ad Anis. Anche se io non penso che avrei il coraggio di farlo.
Comunque, sono passate due ore ed io, da quando sono tonato qui nel mio appartamento vuoto, ho cercato di non pensare. Ho riesumato il vecchio Game Boy che Sido mi ha passato quando sua figlia ha smesso di usarlo in favore della Playstation, ed ho tirato fuori qualche cartuccia recuperata secoli prima nelle cuccette dei tour-bus, quando ancora i ragazzi ci giocavano, con queste robe, e gli studi dell’Aggro, quando non si lavorava, erano tutto un risuonare delle musichette elettroniche del Tetris.
Insomma, mi sono seduto lì sul mio enorme divano bianco panna che è un divano palesemente da single, così come questa è una casa palesemente da single. Sarebbe anche bello usarla nel modo giusto – per rimorchiare, cioè – ma sto cominciando a rassegnarmi alla mia vita così per com’è ora. Triste da dire, ma non c’ho nemmeno voglia di andare per locali. È che, boh – e nel mentre Super Mario si infila in un tubo verde e ne riesce grande il doppio rispetto a quando c’è entrato – mi sembra di aver fatto una serie incredibile di buchi nell’acqua. Non parlo solo di Chakuza, anche Anis, pensandoci col senno di poi, Dio mio, è stato un disastro. Io non posso continuare ad avere solo relazioni che non sono relazioni. E con le donne non mi è mai andata bene, una dopo l’altra mi hanno sempre lasciato tutte. Insomma, uno deve pure rassegnarsi, quando si rende conto che non c’è speranza, no? Se non funziono con gli uni e non funziono con le altre, magari funziono da solo e basta.
Quello che è successo lo so. Lo so perché me l’ha detto il Chaku e lo so perché era esattamente ciò che volevo. Una cena per festeggiare il ritorno di Anis? Oh, andiamo. Mi meraviglio di come Anis stesso possa essere stato tanto stupido da cascarci, anche se probabilmente ha accettato solo perché di Bill e Chakuza non sapeva niente, quindi non poteva immaginare quanto potesse essere pericoloso infilarli in una casa in cui era presente anche lui.
Comunque io volevo che Anis venisse a saperlo perché né Bill né Chakuza avrebbero mai fatto il primo passo ed io non volevo essere il solito Patrick costretto a farlo al loro posto. Stavolta no. Stavano per distruggere la vita dell’uomo che li aveva fatti incontrare? Benissimo. Che lo facessero da sé, però. Io non volevo essere l’amico incaricato di dire le cose come stanno allo sfigato di turno. Mi sono già rotto le palle di questo ruolo. Non mi si addice nemmeno.
Però è tutto sommato vero che uno dovrebbe stare attento a ciò che desidera, perché potrebbe avverarsi davvero. Quante volte tutti noi abbiamo sperato che Anis tornasse vivo dalla morte? Io, un’infinità. Bill, quasi sicuramente, la mia infinità al quadrato. Perfino Chakuza deve averlo pensato, prima di innamorarsi di Bill. E quello è tornato davvero, causando il finimondo. Si fottano le stelle cadenti e il desiderio espresso dopo aver spento le candeline sulla torta di compleanno, non c’è bisogno di queste cazzate per far diventare qualcosa realtà. Basta essere in molti a volerlo, o almeno così pare. O forse così non è ed Anis è tornato in vita perché è un supereroe. Me lo ricordo a diciott’anni correre come una furia per le strade di Tempelhof e arrampicarsi sulle grondaie scalando le villette fino ai tetti, e penso che come possibilità quella dei superpoteri non è nemmeno tanto remota. E intanto Super Mario viene mandato a gambe all’aria da un funghetto con un’espressione cattivissima.
Comunque io adesso ho ottenuto ciò che volevo e dovrei essere perfettamente in pace con me stesso. So come funziona Anis, so che in genere la rabbia è la prima delle sue reazioni, ma che fa in fretta a tornare in sé, perché non sopporta di lasciarsi sfuggire il controllo delle situazioni problematiche dalle mani. Quindi ha mandato a fanculo Bill, ha mandato a fanculo Chakuza – pestandolo, già che c’era – ed ora starà riacquistando coscienza di sé e realizzando cos’ha combinato.
So perfettamente dove andrà quando questo processo sarà terminato. Ed era il mio obiettivo, sul serio, non essere io a dirglielo ma essere io a consolarlo, almeno un po’. So che accadrà e non riesco a sentirmi contento e soddisfatto come dovrei.
Purtroppo, so anche perché non riesco a sentirmi così. Non ci riesco perché mi dispiace per il ragazzino, tanto per cominciare. Perché il ragazzino ci credeva tanto, in se stesso e in Chakuza, proprio come coppia. Ed anche se non so se riusciranno a sopravvivere a questa tempesta uniti, so per certo che, pure se ci riuscissero, non sarebbe più come prima, non sarebbe più la stessa cosa. Anis c’è sempre stato, fra loro. Solo che prima era un fantasma. Non puoi più dare del fantasma a una persona che puoi vedere e sentire e toccare.
Mi dispiace anche per Anis, ovviamente. Mi dispiace perché forse se gliel’avessi detto io sarebbe stato diverso. Forse sarei riuscito a metterla in un modo che non sembrasse irrimediabilmente pessimo, forse sarei riuscito a convincerlo a pensare un po’, prima di gettarsi a peso morto in quel casino di rabbia e senso di colpa che gli ingolfava la testa. Forse, insomma, avrebbe anche sofferto di meno, se fossi stato io a dirglielo, nel giusto modo. Forse.
Soprattutto, comunque, mi dispiace per Peter. Peter era un sacco felice, davvero, prima che tornasse Anis. Anche se girargli intorno non era proprio la mia prima aspirazione della giornata, quando capitava perché esigeva di vedermi per un motivo o per l’altro tipo riappendere le tende in camera dopo averle lavate o risistemare lo scaldabagno defunto, stare con lui era piacevole. Perché, ecco, sorrideva e insomma, era simpatico. Chakuza non è il tipo che quando si innamora si dimentica della tua esistenza e di tutto il resto che non sia la persona che ama. Magari si distrae, magari si perde in se stesso, ma poi si ritrova, e quando si ritrova è bello stargli accanto.
Insomma, mi dispiace che si sia ritrovato con un occhio nero ed il ghiaccio sullo zigomo, alla fine di tutto questo, solo perché io non ho avuto le palle e la voglia di prendere Anis, stringerlo in un angolo e raccontargli l’unica cosa sulla quale valesse la pena tenerlo aggiornato, e che nessuno gli diceva.
Però è quello che ho voluto, me lo sono scelto e adesso ho poco da sfogarmi sui tastini mezzi scassati del Game Boy. Io sono uno che le sue responsabilità se le prende. L’ho sempre fatto. Quindi non faccio una piega quando qualcuno suona al citofono. Non guardo nemmeno l’orario, perché Anis non ha orari per cercarmi, non ne ha mai avuti. Quando eravamo ragazzini, me lo vedevo spuntare sotto la finestra anche all’alba. Se si svegliava presto e sentiva il bisogno di venire a cercarmi, chi ero io per dirgli no?
Al citofono è lui, anche se lui, quando glielo chiedo, non mi risponde.
Apro il portone con un sospiro e poi apro anche la porta e mi fermo lì sulla soglia ad aspettarlo. Il mio indirizzo è stata la prima cosa che Anis mi ha chiesto quando ci siamo incontrati da soli. Quello, e il mio numero di telefono. Non ha avuto bisogno di spiegarmi perché li volesse, era semplicemente evidente che, dal momento che ero andato a cercarlo nel suo appartamento dopo aver fatto anche la fatica di convincere Eko a svelarmi l’indirizzo, avremmo ricominciato a frequentarci, punto e basta. Perciò gliel’ho dato, l’indirizzo. Ed anche il numero di telefono. “Per ogni eventualità”. Ecco l’eventualità.
Anis fa le scale con una certa fatica. È ubriaco fradicio e io sto al quarto piano. E questo palazzo è di quelli vecchio stile, dove un piano vale tipo per due.
Inarco un sopracciglio.
- Potevi prendere l’ascensore. – gli faccio notare incrociando le braccia sul petto e cercando di comportarmi come non sapessi niente, - Quanto hai bevuto, Anis?
- Pochissimo. – grugnisce lui, che puzza di alcool lontano un metro, abbattendomisi letteralmente addosso ed aspettando quindi che sia io a trascinarlo all’interno dell’appartamento e chiudergli la porta alle spalle.
- Pochissimo, certo. – lo prendo in giro, - Hai già vomitato, almeno?
- No e non lo farò perché ho bevuto poco. Fanculo, Frank, non è serata, okay?
Mi stupisco solo un po’, quando mi sento chiamare in quel modo. Provo a tenerlo in piedi mentre lo aiuto a raggiungere il divano, e cerco i suoi occhi. Li trovo e sono cupi e confusi. Non c’è niente da leggere, lì dentro, stanotte. O forse c’è troppo ed io ho bisogno di un po’ di tempo per fare ordine e capire.
Comunque, che mi abbia chiamato Frank è ridicolo ma anche ovvio, contando il fatto che quando avevamo circa vent’anni – cioè lui ne aveva venti ed io desideravo averli già ma stavo ancora abbondantemente fermo sotto i diciotto – andavo sempre a raccoglierlo in giro per locali, quando si ubriacava così. Ed ero Frank, allora, Fler non era che un bel nome coreografico da dipingere sui muri di tutta Berlino. Quindi era ovvio che mi chiamasse così, com’è ovvio che mi chiami così anche adesso.
- D’accordo, d’accordo… - concedo, aiutandolo a distendersi sul mio divano bianco ed osservandolo mentre tira su i piedi con tutte le scarpe, mettendosi comodo. Mi rovinerà la fodera ma sta qui disteso con un avambraccio a coprirgli gli occhi e i capelli sparsi ovunque sui cuscini, quindi in fondo chissenefrega della fodera. – Che ti è preso? – continuo poi, sedendomi lì accanto, su quel po’ di spazio libero che lascia il suo corpo. Lui solleva le gambe, - I morti non dovrebbero bere, lo sai? – ed aspetta che io mi sia sistemato per bene sul cuscino, appoggiandomi allo schienale, per stendermi le gambe in grembo e tornare a stiracchiarsi.
- Bevo quanto cazzo mi pare e piace, Frank. – mi informa, tirandomi pure un calcio sul ginocchio, - Anche perché non sono morto. – e si prende una pausa, prima di dire quello che sta per dire. Se la prende lo stesso anche se io so cosa sta per dire, lui sa che io lo so ed io so che lui lo sa. – Purtroppo. – conclude infatti, alla fine, ed io lo mando giustamente a fanculo.
- Non dire stronzate, adesso, – lo rimprovero aspramente, scazzottandolo senza pietà contro una spalla, - o giuro che stavolta all’inferno ti ci mando davvero con le mie mani, così mi assicuro che arrivi a destinazione senza fermarti a Miami durante il viaggio.
Lui sorride appena – è un sorriso che gli sento sbuffare, più che altro – e scuote il capo.
- Non saresti capace. Nessuno è mai stato capace di farmi davvero fuori. Mi chiedo se non dovrei fare da me. Se vuoi un lavoro fatto per bene, fattelo da solo, si dice. No?
- Piantala. – ringhio a bassa voce, - ‘Cazzo ti prende? Se ti sei fatto non so nemmeno quante cazzo di ore di volo transoceanico per venirmi a dire che eri vivo e poi cominciare a parlare di suicidio, sappi che ti do una mano.
Lui ride ancora e si toglie il braccio dalla faccia. Lo lascia andare contro il divano e fissa il mio soffitto. C’è accesa solo l’abat-jour sul tavolino, che oltretutto sta dal mio lato, quindi il suo viso è quasi tutto in ombra e anche il resto della stanza non è che sia meglio illuminato. Anis inspira profondamente, prima di riprendere a parlare.
- Avresti dovuto dirmelo. – dice quindi, tutto d’un fiato.
Mi tendo come una corda di violino.
- Dirti cosa? – chiedo, guardando altrove.
Lui ride di nuovo.
- Lo sai cosa. David mi ha detto che sei stato molto vicino a tutti, mentre io ero via. È impossibile che tu non te ne sia accorto. Devi saperlo per forza.
- Non so niente. – borbotto infastidito. Anis struscia una gamba contro la mia, come non avesse la forza di sollevarsi a darmi una manata contro la spalla.
- Pat. – dice semplicemente. Ed io sospiro.
- Mi dispiace, Atze. – esalo in un fiato, abbassando lo sguardo, - Non sapevo come fare.
Anis si strofina gli occhi con entrambe le mani, inspirando ed espirando a pieni polmoni.
- Sono troppo ubriaco per pensare. – confessa alla fine, tornando a stendersi prendendo il maggiore spazio possibile, - Come cazzo è potuto succedere, Patrick?
- Conosci Bill, conosci Chakuza. – rispondo scrollando le spalle, - Ecco com’è successo.
Anis scuote il capo.
- No. – insiste, - No, Pat. Non posso… non ci riesco.
Io deglutisco. Mi scosto le sue gambe di dosso e mi metto in piedi, andando dritto verso la camera da letto. Lui non mi chiede cosa sto facendo, tanto è ovvio che sto andando a recuperargli una coperta, e non fa una piega quando torno con un vecchio plaid di lana grigia e glielo stendo addosso, rimboccandoglielo sotto il mento.
- Quando me ne sono andato, - mi dice, mentre faccio il giro del divano per tornarmene in camera, - Chakuza era ancora etero. Cioè, che Bill si sia innamorato di nuovo mi… - ride piano, - mi sembra meno assurdo dell’idea del Chaky che diventa gay. Sul serio.
Mi fermo e mi appoggio allo schienale, tirando su una gamba per sedermi in bilico sul bordo e aiutandomi a tenermi in equilibrio con una mano, mentre lo guardo dall’alto.
- Quante cose vuoi sapere, Anis? – gli chiedo sottovoce, fissandolo dritto negli occhi. Lui mi ricambia l’occhiata senza cambiare espressione.
- Per oggi sono a posto. – risponde annuendo. E chiude gli occhi.
Io gli riavvio i capelli sulla fronte in un gesto distratto, prima di muovermi verso la camera e, a metà del corridoio, decidere che non è lì che voglio stare. Prendo le chiavi ed indosso una giacca, e due minuti dopo sono fuori dal mio appartamento.
Fuori c’è un bel venticello fresco e secco, non troppo tagliente, molto piacevole. Mi rendo conto che sta finendo settembre, e poi, nell’ordine, ricordo che dopodomani è il ventotto ed Anis fa trentun anni. Mi metto a ridere così, in mezzo alla strada, anche se non c’è proprio niente da ridere perché quest’uomo è tornato da Miami solo per avere un compleanno di merda, in pratica. Però rido lo stesso, che posso farci, è assurdo. E nel mentre vado a zonzo per le strade di Berlino e come sempre, ogni volta che lo faccio, i miei piedi mi portano da Chakuza. Non so se sia colpa del fatto che ormai questo tragitto lo conosco a memoria, quindi se non penso a dove sto andando e inserisco il pilota automatico è lì che mi porta il mio corpo, senza che io abbia neanche bisogno di chiederglielo, comunque è così.
Quando arrivo sotto casa sua, guardo a lungo il palazzo prima di decidermi sul da farsi. È molto probabile che Bill sia ancora qui, visto che ce l’ho lasciato, e rifletto bene sulla possibilità di attaccarmi al campanello per svegliare lui e il Chaku con un infarto e poi fuggire silenziosamente nella notte, oppure suonare come una persona normale, svegliarli comunque e poi salire su e restare lì fino all’alba, così, giusto per il gusto di non lasciarli in pace. Potrebbe essere il mio regalo di compleanno per Anis, sono quasi sicuro che apprezzerebbe molto.
Alla fine, decido per la seconda opzione. Suono e, quando la voce assonnata di Chakuza mi risponde al citofono – quest’uomo dorme che è una meraviglia: può succedergli qualunque cosa, nel corso della giornata, ma appena gli si scaricano le pile lui prende e si spegne. Poco da fare – rispondo allegramente che sono io. Lui non ha bisogno di chiedere chi sia io, e mi apre il portone. Me lo ritrovo in pantaloncini e canotta che si stropiccia l’occhio sano, quando arrivo sul suo pianerottolo.
- Nostalgia di casa? – mi chiede, scostandosi dalla soglia per lasciarmi passare.
- Coglione. – rispondo in un grugnito infastidito, guardandomi intorno, - Il ragazzino dorme?
Chakuza chiude la porta e sospira sconsolato.
- Dobbiamo per forza parlarne? – mugola affranto, avvicinandosi a me e prendendo a gironzolarmi intorno come a voler capire cosa ho intenzione di fare prendendo le misure dei miei movimenti. – Comunque, - risponde alla fine, - se dorme, lo sta facendo a casa sua. Di certo non qui.
Io mi volto a guardarlo con una certa curiosità, appoggiandomi allo schienale della poltrona.
- L’hai mandato via?
- Lui è andato via. – precisa, aggrottando le sopracciglia, - Io l’ho lasciato andare.
Mi prendo una pausa di mezzo secondo, per dare enfasi al mio pensiero al riguardo.
- Coglione. – dico poi. Chakuza mi manda a fanculo e si infila nel cucinino, cominciando ad armeggiare con la caffettiera.
- Se non eri di umore nostalgico, - borbotta in mezzo allo scrosciare dell’acqua nel lavabo, - si può capire perché sei venuto da queste parti?
Scrollo le spalle, facendo il giro della poltrona e sedendomi compostamente per un secondo, prima di svaccarmi lanciando braccia e gambe in giro come fossi a casa mia.
- Passavo da queste parti. – rispondo in un mezzo ghigno. Poi prendo fiato. E rispondo sul serio. – Anis è venuto a trovarmi.
Chakuza diventa un pezzo di ghiaccio e, quando si riscuote, lo fa solo per chiudere il rubinetto e posare la caffettiera ancora aperta sul ripiano del lavello. Si asciuga le mani, poi si appoggia contro il mobile della cucina e si volta a guardarmi. Mi guarda tipo per dei secoli, là immobile, ed io inarco un sopracciglio.
- Be’? – chiedo infastidito. Chakuza sospira, gira attorno all’isola e viene a sedersi sul divano, qui di fianco, sporgendosi verso di me.
- L’idea della cena a casa di Bushido è stata tua. – mi spiega pacatamente. Non sorride ma non ha nemmeno un’espressione risentita. Non lo capisco e mi dà anche un po’ sui nervi, sinceramente. – Il fatto che io abbia accettato di prestarmi a quella ridicola mascherata non deve farti pensare che io non avessi capito dove voleva andare a parare. Ti conosco, Fler, non puoi prendermi per il culo. Quante volte devo ripetertelo? – faccio per mandarlo a fanculo come merita, ma lui mi ferma sorridendo appena. – Non vieni fino a qua per dirmi che Bushido è venuto a trovarti, Fler. Avanti. Sputa il rospo.
Resto lì con le labbra dischiuse a guardarlo per un po’. Poi mi ricompongo, mi metto dritto e gli tiro uno scappellotto tremendo sulla nuca, tant’è che la sua testa rimbalza in avanti e, quando solleva lo sguardo per mandarmi a cagare fissandomi negli occhi, lo fa con un’espressione a metà fra l’addolorato e l’oltraggiato.
- Piantala di fare lo splendido. – gli tarpo immediatamente le ali, tornando a svaccarmi sulla poltrona. E poi sospiro. – Che cosa vuoi che ti dica, Chakuza? Sei innamorato di quel ragazzino da tanto di quel tempo che mi sembra di averti sempre conosciuto solo così. È strano immaginare un mondo in cui tu non stai con Bill e non sei completamente perso per lui.
Chakuza arrossisce e guarda altrove, ed io mi rendo conto che è la prima volta che parliamo in questi termini di Bill. Suppongo che se lui avesse avuto l’accortezza di dirmi fin da subito che stavano insieme, come ha fatto Bill, le cose sarebbero andate molto diversamente. O forse no, perché Anis sarebbe comunque tornato e noi saremmo comunque dovuti passare attraverso la fine del mondo, che lo volessimo o meno.
- Allo stesso tempo, però… - continuo sospirando, - è strano immaginare un mondo in cui Anis possa rassegnarsi. Su una qualsiasi cosa, figurarsi il suo ragazzino adorato. – Chakuza ringhia, - E non fare il cane rabbioso. – lo rimprovero aspramente, incrociando le braccia sul petto, - Lo sai che è il suo ragazzino. Comunque lo è. Anche se adesso è tuo, resta suo.
- È assurdo. – borbotta Chakuza, - …credo che Bill stia cercano di spiegarmi la stessa cosa. Da quando Bushido è tornato.
Io mi stringo nelle spalle.
- Sarà assurdo, ma è così. Devo venirtelo a spiegare io, come funziona il tuo fidanzato?
Chakuza socchiude gli occhi e scuote il capo, espirando rassegnato.
- Quando le dici tu, le cose sembrano più vere. – dice alla fine, stendendosi contro lo schienale del divano. Io mi mordo un labbro e non rispondo, e restiamo entrambi fermi svaccati contro gli schienali dei nostri rispettivi e sdrucitissimi troni per un tempo indefinibile. Almeno fino a quando Chakuza non si decide a parlare ancora. – Cosa dovrei fare, secondo te?
Mi volto a guardarlo e faccio fatica a non dargli del coglione per la terza volta in mezz’ora.
- Come, scusa? – domando incredulo, - Tu stai chiedendo a me cosa penso che dovresti fare?
Annuisce senza fare una piega. Io lo guardo attentamente e, quando mi sono assicurato per l’ennesima volta da che lo conosco sul fatto che sì, è proprio vero ed è proprio così, nonostante la cosa mi causi ancora meraviglia quando ci penso, rispondo.
- Dovresti-
- Andare a fanculo non rientra fra le opzioni possibili. – si affretta a mettere le mani avanti, senza lasciarmi concludere. Io gli tiro addosso un cuscino.
- …lasciare parlare la gente, tanto per cominciare. E poi… - sospiro, mentre lui si toglie il cuscino dalla faccia e lo stringe sullo stomaco, - …e poi dovresti andare da Bill, Peter.
Chakuza mi guarda come avessi appena detto la cazzata del secolo. Questo sguardo, se posso permettermi – e posso – è una cosa alla quale lui non dovrebbe avere diritto, per ovvi motivi. Aggrotto le sopracciglia e lo minaccio fisicamente di strappargli il cuore a mani nude passando per la gola, se non se lo toglie immediatamente di dosso. Lui non riesce, ma almeno guarda altrove finché non riesce a trovare un’espressione facciale meno odiosa.
- Ma se n’è andato lui, Fler. – mi fa notare a mezza voce, - Non posso andargli dietro così.
Io roteo gli occhi.
- Mi meraviglio che tu non gli sia andato dietro immediatamente appena l’hai visto uscire dalla tua porta, Dio mio! – sbotto esasperato, - Io certe volte non lo capisco cosa c’hai nel cervello, Chaku.
Lui sospira, abbattendosi di nuovo contro lo schienale.
- Nemmeno io. – ammette, - Sarà che per la maggior parte del tempo non c’è niente. Quando improvvisamente appaiono cose, ho difficoltà a gestirle.
Rido di gusto e lui ride con me, fra un coglione che gli lancio e l’altro. Restiamo a ridere per un po’, ed è una cosa piacevole. È piacevole anche che, qualche secondo dopo, lui tiri fuori dal fondo del petto una voce dolcissima – così ruvida e profonda com’è la sua sempre, ma più tenera – e mi chieda come sto.
Io scollo le spalle.
- Sopravvivo. – rispondo sinceramente.
- Sicuro? – si assicura lui, lanciandomi un’occhiata incerta.
Io sospiro.
- Frena quello che sta apparendo adesso, Chaku. Qualsiasi cosa sia. – gli ricambio l’occhiata, - Non mi pare il caso, proprio ora che ti sto mandando da Bill.
Lui abbassa gli occhi con un’espressione da cane bastonato.
- Già. – annuisce. Poi si passa le mani sul viso e inspira ed espira profondamente, prima di alzarsi in piedi. - Chiudi tu casa? – chiede distrattamente, muovendosi già verso la camera da letto per vestirsi, - Ce le hai ancora le chiavi, giusto?
Io annuisco silenziosamente. Lo mando a fanculo, quando lo vedo ripassarmi davanti vestito di tutto punto, diretto alla porta. Lo mando a fanculo ma lui non lo sente. Anche perché non l’ho detto ad alta voce, l’ho solo pensato. Ed io e Chakuza ci capiamo bene, ma probabilmente non così tanto.
In casa di Chakuza io ci resto, e resto anche del tutto immobile per una mezz’oretta, circa. Poi mi alzo dalla poltrona e mi guardo intorno senza sapere bene cosa fare di me stesso. Per certo so che non voglio tornare a casa, ma so anche che se non mi do un motivo per restare qui non ci resterò, perché per quanto il Chaku possa ironizzare sul fatto che trascorro qui una buona metà della mia esistenza – o forse anche di più – questa non è casa mia. Perciò mi guardo intorno e, siccome qui è il solito bordello, mi metto a sistemare. Poso i soprammobili ai loro posti, spiego bene la fodera del divano e poi mi infilo nello sgabuzzino alla ricerca del piumino, per spolverare i mobili. Mentre cerco mi accorgo di sfuggita del vecchio tappeto peloso del Chaku, quello che prima stava in salotto, e che adesso è qui in un angolo arrotolato e stretto con lo scotch. Gli lascio scorrere sopra gli occhi ma non lo tocco. Recupero il piumino e spolvero tutto per bene, e quando ho finito tiro su le maniche della felpa, indosso il grembiule e comincio a lavare i piatti.
Alla fine mi faccio prendere bene ed entro in una specie di trance mistica. Quando riprendo coscienza di me stesso sono le tre del mattino, non ho idea di dove sia Chakuza, non so se Anis sia ancora a casa mia e questo appartamento splende come uno specchio, pulito come non è mai stato da quando Chakuza lo abita – e probabilmente neanche da prima. Soprattutto, però, non ho ancora neanche un filo di sonno. Voglio che questa notte finisca adesso perché non ne posso già più, perciò cerco la mia coperta coi cavallucci marini e, anche se non fa davvero freddo e non ne avrei bisogno, mi ci avvolgo dentro e mi butto sulla poltrona, tirando su le gambe e cercando di addormentarmi.
Ovviamente non riesco. Mi rigiro per un po’ e poi, prima di diventare isterico, mi metto in piedi, indosso nuovamente la giacca ed esco da qui, che l’odore del detersivo alla lavanda mi è entrato nel cervello e mi sta facendo lentamente impazzire. Chiudo bene la porta, con le chiavi – sì, Chaku, ce le ho ancora, stronzo, certo che ce le ho ancora – e comincio a camminare. Senza meta. Di nuovo dal Chaku non posso tornarci, perciò non metto il pilota automatico, cerco soltanto di spingermi il più lontano possibile sia da casa mia che da casa sua, andando verso il centro.
Non è che ci sia molta vita in giro, comunque. Siamo in mezzo alla settimana, domani la gente normale lavora ed è già molto tardi. I pub chiuderanno tutti fra poco ed io vado in giro col cappuccio calato fino al naso anche se è poco probabile che qualcuno mi riconosca. Tengo su il cappuccio anche quando mi decido ad entrare in un locale e sedermi su uno sgabello di fronte al bancone. Scorgo con la coda dell’occhio il barista che mi fissa con aria un po’ impaurita e faccio apposta la voce cattiva mentre gli ordino una birra. Quello mormora un “sì, subito” che mi fa quasi scoppiare a ridere e io resto in attesa giocando con le arachidi nella ciotolina di vetro – ne prendo qualcuna, la poso sul ripiano, le metto in ordine dalla più grande alla più piccola – però siccome non ho fame non ne mangio nemmeno una.
La mia birra nel mentre arriva, io comincio a sorseggiarla e mi sto già annoiando, quando mi sento picchiettare sulla spalla con due dita. Chiunque mi abbia riconosciuto nonostante il novanta percento del mio corpo sia nascosto, tatuaggi compresi, merita un premio, perché deve amarmi tantissimo. Perciò mi volto e sorrido, per nulla infastidito, e quando capisco chi è – ci metto un po’ a riconoscerla, perché non la vedo da una vita – capisco che non deve stupirmi il fatto che mi abbia riconosciuto.
- Nicole! – la saluto, scendendo dallo sgabello ed abbracciandola stretta, - Cazzo, saranno secoli!
Lei risponde con un sorriso allegro, lasciandosi stringere e facendomi un sacco di versetti festosi, motivo per cui rido. Quando si allontana, riavvia i capelli biondi dietro le orecchie e mi accorgo che li ha tagliati, dall’ultima volta, perciò le faccio i complimenti per la nuova pettinatura e lei arrossisce.
Nicole è molto più di una groupie e molto più di una fan, tant’è che non ci sono nemmeno mai andato a letto. Da quando nel… oddio, non ricordo, un sacco di anni fa, comunque, s’è infilata nel backstage di non mi ricordo che festival – cantavo ancora con Anis, allora – per sommergermi di complimenti riguardo quanto fossi bravo e quanto fosse evidente l’anima che ci mettevo nel cantare, ignorando completamente Anis che ringhiava offeso dietro le mie spalle, c’è sempre stato un bel rapporto fra di noi. Non siamo amici perché non ci frequentiamo, non abbiamo nemmeno i numeri di telefono, per dire, ma lei ha sempre creduto molto in tutto ciò che ho fatto e come cantante le piaccio davvero, quindi quando viene ai concerti stiamo sempre un po’ insieme e chiacchieriamo per delle mezz’ore. È un bel rapporto, per nulla impegnativo. L’unico della mia vita, palesemente.
Restiamo lì a chiacchierare per un po’ del più e del meno, lei mi parla degli uomini che le sono passati per le mani nell’ultimo anno – tutti cretini – ed io evito di parlarle dell’uomo che è passato per le mie – cretino uguale, ma non posso dirlo – quindi la consolo un po’, le offro da bere e, quando il proprietario del locale ci butta fuori per chiudere, ci mettiamo a girovagare per le strade. O meglio, lei girovaga ed io sto bene attento a seguirla, sennò finisce che torno a casa del Chaku, anche perché abbiamo bevuto un po’ e ora sono vagamente brillo, quindi le possibilità di trovarmi all’improvviso di fronte al suo palazzotto diroccato sono più alte di quanto non lo fossero un’ora fa.
Alla fine, fra una risata e l’altra, lei si ferma di fronte ad una bella porta a vetri e si stringe nelle spalle. È magra e bassa e quando lo fa sembra minuscola, ha anche due occhioni castani enormi sul suo viso un po’ segnato dal tempo – lo penso solo distrattamente che è più grande di me, più di Anis, peraltro, non mi interessa davvero.
- Se vuoi… se ti va, - balbetta incerta, - possiamo salire un po’ da me. È tardi.
Realizzo cosa mi sta chiedendo e realizzo anche che dovrei dirle di no. Dovrei fare il cavaliere, sorriderle e dirle che sono stanco ma sarà sicuramente per un’altra volta, anche se un’altra volta sicuramente non ci sarà.
Però, penso, perché cazzo dovrei farlo? Non faccio male a nessuno, salendo da lei. A nessuno importa se io vado a letto con questa donna, è una cosa che riguarda solo noi due. Io le voglio bene, un po’. E a lei interesso. Voglio dire, mi piace anche. Perché dovrei dirle di no? Perché dovrei rifiutarmi?
Penso che Chakuza non rifiuterebbe. Penso che nemmeno Anis rifiuterebbe. Penso a Bill e so che lui sì, direbbe proprio di no, perché lui è uno che se non ti ama non ci viene a letto con te, ma sul momento decido che non mi interessa. Non ho mai detto di essere una persona migliore di Bill e non l’ho nemmeno mai pensato. Quindi fanculo al resto. Fanculo tutto.
L’appartamento di Nicole è buio e non le lascio il tempo di illuminarlo, perché appena passiamo oltre la porta e ce la richiudiamo alle spalle la spingo delicatamente contro il muro e mi chino a baciarla, chiudendo gli occhi. Sa di birra, è esattamente lo stesso sapore che ho io. Un po’ amaro ma piacevole. La sua lingua scivola sulla mia e le mie mani le scivolano addosso, sulle spalle e lungo le braccia. La afferro per la vita e me la tiro contro, lei sussulta e lascia andare un gemito colmo di ansia ed aspettativa quando sente la mia erezione premerle contro il bacino. Io le sorrido sulle labbra e lei solleva le mani sfiorandomi le braccia a partire dai polsi, risalendo su verso il gomito, accarezzandomi i bicipiti e poi appendendosi alle mie spalle, saggiando la consistenza dei muscoli contratti sotto le dita, attraverso la maglia di acrilico.
Io mi scosto appena e sfilo la maglietta, lei mi guarda a lungo mordendosi un labbro e poi si china sul mio petto mordicchiando e leccando come una gattina un po’ a caso e lasciando andare anche dei miagolii da gattina che, assieme ai baci e alla sua lingua e ai suoi denti che scorrono sulla mia pelle, mi fanno sibilare il suo nome, mentre torno a stenderla contro la parete e scendo a morderle e succhiarle il collo, inspirando il profumo lieve e dolce che viene dai suoi capelli.
Le sbottono i jeans e l’aiuto a liberarsene, lei si solleva sulle punte e mi allaccia al collo, respirandomi addosso mentre io le accarezzo i fianchi e poi, lentamente, insinuo una mano fra le sue cosce. Il mugolio che mi scivola sulla pelle quando comincio a strofinare piano un dito contro di lei mi dà la conferma che no, non ho dimenticato come si tocca una donna per farla gemere, e mentre il suo bacino segue i movimenti della mia mano – che scivola più in profondità, dando modo alle mie dita di cercare e trovare il calore umido del suo corpo – io la afferro da dietro un ginocchio con la mano libera e la aiuto a divaricare le gambe. Lei non oppone resistenza e si appoggia senza fiato contro la parete, chiudendo gli occhi e respirando attraverso le labbra dischiuse e un po’ umide.
Torno a baciarla slacciandomi i jeans e lasciandoli scivolare verso il basso il minimo indispensabile, e lei mi morde un labbro, quando io la afferro per la vita e la tiro su. Mi stringe le gambe attorno ai fianchi, muovendosi contro di me; la sento bagnatissima contro la pelle accaldata e ringhio. Lei rabbrividisce, la sento tremare e scuotersi tutta sotto i polpastrelli, e visto che questa casa non la conosco e non so dove andare torno a spingerla verso la parete. Lei non riesce a parlare, a stento respira, ed io la stringo alla vita con un braccio, tenendola sollevata da terra mentre cerco il portafogli nella tasca posteriore dei jeans. Infilo le dita in una taschina, riemergo col preservativo, lo scarto e lo indosso. È tutto molto meccanico e non riesce a smettere di esserlo neanche quando mi spingo dentro di lei, neanche quando lei esala il mio nome fra gli ansiti – mi sembra una vita che non sento pronunciare il mio nome così da una voce di donna – e si inarca sotto le mie mani che le accarezzano la schiena. Il suo bacino si muove ritmicamente seguendo le mie spinte lente e misurate, lei si regge con forza su di me, piantandomi le unghie nelle spalle, e io ringhio, un po’ perché fa male, un po’ perché mi piace, ma quando mi svuoto contro il preservativo – solo qualche attimo dopo averla sentita lanciare un urletto e stringersi convulsamente attorno al mio cazzo – lo capisco anche senza rifletterci su, che sono venuto per sfregamento meccanico. Questo non è fare l’amore, non è neanche sesso.
Non so cos’è e a questo punto non mi interessa nemmeno scoprirlo, comunque. Aspetto che Nicole riprenda fiato, la aiuto a rimettersi coi piedi per terra e poi la sostengo delicatamente, mentre recupera la forza nelle gambe – è così piccola e magra che ho paura di spezzarla, se la stringo troppo forte. Lei mi si stringe contro e si appoggia al mio petto, intrecciando le dita delle mani con le mie. Non so perché la lascio fare, non dovrei essere tenero, adesso. Però sono stanco, non ho voglia di scostarla. Il suo corpo è caldo e sa del mio odore mischiato al suo. Il suo corpo al momento è l’unico posto al mondo in cui non sono solo, perciò me lo tengo stretto contro e mi lascio accompagnare verso la sua camera da letto.
Il letto di Nicole non sa di niente, però. Cioè, sa di pulito, sa di cotone, sa di detersivo, sa un po’ anche del suo profumo, ma se mi cerco non mi trovo e presto smetterò di trovarmi anche addosso a lei. La stringo il più possibile finché ci sono ancora, chiudo gli occhi e la accarezzo, cullandola un po’ mentre si addormenta stesa contro di me, e mi immagino altrove, in un altro letto, stretto fra altre braccia, con un corpo dalla consistenza completamente diversa schiacciato contro il mio, e penso che il mio odore in casa di Chakuza c’è. È sulla mia poltrona ed è nel suo letto, nonostante tutto, ed è nell’aria e soprattutto ce l’ha addosso lui, e non scompare. È la traccia che ci annusiamo addosso ogni volta che siamo vicini, è il motivo per cui dovrei smettere di vederlo, è il motivo per cui non riesco a smettere di vederlo, ed ora che il profumo di Nicole sta abbandonando anche la mia pelle ecco che l’odore di Chakuza riaffiora ed a me viene voglia di ficcarmi sotto una doccia e strofinare così forte da farmi male, per cercare di cacciarlo via, anche se so che non ci riuscirei.
Mi manca. Mi manca come non mi è mai mancato niente in tutta la mia vita, mi manca anche più di quanto non mi sia mancato Anis e non so dire se sia perché per un periodo di tempo ho creduto in noi – in me e in Chakuza, intendo – o se sia perché semplicemente mi sono preso una sbandata come non ne ho mai viste. Di quelle che ti fanno riconsiderare tutte le sbandate passate, perché quando lo senti così forte, il cuore che batte nel petto, e non hai nemmeno bisogno di vederla quella determinata persona, perché il tuo corpo reagisca, allora capisci che sei perso e che prima avevi solo giocato, o frainteso, e che comunque di amore fino a quel momento non ci avevi capito un cazzo.
Mi sono completamente fottuto il cervello. Chakuza, mi hai fottuto il cervello e non te ne frega niente.
Scivolo fuori dal letto di Nicole e lei spalanca subito quegli occhioni castani nel buio e mi guarda dispiaciuta, mordendosi un labbro.
- Ho sbagliato qualcosa? – chiede a mezza voce, ed io sorrido teneramente, tornando a sedermi accanto a lei sul materasso e riavviandole i capelli dietro un orecchio.
- Assolutamente no. È stato bellissimo. Ma devo tornare a casa, domani ho da lavorare e aspetto gente. – mai dette così tante bugie tutte assieme. Fosse qui, Anis mi prenderebbe a cazzotti fino a farmela passare del tutto, la voglia di mentire.
Lei annuisce ma insiste per darmi il suo numero. Lo scrive su un pezzetto di carta con una biro che funziona male e me lo consegna imbarazzata, abbassando lo sguardo. Io sospiro, sorrido ancora e la bacio sulla fronte, rimettendomi in piedi e risistemandomi i vestiti addosso prima di conservare il bigliettino. Non so cosa me ne farò, sinceramente.
Saranno più o meno le quattro e mezza, massimo le cinque del mattino, quando esco di nuovo in strada. Il sole non è ancora sorto, naturalmente, io non ho la minima intenzione di tornare a casa mia perché non intendo vedere Anis adesso, e quindi ripercorro a ritroso la strada che mi ha portato fino a qui. E me ne torno a casa di Chakuza.
Quando apro con le chiavi, per un secondo mi guardo intorno e resto basito. Non tanto perché l’appartamento è ancora deserto e non sono abituato ad entrare qui in situazioni simili, quanto piuttosto perché l’appartamento è pulitissimo e non ricordo di averlo pulito io. Vedere l’appartamento di Chakuza pulito è un miracolo paragonabile ad un’apparizione della Madonna, tipo, quindi resto un po’ sconvolto sulla soglia prima di ricordare cos’è successo e mettermi il cuore in pace.
La notte non si rassegna a finire ed io comincio ad essere davvero stanco di lei. La poltrona è scomodissima. Mi ci raggomitolo sopra con tutta la coperta, ma non riesco a prendere sonno e continuo a rigirarmi alla ricerca di una posizione comoda. Non la trovo, e quando mi decido ad alzarmi mi fanno male tutte le giunture.
- Catorcio… - mi dico, e la mia voce risuona all’interno dell’appartamento. Non c’è eco, fortunatamente, e per questo devo ringraziare le dimensioni ridicole di questo posto.
Mi sgranchisco un po’, mi guardo intorno e alla fine mando a fanculo il buonsenso e mi infilo in camera di Chakuza. Non l’ho sistemata io, ma la camera da letto del Chaku è sempre sistemata per principio, perciò non devo fare altro che scalciare via le scarpe e infilarmi sotto le coperte.
- Ciao… - mormoro inspirando a fondo l’odore di Peter dalle lenzuola. Non sono davvero tanto ubriaco da giustificare un comportamento simile. Non sono neanche tanto ubriaco da giustificare il fatto che sto un po’ piangendo, in questo momento, anche se non è niente di teatrale. Però faccio finta di esserlo per concedermi una scusante e perché, cazzo, ne ho bisogno.
Aspetto di essermi calmato, prima di recuperare il cellulare e il bigliettino, sedermi sul letto e, con le lenzuola tirate su fino al naso, chiamare Nicole. Lo faccio perché mi dispiace che sia sola adesso. Lo faccio perché non mi sono comportato bene. Lo faccio perché ho bisogno di sentire una cazzo di voce umana cui in questo momento importi della mia presenza, perché mi sembra di girare a vuoto, porca puttana, e non so come fermarmi, non so dove fermarmi, non so nemmeno se voglio davvero. Vorrei che Chakuza fosse qui, adesso. Chaku, non ti manderei via, se provassi a baciarmi ora. Però tu non ci sei, c’è solo il tuo odore e devo accontentarmi.
Nicole mi risponde anche se l’ho palesemente svegliata. La sua voce è un mugolio stanco e assonnato. È gentile e non mi manda a fanculo, anzi, ride e mi dice che non si aspettava che l’avrei chiamata sul serio. Io sbuffo una mezza risata ed ammetto sinceramente che non me l’aspettavo neanche io. Lei mi dà dello stronzo ed io la trovo una cosa carina, perciò le chiedo di vederci domani per un caffè, dopo pranzo. Decidiamo di vederci fuori dagli studi dell’Aggro e, quando chiudo la telefonata, non ho idea di dove andrò a finire continuando su questa strada. Nicole, comunque, è carina. E almeno lei c’è.
Il sole comincia appena a spuntare dietro i palazzi, quando finalmente mi addormento. Chakuza non è rientrato. Comincio a chiedermi se lo farà mai.
*
Non ho idea di quante ore siano passate, quando mi sveglio. Sento qualcuno trafficare da qualche parte nella stanza e, per quanto ne so, potrei anche essere regredito ai dodici anni, perché questi sono i rumori che faceva mia madre quando entrava in camera mia di mattina presto per raccogliere i vestiti sporchi da ficcare in lavatrice. Sento il fruscio del cotone e mugolo un “mamma…?” un po’ confuso, ma sono ancora talmente assonnato che non riesco ad aprire gli occhi.
Però Chakuza ride, ed allora li spalanco.
- Ben svegliato. – mi prende in giro. È fresco di doccia e sta rovistando in un cassetto alla ricerca di una maglietta da indossare. Il fatto che sia seminudo non mi aiuta in niente, mi sento in imbarazzo, vorrei sparire e mi rendo conto di aver dormito a casa sua. Cioè, lo so che ho dormito a casa sua, ma mi rendo conto solo adesso di quanto sia assurdo il fatto in sé.
- Sei tornato adesso…? – chiedo, la voce ancora impastata dal sonno, e lui ride ancora.
- Veramente da un paio d’ore. – risponde, individuando finalmente la maglietta che cercava e indossandola, - Ma dormivi così bene che non mi è sembrato il caso di svegliarti. Ti hanno sfrattato da casa tua? – io rispondo con un mugolio frustrato, rigirandomi fra le coperte e stiracchiandomi piano, mentre lui ride ancora. – Piuttosto, - riprende poi, sistemandosi per bene davanti allo specchio, - si può sapere perché cazzo mi hai ripulito casa? – chiede con aria divertita, - Mi è preso un colpo, quando sono entrato!
Scrollo le spalle, mettendomi seduto. Non mi va di scendere dal letto.
- Non lo so. – borbotto, - Era il solito bordello, ho sistemato qualcosa e mi sono fatto prendere la mano.
- L’ho visto! – ride ancora, - Aspetta un secondo. – aggiunge poi, quindi scompare oltre la porta e lo sento armeggiare di là. Quando torna, porta fra le mani un vassoio pieno di roba, ed io spalanco gli occhi.
- Che cazzo è, Chakuza? – chiedo, sconvolto. Lui ride ancora, posa il vassoio sulle mie ginocchia e poi si siede accanto a me.
- La colazione. – risponde, - Non sapevo che avevi dormito qui, altrimenti mi sarei fermato a comprare qualcosa fuori… comunque ti ho fatto il caffellatte ed ho riesumato delle merendine… - indica della roba ammaccaticcia chiusa in degli involucri di plastica, con un gesto distratto, - Erano nella credenza da un po’ ma dovrebbero essere ancora commestibili.
- …Chakuza, - lo fermo, pinzandomi la radice del naso, - perché mi hai portato la colazione a letto?
- Be’, - comincia lui, - ho fatto la doccia, tu continuavi a dormire, non avevo niente da fare e-
- Chakuza! – lo richiamo, alzando lievemente la voce. Lui deglutisce, prende una merendina, la scarta e ne manda giù un pezzetto, prima di sospirare e rispondermi.
- È andata… bene, con Bill. – dice senza guardarmi negli occhi, - Perciò credo di doverti ringraziare.
Prendo una tazza piena di caffellatte dolcissimo fra le mani, e ne bevo un po’.
- Non ringraziare. – dico tetro.
- …ma è merito tuo se-
- Lo so. – taglio corto, - Non ringraziare.
Chakuza sospira e mangia un altro pezzo di merendina. Poi lo sento spostarsi più vicino e mi passa un braccio attorno alle spalle. Così, dal nulla. Io vado nel panico più totale. Vado così nel panico che non riesco nemmeno a muovermi, divento una statua di sale e fisso il vuoto mentre lui mi stringe a sé, rischiando peraltro di ribaltare il vassoio.
- Ti va di parlarne? – mi chiede a bassa voce, sussurrandomelo contro una tempia.
- No, cazzo. – mi lamento sconvolto, - Lasciami.
- Piantala. Ti va di mandarmi a fanculo?
Sospiro.
- …sì.
Lui annuisce lentamente.
- E allora fallo.
- Fanculo, Chaku.
Restiamo in silenzio per un po’.
- Ti senti meglio? – mi chiede poi.
Io scuoto il capo.
- Per nulla. – rispondo.
Chakuza ride piano contro la mia pelle e mi stringe ancora un po’.
- Dovevi dirlo con più convinzione.
- Non mi andava e oh- insomma, Chakuza, mi lasci andare? – mi lamento, ma non mi scosto davvero, perciò Chakuza ride ancora e in effetti non mi lascia andare neanche un po’. Resta lì e il suo profumo lo respiro direttamente addosso a lui, che dopo una notte passata a cercarmelo addosso e fra le coperte è una bella cosa, intendo, avere finalmente l’originale a portata di mano.
- Va meglio adesso? – chiede alla fine, quando mi sente sospirare profondamente. Io mi rimetto dritto e solo allora lui mi lascia andare.
- Un po’. – ammetto controvoglia. Che ci posso fare, è vero. – Io non lo capirò mai cosa vuoi da me, Chakuza. – brontolo incrociando le gambe sul materasso ed incurvando un po’ le spalle. Mi sento quasi stanco.
Chakuza sospira a propria volta e mi sfiora appena un braccio col suo.
- Da te voglio te. – risponde in un soffio, - Non saprei metterla in un altro modo. Cerca di capirmi e basta.
- …insomma. – borbotto, mangiando pure io una merendina, - Non è che sia proprio facile starti dietro, Chakuza.
Lui ride piano.
- Lo so. – risponde.
Io sospiro e mi tolgo il vassoio di dosso. Lui non mi ferma quando mi rimetto in piedi, sistemo alla buona i vestiti stropicciati ed indosso le scarpe. Si limita a guardarmi con un’espressione a metà fra la tenerezza e la beatitudine e la sua felicità è così evidente che mi viene voglia di prenderlo a cazzotti, ma lascio perdere.
- Ci si sente, eh? – lo saluto con un cenno del capo. Lui risponde con un cenno uguale e mi fa un po’ strano, quando esco dal suo appartamento, non sentire i rumori tipici di lui che devasta casa perché me ne sono andato. Dovrò farci l’abitudine.
Quando arrivo a casa mia è quasi mezzogiorno. Apro e spero quasi di non trovarcelo Anis, qua dentro, perché sono veramente molto stanco e voglio farmi una doccia, sistemarmi, vestirmi, andare un’oretta agli studi e poi prendere il mio dannato caffè con Nicole.
Invece niente, ovviamente lui è ancora sul divano e ancora dorme. Durante la notte si è rigirato in ogni modo, i pantaloni della tuta gli sono risaliti su fino alle ginocchia ed ha una gamba ancorata allo schienale del divano. Un braccio pende giù verso il pavimento e l’altro è abbandonato dietro la testa, sul bracciolo. Respira con la bocca semidischiusa, la maglietta gli lascia scoperta la pancia ed i capelli gli sono finiti tutti sulla faccia, mentre la coperta si è arrotolata come un serpente tutta attorno al suo corpo. È talmente ridicolo che non posso proprio fare a meno di ridere, e quando lo faccio, anche se cerco di fare piano, lui si riscuote ed apre gli occhi.
Mentre si tira su a sedere con l’aria di uno che non capisce molto bene dove si trovi e perché, penso distrattamente che lui e Bill devono essere uno spettacolo, quando dormono insieme. Uno sbava e scalcia, l’altro si agita neanche fosse posseduto…
Realizzo in un secondo, mentre lo saluto con un cenno della mano e vado verso la cucina per preparare un caffè, che io ho dormito palesemente con troppi uomini, nel corso della mia esistenza. È impensabile che adesso io sia in questa situazione e conosca a memoria il modo in cui dormono tutti, Anis, Bill, Chakuza. È una cosa veramente assurda. Io sono un essere umano veramente assurdo.
Anis appare sulla soglia della cucina mentre io infilo la cialda nella macchinetta del caffè e decido di cambiare anche l’acqua nel recipiente, anche perché chissà da quanto è qui a ristagnare. Mi meraviglio di non trovarci dentro le rane.
- Che fai? – mi chiede grattandosi la pancia. Una gamba dei pantaloni è tornata al suo posto, l’altra è ancora tutta arricciata attorno al suo ginocchio. E poi, senza soluzione di continuità, aggiunge – Ma hai scopato?
Io lo guardo, e sono anche vagamente oltraggiato, lo ammetto.
- Ma che cazzo…? – chiedo, pigiando il bottone. La cucina si riempie dei rumori forti e vibranti della macchinetta, e Bushido scrolla le spalle.
- Ce l’hai tipo scritto in faccia. – mi fa notare, indicandomi il viso, - E comunque sei vestito come ieri. Che stronzo, io qui a deprimermi e tu in giro a scopare. Non ho parole.
- Tu non ti sei depresso, - gli faccio notare, piazzando due tazzine al loro posto sotto gli erogatori, - tu hai dormito. Sul mio divano. Non hai il diritto di contestare se scopo.
- E chi contesta! – ride lui, divertitissimo, - Chi è? La conosco?
Io scrollo le spalle, mugugnando risentito mentre spengo la macchinetta e gli porgo la sua tazzina piena. Con Bushido, il caffè si beve amaro.
- Nicole. – rispondo in un borbottio appena comprensibile. Anis spalanca gli occhi e schiude pure le labbra.
- …quella! – dice, tornando a puntarmi col dito, - Finalmente! Cristo, Pat, sono anni che ti viene dietro!
Io agito una mano e mando giù il caffè.
- Piantala di farti i cazzi miei. – lo minaccio con un’occhiata glaciale, - E tu non sembri per niente un uomo che abbia appena perso il grande amore della sua vita, comunque.
Anis si appoggia contro lo stipite e guarda un punto oltre la mia spalla, un punto che non significa niente e dove non c’è niente. Sorride ancora, ma è un sorriso così spento che mi mando a fanculo da solo e mi viene voglia di mangiarmi la lingua.
- No, eh? – chiede a mezza voce, sorseggiando il proprio caffè.
- …Anis- - provo a chiamarlo, ma lui mi ferma.
- Posso farmi una doccia? – chiede, posando la tazzina sul ripiano della cucina e stiracchiandosi un po’, - E mi presti qualcosa di tuo?
Io deglutisco, penso a Chakuza per un istante e poi lo sbatto fuori a calci dalla mia memoria. Mi concentro su Anis.
- Ti prendo un asciugamani.
Lui annuisce e sorride ancora. Quando scompare lungo il corridoio, aprendo porte a caso alla ricerca del bagno e chiedendomi se le uso tutte, queste fottute stanze, rido un po’. Magari stasera lo invito a cena.

Bookmark and Share

That's the way it is

di tabata
Quando ho lasciato il suo appartamento, Bill era sul divano e stava guardando i cartoni animati, con in grembo una ciotola di cereali senza latte – perché pesa quaranta chili ma mangia come quattro persone, quindo dopo le frittelle e i waffle amorevolmente cucinati dal sottoscritto ha voluto anche i cereali –, il che significa che, ad occhio e croce fra un paio d’ore, mi telefonerà chiedendomi che cos’ho fatto in tutto questo tempo che non mi ha visto e se penso di passare a trovarlo nel pomeriggio, e magari restare per la cena, e la notte, e la colazione del giorno dopo.
Bill quando non deve lavorare è onnipresente, non puoi dimenticarti della sua esistenza perché lui non te lo permette. E a me sta bene, perché non ho nessuna intenzione di dimenticarlo. Non ho neanche alcuna intenzione di cederlo a nessuno, quindi quella telefonata la voglio. E ne voglio anche altre dieci al giorno se questo significa avere Bill.
Ad ogni modo sono le undici e mezza del mattino, e io sono tipo nel peggior ritardo della storia dei Pangerl. Mio padre ha una visita dal cardiologo all’ora di pranzo e mia madre non può accompagnarlo dal momento che mia sorella Clara non ha trovato di meglio da fare che farsi sospendere per quattro giorni, quindi lei deve parlare con i professori.
In tutto questo, io devo passare in studio a portare a Stickle le demo che stavo controllando, e se non lo faccio quell’uomo mi farà a pezzi, quindi lui e Raf mi ricopriranno di cemento e mi getteranno nel canale. Ho circa un’ora di tempo per passare da casa, farmi la doccia, portare i cd a Stickle e quindi andare dall’altra parte della città a recuperare mio padre per riportarlo vicino allo studio della Beatlefield perché il suo cardiologo è lì. Non ce la posso fare. Certo potrei anche dirgli di andarci da solo dal medico, ma quel dolore che sente al petto ogni tanto non mi piace per niente. Il suo cuore comincia a perdere colpi, temo, e siccome lui tende a non dare nessuna importanza a quello che gli dicono i medici liquidando il tutto con un assurdo “mio padre è campato cent’anni senza averne mai visto uno”, quando non si ricorda che per l’appunto nonno è morto d’infarto, allora forse sarà il caso che lo accompagni.
Per qualche miracolo non trovo traffico. Casa di Bill non è lontanissima dalla mia ma se dice di esserci gente per strada ci metto anche un’ora. Quando arrivo, parcheggio e faccio le scale stando attento a non farmi sentire dalla signora Lotte che la mattina non ha niente da fare e quindi si apposta sulla porta per braccarmi con qualche nuova ricetta che ha scovato sul giornale mentre era dalla parrucchiera, che poi mi fa anche piacere – che mi dia una ricetta nuova, non che vada dalla parrucchiera – ma oggi proprio no.
Quando entro in casa, non è casa mia. Cioè lo è: l’ingresso, la cucina, il salotto è tutto dove deve essere, solo che è pulito e il lavello non emana quell’odore di vaga putritudine che di solito ti accoglie quando apri la porta. Entro e mi guardo intorno circospetto. Sembra uno di quei film in cui un uomo sta via per qualche ora e quando torna nessuno lo riconosce, in casa sua vive altra gente, a lavoro non lo hanno mai visto e tutti convengono che lui non è chi dice di essere. Ecco, io adesso mi aspetto che dal salotto, per dire, esca uno e mi chieda cosa ci faccio in casa sua. Magari se chiamo Stickle quello mi dice che Peter è già lì a lavorare dalle sei – e lì già avrebbe dovuto capire che non ero davvero io, perché io non mi alzo prima delle nove.
Poi però vedo sul divano la coperta con i cavallucci marini e allora capisco che di qui è passato Fler. Quando arrivo in camera, capisco che non solo c’è passato ma che c’è anche rimasto, perché sta dormendo nel mio letto. Mi viene da sorridere, e non mi sconvolgo neanche. Insomma, forse dovrei, perché non ha senso che quest’uomo sia nel mio letto, ma so anche che quando sono uscito da qui era tardi e Fler odia casa sua, quindi è normale che abbia preferito restare qui. E’ normale perfino che abbia dormito nel letto e non sul divano. Il divano è scomodo e non è la prima volta che usa quel letto, quindi ha tutto perfettamente senso. E non so se il fatto che abbia senso ha un senso, ma alla fine chissene frega. Vado a farmi la doccia.
Quando esco con l’asciugamano in vita e un ritardo che si accumula, lui dorme ancora ed è uno spettacolo. Fler non dorme per niente composto, quando riesce allarga sia le braccia che le gambe e siccome è lungo, occupa un sacco di spazio, quasi tutto il letto da una diagonale all’altra. Ora però è anche più scomposto del solito: è disteso supino a gambe large, e si copre gli occhi con l’avambraccio perché ieri sera non ha chiuso le tende e c’è una luce assurda in questa stanza. L’altra mano la tiene sulla pancia ma come sempre si è grattato, quindi la maglia è tutta sollevata. Mentre sono li che apro e chiudo i cassetti per trovare una maglia, lo sento che si muove e chiama sua madre nel dormiveglia. Io rido e lui spalanca subito gli occhi. “Ben svegliato,” dico.
“Sei tornato adesso…?” Mugola e cerca di dissimulare il fatto che sia in imbarazzo. Si stropiccia anche un occhio, e sembra un bambino.
Rido. “Veramente da un paio d’ore,” il che probabilmente mi pone nella posizione di dover chiamare Stickle e dirgli che non gli porterò le demo e che se mi vuole cementare i piedi dovrà aspettare che abbia portato mio padre dal medico. Trovo la maglietta in fondo al cassetto, alla fine, e la infilo. “Ma dormivi così bene che non mi è sembrato il caso di svegliarti. Ti hanno sfrattato da casa tua?”
Lui mugola e basta e si stira fra le coperte, anche se più che stendersi ci si incastra dentro perché ha parte del lenzuolo intorno ad una gamba e il resto gli passa dietro la schiena fino ad imprigionargli una mano. Difatti tira e strattona, ma è tutto legato. “Piuttosto,” dico, sistemandomi per bene davanti allo specchio, “si può sapere perché cazzo mi hai ripulito casa?” Chiedo divertito. “Mi è preso un colpo, quando sono entrato!”
Lui scrolla le spalle e alla fine riesce a liberarsi dal boa constrictor di coperte, mettendosi seduto. “Non lo so,” borbotta, “Era il solito bordello, ho sistemato qualcosa e mi sono fatto prendere la mano.”
“L’ho visto!” Rido di nuovo, non è una spiegazione per niente logica. Casa mia è sempre un casino, non ti metti a sistemarla a chissà che ora della notte. Io dovrei prenderlo da una parte e farci due chiacchere. E lui dovrebbe fare lo stesso con me. O forse qualcun altro, uno bravo, dovrebbe parlare con entrambi. Soprattutto perché alla nostra follia non cè limite, soprattutto alla mia. “Aspetta un secondo,” lo avverto, prima di scomparire nell’altra stanza. Dico, io non lo so perché prima, mentre dormiva, gli ho preparato latte e caffè e non ho idea del perché sto mettendo la tazza e la brocca sul vassoio in questo momento. Sostanzialmente, però, non me ne frega neanche. Mi va di farlo. Forse mi sono preso bene stamattina. O forse a Bill l’ho preparata perché mi fa piacere farlo felice, e se ho potuto farlo è grazie a Fler, quindi la colazione la faccio anche a lui.
Quando torno indietro col vassoio, e con la minaccia di Stickle che mi pende sulla testa, lui mi sgrana tanto d’occhioni azzurri. “Che cazzo è, Chakuza?” Chiede, sconvolto.
Io rido mentre gli poso addosso il vassoio e mi siedo. “La colazione. Non sapevo che avevi dormito qui, altrimenti mi sarei fermato a comprare qualcosa fuori… comunque ti ho fatto il caffellatte ed ho riesumato delle merendine…” indico delle robe un po’ ammaccate e chiuse nella plastica che ho trovato per puro caso. “Erano nella credenza da un po’ ma dovrebbero essere ancora commestibili.”
“… Chakuza,” mi ferma lui, con quel tono che sta a metà tra il rimprovero e la rassegnazione di uno che mi deve spiegare le cose semplici del mondo. Fler lo usa di continuo con me, e di solito comincia col mio nome e si pinza la radice del naso. Difatti ecco che lo fa, si pinza la radice del naso. “Perché mi hai portato la colazione a letto?”
Io mi chiedo perché mi debba necessariamente chiedere cose di cui sa perfettamente che io non conosco la risposta. Insomma, mi conosce, lo sa come faccio le cose io. Cosa chiedi? Sospiro. “Beh…” mi stringo nelle spalle, “Ho fatto la doccia, tu continuavi a dormire, non avevo niente da fare e-“
Non avevo niente da fare? Sono consapevole di non avere il cervello collegato alla bocca. Forse non ce l’ho collegato con niente, in realtà. E’ un organo a se stante che non comunica con nessun’altra parte di me.
“Chakuza!” Mi richiama lui, il tono passa dal rassegnato al severo. Credo che se avesse dei figli, Fler li farebbe scattare sugli attenti con quella voce lì.
Io un po’ ragazzino mi ci sento adesso, per dire. Afferro una merendina per darmi qualcosa da fare e ne inghiotto un pezzo duro e insapore come il cemento, poi sospiro e decido di dirla come viene. Tanto lo sa perché, me lo ha letto in faccia. “E’ andata… bene, con Bill,” rispondo, e non riesco a guardarlo negli occhi. Voglio dire, in questo momento io sono felice perché non ho perso Bill e i miei vestiti sulla cesta in bagno hanno ancora il suo odore, e io quando sono felice lo vedi a chilometri perché non tengo dentro niente. Però credo che non dovrei stare così di fronte a Fler. Dovrei, non lo so, contenermi, credo, boh. Il fatto è che se io sto in un modo, in quel modo sto, non è che posso fare diversamente. “… perciò credo di doverti ringraziare.”
Lui beve il suo caffellatte. “Non ringraziare,” mormora con una voce tremenda.
Fler quando è arrabbiato, oppure sta per esserlo, te ne accorgi subito. E’ come quando sta per arrivare un temporale, e vedi le nuvole grigie un sacco di tempo prima.
Ciononostante, per il discorso di cui sopra, io non riesco mai a fermare la bocca.
“… ma è merito tuo, se…”
“Lo so,” taglia corto. “Non ringraziare.”
Io non ringrazio, e mangio un altro po’ di questa merendina tremenda, che probabilmente è andata davvero a male in chissà quale era geologica. Forse era già qui quando ho comprato la casa, vai a sapere. Ora, questa situazione è davvero imbarazzante.
Voglio dire, io sono qui che come apro bocca sbaglio, però non posso semplicemente alzarmi e andarmene via a fare quello che ho da fare.
Il punto è che niente di ciò che posso dire migliorerà la situazione. Quindi cosa lo dico a fare? Cosa posso dire a lui che mi ha praticamente spedito da Bill quando non lo voleva affatto, e lo ha fatto perché io invece lo volevo? Grazie non vuole, quindi niente. Non gli dico niente. Forse dirà qualcosa lui. Mi avvicino e gli passo un braccio intorno alle spalle. “Ti va di parlarne?” Mormoro piano contro la sua tempia. E’ così vicino che sento il suo profumo.
“No, cazzo,” si lamenta subito lui, sconvolto. Si agita per liberarsi ma non mollo la presa. Lo so come fa lui, che quando si sente a disagio inizia a divincolarsi e poi o non ti guarda o lo fa con l’occhio da uomo del ghetto, che è quella specie di occhiata intensa che dovrebbe metterti un sacco di paura e invece è un sacco ridicola se pensi che la sta facendo per darsi un tono ed evitare di sfuggirti dalle dita. “Lasciami,” mugugna.
“Piantala. Ti va di mandarmi a fanculo?”
Forse è questa la soluzione, che non è che mandarmi a cagare possa risolvere tutti i problemi del mondo ma di solito aiuta. Visto che la mia persona fa più danni di quanti sia in grado di ripararne io devo sottostare a questa pratica per cui, ad intervalli regolari, vengo mandato a fanculo. E tutto torna più o meno come prima. Che non sembra, ma a qualcosa serve.
Lui infatti sospira. “Sì.”
“E allora fallo,” lo invito. Sono pronto, con le braccia aperte.
“Fanculo, Chaku.” E non è che lo dica granché convinto.
Rimane mogio così com’era, quindi ne seguono due minuti di silenzio dove lui non parla e io non so cos’altro accidenti fare. “Ti senti meglio?” Chiedo.
“Per nulla.”
Rido piano contro di lui, è ancora caldo di sonno. Fler è una creatura termoregolante. Se fa caldo, è fresco. Se fa freddo, scalda. Quindi stamattina che in casa comincia a fare fresco, lui trattiene il calore del letto ed è piacevole stargli accanto. “Dovevi dirlo con più convinzione.” Per me la tensione si sta allentando. In realtà quando questo accade per il sottoscritto, non è così per il resto del mondo. E’ per questo che poi sparo cazzate, la gente ci resta di merda e devo quindi essere mandato a fanculo di nuovo. Il fatto è che a me non piace stare in tensione, non lo sopporto proprio. Mi stanco. Percui ci sto per un po’, poi, indipendentemente da chi abbia iniziato, o di chi sia la colpa, basta, smetto. E tendenzialmente il mio cervello sarebbe portato a pensare che tutti dovrebbero fare la stessa cosa. Ovviamente così non è, per questo alla fine l’unica cosa sensata da fare da parte mia è lasciare che la gente mi gridi addosso.
“Non mi andava e oh, insomma Chakuza mi lasci andare?” Lui si lamenta ma non si scosta proprio per niente, e quindi io lo prendo per un segno positivo. Quando Fler non vuole veramente qualcosa, mugugna ma poi non si attiva per ottenerla. E infatti mi si appoggia anche un po’ contro mentre mi dice che dovrei proprio scostarmi. Alla fine sospira e si rimette dritto. Solo allora lo lascio andare, questa volta un po’ di tensione sta scivolando via davvero. O magari la sta facendo scivolare.
“Va meglio adesso?” Riprovo.
“Un po’,” ammette lui alla fine. E poi si siede a gambe incrociate sul letto e mi dice questa cosa spiazzante. “Io non lo capirò mai cosa vuoi da me, Chakuza.”
Per me è semplicissimo. Cioè, non è che io coscientemente abbia una risposta a questa domanda. Io coscientemente non ho risposta a nessuna domanda che non siano quelle base, che mi puoi fare nella quotidianità: C’è del latte? Hai preso le chiavi? Dove hai parcheggiato l’auto?... per tutto quanto il resto io rispondo d’istinto, che non vuol dire che mento, vuol dire che quella è la risposta ma non l’ho pensata prima di esprimerla. Tutto lì. Quindi io lo so cosa voglio da lui, ed è qualcosa di estremamente semplice e lineare. Nella mia testa. “Da te voglio te,” rispondo piano. “Non saprei metterla in un altro modo. Cerca di capirmi e basta.” E’ la pura e semplice verità.
E in realtà non c’è proprio niente da capire in questa frase. Fler è Fler, e tutto quello che lui è e rappresenta ed è stato con me e anche senza di me, a me piace. Lo voglio. Che poi al momento questo concetto è indipendente dal sesso, ed è molto più generale.
Io non riesco proprio a concepire che Fler non ci sia nella mia vita; non comprendo nemmeno le parole una in fila all’altra quando le pronuncio in testa. E’ come togliere l’ingranaggio centrale ad un meccanismo e sperare che funzioni lo stesso. Girerà a vuoto. Quindi a me non passa neanche per l’anticamera del cervello di togliere il Patrick-ingranaggio. Deve stare lì. Con tutti i suoi denti ad incastrarsi con i denti di tutti gli altri ingranaggi che compongono la mia vita. Se tu me lo togli, non funziono più nemmeno io. Quindi da Patrick voglio Patrick, quello che è. Lui.
“… insomma,” borbotta, azzardandosi a mangiare anche lui una merendina della prima guerra mondiale. “Non è che sia proprio facile starti dietro, Chakuza.”
“Lo so,” rido piano perché è una cosa che mi dicono da quando sono piccolo, credo.
Non c’è soluzione purtroppo, questa è la testa che mi hanno dato. Mio zio Albert, il fratello maggiore di mio padre, dice sempre che quando Dio distribuiva la logica, io dovevo essere al gabinetto.
Fler a quel punto sospira di nuovo, uno di quei sospiri che riesce a scuotergli anche quelle spalle enormi che si ritrova, quindi si toglie il vassoio di dosso e si sistema i vestiti il meglio possibile. E’ tutto a grinze, sembra uscito dalla lavatrice. Quindi si mette le scarpe e se ne esce da casa mia con un “Ci si sente, eh?” Gettato così, un po’ a caso.
Lo saluto allo stesso modo. Io comunque devo andare. Mentre recupero le chiavi della macchina da sopra il tavolo di cucina, e non lo so perché le ho lasciate lì quando sono entrato, getto le stoviglie della colazione di Fler nel lavello. Il telefono squilla un secondo dopo, ed è Bill naturalmente. Ci parlo mentre salgo in macchina. Si è finalmente svegliato del tutto, che con lui è un processo lentissimo come dicevo, ed è euforico perché ha scoperto un sacco di cose che dobbiamo assolutamente fare – indipendentemente dal fatto che ci sia il tempo e la possibilità di farle, naturalmente – e per dirmele lui non può aspettare nemmeno che finisca di mettermi la cintura e calcoli mentalmente il percorso che devo fare. Io già lo so che mio padre è fuori dalla porta di casa ad aspettarmi con venti minuti d’anticipo quando io ne ho quaranta di ritardo.
Bill vuole uscire, e ce lo porto fuori. Mi vuole a cena, come previsto. Prima delle sei non sono lì nemmeno se mi teletrasporto, Bill. Lo sento che mette il broncio, e questo semaforo è sempre rosso. Facciamo che ci provo, va bene. Lo prometto, sì, Bill.
E c’è la coda naturalmente. Quando ride però, rido anche io. Quanto entusiasmo.
Ora ti lascio che sono arrivato. Sì, anch’io.
Mio padre mi fa notare il ritardo e l’auto ricoperta di polvere – non la lavo da mesi – non appena faccio tanto di accostarmi al marciapiedi. E mentre gli tolgo le cianfrusaglie dal sedile davanti, buttandole su quello dietro, lui ancora parla.
Conto fino a dieci e sospiro. E’ inutile che me la prenda, tanto non ho avvertito Stickle, quindi il mio destino è segnato.
Il canale. Il cemento.
Mi accompagnerà la voce di mio padre che mi chiede perché non ho la cravatta.
Papà, la cravatta sulla maglietta?

Bookmark and Share

The Way He Loves Him

di lisachan
Stamattina ho visto Fler.
Fler, in questo momento preciso della mia esistenza, è un problema che mi sto sforzando di ignorare. Nel senso, non lo so se vi è mai capitato: vi svegliate una mattina e scoprite che la vita che stavate vivendo in maniera non perfetta ma tutto sommato passabile fino al giorno prima è scomparsa. Non è che una cosa prende e va male, no, tutto comincia a muoversi nel verso sbagliato contemporaneamente, e uno in una situazione del genere comincia ad avere difficoltà a capire da che lato dovrebbe girarsi, no? Cioè, dovunque guarda vede solo casino, è un problema. Che mi si potrebbe pure dire: “be’, ma tu vivi una condizione di casino perenne dentro la tua testa, quindi qual è il problema?”, e il problema è proprio questo, che quando non sei un cazzo ordinato nel cervello il mondo esterno deve stare al proprio posto. Quando non riesci ad avere un punto di riferimento dentro di te, devi cercartelo fuori. Se fuori dalla tua testa tutti fanno il cazzo che vogliono – che è pure giusto, alla fine, ma mi crea problemi non indifferenti – tu i punti di riferimento non puoi più cercarli da nessuna parte. Ed è questo il problema.
Quindi, insomma, io mi sono svegliato una mattina e Bushido era vivo, Bill non era più così assolutamente innamorato di me e Fler s’era messo con una donna. Fra tutte queste cose, ovviamente, la priorità è Bill. Bill è sempre la priorità. Bushido arriva al secondo posto, perché a Bill è legato a doppio filo. E poi c’è Fler.
Di ciò che fa Fler, di dove va Fler ed anche di chi si scopa Fler, non dovrebbe fregarmi un accidenti. Beninteso, io lo so. Lo so che non dovrei assolutamente incazzarmi perché me lo vedo spuntare allegro e sorridente mano nella mano con una ragazza, lo so che dovrei accettarlo, congratularmi con lui ed anche esserne felice, ed esserlo sul serio, perché a me non piace che Fler stia male, e fino a prima di mettersi con Nicole lui indubbiamente soffriva, ed invece da quando ci si è messo insieme sta visibilmente meglio.
Però.
Il solo vederli vicini mi manda fuori di testa.
È una cosa assolutamente priva di senso, io me ne rendo conto perfettamente. Non vorrei che di me passasse un’idea ancora più fuori di testa di quanto già non sia nella realtà. Io lo so che non sono tanto normale, ma non sono ancora tanto pazzo da pensare che Fler mi debba fedeltà assoluta dopo tutto quello che gli ho combinato nel corso dell’ultimo anno. Per questo non gli dico niente e cerco di stare tranquillo, anche quando lo vedo con Nicole in giro, ma ciò non cambia la realtà dei fatti che appena io faccio tanto di mettergli gli occhi addosso e lo vedo che la stringe, le sfiora un braccio, le sorride o quel che è, la prima cosa che penso è che ho voglia di pestare lui e defenestrare lei. Che poi è la stessa cosa che ho provato quando l’ho visto interagire con Bushido la prima volta che si sono rivisti, in casa di Eko, solo che stavolta è anche peggio, perché, voglio dire, chi cazzo è Nicole? Siamo seri.
Comunque, stamattina è successo che sono andato a registrare le mie parti per Prinzessin. Io, di questa canzone, non voglio parlare. Perché è anche troppo evidente cosa Bushido ci abbia messo dentro. Ora, io lo so come lavora Bushido. È uno molto presente a se stesso, quando si sta vendendo ad un pubblico pagante; tiene sotto controllo tutto, programma tutto, niente succede se non è stato lui a deciderlo. Quando scrive no, però, quando scrive è molto più libero. Si ascolta molto, anche se credo sia solo uno strascico del suo egocentrismo del cazzo. La sua voce sovrasta quelle degli altri anche dentro di lui, quindi, quando scrive, lo fa ascoltando la parte più profonda di se stesso, quella con cui magari lui direttamente non parla, ma che lascia scivolare sul foglio, perché così è più semplice tenerla a bada. La canzone che ha scritto per Fler, in Heavy Metal Payback, l’ha scritta così. Ed io credo che Prinzessin sia nata nello stesso modo, perciò non è che posso avercela in maniera distruttiva con Bushido per il solo fatto di averla buttata giù.
Però ce l’ho con lui per il modo in cui la sta usando. Quindi no, non voglio parlare di questa canzone e di come a leggerne il testo io venga fuori come un pezzo di merda quando, in tutta franchezza, non ho fatto proprio un cazzo di male. Mi urta dovermi prestare a questo giochino per niente divertente, mi urta star qui a cantare cose che non penso quando io sui testi che avevo da cantare sono sempre riuscito a mettere mani e bocca per renderli il più possibile vicini al mio modo di sentire, e mi urta non esserci riuscito adesso solo perché, come mi ha detto Jost quando mi ha fatto sapere che la mia presenza era richiesta e no, non potevo rifiutarmi, “alla Universal sono già abbastanza incazzati per lo scherzetto che gli ha combinato Bushido. Pretendono la massima collaborazione e tu non vuoi davvero averli contro, Chakuza”. E no che non li voglio contro. Mi mancano davvero solo i pezzi grossi dell’industria musicale tedesco che mi vogliono fuori dal giro, e poi sono completo, cazzo.
Comunque, ovviamente prima di dire “d’accordo” mi sono informato, con Jost. Pazzo sì, cretino no. Gliel’ho chiesto, “sono registrazioni di gruppo?”, e lui naturalmente mi ha guardato e m’è scoppiato a ridere in faccia. Poi è tornato subito serio e fa “ma ovviamente no, Chakuza”, come a dire “ma per chi mi hai preso?”, ed in effetti io lo sospettavo che Jost non l’avrebbe mai permessa una cosa del genere, perché è uno che sul lavoro è molto preciso e gli danno fastidio i tempi, quando si allungano, perciò supponevo avesse già preso tutte le precauzioni del caso, ma sempre meglio chiedere, dico io, per scrupolo.
Comunque nella mia domanda era compreso anche Fler. Nel cervello di Jost no, invece, perché giustamente lui si dice “Fler non c’entra un cazzo”, ma per me Fler c’entra sempre, quindi se ti chiedo se c’è la possibilità per me di incontrare qualcuno, nei vari “qualcuno” possibili è incluso anche Fler. Nella mia testa questo è chiaro, in quella di Jost no, e questo è giusto, ma io tendo a dimenticarlo. Perciò oggi mi sono presentato agli studi con le palle girate, d’accordo, ma fiducioso che non mi sarei trovato a dover fronteggiare nessuna situazione difficile. E invece appena esco dalla sala d’incisione, dopo tre ore sfiancanti, chi mi vedo passare davanti? Ma la coppietta felice, naturalmente.
Non ho il tempo materiale di fuggire dietro il primo angolo disponibile dopo aver adocchiato Fler che cammina – un braccio attorno alle spalle di Nicole, lei ha intrecciato le dita con le sue – che lui si volta e mi guarda e, come fosse tutto perfettamente a posto, mi sorride. Così, tranquillissimo. Solleva anche una mano nella mia direzione, rilassatissimo, e mi saluta. Al che io non posso fare molto più che rispondere abbozzando un sorriso a mia volta, restando lì fermo impalato mentre lui mi si avvicina, trascinandosi dietro Nicole che è minuscola e scialbissima e non c’entra niente col tipo di donna che avrei affibbiato a Fler se mai avessi voluto affibbiargliene una. Per dire, visto che lui comunque è robusto ed ha la pelle e gli occhi chiari, accanto gli starebbe bene una ragazza alta con un sacco di curve, la pelle scura e gli occhi grandi e castani. Invece lui mi si presenta con questa cosina minuscola, pallidina, biondiccia, con questi occhietti marroncini anonimi, boh, Fler poteva pretendere di più, credo. Anzi no, lo so, Fler poteva pretendere di più eccome. Comunque mi sforzo di guardarla con calore, perché lei mi sorride timidissima e non me la sento di lanciarle occhiate intimidatorie. Non ne avrei nemmeno un motivo, peraltro.
- Ehi. – mi fa, perfettamente a suo agio, - Finito per oggi? – chiede, indicando con un cenno la porta chiusa della sala incisioni. Nicole stringe la presa delle proprie dita attorno alle sue ed io fisso l’intreccio delle loro mani per un po’ di secondi, prima di riscuotermi e decidermi a rispondere.
- Sì, - ammetto, - è stata dura ma ce l’ho fatta. – commento con una scrollatina di spalle. Lui annuisce e lo vedo chinarsi appena su Nicole, sfiorarle la guancia con un bacio lento e poi sussurrarle qualcosa che non riesco a percepire. Lei sorride ed annuisce, e mi saluta a bassa voce prima di sciogliersi dal suo abbraccio ed andare verso l’uscita degli studi. Inarco un sopracciglio e fisso Fler con aria curiosa. – Be’? – chiedo, indicando la porta dalla quale Nicole è appena uscita. Lui ride.
- Le ho chiesto di precedermi a casa sua. Ho voglia di spezzatino con le patate.
Mi lascio andare ad un mezzo ghigno, spostando il peso da un piede all’altro.
- La fai filare? – chiedo, e lui mi tira una mezza spinta, ridendo come un ragazzino.
- È solo gentile. – risponde, - Mi piace che lo sia. È dolce ed è semplice. Niente di neanche lontanamente paragonabile al resto della gente con cui sono stato.
- Ah, grazie mille. – rispondo, un po’ offeso, e lui ride ancora.
- Non sono mica stato solo con te. – mi fa notare, e penso pure che c’ha ragione e che questo dialogo è surreale.
- E… - gesticolo, perché non so se posso chiedere questa cosa e non so nemmeno se voglio chiederla, o meglio, voglio chiederla ma non so se voglio sapere la risposta; o meglio ancora, voglio sapere la risposta, ma non so se sono veramente pronto a sentirmelo dire. Quindi, in sostanza, gesticolo per tergiversare. - …da quant’è che state insieme?
Fler è a disagio e lo vedo subito nel momento in cui volta lo sguardo e scrolla le spalle.
- Lasciamo perdere. – taglia corto, - Ti va un caffè?
Annuisco, un po’ confuso, e gli vado dietro mentre ci avviciniamo ai distributori automatici. Fler mi chiede cosa voglio, io rispondo “un caffè ristretto” e, quando lo vedo recuperare il portafogli in tasca, gli chiedo cosa vuole lui, come fosse una curiosità come un’altra. Lui apre la taschina portamonete, rovista tintinnando e mi risponde sovrappensiero che lui ne prende uno doppio zuccherato. Perciò io infilo la mano in tasca, recupero due euro spersi nei pantaloni da chissà quanto tempo e pago per entrambi. Lui, che non aveva ancora racimolato la quantità sufficiente di monetine, se ne rende conto solo quando sente la macchinetta ronzare e cominciare a riempire il bicchierino di plastica col suo caffè, e mi lancia un’occhiata a metà fra lo sconvolto e il nient’affatto compiaciuto.
- Chakuza! – mi rimprovera, - Ma chi te l’ha chiesto?!
- …nessuno. – ammetto io, recuperando il bicchierino e porgendoglielo, - Mi faceva solo piacere farlo.
Lui accetta il bicchierino sospirando teatralmente in un roteare di occhioni azzurri che mi fa anche un po’ ridere, e poi resta in silenzio mentre io prendo il mio caffè e rimaniamo lì a sorseggiare lentamente, perché il coso è pure caldo, e nessuno qui vuole scottarsi la lingua. Restiamo in silenzio finché possiamo permettercelo – ossia finché non diventa troppo pesante – e poi gli chiedo come sta. Che è una cosa che faccio sempre quando non so cos’altro fare con lui. Fler non è semplice, da maneggiare, anzi. È uno che, tra l’altro, appena sbagli di un millimetro ti si volta contro in maniera devastante. Quindi, prima di fare o dire qualsiasi altra cosa, io devo chiedergli come sta. Così posso elaborare un piano d’azione, o pensare ad una strategia, o qualunque sia un modo meno idiota per definire il momento in cui cerchi di capire come muoverti per non passare come un fottuto carro armato addosso ad una persona alla quale tieni.
Lui scrolla le spalle, butta giù ciò che resta del suo caffè e si appoggia contro la macchinetta.
- Bene, credo. – risponde, - È un periodo un po’ incasinato, con Nicole e tutto il resto, ma sto tranquillo. Cioè, tutto il mondo è un casino, ma io sono tranquillo. Non so se capisci cosa intendo.
Annuisco vagamente, e non lo faccio per finta. Lo capisco cosa intende. Anche se è una cosa che non mi piace, perché vuol dire che è felice davvero. Mi piace vederlo felice, cazzo, ma… oh, insomma.
- Stai da lei? – chiedo, fingendo disinteresse. Lui mi sgama subito e sorride.
- Cosa vuoi sentirti rispondere?
- …la verità, suppongo. – borbotto senza guardarlo. Lui ride un po’.
- Penso che la prenderesti anche peggio. – mi informa con una risata da ragazzino che sembra prendermi in giro.
Simulo tranquillità, lanciandogli una mezza occhiata che mi auguro sia indecifrabile, e invece non lo è, perché lui si mette subito a ridere come un cretino, e io sbuffo.
- Be’, dimmelo se stai da Bushido. – sospiro alla fine, abbattendomi di spalle contro la parete. Lui ride ancora.
- Praticamente sì. – ammette, gettando il bicchierino ormai vuoto nella spazzatura, - Lo sai come funziono. Ragiono meglio se ho gente attorno.
- Che bisogno avrai di ragionare, adesso… - mi lamento io, e lo faccio solo perché non mi piace saperlo giorno e notte piantato in casa di Bushido.
- Be’, qualcuno dovrà pur farlo. – mi risponde lui, ed in effetti non posso dargli torto, perciò annuisco. – Comunque in genere sto bene. Come ti dicevo, Nicole è molto carina e dolce.
- E la ami?
…non so come funzioni con questo tipo di domande. Probabilmente ognuno, nel proprio cervello, ha una scatola con dentro tutte le domande scomodissime che non vorrebbe mai fare e delle quali però vorrebbe conoscere la risposta. E le domande vanno accumulandosi in questa scatola finché non diventano troppe, e quando diventano veramente tantissime ecco che salta via il coperchio e quelle cominciano ad uscire. E il problema è che, mentre stavano lì strette nella scatola, si sono aggrovigliate fra loro come i gomitoli di lana quando non li avvolgi bene e li lasci lì nella cesta per giorni, perciò quando ne esce una se ne porta dietro un’altra, e poi un’altra, e un’altra ancora, finché non escono tutte. Forse è così che funziona per tutti, o forse è così che funziona solo per me, fatto sta che di questa domanda io so che voglio conoscere la risposta, ma so anche che non avrei voluto porla. E perciò, dopo averla detta, non mi sento bene neanche per un cazzo. E guardare Fler esitare, prima di rispondere, non mi aiuta per niente.
Lo osservo rifletterci sul serio – nei suoi occhi chiarissimi i pensieri passano come in trasparenza, che se solo sei un po’ abituato a guardarci dentro, a quegli occhi, lo capisci cos’è che sta succedendo dentro la testa di Fler. Puoi perfino anticiparlo. Perciò, quando schiude le labbra, io so già cosa sta per dire, e mi tendo tutto, stringendo i pugni per cercare di fermare qualsiasi sia il gesto che vorrei compiere in reazione alle sue parole. Perché non posso permettermelo, perché non posso farglielo e perché in generale è più giusto se sto fermo.
- No. – risponde, comunque. È la cosa più bella che sento da giorni. – No, non credo proprio. – mi guarda, ed è tranquillissimo. – Ma lo sai già.
Annuisco lentamente, gettando via il mio bicchierino.
- Perché ci stai insieme? – chiedo, guardandolo dritto negli occhi. Lui sospira e mi ricambia lo sguardo.
- Perché è meglio che stare soli. Perché boh… non è così male. – sospira ancora, più pesantemente. – Perché anche se mi manchi non me ne faccio niente di questo sentimento. Mi sento anche uno scemo a dirtelo.
Mi mordo un labbro, schiacciandomi con forza contro la macchinetta per non avvicinarmi neanche di un passo.
- Non sei uno scemo. – rispondo a bassa voce, - Mi dispiace che tu stia così, Pat.
Lui tira fuori un mezzo sorriso e scrolla le spalle. Ogni tanto, quando lo fa, quando scrolla le spalle, dico, mi sembra voglia scrollarsi di dosso i problemi. Lo fa con una convinzione tutta particolare. Come servisse davvero.
- Non sto male. – ribadisce, - Ed ora basta parlare di me. – sorride più decisamente, tornando ad appoggiarsi qui accanto a me solo quando vede i miei muscoli rilassarsi e la voglia che ho di baciarlo scivolarmi lentamente via dagli occhi. – Tu com’è che stai, Chaku?
*
Com’è che sto mi ha chiesto Fler stamattina. Com’è che sto. Immagino che la risposta a questa domanda sia “non lo so”, ma “non lo so” non è veramente una risposta. È la scusa che usi quando non ti va di risolvere una questione, penso, e posso dire di parlarne con una certa competenza, visto che la uso molto spesso. Non è nemmeno una bugia: io davvero non so come sto. Non è la risposta completa, perché la risposta completa è “non lo so perché non voglio saperlo, perché non posso mettermi lì a risolvere la questione, perché mi fa male pensare di stare male”, ma non è una menzogna. È una parte di ciò che è. Ed è anche quello che ho detto a Patrick, che d’altronde da parte sua non ha nemmeno mai avuto bisogno delle mie risposte complete. Quelle incomplete sono sempre state sufficienti a dargli una base di partenza per trovare il resto di ciò che voleva sapere nei miei occhi, nella mia voce, nel mio odore, sul mio corpo.
Com’è che sto. Sto. In attesa, più che altro. A volte, ripensando a tutta la mia vita nell’ultimo anno, mi sembra di averla vissuta solo così. In attesa. Di Bill, naturalmente, perché niente è stato più importante di lui in questi ultimi dodici mesi. Niente è stato più importante di lui in generale, in tutta la mia vita, temo. E penso succeda così, in fondo, quando ti innamori di una persona, indipendentemente da chi sia. Fa come un balzo fra le tue priorità. Era lì, nel mucchio, e all’improvviso te la ritrovi su un piedistallo, in evidenza, e da lì non riesci a toglierla nemmeno con la forza. E poi neanche vuoi, in fondo.
Con Bill è stato così. Io ho vissuto in attesa di capire cosa stavo cominciando a provare per lui, all’inizio. Poi ho vissuto in attesa di un suo cenno d’assenso. Poi ho vissuto in attesa di risentire il suono della sua voce e guardarlo nuovamente negli occhi. Ed alla fine ho iniziato a vivere nell’attesa del momento successivo in cui avrei potuto tenerlo stretto a me, che poi è quello che ho fatto negli ultimi nove mesi ogni volta che per forza di cose siamo dovuti stare lontani, ed è quello che sto facendo anche ora che è tutto complicato e intricato e doloroso. Vivo in attesa di Bill. Ed è una cosa bellissima.
Quando il mio cellulare squilla, so già che si tratta di Bill. Perché questo è l’orario in cui mi chiama di solito, quando tutti gli altri si decidono a lasciarlo in pace e lui si ritrova finalmente tranquillo in casa propria. È l’orario in cui può smettere di tenere a freno il bisogno che ha di vedermi, e quindi quel bisogno sfonda gli argini e lui mi chiama, e quando mi parla lo fa con tenerezza ma anche con urgenza. Perciò, quando sento la sua voce, sorrido. Perché è stanca, è provata, è angosciata, è triste ed è un altro milione e mezzo di cose, ma soprattutto è piena del bisogno che ha di me. E siccome per me è lo stesso, io non posso fare a meno di esserne felice, e sorridere.
- Secondo te, - mi dice, senza nemmeno salutarmi, - anche se lo yogurt è scaduto da un paio di giorni, posso mangiarlo?
Rido a bassa voce, perché come si fa a restare seri di fronte ad una cosa del genere?
- Ho esperienza sul campo. – gli faccio notare, dal momento che entrambi conosciamo le condizioni del mio frigorifero, - Sono quasi sicuro di no, Bill. Forse è il caso se mangi qualcos’altro.
Lui sbuffa, e lo ascolto lasciarsi andare sul divano e raggomitolarsi in una pallina contro il bracciolo.
- Non c’è nulla di buono. – borbotta, - C’è qualcosa che mi ha comprato David, ma non saprei come metterla insieme e tirarne fuori qualcosa di commestibile.
Rido ancora, e quello che gli chiedo glielo chiedo solo perché lui me lo sta già chiedendo da quando questa telefonata è cominciata.
- Vuoi che venga a prepararti qualcosa? – suggerisco, - Sono quasi sicuro che David abbia comprato sufficienti ingredienti almeno per un piatto di pasta.
Lui sorride e mi dice che mi aspetta. Ed io rido un po’ perché fino a due minuti fa stavo pensando che l’intera mia esistenza – be’, ok, l’ultimo anno, ma in fondo se ci penso un po’ stavo aspettando qualcosa come Bill da sempre, qualcosa che mi sconvolgesse dentro, che mi trascinasse completamente in sé, qualcosa che mi prendesse come mi ha preso lui, quindi forse è davvero tutta la vita che lo aspetto – insomma, pensavo che l’intera mia esistenza fosse stata vissuta in sua attesa, e lui ora mi dice che mi sta aspettando. Che sembra una cazzata, ma è bello pensare che in qualche modo, in un certo senso, forse anche Bill stava aspettando me. Indipendentemente da tutto il resto, anche lui mi stava aspettando, ecco.
Quando arrivo a casa sua, lo trovo lì sulla soglia che mi guarda, una mano stretta nervosamente attorno allo stipite della porta e tutto il corpo proteso in avanti a cercare il mio. Quando Bill vuole un abbraccio, lo vedi da lontano, perché tutta la sua persona si prodiga per trovarlo. Ha dei bisogni molto fisici, Bill, perciò basta osservarlo e vedere come si sporge, come si espone, come tiene le braccia, come pianta un piede in avanti rispetto al corpo, per capire che ti vuole vicino e vuole sentirti addosso il prima possibile. Si fa rassicurare con così poco, alle volte, che sembra molto più fragile di ciò che è in realtà. Perché poi quasi te lo dimentichi che ha fatto fuori un uomo, per dire. Ma Bill è bellissimo soprattutto per questo, perché è un mistero continuo, che lo guardi a non capisci proprio come possa essere possibile che sia proprio così. E invece lo è. Se me ne fregasse qualcosa della religione, direi che è un miracolo. Della religione non mi frega un accidenti, e Bill è il mio miracolo comunque.
Lo tiro a me e lo stringo forte, richiudendomi la porta alle spalle, e Bill nasconde il viso contro il mio collo e mugola un po’, strusciando il naso lungo il mio zigomo e cercando subito le mie labbra per un bacio veloce.
- Mi sei mancato… - mi sussurra sulle labbra, mentre io lascio scivolare le mani sui suoi fianchi, accarezzandolo piano, - Puoi… puoi prepararmela dopo, la cena?
Io lancio un’occhiata all’orologio appeso al muro, sulla parete di fronte, e vedo che sono già quasi le dieci. Non c’è verso che, se gli faccio mangiare qualcosa adesso, lui riesca a digerirlo prima di mezzogiorno di domani. Oltretutto, fra meno di un’ora, qualsiasi cosa decidiamo di fare adesso, Bill sarà già crollato addormentato sulla prima superficie disponibile. Vorrei essere io, quella superficie. Perciò lo bacio piano sulle labbra e gli assicuro che sì, gli cucinerò qualcosa dopo, anche se so per certo che la prima cosa che preparerò per lui saranno le frittelle domattina, e mi lascio condurre dalle sue mani che si aggrappano ai miei vestiti, cercando di tirarli via, trascinandomi fino in camera da letto.
Lo stendo sul letto cercando di essere delicato, perché è stanco e lo sento dal modo arreso in cui si lascia maneggiare e accarezzare e mi si appoggia addosso, come avesse bisogno di aiuto per tenersi in piedi. È per questo che lo aiuto a distendersi, così non dovrà faticare per tenersi dritto. Schiude le gambe lasciandomi lo spazio per sistemarmi contro di lui, ed attraverso la stoffa sottilissima del pigiama sento il calore della sua pelle e quello della sua eccitazione, ed entrambi mi colpiscono in scariche elettriche che partono dalla base della mia schiena e si diffondono per tutto il mio corpo, rendendo più affamati i miei baci e i miei tocchi, finché lo sento ansimare pesantemente e gettare indietro il capo alla ricerca d’aria, quando scendo ad accarezzarlo sotto i pantaloni e lo sollevo con la mano libera da sotto la schiena, così che possa inarcarsi, schiacciandosi contro il mio corpo e stringendo le ginocchia sui miei fianchi, le cosce che si serrano come tenaglie attorno al mio polso ed alle mie dita.
- Peter… - mi chiama piano, ed il mio nome scivola sulle sua labbra in maniera tanto dolce che mi viene voglia di assaggiarlo, perciò mi sporgo a baciarlo, affondando dentro di lui che mi accoglie morbido come sempre, e questi sono i momenti in cui mi viene da pensare che forse, se mi sforzo, posso ancora fare in modo che sia come non fosse cambiato niente, come se Bushido non fosse mai tornato, come se Bill non fosse così indeciso come invece è. E quindi ce la metto tutta, cazzo, ce la metto tutta davvero, e lo stringo piano per i fianchi mentre accontento le sue richieste e mi faccio avanti dentro il suo corpo solo dopo averlo preparato per bene, dopo averlo sfiorato e baciato e toccato ovunque, e quando lo sento stringersi attorno a me, seguendo l’impronta che le mie spinte lasciano dentro di lui, chiudo gli occhi e lo bacio sul collo, sullo zigomo, sulla guancia, sugli occhi chiusi e stanchi, sulla tempia, e glielo dico piano, che lo amo, e non mi arrabbio se non mi risponde subito, non mi arrabbio nemmeno se non mi risponde affatto, perché so che è così, lo so che mi ama anche lui, se non me lo sta dicendo in questo momento è solo perché non è il momento opportuno, ed io questo lo rispetto. E Bill lo sa, che lo rispetto. Ed è tutto quello che mi interessa, in questo momento.
Quando si scioglie fra le mie dita ed io mi sciolgo dentro di lui, ascolto i suoi respiri inseguirsi affannosamente sul mio petto, dove ha poggiato le labbra, per molti minuti, prima che lui riesca a domarli abbastanza da costringerli a tornare ad un ritmo più regolare. Ed anche allora continuano ad accarezzarmi piano, così come io accarezzo lui, le dita che si incastrano fra le ciocche intrecciate dei suoi capelli e seguono il disegno sottilissimo e un po’ spigoloso delle sue scapole e della sua spina dorsale.
Come previsto, mi si arriccia addosso e comincia subito a scivolare nel dormiveglia, ed io sorrido mentre lo aiuto a sistemarsi comodamente sul mio corpo e tiro su le lenzuola perché ci coprano entrambi.
- La cena… - borbotta sul mio collo, - …domani, okay?
Rido ancora, sulla pelle un po’ accaldata della sua fronte, ed annuisco stringendolo a me. Domani, Bill, okay. Quando vuoi.

Bookmark and Share

Your Love Alone Is Not Enough

di lisachan
Mi piacerebbe poter dire che la mia vita fino a questo momento, nelle ultime settimane, abbia fatto schifo. Se fosse vero, non aspetterei con tanta ansia l’arrivo di Chakuza, stasera. Anzi, lo aspetterei come una specie di benedizione. Una cosa di cui ho bisogno. Se il mio rapporto con Nicole facesse schifo, non vedrei l’ora di rivedere Chakuza, perché so quello che Chakuza mi fa, e sentirmelo addosso – o anche sentirlo vicino – sarebbe l’unica cosa che vorrei, e la vorrei senza rimpianti, anche perché sarebbe un’ottima scusa per mettere fine al mio rapporto con lei.
La verità, purtroppo, è che a Nicole voglio bene, e con Nicole sto bene. Questo rende tutto molto più difficile, e sfortunatamente non cancella il problema: io continuo ad aspettare Chakuza con la stessa ansia, come fosse una benedizione, anche se so perfettamente che è quanto di più lontano esista da una cosa simile, soprattutto per me e soprattutto in questo momento.
A peggiorare una situazione già catastrofica, si aggiunge il fatto che io conosco Chakuza e so prevederlo. Il che non significa che sappia anche prevenirlo, perché purtroppo quella è una malattia che non riesco a farmi passare, ed anche quando mi sembra di essere guarito il contagio torna sempre a farsi sentire, ed è ogni volta un po’ più forte. Però, insomma, prevederlo sì. Quindi, quando apro la porta e me lo ritrovo di fronte che mi guarda con aria colpevole e un po’ abbattuta, tutto ciò che riesco a pensare è “me lo aspettavo”. Mi viene un po’ voglia di prenderlo a calci per il pianerottolo e buttarlo giù dalle scale, a dire la verità, ma a voler essere ancora più sinceri in realtà sono stato qui dentro da solo ad aspettarlo per qualcosa come sei ore e non ne posso più di sentire i miei stessi pensieri che rimbombano fra le pareti, perciò lascio perdere i propositi violenti e mi limito a guardarlo.
Era semplicemente ovvio che, dopo la questione fra Bill e Bushido, sfumata la rabbia, il Chaku mi si sarebbe rattristato in questo modo. Ed anche volendo, io non sarei per niente riuscito a mollarlo da solo nel casino del suo cervello, ed è questo il motivo per cui cinque o sei ore fa ho salutato Nicole, l’ho portata a casa sua e me ne sono tornato nel mio appartamento – nel quale non mettevo piede da settimane, avendo vissuto da Anis quando ancora Bill stava con Chakuza, e da Nicole quando poi il ragazzino s’è trasferito.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi. L’altroieri, però, mi ha mandato un messaggio sul cellulare. E oggi mi ha chiamato. Nel messaggio s’è limitato a salutarmi e chiedermi come stavo. Quando mi ha chiamato, abbiamo parlato della pioggia che ultimamente martella incessante Berlino, a ricordarci che ormai siamo in pieno autunno e fra poco saremo in inverno, sarà finito un altro anno e noi siamo ancora nello stesso identico punto in cui eravamo un anno fa, persi e senza voglia di fare niente.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi, ma gli ho sentito la voglia nella voce – l’ho sentita in come vibrava bassa contro la cornetta, scivolandomi lungo il collo in brividi – ed è stato più chiaro in quel modo, salutandomi appena dopo avermi ricordato di portare l’ombrello, se uscivo, di quanto non sarebbe stato chiaro se mi avesse comunicato l’orario in cui sarebbe passato di qua.
- Sei in ritardo di dieci minuti sulla tabella di marcia. – lo prendo in giro, lasciandogli libero l’ingresso ed addentrandomi all’interno dell’appartamento, verso la cucina. Cristo, quest’appartamento a volte mi sembra enorme. I chilometri, ci sono, fra l’ingresso e tutto il resto. – Dovresti già stare piagnucolando perché non ti senti abbastanza amato.
- Stronzo. – borbotta lui, entrando con un po’ d’imbarazzo e richiudendosi la porta alle spalle, - Cazzo, fra te e Bushido non so chi sia peggio.
- Lui, è ovvio. – scrollo le spalle, riemergendo dalla cucina con due bottiglie di birra, - Io sono un santo martire.
Chakuza lascia andare una mezza risata amara e si gratta lentamente la nuca, accettando la birra e seguendomi mentre mi lascio andare sul divano con un tonfo scazzato.
- Scusa se- - comincia, ma non ho intenzione di ascoltarlo mentre si dispiace di qualcosa di cui non è dispiaciuto, perciò lo fermo con un cenno della mano libera, scuotendo il capo prima di prendere una sorsata di birra.
- È ok. Immaginavo che non avresti voluto startene per conto tuo. Basta che sia chiaro che possiamo distrarci come vuoi tranne che facendo a botte, perché proprio non ho voglia di violenze oggi. D’accordo?
Lui annuisce ed abbassa lo sguardo, a disagio.
Io sospiro. Okay, mi sto comportando come una merda fatta e finita. Chaku è stato mollato, c’è qualcosa di ingiusto in tutto questo – per quanto non riesca a sentirmi triste neanche sforzandomi, se ci penso – e dovrei essere comprensivo e di supporto. In fondo, qualsiasi cosa sia successa fra me e lui, fra lui e Bill, fra Bill e Bushido e fra Bushido e me, io e Chakuza siamo comunque amici. Voglio dire, prima di tutto lo eravamo. Quello che sento adesso – qualsiasi cosa sia, Nicole o meno – oltre a non avere ragione di esistere, non dovrebbe impicciarmi mentre cerco di consolarlo. Perciò conto fino a dieci e mi modero un po’.
- Dunque… - riprendo più conciliante, grattandomi distrattamente la fronte, - è tremendo vederti così, Chakuza. Vuoi smadonnare un po’? Prometto che non ti prenderò a testate, se cominci a dare della troia alla signora Luise Maria.
- Sinceramente, - borbotta lui, poggiandosi stancamente contro lo schienale del divano, - l’unica persona cui vorrei dare della troia adesso non è nemmeno una donna. – e questo, assieme ai suoi occhi improvvisamente cupi ed alla linea tesa e nervosa delle sue labbra, mi basta a capire che non è di Bushido che sta parlando, ma del ragazzino.
Un po’ vorrei fargli una carezzina sulla testa – come a un bambino di dodici anni, sì – e dirgli che è troppo facile prendersela con Bill, in una situazione simile, solo perché non riesce a gestirsi. Chakuza non capisce che, per quanto Bill possa sembrare adulto e maturo, resta comunque un ragazzino. Con tutta la sua immaturità, Chakuza ha sempre quasi dieci anni più di lui. C’è qualcosa che non torna, in quest’equazione, nessuno dovrebbe aspettarsi da un bambino che agisca come un adulto. Io non me lo sono mai aspettato, da Bill. Bill lo prendi con le caramelle e gli abbracci teneri, e se ti sta bene questo deve starti bene anche che poi, di fronte ad Anis, non sappia controllarsi. Non sono due cose diverse, è solo che è piccolo. Non può piacerti quando ti fa comodo e darti fastidio quando improvvisamente ti pesta i piedi.
Però mi rendo conto che cose simili a Chakuza non posso mica dirle. Sarebbe come se, chessò, Nyze fosse venuto da me dopo che lui ed Anis erano andati via dall’Aggro, e mi avesse detto “sì, be’, però è facile prendersela con Bushido adesso”. Cazzo, era facile sì e non desideravo altro. So che Chaku non desidera altro, adesso, perciò lo lascio fare.
- Ti va di parlarne? – chiedo a bassa voce, mettendomi comodo sul divano e voltandomi verso di lui.
- Sai cosa? – sbotta lui, mandando giù un’altra sorsata di birra, - Mi andrebbe sì di parlarne, se solo riuscissi a capire cosa dire al riguardo!
Mi lascio andare ad un mezzo sorriso divertito, perché la sua espressione – gli occhi spalancati, le labbra arricciate in una smorfia stupita e le sopracciglia inarcate verso l’alto – è molto buffa.
- Intendi?
- Intendo che non ho ancora neanche capito cosa cazzo è successo, Fler. – sospira, tornando ad abbattersi fra i cuscini, - Voglio dire, stavamo… okay, non bene, d’accordo? Non bene. Con Bushido fra i piedi, come vuoi stare bene?, è impossibile. Però stavamo insieme. Capisci? Insieme e basta.
Capisco sì. Mi inumidisco le labbra e cerco di focalizzarmi sull’immagine appagante di lui che ruzzola giù dalle scale rotolando per strada attraverso la porta a vetri spaccata del mio palazzo. Che è una cosa alla quale nemmeno dovrei pensare, perché io sto con Nicole e adesso non dovrei essere geloso, ma tant’è.
- E all’improvviso, boh, tutto ciò che so è che vanno a vivere insieme. Motivo? Perché lui è Bushido. Ti pare un motivo, questo?
Rido un po’, sistemandomi più comodamente.
- Io l’ho quasi fatto fuori, perché lui era Bushido, ricordi? – ghigno indicandomi, - Mi pare un motivo eccome.
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, prima di mollarmi una spinta parecchio risentita contro la spalla.
- Non mi piace quando ne parli così. – sbuffa poi, ingollando in un sorso mezza bottiglia di birra.
- Così come? – lo prendo in giro io, giocando con la mia.
- Come una cosa importante. – spiega lui, tornando a guardarmi con quella strana aria cupa che, quando gliela vedo addosso, mi dà sempre i brividi.
- Chakuza, ma lui è importante. – gli faccio presente, e continuerei tranquillamente su questa china, come ho sempre fatto quando chiunque, amici o giornalisti che fossero, mi ha dato il la per cominciare a parlare di Anis, se solo non notassi le sue sopracciglia corrugarsi ulteriormente e il suo broncio farsi più marcato. - …e tu non ci tieni affatto a sentirtelo ripetere adesso, mh? – chiedo con un mezzo sorriso, chinandomi appena per cercare i suoi occhi.
- No, per niente. – annuisce lui, senza fuggire il mio sguardo, - Anzi, ti sarei grato se riuscissi per una volta a non essere così dannatamente palese, quando parli di lui, visto che in questo momento la sua esistenza sulla terra già basta a farmi uscire di testa.
Rido un po’, anche perché quando mi rendo conto quanto sia in effetti palese, come dice Chaku, il modo in cui mi rivolgo a Bushido, mi sento sempre in imbarazzo. È una questione di immaturità, credo; intendo, a lui è legato un pezzo di me che probabilmente non è mai cresciuto. Quindi, quando c’è lui di mezzo, penso ed agisco come un ragazzino. È ovvio che, quando Bill mi dice che non sa più dove sbattere la testa, io lo capisco senza nemmeno sforzarmi. È semplicemente ovvio.
- Scusami. – biascico, adocchiando la sua bottiglia ormai vuota, - Senti, vado a prendertene un’altra e poi ricominciamo. Accendiamo la tv e mentre guardiamo qualche cagata mi dici tutto per bene, d’accordo?
Mi alzo in piedi, ma Chakuza mi imita, ed io mi fermo a guardarlo con aria un po’ contrariata.
- Be’? – chiedo, - Non mi serve aiuto per-
- No, - mi interrompe lui, scuotendo il capo, - venire qui è stata una pessima idea. – borbotta, muovendosi un po’ incerto intorno al divano, come faticasse a trovare l’uscita. Eppure è lì a due metri. Forse non fatica a trovare l’uscita, forse fatica a trovare la voglia di uscire. – È meglio se vado e-
- Ehi, ehi, Chaku… - lo fermo, recuperandolo per le spalle e tenendolo fermo, mentre torno a cercare i suoi occhi, - Sta’ un po’ calmo, eh? Ti ho detto che mi dispiace, ero sovrappensiero e l’ho presa a ridere. Lo so che è una cosa seria. Se stai un po’ tranquillo ne parliamo, mh? Sul serio.
- No, davvero. – insiste lui, cercando di sottrarsi alla mia stretta, - Lo sto realizzando adesso. Non è il caso, non voglio nemmeno dirtele, queste cose. Tu sei… l’ultima persona dalla quale dovessi andare, e non dovresti nemmeno essere solo, perciò...
Non so perché m’impunto. Probabilmente perché, in fin dei conti, a lasciarlo andare proprio non ci riesco.
- Però lo sono. E mi fa piacere che tu sia venuto qui. – tiro fuori in un fiato, quasi a fatica, stringendolo più forte, - Io e te, ultimamente… abbiamo proprio fatto un sacco di casini, me ne rendo conto, però tu, Chaku, voglio dire, non sei così male, come persona. E dai, mi sembra assurdo perdersi così in un bicchiere d’acqua. – sospiro. – Resta un po’, ti va?
Lui sospira e mi alza addosso uno sguardo vagamente confuso.
- Senza fare altri casini? – mi chiede, sorridendo appena.
- Senza fare altri casini. – confermo annuendo, - Facciamo i bravi, per una volta. Tu mi parli delle tue pene di cuore e io ti somministro dell’alcool per dimenticare. È così che funziona fra la gente normale, giusto?
Lui annuisce a sua volta, distogliendo lo sguardo e massaggiandosi la fronte con una mano.
- Noi due non siamo normali per niente. – mi fa notare in un soffio, - Questo potrebbe essere un problema.
- Basterà tenere a bada l’uccello. – annuisco compostamente, tirandogli una pacca sulla spalla, - Credi di esserne capace?
- Che domanda del cazzo. – grugnisce lui, - In tutti i sensi, poi. Sei uno stronzo.
Sospiro un po’, allontanandomi da lui e dirigendomi lentamente verso il divano.
- Questo l’hai già detto entrando. Almeno rinnova il campionario d’insulti, se proprio devi.
- Be’, non sono io l’esperto di diss, qui dentro. – protesta, tirandomi uno scappellotto dietro la nuca.
Io lancio un lamento palesemente fasullo e mi massaggio il collo che non duole affatto.
- Tieni a posto le mani! – borbotto contrariato, lanciandogli un’occhiataccia colma di un risentimento non più vero di tutto il resto.
Chakuza sospira e mi lascia scivolare addosso uno sguardo che non promette nulla di buono. Anche se dipende dalla prospettiva in cui lo si guarda. Se la prospettiva da cui dovessi guardarlo adesso fosse semplicemente quella di me e lui in una casa vuota mentre fuori si fa buio, prometterebbe cose stupende. Il problema è che devo per forza guardarla dalla prospettiva in cui oltre a noi due in questa casa ci sono altre due persone là fuori. C’è un ragazzino che sta giocando col fuoco e c’è un uomo che si sta perdendo in un danno. E c’è anche una donna, la mia, a casa da sola, che aspetta domani solo per rivedermi. Quindi no, l’occhiata di Chaku non promette niente di buono, a livello generale. Anche se mi piacerebbe potermi fermare alla prospettiva semplice delle cose, per una volta.
- Non puoi chiedermi di tenere a posto troppe cose. – rincara, inumidendosi le labbra, - Faccio già abbastanza fatica.
“E ci risiamo”, mi viene da pensare mentre arrossisco come una liceale. Cristo santo, ci sono volte in cui, prima ancora che infilarlo in una cintura di castità e legargli le mani così che non possa più muoverle, avrei voglia di prendere dello scotch – quello spesso e largo, tipo da imballaggio – e tappargli la dannata bocca. I danni maggiori che fa quest’uomo, non li fa quando ti tocca. Quando arriva a toccarti è perché il danno l’ha già fatto parlando. Perché dice cose senza capire cosa sta dicendo, o se lo capisce è abbastanza stronzo o stupido o sincero – e non so quale sia la cosa peggiore – da dirlo lo stesso, e tu ci perdi la testa.
- Piantala di dire cazzate. – sbuffo, distogliendo lo sguardo, - Piantala prima ancora di cominciare, per favore. Avevamo detto di non fare altri casini.
- Non sto facendo niente. – mi rassicura lui, alzando entrambe le mani e mantenendo perfino la distanza di sicurezza, - Non siamo nemmeno vicini.
- E cerchiamo di mantenere la situazione il più a lungo possibile, ok? – chiedo con tono un po’ allarmato. Anche troppo. – Davvero, Chakuza, farlo è proprio l’ultimo degli errori possibili, okay? Non ce lo possiamo permettere.
Chakuza sbuffa contrariato, tornando a rilasciare le mani lungo i fianchi.
- Non voglio mica prenderti a calci. – si giustifica in un mugugno, - E d’altronde non capisco quale potrebbe essere il problema, se anche lo facessimo. Io non sto più con Bill, giusto?
- Giusto. – ringhio io, per tutta risposta, - Ma io sto con Nicole, nel caso tu non te ne sia accorto, e non sono la parete contro cui puoi rimbalzare quando ti pare, okay? Se non vuoi farti definitivamente mandare a fanculo come avresti meritato già da qualche mese, tieni a freno la lingua, il cazzo e anche tutto il resto. È un consiglio da amico.
Lui sospira e, ovviamente, fa l’ultima cosa che dovrebbe venirgli in mente di fare. Scommetto che invece è stato tipo il suo primo pensiero. Mi si avvicina lentamente, io sospiro a mia volta e mi appoggio già esausto contro lo schienale del divano, piegando un po’ le gambe e cercando di recuperare uno stato d’animo meno isterico ripescandolo da quando ero ancora tranquillo e sereno e Chakuza non voleva ancora scopare. Se mai c’è stato un momento in questa serata in cui non ha voluto farlo.
Quando arriva ad un passo da me, solleva le braccia e mi accarezza il collo, risalendolo tutto e poggiandomi le mani sulle guance, obbligandomi a sollevare lo sguardo per trovare i suoi occhi.
- Stiamo sbagliando di nuovo tutto. – mi avverte con un mezzo sorriso.
- No, tu stai sbagliando di nuovo tutto. – lo correggo contrariato, ma lui sorride ancora ed io mi mordo un labbro.
- E tu mi stai di nuovo lasciando fare. Perché continui a lasciarmi fare?
- Perché sei uno stronzo. – ed è l’unica risposta che si merita.
Lui ride e si piega un po’ a sfiorarmi le labbra.
- È vero. – mi sussurra addosso, - Però non è per questo che mi lasci fare.
- Se speri – ringhio di frustrazione, cercando con poca convinzione – e quindi poco successo – di farmi mollare, - se speri che ti dica qualcosa in questa situazione del cazzo, dico, se speri che te lo dica adesso, tu sei proprio fuori strada, pezzo di merda.
- Fler, ssh. – mi zittisce, baciandomi appena, - Non voglio che tu mi dica niente. Sul serio. Cristo, non sono tanto stronzo da venire a cercare una cosa simile da te se Bill non riesce a darmela perché c’è Bushido di mezzo.
Socchiudo gli occhi. Sta dicendo cose tremende. Non lo posso ascoltare.
- Chakuza, mi lasci andare?
Lui sospira.
- Quante volte me l’hai chiesto, da quando ci conosciamo?
- Tante… - sussurro stremato, - Troppe.
- Ed io l’ho mai fatto?
Rido amaramente, scuotendo il capo per quanto lui mi permette.
- Non è mai troppo tardi per cominciare, non credi?
Chakuza segue il profilo del mio viso con le labbra e poi esita solo qualche secondo, prima di baciarmi. E nei secondi in cui la sua bocca non è pressata sulla mia e le nostre lingue non si stanno cercando a vicenda, lui parla. E come al solito fa danni.
- Credo di sì, invece. – confessa piano, - Fler, noi due non ci perdiamo in un bicchiere d’acqua. Se questo fosse un bicchiere d’acqua, non ci perderemmo affatto. Il problema è che non lo è.
Dopodiché, mi bacia. Ed io, quando lui mi bacia, non capisco più niente. Giuro, nessuno mi ha mai baciato come mi bacia Chakuza, e la cosa allucinante è che all’inizio non era per niente così. Voglio dire, baciava bene ma non esattamente come piaceva a me, questa è una cosa che è venuta dopo, col tempo. E gliel’ho insegnata io. Gliel’ho insegnato io come e dove toccarmi, e questa cosa mi fa impazzire. Non saprei nemmeno dire come, mi fa impazzire e basta.
- Questo è… - ansimo quando mi lascia andare per tirarmi in piedi e cominciare a trascinarmi verso la camera da letto. Incredibile come ricordi ancora dov’è, qui c’è stato solo una volta. Evidentemente ha un talento per sviluppare planimetrie istantanee delle case, per ogni evenienza, - Questo è stato molto scorretto. Non le dovresti dire, queste cose.
- Non lo direi, se non fosse vero. – risponde lui, spingendomi sul materasso e salendomi a cavalcioni addosso, - Te ne dico poche cazzate, ormai…
- Già che tu ammetta di dirmene qualcuna… - gli faccio notare con un broncio che lui non si risparmia di mordere nemmeno per un attimo, - E comunque certe volte è anche peggio, quando sei sincero.
Si ferma solo un secondo. Che poi non è neanche vero, perché non si ferma per niente. È solo un po’ meno frenetico. Continua ad accarezzarmi un fianco con una mano ed a slacciarmi i pantaloni con l’altra, ma si solleva a guardarmi negli occhi e si prende un secondo, prima di parlare ancora.
- Se ti offrissi qualcosa di meno… - comincia serio, - intendo, se cominciassi a mentirti e basta, tu ci staresti? – sospira, - Sarebbe bello e sarebbe facile, ma tu non sei facile neanche per un cazzo. Probabilmente, già alla quarta stronzata prenderesti la tua roba e cambieresti città.
Annuisco, sollevando una mano ad accarezzargli la nuca.
- E infatti ci sono andato vicinissimo.
Annuisce anche lui, sollevandosi appena per sfilare la felpa.
- Sono contento che ci sia tu qui, adesso. – mi dice, continuando a guardarmi negli occhi, - Non so dove sarei, altrimenti.
- In qualche bordello, Chaku. – rido io, ma lui mi toglie il respiro spingendosi lentamente contro di me.
- Sono contento di essere con te, invece. – ribadisce, tornando a baciarmi, - Cristo, dimmi che non mi fermerai, stavolta. Mi sto scordando di cosa sai.
- Stronzate… - ansimo, piegando il capo per lasciargli campo libero sul mio collo, - mi hai baciato anche troppo spesso.
- Ti baciavo ogni giorno, fino a nove mesi fa. – intrufola un ginocchio fra le mie gambe e lo strofina contro la mia erezione da sopra il tessuto pesante dei jeans, - Ti scopavo ogni giorno. Non ti manca?
- Fanculo. – sibilo, seguendo i suoi movimenti col bacino, - Chaku, stai proprio parlando troppo stasera.
Mi bacia lentamente, lasciando scivolare la lingua sulla mia per dei secondi infiniti, e quando si separa dalle mie labbra si appoggia su di me, fronte contro fronte.
- Lo sai che oggi è diverso, vero? – cerca di convincermi, gli occhi scuri di voglia che cercano i miei nel buio della camera da letto, - Non è come quando ho portato Bill da Bushido. Oggi non sono fuori di testa come quel giorno. Sono lucido.
Scuoto il capo e finisco per sfiorare le sue labbra con le mie nel movimento.
- Non lo sei affatto. – gli faccio notare con un mezzo sorriso, - Lo vedi perché dico che parli troppo? Se stessi zitto, avresti un mucchio di problemi in meno.
- Fler… - mi chiama lui, riprendendo a strusciarsi contro di me, - Dico sul serio. – e mi bacia ancora, - Mi piace il tuo sapore.
Mi ci perdo dentro un secondo. Nella sua voce, nei suoi movimenti, nella frizione deliziosa della fibbia dei suoi pantaloni che striscia contro la mia erezione attraverso il cotone sottile dei boxer.
Mi ci perdo dentro un secondo. Un secondo solo.
- È per Bill che lo stai facendo. – gli sussurro all’orecchio mentre scioglie la cintura, - È per lui. Vero? È perché non hai lui che sei qui.
E lui si ferma. Trattiene anche il respiro, per un po’. Poi mi si spinge contro con una certa violenza, tant’è che io ho il tempo di sentirlo tutto – eccitato, frustrato, arrabbiato – e vedere le stelle, e poi mi ringhia sulle labbra.
- È per lui. – conferma, - Sì. Contento, adesso?
Subito dopo, smetto di sentire il calore e la pressione del suo corpo, e quando riprendo a guardarmi lucidamente intorno lo vedo seduto sul bordo del letto, le spalle curve e l’espressione corrucciata che non riesco a cogliere nei dettagli. Ma non ne ho bisogno, li ricordo comunque a memoria.
Tutto quello che riesco a pensare, in questo momento, è che Chakuza ora come ora non ci sta con la testa. Che, per questa situazione, la testa potrebbe perderla del tutto e definitivamente. Che non voglio che succeda. E che voglio essere io quello che gl’impedirà di perdersi dentro se stesso. Voglio essere io e non m’interessa di nient’altro. Non so nemmeno perché, forse da Anis ho ereditato anche questa stupida spinta pseudo eroica per la quale non riesco a stare bene se non so che è tutto a posto e che lo è perché io ho voluto così, non lo so. Fatto sta che mi sollevo a sedere, puntellandomi sul materasso con le mani, e sospiro profondamente. Mi avvicino a lui e sento il suo respiro, vedo la sua sagoma scuotersi appena nell’ombra e mi chino sulla sua spalla, lasciando un bacio sulla sua pelle calda.
Chakuza si volta a cercare i miei occhi. E li trova perché io non scosto lo sguardo.
- Fler- - mi sporgo in avanti e gli tappo la bocca, baciandolo piano.
- Piantala di parlare così tanto. – ordino mordendogli un labbro, - Cristo, piantala, per favore. Lo so, okay? So tutto, Chaku. E non me ne frega un accidenti, in questo momento.
- No, non lo sai! – insiste lui, agitandosi tutto e voltandosi verso di me, cercando di tenermi fermo per le spalle, - Tu sei convinto che io per te-
Lo fermo ancora, baciandolo più profondamente e più a lungo. Più lentamente, anche, così che possa perdercisi dentro e dimenticare che prima stava parlando.
- Lo so. – dico in un sussurro, quando mi allontano da lui, - Lo so che abbiamo una cosa, Chaku. Lo so.
Lui ride appena, è una risata amara.
- “Una cosa”… - ripete, e le virgolette che ci mette sono così evidenti che scappa da ridere anche a me.
- Esiste un altro modo di chiamarla? – lo prendo in giro, cercando le sue labbra. Lui mi accontenta, sporgendosi in avanti e stendendomi nuovamente sul materasso.
- Sì, penso che esista. – confessa, respirandomi addosso e sfilandomi i boxer, - Ma ho paura che se lo facessi poi mi si rivolterebbe il mondo sotto ai piedi.
Ed io annuisco e non parlo più. E lo lascio fare, mentre si inumidisce le dita e mi accarezza fra le natiche, mentre torna a baciarmi e mentre scende a mordermi sul collo, mentre mi masturba senza che debba chiederglielo, mentre si spinge contro di me e dentro di me, lento e preciso, fino a farmi perdere il controllo di ciò che penso dico e faccio, lo lascio fare e non dico una parola perché so che è vero, so che certe cose vanno tenute sotto silenzio, non le espliciti certe situazioni, restano non dette. Ed è meglio così, perché ci sono cose che a dirle scompaiono. Se, quando avevo sedici o diciassette anni, io avessi detto ad Anis quello che mi passava per la testa, oggi un noi – un me e lui, un Patrick ed Anis – non esisterebbe. Certe cose le conservi fino al momento giusto, per certe altre il momento giusto non arriva mai.
Chakuza non è mio. Noi il nostro momento giusto non l’avremo mai.
A questo punto, si tratta soltanto di farci l’abitudine.
*
Farci l’abitudine, comunque, richiede tempo. Per abituarsi a qualcosa, quella cosa deve ripetersi due, tre, quattro, cinque, infinite volte, così tu puoi scrivertela dentro, addosso e attorno, e non dimenticarla più. Invece, svegliarmi accanto a Chakuza – svegliarmi così vicino a lui, il naso affondato nell’incavo del suo collo e le sue gambe intrecciate con le mie – è una cosa completamente nuova, perciò non ci sono per nulla abituato. Quando apro gli occhi, fatico a riconoscere le mie lenzuola, il mio letto e la mia stanza, perché c’è Chakuza che rende tutto diverso. L’armadio a muro sulla parete di fronte a me non è più uguale a prima perché c’è la curva della sua spalla a tagliarlo in due, e le coperte non hanno più la stessa forma perché qui sotto ci siamo io e lui insieme, e io tutto questo non l’ho mai visto così, perciò in un primo istante non capisco dove sono né cosa sto facendo, e mi irrigidisco tutto fra le sue braccia, così repentinamente che, nonostante stia dormendo – e so bene che quando dorme svegliarlo è praticamente impossibile – lui mi sente, e si sveglia a propria volta.
- Pat…? – mugola confuso, sciogliendo il nodo delle sue dita dietro la mia schiena, - Che?
Mi imbarazzo subito ed abbasso lo sguardo, scuotendo il capo.
- Niente. – biascico, - Fa caldo.
- Ma non è vero per niente. – si lamenta lui, stringendomisi contro ed affondando il viso per metà contro il cuscino e per metà contro il mio collo, - È l’alba, torna a dormire.
- Mi sporgo un po’ oltre la sua testa per controllare la radiosveglia sul comodino, e realizzo che non è per niente l’alba. Anzi, l’abbiamo saltata da un pezzo.
- Sono quasi le undici e mezza. – lo informo, - Possiamo anche pensare direttamente al pranzo, altroché.
Si scosta da me con uno sbuffo risentito, guardandomi con attenzione, come volesse rendersi proprio conto del fatto che io sia qui in questo momento, così vicino a lui da dividere il suo stesso calore e il suo stesso odore ed anche il suo stesso respiro.
- Avevi programmi, per oggi? – mi chiede, senza particolari inflessioni nella voce.
Io sospiro, prima di rispondere, perché mi sento a disagio.
- Nicole. – ammetto in un soffio, - Dovevo vederla, ovviamente.
Lui annuisce, un po’ indispettito.
- Ovviamente. – commenta acido. Io lo guardo, inarcando un po’ le sopracciglia. – E non fissarmi in questo modo. – borbotta lui, e poi sospira a sua volta, ugualmente a disagio. - …io non posso chiederti niente.
Rido contro la sua spalla, scuotendo lievemente il capo.
- Scelta mia, insomma. – esplicito, cercando i suoi occhi. Lui ricambia il mio sguardo e mi bacia lievemente, prima di annuire.
- Scelta tua.
La mia scelta è molto semplice e non può che essere una sola. Io magari non lo realizzo chiaramente mentre mi lavo, mi vesto ed esco di casa, ma è l’unica cosa cui riesco a pensare quando arrivo all’appartamento di Nicole e suono al citofono per farmi aprire. Voglio sbrigarmi qui, voglio che sia una cosa breve perché voglio tornare da Chakuza che mi sta aspettando nel mio appartamento, dato che mi ha detto che si sarebbe preso l’intera giornata di riposo per dormire, visto quanto si sentiva stanco. Non puoi stare con una donna quando il tuo primo pensiero è che vorresti stare altrove con un’altra persona, sia essa maschio o femmina, perciò la mia scelta quella è, e quella resta. Devo lasciare Nicole.
Mi aspetta sulla soglia di casa, asciugandosi le mani sul grembiule bianco e un po’ vecchio che indossa sopra la tuta da casa. Ha i capelli raccolti dietro la nuca. È carina. Per un momento mi chiedo “ma perché lo sto facendo?”, e resto in attesa di una risposta che non arriva. Non so più nemmeno se è davvero Chaku il motivo per cui la lascio, forse alla fine l’avrei lasciata lo stesso, per una scusa o per l’altra. Forse l’unico merito di Chakuza è che questo momento sia adesso, adesso che per lei non è ancora così doloroso. Forse. Non lo so, se sarà doloroso. Per me non lo è, in questo momento, e per questo forse dovrei sentirmi in colpa. Ma non ci riesco.
- Oggi ho fatto un sogno assurdo. – ridacchia, sollevandosi sulle punte per baciarmi lievemente sulle labbra, - C’era questo cane enorme che stava a guardarmi da dentro la mia valigia, ed era pelosissimo e morbidissimo, e a un certo punto il cane si metteva a parlare e lo faceva con la tua voce. Non mi ricordo cosa diceva, ma mi veniva da ridere, forse perché era strano sentire parlare un cane con la tua voce!
Rido a mia volta, seguendola all’interno dell’appartamento. Il tavolo è ancora sgombro, forse ha appena cominciato a cucinare. Magari riesco perfino a non farle sprecare cibo.
- Non sei mica tanto carina a sognarmi come se fossi un cane, eh. – le faccio notare invece, e mi do dell’idiota da solo, subito dopo, perché sto perdendo tempo. Non dovrei voler perdere tempo. Forse un po’ in colpa mi ci sento, dopotutto, perché è vero che questa situazione è colpa mia.
- Non è che ti abbia dato del cane, Pat… - mi prende in giro lei, tornando a smanettare con le pentole di fronte ai fornelli. Io la seguo fino in cucina e la guardo muoversi tranquilla per un po’. Poi capisco che devo fermarla, e visto che non so come fare mi allungo a chiudere il gas girando una delle manopole.
- Scemo. – mi rimprovera lei, ridacchiando, e poggia la mano sulla manopola, pressando un po’ per riaccendere il fornello, solo che non ci riesce, perché io la fermo prima, posando una mano sulla sua e risalendo fino al polso, tirandola un po’ per costringerla a girarsi.
- Pat? – mi chiama, incerta, inarcando le sopracciglia verso il basso.
- Devo parlarti. – sputo fuori d’un fiato, guardandola dritta negli occhi.
Lei non dice niente e nemmeno si muove, in realtà. Non so se vi è mai capitato di dover dire qualcosa a qualcuno e arrivare a quel momento preciso, guardare quella persona negli occhi e sapere che già sa che cosa dovete dire. A rigor di logica dovrebbe rendere tutto più facile, perché è un po’ come se non ci fosse davvero niente da dire davvero, si tratta solo di sbrigare la formalità del dirlo ad alta voce, ma il concetto è già noto e magari l’altra persona dovrebbe pure aver fatto in tempo a prepararsi, visto che già lo sa. Però in realtà non è così. In realtà quando tu sai una cosa non hai ancora risolto un cazzo. Tu la sai, sì, è dentro di te, ma questo non ti solleva di niente dal dolore che provi quando poi quella stessa cosa la senti. È come sapere che un tuo parente o un tuo carissimo amico è malato terminale e sta in ospedale collegato a una macchina. Lo sai che morirà, cazzo, ovvio che lo sai, passano i mesi e tu ti prepari, ma quando poi lui muore lo stesso tu scopri che non eri pronto davvero perché nessuno te l’ha detto davvero. È una cosa complicata. È più facile dire la verità quando nessuno sa niente, è più gestibile. Quando ti dicono una cosa che già sai stai male il doppio, perché sei stupido e perché ti senti tale.
- Forse sarebbe il caso che noi due non ci vedessimo più, per un po’.
Lo dico perché è la prima cosa che mi viene in mente, e solo dopo che l’ho detto mi rendo conto che ho saltato tutta la parte in mezzo. Quella che fa più o meno non ti amo, credo di essere innamorato di un altro, credo che dovremmo lasciarci perché non è giusto per nessuno dei due restare in questa situazione, e solo dopo avrei dovuto dire anche il resto, sarebbe il caso di non vedersi più per un po’. Ma, forse perché volevo sbrigarmi in fretta, forse perché le palle per dire “ti lascio” non ce le ho, non l’ho detto.
Nicole sgrana gli occhi e mi guarda, annichilita.
- Pat- - prova a chiamarmi, ma io le lascio andare il polso e la interrompo.
- Scusa. – scollo a fatica, - Non volevo dirtelo così, è… ho fatto casino. – ammetto in un sospiro, - Il problema è che… - la guardo e non so se voglio davvero dirglielo. Non so se voglio davvero. Non… - sono innamorato. Di un’altra persona. – mi interrompo, prendo fiato, - Che è maschio. Ed è Chakuza.
Nicole schiude le labbra. Non come nel gesto di chi si prepara a dire qualcosa, eh. È solo stupita. Le sue labbra formano una o praticamente perfetta, mentre continua a guardarmi.
- Pat? – chiede. Magari si aspettava di essere lasciata, ma non per un uomo, ok.
- È complicato. – mi gratto la nuca, imbarazzato, - Va avanti da un po’.
- Mentre noi…
- No! – mi affretto a negare, - No, assolutamente, intendo, c’era prima di te. Poi non c’è stato per molto tempo, ed io ho pensato che… insomma, che potesse andare, fra noi due. Non ti ho mai tradita con lui. – preciso, guardandola dritta negli occhi. Non so cosa possa farsene, di questa precisazione, ma tant’è. – Né con nessun altro, ovviamente. – aggiungo in un mezzo sospiro esausto, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi.
Lei annuisce lentamente, respirando così piano che non riesco nemmeno a vedere il suo petto alzarsi ed abbassarsi. Tortura con le mani l’orlo del grembiule già stropicciato, mentre un paio di ciocche bionde sfuggono al mollettone dietro la testa, ricadendole ai lati del viso quando lo china per spostare lo sguardo sulla punta delle pantofole che indossa.
- Mi dispiace. – aggiungo. Non so cosa possa farsene anche delle mie scuse, in realtà mi sembra di starle riempiendo la testa per evitare che mi stia davvero a sentire. Io le ho detto che sono innamorato di un uomo, di Chakuza!, e poi ho continuato ad aggiungere particolari idioti e inutili, soltanto per deviare l’attenzione verso qualcosa che fosse meno scomodo rispetto alle immagini che sicuramente si staranno formando nella sua testa mentre io sono qui a dire e pensare e anche fare assurdità.
- Potresti… - dice con difficoltà poco dopo, inumidendosi confusamente le labbra, - …intendo, andare? Non… non me la sento di parlare adesso. – conclude in un mezzo singhiozzo. Io annuisco lentamente, allontanandomi a ritroso, senza voltarle le spalle.
- Non subito, ok? – mi raccomando, - Ma quando ti senti… più tranquilla, ecco, chiamami. Ne parliamo. Sono quasi sicuro che non serva a niente, ma-
- Non servirebbe a niente, infatti. – taglia corto lei, voltando lo sguardo altrove, - …ma ti chiamerò. Fra… qualche tempo.
E finisce così, con me che me la lascio alle spalle, chiudo la porta e scendo al piano terra, per poi mettermi a camminare tranquillo per le strade di Berlino, verso casa. Mentre svuoto la testa da tutto – tutto quanto – quasi non mi accorgo che i piedi, da soli, stanno andando verso casa di Chakuza. Quando lo capisco mi scappa una risata, perché sarebbe allucinante andare lì adesso, contando che Chaku è già dove dovrei andare, e cioè nel mio appartamento. Ricomincio a guardare le strade, cerco la via più breve per tornare a casa e quando torno – apro con le chiavi, non voglio disturbare, e poi è casa mia, che diamine – lo trovo che dorme sul divano. Ha perfino fatto la fatica di alzarsi dal letto, commovente.
- Chaku. – sbotto risentito, - Oh, guarda che quel divano costa quanto tutta casa tua intera, sai?
- Mmhn…? – apre gli occhi lui, stiracchiandosi per quant’è lungo – cioè poco – e puntando i piedi sul bracciolo, a rischio di scardinarlo, - Già tornato? – sbadiglia, - Fatto presto.
- Avevo poco da fare. – sospiro crollando sul divano accanto a lui, che tira indietro le gambe per farmi posto e poi si mette seduto, grattandosi distrattamente la pancia.
- È andata bene?
- Quando mai vanno bene queste cose?! – sbotto irritato, e lui ride, ma è una risata triste.
- Hai ragione. – annuisce distratto, cercando a tentoni coi piedi le pantofole che mi ha ovviamente rubato per affrontare l’impervio e lungo tragitto che lo separava dal letto al divano – tipo, cinque metri, comprensivi di corridoio ricoperto di moquette.
- Comunque, - sospiro, rilassando la schiena e il collo, - insomma, quello che dovevo fare l’ho fatto.
- Anche io. – dice improvvisamente lui saltando in piedi, sistemandosi le pantofole e muovendosi spedito verso la cucina neanche conoscesse già tutto l’appartamento a menadito, - Insalata di riso. Ne ho fatta un po’ tanta, ma si può sempre conservare. Ci ho messo l’olio così tiene di più, volendo ci si potrebbe mettere anche la maionese ma non ne avevi in casa. Comunque hai gli stipetti pieni di roba, me le sogno io ‘ste cose a casa mia, facciamo cambio di appartamento?
Sollevo la testa per guardarlo di sbieco mentre torna dalla cucina con una ciotola enorme piena di riso fino a scoppiare e due cucchiai in mano.
- Hai preparato da mangiare? – chiedo, - Ma funziona la mia cucina? Non la uso da secoli…
- No, non l’avevi mai usata. – ride lui, - Almeno, ho dovuto togliere io lo scotch dal fornello grande, quindi quello di sicuro non l’hai mai toccato.
Rido anch’io, vagamente imbarazzato.
- Ti sei subito messo a tuo agio. – commento, mentre lui si siede accanto a me e posa la ciotola sul divano, fra di noi, incurante di quanto enormemente potrebbe macchiarsi la fodera.
- Odio perdere tempo. – mi risponde, cercando a tentoni il telecomando mentre mi passa il mio cucchiaio. Accende la televisione, fa un po’ di zapping, si ferma su un programma scemo e poi mi fa un mezzo sorriso idiota.
- Buon appetito. – dice.
- Buon appetito. – rispondo.
E poi comincio a mangiare.
*
Se questa fosse una situazione normale – voglio dire, se io e Chakuza vivessimo una vita da persone normali, non ci sarebbero problemi di sorta. So come funzionano le relazioni, in genere quando t’innamori di una persona nuova – o ti innamori di nuovo della stessa persona per la centesima volta – attraversi un periodo in cui vedi esclusivamente solo quella persona e tutto ciò che fai, pensi e dici lo rivolgi idealmente a quella persona lì, come se nell’universo intero non esistesse nessun altro. A prescindere da quanto profondo sia l’affetto che stai provando, eh, perché può essere il vero amore così come una semplice cotta, funziona sempre allo stesso modo. Perciò io e Chakuza ci ritroviamo da un lato a non voler fare altro che starci intorno – non è nemmeno una cosa sessuale, il che mi sconvolge più di quanto dovrebbe – e dall’altro lato a renderci conto che comunque non è così che possiamo fare.
Almeno, non è così che può fare lui, dato che, al di là di tutto, c’è ancora un album da ultimare e definire, in uscita fra pochissimo e con un tour da preparare.
Quando mi sveglio, lo trovo già vigile, il che mi preoccupa. Chakuza raramente riemerge dal mondo dei sogni prima che lo faccia io, e quando lo fa è quasi sempre perché ha qualcosa di ingombrante e complicato che gli ingolfa la testa. Oltretutto, in genere quando si sveglia prima di me si alza anche prima di me. Si alza, prepara la colazione, si lava e comincia a vestirsi, semplicemente perché, come tutte le cose piccole, è uno che deve scaricare l’energia in fretta, perché poi non ci mette molto a ricaricarsi. Voglio dire, è come quando riempi d’acqua un vaso e un bicchiere contemporaneamente: il bicchiere si riempie subito, il vaso ci mette più tempo. Chakuza è un bicchiere, quindi è svelto nell’autoricarica.
Oggi invece niente, è sveglio e fissa il soffitto con aria contrita e seria, le sopracciglia aggrottate e le labbra così strette da sembrare disegnate. Mi sollevo sugli avambracci, piantando i gomiti sul materasso, e lo guardo.
- Posso sempre contare su di te quando si tratta di cominciare la giornata nel modo giusto, mh? – scherzo, e sento la tensione sciogliersi su di lui tutta in un colpo: rilassa i lineamenti e la sua mano, che prima mi stringeva un braccio con forza, allenta la presa e mi accarezza lentamente, come a scusarsi in caso mi avesse fatto male. Naturalmente non me ne aveva fatto, figurarsi, ma è carino che mi accarezzi, perciò lo lascio fare e sorrido anch’io, mentre lui sospira e si stiracchia un po’ a fatica. – Qual è il problema? – chiedo, e quando lo vedo partire in quarta per dirmi che non c’è proprio alcun problema lo fermo nel modo più efficace che conosco, baciandolo a fondo. – E non mi dire cazzate, ci metto due secondi a mandarti ko, austriaco.
Lui ride ancora, scuotendo il capo.
- Mi tocca andare in studio, oggi. – dice in un sospiro stanco, - Ti lascio immaginare quanto ne abbia voglia.
Sollevo gli occhi al cielo, esasperato.
- Abbiamo presentato la regressione infantile odierna di Peter Pangerl. – sbuffo, - Andiamo, Chaku. È il tuo lavoro, non fare il ragazzino.
- Ma ci sarà Bill… - mi fa notare in una mezza lamentela, e io vorrei tirargli un pugno sul naso e dargli del cretino, perché il fatto che io conosca a memoria il suo cervello non dovrebbe dargli l’impressione di avere il diritto di prendermi a coltellate come e quando gli pare, ma lascio perdere, preferendo un altro sbuffo e accasciandomi stancamente sul cuscino.
- Sensibile come al solito, vedo. Mi stupisci ogni giorno di più.
Lui mi si arrotola contro, nascondendo il viso nell’incavo del mio collo e respirando direttamente sulla mia pelle per qualche secondo, prima di parlare ancora.
- Scusa. – dice. Dovrei trasalire – Chakuza s’è appena scusato. Voglio dire, non so se ci si può rendere conto di quanto questa cosa sia assurda. Me lo sarò mica sognato? – ma lui non me ne dà il tempo. – Vieni con me? – chiede. Quando mi allontano un po’ per cercare i suoi occhi, lo trovo già lì pronto a ricambiarmi lo sguardo con una serietà ed una tranquillità che mi stupiscono profondamente.
- Perché? – chiedo un po’ incerto. Lui non distoglie lo sguardo.
- Perché ne ho bisogno. – risponde sinceramente. E poi lo ripete, ma stavolta non è una domanda. – Vieni con me.
E visto che non è una domanda, io non ho nemmeno bisogno di rispondere.
*
Non ho idea di come Chakuza potesse pensare che la mia presenza in questa stanza potesse risolvere le cose o renderle meno pesanti. Allo stato attuale dei fatti, probabilmente non fa che peggiorarle, perché io in questo gruppo di persone non c’entro neanche per sbaglio, perché Jost mi sta guardando come se fossi un folle – nei suoi occhi c’è qualcosa di molto simile a un “ma sei fuori a infilarti di tua iniziativa in questa guerra fredda?” – perché Anis non riesce a capire in che veste io sia qui al momento, perché Bill vorrebbe piangere e sento le sue lacrime come se mi stessero scorrendo sulla pelle anche se non ne ha ancora versata nemmeno una e soprattutto perché Chakuza si sta comportando in maniera talmente pessima che io per primo avrei voglia di prenderlo per la nuca e spaccargli la faccia contro una parete. La mia presenza qui non è semplicemente inutile, no, è deleteria.
Da quando siamo arrivati, Chakuza non ha rivolto a Bill nemmeno un saluto. Il che è idiota ed è irritante ed è ridicolo, perché io so che vorrebbe sollevare lo sguardo e cercare quantomeno di sorridergli, lo sa Bushido, lo sa Bill, lo sa Jost, tutti qui dentro sappiamo che dentro la testa di Chakuza c’è di tutto ma di sicuro non lo stimolo di ignorarlo. Ed è frustrante e imbarazzante osservarlo mentre fissa ostinatamente lo sguardo sul programma che Jost sta proiettando sulla parete di fronte – una sequela di date di cui prendo nota solo distrattamente, dato che so già che non avrò una parte nemmeno marginale in tutto questo – quando tutti sappiamo che di quel programma non gli frega un accidenti, quando tutti sappiamo che l’unica cosa che vorrebbe guardare è appena lì alla sua destra e sta smaniando per avere quegli occhi addosso almeno un’altra volta, anche solo per un attimo.
L’atmosfera non ci impiega niente a tendersi come un elastico, in queste condizioni. E, dopo qualche minuto, come un elastico scatta anche, e Chakuza deve solo ringraziare che Bushido ami Bill al punto da desiderare di non deluderlo mai, perché altrimenti l’ultimo saluto di Anis, prima di uscire, non sarebbe stato “a domani”, ma un pugno sul naso.
Quando la sala s’è svuotata quasi totalmente, i Tokio Hotel sono sfilati come una corte al seguito della Principessa che accompagnava il Sovrano e gran parte dello staff ha seguito l’illuminato esempio, Jost ci guarda a lungo, a me e a Chakuza, e poi solleva entrambe le braccia in un gesto di resa.
- Io non ne voglio sapere niente. – borbotta, e il secondo dopo è fuori anche lui. Lo osservo uscire ed anche se non vedo Chakuza e non lo sento muoversi, so che sta tremando di rabbia sotto la superficie della sua calma apparente, e vorrebbe devastare questa stanza facendone a pezzi ogni singolo mobile e buttando giù le pareti a testate. L’unica cosa che lo frena è che non è a casa sua e non è un vandalo, perché vivaddio i suoi genitori almeno l’hanno educato per bene, altrimenti in pochi minuti la Universal si ritroverebbe rasa al suolo per la furia di un solo uomo.
Mi volto a guardarlo sospirando anticipatamente. Lo faccio adesso, tanto so che dovrò ripetermi in futuro.
- Non dire una parola. – dice Chakuza, alzandosi in piedi di scatto e cominciando a vagare per la sala riunioni come una tigre in gabbia, - Nemmeno una parola.
- Non sto fiatando. – gli faccio notare, inarcando un sopracciglio e restando seduto dove sono, - E comunque sei tu quello che dovrebbe parlare.
- E per dire cosa, di grazia?! – sbotta lui, voltandosi repentinamente a guardarmi. Io scrollo le spalle.
- Per motivare il tuo comportarti come un ragazzino di due anni, magari? – ipotizzo, fingendo di rifletterci su, - O per ammettere di essere stato un coglione.
- Fler, vaffanculo. – taglia corto lui. Io sospiro ancora, come volevasi dimostrare, e mi alzo in piedi.
- Naturalmente. – annuisco, - Questo è il momento in cui io comincio con l’elenco puntato delle cose che ho sbagliato fino ad adesso, giusto? A partire da quando ti ho lasciato mettermi le mani addosso un secolo fa fino a quando te l’ho permesso per l’ennesima volta ieri, mh? – lo prendo in giro con un sorriso stronzo, - Oggi non mi va. – concludo con una scrollata di spalle, - Perciò a fanculo ti ci mando io, e visto che non sei abbastanza uomo da trovare le palle per muovere il culo e andare dal ragazzino per scusarti di esserti comportato come un idiota, lo faccio io. – lo osservo spalancare gli occhi e la bocca nel tentativo di dirmi qualcosa che probabilmente suona come un altro vaffanculo, anche se ben più risentito, ma non gli do il tempo di tradurre questa espressione scioccata in lingua tedesca, perché gli volto le spalle e mi dirigo tranquillamente verso la porta. – Comunque stasera porto la pizza, se ti trovo a imbrattare la cucina con qualche schifezza delle tue giuro che ti lascio a pulire da solo fino a domattina. – concludo. Mi volto solo sulla soglia, e guardandolo gli sorrido. – A più tardi.
Lui solleva una mano, punta un dito come a chiedere la parola e poi le sue spalle si rilassano in un sospiro stremato.
- …a più tardi. – si rassegna. Io sorrido ancora, uscendo dalla sala riunioni. Prendere nota: con Chakuza, litigare non serve. Potrebbe tornarmi utile in futuro.
*
Anis mi accoglie sulla porta con le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a due fessure. Conosco quell’espressione, è quella che, se noi si vivesse in un’altra epoca e ci si vestisse di raso e velluto con le armature al posto dei panciotti che comunque non usiamo ed enormi pantaloni a sbuffo che si fermano appena sotto il ginocchio, farebbe da preavviso al suo puntarmi contro il viso un indice e strillare “traditore!”. Visto che invece viviamo nel ventunesimo secolo e ci vestiamo in jeans e maglietta, lui comunque mi punta un indice contro il viso e comunque apre la bocca per darmi del traditore, ma l’effetto non è lo stesso, non c’è lo stesso pathos, perciò mi basta sbuffare platealmente, afferrare il suddetto dito e allontanarlo spiccio dalla mia persona, per intrufolarmi in casa sua e guardarmi intorno, riprendendo confidenza con l’ambiente circostante.
- Potrei denunciarti per violazione di proprietà privata. – mugugna Anis, massaggiandosi il dito come gliel’avessi lussato. Io sbuffo ancora, agitando una mano con aria disinteressata.
- Non cominciamo col giochino dell’elenco delle malefatte, perché sai che perderesti, okay? – taglio corto, tornando a guardarlo con le mani sui fianchi. – Bill?
Lui incrocia le braccia sul petto.
- È di sopra. – risponde burbero, - E non hai il permesso di andare a trovarlo.
- È una vera fortuna che non te l’abbia chiesto, allora! – esclamo con entusiasmo, dandogli le spalle e dirigendomi verso le scale, - E tu non hai il permesso di salire a interromperci, comunque.
- È una vera fortuna- - comincia lui, ma lo interrompo con una risata, saltando gli scalini a due a due per far prima, motivo per cui lui lascia perdere e si dirige in cucina con un “bah!” esasperato.
Bill – in camera del quale entro senza bussare – sta ascoltando musica con gli auricolari ben piantati nelle orecchie. È steso sul letto, i capelli sparsi sul cuscino e le gambe intrecciate. Ultimamente è così magro che sotto i pantaloni – che si allargano in sbuffi sul materasso sotto di lui – sembra non abbia niente a parte due stampelle per tenersi dritto.
Bill è un’ulteriore prova di quello che dicevo prima riguardo i contenitori piccoli che si riempiono più in fretta, mentre i contenitori grandi hanno bisogno di più tempo. Lui sarà sottile, ma è così incredibilmente lungo che per forza, quando succede qualcosa che lo drena e lo svuota del tutto, ha bisogno di lunghi periodi di nullafacenza, per potersi ricaricare per bene.
Solleva appena le palpebre ancora pesanti di trucco, e mi saluta con due dita.
- Stanco? – chiedo, lasciandomi andare di peso al suo fianco con tanta forza che il suo corpo, leggerissimo, saltella sul materasso e poi torna giù in uno sbuffo sommesso.
- Mmh-mh. – annuisce lui, è un gesto impercettibile. Lo noto solo perché ormai lo conosco abbastanza bene da non aver bisogno di gesti plateali, per comprenderlo. È anche questo, che lo stanca così tanto: non è facile capire Bill, per questo è costretto a esprimersi sempre in maniera chiassosa, o nessuno gli dà retta. Bill non è mai pacato, non è mai silenzioso, è sempre in qualche modo violento in ogni sua manifestazione. Però quando si scarica è in questi termini che si riduce. Esprimersi diventa una questione di millimetri, e tu devi imparare a misurarli correttamente, se vuoi continuare a stargli dietro.
- Lo immaginavo. – dico, accomodandomi meglio accanto a lui, - Chakuza è stato un coglione, puoi anche dirlo, sai?
Lui scuote il capo, due millimetri a destra, altri due a sinistra. Pressa appena il pollice contro il pulsante di spegnimento del lettore mp3, e poi mi guarda con l’aria di un cucciolo bastonato, gli occhi enormi su quel visino sfilato tanto umidi da stringermi il cuore. Spalanco le braccia, e lui si fionda su di me esaurendo probabilmente in un unico colpo tutta l’energia che era stato in grado di recuperare con l’immobilità che aveva tenuto fino a quel momento. Singhiozza contro il mio petto, macchiandomi la maglietta, e non me ne frega niente. Fosse qualsiasi altra persona in una qualsiasi altra situazione, ricorderei quanto questa maglietta di merda costi in realtà e sarei pronto a staccare più di una testa a morsi, come punizione. Ma è Bill e sta male, e quindi tutto il resto – maglietta di merda compresa – non vale un cazzo. Ed io lo lascio piangermi addosso.
Non dice niente per un sacco di tempo, un po’ perché sa che non c’è molto da dire, un po’ perché sa perfettamente anche di non aver bisogno di dire niente proprio a me, e così tutto quello che risuona per la stanza, per molti minuti, è il suo pianto sommesso. Non fa rumore perché non vuole che Anis lo senta, io lo trovo tenero ma mi annoda lo stomaco, perciò cerco di tranquillizzarlo abbastanza da farlo smettere, almeno un pochino. Gli accarezzo le spalle, lentamente, e lui mi si stringe contro, nascondendo il musetto contro di me, risalendo su fino alla spalla e al collo. Si lascia dietro una traccia scura che faticherò a giustificare a Chakuza – fa niente.
- Ehi… - lo chiamo dopo un po’, quando sento i suoi singhiozzi affievolirsi almeno un po’, - Meglio?
Scuote il capo, le sue spalle si scuotono con lui.
- È tutto… - singhiozza, la voce gli muore in gola, - Non ci capisco più niente, Patrick.
- Ma non c’è niente da capire. – cerco di sorridere, abbracciandolo stretto, - È solo un momento un po’ confuso, vedrai che lasciando al tempo fare il suo mestiere tutto andrà al suo posto.
Lui solleva gli occhi. Mi guarda con aria persa, le guance rigate di lacrime e le labbra che ancora tremano un po’.
- Ci credi davvero a questa cosa? – chiede debolmente.
Io scrollo le spalle.
- Il tempo ti ha guarito, quando credevi che Anis fosse morto. Ti guarirà anche adesso, in special modo perché non è morto nessuno.
Lo osservo abbassare lo sguardo per un attimo, e poi tornare a rifugiarsi nell’incavo del mio collo.
- Io non sono mai guarito da quel dolore. – sussurra sulla mia pelle, - È per questo che quando l’ho visto sono impazzito di gioia, nonostante tutto. Perché non mi ero mai veramente rassegnato. E se non l’ho fatto per lui, anche se ero convinto fosse morto… come pensi che potrei rassegnarmi adesso, sapendo che Peter invece è vivo?
Questo è il punto in cui dovrei stringermelo contro e rassicurarlo. Dirgli che presto questo dolore sordo che sente continuamente nel fondo del petto si affievolirà e passerà del tutto, dirgli che dimenticherà – anche se non è vero, perché nella vita non si dimentica mai, ed io ne sono la prova vivente, è che ti abitui, tutto qua, alla fine il dolore diventa una parte di te, mette radici o qualcosa del genere, come le radici degli alberi penetrano la terra fino a sconquassarla del tutto, e ne diventano parte, il dolore fa la stessa cosa col tuo corpo, e alla fine smetti anche di notarlo. Vorrei dirgli che è normale, è così per tutti, è perfino giusto sentirsi in questo modo, per certi versi, ma non posso. Non posso perché, uscito da questa casa, con la traccia del suo mascara ancora sulla maglietta, io prenderò la mia macchina e passerò in pizzeria, recupererò due pizze e due bottiglie di birra e nel giro di un’altra mezz’ora sarò a casa di Chakuza, e lì mangeremo metà pizza ciascuno, butteremo giù la birra in due minuti netti e il minuto successivo saremo già schiacciati contro una qualsiasi superficie a morderci ovunque come se dovessimo divorarci a vicenda. E quindi non ce la faccio, adesso, a guardare questo ragazzino disperato e dirgli che è giusto che soffra. Non ce la faccio.
- Si sistemerà tutto. – gli sussurro fra i capelli, e lui mi stringe al collo con tanta forza da togliermi il respiro, - Ti prometto che si sistemerà tutto. – ripeto, cingendolo alla vita.
Lui annuisce. Lo fa con forza, con l’ostinazione dei bambini, e so che non ci crede ma vuole provarci. Ce lo faremo bastare, ragazzino. Tu provaci. Proviamoci entrambi.

Bookmark and Share

A Wound Unhealing

di lisachan
Io sono una persona molto paziente. Lo sono perché da piccolino non ero paziente per niente, e questo mi ha insegnato molte cose. L’episodio più emblematico della mia esistenza, in questo senso, risale ai miei… dovevano essere quindici, da poco passati, o una cosa del genere. Anis – che allora era solo Sonny e andava in giro rattoppato e malconcio come l’immigrato che non è mai stato anche se avrebbe dovuto – aveva deciso di mostrarmi la sua fantastica moto, una roba di cui si parlava da mesi e della quale lui favoleggiava cose assurde tipo che potesse scalare i palazzi e cazzate simili ovviamente false ma alle quali io credevo ciecamente perché ero un ragazzino e la mia testa era tutto un concentrato di ammirazione per questo tipo assolutamente folle che poi in un modo o nell’altro mi avrebbe cambiato irrimediabilmente la vita.
Comunque sia, io ero molto emozionato per questo grande evento che mi coinvolgeva e che palesemente doveva aprirmi le porte di un futuro più luminoso e splendente che mai, ed ero così emozionato che, nel momento in cui vidi la saracinesca del garage dietro casa sua cominciare a sollevarsi, mi ci fiondai contro neanche fosse stata un materasso e io un uomo provato da dodici ore di lavoro continuativo in fabbrica.
In sunto, andai a sfracellarmi contro la saracinesca sollevata a metà e caddi a terra all’indietro, tagliuzzandomi peraltro i palmi delle mani sulle pietruzze che ricoprivano il vialetto là davanti e piagnucolando come un deficiente mentre Anis mi passava accanto a mi guardava allibito, tirando su quel che restava da tirare su sia della saracinesca che di me, ed aiutandomi a scrollarmi di dosso un po’ di terriccio bianco e polveroso.
- Guarda che tu devi calmarti. – mi disse allora, una mano sul fianco e il capo lievemente inclinato, - Facendo le cose di corsa, non arriverai da nessuna parte. Devi riflettere, con calma, segui il ritmo del tuo cervello. Non sei tanto lento da diventare un pericolo, se ti ascolti un po’. Hai un buon ritmo. – il che era palesemente il più bel complimento mi fosse mai stato fatto dopo “aaaw, Patty, che begli occhioni che hai, bello della mamma!”, detto da mia madre quando dovevo avere qualcosa come cinque anni.
Comunque sia, da quel momento – anche per non ripetere figuracce tipo la saracinesca presa di naso – ho cercato di fare tesoro di quell’insegnamento, e riflettere sempre. Che è una cosa che quando stai per strada ti aiuta molto, se non sei stupido. Cioè, se sei stupido è meglio che tu non rifletta, rischi di prenderti troppo tempo e non è il caso. Ma se il cervello si muove bene, se hai un buon ritmo, come mi ha detto Anis, allora è ok. E io ho cominciato a seguire il mio ritmo, e in effetti da quel momento le cose in generale per me hanno cominciato a girare in un verso lievemente migliore rispetto a quello che avevano imboccato prima.
Comunque, per spiegare quanto infinita e profonda sia la mia pazienza, basta osservare l’evoluzione del mio rapporto con Chaku nei secoli. Dico “nei secoli” un po’ perché fa ridere, e qua se non la si prende con simpatia è un dramma, e un po’ perché a volte davvero mi pare che siano passati centinaia d’anni da quando l’ho visto da vicino – più o meno, visto che ero nascosto dietro un mausoleo – durante il funerale di Anis.
Comunque sia, di strada ne abbiamo fatta un casino. Non è stato sempre semplice – in realtà non lo è stato mai – e non è stato sempre divertente – anche se spesso in realtà sì – eppure mi gloriavo, fino a qualcosa come due minuti fa, di essere riuscito comunque sempre a mantenerlo una costante della mia vita nell’ultimo anno, un qualcosa cui potessi affidarmi. Non a lui in quanto Chaku, per carità, non gli affiderei manco una pianta grassa, ma alla sua presenza in quanto tale, quello sì.
In questo momento, però, guardo il Chaku – lo vedo qui seduto sul mio divano che si torce le mani in grembo e fissa il vuoto con aria pallata cercando di trovare le parole per dirmi ciò che mi deve dire – e mi rendo conto che le costanti, in realtà, sono una stronzata enorme con cui gli esseri umani si divertono a illudersi di poter avere qualcosa di incrollabile nella propria esistenza, quando invece non esiste proprio un bel niente che sia incrollabile. Questa è l’ultima cosa che mi ha insegnato Anis, povero stronzo, che credeva di poter giocare con la vita e la morte ed uscirne vittorioso comunque, e invece ha perso, eccome se ha perso.
- Io… - comincia Chakuza, e a me viene voglia di dargli un buffetto su una guancia e mandarlo a mangiare gelati, che ne so. Davvero, Chaku non ha quasi mai problemi a dirti le cose che deve dirti, anche perché sono quasi sempre cose che riguardano problemi di ordine pratico. “S’è intasato il cesso” o “non funziona più il frigorifero”. Insomma, lui ti presenta un problema per il quale è sicuro che in due riuscirete a trovare una soluzione, questo è quanto. È così evidente che, adesso, sta cercando di trovare le parole per farmi un discorso completamente diverso, che davvero mi viene voglia di fargli due coccole e dirgli che non importa, suvvia, qualsiasi cosa sia andrà a posto da sola, non preoccuparti, Chaku.
Tra l’altro in tutto questo mi viene in mente – così dal nulla – che da quando è entrato non mi è ancora saltato addosso, e questo dovrebbe preoccuparmi. Mi viene in mente all’improvviso perché ormai quando ho il Chaku intorno ho imparato ad autosettarmi in una modalità di ricezione dati che sia Chaku-friendly, e siccome quest’uomo ha tempistiche tutte proprie devo anche adattarmici, o rischio di combinare casini. Mi viene anche da pensare che lui non si preoccupa di generare disastri quando si muove, lui si muove e basta devastando l’ambiente circostante, un po’ come Anis, ma questo non è davvero un problema, al momento. Io sono uno che a queste cose ci sta attento.
Comunque, è strano che non abbia già trovato una scusa random per espletare quella che è la sua funzione primaria nel mondo, ovvero disperdere il seme, per cui mi viene da pensare “cazzo, sarà davvero preoccupato per qualcosa di serio, il Chaku, o non sarebbe qui a rigirarsi i pollici invece di usarli in modo decisamente più proficuo”, e mi siedo al suo fianco sul divano, cercando di guardarlo negli occhi per provare a intuire cosa confonda ulteriormente il suo cervello già confuso a livello base.
Insomma, lui si gira e mi guarda. Solo per una frazione di secondo, e io lì, in quella frazione di secondo, leggo tutto quello che mi serve sapere: il senso di colpa. Parliamone. Quest’uomo non s’è mai – mai mai mai – sentito in colpa nei miei confronti anche quando ha fatto cose per le quali una persona normale sarebbe andata di gran carriera a costituirsi alla prima centrale di polizia disponibile. E, Dio mio, non oso immaginare cosa possa aver combinato questa volta per avere stampata in faccia un’espressione così colpevole da essere tanto palese, nella sua colpevolezza, da lasciarmi turbato.
- Chaku? – lo chiamo, un po’ incerto, - Togliti quella roba dalla faccia, se non è indispensabile che tu ce la tenga.
- …uh? – chiede lui, confuso, passandosi un dito su una guancia come ci fosse rimasto sopra uno sbuffo di panna o che so io, - Di che-
- Che cos’hai? – taglio corto io, anche perché non mi va di spiegargli che ormai lo leggo come un libro aperto e non è il caso che faccia tanto il misterioso, - Avanti, parla, o la testa ti diventerà così calda che ti prenderà fuoco il berretto.
Il Chaku inspira ed espira profondamente. Si gonfia tutto come un palloncino e poi si risgonfia, mi sembra improvvisamente molto piccolo, a guardarlo adesso, anche perché è tutto curvo e abbacchiato e non mi guarda e invece io sto qua con la schiena bella dritta e lo fisso perché mi piacerebbe anche avere una risposta entro il prossimo trentennio, Chaku, non è che posso restare qui in attesa del momento in cui ti sentirai pronto a svelare i misteriosi e oscuri segreti della tua psiche.
- Senti, io e te dovremmo parlare. – mi dice, e già il fatto che sia lì a usare condizionali a sproposito mi urta. Voglio dire, sei venuto fin qui, hai preso possesso del mio divano e sei qui a inspirare ed espirare teatralmente da mezz’ora, mi pare chiaro che dobbiamo parlare e non dovremmo parlare, quindi parla. – A proposito di una cosa molto importante.
Comincio a subodorare qualcosa, perché Chaku non ha molte cose veramente importanti, nella sua vita. Il suo lavoro, la sua famiglia. Bill. E siccome per lavorare lavora e lutti in famiglia non ce ne sono ancora stati, almeno che io sappia, mi sa che il problema qui è anche più grave di quanto non avessi immaginato. Ed ecco che si spiega il senso di colpa nei suoi occhi.
Mi alzo in piedi e mi dirigo verso la cucina, perché non voglio stare qui seduto mentre lui mi dice ciò che mi deve dire. Voglio avere le mani e la testa occupate. Prendo a montare la moka con una precisione quasi malata, stando bene attento a non versare caffè ed asciugare con un panno ogni singola gocciolina d’acqua sulla superficie metallica.
- Fler… - mi chiama lui, dalla soglia della porta, avvicinandosi a disagio. – Mi dispiace. – dice solo, abbassando lo sguardo. E io vorrei – anzi, voglio, stavolta voglio – fargli notare che non può dare sempre per scontato che io lo capisca a prescindere. Non può pretendere che lo scusi, non può pretendere che lo perdoni, se non trova neanche le palle di dirmi come stanno le cose. Io non posso farlo, se lui non si prende almeno la responsabilità di impedirmi di capirle da solo.
- Per cosa ti dispiaci? – chiedo, continuando a preparare il caffè e ripulendo il ripiano con una pezza umida. Il mobile in legno laccato bianco torna subito immacolato. Ho una bella casa, cazzo, la vivo così poco. Sono un cretino.
- …lo sai. – biascica lui, incapace di sollevarmi gli occhi addosso.
- No, non lo so. – continuo io, e mi rendo conto di essere odioso, e anzi, in un’altra situazione sicuramente a guardarmi agire con un atteggiamento simile mi prenderei a cazzotti da solo, ma qui ed oggi Chaku non può veramente pretendere della bontà da me, ed io in ogni caso non sono disposto a concedergliela.
Chakuza sospira, si avvicina e io faccio uno scatto indietro, perché non voglio che mi tocchi. Non voglio neanche che mi sfiori o che le sue mani possano arrivare ad una distanza tale da poterglielo permettere anche se poi non lo farà. Lui mi guarda come se l’avessi appena accoltellato alla schiena, e recupera la caffettiera, poggiandola sul fornello e accendendo il fuoco.
- Bill è venuto da me, qualche giorno fa. – comincia. Io comincio a contare i giorni in cui non l’ho visto, recentemente, e mi do dell’idiota. – Lui e Bushido hanno rotto. – comincio a contare anche i giorni in cui Anis ha chiamato, sempre più spesso, intrattenendosi in conversazioni sempre più lunghe, e mi do della testa di cazzo. – Bill dice di volerci provare. Dice di essere serio, stavolta.
E io mi mando a fanculo da solo e basta, davvero, perché certe cose puoi non vederle solo se non vuoi farlo.
Mi volto verso di lui con una lentezza che stupisce per primo me stesso. È come se il mio corpo stesse cercando di fermarmi per impedirmi di fare qualche pazzia. Ma io la voglio fare, questa pazzia. Cazzo, se la voglio fare, Dio, ora che lo guardo con quell’espressione colpevole ancora addosso ho come l’impressione di non aver mai voluto qualcosa così tanto, nella mia vita. È perché volevo te, Chaku. Ti ho voluto con una forza che tu non t’immagini nemmeno, ti ho voluto con una forza che nemmeno Bill può immaginare, perché io il ragazzino lo adoro, ma quello che ha voluto l’ha sempre ottenuto senza sforzare niente più dei suoi occhioni e delle sue labbra a sbattere un po’ più lentamente e piegarsi in un sorriso appena più triste. Cazzo, Chaku. Cazzo.
Il primo pugno non lo realizzo in maniera cosciente. Mi fanno male le nocche della mano e anche il dorso, quindi non posso fare a meno di realizzarlo a livello fisico, ma nella mia testa? io non sto picchiando nessuno. Se la mano mi fa male è perché la congiunzione astrale che proietta i suoi influssi su di noi ha evidentemente degli effetti negativi sul mio karma, effetti che poi si ripercuotono sotto forma di dolori ossei sparsi qua e là e concentrati sulla mia mano destra.
Il secondo pugno lo realizzo per forza, perché il Chaku comincia a sanguinare. Mi macchia di rosso il pavimento cadendoci a terra, e la cosa più assurda di tutte, la cosa più triste, è che non si difende. Non lo so, probabilmente starà pensando qualcosa del tipo “ora lo lascio sfogare, magari mi spezza qualche osso ma alla fine lascia perdere”. Chaku, guarda che ti stai sbagliando, e anche parecchio. Io sono fuori di me, non ci vedo più e tutto quello a cui riesco a pensare in questo momento è come inchiodarti meglio a terra per prenderti a cazzotti fino a quando a sporcare il mio pavimento non sarà solo il tuo sangue ma anche il tuo cervello spappolato. Per ciò, Chaku, alzati e reagisci, almeno prova a malmenarmi, se ti riesce, perché sennò da qui vivo non esci.
Lo afferro per i polsi e li tengo stretti tra le dita con più forza di quanta non vorrei utilizzarne – molta più di quanta ne serva, peraltro, perché Chakuza, d’accordo, non è esattamente esile come un preadolescente anoressico, ma la sua forza non è neanche paragonabile alla mia quando sono infuriato. Lui devasta le case? D’accordo, ma io pestavo gli spacciatori marocchini trentenni a sedici anni nei vicoli di Tempelhof. Misurati con questo, austriaco.
Stringo tanto forte che sento le ossa scricchiolare sotto i polpastrelli. Penso che potrei spaccargli i polsi e sarebbe divertente osservare la sua faccia stravolta mentre si rende conto che non ho intenzione di lasciarlo andare, ma poi capisco che sarebbe troppo netto, come avviso, che se davvero voglio fargli capire quali sono le mie intenzioni prima di portarle a termine e ucciderlo senza pietà come merita, devo andarci con mano più leggera. Perciò i polsi non li spacco, li tengo stretti e li imprigiono sotto le ginocchia, schiacciandolo contro il pavimento. Lui si dibatte per un po’, ma cazzo, non sono certo un peso piuma, e lui non riesce a muoversi. Voglio sentirti implorare, Chakuza, voglio che tu mi chieda sanguinando di lasciarti andare, perché ho come l’impressione che questo sarà l’unico modo in cui riuscirò a dirti addio davvero.
Certe relazioni che si aprono nel sangue, non possono fare altro che chiudersi nello stesso modo. È per questo motivo che avrei dovuto capire immediatamente che la mia relazione con Anis non avrebbe mai potuto chiudersi nel modo in cui pensavo si fosse chiusa, col nostro sangue mescolato su un marciapiede sporco e solitario in una strada secondaria persa nel nulla in mezzo a Berlino: la mia relazione con Anis non è cominciata nel sangue, quindi non poteva chiudersi lì. La nostra sì, Chakuza, quindi vediamo di chiuderla adesso.
All’inizio non sento che mi sta chiamando. Preso come sono a sbattergli addosso i pugni fra il viso e il petto, non riesco a trovare abbastanza concentrazione in più per mettere in funzione le orecchie e percepire la sua voce. Poi la sua voce – ridotta a un rantolo sottile e vischioso come i rivoletti di sangue che gli colano giù dalle labbra e dal sopracciglio – riesce a farsi strada fra i thud compatti delle mie nocche contro le sue ossa, e io lo sento. Per un secondo, più o meno, riesco a ignorare i complimenti interiori che gli rivolgo per essere sopravvissuto più a lungo di quanto altri esseri umani al suo posto non sarebbero stati capaci di fare, perché sentirlo gemere di dolore sotto i miei colpi è troppo soddisfacente, è una cosa che ho represso senza darle sfogo per troppo tempo per non apprezzarla in maniera assoluta e totale. Continuo a pestarlo, un cazzotto dopo l’altro, e ascolto la sua voce generalmente così profonda diventare sempre più sottile e mi compiaccio, davvero, perché quest’uomo nell’ultimo anno per me è stato una montagna concettualmente insormontabile, nonostante le sue dimensioni tutto sommato ridotte, e adesso sono io che l’ho messo giù, sono io che gli sto facendo del male, sono io che comando, sono io che decido, Chakuza, la tua vita è nelle mie mani e credimi, non sta facendo male un terzo di quanto non abbia fatto male a me lasciare il mio cuore nelle tue.
Mi fermo – del tutto all’improvviso e senza neanche volerlo – quando mi rendo conto che non sta più protestando. Non è facile, in realtà, perché sono molto più attratto da particolari scemi tipo la macchia di sangue che si allarga sulle piastrelle sotto di lui, o il modo in cui strizza le palpebre nel tentativo di proteggere almeno gli occhi. Quindi in un primo momento niente, il pensiero di poter essere andato un po’ oltre neanche mi sfiora, e per un po’ continuo a pestarlo come fosse ancora tutto a posto – in un certo senso – e questa fosse ancora una colluttazione normale in cui io attacco e lui si difende.
Poi, finalmente, capisco che non è così. Che lui è immobile, non parla, non si agita, e pure il respiro in realtà s’è fatto un tantino faticoso, che potrebbe essere perché gli sto seduto sullo stomaco, ma anche perché gli ho sfondato la testa a cazzotti, non essendo io medico non lo posso capire subito. Perciò, la prima cosa che faccio – dopo, naturalmente, aver frenato le mani, prima di devastarlo del tutto – è cercare di sincerarmi che sia ancora vivo.
- …Chaku? – chiamo piano, e voglio dire, mi viene anche un po’ da ridere perché io non posso pestare un uomo fino a fargli diventare il cranio ovale e poi chiamarlo Chaku, c’è qualcosa che non va. – Chaku, stai bene?
Dico, deficiente che non sei altro, non sta bene no. Ti pare – mi dico, sempre da solo, che tanto il Chaku non può parlare e sono quasi sicuro che, anche se potesse, non sarebbe un compagno di conversazione adatto – che uno può passare un’intera mezz’ora della propria vita sdraiato su un pavimento a farsi cambiare i connotati da un pazzo isterico cui non va giù di essere stato appena mollato?, che poi è questo che è successo, eh?, niente di meno e niente di più, io sono stato mollato e quindi gli sono saltato addosso con la chiara intenzione di ammazzarlo. Voglio dire, avevo i miei motivi, ma non si fanno, queste cose. Quindi no, chiaro che non sta bene, che cazzo gli chiedo?, che se potesse rispondermi mi tirerebbe uno dei suoi soprammobili oblunghi sul naso. Certo, sempre se fossimo a casa sua.
Comincio ad essere un po’ confuso.
- Chaku. – lo chiamo ancora, più seriamente, scendendogli di dosso così magari evito di ucciderlo definitivamente, e sollevandogli piano la testa per rendermi conto del fatto che no, non gliel’ho spaccata contro il pavimento, è ancora lì, perfettamente sferica, giusto un po’ bozzuta dove ha battuto, e la chiazza di sangue che c’è sotto tanto per cominciare non è così ampia come l’esaltazione di prima mi faceva pensare, e tanto per concludere, cosa ancora migliore, è giusto il sangue che è uscito dalle ferite sul viso, non è che gli ho bucato il cranio ed è scivolato fuori dalle orecchie quel po’ di cervello che gli era rimasto. È ancora integro, intendo, più o meno.
- Ok… - cerco di scandirmi il tempo da solo, nel silenzio surreale in cui è immersa la mia casa da quando ho smesso di picchiare Chakuza, - Vediamo di capire… - biascico, ma parlo senza neanche sapere cos’è che sto dicendo, perché in realtà voglio solo sentire qualcosa, dato che il vuoto un po’ mi spaventa. Non mi sento in grado di controllarlo, specialmente in questo momento. – Ora ti metti in piedi. – suggerisco, ma naturalmente il Chaku da solo non lo fa mica, anche se sento che ora respira meglio, quindi magari si sta riprendendo. Lo sollevo cercando di fare piano, me lo carico in spalla e lui si lascia dietro una scia di sangue neanche stessi trascinando un cadavere, sporcandomi tutta la maglietta.
Mi mugola qualcosa addosso mentre lo trascino verso il divano e poi lo sistemo fra i cuscini cercando di usare la maggior delicatezza possibile. Quando torno a guardarlo, lui ha gli occhi aperti. Cioè, non proprio aperti, diciamo meno chiusi di prima. E guarda il mondo con aria del tutto disinteressata. Probabilmente il cervello tutto a posto proprio non è, dev’essersi staccato dalle pareti della scatola cranica e ora galleggia lì in mezzo a liquidi non ben definiti con tutte le sinapsi scollegate, e già mi figuro il resto della vita di quest’uomo costretto a rimanere sul divano mentre Bill lo nutre con minestrine varie cercando di impedirgli di sbrodolarsi sul bavaglio. Oddio, conoscendo il ragazzino non reggerà neanche due mesi, ma d’altronde anche io probabilmente lascerei perdere dopo un periodo non tanto più lungo, perciò è meglio che lo rimetta in sesto o qua è un disastro.
- Cosa… - mormora lui, incerto, e io evito di restare lì in attesa mentre lui riprende coscienza di ciò che è e di cosa gli sta succedendo, e vado in bagno, nella speranza di avere lì una cassetta del pronto soccorso. È ridicolo, so dov’è la cassetta del pronto soccorso in casa del Chaku, so dov’è in casa di Bill, so dov’è in casa di Anis e so dov’era in casa di Nicole, ma non ho idea di dove sia qui in casa mia. Non so neanche se ci sia.
Fortunatamente c’è, quindi quando torno indietro non lo faccio a mani vuote come un cretino, ma con il disinfettante e un vario campionario di cerotti di diverse dimensioni fra le mani. Chakuza mi guarda senza capire cosa ci faccia io lì, probabilmente.
- Mi dispiace. – butto lì giusto per dire qualcosa, - Spero non faccia troppo male.
- Uh? – chiede lui, senza dimostrare particolare presenza a se stesso, - Male? Non direi, ma non lo so, sono un po’ intorpidito…
Fortuna che sei intorpidito, penso io, se eri vigile e attento probabilmente stavi giù urlando in preda al dolore desiderando la morte piuttosto che subire ancora questa tortura infinita. Mi seggo accanto a lui sul divano, imbevo un po’ di cotone idrofilo nel disinfettante – l’alcool che non brucia, quello dei bimbi piccoli, non ricordo nemmeno quando l’ho comprato ma ero sicuro che, se dovevo avere del disinfettante, sarebbe stato questo, perché odio il bruciore dell’alcool normale. Ne odio anche il colore, per la verità.
- Stai buono, - dico, passando il batuffolo sulle ferite, cercando di fare piano, - Ti do una sistemata.
Lui annuisce ed io mi metto lì buono a fare qualcosa che non so fare, perché quando andavo in giro pestando gente per strada e ricevendo da loro lo stesso quantitativo di botte che somministravo, era mia madre a rimettermi a posto. Poi, le varie fidanzate di Anis, donne che avevano imparato l’arte standogli accanto. E anche l’ultima volta, è stato Chakuza a prendersi cura di me.
Io non sono per niente capace, ma visto che sono stato io a ridurlo in questo stato pietoso, è giusto che mi prenda le mie responsabilità e lo rimetta in sesto. D’altronde, qualcuno dovrà pur farlo. Uno qualsiasi di tutti noi.
Restiamo in silenzio così a lungo che riesco, per un po’, a crogiolarmi nella piacevole sensazione che Chakuza si lascerà ripulire e poi andrà via sempre restando zitto. Sarebbe una bella cosa, da parte sua, almeno dimostrerebbe di aver capito quanto cazzo ci sto male, e di non voler rigirare ulteriormente il dito nella piaga.
Purtroppo, però, è di Chakuza, che stiamo parlando. Lui il dito nella piaga te lo rigira non perché non voglia, ma perché non arriva a capire che non è il caso.
- Fler, - comincia, - io non vorrei che tu pensassi—
- Io vorrei che tu non dicessi niente, adesso. – lo interrompo, riponendo tutto al proprio posto nella cassetta del pronto soccorso ed ammucchiando il cotone idrofilo sporco di sangue di lato, per gettarlo via, - Ho capito l’antifona. E, credimi, vorrei poterti dire che sono felice per te e che possiamo rimanere amici, ma non posso farlo. – vedo qualcosa spezzarsi nei suoi occhi. Schiude le labbra e so che vorrebbe provare a fermarmi, ed è proprio il caso che io non glielo permetta, perché stavolta non ce la posso fare, Chaku. Stavolta proprio no. – Non guardarmi così. – cerco di sorridere, - Sarai felice, anche senza avermi intorno. Probabilmente andrà anche meglio. – e poi torno serio, e il sorriso scompare. – Non cercarmi. Non mi lascerei trovare comunque.
Il nostro addio è molto più impersonale, impacciato e meno sentito di quanto non abbia mai pensato immaginandomelo. Lo accompagno alla porta con tranquillità, cercando di non dargli a vedere che mi reggo appena sulle gambe anche se so che lui se ne accorge. Lui mi saluta con un ciao dimesso, cercando di non darmi a vedere che gli tremano le mani anche se sa che io me ne sono accorto. Quando la porta si chiude alle sue spalle, il suo profumo resta nell’aria di casa mia appena il tempo di essere mangiato dall’odore dei mobili ancora troppo nuovi, e poi io scrollo le spalle, vado in cucina e comincio a ripulire per terra.
*
Da quando Chakuza è uscito da quella porta, nient’altro c’è passato. Nemmeno io, che sono chiuso in casa da cinque giorni. Non è che abbia chissà che paranoie in mente, paura di incontrarlo o chissà che – Berlino è grande e “frequentare lo stesso giro” ha perso senso da quando Bill e Bushido sono due giri diversi a sé stanti – è solo che non mi è venuta voglia. In casa avevo tutto ciò che poteva servirmi, ho dovuto raschiare un po’ il fondo del barile, ma tra scatolette e cibi precotti vari sono sopravvissuto dignitosamente a questa quasi-settimana di solitudine senza rimpiangere il mondo di fuori neanche per il calore del sole sulla pelle. Ti scalda altrettanto anche attraverso i vetri delle finestre.
Quando Bushido arriva, ovviamente senza prima preannunciarsi, mi trova con una pezza umida fra le mani e le maniche del maglione tirate su fino ai gomiti. Stavo lavando i piatti dopo un lauto pasto a base di fagioli in scatola riscaldati a bagnomaria. Ora sono le undici e mezza di sera, lui è sulla soglia della mia porta, è il primo essere umano che la attraversa da giorni ed è ubriaco.
- Anis…? – lo chiamo, ma lui non risponde. Mi fa un sorriso idiota e mi si scaraventa fra le braccia, si vede proprio che si lascia andare, che non ne può più di stare in piedi. Siccome è leggero come un materassino di gommapiuma, lo tengo dritto e lo accompagno verso il divano, chiudendomi la porta alle spalle e cercando di sistemarlo fra i cuscini cercando di impedire che rotoli a terra. – Anis, ma che cazzo—
- Sono ubriaco. – dice lui, come a volermene informare nel caso non l’avessi capito.
- Sì, l’avevo afferrato. – gli faccio presente con una smorfia, - Puzzi tanto che ti sentirei pure a due isolati di distanza, cazzo, ma quanto hai bevuto?
- A sufficienza. – risponde lui, annuendo come se servisse un tono professionale per parlare di una roba simile. Sospiro e roteo gli occhi, sedendomi accanto a lui sul divano e tirandogli un’ancata per costringerlo a spostarsi un po’ e farmi spazio.
- Sì, a sufficienza per farti esplodere il fegato. – ribatto, e lui subito scoppia a ridere come avessi fatto la battuta del secolo, e mi tira uno scappellotto sulla nuca. Solo che poi la mano resta là, e siccome di tenerla immobile non gli va, perché mai nulla nel suo corpo è immobile, prende a farmi delle carezzine minuscole, quasi impercettibili, neanche fossi un cane o un qualche altro animale domestico. – Che è successo? – chiedo con un sospiro, e sospiro perché già lo so cosa è successo, e so anche che sentirmelo ripetere non mi farà bene, perché ciò che Anis mi dirà ha delle implicazioni che lui non conosce e delle quali vorrei parlargli, ma non posso farlo. Tutto ciò che posso fare è restare in silenzio ed ascoltarlo mentre, fissando la parete di fronte a sé, in un punto vuoto defilato rispetto al televisore e ai quadri astratti che erano già qui quando ho preso l’appartamento, mi racconta quanto fa schifo la sua vita al momento, e perché.
La cosa sorprendente è che mi parla di tutto. Principalmente di Bill, com’è ovvio, ma in realtà non tralascia niente. Mi parla dell’etichetta a puttane, di tutta la rete di amicizie che aveva intessuto e che ora è scomparsa quasi del tutto, ma anche di sua madre e di quanto faticosamente abbia accettato tutto ciò e provi comunque a stargli accanto, seppur con difficoltà. Mi parla di suo padre che mentre lui era a Miami è morto e del fatto che non mi sa dire se gli dispiaccia non essere andato al suo funerale e non aver saputo a lungo neanche che un funerale ci fosse stato. Mi parla del vuoto nel petto che sente quando ci pensa e mi parla del freddo che c’è in casa, che è enorme, e mi parla del profumo di Bill che ogni tanto sente ancora quando apre l’armadio o schiaccia il naso contro un cuscino. E mi parla dello spazzolino della sua principessa che è ancora lì nel bicchierino in bagno, dei suoi asciugamani, di tutte le cose che non ha portato via perché erano oggettivamente troppe e in gran parte inutili, decorazioni stupide con cui rinforzavano entrambi la sensazione dello stare insieme. E che ora restano lì solo a testimoniare che insieme non esiste più.
Anis tutte queste cose può dirmele solo perché ora sta così. Perché non ce la fa più a tenersele dentro e l’alcool lo sta usando come scusa per tirarle fuori. Perché prima Bushido era la parte più grande di lui ed ora invece è solo il nome che usa per lavorare. E sarebbe bello vederlo ritornare Bushido davvero, non perché non mi piaccia Anis, ma perché Bushido è tutto ciò per cui Anis ha combattuto. È tutto ciò che si è guadagnato. Ed è orribile vederlo gettare via una parte così enorme e significativa di lui, indipendentemente dal fatto che sia colpa sua o meno se quella parte è morta.
Sollevo una mano, un po’ incerto, e gliela batto sulla spalla in un paio di pacche che spero siano consolatorie. Mi fa schifo dirgli cose banali quando lui invece fino a questo momento mi ha detto cose tremende e bellissime aprendosi il cuore in due e lasciandone venire fuori tutto il sangue, per capirci, ma non è che possa fare poi molto altro.
- Cerca di stare tranquillo. – gli dico, forzando un sorriso bugiardo anche più delle parole che pronuncio, - È probabile che sia solo un momento di confusione. Bill è piccolino, lo sai, è solo un ragazzino. Vedrai che… - deglutisco, prima di andare avanti. Mi chiedo “ma ci credi davvero?”, e rispondermi “no” non basta a fermarmi. – Vedrai che alla fine tornerà da te, e andrà tutto a posto.
Anis, che fino ad ora non mi ha guardato per niente, si volta nella mia direzione. Ha gli occhi lucidi e i capelli scompigliati che gli cadono sulla fronte e sulle tempie. La barba è un po’ più lunga del solito, ma il disegno è rimasto intatto. I suoi lineamenti dritti e fieri sono gli stessi che mi perdevo ad ammirare da ragazzino, quando cercavo di trattenere in corpo più alcool di quanto non potessi fisiologicamente lasciarmi scorrere nelle vene, solo per cercare di dimostrargli quanto fossi grande, quanto potesse ritenermi un suo pari, quanto potesse fidarsi di me.
- Per quanto mi riguarda, - risponde, il tono molto più lucido di quanto entrambi non vorremmo, - può restare dov’è per sempre. Se Chakuza lo rende felice, ci resti. Io… - sospira, cercando di rilassare i muscoli e gettando indietro il capo, poggiandolo sullo schienale e fissando il soffitto, - non ti dico che ho sbagliato. Ho fatto ciò che ho ritenuto opportuno in quel momento, ma purtroppo le cose non sono andate come avevo pensato. In questo momento non saprei neanche dirti se è vero che sono tornato solo per l’etichetta, o se forse non ero semplicemente arrabbiato perché non riuscivo più a tollerare di non avere più niente quando prima avevo tutto. Il punto è che mi sono stancato. – torna a guardarmi, la sua mano pressa ancora contro la mia nuca ed io non so se dovrei averne paura, - Ci ho provato, a rimettere le cose a posto. Ma non ci sono riuscito. Ed ora sono stanco. E non mi va più di tentare. Per cui, che vada come deve andare. Abbasso le armi, il re ha perso. Qualcuno ne sarà felice.
Mi verrebbe voglia di abbracciarlo, ma allo stesso tempo ho paura di cosa potrei fare se mi lasciassi andare a questo punto. Stringo un po’ la presa sulla sua spalla, come a cercare di rassicurarlo con maggiore convinzione. Lui mi guarda con un pizzico di delusione negli occhi e io distolgo lo sguardo.
- Vado a preparare un po’ di caffè. – dico dopo essermi schiarito la voce, alzandomi in piedi e liberandomi della sua mano ancora ferma e pesante sulla nuca, - Vediamo se posso rimetterti in sesto abbastanza da rimandarti a casa tua… altrimenti, c’è il divano. – dico, con una mezza risatina imbarazzata.
Scappo in cucina con la coda fra le gambe, mi sento una merda e non ci sto con la testa. L’agitazione che mi ha preso guardandolo negli occhi per quella frazione di secondo non è spiegabile se non con tutta l’interezza del nostro vissuto. Che è una cosa in cui pesano tanto le parole che ci siamo detti, ma ancora di più quelle che nessuno di noi ha mai avuto il coraggio di pronunciare ad alta voce.
Non so quanti secoli ci metto a preparare la dannata moka. Lo faccio con metodo perché voglio tempo e non voglio pensare, e questo mi ricorda Chakuza, ed al fatto che questa moka la stavo preparando così anche mentre lui cercava di mollarmi fallendo per principio, e questa cosa mi mette addosso ancora più agitazione. Ho paura per quello che potrebbe succedere questa notte in questa casa – ci sono cose che non dovrebbero mai accadere. Ci sono cose che è meglio se restano ipotesi. Io ci credo fermamente, in questa cosa. E so che Anis riuscirebbe a gettare in terra tutto quello che ho costruito con fatica in tutti questi anni senza la minima difficoltà. Io non ho quasi mai paura fino al punto da tremare, ma sto tremando come una foglia. E me ne accorgo solo quando le mani di Anis si posano sulle mie spalle, stringendo e mollando impercettibilmente la presa mentre sento il suo respiro caldissimo sulla nuca.
- Forse avevi ragione tu fin dall’inizio. – parla pianissimo, sulla mia pelle. Non riesco a ricordare molte occasioni in cui ho sentito il suo respiro così vicino da confonderlo col mio. – Sarei dovuto rimanere con te.
Mi cade la caffettiera dalle mani. Fa un baccano infernale andandosi a schiantare sul fondo del lavandino. Si apre in due, ne viene fuori tutto il caffè. Avevo appena pulito. Non riesco a voltarmi e nemmeno a parlare, mi sento di ghiaccio. Non so nemmeno se respiro ancora e sono ancora vivo, o se a tenermi in piedi è solo la tensione.
Lui si china appena in avanti, sento le sue labbra calde e un po’ umide sul mio collo e lascio andare un gemito involontario che è di pura sorpresa.
- Pat. – mi chiama lui, pianissimo, - Guardami.
Io non lo voglio guardare, ma quando entra in gioco Bushido volere e non volere sono cose indipendenti dalla tua volontà, per quanto tutto ciò possa sembrare assurdo. Quindi il punto non è se io voglio o meno, perché vuole lui, e tanto basta per costringermi a girarmi e obbedire.
Nei suoi occhi non lo capisco cosa c’è. Sono tristi, però. Sollevo una mano e gli accarezzo una guancia, lui si appoggia contro il mio palmo con un gesto esausto. Siamo vicinissimi, sento tutti gli spigoli e le curve del suo corpo addosso. Sento cose che preferirei non sentire. Mi viene da ridere se penso che lui di me e Chakuza non sa niente, in teoria dovrebbe ancora credermi etero – se mai gli è sorto il dubbio sul punto. Odio pensare a Chakuza anche in questo momento, vorrei poterlo buttare fuori dalla mia testa a calci, ma non ci sono mai riuscito in tutto quest’anno e mi spaventa, sinceramente, che non ci stia riuscendo neanche Anis adesso.
Poi si sporge in avanti e poggia le labbra sulle mie. È una cosa così stupida, siamo grandi, abbiamo superato l’adolescenza da abbastanza tempo per evitare i baci a stampo, soprattutto quando non è il caso di perdersi in cazzate simili, eppure all’inizio sono solo le sue labbra. Sanno di lui mischiato a tutto l’alcool che ha mandato giù prima di venire qui. Hanno esattamente lo stesso sapore che potevano avere dieci anni fa. Mi sembra di stare chiudendo un cerchio e mi fa paura anche questo perché i cerchi, per loro natura, sono ciclici. Chiuderne uno non vuol dire interromperlo.
La sua lingua mi accarezza piano dopo un po’, ed io esito solo un attimo, prima di lasciarla passare. E quando ci sfioriamo davvero, quando il bacio comincia a diventare una cosa seria, bagnata e calda, lo sento sporgersi in avanti con più decisione. Pianta le mani sul lavello, ai lati del mio corpo, e mi si schiaccia addosso. Io allaccio le braccia dietro la sua nuca e lo stringo con tanta forza che mi fanno male le spalle, le dita e i polsi. E tutto comincia a diventare più confuso, se non altro perché io mi rompo le palle di pensare, di farmi domande, di riflettere su quanto ci faremo schifo domani e quanto tutto ciò sarà stato inutile perché nella merda siamo e sempre lì resteremo indipendentemente da quanto a lungo e con quanta forza anche inconsciamente abbiamo atteso questo momento. C’è Anis che mi accarezza ovunque spingendosi contro di me, ho un suo ginocchio fra le gambe e le sue labbra che mollano le mie solo per permettermi di respirare, ma siccome non riescono ad abbandonarmi del tutto scendono lungo il mio collo, mentre le sue dita afferrano l’orlo del maglioncino e lo tirano violentemente verso l’alto per liberarsene.
Potrei cercare di fermarlo, ma non voglio. Il pensiero che sia ubriaco dovrebbe obbligarmi a cercare di interrompere tutto questo, ma me ne frego. C’è questo momento bellissimo in cui mi slaccia i pantaloni e me li lascia scivolare lungo le gambe, e prende ad accarezzarmi guardandomi negli occhi. Mi vanno a fuoco le guance e sono imbarazzato come mai in vita mia, ma non riesco a smettere di guardarlo a mia volta. Ansimo sulle sue labbra, quasi silenziosamente, e lui mi bacia solo ogni tanto, è come se aspettasse di sentirsi scivolare il mio sapore via dalla lingua e poi tornasse subito a cercare di catturarlo ancora, per vedere quanto a lungo riesce a trattenerlo. E poi gli afferro un polso per fermarlo e, quando riesco a farmi lasciare, faccio per voltarmi e dargli le spalle, ma lui mi ferma.
- No. – dice semplicemente, e quando io torno a guardarlo mi aiuta a issarmi sul ripiano della cucina. Quando lo sento duro fra le gambe, due secondi dopo, capisco cosa vuole, e lo bacio con foga, stringendo il suo viso fra le mani. Mi ci perdo del tutto, lui mi stringe per i fianchi e subito dopo sta già spingendosi con forza dentro di me. Non credo che si stia chiedendo qualcosa a riguardo, e mi sta bene così. Voglio che questo momento sia solo nostro, che non ci sia spazio per nient’altro.
Tremo quando ricomincia ad accarezzarmi fra le cosce, e chiudo gli occhi con tanta forza che vedo bianco. Lo sento ridere appena vicino al mio orecchio, con la mano libera torna a stringermi possessivamente il fianco.
Non mi dice nulla, anche se potrebbe dirmi qualsiasi cosa. Avrebbe davvero il potere di devastarmi la vita, in questo momento, se solo dicesse quelle tre parole che non so se gli siano mai girate per la testa in relazione a me, ma che per quanto mi riguarda sono state un pensiero fisso molto a lungo, tra un momento in cui cercavo di nascondermelo e l’altro. Però lui non lo dice. Forse ce l’ha lì, sulla punta della lingua, ma capisco chiaramente che preferirebbe staccarsela a morsi pur di non farmi del male adesso, e quindi non lo dice. Ed io vengo fra le sue dita con un gemito liberatorio, e me lo stringo forte contro mentre lui continua a spingere dentro di me finché non lo sento venire a sua volta, stringendomi forte i fianchi e mordendomi la spalla abbastanza forte da lasciarmi il segno ma non altrettanto da farmi male.
Restiamo immobili giusto il tempo di riprendere fiato, e quando ci allontaniamo, nell’attimo che passa fra il momento in cui fa un passo indietro e quello in cui torniamo a guardarci negli occhi, mi faccio assalire dalla paura irrazionale che guardandoci non ci riconosceremo, ci vedremo come due estranei e ci chiederemo che cazzo abbiamo fatto.
E invece, quando ci guardiamo, scoppiamo a ridere. Come due imbecilli. Io mi piego in due così tanto che cado dal ripiano e rotolo sul pavimento. Mi faccio un male cane ma non riesco a smettere di ridere, e Anis che mi guarda in queste condizioni non può fare altro che ridere più forte. Ed è un dramma quando succede così, perché le risate si alimentano di altre risate, perciò finisce che rimaniamo lì a rotolare sul pavimento della mia cucina dove cinque giorni fa ho pestato Chakuza fino a fargli uscire il cervello dalle orecchie, e ridiamo come deficienti per mezz’ore intere, non so nemmeno io quanto, tant’è che alla fine siamo del tutto senza fiato ed ansimiamo come se, invece di scopare e ridere, avessimo corso la maratona di New York. Una roba surreale.
- Ho fame. – dice lui, rimettendosi in piedi e risistemandosi sommariamente i vestiti, prima di porgermi la mano per aiutarmi ad alzarmi, - Che hai in casa?
- Ma io ho già cenato! – gli faccio notare, indicando le stoviglie pulite messe a scolare, - Dai, che palle, mi devi far rimettere a cucinare?
Lui scrolla le spalle ed apre il frigorifero. Osserva con attenzione tutto ciò che ha davanti, poi lo richiude, torna a guardarmi e risponde.
- Sì, perché non c’è niente di già pronto.
Ciò detto, apre tutti gli stipetti, tira fuori una serie di cose a caso che io a stento riconosco e probabilmente non ho neanche comprato, ed erano già qui quando ho comprato l’appartamento, assieme ai quadri astratti, e poi mi sorride trionfante.
- E che dovrei farci io con… - sollevo un barattolino a caso, - del brodo granulare di pesce?
Lui sorride ancora, più apertamente.
- Comincia a mettere l’acqua a bollire. – risponde, - Non so cucinare, ma ricordo a memoria il ricettario di Karima.

Bookmark and Share

I don't wanna miss a thing

di tabata
Quando tutto va storto, diceva mia madre quando ero piccolo, devi pensare alle cose belle.
All'epoca a me sembrava una cosa un po' stupida per ben due motivi: il primo era che non mi sembrava possibile pensare a qualcosa di bello se in quel momento qualcosa non andava – che fosse una sbucciatura al ginocchio o il pensiero che non avevo un padre perché quello aveva mollato mia madre incinta senza una spiegazione. Il secondo era che, per quanto forse mi avrebbe aiutato, trovavo incosciente pensare ad altro quando avevo un problema, perché non è che sarebbe sparito se non ci pensavo, il che vi dà la misura di che tipo di bambino io fossi. Uno di quelli che ragionano un sacco, e stanno anche le ore a fissare il paesaggio mentre rimuginano su ciò che gli è successo durante la giornata o nella vita in generale. Io ero così e i problemi mi piaceva risolverli quando c'erano – o almeno prenderne coscienza – e non infilarli in un cassetto pensando a quanto mi piacesse lo zucchero filato che non mangiavo quasi mai ed era buonissimo.
Poi ho imparato che in certi casi, magari non in tutti ma in certi sì, la teoria di mia madre è vera ed è anche l'unico modo per rimanere a galla quando la merda ti ha ricoperto fin sopra la punta dei capelli e tu hai una gran voglia di morirci dentro soffocato e non puoi.
Questo è uno di quei momenti. Ho appena picchiato Chakuza come non avevo mai picchiato nessuno in vita mia; e non parlo delle ferite inferte – per quello no, al confronto di certe risse in cui mi sono trovato coinvolto, a Peter non ho fatto praticamente niente – ma per la quantità e la natura delle sensazioni che ho provato mentre lo facevo. E' straniante essere consapevoli che una persona si merita i calci e i pugni che le stai tirando ma, allo stesso tempo, provare un affetto così totalizzante da spingerti a curarla dopo che hai finito. Con Bushido, se ci penso, è stata un po' la stessa cosa la notte della sua morte. Io volevo ammazzarlo, lo volevo con tutto me stesso perché era un bastardo, perché mi aveva incasinato la vita più di quanto avrebbe dovuto essergli possibile nonostante quella faccia di merda che si ritrova, eppure una parte di me non pensava che ci sarei mai riuscito o che potessi anche solo provarci. Da una parte pensavo che avrei affondato la lama così a fondo da spezzargli a metà il cuore, e dall'altra volevo soltanto abbracciarlo. Ma in quello scontro mancava qualcosa – non il sentimento, immagino – ma una certa intensità che, Dio solo sa perché, io provo solo per Chakuza. Così l'ho picchiato, e so che se lo meritava – lo sa anche lui, stavolta! – perché è un coglione e avrebbe fatto tanti meno danni se, anche per una sola volta nella sua vita, si fosse fermato un secondo a pensare con il cervello invece che con il cazzo e avesse poi agito di conseguenza. Gli bastava un secondo solo. D'altronde il pensiero coerente non è mai stato il suo punto di forza, e io non sono qui a pretendere questo da lui, ma quello che avrei voluto non era nemmeno la coerenza, quanto un minimo di istinto di sopravvivenza.
Lui Bill l'ha sempre voluto; voluto quasi come se gli fosse dovuto e questo perché, per certi versi, è sempre stato suo e non sono io che dovrei dirvelo, dal momento che sono arrivato molto dopo che si conoscessero, ma l'ho capito tempo un secondo quando li ho visti insieme la prima volta e dopo che gli altri mi hanno raccontato com'era la vita quando Bushido era vivo e a morire non ci pensava minimamente, a quanto pare. Bill è sempre stato guardato con diffidenza da tutti quanti, perché non si capiva cos'era, perché era piccolo e perché, fondamentalmente, è strano forte e bisogna un po' seguirlo per capire di cosa parla o come si sente. Avevano tutti dei problemi, tranne Chakuza; probabilmente perché il cervello di Peter naviga nell'assenza di senso, e Bill in quelle acque ci sguazza bene anche lui. Così questi due si sono trovati fin da subito. E all'inizio non si piacevano nemmeno, io posso pure immaginarlo questo, perché Bill adorava il suo tunisino come un Dio personale e Chakuza era del tutto ignaro della propria apertura sessuale, per cui il meccanismo che in genere lo porta a non capire più un cazzo quando annusa la possibilità – anche vaga – di fare sesso non era ancora scattato. Poi Bushido è morto, e l'improvvisa assenza della sua luminosità accecante ed esagerata ha permesso a Bill di vedere che dietro la statua del Dio tunisino, c'era un nano pelato un po' meno luminoso, forse, ma che aveva per lui praticamente la stessa dedizione. E da lì la scintilla: il bacio, l'allontanamento, il cercarsi ma-anche-no e tutta quella tortura a cui sono stato sottoposto, nella totale ignoranza di Bill ma nella completa consapevolezza di Chakuza. Per questo vi dico che è un coglione.
Se lui semplicemente, ad un certo punto – uno qualsiasi, cazzo! - di questa maledetta storia di gente che si lascia e si riprende, si fosse fatto un esame di coscienza e avesse constatato che la cosa che più di tutte voleva al mondo, sopra ogni cosa, era Bill – perché così è e anche una creatura di intelligenza limitata come lui lo capirebbe se solo si fermasse a pensare –, io non sarei qui appoggiato a questa stramaledetta cazzo di porta, dopo che l'ho pestato e curato, a chiudere le mani a pugno per impedirmi di riaprirla e tirarmelo dentro perché uno di noi due deve chiuderla e siccome lui non ne è capace davvero, devo farlo io.
Così chiudo gli occhi e aspetto pazientemente di sentire i suoi passi lungo le scale; ci mette una vita a muoversi, tipo minuti interi, non so cosa stia facendo ma, conoscendolo, se ne sta lì immobile a cercare di capire da che parte è girato, cosa dovrebbe fare ora e come, perché Peter è così: non capisce mai niente di cosa ci si aspetti da lui, nemmeno dopo che viene pestato a sangue e buttato fuori di casa. D'accordo, ammetto di essere stato vagamente ambiguo per i suoi standard, visto che non l'ho preso di peso e gettato nell'androne del mio palazzo – che sarebbe stato piuttosto esplicito – e dopo averlo pestato, l'ho curato – due azioni che si annullano in qualche modo a vicenda – ma viste le motivazioni che ci stavano dietro, forse dovrebbe aver afferrato la situazione; ciò non significa che lui reagisca automaticamente come farebbe ogni essere umano, ossia eclissandosi per il malessere che prova, ma probabilmente se ne sta lì e fissa il vuoto mentre nel suo cervello due ingranaggi casuali cercano invano di incastrarsi tra loro.
E sorrido perché nella testa ne ho a migliaia di immagini simili di lui che macina pensieri come se non ci fosse un domani senza cavarne niente. Non so perché, fra tutte le possibilità che ho a disposizione, mi torna in mente di quella volta che si ritrovò per le mani il volantino che ci aveva consegnato il dottorino la notte che Chakuza si è girato male e ha fatto la grande cazzata, quella che ha aperto la strada a tutte le altre. Come episodio non è neanche uno di quelli più indicativi dell'assurdità che quest'uomo può rappresentare, ma è uno di quelli più felici e forse è per questo che mi torna in mente; anche se in questo momento ho forse abbastanza motivi per ucciderlo e venire assolto da una giuria di miei pari, io voglio ricordarmi soprattutto perché ho permesso a questa persona di entrare di prepotenza nella mia vita con il suo metro e quaranta scarso e ribaltarmela.
Dunque, se ben ricordo, quel giorno ero stato a farmi un giro in città, perché avevo delle commissioni da fare e, già che c'ero, ne avevo approfittato per fare un salto a Tempelhof e cominciare a fare due chiacchiere con un paio di persone che conoscevo; per la questione di Saad, ovviamente, anche se al tempo era ancora solo la questione di Bushido. Sapevo che, ad un certo punto, avrei avuto bisogno di Chakuza – e Dio solo sa se non temevo quel momento – ma pensavo che fosse meglio coinvolgerlo nelle indagini solo quando non avrei avuto altra alternativa; cosa che poi è stato molto più tardi e abbiamo scoperto quello che io già sapevo e lui si immaginava, e cioè che avrebbe dovuto uscire da quella scuola per cuochi solo per entrare in un ristorante e lì restare per tutto il resto della sua vita.
Ad ogni modo decido che dopo aver fatto tutto ciò che ho da fare, posso presentarmi a sorpresa a casa di Chakuza perché non lo faccio mai e quindi lui non se lo aspetta per niente. Chakuza è uno incasinato a livelli improponibili a livello personale – il cervello soprattutto – ma ha una rigida organizzazione per quanto riguarda tutto il resto, ossia per le cose totalmente inutili. Del tipo che piega le magliette in un certo modo, quando entra in casa deve fare una certa sequenza di azioni e, più importante di tutti, quando vuoi vederlo o vuoi fare qualcosa con lui è meglio se ti prendi la briga di avvertirlo almeno tre o quattro giorni prima con una richiesta in carta bollata perché piombargli in casa come io sto per fare ha su di lui effetti imprevedibili. Ed è proprio per questo che lo faccio: sono di buon umore e ho voglia di rompergli le palle.
Sfortunatamente per me, lui è talmente preso dalla sua follia del giorno che non se la prende quando mi presento bello come il sole sulla porta di casa sua senza prima farmi annunciare da una telefonata. Naturalmente i suoi riflessi sono sempre i soliti per cui mi lascia lì sulla soglia come un coglione per almeno due minuti e mi fissa, con l'occhio da triglia, come se indossassi un costume da coniglio rosa o fossi completamente nudo. Per un istante spero solo che non mi stia vedendo nudo con solo qualche particolare del suddetto costume da coniglio addosso perché sarebbe molto da lui e io non voglio far parte di questa fantasia. Comunque poi salta fuori che dal ciarpame che tiene sparso per tutta quanta la casa secondo un ordine dettato dal caos primordiale dal quale anche lui dev'essere uscito in forma di ameba, è riuscito in qualche modo a recuperare questo volantino di cinquanta pagine che ci è stato consegnato come le tavole della legge sul sacro monte del pronto soccorso. Quando ciò è avvenuto io ero molto impegnato a non farmi saltare via i punti sedendomi male, per cui non ci ho fatto molto caso, ma lo riconosco immediatamente non appena glielo strappo di mano per vederlo meglio, anche perché non si può veramente scordare un volumetto con sopra un paio di tette. Lui naturalmente fa finta di non essere stato impegnato a leggerne ogni riga con grande dedizione fino al minuto prima di aprirmi la porta, anche se poi si è fatto trovare sulla soglia a leggerlo. L'incoerenza, Chaku ce l'ha. Il fatto è che si sente mortalmente in colpa – e fa bene – ma si sente anche mortalmente in imbarazzo – e questo è divertente – all'idea di doversi istruire meglio se vuole rifarlo. E lui vuole rifarlo, su questo nessuno ha dubbi, perciò non ha molta scelta. Per aumentare ulteriormente il suo desiderio di sotterrarsi per essere stato colto in flagrante a studiare per l'esame di omosessualità applicata che sicuramente darà tra poco e del quale io sarò l'esaminatore, decido che posso commentare questo vademecum per checche insieme a lui. Ci sistemiamo contro la penisola, lui dietro e io davanti, come del resto succede sempre, dal momento che Peter Pangerl è ufficialmente a favore del sesso con un uomo, purché sia lui ad infilare l'attrezzatura. Chiamalo scemo.
L'opuscolo ci informa che un uomo può essere tentato da un altro nei parchi o nelle saune – conosco persone che dopo aver letto queste pagine probabilmente vivrebbero murate vive in casa o non andrebbero mai più in palestra convinte che in tali luoghi di perdizione si annidino uomini concupiscenti pronti a rubarsi la loro verginità anale saltando fuori da ogni angolo oscuro – ma soprattutto in misteriose altre occasioni.
Noi, altra occasione; anche se dubito che gli autori di questa guida abbiano preso in considerazione uno stupro con vittima semi-consenziente – sempre che esista come figura – e stupratore semi-involontario. In quel momento, ma anche adesso, e per sempre temo, penso che la gente non mi crederebbe se gli raccontassi cos'è successo; un po' perché Chakuza che stupra qualcuno alto un metro e novanta non sembra fisicamente possibile finché effettivamente non lo fa e un po' perché, anche se fosse, magari uno pensa che qualche tempo dopo siamo finiti io in tribunale e lui in galera, non che siamo qui a fare i cretini immaginando come sarà che divorzieremo litigandoci il cane senza mai, di fatto, esserci sposati nemmeno per finta. Noi non siamo normali.
Sfogliando trovo anche due pagine di un marrone che più schifoso non lo potevano fare, nelle quali ci spiegano come indossare un preservativo, attraverso chiare e semplici illustrazioni. Lui ovviamente sa farlo, voglio dire, il sesso è anche un po' l'unico campo in cui abbia del talento per cui mi sembra il minimo che sappia le basi, ma è impagabile la faccia che fa quando gli chiedo: “Questo lo sai fare, mi auguro, avrai pure scopato nella tua vita, in generale!”
Lui si gonfia tutto come un tacchino alle fiere di paese, come se avesse raggiunto risultati mai visti e quindi riconosciuti a livello interplanetario dalla comunità scientifica internazionale. “Credo di superarti di gran lunga in quantità, Fler.” Non stento a crederlo. Un metro e venti di sesso puro, guarda.
Mi rendo conto di parlare bene e razzolare male, soprattutto se poi permetto all'ottavo nano, qui, di fare di me ciò che vuole; è che in effetti è piacevole. L'unico problema è poi arginare tutto l'egocentrismo di cui dispone e che tracima fuori da ogni orifizio visto il poco spazio in cui è contenuto, se solo si prova a dire che sì, in effetti, è capace di soddisfarti anche in maniera interessante. Per ogni complimento che gli si fa, bisogna buttarlo giù dal piedistallo due o tre volte, giusto per riequilibrare la bilancia cosmica su cui sta seduto col suo bel capoccione luccicante.
“Sei mica l'unico che abbia mai scopato, sai?” Gli faccio notare, perché è evidente che a volte si dimentica di non essere l'unico uomo sulla terra in grado di soddisfare sessualmente altri esseri umani; anche perché, a ben guardare, sarebbe alquanto agghiacciante se lui solo sull'intero pianeta custodisse il segreto dell'orgasmo. Immaginate cosa non sarebbe quest'uomo se davvero avesse questa posizione.
Innanzi tutto si creerebbe subito un culto, penso, e lui se ne starebbe tutto il giorno seduto su un trono molto alto, con il suo cappellino in testa mentre donne nude gli sventolano intorno foglie di palma. E le donne – e gli uomini – farebbero la fila fino ai suoi piedi per avere la dimostrazione pratica del suo potere. Chakuza eliminerebbe alla radice il concetto di atto di fede, elargendo i propri miracoli con atti pratici. Nessuno potrebbe mettere in dubbio la sua esistenza quando se ne andrebbe in giro con l'arnese in mano per farlo provare a tutti. La sola idea – ma anche la sola immagine – mi disturba in maniere che non so spiegare, forse perché nella mia follia per quest'uomo in scala io so che, per assurdo, sarebbe possibile. E quindi mi fa paura. “Guarda che a me mi venivano dietro a centinaia!”
Sbuffa una risata. “Non le hai nemmeno viste cento donne tutte insieme.”
“Perché tu sì?” Commento, quando fa così sarebbe da prendere a sberle. “Che tu sia uno che ha bisogno di passare metà del suo tempo a scopare, siamo tutti d’accordo. Che tu poi lo faccia davvero, è tutto un altro discorso.”
“Devo darti dimostrazione pratica?”
Io mi sistemo meglio su di lui, perché anche se fa il disinvolto, in realtà è già partito per la tangente e me ne accorgo perché contro il mio sedere ci sono sporgenze che prima non c'erano. “Lo farai fra meno di dieci minuti a giudicare da quanto sei diventato scomodo.” Nel sistemarmi guardo bene di strusciarmi come si deve, e lui fa una specie di grugnito a metà tra il sorpreso e l'infastidito; una cosa che gli esce di bocca tutte le volte che l'uccello gli si sveglia prima che le condizioni ambientali gli permettano di dargli retta. “E ricorda, una piccola scorta di preservativi – al posto giusto – è ideale, indipendentemente dal fatto che servano oggi o no."
Parlare di piccola scorta con Chakuza è riduttivo. In questa casa ci sono preservativi dappertutto e quando dico dappertutto, intendo in ogni luogo umanamente concepibile e non. E' piuttosto logico trovarli nei cassetti del comodino, naturalmente, o nell'armadietto del bagno ma lo è un po' meno trovarli dentro il pouf del salotto, nella cassettiera del corridoio ma, soprattutto, nel mobile della cucina. Tu quando entri nella cucina di qualcuno pensi che sia un luogo relativamente sicuro in quel senso: ci sono i fornelli – potresti inciamparci sopra e prendere fuoco – e c'è il temibile coltello elettrico – che io odio, mi fa paura e naturalmente il nano ce l'ha, anzi ne ha quattro, tipo, perché forse deve tagliare quintali di carne umana che ne so – e tu puoi avere paura di venir fatto a fette o cose simili, ma di certo non varchi la soglia della cucina pensando che qualcuno sia attrezzato per scoparti lì sul ripiano che sta usando per impastare la pasta della pizza. Seguitemi, non sto dicendo che non si possa scopare in cucina – uno può un po' scopare dove gli pare, ci mancherebbe – dico solo che non si può davvero essere preparati per l'evenienza spargendo preservativi nel cassetto sotto a quello dove si tengono le forchette. Andiamo! E' anche una questione pratica. Metti che viene a trovarti tua madre, per Dio, che cosa le dici? Che pratichi l'arrosto sicuro? Quest'uomo ha una sorellina piccola, e va bene che i ragazzini di adesso sono avanti anni luce rispetto a noi – rispetto a lui poi non ne parliamo – ma io non vorrei che mia sorella, cercando un cucchiaino per mangiare il gelato davanti ai cartoni animati, se ne venisse fuori con un preservativo. Lui però non si fa di questi problemi, anzi non lo vede nemmeno il problema, per lui è una questione di praticità, no?, gli servono spesso, quindi è meglio tenerli a portata di mano. E' un po' come per quelli che soffrono gravemente di asma e che quando hanno un attacco non possono superarlo senza l'inalatore e, allora, per evitare di stramazzare al suolo prima di poterlo raggiungerle, ne tengono uno in ogni stanza. Non si sa mai.
“Oh…questa è buffa,” lo fermo perché lo sento che si agita come un'anguilla, ma io non ho intenzione di darglielo fino a che non ho finito questo volumetto. “Ogni anno in Svizzera si vendono oltre 18 milioni di preservativi… Ma la Svizzera è uno sputo di terra. Devono scopare un sacco, fra le vacche e il cioccolato!”
“Beh quando intorno hai solo i monti e la neve, non hai un cazzo da fare, eh!” Commenta lui.
“Sento dell’empatia nei confronti degli svizzeri da parte tua.”
Lui tiene le mani intrecciate sul mio stomaco da quando abbiamo iniziato, che è una cosa un sacco carina; per questo quando inizia a baciarmi il collo chiudo l'opuscolo e sorrido. “Dieci minuti esatti, spacchi il minuto.”
Al che lui mi sbuffa addosso, sento proprio la nuvoletta d'aria che mi solletica il collo. “Devo fermarmi?” Chiede ridendo. E lo chiede perché sa che non ho intenzione di dirgli di sì – lo sa perché sono ben disposto e lui è molto bravo a capire la buona disposizione. Ha problemi solo quando gli dici di no, perché non concepisce che glielo si dica – altrimenti eviterebbe di chiedermelo, e andrebbe avanti.
“No,” piego il collo e ascolto il suo respiro mentre infilo una mano nei suoi pantaloni. “Vedi di fare lo Svizzero.”
“Sono Austriaco,” mi ricorda, anche con una punta di stizza. Chakuza tiene alla sua patria quasi quanto Bushido ci tiene a sottolineare che viene da Tempelhof, e non so quale dei due sia più ridicolo visto che il primo parla di uno sputo di terra che ha, sì, dato i natali ad un grande della musica classica come Mozart ma, dopo quello, è rimasta un po' lì a campare di rendita; il secondo, invece, parla di un quartiere lurido in cui la gente muore accoltellata e i ragazzini si fanno già a dodici anni come se, alla fine, fosse un bel posto in cui crescere perché ne esci fuori – se ne esci – duro e cazzuto; che, voglio dire, io adoro Tempelhof, per carità, ma non ne parlerei come il nuovo paradiso in terra dove tutti i genitori dovrebbero crescere i propri figli perché non vengano su dei pappamolla come succede quando invece uno vive in un quartiere dove nessuno spacciatore lo minaccia con un coltello a serramanico tutte le mattine all'uscita della scuola.
Mi spingo contro di lui e appoggio l'opuscolo sul tavolo, dove rimane poco perché lui mi stringe solo un istante prima di ribaltarmi sull'isola. “Ingegnati,” lo prendo in giro, lasciandolo fare mentre mi slaccia la cintura e fa praticamente tutto da solo. E' comodo, alle volte. “Li avete anche voi i monti e la neve, no?”
“Ovvio,” fa lui, tornando in fase-tacchino. “Abbiamo i monti più belli e molta più neve.”
“E poco altro, aggiungerei,” dico, agitandomi appena, tra le sue dita. Mi morde una spalla, e io mi piego indietro per ridere di lui, ma non me ne dà il tempo, ovviamente, perché mi bacia, io ci sto e perdo un attimo il filo. Tanto che quando si scosta, mi da un bacio a stampo sulle labbra e riprende a trafficare con i miei calzoni nemmeno ci volesse la laurea a toglierli, io ci metto quei due o tre secondi a capire dove mi trovo. “Gli Svizzeri, almeno, hanno la cioccolata!” Esclamo alla fine, fiero di non essere del tutto ignaro di cosa stessi dicendo.
Lui strattona la cintura e strattona anche tutto il resto, e non è contento finché non mi si pressa contro, neanche dovesse testare gli incastri. “Noi abbiamo le Palle di Mozart!” Esclama infine tronfio, e dal momento che – non so quelle di Mozart – ma io ho le sue premute contro il sedere, la cosa è molto comica.
“Questo spiega un sacco di cose,” rido, godendomelo finché è ancora lucido, prima che perda del tutto la cognizione di se stesso. Due secondi dopo, tipo. Ovviamente, se vai lì e lo scuoti ti dà retta, non è che è caduto in crisi mistica o robe simili, però ci vuole già uno scossone bello forte o un rompimento di coglioni di proporzioni notevoli – tipo il campanello che continua a squillare per minuti interi, o la suoneria di sua madre sul cellulare – per convincerlo a staccarsi da me e ad avere un qualche tipo di interazione col mondo esterno.
Così lo sento grugnire qualcosa di incomprensibile, mentre le sue mani s'infilano oltre l'elastico dei pantaloni e quello delle mutande, con la velocità che è quella del momento d'urgenza, quindi so già che se voglio dei preliminari dovrò aspettare il secondo round. Non rimango neanche particolarmente deluso perché con Chakuza è così che funziona e una volta che lo hai capito, vivi più sereno: tranne casi particolari, quando ti salta addosso la prima volta non puoi pretendere niente di vagamente tenero con lui perché mira dritto al punto e non vede nient'altro. Va alla cieca, come i pipistrelli e le talpe.
Poi dopo – perché c'è sempre un dopo, ed è un'altra cosa da imparare subito se si vuole sopravvivere – ti da tutto quello che vuoi e anche di più. Così mi sistemo meglio, pianto i piedi bene in terra e mi allungo sul tavolo. “La maglietta,” fa subito lui, che mi sta mordendo il collo e mi sta accarezzando, anche, così tira la stoffa a caso, che tipo non me la toglierebbe nemmeno per sbaglio, così.
Faccio io, che è meglio, e tocca a me mugolare quando me lo sento addosso con più chiarezza.
Peter appoggia appena le labbra sulla pelle della mia schiena, ma sento ogni singolo bacio che mi piove addosso mentre scivolo giù ancora una volta, seguendo il movimento della sua mano che dalla spalla mi accarezza il braccio fino al polso, fino a distenderlo e intrecciare le dita con le mie sul piano della cucina.
Appoggio la fronte al legno mentre i miei pantaloni cadono da qualche parte e quando li calcio me ne frego di dove siano finiti. Lui è agitato, credo perché si è preso bene, così mi molla le dita e si spoglia, ma non mi lascia. In qualche modo lo sento sempre, che sia perché mi si appoggia contro quando si toglie le scarpe, o perché mi bacia, mentre si toglie i pantaloni. E io in qualche modo mi perdo, perché è bello sapere quello che sta facendo anche se lo fa dove non posso vederlo e sono anche ad occhi chiusi.
Le sue mani calde che mi scendono lungo la schiena e fino alle natiche hanno smesso di essere un elemento estraneo in un giorno indefinito delle scorse settimane, non so inquadrare il momento ma so che è successo. Ad un certo punto mi sono reso conto che non era più strano sentire le sue dita scendere ad accarezzarmi, entrare pieno ed allargarsi per prepararmi. Mi chiedo quando ho cominciato a fidarmi di lui e capisco che è successo molto prima che questo significasse andarci a letto, anzi che siamo andati a letto – che lui non è finito in galera, soprattutto! – proprio perché mi sono fidato di lui il giorno stesso che mi sono offerto di dargli una mano a difendere il ragazzino.
Mi si appoggia addosso, spingendo le dita ancora più a fondo e, quando mi giro a cercare un bacio, lui è lì a darmelo. Penso distintamente che è una bella giornata. E ci mugoliamo addosso perché lui sa come muovere le dita e a me piace baciarlo, per cui forse potremmo rimanere così per qualche minuto in più del necessario.
Mi stupisco di come il suo corpo si adatti contro il mio, ed è una sorpresa tutte le volte, come se fosse sempre la prima, forse perché lui è talmente sgraziato e irruento nella sua vita di tutti i giorni, che quando sento la linea dritta dei suoi fianchi battere contro le mie anche e ci incastriamo senza sforzi, mi sembra impossibile. Anche quando appoggio la fronte sul tavolo e seguo la pressione della sua mano alla base della schiena che mi tiene giù mentre mi apre, mentre entra, mentre lo accolgo e sospiriamo insieme, mi sembra che tutto ciò sia così palesemente impossibile, che forse stiamo sfidando qualche legge suprema, che ne so. Il punto è che non è come quando ti capita di stare bene con una donna, perché una parte del tuo cervello pensa che la natura ti ha fatto così proprio per questo, per cui non dovresti stupirti troppo che funzioni; ma con lui, no. Con lui è un miracolo se ci riusciamo, e che sia così bello, sopratutto, perché quando si spinge – e non sento più solo la spinta, sento lui fino in fondo, che è una cosa che se mi fermo a pensarci forse mi spavento anche ma, siccome non sto già più pensando, è bella da morire – è una scossa elettrica lungo la schiena, nella pancia, fino alla punta delle dita dei piedi che mi si arricciano e ho voglia di mordere qualcosa.
Lo sento che ansima, Chakuza non parla, sono io quello che chiede. Di più, Peter, cazzo, più in fondo e lui esegue, perché quello della mia voce è l'unico canale che sente al momento.
Stringe la presa sui miei fianchi e mentre io mi spingo indietro, lui mi tira a sé, così che ogni volta che spinge, arriva più in fondo, più forte, è più bello e io potrei morire qui ed ora per quanto mi esplode il cuore, e per il fatto che ve lo racconto anche, e non dovrei.
E' una cosa nostra, cazzo, ma è bella e voi dovete saperla. Dovete saperlo voi e devo ricordarlo io mentre in piedi contro quella porta, con le mani strette e gli occhi serrati, cerco di tenere a mente che in passato io e Chakuza siamo stati bene, che c'è stato un momento – quello – in cui non eravamo solo un fottuto casino.
In quella cucina, su quel piano di legno, io volevo lui e lui voleva me in un modo che comprendeva anche Bill, forse, ma non ancora così tanto da farmi del male. Eravamo felici, cazzo. Lo eravamo, io lo so, ed è il motivo per cui non posso davvero odiarlo. Non odi la persona che ami, nemmeno quando quella viene a casa tua a dirti che tutte le speranze che avevi riposto in lei non sono bastate a farla restare.
Vedo l'opuscolo a terra, prima di gettare gli occhi al soffitto perché Chakuza ha fatto una roba che, non lo so, non so nemmeno cos'era, ma si è mosso in un modo che ha toccato cose che non pensavo di avere, “Peter, qualunque cosa sia, rifalla,” chiedo, serrando le dita sotto le sue sul tavolo.
Lui si tira fuori per rientrare e quando lo fa vedo le scintille. Non mi accorgo che mi lascia la mano, non mi accorgo nemmeno che mi accarezza tra le gambe, sono stordito. La natura ha tolto a quest'uomo molte cose, ma adesso mi è chiaro cosa gli ha lasciato. Devo ricordarmelo quando lo offendo la prossima volta.
Chakuza mi accarezza per tutta la lunghezza come se non ci fosse un domani e io sento quello, ma sento anche lui che si muove, la sua voce e il respiro caldo che mi sfiora la schiena e il collo, il tutto un po' confuso dalla beatitudine che mi avvolge come una nube.
Chiudo gli occhi e non c'è niente che non vada. La cucina, la morte di Bushido, le informazioni sul suo assassino che ancora non mi è riuscito di trovare, tutto sparisce nel movimento delle spinte di Chakuza, nel rumore di noi due che cerchiamo di non fare l'uno più rumore dell'altro perché fare sesso sì, ma urlare anche no. Gli vengo fra le dita e mi perdo l'attimo in cui viene lui. Ora che ci penso, un po' mi dispiace non avere memoria di quell'istante. So che mi piacerebbe averla.
Quando apro gli occhi sono di fronte alla mia porta e dall'altra parte non sento più niente. Mi sono perso anche il momento in cui se n'è andato; forse è un bene, forse davvero l'avrei fermato e non posso permettermelo. Mi passo una mano sugli occhi e rimango lì ancora un po', immobile perché sento l'eco di noi due che ridiamo accasciati sull'isola della cucina in casa di Chakuza dandoci dei cretini per essere in piedi, ansimanti e svestiti in mezzo alle patate e ai pomodori.
L'unica cosa che mi consola, e forse è per questo che alla fine non piango, che alla fine stringo ancora il pugno e a quel pensiero felice mi aggrappo come se ne andasse della mia vita, è che se non ha funzionato, non dipende da me. Forse non dipende nemmeno da lui, però, perché s'è solo innamorato e io lo sapevo già da prima che era un gran coglione e che due cose insieme, la sua testa, non le avrebbe sapute gestire. Ho provato lo stesso, però – perché se non provi non puoi mai sapere – e questo è quello che mi resta.
Un ricordo felice.

Bookmark and Share

Black Eyed

di tabata
La prima volta che ho fatto a botte avevo quattordici anni.
Non mi ricordo bene per cosa, ma quasi sicuramente c'era di mezzo una donna. All'epoca sarà stata una fidanzatina o qualcosa del genere, ma vale comunque. Quando due uomini decidono di mettersi le mani addosso, generalmente è perché uno dei due si è preso troppe libertà con la donna dell'altro, di qualunque donna si tratti: fidanzata, madre o sorella. Si può fare a botte per un centinaio di altri motivi diversi, naturalmente, ma non le tiri mai a qualcuno con la stessa convinzione, la stessa rabbia e la stessa violenza come quando pesti uno perché ti ha toccato la donna. E' matematico.
E' una questione di istinto primordiale, credo. Un qualcosa di legato alla funzione protettiva del maschio del branco o robe simili; o forse, in realtà, è perché la roba tua non deve toccarla nessuno e, anche se ovviamente poi fai di tutto per convincere la tua donna che sei uno di mentalità aperta e che sei per l'indipendenza e che certo, sì, lei è un individuo capace di prendere le sue decisioni e palle varie, poi alla fine – scava, scava – se qualcuno ti chiede perché hai menato quello che le ha fatto un complimento più pesante degli altri, la tua risposta è che lei è tua, in un modo che di romantico – del tipo “sei la donna della mia vita” – non ha proprio niente, ed è più un fatto di possessione. E da questa cosa non si scampa mai, nemmeno quando sei uno ragionevole che generalmente prima di prendere a sberle qualcuno magari ci parla.
Io, per dire, non amo fare a pugni, non mi è mai piaciuto, però le poche volte che l'ho fatto è stato per colpa di una donna; o meglio, visti i recenti sviluppi, di una persona che amavo. Non si è mai trattato di altre motivazioni, perché in altri casi, a mio avviso, non ne vale la pena. Magari m'incazzo; anzi, m'incazzo di sicuro perché io m'incazzo sempre, ma a quel punto distruggo mobili, non persone. Io sono fatto così. Se però di mezzo c'è una donna, allora la credenza si salva e sei tu quello che le prende. Non guardo in faccia nessuno. Ricordo che una volta, ero ancora in Austria, all'uscita di una discoteca nella quale ero stato trascinato contro la mia volontà e con la sola, palese, sicurezza che dopo avrei scopato, un tipo, uno di quei ragazzetti deficienti e pieni di soldi che il fine settimana vengono a farsi belli sulle piste da sci con i soldi di papà, ha preso per il culo prima me – e già mi giravano i coglioni – e poi ha detto qualcosa alla mia ragazza. Qualcosa che non ricordo, e che forse non ho neanche sentito completamente, ma siccome c'entravano lei e lui insieme e non era gentile, lui è finito in terra un attimo dopo. Io sono piccolo, ma non sono un fuscello e non ho fatto palestra per farmi bello davanti allo specchio da solo. E' una questione di sopravvivenza, la mia, e di spaccarti la faccia se ti azzardi a mancare di rispetto a me o alla donna che mi porto dietro. Peggio ancora se fai entrambe le cose nello stesso momento. Di quella serata so solo che al tipo ho spaccato il naso e che gli avrei spaccato molto di più se i miei amici non mi avessero portato via di peso. E non c'entra che poi con quella tipa io abbia rotto si e no quarantotto ore dopo, perché il sentimento che ti lega alla donna in questione aumenta solo, magari, la rabbia che ci metti nel reagire, ma che si tratti di una relazione di due ore o di nove mesi, reagisci comunque.
Ecco perché quando quattro mesi fa Bushido ha suonato alla mia porta, io l'ho aperta e lui mi ha massacrato di botte, ho capito perfettamente le sue motivazioni. Non che per questo non mi sia difeso – visto che le sue motivazioni erano motivazioni di merda – però le ho capite, cioè posso immaginare il ragionamento che ci stava dietro, ecco. E la sensazione che ho provato dopo che ci eravamo pestati senza di fatto risolvere nulla, era una sensazione che conoscevo bene e che, in un certo senso, mi aspettavo e volevo. Quando Bushido è tornato dalla morte, io lo sapevo che prima o poi saremmo arrivati a pestarci, perché io avevo Bill e lui pensava che Bill fosse ancora suo. Era logico che ci saremmo affrontati in questo modo perché parlare non era concepibile in una situazione simile. E poi chi voleva parlare? Lui no di sicuro e io nemmeno. Così quando ha chiuso quella porta con un labbro spaccato e io mi sono tamponato l'occhio nero, ero perfettamente consapevole di ciò che era successo, di come mi sentivo in quel momento e di come mi sarei sentito nei giorni a seguire perché anche questo rientra nell'istinto primordiale di prima. Ci eravamo sfogati, avevamo chiarito le nostre posizioni – le avevamo anche un po' ufficializzate – e ora potevamo pure cominciare a pensare a come finire questa storia una volta per tutte. Che poi, da lì alla fine – che nemmeno vediamo ancora, per altro – ce n'è di strada da fare, ma non importa. Importa però che ci siamo pestati, è una questione d'orgoglio, no?, qualcosa del tipo che lui voleva farmi sapere che quella era roba sua e io volevo fargli sapere che col cazzo che lo era. Ma poi non è che la questione si è chiusa, mi seguite?
Con Fler, adesso che sono appena uscito da casa sua, bendato e dolorante, la cosa è un po' diversa. Non è che non mi aspettassi le botte – anche per uno che ha difficoltà a capire al volo i sentimenti altrui come il sottoscritto era piuttosto prevedibile che Fler si sarebbe incazzato – quello che non mi aspettavo è come mi sento, che non ha niente a che vedere con come mi sono sentito quando, il giorno di Bushido, ho visto la porta chiudersi e solo allora mi sono permesso di perdere i sensi. E non so, esattamente, quale delle due sensazioni sia la peggiore. Bushido mi ha pestato per difendere qualcosa che, secondo lui, gli apparteneva; Fler perché quel qualcosa che, secondo lui, mi apparteneva l'ho lasciato andare.
E lo capisco ora che la porta si è chiusa e lui ci si è appoggiato senza fare un rumore, ma facendola tremare un po', così che l'ho sentito. E vorrei appoggiarci sopra la mano, sperare che ne senta il calore ma non lo faccio, perché questo è esattamente uno di quei momenti in cui devo evitare di fare un danno sull'altro, come mio solito. Chakuza, mi dice sempre, tu hai due problemi: non solo crei casini, ma poi nel tentativo di rimediare, ne crei degli altri, e per rimediare a quelli ne crei ancora così che il danno rappresentato dalla tua persona si moltiplica in maniera esponenziale all'infinito e nessuna radice quadrata di scuse potrà mai completamente estinguere il danno originale. E' un'esclamazione complicata, ma Fler ne tira fuori spesso quando parla di me perché in effetti io sono una persona complicata per gli altri. Così se io adesso appoggio la mano sul legno della porta e lui per caso la sente, sicuramente peggioro la situazione. Non so come, ma la peggioro. Mi allontano dalla porta e anche da casa sua, un passo alla volta perché non mi reggo in piedi e perché non riesco a fare di più. Forse spero che se vado piano, lui avrà il tempo di spalancare la porta e fermarmi, anche se sarebbe una scena da romanzetto rosa che non so se davvero voglio e, comunque, anche se mi fermasse, che cosa mi direbbe? Che cosa potrei dirgli io? Forse è proprio questo che mi fa sentire strano, che abbiamo chiuso una questione e quindi pestarci – anzi farmi pestare ancora – non servirebbe a molto perché poi dovrebbe di nuovo mettermi dei cerotti e poi dirmi di andare e io andrei, mi fermerei sulla porta ancora un po' a sperare che la riapra e a chiedermi che cosa cambierebbe se lo facesse. La verità è che non c'è niente da cambiare. Non è che pestandomi potesse o volesse cambiare le cose, mi ha pestato perché me lo meritavo. Punto. Fine. E non c'è più niente.
C'è che abbiamo avuto una cosa, io e lui, e poi Bill è tornato e quella cosa andava chiusa perché sennò ci avremmo perso la testa tutti, e andava chiusa con la mia faccia piena di lividi. Era l'unica soluzione possibile, penso. Non era una questione di orgoglio, né di chiarimenti, né di mio, tuo o che so io. Il suo pestarmi non era un modo di fare il punto della situazione e continuare, era metterci un punto e basta. Il che significa che per un po' io e Fler è meglio se non ci vediamo, forse è meglio se non ci vediamo per molto più di un po' perché non ci pesteremmo, né faremmo proprio niente, ed è questo che è agghiacciante: che io e Fler qualcosa abbiamo sempre fatto, ma chiusa questa cosa, non c'è più niente da fare per me e per lui. Per questo mi sento strano, perché non si è sfogato nessuno – non mi sento più leggero e di sicuro non ci si sente lui, io credo – e tutto è rimasto uguale a prima, solo che lui sta un po' più male e io sono un po' più solo.
Mentre scendo le scale ripenso a questa situazione di merda e a come ci siamo finiti. Voglio dire, come ci siamo finiti tutti, dal primo all'ultimo, non solo io e Patrick. E' una di quelle situazioni degenerative che tu non ti accorgi davvero che ti ci trovi in mezzo e che sta peggiorando, e quando (o se) lo fai, è già troppo tardi per rimediare e non puoi fare altro che startene lì in piedi ad osservare l'onda che monta, diventando sempre più alta, ed aspettare che si abbatta da qualche parte, così almeno avrai un'idea dei danni che farà; magari non potrai riparare niente, ma almeno tutto ti sembrerà più chiaro. 400.000 morti, per dire. Un numero preciso. Ora siamo proprio a questo punto, a quando cioè l'onda si è schiantata sulla costa, spargendo casette di legno e palme e morti da tutte le parti. Un sacco di corpi, per altro. E tu sei lì in piedi sulla spiaggia, dopo che l'onda si è ritirata, e pensi: ok, era questa la conseguenza, ma che diavolo avremmo potuto fare tutti quanti?
Quando Bushido è morto, e lo capisco soltanto adesso – magari mancavo solo io all'appello, magari è una roba che tutti gli altri hanno capito il giorno dopo ma io ovviamente no –, a noi è venuto a mancare qualcosa, che non era nemmeno lui ma quello che lui rappresentava. Eravamo tutti quanti uniti perché lui faceva da collante, il che non vuol dire che senza di lui ci siamo stati tutti sulle palle, ma solo che una volta lasciati a noi stessi, ci siamo guardati intorno e ci siamo chiesti che cavolo dovevamo fare tra di noi, senza di lui a credersi Dio sceso in terra di Germania. Non lo sapeva nessuno. Però ci abbiamo provato, a rimanere noi, intendo, noi come gruppo, noi come persone, a ricreare quello che era stato anche se Bushido era morto e Saad pure. Sembrava che da un momento all'altro quello che eravamo dovesse disperdersi solo perché questi due non c'erano e invece non potevamo lasciare che succedesse perché eravamo tutti parte di un gruppo e distruggere il gruppo probabilmente avrebbe distrutto noi. Ci siamo ripresi per non crepare con il re, ed è stato questo a dare il via alla reazione a catena.
Se non ci fossimo intestarditi nel tenerci insieme, nell'aggrapparci tutti a quello straccio di noi stessi che era rimasto e non s'era perso con il cadavere di Bushido, ci saremmo allontanati. Se non ci fossimo voluti bene – e cazzo, è vero, ci vogliamo bene. E non solo io e Bill, io e Fler, Fler e Bill e tutte le combinazioni principali di questa cazzo di lotteria, ma anche Eko e Cassandra e Tom e tutti. Ci vogliamo bene tutti, per proprietà transitiva e per colpa di Bushido, anche –, senza tutto questo affetto generale, io e Bill saremmo stati capaci di dimenticarci a vicenda dopo quel pomeriggio, o almeno sarebbe stato più facile tenersi lontani e non passare le giornate a guardare lo schermo del cellulare, chiedendosi se mandare un messaggio oppure no. E Fler non sarebbe rimasto con me, sia per me che per spingermi tra le braccia della principessa dove non avevo il coraggio di andare. E può sembrare una buona cosa perché io senza Bill significa Bushido con Bill. Significa Fler in tour con Sido, e cioè non con me, significa niente ripensamenti, niente bugie e io che forse torno a casa e me ne sbatto di questa città di merda. Significa Bushido che torna e trova meno di quanto ha trovato adesso – non ci sarebbe stato più nessuno – ma anche nessuno tsunami e nessun morto, che forse era meglio, non lo so. Noi però non lo sapevamo. A raccontarlo così sembra semplice e sembra assurdo che nessuno di noi immaginasse, dico dopo il ritorno di Bushido, non certo prima – nessuno poteva immaginarsi il ritorno dal regno dei morti –, ma in realtà non è così. Quando Bushido è tornato e io avevo Bill, e avevo Fler, non mi sono reso conto di dove tutti stavamo andando a parare. Quando ho visto Bushido ho pensato, sì, che ce le saremmo tirate, ma non cosa significasse. Quando Bill mi ha mollato e poi è tornato, doveva saperlo che era un gran casino questo qui, ma non sapeva quanto fosse enorme e non lo sapevo nemmeno io, che pur avevo più informazioni di lui. Insomma, quello che sto cercando di dire, mentre le scale di questo palazzo sembrano non finire mai e a me fa male tutto quanto, anche ossa che non pensavo di avere, è che per quanto sia immensamente ovvio che a furia di lasciarci e prenderci, ci saremmo fatti del male, non è stato chiaro e lampante finché in effetti non ci siamo trovati per terra con un labbro rotto e sanguinante – metaforicamente parlando e non. Mentre scendo l'ultimo gradino di questa scala infernale e penso a dove ho messo la macchina, mi viene anche in mente che in tutto questo casino, il maggior numero di vittime lo abbiamo fatto io e Bill. Diciamo che io occupo la prima posizione e lui la seconda, anche se lui annovera pure me fra i suoi cadaveri. Il punto è che con tutti i se e i ma che potrei elencarvi uno ad uno: se non ci fossimo baciati, se Fler non ci avesse fatti tornare insieme, se non avessimo avuto una storia, se lo avessi lasciato andare quando Bushido è tornato, se non me lo fossi ripreso quando lui è tornato da me, se, se, se... non cambia un cazzo, perché è tutto successo, quindi non serve nemmeno pensarci. Siamo in una situazione di merda e ce la teniamo.

*


Adesso vorrei solamente tornare a casa, buttarmi sul letto e rimanerci finché non mi sembrerà insopportabile starmene lì disteso. Allora forse darò fondo al frigorifero e cucinerò per ore mentre ragiono su quello che è successo e, soprattutto, su come girerà il mondo da qui in avanti, che è una cosa che naturalmente ho già intuito ma ho bisogno di pensarci a lungo prima di afferrarla. Non riesco ad immaginare la mia vita senza determinate possibilità, tipo quella di telefonare a Patrick se mi gira di uscire, per dire.
E' quello che mi succede sempre quando qualcosa cambia o deve cambiare, io non riesco ad immaginarmi cosa succederà finché in effetti non succede. Non sono particolarmente creativo, in questo senso, anche se è brutto da dire per uno che fa musica e, se non la facesse, di certo farebbe il cuoco. Non è ovviamente una questione di concetto: lo so che cosa cambierà nella mia vita ora, solo che non so come. E' una sensazione strana perché il mio cervello è consapevole del cambiamento ma non lo ha metabolizzato; Patrick che non fa più parte della mia vita è un'informazione di cui dispongo ma che non ho esattamente archiviato per quella che è. Qualche anno fa avrei scrollato le spalle, in attesa che la consapevolezza prima o poi arrivasse. Ora so che cosa succede quando poi arriva, so che un giorno alzerò la testa, capirò e dovrò ricomprare i mobili del salotto, so che starò male rendendomi conto di tutto quanto insieme. Quindi mi preoccupo, e non voglio, vorrei aver realizzato tutto già mentre scendevo le scale di casa di Patrick, ma non era possibile. Sono troppo stordito e sono anche troppo me stesso.
Naturalmente di tornare a casa non se ne parla, però. Non arrivo neanche a metà strada che Bill mi chiama sul cellulare ed è in una di quelle serate in cui è andato tutto storto, anche se probabilmente non stiamo parlando nemmeno della metà di cosa è successo a me. Contrariamente a quanto si pensa, Bill non è così difficile da gestire in generale; funziona a coccole, quindi fintanto che gliene fai, lui non è un problema. A volte basta davvero telefonargli – come quando sta lavorando lontano da casa – e lasciarlo parlare per delle ore. Gli piace raccontarti la sua vita, gli piace essere ascoltato e renderti partecipe, come se dovesse sostituire con la sua voce l'assenza della sua presenza fisica. Così quando è lontano e gli telefoni prima che lo faccia lui, Bill è contento, si sente cercato. In realtà non gli basta altro. Tranne che in giornate come questa, dove magari ha avuto da ridire con David o è andato storto qualcos'altro e allora non importa cosa gli dici, quali problemi tu abbia o se tenti di consolarlo: lui ha bisogno che tu sia proprio lì dov'è lui, che lo abbracci, lo baci e che tu sia fisicamente partecipe della sua disperazione. Così cerco di spiegargli che potremmo vederci domani mattina – mi serve almeno il tempo di far sgonfiare i lividi, – anche prima di colazione, se vuole, anzi, gliela preparo io, ma neanche la prospettiva di essere svegliato con i waffle riesce a convincerlo che non è il momento di farmi andare di corsa là. Che poi, se fosse la diva capricciosa che tutti si immaginano, sarebbe anche più semplice mandarlo a quel paese e dirgli: “No, Bill, guarda, stasera proprio no. Vengo domattina appena ti svegli,” perché sicuramente, piagnucolando, mi irriterebbe molto di più. Il problema, invece, è che non lo fa. Alla fine, dopo averci provato un po', mi dice solo “Okay”, ma con una voce che mi fa credere gli sia successo veramente qualcosa di brutto e siccome io sono da una parte asservito come non sono mai stato per nessuno e dall'altra traumatizzato da quel tono – perché era quello che usava i primi mesi dopo la morte di Bushido e non sapevo mai se, riattaccando la cornetta, avrei trovato il suo nome nei necrologi del mattino dopo – rinuncio al mio proposito di andare a morire sul letto di casa mia. Probabilmente lui lo fa apposta e io sono un cretino, ma non mi riesce davvero mai dirgli di no. Anche se in questo caso non so cosa inventarmi per questi lividi.
Il punto è che quando poi mi dice che mi aspetta e lo sento letteralmente saltellare dall'altra parte della cornetta, io mi dimentico che nemmeno dieci minuti prima volevo soltanto murarmi vivo tra le pareti della mia cucina e invece di svoltare a destra ad un isolato da casa mia, faccio inversione e mi dirigo praticamente dall'altra parte della città.
Quando apre la porta di casa, Bill è pronto a saltarmi in braccio e vomitarmi addosso tutte le ingiustizie della sua esistenza, lo so perché lo conosco e perché d'altronde mi ha chiamato per questo, ma si ferma sulla soglia non appena mi vede. Mi sono dato un'occhiata nello specchietto retrovisore: ho un occhio viola e gonfio, il labbro spaccato in due punti e quello che credo sia un ematoma sulla guancia. Poi naturalmente c'è il cerotto che Fler mi ha messo in fronte e che è grande abbastanza da prendermi parte della testa sotto al cappellino.
“Peter, che diavolo ti è successo?” Esclama sconvolto, sgranando gli occhi.
E io non so esattamente cosa rispondergli, perché venendo qua ci ho pensato e qualsiasi scusa mi sia venuta in mente non reggeva nemmeno nella mia testa.
“Fammi entrare,” dico soltanto ed entro prima che sposti il braccio. Lui si scosta e chiude la porta, seguendomi con lo sguardo finché non mi lascio andare sul divano e mi scappa un sospiro, come se non stessi seduto da ore, quando invece ho guidato fino a qui. Ho voglia di stendermi, mi gira la testa.
“Ma stai bene?” Mi chiede lui e mi si avvicina, guardandomi per dritto e per rovescio, come se non credesse che sono davvero in questo stato. “Vuoi che prenda la cassetta del pronto soccorso? Ti sei disinfettato?”
Io socchiudo gli occhi alla scarica di domande e intanto gli indico il mega-cerotto e in generale anche il fatto che non sanguino, sono solo a pezzi.
Lui si sistema meglio per terra e mi accarezza il viso, in quei due o tre centimetri in cui Fler ha avuto la grazia di non pestarmi. Sento la pelle che tira ovunque e vorrei dirgli di non toccarmi ma sto zitto perché se parlo c'è il rischio che voglia delle spiegazioni – che vorrà, naturalmente, ma magari finché non parlo io, non parla nemmeno lui –, così faccio solo una piccola smorfia quando sfiora appena uno dei lividi e, quando la faccio, mi viene automatico farne un'altra perché qualsiasi movimento è drammatico. Mi fanno male anche le dita dei piedi e non so bene perché.
Quando guardo Bill, mi rendo conto che non dev'essere affatto facile nemmeno per lui, perché questa situazione precisa scatena ricordi che non gli hanno mai fatto del bene. Potrei ripetere a memoria tutte le volte che mi ha raccontato di come Bushido arrivasse piegato in due a casa sua a spargere sangue sui divani da migliaia di euro e come ha imparato a fare cose che non si sarebbe mai sognato di dover fare. Lo vedo dai suoi occhi che nel cervello gli sta passando ogni genere di scenario, sono gli stessi occhi che aveva quando è passato a trovarmi il giorno che è stato Anis a pestarmi, e mi ha trovato con la borsa del ghiaccio in testa. “E' stato di nuovo lui?” Mi chiede alla fine.
Per una volta mi domando cosa succederebbe se mentissi, e poi capisco che sarebbe una cazzata. Innanzi tutto perché Bill lo scoprirebbe nel giro di un paio d'ore – anche se non parlasse con Bushido, cosa di cui dubito fortemente, parlerebbe con David che si sente talmente in colpa per avergli mentito finora che sarebbe capace di immolarsi personalmente. E anche se il manager non sa che è stato Patrick a menarmi, sa sicuramente che non è stato Bushido perché sa sempre ogni cosa che lo riguarda, ormai – e poi perché non ha senso fargli pensare che a Bushido ha dato di nuovo di volta il cervello ed è venuto fino da me a pestarmi: Bill ha fatto la sua scelta, e Bushido sa perfettamente che in questa decisione contavo quanto lui. Non avrebbe motivo di pestarmi come la prima volta. Di motivi per picchiarmi Patrick ne aveva, invece, ma Bill questo non può saperlo e io non me la sento di dirglielo adesso. Forse perché avrei dovuto farlo prima, e adesso e tardi; o forse perché ho appena perso qualcosa, e quel che ne resta voglio tenermelo per me, finché posso, che ad aprire bocca e raccontare mi sembra di darlo via. Saperlo, tanto, non gli serve, perché non l'ho mai tradito, perché mentirgli non lo danneggia, e con Patrick io non ho mai tolto niente a lui.
“No, non è stato lui,” ammetto.
“E allora chi?”
Medito se dire che sono caduto dalle scale, ma dovrei essere rotolato giù da un tempio Maya per essermi fatto così tanto male. Potei dirgli che mi hanno pestato per strada, anche, ma non ci riesco. Un conto è omettere la verità, un conto è guardarlo in faccia e dirgli che un branco di strafatti mi ha pestato a sangue per i cinquanta euro che ho nel portafoglio.
Lui mi guarda, e forse un po' spera che gli racconti com'è andata, ma non insiste.
E qui mi torna in mente una cosa che mi ha detto Fler il giorno che abbiamo lasciato il ristorante elegante dopo aver incontrato Greta. Secondo lui le donne del ghetto non sono donne come tutte le altre, ma hanno una consapevolezza tutta diversa del loro ruolo. Quando me lo ha detto, io gli ho risposto che era una cosa sessista e anche un po' retrograda pensare che le donne abbiano un certo ruolo e che devono pure mantenerlo con certi atteggiamenti. Lui quel giorno mi ha guardato e poi mi ha detto “Tu non capisci proprio un cazzo, Chakuza” e me lo ha detto in un modo totalmente diverso dal solito, tanto che ho intuito che stavolta era serio. Quello che voleva dire quando mi ha spiegato questa cosa, io lo capisco adesso qui con Bill. Apro bocca per rispondergli – non so cosa, ma ormai ci sono abituato – ma ho un colpo di tosse e allora mi ricordo che ho la gola secca da far paura.
“Ti prendo qualcosa da bere,” sospira lui alla fine, e i suoi occhi cambiano espressione proprio lì davanti a me. Un attimo prima sperava che rispondessi, l'attimo dopo ha rinunciato a sapere. Ma non è arrabbiato, più rassegnato direi. Come se in fondo in fondo una risposta non se l'aspettasse proprio, come se fosse un percorso collaudato quello di me che arrivo con un segreto evidente e lui che prova a chiedere ma non ottiene niente. E' una cosa che, per altro, mi sembra non riguardi soltanto me e lui o lui e Bushido, ma anche altra gente che io non conosco e non conosce nemmeno lui. Una specie di tradizione, memoria storica, retaggio culturale. Non lo so. Fatto sta che forse io non sono un gangster e sono fuori posto, ma Bill il suo ruolo ce l'ha, gliel'ha dato Bushido; e forse è con Bushido che Bill ha imparato ad essere una donna del ghetto, ma quel ruolo, quel modo di essere, gli è rimasto incollato addosso al punto che anche se arrivo io – che canto, che sono anche un cuoco, magari, ma di certo non sono un gangster – lui comunque si comporta come deve.
“Aspetta.” Prendo Bill al volo mentre si alza e me lo tiro addosso. Lui non fa nessuna resistenza, si lascia andare tra le mie braccia e mi appoggia la testa su una spalla, nascondendo il viso. “Non ho molta voglia di parlarne. Possiamo rimandare questa discussione?” Gli chiedo, posandogli un bacio sulla testa.
“Non importa, non devi dirmelo per forza,” fa lui. E non è davvero arrabbiato, né triste. E' qualcosa che non è mai stato fino a questo preciso momento perché non lo abbiamo mai avuto un momento così, e non so definirlo. Non alza la testa, sento solo le sue labbra muoversi contro il mio collo mentre si stringe nelle spalle. “Anche Anis non mi diceva mai niente.”
Ecco cosa voleva dire Fler; che il ghetto lascia un'impronta ben precisa su tutte le persone che vi sono coinvolte, e sulle sue donne l'impronta è che loro sanno esattamente come rimettere insieme i pezzi degli uomini che si scelgono, anche quando questi tornano in stato pietoso e non vogliono raccontare cos'è successo. Bill con me l'aveva fatto anche la prima volta, ora me ne rendo conto. Mi ricordo come ha recuperato la cassetta del pronto soccorso, come sapesse già esattamente che cosa fare, come sapesse già esattamente che era stato Bushido. Aveva già capito tutte le meccaniche o tutte quelle che gli serviva sapere. Anche adesso, anche se gli mancano dei particolari. Eppure non chiede, perché sa di non doverlo fare. Forse con Bushido questa cosa aveva più senso, perché lui forse avrebbe avuto da nascondere cose che col ghetto c'entravano davvero, ma non è questo il punto.
Questo ruolo, questo di raccogliere i pezzi una volta che gli altri si sono mossi, hanno fatto e disfatto, non impedisce a queste donne – non impedisce a Bill – di avere più forza di tutti gli uomini messi insieme. In fondo questo ragazzino ha superato la morte di un uomo che amava più della sua stessa vita e ha sparato in fronte ad un altro essere umano. Pensare che le donne del ghetto abbiano un certo ruolo potrà anche sembrare sessista, retrogrado e anche stupido considerando che Bill non è una donna, ma lui ha capito più cose di questo schifo di situazione di quante ne abbia capite io. E ne sa più di me, sempre, perché lui è nel posto giusto e io invece non so nemmeno dove sono. Forse è lui che dovrebbe fare a botte per me, forse finirebbe anche per uscirne vivo.
Me lo stringo addosso e lui mugola un po', nascondendo il viso con un sospiro. “Dimmi solo che non c'è di mezzo qualcosa di grosso,” mormora esasperato. Che immagino significhi qualcosa come Saad, quindi posso ragionevolmente rispondere di no.
Ho fatto un gran casino, senza dubbio, ma di cadaveri nel fiume, stavolta almeno, io e Fler non ne abbiamo buttati.

Bookmark and Share

All I Know Isn't Always The Truth

di lisachan
Sono solo, triste e mi sto annoiando. Se avessi ancora dieci anni – o se qui con me ci fosse Tomi, che in qualche modo il miracolo lo fa sempre e riesce a riportarmi a quando ero piccolissimo solo standomi accanto – metterei il broncio e piagnucolerei un po’, attaccandomi alla prima maglietta con dentro qualcuno che incontro e cominciando a strattonarla per farmi portare fuori ed offrire un gelato, una caramella o comunque qualcos’altro di altrettanto dolce che possa ingannare i miei sensi fino a farmi credere che sia tutto a posto e stia andando tutto bene, anche se poi non è vero, fosse solo per una mezz’ora.
Purtroppo non ho più dieci anni e qui in casa di Peter non c’è Tomi, quindi non posso neanche fingere di averli. Tra l’altro, anche se decidessi comunque di mettere il broncio in barba all’età ed ai passi avanti che dovrei aver fatto negli ultimi due anni – perché tutti si aspettano da me che sia cresciuto, e io non posso certo deluderli – non ci sarebbe nessuna maglietta da strattonare e nessuno che mi ricoprirebbe di attenzioni, perché come dicevo prima sono completamente solo. E triste. E mi sto annoiando.
Il motivo per cui sono solo è che apparentemente oggi Peter fatica a restare nello stesso ambiente ristretto con me per più di dieci minuti consecutivi. E il fatto che non ci riesca, peraltro, è il motivo per cui sono triste. Io e Chaku abbiamo forse avuto dei problemi di comprensione, in passato, col ritorno di Anis e tutto il resto che ci ha mandato entrambi fuori di testa, ma mai, mai l’ho visto tremare nella sua stessa pelle, come desiderasse uscirne e scappare il più lontano possibile com’era mentre, in macchina, mi portava qui dopo essere passato a prendermi dagli studi dell’EGJ.
Il motivo io non lo so. E fatico ad ammettere che è colpa mia se non lo so, è colpa mia se io e Peter ci stiamo allontanando, perché ultimamente sono stato così perso dentro di me per cercare di capire cos’è che mi stesse succedendo – il tremore quando pensavo ad Anis con qualcun altro, la paura ridicola per questa cosa che nemmeno dovrebbe riguardarmi, l’immagine del suo sorriso rilassato riproposta dentro la mia testa come in una telecamera a circuito chiuso senza che io potessi fare niente per scacciarla via o nasconderla, almeno per un po’ – da dimenticarmi completamente di tutto il resto. Fatico ad ammettere che è colpa mia perché non voglio ammettere di aver considerato Peter esattamente uguale a tutto il resto. E fatico ad ammettere di averlo considerato così perché in nessun caso mi va di dire che è vero, quando Anis entra nel mio campo visivo mi ruba il cervello, tutto, non ne lascia libero un centimetro. Cambia il ritmo cui batte il mio cuore, cambia i colori e le forme di ciò che vedo, tutto diventa sfumato e indistinto e scuro mentre lui è l’unica cosa chiara e precisa che riesco a mettere a fuoco.
Mi fa rabbia che abbia questo potere ancora adesso. Mi fa rabbia che non l’abbia mai perso, mi fa rabbia non essere mai stato in grado di toglierglielo, perché non l’ho mai davvero voluto. Mi fa rabbia essere ancora il ragazzino che ero quando mi sono innamorato ed ho cominciato ad assillarlo perché mi considerasse. Mi fa rabbia non essere mai cresciuto davvero. Perché tutti se lo aspettavano da me, perché io volevo farlo, e non ci sono mai riuscito. E vorrei poter dare ad Anis la colpa anche di questo, ma non posso. Posso dargli tante colpe – avermi spezzato il cuore andandosene, aver distrutto i miei sogni restando lontano, avermi devastato la vita tornando – ma dopo un anno io non posso incolparlo perché la mia vita non va avanti. La mia vita ha avuto un mucchio di occasioni per muoversi. E credevo lo stesse facendo. E invece è ancora lì, concentrata sul palmo della sua mano. Come sempre, gli basterebbe stringere per togliermi il fiato. E, forse, fino a un paio di settimane fa io mi crogiolavo nel pensiero che la nostre situazione fosse ancora in bilico. Che io fossi ancora lì, minuscolo, su quel palmo grandissimo, e che prima o poi lui avrebbe stretto la presa.
Vederlo sorridere con Patrick mi ha fatto capire che non sono più fra le sue mani da tempo, ormai. Mi ha poggiato da qualche parte ed è andato avanti e io nemmeno me ne sono accorto, perché stavo lì con gli occhi serrati terrorizzato ed emozionato ad aspettare che le sue dita si chiudessero attorno al mio corpo, e non ho visto che invece lui a stringere la presa non ci pensava più. Non con me, almeno.
Anche il fatto che io qui, adesso, stia a pensare ad Anis ed al fatto che non rappresento più una parte della sua esistenza, è una cosa profondamente sbagliata. Peter mi ha portato qui, a casa sua, è rimasto dieci minuti in casa con me e poi ha detto che aveva voglia di cucinare, ma visto che non c’era niente in casa sarebbe uscito a comprare qualcosa. Ed è scappato due secondi dopo senza neanche darmi un bacio perché si vedeva che faceva fatica perfino a starmi accanto, e io dovrei preoccuparmi di questo, questo dovrebbe essere al centro di tutti i miei pensieri, adesso, e invece io sto qui, solo, triste e annoiato, e penso ad Anis. C’è qualcosa di sbagliato, in me. Qualcosa che io non voglio raddrizzare. E mi sento in colpa a fare una cosa del genere proprio a Peter, perché lui è sempre stato sincero con me – be’, forse magari a parte la questione di quel pestaggio di cui alla fine non mi ha spiegato niente – e dovermi tenere dentro questa cosa perché mi vergogno a dirgliela e perché in realtà non è giusto neanche provarla, è devastante. Io non sono abituato a fare così, io— con Anis io non dovevo mai trattenermi, potevo dire tutto quello che mi passava per la testa. Ed invece ora non posso e non è neanche colpa di Peter. Vorrei qualcuno accanto che potesse dirmi di non preoccuparmi, che non è nemmeno colpa mia, ed allo stesso tempo non lo voglio, perché so che è colpa mia e non voglio sentirmi rifilare balle solo nel tentativo di farmi stare tranquillo, ma Dio mio, non sono sereno da così tanto, così tanto che mi esplode il cuore se ci penso, e voglio un po’ di pace, voglio smetterla di pensare, voglio— basta, non voglio più niente, non ce la faccio a volere qualcosa, sperare nelle soluzioni comporta troppa fatica emotiva. Non ho più energia, in quel senso. Né in nessun altro.
Mi passo una mano sulla fronte e fra i capelli, sospirando. Sono lì che mi stendo contro lo schienale del divano e getto indietro il capo, chiudendo gli occhi e chiedendomi se non potrei, magari, addormentarmi ora e svegliarmi domani scoprendo di aver sognato tutto e che durante la notte Chaku mi ha messo addosso una copertina, così potrei aprire gli occhi e chiedergli “ma che ci faccio qui?”, e lui potrebbe rispondermi “ti sei addormentata mentre chiacchieravamo, Principessa. Bushido è appena tornato da Monaco, dai che ti porto a casa sua”, quando sento la serratura della porta scattare e mi risollevo di scatto, fissando l’ingresso.
Peter si richiude la porta alle spalle con un calcetto, e tiene fra le braccia due sacchi di carta di quelli di un supermercato che non è il solito, segno che probabilmente ha preso la macchina e s’è fatto un giro, già che c’era. Forse per recuperare tempo perché non gli andava di tornare. Mi mordo l’interno di una guancia e provo a sorridergli un po’. La guancia tira, ancora stretta fra i denti, e fa male. Mi si riempiono gli occhi di quelle lacrime minuscole che pungono e bruciano, quelle tipiche di quando ti fai male da solo come uno scemo.
Lui, comunque, del mio sorriso neanche si accorge. La sua testa appare solo a tratti dietro i sacchetti, e in ogni caso non credo mi stia guardando.
- Ehi… - lo chiamo quindi. La voce mi viene fuori affaticata e debole, e me la schiarisco con un paio di colpetti di tosse. – Ehi, vuoi una mano? – chiedo, e faccio per alzarmi, puntando le mani sul divano. Lui si affaccia da sopra le buste e mi guarda come se gli avessi chiesto se per caso non ha visto dove stesse andando il coniglio col panciotto.
- No, faccio da me. – mi dice quindi, tornando a nascondersi là dietro e muovendosi spedito verso la cucina. Io resto lì a molleggiare sul divano per un po’, fino a quando non mi decido a scattare in avanti e mettermi in piedi. Muovo qualche passo incerto di fronte al divano, attorno al tavolino, ed osservo Peter poggiare i pacchi sull’isola e tirarne fuori di tutto, mentre posa alcune cose sul ripiano della cucina e ne conserva altre in frigo.
Mi avvicino piano, quasi con circospezione, guardandolo da sotto in su, che in pratica vuol dire che chino la testa e sollevo gli occhi e spero che lui si giri a guardarmi, lo spero insistentemente per un sacco di minuti, ma lui non lo fa. Perciò io mi avvicino sempre di più, progressivamente, e non mi accorgo che sta tremando, o meglio, me ne accorgo solo all’ultimo momento, che lui stringe la mano attorno a una confezione di panna da cucina e quella si deforma tutta e per poco non scoppia, e poi la sbatte sul ripiano, e sento il ringhio che gli esce dalla gola anche se lui prova a nasconderlo in tutti i modi. E continua a non guardarmi.
- Bill. – mi chiama, la sua voce è dura e tesa come i lineamenti del suo volto, - Che c’è?
- Volevo solo… - balbetto un po’, stropicciandomi l’orlo della maglia, una cosa che in una situazione normale non farei mai neanche sotto tortura, - chiederti se era tutto a posto, e se ti servisse una ma—
- Non mi serve una mano. – taglia corto lui, riprendendo sistemare roba tutta in fila come per una parata dell’esercito e poi voltandosi a recuperare una terrina dallo scaffale dietro, - Te l’ho già detto prima.
- Mh… - annuisco io. Lo guardo un po’, poi guardo qualcos’altro perché guardare lui fa male. – Ed è tutto a posto o no?
Lui resta zitto per qualche secondo, e durante questo periodo di tempo recupera due uova, le rompe e le versa nella terrina. Si volta a cercare una forchetta con cui sbatterle e io continuo a guardarlo e semplicemente lui non è il mio Chaku. Che è una cosa molto stupida e infantile, da dire, quelle cose cui in genere si risponde con un ghigno storto e un “evidentemente non mi conosci abbastanza”, ma è vero, in fondo, mi sento davanti ad uno sconosciuto, in questo momento.
Penso di sfuggita che dev’essere successo qualcosa, per forza, perché lo strappo fra com’era prima e com’è adesso è troppo netto per non essere il risultato di uno strattone di quelli forti. Ma è un pensiero che mi sfiora soltanto, perché poi mi prende l’ansia, che se non ritrovo Chaku – il mio Chaku – e non lo riporto indietro subito, perderò anche lui, e non me lo posso permettere, perché voglio ancora almeno una mano cui aggrapparmi, quindi mi avvicino ancora, e non ci penso se lui trema di nuovo e stringe convulsamente le dita attorno alla forchetta, muovendo la mano quasi con violenza, non m’interessa, lo vedo e non me ne curo, e quando gli poggio la mano sulla spalla e poi mi chino a strusciare il naso contro il suo collo lo sento che c’è qualcosa di sbagliato e che stiamo per fare un errore enorme, ma non riesco a fermarmi perché ho troppa paura che se lo facessi perderei l’attimo, e lui, per sempre.
- Bill. No. – mi dice lui. Ma è orribile sentirsi dire no proprio da Peter, lui che a me non lo dice quasi mai per nessun motivo, figurarsi per il sesso, perciò chiudo gli occhi così forte che vedo le macchie bianche ovunque e mi fanno male le tempie, e lo bacio piano lungo tutto il collo, fino alla mascella, allo zigomo, e poi ridiscendo e cerco le sue labbra, - No. – dice ancora lui, ma è più incerto, Peter è facile, da questo punto di vista, lui è facile ed io sono uno stronzo irresponsabile infantile e viziato e mi odio mi odio mi odio, e quando trovo le sue labbra lui non si tira indietro, mi bacia forse un po’ troppo incerto, sicuramente con meno voglia di quanta non vorrei ne provasse, perciò scivolo fra lui e l’isola, gli accarezzo il viso, gli allaccio le braccia dietro la nuca, approfondisco il bacio, ed è allora che le sue labbra si schiudono del tutto e la sua lingua corre a cercare la mia e mi si schiaccia addosso, e io non sento differenze finché non percepisco la stretta delle sue mani attorno alla mia vita, molto più forte e decisa del solito. E quando apro gli occhi e guardo dentro i suoi e li trovo annebbiati e stanchi e cupi e distanti, capisco che l’ho perso davvero.
Un attimo dopo, la terrina vola sul pavimento ed io sono semisdraiato sull’isola, i gomiti piantati sul ripiano per evitare di cadere all’indietro e Peter che mi si spinge contro e mi si tira addosso baciandomi con forza, mordendomi le labbra quando faccio tanto di allontanarmi per riprendere fiato, mentre una sua mano risale lungo la mia schiena e il mio collo per poi affondare fra i miei capelli e tirare, per costringermi a piegare il capo come preferisce.
Quando poggia entrambe le mani sulle mie ginocchia e mi costringe a spalancare le gambe, sobbalzo appena, spaventato. Lui si tira indietro per impedirmi di mordergli la lingua e gli vedo sulle labbra un’ombra di sorriso un po’ ghignante e un po’ sicuro di sé che non gli riconosco. Sento le sue mani che risalgono lungo le mie cosce ed ho i brividi ovunque quando mi afferra per l’orlo dei pantaloni e li strattona verso il basso. Me li tira via di prepotenza, ed io mi distraggo troppo facilmente con le sue labbra che scivolano lungo il profilo del mio collo, perciò non mi accorgo che sta rinsaldando la presa contro i miei fianchi – e fa quasi davvero male, scommetto che domani avrò due lividi spaventosi e dovrò mettere qualche maglietta lunghissima per evitare che si scoprano quando alzo le braccia – e quando me ne accorgo comunque è troppo tardi, gemo di sorpresa e un po’ anche di dolore perché Peter mi ribalta sul ripiano, costringendomi carponi, e mi tocca attaccarmi al bordo dell’isola per non ruzzolare di faccia per terra. Sbatto un’anca, sono i momenti in cui odio essere così magro. Me ne accorgo solo ora perché non mi ha mai trattato così. Mai.
Mi mordo un labbro e, quando mi accorgo che, nello stare carponi sul tavolo, c’è qualcosa che mi pressa contro una gamba, schiacciata fra il ginocchio e il piede dell’isola, per un attimo fatico a capire cos’è. Però fa male, quindi non riesco a smettere di farci caso, ed è allora che realizzo che è la cinghia della cintura. Che i miei pantaloni sono stati abbassati il minimo indispensabile. Che insomma, sono ancora del tutto vestito, e avrei dovuto capirlo prima perché non sento freddo né il legno plastificato del ripiano contro la pancia, e insomma, era ovvio. Peter non mi ha spogliato.
Peter non mi vuole. Vuole solo sfogarsi. Potrei essere qualsiasi persona, qualsiasi cosa, e per lui non farebbe differenza. Mi viene spontaneo chiedermi se non sia così anche per me. Potrebbe essere chiunque. Voglio solo spegnere il cervello. Perché sono triste, e sono solo, e sono annoiato. Anche adesso.
L’unica cosa che mi distoglie dal dolore della cinghia contro la gamba, è il dolore più acuto che sento quando Peter mi tiene per le ginocchia e, dopo avere indossato il preservativo, entra dentro di me. Senza perdere poi neanche tutto questo tempo a prepararmi. Lancio un mezzo grido fra il sofferente e il sorpreso e getto indietro il capo, inarcando la schiena per reazione. Lui mi tiene fermo per un fianco e si spinge a fondo dentro di me, e prima che io abbia la possibilità di tornare ad accasciarmi sul ripiano mi afferra di nuovo per i capelli e mi tira indietro, con forza, costringendomi ad inarcarmi ancora di più, tanto da farmi quasi male.
Scivolo all’indietro lungo il ripiano e la maglietta mi si alza. La pancia sfrega contro la superficie liscia dell’isola e l’attrito è così forte che si sente un suono scricchiolante e sinistro coperto appena dal mio gemito di fastidio mentre torno a poggiare i piedi a terra e Peter approfitta della mia nuova stabilità per spingere più forte. Mi viene da piangere e ho le ginocchia molli.
Solo quando appoggio i gomiti contro il ripiano e nascondo il viso fra le braccia, lasciandomi andare un singhiozzo strozzato, Peter forse si ricorda che dopotutto sta scopando un essere umano. Le sue dita mi corrono fra le cosce, ma non c’è niente da masturbare. Lui si incaponisce, comunque, perché è testardo – fa male – perché deve avere sempre ragione – fa male che faccia male – perché non vuole arrendersi al fatto che sta facendo una cosa orrenda – fa male volerlo da impazzire – e continua ad accarezzarmi, stringendo la presa ed insistendo così tanto che, alla fine, fosse anche solo per sfregamento meccanico, può gloriarsi di tenere stretta in mano la mia erezione.
Scoppio a piangere fra i gemiti di piacere che germogliano sulle mie labbra, lievi e strozzati. Faccio fatica a respirare, Peter non si ferma, non vuole fermarsi, e non so se, anche volendo, ci riuscirebbe. Tengo gli occhi serrati perché ho la netta impressione che, se li aprissi, mi vedrei crollare il mondo davanti. E sto già abbastanza male così.
Vengo per inerzia, che è lo stesso principio fisico per il quale suppongo venga anche lui. Che non geme, ringhia e basta. Arrabbiato come non l’ho mai visto. Mi si accascia addosso subito dopo, stremato, e non si preoccupa di pesarmi sulla schiena e quindi anche sul petto, impedendomi di respirare agevolmente. Resto lì ad affannarmi, cercando di gonfiare i polmoni e tenermi quanto più possibile sollevato dal tavolo – per chi mi hai preso, Peter? Cazzo, non ti reggo – ma non ce la faccio a chiedergli di spostarsi. E non solo perché sono tutto dolorante. Non ci riesco e basta.
Non so per quanto rimaniamo in questo modo. So che il legno plastificato sotto di me ha tutto il tempo di intiepidirsi e inumidirsi un po’ a contatto con la mia pelle accaldata e sudata, e che solo dopo aver cominciato a trovarlo fastidioso mi accorgo che il ritmo del battito del cuore di Peter è cambiato, s’è fatto più ansioso. Lo sento sollevarsi piantando le mani sul tavolo, ai lati del mio corpo, ed uscire da me con un movimento lento, quasi premuroso. Il primo della serata.
- Dio… - mormora, la voce persa, - Dio, Bill. – mi accarezza piano la schiena, i capelli, il collo, guardandomi da tutti i lati mentre io faccio leva sulle braccia per rimettermi in piedi e non riesco nemmeno a stare dritto, finendo per crollargli addosso un secondo dopo. Lui mi regge per le spalle e continua a mormorare imprecazioni, agitatissimo. – Bill, mi dispiace. Dio, mi dispiace tantissimo, come— cazzo, come stai?
- Non lo so… - biascico, tirando su col naso. Chino il capo perché ho pianto tutto il tempo e devo essere un mascherone orrendo. Non voglio che mi veda. Gli resto appoggiato addosso, però, perché non ce la faccio proprio a reggermi da me, e lui mi sistema tutto, mi ripulisce, mi tira su i pantaloni, mi maneggia come fossi fatto di porcellana, e io mi chiedo dove cazzo eri, Chaku? Dove cazzo eri dieci minuti fa, quando mi servivi così e invece eri un altro?
Mi porta fino al divano, e non mi prende in braccio solo perché suppongo voglia verificare che sono ancora in grado di camminare. Mi aiuta a sedermi comodo, poi si siede al mio fianco, e quando mi allungo a cercare un abbraccio lui mi stringe subito a sé, lasciandomi sistemare contro il suo petto ed accarezzandomi dolcemente i capelli. Piango un altro po’, silenziosamente. Non sono più nemmeno triste, lo faccio perché non sento nulla. C’era qualcosa, dentro di me— c’erano un sacco di cose, dentro di me. Non ho mai pensato di essere una bella persona, ma c’è stato un tempo in cui ero almeno una persona piena. Ora non resta nemmeno quello. Mi sono svuotato, e tiro fuori altre lacrime solo perché sto raschiando il fondo del barile. Finiranno anche quelle, prima o poi. O almeno lo auguro, perché i miei occhi sono stanchi, e bruciano, e non ne possono più nemmeno loro.
- Va un po’ meglio? – mi chiede qualche minuto dopo. Non ha mai smesso di accarezzarmi i capelli. Io annuisco lentamente, strusciando il viso contro il suo petto. Schiudo le labbra e me le inumidisco, prima di parlare.
- Ora me lo dici cos’è successo? – chiedo piano, e lui si irrigidisce subito. Si ferma anche la sua mano, e questa è la conferma definitiva che qualcosa deve per forza essere successo.
Deglutisce, il cuore gli batte forte. Resta immobile e quasi non respira – il suo petto non si alza né si abbassa, o se lo fa io non me ne accorgo, perché è un movimento impercettibile, appena accennato, come avesse paura di farmi scappare respirando troppo profondamente. Resto in silenzio, e in attesa.
- Bill. – sospira quindi lui, - …io devo dirti un po’ di cose.
Sollevo lo sguardo e trovo subito il suo, molto più limpido di quanto non fosse prima. Anche molto più carico, però, e questo mi fa paura. Mi allontano appena e lui non mi trattiene, perciò mi metto dritto e mi siedo più compostamente al suo fianco. Solo per un attimo, perché non ce la posso fare a reggere questa situazione senza darmi un po’ di conforto, almeno da solo, perciò finisce che due secondi dopo ho già sfilato le scarpe e tirato su le gambe sotto il corpo, rannicchiandomi accanto a lui.
Peter mi guarda e si vede che non sa come dirmi quello che vuole dirmi. Vorrei sapergli leggere nella testa per risparmiare ad entrambi questo momento.
- Io e Fler… - comincia abbassando lo sguardo e grattandosi nervosamente la nuca. Cosa c’entra Patrick? – Io e Fler abbiamo avuto una storia, Bill.
In un primo momento, credo di non aver capito bene. Lo guardo con aria interrogativa e lui non fa una piega, ed è lì che comincio a preoccuparmi.
- Cosa stai dicendo? – chiedo quindi, perché mi sembra una follia. E ora voglio che mi dica che scherzava. Pesce d’aprile. Puoi dirmelo, Chaku? Anche se non siamo in aprile.
- Io e Fler abbiamo avuto una storia. – ripete lui, e il suo tono è così colpevole che mi si secca la gola e devo per forza chiedergli se—
- Mentre io e te…?
- No! – torna subito a guardarmi lui, quasi oltraggiato, - No, Bill, no! Voi non… - esita appena, - non vi siete mai accavallati, te lo assicuro. Io e lui siamo stati molto vicini l’anno scorso, prima che tu… intendo, dopo che io e te abbiamo deciso di non vederci più. E, insomma, è durata. Un po’.
- Un po’ quanto? – chiedo, deglutendo a fatica, - Giorni, settimane, mesi?
- Praticamente… - scolla quasi con dolore, aggrottando le sopracciglia, - Praticamente fino a poco prima che io e te ricominciassimo a frequentarci e… sì, be’, insomma. Dopo la morte di Saad.
Faccio un rapido calcolo mentale e mi stupisco da solo di quanto giri bene la mia mente, di quanto sia lucido in questo momento. Comunque stiamo parlando di un sacco di tempo.
- E-- - comincio, ma non ho tempo né modo di finire perché lui mi interrompe con un cenno della mano.
- E poi, - riprende, - anche dopo. Quando è tornato Bushido e tu sei andato a vivere con lui, Bill, io e Fler ci siamo ritrovati di nuovo. E – dice tutto d’un fiato, quasi volesse liberarsi la coscienza il più in fretta possibile. Come quando tiri su scatoloni per interi piani, e gli ultimi gradini te li fai di corsa anche se non ce la fai più a muovere nemmeno un passo. Proprio perché non ce la fai più a muovere nemmeno un passo. – E l’ho lasciato io, Bill, quando tu sei tornato da me. È stato lui… lo so che mi hai detto che non c’è alcun bisogno di dirtelo, ma è stato lui a picchiarmi, quando sono tornato ricoperto di lividi.
Vorrei potergli dire qualcosa, giusto per fargli capire che sono ancora vivo. Il fatto è che non ne sono tanto sicuro nemmeno io.
- Ecco… - balbetto a disagio, scostando lo sguardo, - io—
- Io non ho finito. – mi interrompe lui, e il suo tono torna a farsi duro. Serro le labbra e aspetto. – Non ti ho detto tutto questo per capriccio, Bill. – sospira, i tratti del viso che tornano più dolci, più simili a come li amo, - Ma perché oggi l’ho rivisto, e quel qualcosa che ci ha tenuto insieme prima di te, era ancora lì. Anzi, non credo… non credo si sia mai davvero spento del tutto.
Non respiro nemmeno, per una quantità di secondi che non riesco a calcolare.
- Cosa stai cercando di dirmi? – gli chiedo. Vorrei che la mia voce potesse suonare stanca come mi sento, ma temo suoni solo gelida e urtata. Come, d’altronde, mi sento.
Peter mi fronteggia a muso duro, per un po’. Non che la sua espressione si incattivisca, solo che sta cercando di tirare fuori tutto il coraggio che ha. E io lo so che è tanto, solo che fino ad ora l’ha sempre usato per proteggermi, mai per ferirmi.
- Ho provato a baciarlo. – confessa atono, - Lui mi ha rifiutato. Io però ci penso. E non riesco a smettere di pensarci. Io ti amo, Bill, ma— non lo so. Forse amo anche lui. – si prende una pausa, inspira ed espira, si passa una mano sugli occhi, sulla fronte, sulla nuca e sul collo. È palesemente esausto e io mi sento in colpa e non capisco da dove venga questo sentimento. – A te non succede? – mi chiede poi, e mi si stringe il cuore perché ho paura che lo stia guardando, che mi stia spiando nel petto, e che per questo il mio cuore stia cercando di nascondersi, facendosi minuscolo per non farsi vedere. Solo che fa male, e io così non riesco nemmeno a respirare. – Non ti succede di pensare le stesse cose con Bushido?
E io ripenso ai tremori, e al sorriso di Anis, e a quanto facesse male guardarlo con Fler, e al palmo della sua mano, e alle volte che tornava da qualche viaggio promozionale in Svizzera o Austria, o quando mi veniva a prendere all’aeroporto, e penso a quando veniva a trovarmi a casa, a quando abbiamo preso l’appartamento, agli scatoloni, al sangue sulle lenzuola, a quanto era bello coi capelli lunghi vestito di bianco nella penombra di quel salotto in quell’appartamento sconosciuto, al suo profumo, agli hamburger di McDonald’s, alle ricettario di Karima, alla villa gialla enorme e bellissima che profumava di casa, a Tomi pieno di lividi, alla sua discografia in frantumi sotto l’Escalade, alle serate con la crew e le ubriacature e restare svegli fino all’indomani mattina e andare a Tempelhof solo io e lui e i progetti le vacanze la paura di perderlo quando non mi diceva qualcosa il suo odore il suo sapore la consistenza della sua pelle la sua voce il suo nome – e guardo Chakuza e ho gli occhi pieni di lacrime, e sono le lacrime più pesanti che ho versato da quando Anis è tornato a casa. Oltre il velo delle lacrime, io Chakuza lo vedo appena. Come sempre, la sola idea di Anis basta ad offuscarmi la vista.
- Sì. – ammetto. Perché non posso fare altrimenti, e non per le lacrime, ma perché quello che mi ha appena colpito al petto ricordando è troppo importante per poterlo tradire mentendo. – Sì. Cerco di fare di tutto per non pensarci, ma sì. Dio… - singhiozzo più forte, mi piego su me stesso, - Dio, sì. – e il Chaku è lì, com’è sempre stato lì quando io e Anis eravamo ancora il re e la principessa, e litigavamo ed io avevo bisogno di una spalla su cui piangere. Come allora, mi accartoccio come in mezzo alle fiamme e mi appoggio contro la sua spalla, e piango, piango tantissimo, e lui mi stringe a sé e ricomincia ad accarezzarmi i capelli.
Dovrei venire a patti col pensiero che abbiamo appena confessato l’uno all’altro di essere innamorati di altri uomini. Ma potrò farlo in un secondo momento.

Bookmark and Share

Break The Circle

di lisachan
Sto gironzolando per casa annoiandomi terribilmente da quasi mezz’ora, quando Anis finalmente rientra. Ho passato il tempo giocando con Skyline e Sherlee, principalmente, rotolandomi nell’erba e sporcandomi al punto che, quando sono entrato in casa, a Karima è bastato uno sguardo per farmi capire che non avrei potuto muovere un altro singolo passo all’interno della villa senza prima andare a darmi una ripulita nella doccia. La doccia in giardino, ovviamente.
Non mi è pesato, dopotutto: ho buttato via i vestiti e mi sono infilato sotto il getto d’acqua gelida, magari un po’ esagerato visto che non è ancora precisamente estate, ma mi andava di fare le cose così, un po’ a caso. Mi sono sciacquato per bene, ho salutato i fotografi appostati dietro i cespugli intorno alla villa, ho evitato gli attacchi dei cuccioli che avrebbero visto di buon occhio la possibilità di saltarmi nuovamente addosso e rendere vana la mia doccia per giocare ancora un po’ e sono tornato dentro, dove Karima mi aspettava praticamente sulla soglia di casa con un accappatoio pulito in mano.
L’ho ringraziata indossandolo, e lei invece di rispondermi s’è espressa in una specie di sbuffo supponente che è un po’ il suo marchio di fabbrica ogni volta che le faccio notare che è stata carina a comportarsi gentilmente con me. È un po’ come volesse dirmi che non dovrei aspettarmi niente di diverso, visto che in fin dei conti si tratta del suo lavoro, ma visto che mi diverte continuo a ringraziarla. E lei continua a sbuffare.
Quando Anis si chiude la porta alle spalle, capisco subito che c’è qualcosa che non va, come l’ho capito sempre, fin da quando ero ragazzino. L’abitudine mi ha insegnato a tradurre i suoi gesti, i piccoli sospiri che rilascia gradualmente, per non farsi sentire mentre sospira in maniera troppo profonda o agitata, così come i gesti brevi e decisi, che danno sempre l’impressione che stia molto attento a controllare al massimo il proprio corpo, come lo percepisse come l’unica cosa della quale possa davvero decidere il destino. Suppongo sia normale, per uno come lui, da sempre abituato a tenere le redini di numerose vite, oltre che della sua, sentire con forza la paura di poter perdere il controllo da un momento all’altro. Ecco, quando lui sente questa paura, riparte sempre dalle basi, per ricordarsi che è ancora perfettamente in grado di gestire tutto. E le basi sono le facoltà motorie. La respirazione, i gesti, i movimenti degli occhi. Parecchi, quando sono nervosi e spaventati, perdono il controllo del proprio corpo. Per Anis è esattamente il contrario. È quando smette di sciogliersi che lo riacquista. Solo che quando smette di sciogliersi lo fa perché ha paura.
- Ehi. – lo saluto sorridendo. Un sorriso piccolo, niente di troppo entusiasta. A volte gli dà fastidio che gli si mostri della gioia quando lui non è felice. Ma d’altronde è così un po’ per tutti, suppongo. – Successo qualcosa? – mi informo con aria casuale, passandomi una mano sulla nuca per verificare che i capelli si siano asciugati.
Lui grugnisce qualcosa di poco convinto, appendendo la giacca all’ingresso e poi raggiungendomi in salotto attraversando tutto il corridoio senza fare nemmeno un rumore. Gli vado incontro, non so cos’è che voglio, un bacio forse. È una situazione strana perché da quando stiamo insieme, o qualsiasi cosa sia questa cosa in cui siamo invischiati adesso, insomma, non mi è mai successo di vederlo rincasare così cupo. In genere, tornando a casa mettermi le mani addosso è non dico il primo dei suoi pensieri, ma quasi. Non mi sono mai dovuto avvicinare io per salutarlo, è sempre stato lui a cercarmi, perciò mi sembra strano farmi avanti per primo.
Ed è ancora più strano quando lui mi ignora, passandomi oltre e mormorando un distratto “cosa c’è per cena?”, come non mi avesse nemmeno visto.
La cosa veramente grave, comunque, non è questa. La cosa veramente grave è che quando mi passa accanto io sento l’odore di Bill. Lo sento con forza, perché gli sono stato tanto vicino che ormai un po’ di quel profumo dolciastro così suo s’è aggrappato alle molecole che compongono le mie cellule, e lo riconosco con una facilità quasi dolorosa. Come l’ho sempre riconosciuto addosso a Chakuza, lo riconosco adesso addosso ad Anis, e mi tremano le mani. Mi tremano le mani perché non ne posso più di questo ragazzino che tocca e sporca tutto quello che voglio, tutto quello che amo. Lo odio, non lo sopporto, e poi ricordo che il problema non è suo, il problema è mio. Lui c’era prima. Sono io quello che s’è infilato in mezzo ad un gioco che non gli appartiene, e che non è ancora riuscito ad uscirne.
- Che ti prende? – mi volto a cercare i suoi occhi, seguendolo mentre si muove verso il divano. Vedo solo le sue spalle, non si volta a ricambiarmi lo sguardo.
- Niente. – risponde distrattamente, mettendosi a sedere ed accendendo la televisione. Sta mentendo.
- È successo qualcosa? – chiedo avvicinandomi. Mi siedo sul divano accanto a lui, ma non vicino come tutte le altre volte. Non addosso, nemmeno ci sfioriamo, in realtà. Sa che sta correndo un rischio enorme. Sa che posso fiutargli addosso la paura e l’incertezza e questo dannato odore dolce e infantile. Sa di avere sbagliato tutto, perché se solo avesse agito come se avere quell’odore addosso fosse naturale, io non mi sarei preoccupato. Avrei pensato che si fossero incontrati, salutati, abbracciati, che fossero andati a prendere un caffè insieme. Ma lui sta negando, io so che mente, e so che se lo fa ne ha motivo. – Qualcosa tipo Bill? – chiedo alla fine in un sospiro affranto, perché, seriamente, non ne posso più.
Tutti i lineamenti del suo viso si tendono all’istante. Cambia faccia all’improvviso, sembra una persona diversa. Il movimento con cui si volta a guardarmi è innaturalmente lento, tanto che ne ho quasi paura.
- Ma cosa ti salta in mente? – quasi ringhia, aggrottando le sopracciglia, - Non—
- Non vi siete visti. – dico, e sento tutto il mio corpo bruciare per la rabbia, - Né toccati. – mi avvicino appena, inspiro il suo odore a qualche centimetro dal suo corpo, così profondamente da farmi dolere i polmoni. – Né baciati. – concludo. E poi lo guardo dritto negli occhi. – Pezzo di merda.
- Pat—
- No, pezzo di merda! – ribadisco con maggiore convinzione, alzandomi in piedi e girando attorno al divano come se la sua sola vicinanza fosse sufficiente a mandarmi fuori di testa, cosa che in effetti è vera. – Ma cosa cazzo hai in testa? Ma cosa cazzo avete in testa tutti?! Ma per cosa cazzo mi avete preso?!
- Pat? – mi chiama lui, vagamente accigliato. È evidente dai suoi occhi che non capisce di che diavolo sto parlando, ed è evidente che non può, perché io non gliel’ho mai detto. Perché non l’ho mai detto a nessuno, cazzo, e sarà questa la cosa che mi farà andare fuori di testa, più di tutto il resto. Che io sto così male per una cosa che, agli occhi della quasi totalità delle persone che compongono il mio universo, non esiste nemmeno.
- Lascia perdere. – dico cupo, uscendo dal salotto ed infilando le scarpe da tennis abbandonate accanto alla porta una volta arrivato all’ingresso. Sento i suoi occhi addosso, so che mi ha seguito. Non voglio voltarmi a guardarlo.
- Pat. – mi chiama ancora, - Che problema c’è?
La sua voce è più seria, somiglia a quella che usava quando, da ragazzino, combinavo qualche guaio di cui non mi andava di fargli sapere. In qualche modo, riusciva sempre a sgamarmi e tirarmi fuori le parole di bocca. E tutto partiva sempre da questo tono qui.
Sorrido stancamente, schiudendo la porta e guardando di fuori il cielo che si fa più scuro dopo il tramonto.
- Nessun problema. – rispondo prima di allontanarmi. Non ce n’è mai, d’altronde.
*

Quando arrivo a casa di Chakuza, non realizzo che potrebbe essere in compagnia – in compagnia di Bill, ovviamente – fino a quando non ho già premuto il dito contro il bottone del citofono. È troppo tardi per scappare e non posso certo rimandare indietro il tempo, per cui resto là e riesco in qualche modo a non strillare quando sento la sua voce chiedermi chi sono.
- Fler. – rispondo. Sono evidentemente nervoso, e lui pure. Sento movimenti strani e la sua voce si abbassa di svariati toni quando parla ancora.
- Ma che… - comincia incerto, - È successo qualcosa? – chiede con una punta di preoccupazione.
- No… - rispondo io, grattandomi confusamente la nuca, - Ma c’è Bill? – chiedo quindi, e poi sospiro. – Scusa, mi tolgo dalle palle. Fingiamo che tutto questo non sia mai avvenuto.
- No! – mi ferma, la voce che torna alta e poi, neanche tanto sorprendentemente, si riabbassa, - No, dico… cioè, sì, c’è Bill, ma… - lo sento trafficare con qualcosa di indefinito, e solo dopo capisco che s’è infilato la giacca e, per farlo, ha poggiato la cornetta del citofono sulla consolle. – Scendo subito. – dice deciso, - Non te ne andare.
Non me ne vado. Mi appoggio al muro, proprio lì accanto al portone, e aspetto. Quando Chaku esce non si aspetta di trovarmi da qualche parte che non sia esattamente di fronte a lui, perciò si guarda intorno un paio di secondi buoni prima di voltarsi indietro e notarmi lì appoggiato con le mani nelle tasche. Sorrido appena e ne sfilo una, agitandola per salutarlo in silenzio.
- Ciao. – mi dice lui, avvicinandosi. Ha gli occhi un sacco preoccupati. Mi si scalda lo stomaco tutto insieme. – Che cos’hai? C’hai una faccia strana.
Evito i suoi occhi perché non voglio dirglielo, o almeno non così presto.
- Sto bene. – rispondo scrollando le spalle, - Avevo solo voglia di—
- Non raccontarmi balle. – mi interrompe lui, e mentre parla mi guarda e inarca un sopracciglio come a chiedersi quanto devo essere cretino per averci anche solo provato.
Io mi mordo un labbro, incerto su cosa fare. Facciamo qualche passo in silenzio, Berlino intorno a noi si agita tutta e nessuno sembra notarci. È completamente diverso rispetto a quando cammino accanto a Bushido, la sua presenza da sola basta ad attirarci addosso un mucchio di sguardi indiscreti, ma passeggiare accanto al Chaku è una cosa tranquilla e rilassante. C’è anche una temperatura piacevole, tiepida, un po’ incerta fra estate e primavera e mitigata appena da un venticello fresco e debole, per nulla fastidioso anche se ci viene contro.
Ci sediamo ad un tavolino fuori da un bar semivuoto e anche un po’ sfigato, sempre restando in silenzio. Non so quanto tempo passi – senza che nessuno venga a prenderci l’ordinazione, peraltro – prima che Chakuza parli ancora.
- Dimmi cosa ti è successo. – insiste, le mani appoggiate mollemente sul tavolo e gli occhi fissi su di me.
Mi inumidisco le labbra, guardandomi un po’ intorno.
- Mi mancavi. – dico, scrollando le spalle, - Non mi è consentito? Tutti quanti potete sentire nostalgia di tutto quello che volete e andare a prendervi tutto quello che volete senza pensare alle conseguenze, ma io no? Io non posso? E chi l’ha stabilito?
- …woah. – commenta lui, incerto, inarcando le sopracciglia, - Capisco. Cioè, in realtà no— cosa cazzo ti prende? – chiede, piegandosi un po’ in avanti, - Con chi hai parlato?
- Ma con nessuno! – insisto io, gesticolando animatamente e stabilendo poi che non è seduto a quel tavolino che voglio stare. – Ma quale cazzo è il vostro problema? – protesto ricominciando a camminare per la strada, mentre lui mi segue dubbioso, - Perché cazzo dovrei essere io quello che non sta bene? Ma vi siete guardati?! Siete un branco di disperati ed io sono il più sano di mente in mezzo, il che francamente è tutto dire. Eppure state tutti lì a chiedermi cos’ho. Io non ho niente, chiaro? Siete voi che vi comportate da pazzi, io cerco solo di tirare avanti, e sto benissimo!
- No, Fler, - sbotta lui, scuotendo il capo, - a parte il fatto che non ci sto capendo un cazzo, voglio dire, di chi stai parlando? Ma comunque, - e gesticola, come a voler mettere da parte questa prima considerazione in favore della successiva, di gran lunga più importante, - è palese dal fatto che stai straparlando che tu non stai bene. Ma tipo per niente.
- Be’, scusami se sono venuto a disturbare la tua vita perfetta e felice per farmi solo una chiacchierata. – sbuffo, allontanandomi di qualche passo, - Ma non ti preoccupare, mi tolgo subito dai coglioni. Non c’è problema. – non ce ne sono mai, di problemi. Non ce ne sono mai.
- La mia vita non è perfetta. – dice lui, cupo, ancora dietro di me. S’è fermato, perciò mi fermo anch’io, perché non volevo davvero allontanarmi. Lo guardo in silenzio, e lui sembra veramente stanco e un po’ sbattuto, come l’avessero preso a cazzotti e lui non fosse ancora riuscito a riprendersi. – La mia vita non è perfetta e non è felice, o almeno, sicuramente non è più felice o perfetta della tua, perciò piantala di dire stronzate e non cercare di farmi sentire in colpa per cose di cui non ho la responsabilità.
- Be’, se dobbiamo fare l’elenco delle responsabilità-- - comincio, ma non riesco a finire. Lui mi interrompe.
- Ti prego. – dice soltanto, sospirando profondamente, - Ti prego.
Io mi mordo un labbro e mi avvicino. Ci guardiamo negli occhi ed è così palese che questa cosa non funziona che mi viene voglia di pestarlo a sangue – di nuovo – e non vederlo mai più – sul serio – solo che so che non ci riuscirei, a fare nessuna delle due cose, peraltro, perciò sollevo le braccia e lo afferro per il colletto e lo strattono e non lo so.
- Peter. – lo chiamo. Lui respira e me lo sento addosso. Siamo in mezzo alla strada ed è tutto così strano e stupido e sbagliato e sconnesso. Mi sembra di stare sognando e non sono nemmeno ubriaco. Forse è l’effetto della rabbia, rende tutto ovattato e diverso, come se non lo stessi facendo davvero. Ma lo sto facendo.
- No. – dice, quando si rende conto di cosa gli stanno dicendo i miei occhi, - No, non— non esiste. – si allontana da me con uno strattone deciso e mi guarda come non mi avesse mai visto prima. – Io non sarò la persona da cui vieni quando ti girano.
- Tu l’hai fatto, con me! – urlo, e mi fa male il petto, - Tu— stronzo, tu l’hai fatto con me!
- Lo so! – urla anche lui. Ed io mi congelo sul posto, perché è la prima volta che lo ammette. – Lo so. – ripete a voce più bassa, - Ed è per questo che non posso farlo adesso. Fler, ma non capisci? Cazzo, sono quasi due anni che ci facciamo del male perché non siamo abbastanza forti da pensare prima di fare qualcosa. È un circolo vizioso e qualcuno deve pure venirne fuori per primo.
- Non adesso. – mi sto lamentando come un bambino e lo so. Mi avvicino di nuovo, lo allaccio al collo, me lo tiro contro e lui non si allontana, mi appoggia le mani sui fianchi e le nostre fronti si sfiorano. – Per favore. – dico con un filo di voce. Chakuza chiude gli occhi, inspira ed espira e so che gli sto facendo male.
- No. – insiste lui, deciso. – No, Pat. È il periodo, io ti capisco. È tutto confuso, e stanno cambiando delle cose, e… devi solo avere pazienza, poi andrà tutto a posto. – ed io non capisco cosa cazzo stia dicendo, e lui deve leggermelo negli occhi, perché sorride appena, spiegandosi meglio. – Andrà meglio. Le cose si calmeranno e potremo tornare tutti a pensare lucidamente. È solo che questo momento qui deve passare, perché è evidente che sennò usciremo tutti fuori di testa. Lo capisci cosa intendo?
E sì, lo capisco. Non del tutto, forse, c’è qualcosa che mi sfugge, ma al momento non posso pensare anche a questo, perciò chiudo gli occhi anch’io, cercando di adattare il ritmo del mio respiro al suo nella speranza che questo possa darmi un po’ della sua calma, per lo meno apparente, ma funziona poco. Però lo capisco.
Mi allontano, e lui non mi trattiene.
- Cosa sta succedendo? – chiedo. Lui distoglie lo sguardo. – Cosa è successo?
- Non è il caso di parlarne adesso. – risponde con un sospiro stanco. – Ma ti giuro che—
- Lasciamo perdere. – mi rassegno, abbassando gli occhi. Mi passa per la mente in un lampo la consapevolezza che il problema fondamentale che ci trasciniamo dietro da ormai quasi due anni è quest’assoluta incapacità che abbiamo di immaginarci a vivere una vita gli uni senza gli altri, e che se non superiamo questo scoglio non riusciremo mai a risolvere neanche la metà dei casini che ci rendono difficile l’esistenza.
Lui, comunque, annuisce. Quando mi volto per tornarmene a casa, non mi chiama. Mi lascia andare, e credo lo faccia con la consapevolezza che lasciandomi andare potrebbe anche non rivedermi più, ma da qualche parte dentro di sé la sente come la cosa giusta da fare, e io so che probabilmente è così. Perciò lo lascio andare anch’io, sperando che il Chaku abbia ragione. E cerco di non pensarci troppo.

Bookmark and Share

Let Your Fingers Do The Walking

di lisachan
Spengo la televisione quando le Crispy News di Mtv mi fanno capire che intendono mostrarmi altre immagini esclusive del tour dei Tokio Hotel con l’Ersguterjunge per la cinquecentesima volta circa nell’arco delle ultime ventiquattro ore. Quello che sta succedendo dall’altro lato della Germania, mi ripeto alzandomi in piedi e gettando il telecomando sul divano mentre mi dirigo speditamente verso il frigorifero nella speranza di trovarci qualcosa dentro, non mi riguarda. Non è che mi senta tagliato fuori, è solo che mi rendo conto che ci sono cose che Anis, Bill e Chakuza condividono, e delle quali io non faccio parte, semplicemente perché la mia presenza qui è il risultato di una combinazione di eventi che non esiterei a dire sfortunata e totalmente casuale. Professionalmente parlando, io non sono legato a nessuno di loro. Io ho l’Aggro – per quanto ormai Sido mi mandi a fanculo ogni volta che mi vede, e non fatico ad immaginare perché, visto che la mia faccia e quella di Anis campeggiano affiancate su ogni fottuta copertina del paese – ed è lì che voglio restare. Quella è famiglia, per me. Ed è del tutto diverso da ciò che invece lega quei tre disperati.
Non posso dire che non mi dispiaccia per loro, naturalmente. Voglio dire, Anis è stato la mia intera esistenza per una quantità di tempo spropositata, Chakuza è un pezzo esageratamente grande della mia vita recente – esageratamente soprattutto calcolate le sue dimensioni – ed il ragazzino, voglio dire, è il ragazzino, come si fa a non dispiacersi per lui per principio?, basta guardarlo in faccia. Per cui sì, mi dispiace, ma non posso negare che nell’ultimo periodo in cui sono stati lontani la mia vita abbia subito radicali cambiamenti in positivo, dannazione. È molto vero quello che dicono alcuni, occhio non vede, cuore non duole. Io ho una vaga idea di quanto stia succedendo da quelle parti, naturalmente, ma non esserci rende tutto incredibilmente meno pesante. Ci rifletto seriamente, mentre bevo la birra ghiacciata direttamente dalla bottiglia, a piccoli sorsi, e mi dico che forse la chiave per risolvere il problema è questa, in fondo. Esserci. Se ci sei stai male, se non ci sei soffri lo stesso, ma il dolore diventa sordo, un sottofondo cui puoi abituarti, non è lancinante come dover rivedere quegli stessi volti ogni giorno, e volerli, e non poterli avere, e doverti accontentare, e sentirti in colpa perché ti stai solo accontentando ed invece vorresti essere semplicemente felice con ciò che hai e basta.
Perso come sono nei miei pensieri, non sento il campanello squillare. O meglio, lo sento, ma è un’eco lontana, come se stesse squillando quello del vicino, o quello dello scapolo del piano di sopra, che in effetti riceve visite ad orari della notte veramente improbabili, orari come questo, in cui la gente per bene dorme ed i cretini come me bevono birra per alleggerirsi la coscienza, quindi non ci faccio nemmeno caso. Peraltro, è incredibile: non avendo mai veramente vissuto in questo palazzo, inconsciamente e stupidamente credevo anche che il palazzo non avesse mai veramente vissuto senza di me. In qualche modo, nella mia testa, questa era una scatola rettangolare e tridimensionale piena di vuoto in cui l’unico piano occupato da un appartamento, vuoto o pieno che fosse, era il mio. Da quando, invece, ci passo più tempo, ho scoperto che è un posto un sacco vivo. C’è questo tizio qui, e c’è la signora del primo piano che ha due gemelline deliziose, avranno quattordici anni e vanno sempre in giro vestite con colori combinati, tipo che se una è in nero con qualche dettaglio bianco, l’altra è in bianco con qualche dettaglio nero. Poi c’è la studentessa universitaria dell’ammezzato che fa la dogsitter ed ha sempre casa piena di cani non suoi che abbaiano continuamente e sporcano ovunque, e c’è una coppia di anziani signori all’ultimo piano che sono tipo la cosa più pimpante mai esistita e non prendono mai l’ascensore anche se è fondamentalmente per loro che il condominio l’ha fatto installare, robe da matti.
Insomma, per questo posto c’è un andirivieni continuo, e siccome io non aspetto visite fatico proprio a ricondurre il suono del campanello con la possibilità che sia il mio. Lo realizzo tipo al terzo squillo. Io li ho sentiti, quegli squilli, ma quando mi accorgo che è proprio il mio campanello che sta squillando la sensazione è di quelle che provi quando stavi sognando che stava accadendo qualcosa e quella cosa in un certo qual modo sta accadendo davvero, tipo che un boa constrictor ti stava staccando la testa a furia di stringerti fra le proprie spire, e invece magari era solo il lenzuolo, ma a staccarti la testa ci stava provando comunque. È un suono flebilissimo, all’inizio, e poi si fa via via più intenso, e alla fine stacco le labbra dalla bottiglia, guardo la porta e mi rendo conto che dovrei andare ad aprire, o quantomeno a vedere chi è.
Spalanco la porta senza neanche guardare attraverso lo spioncino chi ci sia dall’altro lato, e quando mi appare davanti questo tizio biondissimo con gli occhi azzurri e un visino che sarebbe pulitissimo se non avesse un labbro spaccato ed un sopracciglio messo non tanto meglio, naturalmente non lo riconosco.
- Sì? – chiedo, piegando appena il capo e illudendomi che a guardarlo di sbieco possa assumere una forma conosciuta, - Chi sei?
- Sono Daniel. – risponde lui, e lo fa con ovvietà, come se il suo semplice nome dovesse aprire chissà che bauli colmi di ricordi nella mia testa. Ma il tipo qui ha presente quanti Daniel esistano nel mondo, e quanti ne abbia incontrati nella mia vita? Per quanto ne so, potrebbe essere D-Bo accidentalmente finito in una macchina del tempo e tornato alla sua giovinezza, che ora cerca me per chiedermi aiuto solo perché Bushido non c’era in quanto impegnato a dannarsi la vita in tour col proprio ex e l’attuale fidanzato del suo ex che, per un’assurda combinazione di fattori, è anche l’ex del suo attuale fidanzato.
- A-ha. – annuisco poco convinto, - E io sono Patrick, piacere di conoscerti, Daniel. Farai così con tutto il resto del palazzo?
Lui gonfia le guance ed irrigidisce le braccia lungo i fianchi, offesissimo. Arriccia perfino le labbra in un broncio incredibilmente goffo, ma desiste subito, forse per il dolore. Ha un brutto taglio, lì, andrebbe disinfettato.
- Noi ci conosciamo già! – mi fa presente, - Non ti ricordi?
Cerco di riportare alla memoria una qualsiasi occasione in cui possa aver conosciuto un ragazzino della sua età. Mi vengono in mente solo i concerti, ed ultimamente non è che ne abbia fatti tanti. Ma cosa sta pretendendo questo essere assurdo da me?
- No, temo di no. – scuoto il capo, - Dovrei?
- Dovresti, sì. – dice lui, piantandomi una mano nel mezzo del petto e scostandomi letteralmente di lato per entrare in casa, - Ho rischiato la vita per te, un anno fa. – sbuffa, voltandosi a guardarmi.
Io chiudo la porta e gli ricambio un’occhiata incerta. Dev’essere successo qualcosa che non ricordo. Ero ubriaco? Mi sono perso e il moccioso qui mi ha riportato a casa in spalla, per quanto io possa faticare a credere ad una cosa simile? Ma allora perché avrebbe dovuto rischiare la vita?
- Senti. – sospiro, massaggiandomi stancamente le tempie, - È un po’ tardi per perdere tempo con misteri e indovinelli, ti pare? Dimmi chi sei e facciamola finita. Poi, se hai anche qualcos’altro da dirmi a parte il tuo nome, bene, sennò grazie della visita e buonanotte.
Lui si prende qualche secondo, prima di rispondere. Gira un’occhiata curiosa tutto intorno alla stanza e poi pianta una mano sul fianco con fare teatrale.
- E dire che dovresti essere un amico che conta. – sbotta, tornando a guardarmi, - Quanto valgono le tue promesse, Fler?
Improvvisamente, realizzo chi ho davanti. La mia memoria torna a un anno fa, ad una notte ghiacciata, a Tempelhof, alla ricerca di un uomo che credevo colpevole della morte di Anis. Ad un ragazzino che ci ha indicato la strada, a me e a Chakuza, quando credevamo di esserci completamente persi.
- Tu… - balbetto, indicandolo maldestramente, - Tu sei quel ragazzino. Daniel. Sì, certo, ora ricordo.
Sul suo volto si apre un sorriso spontaneo e repentino, come quello dei bambini, mentre il suo intero corpo si tende verso di me.
- Davvero? – chiede, gli brillano gli occhi. Poi torna a cercare di darsi un tono, altrettanto velocemente rispetto a quando l’ha perso. – Cioè, finalmente. – borbotta schiarendosi la voce con un paio di colpi di tosse. – Non c’è niente da bere in questa casa?
- Niente che possa dare a un palese minorenne. – rispondo inarcando le sopracciglia, - A parte l’acqua.
- Oh, andiamo! – sbotta lui, pestando un piede per terra, - E poi sono maggiorenne. Ho compiuto diciott’anni quest’anno.
- Sì, certo. – rido io, - Farò finta di crederci. Mi fa piacere rivederti, comunque. Almeno so che non hai gettato al vento la tua fortuna e non sei finito in galera, mentre non guardavo. – gli lancio un’occhiata incerta, - Non ci sei finito, vero?
- No. – risponde lui con una mezza risata, - Non ne avrei avuto il tempo, comunque. Ho avuto un anno piuttosto pieno.
- Ah, non dirlo a me. – alzo gli occhi al cielo, passandogli accanto per recuperare la birra che ho abbandonato sul tavolino prima di andare ad aprirgli, - E cos’è che ti porta qui stasera, Daniel? Ti annoiavi? Avevi finito i cerotti a casa? – chiedo, indicando distrattamente il labbro gonfio e il sangue che gli scivola lungo una tempia.
Lui si passa velocemente una mano sul viso, come a sincerarsi delle proprie stesse condizioni, e poi esita per un minuto buono, incerto sulle gambe – non fa che spostare il peso del corpo da un piede all’altro – e palesemente sul punto di scoppiare.
- Voglio che sia tu. – dice quindi, tutto d’un fiato, come se anche solo mettere in fila quelle quattro parole gli sia costato una fatica immane.
- …vuoi che sia io. – ripeto, indicandomi mollemente, - A fare cosa? A disinfettarti le ferite?
- Ma no! – sbotta lui, esasperato, e pesta di nuovo il piede per terra. È ridicolo che lo faccia, sembra ancora più ragazzino di quanto non sia. – Voglio che sia tu il primo!
- Ma il primo a fare che?! – insisto, allargando le braccia ai lati del corpo, - Non ti sai mettere un cerotto e sei venuto dal tuo guru del gangsta rap perché sia lui a mostrarti i misteri della cassetta del pronto soccorso?! Sii più chiaro!
- Sei… un idiota! – strilla lui, irrigidendosi tutto come un pezzo di legno, - Voglio che sia tu il primo a… - deglutisce a fatica, e io sento un brivido caldissimo scorrermi lungo tutta la schiena. È paura. – il primo a fare l’amore con me. – conclude, guardando fisso il pavimento. Vorrei poter riavvolgere il nastro e rimandarlo da capo, perché non sono proprio sicuro di aver capito bene.
- Come, scusa? – chiedo istintivamente. Mi rendo conto dell’idiozia della domanda, ma non riesco proprio ad impedirmelo, non riesco a fermarmi. Lui arrossisce fino alla punta delle orecchie, e volta il capo così velocemente che finisce per nascondersi dietro una tenda di capelli scarmigliati e che necessiterebbero decisamente di uno shampoo.
- Cos’è, te lo devo ripetere? – sputa fuori lui, acido.
- No. – rispondo immediatamente io, sollevando le braccia come di fronte a una pistola puntata contro. Mi arrendo, Daniel. Però prima parliamone cinque minuti. – È solo che, capisci, non è che mi capiti tutti i giorni di vedermi spuntare alla porta minorenni che—
- Non sono minorenne! – scatta lui. Si morde il labbro inferiore, quello spaccato. Gli fa così male che ha gli occhi pieni di lacrime.
- No, ok, ok. – annuisco io, cercando di calmarlo, - Quello che intendo dire è che la situazione è un po’ spinosa, non ti pare? Cosa ti aspetti che faccia?
- Ma non lo so! – sbuffa lui, abbattendosi sul mio divano e prendendosi la testa fra le mani, - Dovresti essere tu quello esperto, no? Senti, - sospira, - ho avuto una serata difficile, e ho davvero bisogno di—
- Di farti scopare? – chiedo, gli occhi enormi. Lui mi guarda e arrossisce ancora, perfino più intensamente di prima.
- No! – strilla, - Cioè, sì, ma per come la metti tu sembra una cosa di uno squallore tremendo! Era meglio come l’ho detta io prima.
- D’accordo, ma – insisto io, - …non ti capisco. – rinuncio subito dopo, abbattendomi sul divano al suo fianco. – Ti va di parlarne?
- Se avessi avuto voglia di parlarne, sarei andato dallo psicologo dei servizi sociali, ti pare?! – sbotta lui, immediatamente sulla difensiva. Poi sospira, accomodandosi meglio ed appoggiandosi indietro sullo schienale. – Ho fatto coming out sei mesi fa. – racconta a bassa voce, ed io mi sconvolgo, perché, voglio dire, ce li avrà diciassette anni?, eppure ha già avuto più coraggio di me, che alla sua età avrei dovuto e voluto dire cose che invece mi sono tenuto dentro fino ad ora, praticamente, - E se prima potevo dire di avere una vita di merda, era perché non immaginavo minimamente cosa sarebbe diventata dopo una cosa del genere.
- Immagino che non debba essere facile. – commento con un mezzo sorriso. Lui mi guarda malissimo.
- È un inferno. – mi corregge, usando una parola senza dubbio più adatta, - Non mi aspettavo che mio padre capisse, naturalmente, ma che almeno i ragazzi della banda mi stessero vicini… è gente che conosco da una vita.
- Evidentemente, loro non conoscevano te. – gli faccio notare.
- Nemmeno io conoscevo me stesso. – ribatte lui, - È… è solo capitato, cazzo. E non posso farci niente, non è che l’abbia deciso, “oh, sì, diventiamo gay, scommetto che dopo sarà tutto una figata, andrò a vivere a Beverly Hills ed indosserò solo pantaloni e camicie bianche con cinture e scarpe di pelle nera”… è solo capitato. – insiste, occhi bassi e sguardo cupo.
Ridacchio un po’ per l’immagine mentale che la sua descrizione oggettivamente strampalata della società gay americana mi offre, ed allungo una mano a sfiorargli i capelli. Sono di un bel biondo chiaro, molto tedesco. Scommetto che dopo una bella doccia saranno morbidissimi, al tatto.
- Danny, devi anche capire che vivi in mezzo a ragazzini che hanno sempre avuto un solo modo per guardare alle cose. Non puoi pretendere che capiscano.
- Va bene, ma che bisogno avevano di picchiarmi?! – sbotta lui, indicandosi il viso, - Il labbro è un gentile omaggio di mio padre, ma il resto no. Ci conoscevamo fin da piccolissimi, alcuni di loro sono parte della banda dalle medie, e io li ho visti arrivare quasi tutti. Ma non hanno esitato un secondo a prendermi a bastonate, quando l’ho detto, e anche molte volte dopo. Che cazzo.
Sospiro, passando le dita fra i suoi capelli e sciogliendone i nodi.
- Perché non te ne vai, da lì? – propongo, - Sono sicuro che—
- Che stai facendo? – chiede lui, voltandosi a guardarmi con aria sinceramente stupita.
- Cosa? – ribatto io, distrattamente. La mia mano non si ferma, e lui la indica con un dito. – Ah, questo. – registro come fosse una cosa normalissima, - Non lo so. Pensavo avessi bisogno di una qualche rassicurazione.
Lui sospira pesantemente, torcendosi le mani in grembo.
- Senti… - dice a mezza voce, - Tu mi piaci veramente tantissimo. – e lascia il concetto lì sospeso, come se l’idea di spogliarlo e prenderlo magari su questo stesso divano dovesse essere una diretta conseguenza di questa confessione. Non esiste niente che potrebbe giustificare me e te a scopare su questo divano adesso, ragazzino confuso che non ha ben chiaro praticamente niente riguardo a se stesso, alla vita e al mondo in generale.
- Io sono impegnato, Daniel. – gli faccio presente. Potrei partire con una lunga digressione sul mio impegno al momento, ma me la tengo da parte per momenti in cui leggerò meno voglia chiara e limpida nei suoi occhi azzurri e grandi. Questa situazione va arginata. Mi chiedo se ne sono in grado.
- Non importa! – dice, con la sicurezza avventata di chi immagina io gli stia dicendo una cosa del genere solo per fargli presente che per noi non potrebbero mai esserci e vissero tutti felici e contenti con castelli e principi azzurri in groppa a splendidi cavalli bianchi. Lo guardo dritto negli occhi, nella sua testa ci sono un mucchio di favole.
- Importa a me. – insisto, - I rapporti di coppia si basano sulla fiducia. Anis deve sapere che io non lo tradirò, mentre lui è via.
Ed io lo so, che Anis non mi tradirà mentre sono qui. Lo so. Lo so?
- Dimmi almeno che posso restare qui da te, per la notte. – mormora lui, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore.
- Cosa? – rido io, sbigottito, - No che non puoi.
- Non posso tornare a casa! – insiste Daniel, - Non subito, almeno. Dubito che mio padre abbia smesso di bere, quando me ne sono andato, e non voglio stare da solo con lui in una casa traboccante di bottiglie. Di solito le butto tutte via mentre dorme.
Lo guardo inarcando un sopracciglio, incerto.
- Perché le bottiglie? – chiedo. Daniel mi guarda fisso per qualche secondo, poi si allunga verso il tavolino, afferra repentinamente la bottiglia di birra vuota posata sul ripiano e la spacca contro il bordo. Fa un rumore frastornante, si spargono schegge di vetro per tutto il pavimento, e prima che possa capire cosa sta succedendo davvero lui è sulle ginocchia, così vicino che sento l’odore del suo sangue come se fosse il mio, e mi punta la bottiglia spaccata alla gola, tenendola per il collo.
- Per questo. – dice. Uno dei cocci di vetro mi punge con forza la pelle, fa male quasi come dovesse trapassarla. Daniel, però, mette subito via la bottiglia, appoggiandola sul tavolino e ritraendosi mentre io mi accarezzo la gola per verificare che non ci siano tagli. Nel mentre, lo osservo afferrare la felpa che indossa dagli orli inferiori e tirarsela via da sopra la testa. Non indossa nient’altro, sotto, a parte un tappeto di lividi. Non ci sono tagli recenti, almeno, ma lui non intende mostrarmi i segni superficiali delle violenze più nuove, no, vuole mostrarmi i segni indelebili di quelle più vecchie. Si volta e mi mostra un fianco, torcendosi come solo un ragazzino della sua età che sia così magro può fare. – Guarda qui. – dice, indicando una lunga cicatrice un po’ sformata che gli taglia in due la pelle proprio sopra l’anca, - Questo me l’ha fatto per il mio quindicesimo compleanno. – racconta a bassa voce, - Volevo uscire con i miei amici, ma a lui non stava bene. Alla fine, sono dovuto uscire per forza per andare al pronto soccorso. Mentre lui dormiva, perché prima non ha voluto lasciarmi andare.
Deglutisco a fatica, sollevando una mano e tracciando quella linea incerta e chiara con due dita. È liscissima sotto i miei polpastrelli, e il gemito che sfugge dalle labbra di Daniel, più che sentirlo con le orecchie, lo percepisco sottopelle. È un brivido che mi scuote fino alle punte dei piedi. Ho sentito donne gemere più forte e con più voluttà, e quello che non è altro che il gemito sgomento di un ragazzino impaurito che probabilmente soffre solo un po’ di solletico – perché lo so che non era un gemito programmato, quando ne senti tanti impari a capire cosa è simulato e cosa no – riesce a scuotermi più di quanto non abbia mai fatto nient’altro di simile fino ad ora.
- Mi dispiace. – dico a mezza voce. Sono sincero.
- A me no. – risponde lui con una risatina, avvicinandomisi impercettibilmente, - La pelle è ancora sensibilissima, in quel punto. Ho scoperto che mi faceva quest’effetto quando una delle tipe con cui andavamo per locali il sabato me lo ha succhiato. Le sue mani non facevano che sfiorarmi i fianchi e quello mi piaceva già da solo più della sensazione di sentire l’uccello nella sua bocca.
Deglutisco ancora, o almeno ci provo, ma stavolta non mi riesce. Una delle mani di Daniel scende a posarsi sulla mia, se la schiaccia con forza addosso.
- Daniel— - provo a chiamarlo. Lui mi sorride e io m’interrompo subito.
- Quando sono nel letto da solo e mio padre non mi ha picchiato troppo forte, - dice lui a bassa voce, - cioè, quando posso ancora muovermi senza che mi faccia male tutto, a volte, sollevo la maglietta che uso per dormire e la accarezzo. – porta la mia mano a muoversi su e giù contro il suo fianco, - E basta quello da solo per farmelo venire durissimo.
- Smettila. – dico senza fiato, ma la mia presa si stringe attorno al suo fianco senza che possa nemmeno provare a controllarla. La sua mano resta lì. Calda e un po’ sudata. È così agitato, Dio mio. Glielo vedo negli occhi che ha una paura folle.
- Ti prego. – dice lui, avvicinandosi ancora. Le sue labbra sfiorano le mie, ma non osa farsi più avanti di così. – Solo una volta. Non mi vedrai mai più, dopo, te lo giuro.
Resto immobile e non dico niente, ma il problema è che continuo a restare immobile e a non dire niente anche quando lui alla fine si fa avanti e copre i pochi centimetri di spazio che ancora ci separano, poggiando le labbra sulle mie. Non sa come muoversi e probabilmente anche se lo sapesse gli farebbe troppo male per farlo, sento in bocca il sapore del suo sangue ed è lo stesso sapore che sentivo quando per le strade di Tempelhof picchiavano me. È il sapore del mio sangue, non solo del suo.
Chiudo gli occhi e sollevo un braccio, poggiandoglielo sulla nuca e traendomelo contro. Lui sbuffa un lamento sorpreso che si trasforma in un gemito un po’ perso quando forzo le sue labbra con la mia lingua, accarezzandogli lentamente il fianco e sottolineando i contorni della cicatrice. Si scioglie sotto le mie dita con una semplicità disarmante, ed è tutto così semplice, il suo corpo magro è così duttile, si adatta al mio come una coperta di quelle sottili e fresche che ridisegnano le sagome di ciò che nascondono senza riuscire a nasconderlo davvero agli occhi di nessuno.
- Allora… - mormora, quando mi allontano abbastanza da dargli tempo e modo di riprendere fiato, - Vuoi davvero—
- Shh. – lo interrompo io, sorridendo appena. Sfioro le sue labbra con le mie, accarezzo il taglio su quello inferiore con la lingua e lui rabbrividisce con tanta forza che lo sento scuotersi fra le mie braccia come stesse tremando dal freddo. – Non parlare. Rischi grosso, a farlo.
- Non fa più tanto male. – insiste lui, sistemandomisi in grembo. Lo sento eccitato dentro i jeans larghi e spessi e sorrido perché con i ragazzini di quest’età basta davvero pochissimo. – Il labbro, dico. E tutto il resto, anche.
- Ne sono felice. – annuisco, stringendolo da sotto le cosce ed alzandomi in piedi con un colpo di reni. È così leggero, dannazione. Nel movimento, i nostri bacini collidono e poi strisciano l’uno contro l’altro. Daniel mi si aggrappa con forza alle spalle e mugola sul mio collo, la voce rotta in un singhiozzo di paura.
- Farà male? – chiede pianissimo, tanto che lo sento appena. Non lo chiede come uno che stia verificando che opportunità ha per scegliere la migliore, lo chiede come uno che di opportunità ne ha una sola, e vuole essere preparato per affrontarla al meglio.
- Dipende. – rispondo sinceramente io, entrando in camera da letto. Mi serve un secondo per ricordare dove sono tutte cose, letto compreso, nel buio. Alla fine, ci riesco.
- Da cosa? – chiede lui in un mormorio sommesso, mentre lo adagio sul letto ancora rifatto e mi sistemo fra le sue gambe dischiuse, sbottonandogli i jeans.
- Da un sacco di cose. – sorrido io, anche se lui nel buio non può vedermi, chinandomi a baciarlo lievemente su una guancia, e poi giù lungo il collo, sul petto ossuto e sulla pancia morbida, - Da quanto lo vuoi. Da come si muove la persona con cui lo fai. Da quanto pensi al dolore.
- Io non voglio pensarci. – sussurra lui. Mi puntello sul materasso col gomito e sfioro il profilo del suo viso con le labbra. Ha gli occhi chiusi, sento le sue palpebre battere lievissime, come le ali di una farfalla. – Non voglio pensare al dolore.
Sorrido, accarezzandogli nuovamente il fianco.
- E allora non farà male per niente. – lo rassicuro, baciandolo piano. – Sei proprio sicuro di essere maggiorenne, tu, vero? – chiedo un’altra volta. Lui si mette paura, anche se è evidente che non potrei mai mollarlo, giunti a questo punto. Spalanca gli occhi e mi fissa con terrore palese, sollevando le braccia e stringendo i pugni attorno alle maniche della maglia che indosso.
- Certo che sono maggiorenne. – ribadisce, annuendo con sicurezza, - Te lo giuro, per favore—
- Calmati! – rido divertito, allontanandomi abbastanza da costringerlo a mollare la presa e sfilandomi i vestiti di dosso lentamente, così che i suoi occhi, che ormai dovrebbero essersi abituati al buio, possano intuire i miei movimenti, e capire che ci siamo vicini. – Era solo per scrupolo. Giuri di non essere stato mandato qui da qualche losco figuro che poi userà la tua testimonianza su come ti ho picchiato e violentato per estorcermi chissà che somma di denaro?
- No, non… - fa per rispondermi lui, poi si interrompe e pare rendersi conto di qualcosa di molto importante. Si azzarda perfino a tirarmi uno schiaffo su una spalla, e io rido di gusto. – E smettila di prendermi in giro! Cazzo, sei odioso.
- Cos’è, tu puoi fare il fascinoso parlandomi di come ti diventa duro quando solo ti si sfiora la cicatrice sul fianco, - rido io, appoggiando una mano sopra i suoi boxer e stringendo la sua erezione fra le dita attraverso il tessuto in cotone sottile, - e io non posso prenderti in giro? Questo non è un rapporto paritario.
- Non lo sarebbe comunque. – borbotta lui, voltando il capo. So che lo fa perché vuole sottrarsi al mio sguardo, ma tutto quello che vedo in questo momento è il suo collo, perciò è su quello che mi chino, lo assaggio piano in punta di lingua e sento i suoi respiri tremare sotto la pelle ed uscire a fatica dalle sue labbra, mentre muovo la mano che ancora gli tengo fra le cosce, accarezzandolo lento come se la notte non dovesse mai finire.
- Questo lo fai, dopo esserti accarezzato la cicatrice…? – chiedo a bassa voce, direttamente sulla sua pelle, stringendolo con maggiore decisione fra le dita mentre le sue mani corrono veloci all’orlo dei boxer, per tirarli giù.
- Non avevi detto di smetterla di parlare? – chiede a fatica, ansimando pesantemente. Io gli sorrido addosso.
- Avevo detto che tu dovevi smetterla di parlare. – rispondo, lasciandolo andare così che lui possa togliersi di dosso la biancheria, così svelto che pare gli stia prendendo fuoco addosso. Mi si schiaccia contro subito dopo, lasciandosi sfuggire un respiro genuinamente stupito quando mi sente già duro contro una coscia.
- Non avevo idea che fossi così. – borbotta confusamente.
- Dovrei prenderlo per un complimento? – chiedo divertito, e lui sbotta un lamento esasperato.
- Non parlavo di questo… - si lagna, il petto che si alza e si riabbassa più velocemente quando riprendo ad accarezzarlo pelle contro pelle, - Dicevo come persona. Cioè, non so nemmeno com’è che ti immaginassi, in realtà, cambiavi spesso. Dipendeva dalla serata che avevo avuto, o da cosa mi stuzzicava di più in un determinato momento… ma questa è tutta un’altra storia.
- Sì, perché questo è vero. – annuisco in una mezza risata, strusciandomi lentamente contro di lui perché possa sentirlo, - Finché ti piace, comunque, non è detto che sia un male.
Inspira ed espira profondamente, sollevando le braccia ed allacciandomi al collo mentre schiude le gambe e m’invita a prendervi posto in mezzo, prima di rispondere.
- Mi piace. – dice in un fiato, spingendosi appena contro di me e ritraendosi all’ultimo momento, quando mi sente pressare contro la sua apertura in un incastro che tutto dovrebbe essere meno che naturale, e invece viene ad entrambi così spontaneo da fare quasi paura.
- Allora è tutto a posto. – sorrido, inumidendomi due dita con un po’ di saliva ed accarezzandolo piano fra le natiche. Lui rabbrividisce e si tira indietro quasi all’istante, mosso dalla paura. – Calmati. – gli sussurro sulle labbra, - Ti ho detto che non farà male, no?
- Sì, ma era la verità? – chiede giustamente lui, ed io rido a bassa voce.
- Dipende anche da te, ricordi? – dico baciandolo ancora, - Sei tu il primo che non deve pensarci. Il resto verrà da sé.
Lui annuisce – si rassegna, forse – e lo sento rilassarsi sotto di me mentre le mie dita umide tornano a sfiorarlo, facendosi strada dentro al suo corpo una alla volta. Lo sento trattenere il fiato così a lungo che poi, quando è costretto a tornare a respirare, lo fa tutto in una volta, sbuffando come una teiera ed ansimando pericolosamente. Rido un po’, e piego le dita come ho imparato a fare solo recentemente – uno dei numerosi regali di Anis, suppongo per scusarsi di tutto ciò che mi ha fatto e di tutto ciò che, indubbiamente, continuerà a farmi in futuro, perché io sono uno che, se solo gli dai tanto, ti permette di fare questo ed altro – ottenendo in risposta da lui un gemito acuto e prolungato, un po’ ridicolo, ma che mi agita qualcosa nel petto e nel fondo dello stomaco.
- Ti prego. – mormora stentatamente lui, muovendosi un po’ alla cieca nel tentativo di spingere le mie dita abbastanza in fondo da toccare nuovamente quel punto che, anche se solo per un secondo, gli ha fatto perdere la testa. Io ritraggo la mano, prendendolo da sotto le ginocchia e portando le sue gambe fin sopra le mie spalle, dove le appoggio, piegandolo in una posizione un po’ innaturale che lo costringe a schiudere gli occhi e guardarmi incerto nel buio, in cerca di una risposta per ottenere la quale non ha abbastanza coraggio da farmi una domanda.
Mi sistemo meglio contro di lui, inumidendomi di nuovo le dita e poi accarezzandomi velocemente per tutta la lunghezza, preparandomi ad entrare dentro il suo corpo. E succede tutto in un attimo, così veloce che io a stento me ne accorgo, come quando ha spaccato la bottiglia e poi me l’ha puntata alla gola. C’è lo stesso potenziale di pericolo in quello che ha fatto lui poco fa e in quello che sto facendo io adesso. Solo che lui non ha avuto il coraggio di affondare. Io invece sì.
Quando mi scavo a fatica un posto dentro di lui, che è stretto e caldissimo tanto da costringermi ad annaspare senza fiato, Daniel inarca la schiena e geme. C’è del dolore, forse, da qualche parte, ma lui non ci sta pensando. Ed è molto bravo a farlo, tanto che per un secondo quasi penso a lui con una punta di irrazionale orgoglio, perché ciò che ha reso forte lui è esattamente ciò che ha reso forte me. Siamo incredibilmente simili, anche se lui non se ne accorge, ed è questo che lo spinge a cercare proprio me, a volere proprio me, con tutti quelli che potrebbe cercare e volere nel mondo, anche se in questo momento è convinto di volermi solo perché io sono uno che ce l’ha fatta, uno cui guardare con ammirazione e rispetto. Siccome lui è piccolo, cerca qualcuno che possa ricordargli se stesso, solo un po’ meno sofferente. Quando sarà grande, ricorderà i sentimenti che sta provando adesso con un imbarazzo infinito. E questo lo so perché per me è lo stesso, e ci convivo ogni giorno. Quello che Anis prova per me è così diverso da quello che io provo per lui. Ed il fatto di pensarci e realizzarlo proprio ora è così ridicolo che mi viene da ridere.
Non lo faccio, naturalmente. Mi muovo piano, perché davvero voglio che non faccia male, e dopo un po’ sento Daniel cominciare a muoversi in sincrono con me, le sue spinte che vanno incontro alle mie, i nostri bacini che si scontrano sempre più spesso sul sottofondo quasi musicale del fruscio lievissimo delle lenzuola ancora perfettamente composte sotto i nostri corpi sudati, come se questo letto non fosse mio, come se nemmeno questa casa fosse mia e noi fossimo semplicemente entrati da una finestra per prendere possesso di qualcosa che non ci appartiene, solo per venti minuti di serenità.
Stringo la presa sulla sua erezione e mi muovo più velocemente solo quando la via all’interno del suo corpo è abbastanza aperta da permettergli di ansimare non più solo per il senso di pienezza inevitabile e quasi nauseante che è normale ti prenda quando qualcosa di così estraneo da te sfiora la tua intimità in maniera così invadente, ma anche per la sensazione piacevole delle mie labbra che lo sfiorano ovunque, delle mie mani che gli accarezzano i fianchi, delle mie dita che passano insistentemente lungo la linea irregolare della sua cicatrice, tirandogli via il respiro a tratti ed a tratti restituendoglielo all’improvviso. E rallento le spinte, aumentando solo il ritmo delle carezze, aspettando che lui sia venuto prima di riprendere a pompare più velocemente, abbandonandomi poco dopo ai brividi dell’orgasmo che mi portano inevitabilmente a franargli addosso in pochi secondi. Per un attimo, penso distrattamente che ho paura di schiacciarlo, restandogli così addosso. Lui, però, mi regge bene. Non si lamenta neanche. All’inizio respira a fatica, ma poi si calma ed il suo respiro assume un ritmo meno frenetico. E per riflesso mi rassereno anch’io.
- Ehi. – dico piano, rotolando sulla schiena e rimanendo al suo fianco. Una mia mano è rimasta sulla sua coscia. A me non dà fastidio lasciarla lì, a lui non dà fastidio che ci sia, per cui è lì che la lascio. – Dimmi la verità, non sei maggiorenne, vero?
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, perdendosi in un flusso di parole apparentemente privo di senso fino a quando, finalmente, non sbotta in un “tecnicamente no” che mi fa scoppiare a ridere.
- Ma lo sarò fra poco. – si giustifica con voce lamentosa, rovistando sotto di sé per disfare le coperte e nascondercisi sotto, - E poi ti ho promesso che non ti denuncerò, smettila di insistere sul punto, no?
Io rido ancora, mi volto su un fianco e gli accarezzo la frangia con la mano libera, ravviandogliela sulla fronte.
- Era solo per saperlo. – lo rassicuro, - Non devi giustificarti di niente.
- Ovvio che non devo, sarai tu a doverti giustificare davanti a un giudice, quando spiattellerò tutto al tipo che mi ha assoldato per venire a letto con te. – dice lui con naturalezza. Lo fisso, spalancando gli occhi. – Scherzo. – borbotta tirando fuori la lingua. Rido e mi sporgo a mordergli le labbra in un gesto che è un po’ una punizione e un po’ un complimento sincero. – Quindi… - biascica lui quando mi allontano, - Questa è stata la prima e l’ultima volta, mh? Non ci rivedremo più.
Sorrido, girandogli un braccio attorno alle spalle e tirandomelo contro.
- Invece magari domattina intanto ti porto a fare colazione in qualche bel posto, - propongo, - e poi per il resto vediamo col tempo. Che ne dici? Ti piace come idea?
Non lo vedo sorridere, ma sento le sue labbra tendersi contro la mia pelle, e le sue braccia chiudersi attorno alla mia vita.
- Mi piace. – risponde annuendo.
Io sorrido ancora.
- Allora è tutto a posto.

Bookmark and Share

Pictures

di lisachan
Io non sto bene, è evidente. Cioè, è già un chiaro segno di squilibrio il fatto che io abbia acconsentito a continuare a vedere Daniel, decidendo di ignorare il fatto che è palesemente minorenne solo per quieto vivere e perché non ho nessuna voglia di ritornare a pensare a quanto potrebbe fare schifo la mia vita in prigione se questa faccenda saltasse fuori – sempre ammesso che Anis possa decidere in coscienza di lasciarmi lì a marcire senza ricoprirmi di avvocati come ermellino sul mantello di un re, nel caso succedesse, ma potrebbe, se scoprisse che l’ho tradito col minorenne di cui sopra, o almeno credo, e quello che sto dicendo manca evidentemente di senso compiuto, me ne accorgo da solo, non c’è bisogno di farmelo notare, grazie mille.
Comunque, il succo del discorso è che devo stare proprio male, cioè, proprio fuori di testa se, oltre a tutto questo, io Danny prendo e me lo porto anche in casa del Chaku. Perché l’ho fatto? Il mio letto è più comodo del suo, c’è il materasso ortopedico mentre qui non sono neanche sicuro che il materasso ci sia. E casa mia puzza di meno, i rubinetti non perdono, non devi effettuare un corso preparatorio di introduzione alle lingue morte degli scarafaggi della tribù dello scaldabagno orientale prima di entrare nel cesso, e voglio dire, genericamente le condizioni di abitabilità del mio appartamento sono molto migliori rispetto a quelle di questa topaia disastrata che neanche il tocco magico di Bill – riassumibile in “no, Chaku, devi pulire, perché sennò io non posso poggiare il tacco dei miei stivali Armani da millecinquecento euro sulla tua moquette” – è riuscito a rendere un luogo abitabile da esseri umani veri, esseri umani che non siano Chakuza, intendo.
Mentre ricado sul letto accanto a Daniel e la mia schiena urla pietà, realizzo che è evidente che il materasso sotto di noi è solo un’illusione: vogliamo fortemente credere che un materasso ci sia, perciò ci sembra di stare sul morbido quando così non è. No, scherzavo. In realtà realizzo che se ho portato Daniel qui è perché, nonostante tutto, il paragone fra casa mia e casa del Chaku non regge nemmeno. Non è che l’ho portato qui per una sorta di ripicca, a-ha!, non ci sei e io scopo con un altro nel tuo letto, no, è che da quando le cose con Danny si sono fatte più intime – e non sto parlando solo di una scopata o due, ovviamente – ho davvero sofferto l’impossibilità di renderlo un pezzo della mia vita vera. Presentarlo ai miei amici, portarlo in giro, portarlo in un appartamento che per me potesse significare qualcosa in più della scatola in cui dormo quando non ho nessun altro posto dove andare. E questa casa, per me, rappresenta tutto questo. Scusami, Chaku, non è per te che lo faccio. È per me.
Daniel non aspetta nemmeno di riprendere fiato – o meglio: lui il suo l’ha già recuperato, è il mio che ancora si fa rincorrere, ma questo naturalmente ci riporta al problema dell’età già frettolosamente affrontato prima e sul quale non intendo soffermarmi ancora – e mentre io sono ancora qui che cerco di capire chi sono, cosa faccio al mondo e che nome m’abbia dato quella povera donna di mia madre, lui scatta a sedere e si piega oltre il bordo del letto, riemergendo mezzo secondo dopo col proprio zainetto, che appoggia in grembo ed all’interno del quale comincia immediatamente a rovistare come in cerca della pillola del giorno dopo come rimedio estremo dopo una notte di sesso non protetto che naturalmente non ha avuto luogo, non fatevi strane idee.
- Non puoi rimanere incinto, sai? – lo avverto, seguendo il filo dei miei pensieri e rendendomi conto del fatto che si tratta di pensieri prevedibilmente solo miei nel momento in cui lui mi lancia un’occhiata vagamente allucinata e poi ritorna a ficcare la testa nello zaino, riemergendo qualche secondo dopo con una macchina fotografica in mano.
- Ah, eccoti qua. – dice soddisfatto, stringendola fra le mani per accenderla e verificare le impostazioni.
- Che sarebbe quella roba? – chiedo, inarcando un sopracciglio. È ovvio che so che si tratta di una macchina fotografica, ma mi aspetto una risposta ben più esauriente, nonostante la domanda poco centrata.
- Una macchina fotografica. – risponde invece lui, pacifico come un putto addormentato su una nuvola col suo gonnellino bianco e la sua arpa in miniatura sotto il cuscino.
- Sì, lo so cos’è, Danny. – mi lagno io, inarcando anche l’altro sopracciglio, - Intendevo cos’è che vorresti farci?
- Be’, allora avresti dovuto chiedermi quello, tanto per cominciare. – ride lui. E poi, semplicemente, solleva la macchina fotografica in modo da centrarmi all’interno dell’obbiettivo e poi scatta.
- No, dai! – mi lagno io, ricadendo sul mio cuscino con un tonfo rassegnato, - Per favore, sono uno straccio.
- Ti prego, sei stupendo. – ride lui, scattandomi un’altra foto, - Vuoi sapere quando sembravi uno straccio? Quando ti sei fatto quella foto pseudo-MySpace con la canottiera bianca. Dio mio, che roba squallida.
- Dio mio, quanto sei gay. – sospiro, gettando uno sguardo implorante al soffitto.
- Oh, da che pulpito. – ride ancora Danny, stendendosi accanto a me e scattando una foto a entrambi. Lui sorride come il ragazzino che è, io lo guardo male come il vecchio scarpone brontolone che sono.
- Le foto sono l’ultimo dettaglio prima di mettere in atto il piano per denunciarmi alle autorità? – chiedo schermandomi con un braccio. Lui ride divertito, e stavolta rido anch’io, gli rubo la macchina fotografica dalle mani e gli salgo addosso, sovrastandolo e costringendolo a restare steso sul materasso senza pesargli troppo sopra, anche se so che mi regge più che bene. Non riesco a impedirmele, queste premure, per quanto sia sciocco.
- Che fai? – mi chiede, guardandomi dal basso. Il modo in cui i suoi occhi scorrono lungo tutta la superficie del mio corpo mi dà i brividi. Mi mordo un labbro, puntandogli addosso la macchina fotografica e scattandogli una foto.
- Sei fotogenico. – commento, osservando il risultato sul display, - Anzi, in realtà sei proprio bello. – continuo, guardandolo con sincero interesse. Lui arrossisce subito. – Hai mai pensato di fare il modello? Pagano bene, se arrivi a certi livelli.
- Non è roba per me, quella. – borbotta lui, aggrottando le sopracciglia, vagamente offeso. Io rido un po’.
- E cos’è roba per te? – chiedo curiosamente, restando dove sono e scattandogli un’altra foto. Lui guarda altrove, le labbra appena piegate in una smorfia addolorata. L’obbiettivo cattura i suoi lineamenti affilati, ne sembra inspiegabilmente attratto. È qualcosa che posso capire. – Non oso nemmeno immaginare dove vivi.
- Ehi, casa mia è a posto, ok? – sbuffa, incrociando le braccia sul petto e tirandosi un po’ su, per fronteggiarmi da una posizione meno svantaggiosa, - È mio padre che la rende una merda, ma la casa è ok.
- Avanti, vuoi farmi credere che il tuo sogno è restare a Tempelhof? In quel posto di merda? – sospiro, sdraiandomi al suo fianco e mettendo via la macchina fotografica.
- Non ho detto questo. – risponde lui, duro, - Ho solo detto che fare il modello non è la mia cosa. Io voglio rappare.
Non riesco a trattenere una risata.
- Sì, è una frase che ho già sentito, questa. – commento, scompigliandogli i capelli. Lui si sottrae dal mio tocco con uno scatto da bambino offeso, ma prima che possa cominciare a protestare il mio cellulare, poggiato sul comodino accanto al letto, si mette a squillare, e lui si zittisce immediatamente. È una cosa così automatica che un po’ mi spaventa, non dovrebbe essere così naturale per lui farlo. Non così presto, almeno.
Mi allungo a recuperare il telefono. Sul display, lampeggia il nome di Bill. Sono un po’ stupito – non lo sento da quando è partito in tour coi ragazzi – ma rispondo.
- Pronto? – dico, e per molti secondi nessuno risponde. È come se Bill si fosse addormentato col telefono in mano mentre il telefono squillava. – Pronto? – ripeto, perché non voglio chiamarlo per nome di fronte a Danny. Non che sia possibile pensare che ignori le mie frequentazioni col ragazzino, ma insomma.
- …scusa. – risponde finalmente Bill, il tono trasognato, la voce flebilissima. – Come stai?
- …dovrei chiederlo io a te. – rispondo incerto, - Ragazzino, è tutto a posto? Ti sento strano.
- Strano? – chiede lui, un po’ confuso, - No, perché dovrei?
- Non lo so, era un’impressione, sei… non lo so. – rispondo sinceramente, - Ma c’è qualche problema?
Bill si prende qualche altro secondo, prima di rispondere.
- Sai che ho tagliato i capelli? – mi dice quindi, - O forse devo ancora farlo, non ricordo. O forse l’ho già fatto, ma tantissimo tempo fa, e sono già ricresciuti.
…ok, c’è decisamente qualcosa che non va.
- Bill? – lo chiamo, rinunciando a qualsiasi forma di pudore e discrezione ancora residue nella mia testa e mettendomi immediatamente a sedere, come se il fatto di cambiare posizione potesse rendermi più agile, pronto a scattare nel caso dovesse dirmi che ha bisogno d’aiuto. – Bill, ma stai male?
- Male? – chiede lui, e ride. La sua risata è talmente vuota che se ci urlasse dentro si sentirebbe l’eco. – Ma no. Sto bene. Non devi preoccuparti. – e posso immaginare il sorriso sulle sue labbra, e mi dà i brividi. Deglutisco a fatica. – Ora devo andare. – riprende subito, impedendomi di insistere ancora per farmi dire cosa diavolo ha, - Mi sa che è proprio ora di tagliare i capelli.
Interrompe la telefonata subito dopo. Io resto seduto, osservando il suo nome che ancora lampeggia sul display finché non cade la linea e lo schermo torna ad oscurarsi del tutto.
- Problemi? – chiede Daniel, piantando il gomito sul cuscino ed appoggiando il mento al palmo della mano aperta. Io faccio per rispondergli, ma il telefono squilla di nuovo. Spero sia Bill che mi dice che si è trattato di uno scherzo. Ti permetto di prendermi in giro perché ci sono cascato, ragazzino. Ci sono cascato con tutte le scarpe.
Invece è Anis. Non riesco a nascondere la delusione nello sguardo e nella piega delle labbra. Daniel se ne accorge, sicuro come la morte. È un bene che Anis non sia qui, così almeno potrà evitare di accorgersene lui.
- Ehi. – rispondo, e cerco di forzare un sorriso.
- Con chi eri al telefono? – chiede subito lui, senza nemmeno salutarmi. Mi passa subito la voglia di provare ad essere conciliante.
- …sto bene, Anis, qui le cose vanno alla grande, non preoccuparti. – sbuffo, e mi rendo conto di quanto suoni ridicolo, soprattutto considerato che c’è Danny qui accanto che inarca un sopracciglio e sta pensando tutta una serie di cose poco carine, a ragione, peraltro, ma mi viene spontaneo. Anis inspira ed espira lentamente, dovunque si trovi in questo momento, e quando torna a parlare lo fa con un tono di voce completamente diverso.
- Mi dispiace. – sospira, - Avevo— davvero bisogno di sentirti, ecco, e quando ho provato a chiamarti trovare occupato mi ha infastidito.
- Sì, be’, ho una vita, sai? A parte te e il vostro carrozzone di pazzi scriteriati, intendo. – continuo a borbottare. Daniel mi guarda malissimo, o forse sono solo io che voglio sentirmi rimproverato dai suoi occhi azzurri e un po’ assonnati. Sospiro. – Scusa. Giornata difficile.
- Dillo a me. – ridacchia lui, espirando profondamente. – Successo qualcosa in particolare?
Lancio un’altra occhiata a Danny. S’è sdraiato tranquillo sotto le coperte e s’è messo a scorrere le foto che abbiamo scattato stasera, osservandole tutte con interesse nonostante gli occhi che già si chiudono. Dormirà fra pochi secondi. Sorrido un po’.
- Niente di che. Da voi?
Anis sospira così profondamente che mi chiedo se i suoi polmoni siano abbastanza grandi da contenerla, tutta quell’aria.
- È tutto un gran casino. – risponde a bassa voce, - Se fossi qui sarebbe diverso.
- No, non credo. – rido piano. Danny sta già praticamente russando quando stringe una delle mie mani fra le proprie e la porta ad accarezzarsi i capelli.
- Io ne sono sicuro, invece. – insiste Anis, - Se tu fossi qui, Bill avrebbe almeno un po’ di pudore.
Mi mordo un labbro, sistemandomi meglio sul materasso nonostante possa sentire le doghe della rete premermi contro la spina dorsale.
- Senti, se posso darti un parere spassionato, Anis, - sospiro appena, - la tua principessa non sta un cazzo bene.
Anis sospira a propria volta, e sarà almeno il millesimo sospiro che ci concediamo da quando abbiamo cominciato a parlare.
- La mia principessa non sta un cazzo e basta, Pat. – risponde con un sorriso amaro, - Non sta e basta.
Se fosse qui, lo abbraccerei. Ma non è qui, qui c’è solo Danny, perciò abbraccio lui. Gli passo un braccio attorno alle spalle e me lo tiro contro. Nel dormiveglia, lui mugola appena, così a bassa voce che Anis nemmeno lo sente, e si sistema contro il mio petto.
- Mi dispiace, Anis. – rispondo, sperando che la mia voce sia abbastanza dolce da farlo sentire compreso davvero. – Lo sai che mi dispiace.
- Sì, lo so. – risponde lui. Il suo sorriso, lo sento dal tono, è già meno teso e più sincero. – Vado a riposarmi un po’. – dice quindi, la voce improvvisamente carica di stanchezza, come non potesse più farcela a reggere il proprio stesso peso dopo essersi scaricato tanto. – Buonanotte.
- Buonanotte. – rispondo piano. Ascolto la voce del telefono e della conversazione interrotta per qualche secondo, prima di rassegnarmi a chiudere la telefonata ed impostare la vibrazione. Poso nuovamente il cellulare sul comodino e mi stendo più comodamente. Daniel mi si stringe contro, si appoggia del tutto sopra di me e quella del suo corpo così caldo e così vicino è la sensazione più bella che ho provato negli ultimi mesi della mia vita.
Quando il suono della vibrazione contro il legno del comodino si diffonde fastidiosamente nell’aria, per prima cosa penso di nuovo a Bill. Poi mi rendo conto che è molto più probabile che sia Chakuza. Infine, capisco che dovrei lasciare quel telefono squillare e ignorarlo, ed invece mi allontano lentamente da Daniel e, sperando di fare in tempo, recupero il cellulare e mi trasferisco in salotto.
- Chaku. – lo chiamo piano, e il respiro che rilascia quando sente la mia voce lo sento quasi sulle mie stesse labbra. – Ehi, tutto a posto?
- A posto? – ride un po’ lui, e posso sentire che è in un ambiente piccolo e isolato, forse nella sua cuccetta dentro il tourbus. La sua voce è bassissima, ma c’è così tanto silenzio che la sento comunque con una chiarezza impressionante. – Per dirti se le cose sono a posto, dovrei ricordarmi com’è che erano quando ci stavano. – risponde con un’altra risata un po’ disillusa.
- Ma insomma, me lo spieghi cosa cazzo sta succedendo? – borbotto io, lasciandomi ricadere sul divano e tirando su le gambe per stendermi, - Che cazzo, la chiarezza sicuramente non è un vostro dono.
- Nostro di chi? – chiede subito lui, stupito. Io mi mordo un labbro.
- …degli austriaci. – invento io, - Intendo, sembri preoccupato ma non mi spieghi perché. Parla, no? – dico, sperando di essere stato sufficientemente convincente. Sono quasi sicuro di non esserlo stato e sento ancora gli occhi azzurrissimi di Daniel addosso mentre silenziosamente mi lasciano credere che mi stanno disapprovando, ma dal modo in cui Chakuza risponde è palese che la mia prova come attore di teatro dell’improvvisazione non era importante per farlo sentire libero di parlare: ne ha così tanto bisogno che le parole gli escono dalla bocca come un fiume in piena, travolgendomi.
- Sta andando tutto di merda, Pat. – comincia, talmente ansioso di dirmi tutto che le parole inciampano l’una sull’altra, si confondono, si intralciano a vicenda, - Bill sta dando di matto e io non so come aiutarlo. Perché sto dando di matto anch’io. E Bushido non riesce a fare niente perché non ci può riuscire nessuno, e se anche le cose non stessero andando poi così male questo tour rimarrebbe comunque un errore enorme, e so che quando torneremo a casa questa cosa ci avrà scombinato talmente tanto che rimetterci a posto sarà impossibile, ed ho pensato spesso a te, perché tu sei bravo a rimettere a posto le cose, ma mi sa che davvero, davvero, Pat, avrai vita dura quando saremo tornati.
La franchezza con cui ammette di aspettarsi che, quando saranno tornati a casa, io sarò lì armato di cerotti e pronto a rimetterli insieme, mi turba più di quanto non facciano le sue stesse parole, le cose che mi racconta, il disagio che esprime. Non riesco ad identificare un momento nella mia vita in cui ho permesso a questi uomini di farmi questo. Qualsiasi cosa questo sia. Perché qualsiasi cosa sia è dolorosa, ed io non voglio sentirmi così.
- Direi… - mi sforzo di rispondere, schiarendomi la voce, - Direi che potremo pensarci quando sarete tornati, no? – dico con una mezza risata incerta, alzandomi in piedi e prendendo a girare lentamente attorno al divano giusto per darmi qualcosa da fare. – Che ne dici?
- Dico che non ho granché altro da scegliere, ti pare? – ride anche lui, incerto tanto quanto me. Vorrei chiedergli perché ha sentito il bisogno di chiamarmi, ma so che la risposta a questa domanda è una risposta che in questo momento non voglio sentire. È una risposta che mi farebbe piacere, in qualsiasi altro momento, ma non qui, non ora. Non così.
- Hai ragione. – annuisco. E per la prima volta, stasera, sono io a chiudere la questione. – Buonanotte, Chaku.
Lui non mi risponde perché non vorrebbe chiudere la telefonata, lo sento nel modo in cui respira, come se stesse solo aspettando di trovare le parole giuste per dirmi di non riattaccare. Le parole non arrivano, comunque, e dopo qualche secondo di speranzosa e stupida attesa, io riattacco.
Torno in camera da letto, e Danny sta ancora dormendo, tutto raggomitolato nella stessa posizione in cui l’ho lasciato. Scosto le lenzuola e mi stendo al suo fianco. Il suo corpo trova il mio al primo contatto, e ci riannodiamo come prima così facilmente da darmi l’impressione di non essermi mai mosso da qui. È una sensazione che riconosco subito. Perché non mi muovo da tanto di quel tempo che se solo ci penso mi manca l’aria per respirare.
Nonostante questo, me lo stringo contro, affondo il naso fra i suoi capelli e chiudo gli occhi. Non mi accorgo del momento in cui mi addormento, ma il calore del suo corpo resta lì, legato al mio, per tutto il tempo, e quando mi sveglio, l’indomani mattina, c’è ancora.

Bookmark and Share

Where do we go from here

di tabata
Ci sono momenti in cui non so davvero da che parte cominciare a raccontarvi le cose.
Non è una questione di come presentarvele perché so già che le capireste in qualsiasi modo io ve le proponga e non ho quel tipo di pudore nei vostri confronti che mi spinge a dipingere gli avvenimenti in maniera diversa per farli sembrare meno gravi, meno ridicoli o incredibilmente meno stupidi di quello che sono. Vi ho raccontato io stesso quasi tutte le parti più imbarazzanti della mia relazione con Chakuza, quindi direi che non c'è niente che non vi racconterei per vergogna.
Il punto è che mi trovo di fronte il problema di dovervi spiegare quello che è successo dall'ultima volta che qualcuno di noi vi ha parlato – era Bill ed era sconvolto, quindi fate voi – e si tratta di così tante questioni tutte insieme che in pratica è come quando la signora Lotte si presentava a casa di Peter con mezzo chilo di lana in una borsa e ci chiedeva di aiutarla a farne tanti gomitoli separati. Noi guardavamo questa matassa amorfa di fili colorati senza né capo né coda e ci chiedevamo da che parte esattamente dovessimo cominciare ad arrotolare. D'altronde è per questo che il compito è toccato a me, perché quando c'è da tirare le somme tutti si danno alla macchia e chi rimane sono sempre io. Il sottoscritto ha fatto il punto della questione quando Bushido è morto, quindi va da sé che debba farlo anche per la resurrezione. Per me non era così automatico, voglio dire, la metà di quello che sto per dirvi nemmeno mi riguarda!, ma non ho mai avuto voce in capitolo quindi direi che possiamo anche sederci e cominciare.
Io e Peter con la lana eravamo due disastri e ricordo che la signora Lotte lasciava ogni volta che la tirassimo fuori dalla borsa e che poi, nel tentativo di sbrogliarla, finissimo per annodarci; quindi sorrideva benevola e trovava in un secondo il capo che ci serviva, come se avesse sempre saputo che era là o come se ai suoi occhi quello brillasse per farsi individuare da lei più facilmente. Non so come facesse, ma le bastava guardarci per capirlo. Ora io non sono altrettanto bravo mentre guardo metaforicamente Chakuza, Bushido e Bill annodati tra i fili di lana con i quali hanno tentato per quasi un anno intero di legarsi e poi strangolarsi a vicenda, ma se guardo attentamente la questione e cerco di non pensare a come mi sento al riguardo, il capo lo vedo abbastanza bene. E quel capo, manco a dirlo, è Bill.
Non voglio certo dire che sia stato il ragazzino a scatenare la sequenza di disgrazie più o meno gravi degli ultimi mesi, ma di certo lui è il primo minuscolo sassolino che ha poi generato la valanga, e tutto, come sempre, senza muovere nemmeno un dito. E' un talento di Bill quello di essere involontariamente un guaio per il solo fatto di starsene lì come un piccolo sole al quale tutti orbitiamo intorno.
Ma stavo parlando di lana, di fili e di reazioni a catena. Lo so. Non sono Chakuza, io, non mi perdo, cerco solo di prendere tempo per riordinare le matasse.
Dunque, innanzitutto Bill ha deciso, per la prima volta nella sua vita, di seguire il consiglio di qualcuno e quando gli ho spiegato che forse la soluzione che ci serviva per sopravviere era separarci, mi ha dato ragione e ha fatto l'unica cosa che poteva fare: ha preso suo fratello e con il favore delle tenebre è sparito dalla faccia della terra, lasciando David Jost a coprire le sue tracce e, probabilmente, a farsi spettinare dai grandi capi della Universal che per colpa degli ormoni iperattivi del suo enfant prodige hanno perso non so nemmeno quanti miliardi. Lo stesso consiglio, che mi sono prodigato a dare a chiunque perché ero stanco e perché davvero ero e sono ancora convinto che fosse quello giusto, lo hanno seguito anche Bushido e Chakuza, il che paradossalmente ha creato più confusione, forse perché nel loro caso non c'era un manager gay pronto a deviare gli attacchi nemici a colpi di organizer. Chissà.
In pratica è andata così e vi avviso che non è stata una sopresa per nessuno. La Universal Music Deutschland ha pensato che l'esperimento con i non-morti fosse da considerarsi concluso e ha mandato a Bushido una bella lettera in cui scaricava lui, l'etichetta e tutti gli uomini trainati nel bene o nel male dal suo grande carretto dorato. Allo stesso tempo, ha perso la pazienza anche nei confronti dei quattro ragazzini e dopo aver permesso a David di mentire un'ultima volta su tutto ciò che era successo e chiedere del tempo per far riprendere Bill, ha scaricato anche i Tokio Hotel con un gran sorriso e l'augurio sincero che l'imminente periodo di vacanza potesse in effetti fargli bene.
Cos'abbia fatto esattamente David a quel punto io non lo so, perché avevo i miei problemi a cui pensare e perché non appena si è sparsa la voce che il contratto dei quattro era stato annullato, l'invasione mediatica delle supposizioni e degli avvoltoi si è fatta talmente pesante tra televisioni, radio e giornali da spazzare via totalmente anche la mia voglia di informarmi o di chiamare il ragazzino e chiedergli come stava.
So però cos'è successo all'Ersguterjunge perché ero ancora lì quando Bushido ha dato agli altri la notizia e c'ero solo perché Anis mi ha chiesto di esserci prima di perderci di vista per un po'.
Dal momento che il colossale fallimento del suo tour con l'uomo più odiato e quello più amato della sua vita era noto a chiunque, Bushido avrebbe potuto non dico chiedere perdono per aver lasciato che l'etichetta andasse allo sbando e per essersi fatto palesemente buttare fuori a calci da chi lo finanziava, ma almeno presentarsi agli studi con la vaga consapevolezza di essere nella merda e di averci trascinato una decina di uomini, giusto per dare l'impressione che gliene fregasse qualcosa; ma ovviamente lui non l'ha fatto perché è Bushido e invece di prendere atto della disastrosa situazione e poi inizire a raccogliere i pezzi, ha finto che non ci fosse nessun problema ed è entrato da quella porta spavaldo come se il mondo gli dovesse qualcosa. Ha preso il fatto di aver perso Bill, la sua casa di produzione e in generale tutta la sua vita in un colpo solo e lo ha ficcato da qualche parte in fondo allo stomaco, per avere la forza di vestirsi ed uscire di casa perché non sopporta di soffrire. Il fatto è che stavolta non c'era nessuno pronto a sopportare la sua spavalderia difensiva, tranne forse me e Chakuza che oscillava per gli stessi motivi tra la sua rabbia furiosa e uno di quegli attacchi di depressione che lo porta ad accasciarsi per non muoversi ipoteticamente mai più. E così l'Ersguterjunge ha subito la sua prima scissione.
A parer mio, Nyze è uno che non ha capito un cazzo della vita o della gente che gli sta intorno; da che sono qui non ho mai avuto una grande opinione di lui, se non quella di uno che voleva far parte di un gruppo di duri da film e si è ritrovato con intorno delle persone reali, senza contare che se davvero si trovasse in mezzo alla gente che vuole lui, probabilmente gli farebbe un gran culo. Così quando ha iniziato ad aggirarsi come un leone in gabbia, menando le mani in aria e imprecando al solo sentir nominare un'altra volta il ragazzino, non mi ha sorpreso proprio per niente perché è quello che vedi nei film, no? Il fratello di strada si agita quando spari cazzate e dice più cazzo possibile, per averlo in bocca nell'unico modo consentito, mica come facciamo noi.
Bushido ha provato ad essere conciliante, gli ha detto di calmarsi e che avrebbe sistemato tutto, che la Universal poteva pulircisi il culo con la lettera di recissione, ma Nyze non lo stava nemmeno a sentire, perché quello era il suo grande momento e voleva solo che lo guardassimo tutti mentre dava a Bill della troia, a noi dei froci e poi se ne andava sbattendo la porta. Una scena di una tristezza sconfinata. Se proprio voleva andarsene, che trovasse le palle di farlo prima invece di continuare a far parte di un'etichetta su cui aveva iniziato a sputare merda due anni prima.
Immagino che il teatrino fosse chiaro a tutti perché nessuno si è preso la briga di fermarlo, nemmeno Bushido, ma per come stavano le cose, con il re incapace di convincere perfino se stesso, l'apatia di Chakuza e davanti agli occhi la fine dei soldi di tutti quanti, nessuno ha avuto la forza di battersi le mani sulle cosce e far vedere che era ottimista. Forse sarebbe servito, ma d'altronde è difficile pensare che tutto andrà bene quando hai scritto in faccia il contrario.
A quel punto Peter si è alzato in piedi e se n'è andato, dando così il permesso a tutti gli altri di farlo.
Bushido si è seduto sulla sua scrivania ed è rimasto immobile finché nella stanza non c'eravamo solo io e lui, quindi con un gesto secco ha buttato giù tutto quello che c'era sul tavolo.
Sono rimasto a contemplare quel disastro finché lui non mi ha detto di andare.
Lo ha fatto senza nemmeno voltarsi e io ho solo annuito, perché me lo sono ricordato a diciotto anni fare la stessa cosa quando un affare andava in merda e Arafat poteva anche incazzarsi peso.
Mi teneva lì finché poteva, finché la rabbia non arrivava all'orlo e poi mi mandava via.
Mentre scendevo le scale ho sentito il vetro dei suoi quadri che andava in frantumi, mi è venuto in mente Chakuza e quasi ho sperato di trovarlo per strada anche se gli avevo detto che era meglio non vedersi per un po'.
Ho scosso la testa e ho come avuto l'impressione che non stessimo migliorando affatto.

*


Che io non so stare in casa da solo ve l'ho già detto così tante volte che ho la nausea perfino io.
Il punto è che finora, quando non volevo stare in casa mia a guardare i miei bei mobili mai usati, c'era sempre un altro posto in cui potevo andare. Quando ero un ragazzino era casa di Anis, poi c'è stata quella di Chakuza, poi lo studio dell'Ersguterjunge e dopo quella notte terribile in cui ho impacchettato Chakuza e l'ho spedito alla Principessa, c'era anche la casa di Nicole.
Ora invece non c'è un bel niente e quindi sto seduto qui di fronte al televisore a chiedermi se non dovrei vendere tutto e, non lo so, cominciare a vivere in albergo. Una stanza diversa ogni sera, così da non sentirmi a disagio se per caso mi guardo intorno e mi rendo conto che in quel posto non ci vivo, che a parte il letto tutto è ordinato, intoccato, come se fosse uscito giusto ora dal negozio.
Sono passati quasi due mesi da quando il casino è successo e in tutto questo tempo non ho fatto molto altro se non starmene seduto qui come sto adesso a chiedermi se invece non dovrei fare qualcos'altro senza poi farlo.
Gli unici momenti in cui effettivamente non sono immobile e non sto contemplando l'universo, sono quelli in cui Danny fa irruzione in casa mia e, come l'adolescente che è, m'impedisce fisicamente di occuparmi di qualsiasi cosa che non sia lui. Ascoltarlo e stargli dietro mi portano via tempo, che è esattamente ciò di cui ho bisogno, ma l'entusiasmo che ha per noi due – qualunque cosa siamo – è drenante e deleterio perché mi lascia più triste di come mi ha trovato quando poi Danny prende il suo zainetto sbrindellato e torna a casa, e mi ritrovo di nuovo qui a guardare il divano in pelle, con l'aggiunta che a quel punto ho in mente lui e mi ricordo che è piccolo, che non dovrei dargli corda e che lui è solo un altro casino in cui mi sono subito infilato quando ancora non ero uscito da quello prima. Solo che è un casino nuovo, sa di fresco e sembra ancora risolvibile, non come tutti gli altri.
Oggi è una di quelle giornate, anche se non vedo Danny da quattro giorni. O forse è una di quelle giornate proprio per questo, perché non so esattamente dove sia e, visto l'ambiente in cui vive, non sono tranquillo e finisco a pensare. A tutto. A lui, a me e a questa casa in cui non mettevo piede da così tanto che quando ho aperto la porta c'era un puzzo di chiuso che ti prendeva alla testa.
Mi chiedo se c'è stato un tempo nella mia vita in cui non ero così incasinato in questo modo perché ormai mi sveglio la mattina e mi sembra di essere sempre stato così e che in realtà non trovo una soluzione al mio problema perché il problema non c'è e dovrei semplicemente prendere le cose così come sono e continuare a vivere come presumibilmente vivevo anche prima, ma so che non è vero.
E se ci penso, so anche che una volta il mondo non andava a rovescio; mi viene da ridere quando mi rendo conto che quel tempo era quando stavo all'Aggro Berlin ed ero ancora incazzato con Anis. Avrei dovuto continuare a sputargli addosso, così questa distorsione spazio temporale in cui io sono l'ombra di me stesso non esisterebbe e sarei felice. Forse.
A quel tempo, Anis era vivo e io lo volevo morto, il che è ridicolo se si pensa che poi ho passato un anno in cui era morto e lo volevo vivo – quell'uomo è palesemente il più grande generatore di confusione nella storia dell'umanità – e mi viene in mente che allora, in effetti, c'era un altro posto in cui stavo quando non volevo entrare in casa mia: l'appartamento di Sido.
Non vedo Sido da uno sproposito di tempo, ormai, e lui ha anche rinunciato a minacciare di licenziarmi al decimo sms a cui non ho risposto. Forse mi ha anche licenziato senza dirmelo; ma in questo momento non ci penso perché il solo ricordo della sua casa mi fa stare bene. Non penso che magari lui ce l'ha a morte con me, non penso nemmeno che non posso presentarmi alla sua porta dopo non so quanti mesi di silenzio con una borsa in mano e aspettarmi di essere ospitato.
Il fatto è che tolti tutti i posti in cui vorrei andare e non posso, casa sua è l'unica in cui mi sembra di poter scappare ora che casa mia è tornata a soffocarmi, e non vedo motivo per non tentare.
La valigia la preparo così di corsa che non so esattamente cosa mi sto portando dietro perché apro i cassetti e li ribalto, scegliendo le cose che cadono nella borsa da sole e scartando quelle che finiscono sul pavimento. Mentre rovescio il cassetto dei calzini, però, mi fermo perché l'occhio mi cade sul peluche a forma di aragosta che c'è sul letto e del quale mi ero dimenticato.
L'ho portato via dalla casa di Chakuza l'ultima volta che sono stato lì con Danny.
Non so esattamente perché l'ho fatto, era lì sul divano e mi è sembrato di dover allungare una mano e prenderlo. Lui si è fatto prendere senza fare storie.
Quando è ubriaco, ma anche quando non lo è, Peter se lo mette su una spalla e ci parla. Alle sue domande Hummer Kummer risponde con una voce ancora più roca della sua perché Chakuza non è un cazzo bravo a fare le voci, però ci prova e l'unica cosa che gli riesce di fare è parlare di gola. Diceva che era un'aragosta da guardia. E lo diceva di continuo perché Peter si dimentica le cose e te le ripete decine di volte, convinto di non avertele dette mai. Metto in valigia anche Hummer Kummer perché è un pezzetto di casa e non si parte mai senza e perché qui da solo non può stare. Questa casa non va bene per lui.
Mando un sms a Danny e lo avverto che non sono più a casa mia e che mi chiami quando può, quindi chiudo la porta e già mi sembra di respirare meglio.

*


Quasi cinque settimane dopo quel giorno, cioè adesso, vivo ormai in pianta stabile da Sido, che non vuol dire che io mi sia trasferito da lui e dalla sua famiglia ma che passo lì da loro molto tempo. Torno a casa mia quando ho voglia, cioè quando c'è Danny, o quando devo fare le lavatrici perché, anche se Doreen laverebbe volentieri i miei vestiti, mi scoccia farglielo fare e così ogni tanto metto tutto nel mio borsone e faccio un salto a casa, che poi è un bene perché una casa non puoi davvero lasciarla così a perdersi per niente.
Sto facendo dei salti temporali enormi, mi rendo conto. Il fatto è che sono successe molte cose importanti ma che tra l'una e l'altra sono passati mesi di nulla e io non posso davvero stare qui a raccontarvi il nulla, mi sembra chiaro. Quindi sto cercando di darvi un'idea di tutto, ma senza soffermarmi sui singoli dettagli e voi stavolta dovete fare uno sforzo e starmi dietro perché, vi giuro, è un casino ed è un casino che finisce col botto. Voi non volete perdervi nella mia vita, adesso, ve lo assicuro.
Vi basta sapere che quando sono arrivato a casa di Sido, lui non voleva nemmeno aprirmi. O meglio, mi ha aperto ma quando ha visto che ero io, mi ha subito richiuso la porta in faccia, lasciandomi sullo zerbino. Ad aprirmi ed invitarmi in casa quasi mezz'ora dopo è stata in realtà sua moglie Doreen che si è scusata perché Paul era un po' nervoso. Io avrei voluto dirle che più che altro era incazzato nero, ma Doreen è così dolce e bionda e ammantata di brillantini che non me la sono sentita di farlo e ho solo annuito, ringraziando.
La prima a venirmi incontro è stata la bambina che mi è saltata addosso strangolandomi in un abbraccio da orso, come se la mia presenza lì fosse perfettamente normale, cosa che non ha fatto che confermare la mia sensazione e aumentare le rughe sulla fronte di suo padre che si era seduto sul divano fingendo come al solito di essere un uomo rilassato.
Ora, io conosco Sido da un sacco di tempo, quindi lo so com'è fatto. E' uno che si incazza un casino, ma poi alla fine è buono, per cui dopo aver mandato via la bambina e Doreen e dopo avermi urlato che ero uno stronzo, che tornavo qui perché quel bastardo di Bushido mi aveva lasciato di nuovo a piedi e che ero pazzo se pensavo di avere ancora un lavoro all'Aggro Berlin, mi ha indicato una poltrona e mi ha detto “Cazzo ci fai lì in piedi come un cretino? Stasera resti qui a cena, non vedo l'ora di sentirti mentre ti arrampichi sugli specchi per giustificarlo.”
Dopo cena sono rimasto a dormire e poi a colazione, pranzo e di nuovo cena finché la loro bellissima mansarda non è tornata ad essere camera mia e io mi ci sono installato dentro come due anni fa, con la vecchia playstation della bambina, lo stereo e Doreen che mi chiede se voglio fare merenda con il latte e i biscotti.
A questo punto dovrei stare bene. Dico, casa di Sido è un posto che mi fa stare tranquillo, Daniel è sempre un danno ma riesco a tenerlo sotto controllo, non vedo le altre tre piaghe da così tanto tempo che magari riesco pure a dimenticarmi le parti peggiori di loro e sto pure scrivendo, il che significa che ho ancora il mio vecchio posto e, se tutto va bene, riesco pure ad incidere qualcosa entro l'anno.
Quando le cose iniziano ad andare straordinariamente bene dopo che avevano passato un sacco di tempo ad essere così schifose che ti veniva da piangere, non te le godi per niente perché non ti sembrano reali. Generalmente, però, è solo una tua sensazione che dopo un po' di tempo si esaurisce lasciandoti soddisfatto e certo che la tua esistenza stia di nuovo prendendo la piega giusta. Ecco, a me queste cose non capitano.
Se mi sembra che qualcosa non vada, quel qualcosa non va.
Uno di questi giorni io sto cercando di mettere insieme tre note, approfittando dello studio vuoto dell'Aggro Berlin. Qua non è come da Bushido, nessuno viene in ufficio prima delle undici, perché nessuno va a letto prima delle quattro, così se vengo qui di buon'ora sono sicuro di essere da solo. Una cosa che mi permette di lavorare e di non sorbirmi le occhiate pesanti di tutti gli altri che non hanno preso affatto bene il mio ritorno. Non li biasimo, ma preferisco evitarli. La mia vita viaggia sul filo del disastro già abbastanza così com'è per doverci aggiungere anche le accuse di sodomia, tradimento e stronzaggine generalizzata.
Sono lì da qualche ora quando sento la porta aprirsi e rimango sorpreso perché non mi aspettavo nessuno così presto. Resto ancora più sorpreso quando, dopo Sido, vedo entrare Nyze che, per l'occasione sembra più cattivo del solito. Pantaloni più costosi, canotta più aderente, ha perfino la catena. Una roba così pacchiana che in confronto quella che avevo io sulla copertina di Neue Deutsche Welle era un gingillo dell'uovo di Pasqua. Quasi me lo immagino mentre davanti allo specchio si veste a festa per venire qui, come se qui fosse un posto diverso dall'Ersguterjunge e i rapper non fossero persone come lui. Credo non gli sia ben chiara la distinzione fra personaggio pubblico e privato. Nemmeno Sido porta la maschera al gabinetto, qualcuno gliel'ha detto?
Visto che qui dentro sono più a casa mia io di lui, non mi pongo il problema di farmi da parte e lo guardo dritto in faccia. Lui sostiene il mio sguardo e ci prova anche a mostrare disprezzo per la mia presenza qui, ma poi evidentemente ricorda che io sono soltanto tornato e che lui, invece, sta facendo una cosa pessima perché non è certo qui in visita e lo sappiamo tutti e due.
Sido mi fa un cenno con la mano mentre continua a discutere con lui di cose che non sento aldilà del vetro e poi entrambi spariscono nell'ufficio di Sido.
Nyze torna sempre una volta in più di quanto mi piacerebbe vederlo e i ragazzi dell'etichetta lo accolgono a braccia aperte e con grandi pacche sulle spalle. Nessuno parla di contratto, ma nessuno poggia il culo sulla poltrona in pelle di Sido così a lungo senza mettere una firma. La pelle si consuma, dice lui, e in qualche modo va ripagata.
Credo che gli altri vedano Nyze come una grande conquista, la bandiera avversaria sul campo di battaglia, o una roba altrettanto epica. Se sperano di cavare da Nyze qualcosa di utile, si sbagliano di grosso.
Lui ne sa quanto loro sulla sua etichetta. Quello che c'è da sapere su Bushido, lo sa solo Bushido.
Chiederlo a me, naturalmente, poteva essere un'idea ma una parte di questi uomini pensa che io sia in missione segreta per conto del re e l'altra è abbastanza intelligente da sapere che non gli direi niente nemmeno se con Bushido ci avessi litigato di nuovo.
In realtà, quello che mi preoccupa di più non è quello che vogliono fare loro di Nyze, ma quello che Nyze pensa di poter fare qui. Mi chiedo, infatti, cosa lo abbia spinto a presentarsi proprio all'Aggro Berlin, quando c'erano altri porti più amichevoli in cui andare. L'intera scena rap tedesca poteva andar bene con il casino mediatico che anche per vie traverse si porta dietro. Avrebbero fatto la fila per averlo tra i ranghi e poter raccontare cazzate sulle divergenze di opinioni con Bushido, con me, con chiunque tornasse comodo. Ma presentarsi all'Aggro Berlin con il rischio di essere prima mandato a fanculo e poi deriso fino alla terza generazione nei successivi dieci ansage che sarebbero usciti, non ha molto senso. A meno che non si abbia in mente di fare lo stronzo, e guarda caso è proprio quello che io penso di lui.
Ogni volta che cerco di parlargli in privato, Nyze trova il modo di evitarmi e devo dire che non è molto difficile in un posto in cui tutti più o meno lo fanno. Parlarne con Sido è quasi altrettanto impossibile. Se sono allo studio, generalmente ormai c'è anche Nyze – il che non fa che confermare i miei dubbi sul suo contratto – e Sido ha una regola per cui non parla di lavoro a casa, per cui una volta varcata la porta, l'etichetta magicamente scompare e lui è soltanto un padre di famiglia con una moglie bionda e bellissima che a sua volta torna ad essere cantante solo fuori da quelle quattro mura. Ed è una regola fondamentale, questa, e Sido la fa rispettare così duramente che alle volte ho paura che mandi in mansarda senza cena anche me, oltre che la bambina.
La questione mi irrita più di quanto dovrebbe.
Le cose non sono più quelle che erano e per quanto ne so, l'Ersguterjunge potrebbe non esserci già più e Nyze potrebbe davvero avere le migliori intenzioni del mondo. Magari Bushido è perfino tornato a Miami a fare il meccanico, l'idraulico o qualsiasi altra cosa facesse laggiù.
Questo discorso me lo ripeto spesso e ogni volta ci credo meno di quella prima. E non ci credo perché, anche se non mi sto volutamente informando su di lui o sulla sua etichetta, io semplicemente so che Bushido è ancora a Berlino e che, visto cos'è successo la prima volta, non si azzarderà a prendere un altro fottutissimo aereo senza prima averci avvertiti tutti quanti, magari con una bella cena di commiato durante la quale, ovviamente, noi finiremmo per legarlo da qualche parte impedendogli di prendere il volo, che poi è esattamente il motivo per cui farebbe quella cena, nel caso. Per farsi amare collettivamente, una cosa che non abbiamo esattamente fatto quando è tornato dalla morte. Scusaci Anis, se eravamo sconvolti.
In quanto all'etichetta, credo che Bushido preferirebbe darle fuoco e raderla al suolo con le sue stesse mani piuttosto che abbandonarla, chiuderla o venderla e siccome non mi è arrivata alcuna notizia di un incendio in Ritterstrasse, direi che quel posto è ancora in piedi e il suo proprietario è probabilmente barricato in casa per evitare di scendere in strada e prendere a testate qualche giornalista che lo perseguita.
Per qualche settimana decido di stare zitto, anche perché mi dico che forse sono paranoico e trovo pure il tempo di addossare le colpe di questa paranoia a Bushido che ogni tanto ce li aveva di questi momenti da perseguitato politico, in cui qualsiasi angolo giravamo c'era qualcuno che voleva fargli le scarpe, portargli via il posto o cose simili. In realtà io credo che si divertisse soltanto a fare il cretino, mentre tirava su la cornetta del telefono per controllare la conversazione che avveniva dall'altra parte o teneva sott'occhio le targhe delle auto che sostavano di fronte a casa sua per vedere se una tornava più spesso delle altre. E quando succedeva, mi diceva “Ecco la vedi quella? La vedi, ragazzino? Sono settimane che è ferma lì, è sicuramente uno di quegli spacciatori turchi. Quello ci tiene d'occhio.” E poi magari era il lattaio e lui lo sapeva, ma si divertiva a farmi cagare sotto o a fingere che la situazione fosse diversa da com'era.
Per un po' smetto di perseguitare Sido, anche perché vedo che medita di prendere me, il suo materasso e tutte le mie cianfrusaglie e di trasferire tutto sul marciapiede di fronte a casa sua e io non me la sento di tornare a casa, non vedo perché devo tornarci visto che è buia e vuota. Per un momento ho anche pensato di farci stare Daniel, ma poi sono arrivato alla conclusione che lui potrebbe mal interpretare il perché dell'invito e ho lasciato perdere.
Nyze continua a venire allo studio sempre più spesso e comincia anche a lavorarci; se c'è un contratto nell'aria, e come ho detto c'è, non è stato ancora annunciato. Non ho una buona motivazione per prendere quell'uomo e scaraventarlo fuori dalla porta, eppure lui continua a non piacermi. E' solo una sensazione, ma mi dico che Bushido la capirebbe. Lui le capisce sempre queste cose.
Potrei disinteressarmi della faccenda, naturalmente, perché la presenza di Nyze, in realtà, ha distolto l'attenzione dal sottoscritto e, sebbene io non sia più quello con cui farsi una birra, di certo non sono più il frocio che è tornato da Bushido per farsi fare cose che ora non starò qui ad elencarvi perché non sono mai stato così scurrile. A quanto pare, non sono nemmeno la talpa che certa gente pensava che fossi perché, guarda un po', non faccio che passare dallo studio a casa di Sido e da casa di Sido allo studio. Non ho una vita sociale al di fuori di Danny e i loro pedinamenti – sì, no, dico, vi sembra normale? - non devono aver fruttato molto altro che un sacco di avvistamenti di me e di lui che entriamo a casa mia con una pila di pizze e un film.
Potrei, dunque, disinteressarmi della faccenda ma, ovviamente, non lo faccio perché, come dice mia madre, ho la testa dura come il cemento e quando mi convinco di una cosa dev'essere quella per forza, anche se magari non è così, finché non ci sbatto la testa e allora capisco che potevo starmene buono ed evitare di farmi venire il bernoccolo.
Così un giorno faccio irruzione nello studio di Sido e lo trovo seduto sulla sua poltrona di pelle che guarda Berlino attraverso la grossa vetrata che si è fatto costruire dietro la scrivania. Gli manca solo il gatto e una risata malefica e poi sarebbe un cattivo perfetto per un film di James Bond.
Solo che, appunto, è Sido e io lo vedo uscire in mutande a righine ogni mattina dalla camera da letto, mentre sua figlia corre per casa recitando a memoria la sigla di Sailor Moon, per cui solo guardandolo gli tolgo tutta l'epicità che potrebbe mai possedere. Tra l'altro, sono lì con il sincero intento di salvare lui e la sua etichetta da una minaccia che, d'accordo, non so quale sia, ma la percepisco, quindi non penso nient'altro che a quello e mi sfugge il fatto che poteva non volere più avere niente a che fare con me e che io, a ben guardare, non avrei voce in capitolo anche se decidesse di vendere tutto a Nyze e andare in pensione, per dire. Insomma, faccio esattamente quello che non dovrei fare: mi getto contro il muro di testa a duecento chilometri orari.
Invece di partire dal principio e di fargli più o meno il discorso che ho fatto a voi, la prima cosa che gli dico è che Nyze è uno stronzo che non cercava altro che una buona occasione per dare addosso a Bushido e farci su anche dei soldi e che quell'occasione l'ha trovata all'Aggro Berlin, servita su un piatto d'argento.
“Credi che non lo sappia?” Mi dice lui. “Quello è qui a cercare qualcuno che possa sostenerlo in questa crociata contro il tunisino. Ho tutto sotto controllo, Fler.”
“No, non ce l'hai sotto controllo,” dico e sbaglio. Dio mio, se sbaglio. Se c'era una cosa sbagliata da dire l'ho appena detta. La cosa peggiore da fare quando ti sembra che chi ti sta davanti non abbia capito un cazzo è dirgli che non ha capito un cazzo. Ora puoi stare sicuro che non farà mai quello che dici tu.
“Lo hai sentito dire qualcosa?”
“No.”
“Lo hai visto fare qualcosa?”
“No, ma non mi piace.” Fa talmente schifo come risposta che non me ne accorgo solo ora che ve lo sto dicendo ma me ne accorgo subito, che ancora l'eco delle mie parole non si è spenta.
Sido mi guarda, gonfiando una guancia. “Quindi fammi capire, io dovrei mandare via questa persona che potenzialmente ci farà guadagnare un sacco di denaro semplicemente essendo dei nostri perché tu ti sei svegliato stamattina con l'acidità di stomaco?”
Mi gratto la fronte e poi una guancia. “Senti, okay. Ricominciamo da capo, va bene? Cerca di seguire il mio ragionamento.” E provo a dirgli quello che ho detto a voi, ma a quel punto è tardi perché Sido non sente altro che unghie sugli specchi e quello che ne viene fuori è in effetti una paranoia basata sul nulla più assoluto, tranne forse la gelosia.
“Cos'è che non ti va a genio, Fler?” Mi dice lui. “Che Nyze sia qui o che tu non sia più la punta di diamante di questo posto?”
Questo fa male. Cioè, lo sapevo, ma non me l'aveva detto chiaramente e quindi era tutta un'altra cosa. E comunque fa male, non sono abituato. Okay, forse sono un po' geloso ma ho ragione io. Vi ricordo che tutto questo è già successo, quindi quello che dico lo dico con cognizione di causa.
Io so di aver ragione.
“Senti, non stiamo parlando di me. Dico solo che quello non mi piace.”
“E non sai quanto la notizia mi spezzi il cuore,” risponde lui, sarcastico. “Ora, per favore, esci da questo ufficio e torna quando avrai qualcosa di utile da dirmi.”
“Quello ha qualcosa in mente.”
Sido inspira ed espira, quindi mi osserva. “Lo spero vivamente perché non ho intenzione di tenerlo sotto contratto a grattarsi il culo davanti alla tv.”
“Lo hai scritturato?” Chiedo. Lui annuisce. “Non ti è passato per il cervello che potrebbe essere tutto calcolato?”
“Da chi?” Esclama lui. “Da chi, Fler? Se lo ha mandato Bushido, allora dovrò dubitare anche di te perché sei stato tu a dirmi che si sono mandati a fanculo. Se invece c'è venuto da solo per rovinare Bushido, ben venga. Io non aspetto altro. Sarò ben lieto di dargli una mano.”
Sospiro e mi passo una mano sulla testa. “Quell'uomo è incazzato per un motivo ben preciso e io--”
“E guarda caso quel motivo sei tu,” mi interrompe lui. “Tu, Bushido e tutti gli altri froci che hanno smembrato l'Ersguterjunge fino a farla a pezzi.”
“Potresti evitare di usare quella parola?” Mi sto irritando.
“Ma dico, ti senti?” Esclama lui. “Io non so cosa ti sia successo e cosa.... cosa ti passi per il cervello ma non puoi venire qui a dirmi chi posso o non posso scritturare.”
“C'è qualcosa che non va.”
“Beh, lo credo anch'io,” dice lui, alzandosi in piedi. Mi guarda a lungo e poi sospira. Sento arrivare anche questa, perché vibra nell'aria un attimo prima di avvenire. “E' stato un grande errore farti tornare.”
“Cosa?”
“E' chiaro che tu non sei più quello che eri.” Almeno non sorride. Non credo avrei sopportato anche la presa per il culo con il doppio senso. “Non rappresenti più l'etichetta e io non credo che sia il caso tu rimanga qui.”
Scaricato. Cerco di avvertirlo. Cerco di parargli il culo, e lui mi scarica. Se la gente non la smette di farlo, potrei cominciare ad incazzarmi.
“Fa' il cazzo che vuoi,” dico, recuperando il cappotto. “Quando questo posto cadrà a pezzi, non venire a piangere da me. Io ti ho avvertito.”
Infilo la porta prima di ripensarci. Le scene epiche sono prerogativa di Bushido, è lui quello che parla come se leggesse un copione, ma come uscita di scena non è andata poi tanto male.
Sarei fiero di me se sul marciapiede appena fuori dallo studio non mi rendessi conto che non ho un posto dove andare; cioè, a parte casa mia.
Mentre mi avvio a piedi, perché la macchina ce l'ho da Sido, comincia a piovere e penso che a questo punto, almeno io, ho toccato il fondo. E invece, naturalmente, no.
La sfiga ha sempre un pala in più da prestare.
Nel nostro caso, ne ha una scorta intera.

*


Conoscendovi, vi starete chiedendo quando ho intenzione di raccontarvi com'è andata a finire. E dire che dovreste essere abituati al fatto che qui le cose non capitano mai in due pagine e che ci vogliono intere serie per raccontare di com'è morto un uomo o di come sia resuscitato. Abbiate pazienza.
Come vi ho già detto, io non sono Chakuza e se c'è una cosa che non mi è rimasta attaccata addosso di quell'uomo è proprio la sua tendenza a perdersi nel suo cervello per non riuscire più ad uscirne. Con la sua pazzia mi ci ha affogato mentre stavamo insieme ma, grazie a Dio, le sue acque acquitrinose si sono ritirate non appena l'ho perso di vista.
Dunque, cos'è successo? Dopo che Sido mi ha buttato fuori dall'etichetta e anche da casa sua, rifiutandosi per altro di avere a che fare con me vita natural durante – una cosa della quale tra qualche anno, in un posto e in una situazione molto diversi da questa, riderò così tanto che quasi finirò per soffocarmi – non ho avuto altra scelta che tornarmene davvero a casa mia, anche perché l'alternativa era mia madre e, per quanto io la ami, preferisco trascinarmi come un relitto umano nel mio appartamento che passare anche solo due giorni da lei senza sapere come spiegarle perché io non ho una fidanzata carina e non mi sistemo come il cugino Karl, che per altro ha un nome di merda e non lo vediamo mai più di due volte l'anno.
Okay, sì, forse un po' mi sto perdendo ma ci arrivo.
E' passato un mese dalla storia di Sido e circa sei da quando ho trovato Bill che vaneggiava in casa di Bushido e ho consigliato a tutti che fosse meglio andare ognuno per la sua strada. In tutto questo tempo, come ho già detto, ho finto che non fossero mai esistiti, ben sapendo che se avessi acconsentito ad accettarne anche solo la presenza nel mondo avrei finito per ricaderci e questo non era assolutamente concepibile, non dopo quello che avevamo passato tutti quanti.
Certo non è stato facile, voglio dire tu non puoi davvero scordarti dell'esistenza di una persona che conosci, figurati di una persona come Bushido che generalmente occupa anche fin troppo spazio nel cervello altrui, o di Chakuza – che Dio ce ne scampi – che è invasivo in tanti di quei modi che avrei bisogno di una lobotomia per dimenticarmelo, ma ho tirato avanti e non ho ceduto a nessuna tentazione che, nella maggior parte dei casi, consisteva nel numero di Peter che componevo sulla tastiera del cellulare fingendo come un cretino di fare numeri a caso. Una cosa di cui un po' mi vergogno, in effetti.
La mia vita l'ho trascorsa sostanzialmente continuando a scrivere le canzoni su cui avevo cominciato a lavorare e ho ripreso anche a disegnare, una cosa che potrebbe tornarmi utile per un progetto che ho già in mente da un po' e che forse è l'ora di mettere in pratica. Ho spostato quasi tutti i mobili del salotto per avere una parete libera e poterci dipingere su con le bombolette se ne ho voglia. Quando mi gira, prendo il rullo, do una mano di bianco e ricomincio tutto da capo. E' liberatorio.
Danny è stato piuttosto contento di sapere che lasciavo “Casa di mia madre Sido”, come la chiama lui, per tornare in pianta stabile nel mio appartamento perché questo gli ha permesso di riprendere la sana abitudine di comparire a casaccio sul mio pianerottolo con la valigia e decidere arbitrariamente del mio fine settimana, di me e della mia vita.
Cosa che io gli lascio fare anche oggi, che è la giornata peggiore in cui potesse capitare qui.
Naturalmente io questo non lo so quando mi sveglio al suono di lui che bussa alla porta.
E non lo so nemmeno quando gli apro, lui mi bacia incurante dei miei vicini e poi entra senza chiedere il permesso, occupando contemporanemente la poltrona con il suo zaino e il divano con il suo corpo. Ha fatto tutto in un lasso di tempo così breve che non ho nemmeno reagito e, quando mi chiama ridendo, io sto ancora lì davanti alla porta a stropicciarmi un occhio e a chiedermi se me lo sono sognato o cosa.
“Ti muovi a venire qui o no?” Mi dice, mentre si toglie la maglia e nel farlo si agita e ci si incastra dentro un paio di volte, spettinandosi tutto. Danny muore sempre di caldo, la prima cosa che fa quando entra in un posto è togliersi la felpa, anche se magari è inverno e ci sono quattro gradi. Il termosifone è il suo nemico naturale e lui gli ha giurato guerra.
Quando finalmente lo raggiungo in salotto, lui si è già tolto le scarpe, ha acceso il televisore e ha parcheggiato i piedi sul tavolino, allungando braccia e gambe da tutte le parti. E' tutto sproporzionato ancora e io mi chiedo se il suo mucchietto di ossa avrà mai davvero un senso.
Piega la testa sul divano e mi guarda sottosopra. “Ma sei vivo?” Chiede ridendo. “Hai una faccia da schifo!”
Mi passo una mano sul viso come se potessi far scomparire le occhiaie. “Mi sono svegliato adesso,” dico, guardando di sfuggita la tv senza capire cosa sto vedendo. “E poi che vuol dire faccia da schifo? Che modo di parlare è?”
“Adesso si dice così,” commenta lui, tornando a fissare lo schermo. “C'è qualcosa da mangiare?”
Sospiro. “Guarda in cucina, cavalletta. Io vado in bagno.”
Quando torno ricordo almeno come mi chiamo e lo trovo con un panino più grosso di lui e gli occhi incollati al televisore. La playstation è il grosso monolite nero e lui una delle scimmie di quel film di fantascienza.
“Che cosa ci fai qui?” Chiedo, adocchiando il suo enorme zaino da trasferta. “E' giovedì, domani non dovresti andare a scuola?”
Lui si gira a guardarmi solo un secondo e poi torna a farsi ipnotizzare dal suo videogioco. O meglio dal mio. “A parte che è venerdì, Fler,” mi dice col tono paziente di uno che queste cose le dice spesso. “E poi ho due settimane di vacanza.”
“Venerdì?” Alzò lo sguardo sull'orologio, che per altro mi informa che sono anche le sette di sera.
Lui mette in pausa, recupera il suo panino e si volta, inginocchiandosi sul divano. “Venerdì, sì,” ride, masticando. “Sei proprio fuori come un citofono, ma quanto hai dormito?”
A volte quando parla, mi sento vecchissimo. “Non lo so,” ammetto. “Sono stati due giorni un po' confusi.”
“Perché?”
Mentre mastica, sbriciola sul pavimento, una cosa che mi rende irrazionalmente nervoso. Così, mentre gli racconto di come mi è preso questo guizzo artistico e ho portato su dalla cantina quattro secchi di vernice da usare proprio col pennello, roba che non facevo da anni, vado in cucina e gli recupero un tovagliolo che gli spalmo in faccia. Lui ride, ci si pulisce la bocca e poi ci avvolge con cura quello che resta del panino.
“Devo aver perso il senso del tempo” gli dico mentre cerco anch'io di trovare una spiegazione. Quando ero più piccolo mi capitava spesso di farmi prendere dalla foga di un'idea per un disegno o una tag e non pensare più a nulla finché non l'avevo finita. Era un modo come un altro per staccare completamente il cervello dallo schifo che mi circondava. Mi davo qualcos'altro a cui pensare.
Danny si guarda intorno, finché non individua il telo che ho tirato dal soffitto fino a terra. E' il vecchio telo di una tenda di mia madre, tutto macchiato. L'ho usato per qualunque cosa, ce l'ho tipo da sempre. Lui mi fa un cenno col capo. “Leva, fai vedere.”
Per un momento ho paura di farlo perché se ho perso due giorni della mia vita, non sono nemmeno troppo sicuro di sapere che cosa ci sia disegnato l'ha sotto. Magari è uno schifo.
Tiro via il telo con uno strattone e Danny si butta giù dal divano e mi scosta per guardare meglio. La parete è lunga quasi quattro metri e io l'ho riempita completamente. Gran parte del disegno, ovviamente, è ancora solo abbozzato, ma ho cominciato a colorare l'angolo a destra dove c'è la fiancata di un vagone della metropolitana. Non è il mio solito stile spigoloso, volevo provare qualcosa di completamente diverso, più morbido e più fluido, qualcosa che riempisse gli spazi in maniera meno netta. Mi allontano e guardo il treno perdere colore e quasi svanire in prospettiva, delinato solo dalle mie linee a carboncino. Nel mezzo c'è una caricatura di Berlino, con la porta di Brandeburgo tozza e schiacciata e dietro la torre della tv che ondeggia. Sulla sinistra c'è un gruppo di personaggi ancora senza volto, hanno vestiti che sono una via di mezzo fra i nostri e un qualche tipo di super-eroe. Quello al centro, ovviamente è Anis, perché incrocia le braccia impettito. E poi ha alle spalle un cavallo bianco meccanico con un'espressione così fiera di sé che può essere soltanto suo. Mi viene voglia di continuarlo non appena ci poso gli occhi sopra.
“Ma è una figata!” Danny lo guarda passandoci sopra le dita, piano. Sono un po' orgoglioso di me stesso per essere riuscito a catturare la sua attenzione quanto Lara Croft. “E' gigantesco e lo hai fatto in due giorni?”
“Sì, solo il disegno però,” annuisco. “Ci vorranno settimane a colorarlo.”
Osservo la mia opera e ora che sono un po' più sveglio e un po' meno intriso dal sacro fuoco dell'arte – che poi più che altro era mezza bottiglia di Jack Daniel's – mi rendo conto di quanto sia effettivamente grande. Era da tanto tempo che non dipingevo legalmente su una superficie. Come ogni volta che non devo stare attento a correre via al minimo rumore e lasciare le cose non finite o fatte di fretta, penso che se avessi studiato avrei anche ottenuto dei risultati.
“Potrei aiutarti,” mi dice Danny, che ora sta ammirando il murales dal fondo della stanza, con la testa piegata di lato. Mi guarda. “Se ti va, ovvio.”
Penso: perché no? Qualche tempo fa mi ha trascinato in giro a vedere qualcuno dei suoi lavori e non se la cava male. Attraversare i luoghi dove io e Anis andavamo a taggare mi ha anche messo un sacco di nostalgia, perché adesso mi guardo intorno e ci sono tutte firme che non conosco. Se ci fosse stato lui, con me, invece di Daniel, sarebbe entrato nel primo negozio di fai da te disponibile e si sarebbe armato di bombolette per riprendersi il suo territorio. Quell'uomo è pazzo, del resto.
“Certo,” rispondo. “Domani cominciamo.”
E quelle, evidentemente, sono le parole esatte che la sfiga stava aspettando per entrare in scena. Se mi concentro la immagino anche, spietata e col visore sugli occhi per prendere meglio la mira, seduta dietro le quinte delle nostre esistenze in attesa che io pronunci la battuta che si aspettava.
Mi suona il cellulare e inizio subito a preoccuparmi, un po' per il mio sesto senso e un po' perché quella suoneria non la sento da sei mesi e qualsiasi cosa voglia da me Bushido, se non è dannosa fin da subito, sicuramente lo diventerà nel giro di qualche giorno. E' passato troppo poco tempo per considerarci tutti di nuovo a posto.
Ad ogni modo rispondo comunque perché lui continua a far squillare e ormai Daniel mi guarda con aria interrogativa. “Pronto?”
“Cristo, ma quanto ci hai messo a rispondere?”
Sollevo un sopracciglio. “Ciao anche a te, Anis.”
“Stai bene?” Il tremolio che sento nella sua voce mi fa passare la voglia di scherzare.
Passo il cellulare da un orecchio all'altro e cambio stanza. Con la coda dell'occhio vedo Daniel tendersi, ma non mi segue. “Sì, sto bene. Perché? Che succede?”
Chiudo la porta mentre dall'altra parte cala il silenzio.
“Anis?”
“Dobbiamo vederci,” mi dice. “Sto chiamando gli altri.”
Inspiro e penso che non è ancora il momento. “Io non credo che sia una buona idea, sono passati solo-”
“Ho ricevuto una chiamata anonima,” m'interrompe subito, sbrigativo, come se sapesse con assoluta certezza che lo avrei detto. “Dicono che uno dei miei è in fin di vita.”
Il mio cervello inizia a correre furiosamente come fa sempre quando sono sotto pressione. Nel giro di qualche istante ho già in mente almeno quattro scenari possibili, e il nome di Peter che continua a balenarmi in testa anche se lo scaccio via. “Chi?” Chiedo alla fine, dopo che ho deglutito un groppo in gola grosso quanto il mio pugno.
“Non lo so, non l'ha detto,” risponde. E poi, mi anticipa. “La voce era falsata. Non ho idea di chi cazzo fosse.”
Di nuovo una pausa e questa volta sento un ronzio vago e il suono di un clacson.
“Sei in auto? Dove stai andando?”
“Ho un indirizzo. Raggiungimi là.”
Copio l'indirizzo sul primo pezzo di carta che trovo e poi dico a Daniel di chiudersi in casa e di non aprire per nessuna ragione. Spero che non mi dica che sa badare a se stesso, ma ovviamente lo fa, così gli ripeto di non muoversi dall'appartamento con la faccia più seria.
Lui invece di obbedire mi chiede cos'è successo e, prima ancora di ottenere risposta, si offre di venire con me e di darmi una mano; io a quel punto faccio prima a portarmelo dietro che a cercare di convincerlo a restare. E poi non mi fido a lasciarlo da solo.
Mentre saliamo in macchina gli faccio un riassunto veloce e poi chiamo Chakuza.
Suona subito occupato, così m'incazzo, lo insulto e poi chiamo di nuovo. Quando risponde, tiro un sospiro di sollievo. “Che cazzo stavi facendo?”
“Ti stavo chiamando,” fa lui. “Stai bene?”
“Sì, a posto,” mi scappa un mezzo sorriso. “Dove sei?”
“Per strada. Ho l'indirizzo.”
“Ci vediamo lì, allora.”
Bushido mi ha dato il nome di una strada fuori mano, in piena zona industriale.
Quando ci arriviamo sono quasi le nove e mentre parcheggio come capita, lo vedo scendere di corsa dalla sua auto e indicarmi un capannone qualche centinaio di metri più in là.
Siamo arrivati quasi contemporaneamente: con lui c'è Kay e Chakuza sta parcheggiando accanto all'auto di Eko proprio adesso. Ci siamo tutti, non capisco.
Bushido ci fa strada, con la Heckler stretta in pugno. Mentre entriamo, tengo Daniel dietro di me e inpugno la pistola. E' una strana sensazione averla tra le mani dopo tanto tempo, è un sacco pesante e io sono troppo nervoso.
So cosa state pensando e, dal momento che non ho ancora parlato con Bushido, lo sto pensando anch'io.
Se in questo capannone c'è il ragazzino, io non so cosa faccio. Ho volutamente scansato l'idea fino ad ora, non ho nemmeno provato a contattarlo: se si trattasse di Bill, penso, Bushido me lo avrebbe detto. Lo avrà di certo chiamato prima di tutti quanti noi. Invece magari lo ha chiamato e Bill non ha risposto, ma Anis non me lo ha detto perché se lo dice è vero e quindi sta zitto.
Ad ogni passo mi chiedo che cazzo facciamo, noi, se il ragazzino è ferito.
Che cazzo facciamo, noi, se il ragazzino invece è morto.
Penso che se Bill è morto, forse è meglio che Bushido stia indietro.
La pozza di sangue inizia al centro del capannone e gira dietro una pila di casse marchiate di nero. Nel tempo che ci avviciniamo me ne convinco e penso solo è morto. Il ragazzino è morto.
Scosto Anis e passo prima di lui. Cristo, Bill.
Ma non è Bill.
E' David.
Ed è così assurdo che sia lui che per un attimo nessuno si muove. Lo guardiamo come se non avesse senso, forse il corpo di Bill ne avrebbe avuto di più. Non lo so. So che gli altri negli occhi hanno la mia stessa espressione ed è assurdo. C'è sangue ovunque, sulle casse, per terra, perfino sulle pareti.
Daniel arretra e si schiaccia non so dove dietro di me ma non mi volto, guardo Anis chinarsi e ribaltare piano il corpo. Quando ci riesce, lo stomaco di David si apre. Gli hanno inciso la parola VENDETTA da un fianco all'altro e il fiotto di sangue che ne esce mi fa salire la nausea. Prego che quelli non siano intestini.
In realtà prego che abbia ancora un senso il nostro essere qui.
Una volta Chakuza ha detto che la gente normale quando tocca il fondo risale.
Ma noi non siamo gente normale.
Quando Bushido solleva di peso il corpo di David, mi rendo conto che abbiamo appena ripreso a scavare.













Bookmark and Share

The things we do for love

di tabata
I miei rapporti con le ragazze non sono mai stati troppo complicati.
Voglio dire, non ho mai avuto veramente dei problemi a trovarmi una donna, nemmeno da ragazzino, nonostante uno sia portato a pensare il contrario, non essendo io il classico tipo che qualunque donna adora - non sono alto, non sono esattamente bellissimo e, di certo, non mi si apprezza per la pettinatura. Ho sempre avuto un certo ascendente, però. O forse sono solo testardo e quindi se m'impunto, non mollo la presa tanto facilmente. So rendermi interessante, ecco.
Ad ogni modo, non era delle mie tecniche di conquista che volevo parlare. Quello che stavo pensando è che, tutto sommato, le mie relazioni sono sempre state piuttosto superficiali. Silvia esclusa. Ma lei è una parte della mia vita che preferisco non riportare alla luce. Anche con Klaudia, che a tutt'oggi è ancora la mia relazione più lunga, il rapporto che c'era non è mai stato davvero profondo. C'eravamo io e lei e c'erano le volte - tante - che facevamo sesso. Non c'era molto altro. Uscivamo poco e non parlavamo quasi mai, e non posso certo dare la colpa alla mia carriera. Era appena iniziata e ad ogni modo, non ho mai avuto impegni tanto pressanti da non permettermi di occuparmi della mia vita privata. A ripensarci adesso, credo che quella relazione - come tutte quelle precedenti - non fosse molto profonda perché io non ho davvero mai cercato di avere una relazione. Non che evitassi coscientemente di averne una, è che pensavo mi bastasse stare insieme a qualcuno per averla. Come se fosse automatico, in un certo senso. Ed è curioso che io abbia scoperto soltanto adesso, con un ragazzo, che così non è. Del resto, sarebbe impossibile relazionarsi con Bill come mi sono sempre relazionato con le donne che ho avuto. Innanzi tutto perché fra me e lui le cose sono iniziate in un certo modo: non ci siamo incontrati in una discoteca e lui non è venuto da me ancheggiando con uno scopo preciso. Con Bill non è partito tutto dal sesso e, trattandosi di me, questa è una differenza di discrete proporzioni. Io non ero abituato a conoscere una persona pima di andarci a letto e, a dirla tutta, non ero abituato a conoscerla nemmeno dopo. Voglio dire, non è che Klaudia fosse un'estranea ma delle sue piccole abitudini, di come ragionava o di quello che voleva non ero un granché esperto, nè volevo esserlo. O meglio, pensavo che non fosse necessario. Eravamo due entità ben distinte. Io. Lei. Fine della storia.
Io e Bill, invece, siamo iniziati molto prima del momento in cui ci siamo baciati la prima volta, che è, tipo, una roba stranissima, ogni volta che ci penso. E non sto dicendo che ci fosse chissà cosa tra me e lui, prima di quel bacio, anzi non c'era proprio niente, però eravamo amici, potevi dire Bill e Chakuza e voleva già dire qualcosa. Quando Bill è entrato a far parte della mia vita, io non ci pensavo neanche alla possibilità che potesse piacermi. In quel senso dico. Era un maschio, tanto per cominciare - indipendentemente da quello che poi sembrava, guardandolo. E io non pensavo che potessero piacermi i maschi. E poi, ovviamente, quando Bill è entrato nella mia vita, era una Principessa innamorata del Re, il che significava che non parlava d'altro e non vedeva altro che non fosse Bushido. Portarlo a spasso era come guardare una puntata speciale di Mtv Rap, ma nella sua variante "Fidanzati a Berlino." Il punto preciso della questione, però, è che non mi importava un accidenti di cosa parlasse, perché averlo intorno era una cosa bella comunque, anche se mi stendeva a furia di chiacchere, anche se si fermava ad ogni negozio, se provava quintali di pantaloni e se fra un gelato e una confezione gigante di caramelle, doveva rendermi partecipe di una vita sessuale di cui avrei fatto volentieri a meno. Soprattutto perché coinvolgeva il capo della mia etichetta e uno non vuole mai veramente sapere com'è il proprio capo a letto.
La cosa tremenda di Bill è che il cuore me lo ha portato via piano piano, un pezzo alla volta e io nemmeno c'ho fatto caso. All'inizio ero solo curioso di capire che tipo fosse uno che era riuscito a far mettere la testa a posto a Bushido. Poi, tra una cosa e un' altra, ero diventato quello che stava con Bill quando Bushido non c'era. Un po' perché era stato Bushido a decidere così, un po' perché Bill - parole sue - preferiva stare con me che con gli altri, perché gli altri non erano esattamente amichevoli nei suoi confronti. Alla fine, quando Bushido è morto e Bill si presentava senza preavviso a casa mia, con del cibo cinese comprato di corsa, io lo guardavo e mi stupivo di trovarlo bellissimo quando sorrideva arrossendo. In realtà non avrei dovuto stupirmi affatto, perché Bill aveva avuto un sacco di tempo per prendersi tutto, cuore e testa, ero io a non averlo capito.
Quando per tutta la vita stare con una persona ha sempre significato farci del buon sesso e trovarti bene con lei in maniera molto generica, è un po' spiazziante scoprire di volere una persona nella maniera totalizzante in cui io, ad un certo punto, ho capito di volere Bill. Ho già detto altre volte che non mi sono mai posto domande sulla mia omosessualità che ad un certo punto è venuta fuori tutta insieme, l'unica cosa che mi ha stupito, in realtà, è stata l'intensità del mio desiderio, la quantità di cose che mi sarebbe piaciuto fare con lui e quante di queste, stranamente, non implicassero il sesso.
E' stato sconcertante, davvero, anche se quando lo dico la gente normale ride. D'altronde, su questo punto, io non sono mai stato tanto normale. Lo so, ecco.
La questione è, alla fine, che tutte queste cose che volevo - uscire, passeggiare, andare al cinema, comprargli il gelato al parco, magari, e vederlo che come al solito ci si sporca da capo a piedi, che è una cosa che fa anche in casa, per dire, ma è diverso, tirarmelo dietro per mano, portarlo da qualche parte, noi due soli, che sono anche un mucchio di cose gay, ora che ci penso - tutte queste cose, dico, le facciamo molto raramente perché nessuno sa di noi e non è così facile organizzare qualcosa. Io odio questa situazione. Odio non poter dire a nessuno che Bill è mio, ora. Odio l'idea che se lo dicessimo scatenerremmo un putiferio e che solo Bill, alla fine, ci andrebbe veramente di mezzo per mille motivi diversi. E odio che per tutti questi fottuti motivi io non posso fare niente di ciò che voglio. E' frustrante, ed è anche insopportabile, soprattutto quando Bill mi telefona e ha quella vocina che mi stringe lo stomaco.
"Ehi," rispondo sempre così quando mi chiama, sorridendo. E poi so che non devo dire pronto perché, stando ad un ragionamento estemamente contorto per capire il quale ho dovuto seguire un'ora di lezione sull'argomento, tenuta da lui medesimo, devo sempre rispondere come se sapessi che è lui ancora prima che squilli. E l'unico modo che ho di farlo è guardare prima il display. Ricapitolando, guardo il display, vedo che è lui e faccio finta di saperlo già da prima che suonasse. Quindi, Ehi.
"Chaku..." Quello che mi arrva dall'altra parte del telefono è una specie di lamento strascicato e un po' capriccioso. Me lo immagino istantaneamente appallottolato da qualche parte, probabilmente sul divano.
"Che succede?" Chiedo, e mi passo il telefono da un orecchio all'altro mentre guardo tutti i panni lavati che mia madre mi ha riportato stamattina e che adesso io dovrei rimettere a posto. Sono tutti ben impilati sul letto rifatto, da lei naturalmente, e io non ho altra alternativa che riporli se stanotte voglio dormire.
Bill mugola qualcosa di incomprensibile.
"Eh?"
Bill mugola di nuovo, con un'intonazione diversa.
Recupero i miei maglioncini. "Hmn... fammi indovinare," dico, mentre li ripongo su un ripiano assolutamente casuale dell'armadio, che ancora cigola dal giorno in cui provammo a spostarlo. "Sei a casa da solo e non sai cosa fare."
Il mugolio di Bill è affermativo ma mi lascia intendere che c'è dell'altro.
"Ti stai annoiando e..." recupero le maglie e le incastro da qualche parte tra i pantaloni e le due camice che possiedo "... in questo momento vorresti essere con il tuo affascinante fidanzato austriaco, che è l'unico essere umano sulla faccia della Terra capace di renderti felice, dico bene?"
Bill ride, divertito. "Più o meno sì. Sei bravo ad interpretare."
"Questione di sopravvivenza," scherzo. I calzini li lancio nel cassetto e lo richiudo velocemente, prima che escano di nuovo tutti quanti.
"Mi manchi," pigola. Lo sento trafficare e poi mi arriva il rumore della stagnola. Se siamo arrivati ai biscotti, il livello di noia è grave. Divano, biscotti, gelato. The Notebook. Voglio fermarlo prima.
"Mi manchi anche tu," dico e poi mi viene un'idea. Così all'improvviso che mentre ci penso, mi fisso a guardare la signora nella casa di fronte che sta innaffiando un Ficus morto almeno quattro settimane fa. Non è che la guardo davvero, non del tutto almeno, con metà del cervello sto ragionando su quello che mi è venuto in mente. "Senti, ho un'idea. Ti va di venire qui, domani? Ti preparo una sorpresa."
"Che sorpresa?" Chiede subito lui. L'euforia istantanea di Bill.
"Se te lo dico che sorpresa è?" Intanto, mentre faccio lo splendido, mi rendo conto che gli ho appena promesso una sorpresa che comprende il mio salotto e del cibo, ma questa casa fa schifo e non vedo il pavimento del mio salotto da almeno una settimana. Mi ci vorrà un miracolo per rimettere a posto. "Riesci a scappare qui da solo o devo venirti a prendere?"
"Calerò delle lenzuola annodate dalla finestra," risponde lui, convinto. E poi ride tutto contento. E anche stavolta ho salvato la giornata.
La mia giornata, invece, l'ha salvata Fler il giorno dopo, cioè oggi. Come al solito, del resto. E' arrivato che ero chinato in terra a cercare di smacchiare le piastrelle da Dio solo sa cosa. Fler quando arriva ti telefona sempre prima, quindi lo sapevo che stava arrivando, ma mentre litigavo con le mie macchie me ne sono dimenticato. Stavo maledicendo quattro generazioni di santi quando è entrato. "Ma lasci sempre la porta aperta, tu?" Mi ha detto. E poi si è guardato intorno. "Beh, è anche vero che non hai molto da rubare qua dentro. Comunque ti ho portato il detersivo per i piatti."
La porta era aperta per far asciugare il pavimento della cucina e, già che veniva qui, gli ho chiesto di portarmi il detersivo visto che nel lavandino ho una settimana di piatti incrostati da far sparire entro stasera. L'ho guardato, mi ha guardato. Quindi ha sospirato e si è rimboccato le maniche. "Ti dò una mano, eh," mi ha detto. "Sennò chissà quando finisci."
Per questo adesso Fler sta pelando patate nella mia cucina mentre io cerco di non far impazzire la maionese, che è una cosa delicatissima visto che la signora Lotte mi ha insegnato a farla solo la settimana scorsa e questa è la prima volta che ci provo tutto da solo. Ho tutte le sue istruzioni appese sulla lavagna di sughero sopra i fornelli. Fler mi ha costretto a comprarla e me l'ha pure inchiodata al muro perché dice che non posso andare avanti ad attaccare fogli con lo scotch che si rovina la vernice.
"E tua mamma quando arriva?" Mi chiede fler, all'improvviso. Non gli ho detto di Bill, non gli ho detto nemmeno a cosa mi serve tutto questo cibo. Gli ho detto che mia madre ha deciso di farmi visita dopo essere passata a trovare sua sorella. Ovviamente lui lo sa che mento e quando parla di mia madre lo fa con la faccia di chi sta parlando di Bill. Le ho viste le sue sopracciglia che formavano le virgolette intorno alla parola mamma. Funziona così da mesi. Lui sa. Io so che lo sa. Lo so perché conosco lui e lo so perchè conosco Bill che passa con lui troppo tempo per non avergli già raccontato tutta la sua esistenza. Ecco... solo che a lui non riesco a dirlo e lui non me lo chiede. Quindi finisce che ho mia madre a cena stasera.
"Verso le otto," rispondo. La maionese sembra sana di mente.
"A-ah," annuisce lui. Poi guarda le patate che ha sbucciato con aria critica. "Com'è che dovevo tagliartele?"
"Devo farle arrosto," rispondo.
"Tanto piacere," fa lui. "Com'è che devo tagliartele però?"
Infilo in bocca un pezzo di mozzarella e mi pulisco le dita sul grembiule. "Prima in due e poi di nuovo in due," rispondo, tagliandone una per lui.
"In due e poi in due," ripete, osservando. Fler, quando gli spieghi una cosa, qualsiasi cosa sia, sta sempre attentissimo. Punta quei due fari azzurri su quello che gli stai mostrando e immagazzina l'informazione. Gli basta guardare per imparare, è una cosa che gli invidio molto. E' un sacco intelligente, Fler. Non fa fatica per niente a capire le cose. Lo lascio a tagliare in due e poi in due e recupero il pollo, per condirlo prima di infilarlo in forno. Questa cucina è minuscola ma siamo così abituati a muoverci in due qua dentro che non ci diamo mai fastidio. Quando apro il forno, non ho neanche bisogno di guardarmi intorno: Fler, appollaiato su uno degli sgabelli dell'isola, mette le ginocchia nell'inclinazione giusta per non farsi male con lo sportello.
I due movimenti - io che apro e lui che si sposta - sono calcolati al millimetro. La sua gamba e il mio sportello non si sfiorano nemmeno.
"Sai che ho scritto roba?" Fa lui, sopra il rumore della teglia che scivola sul piano del forno.
"Dai?"
Fler annuisce, con un mezzo sorriso. "Non che sia ancora pronto, ma è qualcosa. Contavo di lavorarci un po' e vedere cosa ne esce."
Maionese. Pollo. Il dolce al cioccolato con la glassa che si sta indurendo in frigo. E Fler che si è rimesso a lavorare. "Fai sentire," dico, sedendomi di fronte a lui e aiutandolo con le patate.
"Ma neanche per idea." Fler diventa, tipo, viola. Neanche gli avessi detto di spogliarsi. Anzi, in quel caso non l'ho mai visto arrossire.
"Andiamo!"
"No, non è ancora pronto," insiste. E quando faccio per aprire bocca e chiedergli di nuovo di cantarmi qualcosa mi agita contro il coltello. "Tu non vuoi che si mangi niente fino a cottura ultimata."
"Ma non è la stessa cosa!"
"Piuttosto," cambia discorso. "Raccontami un po' di questa Ingrid."
Alzo gli occhi al cielo. "E tu che ne sai?" Chiedo.
"Ho i miei informatori, cosa credi?" Ride. "Comunque sono profondamente offeso. Ti trovi una donna fissa e non lo dici a me. Male, molto male, Pangerl."
Ingrid è una groupie a capo di un gruppo di altre groupie che, secondo Bill, allietano le mie notti quando lui non c'é. Non so come gli sia nata nel cervello questa cosa, Bill ne ha spesso di uscite del genere, ad ogni modo, è stato una notte che era qui e avevamo appena finito di fare sesso. Di solito Bill sta zitto appena due minuti, giusto quelli che gli servono per riprendere fiato, poi attacca di nuovo a parlare. Io invece starei zitto le ore dopo nottate del genere. Ad ogni modo, quella notte deve aver pensato che mi ero isolato anche troppo - due minuti, ricordiamolo - e dal suo cuscino è rotolato sul mio, spalmandomisi addosso tutto. "Dovresti proprio smetterla di pensare a quella Ingrid," mi ha detto, con un'occhiata disapprovante. E quando ho chiesto spiegazioni su una donna sconosciuta a cui evidentemente stavo pensando, Bill mi ha dato tutte le informazioni del caso, perché lui le cose quando le inventa, le inventa bene. La fantasia non gli manca. Di volta in volta ha aggiunto sempre più particolari, al punto che adesso la conosco così bene che vorrei quasi incontrarla, questa Ingrid.
"Bill ti ha parlato di lei?" Chiedo, recuperando le patate per friggerle.
Fler dondola un po' la testa. "Diciamo che l'ha molto offesa, ecco," ride.
"Stando alle ultime notizie, è una ragazza bellissima e poco più che maggiorenne... no aspetta," cerco di ricordare. "Se non mi sbaglio, deve fare i diciotto quest'anno e ha deciso che li festeggerà nel mio letto."
"Ah, però. E com'è?"
"Bionda, mi pare. Sì, bionda, con i capelli lunghi, tipo, fino a qua," indico appena sopra le spalle, che poi è dove li ha Bill, mi rendo conto. Ma a parte questa somiglianza, Ingrid è l'esatto opposto di lui. "E ha gli occhi verdi."
"Seno?"
"Una quarta," annuisco compiaciuto, sistemando le patate fritte nel forno. "E due bei fianchi rotondi."
"Sembra carina."
Richiudo il forno e guardo l'ora. Sono in tempo, miracolo. "Bill dice che è anche bravissima a letto e che a me piace tantissimo."
"Davvero?"
"Io non lo sapevo, mica, me lo ha detto lui l'altro giorno."
Fler ride, mentre si alza. "Chiedile se ha un'amica magari."
"Ha una sorella," pulisco l'isola con uno strofinaccio. "Si chiama Lara, interessa?"
Lui sembra valutare l'informazione e poi si stringe nelle spalle. "Perchè no? Ora è meglio che vada, però." Prima di chiudere la porta, mi fa un sorriso triste. "Chiedi a tua madre se mi fa avere il numero."

*


Non ho veramente il tempo di pensare a quanto questa storia sia un casino.
Al fatto che con Fler ho questa cosa e che questa cosa non se ne va neanche se amo Bill. Tra l'altro è difficile sentirsi in colpa quando il mio cervello li percepisce come due compartimenti stagni. Bill e Patrick non si tolgono spazio a vicenda, nella mia testa.
Sospiro e raccolgo due soprammobili che ho gettato a terra, quindi mi dò una sistemata e io e il pollo siamo pronti un secondo prima che Bill suoni alla porta.
Ieri era tutto preoccupato perché non sapendo cos'andavamo a fare, non sapeva come vestirsi. Mi ha chiamato centinaia di volte e alla fine gli ho detto di vestirsi come voleva e sarebbe andato benissimo. Così lui si è vestito come ha voluto, ed evidentemente mi conosce bene perché quei pantaloni ce li ha incollati addosso e la camicia ha l'ultimo bottone sganciato, quindi la stella fa capolino.
Si tira su gli occhiali da sole e li incastra tra i capelli liscissimi. "Spero per te che io sia vestito adeguatamente. Non mi hai detto dove andavamo e non sarebbe carino se-"
Zitto. A volte lo penso proprio. Bill, zitto. Poi mentre lo bacio mi dimentico che a volte parla così tanto che ti snerva, mi dimentico proprio tutto perché impazzisco quando mi bacia. Impazzisco quando fa qualunque cosa. E il modo in cui fa tutto che mi fa impazzire. Ora per dire mi sta abbracciando e mi si è stretto addosso. E se da una parte è tenerissimo, dall'altra sto già valutando se non sia il caso di mangiarla dopo la cena.
Poi mi dico che gli ho chiesto di venire qui per fare una cosa carina. Prima la cosa carina, assolutamente. "Sei bellissimo," dico. "E molto adeguato per il mio salotto."
Lui mi guarda con gli occhioni, io gli porgo la mano e lui la stringe, così posso tirarmelo dieto per due-metri-due di corridoio fino al salotto.
A parte l'aver pulito, ho spostato il tavolo e il televisore e ho steso un plaid al centro della stanza. Sopra c'ho apparecchiato e, anche se gli uccideranno l'appetito - io lo so - e rovinano l'ordine di portate che ho accuratamente preparato, accanto al suo piatto c'è un cestino di caramelle gommose, che con lui è un po' come regalargli un mazzo di fiori.
"Chaku, ma è un picnic in casa!" Esclama e unisce le mani sulle labbra.
"A quanto pare," mi stringo nelle spalle.
Emette un urletto, uno di quelli che fa quando regredisce ai cinque anni, che non è esattamente il tipo di età che mi conviene, anche se poi, così felice, Bill è bello comunque. Batte le mani. "Sono caramelle quelle? Non te le dimentichi mai! Ma è bellissimo! Chaku, vieni qui!" Lui è già seduto e intanto che mastica caramelle gommose, sbircia anche nei vassoi. "Le hai fatte tutte tu queste cose? Hai fatto la torta!"
"Sì, si, Principessa, calmati però," rido. Lui diventa tutto rosso.
"E' bellissimo," ripete più piano.
Io sorrido.

*


Dunque, esattamente non lo so come ci siamo arrivati a questo punto, però devo dire che per me non è insolito ritrovarmi in queste situazioni. So sempre cosa sto facendo, cioè quando mi perdo, dico, lo so che mi sono perso e faccio cose magari non coscentemente, ma le faccio e lo so che le sto facendo. Quello che non so mai è come ci arrivo. Ricordo che io e Bill stavamo mangiando la torta un attimo fa, ora però sono seduto in terra, con la schiena contro il divano, e ho Bill seduto addosso che fa cose con la lingua lungo il mio collo. Ho una mano tra i suoi capelli e l'altra infilata sotto la sua camicia, che comunque non è più neanche agganciata e gli pende dalle spalle abbastanza storta perché abbia voglia di togliergliela del tutto.
Lo bacio, stringendolo alla nuca. Ha le labbra rossissime e mi guarda in un modo che potrei anche dimenticarmi che pesa quaranta chili e che non posso oggettivamente sbatterlo in terra come effettivamente vorrei. Mentre lo spoglio, lo sento armeggiare con i miei pantaloni; lo bacio di nuovo non appena mi sfiora con le dita, aprendo un bottone. Mi muovo e lui mi sorride sulle labbra.
E' una posizione scomoda, questa. Lui mi si schiaccia contro quando si accorge che, così come siamo, non riesce ad infilare le dita, e io lo stringo ai fianchi, me lo tiro addosso e mugoliamo ma non è abbastanza.
"Aspetta..." me lo sussurra all'orecchio, perchè io alla fine continuo comunque e le mani da lui, se potessi, non le staccherei mai. Mi bacia di nuovo, e un'altra volta perché alla prima non l'ho lasciato andare. "Toglili," mi tira via i pantaloni, stando in ginocchio lì di fianco. E poi fa lo stesso con i propri. Seduto in terra, si leva tutto scalciando e lo troverei buffo se in questo momento la parola buffo non fosse l'ultima che mi viene in mente. Voglio toccarlo. Voglio sentire di nuovo l'odore della sua pelle mentre mi tocca lui. Si sta spogliando e mi sembra che ci stia mettendo troppo. Ho un'immagine ben chiara di me stesso che affondo tra le sue cosce da stamattina e potrei non rispondere di me se non la realizzo ora e subito.
Nella testa di Bill devono passare più o meno gli stessi pensieri perché è più ansioso del solito. Non è lui quello che vuole tutto e subito, di norma; sono io che vorrei riuscire sempre a fargli tutto il possibile perché non so decidermi sull'ordine delle mie azioni.
Finisce che mi rendo conto di quanto sia morbido il divano mentre spingo piano Bill e ce lo piego contro, baciandogli le vertebre una dopo l'altra . Quando appoggia la testa sull'avambraccio, la sua schiena forma un arco per seguire le mie labbra e apro appena gli occhi per vedere la luce che gioca con la sua pelle.
Mi premo contro di lui e Bill si spinge indietro con forza, ma lento, dal basso verso l'alto. Mi piace il movimento del suo corpo quando lo fa, il modo in cui sembra cercarmi, mentre mi allungo sulla sua schiena e lo stringo tra le dita.
"Peter..." sussulta e il mio nome gli scivola tra le labbra dischiuse.
Lascio scorrere la mano lungo il fianco, e intorno alle sue natiche. L'uggiolio dolce e basso che sento è la sua risposta alle dita leggermente umide che si fanno spazio dentro di lui. Sorrido leggermente tra i suoi gemiti, consapevole del fatto che mi vuole e che più aspetto più sarà straordinario sentire che si scioglie sotto le mie mani, che chiama il mio nome con quei suoi sospiri lunghi e tronchi, che finiscono quasi sorpresi. L'eco dei suoi orgasmi mi accompagna sempre anche quando se ne va perché Bill, quando fai l'amore con lui, è una cosa bellissima e io non ho neanche le parole per descriverlo. "Peter, ora..." mugola e cerca le mie labbra. Lo bacio per un po', lo assaggio a lungo, perché mi piace di cosa sa Bill. Mi piace perdermi sulla sua lingua e fra le sue labbra, anche perché bacia bene, la Principessa.
Gli basta niente per avermi ai suoi piedi.
Gli mordo una spalla e lo sento sospirare esattamente come faccio io quando alla fine entro dentro di lui, piano, stringendogli i fianchi. Cerco di non farlo troppo forte, perché è facile lasciargli il segno, ma non è che abbia più molta coerenza arrivato a questo punto. E' già tanto se ricordo come ci chiamiamo, tutti e due.
Le sue spinte e le mie si armonizzano dopo un secondo. Ci siamo imparati in poco tempo, io e Bill ed è una delle cose che di lui mi mandano fuori di testa. Non c'è voluto niente a trovarsi. Lui tra le mie braccia ci stava bene, quando ci si è infilato la prima volta non mi è sembrato strano che lo facesse. Ecco perché lo amo, credo. Perchè è la prima volta nella mia vita che mi sembra di essere perfetto insieme a qualcuno.
Mi chiama di nuovo e si spinge tra le mie dita con meno controllo, sento i suoi respiri spezzarsi e so che c'è vicino. Anche io.
Lo bacio sotto l'orecchio e quindi lo accarezzo un po' di più e angolo i fianchi un po' di più finché non so che dovrò lavare il divano. Un attimo dopo gli ringhio sul collo mentre vengo e lo sento stringersi intorno a me, piano.
Gli lascio baci sulle spalle ed è il massimo che posso fare, al momento. Lo abbraccio mentre gli cedono le ginocchia e poi scivoliamo di lato e mi si accascia contro, con un mezzo sorriso soddisfatto. Allungo un braccio a recupare la coperta sul divano e l'avvolgo intorno a noi, baciandogli la testa.
Sono ancora in piena beatitudine angelica quando lui ritova la voce, la forza e la fame. E non credo siano i suoi diciannove anni a dargli tutto questo vigore, è proprio una roba sua questa. Allunga un braccio e infila un dito nella torta, per poi infilarselo in bocca.
"E' buona la torta, te l'avevo detto?"
Sbuffo una risata e appoggio la testa alla seduta del divano, guardandolo. "Hmn, non so. Non mi ricordo. Forse no."
Lui recupera una fetta. Cucchiaino, piattino. Tutto. Quindi si accoccola tra le mie gambe, mangia e, sì, parla. Io gioco con le ciocche nere dei suoi capelli e sospiro: se non altro, mentre mi racconta le sue ultime due settimane, avrò il tempo di riprendere fiato.

Bookmark and Share

L'Apostolo della Sfiga

di tabata
Ci sono persone che credono nelle coincidenze, altre che credono nel destino o in una divinità benevola che li osserva dall'alto dei cieli e tira le fila della loro esistenza per fare o non fare accadere determinate cose che potrebbero anche cambiarla per sempre.
Io non sono molto religioso; da piccolo mia madre mi costringeva ad andare in chiesa tutte le domeniche e mia nonna ci faceva pregare prima dei pasti e prima di andare a dormire, per cui mi è rimasto un po' quel vago terrore dell'altissimo che ti viene istigato a forza di raccomandazioni apocalittiche quando sei un ragazzino pestifero com'ero io ma, a parte questo, non è che provi questa spinta mistica; per cui, non lo so, sicuramente Dio avrà cose molto importanti da fare per noi, ma non credo che ci sia proprio Lui dietro agli avvenimenti che sono in grado di cambiarti la giornata.
Questo, però, non significa che io li consideri frutto del caso, perché non credo nemmeno alle coincidenze. Per quanto mi riguarda, due avvenimenti simili ma del tutto slegati fra loro hanno la possibilità di avvenire contemporaneamente, al momento più opportuno e in maniera del tutto casuale quanta ne ho io di dire la cosa giusta al momento giusto, cioè una su un milione; e anche in quell'unico caso, non si tratterebbe comunque di una coincidenza.
Il che ci porta alla conclusione di quest'introduzione infinita, e cioè che io credo fortemente nella sfiga.
Se c'è un energia cosmica, un'entità sovrana o un alieno verde con le antenne seduto all'origine dell'universo con il compito di generare azioni casuali che influiscano sulla tua persona nel bene e nel male – ma soprattutto nel male – quella è la sfiga che, come risaputo, ci vede benissimo al contrario della fortuna.
E io nella sfiga ci credo perché sono il suo primo apostolo, a partire dalla mia calvizie precoce.
Volendo prendere in considerazione esempi più recenti del momento in cui i miei capelli hanno deciso di abbandonarmi per sempre, vi basta pensare che alle dieci di questa mattina ho avuto la possibilità di fare una scelta che poteva avere delle conseguenze negative oppure no. E ovviamente le ha avute.
Mi si potrebbe far notare che tutto è dipeso dal mio libero arbitrio ma così non è, perché io non avevo idea di quali fossero le mie opzioni, la mia scelta non è stata ponderata né consapevole, pertanto non c'entro assolutamente niente. Sono vittima delle circostanze, ma soprattutto della sfiga.
Dopo il tour disastroso, per dimenticare il quale ho fatto una cura di birra che mi ha portato sull'orlo dell'alcolismo, ho deciso che non potevo rimanere a Berlino se volevo sperare di trovare un po' di pace.
Io sono già di natura un tipo portato alla depressione e ho questi momenti di tristezza profonda in cui in sostanza mi accascio in un angolo lamentandomi della mia esistenza, finché un giorno mi sveglio tranquillo e del tutto dimentico di aver pensato di suicidarmi solo il giorno prima; questo fino a che non succede di nuovo, da capo.
Consapevole di ciò, ho fatto le valigie e sono andato in Austria, per altro convinto che ci sarei rimasto per sempre, visto che l'etichetta era andata a puttane e io, in generale, non è che avessi tutta questa voglia di cantare dopo quello che era successo. L'idea originale era di murarmi vivo nella casa di famiglia e lì ritirarmi in solitudine nel mio angolino di disperazione per tutto il tempo necessario e poi, finita la fase depressiva, fare un po' il cazzo che volevo fino a data da destinarsi. Per fare ciò, la casa avrebbe dovuto essere vuota e non c'era motivo per cui non lo fosse, visto che, sfortunatamente per me, i miei genitori e mia sorella vivono a Berlino da anni.
Invece, quando ho infilato il vialetto di casa con la macchina, eccoli lì tutti e tre, seduti in veranda come se nulla fosse. A quanto pare mia madre sentiva la mancanza dei suoi monti, mio padre delle mucche e mia sorella, non lo so, ma sicuramente l'hanno trascinata. Sono rimasto lì con le mie due valige in mano senza sapere cosa fare; ormai mi avevano visto, era impensabile risalire in macchina e scappare. Naturalmente anche loro erano sorpresi di vedermi, così ho dovuto spiegargli a grandi linee perché ero lì, generando così ogni genere di disgrazia possibile. Clara se l'è presa a morte perché non ho cercato di sistemare le cose con Bill prima che diventassero il disastro che sono adesso – addio sorella complice, benvenuta sconosciuta adolescente in lacrime per una popstar – mia madre ha preso il mio ritorno temporaneo come un trasferimento definitivo, ha cominciato a parlare di appartamenti in paese, di un lavoro in improbabili caseifici della valle, e di bellissime figlie di amiche mai sentite nominare che avrei potuto sposare entro l'anno per farle quintali di nipoti. La giustificazione ufficiale per il mio matrimonio combinato con una sconosciuta sarebbe che ormai ho quasi trent'anni ed è quindi ora che generi un erede. Affermazione a seguito della quale, mio padre a ricominciato a parlarmi, dopo aver inteso che non stavo più con un ragazzo e che si era dunque conclusa quella che lui chiama la mia fase omosessuale. A quanto pare sono tornato ad essere il suo prediletto e unico figlio maschio; prima non so cosa fossi diventato, secondo lui, ma sicuramente stava già intestando l'azienda a Clara che ora, immagino, sarà davvero triste di non ereditare più le sue quattrocento mucche pezzate.
Con la prospettiva di dovermi fidanzare con donne inguardabili, consolare l'inconsolabile sorella per la sua – ripeto: sua – preziosa perdita e occuparmi delle mie future mucche, avevo quasi pensato di tornare a Berlino con una scusa qualsiasi, ma visto che mi aspettavano solo un appartamento senza condizionatore e un frigo vuoto che non avrei mai avuto voglia di riempire, sono rimasto. Sei mesi.
Inutile dire che la mia vita è stata alquanto assurda in questo periodo, che sostanzialmente ho trascorso cercando modi per evitare tutti i miei famigliari, improvvisamente impazziti a causa della mia presenza. Se si esclude la mia necessità di nascondermi nel fienile ogni volta che mia madre portava a casa la figlia del panettiere, dell'ortolano, del postino e poi, credo, anche qualche povera disgraziata incontrata per caso per strada, i momenti più disperati sono stati quelli in cui mio padre si è messo in testa di dover rafforzare il nostro rapporto padre-figlio – o la mia virilità, non lo so, una delle due cose – e mi ha costretto a una serie di attività allucinanti e, soprattutto, mai fatte prima, forse convinto che, se me ne avesse fatte fare di più quand'ero ragazzino, tutto questo non sarebbe mai accaduto. La follia. Così mi ha portato a camminare per chilometri nei boschi, che ci siamo persi finendo per dover chiamare la forestale, e poi a tagliare legna con i boscaioli e a pescare, con tanto di sveglia alle quattro del mattino e lui che tenta di affrontare l'argomento maschi e femmine come se avessi sei anni. Quando ho provato a spiegargli che non è la teoria di base a mancarmi, ma che proprio me ne frego del sesso se qualcuno mi piace, mi ha indicato una trota sotto il pelo dell'acqua e mi ha detto “Hai visto? Te l'avevo detto che era pieno” e da quel momento non abbiamo più parlato.
In tutto questo, mia sorella è stata ingestibile per buona parte della mia permanenza a casa – cioè almeno fino a quando lei e papà non sono tornati a Berlino perché lei va ancora a scuola – e se arrivo a dirlo io, che in linea di massima la adoro e nessuno me la può toccare, vuol dire che proprio ha passato ogni limite. Clara era molto felice che io mi fossi messo con Bill; non felice per me, ma per se stessa, naturalmente, visto che è una grande fan dei Tokio Hotel. Mi ha fatto martire finché non gliel'ho fatto conoscere e quest'incontro ravvicinato del terzo tipo tra Bill e Clara un giorno dovrà raccontarvelo perché è stata la prima volta, in vita mia, che ho visto mia sorella imbarazzata fin quasi al mutismo.
Per questo motivo, voleva poi strangolarmi quando ho avuto la faccia tosta di presentarmi a casa dopo essermelo lasciato scappare, come dice lei. Il fatto che io non fossi un mostro e ci stessi pure male non era nemmeno contemplabile. Per calmarla e farla ragionare ho dovuto farle notare che, senza questa pausa forzata, Bill sarebbe probabilmente impazzito finendo per fare qualcosa di irreparabile.
Allora lei ha capito, se n'è fatta una ragione, ha dimostrato per Bill più pietà di quanta ne avesse dimostrata per suo fratello e quindi è tornata quella di sempre, che non so se sia esattamente una buona cosa, ma almeno sapevo cosa aspettarmi.
Dopo sei mesi di questa vita, ne avevo abbastanza anche della mia famiglia, a cui voglio un gran bene ma a volte troppo amore uccide, quindi era meglio che me ne andassi. Stamattina, dunque, ho messo le valige in macchina e, mentre lo facevo, mia madre mi ha chiesto se ero sicuro di voler tornare a Berlino, se magari non volevo restare un altro paio di mesi, che magari era meglio visto che in città sarei stato solo e triste – grazie mamma – e lei non voleva che stessi male. In quel preciso momento, avrei potuto risponderle di no, che non volevo tornare e che sarei rimasto. Non l'ho fatto, però, e dodici ore dopo, cioè adesso, ecco che mi arriva una chiamata di Kay che mi dice di raggiungere un magazzino di periferia perché abbiamo un problema. Coincidenze? Assolutamente no. Sfiga.
Ho guidato tutto il giorno, sono stanco e odio Bushido, percui non mi va affatto di farmi di nuovo tre piani di scale, togliere l'auto da un parcheggio meraviglioso proprio sotto casa per perdermi chissà dove; poi Kay mi riassume in breve il problema e, soprattutto, mi dice che c'è un uomo ferito in quel magazzino e che non sappiamo chi sia, così quando chiudo il telefono sono praticamente già in macchina e lo riapro soltanto per chiamare Fler, che è la prima persona che mi è venuta in mente. Suona subito occupato, così m'incazzo ma, proprio quando sto per richiamarlo, ci riesce prima lui e non importa che mi aggredisca chiedendomi cosa cazzo stessi facendo, perché sta bene e io posso smettere di bruciare tutti i rossi che trovo per il nervoso.
Il magazzino è enorme e male illuminato; quando entriamo non si vede quasi nulla a parte l'ombra di alcune casse al centro della stanza. Bushido è armato, una cosa che non mi mette a mio agio. Nonostante tutto quello che abbiamo passato, non mi sono ancora abituato a certe cose e di sicuro veder esplodere la faccia di Saad due anni fa non mi ha aiutato in questo senso. Ci sono volte in cui mi sembra solo che ci prendiamo tutti troppo sul serio, altre invece ho proprio l'impressione che ci stiamo mettendo nei guai, e questa è una di quelle. Soprattutto quando troviamo David Jost disteso a terra in un lago di sangue.
Io guardo un sacco di film di paura e mi diverto anche a farlo, ma credo che da questo momento in poi smetterò e mi darò per sempre ai cartoni animati. Non riesco a staccare gli occhi dal corpo di David eppure quello che vedo non mi piace. Innanzitutto è legato mani e piedi e sta disteso su un fianco, come probabilmente lo ha lasciato chi gli ha fatto questo, e poi ha la maglia strappata e una scritta incisa con il coltello sullo stomaco. La ferita butta ancora sangue che è di un rosso vivissimo, non sembra nemmeno reale. Poi, forse perché lui si lamenta quando Bushido lo gira, o non lo so, usciamo uno dopo l'altro dalla paralisi di stupore e cominciamo a muoverci, anche se non tutti facciamo qualcosa di utile. Io, per esempio, riesco finalmente a battere le palpebre e mi scosto quando Bushido mi passa accanto con in braccio David.
Rimaniamo a lungo in silenzio, ad ascoltare l'eco della porta del magazzino che si è chiusa e il rombo dell'auto di Bushido che si allontana, poi ci guardiamo in faccia e non abbiamo idea di che cosa fare. Io almeno non ce l'ho, e neanche Kay ed Eko sembrano saperne più di me.
“Dobbiamo sbrigarci,” esordisce Fler, prima ancora che noialtri si sia effettivamente capito di dover agire in qualche modo. Evidentemente lui si accorge dei nostri occhi vacui, perché aggiunge: “Questo posto va ripulito in fretta.”
“Perché?” Non so di aver fatto la domanda finché non sento la mia voce.
“Te lo spiego dopo,” risponde lui, senza nemmeno voltarsi. Si limita ad indicarci tutti quanti con un braccio mentre apre la porta. “Rimanete dove siete e non fate niente finché non torno.”
Ci ritroviamo a fissarci nelle palle degli occhi per la seconda volta in meno di dieci minuti e poi, tutti insieme nemmeno ci fossimo messi d'accordo, ci spostiamo lontano dal sangue ma in un punto che è ancora vagamente illuminato dal neon all'esterno e dal display del cellulare di Eko che lo agita in aria come volesse far atterrare un aereo all'interno del capannone.
“Hai finito?” Gli chiedo, dopo la decima volta che me lo sventola davanti alla faccia.
“Sto facendo luce,” replica lui.
Gli blocco la mano e conto fino a dieci, per evitare di saltargli al collo e stenderlo a suon di sberle. “No, stai dando fastidio.”
Eko borbotta qualcosa e poi va ad agitare il cellulare da un'altra parte. “E allora stai al buio.”
“Deve pur esserci un interruttore da qualche parte,” la voce è nuova, quindi ci giriamo tutti e tre per vedere a chi appartiene e ci rendiamo conto che questo ragazzino biondo, alto in maniera illegale per l'età che deve avere, dev'essere stato qui tutto il tempo e noi non ce ne siamo accorti. Lo guardiamo senza capire bene perché è qui davanti ai nostri occhi e lui scuote la testa con un sospiro, dirigendosi a passo svelto verso l'uscita. A metà strada il buio lo inghiotte, per poi mostrarcelo di nuovo come un'ombra vagamente illuminata qualche metro dopo. Lo vediamo armeggiare con qualcosa che c'è sul muro e alla fine sentiamo un colpo secco, un ronzio e lentamente il magazzino s'illumina, un settore alla volta partendo dal fondo. Le lunghe lampade al neon attaccate al soffitto sfarfallano un po', prima di assestarsi, ma poi si fanno luminosissime.
“Ecco fatto,” dice lui, spolverandosi le mani sui jeans.
“E tu chi saresti?” Domando. Il ragazzino ha una faccia familiare, eppure non so dove potrei averlo visto.
Lui ride e poi torna verso di noi. “Sono Daniel. Daniel Kobler,” risponde, come se il suo nome dovesse in effetti dirmi qualcosa. “Non ti ricordi di me, vero Chakuza?”
Eko si rende finalmente conto che il suo cellulare non serve più, così lo infila in tasca e squadra lo sconosciuto. “Chaku, perché ti porti sempre dietro i ragazzini? Siamo circondati di ragazzini. Non ne avevamo già abbastanza?” Vaneggia, prima di allontanarsi chissà dove e a fare cosa.
Faccio un cenno a Kay perché vada a recuperarlo prima che scivoli sul sangue e si spacchi la testa da qualche parte, mentre io vedo di capirci qualcosa di più. “Tu mi conosci,” dico.
Daniel annuisce. “Ci siamo incontrati quasi due anni fa.”
Io scuoto la testa, non ho la minima idea di cosa stia parlando.
“Tempelhof,” suggerisce. “Tu e Fler cercavate informazioni e io ve le ho date.”
Daniel Kobler. Il nome non mi dice niente, ma l'unica volta che io e Fler siamo andati a Tempelhof insieme è stata la notte di Saad, quindi cerco di fare mente locale. Abbiamo visto un sacco di gente in quell'occasione, ma lui proprio non mi sembra di ricordarlo e sto quasi per arrendermi quando ci arrivo. “Daniel?” Dico. “Il ragazzino che era fan dell'Aggro?”
Lui sorride. “Lo sono ancora.”
“Ma eri alto così!” Protesto, come se fosse colpa sua, se è cresciuto.
Daniel si stringe nelle spalle. “L'adolescenza ha i suoi lati positivi,” commenta.
Non so cosa gli abbia dato sua madre da mangiare, ma vorrei che avesse condiviso quel segreto con la mia. Ad ogni modo, sto perdendo un po' di vista il punto principale della faccenda. “Perché sei qui? Chi ti ha portato?”
“Sono venuto con Fler,” risponde, infilando entrambe le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni.
Io vorrei chiedergli parecchie cose, tipo cosa ci faceva lui con Fler, come mai lo conosce così bene e soprattutto perché lui lo ha portato qui, ma immagino che posso chiederlo direttamente al diretto interessato visto che è appena tornato, con in mano cinque spazzoloni e altrettanti secchi.
“Avete trovato la luce,” esclama, cominciando a distribuire. “Bene.”
Kay guarda gli oggetti come li guardo io, ossia come uno a cui raramente sono capitati in mano prima di quel momento. Eko invece è molto poco interessato al secchio, ma si è appoggiato allo spazzolone come fosse una lancia.
“Dovremo organizzarci, anche se l'area non è grandissima,” continua Fler, individuando un piccolo lavandino e dirigendosi in quella direzione. “Ho preso della candeggina, ma toglieremo prima il grosso con l'acqua.”
Noi lo guardiamo riempire il secchio per metà e poi mettersi a strofinare con forza la grossa macchia al centro del magazzino, non quella che era subito sotto il corpo di David, ma quella più lontana che si è formata con lo scorrere del sangue sul pavimento un po' inclinato. Lo spazzolone bagnato affonda nel sangue che è molto più denso dell'acqua e sembra di vederlo spalmare per terra del caramello filamentoso. E' una cosa disgustosa. “Kay, tu ed Eko occupatevi del posto in cui c'era David,” li istruisce. “Chakuza, tu stai qui con me. Cercate di raschiare forte, perché il sangue è un figlio di puttana. Quando sarà rimasta solo la macchia, passeremo la candeggina.”
Kay ed Eko guardano lo spazzolone e la macchia con aria dubbiosa, e nessuno di noi si muove, in realtà.
“Beh?” Chiede Patrick.
“Si può sapere perché dobbiamo pulire?” Chiedo alla fine, visto che gli altri due seguono il volo di farfalle inesistenti e hanno palesemente lasciato a me il compito di fare ostruzionismo.
Fler smette di pulire il pavimento. “Guardati intorno, Chakuza, ci sono le nostre impronte ovunque,” risponde.
“E allora? Abbiamo salvato un uomo,” gli faccio notare.
“O forse lo abbiamo torturato,” mi corregge lui. “O ucciso, dipende da quanto Jost ha intenzione di resistere.”
“Ma la polizia...”
“Se David muore, l'unica cosa che la polizia saprà con certezza è che noi siamo stati qui,” mi interrompe. “Ci sarebbe un'indagine, degli interrogatori e con tutto quello che io e Bushido abbiamo alle spalle, probabilmente non si fermerebbero a questo magazzino. Pensaci Chakuza, vuoi davvero che qualche ispettore venga a frugare nella tua vita adesso?”
No, l'ultima cosa che voglio è che qualcuno passi al setaccio gli ultimi due anni e magari si ricordi di quel Saad che lavorava con me e che un bel giorno, di punto in bianco, ha misteriosamente deciso di lasciare la moglie e la figlia senza motivo apparente, proprio qualche mese dopo il funerale del suo capo morto ammazzato da ignoti. Certo, Bushido è vivo ma la sua fuga a Miami non giocherebbe a favore di nessuno in questo frangente e apparirebbe ancora più sospetta. Sono sempre convinto che se nessuno ha ancora trovato nel canale il portellone di un'auto che adesso ha tutto un altro aspetto grazie a Fler, è solo perché non l'hanno cercato e di certo gli verrebbe in mente di farlo, prima o poi, se si mettessero in testa di indagare, cosa che non hanno mai fatto solo perché Greta doveva un favore a Bushido e, in memoria sua, non ci ha denunciati per averle ammazzato il marito. Ora che ci penso, visto che Bushido è vivo, quella donna potrebbe anche cambiare idea. Dobbiamo pulire questo sangue, senza dubbio.
Annuisco e vado a riempire il mio secchio. Sulla strada incrocio Daniel che scende da una delle casse su cui stava seduto e si sistema meglio i pantaloni. “E io?” Lo sento chiedere.
“Tu stai buono e aspetti che abbiamo finito,” gli dice Fler.
“Oh andiamo! Voglio dare una mano anch'io!”
Fler sospira, ma continua a pulire mentre Daniel gli gira intorno, per cercare di farsi ascoltare. “No, Danny.”
“Guarda che lo so come si pulisce il sangue,” protesta lui.
Io quasi faccio traboccare il secchio per seguire la scena. Fler lo guarda sospirando e poi annuisce con un cenno quasi impercettibile del capo. “Dai una mano a loro, laggiù” indica Kay ed Eko.
Daniel obbedisce al volo.
“Perché l'hai portato qui?” Inizio in un sussurro, mentre in due puliamo gli stessi cinquanta centimetri di sangue.
Fler non alza la testa, raschia solo più forte. “Era con me quando Anis ha chiamato.”
“E non hai trovato una babysitter?” Chiedo.
Lui sbuffa forte dal naso e si accanisce sul pavimento con particolare violenza. “Non mi fidavo a lasciarlo a casa mia da solo con in giro un pazzo che ammazza la gente.”
“D'accordo, ecco un'altra domanda. Cosa ci fa un ragazzino di Tempelhof che s'intende di spacciatori a casa tua?”
“E' il mio ragazzo,” risponde lui.
Lo spazzolone mi cade di mano e finisce prima sul mio piede e poi nella pozza di sangue. “Merda!” Impreco, recuperandolo con due dita e riuscendo comunque a sporcarmi. Mi pulisco la mano sui pantaloni, schifato. A parte che è sangue, è anche freddo e viscido. Fler, in tutto questo, ha continuato a pulire.
“Il tuo ragazzo?” Sibilo, incredulo.
“Sì, il mio ragazzo,” ribadisce e mi guarda serissimo. “Hai qualche problema con questo, Peter?”
Potrei iniziare ad elencarli adesso, i problemi, e finire domani alla stessa ora ma qualcosa mi dice che sono solo miei e posso pure tenermeli; solo che non posso stare zitto. “Ma se aveva dodici anni nemmeno due anni fa!”
“Ma non dire cazzate,” borbotta lui, infilando lo spazzolone nell'acqua che però ormai è rossa. “Ne aveva sedici, due anni fa, il che fa di lui un diciottenne adesso. Contento?”
Prende il secchio con impeto e va al lavandino a svuotarlo. Io lo seguo. “Ma quando è successo?”
“Sei mesi fa.”
Io faccio un rapido calcolo. “Stavi con Bushido sei mesi fa.”
Fler chiude l'acqua, si gira verso di me e mi fulmina. “Fermo restando che questi non sono cazzi tuoi, Peter...” si ferma, mi agita l'indice davanti alla faccia e poi sospira. “Beh, non sono cazzi tuoi.”
Si allontana velocemente e inizia a spargere candeggina sul pavimento. L'odore pungente mi entra nel naso e mi fa lacrimare gli occhi. Apro la bocca per dirgli qualcosa ma lui mi ferma prima. “Un'altra domanda e ti faccio a pezzi. Tanto sto già pulendo,” mi minaccia. Quindi si volta a controllare gli altri tre e lancia a Daniel il flacone di candeggina. “Ripulite con questa, ora.”
Il ragazzino lo prende al volo e gli fa il saluto militare con due dita. Adesso che lo so, non riesco a guardarlo alla stessa maniera e mi dà fastidio perfino il modo in cui sorride e il fatto che si siano capiti al volo quando Fler gli ha lanciato quell'affare. Torno a strofinare la mia macchia con la candeggina e penso che sono curioso di sapere com'è andata esattamente, se Bushido ne sa qualcosa di questo ragazzino, o se mentre noi affrontavamo i nostri molti problemi in tour, lui, da casa, contribuiva alla follia generale a modo suo.
Io e Fler finiamo prima degli altri tre perché la nostra macchia è più piccola, non è sparsa anche sulle casse circostanti, ma soprattutto non abbiamo Eko che drogato dagli effluvi della candeggina o, molto più probabilmente, così già di suo sta vaneggiando di un film turco che ha visto quando era piccolo a casa di suo zio Idris in cui i protagonisti fanno esattamente quello che stiamo facendo noi ora, ma poi alla fine la mafia li trova e dà i loro cadaveri in pasto ai maiali.
“Adesso sì che mi sento meglio,” sospira Kay, accucciato per terra a togliere macchioline spruzzate sul legno con uno straccio.
“Non ho mai sentito parlare di quel film, Eko,” esclama Daniel, “però ce n'è un altro che è uscito due o tre anni fa in cui gli scagnozzi del boss tentano di fregare il boss e finiscono a farsi un volo di trenta metri dal suo grattacielo.”
“D'accordo adesso basta con i pensieri felici,” li ferma Fler, battendo le mani. “Prima ci leviamo di qui e più probabilità abbiamo di evitare i finali splatter. Chakuza, aiutami a radunare ogni cosa.”
Venti minuti dopo abbiamo avvolto gli attrezzi nel nylon, stipando tutto nel bagagliaio dell'auto di Fler, che ha pensato proprio ad ogni minimo dettaglio. Mi viene da chiedergli quante altre volte gli sia capitato di ripulire un posto dal sangue, ma non lo faccio perché mi ricordo la disinvoltura con la quale ha fatto sparire il corpo di Saad e quanto la cosa mi abbia lasciato sconvolto. C'è sempre un lato di lui di cui non so niente e, per quanto sia brutto, voglio continuare a non sapere niente. Non ho mai pensato di essere in grado di accettarlo, quindi è meglio che ne rimanga all'oscuro. Dimenticherò questa serata come, salvo rari casi, ho dimenticato l'altra. Il mio cervello ha un sacco di difetti, ma in questo caso la sua capacità di rimuovere la quasi totalità di ciò che invece mi converrebbe ricordare torna utile.
Appena fuori dal magazzino, mentre chiudiamo la porta, ci guardiamo l'un l'altro stanchi e disfatti. Siamo ricoperti di sangue dalla testa ai piedi e non sappiamo nemmeno come visto che non abbiamo passato il tempo rotolandoci sul pavimento. Sarà che a differenza di Fler eravamo tutti piuttosto inadeguati e pulire bene una stanza dal sangue non è così facile come sembra, non quando schizza ovunque e si infila appiccicoso tra le piastrelle e non c'è verso di toglierlo. Se anche mi venisse la voglia di uccidere qualcuno, lo avvelenerei o lo strangolerei, comunque niente che coinvolga dello spargimento di sangue.
“D'accordo, andiamo. Ci troviamo a casa di Bushido tra mezz'ora.”
Ne segue un mormorio contrariato. Gli altri non so, ma io volevo farmi una doccia e non sentire Bushido che ci fa uno dei suoi discorsi epici sull'unità del gruppo, la sacralità della vendetta e il codice del ghetto che, a quanto mi pare di capire, stasera è stato violato in molti modi diversi.
Come se ciò non bastasse, vedo Daniel salire sull'auto di Fler e il viso serio e concentrato che ha mi disturba, perché ha lo stesso atteggiamento di Fler, pratico, attento e volto alla soluzione di ogni possibile problema, già presente o previsto. Fottuto ghetto, sempre nel mezzo.
Sbuffo e appoggio per un secondo la fronte al volante; questa notte è stata lunghissima e sembra non avere alcuna intenzione di finire.
Metto in moto e mi dirigo alla villa gialla.

*


Come se trovare un uomo che conosci sventrato a coltellate dentro un magazzino e doverne ripulire il sangue con la candeggina non fosse già abbastanza per una sola notte, a casa di Bushido c'è Bill e io non sono nella condizione di affrontare questa cosa al momento. Speravo che dopo sei mesi a fare l'eremita, sarebbe stato più facile guardarlo negli occhi, ma direi che così non è.
La rabbia che avevo alla fine del tour ce l'ho anche adesso, tale e quale a prima, e se in questi sei mesi non l'ho sentita è stato solo perché non ho visto né sentito lui. Ora che ce l'ho di nuovo davanti, però, è difficile ignorare quello che è successo, soprattutto perché se siamo qui stasera è per colpa di Bushido, che è un po' la causa di tutti i problemi tra noi due. Non sono ancora in quella fase in cui mi dico che era meglio se non tornava e poi mi sento in colpa per averlo pensato. Per ora lo penso e basta.
In tutto questo, la prima volta che io e Bill ci scambiamo due parole, lo facciamo per discutere di Daniel, che non è esattamente un approccio intelligente.
Ad ogni modo, la presenza di Bill è provvidenziale per lo stato in cui ci troviamo. Quando siamo entrati in casa, la governante di Bushido è praticamente impazzita – e non posso darle torto visto che stiamo lasciando sangue ovunque sui mobili di Bushido da cinquecento fantastiglioni di euro – e se non ci fosse Bill ad organizzare le cose, probabilmente saremo ancora in piedi a gocciolare sui tappeti persiani quando lui arriva. E' assurdo pensarlo, ma non ho più alcun ricordo di questa casa senza Bill dentro che dà ordini a destra e a manca, eppure ci venivo anche prima che arrivasse lui. E' come se ci fosse sempre stato. Così mentre ci stipa tutti nel bagno degli ospiti e ci fa lavare e cambiare, non sembra una cosa tanto strana perché c'era un tempo in cui eravamo abituati a passare le giornate qui dentro e c'era anche lui che, quando giocavamo a calcio in giardino, ci spediva uno dopo l'altro a farci la doccia perché non eravamo presentabili. E' quello che ci dice adesso, per altro, e non fa che aumentare questa sensazione di calore che non dovrei affatto provare.
Bill ci fa un sacco di domande e non vorremmo dirgli che si tratta di David Jost senza prima sapere se quell'uomo se la caverà o meno, ma non ne abbiamo veramente discusso e, siccome il cervello di Eko a volte è perfino più scollegato dalla realtà del mio, quello finisce per dirgli che in effetti qualcuno è ferito e a quel, punto, visto che Bill insiste e non ci darà pace finché non rispondiamo, gli dico le cose come stanno.
All'inizio non ci crede e poi va nel panico e Fler è costretto a scuoterlo per farsi guardare mentre gli dice che andrà tutto bene; vorrei essere altrettanto bravo a fingermi sicuro che le cose si sistemeranno, ma non lo sono affatto, anzi ho dei dubbi che David sia anche solo arrivato vivo in ospedale, per questo è meglio che ci pensi lui a rassicurare la principessa.
Alla fine, quando Bushido si presenta, Bill ha chiesto a Karima di preparare del caffè e ci siamo sistemati in salotto dove abbiamo passato un'ora praticamente in silenzio a fissare ognuno un punto diverso della stanza con grandissima attenzione, tranne forse Eko che si è tenuto impegnato a costruire castelli con le zollette di zucchero e Daniel, che dopo aver ficcato il naso dappertutto, si è addormentato sul divano con la testa appoggiata sulle ginocchia di Fler.
Bushido ha sempre cercato di rendere la propria immagine eroica, probabilmente perché, quando dice le sue stronzate, gli piace immaginarsi in cima ad un picco a strapiombo sul mare col vento che gli scombina i capelli – magari prima al particolare dei capelli non ci pensava, ma ora può perché sono lunghi e sembra il protagonista di uno di quei libri da donne, che sulla copertina hanno questi uomini con la camicia aperta e la criniera selvaggia – ecco perché, generalmente, ha sempre quest'aspetto da duro che non deve chiedere mai. Stasera, però, non fa niente per nascondere la spossatezza e quando entra in casa e chiude la porta, lo fa con passo stanco e le spalle curve, è così abbattuto che mi viene da chiedermi se David non sia morto davvero. Glielo chiede anche Bill, così viene subito a sapere che il segreto è stato svelato, ma ne prende atto con un cenno del capo e niente di più.
Fortunatamente David è vivo, ma deve riuscire a superare la notte e al momento mi sembra impossibile, più che altro perché la notte sta andando avanti in eterno; non mi ricordo nemmeno dov'è iniziata e quindi probabilmente non finirà mai. Sono stanco del buio, non ho nemmeno voglia di dormire, vorrei soltanto vedere la luce del sole che segni l'inizio di un giorno nuovo e, si spera, completamente diverso da questo.
La sensazione di deja vu, che mi accompagna da quando ho messo piede in questa casa, si fa ancora più forte quando Bushido annuncia che è necessario restare uniti, vista la situazione, e Tom non la prende affatto bene perché non vuole che suo fratello ci resti invischiato in mezzo.
Ora, sinceramente, io non sto facendo i salti di gioia all'idea di dover collaborare con quest'uomo, ma non posso negare che abbiamo davvero bisogno di tenerci d'occhio l'un l'altro, vista la situazione. E dal momento che la polizia meno s'impiccia e meglio è – penso che ormai sono un uomo che teme le forze dell'ordine, uno di quelli che mia nonna non voleva che frequentassi, povera nonna – allora non c'è altra gente di cui mi fidi se non quella che si trova in questa stanza. Tom però non è d'accordo e comincia a discutere con Bushido come ha sempre fatto, da che lo conosco, ogni volta che parlano di Bill.
Si scornano finché la nostra principessa non li mette a tacere entrambi e ovviamente comprende quello che è necessario fare, anche se non è facile nemmeno per lui, immagino, dover ricominciare con queste cose. Niente di quello che è successo è andato come doveva e, anche quando ci avevamo dato un taglio, qualcuno ha pensato bene di riportarci tutti al punto di partenza. Dopo che abbiamo scavato, toccato il fondo e scavato ancora per arrivare dall'altra parte, mi chiedo che cosa ci aspetti ancora che renderà la nostra vita una roba che non si racconta.
Bushido, naturalmente, si attiva subito per non lasciarmi troppo a brancolare nel buio e decide che se dobbiamo fare dei turni per tenere d'occhio Bill sarà meglio cominciare subito e sarà meglio cominciare da lui medesimo nella sua armatura scintillante e col suo bel sistema di allarme collegato alla Nasa.
Io so che, oggettivamente, questo è il posto migliore in cui tenere Bill per stanotte e per chissà quanto altro tempo ancora, ma so anche che Bushido è molto bravo a nascondere la propria sfacciataggine dietro motivazioni più o meno valide; e quindi sì, forse, questo è il posto migliore ma non sono troppo sicuro che lui avesse esattamente questo in mente quando ha deciso di tenerlo qui.
Quando Bill, alla faccia del tracollo emotivo che lo ha quasi portato a farsi investire su un autostrada sei mesi fa, accetta di restare senza fare una piega, penso che mi convenga uscire e farlo in fretta perché il peso di questa giornata comincia a farsi sentire e io non voglio avere comportamenti di cui poi mi dovrò scusare con lui. So che vede il mio viso mentre gli passo accanto e sa perfettamente come mi sento. Spero che, almeno un po', si senta così anche lui.
Saluto e penso che non vale la pena ricominciare da capo se tutto ciò che si ripete sono gli omicidi.

Bookmark and Share

Run Around In Circles ('Til I Run Out Of Breath)

di tabata
Fino a qualche giorno fa ero un uomo convinto che sarebbe cambiato, che le cose sarebbero migliorate e che la sua vita, a lungo segnata da una serie di sfighe cosmiche, stesse ora per prendere la giusta piega e diventare, se non perfetta, per lo meno accettabile. Poi abbiamo trovato David in quel magazzino, e allora mi sono ricordato che mi chiamo Patrick Losensky e che la mia vita, da che sono nato, non ha mai preso la piega giusta nemmeno per sbaglio.
La verità è che avrei dovuto andarmene quando ne avevo l'occasione. E visto che la prima volta non mi è riuscito, intendo quando poi Anis è tornato, a maggior ragione avrei dovuto riuscirci alla seconda, quando veramente non mi era rimasto più niente. Nemmeno Sido. Avrei dovuto cambiare aria, magari perfino nazione, provare nuove collaborazioni – in Francia, per dire, fanno un ottimo rap – e solo allora tornare, meglio se dopo anni. Il posto in cui hai vissuto per quasi trent'anni può iniziare a soffocarti se tutto ciò che ha da offrirti sono ricordi di cui faresti a meno. Spesso l'unica soluzione è tagliare i ponti e ricominciare da capo, nuove facce, nuova vita, nuovo posto; tutte cose che probabilmente ti porteranno a soffocare di nuovo, un giorno, ma fino ad allora – e non sai quando sarà, non sai nemmeno se succederà – avrai guadagnato un po' di tranquillità che evidentemente ti mancava se hai sentito il bisogno di fuggire altrove.
Questo è un concetto in cui io credo molto, ma non sono mai riuscito a metterlo in pratica.
Se per chiunque è difficile cambiare vita, per me lo è ancora di più perché il posto da cui provengo non è Berlino, ma il ghetto e quello è un mondo a parte, una cosa viva. Se ti allontani, il ghetto resta comunque dentro di te o, peggio, fa in modo che tu non abbia voglia di andartene.
Per farmi restare, il ghetto mi ha mandato Danny e quando io, notte dopo notte, l'ho strappato a lui, allora ha preso David e se l'è quasi mangiato vivo.
Adesso sono di nuovo al punto di partenza, perché qui non c'è nessuna strada da percorrere, solo un circolo vizioso che non posso far altro che ripetere all'infinito, magari non completamente, ma di certo le sue parti fondamentali non mancano mai. Una di queste è un morto ammazzato. Una di queste, soprattutto, è Chakuza.
Per un momento ho anche sperato che la chiamata a rapporto di Bushido potesse restare un caso isolato, ma questo solo perché sono fondamentalmente ottimista e mi sembra chiaro che dovrei smettere, visto che l'ottimismo non è che mi abbia portato molto lontano. Era anche piuttosto ovvio che messi in condizione di vederci e parlarci una volta, io e Chakuza avremmo voluto farlo di nuovo perché siamo entrambi molto portati a ricadere nei soliti schemi mentali e lui, per altro, non li abbandona nemmeno temporaneamente.
Il suo cervello è un computer in grado di montare tre o quattro sistemi operativi del tutto diversi e anche in palese conflitto tra di loro e usarli tutti contemporaneamente. In un certo senso è un miracolo della tecnologia, peccato sia completamente inutile e, dopo esserti meravigliato di questa sua straordinaria capacità, ti rendi conto di cosa significa.
Quando lo conosci bene, capisci che questa è una parte di lui che non si può cambiare. Se c'è qualcosa che desidera oltre a te, magari non farà di tutto per averla, ma continuerà a volerla con un'intensità tale che dovrai conviverci, perché questa esonda e gli illumina gli occhi, e quando lo guardi la vedi chiaramente.
Io ci sono passato. Lo so cosa vuol dire trascorrere con lui giornate intere in sintonia perfetta e poi perderlo completamente ad un solo battito di ciglia da parte di Bill.
Per questo motivo quando ho incrociato il suo sguardo, nel salutarlo dopo aver lasciato casa di Anis l'altro giorno, ho capito subito dove saremmo andati a parare, magari non dopo due giorni e nemmeno dopo una settimana, ma prima o poi sì. L'unica differenza è che, per una volta, mi è sembrato che il battito di ciglia che l'ha confuso fosse il mio, e quindi forse è stato anche per questo che non sono scappato subito a gambe levate. E perché sono scemo, non c'è altra spiegazione.
Quella sera, prima di risalire ognuno sulla sua macchina, ci siamo detti di tenerci in contatto, ufficialmente per quello che avremmo deciso di fare per la questione di David, e ufficiosamente Dio solo sa perché, ma non avevamo certo fissato una data precisa. Chakuza, però, è sempre Chakuza e quindi si sente perfettamente autorizzato a presentarsi a casa mia alle otto del mattino nemmeno una settimana dopo mentre io, non solo non lo sto aspettando, ma sto anche vivendo un piccolo dramma famigliare che pensavo mi sarebbe toccato soltanto fra una decina d'anni, quando avrei avuto un figlio che lo rendesse plausibile.
Dopo la notte del magazzino – che ora ha un nome e quindi, immagino, va a far compagnia a quella di Saad – Danny ha dormito da me molto spesso, anche durante la settimana, una cosa che non gli avevo mai permesso di fare fino a questo momento. Questo gli ha fatto venire una serie infinita di pessime idee, l'ultima delle quali sarebbe quella di non andare a scuola, oggi, e rimanere a casa con me.
Quando Chakuza suona il campanello, io ho appena bocciato l'ultima proposta di Danny di darmi una mano a fare la spesa visto che il frigo è vuoto.
“Se mi fai restare a casa, potremmo scopare e non dovresti fare da solo in doccia,” urla lui per farsi sentire dalla cucina e io, che sto per premere il bottone del citofono, decido di non farlo e di aprire alla cieca, giusto per non far sapere a tutta la strada gli affari miei.
“Sei minorenne, non posso accettare offerte simili da te,” lo zittisco. “E ora finisci di fare colazione. Ti voglio fuori di qui in tempo per la seconda ora.”
“La seconda ora di cosa?” Dice Chakuza entrando.
Io non realizzo subito che ce l'ho davanti. Sento la voce, vedo spuntare la testa, ma non capisco che cosa sto guardando. Per un momento non c'è nessun nesso logico fra io che apro la porta e lui che entra, perché non mi aspettavo di vederlo e, con Danny e tutto il resto, mi ero pure dimenticato che un giorno, forse, dovevamo sentirci per fissare un altro giorno ancora in cui vedersi.
“Come hai fatto ad entrare?” Gli chiedo, senza rendermi conto di quanto sembri cretino.
Lui si chiude la porta alle spalle come fosse casa sua e mi guarda con diffidenza. “Mi hai aperto tu?”
“Sì, questo è ovvio,” mi correggo. “Intendo, perché sei qui?”
“Dovevamo vederci.”
Lo guardo ed evidentemente sono troppi mesi che non lo vedo perché i miei processi mentali faticano tantissimo ad adattarsi di nuovo ai suoi.
“Un giorno generico, Chakuza.” Gli faccio notare. “Sai come si dice, vediamoci uno di questi giorni.”
“Beh, è un giorno,” sorride lui. Pieno di grandi aspettative per il futuro, immagino.
Io sospiro e mi stropiccio gli occhi, e so già che il mio periodo di pace è finito. Qualunque cosa mi riservi il futuro comincia adesso e sarà tremenda. “Sì, beh,” dico “Il fatto è che in questo momento sono un po' preso, quindi forse è meglio...”
“Senti cosa facciamo,” esclama Danny, raggiungendomi nel corridoio con un biscotto in mano e ancora in mutande. “Entriamo in doccia insieme e poi decidiamo. Oh.”
Oh. Esattamente quello che dico io. Lo sguardo che si scambiano genera una scarica di corrente elettrica che potrebbe illuminare Berlino per tutta la prossima settimana. Chakuza perde il sorriso di colpo, come se fino a due minuti fa avesse avuto un paio di finte labbra sorridenti incollate sulle sue vere e gli fossero cadute per terra per un colpo di tosse. Daniel invece fa una cosa che non gli avevo mai visto fare, forse perché fino a questo preciso momento non ne aveva avuto bisogno: si mette sulla difensiva. “Buongiorno,” saluta, cercando di mostrarsi perfettamente a suo agio, nonostante sia senza vestiti.
“Buongiorno,” risponde Chakuza.
E credo che questo sia il momento più imbarazzante della mia vita. Presentarmi al pronto soccorso e dire ad alta voce di aver bisogno di un proctologo che mi desse dei punti è stato niente in confronto. “Danny, questo è Chakuza,” dico agitando l'indice a destra e a sinistra senza guardarli. “Chakuza, questo è Danny. Vi siete conosciuti l'altra sera.”
“Sì, mi ricordo,” fanno entrambi in coro. “E cosa ci fa qui?”
Daniel solleva un sopracciglio, credo per dargli la possibilità di correggersi prima di saltargli alla gola, e Chakuza stranamente la coglie. E' evidente che l'invasione di territorio lo ha reso ricettivo.
“Voglio dire,” si schiarisce la voce. “Non pensavo che viveste già insieme. Sono... sorpreso.”
Io vedo le magliette e i pantaloni che Daniel ha lasciato ovunque nel corso degli ultimi giorni, e che sono un po' troppe per un semplice cambio del giorno dopo. Per non parlare della pila di libri e quaderni che c'è sul mobile d'entrata, dove di solito fa il cambio dello zaino pochi minuti prima di uscire. Non è così assurdo che Chakuza abbia erroneamente pensato quel che ha pensato.
“No, no, ha solo dormito da me per un po',” mi gratto la nuca e spero di essere fulminato così da non dover proseguire questa discussione.
“Tu non hai risposto alla domanda,” insiste Daniel, con un sorriso omicida.
“Sono qui perché devo parlare con Patrick,” risponde Chakuza.
Continuano a guardarsi dritti negli occhi e io penso che se intanto vado a farmi la doccia e a vestirmi, quando torno lì trovo ancora qui a giocare ad un, due, tre, stella!
Tossisco per richiamare la loro attenzione, in fondo si presume sia per me che si odiano, quindi che mi guardino, per lo meno. “Chaku, perché non vieni dieci minuti in cucina, così mi spieghi?”
Mentre lo spingo nell'altra stanza, mi volto a guardare Daniel che mi lancia un'occhiata indecifrabile ma non commenta. Dice solo “Vado a vestirmi,” prima di sparire in camera.
Chakuza, nel frattempo, mi aspetta appoggiato ad uno dei mobiletti e, a quanto pare, ha ritrovato il sorriso. “E' la prima volta che ti vedo usare questa cucina,” commenta e solleva una mano ad accarezzare il legno dei pensili sopra la sua testa. “Hai tolto perfino la plastica di protezione.”
Io sorrido mentre sparecchio per darmi qualcosa da fare. “Ho avuto modo di usare la casa molto di più, in questo periodo.”
“Io no, per nulla. Sono stato in Austria.”
“Davvero?” Alzo la voce per sovrastare l'acqua che scorre nel lavandino. Potrei caricare la lavastoviglie ma questo mi costringerebbe a sedermi con lui.
“Sì,” dice e me lo ritrovo all'improvviso di fianco, appoggiato al lavandino. Non l'ho sentito arrivare. “Senti, oggi potremmo pranzare insieme e fare quattro chiacchiere. Volevo invitarti a fare colazione fuori, ma sembra che io sia arrivato tardi.”
Mi sta così vicino che mentre mi muovo gli sfioro la pancia con il braccio. Mi vergogno a pensare che la sua presenza ha un effetto su di me, nonostante io sappia che è in quella fase in cui tenta di fare lo splendido ed è ridicolo. Se non ci fossero stati questi sei mesi di mezzo, forse starei ridendo. Ora, invece, la mancanza si fa sentire e voglio solo fare un passo a sinistra, verso di lui. “A pranzo è un casino,” dico.
“A cena, allora,” propone subito lui. “Vengo a prenderti per le nove. Il bambino sarà già a letto, no?”
Gli spruzzo l'acqua in faccia, un po' perché è un cretino e un po' perché devo esorcizzare la sua presenza in qualche modo. “Facciamo invece che ci troviamo direttamente da qualche parte alle otto,” lo correggo, guardandolo in maniera molto significativa.
“Sta bene, vieni da solo. Italiano?” Chiede.
Io annuisco e lui capisce al volo.
“Vada per La Cantina alle otto, allora,” conclude con uno dei suoi sorrisi trionfanti senza motivo. Si scosta dal lavandino con un colpo di reni e mi batte una mano sulla spalla. “A stasera.”
Lo seguo fino alla porta e spero di riuscire a mandarlo via prima che debba uscire anche Danny ma la spirale negativa è già iniziata, e quindi eccolo spuntare dalla camera, appoggiare lo zaino a terra e cambiare velocemente un paio di libri. “Devo andare, sto facendo tardi,” dice sbrigativo, però non si muove. Aspetta che Chakuza sia uscito e abbia salutato prima di fare altrettanto, con un sorriso soddisfatto.
Chiudo la porta e mi ci appoggio sopra con un sospiro, sperando che non tentino di spingersi giù dalle scale a vicenda mentre scendono.

*


La prima cosa che penso mettendo piede nel ristorante è che questa è una follia.
Io so perché ad un certo punto della mia vita ho dovuto smettere di interagire con Chakuza, è un motivo che ho ben chiaro in testa perché se c'è una cosa che ho fatto affrontando lui e i miei sentimenti per lui è stato razionalizzare per avere un minimo di controllo su quello che stava succedendo e non impazzire del tutto. Chakuza è molto lento ad adattarsi alle nuove situazioni, preferisce vivere in quelle vecchie anche se non esistono più o – in certi casi – non sono mai esistite, e tende spesso e volentieri ad ignorare alcuni segnali per concentrarsi o interpretare come preferisce quelli che più gli interessano.
Per questo ad un certo punto è meglio non dargliene nessuno – allontanarsi – piuttosto che cercare di fargli capire le cose. Per questo, soprattutto, sono perfettamente consapevole che per lui non è cambiato niente in questi sei mesi. Il mio problema adesso, è che non è cambiato niente nemmeno per me e me ne accorgo non appena lo vedo lì seduto al tavolo che si guarda intorno spilluzzicando il pane dal cestino. E questo è così grave che dovrebbe bastarmi a decidere di tornare da dove sono venuto e chiudermi in casa a doppia mandata, magari cambiando anche indirizzo.
In quella frazione di secondo che passa tra quando entro e lui mi individua, nemmeno avesse le antenne, io ci penso seriamente a scappare ma poi non lo faccio, anche perché sarebbe oggettivamente inutile visto che sa come rintracciarmi e io non ho i mezzi per fingermi morto e rifarmi una vita in Australia.
Chakuza mi fa la cortesia di non alzarsi quando mi vede avvicinare e di questo sono contento, perché credo che teso come sono metterei da parte il buonsenso e lo massacrerei di botte qui dove siamo.
Ordiniamo del vino e degli antipasti, tanto per cominciare e sono felice che il locale sia strapieno stasera, perché così il proprietario non troverà il tempo di venire qui ad attaccare bottone per quaranta minuti.
“Allora, che mi racconti?” Chiede da dietro il menù.
Che ti racconto Chaku, non è che io abbia fatto granché nell'ultimo periodo. “Mi sono preso un po' di tempo, sai per capire che cosa fare della mia vita.”
Lui solleva gli occhi un attimo solo, giusto per farmi sapere che mi ascolta. “E l'hai capito?”
Rido. “No, non esattamente.”
Il cameriere ci raggiunge con un tagliere che occupa metà del tavolo, gli ordiniamo della pasta che non so esattamente cosa sia ma ho voglia di funghi e lì dentro ci sono, per cui va bene. Per un po' mangiamo in silenzio, e non è quel silenzio tranquillo che ti capita di sentire quando stai bene e la persona che hai davanti sta bene quanto te; è più la sensazione di dover dire qualcosa, di volerlo fare disperatamente, ma di non avere la più pallida idea di come affrontare il discorso. E' che io e lui non abbiamo mai davvero parlato, come persone normali intendo. Non siamo nemmeno mai stati al ristorante, a dire la verità. Ho memoria di un panino quella famosa notte, ma poi tutto il resto dei nostri pranzi e delle nostre cene di cui ho memoria sono fatti di quintali di cibo a casa sua e questo per il semplice fatto che per noi mangiare è sempre stato un modo per occupare il tempo prima di scopare o dopo averlo fatto. Non ho mai conversato seriamente con Chakuza senza che uno dei due pensasse di poter concludere in orizzontale.
“Alla fine non sei partito,” dice lui all'improvviso, ma sembra così tranquillo mentre taglia il suo prosciutto di Parma che mi sento scemo ad essere così nervoso.
“Nah,” scuoto la testa. “Ma il borsone è sempre pronto.” Che è un po' come quando avevo sei anni e dicevo che sarei andato in cantina quando ne avrei avuto tempo, anche se in realtà avevo solo una paura folle e rimandavo l'impresa al giorno del mai.
“Hai ancora idea di andare in tour con Sido?”
“Dubito che lui abbia voglia di portarmi con sé,” sospiro. “Non ha preso bene quella storia di Nyze.”
Percepisco lo sguardo interrogativo ancora prima di alzare gli occhi e vedere la ruga familiare che gli si forma sulla fronte quando è perplesso. “Quale storia di Nyze?”
Gli spiego brevemente come sono andate le cose, e che Sido non ha affatto gradito i miei avvertimenti, buttandomi fuori dall'etichetta a calci nel culo.
“Bel ringraziamento per essere rimasto con loro,” commenta lui dopo un sorso di vino. L'acido che gli cola dai denti mentre lo dice potrebbe corrodere il bicchiere. E' interessante come, nonostante le sue principesche divergenze con Bushido, Chakuza sia comunque ancora convinto di far parte della migliore fra le due etichette, ammesso che una vera etichetta ci sia ancora. Scommetto che, se lo sapesse, Bushido si gonfierebbe tutto come un tacchino e sarebbe perfino disposto a perdonarlo dall'alto del suo enorme trono di platino e basalto per l'enorme insubordinazione che ha compiuto durante la sua assenza. O forse no.
Bill è come il tesoro nella caverna delle meraviglie di Aladino. Una volta toccato, tutto si trasforma in lava e tu sei destinato a morire inghiottito dalle fiamme se non possiedi un tappeto volante. Fortuna che Chakuza ne possiede ancora uno in quello sgabuzzino polveroso.
“A dire il vero, era assurdo pensare che potesse darmi retta,” commento, mentre immagini di Chakuza che sul tappeto macchiato del mio sangue vola via dalla caverna delle meraviglie di Bushido mi balenano in testa, distraendomi per un istante dalla discussione in oggetto. Bevo, che è meglio. “Voglio dire, non è che avessi poi tanta credibilità avendo passato tutto quel tempo con voi.”
“Pensavano che fossi tu a fare il doppio gioco?”
Mi stringo nelle spalle. “Puoi dargli torto? Dopo due anni che praticamente sono stato solo con voi, ecco che torno e la prima cosa che faccio e dare contro a Nyze che, ai loro occhi, ha tutte le ragioni del mondo per essere lì.”
“Prego?”
Sospiro, tagliando la mozzarella. “Chakuza, la scusa ufficiale di Nyze per presentarsi da Sido è stata che ne aveva le palle piene di vedere il capo della sua etichetta e metà dei suoi colleghi mandare a puttane la carriera di tutti per annusare il culo ad un ragazzino. Pensi che là dentro ci fosse qualcuno che non fosse d'accordo?”
Chakuza emette un suono infastidito. “Ecco perché noi siamo i buoni,” borbotta.
Io rido perché lui mentre lo dice ha la faccia seria e tu non puoi davvero essere serio quando dici una cosa simile. “Beh?” Chiede.
“Voi sareste i buoni?”
Noi saremmo i buoni, Fler. Sei compreso anche tu.”
Io appoggio le posate sul piatto in modo che me lo portino via. “Aspetta, fammi capire, da quando sarei uno dei vostri, io?”
Lui solleva lo sguardo interrogativo. “Da quando ci hai aiutato a proteggere Bill?”
“Quello non c'entra, lo dovevo a Bushido, lo sai.”
“Beh, ma sei rimasto anche dopo,” continua lui. “O se non vuoi dire che sei rimasto con noi, di certo non sei nemmeno tornato con loro.”
“Questo fa di me un uomo che agisce da solo,” puntualizzo. “Per favore, non mi mettere in mezzo alle tue bande di super-eroi.”
Lui mi scruta in faccia per capire se sto facendo sul serio, ma gli lascio notare il sorriso, quindi si rilassa. “Guarda che non sono io a metterti in mezzo, mi limito a descrivere i fatti.”
“E i fatti sarebbero che voi siete i buoni e io sto dalla vostra parte?”
“Esatto.”
“Questo lo dici tu, immagino.”
Il cameriere viene a portarci via i piatti mentre Chakuza risponde: “E ho ragione, naturalmente.”
“Naturalmente. E perché quelli dell'Aggro sarebbero i cattivi?”
“Andiamo Fler, ma li hai visti? Sido poi ha pure la maschera a forma di teschio. Nessun eroe ha una roba simile. E' tipo... che ne so, tipo Magneto, degli X-Men.”
“Questo farebbe di Bushido il Dr. Xavier,” commento. “Ma se Bill è palesemente Jean Gray e tu, che il cielo mi perdoni, Wolverine perché siete alti uguali...ci manca un Ciclope. Anis farebbe due parti.”
“Oh andiamo! Hai capito perfettamente quello che intendo.”
“Sì, ho capito che sei pazzo e hai anche cinque anni mentali,” rido.
La pasta arriva mentre lui mi fa notare che allora sono pazzo anch'io perché gli sono andato dietro con una facilità quasi impressionante. Dopo mesi passati in uno spazio ristretto solo con lui, il mio cervello si è impossessato dei sui processi mentali e ora, ogni tanto, questi s'innescano quando gli arriva lo stimolo giusto. La verità è che mi diverto e mi è passata anche l'ansia.
Chakuza naturalmente coglie l'atmosfera rilassata, la sfrutta e come sempre, il fiume in piena della sua inappropriatezza rompe gli argini e straripa diventando deleterio. “E Daniel?” Chiede.
Il mio sfondo pieno di arcobaleni e campi di girasoli si frantuma in mille pezzi, tornando ad essere la landa desolata e inquinata che era stata fino a qualche minuto prima. “E Daniel cosa?”
“Non mi racconti di lui?”
“No?”
Lui sgrana gli occhi e giuro che mi sembra davvero colto di sorpresa dalla mia risposta. “Come sarebbe a dire no?” Mi chiede. “Andiamo! Sono curioso.”
No, Chaku, tu non sei davvero curioso perché il centro del tuo mondo sei tu, e tu non hai niente a che vedere con Daniel, quindi l'unico motivo per cui chiedi è anche l'unico motivo per il quale io non ti vorrei davvero rispondere. Ma lo faccio comunque. “Che cosa vuoi sapere?” Sospiro.
“Tutto.”
“Tutto è una risposta piuttosto ampia,” inizio. “Sii più specifico.”
Chakuza alza gli occhi al cielo, un gesto che non gli dovrebbe essere permesso per legge, dopo tutte le volte che costringe gli altri a farlo per colpa sua. “Cominciamo dalle cose semplici: com'è che un ragazzino incontrato per caso una sera di due anni fa è diventato all'improvviso il tuo ragazzo?”
Io mi butto sulla pasta per prendere tempo e lui fa lo stesso ma con molta più calma, naturalmente; d'altronde non è lui quello che si sente in dovere di giustificarsi per qualcosa che non deve essere affatto giustificato e che, pur consapevole di questo, in ogni caso pensa a come giustificarsi.
“Non era una cosa che avevo previsto, se è questo che vuoi sapere,” inizio. “E' stato lui a presentarsi alla mia porta all'improvviso.”
“E come lo sapeva, lui, dov'era la tua porta?”
Questa è una domanda che mi sono posto anch'io, cioè non subito ma poi mi è venuta in mente e Daniel è stato così candido da dirmi che, sapendomi sempre all'Ersguterjunge per un motivo o per l'altro, mi ha seguito per settimane per scoprire dove abitassi e all'inizio aveva anche sbagliato indirizzo perché passavo più tempo a casa di Chakuza che nella mia. “Mi ha pedinato,” dico. “E' un ragazzino intelligente.”
“No è inquietante. Sai che c'erano gli estremi per denunciarlo per stalking?”
“Sai che tu sei uno stronzo, invece?” Rido. “Non lo conosci nemmeno.”
Lui sorride e non lo so com'è che non m'incazzo se parla in questo modo. Sarà che non mi aspettavo niente di meno della sua presunzione di avere dei diritti; questo più che imbestialirmi mi ricorda che è tornato normale anche lui – la sua normalità, ovvio – e sono felice. Non pensi mai che il vecchio Chakuza possa mancarti finché non te ne capita uno nuovo che è peggiore del precedente da qualsiasi lato tu lo guardi.
Io lo so che lui non ha mai davvero voluto rendersi insopportabile, e che nemmeno se ne è accorto nella maggior parte dei casi, ma non avrei potuto continuare a gestirlo in eterno, non in quello stato in cui il mondo girava non più soltanto intorno a lui e alla sua capa rotonda, ma anche al fragile corpicino della sua principessa che, per altro, era molto confusa a sua volta. Se penso a quanto è girato storto il mondo per tutti quanti io mi chiedo come sia possibile che ora sono al ristorante con Chakuza e sto anche bene. A parte tutto, non doveva essere possibile una cosa del genere, per quanto io voglia bene a quest'uomo, eppure eccoci qua.
“E insomma,” continua lui dopo un po'. “Lui si è presentato alla tua porta e con gli occhi umidi di lacrime ti ha disperatamente chiesto di prenderti la sua verginità?”
“Le lacrime agli occhi? Ma cosa ti sei letto mentre eri via, fumetti giapponesi?” Chiedo sconvolto.
“Allora non è andata così?”
Tossisco cercando di darmi un tono che la risposta mi strapperà di dosso a mani nude. “Non c'erano le lacrime,” borbotto.
Lui scoppia in una risata pienissima, di quelle proprio divertite. “Non posso credere che sia andata davvero così.”
Io lo guardo storto e se fossi cattivo gli direi che lui avrebbe cariato i denti di chiunque nel giro di quaranta chilometri se la sua principessa gli fosse giunta illibata e pronta ad essere deflorata nel letto del tugurio in cui vive – anche se sinceramente dubito che, anche illibato, Bill sarebbe stato impaurito e lacrimevole come una scena del genere vorrebbe – ma io non sono cattivo, io sono un uomo paziente, per cui lo lascio bearsi della convinzione assolutamente immotivata che questa cosa di Daniel sia un sacco divertente.
“Quando hai finito di ridere avvisami, io intanto ordino il dolce,” commento. “E, tanto per la cronaca, pagherò io perché se metti mano al portafoglio sarò costretto ad ucciderti.”
Lui annuisce ma ci vuole un po' prima che smetta di ridere e le sue guance tornino bianche e lentigginose.
Sono indeciso tra un dolce con un nome che non so pronunciare e uno che non sono nemmeno ben sicuro che sia un dolce quando Chakuza torna all'attacco. “Non penserai mica di scamparla, vero?”
“Di cosa stai parlando?”
“Lo sai benissimo.”
“No, non lo so affatto,” biascico, fingendo di leggere con molta attenzione il menù dei dolci, anche se ormai ho deciso che prenderò solo un sorbetto. Sempre che un cameriere passi di qui per sbaglio.
Lui non dice niente per minuti interi, così mi azzardo ad alzare lo sguardo e lo trovo che mi fissa immobile, con l'aria di uno che si aspetta qualcosa. “Beh, cos'hai? E' un ictus?”
“Non fare finta di niente, non è da te. Stavi ancora con Bushido quando il ragazzino ti si è infilato nel letto, non è così?”
“A parte che tu non puoi atteggiarti in questo modo,” gli faccio notare, “io non sto affatto facendo finta di nulla. Ti sto solo tenendo fuori dai cazzi miei, è diverso.”
“Stai cambiando discorso,” mi dice lui e lo fa con quel sorrisetto lì, quello che vorresti prendergli le guance paffute e tirarle fino a deformargli la faccia, giusto per toglierglielo di dosso.
“Cristo, Peter, ma si può sapere che problema hai? Anche se fosse, non sarebbero affari tuoi, te l'ho già detto.”
Lui però non demorde, d'altronde non lo fa mai. Se c'è una cosa che non gli si può proprio dire è che non ha tenacia. “E lui lo sa?”
“Lui chi?” Sospiro, mentre finalmente qualcuno arriva a chiedermi del dolce.
“Bushido,” quel nome lo dice sempre sotto di un tono come se proprio non ne avesse voglia e qualcuno lo costringesse tirandogli un orecchio. E' talmente assurdo a volte, che non sembra davvero una persona possibile.
Ad ogni modo, immagino che sarei dovuto partire da casa con una risposta pronta per questa domanda ma, in realtà, non mi aspettavo che Chakuza fosse tanto curioso a riguardo. Visto che Daniel non gli sta troppo simpatico – diciamo pure che è geloso marcio – speravo che facesse come suo solito e si concentrasse su se stesso, eliminando dalla discussione qualunque argomento non lo riguardi; come se lui fosse uno splendore dal quale non si possono distogliere gli occhi nel momento in cui ce l'hai davanti.
Non avevo calcolato il suo lato pettegolo, mi pare evidente.
Lo guardo, lui mi guarda. “No,” cedo alla fine. “No, non lo sa.”
“Ce n'è abbastanza per farti fuori, lo sai?” Ride divertito. “E alto tradimento, questo.”
“Perché non esplodi?”
Lui continua a ridere anche quando gli tiro una mollica di pane in faccia. E' preso talmente bene che si gonfia come una rana pescatrice, e io non ho nemmeno capito se lo fa ridere la cosa in sé o il fatto che Bushido sia all'oscuro di questa faccenda. Sospetto si tratti della seconda. Dopo quasi cinque minuti che è scosso dalle risate come non so cosa, vivaddio, si calma. “Non che m'interessino i suoi sentimenti,” commenta, “ma si può sapere che cos'è successo esattamente?”
“E' successo che Daniel era lì al contrario di chiunque altro,” confesso alla fine. “Contento?”
Lui si fa serio e io mi rendo conto di quello che ho detto, così sul tavolo cala il silenzio. Chakuza mi osserva con uno sguardo talmente consapevole che un po' mi disturba e finisco per sentirmi a disagio. “Togliti quell'espressione dalla faccia, va bene? Mi è uscita male,” borbotto. “Non è che io sia stato male o altro. Non ho bisogno di compassione.”
“Non era affatto compassione.”
“Qualunque cosa sia non mi piace e non ne ho bisogno,” insisto. So bene di stare facendo lo stronzo e so anche che questo non fa che confermare l'ipotesi che probabilmente gli vortica nel cervello ma la verità è che sì, sono stato di merda. Sì, Daniel mi ha dato molta più attenzione di quanta Bushido e lui me ne abbiano mai data davvero e no, non avevo alcuna intenzione di dirglielo.
“Posso almeno scusarmi?” Chiede.
“E di cosa? Chakuza tu non hai mai capito quando è il momento di farlo,” sospiro. “E in ogni caso servirebbe un'eternità con te ed è già tardi.”
La butto sul ridere e lui, per fortuna coglie; anche se sarebbe stato difficile non farlo dal momento che l'aria è talmente pesante che ci pesa addosso come un macigno. Sorride, ma non dice niente e alla fine decidiamo che è meglio levare le tende.
Mentre mi accompagna alla macchina penso che in fondo non è stata una brutta serata e che di certo poteva andare peggio. Penso che mi aspettavo di essere cambiato o che lo fosse lui, ma in realtà sei mesi lontani ci hanno reso solo più simili a com'eravamo quando passavamo tutto il tempo insieme. L'ho lasciato che era il Peter di Bill e lo ritrovo che è quello mio.
Prima di salutarci mi chiede se con Daniel sono felice.
Fino a stasera ero sicuro di sì.

*


Chakuza non è una persona con la quale io riesca ad intrattenere dei rapporti casuali. Lo sapevo già da prima, naturalmente, ma la conferma mi arriva nei giorni seguenti quando la cena si trasforma in un pranzo al volo e in un paio di birre dopo cena, visto che passava dalle mie parti e allora è salito a fare due chiacchiere. Naturalmente potrei dare la colpa a lui e al suo essere naturalmente invadente, ma la verità è che io gli ho permesso e gli permetto tuttora di esserlo, quindi ho poco da recriminare.
La routine che abbiamo instaurato quando ci siamo conosciuti è così ben radicata dentro di noi che è molto facile ricaderci, forse nemmeno pensiamo di farlo. Succede e basta. Adesso che il periodo di isolamento è finito per forza di cose, mi capita di uscire con lui praticamente ogni giorno, anche se non abbiamo davvero qualcosa da fare visto che nessuno dei due ha più un'etichetta per la quale lavorare. O meglio, lui ce l'ha ma evita Stickle perché si sente ancora in vacanza e perché, sostanzialmente, gli piace questa situazione in cui io e lui siamo buoni amici e usciamo a cazzeggiare, quindi al lavoro nemmeno vuole pensarci, in realtà.
All'inizio fingevamo anche di trovarci per discutere della protezione alla Principessa, ma è una copertura che è saltata quasi subito dal momento che Bill è praticamente sempre rimasto in casa di Bushido dove era più al sicuro; senza contare che non è più possibile tenere il ragazzino e Chakuza nella stessa stanza senza che la temperatura nell'aria si abbassi e Bill pianti gli occhi sul pavimento senza più rialzarli nemmeno per sbaglio.
Dopo le prime quattro volte che andavamo lì per stare a disagio, ho deciso che era meglio trascinarlo il più lontano possibile dalle grazie di sua maestà che non è tornato dalle Maldive con tutte le rotelle al loro posto ed è meglio per tutti se viene lasciato tranquillo.
Chakuza è rientrato nella mia vita con estrema facilità, anche se gran parte del posto che prima occupava era tutto preso da Daniel. Naturalmente non si è fatto più piccolo e non ha chiesto il permesso, è semplicemente tornato, e Daniel di conseguenza ha dovuto stringersi per fargli spazio.
Non è un qualcosa che abbiamo deciso a priori, è successo e basta e, anche se avrei potuto fare qualcosa per impedirlo – non so cosa, ma qualcosa – me ne sono accorto troppo tardi.
Il mattino che ho aperto gli occhi sapendo di doverlo incontrare e ho fatto fatica a capire se Bushido fosse ancora morto oppure fosse già resuscitato, mi sono reso conto che ormai era fatta e non c'era ritorno.
E se in queste settimane, in cui non abbiamo fatto altro che andare in giro a passare il tempo dove capitava, mi sono convinto che questo potesse bastare, non posso farlo adesso che Chakuza è in casa mia.
Io e lui, il divano e due birre ha sempre avuto dei pessimi risvolti in un modo o nell'altro.
“E insomma mio padre mi dice che dobbiamo assolutamente fare qualcosa insieme,” Chakuza mi sta raccontando di cos'è successo mentre era in Austria. Pare che il signor Pangerl abbia accolto con grande felicità la fine della sua storia con Bill, decidendo di dover rinsaldare il suo rapporto con il figlio in maniere virili e approvate dalla comunità etero. “Secondo te dove mi ha portato?”
“Non lo so,” mi stringo nelle spalle.
“Prova ad indovinare,” insiste lui, bevendo un sorso di birra. Noto che tiene ancora la bottiglia in quel suo modo strano, stringendone il collo solo tra l'indice, l'anulare e il pollice.
“Uno strip-club?”
“Magari!” Fa lui, sgranando un po' gli occhi. “Mi ha portato a far legna nei boschi insieme ad una squadra di taglialegna!”
Io scoppio a ridere perché improvvisamente me lo immagino con addosso una camicia a quadri e l'accetta sulla spalla che fischietta mentre conduce una fila di bruti omaccioni muscolosi tra i boschi dell'Austria. Tra l'altro, non so se il signor Pangerl ne è consapevole, questa è più simile ad una fantasia omosessuale maschile che non, per dire, se lo avesse portato a vedere il Lago dei Cigni a teatro. “Non posso crederci!”
“Ti giuro!” ride anche lui. “Ci troviamo io, lui e questi quattro energumeni all'alba sulla cima di un monte. Questo tipo mi guarda, mi piazza in mano un accetta, mi indica un albero e mi dice vai, abbattilo.”
“E tu?”
“Ho passato tutta la giornata con questo cazzo di albero che non ne voleva saperne di cadere,” protesta e io rido più forte. “Eh, ridi! Volevo vedere te al mio posto.”
Vorrei asciugarmi la lacrima virtuale che mi è scesa ridendo al pensiero di un Chaku in miniatura che tenta di abbattere questa enorme sequoia a colpi d'accetta, non ci riesce e quindi strepita mentre piccole nuvolette di fumo nero gli escono dalle orecchie.
“E' servito a qualcosa almeno?”
“Ah non lo so,” scuote la testa. “Ma se questo può rassicurarlo...”
“Che non sei gay?”
Lui scrolla le spalle e beve. “Che non sono il tipo di gay che ha in mente, almeno,” sospira. “Anche se lui si rifiuta di accettare a prescindere il concetto di base, quindi forse non si è mai trattato del fatto che fossi del tipo che fa la maglia o meno.”
Annuisco perché non so bene che cosa dire. Il signor Pangerl avrà l'età di mia madre ma ho sempre pensato che lei sospettasse qualcosa ancora prima che la sospettassi io, quindi forse non vale. E comunque è colpa di Bushido e del suo entrare in camera mia passando dalla finestra, credo.
“C'è dell'altra birra?” Chiede Peter, alzandosi e andando diretto in cucina.
“In frigo. Prendine una anche per me,” mentre aspetto raduno le quattro bottiglie che già ci sono in giro e le metto tutte sul tavolo per buttarle dopo. C'è anche il libro di storia di Danny là sopra e io lo prendo e lo nascondo sotto un paio di riviste senza nemmeno pensarci. Quando me ne accorgo mi chiedo che cazzo sto facendo e vorrei rimetterlo dove l'ho trovato ma Chakuza sta tornando e lascio perdere perché voglio evitare di entrare in argomento.
“Ho cambiato idea,” dice Chakuza, mostrandomi l'unica bottiglia di vino bianco che ho in casa. Tra l'altro l'ha comprata lui quel mezzo secolo fa. “Ti va? Era ancora dove l'avevi messa quando te l'ho portata. Non l'abbiamo mai aperta.”
“Hai intenzione di tornare a casa strisciando, per caso?”
Lui appoggia i bicchieri sul tavolo e stappa la bottiglia con disinvoltura, la stessa che gli ho visto addosso milioni di volte ai fornelli o davanti ad un tagliere. A volte, quando cerco un motivo per il quale sono così attratto da quest'uomo, lo trovo nei ricordi di momenti come questo, dove Chakuza prepara qualcosa. Potrei dire che è il modo in cui muove le mani ad affascinarmi, ma mi fraintendereste.
“Magari non voglio tornare a casa?” Mi dice, prendendo il suo bicchiere e tornando a sedersi.
Io bevo un sorso. “Non cominciare a fare il cretino,” mormoro.
Chakuza mi fa un mezzo sorriso incerto e io vorrei davvero poter distogliere lo sguardo ma non ci sono mai davvero riuscito, non quando mi guarda in questo modo quindi continuo a fissarlo e alla fine sorrido anch'io perché è bello riaverlo qui e far finta che tutti i problemi siano spariti o non ci siano proprio mai stati.
“Che cosa dovevamo festeggiare con questa?” Mi chiede, versando ad entrambi altro vino.
Ci penso un po' e quando me lo ricordo mi viene da ridere. “Le mie due prime settimane di sobrietà,” rispondo. “Sei sempre stato una tragedia come sponsor.”
“Non dovevo farti smettere di bere,” puntualizza lui. “Solo darti una regolata.”
“E detto da te...”
“Però ci sono riuscito,” dice. “Hai smesso di devastarti completamente.”
“Abbiamo bevuto quattro birre e un litro di vino in due, Chakuza!” Sbotto a ridere. “Come fai a dire che ho smesso di devastarmi!”
“E' diverso quando si beve in compagnia.”
Chakuza ha gli occhi lucidi e verdissimi, e io mi ci sto perdendo dentro, per questo mi accorgo quando cambiano espressione e non c'è bisogno che si avvicini di molto perché io capisca che sta per fare qualcosa che non deve. Niente che non voglio, però.
Daniel è il solo motivo che mi costringe a scostarmi ma mi alzo e smetto di pensarci prima che, per i miei capricci, diventi anche un motivo fastidioso. Non voglio che succeda. “E' tardi,” dico frettolosamente, recuperando le bottiglie tutte quante insieme. “Forse è meglio che vai.”
Lui annuisce e si rimette il cappello. “Sì, hai ragione.”
Lo accompagno fino alla porta e all'improvviso ho un disperato bisogno di tenerlo lì ancora un po', anche se gli ho appena detto il contrario. “Sei sicuro di poter guidare? Magari chiamo un taxi e la macchina vieni a prenderla do...”
Mi prende il viso fra le mani prima che possa impedirglielo, ma poi non fa niente. Appoggia solo la fronte contro la mia e in quell'istante mi dice tutto quello che non mi ha detto stasera e anche quello che non gli ho detto io. Poi sorride e mi lascia andare con un sospiro. “Buonanotte Pat, ci vediamo domani.”
“A domani.”

*


Se c'è una cosa che ho imparato in questi due anni, è che le situazioni di questo tipo con Chakuza tendono a degenerare. Forse lo farebbero anche se non si trattasse di Chakuza, ma di sicuro peggiorano quando si tratta di lui, e questo per il semplice fatto che Peter non si rende conto dei disastri che crea e potrebbe creare e quindi tutto il peso del disastro ricade sulle tue spalle; anche se gli fai notare che forse quello che stai facendo con lui non è esattamente la cosa più sensata da fare, lui al massimo ti dice “E che problema c'è? Siamo adulti e vaccinati, no? Tu lo vuoi e lo voglio anch'io. Allora siamo a posto, che altro c'è da considerare?.” In pratica, la possibilità o meno di fare qualcosa dipende solo dalla voglia che ha di farla.
In linea di massima posso anche dargli ragione, due persone dovrebbero poter fare quello che desiderano senza dover rendere conto a nessuno delle scelte che fanno; ma nel caso specifico, cioè questo, cioè noi due, cioè Daniel, questo discorso fa acqua da tutte le parti e noi ci affogheremo dentro.
Io dovrei mantenere il controllo di questa cosa perché sono l'unico a cui importi davvero qualcosa non fare casino, anzi sono l'unico a rendermi conto che un casino, in effetti, si profila all'orizzonte; ma in realtà fallisco su tutta la linea perché il controllo lo perdo quasi immediatamente dopo che Chakuza ha lasciato casa mia quella sera e non lo recupero più.
Il giorno dopo dovrei chiamarlo e mettere subito le mani avanti, dirgli che qualunque cosa sia successa ieri sera ce la dobbiamo dimenticare perché non è vera ed è solo un ricordo di qualcosa che ci sembra di volere solo perché siamo stati divisi sei mesi; invece io lo chiamo e gli chiedo se gli va di uscire. Quando riattacco mi do del cretino, ma non serve a niente perché il giorno dopo ancora e la settimana che segue succede di nuovo, e anche se mi faccio violenza e non lo chiamo, alla fine mi chiama lui e usciamo comunque, oppure lui si presenta a casa mia con la pasta al forno e io non so lasciarlo sullo zerbino come di certo meriterebbe.
Presto il mio tempo si divide tra quello che passo con lui e quello che passo con Daniel, e le due quantità diventano ogni giorno meno equilibrate. Durante la settimana Danny trova sempre nuove scuse per rimanere a dormire da me e io ne trovo altre per poter vedere Chakuza. Soltanto nel fine settimana le cose tornano com'erano prima, e solo perché anche se l'unica cosa che m'importasse davvero in questo momento fosse stare con Peter, non permetterei mai che Danny fosse costretto a dormire a casa sua quando là dentro c'è suo padre, cosa che succede quasi sempre il sabato e la domenica quando torna a casa dopo aver passato la settimana a sfondarsi altrove.
Dal momento che questa situazione va avanti a lungo, un po' mi convinco che possa rimanere così per sempre e che tutto sommato poteva andare molto peggio, perché in fondo non stiamo facendo proprio qualcosa di male. Forse c'è la tentazione, ma se nessuno cede allora va bene così; che è un discorso molto pietoso con il quale cerco di giustificare l'ingiustificabile. Questo risulta palese una sera che Chakuza è a casa mia, siamo soli e non dovremmo affatto esserlo. Lui ha chiamato per invitarmi a cena, e io gli ho detto di venire a cucinare da me che c'è più spazio e si sta meglio; poi mi sono reso conto che sono settimane che io e Peter ci annusiamo a vicenda e non è proprio il caso che si stia da soli in questa casa con un'altra bottiglia di vino pronta all'uso e un tavolo apparecchiato per due, così ho chiamato Eko a farci compagnia. A Chakuza non ho fatto in tempo a dirlo, ma tanto non serve perché quel cretino di un turco mi dà buca all'ultimo, giusto cinque minuti prima che Chakuza annunci che è pronto e si tolga il grembiule.
Così apparecchio per due mentre lui si occupa del vino e di servire quello che ha cucinato. Per un attimo irreale, mentre io sistemo i tovaglioli e lui mi chiede scusa allungandosi sul mio braccio teso per recuperare il cavatappi, mi sembra tutto normale; forse perché sono abituato a vederlo togliere padelle dal fuoco mentre mi chiede se ho già messo i piatti in tavola. Forse perché in effetti io e lui non siamo mai stati diversi da così e questa è la nostra quotidianità ed ha superato un sacco di problemi, rimanendo intatta fino ad ora.
Questo mi fa sentire bene e non dovrebbe; ho delle responsabilità nei confronti di Daniel e mi spaventa che al momento non m'importino affatto. Mi spaventa guardare Chakuza, sapere con certezza in che modo potrebbe concludersi questa serata e non riuscire a trovare da nessuna parte la forza per impedire che questo accada. Potrei limitare il vino e le chiacchiere, potrei fermare Chakuza mentre ci prova dall'altra parte del tavolo – perché lo conosco e so quando lo fa – potrei declinare l'invito a sederci sul divano, potrei perfino mandare all'aria la cena, scusarmi con lui, mettere tutto in contenitori di plastica e rispedirlo a casa sua.
Invece non faccio niente e mi godo quello che ha preparato. Quando si mette a flirtare, lo faccio anch'io. Lo so che non dovrei, che c'è Daniel da qualche parte, ma lo faccio lo stesso perché lo voglio disperatamente e mi convinco che se non vedrà una reazione da parte mia stasera, allora forse lui non ci proverà mai più e io avrò perso un'occasione che in primo luogo non dovrei nemmeno voler cogliere. Non voglio perderla, però.
Sul divano sono teso e cerco di capire come voglio comportarmi, perché come devo lo so già e ho deciso che non mi va bene. Chakuza ha preso altri due bicchieri e si è portato il vino. “Allora,” inizia con un sospiro e un sorriso. “Che cosa festeggiamo stasera?”
“Non lo so,” rispondo. “E' necessario avere un motivo per aprire una bottiglia di vino?”
Lui ride un po'. “Per la prima forse no, ma per la seconda e metà della terza sì. Quando fai cose stupide, è bene avere un motivo per averne bevuto parecchio.”
“Allora siamo a posto. Non abbiamo fatto niente di stupido,” concludo, gettando indietro la testa e bevendo l'ultima goccia rimasta nel bicchiere. Quando abbasso lo sguardo lui è troppo vicino. “Chaku...”
Peter non risponde e continua a guardarmi mentre appoggia una mano sullo schienale del divano e si china su di me. Non è esattamente lui a baciarmi perché io so di essergli andato incontro quando le nostre labbra si trovano. E' un bacio lentissimo, nonostante l'urgenza della sua mano che mi stringe la nuca mentre l'altra mi tiene vicino a sé, tirandomi per la felpa. Appoggio il bicchiere senza guardare, lo sento rompersi e non m'importa, mentre rispondo a quel bacio senza pensare più a nulla.
Mi scosto per riprendere fiato, ma lui non mi lascia allontanare, lo sento ansimare e apro gli occhi chiedendomi se siano persi e annebbiati come i suoi. Quando riprendo a baciarlo, scopro che non ho mai dimenticato che sapore avesse la sua bocca, ma che non avevo idea di quanto mi fosse mancata. E lo bacio, e lo mordo, e lecco dalle sue labbra quello che resta del vino, senza pensare che quando quest'impeto sarà passato dovrò guardarlo negli occhi e decidere che cosa farne di questa serata. Quello che m'importa, ora, è solo la sensazione che non siamo mai stati così noi come adesso, su questo divano.
E' la mano che s'insinua sotto la mia felpa e mi accarezza un fianco a restituirmi quel barlume di lucidità che mi serve a non fare totalmente lo stronzo. “Peter, no...” mormoro, senza staccarmi da lui troppo bruscamente. Intreccio le dita con le sue e le stringo piano.
Lui preme il naso contro il mio e mi parla addosso, le sue parole sono umide e calde contro le mie labbra. “Ti prego, non...”
“Lo so,” mormoro, socchiudendo gli occhi. Leggo il suo bisogno nel modo in cui il suo corpo cerca il mio, nel modo in cui mi si appoggia addosso e la punta delle sue dita mi accarezza la pelle anche se gli tengo ferma la mano. Devo staccarmi e non voglio e penso che ci sia tempo per un altro bacio. “Lo so” – ancora – “Lo so, lo so” – e ancora – “Lo so.” Ad ogni schiocco umido, i nostri volti si fanno più distanti e vedo un po' di più i suoi occhi e l'espressione persa e disperata con la quale mi guarda. “Così no,” mormoro, baciandolo ancora una volta. “Non andrebbe bene. Voglio che vada bene.”
Lui mugola ma annuisce e quando si scosta lo fa lentamente, riprendendo fiato con respiri profondi, guardandosi intorno come facesse fatica a capire dove si trova. Condivido la sensazione, è come se ci fossimo arrivati per caso su questo divano. So solo che lo stavo baciando, tutto il resto è vago e confuso ma so che è molto importante. “E' meglio che ora vada,” dice alzandosi e cercando con gli occhi il cellulare e le chiavi dell'auto.
“Sì,” concordo. Li trovo io, al posto suo e glieli passo mentre lo accompagno alla porta. “Ti chiamo domani.”
Lui annuisce e mi guarda senza muoversi dal pianerottolo.
“Vai,” lo bacio di nuovo ma poi lo spingo, altrimenti non si muove più.
Chiudo la porta e poi ci appoggio la fronte.
Cazzo.

*


Mi sono trovato in questa stessa situazione nemmeno un anno fa e non ho idea di come faccio già a ritrovarmici di nuovo in così poco tempo. Uno può anche fare gli stessi errori per tutta la vita senza mai imparare un accidenti di niente, ma dovrebbero passare almeno degli anni tra l'uno e l'altro, no? Un minimo sindacale in cui illudersi di aver superato qualunque dramma fosse in corso e giurare che non si ripeterà mai più. E invece io niente, quando è stata l'ultima volta con Nicole? Dieci mesi al massimo. Non so se sia il destino che cerca di dirmi qualcosa o se sono io che sono scemo. Nel caso si trattasse della prima ipotesi, direi al destino di cominciare a lasciarmi degli appunti ben chiari invece di sperare che io legga fra le righe del suo mistico operato perché è palese che non ci riesco proprio e non posso andare avanti così in eterno. Non mi sembra proprio di meritarmelo.
Paradossalmente, per risolvere la situazione, basterebbe lasciare le cose come stanno adesso e interrompere così il circolo vizioso. Il problema è che io non ci riesco perché se c'è una cosa a cui davvero tengo è essere corretto, che magari non significa non far soffrire le persone – ci sono situazioni in cui proprio non puoi evitarlo – ma almeno posso dire di aver fatto tutto il possibile per non mancare di rispetto a nessuno.
Il rispetto è importante. Tu puoi fare delle scelte e queste possono ferire le persone che ti stanno intorno, ma finché le fai sulla tua pelle, senza calpestare le promesse che hai fatto, chiudendo le questioni e pagando i tuoi debiti prima di proseguire, allora hai fatto tutto quello che potevi fare. Io non voglio lasciare niente in sospeso, non voglio rischiare di rovinare una cosa bellissima solo perché non so prendermi le mie responsabilità. So che me ne pentirei, così faccio quello che devo fare e basta, quasi ad occhi chiusi e non è vero che non ci penso più, ma quando ci penso, ho almeno il conforto di non aver mentito a nessuno.
Consapevole che si tratta di uno schema, io dovrei aspettarmi quello che viene dopo; e forse lo faccio anche ma, nonostante questo, rimango comunque sorpreso quando succede perché in fondo, neanche troppo, credevo che per chissà quale motivo stavolta sarebbe andata diversamente. Oltre ad essere corretto sono anche ottimista e non posso proprio farci niente. D'altronde quando cresci dove sono cresciuto io puoi fare solo due cose: o ti convinci che la situazione deve migliorare per forza, prima o poi, oppure pensi che non lo farà mai e allora finisci malissimo. Mia madre e Anis non mi hanno mai permesso di scegliere la seconda strada, ecco perché oggi sono qui e guardo Chakuza senza riuscire a credere a quello che mi sta dicendo.
Dovevamo vederci stasera a cena, ma alle undici del mattino già ci stavamo chiamando a vicenda; ufficialmente io volevo farmi confermare l'ora e lui voleva sapere se mi andava bene il menù della serata, perché il mio sms di risposta stranamente non gli è mai arrivato. Quando finiamo di raccontarci balle a vicenda, scoppiamo a ridere come due ragazzini e decidiamo di vederci subito al locale sotto casa mia, tanto non abbiamo niente da fare.
Il posto è carino, niente di ricercato, ed è sempre pieno di gente, per questo possiamo sederci in un angolo e nessuno viene a darci fastidio. Conosco il proprietario, un folle polacco che mi ha subito preso in simpatia quando ha saputo come mi chiamo e che sono più le volte che borbotta nella sua lingua che non quelle in cui parla davvero tedesco, però è simpatico e fa il Bigos più buono che io abbia mai mangiato. Fa un po' troppo caldo per pranzare con lo stufato ma visto che l'aria condizionata di questo posto sta probabilmente contribuendo da sola ad allargare di qualche chilometro il buco nell'ozono, possiamo fingere che sia inverno e mangiarla lo stesso.
“Cazzo, ci saranno due gradi qua dentro,” commenta Chakuza che ha la pelle d'oca sulle braccia. “Quando usciremo di qui ci prenderemo una polmonite. Fuori si soffoca dall'afa.”
“Se vuoi guardo nello zaino e vedo se ho una maglietta della salute da prestarti.”
Lui mi manda a fanculo ridendo e si sistema il tovagliolo sulle ginocchia per la zuppa in arrivo. E' così bravo che quando la cameriera poco più che maggiorenne e con un culo da piangere di gioia si avvicina al nostro tavolo lui non fa una piega ed è come se non la vedesse. E' carino che cerchi di essere così premuroso, peccato che per un dettaglio che cura minuziosamente, trascura un'enormità fondamentale che non sarebbe sfuggita a nessun altro, anche se cieco, muto, sordo o con evidenti problemi mentali. Tipo quello che poi succede.
Dopo pranzo, infatti, ci chiediamo che cosa fare. “Possiamo andare al cinema,” propone. “Non siamo mai stati al cinema.”
“Intendi davvero oppure solo stare nell'ultima fila a limonare?” chiedo, fingendo serietà.
Lui recupera il giornale dal tavolo vuoto di fianco a noi per cercare la pagina degli spettacoli. “Non lo so. A te cosa va di fare?” Mi chiede, senza nemmeno alzare lo sguardo. “A me va bene tutto.”
“Guarda, non avevo dubbi” rido. “Comunque io direi di guardarlo davvero il film, visto che saremmo un po' ridicoli a nasconderci dentro un cinema per limonare a trent'anni suonati.”
“Non si è mai troppo vecchi per limonare.”
Vorrei ribattere che il punto non è l'età, ma il fatto che abbiamo delle case in cui farlo tranquillamente, senza bisogno di pagare il biglietto, ma la sua voce è calata di un tono e si è accigliato all'improvviso. “Che succede?” Chiedo.
Lui gira il giornale a mio favore e poi mi guarda in attesa che io legga. Sulla pagina, accanto alla lista dei cinema, c'è una foto di Bill e Bushido scattata nell'era geologica precedente, durante il primo mandato della coppia reale, quando ancora nessuno era morto ed ero io il pericolo pubblico numero uno per Bushido. Bei tempi. La didascalia annuncia il ritorno di fiamma e l'articolo è un riassunto molto approssimativo degli ultimi due anni – il rapper che ha inscenato la propria morte, bla bla bla, il ragazzino sconvolto, il ritorno, bla bla bla, il crollo psicologico, bla bla bla, l'abbandono della major eccetera eccetera – con un finale melenso sull'amore che travalica ogni cosa e l'annuncio di due possibili album, un libro, e un ritorno sulle scene in grande stile. In pratica il solito, restate con noi e ci assicureremo di vivisezionarli con accuratezza in modo che non possiate perdervi proprio niente.
La notizia non mi stupisce affatto. Dal momento che Bill viveva a casa di Anis da quasi un mese, ormai, era solo questione di tempo perché quei due si ritrovassero. Forse annunciarlo al mondo prima che a noi non è stato particolarmente educato, lo ammetto, ma è molto probabile che non sia stata nemmeno una loro scelta. L'ultima volta che sono andato a trovarli, c'erano almeno dieci fotografi appostati sugli alberi. Se conosco un po' Anis, sarà uscito a minacciarli per farsi dare tutti i rullini e poi immagino che abbia preferito chiarire personalmente la situazione, piuttosto che veder pubblicate foto rubate con l'obiettivo telescopico di lui e Bill che si baciano in camera da letto.
Alla fine questa cosa ce l'aspettavamo tutti; tutti meno Chakuza evidentemente, il quale ora mi sta guardando e non so che cosa si aspetti. Da me, poi, che sono l'ultimo a cui può chiedere comprensione.
“E' assurdo,” mormora, scuotendo la testa. “Non so davvero che cosa dire.”
“Perché non c'è niente da dire, Chakuza,” gli faccio notare. Mi chiedo se ci arriverà mai da solo a capire che questo argomento lui ha il diritto di affrontarlo con chi gli pare ma non con me.
“No, hai ragione. Non c'è proprio un cazzo da dire,” concorda gelido. Chiude il giornale ma la notizia gli rimane negli occhi, posso quasi vedere il viso di Bill e Bushido che sorridenti mi guardano da dentro le sue iridi verdi.
Sospiro infastidito. “Senti, scusami, ma non ho nessuna intenzione di discuterne.”
“Lo sai qual è la cosa assurda?”
“Peter, dico davvero–“
“Che io e Bill non ci siamo mai lasciati,” esclama battendo il dito sul giornale. “Intendo, non ne abbiamo mai discusso chiaramente. Lui è sparito nel nulla e quando è tornato...”
“Vaffanculo.” Lo dico così forte e chiaro che non solo lui finalmente mi guarda, ma suppongo lo faccia tutto il locale, solo che io non vedo perché lo sto fissando negli occhi. “Vaffanculo, okay?”
Lui socchiude gli occhi e sospira di pietà per se stesso, quando all'improvviso, finalmente – Finalmente! – il suo cervello si mette in moto. “Pat, andiamo, non volevo dire che...”
“No, vaffanculo,” ripeto ancora più chiaramente, alzandomi. Mi frugo in tasca e lascio sul tavolo dei soldi a caso, senza sapere nemmeno se bastano. “Mi hai veramente rotto i coglioni.”
“Vuoi aspettare un secondo?”
“No.”
“Patrick!” Mi chiama, correndomi dietro.
Stiamo facendo una scenata ridicola ma al momento non mi interessa, voglio solo che si tolga dai piedi. Davvero non so con che coraggio sia riuscito a tirare ancora fuori l'argomento dopo quello che è successo nelle ultime settimane fra me e lui. Con che faccia di merda può anche solo pensare di essere turbato dal fatto che Bill sia tornato con Bushido quando la prima cosa che lui ha fatto è stato provarci con me. Cazzo!
Arrivo al portone di casa e ce l'ho ancora dietro che mi chiama come se ripetere il mio nome all'infinito potesse servire a qualcosa. “Mi ascolti un momento?” Mi chiede, col fiatone.
“No, e sai perché? Non me ne frega un cazzo di quello che hai da dire.”
“Mi hai frainteso.”
Rido, sarcastico. “No, è questo il punto. Io ti ho capito perfettamente, sei tu che ti pari il culo dicendo che la gente non ti capisce. Io non so che cosa ti passi in quel cervello del cazzo, ma ne ho abbastanza. Quindi ora prendi e non ti fai più vedere. Ti è chiaro il concetto, sì?”
“Patrick, per favore.”
“Per favore il cazzo, vattene prima che ti metta le mani addosso.”
Fa due passi verso di me, ma lo spintono in mezzo al marciapiede. “Chakuza, vattene.”
Lui rimane un po' lì anche dopo che sono salito, lo vedo dalla finestra. Suona il campanello almeno sei volte, e comunque passano altre due ore prima che rinunci del tutto.
Quando finalmente lo vedo allontanarsi, ho alla gola un nodo che non vorrei avere.
La casa è completamente al buio e io, seduto per terra da quando sono rientrato, non ho voglia di alzarmi ad accendere la luce. All'improvviso mi rendo conto che l'appartamento è di nuovo desolatamente vuoto, e anche se dopo Daniel ci ho dormito sempre da solo, adesso non voglio farlo perché so che non ho nessuno ad aspettarmi nemmeno fuori. Così mi alzo di scatto e preparo la borsa.
La luce non l'accendo più.

*



L'ultima volta che io e Sido ci siamo parlati è stato quando mi ha detto di andarmene dal suo ufficio. Lui, però, è un uomo che tiene ben separati il suo lavoro e la sua vita privata, così quando mi presento a casa sua con la valigia, la prima cosa che mi chiede è se sto bene e non cosa cazzo ci faccio lì.
In realtà lo sa benissimo che sono lì perché non voglio stare solo e, se non vado da mia madre, è solo perché avrei troppe cose da spiegarle, gran parte delle quali è meglio che non sappia ancora.
Sido invece ha sempre saputo ogni cosa; sa anche di Chakuza e non l'hai mai approvato. Anzi, di tutte le cose che sono successe, non ha mai approvato soprattutto Chakuza. E non solo perché è un uomo, ma soprattutto per com'è fatto e, sinceramente, io non posso proprio dargli torto perché è palese che l'ostinazione che ci ho messo a riprendermelo anche dopo tutte le stronzate che ha fatto, è stata solo il tentativo di convincermi che non avevo sbagliato nemmeno la prima volta, quando invece avrei dovuto ammazzarlo come minimo.
Quando io, lui e Doreen finiamo a bere birra sul divano, gli racconto quello che è successo così come viene, senza cercare di rendermi meno pietoso di quello che sono; voglio solo parlarne a qualcuno che non ne sia coinvolto in nessun modo e non abbia alcun motivo per non darmi ragione su tutta la linea.
La ottengo, e non mi consola per niente, ma almeno mi fa sentire un po' meno peggio.
Non ho bisogno di chiedere ospitalità. “Lo sai che la tua camera è sempre pronta,” mi dice Doreen, stringendomi una spalla. “Puoi rimanere quanto vuoi.”
Resto perché non so dove altro andare e, anche se ancora non lo so, resto per poi restituirgli il favore.

Bookmark and Share

Natural Disaster II

di lisachan
A scanso di equivoci e prima di cominciare, vorrei mettere le mani avanti e dire che io non sono un idiota. So che a volte posso sembrarlo, ma non è la stupidità che regola le mie azioni. Sono tante cose, io, sono avventato e sono insensibile e sono alle volte un po’ tonto riguardo certe cose, me ne rendo conto perfettamente, ma non sono stupido, sono in grado di ragionare alla perfezione su ciò che dico e che faccio e so capire quando faccio una cazzata e quando invece ho ragione.
Ecco, forse il problema è che non sono tempestivo. Nel senso, so capire quando faccio una cazzata, ma lo capisco sempre con quel po’ di ritardo che in genere è quello che mi mette nei guai. Probabilmente ormai anche io, avendo avuto le esperienze che ho avuto, dovrei avere assimilato il senso del ghetto, che è un po’ l’equivalente del senso del ragno, solo che invece di percepire donne che urlano in lontananza cadendo da palazzi sotto ai quali devo passare saltando di ragnatela in ragnatela per afferrarle al volo, ti permette di percepire quando stai per fare qualcosa di potenzialmente pericoloso per la tua incolumità. Per qualche motivo, però, il senso del ghetto fatica a radicarsi in me, forse perché sono nato in montagna circondato dalle vacche, che non è proprio l’ambiente ideale per favorire l’attecchimento di una sensibilità simile.
Quale che sia la ragione, comunque, non sono mai riuscito a sviluppare questa capacità. Forse avrei dovuto farmi mordere da un bambino radioattivo del ghetto durante una visita scolastica, forse avrei dovuto chiedere a Daniel mentre lui era ancora un bambino ed io ero in visita scolastica a Tempelhof, ma non l’ho fatto, e quindi non ho mai imparato. Fler invece ha sempre saputo come si fa, per ovvi motivi, ed è per questa combinazione di fattori – il suo saperlo fare e il mio non essere capace – che lui ha provato, più volte, a fermarmi mentre io mi scavavo la fossa con le mie mani, ma io non me ne sono accorto, per cui ho proseguito imperterrito fino a quando non ho sollevato gli occhi e all’improvviso mi sono accorto di avere scavato tanto in profondità da riuscire a stento a intravedere ancora il cielo sopra la mia testa in un cerchiolino minuscolo e altissimo. Eccomi qua, adesso, sul fondo di una buca e senza scala per tornare su. Metaforicamente parlando ma anche no, visto che sono nella sala caldaie del palazzo e se n’è appena andata la luce, motivo per cui non vedo più un cazzo e non riesco a trovare l’uscita.
Immagino vogliate sapere perché mi trovo nella sala caldaie del mio palazzo, perché sia andata via la luce e perché io stia pensando a Fler proprio in questo momento. È presto detto: sono sceso nella sala delle caldaie perché le caldaie sono rotte e io sono l’unico nel palazzo con un minimo di manualità in questo senso – non si può certo pretendere che la signora Lotte si metta a prendere le caldaie a martellate quando queste smettono di funzionare – e pur non essendo un carpentiere posso vantare una certa competenza, se non altro perché disastri simili in casa mia accadono spesso e uno deve saperli fronteggiare, soprattutto se vive da solo. Poi, naturalmente, scendere qui sotto mi ha fatto ripensare all’ultima volta che una cosa simile è capitata, e quella volta ero con Fler. Era passato Capodanno solo da un paio di giorni, Bill se ne stava ancora molto sulle sue e io e Fler passavamo ancora un sacco di tempo insieme, anche se il nostro rapporto era un po’ più freddo di quanto non fosse prima, se non altro perché lui si rifiutava categoricamente di baciarmi, una roba che non ho mai capito, né allora né in seguito. Comunque, fatto sta che lui era a casa mia, stavamo guardando un film stupido in tv quando all’improvviso il gelo è calato su di noi. Viene fuori che le caldaie ci hanno abbandonati, perciò scendiamo entrambi e passiamo un paio d’ore piuttosto divertenti al termine delle quali vinciamo uno a zero contro la Caldaie FC, e giustizia è fatta. Quindi è chiaro che da quel giorno ogni volta che ho avuto a che fare con delle caldaie ho pensato a lui, con risultati alterni sulla mia concentrazione.
Il che ci riporta giustappunto alla questione delle luce che salta, perché poco concentrato com’ero mi sono avvicinato forse troppo avventatamente al quadro elettrico giusto per controllare che non ci fossero problemi con l’alimentazione delle caldaie, e mentre tocchicciavo qua e là per vedere se c’era una qualche ragione per cui la Caldaie FC sembrava chiusa nella propria area e non si muoveva, ecco che loro mi fregano. Contropiede assassino, trappola del fuorigioco che non scatta, rete, uno a zero, palla al centro. Cala il sipario, e pure l’oscurità.
- Merda. – borbotto vagando a tentoni per il seminterrato, agitando le braccia nel buio attorno a me alla ricerca di un qualcosa che possa fungere da punto di riferimento. Le caldaie stesse, o magari una parete, non lo so, qualche superficie che io possa seguire per provare a raggiungere l’uscita. Invece niente, sembra che all’improvviso con lo spegnersi della luce sia sparito anche tutto ciò che c’era in questa stanza prima. Sono perso nel vuoto cosmico, probabilmente non sto neanche camminando sul pavimento, fluttuo a mezz’aria e ho solo l’illusione di essere ancorato ben saldo al terreno perché non riesco a pensare che potrebbe andare diversamente. Forse sto sognando. O forse questo è solo il piano malvagio delle caldaie senzienti, forse non sono nemmeno più nella stanza delle caldaie ma è solo quello che le macchine vogliono farmi credere. Forse non dovevo guardare tutta la trilogia di Matrix da solo, ieri sera.
Comunque, mentre sono qui nel buio che cerco di uscire dal labirinto in cui la stanza delle caldaie s’è trasformata, continuo a pensare a Fler. Il che non è usuale per me, non per il fatto che è Fler, ma perché tendenzialmente io non sono tipo da pensare e ripensare alle cose, soprattutto se mi frustrano. Il pensiero di Fler al momento mi frustra perché non è qui con me e perché penso che, se ci fosse stato lui, a parte spingerlo contro le caldaie, immagino mi avrebbe anche dato una mano e io probabilmente non avrei finito col tagliare la luce a tutto il palazzo mettendomi nella prospettiva di dover pagare l’elettricista di tasca mia e i danni a tutti gli altri inquilini che hanno riposto le loro speranze in me per tornare ad avere il riscaldamento in casa, per dire, che in un palazzo vecchio e pieno di spifferi come questo serve un po’, alle porte di settembre, coi primi venticelli che cominciano a farsi sentire insidiando la salute delle povere ossa di tutti i vecchietti che abitano qui.
E quindi niente, ci penso e mi dico che non sono scemo, l’ho capito dove ho sbagliato. Però non è che l’abbia fatto apposta, non è che abbia pensato “aspetta che vomito addosso a Fler un po’ di rancore per il fatto che io e Bill non ci siamo mai lasciati ma lui si sente comunque in diritto di rifarsi una vita con Bushido”, perché non è così, e poi pure io non è che sia stato un santo, specialmente nell’ultimo periodo. Il fatto è che sul momento non ci ho pensato che poteva essere una cosa che avrebbe potuto offenderlo. L’ho letto e mi è stato sul cazzo il concetto, non so se mi spiego, che quei due molto carinamente potessero sentirsi in diritto di fare il cazzo che volevano anche se la situazione precedente non s’era ancora chiarita. Non ci ho pensato che io stavo facendo la stessa cosa, non sul momento. L’ho realizzato dopo. Non l’ho mica fatto con cattiveria.
In ogni caso, a un certo punto vedo la luce in fondo al tunnel. Sia in senso metaforico che in senso realistico, perché si accende una torcia da qualche parte ed io finalmente riesco ad inquadrare la cornice rettangolare della porta, oltre la quale sta in piedi una figurina minuta, ossuta e un po’ curva, con una gran massa di capelli sottili e cotonati sospesi come una nuvoletta attorno alla testa tonda. Si vede la sagoma degli occhiali enormi che sporge dai lati del viso, ed io sorrido riconoscendo la signora Lotte che mi punta la luce negli occhi. Non sento quasi nemmeno fastidio.
- Peter, - mi chiama con quella vocina da nonna, - stai bene?
- Io sì, signora. – sospiro, seguendo la luce e raggiungendola all’ingresso, - Ma non posso dire lo stesso del quadro elettrico. Credo di aver fatto un mezzo casino. Chiamerò qualcuno per sistemarlo e mi occuperò io di tutte le spese. – dico con rassegnazione.
- Oh, povero caro. – mugola lei, visibilmente preoccupata più per me che per il fatto che la luce sia andata via dall’intero palazzo, - Ma non potevi chiamare quel tuo amico, quel marcantonio, com’è che si chiamava? Patrick? Non lo vedo più da tanto, era così bravo con me.
Sorrido appena, appoggiando una mano sulla spalla esile della signora Lotte e stringendola un po’, delicatamente. Era bravo anche con me, lo sa, signora? Era un sacco bravo anche con me. Ho pasticciato con gli ingranaggi, proprio come stavo facendo poco fa nella stanza delle caldaie, e ho mandato tutto all’aria. Però per sistemare le cose con Fler non posso chiamare un elettricista. A parte che posso permettere a un elettricista di mettere le mani nel quadro elettrico di questo palazzo, ma non posso certo permettergli di fare la stessa cosa col quadro elettrico di Fler, che chissà dov’è, peraltro. Se poi viene fuori che ce l’ha nelle mutande? No, assolutamente. E poi comunque non c’entra, Fler non ha un quadro elettrico. Non è una cosa. È una persona. E io dovrei ricordarmelo più spesso.
- Abbiamo avuto qualche problema. – rispondo sinceramente, abbassando lo sguardo e stringendomi nelle spalle. La signora Lotte mi punta ancora la torcia negli occhi, prima di spegnerla. Stavolta dà un po’ fastidio.
- Povero caro. – ripete, - Vieni da me, ti offro una tazza di tè. Così potrai raccontarmi tutto.
E io mi lascio accompagnare nell’appartamento della signora Lotte, mi seggo su una di quelle sue belle seggiole antiche imbottite e foderate di stoffa pesante, come non ne fanno più al giorno d’oggi, e lascio che lei mi offra il tè col servizio buono, che è in porcellana bianca finissima, tutto ricoperto di decorazioni floreali colorate. Sembra una cosa d’altri tempi, ma mi riscalda il cuore, e non solo perché è calda la bevanda.
Comincio a parlare senza pormi freni, come faccio sempre. Per una volta, mi lascio libero di pensare che potrebbe non essere un errore, nel caso specifico. Fortunatamente, stavolta ho ragione.
- Io e Fler, per un certo periodo, siamo stati insieme. – confesso a capo chino, - Non è che stessimo proprio insieme nel senso canonico del termine, e non sono sicuro di poterglielo spiegare—
- Oh. – ride lei, - Via, via, Peter. Pensi che prima del mio Carmine io non abbia avuto scappatelle, o avventure con qualcuno? – sorbisce silenziosamente un po’ del suo tè, - E poi anche io ho avuto le mie esperienze trasgressive. – dice compitamente, e il modo in cui dice “trasgressive” è lo stesso in cui tutti quelli della sua età pronunciano questa parola, dandole un’accezione quasi tenera, che tu ti aspetti di sentir dire “ebbene sì, anche io mangiavo qualche stuzzichino fuori pasto!”, oppure “ebbene sì, anche io una volta non ho lavato i piatti per tre giorni di fila!”, e invece eccola lì, lei, bella pulita linda e profumata, con la sua faccia da vecchina per bene e la sua voce da vecchina per bene, che mi sgancia la bomba: - Io e la cugina Bertha ne abbiamo fatte, di cose, nella nostra adolescenza, e non erano cose che comprendevano la presenza di maschietti, se capisci cosa intendo, mio caro ragazzo. – dice con una risatina pettegola.
Io spalanco gli occhi e la bocca. Sento quasi la mascella toccare il pavimento, ma lei continua a guardarmi con quel sorriso assolutamente sereno e dolcissimo e allora cerco di ricompormi. D’altronde, le sto comunicando che sono gay. È anche giusto che lei si senta in diritto di ricordarmi che non sono l’unico al mondo.
- …sssì. – annuisco, grattandomi nervosamente la nuca, - Il fatto è che io e Fler— intendo, signora Lotte, noi non è che giocassimo. Nel senso, sì, giocavamo anche, alle volte, ma non era soltanto una… - cerco le parole, fatico a trovarle e mi rendo conto che forse non esistono, per cui invento, - una… esplorazione delle varie possibilità del nostro modo di vedere il sesso, intendo, noi eravamo— avevamo un certo rapporto, una storia.
La signora Lotte sfila gli occhiali, che mentre beveva il tè le si sono appannati tutti, e li pulisce col retro della tovaglia rotonda di raso che copre il tavolino al quale siamo seduti. Rimane lì in silenzio a strofinare le lenti con attenzione a lungo, le scruta quasi con aria decisa, come volesse imporre loro la propria volontà – “non vi graffiate, povere care”, la immagino dire con quel tono fra il severo e il compassionevole così tipico di lei – e poi li inforca nuovamente, sistemandoseli sul naso con un dito e tornando a guardarmi.
- Sei innamorato, povero caro? – mi chiede, con lo stesso tono che le ho immaginato usare prima con le lenti dei suoi occhiali. Sono innamorato, povero me?, mi chiedo, e mentre me lo chiedo cerco di seguire il ragionamento, ma mi s’inceppa. Non so, non è che ci veda come una cosa che abbia a che fare con l’amore, quando penso a me e Fler. Certo, ci ho pensato, alle volte mi è anche sembrato che forse magari in un certo senso in qualche modo da un certo punto di vista avrebbe potuto possibilmente esserlo, ma siamo incasinati un sacco, litighiamo continuamente e quando non litighiamo tendenzialmente ci guardiamo inarcando sopracciglia perché non ci capiamo su quasi nessun livello che non sia quello orizzontale – o anche verticale, se è coinvolta una parete, non poniamo limiti al cielo – quindi, non lo so, amore? Può essere amore anche questo? Signora Lotte, io non lo so.
- Forse. – rispondo, che è la cosa più sincera che posso dire senza dovere usare tutte le parole che ho usato prima pensandolo, e senza dover spiegare alla signora Lotte la questione del piano orizzontale, questione che ormai avrà capito da sé, suppongo, ma un conto è se lo capisce da sola, un conto è se ci mettiamo qui buoni a sorseggiare tè e io le spiego come giocavamo al dottore io e Fler quando fra noi era ancora la pace. Non esiste.
Lei annuisce compitamente, finisce il suo tè e giunge le mani in grembo. Per un attimo, così seduta sulla seggiola con le spalle dritte e il volto serio, mi sembra una di quelle vecchie educatrici severe tipo la signorina Rottenmaier. Mi scende un brivido lungo la schiena, ma poi lei si scioglie in un sorriso caldo e tenero, e allora un po’ mi sciolgo anch’io.
- Cos’è successo? – chiede premurosa, - Avete litigato?
Sospiro, le spalle che mi s’incurvano.
- No. – rispondo, - Non esattamente. Non ce n’era nemmeno bisogno, sono stato un cretino, mi sono comportato male e lui mi ha dato il benservito.
- Oh. – uggiola lei, sporgendosi a battermi una debole pacca su una spalla, - Povero caro. Scusami se te lo dico, ma sei proprio stupido.
L’effetto delle sue parole è paragonabile a quello di un pianoforte o di un quintale di mattoni che mi cadono dritti sulla testa, stile cartone animato. È assurdo, cose simili non succedono, ma sono talmente sorpreso dal sentirmi dire una cosa simile che nell’agitarmi quasi cado davvero dalla sedia.
- Come, scusi? – guaisco, alzandole addosso uno sguardo implorante. Ritiri tutto, signora Lotte. Mi voglia un po’ bene, almeno lei.
- Sei proprio stupido! – ripete lei, sempre sorridendo, ma a voce più alta, come se pensasse che ho problemi di udito o che so io. Non sono sordo, signora Lotte, solo incredulo. – Quanti giorni fa è successa questa cosa?
- U-Un paio di giorni fa, - balbetto io, incerto, - tre al massimo. Più o meno.
Lei scuote il capo, schioccando la lingua, insoddisfatta.
- Quanti giorni vuoi lasciare passare, caro? – mi rimprovera severa, incrociando le braccia sul petto, - Il tuo Patrick avrà tutto il tempo di rifarsi una vita che non ti comprenda, se continui così.
- …signora Lotte, io non credo che—
- Io credo – mi interrompe lei, sorridendo serafica, - che qualsiasi sia stato il motivo della vostra incomprensione, tu abbia capito di avere sbagliato. E mi sembri molto pentito e sofferente a riguardo. Sono sicura che lui non sta aspettando altro che vederti spuntare sulla soglia della sua porta con un mazzo di fiori in mano, pronto a scusarti. – dice con aria sognante. Io mi schiarisco la voce, vagamente a disagio.
- Signora Lotte, - azzardo, - Fler è maschio.
Lei aggrotta le sopracciglia, piccata.
- L’amore è un sentimento universale, - dice, - non conosce differenze di sesso, di razza o di credo religioso. – la fisso con tanto d’occhi perché non riesco a credere che stia facendo questo discorso proprio a me. – E inoltre, - continua con un mezzo sospiro, - non credere che solo alle donne piaccia sentirsi ricordare dal proprio innamorato cosa voglia dire sentirsi amati davvero.
E io lì mi blocco un po’, perché oggettivamente qui stiamo entrando in un terreno che io non conosco, quindi mi conviene muovermi in punta di piedi. Di essere pienamente e consapevolmente innamorato di qualcuno, a me è capitato una volta sola, e quella volta in cui è successo le cose sono filate lisce finché il nostro rapporto è rimasto una cosa nostra, circoscritta a noi due. Così avrebbe continuato probabilmente ad essere, se non si fossero messi di mezzo fattori esterni, ma il punto della questione non è tanto questo quanto più il fatto che, allora, né io né Bill avevamo bisogno di ricordarci l’un l’altro che eravamo innamorati. Era una cosa che sentivamo senza difficoltà in ogni bacio, in ogni parola, in ogni gesto, ogni volta che facevamo l’amore. Forse perché il rapporto che avevo con lui era molto più tranquillo, ripetersi continuamente che ci amavamo sarebbe stato ridondante, eccessivo, e quindi capitava di rado che ce lo dicessimo esplicitamente, o che facessimo in modo di ricordarcelo facendo l’uno per l’altro cose fuori dal normale. Ogni tanto capitava, sì, ma non era fondamentale, non dipendeva da quello la nostra tranquillità.
Mi rendo conto solo adesso che la signora Lotte me lo fa notare che non è così per tutti. Che io non posso pretendere che Fler si fidi di me in questo senso, che abbia delle certezze riguardo alla nostra relazione, che si fidi del rapporto che abbiamo, se non gli ho mai dato modo di crearsele, questa fiducia, queste certezze e questa tranquillità. Quando mai siamo stati tranquilli, noi due? Quando mai abbiamo chiarito qualcosa? Quando mai abbiamo posto delle basi serie per una relazione, basi che non affondassero nell’argilla, intendo. Eppure eccomi qui, a pretendere inconsciamente che Fler possa reagire bene al più sbagliato degli spunti di discussione, perché dentro di me pensavo che comunque ormai ci fossimo riavvicinati. Sì, ci eravamo riavvicinati davvero, ma cazzo, stavamo in bilico come sempre. E io non ci ho pensato. Perché ha proprio ragione la signora Lotte, sono proprio uno stupido.
Mi alzo e le sorrido dolcemente, chinandomi a lasciarle un bacio su una guancia.
- Grazie per il tè, signora Lotte, era veramente buonissimo. – le dico. Lei si stringe nelle spalle, imbarazzata.
- Non ho fatto poi niente di speciale. – si schermisce.
La verità è che invece sì.
*
Uscito da casa della signora Lotte, passo appena dal mio appartamento a darmi una ripulita sommaria e afferrare una giacca a caso e poi sono subito per strada, diretto a casa di Fler. Non sta lontanissimo da qua, ma la mia buona mezz’ora di cammino in genere per raggiungerlo me la faccio. Oggi corro. Cioè, non corro proprio, però cammino tanto velocemente che sicuramente marcio, e arrivo in poco più di dieci minuti, e col fiatone, tant’è che poi ne perdo cinque sotto casa sua a cercare di riportare il mio respiro ad un ritmo più normale, piegato in due e con le mani sulle ginocchia. Appena mi ritrovo un po’, mi rimetto dritto e mi attacco al citofono. Suono almeno sei volte, poi mi rassegno all’evidenza: non è in casa. Non che la cosa mi stupisca, visto che Fler odia quest’appartamento, soprattutto quando deve starci da solo.
Mi fermo a riflettere. Può essere solo in due posti. Il primo che mi viene in mente è casa di Bushido, ma siccome, come abbiamo avuto modo di appurare via giornaletto scandalistico ieri, c’è Bill da lui – ed io non immagino che, fra una manciata di mesi, quando tutto sarà preoccupantemente diverso rispetto ad adesso, fuggire a casa di Bushido non sarà più così improbabile, presenza di Bill fra le regali quattro mura o meno – penso che Fler si sarà risparmiato di andare a stabilirsi proprio là, col rischio di dover finire nella dependance con Karima, poi.
La seconda opzione è vagamente più rassicurante, da un certo punto di vista – più precisamente, il punto di vista nel quale non mi tocca andare a casa di Bushido per andarmi a riprendere Fler, che sarebbe una mossa sconveniente in molti più sensi di quanti non riesca a pensarne con un solo cervello – ma dall’altro è un disastro. Perché mi tocca andare a riprendermi Fler a casa di Sido, e io non lo so mica com’è che potrebbe andare a finire una cosa del genere.
Nonostante queste giustificatissime perplessità di base, prendo il coraggio a quattro mani, inspiro profondamente e poi faccio un giro di telefonate, al termine del quale sono un uomo pronto e dotato di un indirizzo verso il quale dirigermi. Arrivo a casa di Sido che sono quasi le sette di sera, il che già mi pone in una posizione di disagio, perché non solo io perfetto sconosciuto appartenente a un’etichetta rivale arrivo in casa del gran capo dell’Aggro Berlin per tirargli via da sotto le grinfie uno dei suoi ex-pupilli, ma ci arrivo anche in prossimità dell’ora di cena. Non riesco ad immaginare uno scenario più preoccupante neanche mettendomici di buzzo buono, e sì che in questo senso la mia fantasia è piuttosto fervida.
Suono al citofono di casa Würdig-Steinert con un po’ di preoccupazione addosso, ma la controllo pensando che non è che abbia davvero alternative rispetto al trovarmi qui in questo momento. Spero solo che Fler capisca il sacrificio che sono costretto a fare per riaverlo, lo apprezzi e mi ricompensi adeguatamente. Tipo calandosi giù dal balcone entro i prossimi cinque minuti.
- Chi è? – risponde la voce un po’ nasale di Sido. La riconosco subito. Quando uno ti dà pubblicamente della merda in una diss anche se tu di tuo non gli hai mai mai mai ma proprio mai fatto nulla di male, tendi a non dimenticarti più il suono della sua voce.
- Sono Chakuza. – rispondo con candore.
Dall’altro lato cala il silenzio per una infinita quantità di secondi.
- Chakuza…? – chiede, ed è come se col mio nome ci si stesse strozzando. – Che cazzo ci fai qui?
- Ecco, io… - borbotto grattandomi una guancia, - sarei venuto per parlare con Fler.
- Ma chi ti dice che sia qui?! – sbotta lui, agitandosi tutto, - Ma santo Dio, ma sei normale?! È casa mia, questa, mica casa di Fler! Sparisci.
- Sì, il fatto è che ci sono già stato a casa sua. – dico precipitosamente, con l’intenzione di fermarlo prima che possa riappendere, - E siccome non c’è ho pensato che potesse essere qui.
- Hai pensato male! – ribatte lui con naturalezza, - Ma vedi tu se posso avere a che fare con uno stalker mitomane. Ma poi fosse John Lennon, santo Dio. Ma io non lo so, veramente. Senti! – riprende, tornando palesemente a parlare con me come non ha fatto negli ultimi trenta secondi, - Quando e se rivedrò Fler, gli riferirò che sei passato a cercarlo. Ora evapora. Sciò. Tornatene da— - e si interrompe all’improvviso, troppo all’improvviso per non costringermi ad inarcare un sopracciglio, incerto. Sento suoni di colluttazione provenire dall’interno dell’appartamento. Sido urla un “no!” molto accorato, che quasi mi commuove. Sto cullandomi col pensiero che forse Fler era nascosto da qualche parte e ora sta picchiando il suo ex-datore di lavoro per il modo becero in cui mi ha trattato, quando una voce femminile, molto più dolce e giovane di quella di Sido, prende il suo posto, salutandomi cordialmente.
- Ehm, scusi il disturbo. – dico con evidente imbarazzo, stringendomi nelle spalle, - Io non voglio mandarvi a monte la serata, vorrei solo parlare con Fler, se fosse possibile.
- Ma certo che è possibile. – risponde la signora Sido. Anche lei ha la voce identica a come l’ho sentita registrata su cd, più precisamente in una canzone che ha cantato con Fler. – Prego, sali pure, non badare a mio marito. – cinguetta felice, aprendomi il portone, - Settimo piano.
Io lancio un’occhiata veloce al palazzo e noto che è l’ultimo. Deglutisco con paura: se qualcuno vorrà defenestrarmi dal settimo piano, sia quel qualcuno Sido o Fler, non avrò scampo. Dico io, pure voi, non potevate abitare al primo?
Quando esco dall’ascensore, sulla soglia della porta ad attendermi non c’è Sido, naturalmente, ma lei. E io mi c’incanto un po’, perché la signora qui è di una bellezza sconcertante. A parte che avrà massimo venticinque anni, in pratica è una ragazzina, che uno si chiede per quale motivo non solo stia con uno come Sido, che volendo ci può anche stare, ma gli abbia dato perfino una figlia. Ma comunque. Indossa un vestitino rosso corto che le lascia scoperte le spalle, ed attorno alla vita ha un grembiulino di quelli che si fermano a metà coscia, tutti svolazzanti. È truccata, indossa bracciali e orecchini, ha i capelli sciolti sulle spalle e un paio di deliziose décolleté nere ai piedi. Sembra un po’ uscita da una soap-opera, ma in generale non fatico a capire perché Sido dovesse essere così furioso solo perché avevo interrotto il rituale di preparazione della cena.
- Peter Pangerl, vero? – chiede lei, salutandomi con un sorriso ed una stretta di mano piuttosto femminile. Io ricambio con aria un po’ persa, ed immagino che il mio sguardo stupito parli per me, perché lei si affretta subito ad aggiungere: - Fler ci ha detto tutto, di te.
Ah, penso io. E non è un “ah” felice e soddisfatto, tutt’altro. Ho una brutta sensazione, che aumenta d’intensità man mano che avanzo e m’introduco in casa Würdig-Steinert, che per inciso è un appartamento enorme arredato in maniera molto calda, con la carta da parati alle pareti e le tende lunghissime e sbuffanti su tutte le finestre e tutti i balconi e un sacco di divani imbottiti ovunque. E quadri, foto e dischi d’oro e di platino appesi alle pareti.
- Guardi, davvero, non voglio disturbare, per cui—
- Dammi pure del tu. – sorride lei, - Mi chiamo Doreen. Che ne diresti di restare a cena? Ormai è quasi ora, sto preparando il pollo con le patate.
La prima cosa che mi viene da dire è: ma ce l’hai messo il rosmarino nel pollo, Doreen? Perché non viene altrettanto saporito senza. Trattengo il commento sulla lingua, fortunatamente, e la seguo mentre mi fa strada lungo il corridoio. L’odore che viene dalla cucina, dovunque essa sia, comunque è buono.
- Non sono sicuro di poter accettare adesso. – dico con un mezzo sorriso, - Se non dovessi risolvere le cose con Fler, poi restare a cena potrebbe essere imbarazzante.
- Oh, - ride lei, divertita, - Fler è il minore dei tuoi problemi, adesso. – e così dicendo, mi introduce in salotto, dove Sido sta seduto sul divano, le braccia incrociate sul petto e la testa incassata nelle spalle, e fissa il televisore senza nemmeno vederlo, le labbra piegate in un broncio talmente lungo che con un po’ di fantasia lo vedo sfiorare il pavimento.
- Buonasera. – saluto, agitando una mano con aria un po’ impacciata. Sido mi lancia un’occhiata imbufalita.
- A te pare una buona sera? – borbotta, tornando immediatamente a fissare la tv, - Perché a me no.
Aggrotto le sopracciglia e faccio per rispondergli che ho capito che la mia presenza qui lo infastidisce, ma non mi pare il caso di agire come un bambino di cinque anni, visto che siamo tutti uomini adulti e capaci di ragionare, mi sembra, quando un dolore lancinante a uno stinco mi costringe a retrocedere dai miei propositi e a piegarmi in due mugolando pietosamente e stringendomi la gamba.
- Che cosa…? – borbotto, chiedendomi se per caso non sia stata Doreen a rifilarmi un pestone con quelle sue deliziose scarpette alla moda dai tacchi a spillo, ma guardando in basso realizzo che non è stata affatto Doreen a farmi del male, ma piuttosto una copia di Sido in miniatura, con capelli scuri appena più lunghi acconciati in un caschetto corto alla base del collo e i lineamenti appena un po’ più dolci rispetto a quelli di suo padre, ma palesemente riconoscibili. La bambina brandisce una spada di legno, e suppongo sia questo l’attrezzo che ha usato per gambizzarmi. – E tu chi sei? – chiedo con un po’ di terrore. La bambina solleva la spada e me la cala sulla testa come una mannaia. – Ahi! – strillo, e, mentre Doreen si copre la bocca con entrambe le mani e poi si allunga a sfilare la spada dalle mani di quella che sospetto fortemente essere la figlia, Sido, dal divano, ride di gusto.
- Brava bella di papà. – dice compiaciuto, - Vieni qui, Maja. – prosegue, chiamandola a sé e battendo una mano sul cuscino al proprio fianco con aria orgogliosamente paterna.
- Paul. – borbotta Doreen, incrociando le braccia sul petto, - Ma quanto la vizi?
- Ma perché mi ha picchiato? – piagnucolo io, gettando dal settimo piano non me stesso ma la mia decenza, e pensando che forse sarebbe stato meglio il contrario.
Doreen si stringe pudicamente nelle spalle.
- Le abbiamo grossomodo spiegato perché Fler è qui. Sai, lei gli vuole molto bene.
Osservo lo scricciolo in salopette e camiciola bianca che si arrampica sul divano accanto a suo padre e mi dico che sono messo proprio bene. Ma proprio bene. Sospiro.
- Posso vedere Fler, adesso? – chiedo, col tono di uno che pensa che ciò che ha subito fino ad adesso rappresentasse il giusto tribolato percorso per giungere a destinazione, un po’ come quei principi azzurri che sanno di dover affrontare il bosco di rovi e il drago sputafuoco prima di giungere alla stanza della principessa nella torre più alta del castello. Con tutte le dovute distinzioni fra Fler e una qualsivoglia principessa, in fondo è un po’ così per davvero.
Doreen sorride, riaccompagnandomi in corridoio. Indica una scala a chiocciola in ferro battuto proprio in fondo al corridoio stesso, e mi dice che la stanza di Fler è nel sottotetto, al piano di sopra. Parto già ad immaginarmi Fler recluso in una stanza larga due metri ed alta uno e mezzo, tutto curvo su se stesso come il Gobbo di Notre-Dame, ma quando salgo effettivamente le scale vedo che il cosiddetto sottotetto di Doreen in pratica è semplicemente il piano di sopra. Sì, c’è il tetto spiovente, ma vorrei ridiscendere per spiegare a Doreen che il sottotetto al più è un’intercapedine polverosa alta venti centimetri, mica questa reggia inondata dal sole che filtra dall’enorme finestra tonda che c’è sul prospetto.
Mi avvicino all’unica porta chiusa sul piano – le altre, e sono due, sono aperte, e danno una su un piccolo bagno e l’altra su un ripostiglio dentro il quale fa bella mostra di sé una scaffalatura metallica piena di ogni ben di Dio, neanche in questa casa ci si fosse preparati accatastando provviste in caso di una guerra atomica – e sento provenire dall’interno i suoni campionati di un videogioco. Un uomo palesemente non italiano ma che fa di tutto per sembrarlo strilla “Mamma mia!” con aria addolorata, e Fler impreca. Ho il terrore di aprire questa porta e trovarmi davanti agli occhi una versione regredita ai quattordici anni del Fler che conosco. Me lo figuro incazzato col mondo e soprattutto con me e mi chiedo se la finestra tonda sia sigillata e se per caso nel ripostiglio ci siano delle lenzuola vecchie che potrei annodare per calarmi discretamente fino in strada senza dover disturbare nessuno uscendo dalla porta principale.
Scrollo via dalla testa queste immagini moleste e busso.
- Adesso scendo! – risponde Fler, senza neanche chiedermi chi sono. Avrà visto l’orario ed avrà immaginato che Doreen fosse venuta a chiamarlo. Sento i suoni provenienti dal videogioco interrompersi all’improvviso, e poi le molle del letto sul quale è sdraiato scricchiolano nel momento in cui si alza. I suoi passi un po’ strascicati attraversano la stanza per un paio di secondi e poi la porta si apre. E invece di Doreen ci sono io. Sorpresa. - …Chakuza. – esala, e che non è contento di vedermi sarebbe ovvio anche per un cieco sordo e muto.
- Ciao. – lo saluto un po’ incerto, - So che non ti aspettavi di rivedermi—
- No che non me lo aspettavo. – mi interrompe lui, glaciale, - Se non sbaglio, ti avevo avvertito di non farti più vedere.
- Lo so. – annuisco consapevole, - Ma ne ho parlato con la signora Lotte, e lei pensa che—
- Ne hai parlato con la signora Lotte?! – sbotta lui, interrompendomi ancora. Fler, lasciami finire un discorso, già che io ho problemi pure se mi si lascia parlare senza interrompermi dall’inizio alla fine, ti ci metti pure tu che mi blocchi ogni tre secondi, poi non ti lamentare se mi s’inceppano gli ingranaggi e dico stronzate.
- Il punto non è questo. – dico, cercando di riportarlo verso la questione principale, che sennò qui facciamo notte.
- Invece il punto è proprio questo! – insiste lui, alteratissimo, così tanto che è tutto rosso a chiazze per quanto si agita. La pressione, Fler. – Il punto è che per nostra grande sfortuna Dio o chi per lui ti ha dotato di una bocca ma non del manuale di istruzioni, e di conseguenza tu la utilizzi senza sapere come, motivo per il quale nove volte su dieci lo fai a sproposito! Il punto è che come ti muovi fai un casino, ed alle volte basta pure che stai fermo e semplicemente dai aria al cervello per via orale per combinare disastri inenarrabili! Ti si dovrebbe aprire una finestra sulla nuca, così quando senti che devi schiarirti le idee la apri e non devi necessariamente parlare per dare all’ossigeno una via per raggiungere i tuoi neuroni! Avrei dovuto pensarci quando te l’ho quasi spaccata in due, quella testa di cazzo che ti ritrovi, dovevo farlo allora! Alla signora Lotte lo va a dire lui, certo! Ma andare dal tuo padre confessore, se ne hai uno, che almeno è obbligato a mantenere il segreto?!
Si ferma all’improvviso, proprio quando cominciavo a pensare che non ci sarebbe più riuscito, e resta immobile davanti a me, ansimando un po’. Ha gli occhi lucidi, ma capisco subito che non è che stia per piangere, è soltanto la rabbia e l’agitazione. Inspiro profondamente.
- Posso entrare? – chiedo, e mi preparo a sentirmi rispondere di tutto.
- Sì. – dice invece semplicemente lui, scostandosi dall’uscio per farmi passare. Io muovo qualche passo all’interno della stanza, che è letteralmente un casino, con vestiti buttati ovunque, giocattoli – che spero non siano suoi – sparsi sul pavimento e il letto disfatto ai piedi del quale c’è un cestino per la carta straccia pieno di confezioni di dolciumi vuote. – Scusa il disordine.
Gli lancio un’occhiata perplessa, e noto che ha chiuso la porta.
- Dico, te la ricordi o no casa mia? – chiedo, inarcando un sopracciglio. Lui ride appena, superandomi e sedendosi sul letto. Io lo seguo e faccio lo stesso, sedendomi abbastanza lontano da non rappresentare un fastidio, mentre lui mi guarda e io lo guardo e sostanzialmente, per cinque minuti buoni e non sto esagerando, non facciamo altro che scrutarci a vicenda come fossimo un rompicapo e dovessimo cercare di risolverci. Cosa non del tutto distante dalla realtà, peraltro.
- Che cosa ci sei venuto a fare qui, Chaku? – mi chiede alla fine, sospirando affranto. È frustrato e nervoso, glielo sento addosso. Se abbassa lo sguardo, adesso, non è perché sia triste, o almeno, non è solo per questo. È solo che non sa più cosa fare con me, perché le ha provate tutte e nessuna funziona. Forse siamo solo incompatibili e dovremmo proprio smetterla di continuare a rincorrerci sapendo perfettamente qual è la fine che faremo ogni volta. Forse dovremmo. Forse.
- Volevo solo parlare un po’. – rispondo io. Lui mi lancia un’occhiata pesante come un macigno.
- Siccome spesso parlando tu risolvi i problemi… - borbotta, e io mi stringo nelle spalle.
- Magari non si risolverà niente, ma non mi andava di lasciare che si chiudesse senza che tu sapessi. – dico, facendo sfoggio di grande coraggio.
Fler inarca un sopracciglio, per nulla impressionato.
- Sapessi cosa? – chiede giustamente. Eh. Sapesse cosa? Che cos’è che voglio dirgli, se quando la signora Lotte mi ha chiesto se lo amo non sono riuscito a tirare fuori niente più che un forse? Se dico “ti amo, forse” a Fler adesso, mi sa che mi defenestra sul serio. Stavolta le parole mi tocca sceglierle con cura, e mi tocca farlo adesso. Non posso sbagliare e poi pentirmene fra tre giorni. Non ora.
- Che non ti voglio fuori dalla mia vita. – dico a bassa voce, sforzandomi di guardarlo negli occhi anche se mi imbarazza farlo, perché i suoi sono chiari e limpidi e molto spesso ho avuto l’impressione che riuscisse a leggermi nella testa meglio di quanto non potessi fare io con me stesso, e la cosa mi ha sempre fatto paura, perché in un certo senso questo gli dava delle possibilità di controllo su di me, possibilità che non potevo avere nemmeno io, e fino ad oggi forse inconsciamente io ho sempre pensato che questo fosse un male, un pericolo, o comunque qualcosa cui non volevo sottostare, e invece mi ritrovo adesso a guardarlo e chiedermi perché mai l’abbia pensato. Io a quest’uomo una notte di dicembre di due anni fa ho affidato la vita. Qual è la differenza, adesso, perché non potrei farlo ancora e ancora e ancora? Deglutisco. – Se mi chiedessero se posso fare a meno di chiunque altro… - mi mordo un labbro, ci rifletto davvero, e capisco che sto dicendo la verità, - Se mi chiedessero se posso fare a meno di Bill, direi di sì. Sì, potrei. Ma non voglio te fuori dalla mia vita. Non adesso, e probabilmente mai.
Mi ritrovo all’improvviso senza fiato. Credo di aver detto tutto quello che dovevo dirgli senza fare cazzate nel mentre, ed è possibile che la cosa mi abbia prostrato più di quanto non credessi, il che ci sta, perché è faticoso muoversi in una cristalleria essendo un elefante, ma comunque mi sento in un certo senso come se avessi compiuto la mia missione, come se adesso non ci fosse nient’altro che posso fare, a parte sedermi nella mia bella navicella spaziale e osservare dall’oblò se le cinquanta testate atomiche che ho seppellito nella pancia dell’asteroide in rotta di collisione verso la Terra saranno sufficienti a fermarne l’avanzata. Insomma, se potrò tornare a casa da eroe o se osserverò dallo spazio il mio pianeta – tutto quello che mi interessa proteggere adesso – mentre si disintegra in particelle minuscole, togliendomi una casa e perfino senso di esistere.
Fler resta in silenzio per un’eternità. È sempre così quando aspetti un verdetto da cui dipende tanto, ti pare ogni volta che chi deve dartelo si prenda tutto il tempo dell’universo solo per torturarti. Mi innervosisce, anche se razionalmente so che non lo sta davvero facendo apposta, e a un certo punto sono così nervoso che schiudo le labbra per dire una cosa qualsiasi, la prima che mi passi per la testa, e sono ben consapevole che potrebbe essere la cazzata che rovinerebbe tutto, per cui sono grato, immensamente grato, quando Fler allunga una mano e mi appoggia un dito sulle labbra, zittendomi.
- No. – dice, con aria piuttosto allarmata, ed è alquanto offensivo notarlo, visto che ci penso, in realtà, - Sta’ zitto.
Arriccio le labbra in un broncio poco compiaciuto, ma in realtà il movimento serve solo a lasciargli un bacio involontario e un po’ goffo sul polpastrello. E spero che il brivido che ho sentito io nel darglielo sia lo stesso che ha sentito lui nel riceverlo, e sia questo il motivo per cui ritira la mano e mi guarda con gli occhi spalancati, perché se non è così, se in realtà tutto quello che sta pensando è che sono un deficiente e non vuole più vedermi, giuro che dalla finestra mi ci butto da solo. Ma non per cosa, perché quegli occhi così incerti non li reggo, non li posso reggere, non ci bastano già i miei ad essere confusi per entrambi?, e mentre sono qui che mi faccio problemi enormi e controllo davvero quanti passi mi separano dalla finestra – o magari dalla porta, via, non vogliamo fare troppo i melodrammatici, o spaccare questo bel vetro pulito oltre le tendine rosa di una stanzetta in cui spero Fler non vorrà passare altro tempo oltre al necessario – all’improvviso qualcosa nei suoi occhi si schiarisce, si scioglie, e quando lo vedo avvicinarsi boccheggio a vuoto per un paio di secondi come un pesce fuori dalla boccia, un attimo prima di sentire le sue labbra che si premono contro le mie, e allora ciao, arrivederci, campane a festa, perché io smetto di capire qualsiasi cosa e non mi importa più di niente.
Mi sporgo in avanti, spingendolo sul letto, e sul momento non è che mi rendo conto del fatto che sto davvero per provare a fare sesso con lui qui e ora, penso solo che ce l’ho premuto addosso e mi piace e ne voglio di più. Lui, peraltro, non è che opponga resistenza più di tanto: tira su una gamba, puntando il piede contro il materasso e strisciando all’indietro, afferrandomi per il colletto della maglietta e trascinandomi con sé mentre io mi sistemo fra le sue cosce e nel momento stesso in cui i nostri bacini si toccano devo allontanarmi un secondo perché mi manca seriamente il fiato. Sto per scopare! Sto per scopare con Fler! Nessuno di voi che non sia me può capire quanto questo avvenimento sia glorioso e vada celebrato. Semplicemente non potete, è la cosa più bella del mondo, e siccome pensavo che non sarebbe più avvenuto al momento sono così felice che mi scoppia il cuore nel petto.
Fler sorride contro le mie labbra, appoggiando la fronte alla mia.
- Piantala. – borbotta divertito, gli occhi chiusi, le ciglia che tremano appena. Mi struscio contro di lui perché so che non è questo che mi sta chiedendo di smettere di fare.
- Ma non sto dicendo niente. – protesto, ritardando la sua risposta di qualche secondo coinvolgendolo in un altro bacio.
- Non ad alta voce, forse. – risponde lui, la voce sottilissima e persa. Non apre gli occhi, e mi tiene stretto a sé con possessività mentre faccio di tutto per spogliarci entrambi senza causare disastri, e penso che sia bellissimo che lui possa dirmi che non ho parlato ad alta voce ma qualcosa l’ho detta comunque, anche se era una cosa stupida. C’è qualcosa, nel modo in cui Fler mi capisce, che non ho mai provato con nessun altro. L’idea delle anime gemelle mi è sempre stata un po’ sullo stomaco, se devo dire la verità, ma se ci credessi, sono sicuro che crederei anche che Fler sia la mia. Perché è così evidente, così lampante, che anche uno stupido come me non può non accorgersene.
Il letto cigola rumorosamente sotto di noi – cigola quando mi avvicino, quando lui schiude, piega e solleva le gambe per farmi posto, quando entro piano dentro di lui e ritrovo nel suo corpo il posto che credevo di avere perduto per sempre e invece, a sorpresa, è ancora lì – ma io non ci bado, e non ci bada neanche Fler. Pensiamo entrambi solo distrattamente alla porta – lo so perché ci voltiamo a guardarla tutti e due nello stesso momento, prima di scoppiare in una risata senza fiato che ci scuote ma non c’impedisce di continuare a venirci incontro spinta dopo spinta – ma tutto comincia a farsi annebbiato e confuso nel momento in cui lui sussurra il mio nome sul mio collo, e io mordo il suo e mi muovo un po’ più svelto, con un po’ più di forza, e Dio, non mi capacito di quanto mi sia mancato il modo tutto suo in cui Fler mi prende dentro, il modo in cui è capace di farmi mancare il fiato piegando il collo o inarcando la schiena anche se niente di tutto questo dovrebbe turbarmi come invece fa. Eppure succede, e penso che questo in sé racchiuda un po’ tutto, i motivi per cui ci siamo trovati, e persi, e ritrovati, e ripersi, e ritrovati ancora, e i motivi per cui penso che continuerà ad essere così sempre, fra noi, perché non dovrebbe accadere, eppure succede. Eppure succede.
Lo stringo con forza fra le dita, accarezzandolo al ritmo delle mie spinte, e vengo molto prima di lui perché lui – lo so che lo fa apposta, lo vedo dal modo in cui sorride – rotea i fianchi e stringe i muscoli attorno a me apposta per tirarmi questo bello scherzetto, solo che non me ne frega niente di essere venuto per primo, in realtà non me ne frega proprio un accidenti di niente, continuo a muovermi dentro di lui, più piano, con calma, finché ancora sono duro e posso arrivare a sfiorarlo in quel punto che gli fa inarcare la schiena ed arricciare le dita dei piedi, ed è allora che lui getta indietro il capo, schiude le labbra, respira affannosamente e si abbandona completamente fra le mie braccia, soddisfatto, mentre viene fra le mie dita.
Per un po’, restiamo in silenzio, ad ascoltare il suono dei nostri respiri mentre, da concitati e spezzati, si fanno sempre più calmi. Resto completamente spalmato addosso a lui, e lui mi tiene sopra di sé senza spostarsi di un millimetro, come se non sentisse il minimo fastidio per il mio peso. O ci siamo incastrati benissimo, o semplicemente non gli va di allontanarsi. Mi stanno bene entrambe le opzioni.
- Sai? – dico dopo un po’, sollevando gli occhi. Lui abbassa lo sguardo a incontrare il mio e piega un po’ il capo in un gesto curioso. – Doreen mi ha invitato a cena. – rivelo con candore.
Lui inarca un sopracciglio.
- Qui? – chiede.
- No, a casa dei genitori di Sido. – mi acciglio io, - Per farmeli conoscere, sai com’è, visto che ormai sono di famiglia.
Lui ride, tirandomi uno scappellotto contro la nuca e muovendosi appena sotto di me. Vorrei dirgli di non farlo, che è una cosa molto pericolosa soprattutto adesso che sono ancora troppo sensibile e lui è ancora troppo nudo, ma ho appena il tempo di schiudere le labbra che sentiamo provenire un paio di tonfi dal pavimento. Bum bum, e basta.
Nella mia testa si affollano le ipotesi più disparate, compresa la possibilità che questa camera sia posseduta o che lo sia l’intera casa di Sido, o chissà, Sido stesso!, questo spiegherebbe perché sua figlia è in realtà Rosemary’s baby, ma poi Fler ride, si stringe nelle spalle e si stiracchia come un ragazzino.
- Mi sa che è pronta la cena. – ipotizza con tono divertito.
A me sa che ho proprio bisogno di qualcuno che mi spieghi come sono le cose quando nella mia testa si sono già trasformate in un delirio senza un perché, invece.
- Vieni a stare da me. – gli dico in un fiato, guardandolo dritto negli occhi. Lui mi ricambia l’occhiata con stupore sincero, e poi mi sorride.
- Parliamone dopo. – propone, - A pancia piena. E da vestiti. Okay?
Annuisco, perché come ho già detto mi serve che qualcuno mi guidi. E penso di averlo trovato.

Bookmark and Share

L'increscioso caso dei pantaloni di pelle (a mezzanotte)

di tabata e lisachan
Il telefono squilla, ed io ho tutto il tempo per rimpiangere i bei tempi andati in cui tutta la gente che frequentavo abitualmente si odiava o non poteva vedersi per motivi vari ed eventuali, prima di rotolare sulla pancia – e su J.J. steso accanto a me, naturalmente – ed artigliare il cellulare abbandonato sul comodino accanto alla sveglia. Sveglia che, peraltro, indica le ore sette del mattino. Nessun cantante ha mai da fare alle sette del mattino. I cantanti dormono ancora profondamente, alle sette del mattino, e così fanno i loro manager, naturalmente. Prego che non sia Bill, prego che sia mia madre che mi chiama per annunciarmi qualcosa di incredibilmente grave, prego sia Tom che mi cerca nel panico perché dal suo losco passato di sedicenne imbizzarrito è venuta fuori una groupie con un figlio di tre anni in cerca di un assegno di mantenimento, prego che sia qualcosa, insomma, che dia un senso a questo mio svegliarmi all’alba mentre sotto di me un uomo con addominali perfettamente scolpiti anche nella placidità del sonno inspira ed espira profondamente, sistemandosi appena per permettermi di restargli appoggiato addosso mentre prendo il cellulare fra le mani e ne scruto il display illuminato con aria perplessa.
Prego intensamente per tutto ciò, e invece, ovviamente, è solo Bill.
Mi abbatto già esausto su quella paradisiaca superficie che è la meravigliosa pancia di J.J., e lui comincia immediatamente ad accarezzarmi la nuca. Non capisco se dorma ancora o meno, ma comunque non m’importa, quest’uomo è palesemente il modo in cui il karma cerca di riequilibrarsi ridandomi gioia dopo avermi riempito di dolore fino ad ora, e quindi egli, se vuole, può continuare a dormire mentre mi accarezza come fossi un gatto. Dio lo benedica.
- Pronto? – biascico con aria palesemente poco compiaciuta, sperando che Bill capisca l’antifona e strilli “ho sbagliato momento, penso fuggirò in Papuasia per i prossimi tre mesi!”. Naturalmente, però, è di Bill che stiamo parlando, perciò lui strilla comunque, ma naturalmente per dirmi tutt’altro.
- Dada! – cinguetta felice, - Come ti senti oggi?
- Assonnato, Bill. – rispondo, - Come ogni giorno a quest’ora. Si può sapere cosa ci fai già in piedi? Il tuo tappeto rosso non si srotolerà prima di un altro paio d’ore almeno, all’incirca.
- Anis non ne voleva proprio sapere di lasciarmi in pace, stamattina. – borbotta lui, falsamente corrucciato, mentre io realizzo che ha usato l’espressione stamattina e che ciò implica una mattina più mattiniera di questa, che a me pare già mattiniera a sufficienza. Bushido, io e te dovremo parlare a lungo, quando mi sarò rimesso completamente in forze. – Ha cominciato subito a tocchicciarmi appena gli ho portato la colazione, e allora—
- Non voglio sapere i particolari, Bill. – sospiro stancamente, - Sono cose che ho avuto modo di apprendere con dovizia di particolari negli anni, il ripasso conservalo per quando avrai dei figli gay a cui somministrarlo.
Lui borbotta confusamente qualcosa che assomiglia molto ad una protesta perché non lo lascio esprimere nel modo che lui trova più consono, ma fa presto a riacquistare il buonumore quando insisto a chiedergli cosa voglia da me in questo preciso istante. Lo sento trillare come un campanellino scosso dal vento e battere entusiasticamente le mani come il mentecatto treenne che diventa quando crede di avere avuto un’idea meravigliosa, ed alzo gli occhi al cielo perché so già che invece non sarà proprio niente di eccezionale.
- Senti, senti, - mi dice infatti, con aria vagamente cospiratoria, - ho avuto un’idea meravigliosa.
- Sento, sento. – gli faccio eco io, abbattendomi sul fianco di J.J. Al momento, le sue dita fra i miei capelli sono l’unica cosa che mi tenga lontano dalla pazzia.
- Ho pensato, sono passati già un paio di giorni da quando sei stato dimesso, no? – chiede con gioia. Io inarco un sopracciglio.
- No, Bill. – rispondo, - Sono stato dimesso ieri. Meno di dodici ore fa, in realtà.
- Dettagli. – mi liquida lui, del tutto disinteressato alla precisazione che io invece ritengo essere di una certa importanza, - È passato comunque abbastanza tempo da non dover temere che, per esempio, mangiando un piatto di sciorba tu possa aprirti e spargere budella nel mio salotto, no?
- Bill. – mugolo con dolore reale, passandomi una mano sugli occhi, - Un piatto di sciorba mi ucciderebbe anche se fossi perfettamente in salute. E poi c’è la carne, io non la mangio la carne, ma che te lo ripeto a fare? Mi conosci da un millennio e se non ti è ancora entrato in testo dubito che lo farà mai.
- Sì, infatti sarebbe senza carne, mi pare ovvio. – ribatte lui, quasi oltraggiato dalla mia palese mancanza di fiducia nei suoi confronti. – Senza carne va bene?
- La carne è il minore dei problemi della sciorba, Bill. – gli faccio presente, - In quella roba, fra fagioli, ceci, triplo concentrato di pomodoro e peperoncino, c’è tanto di quel potenziale omicida che non riesco a credere che cucinare e servire una pietanza simile, pur nel privato, possa essere una pratica legale in un paese civile quale la Germania è.
Lui resta in silenzio per qualche secondo, ponderando la questione, e poi sbuffa.
- Non importa, ne mangerai di meno. – conclude quindi.
- Bill! – lo rimprovero io, sconvolto, e lui sbuffa ancora.
- Non voglio andare da Karima per dirle di cambiare menu! Ha già preparato tutto! Non c’è abbastanza tempo per chiederle di cucinare altra roba! – butta lì, come se queste fossero cose che nella mia testa dovessero avere un senso. Non ce l’hanno, però, è evidente. Non c’è abbastanza tempo perché? Che appuntamento è stato preso al posto mio mentre io mi rilassavo fra le possenti braccia di J.J.? Ho quasi paura a chiederlo. Ma devo.
- Bill. – dico piano, inspirando ed espirando profondamente, - Di cosa diamine stai parlando?
Bill si interrompe ancora, riflessivo.
- Ho invitato tutti! – dice quindi, ostinandosi a non dirmi quale sia invece il fulcro della questione, limitandosi a lasciarlo scivolare fra le parole.
- Bill. – lo chiamo con disappunto. Lui mi ignora.
- Ho pensato fosse una cosa carina! – insiste.
- Bill! – insisto anch’io.
- Non arrabbiarti! – piagnucola lui, - Ho organizzato una cenetta qui a casa di Anis, in tuo onore, s’intende, e ormai è tutto organizzato, vi aspettiamo tutti per le sette e mezza, quindi più o meno fra altre dodici ore esatte, quando sarai stato dimesso da ventiquattro ore piene, e volevo avvertirti! Mi sembra che la scelta di tempo sia stata sufficientemente buona, tu che dici? – chiede quindi. Faccio per protestare che no, ma mi rendo conto che non sta parlando con me, perché Bushido gli risponde con una risata incredibilmente divertita, e allora io capisco.
- Bill. – lo chiamo per l’ennesima volta, atono, - Passami tuo marito.
- Ma Dadaaa. – sbuffa lui, mugolando risentito. Io non dico una parola e spero che lo sguardo disapprovante che sto lanciando alla parete bianca di fronte a me travalichi i limiti spaziotemporali che lo separano da Bill e gli appaia come in sogno. Forse questo non succede davvero, ma un paio di secondi dopo sento una risata familiare alla cornetta e so che sono stato telefonicamente introdotto di fronte al signore e padrone di tutti i popoli e specialmente di questo sparuto gruppo di persone che siamo e che non hanno ancora deciso di prendere tutti il primo aereo per i quattro angoli più distanti del globo al solo scopo di liberarci dal suo giogo oppressore.
- Bushido. – dico severamente, - È stata una tua idea?
- La cena no. – risponde lui, con tutta la sincerità di questo mondo, - Chiamarti alle sette del mattino sì.
- Ma sei un cretino o cosa?! – strillo io, agitandomi e piantando un gomito nella parete addominale di J.J., che sarà perfetto ma in fin dei conti è fatto di carne e sangue anche lui, e nel momento in cui il mio gomito si piazza fra le sue povere viscere strabuzza gli occhi, sputa un considerevole sbuffo di fiato e si piega in due, obbligandomi a rotolare fino ai piedi del materasso mentre ancora mi dimeno come un esagitato. – Ma ce l’hai un minimo di rispetto per l’altrui persona?! E, cosa ancora più importante, ma non hai proprio un cazzo da fare nella vita, tu?! Hai un ragazzo, adesso, vivaddio ti è stato restituito pressoché intatto perché palesemente anche il karma ti è asservito senza un motivo ben preciso, e tu cosa fai? Perdi il tuo tempo chiamando me, o facendomi chiamare dal suddetto ragazzo, invece di approfittare del suo giovane corpo fremente di desiderio al tuo fianco! Sei una vergogna per la tua razza, ritirerò il tuo patentino di omosessualità immediatamente, appena verrò a casa tua.
Bushido, naturalmente, ride per tutto il tempo, dalla prima all’ultima parola. J.J. striscia sul materasso rantolando e poi si alza in piedi, annunciandomi che si farà una doccia e poi andrà a lavorare, lui che un lavoro serio ce l’ha. Io mugolo “nooo, non te ne andare”, e J.J. ride, e Bushido ride pure lui, e riesco perfino a sentire la risata di Bill, un po’ più distante, perché lui è come i neonati, che quando ti vedono ridere ridono pure loro per imitazione. Siccome immagino cosa dev’essere vedere Bushido ridere mentre il suo viso è incorniciato dai suoi lunghi e morbidi capelli corvini e tutto il mondo ritrova la pace sul suono della sua voce, non fatico a credere che Bill stia ridendo come un mentecatto perfino in questo momento, ma il risultato finale è solo che tutti ridono, e ridono di me, e io li odio. Mi rannicchio ai piedi del letto e sbuffo platealmente, sono molto arrabbiato e Dio, mi sento così bene che alla fine scoppio a ridere a mia volta, nella soddisfazione di tutti, mentre dal bagno cominciano a venire i suoni tintinnanti dell’acqua lungo le pareti della doccia e Bushido schiocca un discreto bacio di trionfo sulla guancia di Bill. Sospiro profondamente. Sono felice davvero.
- Jost. – mi chiama Bushido, la sua voce è allegra ma è venata da quel pizzico di serietà che utilizza sempre quando sta per dirti qualcosa di veramente importante, perciò mi metto sull’attenti e drizzo le orecchie, per ascoltarlo al meglio. – È una cosa di cui abbiamo tutti molto bisogno. – mi dice con franchezza. Io penso a loro due, penso a quegli altri due e alla loro inaspettata quanto inopportuna entrata a pieno titolo nel mondo delle coppie omosessuali dello showbiz tedesco ed annuisco.
- D’accordo. – confermo a voce, visto che nessuno qui può vedermi, - A stasera.

Tutti noi qui abbiamo bisogno di una cena in famiglia, e ciò è molto vero. È vero soprattutto perché fino a un mese fa, non volendo considerare il ritorno di fiamma fra i gemelli, l’unica coppia che avesse ancora senso definire tale era quella composta da Tom e Cassandra, mentre tutti noialtri andavamo in giro ramenghi, privi di un amore e di uno scopo per cui valesse la pena vivere.
Ebbene tutto questo è cambiato nel giro di tre giorni quando, dopo un mese di convivenza a casa di Bushido – a mio parere inutile e paragonabile solo ad un lungo e melenso preliminare platonico – la coppia reale s’è ritrovata rifulgendo splendore e spargendo nell’aria tedesca un miliardo di minuscole particelle subatomiche cariche di energia omosessuale positiva. Tale energia ha permesso a me e J.J. di continuare a vederci anche se lui non doveva più passarmi creme cicatrizzanti sulla pancia, e non solo, ha portato alla luce anche delle tragiche vibrazioni nella forza, e queste vibrazioni nella forza hanno prodotto una relazione fra Fler e Chakuza. Per molto tempo, tutti noi abbiamo aspettato che anche Eko Fresh ci presentasse il proprio ragazzo, cosa che almeno ci avrebbe rassicurato sulla follia generale, ma ciò non è mai accaduto, per cui ci siamo dovuti arrendere al fatto che fra Fler e Chakuza non c’era proprio niente di folle, e che quindi questa gente ci doveva quantomeno delle spiegazioni.
Insomma, viene fuori che in realtà ad accostare le parole Fler, Chakuza e gay si ottengono un mucchio di ricerche correlate stile Google, di alcuni risultati delle quali Bill era perfino a conoscenza!, che portano alla luce numerosi dettagli come il fatto che in realtà Fler e Chakuza avevano già una storia un millennio di anni fa, poi s’erano lasciati, poi s’erano ripresi, e via così lasciandosi e riprendendosi a fasi alterne a seconda che Bushido fosse vivo o morto, che Bill fosse o meno disponibile e che gli astri fossero o meno allineati. Nella storia, a un certo punto, s’è inserito un ragazzino minorenne biondo di cui so poco e intendo continuare a sapere poco. Le uniche informazioni in mio possesso sono il suo nome – Daniel – la sua età e il dettaglio per cui mentre Bushido era in tour a farsi uccellare da Bill e Chakuza, lui invece era a Berlino e si occupava di Fler, rimasto solo a leccarsi le ferite, facendosi in un certo senso uccellare anche lui, ma in modo diverso.
Ora, vi lascio immaginare quale possa essere stata la reazione di Bushido a tutto questo: io e lui eravamo in pratica gli unici in qualche modo coinvolti a non sapere un beneamato piffero di tutti questi intrecci sentimentali, ma mentre per me si trattava in fondo solo di una serie di informazioni di cui prendere atto, per lui è stata una tragedia; era un uomo felice, stava vivendo una nuova primavera, e in un colpo solo scopre non solo che Chakuza gli ha manomesso entrambi i fidanzati, ma che uno dei due, mentre lui era lontano, l’ha tradito con un imberbe del ghetto. Onta e disonore. È rimasto immusonito per settimane.
In pratica, nel giro di un periodo di tempo troppo breve e palesemente insufficiente a metabolizzare il tutto come sarebbe stato giusto, ci siamo ritrovati a passare dall’essere un gruppo di persone eterogeneo con variabili di omosessualità sparsa, a diventare una cooperativa gay a tutti gli effetti, di quelle che hanno tesserini, liste elettorali e tasse d’iscrizione. Non so se rendo l’idea. Non è che ci serva una cena, ce ne servono trecento per entrare nell’ordine di idee, ed altre trecento almeno per abituarci al tutto.
Perciò, è non dico con piacere, ma con coraggioso spirito di sacrificio che mi presento a casa di Bushido all’orario convenuto, portando J.J. con me. Tra l’altro, lui è stato meraviglioso: avrebbe tranquillamente potuto dirmi che lui con questa mandria di scoppiati non ha niente a che fare, che non è nemmeno il mio medico, cosa peraltro vera, e che solo una combinazione di eventi e l’anzianità del dottor Neuer l’hanno portato a doversi prendere cura di me e poi a diventare il mio ragazzo, e che per tale motivo potevo venire qui da solo e ci saremmo visti al limite in nottata o al massimo l’indomani mattina, e invece s’è dimostrato molto disponibile, e brillando di luce propria s’è offerto di staccare prima da lavoro per passare da casa mia e venire qui insieme, invece di presentarci separatamente. Dopo questo, gli ho chiesto di sposarmi, ma lui ha riso e mi ha scompigliato i capelli come se fossi un tredicenne. Qui nessuno capisce che il mio desiderio di metter su famiglia con un Adone buono come un santo è tremendamente reale e forte.
Comunque, a cena ci sono tutti. Ci sono Tom e Cassandra, Fler e Chakuza, Eko e Kay One – non nel senso di coppia, fortunatamente, solo nel senso degli unici due uomini spaiati presenti a tavola, anche se in realtà Kay One la ragazza ce l’ha e tutti sappiamo che esiste perché è Mandy delle Monrose, ma non ce l’ha mai presentata e suppongo sia perché lei davvero con questa follia non vuole avere niente a che fare – io e J.J. e naturalmente i padroni di casa. Del minorenne del ghetto non c’è traccia, probabilmente perché Fler l’ha lasciato e lui non deve averla presa molto bene, come qualunque minorenne del ghetto o meno, e anche Karima non c’è, ha la serata libera, e questo dà a Bill l’occasione di fingersi una massaia e portare a tavola pietanze come fossero frutto del suo duro lavoro, cosa che tutti quanti sappiamo non essere vera, anche se nessuno, vedendolo così felice e soddisfatto di sé, ha cuore di farglielo notare.
La conversazione inizialmente è stagnante. Non ci ritroviamo così tutti assieme da… forse non è mai successo di ritrovarsi così tutti assieme, per dire la verità, per cui i primi minuti siamo tutti molto freddi e ingessati. Facciamo i complimenti (immeritati) a Bill per la sciorba, che nonostante non abbia neanche un pezzettino di carne in sé è pesante come un macigno, parliamo del lavoro, di quanto sia dura ultimamente per le case discografiche investire alla cieca visto il clima di recessione generale, parliamo perfino del tempo e del fatto che quest’anno abbia cominciato a fare freddo prima del solito, e poi, quando siamo qui sull’orlo della tragedia che pensiamo già con disperazione di parlare della morte del polpo Paul giusto per darci qualcos’altro da dire, Eko comincia a delirare qualcosa di sostanzialmente incomprensibile su quanto sia buffo stare a tavola tutti insieme e quanto tutto questo lo faccia sentire in una puntata di Verbotene Liebe “ma più gay, cioè, ancora più gay”, e questo fa la magia.
Non è che succeda qualcosa di particolare, semplicemente ci mettiamo tutti a ridere e sentiamo che queste risate non sono false, non suonano strane, anzi, c’è una certa chimica che le avvolge, le fa risuonare nel modo giusto in questa stanza ed alle nostre orecchie, e quando smettiamo di ridere ci guardiamo e c’è una nuova consapevolezza che ci pervade tutti. È una vocina sottile e ancora un po’ timorosa che ci spiega che adesso è troppo presto per fare passi da giganti, per dire “è già tutto a posto”, ma al contempo ci rassicura sul fatto che ci stiamo muovendo nella direzione giusta, e non sarà stasera, e probabilmente neanche durante la prossima cena che faremo, ma se continueremo di questo passo prima o poi ritornerà tutto a posto davvero, e questi fili monchi che pendono potremo riallacciarli correttamente, e i nodi saranno stretti abbastanza da non sciogliersi più.
È con questa voce carezzevole che ancora mi riecheggia nelle orecchie che, un paio d’ore più tardi, mi appresto a salutare tutti ed andare via. Una decina di minuti fa, Bill ha fatto una marea di scene, s’è stiracchiato, ha sbadigliato ampiamente almeno trenta volte e poi, con voce fintamente impastata dal sonno, ha annunciato di essere molto stanco e di volere andare a dormire. Un modo molto tenero per dirci che la rimpatriata gli era piaciuta ma ora voleva restare solo con Bushido, per cui se avessimo potuto levarci di torno senza fare grandi storie lui l’avrebbe apprezzato moltissimo.
Unanime, un coro di “sì, effettivamente s’è fatto un po’ tardi” s’è sollevato da tutti gli astanti, e questo nonostante fossero appena le dieci e mezza. Il potere della persuasione, dei cui mistici segreti Bill è sempre stato gran custode e conoscitore. Quindi Bill s’è alzato da tavola, ha salutato tutti come quei bambini che vanno a letto presto e lasciano i grandi a discutere delle loro faccende e s’è defilato al piano di sopra. Noi ci siamo lanciati tutti una serie di occhiate vagamente confuse e vagamente divertite, e poi abbiamo cominciato a defluire verso l’uscita.
Io e J.J. ci allontaniamo per primi, anche perché la sciorba comincia a fare effetto e io sento di essere pronto alla morte. Lo faccio presente a J.J. che si offre di restare con me stanotte, cosa che io apprezzo enormemente. Di ciò che segue la mia dipartita verso casa non posso parlare, perché non c’ero, ma alla luce di ciò che se ne racconterà favoleggiando nei giorni successivi, penso che passerò il resto della mia vita a rimpiangerlo. E se si tiene presente che questa cena e questa serata sono stati i punti fermi su cui abbiamo poggiato il primo mattone per la ricostruzione di ciò che eravamo… be’, è abbastanza evidente che il futuro non poteva che presentarsi come parecchio complicato già in partenza.

*


Due giorni fa, al KaDeWe, ho visto un paio di pantaloni meravigliosi, di pelle, attillati in maniera indecente, praticamente due guanti. Non è che fossi uscito di casa con l'idea di fare spese – anche perché non sono proprio in condizione di spendere più di quanto guadagno, che poi è niente visto che non abbiamo ancora un'etichetta – ma loro erano lì in vetrina che mi imploravano di comprarli e io non ho avuto cuore di passare oltre e lasciarli al loro destino. Sono costati un occhio della testa ma, visto che li ho comprati soprattutto per usarli con Anis, li considero una specie di piccolo investimento. Serviranno per riaccendere il fuoco della passione; anche se in realtà non è che si sia mai spento, anzi, tra tutte le cose possibili, forse si è addirittura propagato, dal momento che Anis non mi lascia in pace un minuto e ho sempre le sue mani addosso, molto più di quanto le avessi prima. Il fatto è che Anis si annoia in fretta, quindi se voglio che questa situazione si perpetui nei mesi a venire, devo lavorare di fantasia.
Adesso io mi infilerò questi pantaloni di pelle e magari quella maglietta che Anis finge non sia da donna solo perché lo fa impazzire il modo in cui mi esce una spalla dallo scollo a barca, e poi scenderò al piano di sotto dove lui potrà possedermi selvaggiamente sulla prima superficie disponibile, dopo avermi strappato i vestiti di dosso a morsi. Metaforicamente parlando, s'intende.
Quest'idea di vestirmi in un certo modo solo per farmi spogliare il più velocemente possibile e battere così ogni nostro precedente record di preliminari, la covo già da un po', da molto prima di comprare i pantaloni in realtà. E' che durante il giorno Karima è sempre in casa e quando arriviamo alla sera e lei finalmente si ritira nella sua cuccia in cantina – o dovunque dorma, non lo so, in una catapecchia in giardino forse – alla fine mi passa di mente e con Anis finiamo a fare sesso a letto, che è sempre una cosa meravigliosa, ma non quella che volevo fare io.
Questa è la serata perfetta per portare a termine il mio piano geniale perché è il giorno libero di Karima, il che significa che una volta salutati i nostri amici e chiusa a doppia mandata la porta d'entrata, questa casa gigantesca sarà solo mia e di Anis, con tutti i benefici del caso. Se penso che stamattina quella strega malefica voleva mandare tutto all'aria rinunciando alla sua partita settimanale di canasta con le amiche e restare qui a cucinare e servire per un reggimento quell'unica volta che nessuno le aveva chiesto di farlo, mi sale di nuovo la rabbia.
Mi sono svegliato presto, forse qualche minuto dopo le sette, e non potete capire il disappunto di scendere le scale, attraversare il corridoio, infilarsi in cucina con l'idea di mettere insieme una colazione decente per poi organizzare l'intera giornata e trovarci lei, con la sua divisa color grigio topo che rimesta dentro un paiolo gigante. Soprattutto quando mi ero addormentato la sera prima con la convinzione che non l'avrei più rivista per almeno ventiquattro ore.
Nessuno dovrebbe mai svegliarsi in questo modo, la sola presenza di quella donna disturbava l'intera estetica della villa illuminata dal sole, di Anis che ancora dormiva nudo tra le lenzuola di seta del nostro letto imperiale, ma soprattutto la mia, visto che io odio fare colazione circondato dall'olezzo di mille cipolle. Interrogata, per altro, lei ha avuto il coraggio di dirmi che qualcuno doveva pur preparare la sciorba per la cena di stasera visto che né io né tantomeno il signor Ferchichi sappiamo farlo. Ora, questo è tragicamente vero, ma ciò non significa che lei non potesse preparare questa cosa raccapricciante ieri e lasciarla in una pentola dentro al frigorifero perché noi potessimo usarla come ci pareva, e perfino buttarla se poi a guardarla ci avesse fatto ribrezzo e avessimo voluto farci una pizza.
E invece no. Lei ha risposto che la sciorba non si può preparare il giorno prima, che non può mica stare in frigo che sennò si sciupa e un sacco di altre cose che però non ho ascoltato perché mentre lei le diceva io ho prendevo la colazione mia e di Anis e tornavo in camera, dove mi sono ampiamente lamentato dell'intera faccenda.
Anis, però, queste cose non le prende mai sul serio perché trova Karima adorabile, il che non mi sorprende poi molto perché quella fa la strega soltanto con me e quando poi io lo chiamo per dimostrarglielo, lei diventa uno zucchero e fa tutto quello che le dico senza protestare. Così alla fine Anis non crede mai a quello che gli riferisco e dice che sono esagerato e che non è vero niente.
Lo ha detto anche stamattina mentre si mangiava da solo tutte le brioche che avevo portato senza lasciarmene neanche una. Ovviamente mi sono lamentato anche di quello e gli ho fatto notare che in questa casa non mi si tratta da principessa nemmeno un pochino, ma da lì in poi non ricordo bene come sia andata; so solo che Anis si è messo a ridere e mi ha spogliato di nuovo, così abbiamo finito per fare l'amore e io mi sono dimenticato tutto quello che volevo da lui, almeno fino a quando non abbiamo finito e lui ha ceduto dicendo che le avrebbe parlato.
Alla fine si sono messi d'accordo perché Karima si prendesse solo mezza giornata libera e facesse l'altra mezza domani mattina, il che mi torna ancora più comodo perché adesso lei non c'è e non ci sarà nemmeno quando domani ci sveglieremo, così se vogliamo possiamo pure addormentarci sul tappeto del salotto e lei non potrà svegliarci tirando le tende e dicendo che è tardi e dobbiamo alzarci o, ancora peggio, con la solita storia che siamo due uomini e non sta bene e il cielo ci fulminerà riducendoci in cenere.
Comunque infilarsi questi pantaloni non è facilissimo. Nel camerino del negozio ho fatto delle scene molto ridicole, saltellando per riuscire a tirarli su senza dover necessariamente chiamare qualcuno a darmi una mano e anche adesso non è che mi riesca meglio, nemmeno se mi distendo sul letto e allungo le gambe. Spero che ad Anis non venga l'idea di salire a cercarmi perché potrei dire addio all'atmosfera, e poi comunque sono ancora mezzo nudo, cosa che rovinerebbe un po' tutta l'idea dello scendere e farlo come animali su uno a caso tra i mobili del soggiorno, magari anche senza spogliarsi – anzi, di sicuro senza spogliarsi visto che una volta che sarò riuscito ad infilarmi questi pantaloni né io né Anis saremo mai in grado di togliermeli del tutto in un tempo ragionevole a mantenere una certa libido.
Ci metto quasi dieci minuti, ma alla fine i pantaloni cedono un po', e le mie gambe ci finiscono dentro alla perfezione, la pelle non fa nemmeno una piega. Quando mi guardo allo specchio, penso che mi salterei addosso da solo se non mi piacessero gli uomini più virili di me; il che mi ricorda che Bushido è al piano di sotto e mi viene da ridere all'impazienza che mi fa saltellare e mi arriccia le dita dei piedi.
Non mi sentivo così bene da non so nemmeno quando. Non ho solo voglia di stare con lui, ho proprio voglia di giocare e mi sembra giusto ricominciare a farlo stasera, dopo questa cena che ha fatto tornare le cose più o meno com'erano prima.
Altri cinque minuti per sistemare lo scollo della maglia in maniera strategica e sono pronto. Tendo l'orecchio al piano di sotto ma non sento più il chiacchiericcio degli ospiti che hanno evidentemente colto il mio velato invito a levarsi di torno e se ne sono tornati a casa loro mentre io mi cambiavo; così scendo le scale con un mezzo sorriso stampato sulle labbra e non aspetto di arrivare in fondo alla rampa, mi basta scorgere il profilo di Anis vicino alla porta per annunciargli la mia presenza. “Amore, dammi un parere, come mi stanno questi pantaloni?” La butto lì così, come se fosse una questione di poco conto e naturalmente mi aspetto una reazione entusiasta che possa dare il via ad un dialogo più o meno azzardato da concludersi nella maniera più classica, il che a ben guardare sembra l'inizio di uno di quei terribili porno di serie zeta che ogni tanto guardano tutti insieme nemmeno fossero tredicenni con una casa libera a disposizione e quindi la possibilità di masturbarsi mentre mamma non c'è.
Comunque quello che sembra non importa affatto, perché qualunque cosa fosse viene eclissato da ciò che poi effettivamente succede, ossia che la risposta entusiasta mi arriva da due voci diverse e per un attimo il tempo si ferma, la Terra smette di girare e rimane sospesa nel buio gelido dell'universo, in attesa che la forza di inerzia si esaurisca e la lasci andare alla deriva chissà dove.
Bushido mi guarda e risponde “Sei bellissimo” ma sono le note più basse della voce di Chakuza che dice la stessa identica cosa nello stesso identico istante a far calare il gelo nella stanza.
All'improvviso mi sento a disagio e penso che questa sia stata una pessima idea, o almeno lo è stata non guardare se c'era effettivamente qualcuno nella stanza insieme ad Anis.
Il silenzio pesantissimo che ci avvolge ha appena distrutto qualunque tipo di serenità avessimo raggiunto nelle ultime due ore.
Mi sento a disagio e vorrei correre di sopra a cambiarmi, o farmi inghiottire qui dove sono dalla rampa di scale, ma Peter è mortificato e Anis lo guarda così male che ho paura stia per saltargli alla gola. Così resto e provo a sistemare le cose, anche se non ho mai prevenuto un omicidio violento prima d'ora e sono quasi sicuro che mormorare “Ragazzi...” con voce incerta non sia la maniera giusta di farlo.
Nessuno si volta nella mia direzione, come se io e i miei pantaloni di pelle fossimo scomparsi subito dopo il disastro che abbiamo generato.
E' Fler che fa ripartire il tempo e la porta che sbatte, uscendo furioso da questa casa, fa girare di nuovo la Terra, che forse non andrà più alla deriva ma di certo ha un grosso problema.

*


Io stamattina non mi ero affatto svegliato con l'intenzione di essere la farfalla che sbattendo le ali in Europa provoca uragani in Cina. Innanzitutto perché mai nella mia vita ho desiderato essere una farfalla, e poi perché mi ero appena ripreso dalla fatica di riparare i danni del mio ultimo uragano e tutto volevo tranne che scatenarne altri, che fossero dall'altra parte del mondo oppure nel salotto di casa dell'uomo che meno li avrebbe apprezzati.
Quella di oggi, in realtà, si era rivelata una giornata molto piacevole e niente aveva lasciato presagire che sarebbe finita in tragedia. Fler ha dormito da me ieri sera, come la sera prima e tutte quelle precedenti – in realtà ha quasi tutta la sua roba da me quindi forse già viviamo insieme da settimane, solo che non ne abbiamo mai seriamente parlato, quindi è come se fosse ancora un ospite – così stamattina abbiamo fatto colazione insieme e poi siamo passati alla EGJ a provare qualcosa, giusto per vedere se ci riusciva ancora.
Gli uffici non sono ancora del tutto attivi ma il grande capo vuole riaprili a breve e, da quanto ho capito di quello che Fler non mi dice con le sue risposte vaghe e imbarazzate, credo che Bushido abbia in mente di far entrare anche lui a far parte della nostra grande famiglia, il che immagino porterà ad una guerra fratricida con l'Aggro Berlin durante la quale Sido e il tunisino si sfideranno a colpi di pistola per decidere chi dei due debba tenere Fler e chi invece dovrà pagare gli alimenti e potrà vederlo soltanto un fine settimana ogni quindici giorni.
Ad ogni modo, stamattina in studio non ci abbiamo trovato nessuno, perché questa crew è in realtà composta da lavativi che per più di un anno e mezzo non hanno fatto assolutamente niente e continueranno a farlo finché l'intera produzione non ricomincerà a pieno regime, ossia quando il grande capo non andrà a prenderli a casa uno per uno e li trascinerà in ufficio dove, in realtà, nessuno farà nulla lo stesso, ma l'importante è che il gruppo sia di nuovo compatto. Io e Fler ci siamo appropriati di una cabina di registrazione e mentre io gli mandavo le basi e missavo, lui ha fatto un po' di freestyle così come veniva, e non è andata affatto male.
E' strano lavorare sulla voce di Fler, perché sono abituato a sentirla e ne conosco ogni singola sfumatura ma non mi era mai capitato di metterci sopra le mani, prima d'ora. Ha una bella voce, molto simile a quella di Bushido ma più alta, e un rappato molto più pulito e lineare del suo. Me ne accorgo soltanto ora che posso lavorarci sopra perché lo avevo ascoltato solo nelle canzoni che ha fatto con l'Aggro Berlin, che sono un vero e proprio scempio; non sono stati in grado di valorizzarlo per niente, sporcando le tracce invece di semplificare le basi per dare più spazio al suo modo di cantare.
Quello su cui abbiamo lavorato stamattina è un accenno di canzone che Fler attacca ormai da una settimana quand'è sotto la doccia. All'inizio nemmeno se n'era accorto, io ero lì che mi lavavo i denti e lui cominciava a prendersela col sistema, il governo e la Berlino borghese che lascia i ragazzi liberi di ammazzarsi in strada per un etto di eroina purché lo facciano lontano dalle case per bene.
L'ho ascoltato in silenzio per giorni, cercando la base giusta da mettergli sotto, e poi quando mi è sembrato di avere qualcosa, gliel'ho proposto e lui l'ha trovata una buona idea. Il ritornello è già piuttosto chiaro, quindi dobbiamo solo limare tutto il resto e cambiare un paio di rime perché funzionano solo con lo scroscio diseguale della mia doccia dell'anteguerra a coprirne la metà, un suono che mi rifiuto di inserire, nonostante l'insistenza di Fler, visto che rovinerebbe l'idea ben precisa che ho per questa canzone. Tra le altre cose io credo che ci vorrebbe una doppia voce, ma non una come la mia, qualcosa di molto più alto e caldo; una donna, probabilmente.
Stamattina sono uscito dallo studio molto soddisfatto del risultato, anche se in realtà per il momento abbiamo solo pasticciato; potrebbe essere un'ottima idea per ridare vita a quest'etichetta, ma per metterla davvero in cantiere devo parlarne con Bushido, più che altro perché la base è mia ma la canzone è di Fler e dobbiamo capire dove realizzarla. Naturalmente potrei chiedere a Patrick di produrla con la Beatlefield, ma questo scatenerebbe le ire di Bushido.
Io avrei avanzato volentieri l'ipotesi alla cena di stasera, ma Patrick mi ha chiesto per favore di non litigarci di proposito, quindi se non l'ho fatto è stato solo per lui.
Alla fine, durante questa bella rimpatriata – che è stata una palese idea di Bushido al quale, più di ogni altra cosa, piace stare seduto a capo tavola e guardare con aria soddisfatta un numeroso gruppo di persone fingendo di avere il comando assoluto – non c'è stato modo di tirare fuori l'argomento, anche perché le spirali di follia generatesi qualche settimana fa negli occhi di Bushido alla notizia che io sto con Fler non si sono ancora spente e quindi Patrick ha fatto di tutto per non farmi aprire bocca in quel senso.
Per quanto l'illuminato sovrano mi guardasse male, comunque, aveva ben poco da protestare e difatti è stato zitto. Non credo che lo farà adesso, però, e se devo essere sincero non me la sento nemmeno di dargli torto.
Siamo io, lui, Fler e Bill congelati nell'ultimo istante trascorso da quando Bill ci ha chiesto come stava con quei pantaloni praticamente disegnati addosso e io gli ho risposto che era bellissimo.
Cazzo! E' la prima cosa che penso non appena mi rendo conto di quello che ho detto. Avete presente quando dite qualcosa e nell'attimo stesso in cui la dite già sapete che è una stronzata ma ormai non potete più fare niente per evitarlo? Io questa sensazione non la provo così spesso, perché in genere non mi accorgo che quello che sto dicendo è una stronzata, sono anzi piuttosto sicuro di non stare facendo niente di male. Stavolta, però, ci arrivo anch'io e ci arrivo subito, nel momento stesso in cui quel “Sei bellissimo” mi esce di bocca, solo che esce così naturale e sovrappensiero che quando sarebbe l'ora di rimangiarselo lui è già lì che svolazza nell'aria dove tutti possono vederlo e sentirlo.
A mia discolpa posso dire che ero appunto impegnato ad informare Bushido che io e Fler, stamattina, stavamo lavorando ad un canzone e che se voleva poteva darci un'occhiata. Il mio cervello era talmente concentrato su questo che si è dimenticato di aggiornare la data e con essa il fatto che Bill non poteva stare parlando con me, visto che a quanto pare abbiamo rotto mentre ero in Austria.
Ad ogni modo la reazione di Bushido mi è completamente indifferente, sento il suo sguardo infuocato che mi perfora il cranio ma in sostanza lo ignoro perché in questo momento l'unica cosa che davvero mi preme è arginare la rabbia di Fler, che in piedi alle mie spalle si è acceso come una torcia umana e probabilmente esploderà nel giro di qualche secondo. Non faccio in tempo a girarmi per cercare di arginare il disastro che mi sono lasciato scappare di bocca che di lui non c'è già più traccia e la porta della villa ancora vibra per la forza con cui l'ha sbattuta.
Gli corro dietro e intanto cerco di mettere insieme le parole giuste per scusarmi e spiegargli la situazione, anche se forse dovrei semplicemente scusarmi e basta perché non credo voglia sentirmi giustificare un bel niente. Si è trattato di una risposta automatica e non stavo pensando a Bill fino al momento in cui effettivamente non ho alzato lo sguardo e l'ho visto sulle scale, ma Patrick non sarà affatto disposto a sopportare anche questa dopo l'incidente al ristorante polacco.
Mi aspetto di dover chiamare un taxi perché avrà preso la macchina e se ne sarà andato, e invece lo trovo ancora in giardino che prende a calci la cancellata ricoperta di siepi. Ci mette tanta di quella violenza che ogni tanto il cespuglio di gelsomino sbuffa una nuvola di petali.
Quando si accorge che sono lì, mi guarda così male che perdo ogni speranza.
Se c'è mai stata una volta in cui ho già perso in partenza, con lui, allora è sicuramente questa.

*


Chakuza ha due problemi fondamentali.
Il primo è che è una persona inopportuna, il secondo è che non si rende conto di esserlo; e anche se lo fa il suo ritardo è così oltraggioso che non lo si può giustificare in ogni caso. E' una di quelle persone capaci di farti gli auguri ad un funerale e le condoglianze ad un matrimonio, e in entrambi i casi accorgersene quando ormai è tornato a casa e si è messo il pigiama.
Così adesso si presenta qui davanti a me e la prima cosa che riesce a dirmi è che se continuo di questo passo probabilmente finirà per non rimanere più niente di questa dannata siepe di gelsomino.
Chi se ne frega del gelsomino, cazzo. E allora si rende conto e si scusa, in ritardo naturalmente.
“Non me ne faccio niente delle tue scuse,” gli dico.
Mi chiedo se sia consapevole del motivo per cui dovrebbe essere qui in questo momento, o se ha agito secondo il buon senso di qualcun altro.
“So che sei incazzato...”
“Io non sono incazzato Chakuza, io sono furioso,” preciso.
Lui si schiarisce la gola e guarda per terra, credo forse alla ricerca degli altri sei nani nascosti nell'erba per suggerirgli quello che deve dire. “D'accordo, so che sei furioso e hai tutti i motivi per esserlo, ma posso giurarti che non mi sono reso conto di quello che stavo dicendo.”
“Questa non è una novità, Chaku. Tu non hai mai la minima idea di quello che ti esce di bocca. Se questo fosse il mio problema, fra di noi sarebbe finita molti secoli fa e io, starei sicuramente molto meglio.”
Mi viene in mente che starei con Nicole, o starei con Daniel. Sarei con qualcuno che non si sarebbe mai sognato di volgere lo sguardo adorante verso il suo ex fidanzato e dirgli che è bellissimo quando è inguainato in un paio di pantaloni che sono così attillati che tanto varrebbe fosse nudo.
“Se non è quello che ho detto, allora...”
“Allora cosa?”
“Allora qual è il problema?” mormora incerto.
Io smetto di devastare il giardino di Bushido a calci e mi fermo ad osservarlo, ma nemmeno mi stupisco che sia qui di fronte a me e non abbia la minima idea di quello che ha fatto perché io lo sapevo che era così, quindi sarei stupido anche a sorprendermi. “Non sono le cazzate che dici il problema, perché quelle sono un flusso continuo ventiquattr'ore al giorno per tutti i giorni della settimana e non c'è modo di arginarle perché sono fatte della stessa merda di cui è foderato il tuo cervello! Il problema è tutto quello che c'è dietro.”
“Ma non c'è niente dietro!” Protesta lui che non ha mai capito che nelle discussioni in cui ha palesemente torto – cioè la quasi totalità di quelle in cui finisce – lui non ha nessun diritto di protestare. Mai.
“Certo come no.”
“Pat, dico sul serio.”
Sono felice che il suo catorcio sia di nuovo dal meccanico – d'altronde l'ho ridipinta e le ho messo un nuovo portellone, ma non è che potessi trasformarla in una macchina vera – così siamo venuti con la mia auto e posso decidere che ce ne andiamo ora. Anzi, posso anche decidere di lasciarlo a piedi, così può rimanere qui a fare la corte alla sua stupida principessa. Magari se aspetta un po' riesce a prenderla al volo quando Bushido la butterà fuori dalla finestra.
Lui invece mi segue allungando il passo e alla fine lo lascio salire, perché tanto alla fine devo andare a casa sua, quindi finirei per ritrovarmelo comunque tra i piedi. “Non stavo affatto pensando a Bill,” mi dice, chiudendo la portiera e regolando la cintura del sedile del passeggero perché non gli seghi la gola. Ogni volta che chiudo la macchina, quella li riporta automaticamente all'altezza iniziale, così le poche volte che si fa scarrozzare in giro, deve sempre rimetterci mano per non venirne strangolato.
“No, tu pensavi agli unicorni rosa che attraversano correndo gli arcobaleni del tuo cervello” commento lanciandogli un'occhiata impietosita mentre metto in moto. “Ed è ad uno di essi che hai detto che era bellissimo, casualmente nello stesso istante in cui Bill scendeva le scale.”
“Stavo parlando con Bushido, è stata una risposta automatica.”
“Vuoi peggiorare la situazione?”
“No, sto solo cercando di spiegarti come sono andate le cose,” insiste. “Ero distratto, lui ha detto quella cosa e ho risposto.”
“Quello che lui ha detto è: come mi stanno questi pantaloni, amore,” gli ricordo. “E mi pare chiaro che ti senti ancora compreso nella definizione.”
“Non mi sento affatto compreso nella definizione.”
Rido. “Oh ma ti piacerebbe tanto, vero?”
Chakuza tace perché sappiano entrambi che ho ragione, quindi è meglio se non replica dicendo che ormai Bill è acqua passata perché non è vero. Se quel ragazzino si svegliasse un giorno con la voglia di prenderlo a calci nelle gengive, Chakuza lo lascerebbe fare e gli chiederebbe pure di usare la punta rinforzata. Fa tanto l'uomo furioso, e poi si scioglie non appena la principessa lo guarda un po' più del necessario. E anche Bill avrebbe bisogno di una bella strigliata, ogni tanto, perché è vero che ora non vede che Bushido, ma se si risparmiasse di abbassare lo sguardo con le guance rosse quando Chakuza è in giro, risparmierebbe a tutti un sacco di acidità di stomaco.
Tutto il resto del viaggio lo facciamo in silenzio. O meglio, lui prova a dire qualcos'altro ma tanto sono solo cazzate per cui gli dico di stare zitto e almeno stavolta mi fa la cortesia di starmi a sentire.
Come se questa serata non fosse già stata abbastanza, torniamo a casa per scoprire che il tecnico che abbiamo chiamato nemmeno una settimana fa, in realtà non ha riparato un cazzo perché la caldaia è di nuovo rotta e nell'appartamento ci saranno due gradi e mezzo. In realtà non dovrebbe fare così freddo, perché non è ancora stagione, ma visto che viviamo in un perenne stato di sfiga nera, era anche piuttosto ovvio che la caldaia andasse a rompersi nell'unico anno in cui a settembre fa freddo come se fossimo in pieno inverno. Senza contare che questa casa ha i muri così sottili che basta un soffio di vento e c'è bisogno della sciarpa anche solo per passare un paio d'ore davanti alla TV in salotto.
Proviamo ad aprire al massimo i termosifoni ma non succede niente perché il problema è in cantina, come al solito. “Vado a dare un'occhiata,” dico prendendo la torcia. “Tu intanto cerca delle coperte pesanti, perché non credo che ci sia molto da fare. E guarda nel ripostiglio, dovrebbe esserci ancora quella ridicola stufa elettrica che abbiamo usato a Capodanno.”
Vado nel locale caldaie più per non averlo sotto gli occhi che per risolvere la situazione, anche perché sono quasi sicuro che non ci sia assolutamente niente da fare. Il tecnico ha detto che si trattava di un qualche pezzo – naturalmente costosissimo – da riparare e, dopo aver emesso una fattura che al confronto le estorsioni di Arafat sono plausibili richieste di pagamento per un servizio offerto, se n'è andato fischiettando e lasciando la caldaia esattamente com'era prima. La luce in questa specie di cantina non funziona mai e non c'è da sorprendersi visto che l'unica fonte di illuminazione è una lampadina da 25W appesa ad un filo che uno dei vecchi condomini deve aver tirato trent'anni fa, alla faccia dei sistemi di sicurezza dell'impianto elettrico. E' fulminata, naturalmente. E Meno male che il quadro elettrico è saltato di recente e Chakuza ha chiamato anche l'elettricista, sennò chissà che buio.
Quando apro la porta, che ovviamente cigola, la lampadina si mette ad oscillare macabra e io vedo l'ombra muoversi sul pavimento, nel cono di luce che ho creato entrando. Sembra la scena di un film dell'orrore. Adesso scendo per queste scalette anguste e chissà che cazzo ci trovo là sotto.
Accendo la torcia ed illumino un po' intorno, come se questo potesse salvarmi nel caso qualche esperimento genetico fosse davvero sfuggito da un laboratorio qui vicino e si fosse introdotto in questo palazzo fatiscente passando attraverso le fogne.
La caldaia che corrisponde all'appartamento di Chakuza è naturalmente quella più lontana dall'entrata e incastrata in un rientro nel muro che per raggiungerla devo fare i chilometri e lasciarmene alle spalle altrettanti di buio. Questa stanza non mi era sembrata così inquietante l'ultima volta che sono stato qui, forse perché ero troppo impegnato a tenere a bada Chakuza e le sue mani.
Quando alla fine arrivo alla caldaia, scopro che era esattamente come pensavo, ossia quella se ne sta lì e mi dice che non c'è pressione e io non so cosa farci. Provo a tirargli un paio di colpi con la torcia, ma quella rimane della sua idea e non funziona. Giusto per essere sicuri controllo anche un paio delle altre e sono tutte morte come quella del Chaku, quindi direi che è un problema dell'intero palazzo.
Torno all'appartamento recando pessime notizie, e trovo Chakuza che cerca di rimettere nel ripostiglio tutto il ciarpame che dev'essere esploso fuori quando ha aperto la porta. Là dentro c'è stipata talmente tanta roba sotto pressione che è sempre un pericolo passarci davanti, perché potrebbe esplodere. Almeno ha trovato la stufa e una pila di coperte.
“Non c'è pressione,” annuncio rientrando in casa, e vedo la sua testa che si affaccia subito dal corridoio. “Ma non è la tua caldaia. Tutto l'impianto è andato.”
“Fantastico,” commenta. Lotta con il mostro di cianfrusaglie che vive nel suo ripostiglio, ma alla fine vince lui e riesce a chiudere la porta. “Almeno la stufa funziona.”
“Bene. Vuoi quella o le coperte?”
“In che senso?” Chiede puntualmente lui.
“Non ho alcuna intenzione di dormire con te,” rispondo. “Quindi prendo il divano. Stufa o coperte?”
Lui trasfigura, come ogni volta che per qualche motivo succede qualcosa del genere. Se io sono qui in questa casa, la possibilità che non passi la notte nel suo letto non è nemmeno contemplata; quando ciò avviene, occupa istantaneamente il secondo posto nella sua scala delle tragedie. Visto che rimane con la bocca aperta un tempo sufficiente a farmi credere che sia morto in piedi, decido io. “Okay, tu prendi la stufa, io tengo le coperte,” dico, recuperandone un paio e sistemandole sul divano.
Solo allora lui si libera dall'incantesimo che lo aveva trasformato in pietra e mi segue, disfacendo il letto dove io lo faccio. “No, tu non dormi sul divano.”
“Invece è esattamente quello che farò,” ribadisco.
Sistemo il cuscino e lui lo toglie. “Tu non puoi dormire sul divano,” si corregge.
“Posso eccome, Chakuza.”
“Questa è casa mia e io non voglio che tu dorma sul divano,” sbotta lui, strappandomi dalle mani una coperta e gettandola via con stizza. Mi ricorda un po' quei ragazzini che prestano il loro pallone per giocare a calcio e poi se lo riprendono non appena iniziano a perdere.
“Ho capito,” annuisco e mi giro per rimettermi il cappotto.
Lui sospira, maledicendosi a voce abbastanza alta perché lo senta perfettamente anch'io. “No, Fler! Fler, aspetta! Non era questo che volevo dire. Mi è uscita male,” mormora, mentre mi segue verso l'ingresso.
“La cosa non mi sorprende affatto.”
“Non voglio che tu dorma in salotto perché sono io che ho fatto casino, quindi al massimo è il sottoscritto che deve dormire sul divano,” dice tutto d'un fiato, prima che io riesca ad aprire la porta. “Anche se preferirei che dormissimo entrambi nel letto.”
Io rimango fermo con la mano sulla maniglia qualche minuto e poi mi giro molto lentamente. “Peter...” mormoro frustrato. Giuro che a volte mi drena.
“Ho aperto bocca a sproposito, d'accordo. Allora fammi scusare. Se dormi sul divano è l'inizio della fine. Il passo successivo sarà riprenderti lo spazzolino da denti e la tazza per la colazione. Alla fine della settimana avrai già fatto le valige e sarai tornato da tua madre.”
“Peter, stai delirando!” Esclamo sconvolto.
“E allora fammi smettere di delirare e dormi nel letto!” Protesta lui, sgranando gli occhi.
Io scoppio a ridere, perché davvero non so che cos'altro fare.
Sono qui sulla porta e sto per andarmene senza sapere nemmeno se tornerò e lui si fa quasi prendere da una crisi isterica, cominciando a parlare di spazzolini da denti. E' una situazione surreale, eppure direi che dovrei esserci abituato.
“Per favore?” Tenta lui, in ritardo, come al solito.
Sospiro e mi tolgo il cappotto per la terza volta stasera. “D'accordo, Peter, ma sia ben chiaro che il fatto che io accetti di dormire nel letto con te non significa assolutamente che ti toccherà qualcosa stasera, anche perché sono ancora incazzato.”
“Naturalmente,” annuisce lui, tutto convinto.
Dieci minuti dopo siamo distesi a fissare il soffitto e io so che lui sta cercando nella sua testa le parole da dirmi, lo so perché non parla da un sacco di tempo e non tenta nemmeno di allungare le mani, il che può significare soltanto due cose, che dorme – ma dal respiro direi di no – o è molto concentrato.
“Ti esploderà il cervello con tutto questo pensare,” dico alla fine, perché voglio sapere se posso dormire oppure se devo aspettare che mi dica qualcosa.
“Non voglio sbagliare a parlare, stavolta,” si giustifica.
Sospiro, piegando una mano dietro la testa. “Sono quasi sicuro che lo farai lo stesso ma, andiamo, provaci. Ti sto ascoltando.”
Lui prende bene fiato, prima di rispondere. “Lo so che sentirmi rispondere in quel modo non è stato piacevole, ma ti giuro che non l'ho fatto apposta e che, se potessi, tornerei indietro e me lo rimangerei. Non posso farlo, però.”
“Va' avanti.”
Fa un sospiro di quelli fatti bene, che preannunciano cose che voglio sentire anche se non mi piacciono affatto. “Ho ancora difficoltà a dimenticare Bill,” ammette infatti “questo è vero e già lo sai, ma quella risposta non aveva nessuno significato. Mi è uscita di bocca come poteva uscirmi di bocca 'ancora cinque minuti' quando mia madre mi svegliava la mattina. Non è niente.”
Io rimango in silenzio e continuo a fissare il soffitto solo ed esclusivamente per farlo preoccupare ancora un po'. In realtà la rabbia mi è passata da un pezzo, più o meno quando ha cominciato ad agitarsi come se avessi minacciato di cambiare continente, ma voglio godermi un po' questo momento in cui, miracolosamente, sono una priorità.
“Fler?”
“Hmn.”
“Mi dispiace.”
Sorrido e mentre lo faccio, lui già mi scivola addosso, segno che mi stava osservando in attesa di una reazione. Dovrei dirgli di smettere perché non se lo merita, ma me lo merito io.
Quindi lo lascio fare.

Mattine come questa sono quelle che preferisco. Quelle in cui posso prendermi il mio tempo per aprire gli occhi, stiracchiarmi, stendere le gambe nel tepore immobile delle coperte e sgranchirmi tutto, piano piano, senza fretta. Mattine piacevolmente vuote, rilassate, tranquille. Di quelle che pensi di poter sentire sotto le mani, morbide. Mattine pigre come sbadigli, in cui il pensiero di non avere niente da fare ti culla un po’, e tu lo lasci fare perché sul serio, quante volte capita di potersi svegliare dicendosi che oggi potresti stare anche tutto il giorno a letto e non sarebbe un dramma perché tanto non sei atteso da nessuna parte, non devi incontrare nessuno e non c’è nessun beat ancora da limare che ti aspetta in sala incisioni per essere perfezionato e diventare una base.
Spesso, per non dire ogni volta, proprio perché una condizione simile è molto rara, in realtà non è vera. È una bugia che la tua mente ti sta raccontando. Tu sei lì al calduccio che ti fai i fatti tuoi e progetti vite intere sotto le coperte, chiedendoti se potrà esistere un modo per collegare con un filo e un paio di tubi, o magari una catena di montaggio elementare, il tuo letto, la cucina e il cesso, per avere tutto ciò che ti serve senza doverti praticamente muovere, e la tua testa avalla questi tuoi pensieri bisbigliando “ma sì, credici pure, progetta quanto vuoi, tanto oggi non c’è niente da fare!”, quando in realtà non potrebbe esistere niente di più lontano dalla verità. Però tu in quel momento non te ne accorgi.
La cosa vale anche per me, ma naturalmente in quel momento lì, come ho detto, non ci penso. E sono molto felice.
Quando apro gli occhi, c’è luce in tutta la stanza. Chakuza non chiude quasi mai le tapparelle, ma è raro che io riesca a vedere la luce del sole invadere completamente l’ambiente, perché quando mi sveglio in genere è troppo presto per assistere ad uno spettacolo simile. Le cose da fare, appunto, ci sono sempre. Quando ti svegli ogni mattina alle sette, sia perché devi andare agli studi o sia perché non è il caso di prendertela troppo comoda, visto che non sei a casa tua, al più puoi vedere le prime luci pallidissime che rischiarano l’ambiente, quando non è inverno e quindi di tiri su ancora col buio, ma stavolta invece c’è luce ovunque, si stende in lunghe strisce oblique per tutte le pareti, prendendone la forma, seguendone le linee.
Sollevo un braccio e il sole batte contro la mia pelle. Sulla parete si forma una macchia d’ombra, la guardo, sorrido e tiro giù il braccio, lasciandolo ricadere sul materasso per ridare alle strisce di luce la loro ordinata continuità.
Chakuza, qui accanto a me, all’improvviso si mette a ridere. Non mi ero accorto che fosse sveglio.
- Che stai facendo? – mi chiede. Io scrollo le spalle ed affondo fra i cuscini, ma non rispondo. Mi limito a sorridergli. Anche stanotte mi sono fermato a dormire qui come se fosse una cosa normale. Dopo aver scopato, esausti com’eravamo ci siamo lasciati ricadere sul materasso con un grugnito di approvazione. Chakuza s’è liberato del mio braccio che, in qualche modo, gli era planato sulla faccia nel movimento, e poi s’è voltato per dormire. Stessa cosa ho fatto io. E lui non mi ha chiesto conferme – niente domande del tipo “resti?”, che fino a qualche tempo fa un sacco frequenti, fra noi, anche se naturalmente parlo di un “qualche tempo fa” lontanissimo nel tempo – ha preso la mia presenza per un dato di fatto e io in realtà gliene sono stato grato, perché talvolta ricordarsi di mantenere un certo distacco e pensare di doversi alzare in piedi e fare almeno finta di cercare i vestiti per rimetterseli addosso a ritornare a casa prima che lui mi fermi chiedendomi di rimanere è talmente fastidioso – e ridicolo – da sfiorare l’assurdo.
Ieri sera, dunque, sono rimasto, e ora mi sento vagamente in difetto. Voglio dire, so che è assurdo, so che non dovrei, e tra l’altro è davvero ridicolo che due anni fa fossi già riuscito a superarlo, questo problema che adesso sembra tornato a farsi avanti, però davvero. Non è neanche il dormire con una persona che mi scombussola, con Danny l’ho fatto continuamente per mesi – Danny, santo cielo, devo proprio smettere di pensare a Danny, anche se negli ultimi giorni ha ricominciato a farsi sentire e io non sono granché sicuro di riuscire a gestirlo come dovrei, cioè allontanandolo di nuovo – è proprio lo stare con Chakuza, stare con lui come si sta in coppia che ogni tanto mi… non lo so. Mi turba troppo. È semplicemente strano, come sono strane quelle cose buffe che sembrano non avere spiegazione, come ad esempio quei trucchi di scena con cui i maghi ti fanno credere di aver segato in due il corpo della loro procace assistenza. Tu sai che dietro c’è una spiegazione perfettamente razionale, ma per quanto ci pensi non riesci a trovarla, quindi finisci per rimanere a fissare il tutto con aria ebete, come un bambino che non ha ancora visto nulla del mondo, e per quanto stupido ti sembri accetti quella cosa impossibile come possibile pure senza spiegartela, perché tanto, ti dici, non ci arrivi, è così e basta. E per me ora è uguale, io mi sento strano, sono convinto che ci sia una spiegazione razionale dietro, ma non la capisco. Che posso farci?
Talvolta, seriamente, credo di aver solo bisogno di sentirmi dire che sono normale, che sono ancora io, lo stesso che ero a quattordici, a diciotto, a venti, a venticinque anni. La cosa non è più tanto scontata com’era un tempo.
Nel mentre continuiamo a restare in silenzio, che non è una cosa brutta, in realtà, perché non è un silenzio di quelli imbarazzati. Non è che ci guardiamo negli occhi con aria confusa chiedendoci che cosa diamine stiamo facendo in questo letto così vicini, anche perché peraltro lo sappiamo benissimo cos’è che stiamo facendo in questo letto così vicini. Io guardo un po’ fuori, e c’è un bel sole. Dagli alberi che costeggiano la strada giunge il canto degli uccellini di città – questi esserini piccoli, fragili e spenti, che cantano solo alla mattina perché per tutto il resto del tempo la loro voce sarebbe inutile, sommersa dal traffico e dai rumori dei passanti – e io penso due cose contemporaneamente. Una è che sono ancora convinto di non avere niente da fare oggi, e vorrei che questa convinzione potesse durare ancora un po’, ma non è facile che sia così se penso alle ore che passano, al traffico che ci sarà e a quello che scorre fuori da quella finestra, motivo per il quale smetto di guardarla e torno a fissare la luce sulla parete. L’altra è che, malgrado io non abbia ancora ben chiaro quasi niente della giornata di oggi, quello che invece riguarda la giornata di ieri riesco a richiamarlo alla memoria senza la minima fatica.
Decido che è il momento di parlare, e dato che sto pensando a ieri tanto vale battere il ferro finché è caldo.
- Certo che non ho mai capito cosa ci trovi tu in Bill. – butto fuori d’un fiato, ma abbastanza tranquillamente da sperare di non preoccupare Chakuza. Non è che voglia farlo sentire attaccato o che, è solo che sono profondamente convinto che uno dei motivi per cui da questa cosa non ci si muove risiede nel fatto che Chakuza non ne parla. Mai. È il suo più grande tabù, non c’è modo di scucirgli informazioni al riguardo, e io se devo dire la verità non ci ho nemmeno provato granché, voglio dire, sono masochista ma non così tanto, ma è evidente che devo risolvere questo problema, se non voglio che scene come quella di ieri continuino a ripetersi all’infinito, anche quando noi quattro cavalieri dell’Apocalisse saremo vecchi decrepiti e Chakuza, Bushido ed io staremo seduti sulle nostre sedie a dondolo nel porticato della casa al mare che palesemente divideremo, e Bill uscirà chiedendoci se sta bene con la nuova dentiera. Ecco, vorrei evitare che allora Chakuza si permettesse ancora di rispondergli che sta benissimo all’unisono con Anis, perciò rimbocchiamoci le maniche e risolviamola adesso, finché siamo ancora in tempo.
Ovviamente, Chakuza si preoccupa lo stesso, perché nominare Bill di fronte a lui è un po’ come prendere una pistola e darla in mano al primo passante capiti a tiro: magari è un tipo freddo e tranquillo e la posa senza fare danni; magari invece è uno nervoso e isterico e fa partire un colpo, però. Quando nomini Bill non sai mai se Chakuza stia abbastanza bene da tenere ferma la mano, o se comincerà a tremare e sparerà a qualcuno.
- Niente. – risponde infatti, sulla difensiva, aggrottando le sopracciglia nell’unica espressione al mondo che fa sembrare cattivi i suoi lineamenti rotondi, l’espressione brevettata dei video musicali.
Io inarco un sopracciglio.
- Ci sei andato a letto per simpatia? – gli chiedo, con una mezza risata, e non posso davvero credere che stia cercando di rifilarmi la storia del non-è-stato-davvero-così-importante. Nel senso, ok, Chaku, capisco dove vuoi arrivare, sei molto carino a preoccuparti per me e a non volermi dire cose che potenzialmente credi che sarebbero in grado di farmi male, ma… no. Cioè, c’ero anch’io mentre accadeva, ricordi? Via.
- È carino. – insiste lui, socchiudendo gli occhi e grattandosi la fronte, naturalmente sordo alle mie mute protesta, - Fine.
Sospiro. È mai possibile che con quest’uomo non ci sia mai modo di avere una conversazione normale?
- È… strambo. – dico io, - E dolce. Secondo me è tutto qui. È come avere una sorellina. Almeno per me. – preciso, perché mi pare evidente che per lui non era così, anche se ora sta cercando di fare di tutto per darmi a bere il contrario.
La mano che grattava la fronte di Chakuza si abbatte contro il suo viso e poi scende a coprirgli gli occhi, mentre lui si lascia andare ad un sospiro affranto. A Chakuza non piace granché parlare, lo so, non è bravo a spiegarsi – non sempre, almeno. Anche lui ha i suoi momenti, comunque – io, invece, mi ci diverto da morire. Mettere in difficoltà il prossimo, irritarlo anche fino a fargli perdere il lume della ragione, è sempre stato un gioco divertente. Quando sei piccolo e cresci in un ambiente come il mio, la prima cosa che capisci è che ti devi fare grosso e muscoloso, perché devi costantemente avere a che fare con tipi che saranno sempre più grossi e più muscolosi di te, motivo per il quale devi cercare quantomeno di avvicinarti al loro standard per poter pensare di uscire vivo da una rissa. In attesa di quello, però, quando sei ancora un ragazzetto pelle e ossa senza un pelo e con gli occhi troppo grandi su una faccia troppo magra, devi sopperire ciarlando, e sperando che chi ti incontra sia stupido abbastanza da permetterti di rincoglionirlo quel tanto che basta da sfuggirgli dalle mani. Se hai la velocità delle gambe dalla tua, quella della lingua può completare il quadro che può riuscire a salvarti il culo anche in situazioni disperate. Il più delle volte è stato così che mi sono salvato io, nel periodo in cui cercavo di fare di tutto per portare a termine i miei compiti da solo, senza Anis in giro, per impressionare Arafat.
Chakuza, e lo dico con tutto l’affetto del mondo, credetemi, è abbastanza scemo da concedermi svaghi di questo tipo. Dico, non vuoi parlare seriamente di Bill per esorcizzarlo? D’accordo, va bene per me, ma allora lasciati torturare.
- Ma ti senti quando parli? - si lamenta, la voce un po’ attutita dalla mano ancora pressata con forza sul volto, - Come una sorellina? Mi sento male.
E certo che ti senti male, Chaku. Questo dimostra che tu non l’hai mai visto come una sorellina, tanto per cominciare, e anche che tutti quei bei discorsi di prima sul fatto che è solo carino ed è per questo che ci sei andato a letto per una vita e mezzo non erano altro che fesserie. Ma va be’.
Resto in silenzio per un intervallo di tempo che non sembra solo enorme, lo è. Chakuza ha bisogno di riprendersi, palesemente, e io gliene dà modo, perché non mi va di troncare la conversazione. Scherziamo? Mi sono divertito e vendicato ancora troppo poco, non esiste indisporlo al punto da costringerlo ad alzarsi in piedi e fuggire lontano. Voglio rosolarlo a fuoco lento.
- E a letto com’è? – chiedo quindi dopo un po’, senza muovermi di un millimetro.
- Fler! – sbotta lui, sconvolto, girandosi impercettibilmente a guardarmi.
- Be’, che c’è? – insisto io, scrollando le spalle e mantenendo una calma apparente tale che non capisco com’è che i membri dell’Academy non fanno irruzione dalla finestra appesi a delle funi per consegnarmi un Oscar estemporaneo per meriti acquisiti sul campo, - Sono curioso! Avrà delle qualità non da tutti, se è riuscito a rincoglionirvi senza speranza tutti e due.
Chakuza non risponde. Allunga una mano ad afferrare il cuscino in più che sta in mezzo fra i nostri guanciali e se lo schiaccia sul viso con un lamento disperato. In realtà in questi momenti così io mi diverto sempre tantissimo. Era una cosa che capitava spesso quando abbiamo cominciato a vederci più spesso, intendo, dopo l’incidente del tappeto e tutto. Ho usato una quantità spaventosa di armi, contro Chakuza, non solo la lingua. E non solo nel senso di usarla per parlare. E so che questi sono i momenti in cui Chakuza è sempre un po’ sul punto di mandarmi via, perché lo spalla che, in mezzo a tutti i poteri che lui ha su di me, ce ne sia uno che solo io posso vantare su di lui, ed è quello di riuscire a metterlo in imbarazzo. Lui, un uomo che non s’imbarazza praticamente mai. Quindi sì, lo so che in questo momento, come in tanti altri, si copre il volto e sta zitto solo perché vorrebbe potermi mandare via. In realtà mi esalta che non lo faccia mai.
Rido e mi giro sullo stomaco, sistemandomi a pancia in giù sul materasso ed allungando un braccio per togliere il cuscino di mezzo.
- Allora? – insisto curioso, - Dimmi!
- Non lo so! – si lamenta lui, cercando di coprirsi di nuovo con le mani.
- Sì che lo sai! – ride ancora io, - Anzi, dal fatto che non lo dici, immagino che debba essere parecchio bravo. Questo almeno spiega la follia di ieri sera.
- Possiamo smettere di avere questa conversazione? – implora debolmente Chakuza, sull’orlo di una crisi isterica. Io rido ancora, e naturalmente non gli do retta.
- Quante volte al giorno lo facevate? – chiedo, avvicinandomi un po’ per guardarlo in viso.
- Fler… - mugola lui, arreso.
- Una? – insisto io.
- Ma non hai niente da fare, stamattina? – piagnucola Chakuza. Qualche campanello dovrebbe suonare nella testa di entrambi, in questo momento, ma non suona. Io sono ancora perfettamente immerso nell’aura di beatitudine che mi accompagna dal risveglio, peraltro, convintissimo che il mondo non avrà mai più bisogno di me e che perciò posso anche mettere radici su questo materasso per tutto il tempo che mi resta da vivere, e nessuno avrà mai di che lamentarsene.
- No. – rispondo infatti, e sto mentendo, ma ancora non lo so. Che non se ne accorga neanche Chakuza, però, è abbastanza grave. – Due? – ritorno a insistere, - Tre, magari?
Chakuza non dice nulla, si limita a sospirare.
- Tre volte al giorno?! – sbotto sconvolto, e sento aprirmisi sulle labbra un sorriso incredulo ma anche parzialmente divertito. – Wow! Devi dirmi tutto. Cioè, seriamente, mai visto Bill in quelle vesti lì. Adesso sono curioso sul serio.
- Sei una piaga, Fler! – sbotta lui, scuotendo con decisione il capo, - Che devo fare per farti stare zitto?!
Io ridacchio, sistemandomi fra le lenzuola e piantando i gomiti sul materasso.
- Non so, che ne dici di rispondere? – suggerisco, - Quando sono soddisfatto, smetto.
Lui si volta a lanciarmi un’occhiata truce.
- Giuralo. – intima freddamente.
- Ma sì, sì, giuro. – concedo io, con un breve cenno del capo. – Allora?
Chakuza si prende il proprio tempo per sospirare ancora e sistemarsi meglio contro il cuscino. Solleva la schiena ed il lenzuolo che lo copre scivola giù lungo il suo corpo, arrotolandoglisi pigramente in grembo. Seguo il movimento del tessuto forse con un po’ troppa insistenza, ma mi riprendo subito, anche perché se si accorge che lo sto fissando troverà sicuramente modo di usare il dettaglio contro di me, e allora addio tortura.
- Cos’è che vuoi sapere? – si rassegna a chiedere, già palesemente esasperato prima ancora di cominciare a parlare.
- Be’, la prima volta, tanto per cominciare. – annuisco io, incrociando le braccia sul materasso, - Com’è stato?
Chakuza mi getta addosso un’occhiata dubbiosa.
- Non ti prenderà una delle tue solite paranoie, quando ti risponderò, giusto?
Rido ancora. Chakuza, ti prego, ma sei convinto di che? Guarda che lo sto portando avanti io il gioco in questo momento. Certo che ti sfuggono certi passaggi fondamentali che io veramente, boh, non so, alle volte, guardandoti, come sia possibile che tu esista. O sia sopravvissuto a te stesso.
- Ma va’. – rispondo rassicurante, - Avanti, sono solo curioso.
Chakuza sospira ancora ed aspetta qualche altro secondo. E in quei secondi riesco a vedere una sorta di soddisfazione mal dissimulata farsi strada nei suoi occhi e poi nella piega delle sue labbra, che si fa meno tirata e severa. La naturalezza con cui quest’espressione viene fuori è tale che, anche se dovrei arrabbiarmi un po’ – un bel po’ – nonostante l’abbia rassicurato sul contrario, non riesco. Sembra tutto così innocente che davvero non mi pare il caso.
Quando Chakuza parla, subito dopo, lo fa come si stesse tirando fuori dal petto un peso insostenibile.
- È stato grandioso. – annuncia seriamente, annuendo pure, come per dare forza alla cosa.
Mi viene da ridere in modi che nessuno che non sia me può comprendere. Cioè, guardatelo, tutto serio e compito, come se stesse dando un giudizio di merito di quelli che si danno durante le gare sollevando il cartellino col numero. No, ma io seriamente con quest’uomo non ce la posso fare, la sua pazzia è tale che pure nei momenti di normalità mi surclassa. E io tanto sano non sono di certo.
Comunque, riesco a trattenere le risate ed imito la sua espressione seriosa, annuendo a mia volta.
- Grandioso in che senso? – chiedo, - È stato come con una femmina o la faccia è tutta un bluff? – ridacchio. Mi fa bene prenderlo un po’ in giro, di tanto in tanto, il ragazzino. Davanti a lui non si può, che poi gli si riempiono gli occhi di lacrimoni perché non capisce mai se stai scherzando o sei serio, ma con Chakuza che non ci capisce niente, neanche che fra le altre cose sto prendendo per il culo anche lui, è molto più semplice.
- Ma non c’entra niente con le femmine, è tutta un’altra roba. – precisa infatti, agitando la mano come a voler dissolvere quell’ipotesi assurda, totalmente dimentico del fatto che pure io lo so perfettamente bene che con le femmine non c’entra niente. Dio, quant’è facile. – Cioè, di base è lo stesso, - mi illustra. Chaku, grazie, senza di te non l’avrei mai saputo, - ma ci ho perso la testa perché non me lo aspettavo, capisci, che la pressione fosse così forte. Insomma, Bushido nudo per voglia o per forza l’abbiamo visto un po’ tutti, - aggiunge, lanciandomi un’occhiata che nella sua testa è carica di allusioni. Ah, Chaku. Ti prego. – e conoscendo le dimensioni e sapendo quanto tempo erano stati insieme non me l’aspettavo per niente.
Annuisco ancora. Io non so se seriamente si rende conto del discorso totalmente allucinante che sta facendo, ma comunque starlo a sentire è uno spasso. Peraltro mi sovviene che la sua prima volta con un maschio è stata con me, che di sicuro non avevo il traforo del Monte Bianco nel culo, perciò mi viene da pensare che, se Chakuza quella notte fosse stato lucido abbastanza da accorgersi delle cose, probabilmente da quel momento in poi avrebbe decantato il mio sedere come la cosa più meravigliosa mai concepita da qualsiasi essere umano o divino che abbia mai calcato l’orbe terracqueo. Poi naturalmente c’è da dire che, se Chakuza quella notte fosse stato lucido abbastanza da accorgersi delle cose, difficilmente mi avrebbe piegato a novanta sul tappeto del suo salotto, per cui niente. Ho avuto la prima volta, ma non mi prenderò mai i complimenti dello chef. La vita a volte è ingiusta.
- È davvero così stretto? – chiedo con entusiasmo, - Dovrò provarci, qualche volta.
Chakuza si irrigidisce tutto come un pezzo di legno, e si allontana impercettibilmente. Oh, Dio. Lui doveva essere al bagno quando la mamma distribuiva i cervelli.
- C’è altro che volevi sapere? – butta lì frettoloso, spasimando per cambiare discorso.
- Non andare in paranoia, - lo prendo in giro, - non mi avvicinerei mai alla nostra illustre principessa. – aggiungo in un ghigno, al quale lui risponde con un’occhiataccia offesa. Fra le tante regole che vigono in questa casa, oltre alla prima che è quella di non nominare il nome di Bushido invano, c’è anche quella per cui è vietato perfino accennare alla sua esistenza e alle conseguenze che ha sul mondo circostante, almeno fino a quando non è impossibile fare altrimenti. Il fatto che io possa chiamare Bill “principessa” è palesemente una di queste conseguenze e, in ogni caso, adoro non rispettare nessuna delle regole che Chakuza crede di potermi imporre. Ha. – Comunque, - riprendo, - voglio sapere quante volte l’avete fatto quella notte. E se è venuto. E come l’hai fatto venire. E se è venuto tutte le volte. – mi fermo, faccio mentalmente il conto, poi torno a guardarlo, - E quante volte sei venuto tu, anche!
Chakuza lascia andare un mugolio irritato e confuso.
- E cosa vuoi, un resoconto dattiloscritto…? – biascica, - Comunque due. – risponde alla fine, cercando di ricordare tutte le domande, - E sì. Con la mano. Ancora sì. E… due. No, - precisa poi, - tre. – ammette con un certo imbarazzo.
A questo punto, il buon dio che protegge gli sfigati mi perdonerà, non ce la faccio più: rido e mi abbatto di faccia contro il materasso, affondando il viso sul cuscino per evitare di svegliare tutto il vicinato.
- Sei venuto tre volte?! – strillo incredulo, battendo un pugno fra le coperte, - Dev’essere stato bello davvero! E bravo Chaku!
Lui risponde con un borbottio indefinito, incrociando le braccia sul petto ed affondando col collo fra le spalle, fissando dritto la parete di fronte, come esistesse solo quella. Io cerco di riprendermi, per quanto non sia semplice, e torno a mettermi dritto. Ci metto un po’, a formulare la domanda successiva, perché è un tipo di domanda che conosco molto bene: quella che in genere ci porta lungo la china scivolosa di una mezza litigata che finisce per affogare invariabilmente nello stesso identico posto – fra le lenzuola. Oppure andandocene alternativamente di casa, ma più spesso fra le lenzuola, sì.
- E… - chiedo alla fine, - è stato così bello solo con lui?
Chakuza lascia andare un sospiro la cui traduzione letterale è “lo sapevo”. E io mi rimetto a ridere. Però più piano.
- Qui ti volevo… - commenta, scuotendo lentamente il capo, - No, non lo è stato solo con lui. – ammette infine, voltandosi a guardarmi, - Tu sei tutta un’altra cosa, però. Non ci sono paragoni da fare.
Rido ancora, e so che gli ho detto di non preoccuparsi, che l’avrei presa bene e tutto, ma un po’ mi piace sentirmi rassicurare così, anche su cose così idiote. E comunque gli riesce molto meglio quando dice la verità.
- Non fare il figo, adesso… - sbuffo divertito, - E comunque non volevo sapere se sono meglio di lui o no… solo se sono bravo anche io. – mi fermo per intercettare lo sguardo incredulo e vagamente ilare di Chakuza, ma blocco sul nascere qualsiasi battuta aggrottando le sopracciglia e tornando ad incrociare le braccia. Sia mai che ora mi faccia perculare da lui dopo essermelo rigirato sul palmo della mano per l’ultima mezz’ora. – E non guardarmi così. – borbotto, - Uno poi se le chiede, certe cose, se non è un cagasotto. Puoi rispondere, voglio saperlo. Ne va del mio onore di uomo.
Chakuza ride lievemente e mi guarda, ed a me per un secondo sembra di poter vedere solo i suoi occhi, sottili e verdi da far paura. Come riesca a sconfiggermi con un’occhiata nonostante tutto quello che gli ho fatto passare stamattina, proprio non lo so. È uno dei misteri che mi tengono attaccato a lui, suppongo.
- Hai detto che non hai niente da fare stamattina, giusto? – mi chiede, apparentemente senza nessun motivo. Qui non dovrebbe squillare un campanello, ma l’intero campanile di una chiesa. Solo che non ce n’è, nelle vicinanze, per cui continuiamo a illuderci rotolandoci idealmente nella deliziosa sensazione di ozio prolungato in cui ci siamo immersi senza pensare.
- No. – ribadisco, e visto che ormai sono quasi le nove la mia menzogna è talmente enorme che potrebbe quasi fare il giro e diventare una verità, - Ma che c’entra?
Chakuza si solleva e l’attimo dopo mi è addosso, ogni centimetro di pelle perfettamente aderente alla mia, il petto forte contro la schiena, il bacino già duro di desiderio contro il sedere, le gambe a cercare spazio fra le mie.
- Ottimo. – commenta solamente, chinandosi a baciarmi la schiena, seguendo il disegno della colonna vertebrale.
Io rido – ho i brividi fin nello stomaco – e faccio per scappargli da sotto le mani.
- Sei scorretto… - biascico, cercando di afferrare il cuscino per tirarlo via e scavarmi di prepotenza una via di fuga.
Chakuza allunga le braccia a coprire le mie e mi si spinge un po’ contro, in una domanda silenziosa.
- Mh-mh. – annuisce, - Anche tu, a fare certe domande. – e mi sospira sul collo, mentre io mi mordo un labbro.
- Mmmh… - mugolo, socchiudendo controvoglia gli occhi, - È vero, lo ammetto. Però… - m’interrompo un attimo, lanciando a Chakuza un’occhiata incerta oltre la spalla, e qui non ho davvero idea di cosa volessi aggiungere, perché appunto nel momento in cui mi volto a guardarlo del tutto accidentalmente i miei occhi finiscono sulla radiosveglia poggiata sul comodino e, tutto insieme, mi rendo conto di che ore sono, di che giorno e oggi e anche del fatto che la mia mente mi ha preso per il culo fino ad ora esattamente come fino a due secondi fa stavo facendo io con Chakuza, ed anche esattamente come lui avrebbe cominciato a fare in senso meno metaforico da qui in avanti se non l’avessi fermato. – Cazzo! – sbotto, agitandomi sotto di lui, - Cazzo, cazzo, cazzo, Chakuza!
- …sì, ne ho uno che si sente molto tirato in causa, al momento. – risponde lui, inarcando un sopracciglio ma scostandomisi di dosso quando vede che non accenno a placarmi. – Ma che ti prende? – domanda incerto, steso su un fianco, mentre io scatto in piedi e comincio a cercare i miei vestiti.
- L’Ersguterjunge! – sbotto io, infilando le mutande e i calzini al volo, saltellando prima su un piede e poi sull’altro, - La presentazione! Cazzo, devo andare a firmare il contratto! Siamo già in ritardo! Cazzo, cazzo, cazzo!
La luce della consapevolezza si fa strada negli occhi ancora un po’ annebbiati di Chakuza, e il secondo dopo lo vedo alzarsi dal letto come una furia, afferrando al volo il primo paio di mutande che incontra e correndo in bagno.
- Bushido mi ammazzerà. – annuncia lapidario, pallido come un cencio.
A me scappa di nuovo da ridere, e continuo a farlo anche se penso che è vero, ma che mi sa che se perdiamo altro tempo ammazzerà con gioia entrambi.

*


Ieri notte, io e Bill siamo andati a letto presto. Dopo che Chakuza è corso dietro a Fler nel tentativo di recuperare l’irrecuperabile, lasciandomi lì sullo zerbino a chiedermi nelle mani di chi stavo lasciando uno dei pochissimi esseri umani per la cui felicità darei volentieri la vita, non è che ci rimanesse molto altro da fare. Ci siamo guardati negli occhi per un lungo, infinito istante e poi Bill è arrossito tutto all’improvviso, come se solo in quel momento si stesse rendendo conto del casino che, palesemente senza volerlo, peraltro, aveva combinato. Si è voltato repentinamente e, visto che era ancora a metà delle scale, ha cominciato a correre per tornarsene in camera, senza lasciarsi sfuggire neanche un suono. Io ho sospirato pietosamente, lanciando uno sguardo supplice al cielo stellato fuori dalla villa prima di rassegnarmi a chiudere la porta e seguirlo in camera.
- Bill? – l’ho chiamato piano, schiudendo la porta e sbirciando all’interno. L’ho trovato già senza maglietta, tutto preso ad armeggiare coi pantaloni, - Bill, è tutto ok?
Lui s’è voltato a guardarmi con un paio d’occhi che sembrava l’avessi insultato invece di chiedergli come stesse.
- Come, scusa? – mi ha chiesto, basito, strattonando i pantaloni qua e là nel palese tentativo di strapparseli di dosso.
- Ti ho chiesto se è tutto ok. – ho sospirato ancora io, entrando nella stanza e chiudendomi la porta alle spalle. Ancora una volta, lui m’ha guardato con incredulità evidente.
- Ma che domanda è?! – ha sbottato quindi, tirando i pantaloni ancora un po’ e non ottenendo neanche una piccola vittoria all’interno della grande guerra che stava conducendo contro di loro, - Dovrei chiederlo io a te!
- E invece, guarda un po’, te lo sto chiedendo io. – gli ho sorriso, sedendomi ai piedi del letto. – Vieni qui, dai. – l’ho chiamato, schiudendo appena le gambe per fargli posto, - Ti do una mano con quelli, o finirai per distruggerli.
Lui ha abbassato lo sguardo, ma s’è avvicinato comunque, restando in piedi di fronte a me.
- Non me ne frega niente. – ha borbottato con aria colpevole, mentre sfilavo il bottone dalla sua asola e lasciavo scivolare la zip verso il basso, - Meglio se si rompono. Non li voglio più mettere.
- Bill, saranno costati un patrimonio. – ho riso, tirandoli delicatamente lungo le sue cosce bianche e magre, - E oltretutto sembra che te li abbiano disegnati addosso. Ti stanno molto bene.
- Ma cosa vuoi che me ne freghi dei soldi e di come mi stanno! – ha sbottato ancora lui, appoggiandosi alle mie spalle mentre lo invitavo a sollevare una gamba e poi l’altra per sfilarglieli del tutto. – Combino solo casini anche quando voglio fare cose belle. – ha mugolato quindi, stringendo la presa attorno alla mia maglietta, - Giuro che non volevo che andasse a finire così.
Ho sollevato lo sguardo, incontrando i suoi occhi scuri e brillanti pur nella luce fioca dell’abat-jour.
- Lo so. – ho risposto annuendo, - Non sentirti in colpa.
Lui ha sollevato una mano, accarezzandomi lentamente una guancia.
- È piuttosto difficile non sentirmi in colpa con te. – ha detto quindi, mordicchiandosi l’interno di una guancia. Io ho aggrottato le sopracciglia.
- Non voglio che sia così. – ho detto severamente, e lui ha sorriso un po’, piegando appena un angolo della bocca.
- Lo sai che non puoi farci niente? – ha ribattuto con dolcezza, - Fra le tante cose che puoi fare… - ha sussurrato sfiorandomi le labbra con due dita, - e sistemare… - le sue dita si sono fermate appena sotto il mio labbro inferiore, - e riaggiustare, - ha sospirato profondamente, - la possibilità di togliermi il senso di colpa dal petto quando ti ferisco non rientra nella lista.
Ho sospirato e scosso il capo, stringendogli la vita con le mani. Lui ha poggiato le braccia sulle mie, sfiorandomi appena il collo con la punta delle dita.
- Non mi hai ferito. – l’ho rassicurato.
- Non l’ho fatto intenzionalmente, forse, - ha protestato lui, - ma—
- No. – ho scosso il capo io, - Non mi hai ferito. Bill, - ho sospirato profondamente, - durante tutto l’anno scorso, sono successe molte cose. – lui ha trattenuto il fiato, serrando le labbra, - E tante di queste cose sono state spiacevoli, per usare un eufemismo. E come lo sono state per me, lo sono state per te. Non credere – sono tornato a sollevare lo sguardo, piantando gli occhi nei suoi, - non credere neanche per un minuto che io possa mai perdere di vista questo dettaglio fondamentale. È stata dura per tutti e due. Io non sono una vittima. Non lo sei neanche tu. Abbiamo fatto un casino infernale e ne abbiamo entrambi pagato le conseguenze, ma siamo qui, adesso. E tu – ho riso un po’, inarcando un sopracciglio con presunzione, - credi davvero che, dopo l’anno scorso, un paio di pantaloni che combinano un mezzo disastro possano ferirmi? Io sono d’acciaio, piccolo. – ho detto, accogliendo sulla pelle la sua risata un po’ triste ma soprattutto sollevata quando mi si è seduto in grembo, circondandomi le spalle con le braccia, - Niente mi scalfisce.
Bill ha pianto un po’, accucciato fra le mie braccia. L’ho sentito piangere molte volte, da quando lo conosco, ma questo è stato un pianto tutto diverso rispetto agli altri pianti che s’è fatto da quando sono entrato nella sua vita, e credetemi quando vi dico che stiamo parlando di numerosi pianti. S’è trattato di un pianto dolce, sommesso, sollevato. Venato da un pizzico di felicità che mi ha stretto il cuore. Giuro che non mi sono mai sentito bene come in questo periodo, in cui io e Bill ci stiamo affrontando con onestà, sciogliendoci poco a poco, ritrovandoci poco a poco, imparando a conoscerci di nuovo, con tutte le cose che sono cambiate in noi e che inevitabilmente non potremo più riavere, ma anche con tutte quelle altre cose che invece sono rimaste uguali, o comunque molto simili, rispetto a quelle che avevamo un tempo. È come riscoprirlo da capo. Ma è sempre lui. Credevo fosse impossibile tenere fra le mani qualcosa di così antico e così nuovo allo stesso tempo, eppure Bill per me lo è.
Per cui, sì, abbracciati com’eravamo poi siamo andati a dormire, perché seriamente, fare altro per quella sera non era proprio plausibile. E poi c’era anche da pensare a stamattina, naturalmente.
Stamattina ci siamo svegliati non prestissimo, ma di buon’ora, entrambi molto emozionati. Ho una idea abbastanza precisa di quello che è successo qui fra Bill e Fler mentre io non c’ero. Ne ho un’idea abbastanza precisa non soltanto perché Bill e Fler mi hanno più o meno raccontato tutti i fatti, ma anche perché conosco entrambi a memoria ed avrei potuto dirvi con largo anticipo come avrebbero reagito e come si sarebbero comportati l’uno con l’altro nel caso si fossero conosciuti, anche senza dover sapere niente delle situazioni che li avevano spinti a incontrarsi. Non fatico per niente a capire che Bill è felice per quello che sta per avvenire esattamente quanto me. Ed infatti il suo viso sembra splendere di luce propria ora che siamo qui nel mio ufficio all’Ersguterjunge, e attendiamo.
Eko, seduto sul divanetto in fondo alla stanza, si guarda intorno con aria incerta, come se lui in quel momento c’entrasse poco. Kay riempie il mondo di entusiasmo blaterando a caso su quanto sia una figata questa decisione, e su quanto è evidente che ci stiamo vendicando proprio bene su quegli stronzi dell’Aggro Berlin, quantomeno a livello commerciale.
- Vuoi mettere – mi dice, - la quantità di dischi venduti che si porta dietro Fler, rispetto a quelli che si porta dietro Nyze? Cioè, dai, palesemente ci stiamo guadagnando noi.
Io borbotto un assenso indefinito, lanciando un’occhiata nervosa all’orologio. Fler e Chakuza, naturalmente, sono in ritardo. Potrei approfittare di questo tempo concessomi per spiegare a Kay che prendere Fler sotto contratto all’Ersguterjunge ha ben poco a che fare con la guerra fra noi e l’Aggro, e ha ben poco a che fare anche con la quantità di dischi venduti in più che porteremo a casa a fine anno. È solo che lo rivoglio con me, li rivoglio tutti con me, e non intendo lasciarmene sfuggire uno che sia uno. Fler è solo il primo passo. Sto pensando a qualcos’altro. Ma prima devo parlarne con Jost, ed è ovvio che non posso farlo finché lui sarà ancora troppo impegnato a fingersi invalido per poter trascorrere le sue giornate a letto con Schüster. Ma non ha senso parlarne ora. Verrà il tempo.
E quello a mia disposizione adesso finisce nel momento in cui Fler e Chakuza fanno il loro ingresso nel mio ufficio, scompigliati e trafelati, scusandosi con tutti a destra e a manca. È abbastanza ovvio cosa abbiano avuto di così urgente da fare per non riuscire a presentarsi qui in orario. È ovvio non soltanto nel modo in cui si comportano o nel modo in cui sono conciati, ma nel modo in cui si sfiorano casualmente, si guardano, si sorridono, si parlano.
È inevitabile, per me, essere un po’ geloso. Stranamente, nei confronti di entrambi. Ma non m’importa più quando Fler si fa avanti e sorride, brandendo una penna.
- Dove devo firmare? – chiede.
- Sì, diamoci una mossa. – borbotta Chakuza, - Abbiamo tutti di meglio da fare.
Bill si lascia sfuggire una risatina divertita. Ed io faccio lo stesso, porgendo a Fler il suo contratto ed indicandogli il punto esatto in cui deve mettere la firma.

Bookmark and Share

Martyr

di lisachan
Mi viene da ridere perché appena entriamo in casa non passano neanche due minuti e Chakuza mi ha già messo le mani addosso. Non so da quando la cosa fra noi si sia fatta così naturale, so solo che lo è diventata. Sarà una questione di abitudine, suppongo. Intendo, puoi passare mesi a ripeterti continuamente “quello che sto facendo non è normale”, però se alla fine è sempre quello, ciò che fai, lamentarti perde senso.
A me succedeva sempre con Anis, per dire. Quando mi ha mandato a spacciare le prime volte ero tutto un casino e continuavo a ripetermi “ma io sono un tagger, io la cosa più cattiva che ho fatto è stata scavalcare la recinzione del deposito dei treni per andare a scrivere il mio nome sui vagoni in disuso, che ci sto a fare qui, in mezzo a gente che sembra più vecchia di me di vent’anni e contratta il prezzo dell’eroina al grammo?”. Provavo a fare il gran figo, quello che non aveva mai bisogno di niente e di nessuno, ma quando non avevo gente intorno ed aspettavo un fornitore o un cliente all’angolo di una strada, con lo zainetto pieno di roba e il vento che mi tagliava la faccia nei pomeriggi invernali nei pressi del canale, lo pensavo di continuo.
Sono rimasto in quelle condizioni lì per un paio di settimane. Forse meno. Alla fine, anche quello ha cominciato a diventare semplicemente normale, come tutto il resto. Io credo molto nel potere della ripetizione delle cose, peraltro. È per questo che, da quando Danny ha cominciato a rifarsi vivo, senza insistenza ma con costanza, non ho mai mancato di riferirlo a Chakuza, o perfino di coinvolgerlo in qualche uscita a tre. Non è che sia preoccupato, non è che voglia dimostrargli qualcosa, è semplicemente che so che sarà dura togliersi davvero Daniel di torno – sarà dura perché sostanzialmente non mi va di togliermelo di torno, la cosa avrebbe conseguenze cui non mi piace pensare e delle quali non mi andrebbe di essere la causa scatenante – perciò tanto vale che il Chaku ci si abitui, ad avere il ragazzino intorno.
E quindi glielo somministro giorno dopo giorno, perché è anche una questione di scambio, no? Chakuza mi somministra se stesso giorno dopo giorno, e io devo abituarmici, per forza di cose. Mi sta bene, ma che si abitui a qual cosina anche lui.
Il succo della mia storia con Chakuza è questo, dopotutto: era una follia ma ci siamo ostinati al punto che ormai è normale. Lui si è ostinato a tirarmi verso di sé, io mi sono ostinato a ronzargli intorno, e ripetizione dopo ripetizione, saltando un ostacolo dopo l’altro, questo è il risultato che abbiamo ottenuto. Buono o cattivo che sia, non saprei giudicare. A me piace quando Chakuza mi mette le mani addosso. Altrimenti non glielo lascerei fare. È tutto davvero così semplice.
Perciò, insomma, entriamo in casa, lui mi mette le mani addosso – da dietro, le fa passare fin davanti ed abbassa la zip del giubbotto – e perde giusto due secondi a mordermi sul collo, dove la mia pelle è fresca e rabbrividisce al contatto col suo fiato caldo, prima di infilarmi le mani sotto la maglia.
- Cha— - faccio per contestare l’esuberanza, ma lui mi spinge verso una parete e mi ignora, - Asp— - continuo, e mi passa la voglia di protestare quando la sua mano risale lungo il mio petto e mi sfiora un po’ ovunque, mentre le mie braccia restano incastrate nelle maniche della giacca. Mi passa la voglia ma protesto lo stesso. Prendo fiato e lo fermo: - Chakuza, siamo appena entrati in casa! – gli faccio notare, ma non posso fare a meno di ridere.
Lui mi morde di nuovo, e stavolta manda avanti anche la lingua. Lo odio quando fa così.
- Fler, tu parli troppo. – mi soffia in un orecchio, - Che hai da lamentarti, ancora?!
Cerco – a fatica – qualcosa di cui lamentarmi. La cerco fra la mano che ancora mi vaga addosso sotto la maglia e quella che slaccia le fibbie dei miei jeans; la cerco fra le sue labbra sul collo e la sua lingua che risale lenta verso il mio orecchio; la cerco fra quanto mi fa rabbia questa routine consolidata e quanto allo stesso modo mi piace.
Non trovo nulla e mi appoggio contro il muro con le mani.
- Fai quello che vuoi. – esalo arrendendomi, la fronte che sfiora la parete. Chakuza sorride in uno sbuffo e si sporge a sfiorarmi la nuca con la punta del naso. Io ci lascerò la testa, un giorno di questi. Lo so.
Mi si spinge contro ed io mi inarco un po’ perché indossa un paio di jeans troppo larghi e non è facile sentirlo bene addosso, ed è lì che sento la fitta.
Proprio alla base della schiena.
Spalanco gli occhi.
- Ahi! – mi lamento, voltandomi verso di lui con aria allucinata.
Lui mi risponde con lo stesso sguardo da triglia.
- Non ti ho fatto nulla! – si giustifica, sollevando le mani.
- Mi fa male la schiena! – motivo agitandomi. Cerco di capire perché e all’improvviso ricordo ieri notte. L’uscita serale, le birre, lui che mi spinge in macchina, io che tremo perché – non mi ricordo, cos’è che aveva addosso ieri sera?, comunque sia avevo una voglia assurda di scopare, non so nemmeno per quale motivo – e mentre siamo fermi al semaforo mi volto e lo guardo, lui mi lancia un’occhiata distratta, io abbozzo un sorriso senza significato, lui chissà che ci vede e svolta nel primo vicolo disponibile appena scatta il verde. Il ricordo successivo è il cambio piantato in un fianco mentre lui cerca di stendermi e incastrarmi fra i sedili anteriori ed io che mugolo scontento e gli dico “no” – un no che non vale un accidenti – e lui che mi sorride addosso e mi prende in giro, sussurrando “invece sì”.
Quando provo a protestare con un “non così”, tutto ciò che fa lui è aprire lo sportello, trascinarmi fuori per il cappuccio della felpa e stendermi sul sedile posteriore. Prima di strusciarmisi addosso. E a quel punto me ne frego se siamo in macchina, sinceramente.
La conseguenza di quegli atti osceni in luogo pubblico è che adesso mi fa male la schiena. Chakuza vuole scoparmi e Dio sa se, a questo punto – con lui pressato addosso e le sue mani ovunque – non vorrei accontentarlo, ma mi dibatto lo stesso perché fa male.
E Chakuza mi abbraccia.
Mi stringe da dietro e non mi molla.
- Se riesco a distrarti?
Io ringhio. Mi sta già distraendo.
- Mi fa male la schiena, non puoi distrarmi dal male alla schiena. – protesto con un cipiglio che cerco di far sembrare minaccioso.
- E se ci riesco? – continua lui, allargandomi un po’ le gambe, - Tu poi… - e mi sussurra all’orecchio qualcosa di assolutamente indecente.
- No! – strillo, cercando di sfuggirgli, - Queste cose vanno bene se sono fatte spontaneamente!
- Dai! – mi incita, strusciandosi ancora, - L’altra volta non è stato male!
- Potremmo evitare, per favore?!
Chakuza decide che no, non possiamo evitare, ed io provo a protestare per un lasso di tempo che dura due secondi netti. Al terzo secondo lascio perdere perché è tutto al suo posto: le sue mani sui miei fianchi, la sua bocca sulle mie spalle, lui dentro di me.
- C’è da fare la spesa… - mi dice a bassa voce, spingendo lentamente.
- …potremmo anche parlarne dopo… - borbotto offeso mentre scivolo con le mani sulla parete e mi inumidisco le labbra.
Chaku ride.
- Ma devo distrarti… - continua piano, - E poi, se domani vuoi le frittelle per colazione, servirà il burro.
- Io non voglio andare a fare la spesa… - mi lamento, e cerco di dare a quello che stiamo facendo un ritmo meno lento, perché così non reggo, - Vai da solo.
- Sei capriccioso come un bambino. – mi rimprovera lui, tirandomi indietro per baciarmi.
- Non ti conviene darmi del bambino adesso, ti pare? – rido, un po’ a corto di fiato.
Lui comincia a spingere un po’ più forte e, quando parla per darmi del cretino, usa quel tono roco e cupo che anticipa sempre il momento in cui si perde del tutto e smette di ragionare. So che fra qualche minuto in questa casa non si sentirà nient’altro che i nostri sospiri, e mi adatto, posando le mani sulle sue per fare in modo che mi stringa più forte alla vita. Quando lo fa prende sempre il punto giusto. Quello che fa smettere di pensare anche me.
Qualche minuto dopo siamo ancora lì contro quel muro. Chakuza sta respirando forte sulla mia spalla e cerca di recuperare il fiato, mentre io mi godo gli istanti di immobilità che me lo fanno sentire più di ogni altra cosa. È una cosa stranissima – ed incredibilmente imbarazzante – da dire, ma quando tieni qualcuno dentro in questo modo, così a lungo e con tanta ostinazione, è un po’ come non esistesse davvero nient’altro. C’è solo Chakuza, il suo calore, il suo odore e il suo respiro.
- Ma non dovevamo andare a fare la spesa…? – rido appena, staccandomi dal muro.
- Era solo una tecnica di distrazione… - protesta lui cercando di riportarmi nella posizione iniziale. – E poi mi devi ancora quello che mi hai promesso!
- Non mi hai distratto, - mento, - e poi non ti avevo promesso niente!
Lui grugnisce e si separa da me, deluso.
- Ne riparliamo quando torniamo a casa. – borbotta, - Ora, se vogliamo comprare davvero qualcosa che non siano gli scarti, dobbiamo muoverci.
Scoppio a ridere.
- La tua anima di cuoco pretende i ravanelli di qualità. – lo prendo in giro.
- Be’, magari non proprio i ravanelli… - riflette lui, mentre tira su i pantaloni, - Ti vanno i ravanelli?
Io rido ancora e mi rivesto, scuotendo il capo.
- Quello che vuoi, Chaku. – e lo vedo allontanarsi frettolosamente verso il bagno, mentre penso che magari dovrei farci una capatina anch’io.
Facciamo in fretta, perché Chaku è scemo ma alla cucina ci tiene davvero, e ritrovarsi con in mano i pomodori secchi per l’insalata gli dà fastidio. Il che mi porta a ridere, perché è un uomo che nel frigorifero arriva a tenere anche certi prosciutti che chissà chi gli porta – la madre, immagino – e rimangono lì a fare la muffa finché non sviluppano capacità di pensiero e di muoversi autonomamente. Però quando deve preparare la cena dev’essere tutto perfetto e fresco, o sclera. Vallo a capire. Potevamo chiedere alla signore Lotte, con la quale peraltro tornare a parlare, dopo che lui l’ha scelta come padre confessore qualche settimana fa, è stato imbarazzante come chiamare mia madre dopo che le foto di me ed Anis che ci imboccavamo a vicenda con le bacchette al Sushi Bar Ky sono uscite su tutti i giornali, ma lui no, lui s’è messo in testa di dover rifornire il frigorifero, e chi lo ferma più?
Insomma, finisce che come al solito gli do corda e ci ritroviamo fra i banconi del supermercato a cercare tutti i prodotti migliori, e mentre Chakuza litiga con l’addetto al banco frutta – colpevole di avergli rifilato delle pesche a suo dire quasi marce – a un certo punto sentiamo una risata cristallina di donna che ci colpisce entrambi per quanto è vicina e divertita.
Mi volto già sul piede di guerra, perché se è qualche ragazzina intenzionata a prenderci per il culo perché stiamo facendo la spesa insieme, le finisce male, così come le finisce male se è una qualche fangirl che ci ha riconosciuti e appena ci vedrà girarsi verso di lei si metterà a strillare attirandoci addosso l’attenzione di tutti i clienti del supermercato, ma quando i nostri occhi si posano sulla figura della ragazza Chakuza si irrigidisce immediatamente al mio fianco e perciò io lo guardo stupito e resto in attesa di qualcosa. Un segnale, magari, qualcosa che mi aiuti a capire perché. E invece non arriva niente.
Almeno da parte sua, perché invece da parte della stessa donna arriva un’altra risata, ed io mi volto nuovamente a guardarla. Si tratta una bella mora piccola e snella, con un culo meraviglioso fasciato in un paio di jeans che mi ritrovo a fissare con una certa soddisfazione per un paio di secondi, prima di ricordarmi che Chaku, accanto a me, ha ancora un’espressione sconvolta da annuncio di morte, e perciò dev’essere qualcuno che conosce, non vede da un sacco e magari non si aspettava di rivedere neanche adesso. Magari una sorella perduta, o un’ex. Non posso fissare il culo della sorella di Chakuza, figurarsi di un’ex, perciò la pianto.
- Ciao, Peter. – dice la donna, - Non mi presenti al tuo amico? – ed il modo in cui sottolinea la parola, caricandola di allusioni, in modo garbato ma pesante, mi imbarazza un po’.
- Klaudia… - la chiama lui, senza rispondere alla domanda e deglutendo a vuoto, - Che ci fai qui…?
Lei solleva il cestello rosso carico di cipolle e salumi, e si piega un po’ su un fianco in una mossetta carina e un po’ infantile.
- Ovviamente faccio la spesa. È quello che si fa nei supermercati, Peter! – lo prende in giro con un’altra risata.
- Sì, ovviamente… - biascica lui, ed io sollevo il nostro cestello rosso, per far capire alla signorina che noi non è che invece siamo venuti qui a girovagare e basta, eh. Dio, mi sento un cretino.
- Piacere, io mi chiamo Patrick. – dico alla fine, quando capisco che Chakuza non recupererà mai abbastanza grammi di materia grigia in tempo per presentarci prima della chiusura del supermercato.
- Klaudia. – ripete lei, stringendomi decisa la mano, - Allora è vero quello che si dice sui giornali di recente… - aggiunge con un tono vagamente malizioso, - Mi sembrava assurdo, pensavo fosse solo gossip, anche perché non c’erano foto né altro e non si facevano nomi precisi, ma… - ride un po’, - evidentemente invece è così.
Io e Chakuza non è che passiamo proprio tantissimo tempo a guardare la televisione o leggere giornali, diciamo che di questo si occupa Eko che in primo luogo non ha mai un cazzo da fare ed in secondo luogo vive pure da solo, quindi non deve preoccuparsi di aprire la porta di casa e vedersi assalito da un uomo che pare non tocchi un corpo umano da secoli, perciò alla fine è sempre lui che ci riporta queste notizie idiote. Ma ultimamente io e il Chaku ci siamo dati un po’ alla macchia, lo ammetto, a parte per le cene di famiglia che la coppia reale organizza di tanto in tanto e durante le quali evitiamo di parlare del nostro rapporto o di quello che facciamo, e così fanno anche gli altri, per evitare che Bushido trasecoli e diventi di un giallo più intenso della tinta della sua villa, perciò non ho la minima idea di che cosa stia discutendo Klaudia, e mi limito ad annuire al vuoto con aria idiota.
- Sì? – continua lei, guardandomi con interesse divertito, - Allora state—
- No! – la interrompe impetuoso Chakuza, risvegliandosi come da una trance, - Che razza di storie, ovvio che no. È che ai giornali non pare vero poter inventare cose simili, visto i rapporti che ci legano a Bushido e Bill… - motiva, ed io inarco le sopracciglia ma mi rassegno ad annuire, visto che decisamente non è il caso di mettersi a definire pubblicamente la relazione che portiamo avanti nel mezzo di un supermercato e davanti ad una donna il cui ruolo nella vita del Chaku mi è ancora ignoto.
Klaudia si mette a ridere ed annuisce comprensiva.
- Naturalmente. – conferma, - Comunque io sono l’ex-fidanzata di Peter. – annuisce, rivolgendosi nuovamente a me, che sull’ultima dichiarazione ci perdo anche un paio di battiti. Niente sorella perduta, peccato. – È un piacere conoscere l’eroe che gli ha salvato la vita.
Cerco di fare mente locale.
- Cos’è che avrei fatto? – chiedo ad alta voce, visto che non ho la più pallida idea di cosa stia dicendo.
Chakuza si spiaccica una mano sulla fronte.
- TRL, Fler, TRL… - mi ricorda. Io ho sempre difficoltà ad inquadrare quel momento. A parte il fatto che stiamo parlando di due anni fa, e sono due anni fa che sembrano due secoli fa, ma il punto reale è che fatico sempre a ricordarmi che ci sono solo due cose per cui l’opinione pubblica ricorda la mia persona in tempi recenti. Una è la sceneggiata di fronte agli studi di TRL, quando il Chaku è stato accoltellato – ero lucido, ricordo a grandi linee cos’è successo, ma i dettagli continuano a sfuggirmi. Se ci ripenso, vedo solo Bill accasciato a terra con suo fratello che lo tiene a stento, e Chakuza in una pozza di sangue – e l’altra è la mia relazione con Anis. Tutto sommato, sono contento che questa donna abbia deciso di tirare fuori una cosa all’interno della quale quantomeno ricopro il ruolo dell’eroe senza macchia e senza paura.
- Sì, be’, - dico a mo’ di battuta, - ho avuto modo di pentirmene, successivamente.
Klaudia ride. Chakuza per niente. A me la situazione generale sta sul cazzo e mi piacerebbe essere a casa di Sido a rubare la playstation a sua figlia. Considerato il fatto che sono uscito da quell’appartamento meno di un mese fa, direi che sto facendo dei considerevoli passi indietro nella mia scala evolutiva, e ciò non è bene.
- Uh, com’è tardi! – dice all’improvviso Klaudia senza nemmeno guardare l’orologio, - Devo andare, o non riuscirò a preparare la cena in tempo per il ritorno di Klaus.
Chakuza spalanca gli occhi.
- …stai con qualcuno? – chiede allucinato, e per un secondo a me viene da pensare “ma sì, già che ci sei buttati in ginocchio e piangi”, ma mi mordo la lingua e mi calmo.
Lei si ravvia una ciocca di capelli dietro l’orecchio e sorride timidamente.
- Sì, ci siamo sposati un paio di mesi fa. – confessa con imbarazzo.
- E… voglio dire, da quanto…?
- Oh, è stato… una specie di colpo di fulmine, sai? Non molto dopo che noi…
Ed è tutto un balbettare e un dire-non-dire. Mi viene da vomitare. Ma è mai possibile che, a parte me, quest’uomo sia in grado di intrattenere solo ed esclusivamente relazioni palesemente basate su stereotipi da Harmony di serie zeta?
- Non dovevi finire di litigare col fruttivendolo? – scollo apatico qualche secondo dopo. E Klaudia deve solo ringraziare la mia educazione miracolosamente a posto, se non le sorrido beatamente ricordandole che ha un Klaus da nutrire appena torna da lavoro e invece è ancora qui a rompere le palle a un uomo che non le compete più.
Chakuza si volta a guardarmi con aria severa, come quando intende dirmi “Fler, ti dispiacerebbe smetterla di comportarti così?”, che è un tono che di solito usa in quei rari casi in cui ancora mi capita di bere un po’ troppo – e quindi ho torto. Qui non ho torto. Almeno, mi pare. E comunque, di sicuro non sono ubriaco.
Pochi secondi dopo, Klaudia sparisce in una nuvola di profumo cinguettando arrivederci e a presto, ed io mi dirigo con passo marziale verso le casse, decidendo che delle pesche non mi frega, nemmeno dei ravanelli o del burro per le frittelle di domattina. Odio essere così umorale, ma non volevo nemmeno uscire e questa situazione mi ha scazzato parecchio. Perché Chakuza è geneticamente incapace di concentrarsi su una sola persona per volta? Cristo.
- Fler? – mi chiama lui, affiancandomisi, - Non abbiamo preso—
- Sai che m’importa. – taglio corto, mettendomi in fila. Lui mi fissa con disapprovazione.
- Sei stato molto maleducato. – mi riprende, neanche avessi due anni.
- No, tu sei stato uno stronzo, io ho solo agito di conseguenza. – gli ricordo.
Lui inarca le sopracciglia, supponente.
- E cos’avrei fatto di così stronzo? – chiede, mentre riusciamo finalmente ad arrivare al nastro trasportatore e cominciamo a svuotare il cestello.
Faccio per descrivergli esattamente quanto mi abbia infastidito il suo atteggiamento stile “amore-della-mia-vita-non-ti-ho-mai-dimenticata”, ma mi rendo conto che suonerei ridicolo, perciò mi freno. È il dramma di questa storia: siamo due fottuti maschi, e questo è un problema sotto svariati punti di vista. Ci sono cose che semplicemente non possiamo permetterci di fare, o almeno così sono convinto, ma solo perché non l’ho ancora visto scuotere il capo e pestare con forza una scatoletta di tonno sul nastro trasportatore, prima di voltarsi a guardarmi, furioso.
- Sei ridicolo! – mi sbotta in faccia, - E non provare nemmeno a fare finta di non sapere perché te lo sto dicendo, perché se solo ci provi ti giuro che ti lascio a piedi. Con la spesa.
Aggrotto le sopracciglia.
- Non sono assolutamente ciò che tu pensi io sia! – mi lamento, caricando sul nastro la lattuga fresca, - Sei tu che dai spettacolo sbavando per la tua ex nel mezzo di un supermercato!
- Oh, sì che lo sei! – continua lui, furioso, gettando sul nastro i pacchi di pasta, - Li conosco i tuoi sguardi, e quello è proprio uno sguardo—
- Non dirlo nemmeno per scherzo!
- —geloso, Fler, uno sguardo geloso, e piantala!
Qualcuno tossicchia di fronte a noi e noi solleviamo lo sguardo. Il cassiere ci scruta con aria allibita.
- C’è… c’è qualche problema, signori?
Di problemi, vorrei rispondere, ce n’è una lunghissima lista, ma non è il caso di sciorinarli tutti a questo pover’uomo che vuole soltanto farci pagare e costringerci a sparire da qui – immagino che dopo quest’episodio saremo banditi dalla maggior parte dei supermercati di Germania – perciò trattengo le lamentele e lascio perdere, tirando fuori il portafogli mentre Chakuza borbotta delle scuse assolutamente incomprensibili e va a mettere tutta la roba nei sacchetti di plastica. È talmente furioso che, per una volta, si dimentica perfino di provare a pagare lui per primo come in genere fa sempre.
In macchina, mi sta ancora tenendo il broncio. Neanche avessi fatto chissà che.
- La vuoi piantare di ignorarmi? – gli tiro una mezza gomitata, e lui si scazza subito e mi urla che se voglio farlo morire in un incidente d’auto, tanto vale che gli manometta direttamente i freni, senza provare a farlo sbandare così a caso. Io gli strillo che è un coglione e che se magari la pianta di esagerare è meglio, ma lui non si rassegna, e continua a ringhiare.
- Abbiamo dato spettacolo! – mi fa notare, come non me ne fossi già accorto da solo.
- Sì, be’, hai insistito tu per parlarne di fronte al cassiere. – borbotto, abbassando lo sguardo sul sacchetto pieno di ortaggi che ho in grembo.
- Non è che volessi parlarne di fronte al cassiere, Fler! – sospira lui, esasperato, - Mi sono incazzato!
- Tu t’incazzi sempre quando non hai il minimo diritto di farlo. – scollo freddamente, scrollando le spalle, - E infatti puntualmente fai stronzate, quando succede.
Lo so che è una bastardata colossale, tirare fuori sempre quest’argomento quando non mi piace dove sta andando a parare la discussione. Non è neanche qualcosa che dico, quanto più il suono della mia voce, così diverso da quello che uso solitamente con lui, e Chakuza sa che, quando parlo in questo modo, sto parlando di quella notte, perché quello che è successo quella notte è l’unico vero torto grave che Chakuza mi abbia mai fatto. Se non uso quello, non ho nient’altro con cui combatterlo.
Lui, comunque, incassa silenziosamente, e zitto rimane – le mani strette attorno al volante e lo sguardo fisso sulla strada – per una quantità infinita di minuti. Almeno fino a quando non sono io a rompere nuovamente il ghiaccio. Usando l’argomento peggiore di tutti, suppongo.
- Com’è che sono andate le cose con quella Klaudia?
Mi lancia un’occhiata sconvolta, fermandosi al semaforo.
- Non voglio parlarne con te. – borbotta offeso, - Non voglio neanche parlare con te in generale.
Sollevo il medio e lo mando a fanculo. Lo sento sospirare qualche secondo dopo.
- Fleeer… - mi chiama, come fa sempre quando vuole mettermi in imbarazzo, perché io quando sono imbarazzato non sono più in grado di restare arrabbiato. Odio che mi conosca così bene. Mi fa sentire più indifeso di un bambino. – Senti, scusa. Oggi non avevamo ancora litigato, è palesemente per questo che—
- Abbiamo mica il cartellino da timbrare ogni giorno. – protesto sgarbatamente, sempre senza guardarlo.
Lui sbuffa una mezza risata.
- Ognuno ha le sue abitudini. – dice pacato, - Noi abbiamo le nostre. Comunque sia, - cambia argomento, - non ho un problema a parlare di Klaudia. Non ho un problema neanche con Klaudia.
- Oh, no, figurati… - lo prendo in giro, e lui ride subito.
- Okay, senti, siamo stati insieme un po’. Un bel po’. – ammette, - Mia madre era già partita con tutta una serie di film mentali con matrimonio e centinaia di bambini. E non è che l’idea mi dispiacesse, in realtà, però insomma, è sempre un casino portare avanti queste relazioni, col lavoro che facciamo noi. Lo saprai, no?
- Io ho scopato un sacco ma non mi sono mai fatto problemi di nessun tipo, Chaku. – gli faccio notare, - Questa mania dell’accasarsi è una cosa che non condivido.
Lui grugnisce ed a me viene voglia di correggermi e dire che non la condividevo fino a qualche tempo fa. Qualcuno dovrebbe ricollegare la spina che Chakuza ha staccato dal mio cervello quando ci siamo conosciuti.
- Insomma… - riprende, guardandomi malissimo, - Tant’è, non funzionava. Litigavamo di continuo e lei proprio non riusciva a reggere i miei ritmi, e—
- I tuoi ritmi, Chaku? – spalanco gli occhi, - Ma se lavorava palesemente solo Bushido, all’Ersguterjunge! Era lui quello da un album all’anno! Voi ne avevate uno ogni due-tre ed una canzone solista nei Sampler, se vi andava bene! I tuoi ritmi lavorativi sono i miei ritmi festivi! – Chakuza deglutisce e non mi guarda. Io piego il capo. - …e tu non stavi parlando di ritmi lavorativi. – deduco qualche secondo dopo, inarcando le sopracciglia. – Chaku, non starai mica dicendomi che—
- Non è necessario specificarlo. – dice gelido, aggrottando le sopracciglia.
- Oh, no. – scuoto il capo io, - Mi hai dato del geloso di fronte a decine di persone. Il cazzo non c’è bisogno di specificarlo. Allora la tua infinita voglia di scopare non è un problema mio, è proprio una cosa tua! Una qualche malattia seria!
- Be’? – sbuffa lui, contrariato, - Eri convinto di avere qualche merito particolare?
- Se non freni la lingua avrò il merito di tagliarti i coglioni e gettarli nelle fogne. – minaccio a bassa voce, - Cioè, la sfinivi e lei ti ha mollato?
- Non è andata affatto così! – strilla isterico.
- È andata esattamente così! – ribatto io, girandomi sul sedile per guardarlo meglio, - Dio mio, Chakuza! Ma quanto insistente devi essere stato per esasperarla al punto da—
- Ehi, sono un uomo sano con un fisico sano ed ho dei sani bisogni!
- Tu non hai dei sani bisogni, tu hai un unico pensiero fisso nella testa e da lì non ti muovi neanche morto!
- Ma ti ho portato a fare la spesa!
- E prima abbiamo scopato!
- Be’, una volta!
- E se ti avessi detto che stanotte volevo andare a dormire a casa mia?
- Naturalmente ti avrei legato al letto.
- Chakuza!
- Che c’è?! Sto cercando di essere sincero!
Rimango lì a fissarlo a bocca aperta e lui guarda me per un secondo infinito. Deglutisco ed indico un posto macchina libero sotto casa sua.
- Parcheggia. – biascico, - Sei tremendo ed io non ho parole.
- Sarebbe la prima volta. – commenta infilandosi nel posto vuoto ed alzando gli occhi al cielo.
- Non giocare al maritino esasperato con me, Chaku, - lo minaccio io, agitandogli un dito davanti al naso, - non ti chiami Klaus ed io non sono Klaudia e, per tua informazione, punto primo: stanotte dormo a casa mia, punto secondo: starò quanto più possibile lontano dal tuo letto per i prossimi dieci anni e punto terzo… che stai facendo?
Lui nemmeno mi guarda.
- Abbasso il sedile.
- Sì, questo lo vedo. – annuisco compito, - Ci sono io sopra.
- Appunto. – risponde, e mi è addosso il secondo dopo.
- No! – strillo, cercando di tenerlo lontano piantandogli le mani sul petto, - Di nuovo in macchina no!
- Eddai, Fler! – sbotta, ficcandomi scorrettamente un ginocchio fra le gambe.
- Ma cos’hai, quindici anni?! Dio mio! – mi lamento, cercando una posizione più comoda mentre già lui mi costringe ad allargare le gambe e sento la pressione tristemente familiare del cambio contro uno stinco. – Non stento a credere che quella povera donna sia scappata urlando.
Lui ride divertito – mi piace quando ride così, sembra davvero un ragazzino – e si china a mordermi il collo.
- Tu non scapperesti. – mi sussurra all’orecchio, ed io rabbrividisco e mi arrendo, stringendogli le gambe attorno alla vita. Chakuza ride ancora e mi bacia velocemente. – Sai cosa penso, Fler? – mi chiede, ed io scuoto il capo, - Probabilmente a me serviva un uomo.
Io sospiro e mi passo una mano sugli occhi.
- No, probabilmente a te serviva un martire.

Bookmark and Share

Der Chef

di lisachan
DER CHEF

Io purtroppo non ho avuto il tempo fisiologico di abituarmi a Daniel.
Se Fler me l’avesse presentato nella giusta maniera – poco a poco, intendo, dandomi modo di capire esattamente di cosa si trattava e tutto il resto – probabilmente non proverei per lui tutto questo fastidio insopportabile. Magari sì, ok, mi farebbe rabbia l’idea di averlo ancora fra i piedi – e chi ci pensava, due anni fa, in quel vicolo, a Tempelhof? – però potrei tollerarlo, ecco.
E invece no.
Daniel per me era una cosa dispersa nella memoria di una notte da incubo, e poi è diventato d’improvviso “quello che era stato con Fler mentre io ero via”. E lo è diventato di botto, senza preavviso. E non è bastato neanche che Fler lo lasciasse, come mi ha poi confessato di aver fatto dopo la famosa cena in casa di Sido alla quale tutt’oggi non sono certo di essere sopravvissuto, no: Daniel è rimasto fuori dai piedi per qualche giorno, probabilmente rintanato a casa sua ad ascoltare i Cure o qualche altra variante sul tema e leccarsi le ferite, da bravo adolescente deluso e incazzato col mondo, e dopodiché, come nulla fosse successo, è tornato. Ha ricominciato a ronzare attorno a Fler, peraltro senza nascondere minimamente né l’astio che prova nei miei confronti – perché per lui è evidente che se Fler l’ha lasciato è stato per colpa mia, non perché era stufo di cambiargli i pannolini e nutrirlo col biberon otto volte al giorno – né tantomeno il suo essere ancora interessato all’uomo che al momento tra le altre cose oltre a non volerlo più sta con me. E non c’è stato verso di convincerlo a piantarla.
Da quel momento in poi, non ricordo un giorno in cui Daniel non ci sia stato tra i piedi o non sia stato fonte di inenarrabili guai. L’ultima volta, Fler ha fatto irruzione in casa mia tipo alle quattro del mattino, spingendo in avanti questa specie di cencio semovente che si è poi rivelato essere, appunto, Daniel avvolto in una felpa grande il doppio di lui e allegramente imbrattata di sangue. Al mio sguardo allucinato, sconvolto, stordito e pure un po’ assonnato, la risposta è stata “l’hanno inseguito con le spranghe, Chaku, non potevo lasciarlo lì nell’angolo dove l’ho trovato”. Al che, giustamente, io mi sono pure chiesto punto primo: che diavolo ci faceva Fler in giro per Tempelhof a quell’ora?, e punto secondo: spranghe?!, ma chiaramente non potevo mettermi lì a lamentarmi mentre il dannato moccioso perdeva sangue sullo zerbino.
E con Daniel è sempre così, peraltro. È sempre un ripetersi di “andiamo, Chakuza, non vorrai mica fregartene e lasciarlo sulla porta?”. Quando Fler pronuncia il mio nome a quel modo so sempre che, in caso di risposta affermativa – e Dio sa se ogni tanto non vorrei sbottare “sì, Fler, proprio lì sulla porta” – partirà una rappresaglia dalla quale difficilmente verrò fuori illeso. Perciò sono cose che cerco di evitare. Fler sa essere dannatamente convincente, quando vuole. Inoltre, effettivamente, il moccioso si presenta solo quando è davvero malconcio, ecco.
Il dramma è che gli capita anche troppo spesso.
Fino a due minuti fa io e Fler stavamo discutendo le possibilità della giornata. Visto che non è ancora nemmeno mezzogiorno, stavo cominciando a pianificare di andare a fare la spesa, cucinare qualcosa da mangiare e poi, non so, chiuderci in camera da letto fino a domattina anche se fuori c’è un bel sole e tira un bel venticello fresco – chissenefrega, insomma – e Fler stava giusto protestando in quel modo tipico di lui in cui continua a ripetere “no” intendendo “sì”, e quindi io ero pieno di buone speranze. E poi lo stupido campanello s’è messo a trillare.
Ovviamente io stavo illustrando a Fler il programma nel modo più pratico possibile – che poi è il motivo per cui continuava a dire “no”… ha dei problemi quando gli metto le mani addosso al mattino, dice sempre cose assurde tipo “dammi il tempo di svegliarmi”… non è necessario che sia proprio sveglio, mi piace quando è ancora semi-incosciente, fa dei bei suoni – comunque, in sostanza stavo cercando la via per la felicità e Fler invece non stava cercando che un pretesto per fermarmi, e lo stupido campanello è arrivato come una cazzo di ciliegina sulla cazzo di torta. Proprio a fagiolo, veramente.
Fler è corso ad aprire la porta scivolandomi dalle mani ed ora eccoci qua, inorriditi, che fissiamo questo mucchietto d’ossa pesto e livido che ci guarda oltre la soglia della porta. Sento Fler teso come una corda di violino, al mio fianco.
- Ciao. – borbotta Daniel, sollevando lentamente una mano per salutarci. Il braccio si ferma a metà. - …deve avermi slogato una spalla, stavolta.
Faccio per sbottare in un “Daniel!” che non so nemmeno cosa voglia dire – perché a un ragazzino così conciato, cosa gli dici? Davvero… - ma Fler mi anticipa, e la sua voce risuona secca e agitata per tutto l’appartamento.
- Daniel, Cristo! – lo richiama, avvicinandoglisi e sporgendosi a controllarlo da tutti i lati, - Ma che cazzo è successo? Sono stati di nuovo quei-
- No. – lo ferma lui, abbassando lo sguardo. Gli occhi azzurri si annebbiano appena, mentre si inumidisce incerto le labbra, - …mio padre. – confessa alla fine, sospirando pesantemente.
Fler si fa di ghiaccio per un secondo. Poi si allontana, tira un’imprecazione irripetibile e molla un calcio sconvolgente alla poltrona. Io lo fisso, allucinato, e Daniel continua a tenere gli occhi bassi, come si vergognasse.
- Fler…?
- Porca puttana! – urla ancora, afferrando un soprammobile a caso e gettandolo per terra. Quello rimbalza e s’infila sotto il divano con un suono sordo. – Fanculo a questa merda! – grida. Poi si ferma ancora, ed io riprendo a respirare.
- Pat. – lo chiamo a bassa voce. Lui solleva una mano.
- Un secondo, Chaku. – mi ferma, forzando un tono tranquillo nella voce. Io annuisco e lo aspetto. Vedo la tensione accumularsi nei muscoli delle sue spalle, sotto la maglietta leggera, ed i tendini tirarsi e scattare a chiudere e riaprire il pugno, come a cercare di scaricare la rabbia. – Daniel, entra.
Il ragazzino annuisce, fa un passo e casca. Allungo le braccia appena in tempo per recuperarlo, prima che si schianti contro il pavimento.
- Cristo… - borbotto, cercando di tenerlo dritto. Fler è ancora lì immobile e sospetto che, se si muovesse, tremerebbe il pavimento.
- Ce la fai? – mi chiede, la voce che trema. Io annuisco e lo porto verso il divano, dove cerco di stenderlo senza fargli male.
Ci inginocchiamo lì accanto e restiamo in attesa che si muova. Che è sveglio lo capiamo subito, perché apre le palpebre e ci guarda come volesse trovarsi da tutt’altra parte. Come volesse scusarsi. C’ha le scuse piantate negli occhi, questo ragazzino. Chiede perdono sempre, anche quando non fa niente. È una cosa che si vede solo quando lo si frequenta da un po’, perché la nasconde bene. Ora, io non è che lo frequenti da una vita, ma qualche settimana da quando gli ho posato gli occhi addosso è passata, ormai, perciò posso parlare con una certa cognizione di causa.
Comunque non si muove per un sacco di tempo. Solo dopo un bel po’ di minuti solleva un braccio lievemente meno malconcio per strofinarsi gli occhi.
- Mi ha pestato per bene, - dice poco dopo, un sorriso sghembo a deformare i tratti ancora infantili del viso, - ha scoperto la roba e ha dato di matto.
- Non c’entra un cazzo la droga. – trema Fler al mio fianco, - Quello dà di matto un po’ troppo, per i miei gusti. – si china su di lui e gli ravvia i capelli sulla fronte. C’è un taglio enorme proprio nel centro, sembra che gli abbiano tirato una cazzo di bottigliata. Mi dà i brividi. – Danny, io ne ho prese a pacchi, di legnate. Ma tu ne prendi il doppio, cazzo. Sei… guardati. – e sfiora appena il profilo dello zigomo violaceo e tumefatto. Deglutisco.
- …vado a prendere la cassetta del pronto soccorso. – mugugno alzandomi in piedi.
Fler asserisce senza nemmeno guardarmi, continuando a misurare i lividi sul suo viso, sul collo, sulle braccia.
- Ce la fai a sfilarti la maglia? – lo sento chiedere mentre, in bagno, recupero la valigetta.
Daniel dice che sì, certo che ce la fa, ma appena Fler prova a fargliela passare su per la testa comincia a lamentarsi in una maniera straziante.
- Fler… - lo chiamo avvicinandomi, la cassetta stretta in pugno, - Gliela tagliamo via, la maglietta? Così non-
- Ce la faccio. – ansima Daniel, liberandosi lentamente dell’ingombro di abiti, - Ce la… Cristo che male.
Il petto, il ventre e i fianchi sono una mappa di escoriazioni e lividi. Macchie rosse, giallastre e viola ovunque. Fler le fissa inorridito, le labbra dischiuse e gli occhi spalancati, ed io, credo, per la prima volta realizzo pienamente quanto schifo faccia la vita di questo ragazzino. Fler ha provato almeno una cinquantina di volte a dirgli per lo meno di piantarla di spacciare, che può dargli una mano lui, ma ogni volta Daniel gli ha risposto bruscamente di farsi i fatti suoi. È in questi piccoli dettagli che si vede quanto piccolo sia ancora, quanto disperatamente voglia che Fler si prenda cura di lui e al contempo quanto senta il bisogno di dimostrargli che ce la fa benissimo da solo.
- Cristo santo. – dice Fler, ed è appena un sussurro la voce non sembra neanche sua, tant’è debole e sconvolta.
Daniel deglutisce.
- …non guardarmi così. – chiede in una preghiera senza inflessioni. Lui e Fler si guardano a lungo, probabilmente si stanno anche dicendo qualcosa. Discretamente, senza parlare. Poi Fler si alza in piedi, facendo leva sul divano con entrambe le mani, come non avesse la forza di sollevarsi senza aiuto.
- Chaku. – mi chiama, tirandomi appena per la manica, - Posso parlarti di là un secondo?
Annuisco e mi sollevo, molleggiando un po’ sulle gambe. Guardo Daniel e lui mi fa cenno di andare senza neanche aspettare che gli chieda se possiamo lasciarlo qui da solo.
Fler mi anticipa in camera da letto muovendosi velocemente. Non ce la fa a restare in quella stanza, l’ho capito. Appena ci chiudiamo la porta alle spalle capisco subito che, se avesse qualcosa in mano, la stritolerebbe fino a distruggerla. Mi allungo a sfiorargli la spalla e lo sento tesissimo, un fascio di nervi sotto le dita.
- Pat, dai…
- Sono fuori di me, Chaku. – dice tutto d’un fiato, afferrando la mano e stringendola fra le sue, - Lo ammazzo, quel figlio di puttana. Lo ammazzo, Cristo.
So che ne sarebbe capace.
Mi avvicino, cerco di essere paziente anche se odio questa situazione ed odio le attenzioni di Fler nei confronti di Daniel.
Non so che dire, quindi mi limito a lasciar scorrere la mano libera lungo il suo braccio e poi stringerlo per una spalla, tirandomelo contro. Fler mi sfiora il collo col naso, una volta, due volte. Aspetto in silenzio e poi lo sento inspirare, ed allora mi rilasso: lo percepisco fare avanti e indietro lentamente, da sotto l’orecchio alla spalla, respirando piano, profondamente. Ogni tanto gli basta questo, il mio odore lo calma. Continuo a tenerlo stretto.
- Possiamo tenerlo un po’ qui? – mi chiede, proprio contro la pelle. Ed è un po’ buffo che me lo chieda, perché teoricamente lui sta ancora a casa sua. Ha un appartamento, a qualche isolato da qui, e ogni tanto ci dorme ancora. Però, invece di dirmi “lo porto a casa con me”, mi chiede se possiamo tenerlo qua.
- Non lo so, Pat. – lui mi lascia andare la mano e stringe appena le dita contro i miei fianchi. Resta lì per un po’, indeciso. Poi si rassegna e mi abbraccia. Io gli respiro addosso e lo stringo per le spalle. Siamo così vicini che non riesco a capire dove finisco io e dove comincia lui. Siamo intrecciati. – Ti sembra il caso?
- Non ce lo rimando, da quello. Lo ammazza, se continua così. – ripenso al torace stretto e magro di Daniel, tutti quei lividi, le ferite. È vero che finirà male, se non facciamo qualcosa. Ed è vero che, nonostante tutto, non voglio che finisca male. Perdio, è solo un ragazzino.
- Possiamo vedere di chiedere a Bushido se-
- Non c’entra un cazzo Bushido con questa storia! – mi ringhia addosso lui, stringendo la presa attorno alla mia vita, - Daniel è una cosa che non gli compete. Non è affare di nessuno.
Aggrotto le sopracciglia e provo l’irrefrenabile e improvviso desiderio di devastare qualcosa. Solo che l’unica cosa che posso toccare adesso è Fler e non ho alcuna intenzione di devastare lui – è già successo, so che non mi piace. So che non posso e non voglio farglielo – perciò mi trattengo, mi limito a stringerlo più forte.
- …va bene. – annuisco, - Okay, lo teniamo.
Lui si allontana un po’ e mi guarda. Ha gli occhi incredibilmente liquidi. Non credo riuscirò mai a capire davvero cosa leghi tanto Fler a questo ragazzino. Forse dipende dal fatto che ci sono ancora miriadi di cose che non so, sul suo conto. Su Fler, dico. Mi mancano dei tasselli enormi. Interi pezzi della sua vita. Forse, se li conoscessi, capirei. Ma ho sempre paura di capire troppo di lui. Non saprei quando fermarmi, me ne accorgerei in ritardo. Questa cosa che abbiamo ha rischiato di distruggersi troppo spesso perché io possa concedermi errori di questo tipo.
Si sporge a baciarmi ed io me lo tiro contro, baciandolo ed affondando dentro di lui perché adesso voglio sentire il suo sapore e voglio che sia quello a ricordarmi che è mio e non andrà da nessuna parte, Daniel o non Daniel. Fler mi lascia fare e risponde carezza su carezza; ora è lui che deve tranquillizzarmi. E lo fa.
- Grazie. – sussurra appena ci separiamo, - Lo sai che non succederà niente, vero? – e mi sfiora appena con la punta del naso.
- No? Davvero? – chiedo sarcastico, inarcando un sopracciglio.
- Davvero. – annuisce sicuro lui, - Io ti—
-Ok. – lo fermo, baciandolo prima che possa dirlo. Lo fermo perché odio che lo dica adesso, visto che lo fa come fosse un ringraziamento. E lo fermo perché io non gliel’ho ancora detto, mentre lui l’ha già fatto in svariati modi non so quante volte, non solo a parole, come ogni tanto gli è capitato in quest’ultimo periodo, ma anche con i fatti. Rispondere ad una cosa del genere è un problema, quando associato a quelle parole, per abitudine o per altro, c’è un altro volto, un altro sapore, un altro odore. – Ti credo. Non succederà niente.
Fler mi guarda e sembra un po’ deluso dal fatto che non gliel’abbia lasciato dire. Mi innervosisco perché così sembra volesse usarlo per ripulirsi la coscienza. So che non è veramente così, intendo, cazzo, so che quando lo dice lo pensa. Lo so che è vero. Sono ormai più di due anni che me lo dimostra, ogni giorno in cui torna, ogni volta che si fa toccare ed ogni volta che non mi manda a fanculo anche quando me lo merito ampiamente. Il problema non è quello.
Sono nervoso. C’è Daniel ricoperto di lividi di là ed ho appena accettato di tenerlo in casa per non so nemmeno quanto, e Fler sembra intenzionato a non togliergli le mani di dosso finché campa. In senso platonico o meno, mi scazza comunque.
È che Fler è una bella persona. Finisce per avere rapporti speciali con tutti. Non lo so. Non mi piace che… vorrei che non fosse così, ecco. Non so neanche se quello che penso ha un senso.
Quando torniamo di là, Fler mi sta ancora stringendo la mano – è successo quando abbiamo sciolto l’abbraccio, io ho lasciato scivolare la mano lungo il fianco e lui ha intrecciato naturalmente le dita con le mie, e là sono rimaste, senza un perché. Daniel lo troviamo impegnatissimo a sistemarsi da sé. S’è già bendato la testa ed ha spiaccicato cerotti e pomate un po’ ovunque. Nel momento in cui entriamo nella stanza, lo troviamo intento a coprire con un cerotto enorme un taglio sul mento. Si volta a guardarci, individua le mani strette e per un secondo io rafforzo la presa attorno alle dita di Fler. Poi non posso fare a meno di sentirmi in colpa – ed anche stupido: faccio il gradasso con un ragazzino, Dio mio – e lo lascio andare. Patrick non s’è accorto di niente perché sta guardando fisso il corpicino martoriato, facendo la conta dei danni.
- Lascia fare, ragazzino. – borbotta sedendosi al suo fianco e controllando la fasciatura attorno alle tempie. È troppo lenta. – Chaku… - mi chiama, ed io sospiro e mi avvicino, sciogliendo le garze per sistemargliele meglio ed andando alla ricerca di una retina da mettergli come cuffia, per tenerle ferme. Nel mentre, Patrick controlla i cerotti e asciuga gli sbuffi di pomata in eccesso con una pezzuola un po’ umida. La scena è surreale. Daniel resta immobile, arreso nelle nostre mani, per tutto il tempo.
Quando finiamo, sono ancora quasi convinto che il moccioso dovrebbe andare all’ospedale, ma sono anche ragionevolmente certo che, pur non andandoci, sopravvivrà; perciò sono soddisfatto così e non mi metto a fare storie. Anche perché so che ora arriverà la parte peggiore della giornata e voglio riservarmi di ringhiare per dopo.
- Danny, io e Chakuza abbiamo parlato e siamo d’accordo sul fatto che puoi restare qui, per un po’. – lo avverte lui, sfiorandogli un braccio, - Almeno fino a quando non ti troviamo un altro posto in cui andare. Comunque tu in quel posto di merda non ci torni.
- …ho una consegna a—
- No. – scuote il capo Fler, - Non hai capito. Te ne tiri fuori. Molli.
Il ragazzino digrigna i denti e si muove sul divano, agitato.
- Devo almeno andare ad avvertire i—
- No, cazzo, Daniel! – urla lui, battendo una mano contro il bracciolo del divano, - Cosa pensi, che queste cose si mollino salutando cordialmente quelli che ti hanno pestato e sfruttato negli anni? Credi che io sia andato casa per casa a porgere scuse e omaggi, quando Sido mi ha tirato fuori da quel merdaio? Cazzo! Te ne vai senza guardarti indietro, o non te ne andrai mai davvero.
Daniel incassa la testa nelle spalle e guarda per terra. Io resto qui in piedi e Fler resta lì seduto a guardarlo severamente, per una lunghissima serie di minuti che si conclude solo quando lo sento sospirare e passargli una carezza affettuosa sulla retina che ha sulla testa. Un gesto lento e tranquillo, per evitare di scombinarla.
- Riposati. – gli dice, adesso più dolcemente, - Io vado a casa tua a prendere la tua roba. Tornerò in un paio d’ore.
Ho appena il tempo di farmi passare per la mente la possibilità di restare da solo con Daniel, che lui subito la manda a puttane. Solleva una mano e la stringe attorno alla maglietta di Fler, tirando il tessuto leggero fino a deformare la scollatura.
- Resta qui. – dice a bassa voce, senza dimostrare di accorgersi della mia presenza, - Per favore.
Fler serra la mascella e lo guarda. Io stringo i pugni e guardo lui. Così intercetto l’occhiata che mi lancia ed ho tutto il tempo di cominciare ad incazzarmi furiosamente prima che esprima ad alta voce quello che già so mi dirà.
- Chaku, puoi—
- E va bene, Cristo! Va bene! – sbraito, agitando un braccio e dirigendomi a passi svelti verso l’ingresso, passando a strappare letteralmente la giacca dall’appendiabiti, - Fanculo.
Fler mi viene dietro due secondi dopo. Mi ferma sulla porta afferrandomi per le spalle e riportandomi indietro prima che imbocchi le scale.
- Aspetta, Chaku, non sai neanche dove andare… - mi ricorda, guardandomi con aria platealmente colpevole. Se spera che questo smorzi l’incazzatura, è del tutto fuori strada. Comunque ha ragione, non saprei dove andare a sbattere la testa, perciò resto lì zitto e buono a immagazzinare le indicazioni che sforna con una dovizia di particolari che mi fa venire voglia di demolire l’intero quartiere, vaffanculo a lui, perché sa così bene come arrivare da qui a casa di Daniel? C’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo. – Hai capito bene? – mi chiede alla fine, guardandomi dritto negli occhi come a cercare di leggerci dentro.
- Sì, certo. – borbotto io, - Quello che è.
Lui aggrotta le sopracciglia, irritato.
- Chakuza, ti ho solo chiesto un favore.
Rispondo afferrandolo per una spalla e schiacciandolo tra me e il muro. Gli sono addosso in meno di un secondo e lui neanche prova a fare resistenza. Non che la cosa mi stupisca, d’altronde. Non ricordo volte in cui sia successo.
- Il favore, se non te ne sei accorto, implica che io ti lasci qui da solo col tuo fottuto amante. – gli faccio notare, ringhiandogli a due centimetri dalle labbra. – Quindi non è solo un favore, Fler.
- Fanculo. – respira forte lui, cercando di liberarsi e riuscendo soltanto a strusciarmisi addosso, - Daniel non è il mio amante.
- Però te lo sei scopato. – sibilo sulla sua pelle, e se scendo ad annusare lungo il profilo della sua mascella posso quasi sentire l’odore di pomata e disinfettante, l’odore di Daniel. – Più di una volta. E ti è piaciuto.
Rabbrividisce sotto le mie dita e mi guarda. Non fa altro. Le labbra dischiuse e gli occhi spalancati su di me. Non li evito, mi avvicino ancora di più, fino a sentire la forma del suo corpo pressata contro la mia in maniera quasi dolorosa.
- Se tu lo tocchi, - lo avverto, sfiorandogli le labbra con le mie ad ogni parola, - io ti ammazzo. Se lui ti tocca, io ti ammazzo. Se succede qualcosa… - respiro forte e mi spingo un po’ contro di lui, - se succede una cosa qualsiasi, Fler, io ti… ti ammazzo. – e lui geme ad alta voce, senza nemmeno cercare di controllarsi.
Continuo a guardarlo e lo faccio finché Fler non mi dà quello che voglio. Quello che voglio arriva quasi subito, quando lo vedo annuire confusamente.
- Okay… - ansima, muovendosi a ridosso della parete e strofinandosi contro di me, - va bene, Chaku… va bene… - e mi guarda solo per un attimo, prima di socchiudere gli occhi ed abbassare lo sguardo mentre solleva le braccia a stringermi alle spalle, per muoversi più facilmente. Lo lascio fare per un po’, reggendogli il gioco finché non lo sento affondare le dita e trattenere il respiro, e poi mi allontano, guardandolo freddamente.
Resta talmente sbilanciato che deve aggrapparsi al muro, per non cadere. Ed a guardarlo così mi viene voglia di ribaltarlo contro la parete e scoparmelo adesso, un attimo prima di uscire, col ragazzino ancora di là sul divano. Gli occhi pesanti, le labbra umide, i pantaloni che tirano sull’inguine, la maglietta scomposta e il respiro affannoso. Cristo, Fler. Ma scuoto il capo e mi faccio indietro, infilando la giacca ed aprendo la porta.
- Non me ne fare pentire. – dico gelido.
Quando mi chiudo la porta alle spalle, sul pianerottolo, impreco contro un po’ di santi. Chi cazzo me l’ha fatto fare di avvicinarmi in quel modo? Ora palesemente non riuscirò nemmeno a camminare.
*
Quando Daniel si affaccia dal corridoio, mi trova ancora lì contro il muro che cerco di riprendere a respirare senza fare fatica. Mi guarda con aria un po’ incerta, come non sapesse minimamente cosa fare. Siamo in due, vorrei dirgli, io ho difficoltà anche a muovermi, al momento.
Cerco comunque di rimettermi dritto e mi schiarisco la voce con un paio di colpi di tosse, camminando lentamente verso di lui e riemergendo dalla penombra dell’ingresso di malavoglia. Ho addosso l’odore di Chakuza, ovunque, e questa cosa al momento mi sfianca.
- Non dovevi alzarti dal divano. – lo rimprovero, rimettendolo seduto con una spintarella.
Lui scrolla una sola spalla perché l’altra è ancora fuori uso. Non ha rimesso la maglietta ed è uno spettacolo angosciante.
- Le gambe stanno bene. – mi informa con una mezza risatina, - Le ho tenute nascoste sotto il corpo come mi hai—
- D’accordo. – lo fermo. Non riesco a liberarmi degli occhi di Peter e quando chiudo le palpebre mi sento addosso il suo corpo. Devo… cazzo. L’ha fatto apposta. Devo cercare di… devo assolutamente cercare di riprendermi. – Hai mangiato? Hai fame? – chiedo distrattamente, concentrandomi più sul tentativo di respirare con un ritmo meno affannoso, che non su quello che sto dicendo.
Lui risponde qualcosa che io non sento perché mi risuona ancora nelle orecchie la voce di Chakuza. Così non funziona, non ne esco. Forse avrei fatto meglio a non venire, oggi. Aspetta. Non ricordo da quant’è che sono qui. Di sicuro ieri ho dormito con lui e… forse anche l’altroieri e… è tutto troppo confuso da quando ho ricominciato a lasciare qui qualche vestito, non devo quasi più tornare periodicamente a casa mia e perdo il senso del tempo. Così non va per niente.
Vado verso il frigorifero e comincio a rovistare all’interno, magari trovo della roba con cui imbottire un panino. D’altronde Daniel i diciotto anni deve ancora compierli – e mi sa che, se non risolviamo la questione al più presto, festeggerà la maggiore età con una scarica di legnate non dissimile da quella di oggi, cazzo – perciò deve avere fame. A quell’età hanno sempre fame.
- Ma mi ascolti? – mi chiede piano, e la sua voce è troppo vicina per provenire dal divano, - Ti ho detto che non mi va di mangiare. – s’è alzato ancora.
Mi volto e sospiro. Parto con l’intenzione di rimproverarlo e me lo trovo a due centimetri dal viso che mi guarda incuriosito. Ormai è alto quasi più di me, nell’ultimo anno è cresciuto un sacco. Non so come ce l’abbia fatta. Insomma, intendo, ogni tanto lo guardo e mi chiedo come possa essere ancora vivo, addirittura. Poi ricordo che in fondo sono vivo anch’io e torna tutto.
Io però avevo Anis accanto, quando rischiavo di prendere botte ad ogni angolo di strada.
Daniel non ha mai avuto nessuno, prima di me.
- Dovresti andare a stenderti. – sospiro ancora, guardandolo dall’alto in basso, - …e rivestirti, anche.
Tira fuori un ghignetto che nelle intenzioni dovrebbe essere un concentrato di malizia ma, visto quanto è pesto e malconcio, in realtà fa solo ridere. E neanche poi così tanto.
- Cos’è, problemi? – chiede con aria strafottente. Io lo spintono verso il divano.
- Io no, Danny, ma se tu alle botte aggiungi la polmonite non sono sicuro di cosa potrebbe farti Chakuza quando tornerà a casa.
Lui cade sui cuscini con un tonfo e un mezzo lamento, e mi fissa con aria offesa.
- Lo lasceresti fare? – chiede in un sussurro, - Se mi mettesse le mani addosso, dico… lo lasceresti fare?
Sospiro, sedendomi sulla poltrona al suo fianco.
- Devo proprio rispondere a questa domanda?
Lui annuisce.
Io sospiro ancora.
- Sono il suo uomo, Danny.
Lui aggrotta le sopracciglia e fa per incrociare le braccia sul petto. Rinuncia appena si accorge che fa male.
- Tu non sei suo! – sbotta astioso, puntando le mani sui cuscini.
Io sorrido sarcastico.
- No? – chiedo, scrollando le spalle.
- Assolutamente no! – insiste lui.
- E sarei tuo, invece?
Lui abbassa lo sguardo e sulle sue guance il rossore si nota nonostante i lividi.
- Tu… potresti… - deglutisce e guarda altrove, - Io lo sono. Non sono di nessun altro. Solo tuo.
Sospiro ancora e scuoto il capo. Non so cosa dirgli, anche se so esattamente cosa si prova in situazioni come queste. Quando sai di appartenere a qualcuno ma non è quel qualcuno ad appartenere a te. Mi è successo abbastanza spesso da potermi dichiarare un veterano nel campo. So che fa schifo. So che si fanno assurdità. So che non ci si dà pace. Ma a questo ragazzino senza speranza io, davvero, non so cosa dire.
- Mi dispiace, Danny. – cerco di consolarlo, accarezzandogli una guancia, - Prima o poi ti passerà.
- Oppure insisterò fino a quando non cederai. – sbotta, appoggiandosi sulla mia spalla e strusciando il viso contro la maglietta, - Tu con Chakuza hai fatto così, in fondo…
Rido a bassa voce.
- No, Danny, non esattamente.
- Però più o meno.
Roteo gli occhi ed annuisco.
- Più o meno, sì. Ma non funziona sempre.
Solleva una mano – quella del braccio ancora a posto – e mi stringe alla vita.
- E come fai a sapere che non funzionerà fra noi?
Me lo stringo contro, coccolandolo un po’. Lui mugola subito e si attacca come un cucciolo di koala. Lo fa sempre. È una delle pochissime cose che gli concedo, da quando io e Chakuza abbiamo ripreso a frequentarci. È divertente, perché quando stavamo insieme non aveva bisogno di coccole, praticamente mai. Era molto estroverso ed espansivo, ma queste cose da femmine non gli interessavano per nulla. Ora che è l’unica parvenza di intimità che possiamo permetterci, le cerca come aria per respirare meglio.
So che la sto gestendo male, questa cosa. So che dovrei smettere di vederlo e basta, perché è l’unico modo per dimenticare davvero. Però non voglio. Non voglio prenderlo e cancellarlo dalla mia memoria. Non voglio prenderlo e cancellarlo nemmeno dal mio presente.
- Non funzionerà perché c’è Chakuza di mezzo, piccolo. – dico, facendogli scorrere una mano lungo il braccio e massaggiando piano, - Ci sono persone che ti colonizzano la testa. Quando ci entrano, non ne escono più. Chakuza l’ha fatto con me, io non riesco a immaginare di svegliarmi un domani e non averlo. Capisci cosa vuol dire questo?
Le sue ciglia si muovono appena contro la pelle del mio collo e mi fanno un po’ di solletico.
- Sì, lo capisco. – esala in un soffio.
Sorrido.
- Se lo capisci, dovresti anche rassegnarti.
Sorride anche lui, e mi sbuffa addosso.
- Non è la stessa cosa. E poi, scusa, se a te avessero detto “lascia perdere e rassegnati”, tu l’avresti fatto?
Ridacchio, scuotendo il capo.
- Daniel, Chakuza mi spingeva contro il muro ogni volta che ne aveva l’occasione. Rassegnarsi a quelle condizioni era molto molto difficile. Però ci ho provato.
Lui respira forte.
- E tu non… - comincia, cercando di insinuare la mano sotto la mia maglietta.
Lo fermo.
- No. – rispondo. – Io non voglio. D’accordo? Quindi no.
Daniel sbuffa, infastidito, e si separa da me con uno scatto secco.
- D’accordo. – borbotta in un mugolio di dolore, - Tanto mi fa tutto troppo male per scopare. – ammette, guardando altrove.
Io sorrido e torno a stringerlo piano, ondeggiando avanti e indietro.
Daniel è fondamentalmente un cretino ostinato e masochista.
Se Chakuza non capisce cosa c’è fra noi, vuol dire che ricorda poco dei miei primi mesi con lui.
Mi chino a baciarlo su una guancia e poi lo lascio andare.
- Ti prendo una coperta. – annuncio muovendomi verso la camera da letto, - Ma non dire a Chaku che ci siamo toccati, o finiamo entrambi sullo zerbino stasera, sai?
- Aaah, ma non posso dormire nel letto con voi? – borbotta agitandosi e mugolando come un bambino di tre anni.
Io rido.
- Assolutamente no! – e quando mi chiudo la porta alle spalle mi ritrovo nel buio della camera da letto e sospiro pesantemente. Sarà una giornata difficile. Sollevo un braccio ed annuso piano. L’odore di Chakuza è ancora lì. È più forte dell’odore del disinfettante. Sorrido ed apro l’armadio alla ricerca della coperta.
*
Poso i piedi sulla moquette che riveste il pavimento del corridoio e mi guardo intorno. Dunque, la casa è questa, c’era scritto Kobler sul cancelletto di fronte e la via non l’ho sbagliata. E questo nonostante questa sia una parte di Tempelhof in cui non sono mai stato, sono molto fiero di me.
Certo, sono un po’ meno fiero se penso che sto entrando in casa di sconosciuti per andare a mettere le mani nei cassetti della biancheria di un ragazzino che è stato col mio uomo e che, probabilmente, tra le mura di questo edificio ha visto solo legnate da quando è venuto al mondo. Ma comunque ormai ci sono, quindi basta lagnarsi e passiamo all’azione.
Tiro su le maniche fino a metà avambraccio e mi guardo intorno. Il posto non è tanto grande, è più corridoio che stanze, in realtà. Da qui si vede il bagno, la porta è socchiusa e il rubinetto perde. Faccio qualche passo girando gli occhi qui e là. In casa non c’è nessuno, a parte le gocce che si infrangono sulla ceramica non sento niente. Vago in giro e trovo una cucina sporca e piccola con un chilo di piatti ancora da lavare ammonticchiati nel lavabo, ed una specie di salottino con un divano e una tv. Sopra la tv c’è un’antenna tenuta insieme con lo scotch da imballaggio, quello marrone che lascia tracce ovunque quando lo tiri via. Ci sono tracce di scotch pure nei pezzi di antenna non incollati fra loro.
Ed io che pensavo di vivere in un porcile.
I gradini di legno scricchiolano mentre salgo al piano di sopra. Non me ne curo e, quando mi si apre davanti il corridoio del primo piano, mi salta il cuore in gola: dalla porta spalancata in fondo si intravede lo scorcio di una camera da letto ingombra di vestiti ammucchiati per terra e bottiglie rovesciate accanto al comodino. Sul letto – appena uno spicchio di materasso, è tutto quel che posso vedere da qui – c’è un uomo che dorme e russa. Una mano sulla pancia, l’altra pende verso il pavimento e sfiora la moquette.
Deglutisco forzatamente, muovendomi lento, in punta di piedi. Il respiro dell’uomo è pesante e rumoroso, ricorda quello di Fler quando collassava sulla poltrona, completamente ubriaco. Sospiro: è completamente ubriaco anche lui, e dev’essere il padre di Daniel. Non mi stupisce che la casa sia il casino che è.
Apro una porta a caso cercando di non fare rumore e mi meraviglio della mia fortuna. La camera non può che essere questa, le pareti sono tappezzate di poster e credo di non aver mai visto così tante immagini di Fler tutte insieme in vita mia. Questo ragazzino è palesemente una groupie.
Mi guardo intorno. Qui dentro, a parte un letto sgangherato, una scrivania in disordine ed un po’ di vestiti ammucchiati su una sedia, non c’è niente. Si può tranquillamente dire ci siano più poster attaccati alle pareti che non mobili nella stanza. Mi colpisce un manifesto pubblicitario enorme, sulla testiera del letto. È una vecchia pubblicità di un sampler dell’Aggro Berlin. Vecchia davvero, poi: c’è perfino Bushido. O almeno, dovrebbe esserci. La sua faccia è coperta quasi per intero da un’enorme x fatta col pennarello nero.
Mi lascio sfuggire una risata, senza pensare all’uomo addormentato nell’altra stanza, e quando mi ricordo della sua esistenza presso forte le dita contro le labbra, cercando di calmarmi, ma è molto difficile. La sola idea di Daniel che appende il poster al muro, lo squadra insoddisfatto e poi decide di eliminare la faccia di Bushido dalla superficie spennellandoci sopra è semplicemente troppo divertente perché io possa liberarmene.
Continuo a pensarci mentre vado in giro per la stanza raccogliendo i vestiti, che sinceramente non danno granché l’idea di essere puliti o altro. Cerco anche di pensare ad un modo per rifilarli a mia madre senza che si accorga che sono decisamente troppo piccoli per essere miei o di Fler. Peraltro, il fatto che mia madre ormai non trovi più nulla di strano nel lavare la mia roba assieme alla sua dovrebbe turbarmi, immagino. Certe volte ho l’impressione che il mondo intero abbia accettato l’idea di me e Fler come coppia prima di quanto non l’abbia accettata io. Mettiamoci di mezzo il fatto che ogni tanto faccio fatica ad accettarlo anche adesso, ecco.
Cerco in giro uno zainetto e ne prendo uno a caso in un angolo. È pieno di bustine di cui voglio ignorare il contenuto. Neanche faccio un tentativo con un altro zaino, mi limito a svuotare questo e riempirlo dei vestiti e della biancheria che sono riuscito a raccogliere.
Dopodiché tiro un enorme sospiro e comincio a staccare i poster dalle pareti. Immagino che, dovunque andrà a vivere Daniel dopo che l’avrò finalmente buttato fuori da casa mia, ne sentirà la mancanza, se non li avrà.
Comunque faccio un mezzo pensierino sul tenere io il poster della copertina di Deutscha Bad Boy. Mi frenano solo due cose: primo, non posso mica rubare un poster a un ragazzino così sfacciatamente innamorato; secondo… se anche lo tengo, dove cavolo lo metto? E non è un “dove cavolo lo metto” e basta, è un “dove cavolo lo metto per nasconderlo a Fler, dato che quando deve cercare cose rovista ovunque e, se mai dovesse avere la fortuna sfacciata di trovarlo, poi la mia vita sarebbe palesemente finita”.
Infilo tutto nello zainetto cercando di eliminare i pensieri molesti – tutti, in blocco, compresi i ricordi di Fler schiacciato contro il muro all’ingresso che mi hanno assalito appena mi sono distratto un attimo dall’obiettivo – e vengo fuori dalla stanza. Il signor Kobler ancora dorme ed io un po’ me ne dispiaccio: visto che quest’uomo è l’origine di tutti i miei mali, mi piacerebbe fargli capire cosa penso esattamente di lui e di tutti quelli come lui – ma soprattutto di lui, che cresce i figli in modo che poi quelli debbano sentirsi autorizzati ad infilare le mani nelle mutande degli uomini altrui. Comunque dorme ed immagino che Fler, quando mi ha mandato qui a recuperare le cose, non intendesse anche “ed uccidi quel bastardo”. Cioè, non sono proprio sicuro che Fler lo preferisca vivo. Comunque non è un mio diritto toglierlo di mezzo e francamente non ci tengo più di tanto, in realtà se anche ci tenessi non saprei da che parte cominciare, e comunque non voglio!, perciò scivolo al piano di sotto e poi oltre la finestra nel modo più veloce e furtivo possibile, e prendo a respirare serenamente solo quando mi ritrovo nuovamente immerso nell’aria fresca sul finire dell’estate di Tempelhof.
Mi guardo intorno.
Okay, un attimo di smarrimento.
Questa zona è, diciamo, la zona più “residenziale” del quartiere. Il che significa, in poche parole, che sto immerso in un quadrato di casette tutte uguali, con cancelli tutti uguali, giardinetti incolti tutti uguali, porte sgangherate tutte uguali e cassette delle lettere mezze abbattute tutte uguali. Non cambiano nemmeno i colori. Grigio e verde, grigio e verde, tutto grigio e verde. Così per chilometri, il quartiere è enorme.
Arrivare è stato un conto.
Andare via sarà più difficile.
Zaino sulle spalle e cappuccio calato sul volto, mi avvio in una direzione casuale di fronte a me. Prima o poi ne uscirò, immagino. O finirò per passare il confine, chissà. In ogni caso tutto voglio meno che restare qui. Sono quasi certo che la mia macchina non sia da quella parte, ma se mi toccherà uscire da questa merda di posto a piedi, allora lo farò. Verrò a recuperarla successivamente. Questo posto mi mette ancora i brividi.
Giro a vuoto per un po’. Un bel po’. Quando sono solo il tempo tende a passare sempre troppo lentamente perché io possa quantificarlo, quindi non saprei dire per quanto abbia girato, comunque sia quando mi infilo in una via e mi ritrovo di fronte alla casa del vicino del signor Kobler ho due scelte: o vado nel panico e mi siedo qui, afferro il cellulare e imploro Fler di venirmi a ripescare, o chiedo a un passante.
Visto che non ho la benché minima intenzione di implorare nessuno, e visto che sono uscito di casa mantenendo un certo tono e non ci tengo a fare la parte del cagnetto uggiolante proprio adesso, la scelta può essere una sola.
Mi avvicino al primo tizio che incontro. Avrà una ventina d’anni – per com’è vestito, con quei pantaloni aderentissimi di pelle nera e il vuoto sotto il chiodo borchiato, non più di venticinque – ma ha una faccia talmente sfatta che ne dimostra quasi il doppio. Occhiaie e rughe comprese. Al confronto io e Fler – ma anche Bushido, volendo – sembriamo ragazzini. Cammina ciondolando e nella tasca dei jeans si intravede chiarissima la forma di un serramanico ripiegato. Mi rendo conto che non si tratta della persona più affidabile cui chiedere delle indicazioni, ma non c’è nessun altro in giro e non mi pare di avere molta scelta. A parte quella scartata a priori del panico e di Fler che mi viene a riprendere neanche avessi dodici anni.
-Ehm… scusa? – chiedo, picchiettandogli con due dita sulla spalla perché si accorga di me.
Lui mi alza addosso un paio d’occhi celesti trasparenti come pezzi di vetro ma arrossati in maniera quasi allarmante. Non ho idea di cosa abbia mandato giù ma di sicuro non dev’essere stata roba buona.
- ‘Cazzo vuoi? – mi sbotta in faccia, e l’alito puzza di birra. Perfetto. Sono fottuto.
- Senti, ho bisogno di un’informazione… - comincio, nel modo più pacato possibile.
Lui mi guarda come fossi una merda pesticchiata sul marciapiedi.
- Li conosco gli sbirri come te. – mi accusa, tirando su col naso, - Stronzi figli di puttana, sbirri in borghese. Non so un cazzo.
- Ma io voglio solo—
- Non so un cazzo, ti dico, sbirro di merda.
Ringhio e cerco di mantenere la calma.
- Non sono un cazzo di sbirro. – grugnisco, le mani sui fianchi, - Se proprio vuoi saperlo, l’unica cosa certa della mia vita è che in mezzo alla manica di matti coi quali vivo io sono solo il fottuto chef. Ma non se lo ricorda mai nessuno!
Quello mi guarda per tutta una serie di secondi che non riesco a quantificare. La strada è immersa in un silenzio surreale, ci siamo solo io e lui e non riesco a sentire neanche i rumori delle macchine che sono quasi sicuro circolino ancora dalle parti del canale.
Mi schiarisco la voce.
- Ora… posso chiedere—
- Lo chef, dice lui… - mi interrompe il tipo, i lineamenti del volto deformati da un ghigno sghembo semplicemente terrificante, - Conosco una persona che non sarebbe per niente d’accordo. – ed ho appena il tempo di realizzare di aver detto una solenne cazzata, che lui ha già estratto il serramanico e me lo sta puntando alla gola. Faccio per indietreggiare e dire qualcosa, ma lui sfiora la pelle del collo con la lama appuntita e tagliente ed io deglutisco e rimango in silenzio. – Puoi chiedere dove ti porterò adesso? – mi fa il verso, continuando a ghignare, - No. Però puoi seguirmi senza fare storie.
- …non fare pazzie, amico, non—
- A-ha! – mi ferma, incidendo appena sotto la mascella, ed io trattengo perfino il respiro, - Senza fare storie, ho detto. Ci siamo capiti?
Annuisco. E lo seguo, che altro posso fare?
La prossima volta, giuro, vado nel panico e mi faccio venire a riprendere.
*
Sono passate sei ore quando comincio a preoccuparmi. La parte più razionale di me mi dice che non dovrei, che d’accordo, magari il Chaku è a Tempelhof, ma è pieno giorno. Cosa mai può succedergli in quel posto, per quanto pericoloso, alle due del pomeriggio? E poi in che guai può essersi cacciato dovendo semplicemente andare ad un indirizzo ben preciso per prelevare qualcosa prima di fuggire per sempre?
Devo stare calmo, mi dico. Calmo e rilassato. Fra qualche minuto mi chiamerà, si scuserà per non essersi fatto sentire per sei fottute ore e poi confesserà mugugnando che s’è perso, e mi implorerà di andarlo a recuperare in qualche angolo dimenticato da Dio che non saprà nemmeno descrivermi correttamente.
- Ho faaame. – miagola Danny, sbuffando platealmente, tutto arricciato sul divano, - Non si mangia?
- Aspettiamo Chakuza. – rispondo io, lanciando un’altra occhiata all’orologio. Sei ore e dieci minuti. Chakuza, Cristo, dove sei finito?
- Perché non lo chiami? – mi chiede lui, sporgendosi dal divano ed allungando un braccio verso il tavolino, per cercare di recuperare il telecomando poggiato sul ripiano, - Magari sta perdendo tempo da qualche parte e s’è dimenticato che lo stai aspettando. – suppone, la lingua fra le labbra e l’espressione concentrata mentre con un breve scatto si allunga abbastanza da afferrare il telecomando, per poi tornare ad abbattersi contro i cuscini sistemati con cura dietro la sua schiena, uggiolando di dolore.
- Non posso chiamarlo, Danny. – espiro in uno sbuffo contrariato, andando a sedermi sulla mia poltrona giusto per staccarmi dalla finestra prima che rimanga impressa sul vetro l’impronta indelebile del mio naso. – Magari ci sono stati problemi a casa tua. – gli spiego, lanciandogli un’occhiata risentita. Io ti adoro, Danny, ma tu non puoi mettere il mio uomo a rischio. Egli non è adatto. In generale. – Magari tuo padre s’è svegliato e lui ha dovuto nascondersi da qualche parte. Che faccio, lo chiamo rischiando che il cellulare riveli dov’è?
Daniel inarca un sopracciglio, guardandomi con aria scettica.
- Tutti sanno che quando si fanno cose simili il cellulare va tenuto silenzioso. – dice con naturalezza. E sì, certo, Daniel. Tutti lo sanno. Io lo so, tu lo sai. Se avessi mandato Anis a recuperare la tua roba potrei avere la certezza che lo sa anche lui. Ma Chakuza?
- Lascia che io ti dica che non hai capito niente del Chaku. – annuisco con aria professionale, - Come minimo non solo ha il cellulare con la suoneria attivata, ma pure al massimo volume. E personalizzata di modo che lo chiami per nome. – sospiro profondamente.
Daniel ride, incredibilmente divertito, ed accende la tv.
- Ma che ci fai con uno così? – mi chiede, con aria apparentemente distratta, concedendosi un po’ di zapping prima di fermarsi su un cartone animato a caso. La domanda è cosa ci faccio qui con te, semmai, Danny. – Cosa c’entri?
- Non ricominciamo. – borbotto, e in quel momento il cellulare vibra nella tasca posteriore dei miei pantaloni. Mi alzo in piedi all’istante, lo estraggo e lo guardo. Chakuza mi ha mandato un messaggio. – Era anche ora… - borbotto risentito, mentre mi affretto a premere il pulsante per leggerlo.
Ciò che i miei occhi vedono, comunque, è non affatto soddisfacente. Nel messaggio c’è scritto solo aiuto.
- Che ti prende? – chiede Danny, spegnendo istintivamente la televisione e lanciandomi un’occhiata preoccupata, - Sei sbiancato.
- Chakuza è in pericolo. – dico d’un fiato, girando sui tacchi e dirigendomi speditamente verso la porta d’ingresso, - Devo andare a cercarlo.
- Ehi— aspetta! – cerca di fermarmi lui, saltando giù dal divano e piegandosi immediatamente su se stesso per il dolore. Capisce che non ho tempo da perdere, comunque, e si rimette in piedi piuttosto alla svelta, tenendosi la pancia fra le mani e seguendomi. – Come sarebbe a dire che è in pericolo? Cos’è successo?
- Cosa vuoi che ne sappia! – urlo, voltandomi a guardarlo con rabbia. Lui arretra di un passo, serrando le labbra finché non diventano sottilissime e pallide. – Scusa. – cerco di calmarmi. Cazzo, non è colpa sua se Chakuza è in pericolo. Sapevo che avrei dovuto andarci io. Cazzo. – Mi ha mandato un messaggio, guarda. – dico, sollevando il cellulare per mostrarglielo. Daniel lo legge velocemente e i suoi occhi si fanno più cupi per qualche secondo, mentre annuisce sommessamente.
- Vengo con te. – dice quindi, tornando al divano per infilare le scarpe.
- Neanche per idea. – ribatto io, ignorandolo platealmente.
Lui mi passa davanti ed apre la porta, uscendo di casa prima di me.
- Non era una domanda. – conclude, cominciando a scendere le scale. Roteo gli occhi, correndogli dietro.
- Piccolo, torna in casa, dai. – dico dolcemente, accarezzandogli una spalla. Stavolta è lui a ignorare me.
- Potrei esservi utile. – dice. Ma esserci a chi? Io intendo andare da solo.
- Daniel, - sospiro, - sei ferito e dolorante, sei un rottame, dovresti essere in ospedale, che cazzo me ne faccio di te, me lo spieghi?
Lui mi lancia un’occhiata risentita, aggrottando le sopracciglia.
- Qualsiasi cosa. – risponde di getto, - È anche colpa mia se è nei guai.
- Danny, non—
- Sta’ zitto. – mi interrompe. Siamo già a piano terra. – Sai già a chi chiedere?
Lo guardo per qualche secondo, confuso.
- Che intendi? – gli chiedo, inarcando un sopracciglio. Lui sbuffa platealmente, roteando gli occhi.
- Dubito che sia stato mio padre a causargli guai. – spiega, - Se anche si fosse svegliato, nelle condizioni in cui era quando l’ho lasciato poteva sicuramente pestare me, ma non uno come Chakuza. Cioè, uno che possa rispondergli come merita. – sospira un po’, abbassando lo sguardo, e a me si stringe il cuore. – Deve aver fatto casino mentre era per strada. Magari ha preso uno dei miei zainetti speciali, quelli con la roba dentro. Hanno tutti una toppa particolare, così la gente del ghetto li riconosce e sanno che possono chiedermi. Se qualcuno l’ha vista, forse ha pensato che fosse del giro.
Non fatico a immaginare che, a partire da uno scenario simile, Chakuza possa essere finito in guai molto più catastrofici di quelli che riesco a immaginare in questo momento senza avere una crisi isterica. Inspiro ed espiro profondamente, cercando di razionalizzare. Potrei sbrigarmela da solo, andare a Tempelhof e perdere le ore partendo da zero, senza il minimo aggancio, per cercare di tirare fuori qualche informazione a qualche sconosciuto.
Oppure posso andare da Bushido, e chiedergli di contattare Arafat.
Vista la situazione, e visto soprattutto che una cosa so per certo, ed è che non voglio lasciare Chakuza da solo a Tempelhof troppo a lungo, faccio in fretta a decidere per il meglio. Daniel sorride soddisfatto, salendo in macchina e mettendosi comodo.
- Togliti quell’espressione dalla faccia. – mugugno io, talmente infastidito che per un attimo non faccio caso a quello che dico, - Sarai tu responsabile, se gli succede qualcosa.
Gli occhi di Daniel s’incupiscono un’altra volta, mentre lui si torce le dita in grembo, nervoso. È evidente che riesce a ragionare in maniera perfettamente lucida quando si parla di pianificare il salvataggio di qualcuno di cui tutto sommato gli importa pure poco, ma impazzisce d’ansia quando pensa anche solo per sbaglio che io potrei cominciare ad odiarlo per qualche motivo.
- Andrà tutto bene. – dice, più per rassicurare se stesso che per rassicurare me, anche perché io al momento non posso essere rassicurato.
Sospiro, allungando una mano ad accarezzargli piano la nuca.
- Sì, andrà bene. – confermo mettendo in moto.
Da Bushido ci arriviamo in tempo record, bruciando anche un paio di rossi. Per tutto il tempo, Daniel resta tranquillo al mio fianco, senza neanche muoversi in avanti quando freno o schiacciarsi indietro contro lo schienale quando accelero. Non ha nemmeno messo la cintura di sicurezza, cosa che suppongo dovrei trovare sconveniente al punto da fermarmi e cercare di convincerlo a metterla, ma non c’è nemmeno il tempo di razionalizzare il pensiero che la mia macchina si ferma perfettamente parallela al marciapiedi appena fuori dal cancello di casa di Bushido, ed a quel punto fargli indossare la cintura non avrebbe più molto senso.
Esco di gran fretta, e Daniel, per quanto le sue ossa peste glielo permettano, fa lo stesso, per cercare di non intralciarmi troppo. Karima ci mette troppo a rispondere al citofono, e quando sento la sua voce domandarmi chi sono e cosa voglio – è una donna d’altri tempi che non ha mai imparato ad usare il video nella parola videocitofono – rispondo sgarbatamente di farmi entrare e non perdere altro tempo. Lei rimane in silenzio per un altro paio di secondi, e io batto con forza una mano contro le grate del cancello, così improvvisamente che Daniel, al mio fianco, sobbalza lanciandomi una lunga occhiata colma di preoccupazione.
- Karima! – la chiamo, - Datti una mossa!
La serratura scatta il secondo successivo. Il cancello si apre sotto le mie mani e Skyline e Sherlee mi vengono incontro, saltellando ed abbaiando festosi. Io non ho tempo di star loro dietro, perciò passo in mezzo ai loro musi senza fermarmi neanche ad accarezzarli, e se non mi vengono dietro continuando ad abbaiarmi alle spalle è solo perché Danny, visibilmente più lento di me, non riesce a tenere il mio passo e non può sfuggire alla loro rumorosa richiesta di attenzioni, cedendo perciò a metà del vialetto e grattando entrambi dietro le orecchie in una sorta di pedaggio in seguito al pagamento del quale i due cuccioli lo lasciano libero di seguirmi.
Sulla soglia della porta non c’è Karima, probabilmente tanto oltraggiata dal mio comportamento da essersi già rintanata a pelare cipolle in cucina come fa sempre quando qualcosa non rientra nel ristretto campo delle sue approvazioni, perché, come ama dire, un po’ di cipolla tritata serve sempre ed è meglio averne un po’ di scorta per ogni evenienza. Quali evenienze improvvise potrebbero giustificare la presenza di terrine piene di cipolla già tritata nascoste in frigorifero io non lo so, ma tant’è, lei non è sulla porta ad attendere il nostro arrivo come dovrebbe essere. Ci sono sia Bushido che Bill, invece, e faccio appena in tempo a notare l’occhiata infastidita di Bill quando vede Danny alle mie spalle – a Bill non va granché giù che Danny sia tornato a ronzarmi intorno da quando io, invece, sono tornato a ronzare intorno a Chakuza – che quell’occhiata subito scompare, tramutandosi in qualcosa di diverso. I suoi occhi si spalancano, mentre porta una mano a coprirsi la bocca dischiusa in una smorfia inorridita.
- Ma che gli è successo? – chiede sconvolto, mentre Bushido prende atto delle condizioni del ragazzino con molta più praticità, osservandolo in lungo e in largo con aria concentrata, - Sta bene?
- Non è lui quello in pericolo, al momento. – rispondo seccamente io, spingendomi abbastanza in avanti per far sì che Bill e Bushido si scostino dall’uscio, lasciandomi entrare. – Chakuza è finito nei guai. – dico quindi, mentre Bushido aspetta che anche Danny sia entrato all’interno della villa, prima di chiudersi la porta alle spalle, - A Tempelhof. Da solo.
Bushido aggrotta le sopracciglia, i lineamenti del suo volto che si tendono repentinamente mentre irrigidisce le braccia lungo i fianchi.
- Cosa?! – strilla Bill, sconvolto, - Che c’è andato a fare lì da solo?
Bella domanda, ragazzino.
- Ne parliamo dopo. – taglio corto, - Anis, dobbiamo fare qualcosa. – tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e mostro alla coppia reale il messaggio che ho ricevuto ormai quasi venti minuti fa. Dio, venti minuti. Sono milleduecento secondi. Per uccidere un uomo ne basta uno.
Bill si lascia scivolare fra le labbra un gemito addolorato che gronda preoccupazione. Bushido non ha ancora aperto bocca, continua a studiare la situazione in silenzio, incrociando le braccia sul petto.
- Che ci fa lui con te? – chiede quindi Bill per riempire il vuoto che sente pesargli sul petto. Ci metto un po’ a capire che parla di Daniel, in parte perché non sono concentrato e in parte perché Bill non si prende nemmeno il disturbo di indicarlo. – Perché deve stare qui? Guarda quant’è pesto, mi rovina l’arredamento. – sbuffa infastidito.
- Bill. – scatto io, aggrottando le sopracciglia, - Non è il momento.
- Ah, non lo è? – ribatte lui, le mani sui fianchi e un’espressione di insopportabile superiorità sul volto, - Intanto lui è qui e il tuo uomo è nel ghetto da solo. – ribadisce, come se non ne fossi già insopportabilmente cosciente.
- Bill, sai che ti voglio bene, - dico, mordendomi con forza l’interno una guancia per forzarmi a ripetere queste parole, perché so che è una cosa vera ma in questo momento non mi sembra affatto, - ma fatti i cazzi tuoi. – concludo con un’occhiataccia.
Bill spalanca gli occhi, oltraggiato. Apre le labbra e fa per dire qualcosa, ma non riesce. Bushido è più svelto.
- Taci. – dice guardandolo, - E anche tu. – aggiunge guardando me. Io mando giù un blocco d’aria che pesa come il granito, mentre lui si volta a guardare Danny. – In che zona è andato? – chiede a lui, e per un secondo penso che l’abbia fatto perché ha già capito tutto, e trattandosi di Bushido la cosa non mi stupirebbe affatto. Poi razionalizzo, e capisco che ha chiesto a lui solo perché Danny a Tempelhof ancora ci vive, contrariamente a tutti noi. Afferro solo vagamente quanto deve essere costato a Bushido ammettere una cosa del genere, pur se implicitamente, e forzarsi a chiedere a un ragazzino un’informazione simile per salvare Chakuza. Mi riservo di ringraziarlo dopo per questo, visto che so per certo che nessuno a parte me può comprenderlo, e nessun altro lo ringrazierà.
Daniel si mordicchia il labbro inferiore, pensoso.
- È nella zona residenziale, - dice, - quella coi prefabbricati. Ma lì intorno ci sono i vecchi magazzini del mercato ortofrutticolo, e non sono più usati per frutta e verdura da tempo.
- Che rischi ci sono che l’abbia preso qualcuno di pericoloso? – chiede ancora, avvicinandosi al tavolino basso e recuperando il cellulare posato sul ripiano di vetro.
Daniel sospira profondamente.
- Per tutta una serie di ragioni, potrebbe essere finito nei guai con qualche corriere, credo.
- Con qualche corriere?! – strilla Bill, incapace di trattenersi oltre, - Cosa diavolo l’avete mandato a fare?!
- Bill, sta’ zitto. – ribadisce Bushido, digitando velocemente un numero a memoria e portando il cellulare all’orecchio.
- Lo stai chiamando? – chiedo io, a corto di fiato, fissandolo speranzoso.
- Sta’ zitto anche tu, ho detto. – dice lui, lanciandomi un’occhiata indecifrabile. Poi sospira, inumidendosi le labbra. – Sì. – dice quindi. Mi si annoda lo stomaco finché resta in silenzio, e poi sento un click sommesso ed una voce dal passato che risponde chiedendo festosamente a Bushido come sta, perché è da un sacco di tempo che non lo sente. – Ari. – dice Anis, il tono grave e lo sguardo concentrato mentre fa segno a Bill di recuperare un pezzo di carta ed una penna, - Mi servono un paio di indirizzi.
*
Naturalmente non riesco a parlare, ma visto che sono state le mie parole a generare tutto questo gran casino da una parte è meglio così. Sì, mi sta bene tacere, quello che non mi sta bene è che per farmi stare zitto mi abbiano legato questa robaccia attorno alla testa, e mi abbiano infilato due chili e mezzo di polistirolo in bocca. A parte che il sapore fa schifo, e a parte che mi sto cagando sotto perché, voglio dire, chi cazzo è questa gente?, a parte tutto questo, lo scotch sulle guance tira e fa un male fottuto, e non riesco a muovermi perché ho le braccia legate dietro la sedia in una posizione innaturale che mi fa dolere le spalle, e le gambe legate strettissime con delle vecchie corde sporche ai piedi della sedia.
In generale, sono finito proprio in una bella situazione di merda. E mi piacerebbe poter dare la colpa a Daniel, perché almeno così non dovrei stare seduto qui a soffrire, ascoltare stronzate e dovere avere a che fare in aggiunta con la consapevolezza che a trascinarmi in questo magazzino abbandonato con le finestre inchiodate non è stato il ragazzino, non è stata la richiesta di Fler, no, sono state la mia ostinazione a non voler chiedere aiuto e la mia boccaccia del cazzo.
- Allora. – riprende l’uomo che mi ha ricoperto di cazzate da quando sono stato portato al suo cospetto un paio d’ore fa. È vestito con una tuta integrale in pelle bianca, aperta fino allo stomaco rotondo e prominente. Indossa un paio di occhiali da sole dei quali in questa penombra non dovrebbe avere il minimo bisogno ed i suoi capelli sono acconciati in un ciuffo che si protende contemporaneamente in avanti e verso l’alto. I tacchi dei suoi stivali bianchi a punta producono un suono che mi snerva, ticchettando sul pavimento pieno di crepe mentre lui gira intorno alla sedia, guardandomi circospetto. – Mi dicono che ti piace andare per strada facendoti grande agli occhi dei passanti. – dice, - Lo chef, mi dicono, è così che ti fai chiamare. Ma oh, hai fatto i conti senza l’oste, mio caro amico pelato.
Io mugugno qualcosa, ma non riesco a farmi uscire dalle labbra niente che abbia un senso. In realtà tutto quello che vorrei strillare è “ma sei cretino?! Ti sei completamente bevuto il cervello?! Da quale epoca sei venuto fuori, scherzo della natura?! Santo Dio!”, quindi forse è meglio che io sia obbligato a tacere. Cristo, è passata quasi un’ora da quando sono riuscito a mandare quello scampolo di messaggio a Fler, e tutto ciò che ho ottenuto in cambio è stato che mi portassero via il cellulare e lo spaccassero in due sotto i miei occhi sofferenti. Quando e se tornerò a casa, comprare un cellulare nuovo sarà drammatico. Non mi abituerò mai al tastierino nuovo, non riuscirò mai a memorizzare il nuovo menu e dovrò fare i salti mortali per trovare qualcosa che non possieda la parola touch nel nome o nella descrizione delle caratteristiche principali. Che odio. Fler, dove cazzo sei finito?!
- Cos’è che hai detto? – chiede il tipo, chinandosi su di me e tendendo un orecchio, - Non ti ho sentito! Forse perché sei imbavagliato. – si rimette dritto, grattandosi pensosamente il mento. – Dovremmo forse lasciarti libero? – chiede retorico, lanciando un’occhiata ai due che stanno alla sua sinistra e alla sua destra. Uno è quello che mi ha portato qui, e l’altro un suo degno compare. Anche lui indossa un giubbotto di pelle senza niente sotto, ed un paio di jeans chiari con più buchi che brandelli di stoffa. – No che non dovremmo. – si risponde da sé Elvis, tornando a guardarmi severamente. – Hai capito perché sei qui, nano? – mi chiede quindi, e io mi dimeno perché con questi nomignoli del cazzo mi ha veramente frantumato le palle.
- Attento a come ti muovi, sbirro di merda. – dice il tizio che mi ha portato qui, puntandomi il serramanico alla gola, - Rispondi alle domande e fa’ il bravo, e se te lo meriterai potrai uscire di qui sulle tue gambe, quando ti lasceremo libero.
Io smetto di muovermi ed inspiro profondamente, cercando di ritrovare una calma che ho in realtà perso troppo tempo fa per poterle chiedere di venire in mio soccorso adesso. Provo a mugugnare qualcos’altro, qualcosa a caso, tanto è evidente che non riuscirei a farmi capire anche se dicessi qualcosa di sensato, ma Elvis mi ascolta con attenzione, annuendo partecipe. Dio santo, ma dove sono finito?
- Certo, certo, hai ragione. – dice annuendo ancora, - Quindi forse dovremmo proprio lasciarti libero, ma sai, c’è una cosa a cui tengo molto, una lezione che penso tu debba imparare prima di andare via, e penso che le condizioni in cui sarai quando uscirai da questo magazzino dipenderanno molto da quanto bravo sarai ad apprendere. Ci siamo capiti?
Io abbasso lo sguardo. Odio cedere, ma odierei anche morire in questo posto lugubre senza aver cucinato un’ultima volta, senza aver salutato i miei genitori e mia sorella, senza aver rivisto Bill, senza aver rivisto Fler. Senza aver toccato Fler, senza avergli detto che—
- Ci siamo capiti? – ripete Elvis, strattonandomi per una spalla. Io annuisco freneticamente. Ci siamo capiti, Elvis, ci siamo capiti. – Bene. – sorride compiaciuto. – Ora voglio che tu te lo ficchi bene in testa, mio buon amico: - dice a bassa voce, - c’è un solo chef, in questo quartiere, soprattutto da quando io e i miei compari abbiamo cominciato a studiare un piano per ammazzare tutti gli altri. – inarco un sopracciglio. Un piano? Che cazzo sta dicendo? – Be’, sì, non ci siamo ancora riusciti! – strilla istericamente, come leggendomi nel pensiero, o forse semplicemente leggendo l’incredulità nell’espressione del mio viso, - Ma prima o poi li faremo fuori tutti, ed allora resterò solo io! Per cui, impara bene la lezione fin d’ora, nano: chi è l’unico chef di Tempelhof…?
È a quel punto che succede. Inizialmente non ci capisco molto, perché non vedo niente. Sento, quello sì, un botto terrificante e il fischio di qualcosa di incredibilmente veloce che passa da qualche parte alla mia sinistra prima di andarsi a schiantare contro il pavimento a pochi centimetri dall’anfibio dell’altro compare di Elvis, quello che non ha ancora aperto bocca, e che la apre adesso per la prima volta per strillare “merda!” con quanto fiato ha in gola, saltando repentinamente all’indietro.
- Cosa cazzo succede?! – strilla a propria volta il tipo che mi ha portato qui, occhieggiando spaventato il buco sul pavimento e la pallottola che vi si è conficcata dentro. – Cazzo!
- Chi c’è?! – grida Elvis, parandosi in mezzo alla stanza con le braccia spalancate e le gambe piegate in una posa ridicola, - Chi osa?!
Un altro sparo parte da un punto totalmente opposto del magazzino, piantandosi sulla parete alla mia destra. Sobbalzo sulla sedia perché non ho una cazzo di idea di cosa stia succedendo. E se fossi finito in mezzo a una guerra fra bande? E se quelli che Elvis minaccia di volere uccidere avessero scelto proprio questo momento per impedirglielo ponendo fine alla sua triste e misera esistenza da sfigato nato con vent’anni di ritardo?
Non ho modo di capirlo, perché per qualche secondo, dopo l’urlo che Elvis ha lanciato in seguito al secondo sparo, il magazzino ripiomba nel silenzio. Magari è stato solo un avvertimento, mi dico. Non so bene come funzionino queste cose, Fler saprebbe spiegarmelo ma lui non c’è, probabilmente è impegnato a spargere pomata sulle ferite del suo ex e di me se ne strafrega, per cui aggrotto le sopracciglia e decido che me ne strafregherò anch’io, ma i miei propositi reggono pochissimo perché il secondo successivo dieci cento o forse anche mille pistole si mettono a sparare tutte contemporaneamente, l’aria diventa incandescente, fischia attorno a me, ne sento il rombo fin dentro le orecchie, e ci sono proiettili che volano impazziti dappertutto e io me la sto facendo sotto, cazzo, e prego soltanto che nessuno di questi fottuti proiettili mi prenda perché voglio tornare a casa, stasera, voglio riportare a Danny la sua roba, voglio vedere Fler, voglio abbracciarlo e dirgli che lo so che non ci andrà a letto col ragazzino, lo so che non mi tradirà, lo so che mi ama, voglio dirgli tutte queste cose e non è vero per un cazzo che me ne strafrego di lui. Non è vero per un cazzo.
Chiudo gli occhi con forza, cercando di incassare il più possibile la testa nelle spalle, e prendo nota solo confusamente dei tre uomini che mi tengono prigioniero mentre danno di matto, confusi dai rumori degli spari e dalle pallottole che soffiano minacciose ovunque attorno a loro. Mi pare di sentire un “no!” strozzato provenire da dietro un mucchio di vecchie casse in fondo al locale, ma non ho modo di badarci troppo perché oltre ai rumori degli spari l’aria è piena delle urla dei miei aguzzini. Li sento urlare, muoversi in cerchio, urlare ancora e poi trovare un’uscita. Le loro voci si fanno sempre più deboli e distanti, e così gli spari, che diminuiscono d’intensità e poi si spengono del tutto. Io sono ancora vivo e non ho male da nessuna parte, e sono profondamente convinto che questo sia un miracolo.
Apro prima un occhio e poi un altro, guardandomi confusamente intorno. Il pavimento e tutte le pareti sono pieni di segni dove i proiettili sono andati a schiantarsi. Sudo freddo a pensare che se uno a caso di queste decine di proiettili avesse deciso di non andare a conficcarsi per terra o sui muri ed avesse preferito conficcarsi nella mia testa, sarei morto. Ci penso insistentemente per un paio di secondi e poi Bill – no, ripetiamolo perché non riesco nemmeno a crederci: Bill! – spunta fuori da dietro le casse dalle quali mi era sembrato di sentir provenire quel “no!” e mi si avvicina, affrettandosi a chinarsi davanti a me e sciogliere tutte le corde che mi tengono legato.
Non appena sono libero, scivolo giù dalla sedia , esausto, e Bill mi accoglie fra le proprie braccia reggendo il mio peso abbandonato e floscio con una forza che non gli riconosco. Mi chiedo quando sia arrivata, tutta questa forza, perché proprio non c’era quando i nostri corpi stavano vicini spesso e molto più a lungo di adesso, ed è allora che Bushido esce da un angolo in ombra alla mia sinistra e Fler fa lo stesso dall’angolo opposto, accompagnato da Danny che zoppica ed ha la faccia contratta in un’espressione di dolore continua.
Il tempo riprende a girare e io e Bill ci allontaniamo contemporaneamente. La forza di adesso, quella che guida le sue braccia e le sue gambe e rende i suoi occhi brillanti e presenti nonostante siano pieni di lacrime, è una forza che non gli ho dato io.
- Dimmi solo che stai bene. – mi sorride mentre mi libera dallo scotch. Mi giro appena per sputare la palla di polistirolo ormai tutta masticata, e mi asciugo la bocca col dorso della mano prima di offrirgli un sorriso stanco ed annuire lentamente.
Bushido butta lì un paio di colpi di tosse e Bill si alza in piedi. Vedo nell’espressione rilassata del suo viso che non lo fa perché deve o perché si sente in colpa, ma soltanto perché vuole e sa che è giusto così. Io mi alzo in piedi, guardo Fler ma lui non mi ricambia l’occhiata. Fissa la propria pistola accarezzandola con lo sguardo e, sbrigativamente, anche con due dita, prima di riporla in una tasca interna della giacca. Non gli dico niente, né d’altronde lui dice niente a me mentre usciamo o mentre, con la sua macchina, riportiamo Bill e Bushido a casa loro, prima di tornare da me. Io resto seduto sul lato del passeggero a guardarlo guidare in silenzio, gli occhi fissi sulla strada, mentre Daniel prova a fare un po’ di conversazione e rinuncia al terzo tentativo andato a vuoto. Si sistema con la schiena contro il sedile di dietro, anche perché suppongo sia tutto un dolore e non ce la faccia proprio più a reggersi dritto con le sue sole forze, e nel farlo gli cade l’occhio sul suo zainetto gettato in un angolo. Lo solleva e lo guarda da ogni lato, spalancando la bocca in segno di stupore prima di riuscire veramente a parlare.
- Ma non è uno di quelli speciali! – sbotta, - Non c’è la toppa! È uno di quelli che tengo a casa per nascondere la roba! – si sporge in avanti, agitandomi lo zainetto davanti al naso, - Chakuza, mi dici come hai fatto a metterti nei casini se non è stato il mio zaino ad attirare quel malato mentale in tuta di pelle?
Io prendo atto dell’espressione assolutamente allucinata che mi lancia Fler ed incasso la testa nelle spalle, aggrottando le sopracciglia e fissando la strada che scorre lenta sotto la macchina al di là del parabrezza. Spiego quello che mi è capitato, partendo dal principio e ammettendo che, fondamentalmente, non c’ho capito un cazzo. Ma cos’è? Ora non si può più andare in giro dicendo di essere un cuoco che finisci catturato da un trio di decerebrati che si sono messi in testa per chissà che motivo che vuoi essere tu il new kid on the block? Ma anche no, è profondamente ingiusto. Mi premuro di dire anche questo a Daniel e Fler, che nel mentre mi guardano con aria sempre più sconcertata, spalancando occhi e bocche lentamente ma progressivamente, finché non scorgo nel fondo delle loro pupille azzurre inquietantemente simili che forse non lo faranno a voce alta, ma nella loro testa mi stanno deridendo. Ampiamente.
Naturalmente, l’unico a risparmiarsi di prendermi per il culo a voce alta è Fler, e solo perché suppongo fosse realmente preoccupato: stringe le mani attorno al volante e torna ad osservare cautamente la strada, mordicchiandosi l’interno di una guancia; Daniel, invece, si dà alla pazza gioia, rovesciando il capo sullo schienale del sedile e tenendosi la pancia mentre rotola qua e là in preda alla crisi di riso più devastante di tutti i tempi, talmente devastante, in effetti, che a un certo punto le sue risate cominciano a diventare rantoli seriamente addolorati.
- Oddio, - piagnucola, incapace di trattenersi, - ma non lo sai che chef sta per capo, nel ghetto? Oddio, sto soffocando! – uggiola, le lacrime agli occhi, - Mi fa male tutto e non riesco a smettere, Chakuza! – protesta, come se fosse colpa mia o potessi farci qualcosa, poi.
- Sì, be’, potresti sempre provare cominciando a tapparti la bocca. – suggerisco con un’occhiataccia, alla quale Daniel risponde intensificando volume e frequenza delle risate. Roteo gli occhi, inspirando profondamente e tornando a guardare la strada.
- Sei stato uno stupido. – dice Fler a bassa voce. Non mi guarda neanche e il suo tono è gelido, quasi preoccupante.
- Mi dispiace. – ammetto abbassando lo sguardo, - Non credevo che—
- Avresti dovuto essere più prudente. – insiste lui. Noto solo adesso che ha le nocche bianchissime, tanto sta serrando le dita attorno al volante. – Mi sono molto preoccupato, Peter.
Annuisco piano. L’eco delle risate di Daniel si fa sempre più distante. Lui sta ancora ridendo, ma Fler è molto arrabbiato, più di quanto non mi stia lasciando intendere mentre mi parla, e questo rende tutto automaticamente molto meno importante, o degno d’attenzione.
- Scusami. – dico mesto, - Non lo farò più.
Se mi comporto come un bambino che si sente rimproverato dallo sguardo severo di suo papà, è solo perché mi ci sento.
*
Daniel crolla addormentato sul divano nel momento esatto in cui io e Chakuza glielo copriamo con un lenzuolo ed un paio di coperte. È esausto, devastato, e chiaramente non ce la fa più a reggersi in piedi.
- Dio, mi fa male tutto. – ripete in un mormorio straziante, mentre appoggia la testa contro il cuscino. Non è tipo da lamentele continue, ma questa frase l’avrà ripetuta almeno dieci volte negli ultimi venti minuti, è come se non riuscisse a dire altro, o non riuscisse nemmeno a formulare nella mente parole differenti. Forse è in questi istanti, mentre gli sistemo addosso la coperta e lui si lascia sfuggire un mugolio sofferente prima di chiudere gli occhi ed espirare a fatica, che decido quello che farò. Lo decido tutto, seguo un filo che mi porta fino all’uscita del labirinto e vedo dov’è che andrà a finire, quali conseguenze comporterà questa mia decisione, e forse, in qualche modo, inconsciamente le sto già accettando tutte. Ma solo inconsciamente, e questo non è il momento di parlarne: mi limito a rimboccargli le coperte trattenendo a stento un’imprecazione e una smorfia addolorata quando sento il suo corpo magro tremare sotto le mie dita, e poi mi rimetto dritto e vado in cucina.
Chakuza sta armeggiando con la caffettiera, anche se l’orario non è proprio adatto per un caffè, soprattutto considerato il fatto che siamo entrambi a stomaco vuoto da stamattina.
- Dorme? – mi chiede nervosamente, - Pensavo di mettermi a cucinare qualcosa.
- Dorme, sì, e credo che continuerà a farlo fino a domani mattina. – rispondo io, inarcando un sopracciglio, - Che è la stessa cosa che dovresti fare tu.
- Non sono stanco. – ribatte lui, posizionando la caffettiera sul fornello ed accendendo il fuoco.
- Chaku, - sospiro, - hai appena detto di volerti mettere a cucinare qualcosa. Sei uscito da un magazzino all’interno del quale per cinque minuti siamo stati tutti trasportati in un episodio speciale di Walker Texas Ranger, non più di un’ora fa. Se il tuo desiderio di metterti ai fornelli adesso non è un chiaro segno di squilibrio mentale, non so davvero cos’altro potrebbe essere.
Chakuza sospira a propria volta, spegnendo il fuoco ed appoggiandosi al ripiano, lo sguardo basso, tutti i muscoli ancora tesi. Lo osservo a lungo, aspettando che decida cosa fare. Alla fine, lo sento sospirare un’altra volta, e lo vedo annuire lentamente.
- Hai ragione, sono un po’ scosso. – ammette, - Magari mi riposo una mezz’ora.
- Magari vai a letto e ti svegli quando sarai in grado di andare in giro senza sentire ancora il fischio dei proiettili dentro le orecchie, che ne dici? – chiedo piano. Lui mi solleva addosso un’occhiata sconvolta, sembra stia chiedendosi quando sono entrato nella sua testa e come ho fatto a riuscirci senza che lui se ne accorgesse. – Mi è capitato, qualche volta, di trovarmi in mezzo ad una sparatoria. – rispondo, scrollando le spalle e distogliendo lo sguardo, - Quando ero più piccolo.
Chakuza resta per qualche secondo in silenzio, come a digerire l’informazione.
- Eri molto simile a lui? – chiede dopo un po’, tornando a guardarmi negli occhi. Io scrollo le spalle ancora una volta.
- Avevo la stessa convinzione di poter riuscire a risolvere tutto con le mie sole forze. – rispondo, - Che è il motivo per il quale molto spesso ci riuscivo davvero. Io sono stato più fortunato, però. Non ultimo perché almeno mio padre non mi picchiava, anche se suppongo fosse solo perché non c’era.
Chakuza annuisce, restando appoggiato al ripiano.
- Intendi prenderti cura di lui, vero? – chiede quindi. Io annuisco. – D’accordo. – dice, e io non faccio in tempo a dirgli che non mi serve la sua approvazione, perché lui mi sorride, un sorriso dolce, vagamente colpevole, ma più di ogni altra cosa complice. – Voglio starti accanto.
Io sbatto le palpebre un paio di volte, incredulo.
- In che senso? – chiedo confuso.
- Quanti sensi esistono per una frase simile? – ride lui, - Io ti amo. – spiega quindi, e quando mi guarda riesco a leggergli dentro che è vero, che lo pensa e che lo pensa sempre, anche quando fa o dice una cazzata, anche quando sa di stare per farmi incazzare eppure non riesce ad impedirselo, so che è il pensiero fisso che lo accompagna senza ossessionarlo da quando si sveglia a quando va a dormire, indipendentemente da quanti altri pensieri gli ruotino intorno, e so che è giusto così.
Gli sorrido, sentendo tutti i muscoli del mio viso sciogliersi in un solo istante.
- Ti amo anch’io. – rispondo piano. Lo accompagno a letto e lo osservo addormentarsi standogli semplicemente sdraiato accanto. Lui mi si spalma addosso istantaneamente e per una volta è palese che lo fa solo per sentire il mio corpo contro il suo, perciò gli circondo il collo con le braccia e lo lascio fare, ascoltando il ritmo del suo respiro mentre rallenta e poi si stabilizza. Dalla stanza accanto proviene il russare sommesso di Danny, che ha il naso troppo pesto per respirare bene e quindi fa un sacco di piccoli rumori che usualmente non farebbe. Sorrido. Penso che mi piace quello che sento, e ripenso a Chakuza che mi chiede se intendo prendermi cura di lui.
Intendo farlo, Chaku. Intendo davvero farlo.

Bookmark and Share

There Won't Be A Dry Eye In The House Tonight

di lisachan
Io ho la testa nascosta dentro il frigorifero, quando accade. Non ho neanche tempo di capirne un accidenti, in realtà, perché sto raschiando il fondo dei cassetti e dei ripiani per cercare qualcosa di commestibile da preparare per cena. Qualcosa che non sia riuscito ad evolversi fino allo stadio anfibio, almeno. Ci sono delle olive, in un barattolo. Cerco di ricordarmi se ho anche del sugo in bottiglia per fare po’ di pasta, ma poi guardo meglio le olive e sono quasi certo di vedere degli occhi, da qualche parte, perciò lascio perdere. Accanto a me, c’è la presenza costante di Daniel, che si aggira nei pressi della mia persona infastidendomi e giudicandomi. Ha le braccia incrociate sul petto, una delle quali ancora bendata e appesa al collo, in quanto slogata, e mi guarda con evidente pietà.
- Non c’è proprio niente, qua dentro, eh? – chiede disgustato, - Non so se hai presente che vita facevo io a casa mia, ma almeno il cibo non mancava mai.
- Adesso trovo qualcosa. – borbotto io, alzandomi in piedi e chiudendo lo sportello del frigorifero, che tanto è evidente che non ci troverò nulla. – Sto solo cercando nel posto sbagliato.
- Quale posto più sbagliato del frigorifero per cercare del cibo commestibile, d’altronde. – rotea gli occhi lui, seguendomi mentre mi sposto verso gli stipetti sopra il piano cottura e comincio ad aprirli tutti insieme, per poterne avere un quadro generale completo.
- Non tutta la roba da mangiare deve stare per forza conservata a quattro gradi centigradi. – gli faccio notare, aggrottando le sopracciglia. Scatolette di tonno! Ecco come vincerò questa battaglia. Mi sollevo sulle punte dei piedi per raggiungere le tre confezioni di tonno sott’olio stipate sull’ultimo ripiano in alto, pensando trionfante che, se il sugo al quale pensavo prima c’è davvero, nascosto da qualche parte in questa cucina, farò una pasta col tonno talmente buona che questo ragazzino impertinente piangerà di gioia, scusandosi per essere stato una piaga ed asservendosi al mio volere finché vivrà, acconsentendo a farsi buttare fuori da casa mia per non farsi mai più rivedere.
Stringo le scatolette fra le mani e rigiro la confezione per pura formalità. Non dovrebbe essere scaduto.
…e invece lo è.
Sento fisicamente il sopracciglio di Daniel inarcarsi sulla sua fronte, produce quasi un suono percettibile, come di unghie su una lavagna.
- Vedo che anche quelli conservati a temperatura ambiente non fanno una gran vita, da queste parti. – commenta, sporgendosi appena per prendere nota della scadenza che indica una data oggettivamente troppo lontana nel tempo per poter essere mascherata con un blando “va be’, tanto è ancora buono”.
- Senti, se tutto quello che intendi fare è girarmi intorno come un avvoltoio senza darmi neanche una mano d’aiuto, tornatene a poltrire sul divano! – sbotto offeso, lanciandogli un’occhiata infastidita. Dove diavolo è Fler quando mi serve? Perché non torna a casa e trascina questa piaga sociale a prendere un gelato o a sparare ai piccioni con una fionda o qualsiasi cosa facciano per divertirsi quando stanno insieme senza dover necessariamente spogliarsi nudi?
- Ti aiuterei anche, - sospira Daniel, inarcando le sopracciglia in quella che pare davvero un’espressione contrita e amareggiata, al punto che io spalanco gli occhi e lo fisso e mi sento perfino in colpa. Io. In colpa. Parliamone. – Ma purtroppo con questo braccio qui… - sospira ancora, indicando il braccino infermo con un breve gesto del capo.
Mi gratto nervosamente la nuca, distogliendo lo sguardo. Dannato ragazzino.
- Io—
- No, a ben pensarci – m’interrompe lui, arricciando le labbra in una smorfia riflessiva, - non ti aiuterei neanche se avessi il braccio sano, è vero. Preferisco romperti le palle girandoti intorno come un avvoltoio, sì.
- …Daniel! – tuono, mentre lui mi fissa inespressivo e tira fuori la lingua con aria saputa. Non ho il tempo di dirgli niente, o anche solo di organizzare ciò che vorrei dirgli, perché sento la chiave girare nella toppa e questo mi riporta improvvisamente alla realtà. Fler è tornato. – Alla buon’ora! – sbraito, le mani sui fianchi, - Ma si può sapere dov’eri finito?
Per un secondo gli occhi di Fler sono persi e confusi. È come se, fino ad un momento prima di arrivare, fosse preso da ben altri pensieri, molto più gravi e seri, e trovarsi di fronte me che legittimamente mi lagno delle pene che sto patendo fosse una possibilità che lui non aveva nemmeno preso in considerazione, perché troppo impegnato a pianificare chissà cos’altro. È una luce diversa che gli illumina gli occhi e getta ombre scure e misteriose sul resto del suo viso e sulla sua espressione, ma dura solo un attimo. Lo osservo sorridere ironicamente, mentre posa le chiavi sulla consolle e si chiude la porta alle spalle.
- Forse non te lo ricordi, ma io non vivo qui. – mi fa presente, - Per cui queste tue proteste mi sembrano decisamente fuori luogo.
- Fuori luogo, sì. – concordo aggrottando le sopracciglia, - Esattamente come la presenza del tuo amante in casa mia. Mi spieghi perché deve vivere qui?
- Guarda che sono a due centimetri da te e non sono il suo amante. – mi ricorda Daniel, incrociando nuovamente le braccia sul petto da qualche parte alla mia sinistra. – Anche se posso diventarlo, se proprio ci tieni.
- Preferiresti che vivesse nel mio appartamento e potessi sgattaiolare lì ogni volta che voglio per incontrarlo di nascosto mentre tu non guardi? – mi chiede Fler, lanciandomi un’occhiata divertita.
- Io preferirei! – ammette Daniel, sollevando il braccio sano con enfasi.
- Tu resti qui. – ringhio io, allungandomi a recuperare il cucchiaio di legno sul tavolo e tirandogli una cucchiaiata sulla testa.
- Ahi! – si lagna lui, massaggiando il punto dolente e perdendo una mano in quella enorme matassa di capelli biondi che continua a crescere inesorabilmente in sfregio palese alla mia persona, - Potrei denunciarti per maltrattamenti, sai? – mi minaccia, facendomi un’altra linguaccia. Io roteo gli occhi, lasciandolo perdere, e torno a cercare Fler con lo sguardo, ma lui è sparito.
- Fler? – lo chiamo, aggirando l’isola ed incamminandomi per il corridoio, raggiungendolo in camera da letto ed osservandolo infilarsi velocemente una maglietta pulita e la giacca subito sopra, - Che diamine stai facendo?
Lui sistema il colletto della giacca, distogliendo lo sguardo.
- Siete a posto qui, no? – chiede, ignorando platealmente la mia domanda, - Non vi serve niente?
- …no, non ci— Fler, che succede? – gli chiedo con insistenza, avvicinandomi di un passo. Lui forza un sorriso, tornando finalmente a guardarmi negli occhi.
- Ho un affare da sbrigare. – dice, prima di aggirarmi ed imboccare il corridoio.
- Fler! – lo inseguo io, fermandomi subito quando vado quasi a sbattergli contro, - Ma che diamine…? – borbotto, sporgendomi a guardare oltre il suo corpo. C’è Daniel, immobile davanti a lui, che lo guarda con curiosità evidente.
- Dove vai? – gli chiede. Fler non risponde subito.
- Ho un affare da sbrigare. – ripete poi, reggendo il suo sguardo. L’espressione tranquilla di Daniel resta tale ancora per qualche secondo, prima di incrinarsi all’improvviso.
- No. – dice a fatica, muovendo un passo verso di lui, - Fler—
Ma lui non lo ascolta, evitando il suo corpo e dirigendosi speditamente verso la porta. Io li guardo e non capisco niente. Guardo gli occhi di Fler, due macchie azzurre perfettamente serene, tranquille, concentrate, perse nel mare scomposto dei suoi lineamenti contratti e preoccupati. E non ci capisco niente.
- Farò tardi, stanotte. – dice, la sua voce è lontanissima. – Non aspettatemi svegli.
Scompare oltre la porta il minuto successivo, e io non ho ancora idea di cosa sia successo.
- Che…? – azzardo, lanciando un’occhiata incerta a Daniel. Lui si volta a guardarmi, smettendo finalmente di fissare la porta chiusa con l’espressione di uno che sta aspettando di scoppiare a piangere da un momento all’altro. Stringe le labbra e trattiene il respiro, e quando sembra che stia per dirmi qualcosa, invece non mi dice niente.
- No. – balbetta incerto, prima di andare a rinchiudersi nella prima stanza disponibile. Che poi è anche l’unica. Camera mia.
Si fa vivo solo verso ora di cena. Io esco a far la spesa nel primo pomeriggio e poi passo non so quanto tempo dietro ai fornelli, mi distraggo come posso, cucino per un esercito, e quando lui esce dalla stanza, tutto stropicciato e teso e con gli occhi talmente rossi che, se non sapessi che ha pianto, gli ordinerei un test antidroga immediatamente, entra in cucina strascicando i piedi e grattandosi la testa e si ferma sulla soglia, osservando lo spettacolo dell’isola apparecchiata e piena di cibo mentre io mi ci agito intorno, sistemando ogni cosa con maniacalità quasi patologica.
- Ehi. – gli sorrido nervosamente, - Ti sei svegliato. Ho preparato qualcosina da mangiare.
- …noto. – commenta lui, la voce impastata e un po’ rauca. – Non si è fatto sentire, vero? – domanda timorosamente, rifiutandosi di incontrare il mio sguardo.
- No. – rispondo io, scostando uno sgabello e battendo un paio di volte il palmo della mano contro la seduta, per invitarlo ad accomodarsi. Vorrei chiedergli se sa davvero dove Fler sia andato, o cosa sia andato a fare, ma è evidente che Daniel non vuole parlarne, e forse, se è una cosa di cui Daniel non vuole parlare, ci sono alte probabilità che sia anche una cosa che io non voglio sentire. Per questo motivo, cerco di sorridergli e mi seggo sullo sgabello al suo fianco. – Non pensarci, ora. – scuoto il capo, sollevando l’insalatiera e servendogli una consistente porzione di broccoletti lessi, - mangia la tua cena. Quelli per Fler li ho già messi da parte, mangerà quando sarà tornato.
Lui osserva la verdura con aria allucinata, punzecchiandola con la forchetta per qualche secondo prima di decidersi a lasciarla stare e tornare a guardare me.
- Chakuza, tu mi odi molto? – chiede quindi, ed a me va un broccoletto di traverso. Strabuzzo gli occhi, tossisco con forza, mando giù un’abbondante sorsata d’acqua e mi pulisco col tovagliolo, prima di schiarirmi la voce e ricambiare la sua occhiata serena con una colma di sconcerto.
- Come, scusa? – chiedo a mia volta, inarcando le sopracciglia, - Guarda che i broccoli ti fanno bene. Tu sei troppo magro per quanto sei alto, non è che sto cercando di avvelenarti. – borbotto risentito. Lui ride, e la sua risata è completamente diversa da quelle che gli ho sempre sentito addosso quando si trattava di ridere di me. È una risata dimessa, un po’ triste. Mi stringe il cuore, credo, se questo senso di colpa assolutamente immotivato che mi prende quando lo vedo meno che contento può essere paragonato a un’espressione simile. Il mio rapporto con Daniel, in questo senso, è un po’ confuso. Mi arrabbio quando è felice, perché il più delle volte lo è solo quando può stare appiccicato a Fler. Ma sono triste quando non lo è, perché il più delle volte non lo è solo quando deve stargli lontano.
- Non sto parlando dei broccoli. – si stringe nelle spalle, seguendo con la punta di un dito i disegni quadrettati della tovaglia, - Stavo solo pensando che… non lo so. – ride ancora, cambiando lievemente posizione come se stesse scomodo, - Posso riuscire a capire perché Fler mi tiene ancora con sé. Ma tu? Tu dovresti odiarmi. Credo.
Mando giù ancora un po’ d’acqua, inspirando profondamente.
- L’odio è un sentimento enorme, Daniel. – gli spiego, - Troppo enorme, e troppo sporco, ingestibile. Odiare qualcuno ti porta via pezzi di te stesso, pezzi che cedi alla rabbia, al risentimento, all’invidia, al desiderio di vendetta e chissà cos’altro. – sospiro, scrollando le spalle, - Io non ragiono in questi termini. Tutto sommato, io ho una bella vita. Sono un uomo felice. Sono stato triste, in passato, ed ho provato del risentimento verso qualcuno, ma non ho mai lasciato che questi cattivi sentimenti prendessero il controllo su di me e si trasformassero in odio. L’odio non ti porta da nessuna parte, se non ad altro odio. Non è un modo saggio di vivere la propria vita. Chiunque possa dire di essere felice, difficilmente può odiare. O almeno così penso io. – concludo distogliendo lo sguardo.
Daniel annuisce lentamente, gli occhi azzurri persi su qualcosa che non riesco a identificare. Sono così simili a quelli di Fler… non solo per il colore. È qualcosa di più intimo, di più profondo. E forse capisco cos’è quando Daniel schiude le labbra e parla, poco dopo.
- Io non devo essere granché felice, allora. – dice piano, - Perché odio mio padre. Lo odio così tanto che ho sognato non so quante volte di trovarmi da solo con lui immobilizzato da qualche parte, per poterlo prendere a pugni e calci fino a lasciargli addosso gli stessi segni che lui ha lasciato a me. E allo stesso tempo… - lascia andare un sospiro che è quasi un gemito, mentre appoggia entrambi i gomiti al tavolo, come non riuscisse più a reggersi dritto sullo sgabello con le sue sole forze, - Allo stesso tempo penso che anche mio padre non dev’essere granché felice, se odia se stesso al punto da farsi ciò che si fa, ed odia me al punto da picchiarmi da prima di quanto riesca a ricordare.
Intreccio le dita sul tavolo, inumidendomi le labbra mentre cerco le parole migliori per continuare. Che è una cosa che io non faccio mai, voglio dire, io che cerco di filtrare i pensieri e non mi butto subito sul primo che mi passa per la mente per esprimerlo esattamente com’è stato formulato negli anfratti oscuri del mio cervello? Sono così fuori dal personaggio che quasi mi denuncerei da solo. Ma ho qui davanti un ragazzino di una fragilità impossibile, che poi è la cosa che ho capito e che accomuna lui e Fler. Possono essere incredibilmente forti, hanno entrambi corazze infrangibili che sanno usare bene, ma scavalcando quelle, il loro nucleo è rimasto morbido e vulnerabile. Solo a scorgerlo ti metti paura per quello che potresti fare toccandolo male.
- Io credo che sia Tempelhof. – dico a bassa voce, annuendo con convinzione, - Avvelena le persone. Pensa a me, ci ho messo piede due ore e quasi ne uscivo con più buchi di una forma di groviera! – sdrammatizzo scrollando le spalle e gesticolando, e pregando Dio che me la mandi buona, e lui fortunatamente lo fa, perché Daniel lascia andare una mezza risata un attimino più sentita di tutte quelle che ha fatto da quando ci siamo seduti qua a discutere di vita, morte e botte nel ghetto, tutte cose di cui assolutamente non mi va di parlare nemmeno quando sono tranquillo e sereno, figurarsi quando ho un uomo disperso nella notte di Berlino e non so neppure se tornerà a casa tutto intero, e io posso tirare un sospiro di sollievo.
- Può darsi. – conclude, alzandosi in piedi, - In ogni caso, dubito che avrà importanza, da ora in poi. – aggiunge in un mezzo sussurro, e poi torna a sorridermi, sollevando lo sguardo su di me. – Senti, non ho molta fame, - confessa stentatamente, - però questi broccoletti vorrei mangiarli, domani. Me li conservi?
Annuisco, alzandomi a mia volta e svuotando entrambi i nostri piatti ancora praticamente pieni nell’insalatiera. I broccoletti che avevo distribuito tornano a fare compagnia ai loro fratelli mentre Daniel esce dalla cucina e scompare dalla mia vista. Io ripongo tutto in frigo e penso che, quando Fler sarà tornato a casa, lo ingozzerò al punto da impedirgli di avere fame per tutto il resto della settimana. Così, solo perché posso.
Quando finisco di rassettare, vado verso il divano convinto di trovarci sopra Daniel che guarda la tv, e sono così ben disposto nei suoi confronti che faccio per chiedergli se non lo vuole lui, il letto, magari solo per stanotte. Ma non faccio in tempo, perché lo trovo che già dorme profondamente, steso per lungo sul divano e coi piedi che penzolano oltre il bracciolo, sfiorando quello della poltrona lì accanto. Sorrido appena, tornando in cucina e stabilendo di far passare un po’ il tempo lavando i piatti e sistemando roba che non avrei mai pensato di mettermi a sistemare in una situazione normale, tipo le confezioni di cibo in scatola negli stipetti, o la collezione di spezie sulla mensola sopra il piano cottura.
Finisco che la mezzanotte è già passata da un pezzo, ma di Fler ancora non c’è traccia. Sospiro e recupero il cellulare, provo a chiamarlo e sento squillare la suoneria da qualche parte in camera da letto. È così raro che Fler non porti con sé il telefono che inizialmente faccio fatica a credere a ciò che sentono le mie orecchie. Vado fino in camera e vedo il cellulare che squilla e vibra leggermente sul comodino, e solo allora, di fronte alla prova visiva, mi rassegno, e chiudo la chiamata. Mi lascio andare seduto sul letto, chiedendomi cosa dovrei fare. Quando sono sparito io, Fler ha quasi rivoltato la città per ritrovarmi. Ma io non sarei capace di farlo, perciò mi limito ad aspettarlo. Mi stendo sul letto, dal suo lato, che è una cosa che non faccio quasi mai, ma oggi sì. Oggi anche un po’ chi se ne frega delle cose che non faccio quasi mai.
Mi accorgo di essermi addormentato solo quando mi sveglio, non so quante ore dopo. La notte è ancora buia fuori dalla finestra, ma vedo il profilo di Fler seduto sul bordo del letto. Mi dà le spalle ed è curvo e silenzioso come non l’ho mai visto. Sembra abbattuto, ed è una cosa che mi stringe il cuore.
- Fler…? – lo chiamo, la voce impastata dal sonno, mentre mi sollevo sui gomiti. Lui non si muove, e in realtà non dà neanche l’impressione di avermi sentito. Resta lì, immobile come una statua di sale. Lo sento respirare, ma è un soffio lievissimo, che non ha la minima ripercussione sul suo corpo. Non gli gonfia il petto, non gli scuote le spalle, mi chiedo se sia sufficiente da tenerlo in vita.
Mi raddrizzo meglio e striscio sul materasso fino a lui, sporgendomi oltre la linea curva delle sue spalle per lanciargli un’occhiata allarmata. C’è qualcosa di strano nella sua figura, forse nei suoi abiti, ma è buio e non riesco a vederlo bene.
- Fler? – lo chiamo ancora, più decisamente. Lui continua a non muoversi, guarda fisso di fronte a sé. Il suo profilo, nel buio, cambia forma solo per un secondo, quando si inumidisce le labbra. Le accarezza con la lingua in un gesto sbrigativo, che si esaurisce subito dopo quando la ritrae, con tanta velocità da dare l’impressione di essersi lasciato impressionare dal suo stesso sapore, per quanto questa cosa possa suonare assurda. – Non ti va di parlare? – domando. Lui naturalmente non risponde. Io sospiro. Sono arrabbiato, mi dà fastidio che continui a restare in silenzio anche se è evidente che sono preoccupato e mi basterebbe una sua mezza parola per tranquillizzarmi e tornare a dormire sereno, ma decido di non lasciarmi sopraffare dalla rabbia, e scrollo le spalle. – D’accordo, - annuisco, - va bene se non ti va di parlare. Almeno vieni a letto e riposati. Non so che ore sono ma dev’essere tardi. – suggerisco, e nello stesso momento torno a strisciare verso l’altra metà del letto, che poi è sempre la sua ma per stanotte ho deciso che è mia, che lui dorma al mio fianco o no.
È in quel momento che lui si muove. Il suo braccio si allunga lentamente nell’oscurità della stanza, ombra nera profondissima sullo sfondo dell’ombra appena più chiara della parete di fronte, illuminata fiocamente dalla luce azzurrognola della notte, e le sue dita si chiudono attorno all’interruttore dell’abat-jour, accendendolo. La stanza viene investita dalla luce gialla e calda della lampadina, e così il suo corpo. Un corpo a chiazze, come quello di un dalmata. Solo che le macchie che lo ricoprono sono rosse e scure e dense come sangue. Sono sangue.
- Fler! – lo chiamo, tornandogli vicino e mettendogli subito le mani addosso. Getto le gambe giù dal letto e, seduto sulla sponda accanto a lui, lo giro e lo rigiro per controllare da dove venga tutto quel sangue. La sua espressione, però, non sembra addolorata. O meglio, lo sembra, ma non come se fosse ferito. Il dolore nei suoi occhi è di quelli sfuggenti che non lasciano cicatrici visibili sulla pelle. Su di lui, ormai sono abituato a riconoscerlo. – Fler, cos’è successo?
- Non è mio. – dice lui. Sono le prime parole che gli sfuggono alle labbra da quando ho riaperto gli occhi. Escono fuori ruvide, incerte, mi sembra di vederle muoversi a tentoni, infastidite dalla luce, per correre a rifugiarsi nei coni d’ombra degli angoli della stanza. – Il sangue. – precisa dopo aver brevemente tirato su col naso, - Non è mio.
- Hai fatto a botte? – domando aggrottando le sopracciglia. Lui abbassa lo sguardo sulle sue mani. Sono abbandonate in grembo, sporche di sangue incrostato.
- Sono entrato in casa sua. – mi dice, e io mi paralizzo. Mi si ghiaccia l’aria nei polmoni, il sangue nelle vene, la saliva sulla lingua. Lo fisso con orrore e vorrei trovare abbastanza voce per dirgli che non voglio saperne niente, ma resto in silenzio. – Lui dormiva. – prosegue, - Era talmente ubriaco che non si era accorto di avere vomitato, nel sonno, o se se n’era accorto se n’era fregato, ed era rimasto lì immerso nel suo vomito a dormire e russare. Non puoi immaginarti lo schifo di doverlo toccare, Chaku.
- Fler—
- Sono sceso di sotto e sono andato in cucina, - continua lui, come se non mi avesse sentito, - e ho cercato un bicchiere pulito. L’ho cercato a lungo, - ride amaramente, - ma alla fine l’ho trovato, e l’ho riempito d’acqua. Allora sono tornato di sopra, in camera da letto. L’ho afferrato e l’ho ribaltato sul materasso, supino. E poi gli ho gettato l’acqua in faccia perché volevo che fosse cosciente, Chaku. Capito? Volevo che fosse sveglio e che sapesse quello che gli stava succedendo.
- …Fler, - deglutisco a fatica io, togliendogli le mani di dosso e lasciandomele ricadere inerti in grembo, - di chi stai parlando?
Lui mi guarda a lungo, e alla fine decide di non rispondermi. Non so se lo faccia perché vuole proteggermi o perché ritiene la domanda così stupida, e la risposta così ovvia, da non doverla nemmeno prendere in considerazione. Fatto sta che non dice niente, ma in qualche modo, in quel momento, nella luce grave dei suoi occhi io ritrovo il silenzio triste e spaurito di Daniel, e tutto prende senso.
- Si è svegliato con un grugnito animalesco. – riprende, tornando ad abbassare lo sguardo, - E io mi sono detto “questo non è un uomo, questo è una bestia”. Non so perché l’ho pensato, forse perché così era più facile. – scrolla le spalle, - Gli ho stretto le mani intorno al collo, ma volevo solo tramortirlo e fargli paura. Non volevo ammazzarlo in quel modo, sarebbe stato gentile. Lo sai cosa ti succede quando soffochi? – si volta a guardarmi, i suoi occhi traboccano di qualcosa di tenero e infantile che mi dà i brividi. – È dolce, - spiega a bassa voce, - l’aria si esaurisce poco a poco ed è come addormentarsi, in un certo senso. Certo, naturalmente è più violento, - dice, lasciandosi sfuggire una mezza risata nervosa che stride fastidiosamente nel silenzio della stanza, spezzato solo dalla sua voce, - però è tranquillo. Otello, ce l’hai presente Otello? Io non ho studiato granché, a scuola, ma mia madre adorava Shakespeare, da piccolo me ne riempiva le orecchie. Ecco, Otello, quando fa fuori Desdemona, la soffoca. Perché la ama, e sa che così soffrirà meno che con un coltello in pancia. – sorride appena, in uno sbuffo di fiato esausto. – Io non volevo che fosse dolce. Volevo che facesse male.
Deglutisco ancora, e poi un’altra volta quando mi rendo conto che il blocco che sento all’altezza della gola semplicemente non viene giù. Mi rassegno, passandomi una mano sugli occhi, e quando parlo ancora è solo per dire quello che avrei dovuto dire fin dall’inizio, la domanda che Fler sta aspettando da quando mi sono svegliato, quella alla quale continua a rispondere senza che io l’abbia ancora posta, ma che lui vuole comunque sentirsi dire.
- Fler, che hai fatto? – chiedo a bassa voce, un sussurro appena udibile. Fler mi riversa addosso una cascata di parole senza freno, e suppongo che non gli importasse nemmeno di sentire la mia voce pronunciare quelle parole, voleva semplicemente sapere che avevo capito bene cosa mi stava raccontando, perché finché fingevo di non averne idea lui semplicemente non poteva dirmi tutto.
- L’ho tenuto in piedi, era pesante ma sembrava leggerissimo. Mi guardava ed era spaventato, così spaventato. L’ho picchiato per ore, non lo so… per giorni. – faccio per dirgli che è stato via molto meno di una giornata, ma lui riprende subito a parlare. – Era irriconoscibile appena ho finito, una maschera di sangue. L’ho lasciato cadere a terra quando ha perso i sensi, ma ho continuato a pestarlo anche se non reagiva più, non solo non cercava di difendersi, ma non riusciva nemmeno a gemere di dolore, che ne so, darmi un segno di vita. Me ne sono fregato. Mi sono messo dritto e l’ho guardato, gli ho sputato in faccia e poi gli ho schiacciato la testa sotto il piede. – si interrompe e spalanca gli occhi, fissando la parete mentre io, rigido come un blocco di marmo, fatico a tenere a freno i conati. Ha usato un’espressione che con gli esseri umani non ha niente a che fare. Tu schiacci gli scarafaggi, i ragni, le formiche, i topi al massimo. Non le persone. – Gli ho schiacciato la testa. – ripete, sottolineando l’espressione. Ho pestato e pestato e pestato finché non ho sentito che si rompeva e la scarpa affondava nel— Cristo. – si piega su se stesso, nascondendo il volto fra le mani, e io sono così paralizzato che ho paura di muovermi, perché sono teso e potrei anche andare in pezzi, ma quando lo vedo incurvarsi in quel modo mi sporgo verso di lui, perdo l’equilibrio, gli cado addosso ma in qualche modo riesco a tenermi su, lo stringo e lo sento sciogliersi in una marea di singhiozzi fra le mie braccia, mentre piange e si lamenta come un bambino e trema come una foglia e io non so, non ho minimamente idea di come dovrei risolvere questa situazione.
- Che cosa pensi di fare? – chiedo dondolandolo un po’, e lui, fra le lacrime, si lascia sfuggire una risatina isterica.
- Non ne ho idea. – risponde, stringendosi nelle spalle, - Non è che il bastardo mancherà a qualcuno, perciò non credo di correre rischi… - spiega, mentre io mi sento ghiacciare di nuovo il sangue nelle vene, - però dovrò fare pulizia. – sospira, - Non lo so, domani chiamerò Sonny e vedremo cosa— - si interrompe all’improvviso, scuotendo il capo, - Chiamerò Bushido, - si corregge, - e vedremo cosa fare. – si ferma ancora per qualche istante, inspirando ed espirando un po’ a fatica. – Scusa. – dice quindi, - Sto parlando nella lingua di un altro mondo.
Mi scosto appena, tornando a sedermi al suo fianco ma lasciandogli una mano sulla spalla. Le sue guance sono ancora rigate di lacrime, ma i suoi occhi, per quanto arrossati, sono asciutti.
- È il tuo mondo. – accenno, rafforzando la presa sulla sua spalla. Lui scuote il capo.
- No, è questo il guaio. – sussurra, - Non è il mio mondo, non più, almeno, e io non posso fingere che uccidere una persona adesso sia uguale ad ucciderla sei o sette anni fa.
Mi inumidisco le labbra, deglutendo a fatica.
- L’avevi già fatto? – chiedo senza fiato. Lui si volta a guardarmi e schiude le labbra, ma le serra subito dopo, scuotendo il capo.
- Ho bisogno di dormire un po’, Chaku. – dice piano, forzando un sorriso stanco che sembra più una ferita, - Ti dispiace se mi metto giù qualche ora?
- No… - rispondo io, - Certo che no. – mi alzo in piedi, lasciandogli spazio e rimboccandogli le coperte appena si distende, appoggiando il capo al cuscino con un sospiro stremato e chiudendo immediatamente gli occhi. Lo osservo un po’ restando in piedi accanto al letto mentre ascolto il suo sospiro tranquillizzarsi piano piano, e poi spengo la luce. Non ho più sonno, se mai l’ho avuto. Esco dalla stanza e mi basta fare un passo in corridoio per sentire il pianto soffocato di Daniel.
Mi affaccio dalla porta e lancio un’occhiata al divano. Sotto il mucchio di coperte che vedo c’è Daniel che affonda il viso nel cuscino. Lui e Fler hanno perfino lo stesso modo di piangere, è inquietante. Suppongo che, quando cresci in un posto che non ti permette di farlo quando ne hai bisogno, ad un certo punto piangere diventa un po’ come esplodere. Ti trattieni finché puoi, ma arrivi ad un punto in cui devi lasciarti andare per forza, e non può essere una cosa silenziosa.
- Danny. – mormoro avvicinandomi.
- Sto bene. – mi ferma immediatamente lui, nascondendosi sotto la coperta così che non possa vedere il suo viso, - Resta lì. Sto bene, è solo un momento. Ora passa.
Inspiro ed espiro, scuotendo il capo. Mi avvicino lo stesso, posando una mano sullo schienale del divano e sporgendomi appena verso di lui.
- Senti, - dico, - io non ho sonno. Pensavo di prendere un po’ di gelato e guardare un film, se non hai sonno nemmeno tu. Ma se vuoi dormire me ne torno in camera.
Lui singhiozza ancora per qualche secondo e poi si arrischia a tirare il naso fuori dal groviglio di coperte in cui s’è annodato. È paonazzo e gonfio e un po’ screpolato. Chissà da quanto piange. Probabilmente da quando Fler è rientrato.
- Che film? – mi chiede incerto, - E il gelato a che gusto?
Io cerco di sorridere.
- Puoi scegliere tu entrambe le cose. – rispondo stringendomi nelle spalle.
Daniel esita ancora un paio di secondi, ma alla fine viene fuori, si mette in piedi e mi segue in cucina. Anche i suoi occhi si asciugano subito, ed anche le sue guance, invece, restano bagnate. E mentre lo osservo riempirsi una coppa di gelato alla nocciola e poi trascinarsi nuovamente di là per mettere mano alla colonna di dvd accanto al televisore, capisco che questo ragazzino ha smesso di essere un problema solo di Fler, ed è diventato un problema anche mio.

Bookmark and Share

Family Issues

di tabata e lisachan
Forse vi ricorderete di me perché, non per vantarmi, ma nell'ultimo periodo sono stato piuttosto importante da queste parti. Tanto per rinfrescarvi la memoria, sono io che ho detto a Fler e Chakuza dove trovare l'assassino di Bushido, due anni fa. Quei due brancolavano nel buio. Giravano per bar, ma ci pensate? Come se qualcuno che sa qualcosa sull'omicidio di un pezzo grosso come Bushido potesse mai starsene al bar pronto a rispondere alle tue domande sull'argomento. Io Fler lo rispetto perché lui è uno che ci sa fare, un tipo a posto, uno che quando aveva la mia età cazzo se ne ha fatti di casini, da queste parti lui è una leggenda, ma si vede quando stai fuori dal giro perché quando ci torni poi è un casino sapere dove mettere le mani. E' perché lo spazio che lasci lo occupa qualcun altro; appena ti fai da parte, sei subito fuori.
Così questi due per giorni non fanno che girare per il ghetto in cerca di informazioni. Lo sanno tutti, naturalmente, ma si guardano bene dal parlare perché di mezzo ci sono i libanesi e nessuno ha voglia di mettersi contro di loro, specialmente quando Saad ha dato ordine di ammazzare suo cugino.
Io in quel momento lavoro per uno che fa affari con quella gente, sono da lui per prendere quello che devo consegnare e lo sento parlare con un tizio, e capisco subito che stanno parlando dell'omicidio di Bushido.
Non è che Bushido mi piacesse, ben inteso, ma girava voce che Saad l'avesse voluto morto per la storia di Bill, che posso pure capire rovinasse l'immagine, ma alla fine erano cazzi suoi. Ho pensato che non mi stava bene, in più volevo aiutare Fler e le due cose erano compatibili; e poi se qualcuno un giorno mi sparerà perché sono frocio, mi piacerebbe che pareggiassero i conti con lo stronzo che mi ha sparato, tenendo bene a mente il motivo per cui l'ha fatto. Per cui sono andato per bar anch'io, finché non ho trovato lui e quel cretino di Chakuza, che non è adatto al ghetto come non è adatto al mondo in generale, se me lo chiedete.
Insomma, io gli do quest'informazione e lui mi prende sul serio. Capite? Mi prende sul serio, cazzo, e va a parlare col tramite dei libanesi. Io non so che cazzo fa per convincerlo a parlare, ma quello parla e qualche giorno dopo Saad è sparito. Ufficialmente non è morto, la moglie dice che se n'è andato lasciando un biglietto. Sì, certo. A dragare il canale chissà in quanti pezzi lo trovano.
Tutto quello che è successo dopo io non lo avevo previsto, naturalmente, anche perché un casino del genere non si poteva pensare. Mentre Bushido tornava dal regno dei morti e l'Ersguterjunge esplodeva letteralmente in mille pezzi, rivelando al mondo che metà dei suoi cantanti erano omosessuali, io facevo coming out – in parte anche per colpa loro – e venivo ripetutamente pestato dai ragazzi della mia banda o da mio padre se tornava ancora abbastanza lucido per non fare gli ultimi tre gradini della rampa di scale strisciando e poi vomitare sulla soglia di casa.
La mia vita faceva schifo e non poteva farlo più di così, per questo ho deciso che tanto valeva presentarsi alla porta di Fler e chiedergli di venire a letto con me. Io sapevo che lui non poteva essere felice quando era rimasto a casa mentre il suo uomo andava in tour con il suo ex; quella cosa era così incredibilmente sbagliata che, se non mi fosse convenuto trovarlo nel suo appartamento a lamentarsi anche lui che la sua vita faceva schifo, gli avrei chiesto che cazzo ci faceva ancora in pigiama sul divano, invece di prendere e andare da loro prima che Bushido finisse di nuovo a letto con Bill.
All'inizio, io con Fler non volevo nessuna relazione. Lui mi piaceva un casino, tipo che se anche avevo dei dubbi sui ragazzi, con lui era tutto chiaro, però non sono scemo e non sono nemmeno cresciuto parcheggiato davanti alla televisione come i ragazzini dei quartieri alti. Mia madre è morta che avevo dieci anni e la più grande cortesia che mio padre mi abbia mai fatto è stata picchiarmi a mani nude o con i cocci delle bottiglie, invece di tentare la sorte con un'arma da fuoco, che in diciassette anni mi avrebbe sicuramente preso per bene, prima o poi, e invece con le bottiglie ci vuole molta più precisione.
Quando passi tutta la tua vita ad occuparti di te stesso da solo anche se non dovresti, e invece di tornare a casa preferisci vivere per strada dove ci sono solo delinquenti, tossici e delinquenti che sono anche tossici, non ci credi nella favola a lieto fine. Non credi che il tuo mito sia disposto ad ascoltarti, non credi che si riscopra gay quando anche tu lo sei, non ci credi che bussi alla sua porta, gli chiedi di scoparti e quello diventa l'uomo della tua vita. O anche solo il tuo uomo. Insomma non credi che possa venire qualcosa di buono da una scopata casuale, anche se l'hai voluta con tutte le tue forze.
E invece è successo. Io e Fler siamo stati insieme per un numero di mesi che non abbiamo mai contato e per motivi che non ci siamo mai detti, per il semplice fatto che di contare e dire non c'era bisogno.
Lui è stata la prima persona della mia vita a cui io non dovevo assolutamente nulla e che non doveva nulla a me. Prima di conoscere lui ero abituato che nessuno fa niente per niente, ma soprattutto che la mia persona su questo mondo non serviva a granché e che, bene o male, se volevo restarci, era meglio che non facessi incazzare chi mi stava intorno. Per mio padre sono sempre stato la causa di tutti i suoi mali, forse perché non ero il figlio che aveva sempre sognato o forse semplicemente perché era uno stronzo – ma, sapete, queste cose quando hai dieci anni non le capisci e pensi che quello che tuo padre ti dice sia vero, quindi prima di capire che non avevo fatto niente per meritarmi quello che mi faceva, ne avevo già prese così tante che non importava più – e tutti questi mali di cui ero causa inconsapevole dovevo espiarli trovando chissà dove i soldi che lui non guadagnava lavorando per poi vedergli spendere in birra, e fuori non è che andasse tanto meglio. Ho fatto davvero di tutto per cercare di non crepare prima dei diciotto e magari sperare di andarmene. Perfino mia madre, cazzo, prima che morisse mi ha sempre fatto pesare che suo marito era un bastardo. Mia madre era buona, io me la ricordo buona, ma c'erano certi giorni che mi teneva lì con lei per paura di lui e io per forza dovevo proteggerla, e per forza mi prendevo le botte, che se mi avesse lasciato uscire, o chiamare aiuto forse, non lo so... ma non è questo il punto.
Il punto è che quando Fler è venuto a letto con me non l'ha fatto con in testa l'idea che mi stesse facendo un favore, o che io ne stessi facendo uno a lui a titolo gratuito; possibilità, questa, che avevo preso in considerazione perché quando un ragazzino ti si offre sulla soglia di casa, nel mio mondo, ci sono buone probabilità che l'azione venga interpretata come un regalo inaspettato senza conseguenze.
Fler mi ha ascoltato quando ho chiesto e ha passato buona parte della serata a convincermi che non lo volevo veramente, un particolare che mi ha convinto solamente del contrario. Se mi avesse accettato così com'ero, se m'avesse preso come chiedevo, probabilmente me la serai fatta addosso perché lo volevo, ero pronto, ma ero anche molte altre cose e lui le ha capite tutte semplicemente guardandomi in faccia.
Io dell'amore non mi fido – perché è un'arma troppo potente e troppo instabile, è come cercare di trasportare nitroglicerina su una strada piena di buche – ma credo nel rispetto, che è altrettanto potente ed è disposto a piegarsi prima di spezzarsi, qualità che lo rende meno fragile e più onesto. Quindi preferisco dire che Fler mi ha rispettato, più che amato, che è molto più di quanto posso dire di un sacco di gente che era tenuta a farlo più di lui.
Siamo stati benissimo insieme, e non lo sto dicendo in quel modo lagnoso in cui le coppiette lo dicono spesso. Non vi sto guardando con l'occhio sognante e lucido e le mani giunte sul cuore, ripensando agli infiniti pomeriggio in cui correvamo insieme nel parco o ci fermavano di fronte alle vetrine dei negozi di animali per indicare squittendo i cuccioli di cane; oppure, se preferite una versione meno etero in cui io non sono in realtà una donna, non passavamo tutto il nostro tempo in palestra, come invece Fler sembra fare quando è da solo. Stavamo bene nel senso che non c'era motivo di discutere mai, nemmeno quando io facevo apposta a tirarlo scemo e lui provava ad alzare la voce. Io e Fler ragioniamo allo stesso modo perché veniamo dallo stesso posto e siamo cresciuti allo stesso modo; certi meccanismi mentali non abbiamo bisogno di impararli col tempo, li abbiamo già radicati in testa e li capiamo benissimo.
Ad esempio non ho bisogno di chiedermi perché Fler faccia di tutto, perfino aiutare le vecchiette del suo palazzo a pulire sopra gli armadi, pur di non restare in casa quando non c'è nessuno. Lo so che le case vuote sono spaventose perché sono la dimostrazione di quanto tu sia solo una volta che tutte le persone di cui ti circondi fuori dalla porta sono tornate da chi le aspetta, loro, mentre tu eri fuori di casa giusto perché dentro stavi male. Le case vuote rimbombano, senti solo le tue urla quando stai male e i singhiozzi quando piangi, di risate non ne fai quindi non ne senti nemmeno. La casa vuota è deprimente, semplice.
Quindi io scappavao dalla mia per andare nella sua, così almeno eravamo in due con due pizze e ci divertivamo, e si rideva anche.
Il periodo perfetto è iniziato dopo che lui e Bushido si sono lasciati, naturalmente. A Fler non è mai andata completamente giù di tradirlo, ma lo ha sempre fatto comunque, forse perché non ci credeva nessuno – credetemi, nessuno – che a Bushido non interessasse più Bill. Cioè, io di questa storia me ne sono sempre fregato, come ho già detto, ma ci sono certe cose che vieni a sapere anche se non vuoi e quei due, cazzo, quei due erano sempre su tutti i giornali. Non passava un giorno senza che un qualche canale non riportasse anche quante volte il re dei re – tsk, che poi di questo bisognerebbe parlarne – e la sua principessa erano andati in bagno. Tutti sapevano che Bushido per Bill Kaulitz ci aveva perso la testa e nessuno si credeva che tornando non se lo sarebbe ripreso. E su questo posso pure capirlo, è così che funziona. Bill era roba sua, quindi è tornato e se l'è ripreso. Se poi Bushido voleva dire che con quello aveva chiuso, sta bene, uno può dire il cazzo che vuole, solo che quando dai aria alla bocca si vede, no? Quindi aveva senso che Fler non ci stesse proprio benissimo a tradirlo ma che non fosse neanche troppo contento di sapere che era una specie di ruota di scorta. Comunque poi Bill ha perso la brocca, si sono tutti persi di vista e io e Fler abbiamo avuto il nostro momento di gloria. Non è che ci siamo seduti e abbiamo deciso di avere una relazione, è successo che ce l'avevamo e basta, che poi è così che dovrebbe sempre andare. Quando le cose le decidi a tavolino, in pratica sono contratti ed è una cosa sfigata.
Allo stesso modo, mi sono praticamente trasferito da lui, ma non con l'intento di farlo; è stata una cosa un po' strana. Casa di Fler era il mio posto felice, mi seguite? Quello dove scappare quando casa mia era uno schifo – e casa mia lo è molto spesso – ma, come succede sempre quando ti trovi un posto del genere, uno in cui stai solo temporaneamente, dove non metti realmente radici, casa di Fler era anche un luogo che sembrava quasi impossibile, in cui avevo molte cose belle e nessuna responsabilità, forse anche perché lui non voleva darmele. Ed è assurdo pensare questo proprio adesso che sto da tutt'altra parte e forse è ancora più surreale, ma voglio andare con ordine perché ora che tocca a me parlare, voglio dire tutto quello che mi passa per la testa.
Questo stato di grazia è durato circa sei mesi, durante i quali io passavo i giorni feriali a casa mia, poi riempivo il mio vecchio zaino di qualche vestito e me ne andavo giusto un attimo prima che mio padre rientrasse e, siccome era già così ubriaco da non sapere nemmeno come si chiamasse, non si accorgeva che non c'ero, o anche se se ne accorgeva non c'era molto che potesse fare visto che non sapeva dov'ero e, quando tornavo, lui se n'era già andato. E' stato il periodo più felice della mia vita anche da un punto di vista fisico. Ho passato mesi senza un livido, un record che non toccavo dalle elementari.
Ma niente dura in eterno, giusto? E soprattutto gli stronzi non si allontanano mai troppo, dunque un bel giorno è arrivata la disgrazia della mia esistenza, che non è mio padre ma Chakuza, il quale ha pensato bene di riprendersi ciò che credeva fosse suo (e non lo è!), e Fler invece di darmi il ben servito completo, ha pensto bene di diventare mia madre.
Ora che sono in questa situazione da qualche mese e che conosco Chakuza un po' meglio, improvvisamente capisco perché i ragazzini normali – quelli che hanno una famiglia, una madre che prepara per loro la colazione e un padre che gli dice di fare i compiti – passano metà del loro tempo a sognare di vivere da soli per strada, è chiaro che le loro madri e i loro padri sono come questo nano qui. E allora sì che capisco perché pur avendo vestiti all'ultima moda, la playstation e tutti i cazzo di soldi che vogliono, questi sognano di scappare di casa e vivere sotto un ponte.
Come sono finito a vivere da Chakuza è una storia che a raccontarla non ci si crede, ma tendiamo a raccontarla poco perché, visto quello che implica, preferiamo non rischiare di finire nei guai. Tutto è cominciato dopo quello che è successo a mio padre. E, prima che continui, vorrei chiarire che io non vi dirò che mi dispiace, che non se lo meritava e che non avevo mai voluto che accadesse. Ho pianto perché era l'unica persona della mia famiglia che mi restava, ma visto quello che era, forse una famiglia così non l'ho mai voluta. Quindi al riguardo non dirò niente, così se poi cambiassi idea, se col tempo – come ti dicono in chiesa la domenica – s'impara a perdonare, allora forse non avrò parole di cui pentirmi, ma solo una persona da ricordare.
La notte in cui Fler è tornato a casa di Chakuza sporco di sangue, il tempo andava lentissimo. Ricordo che dopo averlo visto piangere ed essere tornato in salotto, le lancette dell'orologio non si muovevano più. Mi sono detto che ero libero, ma che siccome lo ero diventato in quel modo, la mattina non sarebbe mai arrivata e che sarebbe stata quella notte in eterno. Un pensiero un sacco idiota, però ne ero convinto. Fler ha rotto qualcosa, insieme alla testa di mio padre. Mi ci gioco la testa, mi dicevo, non può essere tutto così facile.
Il mattino è arrivato, però, e ad un certo punto è sembrato che il tempo volesse recuperare tutta quella parte di sé che s'era perso durante la notte. All'improvviso tutto ha ripreso a muoversi più veloce di prima.
Fler ha chiamato Bushido che si è messo in contatto con Ari, e quello nel giro della notte successiva ha ripulito casa mia. Non ho idea di cos'abbiano fatto con il corpo di mio padre, né dove lo abbiano portato. Ho solo chiesto che fosse seppellito in un posto vero, perché sapevo che mia madre non avrebbe mai voluto che finisse nel canale e, visto che visito la sua tomba ogni volta che posso, vorrei non dover mentire almeno a lei. Non c'era pericolo che qualcuno si accorgesse dell'assenza di mio padre visto che il palazzo in cui vivo è quasi disabitato e lui era quasi sempre sbronzo da qualche parte, ma era meglio che io non mi facessi vedere; avrei potuto stare da Fler ma lui ormai vive da Chakuza e non voleva lasciarmi da solo. Risultato? Mi ha portato a casa del nano.
Tra me e Chakuza c'è un odio profondo, generato principalmente dal fatto che lui è un cretino. Io lo odio come è giusto che faccia, dal momento che è inopportuno, noioso e portato a credere che Fler – una persona a cui lui non è degno nemmeno di legare le scarpe – sia di sua proprietà solo perché qualche anno fa, a causa di un qualche virus modificato, chiaramente derivante dal ceppo della meningite, Fler si è innamorato di lui. Chakuza, per questo motivo, dovrebbe dimostrare gratitudine al buon Dio, accendere candele nei tabernacoli della Madonna ed adorare tutti i Santi in colonna, invece di piombargli in casa una mattina a colazione, dopo sei mesi che non si vedevano, e chiedergli di uscire, come se ne avesse il potere, come se io non esistessi, come se il mondo girasse seguendo il potere nelle sue minuscole manine da gnomo della Terra di Mezzo. E invece lui in questo potere è così cretino da crederci, e per questo si permette di odiarmi, perché esisto, perché quando lui è arrivato non mi sono fatto da parte, stendendogli un tappeto rosso e dicendogli che il suo ritorno segnava certamente il mio abbandono per inadeguatezza.
Ho combattuto, ma era evidentemente una causa persa, e non perché lui sia meglio di me, ma solo perché Fler da questa meningite austriaca non si è mai ripreso. Così, quando Frodo è tornato da Monte Fato, lui non ci ha pensato due volte a scaricare me per tornare da lui.
Se devo essere onesto, Fler non ha fatto l'infame. Ha chiarito fin da subito con me come stavano le cose – d'altronde era impossibile non capirlo anche da solo, visto che il modo in cui l'intelligenza gli sparisce dagli occhi quando guarda Chakuza è inequivocabile, nonché indicativo dell'influenza negativa che quell'uomo ha su di lui – e riconosco che abbia cercato in tutti i modi di indorare la pillola, ma ad un certo punto anche vaffanculo. Mi capite? Per un certo periodo ho pensato che potevo anche chiuderla, in fondo non ci avevo mai sperato – forse sì, cominciavo a sperarci, ma solo poco – e potevo tornare da dove ero venuto. Avrei continuato per la mia strada e tanti saluti. L'ho fatto, naturalmente, non sono uno che si piange addosso io, ma poi mio padre ha perso la testa e ha cominciato a menarmi come e più di prima, forse per recuperare il tempo perso e sono dovuto scappare, perché sono poche le cose che puoi fare quando tuo padre ti ha ammazzato di botte. Così sono tornato da Fler, lui si è incazzato, ha fatto quello di cui sopra ed ora eccomi qua a convivere con l'ottavo nano di Biancaneve.
Come vi dicevo, Chakuza è una piaga, una di quelle che ti fa venire voglia di essere solo al mondo, ma è anche subdolo perché non te ne accorgi finché non lo conosci abbastanza bene, e quando lo fai ormai è tardi sei finito. E' così che Fler dev'essere caduto, non c'è altra spiegazione.
Chakuza non sa parlare, è una di quelle persone capaci di dire la cosa sbagliata al momento sbagliato anche se, per dire, si sta parlando del tempo. Tifa le squadre sbagliate quando guardiamo le partite, non sa i nomi delle attrici più fighe, ride alle battute sfigate, è una tragedia su tutta la linea. Per questo motivo, quando deve interagire con qualcuno, prepara da mangiare. Quando Fler me lo raccontava, io non ci credevo, pensavo che fosse uno dei suoi trip mentali secondo i quali in realtà Chakuza è una bella persona e, aldilà dei suoi molteplici e non trascurabili difetti, è anche simpatico, poi però ho scoperto che è vero. Qualunque cosa succeda, di qualunque problema stiamo parlando, da due lividi su un fianco a mio padre con la testa spaccata, lui ti propone di mangiare. E quando tu accetti, sconvolto, si innesca un meccanismo per cui tu vuoi che continui a farlo, perché il tuo cervello percepisce questa sua azione come positiva. Chakuza + Cibo = bene. Io credo che cucini servendosi di un qualche tipo di droga sintetica inodore, incolore e insapore che provoca dipendenza e uno stato di assuefazione.
Ad ogni modo, quando lui vede che un certo corso di azioni funziona, continua a ripetere quelle stesse azioni all'infinito perché gli capita così di rado di fare la cosa giusta che non può permettersi di ignorare i risultati positivi quando ne ha. E' programmato secondo una serie di situazioni che lui sa di poter gestire, qualunque cosa non rientri all'interno di schemi che ha già provato, finirà per scatenare l'inferno.
E questo, già a raccontarlo, è assolutamente delirante ma viverci in mezzo è perfino peggio.
Ad esempio, quando Fler mi ha portato a vivere qui, ha anche preteso che andassi a scuola, che non saltassi un giorno e possibilmente che prendessi pure dei bei voti perché, parole sue, l'ultima cosa che vogliamo è che un qualche assistente sociale chiami mio padre e gli dica che a scuola sono un disastro, o che proprio nemmeno ci vado. Ho dovuto accettare, anche perché non avevo molte alternative, così adesso dormo sul divano di Chakuza. Ogni mattina mi sveglio incazzato perché non si può davvero dormire su un divano, in una casa senza il riscaldamento e dover pure andare a scuola; e quando l'unica cosa che vorrei è poter imprecare e dire che la mia vita fa schifo, lui è già in piedi. In cucina. Che prepara la colazione.
Posso svegliarmi a qualsiasi ora, lui è già lì, ha già apparecchiato la penisola, ha già fatto il caffè e dal forno arriva un profumo di brioche fatte a mano che fa commuovere. E io nemmeno sapevo che odore avessero le brioche fatte a mano prima che le facesse lui!
La prima volta che è successo mi sono fermato sulla porta della cucina in pigiama, senza sapere nemmeno come mi chiamavo e, vedendo tutto quel ben di Dio, mi sono chiesto se non stesse preparando qualcosa per Fler, un gesto davvero di cattivo gusto da fare proprio davanti ai miei occhi. Insomma, se vuoi portargli la colazione a letto e fare i fidanzatini, aspetta almeno che sia uscito di casa, cazzo. Altrimenti tanto vale che mi scopi davanti, cioè, non so se mi spiego. E invece quello si gira e mi fa un mezzo sorriso storto e mi dice “Siediti e mangia, la colazione è quasi pronta.” Io vi giuro che ero convinto volesse avvelenarmi.
Invece no. Giorno dopo giorno mi ha preparato la colazione e, come se questo non fosse contemporaneamente la cosa più assurda, più inquietante, ma anche più carina che qualcuno abbia mai fatto per me, adesso so che accanto alla porta, insieme allo zaino, posso stare sicuro di trovare anche una busta di carta con dentro un panino per pranzo. Un panino sempre diverso. E siccome non tenta di avvelenarmi, non mi costringe a mangiare, non mi rinfaccia che si sveglia alle sei per preparare tutto e che, per giunta, il cibo è anche delizioso, non posso odiarlo. Voglio dire, posso stare qui a dire che è un cretino, che non si merita Fler e che, invece di tornare, poteva rimanere in Austria tra le mucche – sono tutte cose vere – ma che si sia ripreso o meno Fler, io non sono mai stato un suo problema, quindi avrebbe potuto benissimo non accettare di tenermi qui, o magari farlo come favore a Fler, ma senza necessariamente dovermi spedire a scuola ogni mattina con lo stomaco pieno e la certezza che mangerò sia a pranzo che a cena. Nessuno gli ha chiesto niente, naturalmente, ma come ho già detto lui non se ne lamenta mai, e questo fa sì che io mi trovi nell'assurda posizione di non poterlo davvero odiare e di essere incazzato con lui per questo. Cazzo, è perfino simpatico a volte, sarà che la mattina la parte spostata del suo cervello ancora non è sveglia, non lo so, ma mentre facciamo colazione ci capita di parlare e non è poi così male. Tutto ciò dev'essere profondamente sbagliato per qualche motivo, anche se adesso mi sfugge quale.
E questo è solo un esempio, potrei citarne altri, come ad esempio il fatto che tende a farmi sempre le solite tre domande quando rietro da scuola: Com'è andata? Hai fame? Hai sentito Fler? Che in realtà significano: Scopriranno l'omicidio di tuo padre? Hai fame? Tu e Fler avete ricominciato a scopare?, dove la seconda domanda rimane uguale perché in effetti è proprio quello che gli interessa sapere.
Chakuza sa che questo modo di porre le domande è legittimo, perciò le ripete così come sono, ogni giorno. E lo fa con un tempismo talmente preciso che, rientrando proprio in questo istante, io posso fare questo.
Apro la porta – Fler mi ha fatto avere le chiavi – e ho tutto il tempo di posare lo zaino, togliermi il giubbotto e le scarpe, prima di richiudermela alle spalle e farmi sentire. Chakuza come al solito è in cucina e sta parlando da solo o con il cibo che prepara, non so bene. “Daniel, sei tu?” Chiama.
“No, sono il fantasma dei Natali passati,” rispondo, entrando in cucina per raziare il tavolo che lui avrà sicuramente già apparecchiato con gli antipasti. Allungo subito le mani sul prosciutto, sul pane e anche sui cubetti di un formaggio stranissimo che non avevo mai visto prima. E' buono però.
Chakuza gira il sugo, con il grembiule legato in vita e uno strofinaccio sulla spalla. Se ci penso è assurdo che la maggior parte delle immagini mentali che ho di quest'uomo lo ritraggano esattamente così; se invece penso a quando canta... io credo di non averlo mai visto.
Si volta e, constatato con soddisfazione che sto facendo onore alla sua tavola, sgrana un po' gli occhi e le sue sopracciglia formano due archi perfetti, segno inequivocabile che il programma si sta avviando e sta per essere attivato. Aspetto solo che apra bocca, prima di fermarlo. “La preside mi ha chiamato nel suo ufficio,” dico seriamente, guardandolo mentre m'infilo in bocca un pezzetto di formaggio. “Dice che non vede mio padre da un imbarazzante colloquio del primo anno e che è assolutamente necessario che si incontrino, per discutere dei miei straordinari miglioramenti degli ultimi giorni.”
Lo vedo sbiancare e deglutire in quella maniera così evidente che se non fosse il figlio dell'allevatore di mucche che è, ma il delinquente che dovrebbe essere visto come si atteggia, lo avrebbero ammazzato già da un sacco di tempo, perché quello che gli passa per la testa – quando è un pensiero intelligente – glielo si legge chiaramente anche in faccia.
“Io comunque ho una fame da lupi, perché non ho pranzato. Dopo scuola ho fatto un salto da Fler per... aiutarlo con alcune cosette e ho perso il senso del tempo,” continuo, distogliendo lo sguardo solo un istante per inzuppare le carote tagliate a striscioline nella ciotolina della salsa. Quando torno a guardarlo alzo le mani e lo guardo con aria innocente. “Tranquillo, non ho disturbato gli altri all'Ersguterjunge. Eravamo solo io e lui.”
Chakuza si pulisce le mani così lentamente su quello strofinaccio che credo il tempo prenderà a scorrere al contrario. “Sei stato agli studi?” Chiede, cercando di fare il vago.
Io rimango con la carota a mezza strada tra la ciotola e la bocca. Mi pulisco uno sbuffo di salsa con la lingua, guardandolo con aria tranquilla, come se non avessi detto niente di strano. “E indovina un po' cos'abbiamo fatto? D'altronde per quale motivo avrei fame, altrimenti? E in tutto questo, mi toccherà mangiare velocemente e scappare prima che, ironia della sorte, scoprano dell'omicidio di mio padre perché vado troppo bene a scuola.”
Lui si siede, sempre con la solita lentezza, e non so quale delle notizie lo stia sconvolgendo di più, perché è vero che è geloso di Fler, ma in questa casa è quello che convive peggio con l'idea dell'omicidio. “Stai dicendo sul serio?” Mi chiede cauto.
Io perdo un po' di tempo a spilluzzicare ancora qualcosa e a deglutirlo, prima di sorridere. “No, naturalmente,” lo liquido con una risatina. “A scuola tutto normale, non ho la più pallida di dove sia Fler e ho fame perché ho diciotto anni e punto al metro e novanta. Ora possiamo cenare?”
“Tu sei un piccolo stronzo,” replica lui, tirandomi lo strofinaccio in faccia mentre mi piego in due dal ridere e quasi mi strozzo con la verdura cruda. “Mi hai fatto venire un infarto.”
Riesce a borbottare per tutto il tragitto dalla tavola al frigorifero e dal frigorifero alla pentola dove riprende a rimestare come la brutta imitazione della strega pelata di Biancaneve. “Comunque no, non possiamo ancora cenare,” risponde, quando finalmente smette di lamentarsi di me. “Fler sta arrivando. Aspettiamo lui.”
La frase sembra innocua soltanto per un attimo, il tempo che ci mettiamo a renderci conto che io sono tornato da scuola, lui ha cucinato per noi e – mi vengono i brividi solo a pensarci – Fler oggi ha lavorato e stiamo aspettando soltanto che torni per mangiare.
Le parole rimangono sospese nell'aria sopra le nostre teste, esattamente come le implicazioni che hanno generato, rendendo l'aria quasi irrespirabile. Chakuza dà la colpa al vapore dell'acqua che ha messo sul fuoco e va di corsa ad aprire la finestra. Ci guardiamo in imbarazzo, poi lui scoppia a ridere e io pure.
E' la cosa più cretina che potessimo pensare.

*


In questi ultimi giorni, io e Fler abbiamo parlato. Un po’. Suppongo sia normale, nel senso che per tre-quattro giorni, dopo il fatto, io a lui non mi ci sono nemmeno avvicinato. Non so perché, non è che non gli fossi grato, non ero arrabbiato, avevo solo paura. Di cosa, non saprei dirlo. Forse delle cose che cambiavano. Sapete, quando odi qualcuno, quando lo odi da tanto, tanto tempo, quando quel qualcuno s’è imposto nella tua vita tanto a lungo da diventarne una costante, anche se ti fa schifo averlo intorno, il pensiero di non averlo più è terrificante. Non avere più mio padre significava per me un sacco di cose, un sacco di cambiamenti, e la prospettiva di doverli affrontare mi faceva paura. Così, quando Fler è tornato e io ho capito, è stato difficile riuscire a guardarlo in faccia. Gli dovevo molto, ma aveva anche appena gettato la mia vita nel caos. Non sapevo come affrontarlo, perciò è stato lui ad affrontare me, quando s’è stufato dei silenzi e dei saluti di circostanza, immagino.
Quella sera Chakuza non c’era, quindi suppongo che Fler gli abbia chiesto di levarsi dalle palle per un po’, perché quello, se non è obbligato, questa casa non la molla mica, manco fosse una reggia, e men che mai la mollerebbe sapendo di lasciarci soli con la possibilità di fare potenzialmente di tutto e scopare selvaggiamente su ogni superficie disponibile.
Comunque, quella sera lì era uscito, di sua iniziativa o su gentile richiesta non lo so e nemmeno mi interessa. Fatto sta che io stavo mangiucchiando un tramezzino al tonno davanti alla tv e a un certo punto sento il divano che sbuffa, mi volto e c’è Fler seduto accanto a me con l’espressione dei Momenti Seri sulla faccia. Sta tutto reclinato in avanti, i gomiti sulle ginocchia e le sopracciglia inarcate verso il basso in una posa apprensiva. Io mando giù quel che resta del tramezzino in un morso e sbuffo.
- Piantala di guardarmi in quel modo. – faccio, - Che ti prende?
Fler sospira, grattandosi nervosamente la nuca.
- Mi sono ricordato che fra poco fai diciott’anni. – mi dice. In quel momento me lo ricordo anch’io, ed è straniante. Uno pensa che il proprio compleanno non possa mai passarti inosservato, voglio dire, è del tuo compleanno che si parla, ovvio che ti ricordi quand’è, ma a me era proprio sfuggito di mente. L’ho guardato con due occhi enormi e il primo istinto è stato di rispondergli “no, ti sbagli, guarda che c’è ancora tempo”, ma la realtà era che non si sbagliava per niente, anzi, aveva proprio ragione, il mio compleanno sarebbe stato da lì a pochi giorni. Perciò, visto che non voglio rispondere perché mi sentirei ridicolo a farlo, resto in silenzio e lo ascolto. – Me lo sono ricordato quando sono entrato in casa tua. – mi fa, e io tremo. Non voglio che mi parli di questa cosa, ma da un lato so che non posso proprio risparmiarmelo, perciò cerco quantomeno di fare in modo che sia una cosa breve, ed annuisco, invitandolo a proseguire. – Voglio che tu sappia perché l’ho fatto. – mi dice, dopo un’esitazione minima. Io continuo a non rispondere e stavolta non mi muovo nemmeno. – Quando compi diciott’anni, - continua lui, serissimo, - diventi un uomo. E gli uomini sono liberi. Gli uomini sono liberi e nessuno… - esita ancora, abbassando lo sguardo, - nessuno ha il diritto di picchiarli.
- Neanche i bambini. – dico a quel punto, trattenendo il respiro. Sento tutto il sangue defluire dalla faccia e vedo nei suoi occhi che questo mio impallidire improvviso lo preoccupa. Il punto è che è una cosa che volevo dire da un sacco di tempo. Mi sarebbe piaciuto dirlo a mio padre. Che cazzo di diritto avevi di farlo?, che cazzo di diritto avevi? Ma non l’ho mai fatto.
Fler comunque annuisce, allungando una mano. Io la afferro con violenza, quasi volessi aggrapparmici.
- Neanche i bambini, ma quello non ho fatto in tempo ad evitarlo. – dice, - Ma per i diciott’anni dovevo. Non potevo permettere che andasse diversamente. Lo capisci questo? – mi chiede. E io lo capisco sì, solo che non riesco a parlare. Perciò mi limito ad annuire.
Da lì in poi le cose sono andate meglio. Ogni tanto succede che tu hai bisogno di sentirti dire qualcosa e non sai cosa, perciò non sai nemmeno dove andarla a cercare. Il più delle volte finisce che nessuno riesce a dirtela e tu dopo un po’ te la butti alle spalle – ma lo spazio vuoto, quello resta sempre – ma io sono stato fortunato. Il che è anche logico, perché voglio dire, con una vita come la mia uno dopo un po’ comincia anche a chiederselo quando comincerà a girare la fottuta ruota del karma. Che è una cosa che peraltro ho detto a Chakuza una sera che stavamo sbocconcellando pop corn guardando Orgoglio e Pregiudizio – lo sceneggiato della BBC, ovviamente, non quella cagata con la Knightley che, per inciso, non si può nemmeno guardare in faccia – e Fler ronfava tutto raggomitolato sulla sua poltrona. Quella sera Chakuza s’è messo a ridere e mi ha detto che per lui il karma è una cazzata che la gente si inventa per rassicurarsi sul fatto che anche se le cose vanno male prima o poi miglioreranno. Lui non è di quest’avviso. Lui crede solo nella sfiga. Però ha aggiunto che avrei dovuto discuterne con Jost, lui avrebbe saputo essermi di conforto in quel senso. Io l’ho mandato a cagare e Fler pure, così, nel dormiveglia.
Insomma, mi sono sentito bene. Sollevato. Una bella sensazione. Di quelle che puoi portarti dietro per giorni. E i giorni, fino al mio compleanno, sembrano volare veloci mentre mi rendo conto che probabilmente si tratterà del mio compleanno migliore da tanto, tanto tempo. Non avrò una vera e propria festa perché naturalmente non posso invitare qui i miei vecchi amici del ghetto, un po’ perché mi odiano ma un po’ anche perché io odio loro, e soprattutto perché li odia Fler che li conosce e anche Chakuza che invece non ha bisogno di conoscerli per odiarli lo stesso, e d’altronde un party a casa di Bushido circondato da rapper che per lo più mi stanno sul cazzo non era neanche proponibile, tanto più che pare che la principessa di casa mi odi perché ho osato mettere le mani sulla sua migliore amica allontanandola da quello che lei ritiene sia il partito più giusto per lei, cioè Chakuza, e minacciando così la serenità della sua corte, ma rispetto ai miei ultimi compleanni sarà comunque una gran cosa, anche se a festeggiare saremo solo io, Fler e Chakuza.
Quest’ultimo, peraltro, s’è svegliato stamattina stabilendo che mai e poi mai avrebbe permesso che in casa sua entrasse una torta di pasticceria, perciò mentre Fler è uscito per andare a fare non so bene cosa lui mi ha afferrato per la collottola e mi ha portato in giro per supermercati in cerca degli ingredienti adatti per la cena e il dolce. E quando dico supermercati non sto usando plurali a casaccio. Perché se lui entra in un supermercato e vede che non c’è la marmellata biologica senza zucchero di prugne Regina Claudia che cerca, non è che ripiega sul tipo di marmellata che gli assomiglia di più o su una seconda scelta qualsiasi, no!, lui quella vuole e quella avrà, quindi è capace di girarsi anche tre o quattro supermercati nel quartiere per trovarla, e se non la trova lì è perfettamente in grado di cambiare anche zona della città o spingersi verso qualche mega-centro commerciale in periferia, quando la situazione si fa proprio disperata.
In genere tutte queste cose le fa fortunatamente in mia assenza, ma visto che oggi è il mio compleanno gli è sembrato giusto farmi espiare il peccato di essere venuto al mondo torturandomi, perciò mi ha portato con sé, il che vuol dire che siamo usciti al mattino verso mezzogiorno e siamo rientrati alle sei del pomeriggio, che già di fuori faceva buio. Una roba insopportabile.
Al momento, lui è di là in cucina che cinguetta come un passero, incarnazione su due zampe tozze della felicità, mentre io sto seduto sul divano piegato in due sul tavolino basso che squadro con astio i compiti per domani chiedendomi a cosa serva compiere gli anni nel mezzo della settimana se questo non ti permette di risparmiarti i compiti. Non è una giustificazione sufficiente il fatto di diventare adulto? “Ieri non ho potuto finire gli esercizi di matematica, professore. Stavo diventando grande.” Suona bene, come giustificazione, ha perfino senso perché “diventare grande” sembra una cosa molto più complessa e impegnativa di “dovevo portare il cane a fare una passeggiata” o “l’attuale uomo del mio ex ha portato me a fare una passeggiata”. Però devo dire che anche quest’ultima suona bene. Mi sa che i libri li metto via e domani a Herr Ochsenknecht gli rifilo questo, come scusa. Se anche non dovesse crederci, non solo potrei giurare che è vero, ma potrei anche chiamare Chakuza ed obbligarlo a confermare la mia versione. Sì, è perfetto.
Mentre sono qui che ridacchio malignamente ignorando Chakuza che, dalla cucina, mi chiede quale sia la mia posizione politica e umana nei confronti degli sbuffi di panna decorativi e se possa ideologicamente accettare di vedere questi sbuffi decorati da Smarties quando invece sarebbe più ontologicamente corretto che fossero accompagnati da ciliegie, Fler rientra in casa, annunciandosi a gran voce.
- Buon compleanno! – mi saluta, tirandomi su di peso e stritolandomi mentre io mi dimeno come un’anguilla implorandolo di mollarmi prima di sferrargli un calcio involontario nelle palle. Lui mi mette giù ridendo, ed è la prima volta che lo vedo così di buonumore da giorni. – Chaku? – domanda con un gran sorriso. Io indico la cucina con il pollice.
- Tiene in ostaggio tre piani di pan di spagna e mezzo chilo di glassa al cioccolato. – rispondo, - Prigionieri politici, pare. Credo che abbiano già inviato un telegramma all’ambasciata di Dolcilandia per ricevere i primi aiuti e trovare un negoziatore disposto ad assumersi la responsabilità della trattativa.
Fler si mette a ridere ad alta voce, chinandosi a poggiare un tavolo una cartella beige, un colore tristissimo e spentissimo, senza niente scritto sopra. Io le lancio un’occhiata preoccupata, Fler se ne accorge e le lascia scivolare sopra un paio di riviste di cui una, mi accorgo, pornografica, ma risalente ad un’era geologica precedente in cui per fare la pornostar non era fondamentale essere completamente glabre.
Mi imbroncio. Non per la rivista, naturalmente, e non perché mi faccia fatica spostarla ed appropriarmi della cartella per sbirciare il suo contenuto, ma perché con questo gesto Fler mi ha chiaramente lasciato intendere che non vuole che metta le mani su ciò che c’è dentro. Il che vuol dire che o non sono affari miei, o sono affari miei ma vuole essere lui a parlarmene prima di lasciarmi vedere coi miei occhi. Ed è questa l’ipotesi che mi spaventa.
- Chaku, è pronta quella torta? – gli sento chiedere mentre si avvia verso la cucina. Io mi lascio ricadere sul divano e fisso la rivista porno, ma in realtà non sto fissando lei, sto fissando il punto sotto di lei che non posso vedere perché c’è lei posata sopra.
- Buonasera anche a te, eh. – sbuffa Chakuza, - Comunque sì. Portala di là mentre io recupero le candeline.
Fler ride e sento lo schiocco di un bacio seguito da quello più ovattato di un ceffone contro una spalla o qualcosa di simile, e poi ancora le risate di Fler, e i suoi passi, poco prima che la torta si posi come scendendo in volo sulla parte di tavolino che io non sono occupato a fissare.
- Danny, guarda che bella. – dice Fler. Io mugugno qualcosa ma non sposto gli occhi da lì, e lui sospira, rassegnato, mettendosi a sedere sulla poltrona.
- Prego, Daniel, - sbotta Chakuza, acido, apparendo accanto a me e cominciando a piantare candeline sulla sommità della torta con precisione quasi marziale, - è stata una fatica farla così bella in così poco tempo, ma non sentirti in dovere di— che razza di roba stai guardando?! – strilla oltraggiato, mandando all’aria la mezza dozzina di candeline che ancora tiene in mano ed allungandosi precipitosamente a sottrarre la rivista da sotto il mio sguardo. Io mi volto verso di lui, lo squadro, è paonazzo. Non ho idea del perché, ma mi sembra che il tempo, attorno a me, abbia preso a muoversi più lentamente.
Torno a guardare la cartellina, Chakuza non si è accorto che è quella che mi interessava, e non certo l’enorme paio di tette che campeggiava sulla copertina di quel suo giornalaccio da due soldi. Allungo un braccio, e mi sembra quasi di esserci, di poterla toccare, quando la mano di Fler si posa sulla copertina, impedendomi di afferrarla. Sollevo gli occhi su di lui, aggrottando le sopracciglia. Lui sorride pacifico, un po’ incerto, forse, ma allegro.
- …ok, che succede? – domanda Chakuza, sedendosi al mio fianco con uno sbuffo preoccupato.
Fler prende la cartellina fra le mani e se la appoggia in grembo, continuando a guardarmi per tutto il tempo. La apre e poi sfoglia i documenti che contiene, cercandone apparentemente uno in particolare.
- Dopo quello che è successo… - comincia vago, - è impensabile lasciarti andare in giro da solo. Tuo padre, pare, aveva un’assicurazione sulla vita, e—
- Non li voglio i suoi soldi di merda. – sillabo io, quasi offeso dal fatto che lui abbia potuto anche solo pensarlo. Preferirei andare a vivere per strada, in un cassonetto dell’immondizia, piuttosto che sopravvivere anche dignitosamente sapendo di stare usando i soldi di mio padre.
- Lo immaginavo, - sorride, - ma è comunque possibile che la compagnia assicurativa faccia qualche indagine. Che ti cerchino, ti trovino e ti facciano qualche domanda, e noi non vogliamo che questo accada. Ci stiamo muovendo perché questa cosa possa essere evitata, ma—
- Ci stiamo muovendo? – si intromette Chakuza, ora pallido come un cencio, - Chi si sta muovendo?
- Non lo conosci, Chaku. – taglia corto Fler, scacciando la sua curiosità con un cenno della mano, - Ed è meglio così. Oltretutto, questa cosa non ti riguarda.
- Mi riguarda eccome! – strilla lui, - Se non te ne sei accorto, è in questa casa che vive Daniel! Non in casa tua, non in casa di Bushido, né in casa di nessuno degli altri che, immagino, si stiano muovendo in questo momento, perciò—
- Non ho detto che Danny non è affar tuo. – lo interrompe Fler, duro, serissimo, la voce senza ferma e solida come un blocco di cemento, e ugualmente pesante. – Solo che non è affar tuo il modo in cui ci muoveremo per evitare che ci siano problemi. Non farmi altre domande al riguardo, Chaku, - aggiunge con un sospiro e un’espressione più morbida e conciliante, - sai che potrei risponderti solo con cose che ti farebbero arrabbiare. – conclude, provando a sorridere. Chakuza si rifugia in un angolo del divano, le braccia conserte sul petto, le sopracciglia aggrottate. Guarda altrove e chissà su quante cose sta rimuginando in quella sua testa senza un pelo. Io, invece, ne voglio sapere una soltanto.
- Cos’è che stai cercando di dirmi, Fler? – chiedo, guardandolo dritto negli occhi, e poi trattengo il respiro.
Lui si azzarda a sorridere appena, tornando a guardare me. Vedo i suoi occhi allontanarsi da Chakuza con riluttanza, e per la prima volta mi trovo a sperare che possano chiarire questa faccenda fra di loro, più tardi. Questi due litigano piuttosto spesso, e devo dire che per me è molto divertente starli a guardare mentre succede. Non so perché stavolta invece la rabbia di Chakuza e l’evidente tristezza di Fler mi turbino così profondamente, è la prima volta che accade.
- Ho pensato di fare le cose per bene. – dice quindi, tirando fuori un plico di fogli tenuto insieme da una graffetta e porgendomeli. È un tipo di documento che non ho mai visto prima in vita mia. Non che mi sia capitato spesso di avere roba burocratica per le mani, ma si vede lontano un miglio che questa è una di quelle cose che non si vedono spesso. E che, in questa circostanza, non si dovrebbe vedere affatto.
- Documenti per l’adozione… - annaspo, scorrendoli velocemente. Le lettere sembrano sciogliersi e mescolarsi, tanto che dopo un po’ sul foglio vedo solo indistinte macchie grigie. – Ma cosa…
- Naturalmente, - riprende Fler, stringendosi nelle spalle, - visto che sei maggiorenne, se sei d’accordo serviranno un po’ di firme. E… Chaku. – dice a bassa voce, voltandosi verso di lui. Lo trova che lui già lo guarda, occhi sbarrati, labbra dischiuse, cinereo, terrorizzato. – Tu non devi per forza essere coinvolto in questa cosa. – lo rassicura con un mezzo sorriso, - Non te ne ho parlato prima perché non sapevo se fosse possibile e non volevo illudere nessuno… o mandarti in paranoia senza un perché. Non sei obbligato, ma mi piacerebbe che tu… cioè, non avresti alcuna responsabilità legale, ovviamente, ma—
- Ho capito. – sillaba lui, a corto di fiato. Lo vedo che deglutisce due, tre, quattro volte, a vuoto, e poi annuisce. – Ho capito cosa intendi. – e poi si volta a guardarmi, solo per un attimo, come per rassicurarsi sulla bontà della propria decisione, prima di tornare a guardare Fler. – Va bene.
Io guardo prima l’uno e poi l’altro e non riesco a respirare. Continuo a vedere tutto sbiadito ma non mi sfiora neanche la possibilità di stare piangendo. Ho l’impressione che sia solo confusione mentale, e resto ancorato a quell’impressione finché non sento le lacrime scivolare sulle mie guance che scottano. Chakuza resta immobile, evidentemente ancora troppo pietrificato per provare a muoversi, e Fler si limita a chinarsi appena verso di me, appoggiandomi una mano sulla schiena curva ed accarezzandomi lentamente lungo la linea della colonna vertebrale. Sento la sua mano sobbalzare a tratti e capisco solo dopo che è perché sto singhiozzando così forte da scuotermi tutto.
- Perché? – chiedo dopo un po’, quando riesco a sciogliere la lingua abbastanza da mettere in fila le lettere. Fler sembra quasi sorpreso, dalla mia domanda. A me sembra così legittima, invece. Mi sembra tutto così assurdo, mi sembra così impensabile che qualcuno possa volersi far carico di un soggetto come me, soprattutto quando rappresento qualcosa di molto più problematico di un semplice ragazzino solitario. Nel momento in cui io sono un ex amante, sono un ex criminale, sono il figlio dell’uomo che hai ucciso, sono la ragione per la quale quell’uomo è stato ucciso, perché? È l’unica domanda che mi rimbomba nella testa, e la ripeto in un sussurro quando Fler pare così preso alla sprovvista da non sapere nemmeno cosa rispondermi.
Lui e Chakuza si lanciano un’occhiata breve ma intensa, e quando lo vedo tornare a posarmi gli occhi addosso sento che per l’ansia e la paura di sentirmi dire qualcosa di spiacevole potrebbe esplodermi il cuore.
- Ma come perché? – dice invece lui, stringendosi nelle spalle con aria quasi remissiva, - Perché ti vogliamo bene.
E io non so perché mi metto a piangere ancora più forte. Dovrei smettere, e invece ho solo voglia di piangere ancora e ancora e ancora. Perché? Perché ti vogliamo bene.
È la risposta più ovvia del mondo, ma io non ero nemmeno riuscito a concepirla. Spero che Fler e Chakuza possano insegnarmi a darla per scontata, da oggi in poi.

Bookmark and Share

Paura E Delirio A Las Vegas

di lisachan
A me l’America non piace. Cioè, non so se l’America non mi piaccia, in realtà, perché l’America è grossa e lunga, cioè, intendo che è un continente molto esteso e tu non puoi passare un paio di settimane negli Stati Uniti in balia del piano-vacanze di una casalinga isterica così smaniosa che pare abbia messo piede fuori dalla Germania per la prima volta nella sua vita quando tu sai perfettamente che non è vero, e dire che l’America ti fa schifo. Principalmente perché non l’hai vista, hai visto solo quella frazione che la casalinga isterica di cui sopra, pianificando i tuoi spostamenti con una severità da generale nazista, ti ha permesso di vedere. Tutto il resto ti è ignoto, e in effetti tutto il resto è ignoto anche a me, ma posso dire con certezza che quello che ho visto dell’America non incontra il mio gusto, e d’altronde non avrebbe mai potuto essere altrimenti visto che, contrariamente alla quasi totalità del resto dei miei compagni di viaggio, io qui non ci volevo venire.
Seriamente. Quando Bill e Bushido, assisi sul loro trono di velluto e legno intagliato e laccato d’oro, hanno annunciato cerimoniosamente che saremmo partiti tutti assieme, come il circo che siamo, tutti si sono emozionati, perché Fler, per dire, al pensiero degli Stati Uniti si esalta ancora come un bambino, e New York è un po’ la sua Mecca personale, e per Bushido, Bill e Tom invece è un po’ come andare a stare nella cara, vecchia casa di villeggiatura che ormai si conosce a memoria ma si ama profondamente perché è comunque un posto che spezza la routine dei quattro palazzi in croce che sei sempre costretto a rivedere in loop quando resti a casa. Non vi dico poi la festa che hanno fatto Kay ed Eko, che pareva gli avessero annunciato, non lo so, che sarebbero presto stati ammessi in un club esclusivo che offre in dono ai propri iscritti un harem di vergini a testa.
Io, invece, non volevo partire. A me piace l’Austria, voglio dire, pure la Germania per la maggior parte del tempo mi sta sul cazzo perché è troppo metropolizzata, e quando tu sei uno che gli piace l’Austria, che gli piace stare nelle baite di montagna circondato solo da capre e vacche, che già il traffico sotto la finestra gli fa fare fatica a dormire, è chiaro che andare a passare tutti questi giorni in un posto in cui le macchine non si fermano mai, le persone parlano continuamente e di capre e vacche non se ne vedono nel giro di chilometri, non può essere la prima cosa da fare nella lista delle Cose Da Fare Assolutamente Prima Di Morire.
Ma sono partito, perché partivano tutti e non mi piaceva l’idea di fare il guastafeste e comunque Fler era così felice che non c’era proprio modo di disertare. Ci sono molte cose alle quali posso resistere – credo, anche se non ci ho mai provato, in realtà la resistenza non è proprio il mio forte – ma fra queste cose non c’è l’idea di andare in vacanza con Fler in un luogo distante miliardi di chilometri da Daniel. Lo so che non è una cosa bella da dire, o anche da pensare, e lo so che ormai il ragazzino in qualche modo è di famiglia, e non mi dà più nemmeno tutto questo fastidio, ma se mi si chiede, in tutta coscienza, “vuoi tu, Peter Pangerl, porre un oceano fra te, Patrick Losensky e Daniel Kobler?”, io, onestamente, non me la sento di dire che non voglio, sarebbe una menzogna bella e buona e io per lo più cerco di non mentire, visto che non sono capace di farlo.
Quindi sì, sono salito anch’io sull’aereo con tutti gli altri e ho ingoiato i numerosi rospi che mi è toccato mettere in bocca da quando ho messo piede in questo luogo che, peraltro, non presenta per me neanche un interesse di tipo scientifico-culinario. Voglio dire, sono passato davanti a dei ristoranti che avevano la faccia tosta di esporre davanti alla porta d’ingresso cartelli con sopra scritto “specialità di cucina americana”. Ma che specialità vuoi avere negli Stati Uniti? L’hot dog? Il pollo fritto? Capirei fossimo in Messico, ma qui! Gente che la cucina non sa nemmeno come la si usa, che i fornelli al più servono a scaldare i sughi pronti, che la cosa cotta più complessa che mangiano è la carne alla griglia. Suvvia. Era ovvio che mi sarei annoiato e infastidito oltre il limite consentito fin quasi a esplodere.
Ho sopportato, però. Avrei potuto essere molto più piaga di quanto non sia stato, avrei potuto guardare tutti in cagnesco e non lasciarmi coinvolgere quando Bushido, durante i pasti, mi chiamava al suo fianco per elencare il menu chiedendomi esplicitamente di riempirlo di assurdità se possibile nemmeno esistenti per far dannare i camerieri, avrei potuto stare sempre chiuso in camera senza seguire gli altri nei loro assurdi giri turistici, avrei potuto ignorarli tutti quanti quando si sono dati alla pazza gioia la mattina del provino, mentre i ragazzi stavano alla Maverick con Jost e noi siamo rimasti in albergo e poi Bushido ha avuto quella geniale idea della piscina ed Eko s’è messo a rincorrere quella ragazza con la gonnellina di mezze noci di cocco tenute su con un filo di spago, e invece no!, sono stato di compagnia, non mi sono immusonito troppo, ho bevuto, ho mangiato, cioè, ho partecipato a pranzi e cene senza affamarmi per protesta contro il trattamento palesemente poco equo che mi veniva riservato in quanto cittadino austriaco per nulla interessato a farsi una cultura sugli usi e i costumi statunitensi, ho supportato sua maestà nella nobile missione da lui scelta – fare impazzire tutti i capo-camerieri di tutti i (numerosi) alberghi in cui abbiamo soggiornato da quando siamo qui – e sono stato una compagnia generalmente piacevole anche se il più delle volte sono finito nella fila dietro con Kay ed Eko mentre Fler e Bushido andavano in giro tutti gonfi e tronfi a farsi belli per le strade di questa città orrenda con baracchini che vendono wurstel agli angoli sotto i semafori, persone che camminano venendoti addosso come se nemmeno ti vedessero e gente che dorme sotto i ponti avvolta nella carta di giornale.
Certo, però, non immaginavo che potesse esistere qualcosa di ancora peggiore rispetto a quello che avevo già visto. Mi sembrava di aver sopportato già abbastanza noia, luci notturne, venditori di hot dog e ragazze con lunghe chiome platinate finte ed enormi seni a palla finti e giganteschi sederi finti infilati in shorts di jeans costosi quanto una plastica facciale. E invece. Invece c’è Las Vegas.
Il problema di Las Vegas, sostanzialmente, è che è uguale a come te la immagini, uguale a come te la mostrano nei film. Questa è, a mio parere, una cosa profondamente sbagliata. I film non ti devono mostrare le cose come sono, i film devono esagerare e ingigantire ed eccedere. Io devo essere consapevole, quando guardo Bruce Willis che si prende in corpo tre pallottole, cammina scalzo e si rotola sui vetri infranti, sopravvive a due esplosioni e si rialza intatto dopo essere stato sbalzato per trentacinque metri su un’autostrada dopo essere stato investito da un camion che viaggiava a una velocità di cento chilometri orari, che quello che sto guardando è fasullo, nella realtà non c’è. È per questo che riesco a divertirmi. Perché so che, se un giorno dovessi darmi alla malavita e dovessi fuggire nella notte, non ci sarebbe nessun poliziotto in canotta nera con un caricatore per mitragliatore annodato in vita a mo’ di marsupio ad inseguirmi, e se anche un soggetto simile ci fosse, se io gli sparassi, lo lanciassi contro una vetrina infrangendola, gli piazzassi bombe sotto il sedere e infine lo investissi con un camion, lui morirebbe. Se non alla prima, alla seconda, o alla terza, o alla quarta. Prima o poi creperebbe, e io potrei scappare in Messico.
Quello che intendo è: è importante che i film ti mostrino la fantasia, così da darti gli strumenti per riconoscere la realtà. Confondere le due cose può essere pericoloso. Io diffido sempre dei film realistici, perché sapete come funzionano, i cosiddetti film “realistici”? Loro ti raccontano una storia verosimile, sì, ma poi ci mettono sempre quel particolare che non può accadere mai nella vita, tipo che lo sfigato di turno prende botte per tutto l’anno ma alla fine porta la reginetta della scuola al ballo scolastico, o tipo che la squadra più sfigata del campionato perde quindici partite di fila ma nella seconda parte della stagione cambia allenatore e quello mette tutti in riga ed alla fine loro vincono il titolo pur rimanendo dei bravi ed onesti calciatori da squadra di bassa classifica, o cose del genere. Il realismo è il cancro del cinema moderno, dico io, perché ti racconta una balla ma te la fa passare come una cosa plausibile, e tu ci credi, e questo porta solo casini. Più pallottole, meno lezioni di vita, questo voglio io dal cinema.
E quindi se il cinema mi mostra Las Vegas e i casinò e gli hotel e i bordelli di lusso e le insegne luminose e le conigliette di Playboy ad ogni angolo di strada e i turisti che spendono miliardi in una notte e la gente ubriaca che si diverte e tutte queste altre cose, mi aspetto che siano balle, e invece arrivi a Las Vegas e Las Vegas è esattamente così, uguale, precisa e sputata a com’era nei film che hai visto, e voglio dire, può esistere una cosa più sbagliata di questa? Io credo di no.
- Ma perché dobbiamo restare ancora? – chiedo, guardando malissimo l’entrata dell’albergo nel quale si suppone noi si dorma per le prossime due o tre notti, prima di tornare in Germania, - I Tokio Hotel hanno finito, no? Hanno già un radioso futuro che li attende fra le braccia di sua maestà, che per l’occasione assumerà il titolo di sua santità, suppongo. – dico sprezzante, - Potremmo anche tornare a casa, una buona volta.
Fler si allunga verso di me e mi tira uno scappellotto tanto forte che io quasi mi ribalto, mentre Jost mi passa accanto squadrandomi con malcelato schifo e poi prosegue il suo cammino oltre me con uno sbuffo stizzito.
- I ragazzi sono contenti di lavorare con Anis, - mi spiega Fler, mentre Bill, esaltato come un’adolescente in gita scolastica – e non sto mettendo apostrofi fra le parole a caso – informa suo fratello e Bushido di quanto meraviglioso sia l’albergo che lui e Fler hanno scelto appositamente per noi tutti, - ma ciò non vuol dire che siano felici all’idea di aver perso il treno con la Maverick, in qualunque modo ciò sia successo. – sospira, - Hanno bisogno di un po’ di svago.
- Sì, ma noi che c’entriamo?! – insisto io, pestando i piedi, - Io non mi sento depresso, o meglio, mi sento depresso, ma solo perché sono qui. Se tornassimo in Germania, starei subito meglio!
- Chaku, sei una rottura di palle. – commenta lui, sollevando gli occhi al cielo, - Non puoi provare a divertirti, per una volta?
- No! – sbuffo io, - Mi pare evidente di no! Voglio tornare a casa.
- Oh, tu non hai appena detto questa frase con questo tono di voce. – sibila Fler, voltandosi a guardarmi con sincero sconcerto.
- Sì, invece, l’ho detta. – annuisco io, per nulla imbarazzato dal palese sfoggio di infantilismo che mi sto concedendo con cognizione di causa, - Voglio tornare a casa. Odio questo posto. Voglio tornare a casa!
- Chakuza! – mi ferma lui, proprio nel momento in cui io stringo i pugni lungo i fianchi e quasi comincio a saltellare sul posto, - Abbi un minimo di contegno, santo Dio. Mi metti in imbarazzo. – borbotta, lanciando intorno a sé un paio di occhiate incerte.
- Tanto in questo posto incivile nessuno capisce il tedesco. – sbuffo io, contrariato. Lui inarca un sopracciglio.
- Dicevo con Georg e Gustav. Loro magari si aspettavano ancora che tu fossi una persona normale. – commenta incrociando le braccia sul petto.
- Ebbene non lo sono. – dico, scrollando le spalle, - Come d’altronde nessun altro in questo gruppo. E mi spieghi perché siamo venuti proprio in quest’albergo?!
- Perché è bello. – risponde lui con un mezzo sorriso, prendendomi per mano e cominciando a camminare in coda alla processione di gente che comincia ad entrare in hotel, - Le stanze sono tutte diverse, ognuna ispirata ad un tema differente, e vengono assegnate a caso. È divertentissimo, io e Bill quando siamo venuti qui in vacanza la prima volta ne abbiamo beccata una ispirata a Tarzan. Ti sarebbe piaciuta, c’erano anche i tanga leopardati nei cassetti.
- Ma che posto è questo?! – strillo allarmato, mentre entro in una hall tutto sommato normale, anche piuttosto elegante, piena di gente vestita benissimo che sorseggia martini e ride coprendosi la bocca col dorso della mano. - …no, sul serio, non sembra male. – commento calmandomi, mentre Fler ride divertito accompagnandomi all’ascensore, separandoci dal resto del gruppetto che comincia a sua volta a smembrarsi mentre le varie coppie vengono indirizzate verso ascensori diversi che conducono, suppongo, a diverse parti dell’albergo, - Adesso comincio ad avere paura di quello che troveremo in camera.
- Dai, se siamo fortunati becchiamo la stanza che hanno assegnato a me e a Bill al nostro… doveva essere il terzo o il quarto viaggio qui, sì. – annuisce.
- Ma si può sapere quante volte siete venuti qui insieme?! – sbotto irritato, mentre le porte dell’ascensore mi si chiudono a due centimetri dal naso.
- Era una stanza molto elegante, tutta nera e bianca. – racconta sognante Fler, ignorandomi o forse proprio non sentendomi, perso com’è nella sua testa, - Speriamo sia quella, dannazione alla mia memoria, non ricordo qual era il numero.
Io lo ignoro, perché non c’è molto altro che possa fare a parte afferrarlo per la nuca e fracassargli la testa contro una parete per farlo tacere, e perciò la sua voce rimane lì, una specie di sottofondo musicale mentre io cerco di pensare ad altro, tipo che massimo fra tre giorni sarò finalmente di nuovo a casa mia, dove mi accoglierà il familiare gocciolio di tutti i rubinetti sguarniti e quell’allegro rumore crepitante che fa tanto caminetto in cui si produce il forno elettrico ogni volta che sta acceso per più di venti minuti.
- Ah, eccola. – dice Fler, attirando la mia attenzione ed allontanandomi dai pensieri piacevoli ai quali mi stavo abbandonando, - La nostra stanza.
Lo affianco mentre lui lascia scivolare la tessera magnetica nell’apposita apertura e, quando la porta si spalanca sul palese universo parallelo che la nostra stanza è, impallidisco. Il perimetro della camera è ovale, e le pareti sono ricoperte di moquette viola traslucida, folta quasi come il pelo di un barboncino. Posso vedere fin da qui che, se mi appoggiassi al muro, la mia mano sparirebbe almeno fino al polso. C’è un armadio, in un angolo. Sembra in plastica. Ed è rosa. La sensazione è quella, straniantissima, di star guardando un mobile di Barbie ingigantito ed infilato in una stanza vera. Ho quasi paura di avvicinarmi ed aprirlo perché temo che, se tirassi la maniglia, le ante non si aprirebbero, ed io scoprirei che non sono vere ante, come quello non è un vero armadio, ma solo un blocco di plastica cavo con finte maniglie e finti solchi per far credere alla gente di poterlo aprire quando invece così non è.
Ma il pezzo forte dell’arredamento è un altro, ed i miei occhi lo registrano solo dopo, forse perché, ad un primo sguardo, l’immagine impressa nella mia retina era sembrata talmente assurda al mio cervello da non poter essere razionalizzata, motivo per il quale io avevo guardato la stanza e il letto non l’avevo neanche notato. Ma al secondo sguardo non posso proprio ignorarlo, e nel momento in cui comincio a rendermi conto della gravità della situazione sento provenire dal fondo della mia gola un rantolo esausto.
Il letto è un cuore enorme. Rosa, come l’armadio, ma morbido. È a forma di cuore la struttura in legno, è a forma di cuore la rete, è a forma di cuore il materasso, sono a forma di cuore pure le lenzuola ed i cuscini, tutto. Tutto sui toni del rosa, del bianco e del viola, per richiamare le pareti, suppongo, un tocco di classe che non può fare a meno di essere notato.
Fler allunga una mano ad accendere la luce. È rosa anche quella. E nel momento esatto in cui il lampadario – che sembra plastificato come l’armadio – si accende, si accende anche una fila di luci – neanche a dirlo: rosa – incastonate alla base del letto. Il quale, per pronto accomodo, si mette a ruotare su se stesso.
- Manca solo la colonna sonora. – uggiola Fler, sconcertato.
In quel momento, squilla il telefono. La suoneria sembra la musichetta di un carillon per bambini, con la differenza che suona molto somigliante a Lady Marmalade. E il Voulezvous couchez avec moi, ce soir? è polifonico.
Mentre io rimango in sconcertata contemplazione di questo disastro dell’arredamento moderno, una roba talmente pacchiana che anche se fossi ancora etero mi darebbe comunque i brividi dal disgusto, Fler attraversa la soglia, ne ha proprio il coraggio, ed io lo stimo molto per questo, e si avvicina al comodino sul quale è appoggiato il telefono, sollevandone la cornetta.
- Pronto? – risponde. Gli strilli ultrasonici che oltrepassano le barriere dello spazio e del tempo raggiungendo i miei timpani e facendoli esplodere in mille coriandoli sarebbero abbastanza per capire chi è il suo interlocutore, anche se qualche secondo dopo lui non lo esplicitasse. – Ciao, Bill. Dove siete finiti? Mh-hm, capisco. Noi siamo nella… - poggia una mano sulla cornetta, attirando la mia attenzione con un psst vagamente cospiratorio, - Chaku, - mi chiama sottovoce, - guarda un po’ dentro l’armadio, attaccato ad un’anta dovrebbe esserci un gagliardetto col nome della stanza.
- Ah, perché, si apre, quella roba? – chiedo, indicando l’armadio senza osare mettere piede nella stanza. C’è la moquette viola anche sul pavimento. Sarà alta almeno cinque centimetri. Scommetto che cresce spontaneamente e nessuno viene a tosarla perché ne hanno tutti paura. – E io non ci entro qua dentro, comunque.
Fler si china appena, apre il cassetto del comodino e ne tira fuori una sfilza di palle rosse attaccate l’una all’altra da supporti in plastica dello stesso colore, e me la tira addosso. Io la scanso con malcelato schifo, e mi concedo anche un urletto disgustato.
- Non fare il cretino. – mi rimprovera lui, ed io sospiro, rassegnandomi ad entrare ed aprendo l’armadio. Il gagliardetto c’è, sembra lo stemma della casata nobiliare delle Barbie dell’Ordine delle Vergini Devote al Rosa Fosforescente. Sopra c’è scritto “Pretty in Pink”. Se lo dice lui.
Riferisco il nome della stanza a Fler, che a sua volta lo riferisce a Bill. Sento la sua voce un po’ stridula chiedere “awww, il nome sembra così carino, com’è? È bella?”, e non lascia neanche il tempo a Fler di rispondere che subito si mette a strillare “io ed Anis siamo nella Presidential Beauty and Elegance! Ci fermiamo qui per cena, non scendiamo al ristorante. Voi restate in camera vostra?”
Fler mi lancia un’occhiata, e lo sgomento sul mio viso dev’essere tanto palese che non ha bisogno di pormi la domanda per rispondere.
- No, usciamo. – annuisce con sicurezza, - Porto il Chaku in giro. Sai cosa fanno gli altri? – chiede, una punta di speranza che rende più squillante il tono della sua voce, e che finisce immediatamente spazzata via dal suo volto quando Bill risponde blaterando qualcosa a proposito di Eko, di suo Kay One e di tournée per Las Vegas alla ricerca di ragazze da portarsi a letto coinvolgendo anche Tom e Georg per la bella presenza, mentre Gustav restava a dormire in camera propria per potersi svegliare all’alba ed uscire di buon’ora per scattare qualche bella foto del quartiere. – D’accordo. – sbuffa deluso, - Allora a doma—
- …cosa? – indago io, osservandolo allontanare la cornetta dall’orecchio per guardarla per qualche secondo come non potesse credere a ciò che ha appena sentito.
- Non ha neanche aspettato che finissi la parola! – sbotta sconvolto, riattaccando e lasciandosi ricadere stancamente sul letto. Io mi seggo al suo fianco, pensando chissà!, magari la consistenza morbida del materasso sotto il sedere mi ispira e riesco a sdraiarlo. Quest’orribile letto sembrerà meno orribile, se trovo un modo interessante per utilizzarlo.
E invece no, perché appena mi seggo alzo gli occhi al soffitto, giusto per capire se c’è la moquette anche lì, e vedo che, invece della moquette, c’è un enorme specchio, anche lui a forma di cuore, che riflette l’intera superficie del letto.
- …io qui non ci dormo. – sentenzia Fler, alzandosi istantaneamente in piedi. – Chaku. Usciamo.
- Sì. – annuisco, alzandomi a mia volta.
Io e lui non siamo mai stati così d’accordo in vita nostra, è prodigioso.
Finisce che c’infiliamo nel primo locale a portata di mano, che è un posto arredato come una tavola calda in mezzo al deserto, con gli sgabelli davanti al balcone e finti cactus di plastica pieni di lucine colorate fra un tavolino e l’altro.
Ci sediamo ad un tavolo accanto al quale un manichino vestito e acconciato come Uma Thurman in Pulp Fiction finge di ballare il twist. Ha i piedi imbottiti nudi e senza dita, è pallido come la morte e ha le labbra così rosse e le palpebre così nere da fare quasi paura. La parrucca che indossa è tutta scompigliata e, nel complesso, è l’immagine stessa della tristezza.
- Quando rientriamo ci facciamo cambiare stanza, Chaku, tranquillo. – cerca di rassicurarmi Fler, mentre fa cenno ad una cameriera di raggiungerci e lei, accelerando sui suoi pattini e disinteressandosi della gonnellina a quadretti che le si solleva sulle cosce nel movimento, si affretta ad obbedire, fermandosi proprio accanto a noi con un sorriso smagliante, già pronta a prendere l’ordinazione. – Due birre, grazie.
La ragazza prende nota e si allontana subito dopo. La sua lunga coda bionda termina in un boccolo dalla rotondità praticamente perfetta, che dondola sulla rotondità ugualmente perfetta del suo sedere mentre gira dietro il bancone per recuperare la nostra ordinazione. Io mi chiedo a cosa mi serva ancora notare cose del genere se tanto non le posso più toccare, e mi abbatto sul tavolino, sbuffando come una teiera.
- Già che ci sei, non potresti farci cambiare anche città? – provo in un uggiolio depresso, e Fler sospira, esasperato.
- Ne abbiamo già parlato. – mi ricorda, - Santo Dio, ti fa così fatica aspettare un paio di giorni?
- Se devo passarli in una stanza pelosa in cui tutta la mobilia è a forma di cuore, sì! – spiego io, rimettendomi dritto e battendo lievemente un pugno sul tavolo per sottolineare il punto della questione, e cioè che ho ragione. – Già in condizioni normali mi sarebbe di peso, perché voglio tornare a casa, ma così… e poi scommetto che la coppia reale ha una stanza come si deve, una stanza rispettabile! Spiegami perché noi siamo dovuti finire nel buduoir di Barbie Regina della Notte in Calze a Rete e Babydoll.
- Ti ho già spiegato che l’assegnazione delle camere è del tutto casuale, Chaku. – esala lui, scuotendo il capo e lanciando un’occhiata supplice al soffitto. Le nostre birre, nel mentre, arrivano, e Fler saluta la cameriera bionda con un sorriso fascinoso al quale lei risponde arrossendo e stringendosi nelle spalle prima di sparire in un elegante volteggio sui pattini a rotelle. Io grugnisco e afferro la mia bottiglia di birra, mandandone giù metà in un sorso solo.
- Non credere che non l’abbia visto. – borbotto cupamente, e Fler ride.
- Ci credo che l’hai visto, l’ho fatto apposta. – risponde in scioltezza, bevendo un paio di sorsi dalla propria bottiglia. Io spalanco gli occhi, sconcertato.
- Puttana. – sbotto, riprendendo a bere. Fler ride di nuovo, stringendosi nelle spalle.
- In qualche modo dovevo pur distrarti. – si giustifica, - Quello non fallisce mai.
- Ah, sì? – domando io, scettico, - Be’, se vuoi un suggerimento, non c’è bisogno di metterti a fare il cretino con le cameriere, per distrarmi. Mettiti in ginocchio, scendi sotto al tavolo e segui la scia luminosa verso il cavallo dei miei pantaloni. Quello mi distrae che è una meraviglia.
- E poi sono io, la puttana. – ride ancora lui, gettando indietro il capo. Io bevo ancora un po’ di birra e seguo la linea del suo collo. Improvvisamente, il letto luminoso e ruotante a forma di cuore in camera mi sembra meno orribile di prima. È un letto, dopotutto.
- Be’, io quantomeno certe cose le chiedo a te, non mi metto a fare il deficiente con altra gente a caso. – borbotto con disappunto, e lui torna a guardarmi, inarcando un sopracciglio.
- Ma se ti ho visto prima che le facevi una radiografia completa al culo come se ne andasse della tua vita? – mi prende in giro, e poi, notando che la mia bottiglia di birra è già vuota e che anche la sua si appresta a fare la stessa tragica fine nel giro di un altro sorso, chiede ad un cameriere di portarne altre due. Stavolta è un ragazzo, non avrà più di diciott’anni. È sui pattini anche lui, ha i capelli ricci e biondi e gli occhi di un azzurro tale che sembra finto. Faccio la radiografia anche al suo, di culo, mentre mando giù il primo sorso della mia nuova bottiglia di birra. Giusto per non farmi mancare niente. – Almeno non si può dire che tu faccia torto a qualcuno. – considera Fler, annuendo con una certa serietà, - Un po’ una categoria, un po’ l’altra. Non poniamoci limiti.
- Ma la pianti? – sbotto, tirandogli addosso un tovagliolino di carta strappato al dispensatore e appallottolato con furia fra due dita. Lui si scherma con un braccio, ridacchiando vago, e poi sembra placarsi, perché per un paio di minuti non dice una parola. Si limita a sorseggiare la propria birra guardandosi intorno con un sorriso un po’ ebete sulla faccia, e quando sento qualcosa intrufolarsi fra le mie cosce e strofinarsi insistentemente contro il cavallo dei miei pantaloni per un istante il mio cervello rifiuta categoricamente l’ipotesi che quel qualcosa possa essere una qualsiasi parte del corpo di Fler. Voglio dire, è così placido e calmo, sta guardando tutt’altro, e— e se non si ferma immediatamente saranno cazzi amari per tutti quanti. – Fler? – lo chiamo, deglutendo a fatica, - Guarda che scherzavo, prima.
- Scherzavi? – domanda lui, tornando a guardarmi con occhi grandi e puri, - Non capisco di cosa tu stia parlando. – esala con un filo di voce, tramutandosi in Bambi sotto ai miei occhi sconvolti e colmi di paura. Ho già visto abbastanza dell’America per dire che non mi piace. Adesso che ho visto cosa fa alla gente, posso affermare con estrema tranquillità che la odio, anche.
- Fler! – insisto io, alzando appena la voce perché sia chiaro che lo sto rimproverando e disapprovando tantissimo, - Ma sei ubriaco?! – chiedo, mandando giù un po’ di birra anch’io, per buona misura. Se lui è ubriaco, voglio esserlo anch’io. Non la voglio la responsabilità di quello che potrebbe accadere. Voglio ubriacarmi come mai sono stato ubriaco nella mia vita e poi dare la colpa a Bushido per qualunque guaio possiamo combinare io e Fler questa notte. Mi sembra una punizione giusta ed equa, voglio dire, lui mi ha portato in America. In qualche modo dovrà pagare. – Aspetta, - dico quindi, tornando per un attimo presente a me stesso, - ma come fai ad essere già ubriaco? Hai bevuto una bottiglia di birra e mezza, a voler esagerare.
Fler ridacchia divertito, facendo dondolare la sua bottiglia sul ripiano del tavolo e rischiando di rovesciarla un paio di volte.
- Potrei o non potrei aver bevuto qualcosa prima di arrivare in albergo, con Anis. – risponde, annuendo con ampi e lenti cenni del capo.
- Che diavolo vuol dire che potresti o non potresti?! – strillo sconvolto, battendo il palmo di una mano aperta sul tavolo, - O l’hai fatto, o non l’hai fatto! Ma soprattutto, quanto sei cretino se hai deciso di bere ancora pur sapendo di averlo già fatto? Li abbiamo già fatti due secoli fa, questi discorsi! Credevo che ormai ti sapessi controllare!
- Oh, andiamo, Chaku! – sbotta lui, roteando gli occhi, - Mi sto solo divertendo un po’. Non è che tutti gli alcolisti debbano per forza diventare astemi. Io non lo sono, per dire, a me bere piace.
- Sì, magari pure troppo. – sbuffo contrariato, - Dai, torniamo in albergo.
- No, c’è uno specchio enorme su quel letto. – risponde lui con una risatina divertita in maniera quasi criminale, - Non ci dormo là dentro. Chi ce la fa ad addormentarsi con la luce delle lampadine che ti si riflette sulla pelata e poi rimbalza sullo specchio e mi finisce negli occhi?
- Vorrà dire che terrò su il cappellino. – grugnisco, tirandogli uno schiaffetto contro una spalla ed alzandomi in piedi, - Dai, andiamo almeno a prendere un po’ d’aria. E poi questo posto fa schifo.
Inizialmente, Fler non è molto convinto della mia idea. Vorrebbe restare al locale ancora un po’, sospetto che non gli vada granché di muoversi, il che è molto male perché so per certo che se continua a bere e stare seduto prima o poi finisce che si addormenta, e in quel caso dovrò chiamare un carro attrezzi per riportarlo in albergo, motivo per il quale insisto e, alla fine, la spunto io. Andiamo un po’ in giro nella notte illuminata e chiassosa di Las Vegas, ma di aria fresca intorno a noi non ce n’è neanche a pagarne. Scommetto che in questo periodo a Berlino il venticello comincia già a soffiare fresco per le strade della città, e qui, invece? Caldo soffocante, sudato e appiccicaticcio. Questa città non ha lati positivi.
In compenso ha strade piene di lucine colorate di fronte alle quali Fler, in questo stato, è capace di restare immobile per minuti interi, in adorante contemplazione. Ed è durante una di queste adoranti contemplazioni alle quali io non bado, perché so che esaurito l’interesse si esauriscono anche loro, che Fler prende una decisione. Una decisione catastrofica, una decisione che cambierà le nostre vite per sempre, ed io sul momento nemmeno me ne accorgo perché, dopo averla pagata, mi sono portato via dal locale la seconda bottiglia di birra semivuota, ed ho continuato a sorseggiarla per tutto il tempo, e questo, lo ammetto, non ha giovato alla mia lucidità mentale.
Perciò, nel momento in cui Fler si ferma in mezzo al nulla e, fissando un punto a caso nel vuoto enorme che rimbomba dentro i suoi occhi, esala “ommioddio, Chaku, dobbiamo sposarci”, io, in un primo momento, non lo capisco.
- Eh? – biascico, fermandomi a mia volta e voltandomi a guardarlo. Lo trovo che non sta più fissando il vuoto dentro la propria testa, purtroppo, ma bensì qualcosa di decisamente più concreto. Una cappella, una di quelle che si vedono spesso nei film ambientati a Las Vegas in cui lui e lei, ubriachi fradici, si sposano senza essere pienamente coscienti di ciò che stanno per fare, e si risvegliano il giorno dopo con due anelli orrendi al dito, vestiti con costumi imbarazzanti e ridicoli, passando poi i successivi novanta minuti di pellicola a riempire se stessi e il telespettatore di paranoie sul matrimonio e sull’amore per poi scoprire che il contratto non è valido fuori da Las Vegas ma che loro due, in fondo, si amano abbastanza da procedere anche al rito vero, con tutti i crismi, per unirsi per sempre nei secoli dei secoli amen. Segue cerimonia in abito bianco che io non arrivo quasi mai a vedere perché con quei film di solito mi addormento intorno alla mezz’ora.
- Dobbiamo sposarci. – ribadisce lui, indicando la porta spalancata della cappella dalla quale escono un tizio che avrà come minimo sessant’anni abbracciato ad una tipa che ne avrà almeno quaranta di meno, e che camminano entrambi ondeggiando, ridendo ed agitando una bottiglia di champagne che sgocciola per strada. – Subito. Adesso. Lì.
- Fler, no! – cerco di riportarlo a più miti consigli, stringendogli una mano e provando a tirarlo via, - Dai, torniamo in albergo! Che c’entra sposarci adesso? Ma qui, poi? Avanti, è un cliché!
- È perfetto! – insiste lui, quasi saltellando sul posto e prendendo a trascinarmi verso la cappella, ottenendo peraltro molti più risultati di quanti ne abbia ottenuti io provando a trascinarlo dal lato opposto, - È questo il posto! Dev’essere qui. Coraggio, Chaku. È il grande momento!
- Ma il grande momento di cosa?! – strillo io, genuinamente terrorizzato, mentre attraversiamo l’entrata e ci dirigiamo speditamente verso un bancone vuoto sulla sinistra. O meglio, lui si dirige speditamente verso il bancone vuoto sulla sinistra. Io vengo trainato a rimorchio. – Fler, sul serio. Non sono abbastanza ubriaco per fare questa cosa.
- Io sì, invece. – mi liquida lui con una risatina divertita, premendo il palmo della mano contro il campanello dall’aria molto retrò poggiato sul tavolo. Il trillo si diffonde cristallino per la stanza e, pochi secondi dopo, un uomo vestito da prete che palesemente non è un prete né mai sarà un prete, con un bicchiere enorme di coca cola in una mano ed una confezione di patatine del McDonald’s nell’altra, si presenta al nostro cospetto e rutta.
- Avete suonato? – domanda, tirandosi un colpetto sul petto con un pugno chiuso, - Chiedo scusa. Stavo cenando.
- Vogliamo sposarci! – dice immediatamente Fler.
- No, non vogliamo. – piagnucolo io, provando a lanciare uno sguardo supplice al finto prete perché capisca che ho bisogno d’aiuto e mi salvi. Lui non lo capisce, e conseguentemente neanche mi salva.
- Invece sì. – insiste Fler, annuendo deciso, - Vogliamo sposarci e vogliamo una bottiglia di whiskey.
- Io posso darvi entrambe le cose. – annuisce il prete, poggiando cibo e bevanda sul tavolo e chinandosi ad aprire uno sportellino dietro il bancone, per tirarne fuori un’enorme bottiglia di liquore, - A cominciare dal whiskey. Per il matrimonio, sarà un po’ più complicato, ma non molto. Piacere, - sorride, porgendo la mano a Fler, - chiamatemi pure padre Isaiah.
- Piacere, padre. – sorride Fler, annuendo come se ci fosse qualcosa per cui annuire. Prende la bottiglia di whiskey e me la passa. – Tieni. – dice, - Fai in modo di essere ubriaco abbastanza per sposarti, fra una ventina di minuti.
Mi viene da piangere, ma prendo la bottiglia in mano e mi lascio ricadere su un’enorme poltrona rossa e morbidissima mentre osservo Fler e padre Isaiah volteggiare da un bancone all’altro, visionando enormi libri dai contenuti palesemente mistici ed oscuri che non possono portare nella mia vita nulla di buono.
Mi attacco alla bottiglia bevendo direttamente da lì, visto che non mi è stato fornito un bicchiere. Nel mentre, lancio un’occhiata all’altare, in fondo alla stanza. Un altro finto prete, più o meno dell’età del primo, ma con una faccia più grigia e l’aria di uno che è stato sveglio e al lavoro per diciotto ore filate, al punto da essere arrivato a reggersi in piedi solo tenendosi stretto ad una flebo di caffè endovena, sta sposando due tizi vestiti da Elvis e Marilyn. Sono carini, in qualche modo. Sembrano felici. Lei, avvolta nel suo abitino bianco e con una parrucca che le lascia scivolare sulla nuca qualche ciocca di capelli castana, si stringe a lui, infilato a forza in una tutina dorata aderentissima talmente appesantita dai decori e dalla brillantina da scivolargli quasi giù dalle spalle. Ridono, e quando dicono “sì” lo fanno urlando, come se ne andassero così orgogliosi da non riuscire a trattenere la gioia. Mi fanno sorridere, sorridere sinceramente. O forse è solo un effetto collaterale dell’alcool. La perdita totale di senno, intendo.
Come sia o come non sia non lo so, tutto ciò che so è che una mezz’ora dopo io sono ancora su questa poltrona e la bottiglia di whiskey è già semivuota. Il prete che ha sposato Elvis e Marilyn è sparito, quindi suppongo che il suo turno fosse finito, il che è un bene perché se dobbiamo sposarci tanto vale che ad unirci nel sacro vincolo del matrimonio di Las Vegas sia padre Isaiah, che quantomeno mi sembra un tipo sveglio.
- Chaku! – mi chiama ad un certo punto Fler, ed io sollevo lo sguardo e ci metto un po’ ad individuarlo. Lui e padre Isaiah si sono spostati praticamente dall’altro lato della cappella, vicino ad un grande banco frigo di fronte al quale Fler saltella e si sbraccia per farsi notare. Mi sollevo con un grugnito sofferente e disperato e, muovendomi come un orango in procinto di crollare in letargo – se gli oranghi vanno in letargo –, lo raggiungo.
- Cosa? – borbotto, guardando prima lui, poi padre Isaiah ed infine il banco frigo con aria molto sospettosa. Fler mi fa un sorriso da bambino così ampio da mangiargli via tutta la faccia.
- Prima ho scelto i nostri anelli. – mi racconta, mettendomi davanti al naso i due pugni chiusi, - Scegli la mano!
Io sospiro e batto uno schiaffetto lieve sulla destra. Fler ride e la schiude, rovesciandola col palmo verso l’alto così che io possa vedere cosa contiene. È un anello piuttosto grande, con un grottesco teschio con le orbite scavate e dipinte di rosso e tutti i denti in bella vista. È orripilante.
- E questo sarebbe il mio? – domando scettico. Fler annuisce, apre l’altro pugno e mi mostra il suo: altrettanto enorme, assomiglierebbe al mio in tutto e per tutto se non fosse decorato con un enorme cuore metallico con un lucchetto chiuso al centro. Benaugurante, non c’è che dire. – Fanno schifo. – sentenzio. Fler ridacchia.
- Sono meravigliosi. – stabilisce. – Comunque, ora ho scelto anche la torta. – continua, voltandosi verso il banco frigo, - Vediamo se indovini qual è!
- Mmh… - borbotto io, occhieggiando le belle torte dall’aspetto talmente perfetto da sembrare plastificate, come tutto da queste parti, mi rendo conto, tutte in fila sul bancone. Ce n’è una azzurra decorata da perline bianche, una bianchissima su cinque strati ed una bassa, ampia e rettangolare con delle decorazioni tali da far pensare al prato di un campo da calcio, ma scommetto che quella preferita da Fler è un’altra. – Quella rosa? – domando, indicando l’ultima sulla destra, e Fler batte le mani, annuendo compiaciuto.
- Bingo! – esulta, chinandosi a sfilarmi il cappellino per un secondo per lasciarmi un bacio sulla testa, prima di rimettere tutto a posto. – La tiri fuori, padre Isaiah!
Il prete, o quel che è, indossa brevemente un grembiule e, sorridendo divertito, apre il banco frigo, tirandone fuori la nostra bella torta e posandola sul tavolo accanto a noi. Fler ci si avvicina, rimirando il dolce da ogni lato e studiandolo come ci fosse qualcosa che non va.
- Che c’è? – domando, imitandolo e squadrandolo a mia volta. Fler si illumina e schiaccia con un dito l’omino di plastica che rappresenta lo sposo, facendo in modo di affondarlo nella panna fin quasi al petto.
- Adesso è perfetta! – ridacchia divertito, ed io non so se dovrei offendermi per la palese presa in giro alla mia statura, o soltanto preoccuparmi perché si è appena identificato con la sposa. Non vorrà mica che lo riporti in camera tenendolo in braccio?
- Bene, se volete seguirmi… - dice quindi padre Isaiah, facendoci strada verso l’altare, che è una specie di inginocchiatoio in plastica bianca tutto pieno di ditate e impronte di scarpe.
- Vieni qui, Chaku, inginocchiati. – dice Fler, inginocchiandosi per primo e tirandomi per la manica della maglietta per costringermi a fare lo stesso, - Facciamo le cose per bene.
- Non posso tornare a prendere la mia bottiglia di whiskey, prima? – piagnucolo io, senza fare in effetti troppa resistenza e prendendo posto al suo fianco, - Mi aiuterebbe molto.
- Sssh. – mi rimprovera lui, agitando un dito davanti alle labbra, - Sta per cominciare. – dice, come se stesse parlando di un film. O del matrimonio di qualcun altro.
Di quello che succede dopo non ho un ricordo precisissimo. Padre Isaiah dice qualcosa, sembra molto divertito, fa un discorso molto lungo sulla sacralità del vincolo che ci unirà e sull’importanza della famiglia come istituzione fondamentale della società, ma le parole precise che dice io non le ricordo, forse nemmeno le identifico, non mi interessano. Una cosa sola so, ed è che quando chiede a Fler se vuole prendermi come suo sposo, in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà, nella buona e nella cattiva sorte finché morte non ci separi, lui dice sì, e non lo dice come se fosse ubriaco. Il suo sorriso non è alcolico, la sua voce non è incerta, i suoi occhi sono chiari e limpidi e fissi nei miei. E quando rivolge la stessa domanda a me, la mia risposta è identica alla sua, sia nei modi che nelle intenzioni.
Quindi suppongo di sì. Sì, Fler. Lo voglio.
Quando ci alziamo, mi rendo conto che il sermone di padre Isaiah dev’essere stato di una certa lunghezza, perché mi fanno male le ginocchia. Fler si rimette subito a ridere, mi allaccia al collo e sussurra “ed ora lo sposo può baciare l’altro sposo”, prima di coprire le mie labbra con le sue. Io lo stringo alla vita, chiudo gli occhi e lo bacio profondamente, non so per quanti minuti. Tanti, comunque. Il suo sapore è piacevole, nonostante il retrogusto un po’ amarognolo della birra.
Quando ci separiamo, padre Isaiah ha indossato nuovamente il grembiule e ci ha tagliato due fette di torta.
- Mangiate, - dice, - io nel mentre vi impacchetto il resto.
Siamo fuori non più di dieci minuti dopo. Fler porta il pacco della torta come fosse un sacchetto della spesa, facendolo dondolare avanti e indietro lungo il suo fianco mentre io rimiro da ogni lato il mio anello trovandolo sempre meno brutto ogni secondo che passa. Ci sto facendo l’occhio, suppongo. Il suo è più brutto, c’è un cuore sopra. Sul mio, quantomeno, c’è solo un teschio. Una cosa con una sua dignità. Non fosse per quegli occhi rossi che lo fanno sembrare finto, sarebbe perfino un bel pezzo d’arredamento, visto che è grosso quanto un piccolo soprammobile. E pesante tanto quanto, peraltro.
È solo quando la mano di Fler si intreccia con la mia e mi volto a guardarlo che vedo che non ha più le guance rosse e il suo sorriso s’è fatto meno vago e infantile.
- Tu non eri ubriaco! – dico in un borbottio deluso, perché io invece adesso lo sono. Lui si mette a ridere.
- Invece sì. – annuisce, stringendo la presa sulla mia mano, - Ho bevuto davvero qualcosa, mentre stavo in giro con Anis. Però ho esagerato un po’ con le scene, lo ammetto. – ridacchia, - È che ero felice. Avevo bisogno di una spintarella.
- O non l’avresti mai fatto? – domando, continuando a guardarlo. Lui tiene il naso puntato per aria, e gli brillano gli occhi alla luce di tutte le insegne colorate che illuminano la strada che stiamo attraversando.
- No, forse no. – ammette, - Tu?
- Sicuramente no. – dico sinceramente. Lui, invece di arrabbiarsi, si mette a ridere e mi gira un braccio attorno alle spalle, stampandomi un bacio umido sulla guancia.
- Sei pentito? – mi chiede, restandomi appoggiato addosso.
Scuoto il capo con forza.
- Questo mai. – dico, cercando ostinatamente i suoi occhi finché non me li concede. Lui annuisce, sorridendomi serenamente. Vorrei che questa notte non finisse mai. Anche se sono confuso e un po’ nauseato e quella torta faceva schifo ed ho un anello orribile al dito e non credo di avere ancora realizzato pienamente cosa effettivamente io e Fler abbiamo appena combinato, vorrei che questi istanti potessero dilatarsi nel tempo e durare per sempre. Lo vorrei veramente.
E invece niente, perché il tempo c’ha questa brutta abitudine di passare, ed è sempre troppo poco, ma da un certo punto di vista va bene anche così, perché la cosa bella dei minuti che passano è che ce n’è sempre uno successivo, be’, almeno fino a quando non muori, ma non mi sembra questo il caso, e comunque adesso non ci voglio pensare. Per cui alla fine li prendo bene, questi secondi che non rimangono immobili e diventano altri secondi. Questi secondi in cui il sorriso di Fler si allarga, si istupidisce e si fa più sonnacchioso. Questi secondi che ci riconducono in albergo, su per l’ascensore e nella nostra stanza cuoriforme, rosa e pelosa.
- Non accendere la luce. – bisbiglia lui, tirandomi per un polso e trascinandomi verso il letto, - Sennò quell’affare si mette a girare. E poi non voglio vedere lo specchio.
Io annuisco, chiudendomi la porta alle spalle e seguendolo. Lui ricade sul materasso, io ricado su di lui e scoppiamo a ridere, ed il secondo dopo sto già scivolando con le labbra sul profilo del suo collo, che è da quando l’ho visto piegarlo al locale che sto pensando che vorrei baciarlo, e non mi sembra quasi vero di poterlo fare adesso, anche se i nostri mugolii sono sempre più bassi e confusi e i nostri movimenti sempre più lenti e goffi.
Alla fine non combiniamo niente. Fler si addormenta mentre gli sto slacciando la cintura, io rido e mi appoggio con la fronte contro la sua spalla, e questo è sufficiente, perché chiudo gli occhi e due secondi dopo sto già dormendo anch’io, con la sua cintura fra le mani e il teschio sull’anello che preme con forza contro la mia pancia, solo che sono tanto stanco e ubriaco che non ci faccio nemmeno caso.
Ci faccio caso l’indomani mattina, però, quando la terra improvvisamente si ribalta e io mi ritrovo col sedere sul pavimento dopo che il nord e il sud si sono capovolti, e tutto quello che riesco a capire è che Fler sta strillando e io sento un pizzicorino fastidioso proprio accanto all’ombelico.
- Ma cosa cazzo—?! – grida Fler dal bagno, prima di piegarsi sul water e vomitare anche l’anima, - Chaku! È tutta colpa tua! – strilla fra un conato e l’altro. Io sbatto le palpebre, fissando il vuoto con aria confusa. Che cosa è successo? Mi alzo in piedi e mi dirigo verso l’armadio, lo apro e guardo la mia immagine riflessa nello specchio fissato all’interno di una delle ante. Ho una faccia talmente stravolta… sono inguardabile.
Sollevo la maglietta, giusto per osservarmi la pancia, e quando vedo l’enorme stampa di un teschio sulla pelle arrossata spalanco gli occhi e comincio a ricordare.
Fler che vomita in bagno.
Quest’anello orribile che indosso.
La confezione in cartoncino ondulato della torta che abbiamo posato sul comò rientrando.
Oh, mio Dio.
- C’è nessuno? – chiede la voce un po’ stridula di Bill da fuori, battendo sulla porta come un indemoniato. Ogni colpo sul legno è una capriola del mio cervello, mentre Fler continua a vomitare e suppongo che ne avrà per un bel po’. Probabilmente ieri, quando mi ha detto di non aver bevuto poi così tanto, mentiva.
Mi dirigo verso la porta più per far cessare i colpi e far tacere Bill che perché mi vada davvero di mostrarmi al mondo in queste condizioni, per cui mi limito ad aprire e poi torno indietro, accasciandomi seduto sul letto come senza vita, le spalle curve, le braccia molli, il volto senza espressione.
- Ma che…? – borbotta Bill, facendosi strada all’interno della stanza, - Oddio, - commenta, incapace di trattenere una risatina, - questa suite è di una bruttezza che non si racconta.
Bushido, accanto a lui, tende l’orecchio e sente Fler che continua a diffondere nell’aria questa sinfonia di morte che mi accompagna ormai da cinque minuti buoni, e si irrigidisce come un pezzo di legno.
- Oh, no. – dice perentorio, ed io quasi vorrei scoppiare a ridere gonfiando il petto come un pollo e dirgli “ha! Visto? C’è qualcosa che non puoi controllare, e questa cosa è la nostra palese follia”. Lo farei davvero se non fosse ridicolo. No, ok, forse lo farei davvero anche se è ridicolo. È che ho troppo mal di testa.
- No cosa? – domanda Bill, con l’aria di un bambino che non abbia capito niente della vita in generale, descrizione che peraltro non si allontana di molto dalla realtà dei fatti, per quanto lo riguarda. I conati di Fler sembrano fermarsi, e mentre Bushido continua a fissarmi agghiacciato come avessi messo incinta la sua primogenita senza prima ottenere il suo consenso e la sua mano in matrimonio lo ascoltiamo esalare un sospiro soddisfatto e sereno che dura la bellezza di due secondi contati, dopo i quali riprende a vomitare come se non avesse già fatto la stessa identica cosa fino a due secondi prima. Cosa gli sarà rimasto nello stomaco da espellere non lo so, non voglio saperlo e nemmeno voglio provare a immaginarlo.
Io mi spalmo una manata sulla faccia. Bushido ringhia sottovoce. Bill esala un “non capisco” infantilmente confuso. Fler continua a vomitare.
Decido di prendere in mano la situazione. Mi alzo, raggiungo il comò, apro il pacchetto e ne indico il contenuto con un cenno del capo.
- Abbiamo molte cose di cui parlare. – esordisco con serietà. – Torta?

Bookmark and Share

Regen

di lisachan
Quando arriva la telefonata, io sto facendo i compiti. Fare i compiti ha smesso di essere una cosa completamente surreale solo da qualche mese, per cui mi sto ancora abituando. E' un po' un casino, quando succedono cose come quella che è successa a me - nel senso che è un po' un casino quando hai una vita di merda, con tutti gli innumerevoli svantaggi della vita di merda, sì, ma anche con quei pochi, sporadici vantaggi tipo il fatto che, se tuo padre ti picchia ogni volta che gli passi sotto gli occhi e se, per tutto il resto del tempo, spacci per le strade del ghetto per tirare su i soldi per campare, di certo fare i compiti non rientra nelle tue priorità, ma in realtà neanche all'ultimo posto di un'ipotetica lista di cose da fare nell'arco della giornata. E' una cosa alla quale neanche pensi, visto che comunque il massimo della prospettiva di vita che hai è aspettare il limite d'età per mollare e dedicarti a tempo pieno alla tua attività principale, che poi probabilmente ti porterà a crepare in un vicolo con un coltello piantato nello stomaco prima di compiere vent'anni.
Quello che intendo dire è sostanzialmente che io, prima di essere rapito ed adottato da questi due pazzi - formalmente, la custodia ce l'ha Fler da solo, ma Chakuza non ha bisogno di firmare su nessun documento per imporsi nella vita degli altri, a lui basta esistere, e già devi ringraziare che, esistendo, non ti scartavetri i coglioni ventiquattro ore al giorno e sette giorni su sette -, i compiti non li facevo. Andavo anche sporadicamente a scuola, il che, suppongo, giustifica il fatto che in effetti sono una capra ignorante, cosa che mi porta, adesso, a fare un sacco di fatica per recuperare.
Nei telefilm, quando succedono cose tipo quella che è successa a me - non nel senso che qualcuno arriva, ammazza il genitore abusivo e adotta il figlio rimasto in vita per donargli una vita migliore; nel senso che qualcuno arriva e sistema la situazione dell'adolescente arrabbiato col mondo, risolvendo i suoi problemi e facendone un ragazzino migliore -, il ragazzino in questione automaticamente comincia a prendere ottimi voti ovunque. Ci avete mai fatto caso? Come se anni e anni passati nell'ignoranza più assoluta potessero essere spazzati via da due settimane di studio.
La realtà non si avvicina neanche lontanamente a questa versione dei fatti, è ovvio. Quando per anni e anni tu non hai studiato, non è che basti stare chino due settimane sui libri per diventare un genio.
Intanto, è già difficile prendere il ritmo. Intendo metterti lì seduto alla tua scrivania - se ne possiedi una; sulla penisola della cucina, nel mio caso -, tirare fuori i libri e cominciare a concentrarti. I primi tempi io non ne avevo mezza, sinceramente. Tutto quello che volevo era godermi la mia nuova libertà in cui potevo svegliarmi ogni mattina senza lividi e costole incrinate e potevo mangiare del cibo per comprare il quale non avevo dovuto spacciare per i tre giorni precedenti. Guardate che non sono mica cambiamenti da niente, eh. Sono robe che ti rivoluzionano l'esistenza. Io per dire volevo tutto meno che mettermi a studiare; volevo uscire, volevo andare al lago, volevo viaggiare - viaggiare, stupido Chakuza. Non restare a Berlino per non aggiungere assenze alle precedenti mentre lui e Fler se ne andavano tranquilli in America col resto della famiglia di beduini di Bushido -, volevo chiudermi in sala d'incisione e fare buon uso dei soldi di Fler per autoprodurmi e diventare il nuovo fenomeno del rap giovanile tedesco. Ecco, volevo fare un sacco di cose, ma di sicuro fra queste mille cose che volevo fare non era compresa l'idea di mettermi lì seduto a leggere riassunti di storia contemporanea e risolvere equazioni trigonometriche di secondo grado. Anche perché la prima mi annoia e le seconde semplicemente non le capisco.
Fossimo stati solo io e Fler, il problema neanche si sarebbe posto. Da uomini adulti, ci saremmo seduti attorno ad un tavolo ed io, molto sinceramente, gli avrei detto "senti, Fler, io ne ho piene le palle", e saremmo arrivati ad un accordo. D'altronde lui la scuola neanche l'ha finita, ed è venuto su benissimo. Non è che il diploma ti serva a tutti i costi per essere qualcuno nella vita.
Ecco, Fler l'avrebbe capito. Chakuza, naturalmente, no. Perché lui non viene dal ghetto, lui viene dalle montagne sulle quali, circondato da mucche e capre e dal verde della natura, oltre a venire su testone e insopportabile ha anche studiato fino al regolare conseguimento del diploma, per darsi al rap solo dopo essersi fatto una cultura. Da cuoco.
Insomma, come si può pretendere di ragionare con uno così? Non si può. E Fler, per qualche motivo che stento ancora a comprendere e che ho dovuto semplicemente accettare, perché così fai con le cose che sono in un determinato modo anche se tu non le capisci, tipo le equazioni trigonometriche di secondo grado, appunto, Fler, dicevo, gli è completamente asservito, per cui quando io mi sono seduto al tavolo con entrambi e, parlando con sincerità, ho detto loro che della scuola non ne potevo più, non me ne fregava niente e volevo mollarla, Chakuza ha fatto come un pazzo. "Ma stai scherzando?!" ha strillato, la pelata che riluceva della luce del lampadario sotto il quale si era strategicamente posto, abbagliandomi, "Ma dove pensi di andare senza un diploma?!"
Al che io ho capito subito che, con uno che ti si presenta con un argomento simile, non si poteva ragionare, e mi sono voltato verso Fler, sperando in un minimo di solidarietà sociale, per lo meno. Ma lui niente: mi ha guardato, lanciandomi un'occhiata come per dire "eh, che ci vuoi fare", mi ha buttato lì un mezzo sorriso e poi mi ha detto "hai sentito il Chaku. Vai a studiare".
No, dico. Che se mi serviva un'altra prova che si fosse trasformato nella madre che per troppi anni non ho avuto, eccola lì.
Insomma, siccome Chakuza è un uomo insopportabile che vive secondo schemi mentali del Millesettecento, io non ho potuto mollare la scuola, e in qualche modo ho dovuto farmela piacere, ma non è stato mica facile. Faccio ancora un sacco di fatica a non distrarmi anche solo gettando un'occhiata fuori dalla finestra, mentre studio, ed i miei voti raggiungono ancora a stento la sufficienza. Durante l'ultimo incontro genitori-insegnanti, di fronte al quale peraltro s'è presentato Fler, il prof di lettere l'ha guardato e gli ha detto "vorrei poterle dire che il ragazzo ha potenziale ma non s'impegna, ma..." e gli ha mostrato i miei voti e tutta la mia striscia positiva di sufficienze scarse.
Questo è il massimo che posso fare per ora, e lo accetto. Non ho mai preteso di essere più intelligente del minimo che mi servisse per sopravvivere al ghetto. Il mio cervello mi ha tirato fuori di lì, e pertanto ha svolto il suo compito più che egregiamente. Bravo, cervello. Non ti meriti di essere torturato e forzatamente costretto ad imparare le cinque declinazioni.
E' per questo che, ogni volta che mi metto a studiare, la prima cosa che spero è che capiti qualcosa di improvviso che mi distragga. E' un pensiero immediato, appena poso il culo sullo sgabello: capita!, penso, rivolto al guaio ideale che vorrei venisse a risolvere il mio problema, qualsiasi cosa tu sia, capita!
Non capita quasi mai niente, per inciso, ma oggi sì. Oggi mi arriva la telefonata.
Sono le cinque circa del pomeriggio, orario intorno al quale mi seggo sempre a studiare dopo essermi sfondato di cartoni animati per bambini e patatine (ho delle giustificazioni: queste cose non me le sono mai potuto godere, da piccolo; è tempo di recuperare), per cui immagino che lì da loro, negli Stati Uniti, dovunque essi si trovino in questo momento (il programma di Kaulitz era incasinato e confuso e sinceramente, non dovendo prendervi parte, non mi interessava nemmeno abbastanza da memorizzarlo), sia un qualche orario indecente tipo l'alba. Okay, magari no. Ma è sicuramente presto comunque.
- Pronto? - faccio, alzandomi immediatamente in piedi. Primo perché è un gesto che mi porta lontano dai compiti, e poi perché non riesco mai a stare fermo, quando sto al telefono. Devo camminare, andare in giro, toccare cose, guardare fuori dalla finestra.
- Daniel. - mi chiama Chakuza, ed usa il mio nome completo, una roba di un inquietante che non ve lo posso neanche descrivere. Io sono contrario all'utilizzo del mio nome completo. Quando hai un soprannome col quale tutti ti chiamano sempre, finisci sempre a conferire una certa sacralità ai momenti in cui il tuo nome viene detto per intero. Pertanto, è importante che questi momenti siano pochi, e soprattutto che poi siano davvero importanti per davvero, sennò che senso ha?
- Che c'è? - domando, già scazzato per il palese utilizzo scorretto del mio nome - perché non c'è niente di realmente importante che Chakuza possa avere bisogno di dirmi, è evidente - ed anche perché non ho per niente voglia di starlo a sentire sapendo che si trova dall'altro lato dell'oceano con Fler. Davvero, io so che lui non dimentica mai, neanche per un minuto, che per svariati meravigliosi mesi della mia vita io sono stato col suo uomo, e so che non lo dimentica perché è geloso e ossessivo come un orango, ma ogni tanto si comporta come se la nozione gli sfuggisse completamente, come se per me non fosse ancora fastidioso, nonostante tutto, sapere che lui, il suo metro e quaranta scarso, le sue gambette tozze e la sua stupida pelata hanno vinto contro il mio metro e novanta, le mie gambe chilometriche e la mia fluente chioma bionda. Come può questa cosa essere giusta, o anche solo reale? In che mondo?!
- Dunque... - comincia lui, e io so che sta già partendo da troppo lontano. Cioè, dai, hai una roba da dirmi? Dimmela. Non mi tenere qua al telefono per sempre, su una chiamata intercontinentale, poi. La sua testa è vuota fuori e dentro. - Senti, è successo qualcosa di importante. - blatera, - Niente di preoccupante, eh! Anzi, direi che è una bella notizia. Credo. - sembra rifletterci su seriamente, - Okay, forse non lo è completamente. Ma potrebbe esserlo, se tu ti preparassi a riceverla nella disposizione d'animo adatta. In che disposizione d'animo sei?
Guardo fuori dalla finestra, appoggiandomi al vetro. Lui mi ha chiamato usando il mio nome per intero, mi sta facendo perdere tempo nell'unico modo che mi fa rimpiangere i compiti, so da come ha introdotto la questione che non può che trattarsi di un'ottima notizia per lui ma una pessima notizia per me - e che quindi non può non riguardare Fler e la sua surreale relazione con lui -, quando avrò finito con questa pietosa telefonata ci saranno comunque le equazioni trigonometriche di secondo grado ad attendermi sulla penisola e, di fuori, sta cominciando a piovere.
- Pessima. - rispondo, scandendo bene le lettere di modo che la mia voce possa oltrepassare le barriere della sua usuale sordità stupidità-indotta e giungere inalterata a quel che resta delle sinapsi del suo cervello ridotto quasi in brandelli da anni e anni e anni di continuativa iperattività sessuale priva di logica e palesemente soddisfatta dal mondo non perché lui sia bello ma perché emette feromoni ai quali io sono immune ma un sacco di altre persone no.
- Oh. - dice lui, apparentemente deluso dalla mia rivelazione. - Oh. Okay. Ehm...
E' lì che sento la voce di Fler provenire come da un mondo lontano. "Chakuza. Che stai facendo. No," dice. Sento un sacco di casino e capisco che stanno lottando per la conquista del telefono. Non so ancora cosa volesse dirmi Chakuza, ma almeno ho capito che è qualcosa che Fler voleva dirmi per primo.
Il che mi dà la certezza definitiva che non possa trattarsi di niente di buono per me.
- Danny. - mi chiama, la voce rauca, pesante di sonno, un po' strascicata, come se stesse male, ma nonostante tutto dolce, come ogni volta che si rivolge a me, anche nelle situazioni peggiori. - Ehi.
Sospiro pesantemente, appoggiandomi al davanzale della finestra, la fronte contro il vetro freddo, gli occhi chiusi.
- Spara. - dico.
Lui non se lo fa ripetere due volte.
- Ieri io e Chakuza ci siamo sposati.
Nonostante il dolore sordo nel petto, non posso fare a meno di sorridere per la stupidità generica della frase.
- Dimmi almeno che hai fatto vestire di bianco lui. - lo prendo in giro, - La sposa più alta dello sposo non si può vedere.
- Sei un cretino. - ride lui, e poi gli sfugge fra le labbra un lamento sofferente, - Dio che mal di testa.
- Post-sbronza? - domando, riaprendo gli occhi e sbirciando di fuori. Comincia a piovere un po' più forte, la strada oltre la finestra si ammanta di un deprimente velo grigio. Appropriato.
- Già. - annuisce lui, con un sorriso stanco che gli sento nella voce e non fatico ad immaginare tendergli appena le labbra sottili, - Ieri è stato un po' un casino.
- Guarda, non avevo dubbi a riguardo. - rido io, scuotendo il capo e sospirando, - Una cosa del genere poteva succedere solo ubriacandovi come tacchini. Dove siete adesso?
- Se te lo dico, non smetterai mai più di prendermi per il culo. - sospira lui, arreso, e io scoppio a ridere.
- Las Vegas! - lo prendo effettivamente in giro io, - Che vergogna. Non ho parole. Oltre ad essere inguardabili, siete anche un cliché vivente. Buuuh.
- Ma stai un po' zitto, sì o no? - ride ancora lui, e poi lo sento sospirare profondamente. - Come stai? - domanda, e so che non mi sta chiedendo come sto in generale, se sono fisicamente a posto, e neanche come sta andando a scuola o nella mia esistenza da quando loro sono partiti, no; so che mi sta chiedendo come sto adesso, dopo aver sentito quello che aveva da dirmi.
Rido un po' tristemente, sospirando a mia volta.
- Non farmi neanche cominciare. - rispondo.
Lui resta in silenzio a lungo, e per la prima volta da quando abbiamo cominciato a parlare mi ritrovo a pensare che avrei preferito averlo qui, di fronte a me, mentre mi diceva questa cosa. Avrei preferito guardarlo in faccia. Adesso almeno saprei come prendere questo silenzio.
- Dai, quando torno ne parliamo meglio. - dice quindi, e la sua voce è di nuovo dolce e calma.
- Quando torni? - chiedo quindi io. Lui ride appena.
- Presto. - risponde, - Promesso.
Mi saluta e mette giù, ed io resto lì col cellulare in mano a guardare fuori dalla finestra per un tempo indefinito. La pioggia è andata aumentando d'intensità, nel corso della telefonata. Il cielo rosso del tramonto si è tinto di una sfumatura giallastra che contribuisce a rendere irreale il paesaggio oltre il vetro, come una vecchia foto virata in seppia.
Tutto sommato direi che avrei potuto prenderla un pelino meglio. Non è che non sapessi che prima o poi una cosa del genere sarebbe successa, cioè, non mi aspettavo il matrimonio a Las Vegas, ma dai, era ovvio che prima o poi quei due avrebbero formalizzato questa relazione assurda che si trascinano dietro ormai da anni. Sarebbe stato ridicolo il contrario. Ciononostante, speravo che sarebbe rimasto uno di quei legami che restano intesi senza diventare legalmente rilevanti, o che ne so. Cioè, insomma, lo so che un matrimonio da ubriachi a Las Vegas non ha alcuna rilevanza legale effettiva, ma lo stesso. Probabilmente mi dava soltanto fastidio l'idea che da qualche parte nel mondo, in qualche modo, Fler potesse dire a Chakuza sì.
Ma, insomma, me l'aspettavo. Prima o poi sarebbe comunque successo, io lo sapevo, ho avuto tutto il tempo di prepararmi all'idea, eppure fa schifo lo stesso, che vi devo dire. E' stupido, ma fa schifo lo stesso.
La pioggia fuori mi ipnotizza, e mentre io continuo a fissarla - e in questo momento delle equazioni trigonometriche non può fregarmi di meno, come dei compiti in generale, della scuola o, per la verità, di qualsiasi altra cosa, ecco -, mi colpisce all'improvviso il pensiero che pioveva anche quando Fler mi ha mollato, quando Chakuza è tornato da lui e lui l'ha magnanimamente riaccettato all'interno della propria vita anche se il nano pelato tutto si sarebbe meritato meno che una simile manifestazione di affetto e benevolenza.
Ero a casa mia, quel giorno. Ero anche abbastanza tranquillo, fra le altre cose, perché era un giorno feriale, uno di quei giorni in cui mio padre neanche si sprecava a tornare a casa. Aveva una routine molto precisa, lui, ci si poteva fidare. Usciva di casa il lunedì mattina e si andava a svaccare nel vecchio bar in fondo alla strada, ufficialmente un ritrovo per pensionati, ufficiosamente un buco di merda che puzzava di sporcizia e sudore e denti marci nel quale tutti gli altri stronzi disperati come lui di tutto il quartiere andavano a sfondarsi di birra dalla mattina alla sera per non doversi per forza guardare in faccia ed odiarsi.
Fino al sabato, non rientrava mai. Dormiva in giro, per strada, con gli altri stronzi ubriaconi come lui, che tanto non è che a casa ci fosse un giaciglio tanto più pulito che lo aspettasse. Poi, il sabato e la domenica il bar chiudeva, e lui era obbligato a rincasare. Lì cominciavano i guai per me, ma di quelli sapete già e io non ho proprio voglia di mettermi a rivangarli adesso che mi gira il culo per altri motivi.
Durante la settimana, però, non avevo problemi, questo va detto. Facevo il cazzo che mi pareva, in fondo, dopotutto. Mi bastava evitarlo per strada, perché quando mi beccava ci teneva proprio a gettarmi le braccia al collo ed alitarmi in faccia mentre, con quella voce piagnucolosa del cazzo, diceva a tutti i suoi compari "guardatelo qui, questo damerino del mio figliolo. Non c'ha la faccia più da stronzetto che abbiate mai visto?", e fingeva di giocare al padre burbero ma affezionato, schiaffeggiandomi leggermente le guance e poi ridendo come un indemoniato quando le vedeva diventare rosse. "Guardate che carina, la mia bambina. Magari un giorno vi ci faccio fare un giro, che tanto a lei piacerebbe, vero?"
Soprassediamo.
Insomma, quel giorno niente del genere stava accadendo, io ero a casa tranquillo per i fatti miei e, non dovendo uscire fino a sera per cercare di guadagnarmi il McDonald's del giorno dopo, mi ero messo in testa di risistemare casa, una roba che ogni tanto mi piaceva mettermi lì a fare, specie quando ero solo. Non tanto per dare un ordine alle cose che mi circondavano, quanto più per, be', semplicemente avere qualcosa da fare, per staccare la testa e non dover necessariamente pensare che ero felice di stare a casa mia solo come un cane, quando la maggior parte dei ragazzi della mia età avrebbero pagato oro per il contrario, solo perché l'alternativa era ancora peggio.
Insomma, stavo lì, e fuori sentivo il temporale infuriare, e già mi prendeva male al pensiero di quanto sarebbe stato freddo quella sera quando sarei dovuto uscire per forza, sperando peraltro che non piovesse ancora, quando sento suonare il campanello.
Nessuno mai suonava il campanello di casa mia. I vicini semplicemente ci ignoravano così come noi ignoravamo loro, e mio padre, naturalmente, aveva le chiavi. Ho sollevato il capo dal secchio pieno di acqua nera dopo la prima passata di straccio e, incuriosito dallo strano avvenimento, sono andato a sbirciare dallo spioncino.
Che lì dietro la porta ci fosse Fler era una cosa talmente assurda che sulle prime mi sono congelato sul posto. Stavamo insieme, se così si può dire, ormai da qualche mese, ma non era mai venuto a casa mia. Ci eravamo sempre incontrati da qualche parte, o ero andato io da lui. Questa era una cosa imprevista, ed io non lavoro bene con le cose impreviste - nel ghetto impari a temerle, le cose impreviste, a scappare più veloce che puoi nella direzione opposta quando una ti si presenta di fronte -, per cui non poteva portare niente di buono. E ancora non sapevo che cosa fosse venuto lì a dirmi.
"Danny?" mi ha chiamato lui, "Sei in casa?"
Scuotendo il capo per risvegliarmi dalla trance in cui vederlo mi aveva gettato, ho aperto la porta, fissandolo con occhi persi mentre stava fermo lì sul pianerottolo, con l'aria di uno che non ha la minima idea di cosa fare di se stesso, che sa di stare per combinare una cazzata epocale e che sostanzialmente resta in attesa di uno tsunami improvviso che cancelli completamente la città dalla faccia della terra per impedirgli di portare a compimento i propri propositi.
"Ma che cazzo ci fai qui?" l'ho apostrofato con grazia, scostandomi dalla soglia per farlo passare, "Sei fortunato che non c'è mio padre."
Lui mi ha lanciato un'occhiata vagamente risentita, come si sentisse offeso dal fatto che io potessi mettere in dubbio le sue capacità di sopravvivenza in una lotta ad armi pari con mio padre. Sfido chiunque ad ingaggiare una lotta ad armi pari con un ubriacone, dico io.
"Stavi pulendo?" mi ha chiesto, per nulla sorpreso dal fatto, come se per lui fosse assolutamente normale entrare e trovarmi lì con una fascia a tenere indietro i capelli e le maniche della maglietta arrotolate fin sotto alla spalla mentre stringevo fra le mani il bastone del mocio.
Ho annuito lentamente, ancora troppo stupito dalla sua presenza lì per articolare un qualsiasi pensiero coerente.
"Be', che c'è?" ho chiesto alla fine, dopo aver passato cinque minuti a fissarlo mentre lui fissava me, entrambi in piedi, ritti come due idioti in mezzo alla stanza col pavimento ancora umido.
Lui ha sospirato, passandosi una mano sugli occhi, poi sulla testa e dietro, fino alla nuca.
"Possiamo parlare?" ha chiesto. Io ho annuito fingendo indifferenza, mentre lo accompagnavo verso il divano e mi sedevo sulla parte sfondata per lasciare a lui la metà integra, ma in realtà ero nervoso. Come avrei potuto non esserlo? C'erano già troppi particolari che stonavano - lui era a casa mia, sembrava nervoso, non sorrideva. Non mi aveva nemmeno baciato.
Per la verità non è che, anche allora, la notizia mi sia arrivata così all'improvviso, senza darmi il tempo di prepararmi. Voglio dire, io e Fler avevamo cominciato a vederci molto meno già da un po', e inoltre sapevo che lui e Chakuza avevano ripreso a frequentarsi. Quella storia poteva finire solo con un omicidio, o con un matrimonio. E' consolante che sia finita con un matrimonio, ma non per me.
Insomma, dopo essersi seduto, Fler mi ha guardato intensamente negli occhi e, come prima cosa, mi ha detto che gli dispiaceva. Credetemi, fosse stato chiunque altro l'avrei preso a pugni sul muso e poi l'avrei scaraventato nel cassonetto dell'immondizia dall'altro lato della strada assieme ai sacchi di bottiglie vuote e confezioni di cibo da asporto unte che avevo raccolto per il soggiorno prima di spazzare e spolverare, ma era Fler, e i suoi occhi dicevano che gli dispiaceva davvero.
Ho sospirato, guardando in basso, alle mani che tenevo intrecciate mollemente in grembo.
"Sta succedendo, vero?" gli ho chiesto. Non è che volessi dargli una mano, in realtà non mi andava proprio di dargli una mano a lasciarmi, è che comunque la giornata - una delle rare giornate decenti della mia esistenza - era già stata rovinata, per cui tanto valeva uscirne in fretta.
"Danny," ha cominciato lui dopo l'ennesimo sospiro, facendo per spostarsi più vicino a me sul divano. Io gli ho piantato le mani sul petto, tenendolo dov'era.
"No, resta lì," ho detto, "Il divano. Da questa parte è sfondato. Se facciamo troppo peso cadiamo col culo per terra," ho aggiunto con un breve sorriso di scuse, per spiegarmi. Mentivo, naturalmente. Cioè, non è che mentissi proprio, era vero che se si fosse seduto anche lui da quella parte saremmo finiti col culo per terra, ma il punto è che se l'avessi voluto vicino non me ne sarebbe fregato un accidenti. Invece preferivo che restasse lì. Stavo morendo per un abbraccio, ma dentro di me sapevo di non volerlo. Non saprei spiegarlo meglio, era come dover combattere contro due dolori devastanti nello stesso momento, quella fitta di dolore acuta e profonda che mi dava il fatto che mi stesse lasciando - per Chakuza, poi - e quel dolore più intimo e sordo che con un abbraccio si sarebbe placato, ma che sarebbe tornato a pulsare con più forza una volta che inevitabilmente il momento fosse passato, perché quando lui fosse uscito da quella porta qualsiasi cosa avessimo costruito nel corso dei mesi precedenti sarebbe morta, rasa al suolo da due parole, dalle mani di un austriaco di merda che non sono in grado di fare altro che combinare danni e provocare devastazione nelle vite altrui, e forse fra me e Fler avrebbe potuto continuare ad esistere qualcosa, una sorta di qualche rapporto, ma non sarebbe più stato lo stesso, non sarebbe più stato perfetto, e quella cosa perfetta che c'era prima io l'avrei persa per sempre, perché non ero stato abbastanza furbo da assaporarla sapendo che prima o poi sarebbe finita quando ancora ce l'avevo.
Lui mi ha guardato, e tutto questo l'ha capito senza che io avessi bisogno di dirglielo. E' rimasto lì fermo, senza neanche toccarmi. Davvero, se qualcuno dovesse mai lasciarvi, nella vostra esistenza, vi auguro che sia una persona simile a Fler. Non ce ne sono tanti, nel mondo, che riescano a fare quasi ogni cosa tenendo sempre presente che le azioni hanno conseguenze, e che pertanto, in mezzo alla gente, bisogna muoversi con delicatezza.
"Mi dispiace davvero," mi ha detto, "E' che Chakuza..."
E io lì l'ho fermato, perché non avevo alcuna voglia di sentirmelo dire, ma d'altronde lui se lo aspettava, per cui non è che avesse davvero preparato qualcosa da dirmi a proposito di cosa Chakuza fosse o cosa rappresentasse all'interno della sua vita. Gli bastava dirmi "è che Chakuza...", ed a me bastava sentirmelo dire per capire che era tutto finito.
Quella sera non ci siamo detti niente di particolare quando poi l'ho riaccompagnato alla porta. Se avessimo smesso completamente di vederci, devo dire che sarebbe stato un addio davvero poco entusiasmante. Lui mi ha detto "allora vado", io ho risposto "ciao" e poi sono rimasto sulla porta ad osservarlo allontanarsi dopo aver tirato su sia il cappuccio della felpa che quello della giacca. Ancora pioveva, e lì per strada faceva un freddo della madonna mentre io pensavo che in effetti aveva senso, per una storia che era nata senza un nome, finire senza che quel nome venisse mai pronunciato, finire senza che venisse pronunciato neanche il nome di ciò che l'aveva uccisa.
Sono tornato in casa, e sapevo che prima di uscire avrei dovuto almeno dare una seconda passata di straccio, e magari portare fuori i quattro giganteschi sacchetti neri di plastica pieni di immondizia che avevo messo in fila in corridoio perché non mi fossero d'impaccio, ma poi guardandoli ho pensato che non m'importava veramente. Che anche pulire in giro in realtà era solo stato un modo come un altro per passare il tempo, che nessuno l'avrebbe notato, che mio padre non mi avrebbe fatto i complimenti per avergli fatto trovare casa pulita quando fosse tornato, che io stesso, quando fossi tornato all'alba dopo aver spacciato tutta la notte in giro fra strade e discoteche, non avrei notato le stanze per una volta non invase di sporcizia e ciarpame, non avrei notato l'odore di pulito, non mi sarei sentito meglio per averlo fatto, e questo perché non me ne fregava niente. Non era stato che un modo per riempire il vuoto fra un evento e l'altro, come farsi un solitario, come aprire l'armadio e fare il cambio stagione - a chi cazzo serve poi davvero il cambio stagione, dai -, come prepararsi un panino e mangiarlo guardando TRL e sputando merda su tutti gli artisti in classifica.
Insomma, ho tolto la fascia, ho srotolato le maniche della maglietta, mi sono infilato la felpa e la giacca e sono uscito fuori nella pioggia e nel freddo anch'io, sperando che mi risvegliasse da quello strano torpore che mi aveva preso dopo aver visto Fler, sperando che le strade del ghetto dessero un senso al mio vagare fra gli attimi nella sola attesa che prima o poi succedesse qualcosa che potesse cambiarmi definitivamente la vita.
A ripensarci adesso è divertente aver capito che, in effetti, nel momento esatto in cui Fler mi ha lasciato per Chakuza il meccanismo che si stava preparando a cambiarmi la vita per davvero si stava giusto mettendo in moto, ed avrebbe continuato a lavorare in sottofondo, senza fare rumore, fino a portarmi qui, in questa casa, di fronte a questa finestra, con la pioggia fuori e i compiti di trigonometria sulla penisola della cucina.
Sorrido nel chiudere il libro e il quaderno, mentre mi avvio verso l'ingresso per recuperare la giacca ed uscire, stavolta portando con me anche un ombrello. La distrazione è arrivata, e tutto sommato io potevo prenderla meglio, ma potevo anche prenderla peggio, quindi in fondo non mi lamento.

Bookmark and Share

Living The Dream

di lisachan
In pratica è successo che Fler e Chakuza si sono sposati, e noi lo veniamo a sapere il giorno dopo quando, uscendo tutti dalle nostre camere e scendendo fino al piano terra per fare colazione, troviamo Bill e Bushido che fissano il vuoto aprendo e chiudendo la bocca come pesci rossi nell’acquario mentre Chakuza cerca di darsi un contegno spilluzzicando la colazione e Fler si regge un panno bagnato sulla testa, mentre la sua tazza di caffè nero viene riempita a intervalli regolari da un cameriere che pare messo lì apposta per fare solo questo.
Io, per la verità, neanche volevo scendere a fare colazione. Stavo bene in camera mia. Mi hanno piazzato in una ricostruzione in piccolo della foresta Amazzonica, con le liane che pendono giù dal soffitto e le pozze d’acqua sul pavimento in bagno, che non ho ancora capito se è per mantenersi in tono con l’ambiente o perché s’è rotto lo sciacquone e per tamponare l’esondazione in bagno ci ho dovuto mettere gli asciugamani. Tant’è che poi per fare i bisogni ho dovuto usare il bagno di Kay, che invece è stato infilato in una stanza della reggia di Versailles trasportata qui appositamente da Parigi, e ha le tende di broccato pure nella doccia. Una roba, veramente.
Comunque, io stavo lì tranquillo appeso alla mia liana e dondolavo a testa in giù, quando il telefono squilla urlando come Tarzan. Saltando agilmente da una liana all’altra, mentre il mio pigiama-perizoma svolazza nell’aria umida della foresta pluviale, giungo fino al comodino ed allungo un piede prensile verso la cornetta. La stringo fra le dita e la pianta del piede e, piegandomi con notevole nonchalance, la porto all’orecchio, rispondendo con un verso scimmiesco. Poi mi rendo conto che mi sono lasciato un po’ trasportare e mi riprendo.
- Pronto? – dico, e Kay, dall’altro lato, trattiene il fiato, prima di rispondere.
- Vieni giù, - mi fa, - abbiamo un problema.
Insomma, vado di sotto e poso gli occhi sulla coppia reale in stato catatonico, e ipotizzo che una maledizione sia stata lanciata sul nostro re e sulla nostra principessa. Sicuramente qualcosa che coinvolge il primo cavaliere e il consigliere di corte deve essere accaduta, perché mai Bushido e la principessa sono stati in questo stato, se non per cose che coinvolgessero Chakuza e il suo consorte privo di fissa dimora.
- Insomma, - domando, prendendo posto accanto al principino Tom che, gli occhi ancora chiusi ed evidentemente infastidito dall’essere stato buttato giù dal letto a quest’ora, dorme col naso affondato nella propria tazza, - che è successo?
Bushido continua a fissare il vuoto mentre la nostra reale sovrana prova a rispondermi, non ci riesce e pertanto tira fuori un fazzoletto di pizzo da non so dove e ci scoppia a piangere dentro, tutto scosso dai singhiozzi, mentre Fler si lamenta perché il suono del pianto di Bill lo infastidisce e Chakuza si passa una mano sul viso, spossato.
- Fler e Chakuza si sono sposati. – chiarisce per tutti Kay. Tom affonda di un altro paio di centimetri nella propria tazza, poi gorgoglia e si tira su, il naso impiastricciato di schiuma. Si pulisce con un tovagliolino e poi torna a dormire in piedi.
Io guardo il mondo – Bushido ancora imbambolato, Bill che piange più forte al solo sentire il problema che viene ripetuto ad alta voce da Kay, Fler e Chakuza che indossano degli anelli orrendi e quei due strani amici dei gemelli che, dimostrando molta più intelligenza di tutti noialtri, se ne stanno per fatti loro ignorandoci – e spalanco gli occhi.
- Mi sa che voi due vi siete bevuti il cervello, - dico, rivolgendomi alla coppia di novelli sposi, - e se ve lo dico io che fino a due minuti fa stavo penzolando giù da una liana, potete credermi.
- Stavi facendo cosa? – domanda Kay, fissandomi con un paio d’occhi pallati che sono tutto un programma, ma io lo liquido con un gesto della mano perché mi pare che qui i problemi siano ben altri. Questi due si sono sposati, non so se rendo l’idea. Ora noi torneremo in Germania e tutto il mondo titolerà che Fler e Chakuza sono la prima coppia di rapper tedeschi gay ad essersi unita in matrimonio. No, voglio dire. Chakuza e Fler. Ce li avete presenti?
Ora, io ho sempre saputo che un momento simile sarebbe arrivato, prima o poi, ma ho sempre creduto fermamente che sarebbero stati Bushido e la sua donna ad aprire le porte all’invasione delle bandiere color arcobaleno e delle tutine rosa shocking in pvc, e invece guarda cosa mi combinano questi due, prendono, si ubriacano e si vanno a sposare a Las Vegas, ma vi pare modo? Senza neanche un briciolo di romanticismo, nello squallore più totale! Almeno, quando m’immaginavo il matrimonio delle loro maestà, potevo immaginare qualcosa di un certo spessore, una roba tipo Carlo e Diana, per intenderci, con lunghi abiti bianchi con lo strascico, corone, gioielli di famiglia, vescovi che benedicono unioni volute dal Signore e via così. E invece mi sveglio una mattina e vedo che la prima coppia di rapper sposati fra loro della storia sono questi due deficienti con anelli grossi come quelli che le bambine trovano nelle uova di Pasqua, ma non ugualmente carini. Ma vi pare? È un disonore.
- Senti, non mi sembrano fatti tuoi. – protesta Chakuza, evidentemente di malumore. Dico io, se dovevi essere così uggioso, tanto valeva che non ti sposassi affatto. Ti ho forse obbligato io a farlo? No, sto esprimendo un’opinione su quello che credo sia stato un comportamento assolutamente folle. Puoi tu odiarmi perché do voce alle mie proteste? Ma assolutamente no. Qui mi sa che l’usciere di corte si sta prendendo delle libertà che se il nostro signore e padrone fosse in sé non gli concederebbe assolutamente. Solo che egli non è in sé, quindi mi tocca difendermi da solo.
- Sto solo dicendo – ribatto, fissandolo in cagnesco, - che non mi sembra una gran pensata quella di sposarvi. Non avete riflettuto sulle conseguenze di questo gesto? Il matrimonio è un vincolo sacro.
- Ah, e tu sei il massimo esperto in materia, suppongo! – sbotta Chakuza, battendo un pugno sul tavolo. Fler, al suo fianco, mugola dolorosamente e gli posa una mano sul braccio per tenerlo fermo. No, dico. Lo ripeto. Gli posa una mano sul braccio per tenerlo fermo! Ma delicatamente, come la moglie che è! Non credo di aver mai visto niente di più gay in vita mia, ed io ho accompagnato Bill a fare shopping. No, per dire.
Mentre ancora inorridisco per questa cosa della mano sul braccio – me la sognerò nei secoli a venire, il mio sonno non sarà mai più tranquillo e sereno, io che ho sempre dormito come un bambino, mi viene da piangere – Fler si toglie la pezza bagnata dalla testa e manda giù un po’ di caffè, per poi rivolgersi direttamente a me. Io mi metto a bere il mio latte macchiato perché ho paura che mi contagerà con la sua gaytudine se mi guarda dritto negli occhi. Come Medusa, ma con delle miniature dei Village People per capelli al posto dei serpenti.
- Eko, - mi spiega con pazienza, - eravamo ubriachi, non ci abbiamo riflettuto granché sopra e probabilmente abbiamo agito in maniera avventata, ma non siamo pentiti di averlo fatto e ci rendiamo perfettamente conto della nostra situazione adesso. Siamo molto contenti di come sono andate le cose, e ti pregherei di rispettare almeno questo.
- Sono contenti, loro! – strilla a quel punto Bill, il viso inondato da una marea di lacrime e mascara. La sua voce è talmente alta che Fler fa una smorfia e torna a nascondersi sotto il suo panno bagnato, sofferente. – Siete contenti, eh? E io non ho potuto nemmeno organizzare un rinfresco, o occuparmi dei fiori per decorare la cappella! Scommetto che non c’era nemmeno una rosa bianca sulla navata centrale!
- Io scommetto che non c’era nemmeno la navata. – borbotta Tom, gorgogliando col naso di nuovo tuffato nel caffellatte, e Bill torna a piangere, lanciando il fazzoletto ormai sporco alle sue spalle e centrando in pieno il cesto pieno di altri fazzoletti usati che il cameriere dritto in piedi dietro di lui regge fra le braccia, per poi prenderne un altro dal dispensatore che un altro cameriere, fermo al suo fianco, gli porge con sussiego.
Io sbatto le palpebre un paio di volte, fissandolo con sconcerto.
- No, dico, - sbotto, - è questo il problema? Cioè, tutta questa tragedia greca, - dico, indicando in un gesto omnicomprensivo i pianti, i fazzoletti, tutta la corte depressa forzata a scendere per la colazione ad orari indecenti eccetera eccetera, - non è perché quei due si sono sposati ma perché la principessa non è stata avvertita in tempo per organizzare le nozze?
Mentre Bill scoppia in lacrime un’altra volta, perché evidentemente le mie parole hanno fatto centro nel cuore del problema, Bushido sospira e sorseggia il proprio caffè con l’aria compunta di uno che soffre molto ma non vuole darlo a vedere per orgoglio personale; una faccia che per la verità ha spesso, perché voi dovete sapere che il nostro signore e padrone, qui, è convinto che tutto il mondo ce l’abbia con lui. C’è la vita vera, e poi c’è la vita che Bushido è convinto di vivere nella propria testa, e in questa deviazione della realtà il cosmo intero complotta contro la sua felicità, ma lui, con la sua forza, il suo eroismo e la sua caparbietà è sempre in grado di ribaltare situazioni senza speranza e risolvere ogni problema, mentre cavalca in sella al proprio stallone bianco panna verso il suo per sempre felici e contenti.
Naturalmente non c’è bisogno che io stia qui a dirvi che è tutta una montatura, che in realtà quest’uomo oltre al fatto che gli va sempre bene in generale ha anche una fortuna sfacciata che, tipo, gli permette di non morire mai, una roba che le persone normali purtroppo non possono neanche sognare, ma lui ci crede molto, e questo gli permette di andare in giro a fare quella faccia lì, la faccia dell’eroe tormentato, e crederci pure tantissimo, e risultare per questo molto convincente mentre beve il suo caffè e si pinza la radice del naso come non riuscisse a capacitarsi di avere tutte queste sfighe, poverino.
- Io, per la verità, di problemi con quello che è successo ne avrei parecchi. – dice, lanciando a Fler un’occhiata tale che mi viene voglia di agitargli una mano davanti alla faccia e dirgli “whoa, ehi, adesso, calmiamoci prima di scatenare un conflitto atomico solo perché il nostro ex amante si è sposato con l’usciere”, - Ma sì, sostanzialmente il problema che ha scatenato la tragedia sotto i tuoi occhi al momento è questo.
- Ci tenevo così tanto, Eko! – squittisce disperata la principessa, riemergendo dal fazzolettino usato e soffiandosi il naso con veemenza.
- Ma se neanche sapevi che avevano intenzione di farlo? – obietto io, inarcando un sopracciglio.
Bill si interrompe e per un paio di secondi cala il silenzio. E poi riprende a piangere con più convinzione.
- Sì, appunto! – dice, come se quello che ho appena detto fosse in qualche modo stato di aiuto alla sua causa, - Non ci tenevo solo perché non sapevo che sarebbe accaduto, ma una volta che è accaduto ho scoperto che ci tenevo tantissimo! Non capisci? Se me l’avessero detto, ci avrei tenuto un sacco!
- Bill, solo tu nel mondo puoi considerare l’interesse per un avvenimento retroattivo. – sospira Tom, facendo le bollicine nel caffellatte.
Nel mentre, però, io sono costretto ad ammettere che, in fondo, il ragionamento ha senso. Intendo, non è che Bill andasse in giro strillando di voler essere il wedding planner di Fler e Chakuza, ma non lo faceva solo perché non aveva idea del fatto che questi due volessero sposarsi. Probabilmente, se l’avesse saputo allora sì, sarebbe andato in giro strillando di voler essere il loro wedding planner e tutto. Ora da un lato sono grato a Chakuza e Fler per averci risparmiato l’imbarazzo, ma dall’altro mi dispiace per la povera principessa, che tiene a poche cose nel mondo – in genere tutte quelle sbagliate – e per giunta nessuno gliele dà mai.
- Okay. – annuisco quindi, e tutti si voltano a guardarmi con una preoccupazione decisamente fuori luogo, - C’è una sola soluzione, per questo.
- Eko, non credo che tu sia nella posizione di proporre soluzioni a problemi inesistenti. – borbotta Chakuza, guardandomi in cagnesco. Ma io vedo che la principessa ha sollevato gli occhi su di me e mi sta fissando speranzosa, e io non posso deluderla proprio adesso.
- Tu e Fler dovreste sposarvi di nuovo. – proseguo quindi, ignorandolo, - Qui, nella sala ricevimenti dell’albergo. Bill potrebbe avere il resto della giornata per organizzare l’evento, stasera potreste dire sì in una cornice meno squallida di una stupida cappella a Las Vegas con qualche finto prete ubriaco che vi benedice, e tutti sarebbero contenti.
- Eko! – si agita tutto Bill, lanciando via il fazzoletto e giungendo le mani sotto il mento, - Ma così, all’improvviso? Organizzare un matrimonio in sole dodici ore? È impossibile!
- Be’, - scrollo le spalle, guardando altrove, - se non pensi di potercela fare, meglio così, passeremo la serata fuori e ci divertiremo lo stesso.
- Stai scherzando?! – strilla a quel punto lui, saltando in piedi ed asciugandosi sommariamente gli occhi, - Mi metto subito al lavoro.
Abbandona la sala subito dopo, riapparendo dopo qualche secondo per afferrare suo fratello e Bushido e trascinarli via con sé, mentre loro gli sbraitano dietro di lasciarli andare immediatamente e lui, naturalmente, non sta affatto a sentirli.
A fare colazione restiamo solo io, Kay, i novelli sposi e i due amici dei gemelli, i quali spariscono a loro volta quando Bill si riaffaccia ed inarca un sopracciglio, segnale apparentemente sufficiente a convincerli a seguirlo con un sospiro.
- Nessuno ha chiesto il nostro parere. – nota a quel punto Chakuza, sconvolto.
Fler emette un lamento disperato, si toglie la pezza umida dalla faccia e si alza in piedi.
- Ho bisogno di dormire. – conclude, abbandonando il tavolo a propria volta.
Restando compostamente seduto, io mi godo il mio caffè ed il mio croissant, consapevole di aver compiuto anche oggi la mia buona azione quotidiana.
*
Con i preparativi, comunque, io non voglio avere niente a che fare. C’è solo un numero limitato di gaiezza che un uomo eterosessuale può sopportare prima di cominciare a dubitare delle proprie posizioni aperte e liberali, e Bill che si improvvisa wedding planner e si mette ad addobbare la sala conferenze dell’albergo riempiendola di nastri di seta, palle traslucide di vetro di boemia, rose rosa, giacinti e gelsomini supera abbondantemente quel numero già di per sé superato dal fatto che il matrimonio è quello di Chakuza e Fler, per cui io decido di lasciare ognuno alla propria occupazione – anche perché Bill il mio aiuto non lo ha chiesto – ed esco felice per le strade di Las Vegas.
Una cosa bella di Las Vegas è che fra il giorno e la notte non esiste la minima distinzione. Cioè, tu ti svegli tranquillo di buon mattino, bevi il tuo caffè, mangi il tuo biscotto, trangugi la tua fetta di pane tostato con burro e marmellata, poi prendi, esci e per strada sono le undici di sera. Cioè, non nel vero senso dell’espressione, intendo, non è che c’è una calotta di vetro sopra Las Vegas che simula il buio e il sorgere della luna eccetera eccetera, no; tu esci per strada a mezzogiorno e non è che è notte, c’è il sole e tutto, però ecco, locali che in qualsiasi altro posto nel mondo a quest’orario qui sarebbero chiusi a doppia mandata, a Las Vegas sono aperti.
Per cui io passeggio allegramente per strada mentre gente già ubriaca corre, urla e si bacia pubblicamente senza il minimo pudore, e poi trovo un localino simpatico che mi ispira, e decido di passare lì il resto della mia giornata.
Poi niente, entro, mi siedo, ordino una birra, guardo il palco e vedo che c’è sopra Valezka che canta, e decido che voglio passarci anche il resto della mia vita.
*
La cosa con Valezka è stata molto complicata. Lo è stata fin da subito, ma non sia mai detto di me che sono un uomo che non gli piacciono le cose complicate, perché io per le cose complicate impazzisco, cioè, mi piacciono proprio un botto, tant’è che vivo con Bushido. Cioè, non assieme, ma quasi, specie considerato il fatto che quando sei nel giro del Bu non c’è scampo, che tu viva a venti o a duecento metri da lui sarà sempre e comunque come se gli vivessi in casa. Bushido è il tipo che si presenta sulla porta di casa tua e ti dice “che stai facendo?”, e se tu tipo gli rispondi “guardavo porno in tv col dolby surround a volume massimo” ti strilla “non finché vivi sotto il mio tetto!”, e tu ti terrorizzi e gli rispondi di sì e spegni subito la televisione anche se dentro di te sei consapevole di non vivere sotto il suo tetto. È tutta una questione di modo di porsi, sapete, Bushido c’ha un po’ quell’atteggiamento che potrebbe vendere ventilatori in Lapponia.
Comunque, il punto non sono le enormi potenzialità di venditore di ventilatori porta a porta di Bushido, il punto è che Bushido è una cosa complessa, e il fatto che io sia un suo sottoposto dimostra che a me le cose complesse piacciono molto.
E infatti Valezka è tipo la cosa che mi è piaciuta di più in tutta la vita.
L’ho conosciuta che aveva ventun anni, ed io ne avevo diciannove. Eravamo due pischelli che non sapevano niente del mondo e volevano soltanto divertirsi, ma il punto non è tanto che fossimo giovani e avessimo voglia di divertirci, ma che non fossimo solo in due. Era infatti il duemiladue, e sapete cosa succedeva nel mondo fra il duemilauno e il duemiladue? Pacey e Joey si mettevano insieme, rovinando la vita di Dawson, e poi rovinandosi la vita a vicenda già che c’erano.
In sostanza, più o meno, è la stessa cosa che è successa a noi. Nel duemiladue, infatti, io lavoravo in un negozio di scarpe – no, lo so che sembra che quello che sto dicendo non abbia nemmeno una minuscola parvenza di logica, ma non è così, seguitemi e giuro che, alla fine, tutto avrà senso – da qualche anno, dopo aver lasciato la scuola, anche se in realtà sarebbe più corretto dire che è stata la scuola a lasciare me, nel senso che alla terza espulsione abbiamo entrambi capito che le nostre differenze erano inconciliabili, ed abbiamo pertanto deciso di prendere strade differenti, per la soddisfazione di entrambi.
Insomma, io lavoravo in questo negozio di scarpe che si chiamava Il Piede del Fauno, che voglio dire, è un nome ridicolo e anche fuorviante, perché i fauni hanno piedi caprini ma noi non vendevamo scarpe caprine, vendevamo scarpe normali. Era un lavoro part-time, stavo lì solo qualche ora ogni mattina, anche perché il proprietario, il vecchio signor Wagner, aveva qualcosa come otto miliardi di anni e riusciva a restare sveglio e presente a se stesso solo nella fascia oraria fra le dieci del mattino e mezzogiorno, però ecco, io mi divertivo abbastanza, la paga non era male, tutto considerato, e di lì passavano un sacco di ragazzi perché principalmente vendevamo scarpe da tennis e in quegli anni la scarpa da tennis era un must per tutti gli adolescenti in tutto il mondo.
Insomma, è stato lì che un giorno ho conosciuto Kool Savas. Ovviamente, ai tempi non era Kool, era solo Savas, però aveva un progetto. È importante avere un progetto, nella vita. Pensate a Bushido, lui un progetto ce l’aveva, ed era diventare il più grande rapper tedesco mai esistito. Oh, è dovuto passare per l’inferno, per riuscirci, ma c’è riuscito, eh. E tutto perché aveva un progetto.
Anche Savas ne aveva uno. Un pelo più modesto – aprire un’etichetta e diventare famoso – ma ce l’aveva. E un giorno entra al Piede, che gli servivano un paio di scarpe nuove, e mi trova lì che sistemo scarpe sugli scaffali cantando Ready to Die, e mi fa “Tu!”. Al che io mi volto e lo guardo, e tenete presente che io appunto ai tempi ero poco più di un pischello, mentre lui praticamente era già un uomo adulto. Per cui mi fa “canti bene”, e io ovviamente reagisco come reagiscono tutti i pischelli quando un uomo adulto fa loro un complimento, cioè da un lato mi sento fighissimo e dall’altro mi pongo due o tre dubbi su cosa il tipo voglia da me.
Lui mi fa “guarda, sto aprendo un’etichetta. Se ti va, vieni in studio e ti facciamo un provino”, e poi mi passa questo bigliettino da visita col suo nome, l’indirizzo e il numero di telefono.
Sul subito ero un po’ incerto, cioè, ero consapevole che non è che potessi rimanere impiegato al Piede del vecchio signor Wagner per sempre, anche perché lui aveva già passato l’ottantina e mi aveva già detto che, alla sua morte, il Piede sarebbe morto con lui. Per inciso, in questo momento il vecchio signor Wagner ha superato abbondantemente i novanta ma è ancora perfettamente vivo e vegeto, e il Piede assieme a lui. Comunque, niente, non è che io sognassi di diventare un cantante o chissà che, però mi sembrava che la prospettiva di mettermi a lavorare per un ventisettenne mi sorridesse un pelo di più che quella di lavorare per un ottantaduenne, per cui dico arrivederci al vecchio signor Wagner e, il giorno dopo, mi presento agli studi della Optik Records, faccio il mio provino e, fra poderose pacche sulle spalle e poderose dosi di birra alla spina, entro a far parte della grande famiglia di Savas.
Voi dovete capire, Savas, da quel momento in poi, per me è diventato una specie di punto di riferimento. Per dire, i miei erano divorziati, io sostanzialmente ero cresciuto senza un padre perché a quei tempi, capite, non era mica come adesso, quando un uomo se ne andava di casa non è che si prendeva bene coi diritti del padre, i finesettimana insieme, le visite giornaliere e tutto il resto. A quei tempi te ne andavi di casa e basta, e mio padre questo aveva fatto. Quindi niente, quest’uomo che non era assolutamente vecchio al punto da farmi da padre ma che in parte si comportava da tale, quest’uomo che mangiava solo lattuga e beveva solo latte di soia, quest’uomo che suo padre era stato prigioniero di guerra e che aveva vissuto l’infanzia fra la Germania e la Turchia, quest’uomo che a meno di trent’anni era già indipendente e sapeva esattamente cosa voleva dalla vita, per me era una specie di faro nell’oscurità, uno che io lo guardavo e pensavo ecco!, alla sua età io voglio avere le stesse cose che avrà lui, voglio fare le stesse cose che fa lui. Magari mangiando bistecche, anche, ma insomma.
In ogni caso, succede che Savas mi accoglie nella sua vita come una specie di orfano adottato, anche se non sono orfano e lui non mi adotta. Un pomeriggio restiamo alla Optik a lavorare a qualche beat fino a tardi e, ad un certo punto, il mio stomaco esplode in gorgoglii sinistri, e lui si mette a ridere e mi fa “vieni a cena da me, ti faccio conoscere la mia ragazza”.
E qui entra in gioco Dawson’s Creek, appunto. Insomma, Savas mi porta a casa da lui, entriamo e io sento questa voce dolce che viene da una stanza che, dall’ingresso, non riesco a vedere. E Savas fa “Vale? Ho portato ospiti”, e lei si affaccia.
Vedo prima i capelli. I ricci! Questo casco enorme di ricciolini bellissimi che sembra di trovarsi davanti all’improvviso Diana Ross al suo meglio solo un pelo più bionda! Io non so bene come funzionino i colpi di fulmine, non è che mi sia capitato molte volte di prendermi così bene all’improvviso con una ragazza, ma sono abbastanza sicuro che quello per Valezka sia stato un colpo di fulmine. Ma non uno di quelli scemi, che ti prendi una cotta e dopo due mesi, importante per quanto la relazione possa essere stata, è già tutto finito. No, io guardo Valezka, la sua pelle color caramello, quei ricciolini, il sorriso enorme e quegli occhi scintillanti da cerbiatta, e penso “è lei!”, con entusiasmo, proprio, con convinzione, perché era lei davvero.
Unico problema: è la ragazza di Savas, ovviamente. Cazzo!, penso, dico, ma si può essere più sfigati? Vi pare che la donna di cui devo andarmi a innamorare perdutamente può essere una ragazza normale, libera, disponibile? No! Dev’essere la cazzo di tipa del mio datore di lavoro nonché pilastro e faro luminoso attorno al quale la mia nuova vita ruota. Dico.
Insomma, da questa cena io esco completamente traumatizzato, perché da un lato ho incontrato la donna della mia vita e dall’altro è la donna del mio migliore amico. Tragedia. Novello Pacey del rap tedesco, mi aggiro depresso per la città per giorni sapendo di voler baciare questa donna senza poterlo fare. E mi prendo pure male con me stesso perché a me Pacey stava sul culo. Cioè, ti affido la mia donna e ti dico “prenditene cura finché io metto a posto la mia merda” e tu te la limoni alle mie spalle, restauri una barca in suo nome, diventi il beniamino della sua famiglia eccetera eccetera? Ma sei proprio stronzo.
E quindi sono lì che mi sento uno stronzo e non voglio e prego intensamente che qualche altra donna che non sia la fidanzata di Kool Savas mi appaia davanti rubandomi il cuore, quando un giorno che sono solo agli studi ovviamente si presenta Valezka, e io perdo completamente il senno.
Siccome Savas è fuori ma dovrebbe tornare fra poco, mentre lo aspettiamo ci sediamo e parliamo un po’, e viene fuori che abbiamo un sacco di cose in comune, tipo che a nessuno dei due piace la maionese, che entrambi pensiamo che la gente abbia un’opinione esageratamente negativa nonché discriminante sui piccioni e che sia io che lei proviamo sentimenti contrastanti nei confronti del crème caramel. Cioè, più che altro lei ride e mi dice che non aveva mai pensato a nessuna di queste cose nei termini in cui io gliele ho presentate, ma che ora che le ha sentite è perfettamente d’accordo con me e le piace il mio modo di pensare. Una roba in seguito alla quale io sento di avere ogni diritto possibile di immaginare una lunga vita priva di maionese, piena di piccioni e moderatamente dotata di crème caramel al suo fianco, se non che mentre io sono perso in queste mie legittime fantasie noto che lei è nervosa e un po’ triste e continua a guardare l’orologio come una che ha una cosa tremenda da fare e allo stesso tempo vuole farla il prima possibile e non vuole farla mai.
Al che le chiedo se c’è qualche problema, ed è lì che lei mi fa questo sorriso minuscolo e triste così bello che io ovviamente mi innamoro di lei il triplo, e mi spiega che è da qualche settimana che cerca di trovare il coraggio per lasciare Savas. “Oddio,” le faccio io, “Lo sapevo che sarebbe successo. È colpa mia!”, e lei scoppia a ridere e mi fa “Eko, sei un cretino”, e poi mi spiega che no, non è colpa mia. Mi spiega che lei e Savas si sono messi insieme tre anni prima, che lei era solo una ragazzina, quando l’ha conosciuto, e che lui era fighissimo e faceva un sacco di cose appropriatamente fighissime tipo nutrirsi per settimane intere solo di bieta e ravanelli e via così, e che lei s’è innamorata di lui anche perché lui che era così adulto non la trattava come una ragazzina e tutto il resto, una roba che io potevo capire perfettamente perché, insomma, per me era stato uguale. Per cui le dico che la capisco e lei mi fa “ah, ti sei innamorato di lui anche tu?”, e io lancio uno strillo e sollevo entrambe le braccia e dico “no!”, e lei ride e mi dice “ti stavo prendendo in giro”, e io mi innamoro di nuovo e capisco che la mia vita da quel momento in poi sarà un continuo innamorarmi di lei di nuovo e di nuovo, così, senza soluzione di continuità.
Mentre io realizzo questa cosa che un po’ mi spaventa ma che in generale mi piace e basta, lei continua e mi dice che sì, insomma, è rimasta innamorata di lui per un sacco di tempo, ma che ha l’impressione di essere cresciuta, adesso, e non si sente più così attaccata a lui. Gli vuole bene, gli è affezionata, l’idea di spezzargli il cuore la devasta, però insomma, lui sta cominciando a parlare di convivenza e lei ha bisogno di chiudere questa storia prima che diventi troppo grande e ingestibile.
E io la bacio.
Tipo che non me ne frega niente! Okay! Che ancora non l’abbia lasciato, che magari possa cambiare idea e decidere di restare con lui, trasferirsi in casa sua, sposarlo e fare con lui un milione di bambini! Che mi abbia detto che comunque non è certo a causa mia che vuole lasciarlo! Non me ne frega niente. La bacio e basta. E mi batte il cuore tantissimo perché lei mi piace così tanto che il terrore di venire respinto è quasi paralizzante. Ma non a sufficienza, evidentemente, perché alla fine la bacio comunque.
E ovviamente è quello il momento in cui Kool Savas rientra, e ci trova in quel modo lì che ci baciamo impunemente all’interno di un locale per il quale lui e lui solo paga l’affitto.
Insomma, non proprio la cosa migliore che poteva accadere, specie perché Valezka voleva lasciarlo per tutta una serie di motivi validissimi e onesti, e lui invece ci ha beccati a fare l’unica cosa che quei motivi li invalida tutti. A quel punto non conta più che lei volesse lasciarlo già da prima che ci conoscessimo, che sia semplicemente cresciuta e le sia passata la cotta adolescenziale e non si senta pronta a vivere tutto il resto della propria vita al fianco di un uomo di cui non è sicura di essere innamorata, no; l’unico motivo per cui lei vuole lasciarlo, dal punto di vista di Savas, è che io l’ho limonata in casa sua. Una roba falsa e pure un po’ triste, in definitiva, ecco, specie perché invalida tutta la questione del volergli ancora bene ed essere triste all’idea di spezzargli il cuore, una cosa che puoi dire quando lasci il tuo uomo perché ti è passata la cotta, ma che non puoi assolutamente dire quando lo lasci dopo che lui ti ha beccato a limonarti un suo sottoposto sul luogo di lavoro.
Insomma, Savas non la prende bene, ovviamente. Sfido io. Si lancia in tutta questa filippica un po’ imbarazzante, e come avete potuto, e in casa mia, e la mia donna, e io ti ho accolto come un fratello, e io ti ho dato l’opportunità della vita, e come ho potuto essere così cieco, e certo Eko che sei proprio uno stronzo e via così. Ci butta fuori entrambi, intimandoci di non farci più vedere o ci sguinzaglia contro i cani. E, dice, non in senso figurato. Al che io lo prendo in parola, perché non c’ho mezza voglia, proprio, di finire sbranato dai dobermann. Proprio ora, poi, che ho Valezka.
Lei è fantastica, ovviamente. Io mi scuso e lei mi sorride e mi abbraccia. “Non è colpa tua,” mi fa, e io sono già lì che penso che ora mi dirà addio e non vorrà più vedermi, e invece lei resta. Tipo che io mi ero trasferito in un appartamento che Savas mi aveva fatto affittare, si era anche preso cura lui della caparra e tutto il resto, e ovviamente non posso più restare lì, e lei mi fa “vieni a stare da me”. Che lei non è che stia in una reggia, poi, ma a me sembra che lo sia perché è un appartamento così carino e così pulito e così profumato, e tutte le stanze hanno una parete dipinta, ogni stanza di un colore diverso, e i mobili sono in tinta. Che poi sono i mobili dell’IKEA, ma non si nota perché sono così carini e il tutto è assemblato con tanto gusto che io boh.
E quindi niente, io per un po’ cerco qualche altro lavoro, non funziona niente, provo a chiedere al vecchio signor Wagner di riprendermi con sé che così almeno cerco di provvedere per la spesa come un brav’uomo dovrebbe fare per la sua donna, ma lui con quel suo unico dente residuo in bocca mi dice “aria, ragazzo!”, che ha già preso un altro tipo più giovane e scemo di me e può pagarlo la metà per fare il doppio delle cose.
Nel mentre, Savas non può sguinzagliarci contro i cani perché io e Valezka ci teniamo ben lontani dalla sua proprietà, ma nel mentre, per pura soddisfazione, mette in moto la macchina delle diss, e in un paio di settimane tutte le radio underground che passano rap locale risuonano del nome mio e di quello della mia ragazza affiancati ad epiteti non proprio piacevoli tipo troia, vacca, stronzo e derivati. Una roba di una tristezza immensa che va avanti per settimane, ma che dico settimane, mesi!, ma che dico mesi, no, mesi, giusto, non va avanti per più di qualche mese.
Perché? Perché a un certo punto arriva Bushido.
Bushido arriva che io ho da poco trovato lavoro in un bar e preparo caffè per gente triste con lavori seri dalle sei del mattino alle sei di sera. È un lavoro abbastanza schifoso che mi costringe a stare in piedi a fare sempre le stesse cose per dodici ore filate, che dopo mesi che tu sei stato un cantante è una roba un po’ schifa, ma anche che dopo anni passati a vendere scarpe da tennis per un matusalemme con un solo dente e la gengiva più bavosa del west è una cosa un po’ schifa, il che dovrebbe funzionare bene come termine di paragone, perché quanto credete che potesse essere bello lavorare per il vecchio Wagner? Ecco, lavorare al Falce di Luna era pure peggio. Volete sapere perché si chiamava così? Ecco, perché Youssuf, il proprietario, si vantava che il bar apriva quando ancora la luna non era tramontata, e chiudeva che già era sorta di nuovo da un pezzo. No, dico, vi pare un buon motivo per vantarsi? Io dico che se vi vantate per una roba simile siete degli schiavisti impenitenti che sfruttano i lavoratori bisognosi pagandoli dieci centesimi all’ora senza neanche permettere loro di portarsi a casa le mance, ecco.
Comunque, la cosa principale del Falce di Luna, oltra al fatto che è il posto peggio del mondo in cui lavorare, è che è un bar di Tempelhof. E voi a chi pensate se io dico Tempelhof? Eh, infatti.
Bushido mi si para davanti un giorno che sono le sette del mattino e io ho sonno. La cosa che ci accomuna, quella sulla quale troviamo subito terreno di comunicazione, è che ha sonno anche lui. Entra, mi fa “non ho dormito tutta la notte”, e io, che sono una persona sincera, dico “io sì, ma ho sonno uguale”. Al che lui mi guarda, si abbassa gli occhiali da sole palesemente troppo costosi sul naso e sorride divertito. Mi fa “e tu chi sei?”, e io potrei anche rispondergli dandogli tutti i miei dati anagrafici e una breve cronistoria della mia esistenza, ma mi dico, a che pro? E gli dico “sono Eko, il barista. Caffè?”, e lui fa “certo, Eko il Barista, caffè”.
Poco dopo entra Youssuf, che nel mentre era impegnato a scaricare il camioncino con le ciambelle. Entra con la sua bella confezione di ciambelle e vede che io ne voglio palesemente una, ma mica me la dà, lo stronzo. No! Si mette lì a sistemarle nella vetrinetta accanto al bancone, con compiacimento, proprio, che, se potesse, si metterebbe a cantare “ed Eko niente ciambelle, ed Eko niente ciambelle!”.
Ovviamente, Bushido e i suoi occhiali da sole palesemente troppo costosi se ne accorgono. E fanno, “Youssuf, Atze, fammi un favore, allungami una di quelle ciambelle, una di quelle con la crema, grazie”, che io non so neanche come facesse a sapere che volevo proprio quella lì, ma lo sapeva. Io non lo sapevo ancora, cazzo, ma lui sì.
E Youssuf, uno stronzo che io non gli ho mai visto neanche offrire una caramella a un moccioso, prende e gli dà la ciambella. “Certo, Atze,” gli fa. E io lì capisco che ho davanti un tipo importante. O pericoloso. O anche entrambi, perché porre limiti alla Provvidenza?
Comunque, lui aspetta che Youssuf sia sparito di nuovo, e poi, tranquillo come se non stesse succedendo niente, come se non stesse violando delle leggi, tipo, nel farlo, mi offre la ciambella. Lui la ciambella non l’ha nemmeno pagata, eh, gli è stata offerta a sua volta. E lui la offre a me. “Tieni,” mi fa, “Sembri avere fame.”
Dico, c’ho la faccia del bambino africano con la pancia rotonda e la mosca sull’angolo dell’occhio? Ce l’ho? Non mi pare. Ma la ciambella ha un aspetto appetitoso e io ho effettivamente fame, quindi mi faccio passare il rigurgito di orgoglio e la mangio, non prima però di aver fatto all’uomo un cenno di ringraziamento, non si dica che mia madre mi ha cresciuto ineducato.
Poi, mentre sorseggia il suo caffè, mi fa “io comunque ti conosco”, e a quel punto, mentre pulisco il bancone e servo gli altri clienti che man mano entrano ed escono dal bar, ci mettiamo a chiacchierare del più e del meno, chi sono, chi non sono, che ho fatto, che non ho fatto, dove mi ha già visto?, boh, forse da qualche parte mentre ero in concerto, o forse ha visto qualche video che hanno passato in televisione, e quando glielo dico lui s’illumina, spalanca l’occhione color cioccolato e mi indica. “Eko,” fa, “Eko Fresh!”, e io “presente!”, tristezza. Lui scoppia a ridere e mi fa “senti, sono curioso: cos’è successo davvero fra te e Kool Savas?”, e io, placido, “gli ho rubato la ragazza”. Pausa di silenzio. La pausa si prolunga. Io nel mentre gli ho preparato un altro caffè e lui, prima di parlare ancora, lo beve tutto. “Ma che, davvero?”, mi fa, e io annuisco. E mentre sono lì che penso con serietà alla mia vita, alle mie scelte e al fatto che servo caffè al banco di un bar nel quartiere peggiore di Berlino perché non sono stato in grado di tenere l’uccello nelle mutande, metaforicamente parlando, Bushido sorride. Sul momento è un sorriso che non riconosco, anche perché non lo conosco, come fai a riconoscere una cosa che non conosci? Passaggi logici che si perdono ovunque. Comunque, sul momento non lo riconosco, ma col passare degli anni imparerò a capire cosa vuol dire. Vuol dire soldi, e sembra che io sia appena diventato una gallina dalle uova d’oro.
“Eko il Barista,” mi fa lui, tirando fuori dal portafogli una banconota da cento euro e posandomela lì sul bancone, “Io ho un sogno.”
“Minchia,” penso io, occhieggiando la banconota, “Forse lo sto avendo pure io.”
Insomma, com’è, come non è, due giorni dopo torno a casa da Valezka con un contratto ed un sacco di soldi per produrre un album di coppia, io e lei insieme. È il periodo più bello della mia vita. Io e Valezka non facciamo altro che cantare insieme, limonare ovunque ed improvvisare pic nic sul tappeto peloso rosa del suo salotto. Nel mentre, io comincio a partecipare alle spese di gestione dell’appartamento, e quindi casa di Valezka piano piano diventa casa nostra, ed è una cosa bellissima. All’improvviso non importa più a nessuno dei due che fuori da quelle quattro stanze ci sia un mondo tremendo in cui sia io che lei abbiamo tradito la fiducia di un caro amico, ed ora che quel caro amico, ferito, ci odia, noi ci facciamo sovvenzionare da uno che sta facendo la propria fortuna sulle diss che riesce a produrre su qualsiasi altro rapper di una certa rilevanza della scena tedesca. A Bushido non importa che l’obbiettivo sia Sido, piuttosto che Fler, piuttosto che Kool Savas, gli interessa semplicemente averne uno, perché ogni volta che abbatte qualcuno sale di un gradino sul fianco della piramide sociale, e a lui interessa la cima. Poi, se glielo chiedi, lui ti dice che è un romantico, eh. Ti dice che lo sta facendo per proteggere il tuo amore e quello della tua donna, che la vostra storia l’ha commosso, che l’amore vince sempre e lui modestamente è il cavaliere dei puri di cuore e tutto il resto, ma la verità la sappiamo noi e la sa anche lui, quindi non importa.
Poi succede quello che succede sempre quando le cose vanno così bene che tu quasi non riesci a crederci: tutto finisce. E no, non succede d’improvviso. Non è che da un giorno all’altro cose che fino al giorno prima avevano sempre funzionato benissimo improvvisamente smettono di funzionare lasciandoti a piedi come l’auto nuova comprata due mesi fa e dalla quale non ti saresti mai aspettato un tradimento simile.
Le cose richiedono sempre una buona quantità di tempo prima di accadere. La cosa è che, mentre loro lavorano in background per rovinarsi come l’antivirus mentre navighi su YouPorn lavora in background per bloccare i peggio pop up e i peggio malware, tu non te ne accorgi. Non le noti nemmeno, le piccole cose che capitano. Loro capitano e tu niente, completamente ignaro. Chiaro che, quando poi ti esplodono in faccia come i palloncini quando li gonfi troppo, ti prendono di sorpresa. Ma non è che siano davvero sorprese, lo sono solo per te.
E infatti, quando Valezka dopo un paio d’anni di convivenza è venuta da me e mi ha detto “e allora?” è stata una sorpresa solo per me, che avevo vissuto quei due anni in uno stato di beatitudine perfetta inseguendo il sogno del cantante innamorato sotto protezione dell’eroe romantico del nuovo secolo; non è stato per niente sorprendente per lei, invece, che quei due anni li aveva vissuti aspettandosi qualcosa che non arrivava mai e che probabilmente avrebbe continuato a non arrivare mai se lei avesse continuato ad attenderla silenziosamente.
A quei tempi, tutta la questione mi sembrò surreale. Avevo ventidue anni, ma mi sentivo ancora un ragazzino, e sentirmi dire cose tipo “dobbiamo pensare al nostro futuro”, “ci servirà una casa più grande”, “mi piacerebbe avere un giardino” e “se fosse femmina potremmo chiamarla Cynthia” mi terrorizzò profondamente. Non ci avevo mai pensato, non avevo la minima intenzione di pensarci e mi sembrava assurdo che Valezka lo stesse facendo, per cui ogni volta che lei tirava fuori uno di questi argomenti con quella sua aria sognante e piena di speranza per il futuro la mia reazione era l’unica possibile: tacere.
E infatti sono stati i miei silenzi ad uccidere la nostra relazione. Un giorno lei è venuta da me – e posso solo immaginare quanto le sia costato raccogliere il coraggio e confrontarsi apertamente con me per una cosa che, avessi io avuto un cervello normale, non avrebbe avuto bisogno di nessun confronto – e mi ha chiesto “e allora?”, ed io non ho neanche potuto fare il finto tonto, perché sapevo esattamente a cosa si stava riferendo. E perciò le ho detto l’unica cosa che potevo dirle in una situazione come quella, che poi era la verità. “Non sono pronto, Vale,” le ho detto. E lei, donna con due palle così, che quando a me mi dicono che la donna era meglio nel Medioevo io m’incazzo perché come Valezka non ce n’erano mica, nel Medioevo, l’ha accettato. Non c’è stato odio o risentimento, nel nostro addio, niente stronzate del tipo “ho sprecato i migliori anni della mia vita per starti dietro”. Nessuno aveva sprecato niente, e lo sapevamo. Eravamo stati felici. Non c’era nessun motivo di rovinare il ricordo di ciò che era stato solo perché, da quel momento in poi, non poteva più esistere.
Quella sera, dopo aver preparato una borsa con un po’ di biancheria pulita e lo spazzolino da denti, sono uscito da casa di Valezka per non rimetterci più piede, e sono andato da Bushido. Lui mi ha accolto in casa sua, che ai tempi non era ancora la Villa Gialla, ma ci stavamo arrivando, e mi ha ascoltato pazientemente di fronte ad un’insalatiera piena fino all’orlo di kebab preso dal suo kebabbaro di fiducia. Dopodiché mi ha guardato con quegli occhi che fa sempre quando ti vuole bene ma pensa che tu sia stupido, e mi ha detto “Eko! Dopo tutta la fatica che abbiamo fatto per farvi diventare i nuovi Romeo e Giulietta del giovane rap tedesco,” e poi ci siamo messi a ridere. Al che mi ha chiesto come stavo, ed io ho risposto sinceramente che, tutto considerato, stavo piuttosto bene. Lui ha annuito, mi ha ospitato per la notte e il giorno dopo mi ha trovato un appartamento, che poi è quello in cui vivo ancora oggi, ed un contratto per entrare a far parte dell’Ersguterjunge.
Non è che io sia triste per come le cose sono andate, alla fine. Ho una visione della realtà semplicistica abbastanza da pensare che le cose vanno in un modo perché devono andare in quel modo lì, poi sta a te prenderne il meglio e non lasciarti sommergere dal peggio. Secondo me, se a fine giornata puoi andare a letto pensando “bene! Oggi non mi sono lasciato sommergere dal peggio”, hai già vinto. Ed io, modestamente, non mi sono lasciato sommergere mai. Anche perché sarebbe un problema, non so nuotare.
Ogni tanto, però, tipo adesso, o meglio adesso specialmente, visto che ce l’ho di fronte che canta l’ultimo successo di Alicia Keys, ripenso a Valezka e alla sua casa con le pareti colorate e al suo tappeto di pelo rosa sul quale facevamo lunghi pic nic indoor parlando della danza d’accoppiamento delle api o del ritrovamento di uno scheletro alieno in fondo all’Oceano Pacifico, e mi viene da pensa che sì, forse le cose sono andate esattamente come dovevano andare. Ma forse, se mi ci metto d’impegno, potrebbero tornare com’erano.
*
Mi si avvicina con quel sorriso che io non so come affrontare, seriamente. A parte che sono ridicolo perché la sto fissando come se fosse impossibile per lei trovarsi qui, mentre in realtà lo sapevo pure che s’era trasferita negli Stati Uniti un paio d’anni fa. È che mi fa un’impressione pazzesca trovarmela di fronte dopo tutto questo tempo.
Lei, ovviamente, è ancora bellissima, perché le persone che hai amato e che poi hai perso senza mai davvero smettere di amarle non diventano mai brutte. Anzi, semmai su di loro – ma solo su di loro – il tempo e la distanza hanno più effetto di una ricostruzione facciale completa, tipo, mentre tu hai sempre l’impressione che su di te il tempo sia passato senza pietà, rendendoti più vecchio e più brutto e con gli occhi un po’ più a palla e le guance un po’ più cascanti e la pancia un po’ più tonda e sporgente. E quindi io sono qui che la fisso chiedendomi se sia un fantasma o un’apparizione anche se so che non lo è, e tutto quello che riesco a pensare è “oddio, lei è bellissima e invece io sono diventato un roito!”, e mi prendo malissimo per questa cosa anche se coscientemente so che non è che posso essere diventato così tanto più brutto rispetto a quello che ero qualche anno fa, e poi lei finalmente arriva, si siede sulla poltroncina qui accanto a me, mi abbraccia stretto e mi chiama per nome. Così, con la voce della dolcezza. Ed io mi sciolgo perché questi anni che sono passati in mezzo a noi vengono spazzati via solo da quel nome, dal modo in cui lo pronuncia. Apro gli occhi e la guardo e siamo in quella casa, su quel tappeto peloso rosa. Anche se poi non è vero. Io mi sento come se fossi ancora lì.
E perciò potremmo parlare di un sacco di cose, tipo che lei potrebbe chiedermi come va, se sto con qualcuno, se ho in preparazione un nuovo album o anche qualche informazione sulle palesi pazzie che avvengono nella vita di noi tutti da quando Bushido è tornato dalla morte trasformandoci nell’avamposto tedesco dell’Arcigay, oppure io potrei chiederle cosa sta facendo per ora a parte le cover di Alicia Keys nei locali di Las Vegas, o potrei mettermi in ginocchio ed implorarla di uscire a cena con me anche se mi sa che a stento è mezzogiorno, ma niente di tutto questo accade. Io la guardo e le dico “sai cosa? Mi servirebbe qualcuno per cantare ad un matrimonio, stasera”. E lei mi fissa e la sua faccia dice tipo “cosa?”, e io annuisco. “Si sposano Chakuza e Fler,” dico, “Di nuovo. Ora, non sono sicuro che la principessa abbia previsto la presenza di una cantante, ma sono sicuro che le farà piacere. Vieni con me?”
E sono sicuro al cento percento che, di quello che dico, Valezka non capisca un accidente. Si starà chiedendo chi diamine sono Chakuza e Fler, perché sentano il bisogno di sposarsi un’altra volta, e soprattutto chi sia la principessa, ma non fa nessuna di queste domande, ed io non le do nessuna di queste risposte. Si mette a ridere, però, ed annuisce. Poi si alza e viene con me. È un buon inizio.
*
Quella sera, Valezka indossa un vestito pieno di volant e trine della stessa tonalità di fucsia degli orli e delle pochette che spuntano dai completi neri di Bill, di suo fratello e di Kay One, forzati a fare le damigelle d’onore in mancanza di donne più adatte allo scopo. Bushido, avvolto in un elegante completo grigio scuro, siede in prima fila, imbronciato come se gli fossero morti tutti i cani tutti insieme, una roba vergognosa. Io, infilato in un completo di lino beige, gli batto un paio di pacche sulla spalla.
- Coraggio, Atze, - gli dico, - È un po’ come dar via una figlia, no? – provo a consolarlo, mentre di fronte all’altare Fler e Chakuza si scambiano pigramente i loro anelli dalle forme improponibili per una seconda volta che non dev’essere per niente meno surreale della prima, sul sottofondo musicale di Bill che si perde in singhiozzi e di Valezka che canta No One.
- Ecco, appunto, Eko. – dice lui, ringhiando, - Ti pare che, se avessi una figlia, la darei in sposa ad uno come Chakuza?
E qui non aggiungo niente perché in effetti mi rendo conto che sarebbe crudele. Povero Bushido. Praticamente, se aveva un erede, nel mondo, quell’erede era Fler. Ora è come avere indirettamente regalato tutto il proprio impero a Chakuza. Il nano austriaco. Due volte! Avremo bisogno di molto champagne, più tardi.
La cerimonia finisce che il mal di testa di Fler è, se possibile, ancora peggiorato. Bill chiede a Chakuza di restare per un brindisi, ed è evidente che Chakuza vorrebbe dire sì perché è l’unica reazione che il suo corpo concepisce di fronte a Bill, un sì proprio generalizzato che si espande in tutte le direzioni e su tutti i piani di accettazione dell’uomo, ma prima di dare aria alla bocca si volta a guardare Fler, vede in che condizioni è e, miracolosamente, risponde di no.
- Devo riportarlo in camera o sviene. – aggiunge con una mezza risata. Fler gli tira un cazzotto contro una spalla che non dev’essere stato nemmeno tanto tenero, e lui non si lamenta neanche. Mi volto verso Bushido con l’intenzione di dirgli “guarda! Almeno lo tratta bene, con rispetto”, ma lui mi zittisce prima ancora che io possa provarci. Eh, se vuoi essere geloso della tua progenie, allora. Siilo. Cosa vuoi da me.
Lo lascio andare, che tanto prima di poter pensare razionalmente a questa cosa che Fler s’è sposato con l’uomo che gli ha rubato Bill gli serviranno degli anni, e mi volto verso Valezka.
- È sempre così, da voi? – mi domanda ridendo mentre si sfila dai capelli i fermagli fucsia intonati col vestito.
- In realtà ci hai preso in una giornata quasi normale. – rispondo io. La cosa divertente è che non è nemmeno una battuta, sono serissimo.
È ancora più divertente, però, quando lei mi chiede se ho qualcosa da fare e se non mi piacerebbe andare a cena insieme da qualche parte. Sul momento vado nel panico perché, oddio, cosa le rispondo? Cosa sta succedendo? Farò bene ad accettare? Dovrei ritrasformarmi in Tarzan e colpirla sulla nuca con una mazza per poi trascinarla in camera mia fra le mie liane e le mie pozze acquitrinose?, però alla fine mi calmo, le sorrido, annuisco, la prendo per mano e camminiamo tranquilli verso l’uscita.
Quando domani partiremo per abbandonare il Nuovo Mondo e tornare nel Vecchio, lei sarà seduta al mio fianco, sull’aereo. Ma in quel momento lì io ancora non lo so. Mi godo la serata, il casino per le strade, la voce dolce e melodiosa di Valezka mentre chiacchieriamo del più e del meno di fronte a una buona bistecca ed abbondanti dosi di vino rosso, e penso che l’inizio non è buono, è proprio ottimo. E dalle premesse sembra che possa solo migliorare.

Bookmark and Share

Blessings are not just for the ones who kneel

di tabata
Quando ero più giovane, ero fermamente convinto che non esistesse una sola definizione di normalità. La società – intesa come quell'insieme di persone benestanti che dall'alto della loro bella vita si permettevano di guardare noialtri del ghetto con superiorità – poteva ripetere all'infinito che normale, per un ragazzino di diciassette anni, era avere un padre e una madre, vivere in una casa con la luce e l'acqua corrente, andare a scuola, avere degli amici della sua età e un lavoretto part-time per imparare che il denaro lo si guadagna con fatica, ma per me che abitavo in un quartiere che era morto da tempo e resuscitava soltanto di notte, portandosi dietro la merda peggiore direttamente dall'inferno, la normalità non poteva essere quella. La mia normalità era avere soltanto una madre che si ammazzava di lavoro, quando riusciva a trovarlo, e piangeva per giorni quando invece non c'era. La mia normalità era passare più tempo per strada che in qualunque altro posto, e in certi anni non sapere neanche dove fosse la mia classe a scuola perché da quando era iniziato l'anno non ci ero mai entrato. Il mio lavoro part-time era fare il corriere per Arafat e non avevo alcuna necessità di imparare che i soldi bisogna sudarseli perché, magari non lavoravo in miniera, ma sapere che se mi fregavano la roba, non mi pagavano abbastanza o facevo casino con i conti quello poteva anche ammazzarmi, era sufficiente a rendere l'idea che dovevo metterci dell'impegno.
Ma d'altronde quella che era la mia normalità, era anche l'unica normalità che la società di cui sopra accettava per me, perché quelle belle madri bionde con il marito bancario che discutevano tutto il giorno con altre amiche bionde col marito imprenditore o politico di quanto orribile fosse la condizione di certi ragazzini, poi non volevano che i suddetti ragazzini passassero del tempo con le loro figlie bionde. C'era una normalità generica a cui bisognava aspirare e una normalità reale – quella del ghetto – che era normale per quelli come noi, non so se rendo l'idea.
Poi è arrivato il rap – o meglio, come sempre, mi sono dato la possibilità di farlo, non è che sia scesa dal cielo per volontà divina – e la mia normalità è cambiata di nuovo. Arafat è rimasto, ma mia madre ha smesso di piangere. Improvvisamente era normale per me, che fino al giorno prima per tutti quanti puzzavo d'immigrato senza mai esserlo stato, poter entrare nei salotti bene, entrare negli studi televisivi tra due ali di folla, ricevere premi. Perché se sei mezzo tunisino e spacci, devi essere una brutta persona. Ma se sei mezzo tunisino e vinci dischi di platino, la cosa che spacci tutti fanno finta di dimenticarsela. E' normale che tu venga trattato bene perché produci denaro, oltre che guadagnarlo.
La mia normalità sembrava essersi stabilizzata – anche perché mi sembrava di un tipo accettabile, uno di quelli che potevo anche dire va bene così, non voglio altro nella vita – ed è arrivato Bill. La questione di Bill l'abbiamo già ampiamente affrontata, mi pare. Non è che ora voglio stare qui a raccontarvi di nuovo di come ci siamo conosciuti, amati, e di come sono morto perché, francamente, questa cosa che tutti continuano ciclicamente a ricordarmelo – come se non lo sapessi – mi fa incazzare. Non sono morto davvero, sapete perché ho finto, ho dato una spiegazione più che esauriente e mi aspetto che non solo sia accettata, ma che non se ne faccia più parola. Ad ogni modo, Bill arrivando ha fatto una cosa precisa: ha distrutto non solo la mia normalità, ma quella di tutti gli altri. La normalità per quelli come noi - che in quel caso significava rapper del ghetto – era avere più donne, possibilmente idiote e zoccole, per un quantitativo abbastanza ragionevole di tempo e poi trovarne una con cui mettere la testa a posto e fare dei figli. Io ho scelto Bill – che di certo non era donna e non potevo farci dei figli – e per qualcuno questo non era normale. Come al solito, ho fatto come ho voluto io. E' per questo che adesso, esattamente tre anni dopo, quando normale significa avere a pranzo due uomini che si sono appena sposati a Las Vegas e una decina di altre persone che con loro compongono la mia famiglia allargata, ricevere notizie come quelle che sto ricevendo e organizzare la mia vita come sto per fare, capisco che una definizione per normalità esiste eccome, ed è insindacabile. Normalità e quello che io decido essere normale. Questa tavolata, per dire, lo è.
L'idea della cena è stata di Bill, che ultimamente si è ripreso così bene da far desiderare a tutti quanti che la sua convalescenza fosse durata di più. Durante il periodo in cui è stato male, ci siamo tutti beatamente dimenticati com'era, Bill, quando non aveva un solo problema al mondo e l'unica vita che conosceva era quella super-protetta che David gli aveva assicurato. Non che sia tornato così tanto indietro da costringermi a ricominciare tutto da capo, ma dal momento che David ha scampato la morte, lui e la sua band hanno ora la possibilità di tornare a suonare e Chakuza non ha portato a casa una donna qualunque che lui non avrebbe approvato costringendo me ad ucciderli entrambi, lui e Chakuza intendo, può concentrarsi sulle cose che preferisce, e cioè dare feste e coordinare i tovaglioli con le tende, una cosa che francamente non comprendo ma che sono disposto a sopportare se poi il risultato è qualcosa che approvo. Guardo questa stanza che va riempiendosi di persone che si salutano fra loro e mi dico che era esattamente questo l'obbiettivo che stavo cercando di raggiungere. Li volevo tutti insieme come sono adesso e ci sono riuscito. C'è voluto più del previsto, ma d'altronde non è mai stata una questione di tempo.
La scusa ufficiale per questa cena è festeggiare il matrimonio di Fler e Chakuza.
“Non capisco perché dovremmo farlo,” dice Eko, impedendo a Karima di prendergli il giubbotto e legandoselo stretto in vita per evitare che la mia povera domestica, già vessata dalla costante presenza di Bill nella sua vita per altro, tenti inutilmente di fare il suo lavoro. “Assistere all'intera cerimonia non era una tortura sufficiente?”
Bill ride, del tutto impermeabile all'atteggiamento di Eko verso questa cena in particolare ma anche verso tutto il resto. “Allora possiamo festeggiare il nostro ritorno da Las Vegas," propone. "Ciao Valezka.”
Valezka è un souvenir che abbiamo riportato a casa da Las Vegas. C'è chi riporta riproduzioni della Statua della Libertà dagli Stati Uniti, io un pezzo del mio passato. A pensarci bene, si potrebbe anche dire che una parte importante della mia storia è iniziata proprio con lei. E' per lei che Eko aveva perso la testa più di dieci anni fa. E' per lei che io mi sono schierato con lui aprendo quella crepa fra me e l'Aggro Berlin che poi mi ha portato ad allontanarmi da Fler e, in un certo senso, tutto quello che è successo dopo. E' solo giusto che adesso che quella parte della mia vita si è chiusa (la crepa no, ma non sei nessuno se non hai dei nemici, alla fine), anche lei fosse di nuovo con noi. Era un pezzo mancante che non stavo cercando, ma che come tutti gli altri è tornato a casa.
"Ragazzi, non fatemelo ripetere," la voce di Bill perde la sfumatura gentile che aveva un minuto fa e sovrasta quella di tutti. Ogni tanto ci dimentichiamo quanto può urlare. "Sedetevi."
Un tempo questa casa era una tana. Periodicamente i ragazzi la prendevano d'assalto, ci restavano dei giorni e quando se ne andavano il salotto era una scena di guerra, con cibo, bottiglie vuote e posaceneri pieni dappertutto. Era un incontro tra animali che si comportavano come la natura aveva insegnato loro.
Poi è arrivato Bill che ha costretto tutti quanti ad un salto evolutivo. Alcuni sono rimasti scimmie, ma almeno sanno sistemarsi il tovagliolo sulle ginocchia.
Sono felice e rilassato. Per la prima volta da molti mesi sento che ogni cosa è al suo posto e non devo preoccuparmi di niente – è un bel risultato dopo che abbiamo trovato David sbudellato in un magazzino.
Ma mentre prendiamo posto al tavolo, sento che qualcosa non quadra. E' difficile da spiegare. Non è un dettaglio che vedo o che sento, non è qualcosa di fisico.
Quando stai sulle strade per tanto tempo come ho fatto io, sviluppi un sesto senso che ti serve per sopravvivere. Quelli che non ce l'hanno muoiono, è semplice. Quando la tua vita dipende da quanto sei furbo, non puoi permetterti di reagire alle cose quando succedono. Devi reagire prima che capitino o, quanto meno, essere pronto ad accoglierle. E questo puoi farlo solo se riesci a cogliere quel minimo cambiamento, quella vibrazione che precede un grande evento. Devi saper annusare l'aria, ecco.
E in questo momento l'aria in casa mia ha un odore molto strano.
Li osservo tutti uno per uno, cerco la vibrazione che mi inquieta. Forse non è niente di grave – è vero che stiamo ancora cercando lo stronzo che ha quasi ucciso Jost, ma di certo non mi aspetto di trovarlo fra le persone sedute a questo tavolo – ma le sorprese non mi piacciono, per cui, qualunque cosa sia, voglio capire almeno da che parte ha intenzione di arrivare. Lo capisco quando poso gli occhi su Tom.
Io e Tom abbiamo un rapporto strano, non ci siamo mai stati troppo simpatici per tutta una serie di motivi che già sapete, ma siamo arrivati più o meno a capirci, strano a dirsi, quando io sono tornato da Miami. Di tutte le persone che avevo intorno lui è stato l'unico a capire per quale motivo avevo fatto quello che ho fatto, forse perché, a parti invertite, lui avrebbe fatto lo stesso o qualcosa di molto simile. Questo ci ha dato una possibilità, un terreno comune, diciamo, per poterci ragionevolmente sopportare. Lui ha apprezzato il mio tentativo di proteggere suo fratello – forse ha apprezzato il mio tentativo di scomparire dalla sua vita, in realtà, ma lascio correre – io ho apprezzato la sua comprensione. Basiamo su questo briciolo di rispetto la sopportazione l'uno dell'altro, e non facciamo mai nessun passo che possa portarci in qualunque altra direzione. Questa è la nostra dimensione, e va bene così. Ma ora lo leggo nei suoi occhi che qualcosa è cambiato. Anzi, per essere precisi, che è successo qualcosa, lui ha fatto qualcosa che sbilancia di nuovo gli equilibri.
Lo so perché, come ho detto, queste cose le sento, e anche perché nei suoi occhi quello sguardo io l'ho già visto. Conosco il modo nervoso in cui improvvisamente comincia a muoversi quando ha qualcosa da dire o qualcosa per cui rendere conto. L'ultima volta è stato quando si è presentato a casa mia in compagnia di Cassandra. Lui lo sapeva che non avrei apprezzato. Non che abbia rinunciato, ma si è presentato con una certa dose di inquietudine, sapendo che potevo reagire in qualsiasi modo, ma pronto a difendere le proprie scelte, questo va detto. Io pensavo che Tom fosse solo un cretino, ma in realtà è uno che ha fatto la guerra negli ultimi mesi, e nemmeno per colpa sua, e ne è uscito in piedi senza mai vacillare, non è cosa da poco. Quando ci siamo confrontati seriamente sulla questione Cassandra, io gli ho detto che lo avrei ammazzato se l'avesse fatta soffrire, ma Cassandra adesso è qui e sembra che fra loro vada tutto bene.
Lo osservo per tutta la sera e aspetto. Lui forse si sente il mio sguardo addosso o forse no, non lo so, ma in due ore che dura la cena non mi guarda mai. Parla con tutti, ride, ma i suoi occhi glissano su di me ogni volta che per caso si gira dalla mia parte. Il coraggio lo trova solo quando decidiamo di brindare.
"L' ultimo anno è stato molto impegnativo," dico alzandomi, la bottiglia di champagne sul tavolo di fronte a me, mentre i ragazzi si passano i bicchieri. Non perdo tempo a fare il riassunto di tutta la merda che abbiamo passato perché non ne possiamo più di raccontarcela a vicenda, ma voglio ricordare a tutti quanto siamo forti, questa è una cosa che ci meritiamo di sentire continuamente. "E gli ultimi mesi, in particolare, ci hanno messo alla prova. Hanno quasi ammazzato uno dei nostri," continuo con un cenno a David che annuisce, "e per questo pagheranno, ma possono colpirci solo quel tanto che gli permettiamo, e da questo momento in poi non lo faremo più."
I ragazzi annuiscono, esultano ed alzano i bicchieri e per un momento nella stanza c'è tanto di quel casino che devo alzare una mano e chiamarli perché si calmino e, quando non lo fanno, m'infilo due dita in bocca e fischio così forte che Bill al mio fianco fa una smorfia e si tappa un orecchio. "Non ho ancora finito," dico quando finalmente chiudono la bocca. Qualcuno si schiarisce la gola e guarda in basso. Mi viene da ridere perché sembrano tutti tornati alle elementari. "Abbiamo un'altra cosa importante da festeggiare," continuo invece, e piano piano il mio viso si distende per davvero e non riesco a non ridere perché dieci anni fa, forse, avrei ucciso qualcuno pur di lavare un'onta simile, e invece ora sono qui a brindare e, sinceramente, non me ne frega un cazzo di come la sfangheremo stavolta, non so nemmeno come la sfangheremo stavolta, perché è un gran casino far digerire alla gente che stai con uno come Bill, però ce la puoi fare se hai la testa dura, perché Bill, con la faccia che ha, ti aiuta. Voglio dire, pure se ti fanno schifo i finocchi, pure se la sola idea ti fa vomitare, Bill un po' ti scuote. Lo so che là fuori un sacco di gente ha mandato giù questa faccenda e non gli è rimasta incastrata in gola solo perché se strizzi gli occhi e non guardi bene, Bill ti confonde. E allora è facile pensare Ma non è proprio un maschio, quindi ci sta. Chakuza e Fler no, però. Tu non puoi guardare Fler, né tanto meno Chakuza, cazzo, e pensare di poterli digerire fingendo che non siano due maschi. C'è un limite alla fantasia umana e quel limite sono loro due, immagino. Ma non me ne frega niente. Per quanto Chakuza mi stia sulle palle in questo momento, per quanto non è che mi vada proprio bene che metta le mani su Fler, non me ne frega un cazzo di come usciremo da questo ennesimo bordello, di come manderemo giù per la gola alla gente anche loro. In qualche modo faremo, penso. Se c'è qualcuno che può farlo siamo noi, perciò vaffanculo a tutto. "Ai nostri due sposi," esclamo e rido perché Fler vorrebbe poter scavare un buco nel pavimento e saltarci dentro e sparire. Mi mandano tutti e due a cagare tra gli applausi generali e io penso che potrei vivere per questi momenti qui, momenti di gente che mi bestemmia dietro per delle belle ragioni, momenti in cui faccio quello che voglio - facciamo, noi tutti, quello che vogliamo - e non devo rendere conto a nessuno. Uno dovrebbe vivere solo di momenti come questi, mi dico, è per questo che lavori. Per poter fare il cazzo che vuoi con la gente che vuoi.
E poi Tom si alza in piedi e si schiarisce la gola. Finalmente, penso, le hai cercate tutta la sera le palle, alla fine le hai trovate. "C'è una cosa che devo dirvi," esordisce e poi mi alza addosso un paio di occhi allucinati che, francamente, comincio a pensare di dovermi preoccupare – poi è vero, mi devo preoccupare, ma in quel momento penso a qualcosa di veramente serio, tipo, polizia, droga, malattie mortali, cose del genere – e mantengo il sorriso solo perché non esiste che Tom si alza, si prepara a tirare una bomba e io m'inquieto. Non esiste proprio. "Se posso, Bushido," aggiunge anche, il che fa zittire anche tutti gli altri. All'improvviso sono tutti quanti consapevoli che sta per succedere qualcosa. Ci sono arrivati tardi, ma ci sono arrivati.
"Prego," concedo io, e mi siedo. Anzi no, prendo proprio possesso della sedia. Mi ci rilasso, se ne avessi una di quelle con i braccioli, mi ci appoggerei come un capocosca nei film sulla mafia. Allargo le gambe, appoggio la schiena, le braccia rilassate sulle ginocchia come fosse tutto tranquillo, perché lo so che lui non lo è.
Tom si schiarisce la voce e fa una lunga pausa, credo per cercare il modo di dire – di dire a me nello specifico – quello che deve dirmi, e ora lo so che poteva cercare anche tutta la sera e non avrebbe mai trovato le parole giuste perché non ci sono.
"Abbiamo detto che è bello essere di nuovo tutti qui," inizia un po' incerto, "e siamo tanti, dico bene?"
Cerca in giro un qualche consenso, qualcuno annuisce ma nessuno capisce dove voglia andare a parare, nemmeno io francamente.
"Ecco," annuisce, come se qualcuno gli avesse detto esattamente quello che voleva sentire. Poi alla fine non ce la fa più, sospira e alza lo sguardo su di me ancora una volta. "Presto saremo uno in più perché..."
Tutto il mio corpo si tende, una parte di me ha già capito prima che io me ne renda conto. Alla mia destra sento un movimento e so che è David, lo so perché subito dopo essersi mosso sulla sedia esala una specie di sospiro strozzato. "...perché Cassandra aspetta un bambino," conclude Tom con la voce di qualcuno che è pronto a morire ormai, perché davvero anche la morte sarebbe preferible al continuare a stare in piedi e parlare. E infatti si siede mentre la tavolata cade nel silenzio più assoluto e tutti si girano nello stesso momento verso di me.
Ci sono notizie che interiorizzo istantaneamente, sono quelle per le quali so che devo avere una reazione immediata. Quando ho visto David riverso al suolo, non mi sono fermato a pensare che poteva morire e lo avrei perso e poi avrei dovuto dire a Bill che era morto e lo aveva perso anche lui. Non avevo il tempo di abituarmi all'idea. In questo momento invece le parole di Tom mi arrivano chiare, e sono semplici, veramente semplici, ma non mi passa nemmeno per l'anticamera del cervello di accettarle così come sono. Non so nemmeno se quello che mi dà fastidio è che Cassandra è incinta o che è incinta di Tom. Credo che siano due nozioni diverse, nessuna delle quali sono pronto ad assimilare.
"Io ti ammazzo." E' la prima cosa che dico perché è la prima cosa, fra tutte quelle che valuto, che veramente mi sembra adeguata alla situazione. E' la verità, e la verità va quasi sempre bene, specialmente se è per chiarire la situazione a tutti quanti.
"Cassandra vuole tenerlo," dice Tom e poi, subito, aggiunge. "E anch'io."
La tavolata, sempre zitta, è scossa da un brivido collettivo. Poi qualcuno si alza, è Eko. Si è già messo a portare via i piatti. Tom si schiarisce di nuovo la gola sotto il mio sguardo che non si è spostato di un centimetro, sto veramente cercando di fargli un buco in testa solo guardandolo. "Ecco, sì, insomma," balbetta, "pensavamo che dovessi saperlo."
Alla mia sinistra sento lo sguardo di Cassandra e so perfettamente che non sta sorridendo, mi sta minacciando, lo so, per questo non mi giro. E anche per questo lei parla. "Bushido, nessuno ti sta chiedendo il permesso," mi dice con severità, ma assolutamente tranquilla. "Vorrei che questo fosse chiaro."
Ogni tanto, è vero, ho bisogno di ricordarmi che lei fa sempre come cazzo le pare. Vorrei dirle che, anche se le fosse passato per l'anticamera del cervello di chiedermelo, il permesso, ormai è tardi, che il danno l'hanno fatto e che, se proprio dovessi porre rimedio, a questo bambino toglierei il padre, non certo la possibilità di vivere. D'altronde a questo tavolo abbiamo una lunga tradizione di uomini senza padre, uno in più o uno in meno non farebbe granché differenza. Anzi, se c'è qualcosa che qui sappiamo fare è proprio crescere senza un padre. E' decisamente una delle specialità della casa.
"Capisco," dico alla fine. E poi è come se la stanza esplodesse, dico davvero. Io nella mia assoluta immobilità mentre intorno a me tutti quanti si alzano o allungano un braccio a battere sulla spalla di Tom o quella di Cassandra. Bill si getta tra le braccia del fratello e gli si attacca al collo urlando qualcosa riguardo al fatto che saremo presto zii, io e lui, che è una cosa sulla quale sarà meglio che discuta con lui più tardi. David in tutto questo sta piangendo. Piange e ride e singhiozza ancora più forte perché per qualche motivo le risate lo fanno piangere ancora di più. Non era così contento nemmeno quando gli abbiamo detto che non moriva.
Immagino che sia un po' come sentirsi dire che sta pre diventare nonno, d'altronde è un po' il padre dei gemelli, e infatti finisce che quei due lo abbracciano, e quello allora si mette a piangere ancora più forte.
Se qualcuno aveva da ridire sulle nostre scelte di vita, forse dovrebbe preoccuparsi del livello di emotività a cui siamo arrivati. "D'accordo, va bene, ora basta," commento, battendo le mani per attirare l'attenzione di tutti quanti. "Fatela finita. Ci sono talmente tanti ormoni liberi in questa stanza che comincio a sentirmi a disagio. Tom, siediti."
Tom si siede all'istante, con suo fratello avvolto addosso come una sciarpa. "Sì," dice. "Ascolta, Bushido, davvero, lo so che ti gira male, ma non è che..."
"Zitto."
"Sì."
"Bushido..." inizia Cassandra minacciosa.
Io sollevo una mano e sospiro. "Cassandra, lasciami parlare," dico. Aspetto di vederla annuire e poi continuo. "Sono dell'idea che dare al mondo un altro Kaulitz non sia una grande trovata, ma..."
"Anis!" Sbraita Bill indignato.
"Ma," insisto, con un sorriso che lo seda istantaneamente, "se c'è qualcuno che può migliorare i tuoi geni, Tom, quella è Cassandra, perciò ti auguro che prenda tutto quanto da lei."
Sento i nervi di tutti rilassarsi, c'è un unico grande sospiro di sollievo e penso e spero e lascio che calmi anche me perché l'unico modo che ho di accettare questa cosa è farla mia, come il resto. E mentre penso a questo, penso anche che una soluzione ce l'ho.
"Ha ragione," scherza David, tirando su col naso con un sorriso che gli va da un orecchio all'altro. "Comunque, questa bella notizia mi fa venire in mente che stavo giusto cercando una scusa per dare una festa. Ho bisogno di distrarmi dopo la perdita di J.J., pertanto siete tutti obbligati a venire da me. Non accetto un no come risposta."
"Ma è morto?" Chiede Chakuza.
"Chi?" Chiede Eko, che è tornato dalla cucina non appena ha sentito ridere.
"J.J." risponde Chakuza.
"E chi cazzo è J.J., ora?" Esclama Eko, sconvolto. Cose accadono intorno a lui e lui non ne sa niente. Non è già abbastanza che tornino i morti?
"L'uomo della mia vita," sospira David, annuendo sconsolato. "Ci amavamo molto, ma il mondo aveva bisogno di lui."
Eko non sembra granché impressionato dall'eroicità di J.J., lo perplime più che altro la festa. "E cosa dovremmo festeggiare? Che se n'è andato?"
"No, ovviamente! La festa serve per consolarmi," sbotta David, sospirando. "Eko, vieni e basta."
"Una festa mi sembra un'ottima idea," commento. Nella mia testa c'è un piano chiarissimo per il futuro e sono così compiaciuto della cosa che provo un piacere quasi fisico nel comunicarlo. "Celebreremo il nuovo arrivo, consoleremo David e ne approfitteremo per dire addio a tutto quello che ci siamo lasciati alle spalle. A tal proposito, ho anche io un annuncio da fare."
"E sarebbe?" Chiede Fler.
"Visti i recenti sviluppi e visto che vogliamo rimettere in piedi l'etichetta e comunicare un'idea di unità, visto che vogliamo che la gente là fuori sappia che siamo un gruppo compatto," dico e mi fermo, voglio vedere se qualcuno protesta, ma nessuno lo fa, "ho deciso di far costruire una serie di ville intorno a questa, per voi, per le famiglie che siete ora e per quelle che state per diventare. Non saremo più sparsi per il quartiere, saremo noi il quartiere."
Il silenzio cala di nuovo, ma stavolta io almeno sorrido.

Bookmark and Share

L'anatomia federale del Chaku

di tabata
Fra tutti i difetti che si possono trovare al sottoscritto, fra i quali vale la pena di menzionare che sono un delinquente, che ho spacciato, che ho gettato il cadavere di un uomo nel canale di Tempelhof e, naturalmente che non metto mai i calzini sporchi nel cestone, non si può dire che io non sia un uomo paziente. Ho sopportato cose per le quali un qualsiasi altro essere umano normale avrebbe dato di matto, e l’ho fatto per così tanto tempo che dovrebbero darmi un riconoscimento al valore. Oppure studiarmi, non lo so. Di sicuro non ho precedenti e sono quasi certo di essere un caso patologico. Potrei riscrivere interi manuali di psicologia.
Nel corso degli ultimi tre anni, l’uomo che vi sta parlando è stato in grado di passare sopra ad ogni genere di sopruso, e quando dico ogni genere, intendo proprio qualsiasi cosa. Chakuza ha collezionato un numero incalcolabile di cazzate perpetrate ai danni della mia persona e io ho sempre lasciato correre, perché quell’uomo mi fa cose che non so nemmeno spiegare e in virtù di queste cose inspiegabili io gli perdono veramente tutto.
Chakuza mi ha preso e lasciato almeno quattro volte, come e quando voleva lui e senza per altro mostrare nessun tipo di rimorso, e fra una volta e l’altra – se non lo avessi fermato – mi avrebbe anche usato come diversivo; perché Peter è così, caratterizzato da un’anatomia federale – tutte le zone del suo corpo ragionano autonomamente – per cui se decide di pensare con lo stomaco, mangia fino a schiantare. Se ragiona con l’uccello, vi lascio immaginare. Che ragioni con la testa è raro, per cui lasciamo perdere. Ad ogni modo, dicevo, quello ragiona per compartimenti stagni e di quello che fanno le sue singole parti, il suo cervello generalmente non sa mai niente per cui lui può anche essere un uomo buono – cosa che in effetti è, per l’amor di Dio – ma magari le sue mani, o le sue gambe, o altro – che è peggio – buoni non lo sono affatto. E allora fa cose. Questo per dire che anche quando non stava con me, mi sarebbe saltato addosso non so quante volte perché in quel momento aveva la libido distratta, non focalizzata sull’oggetto dei desideri giusto, e quindi gli bastava sentire l’odore che impazziva come un cavallo. E io lì a fermarlo, perché poi io oltre che paziente sono anche buono – buono tutto, per altro, perché la mia è un’anatomia repubblicana – e al ragazzino volevo bene per cui non mi sembrava proprio giusto fargli una carognata simile, dal momento che lui si fidava di entrambi.
E sono anche rimasto ampiamente sul trascurabile, rendiamoci conto; perché alla fine questo è niente se si pensa che fra me e lui è cominciata con un tappeto sporco di sangue – il mio – di cui, fra le altre cose, ho dovuto anche sbarazzarmi di recente, perché era ancora lì, nello sgabuzzino, recante il marchio dell’infamia; che io dico, almeno fallo lavare, se proprio devi tenerlo.
E’ che lui deve ricordare, ecco cosa. Solo, che si facesse una cura di fosforo, perché io queste reliquie non ce le voglio in casa mia.
Ma Chakuza non si è fermato lì, no, perché il mio uomo è uno che ti sorprende. Così non solo si è lasciato ampiamente guidare dagli istinti primordiali della specie, facendo a meno della decenza, della morale e del buon senso, ma quando pensavo che si fosse toccato il fondo, quando proprio pensavo che peggio di così non si potesse andare, ecco che lui peggiora. Chakuza può cose che voi nemmeno vi immaginate.
C’è da dire che da quando le cose sono tornate alla normalità, vale a dire da quando la coppia reale si è di nuovo riunita per spargere amore sul popolo tutto, e noialtri abbiamo smesso di scopare e basta e siamo tornati a cantare e scopare – che sono due attività da tenere assolutamente separate ma da portare avanti in contemporanea – Chakuza ha trovato un suo equilibrio interiore. Leggendo una frase simile, uno sarebbe portato a credere che tutti i miei problemi abbiano infine trovato una soluzione, che ora io e lui si viva felici in questo trilocale fatiscente ma pieno di teneri ricordi, copulando e cantando, benedetti nell’armonia celeste. No.
No, assolutamente. Punto primo, questo trilocale non ha teneri ricordi, ma tutt’al più scarafaggi grossi come noci che vengono giù dai rubinetti. Ed è fatiscente al punto che ogni giorno qualcosa si sfascia in maniera irreparabile, e allora ecco che la caldaia va presa a colpi di chiave inglese per farla partire, ecco che sul soffitto del bagno c’è una crepa enorme e quando fa brutto tempo piove in casa. Ecco che il vecchio fornello a gas non si accende se prima non ci batti contro forte col fianco, che sembra sempre che balliamo sudamericano anche per farci un caffè.
Punto secondo, noi non copuliamo. Copulare sarebbe senz’altro la definizione di due esseri umani normali che, provando del desiderio l’uno verso l’altro, consumano fino ad estinzione dello stesso. Io e Chakuza no. No, perché se dovessimo farlo finché a Chakuza passa la voglia, io non farei nient’altro nella vita, anzi forse non avrei una vita. Sarei morto due anni fa. Questo perché Chakuza non ha un limite, un tetto massimo da raggiungere, un punto d’arrivo in cui finalmente si dichiara soddisfatto. La sua soddisfazione dura il tempo che ci mette a riprendere fiato, poi se non lo fermi ricomincia. O anche se non lo fa subito, lo farà dopo un numero di ore eccessivamente basso per qualunque altro essere umano sulla faccia della terra. Io lo temo, a volte.
Quindi no, noi non copuliamo nel nostro nido d’amore, noi facciamo sesso ovunque, su ogni superficie disponibile dove io possa essere steso e anche no, finché non ho più fiato neanche per respirare e a quel punto fuggo. E lui mi insegue. Io quando canto lo faccio per non scopare, capite cosa intendo? Perché quando canto, posso dire di lavorare, quindi Chakuza si fa delle remore e non si avvicina almeno per le prime due ore. E io ho due ore di respiro. Sono un uomo che lavora per non scopare. Rendetevi conto.
L’armonia celeste che tiene in equilibrio i bioritmi di Chakuza non è quindi la pace dei sensi, mi sembra chiaro. E’ un’altra cosa, e di questa cosa – nonostante la sequela di torti che ho subito potesse già sembrare sufficiente – io ne ho piene le palle.
Chakuza non si è mai posto il problema di essere un maschio a cui piacevano i maschi, e di questo siamo tutti contenti. Io per primo, perché è sicuramente più facile tentare di stabilire una relazione con qualcuno che non si pone la questione. Il punto è che per Chakuza il fatto che io sia un uomo non è un problema fintanto che rientro nei suoi schemi, che in altre parole significa che lui non ha alcun problema finché sto sotto io; ma questo alla fine non è molto importante se riesci a godertela anche in altro modo, e io riesco, quindi a posto. Voglio dire, ogni tanto ci provo a ribaltare la situazione perché sono curioso di sapere come sarebbe, ma Chakuza è irremovibile quindi, niente. Ora, fino a qualche mese fa, e cioè fino a quando io – per motivi che al momento esulano dalla mia comprensione ma che sono sicuramente legati alla birra – mi sono trasferito in casa sua, noi eravamo assolutamente perfetti e Chakuza viveva questa relazione con una naturalezza sconcertante, nel senso che era un uomo che scopava con un altro uomo e se ne fregava di quello che diceva la gente – parenti a parte naturalmente, ma suo padre ha settantadue anni e viene da un infarto, diciamo che Chakuza ha le sue ragioni se vuole aspettare il momento propizio per dirglielo.
Evidentemente io, varcando la porta di casa sua – fate attenzione, perché il segreto di tutto è racchiuso qui: io che varco la sua porta – ho innescato un meccanismo mentale di cui ignoravo totalmente l’esistenza. In pratica, dal momento in cui mi sono trasferito, questa casa è diventata la nostra casa, che però inizialmente era la sua, quindi lui è automaticamente il capofamiglia. Ed è anche pazzo, per altro.
In pratica quest’uomo e il suo cervello hanno litigato quando lui era probabilmente ancora in fasce, e crescendo separatamente hanno sviluppato due identità distinte che hanno portato conseguenze disastrose. La più grave delle quali sono evidentemente io.
Chakuza non ha nessun problema con il mio essere maschio, perché lui fa una netta distinzione fra il sesso e tutto quanto il resto. Il sesso guida la sua intera esistenza come un faro, non c’è niente – niente! – che lui ponga al di sopra del sesso, che è sempre giustificato, anche quando lo fa con uomo, cioè non si pone nemmeno il problema. Nella sua testa non ci sono distinzioni di alcun genere. E’ sesso, punto. Per tutto il resto invece sì. Per tutto il resto lui è un convinto eterosessuale.
Secondo questo processo mentale, che avviene a livello assolutamente inconscio e seguendo il quale lui si comporta senza effettivamente rendersene conto, io sarei la sua donna. Che non vuol dire, attenzione!, che lui pensi a me come ad una donna – voglio dire, lo sa che sono un uomo – ma nell’ordine delle cose del suo universo, io occupo il posto della fidanzata. E non importa che io mi faccia la barba, pisci in piedi o possieda un pene. Sono comunque la fidanzata. Il suo cervello ha un meccanismo di autoconservazione tale da semplificare i processi logici, togliendo al ruolo di donna qualsiasi connotazione sessuale. E quando mi rendo conto di questi dettagli, rimango a guardarlo e mi chiedo se ho davanti l’evoluzione della specie umana – una creatura superiore, capace di auto-generare illusioni mentali tali da vivere felice per sempre – o se piuttosto si tratta di un’involuzione, e Chakuza non è altro che l’anello mancante tra l’essere umano e il bonobo.
La cosa ancora più inquietante, per altro, è che per lui non solo sono una donna, ma non sono nemmeno emancipata. Sono una signorina dell’alta società dei primi del novecento, tipo; che io dico, se proprio devo essere la tua fidanzata, immaginami almeno come una femminista coi controcoglioni, non lo so. Cazzo, se fossi donna sarei a bruciare i reggiseni in piazza, io. Mica mi farei aprire la porta o avvitare le lampadine. E invece lo fa, che Dio lo perdoni.
E io, se non sapessi con assoluta certezza che Chakuza non si rende davvero conto, lo ammazzerei, perché la mia dignità ha un limite molto elastico, ma ha un limite. Voglio dire, se scopiamo e io sto sotto, va bene. E’ necessario, qualcuno deve starci e ci sto io. Va bene. E comunque mi piace perché ci guadagno qualcosa, che ve ne rendiate conto o no. Ma se voglio mangiare qualcosa, posso ben aprirmelo da solo il fottuto barattolo dei fottuti sottaceti.
E’ per questo che adesso io sono qui in cucina ad agitare cetriolini e lui è in salotto, e ci urliamo addosso come la coppia di checche isteriche che evidentemente siamo, perché non c’è altra spiegazione. Non c’è voluto niente a passare da una mattinata assolutamente idilliaca in cui lui aveva scopato due volte – ed era felice – e io ero felice perché gli erano bastate due volte, all’inferno in cui siamo in questo momento. Io non ho fatto altro che aprire il frigorifero, appoggiare il mio barattolo sull’isola, girarmi per recuperare anche del prosciutto, e lui mi stava già aprendo il barattolo. No, Chakuza. No. Che cazzo! Che poi uno non si può davvero incazzare così per dei cetriolini, è che questa non è che l’ultima di una lunga serie di assurdità sulle quali sono passato sopra per non passare sopra a lui. Con l’Escalade. E adesso basta, sono esploso.
"Si può sapere che cazzo ti prende?” Fa lui, con l’occhio rotondo, che nemmeno mi fossi messo a ballare nudo sui tavoli.
"Mi prende che mi sono rotto le palle, Peter,” rispondo. “Non sono la tua fottuta ragazza.”
"Questo lo so, mi sembrava piuttosto chiaro fino a due minuti fa.”
E il cazzo, che ti era chiaro Chakuza. “No, non ti era chiaro prima e non ti è chiaro nemmeno adesso. E molla quel barattolo, cazzo!”
Glielo strappo praticamente di mano, il tappo vola per terra e gran parte dell’aceto si rovescia, così impreco io, impreca lui e iniziamo davvero ad urlarci addosso. “Tu non hai ancora capito come funziona,” gli dico, mentre sbatto di nuovo il barattolo sul tavolo. “Tu non hai capito un cazzo.”
"Ho solo aperto un barattolo.”
"E mi apri le porte, avviti le lampadine… non mi lasci fare mai niente,” replico. E l’aceto finisce per terra, goccia dopo goccia. Questo pavimento non può veramente sopportarlo.
"Cerco solo di essere gentile!”
"Fai il gentile con tua sorella, o con tua madre, non con me, chiaro?”
Il suo cervello fatica a seguirmi, e lo so perché il movimento delle sue rotelline appare chiarissimo sul suo viso, sempre. Quando ha quell’espressione indecifrabile è perché sta cercando di capire cosa gli sto dicendo, ma il mio ragionamento non trova nessuna logica nella sua testa. Questo perché il mondo ha un senso solo se gira secondo le sue regole, quando gliene proponi altre va completamente in tilt. “Che cosa ti dà fastidio esattamente?”
"Tu,” strepito. “Tu e il tuo stupido atteggiamento da sano maschio etero!”
"Da sano… “ sbuffa una mezza risata. “Fler cosa cazzo stai dicendo! Stavamo scopando un minuto fa, e stavamo a posto. Ho solo aperto un dannato barattolo!”
"No!” Sbraito. “Tu non hai aperto solo un dannato barattolo. Tu…. Tu fai cose! Cazzo! Mi tratti come una donna!”
“Non è assolutamente vero!”
"Devo farti una lista?” Chiedo, ironico. “Porti da solo le casse dell’acqua dal supermercato, vuoi occuparti tu di qualunque cosa e saresti asfissiante pure se fossi una donna, Cristo santo! Sai dirmi quand’è stata l’ultima volta che non ti sei quasi spezzato il collo pur di corrermi dietro e accompagnarmi con la fottuta macchina da qualche parte?”
Lui prende fiato e si gonfia tutto nemmeno fosse sul punto di esplodere. “Io non ti capisco,” che è poi il suo mantra giornaliero per qualsiasi cosa. Come se fosse lui quello normale e dovesse capire me. “Cerco soltanto di—”
"Non dirlo, okay? Non dirlo,” sibilo, pulendomi le mani col primo asciughino che trovo e poi passandolo pure sull’isola perché qua è un disastro. “Non voglio che tu cerchi di fare niente, tu non devi fare un bel niente.”
"Sei isterico.”
"E tu sei stronzo,” replico. E ringrazio che ci sia il tavolo a dividerci perché altrimenti qualcuno domattina dovrà avvertire Stickle che ha ereditato tutta la casa di produzione. “Uno stronzo e un pezzo di merda. E forse non ti è chiaro che anche se sei tu ad usare l’uccello in questa casa, questo non significa che tu sia il capobranco.”
"Fler—”
"Stai zitto!” Gli urlo in faccia, una cosa che non ho mai fatto. Una cosa che in genere non faccio mai a prescindere, perché è da bestie. “Finché non te lo ficchi in testa, con me hai chiuso. E ora levati dalle palle.” Faccio il giro della cucina e mi faccio spazio a spallate tra lui e la porta. Quindi m’infilo addosso le prime due cose che trovo e poi esco di casa. Lo sento buttare giù roba in cucina, e non me ne frega una sega. Stavolta se la sbriga da solo.

*



Io quando sono incazzato vado da Bushido. Anzi, entrambi quando siamo incazzati andiamo da Bushido – in realtà Chakuza va da Bill, ma questo è irrilevante – e quindi abbiamo creato questo flusso migratorio tra casa nostra e la Villa Gialla, che per altro non è proprio vicinissima, per cui ci facciamo i chilometri avanti e indietro come niente. Quasi mi verrebbe da accettare l’offerta che Bill ci fa da mesi, ormai, di trasferirci tutti nella villetta che Anis sta facendo costruire accanto alla sua; che poi, Bill ce lo sta chiedendo per ordine del re. E mi preoccupa che Anis la stia già costruendo, come se sapesse già da adesso che prima o poi cederemo. E non è così scemo, d’altronde se manda la principessa a fare gli occhi dolci a Peter, è praticamente matematico che quel coglione ci cada con tutte le scarpe. Tra l’altro io lo so perché Bushido ci tiene così tanto ad averci tutti lì intorno – non solo noialtri due, ma anche Tom e Cassandra e, se riesce a convincerlo con ingenti somme di denaro, anche Eko con la sua donna – e sono spaventato all’idea che davvero ci riesca.
Lui vuole la corte. Quand’era un ragazzino ce l’aveva, e quando poi è cresciuto si è costruito l’EGJ a suo piacimento, così che gli saltellavano tutti intorno come caprette innamorate. Poi ci ha tirato dentro Bill, e – per quanto io apprezzi, per ovvie ragioni, che il ragazzino voglia stare con lui e solo con lui – è stato il più grande errore della sua vita sotto questo particolare punto di vista.
Tra la sua morte e l’onda ormonale scatenata dalla Principessa, la sua bella corte di fedeli seguaci è andata a farsi benedire e una volta passato lo scandalo della nostra illuminata sovrana che scappa con l’usciere di corte, ecco che non c’è più una corte ma una sequela infinita di coppie da romanzetto rosa che litigano sui barattoli di cetrioli sottaceto. Ognuno a casa propria, per altro, e la reggia è deserta. Anis deve averla trovata una cosa inaccettabile.
Così ha preso tutto il terreno assolutamente inutile che aveva acquistato insieme alla villa, tanto per far vedere che aveva i soldi, e invece di tirarci sopra una colata di cemento o di dedicarlo al pascolo degli agnelli per farsi il kebab in casa, ha deciso di farci costruire tre case e di trascinarci dentro con la forza i suoi sudditi con famiglia. Quest’uomo però non si rende conto del disastro che sarà quando le case saranno pronte, quando ci vivremo dentro e quando la distanza fra noi non supererà i duecento metri. Lui crede, da sovrano assoluto qual è, che sotto il suo regno vivremo in armonia, secondo le sue regole e seguendo i suoi ordini. Le palle, dico io.
Innanzi tutto, tu non puoi mettere Chakuza e Bill nella condizione di potersi vedere senza prendere l’auto. Già adesso, ogni minuto della loro esistenza che non sia da una parte occupato da me e dall’altra occupato da Bushido, quei due lo passano insieme. L’unica cosa che li ferma dal vedersi di più è che a volte, complice il caldo, la poca voglia di vestirsi e in generale il culo peso, ad uno dei due fa fatica salire in auto e all’altro fa fatica salirci lui al suo posto. Quando avranno i giardini confinanti, passeranno tutto il tempo a struggersi d’amore non consumato appoggiati alla siepe, al cancelletto o a quello che sarà a dividerli.
Punto secondo, tu non puoi mettere Tom nella condizione di affacciarsi alla finestra e vedere me. Quel ragazzino è già abbastanza asfissiante ora che vive a quasi quattro chilometri di ostinato traffico da me, non oso immaginare che cosa sarà la mia vita quando gli basterà attraversare la strada per stabilirsi nel mio salotto e riempirmi di chiacchiere fino a stordirmi.
Punto terzo, per proprietà transitiva, tu non puoi mettere Bill e Tom nella condizione di devastarci tutti con la potenza della loro gemellitudine. Da soli sono due piaghe sociali, insieme sono una pestilenza e Bushido dovrebbe saperne qualcosa dal momento che ha fatto una guerra per separarli, e si è pure tenuto quello peggiore. Che poi, dico io, bisogna volersi male per trascinarsi vicino gli unici due uomini per i quali il suo ragazzino farebbe follie; se crede di esercitare un qualche controllo su di loro semplicemente facendogli ombra con la sua enorme villa, è fuori strada.
Comunque sia, ho il telecomando del suo cancello, perché parcheggiare e poi scendere al di fuori delle mura della reggia è praticamente impossibile. Qua ci sono paparazzi nascosti ovunque e non è pensabile suonare il campanello e farlo scendere, da quando lui come un pirla lo ha fatto davvero e a suonare era stato il presentatore di un qualche programma televisivo. Entro e parcheggio sul retro, stando ben attento a non investire le begonie di Karima. Un secondo dopo quei due grandi cani da guardia di Skyline e Sherlee mi corrono incontro scodinzolando. Anis dice che non attaccano solo perché riconoscono il motore dell’auto, io dico che anche se qualcuno tentasse di entrargli in casa, questi due finirebbero per leccare la faccia al ladro. E’ anche possibile che essendo Bushido amico di metà della delinquenza di questa città, i cani abbiano smesso di abbaiare quando hanno capito che ogni topo di fogna che passa da queste parti è benvenuto. Io comunque non sono un topo di fogna, e ho pure dei biscottini in tasca, quindi glieli lancio al volo mentre faccio il giro della villa e trovo Bill in piedi sulla porta di casa.
La principessa sporge l’anca tutta da un lato e, per i suoi standard, ha addosso solo uno straccetto qualsiasi, forse tirato a caso fuori dall’armadio.
"Hai riconosciuto anche tu il motore dell’auto?” Lo prendo in giro. “Sono solo, mi dispiace.”
"Cretino,” mi sibila subito lui, infastidito. “Ti ho visto dalla finestra e, dal momento che hai preso il cancello a velocità sostenuta, ne deduco che hai litigato con Chakuza.”
"Deduci bene, posso entrare?” Lui si fa da parte e mi indica l’interno con un gesto annoiato della mano. “Ma non c’è nessuno?”
"Karima,” sputa lui come se fosse un boccone disgustoso. “Anis è nello studio, sta lavorando, e ha detto che delle vostre beghe non ne vuole sapere e se ti azzardi a disturbarlo, stacca l’uccello sia a te che a Peter, così risolve due problemi. Parole sue.”
"Sempre gentilissimo,” commento. In quel momento Karima ci viene incontro con un cesto di panni da lavare più grosso di lei e io le faccio un sorriso da pubblicità del dentifricio per ingraziarmela, che già la vedo poco propensa a prepararmi la camera degli ospiti. “Karima! Daresti da bere ad un povero tedesco assetato?”
Bill mi segue con le braccia incrociate e la sua collaudata espressione di disappunto. In questo momento mi disapprova perché sto essendo educato e amichevole con la governante che odia, e perché, quasi sicuramente, nella sua testa sono stato io a fare qualcosa a Chakuza e non viceversa. Peter nella testa della Principessa non ha mai colpe.
"Che cosa le porto signor Losensky?”
Io quando fa così la sposerei. Nessuno mi chiama mai col mio cognome, mi sento un sacco importante quando succede. E tremo all’idea di quando finiranno per darmi del Pangerl come niente. “Una coca andrà bene,” rispondo. “Ghiacciata.”
"Anche per me,” si aggiunge Bill. “E portacele in veranda, grazie.”
"Subito, signor Kaulitz.”
Il ragazzino è insopportabile quando dà ordini a quella donna, ma non ho voglia di tirare fuori la questione ancora una volta. Sono qui per lamentarmi, quindi non gli darò modo di iniziare per primo e farmi sommergere dal racconto della sua vita infernale con un uomo pieno di soldi, in una villa bellissima, servito e riverito da una cameriera. Mi faccio invece trascinare in veranda, dove Bill ha fatto piastrellare tutto in cotto. Dove prima ci svaccavamo su delle sedie un po’ rustiche in paglia intrecciata, adesso c’è un tavolino da giardino di design con le sue belle sedie ergonomiche in poliestere che costano ognuna come un rene sul mercato nero. A Bill piace fare la padrona di casa e ricevere i suoi ospiti qui o nel salotto interno se fa molto freddo.
"Allora, che cosa gli hai fatto?” Mi chiede, guardandomi male.
Karima ci porta i bicchieri, con anche la fettina di limone e l’ombrellino.
"Perché devo essere stato io? Il tuo adorabile principe azzurro non è così adorabile come credi. E non è nemmeno azzurro, per altro.”
Bill beve dalla cannuccia, ma continua a guardarmi. “Quando litigate è quasi sempre perché tu non capisci quello che vorrebbe dirti.”
"In questo caso non mi dice proprio un bel niente,” replico. Io voglio parlare con Anis: sono entrambi schifosamente di parte, ma almeno lui è da quella giusta.
"Che cos’è successo?”
"E’ successo che mi tratta come una femmina,” replico. “Ed è una cosa intollerabile.”
Lui solleva un sopracciglio. “In che senso?”
Io sbuffo, odio dover spiegare le cose, che poi non mi piace nemmeno venirle a raccontare qui, è che ho bisogno di sfogarmi o lo ammazzo, l’austriaco, quindi per forza di cose non ho alternativa. Faccio a Bill un breve riassunto della mia vita negli ultimi mesi, e man mano che gli racconto quello che Chakuza mi fa e che è umanamente inconcepibile, mi rendo conto che sto parlando alla persona sbagliata per due motivi. Uno, dire male di Chakuza di fronte a Bill è un buon modo per non farsi proprio ascoltare. Bill non concepisce l’ipotesi che Peter possa essere insostenibile, testardo e testa di cazzo come in effetti è. Non ho idea di come si comportasse con lui, probabilmente era uno zucchero perché sia mai che Bill ci resti male per qualcosa, ma con me a volte è tremendo. E la Principessa naturalmente non ci crede.
E due, forse questa è anche peggio, Bill viene trattato come una femmina tutti i giorni e la cosa non sembra dargli granché fastidio. Bushido gli apre le porte, lo aiuta col cappotto, sta dietro ai suoi capricci e un milione di altre cose che davvero, ora che ci penso, mi convinco che non ha senso parlarne con lui.
"Io non capisco,” mi dice infatti. “E’ molto gentile, perché sei arrabbiato?”
"No, Bill. Non è affatto gentile,” protesto. “Io non sono una femmina. E lui non dovrebbe trattarmi come tale.”
"Ma aprirti i barattoli non significa trattarti da femmina,” commenta lui. “E’ una questione di gentilezza.” Gioca con la cannuccia, gli occhi appena socchiusi. A volte si dà un’importanza che lo prenderei a sberle; ma in questo momento prenderei a sberle chiunque, quindi suppongo che non sia propriamente colpa di Bill.
"Bill, ti sembra che io abbia bisogno che qualcuno mi apra i cetriolini sottolio?” Chiedo, e aspetto che mi guardi per bene dalla testa ai piedi, che veda i quasi due metri di altezza per più di ottanta chili di peso, che veda uno dei miei polsi grande quanto entrambi i suoi. Veda e capisca che un barattolo di cetriolini sottolio non sono poi questa grande impresa per il sottoscritto.
"Ma che c’entra? Sai aprire da solo anche le porte ma se qualcuno-“
"No.”
"Patrick…”
"No,” ripeto. “No, nella maniera più assoluta.”
Lui rimane un po’ interdetto dal fatto che l’ho interrotto. Bill odia quando succede. Il flusso delle sue parole dev’essere costante e fermarsi per sua volontà, e comunque solo per qualche istante, giusto per prendere fiato. L’interruzione per cause esterne non è nemmeno contemplata. “D’accordo,” ammette alla fine, molto lentamente. “Magari questa cosa dei barattoli è eccessiva per te, ma devi capire anche lui.”
"Che cosa c’è da capire su di lui, a parte che è uno stronzo, testone, gay ancora convinto di essere etero?”
"A parte che non è stronzo,” mi corregge lui, che non se ne lascia mai sfuggire una. “E’ appunto questo. E’ molto… maschile.”
"Ti sembro femminile, io?”
Lui sospira, alzando gli occhi al cielo. “Non maschile nel senso che sembra un maschio, maschile di testa, Fler. Lui dev’essere il capo. Ognuno ha un ruolo, no? Tu hai il tuo.”
"Cosa?” Mi esce così forte che Skyline, appisolato ai nostri piedi, tira su di scatto la testa per capire cosa sta succedendo. Peccato lo faccia con quei due, tre secondi di scarto. Come cane da guardia non vale niente.
"Cerca di seguirmi, okay? Non dico che debba davvero comandare, è ovvio che siate sullo stesso piano, solo che ha bisogno di avere il controllo, capisci? Dev’essere l’istinto primordiale del cacciatore, del capobranco, chi se ne frega, insomma, quelle cose lì. Anche Bushido è così. Se vivessimo nella preistoria, sarebbe Anis ad uscire dalla caverna ed abbattere dinosauri.”
"E tu staresti in casa a dipingerti le unghie con il succo di bacca, certo!” Replico ironico. “Bill, ti rendi conto di quello che stai dicendo?”
"Sì,” fa lui candido. “Ed ho anche ragione.”
"No che non ce l’hai!”
"Invece sì,” insiste. “E guarda caso, Chakuza ti apre le porte, ti svita i barattoli ed è sempre lui l’attivo.”
Io divento tipo di marmo, e probabilmente divento anche color ciliegia perché, pur non volendo, è sempre così che finisce. Io non avevo citato questo piccolo particolare. “E cosa te lo fa pensare?”
"Il fatto che sei esageratamente arrabbiato,” risponde, giocando col ghiaccio nel suo bicchiere ormai vuoto. “E il fatto che conosco Chakuza e so com’è a letto.”
Gradirei che Bill non me lo ricordasse ogni volta che può, dal momento che la sua presenza fra le lenzuola del letto mio e di Chakuza non s’è ancora vista e ciò un po’ mi consola. Bill in casa nostra c’è sempre, è ovunque Chakuza posi gli occhi e ricordi qualcosa che hanno fatto insieme, io la Principessa gliela leggo addosso quando lui ce l’ha in testa.
Quando scopa con me, però, non c’è. In quei momenti, Peter è un posto solo mio. Quindi non sopporto che Bill mi ricordi che sono stati insieme, anche se lo so che non lo fa con cattiveria. E’ che non sono razionale quando lo dice, e finisco per leggerci dentro la presunzione di sapere che rimane comunque lui quello più importante. Forse quella presunzione non c’è, non lo so. Ma è sempre meglio che Bill non ne parli.
"Com’è Chakuza a letto non c’entra niente,” replico secco, mentendo spudoratamente per altro, perché, come dicevo, ciclicamente si ripropone in casa nostra il teatrino di me che provo a schienarlo e lui che piuttosto si taglia le vene col coltello da pane. “C’entra però che io non sono una donna e lui deve ficcarselo in testa.”
"Io non capisco quale sia il problema.”
"Il problema è che è umiliante,” replico.
Bill mi punta addosso due occhi sgranati e oltraggiati. “Umiliante? Credi che essere quello di cui ci si prende cura sia umiliante?”
Mi sfida a concludere quel ragionamento, che messo in questi termini non può che suonare come un’offesa, io però ne so più di lui. Con Bill sono io quello più grande. “Penso solo che sarebbe carino se potessi anche io prendermi cura di lui.”
Lui finisce per ridere, che fra tutte le reazioni che potevano seguire la mia affermazione, era l’ultima che mi aspettavo.
"Che c'è da ridere?"
"C'è che sei assurdo," mi dice e poi piega la testa un po' di lato. "Tu non puoi davvero aver creduto di stare con lui e di prendertene cura."
"E tu non puoi davvero pensare che sia normale che lui mi apra i barattoli," ritorco subito, perché a me davvero sembra assurdo che qui quello assurdo debba essere io, quando è chiaro che l'unica cosa che vorrei è comportarmi come ogni essere umano che sta con un altro essere umano. Voglio dire, lasciamo perdere la divisione uomini e donne. Prendiamo gli esseri umani. C'è quest'essere umano, no? Questo austriaco che mi arriva alle costole e che io, per qualche assurdo motivo voluto dal fato o dal divino - o da qualsiasi cosa vi sembri appropriata - amo. Non gli voglio bene, non mi sta a cuore, non mi ci trovo bene. Io lo amo, che è un concetto che comprende tutti quelli precedenti: visto che lo amo io mi trovo bene con Peter, quindi gli voglio bene e pertanto mi sta a cuore. Ora, a causa di questa mia situazione di indigenza, mi sembra anche abbastanza plausibile volermi occupare di lui, no?
Bill sbuffa perché giocare alla signora della piantagione che dà buoni consigli alle giovani figlie delle sue amiche lo diverte soltanto fino ad un certo punto, soprattutto quando i suo consigli non sono accettati all'istante. "Ma insomma, tu cosa vuoi esattamente? Aprirgli anche tu i barattoli?"
"No che non voglio aprirgli i barattoli!"
"E allora cosa?" Fa lui. "Perché non ho capito che cosa pretendi da uno come Peter."
"Sarebbe troppo sperare che facesse la persona normale e non mi trattasse da femmina?"
Bill annuisce. Io all'inizio nemmeno ci credo, voglio dire, lo vedo annuire ma non ci credo davvero. E invece lui lo fa sul serio. "Non sarebbe molto più semplice se gli lasciassi fare quello che vuole? In fondo si tratta solo di cose minuscole."
"Qui si tratta del mio amor proprio," gli faccio notare. "E comunque perché lui può fare quello che vuole e io no?"
"Che cosa vorresti fare?"
"Io..." apro bocca e rimango in quella posizione per parecchi secondi, finché non mi rendo conto che in effetti non lo so. Non posso rispondere che vorrei aprirmi le porte e i barattoli, cioè sì che vorrei ma a dirlo suona assurdo e all'improvviso, ora che Bill me lo fa notare con questa calma pacifica come se fosse una cosa stupida, mi sembra una cosa effettivamente stupida. Insomma Chakuza è un coglione, ma io che cosa voglio esattamente se non il coglione in questione?
In ogni caso è lui in persona, dentro al suo catorcio, che mi salva dal dover rispondere. Difatti in quel momento il cancello della villa reale si apre e Skyline e Sherlee vanno a saltellare abbaiando festosi intorno alla macchina di Chakuza che parcheggia accanto alla mia.
"Ecco che arriva anche l'altro," mugugna Bushido, passando come un'ombra dentro casa, diretto in cucina per un panino fra un beat e l'altro. "Devo cambiare i codici del telecomando."

*

Di tutti i modi possibili in cui pensavo che sarebbe finita l'ennesima discussione, certo non avevo pensato a questo. Primo, perché non era una soluzione che io potessi prevedere. Secondo, perché non è una soluzione, è solo una cosa senza definizione che sta portando me e lui a fare qualcosa che non ci aiuterà a risolvere il problema primario ma ne creerà altri quasi peggiori. Forse, a pensarci bene, non era poi così imprevedibile, come cosa, visto che Chakuza ha sempre di queste grandi idee. Ora, ricapitolando, io e lui abbiamo litigato perché Peter è convinto di essere il capobranco e di avere verso di me delle responsabilità prettamente maschili quali difendere me e il territorio, procacciare il cibo e decidere il periodo di migrazione.
Per questo motivo, io mi sono notevolmente incazzato e sono andato a parlare con l'unica vera femmina del branco, che naturalmente ha appoggiato il grosso lupo nero che potrebbe averla quando vuole, e figurarsi se era il contrario. Ora, dopo questa sequenza di azioni assolutamente inutili, si potevano verificare due conseguenze: io che non sono disposto ad accettare questa situazione e me ne vado - molto improbabile a giudicare dai precedenti degli ultimi tre anni. Oppure Chakuza che si dichiara disposto a tentare di cambiare, io che fingo di credere che ci riuscirà, e noi due che scopiamo per il resto della giornata - estremamente probabile.
E invece no. Ma proprio per niente, no. Roba che se mi fermo un attimo a pensare non capisco nemmeno come sia potuto succedere che io ieri bevevo una coca con Bill e cercavo di spiegargli un ragionamento perfettamente razionale, e ora io sia qui, così, come se fosse normale. Parliamone!
In questo momento sono seduto sul sedile del passeggero dell'Escalade, sto andando in Austria e i biscotti che sto mangiando li ha comprati Chakuza. Con buona pace della mia fottuta questione di principio, quest'uomo qui accanto ha fatto tutto quello che ha voluto: protezione, cibo e migrazione. E non so come ci sia riuscito. Non lo so, e non riesco nemmeno a concentrarmi per capirlo perché i biscotti sono, tipo, svedesi o danesi, insomma chi se ne frega, del nord ecco, ma c'è una crema dentro che mi fa impazzire e mi confondo. Ogni tanto, quando ho un barlume di lucidità tra un biscotto e l'altro, mi rendo conto che in un certo senso è anche rapimento e che forse, non so, dovrei scrivermi 'AIUTO' sulle mani e poi appiccicarle al finestrino, così che alla prossima coda sull'autostrada tra Berlino e Linz qualcuno lo veda e mi salvi.
La verità è che Chakuza mi ha preso alla sprovvista e invece di cercare di spiegarmi il suo punto di vista, mi ha dato ragione - cioè, più o meno. Ha detto che gli dispiaceva, che è una cosa che non fa quasi mai, neanche ci si prendessero delle malattie veneree a chiedere scusa, e poi ha detto "Ho un'idea."
A questo punto della mia esistenza, io dovrei aver imparato che le idee di Chakuza non sono mai buone idee, che vanno temute e che - in generale - la prima reazione dev'essere la fuga in un posto lontano e per lui inaccessibile, fosse anche in cima ad un armadio. Ma è chiaro che a questo punto della mia esistenza io non mi voglio affatto bene, per cui quando mi ha detto di avere un'idea gli ho anche lasciato il tempo di espormela. Nel cervellino che riempie le rotondità della sua scatola cranica, la soluzione a tutti i miei mali era riempire due borsoni, caricarli sulla mia auto - che ha le sospensioni migliori e avrebbe retto in montagna - e trascorrere il fine settimana in Austria. Dai suoi. Come per lui guidare, comprare le provviste e portarmi dalle sue parti fosse un modo per scusarsi della sua grave mancanza di rispetto nei confronti della mia virilità, io in quel momento non l'ho capito. So però che quando mi ha guardato e mi ha detto "Ti va di conoscere i miei?" Il mio cervello si è scollegato. Ho sentito proprio la spina che si staccava, il calo di corrente e poi il lieve ronzio che precede il riavvio del sistema operativo.
Dopo l'analisi di sistema, sono arrivato finalmente a comprendere anche il ragionamento faticosamente elaborato dal microchip di Chakuza. Quest'uomo, questo qui che mi è seduto accanto e impreca in maniera brutale contro chiunque stia guidando una macchina nel raggio di venti metri intorno a lui - Chaku è un sacco violento alla guida - si è reso conto di comportarsi in maniera assurda, ma non può fare altrimenti, e lo capirò meglio quando avrò conosciuto tutti i Pangerl e mi renderò conto che sono tutti assurdi e che l'assurdità è una condizione genetica dell'essere un Pangerl. Quindi lui lo sa, e sapendo anche di non avere la soluzione giusta - tipo iniziare a comportarsi da essere umano - ha cercato quella che ci si avvicinava di più: il coming out con la sua famiglia. Quale modo migliore di trattarmi da uomo se non rivelare ai suoi parenti che è omosessuale? C'è del mistico nella testa di Peter, non mi stancherò mai di ripeterlo.
La casa di famiglia dei Pangerl è una baita di legno grande abbastanza per contenere tutte le famiglie che vivevano nel mio palazzo quando avevo quindici anni e Bushido si arrampicava su per la grondaia per venirmi a recuperare. Quando parcheggia sul prato così verde che sembra quello finto di plastica delle piscine, io scendo con la bocca aperta come un bambino, perché le baite come questa le ho sempre viste solo nei film, e in ogni caso erano piccoline e con una stanza sola, questo è una specie di albergo. Solo al piano di sopra conto quattro finestre.
E poi c'è la veranda e una specie di recinto, e sento lo scampanellio delle mucche, da qualche parte. Lascio che Chakuza scarichi la macchina, non me ne frega niente che sia lui a fare i lavori pesanti ora, devo assolutamente guardare tutto quello che mi si para davanti, perché è, tipo, spettacolare. Se sposto lo sguardo un po' più indietro c'è una vallata che scende morbida e rotonda, piena di fiori e penso che se osservo molto attentamente vedrò scendere Heidi, con cane, nonno e tutto il resto.
Ci sono altre decine di case così qui intorno, forse solo un po' più piccole, ma nessuna attaccata. Si vedono tutte, perché siamo nella vallata, ma sono abbastanza distanti che se guardi da una certa prospettiva ti sembra di essere solo in mezzo alle montagne.
In quel momento la porta della baita si spalanca con un tonfo e rompe l'idillio o, peggio, lo rende reale, perché sulla soglia c'è Heidi. Non proprio quella del cartone animato, ma quasi.
Questa qui avrà si e no quindici anni, e non ho bisogno che Chakuza mi dica che è sua sorella per capirlo, visto che sono praticamente due gocce d'acqua. Okay, lei è più carina, ma i colori e le forme sono quelli. E' biondo-rossiccia, come credo sarebbe Peter a giudicare dalle sfumature della barba, e ha due guance rosse come due mele, e non è un modo di dire, sono proprio tonde e rosse, cosparse di efelidi. E poi gli occhi, stesso colore, stesso taglio.
"Sei arrivato, ci hai messo una vita!" Fa lei, e gli si getta addosso di peso. Lui la prende al volo e per poco non cadono a terra tutti e due. Rimango lì a fissarli e mi viene da sorridere, Chakuza è tipo tenerissimo.
"Scusa," ride lui, rimettendosi dritto e aiutando la sorella. "C'era un sacco di traffico."
Lei si spolvera un po' la minigonna a pieghe e quindi si accorge della mia presenza lì di fianco. "E lui chi è?" Chiede.
"Lui è Patrick, passerà il fine settimana con noi," risponde. So che vuole dirglielo a cena, quindi non mi sorprende che non abbia specificato esattamente cosa sono. "Patrick, lei è Clara, mia sorella."
Clara non è solo fisicamente uguale a suo fratello, ma sospetto ne abbia anche la mentalità perché mi sorride nello stesso modo in cui lo fa Peter un attimo prima di saltarmi addosso, quindi sbatte gli occhioni truccati pesantemente come vanno di moda da quando la Principessa imperversa nelle TV di tutto il mondo. "Piacere Patrick senza un cognome," ride divertita. "Anche se immagino sia Losensky, dico bene?"
"E tu come lo sai?"
Clara si stringe nelle spalle. "Sui giornali non si parla d'altro che di te e di mio fratello," risponde.
"Cosa?" Esclamiamo in coro.
"Ma si che lo sai, Peter, dai!" Fa lei, un po' lagnosa, buttando gli occhi al cielo come se fosse una sciocchezza. "Il fatto che Bushido voglia rinnovare l'EGJ, sfruttando le collaborazioni con te e anche con lui, vista la riappacificazione e bla bla bla..."
Tiro un involontario sospiro di sollievo. Qua stiamo parlando di lavoro, per un attimo ho pensato che nelle sei ore che abbiamo trascorso in autostrada ci fossimo persi lo scandalo di qualche foto. "Quelle sono tutte speculazioni dei giornali," le dico afferrando il mio borsone prima che Peter si azzardi a farlo al posto mio.
Lei si stringe nelle spalle. "Non se le inventano mai del tutto," mi dice con un sorrisetto saccente. "Quindi immagino che ci sia davvero sotto qualcosa ma, visto che sei nostro ospite, non ti costringerò a dirmelo subito. Lo scoprirò a cena."
Entra in casa sculettando, e sapendo più o meno com'è fatto nel dettaglio il filamento del suo DNA, non posso non pensare che lo stia facendo apposta.
"Non lo metto in dubbio," sospira Chakuza al mio fianco.

*

Se da fuori la casa di Peter sembrava appunto la vera casa di Peter, il pastorello di Heidi, dentro è anche peggio. Non che ci sia un nonno barbuto e un sottotetto bassissimo – o forse quella è la casetta di Heidi e io sto confondendo i personaggi – ma è tutto di legno. Ma tutto davvero. E per un attimo mi chiedo quante volte sia andata a fuoco e se, da queste parti, magari non costa niente rimettere in piedi una casa visto che vanno a fuoco spesso. M'immagino queste vallate immense di sconfinato verde che ogni tanto si accendono di una fiammata improvvisa e l'attimo dopo, solo cenere. M'immagino anche delle squadre speciali che arrivano l'attimo ancora successivo a pulire tutto e poi rimontarci sopra una casa nuova. Magari uno esce la mattina per andare a lavorare, torna e la casa è andata a fuoco ed è stata ricostruita in un nano-secondo, tanto sono tutte uguali. Si differenziano per il numero dei gerani sui davanzali ma, anche lì, magari ci sono diverse case standard tra cui scegliere a due, tre o magari quattro vasi di gerani per terrazzo. Uno, penso, sceglie il modello che vuole e quando va a fuoco poi gli riportano lo stesso. Così il tipo di prima che è andato a lavoro e tornato, non si accorge del cambio.
La madre di Peter ci accoglie prima che io possa chiedermi a che numero di Pangerl-casa siamo, perché non ci credo che un tipo come Chaku non abbia mai lasciato cadere un fiammifero o agitato l'accendi-gas troppo vicino al tavolo in noce quand'era piccolo. Ma anche quand'era grande. Quindi questa casa non può essere in piedi da quando l'hanno costruita, con lui in casa.
"Patrick, che piacere vederti!” Esclama. Io le tendo la mano ma lei, dal suo metro e venti, tipo, non so, comunque dal quel poco che è alta, riesce a tirarmi in un abbraccio.
"Salve, signora Pangerl,” riesco a tirar fuori. Mi sento un po' a disagio perché io e lei ci siamo visti qualche volta, prima che si trasferisse definitivamente quassù fra i monti col marito dopo l'infarto, e mi ha anche lavato un paio di maglie perché le ha tirate su insieme alla roba sporca di suo figlio – non so nemmeno cosa, di preciso, ci abbia trovato su quelle maglie – ma tra quei momenti di beata ignoranza ed ora c'è che suo figlio si è fatto un sacco gay. E non lo so se mi abbraccerà così anche quando saprà che la nostra non è una sana amicizia virile. Se si escludono casi come l'esercito o la marina. In quel caso, ecco, forse il parallelismo calza a dovere.
"Avete fatto buon viaggio?” Prosegue lei, cercando di guardarci entrambi contemporaneamente. E' una cosa che fanno le madri, tutte, anche la mia. Quando portavo a casa Anis lei ci parlava e guardava un po' me e un po' lui e ci scrutava per capire se c'era qualcosa che potesse fare. “Volete mangiare qualcosa? Vi preparo due cose al volo.”
“No, mamma stiamo bene così. Possiamo aspettare la cena.”
"Allora perché non gli fai vedere la camera. L'ho già preparata,” e poi si gira verso di me con questi occhi verdi che sono proprio quelli del Chaku. “E' la stanza di quando lui era piccolo.”
Mi verrebbe da farle notare che c'è rimasto piccolo, ma sto zitto.
Peter era piccolo e la stanza, ovviamente, è a misura. Quando ci entriamo ho come un attacco di claustrofobia, il soffitto mi sembra vicinissimo e sono certo che i muri si avvicineranno fino a schiacciarmi. Morirò tra i monti austriaci e mi seppelliranno nel giardino dei Pangerl. O forse il signor Pangerl mi userà come concime per le sue mucche – chissà se hanno le mucche? - quando saprà che mi sono preso il suo unico erede maschio.
Mentre io mi figuro la mia morte per mano di mio suocero, o per mano dell'altissimo, che qui dev'essere più vicino senza dubbio, la signora Pangerl mi ha già spiegato l'ubicazione di tutto ciò che potrebbe essermi necessario nei prossimi giorni, comprese coperte, asciugamani, attrezzatura per l'alpinismo e anche dei vecchi calzini dismessi di non so quale parente che potrebbero servirmi in caso avessi freddo – perché qui, sai, Patrick la notte fa freddo. Anche a Berlino fa freddo, signora. Lo so gestire abbastanza.
Dopo ciò la donna ci lascia da soli e io vorrei trattenerla, vorrei prenderla per le cocche del grembiule e chiederle di raccontarmi com'era Chakuza da piccolo e com'era questo posto dimenticato da Dio, com'era nel '40 durante la guerra. Mi racconti la caduta del muro, signora, la prego. E lei mi farebbe notare che quando è caduto il muro io avevo sette anni e dovrei ricordarmelo e allora io le direi che vorrei sentire la voce di una persona che all'epoca era già adulta. O le chiederei di raccontarmi come si allevano le mucche, i maiali, le oche, qualsiasi cosa e questo perché alle mie spalle ho sentito lo sguardo del Chaku.
E quello sguardo promette sventure.
Alla signora Pangerl non chiedo niente, le cocche del suo grembiule spariscono oltre la porta chiusa e quando mi volto, lui è lì con l'occhio da triglia. Già pronto.
Chi non conosce Peter non può davvero credere a quello che è in grado di fare. E' un po' come essere amico di un supereroe e conoscerne all'improvviso i poteri, tipo che ha la super-forza, che è ignifugo o che sa volare. Ti spaventi e cerchi di dire a tutti che l'hai visto alzare una macchina a mani nude, saltare nel fuoco e prendere il volo. La gente naturalmente, quando lo fai, ti ride in faccia. E non ci crede. Come potrebbe? Così se io spiegassi che il Chaku non conosce tempi di ripresa, mi guarderebbe con aria di superiorità e mi accuserebbe di aumentare le doti dell'uomo che mi si porta a letto per vanteria. E invece non sto aumentando niente e non lo faccio per vantarmi, lo faccio per paura. La mia è una muta richiesta di aiuto che nessuno coglie. Io sono una persona disperata.
Se Chakuza fosse ignifugo, super-forte e sapesse volare, sarebbe meno inquietante di come invece è: pazzo e sesso-dipendente. Che poi detta così sembra che sia malato, in realtà credo che la situazione sia anche peggiore di così, sebbene io non abbia dei veri studi medici che lo dimostrano. Voglio dire, se fosse malato, se questa fosse una devianza, uno potrebbe vedere di curarlo, di trovare una profilassi da seguire, di farlo diventare un monaco amanuense dedito all'astinenza, sebbene Chakuza non sappia disegnare neanche un omino stilizzato senza che questo sembri di tutto tranne un omino stilizzato. Cioè, seguitemi, se questa sua particolare condizione derivasse da un malfunzionamento di qualche sua cellula neuronale o da uno stato della mente guaribile con la meditazione, ecco allora potremmo fare qualcosa. Farlo visitare, fargli ingerire delle pillole o, appunto, spedirlo in Tibet vestito di arancione. Invece le cose non stanno affatto così. Questo suo bisogno di fare sesso e rilasciare endorfine è naturale. Nel senso che fa parte della sua struttura fisica. C'è chi ha fisicamente bisogno di scaricare continuamente lo stress, c'è chi deve dormire molto, chi dorme oggettivamente poco. E lui fa sesso. Cioè, non è una degenerazione di qualche parte di lui che improvvisamente ha deciso che il sesso era la soluzione. Lui è così. E' questo che è agghiacciante.
Dall'ultima volta che lo abbiamo fatto sono passate sei ore, anzi no tre, perché a metà viaggio ci siamo fermati all'autogrill, che non è che sia successo proprio roba, ma ho deciso che con lui conta anche quella, perché è sfiancante. E insomma, stavo dicendo che non è che potesse mancargli l'aria dopo sole tre ore e invece eccolo lì che già smania. “Non ci pensare neanche,” dico. “Devo disfare la valigia.”
Prima mi arrivano le sue mani sul culo e poi dice: “Puoi farlo dopo.”
"Non posso farlo dopo, le magliette fanno le grinze.”
E questa è così gay che non avrebbe funzionato in nessun caso, figuriamoci in questo. Difatti si prende il tempo di chiudere giusto la porta e mi è addosso l'attimo dopo. Io ho provato a tirare fuori qualcosa, per vedere se lo fermavo, ma niente. Non ha alcun rispetto per la proprietà altrui e le grinze che finirà per causarci sopra.
Mi ritrovo disteso sul letto prima di poter effettivamente pensare a qualcosa di veramente sensato da dirgli per scostarmelo di dosso. E' questo il mio problema: a lui il cervello si spegne e si attiva una sorta di pilota automatico che prosegue qualunque sia la situazione contingente. Il suo obbiettivo è uno solo e avanza per raggiungerlo. Io, quando lui sta così, vorrei spegnerlo ma non so dove si trovi esattamente il pulsante – o se ci sia un pulsante – e, in ogni caso, non posso farlo perché quando mi tocca mi confondo e i miei tempi di reazione si allungano. Il suo pilota automatico si approfitta del mio momentaneo ritardo mentale. Insinua quelle sue zampette là dove non batte il sole e tanti saluti, non c'è più modo di fermarlo.
Così mi agito, cercando di farlo cadere ma niente. Uno potrebbe pensare che essendo lui com'è ed essendo io come sono, ci metto niente a lanciarlo dall'altra parte della stanza e invece, con lui, è come cercare di spostare un masso di granito. Quello che perde in altezza, lo guadagna in massa, è una roba che non ci si crede. “Peter, c'è tua madre di là.”
"Non ci sentirà.”
Io dico che ci sentirà se continua ad accarezzarmi come sta facendo, ma lui mi ferma anche lì perché m'infila la lingua in bocca e io dimentico che se sua madre ha la cattiva idea di spalancare la porta all'improvviso, poi ci toccherà portarla d'urgenza all'ospedale. Chakuza butta in terra qualcosa che credo fosse la mia valigia, quindi si prende il suo spazio, felice come può esserlo solo un uomo che nelle ultime tre ore non ha pensato a nient'altro. Ed è mentre mi morde il collo che la sua felicità si disintegra sotto i colpi alla porta della sua camera.
La successiva sequenza di azioni è che io riesco a ribaltarlo e a mettermi in piedi in una sola abile mossa mentre lui rotola a terra malamente, mancando con la testa lo spigolo di un comodino per una frazione di centimetro. Io penso che l'ho quasi ammazzato per non farmi trovare a letto con lui, forse questo significa qualcosa se lo analizziamo. Comunque sia bussano di nuovo. “Peter, posso entrare?”
Io generalmente non faccio una piega se mi punti una pistola in faccia, se mi minacci con un coltello o se, per dire, rischio di prendere tante di quelle botte che nemmeno mia madre mi riconoscerebbe. In quei casi freddo e impassibile, è la scuola di Bushido.
Alla scuola di Bushido, però, quell'uomo non mi ha mai insegnato come reagire a sangue freddo di fronte alle sorelline di quindici anni che rischiano di entrarti in camera mentre tu e il tuo uomo avete i pantaloni slacciati, il letto è già un casino ed è chiaro come il sole che stavate per scopare. O se Anis l'ha mai insegnata questa cosa qui, evidentemente io ho saltato la lezione. Intimo a Chakuza con lo sguardo di fare qualcosa e lui annuisce quasi annoiato. No dico, austriaco, è tua sorella, vorrai mica farti trovare in questo stato?
Quando alla fine Clara entra io sono seduto sul rientro della finestra e guardo i monti in maniera molto ispirata. Chakuza, invece, è assolutamente a suo agio. Come non avesse un pudore. E in effetti non ce l'ha.
"Che c'è?” Chiede, mentre apre la sua sacca da viaggio e ne estrae cose a caso, per dimostrarsi un uomo intento a disfare le sue valige con molta cura. Il mio povero borsone invece giace a terra riverso, innocente vittima di quell'uomo.
"Mamma dice che intanto che prepara potresti portare Patrick a conoscere la nonna,” fa lei. E si guarda intorno come solo una fangirl può fare. Io non avevo una grande esperienza con questo genere particolare di ragazze prima che la mia vita fosse devastata dalla nostra illuminata sovrana, ma ora sono quasi un esperto. Il fatto è che tu non puoi vivere a stretto contatto con Bill Kaulitz – e noi tutti ci viviamo, come sapete, perché egli regola la vita di noi tutti in un modo o nell'altro – senza dover fare i conti con le fangirl. Così ora, mentre Clara scandaglia la stanza, so per certo che in una frazione di secondo ha già preso nota di ogni dettaglio potenzialmente succoso che essa contiene. E anche tutti gli altri, che la sua fantasia si preoccuperà di rendere altrettanto fraintendibili. In questa stanza c'è un letto disfatto, due uomini palesemente impegnati a fingersi tranquilli – okay, un uomo, io, ma suppongo che conosca suo fratello abbastanza da decifrarne i segnali – e soprattutto ci sono i nostri anelli. Che sono diversi, ma io lo so che lei li ha già notati. Così m'infilo una mano in tasca, che è tipo la cosa più losca del mondo.
"Perché dovrei portarlo da nonna?”
Clara fa spallucce. Quando si gira la sua gonnella svolazza in giro. “Immagino voglia che tu faccia le cose per bene stavolta,” commenta con noncuranza.
Io mi congelo sul posto e mi sembra di avere sulla testa un cartello che lampeggia, avvisando il mondo che sono gay e sto con quest'uomo pelato al mio fianco.
Prima di sparire, Clara mi lancia un'occhiata che non sono effettivamente sicuro di capire, una via di mezzo fra la smorfia libidinosa del Chaku nella sua forma migliore e la sicurezza del ricattatore quando ti avvisa che sa cos'hai fatto l'estate scorsa.
E io adesso non sono più sicuro se questa ragazza mi salterà addosso o deciderà di chiedermi dei soldi per stare zitta.
Al momento, il fatto che saremo noi a parlare per primi a cena è del tutto irrilevante, anzi, forse peggiora solo la situazione. Prima potevo pensare che magari, all'ultimo, avremmo lasciato perdere. Ora ho quest'immagine mentale di noi che decidiamo di stare zitti e Clara che, candidamente, rivela la verità.
Un attimo dopo il signor Pangerl mi colpisce in fronte con un'accetta da taglialegna che teneva casualmente legata al fianco. Io non ce la posso fare.

*


La nonna di Peter è effettivamente la nonna di Peter, quello vero.
Quando arriviamo alla sua casetta, io non so davvero se ridere o se farmi prendere dal panico. Questa donna avrà duecento anni, ha la testa avvolta in un foulard azzurro probabilmente fatto a mano dalla nonna della nonna di sua madre e siede sulla veranda della sua casa a sbucciare piselli.
"Nonna?” Urla Chakuza, anche se siamo a, tipo, due metri di distanza.
Lei solleva la testa e ci guarda a lungo prima di riconoscere l'amato nipote. “Peter,” lo chiama, allungando le braccia. E io non posso davvero farcela. Adesso, ne sono certo, arriveranno Nebbia e anche gli agnellini a scodinzolare festosi intorno al pastorello.
La nonna più che centenaria lo abbraccia stretto mentre io sto lì in piedi come un cretino, in attesa che qualcuno mi faccia entrare nel cartone animato.
"E questo bel giovanotto chi è?” Chiede e poi, prima che qualcuno possa risponderle e dirle chi sono, lei si illumina tutta e le sue duemila rughe sulla fronte si distendono in un colpo. “Non dirmi che è Franz! Quanto sei cresciuto!”
"No, non è Franz. Questo è Patrick,” la corregge Chakuza, con un tono di voce altissimo. “E' un amico di Berlino.”
Un amico che casualmente ha sposato a Las Vegas, signora, ma non voglio confonderla troppo. “Salve signora,” faccio io, lì, un po' così. Di solito ci so fare con le anziane signore che ci circondano – la signora Lotte mi adora, per dire – ma al momento sono molto concentrato ad evitare di impazzire pensando che è, tipo, mia parente ora. O una cosa simile. Anche se lei non lo sa. Le tendo la mano ma lei mi tira giù in una morsa letale da montanaro. Le donne in questo posto fanno paura.
"Ecco perché eri sparito!” Mi fa, urlandomi nell'orecchio come fossi sordo anch'io. “Eh, voi giovani finite tutti per andarvene via. Questo non è un paese per voi!”
"Eh già.”
"E tua madre come sta? Me la ricordo quand'era piccola e veniva da me a comprare il latte!”
Signora, mia madre non è mai uscita da Tempelhof, figurarsi venire sui monti a comprare il latte della sua mucca.
"Nonna, questo non è Franz,” ripete Chakuza, con un sospiro. “Si chiama Patrick, capito?”
Lei lo guarda fisso e annuisce, poi si volta verso di me e mi fa questo sorriso mono-dentale raccapricciante. “E la tua sorellina? Quanti anni ha adesso?”
Appunto. Sospiro. “Sei,” sparo a caso.
Chakuza mi fa cenno di no con la testa. Indica in alto.
"Ehm, no. Quindici.”
Chakuza mi fa segno di tagliarsi la gola.
"E' morta,” concludo addolorato.
Vedo Chakuza accasciarsi con le mani sugli occhi, dietro sua nonna. Lei però non sembra aver capito un accidenti nemmeno stavolta. “Come passa in fretta, il tempo,” biascica in un tedesco oscuro di cui capisco solo due parole su tre e non sono sicuro nemmeno di quelle.
"Eh già,” commento.
Mi fa una carezza sulla guancia, guardandomi con questi occhi velati di bianco. “E ci andate ancora nei boschi tu e il mio Peter?”
Sollevo un sopracciglio, ghignando nella sua direzione. “Nei boschi, Peter? Ci andiamo ancora nei boschi?”
"Non facevate altro da ragazzini. Sempre nei boschi, sempre sporchi di fango.”
"Ah, però,” commento ridendo in direzione di Chakuza che credo voglia morire in questo momento. Devo indagare su questo Franz.
"Ora sarà meglio che andiamo, nonna,” fa subito lui, recuperandomi prima che io e sua nonna possiamo sviscerare i più reconditi segreti della sua adolescenza con Franz, suppongo. “E' quasi ora di cena.”
La nonna mi batte amorevolmente sulla guancia una mano ruvida come carta vetrata e annuisce a Dio solo sa cosa. “Andate, andate.”
"Franz?” Chiedo, mentre torniamo verso casa sotto un cielo che si sta scurendo.
"Era un compagno di scuola,” mi risponde.
"Con il quale ti rotolavi nell'erba fra i boschi?”
"No, deficiente,” commenta ridendo. “Nel bosco ci passavamo perché era più facile raggiungere il villaggio dall'altra parte della vallata, dove c'erano un paio di ragazze che ci piacevano.”
"E sua sorella?”
"Con lei ci sono stato, invece” mi fa, prima ancora di dirmi il nome e l'età. Io non so se essere incredibilmente affascinato dall'assoluto mistero del suo cervello o se dargli semplicemente dell'uomo schifoso come dovrei. “E tanto per la cronaca non è morta.”
"Che ne so io se mi fai il segno di tagliarti la gola!”
"Era per dirti di piantarla.”
"Allora ti do un suggerimento, la prossima volta—”
"Quando avete finito di litigare,” commenta Clara, in piedi sulla porta di casa con le mani sui fianchi e quell'espressione da giovane mafiosa, “la cena è in tavola.”
Forse se mi giro e corro molto veloce, posso arrivare alla macchina e fuggire prima che sia troppo tardi. Una volta varcato il confine sarei salvo.

*


Non appena vedo la cena della signora Pangerl capisco tante cose di Chakuza. Una fra tutte, la sua incapacità di dosare le misure. Per lui, una cena per due persone consiste in sei portate più la frutta e il dolce. Vi lascio immaginare che cosa prepara quando ceniamo tutti insieme, e soprattutto quando inizia a farlo. Ci sono volte in cui Bushido annuncia la data di una cena e poi mette in conto che per i tre giorni precedenti Chakuza non sarà reperibile per lavorare perché sarà impegnato a preparare fondi, pane ed elaborati piatti indonesiani la cui preparazione si aggira sempre intorno alle 25-30 ore. Ogni volta che dobbiamo riunirci con gli altri, casa nostra diventa la cucina di un albergo, ci sono pentole ovunque ad ogni ora del giorno e della notte e io non posso aprire il frigorifero senza che lui mi assalga urlando di non toccare niente perché ci ha messo dentro non so cosa ad addensarsi e, quando gli dico che ho sete, comincia a passarmi ciotole su ciotole che devo tenere in equilibrio sulle braccia mentre lui recupera il mio succo di frutta dal fondo, quindi mi rispedisce da dove sono venuto – generalmente il salotto – dove ho l'ordine di restare circondato di tartine senza poterne mangiare nemmeno una.
A quanto pare, con sua madre è la stessa cosa. La tavola che ha apparecchiato prende praticamente tutta la stanza, ma i piatti per noi cinque ne occupano solo una metà perché l'altra è ricoperta di cibo; e siccome vedo solo antipasti, primi e secondi, non so quali e quanti dolci siano nascosti in cucina.
"Siediti pure dove vuoi, caro,” mi dice la signora Pangerl con questo sorriso luminoso e pieno di speranza verso il futuro. Io sono qui per dirle che non avrà mai una nuora, signora, lei non dovrebbe sorridermi così.
Io lascio il posto di capo tavola al padre di Chakuza e intimo con lo sguardo a lui di sedersi alla sua destra in modo che, per uccidere me, quell'uomo debba prima uccidere suo figlio. In fondo sarebbe giusto così, è colpa sua se io mi trovo in questa situazione.
Clara mi si siede davanti e mi fa ancora quello strano sorriso che io ricambio, in automatico, con solo metà della bocca mentre cerco di non strozzarmi con la mia saliva nel deglutire. Esito a sedermi, perché sento l'enorme peso del destino sulle spalle e so che, una volta appoggiato il sedere su questa sedia, io non mi rialzerò mai più. Morirò qui, seduto a questa tavola. Sarà così che mi ricorderanno; forse avrei dovuto passare a salutare mia madre per l'ultima volta.
A farmi sedere ci pensa il signor Pangerl, semplicemente comparendo sulla soglia vestito come un uomo d'altri tempi, col pantalone con la riga, la camicia e il maglioncino con la cravatta dentro. Ha un viso serio e un'espressione così severa che il bastone con il quale si aiuta per camminare non gli toglie affatto vigore, anzi sembra più distinto e anche più pericoloso. Io lo guardo fisso, come i gatti di notte abbacinati dai fari delle auto, ma lui non mi degna di uno sguardo mentre si siede nel posto che gli ho lasciato.
"Siamo pronti!” Cinguetta la signora, cominciando a servire gli antipasti e facendo il giro di tutti i commensali, posizionando su ognuno dei piccoli piattini un tondino di pane con sopra una salsa e un'oliva, dei piccoli bignè riempiti di salsa tonnata e un'altra tonnellata di cose che basteranno a riempirmi fino a domattina, probabilmente. Ne segue un momento di silenzio in cui tutti aspettiamo che la signora Pangerl sia tornata a sedere e ci mettiamo il tovagliolo sulle ginocchia.
“Allora,” esordisce la mamma di Peter. “Che cosa ci racconti? Ci sono novità?”
Da dove cominciare, signora? Dall'ultima volta che io e lei ci siamo visti, io e suo figlio abbiamo avuto una tormentata storia di sesso, cominciata con un mezzo stupro da parte sua, che fra alti e bassi e altri uomini da ambo le parti, ci ha portati a vivere insieme. Siamo appunto venuti qui questo fine settimana per darvi la notizia non solo della nostra omosessualità ormai certa ma anche del nostro matrimonio, avvenuto a Las Vegas qualche settimana fa mentre eravamo entrambi ubriachi. “Ma, non molto,” rispondo, cercando di apparire disinvolto. “Tutto procede molto bene, per fortuna.”
"Sai, mamma, che forse lui e Peter lavoreranno insieme?” Esclama Clara, guardandomi con quell'aria da Pangerl che mi mette ansia. E poi, sarò paranoico, ma mi sembra che ammicchi e dica parole precise.
"Davvero?” Chiede la signora.
"Per ora è solo un'idea,” rispondo. “Non sappiamo ancora se riusciremo a realizzarla.”
Il signor Pangerl mangia in silenzio, tagliando con attenzione meticolosa tutto il cibo che poi porta alla bocca sotto due enormi baffi rossicci. “Come hai detto che ti chiami?” Chiede all'improvviso e, visto che ora mi guarda, io comincio a sudare freddo, come se ce lo avessi scritto in faccia che sono il ragazzo di suo figlio. Forse sì, ma insomma. “Patrick,” rispondo, deglutendo.
Lui annuisce tra sé e sé. “E che lavoro fai?”
"Sono un cantante.”
"Lavora anche lui per l'etichetta per cui lavora Peter,” chiarisce Clara.
Il signor Pangerl non sembra particolarmente impressionato, continua ad annuire, mentre si pulisce la bocca e si versa un bicchiere di vino. “Ne vuoi un po'?”
"Grazie,” gli porgo il bicchiere anche se in genere non vado matto per il vino. Non ci penso nemmeno a questo piccolo particolare. Eseguo e basta.
"Da quanto vi conoscete tu e Peter?”
Io cerco di fare il conto, ma non ci riesco perché per farlo devo prendere dei punti di riferimento e tutti quelli che ho mi ricordano perché sono qui. “Saranno—”
"Due anni, forse un po' di più,” dice Chakuza. “E' successo quando pensavamo che Bushido fosse morto, ricordate?”
"Sì, mi ricordo,” commenta lui senza particolare entusiasmo. Lascia che la moglie gli porti via il piatto degli antipasti, mentre Clara ci serve il primo. Queste dinamiche sono così disastrosamente antiquate con il capofamiglia e la moglie che sparecchia, che io non so come faremo a passarla liscia con una notizia del genere.
Chakuza si schiarisce la voce, “Patrick mi ha aiutato a sistemare certe questioni in quel periodo ed è stato molto vicino a me e a tutti gli altri ragazzi.”
La signora Pangerl ha fatto della pasta con le patate buonissima, così penso che posso spostare il discorso su territori più neutri parlandole di cucina. “Ora capisco da chi ha preso Peter. E' lui che cucina,” commento. “Per l'etichetta, intendo.”
Clara ridacchia mentre spilluzzica dal suo piatto di pasta.
"Ha preso tutto da me e da sua nonna,” risponde lei fiera, “Avrebbe dovuto fare il cuoco.”
"Ma lui doveva cantare,” commenta suo padre.
Chakuza sospira. “Potremmo non ricominciare con questa discussione? Riesco a mantenermi benissimo anche cantando.”
"Solo che se avessi fatto il cuoco, non rischieresti la vita come fai ora,” puntualizza lui, guardandolo dritto negli occhi, al che capisco che è una questione aperta da tempo fra loro due e, nonostante questo, non riesco comunque a stare zitto.
"Non deve preoccuparsi, il pericolo non è così reale,” dico con un mezzo sorriso incoraggiante. “Cantiamo, principalmente. Il resto è immagine.”
"Se non ricordo male,” fa subito lui, posandosi il tovagliolo sulle gambe e appoggiandosi allo schienale della sedia, “quel Bushido è stato colpito da due colpi di pistola e un vostro collega, un certo Saad qualcosa, è morto ammazzato due anni fa.”
Sì, ora però non sottilizziamo, signor Pangerl, e poi questi sono casi limite. Bushido se n'era tirati addosso parecchi di motivi per farsi ammazzare.
"Non mi succederà niente, papà,” commenta Peter, cercando di chiudere il discorso. “Passo la maggior parte del tempo in studio a creare basi, la gente non ha interesse a farmi saltare la testa.”
A quel punto Clara prende la parola per affogarci in un mare di chiacchiere sulla sua scuola e su mille attività che non so dove trovi il tempo di fare. Mi viene in mente la sua controparte maschile, le cui uniche attività sono il sesso e la cucina, che tenta di combinare per non dover far fatica due volte. Quando arriviamo al dolce io sono già così pieno che potrei esplodere, ma la signora Pangerl porta in tavola questa immensa torta alla panna e io non posso dirle di no perché sarebbe blasfemia. Chakuza, però, è nato per rovinarmi l'esistenza, perché decide che proprio questo è il momento perfetto per dirlo. La donna che mi sta di fronte, e che ora mi porge una torta meravigliosa e all'apparenza soffice e dolcissima, deve averlo generato perché un giorno egli mi impedisse di godermela, anche se non so esattamente il perché.
Chakuza mi guarda per avvisarmi che sta per farlo e io immagino di scuotere la testa al rallentatore mentre dico qualcosa che però esce fuori distorto per l'effetto cinematografico. In realtà mi limito a deglutire e a trattenermi dall'alzarmi in piedi e fuggire agitando le braccia.
"Devo dirvi un cosa,” esordisce, tirando indietro la sedia e appoggiando il tovagliolo sul tavolo accanto al piatto con la torta intoccata. Visto il tono che ha usato, tutti capiscono che si tratta di qualcosa di serio, quindi gli prestano attenzione e a me sale l'ansia. Forse speravo che lui aprisse bocca e che nessuno lo trovasse abbastanza interessante da ascoltarlo.
La signora Pangerl posa il coltello con cui stava tagliando la torta e si siede composta, stringendo le labbra con un sospiro e lo sguardo preoccupato. “Che cosa succede, Peter? E' qualcosa di grave?”
"No, al contrario, direi che è una cosa molto bella,” dice. E mi guarda. No, non mi guardare Peter, ti prego, tuo padre è un uomo dell'ottocento, falla almeno sembrare una cosa da uomini e non da checche innamorate che litigano sui barattoli dei cetriolini sottolio e subito scappano dalle loro migliori amiche gay a farsi consolare. “Io e Patrick stiamo insieme.”
L'Austria in questo periodo ha una temperatura piuttosto mite e oggi c'è il sole, un cielo azzurro che viene voglia di sorridere e non un filo di vento; ma in questa stanza ci saranno due gradi, adesso.
Il quadretto famigliare con la torta di panna e la madre di famiglia con il grembiule si è ormai frantumato in mille pezzi e l'immobilità delle tre persone che mi stanno davanti è inquietante. Osservo quell'assenza di movimento con molta attenzione e mi sembra di avere davanti tre manichini; ho la stessa sensazione che mi prende ogni tanto quando mi capita di entrare in un negozio quando sta per chiudere e sembra che i manichini siano pronti a strangolarti appena volterai lo sguardo. Il manichino della signora Pangerl sembra addolorato e non so dire quanto mi dispiaccia di non aver avuto nemmeno il tempo di mangiare la sua torta e dirle quant'era buona prima di distruggere tutte le sue speranze in questo modo. Il manichino del signor Pangerl, invece, non ho il coraggio di guardarlo direttamente, lo faccio con la coda dell'occhio e lo trovo nella stessa posizione di prima. Non so decifrarne l'espressione del viso, ma di sicuro non è amichevole. Clara invece, se potesse, sarebbe già esplosa urlando, ma immagino che aspetti di avere almeno il via libera di sua madre, per non rischiare di assecondare il fratello mentre quella muore d'infarto ecco.
"Spero che possiate accettarlo perché facciamo sul serio,” continua Chakuza, credo per dare il colpo di grazia ai suoi genitori ed ereditare le mucche e tutta la baracca. “Viviamo insieme da un po' e,” fa un pausa e io vorrei strangolarlo prima che lo dica, ma so già che lo farà perché è lui e perché è scemo “in realtà qualche tempo ci è capitato di sposarci a Las Vegas.”
Sua madre emette un versetto incomprensibile e si accascia sulla sedia, ma è suo padre quello che fa più rumore scostandosi con forza dal tavolo e allontanandosi senza dire una parola.
"Papà!” Peter cerca di fermarlo ma quando si alza, suo padre ha già lasciato la stanza e Clara si è sentita in diritto di saltarci addosso squittendo come un'invasata.
"Lo sapevo! Lo sapevo! Passavate troppo tempo insieme e poi le foto alle premiazioni? E tutti quei messaggi su Facebook? Si vedeva lontano chilometri, non so come siete riusciti a tenerlo nascosto finora.”
Io mi chiedo di che foto e messaggi stia parlando. Io e Chakuza avremo in totale due foto pubbliche insieme, e per l'appunto mentre ritiravamo dei premi. E in quanto ai messaggi, Chakuza scrive per informare delle sue sbornie e del mal di testa, lo avrò al massimo preso per il culo. Non so cosa ci abbia visto lei.
Ad ogni modo non le presto più di tanta attenzione per il semplice fatto che la signora Pangerl si è alzata e mi si sta avvicinando molto lentamente, con le braccia tese di fronte a sé e io non so se voglia picchiarmi o cosa ma rimango immobile perché è piccola e fragile e se vuole scassarmi la faccia a sganassoni può farlo, perché un po' me lo merito. E invece lei mi abbraccia; o meglio si appende alle mie spalle finché io non mi chino un po' e allora lei mi stringe fra le braccia teneramente. “Benvenuto,” mi dice. “L'importante è che siate felici.”
E io le voglio già molto bene.

*


Dopo cena mi sono offerto di lavare i piatti e la signora Pangerl e stata con me ad asciugarli, chiedendomi mille cose fra cui tutti i dettagli di un matrimonio di cui non mi ricordo assolutamente niente se non che avevo bevuto fino a sfondarmi e che, da qualche parte accanto a me, Chakuza stava facendo lo stesso. Lei però sembrava così interessata che ho un po' abbellito i dettagli e poi ho cercato di distrarla con la mia fede e con la serie di aneddoti assurdi che ho collezionato vivendo in casa con suo figlio bene o male tre anni. Lei ha riso molto e mi ha raccontato di com'era lui da bambino, promettendo di selezionare qualche foto significativa dagli album di famiglia senza sottopormi alla tortura dello sfoglio completo, cosa che ho molto apprezzato.
In tutto questo, Peter si è chiuso nello studio con suo padre e ora che è quasi mezzanotte e io sono disteso sul letto in camera sua a guardare il soffitto, non è ancora rientrato.
Provo a mettermi nei panni di quell'uomo e a capire cosa prova. Non dev'essere facile riporre certe aspettative su un figlio e vederle infrante in questo modo. Per lui già sognava una carriera che Chaku non ha intrapreso, magari sperava che avrebbe avuto almeno una bella moglie e dei bambini e invece ci sono solo io e direi che questo è tutto il massimo che quell'uomo si può aspettare.
Peter si presenta quasi mezz'ora dopo, richiudendo piano la porta, convinto che io stia dormendo visto che me ne sto qui con la luce spenta.
"Peter,” lo chiamo piano, voltando la testa.
Lui mi sorride e mi si stende addosso, socchiudendo gli occhi. “Ehi.”
"Com'è andata?” Gli tolgo il cappellino e lui si sistema meglio sul mio petto, mettendosi comodo.
"Come pensavo,” risponde. “Non ne vuole sapere. Ha ricominciato a parlare di fasi, poi mi ha accusato di farlo apposta e infine si è solo lamentato, chiedendosi dove ha sbagliato con me. Ci sono già passato.” Trattengo il fiato e lui sospira. “Scusa. Era solo per dire che—”
"Non importa,” sorrido perché ha capito da solo ed è un grande traguardo per lui. Gli faccio i cerchiolini sulla testa per punizione, però. “Quindi?”
"Non lo so, vediamo domattina. O smetterà di parlarci, oppure fingerà che la cena non sia mai avvenuta e che io non gli ho detto assolutamente niente.”
"C'è speranza che ci ripensi?”
Lui mugola contrariato e quindi comincia a muoversi, una cosa che mi aspettavo già qualche secondo fa ma si vede che la chiacchierata con suo padre gli ha sconvolto le tempistiche. “Non credo che succederà in tempi brevi, è piuttosto testardo.”
"Chissà da chi hai preso,” rido, mentre mi bacia il collo. “Io devo ancora disfare i bagagli, comunque.”
"Lo farai domani,” annuisce lui, aprendomi le gambe con un ginocchio e una pratica ormai collaudata. Mi sconvolge ogni volta la naturalezza con cui passa da uno stato mentale all'altro senza passare dal via, anche se il primo magari non è proprio il massimo per scopare. Tipo quando tuo padre ti ha appena ripudiato perché sei gay, ecco.
Quando allunga le mani le intercetto e le stringo, guardandolo con un mezzo sorriso. “Tu non vuoi davvero farlo su questo letto,” dico. “E' quello di quando eri piccolo.”
Lui cerca di liberarsi senza convinzione, ma io lo tengo stretto, per cui ci ritroviamo semplicemente a muovere le mani intrecciate. “Scherzi?” Dice, interrompendo per un istante il suo lavoro da certosino sul mio collo, solo per brillare di luce propria direttamente da dietro le orecchie. “E' uno dei miei sogni erotici.”
"Farlo nel letto di quando eri bambino?”
Lui annuisce e mi si siede sulle gambe, liberando finalmente le mani. “Quindi ora ti spogliamo,” dice tirandomi via la maglietta. “E tu mi aiuti a realizzare questo sogno.”
"Potrebbero sentirci,” tento di nuovo, mentre lui è già passato ai pantaloni.
Chakuza mi si stende addosso del tutto incurante delle proteste che ho già esternato e riesce a bloccare anche quelle successive semplicemente perché sa dove mettere le mani. Alla fine cedo, come se ritrovarsi in mutande sotto di lui non fosse già un silenzio assenso sufficiente, e siamo già molto presi quando lo scricchiolio inizia, dapprima debole per poi diventare sempre più forte, al punto che ogni volta che Chakuza prova a spingersi un po' più forte qua traballa tutto e il letto geme così forte che ho seriamente paura che qualcuno corra a vedere se non è successo qualcosa. Lui naturalmente finge che la cosa non gli interessi, si concentra ma lo gniko gniko che ci accompagna nel movimento distrugge la poesia a randellate e io non posso fare a meno di scoppiare a ridergli in faccia e poi accasciarmi sulla sua spalla e continuare a farlo, costringendo lui a fermarsi.
Rimane spiaggiato su di me ancora un po', finché non finisco di ridere, forse nella vana speranza che riprenderemo se aspetta abbastanza, ma poi si rassegna e borbotta qualcosa di incomprensibile fino ad affondare la faccia nel cuscino di fianco a me.
"Voglio scopare,” piagnucola dopo un po'.
Non c'è niente di più catastrofico per lui che non farlo. Già l'astinenza totale lo destabilizza fino a farlo diventare un'altra persona – una con la quale io generalmente non voglio avere a che fare – ma quando inizia e qualche fattore esterno gli impedisce di finire, il suo mondo va in pezzi lasciandolo solo in una valle di tenebra senza via d'uscita.
Così sospiro e gli accarezzo la schiena. “Lo faremo molto presto,” gli dico e di questo non ho alcun dubbio. Non so come e non so quando, ma lui troverà il modo di schienarmi senza che rumori molesti di alcun genere mi distraggano dal nostro obbiettivo primario.
Lui mugugna e nasconde la testa sotto al cuscino, spostandosi a disagio perché il suo corpo non si è ancora accorto che non abbiamo intenzione di combinare. “Un massaggio?” Mi offro.
"Grazie, ma la situazione potrebbe solo peggiorare.”
A me scappa da ridere, ma sono tanto bravo che non lo faccio. Non so se intenerirmi o scuotere la testa di fronte alla sua totale incapacità di gestire il proprio corpo. So che non è facile mettere il freno quando hai preso il via – sono un uomo anch'io e siamo qui per dimostrarlo – ma non ha più quindici anni, quindi dovrebbe essere in grado di tornare a controllarsi se la situazione lo richiede. E invece no, lui può solo soffrire in silenzio.
Rimango nella mia metà del letto e mi rimetto i pantaloni, tornando a guardare il soffitto che ha ancora attaccate delle stelle fosforescenti che adesso brillano un po'. Alla fine, lui un po' si riprende, striscia fuori dalla sua tana e torna ad abbracciarmi, sistemandosi comodo e senza rischi contro il mio fianco. “Dormiamo?” Mi chiede e sembra più stanco di quanto non sarebbe se avessimo effettivamente concluso qualcosa. Io annuisco e chiudo gli occhi.


*


La prima cosa che noto, aprendo gli occhi la mattina dopo, è una ciocca di capelli. In un primo momento mi rimetto a dormire perché sono stanchissimo, ma poi nel mio cervello si fa strada il pensiero che non ho più famigliarità con i capelli al mattino da almeno due anni, se si esclude la parentesi di Danny che comunque dorme con il codino, quindi i suoi capelli non si spargono in giro. Chakuza non ne ha e io continuo a tagliarli così spesso che a volte il parrucchiere mi manda via quando mi vede entrare, perché dice che non ha niente da tagliare e lo sto prendendo in giro.
A quel punto sono costretto a svegliarmi davvero se voglio risolvere il mistero dei capelli in questo letto e lo faccio sbattendo le palpebre più volte e cercando di stirarmi, per scoprire che non posso farlo perché il mio corpo è pressato tra altri due. E questo è inquietante.
Alle mie spalle Chakuza continua a dormire pacifico e mi tiene un braccio intorno alla vita, russandomi direttamente nelle scapole, tanto che il rumore me lo sento rintronare anche nella pancia. Fin qui tutto normale.
Davanti a me, però, dove ho paura di guardare, c'è una cascata di capelli biondo rossicci, una maglietta rosa aderente e la curva morbida di un fianco, tutti appartenenti a Clara.
Resto fermo e mi fingo morto.
Qualunque cosa sia successa ieri sera dopo la cena in famiglia, io non c'entro, signor Pangerl, glielo giuro. Sono sicuro che i suoi figli mi hanno drogato per poi abusare di me. La prego non mi uccida.
Nella situazione contingente il sonno mi passa del tutto, all'improvviso sono fresco come una rosa e devo capire cos'è successo. Quello che so per certo è che io non mi sono mosso da questo letto da quando abbiamo dovuto rinunciare a copulare perché scricchiolava e, a meno che uno di noi due non sia sonnambulo e sia andato a prendere Clara in camera sua – cosa altamente improbabile – allora è lei che si è intrufolata in questa stanza e, ancora più importante, in questo letto. Tra l'altro, ora che ci penso, se lei è entrata vuol dire che la porta era aperta, e se era aperta significa che ieri sera stavamo per scopare senza aver chiuso a chiave in casa dei suoi genitori. Io questo nano lo ammazzo.
Potrei continuare a fare ipotesi per ore, pur di rimanere immobile e non toccare la ragazzina nemmeno per sbaglio – che è una cosa difficile visto che è rannicchiata contro il mio corpo – ma lei decide di svegliarsi e lo fa allungandomi le braccia e le gambe addosso, fino a spalancarmi due occhi verdi identici a quelli del fratello direttamente davanti alla faccia. “Buongiorno,” mormora.
"Cosa ci fai tu qui?”
Lei ridacchia, prima di sbadigliare. “Perché?” Mi chiede, come se fosse normale che la sorella di mio marito dormisse nel letto con noi dopo che ha ormai passato da tempo i quattro anni d'età che l'avrebbero giustificata a farlo. “Non hai mai dormito con una ragazza?”
Questa è come Peter, ma uguale proprio.
"Sì, e potevano tutte votare,” ritorco. “Ora vuoi rispondermi e uscire da questo letto, per favore?”
"In quest'ordine, sei sicuro?”
"Clara,” sibilo, voltandomi a controllare Chakuza che però continua a dormire come se niente fosse. La tragedia di ieri sera gli ha tolto ogni forza.
"Stai tranquillo che non lo svegli con niente quando è in questo stato,” sussurra lei divertita. Poi alla fine disincastra le gambe dalle mie e non si dimentica di agitarle in aria prima di scendere dal letto. Cosa ne sa lei in che stato è lui, poi. “Comunque ieri sera sono andata a ballare, ho bevuto qualcosa, devo aver sbagliato stanza. Sono abituata collassare sul primo letto disponibile che generalmente è questo. Camera mia è al piano di sopra,” aggiunge con una faccia che è tutto un programma. “Così, in caso volessi saperlo.”
Sono allucinato di fronte alla sua faccia tosta. Sono sicuro che se Chakuza fosse nato donna sarebbe esattamente così; anche lei, come suo fratello, parte dal presupposto che io accetterò questo tentativo di seduzione adolescenziale, anche se sostanzialmente l'ho buttata fuori dal letto e la sto spingendo fuori dalla camera. Non legge i segnali che le mando, tanto è convinta di far centro con i suoi. La cosa più preoccupante è che, se davvero condivide con Peter questa parte di codice genetico, significa anche che non prenderà mai in considerazione un no come risposta e io non posso davvero sopportare due Pangerl. La metto nel corridoio quasi di peso. “Resta lì!” ordino, nemmeno fosse un cucciolo di cane a cui non è permesso entrare nella stanza. Sono disposto a legarla fuori se necessario. Richiudo la porta che lei sta ridacchiando e mi ci appoggio, tirando un sospiro di sollievo.
Questa casa è un inferno, ci sono Chakuza da tutte le parti.
Dopo un po' che sono lì in piedi, riapro la porta e mi sorprendo di non trovare Clara in mezzo al corridoio dove l'ho lasciata. Guardo a destra e a sinistra ma di lei non c'è più traccia e allora posso convincermi che l'ho sognata e che niente di ciò che ho vissuto in questi dieci minuti è mai avvenuto davvero.
"Che stai facendo?” La voce di Chakuza mi arriva che sono ancora mezzo dentro e mezzo fuori.
Rientro di scatto e chiudo la porta. “Niente! Ho sentito dei rumori e sono andato a controllare.”
Lui, che fino ad un secondo prima dormiva a pancia sotto e si era tirato su solo quel tanto che bastava a girare la testa e a guardarmi, come una foca, per intenderci, mi squadra con un occhio chiuso e uno aperto. Non sono nemmeno tanto sicuro che sia veramente sveglio. Alla fine scuote la testa e torna ad infilare la testa tra i cuscini, distendendo quell'enorme tatuaggio che ha sulla schiena. “Torna a letto. E' l'alba, cazzo.”
In realtà la sua sveglia di Superman sul comodino segna le nove meno un quarto, ma immagino che non sia il caso di farglielo notare. Salgo sul letto e, come mi stendo, lui mi avvolge un braccio intorno allo stomaco, tirandomi un po' più vicino.
"Che programmi abbiamo per oggi?” Chiedo, notando che le stelle sul soffitto sembrano sparire quando le inghiotte la luce del mattino che filtra appena dalle finestre. Sono troppo poetico per questa stanzetta e per lui che grugnisce di nuovo. “Alba” e poi “Dormi.”
L'alternativa sarebbe aggirarmi per casa in cerca di cibo con il rischio di incontrare suo padre o sua sorella, così mi stendo buono accanto a lui e, anche se non avevo più sonno, tra il suo calore e il generale senso di sicurezza che provo adesso che siamo di nuovo da soli io e lui, mi riaddormento come un bambino.

*

Quando dico che quest'uomo è pazzo, non lo dico tanto per dire. Io lo conosco, lo so come funzionano i suoi processi mentali e come s'incastrano le sue mille rotelline in rame. Dopo anni di frequentazione e numerosi sbagli, ora posso osservare il caos che lo governa e comprenderne a fondo i profondi abissi di tenebra. Sfortunatamente, questo mio fenomenale potere cosmico non mi aiuta ad impedire le sciocchezze che fa, ma solo a comprenderle una volta che le ha compiute. Così quando, finalmente, verso le undici si sveglia, io lo so già che il suo obbiettivo della giornata sarà una superficie che non cigoli, glielo leggo negli occhi a tavola, mentre sua madre ci riempie fino a scoppiare di qualsiasi cosa abbia in casa, scusandosi perché la torta si è bruciata e non ha fatto in tempo a farne un'altra.
Quello che non sapevo, e lo so ora, è che il posto perfetto per dare sfogo ai suoi istinti animali ce l'aveva già in mente – forse perfino da ieri sera – e che se me l'avesse detto in anticipo non ci saremmo mai mossi per raggiungerlo.
In pratica, dopo aver lasciato che sua madre mi mettesse all'ingrasso, mi dice di mettermi un paio di scarpe da ginnastica e poi mi trascina su per questa collina erbosa che da sotto non sembra, ma appena ci metti un piede sopra diventa ripida.
"Dove andiamo?” Chiedo, cercando con gli occhi un cartello per orientarmi ma qui c'è solo prato per chilometri a perdita d'occhio, quei prati verde smeraldo che sembrano di plastica da quanto sono perfetti e brillanti. E case, naturalmente, centinaia di case sparse come se una mano gigantesca avesse fatto cadere sulla valle una manciata di segnalini del Monopoli.
"Ti porto a vedere il pascolo,” fa lui, con le mani in tasca come fosse un vecchio montanaro navigato, quando fa fatica pure a salire le scale. “Da lassù si vede tutta la valle.”
"Che cosa romantica,” lo prendo in giro. “Scommetto che ci porti tutti i tuoi fidanzati.”
Lui soffia dal naso, che non vuol dire che è arrabbiato ma solo stanco di vivere, una condizione in cui si trova spesso. Ci sono momenti in cui è euforico oltre il sopportabile e momenti, come questo, in cui si guarda intorno e vede solo desolazione, anche se magari siamo in mezzo al verde, il cielo è azzurro ed è tutto perfettamente stupendo.
"Solo quelli che ho fatto conoscere a mia madre,” mi risponde mentre arriviamo in cima e imbocchiamo un sentiero minuscolo che serpeggia fino ad insinuarsi dentro un boschetto. In giro non c'è nessuno e io mi chiedo dove siano tutti gli altri austriaci.
“E sono molti?”
"Solo uno”, replica lui. Bill, beccati questa.
Sono così preso a bearmi virtualmente con la Principessa per essere arrivato dove lei non è riuscita, che non mi accorgo di lui che si è fermato e gli vado a sbattere contro. E' fortunato ad avere due spalle enormi perché io sono il triplo di lui e lo cappotterei se non fosse tanto sproporzionato. Il quasi tragico incidente, comunque, non sembra scuoterlo per nulla. Anzi, continua a scrutare non so bene cosa di preciso e io prima guardo lui, poi nella direzione generale del suo sguardo, poi di nuovo lui e non riesco a capire che cosa ci sia di tanto interessante da vedere. Quando sto per chiedergli perché, di grazia, siamo in piedi come due scemi in mezzo ad un bosco, lui stende un braccio e dice: “Là!” partendo in quarta.
Io lo seguo, più per evitare che si faccia del male che per vera e propria curiosità e quando lo trovo che sorride come un ebete sotto non so quale albero, non so bene cosa fare perché non aveva mai mostrato segni di demenza prima di adesso. “Qui è perfetto,” mi spiega, sollevando le fronde più basse che strisciano quasi a terra e mostrandomi il nascondiglio che esse racchiudono.
"Avevi detto che c'era un pascolo,” protesto, quando capisco dove stiamo andando a parare. “Io voglio vedere le mucche. Dove sono le mucche?”
"Sono qui intorno,” dice vago. E per intorno immagino intenda quei duemila chilometri di campi che ci circondano, dove se una mucca poco poco si allontana per fare una giratina, può anche sentirsi molto sola. “Vieni?”
Lo guardo, lì seduto a terra che mi tende le mani, e penso che mio marito mi ha mentito per attirarmi in un cespuglio e approfittare di me, questo matrimonio è un disastro.
"Voglio il divorzio,” protesto ancora mentre mi lascio stendere a terra, dove non è scomodo come pensavo perché l'erba è alta e morbidissima.
"Perché non ti faccio vedere le mucche?” Chiede lui ridendo e salendomi addosso con disinvoltura, come se in un momento non meglio precisato tra casa sua e questa tana da conigli gli avessi detto che non vedevo l'ora di farmi possedere sul terriccio umido, fra le braccia stesse della sacra madre terra d'Austria. Vorrei sapere quand'è successo perché io non me lo ricordo.
Come ho già detto e come ormai già sapete, perché questa lunga saga è moltissime cose fra cui un documentario sui nostri riti di accoppiamento, Chakuza, quando sa di poter andare a segno, perde la cognizione di quello che gli sta intorno, così che se, per assurdo, fossimo colti da un terremoto nel bel mezzo di un amplesso, lui prima concluderebbe e poi forse – se ha ancora abbastanza forza – si farebbe prendere dalla preoccupazione che ci si aspetterebbe da lui in un caso simile. Ci è successo di tutto mentre scopavamo, ma lui niente, dritto per la sua strada come se nulla fosse. Una volta la lavatrice ha cominciato a perdere, ma lui non se n'è accorto nonostante tentassi di avvisarlo da dieci minuti e lui stesso fosse immerso nell'acqua fino alle ginocchia.
Questa volta non è da meno, perché la sua volontà di interagire con me a parole si esaurisce nel momento stesso in cui riesce a stendermi ed infilarmi una mano sotto la maglia. In questo posto mi è più facile lasciarlo fare, soprattutto perché nessuno della sua famiglia può sentirci e questo è un bene, anche di fronte all'ipotesi che a scoprirci sia invece la forestale che ci metterebbe in galera e butterebbe via la chiave. Qualunque cosa è meglio dell'idea che suo padre capiti per caso in una stanza e trovi me piegato a novanta sul suo tavolo da biliardo dell'800 e suo figlio che manda in buca la palla numero otto con un colpo di fianchi.
Gli accarezzo un braccio e risalgo fino alla spalla e alla nuca, dove la mia presa si fa più salda.
Io sono un tipo che si perde nei baci, ma non in tutti quanti, solo quelli a misura mia e Chakuza ha imparato alla grande anche se non era partito esageratamente bene, così lo tengo lì a baciarmi finché non mi fanno quasi male le labbra e poi lo lascio andare e rilasso i muscoli delle spalle e anche tutti gli altri mentre lui si scosta per armeggiare con la sua cintura e lascia a me il compito di pensare alla mia.
Così, visto che dopo questo sarà probabilmente una cosa molto sbrigativa, perché Chakuza sta contando le ore e non avrà la forza mentale di rendere il tutto un momento particolarmente intenso, decido di prendermela comoda almeno nel denudarmi, nella speranza che il troll della foresta, qui, non si faccia venire un attacco di rabbia e mi strappi i vestiti a morsi per poi scuotere la testa in preda alla furia del momento come un un dobermann impazzito o che so io. Chakuza si trattiene, fa il bravo, ma mi infila le mani nelle mutande il secondo che ho finito di togliermi la cintura. Comunque non mi lamento perché le sue carezze sono più lente di quello che mi aspettavo e posso godermi il momento in cui mi prepara, con tutta la calma del mondo.
Il problema è che le sue mani sono così calde e lui così bravo che evidentemente non sento il rumore e di certo non lo sente lui, ormai perso nel suo mondo alla ricerca dell'orgasmo perduto, così non me l'aspetto proprio quando, aprendo gli occhi in preda all'estasi, mi ritrovo davanti due narici gigantesche e un naso rosa e tondo che occupa tutta la mia visuale.
Tiro uno strillo così acuto che mi vergognerei di me stesso se non fossi terrorizzato e faccio un salto di mezzo metro, sgroppando Chakuza che rotola via non so dove mentre io mi allontano correndo e tirandomi su i pantaloni di corsa. “Che cazzo è?” Urlo, senza nemmeno voltarmi. Mi fermo a venti metri di distanza solo quando sento il muggito un po' contrariato.
Chakuza scosta le fronde dell'albero con una mano ma resta dov'è, tanto che dietro alla rotondità della sua testa nuda vedo anche parte della mucca che agita le orecchie.
Mi schiarisco la gola, un po' imbarazzato. “E' una mucca,” dico in tono casuale, cercando di darmi un contegno.
"Che cosa pensavi che fosse?” Chiede contrariato. Ha lo sguardo di quando succede qualcosa che proprio non doveva succedere. Per esempio Bushido.
"Non lo so, ma è spuntata dal nulla.”
La mucca muggisce di nuovo e agita la coda.
Chakuza espira scuotendo la testa, ma non sembra convinto; un po' come quando lui dice qualcosa che oggettivamente non ha alcun senso e tu non puoi fare nient'altro che fissarlo allucinato mentre ti rendi conto che crede davvero di avere ragione. Ecco, ora lui mi sta guardando così, ma non ha alcun diritto di farlo, innanzitutto perché è lui e poi perché non ho detto una cosa assurda. Non è colpa mia se sono stato vittima di un agguato.
"Voleva mangiarmi la faccia,” concludo.
"Le mucche sono erbivore,” dice Chakuza, prima di rientrare nel suo talamo di verdura.
Lo seguo, ma con cautela. “Sei sicuro?” Chiedo, affacciandomi. Come metto la testa dentro, la mucca si gira verso di me e muove le orecchie.
"Sono quasi sicuro di sì,” commenta ironico, raccogliendo le nostre maglie e passandomi al volo la mia. “D'altronde hai mai sentito di uomini sbranati da un branco di pezzate?”
Io non ho idea di che cosa stia parlando, ma sto zitto e guardo la mucca mentre mi metto la maglia. Lei se ne sta pacifica lì dove l'ho lasciata e mastica erba con una lentezza che mi ricorda Eko quando mangia davanti alla TV. “Non ne avevo mai visto una da vicino.”
Chakuza si sistema la maglia e, con un gesto del tutto inutile, si passa una mano sulla testa prima di mettersi il cappellino. Lo fa di continuo e non ne vedo il motivo, visto che non ha capelli da sistemare. Temo che sia uno di quei gesti automatici che, imparati ad un certo punto della vita, poi non te li levi più. Tipo, avevo un amico che ha portato per anni gli occhiali da vista e quando finalmente si è messo le lenti, continuava a rimettere a posto la stanghetta come se l'avesse avuta ancora sul naso. “Come non hai mai visto una mucca?”
"Da vicino. Insomma viva, che non fosse in televisione oppure morta dal macellaio.”
Lui sembra sconvolto. “Non sei mai stato in una fattoria, da piccolo?”
“No, Chaku,” sbotto, anche un po' infastidito. “Non andavo da nessuna parte da piccolo perché non avevo soldi per farlo e nessuno dei miei vicini aveva una mucca.”
“Scusa,” sospira e, come ho già detto, è tipo un miracolo equiparabile solo alla comparsa della Madonna. “E' solo che mi è capitato di sentirlo dire solo dai bambini dell'asilo.”
"Stai peggiorando la situazione.”
"No, non volevo dire—Dico solo che quando porto le persone a vedere le mucche, generalmente le hanno già viste e vengono a vederle solo perché non è che ci sia molto altro da fare da queste parti e passano il tempo così. A meno che non siano bambini piccoli, allora è tutta un'altra storia perché è molto facile che quella sia la prima volta che vedono una mucca dal vivo.”
“Con quanti bambini hai avuto a che fare in vita tua, Chaku?” Sputo acido. Poteva fermarsi alle scuse, invece di perdersi a raccontare banalità varie ed eventuali.
"In realtà un sacco,” dice lui, accarezzando la mucca sulla testa. “Quando ero più piccolo e vivevo qui, venivano spesso le scolaresche a fare il giro dell'allevamento e a vedere gli animali e la produzione del latte. A volte capitava che mio padre avesse da fare, così il giro nei recinti lo facevo io.”
All'improvviso mi si forma in testa quest'immagine di Chakuza a petto nudo con la salopette di jeans e il cappello di paglia in testa – forse a quel tempo era ancora biondo platino – che spiega le mucche ai bambini affascinati, masticando una spiga di grano. Ho bisogno di tornare alla civiltà e allo smog, mi sembra evidente.
"Forza, vieni qui,” mi invita lui, incoraggiante. “E' una delle nostre, vedi?”
Per vedere il cartellino attaccato all'orecchio della mucca, che lui mi sta indicando, mi tocca avvicinarmi, ma me ne accorgo troppo tardi. E' subdolo, ora capisco come faceva ad ingannare i bambini. Comunque, a quel punto sono a due passi da lei, la mucca dico, quindi tanto vale restare. Scruto il cartellino ma ci sono sopra un sacco di numeri e timbri, quindi prendo per buono quello che mi dice lui.
"Quindi la conosci,” commento, squadrandola.
Chakuza ridacchia, grattandola dietro le orecchie. “Non siamo proprio amici amici, ma l'ho già vista da queste part. Qualcuno deve avermi detto che si chiama Carolina.”
Lo guardo storto. “Ti rendi conto che non ho cinque anni, vero?”
"Sì, è divertente per questo,” confessa lui, sorridendo con una tale faccia da schiaffi che i suoi zigomi rotondi si sollevano e diventano di un rosso acceso.
Quando è così allegro è anche molto dispettoso e io non so mai se baciarlo perché è bello o se picchiarlo perché è insostenibile. Alla fine decido per la via di mezzo e gli tiro un pugno non troppo forte.
Io e Carolina facciamo amicizia senza troppi drammi; anzi, lei non sembra neanche particolarmente interessata alla mia presenza. Se ne sta lì a masticare mentre le accarezzo la testa e il naso, finché non mi stanco e decido che le mucche sono animali molto noiosi.
Mentre torniamo verso casa, Peter continua ad essere felice e questa cosa mi preoccupa perché non ha scopato e dovrebbe essere talmente incazzato da attirare sulla valle grossi nuvoloni neri che portino nubifragi, perché se lui soffre anche gli altri devono farlo. E invece niente, cammina tranquillo lungo il sentiero e mi prende anche per mano. Sì, sbandieriamo il nostro orgoglio fra queste montagne, che se ci vede tuo padre ci brucia vivi.
Non che mi dispiaccia vederlo così rilassato e affettuoso, ma non è normale, potrebbe essere shock postraumatico, non devo sottovalutarlo; anche perché, se è solo l'effetto della campagna, ricopro il salotto di erba finta, compro una mucca e quando gli prende brutta lo chiudo lì dentro. Chissà quanto costa una mucca? Magari ne prendo due.

*

Il pranzo a casa Pangerl sarebbe esattamente come la cena a casa Pangerl, se ieri non avessimo dato la lieta novella del nostro matrimonio. Così sua madre mi trova deperito e mi riempie di cibo anche oggi, sua sorella mi guarda masticando con l'aria di una che ha in mente di fare cose diaboliche e Chakuza viviseziona l'arrosto per scoprirne i segreti, solo che il tutto avviene nel silenzio pesantissimo del capofamiglia che mangia senza guardare niente e nessuno.
Io so che non dovrei sentirmi in colpa, perché di sicuro non è colpa mia se mi sono innamorato del figlio di quest'uomo e di certo lui non può sapere quanto ho sopportato per questo nano da giardino che ha generato trent'anni fa. Di certo non è per dispetto che abbiamo deciso di stare insieme, però lo capisco e so anche che non dev'essere facile accettarlo. In fondo non è il primo e non sarà l'ultimo che, alla notizia, non ci abbraccia festoso. Ci è andata anche bene che non ci ha buttato fuori di casa a calci in culo, e questo Chakuza non lo capisce. Forse pensava che sarebbe bastato dirlo e – siccome lui non ha problemi – non ne avrebbe avuti nemmeno suo padre. Il problema di Chakuza è che è incapace di vedere le cose dal punto di vista degli altri e questo gli capita sempre, sia quando ha torto che, come in questo caso, quando ha ragione e, in entrambe le occasioni, la sua reazione è di chiudersi a riccio e non volerne sapere di risolvere la questione. Così adesso taglia la carne con gli occhi inchiodati al piatto e la mascella serrata. Fa uno strano effetto vederlo così dopo che era entrato così contento. Immagino che tutto il suo buonumore sia andato a farsi benedire nel momento in cui suo padre ha a malapena notato la nostra presenza quando lo abbiamo salutato. Il punto è che conosco Chakuza e so che è testardo come un mulo, di questo passo non farà mai pace con suo padre, ammesso che si possa.
Mi schiarisco la gola e quando parlo mi spavento da solo perché siamo in silenzio da un po' e, in confronto al tintinnio delle posate, la mia voce è molto più forte. “Sa, signor Pangerl, oggi siamo stati a vedere l'allevamento.”
D'accordo, più che altro abbiamo visto una mucca particolarmente curiosa e invadente, ma io avevo bisogno di un argomento di conversazione che potesse interessarlo, e non ne conosco altri. Se gli dico che ho una mezza idea di dare il via ad una linea di vestiti potrei solo peggiorare la situazione.
Lui rimane in silenzio ma almeno dimostra di avermi sentito, ondeggiando la testa su e giù.
“Peter mi ha detto che organizzate anche visite scolastiche,” continuo incerto, visto che la grande idea non ha sortito l'effetto sperato.
“Facciamo molte cose sì,” commenta lui vago.
“E' un'azienda molto grande, da quanto mi pare di capire.”
“Non aveva mai visto una mucca dal vivo prima d'ora,” s'intromette Peter, che forse c'è arrivato a capire quello che vorrei fare.
Suo padre rimane in silenzio per un tempo infinito e, quando poi parla, avrei preferito che non lo facesse. Nel progettare questo tentativo di fare quattro chiacchiere innocenti mi sono dimenticato di un particolare fondamentale, ossia che ho davanti la versione precedente del Chakuza. E' un Chakuza 1.0 e se già la versione aggiornata fatica a stare al passo, posso solo immaginare di cosa sia capace di non afferrare il prototipo. “L'azienda ha una secolare tradizione di famiglia,” m'informa, pulendosi i baffi rossicci con il tovagliolo. “Il mio bisnonno la passò a mio nonno, che la passò a mio padre che l'ha passata a me. E io, naturalmente, la passerò a Peter quando si sposerà.”
Trattengo il fiato e sento la signora Pangerl fare lo stesso.
”Papà,” sbuffa Clara.
“Allora sarà meglio cominciare a preparare i documenti,” commenta Chakuza. Io gli stringo un ginocchio da sotto il tavolo ma lui va avanti lo stesso. “Ti ho detto ieri che ci siamo sposati.”
Suo padre appoggia gli avambracci al tavolo e lo guarda dritto negli occhi. “Parli di un matrimonio che non ha nessun valore qui in Europa.”
“Questo non è un problema mio,” commenta lui.
I lineamenti del signor Pangerl si fanno ancora più duri. “Ne discuteremo in un secondo momento, quando questa cosa ti sarà passata.”
Provo un improvviso moto di rabbia, il primo da quando sono qui, quando lo sento dire che si tratta di una cosa. Io e Chakuza abbiamo una cosa, è vero, ma nessuno è autorizzato a definirla tale tranne me e lui, soprattutto chi non ne sa assolutamente niente.
“Ne abbiamo già discusso. Non ho più quindici anni, questa non è una fase,” esclama Chakuza, severo. “E a dire la verità non è neanche una scelta. E' così e basta. Fossi in te mi abituerei all'idea, perché questo sarà l'unico matrimonio che otterrai da parte mia.“
“Prendo il dolce?” Si intromette la signora Pangerl, con una nota nervosa nella voce. Siamo tutti impegnati a guardare intensamente cose di nessuna importanza e nessuno le risponde, così lei si risponde da sola. “Prendo il dolce,” dice, alzandosi, suppongo, per allontanarsi il più velocemente possibile da tavola. Quando torna con lo strudel c'è un silenzio tombale, Chakuza se n'è andato da tavola e io non so cosa fare.
Clara, la signora Pangerl e io ci guardiamo, mi fanno un mezzo sorriso incoraggiante.
Almeno il dolce, penso, è buono.

*


Alla fine riesco a lasciare la tavola senza dare l'impressione di darmela a gambe, nonostante lo sguardo severissimo del signor Pangerl che mi guarda come se fossi la causa di tutti i mali del mondo, quando, invece, Chakuza sarebbe sicuramente più adatto a ricoprire il ruolo; ma immagino di non poter pretendere che lo riconosca, visto che è suo figlio.
Cerco Peter praticamente per tutta la casa senza trovarlo e mi prende anche l'ansia che abbia preso la macchina e sia tornato a Berlino, dimenticandomi qui. Una persona normale non lo farebbe, ma lui non è normale, quindi nemmeno mi stupirebbe alla fine.
L'auto però è sempre fuori dove l'abbiamo parcheggiata, quindi lui dev'essere qui da qualche parte e, piccolo com'è, potrebbe trovarsi davvero ovunque.
Dopo la terza volta che apro la porta del ripostiglio per scoprire che Chakuza non è comparso magicamente sugli scaffali delle marmellate, Clara ha pietà di me e, annunciando la sua presenza con una risatina, mi dice che suo fratello quando è furioso si barrica nel fienile e rimane lì per delle ore. “E' molto probabile che lo trovi là dentro.”
Io ringrazio e quindi esco, saluto la nonna di Peter che riesce a vedermi, non so come, anche a duecento metri di distanza con un occhio cieco e quindi individuo il fienile appena dietro la casa. E' una costruzione gigantesca e, sinceramente, non so cosa se ne fanno visto che le mucche non stanno lì. Smetto di chiedermelo quando apro la porta e vedo che il Chaku sta praticamente prendendo a pugni e calci tutto ciò che si trova per le mani. E' ricoperto di paglia e fieno dalla testa ai piedi e ringhia un'imprecazione dopo l'altra mentre se la prende con una povera scala di legno. “Ehi,” lo chiamo, ma lui mi ignora, si abbatte con tutto il peso sulla scala che cade a terra facendo un gran fracasso. Immagino che se non corrono qui a vedere cosa sta succedendo, sia solo perché ci sono abituati.
“Peter,” lo chiamo di nuovo, avvicinandomi. Lui tira un calcio alla scala a terra, ma poi si ferma e sbuffa dal naso, irrequieto. “Non c'è bisogno che tu distrugga questo posto.”
“Invece sì,” sbraita lui. “Devo spaccare qualcosa.”
Ha accumulato un sacco di rabbia in questi due giorni e adesso deve scaricarla da qualche parte, così non ha pace nemmeno da fermo. Gli prendo il viso fra le mani e lo costringo a guardarmi negli occhi. “Ehi, va tutto bene,” dico sorridendo.
“No che non va tutto bene,” borbotta lui. “Non vuole capire.”
“Dagli tempo, non è facile nemmeno per lui.” Poi rido. “Non ci sei nemmeno andato leggero. Gli hai detto anche che siamo sposati.”
Lui sgrana gli occhi verdi, quasi oltraggiato. “Beh è vero.”
“Lo so, ma in questi casi si preferisce dire le cose per gradi, sai?” Rido ancora. “Non, ciao papà sono gay e mi sono sposato.”
Lui mi guarda storto, ma un po' sorride. “Mi piace dirlo,” mormora alla fine, in uno di quei momenti spiazzanti in cui dice cose bellissime senza averne la minima idea.
“A me piace sentirtelo dire,” appoggio la fronte alla sua e chiudo gli occhi, quando lui mi stringe un po' i fianchi. Rimaniamo lì in piedi per qualche minuto e lo sento calmarsi, anche il suo cuore contro il mio rallenta. “Dicevi sul serio sul matrimonio?”
“Uh?”
“Hai detto che questo è il tuo unico matrimonio." Improvvisamente mi sento in imbarazzo.
Lui solleva lo sguardo e, nel farlo, le sue labbra sfiorano le mie, così si prende del tempo per baciarmi molto lentamente, prima di rispondere. “Non lo so, dipende.”
Nel cono d'ombra tra i nostri volti lo vedo sorridere appena. “Da cosa?”
“Da cosa vuoi tu. Non posso rimanere sposato un'eternità da solo, ti pare?”
Divento rosso, credo. Ovviamente non lo so, ma ho le guance calde quindi è probabile. E' frustrante come niente mi imbarazza come lui con due parole. Immagino che anche questo voglia dire qualcosa. “Ho un anello bellissimo,” scherzo, pensando alle nostre fedi pacchiane e disuguali. “Credo che lo terrò ancora per un sacco di tempo.”
“Era quello che speravo.”
Quello che succede subito dopo è praticamente da manuale – il nostro, intendo; ma stavolta non è solo lui ad averne voglia. Mentre mi tira per la maglia verso un cumulo di fieno, spero distrattamente di aver chiuso bene la porta, quando sono entrato, ma ci sono poche speranze che l'abbia fatto perché quando sono arrivato non avevo idea di cosa aspettarmi e di certo non sapevo che avremmo finito per scopare in un fienile come nei peggiori romanzetti rosa per casalinghe disperate. Onestamente, però, non trovo il tempo di preoccuparmene mentre ci spogliamo. Per una volta, Chakuza fa le cose con calma e gli riesce talmente bene che si fa perdonare per tutte le volte che non l'ha fatto.
Ci accarezziamo guardandoci negli occhi e mi piace vedere i suoi che lentamente si fanno più torbidi mentre si perde nello stesso istante in cui mi perdo io.
Ripenso al motivo per cui siamo venuti fin qui e mi sembra che non abbia più nessuna importanza, e non perché Chakuza mi sta baciando per distrarmi da quel leggero fastidio che provoca entrando, ma perché mi rendo conto che voglio quest'uomo indipendentemente da chi di noi due aprirà i barattoli dei sottaceti. E lo voglio perché in mezzo al mare di cazzate che fa, ci sono cose di lui che adoro e di cui non posso fare a meno.
Passandogli le braccia al collo, cerco le sue labbra mentre lui si muove e lo fa con la dolcezza che di solito gli appartiene solo quando ormai è notte fonda e siamo così stanchi che quasi ci addormentiamo. Mi godo ogni singola spinta, ogni bacio, ogni carezza con la quale si sta ostinatamente impegnando a farmi venire prima di lui e non mi oppongo a questa decisione, gli permetto di spingere e baciarmi e accarezzarmi quanto vuole perché è riuscito di nuovo a creare uno spazio in cui ci siamo solo noi e non m'importa nient'altro, ed questo il motivo per cui potrà aprire tutte le porte, i barattoli e le portiere che vuole, perché a conti fatti nella mia vita solo lui c'è riuscito, lui e nessun altro. E questo basta. Dovrebbe bastare a tutti, come spiegazione.
Mentre reclino la testa e vengo tra le sue dita, ascolto il suo respiro farsi più concitato e poi aspetto quel suono un po' più forte degli altri, quel mugolio incerto e soddisfatto che accompagna tutti i suoi ultimi tremiti. Lo accolgo tra le braccia prima che si faccia da parte, me lo stringo addosso e non gli permetto di allontanarsi.
Non voglio ora, probabilmente non vorrò mai.

*


Quando alla fine ripartiamo, e siamo almeno sei ore in anticipo sulla tabella di marcia, a salutarci sulla porta di casa ci sono tutti tranne suo padre.
“Sei sicuro di non voler entrare in casa a salutarlo?” Chiedo, infilando i nostri borsoni nel bagagliaio.
“Sì,” dice.
“E' tuo padre,” insisto, inseguendolo mentre fa il giro della macchina per togliere qualche foglia caduta tra i tergicristalli.
“Appunto,” commenta, irremovibile.
In questo momento vorrei che Chakuza e suo padre non fossero due identiche teste di cazzo, perché io non posso proprio pensare che ce ne stiamo davvero andando da qui senza che questi due si salutino. Però succede. Chakuza saluta sua madre, che lo abbraccia più a lungo del dovuto, forse per scusarsi del marito, e sua sorella che lo stringe un po', prima di gettarsi tra le mie braccia e pretendere un abbraccio anche da me. Chakuza mi sorride e io allora mi sento abbastanza autorizzato a ricambiare. Le spettino i capelli come si fa con i bambini di cinque anni, però, nella speranza che riceva il messaggio. Mentre ci dirigiamo verso l'auto, lui tende la mano e io lo guardo con aria interrogativa.
“Le chiavi,” esplicita.
“Forse mi sbaglio,” esclamo, fermandomi lì dove sono mentre lui non si fa nessun problema ad arrivare fino alla portiera del guidatore. “Ma non siamo venuti qui in Austria proprio per confutare la teoria secondo la quale io sarei la tua ragazza?”
Chakuza quando lo cogli in flagrante fa come i bambini: sguardo a terra e orecchie rosse. “Pensavo che avessimo risolto,” borbotta.
Visto che l'Escalade è un'auto enorme, di lui vedo solo la sommità della testa e poco anche di quella. Così mi abbasso a guardarlo dai finestrini. “E vogliamo ricominciare?”
Chakuza sbuffa. “Lo sai che non mi piace fare il passeggero.”
Questa è la prima giustificazione sensata che mi dà da quando questo problema è saltato fuori e io la prendo per quello che è: il tentativo di avere comunque la macchina senza per questo urtare i miei sentimenti di fidanzato ferito. E' un grande sforzo da parte sua.
Gli lancio le chiavi da sopra il tettuccio.
“Ma ci fermiamo a mangiare dove dico io,” decido, aprendo la portiera.
Chakuza sorride e accetta la proposta. “Ma niente messicano, Pat.”
“Oh andiamo! Il messicano è buono. Ti piace il messicano.”
Suo padre non si fa vivo nemmeno mentre saliamo in auto e accendiamo il motore. Ammetto che un po' ci speravo di veder comparire i suoi baffi sulla porta all'ultimo minuto, come nei film. Dovrei averlo imparato, ormai, che i film non raccontano mai davvero cose reali.
Come noi due, per dire. Siamo così incasinati che in un film non funzioneremmo mai.
Rido da solo e mi chino a baciarlo sulla tempia.
Prima dei titoli di coda.

Bookmark and Share

A code of conduct in escapology

di tabata
Vi guardo – si fa per dire – e mi chiedo perché sono ancora qui a parlarvi, io, e, soprattutto, perché siete ancora qui ad ascoltarmi voi. Onestamente pensavo di aver finito di raccontare, semplicemente perché cose che avesse un senso raccontare avevano smesso di accadere; insomma, parliamoci chiaro, a parte quell'unica notte in cui tutto è ricominciato – quella in cui abbiamo trovato David mezzo sbudellato e la nostra tregua personale si è così conclusa, riportando le cose esattamente, o quasi, come stavano prima – la nostra vita è stata solo un susseguirsi di coppie che si formavano, matrimoni di dubbio gusto, feste per festeggiare le coppie che si formavano e i matrimoni di dubbio gusto, e naturalmente l'annuncio dell'arrivo di un infante, che a pensarci un attimo potevamo pure aspettarcelo, a dire il vero. Poteva l'unica coppia in grado di generare autonomamente la vita – Tom e Cassandra – non generarla in un momento delicatissimo quale questo è, facendo tremare le fondamenta stesse del regno che Bushido ha, non senza fatica, rimesso di recente in piedi? Ve lo dico io, ma dovreste già saperlo, la risposta è no. Niente di ciò che ci accade, quando accade, lo fa al momento appropriato e, se anche lo fa, di solito finisce male. Quindi, ovviamente, proprio quando Bushido ha finalmente sentito di aver di nuovo ripreso in mano la situazione – la principessa era di nuovo la sua principessa e tutti i suoi sudditi erano nuovamente riuniti intorno al suo trono e asserviti alla di lui persona – ecco che Tom gli fa presente che può controllare tutto quello che vuole ma non le ovaie di Cassandra, e questo lo costringe a realizzare molto più velocemente piani che nella sua testa avrebbero preso – e dovevano prendere – anni. E quindi, case. Case per tutti, in cerchio intorno ad un parco privato, come le tende di un campo scout. Dateci ancora un po' di tempo e ci troverete a cantare kumbaya vestiti di lino e a mangiare radici ringraziando la Madre Terra.
Comunque, vedete, non è che si sia proprio fatto vita da ghetto, da queste parti, ultimamente e io pensavo che dopo quasi due anni di morti ammazzati, cadaveri nei canali e sangue grattato via dal pavimento di magazzini fatiscenti con la candeggina a notte fonda, fosse arrivato anche per me il momento di smettere di raccontare incessantemente la mia esistenza e quella di chi mi sta intorno; anche perché, diciamocelo, ne ho di cose da metabolizzare in privato – tipo che mi sono sposato con un uomo e che sono il tutore legale di un ragazzino, per dirne due tra le più importanti – e mi avrebbe fatto comodo potermi ritirare in silenzio. Ma quando c'è calma è perché deve ancora montare il vento. Sono trent'anni che campo in questo modo, tra un uragano e l'altro, e dovrei saperlo. Diciamo che ultimamente mi sono lasciato distrarre.
Come dicevo, l'ultimo uragano ci ha restituito David Jost inciso come un'antica tavoletta sumera e, dal ritirarsi delle onde di uno dei più grossi tsunami psicofisici della nostra esistenza, è nata la NEGJ – un'etichetta sorta dalle ceneri di un disastro per arginarne un altro ancora più grosso, cosa mai potrebbe andare storto? – e per un po', dopo, abbiamo avuto la calma, solo che non ce ne siamo proprio accorti perché, tanto per cominciare, noi non sappiamo nemmeno esattamente come sia fatta, la calma, come la si vive, come la si riconosce. Voglio dire, c'è sicuramente stato un tempo in cui noi tutti vivevamo vite normali, ma è un tempo lontanissimo, che sa di leggenda. Nessuno di noi ha veramente memoria di com'era alzarsi al mattino e andare a letto la sera senza che nel tempo che divideva un'azione dall'altra fosse successo qualcosa di assurdo.
Abbiamo passato due anni in cui un giorno sì e l'altro pure la gente moriva o rischiava di farlo, veniva accoltellata o perdeva la testa, finendo a farsi una passeggiata sull'autostrada in preda alle allucinazioni. Ad un certo punto eravamo tutto così fuori dal mondo che tra uscire insieme per una pizza e uscire insieme per far sparire un cadavere, ci sembrava più logica la seconda opzione. Quando abbiamo iniziato a fare cose normali da gente normale, eravamo tutti così stanchi di vivere che non ci abbiamo ragionato sopra. Forse una parte di noi pensava anche sì, ora sto lavando i piatti dopo aver pranzato, ma vedrai se tra cinque minuti non devo correre a picchiare qualcuno da qualche parte. E' che non eravamo abbastanza lucidi per sentirla quella vocina nella testa che ci diceva vedrai, vedrai...
Poi, lentamente, ci siamo acclimatati alla nuova situazione ed è diventata normale quella – cioè, non proprio normalissima perché comunque Bushido tende un po' a rendere assurdo tutto quello che tocca – ma più nella norma, ecco. Il cervello le fa queste cose, ti aiuta ad abituarti alla situazione in cui ti trovi e spesso, se è molto diversa da quella di prima, ti fa dimenticare qual era la tua vita precedente in funzione di quella attuale, così tu vivi più sereno. Ora, a grandi linee io me lo ricordo com'era nei due anni passati e anche in quelli precedenti, me lo ricordo com'era prima che Bushido morisse e poi com'era quando Bushido è tornato – ormai gli eventi sono a.B, Avanti Bushido, o d.B, Dopo Bushido – ma sono i dettagli che mi sfuggono, è la routine, ecco, quella non me la ricordo. O forse nemmeno ce l'avevo una routine, perché tutto succedeva a caso, ecco perché non me la ricordo.
Per dire, io, onestamente, non ve lo so più dire cosa facevo tre anni fa la sera prima di andare a convivere con un nano pelato che vive l'interezza della sua esistenza cercando di copulare con me. Forse uscivo a bere. Sì, probabilmente bevevo. Adesso faccio solo due cose prima di andare a letto. La prima è costringere Danny ad andare a dormire, così magari la mattina si sveglia in tempo e non devo poi costringerlo anche ad alzarsi per andare a scuola. La seconda è tentare – e quindi fallire – di non dare il culo a Chakuza, che lo pretende come il mio culo fosse un'offerta votiva e lui fosse un qualche dio azteco pelato. E se la prima potrebbe anche essere la verità, la seconda di certo non lo è. E' questa la mia vita adesso; sveglia al mattino, defletti Chakuza, manda Danny a scuola, vai a lavorare, pranza con Chakuza, defletti Chakuza, torna a lavorare, cena con Chakuza e Danny, spedisci Danny a dormire, dai il culo a Chakuza. E alle volte non mi riesce di defletterlo durante il giorno, quindi insomma.
Ma nel mio mondo – che suona epico, mi rendo conto, ma è vero, ve lo assicuro, voi non vivete nello stesso mondo in cui vivo io, non sapete nemmeno com'è fatto davvero il mio mondo – non si dimentica mai davvero un bel niente, perché dimenticare equivale a non sopravvivere. Ricordi le regole, ricordi gli errori, soprattutto gli errori, ricordi di chi fidarti e di chi invece no, il tuo stesso corpo ha memoria: delle botte, delle carezze, dei corpi toccati e di quelli persi, delle reazioni. La memoria muscolare è un requisito fondamentale per stare per strada, dove basta l'esitazione di un attimo per non avere mai più attimi in cui esitare. E questo vale anche quando tu per strada non ci vivi più – come io adesso – perché questa, come decine di altre cose che impari sulla tua pelle quando per strada ci sei nato e cresciuto e pensi che ci resterai per sempre – perché ci resti o lei resta dentro di te – è una cosa che ti rimane incollata addosso e prima o poi, ci puoi contare, ti torna utile. E infatti succede anche a me, e un po' muoio dentro nel dirlo perché, ripeto, un po' ci speravo che invece no.
Quando Sido chiama sono le sei del pomeriggio, non esattamente l'orario in cui cominciano le tragedie. Non è notte fonda, non piove, non ci sono le sirene della polizia ad accompagnare o seguire qualcosa andato storto, perciò non mi aspetto quello che sta per dirmi né quello che, ovviamente, succederà poi; ma sto correndo e non va bene. La sua voce, però, quella è sufficiente, prima ancora che mi dica tutto, a farmi capire che la vita – la mia, la nostra, ormai non c'è differenza – è appena cambiata. E' un po' come quel film con Gwyneth Paltrow in cui il corso degli eventi dipende da dove lei decide di andare o non andare, se è più lenta o più veloce, se fa una cosa piuttosto che un'altra. Ecco, io ormai ho risposto al telefono, quindi non c'è niente che io possa fare per fermare la catena di eventi che ho scatenato involontariamente premendo il tasto verde sul mio cellulare. E infatti il mio corpo si prepara all'impatto. Capisco che prima ero rilassato solo perché ora mi tendo e sono improvvisamente un fascio di nervi.
“Patrick?” dice lui e io ho già capito che qualsiasi tregua stessi vivendo è finita e oggi si ricomincia. In parte è anche il fatto che il mio nome in bocca a lui è sinonimo di sventura. Sido è uno che si è occupato di me in un momento della mia vita in cui nessun altro lo faceva – anzi in svariati momenti della mia vita in cui sono stato abbandonato a me stesso – e quando mi chiamava per nome io sapevo che la sua pazienza era finita e dovevo riprendermi, che qualunque momento no io stessi attraversando non era più un momento, ma una situazione e le situazioni andavano affrontate. “Sono nella merda.”
Questa, mi rendo conto, è una situazione.
Infatti, chiedo subito, “Cos'è successo?”
Con quella domanda si attiva anche Chakuza. Lo vedo che si immobilizza in mezzo al salotto, sull'attenti come un pastore tedesco. Avesse le orecchie in cima alla testa, sarebbero dritte per captare il minimo suono. Sarei pure orgoglioso delle sue capacità di reazione se non sapessi che l'unica cosa che lo preoccupa in questo momento – o sempre, a dire il vero – è Bill. Esplodesse la NEGJ con tutti noi dentro, l'unica cosa che chiederebbe ai soccorritori una volta arrivato sul posto sarebbe “Ma Bill come sta?” Che, voglio dire, anche io voglio bene al ragazzino, mica lo voglio morto, per carità, ma abbi un minimo di prospettiva, ma neanche, non lo so, pensa prima a tuo marito, magari? Ogni tanto mi piacerebbe sapere che, messo di fronte alla tragedia della mia possibile dipartita, avrebbe prima un pensiero per me e poi forse per il suo amante platonico perito al mio fianco, ma non posso contare nemmeno su questo. Mi giro e gli do le spalle, che continui a interrogarsi sulle sorti della sua principessa mentre io mi occupo di cose serie.
Sido, nel mentre, è a metà tra lo stupito e l'incredulo. “Ma non ci vai su internet?” Mi chiede. “Ti ho lasciato che eri una persona normale. Un anno con quella gente e sei diventato una bestia.”
Vorrei spezzare una lancia a mio favore e dire che, di solito, sono uno che si informa sulle cose ma, ultimamente, la stampa – quella che può riguardare noi e quindi Sido, intendo – è pesante da digerire. Quando va bene, i giornalisti di settore ci guardano con condiscendenza e rassegnazione, come si fa con i bambini un po' indietro sul programma, e si aspettano di vederci finire a gambe all'aria ancora una volta. Quando va male, ci criticano aspramente o intervistano qualcuno che lo faccia al posto loro, alimentando il mercato delle diss contro di noi, il cui numero, al momento, raggiunge ampiamente le due cifre. Ci ha ricoperti di merda chiunque, non scherzo, e noi ad una certa ci siamo stancati di visitare rap.de e farci venire il sangue amaro. Se anche gli ordini dall'alto – da una parte quelli di Bushido, che ci ha messo la museruola, e dall'altra quelli di David, che gestisce la stampa su di noi esattamente come gestisce quella dei Tokio Hotel, e cioè calibrando con precisione quanto rispondere a chi e quando – non ci avessero imposto di voltarci dall'altra parte e ingoiare momentaneamente il rospo, avremmo smesso di leggere comunque. Quindi, se non ho idea di cosa stia succedendo esattamente al di fuori degli uffici della NEGJ, ho le mie motivazioni.
Ad ogni modo mi rendo conto che se Sido mi ha chiamato in seguito a qualcosa che lo riguarda e di cui si parla su internet, la faccenda è più seria di quanto pensassi. Spero solo che sia qualcosa che posso risolvere senza dover smontare il portellone posteriore di un'auto, stavolta. “Facciamo che me lo dici tu e risparmiamo tempo,” gli dico.
“Cristo,” lo sento imprecare sottovoce. “Hai presente Nyzaad?”
Devo fare mente locale, ma il nome mi dice qualcosa. Poi mi ricordo che è la ragazzina che Sido ha scritturato poco dopo essersi preso in casa Nyze. Quando lo ha saputo, Bushido è scoppiato a ridere e non ha smesso per dieci minuti buoni. Quando gli abbiamo chiesto che cosa ci trovasse di tanto esilarante, ci ha risposto che Sido doveva proprio essere disperato per prendersi i suoi scarti di seconda mano e poi scritturare una minorenne, che se voleva fare a gara di ragazzini, la NEGJ lo avrebbe stracciato anche su quello. Ora, io non lo so se sulla nostra scena musicale abbia più peso Bill o una sconosciuta che però, a differenza di Bill, fa rap, ma è pur sempre vero che scritturare adolescenti è sempre una mossa azzardata, a meno che tu non abbia per le mani il nuovo Tupac che, però, onestamente, non credo sia questo il caso. “Il tuo nuovo acquisto?” Chiedo. “Che cos'ha combinato?”
“Lei niente, ma Nyze ha fatto in modo che i giornalisti ci vedessero insieme.”
Resto in silenzio per qualche secondo, do il tempo a lui di riformulare la frase o al mio cervello di accettare quella che ha detto e, visto che lui non riformula, io mi schiarisco la voce. “In che senso?”
“Secondo te in che senso?!” Scatta lui nervosamente. “Patrick, cazzo, ma cosa sei, rincoglionito!?”
“Ma avrà sì e no tredici anni!” Mi riscuoto.
“Quattordici. Quasi quindici in realtà, ma ho problemi peggiori in questo momento.”
“Eh, non lo so se ce li hai, sai?” Commento, scettico. Dovrei informarmi meglio, ma sono quasi certo che l'età del consenso sia molto più alta. E lo so che io dovrei stare zitto perché neanche Danny era maggiorenne, ma mi piace pensare che fosse un po' più vicino alla maggiore età di questa cosina qua che, a stento, deve aver cominciato la scuola secondaria. Che cazzo, Sido!
“E' incinta,” fa lui, che evidentemente, mentre non guardavo, ha deciso che a questo punto della sua vita doveva suicidarsi professionalmente – ma anche letteralmente – e, a parte farsi esplodere in Alexanderplatz in nome della razza ariana o di quella sinti – non so esattamente quale delle due senta più vicina –, lo ha fatto nel modo più spettacolare.
“Va bene, hai vinto, hai problemi più gravi,” ammetto.
“L'etichetta mi sta già scaricando, questa cosa non può saltare fuori adesso,” fa lui.
“Per quello abbiamo tempo,” dico, cercando di fare il punto della situazione. Potremmo anche rimediare prima ancora che qualcuno lo scopra. No, anzi, dobbiamo rimediare prima che qualcuno lo scopra perché questa cosa non è assolutamente accettabile.
Lui, nel mentre, si perde dietro alla situazione di merda che dev'essere la sua vita in questo momento. “Doreen avrà sicuramente già visto le foto,” sospira. “Tornerà a casa giusto il tempo di prendermi a schiaffi, fare le valige e portarsi via la bambina.”
“Che altro cazzo ti aspetti che faccia?” Gli dico. “Che ti batta una mano sulla spalla e ti faccia i complimenti per la grandissima testa di cazzo che sei?”
“C'è dell'altro,” continua. E io apprezzo il fatto che sappia prendersi le offese quando se le merita – d'altronde non mi aspettavo niente di meno da lui – ma vorrei che non mi dicesse le cose a pezzi. “E' la figlia di Saad.”
Perfetto. A posto. Almeno adesso so perché questo è anche un problema mio. “Dove sei?”
“Barricato in studio, qua fuori è pieno di giornalisti.”
“E lei?”
Silenzio. E poi, “E' qui,” dice.
Bene, penso. L'ultima cosa che ci serve è un'adolescente nel panico braccata dai giornalisti. Sarebbe una mina vagante e le mine vaganti sono sempre pericolose; ma questo è tutto quello che so riguardo a situazioni del genere. Quando ero ragazzino e Arafat aveva un problema, di solito era un problema che andava fatto sparire, perciò sono ferratissimo su quel tipo di risoluzione, ma qui la situazione è diversa e ci vuole un tipo di tatto che non sono sicuro di avere. Mi serve un esperto di micromanagement che abbia esperienza con i media. Fortunatamente – tra tutte le sfighe – ne conosco uno. “Dammi dieci minuti,” dico a Sido. “Ti richiamo.”
Quando mi volto, trovo Chakuza che mi guarda con apprensione e, da come stringe le dita intorno alla bottiglia d'acqua che tiene in mano, sospetto non si sia mosso dall'ultima volta che l'ho guardato, circa un quarto d'ora fa. “Lui sta bene,” gli dico, ponendo fine alle sue inutili sofferenze. E vi giuro che vorrei prenderlo a schiaffi quando vedo tutto il suo corpo rilassarsi. Non ho nemmeno specificato chi, ma io so che lui sa che io so di chi gli interessava sapere. “Era Sido.”
La sua faccia si accartoccia in una smorfia fuori luogo in qualunque situazione, ma soprattutto adesso. “E cosa voleva?”
“E' nella merda.”
“E quindi?” Fa lui.
“E quindi ora chiamo Jost,” rispondo.

*

Chakuza impiega dieci minuti per decidersi a parlare e io apprezzo che abbia almeno prima tentato di stare zitto, sebbene senza riuscirci. Sono progressi che accolgo con la gratitudine che di solito si riserva ai miracoli del divino. “Non capisco perché dobbiamo farlo,” mi dice, mentre rallento al semaforo.
“Perché è una nostra responsabilità,” rispondo.
“Perché?” Insiste lui.
Si è voltato a guardarmi, così lo guardo anche io. “Perché è la figlia di Saad,” rispondo. Dovrebbe essere una ragione sufficiente per chiunque fosse coinvolto nella questione, ma non lo è per lui, evidentemente.
“E allora? Non l'abbiamo mica messa incinta noi.”
E meno male, penso. Almeno questa l'abbiamo scampata. Per una volta, essere tutti omosessuali ci torna utile. Le gravidanze indesiderate non ci appartengono. “Ma che c'entra?! Non è per questo che stiamo andando a prenderla.”
Quando ho chiamato David, lui non ha fatto domande, ha solo preso atto della situazione. A trovare soluzioni in breve tempo ha imparato facendo il manager, ma a farlo qualunque siano il problema e la situazione glielo ha insegnato Bushido. E' incredibile con quanta elasticità mentale sia passato dalla sua vita precedente a questa e poi le abbia unite diventando, non lo so, l'assistente definitivo. Ad ogni modo, mi ha detto che in nessun modo possiamo lasciare che la stampa abbia modo di vedere – e meno che mai parlare con – Nyzaad. Nelle prossime ore, mi ha spiegato, l'Aggro Berlin farà di Nyzaad una martire e userà Sido come capro espiatorio, prendendo le distanze da lui – lo ha detto con la sicurezza di uno che ha già visto il futuro e io non so se è perché gli è già capitato altre volte o se questa è la prassi standard per le etichette quando il nome di punta che le rappresenta si porta a letto una minorenne – il che significa che Sido si ritroverà molto solo e molto in fretta. Qualsiasi dichiarazione ufficiale da parte sua dovrebbe essere gestita con attenzione. Posso farlo io, mi ha detto, ma non senza il consenso di Bushido, e il solo fatto che abbia pensato a questo dettaglio vi dà la misura di quanto ne capisca, David, di tutto quanto. Gli ho detto che ovviamente capivo e poi abbiamo concordato che, in ogni caso, intanto possiamo occuparci di far sparire la ragazzina. E con sparire intendo mettere in un posto sicuro, ha specificato. Pensa come sarebbe stato se, per dire, avessimo avuto una di quelle incomprensioni linguistiche da film sulla mafia di serie Z.
“Tra l'altro,” prosegue Chakuza dopo un'altra preziosa parentesi di silenzio, “quanti anni hai detto che ha questa?”
“Quattordici o quindici.”
“Ecco, quindi stiamo anche andando ad aiutare un delinquente,” continua. “Ci manca solo che ci accusino di favoreggiamento.”
“Certo, perché se non fosse per quello che stiamo andando a fare, saremmo due persone che non hanno mai fatto niente di illegale in vita loro,” commento.
Lui incrocia le braccia al petto, diventando sostanzialmente una palla. “Almeno non siamo pedofili,” borbotta.
E' difficile dargli torto, ma non mi va di discutere su questo punto specifico, quindi cerco di spostare la sua attenzione altrove. “Vedila così,” gli dico. “Lascia perdere Sido, pensa a lei, a noi due, e forse anche a qualcun altro, conviene darle una mano. Non fosse altro che per il karma, tu cosa dici?”
Questo, ovviamente, lo zittisce per tutto il resto del viaggio.
Sido ha uno studio privato che comprò quando all'Aggro c'era ancora Bushido. Ai tempi, prima di Doreen, lo usava principalmente per portarci le groupie. Poi, quando è arrivata Doreen, ha cominciato ad andarci a lavorare davvero perché in casa c'era la bambina e agli studi dell'etichetta c'era troppo casino. Sarebbe stato perfetto se, ora che siamo tornati alle groupie, avesse ripreso ad usarlo, almeno non dovremmo eseguire questa manovra strategica di estrazione direttamente dagli studi dell'Aggro Berlin. L'unica cosa buona di questo posto è che è all'interno di un palazzo che ha un parcheggio sotterraneo. Le poche gioie che sto collezionando stamattina me le tengo strette. Faccio il giro del palazzo e vedo che qualcuno dei fotografi ci segue con lo sguardo, ma sia io che Chakuza siamo irriconoscibili sotto la tesa del cappellino e il cappuccio della felpa, perciò tornano tutti immediatamente a fissare le finestre del secondo piano che sono chiuse e con le tende tirate.
Sido ci accoglie con la faccia di uno che ha perso il controllo della propria vita ormai da giorni e non ha la minima idea di come recuperarlo. Le mani gli tremano così forte che a stento riesce a tenere in mano la tazza di caffè che ogni tanto si porta alla bocca. Non sono abituato a vederlo in questo stato. Lui mi fa un cenno mentre attraversiamo la porta e poi si acciglia quando riconosce Chakuza. “Lui cosa ci fa qui?”
“Me lo sto chiedendo anche io,” borbotta lui. “Quindi facciamoci un favore ed evitiamo l'argomento.”
Sido annuisce. Sospetto che, in questo momento, gli andrebbe bene qualunque cosa che possa in qualche modo tirarlo fuori dalla merda in cui si è infilato.
Io mi guardo intorno, come sono abituato a fare quando entro in un posto nuovo. All'inizio era una questione di sopravvivenza – quando avevi in spalla uno zaino pieno di droga che non ti apparteneva, non mettevi piede in una stanza senza avere idea di quanta gente ci fosse dentro e chi fosse quella gente – poi questa cosa mi è rimasta addosso, come tutte le altre, e ho cominciato a farla per abitudine. Entro in posta, al supermercato, in banca, e conto i cassieri, le guardie armate, le vie di fuga. In questo momento, però, mi sembra che questa abilità che ho sviluppato e affinato negli anni sia tornata al suo scopo originario. E infatti, appena metto piede nello studio, mi passa per il cervello il pensiero che forse è una trappola e ci siamo cascati con tutte le scarpe. Magari non c'è nessuna ragazzina incinta e volevano solo farci fuori. Se vogliono ammazzare me, penso, è per colpire Bushido perché lui, sì, uscirebbe di testa se io morissi. Mi rendo anche conto che sono da solo perché Chakuza io lo amo, ma lui è utilissimo solo se ti serve una cena per dieci persone pronta in un paio d'ore, ma in uno scontro armato è come portarsi dietro un bambino. Di buono, si fa per dire, c'è che sarebbe uno scontro armato molto breve, comunque, perché io non ho una pistola.
Nello studio, però, non c'è nessuno a parte Sido, che sta già facendo strada a Chakuza, il quale naturalmente non ha nemmeno pensato all'eventualità che questa potrebbe essere la nostra tomba. Mi rilasso leggermente e do un'ultima occhiata, tanto per stare tranquillo, e sto per chiedere dove sia la ragazzina, quando una porta di cui non mi ero accorto in fondo al corridoio si apre – bravo, Fler, penso, bella ricognizione – e ne esce questo esserino biondo che si pulisce la bocca con il dorso della mano.
Anche se non sapessi chi è, la riconoscerei comunque perché la guardo e vedo sua madre nella delicatezza del suo viso e nei suoi capelli dorati – non biondi, dorati proprio – come quelli di Greta. Ma soprattutto la guardo e vedo suo padre nella rabbia violenta con cui mi sta fissando. E' la sintesi esatta dei suoi genitori, e un po' ne ho paura, perché so che a spingerla è il rancore di Saad e a tenerla in piedi è la dignità di sua madre, e queste due cose insieme sono pericolose.
“Che cosa ci fai tu qui?” Mi ringhia addosso. Poi la vedo che sposta lo sguardo dietro di me, perché Chakuza, evidentemente, si è avvicinato. “Ah, siete venuti entrambi, vedo. Vi ha mandato lui, immagino. Perché è così che funziona, no? Lui ha un problema, voi vi sporcate le mani.”
E io lì capisco con orrore cose che avrei preferito non sapere. Che questa ragazzina sa tutto, per esempio. E non ho alcun dubbio che lo sappia e che non stia fingendo perché glielo leggo in faccia e perché so – semplicemente lo so, perché è una cosa che avrei fatto anche io – che sua madre le ha detto tutto quando ha reputato che fosse il momento giusto. Solo che, Greta, Cristo, Greta, non voglio dirti come crescere tua figlia, ma era troppo piccola per sapere. E' troppo piccola perfino adesso. Mi scambio uno sguardo con Chakuza che, miracolosamente, è al passo con la situazione; sarà che lo spettro della galera lo rende reattivo.
“Siamo qui per aiutarti,” le dico.
“Nessuno vi ha chiesto niente!” Sibila Nyzaad, che si pianta in mezzo al corridoio con aria di sfida. Sono sicuro di poterla sollevare con un braccio solo – peserà quaranta chili bagnata – ma sono anche certo che prima di permettermi di farlo troverebbe il modo di prendermi a calci e pugni finché non ci ripenso.
“Li ho chiamati io,” si intromette Sido, avvicinandosi.
“Beh, nessuno ha chiesto niente neanche a te, Paul!” Fa lei.
Mi fa strano sentirla chiamare Sido per nome perché non lo faccio nemmeno io. Lo fa solo Doreen. E allora capisco un'altra cosa importante, che il livello di intimità fra questi due è molto più profondo di quello che mi aspettavo e questo complica le cose.
“Ci serve una mano per uscire da questa situazione,” le spiega pazientemente lui.
“E la chiedi a loro?” Fa lei.
Lui sorride amareggiato. “Al momento sono un po' a corto di amici,” commenta.
“Loro non sono tuoi amici.”
Sido si stringe nelle spalle con la rassegnazione di qualcuno che fa fatica a vedere tutto o bianco o nero come fa lei che è una ragazzina e, sicuramente, divide il mondo in amici e nemici, dove i nemici sono quelli che le hanno ammazzato il padre e gli amici sono quelli che la aiuteranno ad ammazzare noi, suppongo. Il mondo non va quasi mai così, ovviamente, però lo capisci solo quando cresci. “Questo passa il convento,” commenta Sido. “Fatteli bastare. Ti prendo qualcosa da bere.”
Quando lui sparisce nel cucinotto, lei ci guarda e le sue intenzioni nei nostri confronti sono così chiare che io davvero non so bene come finirà questo stallo alla messicana nel corridoio.
“Non ho bisogno del vostro aiuto,” ci informa, superandoci entrambi e guidandoci nel corridoio. “Mi basta uscire di qui e dire quello che so al primo giornalista che incontro.”
“Non hai nessuna prova,” le faccio notare. Lo so che è un azzardo – le prove non ci sono adesso, ma il cadavere salterebbe fuori a dragare il canale e io non lo so se non ce ne sarebbero su di lui – ma non ho molta altra scelta.
“Mia madre potrebbe confermare.”
“Tua madre conosce le regole,” le dico seriamente.
Lei mi guarda con una tale quantità di oltraggio negli occhi che mi sentirei in colpa se mantenere questa recita non fosse di vitale importanza per me e Chakuza, principalmente, ma per tutti quelli che ci stanno intorno. “Non venirmi a parlare di regole!” Mi dice. “Avete ucciso mio padre per niente!”
“Tuo padre aveva ucciso Bushido.”
“Bushido non è mai morto!”
Ed è sempre quello il problema, mi dico, che Bushido non è morto. La quantità di casini che ci sono capitati tra capo e collo nell'ultimo anno dipende tutta, ma proprio tutta, da questa semplice constatazione: Bushido doveva essere morto e non lo è. Quando se n'è andato, noi abbiamo perso un pezzo e ci abbiamo costruito intorno e quando è tornato, lui si è ficcato a forza nel posto che aveva lasciato libero, ma c'è qualcosa che non va. E' come quando guardi un muro con un mattone che è leggermente più chiaro degli altri : è un mattone, è nel posto giusto, ma lo noti subito, lo noti troppo, come qualcosa di sbagliato. E così torniamo sempre lì: se Bushido fosse rimasto morto, ora...
“E' stato un regolamento di conti,” insisto. “Noi non potevamo sapere.”
“Questo non è un mio problema.”
Ho questa ragazzina davanti e non posso darle torto – non sono Bushido, non riesco a pormi di fronte al mondo credendo fermamente di avere sempre ragione – ma è difficile convincerla a fare come dico io quando è chiaro che la cosa più ragionevole da fare è quella che dice lei. Con Bushido in vita, Saad è morto inutilmente: l'unica soluzione è pareggiare i conti. “Nyzaad, questo non riporterebbe in vita tuo padre.”
“Però quando vi siete vendicati di mio padre, Bushido è tornato in vita,” dice lei.
“Solo perché non era mai morto,” le faccio notare.
Lei alza gli occhi al cielo. “Lo so, idiota, non sono mica ritardata,” mi dice, disgustata dal fatto che non colgo il suo frizzante senso dell'umorismo. “Ma a me non importa se questa volta non funzionerebbe, io voglio solo che la morte di mio padre venga vendicata e che la feccia che siete finisca dove merita. Una volta tolti di mezzo voi, anche il regno del re dei re avrebbe finalmente fine come è giusto che sia. Queste sono le regole. Mia madre non le ha capite per niente.”
Non è così facile, penso. Se lo fosse, Nyzaad, le nostre faide non durerebbero anni. Non ci lasceremmo per poi riprenderci per poi odiarci per poi trovarci ancora e perderci il giorno dopo. E quando arrivi ai coltelli, prima, e alle pistole poi, le cose si fanno ancora più complicate perché i limiti fanno presto ad essere oltrepassati. E io lo capisco che, occhio per occhio, tu vuoi giustizia per un cadavere – l'unico che è rimasto per terra alla fine della storia – ma non te la posso concedere, e io credo che non lo farebbe nemmeno tuo padre perché lui saprebbe che abbiamo agito com'era giusto per quello che sapevamo allora. Lui saprebbe che in qualche modo contorto siamo pari, noi e lui, perché abbiamo tutti guadagnato qualcosa – poco – e perso qualcosa – tanto, troppo. Ma come lo spiego a te, che ci hai solo rimesso?
Sto per aprire bocca, anche se non so bene cosa dire, ma Chakuza mi precede e io mi preoccupo perché se c'è una possibilità di peggiorare la situazione esprimendo un pensiero, lui di solito lo fa. E qui ce ne sono parecchie; e invece. “Avresti potuto farlo in qualunque momento,” dice, con una calma che non gli ho mai sentito nella voce. Si gira lei e mi giro io, e lo guardiamo. “Parlare con i giornalisti, intendo, ma non lo hai fatto. Sei qui da ore.”
Lei guarda altrove arrabbiata, incrociando le braccia al petto. “Potrei farlo adesso.”
“Certo,” annuisce lui. Chakuza, non ti seguo, dimmi che hai un piano. “Ma ci sarebbe un processo e tu non potresti sparire. Indagherebbero su questa storia delle foto, scoprirebbero la tua situazione e Sido ci andrebbe di mezzo.”
Lei pianta gli occhi sul pavimento. “Potrebbe non esserci nessuna situazione da scoprire.”
“A meno che tu non voglia farlo in casa, troveranno la tua cartella clinica, te lo garantisco,” le dice Chakuza, come se lo sapesse con assoluta certezza. “Sido ha quasi trent'anni e tu sei minorenne, finirebbe nella cella accanto alla nostra e butterebbero via la chiave. Ma non te lo devo dire io, questo, vero?”
Lei non risponde, ma sa che è la verità; e mentre lei si appoggia al muro sbuffando come l'adolescente che è, io guardo Chakuza e sono pieno di meraviglia, perché quest'uomo sostanzialmente quasi sempre inutile sa essere pieno di sorprese, a volte. O forse è solo che Nyzaad è una ragazzina – ancora più piccola della nostra illuminata sovrana – ed evidentemente a mio marito, quando si tratta di adolescenti e preadolescenti, scatta qualcosa nella testa e diventa un'altra persona. D'altronde avrei dovuto saperlo perché l'ho visto con sua sorella, ma soprattutto l'ho visto con Danny: nonostante sia geloso di lui, gli prepara tre pasti al giorno ed è riuscito, con un polso di ferro che non ha neanche per se stesso, a dargli una routine, neanche fosse sua madre. Forse abbiamo trovato un posto per lui in questo circo che siamo diventati: lui si occuperà delle pubbliche relazioni con chiunque sia sotto i vent'anni.
Sido sceglie quel momento per rientrare con una tazza di tè fumante. “Ecco, tieni,” le dice, porgendogliela. Dopo la discussione che abbiamo appena avuto questa scena è surreale, ma poi mi rendo conto che siamo tutti – ma proprio tutti – così spostati che a quanto pare stiamo recitando nella prima commedia romantica sulle gang di strada mai prodotta. Gang's Anatomy, o qualcosa del genere.
Nyzaad prende la sua tazza di tè e si stacca dal muro. “Vado con loro,” annuncia poi, prima di sparire nel corridoio.
Sido guarda prima lei e poi noi. “Come l'avete convinta?” Chiede, e c'è del sollievo ma anche della meraviglia nei suoi occhi stanchi.
“Non senza difficoltà,” commenta Chakuza, che mentre non lo tenevo d'occhio si è seduto su divano e sta facendo zapping come se nulla fosse. Lo conosco abbastanza da sapere che si è già scaricato. Qualsiasi tipo di tensione lo tenesse sull'attenti finora si è esaurita nel momento in cui ha capito che siamo riusciti ad ottenere quello per cui siamo venuti. “Fortunatamente è più sveglia di te e ha capito la situazione.”
Sido gli lancia un'occhiata storta nella quale riesco a vedere l'eco dell'uomo che era solo qualche mese fa quando sono tornato a vivere a casa sua perché Chakuza mi aveva fatto infuriare. Ricordate quando Chakuza poi è venuto a prendermi? Ecco, quella volta lì. Ma a quanto pare per lui era una vita fa. La conosco bene questa sensazione di ere geologiche che si susseguono all'interno di brevissimi periodi di tempo. Io, per dire, sono alla quarta.
Comunque sia, Sido mi afferra per un braccio e mi tira da parte in un angolo dello studio dove né Chakuza né Nyzaad possano sentirci e mi guarda serio. “Ascolta, io lo so quello che sa Nyzaad,” mi dice senza girarci intorno. “Lo so perché me lo ha detto lei, ma lo avevo intuito anche prima perché Saad di certo non aveva lasciato Berlino di sua spontanea iniziativa e a farlo sparire non potevi essere stato che tu.”
“Sido—“
“No, ascoltami. L'ho capito appena ha cominciato a girare la voce e non mi interessa. Quello che avete fatto è una questione vostra e io non voglio entrarci,” mi interrompe prima che possa anche solo provare a spiegargli le mie motivazioni o, non lo so, a giustificarmi perché a dirgli la verità è stata una ragazzina di quattordici anni che voleva rovinarmi e non io, dopo tutto quello che lui ha fatto per me. “Voglio solo che tu sappia che non le avrei mai permesso di trascinarti nella merda ed è per questo che siamo in questo casino.”
“Sido, non so di che cazzo stai parlando.”
Lui mi guarda con determinazione e poi mi abbraccia. “Avremo modo di parlarne, ora portala via,” mi dice, senza chiarire assolutamente niente.
Vorrei fargli delle domande, ma Nyzaad è appena tornata trascinandosi dietro uno zainetto grande abbastanza per contenere appena un cambio e poco altro. Chakuza si fa avanti per prenderlo – il suo animo da cavaliere servente si è acceso come un fiammifero, lui stesso d'altronde lo sembra, – ma lei non ci pensa neanche a lasciarlo andare. Se lo sistema meglio sulla schiena e incassa le spalle, quasi sparendo sotto una felpa che è il triplo di lei. “Come ci muoviamo?” Chiede.
Ci muoviamo che devi diventare invisibile, bambolina.

*

Ad un certo punto della mia esistenza – quando ho cominciato a cantare, per la precisione – ho giurato a me stesso che non avrei mai più fatto il corriere per qualche signore della droga. Il mio intento era trovarmi un lavoro vero, cantare possibilmente, non iniziare a contrabbandare esseri umani. Ma, come dice sempre mia madre, al proprio destino non si sfugge mai. Sarebbe solo carino, per una volta, non avere un destino di merda. Così, per cambiare. Invece eccomi qua, mentre due ali di folla si aprono al passaggio della mia auto che avanza a due chilometri orari per non mettere sotto nessuno. Nella mezz'ora – contata, giuro – che siamo stati nello studio di Sido, il numero dei giornalisti è triplicato. Sanno che si trova nello studio e sanno che prima o poi dovrà anche uscirne, perciò aspettano. Tutto sta nel vedere chi si stancherà prima, loro o Sido.
Io cerco di non apparire rigido al volante mentre qualcuno di loro – troppo, troppo vicino – sbircia dentro l'auto per capire se siamo interessanti. Sto sudando come se nel bagagliaio avessi dieci chili di coca appena arrivata dalla Colombia e invece ho soltanto una ragazzina distesa sul pavimento dell'auto, sotto una vecchia coperta. Non che sia meglio della droga, ma insomma.
“La vedranno,” sussurra Chakuza, o la statua di sale con le sue sembianze che mi è seduta accanto in questo momento. Era tranquillo finché eravamo nel parcheggio sotterraneo, si è pure occupato di nascondere Nyzaad personalmente, mentre io chiamavo Jost per tenerlo informato. Era talmente sicuro di sé che sembrava avesse passato la vita a nascondere minorenni, ma quando ha visto la folla che ci aspettava davanti agli studi, si è irrigidito e non si è più mosso. Colpa mia che gli ho detto di comportarsi normalmente per non destare sospetti. Cosa vuoi che ne sappia, Chakuza, di cosa sia la normalità.
“Non la vedranno,” rispondo, guardando dritto davanti a me, un po' per evitare di investire qualcuno e un po' perché sto cercando di mantenere la calma e lui non è famoso per avere su di me un effetto rilassante.
“Ci stanno addosso,” insiste lui.
“Ma non sanno chi siamo né che cosa trasportiamo,” dico. E poi Nyzaad è così minuta che, rannicchiata, riesce ad occupare solo lo spazio dietro al mio sedile. E' quasi come se sotto quella coperta non ci fosse niente. O forse questo è quello che vorrei, che nel tragitto dal parcheggio dello studio a qui fosse sparita, come un leprecauno.
Il leprecauno, però, parla. “Potrebbero chiederselo se non ti dai una mossa,” dice infastidita. “Se rallentiamo ancora un po', torniamo indietro nel tempo.”
Chakuza ride e io gli lancio un'occhiata che lo avvisa di quanto non scoperà stasera. Vedo la vita abbandonare i suoi occhi mentre perde il sorriso. “Silenzio, i mucchi di coperte non parlano.”
“Ti odio,” fa lei.
“Come farò a vivere d'ora in poi?” Commento, suonando il clacson perché si spostino. Va bene passare inosservato, ma di questo passo non ce ne andremo mai. Tutte le occhiate che riceviamo a quel punto me le sento addosso quasi fisicamente. Ora qualcuno ci riconosce, penso. Uno di questi giornalisti guarderà dentro la macchina e vedrà il sole riflettersi sulla fronte lucida di Chakuza. Siamo perduti. E invece no, la divinità che protegge i delinquenti ancora una volta ci arride. La gente si sposta, premo sull'acceleratore, siamo liberi.
Non appena siamo fuori dalla visuale dei giornalisti e ben avviati verso la nostra destinazione, mi permetto di tirare un sospiro di sollievo, che lo so che porta sempre male – questa volta no, però, giuro – ma ne ho bisogno, praticamente sto trattenendo il fiato da quando siamo arrivati. “Puoi venire fuori,” dico.
Percepisco Chakuza al mio fianco liberarsi dall'incantesimo e tornare un bambino vero e poi vedo la testa bionda di Nyzaad fare capolino dal sedile posteriore attraverso lo specchietto retrovisore. I suoi capelli sono un casino spettinato sopra la sua testa e quella felpa la fa sembrare ancora più piccola – non ci voglio pensare – mi sembra di portare in giro il mio cuginetto di quattro anni, se ne avessi uno e fosse femmina e fosse in realtà adolescente e incinta di uno dei miei più vecchi amici. Faccio due conti e penso se siamo ancora in tempo per scaricarla nel primo consultorio disponibile e poi andarci a gettare anche noi nel canale con tutta la macchina.
Nyzaad si sistema comoda e guarda fuori dal finestrino. Siamo già fuori da Tempelhof e nei quartieri alti dove un tempo – la sua era geologica precedente, immagino – viveva anche lei. Anzi, non siamo lontani da casa sua, se non ricordo male. Se se ne accorge, non lo dà a vedere. “Dove stiamo andando?” Mi chiede.
“Perché, hai delle preferenze?” Rispondo.
“Magari sì,” fa subito lei. “Fosse per me, gireresti la macchina e torneresti da dove siamo venuti. Da queste parti c'è solo gente con la puzza sotto al naso e i soldi che le escono dal culo.”
“Uscivano dal culo anche a te,” faccio presente.
“Da quello di mia madre,” precisa. “Ti sembro una che ne ha approfittato?”
No, penso. Poteva essere una ragazzina viziata che finge di fare la dura, ma dopo due giorni passati a dormire al freddo del ghetto torna indietro dalla mamma piangendo e invece lei si è trasformata. Ha lasciato indietro la sua vecchia pelle quando ha messo piede a Tempelhof ed è diventata qualcos'altro, anche se non so ancora cosa. E' coriacea, però. Fatta per resistere, come noi.
“Tempelhof non è un bel posto dove passare il tempo nascosti,” le dico.
Lei sbuffa. “Ma se non ci credi nemmeno tu?” Mi dice. “Comunque non hai risposto. Se fossi al mio posto non vorresti sapere dove stai andando?”
“Certo, ma sono al mio posto e non ho bisogno di chiederlo perché lo so.” Mi volto appena per sorriderle, ma lei non ricambia. Tutta quella rabbia che le vortica dentro senza un posto dove andare io me la ricordo, la provavo anche io e faceva male. Io, però, almeno non ero costretto a viaggiare dentro una macchina in compagnia degli assassini di mio padre. Io non ce l'avevo neanche un obbiettivo su cui scaricare la rabbia – l'universo, lo stato, il sistema? – ero arrabbiato e basta, quindi a lei deve fare ancora più male. Siamo qui, le mani macchiate di sangue, e lei non può farci niente.
Ad ogni modo, la sto portando a casa di Bushido, come mi ha detto di fare David. Quando gli ho fatto presente che poteva non essere la scelta migliore perché lei lo odia, David mi ha detto che ne era consapevole – Come? Che ne sai tu di questa ragazzina quando io la conosco da malapena due ore? Quanti occhi hai? Ti servi di un sistema di spionaggio di cui non siamo a conoscenza? Bushido lo sa? – ma che non abbiamo altra scelta. Serve una casa in cui possa sparire e nessuno di noi ne ha una sufficientemente grande che possa servire allo scopo. Ancora, per lo meno. Ho visto i progetti delle case che Bushido sta facendo costruire e, onestamente, non so se fra me e Chakuza abbiamo abbastanza mobili per riempire metà delle stanze. Quando litigheremo là dentro l'eco delle nostre urla andrà avanti per mesi e mesi.
Inoltre, e questa in realtà è una cosa fondamentale, da e verso la dimora reale c'è un costante via vai di auto ogni giorno, quasi a tutte le ore. Quando arriveremo e quando, una volta sistemata la faccenda, lei se ne andrà, nessuno noterà la differenza. Non sarebbe stato altrettanto facile se avessimo cominciato a fare avanti e indietro da una casa presa in affitto o da una delle nostre attuali case.
Non so quanto sia informata lei sulla Villa Gialla, o se ci sia mai stata quando era più piccola, ma spero onestamente che non capisca dove siamo diretti finché ormai non siamo dentro, non vorrei che decidesse di fare una botta di testa, aprisse lo sportello e si gettasse in strada. Anzi, va, fammi mettere la sicura alle portiere. Chi se ne accorge, naturalmente, è Chakuza – neanche lui era al corrente della destinazione – e lo vedo che si innervosisce subito perché non era pronto. Forse sta anche pensando che è uscito di casa con i primi vestiti che ha trovato, che non è pulito o sbarbato come dovrebbe, non è nella condizione appropriata, insomma, per presentarsi al cospetto della principessa. Peccato, Chakuza, il ragazzino dovrà accettarti per quello che sei: un nano impresentabile dal quale si è fatto entusiasticamente scopare per più di un anno. Non so se sarà in grado di affrontare la realtà. So per esperienza personale che ci vuole parecchio tempo.
Apro il cancello con il nuovo codice che Bushido mi ha dato e parcheggio accanto alla sua BMW e alla nuova Ford Lincoln che, a quanto pare, ha attraversato l'oceano atlantico per raggiungerlo. La terza, quella delle occasioni che ufficialmente non sono mai avvenute, è tornata sotto il telo fino a quando non servirà di nuovo. I cani ci vengono incontro abbaiando e scodinzolando. Nyzaad ride per la prima volta da quando l'abbiamo incontrata e accarezza la testa a Skyline, questo temibile e ferocissimo cane da guardia che si mette subito disteso e agita la pancia per farsela grattare.
“Togliamoci da qui”, le dico. Vorrei farla giocare con il cane, ma ho fretta di portarla dentro. Questo giardino ha i muri molto alti, ma non sarò tranquillo finché non la saprò in un posto dove nessuno può vederla.
Karima ci apre e ci fa accomodare nel salotto buono dove Bill ci raggiunge pochi minuti dopo, il viso serio e preoccupato perché ci siamo presentati senza preavviso. “E' successo qualcosa?” Chiede subito. “Stanno tutti bene?”
“Sì, tranquillo,” risponde Chakuza e si fanno questo mezzo sorriso che mi fa sempre prudere le mani perché, per un momento, si isolano e non c'è nient'altro per loro. E il modo che hanno trovato per gestirsi a vicenda senza fare danni, credo, ma i ceffoni che mi leverebbero dalle mani, se solo mi permettessi di perdere il controllo come a volte fanno loro due, inizierebbero a contarli ora e andrebbero avanti per i prossimi sei mesi.
“Siamo qui per un altro motivo,” informo la nostra principessa col pisello, così che possa pelare via gli occhi dal mio uomo e tornare a ricomporsi. “Bushido c'è?”
“No, mi ha chiamato poco fa. Torna più tardi, perché?”
“Vieni qua,” lo prendo per un braccio e lo tiro da parte mentre Chakuza spinge gentilmente Nyzaad verso il divano e le dice di accomodarsi. I cani, entrati in casa con noi, sono impazziti di gioia per la presenza di una persona nuova e fanno su e giù dal divano e dalle poltrone, abbaiando e cercando di attirare la sua attenzione.
“Chi è quella?” Bisbiglia Bill, lanciando un'occhiata alla ragazzina.
“La figlia di Saad,” rispondo. Si ricomincia.
Lui si volta di nuovo a guardarla, ma Nyzaad è troppo presa dai cani per accorgersene. Bill si volta di nuovo verso di me, gli occhi sgranati. “E cosa ci fa qui?” Bisbiglia ancora.
“E' nei guai e ha bisogno di un posto dove stare,” gli spiego molto semplicemente. “Solo per un po', finché non capiamo che cosa fare di lei.”
“Nel senso...?” Lui resta sul vago, confuso. “Ma l'avete rapita?”
“Cosa? No!” Lo prendo per una spalla e lo trascino ancora più lontano. “Ma se ti ho appena detto che ha un problema? Ma per chi ci hai preso, si può sapere? Quando mai abbiamo rapito la gente?”
“Che ne so di cosa fate! Magari era un corso di azione possibile!”
“No che non è un corso di azioni possibile! Insomma sì, ma no!” Poi mi rendo conto che questa discussione ha preso una piega surreale che neanche se mi impegnavo a farlo di proposito sarebbe venuta fuori così, perciò sospiro e mi calmo. “Bill, per favore, cerca di ragionare.”
“Sto ragionando. Non potete presentarvi qui e portarmela in casa,” mi dice, e ci prova a sostenere il mio sguardo, ma più che altro guarda per terra, una cosa che di solito è carina, ma ora in questo momento non tanto perché – strano a dirsi dopo tutti i nostri trascorsi – ora la persona fragile da proteggere in questa stanza non è lui ma lei, e io ho bisogno che Bill si tolga per un po' di dosso i panni di Raperonzolo e diventi il ragazzino cazzuto che sa essere quando vuole.
Io lo so che se Bushido dovesse arrivare e decidere che Nyzaad deve essere buttata in mezzo di strada e in pasto alla stampa, ci toccherebbe farlo, ma la realtà è che io so che Bushido non lo farà e non lo farà perché sarebbe contro le regole. E' sempre una questione di regole non scritte, di equilibri da rispettare, di comportamenti da tenere. Non saremo gente dell'alta società, ma ce li abbiamo anche noi i nostri non si fa e non sta bene, solo che ci sono tante di quelle sfumature che io non posso mettermi qui a spiegarle tutte a Bill una per una. Le imparerà vivendoci in mezzo, queste cose.
L'ospitalità, per dire, è sacra nei confronti degli amici, negata ai traditori e dovuta per onore ai nemici in difficoltà. Per questo David ha bisogno del permesso di Bushido per accollarsi le dichiarazioni ufficiali di Sido, ma non per decidere di scaricare Nyzaad a casa sua. Perché l'ospitalità gliela deve, tutto il resto no. Fosse solo per la sacralità del gesto, Bill non dovrebbe neanche fare discussioni, ma se anche il dettaglio gli dovesse sfuggire, dovrebbe rendersi conto di quanto pesi Nyzaad sulla sua vita. Questa è un'altra cosa che deve imparare e che gli posso insegnare subito. “Bill, ascoltami, questa cosa non è in discussione,” gli dico, così magari chiariamo subito che non gli sto chiedendo niente. “Le azioni hanno delle conseguenze e lei è la conseguenza delle tue.”
A quel punto lui sembra comprendere che non stiamo parlando soltanto di una ragazzina di quattordici anni parcheggiata in casa sua – nella casa del suo uomo, in realtà – che gioca con i suoi cani. Stiamo parlando di una notte a Tempelhof, di un colpo di pistola e di quello che ne è seguito che, per un po', è stato il suo senso di sollievo, la consapevolezza che aveva avuto la vendetta che gli spettava, e ora, invece, è questa cosina bionda qua, avvolta in una felpa più grande di lei.
Annuisce piano e sospira. “Che cosa dovrei fare?”
“Niente. Tienila qui,” gli dico. “Non farla uscire né affacciare alle finestre. Virtualmente lei non è mai stata qui e, se per una volta nella nostra esistenza abbiamo un po' di fortuna, la manderemo via prima che qualcuno si accorga che ci sia mai stata.”
Lui annuisce di nuovo e spero vivamente che quello sguardo vuoto con il quale guarda un punto non meglio precisato alla mia destra sia il segno che sta valutando la situazione e pensando a come procedere e non, come un po' sembra, che si stia dissociando dalla realtà come ha già fatto in passato. “Bill? Mi stai ascoltando?”
“Sì,” si riscuote lui e torna a guardarmi. Negli occhi è sparito il ragazzino ed è ricomparsa la donna del capo, quella determinata e dura come il cemento. Bravo, Bill, bravo. Lo so che speravi di rimandare il momento ancora un po' perché sei appena tornato. Noi stavamo prendendo le cose con calma, giuro, ma ci hanno forzato la mano. E' di nuovo un casino, bimbo, lo so, ma ne hai visti di molto peggio, no? Questa è una passeggiata. “Che cos'ha fatto?” Mi chiede.
Opto per la versione breve, anche perché è l'unica che so. “Si è trovata un uomo molto più grande di lei e la stampa lo ha saputo quattro anni prima che fosse legale.”
Lui mi guarda con la faccia di uno che ha già tratto le sue conclusioni e non gli piacciono. “Quanto più grande?”
“Diciamo Sido-più grande,” lo informo.
Bill fa una faccia disgustata. “Quell'uomo avrà quarant'anni!” Protesta.
“Quasi trenta, in realtà. Meno del tuo.”
“La mia situazione è completamente diversa,” fa lui, testardo. “Io sono maggiorenne ed ero comunque più grande di lei quando è cominciata.”
“E non eri nemmeno incinta,” sgancio la bomba e lui si gela, però fingo che questo pezzo di informazione non sia né più né meno grave di quelli che gli ho dato finora. Gli batto una pacca sulla spalla. “Conto su di te, Bill.”
E lui forse non lo sa che questo era un rito di passaggio che lui doveva attraversare prima o poi. Lo so che non ha scelto lui di rientrare nel gruppo delle donne del ghetto – che per quanto ci riguarda al momento sono molto, molto poche –, che a poter decidere, forse, avrebbe voluto essere qualche altra cosa, ma è andata così e ci sono cose che per questo gli sono dovute – il rispetto, ovviamente, fra tutte – e cose che invece lui deve al clan. Alcune di queste cose sono l'accoglienza, la cura, la comprensione incondizionate. Le donne del ghetto hanno tutte questo compito qui: sono porti sicuri a cui tornare o nei quali andare a nascondersi e riposare, a leccarsi le ferite. Gli uomini sono fiumi in piena in questo posto, si gonfiano, tracimano e distruggono. Le donne sono argini senza le quali ci spargeremmo ovunque. Cassandra è così. La madre di Anis è così. Mia madre è così. Io me lo ricordo che di quello che facevamo non voleva sapere niente, ma quando un paio degli uomini di Arafat si presentarono sotto casa di mia madre a cercare Bushido, non so nemmeno più per cosa, lei scese in pantofole e si piazzò in mezzo di strada, con le mani sui fianchi. Non era figlio suo e non gli doveva niente, ma era amico mio, perciò glielo doveva. E gli uomini di Arafat tornarono indietro, perché sarebbero stati uomini senza onore a fare altrimenti. E quando Anis si presentò due giorni dopo con il labbro spaccato e l'occhio viola – perché alla fine l'avevano beccato da un'altra parte – lei non fece domande. Lo fece sedere, lo curò e gli dette da mangiare, e poi lo rimandò fuori perché tanto era lì che lui voleva e doveva stare. E lo so che Bill non è una donna, ma so che è questo lo spazio che si è ritagliato da solo e quello, per altro, in cui si trova a suo agio. Non è proprio una questione di sesso, davvero. D'altronde, non ha saputo subito che cosa fare quando ci siamo presentati ricoperti di sangue l'ultima volta?
“Chakuza, stiamo andando,” informo la mia metà peggiore, che si sistema subito il berretto e fa un cenno a Bill, tenendosi a debita distanza. Le due enormi calamite legate dietro le loro schiene cercano di attirarli l'uno verso l'altro, ma la mia presenza da un lato e le notizie che ho appena scaricato addosso a Bill dall'altro li tengono ben ancorati a terra.
Lancio le chiavi a Chakuza, così si distrae. Benché le auto su di lui non abbiano più fascino di ciò in cui può infilare il cazzo, l'idea di essere lui a guidare e, quindi, a portarmi in giro, riesce sempre a fargli dimenticare quello che sta facendo in quel momento. Chakuza è un uomo dai ragionamenti complicati ma dagli automatismi semplici. Ci sono cose di lui che, se le capisci, riesci ad usarle per muoverlo come un burattino.
I cani ci accompagnano scodinzolando e abbaiando. Mentre saliamo in auto chiamo David.
Vorrei che fosse l'ultima volta che abbiamo faccende da sistemare, ma siamo solo all'inizio.

Bookmark and Share

torna su