Will You Release Me With A Kiss?

di lisachan
Ricordo di aver già vissuto una situazione simile, anche se a parti invertite. Stiamo parlando di molti anni fa, di un periodo in cui io e Bill stavamo insieme da forse un annetto e non c’erano nubi sul nostro orizzonte. O forse c’erano già e io mi rifiutavo di prenderle in considerazione. Sì, sicuramente era così. E tra l’altro è terribile ripensare già a quel periodo come “molti anni fa”. Faccio una gran fatica a star dietro allo scorrere del tempo, da quando sono morto. Probabilmente perché per i morti il tempo non ha un valore granché fondamentale, ed io, chiuso nella mia bara di sole e mare a Miami, non lo sentivo scorrermi addosso. Vivevo in un presente immutabile in cui ogni giorno si susseguiva al precedente per inerzia, senza cambiamenti di alcun tipo se non in dettagli insignificanti che dimenticavo subito dopo aver notato, sempre che riuscissi a notarli.
Comunque, erano molti anni fa, ed io andavo spesso a trovare Bill nell’appartamento che condivideva con suo fratello. Fu durante una di quelle occasioni che Bill si decise una volta per tutte a comprare un appartamento tutto per sé, anche se alla fine non ci ha trascorso tanto tempo, finché sono stato in vita. In ogni caso, allora era molto facile osservare me e Tom mentre ci scrutavamo dubbiosi sulla porta, lui dall’interno dell’appartamento, io dal pianerottolo. Era divertente, perché Tom era molto più piccolo ed era molto più facile e più divertente prenderlo in giro. Da allora sono cambiate troppe cose, anche – assurdamente – nel rapporto fra me e lui, e non è più così semplice fronteggiare i suoi occhi limpidi e sinceri. Per qualche strano motivo, è ancora meno semplice adesso che sul pianerottolo c’è lui, e io invece sono al sicuro dentro casa mia.
- Ho portato il cambio per domani. – dice Tom, dubbioso, e mentre lo dice io so che si sta ripetendo per la cinquecentesima volta da quando questa routine è cominciata che tutto ciò non ha senso. E io so che ha ragione, e so anche che non dovrei vivere in maniera tanto comoda la permanenza di Bill in questa casa, che si protrae ormai da un paio di settimane, soprattutto perché peraltro si basa su regole ridicole e assurde, come ad esempio il fatto che Karima non debba lavargli la biancheria perché “tanto è una cosa provvisoria”, e quindi Bill abbia bisogno del cambio portatogli da suo fratello ogni giorno. Tuttavia, è una routine alla quale ho fatto in fretta ad abituarmi. Perché sono un uomo molto più debole di quanto non abbia mai pensato.
- Grazie. – rispondo annuendo e recuperando il sacchetto di plastica dalle sue mani. – Vuoi entrare? – chiedo risollevando lo sguardo sul vuoto, perché mentre io controllavo che dentro il sacchetto ci fosse tutto ciò di cui Bill aveva bisogno Tom, sottile com’è, è scivolato attraverso la fessura della porta e s’è già introdotto in casa mia senza che io avessi bisogno di invitarlo. – Tom? – domando chiudendo la porta e inarcando un sopracciglio, - Cosa stai facendo?
Lui si guarda intorno come se non conoscesse questa casa a memoria, e scruta ogni angolo con attenzione, neanche si aspettasse di veder saltare fuori assassini ninja mimetizzati con la carta da parati da dietro ogni vaso.
- Controllo che tu tenga mio fratello in un ambiente consono alla sua persona. – risponde lui, gettandosi dietro le spalle le treccine nere.
- E ti sembra consono, quest’ambiente? – chiedo, posando il sacchetto su un divano e incrociando le braccia sul petto. Tom si lascia andare ad un ghigno che ho imparato a vedergli addosso solo di recente, e del quale inizialmente non conoscevo il significato. Figurarsi, sono andato fino da Jost in clinica, disturbandolo mentre, come mi ha detto, “si faceva visitare dal dottor Schüster” (qualcosa che penso non mi perdonerà mai. Più ancora dell’essere la causa del suo sventramento, lui mi odierà per sempre perché ho interrotto la sua sessione pomeridiana di petting selvaggio col suo medico curante. E questo è l’uomo che ci gestisce. E ho detto tutto), e gli ho chiesto che cosa diavolo stesse ad indicare questo sorriso un po’ sghembo ed esageratamente indisponente, e lui ha sorriso trionfante ed ha detto “è tornato?”, e poi mi ha spiegato che si tratta del sorriso che affiora spontaneamente sulle labbra di Tom quando sta pensando che in ogni caso, nella lotta per il cuore del proprio fratello, fra tutti i partecipanti ha vinto ancora una volta lui. E Jost ha riso, spiegandomelo, perché è la prima volta che io ho a che fare coi gemelli Kaulitz come gemelli, e non come fratelli in rotta perché uno dei due ha deciso di sposarsi contro il parere dell’altro. Per dire.
Questa cosa è tragicamente vera, e devo dire che se c’è una cosa che mi dà veramente sui nervi, al momento, del tutto irrazionalmente, è la consapevolezza che non esista essere umano che abbia influenza sul pensiero di Bill più di suo fratello, ora come ora. Naturalmente, Bill fa sempre di testa sua, come ha fatto per ogni minuto della propria esistenza da quando è nato, ma le parole di suo fratello molto spesso bastano a cambiargli l’umore o a condizionarlo a sufficienza da fargli cambiare idea su certe cose. Per dire, io so che se Tom avesse approvato incondizionatamente la permanenza di Bill in questa casa, Bill non avrebbe avuto alcun problema a stabilirvisi in maniera un po’ più onesta, magari continuando a dormire nella stanza degli ospiti, ovviamente, ma facendosi lavare la roba sporca da Karima, quantomeno. E invece no, Tom non gradisce, quindi Bill resta qui lo stesso perché è quello che vuole, o si rende conto che è la cosa migliore da fare, ma lo fa cercando di dargli l’impressione di essere sempre sul punto di andarsene.
Probabilmente è così solo perché si sono persi per tanto di quel tempo che, ora che si sono ritrovati, Bill si farà strappare il cuore dal petto prima di rassegnarsi a perderlo di nuovo, e quindi magari è una cosa provvisoria. Peraltro, so che non dovrei essere geloso di tutto questo, in nessun caso e in nessun senso, ma lo sono. Non posso dirlo a Bill, né a nessun altro, ma lo sono.
- Mio fratello? – chiede a un tratto lui, e sono sicuro che, per tutto il tempo, mentre io mi perdevo in questi pensieri molesti, è rimasto a guardarmi con quel ghigno insopportabile stampato sulla faccia. Ne sono sicuro anche perché poteva benissimo chiedermi di Bill, e invece mi ha chiesto di suo fratello, lo stronzetto indisponente. Cerco di ricordarmi che non posso prendere a sberle il suo bel visino da copertina di Bravo, e cerco di ribattere con un sorriso ugualmente odioso, tirando su solo un angolo della bocca.
- E se io non volessi lasciartelo vedere? – chiedo sfidandolo, ed è a quel punto, naturalmente, che Bill appare dietro le spalle di suo fratello, uscendo dal corridoio con un sorriso beato sulle labbra ed entrambe le mani sui fianchi.
- Da quando sono segregato? – chiede inarcando un sopracciglio. Karima sceglie quel momento per urlarmi che Skyline s’è introdotto in camera mia e ha sventrato a morsi il mio cuscino preferito. Ho capito di non essere stato un uomo buono, nella mia vita precedente, ma penso di aver già pagato per tutti i miei peccati. E invece no, sono lo zimbello del karma.
- Billi. – dice Tom, voltandosi a guardarlo. Nel movimento, il suo sorriso si addolcisce immediatamente, petali di rosa avvolgono la sua persona e una musica melensa si diffonde nell’ambiente.
- Tomi. – risponde lui, intrecciando virginalmente le dita sotto al mento e guardandolo con occhi colmi d’amore e gratitudine. Io mi appoggio con una mano allo schienale del divano e li osservo, trattenendo a stento i conati di vomito. Hanno dei momenti in cui diventano di un romanticismo esagerato, roba che uno poi non può neanche chiedersi perché le fangirl si facciano certe idee e le mettano pure su carta, perché la risposta è lì, davanti ai suoi occhi, palese come il sole a mezzogiorno. – Prego, accomodati. – dice quindi. Le loro mani si stringono e restano strette mentre si siedono entrambi sul divano, proprio sotto i miei occhi, e vorrei alzare un dito e dire che questa è ancora casa mia, ma Bill si volta verso il corridoio e strilla a Karima di portare del tè, ed io sento a pelle la consapevolezza che le mie convinzioni non sono altro che menzogne: questa casa non è più mia da quando Bill ne ha preso possesso. Devo rivedere le regole di questo gioco, perché così come sono non mi piacciono.
- Come stai? – chiede Tom, i pollici che accarezzano in gesti circolari il dorso delle mani di Bill. Sta bene, Tom, sta bene. Viene servito, riverito e protetto ventiquattro ore su ventiquattro, come vuoi che stia?
- Così così. – risponde naturalmente lui, con un gran sospiro, - Sono molto afflitto, Tomi.
- Bushido non ti tratta bene? – chiede subito lui, premuroso.
- Bushido è qui e vi osserva. Ma soprattutto vi ascolta. – mi intrometto io, ma vengo ignorato, cosa che mi fa dubitare di ciò che ho detto. Forse Bushido non è davvero qui, forse sono ancora morto e sono un fantasma, e sto raccontando questa storia sotto forma di spirito incorporeo che può vedere e sentire tutto ma non può essere visto né sentito da nessuno.
Mi fermo un attimo. Mi osservo nell’enorme specchio parietale di fronte a me. Che sciocchezze vado cianciando?
- No, Anis mi tratta bene. – risponde Bill, abbassando teatralmente lo sguardo. Io lascio perdere le rimostranze, vedo Karima apparire col tè e ne sono felice, fino a quando non noto che ci sono solo due tazze sul vassoio. Sono annichilito da quanto sta accadendo. La mia casa si ribella contro di me, il mio cane mangia il mio giaciglio, la mia cuoca mi affama, la mia donna mi ignora e il di lei fratello mi massacra dieci a zero in casa mia. Miami ritorna improvvisamente un’ipotesi plausibile. – Sono angosciato da questa storia. David è ancora in ospedale, sai?
- Sì, sono stato a trovarlo ieri. – ride Tom, - Non preoccuparti troppo per lui, si sta dando molto da fare per tornare in forma, se capisci cosa intendo. – È evidente che perfino Jost, un uomo che è stato sventrato ed è quasi morto due settimane fa, si diverte più di quanto non mi diverta io. Questa cosa è estremamente ingiusta. – A parte questo, Bill, credo che non sia più il caso, per te, di restare qui. – dice quindi, risoluto, allungandosi a recuperare la propria tazza di tè. Io aggrotto le sopracciglia. Non dico una parola ma sento il bisogno quasi fisico di buttarlo fuori di casa. Bill, però, mi lancia un’occhiata repentina e profonda, di quelle con le quali a volte sembra studiarmi. Prende un paio di zollette di zucchero e le immerge nel tè bollente, lo mescola meticolosamente e poi prende la tazza con tutto il piattino, e me la passa con un mezzo sorriso. Mi basta questo per calmarmi. Mi basta davvero, solo sapere che ogni tanto mi guarda ed è consapevole del fatto che io sono qui, che c’è anche lui, che siamo qui insieme, adesso. Mi basta così tanto che a volte è quasi troppo.
- Non è ancora sicuro. – dice Bill, sorridendo teneramente, tornando a guardare suo fratello. – Preferirei restare qui ancora un po’, per ogni evenienza. Solo qualche giorno ancora. Almeno finché David non esce dalla clinica.
Tom rotea gli occhi, alzandosi in piedi.
- Ti rendi conto di quanto è assurdo? – dice quindi, guardandolo dall’alto in basso. Bill non risponde, perché sa che suo fratello ha ragione. Ciò che Tom sta dicendo, implicitamente, è che è ormai chiaro al mondo intero che Bill non corre alcun pericolo, ma non ha la minima intenzione di andarsene. Non so se voglia restare semplicemente perché vuole farlo o perché ha l’impressione che se mollerà anche solo di qualche centimetro, se retrocederà di un passo soltanto dal ruolo che ha silenziosamente accettato di ricoprire ancora una volta restando al mio fianco in questa situazione complicata, allora gli scivolerà tutto via dalle mani. E sospetto che la mia principessa abbia qualche problema molto serio con tutto ciò che le scivola via dalle mani senza il suo esplicito consenso.
- Tomi, voglio solo— - prova a ribattere, ma suo fratello non gliene lascia il tempo. Disperde le sue parole nell’aria agitando una mano con fare disinteressato e dirigendosi a grandi passi verso la porta. Bill si alza in piedi e gli va dietro, le sopracciglia incurvate verso il basso e un accenno di broncio già nascente sulle labbra.
Io sorseggio il mio tè con noncuranza, e lo faccio solo perché ancora non so che fra qualche secondo mi toccherà sputacchiarlo.
- Almeno combinaste qualcosa. – borbotta infatti Tom, guardandoci entrambi malissimo. Bill impallidisce e diventa bianco come un lenzuolo. Io, appunto, sputacchio il tè. – E invece niente, siete— siete quasi frustranti, nella vostra assurdità. Lo sareste, se me ne fregasse qualcosa di voi due come esseri coinvolti in una relazione interpersonale, dico. – sospira ancora, scuotendo il capo. – Va be’, come non detto. – dice quindi. Come non detto il cazzo, Tom. – Bill, - lo chiama, allungandosi a baciarlo su una guancia, - fatti sentire quando hai bisogno. A presto. – lo saluta, e poi esce, chiudendosi da sé la porta alle spalle. Ormai non ho più nemmeno diritto a buttare la gente fuori da casa mia. Si butta fuori da sola.
Quando restiamo soli, l’aria è così pesante che entrambi facciamo fatica a respirare. Lo facciamo in silenzio, inspirando boccate lunghe e lente. La sensazione di tensione che ci avvolge è così fisica che ho l’impressione di percepirla stringermi realmente all’altezza della gola. Bill si porta una mano al collo e lo massaggia un po’, come volesse liberarlo da qualcosa di troppo stretto che vi sta annodato attorno, e il mio cuore manca un battito.
Sento Karima entrare e portare via il vassoio con le tazze in perfetto silenzio, e poi uscire, lasciandoci nuovamente soli. Bill deve avere racimolato abbastanza coraggio, nel mentre, perché finalmente si volta a guardarmi. Ha le labbra piegate in un sorriso mesto e imbarazzato.
- Scusalo. – dice a bassa voce, stringendosi nelle spalle, - Non la sta prendendo bene.
- Già. – ridacchio nervosamente io, - L’ho notato. – e poi deglutisco a fatica, - Bill, lo sai che puoi andartene quando vuoi, vero?
Lui mi solleva addosso un paio d’occhi sgranati e un po’ smarriti, e per molti secondi non risponde perché non sa che cosa dirmi. Schiude le labbra, le muove un po’, cerca di modellare parole che abbiano senso, ma non ne trova. Perciò finisce per abbassare nuovamente lo sguardo e sorridere appena, massaggiandosi nervosamente la nuca.
- Penso che andrò di là ad ascoltare un po’ di musica. – conclude, passandomi accanto e scomparendo in corridoio. Io resto immobile fino a quando Karima non appare alle mie spalle chiedendomi se può procedere a rimpiazzare il cuscino in camera da letto o voglio prima dargli un’occhiata. A che dovrebbe servire dare un’occhiata ad un cuscino fatto a pezzi adesso, Karima?, vorrei chiederle. Qui nessuno mi interpella per le cose importanti, ma tutti hanno sempre pronta una qualche domanda sciocca da rifilarmi quando mi sento troppo ignorato, per farmi credere che in realtà non sia così.
Per un attimo, accarezzo l’idea di andare in camera di Bill, spegnere la musica e provare a fargli sentire quanto ci sono per davvero. Ma poi lascio perdere, e seguo Karima in camera da letto.
*
Io e Bill ci alziamo di buon mattino. Lo facciamo sempre e lo abbiamo sempre fatto, quando stavamo insieme. È una cosa buffa, perché sia io che lui, quando siamo da soli, siamo incredibilmente pigri. Mi capitava di chiamarlo e trovarlo ancora assonnato alle undici del mattino, quando non si fermava a dormire da me e per un motivo o per l’altro era costretto a tornarsene al proprio appartamento. E nonostante questo, quando poi la sera successiva o due sere dopo tornava a dormire qui alla villa, al mattino avevamo entrambi già gli occhi spalancati per le otto massimo, senza che dovesse tirarci su di forza la sveglia, o Karima. Non so perché succedesse, forse il pensiero di essere insieme e dormire quando avremmo potuto fare altro – una qualsiasi altra cosa – era abbastanza per costringerci a spalancare gli occhi, forse semplicemente era un’abitudine che avevamo preso per chissà che motivo, comunque accadeva sempre.
Accade anche oggi, com’è accaduto per ogni giorno durante le ultime settimane. Mi sveglio, mi metto in piedi, indosso la vestaglia ed esco in corridoio. Mi dirigo istantaneamente verso il bagno, ma quando sento la porta della stanza in cui dorme Bill aprirsi tiro dritto e mi infilo in cucina, così che possa andarci lui per primo. Karima mi attende con una tazzina di caffè fumante in mano, ed io l’accetto volentieri, ringraziandola con un cenno del capo.
- Quali sono i suoi programmi per oggi, signor Ferchichi? – chiede lei con aria austera. Come al solito, non parla come se riconoscesse Bill come parte integrante di questa casa. Si è inserita alla perfezione fra le regole sbilenche che Bill ha stabilito per questa convivenza, perciò nella sua visione delle cose Bill è solo un ospite, un ospite che con i miei normali programmi quotidiani non ha niente a che fare, come fosse un cugino venuto a passare qualche settimana di vacanza a casa mia e che approfitta di trovarsi qui per visitare tutta Berlino. Qualcuno, insomma, i cui programmi non debbano coincidere con i miei come invece i programmi di Bill, in barba a tutte le regole, finiscono spesso per fare.
- Quando saremo pronti, - rispondo, usando volutamente il plurale perché lei capisca che Bill resterà con me, - andremo a trovare David in clinica. Passeremo lì qualche ora, non credo che sia il caso di preparare il pranzo.
Karima annuisce, prendendo nota del fatto senza fare una piega.
- Allora, - dice, - se il signor Ferchichi non ha più bisogno di me, io comincerei a rassettare il piano di sopra.
Io annuisco, e lei prepara la colazione per Bill – una tazza di latte bianco e cereali – prima di uscire dalla cucina ed andare verso lo stanzino per recuperare ciò che le serve.
La principessa arriva pochi minuti dopo, i capelli tutti scompigliati sulla fronte e la testa un po’ ciondolante, ma i suoi occhi sono svegli e attenti, e so che se cominciassi a parlargli all’improvviso di qualcosa di fondamentale riuscirebbe a seguirmi senza la minima difficoltà. Lo lascio in pace, comunque. Sa già che dopo colazione dovrà prepararsi e poi seguirmi da David, non è necessario che io glielo ripeta adesso, perciò mi limito a sorridergli e ad augurargli il buongiorno. Lui ricambia sia il sorriso che il buongiorno, e poi affonda il naso nel suo latte e cereali, concentrandosi solo ed esclusivamente su quello con una devozione quasi commovente.
Io giro sui tacchi e vado in bagno, cercando di fare mente locale sulla situazione. L’ultima volta che siamo stati da David, abbiamo discusso a lungo sulla prima possibilità che avevamo, ossia quella di vuotare il sacco con la polizia. Per molti sarebbe stata non solo la cosa più ovvia, ma anche l’unica da fare davvero. Correre alla prima stazione di polizia – ma non due settimane dopo, il mattino dopo – e denunciare l’accaduto. Per molte ragioni, per noi non poteva essere così.
David mi ha chiesto subito se al magazzino fossero rimaste tracce di quanto accaduto. Gli ho risposto di no, naturalmente. Non sapevamo se se la sarebbe cavata e non potevamo correre il rischio di restare con un cadavere sfregiato e zero testimoni su cui fare affidamento. Lui ha annuito, comprendendo perfettamente. La cosa mi ha un po’ turbato, ma immagino che quando riesci a manipolare l’universo per fargli credere che un uomo sia morto quando invece così non è, più o meno sei pronto a manipolarlo ancora per fargli credere qualsiasi altra cosa, perciò in quel momento Jost stava semplicemente prendendo informazioni in vista del proprio prossimo compito. Qualcosa che ho sempre ammirato in lui, peraltro.
In ogni caso, tutto ciò che sappiamo è che Nyze ha voluto mandarci un messaggio. Gli sono già andate storte le cose quando David è sopravvissuto – cosa che credo non avesse previsto, e d’altronde quell’enorme vendetta inciso in profondità nel ventre di David sarebbe bastato a indirizzarmi verso la risposta esatta anche se lui, risvegliandosi, non me l’avesse detta a viva voce – e di questo dobbiamo considerarci fortunati, ma è tutto ciò che abbiamo. Non sappiamo chi sia la gente che ha mandato, dove l’abbia pescata, ed andare a cercare informazioni a Tempelhof adesso sarebbe una condanna a morte. David non saprebbe riconoscere chi l’ha attaccato neanche sotto tortura, naturalmente, e quando ho preso contatto con qualche amico dei tempi andati per chiedere discretamente in giro se Nyze avesse un alibi per quella serata è spuntato fuori che sì, ce l’aveva, e che dal momento che stava cantando ad un concerto di gruppo con l’Aggro Berlin ci sarebbero stati non solo fior di testimoni, ma anche biglietti pagati pronti a dimostrare che lui era davvero lì quella sera.
“Con la credibilità che ho,” ha aggiunto David, lo sguardo basso e venato di rabbia, “non posso pretendere che qualcuno si basi sulla mia testimonianza di quella notte. Tutti sanno in che rapporti siamo io e te, se facessi il nome di Nyze potrebbero pensare ad una montatura con la complicità di una clinica privata pagata fior di quattrini, solo per mettere in cattiva luce un rivale.”
Ho concordato, immaginando che se era ormai chiaro per tutti che David fosse stato capace di farmi sparire per quasi un anno agli occhi del mondo, chiunque l’avrebbe creduto perfettamente in grado anche di farsi apparire degli sfregi sospetti sullo stomaco, all’occorrenza. Non che la cosa avesse un vero senso, ma si sa come funzionano gli scandali, e io lo so meglio di tutti perché quando ero ancora un rapper all’apice del proprio successo gli scandali li cavalcavo tutti come le onde su una tavola da surf. Queste situazioni ci mettono pochissimo a diventare televisive, soprattutto nel nostro mondo, ed una volta che lo diventano è la fine, perché alle persone piacciono le spiegazioni semplici, vogliono un colpevole che sia facile da individuare, possibilmente il più debole, quello con le spalle più fragili e tanti, tanti motivi per cui essere disprezzato, ed è meglio tenerci il più lontano possibile da una prospettiva del genere, perché ho idea che la situazione ci sfuggirebbe di mano molto facilmente. E non è qualcosa che possiamo permetterci, ora come ora.
Il discorso s’è chiuso con una serie di puntini di sospensione, perché il dottor Schüster è entrato in camera ed ha avvertito giovialmente David di prepararsi per il suo trattamento quotidiano a base di creme ed unguenti lenitivi, e a quel punto David ci ha buttato fuori col desiderio di non vedere più i nostri brutti musi per almeno un paio di giorni, motivo per cui io e Bill, ridendo divertiti, siamo usciti ed abbiamo stabilito di lasciargli qualche giorno per riposare.
Bill è estremamente preoccupato per David, anche ora che è fuori pericolo. Fosse per lui, gli risparmierebbe anche queste visite estemporanee che ogni tanto gli facciamo per discutere la situazione, ma sa bene non solo che la situazione va discussa, ma anche che David, nonostante quanto si lagni, desidera essere informato su ogni svolta, ogni particolare ed ogni cosa che decidiamo di fare. Posso capirlo, peraltro: se io e Bill siamo tanto arrabbiati per ciò che gli è successo, posso solo immaginare quanto debba esserlo lui stesso.
Mi lavo e mi vesto piuttosto velocemente. So che Bill si prenderà più tempo di quanto già usualmente non faccia perché ci tiene ad essere perfetto, quando David poserà gli occhi su di lui. Non vuole dargli più preoccupazioni di quante ne abbia già, dice, e a me viene un po’ da sorridere perché se David si preoccupa per Bill non sarà certo un filo di trucco in più a dargli motivo di smettere. Alle volte Bill si perde del tutto nel provare in ogni modo a fare ammenda per la grave colpa che s’è addossato nascendo gay e destinato a innamorarsi di me, solo che non capisce che non sono colpe davvero, e che non c’è modo per cui potrebbe farsi perdonare per essere semplicemente com’è. E siccome anche lui, a qualche livello inconscio dentro di sé, lo capisce, non riesce a trovare il modo corretto per porgere le proprie scuse, e lo fa nei modi più disparati. Offrendomi il proprio tè per non farmi sentire invisibile, ad esempio. O truccandosi come dovesse diventare la prova vivente dell’esistenza dell’orgoglio gay quando va a trovare David. Non ne sono sicuro, ma credo che ci sia fra loro un qualche discorso sospeso speciale su questa questione dell’omosessualità. La trovo una cosa divertentissima.
Bill, come preventivato, è pronto solo tre quarti d’ora abbondanti dopo. È splendido, avvolto in una felpa sottilissima con un cappuccio enorme che gli cade sulla testa e attorno al viso come un velo. Gli occhiali da sole a mascherina coprono gli occhi il cui trucco sgargiante ed eccessivo sono appena riuscito ad intravedere, ed è, come al solito, talmente pieno di gioielli addosso che tintinna ad ogni passo. Conto almeno tre collane di diversa lunghezza sovrapposte e qualcosa come sei bracciali per polso. Dovrei trovarlo ridicolo, e in ogni caso dovrebbe essere quanto di più lontano possa esistere dalla mia idea di bellezza. Lo è, in realtà. Eppure lo guardo e mi manca il fiato, e quando lo vedo lanciarmi un’occhiata da dietro le lenti scure mi precipito ad aprirgli la portiera della macchina.
Lui inarca un sopracciglio che fa capolino da sopra la montatura nera, e le sue labbra si piegano appena in un mezzo sorriso divertito.
- Non devi farlo, sai? – mi dice, sedendosi comunque al proprio posto. Io non rispondo subito. Aspetto di aver fatto nuovamente il giro della macchina ed essermi seduto al suo fianco. Poso le mani sul volante e guardo dritto davanti a me mentre il cancello automatico in fondo al garage si apre.
- Tu non devi davvero restare a casa mia. – ribatto. Lo sento tendersi tutto accanto a me, ma dura solo per un attimo. Poi si scioglie in un sorriso intenerito, me lo sento addosso, e so che sa dove voglio andare a parare.
- Già. – risponde quindi. Si sistema sul sedile e, nello spostarsi, si avvicina impercettibilmente. Ogni volta che cambio marcia, le nocche della mia mano sfiorano appena il suo ginocchio. Non diciamo altro per tutto il tragitto fino alla clinica, ma d’altronde non ne sentiamo il bisogno, per cui va bene così.
*
Quando arriviamo, David e il dottor Schüster stanno pomiciando allegramente, ma non in modo normale, nel modo in cui ti aspetti che un medico e un paziente possano pomiciare – se è lecito aspettarsi che un medico e un paziente pomicino – col paziente steso sulla propria branda e il medico chinato premurosamente sulle sue labbra, no: David si è alzato, portando con sé la sua flebo con tutta l’asta come fosse un bastone da passeggio, ed è arrivato fino al davanzale della finestra in fondo alla stanza, sul quale s’è appoggiato con una posa molto tragica da diva del cinema muto – ogni tanto mi basta guardare lui per capire che Bill non avrebbe potuto essere diverso da com’è nemmeno in un universo parallelo – e addossato al quale ha probabilmente aspettato che il dottor Schüster lo raggiungesse guardandolo con aria severa ma al contempo indulgente, rimproverandolo perché tornasse a letto, salvo poi avventarsi su di lui dimenticando che quest’uomo meno di tre settimane fa è stato sventrato ed avrebbe bisogno di molte cose, ma decisamente non del proprio medico che lo ribalta e lo denuda di fronte alla finestra per scoparselo in favore di luce naturale, che gli fa risaltare l’incarnato.
Bill, al mio fianco, stringe convulsamente le mani attorno all’enorme mazzo di girasoli e gerbere che ha voluto fermarsi a comprare mentre eravamo per strada, e lancia un urletto fra il pudico e il sorpreso, sollevando il mazzo stesso fino a coprirsi metà del viso, lasciando saggiamente scoperti gli occhi. Sollevo uno sguardo pietoso al cielo perché la teatralità è palesemente un vizio di famiglia, e lo faccio pensando che in realtà è molto teatrale in sé anche questo sguardo supplice che sto lanciando al paradiso, se c’è, perché mi venga in aiuto.
- Oh. – dice il dottor Schüster, allontanandosi da David come uno che non ha per niente voglia di allontanarsi dalla cosa con la quale stava intrattenendosi così piacevolmente. Il suo camice è aperto ed abbassato sulle spalle, e la maglietta verde che indossa al di sotto è sollevata fino al petto, e lascia scoperti sia la pancia piattissima che i pettorali prominenti, dai quali sporgono con aria quasi di sfida i capezzoli piccoli e appuntiti. Si risistema sommariamente, mentre David si stringe nel proprio pigiama e ci lancia un’occhiata estremamente disapprovante.
- Salve. – dico io, con un sorriso incoraggiante, agitando una mano nella loro direzione. Bill capisce che coprire tutta la metà inferiore del viso lasciando scoperta quella superiore non è un atteggiamento abbastanza pudico, e solleva ulteriormente le mani. I fiori frusciano nel movimento, e lui si stringe nelle spalle così tanto che diventa minuscolo, e al mio fianco com’è quasi scompare. – Non volevamo disturbare.
- Avreste potuto restarvene a casa, dunque, così non avreste corso il rischio di farlo. – sbotta Jost, roteando gli occhi e tornando velocemente a letto, trascinandosi dietro la flebo. Mi chiedo velocemente per quale motivo sto continuando a pagare questa stanza quando è evidente che quest’uomo resta qui non perché sta male ma perché vuole dei figli dal suo medico. Cosa che, per inciso, non riuscirebbe ad ottenere in modo naturale neppure in un milione di anni.
- Non avete disturbato. – sorride angelico Schüster, i lunghi capelli biondi che gli incorniciano il viso, - Avevo giusto finito di somministrare al signor Jost la sua terapia giornaliera.
Bill abbassa il mazzo di fiori, ma in compenso solleva un sopracciglio.
- Per via orale? – domanda curiosamente. Il dottor Schüster sorride con molta convinzione, mentre io cerco di non soffocare dalle risate e David si stampa sul viso un’espressione oltraggiata che, considerate le condizioni in cui l’abbiamo trovato, penso sia del tutto fuori luogo.
Alla fine, Schüster abbandona la stanza riuscendo in qualche modo a non perdere nemmeno un pizzico della sicurezza di sé che io e Bill, trovandolo a fare cose decisamente inopportune col proprio paziente, avremmo dovuto abbattere a sprangate con la nostra sola presenza. Così non è, brillava come il sole quando siamo entrati e continua a brillare quando esce. Posso quasi sentire l’eco di stuoli di infermiere che svengono aprendosi come il mar Rosso al suo passaggio. Quelle donne non sanno che in realtà è gay e il suo cuore selvaggio, sotto la pelle abbronzata, batte solo per David Jost. E forse è meglio che non lo sappiano.
Quando riporto lo sguardo su David, lui è seduto a gambe incrociate sul proprio letto e sul viso non porta più i segni della furia che l’ha preso poco fa, quando l’abbiamo interrotto. Sta abbracciando Bill e si sta lasciando sommergere dal solito flusso infinito di parole in libertà col quale la principessa usa stordirti – non solo lui, proprio in generale – quando non vuole essere rimproverata.
Io mi avvicino, trascinandomi dietro una sedia abbandonata in un angolo. La sedia già posizionata accanto al letto di David sarà quella sulla quale si accomoderà Bill quando avrà finito di sistemare il mazzo di fiori nel vaso che David ha sul comodino. Lo osservo togliere i fiori vecchi nonostante non siano nemmeno un po’ avvizziti e cambiare l’acqua facendo la spola fra il frigorifero e il bagno privato sulla parete opposta, e il suo viso in questo momento è il ritratto della serenità. Sa che non sta facendo qualcosa di particolarmente utile, ma almeno sta facendo qualcosa per David, e questo gli è sufficiente perché sente che a David fa piacere.
- Come stai? – chiedo a David quando i miei occhi riescono a staccarsi dalla figura di Bill.
- Benone! – risponde impulsivamente lui, e poi lo vedo accartocciarsi un po’ su se stesso, tossicchiando. – Cioè, abbastanza bene. Intendo, miglioro. Naturalmente miglioro. Ma non sono ancora—
- Non vuoi uscire da questo posto neanche se ti puntano una pistola alla tempia, sbaglio? – rido io, e David ride con me, grattandosi distrattamente la nuca.
- Sto tranquillo, qui. – risponde quindi, stringendosi nelle spalle, - Ho bisogno di stare un po’ tranquillo. E poi ho la certezza che, almeno finché starò chiuso qua dentro, tu non potrai fare niente di stupido, visto che mi hai dato la tua parola. Quindi è un accordo vantaggioso per tutti.
- Per la verità… - comincio io, cogliendo la palla al balzo, - è proprio per questo che siamo venuti a interrompere il tuo rituale di accoppiamento, oggi. Dobbiamo parlare.
Lui aggrotta le sopracciglia, sedendosi immediatamente in maniera più composta.
- È successo qualcosa? – chiede allarmato, mentre Bill si siede al proprio posto e giunge le mani in grembo.
- No. – scuoto il capo io, - È proprio questo il punto. Ormai sono passate quasi tre settimane, e non ci siamo mossi in nessuna direzione. C’è qualche possibilità che la gente che ti ha aggredito sia stata reclutata e Tempelhof, se non altro perché lì ce n’è di gente disposta a tutto per incasinarmi l’esistenza, ma se non ci muoviamo adesso rischiamo di perdere anche quel po’ di tracce che devono essere rimaste ancora in giro. Ora, non so bene chi potrei mandare a farsi un giro nel ghetto, quando si trattò della questione della mia morte mi hai detto che il giro se lo sono fatti Fler e Chakuza, ma con tutta la visibilità che hanno avuto recentemente non mi sembra il caso di mandarli in un posto dove rischierebbero grosso. – sospiro profondamente, non mancando di notare il brivido che ha percorso tutto il corpo sottile di Bill mentre parlavo della visibilità che Fler e Chakuza hanno acquistato con gli ultimi avvenimenti. – Qualche suggerimento? – concludo infine, tornando ad alzare lo sguardo su David.
Lui riflette per qualche secondo, incrociando le braccia sul petto. Il suo sguardo si fa cupo, visibilmente preoccupato, ed improvvisamente l’atmosfera della stanza, fino a qualche secondo fa gioviale e serena, si appesantisce tutta insieme, al punto che me la sento gravare addosso, tutta sulle mie spalle.
- Io penso—
- Se posso… - lo interrompe Bill, la voce bassa ma decisa. Entrambi ci voltiamo a guardarlo con più stupore di quanto il momento non lo richiederebbe. Io, soprattutto, dovrei essere abituato a vederlo intervenire in una discussione come questa, considerato il fatto che lo faceva spesso, quando stavamo insieme. A volte anche del tutto a sproposito. Ma da quel periodo sembrano passati decine d’anni, secoli addirittura, e quindi la sua voce suona quasi stonata, alle mie orecchie, come provenisse da un tempo diverso, arrivando al presente sotto forma di un’eco lontana e un po’ irreale. – Se ho capito bene, vorresti provare a capire qualcosa di quanto è accaduto, magari raccogliendo informazioni sparse per il ghetto, e poi… poi? Andare da Nyze e chiedergli conto e ragione di ciò che hai scoperto?
Scrollo appena le spalle, annuendo brevemente.
- Almeno così lo metteremmo alle strette. Sarebbe più facile cavargli qualcosa di bocca, se riuscissimo a trovare le informazioni giuste.
Bill riflette per qualche secondo. Non noto il sorriso divertito sulle labbra di David. Lo vedo, ma non ne prendo atto, non capisco che quest’uomo sa già cosa uscirà dalla bocca di Bill adesso e sta già ridendo in anticipo. Avendo tutte le ragioni per farlo, peraltro.
- Mi sembra una stronzata. – dice quindi Bill, e per poco non cado giù dalla sedia.
- Cosa…? – boccheggio, mentre David lascia andare la risata che ha trattenuto fino ad adesso. Bill si concede una smorfia, incrociando le braccia sul petto.
- Rifletti un attimo… - mi invita, pensieroso, - Se anche qualche informazione dovesse venire fuori, chi ti dice che sarebbe sufficiente a inchiodarlo? Ma poi… - sospira, - …due anni fa la situazione era diversa. Quello che abbiamo fatto Peter, Patrick ed io… quello che è successo quella notte non possiamo ripeterlo adesso. – abbassa un po’ lo sguardo, - Non puoi ripeterlo tu, è pericoloso, e… Dio, Anis, non sei stufo marcio di tutte queste pose da ghetto? – solleva nuovamente gli occhi, cercando i miei e trovandoli all’istante, - David è vivo per miracolo. Non posso dirti che… se fosse morto, ecco, forse anche io sarei con te, adesso, e vorrei soltanto vedere Nyze aperto in due come un vitello in macelleria, ma… - sospira ancora, socchiudendo gli occhi e stringendosi nelle spalle, - Se provassimo a lasciar perdere? Possiamo almeno provarci? A non sollevare un polverone ancora più grosso?
Schiudo le labbra, giusto perché mi pare il caso di informare la principessa che questa non è una questione che dipende solo da noi, che c’è un’altra parte, in gioco, e che quella parte potrebbe ritorcerci contro il nostro silenzio, attaccandoci di nuovo per indebolirci ancora di più, ma David mi interrompe prima ancora che io possa iniziare, schiarendosi la voce ed aspettando di avere la mia completa attenzione prima di cominciare a parlare.
- Io penso che Bill abbia ragione. – dice quindi, - Magari non funziona, e fra un paio di mesi verrà sventrato qualcun altro al posto mio… o magari tornano indietro e concludono il lavoro con me ricalcando quello che hanno già fatto. – aggiunge, deglutendo a fatica, - Ma magari invece va bene e riusciamo a smorzare la vicenda prima che diventi troppo ingombrante. Sai cosa vorrebbe dire? Vorrebbe dire lasciare in pace il mondo perché il suo tempo scorra come natura comanda, senza imporsi stile deus ex machina sull’universo, e vedere se si può tornare ad uno stato di normalità. – sorride con convinzione non simulata, quando mi appoggia una mano sulla spalla, - Il rischio è grosso, ma lo sarebbe anche mandando qualcuno dei ragazzi a Tempelhof. E le prospettive in questo secondo caso sono quelle di guerra aperta, mentre se funziona come suggerisce Bill… be’, la prospettiva è di pace. Non ti alletta l’idea?
Sospiro, già sconfitto in partenza. Il discorso di David fila, se non si tiene conto delle probabilità che avvenga una delle due cose piuttosto che un’altra. Probabilità che nel mondo del rap arrivi infine la pace e tutti ci si sieda attorno ad una tavola rotonda brindando alla nostra salute ed augurandoci vicendevolmente una vita prospera e serena? Zero. Probabilità che Nyze si senta incoraggiato a farmi trovare una testa di cavallo nel letto stasera appena mi ritiro a casa? Magari un numero piccolo, ma comunque superiore allo zero.
Lascio perdere, comunque, perché alla fine non è solo della mia vita che stiamo parlando qui, ma anche delle loro, e di quella di persone alle quali siamo tutti affezionati, e che nessuno di noi vuol vedere spegnersi sul pavimento sporco di un altro magazzino, che sia ora o fra un mese. Posso decidere di mettere a repentaglio la mia incolumità, se voglio, ma non posso giocare con quella degli altri. È per questo che sono morto due anni fa, perché mettere a rischio Bill non era un’opzione contemplabile. Quella deve essere la mia unica priorità, adesso, con la differenza che purtroppo le cose sono cambiate al punto che non si parla più solo di proteggere Bill, ma anche un sacco di altra gente. Non so se sarò in grado di proteggerli tutti— al diavolo. Certo che lo so. E certo che lo sarò.
Mentre usciamo dalla camera di David, una mezz’ora dopo, lasciandolo sul letto a stiracchiarsi fintamente sonnacchioso per darci ad intendere che si metterà immediatamente a dormire dopo che saremo andati via quando invece attenderà Schüster per due minuti e, quando non lo vedrà arrivare di sua spontanea iniziativa, si attaccherà al telecomando che ha appeso al letto premendo il tasto di chiamata finché il suo eroe non sarà giunto a salvarlo in risposta al suo grido d’aiuto, io penso che posso accettare questa improvvisa svolta nella politica interna del mio regno, ma forse non sono pronto ad accettarne le conseguenze. Prima fra tutte il fatto che, se voglio imporre la pace, non posso comportarmi come se fossi ancora in guerra.
E quindi, giocoforza, la principessa dovrà abbandonare la fortezza reale.
*
Faccio a pugni col pensiero per tutta la settimana successiva. Bill se ne accorge, naturalmente, perché è impossibile non vedere quanto diversamente mi comporto nei suoi confronti. Anche il fatto che cerchi il più possibile di non stare con lui nella stessa stanza, o il fatto che, alla fine, per la gioia di Karima i nostri programmi giornalieri abbiano cominciato a non coincidere più, se non nelle volte in cui siamo andati a trovare David, deve suggerirgli che qualcosa è cambiato, e quel qualcosa è il bisogno di trovarsi in questa casa. Riesco perfettamente ad immaginarmelo al mattino, nel bagno che mi sono premurato di lasciargli usare per primo come sempre, guardarsi nello specchio e chiedersi cosa stia facendo ancora in questa villa, perché non se ne sia tornato nel proprio appartamento, come sarebbe stato forse più giusto. Ieri Tom è venuto a trovarlo per portargli il cambio, e ha insistito ancora per convincerlo dell’opportunità di andare a stare altrove. “Puoi venire anche da me, se vuoi,” gli ha detto, mordicchiandosi incerto il labbro inferiore e giocando distrattamente col piercing, “Ma stare qui è… davvero poco conveniente, Bill, per un sacco di motivi.” E ha ragione, Tom, ha ragione da vendere.
Tanta ragione che ho visto Bill vacillare, nell’ascoltarlo, e non mi ha stupito. Così come non mi stupisce oggi entrare in camera sua e trovarlo con lo zainetto sul letto, intento a rassettare le proprie cose. Fuori dalla finestra, agosto finisce e si appresta a diventare settembre, e lo fa discretamente. Sembra che niente sia cambiato da quando Bill ha messo piede in questa casa, ma in realtà è passato un mese. Un mese sono un sacco di giorni. Non saprei dire se siano giorni persi.
- Bill? – lo chiamo piano. Lui non deve avermi sentito entrare, perché raddrizza la schiena all’improvviso e fa un passetto indietro mentre si volta a guardarmi, sussultando visibilmente.
- Sei tu. – dice con un piccolo sorriso, tornando a rilassarsi e lanciando un’occhiata imbarazzata al proprio zainetto. Probabilmente avrebbe preferito che non lo vedessi prepararlo. L’avrei preferito anch’io.
- Cosa fai? – gli chiedo, e glielo chiedo anche se lo so benissimo, perché spero che gli manchi il coraggio di rispondermi. Forse, se non sarà in grado di dirmi che va via, resterà. Penso a quanto mi sono lamentato, all’interno della mia testa, ovviamente, delle stupide regole che Bill aveva stabilito per far durare indeterminatamente questa convivenza, ed ora mi sento ridicolo nell’aggrapparmi a quelle stesse ridicole regole, arrivando a dirmi che forse se non sento qualcosa quella cosa non accadrà, pur di concedermi una speranza. Una sola. Di poterlo avere qui un po’ più a lungo. Fossero anche solo un paio di giorni.
Bill schiude le labbra, e vedo la fatica che fa nel provare a parlare. Lo capisco lì, che non vuole farlo davvero. Prima ancora che lui possa dirmi qualcosa a voce, il suo corpo mi sta già dicendo che se ci fosse anche solo un altro motivo per cui restare, resterebbe, perché i motivi che ha utilizzato fino ad oggi hanno perso validità giorno dopo giorno, e lui ha fatto di tutto per rimanere attaccato ai fili sottilissimi che erano diventati, ma ormai deve mollare la presa. E che se voglio che resti, devo dargli un motivo nuovo per farlo. Qualcosa di reale, con una fibra forte. Qualcosa che non si consumerebbe col tempo, che gli darebbe motivo di restare a lungo senza dover accampare pretesti e scuse uno dietro l’altro.
- Io penso… - esala stancamente, distogliendo lo sguardo e fissandolo insistentemente su un punto a caso nella parete dietro di me, - Anis, penso che dovrei—
- Non farlo. – lo interrompo, stringendo i pugni lungo i fianchi. Lui serra istantaneamente le labbra, tornando a guardarmi. I suoi occhi sono spalancati e colmi di paura ed emozione allo stesso tempo. Ricordo di aver visto una luce simile in questi stessi occhi, tanti, tanti, tanti anni fa. Lui era molto più piccolo, io molto più stupido. Entrambi eravamo molto più felici. Improvvisamente, quei giorni sembrano lontanissimi e incredibilmente vicini insieme. Impalpabili come sogni, ma straordinariamente reali. Non me ne accorgo consciamente, ma semplicemente escono dalla dimensione di incertezza in cui li avevo racchiusi chiedendomi per lungo tempo se fossero stati veri o meno, e ridiventano ricordi. Qualcosa di concreto, qualcosa che è successo davvero. Qualcosa a cui aggrapparmi.
Mi avvicino cautamente, perché il suo corpo trema impercettibilmente e ho paura di vederlo scattare di lato per evitarmi e fuggire attraverso la porta ancora aperta alle mie spalle. Un passo alla volta, sento il suo calore farsi più intenso, i suoi occhi più grandi, il suo profumo più forte, le sue labbra più invitanti. Mi sto lasciando guidare dall’istinto e non sto riflettendo su ciò che sto facendo. Non so se questo mi renda più o meno colpevole circa il baratro nel quale sto per ripiombare entrambi.
Bill, in ogni caso, non si muove. Non si muove mentre mi avvicino e non si muove nemmeno quando mi fermo, ad un paio di centimetri da lui. Basterebbe che mi dondolassi appena in avanti per sfiorare le sue labbra con le mie, ma non voglio che sia un movimento casuale a riunirci adesso. Non c’è mai stato praticamente niente di casuale in ciò che ci ha uniti, è sempre stata una nostra scelta. Impulsiva a volte, ben ponderata in altri casi, ma consapevole.
Sollevo le braccia e prendo il suo viso fra le mani. Accarezzo i suoi zigomi coi pollici mentre lui respira profondamente e si inumidisce appena le labbra. I suoi occhi non si staccano dai miei neanche per un secondo, almeno fino a quando, con un sospiro liberatorio, li chiude. Mi si stringe lo stomaco in una morsa di desiderio ed impazienza, e mi chino su di lui, poggiando le mie labbra sulle sue ed assaporandolo lentamente prima di bussare appena con la punta della lingua, implorandolo nella mia testa perché mi lasci passare. E lui si aggrappa con forza alla maglietta che indosso, ne strattona l’orlo con violenza e con rabbia, e quando accoglie la mia lingua nella sua bocca la cerca immediatamente con la propria, allacciandomi repentinamente al collo per tirarmi il più possibile contro di sé mentre le mie mani scivolano lungo il profilo del suo viso e del suo corpo, stringendosi attorno ai suoi fianchi.
E poi mi confondo, perché non so più dove sono, e per dove non intendo solo il luogo fisico, intendo anche il quando. Il tempo, il punto della mia vita in cui mi trovo adesso.
Le sue labbra che si muovono contro le mie sono affamate e cariche di desiderio bruciante, sono bollenti e dolci e sue, sue in un modo che mi ricorda quello che era un tempo, ma più profondo, sue come se quel pezzo di lui, quel pezzo che era stato mio e che è rimasto sepolto dentro di lui per tutto il tempo da quando me ne sono andato, stesse lentamente riaffiorando. È un Bill più piccolo e ingenuo, stropicciato e malconcio, che è stato male da morire e s’è consumato a furia di piangere, e per smettere di soffrire s’è conservato in un cassetto così da non dover più pensare di esistere e stare male anche solo per quello. E ora fa capolino, coi capelli scompigliati – e sono le mie mani che li scompigliano perdendocisi dentro, anche se ora sono molto più corti di quanto non fossero allora – e le guance arrossate – e sono i miei baci ad arrossarle, a dare loro quel colore acceso e brillante che tanto amavo – e si guarda intorno e mi chiede se può venire fuori, se adesso è sicuro, se non c’è qualche altro motivo per piangere.
E io me lo stringo contro e lo faccio con dolcezza, piano, perché è già abbastanza fragile e non voglio rischiare di spezzarlo. Voglio solo rassicurarlo. Sì che puoi venire fuori. Salta giù da dove ti sei nascosto. Io sono proprio qui sotto. Ti prendo al volo.
- Resta. – sussurro sulle sue labbra, mentre lo sollevo appena e lui stringe le cosce attorno al mio bacino. I suoi occhi sono persi nei miei, il suo respiro è affannoso e so che in questo momento, per lui, in tutto il mondo non esiste altro che sia degno di tutta l’attenzione che sta concentrando su di me.
- Mi viene da piangere. – mi confessa in un rantolo soffocato, - Dio, Anis. Mi viene da piangere.
Indietreggio appena, tenendolo stretto per la vita mentre chiudo la porta con un colpo secco e poi lo conduco verso il letto. Lo stendo sulle coperte e, appena si ritrova su una superficie morbida, lui si mette seduto e poi in ginocchio, sfila la maglietta, sbottona i jeans e poi allunga le braccia, cercando il mio corpo. Mi avvicino subito, puntando un ginocchio sul materasso mentre lui afferra la mia maglietta e la solleva fino a farmela passare sopra la testa, avventandosi immediatamente sul mio collo quando riesce a tirarla via, per poi lanciarla lontano.
Si lascia andare supino sul materasso e schiude le gambe per farmi posto. Io gli sfilo i pantaloni, prima di sistemarmi su di lui, e nel movimento lo zainetto rotola per terra, e mi rendo conto che era ancora vuoto. Sorrido mentre mi chino sul suo collo, riempiendolo di baci e succhiandone piano la pelle morbida e profumata, mentre lui prima getta indietro il capo in un ansito perso e poi affonda i denti sulla mia spalla, stringendo forte senza preoccuparsi di quanto male mi fa. Sa che posso sostenerlo, ed è così davvero, così come io so che nonostante tutti i mugolii sofferenti che mi sta propinando adesso, lui può sostenere un po’ di lentezza, perciò mi prendo il mio tempo per entrare nuovamente in confidenza col suo corpo, con le sue forme, col suo profumo. Sento le ossa appuntite del suo bacino premere contro la mia carne quando, ormai nudi, ci strofiniamo l’uno contro l’altro, e sento la morbidezza della sua pancia contro la punta della mia erezione quando, strusciandomi su di lui, salgo abbastanza in alto da sfiorargli l’ombelico.
Lui geme con una forza nuova, afferrandomi sotto le orecchie ed inarcando la schiena mentre mi spinge verso il basso, ed io percorro in punta di lingua tutto il suo corpo, baciando a lungo la stella sul suo inguine e riscrivendo con le dita il tatuaggio che gli ricopre il fianco sinistro, mentre sfioro con le labbra la punta della sua erezione e poi la prendo appena in bocca, accarezzandola per tutta la lunghezza con la lingua ed accogliendola il più profondamente possibile dentro di me.
Bill lancia un mezzo grido, affondando le dita fra i miei capelli e percorrendoli dalla radice alle punte mentre muove lentamente il bacino, aumentando il ritmo delle proprie spinte pian piano. E capisco che trova difficile fermarsi quando all’improvviso mi chiama per nome, la voce spezzata dagli ansiti di piacere.
Mi allontano da lui, risalendo un bacio dopo l’altro la stessa scia che mi ha portato verso il basso. Appena torno all’altezza del suo viso, Bill pretende le mie labbra, e mi stringe al collo con tanta forza che mi sento quasi mancare l’aria.
- Non lasciarmi andare più. – mi sussurra addosso mentre premo piano contro la sua apertura, - Mai più.
In qualche modo sento che mi sta dicendo che se lo voglio adesso mi impegno a volerlo per tutto il resto della mia vita. Ci stiamo legando in questo momento più di quanto non ci sia mai capitato in passato, ci stiamo legando ora più di quanto ci abbia stretti insieme il momento in cui il nostro sangue s’è mescolato sul letto del suo appartamento il giorno in cui sono morto. Ci stiamo dicendo adesso che dopo tutto quello che abbiamo vissuto, dopo tutto quello che è successo, siamo ancora disposti a prenderci e stringerci fra le dita per tutti i giorni che ci separano dal momento in cui moriremo davvero.
Bill mi sta dicendo di non fare l’amore con lui se non ci credo quanto ci sta credendo lui adesso.
Ma non è solo per fare l’amore con lui che annuisco e lo bacio per sancire la promessa prima di entrare dentro il suo corpo e riprendermi un posto che non ha mai smesso di essere mio di diritto.
*
È molto facile e molto naturale, poi, ricadere sdraiati sul letto nella nostra solita posizione. È molto più faticoso, per la verità, andare a ripescare nella memoria prove tangibili che questa fosse davvero la nostra posizione, perché sto parlando di un periodo che sembra troppo lontano perfino per esistere davvero, come quando a scuola ti parlano della preistoria, dell’uomo di Neanderthal e tutto. Ora, io non ho passato molto tempo fra i banchi di scuola a lasciare che il sapere venisse a me, ma ricordo la sensazione che provavo quando da ragazzino stavo seduto sulla mia seggiola ed ascoltavo la maestra parlare di cose avvenute centinaia e centinaia di anni fa, e non riuscivo a sentirle reali. Era come se mi stesse raccontando belle favole, forse realistiche, ma del tutto prive di concretezza. Fino a ieri, quando pensavo a me e Bill felici e insieme, mi sentivo allo stesso modo. Era una cosa che sapevo essere esistita. Potevo credere al fatto che fosse esistita. Ma non la percepivo più come mia. E anche se l’ultima mezz’ora ha ribaltato passato e presente rendendo reali tutte le cose che credevo di aver soltanto sognato, è difficile rientrare da subito in quell’ordine di idee.
Proprio per questo, in qualche modo, è straniante la facilità con la quale io mi sistemo disteso sul materasso e Bill si sistema disteso su di me. Passa le dita sul mio petto disegnando ghirigori invisibili e privi di senso, e io faccio lo stesso arrotolandomi fra le dita le ciocche un po’ più lunghe sulla sua nuca. Restiamo in silenzio a lungo, lo sento sorridere debolmente sulla mia pelle e guardo il soffitto perché ho paura di guardare in basso e non trovarlo lì. So che sentirei la voce della mia vecchia maestra cominciare immediatamente a parlare di quel periodo storico in cui centinaia di anni fa il re e la sua principessa vivevano felici nel loro prospero regno, e so che non riuscirei più a crederci. Perciò evito, e non voglio guardarlo, anche se me lo sento addosso e questo dovrebbe bastarmi a rassicurarmi. Non ci riesce. Perciò non lo guardo finché, all’improvviso, non si mette a parlare.
- Quando ho deciso che era meglio non vedersi per un po’… - la sua voce è un po’ impastata, incerta, come stesse cercando di raccontarmi un sogno essendo ancora in dormiveglia, - ero molto lucido. Presente a me stesso, dico. Ma non era sempre così, in quel periodo. Sia prima che dopo.
Lo osservo dall’alto, vedo le sue spalle sottili muoversi appena al ritmo del suo respiro. Appoggio una mano sul suo braccio pallido e magro, me lo stringo contro. Lui mugola un po’.
- Com’era quando non eri lucido? – chiedo a bassa voce. Sento il suo corpo vibrare ad ogni mia parola. È così sottile, Dio. Così piccolo, nonostante tutto. La ragione mi chiede uno sforzo, mi chiede di trattarlo da uomo, ma per me resterà sempre un ragazzino infreddolito in piedi accanto alla porta di casa mia mentre la notte oltre i lampioni che costeggiano la strada si fa scura e senza stelle.
- Pauroso. – risponde lui, continuando a giocherellare con le dita sul mio petto, - Non riconoscevo le cose. O le persone. Alle volte… - ride appena, nervosamente, - Una volta mi sono svegliato dopo aver dormito tipo per quattordici ore consecutivamente, e non ho riconosciuto Tomi. L’ho guardato e non sapevo chi fosse. Sapevo solo che era uno con la mia faccia ma un po’ diversa, e mi sono spaventato così tanto, Anis, così tanto che ho creduto che sarei morto. Ti è mai successo? Il mio cuore stava battendo troppo forte, avevo troppa paura, mi mancava troppo il respiro. Avrei potuto morire davvero.
Stringo la presa sul suo braccio, e lui sorride ancora un po’.
- Succedeva spesso?
Bill scrolla appena le spalle.
- Ogni tanto. – risponde, - Non ti saprei dire ogni quanto, perché per lo più non… non ero in me, capisci? Facevo cose che poi… non è che le dimenticassi, era come se non fossero successe davvero. Non ero io. – inspira ed espira a fatica, muovendosi un po’ fra le mie braccia per trovare una posizione più comoda. Glielo lascio fare, e torno ad adattarmi a lui non appena ha finito. – Il mio corpo, Anis, alle volte agiva in maniera completamente scoordinata rispetto alla mia mente. Puoi immaginare cosa significhi? – solleva una mano e la guarda con aria un po’ malinconica. La gira e la rigira, ne studia la forma. Lo faccio anch’io. Non posso immaginare cosa significhi, piccolo. Io ho sempre avuto il controllo del mio corpo. Ho perso il controllo di tante cose, ma mai di me stesso. – Non avevo più nulla. E non avevo più nemmeno un’identità. L’avevo uccisa, l’avevo uccisa da solo. Non avevo idea di come uscirne, mi sentivo così solo, Anis, e inutile, e senza speranza. – lo sento muoversi con un po’ di difficoltà. Si rigira, pianta una mano sul materasso ed una suo mio petto e si solleva un po’. Mi accorgo solo dopo qualche secondo che sta cercando i miei occhi, e quando lo capisco gli concedo all’istante la mia completa e totale attenzione. – Anis, noi stiamo facendo una cosa molto pericolosa. – mi dice. È incredibilmente lucido, fa quasi paura. – Io però la voglio fare, perché ti amo. Tu però— tu devi esserci. Perché io ho paura che potrei non esserci, ogni tanto. E quando io non ci sarò, devi esserci tu. Devi tenermi qui. – si stende nuovamente su di me, così che il suo corpo possa aderire completamente al mio, ma non smette di guardarmi negli occhi. È un contatto che non ha nulla di sessuale, questo. Credo voglia solo sentirmi addosso. Per me è la stessa identica cosa. – Devi tenermi con te quando mi perdo. Ho bisogno che tu lo faccia. Puoi farlo per me? Per noi?
Mi inumidisco le labbra, sollevando una mano ed accarezzandogli una guancia, dallo zigomo fino al mento. Gli sorrido il più serenamente che posso, e non posso dirgli che non ho paura, perché ce l’ho. Mi sta consegnando la sua vita in mano, di nuovo, come tanti anni fa. Ma ora è più grande, lo sta facendo con una consapevolezza maggiore. Questo aumenta anche la mia responsabilità. Ma se mi chiede se sono disposto a prendermela, la mia risposta non può essere che una.
- Lo farò.

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