Let Your Fingers Do The Walking

di lisachan
Spengo la televisione quando le Crispy News di Mtv mi fanno capire che intendono mostrarmi altre immagini esclusive del tour dei Tokio Hotel con l’Ersguterjunge per la cinquecentesima volta circa nell’arco delle ultime ventiquattro ore. Quello che sta succedendo dall’altro lato della Germania, mi ripeto alzandomi in piedi e gettando il telecomando sul divano mentre mi dirigo speditamente verso il frigorifero nella speranza di trovarci qualcosa dentro, non mi riguarda. Non è che mi senta tagliato fuori, è solo che mi rendo conto che ci sono cose che Anis, Bill e Chakuza condividono, e delle quali io non faccio parte, semplicemente perché la mia presenza qui è il risultato di una combinazione di eventi che non esiterei a dire sfortunata e totalmente casuale. Professionalmente parlando, io non sono legato a nessuno di loro. Io ho l’Aggro – per quanto ormai Sido mi mandi a fanculo ogni volta che mi vede, e non fatico ad immaginare perché, visto che la mia faccia e quella di Anis campeggiano affiancate su ogni fottuta copertina del paese – ed è lì che voglio restare. Quella è famiglia, per me. Ed è del tutto diverso da ciò che invece lega quei tre disperati.
Non posso dire che non mi dispiaccia per loro, naturalmente. Voglio dire, Anis è stato la mia intera esistenza per una quantità di tempo spropositata, Chakuza è un pezzo esageratamente grande della mia vita recente – esageratamente soprattutto calcolate le sue dimensioni – ed il ragazzino, voglio dire, è il ragazzino, come si fa a non dispiacersi per lui per principio?, basta guardarlo in faccia. Per cui sì, mi dispiace, ma non posso negare che nell’ultimo periodo in cui sono stati lontani la mia vita abbia subito radicali cambiamenti in positivo, dannazione. È molto vero quello che dicono alcuni, occhio non vede, cuore non duole. Io ho una vaga idea di quanto stia succedendo da quelle parti, naturalmente, ma non esserci rende tutto incredibilmente meno pesante. Ci rifletto seriamente, mentre bevo la birra ghiacciata direttamente dalla bottiglia, a piccoli sorsi, e mi dico che forse la chiave per risolvere il problema è questa, in fondo. Esserci. Se ci sei stai male, se non ci sei soffri lo stesso, ma il dolore diventa sordo, un sottofondo cui puoi abituarti, non è lancinante come dover rivedere quegli stessi volti ogni giorno, e volerli, e non poterli avere, e doverti accontentare, e sentirti in colpa perché ti stai solo accontentando ed invece vorresti essere semplicemente felice con ciò che hai e basta.
Perso come sono nei miei pensieri, non sento il campanello squillare. O meglio, lo sento, ma è un’eco lontana, come se stesse squillando quello del vicino, o quello dello scapolo del piano di sopra, che in effetti riceve visite ad orari della notte veramente improbabili, orari come questo, in cui la gente per bene dorme ed i cretini come me bevono birra per alleggerirsi la coscienza, quindi non ci faccio nemmeno caso. Peraltro, è incredibile: non avendo mai veramente vissuto in questo palazzo, inconsciamente e stupidamente credevo anche che il palazzo non avesse mai veramente vissuto senza di me. In qualche modo, nella mia testa, questa era una scatola rettangolare e tridimensionale piena di vuoto in cui l’unico piano occupato da un appartamento, vuoto o pieno che fosse, era il mio. Da quando, invece, ci passo più tempo, ho scoperto che è un posto un sacco vivo. C’è questo tizio qui, e c’è la signora del primo piano che ha due gemelline deliziose, avranno quattordici anni e vanno sempre in giro vestite con colori combinati, tipo che se una è in nero con qualche dettaglio bianco, l’altra è in bianco con qualche dettaglio nero. Poi c’è la studentessa universitaria dell’ammezzato che fa la dogsitter ed ha sempre casa piena di cani non suoi che abbaiano continuamente e sporcano ovunque, e c’è una coppia di anziani signori all’ultimo piano che sono tipo la cosa più pimpante mai esistita e non prendono mai l’ascensore anche se è fondamentalmente per loro che il condominio l’ha fatto installare, robe da matti.
Insomma, per questo posto c’è un andirivieni continuo, e siccome io non aspetto visite fatico proprio a ricondurre il suono del campanello con la possibilità che sia il mio. Lo realizzo tipo al terzo squillo. Io li ho sentiti, quegli squilli, ma quando mi accorgo che è proprio il mio campanello che sta squillando la sensazione è di quelle che provi quando stavi sognando che stava accadendo qualcosa e quella cosa in un certo qual modo sta accadendo davvero, tipo che un boa constrictor ti stava staccando la testa a furia di stringerti fra le proprie spire, e invece magari era solo il lenzuolo, ma a staccarti la testa ci stava provando comunque. È un suono flebilissimo, all’inizio, e poi si fa via via più intenso, e alla fine stacco le labbra dalla bottiglia, guardo la porta e mi rendo conto che dovrei andare ad aprire, o quantomeno a vedere chi è.
Spalanco la porta senza neanche guardare attraverso lo spioncino chi ci sia dall’altro lato, e quando mi appare davanti questo tizio biondissimo con gli occhi azzurri e un visino che sarebbe pulitissimo se non avesse un labbro spaccato ed un sopracciglio messo non tanto meglio, naturalmente non lo riconosco.
- Sì? – chiedo, piegando appena il capo e illudendomi che a guardarlo di sbieco possa assumere una forma conosciuta, - Chi sei?
- Sono Daniel. – risponde lui, e lo fa con ovvietà, come se il suo semplice nome dovesse aprire chissà che bauli colmi di ricordi nella mia testa. Ma il tipo qui ha presente quanti Daniel esistano nel mondo, e quanti ne abbia incontrati nella mia vita? Per quanto ne so, potrebbe essere D-Bo accidentalmente finito in una macchina del tempo e tornato alla sua giovinezza, che ora cerca me per chiedermi aiuto solo perché Bushido non c’era in quanto impegnato a dannarsi la vita in tour col proprio ex e l’attuale fidanzato del suo ex che, per un’assurda combinazione di fattori, è anche l’ex del suo attuale fidanzato.
- A-ha. – annuisco poco convinto, - E io sono Patrick, piacere di conoscerti, Daniel. Farai così con tutto il resto del palazzo?
Lui gonfia le guance ed irrigidisce le braccia lungo i fianchi, offesissimo. Arriccia perfino le labbra in un broncio incredibilmente goffo, ma desiste subito, forse per il dolore. Ha un brutto taglio, lì, andrebbe disinfettato.
- Noi ci conosciamo già! – mi fa presente, - Non ti ricordi?
Cerco di riportare alla memoria una qualsiasi occasione in cui possa aver conosciuto un ragazzino della sua età. Mi vengono in mente solo i concerti, ed ultimamente non è che ne abbia fatti tanti. Ma cosa sta pretendendo questo essere assurdo da me?
- No, temo di no. – scuoto il capo, - Dovrei?
- Dovresti, sì. – dice lui, piantandomi una mano nel mezzo del petto e scostandomi letteralmente di lato per entrare in casa, - Ho rischiato la vita per te, un anno fa. – sbuffa, voltandosi a guardarmi.
Io chiudo la porta e gli ricambio un’occhiata incerta. Dev’essere successo qualcosa che non ricordo. Ero ubriaco? Mi sono perso e il moccioso qui mi ha riportato a casa in spalla, per quanto io possa faticare a credere ad una cosa simile? Ma allora perché avrebbe dovuto rischiare la vita?
- Senti. – sospiro, massaggiandomi stancamente le tempie, - È un po’ tardi per perdere tempo con misteri e indovinelli, ti pare? Dimmi chi sei e facciamola finita. Poi, se hai anche qualcos’altro da dirmi a parte il tuo nome, bene, sennò grazie della visita e buonanotte.
Lui si prende qualche secondo, prima di rispondere. Gira un’occhiata curiosa tutto intorno alla stanza e poi pianta una mano sul fianco con fare teatrale.
- E dire che dovresti essere un amico che conta. – sbotta, tornando a guardarmi, - Quanto valgono le tue promesse, Fler?
Improvvisamente, realizzo chi ho davanti. La mia memoria torna a un anno fa, ad una notte ghiacciata, a Tempelhof, alla ricerca di un uomo che credevo colpevole della morte di Anis. Ad un ragazzino che ci ha indicato la strada, a me e a Chakuza, quando credevamo di esserci completamente persi.
- Tu… - balbetto, indicandolo maldestramente, - Tu sei quel ragazzino. Daniel. Sì, certo, ora ricordo.
Sul suo volto si apre un sorriso spontaneo e repentino, come quello dei bambini, mentre il suo intero corpo si tende verso di me.
- Davvero? – chiede, gli brillano gli occhi. Poi torna a cercare di darsi un tono, altrettanto velocemente rispetto a quando l’ha perso. – Cioè, finalmente. – borbotta schiarendosi la voce con un paio di colpi di tosse. – Non c’è niente da bere in questa casa?
- Niente che possa dare a un palese minorenne. – rispondo inarcando le sopracciglia, - A parte l’acqua.
- Oh, andiamo! – sbotta lui, pestando un piede per terra, - E poi sono maggiorenne. Ho compiuto diciott’anni quest’anno.
- Sì, certo. – rido io, - Farò finta di crederci. Mi fa piacere rivederti, comunque. Almeno so che non hai gettato al vento la tua fortuna e non sei finito in galera, mentre non guardavo. – gli lancio un’occhiata incerta, - Non ci sei finito, vero?
- No. – risponde lui con una mezza risata, - Non ne avrei avuto il tempo, comunque. Ho avuto un anno piuttosto pieno.
- Ah, non dirlo a me. – alzo gli occhi al cielo, passandogli accanto per recuperare la birra che ho abbandonato sul tavolino prima di andare ad aprirgli, - E cos’è che ti porta qui stasera, Daniel? Ti annoiavi? Avevi finito i cerotti a casa? – chiedo, indicando distrattamente il labbro gonfio e il sangue che gli scivola lungo una tempia.
Lui si passa velocemente una mano sul viso, come a sincerarsi delle proprie stesse condizioni, e poi esita per un minuto buono, incerto sulle gambe – non fa che spostare il peso del corpo da un piede all’altro – e palesemente sul punto di scoppiare.
- Voglio che sia tu. – dice quindi, tutto d’un fiato, come se anche solo mettere in fila quelle quattro parole gli sia costato una fatica immane.
- …vuoi che sia io. – ripeto, indicandomi mollemente, - A fare cosa? A disinfettarti le ferite?
- Ma no! – sbotta lui, esasperato, e pesta di nuovo il piede per terra. È ridicolo che lo faccia, sembra ancora più ragazzino di quanto non sia. – Voglio che sia tu il primo!
- Ma il primo a fare che?! – insisto, allargando le braccia ai lati del corpo, - Non ti sai mettere un cerotto e sei venuto dal tuo guru del gangsta rap perché sia lui a mostrarti i misteri della cassetta del pronto soccorso?! Sii più chiaro!
- Sei… un idiota! – strilla lui, irrigidendosi tutto come un pezzo di legno, - Voglio che sia tu il primo a… - deglutisce a fatica, e io sento un brivido caldissimo scorrermi lungo tutta la schiena. È paura. – il primo a fare l’amore con me. – conclude, guardando fisso il pavimento. Vorrei poter riavvolgere il nastro e rimandarlo da capo, perché non sono proprio sicuro di aver capito bene.
- Come, scusa? – chiedo istintivamente. Mi rendo conto dell’idiozia della domanda, ma non riesco proprio ad impedirmelo, non riesco a fermarmi. Lui arrossisce fino alla punta delle orecchie, e volta il capo così velocemente che finisce per nascondersi dietro una tenda di capelli scarmigliati e che necessiterebbero decisamente di uno shampoo.
- Cos’è, te lo devo ripetere? – sputa fuori lui, acido.
- No. – rispondo immediatamente io, sollevando le braccia come di fronte a una pistola puntata contro. Mi arrendo, Daniel. Però prima parliamone cinque minuti. – È solo che, capisci, non è che mi capiti tutti i giorni di vedermi spuntare alla porta minorenni che—
- Non sono minorenne! – scatta lui. Si morde il labbro inferiore, quello spaccato. Gli fa così male che ha gli occhi pieni di lacrime.
- No, ok, ok. – annuisco io, cercando di calmarlo, - Quello che intendo dire è che la situazione è un po’ spinosa, non ti pare? Cosa ti aspetti che faccia?
- Ma non lo so! – sbuffa lui, abbattendosi sul mio divano e prendendosi la testa fra le mani, - Dovresti essere tu quello esperto, no? Senti, - sospira, - ho avuto una serata difficile, e ho davvero bisogno di—
- Di farti scopare? – chiedo, gli occhi enormi. Lui mi guarda e arrossisce ancora, perfino più intensamente di prima.
- No! – strilla, - Cioè, sì, ma per come la metti tu sembra una cosa di uno squallore tremendo! Era meglio come l’ho detta io prima.
- D’accordo, ma – insisto io, - …non ti capisco. – rinuncio subito dopo, abbattendomi sul divano al suo fianco. – Ti va di parlarne?
- Se avessi avuto voglia di parlarne, sarei andato dallo psicologo dei servizi sociali, ti pare?! – sbotta lui, immediatamente sulla difensiva. Poi sospira, accomodandosi meglio ed appoggiandosi indietro sullo schienale. – Ho fatto coming out sei mesi fa. – racconta a bassa voce, ed io mi sconvolgo, perché, voglio dire, ce li avrà diciassette anni?, eppure ha già avuto più coraggio di me, che alla sua età avrei dovuto e voluto dire cose che invece mi sono tenuto dentro fino ad ora, praticamente, - E se prima potevo dire di avere una vita di merda, era perché non immaginavo minimamente cosa sarebbe diventata dopo una cosa del genere.
- Immagino che non debba essere facile. – commento con un mezzo sorriso. Lui mi guarda malissimo.
- È un inferno. – mi corregge, usando una parola senza dubbio più adatta, - Non mi aspettavo che mio padre capisse, naturalmente, ma che almeno i ragazzi della banda mi stessero vicini… è gente che conosco da una vita.
- Evidentemente, loro non conoscevano te. – gli faccio notare.
- Nemmeno io conoscevo me stesso. – ribatte lui, - È… è solo capitato, cazzo. E non posso farci niente, non è che l’abbia deciso, “oh, sì, diventiamo gay, scommetto che dopo sarà tutto una figata, andrò a vivere a Beverly Hills ed indosserò solo pantaloni e camicie bianche con cinture e scarpe di pelle nera”… è solo capitato. – insiste, occhi bassi e sguardo cupo.
Ridacchio un po’ per l’immagine mentale che la sua descrizione oggettivamente strampalata della società gay americana mi offre, ed allungo una mano a sfiorargli i capelli. Sono di un bel biondo chiaro, molto tedesco. Scommetto che dopo una bella doccia saranno morbidissimi, al tatto.
- Danny, devi anche capire che vivi in mezzo a ragazzini che hanno sempre avuto un solo modo per guardare alle cose. Non puoi pretendere che capiscano.
- Va bene, ma che bisogno avevano di picchiarmi?! – sbotta lui, indicandosi il viso, - Il labbro è un gentile omaggio di mio padre, ma il resto no. Ci conoscevamo fin da piccolissimi, alcuni di loro sono parte della banda dalle medie, e io li ho visti arrivare quasi tutti. Ma non hanno esitato un secondo a prendermi a bastonate, quando l’ho detto, e anche molte volte dopo. Che cazzo.
Sospiro, passando le dita fra i suoi capelli e sciogliendone i nodi.
- Perché non te ne vai, da lì? – propongo, - Sono sicuro che—
- Che stai facendo? – chiede lui, voltandosi a guardarmi con aria sinceramente stupita.
- Cosa? – ribatto io, distrattamente. La mia mano non si ferma, e lui la indica con un dito. – Ah, questo. – registro come fosse una cosa normalissima, - Non lo so. Pensavo avessi bisogno di una qualche rassicurazione.
Lui sospira pesantemente, torcendosi le mani in grembo.
- Senti… - dice a mezza voce, - Tu mi piaci veramente tantissimo. – e lascia il concetto lì sospeso, come se l’idea di spogliarlo e prenderlo magari su questo stesso divano dovesse essere una diretta conseguenza di questa confessione. Non esiste niente che potrebbe giustificare me e te a scopare su questo divano adesso, ragazzino confuso che non ha ben chiaro praticamente niente riguardo a se stesso, alla vita e al mondo in generale.
- Io sono impegnato, Daniel. – gli faccio presente. Potrei partire con una lunga digressione sul mio impegno al momento, ma me la tengo da parte per momenti in cui leggerò meno voglia chiara e limpida nei suoi occhi azzurri e grandi. Questa situazione va arginata. Mi chiedo se ne sono in grado.
- Non importa! – dice, con la sicurezza avventata di chi immagina io gli stia dicendo una cosa del genere solo per fargli presente che per noi non potrebbero mai esserci e vissero tutti felici e contenti con castelli e principi azzurri in groppa a splendidi cavalli bianchi. Lo guardo dritto negli occhi, nella sua testa ci sono un mucchio di favole.
- Importa a me. – insisto, - I rapporti di coppia si basano sulla fiducia. Anis deve sapere che io non lo tradirò, mentre lui è via.
Ed io lo so, che Anis non mi tradirà mentre sono qui. Lo so. Lo so?
- Dimmi almeno che posso restare qui da te, per la notte. – mormora lui, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore.
- Cosa? – rido io, sbigottito, - No che non puoi.
- Non posso tornare a casa! – insiste Daniel, - Non subito, almeno. Dubito che mio padre abbia smesso di bere, quando me ne sono andato, e non voglio stare da solo con lui in una casa traboccante di bottiglie. Di solito le butto tutte via mentre dorme.
Lo guardo inarcando un sopracciglio, incerto.
- Perché le bottiglie? – chiedo. Daniel mi guarda fisso per qualche secondo, poi si allunga verso il tavolino, afferra repentinamente la bottiglia di birra vuota posata sul ripiano e la spacca contro il bordo. Fa un rumore frastornante, si spargono schegge di vetro per tutto il pavimento, e prima che possa capire cosa sta succedendo davvero lui è sulle ginocchia, così vicino che sento l’odore del suo sangue come se fosse il mio, e mi punta la bottiglia spaccata alla gola, tenendola per il collo.
- Per questo. – dice. Uno dei cocci di vetro mi punge con forza la pelle, fa male quasi come dovesse trapassarla. Daniel, però, mette subito via la bottiglia, appoggiandola sul tavolino e ritraendosi mentre io mi accarezzo la gola per verificare che non ci siano tagli. Nel mentre, lo osservo afferrare la felpa che indossa dagli orli inferiori e tirarsela via da sopra la testa. Non indossa nient’altro, sotto, a parte un tappeto di lividi. Non ci sono tagli recenti, almeno, ma lui non intende mostrarmi i segni superficiali delle violenze più nuove, no, vuole mostrarmi i segni indelebili di quelle più vecchie. Si volta e mi mostra un fianco, torcendosi come solo un ragazzino della sua età che sia così magro può fare. – Guarda qui. – dice, indicando una lunga cicatrice un po’ sformata che gli taglia in due la pelle proprio sopra l’anca, - Questo me l’ha fatto per il mio quindicesimo compleanno. – racconta a bassa voce, - Volevo uscire con i miei amici, ma a lui non stava bene. Alla fine, sono dovuto uscire per forza per andare al pronto soccorso. Mentre lui dormiva, perché prima non ha voluto lasciarmi andare.
Deglutisco a fatica, sollevando una mano e tracciando quella linea incerta e chiara con due dita. È liscissima sotto i miei polpastrelli, e il gemito che sfugge dalle labbra di Daniel, più che sentirlo con le orecchie, lo percepisco sottopelle. È un brivido che mi scuote fino alle punte dei piedi. Ho sentito donne gemere più forte e con più voluttà, e quello che non è altro che il gemito sgomento di un ragazzino impaurito che probabilmente soffre solo un po’ di solletico – perché lo so che non era un gemito programmato, quando ne senti tanti impari a capire cosa è simulato e cosa no – riesce a scuotermi più di quanto non abbia mai fatto nient’altro di simile fino ad ora.
- Mi dispiace. – dico a mezza voce. Sono sincero.
- A me no. – risponde lui con una risatina, avvicinandomisi impercettibilmente, - La pelle è ancora sensibilissima, in quel punto. Ho scoperto che mi faceva quest’effetto quando una delle tipe con cui andavamo per locali il sabato me lo ha succhiato. Le sue mani non facevano che sfiorarmi i fianchi e quello mi piaceva già da solo più della sensazione di sentire l’uccello nella sua bocca.
Deglutisco ancora, o almeno ci provo, ma stavolta non mi riesce. Una delle mani di Daniel scende a posarsi sulla mia, se la schiaccia con forza addosso.
- Daniel— - provo a chiamarlo. Lui mi sorride e io m’interrompo subito.
- Quando sono nel letto da solo e mio padre non mi ha picchiato troppo forte, - dice lui a bassa voce, - cioè, quando posso ancora muovermi senza che mi faccia male tutto, a volte, sollevo la maglietta che uso per dormire e la accarezzo. – porta la mia mano a muoversi su e giù contro il suo fianco, - E basta quello da solo per farmelo venire durissimo.
- Smettila. – dico senza fiato, ma la mia presa si stringe attorno al suo fianco senza che possa nemmeno provare a controllarla. La sua mano resta lì. Calda e un po’ sudata. È così agitato, Dio mio. Glielo vedo negli occhi che ha una paura folle.
- Ti prego. – dice lui, avvicinandosi ancora. Le sue labbra sfiorano le mie, ma non osa farsi più avanti di così. – Solo una volta. Non mi vedrai mai più, dopo, te lo giuro.
Resto immobile e non dico niente, ma il problema è che continuo a restare immobile e a non dire niente anche quando lui alla fine si fa avanti e copre i pochi centimetri di spazio che ancora ci separano, poggiando le labbra sulle mie. Non sa come muoversi e probabilmente anche se lo sapesse gli farebbe troppo male per farlo, sento in bocca il sapore del suo sangue ed è lo stesso sapore che sentivo quando per le strade di Tempelhof picchiavano me. È il sapore del mio sangue, non solo del suo.
Chiudo gli occhi e sollevo un braccio, poggiandoglielo sulla nuca e traendomelo contro. Lui sbuffa un lamento sorpreso che si trasforma in un gemito un po’ perso quando forzo le sue labbra con la mia lingua, accarezzandogli lentamente il fianco e sottolineando i contorni della cicatrice. Si scioglie sotto le mie dita con una semplicità disarmante, ed è tutto così semplice, il suo corpo magro è così duttile, si adatta al mio come una coperta di quelle sottili e fresche che ridisegnano le sagome di ciò che nascondono senza riuscire a nasconderlo davvero agli occhi di nessuno.
- Allora… - mormora, quando mi allontano abbastanza da dargli tempo e modo di riprendere fiato, - Vuoi davvero—
- Shh. – lo interrompo io, sorridendo appena. Sfioro le sue labbra con le mie, accarezzo il taglio su quello inferiore con la lingua e lui rabbrividisce con tanta forza che lo sento scuotersi fra le mie braccia come stesse tremando dal freddo. – Non parlare. Rischi grosso, a farlo.
- Non fa più tanto male. – insiste lui, sistemandomisi in grembo. Lo sento eccitato dentro i jeans larghi e spessi e sorrido perché con i ragazzini di quest’età basta davvero pochissimo. – Il labbro, dico. E tutto il resto, anche.
- Ne sono felice. – annuisco, stringendolo da sotto le cosce ed alzandomi in piedi con un colpo di reni. È così leggero, dannazione. Nel movimento, i nostri bacini collidono e poi strisciano l’uno contro l’altro. Daniel mi si aggrappa con forza alle spalle e mugola sul mio collo, la voce rotta in un singhiozzo di paura.
- Farà male? – chiede pianissimo, tanto che lo sento appena. Non lo chiede come uno che stia verificando che opportunità ha per scegliere la migliore, lo chiede come uno che di opportunità ne ha una sola, e vuole essere preparato per affrontarla al meglio.
- Dipende. – rispondo sinceramente io, entrando in camera da letto. Mi serve un secondo per ricordare dove sono tutte cose, letto compreso, nel buio. Alla fine, ci riesco.
- Da cosa? – chiede lui in un mormorio sommesso, mentre lo adagio sul letto ancora rifatto e mi sistemo fra le sue gambe dischiuse, sbottonandogli i jeans.
- Da un sacco di cose. – sorrido io, anche se lui nel buio non può vedermi, chinandomi a baciarlo lievemente su una guancia, e poi giù lungo il collo, sul petto ossuto e sulla pancia morbida, - Da quanto lo vuoi. Da come si muove la persona con cui lo fai. Da quanto pensi al dolore.
- Io non voglio pensarci. – sussurra lui. Mi puntello sul materasso col gomito e sfioro il profilo del suo viso con le labbra. Ha gli occhi chiusi, sento le sue palpebre battere lievissime, come le ali di una farfalla. – Non voglio pensare al dolore.
Sorrido, accarezzandogli nuovamente il fianco.
- E allora non farà male per niente. – lo rassicuro, baciandolo piano. – Sei proprio sicuro di essere maggiorenne, tu, vero? – chiedo un’altra volta. Lui si mette paura, anche se è evidente che non potrei mai mollarlo, giunti a questo punto. Spalanca gli occhi e mi fissa con terrore palese, sollevando le braccia e stringendo i pugni attorno alle maniche della maglia che indosso.
- Certo che sono maggiorenne. – ribadisce, annuendo con sicurezza, - Te lo giuro, per favore—
- Calmati! – rido divertito, allontanandomi abbastanza da costringerlo a mollare la presa e sfilandomi i vestiti di dosso lentamente, così che i suoi occhi, che ormai dovrebbero essersi abituati al buio, possano intuire i miei movimenti, e capire che ci siamo vicini. – Era solo per scrupolo. Giuri di non essere stato mandato qui da qualche losco figuro che poi userà la tua testimonianza su come ti ho picchiato e violentato per estorcermi chissà che somma di denaro?
- No, non… - fa per rispondermi lui, poi si interrompe e pare rendersi conto di qualcosa di molto importante. Si azzarda perfino a tirarmi uno schiaffo su una spalla, e io rido di gusto. – E smettila di prendermi in giro! Cazzo, sei odioso.
- Cos’è, tu puoi fare il fascinoso parlandomi di come ti diventa duro quando solo ti si sfiora la cicatrice sul fianco, - rido io, appoggiando una mano sopra i suoi boxer e stringendo la sua erezione fra le dita attraverso il tessuto in cotone sottile, - e io non posso prenderti in giro? Questo non è un rapporto paritario.
- Non lo sarebbe comunque. – borbotta lui, voltando il capo. So che lo fa perché vuole sottrarsi al mio sguardo, ma tutto quello che vedo in questo momento è il suo collo, perciò è su quello che mi chino, lo assaggio piano in punta di lingua e sento i suoi respiri tremare sotto la pelle ed uscire a fatica dalle sue labbra, mentre muovo la mano che ancora gli tengo fra le cosce, accarezzandolo lento come se la notte non dovesse mai finire.
- Questo lo fai, dopo esserti accarezzato la cicatrice…? – chiedo a bassa voce, direttamente sulla sua pelle, stringendolo con maggiore decisione fra le dita mentre le sue mani corrono veloci all’orlo dei boxer, per tirarli giù.
- Non avevi detto di smetterla di parlare? – chiede a fatica, ansimando pesantemente. Io gli sorrido addosso.
- Avevo detto che tu dovevi smetterla di parlare. – rispondo, lasciandolo andare così che lui possa togliersi di dosso la biancheria, così svelto che pare gli stia prendendo fuoco addosso. Mi si schiaccia contro subito dopo, lasciandosi sfuggire un respiro genuinamente stupito quando mi sente già duro contro una coscia.
- Non avevo idea che fossi così. – borbotta confusamente.
- Dovrei prenderlo per un complimento? – chiedo divertito, e lui sbotta un lamento esasperato.
- Non parlavo di questo… - si lagna, il petto che si alza e si riabbassa più velocemente quando riprendo ad accarezzarlo pelle contro pelle, - Dicevo come persona. Cioè, non so nemmeno com’è che ti immaginassi, in realtà, cambiavi spesso. Dipendeva dalla serata che avevo avuto, o da cosa mi stuzzicava di più in un determinato momento… ma questa è tutta un’altra storia.
- Sì, perché questo è vero. – annuisco in una mezza risata, strusciandomi lentamente contro di lui perché possa sentirlo, - Finché ti piace, comunque, non è detto che sia un male.
Inspira ed espira profondamente, sollevando le braccia ed allacciandomi al collo mentre schiude le gambe e m’invita a prendervi posto in mezzo, prima di rispondere.
- Mi piace. – dice in un fiato, spingendosi appena contro di me e ritraendosi all’ultimo momento, quando mi sente pressare contro la sua apertura in un incastro che tutto dovrebbe essere meno che naturale, e invece viene ad entrambi così spontaneo da fare quasi paura.
- Allora è tutto a posto. – sorrido, inumidendomi due dita con un po’ di saliva ed accarezzandolo piano fra le natiche. Lui rabbrividisce e si tira indietro quasi all’istante, mosso dalla paura. – Calmati. – gli sussurro sulle labbra, - Ti ho detto che non farà male, no?
- Sì, ma era la verità? – chiede giustamente lui, ed io rido a bassa voce.
- Dipende anche da te, ricordi? – dico baciandolo ancora, - Sei tu il primo che non deve pensarci. Il resto verrà da sé.
Lui annuisce – si rassegna, forse – e lo sento rilassarsi sotto di me mentre le mie dita umide tornano a sfiorarlo, facendosi strada dentro al suo corpo una alla volta. Lo sento trattenere il fiato così a lungo che poi, quando è costretto a tornare a respirare, lo fa tutto in una volta, sbuffando come una teiera ed ansimando pericolosamente. Rido un po’, e piego le dita come ho imparato a fare solo recentemente – uno dei numerosi regali di Anis, suppongo per scusarsi di tutto ciò che mi ha fatto e di tutto ciò che, indubbiamente, continuerà a farmi in futuro, perché io sono uno che, se solo gli dai tanto, ti permette di fare questo ed altro – ottenendo in risposta da lui un gemito acuto e prolungato, un po’ ridicolo, ma che mi agita qualcosa nel petto e nel fondo dello stomaco.
- Ti prego. – mormora stentatamente lui, muovendosi un po’ alla cieca nel tentativo di spingere le mie dita abbastanza in fondo da toccare nuovamente quel punto che, anche se solo per un secondo, gli ha fatto perdere la testa. Io ritraggo la mano, prendendolo da sotto le ginocchia e portando le sue gambe fin sopra le mie spalle, dove le appoggio, piegandolo in una posizione un po’ innaturale che lo costringe a schiudere gli occhi e guardarmi incerto nel buio, in cerca di una risposta per ottenere la quale non ha abbastanza coraggio da farmi una domanda.
Mi sistemo meglio contro di lui, inumidendomi di nuovo le dita e poi accarezzandomi velocemente per tutta la lunghezza, preparandomi ad entrare dentro il suo corpo. E succede tutto in un attimo, così veloce che io a stento me ne accorgo, come quando ha spaccato la bottiglia e poi me l’ha puntata alla gola. C’è lo stesso potenziale di pericolo in quello che ha fatto lui poco fa e in quello che sto facendo io adesso. Solo che lui non ha avuto il coraggio di affondare. Io invece sì.
Quando mi scavo a fatica un posto dentro di lui, che è stretto e caldissimo tanto da costringermi ad annaspare senza fiato, Daniel inarca la schiena e geme. C’è del dolore, forse, da qualche parte, ma lui non ci sta pensando. Ed è molto bravo a farlo, tanto che per un secondo quasi penso a lui con una punta di irrazionale orgoglio, perché ciò che ha reso forte lui è esattamente ciò che ha reso forte me. Siamo incredibilmente simili, anche se lui non se ne accorge, ed è questo che lo spinge a cercare proprio me, a volere proprio me, con tutti quelli che potrebbe cercare e volere nel mondo, anche se in questo momento è convinto di volermi solo perché io sono uno che ce l’ha fatta, uno cui guardare con ammirazione e rispetto. Siccome lui è piccolo, cerca qualcuno che possa ricordargli se stesso, solo un po’ meno sofferente. Quando sarà grande, ricorderà i sentimenti che sta provando adesso con un imbarazzo infinito. E questo lo so perché per me è lo stesso, e ci convivo ogni giorno. Quello che Anis prova per me è così diverso da quello che io provo per lui. Ed il fatto di pensarci e realizzarlo proprio ora è così ridicolo che mi viene da ridere.
Non lo faccio, naturalmente. Mi muovo piano, perché davvero voglio che non faccia male, e dopo un po’ sento Daniel cominciare a muoversi in sincrono con me, le sue spinte che vanno incontro alle mie, i nostri bacini che si scontrano sempre più spesso sul sottofondo quasi musicale del fruscio lievissimo delle lenzuola ancora perfettamente composte sotto i nostri corpi sudati, come se questo letto non fosse mio, come se nemmeno questa casa fosse mia e noi fossimo semplicemente entrati da una finestra per prendere possesso di qualcosa che non ci appartiene, solo per venti minuti di serenità.
Stringo la presa sulla sua erezione e mi muovo più velocemente solo quando la via all’interno del suo corpo è abbastanza aperta da permettergli di ansimare non più solo per il senso di pienezza inevitabile e quasi nauseante che è normale ti prenda quando qualcosa di così estraneo da te sfiora la tua intimità in maniera così invadente, ma anche per la sensazione piacevole delle mie labbra che lo sfiorano ovunque, delle mie mani che gli accarezzano i fianchi, delle mie dita che passano insistentemente lungo la linea irregolare della sua cicatrice, tirandogli via il respiro a tratti ed a tratti restituendoglielo all’improvviso. E rallento le spinte, aumentando solo il ritmo delle carezze, aspettando che lui sia venuto prima di riprendere a pompare più velocemente, abbandonandomi poco dopo ai brividi dell’orgasmo che mi portano inevitabilmente a franargli addosso in pochi secondi. Per un attimo, penso distrattamente che ho paura di schiacciarlo, restandogli così addosso. Lui, però, mi regge bene. Non si lamenta neanche. All’inizio respira a fatica, ma poi si calma ed il suo respiro assume un ritmo meno frenetico. E per riflesso mi rassereno anch’io.
- Ehi. – dico piano, rotolando sulla schiena e rimanendo al suo fianco. Una mia mano è rimasta sulla sua coscia. A me non dà fastidio lasciarla lì, a lui non dà fastidio che ci sia, per cui è lì che la lascio. – Dimmi la verità, non sei maggiorenne, vero?
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, perdendosi in un flusso di parole apparentemente privo di senso fino a quando, finalmente, non sbotta in un “tecnicamente no” che mi fa scoppiare a ridere.
- Ma lo sarò fra poco. – si giustifica con voce lamentosa, rovistando sotto di sé per disfare le coperte e nascondercisi sotto, - E poi ti ho promesso che non ti denuncerò, smettila di insistere sul punto, no?
Io rido ancora, mi volto su un fianco e gli accarezzo la frangia con la mano libera, ravviandogliela sulla fronte.
- Era solo per saperlo. – lo rassicuro, - Non devi giustificarti di niente.
- Ovvio che non devo, sarai tu a doverti giustificare davanti a un giudice, quando spiattellerò tutto al tipo che mi ha assoldato per venire a letto con te. – dice lui con naturalezza. Lo fisso, spalancando gli occhi. – Scherzo. – borbotta tirando fuori la lingua. Rido e mi sporgo a mordergli le labbra in un gesto che è un po’ una punizione e un po’ un complimento sincero. – Quindi… - biascica lui quando mi allontano, - Questa è stata la prima e l’ultima volta, mh? Non ci rivedremo più.
Sorrido, girandogli un braccio attorno alle spalle e tirandomelo contro.
- Invece magari domattina intanto ti porto a fare colazione in qualche bel posto, - propongo, - e poi per il resto vediamo col tempo. Che ne dici? Ti piace come idea?
Non lo vedo sorridere, ma sento le sue labbra tendersi contro la mia pelle, e le sue braccia chiudersi attorno alla mia vita.
- Mi piace. – risponde annuendo.
Io sorrido ancora.
- Allora è tutto a posto.

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