Let Your Fingers Do The Walking

di lisachan
Spengo la televisione quando le Crispy News di Mtv mi fanno capire che intendono mostrarmi altre immagini esclusive del tour dei Tokio Hotel con l’Ersguterjunge per la cinquecentesima volta circa nell’arco delle ultime ventiquattro ore. Quello che sta succedendo dall’altro lato della Germania, mi ripeto alzandomi in piedi e gettando il telecomando sul divano mentre mi dirigo speditamente verso il frigorifero nella speranza di trovarci qualcosa dentro, non mi riguarda. Non è che mi senta tagliato fuori, è solo che mi rendo conto che ci sono cose che Anis, Bill e Chakuza condividono, e delle quali io non faccio parte, semplicemente perché la mia presenza qui è il risultato di una combinazione di eventi che non esiterei a dire sfortunata e totalmente casuale. Professionalmente parlando, io non sono legato a nessuno di loro. Io ho l’Aggro – per quanto ormai Sido mi mandi a fanculo ogni volta che mi vede, e non fatico ad immaginare perché, visto che la mia faccia e quella di Anis campeggiano affiancate su ogni fottuta copertina del paese – ed è lì che voglio restare. Quella è famiglia, per me. Ed è del tutto diverso da ciò che invece lega quei tre disperati.
Non posso dire che non mi dispiaccia per loro, naturalmente. Voglio dire, Anis è stato la mia intera esistenza per una quantità di tempo spropositata, Chakuza è un pezzo esageratamente grande della mia vita recente – esageratamente soprattutto calcolate le sue dimensioni – ed il ragazzino, voglio dire, è il ragazzino, come si fa a non dispiacersi per lui per principio?, basta guardarlo in faccia. Per cui sì, mi dispiace, ma non posso negare che nell’ultimo periodo in cui sono stati lontani la mia vita abbia subito radicali cambiamenti in positivo, dannazione. È molto vero quello che dicono alcuni, occhio non vede, cuore non duole. Io ho una vaga idea di quanto stia succedendo da quelle parti, naturalmente, ma non esserci rende tutto incredibilmente meno pesante. Ci rifletto seriamente, mentre bevo la birra ghiacciata direttamente dalla bottiglia, a piccoli sorsi, e mi dico che forse la chiave per risolvere il problema è questa, in fondo. Esserci. Se ci sei stai male, se non ci sei soffri lo stesso, ma il dolore diventa sordo, un sottofondo cui puoi abituarti, non è lancinante come dover rivedere quegli stessi volti ogni giorno, e volerli, e non poterli avere, e doverti accontentare, e sentirti in colpa perché ti stai solo accontentando ed invece vorresti essere semplicemente felice con ciò che hai e basta.
Perso come sono nei miei pensieri, non sento il campanello squillare. O meglio, lo sento, ma è un’eco lontana, come se stesse squillando quello del vicino, o quello dello scapolo del piano di sopra, che in effetti riceve visite ad orari della notte veramente improbabili, orari come questo, in cui la gente per bene dorme ed i cretini come me bevono birra per alleggerirsi la coscienza, quindi non ci faccio nemmeno caso. Peraltro, è incredibile: non avendo mai veramente vissuto in questo palazzo, inconsciamente e stupidamente credevo anche che il palazzo non avesse mai veramente vissuto senza di me. In qualche modo, nella mia testa, questa era una scatola rettangolare e tridimensionale piena di vuoto in cui l’unico piano occupato da un appartamento, vuoto o pieno che fosse, era il mio. Da quando, invece, ci passo più tempo, ho scoperto che è un posto un sacco vivo. C’è questo tizio qui, e c’è la signora del primo piano che ha due gemelline deliziose, avranno quattordici anni e vanno sempre in giro vestite con colori combinati, tipo che se una è in nero con qualche dettaglio bianco, l’altra è in bianco con qualche dettaglio nero. Poi c’è la studentessa universitaria dell’ammezzato che fa la dogsitter ed ha sempre casa piena di cani non suoi che abbaiano continuamente e sporcano ovunque, e c’è una coppia di anziani signori all’ultimo piano che sono tipo la cosa più pimpante mai esistita e non prendono mai l’ascensore anche se è fondamentalmente per loro che il condominio l’ha fatto installare, robe da matti.
Insomma, per questo posto c’è un andirivieni continuo, e siccome io non aspetto visite fatico proprio a ricondurre il suono del campanello con la possibilità che sia il mio. Lo realizzo tipo al terzo squillo. Io li ho sentiti, quegli squilli, ma quando mi accorgo che è proprio il mio campanello che sta squillando la sensazione è di quelle che provi quando stavi sognando che stava accadendo qualcosa e quella cosa in un certo qual modo sta accadendo davvero, tipo che un boa constrictor ti stava staccando la testa a furia di stringerti fra le proprie spire, e invece magari era solo il lenzuolo, ma a staccarti la testa ci stava provando comunque. È un suono flebilissimo, all’inizio, e poi si fa via via più intenso, e alla fine stacco le labbra dalla bottiglia, guardo la porta e mi rendo conto che dovrei andare ad aprire, o quantomeno a vedere chi è.
Spalanco la porta senza neanche guardare attraverso lo spioncino chi ci sia dall’altro lato, e quando mi appare davanti questo tizio biondissimo con gli occhi azzurri e un visino che sarebbe pulitissimo se non avesse un labbro spaccato ed un sopracciglio messo non tanto meglio, naturalmente non lo riconosco.
- Sì? – chiedo, piegando appena il capo e illudendomi che a guardarlo di sbieco possa assumere una forma conosciuta, - Chi sei?
- Sono Daniel. – risponde lui, e lo fa con ovvietà, come se il suo semplice nome dovesse aprire chissà che bauli colmi di ricordi nella mia testa. Ma il tipo qui ha presente quanti Daniel esistano nel mondo, e quanti ne abbia incontrati nella mia vita? Per quanto ne so, potrebbe essere D-Bo accidentalmente finito in una macchina del tempo e tornato alla sua giovinezza, che ora cerca me per chiedermi aiuto solo perché Bushido non c’era in quanto impegnato a dannarsi la vita in tour col proprio ex e l’attuale fidanzato del suo ex che, per un’assurda combinazione di fattori, è anche l’ex del suo attuale fidanzato.
- A-ha. – annuisco poco convinto, - E io sono Patrick, piacere di conoscerti, Daniel. Farai così con tutto il resto del palazzo?
Lui gonfia le guance ed irrigidisce le braccia lungo i fianchi, offesissimo. Arriccia perfino le labbra in un broncio incredibilmente goffo, ma desiste subito, forse per il dolore. Ha un brutto taglio, lì, andrebbe disinfettato.
- Noi ci conosciamo già! – mi fa presente, - Non ti ricordi?
Cerco di riportare alla memoria una qualsiasi occasione in cui possa aver conosciuto un ragazzino della sua età. Mi vengono in mente solo i concerti, ed ultimamente non è che ne abbia fatti tanti. Ma cosa sta pretendendo questo essere assurdo da me?
- No, temo di no. – scuoto il capo, - Dovrei?
- Dovresti, sì. – dice lui, piantandomi una mano nel mezzo del petto e scostandomi letteralmente di lato per entrare in casa, - Ho rischiato la vita per te, un anno fa. – sbuffa, voltandosi a guardarmi.
Io chiudo la porta e gli ricambio un’occhiata incerta. Dev’essere successo qualcosa che non ricordo. Ero ubriaco? Mi sono perso e il moccioso qui mi ha riportato a casa in spalla, per quanto io possa faticare a credere ad una cosa simile? Ma allora perché avrebbe dovuto rischiare la vita?
- Senti. – sospiro, massaggiandomi stancamente le tempie, - È un po’ tardi per perdere tempo con misteri e indovinelli, ti pare? Dimmi chi sei e facciamola finita. Poi, se hai anche qualcos’altro da dirmi a parte il tuo nome, bene, sennò grazie della visita e buonanotte.
Lui si prende qualche secondo, prima di rispondere. Gira un’occhiata curiosa tutto intorno alla stanza e poi pianta una mano sul fianco con fare teatrale.
- E dire che dovresti essere un amico che conta. – sbotta, tornando a guardarmi, - Quanto valgono le tue promesse, Fler?
Improvvisamente, realizzo chi ho davanti. La mia memoria torna a un anno fa, ad una notte ghiacciata, a Tempelhof, alla ricerca di un uomo che credevo colpevole della morte di Anis. Ad un ragazzino che ci ha indicato la strada, a me e a Chakuza, quando credevamo di esserci completamente persi.
- Tu… - balbetto, indicandolo maldestramente, - Tu sei quel ragazzino. Daniel. Sì, certo, ora ricordo.
Sul suo volto si apre un sorriso spontaneo e repentino, come quello dei bambini, mentre il suo intero corpo si tende verso di me.
- Davvero? – chiede, gli brillano gli occhi. Poi torna a cercare di darsi un tono, altrettanto velocemente rispetto a quando l’ha perso. – Cioè, finalmente. – borbotta schiarendosi la voce con un paio di colpi di tosse. – Non c’è niente da bere in questa casa?
- Niente che possa dare a un palese minorenne. – rispondo inarcando le sopracciglia, - A parte l’acqua.
- Oh, andiamo! – sbotta lui, pestando un piede per terra, - E poi sono maggiorenne. Ho compiuto diciott’anni quest’anno.
- Sì, certo. – rido io, - Farò finta di crederci. Mi fa piacere rivederti, comunque. Almeno so che non hai gettato al vento la tua fortuna e non sei finito in galera, mentre non guardavo. – gli lancio un’occhiata incerta, - Non ci sei finito, vero?
- No. – risponde lui con una mezza risata, - Non ne avrei avuto il tempo, comunque. Ho avuto un anno piuttosto pieno.
- Ah, non dirlo a me. – alzo gli occhi al cielo, passandogli accanto per recuperare la birra che ho abbandonato sul tavolino prima di andare ad aprirgli, - E cos’è che ti porta qui stasera, Daniel? Ti annoiavi? Avevi finito i cerotti a casa? – chiedo, indicando distrattamente il labbro gonfio e il sangue che gli scivola lungo una tempia.
Lui si passa velocemente una mano sul viso, come a sincerarsi delle proprie stesse condizioni, e poi esita per un minuto buono, incerto sulle gambe – non fa che spostare il peso del corpo da un piede all’altro – e palesemente sul punto di scoppiare.
- Voglio che sia tu. – dice quindi, tutto d’un fiato, come se anche solo mettere in fila quelle quattro parole gli sia costato una fatica immane.
- …vuoi che sia io. – ripeto, indicandomi mollemente, - A fare cosa? A disinfettarti le ferite?
- Ma no! – sbotta lui, esasperato, e pesta di nuovo il piede per terra. È ridicolo che lo faccia, sembra ancora più ragazzino di quanto non sia. – Voglio che sia tu il primo!
- Ma il primo a fare che?! – insisto, allargando le braccia ai lati del corpo, - Non ti sai mettere un cerotto e sei venuto dal tuo guru del gangsta rap perché sia lui a mostrarti i misteri della cassetta del pronto soccorso?! Sii più chiaro!
- Sei… un idiota! – strilla lui, irrigidendosi tutto come un pezzo di legno, - Voglio che sia tu il primo a… - deglutisce a fatica, e io sento un brivido caldissimo scorrermi lungo tutta la schiena. È paura. – il primo a fare l’amore con me. – conclude, guardando fisso il pavimento. Vorrei poter riavvolgere il nastro e rimandarlo da capo, perché non sono proprio sicuro di aver capito bene.
- Come, scusa? – chiedo istintivamente. Mi rendo conto dell’idiozia della domanda, ma non riesco proprio ad impedirmelo, non riesco a fermarmi. Lui arrossisce fino alla punta delle orecchie, e volta il capo così velocemente che finisce per nascondersi dietro una tenda di capelli scarmigliati e che necessiterebbero decisamente di uno shampoo.
- Cos’è, te lo devo ripetere? – sputa fuori lui, acido.
- No. – rispondo immediatamente io, sollevando le braccia come di fronte a una pistola puntata contro. Mi arrendo, Daniel. Però prima parliamone cinque minuti. – È solo che, capisci, non è che mi capiti tutti i giorni di vedermi spuntare alla porta minorenni che—
- Non sono minorenne! – scatta lui. Si morde il labbro inferiore, quello spaccato. Gli fa così male che ha gli occhi pieni di lacrime.
- No, ok, ok. – annuisco io, cercando di calmarlo, - Quello che intendo dire è che la situazione è un po’ spinosa, non ti pare? Cosa ti aspetti che faccia?
- Ma non lo so! – sbuffa lui, abbattendosi sul mio divano e prendendosi la testa fra le mani, - Dovresti essere tu quello esperto, no? Senti, - sospira, - ho avuto una serata difficile, e ho davvero bisogno di—
- Di farti scopare? – chiedo, gli occhi enormi. Lui mi guarda e arrossisce ancora, perfino più intensamente di prima.
- No! – strilla, - Cioè, sì, ma per come la metti tu sembra una cosa di uno squallore tremendo! Era meglio come l’ho detta io prima.
- D’accordo, ma – insisto io, - …non ti capisco. – rinuncio subito dopo, abbattendomi sul divano al suo fianco. – Ti va di parlarne?
- Se avessi avuto voglia di parlarne, sarei andato dallo psicologo dei servizi sociali, ti pare?! – sbotta lui, immediatamente sulla difensiva. Poi sospira, accomodandosi meglio ed appoggiandosi indietro sullo schienale. – Ho fatto coming out sei mesi fa. – racconta a bassa voce, ed io mi sconvolgo, perché, voglio dire, ce li avrà diciassette anni?, eppure ha già avuto più coraggio di me, che alla sua età avrei dovuto e voluto dire cose che invece mi sono tenuto dentro fino ad ora, praticamente, - E se prima potevo dire di avere una vita di merda, era perché non immaginavo minimamente cosa sarebbe diventata dopo una cosa del genere.
- Immagino che non debba essere facile. – commento con un mezzo sorriso. Lui mi guarda malissimo.
- È un inferno. – mi corregge, usando una parola senza dubbio più adatta, - Non mi aspettavo che mio padre capisse, naturalmente, ma che almeno i ragazzi della banda mi stessero vicini… è gente che conosco da una vita.
- Evidentemente, loro non conoscevano te. – gli faccio notare.
- Nemmeno io conoscevo me stesso. – ribatte lui, - È… è solo capitato, cazzo. E non posso farci niente, non è che l’abbia deciso, “oh, sì, diventiamo gay, scommetto che dopo sarà tutto una figata, andrò a vivere a Beverly Hills ed indosserò solo pantaloni e camicie bianche con cinture e scarpe di pelle nera”… è solo capitato. – insiste, occhi bassi e sguardo cupo.
Ridacchio un po’ per l’immagine mentale che la sua descrizione oggettivamente strampalata della società gay americana mi offre, ed allungo una mano a sfiorargli i capelli. Sono di un bel biondo chiaro, molto tedesco. Scommetto che dopo una bella doccia saranno morbidissimi, al tatto.
- Danny, devi anche capire che vivi in mezzo a ragazzini che hanno sempre avuto un solo modo per guardare alle cose. Non puoi pretendere che capiscano.
- Va bene, ma che bisogno avevano di picchiarmi?! – sbotta lui, indicandosi il viso, - Il labbro è un gentile omaggio di mio padre, ma il resto no. Ci conoscevamo fin da piccolissimi, alcuni di loro sono parte della banda dalle medie, e io li ho visti arrivare quasi tutti. Ma non hanno esitato un secondo a prendermi a bastonate, quando l’ho detto, e anche molte volte dopo. Che cazzo.
Sospiro, passando le dita fra i suoi capelli e sciogliendone i nodi.
- Perché non te ne vai, da lì? – propongo, - Sono sicuro che—
- Che stai facendo? – chiede lui, voltandosi a guardarmi con aria sinceramente stupita.
- Cosa? – ribatto io, distrattamente. La mia mano non si ferma, e lui la indica con un dito. – Ah, questo. – registro come fosse una cosa normalissima, - Non lo so. Pensavo avessi bisogno di una qualche rassicurazione.
Lui sospira pesantemente, torcendosi le mani in grembo.
- Senti… - dice a mezza voce, - Tu mi piaci veramente tantissimo. – e lascia il concetto lì sospeso, come se l’idea di spogliarlo e prenderlo magari su questo stesso divano dovesse essere una diretta conseguenza di questa confessione. Non esiste niente che potrebbe giustificare me e te a scopare su questo divano adesso, ragazzino confuso che non ha ben chiaro praticamente niente riguardo a se stesso, alla vita e al mondo in generale.
- Io sono impegnato, Daniel. – gli faccio presente. Potrei partire con una lunga digressione sul mio impegno al momento, ma me la tengo da parte per momenti in cui leggerò meno voglia chiara e limpida nei suoi occhi azzurri e grandi. Questa situazione va arginata. Mi chiedo se ne sono in grado.
- Non importa! – dice, con la sicurezza avventata di chi immagina io gli stia dicendo una cosa del genere solo per fargli presente che per noi non potrebbero mai esserci e vissero tutti felici e contenti con castelli e principi azzurri in groppa a splendidi cavalli bianchi. Lo guardo dritto negli occhi, nella sua testa ci sono un mucchio di favole.
- Importa a me. – insisto, - I rapporti di coppia si basano sulla fiducia. Anis deve sapere che io non lo tradirò, mentre lui è via.
Ed io lo so, che Anis non mi tradirà mentre sono qui. Lo so. Lo so?
- Dimmi almeno che posso restare qui da te, per la notte. – mormora lui, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore.
- Cosa? – rido io, sbigottito, - No che non puoi.
- Non posso tornare a casa! – insiste Daniel, - Non subito, almeno. Dubito che mio padre abbia smesso di bere, quando me ne sono andato, e non voglio stare da solo con lui in una casa traboccante di bottiglie. Di solito le butto tutte via mentre dorme.
Lo guardo inarcando un sopracciglio, incerto.
- Perché le bottiglie? – chiedo. Daniel mi guarda fisso per qualche secondo, poi si allunga verso il tavolino, afferra repentinamente la bottiglia di birra vuota posata sul ripiano e la spacca contro il bordo. Fa un rumore frastornante, si spargono schegge di vetro per tutto il pavimento, e prima che possa capire cosa sta succedendo davvero lui è sulle ginocchia, così vicino che sento l’odore del suo sangue come se fosse il mio, e mi punta la bottiglia spaccata alla gola, tenendola per il collo.
- Per questo. – dice. Uno dei cocci di vetro mi punge con forza la pelle, fa male quasi come dovesse trapassarla. Daniel, però, mette subito via la bottiglia, appoggiandola sul tavolino e ritraendosi mentre io mi accarezzo la gola per verificare che non ci siano tagli. Nel mentre, lo osservo afferrare la felpa che indossa dagli orli inferiori e tirarsela via da sopra la testa. Non indossa nient’altro, sotto, a parte un tappeto di lividi. Non ci sono tagli recenti, almeno, ma lui non intende mostrarmi i segni superficiali delle violenze più nuove, no, vuole mostrarmi i segni indelebili di quelle più vecchie. Si volta e mi mostra un fianco, torcendosi come solo un ragazzino della sua età che sia così magro può fare. – Guarda qui. – dice, indicando una lunga cicatrice un po’ sformata che gli taglia in due la pelle proprio sopra l’anca, - Questo me l’ha fatto per il mio quindicesimo compleanno. – racconta a bassa voce, - Volevo uscire con i miei amici, ma a lui non stava bene. Alla fine, sono dovuto uscire per forza per andare al pronto soccorso. Mentre lui dormiva, perché prima non ha voluto lasciarmi andare.
Deglutisco a fatica, sollevando una mano e tracciando quella linea incerta e chiara con due dita. È liscissima sotto i miei polpastrelli, e il gemito che sfugge dalle labbra di Daniel, più che sentirlo con le orecchie, lo percepisco sottopelle. È un brivido che mi scuote fino alle punte dei piedi. Ho sentito donne gemere più forte e con più voluttà, e quello che non è altro che il gemito sgomento di un ragazzino impaurito che probabilmente soffre solo un po’ di solletico – perché lo so che non era un gemito programmato, quando ne senti tanti impari a capire cosa è simulato e cosa no – riesce a scuotermi più di quanto non abbia mai fatto nient’altro di simile fino ad ora.
- Mi dispiace. – dico a mezza voce. Sono sincero.
- A me no. – risponde lui con una risatina, avvicinandomisi impercettibilmente, - La pelle è ancora sensibilissima, in quel punto. Ho scoperto che mi faceva quest’effetto quando una delle tipe con cui andavamo per locali il sabato me lo ha succhiato. Le sue mani non facevano che sfiorarmi i fianchi e quello mi piaceva già da solo più della sensazione di sentire l’uccello nella sua bocca.
Deglutisco ancora, o almeno ci provo, ma stavolta non mi riesce. Una delle mani di Daniel scende a posarsi sulla mia, se la schiaccia con forza addosso.
- Daniel— - provo a chiamarlo. Lui mi sorride e io m’interrompo subito.
- Quando sono nel letto da solo e mio padre non mi ha picchiato troppo forte, - dice lui a bassa voce, - cioè, quando posso ancora muovermi senza che mi faccia male tutto, a volte, sollevo la maglietta che uso per dormire e la accarezzo. – porta la mia mano a muoversi su e giù contro il suo fianco, - E basta quello da solo per farmelo venire durissimo.
- Smettila. – dico senza fiato, ma la mia presa si stringe attorno al suo fianco senza che possa nemmeno provare a controllarla. La sua mano resta lì. Calda e un po’ sudata. È così agitato, Dio mio. Glielo vedo negli occhi che ha una paura folle.
- Ti prego. – dice lui, avvicinandosi ancora. Le sue labbra sfiorano le mie, ma non osa farsi più avanti di così. – Solo una volta. Non mi vedrai mai più, dopo, te lo giuro.
Resto immobile e non dico niente, ma il problema è che continuo a restare immobile e a non dire niente anche quando lui alla fine si fa avanti e copre i pochi centimetri di spazio che ancora ci separano, poggiando le labbra sulle mie. Non sa come muoversi e probabilmente anche se lo sapesse gli farebbe troppo male per farlo, sento in bocca il sapore del suo sangue ed è lo stesso sapore che sentivo quando per le strade di Tempelhof picchiavano me. È il sapore del mio sangue, non solo del suo.
Chiudo gli occhi e sollevo un braccio, poggiandoglielo sulla nuca e traendomelo contro. Lui sbuffa un lamento sorpreso che si trasforma in un gemito un po’ perso quando forzo le sue labbra con la mia lingua, accarezzandogli lentamente il fianco e sottolineando i contorni della cicatrice. Si scioglie sotto le mie dita con una semplicità disarmante, ed è tutto così semplice, il suo corpo magro è così duttile, si adatta al mio come una coperta di quelle sottili e fresche che ridisegnano le sagome di ciò che nascondono senza riuscire a nasconderlo davvero agli occhi di nessuno.
- Allora… - mormora, quando mi allontano abbastanza da dargli tempo e modo di riprendere fiato, - Vuoi davvero—
- Shh. – lo interrompo io, sorridendo appena. Sfioro le sue labbra con le mie, accarezzo il taglio su quello inferiore con la lingua e lui rabbrividisce con tanta forza che lo sento scuotersi fra le mie braccia come stesse tremando dal freddo. – Non parlare. Rischi grosso, a farlo.
- Non fa più tanto male. – insiste lui, sistemandomisi in grembo. Lo sento eccitato dentro i jeans larghi e spessi e sorrido perché con i ragazzini di quest’età basta davvero pochissimo. – Il labbro, dico. E tutto il resto, anche.
- Ne sono felice. – annuisco, stringendolo da sotto le cosce ed alzandomi in piedi con un colpo di reni. È così leggero, dannazione. Nel movimento, i nostri bacini collidono e poi strisciano l’uno contro l’altro. Daniel mi si aggrappa con forza alle spalle e mugola sul mio collo, la voce rotta in un singhiozzo di paura.
- Farà male? – chiede pianissimo, tanto che lo sento appena. Non lo chiede come uno che stia verificando che opportunità ha per scegliere la migliore, lo chiede come uno che di opportunità ne ha una sola, e vuole essere preparato per affrontarla al meglio.
- Dipende. – rispondo sinceramente io, entrando in camera da letto. Mi serve un secondo per ricordare dove sono tutte cose, letto compreso, nel buio. Alla fine, ci riesco.
- Da cosa? – chiede lui in un mormorio sommesso, mentre lo adagio sul letto ancora rifatto e mi sistemo fra le sue gambe dischiuse, sbottonandogli i jeans.
- Da un sacco di cose. – sorrido io, anche se lui nel buio non può vedermi, chinandomi a baciarlo lievemente su una guancia, e poi giù lungo il collo, sul petto ossuto e sulla pancia morbida, - Da quanto lo vuoi. Da come si muove la persona con cui lo fai. Da quanto pensi al dolore.
- Io non voglio pensarci. – sussurra lui. Mi puntello sul materasso col gomito e sfioro il profilo del suo viso con le labbra. Ha gli occhi chiusi, sento le sue palpebre battere lievissime, come le ali di una farfalla. – Non voglio pensare al dolore.
Sorrido, accarezzandogli nuovamente il fianco.
- E allora non farà male per niente. – lo rassicuro, baciandolo piano. – Sei proprio sicuro di essere maggiorenne, tu, vero? – chiedo un’altra volta. Lui si mette paura, anche se è evidente che non potrei mai mollarlo, giunti a questo punto. Spalanca gli occhi e mi fissa con terrore palese, sollevando le braccia e stringendo i pugni attorno alle maniche della maglia che indosso.
- Certo che sono maggiorenne. – ribadisce, annuendo con sicurezza, - Te lo giuro, per favore—
- Calmati! – rido divertito, allontanandomi abbastanza da costringerlo a mollare la presa e sfilandomi i vestiti di dosso lentamente, così che i suoi occhi, che ormai dovrebbero essersi abituati al buio, possano intuire i miei movimenti, e capire che ci siamo vicini. – Era solo per scrupolo. Giuri di non essere stato mandato qui da qualche losco figuro che poi userà la tua testimonianza su come ti ho picchiato e violentato per estorcermi chissà che somma di denaro?
- No, non… - fa per rispondermi lui, poi si interrompe e pare rendersi conto di qualcosa di molto importante. Si azzarda perfino a tirarmi uno schiaffo su una spalla, e io rido di gusto. – E smettila di prendermi in giro! Cazzo, sei odioso.
- Cos’è, tu puoi fare il fascinoso parlandomi di come ti diventa duro quando solo ti si sfiora la cicatrice sul fianco, - rido io, appoggiando una mano sopra i suoi boxer e stringendo la sua erezione fra le dita attraverso il tessuto in cotone sottile, - e io non posso prenderti in giro? Questo non è un rapporto paritario.
- Non lo sarebbe comunque. – borbotta lui, voltando il capo. So che lo fa perché vuole sottrarsi al mio sguardo, ma tutto quello che vedo in questo momento è il suo collo, perciò è su quello che mi chino, lo assaggio piano in punta di lingua e sento i suoi respiri tremare sotto la pelle ed uscire a fatica dalle sue labbra, mentre muovo la mano che ancora gli tengo fra le cosce, accarezzandolo lento come se la notte non dovesse mai finire.
- Questo lo fai, dopo esserti accarezzato la cicatrice…? – chiedo a bassa voce, direttamente sulla sua pelle, stringendolo con maggiore decisione fra le dita mentre le sue mani corrono veloci all’orlo dei boxer, per tirarli giù.
- Non avevi detto di smetterla di parlare? – chiede a fatica, ansimando pesantemente. Io gli sorrido addosso.
- Avevo detto che tu dovevi smetterla di parlare. – rispondo, lasciandolo andare così che lui possa togliersi di dosso la biancheria, così svelto che pare gli stia prendendo fuoco addosso. Mi si schiaccia contro subito dopo, lasciandosi sfuggire un respiro genuinamente stupito quando mi sente già duro contro una coscia.
- Non avevo idea che fossi così. – borbotta confusamente.
- Dovrei prenderlo per un complimento? – chiedo divertito, e lui sbotta un lamento esasperato.
- Non parlavo di questo… - si lagna, il petto che si alza e si riabbassa più velocemente quando riprendo ad accarezzarlo pelle contro pelle, - Dicevo come persona. Cioè, non so nemmeno com’è che ti immaginassi, in realtà, cambiavi spesso. Dipendeva dalla serata che avevo avuto, o da cosa mi stuzzicava di più in un determinato momento… ma questa è tutta un’altra storia.
- Sì, perché questo è vero. – annuisco in una mezza risata, strusciandomi lentamente contro di lui perché possa sentirlo, - Finché ti piace, comunque, non è detto che sia un male.
Inspira ed espira profondamente, sollevando le braccia ed allacciandomi al collo mentre schiude le gambe e m’invita a prendervi posto in mezzo, prima di rispondere.
- Mi piace. – dice in un fiato, spingendosi appena contro di me e ritraendosi all’ultimo momento, quando mi sente pressare contro la sua apertura in un incastro che tutto dovrebbe essere meno che naturale, e invece viene ad entrambi così spontaneo da fare quasi paura.
- Allora è tutto a posto. – sorrido, inumidendomi due dita con un po’ di saliva ed accarezzandolo piano fra le natiche. Lui rabbrividisce e si tira indietro quasi all’istante, mosso dalla paura. – Calmati. – gli sussurro sulle labbra, - Ti ho detto che non farà male, no?
- Sì, ma era la verità? – chiede giustamente lui, ed io rido a bassa voce.
- Dipende anche da te, ricordi? – dico baciandolo ancora, - Sei tu il primo che non deve pensarci. Il resto verrà da sé.
Lui annuisce – si rassegna, forse – e lo sento rilassarsi sotto di me mentre le mie dita umide tornano a sfiorarlo, facendosi strada dentro al suo corpo una alla volta. Lo sento trattenere il fiato così a lungo che poi, quando è costretto a tornare a respirare, lo fa tutto in una volta, sbuffando come una teiera ed ansimando pericolosamente. Rido un po’, e piego le dita come ho imparato a fare solo recentemente – uno dei numerosi regali di Anis, suppongo per scusarsi di tutto ciò che mi ha fatto e di tutto ciò che, indubbiamente, continuerà a farmi in futuro, perché io sono uno che, se solo gli dai tanto, ti permette di fare questo ed altro – ottenendo in risposta da lui un gemito acuto e prolungato, un po’ ridicolo, ma che mi agita qualcosa nel petto e nel fondo dello stomaco.
- Ti prego. – mormora stentatamente lui, muovendosi un po’ alla cieca nel tentativo di spingere le mie dita abbastanza in fondo da toccare nuovamente quel punto che, anche se solo per un secondo, gli ha fatto perdere la testa. Io ritraggo la mano, prendendolo da sotto le ginocchia e portando le sue gambe fin sopra le mie spalle, dove le appoggio, piegandolo in una posizione un po’ innaturale che lo costringe a schiudere gli occhi e guardarmi incerto nel buio, in cerca di una risposta per ottenere la quale non ha abbastanza coraggio da farmi una domanda.
Mi sistemo meglio contro di lui, inumidendomi di nuovo le dita e poi accarezzandomi velocemente per tutta la lunghezza, preparandomi ad entrare dentro il suo corpo. E succede tutto in un attimo, così veloce che io a stento me ne accorgo, come quando ha spaccato la bottiglia e poi me l’ha puntata alla gola. C’è lo stesso potenziale di pericolo in quello che ha fatto lui poco fa e in quello che sto facendo io adesso. Solo che lui non ha avuto il coraggio di affondare. Io invece sì.
Quando mi scavo a fatica un posto dentro di lui, che è stretto e caldissimo tanto da costringermi ad annaspare senza fiato, Daniel inarca la schiena e geme. C’è del dolore, forse, da qualche parte, ma lui non ci sta pensando. Ed è molto bravo a farlo, tanto che per un secondo quasi penso a lui con una punta di irrazionale orgoglio, perché ciò che ha reso forte lui è esattamente ciò che ha reso forte me. Siamo incredibilmente simili, anche se lui non se ne accorge, ed è questo che lo spinge a cercare proprio me, a volere proprio me, con tutti quelli che potrebbe cercare e volere nel mondo, anche se in questo momento è convinto di volermi solo perché io sono uno che ce l’ha fatta, uno cui guardare con ammirazione e rispetto. Siccome lui è piccolo, cerca qualcuno che possa ricordargli se stesso, solo un po’ meno sofferente. Quando sarà grande, ricorderà i sentimenti che sta provando adesso con un imbarazzo infinito. E questo lo so perché per me è lo stesso, e ci convivo ogni giorno. Quello che Anis prova per me è così diverso da quello che io provo per lui. Ed il fatto di pensarci e realizzarlo proprio ora è così ridicolo che mi viene da ridere.
Non lo faccio, naturalmente. Mi muovo piano, perché davvero voglio che non faccia male, e dopo un po’ sento Daniel cominciare a muoversi in sincrono con me, le sue spinte che vanno incontro alle mie, i nostri bacini che si scontrano sempre più spesso sul sottofondo quasi musicale del fruscio lievissimo delle lenzuola ancora perfettamente composte sotto i nostri corpi sudati, come se questo letto non fosse mio, come se nemmeno questa casa fosse mia e noi fossimo semplicemente entrati da una finestra per prendere possesso di qualcosa che non ci appartiene, solo per venti minuti di serenità.
Stringo la presa sulla sua erezione e mi muovo più velocemente solo quando la via all’interno del suo corpo è abbastanza aperta da permettergli di ansimare non più solo per il senso di pienezza inevitabile e quasi nauseante che è normale ti prenda quando qualcosa di così estraneo da te sfiora la tua intimità in maniera così invadente, ma anche per la sensazione piacevole delle mie labbra che lo sfiorano ovunque, delle mie mani che gli accarezzano i fianchi, delle mie dita che passano insistentemente lungo la linea irregolare della sua cicatrice, tirandogli via il respiro a tratti ed a tratti restituendoglielo all’improvviso. E rallento le spinte, aumentando solo il ritmo delle carezze, aspettando che lui sia venuto prima di riprendere a pompare più velocemente, abbandonandomi poco dopo ai brividi dell’orgasmo che mi portano inevitabilmente a franargli addosso in pochi secondi. Per un attimo, penso distrattamente che ho paura di schiacciarlo, restandogli così addosso. Lui, però, mi regge bene. Non si lamenta neanche. All’inizio respira a fatica, ma poi si calma ed il suo respiro assume un ritmo meno frenetico. E per riflesso mi rassereno anch’io.
- Ehi. – dico piano, rotolando sulla schiena e rimanendo al suo fianco. Una mia mano è rimasta sulla sua coscia. A me non dà fastidio lasciarla lì, a lui non dà fastidio che ci sia, per cui è lì che la lascio. – Dimmi la verità, non sei maggiorenne, vero?
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, perdendosi in un flusso di parole apparentemente privo di senso fino a quando, finalmente, non sbotta in un “tecnicamente no” che mi fa scoppiare a ridere.
- Ma lo sarò fra poco. – si giustifica con voce lamentosa, rovistando sotto di sé per disfare le coperte e nascondercisi sotto, - E poi ti ho promesso che non ti denuncerò, smettila di insistere sul punto, no?
Io rido ancora, mi volto su un fianco e gli accarezzo la frangia con la mano libera, ravviandogliela sulla fronte.
- Era solo per saperlo. – lo rassicuro, - Non devi giustificarti di niente.
- Ovvio che non devo, sarai tu a doverti giustificare davanti a un giudice, quando spiattellerò tutto al tipo che mi ha assoldato per venire a letto con te. – dice lui con naturalezza. Lo fisso, spalancando gli occhi. – Scherzo. – borbotta tirando fuori la lingua. Rido e mi sporgo a mordergli le labbra in un gesto che è un po’ una punizione e un po’ un complimento sincero. – Quindi… - biascica lui quando mi allontano, - Questa è stata la prima e l’ultima volta, mh? Non ci rivedremo più.
Sorrido, girandogli un braccio attorno alle spalle e tirandomelo contro.
- Invece magari domattina intanto ti porto a fare colazione in qualche bel posto, - propongo, - e poi per il resto vediamo col tempo. Che ne dici? Ti piace come idea?
Non lo vedo sorridere, ma sento le sue labbra tendersi contro la mia pelle, e le sue braccia chiudersi attorno alla mia vita.
- Mi piace. – risponde annuendo.
Io sorrido ancora.
- Allora è tutto a posto.

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Pictures

di lisachan
Io non sto bene, è evidente. Cioè, è già un chiaro segno di squilibrio il fatto che io abbia acconsentito a continuare a vedere Daniel, decidendo di ignorare il fatto che è palesemente minorenne solo per quieto vivere e perché non ho nessuna voglia di ritornare a pensare a quanto potrebbe fare schifo la mia vita in prigione se questa faccenda saltasse fuori – sempre ammesso che Anis possa decidere in coscienza di lasciarmi lì a marcire senza ricoprirmi di avvocati come ermellino sul mantello di un re, nel caso succedesse, ma potrebbe, se scoprisse che l’ho tradito col minorenne di cui sopra, o almeno credo, e quello che sto dicendo manca evidentemente di senso compiuto, me ne accorgo da solo, non c’è bisogno di farmelo notare, grazie mille.
Comunque, il succo del discorso è che devo stare proprio male, cioè, proprio fuori di testa se, oltre a tutto questo, io Danny prendo e me lo porto anche in casa del Chaku. Perché l’ho fatto? Il mio letto è più comodo del suo, c’è il materasso ortopedico mentre qui non sono neanche sicuro che il materasso ci sia. E casa mia puzza di meno, i rubinetti non perdono, non devi effettuare un corso preparatorio di introduzione alle lingue morte degli scarafaggi della tribù dello scaldabagno orientale prima di entrare nel cesso, e voglio dire, genericamente le condizioni di abitabilità del mio appartamento sono molto migliori rispetto a quelle di questa topaia disastrata che neanche il tocco magico di Bill – riassumibile in “no, Chaku, devi pulire, perché sennò io non posso poggiare il tacco dei miei stivali Armani da millecinquecento euro sulla tua moquette” – è riuscito a rendere un luogo abitabile da esseri umani veri, esseri umani che non siano Chakuza, intendo.
Mentre ricado sul letto accanto a Daniel e la mia schiena urla pietà, realizzo che è evidente che il materasso sotto di noi è solo un’illusione: vogliamo fortemente credere che un materasso ci sia, perciò ci sembra di stare sul morbido quando così non è. No, scherzavo. In realtà realizzo che se ho portato Daniel qui è perché, nonostante tutto, il paragone fra casa mia e casa del Chaku non regge nemmeno. Non è che l’ho portato qui per una sorta di ripicca, a-ha!, non ci sei e io scopo con un altro nel tuo letto, no, è che da quando le cose con Danny si sono fatte più intime – e non sto parlando solo di una scopata o due, ovviamente – ho davvero sofferto l’impossibilità di renderlo un pezzo della mia vita vera. Presentarlo ai miei amici, portarlo in giro, portarlo in un appartamento che per me potesse significare qualcosa in più della scatola in cui dormo quando non ho nessun altro posto dove andare. E questa casa, per me, rappresenta tutto questo. Scusami, Chaku, non è per te che lo faccio. È per me.
Daniel non aspetta nemmeno di riprendere fiato – o meglio: lui il suo l’ha già recuperato, è il mio che ancora si fa rincorrere, ma questo naturalmente ci riporta al problema dell’età già frettolosamente affrontato prima e sul quale non intendo soffermarmi ancora – e mentre io sono ancora qui che cerco di capire chi sono, cosa faccio al mondo e che nome m’abbia dato quella povera donna di mia madre, lui scatta a sedere e si piega oltre il bordo del letto, riemergendo mezzo secondo dopo col proprio zainetto, che appoggia in grembo ed all’interno del quale comincia immediatamente a rovistare come in cerca della pillola del giorno dopo come rimedio estremo dopo una notte di sesso non protetto che naturalmente non ha avuto luogo, non fatevi strane idee.
- Non puoi rimanere incinto, sai? – lo avverto, seguendo il filo dei miei pensieri e rendendomi conto del fatto che si tratta di pensieri prevedibilmente solo miei nel momento in cui lui mi lancia un’occhiata vagamente allucinata e poi ritorna a ficcare la testa nello zaino, riemergendo qualche secondo dopo con una macchina fotografica in mano.
- Ah, eccoti qua. – dice soddisfatto, stringendola fra le mani per accenderla e verificare le impostazioni.
- Che sarebbe quella roba? – chiedo, inarcando un sopracciglio. È ovvio che so che si tratta di una macchina fotografica, ma mi aspetto una risposta ben più esauriente, nonostante la domanda poco centrata.
- Una macchina fotografica. – risponde invece lui, pacifico come un putto addormentato su una nuvola col suo gonnellino bianco e la sua arpa in miniatura sotto il cuscino.
- Sì, lo so cos’è, Danny. – mi lagno io, inarcando anche l’altro sopracciglio, - Intendevo cos’è che vorresti farci?
- Be’, allora avresti dovuto chiedermi quello, tanto per cominciare. – ride lui. E poi, semplicemente, solleva la macchina fotografica in modo da centrarmi all’interno dell’obbiettivo e poi scatta.
- No, dai! – mi lagno io, ricadendo sul mio cuscino con un tonfo rassegnato, - Per favore, sono uno straccio.
- Ti prego, sei stupendo. – ride lui, scattandomi un’altra foto, - Vuoi sapere quando sembravi uno straccio? Quando ti sei fatto quella foto pseudo-MySpace con la canottiera bianca. Dio mio, che roba squallida.
- Dio mio, quanto sei gay. – sospiro, gettando uno sguardo implorante al soffitto.
- Oh, da che pulpito. – ride ancora Danny, stendendosi accanto a me e scattando una foto a entrambi. Lui sorride come il ragazzino che è, io lo guardo male come il vecchio scarpone brontolone che sono.
- Le foto sono l’ultimo dettaglio prima di mettere in atto il piano per denunciarmi alle autorità? – chiedo schermandomi con un braccio. Lui ride divertito, e stavolta rido anch’io, gli rubo la macchina fotografica dalle mani e gli salgo addosso, sovrastandolo e costringendolo a restare steso sul materasso senza pesargli troppo sopra, anche se so che mi regge più che bene. Non riesco a impedirmele, queste premure, per quanto sia sciocco.
- Che fai? – mi chiede, guardandomi dal basso. Il modo in cui i suoi occhi scorrono lungo tutta la superficie del mio corpo mi dà i brividi. Mi mordo un labbro, puntandogli addosso la macchina fotografica e scattandogli una foto.
- Sei fotogenico. – commento, osservando il risultato sul display, - Anzi, in realtà sei proprio bello. – continuo, guardandolo con sincero interesse. Lui arrossisce subito. – Hai mai pensato di fare il modello? Pagano bene, se arrivi a certi livelli.
- Non è roba per me, quella. – borbotta lui, aggrottando le sopracciglia, vagamente offeso. Io rido un po’.
- E cos’è roba per te? – chiedo curiosamente, restando dove sono e scattandogli un’altra foto. Lui guarda altrove, le labbra appena piegate in una smorfia addolorata. L’obbiettivo cattura i suoi lineamenti affilati, ne sembra inspiegabilmente attratto. È qualcosa che posso capire. – Non oso nemmeno immaginare dove vivi.
- Ehi, casa mia è a posto, ok? – sbuffa, incrociando le braccia sul petto e tirandosi un po’ su, per fronteggiarmi da una posizione meno svantaggiosa, - È mio padre che la rende una merda, ma la casa è ok.
- Avanti, vuoi farmi credere che il tuo sogno è restare a Tempelhof? In quel posto di merda? – sospiro, sdraiandomi al suo fianco e mettendo via la macchina fotografica.
- Non ho detto questo. – risponde lui, duro, - Ho solo detto che fare il modello non è la mia cosa. Io voglio rappare.
Non riesco a trattenere una risata.
- Sì, è una frase che ho già sentito, questa. – commento, scompigliandogli i capelli. Lui si sottrae dal mio tocco con uno scatto da bambino offeso, ma prima che possa cominciare a protestare il mio cellulare, poggiato sul comodino accanto al letto, si mette a squillare, e lui si zittisce immediatamente. È una cosa così automatica che un po’ mi spaventa, non dovrebbe essere così naturale per lui farlo. Non così presto, almeno.
Mi allungo a recuperare il telefono. Sul display, lampeggia il nome di Bill. Sono un po’ stupito – non lo sento da quando è partito in tour coi ragazzi – ma rispondo.
- Pronto? – dico, e per molti secondi nessuno risponde. È come se Bill si fosse addormentato col telefono in mano mentre il telefono squillava. – Pronto? – ripeto, perché non voglio chiamarlo per nome di fronte a Danny. Non che sia possibile pensare che ignori le mie frequentazioni col ragazzino, ma insomma.
- …scusa. – risponde finalmente Bill, il tono trasognato, la voce flebilissima. – Come stai?
- …dovrei chiederlo io a te. – rispondo incerto, - Ragazzino, è tutto a posto? Ti sento strano.
- Strano? – chiede lui, un po’ confuso, - No, perché dovrei?
- Non lo so, era un’impressione, sei… non lo so. – rispondo sinceramente, - Ma c’è qualche problema?
Bill si prende qualche altro secondo, prima di rispondere.
- Sai che ho tagliato i capelli? – mi dice quindi, - O forse devo ancora farlo, non ricordo. O forse l’ho già fatto, ma tantissimo tempo fa, e sono già ricresciuti.
…ok, c’è decisamente qualcosa che non va.
- Bill? – lo chiamo, rinunciando a qualsiasi forma di pudore e discrezione ancora residue nella mia testa e mettendomi immediatamente a sedere, come se il fatto di cambiare posizione potesse rendermi più agile, pronto a scattare nel caso dovesse dirmi che ha bisogno d’aiuto. – Bill, ma stai male?
- Male? – chiede lui, e ride. La sua risata è talmente vuota che se ci urlasse dentro si sentirebbe l’eco. – Ma no. Sto bene. Non devi preoccuparti. – e posso immaginare il sorriso sulle sue labbra, e mi dà i brividi. Deglutisco a fatica. – Ora devo andare. – riprende subito, impedendomi di insistere ancora per farmi dire cosa diavolo ha, - Mi sa che è proprio ora di tagliare i capelli.
Interrompe la telefonata subito dopo. Io resto seduto, osservando il suo nome che ancora lampeggia sul display finché non cade la linea e lo schermo torna ad oscurarsi del tutto.
- Problemi? – chiede Daniel, piantando il gomito sul cuscino ed appoggiando il mento al palmo della mano aperta. Io faccio per rispondergli, ma il telefono squilla di nuovo. Spero sia Bill che mi dice che si è trattato di uno scherzo. Ti permetto di prendermi in giro perché ci sono cascato, ragazzino. Ci sono cascato con tutte le scarpe.
Invece è Anis. Non riesco a nascondere la delusione nello sguardo e nella piega delle labbra. Daniel se ne accorge, sicuro come la morte. È un bene che Anis non sia qui, così almeno potrà evitare di accorgersene lui.
- Ehi. – rispondo, e cerco di forzare un sorriso.
- Con chi eri al telefono? – chiede subito lui, senza nemmeno salutarmi. Mi passa subito la voglia di provare ad essere conciliante.
- …sto bene, Anis, qui le cose vanno alla grande, non preoccuparti. – sbuffo, e mi rendo conto di quanto suoni ridicolo, soprattutto considerato che c’è Danny qui accanto che inarca un sopracciglio e sta pensando tutta una serie di cose poco carine, a ragione, peraltro, ma mi viene spontaneo. Anis inspira ed espira lentamente, dovunque si trovi in questo momento, e quando torna a parlare lo fa con un tono di voce completamente diverso.
- Mi dispiace. – sospira, - Avevo— davvero bisogno di sentirti, ecco, e quando ho provato a chiamarti trovare occupato mi ha infastidito.
- Sì, be’, ho una vita, sai? A parte te e il vostro carrozzone di pazzi scriteriati, intendo. – continuo a borbottare. Daniel mi guarda malissimo, o forse sono solo io che voglio sentirmi rimproverato dai suoi occhi azzurri e un po’ assonnati. Sospiro. – Scusa. Giornata difficile.
- Dillo a me. – ridacchia lui, espirando profondamente. – Successo qualcosa in particolare?
Lancio un’altra occhiata a Danny. S’è sdraiato tranquillo sotto le coperte e s’è messo a scorrere le foto che abbiamo scattato stasera, osservandole tutte con interesse nonostante gli occhi che già si chiudono. Dormirà fra pochi secondi. Sorrido un po’.
- Niente di che. Da voi?
Anis sospira così profondamente che mi chiedo se i suoi polmoni siano abbastanza grandi da contenerla, tutta quell’aria.
- È tutto un gran casino. – risponde a bassa voce, - Se fossi qui sarebbe diverso.
- No, non credo. – rido piano. Danny sta già praticamente russando quando stringe una delle mie mani fra le proprie e la porta ad accarezzarsi i capelli.
- Io ne sono sicuro, invece. – insiste Anis, - Se tu fossi qui, Bill avrebbe almeno un po’ di pudore.
Mi mordo un labbro, sistemandomi meglio sul materasso nonostante possa sentire le doghe della rete premermi contro la spina dorsale.
- Senti, se posso darti un parere spassionato, Anis, - sospiro appena, - la tua principessa non sta un cazzo bene.
Anis sospira a propria volta, e sarà almeno il millesimo sospiro che ci concediamo da quando abbiamo cominciato a parlare.
- La mia principessa non sta un cazzo e basta, Pat. – risponde con un sorriso amaro, - Non sta e basta.
Se fosse qui, lo abbraccerei. Ma non è qui, qui c’è solo Danny, perciò abbraccio lui. Gli passo un braccio attorno alle spalle e me lo tiro contro. Nel dormiveglia, lui mugola appena, così a bassa voce che Anis nemmeno lo sente, e si sistema contro il mio petto.
- Mi dispiace, Anis. – rispondo, sperando che la mia voce sia abbastanza dolce da farlo sentire compreso davvero. – Lo sai che mi dispiace.
- Sì, lo so. – risponde lui. Il suo sorriso, lo sento dal tono, è già meno teso e più sincero. – Vado a riposarmi un po’. – dice quindi, la voce improvvisamente carica di stanchezza, come non potesse più farcela a reggere il proprio stesso peso dopo essersi scaricato tanto. – Buonanotte.
- Buonanotte. – rispondo piano. Ascolto la voce del telefono e della conversazione interrotta per qualche secondo, prima di rassegnarmi a chiudere la telefonata ed impostare la vibrazione. Poso nuovamente il cellulare sul comodino e mi stendo più comodamente. Daniel mi si stringe contro, si appoggia del tutto sopra di me e quella del suo corpo così caldo e così vicino è la sensazione più bella che ho provato negli ultimi mesi della mia vita.
Quando il suono della vibrazione contro il legno del comodino si diffonde fastidiosamente nell’aria, per prima cosa penso di nuovo a Bill. Poi mi rendo conto che è molto più probabile che sia Chakuza. Infine, capisco che dovrei lasciare quel telefono squillare e ignorarlo, ed invece mi allontano lentamente da Daniel e, sperando di fare in tempo, recupero il cellulare e mi trasferisco in salotto.
- Chaku. – lo chiamo piano, e il respiro che rilascia quando sente la mia voce lo sento quasi sulle mie stesse labbra. – Ehi, tutto a posto?
- A posto? – ride un po’ lui, e posso sentire che è in un ambiente piccolo e isolato, forse nella sua cuccetta dentro il tourbus. La sua voce è bassissima, ma c’è così tanto silenzio che la sento comunque con una chiarezza impressionante. – Per dirti se le cose sono a posto, dovrei ricordarmi com’è che erano quando ci stavano. – risponde con un’altra risata un po’ disillusa.
- Ma insomma, me lo spieghi cosa cazzo sta succedendo? – borbotto io, lasciandomi ricadere sul divano e tirando su le gambe per stendermi, - Che cazzo, la chiarezza sicuramente non è un vostro dono.
- Nostro di chi? – chiede subito lui, stupito. Io mi mordo un labbro.
- …degli austriaci. – invento io, - Intendo, sembri preoccupato ma non mi spieghi perché. Parla, no? – dico, sperando di essere stato sufficientemente convincente. Sono quasi sicuro di non esserlo stato e sento ancora gli occhi azzurrissimi di Daniel addosso mentre silenziosamente mi lasciano credere che mi stanno disapprovando, ma dal modo in cui Chakuza risponde è palese che la mia prova come attore di teatro dell’improvvisazione non era importante per farlo sentire libero di parlare: ne ha così tanto bisogno che le parole gli escono dalla bocca come un fiume in piena, travolgendomi.
- Sta andando tutto di merda, Pat. – comincia, talmente ansioso di dirmi tutto che le parole inciampano l’una sull’altra, si confondono, si intralciano a vicenda, - Bill sta dando di matto e io non so come aiutarlo. Perché sto dando di matto anch’io. E Bushido non riesce a fare niente perché non ci può riuscire nessuno, e se anche le cose non stessero andando poi così male questo tour rimarrebbe comunque un errore enorme, e so che quando torneremo a casa questa cosa ci avrà scombinato talmente tanto che rimetterci a posto sarà impossibile, ed ho pensato spesso a te, perché tu sei bravo a rimettere a posto le cose, ma mi sa che davvero, davvero, Pat, avrai vita dura quando saremo tornati.
La franchezza con cui ammette di aspettarsi che, quando saranno tornati a casa, io sarò lì armato di cerotti e pronto a rimetterli insieme, mi turba più di quanto non facciano le sue stesse parole, le cose che mi racconta, il disagio che esprime. Non riesco ad identificare un momento nella mia vita in cui ho permesso a questi uomini di farmi questo. Qualsiasi cosa questo sia. Perché qualsiasi cosa sia è dolorosa, ed io non voglio sentirmi così.
- Direi… - mi sforzo di rispondere, schiarendomi la voce, - Direi che potremo pensarci quando sarete tornati, no? – dico con una mezza risata incerta, alzandomi in piedi e prendendo a girare lentamente attorno al divano giusto per darmi qualcosa da fare. – Che ne dici?
- Dico che non ho granché altro da scegliere, ti pare? – ride anche lui, incerto tanto quanto me. Vorrei chiedergli perché ha sentito il bisogno di chiamarmi, ma so che la risposta a questa domanda è una risposta che in questo momento non voglio sentire. È una risposta che mi farebbe piacere, in qualsiasi altro momento, ma non qui, non ora. Non così.
- Hai ragione. – annuisco. E per la prima volta, stasera, sono io a chiudere la questione. – Buonanotte, Chaku.
Lui non mi risponde perché non vorrebbe chiudere la telefonata, lo sento nel modo in cui respira, come se stesse solo aspettando di trovare le parole giuste per dirmi di non riattaccare. Le parole non arrivano, comunque, e dopo qualche secondo di speranzosa e stupida attesa, io riattacco.
Torno in camera da letto, e Danny sta ancora dormendo, tutto raggomitolato nella stessa posizione in cui l’ho lasciato. Scosto le lenzuola e mi stendo al suo fianco. Il suo corpo trova il mio al primo contatto, e ci riannodiamo come prima così facilmente da darmi l’impressione di non essermi mai mosso da qui. È una sensazione che riconosco subito. Perché non mi muovo da tanto di quel tempo che se solo ci penso mi manca l’aria per respirare.
Nonostante questo, me lo stringo contro, affondo il naso fra i suoi capelli e chiudo gli occhi. Non mi accorgo del momento in cui mi addormento, ma il calore del suo corpo resta lì, legato al mio, per tutto il tempo, e quando mi sveglio, l’indomani mattina, c’è ancora.

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Where do we go from here

di tabata
Ci sono momenti in cui non so davvero da che parte cominciare a raccontarvi le cose.
Non è una questione di come presentarvele perché so già che le capireste in qualsiasi modo io ve le proponga e non ho quel tipo di pudore nei vostri confronti che mi spinge a dipingere gli avvenimenti in maniera diversa per farli sembrare meno gravi, meno ridicoli o incredibilmente meno stupidi di quello che sono. Vi ho raccontato io stesso quasi tutte le parti più imbarazzanti della mia relazione con Chakuza, quindi direi che non c'è niente che non vi racconterei per vergogna.
Il punto è che mi trovo di fronte il problema di dovervi spiegare quello che è successo dall'ultima volta che qualcuno di noi vi ha parlato – era Bill ed era sconvolto, quindi fate voi – e si tratta di così tante questioni tutte insieme che in pratica è come quando la signora Lotte si presentava a casa di Peter con mezzo chilo di lana in una borsa e ci chiedeva di aiutarla a farne tanti gomitoli separati. Noi guardavamo questa matassa amorfa di fili colorati senza né capo né coda e ci chiedevamo da che parte esattamente dovessimo cominciare ad arrotolare. D'altronde è per questo che il compito è toccato a me, perché quando c'è da tirare le somme tutti si danno alla macchia e chi rimane sono sempre io. Il sottoscritto ha fatto il punto della questione quando Bushido è morto, quindi va da sé che debba farlo anche per la resurrezione. Per me non era così automatico, voglio dire, la metà di quello che sto per dirvi nemmeno mi riguarda!, ma non ho mai avuto voce in capitolo quindi direi che possiamo anche sederci e cominciare.
Io e Peter con la lana eravamo due disastri e ricordo che la signora Lotte lasciava ogni volta che la tirassimo fuori dalla borsa e che poi, nel tentativo di sbrogliarla, finissimo per annodarci; quindi sorrideva benevola e trovava in un secondo il capo che ci serviva, come se avesse sempre saputo che era là o come se ai suoi occhi quello brillasse per farsi individuare da lei più facilmente. Non so come facesse, ma le bastava guardarci per capirlo. Ora io non sono altrettanto bravo mentre guardo metaforicamente Chakuza, Bushido e Bill annodati tra i fili di lana con i quali hanno tentato per quasi un anno intero di legarsi e poi strangolarsi a vicenda, ma se guardo attentamente la questione e cerco di non pensare a come mi sento al riguardo, il capo lo vedo abbastanza bene. E quel capo, manco a dirlo, è Bill.
Non voglio certo dire che sia stato il ragazzino a scatenare la sequenza di disgrazie più o meno gravi degli ultimi mesi, ma di certo lui è il primo minuscolo sassolino che ha poi generato la valanga, e tutto, come sempre, senza muovere nemmeno un dito. E' un talento di Bill quello di essere involontariamente un guaio per il solo fatto di starsene lì come un piccolo sole al quale tutti orbitiamo intorno.
Ma stavo parlando di lana, di fili e di reazioni a catena. Lo so. Non sono Chakuza, io, non mi perdo, cerco solo di prendere tempo per riordinare le matasse.
Dunque, innanzitutto Bill ha deciso, per la prima volta nella sua vita, di seguire il consiglio di qualcuno e quando gli ho spiegato che forse la soluzione che ci serviva per sopravviere era separarci, mi ha dato ragione e ha fatto l'unica cosa che poteva fare: ha preso suo fratello e con il favore delle tenebre è sparito dalla faccia della terra, lasciando David Jost a coprire le sue tracce e, probabilmente, a farsi spettinare dai grandi capi della Universal che per colpa degli ormoni iperattivi del suo enfant prodige hanno perso non so nemmeno quanti miliardi. Lo stesso consiglio, che mi sono prodigato a dare a chiunque perché ero stanco e perché davvero ero e sono ancora convinto che fosse quello giusto, lo hanno seguito anche Bushido e Chakuza, il che paradossalmente ha creato più confusione, forse perché nel loro caso non c'era un manager gay pronto a deviare gli attacchi nemici a colpi di organizer. Chissà.
In pratica è andata così e vi avviso che non è stata una sopresa per nessuno. La Universal Music Deutschland ha pensato che l'esperimento con i non-morti fosse da considerarsi concluso e ha mandato a Bushido una bella lettera in cui scaricava lui, l'etichetta e tutti gli uomini trainati nel bene o nel male dal suo grande carretto dorato. Allo stesso tempo, ha perso la pazienza anche nei confronti dei quattro ragazzini e dopo aver permesso a David di mentire un'ultima volta su tutto ciò che era successo e chiedere del tempo per far riprendere Bill, ha scaricato anche i Tokio Hotel con un gran sorriso e l'augurio sincero che l'imminente periodo di vacanza potesse in effetti fargli bene.
Cos'abbia fatto esattamente David a quel punto io non lo so, perché avevo i miei problemi a cui pensare e perché non appena si è sparsa la voce che il contratto dei quattro era stato annullato, l'invasione mediatica delle supposizioni e degli avvoltoi si è fatta talmente pesante tra televisioni, radio e giornali da spazzare via totalmente anche la mia voglia di informarmi o di chiamare il ragazzino e chiedergli come stava.
So però cos'è successo all'Ersguterjunge perché ero ancora lì quando Bushido ha dato agli altri la notizia e c'ero solo perché Anis mi ha chiesto di esserci prima di perderci di vista per un po'.
Dal momento che il colossale fallimento del suo tour con l'uomo più odiato e quello più amato della sua vita era noto a chiunque, Bushido avrebbe potuto non dico chiedere perdono per aver lasciato che l'etichetta andasse allo sbando e per essersi fatto palesemente buttare fuori a calci da chi lo finanziava, ma almeno presentarsi agli studi con la vaga consapevolezza di essere nella merda e di averci trascinato una decina di uomini, giusto per dare l'impressione che gliene fregasse qualcosa; ma ovviamente lui non l'ha fatto perché è Bushido e invece di prendere atto della disastrosa situazione e poi inizire a raccogliere i pezzi, ha finto che non ci fosse nessun problema ed è entrato da quella porta spavaldo come se il mondo gli dovesse qualcosa. Ha preso il fatto di aver perso Bill, la sua casa di produzione e in generale tutta la sua vita in un colpo solo e lo ha ficcato da qualche parte in fondo allo stomaco, per avere la forza di vestirsi ed uscire di casa perché non sopporta di soffrire. Il fatto è che stavolta non c'era nessuno pronto a sopportare la sua spavalderia difensiva, tranne forse me e Chakuza che oscillava per gli stessi motivi tra la sua rabbia furiosa e uno di quegli attacchi di depressione che lo porta ad accasciarsi per non muoversi ipoteticamente mai più. E così l'Ersguterjunge ha subito la sua prima scissione.
A parer mio, Nyze è uno che non ha capito un cazzo della vita o della gente che gli sta intorno; da che sono qui non ho mai avuto una grande opinione di lui, se non quella di uno che voleva far parte di un gruppo di duri da film e si è ritrovato con intorno delle persone reali, senza contare che se davvero si trovasse in mezzo alla gente che vuole lui, probabilmente gli farebbe un gran culo. Così quando ha iniziato ad aggirarsi come un leone in gabbia, menando le mani in aria e imprecando al solo sentir nominare un'altra volta il ragazzino, non mi ha sorpreso proprio per niente perché è quello che vedi nei film, no? Il fratello di strada si agita quando spari cazzate e dice più cazzo possibile, per averlo in bocca nell'unico modo consentito, mica come facciamo noi.
Bushido ha provato ad essere conciliante, gli ha detto di calmarsi e che avrebbe sistemato tutto, che la Universal poteva pulircisi il culo con la lettera di recissione, ma Nyze non lo stava nemmeno a sentire, perché quello era il suo grande momento e voleva solo che lo guardassimo tutti mentre dava a Bill della troia, a noi dei froci e poi se ne andava sbattendo la porta. Una scena di una tristezza sconfinata. Se proprio voleva andarsene, che trovasse le palle di farlo prima invece di continuare a far parte di un'etichetta su cui aveva iniziato a sputare merda due anni prima.
Immagino che il teatrino fosse chiaro a tutti perché nessuno si è preso la briga di fermarlo, nemmeno Bushido, ma per come stavano le cose, con il re incapace di convincere perfino se stesso, l'apatia di Chakuza e davanti agli occhi la fine dei soldi di tutti quanti, nessuno ha avuto la forza di battersi le mani sulle cosce e far vedere che era ottimista. Forse sarebbe servito, ma d'altronde è difficile pensare che tutto andrà bene quando hai scritto in faccia il contrario.
A quel punto Peter si è alzato in piedi e se n'è andato, dando così il permesso a tutti gli altri di farlo.
Bushido si è seduto sulla sua scrivania ed è rimasto immobile finché nella stanza non c'eravamo solo io e lui, quindi con un gesto secco ha buttato giù tutto quello che c'era sul tavolo.
Sono rimasto a contemplare quel disastro finché lui non mi ha detto di andare.
Lo ha fatto senza nemmeno voltarsi e io ho solo annuito, perché me lo sono ricordato a diciotto anni fare la stessa cosa quando un affare andava in merda e Arafat poteva anche incazzarsi peso.
Mi teneva lì finché poteva, finché la rabbia non arrivava all'orlo e poi mi mandava via.
Mentre scendevo le scale ho sentito il vetro dei suoi quadri che andava in frantumi, mi è venuto in mente Chakuza e quasi ho sperato di trovarlo per strada anche se gli avevo detto che era meglio non vedersi per un po'.
Ho scosso la testa e ho come avuto l'impressione che non stessimo migliorando affatto.

*


Che io non so stare in casa da solo ve l'ho già detto così tante volte che ho la nausea perfino io.
Il punto è che finora, quando non volevo stare in casa mia a guardare i miei bei mobili mai usati, c'era sempre un altro posto in cui potevo andare. Quando ero un ragazzino era casa di Anis, poi c'è stata quella di Chakuza, poi lo studio dell'Ersguterjunge e dopo quella notte terribile in cui ho impacchettato Chakuza e l'ho spedito alla Principessa, c'era anche la casa di Nicole.
Ora invece non c'è un bel niente e quindi sto seduto qui di fronte al televisore a chiedermi se non dovrei vendere tutto e, non lo so, cominciare a vivere in albergo. Una stanza diversa ogni sera, così da non sentirmi a disagio se per caso mi guardo intorno e mi rendo conto che in quel posto non ci vivo, che a parte il letto tutto è ordinato, intoccato, come se fosse uscito giusto ora dal negozio.
Sono passati quasi due mesi da quando il casino è successo e in tutto questo tempo non ho fatto molto altro se non starmene seduto qui come sto adesso a chiedermi se invece non dovrei fare qualcos'altro senza poi farlo.
Gli unici momenti in cui effettivamente non sono immobile e non sto contemplando l'universo, sono quelli in cui Danny fa irruzione in casa mia e, come l'adolescente che è, m'impedisce fisicamente di occuparmi di qualsiasi cosa che non sia lui. Ascoltarlo e stargli dietro mi portano via tempo, che è esattamente ciò di cui ho bisogno, ma l'entusiasmo che ha per noi due – qualunque cosa siamo – è drenante e deleterio perché mi lascia più triste di come mi ha trovato quando poi Danny prende il suo zainetto sbrindellato e torna a casa, e mi ritrovo di nuovo qui a guardare il divano in pelle, con l'aggiunta che a quel punto ho in mente lui e mi ricordo che è piccolo, che non dovrei dargli corda e che lui è solo un altro casino in cui mi sono subito infilato quando ancora non ero uscito da quello prima. Solo che è un casino nuovo, sa di fresco e sembra ancora risolvibile, non come tutti gli altri.
Oggi è una di quelle giornate, anche se non vedo Danny da quattro giorni. O forse è una di quelle giornate proprio per questo, perché non so esattamente dove sia e, visto l'ambiente in cui vive, non sono tranquillo e finisco a pensare. A tutto. A lui, a me e a questa casa in cui non mettevo piede da così tanto che quando ho aperto la porta c'era un puzzo di chiuso che ti prendeva alla testa.
Mi chiedo se c'è stato un tempo nella mia vita in cui non ero così incasinato in questo modo perché ormai mi sveglio la mattina e mi sembra di essere sempre stato così e che in realtà non trovo una soluzione al mio problema perché il problema non c'è e dovrei semplicemente prendere le cose così come sono e continuare a vivere come presumibilmente vivevo anche prima, ma so che non è vero.
E se ci penso, so anche che una volta il mondo non andava a rovescio; mi viene da ridere quando mi rendo conto che quel tempo era quando stavo all'Aggro Berlin ed ero ancora incazzato con Anis. Avrei dovuto continuare a sputargli addosso, così questa distorsione spazio temporale in cui io sono l'ombra di me stesso non esisterebbe e sarei felice. Forse.
A quel tempo, Anis era vivo e io lo volevo morto, il che è ridicolo se si pensa che poi ho passato un anno in cui era morto e lo volevo vivo – quell'uomo è palesemente il più grande generatore di confusione nella storia dell'umanità – e mi viene in mente che allora, in effetti, c'era un altro posto in cui stavo quando non volevo entrare in casa mia: l'appartamento di Sido.
Non vedo Sido da uno sproposito di tempo, ormai, e lui ha anche rinunciato a minacciare di licenziarmi al decimo sms a cui non ho risposto. Forse mi ha anche licenziato senza dirmelo; ma in questo momento non ci penso perché il solo ricordo della sua casa mi fa stare bene. Non penso che magari lui ce l'ha a morte con me, non penso nemmeno che non posso presentarmi alla sua porta dopo non so quanti mesi di silenzio con una borsa in mano e aspettarmi di essere ospitato.
Il fatto è che tolti tutti i posti in cui vorrei andare e non posso, casa sua è l'unica in cui mi sembra di poter scappare ora che casa mia è tornata a soffocarmi, e non vedo motivo per non tentare.
La valigia la preparo così di corsa che non so esattamente cosa mi sto portando dietro perché apro i cassetti e li ribalto, scegliendo le cose che cadono nella borsa da sole e scartando quelle che finiscono sul pavimento. Mentre rovescio il cassetto dei calzini, però, mi fermo perché l'occhio mi cade sul peluche a forma di aragosta che c'è sul letto e del quale mi ero dimenticato.
L'ho portato via dalla casa di Chakuza l'ultima volta che sono stato lì con Danny.
Non so esattamente perché l'ho fatto, era lì sul divano e mi è sembrato di dover allungare una mano e prenderlo. Lui si è fatto prendere senza fare storie.
Quando è ubriaco, ma anche quando non lo è, Peter se lo mette su una spalla e ci parla. Alle sue domande Hummer Kummer risponde con una voce ancora più roca della sua perché Chakuza non è un cazzo bravo a fare le voci, però ci prova e l'unica cosa che gli riesce di fare è parlare di gola. Diceva che era un'aragosta da guardia. E lo diceva di continuo perché Peter si dimentica le cose e te le ripete decine di volte, convinto di non avertele dette mai. Metto in valigia anche Hummer Kummer perché è un pezzetto di casa e non si parte mai senza e perché qui da solo non può stare. Questa casa non va bene per lui.
Mando un sms a Danny e lo avverto che non sono più a casa mia e che mi chiami quando può, quindi chiudo la porta e già mi sembra di respirare meglio.

*


Quasi cinque settimane dopo quel giorno, cioè adesso, vivo ormai in pianta stabile da Sido, che non vuol dire che io mi sia trasferito da lui e dalla sua famiglia ma che passo lì da loro molto tempo. Torno a casa mia quando ho voglia, cioè quando c'è Danny, o quando devo fare le lavatrici perché, anche se Doreen laverebbe volentieri i miei vestiti, mi scoccia farglielo fare e così ogni tanto metto tutto nel mio borsone e faccio un salto a casa, che poi è un bene perché una casa non puoi davvero lasciarla così a perdersi per niente.
Sto facendo dei salti temporali enormi, mi rendo conto. Il fatto è che sono successe molte cose importanti ma che tra l'una e l'altra sono passati mesi di nulla e io non posso davvero stare qui a raccontarvi il nulla, mi sembra chiaro. Quindi sto cercando di darvi un'idea di tutto, ma senza soffermarmi sui singoli dettagli e voi stavolta dovete fare uno sforzo e starmi dietro perché, vi giuro, è un casino ed è un casino che finisce col botto. Voi non volete perdervi nella mia vita, adesso, ve lo assicuro.
Vi basta sapere che quando sono arrivato a casa di Sido, lui non voleva nemmeno aprirmi. O meglio, mi ha aperto ma quando ha visto che ero io, mi ha subito richiuso la porta in faccia, lasciandomi sullo zerbino. Ad aprirmi ed invitarmi in casa quasi mezz'ora dopo è stata in realtà sua moglie Doreen che si è scusata perché Paul era un po' nervoso. Io avrei voluto dirle che più che altro era incazzato nero, ma Doreen è così dolce e bionda e ammantata di brillantini che non me la sono sentita di farlo e ho solo annuito, ringraziando.
La prima a venirmi incontro è stata la bambina che mi è saltata addosso strangolandomi in un abbraccio da orso, come se la mia presenza lì fosse perfettamente normale, cosa che non ha fatto che confermare la mia sensazione e aumentare le rughe sulla fronte di suo padre che si era seduto sul divano fingendo come al solito di essere un uomo rilassato.
Ora, io conosco Sido da un sacco di tempo, quindi lo so com'è fatto. E' uno che si incazza un casino, ma poi alla fine è buono, per cui dopo aver mandato via la bambina e Doreen e dopo avermi urlato che ero uno stronzo, che tornavo qui perché quel bastardo di Bushido mi aveva lasciato di nuovo a piedi e che ero pazzo se pensavo di avere ancora un lavoro all'Aggro Berlin, mi ha indicato una poltrona e mi ha detto “Cazzo ci fai lì in piedi come un cretino? Stasera resti qui a cena, non vedo l'ora di sentirti mentre ti arrampichi sugli specchi per giustificarlo.”
Dopo cena sono rimasto a dormire e poi a colazione, pranzo e di nuovo cena finché la loro bellissima mansarda non è tornata ad essere camera mia e io mi ci sono installato dentro come due anni fa, con la vecchia playstation della bambina, lo stereo e Doreen che mi chiede se voglio fare merenda con il latte e i biscotti.
A questo punto dovrei stare bene. Dico, casa di Sido è un posto che mi fa stare tranquillo, Daniel è sempre un danno ma riesco a tenerlo sotto controllo, non vedo le altre tre piaghe da così tanto tempo che magari riesco pure a dimenticarmi le parti peggiori di loro e sto pure scrivendo, il che significa che ho ancora il mio vecchio posto e, se tutto va bene, riesco pure ad incidere qualcosa entro l'anno.
Quando le cose iniziano ad andare straordinariamente bene dopo che avevano passato un sacco di tempo ad essere così schifose che ti veniva da piangere, non te le godi per niente perché non ti sembrano reali. Generalmente, però, è solo una tua sensazione che dopo un po' di tempo si esaurisce lasciandoti soddisfatto e certo che la tua esistenza stia di nuovo prendendo la piega giusta. Ecco, a me queste cose non capitano.
Se mi sembra che qualcosa non vada, quel qualcosa non va.
Uno di questi giorni io sto cercando di mettere insieme tre note, approfittando dello studio vuoto dell'Aggro Berlin. Qua non è come da Bushido, nessuno viene in ufficio prima delle undici, perché nessuno va a letto prima delle quattro, così se vengo qui di buon'ora sono sicuro di essere da solo. Una cosa che mi permette di lavorare e di non sorbirmi le occhiate pesanti di tutti gli altri che non hanno preso affatto bene il mio ritorno. Non li biasimo, ma preferisco evitarli. La mia vita viaggia sul filo del disastro già abbastanza così com'è per doverci aggiungere anche le accuse di sodomia, tradimento e stronzaggine generalizzata.
Sono lì da qualche ora quando sento la porta aprirsi e rimango sorpreso perché non mi aspettavo nessuno così presto. Resto ancora più sorpreso quando, dopo Sido, vedo entrare Nyze che, per l'occasione sembra più cattivo del solito. Pantaloni più costosi, canotta più aderente, ha perfino la catena. Una roba così pacchiana che in confronto quella che avevo io sulla copertina di Neue Deutsche Welle era un gingillo dell'uovo di Pasqua. Quasi me lo immagino mentre davanti allo specchio si veste a festa per venire qui, come se qui fosse un posto diverso dall'Ersguterjunge e i rapper non fossero persone come lui. Credo non gli sia ben chiara la distinzione fra personaggio pubblico e privato. Nemmeno Sido porta la maschera al gabinetto, qualcuno gliel'ha detto?
Visto che qui dentro sono più a casa mia io di lui, non mi pongo il problema di farmi da parte e lo guardo dritto in faccia. Lui sostiene il mio sguardo e ci prova anche a mostrare disprezzo per la mia presenza qui, ma poi evidentemente ricorda che io sono soltanto tornato e che lui, invece, sta facendo una cosa pessima perché non è certo qui in visita e lo sappiamo tutti e due.
Sido mi fa un cenno con la mano mentre continua a discutere con lui di cose che non sento aldilà del vetro e poi entrambi spariscono nell'ufficio di Sido.
Nyze torna sempre una volta in più di quanto mi piacerebbe vederlo e i ragazzi dell'etichetta lo accolgono a braccia aperte e con grandi pacche sulle spalle. Nessuno parla di contratto, ma nessuno poggia il culo sulla poltrona in pelle di Sido così a lungo senza mettere una firma. La pelle si consuma, dice lui, e in qualche modo va ripagata.
Credo che gli altri vedano Nyze come una grande conquista, la bandiera avversaria sul campo di battaglia, o una roba altrettanto epica. Se sperano di cavare da Nyze qualcosa di utile, si sbagliano di grosso.
Lui ne sa quanto loro sulla sua etichetta. Quello che c'è da sapere su Bushido, lo sa solo Bushido.
Chiederlo a me, naturalmente, poteva essere un'idea ma una parte di questi uomini pensa che io sia in missione segreta per conto del re e l'altra è abbastanza intelligente da sapere che non gli direi niente nemmeno se con Bushido ci avessi litigato di nuovo.
In realtà, quello che mi preoccupa di più non è quello che vogliono fare loro di Nyze, ma quello che Nyze pensa di poter fare qui. Mi chiedo, infatti, cosa lo abbia spinto a presentarsi proprio all'Aggro Berlin, quando c'erano altri porti più amichevoli in cui andare. L'intera scena rap tedesca poteva andar bene con il casino mediatico che anche per vie traverse si porta dietro. Avrebbero fatto la fila per averlo tra i ranghi e poter raccontare cazzate sulle divergenze di opinioni con Bushido, con me, con chiunque tornasse comodo. Ma presentarsi all'Aggro Berlin con il rischio di essere prima mandato a fanculo e poi deriso fino alla terza generazione nei successivi dieci ansage che sarebbero usciti, non ha molto senso. A meno che non si abbia in mente di fare lo stronzo, e guarda caso è proprio quello che io penso di lui.
Ogni volta che cerco di parlargli in privato, Nyze trova il modo di evitarmi e devo dire che non è molto difficile in un posto in cui tutti più o meno lo fanno. Parlarne con Sido è quasi altrettanto impossibile. Se sono allo studio, generalmente ormai c'è anche Nyze – il che non fa che confermare i miei dubbi sul suo contratto – e Sido ha una regola per cui non parla di lavoro a casa, per cui una volta varcata la porta, l'etichetta magicamente scompare e lui è soltanto un padre di famiglia con una moglie bionda e bellissima che a sua volta torna ad essere cantante solo fuori da quelle quattro mura. Ed è una regola fondamentale, questa, e Sido la fa rispettare così duramente che alle volte ho paura che mandi in mansarda senza cena anche me, oltre che la bambina.
La questione mi irrita più di quanto dovrebbe.
Le cose non sono più quelle che erano e per quanto ne so, l'Ersguterjunge potrebbe non esserci già più e Nyze potrebbe davvero avere le migliori intenzioni del mondo. Magari Bushido è perfino tornato a Miami a fare il meccanico, l'idraulico o qualsiasi altra cosa facesse laggiù.
Questo discorso me lo ripeto spesso e ogni volta ci credo meno di quella prima. E non ci credo perché, anche se non mi sto volutamente informando su di lui o sulla sua etichetta, io semplicemente so che Bushido è ancora a Berlino e che, visto cos'è successo la prima volta, non si azzarderà a prendere un altro fottutissimo aereo senza prima averci avvertiti tutti quanti, magari con una bella cena di commiato durante la quale, ovviamente, noi finiremmo per legarlo da qualche parte impedendogli di prendere il volo, che poi è esattamente il motivo per cui farebbe quella cena, nel caso. Per farsi amare collettivamente, una cosa che non abbiamo esattamente fatto quando è tornato dalla morte. Scusaci Anis, se eravamo sconvolti.
In quanto all'etichetta, credo che Bushido preferirebbe darle fuoco e raderla al suolo con le sue stesse mani piuttosto che abbandonarla, chiuderla o venderla e siccome non mi è arrivata alcuna notizia di un incendio in Ritterstrasse, direi che quel posto è ancora in piedi e il suo proprietario è probabilmente barricato in casa per evitare di scendere in strada e prendere a testate qualche giornalista che lo perseguita.
Per qualche settimana decido di stare zitto, anche perché mi dico che forse sono paranoico e trovo pure il tempo di addossare le colpe di questa paranoia a Bushido che ogni tanto ce li aveva di questi momenti da perseguitato politico, in cui qualsiasi angolo giravamo c'era qualcuno che voleva fargli le scarpe, portargli via il posto o cose simili. In realtà io credo che si divertisse soltanto a fare il cretino, mentre tirava su la cornetta del telefono per controllare la conversazione che avveniva dall'altra parte o teneva sott'occhio le targhe delle auto che sostavano di fronte a casa sua per vedere se una tornava più spesso delle altre. E quando succedeva, mi diceva “Ecco la vedi quella? La vedi, ragazzino? Sono settimane che è ferma lì, è sicuramente uno di quegli spacciatori turchi. Quello ci tiene d'occhio.” E poi magari era il lattaio e lui lo sapeva, ma si divertiva a farmi cagare sotto o a fingere che la situazione fosse diversa da com'era.
Per un po' smetto di perseguitare Sido, anche perché vedo che medita di prendere me, il suo materasso e tutte le mie cianfrusaglie e di trasferire tutto sul marciapiede di fronte a casa sua e io non me la sento di tornare a casa, non vedo perché devo tornarci visto che è buia e vuota. Per un momento ho anche pensato di farci stare Daniel, ma poi sono arrivato alla conclusione che lui potrebbe mal interpretare il perché dell'invito e ho lasciato perdere.
Nyze continua a venire allo studio sempre più spesso e comincia anche a lavorarci; se c'è un contratto nell'aria, e come ho detto c'è, non è stato ancora annunciato. Non ho una buona motivazione per prendere quell'uomo e scaraventarlo fuori dalla porta, eppure lui continua a non piacermi. E' solo una sensazione, ma mi dico che Bushido la capirebbe. Lui le capisce sempre queste cose.
Potrei disinteressarmi della faccenda, naturalmente, perché la presenza di Nyze, in realtà, ha distolto l'attenzione dal sottoscritto e, sebbene io non sia più quello con cui farsi una birra, di certo non sono più il frocio che è tornato da Bushido per farsi fare cose che ora non starò qui ad elencarvi perché non sono mai stato così scurrile. A quanto pare, non sono nemmeno la talpa che certa gente pensava che fossi perché, guarda un po', non faccio che passare dallo studio a casa di Sido e da casa di Sido allo studio. Non ho una vita sociale al di fuori di Danny e i loro pedinamenti – sì, no, dico, vi sembra normale? - non devono aver fruttato molto altro che un sacco di avvistamenti di me e di lui che entriamo a casa mia con una pila di pizze e un film.
Potrei, dunque, disinteressarmi della faccenda ma, ovviamente, non lo faccio perché, come dice mia madre, ho la testa dura come il cemento e quando mi convinco di una cosa dev'essere quella per forza, anche se magari non è così, finché non ci sbatto la testa e allora capisco che potevo starmene buono ed evitare di farmi venire il bernoccolo.
Così un giorno faccio irruzione nello studio di Sido e lo trovo seduto sulla sua poltrona di pelle che guarda Berlino attraverso la grossa vetrata che si è fatto costruire dietro la scrivania. Gli manca solo il gatto e una risata malefica e poi sarebbe un cattivo perfetto per un film di James Bond.
Solo che, appunto, è Sido e io lo vedo uscire in mutande a righine ogni mattina dalla camera da letto, mentre sua figlia corre per casa recitando a memoria la sigla di Sailor Moon, per cui solo guardandolo gli tolgo tutta l'epicità che potrebbe mai possedere. Tra l'altro, sono lì con il sincero intento di salvare lui e la sua etichetta da una minaccia che, d'accordo, non so quale sia, ma la percepisco, quindi non penso nient'altro che a quello e mi sfugge il fatto che poteva non volere più avere niente a che fare con me e che io, a ben guardare, non avrei voce in capitolo anche se decidesse di vendere tutto a Nyze e andare in pensione, per dire. Insomma, faccio esattamente quello che non dovrei fare: mi getto contro il muro di testa a duecento chilometri orari.
Invece di partire dal principio e di fargli più o meno il discorso che ho fatto a voi, la prima cosa che gli dico è che Nyze è uno stronzo che non cercava altro che una buona occasione per dare addosso a Bushido e farci su anche dei soldi e che quell'occasione l'ha trovata all'Aggro Berlin, servita su un piatto d'argento.
“Credi che non lo sappia?” Mi dice lui. “Quello è qui a cercare qualcuno che possa sostenerlo in questa crociata contro il tunisino. Ho tutto sotto controllo, Fler.”
“No, non ce l'hai sotto controllo,” dico e sbaglio. Dio mio, se sbaglio. Se c'era una cosa sbagliata da dire l'ho appena detta. La cosa peggiore da fare quando ti sembra che chi ti sta davanti non abbia capito un cazzo è dirgli che non ha capito un cazzo. Ora puoi stare sicuro che non farà mai quello che dici tu.
“Lo hai sentito dire qualcosa?”
“No.”
“Lo hai visto fare qualcosa?”
“No, ma non mi piace.” Fa talmente schifo come risposta che non me ne accorgo solo ora che ve lo sto dicendo ma me ne accorgo subito, che ancora l'eco delle mie parole non si è spenta.
Sido mi guarda, gonfiando una guancia. “Quindi fammi capire, io dovrei mandare via questa persona che potenzialmente ci farà guadagnare un sacco di denaro semplicemente essendo dei nostri perché tu ti sei svegliato stamattina con l'acidità di stomaco?”
Mi gratto la fronte e poi una guancia. “Senti, okay. Ricominciamo da capo, va bene? Cerca di seguire il mio ragionamento.” E provo a dirgli quello che ho detto a voi, ma a quel punto è tardi perché Sido non sente altro che unghie sugli specchi e quello che ne viene fuori è in effetti una paranoia basata sul nulla più assoluto, tranne forse la gelosia.
“Cos'è che non ti va a genio, Fler?” Mi dice lui. “Che Nyze sia qui o che tu non sia più la punta di diamante di questo posto?”
Questo fa male. Cioè, lo sapevo, ma non me l'aveva detto chiaramente e quindi era tutta un'altra cosa. E comunque fa male, non sono abituato. Okay, forse sono un po' geloso ma ho ragione io. Vi ricordo che tutto questo è già successo, quindi quello che dico lo dico con cognizione di causa.
Io so di aver ragione.
“Senti, non stiamo parlando di me. Dico solo che quello non mi piace.”
“E non sai quanto la notizia mi spezzi il cuore,” risponde lui, sarcastico. “Ora, per favore, esci da questo ufficio e torna quando avrai qualcosa di utile da dirmi.”
“Quello ha qualcosa in mente.”
Sido inspira ed espira, quindi mi osserva. “Lo spero vivamente perché non ho intenzione di tenerlo sotto contratto a grattarsi il culo davanti alla tv.”
“Lo hai scritturato?” Chiedo. Lui annuisce. “Non ti è passato per il cervello che potrebbe essere tutto calcolato?”
“Da chi?” Esclama lui. “Da chi, Fler? Se lo ha mandato Bushido, allora dovrò dubitare anche di te perché sei stato tu a dirmi che si sono mandati a fanculo. Se invece c'è venuto da solo per rovinare Bushido, ben venga. Io non aspetto altro. Sarò ben lieto di dargli una mano.”
Sospiro e mi passo una mano sulla testa. “Quell'uomo è incazzato per un motivo ben preciso e io--”
“E guarda caso quel motivo sei tu,” mi interrompe lui. “Tu, Bushido e tutti gli altri froci che hanno smembrato l'Ersguterjunge fino a farla a pezzi.”
“Potresti evitare di usare quella parola?” Mi sto irritando.
“Ma dico, ti senti?” Esclama lui. “Io non so cosa ti sia successo e cosa.... cosa ti passi per il cervello ma non puoi venire qui a dirmi chi posso o non posso scritturare.”
“C'è qualcosa che non va.”
“Beh, lo credo anch'io,” dice lui, alzandosi in piedi. Mi guarda a lungo e poi sospira. Sento arrivare anche questa, perché vibra nell'aria un attimo prima di avvenire. “E' stato un grande errore farti tornare.”
“Cosa?”
“E' chiaro che tu non sei più quello che eri.” Almeno non sorride. Non credo avrei sopportato anche la presa per il culo con il doppio senso. “Non rappresenti più l'etichetta e io non credo che sia il caso tu rimanga qui.”
Scaricato. Cerco di avvertirlo. Cerco di parargli il culo, e lui mi scarica. Se la gente non la smette di farlo, potrei cominciare ad incazzarmi.
“Fa' il cazzo che vuoi,” dico, recuperando il cappotto. “Quando questo posto cadrà a pezzi, non venire a piangere da me. Io ti ho avvertito.”
Infilo la porta prima di ripensarci. Le scene epiche sono prerogativa di Bushido, è lui quello che parla come se leggesse un copione, ma come uscita di scena non è andata poi tanto male.
Sarei fiero di me se sul marciapiede appena fuori dallo studio non mi rendessi conto che non ho un posto dove andare; cioè, a parte casa mia.
Mentre mi avvio a piedi, perché la macchina ce l'ho da Sido, comincia a piovere e penso che a questo punto, almeno io, ho toccato il fondo. E invece, naturalmente, no.
La sfiga ha sempre un pala in più da prestare.
Nel nostro caso, ne ha una scorta intera.

*


Conoscendovi, vi starete chiedendo quando ho intenzione di raccontarvi com'è andata a finire. E dire che dovreste essere abituati al fatto che qui le cose non capitano mai in due pagine e che ci vogliono intere serie per raccontare di com'è morto un uomo o di come sia resuscitato. Abbiate pazienza.
Come vi ho già detto, io non sono Chakuza e se c'è una cosa che non mi è rimasta attaccata addosso di quell'uomo è proprio la sua tendenza a perdersi nel suo cervello per non riuscire più ad uscirne. Con la sua pazzia mi ci ha affogato mentre stavamo insieme ma, grazie a Dio, le sue acque acquitrinose si sono ritirate non appena l'ho perso di vista.
Dunque, cos'è successo? Dopo che Sido mi ha buttato fuori dall'etichetta e anche da casa sua, rifiutandosi per altro di avere a che fare con me vita natural durante – una cosa della quale tra qualche anno, in un posto e in una situazione molto diversi da questa, riderò così tanto che quasi finirò per soffocarmi – non ho avuto altra scelta che tornarmene davvero a casa mia, anche perché l'alternativa era mia madre e, per quanto io la ami, preferisco trascinarmi come un relitto umano nel mio appartamento che passare anche solo due giorni da lei senza sapere come spiegarle perché io non ho una fidanzata carina e non mi sistemo come il cugino Karl, che per altro ha un nome di merda e non lo vediamo mai più di due volte l'anno.
Okay, sì, forse un po' mi sto perdendo ma ci arrivo.
E' passato un mese dalla storia di Sido e circa sei da quando ho trovato Bill che vaneggiava in casa di Bushido e ho consigliato a tutti che fosse meglio andare ognuno per la sua strada. In tutto questo tempo, come ho già detto, ho finto che non fossero mai esistiti, ben sapendo che se avessi acconsentito ad accettarne anche solo la presenza nel mondo avrei finito per ricaderci e questo non era assolutamente concepibile, non dopo quello che avevamo passato tutti quanti.
Certo non è stato facile, voglio dire tu non puoi davvero scordarti dell'esistenza di una persona che conosci, figurati di una persona come Bushido che generalmente occupa anche fin troppo spazio nel cervello altrui, o di Chakuza – che Dio ce ne scampi – che è invasivo in tanti di quei modi che avrei bisogno di una lobotomia per dimenticarmelo, ma ho tirato avanti e non ho ceduto a nessuna tentazione che, nella maggior parte dei casi, consisteva nel numero di Peter che componevo sulla tastiera del cellulare fingendo come un cretino di fare numeri a caso. Una cosa di cui un po' mi vergogno, in effetti.
La mia vita l'ho trascorsa sostanzialmente continuando a scrivere le canzoni su cui avevo cominciato a lavorare e ho ripreso anche a disegnare, una cosa che potrebbe tornarmi utile per un progetto che ho già in mente da un po' e che forse è l'ora di mettere in pratica. Ho spostato quasi tutti i mobili del salotto per avere una parete libera e poterci dipingere su con le bombolette se ne ho voglia. Quando mi gira, prendo il rullo, do una mano di bianco e ricomincio tutto da capo. E' liberatorio.
Danny è stato piuttosto contento di sapere che lasciavo “Casa di mia madre Sido”, come la chiama lui, per tornare in pianta stabile nel mio appartamento perché questo gli ha permesso di riprendere la sana abitudine di comparire a casaccio sul mio pianerottolo con la valigia e decidere arbitrariamente del mio fine settimana, di me e della mia vita.
Cosa che io gli lascio fare anche oggi, che è la giornata peggiore in cui potesse capitare qui.
Naturalmente io questo non lo so quando mi sveglio al suono di lui che bussa alla porta.
E non lo so nemmeno quando gli apro, lui mi bacia incurante dei miei vicini e poi entra senza chiedere il permesso, occupando contemporanemente la poltrona con il suo zaino e il divano con il suo corpo. Ha fatto tutto in un lasso di tempo così breve che non ho nemmeno reagito e, quando mi chiama ridendo, io sto ancora lì davanti alla porta a stropicciarmi un occhio e a chiedermi se me lo sono sognato o cosa.
“Ti muovi a venire qui o no?” Mi dice, mentre si toglie la maglia e nel farlo si agita e ci si incastra dentro un paio di volte, spettinandosi tutto. Danny muore sempre di caldo, la prima cosa che fa quando entra in un posto è togliersi la felpa, anche se magari è inverno e ci sono quattro gradi. Il termosifone è il suo nemico naturale e lui gli ha giurato guerra.
Quando finalmente lo raggiungo in salotto, lui si è già tolto le scarpe, ha acceso il televisore e ha parcheggiato i piedi sul tavolino, allungando braccia e gambe da tutte le parti. E' tutto sproporzionato ancora e io mi chiedo se il suo mucchietto di ossa avrà mai davvero un senso.
Piega la testa sul divano e mi guarda sottosopra. “Ma sei vivo?” Chiede ridendo. “Hai una faccia da schifo!”
Mi passo una mano sul viso come se potessi far scomparire le occhiaie. “Mi sono svegliato adesso,” dico, guardando di sfuggita la tv senza capire cosa sto vedendo. “E poi che vuol dire faccia da schifo? Che modo di parlare è?”
“Adesso si dice così,” commenta lui, tornando a fissare lo schermo. “C'è qualcosa da mangiare?”
Sospiro. “Guarda in cucina, cavalletta. Io vado in bagno.”
Quando torno ricordo almeno come mi chiamo e lo trovo con un panino più grosso di lui e gli occhi incollati al televisore. La playstation è il grosso monolite nero e lui una delle scimmie di quel film di fantascienza.
“Che cosa ci fai qui?” Chiedo, adocchiando il suo enorme zaino da trasferta. “E' giovedì, domani non dovresti andare a scuola?”
Lui si gira a guardarmi solo un secondo e poi torna a farsi ipnotizzare dal suo videogioco. O meglio dal mio. “A parte che è venerdì, Fler,” mi dice col tono paziente di uno che queste cose le dice spesso. “E poi ho due settimane di vacanza.”
“Venerdì?” Alzò lo sguardo sull'orologio, che per altro mi informa che sono anche le sette di sera.
Lui mette in pausa, recupera il suo panino e si volta, inginocchiandosi sul divano. “Venerdì, sì,” ride, masticando. “Sei proprio fuori come un citofono, ma quanto hai dormito?”
A volte quando parla, mi sento vecchissimo. “Non lo so,” ammetto. “Sono stati due giorni un po' confusi.”
“Perché?”
Mentre mastica, sbriciola sul pavimento, una cosa che mi rende irrazionalmente nervoso. Così, mentre gli racconto di come mi è preso questo guizzo artistico e ho portato su dalla cantina quattro secchi di vernice da usare proprio col pennello, roba che non facevo da anni, vado in cucina e gli recupero un tovagliolo che gli spalmo in faccia. Lui ride, ci si pulisce la bocca e poi ci avvolge con cura quello che resta del panino.
“Devo aver perso il senso del tempo” gli dico mentre cerco anch'io di trovare una spiegazione. Quando ero più piccolo mi capitava spesso di farmi prendere dalla foga di un'idea per un disegno o una tag e non pensare più a nulla finché non l'avevo finita. Era un modo come un altro per staccare completamente il cervello dallo schifo che mi circondava. Mi davo qualcos'altro a cui pensare.
Danny si guarda intorno, finché non individua il telo che ho tirato dal soffitto fino a terra. E' il vecchio telo di una tenda di mia madre, tutto macchiato. L'ho usato per qualunque cosa, ce l'ho tipo da sempre. Lui mi fa un cenno col capo. “Leva, fai vedere.”
Per un momento ho paura di farlo perché se ho perso due giorni della mia vita, non sono nemmeno troppo sicuro di sapere che cosa ci sia disegnato l'ha sotto. Magari è uno schifo.
Tiro via il telo con uno strattone e Danny si butta giù dal divano e mi scosta per guardare meglio. La parete è lunga quasi quattro metri e io l'ho riempita completamente. Gran parte del disegno, ovviamente, è ancora solo abbozzato, ma ho cominciato a colorare l'angolo a destra dove c'è la fiancata di un vagone della metropolitana. Non è il mio solito stile spigoloso, volevo provare qualcosa di completamente diverso, più morbido e più fluido, qualcosa che riempisse gli spazi in maniera meno netta. Mi allontano e guardo il treno perdere colore e quasi svanire in prospettiva, delinato solo dalle mie linee a carboncino. Nel mezzo c'è una caricatura di Berlino, con la porta di Brandeburgo tozza e schiacciata e dietro la torre della tv che ondeggia. Sulla sinistra c'è un gruppo di personaggi ancora senza volto, hanno vestiti che sono una via di mezzo fra i nostri e un qualche tipo di super-eroe. Quello al centro, ovviamente è Anis, perché incrocia le braccia impettito. E poi ha alle spalle un cavallo bianco meccanico con un'espressione così fiera di sé che può essere soltanto suo. Mi viene voglia di continuarlo non appena ci poso gli occhi sopra.
“Ma è una figata!” Danny lo guarda passandoci sopra le dita, piano. Sono un po' orgoglioso di me stesso per essere riuscito a catturare la sua attenzione quanto Lara Croft. “E' gigantesco e lo hai fatto in due giorni?”
“Sì, solo il disegno però,” annuisco. “Ci vorranno settimane a colorarlo.”
Osservo la mia opera e ora che sono un po' più sveglio e un po' meno intriso dal sacro fuoco dell'arte – che poi più che altro era mezza bottiglia di Jack Daniel's – mi rendo conto di quanto sia effettivamente grande. Era da tanto tempo che non dipingevo legalmente su una superficie. Come ogni volta che non devo stare attento a correre via al minimo rumore e lasciare le cose non finite o fatte di fretta, penso che se avessi studiato avrei anche ottenuto dei risultati.
“Potrei aiutarti,” mi dice Danny, che ora sta ammirando il murales dal fondo della stanza, con la testa piegata di lato. Mi guarda. “Se ti va, ovvio.”
Penso: perché no? Qualche tempo fa mi ha trascinato in giro a vedere qualcuno dei suoi lavori e non se la cava male. Attraversare i luoghi dove io e Anis andavamo a taggare mi ha anche messo un sacco di nostalgia, perché adesso mi guardo intorno e ci sono tutte firme che non conosco. Se ci fosse stato lui, con me, invece di Daniel, sarebbe entrato nel primo negozio di fai da te disponibile e si sarebbe armato di bombolette per riprendersi il suo territorio. Quell'uomo è pazzo, del resto.
“Certo,” rispondo. “Domani cominciamo.”
E quelle, evidentemente, sono le parole esatte che la sfiga stava aspettando per entrare in scena. Se mi concentro la immagino anche, spietata e col visore sugli occhi per prendere meglio la mira, seduta dietro le quinte delle nostre esistenze in attesa che io pronunci la battuta che si aspettava.
Mi suona il cellulare e inizio subito a preoccuparmi, un po' per il mio sesto senso e un po' perché quella suoneria non la sento da sei mesi e qualsiasi cosa voglia da me Bushido, se non è dannosa fin da subito, sicuramente lo diventerà nel giro di qualche giorno. E' passato troppo poco tempo per considerarci tutti di nuovo a posto.
Ad ogni modo rispondo comunque perché lui continua a far squillare e ormai Daniel mi guarda con aria interrogativa. “Pronto?”
“Cristo, ma quanto ci hai messo a rispondere?”
Sollevo un sopracciglio. “Ciao anche a te, Anis.”
“Stai bene?” Il tremolio che sento nella sua voce mi fa passare la voglia di scherzare.
Passo il cellulare da un orecchio all'altro e cambio stanza. Con la coda dell'occhio vedo Daniel tendersi, ma non mi segue. “Sì, sto bene. Perché? Che succede?”
Chiudo la porta mentre dall'altra parte cala il silenzio.
“Anis?”
“Dobbiamo vederci,” mi dice. “Sto chiamando gli altri.”
Inspiro e penso che non è ancora il momento. “Io non credo che sia una buona idea, sono passati solo-”
“Ho ricevuto una chiamata anonima,” m'interrompe subito, sbrigativo, come se sapesse con assoluta certezza che lo avrei detto. “Dicono che uno dei miei è in fin di vita.”
Il mio cervello inizia a correre furiosamente come fa sempre quando sono sotto pressione. Nel giro di qualche istante ho già in mente almeno quattro scenari possibili, e il nome di Peter che continua a balenarmi in testa anche se lo scaccio via. “Chi?” Chiedo alla fine, dopo che ho deglutito un groppo in gola grosso quanto il mio pugno.
“Non lo so, non l'ha detto,” risponde. E poi, mi anticipa. “La voce era falsata. Non ho idea di chi cazzo fosse.”
Di nuovo una pausa e questa volta sento un ronzio vago e il suono di un clacson.
“Sei in auto? Dove stai andando?”
“Ho un indirizzo. Raggiungimi là.”
Copio l'indirizzo sul primo pezzo di carta che trovo e poi dico a Daniel di chiudersi in casa e di non aprire per nessuna ragione. Spero che non mi dica che sa badare a se stesso, ma ovviamente lo fa, così gli ripeto di non muoversi dall'appartamento con la faccia più seria.
Lui invece di obbedire mi chiede cos'è successo e, prima ancora di ottenere risposta, si offre di venire con me e di darmi una mano; io a quel punto faccio prima a portarmelo dietro che a cercare di convincerlo a restare. E poi non mi fido a lasciarlo da solo.
Mentre saliamo in macchina gli faccio un riassunto veloce e poi chiamo Chakuza.
Suona subito occupato, così m'incazzo, lo insulto e poi chiamo di nuovo. Quando risponde, tiro un sospiro di sollievo. “Che cazzo stavi facendo?”
“Ti stavo chiamando,” fa lui. “Stai bene?”
“Sì, a posto,” mi scappa un mezzo sorriso. “Dove sei?”
“Per strada. Ho l'indirizzo.”
“Ci vediamo lì, allora.”
Bushido mi ha dato il nome di una strada fuori mano, in piena zona industriale.
Quando ci arriviamo sono quasi le nove e mentre parcheggio come capita, lo vedo scendere di corsa dalla sua auto e indicarmi un capannone qualche centinaio di metri più in là.
Siamo arrivati quasi contemporaneamente: con lui c'è Kay e Chakuza sta parcheggiando accanto all'auto di Eko proprio adesso. Ci siamo tutti, non capisco.
Bushido ci fa strada, con la Heckler stretta in pugno. Mentre entriamo, tengo Daniel dietro di me e inpugno la pistola. E' una strana sensazione averla tra le mani dopo tanto tempo, è un sacco pesante e io sono troppo nervoso.
So cosa state pensando e, dal momento che non ho ancora parlato con Bushido, lo sto pensando anch'io.
Se in questo capannone c'è il ragazzino, io non so cosa faccio. Ho volutamente scansato l'idea fino ad ora, non ho nemmeno provato a contattarlo: se si trattasse di Bill, penso, Bushido me lo avrebbe detto. Lo avrà di certo chiamato prima di tutti quanti noi. Invece magari lo ha chiamato e Bill non ha risposto, ma Anis non me lo ha detto perché se lo dice è vero e quindi sta zitto.
Ad ogni passo mi chiedo che cazzo facciamo, noi, se il ragazzino è ferito.
Che cazzo facciamo, noi, se il ragazzino invece è morto.
Penso che se Bill è morto, forse è meglio che Bushido stia indietro.
La pozza di sangue inizia al centro del capannone e gira dietro una pila di casse marchiate di nero. Nel tempo che ci avviciniamo me ne convinco e penso solo è morto. Il ragazzino è morto.
Scosto Anis e passo prima di lui. Cristo, Bill.
Ma non è Bill.
E' David.
Ed è così assurdo che sia lui che per un attimo nessuno si muove. Lo guardiamo come se non avesse senso, forse il corpo di Bill ne avrebbe avuto di più. Non lo so. So che gli altri negli occhi hanno la mia stessa espressione ed è assurdo. C'è sangue ovunque, sulle casse, per terra, perfino sulle pareti.
Daniel arretra e si schiaccia non so dove dietro di me ma non mi volto, guardo Anis chinarsi e ribaltare piano il corpo. Quando ci riesce, lo stomaco di David si apre. Gli hanno inciso la parola VENDETTA da un fianco all'altro e il fiotto di sangue che ne esce mi fa salire la nausea. Prego che quelli non siano intestini.
In realtà prego che abbia ancora un senso il nostro essere qui.
Una volta Chakuza ha detto che la gente normale quando tocca il fondo risale.
Ma noi non siamo gente normale.
Quando Bushido solleva di peso il corpo di David, mi rendo conto che abbiamo appena ripreso a scavare.













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A Beautiful Lie

di lisachan
Quando mi sveglio, come prima cosa allungo il braccio alla mia destra, e cerco il corpo di Danny sul materasso al mio fianco. Non dormiamo mai particolarmente vicini, il che per me è un dettaglio abbastanza nuovo, visto che tutti e due gli altri maschi coi quali ho dormito nel corso della mia esistenza avevano questa tendenza piuttosto spiccata ad arrotolarmisi addosso il più possibile.
Danny non è così. Ha, probabilmente, una visione molto meno romantica, per così dire, del dormire insieme. È capace di starmi vicinissimo durante il giorno, appiccicarmisi addosso in momenti decisamente poco opportuni, saltarmi sulle spalle mentre sto facendo tutt’altro e Dio solo sa quanto gli piace starmi il più vicino possibile quando scopiamo, ma mentre dormiamo? Mentre dormiamo sostanzialmente se ne frega di dove cade il suo corpo appena chiude gli occhi. È incosciente, in ogni caso, per cui perché crucciarsi domandandosi se mi stia abbracciando o si stia facendo abbracciare nel modo giusto, o preoccupandosi della possibilità di rimanere per tutta la notte immobile nella stessa posizione e svegliarsi l’indomani mattina con un braccio o una gamba anchilosati?
Il suo è un ragionamento molto pratico, molto terra terra, incredibilmente concreto e adolescente. Non c’è nessun motivo di dimostrarci niente neanche in generale, ma pretendere di dimostrarci qualcosa stringendoci l’uno all’altro mentre dormiamo è davvero troppo ridicolo, per il suo modo di vedere le cose.
È terribilmente divertente osservarlo mentre mette in pratica questi ragionamenti: quando sarà più grande, quando avrà corso innumerevoli volte il rischio di vedere le persone che avrà amato scivolargli via di mano, stringersele contro durante la notte per evitare di lasciarle volare via sarà l’unico pensiero che lo porterà a chiudere gli occhi serenamente quando dovrà dormire. Ma ora ha diciassette anni, non ha mai amato nessuno né tantomeno ha rischiato di perderlo. È naturale che pretenda i suoi spazi per dormire comodo.
Naturalmente, per me la situazione è un po’ diversa. Io ho amato molte persone e le ho perse praticamente tutte, si sia trattato di amicizia o amori veri, perciò non riesco ad essere spensierato come riesce lui. È più facile non pensarci quando non resta a dormire con me – spesso, probabilmente, lo rimando a casa sua proprio per questo – ma quando rimane qui mi capita spesso durante la notte di svegliarmi di soprassalto solo per verificare che lui ci sia ancora. O svegliarmi presto al mattino, come adesso, ed allungare subito un braccio alla ricerca del suo corpo.
La nota positiva è che non mi è mai capitato di non trovarlo, le volte in cui una cosa del genere è successa. E anche adesso funziona allo stesso modo: il suo corpo è proprio qui, solo apparentemente immobile fra le lenzuola. In realtà Danny tende ad essere molto irrequieto anche quando dorme, perfino quando il suo è un sonno tranquillo, perciò non è che si possa dire, perfino adesso, che lui stia fermo.
Mi rigiro su un fianco e lo osservo attentamente nella luce fioca che passa in rivoli minuscoli attraverso le imposte serrate, e nei pochi secondi in cui lo guardo lui riesce a cambiare posizione, scalciare un paio di volte, tirarsi via metà coperta di dosso perché sente caldo e fare una smorfia e sbuffare per liberarsi da una ciocca di capelli che, mentre si muoveva, è sfuggita al codino e gli è scivolata sul naso. E lo ripeto, oggi, rispetto ad altri giorni, è tranquillo.
Sollevo una mano e scivolo con la punta delle dita lungo il profilo del suo viso, sulla sporgenza ossuta della clavicola giù lungo il petto tonico e magro e sulla pancia piatta, fino all’incavo dell’ombelico proprio sopra la curva un po’ più rotonda e morbida del suo bassoventre. Lui si sposta impercettibilmente, tremando appena sotto il mio tocco, ma non si sveglia. La mia mano risale su seguendo lo stesso percorso all’inverso, e poi si ferma all’altezza del suo naso. Sorrido, stringendo le sue narici fra il pollice e l’indice.
Lui resta tranquillo per un paio di secondi, mentre il sorriso sulle mie labbra si allarga. Poi aggrotta le sopracciglia, le guance cominciano ad arrossarglisi e infine spalanca gli occhi e le labbra all’improvviso, gettando in giro braccia e gambe alla rinfusa nel tentativo di liberarsi del suo assassino misterioso mentre io, avendo ottenuto ciò che volevo, lo lascio finalmente libero di respirare, ritraendo la mano.
- Ma sei pazzo? – sbotta arrabbiato, tirandomi uno schiaffo in piena fronte, - Potevo restarci secco.
- Sì, ti avrei ucciso nel sonno e poi ti avrei fatto a pezzi. – annuisco io, afferrandolo per il polso e torcendogli un po’ il braccio mentre me lo tiro contro, finché non lo sento lamentarsi con una serie di “ahi, ahi, ahi!” di protesta, - Poi parte di te sarebbe finita in fondo al canale. E qualcosa l’avrei tenuta per ricordo, non si sa mai.
- Sei uno stronzo maniaco e sadico. – sentenzia lui, dandomi una testata, - E mi lasci? Mi stai facendo un male cane!
Rido un po’ e lo ribalto sul materasso, sovrastandolo col mio corpo ed impedendogli di muoversi ancora mentre con una mano scivolo lungo il suo fianco, sfiorando una delle numerose cicatrici che segnano la sua pelle.
- Credevo che queste dimostrassero che sei abituato a sopportare ben altri dolori. – dico, guardandolo dritto negli occhi. Lui ha un sussulto e trema non appena le mie dita un po’ ruvide ripercorrono il tratto di pelle ipersensibile sopra l’anca. Lo stesso che ho sfiorato la prima volta che è venuto a casa mia, intenzionato a convincermi a scoparlo. Lo sento sciogliersi sotto la mia carezza e diventare immediatamente duro sotto di me, ed è allora che mi scosto, rotolando sulla schiena e poi giù dal letto. – Ti conviene muoverti, - dico quindi, stiracchiandomi un po’ sotto il suo sguardo confuso e lucido di voglia, - o farai tardi a scuola.
- Non devo andare a scuola! – protesta con veemenza, - Siamo in vacanza dall’altro ieri, e soprattutto non posso credere che mi avresti davvero fatto venire voglia di scopare per poi buttarmi fuori così senza un pensiero!
- Dannazione. – borbotto io, fingendomi estremamente preoccupato, - Era esattamente il mio piano. L’assoluta impreparazione del sistema scolastico tedesco manda a monte tutto, però. Dovrò trovare qualche altro motivo per buttarti fuori di casa.
- Sei. Uno. Stronzo. Maniaco. E. Sadico. – ripete lui, scandendo bene le parole e poi gettando scompostamente le gambe giù dal letto per mettersi in piedi, - Ed io palesemente non voglio più avere a che fare con te per le prossime dieci ore almeno, per cui mi troverò di meglio da fare. – annuisce deciso. – Vado a farmi la doccia, tanto per cominciare. – annuncia dirigendosi speditamente verso il bagno.
Io sorrido, sedendomi sul bordo del letto per fare mente locale e decidendo che quest’operazione può aspettare, dopotutto: lascio passare cinque minuti, giusto per essere certo che Danny sarà già sotto la doccia quando mi sarò mosso, e poi mi alzo in piedi e lo raggiungo, cercando di fare il minor rumore possibile. Serve a poco, comunque: Danny sente spessissimo anche un sacco di suoni minuscoli, una cosa che immagino abbia imparato a fare per preservare per quanto possibile la propria sopravvivenza, motivo per il quale appena scosto la parete scorrevole trasparente ed entro nella doccia al suo fianco lo trovo già sorridente che mi dà le spalle solo per dimostrarmi quanto se lo aspettasse e quanto la cosa non lo colga nient’affatto impreparato.
- In realtà sono io che non potrei stare lontano da te per dieci ore. – gli sussurro sulla pelle, abbracciandolo da dietro mentre lui rilascia il capo contro la mia spalla e chiude gli occhi.
- Infatti era inteso come una vendetta nei tuoi confronti. – mi spiega a bassa voce, mentre le mie mani scivolano giù lungo il suo ventre e prendono a giocare distrattamente con la sua erezione, - Per aver cercato di soffocarmi nel sonno.
- Penso di poter chiedere una riduzione della pena, se prometto di occuparmi di un po’ di servizi sociali adesso. – ipotizzo, stringendolo piano fra le dita e muovendomi lentamente avanti e indietro, finché lui non prende a seguire il mio movimento con spinte regolari del bacino. – Facciamo che stai via cinque ore e poi ci si vede di nuovo?
Lui mi si rigira fra le braccia, schiacciandosi contro di me. Si avvicina abbastanza da fare in modo che le nostre erezioni si tocchino, e poi le avvolge entrambe con una mano, strofinandole contemporaneamente fra le dita e l’una contro l’altra.
- Hai da fare? – mi chiede sulle labbra, mentre io lo spingo contro la parete piantando entrambe le mani sulle piastrelle bagnate ed un po’ scivolose per muovermi con più forza contro di lui, - Perché se sei libero posso anche restare. Annulliamo la pena. Facciamo che invece di stare via cinque o dieci ore la sconti scopandomi cinque o dieci volte.
- Mi vedo costretto a declinare l’offerta. – rido appena, senza fiato, mentre lui passa il pollice sulla punta del mio cazzo facendomi rabbrividire di piacere, - Ho da fare, sì.
- Potrei aspettarti qui. – dice lui, sollevandosi abbastanza per sfiorarmi l’orecchio con le labbra, - Nudo, ad esempio.
- Oppure, - rido ancora, scivolando con le mani lungo la sua schiena ed afferrandogli le natiche con decisione, stringendole fra le dita, - potresti uscire da questa casa e provare ad avere una vita, ogni tanto.
- Ora mi si ammoscia. – mi avverte lui, roteando gli occhi, - Cristo, quanto sei palloso.
- Davvero. – sorrido sul suo collo, mentre le mie dita si avventurano lungo il solco fra le sue natiche, sfiorando decise la sua apertura, - Ho un po’ di cose da sistemare. Preferirei non averti tra i piedi mentre lo faccio.
- Stai peggiorando la situazione. – si lagna, continuando a strusciarsi contro di me, - Voglia di scopare in questo momento uguale a zero, più o meno.
Mi allontano un po’, una cosa praticamente impercettibile, ma è abbastanza perché le sue braccia scattino a stringermi attorno alle spalle per impedirmi di allontanarmi ancora.
Sorrido, poggiando la fronte contro la sua, le punte dei nostri nasi che quasi si sfiorano.
- Stai mentendo. – sussurro prima di baciarlo.
Ovviamente ho ragione, perché nel momento stesso in cui la mia lingua prende ad accarezzare la sua Daniel smette di lagnarsi, e non solo perché adesso ha la bocca occupata. Chiude gli occhi e si abbandona completamente a me, con una fiducia cieca che non manca mai di stupirmi. Con Daniel è tutto molto più incerto e flessibile di quanto non sia mai stato con altre persone, perciò ogni singola cosa che faccio con lui è molto più preziosa, perché non è mai routine. È sempre un qualcosa che è accaduto all’improvviso dopo chissà quanto tempo che non accadeva, e tu non puoi fare a meno di cercare il più possibile di assaporare il momento, perché chissà quando ricapiterà.
E davvero non capita spesso che lui si metta nelle mie mani in maniera così totale. Ci sono volte in cui è tremendamente dispotico, sia che stia sotto sia che stia sopra, ce ne sono molte altre in cui è semplicemente partecipe, gioca con me nello stesso modo in cui io gioco con lui, e poi ci sono volte come questa in cui si lascia andare, stabilisce che può mollare la presa sul suo senso del controllo per un po’ e può lasciar fare a me.
Lo sollevo appena, appoggiandolo contro la parete ed aspettando che abbia stretto le gambe attorno ai miei fianchi prima di cercare in un colpo secco la via per il suo corpo, nel quale affondo senza timore, godendo del sospiro arreso che esala gettando indietro il capo ed allacciandomi al collo. Gli ricopro il petto ed il collo di baci, spingendomi con forza dentro di lui mentre il suo bacino viene incontro al mio in gesti rapidi e fluidi. Mentre lui geme il mio nome e mi accarezza la nuca, io penso al borsone che sto tenendo pieno per metà nello stanzino in fondo al corridoio da ormai una settimana. Penso allo zainetto nuovo che ho comprato l’altro ieri tornando a casa una sera e penso a quel paio di magliette palesemente troppo piccole per me che ho avvolto in un sacchetto di plastica e ho lasciato là dentro. Mi chiedo come farò questo pomeriggio quando sarà tornato a dirgli ciò che devo dirgli, come farò a trovare il coraggio di chiedergli ciò che devo chiedergli, e poi Danny geme ancora, con più forza, ed ogni muscolo del suo corpo si tende sotto le mie dita, ed io smetto di pensare a cosa dovrò fare fra cinque ore per concentrarmi su ciò che devo fare adesso. Voglio che esca sorridendo, da questa casa. Perciò mi impegno a farlo bene.
*
Danny è già uscito da un’oretta abbondante quando mi decido a tirarmi su dal divano e darmi una mossa. La verità è che se ho aspettato così tanto è che non ho la minima idea di cosa dovrei fare. Altre volte, in passato, m’è capitato di desiderare di partire, di andare via. Un anno fa l’ho desiderato così tanto che il pensiero si era radicato in me molto profondamente, al punto che credevo di essermi davvero organizzato per farlo, ma non era così. Il borsone era pronto, è vero, ma è facile infilare qualche vestito e della biancheria in uno zaino e metterlo in un angolo, dove puoi vederlo, di modo che passandoci di fronte tu possa ripeterti che sì, è vero, sei ancora lì, ma ciò non vuol dire che tu non abbia palle per partire, perché visto? I bagagli sono lì, pronti!
Non è così, naturalmente. I bagagli sono lì pronti solo per finta, tu non sei organizzato, non stai davvero pensando a niente e se passasse qualcuno e ti mettesse in mano cinquecento euro dicendoti espressamente che puoi usarli, ma solo per partire, non avresti idea di dove andare. Perché non ci hai pensato, l’unico posto in cui vuoi andare è quello in cui sei, che guardacaso è anche il posto da cui vuoi scappare, il che è veramente un casino.
Perciò sì, un anno fa io stavo spesso a ripetermi che sì, entro un paio di giorni, una settimana al massimo, sarei partito. E avevo il mio borsone pronto proprio accanto al letto, c’inciampavo quasi ogni mattina quando mi svegliavo, perché avevo bisogno di averlo in mezzo ai piedi per ricordarmi che esisteva, non mi bastava tenerlo nell’angolo, dovevo rischiare di spaccarmi l’osso del collo travolgendolo, o lo dimenticavo nel giro di tre minuti. Però non avevo niente di più concreto oltre questo, non avevo un piano, non avevo una destinazione, non avevo delle tempistiche, non avevo un’organizzazione. Tant’è vero che ho atteso che fosse Sido a fornirmela, peccato che poi sia arrivata un po’ in ritardo, ed Anis, per allora, fosse già tornato in vita.
Si sarebbe comunque trattato solo di un tour, un qualcosa di molto breve e con un termine ben preciso, per non parlare del fatto che in realtà poi si sarebbe svolto tutto in Germania, quindi sarebbe un po’ stato come girare attorno al problema senza saper decidere se affrontarlo o allontanarsene definitivamente, quindi, alla fine, suppongo sia stato meglio in quel modo. Allontanarmi dal problema abbastanza per credere che potesse andare meglio e poi ripiombare nel baratro non appena avessi rimesso piede a Berlino non sarebbe stato tanto piacevole, quindi sono quasi certo, anzi, sono proprio certo che sia stato meglio rimanere, osservare la situazione finché non è stata portata alle sue estreme conseguenze e, be’, a quel punto, decidere.
Che poi è quello che ho fatto io adesso.
Abbasso lo sguardo, lanciando un’occhiata ai biglietti aerei per Parigi che tengo in una busta sul palmo della mano. Su un foglietto di carta, che tengo in quella stessa busta, ho l’indirizzo e il numero di telefono dell’albergo nel quale ho prenotato una stanza per un paio di settimane, e salvato sul cellulare ho un altro numero che invece appartiene a un tizio che lavora per la Fédération Nationale de l’Immobilier al centoventinove di rue du Faubourg St. Honoré. Pierre, così si chiama il tizio, è stato molto gentile e carino quando abbiamo parlato al telefono. Ha parlato in inglese e molto lentamente, così che io potessi andargli dietro senza difficoltà eccessive. Jost me l’aveva detto che avrebbe fatto al caso mio. Io ho detto a Jost che lo ringraziavo ma gli sarei stato anche più grato se avesse mantenuto un certo riserbo su tutta la questione. Lui ha inarcato un sopracciglio e mi ha guardato come avessi detto una cosa molto, molto stupida, e la discussione s’è chiusa lì.
In ogni caso, Jost e le sue innumerevoli conoscenze nelle comunità gay di tutta Europa a parte, il succo della questione è che stavolta sono organizzato. Lo sono davvero. Non solo so dove andare, ma ho appuntamenti precisi, date fisse, luoghi in cui devo presentarmi, persone con le quali devo parlare, questioni che dovrò risolvere, prospettive di contratti da firmare. Roba eccezionalmente seria. Roba che se penso alla prima persona che vorrei con me quando sarò lì a dover fare tutte queste cose, il primo nome che mi viene in mente è il nome sbagliato.
Il secondo, però, è il nome di Danny. E non è detto che una domanda non possa avere due risposte giuste, dopotutto.
*
Giugno è già cominciato da un paio di giorni, e in giro per le strade ogni tanto si vedono fare capolino segnali dell’estate imminente. Sono soltanto avvertimenti, perlopiù molto blandi. Ogni tanto il sole ti batte sulla pelle con un po’ di forza in più rispetto a quella con cui s’è fatto sentire fino ad adesso, gli strati di vestiti che la gente si porta addosso si riducono gradualmente, c’è perfino qualche coraggioso che già va in giro in maglietta, con le maniche tirate su fino ai gomiti. Lo vedi rabbrividire appena e poi farsi forza e continuare a camminare con un sorriso smagliante stampato sulle labbra, perché alle volte non è importante che non ci sia freddo, alle volte conta molto di più la consapevolezza di riuscire a gestirlo, di potere andare in giro con le maniche arrotolate e magari non morire di caldo, ma non morire nemmeno congelato. Alle persone, ho scoperto, tenere sotto controllo le cose piccole e insignificanti come queste fa bene. È sistematicamente quando cerchi di controllare le cose più grandi e importanti che ti sfugge tutto di mano. Questa è la lezione che ho imparato negli ultimi due anni, una lezione di cui intendo fare tesoro ora che sto per fuggire dal posto che me l’ha insegnata.
Per prima cosa, vado da Bill. Arrivo fino al suo appartamento, busso più volte e nessuno risponde, per cui chiamo Tom ed è lui a dirmi, abbassando la voce fin quasi a non farsi sentire più, che suo fratello s’è trasferito a casa sua per un po’. Stanno organizzando un viaggio, mi dice, non una cosa breve, e comunque Bill per ora non può stare da solo. Io annuisco e lui mi ringrazia per essermi preoccupato, e sento distintamente che sta per chiudere la conversazione. È allora che gli dico che sto passando per un saluto, e per molti secondi lui nemmeno riesce a rispondermi. Immagino sappia, voglio dire, suo fratello deve avergli spiegato, in qualche modo, che nel lungo elenco di persone dalle quali Bill deve stare lontano al momento figuro anche io, seppure per motivi che col rapporto che io e Bill avevamo prima di tutto questo non c’entrano niente. È per questo motivo che ora Tom vorrebbe dirmi “ma sei matto?” e rispedirmi a casa mia con un paio di metaforici calci in culo, ma non lo fa. Perché è Tom, perché è un ragazzo intimamente molto buono, molto soffice, e perché quando si parla di me la parola soffice non basta nemmeno più a descriverlo. Perciò, si limita ad annuire mestamente e dirmi “ok, ci vediamo fra poco”. Lo dice così frettolosamente che quasi riesco a vedere le rotelle del suo cervello muoversi forsennatamente mentre lui cerca di trovare un modo adatto per comunicare il tutto a suo fratello senza generare un’Apocalisse. Sorrido un po’, anche se non dovrei.
Sono lì in un quarto d’ora circa. Visto che non sono nemmeno le undici e mezza, passo da una pasticceria e compro qualcosa di buono da mangiare. Un intero vassoio di paste assortite. Bill molto probabilmente non avrà alcuna voglia di mangiarle, ma mi sembra poco carino presentarmi per dire che partirò, molto probabilmente per sempre, senza neanche portare un regalo. Quando ci rifletto mi sembra poco carino anche portare un regalo, per la verità, ma ormai il danno è fatto, Tom apre la porta e per un attimo guarda solo me, dopodiché i suoi occhi cascano sul vassoio che tengo in equilibrio sul palmo della mano e il suo viso si illumina di un sorriso festoso.
- Hai portato dei dolci! – constata con entusiasmo, prendendo il vassoio fra le mani e facendomi strada in casa. – Bill è un po’ così. – mi dice subito, come mettendo le mani avanti, poggiando il vassoio sul tavolo e scartandolo. – Oddio, quanta roba buona… - miagola sognante, e prende una pasta alla panna e fragoline prima di tornare a guardarmi, - Non sono sicuro che voglia vederti, ma di sicuro non vuole non vederti. – dice con aria un po’ confusa, staccando un morso dal pasticcino e masticandolo con lenta soddisfazione. – Per cui niente, ora te lo chiamo, però vuole che resti mentre parlate. Per te va bene?
Sorrido ed annuisco, Tom manda giù il pasticcino in un altro morso e ne prende un altro prima di girare sui tacchi e scomparire in corridoio. Quando torna, il pasticcino non è più fra le sue dita, bensì fra quelle di Bill, che lo stringe con disinteresse, stando attento solo a non sporcarsi. Ha le labbra piegate in un sorriso sottile, ma distoglie lo sguardo con ostinazione mentre si siede sul divano. Io mi seggo accanto a lui e Tom si stabilisce dietro al tavolo, su una sedia, avvicinandosi il vassoio e ricominciando a mangiare dolci lanciandoci di tanto in tanto occhiate attente da supervisore.
- Come mai sei qui? – chiede Bill. I suoi occhi sono ancora distanti dai miei, e penso proprio che non riuscirò ad incontrarli per oggi.
Devo dirglielo.
- Sono solo passato a salutare.
Non glielo dico.
- …oh. – sussurra lui, guardando il pasticcino e poi allungandosi a posarlo sul tavolino basso di fronte al divano, facendo attenzione a non rovesciarlo. – È… tutto a posto, sì? In generale, dico.
- Non posso parlare per gli altri, perché non li sento da un po’. – rido appena, grattandomi nervosamente la nuca, - Ma io sto bene, sì.
Bill sorride con più sicurezza, anche se tutto, in lui, in questo momento, ha un che di nostalgico e lontano, quasi antico. Da quale quadro sei sbucato fuori, ragazzino? Da quale passato che io non conosco?
- Anche io sto bene. – mi dice. So che lo fa solo per rassicurarmi, me ne rendo conto subito perché Tom, trangugiando un bignè alla crema, inarca un sopracciglio con aria scettica, pure se fa di tutto per darci a intendere di non stare origliando. – Penso che la scelta che abbiamo fatto sia stata quella giusta. – continua, annuendo a se stesso. Io sorrido e mi alzo in piedi.
- Bene. – dico, spiegando i pantaloni lungo le gambe, - Allora direi che vado. Ho ancora un mucchio di cose da fare, non vorrei non riuscirci.
Bill solleva lo sguardo repentinamente, cambiando espressione all’improvviso. I nostri occhi si incontrano ed io nei suoi leggo la paura riflessa dai miei, quella che dice che guardandomi, adesso, lui possa capire quello che gli ho nascosto nonostante fossi venuto qui proprio per salutarlo un’ultima volta.
- …ma sei appena arrivato. – dice invece soltanto lui, mordendosi appena un labbro subito dopo aver finito di parlare. Io sorrido con indulgenza, mentre Tom tira un inaspettato quanto rumoroso sospiro di sollievo. Gli scompiglio i capelli.
- Volevo solo passare per un saluto, comunque. – dico dolcemente, e poi lancio un’occhiata al pasticcino ancora sul tavolino. – Mangialo qualche dolcetto. – consiglio, - Sono buoni.
- Confermo. – annuisce Tom, ingollando il quindicesimo nel giro di dieci minuti. Io rido per qualche secondo, ed osservo Bill chinarsi verso il pasticcino e poi infilarselo in bocca in un sol gesto, come avesse paura di poter cambiare idea se avesse tentennato troppo. Fa fatica perfino a deglutire, il suo pomo d’Adamo fa su e giù per la sua gola con una lentezza esasperante, a un certo punto mi preoccupo pure, ma alla fine lui apre gli occhi e sorride, e lo fa guardando suo fratello, non me.
- È buono davvero. – dice, e Tom gli ricambia il sorriso. Credo che qui sia appena successo qualcosa che con la mia presenza non c’entra niente, credo di aver aiutato una questione di cui ero completamente all’oscuro a risolversi. – Io torno di là. – riprende Bill, e quando si volta a guardarmi, stavolta, è sereno. – A presto, Patrick. – mi saluta. Passa a prendere un altro pasticcino, prima di allontanarsi nuovamente verso camera propria.
Tom si alza dal tavolo, prende un altro bignè e, visto che ne sono rimasti giusto un paio, conserva il resto. Mangia quello che tiene in mano in un morso solo e mi accompagna alla porta. Sorride, restandovi appoggiato mentre mi osserva chiamare l’ascensore.
- Grazie, eh. – dice, salutandomi con un cenno del capo. Io ricambio con un gesto della mano, so che sta ringraziando per un sacco di cose, molte delle quali non saprò mai, e mi sta bene.
*
Mentre salgo in macchina e m’incammino verso casa di Bushido, mi dico che a lui devo proprio dirlo. Me lo dico con una certa convinzione, del tipo che lo so che non posso abbandonare la Germania per sempre senza quantomeno fargli sapere che sto per farlo. Lo so come si sanno quelle cose certe dell’esistenza, quelle che sono conseguenze immediate delle azioni che compi. Metti il dito sul fuoco, ti bruci. Esci senza ombrello mentre di fuori infuria la tempesta, ti bagni. Vai da Chakuza una sera che è solo e non ti vede da tre o quattro ore, si scopa. Allo stesso modo, se decidi di partire per Parigi lasciandoti dietro tutta la tua vita, lo dici a Bushido. Certo, forse quest’ultima questione è un po’ meno ovvia delle altre, per quanto riguarda tutto il resto del mondo. Un perfetto sconosciuto, se decide di trasferirsi da Berlino a Parigi, non è che deve andare da Bushido a notificarglielo. Io sì, però, perché io sono Fler, non sono un perfetto conosciuto, ed anche quando eravamo in guerra stavamo bene attenti a dire sempre ad alta voce dov’è che stavamo andando, se andavamo da qualche parte, così che l’altro potesse saperlo, potesse tenerci d’occhio.
Per cui adesso che mi fermo davanti al cancello di casa sua, parcheggio la macchina all’esterno e mi avvicino al citofono per suonare, lo faccio pensando che non ci sono cazzi, a Bushido lo devo dire, devo e basta.
Aspetto un po’, e sono talmente preparato a rispondere “Fler” quando lui chiederà “chi è?” che non mi accorgo nemmeno che lui invece non me lo chiede. Probabilmente perché vede che sono io nello schermo del videocitofono, si risparmia la domanda ed apre direttamente il cancello, ed è mormorando un “Fler” perfettamente inutile che io lo spingo e mi avvio per il sentierino ghiaioso che conduce verso la porta di casa, sulla quale lui mi aspetta, una mano sullo stipite e l’altra stretta convulsamente attorno alla maniglia, quasi tutto il corpo proiettato all’esterno, in allarme. Sorrido appena, per cercare di tranquillizzarlo. Gli ho parlato, prima di perdersi di vista, gli ho spiegato perché sarebbe stato meglio tagliare un po’ i fili, quindi è naturale che ora, lui, vedendomi tornare qui così presto, non possa che pensare al peggio.
Nota il mio sorriso sereno, comunque, e si rasserena a propria volta. La presa sullo stipite ed attorno alla maniglia si fa più morbida, e tutti i suoi lineamenti si fanno meno tesi, mentre la sua espressione, da stupita e preoccupata, si fa semplicemente sorpresa, forse anche un po’ curiosa.
- Volevo chiederti se era successo qualcosa, - comincia lui, inarcando un sopracciglio, mentre si scosta dalla soglia per farmi passare, - ma a guardarti non si direbbe.
Io ridacchio un po’, entrando in casa e guardandomi intorno prima di rispondere. L’ultima volta che sono stato qui, c’era Bill che piangeva sul divano ed è stato il momento in cui ho deciso che tutto quello che avevo vissuto negli ultimi due anni non era una motivazione sufficiente per continuare a torturarmi. Ho deciso che dovevo darci un taglio, ed ho costretto tutti a farlo. Alle volte mi chiedo se sarebbe andata allo stesso modo se, invece di parlarne solo con Bill, che in quel momento era evidentemente troppo fragile e perso per contestare ciò che avevo da dire, ne avessi parlato allo stesso tempo anche con Bushido e Chakuza, prima di prendere una decisione definitiva. Probabilmente no, non sarebbe andata allo stesso modo. È una fortuna che invece sia andata così.
- No, non è successo niente, infatti. – dico, aggirandomi per la stanza con aria curiosa. Ricordo bene tutti i particolari di quel giorno, ed ogni cosa è ancora esattamente com’era allora. Sono passati tre mesi, quasi, ed è come se in questa stanza non fosse successo niente da quel giorno fino ad oggi.
- E quindi… - azzarda lui, avvicinandosi con fare circospetto, - …come mai sei qui?
Mi inumidisco le labbra, voltandomi a guardarlo. Devo dirglielo. Coraggio. Adesso glielo dico.
- Sono passato solo per un saluto. – rispondo invece. E non lo dico neanche a lui.
Bushido inarca nuovamente il sopracciglio, stavolta palesemente perplesso. È ovvio che non crede a una parola, mi conosce troppo bene per farlo. Per qualche motivo, però, non si sente abbastanza sicuro del proprio intuito da azzardare un terzo grado. Oh, riuscirebbe a tirarmi fuori di bocca qualsiasi cosa, se solo volesse, ma probabilmente non vuole. O forse non sente più di averne il diritto. Qualche anno fa si sarebbe concesso di spremermi fino al midollo anche solo per divertirsi a vedermi arrabbiato o in difficoltà, ma ora no, ora si trattiene. Abbassa lo sguardo, che è una cosa che non ha mai fatto di fronte a nessuno, tantomeno a me, e sospira.
- Ti va un caffè? – mi chiede distrattamente. Io annuisco. Potrebbe chiederlo a Karima e restare qui mentre prendo posto sul divano e continuo a guardarmi intorno come un ospite casuale, ma il fatto è che lui non vuole restare qui, per cui a preparare il caffè ci va da solo, e questo comporterà il dover bere un caffè orribile solo perché lui si sente a disagio. Quest’uomo non ha smesso di condizionare il buonumore del prossimo suo basandosi sui propri sentimenti, è evidente. La giornata era partita così bene, e invece ora mi tocca bere del caffè disgustoso.
Torna più di cinque minuti dopo, col caffè già nelle tazzine posate su un vassoio circolare in legno chiaro. Lo appoggia sul tavolino e si siede sul divano accanto a me, recuperando la propria tazzina e sorseggiando il caffè in silenzio senza guardarmi, prima di abbandonarsi a un mezzo sorriso.
- Cosa? – chiedo io, sorridendo a mia volta. Lui finalmente mi guarda.
- Mi stai prendendo per il culo. – dice con estrema tranquillità, - Questa cosa non è normale, e se dici che non è successo niente allora lo stai facendo per prendermi per il culo. Cos’è, un test? Volevi verificare che fossi davvero solo e non con Bill o chiuso in uno sgabuzzino a infierire sulle spoglie mortali di Chakuza?
Aggrotto le sopracciglia, allungandomi a recuperare la tazzina e bevendo il caffè tutto d’un fiato prima di tornare a guardarlo.
- Ti giuro che non volevo controllarti. – ribatto pacatamente, - Non mi è mai neanche passato per l’anticamera del cervello. Volevo solo salutarti.
- E perché? – insiste lui, continuando a guardarmi con calma quasi eccessiva.
Perché sto partendo, Anis. Sto partendo, ho un aereo domani mattina alle dieci e non ho prenotato il volo di ritorno, perché un volo di ritorno non ci sarà. Sto partendo e non ci vedremo più e visto che cambierò numero probabilmente non ci sentiremo nemmeno più, e volevo andare via ricordandomi bene come sei e qual è il suono della tua voce, perché non capiterà più che possa passare da casa tua a salutarti semplicemente quando mi va, e pensavo fosse giusto farlo adesso che posso ancora, anche se questo tu non puoi saperlo, e se non tiro fuori le palle al più presto non lo saprai mai.
- Perché mi mancavi. – mento. Non è vero, Anis. Sono stato bene senza averti intorno. Sono stato bene senza avere nessuno di voi intorno. Mi sono concentrato su un mucchio di cose piacevoli e la mia vita è tornata tranquilla, per lo più. Mi dispiace che l’ultima cosa che tu debba sentire da me sia una bugia, proprio tu le bugie le odi. Ma in questo momento sento di dovermi proteggere, e questo è l’unico modo che riesco a pensare.
Lui sorride intenerito, allungando una mano ad accarezzarmi una spalla. Mi ci batte sopra anche un paio di pacche.
- Anche tu mi sei mancato, Frank. – dice con naturalezza, - Magari il peggio è passato. Noi due, dico, potremmo anche ricominciare a vederci. Saltuariamente. – aggiunge giusto per mettere le mani avanti quando, probabilmente, nota il mio sguardo che si incupisce.
Mi sforzo di sorridere, battendo un paio di volte la mia mano contro il dorso della sua e poi alzandomi in piedi.
- Sì, certo. – butto lì, - mi faccio sentire io. – dico, sperando che questo basti a tenerlo ben lontano dal mio numero per almeno un paio di settimane, giusto il tempo di stabilirmi a Parigi e cambiarlo. Lui annuisce subito, precipitosamente, come volesse dare ad intendermi di non aver mai voluto imporre la propria volontà sulla mia.
- Certo. – dice, alzandosi in piedi e seguendomi mentre mi avvicino alla porta, - Certo, naturalmente. Quando vuoi, io sono qui.
Annuisco ancora, aprendo la porta.
- Stammi bene. – dico, salutandolo con un mezzo abbraccio un po’ impacciato. Lui lo ricambia altrettanto goffamente, e poi mi osserva allontanarmi lungo il vialetto, verso il cancello.
- Non sparire! – mi urla, e poi ci ripensa. – Troppo a lungo. – aggiunge. Io rido un po’.
- Non sparisco. – lo rassicuro, ed è una menzogna anche questa. E visto che è proprio l’ultima cosa che gli dico, me ne vado in fretta, per non cedere alla tentazione di tornare indietro, dirgli tutto e poi implorarlo di darmi anche solo un motivo per restare.
*
Chakuza non risponde al citofono, ma contrariamente a Bill non possiede un fratello con una cotta per il sottoscritto che io possa chiamare per informarmi sul suo stato di salute e sulla sua presenza fra gli esseri umani, perciò dopo dieci minuti attaccato al campanello mi rassegno, recupero il cellulare e lo chiamo. L’idea di parlare con lui senza un filtro in mezzo mi spaventa un po’. Voglio dire, quando mi sono presentato da Bill lui sapeva già che sarei arrivato perché avevo parlato prima con Tom, e quando ho visto Bushido lui sapeva già che ero io perché mi aveva visto sul videocitofono, ma il telefono? È una cosa completamente diversa. Quando ti chiamano tu vedi il numero sul display, ma la chiamata è già in atto, hai pochissimi secondi per decidere se vuoi rispondere o meno, e quando a chiamare non è qualcuno che ti aspetti può diventare una paranoia non indifferente.
Immagino che sia per questo che a rispondere Chakuza ci mette le ore. Squilla almeno dieci volte prima che lui si decida a schiacciare il pulsante e sputacchiare un “pronto…?” totalmente confuso e anche un po’ spaventato.
- Ehi. – dico io sorridendo, cercando di suonare il più a mio agio possibile. Chakuza boccheggia per qualche istante.
- Fler? – chiede con sorpresa palese. Ha visto il mio nome, dovrebbe sapere che sono io, dovrebbe saperlo anche senza bisogno che glielo confermi, visto che ormai ha anche sentito la mia voce, ma l’eventualità che potessi chiamarlo doveva essere così remota, nella sua testa, da obbligarlo a domandare ancora, per esserne proprio certo.
- Già. – annuisco, - Ero passato da casa tua, ma non risponde nessuno, perciò immagino tu non ci sia. Dove sei finito?
Lui esita per una buona quantità di secondi, prima di rispondere.
- In Austria. – confessa quindi, - Alla fattoria dei miei.
Esito anch’io, mentre me lo vedo chiarissimo a tenere il cellulare fra l’orecchio e la spalla perché ha le mani impegnate a mungere una vacca.
- …in Austria? – domando sconvolto, - Ma sul serio?
Lui ride un po’, passando il cellulare da un orecchio all’altro e dimostrando perciò di non stare mungendo alcuna vacca.
- Sì. – risponde, sensibilmente più tranquillo rispetto a poco fa, - Ho pensato di prendermela qui, la mia pausa. Si sta bene, c’è un bel tempo, tanto sole e il giusto freschetto. Tu che mi dici?
Per un po’ non dico proprio un bel niente, perché scoppio a ridere. Oggi non l’ho ancora fatto, ed è una sensazione bellissima. Mi prende a tutto il corpo, mi piego in due e rido così tanto che comincia a farmi male lo stomaco, ma non è un dolore fastidioso. Un bel tempo, tanto sole e il giusto freschetto, Chakuza? Oh, Dio.
- Niente di che. – rispondo quindi, mentre lo sento borbottare rumorosamente dall’altro lato della cornetta, - Stavo solo… in Austria, Chaku, ma tu non sei mica a posto con tutte le rotelle! – dico, impossibilitato a trattenermi oltre, e riprendo a ridere come se non avessi mai smesso.
- Di’ un po’, ma lo sai che per prendermi per il culo stai spendendo un sacco di soldi? – mi fa notare lui, sempre con quel borbottio offeso che me lo fa immaginare già vecchio e con un’enorme barba bianca e la pipa in bocca. E la testa lucida, sempre.
- Sì, lo so. – dico, mentre l’accesso di risate comincia piano piano a placarsi. Mi rimetto dritto, asciugo una lacrima dall’angolo dell’occhio e penso che glielo voglio proprio dire, a Chakuza, che sto partendo. Non so perché, ma voglio farlo. – Volevo salutarti, - dico quindi, e per un attimo non riesco a credere che lo sto facendo davvero, - domani parto.
Chakuza si congela all’istante. L’atmosfera era rilassata fino a meno di un secondo fa, ma è bastato dire che sto partendo perché lui cambiasse subito atteggiamento e, immagino, anche disposizione nei confronti della vita in generale. Il fatto è che Chakuza è uno cui non devi mai togliere le sue certezze. Ne ha già poche, e quando gli togli pure quelle è il panico. Perciò lui è fuggito in Austria per non dovere avere a che fare ogni giorno col pensiero di essere a Berlino e non poter posare gli occhi su me o su Bill, ma non gli è mai passata per la mente la possibilità di tornare a Berlino e sapere che io o Bill – o perfino Bushido – non eravamo più lì. È come dirgli “guarda, finché sei là sui monti con Annette dove il cielo è sempre blu il sole continuerà a sorgere pacifico ogni mattina, ma quando sarai tornato a Berlino non aspettarti che continui a farlo, perché qui il sole non sorge più”. È una cosa completamente priva di senso che lui non riesce ad accettare, e probabilmente immagina che non l’avrei chiamato se fosse stato un breve viaggio, e cioè se avessi immaginato che per il suo ritorno sarei già abbondantemente tornato anch’io.
- Come sarebbe a dire che parti? – chiede allarmato, - Dov’è che vai?
All’improvviso, non ho più tanta voglia di parlargliene. Il suo tono apprensivo è di quelli che da soli sarebbero capaci di farmi promettere tutto e il contrario di tutto, pur di non sentirglielo più addosso. Non vado da nessuna parte, Chaku. Da nessuna parte.
- In realtà è una cosa temporanea. – abbozzo distrattamente, - Sono giusto un paio di settimane.
- Dove? – chiede subito lui, insoddisfatto.
- In un posto non lontano da qui, - invento di sana pianta, - un agriturismo. Ho avuto un po’ di problemi con Sido, ultimamente, e quindi abbiamo pensato di andare qualche giorno in vacanza, lui si porta dietro tutta la famiglia e andiamo in questo posto dove mangeremo bene e faremo lunghe passeggiate e la vita ci sembrerà più semplice e potremo risolvere tutti i problemi che abbiamo.
Lui mugugna un assenso indefinito, mentre io penso che non è neanche una cattiva idea, questa dell’agriturismo. Se avessi più tempo, probabilmente correrei all’Aggro adesso per proporglielo. Abbiamo avuto un po’ di scontri per questa questione di Nyze, ultimamente, ma resta uno che mi è sempre rimasto accanto, perfino in momenti in cui nemmeno Bushido ha voluto farlo. Mi dispiace non avere il tempo di salutarlo, mi dispiace che sia già tardi e mi dispiace pensare che in realtà anche questa telefonata è durata fin troppo. Devo darmi una mossa, fra poco Danny sarà a casa. Non ho più tempo davvero per niente, lo sto risparmiando tutto per averne il più possibile da domani in poi, quando il futuro mi si aprirà tutto davanti agli occhi in un posto nuovo e potrò ricominciare da zero. Alle volte sembra una cosa così faticosa da fare, mentre altre volte ancora è l’unica cosa che vuoi davvero. È l’unica cosa che voglio io adesso, almeno, e tanto mi basta.
Faccio per dirgli che, appunto, non ho più tempo, e quindi arrivederci e grazie, ma lui me lo impedisce, mettendosi a parlare all’improvviso.
- Volevi vedermi? – chiede serio, - Se sei passato da casa mia, immagino volessi vedermi. Posso essere a Berlino per domani alle nove, se vuoi.
Mi mordo un labbro. Se gli dicessi di sì adesso, avrei tutto il tempo, domani mattina, per vedere lui e poi partire comunque. Sempre che, dopo averlo visto, voglia ancora farlo. Ci rifletto, ci rifletto a lungo e per tutto il tempo mi dico da solo che non è una cosa veramente fattibile, che non dovrei neanche starci a pensare. Devo lasciare perdere, devo proprio, decisamente lasciare perdere. Alla fine, è solo amore. Quanta gente s’innamora, ogni giorno? Milioni di persone incontrano una persona e si innamorano, continuamente, è una cosa che si ripete all’infinito perché milioni di persone, continuamente, si lasciano anche. Non è niente di che. Me lo ripeto con convinzione. Non è niente di che.
- No, davvero. – sorrido, - Ero solo passato per un saluto. Goditi il tuo bel tempo, il tuo sole e il tuo freschetto, Chaku. Noi ci si becca appena torni.
Lui mugugna qualcosa che non capisco.
- Sarai lì, quando tornerò, giusto? – chiede per esserne certo.
Mento anche a lui. Mi pesa meno di quanto dovrebbe.
*
Danny torna a casa portando con sé due tranci di pizza di dimensioni enormi. Ogni pezzo di wurstel ha un diametro più ampio di quello del mio pollice. Posa il vassoio sul tavolo con un certo orgoglio, guardandomi con evidente soddisfazione mentre si siede e comincia sistematicamente a rubare tutti i wurstel da entrambi i pezzi di pizza.
- E questi? – chiedo, indicando il tutto con perplessità palese. Lui scrolla le spalle.
- Avevo voglia di un pranzo veloce. – risponde.
- E avevi anche soldi da buttare, immagino. – borbotto, mettendo automaticamente mano al portafogli per restituirgli tutto, - Quanto hai pagato?
- Neanche un centesimo. – dice lui, sorridendo candidamente, - Ho fatto addebitare tutto sul tuo conto, non ho neanche chiesto quant’era. Ho preso anche un paio di lattine di Coca, ma quelle le ho bevute entrambe in metro mentre venivo qui. – conclude annuendo, - Avevo sete.
- Ti si sarà bucato lo stomaco. – considero inarcando un sopracciglio, - Bene, quindi domani mattina fra le altre cose dovrò svegliarmi all’alba per passare dal fornaio a saldare il conto, prima di partire.
Daniel si ferma immediatamente, un wurstel ancora fra le dita e lo sguardo un po’ perso.
- Parti? – chiede quindi, simulando indifferenza. Riesco a sentire la tensione sottile nella sua voce, e ne sorrido.
- Aspettami qui. – gli dico, girando attorno al tavolo ed uscendo in corridoio. Vado fino all’ingresso e tiro fuori la busta coi biglietti dalla tasca del giubbotto appeso all’attaccapanni, e quando mi volto per imboccare il corridoio a ritroso lo trovo lì affacciato dalla porta della cucina che mi fissa con curiosità. – Ti avevo detto di aspettarmi lì. – ridacchio avvicinandomi e spingendolo nuovamente all’interno della stanza semplicemente avanzando verso di lui.
- Infatti ti ho aspettato qui. – annuisce lui, sedendosi mentre mi osserva fare lo stesso. – Che c’è in quella busta?
Prendo un gran respiro, aprendola e tirandone fuori i due biglietti per Parigi. Lui me li ruba dalle mani, guardandoli incerto. Nota subito che su uno dei due c’è stampato il suo nome.
- Non ti sto chiedendo niente. – mi affretto a rassicurarlo, - L’ho fatto solo nel caso tu volessi.
Lui resta zitto per qualche secondo, ma è un’esitazioni che sembra durare secoli. Mi sento sfuggire il tempo da sotto le dita mentre aspetto che dica qualcosa, e so che è così solo perché ciò che aspetto di sentirmi dire è la cosa più importante che abbia atteso negli ultimi mesi. È così fondamentale che da questo dipende tutta la mia vita, tutto il mio futuro. Io andrò via comunque, ma sarà diverso farlo da solo o farlo con Danny.
- …non c’è scritta la data di ritorno. – dice quindi, deglutendo forzatamente. Mi guarda dritto negli occhi, solo che non capisco cos’è che vorrebbe sentirsi dire in questo momento, per cui opto per l’unica cosa certa che so, cioè la verità.
- Sì, non c’è una data di ritorno. – dico tutto d’un fiato, - Mi sto trasferendo, Danny. È la prima volta in vita mia che non mi sento a posto con questa città, e non ci voglio più stare. Mi rendo conto di quanto sia infantile, cioè, a volte mi sembra infantile, a volte no, in questo momento sì, ma stamattina no, e nemmeno quando facevo il biglietto, ma non cambia la sostanza dei fatti che io qui non ci voglio stare più, e mi trasferisco. E sarei felice se tu volessi venire con me, ma ti capirò se non vorrai.
Lui fa un’altra pausa, torna a scrutare i biglietti, se li rigira fra le mani.
- Sono per domani alle dieci e mezza… - sussurra incerto.
- Lo so. – annuisco io, - È una cosa improvvisa, ti sto chiedendo di prendere una decisione molto in fretta. Ma ehi, guarda che non c’è niente di definitivo, nella vita, voglio dire, magari arrivo là e i francesi mi stanno tutti sul cazzo a pelle. O magari no, ma se non ti va di venire subito puoi restare e fra una settimana o due o tre o quando vuoi non ci metto niente a farti avere un biglietto per raggiungermi, intendo, non sto mica andando in Patagonia, la Francia non è così lontana da qui, e—
- Non avrò il tempo di tornare a casa a prendere la mia roba. – dice lui, interrompendo il mio fiume di parole confuso ed anche vagamente privo di senso. Lo guardo.
- Cosa? – chiedo.
- Non avrò il tempo di tornare a casa a prendere la mia roba. – ripete Daniel, - È sabato, mio padre starà lì tutto oggi e tutto domani e se mi vede arrivare è capace di rinchiudermi fino a lunedì. Se vado, rischio di non tornare in tempo.
Continuo a guardarlo, perché non sono sicuro di aver capito bene.
- Stai dicendo che vuoi venire? – chiedo per sicurezza. Devo suonare come un perfetto imbecille, in questo momento.
- Sto dicendo che non potrò passare a casa mia a prendere la mia roba. – ripete lui, per la terza volta in meno di cinque minuti, aggrottando le sopracciglia mentre le guance gli si colorano appena. - …immagino che questo implichi che sì, voglio venire. Ma non avrò niente da mettere.
Trattengo il respiro per qualche secondo, alzandomi in piedi. Non gli dico di aspettarmi qui, tanto so che non lo farebbe in ogni caso, ed esco nuovamente in corridoio, dirigendomi stavolta verso lo sgabuzzino. Ne apro la porta e mi chino a recuperare lo zainetto nuovo ancora abbandonato in un angolo. Lo apro, ne tiro fuori le due magliette ancora avvolte nella plastica. Mi volto e Danny è esattamente davanti a me. Mi guarda e i suoi occhi sono macchiati d’incertezza e di un pizzico di paura.
Sventolo le magliette davanti al suo viso.
- Non è molto, ma per un paio di giorni ti dovrebbero bastare. – dico. Non so neanche che espressione dovrei avere in questo momento, è tutto così surreale. – Poi andremo a comprare qualcos’altro.
Daniel mi guarda ancora, a lungo. È palese che nemmeno lui sa che espressione dovrebbe avere. Poi mi afferra il viso fra le mani, così improvvisamente che io quasi indietreggio spaventato, e mi si avvicina, schiacciando le proprie labbra contro le mie. Mentre mi bacia con forza, sorride. E allora sorrido anch’io.
*
Pierre viene a prenderci all’aeroporto, qualcosa che non mi aspettavo ma che dopotutto mi fa piacere. Lo riconosco perché tiene dritto sulla testa un cartello col mio nome sopra, e lo agita elegantemente a destra e a sinistra per farsi notare. Le sue labbra si aprono su due file di denti bianchissimi e perfetti, i capelli ricci che incorniciano il volto dai lineamenti fini ed eleganti e gli occhi scuri ma brillanti danno l’impressione di avere davanti un ragazzo che ci sa fare, tutto sommato. Per qualche ragione, lo immaginavo più o meno così. Forse, avendo ben presente David Jost e gli esseri umani coi quali normalmente si accompagna, non avrebbe potuto essere niente di diverso.
- Ma è un tuo ex? – butta lì Daniel, indicandolo distrattamente. Gli schiaffeggio la mano.
- È maleducato indicare le persone. – lo rimprovero arrossendo, mentre lui borbotta un “ahi” risentito e si massaggia la mano dolente, - Comunque no, non l’ho mai visto prima di questo momento. E sforzati di parlare in inglese, non è carino parlare in una lingua che lui non conosce.
- Se sapevo che ti trasformavi in mio padre appena valicato il confine, me ne restavo a Berlino. – sbotta Daniel, facendomi una linguaccia. Io sospiro e sollevo gli occhi al cielo, e decido saggiamente di ignorarlo.
- Ohilà! – ci saluta Pierre, mettendo via il cartello e sorridendo amabilmente, - È un piacere incontrarvi, finalmente. Davìd mi ha parlato a lungo di voi. A proposito, come sta? Sta ancora con Antonio, quel pizzaiolo che aveva conosciuto a Ibiza? O aspetta, quello era stato prima o dopo Jean-Jacques? – si interrompe un attimo, grattandosi il mento. Parla un inglese simpatico, ha un accento fortissimo ma ogni tanto sembra che lo forzi apposta, è divertente. – Forse però venivano entrambi prima di Samuel, mi sbaglio?
Io ridacchio, stringendomi nelle spalle.
- Non ficco il naso nella vita privata di Jost, usualmente. – rispondo. Danny, accanto a me, studia Pierre con attenzione e a un certo punto indica il cappotto scamosciato beige che indossa e sbotta “ma che razza di colore sarebbe quello?!”. Io sollevo nuovamente gli occhi al cielo.
Pierre inarca un sopracciglio, guardandolo, ma sorride con aria indulgente quando i suoi occhi tornano a posarsi su di me.
- Se sei fuggito dalla Germania per evitare che ti accusassero di molestie su minori palesemente incapaci di intendere e di volere, devo avvertirti che non è che qui in Francia ci si vada giù meno pesantemente, su questo tipo di crimini.
Danny scoppia a ridere, dimostrando di comprendere perfettamente l’inglese e, perciò, di stare continuando a parlare in tedesco solo per sfregio.
- Exactement. – risponde al posto mio. Mi volto a guardarlo con aria palesemente offesa. – Cosa? – chiede lui, candido, - Studiamo francese a scuola.
Pierre ride divertito, battendomi una pacca sulla schiena.
- Spero per te che sia il tuo fratellino minore o un cuginetto che hai portato in vacanza, e non il tuo ragazzo davvero, perché altrimenti… come dire. – ride un’altra volta, stringendosi nelle spalle, - Buona fortuna.
Sospiro, abbattendomi un po’.
- Sì, mi sa che ne avrò bisogno. – brontolo mentre Danny, improvvisamente al settimo cielo, si sporge a lasciarmi un bacio un po’ umido e vagamente appiccicoso su una guancia. Che il cielo mi aiuti.
*
L’albergo è bellissimo, e mi viene un po’ da ridere quando, una volta rimasti soli in camera, Danny mi spinge sul letto. Sento il materasso cedere dolcemente sotto il nostro peso, accoglie i nostri corpi in un abbraccio morbido e tiepido ed al tatto sembra completamente diverso dal mio a casa, che è durissimo e, anche se l’abbiamo usato più spesso, ultimamente, non s’è mai abituato davvero a noi. O a me.
- Senti che buon profumo… - mugola Danny, scivolando oltre il mio collo ed affondando il naso fra i cuscini. Rido avvolgendolo fra le mie braccia e ribaltandolo sul materasso mentre lui ride a sua volta, schiudendo le gambe per farmi posto.
- Concentrati. – lo rimprovero sorridendo, - Siamo nella città dell’amore e tu ti perdi dietro al profumo delle lenzuola?
- Be’, è buono. – scrolla le spalle lui, fingendo indifferenza, ma il sorriso che piega le sue labbra è il riflesso identico di quello che piega le mie. Sollevo un braccio, ridendo come un bambino, come se io e lui avessimo la stessa età e fossimo amici e stessimo giocando, o come se fossimo due stupidi liceali che si piacciono e non sono ancora riusciti a dirselo, e sfilo un cuscino da sotto la sua testa, schiacciandoglielo con forza sul viso.
- È buono? – lo prendo in giro, facendogli il solletico e sentendolo dimenarsi sotto di me in preda agli spasmi e alle risate, - Allora? È buono?
- Lasciami! Lasciami! – dice lui a corto d’aria, sgambettando a casaccio ed agitando le mani alla cieca nel tentativo di allontanarmi. Lo torturo ancora per qualche secondo, prima di togliere di mezzo il cuscino e chinarmi sulle sue labbra. Non aspetto che abbia ripreso fiato, prima di baciarlo, e il risultato è che comincia prestissimo ad ansimare fra le mie labbra, ed i respiri che gli escono dal naso sono affrettati, irregolari, caldi e un po’ affannosi. Mi scorre un brivido lungo tutta la schiena mentre le sue mani trovano spazio fra i nostri corpi e mi afferrano saldamente per la felpa, aggrappandovisi prima e strattonandola con forza subito dopo.
Mi allontano, poggiando la mia fronte contro la sua e guardandolo mentre riprende fiato, le ciglia bionde che tremano appena, la luce gialla e calda dell’abat-jour sul comodino che ne proietta le ombre sulle sue guance un po’ scavate e arrossate dalla fatica e dai movimenti concitati di poco fa. Il cuore gli batte così forte che me lo sento rimbombare nel petto. Ha un suono molto simile al mio. È così felice che le labbra gli si piegano in un sorriso appena accennato, spensierato, irreale. Gli scorre felicità addosso in scariche elettriche che mi fanno bruciare la pelle. Penso che voglio restare qui con lui per sempre.
Lo bacio ancora, stavolta con più calma, e lui mi allaccia al collo, schiacciandosi con forza contro di me e strusciando il bacino contro il mio in movimenti lenti e regolari che mi fanno impazzire. Alle volte, gli capita di riuscire a controllarsi molto meglio di quanto mi controlli io. Sono quei momenti in cui mi rendo conto che in degli istanti precisi io e lui come coppia sfioriamo davvero la perfezione a livello di intesa, e per me sono momenti miracolosi, alle volte quando ci penso mi viene da piangere perché non mi sono mai sentito così con nessuno. Ho avuto delle relazioni meravigliose con quasi tutte le persone con cui sono stato, ma questa è la prima volta che mi capita di pensare all’eternità di una vita insieme come a qualcosa di possibile, qualcosa che sia plausibile da costruire, e non sulla quale si possa a malapena sognare ad occhi aperti, e solo correndo il rischio di sentirsi molto ridicoli una volta tornati alla realtà.
Per Daniel non è niente di speciale: io sono il primo di cui s’innamora, ed è stato fortunato a trovare subito questo tipo di connessione. Se davvero fra noi due non dovesse finire mai, fra quaranta, cinquanta, sessant’anni, morirebbe pensando all’amore come a ciò che l’ha reso completo sempre. Mi riempie di orgoglio, in qualche modo, avere la possibilità di essere l’unica persona che amerà per tutta la sua vita. Mi fa quasi venire voglia di dimenticare tutte le persone che invece ho avuto io, per potermi illudere di avere amato e voluto solo lui allo stesso modo.
Forse è per questo – per compensare, o per cancellare, o perché ci sta con la testa più di me, o magari semplicemente perché sento che ne ha voglia e voglio accontentarlo – che quando si allontana da me e mi sussurra sulle labbra di girarmi obbedisco. Mi stendo sullo stomaco, appoggiando il viso al cuscino e respirando profondamente mentre mi rilasso e lascio che mi spogli, mi accarezzi e mi afferri con urgenza per i fianchi, avvicinandosi a me così tanto che sento tutto il suo corpo aderire perfettamente alla curva della mia schiena. Perde le gambe fra le mie, mi morde con forza una spalla, io chiudo gli occhi e mi permetto di smettere di pensare. Mi fido abbastanza di Danny da lasciargli la responsabilità di farlo per entrambi, almeno per la prossima mezz’ora.
*
Parigi è bellissima, o forse mi sembra bellissima solo perché avevo una gran voglia di scappare da Berlino. Probabilmente, se io e Danny ci fossimo trasferiti in un qualche paesucolo sperduto sull’Appennino italiano, o un qualche borgo marittimo abitato da cento anime sulla costa portoghese, l’avrei trovato meraviglioso lo stesso. In ogni caso non importa, sono minuzie cui posso permettermi di non pensare. È un lusso che sto riscoprendo da quando non vivo più in Germania, e mi piace tantissimo.
Le prime due settimane le passiamo da turisti. Compriamo una cartina e tre guide che ci sembrano diverse ma alla fine scopriamo essere uguali ma edite in tre anni differenti (anche se forse i titoli – Come muoversi a Parigi 2008, Come muoversi a Parigi 2009 e Come muoversi a Parigi 2010 – avrebbero dovuto darci qualche indizio a riguardo), ed andiamo in giro come cani sciolti, un po’ a caso. Finiamo in un sacco di casini perché io non conosco la lingua e anche Danny, nonostante tutto il suo bullarsi, oltre ad exactement sa dire giusto bon jour, bonsoir e bonne nuit, per cui ci perdiamo regolarmente almeno una volta al giorno ed è Pierre a venirci a recuperare in macchina, sempre sorridente e sempre disponibile, indipendentemente dal luogo in cui siamo finiti e da quanto ci siamo allontanati dalle zone in cui lui ci ha consigliato di rimanere.
A mostrarci gli appartamenti è Bertrand, il ragazzo di Pierre. Inizialmente mi stupisce che abbia un ragazzo, un po’ perché l’ho vagamente identificato come un David Jost con la r moscia e David Jost difficilmente ha un ragazzo che possa permettersi di chiamare ragazzo, appunto, o almeno, io non l’ho mai visto andare in giro con nessuno in questo senso, però poi mi rendo conto che mi sto facendo problemi idioti su un qualcosa di idiota, che alla fine sono lì col mio ragazzo anch’io e non dovrebbe stupirmi di sapere che hanno un ragazzo anche il panettiere, il giornalaio e il salumiere all’angolo della strada.
Appartamenti ne vediamo un bel po’, ma nessuno ci convince. Vogliamo un posto bello grande in cui stare, io voglio rimettermi in carreggiata quanto prima, voglio lavorare, voglio uno studio di incisione e lo voglio in casa, ma per un motivo o per l’altro nessuno degli appartamenti che controlliamo sembra quello adatto, almeno fino ad oggi.
Bertrand si sistema gli occhiali dalla montatura spessa e nera sul naso ed appende una mano al fianco, sporgendolo appena mentre, con un ampio cenno della mano libera, ci mostra l’enorme sala rettangolare che sta esattamente al centro dell’appartamento che stiamo visitando. È del tutto indipendente dal corridoio che porta alla cucina ed alla camera da letto, ed ha un’enorme vetrata scorrevole su una parete. Dà sulla strada che si agita trafficata dodici piani sotto di noi, ma è perfettamente insonorizzata, non arriva neanche una minima parte del trambusto di fuori.
- La proprietaria precedente la usava come palestra. – dice, indicando il parquet un po’ ammaccato in qualche punto che ricopre il pavimento, - Era abituata a mettere la musica a volume altissimo durante le lezioni di step che faceva con qualche amica. Nessuno degli altri inquilini della scala s’è mai lamentato della confusione. Mi sembra—
- Perfetta. – conclude Daniel per tutti, lanciando attorno a sé un’occhiata sognante. – Bertie, ci porti a vedere la terrazza? – dice quindi, quasi saltellando sul posto.
Mentre Bertrand – che ormai Danny chiama Bertie perché sono settimane che, poverino, lo costringiamo a girare la città in cerca di appartamenti sempre più belli da mostrarci, e ormai siamo di famiglia, per così dire – ci accompagna lungo il corridoio e fino alla terrazza, Daniel allunga una mano all’indietro ed intreccia le dita con le mie. Sorrido mentre ripenso a quando, un paio di giorni fa, gli ho chiesto se si rendesse conto del fatto che stavamo andando a vivere insieme. Lui mi ha guardato con stupore non simulato, sbattendo un paio di volte le palpebre e inumidendosi le labbra. “Fler,” mi ha detto, “guarda che in pratica noi viviamo insieme ormai già da un paio di mesi.” Ed è vero, ha ragione, e io adoro questa sua praticità così tremendamente infantile, ma c’è una sostanziale differenza fra il fatto che noi vivessimo insieme prima e il fatto che stiamo andando a vivere insieme adesso. Quello è capitato. Questo lo stiamo volendo.
Mentre usciamo in terrazza e Parigi si apre splendente sotto di noi nel sole accecante di fine luglio, penso che mi basta essere custode di questa differenza da solo. Non c’è bisogno che la noti anche Danny. Fra qualche tempo, tutto ciò sarà così naturale che smetterò di pensarci anch’io.
*
Quando, quasi un mese dopo, il mio vecchio cellulare squilla, in un primo momento non lo riconosco nemmeno. Da quando sono partito, nessuno ha mai chiamato a quel numero. Alla fine ho comprato un cellulare nuovo per la scheda francese, e quella vecchia l’ho lasciata in questo, che però è stato quasi del tutto dimenticato. L’ho sempre tenuto acceso, e carico, ma più che altro pensando alla possibilità che mia madre potesse ritrovarsi ad aver bisogno di chiamarmi all’improvviso e non avesse a portata di mano il nuovo numero, che fatica ad imparare. Non ne ha mai avuto bisogno, però, ci siamo sentiti regolarmente e non mi sono mai arrivate chiamate improvvise o inaspettate. E la verità è che ho dimenticato la suoneria, tant’è che quando squilla ipotizzo sia il cellulare di Danny e mi chiedo perché invece l’abbia cambiata lui, visto che va matto per Love The Way You Lie e ha giurato e spergiurato per una settimana intera che l’avrebbe tenuta per sempre. In realtà io sospetto che gli piaccia Rihanna e basta, perché Love The Way You Lie fa schifo e io mi rifiuto di accettare che qualcuno possa apprezzarla e allo stesso tempo apprezzare anche la mia musica o il resto della produzione dell’Aggro. Poi in effetti dovrebbe darmi anche da pensare il fatto che uno che viene a letto con me poi possa farsi piacere anche Rihanna, ma per quanto la questione sia degna di attenzione io non riesco a fornirgliela, perché Daniel, semiaddormentato contro la mia spalla sul divano nella luce azzurrognola che viene dalla televisione, mugugna “che fai, non rispondi?”, e io mi volto a guardarlo con aria sinceramente curiosa.
- Ma non è il tuo? – gli chiedo, e lui si volta e struscia il muso contro il mio braccio, brontolando piano.
- No che non è il mio, coglione. – sbotta quindi, sbilanciandosi dall’altro lato ed accovacciandosi contro il bracciolo, - È il tuo vecchio cellulare. Vai a rispondere, o spegnilo, non riesco a seguire il film.
- Non riesci a seguire il film perché stai dormendo in piedi… - gli faccio notare, mettendomi comunque dritto ed avviandomi verso il corridoio, - Perché non vai a letto?
- Non rompere. – biascica lui, ed è l’ultima cosa che sento prima di avvicinarmi alla suoneria abbastanza da non sentire più nient’altro. La riconosco adesso, è proprio la mia. Il cellulare s’illumina a tratti e vibra, appoggiato sul cassettone d’ebano in camera da letto, davanti a una foto stupida che io e Danny ci siamo fatti scattare da un turista giapponese di fronte a Versailles. È stato più facile comunicare con lui che non con un parigino a caso.
Il display mi dice che è Bushido a chiamarmi, ma deve essere una bugia. Perché dovrebbe farlo? Io sono a Parigi.
E lui però non lo sa.
Rispondo in fretta, allarmato. È la prima volta in due mesi che penso a quello che mi sono lasciato indietro senza aver trovato le palle di dire a nessuno che lo stavo facendo.
- Fler! – mi chiama immediatamente lui, quando mi sente rispondere, - Cristo, ci hai messo i secoli… stai bene?
- Che? – sbotto stupito, - Certo che sto bene. È successo qualcosa?
- Diosanto— ma dove cazzo sei? – continua risentito, - Cazzo, la prossima volta fammi aspettare due ore, d’accordo? Cristo, non hai idea di quello che mi è passato per la testa. Si può sapere dove cazzo sei?!
- Si può sapere cosa cazzo è successo?! – insisto polemico, aggrottando le sopracciglia. Lo specchio rettangolare appeso di fronte a me mi rimanda l’immagine di un uomo teso e sulla difensiva. Mi sento minacciato. Lo riconosco senza difficoltà.
- Ho ricevuto una chiamata anonima. – mi spiega lui, - Qualcuno dei miei è in pericolo, ma non ho ancora capito chi. Almeno adesso so che non sei tu. Muovi il culo e raggiungimi, sto andando nella zona dei vecchi magazzini in periferia. Ci troviamo lì.
Sento che sta per interrompere la conversazione senza che io sia riuscito e dirgli niente di quello che dovrei dirgli, e lo fermo.
- Anis! – lo chiamo all’improvviso, e lui s’interrompe. Scommetto che aveva già il pollice sul pulsante. – Anis, di cosa cazzo stai parlando? – chiedo. Sono via da Berlino e non ho letto né sentito niente a riguardo, nelle ultime settimane. Potrebbe essere scoppiata la guerra e non lo saprei.
Lui inspira profondamente.
- Te lo dico appena ci vediamo. – cerca di tagliare corto.
- No, Anis. – lo interrompo, inspirando profondamente a mia volta. - …io sono a Parigi. – butto fuori in un fiato, stringendo convulsamente il telefono fra le mani. Lui rimane immobile e silenzioso per quasi un minuto. Non sembra neanche respirare. Penso ai soldi che sta spendendo per chiamarmi, non per i soldi in sé ma perché mi irriterebbe se gli restasse il cellulare a secco e la chiamata s’interrompesse proprio adesso. – Anis? – lo chiamo, cercando di riscuoterlo. Vorrei obbligarmi a smettere di chiamarlo per nome, ma non ci riesco.
- Che cazzo vuol dire? – sputa fuori a fatica, - Che ci fai a Parigi?
- …mi ci sono trasferito. – rispondo. Il mio tono di voce è basso e cupo. Colpevole. Mi vergogno molto perché non mi ci sento ma sto controllando la voce in modo da sembrarlo. – Da un paio di mesi. Scusa se non te l’ho detto—
- Scusa se non te l’ho detto?! – ripete lui, sconcertato, - Fler, ma scherzi? – chiede speranzoso. Io deglutisco a fatica. Non riesco a rispondere. – Non scherzi. – si risponde quindi da solo, - Fler, ma come ti è saltato in mente…? – comincia, e poi forse si rende conto anche lui del tempo che passa e dei soldi che vanno via, perché riprende a parlare a macchinetta, per fare più in fretta possibile. – Lascia perdere, - dice, - mi spiegherai quando sarai tornato. Ti voglio sul primo aereo domani mattina, capito, Frank? La situazione è complicata e mi servi qui. D’accordo? A domani.
Sento che prova a interrompere la conversazione una seconda volta, ed una seconda volta io lo chiamo, perché non posso lasciarglielo fare. Non posso dirgli d’accordo, perché non prenderò nessun aereo. Non potrò spiegargli niente quando ci vedremo, perché non accadrà. Io non tornerò in Germania. Sicuramente non adesso e probabilmente mai più.
- Anis… - lo chiamo ancora, e lui ha un fremito. – No. – concludo quindi, - Mi sono trasferito qui per restarci. – accarezzo per un attimo la possibilità di parlargli anche di Danny, ma stabilisco che non è il caso prima di affezionarmi troppo all’idea. Ci sarebbe troppo da dire, troppo da spiegare, e tutto considerato forse è meglio che lui non sappia. – Mi dispiace, - continuo, - ma non torno. Non— hai sicuramente qualcun altro su cui contare, in questo momento. D’altronde, - sorrido appena, - hai fatto a meno di me a lungo. Puoi ricominciare.
- Fler… - comincia lui, con tono polemico, ma si sgonfia quasi subito. Forse è qualcosa nel mio tono di voce, ad abbatterlo. Forse, semplicemente, si rende conto di non poter rispuntare nella mia vita dopo due mesi di silenzio ed aspettarsi che io sia pronto a corrergli dietro come avessi ancora quattordici anni. – Vaffanculo. – conclude quindi. Non sono sicuro se l’insulto sia rivolto a me o alla situazione generale. Per la verità ci rimango un po’ male, e guardo il telefono con aria torva quando lo allontano dall’orecchio.
Il display si oscura dopo qualche secondo, e spegnere il cellulare per me diventa una conseguenza ovvia. Lo spengo, lo apro, ne tiro fuori la scheda, lo richiudo e poi lo conservo nel primo cassetto, sotto i calzini. Non so esattamente perché lo sto facendo. O forse sì ma non voglio dirmelo perché mi sentirei malissimo.
Ritorno in salotto pensando che domattina dovrò chiamare mia madre per avvertirla che ho bloccato la scheda col vecchio numero, perciò si affretti a imparare il nuovo e non faccia troppe storie. Danny è ancora accucciato sul divano, sonnecchiante esattamente com’era quando l’ho lasciato. Si arrotola immediatamente al mio fianco appena mi sente sedermi accanto a lui.
- Chi era? – mormora, la voce impastata di sonno e gli occhi chiusi. Lo stringo a me, mentre sul televisore scorrono i titoli di coda del film che stavamo fingendo di guardare.
- Hanno sbagliato. – rispondo sovrappensiero. So che, se fosse solo un po’ più lucido, mi chiederebbe com’è possibile restare al telefono per più di dieci minuti con qualcuno che ha sbagliato numero. Fortunatamente, lui già dorme. Il dvd s’interrompe e si oscura anche lo schermo della tv. La stanza piomba nel silenzio. Daniel respira quieto al mio fianco, io sto bene ma non ho il coraggio di muovermi.
Mi sa che stanotte dormiamo sul divano.

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L'Apostolo della Sfiga

di tabata
Ci sono persone che credono nelle coincidenze, altre che credono nel destino o in una divinità benevola che li osserva dall'alto dei cieli e tira le fila della loro esistenza per fare o non fare accadere determinate cose che potrebbero anche cambiarla per sempre.
Io non sono molto religioso; da piccolo mia madre mi costringeva ad andare in chiesa tutte le domeniche e mia nonna ci faceva pregare prima dei pasti e prima di andare a dormire, per cui mi è rimasto un po' quel vago terrore dell'altissimo che ti viene istigato a forza di raccomandazioni apocalittiche quando sei un ragazzino pestifero com'ero io ma, a parte questo, non è che provi questa spinta mistica; per cui, non lo so, sicuramente Dio avrà cose molto importanti da fare per noi, ma non credo che ci sia proprio Lui dietro agli avvenimenti che sono in grado di cambiarti la giornata.
Questo, però, non significa che io li consideri frutto del caso, perché non credo nemmeno alle coincidenze. Per quanto mi riguarda, due avvenimenti simili ma del tutto slegati fra loro hanno la possibilità di avvenire contemporaneamente, al momento più opportuno e in maniera del tutto casuale quanta ne ho io di dire la cosa giusta al momento giusto, cioè una su un milione; e anche in quell'unico caso, non si tratterebbe comunque di una coincidenza.
Il che ci porta alla conclusione di quest'introduzione infinita, e cioè che io credo fortemente nella sfiga.
Se c'è un energia cosmica, un'entità sovrana o un alieno verde con le antenne seduto all'origine dell'universo con il compito di generare azioni casuali che influiscano sulla tua persona nel bene e nel male – ma soprattutto nel male – quella è la sfiga che, come risaputo, ci vede benissimo al contrario della fortuna.
E io nella sfiga ci credo perché sono il suo primo apostolo, a partire dalla mia calvizie precoce.
Volendo prendere in considerazione esempi più recenti del momento in cui i miei capelli hanno deciso di abbandonarmi per sempre, vi basta pensare che alle dieci di questa mattina ho avuto la possibilità di fare una scelta che poteva avere delle conseguenze negative oppure no. E ovviamente le ha avute.
Mi si potrebbe far notare che tutto è dipeso dal mio libero arbitrio ma così non è, perché io non avevo idea di quali fossero le mie opzioni, la mia scelta non è stata ponderata né consapevole, pertanto non c'entro assolutamente niente. Sono vittima delle circostanze, ma soprattutto della sfiga.
Dopo il tour disastroso, per dimenticare il quale ho fatto una cura di birra che mi ha portato sull'orlo dell'alcolismo, ho deciso che non potevo rimanere a Berlino se volevo sperare di trovare un po' di pace.
Io sono già di natura un tipo portato alla depressione e ho questi momenti di tristezza profonda in cui in sostanza mi accascio in un angolo lamentandomi della mia esistenza, finché un giorno mi sveglio tranquillo e del tutto dimentico di aver pensato di suicidarmi solo il giorno prima; questo fino a che non succede di nuovo, da capo.
Consapevole di ciò, ho fatto le valigie e sono andato in Austria, per altro convinto che ci sarei rimasto per sempre, visto che l'etichetta era andata a puttane e io, in generale, non è che avessi tutta questa voglia di cantare dopo quello che era successo. L'idea originale era di murarmi vivo nella casa di famiglia e lì ritirarmi in solitudine nel mio angolino di disperazione per tutto il tempo necessario e poi, finita la fase depressiva, fare un po' il cazzo che volevo fino a data da destinarsi. Per fare ciò, la casa avrebbe dovuto essere vuota e non c'era motivo per cui non lo fosse, visto che, sfortunatamente per me, i miei genitori e mia sorella vivono a Berlino da anni.
Invece, quando ho infilato il vialetto di casa con la macchina, eccoli lì tutti e tre, seduti in veranda come se nulla fosse. A quanto pare mia madre sentiva la mancanza dei suoi monti, mio padre delle mucche e mia sorella, non lo so, ma sicuramente l'hanno trascinata. Sono rimasto lì con le mie due valige in mano senza sapere cosa fare; ormai mi avevano visto, era impensabile risalire in macchina e scappare. Naturalmente anche loro erano sorpresi di vedermi, così ho dovuto spiegargli a grandi linee perché ero lì, generando così ogni genere di disgrazia possibile. Clara se l'è presa a morte perché non ho cercato di sistemare le cose con Bill prima che diventassero il disastro che sono adesso – addio sorella complice, benvenuta sconosciuta adolescente in lacrime per una popstar – mia madre ha preso il mio ritorno temporaneo come un trasferimento definitivo, ha cominciato a parlare di appartamenti in paese, di un lavoro in improbabili caseifici della valle, e di bellissime figlie di amiche mai sentite nominare che avrei potuto sposare entro l'anno per farle quintali di nipoti. La giustificazione ufficiale per il mio matrimonio combinato con una sconosciuta sarebbe che ormai ho quasi trent'anni ed è quindi ora che generi un erede. Affermazione a seguito della quale, mio padre a ricominciato a parlarmi, dopo aver inteso che non stavo più con un ragazzo e che si era dunque conclusa quella che lui chiama la mia fase omosessuale. A quanto pare sono tornato ad essere il suo prediletto e unico figlio maschio; prima non so cosa fossi diventato, secondo lui, ma sicuramente stava già intestando l'azienda a Clara che ora, immagino, sarà davvero triste di non ereditare più le sue quattrocento mucche pezzate.
Con la prospettiva di dovermi fidanzare con donne inguardabili, consolare l'inconsolabile sorella per la sua – ripeto: sua – preziosa perdita e occuparmi delle mie future mucche, avevo quasi pensato di tornare a Berlino con una scusa qualsiasi, ma visto che mi aspettavano solo un appartamento senza condizionatore e un frigo vuoto che non avrei mai avuto voglia di riempire, sono rimasto. Sei mesi.
Inutile dire che la mia vita è stata alquanto assurda in questo periodo, che sostanzialmente ho trascorso cercando modi per evitare tutti i miei famigliari, improvvisamente impazziti a causa della mia presenza. Se si esclude la mia necessità di nascondermi nel fienile ogni volta che mia madre portava a casa la figlia del panettiere, dell'ortolano, del postino e poi, credo, anche qualche povera disgraziata incontrata per caso per strada, i momenti più disperati sono stati quelli in cui mio padre si è messo in testa di dover rafforzare il nostro rapporto padre-figlio – o la mia virilità, non lo so, una delle due cose – e mi ha costretto a una serie di attività allucinanti e, soprattutto, mai fatte prima, forse convinto che, se me ne avesse fatte fare di più quand'ero ragazzino, tutto questo non sarebbe mai accaduto. La follia. Così mi ha portato a camminare per chilometri nei boschi, che ci siamo persi finendo per dover chiamare la forestale, e poi a tagliare legna con i boscaioli e a pescare, con tanto di sveglia alle quattro del mattino e lui che tenta di affrontare l'argomento maschi e femmine come se avessi sei anni. Quando ho provato a spiegargli che non è la teoria di base a mancarmi, ma che proprio me ne frego del sesso se qualcuno mi piace, mi ha indicato una trota sotto il pelo dell'acqua e mi ha detto “Hai visto? Te l'avevo detto che era pieno” e da quel momento non abbiamo più parlato.
In tutto questo, mia sorella è stata ingestibile per buona parte della mia permanenza a casa – cioè almeno fino a quando lei e papà non sono tornati a Berlino perché lei va ancora a scuola – e se arrivo a dirlo io, che in linea di massima la adoro e nessuno me la può toccare, vuol dire che proprio ha passato ogni limite. Clara era molto felice che io mi fossi messo con Bill; non felice per me, ma per se stessa, naturalmente, visto che è una grande fan dei Tokio Hotel. Mi ha fatto martire finché non gliel'ho fatto conoscere e quest'incontro ravvicinato del terzo tipo tra Bill e Clara un giorno dovrà raccontarvelo perché è stata la prima volta, in vita mia, che ho visto mia sorella imbarazzata fin quasi al mutismo.
Per questo motivo, voleva poi strangolarmi quando ho avuto la faccia tosta di presentarmi a casa dopo essermelo lasciato scappare, come dice lei. Il fatto che io non fossi un mostro e ci stessi pure male non era nemmeno contemplabile. Per calmarla e farla ragionare ho dovuto farle notare che, senza questa pausa forzata, Bill sarebbe probabilmente impazzito finendo per fare qualcosa di irreparabile.
Allora lei ha capito, se n'è fatta una ragione, ha dimostrato per Bill più pietà di quanta ne avesse dimostrata per suo fratello e quindi è tornata quella di sempre, che non so se sia esattamente una buona cosa, ma almeno sapevo cosa aspettarmi.
Dopo sei mesi di questa vita, ne avevo abbastanza anche della mia famiglia, a cui voglio un gran bene ma a volte troppo amore uccide, quindi era meglio che me ne andassi. Stamattina, dunque, ho messo le valige in macchina e, mentre lo facevo, mia madre mi ha chiesto se ero sicuro di voler tornare a Berlino, se magari non volevo restare un altro paio di mesi, che magari era meglio visto che in città sarei stato solo e triste – grazie mamma – e lei non voleva che stessi male. In quel preciso momento, avrei potuto risponderle di no, che non volevo tornare e che sarei rimasto. Non l'ho fatto, però, e dodici ore dopo, cioè adesso, ecco che mi arriva una chiamata di Kay che mi dice di raggiungere un magazzino di periferia perché abbiamo un problema. Coincidenze? Assolutamente no. Sfiga.
Ho guidato tutto il giorno, sono stanco e odio Bushido, percui non mi va affatto di farmi di nuovo tre piani di scale, togliere l'auto da un parcheggio meraviglioso proprio sotto casa per perdermi chissà dove; poi Kay mi riassume in breve il problema e, soprattutto, mi dice che c'è un uomo ferito in quel magazzino e che non sappiamo chi sia, così quando chiudo il telefono sono praticamente già in macchina e lo riapro soltanto per chiamare Fler, che è la prima persona che mi è venuta in mente. Suona subito occupato, così m'incazzo ma, proprio quando sto per richiamarlo, ci riesce prima lui e non importa che mi aggredisca chiedendomi cosa cazzo stessi facendo, perché sta bene e io posso smettere di bruciare tutti i rossi che trovo per il nervoso.
Il magazzino è enorme e male illuminato; quando entriamo non si vede quasi nulla a parte l'ombra di alcune casse al centro della stanza. Bushido è armato, una cosa che non mi mette a mio agio. Nonostante tutto quello che abbiamo passato, non mi sono ancora abituato a certe cose e di sicuro veder esplodere la faccia di Saad due anni fa non mi ha aiutato in questo senso. Ci sono volte in cui mi sembra solo che ci prendiamo tutti troppo sul serio, altre invece ho proprio l'impressione che ci stiamo mettendo nei guai, e questa è una di quelle. Soprattutto quando troviamo David Jost disteso a terra in un lago di sangue.
Io guardo un sacco di film di paura e mi diverto anche a farlo, ma credo che da questo momento in poi smetterò e mi darò per sempre ai cartoni animati. Non riesco a staccare gli occhi dal corpo di David eppure quello che vedo non mi piace. Innanzitutto è legato mani e piedi e sta disteso su un fianco, come probabilmente lo ha lasciato chi gli ha fatto questo, e poi ha la maglia strappata e una scritta incisa con il coltello sullo stomaco. La ferita butta ancora sangue che è di un rosso vivissimo, non sembra nemmeno reale. Poi, forse perché lui si lamenta quando Bushido lo gira, o non lo so, usciamo uno dopo l'altro dalla paralisi di stupore e cominciamo a muoverci, anche se non tutti facciamo qualcosa di utile. Io, per esempio, riesco finalmente a battere le palpebre e mi scosto quando Bushido mi passa accanto con in braccio David.
Rimaniamo a lungo in silenzio, ad ascoltare l'eco della porta del magazzino che si è chiusa e il rombo dell'auto di Bushido che si allontana, poi ci guardiamo in faccia e non abbiamo idea di che cosa fare. Io almeno non ce l'ho, e neanche Kay ed Eko sembrano saperne più di me.
“Dobbiamo sbrigarci,” esordisce Fler, prima ancora che noialtri si sia effettivamente capito di dover agire in qualche modo. Evidentemente lui si accorge dei nostri occhi vacui, perché aggiunge: “Questo posto va ripulito in fretta.”
“Perché?” Non so di aver fatto la domanda finché non sento la mia voce.
“Te lo spiego dopo,” risponde lui, senza nemmeno voltarsi. Si limita ad indicarci tutti quanti con un braccio mentre apre la porta. “Rimanete dove siete e non fate niente finché non torno.”
Ci ritroviamo a fissarci nelle palle degli occhi per la seconda volta in meno di dieci minuti e poi, tutti insieme nemmeno ci fossimo messi d'accordo, ci spostiamo lontano dal sangue ma in un punto che è ancora vagamente illuminato dal neon all'esterno e dal display del cellulare di Eko che lo agita in aria come volesse far atterrare un aereo all'interno del capannone.
“Hai finito?” Gli chiedo, dopo la decima volta che me lo sventola davanti alla faccia.
“Sto facendo luce,” replica lui.
Gli blocco la mano e conto fino a dieci, per evitare di saltargli al collo e stenderlo a suon di sberle. “No, stai dando fastidio.”
Eko borbotta qualcosa e poi va ad agitare il cellulare da un'altra parte. “E allora stai al buio.”
“Deve pur esserci un interruttore da qualche parte,” la voce è nuova, quindi ci giriamo tutti e tre per vedere a chi appartiene e ci rendiamo conto che questo ragazzino biondo, alto in maniera illegale per l'età che deve avere, dev'essere stato qui tutto il tempo e noi non ce ne siamo accorti. Lo guardiamo senza capire bene perché è qui davanti ai nostri occhi e lui scuote la testa con un sospiro, dirigendosi a passo svelto verso l'uscita. A metà strada il buio lo inghiotte, per poi mostrarcelo di nuovo come un'ombra vagamente illuminata qualche metro dopo. Lo vediamo armeggiare con qualcosa che c'è sul muro e alla fine sentiamo un colpo secco, un ronzio e lentamente il magazzino s'illumina, un settore alla volta partendo dal fondo. Le lunghe lampade al neon attaccate al soffitto sfarfallano un po', prima di assestarsi, ma poi si fanno luminosissime.
“Ecco fatto,” dice lui, spolverandosi le mani sui jeans.
“E tu chi saresti?” Domando. Il ragazzino ha una faccia familiare, eppure non so dove potrei averlo visto.
Lui ride e poi torna verso di noi. “Sono Daniel. Daniel Kobler,” risponde, come se il suo nome dovesse in effetti dirmi qualcosa. “Non ti ricordi di me, vero Chakuza?”
Eko si rende finalmente conto che il suo cellulare non serve più, così lo infila in tasca e squadra lo sconosciuto. “Chaku, perché ti porti sempre dietro i ragazzini? Siamo circondati di ragazzini. Non ne avevamo già abbastanza?” Vaneggia, prima di allontanarsi chissà dove e a fare cosa.
Faccio un cenno a Kay perché vada a recuperarlo prima che scivoli sul sangue e si spacchi la testa da qualche parte, mentre io vedo di capirci qualcosa di più. “Tu mi conosci,” dico.
Daniel annuisce. “Ci siamo incontrati quasi due anni fa.”
Io scuoto la testa, non ho la minima idea di cosa stia parlando.
“Tempelhof,” suggerisce. “Tu e Fler cercavate informazioni e io ve le ho date.”
Daniel Kobler. Il nome non mi dice niente, ma l'unica volta che io e Fler siamo andati a Tempelhof insieme è stata la notte di Saad, quindi cerco di fare mente locale. Abbiamo visto un sacco di gente in quell'occasione, ma lui proprio non mi sembra di ricordarlo e sto quasi per arrendermi quando ci arrivo. “Daniel?” Dico. “Il ragazzino che era fan dell'Aggro?”
Lui sorride. “Lo sono ancora.”
“Ma eri alto così!” Protesto, come se fosse colpa sua, se è cresciuto.
Daniel si stringe nelle spalle. “L'adolescenza ha i suoi lati positivi,” commenta.
Non so cosa gli abbia dato sua madre da mangiare, ma vorrei che avesse condiviso quel segreto con la mia. Ad ogni modo, sto perdendo un po' di vista il punto principale della faccenda. “Perché sei qui? Chi ti ha portato?”
“Sono venuto con Fler,” risponde, infilando entrambe le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni.
Io vorrei chiedergli parecchie cose, tipo cosa ci faceva lui con Fler, come mai lo conosce così bene e soprattutto perché lui lo ha portato qui, ma immagino che posso chiederlo direttamente al diretto interessato visto che è appena tornato, con in mano cinque spazzoloni e altrettanti secchi.
“Avete trovato la luce,” esclama, cominciando a distribuire. “Bene.”
Kay guarda gli oggetti come li guardo io, ossia come uno a cui raramente sono capitati in mano prima di quel momento. Eko invece è molto poco interessato al secchio, ma si è appoggiato allo spazzolone come fosse una lancia.
“Dovremo organizzarci, anche se l'area non è grandissima,” continua Fler, individuando un piccolo lavandino e dirigendosi in quella direzione. “Ho preso della candeggina, ma toglieremo prima il grosso con l'acqua.”
Noi lo guardiamo riempire il secchio per metà e poi mettersi a strofinare con forza la grossa macchia al centro del magazzino, non quella che era subito sotto il corpo di David, ma quella più lontana che si è formata con lo scorrere del sangue sul pavimento un po' inclinato. Lo spazzolone bagnato affonda nel sangue che è molto più denso dell'acqua e sembra di vederlo spalmare per terra del caramello filamentoso. E' una cosa disgustosa. “Kay, tu ed Eko occupatevi del posto in cui c'era David,” li istruisce. “Chakuza, tu stai qui con me. Cercate di raschiare forte, perché il sangue è un figlio di puttana. Quando sarà rimasta solo la macchia, passeremo la candeggina.”
Kay ed Eko guardano lo spazzolone e la macchia con aria dubbiosa, e nessuno di noi si muove, in realtà.
“Beh?” Chiede Patrick.
“Si può sapere perché dobbiamo pulire?” Chiedo alla fine, visto che gli altri due seguono il volo di farfalle inesistenti e hanno palesemente lasciato a me il compito di fare ostruzionismo.
Fler smette di pulire il pavimento. “Guardati intorno, Chakuza, ci sono le nostre impronte ovunque,” risponde.
“E allora? Abbiamo salvato un uomo,” gli faccio notare.
“O forse lo abbiamo torturato,” mi corregge lui. “O ucciso, dipende da quanto Jost ha intenzione di resistere.”
“Ma la polizia...”
“Se David muore, l'unica cosa che la polizia saprà con certezza è che noi siamo stati qui,” mi interrompe. “Ci sarebbe un'indagine, degli interrogatori e con tutto quello che io e Bushido abbiamo alle spalle, probabilmente non si fermerebbero a questo magazzino. Pensaci Chakuza, vuoi davvero che qualche ispettore venga a frugare nella tua vita adesso?”
No, l'ultima cosa che voglio è che qualcuno passi al setaccio gli ultimi due anni e magari si ricordi di quel Saad che lavorava con me e che un bel giorno, di punto in bianco, ha misteriosamente deciso di lasciare la moglie e la figlia senza motivo apparente, proprio qualche mese dopo il funerale del suo capo morto ammazzato da ignoti. Certo, Bushido è vivo ma la sua fuga a Miami non giocherebbe a favore di nessuno in questo frangente e apparirebbe ancora più sospetta. Sono sempre convinto che se nessuno ha ancora trovato nel canale il portellone di un'auto che adesso ha tutto un altro aspetto grazie a Fler, è solo perché non l'hanno cercato e di certo gli verrebbe in mente di farlo, prima o poi, se si mettessero in testa di indagare, cosa che non hanno mai fatto solo perché Greta doveva un favore a Bushido e, in memoria sua, non ci ha denunciati per averle ammazzato il marito. Ora che ci penso, visto che Bushido è vivo, quella donna potrebbe anche cambiare idea. Dobbiamo pulire questo sangue, senza dubbio.
Annuisco e vado a riempire il mio secchio. Sulla strada incrocio Daniel che scende da una delle casse su cui stava seduto e si sistema meglio i pantaloni. “E io?” Lo sento chiedere.
“Tu stai buono e aspetti che abbiamo finito,” gli dice Fler.
“Oh andiamo! Voglio dare una mano anch'io!”
Fler sospira, ma continua a pulire mentre Daniel gli gira intorno, per cercare di farsi ascoltare. “No, Danny.”
“Guarda che lo so come si pulisce il sangue,” protesta lui.
Io quasi faccio traboccare il secchio per seguire la scena. Fler lo guarda sospirando e poi annuisce con un cenno quasi impercettibile del capo. “Dai una mano a loro, laggiù” indica Kay ed Eko.
Daniel obbedisce al volo.
“Perché l'hai portato qui?” Inizio in un sussurro, mentre in due puliamo gli stessi cinquanta centimetri di sangue.
Fler non alza la testa, raschia solo più forte. “Era con me quando Anis ha chiamato.”
“E non hai trovato una babysitter?” Chiedo.
Lui sbuffa forte dal naso e si accanisce sul pavimento con particolare violenza. “Non mi fidavo a lasciarlo a casa mia da solo con in giro un pazzo che ammazza la gente.”
“D'accordo, ecco un'altra domanda. Cosa ci fa un ragazzino di Tempelhof che s'intende di spacciatori a casa tua?”
“E' il mio ragazzo,” risponde lui.
Lo spazzolone mi cade di mano e finisce prima sul mio piede e poi nella pozza di sangue. “Merda!” Impreco, recuperandolo con due dita e riuscendo comunque a sporcarmi. Mi pulisco la mano sui pantaloni, schifato. A parte che è sangue, è anche freddo e viscido. Fler, in tutto questo, ha continuato a pulire.
“Il tuo ragazzo?” Sibilo, incredulo.
“Sì, il mio ragazzo,” ribadisce e mi guarda serissimo. “Hai qualche problema con questo, Peter?”
Potrei iniziare ad elencarli adesso, i problemi, e finire domani alla stessa ora ma qualcosa mi dice che sono solo miei e posso pure tenermeli; solo che non posso stare zitto. “Ma se aveva dodici anni nemmeno due anni fa!”
“Ma non dire cazzate,” borbotta lui, infilando lo spazzolone nell'acqua che però ormai è rossa. “Ne aveva sedici, due anni fa, il che fa di lui un diciottenne adesso. Contento?”
Prende il secchio con impeto e va al lavandino a svuotarlo. Io lo seguo. “Ma quando è successo?”
“Sei mesi fa.”
Io faccio un rapido calcolo. “Stavi con Bushido sei mesi fa.”
Fler chiude l'acqua, si gira verso di me e mi fulmina. “Fermo restando che questi non sono cazzi tuoi, Peter...” si ferma, mi agita l'indice davanti alla faccia e poi sospira. “Beh, non sono cazzi tuoi.”
Si allontana velocemente e inizia a spargere candeggina sul pavimento. L'odore pungente mi entra nel naso e mi fa lacrimare gli occhi. Apro la bocca per dirgli qualcosa ma lui mi ferma prima. “Un'altra domanda e ti faccio a pezzi. Tanto sto già pulendo,” mi minaccia. Quindi si volta a controllare gli altri tre e lancia a Daniel il flacone di candeggina. “Ripulite con questa, ora.”
Il ragazzino lo prende al volo e gli fa il saluto militare con due dita. Adesso che lo so, non riesco a guardarlo alla stessa maniera e mi dà fastidio perfino il modo in cui sorride e il fatto che si siano capiti al volo quando Fler gli ha lanciato quell'affare. Torno a strofinare la mia macchia con la candeggina e penso che sono curioso di sapere com'è andata esattamente, se Bushido ne sa qualcosa di questo ragazzino, o se mentre noi affrontavamo i nostri molti problemi in tour, lui, da casa, contribuiva alla follia generale a modo suo.
Io e Fler finiamo prima degli altri tre perché la nostra macchia è più piccola, non è sparsa anche sulle casse circostanti, ma soprattutto non abbiamo Eko che drogato dagli effluvi della candeggina o, molto più probabilmente, così già di suo sta vaneggiando di un film turco che ha visto quando era piccolo a casa di suo zio Idris in cui i protagonisti fanno esattamente quello che stiamo facendo noi ora, ma poi alla fine la mafia li trova e dà i loro cadaveri in pasto ai maiali.
“Adesso sì che mi sento meglio,” sospira Kay, accucciato per terra a togliere macchioline spruzzate sul legno con uno straccio.
“Non ho mai sentito parlare di quel film, Eko,” esclama Daniel, “però ce n'è un altro che è uscito due o tre anni fa in cui gli scagnozzi del boss tentano di fregare il boss e finiscono a farsi un volo di trenta metri dal suo grattacielo.”
“D'accordo adesso basta con i pensieri felici,” li ferma Fler, battendo le mani. “Prima ci leviamo di qui e più probabilità abbiamo di evitare i finali splatter. Chakuza, aiutami a radunare ogni cosa.”
Venti minuti dopo abbiamo avvolto gli attrezzi nel nylon, stipando tutto nel bagagliaio dell'auto di Fler, che ha pensato proprio ad ogni minimo dettaglio. Mi viene da chiedergli quante altre volte gli sia capitato di ripulire un posto dal sangue, ma non lo faccio perché mi ricordo la disinvoltura con la quale ha fatto sparire il corpo di Saad e quanto la cosa mi abbia lasciato sconvolto. C'è sempre un lato di lui di cui non so niente e, per quanto sia brutto, voglio continuare a non sapere niente. Non ho mai pensato di essere in grado di accettarlo, quindi è meglio che ne rimanga all'oscuro. Dimenticherò questa serata come, salvo rari casi, ho dimenticato l'altra. Il mio cervello ha un sacco di difetti, ma in questo caso la sua capacità di rimuovere la quasi totalità di ciò che invece mi converrebbe ricordare torna utile.
Appena fuori dal magazzino, mentre chiudiamo la porta, ci guardiamo l'un l'altro stanchi e disfatti. Siamo ricoperti di sangue dalla testa ai piedi e non sappiamo nemmeno come visto che non abbiamo passato il tempo rotolandoci sul pavimento. Sarà che a differenza di Fler eravamo tutti piuttosto inadeguati e pulire bene una stanza dal sangue non è così facile come sembra, non quando schizza ovunque e si infila appiccicoso tra le piastrelle e non c'è verso di toglierlo. Se anche mi venisse la voglia di uccidere qualcuno, lo avvelenerei o lo strangolerei, comunque niente che coinvolga dello spargimento di sangue.
“D'accordo, andiamo. Ci troviamo a casa di Bushido tra mezz'ora.”
Ne segue un mormorio contrariato. Gli altri non so, ma io volevo farmi una doccia e non sentire Bushido che ci fa uno dei suoi discorsi epici sull'unità del gruppo, la sacralità della vendetta e il codice del ghetto che, a quanto mi pare di capire, stasera è stato violato in molti modi diversi.
Come se ciò non bastasse, vedo Daniel salire sull'auto di Fler e il viso serio e concentrato che ha mi disturba, perché ha lo stesso atteggiamento di Fler, pratico, attento e volto alla soluzione di ogni possibile problema, già presente o previsto. Fottuto ghetto, sempre nel mezzo.
Sbuffo e appoggio per un secondo la fronte al volante; questa notte è stata lunghissima e sembra non avere alcuna intenzione di finire.
Metto in moto e mi dirigo alla villa gialla.

*


Come se trovare un uomo che conosci sventrato a coltellate dentro un magazzino e doverne ripulire il sangue con la candeggina non fosse già abbastanza per una sola notte, a casa di Bushido c'è Bill e io non sono nella condizione di affrontare questa cosa al momento. Speravo che dopo sei mesi a fare l'eremita, sarebbe stato più facile guardarlo negli occhi, ma direi che così non è.
La rabbia che avevo alla fine del tour ce l'ho anche adesso, tale e quale a prima, e se in questi sei mesi non l'ho sentita è stato solo perché non ho visto né sentito lui. Ora che ce l'ho di nuovo davanti, però, è difficile ignorare quello che è successo, soprattutto perché se siamo qui stasera è per colpa di Bushido, che è un po' la causa di tutti i problemi tra noi due. Non sono ancora in quella fase in cui mi dico che era meglio se non tornava e poi mi sento in colpa per averlo pensato. Per ora lo penso e basta.
In tutto questo, la prima volta che io e Bill ci scambiamo due parole, lo facciamo per discutere di Daniel, che non è esattamente un approccio intelligente.
Ad ogni modo, la presenza di Bill è provvidenziale per lo stato in cui ci troviamo. Quando siamo entrati in casa, la governante di Bushido è praticamente impazzita – e non posso darle torto visto che stiamo lasciando sangue ovunque sui mobili di Bushido da cinquecento fantastiglioni di euro – e se non ci fosse Bill ad organizzare le cose, probabilmente saremo ancora in piedi a gocciolare sui tappeti persiani quando lui arriva. E' assurdo pensarlo, ma non ho più alcun ricordo di questa casa senza Bill dentro che dà ordini a destra e a manca, eppure ci venivo anche prima che arrivasse lui. E' come se ci fosse sempre stato. Così mentre ci stipa tutti nel bagno degli ospiti e ci fa lavare e cambiare, non sembra una cosa tanto strana perché c'era un tempo in cui eravamo abituati a passare le giornate qui dentro e c'era anche lui che, quando giocavamo a calcio in giardino, ci spediva uno dopo l'altro a farci la doccia perché non eravamo presentabili. E' quello che ci dice adesso, per altro, e non fa che aumentare questa sensazione di calore che non dovrei affatto provare.
Bill ci fa un sacco di domande e non vorremmo dirgli che si tratta di David Jost senza prima sapere se quell'uomo se la caverà o meno, ma non ne abbiamo veramente discusso e, siccome il cervello di Eko a volte è perfino più scollegato dalla realtà del mio, quello finisce per dirgli che in effetti qualcuno è ferito e a quel, punto, visto che Bill insiste e non ci darà pace finché non rispondiamo, gli dico le cose come stanno.
All'inizio non ci crede e poi va nel panico e Fler è costretto a scuoterlo per farsi guardare mentre gli dice che andrà tutto bene; vorrei essere altrettanto bravo a fingermi sicuro che le cose si sistemeranno, ma non lo sono affatto, anzi ho dei dubbi che David sia anche solo arrivato vivo in ospedale, per questo è meglio che ci pensi lui a rassicurare la principessa.
Alla fine, quando Bushido si presenta, Bill ha chiesto a Karima di preparare del caffè e ci siamo sistemati in salotto dove abbiamo passato un'ora praticamente in silenzio a fissare ognuno un punto diverso della stanza con grandissima attenzione, tranne forse Eko che si è tenuto impegnato a costruire castelli con le zollette di zucchero e Daniel, che dopo aver ficcato il naso dappertutto, si è addormentato sul divano con la testa appoggiata sulle ginocchia di Fler.
Bushido ha sempre cercato di rendere la propria immagine eroica, probabilmente perché, quando dice le sue stronzate, gli piace immaginarsi in cima ad un picco a strapiombo sul mare col vento che gli scombina i capelli – magari prima al particolare dei capelli non ci pensava, ma ora può perché sono lunghi e sembra il protagonista di uno di quei libri da donne, che sulla copertina hanno questi uomini con la camicia aperta e la criniera selvaggia – ecco perché, generalmente, ha sempre quest'aspetto da duro che non deve chiedere mai. Stasera, però, non fa niente per nascondere la spossatezza e quando entra in casa e chiude la porta, lo fa con passo stanco e le spalle curve, è così abbattuto che mi viene da chiedermi se David non sia morto davvero. Glielo chiede anche Bill, così viene subito a sapere che il segreto è stato svelato, ma ne prende atto con un cenno del capo e niente di più.
Fortunatamente David è vivo, ma deve riuscire a superare la notte e al momento mi sembra impossibile, più che altro perché la notte sta andando avanti in eterno; non mi ricordo nemmeno dov'è iniziata e quindi probabilmente non finirà mai. Sono stanco del buio, non ho nemmeno voglia di dormire, vorrei soltanto vedere la luce del sole che segni l'inizio di un giorno nuovo e, si spera, completamente diverso da questo.
La sensazione di deja vu, che mi accompagna da quando ho messo piede in questa casa, si fa ancora più forte quando Bushido annuncia che è necessario restare uniti, vista la situazione, e Tom non la prende affatto bene perché non vuole che suo fratello ci resti invischiato in mezzo.
Ora, sinceramente, io non sto facendo i salti di gioia all'idea di dover collaborare con quest'uomo, ma non posso negare che abbiamo davvero bisogno di tenerci d'occhio l'un l'altro, vista la situazione. E dal momento che la polizia meno s'impiccia e meglio è – penso che ormai sono un uomo che teme le forze dell'ordine, uno di quelli che mia nonna non voleva che frequentassi, povera nonna – allora non c'è altra gente di cui mi fidi se non quella che si trova in questa stanza. Tom però non è d'accordo e comincia a discutere con Bushido come ha sempre fatto, da che lo conosco, ogni volta che parlano di Bill.
Si scornano finché la nostra principessa non li mette a tacere entrambi e ovviamente comprende quello che è necessario fare, anche se non è facile nemmeno per lui, immagino, dover ricominciare con queste cose. Niente di quello che è successo è andato come doveva e, anche quando ci avevamo dato un taglio, qualcuno ha pensato bene di riportarci tutti al punto di partenza. Dopo che abbiamo scavato, toccato il fondo e scavato ancora per arrivare dall'altra parte, mi chiedo che cosa ci aspetti ancora che renderà la nostra vita una roba che non si racconta.
Bushido, naturalmente, si attiva subito per non lasciarmi troppo a brancolare nel buio e decide che se dobbiamo fare dei turni per tenere d'occhio Bill sarà meglio cominciare subito e sarà meglio cominciare da lui medesimo nella sua armatura scintillante e col suo bel sistema di allarme collegato alla Nasa.
Io so che, oggettivamente, questo è il posto migliore in cui tenere Bill per stanotte e per chissà quanto altro tempo ancora, ma so anche che Bushido è molto bravo a nascondere la propria sfacciataggine dietro motivazioni più o meno valide; e quindi sì, forse, questo è il posto migliore ma non sono troppo sicuro che lui avesse esattamente questo in mente quando ha deciso di tenerlo qui.
Quando Bill, alla faccia del tracollo emotivo che lo ha quasi portato a farsi investire su un autostrada sei mesi fa, accetta di restare senza fare una piega, penso che mi convenga uscire e farlo in fretta perché il peso di questa giornata comincia a farsi sentire e io non voglio avere comportamenti di cui poi mi dovrò scusare con lui. So che vede il mio viso mentre gli passo accanto e sa perfettamente come mi sento. Spero che, almeno un po', si senta così anche lui.
Saluto e penso che non vale la pena ricominciare da capo se tutto ciò che si ripete sono gli omicidi.

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L'increscioso caso dei pantaloni di pelle (a mezzanotte)

di tabata e lisachan
Il telefono squilla, ed io ho tutto il tempo per rimpiangere i bei tempi andati in cui tutta la gente che frequentavo abitualmente si odiava o non poteva vedersi per motivi vari ed eventuali, prima di rotolare sulla pancia – e su J.J. steso accanto a me, naturalmente – ed artigliare il cellulare abbandonato sul comodino accanto alla sveglia. Sveglia che, peraltro, indica le ore sette del mattino. Nessun cantante ha mai da fare alle sette del mattino. I cantanti dormono ancora profondamente, alle sette del mattino, e così fanno i loro manager, naturalmente. Prego che non sia Bill, prego che sia mia madre che mi chiama per annunciarmi qualcosa di incredibilmente grave, prego sia Tom che mi cerca nel panico perché dal suo losco passato di sedicenne imbizzarrito è venuta fuori una groupie con un figlio di tre anni in cerca di un assegno di mantenimento, prego che sia qualcosa, insomma, che dia un senso a questo mio svegliarmi all’alba mentre sotto di me un uomo con addominali perfettamente scolpiti anche nella placidità del sonno inspira ed espira profondamente, sistemandosi appena per permettermi di restargli appoggiato addosso mentre prendo il cellulare fra le mani e ne scruto il display illuminato con aria perplessa.
Prego intensamente per tutto ciò, e invece, ovviamente, è solo Bill.
Mi abbatto già esausto su quella paradisiaca superficie che è la meravigliosa pancia di J.J., e lui comincia immediatamente ad accarezzarmi la nuca. Non capisco se dorma ancora o meno, ma comunque non m’importa, quest’uomo è palesemente il modo in cui il karma cerca di riequilibrarsi ridandomi gioia dopo avermi riempito di dolore fino ad ora, e quindi egli, se vuole, può continuare a dormire mentre mi accarezza come fossi un gatto. Dio lo benedica.
- Pronto? – biascico con aria palesemente poco compiaciuta, sperando che Bill capisca l’antifona e strilli “ho sbagliato momento, penso fuggirò in Papuasia per i prossimi tre mesi!”. Naturalmente, però, è di Bill che stiamo parlando, perciò lui strilla comunque, ma naturalmente per dirmi tutt’altro.
- Dada! – cinguetta felice, - Come ti senti oggi?
- Assonnato, Bill. – rispondo, - Come ogni giorno a quest’ora. Si può sapere cosa ci fai già in piedi? Il tuo tappeto rosso non si srotolerà prima di un altro paio d’ore almeno, all’incirca.
- Anis non ne voleva proprio sapere di lasciarmi in pace, stamattina. – borbotta lui, falsamente corrucciato, mentre io realizzo che ha usato l’espressione stamattina e che ciò implica una mattina più mattiniera di questa, che a me pare già mattiniera a sufficienza. Bushido, io e te dovremo parlare a lungo, quando mi sarò rimesso completamente in forze. – Ha cominciato subito a tocchicciarmi appena gli ho portato la colazione, e allora—
- Non voglio sapere i particolari, Bill. – sospiro stancamente, - Sono cose che ho avuto modo di apprendere con dovizia di particolari negli anni, il ripasso conservalo per quando avrai dei figli gay a cui somministrarlo.
Lui borbotta confusamente qualcosa che assomiglia molto ad una protesta perché non lo lascio esprimere nel modo che lui trova più consono, ma fa presto a riacquistare il buonumore quando insisto a chiedergli cosa voglia da me in questo preciso istante. Lo sento trillare come un campanellino scosso dal vento e battere entusiasticamente le mani come il mentecatto treenne che diventa quando crede di avere avuto un’idea meravigliosa, ed alzo gli occhi al cielo perché so già che invece non sarà proprio niente di eccezionale.
- Senti, senti, - mi dice infatti, con aria vagamente cospiratoria, - ho avuto un’idea meravigliosa.
- Sento, sento. – gli faccio eco io, abbattendomi sul fianco di J.J. Al momento, le sue dita fra i miei capelli sono l’unica cosa che mi tenga lontano dalla pazzia.
- Ho pensato, sono passati già un paio di giorni da quando sei stato dimesso, no? – chiede con gioia. Io inarco un sopracciglio.
- No, Bill. – rispondo, - Sono stato dimesso ieri. Meno di dodici ore fa, in realtà.
- Dettagli. – mi liquida lui, del tutto disinteressato alla precisazione che io invece ritengo essere di una certa importanza, - È passato comunque abbastanza tempo da non dover temere che, per esempio, mangiando un piatto di sciorba tu possa aprirti e spargere budella nel mio salotto, no?
- Bill. – mugolo con dolore reale, passandomi una mano sugli occhi, - Un piatto di sciorba mi ucciderebbe anche se fossi perfettamente in salute. E poi c’è la carne, io non la mangio la carne, ma che te lo ripeto a fare? Mi conosci da un millennio e se non ti è ancora entrato in testo dubito che lo farà mai.
- Sì, infatti sarebbe senza carne, mi pare ovvio. – ribatte lui, quasi oltraggiato dalla mia palese mancanza di fiducia nei suoi confronti. – Senza carne va bene?
- La carne è il minore dei problemi della sciorba, Bill. – gli faccio presente, - In quella roba, fra fagioli, ceci, triplo concentrato di pomodoro e peperoncino, c’è tanto di quel potenziale omicida che non riesco a credere che cucinare e servire una pietanza simile, pur nel privato, possa essere una pratica legale in un paese civile quale la Germania è.
Lui resta in silenzio per qualche secondo, ponderando la questione, e poi sbuffa.
- Non importa, ne mangerai di meno. – conclude quindi.
- Bill! – lo rimprovero io, sconvolto, e lui sbuffa ancora.
- Non voglio andare da Karima per dirle di cambiare menu! Ha già preparato tutto! Non c’è abbastanza tempo per chiederle di cucinare altra roba! – butta lì, come se queste fossero cose che nella mia testa dovessero avere un senso. Non ce l’hanno, però, è evidente. Non c’è abbastanza tempo perché? Che appuntamento è stato preso al posto mio mentre io mi rilassavo fra le possenti braccia di J.J.? Ho quasi paura a chiederlo. Ma devo.
- Bill. – dico piano, inspirando ed espirando profondamente, - Di cosa diamine stai parlando?
Bill si interrompe ancora, riflessivo.
- Ho invitato tutti! – dice quindi, ostinandosi a non dirmi quale sia invece il fulcro della questione, limitandosi a lasciarlo scivolare fra le parole.
- Bill. – lo chiamo con disappunto. Lui mi ignora.
- Ho pensato fosse una cosa carina! – insiste.
- Bill! – insisto anch’io.
- Non arrabbiarti! – piagnucola lui, - Ho organizzato una cenetta qui a casa di Anis, in tuo onore, s’intende, e ormai è tutto organizzato, vi aspettiamo tutti per le sette e mezza, quindi più o meno fra altre dodici ore esatte, quando sarai stato dimesso da ventiquattro ore piene, e volevo avvertirti! Mi sembra che la scelta di tempo sia stata sufficientemente buona, tu che dici? – chiede quindi. Faccio per protestare che no, ma mi rendo conto che non sta parlando con me, perché Bushido gli risponde con una risata incredibilmente divertita, e allora io capisco.
- Bill. – lo chiamo per l’ennesima volta, atono, - Passami tuo marito.
- Ma Dadaaa. – sbuffa lui, mugolando risentito. Io non dico una parola e spero che lo sguardo disapprovante che sto lanciando alla parete bianca di fronte a me travalichi i limiti spaziotemporali che lo separano da Bill e gli appaia come in sogno. Forse questo non succede davvero, ma un paio di secondi dopo sento una risata familiare alla cornetta e so che sono stato telefonicamente introdotto di fronte al signore e padrone di tutti i popoli e specialmente di questo sparuto gruppo di persone che siamo e che non hanno ancora deciso di prendere tutti il primo aereo per i quattro angoli più distanti del globo al solo scopo di liberarci dal suo giogo oppressore.
- Bushido. – dico severamente, - È stata una tua idea?
- La cena no. – risponde lui, con tutta la sincerità di questo mondo, - Chiamarti alle sette del mattino sì.
- Ma sei un cretino o cosa?! – strillo io, agitandomi e piantando un gomito nella parete addominale di J.J., che sarà perfetto ma in fin dei conti è fatto di carne e sangue anche lui, e nel momento in cui il mio gomito si piazza fra le sue povere viscere strabuzza gli occhi, sputa un considerevole sbuffo di fiato e si piega in due, obbligandomi a rotolare fino ai piedi del materasso mentre ancora mi dimeno come un esagitato. – Ma ce l’hai un minimo di rispetto per l’altrui persona?! E, cosa ancora più importante, ma non hai proprio un cazzo da fare nella vita, tu?! Hai un ragazzo, adesso, vivaddio ti è stato restituito pressoché intatto perché palesemente anche il karma ti è asservito senza un motivo ben preciso, e tu cosa fai? Perdi il tuo tempo chiamando me, o facendomi chiamare dal suddetto ragazzo, invece di approfittare del suo giovane corpo fremente di desiderio al tuo fianco! Sei una vergogna per la tua razza, ritirerò il tuo patentino di omosessualità immediatamente, appena verrò a casa tua.
Bushido, naturalmente, ride per tutto il tempo, dalla prima all’ultima parola. J.J. striscia sul materasso rantolando e poi si alza in piedi, annunciandomi che si farà una doccia e poi andrà a lavorare, lui che un lavoro serio ce l’ha. Io mugolo “nooo, non te ne andare”, e J.J. ride, e Bushido ride pure lui, e riesco perfino a sentire la risata di Bill, un po’ più distante, perché lui è come i neonati, che quando ti vedono ridere ridono pure loro per imitazione. Siccome immagino cosa dev’essere vedere Bushido ridere mentre il suo viso è incorniciato dai suoi lunghi e morbidi capelli corvini e tutto il mondo ritrova la pace sul suono della sua voce, non fatico a credere che Bill stia ridendo come un mentecatto perfino in questo momento, ma il risultato finale è solo che tutti ridono, e ridono di me, e io li odio. Mi rannicchio ai piedi del letto e sbuffo platealmente, sono molto arrabbiato e Dio, mi sento così bene che alla fine scoppio a ridere a mia volta, nella soddisfazione di tutti, mentre dal bagno cominciano a venire i suoni tintinnanti dell’acqua lungo le pareti della doccia e Bushido schiocca un discreto bacio di trionfo sulla guancia di Bill. Sospiro profondamente. Sono felice davvero.
- Jost. – mi chiama Bushido, la sua voce è allegra ma è venata da quel pizzico di serietà che utilizza sempre quando sta per dirti qualcosa di veramente importante, perciò mi metto sull’attenti e drizzo le orecchie, per ascoltarlo al meglio. – È una cosa di cui abbiamo tutti molto bisogno. – mi dice con franchezza. Io penso a loro due, penso a quegli altri due e alla loro inaspettata quanto inopportuna entrata a pieno titolo nel mondo delle coppie omosessuali dello showbiz tedesco ed annuisco.
- D’accordo. – confermo a voce, visto che nessuno qui può vedermi, - A stasera.

Tutti noi qui abbiamo bisogno di una cena in famiglia, e ciò è molto vero. È vero soprattutto perché fino a un mese fa, non volendo considerare il ritorno di fiamma fra i gemelli, l’unica coppia che avesse ancora senso definire tale era quella composta da Tom e Cassandra, mentre tutti noialtri andavamo in giro ramenghi, privi di un amore e di uno scopo per cui valesse la pena vivere.
Ebbene tutto questo è cambiato nel giro di tre giorni quando, dopo un mese di convivenza a casa di Bushido – a mio parere inutile e paragonabile solo ad un lungo e melenso preliminare platonico – la coppia reale s’è ritrovata rifulgendo splendore e spargendo nell’aria tedesca un miliardo di minuscole particelle subatomiche cariche di energia omosessuale positiva. Tale energia ha permesso a me e J.J. di continuare a vederci anche se lui non doveva più passarmi creme cicatrizzanti sulla pancia, e non solo, ha portato alla luce anche delle tragiche vibrazioni nella forza, e queste vibrazioni nella forza hanno prodotto una relazione fra Fler e Chakuza. Per molto tempo, tutti noi abbiamo aspettato che anche Eko Fresh ci presentasse il proprio ragazzo, cosa che almeno ci avrebbe rassicurato sulla follia generale, ma ciò non è mai accaduto, per cui ci siamo dovuti arrendere al fatto che fra Fler e Chakuza non c’era proprio niente di folle, e che quindi questa gente ci doveva quantomeno delle spiegazioni.
Insomma, viene fuori che in realtà ad accostare le parole Fler, Chakuza e gay si ottengono un mucchio di ricerche correlate stile Google, di alcuni risultati delle quali Bill era perfino a conoscenza!, che portano alla luce numerosi dettagli come il fatto che in realtà Fler e Chakuza avevano già una storia un millennio di anni fa, poi s’erano lasciati, poi s’erano ripresi, e via così lasciandosi e riprendendosi a fasi alterne a seconda che Bushido fosse vivo o morto, che Bill fosse o meno disponibile e che gli astri fossero o meno allineati. Nella storia, a un certo punto, s’è inserito un ragazzino minorenne biondo di cui so poco e intendo continuare a sapere poco. Le uniche informazioni in mio possesso sono il suo nome – Daniel – la sua età e il dettaglio per cui mentre Bushido era in tour a farsi uccellare da Bill e Chakuza, lui invece era a Berlino e si occupava di Fler, rimasto solo a leccarsi le ferite, facendosi in un certo senso uccellare anche lui, ma in modo diverso.
Ora, vi lascio immaginare quale possa essere stata la reazione di Bushido a tutto questo: io e lui eravamo in pratica gli unici in qualche modo coinvolti a non sapere un beneamato piffero di tutti questi intrecci sentimentali, ma mentre per me si trattava in fondo solo di una serie di informazioni di cui prendere atto, per lui è stata una tragedia; era un uomo felice, stava vivendo una nuova primavera, e in un colpo solo scopre non solo che Chakuza gli ha manomesso entrambi i fidanzati, ma che uno dei due, mentre lui era lontano, l’ha tradito con un imberbe del ghetto. Onta e disonore. È rimasto immusonito per settimane.
In pratica, nel giro di un periodo di tempo troppo breve e palesemente insufficiente a metabolizzare il tutto come sarebbe stato giusto, ci siamo ritrovati a passare dall’essere un gruppo di persone eterogeneo con variabili di omosessualità sparsa, a diventare una cooperativa gay a tutti gli effetti, di quelle che hanno tesserini, liste elettorali e tasse d’iscrizione. Non so se rendo l’idea. Non è che ci serva una cena, ce ne servono trecento per entrare nell’ordine di idee, ed altre trecento almeno per abituarci al tutto.
Perciò, è non dico con piacere, ma con coraggioso spirito di sacrificio che mi presento a casa di Bushido all’orario convenuto, portando J.J. con me. Tra l’altro, lui è stato meraviglioso: avrebbe tranquillamente potuto dirmi che lui con questa mandria di scoppiati non ha niente a che fare, che non è nemmeno il mio medico, cosa peraltro vera, e che solo una combinazione di eventi e l’anzianità del dottor Neuer l’hanno portato a doversi prendere cura di me e poi a diventare il mio ragazzo, e che per tale motivo potevo venire qui da solo e ci saremmo visti al limite in nottata o al massimo l’indomani mattina, e invece s’è dimostrato molto disponibile, e brillando di luce propria s’è offerto di staccare prima da lavoro per passare da casa mia e venire qui insieme, invece di presentarci separatamente. Dopo questo, gli ho chiesto di sposarmi, ma lui ha riso e mi ha scompigliato i capelli come se fossi un tredicenne. Qui nessuno capisce che il mio desiderio di metter su famiglia con un Adone buono come un santo è tremendamente reale e forte.
Comunque, a cena ci sono tutti. Ci sono Tom e Cassandra, Fler e Chakuza, Eko e Kay One – non nel senso di coppia, fortunatamente, solo nel senso degli unici due uomini spaiati presenti a tavola, anche se in realtà Kay One la ragazza ce l’ha e tutti sappiamo che esiste perché è Mandy delle Monrose, ma non ce l’ha mai presentata e suppongo sia perché lei davvero con questa follia non vuole avere niente a che fare – io e J.J. e naturalmente i padroni di casa. Del minorenne del ghetto non c’è traccia, probabilmente perché Fler l’ha lasciato e lui non deve averla presa molto bene, come qualunque minorenne del ghetto o meno, e anche Karima non c’è, ha la serata libera, e questo dà a Bill l’occasione di fingersi una massaia e portare a tavola pietanze come fossero frutto del suo duro lavoro, cosa che tutti quanti sappiamo non essere vera, anche se nessuno, vedendolo così felice e soddisfatto di sé, ha cuore di farglielo notare.
La conversazione inizialmente è stagnante. Non ci ritroviamo così tutti assieme da… forse non è mai successo di ritrovarsi così tutti assieme, per dire la verità, per cui i primi minuti siamo tutti molto freddi e ingessati. Facciamo i complimenti (immeritati) a Bill per la sciorba, che nonostante non abbia neanche un pezzettino di carne in sé è pesante come un macigno, parliamo del lavoro, di quanto sia dura ultimamente per le case discografiche investire alla cieca visto il clima di recessione generale, parliamo perfino del tempo e del fatto che quest’anno abbia cominciato a fare freddo prima del solito, e poi, quando siamo qui sull’orlo della tragedia che pensiamo già con disperazione di parlare della morte del polpo Paul giusto per darci qualcos’altro da dire, Eko comincia a delirare qualcosa di sostanzialmente incomprensibile su quanto sia buffo stare a tavola tutti insieme e quanto tutto questo lo faccia sentire in una puntata di Verbotene Liebe “ma più gay, cioè, ancora più gay”, e questo fa la magia.
Non è che succeda qualcosa di particolare, semplicemente ci mettiamo tutti a ridere e sentiamo che queste risate non sono false, non suonano strane, anzi, c’è una certa chimica che le avvolge, le fa risuonare nel modo giusto in questa stanza ed alle nostre orecchie, e quando smettiamo di ridere ci guardiamo e c’è una nuova consapevolezza che ci pervade tutti. È una vocina sottile e ancora un po’ timorosa che ci spiega che adesso è troppo presto per fare passi da giganti, per dire “è già tutto a posto”, ma al contempo ci rassicura sul fatto che ci stiamo muovendo nella direzione giusta, e non sarà stasera, e probabilmente neanche durante la prossima cena che faremo, ma se continueremo di questo passo prima o poi ritornerà tutto a posto davvero, e questi fili monchi che pendono potremo riallacciarli correttamente, e i nodi saranno stretti abbastanza da non sciogliersi più.
È con questa voce carezzevole che ancora mi riecheggia nelle orecchie che, un paio d’ore più tardi, mi appresto a salutare tutti ed andare via. Una decina di minuti fa, Bill ha fatto una marea di scene, s’è stiracchiato, ha sbadigliato ampiamente almeno trenta volte e poi, con voce fintamente impastata dal sonno, ha annunciato di essere molto stanco e di volere andare a dormire. Un modo molto tenero per dirci che la rimpatriata gli era piaciuta ma ora voleva restare solo con Bushido, per cui se avessimo potuto levarci di torno senza fare grandi storie lui l’avrebbe apprezzato moltissimo.
Unanime, un coro di “sì, effettivamente s’è fatto un po’ tardi” s’è sollevato da tutti gli astanti, e questo nonostante fossero appena le dieci e mezza. Il potere della persuasione, dei cui mistici segreti Bill è sempre stato gran custode e conoscitore. Quindi Bill s’è alzato da tavola, ha salutato tutti come quei bambini che vanno a letto presto e lasciano i grandi a discutere delle loro faccende e s’è defilato al piano di sopra. Noi ci siamo lanciati tutti una serie di occhiate vagamente confuse e vagamente divertite, e poi abbiamo cominciato a defluire verso l’uscita.
Io e J.J. ci allontaniamo per primi, anche perché la sciorba comincia a fare effetto e io sento di essere pronto alla morte. Lo faccio presente a J.J. che si offre di restare con me stanotte, cosa che io apprezzo enormemente. Di ciò che segue la mia dipartita verso casa non posso parlare, perché non c’ero, ma alla luce di ciò che se ne racconterà favoleggiando nei giorni successivi, penso che passerò il resto della mia vita a rimpiangerlo. E se si tiene presente che questa cena e questa serata sono stati i punti fermi su cui abbiamo poggiato il primo mattone per la ricostruzione di ciò che eravamo… be’, è abbastanza evidente che il futuro non poteva che presentarsi come parecchio complicato già in partenza.

*


Due giorni fa, al KaDeWe, ho visto un paio di pantaloni meravigliosi, di pelle, attillati in maniera indecente, praticamente due guanti. Non è che fossi uscito di casa con l'idea di fare spese – anche perché non sono proprio in condizione di spendere più di quanto guadagno, che poi è niente visto che non abbiamo ancora un'etichetta – ma loro erano lì in vetrina che mi imploravano di comprarli e io non ho avuto cuore di passare oltre e lasciarli al loro destino. Sono costati un occhio della testa ma, visto che li ho comprati soprattutto per usarli con Anis, li considero una specie di piccolo investimento. Serviranno per riaccendere il fuoco della passione; anche se in realtà non è che si sia mai spento, anzi, tra tutte le cose possibili, forse si è addirittura propagato, dal momento che Anis non mi lascia in pace un minuto e ho sempre le sue mani addosso, molto più di quanto le avessi prima. Il fatto è che Anis si annoia in fretta, quindi se voglio che questa situazione si perpetui nei mesi a venire, devo lavorare di fantasia.
Adesso io mi infilerò questi pantaloni di pelle e magari quella maglietta che Anis finge non sia da donna solo perché lo fa impazzire il modo in cui mi esce una spalla dallo scollo a barca, e poi scenderò al piano di sotto dove lui potrà possedermi selvaggiamente sulla prima superficie disponibile, dopo avermi strappato i vestiti di dosso a morsi. Metaforicamente parlando, s'intende.
Quest'idea di vestirmi in un certo modo solo per farmi spogliare il più velocemente possibile e battere così ogni nostro precedente record di preliminari, la covo già da un po', da molto prima di comprare i pantaloni in realtà. E' che durante il giorno Karima è sempre in casa e quando arriviamo alla sera e lei finalmente si ritira nella sua cuccia in cantina – o dovunque dorma, non lo so, in una catapecchia in giardino forse – alla fine mi passa di mente e con Anis finiamo a fare sesso a letto, che è sempre una cosa meravigliosa, ma non quella che volevo fare io.
Questa è la serata perfetta per portare a termine il mio piano geniale perché è il giorno libero di Karima, il che significa che una volta salutati i nostri amici e chiusa a doppia mandata la porta d'entrata, questa casa gigantesca sarà solo mia e di Anis, con tutti i benefici del caso. Se penso che stamattina quella strega malefica voleva mandare tutto all'aria rinunciando alla sua partita settimanale di canasta con le amiche e restare qui a cucinare e servire per un reggimento quell'unica volta che nessuno le aveva chiesto di farlo, mi sale di nuovo la rabbia.
Mi sono svegliato presto, forse qualche minuto dopo le sette, e non potete capire il disappunto di scendere le scale, attraversare il corridoio, infilarsi in cucina con l'idea di mettere insieme una colazione decente per poi organizzare l'intera giornata e trovarci lei, con la sua divisa color grigio topo che rimesta dentro un paiolo gigante. Soprattutto quando mi ero addormentato la sera prima con la convinzione che non l'avrei più rivista per almeno ventiquattro ore.
Nessuno dovrebbe mai svegliarsi in questo modo, la sola presenza di quella donna disturbava l'intera estetica della villa illuminata dal sole, di Anis che ancora dormiva nudo tra le lenzuola di seta del nostro letto imperiale, ma soprattutto la mia, visto che io odio fare colazione circondato dall'olezzo di mille cipolle. Interrogata, per altro, lei ha avuto il coraggio di dirmi che qualcuno doveva pur preparare la sciorba per la cena di stasera visto che né io né tantomeno il signor Ferchichi sappiamo farlo. Ora, questo è tragicamente vero, ma ciò non significa che lei non potesse preparare questa cosa raccapricciante ieri e lasciarla in una pentola dentro al frigorifero perché noi potessimo usarla come ci pareva, e perfino buttarla se poi a guardarla ci avesse fatto ribrezzo e avessimo voluto farci una pizza.
E invece no. Lei ha risposto che la sciorba non si può preparare il giorno prima, che non può mica stare in frigo che sennò si sciupa e un sacco di altre cose che però non ho ascoltato perché mentre lei le diceva io ho prendevo la colazione mia e di Anis e tornavo in camera, dove mi sono ampiamente lamentato dell'intera faccenda.
Anis, però, queste cose non le prende mai sul serio perché trova Karima adorabile, il che non mi sorprende poi molto perché quella fa la strega soltanto con me e quando poi io lo chiamo per dimostrarglielo, lei diventa uno zucchero e fa tutto quello che le dico senza protestare. Così alla fine Anis non crede mai a quello che gli riferisco e dice che sono esagerato e che non è vero niente.
Lo ha detto anche stamattina mentre si mangiava da solo tutte le brioche che avevo portato senza lasciarmene neanche una. Ovviamente mi sono lamentato anche di quello e gli ho fatto notare che in questa casa non mi si tratta da principessa nemmeno un pochino, ma da lì in poi non ricordo bene come sia andata; so solo che Anis si è messo a ridere e mi ha spogliato di nuovo, così abbiamo finito per fare l'amore e io mi sono dimenticato tutto quello che volevo da lui, almeno fino a quando non abbiamo finito e lui ha ceduto dicendo che le avrebbe parlato.
Alla fine si sono messi d'accordo perché Karima si prendesse solo mezza giornata libera e facesse l'altra mezza domani mattina, il che mi torna ancora più comodo perché adesso lei non c'è e non ci sarà nemmeno quando domani ci sveglieremo, così se vogliamo possiamo pure addormentarci sul tappeto del salotto e lei non potrà svegliarci tirando le tende e dicendo che è tardi e dobbiamo alzarci o, ancora peggio, con la solita storia che siamo due uomini e non sta bene e il cielo ci fulminerà riducendoci in cenere.
Comunque infilarsi questi pantaloni non è facilissimo. Nel camerino del negozio ho fatto delle scene molto ridicole, saltellando per riuscire a tirarli su senza dover necessariamente chiamare qualcuno a darmi una mano e anche adesso non è che mi riesca meglio, nemmeno se mi distendo sul letto e allungo le gambe. Spero che ad Anis non venga l'idea di salire a cercarmi perché potrei dire addio all'atmosfera, e poi comunque sono ancora mezzo nudo, cosa che rovinerebbe un po' tutta l'idea dello scendere e farlo come animali su uno a caso tra i mobili del soggiorno, magari anche senza spogliarsi – anzi, di sicuro senza spogliarsi visto che una volta che sarò riuscito ad infilarmi questi pantaloni né io né Anis saremo mai in grado di togliermeli del tutto in un tempo ragionevole a mantenere una certa libido.
Ci metto quasi dieci minuti, ma alla fine i pantaloni cedono un po', e le mie gambe ci finiscono dentro alla perfezione, la pelle non fa nemmeno una piega. Quando mi guardo allo specchio, penso che mi salterei addosso da solo se non mi piacessero gli uomini più virili di me; il che mi ricorda che Bushido è al piano di sotto e mi viene da ridere all'impazienza che mi fa saltellare e mi arriccia le dita dei piedi.
Non mi sentivo così bene da non so nemmeno quando. Non ho solo voglia di stare con lui, ho proprio voglia di giocare e mi sembra giusto ricominciare a farlo stasera, dopo questa cena che ha fatto tornare le cose più o meno com'erano prima.
Altri cinque minuti per sistemare lo scollo della maglia in maniera strategica e sono pronto. Tendo l'orecchio al piano di sotto ma non sento più il chiacchiericcio degli ospiti che hanno evidentemente colto il mio velato invito a levarsi di torno e se ne sono tornati a casa loro mentre io mi cambiavo; così scendo le scale con un mezzo sorriso stampato sulle labbra e non aspetto di arrivare in fondo alla rampa, mi basta scorgere il profilo di Anis vicino alla porta per annunciargli la mia presenza. “Amore, dammi un parere, come mi stanno questi pantaloni?” La butto lì così, come se fosse una questione di poco conto e naturalmente mi aspetto una reazione entusiasta che possa dare il via ad un dialogo più o meno azzardato da concludersi nella maniera più classica, il che a ben guardare sembra l'inizio di uno di quei terribili porno di serie zeta che ogni tanto guardano tutti insieme nemmeno fossero tredicenni con una casa libera a disposizione e quindi la possibilità di masturbarsi mentre mamma non c'è.
Comunque quello che sembra non importa affatto, perché qualunque cosa fosse viene eclissato da ciò che poi effettivamente succede, ossia che la risposta entusiasta mi arriva da due voci diverse e per un attimo il tempo si ferma, la Terra smette di girare e rimane sospesa nel buio gelido dell'universo, in attesa che la forza di inerzia si esaurisca e la lasci andare alla deriva chissà dove.
Bushido mi guarda e risponde “Sei bellissimo” ma sono le note più basse della voce di Chakuza che dice la stessa identica cosa nello stesso identico istante a far calare il gelo nella stanza.
All'improvviso mi sento a disagio e penso che questa sia stata una pessima idea, o almeno lo è stata non guardare se c'era effettivamente qualcuno nella stanza insieme ad Anis.
Il silenzio pesantissimo che ci avvolge ha appena distrutto qualunque tipo di serenità avessimo raggiunto nelle ultime due ore.
Mi sento a disagio e vorrei correre di sopra a cambiarmi, o farmi inghiottire qui dove sono dalla rampa di scale, ma Peter è mortificato e Anis lo guarda così male che ho paura stia per saltargli alla gola. Così resto e provo a sistemare le cose, anche se non ho mai prevenuto un omicidio violento prima d'ora e sono quasi sicuro che mormorare “Ragazzi...” con voce incerta non sia la maniera giusta di farlo.
Nessuno si volta nella mia direzione, come se io e i miei pantaloni di pelle fossimo scomparsi subito dopo il disastro che abbiamo generato.
E' Fler che fa ripartire il tempo e la porta che sbatte, uscendo furioso da questa casa, fa girare di nuovo la Terra, che forse non andrà più alla deriva ma di certo ha un grosso problema.

*


Io stamattina non mi ero affatto svegliato con l'intenzione di essere la farfalla che sbattendo le ali in Europa provoca uragani in Cina. Innanzitutto perché mai nella mia vita ho desiderato essere una farfalla, e poi perché mi ero appena ripreso dalla fatica di riparare i danni del mio ultimo uragano e tutto volevo tranne che scatenarne altri, che fossero dall'altra parte del mondo oppure nel salotto di casa dell'uomo che meno li avrebbe apprezzati.
Quella di oggi, in realtà, si era rivelata una giornata molto piacevole e niente aveva lasciato presagire che sarebbe finita in tragedia. Fler ha dormito da me ieri sera, come la sera prima e tutte quelle precedenti – in realtà ha quasi tutta la sua roba da me quindi forse già viviamo insieme da settimane, solo che non ne abbiamo mai seriamente parlato, quindi è come se fosse ancora un ospite – così stamattina abbiamo fatto colazione insieme e poi siamo passati alla EGJ a provare qualcosa, giusto per vedere se ci riusciva ancora.
Gli uffici non sono ancora del tutto attivi ma il grande capo vuole riaprili a breve e, da quanto ho capito di quello che Fler non mi dice con le sue risposte vaghe e imbarazzate, credo che Bushido abbia in mente di far entrare anche lui a far parte della nostra grande famiglia, il che immagino porterà ad una guerra fratricida con l'Aggro Berlin durante la quale Sido e il tunisino si sfideranno a colpi di pistola per decidere chi dei due debba tenere Fler e chi invece dovrà pagare gli alimenti e potrà vederlo soltanto un fine settimana ogni quindici giorni.
Ad ogni modo, stamattina in studio non ci abbiamo trovato nessuno, perché questa crew è in realtà composta da lavativi che per più di un anno e mezzo non hanno fatto assolutamente niente e continueranno a farlo finché l'intera produzione non ricomincerà a pieno regime, ossia quando il grande capo non andrà a prenderli a casa uno per uno e li trascinerà in ufficio dove, in realtà, nessuno farà nulla lo stesso, ma l'importante è che il gruppo sia di nuovo compatto. Io e Fler ci siamo appropriati di una cabina di registrazione e mentre io gli mandavo le basi e missavo, lui ha fatto un po' di freestyle così come veniva, e non è andata affatto male.
E' strano lavorare sulla voce di Fler, perché sono abituato a sentirla e ne conosco ogni singola sfumatura ma non mi era mai capitato di metterci sopra le mani, prima d'ora. Ha una bella voce, molto simile a quella di Bushido ma più alta, e un rappato molto più pulito e lineare del suo. Me ne accorgo soltanto ora che posso lavorarci sopra perché lo avevo ascoltato solo nelle canzoni che ha fatto con l'Aggro Berlin, che sono un vero e proprio scempio; non sono stati in grado di valorizzarlo per niente, sporcando le tracce invece di semplificare le basi per dare più spazio al suo modo di cantare.
Quello su cui abbiamo lavorato stamattina è un accenno di canzone che Fler attacca ormai da una settimana quand'è sotto la doccia. All'inizio nemmeno se n'era accorto, io ero lì che mi lavavo i denti e lui cominciava a prendersela col sistema, il governo e la Berlino borghese che lascia i ragazzi liberi di ammazzarsi in strada per un etto di eroina purché lo facciano lontano dalle case per bene.
L'ho ascoltato in silenzio per giorni, cercando la base giusta da mettergli sotto, e poi quando mi è sembrato di avere qualcosa, gliel'ho proposto e lui l'ha trovata una buona idea. Il ritornello è già piuttosto chiaro, quindi dobbiamo solo limare tutto il resto e cambiare un paio di rime perché funzionano solo con lo scroscio diseguale della mia doccia dell'anteguerra a coprirne la metà, un suono che mi rifiuto di inserire, nonostante l'insistenza di Fler, visto che rovinerebbe l'idea ben precisa che ho per questa canzone. Tra le altre cose io credo che ci vorrebbe una doppia voce, ma non una come la mia, qualcosa di molto più alto e caldo; una donna, probabilmente.
Stamattina sono uscito dallo studio molto soddisfatto del risultato, anche se in realtà per il momento abbiamo solo pasticciato; potrebbe essere un'ottima idea per ridare vita a quest'etichetta, ma per metterla davvero in cantiere devo parlarne con Bushido, più che altro perché la base è mia ma la canzone è di Fler e dobbiamo capire dove realizzarla. Naturalmente potrei chiedere a Patrick di produrla con la Beatlefield, ma questo scatenerebbe le ire di Bushido.
Io avrei avanzato volentieri l'ipotesi alla cena di stasera, ma Patrick mi ha chiesto per favore di non litigarci di proposito, quindi se non l'ho fatto è stato solo per lui.
Alla fine, durante questa bella rimpatriata – che è stata una palese idea di Bushido al quale, più di ogni altra cosa, piace stare seduto a capo tavola e guardare con aria soddisfatta un numeroso gruppo di persone fingendo di avere il comando assoluto – non c'è stato modo di tirare fuori l'argomento, anche perché le spirali di follia generatesi qualche settimana fa negli occhi di Bushido alla notizia che io sto con Fler non si sono ancora spente e quindi Patrick ha fatto di tutto per non farmi aprire bocca in quel senso.
Per quanto l'illuminato sovrano mi guardasse male, comunque, aveva ben poco da protestare e difatti è stato zitto. Non credo che lo farà adesso, però, e se devo essere sincero non me la sento nemmeno di dargli torto.
Siamo io, lui, Fler e Bill congelati nell'ultimo istante trascorso da quando Bill ci ha chiesto come stava con quei pantaloni praticamente disegnati addosso e io gli ho risposto che era bellissimo.
Cazzo! E' la prima cosa che penso non appena mi rendo conto di quello che ho detto. Avete presente quando dite qualcosa e nell'attimo stesso in cui la dite già sapete che è una stronzata ma ormai non potete più fare niente per evitarlo? Io questa sensazione non la provo così spesso, perché in genere non mi accorgo che quello che sto dicendo è una stronzata, sono anzi piuttosto sicuro di non stare facendo niente di male. Stavolta, però, ci arrivo anch'io e ci arrivo subito, nel momento stesso in cui quel “Sei bellissimo” mi esce di bocca, solo che esce così naturale e sovrappensiero che quando sarebbe l'ora di rimangiarselo lui è già lì che svolazza nell'aria dove tutti possono vederlo e sentirlo.
A mia discolpa posso dire che ero appunto impegnato ad informare Bushido che io e Fler, stamattina, stavamo lavorando ad un canzone e che se voleva poteva darci un'occhiata. Il mio cervello era talmente concentrato su questo che si è dimenticato di aggiornare la data e con essa il fatto che Bill non poteva stare parlando con me, visto che a quanto pare abbiamo rotto mentre ero in Austria.
Ad ogni modo la reazione di Bushido mi è completamente indifferente, sento il suo sguardo infuocato che mi perfora il cranio ma in sostanza lo ignoro perché in questo momento l'unica cosa che davvero mi preme è arginare la rabbia di Fler, che in piedi alle mie spalle si è acceso come una torcia umana e probabilmente esploderà nel giro di qualche secondo. Non faccio in tempo a girarmi per cercare di arginare il disastro che mi sono lasciato scappare di bocca che di lui non c'è già più traccia e la porta della villa ancora vibra per la forza con cui l'ha sbattuta.
Gli corro dietro e intanto cerco di mettere insieme le parole giuste per scusarmi e spiegargli la situazione, anche se forse dovrei semplicemente scusarmi e basta perché non credo voglia sentirmi giustificare un bel niente. Si è trattato di una risposta automatica e non stavo pensando a Bill fino al momento in cui effettivamente non ho alzato lo sguardo e l'ho visto sulle scale, ma Patrick non sarà affatto disposto a sopportare anche questa dopo l'incidente al ristorante polacco.
Mi aspetto di dover chiamare un taxi perché avrà preso la macchina e se ne sarà andato, e invece lo trovo ancora in giardino che prende a calci la cancellata ricoperta di siepi. Ci mette tanta di quella violenza che ogni tanto il cespuglio di gelsomino sbuffa una nuvola di petali.
Quando si accorge che sono lì, mi guarda così male che perdo ogni speranza.
Se c'è mai stata una volta in cui ho già perso in partenza, con lui, allora è sicuramente questa.

*


Chakuza ha due problemi fondamentali.
Il primo è che è una persona inopportuna, il secondo è che non si rende conto di esserlo; e anche se lo fa il suo ritardo è così oltraggioso che non lo si può giustificare in ogni caso. E' una di quelle persone capaci di farti gli auguri ad un funerale e le condoglianze ad un matrimonio, e in entrambi i casi accorgersene quando ormai è tornato a casa e si è messo il pigiama.
Così adesso si presenta qui davanti a me e la prima cosa che riesce a dirmi è che se continuo di questo passo probabilmente finirà per non rimanere più niente di questa dannata siepe di gelsomino.
Chi se ne frega del gelsomino, cazzo. E allora si rende conto e si scusa, in ritardo naturalmente.
“Non me ne faccio niente delle tue scuse,” gli dico.
Mi chiedo se sia consapevole del motivo per cui dovrebbe essere qui in questo momento, o se ha agito secondo il buon senso di qualcun altro.
“So che sei incazzato...”
“Io non sono incazzato Chakuza, io sono furioso,” preciso.
Lui si schiarisce la gola e guarda per terra, credo forse alla ricerca degli altri sei nani nascosti nell'erba per suggerirgli quello che deve dire. “D'accordo, so che sei furioso e hai tutti i motivi per esserlo, ma posso giurarti che non mi sono reso conto di quello che stavo dicendo.”
“Questa non è una novità, Chaku. Tu non hai mai la minima idea di quello che ti esce di bocca. Se questo fosse il mio problema, fra di noi sarebbe finita molti secoli fa e io, starei sicuramente molto meglio.”
Mi viene in mente che starei con Nicole, o starei con Daniel. Sarei con qualcuno che non si sarebbe mai sognato di volgere lo sguardo adorante verso il suo ex fidanzato e dirgli che è bellissimo quando è inguainato in un paio di pantaloni che sono così attillati che tanto varrebbe fosse nudo.
“Se non è quello che ho detto, allora...”
“Allora cosa?”
“Allora qual è il problema?” mormora incerto.
Io smetto di devastare il giardino di Bushido a calci e mi fermo ad osservarlo, ma nemmeno mi stupisco che sia qui di fronte a me e non abbia la minima idea di quello che ha fatto perché io lo sapevo che era così, quindi sarei stupido anche a sorprendermi. “Non sono le cazzate che dici il problema, perché quelle sono un flusso continuo ventiquattr'ore al giorno per tutti i giorni della settimana e non c'è modo di arginarle perché sono fatte della stessa merda di cui è foderato il tuo cervello! Il problema è tutto quello che c'è dietro.”
“Ma non c'è niente dietro!” Protesta lui che non ha mai capito che nelle discussioni in cui ha palesemente torto – cioè la quasi totalità di quelle in cui finisce – lui non ha nessun diritto di protestare. Mai.
“Certo come no.”
“Pat, dico sul serio.”
Sono felice che il suo catorcio sia di nuovo dal meccanico – d'altronde l'ho ridipinta e le ho messo un nuovo portellone, ma non è che potessi trasformarla in una macchina vera – così siamo venuti con la mia auto e posso decidere che ce ne andiamo ora. Anzi, posso anche decidere di lasciarlo a piedi, così può rimanere qui a fare la corte alla sua stupida principessa. Magari se aspetta un po' riesce a prenderla al volo quando Bushido la butterà fuori dalla finestra.
Lui invece mi segue allungando il passo e alla fine lo lascio salire, perché tanto alla fine devo andare a casa sua, quindi finirei per ritrovarmelo comunque tra i piedi. “Non stavo affatto pensando a Bill,” mi dice, chiudendo la portiera e regolando la cintura del sedile del passeggero perché non gli seghi la gola. Ogni volta che chiudo la macchina, quella li riporta automaticamente all'altezza iniziale, così le poche volte che si fa scarrozzare in giro, deve sempre rimetterci mano per non venirne strangolato.
“No, tu pensavi agli unicorni rosa che attraversano correndo gli arcobaleni del tuo cervello” commento lanciandogli un'occhiata impietosita mentre metto in moto. “Ed è ad uno di essi che hai detto che era bellissimo, casualmente nello stesso istante in cui Bill scendeva le scale.”
“Stavo parlando con Bushido, è stata una risposta automatica.”
“Vuoi peggiorare la situazione?”
“No, sto solo cercando di spiegarti come sono andate le cose,” insiste. “Ero distratto, lui ha detto quella cosa e ho risposto.”
“Quello che lui ha detto è: come mi stanno questi pantaloni, amore,” gli ricordo. “E mi pare chiaro che ti senti ancora compreso nella definizione.”
“Non mi sento affatto compreso nella definizione.”
Rido. “Oh ma ti piacerebbe tanto, vero?”
Chakuza tace perché sappiano entrambi che ho ragione, quindi è meglio se non replica dicendo che ormai Bill è acqua passata perché non è vero. Se quel ragazzino si svegliasse un giorno con la voglia di prenderlo a calci nelle gengive, Chakuza lo lascerebbe fare e gli chiederebbe pure di usare la punta rinforzata. Fa tanto l'uomo furioso, e poi si scioglie non appena la principessa lo guarda un po' più del necessario. E anche Bill avrebbe bisogno di una bella strigliata, ogni tanto, perché è vero che ora non vede che Bushido, ma se si risparmiasse di abbassare lo sguardo con le guance rosse quando Chakuza è in giro, risparmierebbe a tutti un sacco di acidità di stomaco.
Tutto il resto del viaggio lo facciamo in silenzio. O meglio, lui prova a dire qualcos'altro ma tanto sono solo cazzate per cui gli dico di stare zitto e almeno stavolta mi fa la cortesia di starmi a sentire.
Come se questa serata non fosse già stata abbastanza, torniamo a casa per scoprire che il tecnico che abbiamo chiamato nemmeno una settimana fa, in realtà non ha riparato un cazzo perché la caldaia è di nuovo rotta e nell'appartamento ci saranno due gradi e mezzo. In realtà non dovrebbe fare così freddo, perché non è ancora stagione, ma visto che viviamo in un perenne stato di sfiga nera, era anche piuttosto ovvio che la caldaia andasse a rompersi nell'unico anno in cui a settembre fa freddo come se fossimo in pieno inverno. Senza contare che questa casa ha i muri così sottili che basta un soffio di vento e c'è bisogno della sciarpa anche solo per passare un paio d'ore davanti alla TV in salotto.
Proviamo ad aprire al massimo i termosifoni ma non succede niente perché il problema è in cantina, come al solito. “Vado a dare un'occhiata,” dico prendendo la torcia. “Tu intanto cerca delle coperte pesanti, perché non credo che ci sia molto da fare. E guarda nel ripostiglio, dovrebbe esserci ancora quella ridicola stufa elettrica che abbiamo usato a Capodanno.”
Vado nel locale caldaie più per non averlo sotto gli occhi che per risolvere la situazione, anche perché sono quasi sicuro che non ci sia assolutamente niente da fare. Il tecnico ha detto che si trattava di un qualche pezzo – naturalmente costosissimo – da riparare e, dopo aver emesso una fattura che al confronto le estorsioni di Arafat sono plausibili richieste di pagamento per un servizio offerto, se n'è andato fischiettando e lasciando la caldaia esattamente com'era prima. La luce in questa specie di cantina non funziona mai e non c'è da sorprendersi visto che l'unica fonte di illuminazione è una lampadina da 25W appesa ad un filo che uno dei vecchi condomini deve aver tirato trent'anni fa, alla faccia dei sistemi di sicurezza dell'impianto elettrico. E' fulminata, naturalmente. E Meno male che il quadro elettrico è saltato di recente e Chakuza ha chiamato anche l'elettricista, sennò chissà che buio.
Quando apro la porta, che ovviamente cigola, la lampadina si mette ad oscillare macabra e io vedo l'ombra muoversi sul pavimento, nel cono di luce che ho creato entrando. Sembra la scena di un film dell'orrore. Adesso scendo per queste scalette anguste e chissà che cazzo ci trovo là sotto.
Accendo la torcia ed illumino un po' intorno, come se questo potesse salvarmi nel caso qualche esperimento genetico fosse davvero sfuggito da un laboratorio qui vicino e si fosse introdotto in questo palazzo fatiscente passando attraverso le fogne.
La caldaia che corrisponde all'appartamento di Chakuza è naturalmente quella più lontana dall'entrata e incastrata in un rientro nel muro che per raggiungerla devo fare i chilometri e lasciarmene alle spalle altrettanti di buio. Questa stanza non mi era sembrata così inquietante l'ultima volta che sono stato qui, forse perché ero troppo impegnato a tenere a bada Chakuza e le sue mani.
Quando alla fine arrivo alla caldaia, scopro che era esattamente come pensavo, ossia quella se ne sta lì e mi dice che non c'è pressione e io non so cosa farci. Provo a tirargli un paio di colpi con la torcia, ma quella rimane della sua idea e non funziona. Giusto per essere sicuri controllo anche un paio delle altre e sono tutte morte come quella del Chaku, quindi direi che è un problema dell'intero palazzo.
Torno all'appartamento recando pessime notizie, e trovo Chakuza che cerca di rimettere nel ripostiglio tutto il ciarpame che dev'essere esploso fuori quando ha aperto la porta. Là dentro c'è stipata talmente tanta roba sotto pressione che è sempre un pericolo passarci davanti, perché potrebbe esplodere. Almeno ha trovato la stufa e una pila di coperte.
“Non c'è pressione,” annuncio rientrando in casa, e vedo la sua testa che si affaccia subito dal corridoio. “Ma non è la tua caldaia. Tutto l'impianto è andato.”
“Fantastico,” commenta. Lotta con il mostro di cianfrusaglie che vive nel suo ripostiglio, ma alla fine vince lui e riesce a chiudere la porta. “Almeno la stufa funziona.”
“Bene. Vuoi quella o le coperte?”
“In che senso?” Chiede puntualmente lui.
“Non ho alcuna intenzione di dormire con te,” rispondo. “Quindi prendo il divano. Stufa o coperte?”
Lui trasfigura, come ogni volta che per qualche motivo succede qualcosa del genere. Se io sono qui in questa casa, la possibilità che non passi la notte nel suo letto non è nemmeno contemplata; quando ciò avviene, occupa istantaneamente il secondo posto nella sua scala delle tragedie. Visto che rimane con la bocca aperta un tempo sufficiente a farmi credere che sia morto in piedi, decido io. “Okay, tu prendi la stufa, io tengo le coperte,” dico, recuperandone un paio e sistemandole sul divano.
Solo allora lui si libera dall'incantesimo che lo aveva trasformato in pietra e mi segue, disfacendo il letto dove io lo faccio. “No, tu non dormi sul divano.”
“Invece è esattamente quello che farò,” ribadisco.
Sistemo il cuscino e lui lo toglie. “Tu non puoi dormire sul divano,” si corregge.
“Posso eccome, Chakuza.”
“Questa è casa mia e io non voglio che tu dorma sul divano,” sbotta lui, strappandomi dalle mani una coperta e gettandola via con stizza. Mi ricorda un po' quei ragazzini che prestano il loro pallone per giocare a calcio e poi se lo riprendono non appena iniziano a perdere.
“Ho capito,” annuisco e mi giro per rimettermi il cappotto.
Lui sospira, maledicendosi a voce abbastanza alta perché lo senta perfettamente anch'io. “No, Fler! Fler, aspetta! Non era questo che volevo dire. Mi è uscita male,” mormora, mentre mi segue verso l'ingresso.
“La cosa non mi sorprende affatto.”
“Non voglio che tu dorma in salotto perché sono io che ho fatto casino, quindi al massimo è il sottoscritto che deve dormire sul divano,” dice tutto d'un fiato, prima che io riesca ad aprire la porta. “Anche se preferirei che dormissimo entrambi nel letto.”
Io rimango fermo con la mano sulla maniglia qualche minuto e poi mi giro molto lentamente. “Peter...” mormoro frustrato. Giuro che a volte mi drena.
“Ho aperto bocca a sproposito, d'accordo. Allora fammi scusare. Se dormi sul divano è l'inizio della fine. Il passo successivo sarà riprenderti lo spazzolino da denti e la tazza per la colazione. Alla fine della settimana avrai già fatto le valige e sarai tornato da tua madre.”
“Peter, stai delirando!” Esclamo sconvolto.
“E allora fammi smettere di delirare e dormi nel letto!” Protesta lui, sgranando gli occhi.
Io scoppio a ridere, perché davvero non so che cos'altro fare.
Sono qui sulla porta e sto per andarmene senza sapere nemmeno se tornerò e lui si fa quasi prendere da una crisi isterica, cominciando a parlare di spazzolini da denti. E' una situazione surreale, eppure direi che dovrei esserci abituato.
“Per favore?” Tenta lui, in ritardo, come al solito.
Sospiro e mi tolgo il cappotto per la terza volta stasera. “D'accordo, Peter, ma sia ben chiaro che il fatto che io accetti di dormire nel letto con te non significa assolutamente che ti toccherà qualcosa stasera, anche perché sono ancora incazzato.”
“Naturalmente,” annuisce lui, tutto convinto.
Dieci minuti dopo siamo distesi a fissare il soffitto e io so che lui sta cercando nella sua testa le parole da dirmi, lo so perché non parla da un sacco di tempo e non tenta nemmeno di allungare le mani, il che può significare soltanto due cose, che dorme – ma dal respiro direi di no – o è molto concentrato.
“Ti esploderà il cervello con tutto questo pensare,” dico alla fine, perché voglio sapere se posso dormire oppure se devo aspettare che mi dica qualcosa.
“Non voglio sbagliare a parlare, stavolta,” si giustifica.
Sospiro, piegando una mano dietro la testa. “Sono quasi sicuro che lo farai lo stesso ma, andiamo, provaci. Ti sto ascoltando.”
Lui prende bene fiato, prima di rispondere. “Lo so che sentirmi rispondere in quel modo non è stato piacevole, ma ti giuro che non l'ho fatto apposta e che, se potessi, tornerei indietro e me lo rimangerei. Non posso farlo, però.”
“Va' avanti.”
Fa un sospiro di quelli fatti bene, che preannunciano cose che voglio sentire anche se non mi piacciono affatto. “Ho ancora difficoltà a dimenticare Bill,” ammette infatti “questo è vero e già lo sai, ma quella risposta non aveva nessuno significato. Mi è uscita di bocca come poteva uscirmi di bocca 'ancora cinque minuti' quando mia madre mi svegliava la mattina. Non è niente.”
Io rimango in silenzio e continuo a fissare il soffitto solo ed esclusivamente per farlo preoccupare ancora un po'. In realtà la rabbia mi è passata da un pezzo, più o meno quando ha cominciato ad agitarsi come se avessi minacciato di cambiare continente, ma voglio godermi un po' questo momento in cui, miracolosamente, sono una priorità.
“Fler?”
“Hmn.”
“Mi dispiace.”
Sorrido e mentre lo faccio, lui già mi scivola addosso, segno che mi stava osservando in attesa di una reazione. Dovrei dirgli di smettere perché non se lo merita, ma me lo merito io.
Quindi lo lascio fare.

Mattine come questa sono quelle che preferisco. Quelle in cui posso prendermi il mio tempo per aprire gli occhi, stiracchiarmi, stendere le gambe nel tepore immobile delle coperte e sgranchirmi tutto, piano piano, senza fretta. Mattine piacevolmente vuote, rilassate, tranquille. Di quelle che pensi di poter sentire sotto le mani, morbide. Mattine pigre come sbadigli, in cui il pensiero di non avere niente da fare ti culla un po’, e tu lo lasci fare perché sul serio, quante volte capita di potersi svegliare dicendosi che oggi potresti stare anche tutto il giorno a letto e non sarebbe un dramma perché tanto non sei atteso da nessuna parte, non devi incontrare nessuno e non c’è nessun beat ancora da limare che ti aspetta in sala incisioni per essere perfezionato e diventare una base.
Spesso, per non dire ogni volta, proprio perché una condizione simile è molto rara, in realtà non è vera. È una bugia che la tua mente ti sta raccontando. Tu sei lì al calduccio che ti fai i fatti tuoi e progetti vite intere sotto le coperte, chiedendoti se potrà esistere un modo per collegare con un filo e un paio di tubi, o magari una catena di montaggio elementare, il tuo letto, la cucina e il cesso, per avere tutto ciò che ti serve senza doverti praticamente muovere, e la tua testa avalla questi tuoi pensieri bisbigliando “ma sì, credici pure, progetta quanto vuoi, tanto oggi non c’è niente da fare!”, quando in realtà non potrebbe esistere niente di più lontano dalla verità. Però tu in quel momento non te ne accorgi.
La cosa vale anche per me, ma naturalmente in quel momento lì, come ho detto, non ci penso. E sono molto felice.
Quando apro gli occhi, c’è luce in tutta la stanza. Chakuza non chiude quasi mai le tapparelle, ma è raro che io riesca a vedere la luce del sole invadere completamente l’ambiente, perché quando mi sveglio in genere è troppo presto per assistere ad uno spettacolo simile. Le cose da fare, appunto, ci sono sempre. Quando ti svegli ogni mattina alle sette, sia perché devi andare agli studi o sia perché non è il caso di prendertela troppo comoda, visto che non sei a casa tua, al più puoi vedere le prime luci pallidissime che rischiarano l’ambiente, quando non è inverno e quindi di tiri su ancora col buio, ma stavolta invece c’è luce ovunque, si stende in lunghe strisce oblique per tutte le pareti, prendendone la forma, seguendone le linee.
Sollevo un braccio e il sole batte contro la mia pelle. Sulla parete si forma una macchia d’ombra, la guardo, sorrido e tiro giù il braccio, lasciandolo ricadere sul materasso per ridare alle strisce di luce la loro ordinata continuità.
Chakuza, qui accanto a me, all’improvviso si mette a ridere. Non mi ero accorto che fosse sveglio.
- Che stai facendo? – mi chiede. Io scrollo le spalle ed affondo fra i cuscini, ma non rispondo. Mi limito a sorridergli. Anche stanotte mi sono fermato a dormire qui come se fosse una cosa normale. Dopo aver scopato, esausti com’eravamo ci siamo lasciati ricadere sul materasso con un grugnito di approvazione. Chakuza s’è liberato del mio braccio che, in qualche modo, gli era planato sulla faccia nel movimento, e poi s’è voltato per dormire. Stessa cosa ho fatto io. E lui non mi ha chiesto conferme – niente domande del tipo “resti?”, che fino a qualche tempo fa un sacco frequenti, fra noi, anche se naturalmente parlo di un “qualche tempo fa” lontanissimo nel tempo – ha preso la mia presenza per un dato di fatto e io in realtà gliene sono stato grato, perché talvolta ricordarsi di mantenere un certo distacco e pensare di doversi alzare in piedi e fare almeno finta di cercare i vestiti per rimetterseli addosso a ritornare a casa prima che lui mi fermi chiedendomi di rimanere è talmente fastidioso – e ridicolo – da sfiorare l’assurdo.
Ieri sera, dunque, sono rimasto, e ora mi sento vagamente in difetto. Voglio dire, so che è assurdo, so che non dovrei, e tra l’altro è davvero ridicolo che due anni fa fossi già riuscito a superarlo, questo problema che adesso sembra tornato a farsi avanti, però davvero. Non è neanche il dormire con una persona che mi scombussola, con Danny l’ho fatto continuamente per mesi – Danny, santo cielo, devo proprio smettere di pensare a Danny, anche se negli ultimi giorni ha ricominciato a farsi sentire e io non sono granché sicuro di riuscire a gestirlo come dovrei, cioè allontanandolo di nuovo – è proprio lo stare con Chakuza, stare con lui come si sta in coppia che ogni tanto mi… non lo so. Mi turba troppo. È semplicemente strano, come sono strane quelle cose buffe che sembrano non avere spiegazione, come ad esempio quei trucchi di scena con cui i maghi ti fanno credere di aver segato in due il corpo della loro procace assistenza. Tu sai che dietro c’è una spiegazione perfettamente razionale, ma per quanto ci pensi non riesci a trovarla, quindi finisci per rimanere a fissare il tutto con aria ebete, come un bambino che non ha ancora visto nulla del mondo, e per quanto stupido ti sembri accetti quella cosa impossibile come possibile pure senza spiegartela, perché tanto, ti dici, non ci arrivi, è così e basta. E per me ora è uguale, io mi sento strano, sono convinto che ci sia una spiegazione razionale dietro, ma non la capisco. Che posso farci?
Talvolta, seriamente, credo di aver solo bisogno di sentirmi dire che sono normale, che sono ancora io, lo stesso che ero a quattordici, a diciotto, a venti, a venticinque anni. La cosa non è più tanto scontata com’era un tempo.
Nel mentre continuiamo a restare in silenzio, che non è una cosa brutta, in realtà, perché non è un silenzio di quelli imbarazzati. Non è che ci guardiamo negli occhi con aria confusa chiedendoci che cosa diamine stiamo facendo in questo letto così vicini, anche perché peraltro lo sappiamo benissimo cos’è che stiamo facendo in questo letto così vicini. Io guardo un po’ fuori, e c’è un bel sole. Dagli alberi che costeggiano la strada giunge il canto degli uccellini di città – questi esserini piccoli, fragili e spenti, che cantano solo alla mattina perché per tutto il resto del tempo la loro voce sarebbe inutile, sommersa dal traffico e dai rumori dei passanti – e io penso due cose contemporaneamente. Una è che sono ancora convinto di non avere niente da fare oggi, e vorrei che questa convinzione potesse durare ancora un po’, ma non è facile che sia così se penso alle ore che passano, al traffico che ci sarà e a quello che scorre fuori da quella finestra, motivo per il quale smetto di guardarla e torno a fissare la luce sulla parete. L’altra è che, malgrado io non abbia ancora ben chiaro quasi niente della giornata di oggi, quello che invece riguarda la giornata di ieri riesco a richiamarlo alla memoria senza la minima fatica.
Decido che è il momento di parlare, e dato che sto pensando a ieri tanto vale battere il ferro finché è caldo.
- Certo che non ho mai capito cosa ci trovi tu in Bill. – butto fuori d’un fiato, ma abbastanza tranquillamente da sperare di non preoccupare Chakuza. Non è che voglia farlo sentire attaccato o che, è solo che sono profondamente convinto che uno dei motivi per cui da questa cosa non ci si muove risiede nel fatto che Chakuza non ne parla. Mai. È il suo più grande tabù, non c’è modo di scucirgli informazioni al riguardo, e io se devo dire la verità non ci ho nemmeno provato granché, voglio dire, sono masochista ma non così tanto, ma è evidente che devo risolvere questo problema, se non voglio che scene come quella di ieri continuino a ripetersi all’infinito, anche quando noi quattro cavalieri dell’Apocalisse saremo vecchi decrepiti e Chakuza, Bushido ed io staremo seduti sulle nostre sedie a dondolo nel porticato della casa al mare che palesemente divideremo, e Bill uscirà chiedendoci se sta bene con la nuova dentiera. Ecco, vorrei evitare che allora Chakuza si permettesse ancora di rispondergli che sta benissimo all’unisono con Anis, perciò rimbocchiamoci le maniche e risolviamola adesso, finché siamo ancora in tempo.
Ovviamente, Chakuza si preoccupa lo stesso, perché nominare Bill di fronte a lui è un po’ come prendere una pistola e darla in mano al primo passante capiti a tiro: magari è un tipo freddo e tranquillo e la posa senza fare danni; magari invece è uno nervoso e isterico e fa partire un colpo, però. Quando nomini Bill non sai mai se Chakuza stia abbastanza bene da tenere ferma la mano, o se comincerà a tremare e sparerà a qualcuno.
- Niente. – risponde infatti, sulla difensiva, aggrottando le sopracciglia nell’unica espressione al mondo che fa sembrare cattivi i suoi lineamenti rotondi, l’espressione brevettata dei video musicali.
Io inarco un sopracciglio.
- Ci sei andato a letto per simpatia? – gli chiedo, con una mezza risata, e non posso davvero credere che stia cercando di rifilarmi la storia del non-è-stato-davvero-così-importante. Nel senso, ok, Chaku, capisco dove vuoi arrivare, sei molto carino a preoccuparti per me e a non volermi dire cose che potenzialmente credi che sarebbero in grado di farmi male, ma… no. Cioè, c’ero anch’io mentre accadeva, ricordi? Via.
- È carino. – insiste lui, socchiudendo gli occhi e grattandosi la fronte, naturalmente sordo alle mie mute protesta, - Fine.
Sospiro. È mai possibile che con quest’uomo non ci sia mai modo di avere una conversazione normale?
- È… strambo. – dico io, - E dolce. Secondo me è tutto qui. È come avere una sorellina. Almeno per me. – preciso, perché mi pare evidente che per lui non era così, anche se ora sta cercando di fare di tutto per darmi a bere il contrario.
La mano che grattava la fronte di Chakuza si abbatte contro il suo viso e poi scende a coprirgli gli occhi, mentre lui si lascia andare ad un sospiro affranto. A Chakuza non piace granché parlare, lo so, non è bravo a spiegarsi – non sempre, almeno. Anche lui ha i suoi momenti, comunque – io, invece, mi ci diverto da morire. Mettere in difficoltà il prossimo, irritarlo anche fino a fargli perdere il lume della ragione, è sempre stato un gioco divertente. Quando sei piccolo e cresci in un ambiente come il mio, la prima cosa che capisci è che ti devi fare grosso e muscoloso, perché devi costantemente avere a che fare con tipi che saranno sempre più grossi e più muscolosi di te, motivo per il quale devi cercare quantomeno di avvicinarti al loro standard per poter pensare di uscire vivo da una rissa. In attesa di quello, però, quando sei ancora un ragazzetto pelle e ossa senza un pelo e con gli occhi troppo grandi su una faccia troppo magra, devi sopperire ciarlando, e sperando che chi ti incontra sia stupido abbastanza da permetterti di rincoglionirlo quel tanto che basta da sfuggirgli dalle mani. Se hai la velocità delle gambe dalla tua, quella della lingua può completare il quadro che può riuscire a salvarti il culo anche in situazioni disperate. Il più delle volte è stato così che mi sono salvato io, nel periodo in cui cercavo di fare di tutto per portare a termine i miei compiti da solo, senza Anis in giro, per impressionare Arafat.
Chakuza, e lo dico con tutto l’affetto del mondo, credetemi, è abbastanza scemo da concedermi svaghi di questo tipo. Dico, non vuoi parlare seriamente di Bill per esorcizzarlo? D’accordo, va bene per me, ma allora lasciati torturare.
- Ma ti senti quando parli? - si lamenta, la voce un po’ attutita dalla mano ancora pressata con forza sul volto, - Come una sorellina? Mi sento male.
E certo che ti senti male, Chaku. Questo dimostra che tu non l’hai mai visto come una sorellina, tanto per cominciare, e anche che tutti quei bei discorsi di prima sul fatto che è solo carino ed è per questo che ci sei andato a letto per una vita e mezzo non erano altro che fesserie. Ma va be’.
Resto in silenzio per un intervallo di tempo che non sembra solo enorme, lo è. Chakuza ha bisogno di riprendersi, palesemente, e io gliene dà modo, perché non mi va di troncare la conversazione. Scherziamo? Mi sono divertito e vendicato ancora troppo poco, non esiste indisporlo al punto da costringerlo ad alzarsi in piedi e fuggire lontano. Voglio rosolarlo a fuoco lento.
- E a letto com’è? – chiedo quindi dopo un po’, senza muovermi di un millimetro.
- Fler! – sbotta lui, sconvolto, girandosi impercettibilmente a guardarmi.
- Be’, che c’è? – insisto io, scrollando le spalle e mantenendo una calma apparente tale che non capisco com’è che i membri dell’Academy non fanno irruzione dalla finestra appesi a delle funi per consegnarmi un Oscar estemporaneo per meriti acquisiti sul campo, - Sono curioso! Avrà delle qualità non da tutti, se è riuscito a rincoglionirvi senza speranza tutti e due.
Chakuza non risponde. Allunga una mano ad afferrare il cuscino in più che sta in mezzo fra i nostri guanciali e se lo schiaccia sul viso con un lamento disperato. In realtà in questi momenti così io mi diverto sempre tantissimo. Era una cosa che capitava spesso quando abbiamo cominciato a vederci più spesso, intendo, dopo l’incidente del tappeto e tutto. Ho usato una quantità spaventosa di armi, contro Chakuza, non solo la lingua. E non solo nel senso di usarla per parlare. E so che questi sono i momenti in cui Chakuza è sempre un po’ sul punto di mandarmi via, perché lo spalla che, in mezzo a tutti i poteri che lui ha su di me, ce ne sia uno che solo io posso vantare su di lui, ed è quello di riuscire a metterlo in imbarazzo. Lui, un uomo che non s’imbarazza praticamente mai. Quindi sì, lo so che in questo momento, come in tanti altri, si copre il volto e sta zitto solo perché vorrebbe potermi mandare via. In realtà mi esalta che non lo faccia mai.
Rido e mi giro sullo stomaco, sistemandomi a pancia in giù sul materasso ed allungando un braccio per togliere il cuscino di mezzo.
- Allora? – insisto curioso, - Dimmi!
- Non lo so! – si lamenta lui, cercando di coprirsi di nuovo con le mani.
- Sì che lo sai! – ride ancora io, - Anzi, dal fatto che non lo dici, immagino che debba essere parecchio bravo. Questo almeno spiega la follia di ieri sera.
- Possiamo smettere di avere questa conversazione? – implora debolmente Chakuza, sull’orlo di una crisi isterica. Io rido ancora, e naturalmente non gli do retta.
- Quante volte al giorno lo facevate? – chiedo, avvicinandomi un po’ per guardarlo in viso.
- Fler… - mugola lui, arreso.
- Una? – insisto io.
- Ma non hai niente da fare, stamattina? – piagnucola Chakuza. Qualche campanello dovrebbe suonare nella testa di entrambi, in questo momento, ma non suona. Io sono ancora perfettamente immerso nell’aura di beatitudine che mi accompagna dal risveglio, peraltro, convintissimo che il mondo non avrà mai più bisogno di me e che perciò posso anche mettere radici su questo materasso per tutto il tempo che mi resta da vivere, e nessuno avrà mai di che lamentarsene.
- No. – rispondo infatti, e sto mentendo, ma ancora non lo so. Che non se ne accorga neanche Chakuza, però, è abbastanza grave. – Due? – ritorno a insistere, - Tre, magari?
Chakuza non dice nulla, si limita a sospirare.
- Tre volte al giorno?! – sbotto sconvolto, e sento aprirmisi sulle labbra un sorriso incredulo ma anche parzialmente divertito. – Wow! Devi dirmi tutto. Cioè, seriamente, mai visto Bill in quelle vesti lì. Adesso sono curioso sul serio.
- Sei una piaga, Fler! – sbotta lui, scuotendo con decisione il capo, - Che devo fare per farti stare zitto?!
Io ridacchio, sistemandomi fra le lenzuola e piantando i gomiti sul materasso.
- Non so, che ne dici di rispondere? – suggerisco, - Quando sono soddisfatto, smetto.
Lui si volta a lanciarmi un’occhiata truce.
- Giuralo. – intima freddamente.
- Ma sì, sì, giuro. – concedo io, con un breve cenno del capo. – Allora?
Chakuza si prende il proprio tempo per sospirare ancora e sistemarsi meglio contro il cuscino. Solleva la schiena ed il lenzuolo che lo copre scivola giù lungo il suo corpo, arrotolandoglisi pigramente in grembo. Seguo il movimento del tessuto forse con un po’ troppa insistenza, ma mi riprendo subito, anche perché se si accorge che lo sto fissando troverà sicuramente modo di usare il dettaglio contro di me, e allora addio tortura.
- Cos’è che vuoi sapere? – si rassegna a chiedere, già palesemente esasperato prima ancora di cominciare a parlare.
- Be’, la prima volta, tanto per cominciare. – annuisco io, incrociando le braccia sul materasso, - Com’è stato?
Chakuza mi getta addosso un’occhiata dubbiosa.
- Non ti prenderà una delle tue solite paranoie, quando ti risponderò, giusto?
Rido ancora. Chakuza, ti prego, ma sei convinto di che? Guarda che lo sto portando avanti io il gioco in questo momento. Certo che ti sfuggono certi passaggi fondamentali che io veramente, boh, non so, alle volte, guardandoti, come sia possibile che tu esista. O sia sopravvissuto a te stesso.
- Ma va’. – rispondo rassicurante, - Avanti, sono solo curioso.
Chakuza sospira ancora ed aspetta qualche altro secondo. E in quei secondi riesco a vedere una sorta di soddisfazione mal dissimulata farsi strada nei suoi occhi e poi nella piega delle sue labbra, che si fa meno tirata e severa. La naturalezza con cui quest’espressione viene fuori è tale che, anche se dovrei arrabbiarmi un po’ – un bel po’ – nonostante l’abbia rassicurato sul contrario, non riesco. Sembra tutto così innocente che davvero non mi pare il caso.
Quando Chakuza parla, subito dopo, lo fa come si stesse tirando fuori dal petto un peso insostenibile.
- È stato grandioso. – annuncia seriamente, annuendo pure, come per dare forza alla cosa.
Mi viene da ridere in modi che nessuno che non sia me può comprendere. Cioè, guardatelo, tutto serio e compito, come se stesse dando un giudizio di merito di quelli che si danno durante le gare sollevando il cartellino col numero. No, ma io seriamente con quest’uomo non ce la posso fare, la sua pazzia è tale che pure nei momenti di normalità mi surclassa. E io tanto sano non sono di certo.
Comunque, riesco a trattenere le risate ed imito la sua espressione seriosa, annuendo a mia volta.
- Grandioso in che senso? – chiedo, - È stato come con una femmina o la faccia è tutta un bluff? – ridacchio. Mi fa bene prenderlo un po’ in giro, di tanto in tanto, il ragazzino. Davanti a lui non si può, che poi gli si riempiono gli occhi di lacrimoni perché non capisce mai se stai scherzando o sei serio, ma con Chakuza che non ci capisce niente, neanche che fra le altre cose sto prendendo per il culo anche lui, è molto più semplice.
- Ma non c’entra niente con le femmine, è tutta un’altra roba. – precisa infatti, agitando la mano come a voler dissolvere quell’ipotesi assurda, totalmente dimentico del fatto che pure io lo so perfettamente bene che con le femmine non c’entra niente. Dio, quant’è facile. – Cioè, di base è lo stesso, - mi illustra. Chaku, grazie, senza di te non l’avrei mai saputo, - ma ci ho perso la testa perché non me lo aspettavo, capisci, che la pressione fosse così forte. Insomma, Bushido nudo per voglia o per forza l’abbiamo visto un po’ tutti, - aggiunge, lanciandomi un’occhiata che nella sua testa è carica di allusioni. Ah, Chaku. Ti prego. – e conoscendo le dimensioni e sapendo quanto tempo erano stati insieme non me l’aspettavo per niente.
Annuisco ancora. Io non so se seriamente si rende conto del discorso totalmente allucinante che sta facendo, ma comunque starlo a sentire è uno spasso. Peraltro mi sovviene che la sua prima volta con un maschio è stata con me, che di sicuro non avevo il traforo del Monte Bianco nel culo, perciò mi viene da pensare che, se Chakuza quella notte fosse stato lucido abbastanza da accorgersi delle cose, probabilmente da quel momento in poi avrebbe decantato il mio sedere come la cosa più meravigliosa mai concepita da qualsiasi essere umano o divino che abbia mai calcato l’orbe terracqueo. Poi naturalmente c’è da dire che, se Chakuza quella notte fosse stato lucido abbastanza da accorgersi delle cose, difficilmente mi avrebbe piegato a novanta sul tappeto del suo salotto, per cui niente. Ho avuto la prima volta, ma non mi prenderò mai i complimenti dello chef. La vita a volte è ingiusta.
- È davvero così stretto? – chiedo con entusiasmo, - Dovrò provarci, qualche volta.
Chakuza si irrigidisce tutto come un pezzo di legno, e si allontana impercettibilmente. Oh, Dio. Lui doveva essere al bagno quando la mamma distribuiva i cervelli.
- C’è altro che volevi sapere? – butta lì frettoloso, spasimando per cambiare discorso.
- Non andare in paranoia, - lo prendo in giro, - non mi avvicinerei mai alla nostra illustre principessa. – aggiungo in un ghigno, al quale lui risponde con un’occhiataccia offesa. Fra le tante regole che vigono in questa casa, oltre alla prima che è quella di non nominare il nome di Bushido invano, c’è anche quella per cui è vietato perfino accennare alla sua esistenza e alle conseguenze che ha sul mondo circostante, almeno fino a quando non è impossibile fare altrimenti. Il fatto che io possa chiamare Bill “principessa” è palesemente una di queste conseguenze e, in ogni caso, adoro non rispettare nessuna delle regole che Chakuza crede di potermi imporre. Ha. – Comunque, - riprendo, - voglio sapere quante volte l’avete fatto quella notte. E se è venuto. E come l’hai fatto venire. E se è venuto tutte le volte. – mi fermo, faccio mentalmente il conto, poi torno a guardarlo, - E quante volte sei venuto tu, anche!
Chakuza lascia andare un mugolio irritato e confuso.
- E cosa vuoi, un resoconto dattiloscritto…? – biascica, - Comunque due. – risponde alla fine, cercando di ricordare tutte le domande, - E sì. Con la mano. Ancora sì. E… due. No, - precisa poi, - tre. – ammette con un certo imbarazzo.
A questo punto, il buon dio che protegge gli sfigati mi perdonerà, non ce la faccio più: rido e mi abbatto di faccia contro il materasso, affondando il viso sul cuscino per evitare di svegliare tutto il vicinato.
- Sei venuto tre volte?! – strillo incredulo, battendo un pugno fra le coperte, - Dev’essere stato bello davvero! E bravo Chaku!
Lui risponde con un borbottio indefinito, incrociando le braccia sul petto ed affondando col collo fra le spalle, fissando dritto la parete di fronte, come esistesse solo quella. Io cerco di riprendermi, per quanto non sia semplice, e torno a mettermi dritto. Ci metto un po’, a formulare la domanda successiva, perché è un tipo di domanda che conosco molto bene: quella che in genere ci porta lungo la china scivolosa di una mezza litigata che finisce per affogare invariabilmente nello stesso identico posto – fra le lenzuola. Oppure andandocene alternativamente di casa, ma più spesso fra le lenzuola, sì.
- E… - chiedo alla fine, - è stato così bello solo con lui?
Chakuza lascia andare un sospiro la cui traduzione letterale è “lo sapevo”. E io mi rimetto a ridere. Però più piano.
- Qui ti volevo… - commenta, scuotendo lentamente il capo, - No, non lo è stato solo con lui. – ammette infine, voltandosi a guardarmi, - Tu sei tutta un’altra cosa, però. Non ci sono paragoni da fare.
Rido ancora, e so che gli ho detto di non preoccuparsi, che l’avrei presa bene e tutto, ma un po’ mi piace sentirmi rassicurare così, anche su cose così idiote. E comunque gli riesce molto meglio quando dice la verità.
- Non fare il figo, adesso… - sbuffo divertito, - E comunque non volevo sapere se sono meglio di lui o no… solo se sono bravo anche io. – mi fermo per intercettare lo sguardo incredulo e vagamente ilare di Chakuza, ma blocco sul nascere qualsiasi battuta aggrottando le sopracciglia e tornando ad incrociare le braccia. Sia mai che ora mi faccia perculare da lui dopo essermelo rigirato sul palmo della mano per l’ultima mezz’ora. – E non guardarmi così. – borbotto, - Uno poi se le chiede, certe cose, se non è un cagasotto. Puoi rispondere, voglio saperlo. Ne va del mio onore di uomo.
Chakuza ride lievemente e mi guarda, ed a me per un secondo sembra di poter vedere solo i suoi occhi, sottili e verdi da far paura. Come riesca a sconfiggermi con un’occhiata nonostante tutto quello che gli ho fatto passare stamattina, proprio non lo so. È uno dei misteri che mi tengono attaccato a lui, suppongo.
- Hai detto che non hai niente da fare stamattina, giusto? – mi chiede, apparentemente senza nessun motivo. Qui non dovrebbe squillare un campanello, ma l’intero campanile di una chiesa. Solo che non ce n’è, nelle vicinanze, per cui continuiamo a illuderci rotolandoci idealmente nella deliziosa sensazione di ozio prolungato in cui ci siamo immersi senza pensare.
- No. – ribadisco, e visto che ormai sono quasi le nove la mia menzogna è talmente enorme che potrebbe quasi fare il giro e diventare una verità, - Ma che c’entra?
Chakuza si solleva e l’attimo dopo mi è addosso, ogni centimetro di pelle perfettamente aderente alla mia, il petto forte contro la schiena, il bacino già duro di desiderio contro il sedere, le gambe a cercare spazio fra le mie.
- Ottimo. – commenta solamente, chinandosi a baciarmi la schiena, seguendo il disegno della colonna vertebrale.
Io rido – ho i brividi fin nello stomaco – e faccio per scappargli da sotto le mani.
- Sei scorretto… - biascico, cercando di afferrare il cuscino per tirarlo via e scavarmi di prepotenza una via di fuga.
Chakuza allunga le braccia a coprire le mie e mi si spinge un po’ contro, in una domanda silenziosa.
- Mh-mh. – annuisce, - Anche tu, a fare certe domande. – e mi sospira sul collo, mentre io mi mordo un labbro.
- Mmmh… - mugolo, socchiudendo controvoglia gli occhi, - È vero, lo ammetto. Però… - m’interrompo un attimo, lanciando a Chakuza un’occhiata incerta oltre la spalla, e qui non ho davvero idea di cosa volessi aggiungere, perché appunto nel momento in cui mi volto a guardarlo del tutto accidentalmente i miei occhi finiscono sulla radiosveglia poggiata sul comodino e, tutto insieme, mi rendo conto di che ore sono, di che giorno e oggi e anche del fatto che la mia mente mi ha preso per il culo fino ad ora esattamente come fino a due secondi fa stavo facendo io con Chakuza, ed anche esattamente come lui avrebbe cominciato a fare in senso meno metaforico da qui in avanti se non l’avessi fermato. – Cazzo! – sbotto, agitandomi sotto di lui, - Cazzo, cazzo, cazzo, Chakuza!
- …sì, ne ho uno che si sente molto tirato in causa, al momento. – risponde lui, inarcando un sopracciglio ma scostandomisi di dosso quando vede che non accenno a placarmi. – Ma che ti prende? – domanda incerto, steso su un fianco, mentre io scatto in piedi e comincio a cercare i miei vestiti.
- L’Ersguterjunge! – sbotto io, infilando le mutande e i calzini al volo, saltellando prima su un piede e poi sull’altro, - La presentazione! Cazzo, devo andare a firmare il contratto! Siamo già in ritardo! Cazzo, cazzo, cazzo!
La luce della consapevolezza si fa strada negli occhi ancora un po’ annebbiati di Chakuza, e il secondo dopo lo vedo alzarsi dal letto come una furia, afferrando al volo il primo paio di mutande che incontra e correndo in bagno.
- Bushido mi ammazzerà. – annuncia lapidario, pallido come un cencio.
A me scappa di nuovo da ridere, e continuo a farlo anche se penso che è vero, ma che mi sa che se perdiamo altro tempo ammazzerà con gioia entrambi.

*


Ieri notte, io e Bill siamo andati a letto presto. Dopo che Chakuza è corso dietro a Fler nel tentativo di recuperare l’irrecuperabile, lasciandomi lì sullo zerbino a chiedermi nelle mani di chi stavo lasciando uno dei pochissimi esseri umani per la cui felicità darei volentieri la vita, non è che ci rimanesse molto altro da fare. Ci siamo guardati negli occhi per un lungo, infinito istante e poi Bill è arrossito tutto all’improvviso, come se solo in quel momento si stesse rendendo conto del casino che, palesemente senza volerlo, peraltro, aveva combinato. Si è voltato repentinamente e, visto che era ancora a metà delle scale, ha cominciato a correre per tornarsene in camera, senza lasciarsi sfuggire neanche un suono. Io ho sospirato pietosamente, lanciando uno sguardo supplice al cielo stellato fuori dalla villa prima di rassegnarmi a chiudere la porta e seguirlo in camera.
- Bill? – l’ho chiamato piano, schiudendo la porta e sbirciando all’interno. L’ho trovato già senza maglietta, tutto preso ad armeggiare coi pantaloni, - Bill, è tutto ok?
Lui s’è voltato a guardarmi con un paio d’occhi che sembrava l’avessi insultato invece di chiedergli come stesse.
- Come, scusa? – mi ha chiesto, basito, strattonando i pantaloni qua e là nel palese tentativo di strapparseli di dosso.
- Ti ho chiesto se è tutto ok. – ho sospirato ancora io, entrando nella stanza e chiudendomi la porta alle spalle. Ancora una volta, lui m’ha guardato con incredulità evidente.
- Ma che domanda è?! – ha sbottato quindi, tirando i pantaloni ancora un po’ e non ottenendo neanche una piccola vittoria all’interno della grande guerra che stava conducendo contro di loro, - Dovrei chiederlo io a te!
- E invece, guarda un po’, te lo sto chiedendo io. – gli ho sorriso, sedendomi ai piedi del letto. – Vieni qui, dai. – l’ho chiamato, schiudendo appena le gambe per fargli posto, - Ti do una mano con quelli, o finirai per distruggerli.
Lui ha abbassato lo sguardo, ma s’è avvicinato comunque, restando in piedi di fronte a me.
- Non me ne frega niente. – ha borbottato con aria colpevole, mentre sfilavo il bottone dalla sua asola e lasciavo scivolare la zip verso il basso, - Meglio se si rompono. Non li voglio più mettere.
- Bill, saranno costati un patrimonio. – ho riso, tirandoli delicatamente lungo le sue cosce bianche e magre, - E oltretutto sembra che te li abbiano disegnati addosso. Ti stanno molto bene.
- Ma cosa vuoi che me ne freghi dei soldi e di come mi stanno! – ha sbottato ancora lui, appoggiandosi alle mie spalle mentre lo invitavo a sollevare una gamba e poi l’altra per sfilarglieli del tutto. – Combino solo casini anche quando voglio fare cose belle. – ha mugolato quindi, stringendo la presa attorno alla mia maglietta, - Giuro che non volevo che andasse a finire così.
Ho sollevato lo sguardo, incontrando i suoi occhi scuri e brillanti pur nella luce fioca dell’abat-jour.
- Lo so. – ho risposto annuendo, - Non sentirti in colpa.
Lui ha sollevato una mano, accarezzandomi lentamente una guancia.
- È piuttosto difficile non sentirmi in colpa con te. – ha detto quindi, mordicchiandosi l’interno di una guancia. Io ho aggrottato le sopracciglia.
- Non voglio che sia così. – ho detto severamente, e lui ha sorriso un po’, piegando appena un angolo della bocca.
- Lo sai che non puoi farci niente? – ha ribattuto con dolcezza, - Fra le tante cose che puoi fare… - ha sussurrato sfiorandomi le labbra con due dita, - e sistemare… - le sue dita si sono fermate appena sotto il mio labbro inferiore, - e riaggiustare, - ha sospirato profondamente, - la possibilità di togliermi il senso di colpa dal petto quando ti ferisco non rientra nella lista.
Ho sospirato e scosso il capo, stringendogli la vita con le mani. Lui ha poggiato le braccia sulle mie, sfiorandomi appena il collo con la punta delle dita.
- Non mi hai ferito. – l’ho rassicurato.
- Non l’ho fatto intenzionalmente, forse, - ha protestato lui, - ma—
- No. – ho scosso il capo io, - Non mi hai ferito. Bill, - ho sospirato profondamente, - durante tutto l’anno scorso, sono successe molte cose. – lui ha trattenuto il fiato, serrando le labbra, - E tante di queste cose sono state spiacevoli, per usare un eufemismo. E come lo sono state per me, lo sono state per te. Non credere – sono tornato a sollevare lo sguardo, piantando gli occhi nei suoi, - non credere neanche per un minuto che io possa mai perdere di vista questo dettaglio fondamentale. È stata dura per tutti e due. Io non sono una vittima. Non lo sei neanche tu. Abbiamo fatto un casino infernale e ne abbiamo entrambi pagato le conseguenze, ma siamo qui, adesso. E tu – ho riso un po’, inarcando un sopracciglio con presunzione, - credi davvero che, dopo l’anno scorso, un paio di pantaloni che combinano un mezzo disastro possano ferirmi? Io sono d’acciaio, piccolo. – ho detto, accogliendo sulla pelle la sua risata un po’ triste ma soprattutto sollevata quando mi si è seduto in grembo, circondandomi le spalle con le braccia, - Niente mi scalfisce.
Bill ha pianto un po’, accucciato fra le mie braccia. L’ho sentito piangere molte volte, da quando lo conosco, ma questo è stato un pianto tutto diverso rispetto agli altri pianti che s’è fatto da quando sono entrato nella sua vita, e credetemi quando vi dico che stiamo parlando di numerosi pianti. S’è trattato di un pianto dolce, sommesso, sollevato. Venato da un pizzico di felicità che mi ha stretto il cuore. Giuro che non mi sono mai sentito bene come in questo periodo, in cui io e Bill ci stiamo affrontando con onestà, sciogliendoci poco a poco, ritrovandoci poco a poco, imparando a conoscerci di nuovo, con tutte le cose che sono cambiate in noi e che inevitabilmente non potremo più riavere, ma anche con tutte quelle altre cose che invece sono rimaste uguali, o comunque molto simili, rispetto a quelle che avevamo un tempo. È come riscoprirlo da capo. Ma è sempre lui. Credevo fosse impossibile tenere fra le mani qualcosa di così antico e così nuovo allo stesso tempo, eppure Bill per me lo è.
Per cui, sì, abbracciati com’eravamo poi siamo andati a dormire, perché seriamente, fare altro per quella sera non era proprio plausibile. E poi c’era anche da pensare a stamattina, naturalmente.
Stamattina ci siamo svegliati non prestissimo, ma di buon’ora, entrambi molto emozionati. Ho una idea abbastanza precisa di quello che è successo qui fra Bill e Fler mentre io non c’ero. Ne ho un’idea abbastanza precisa non soltanto perché Bill e Fler mi hanno più o meno raccontato tutti i fatti, ma anche perché conosco entrambi a memoria ed avrei potuto dirvi con largo anticipo come avrebbero reagito e come si sarebbero comportati l’uno con l’altro nel caso si fossero conosciuti, anche senza dover sapere niente delle situazioni che li avevano spinti a incontrarsi. Non fatico per niente a capire che Bill è felice per quello che sta per avvenire esattamente quanto me. Ed infatti il suo viso sembra splendere di luce propria ora che siamo qui nel mio ufficio all’Ersguterjunge, e attendiamo.
Eko, seduto sul divanetto in fondo alla stanza, si guarda intorno con aria incerta, come se lui in quel momento c’entrasse poco. Kay riempie il mondo di entusiasmo blaterando a caso su quanto sia una figata questa decisione, e su quanto è evidente che ci stiamo vendicando proprio bene su quegli stronzi dell’Aggro Berlin, quantomeno a livello commerciale.
- Vuoi mettere – mi dice, - la quantità di dischi venduti che si porta dietro Fler, rispetto a quelli che si porta dietro Nyze? Cioè, dai, palesemente ci stiamo guadagnando noi.
Io borbotto un assenso indefinito, lanciando un’occhiata nervosa all’orologio. Fler e Chakuza, naturalmente, sono in ritardo. Potrei approfittare di questo tempo concessomi per spiegare a Kay che prendere Fler sotto contratto all’Ersguterjunge ha ben poco a che fare con la guerra fra noi e l’Aggro, e ha ben poco a che fare anche con la quantità di dischi venduti in più che porteremo a casa a fine anno. È solo che lo rivoglio con me, li rivoglio tutti con me, e non intendo lasciarmene sfuggire uno che sia uno. Fler è solo il primo passo. Sto pensando a qualcos’altro. Ma prima devo parlarne con Jost, ed è ovvio che non posso farlo finché lui sarà ancora troppo impegnato a fingersi invalido per poter trascorrere le sue giornate a letto con Schüster. Ma non ha senso parlarne ora. Verrà il tempo.
E quello a mia disposizione adesso finisce nel momento in cui Fler e Chakuza fanno il loro ingresso nel mio ufficio, scompigliati e trafelati, scusandosi con tutti a destra e a manca. È abbastanza ovvio cosa abbiano avuto di così urgente da fare per non riuscire a presentarsi qui in orario. È ovvio non soltanto nel modo in cui si comportano o nel modo in cui sono conciati, ma nel modo in cui si sfiorano casualmente, si guardano, si sorridono, si parlano.
È inevitabile, per me, essere un po’ geloso. Stranamente, nei confronti di entrambi. Ma non m’importa più quando Fler si fa avanti e sorride, brandendo una penna.
- Dove devo firmare? – chiede.
- Sì, diamoci una mossa. – borbotta Chakuza, - Abbiamo tutti di meglio da fare.
Bill si lascia sfuggire una risatina divertita. Ed io faccio lo stesso, porgendo a Fler il suo contratto ed indicandogli il punto esatto in cui deve mettere la firma.

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Der Chef

di lisachan
DER CHEF

Io purtroppo non ho avuto il tempo fisiologico di abituarmi a Daniel.
Se Fler me l’avesse presentato nella giusta maniera – poco a poco, intendo, dandomi modo di capire esattamente di cosa si trattava e tutto il resto – probabilmente non proverei per lui tutto questo fastidio insopportabile. Magari sì, ok, mi farebbe rabbia l’idea di averlo ancora fra i piedi – e chi ci pensava, due anni fa, in quel vicolo, a Tempelhof? – però potrei tollerarlo, ecco.
E invece no.
Daniel per me era una cosa dispersa nella memoria di una notte da incubo, e poi è diventato d’improvviso “quello che era stato con Fler mentre io ero via”. E lo è diventato di botto, senza preavviso. E non è bastato neanche che Fler lo lasciasse, come mi ha poi confessato di aver fatto dopo la famosa cena in casa di Sido alla quale tutt’oggi non sono certo di essere sopravvissuto, no: Daniel è rimasto fuori dai piedi per qualche giorno, probabilmente rintanato a casa sua ad ascoltare i Cure o qualche altra variante sul tema e leccarsi le ferite, da bravo adolescente deluso e incazzato col mondo, e dopodiché, come nulla fosse successo, è tornato. Ha ricominciato a ronzare attorno a Fler, peraltro senza nascondere minimamente né l’astio che prova nei miei confronti – perché per lui è evidente che se Fler l’ha lasciato è stato per colpa mia, non perché era stufo di cambiargli i pannolini e nutrirlo col biberon otto volte al giorno – né tantomeno il suo essere ancora interessato all’uomo che al momento tra le altre cose oltre a non volerlo più sta con me. E non c’è stato verso di convincerlo a piantarla.
Da quel momento in poi, non ricordo un giorno in cui Daniel non ci sia stato tra i piedi o non sia stato fonte di inenarrabili guai. L’ultima volta, Fler ha fatto irruzione in casa mia tipo alle quattro del mattino, spingendo in avanti questa specie di cencio semovente che si è poi rivelato essere, appunto, Daniel avvolto in una felpa grande il doppio di lui e allegramente imbrattata di sangue. Al mio sguardo allucinato, sconvolto, stordito e pure un po’ assonnato, la risposta è stata “l’hanno inseguito con le spranghe, Chaku, non potevo lasciarlo lì nell’angolo dove l’ho trovato”. Al che, giustamente, io mi sono pure chiesto punto primo: che diavolo ci faceva Fler in giro per Tempelhof a quell’ora?, e punto secondo: spranghe?!, ma chiaramente non potevo mettermi lì a lamentarmi mentre il dannato moccioso perdeva sangue sullo zerbino.
E con Daniel è sempre così, peraltro. È sempre un ripetersi di “andiamo, Chakuza, non vorrai mica fregartene e lasciarlo sulla porta?”. Quando Fler pronuncia il mio nome a quel modo so sempre che, in caso di risposta affermativa – e Dio sa se ogni tanto non vorrei sbottare “sì, Fler, proprio lì sulla porta” – partirà una rappresaglia dalla quale difficilmente verrò fuori illeso. Perciò sono cose che cerco di evitare. Fler sa essere dannatamente convincente, quando vuole. Inoltre, effettivamente, il moccioso si presenta solo quando è davvero malconcio, ecco.
Il dramma è che gli capita anche troppo spesso.
Fino a due minuti fa io e Fler stavamo discutendo le possibilità della giornata. Visto che non è ancora nemmeno mezzogiorno, stavo cominciando a pianificare di andare a fare la spesa, cucinare qualcosa da mangiare e poi, non so, chiuderci in camera da letto fino a domattina anche se fuori c’è un bel sole e tira un bel venticello fresco – chissenefrega, insomma – e Fler stava giusto protestando in quel modo tipico di lui in cui continua a ripetere “no” intendendo “sì”, e quindi io ero pieno di buone speranze. E poi lo stupido campanello s’è messo a trillare.
Ovviamente io stavo illustrando a Fler il programma nel modo più pratico possibile – che poi è il motivo per cui continuava a dire “no”… ha dei problemi quando gli metto le mani addosso al mattino, dice sempre cose assurde tipo “dammi il tempo di svegliarmi”… non è necessario che sia proprio sveglio, mi piace quando è ancora semi-incosciente, fa dei bei suoni – comunque, in sostanza stavo cercando la via per la felicità e Fler invece non stava cercando che un pretesto per fermarmi, e lo stupido campanello è arrivato come una cazzo di ciliegina sulla cazzo di torta. Proprio a fagiolo, veramente.
Fler è corso ad aprire la porta scivolandomi dalle mani ed ora eccoci qua, inorriditi, che fissiamo questo mucchietto d’ossa pesto e livido che ci guarda oltre la soglia della porta. Sento Fler teso come una corda di violino, al mio fianco.
- Ciao. – borbotta Daniel, sollevando lentamente una mano per salutarci. Il braccio si ferma a metà. - …deve avermi slogato una spalla, stavolta.
Faccio per sbottare in un “Daniel!” che non so nemmeno cosa voglia dire – perché a un ragazzino così conciato, cosa gli dici? Davvero… - ma Fler mi anticipa, e la sua voce risuona secca e agitata per tutto l’appartamento.
- Daniel, Cristo! – lo richiama, avvicinandoglisi e sporgendosi a controllarlo da tutti i lati, - Ma che cazzo è successo? Sono stati di nuovo quei-
- No. – lo ferma lui, abbassando lo sguardo. Gli occhi azzurri si annebbiano appena, mentre si inumidisce incerto le labbra, - …mio padre. – confessa alla fine, sospirando pesantemente.
Fler si fa di ghiaccio per un secondo. Poi si allontana, tira un’imprecazione irripetibile e molla un calcio sconvolgente alla poltrona. Io lo fisso, allucinato, e Daniel continua a tenere gli occhi bassi, come si vergognasse.
- Fler…?
- Porca puttana! – urla ancora, afferrando un soprammobile a caso e gettandolo per terra. Quello rimbalza e s’infila sotto il divano con un suono sordo. – Fanculo a questa merda! – grida. Poi si ferma ancora, ed io riprendo a respirare.
- Pat. – lo chiamo a bassa voce. Lui solleva una mano.
- Un secondo, Chaku. – mi ferma, forzando un tono tranquillo nella voce. Io annuisco e lo aspetto. Vedo la tensione accumularsi nei muscoli delle sue spalle, sotto la maglietta leggera, ed i tendini tirarsi e scattare a chiudere e riaprire il pugno, come a cercare di scaricare la rabbia. – Daniel, entra.
Il ragazzino annuisce, fa un passo e casca. Allungo le braccia appena in tempo per recuperarlo, prima che si schianti contro il pavimento.
- Cristo… - borbotto, cercando di tenerlo dritto. Fler è ancora lì immobile e sospetto che, se si muovesse, tremerebbe il pavimento.
- Ce la fai? – mi chiede, la voce che trema. Io annuisco e lo porto verso il divano, dove cerco di stenderlo senza fargli male.
Ci inginocchiamo lì accanto e restiamo in attesa che si muova. Che è sveglio lo capiamo subito, perché apre le palpebre e ci guarda come volesse trovarsi da tutt’altra parte. Come volesse scusarsi. C’ha le scuse piantate negli occhi, questo ragazzino. Chiede perdono sempre, anche quando non fa niente. È una cosa che si vede solo quando lo si frequenta da un po’, perché la nasconde bene. Ora, io non è che lo frequenti da una vita, ma qualche settimana da quando gli ho posato gli occhi addosso è passata, ormai, perciò posso parlare con una certa cognizione di causa.
Comunque non si muove per un sacco di tempo. Solo dopo un bel po’ di minuti solleva un braccio lievemente meno malconcio per strofinarsi gli occhi.
- Mi ha pestato per bene, - dice poco dopo, un sorriso sghembo a deformare i tratti ancora infantili del viso, - ha scoperto la roba e ha dato di matto.
- Non c’entra un cazzo la droga. – trema Fler al mio fianco, - Quello dà di matto un po’ troppo, per i miei gusti. – si china su di lui e gli ravvia i capelli sulla fronte. C’è un taglio enorme proprio nel centro, sembra che gli abbiano tirato una cazzo di bottigliata. Mi dà i brividi. – Danny, io ne ho prese a pacchi, di legnate. Ma tu ne prendi il doppio, cazzo. Sei… guardati. – e sfiora appena il profilo dello zigomo violaceo e tumefatto. Deglutisco.
- …vado a prendere la cassetta del pronto soccorso. – mugugno alzandomi in piedi.
Fler asserisce senza nemmeno guardarmi, continuando a misurare i lividi sul suo viso, sul collo, sulle braccia.
- Ce la fai a sfilarti la maglia? – lo sento chiedere mentre, in bagno, recupero la valigetta.
Daniel dice che sì, certo che ce la fa, ma appena Fler prova a fargliela passare su per la testa comincia a lamentarsi in una maniera straziante.
- Fler… - lo chiamo avvicinandomi, la cassetta stretta in pugno, - Gliela tagliamo via, la maglietta? Così non-
- Ce la faccio. – ansima Daniel, liberandosi lentamente dell’ingombro di abiti, - Ce la… Cristo che male.
Il petto, il ventre e i fianchi sono una mappa di escoriazioni e lividi. Macchie rosse, giallastre e viola ovunque. Fler le fissa inorridito, le labbra dischiuse e gli occhi spalancati, ed io, credo, per la prima volta realizzo pienamente quanto schifo faccia la vita di questo ragazzino. Fler ha provato almeno una cinquantina di volte a dirgli per lo meno di piantarla di spacciare, che può dargli una mano lui, ma ogni volta Daniel gli ha risposto bruscamente di farsi i fatti suoi. È in questi piccoli dettagli che si vede quanto piccolo sia ancora, quanto disperatamente voglia che Fler si prenda cura di lui e al contempo quanto senta il bisogno di dimostrargli che ce la fa benissimo da solo.
- Cristo santo. – dice Fler, ed è appena un sussurro la voce non sembra neanche sua, tant’è debole e sconvolta.
Daniel deglutisce.
- …non guardarmi così. – chiede in una preghiera senza inflessioni. Lui e Fler si guardano a lungo, probabilmente si stanno anche dicendo qualcosa. Discretamente, senza parlare. Poi Fler si alza in piedi, facendo leva sul divano con entrambe le mani, come non avesse la forza di sollevarsi senza aiuto.
- Chaku. – mi chiama, tirandomi appena per la manica, - Posso parlarti di là un secondo?
Annuisco e mi sollevo, molleggiando un po’ sulle gambe. Guardo Daniel e lui mi fa cenno di andare senza neanche aspettare che gli chieda se possiamo lasciarlo qui da solo.
Fler mi anticipa in camera da letto muovendosi velocemente. Non ce la fa a restare in quella stanza, l’ho capito. Appena ci chiudiamo la porta alle spalle capisco subito che, se avesse qualcosa in mano, la stritolerebbe fino a distruggerla. Mi allungo a sfiorargli la spalla e lo sento tesissimo, un fascio di nervi sotto le dita.
- Pat, dai…
- Sono fuori di me, Chaku. – dice tutto d’un fiato, afferrando la mano e stringendola fra le sue, - Lo ammazzo, quel figlio di puttana. Lo ammazzo, Cristo.
So che ne sarebbe capace.
Mi avvicino, cerco di essere paziente anche se odio questa situazione ed odio le attenzioni di Fler nei confronti di Daniel.
Non so che dire, quindi mi limito a lasciar scorrere la mano libera lungo il suo braccio e poi stringerlo per una spalla, tirandomelo contro. Fler mi sfiora il collo col naso, una volta, due volte. Aspetto in silenzio e poi lo sento inspirare, ed allora mi rilasso: lo percepisco fare avanti e indietro lentamente, da sotto l’orecchio alla spalla, respirando piano, profondamente. Ogni tanto gli basta questo, il mio odore lo calma. Continuo a tenerlo stretto.
- Possiamo tenerlo un po’ qui? – mi chiede, proprio contro la pelle. Ed è un po’ buffo che me lo chieda, perché teoricamente lui sta ancora a casa sua. Ha un appartamento, a qualche isolato da qui, e ogni tanto ci dorme ancora. Però, invece di dirmi “lo porto a casa con me”, mi chiede se possiamo tenerlo qua.
- Non lo so, Pat. – lui mi lascia andare la mano e stringe appena le dita contro i miei fianchi. Resta lì per un po’, indeciso. Poi si rassegna e mi abbraccia. Io gli respiro addosso e lo stringo per le spalle. Siamo così vicini che non riesco a capire dove finisco io e dove comincia lui. Siamo intrecciati. – Ti sembra il caso?
- Non ce lo rimando, da quello. Lo ammazza, se continua così. – ripenso al torace stretto e magro di Daniel, tutti quei lividi, le ferite. È vero che finirà male, se non facciamo qualcosa. Ed è vero che, nonostante tutto, non voglio che finisca male. Perdio, è solo un ragazzino.
- Possiamo vedere di chiedere a Bushido se-
- Non c’entra un cazzo Bushido con questa storia! – mi ringhia addosso lui, stringendo la presa attorno alla mia vita, - Daniel è una cosa che non gli compete. Non è affare di nessuno.
Aggrotto le sopracciglia e provo l’irrefrenabile e improvviso desiderio di devastare qualcosa. Solo che l’unica cosa che posso toccare adesso è Fler e non ho alcuna intenzione di devastare lui – è già successo, so che non mi piace. So che non posso e non voglio farglielo – perciò mi trattengo, mi limito a stringerlo più forte.
- …va bene. – annuisco, - Okay, lo teniamo.
Lui si allontana un po’ e mi guarda. Ha gli occhi incredibilmente liquidi. Non credo riuscirò mai a capire davvero cosa leghi tanto Fler a questo ragazzino. Forse dipende dal fatto che ci sono ancora miriadi di cose che non so, sul suo conto. Su Fler, dico. Mi mancano dei tasselli enormi. Interi pezzi della sua vita. Forse, se li conoscessi, capirei. Ma ho sempre paura di capire troppo di lui. Non saprei quando fermarmi, me ne accorgerei in ritardo. Questa cosa che abbiamo ha rischiato di distruggersi troppo spesso perché io possa concedermi errori di questo tipo.
Si sporge a baciarmi ed io me lo tiro contro, baciandolo ed affondando dentro di lui perché adesso voglio sentire il suo sapore e voglio che sia quello a ricordarmi che è mio e non andrà da nessuna parte, Daniel o non Daniel. Fler mi lascia fare e risponde carezza su carezza; ora è lui che deve tranquillizzarmi. E lo fa.
- Grazie. – sussurra appena ci separiamo, - Lo sai che non succederà niente, vero? – e mi sfiora appena con la punta del naso.
- No? Davvero? – chiedo sarcastico, inarcando un sopracciglio.
- Davvero. – annuisce sicuro lui, - Io ti—
-Ok. – lo fermo, baciandolo prima che possa dirlo. Lo fermo perché odio che lo dica adesso, visto che lo fa come fosse un ringraziamento. E lo fermo perché io non gliel’ho ancora detto, mentre lui l’ha già fatto in svariati modi non so quante volte, non solo a parole, come ogni tanto gli è capitato in quest’ultimo periodo, ma anche con i fatti. Rispondere ad una cosa del genere è un problema, quando associato a quelle parole, per abitudine o per altro, c’è un altro volto, un altro sapore, un altro odore. – Ti credo. Non succederà niente.
Fler mi guarda e sembra un po’ deluso dal fatto che non gliel’abbia lasciato dire. Mi innervosisco perché così sembra volesse usarlo per ripulirsi la coscienza. So che non è veramente così, intendo, cazzo, so che quando lo dice lo pensa. Lo so che è vero. Sono ormai più di due anni che me lo dimostra, ogni giorno in cui torna, ogni volta che si fa toccare ed ogni volta che non mi manda a fanculo anche quando me lo merito ampiamente. Il problema non è quello.
Sono nervoso. C’è Daniel ricoperto di lividi di là ed ho appena accettato di tenerlo in casa per non so nemmeno quanto, e Fler sembra intenzionato a non togliergli le mani di dosso finché campa. In senso platonico o meno, mi scazza comunque.
È che Fler è una bella persona. Finisce per avere rapporti speciali con tutti. Non lo so. Non mi piace che… vorrei che non fosse così, ecco. Non so neanche se quello che penso ha un senso.
Quando torniamo di là, Fler mi sta ancora stringendo la mano – è successo quando abbiamo sciolto l’abbraccio, io ho lasciato scivolare la mano lungo il fianco e lui ha intrecciato naturalmente le dita con le mie, e là sono rimaste, senza un perché. Daniel lo troviamo impegnatissimo a sistemarsi da sé. S’è già bendato la testa ed ha spiaccicato cerotti e pomate un po’ ovunque. Nel momento in cui entriamo nella stanza, lo troviamo intento a coprire con un cerotto enorme un taglio sul mento. Si volta a guardarci, individua le mani strette e per un secondo io rafforzo la presa attorno alle dita di Fler. Poi non posso fare a meno di sentirmi in colpa – ed anche stupido: faccio il gradasso con un ragazzino, Dio mio – e lo lascio andare. Patrick non s’è accorto di niente perché sta guardando fisso il corpicino martoriato, facendo la conta dei danni.
- Lascia fare, ragazzino. – borbotta sedendosi al suo fianco e controllando la fasciatura attorno alle tempie. È troppo lenta. – Chaku… - mi chiama, ed io sospiro e mi avvicino, sciogliendo le garze per sistemargliele meglio ed andando alla ricerca di una retina da mettergli come cuffia, per tenerle ferme. Nel mentre, Patrick controlla i cerotti e asciuga gli sbuffi di pomata in eccesso con una pezzuola un po’ umida. La scena è surreale. Daniel resta immobile, arreso nelle nostre mani, per tutto il tempo.
Quando finiamo, sono ancora quasi convinto che il moccioso dovrebbe andare all’ospedale, ma sono anche ragionevolmente certo che, pur non andandoci, sopravvivrà; perciò sono soddisfatto così e non mi metto a fare storie. Anche perché so che ora arriverà la parte peggiore della giornata e voglio riservarmi di ringhiare per dopo.
- Danny, io e Chakuza abbiamo parlato e siamo d’accordo sul fatto che puoi restare qui, per un po’. – lo avverte lui, sfiorandogli un braccio, - Almeno fino a quando non ti troviamo un altro posto in cui andare. Comunque tu in quel posto di merda non ci torni.
- …ho una consegna a—
- No. – scuote il capo Fler, - Non hai capito. Te ne tiri fuori. Molli.
Il ragazzino digrigna i denti e si muove sul divano, agitato.
- Devo almeno andare ad avvertire i—
- No, cazzo, Daniel! – urla lui, battendo una mano contro il bracciolo del divano, - Cosa pensi, che queste cose si mollino salutando cordialmente quelli che ti hanno pestato e sfruttato negli anni? Credi che io sia andato casa per casa a porgere scuse e omaggi, quando Sido mi ha tirato fuori da quel merdaio? Cazzo! Te ne vai senza guardarti indietro, o non te ne andrai mai davvero.
Daniel incassa la testa nelle spalle e guarda per terra. Io resto qui in piedi e Fler resta lì seduto a guardarlo severamente, per una lunghissima serie di minuti che si conclude solo quando lo sento sospirare e passargli una carezza affettuosa sulla retina che ha sulla testa. Un gesto lento e tranquillo, per evitare di scombinarla.
- Riposati. – gli dice, adesso più dolcemente, - Io vado a casa tua a prendere la tua roba. Tornerò in un paio d’ore.
Ho appena il tempo di farmi passare per la mente la possibilità di restare da solo con Daniel, che lui subito la manda a puttane. Solleva una mano e la stringe attorno alla maglietta di Fler, tirando il tessuto leggero fino a deformare la scollatura.
- Resta qui. – dice a bassa voce, senza dimostrare di accorgersi della mia presenza, - Per favore.
Fler serra la mascella e lo guarda. Io stringo i pugni e guardo lui. Così intercetto l’occhiata che mi lancia ed ho tutto il tempo di cominciare ad incazzarmi furiosamente prima che esprima ad alta voce quello che già so mi dirà.
- Chaku, puoi—
- E va bene, Cristo! Va bene! – sbraito, agitando un braccio e dirigendomi a passi svelti verso l’ingresso, passando a strappare letteralmente la giacca dall’appendiabiti, - Fanculo.
Fler mi viene dietro due secondi dopo. Mi ferma sulla porta afferrandomi per le spalle e riportandomi indietro prima che imbocchi le scale.
- Aspetta, Chaku, non sai neanche dove andare… - mi ricorda, guardandomi con aria platealmente colpevole. Se spera che questo smorzi l’incazzatura, è del tutto fuori strada. Comunque ha ragione, non saprei dove andare a sbattere la testa, perciò resto lì zitto e buono a immagazzinare le indicazioni che sforna con una dovizia di particolari che mi fa venire voglia di demolire l’intero quartiere, vaffanculo a lui, perché sa così bene come arrivare da qui a casa di Daniel? C’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo. – Hai capito bene? – mi chiede alla fine, guardandomi dritto negli occhi come a cercare di leggerci dentro.
- Sì, certo. – borbotto io, - Quello che è.
Lui aggrotta le sopracciglia, irritato.
- Chakuza, ti ho solo chiesto un favore.
Rispondo afferrandolo per una spalla e schiacciandolo tra me e il muro. Gli sono addosso in meno di un secondo e lui neanche prova a fare resistenza. Non che la cosa mi stupisca, d’altronde. Non ricordo volte in cui sia successo.
- Il favore, se non te ne sei accorto, implica che io ti lasci qui da solo col tuo fottuto amante. – gli faccio notare, ringhiandogli a due centimetri dalle labbra. – Quindi non è solo un favore, Fler.
- Fanculo. – respira forte lui, cercando di liberarsi e riuscendo soltanto a strusciarmisi addosso, - Daniel non è il mio amante.
- Però te lo sei scopato. – sibilo sulla sua pelle, e se scendo ad annusare lungo il profilo della sua mascella posso quasi sentire l’odore di pomata e disinfettante, l’odore di Daniel. – Più di una volta. E ti è piaciuto.
Rabbrividisce sotto le mie dita e mi guarda. Non fa altro. Le labbra dischiuse e gli occhi spalancati su di me. Non li evito, mi avvicino ancora di più, fino a sentire la forma del suo corpo pressata contro la mia in maniera quasi dolorosa.
- Se tu lo tocchi, - lo avverto, sfiorandogli le labbra con le mie ad ogni parola, - io ti ammazzo. Se lui ti tocca, io ti ammazzo. Se succede qualcosa… - respiro forte e mi spingo un po’ contro di lui, - se succede una cosa qualsiasi, Fler, io ti… ti ammazzo. – e lui geme ad alta voce, senza nemmeno cercare di controllarsi.
Continuo a guardarlo e lo faccio finché Fler non mi dà quello che voglio. Quello che voglio arriva quasi subito, quando lo vedo annuire confusamente.
- Okay… - ansima, muovendosi a ridosso della parete e strofinandosi contro di me, - va bene, Chaku… va bene… - e mi guarda solo per un attimo, prima di socchiudere gli occhi ed abbassare lo sguardo mentre solleva le braccia a stringermi alle spalle, per muoversi più facilmente. Lo lascio fare per un po’, reggendogli il gioco finché non lo sento affondare le dita e trattenere il respiro, e poi mi allontano, guardandolo freddamente.
Resta talmente sbilanciato che deve aggrapparsi al muro, per non cadere. Ed a guardarlo così mi viene voglia di ribaltarlo contro la parete e scoparmelo adesso, un attimo prima di uscire, col ragazzino ancora di là sul divano. Gli occhi pesanti, le labbra umide, i pantaloni che tirano sull’inguine, la maglietta scomposta e il respiro affannoso. Cristo, Fler. Ma scuoto il capo e mi faccio indietro, infilando la giacca ed aprendo la porta.
- Non me ne fare pentire. – dico gelido.
Quando mi chiudo la porta alle spalle, sul pianerottolo, impreco contro un po’ di santi. Chi cazzo me l’ha fatto fare di avvicinarmi in quel modo? Ora palesemente non riuscirò nemmeno a camminare.
*
Quando Daniel si affaccia dal corridoio, mi trova ancora lì contro il muro che cerco di riprendere a respirare senza fare fatica. Mi guarda con aria un po’ incerta, come non sapesse minimamente cosa fare. Siamo in due, vorrei dirgli, io ho difficoltà anche a muovermi, al momento.
Cerco comunque di rimettermi dritto e mi schiarisco la voce con un paio di colpi di tosse, camminando lentamente verso di lui e riemergendo dalla penombra dell’ingresso di malavoglia. Ho addosso l’odore di Chakuza, ovunque, e questa cosa al momento mi sfianca.
- Non dovevi alzarti dal divano. – lo rimprovero, rimettendolo seduto con una spintarella.
Lui scrolla una sola spalla perché l’altra è ancora fuori uso. Non ha rimesso la maglietta ed è uno spettacolo angosciante.
- Le gambe stanno bene. – mi informa con una mezza risatina, - Le ho tenute nascoste sotto il corpo come mi hai—
- D’accordo. – lo fermo. Non riesco a liberarmi degli occhi di Peter e quando chiudo le palpebre mi sento addosso il suo corpo. Devo… cazzo. L’ha fatto apposta. Devo cercare di… devo assolutamente cercare di riprendermi. – Hai mangiato? Hai fame? – chiedo distrattamente, concentrandomi più sul tentativo di respirare con un ritmo meno affannoso, che non su quello che sto dicendo.
Lui risponde qualcosa che io non sento perché mi risuona ancora nelle orecchie la voce di Chakuza. Così non funziona, non ne esco. Forse avrei fatto meglio a non venire, oggi. Aspetta. Non ricordo da quant’è che sono qui. Di sicuro ieri ho dormito con lui e… forse anche l’altroieri e… è tutto troppo confuso da quando ho ricominciato a lasciare qui qualche vestito, non devo quasi più tornare periodicamente a casa mia e perdo il senso del tempo. Così non va per niente.
Vado verso il frigorifero e comincio a rovistare all’interno, magari trovo della roba con cui imbottire un panino. D’altronde Daniel i diciotto anni deve ancora compierli – e mi sa che, se non risolviamo la questione al più presto, festeggerà la maggiore età con una scarica di legnate non dissimile da quella di oggi, cazzo – perciò deve avere fame. A quell’età hanno sempre fame.
- Ma mi ascolti? – mi chiede piano, e la sua voce è troppo vicina per provenire dal divano, - Ti ho detto che non mi va di mangiare. – s’è alzato ancora.
Mi volto e sospiro. Parto con l’intenzione di rimproverarlo e me lo trovo a due centimetri dal viso che mi guarda incuriosito. Ormai è alto quasi più di me, nell’ultimo anno è cresciuto un sacco. Non so come ce l’abbia fatta. Insomma, intendo, ogni tanto lo guardo e mi chiedo come possa essere ancora vivo, addirittura. Poi ricordo che in fondo sono vivo anch’io e torna tutto.
Io però avevo Anis accanto, quando rischiavo di prendere botte ad ogni angolo di strada.
Daniel non ha mai avuto nessuno, prima di me.
- Dovresti andare a stenderti. – sospiro ancora, guardandolo dall’alto in basso, - …e rivestirti, anche.
Tira fuori un ghignetto che nelle intenzioni dovrebbe essere un concentrato di malizia ma, visto quanto è pesto e malconcio, in realtà fa solo ridere. E neanche poi così tanto.
- Cos’è, problemi? – chiede con aria strafottente. Io lo spintono verso il divano.
- Io no, Danny, ma se tu alle botte aggiungi la polmonite non sono sicuro di cosa potrebbe farti Chakuza quando tornerà a casa.
Lui cade sui cuscini con un tonfo e un mezzo lamento, e mi fissa con aria offesa.
- Lo lasceresti fare? – chiede in un sussurro, - Se mi mettesse le mani addosso, dico… lo lasceresti fare?
Sospiro, sedendomi sulla poltrona al suo fianco.
- Devo proprio rispondere a questa domanda?
Lui annuisce.
Io sospiro ancora.
- Sono il suo uomo, Danny.
Lui aggrotta le sopracciglia e fa per incrociare le braccia sul petto. Rinuncia appena si accorge che fa male.
- Tu non sei suo! – sbotta astioso, puntando le mani sui cuscini.
Io sorrido sarcastico.
- No? – chiedo, scrollando le spalle.
- Assolutamente no! – insiste lui.
- E sarei tuo, invece?
Lui abbassa lo sguardo e sulle sue guance il rossore si nota nonostante i lividi.
- Tu… potresti… - deglutisce e guarda altrove, - Io lo sono. Non sono di nessun altro. Solo tuo.
Sospiro ancora e scuoto il capo. Non so cosa dirgli, anche se so esattamente cosa si prova in situazioni come queste. Quando sai di appartenere a qualcuno ma non è quel qualcuno ad appartenere a te. Mi è successo abbastanza spesso da potermi dichiarare un veterano nel campo. So che fa schifo. So che si fanno assurdità. So che non ci si dà pace. Ma a questo ragazzino senza speranza io, davvero, non so cosa dire.
- Mi dispiace, Danny. – cerco di consolarlo, accarezzandogli una guancia, - Prima o poi ti passerà.
- Oppure insisterò fino a quando non cederai. – sbotta, appoggiandosi sulla mia spalla e strusciando il viso contro la maglietta, - Tu con Chakuza hai fatto così, in fondo…
Rido a bassa voce.
- No, Danny, non esattamente.
- Però più o meno.
Roteo gli occhi ed annuisco.
- Più o meno, sì. Ma non funziona sempre.
Solleva una mano – quella del braccio ancora a posto – e mi stringe alla vita.
- E come fai a sapere che non funzionerà fra noi?
Me lo stringo contro, coccolandolo un po’. Lui mugola subito e si attacca come un cucciolo di koala. Lo fa sempre. È una delle pochissime cose che gli concedo, da quando io e Chakuza abbiamo ripreso a frequentarci. È divertente, perché quando stavamo insieme non aveva bisogno di coccole, praticamente mai. Era molto estroverso ed espansivo, ma queste cose da femmine non gli interessavano per nulla. Ora che è l’unica parvenza di intimità che possiamo permetterci, le cerca come aria per respirare meglio.
So che la sto gestendo male, questa cosa. So che dovrei smettere di vederlo e basta, perché è l’unico modo per dimenticare davvero. Però non voglio. Non voglio prenderlo e cancellarlo dalla mia memoria. Non voglio prenderlo e cancellarlo nemmeno dal mio presente.
- Non funzionerà perché c’è Chakuza di mezzo, piccolo. – dico, facendogli scorrere una mano lungo il braccio e massaggiando piano, - Ci sono persone che ti colonizzano la testa. Quando ci entrano, non ne escono più. Chakuza l’ha fatto con me, io non riesco a immaginare di svegliarmi un domani e non averlo. Capisci cosa vuol dire questo?
Le sue ciglia si muovono appena contro la pelle del mio collo e mi fanno un po’ di solletico.
- Sì, lo capisco. – esala in un soffio.
Sorrido.
- Se lo capisci, dovresti anche rassegnarti.
Sorride anche lui, e mi sbuffa addosso.
- Non è la stessa cosa. E poi, scusa, se a te avessero detto “lascia perdere e rassegnati”, tu l’avresti fatto?
Ridacchio, scuotendo il capo.
- Daniel, Chakuza mi spingeva contro il muro ogni volta che ne aveva l’occasione. Rassegnarsi a quelle condizioni era molto molto difficile. Però ci ho provato.
Lui respira forte.
- E tu non… - comincia, cercando di insinuare la mano sotto la mia maglietta.
Lo fermo.
- No. – rispondo. – Io non voglio. D’accordo? Quindi no.
Daniel sbuffa, infastidito, e si separa da me con uno scatto secco.
- D’accordo. – borbotta in un mugolio di dolore, - Tanto mi fa tutto troppo male per scopare. – ammette, guardando altrove.
Io sorrido e torno a stringerlo piano, ondeggiando avanti e indietro.
Daniel è fondamentalmente un cretino ostinato e masochista.
Se Chakuza non capisce cosa c’è fra noi, vuol dire che ricorda poco dei miei primi mesi con lui.
Mi chino a baciarlo su una guancia e poi lo lascio andare.
- Ti prendo una coperta. – annuncio muovendomi verso la camera da letto, - Ma non dire a Chaku che ci siamo toccati, o finiamo entrambi sullo zerbino stasera, sai?
- Aaah, ma non posso dormire nel letto con voi? – borbotta agitandosi e mugolando come un bambino di tre anni.
Io rido.
- Assolutamente no! – e quando mi chiudo la porta alle spalle mi ritrovo nel buio della camera da letto e sospiro pesantemente. Sarà una giornata difficile. Sollevo un braccio ed annuso piano. L’odore di Chakuza è ancora lì. È più forte dell’odore del disinfettante. Sorrido ed apro l’armadio alla ricerca della coperta.
*
Poso i piedi sulla moquette che riveste il pavimento del corridoio e mi guardo intorno. Dunque, la casa è questa, c’era scritto Kobler sul cancelletto di fronte e la via non l’ho sbagliata. E questo nonostante questa sia una parte di Tempelhof in cui non sono mai stato, sono molto fiero di me.
Certo, sono un po’ meno fiero se penso che sto entrando in casa di sconosciuti per andare a mettere le mani nei cassetti della biancheria di un ragazzino che è stato col mio uomo e che, probabilmente, tra le mura di questo edificio ha visto solo legnate da quando è venuto al mondo. Ma comunque ormai ci sono, quindi basta lagnarsi e passiamo all’azione.
Tiro su le maniche fino a metà avambraccio e mi guardo intorno. Il posto non è tanto grande, è più corridoio che stanze, in realtà. Da qui si vede il bagno, la porta è socchiusa e il rubinetto perde. Faccio qualche passo girando gli occhi qui e là. In casa non c’è nessuno, a parte le gocce che si infrangono sulla ceramica non sento niente. Vago in giro e trovo una cucina sporca e piccola con un chilo di piatti ancora da lavare ammonticchiati nel lavabo, ed una specie di salottino con un divano e una tv. Sopra la tv c’è un’antenna tenuta insieme con lo scotch da imballaggio, quello marrone che lascia tracce ovunque quando lo tiri via. Ci sono tracce di scotch pure nei pezzi di antenna non incollati fra loro.
Ed io che pensavo di vivere in un porcile.
I gradini di legno scricchiolano mentre salgo al piano di sopra. Non me ne curo e, quando mi si apre davanti il corridoio del primo piano, mi salta il cuore in gola: dalla porta spalancata in fondo si intravede lo scorcio di una camera da letto ingombra di vestiti ammucchiati per terra e bottiglie rovesciate accanto al comodino. Sul letto – appena uno spicchio di materasso, è tutto quel che posso vedere da qui – c’è un uomo che dorme e russa. Una mano sulla pancia, l’altra pende verso il pavimento e sfiora la moquette.
Deglutisco forzatamente, muovendomi lento, in punta di piedi. Il respiro dell’uomo è pesante e rumoroso, ricorda quello di Fler quando collassava sulla poltrona, completamente ubriaco. Sospiro: è completamente ubriaco anche lui, e dev’essere il padre di Daniel. Non mi stupisce che la casa sia il casino che è.
Apro una porta a caso cercando di non fare rumore e mi meraviglio della mia fortuna. La camera non può che essere questa, le pareti sono tappezzate di poster e credo di non aver mai visto così tante immagini di Fler tutte insieme in vita mia. Questo ragazzino è palesemente una groupie.
Mi guardo intorno. Qui dentro, a parte un letto sgangherato, una scrivania in disordine ed un po’ di vestiti ammucchiati su una sedia, non c’è niente. Si può tranquillamente dire ci siano più poster attaccati alle pareti che non mobili nella stanza. Mi colpisce un manifesto pubblicitario enorme, sulla testiera del letto. È una vecchia pubblicità di un sampler dell’Aggro Berlin. Vecchia davvero, poi: c’è perfino Bushido. O almeno, dovrebbe esserci. La sua faccia è coperta quasi per intero da un’enorme x fatta col pennarello nero.
Mi lascio sfuggire una risata, senza pensare all’uomo addormentato nell’altra stanza, e quando mi ricordo della sua esistenza presso forte le dita contro le labbra, cercando di calmarmi, ma è molto difficile. La sola idea di Daniel che appende il poster al muro, lo squadra insoddisfatto e poi decide di eliminare la faccia di Bushido dalla superficie spennellandoci sopra è semplicemente troppo divertente perché io possa liberarmene.
Continuo a pensarci mentre vado in giro per la stanza raccogliendo i vestiti, che sinceramente non danno granché l’idea di essere puliti o altro. Cerco anche di pensare ad un modo per rifilarli a mia madre senza che si accorga che sono decisamente troppo piccoli per essere miei o di Fler. Peraltro, il fatto che mia madre ormai non trovi più nulla di strano nel lavare la mia roba assieme alla sua dovrebbe turbarmi, immagino. Certe volte ho l’impressione che il mondo intero abbia accettato l’idea di me e Fler come coppia prima di quanto non l’abbia accettata io. Mettiamoci di mezzo il fatto che ogni tanto faccio fatica ad accettarlo anche adesso, ecco.
Cerco in giro uno zainetto e ne prendo uno a caso in un angolo. È pieno di bustine di cui voglio ignorare il contenuto. Neanche faccio un tentativo con un altro zaino, mi limito a svuotare questo e riempirlo dei vestiti e della biancheria che sono riuscito a raccogliere.
Dopodiché tiro un enorme sospiro e comincio a staccare i poster dalle pareti. Immagino che, dovunque andrà a vivere Daniel dopo che l’avrò finalmente buttato fuori da casa mia, ne sentirà la mancanza, se non li avrà.
Comunque faccio un mezzo pensierino sul tenere io il poster della copertina di Deutscha Bad Boy. Mi frenano solo due cose: primo, non posso mica rubare un poster a un ragazzino così sfacciatamente innamorato; secondo… se anche lo tengo, dove cavolo lo metto? E non è un “dove cavolo lo metto” e basta, è un “dove cavolo lo metto per nasconderlo a Fler, dato che quando deve cercare cose rovista ovunque e, se mai dovesse avere la fortuna sfacciata di trovarlo, poi la mia vita sarebbe palesemente finita”.
Infilo tutto nello zainetto cercando di eliminare i pensieri molesti – tutti, in blocco, compresi i ricordi di Fler schiacciato contro il muro all’ingresso che mi hanno assalito appena mi sono distratto un attimo dall’obiettivo – e vengo fuori dalla stanza. Il signor Kobler ancora dorme ed io un po’ me ne dispiaccio: visto che quest’uomo è l’origine di tutti i miei mali, mi piacerebbe fargli capire cosa penso esattamente di lui e di tutti quelli come lui – ma soprattutto di lui, che cresce i figli in modo che poi quelli debbano sentirsi autorizzati ad infilare le mani nelle mutande degli uomini altrui. Comunque dorme ed immagino che Fler, quando mi ha mandato qui a recuperare le cose, non intendesse anche “ed uccidi quel bastardo”. Cioè, non sono proprio sicuro che Fler lo preferisca vivo. Comunque non è un mio diritto toglierlo di mezzo e francamente non ci tengo più di tanto, in realtà se anche ci tenessi non saprei da che parte cominciare, e comunque non voglio!, perciò scivolo al piano di sotto e poi oltre la finestra nel modo più veloce e furtivo possibile, e prendo a respirare serenamente solo quando mi ritrovo nuovamente immerso nell’aria fresca sul finire dell’estate di Tempelhof.
Mi guardo intorno.
Okay, un attimo di smarrimento.
Questa zona è, diciamo, la zona più “residenziale” del quartiere. Il che significa, in poche parole, che sto immerso in un quadrato di casette tutte uguali, con cancelli tutti uguali, giardinetti incolti tutti uguali, porte sgangherate tutte uguali e cassette delle lettere mezze abbattute tutte uguali. Non cambiano nemmeno i colori. Grigio e verde, grigio e verde, tutto grigio e verde. Così per chilometri, il quartiere è enorme.
Arrivare è stato un conto.
Andare via sarà più difficile.
Zaino sulle spalle e cappuccio calato sul volto, mi avvio in una direzione casuale di fronte a me. Prima o poi ne uscirò, immagino. O finirò per passare il confine, chissà. In ogni caso tutto voglio meno che restare qui. Sono quasi certo che la mia macchina non sia da quella parte, ma se mi toccherà uscire da questa merda di posto a piedi, allora lo farò. Verrò a recuperarla successivamente. Questo posto mi mette ancora i brividi.
Giro a vuoto per un po’. Un bel po’. Quando sono solo il tempo tende a passare sempre troppo lentamente perché io possa quantificarlo, quindi non saprei dire per quanto abbia girato, comunque sia quando mi infilo in una via e mi ritrovo di fronte alla casa del vicino del signor Kobler ho due scelte: o vado nel panico e mi siedo qui, afferro il cellulare e imploro Fler di venirmi a ripescare, o chiedo a un passante.
Visto che non ho la benché minima intenzione di implorare nessuno, e visto che sono uscito di casa mantenendo un certo tono e non ci tengo a fare la parte del cagnetto uggiolante proprio adesso, la scelta può essere una sola.
Mi avvicino al primo tizio che incontro. Avrà una ventina d’anni – per com’è vestito, con quei pantaloni aderentissimi di pelle nera e il vuoto sotto il chiodo borchiato, non più di venticinque – ma ha una faccia talmente sfatta che ne dimostra quasi il doppio. Occhiaie e rughe comprese. Al confronto io e Fler – ma anche Bushido, volendo – sembriamo ragazzini. Cammina ciondolando e nella tasca dei jeans si intravede chiarissima la forma di un serramanico ripiegato. Mi rendo conto che non si tratta della persona più affidabile cui chiedere delle indicazioni, ma non c’è nessun altro in giro e non mi pare di avere molta scelta. A parte quella scartata a priori del panico e di Fler che mi viene a riprendere neanche avessi dodici anni.
-Ehm… scusa? – chiedo, picchiettandogli con due dita sulla spalla perché si accorga di me.
Lui mi alza addosso un paio d’occhi celesti trasparenti come pezzi di vetro ma arrossati in maniera quasi allarmante. Non ho idea di cosa abbia mandato giù ma di sicuro non dev’essere stata roba buona.
- ‘Cazzo vuoi? – mi sbotta in faccia, e l’alito puzza di birra. Perfetto. Sono fottuto.
- Senti, ho bisogno di un’informazione… - comincio, nel modo più pacato possibile.
Lui mi guarda come fossi una merda pesticchiata sul marciapiedi.
- Li conosco gli sbirri come te. – mi accusa, tirando su col naso, - Stronzi figli di puttana, sbirri in borghese. Non so un cazzo.
- Ma io voglio solo—
- Non so un cazzo, ti dico, sbirro di merda.
Ringhio e cerco di mantenere la calma.
- Non sono un cazzo di sbirro. – grugnisco, le mani sui fianchi, - Se proprio vuoi saperlo, l’unica cosa certa della mia vita è che in mezzo alla manica di matti coi quali vivo io sono solo il fottuto chef. Ma non se lo ricorda mai nessuno!
Quello mi guarda per tutta una serie di secondi che non riesco a quantificare. La strada è immersa in un silenzio surreale, ci siamo solo io e lui e non riesco a sentire neanche i rumori delle macchine che sono quasi sicuro circolino ancora dalle parti del canale.
Mi schiarisco la voce.
- Ora… posso chiedere—
- Lo chef, dice lui… - mi interrompe il tipo, i lineamenti del volto deformati da un ghigno sghembo semplicemente terrificante, - Conosco una persona che non sarebbe per niente d’accordo. – ed ho appena il tempo di realizzare di aver detto una solenne cazzata, che lui ha già estratto il serramanico e me lo sta puntando alla gola. Faccio per indietreggiare e dire qualcosa, ma lui sfiora la pelle del collo con la lama appuntita e tagliente ed io deglutisco e rimango in silenzio. – Puoi chiedere dove ti porterò adesso? – mi fa il verso, continuando a ghignare, - No. Però puoi seguirmi senza fare storie.
- …non fare pazzie, amico, non—
- A-ha! – mi ferma, incidendo appena sotto la mascella, ed io trattengo perfino il respiro, - Senza fare storie, ho detto. Ci siamo capiti?
Annuisco. E lo seguo, che altro posso fare?
La prossima volta, giuro, vado nel panico e mi faccio venire a riprendere.
*
Sono passate sei ore quando comincio a preoccuparmi. La parte più razionale di me mi dice che non dovrei, che d’accordo, magari il Chaku è a Tempelhof, ma è pieno giorno. Cosa mai può succedergli in quel posto, per quanto pericoloso, alle due del pomeriggio? E poi in che guai può essersi cacciato dovendo semplicemente andare ad un indirizzo ben preciso per prelevare qualcosa prima di fuggire per sempre?
Devo stare calmo, mi dico. Calmo e rilassato. Fra qualche minuto mi chiamerà, si scuserà per non essersi fatto sentire per sei fottute ore e poi confesserà mugugnando che s’è perso, e mi implorerà di andarlo a recuperare in qualche angolo dimenticato da Dio che non saprà nemmeno descrivermi correttamente.
- Ho faaame. – miagola Danny, sbuffando platealmente, tutto arricciato sul divano, - Non si mangia?
- Aspettiamo Chakuza. – rispondo io, lanciando un’altra occhiata all’orologio. Sei ore e dieci minuti. Chakuza, Cristo, dove sei finito?
- Perché non lo chiami? – mi chiede lui, sporgendosi dal divano ed allungando un braccio verso il tavolino, per cercare di recuperare il telecomando poggiato sul ripiano, - Magari sta perdendo tempo da qualche parte e s’è dimenticato che lo stai aspettando. – suppone, la lingua fra le labbra e l’espressione concentrata mentre con un breve scatto si allunga abbastanza da afferrare il telecomando, per poi tornare ad abbattersi contro i cuscini sistemati con cura dietro la sua schiena, uggiolando di dolore.
- Non posso chiamarlo, Danny. – espiro in uno sbuffo contrariato, andando a sedermi sulla mia poltrona giusto per staccarmi dalla finestra prima che rimanga impressa sul vetro l’impronta indelebile del mio naso. – Magari ci sono stati problemi a casa tua. – gli spiego, lanciandogli un’occhiata risentita. Io ti adoro, Danny, ma tu non puoi mettere il mio uomo a rischio. Egli non è adatto. In generale. – Magari tuo padre s’è svegliato e lui ha dovuto nascondersi da qualche parte. Che faccio, lo chiamo rischiando che il cellulare riveli dov’è?
Daniel inarca un sopracciglio, guardandomi con aria scettica.
- Tutti sanno che quando si fanno cose simili il cellulare va tenuto silenzioso. – dice con naturalezza. E sì, certo, Daniel. Tutti lo sanno. Io lo so, tu lo sai. Se avessi mandato Anis a recuperare la tua roba potrei avere la certezza che lo sa anche lui. Ma Chakuza?
- Lascia che io ti dica che non hai capito niente del Chaku. – annuisco con aria professionale, - Come minimo non solo ha il cellulare con la suoneria attivata, ma pure al massimo volume. E personalizzata di modo che lo chiami per nome. – sospiro profondamente.
Daniel ride, incredibilmente divertito, ed accende la tv.
- Ma che ci fai con uno così? – mi chiede, con aria apparentemente distratta, concedendosi un po’ di zapping prima di fermarsi su un cartone animato a caso. La domanda è cosa ci faccio qui con te, semmai, Danny. – Cosa c’entri?
- Non ricominciamo. – borbotto, e in quel momento il cellulare vibra nella tasca posteriore dei miei pantaloni. Mi alzo in piedi all’istante, lo estraggo e lo guardo. Chakuza mi ha mandato un messaggio. – Era anche ora… - borbotto risentito, mentre mi affretto a premere il pulsante per leggerlo.
Ciò che i miei occhi vedono, comunque, è non affatto soddisfacente. Nel messaggio c’è scritto solo aiuto.
- Che ti prende? – chiede Danny, spegnendo istintivamente la televisione e lanciandomi un’occhiata preoccupata, - Sei sbiancato.
- Chakuza è in pericolo. – dico d’un fiato, girando sui tacchi e dirigendomi speditamente verso la porta d’ingresso, - Devo andare a cercarlo.
- Ehi— aspetta! – cerca di fermarmi lui, saltando giù dal divano e piegandosi immediatamente su se stesso per il dolore. Capisce che non ho tempo da perdere, comunque, e si rimette in piedi piuttosto alla svelta, tenendosi la pancia fra le mani e seguendomi. – Come sarebbe a dire che è in pericolo? Cos’è successo?
- Cosa vuoi che ne sappia! – urlo, voltandomi a guardarlo con rabbia. Lui arretra di un passo, serrando le labbra finché non diventano sottilissime e pallide. – Scusa. – cerco di calmarmi. Cazzo, non è colpa sua se Chakuza è in pericolo. Sapevo che avrei dovuto andarci io. Cazzo. – Mi ha mandato un messaggio, guarda. – dico, sollevando il cellulare per mostrarglielo. Daniel lo legge velocemente e i suoi occhi si fanno più cupi per qualche secondo, mentre annuisce sommessamente.
- Vengo con te. – dice quindi, tornando al divano per infilare le scarpe.
- Neanche per idea. – ribatto io, ignorandolo platealmente.
Lui mi passa davanti ed apre la porta, uscendo di casa prima di me.
- Non era una domanda. – conclude, cominciando a scendere le scale. Roteo gli occhi, correndogli dietro.
- Piccolo, torna in casa, dai. – dico dolcemente, accarezzandogli una spalla. Stavolta è lui a ignorare me.
- Potrei esservi utile. – dice. Ma esserci a chi? Io intendo andare da solo.
- Daniel, - sospiro, - sei ferito e dolorante, sei un rottame, dovresti essere in ospedale, che cazzo me ne faccio di te, me lo spieghi?
Lui mi lancia un’occhiata risentita, aggrottando le sopracciglia.
- Qualsiasi cosa. – risponde di getto, - È anche colpa mia se è nei guai.
- Danny, non—
- Sta’ zitto. – mi interrompe. Siamo già a piano terra. – Sai già a chi chiedere?
Lo guardo per qualche secondo, confuso.
- Che intendi? – gli chiedo, inarcando un sopracciglio. Lui sbuffa platealmente, roteando gli occhi.
- Dubito che sia stato mio padre a causargli guai. – spiega, - Se anche si fosse svegliato, nelle condizioni in cui era quando l’ho lasciato poteva sicuramente pestare me, ma non uno come Chakuza. Cioè, uno che possa rispondergli come merita. – sospira un po’, abbassando lo sguardo, e a me si stringe il cuore. – Deve aver fatto casino mentre era per strada. Magari ha preso uno dei miei zainetti speciali, quelli con la roba dentro. Hanno tutti una toppa particolare, così la gente del ghetto li riconosce e sanno che possono chiedermi. Se qualcuno l’ha vista, forse ha pensato che fosse del giro.
Non fatico a immaginare che, a partire da uno scenario simile, Chakuza possa essere finito in guai molto più catastrofici di quelli che riesco a immaginare in questo momento senza avere una crisi isterica. Inspiro ed espiro profondamente, cercando di razionalizzare. Potrei sbrigarmela da solo, andare a Tempelhof e perdere le ore partendo da zero, senza il minimo aggancio, per cercare di tirare fuori qualche informazione a qualche sconosciuto.
Oppure posso andare da Bushido, e chiedergli di contattare Arafat.
Vista la situazione, e visto soprattutto che una cosa so per certo, ed è che non voglio lasciare Chakuza da solo a Tempelhof troppo a lungo, faccio in fretta a decidere per il meglio. Daniel sorride soddisfatto, salendo in macchina e mettendosi comodo.
- Togliti quell’espressione dalla faccia. – mugugno io, talmente infastidito che per un attimo non faccio caso a quello che dico, - Sarai tu responsabile, se gli succede qualcosa.
Gli occhi di Daniel s’incupiscono un’altra volta, mentre lui si torce le dita in grembo, nervoso. È evidente che riesce a ragionare in maniera perfettamente lucida quando si parla di pianificare il salvataggio di qualcuno di cui tutto sommato gli importa pure poco, ma impazzisce d’ansia quando pensa anche solo per sbaglio che io potrei cominciare ad odiarlo per qualche motivo.
- Andrà tutto bene. – dice, più per rassicurare se stesso che per rassicurare me, anche perché io al momento non posso essere rassicurato.
Sospiro, allungando una mano ad accarezzargli piano la nuca.
- Sì, andrà bene. – confermo mettendo in moto.
Da Bushido ci arriviamo in tempo record, bruciando anche un paio di rossi. Per tutto il tempo, Daniel resta tranquillo al mio fianco, senza neanche muoversi in avanti quando freno o schiacciarsi indietro contro lo schienale quando accelero. Non ha nemmeno messo la cintura di sicurezza, cosa che suppongo dovrei trovare sconveniente al punto da fermarmi e cercare di convincerlo a metterla, ma non c’è nemmeno il tempo di razionalizzare il pensiero che la mia macchina si ferma perfettamente parallela al marciapiedi appena fuori dal cancello di casa di Bushido, ed a quel punto fargli indossare la cintura non avrebbe più molto senso.
Esco di gran fretta, e Daniel, per quanto le sue ossa peste glielo permettano, fa lo stesso, per cercare di non intralciarmi troppo. Karima ci mette troppo a rispondere al citofono, e quando sento la sua voce domandarmi chi sono e cosa voglio – è una donna d’altri tempi che non ha mai imparato ad usare il video nella parola videocitofono – rispondo sgarbatamente di farmi entrare e non perdere altro tempo. Lei rimane in silenzio per un altro paio di secondi, e io batto con forza una mano contro le grate del cancello, così improvvisamente che Daniel, al mio fianco, sobbalza lanciandomi una lunga occhiata colma di preoccupazione.
- Karima! – la chiamo, - Datti una mossa!
La serratura scatta il secondo successivo. Il cancello si apre sotto le mie mani e Skyline e Sherlee mi vengono incontro, saltellando ed abbaiando festosi. Io non ho tempo di star loro dietro, perciò passo in mezzo ai loro musi senza fermarmi neanche ad accarezzarli, e se non mi vengono dietro continuando ad abbaiarmi alle spalle è solo perché Danny, visibilmente più lento di me, non riesce a tenere il mio passo e non può sfuggire alla loro rumorosa richiesta di attenzioni, cedendo perciò a metà del vialetto e grattando entrambi dietro le orecchie in una sorta di pedaggio in seguito al pagamento del quale i due cuccioli lo lasciano libero di seguirmi.
Sulla soglia della porta non c’è Karima, probabilmente tanto oltraggiata dal mio comportamento da essersi già rintanata a pelare cipolle in cucina come fa sempre quando qualcosa non rientra nel ristretto campo delle sue approvazioni, perché, come ama dire, un po’ di cipolla tritata serve sempre ed è meglio averne un po’ di scorta per ogni evenienza. Quali evenienze improvvise potrebbero giustificare la presenza di terrine piene di cipolla già tritata nascoste in frigorifero io non lo so, ma tant’è, lei non è sulla porta ad attendere il nostro arrivo come dovrebbe essere. Ci sono sia Bushido che Bill, invece, e faccio appena in tempo a notare l’occhiata infastidita di Bill quando vede Danny alle mie spalle – a Bill non va granché giù che Danny sia tornato a ronzarmi intorno da quando io, invece, sono tornato a ronzare intorno a Chakuza – che quell’occhiata subito scompare, tramutandosi in qualcosa di diverso. I suoi occhi si spalancano, mentre porta una mano a coprirsi la bocca dischiusa in una smorfia inorridita.
- Ma che gli è successo? – chiede sconvolto, mentre Bushido prende atto delle condizioni del ragazzino con molta più praticità, osservandolo in lungo e in largo con aria concentrata, - Sta bene?
- Non è lui quello in pericolo, al momento. – rispondo seccamente io, spingendomi abbastanza in avanti per far sì che Bill e Bushido si scostino dall’uscio, lasciandomi entrare. – Chakuza è finito nei guai. – dico quindi, mentre Bushido aspetta che anche Danny sia entrato all’interno della villa, prima di chiudersi la porta alle spalle, - A Tempelhof. Da solo.
Bushido aggrotta le sopracciglia, i lineamenti del suo volto che si tendono repentinamente mentre irrigidisce le braccia lungo i fianchi.
- Cosa?! – strilla Bill, sconvolto, - Che c’è andato a fare lì da solo?
Bella domanda, ragazzino.
- Ne parliamo dopo. – taglio corto, - Anis, dobbiamo fare qualcosa. – tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e mostro alla coppia reale il messaggio che ho ricevuto ormai quasi venti minuti fa. Dio, venti minuti. Sono milleduecento secondi. Per uccidere un uomo ne basta uno.
Bill si lascia scivolare fra le labbra un gemito addolorato che gronda preoccupazione. Bushido non ha ancora aperto bocca, continua a studiare la situazione in silenzio, incrociando le braccia sul petto.
- Che ci fa lui con te? – chiede quindi Bill per riempire il vuoto che sente pesargli sul petto. Ci metto un po’ a capire che parla di Daniel, in parte perché non sono concentrato e in parte perché Bill non si prende nemmeno il disturbo di indicarlo. – Perché deve stare qui? Guarda quant’è pesto, mi rovina l’arredamento. – sbuffa infastidito.
- Bill. – scatto io, aggrottando le sopracciglia, - Non è il momento.
- Ah, non lo è? – ribatte lui, le mani sui fianchi e un’espressione di insopportabile superiorità sul volto, - Intanto lui è qui e il tuo uomo è nel ghetto da solo. – ribadisce, come se non ne fossi già insopportabilmente cosciente.
- Bill, sai che ti voglio bene, - dico, mordendomi con forza l’interno una guancia per forzarmi a ripetere queste parole, perché so che è una cosa vera ma in questo momento non mi sembra affatto, - ma fatti i cazzi tuoi. – concludo con un’occhiataccia.
Bill spalanca gli occhi, oltraggiato. Apre le labbra e fa per dire qualcosa, ma non riesce. Bushido è più svelto.
- Taci. – dice guardandolo, - E anche tu. – aggiunge guardando me. Io mando giù un blocco d’aria che pesa come il granito, mentre lui si volta a guardare Danny. – In che zona è andato? – chiede a lui, e per un secondo penso che l’abbia fatto perché ha già capito tutto, e trattandosi di Bushido la cosa non mi stupirebbe affatto. Poi razionalizzo, e capisco che ha chiesto a lui solo perché Danny a Tempelhof ancora ci vive, contrariamente a tutti noi. Afferro solo vagamente quanto deve essere costato a Bushido ammettere una cosa del genere, pur se implicitamente, e forzarsi a chiedere a un ragazzino un’informazione simile per salvare Chakuza. Mi riservo di ringraziarlo dopo per questo, visto che so per certo che nessuno a parte me può comprenderlo, e nessun altro lo ringrazierà.
Daniel si mordicchia il labbro inferiore, pensoso.
- È nella zona residenziale, - dice, - quella coi prefabbricati. Ma lì intorno ci sono i vecchi magazzini del mercato ortofrutticolo, e non sono più usati per frutta e verdura da tempo.
- Che rischi ci sono che l’abbia preso qualcuno di pericoloso? – chiede ancora, avvicinandosi al tavolino basso e recuperando il cellulare posato sul ripiano di vetro.
Daniel sospira profondamente.
- Per tutta una serie di ragioni, potrebbe essere finito nei guai con qualche corriere, credo.
- Con qualche corriere?! – strilla Bill, incapace di trattenersi oltre, - Cosa diavolo l’avete mandato a fare?!
- Bill, sta’ zitto. – ribadisce Bushido, digitando velocemente un numero a memoria e portando il cellulare all’orecchio.
- Lo stai chiamando? – chiedo io, a corto di fiato, fissandolo speranzoso.
- Sta’ zitto anche tu, ho detto. – dice lui, lanciandomi un’occhiata indecifrabile. Poi sospira, inumidendosi le labbra. – Sì. – dice quindi. Mi si annoda lo stomaco finché resta in silenzio, e poi sento un click sommesso ed una voce dal passato che risponde chiedendo festosamente a Bushido come sta, perché è da un sacco di tempo che non lo sente. – Ari. – dice Anis, il tono grave e lo sguardo concentrato mentre fa segno a Bill di recuperare un pezzo di carta ed una penna, - Mi servono un paio di indirizzi.
*
Naturalmente non riesco a parlare, ma visto che sono state le mie parole a generare tutto questo gran casino da una parte è meglio così. Sì, mi sta bene tacere, quello che non mi sta bene è che per farmi stare zitto mi abbiano legato questa robaccia attorno alla testa, e mi abbiano infilato due chili e mezzo di polistirolo in bocca. A parte che il sapore fa schifo, e a parte che mi sto cagando sotto perché, voglio dire, chi cazzo è questa gente?, a parte tutto questo, lo scotch sulle guance tira e fa un male fottuto, e non riesco a muovermi perché ho le braccia legate dietro la sedia in una posizione innaturale che mi fa dolere le spalle, e le gambe legate strettissime con delle vecchie corde sporche ai piedi della sedia.
In generale, sono finito proprio in una bella situazione di merda. E mi piacerebbe poter dare la colpa a Daniel, perché almeno così non dovrei stare seduto qui a soffrire, ascoltare stronzate e dovere avere a che fare in aggiunta con la consapevolezza che a trascinarmi in questo magazzino abbandonato con le finestre inchiodate non è stato il ragazzino, non è stata la richiesta di Fler, no, sono state la mia ostinazione a non voler chiedere aiuto e la mia boccaccia del cazzo.
- Allora. – riprende l’uomo che mi ha ricoperto di cazzate da quando sono stato portato al suo cospetto un paio d’ore fa. È vestito con una tuta integrale in pelle bianca, aperta fino allo stomaco rotondo e prominente. Indossa un paio di occhiali da sole dei quali in questa penombra non dovrebbe avere il minimo bisogno ed i suoi capelli sono acconciati in un ciuffo che si protende contemporaneamente in avanti e verso l’alto. I tacchi dei suoi stivali bianchi a punta producono un suono che mi snerva, ticchettando sul pavimento pieno di crepe mentre lui gira intorno alla sedia, guardandomi circospetto. – Mi dicono che ti piace andare per strada facendoti grande agli occhi dei passanti. – dice, - Lo chef, mi dicono, è così che ti fai chiamare. Ma oh, hai fatto i conti senza l’oste, mio caro amico pelato.
Io mugugno qualcosa, ma non riesco a farmi uscire dalle labbra niente che abbia un senso. In realtà tutto quello che vorrei strillare è “ma sei cretino?! Ti sei completamente bevuto il cervello?! Da quale epoca sei venuto fuori, scherzo della natura?! Santo Dio!”, quindi forse è meglio che io sia obbligato a tacere. Cristo, è passata quasi un’ora da quando sono riuscito a mandare quello scampolo di messaggio a Fler, e tutto ciò che ho ottenuto in cambio è stato che mi portassero via il cellulare e lo spaccassero in due sotto i miei occhi sofferenti. Quando e se tornerò a casa, comprare un cellulare nuovo sarà drammatico. Non mi abituerò mai al tastierino nuovo, non riuscirò mai a memorizzare il nuovo menu e dovrò fare i salti mortali per trovare qualcosa che non possieda la parola touch nel nome o nella descrizione delle caratteristiche principali. Che odio. Fler, dove cazzo sei finito?!
- Cos’è che hai detto? – chiede il tipo, chinandosi su di me e tendendo un orecchio, - Non ti ho sentito! Forse perché sei imbavagliato. – si rimette dritto, grattandosi pensosamente il mento. – Dovremmo forse lasciarti libero? – chiede retorico, lanciando un’occhiata ai due che stanno alla sua sinistra e alla sua destra. Uno è quello che mi ha portato qui, e l’altro un suo degno compare. Anche lui indossa un giubbotto di pelle senza niente sotto, ed un paio di jeans chiari con più buchi che brandelli di stoffa. – No che non dovremmo. – si risponde da sé Elvis, tornando a guardarmi severamente. – Hai capito perché sei qui, nano? – mi chiede quindi, e io mi dimeno perché con questi nomignoli del cazzo mi ha veramente frantumato le palle.
- Attento a come ti muovi, sbirro di merda. – dice il tizio che mi ha portato qui, puntandomi il serramanico alla gola, - Rispondi alle domande e fa’ il bravo, e se te lo meriterai potrai uscire di qui sulle tue gambe, quando ti lasceremo libero.
Io smetto di muovermi ed inspiro profondamente, cercando di ritrovare una calma che ho in realtà perso troppo tempo fa per poterle chiedere di venire in mio soccorso adesso. Provo a mugugnare qualcos’altro, qualcosa a caso, tanto è evidente che non riuscirei a farmi capire anche se dicessi qualcosa di sensato, ma Elvis mi ascolta con attenzione, annuendo partecipe. Dio santo, ma dove sono finito?
- Certo, certo, hai ragione. – dice annuendo ancora, - Quindi forse dovremmo proprio lasciarti libero, ma sai, c’è una cosa a cui tengo molto, una lezione che penso tu debba imparare prima di andare via, e penso che le condizioni in cui sarai quando uscirai da questo magazzino dipenderanno molto da quanto bravo sarai ad apprendere. Ci siamo capiti?
Io abbasso lo sguardo. Odio cedere, ma odierei anche morire in questo posto lugubre senza aver cucinato un’ultima volta, senza aver salutato i miei genitori e mia sorella, senza aver rivisto Bill, senza aver rivisto Fler. Senza aver toccato Fler, senza avergli detto che—
- Ci siamo capiti? – ripete Elvis, strattonandomi per una spalla. Io annuisco freneticamente. Ci siamo capiti, Elvis, ci siamo capiti. – Bene. – sorride compiaciuto. – Ora voglio che tu te lo ficchi bene in testa, mio buon amico: - dice a bassa voce, - c’è un solo chef, in questo quartiere, soprattutto da quando io e i miei compari abbiamo cominciato a studiare un piano per ammazzare tutti gli altri. – inarco un sopracciglio. Un piano? Che cazzo sta dicendo? – Be’, sì, non ci siamo ancora riusciti! – strilla istericamente, come leggendomi nel pensiero, o forse semplicemente leggendo l’incredulità nell’espressione del mio viso, - Ma prima o poi li faremo fuori tutti, ed allora resterò solo io! Per cui, impara bene la lezione fin d’ora, nano: chi è l’unico chef di Tempelhof…?
È a quel punto che succede. Inizialmente non ci capisco molto, perché non vedo niente. Sento, quello sì, un botto terrificante e il fischio di qualcosa di incredibilmente veloce che passa da qualche parte alla mia sinistra prima di andarsi a schiantare contro il pavimento a pochi centimetri dall’anfibio dell’altro compare di Elvis, quello che non ha ancora aperto bocca, e che la apre adesso per la prima volta per strillare “merda!” con quanto fiato ha in gola, saltando repentinamente all’indietro.
- Cosa cazzo succede?! – strilla a propria volta il tipo che mi ha portato qui, occhieggiando spaventato il buco sul pavimento e la pallottola che vi si è conficcata dentro. – Cazzo!
- Chi c’è?! – grida Elvis, parandosi in mezzo alla stanza con le braccia spalancate e le gambe piegate in una posa ridicola, - Chi osa?!
Un altro sparo parte da un punto totalmente opposto del magazzino, piantandosi sulla parete alla mia destra. Sobbalzo sulla sedia perché non ho una cazzo di idea di cosa stia succedendo. E se fossi finito in mezzo a una guerra fra bande? E se quelli che Elvis minaccia di volere uccidere avessero scelto proprio questo momento per impedirglielo ponendo fine alla sua triste e misera esistenza da sfigato nato con vent’anni di ritardo?
Non ho modo di capirlo, perché per qualche secondo, dopo l’urlo che Elvis ha lanciato in seguito al secondo sparo, il magazzino ripiomba nel silenzio. Magari è stato solo un avvertimento, mi dico. Non so bene come funzionino queste cose, Fler saprebbe spiegarmelo ma lui non c’è, probabilmente è impegnato a spargere pomata sulle ferite del suo ex e di me se ne strafrega, per cui aggrotto le sopracciglia e decido che me ne strafregherò anch’io, ma i miei propositi reggono pochissimo perché il secondo successivo dieci cento o forse anche mille pistole si mettono a sparare tutte contemporaneamente, l’aria diventa incandescente, fischia attorno a me, ne sento il rombo fin dentro le orecchie, e ci sono proiettili che volano impazziti dappertutto e io me la sto facendo sotto, cazzo, e prego soltanto che nessuno di questi fottuti proiettili mi prenda perché voglio tornare a casa, stasera, voglio riportare a Danny la sua roba, voglio vedere Fler, voglio abbracciarlo e dirgli che lo so che non ci andrà a letto col ragazzino, lo so che non mi tradirà, lo so che mi ama, voglio dirgli tutte queste cose e non è vero per un cazzo che me ne strafrego di lui. Non è vero per un cazzo.
Chiudo gli occhi con forza, cercando di incassare il più possibile la testa nelle spalle, e prendo nota solo confusamente dei tre uomini che mi tengono prigioniero mentre danno di matto, confusi dai rumori degli spari e dalle pallottole che soffiano minacciose ovunque attorno a loro. Mi pare di sentire un “no!” strozzato provenire da dietro un mucchio di vecchie casse in fondo al locale, ma non ho modo di badarci troppo perché oltre ai rumori degli spari l’aria è piena delle urla dei miei aguzzini. Li sento urlare, muoversi in cerchio, urlare ancora e poi trovare un’uscita. Le loro voci si fanno sempre più deboli e distanti, e così gli spari, che diminuiscono d’intensità e poi si spengono del tutto. Io sono ancora vivo e non ho male da nessuna parte, e sono profondamente convinto che questo sia un miracolo.
Apro prima un occhio e poi un altro, guardandomi confusamente intorno. Il pavimento e tutte le pareti sono pieni di segni dove i proiettili sono andati a schiantarsi. Sudo freddo a pensare che se uno a caso di queste decine di proiettili avesse deciso di non andare a conficcarsi per terra o sui muri ed avesse preferito conficcarsi nella mia testa, sarei morto. Ci penso insistentemente per un paio di secondi e poi Bill – no, ripetiamolo perché non riesco nemmeno a crederci: Bill! – spunta fuori da dietro le casse dalle quali mi era sembrato di sentir provenire quel “no!” e mi si avvicina, affrettandosi a chinarsi davanti a me e sciogliere tutte le corde che mi tengono legato.
Non appena sono libero, scivolo giù dalla sedia , esausto, e Bill mi accoglie fra le proprie braccia reggendo il mio peso abbandonato e floscio con una forza che non gli riconosco. Mi chiedo quando sia arrivata, tutta questa forza, perché proprio non c’era quando i nostri corpi stavano vicini spesso e molto più a lungo di adesso, ed è allora che Bushido esce da un angolo in ombra alla mia sinistra e Fler fa lo stesso dall’angolo opposto, accompagnato da Danny che zoppica ed ha la faccia contratta in un’espressione di dolore continua.
Il tempo riprende a girare e io e Bill ci allontaniamo contemporaneamente. La forza di adesso, quella che guida le sue braccia e le sue gambe e rende i suoi occhi brillanti e presenti nonostante siano pieni di lacrime, è una forza che non gli ho dato io.
- Dimmi solo che stai bene. – mi sorride mentre mi libera dallo scotch. Mi giro appena per sputare la palla di polistirolo ormai tutta masticata, e mi asciugo la bocca col dorso della mano prima di offrirgli un sorriso stanco ed annuire lentamente.
Bushido butta lì un paio di colpi di tosse e Bill si alza in piedi. Vedo nell’espressione rilassata del suo viso che non lo fa perché deve o perché si sente in colpa, ma soltanto perché vuole e sa che è giusto così. Io mi alzo in piedi, guardo Fler ma lui non mi ricambia l’occhiata. Fissa la propria pistola accarezzandola con lo sguardo e, sbrigativamente, anche con due dita, prima di riporla in una tasca interna della giacca. Non gli dico niente, né d’altronde lui dice niente a me mentre usciamo o mentre, con la sua macchina, riportiamo Bill e Bushido a casa loro, prima di tornare da me. Io resto seduto sul lato del passeggero a guardarlo guidare in silenzio, gli occhi fissi sulla strada, mentre Daniel prova a fare un po’ di conversazione e rinuncia al terzo tentativo andato a vuoto. Si sistema con la schiena contro il sedile di dietro, anche perché suppongo sia tutto un dolore e non ce la faccia proprio più a reggersi dritto con le sue sole forze, e nel farlo gli cade l’occhio sul suo zainetto gettato in un angolo. Lo solleva e lo guarda da ogni lato, spalancando la bocca in segno di stupore prima di riuscire veramente a parlare.
- Ma non è uno di quelli speciali! – sbotta, - Non c’è la toppa! È uno di quelli che tengo a casa per nascondere la roba! – si sporge in avanti, agitandomi lo zainetto davanti al naso, - Chakuza, mi dici come hai fatto a metterti nei casini se non è stato il mio zaino ad attirare quel malato mentale in tuta di pelle?
Io prendo atto dell’espressione assolutamente allucinata che mi lancia Fler ed incasso la testa nelle spalle, aggrottando le sopracciglia e fissando la strada che scorre lenta sotto la macchina al di là del parabrezza. Spiego quello che mi è capitato, partendo dal principio e ammettendo che, fondamentalmente, non c’ho capito un cazzo. Ma cos’è? Ora non si può più andare in giro dicendo di essere un cuoco che finisci catturato da un trio di decerebrati che si sono messi in testa per chissà che motivo che vuoi essere tu il new kid on the block? Ma anche no, è profondamente ingiusto. Mi premuro di dire anche questo a Daniel e Fler, che nel mentre mi guardano con aria sempre più sconcertata, spalancando occhi e bocche lentamente ma progressivamente, finché non scorgo nel fondo delle loro pupille azzurre inquietantemente simili che forse non lo faranno a voce alta, ma nella loro testa mi stanno deridendo. Ampiamente.
Naturalmente, l’unico a risparmiarsi di prendermi per il culo a voce alta è Fler, e solo perché suppongo fosse realmente preoccupato: stringe le mani attorno al volante e torna ad osservare cautamente la strada, mordicchiandosi l’interno di una guancia; Daniel, invece, si dà alla pazza gioia, rovesciando il capo sullo schienale del sedile e tenendosi la pancia mentre rotola qua e là in preda alla crisi di riso più devastante di tutti i tempi, talmente devastante, in effetti, che a un certo punto le sue risate cominciano a diventare rantoli seriamente addolorati.
- Oddio, - piagnucola, incapace di trattenersi, - ma non lo sai che chef sta per capo, nel ghetto? Oddio, sto soffocando! – uggiola, le lacrime agli occhi, - Mi fa male tutto e non riesco a smettere, Chakuza! – protesta, come se fosse colpa mia o potessi farci qualcosa, poi.
- Sì, be’, potresti sempre provare cominciando a tapparti la bocca. – suggerisco con un’occhiataccia, alla quale Daniel risponde intensificando volume e frequenza delle risate. Roteo gli occhi, inspirando profondamente e tornando a guardare la strada.
- Sei stato uno stupido. – dice Fler a bassa voce. Non mi guarda neanche e il suo tono è gelido, quasi preoccupante.
- Mi dispiace. – ammetto abbassando lo sguardo, - Non credevo che—
- Avresti dovuto essere più prudente. – insiste lui. Noto solo adesso che ha le nocche bianchissime, tanto sta serrando le dita attorno al volante. – Mi sono molto preoccupato, Peter.
Annuisco piano. L’eco delle risate di Daniel si fa sempre più distante. Lui sta ancora ridendo, ma Fler è molto arrabbiato, più di quanto non mi stia lasciando intendere mentre mi parla, e questo rende tutto automaticamente molto meno importante, o degno d’attenzione.
- Scusami. – dico mesto, - Non lo farò più.
Se mi comporto come un bambino che si sente rimproverato dallo sguardo severo di suo papà, è solo perché mi ci sento.
*
Daniel crolla addormentato sul divano nel momento esatto in cui io e Chakuza glielo copriamo con un lenzuolo ed un paio di coperte. È esausto, devastato, e chiaramente non ce la fa più a reggersi in piedi.
- Dio, mi fa male tutto. – ripete in un mormorio straziante, mentre appoggia la testa contro il cuscino. Non è tipo da lamentele continue, ma questa frase l’avrà ripetuta almeno dieci volte negli ultimi venti minuti, è come se non riuscisse a dire altro, o non riuscisse nemmeno a formulare nella mente parole differenti. Forse è in questi istanti, mentre gli sistemo addosso la coperta e lui si lascia sfuggire un mugolio sofferente prima di chiudere gli occhi ed espirare a fatica, che decido quello che farò. Lo decido tutto, seguo un filo che mi porta fino all’uscita del labirinto e vedo dov’è che andrà a finire, quali conseguenze comporterà questa mia decisione, e forse, in qualche modo, inconsciamente le sto già accettando tutte. Ma solo inconsciamente, e questo non è il momento di parlarne: mi limito a rimboccargli le coperte trattenendo a stento un’imprecazione e una smorfia addolorata quando sento il suo corpo magro tremare sotto le mie dita, e poi mi rimetto dritto e vado in cucina.
Chakuza sta armeggiando con la caffettiera, anche se l’orario non è proprio adatto per un caffè, soprattutto considerato il fatto che siamo entrambi a stomaco vuoto da stamattina.
- Dorme? – mi chiede nervosamente, - Pensavo di mettermi a cucinare qualcosa.
- Dorme, sì, e credo che continuerà a farlo fino a domani mattina. – rispondo io, inarcando un sopracciglio, - Che è la stessa cosa che dovresti fare tu.
- Non sono stanco. – ribatte lui, posizionando la caffettiera sul fornello ed accendendo il fuoco.
- Chaku, - sospiro, - hai appena detto di volerti mettere a cucinare qualcosa. Sei uscito da un magazzino all’interno del quale per cinque minuti siamo stati tutti trasportati in un episodio speciale di Walker Texas Ranger, non più di un’ora fa. Se il tuo desiderio di metterti ai fornelli adesso non è un chiaro segno di squilibrio mentale, non so davvero cos’altro potrebbe essere.
Chakuza sospira a propria volta, spegnendo il fuoco ed appoggiandosi al ripiano, lo sguardo basso, tutti i muscoli ancora tesi. Lo osservo a lungo, aspettando che decida cosa fare. Alla fine, lo sento sospirare un’altra volta, e lo vedo annuire lentamente.
- Hai ragione, sono un po’ scosso. – ammette, - Magari mi riposo una mezz’ora.
- Magari vai a letto e ti svegli quando sarai in grado di andare in giro senza sentire ancora il fischio dei proiettili dentro le orecchie, che ne dici? – chiedo piano. Lui mi solleva addosso un’occhiata sconvolta, sembra stia chiedendosi quando sono entrato nella sua testa e come ho fatto a riuscirci senza che lui se ne accorgesse. – Mi è capitato, qualche volta, di trovarmi in mezzo ad una sparatoria. – rispondo, scrollando le spalle e distogliendo lo sguardo, - Quando ero più piccolo.
Chakuza resta per qualche secondo in silenzio, come a digerire l’informazione.
- Eri molto simile a lui? – chiede dopo un po’, tornando a guardarmi negli occhi. Io scrollo le spalle ancora una volta.
- Avevo la stessa convinzione di poter riuscire a risolvere tutto con le mie sole forze. – rispondo, - Che è il motivo per il quale molto spesso ci riuscivo davvero. Io sono stato più fortunato, però. Non ultimo perché almeno mio padre non mi picchiava, anche se suppongo fosse solo perché non c’era.
Chakuza annuisce, restando appoggiato al ripiano.
- Intendi prenderti cura di lui, vero? – chiede quindi. Io annuisco. – D’accordo. – dice, e io non faccio in tempo a dirgli che non mi serve la sua approvazione, perché lui mi sorride, un sorriso dolce, vagamente colpevole, ma più di ogni altra cosa complice. – Voglio starti accanto.
Io sbatto le palpebre un paio di volte, incredulo.
- In che senso? – chiedo confuso.
- Quanti sensi esistono per una frase simile? – ride lui, - Io ti amo. – spiega quindi, e quando mi guarda riesco a leggergli dentro che è vero, che lo pensa e che lo pensa sempre, anche quando fa o dice una cazzata, anche quando sa di stare per farmi incazzare eppure non riesce ad impedirselo, so che è il pensiero fisso che lo accompagna senza ossessionarlo da quando si sveglia a quando va a dormire, indipendentemente da quanti altri pensieri gli ruotino intorno, e so che è giusto così.
Gli sorrido, sentendo tutti i muscoli del mio viso sciogliersi in un solo istante.
- Ti amo anch’io. – rispondo piano. Lo accompagno a letto e lo osservo addormentarsi standogli semplicemente sdraiato accanto. Lui mi si spalma addosso istantaneamente e per una volta è palese che lo fa solo per sentire il mio corpo contro il suo, perciò gli circondo il collo con le braccia e lo lascio fare, ascoltando il ritmo del suo respiro mentre rallenta e poi si stabilizza. Dalla stanza accanto proviene il russare sommesso di Danny, che ha il naso troppo pesto per respirare bene e quindi fa un sacco di piccoli rumori che usualmente non farebbe. Sorrido. Penso che mi piace quello che sento, e ripenso a Chakuza che mi chiede se intendo prendermi cura di lui.
Intendo farlo, Chaku. Intendo davvero farlo.

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There Won't Be A Dry Eye In The House Tonight

di lisachan
Io ho la testa nascosta dentro il frigorifero, quando accade. Non ho neanche tempo di capirne un accidenti, in realtà, perché sto raschiando il fondo dei cassetti e dei ripiani per cercare qualcosa di commestibile da preparare per cena. Qualcosa che non sia riuscito ad evolversi fino allo stadio anfibio, almeno. Ci sono delle olive, in un barattolo. Cerco di ricordarmi se ho anche del sugo in bottiglia per fare po’ di pasta, ma poi guardo meglio le olive e sono quasi certo di vedere degli occhi, da qualche parte, perciò lascio perdere. Accanto a me, c’è la presenza costante di Daniel, che si aggira nei pressi della mia persona infastidendomi e giudicandomi. Ha le braccia incrociate sul petto, una delle quali ancora bendata e appesa al collo, in quanto slogata, e mi guarda con evidente pietà.
- Non c’è proprio niente, qua dentro, eh? – chiede disgustato, - Non so se hai presente che vita facevo io a casa mia, ma almeno il cibo non mancava mai.
- Adesso trovo qualcosa. – borbotto io, alzandomi in piedi e chiudendo lo sportello del frigorifero, che tanto è evidente che non ci troverò nulla. – Sto solo cercando nel posto sbagliato.
- Quale posto più sbagliato del frigorifero per cercare del cibo commestibile, d’altronde. – rotea gli occhi lui, seguendomi mentre mi sposto verso gli stipetti sopra il piano cottura e comincio ad aprirli tutti insieme, per poterne avere un quadro generale completo.
- Non tutta la roba da mangiare deve stare per forza conservata a quattro gradi centigradi. – gli faccio notare, aggrottando le sopracciglia. Scatolette di tonno! Ecco come vincerò questa battaglia. Mi sollevo sulle punte dei piedi per raggiungere le tre confezioni di tonno sott’olio stipate sull’ultimo ripiano in alto, pensando trionfante che, se il sugo al quale pensavo prima c’è davvero, nascosto da qualche parte in questa cucina, farò una pasta col tonno talmente buona che questo ragazzino impertinente piangerà di gioia, scusandosi per essere stato una piaga ed asservendosi al mio volere finché vivrà, acconsentendo a farsi buttare fuori da casa mia per non farsi mai più rivedere.
Stringo le scatolette fra le mani e rigiro la confezione per pura formalità. Non dovrebbe essere scaduto.
…e invece lo è.
Sento fisicamente il sopracciglio di Daniel inarcarsi sulla sua fronte, produce quasi un suono percettibile, come di unghie su una lavagna.
- Vedo che anche quelli conservati a temperatura ambiente non fanno una gran vita, da queste parti. – commenta, sporgendosi appena per prendere nota della scadenza che indica una data oggettivamente troppo lontana nel tempo per poter essere mascherata con un blando “va be’, tanto è ancora buono”.
- Senti, se tutto quello che intendi fare è girarmi intorno come un avvoltoio senza darmi neanche una mano d’aiuto, tornatene a poltrire sul divano! – sbotto offeso, lanciandogli un’occhiata infastidita. Dove diavolo è Fler quando mi serve? Perché non torna a casa e trascina questa piaga sociale a prendere un gelato o a sparare ai piccioni con una fionda o qualsiasi cosa facciano per divertirsi quando stanno insieme senza dover necessariamente spogliarsi nudi?
- Ti aiuterei anche, - sospira Daniel, inarcando le sopracciglia in quella che pare davvero un’espressione contrita e amareggiata, al punto che io spalanco gli occhi e lo fisso e mi sento perfino in colpa. Io. In colpa. Parliamone. – Ma purtroppo con questo braccio qui… - sospira ancora, indicando il braccino infermo con un breve gesto del capo.
Mi gratto nervosamente la nuca, distogliendo lo sguardo. Dannato ragazzino.
- Io—
- No, a ben pensarci – m’interrompe lui, arricciando le labbra in una smorfia riflessiva, - non ti aiuterei neanche se avessi il braccio sano, è vero. Preferisco romperti le palle girandoti intorno come un avvoltoio, sì.
- …Daniel! – tuono, mentre lui mi fissa inespressivo e tira fuori la lingua con aria saputa. Non ho il tempo di dirgli niente, o anche solo di organizzare ciò che vorrei dirgli, perché sento la chiave girare nella toppa e questo mi riporta improvvisamente alla realtà. Fler è tornato. – Alla buon’ora! – sbraito, le mani sui fianchi, - Ma si può sapere dov’eri finito?
Per un secondo gli occhi di Fler sono persi e confusi. È come se, fino ad un momento prima di arrivare, fosse preso da ben altri pensieri, molto più gravi e seri, e trovarsi di fronte me che legittimamente mi lagno delle pene che sto patendo fosse una possibilità che lui non aveva nemmeno preso in considerazione, perché troppo impegnato a pianificare chissà cos’altro. È una luce diversa che gli illumina gli occhi e getta ombre scure e misteriose sul resto del suo viso e sulla sua espressione, ma dura solo un attimo. Lo osservo sorridere ironicamente, mentre posa le chiavi sulla consolle e si chiude la porta alle spalle.
- Forse non te lo ricordi, ma io non vivo qui. – mi fa presente, - Per cui queste tue proteste mi sembrano decisamente fuori luogo.
- Fuori luogo, sì. – concordo aggrottando le sopracciglia, - Esattamente come la presenza del tuo amante in casa mia. Mi spieghi perché deve vivere qui?
- Guarda che sono a due centimetri da te e non sono il suo amante. – mi ricorda Daniel, incrociando nuovamente le braccia sul petto da qualche parte alla mia sinistra. – Anche se posso diventarlo, se proprio ci tieni.
- Preferiresti che vivesse nel mio appartamento e potessi sgattaiolare lì ogni volta che voglio per incontrarlo di nascosto mentre tu non guardi? – mi chiede Fler, lanciandomi un’occhiata divertita.
- Io preferirei! – ammette Daniel, sollevando il braccio sano con enfasi.
- Tu resti qui. – ringhio io, allungandomi a recuperare il cucchiaio di legno sul tavolo e tirandogli una cucchiaiata sulla testa.
- Ahi! – si lagna lui, massaggiando il punto dolente e perdendo una mano in quella enorme matassa di capelli biondi che continua a crescere inesorabilmente in sfregio palese alla mia persona, - Potrei denunciarti per maltrattamenti, sai? – mi minaccia, facendomi un’altra linguaccia. Io roteo gli occhi, lasciandolo perdere, e torno a cercare Fler con lo sguardo, ma lui è sparito.
- Fler? – lo chiamo, aggirando l’isola ed incamminandomi per il corridoio, raggiungendolo in camera da letto ed osservandolo infilarsi velocemente una maglietta pulita e la giacca subito sopra, - Che diamine stai facendo?
Lui sistema il colletto della giacca, distogliendo lo sguardo.
- Siete a posto qui, no? – chiede, ignorando platealmente la mia domanda, - Non vi serve niente?
- …no, non ci— Fler, che succede? – gli chiedo con insistenza, avvicinandomi di un passo. Lui forza un sorriso, tornando finalmente a guardarmi negli occhi.
- Ho un affare da sbrigare. – dice, prima di aggirarmi ed imboccare il corridoio.
- Fler! – lo inseguo io, fermandomi subito quando vado quasi a sbattergli contro, - Ma che diamine…? – borbotto, sporgendomi a guardare oltre il suo corpo. C’è Daniel, immobile davanti a lui, che lo guarda con curiosità evidente.
- Dove vai? – gli chiede. Fler non risponde subito.
- Ho un affare da sbrigare. – ripete poi, reggendo il suo sguardo. L’espressione tranquilla di Daniel resta tale ancora per qualche secondo, prima di incrinarsi all’improvviso.
- No. – dice a fatica, muovendo un passo verso di lui, - Fler—
Ma lui non lo ascolta, evitando il suo corpo e dirigendosi speditamente verso la porta. Io li guardo e non capisco niente. Guardo gli occhi di Fler, due macchie azzurre perfettamente serene, tranquille, concentrate, perse nel mare scomposto dei suoi lineamenti contratti e preoccupati. E non ci capisco niente.
- Farò tardi, stanotte. – dice, la sua voce è lontanissima. – Non aspettatemi svegli.
Scompare oltre la porta il minuto successivo, e io non ho ancora idea di cosa sia successo.
- Che…? – azzardo, lanciando un’occhiata incerta a Daniel. Lui si volta a guardarmi, smettendo finalmente di fissare la porta chiusa con l’espressione di uno che sta aspettando di scoppiare a piangere da un momento all’altro. Stringe le labbra e trattiene il respiro, e quando sembra che stia per dirmi qualcosa, invece non mi dice niente.
- No. – balbetta incerto, prima di andare a rinchiudersi nella prima stanza disponibile. Che poi è anche l’unica. Camera mia.
Si fa vivo solo verso ora di cena. Io esco a far la spesa nel primo pomeriggio e poi passo non so quanto tempo dietro ai fornelli, mi distraggo come posso, cucino per un esercito, e quando lui esce dalla stanza, tutto stropicciato e teso e con gli occhi talmente rossi che, se non sapessi che ha pianto, gli ordinerei un test antidroga immediatamente, entra in cucina strascicando i piedi e grattandosi la testa e si ferma sulla soglia, osservando lo spettacolo dell’isola apparecchiata e piena di cibo mentre io mi ci agito intorno, sistemando ogni cosa con maniacalità quasi patologica.
- Ehi. – gli sorrido nervosamente, - Ti sei svegliato. Ho preparato qualcosina da mangiare.
- …noto. – commenta lui, la voce impastata e un po’ rauca. – Non si è fatto sentire, vero? – domanda timorosamente, rifiutandosi di incontrare il mio sguardo.
- No. – rispondo io, scostando uno sgabello e battendo un paio di volte il palmo della mano contro la seduta, per invitarlo ad accomodarsi. Vorrei chiedergli se sa davvero dove Fler sia andato, o cosa sia andato a fare, ma è evidente che Daniel non vuole parlarne, e forse, se è una cosa di cui Daniel non vuole parlare, ci sono alte probabilità che sia anche una cosa che io non voglio sentire. Per questo motivo, cerco di sorridergli e mi seggo sullo sgabello al suo fianco. – Non pensarci, ora. – scuoto il capo, sollevando l’insalatiera e servendogli una consistente porzione di broccoletti lessi, - mangia la tua cena. Quelli per Fler li ho già messi da parte, mangerà quando sarà tornato.
Lui osserva la verdura con aria allucinata, punzecchiandola con la forchetta per qualche secondo prima di decidersi a lasciarla stare e tornare a guardare me.
- Chakuza, tu mi odi molto? – chiede quindi, ed a me va un broccoletto di traverso. Strabuzzo gli occhi, tossisco con forza, mando giù un’abbondante sorsata d’acqua e mi pulisco col tovagliolo, prima di schiarirmi la voce e ricambiare la sua occhiata serena con una colma di sconcerto.
- Come, scusa? – chiedo a mia volta, inarcando le sopracciglia, - Guarda che i broccoli ti fanno bene. Tu sei troppo magro per quanto sei alto, non è che sto cercando di avvelenarti. – borbotto risentito. Lui ride, e la sua risata è completamente diversa da quelle che gli ho sempre sentito addosso quando si trattava di ridere di me. È una risata dimessa, un po’ triste. Mi stringe il cuore, credo, se questo senso di colpa assolutamente immotivato che mi prende quando lo vedo meno che contento può essere paragonato a un’espressione simile. Il mio rapporto con Daniel, in questo senso, è un po’ confuso. Mi arrabbio quando è felice, perché il più delle volte lo è solo quando può stare appiccicato a Fler. Ma sono triste quando non lo è, perché il più delle volte non lo è solo quando deve stargli lontano.
- Non sto parlando dei broccoli. – si stringe nelle spalle, seguendo con la punta di un dito i disegni quadrettati della tovaglia, - Stavo solo pensando che… non lo so. – ride ancora, cambiando lievemente posizione come se stesse scomodo, - Posso riuscire a capire perché Fler mi tiene ancora con sé. Ma tu? Tu dovresti odiarmi. Credo.
Mando giù ancora un po’ d’acqua, inspirando profondamente.
- L’odio è un sentimento enorme, Daniel. – gli spiego, - Troppo enorme, e troppo sporco, ingestibile. Odiare qualcuno ti porta via pezzi di te stesso, pezzi che cedi alla rabbia, al risentimento, all’invidia, al desiderio di vendetta e chissà cos’altro. – sospiro, scrollando le spalle, - Io non ragiono in questi termini. Tutto sommato, io ho una bella vita. Sono un uomo felice. Sono stato triste, in passato, ed ho provato del risentimento verso qualcuno, ma non ho mai lasciato che questi cattivi sentimenti prendessero il controllo su di me e si trasformassero in odio. L’odio non ti porta da nessuna parte, se non ad altro odio. Non è un modo saggio di vivere la propria vita. Chiunque possa dire di essere felice, difficilmente può odiare. O almeno così penso io. – concludo distogliendo lo sguardo.
Daniel annuisce lentamente, gli occhi azzurri persi su qualcosa che non riesco a identificare. Sono così simili a quelli di Fler… non solo per il colore. È qualcosa di più intimo, di più profondo. E forse capisco cos’è quando Daniel schiude le labbra e parla, poco dopo.
- Io non devo essere granché felice, allora. – dice piano, - Perché odio mio padre. Lo odio così tanto che ho sognato non so quante volte di trovarmi da solo con lui immobilizzato da qualche parte, per poterlo prendere a pugni e calci fino a lasciargli addosso gli stessi segni che lui ha lasciato a me. E allo stesso tempo… - lascia andare un sospiro che è quasi un gemito, mentre appoggia entrambi i gomiti al tavolo, come non riuscisse più a reggersi dritto sullo sgabello con le sue sole forze, - Allo stesso tempo penso che anche mio padre non dev’essere granché felice, se odia se stesso al punto da farsi ciò che si fa, ed odia me al punto da picchiarmi da prima di quanto riesca a ricordare.
Intreccio le dita sul tavolo, inumidendomi le labbra mentre cerco le parole migliori per continuare. Che è una cosa che io non faccio mai, voglio dire, io che cerco di filtrare i pensieri e non mi butto subito sul primo che mi passa per la mente per esprimerlo esattamente com’è stato formulato negli anfratti oscuri del mio cervello? Sono così fuori dal personaggio che quasi mi denuncerei da solo. Ma ho qui davanti un ragazzino di una fragilità impossibile, che poi è la cosa che ho capito e che accomuna lui e Fler. Possono essere incredibilmente forti, hanno entrambi corazze infrangibili che sanno usare bene, ma scavalcando quelle, il loro nucleo è rimasto morbido e vulnerabile. Solo a scorgerlo ti metti paura per quello che potresti fare toccandolo male.
- Io credo che sia Tempelhof. – dico a bassa voce, annuendo con convinzione, - Avvelena le persone. Pensa a me, ci ho messo piede due ore e quasi ne uscivo con più buchi di una forma di groviera! – sdrammatizzo scrollando le spalle e gesticolando, e pregando Dio che me la mandi buona, e lui fortunatamente lo fa, perché Daniel lascia andare una mezza risata un attimino più sentita di tutte quelle che ha fatto da quando ci siamo seduti qua a discutere di vita, morte e botte nel ghetto, tutte cose di cui assolutamente non mi va di parlare nemmeno quando sono tranquillo e sereno, figurarsi quando ho un uomo disperso nella notte di Berlino e non so neppure se tornerà a casa tutto intero, e io posso tirare un sospiro di sollievo.
- Può darsi. – conclude, alzandosi in piedi, - In ogni caso, dubito che avrà importanza, da ora in poi. – aggiunge in un mezzo sussurro, e poi torna a sorridermi, sollevando lo sguardo su di me. – Senti, non ho molta fame, - confessa stentatamente, - però questi broccoletti vorrei mangiarli, domani. Me li conservi?
Annuisco, alzandomi a mia volta e svuotando entrambi i nostri piatti ancora praticamente pieni nell’insalatiera. I broccoletti che avevo distribuito tornano a fare compagnia ai loro fratelli mentre Daniel esce dalla cucina e scompare dalla mia vista. Io ripongo tutto in frigo e penso che, quando Fler sarà tornato a casa, lo ingozzerò al punto da impedirgli di avere fame per tutto il resto della settimana. Così, solo perché posso.
Quando finisco di rassettare, vado verso il divano convinto di trovarci sopra Daniel che guarda la tv, e sono così ben disposto nei suoi confronti che faccio per chiedergli se non lo vuole lui, il letto, magari solo per stanotte. Ma non faccio in tempo, perché lo trovo che già dorme profondamente, steso per lungo sul divano e coi piedi che penzolano oltre il bracciolo, sfiorando quello della poltrona lì accanto. Sorrido appena, tornando in cucina e stabilendo di far passare un po’ il tempo lavando i piatti e sistemando roba che non avrei mai pensato di mettermi a sistemare in una situazione normale, tipo le confezioni di cibo in scatola negli stipetti, o la collezione di spezie sulla mensola sopra il piano cottura.
Finisco che la mezzanotte è già passata da un pezzo, ma di Fler ancora non c’è traccia. Sospiro e recupero il cellulare, provo a chiamarlo e sento squillare la suoneria da qualche parte in camera da letto. È così raro che Fler non porti con sé il telefono che inizialmente faccio fatica a credere a ciò che sentono le mie orecchie. Vado fino in camera e vedo il cellulare che squilla e vibra leggermente sul comodino, e solo allora, di fronte alla prova visiva, mi rassegno, e chiudo la chiamata. Mi lascio andare seduto sul letto, chiedendomi cosa dovrei fare. Quando sono sparito io, Fler ha quasi rivoltato la città per ritrovarmi. Ma io non sarei capace di farlo, perciò mi limito ad aspettarlo. Mi stendo sul letto, dal suo lato, che è una cosa che non faccio quasi mai, ma oggi sì. Oggi anche un po’ chi se ne frega delle cose che non faccio quasi mai.
Mi accorgo di essermi addormentato solo quando mi sveglio, non so quante ore dopo. La notte è ancora buia fuori dalla finestra, ma vedo il profilo di Fler seduto sul bordo del letto. Mi dà le spalle ed è curvo e silenzioso come non l’ho mai visto. Sembra abbattuto, ed è una cosa che mi stringe il cuore.
- Fler…? – lo chiamo, la voce impastata dal sonno, mentre mi sollevo sui gomiti. Lui non si muove, e in realtà non dà neanche l’impressione di avermi sentito. Resta lì, immobile come una statua di sale. Lo sento respirare, ma è un soffio lievissimo, che non ha la minima ripercussione sul suo corpo. Non gli gonfia il petto, non gli scuote le spalle, mi chiedo se sia sufficiente da tenerlo in vita.
Mi raddrizzo meglio e striscio sul materasso fino a lui, sporgendomi oltre la linea curva delle sue spalle per lanciargli un’occhiata allarmata. C’è qualcosa di strano nella sua figura, forse nei suoi abiti, ma è buio e non riesco a vederlo bene.
- Fler? – lo chiamo ancora, più decisamente. Lui continua a non muoversi, guarda fisso di fronte a sé. Il suo profilo, nel buio, cambia forma solo per un secondo, quando si inumidisce le labbra. Le accarezza con la lingua in un gesto sbrigativo, che si esaurisce subito dopo quando la ritrae, con tanta velocità da dare l’impressione di essersi lasciato impressionare dal suo stesso sapore, per quanto questa cosa possa suonare assurda. – Non ti va di parlare? – domando. Lui naturalmente non risponde. Io sospiro. Sono arrabbiato, mi dà fastidio che continui a restare in silenzio anche se è evidente che sono preoccupato e mi basterebbe una sua mezza parola per tranquillizzarmi e tornare a dormire sereno, ma decido di non lasciarmi sopraffare dalla rabbia, e scrollo le spalle. – D’accordo, - annuisco, - va bene se non ti va di parlare. Almeno vieni a letto e riposati. Non so che ore sono ma dev’essere tardi. – suggerisco, e nello stesso momento torno a strisciare verso l’altra metà del letto, che poi è sempre la sua ma per stanotte ho deciso che è mia, che lui dorma al mio fianco o no.
È in quel momento che lui si muove. Il suo braccio si allunga lentamente nell’oscurità della stanza, ombra nera profondissima sullo sfondo dell’ombra appena più chiara della parete di fronte, illuminata fiocamente dalla luce azzurrognola della notte, e le sue dita si chiudono attorno all’interruttore dell’abat-jour, accendendolo. La stanza viene investita dalla luce gialla e calda della lampadina, e così il suo corpo. Un corpo a chiazze, come quello di un dalmata. Solo che le macchie che lo ricoprono sono rosse e scure e dense come sangue. Sono sangue.
- Fler! – lo chiamo, tornandogli vicino e mettendogli subito le mani addosso. Getto le gambe giù dal letto e, seduto sulla sponda accanto a lui, lo giro e lo rigiro per controllare da dove venga tutto quel sangue. La sua espressione, però, non sembra addolorata. O meglio, lo sembra, ma non come se fosse ferito. Il dolore nei suoi occhi è di quelli sfuggenti che non lasciano cicatrici visibili sulla pelle. Su di lui, ormai sono abituato a riconoscerlo. – Fler, cos’è successo?
- Non è mio. – dice lui. Sono le prime parole che gli sfuggono alle labbra da quando ho riaperto gli occhi. Escono fuori ruvide, incerte, mi sembra di vederle muoversi a tentoni, infastidite dalla luce, per correre a rifugiarsi nei coni d’ombra degli angoli della stanza. – Il sangue. – precisa dopo aver brevemente tirato su col naso, - Non è mio.
- Hai fatto a botte? – domando aggrottando le sopracciglia. Lui abbassa lo sguardo sulle sue mani. Sono abbandonate in grembo, sporche di sangue incrostato.
- Sono entrato in casa sua. – mi dice, e io mi paralizzo. Mi si ghiaccia l’aria nei polmoni, il sangue nelle vene, la saliva sulla lingua. Lo fisso con orrore e vorrei trovare abbastanza voce per dirgli che non voglio saperne niente, ma resto in silenzio. – Lui dormiva. – prosegue, - Era talmente ubriaco che non si era accorto di avere vomitato, nel sonno, o se se n’era accorto se n’era fregato, ed era rimasto lì immerso nel suo vomito a dormire e russare. Non puoi immaginarti lo schifo di doverlo toccare, Chaku.
- Fler—
- Sono sceso di sotto e sono andato in cucina, - continua lui, come se non mi avesse sentito, - e ho cercato un bicchiere pulito. L’ho cercato a lungo, - ride amaramente, - ma alla fine l’ho trovato, e l’ho riempito d’acqua. Allora sono tornato di sopra, in camera da letto. L’ho afferrato e l’ho ribaltato sul materasso, supino. E poi gli ho gettato l’acqua in faccia perché volevo che fosse cosciente, Chaku. Capito? Volevo che fosse sveglio e che sapesse quello che gli stava succedendo.
- …Fler, - deglutisco a fatica io, togliendogli le mani di dosso e lasciandomele ricadere inerti in grembo, - di chi stai parlando?
Lui mi guarda a lungo, e alla fine decide di non rispondermi. Non so se lo faccia perché vuole proteggermi o perché ritiene la domanda così stupida, e la risposta così ovvia, da non doverla nemmeno prendere in considerazione. Fatto sta che non dice niente, ma in qualche modo, in quel momento, nella luce grave dei suoi occhi io ritrovo il silenzio triste e spaurito di Daniel, e tutto prende senso.
- Si è svegliato con un grugnito animalesco. – riprende, tornando ad abbassare lo sguardo, - E io mi sono detto “questo non è un uomo, questo è una bestia”. Non so perché l’ho pensato, forse perché così era più facile. – scrolla le spalle, - Gli ho stretto le mani intorno al collo, ma volevo solo tramortirlo e fargli paura. Non volevo ammazzarlo in quel modo, sarebbe stato gentile. Lo sai cosa ti succede quando soffochi? – si volta a guardarmi, i suoi occhi traboccano di qualcosa di tenero e infantile che mi dà i brividi. – È dolce, - spiega a bassa voce, - l’aria si esaurisce poco a poco ed è come addormentarsi, in un certo senso. Certo, naturalmente è più violento, - dice, lasciandosi sfuggire una mezza risata nervosa che stride fastidiosamente nel silenzio della stanza, spezzato solo dalla sua voce, - però è tranquillo. Otello, ce l’hai presente Otello? Io non ho studiato granché, a scuola, ma mia madre adorava Shakespeare, da piccolo me ne riempiva le orecchie. Ecco, Otello, quando fa fuori Desdemona, la soffoca. Perché la ama, e sa che così soffrirà meno che con un coltello in pancia. – sorride appena, in uno sbuffo di fiato esausto. – Io non volevo che fosse dolce. Volevo che facesse male.
Deglutisco ancora, e poi un’altra volta quando mi rendo conto che il blocco che sento all’altezza della gola semplicemente non viene giù. Mi rassegno, passandomi una mano sugli occhi, e quando parlo ancora è solo per dire quello che avrei dovuto dire fin dall’inizio, la domanda che Fler sta aspettando da quando mi sono svegliato, quella alla quale continua a rispondere senza che io l’abbia ancora posta, ma che lui vuole comunque sentirsi dire.
- Fler, che hai fatto? – chiedo a bassa voce, un sussurro appena udibile. Fler mi riversa addosso una cascata di parole senza freno, e suppongo che non gli importasse nemmeno di sentire la mia voce pronunciare quelle parole, voleva semplicemente sapere che avevo capito bene cosa mi stava raccontando, perché finché fingevo di non averne idea lui semplicemente non poteva dirmi tutto.
- L’ho tenuto in piedi, era pesante ma sembrava leggerissimo. Mi guardava ed era spaventato, così spaventato. L’ho picchiato per ore, non lo so… per giorni. – faccio per dirgli che è stato via molto meno di una giornata, ma lui riprende subito a parlare. – Era irriconoscibile appena ho finito, una maschera di sangue. L’ho lasciato cadere a terra quando ha perso i sensi, ma ho continuato a pestarlo anche se non reagiva più, non solo non cercava di difendersi, ma non riusciva nemmeno a gemere di dolore, che ne so, darmi un segno di vita. Me ne sono fregato. Mi sono messo dritto e l’ho guardato, gli ho sputato in faccia e poi gli ho schiacciato la testa sotto il piede. – si interrompe e spalanca gli occhi, fissando la parete mentre io, rigido come un blocco di marmo, fatico a tenere a freno i conati. Ha usato un’espressione che con gli esseri umani non ha niente a che fare. Tu schiacci gli scarafaggi, i ragni, le formiche, i topi al massimo. Non le persone. – Gli ho schiacciato la testa. – ripete, sottolineando l’espressione. Ho pestato e pestato e pestato finché non ho sentito che si rompeva e la scarpa affondava nel— Cristo. – si piega su se stesso, nascondendo il volto fra le mani, e io sono così paralizzato che ho paura di muovermi, perché sono teso e potrei anche andare in pezzi, ma quando lo vedo incurvarsi in quel modo mi sporgo verso di lui, perdo l’equilibrio, gli cado addosso ma in qualche modo riesco a tenermi su, lo stringo e lo sento sciogliersi in una marea di singhiozzi fra le mie braccia, mentre piange e si lamenta come un bambino e trema come una foglia e io non so, non ho minimamente idea di come dovrei risolvere questa situazione.
- Che cosa pensi di fare? – chiedo dondolandolo un po’, e lui, fra le lacrime, si lascia sfuggire una risatina isterica.
- Non ne ho idea. – risponde, stringendosi nelle spalle, - Non è che il bastardo mancherà a qualcuno, perciò non credo di correre rischi… - spiega, mentre io mi sento ghiacciare di nuovo il sangue nelle vene, - però dovrò fare pulizia. – sospira, - Non lo so, domani chiamerò Sonny e vedremo cosa— - si interrompe all’improvviso, scuotendo il capo, - Chiamerò Bushido, - si corregge, - e vedremo cosa fare. – si ferma ancora per qualche istante, inspirando ed espirando un po’ a fatica. – Scusa. – dice quindi, - Sto parlando nella lingua di un altro mondo.
Mi scosto appena, tornando a sedermi al suo fianco ma lasciandogli una mano sulla spalla. Le sue guance sono ancora rigate di lacrime, ma i suoi occhi, per quanto arrossati, sono asciutti.
- È il tuo mondo. – accenno, rafforzando la presa sulla sua spalla. Lui scuote il capo.
- No, è questo il guaio. – sussurra, - Non è il mio mondo, non più, almeno, e io non posso fingere che uccidere una persona adesso sia uguale ad ucciderla sei o sette anni fa.
Mi inumidisco le labbra, deglutendo a fatica.
- L’avevi già fatto? – chiedo senza fiato. Lui si volta a guardarmi e schiude le labbra, ma le serra subito dopo, scuotendo il capo.
- Ho bisogno di dormire un po’, Chaku. – dice piano, forzando un sorriso stanco che sembra più una ferita, - Ti dispiace se mi metto giù qualche ora?
- No… - rispondo io, - Certo che no. – mi alzo in piedi, lasciandogli spazio e rimboccandogli le coperte appena si distende, appoggiando il capo al cuscino con un sospiro stremato e chiudendo immediatamente gli occhi. Lo osservo un po’ restando in piedi accanto al letto mentre ascolto il suo sospiro tranquillizzarsi piano piano, e poi spengo la luce. Non ho più sonno, se mai l’ho avuto. Esco dalla stanza e mi basta fare un passo in corridoio per sentire il pianto soffocato di Daniel.
Mi affaccio dalla porta e lancio un’occhiata al divano. Sotto il mucchio di coperte che vedo c’è Daniel che affonda il viso nel cuscino. Lui e Fler hanno perfino lo stesso modo di piangere, è inquietante. Suppongo che, quando cresci in un posto che non ti permette di farlo quando ne hai bisogno, ad un certo punto piangere diventa un po’ come esplodere. Ti trattieni finché puoi, ma arrivi ad un punto in cui devi lasciarti andare per forza, e non può essere una cosa silenziosa.
- Danny. – mormoro avvicinandomi.
- Sto bene. – mi ferma immediatamente lui, nascondendosi sotto la coperta così che non possa vedere il suo viso, - Resta lì. Sto bene, è solo un momento. Ora passa.
Inspiro ed espiro, scuotendo il capo. Mi avvicino lo stesso, posando una mano sullo schienale del divano e sporgendomi appena verso di lui.
- Senti, - dico, - io non ho sonno. Pensavo di prendere un po’ di gelato e guardare un film, se non hai sonno nemmeno tu. Ma se vuoi dormire me ne torno in camera.
Lui singhiozza ancora per qualche secondo e poi si arrischia a tirare il naso fuori dal groviglio di coperte in cui s’è annodato. È paonazzo e gonfio e un po’ screpolato. Chissà da quanto piange. Probabilmente da quando Fler è rientrato.
- Che film? – mi chiede incerto, - E il gelato a che gusto?
Io cerco di sorridere.
- Puoi scegliere tu entrambe le cose. – rispondo stringendomi nelle spalle.
Daniel esita ancora un paio di secondi, ma alla fine viene fuori, si mette in piedi e mi segue in cucina. Anche i suoi occhi si asciugano subito, ed anche le sue guance, invece, restano bagnate. E mentre lo osservo riempirsi una coppa di gelato alla nocciola e poi trascinarsi nuovamente di là per mettere mano alla colonna di dvd accanto al televisore, capisco che questo ragazzino ha smesso di essere un problema solo di Fler, ed è diventato un problema anche mio.

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Family Issues

di tabata e lisachan
Forse vi ricorderete di me perché, non per vantarmi, ma nell'ultimo periodo sono stato piuttosto importante da queste parti. Tanto per rinfrescarvi la memoria, sono io che ho detto a Fler e Chakuza dove trovare l'assassino di Bushido, due anni fa. Quei due brancolavano nel buio. Giravano per bar, ma ci pensate? Come se qualcuno che sa qualcosa sull'omicidio di un pezzo grosso come Bushido potesse mai starsene al bar pronto a rispondere alle tue domande sull'argomento. Io Fler lo rispetto perché lui è uno che ci sa fare, un tipo a posto, uno che quando aveva la mia età cazzo se ne ha fatti di casini, da queste parti lui è una leggenda, ma si vede quando stai fuori dal giro perché quando ci torni poi è un casino sapere dove mettere le mani. E' perché lo spazio che lasci lo occupa qualcun altro; appena ti fai da parte, sei subito fuori.
Così questi due per giorni non fanno che girare per il ghetto in cerca di informazioni. Lo sanno tutti, naturalmente, ma si guardano bene dal parlare perché di mezzo ci sono i libanesi e nessuno ha voglia di mettersi contro di loro, specialmente quando Saad ha dato ordine di ammazzare suo cugino.
Io in quel momento lavoro per uno che fa affari con quella gente, sono da lui per prendere quello che devo consegnare e lo sento parlare con un tizio, e capisco subito che stanno parlando dell'omicidio di Bushido.
Non è che Bushido mi piacesse, ben inteso, ma girava voce che Saad l'avesse voluto morto per la storia di Bill, che posso pure capire rovinasse l'immagine, ma alla fine erano cazzi suoi. Ho pensato che non mi stava bene, in più volevo aiutare Fler e le due cose erano compatibili; e poi se qualcuno un giorno mi sparerà perché sono frocio, mi piacerebbe che pareggiassero i conti con lo stronzo che mi ha sparato, tenendo bene a mente il motivo per cui l'ha fatto. Per cui sono andato per bar anch'io, finché non ho trovato lui e quel cretino di Chakuza, che non è adatto al ghetto come non è adatto al mondo in generale, se me lo chiedete.
Insomma, io gli do quest'informazione e lui mi prende sul serio. Capite? Mi prende sul serio, cazzo, e va a parlare col tramite dei libanesi. Io non so che cazzo fa per convincerlo a parlare, ma quello parla e qualche giorno dopo Saad è sparito. Ufficialmente non è morto, la moglie dice che se n'è andato lasciando un biglietto. Sì, certo. A dragare il canale chissà in quanti pezzi lo trovano.
Tutto quello che è successo dopo io non lo avevo previsto, naturalmente, anche perché un casino del genere non si poteva pensare. Mentre Bushido tornava dal regno dei morti e l'Ersguterjunge esplodeva letteralmente in mille pezzi, rivelando al mondo che metà dei suoi cantanti erano omosessuali, io facevo coming out – in parte anche per colpa loro – e venivo ripetutamente pestato dai ragazzi della mia banda o da mio padre se tornava ancora abbastanza lucido per non fare gli ultimi tre gradini della rampa di scale strisciando e poi vomitare sulla soglia di casa.
La mia vita faceva schifo e non poteva farlo più di così, per questo ho deciso che tanto valeva presentarsi alla porta di Fler e chiedergli di venire a letto con me. Io sapevo che lui non poteva essere felice quando era rimasto a casa mentre il suo uomo andava in tour con il suo ex; quella cosa era così incredibilmente sbagliata che, se non mi fosse convenuto trovarlo nel suo appartamento a lamentarsi anche lui che la sua vita faceva schifo, gli avrei chiesto che cazzo ci faceva ancora in pigiama sul divano, invece di prendere e andare da loro prima che Bushido finisse di nuovo a letto con Bill.
All'inizio, io con Fler non volevo nessuna relazione. Lui mi piaceva un casino, tipo che se anche avevo dei dubbi sui ragazzi, con lui era tutto chiaro, però non sono scemo e non sono nemmeno cresciuto parcheggiato davanti alla televisione come i ragazzini dei quartieri alti. Mia madre è morta che avevo dieci anni e la più grande cortesia che mio padre mi abbia mai fatto è stata picchiarmi a mani nude o con i cocci delle bottiglie, invece di tentare la sorte con un'arma da fuoco, che in diciassette anni mi avrebbe sicuramente preso per bene, prima o poi, e invece con le bottiglie ci vuole molta più precisione.
Quando passi tutta la tua vita ad occuparti di te stesso da solo anche se non dovresti, e invece di tornare a casa preferisci vivere per strada dove ci sono solo delinquenti, tossici e delinquenti che sono anche tossici, non ci credi nella favola a lieto fine. Non credi che il tuo mito sia disposto ad ascoltarti, non credi che si riscopra gay quando anche tu lo sei, non ci credi che bussi alla sua porta, gli chiedi di scoparti e quello diventa l'uomo della tua vita. O anche solo il tuo uomo. Insomma non credi che possa venire qualcosa di buono da una scopata casuale, anche se l'hai voluta con tutte le tue forze.
E invece è successo. Io e Fler siamo stati insieme per un numero di mesi che non abbiamo mai contato e per motivi che non ci siamo mai detti, per il semplice fatto che di contare e dire non c'era bisogno.
Lui è stata la prima persona della mia vita a cui io non dovevo assolutamente nulla e che non doveva nulla a me. Prima di conoscere lui ero abituato che nessuno fa niente per niente, ma soprattutto che la mia persona su questo mondo non serviva a granché e che, bene o male, se volevo restarci, era meglio che non facessi incazzare chi mi stava intorno. Per mio padre sono sempre stato la causa di tutti i suoi mali, forse perché non ero il figlio che aveva sempre sognato o forse semplicemente perché era uno stronzo – ma, sapete, queste cose quando hai dieci anni non le capisci e pensi che quello che tuo padre ti dice sia vero, quindi prima di capire che non avevo fatto niente per meritarmi quello che mi faceva, ne avevo già prese così tante che non importava più – e tutti questi mali di cui ero causa inconsapevole dovevo espiarli trovando chissà dove i soldi che lui non guadagnava lavorando per poi vedergli spendere in birra, e fuori non è che andasse tanto meglio. Ho fatto davvero di tutto per cercare di non crepare prima dei diciotto e magari sperare di andarmene. Perfino mia madre, cazzo, prima che morisse mi ha sempre fatto pesare che suo marito era un bastardo. Mia madre era buona, io me la ricordo buona, ma c'erano certi giorni che mi teneva lì con lei per paura di lui e io per forza dovevo proteggerla, e per forza mi prendevo le botte, che se mi avesse lasciato uscire, o chiamare aiuto forse, non lo so... ma non è questo il punto.
Il punto è che quando Fler è venuto a letto con me non l'ha fatto con in testa l'idea che mi stesse facendo un favore, o che io ne stessi facendo uno a lui a titolo gratuito; possibilità, questa, che avevo preso in considerazione perché quando un ragazzino ti si offre sulla soglia di casa, nel mio mondo, ci sono buone probabilità che l'azione venga interpretata come un regalo inaspettato senza conseguenze.
Fler mi ha ascoltato quando ho chiesto e ha passato buona parte della serata a convincermi che non lo volevo veramente, un particolare che mi ha convinto solamente del contrario. Se mi avesse accettato così com'ero, se m'avesse preso come chiedevo, probabilmente me la serai fatta addosso perché lo volevo, ero pronto, ma ero anche molte altre cose e lui le ha capite tutte semplicemente guardandomi in faccia.
Io dell'amore non mi fido – perché è un'arma troppo potente e troppo instabile, è come cercare di trasportare nitroglicerina su una strada piena di buche – ma credo nel rispetto, che è altrettanto potente ed è disposto a piegarsi prima di spezzarsi, qualità che lo rende meno fragile e più onesto. Quindi preferisco dire che Fler mi ha rispettato, più che amato, che è molto più di quanto posso dire di un sacco di gente che era tenuta a farlo più di lui.
Siamo stati benissimo insieme, e non lo sto dicendo in quel modo lagnoso in cui le coppiette lo dicono spesso. Non vi sto guardando con l'occhio sognante e lucido e le mani giunte sul cuore, ripensando agli infiniti pomeriggio in cui correvamo insieme nel parco o ci fermavano di fronte alle vetrine dei negozi di animali per indicare squittendo i cuccioli di cane; oppure, se preferite una versione meno etero in cui io non sono in realtà una donna, non passavamo tutto il nostro tempo in palestra, come invece Fler sembra fare quando è da solo. Stavamo bene nel senso che non c'era motivo di discutere mai, nemmeno quando io facevo apposta a tirarlo scemo e lui provava ad alzare la voce. Io e Fler ragioniamo allo stesso modo perché veniamo dallo stesso posto e siamo cresciuti allo stesso modo; certi meccanismi mentali non abbiamo bisogno di impararli col tempo, li abbiamo già radicati in testa e li capiamo benissimo.
Ad esempio non ho bisogno di chiedermi perché Fler faccia di tutto, perfino aiutare le vecchiette del suo palazzo a pulire sopra gli armadi, pur di non restare in casa quando non c'è nessuno. Lo so che le case vuote sono spaventose perché sono la dimostrazione di quanto tu sia solo una volta che tutte le persone di cui ti circondi fuori dalla porta sono tornate da chi le aspetta, loro, mentre tu eri fuori di casa giusto perché dentro stavi male. Le case vuote rimbombano, senti solo le tue urla quando stai male e i singhiozzi quando piangi, di risate non ne fai quindi non ne senti nemmeno. La casa vuota è deprimente, semplice.
Quindi io scappavao dalla mia per andare nella sua, così almeno eravamo in due con due pizze e ci divertivamo, e si rideva anche.
Il periodo perfetto è iniziato dopo che lui e Bushido si sono lasciati, naturalmente. A Fler non è mai andata completamente giù di tradirlo, ma lo ha sempre fatto comunque, forse perché non ci credeva nessuno – credetemi, nessuno – che a Bushido non interessasse più Bill. Cioè, io di questa storia me ne sono sempre fregato, come ho già detto, ma ci sono certe cose che vieni a sapere anche se non vuoi e quei due, cazzo, quei due erano sempre su tutti i giornali. Non passava un giorno senza che un qualche canale non riportasse anche quante volte il re dei re – tsk, che poi di questo bisognerebbe parlarne – e la sua principessa erano andati in bagno. Tutti sapevano che Bushido per Bill Kaulitz ci aveva perso la testa e nessuno si credeva che tornando non se lo sarebbe ripreso. E su questo posso pure capirlo, è così che funziona. Bill era roba sua, quindi è tornato e se l'è ripreso. Se poi Bushido voleva dire che con quello aveva chiuso, sta bene, uno può dire il cazzo che vuole, solo che quando dai aria alla bocca si vede, no? Quindi aveva senso che Fler non ci stesse proprio benissimo a tradirlo ma che non fosse neanche troppo contento di sapere che era una specie di ruota di scorta. Comunque poi Bill ha perso la brocca, si sono tutti persi di vista e io e Fler abbiamo avuto il nostro momento di gloria. Non è che ci siamo seduti e abbiamo deciso di avere una relazione, è successo che ce l'avevamo e basta, che poi è così che dovrebbe sempre andare. Quando le cose le decidi a tavolino, in pratica sono contratti ed è una cosa sfigata.
Allo stesso modo, mi sono praticamente trasferito da lui, ma non con l'intento di farlo; è stata una cosa un po' strana. Casa di Fler era il mio posto felice, mi seguite? Quello dove scappare quando casa mia era uno schifo – e casa mia lo è molto spesso – ma, come succede sempre quando ti trovi un posto del genere, uno in cui stai solo temporaneamente, dove non metti realmente radici, casa di Fler era anche un luogo che sembrava quasi impossibile, in cui avevo molte cose belle e nessuna responsabilità, forse anche perché lui non voleva darmele. Ed è assurdo pensare questo proprio adesso che sto da tutt'altra parte e forse è ancora più surreale, ma voglio andare con ordine perché ora che tocca a me parlare, voglio dire tutto quello che mi passa per la testa.
Questo stato di grazia è durato circa sei mesi, durante i quali io passavo i giorni feriali a casa mia, poi riempivo il mio vecchio zaino di qualche vestito e me ne andavo giusto un attimo prima che mio padre rientrasse e, siccome era già così ubriaco da non sapere nemmeno come si chiamasse, non si accorgeva che non c'ero, o anche se se ne accorgeva non c'era molto che potesse fare visto che non sapeva dov'ero e, quando tornavo, lui se n'era già andato. E' stato il periodo più felice della mia vita anche da un punto di vista fisico. Ho passato mesi senza un livido, un record che non toccavo dalle elementari.
Ma niente dura in eterno, giusto? E soprattutto gli stronzi non si allontanano mai troppo, dunque un bel giorno è arrivata la disgrazia della mia esistenza, che non è mio padre ma Chakuza, il quale ha pensato bene di riprendersi ciò che credeva fosse suo (e non lo è!), e Fler invece di darmi il ben servito completo, ha pensto bene di diventare mia madre.
Ora che sono in questa situazione da qualche mese e che conosco Chakuza un po' meglio, improvvisamente capisco perché i ragazzini normali – quelli che hanno una famiglia, una madre che prepara per loro la colazione e un padre che gli dice di fare i compiti – passano metà del loro tempo a sognare di vivere da soli per strada, è chiaro che le loro madri e i loro padri sono come questo nano qui. E allora sì che capisco perché pur avendo vestiti all'ultima moda, la playstation e tutti i cazzo di soldi che vogliono, questi sognano di scappare di casa e vivere sotto un ponte.
Come sono finito a vivere da Chakuza è una storia che a raccontarla non ci si crede, ma tendiamo a raccontarla poco perché, visto quello che implica, preferiamo non rischiare di finire nei guai. Tutto è cominciato dopo quello che è successo a mio padre. E, prima che continui, vorrei chiarire che io non vi dirò che mi dispiace, che non se lo meritava e che non avevo mai voluto che accadesse. Ho pianto perché era l'unica persona della mia famiglia che mi restava, ma visto quello che era, forse una famiglia così non l'ho mai voluta. Quindi al riguardo non dirò niente, così se poi cambiassi idea, se col tempo – come ti dicono in chiesa la domenica – s'impara a perdonare, allora forse non avrò parole di cui pentirmi, ma solo una persona da ricordare.
La notte in cui Fler è tornato a casa di Chakuza sporco di sangue, il tempo andava lentissimo. Ricordo che dopo averlo visto piangere ed essere tornato in salotto, le lancette dell'orologio non si muovevano più. Mi sono detto che ero libero, ma che siccome lo ero diventato in quel modo, la mattina non sarebbe mai arrivata e che sarebbe stata quella notte in eterno. Un pensiero un sacco idiota, però ne ero convinto. Fler ha rotto qualcosa, insieme alla testa di mio padre. Mi ci gioco la testa, mi dicevo, non può essere tutto così facile.
Il mattino è arrivato, però, e ad un certo punto è sembrato che il tempo volesse recuperare tutta quella parte di sé che s'era perso durante la notte. All'improvviso tutto ha ripreso a muoversi più veloce di prima.
Fler ha chiamato Bushido che si è messo in contatto con Ari, e quello nel giro della notte successiva ha ripulito casa mia. Non ho idea di cos'abbiano fatto con il corpo di mio padre, né dove lo abbiano portato. Ho solo chiesto che fosse seppellito in un posto vero, perché sapevo che mia madre non avrebbe mai voluto che finisse nel canale e, visto che visito la sua tomba ogni volta che posso, vorrei non dover mentire almeno a lei. Non c'era pericolo che qualcuno si accorgesse dell'assenza di mio padre visto che il palazzo in cui vivo è quasi disabitato e lui era quasi sempre sbronzo da qualche parte, ma era meglio che io non mi facessi vedere; avrei potuto stare da Fler ma lui ormai vive da Chakuza e non voleva lasciarmi da solo. Risultato? Mi ha portato a casa del nano.
Tra me e Chakuza c'è un odio profondo, generato principalmente dal fatto che lui è un cretino. Io lo odio come è giusto che faccia, dal momento che è inopportuno, noioso e portato a credere che Fler – una persona a cui lui non è degno nemmeno di legare le scarpe – sia di sua proprietà solo perché qualche anno fa, a causa di un qualche virus modificato, chiaramente derivante dal ceppo della meningite, Fler si è innamorato di lui. Chakuza, per questo motivo, dovrebbe dimostrare gratitudine al buon Dio, accendere candele nei tabernacoli della Madonna ed adorare tutti i Santi in colonna, invece di piombargli in casa una mattina a colazione, dopo sei mesi che non si vedevano, e chiedergli di uscire, come se ne avesse il potere, come se io non esistessi, come se il mondo girasse seguendo il potere nelle sue minuscole manine da gnomo della Terra di Mezzo. E invece lui in questo potere è così cretino da crederci, e per questo si permette di odiarmi, perché esisto, perché quando lui è arrivato non mi sono fatto da parte, stendendogli un tappeto rosso e dicendogli che il suo ritorno segnava certamente il mio abbandono per inadeguatezza.
Ho combattuto, ma era evidentemente una causa persa, e non perché lui sia meglio di me, ma solo perché Fler da questa meningite austriaca non si è mai ripreso. Così, quando Frodo è tornato da Monte Fato, lui non ci ha pensato due volte a scaricare me per tornare da lui.
Se devo essere onesto, Fler non ha fatto l'infame. Ha chiarito fin da subito con me come stavano le cose – d'altronde era impossibile non capirlo anche da solo, visto che il modo in cui l'intelligenza gli sparisce dagli occhi quando guarda Chakuza è inequivocabile, nonché indicativo dell'influenza negativa che quell'uomo ha su di lui – e riconosco che abbia cercato in tutti i modi di indorare la pillola, ma ad un certo punto anche vaffanculo. Mi capite? Per un certo periodo ho pensato che potevo anche chiuderla, in fondo non ci avevo mai sperato – forse sì, cominciavo a sperarci, ma solo poco – e potevo tornare da dove ero venuto. Avrei continuato per la mia strada e tanti saluti. L'ho fatto, naturalmente, non sono uno che si piange addosso io, ma poi mio padre ha perso la testa e ha cominciato a menarmi come e più di prima, forse per recuperare il tempo perso e sono dovuto scappare, perché sono poche le cose che puoi fare quando tuo padre ti ha ammazzato di botte. Così sono tornato da Fler, lui si è incazzato, ha fatto quello di cui sopra ed ora eccomi qua a convivere con l'ottavo nano di Biancaneve.
Come vi dicevo, Chakuza è una piaga, una di quelle che ti fa venire voglia di essere solo al mondo, ma è anche subdolo perché non te ne accorgi finché non lo conosci abbastanza bene, e quando lo fai ormai è tardi sei finito. E' così che Fler dev'essere caduto, non c'è altra spiegazione.
Chakuza non sa parlare, è una di quelle persone capaci di dire la cosa sbagliata al momento sbagliato anche se, per dire, si sta parlando del tempo. Tifa le squadre sbagliate quando guardiamo le partite, non sa i nomi delle attrici più fighe, ride alle battute sfigate, è una tragedia su tutta la linea. Per questo motivo, quando deve interagire con qualcuno, prepara da mangiare. Quando Fler me lo raccontava, io non ci credevo, pensavo che fosse uno dei suoi trip mentali secondo i quali in realtà Chakuza è una bella persona e, aldilà dei suoi molteplici e non trascurabili difetti, è anche simpatico, poi però ho scoperto che è vero. Qualunque cosa succeda, di qualunque problema stiamo parlando, da due lividi su un fianco a mio padre con la testa spaccata, lui ti propone di mangiare. E quando tu accetti, sconvolto, si innesca un meccanismo per cui tu vuoi che continui a farlo, perché il tuo cervello percepisce questa sua azione come positiva. Chakuza + Cibo = bene. Io credo che cucini servendosi di un qualche tipo di droga sintetica inodore, incolore e insapore che provoca dipendenza e uno stato di assuefazione.
Ad ogni modo, quando lui vede che un certo corso di azioni funziona, continua a ripetere quelle stesse azioni all'infinito perché gli capita così di rado di fare la cosa giusta che non può permettersi di ignorare i risultati positivi quando ne ha. E' programmato secondo una serie di situazioni che lui sa di poter gestire, qualunque cosa non rientri all'interno di schemi che ha già provato, finirà per scatenare l'inferno.
E questo, già a raccontarlo, è assolutamente delirante ma viverci in mezzo è perfino peggio.
Ad esempio, quando Fler mi ha portato a vivere qui, ha anche preteso che andassi a scuola, che non saltassi un giorno e possibilmente che prendessi pure dei bei voti perché, parole sue, l'ultima cosa che vogliamo è che un qualche assistente sociale chiami mio padre e gli dica che a scuola sono un disastro, o che proprio nemmeno ci vado. Ho dovuto accettare, anche perché non avevo molte alternative, così adesso dormo sul divano di Chakuza. Ogni mattina mi sveglio incazzato perché non si può davvero dormire su un divano, in una casa senza il riscaldamento e dover pure andare a scuola; e quando l'unica cosa che vorrei è poter imprecare e dire che la mia vita fa schifo, lui è già in piedi. In cucina. Che prepara la colazione.
Posso svegliarmi a qualsiasi ora, lui è già lì, ha già apparecchiato la penisola, ha già fatto il caffè e dal forno arriva un profumo di brioche fatte a mano che fa commuovere. E io nemmeno sapevo che odore avessero le brioche fatte a mano prima che le facesse lui!
La prima volta che è successo mi sono fermato sulla porta della cucina in pigiama, senza sapere nemmeno come mi chiamavo e, vedendo tutto quel ben di Dio, mi sono chiesto se non stesse preparando qualcosa per Fler, un gesto davvero di cattivo gusto da fare proprio davanti ai miei occhi. Insomma, se vuoi portargli la colazione a letto e fare i fidanzatini, aspetta almeno che sia uscito di casa, cazzo. Altrimenti tanto vale che mi scopi davanti, cioè, non so se mi spiego. E invece quello si gira e mi fa un mezzo sorriso storto e mi dice “Siediti e mangia, la colazione è quasi pronta.” Io vi giuro che ero convinto volesse avvelenarmi.
Invece no. Giorno dopo giorno mi ha preparato la colazione e, come se questo non fosse contemporaneamente la cosa più assurda, più inquietante, ma anche più carina che qualcuno abbia mai fatto per me, adesso so che accanto alla porta, insieme allo zaino, posso stare sicuro di trovare anche una busta di carta con dentro un panino per pranzo. Un panino sempre diverso. E siccome non tenta di avvelenarmi, non mi costringe a mangiare, non mi rinfaccia che si sveglia alle sei per preparare tutto e che, per giunta, il cibo è anche delizioso, non posso odiarlo. Voglio dire, posso stare qui a dire che è un cretino, che non si merita Fler e che, invece di tornare, poteva rimanere in Austria tra le mucche – sono tutte cose vere – ma che si sia ripreso o meno Fler, io non sono mai stato un suo problema, quindi avrebbe potuto benissimo non accettare di tenermi qui, o magari farlo come favore a Fler, ma senza necessariamente dovermi spedire a scuola ogni mattina con lo stomaco pieno e la certezza che mangerò sia a pranzo che a cena. Nessuno gli ha chiesto niente, naturalmente, ma come ho già detto lui non se ne lamenta mai, e questo fa sì che io mi trovi nell'assurda posizione di non poterlo davvero odiare e di essere incazzato con lui per questo. Cazzo, è perfino simpatico a volte, sarà che la mattina la parte spostata del suo cervello ancora non è sveglia, non lo so, ma mentre facciamo colazione ci capita di parlare e non è poi così male. Tutto ciò dev'essere profondamente sbagliato per qualche motivo, anche se adesso mi sfugge quale.
E questo è solo un esempio, potrei citarne altri, come ad esempio il fatto che tende a farmi sempre le solite tre domande quando rietro da scuola: Com'è andata? Hai fame? Hai sentito Fler? Che in realtà significano: Scopriranno l'omicidio di tuo padre? Hai fame? Tu e Fler avete ricominciato a scopare?, dove la seconda domanda rimane uguale perché in effetti è proprio quello che gli interessa sapere.
Chakuza sa che questo modo di porre le domande è legittimo, perciò le ripete così come sono, ogni giorno. E lo fa con un tempismo talmente preciso che, rientrando proprio in questo istante, io posso fare questo.
Apro la porta – Fler mi ha fatto avere le chiavi – e ho tutto il tempo di posare lo zaino, togliermi il giubbotto e le scarpe, prima di richiudermela alle spalle e farmi sentire. Chakuza come al solito è in cucina e sta parlando da solo o con il cibo che prepara, non so bene. “Daniel, sei tu?” Chiama.
“No, sono il fantasma dei Natali passati,” rispondo, entrando in cucina per raziare il tavolo che lui avrà sicuramente già apparecchiato con gli antipasti. Allungo subito le mani sul prosciutto, sul pane e anche sui cubetti di un formaggio stranissimo che non avevo mai visto prima. E' buono però.
Chakuza gira il sugo, con il grembiule legato in vita e uno strofinaccio sulla spalla. Se ci penso è assurdo che la maggior parte delle immagini mentali che ho di quest'uomo lo ritraggano esattamente così; se invece penso a quando canta... io credo di non averlo mai visto.
Si volta e, constatato con soddisfazione che sto facendo onore alla sua tavola, sgrana un po' gli occhi e le sue sopracciglia formano due archi perfetti, segno inequivocabile che il programma si sta avviando e sta per essere attivato. Aspetto solo che apra bocca, prima di fermarlo. “La preside mi ha chiamato nel suo ufficio,” dico seriamente, guardandolo mentre m'infilo in bocca un pezzetto di formaggio. “Dice che non vede mio padre da un imbarazzante colloquio del primo anno e che è assolutamente necessario che si incontrino, per discutere dei miei straordinari miglioramenti degli ultimi giorni.”
Lo vedo sbiancare e deglutire in quella maniera così evidente che se non fosse il figlio dell'allevatore di mucche che è, ma il delinquente che dovrebbe essere visto come si atteggia, lo avrebbero ammazzato già da un sacco di tempo, perché quello che gli passa per la testa – quando è un pensiero intelligente – glielo si legge chiaramente anche in faccia.
“Io comunque ho una fame da lupi, perché non ho pranzato. Dopo scuola ho fatto un salto da Fler per... aiutarlo con alcune cosette e ho perso il senso del tempo,” continuo, distogliendo lo sguardo solo un istante per inzuppare le carote tagliate a striscioline nella ciotolina della salsa. Quando torno a guardarlo alzo le mani e lo guardo con aria innocente. “Tranquillo, non ho disturbato gli altri all'Ersguterjunge. Eravamo solo io e lui.”
Chakuza si pulisce le mani così lentamente su quello strofinaccio che credo il tempo prenderà a scorrere al contrario. “Sei stato agli studi?” Chiede, cercando di fare il vago.
Io rimango con la carota a mezza strada tra la ciotola e la bocca. Mi pulisco uno sbuffo di salsa con la lingua, guardandolo con aria tranquilla, come se non avessi detto niente di strano. “E indovina un po' cos'abbiamo fatto? D'altronde per quale motivo avrei fame, altrimenti? E in tutto questo, mi toccherà mangiare velocemente e scappare prima che, ironia della sorte, scoprano dell'omicidio di mio padre perché vado troppo bene a scuola.”
Lui si siede, sempre con la solita lentezza, e non so quale delle notizie lo stia sconvolgendo di più, perché è vero che è geloso di Fler, ma in questa casa è quello che convive peggio con l'idea dell'omicidio. “Stai dicendo sul serio?” Mi chiede cauto.
Io perdo un po' di tempo a spilluzzicare ancora qualcosa e a deglutirlo, prima di sorridere. “No, naturalmente,” lo liquido con una risatina. “A scuola tutto normale, non ho la più pallida di dove sia Fler e ho fame perché ho diciotto anni e punto al metro e novanta. Ora possiamo cenare?”
“Tu sei un piccolo stronzo,” replica lui, tirandomi lo strofinaccio in faccia mentre mi piego in due dal ridere e quasi mi strozzo con la verdura cruda. “Mi hai fatto venire un infarto.”
Riesce a borbottare per tutto il tragitto dalla tavola al frigorifero e dal frigorifero alla pentola dove riprende a rimestare come la brutta imitazione della strega pelata di Biancaneve. “Comunque no, non possiamo ancora cenare,” risponde, quando finalmente smette di lamentarsi di me. “Fler sta arrivando. Aspettiamo lui.”
La frase sembra innocua soltanto per un attimo, il tempo che ci mettiamo a renderci conto che io sono tornato da scuola, lui ha cucinato per noi e – mi vengono i brividi solo a pensarci – Fler oggi ha lavorato e stiamo aspettando soltanto che torni per mangiare.
Le parole rimangono sospese nell'aria sopra le nostre teste, esattamente come le implicazioni che hanno generato, rendendo l'aria quasi irrespirabile. Chakuza dà la colpa al vapore dell'acqua che ha messo sul fuoco e va di corsa ad aprire la finestra. Ci guardiamo in imbarazzo, poi lui scoppia a ridere e io pure.
E' la cosa più cretina che potessimo pensare.

*


In questi ultimi giorni, io e Fler abbiamo parlato. Un po’. Suppongo sia normale, nel senso che per tre-quattro giorni, dopo il fatto, io a lui non mi ci sono nemmeno avvicinato. Non so perché, non è che non gli fossi grato, non ero arrabbiato, avevo solo paura. Di cosa, non saprei dirlo. Forse delle cose che cambiavano. Sapete, quando odi qualcuno, quando lo odi da tanto, tanto tempo, quando quel qualcuno s’è imposto nella tua vita tanto a lungo da diventarne una costante, anche se ti fa schifo averlo intorno, il pensiero di non averlo più è terrificante. Non avere più mio padre significava per me un sacco di cose, un sacco di cambiamenti, e la prospettiva di doverli affrontare mi faceva paura. Così, quando Fler è tornato e io ho capito, è stato difficile riuscire a guardarlo in faccia. Gli dovevo molto, ma aveva anche appena gettato la mia vita nel caos. Non sapevo come affrontarlo, perciò è stato lui ad affrontare me, quando s’è stufato dei silenzi e dei saluti di circostanza, immagino.
Quella sera Chakuza non c’era, quindi suppongo che Fler gli abbia chiesto di levarsi dalle palle per un po’, perché quello, se non è obbligato, questa casa non la molla mica, manco fosse una reggia, e men che mai la mollerebbe sapendo di lasciarci soli con la possibilità di fare potenzialmente di tutto e scopare selvaggiamente su ogni superficie disponibile.
Comunque, quella sera lì era uscito, di sua iniziativa o su gentile richiesta non lo so e nemmeno mi interessa. Fatto sta che io stavo mangiucchiando un tramezzino al tonno davanti alla tv e a un certo punto sento il divano che sbuffa, mi volto e c’è Fler seduto accanto a me con l’espressione dei Momenti Seri sulla faccia. Sta tutto reclinato in avanti, i gomiti sulle ginocchia e le sopracciglia inarcate verso il basso in una posa apprensiva. Io mando giù quel che resta del tramezzino in un morso e sbuffo.
- Piantala di guardarmi in quel modo. – faccio, - Che ti prende?
Fler sospira, grattandosi nervosamente la nuca.
- Mi sono ricordato che fra poco fai diciott’anni. – mi dice. In quel momento me lo ricordo anch’io, ed è straniante. Uno pensa che il proprio compleanno non possa mai passarti inosservato, voglio dire, è del tuo compleanno che si parla, ovvio che ti ricordi quand’è, ma a me era proprio sfuggito di mente. L’ho guardato con due occhi enormi e il primo istinto è stato di rispondergli “no, ti sbagli, guarda che c’è ancora tempo”, ma la realtà era che non si sbagliava per niente, anzi, aveva proprio ragione, il mio compleanno sarebbe stato da lì a pochi giorni. Perciò, visto che non voglio rispondere perché mi sentirei ridicolo a farlo, resto in silenzio e lo ascolto. – Me lo sono ricordato quando sono entrato in casa tua. – mi fa, e io tremo. Non voglio che mi parli di questa cosa, ma da un lato so che non posso proprio risparmiarmelo, perciò cerco quantomeno di fare in modo che sia una cosa breve, ed annuisco, invitandolo a proseguire. – Voglio che tu sappia perché l’ho fatto. – mi dice, dopo un’esitazione minima. Io continuo a non rispondere e stavolta non mi muovo nemmeno. – Quando compi diciott’anni, - continua lui, serissimo, - diventi un uomo. E gli uomini sono liberi. Gli uomini sono liberi e nessuno… - esita ancora, abbassando lo sguardo, - nessuno ha il diritto di picchiarli.
- Neanche i bambini. – dico a quel punto, trattenendo il respiro. Sento tutto il sangue defluire dalla faccia e vedo nei suoi occhi che questo mio impallidire improvviso lo preoccupa. Il punto è che è una cosa che volevo dire da un sacco di tempo. Mi sarebbe piaciuto dirlo a mio padre. Che cazzo di diritto avevi di farlo?, che cazzo di diritto avevi? Ma non l’ho mai fatto.
Fler comunque annuisce, allungando una mano. Io la afferro con violenza, quasi volessi aggrapparmici.
- Neanche i bambini, ma quello non ho fatto in tempo ad evitarlo. – dice, - Ma per i diciott’anni dovevo. Non potevo permettere che andasse diversamente. Lo capisci questo? – mi chiede. E io lo capisco sì, solo che non riesco a parlare. Perciò mi limito ad annuire.
Da lì in poi le cose sono andate meglio. Ogni tanto succede che tu hai bisogno di sentirti dire qualcosa e non sai cosa, perciò non sai nemmeno dove andarla a cercare. Il più delle volte finisce che nessuno riesce a dirtela e tu dopo un po’ te la butti alle spalle – ma lo spazio vuoto, quello resta sempre – ma io sono stato fortunato. Il che è anche logico, perché voglio dire, con una vita come la mia uno dopo un po’ comincia anche a chiederselo quando comincerà a girare la fottuta ruota del karma. Che è una cosa che peraltro ho detto a Chakuza una sera che stavamo sbocconcellando pop corn guardando Orgoglio e Pregiudizio – lo sceneggiato della BBC, ovviamente, non quella cagata con la Knightley che, per inciso, non si può nemmeno guardare in faccia – e Fler ronfava tutto raggomitolato sulla sua poltrona. Quella sera Chakuza s’è messo a ridere e mi ha detto che per lui il karma è una cazzata che la gente si inventa per rassicurarsi sul fatto che anche se le cose vanno male prima o poi miglioreranno. Lui non è di quest’avviso. Lui crede solo nella sfiga. Però ha aggiunto che avrei dovuto discuterne con Jost, lui avrebbe saputo essermi di conforto in quel senso. Io l’ho mandato a cagare e Fler pure, così, nel dormiveglia.
Insomma, mi sono sentito bene. Sollevato. Una bella sensazione. Di quelle che puoi portarti dietro per giorni. E i giorni, fino al mio compleanno, sembrano volare veloci mentre mi rendo conto che probabilmente si tratterà del mio compleanno migliore da tanto, tanto tempo. Non avrò una vera e propria festa perché naturalmente non posso invitare qui i miei vecchi amici del ghetto, un po’ perché mi odiano ma un po’ anche perché io odio loro, e soprattutto perché li odia Fler che li conosce e anche Chakuza che invece non ha bisogno di conoscerli per odiarli lo stesso, e d’altronde un party a casa di Bushido circondato da rapper che per lo più mi stanno sul cazzo non era neanche proponibile, tanto più che pare che la principessa di casa mi odi perché ho osato mettere le mani sulla sua migliore amica allontanandola da quello che lei ritiene sia il partito più giusto per lei, cioè Chakuza, e minacciando così la serenità della sua corte, ma rispetto ai miei ultimi compleanni sarà comunque una gran cosa, anche se a festeggiare saremo solo io, Fler e Chakuza.
Quest’ultimo, peraltro, s’è svegliato stamattina stabilendo che mai e poi mai avrebbe permesso che in casa sua entrasse una torta di pasticceria, perciò mentre Fler è uscito per andare a fare non so bene cosa lui mi ha afferrato per la collottola e mi ha portato in giro per supermercati in cerca degli ingredienti adatti per la cena e il dolce. E quando dico supermercati non sto usando plurali a casaccio. Perché se lui entra in un supermercato e vede che non c’è la marmellata biologica senza zucchero di prugne Regina Claudia che cerca, non è che ripiega sul tipo di marmellata che gli assomiglia di più o su una seconda scelta qualsiasi, no!, lui quella vuole e quella avrà, quindi è capace di girarsi anche tre o quattro supermercati nel quartiere per trovarla, e se non la trova lì è perfettamente in grado di cambiare anche zona della città o spingersi verso qualche mega-centro commerciale in periferia, quando la situazione si fa proprio disperata.
In genere tutte queste cose le fa fortunatamente in mia assenza, ma visto che oggi è il mio compleanno gli è sembrato giusto farmi espiare il peccato di essere venuto al mondo torturandomi, perciò mi ha portato con sé, il che vuol dire che siamo usciti al mattino verso mezzogiorno e siamo rientrati alle sei del pomeriggio, che già di fuori faceva buio. Una roba insopportabile.
Al momento, lui è di là in cucina che cinguetta come un passero, incarnazione su due zampe tozze della felicità, mentre io sto seduto sul divano piegato in due sul tavolino basso che squadro con astio i compiti per domani chiedendomi a cosa serva compiere gli anni nel mezzo della settimana se questo non ti permette di risparmiarti i compiti. Non è una giustificazione sufficiente il fatto di diventare adulto? “Ieri non ho potuto finire gli esercizi di matematica, professore. Stavo diventando grande.” Suona bene, come giustificazione, ha perfino senso perché “diventare grande” sembra una cosa molto più complessa e impegnativa di “dovevo portare il cane a fare una passeggiata” o “l’attuale uomo del mio ex ha portato me a fare una passeggiata”. Però devo dire che anche quest’ultima suona bene. Mi sa che i libri li metto via e domani a Herr Ochsenknecht gli rifilo questo, come scusa. Se anche non dovesse crederci, non solo potrei giurare che è vero, ma potrei anche chiamare Chakuza ed obbligarlo a confermare la mia versione. Sì, è perfetto.
Mentre sono qui che ridacchio malignamente ignorando Chakuza che, dalla cucina, mi chiede quale sia la mia posizione politica e umana nei confronti degli sbuffi di panna decorativi e se possa ideologicamente accettare di vedere questi sbuffi decorati da Smarties quando invece sarebbe più ontologicamente corretto che fossero accompagnati da ciliegie, Fler rientra in casa, annunciandosi a gran voce.
- Buon compleanno! – mi saluta, tirandomi su di peso e stritolandomi mentre io mi dimeno come un’anguilla implorandolo di mollarmi prima di sferrargli un calcio involontario nelle palle. Lui mi mette giù ridendo, ed è la prima volta che lo vedo così di buonumore da giorni. – Chaku? – domanda con un gran sorriso. Io indico la cucina con il pollice.
- Tiene in ostaggio tre piani di pan di spagna e mezzo chilo di glassa al cioccolato. – rispondo, - Prigionieri politici, pare. Credo che abbiano già inviato un telegramma all’ambasciata di Dolcilandia per ricevere i primi aiuti e trovare un negoziatore disposto ad assumersi la responsabilità della trattativa.
Fler si mette a ridere ad alta voce, chinandosi a poggiare un tavolo una cartella beige, un colore tristissimo e spentissimo, senza niente scritto sopra. Io le lancio un’occhiata preoccupata, Fler se ne accorge e le lascia scivolare sopra un paio di riviste di cui una, mi accorgo, pornografica, ma risalente ad un’era geologica precedente in cui per fare la pornostar non era fondamentale essere completamente glabre.
Mi imbroncio. Non per la rivista, naturalmente, e non perché mi faccia fatica spostarla ed appropriarmi della cartella per sbirciare il suo contenuto, ma perché con questo gesto Fler mi ha chiaramente lasciato intendere che non vuole che metta le mani su ciò che c’è dentro. Il che vuol dire che o non sono affari miei, o sono affari miei ma vuole essere lui a parlarmene prima di lasciarmi vedere coi miei occhi. Ed è questa l’ipotesi che mi spaventa.
- Chaku, è pronta quella torta? – gli sento chiedere mentre si avvia verso la cucina. Io mi lascio ricadere sul divano e fisso la rivista porno, ma in realtà non sto fissando lei, sto fissando il punto sotto di lei che non posso vedere perché c’è lei posata sopra.
- Buonasera anche a te, eh. – sbuffa Chakuza, - Comunque sì. Portala di là mentre io recupero le candeline.
Fler ride e sento lo schiocco di un bacio seguito da quello più ovattato di un ceffone contro una spalla o qualcosa di simile, e poi ancora le risate di Fler, e i suoi passi, poco prima che la torta si posi come scendendo in volo sulla parte di tavolino che io non sono occupato a fissare.
- Danny, guarda che bella. – dice Fler. Io mugugno qualcosa ma non sposto gli occhi da lì, e lui sospira, rassegnato, mettendosi a sedere sulla poltrona.
- Prego, Daniel, - sbotta Chakuza, acido, apparendo accanto a me e cominciando a piantare candeline sulla sommità della torta con precisione quasi marziale, - è stata una fatica farla così bella in così poco tempo, ma non sentirti in dovere di— che razza di roba stai guardando?! – strilla oltraggiato, mandando all’aria la mezza dozzina di candeline che ancora tiene in mano ed allungandosi precipitosamente a sottrarre la rivista da sotto il mio sguardo. Io mi volto verso di lui, lo squadro, è paonazzo. Non ho idea del perché, ma mi sembra che il tempo, attorno a me, abbia preso a muoversi più lentamente.
Torno a guardare la cartellina, Chakuza non si è accorto che è quella che mi interessava, e non certo l’enorme paio di tette che campeggiava sulla copertina di quel suo giornalaccio da due soldi. Allungo un braccio, e mi sembra quasi di esserci, di poterla toccare, quando la mano di Fler si posa sulla copertina, impedendomi di afferrarla. Sollevo gli occhi su di lui, aggrottando le sopracciglia. Lui sorride pacifico, un po’ incerto, forse, ma allegro.
- …ok, che succede? – domanda Chakuza, sedendosi al mio fianco con uno sbuffo preoccupato.
Fler prende la cartellina fra le mani e se la appoggia in grembo, continuando a guardarmi per tutto il tempo. La apre e poi sfoglia i documenti che contiene, cercandone apparentemente uno in particolare.
- Dopo quello che è successo… - comincia vago, - è impensabile lasciarti andare in giro da solo. Tuo padre, pare, aveva un’assicurazione sulla vita, e—
- Non li voglio i suoi soldi di merda. – sillabo io, quasi offeso dal fatto che lui abbia potuto anche solo pensarlo. Preferirei andare a vivere per strada, in un cassonetto dell’immondizia, piuttosto che sopravvivere anche dignitosamente sapendo di stare usando i soldi di mio padre.
- Lo immaginavo, - sorride, - ma è comunque possibile che la compagnia assicurativa faccia qualche indagine. Che ti cerchino, ti trovino e ti facciano qualche domanda, e noi non vogliamo che questo accada. Ci stiamo muovendo perché questa cosa possa essere evitata, ma—
- Ci stiamo muovendo? – si intromette Chakuza, ora pallido come un cencio, - Chi si sta muovendo?
- Non lo conosci, Chaku. – taglia corto Fler, scacciando la sua curiosità con un cenno della mano, - Ed è meglio così. Oltretutto, questa cosa non ti riguarda.
- Mi riguarda eccome! – strilla lui, - Se non te ne sei accorto, è in questa casa che vive Daniel! Non in casa tua, non in casa di Bushido, né in casa di nessuno degli altri che, immagino, si stiano muovendo in questo momento, perciò—
- Non ho detto che Danny non è affar tuo. – lo interrompe Fler, duro, serissimo, la voce senza ferma e solida come un blocco di cemento, e ugualmente pesante. – Solo che non è affar tuo il modo in cui ci muoveremo per evitare che ci siano problemi. Non farmi altre domande al riguardo, Chaku, - aggiunge con un sospiro e un’espressione più morbida e conciliante, - sai che potrei risponderti solo con cose che ti farebbero arrabbiare. – conclude, provando a sorridere. Chakuza si rifugia in un angolo del divano, le braccia conserte sul petto, le sopracciglia aggrottate. Guarda altrove e chissà su quante cose sta rimuginando in quella sua testa senza un pelo. Io, invece, ne voglio sapere una soltanto.
- Cos’è che stai cercando di dirmi, Fler? – chiedo, guardandolo dritto negli occhi, e poi trattengo il respiro.
Lui si azzarda a sorridere appena, tornando a guardare me. Vedo i suoi occhi allontanarsi da Chakuza con riluttanza, e per la prima volta mi trovo a sperare che possano chiarire questa faccenda fra di loro, più tardi. Questi due litigano piuttosto spesso, e devo dire che per me è molto divertente starli a guardare mentre succede. Non so perché stavolta invece la rabbia di Chakuza e l’evidente tristezza di Fler mi turbino così profondamente, è la prima volta che accade.
- Ho pensato di fare le cose per bene. – dice quindi, tirando fuori un plico di fogli tenuto insieme da una graffetta e porgendomeli. È un tipo di documento che non ho mai visto prima in vita mia. Non che mi sia capitato spesso di avere roba burocratica per le mani, ma si vede lontano un miglio che questa è una di quelle cose che non si vedono spesso. E che, in questa circostanza, non si dovrebbe vedere affatto.
- Documenti per l’adozione… - annaspo, scorrendoli velocemente. Le lettere sembrano sciogliersi e mescolarsi, tanto che dopo un po’ sul foglio vedo solo indistinte macchie grigie. – Ma cosa…
- Naturalmente, - riprende Fler, stringendosi nelle spalle, - visto che sei maggiorenne, se sei d’accordo serviranno un po’ di firme. E… Chaku. – dice a bassa voce, voltandosi verso di lui. Lo trova che lui già lo guarda, occhi sbarrati, labbra dischiuse, cinereo, terrorizzato. – Tu non devi per forza essere coinvolto in questa cosa. – lo rassicura con un mezzo sorriso, - Non te ne ho parlato prima perché non sapevo se fosse possibile e non volevo illudere nessuno… o mandarti in paranoia senza un perché. Non sei obbligato, ma mi piacerebbe che tu… cioè, non avresti alcuna responsabilità legale, ovviamente, ma—
- Ho capito. – sillaba lui, a corto di fiato. Lo vedo che deglutisce due, tre, quattro volte, a vuoto, e poi annuisce. – Ho capito cosa intendi. – e poi si volta a guardarmi, solo per un attimo, come per rassicurarsi sulla bontà della propria decisione, prima di tornare a guardare Fler. – Va bene.
Io guardo prima l’uno e poi l’altro e non riesco a respirare. Continuo a vedere tutto sbiadito ma non mi sfiora neanche la possibilità di stare piangendo. Ho l’impressione che sia solo confusione mentale, e resto ancorato a quell’impressione finché non sento le lacrime scivolare sulle mie guance che scottano. Chakuza resta immobile, evidentemente ancora troppo pietrificato per provare a muoversi, e Fler si limita a chinarsi appena verso di me, appoggiandomi una mano sulla schiena curva ed accarezzandomi lentamente lungo la linea della colonna vertebrale. Sento la sua mano sobbalzare a tratti e capisco solo dopo che è perché sto singhiozzando così forte da scuotermi tutto.
- Perché? – chiedo dopo un po’, quando riesco a sciogliere la lingua abbastanza da mettere in fila le lettere. Fler sembra quasi sorpreso, dalla mia domanda. A me sembra così legittima, invece. Mi sembra tutto così assurdo, mi sembra così impensabile che qualcuno possa volersi far carico di un soggetto come me, soprattutto quando rappresento qualcosa di molto più problematico di un semplice ragazzino solitario. Nel momento in cui io sono un ex amante, sono un ex criminale, sono il figlio dell’uomo che hai ucciso, sono la ragione per la quale quell’uomo è stato ucciso, perché? È l’unica domanda che mi rimbomba nella testa, e la ripeto in un sussurro quando Fler pare così preso alla sprovvista da non sapere nemmeno cosa rispondermi.
Lui e Chakuza si lanciano un’occhiata breve ma intensa, e quando lo vedo tornare a posarmi gli occhi addosso sento che per l’ansia e la paura di sentirmi dire qualcosa di spiacevole potrebbe esplodermi il cuore.
- Ma come perché? – dice invece lui, stringendosi nelle spalle con aria quasi remissiva, - Perché ti vogliamo bene.
E io non so perché mi metto a piangere ancora più forte. Dovrei smettere, e invece ho solo voglia di piangere ancora e ancora e ancora. Perché? Perché ti vogliamo bene.
È la risposta più ovvia del mondo, ma io non ero nemmeno riuscito a concepirla. Spero che Fler e Chakuza possano insegnarmi a darla per scontata, da oggi in poi.

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Regen

di lisachan
Quando arriva la telefonata, io sto facendo i compiti. Fare i compiti ha smesso di essere una cosa completamente surreale solo da qualche mese, per cui mi sto ancora abituando. E' un po' un casino, quando succedono cose come quella che è successa a me - nel senso che è un po' un casino quando hai una vita di merda, con tutti gli innumerevoli svantaggi della vita di merda, sì, ma anche con quei pochi, sporadici vantaggi tipo il fatto che, se tuo padre ti picchia ogni volta che gli passi sotto gli occhi e se, per tutto il resto del tempo, spacci per le strade del ghetto per tirare su i soldi per campare, di certo fare i compiti non rientra nelle tue priorità, ma in realtà neanche all'ultimo posto di un'ipotetica lista di cose da fare nell'arco della giornata. E' una cosa alla quale neanche pensi, visto che comunque il massimo della prospettiva di vita che hai è aspettare il limite d'età per mollare e dedicarti a tempo pieno alla tua attività principale, che poi probabilmente ti porterà a crepare in un vicolo con un coltello piantato nello stomaco prima di compiere vent'anni.
Quello che intendo dire è sostanzialmente che io, prima di essere rapito ed adottato da questi due pazzi - formalmente, la custodia ce l'ha Fler da solo, ma Chakuza non ha bisogno di firmare su nessun documento per imporsi nella vita degli altri, a lui basta esistere, e già devi ringraziare che, esistendo, non ti scartavetri i coglioni ventiquattro ore al giorno e sette giorni su sette -, i compiti non li facevo. Andavo anche sporadicamente a scuola, il che, suppongo, giustifica il fatto che in effetti sono una capra ignorante, cosa che mi porta, adesso, a fare un sacco di fatica per recuperare.
Nei telefilm, quando succedono cose tipo quella che è successa a me - non nel senso che qualcuno arriva, ammazza il genitore abusivo e adotta il figlio rimasto in vita per donargli una vita migliore; nel senso che qualcuno arriva e sistema la situazione dell'adolescente arrabbiato col mondo, risolvendo i suoi problemi e facendone un ragazzino migliore -, il ragazzino in questione automaticamente comincia a prendere ottimi voti ovunque. Ci avete mai fatto caso? Come se anni e anni passati nell'ignoranza più assoluta potessero essere spazzati via da due settimane di studio.
La realtà non si avvicina neanche lontanamente a questa versione dei fatti, è ovvio. Quando per anni e anni tu non hai studiato, non è che basti stare chino due settimane sui libri per diventare un genio.
Intanto, è già difficile prendere il ritmo. Intendo metterti lì seduto alla tua scrivania - se ne possiedi una; sulla penisola della cucina, nel mio caso -, tirare fuori i libri e cominciare a concentrarti. I primi tempi io non ne avevo mezza, sinceramente. Tutto quello che volevo era godermi la mia nuova libertà in cui potevo svegliarmi ogni mattina senza lividi e costole incrinate e potevo mangiare del cibo per comprare il quale non avevo dovuto spacciare per i tre giorni precedenti. Guardate che non sono mica cambiamenti da niente, eh. Sono robe che ti rivoluzionano l'esistenza. Io per dire volevo tutto meno che mettermi a studiare; volevo uscire, volevo andare al lago, volevo viaggiare - viaggiare, stupido Chakuza. Non restare a Berlino per non aggiungere assenze alle precedenti mentre lui e Fler se ne andavano tranquilli in America col resto della famiglia di beduini di Bushido -, volevo chiudermi in sala d'incisione e fare buon uso dei soldi di Fler per autoprodurmi e diventare il nuovo fenomeno del rap giovanile tedesco. Ecco, volevo fare un sacco di cose, ma di sicuro fra queste mille cose che volevo fare non era compresa l'idea di mettermi lì seduto a leggere riassunti di storia contemporanea e risolvere equazioni trigonometriche di secondo grado. Anche perché la prima mi annoia e le seconde semplicemente non le capisco.
Fossimo stati solo io e Fler, il problema neanche si sarebbe posto. Da uomini adulti, ci saremmo seduti attorno ad un tavolo ed io, molto sinceramente, gli avrei detto "senti, Fler, io ne ho piene le palle", e saremmo arrivati ad un accordo. D'altronde lui la scuola neanche l'ha finita, ed è venuto su benissimo. Non è che il diploma ti serva a tutti i costi per essere qualcuno nella vita.
Ecco, Fler l'avrebbe capito. Chakuza, naturalmente, no. Perché lui non viene dal ghetto, lui viene dalle montagne sulle quali, circondato da mucche e capre e dal verde della natura, oltre a venire su testone e insopportabile ha anche studiato fino al regolare conseguimento del diploma, per darsi al rap solo dopo essersi fatto una cultura. Da cuoco.
Insomma, come si può pretendere di ragionare con uno così? Non si può. E Fler, per qualche motivo che stento ancora a comprendere e che ho dovuto semplicemente accettare, perché così fai con le cose che sono in un determinato modo anche se tu non le capisci, tipo le equazioni trigonometriche di secondo grado, appunto, Fler, dicevo, gli è completamente asservito, per cui quando io mi sono seduto al tavolo con entrambi e, parlando con sincerità, ho detto loro che della scuola non ne potevo più, non me ne fregava niente e volevo mollarla, Chakuza ha fatto come un pazzo. "Ma stai scherzando?!" ha strillato, la pelata che riluceva della luce del lampadario sotto il quale si era strategicamente posto, abbagliandomi, "Ma dove pensi di andare senza un diploma?!"
Al che io ho capito subito che, con uno che ti si presenta con un argomento simile, non si poteva ragionare, e mi sono voltato verso Fler, sperando in un minimo di solidarietà sociale, per lo meno. Ma lui niente: mi ha guardato, lanciandomi un'occhiata come per dire "eh, che ci vuoi fare", mi ha buttato lì un mezzo sorriso e poi mi ha detto "hai sentito il Chaku. Vai a studiare".
No, dico. Che se mi serviva un'altra prova che si fosse trasformato nella madre che per troppi anni non ho avuto, eccola lì.
Insomma, siccome Chakuza è un uomo insopportabile che vive secondo schemi mentali del Millesettecento, io non ho potuto mollare la scuola, e in qualche modo ho dovuto farmela piacere, ma non è stato mica facile. Faccio ancora un sacco di fatica a non distrarmi anche solo gettando un'occhiata fuori dalla finestra, mentre studio, ed i miei voti raggiungono ancora a stento la sufficienza. Durante l'ultimo incontro genitori-insegnanti, di fronte al quale peraltro s'è presentato Fler, il prof di lettere l'ha guardato e gli ha detto "vorrei poterle dire che il ragazzo ha potenziale ma non s'impegna, ma..." e gli ha mostrato i miei voti e tutta la mia striscia positiva di sufficienze scarse.
Questo è il massimo che posso fare per ora, e lo accetto. Non ho mai preteso di essere più intelligente del minimo che mi servisse per sopravvivere al ghetto. Il mio cervello mi ha tirato fuori di lì, e pertanto ha svolto il suo compito più che egregiamente. Bravo, cervello. Non ti meriti di essere torturato e forzatamente costretto ad imparare le cinque declinazioni.
E' per questo che, ogni volta che mi metto a studiare, la prima cosa che spero è che capiti qualcosa di improvviso che mi distragga. E' un pensiero immediato, appena poso il culo sullo sgabello: capita!, penso, rivolto al guaio ideale che vorrei venisse a risolvere il mio problema, qualsiasi cosa tu sia, capita!
Non capita quasi mai niente, per inciso, ma oggi sì. Oggi mi arriva la telefonata.
Sono le cinque circa del pomeriggio, orario intorno al quale mi seggo sempre a studiare dopo essermi sfondato di cartoni animati per bambini e patatine (ho delle giustificazioni: queste cose non me le sono mai potuto godere, da piccolo; è tempo di recuperare), per cui immagino che lì da loro, negli Stati Uniti, dovunque essi si trovino in questo momento (il programma di Kaulitz era incasinato e confuso e sinceramente, non dovendo prendervi parte, non mi interessava nemmeno abbastanza da memorizzarlo), sia un qualche orario indecente tipo l'alba. Okay, magari no. Ma è sicuramente presto comunque.
- Pronto? - faccio, alzandomi immediatamente in piedi. Primo perché è un gesto che mi porta lontano dai compiti, e poi perché non riesco mai a stare fermo, quando sto al telefono. Devo camminare, andare in giro, toccare cose, guardare fuori dalla finestra.
- Daniel. - mi chiama Chakuza, ed usa il mio nome completo, una roba di un inquietante che non ve lo posso neanche descrivere. Io sono contrario all'utilizzo del mio nome completo. Quando hai un soprannome col quale tutti ti chiamano sempre, finisci sempre a conferire una certa sacralità ai momenti in cui il tuo nome viene detto per intero. Pertanto, è importante che questi momenti siano pochi, e soprattutto che poi siano davvero importanti per davvero, sennò che senso ha?
- Che c'è? - domando, già scazzato per il palese utilizzo scorretto del mio nome - perché non c'è niente di realmente importante che Chakuza possa avere bisogno di dirmi, è evidente - ed anche perché non ho per niente voglia di starlo a sentire sapendo che si trova dall'altro lato dell'oceano con Fler. Davvero, io so che lui non dimentica mai, neanche per un minuto, che per svariati meravigliosi mesi della mia vita io sono stato col suo uomo, e so che non lo dimentica perché è geloso e ossessivo come un orango, ma ogni tanto si comporta come se la nozione gli sfuggisse completamente, come se per me non fosse ancora fastidioso, nonostante tutto, sapere che lui, il suo metro e quaranta scarso, le sue gambette tozze e la sua stupida pelata hanno vinto contro il mio metro e novanta, le mie gambe chilometriche e la mia fluente chioma bionda. Come può questa cosa essere giusta, o anche solo reale? In che mondo?!
- Dunque... - comincia lui, e io so che sta già partendo da troppo lontano. Cioè, dai, hai una roba da dirmi? Dimmela. Non mi tenere qua al telefono per sempre, su una chiamata intercontinentale, poi. La sua testa è vuota fuori e dentro. - Senti, è successo qualcosa di importante. - blatera, - Niente di preoccupante, eh! Anzi, direi che è una bella notizia. Credo. - sembra rifletterci su seriamente, - Okay, forse non lo è completamente. Ma potrebbe esserlo, se tu ti preparassi a riceverla nella disposizione d'animo adatta. In che disposizione d'animo sei?
Guardo fuori dalla finestra, appoggiandomi al vetro. Lui mi ha chiamato usando il mio nome per intero, mi sta facendo perdere tempo nell'unico modo che mi fa rimpiangere i compiti, so da come ha introdotto la questione che non può che trattarsi di un'ottima notizia per lui ma una pessima notizia per me - e che quindi non può non riguardare Fler e la sua surreale relazione con lui -, quando avrò finito con questa pietosa telefonata ci saranno comunque le equazioni trigonometriche di secondo grado ad attendermi sulla penisola e, di fuori, sta cominciando a piovere.
- Pessima. - rispondo, scandendo bene le lettere di modo che la mia voce possa oltrepassare le barriere della sua usuale sordità stupidità-indotta e giungere inalterata a quel che resta delle sinapsi del suo cervello ridotto quasi in brandelli da anni e anni e anni di continuativa iperattività sessuale priva di logica e palesemente soddisfatta dal mondo non perché lui sia bello ma perché emette feromoni ai quali io sono immune ma un sacco di altre persone no.
- Oh. - dice lui, apparentemente deluso dalla mia rivelazione. - Oh. Okay. Ehm...
E' lì che sento la voce di Fler provenire come da un mondo lontano. "Chakuza. Che stai facendo. No," dice. Sento un sacco di casino e capisco che stanno lottando per la conquista del telefono. Non so ancora cosa volesse dirmi Chakuza, ma almeno ho capito che è qualcosa che Fler voleva dirmi per primo.
Il che mi dà la certezza definitiva che non possa trattarsi di niente di buono per me.
- Danny. - mi chiama, la voce rauca, pesante di sonno, un po' strascicata, come se stesse male, ma nonostante tutto dolce, come ogni volta che si rivolge a me, anche nelle situazioni peggiori. - Ehi.
Sospiro pesantemente, appoggiandomi al davanzale della finestra, la fronte contro il vetro freddo, gli occhi chiusi.
- Spara. - dico.
Lui non se lo fa ripetere due volte.
- Ieri io e Chakuza ci siamo sposati.
Nonostante il dolore sordo nel petto, non posso fare a meno di sorridere per la stupidità generica della frase.
- Dimmi almeno che hai fatto vestire di bianco lui. - lo prendo in giro, - La sposa più alta dello sposo non si può vedere.
- Sei un cretino. - ride lui, e poi gli sfugge fra le labbra un lamento sofferente, - Dio che mal di testa.
- Post-sbronza? - domando, riaprendo gli occhi e sbirciando di fuori. Comincia a piovere un po' più forte, la strada oltre la finestra si ammanta di un deprimente velo grigio. Appropriato.
- Già. - annuisce lui, con un sorriso stanco che gli sento nella voce e non fatico ad immaginare tendergli appena le labbra sottili, - Ieri è stato un po' un casino.
- Guarda, non avevo dubbi a riguardo. - rido io, scuotendo il capo e sospirando, - Una cosa del genere poteva succedere solo ubriacandovi come tacchini. Dove siete adesso?
- Se te lo dico, non smetterai mai più di prendermi per il culo. - sospira lui, arreso, e io scoppio a ridere.
- Las Vegas! - lo prendo effettivamente in giro io, - Che vergogna. Non ho parole. Oltre ad essere inguardabili, siete anche un cliché vivente. Buuuh.
- Ma stai un po' zitto, sì o no? - ride ancora lui, e poi lo sento sospirare profondamente. - Come stai? - domanda, e so che non mi sta chiedendo come sto in generale, se sono fisicamente a posto, e neanche come sta andando a scuola o nella mia esistenza da quando loro sono partiti, no; so che mi sta chiedendo come sto adesso, dopo aver sentito quello che aveva da dirmi.
Rido un po' tristemente, sospirando a mia volta.
- Non farmi neanche cominciare. - rispondo.
Lui resta in silenzio a lungo, e per la prima volta da quando abbiamo cominciato a parlare mi ritrovo a pensare che avrei preferito averlo qui, di fronte a me, mentre mi diceva questa cosa. Avrei preferito guardarlo in faccia. Adesso almeno saprei come prendere questo silenzio.
- Dai, quando torno ne parliamo meglio. - dice quindi, e la sua voce è di nuovo dolce e calma.
- Quando torni? - chiedo quindi io. Lui ride appena.
- Presto. - risponde, - Promesso.
Mi saluta e mette giù, ed io resto lì col cellulare in mano a guardare fuori dalla finestra per un tempo indefinito. La pioggia è andata aumentando d'intensità, nel corso della telefonata. Il cielo rosso del tramonto si è tinto di una sfumatura giallastra che contribuisce a rendere irreale il paesaggio oltre il vetro, come una vecchia foto virata in seppia.
Tutto sommato direi che avrei potuto prenderla un pelino meglio. Non è che non sapessi che prima o poi una cosa del genere sarebbe successa, cioè, non mi aspettavo il matrimonio a Las Vegas, ma dai, era ovvio che prima o poi quei due avrebbero formalizzato questa relazione assurda che si trascinano dietro ormai da anni. Sarebbe stato ridicolo il contrario. Ciononostante, speravo che sarebbe rimasto uno di quei legami che restano intesi senza diventare legalmente rilevanti, o che ne so. Cioè, insomma, lo so che un matrimonio da ubriachi a Las Vegas non ha alcuna rilevanza legale effettiva, ma lo stesso. Probabilmente mi dava soltanto fastidio l'idea che da qualche parte nel mondo, in qualche modo, Fler potesse dire a Chakuza sì.
Ma, insomma, me l'aspettavo. Prima o poi sarebbe comunque successo, io lo sapevo, ho avuto tutto il tempo di prepararmi all'idea, eppure fa schifo lo stesso, che vi devo dire. E' stupido, ma fa schifo lo stesso.
La pioggia fuori mi ipnotizza, e mentre io continuo a fissarla - e in questo momento delle equazioni trigonometriche non può fregarmi di meno, come dei compiti in generale, della scuola o, per la verità, di qualsiasi altra cosa, ecco -, mi colpisce all'improvviso il pensiero che pioveva anche quando Fler mi ha mollato, quando Chakuza è tornato da lui e lui l'ha magnanimamente riaccettato all'interno della propria vita anche se il nano pelato tutto si sarebbe meritato meno che una simile manifestazione di affetto e benevolenza.
Ero a casa mia, quel giorno. Ero anche abbastanza tranquillo, fra le altre cose, perché era un giorno feriale, uno di quei giorni in cui mio padre neanche si sprecava a tornare a casa. Aveva una routine molto precisa, lui, ci si poteva fidare. Usciva di casa il lunedì mattina e si andava a svaccare nel vecchio bar in fondo alla strada, ufficialmente un ritrovo per pensionati, ufficiosamente un buco di merda che puzzava di sporcizia e sudore e denti marci nel quale tutti gli altri stronzi disperati come lui di tutto il quartiere andavano a sfondarsi di birra dalla mattina alla sera per non doversi per forza guardare in faccia ed odiarsi.
Fino al sabato, non rientrava mai. Dormiva in giro, per strada, con gli altri stronzi ubriaconi come lui, che tanto non è che a casa ci fosse un giaciglio tanto più pulito che lo aspettasse. Poi, il sabato e la domenica il bar chiudeva, e lui era obbligato a rincasare. Lì cominciavano i guai per me, ma di quelli sapete già e io non ho proprio voglia di mettermi a rivangarli adesso che mi gira il culo per altri motivi.
Durante la settimana, però, non avevo problemi, questo va detto. Facevo il cazzo che mi pareva, in fondo, dopotutto. Mi bastava evitarlo per strada, perché quando mi beccava ci teneva proprio a gettarmi le braccia al collo ed alitarmi in faccia mentre, con quella voce piagnucolosa del cazzo, diceva a tutti i suoi compari "guardatelo qui, questo damerino del mio figliolo. Non c'ha la faccia più da stronzetto che abbiate mai visto?", e fingeva di giocare al padre burbero ma affezionato, schiaffeggiandomi leggermente le guance e poi ridendo come un indemoniato quando le vedeva diventare rosse. "Guardate che carina, la mia bambina. Magari un giorno vi ci faccio fare un giro, che tanto a lei piacerebbe, vero?"
Soprassediamo.
Insomma, quel giorno niente del genere stava accadendo, io ero a casa tranquillo per i fatti miei e, non dovendo uscire fino a sera per cercare di guadagnarmi il McDonald's del giorno dopo, mi ero messo in testa di risistemare casa, una roba che ogni tanto mi piaceva mettermi lì a fare, specie quando ero solo. Non tanto per dare un ordine alle cose che mi circondavano, quanto più per, be', semplicemente avere qualcosa da fare, per staccare la testa e non dover necessariamente pensare che ero felice di stare a casa mia solo come un cane, quando la maggior parte dei ragazzi della mia età avrebbero pagato oro per il contrario, solo perché l'alternativa era ancora peggio.
Insomma, stavo lì, e fuori sentivo il temporale infuriare, e già mi prendeva male al pensiero di quanto sarebbe stato freddo quella sera quando sarei dovuto uscire per forza, sperando peraltro che non piovesse ancora, quando sento suonare il campanello.
Nessuno mai suonava il campanello di casa mia. I vicini semplicemente ci ignoravano così come noi ignoravamo loro, e mio padre, naturalmente, aveva le chiavi. Ho sollevato il capo dal secchio pieno di acqua nera dopo la prima passata di straccio e, incuriosito dallo strano avvenimento, sono andato a sbirciare dallo spioncino.
Che lì dietro la porta ci fosse Fler era una cosa talmente assurda che sulle prime mi sono congelato sul posto. Stavamo insieme, se così si può dire, ormai da qualche mese, ma non era mai venuto a casa mia. Ci eravamo sempre incontrati da qualche parte, o ero andato io da lui. Questa era una cosa imprevista, ed io non lavoro bene con le cose impreviste - nel ghetto impari a temerle, le cose impreviste, a scappare più veloce che puoi nella direzione opposta quando una ti si presenta di fronte -, per cui non poteva portare niente di buono. E ancora non sapevo che cosa fosse venuto lì a dirmi.
"Danny?" mi ha chiamato lui, "Sei in casa?"
Scuotendo il capo per risvegliarmi dalla trance in cui vederlo mi aveva gettato, ho aperto la porta, fissandolo con occhi persi mentre stava fermo lì sul pianerottolo, con l'aria di uno che non ha la minima idea di cosa fare di se stesso, che sa di stare per combinare una cazzata epocale e che sostanzialmente resta in attesa di uno tsunami improvviso che cancelli completamente la città dalla faccia della terra per impedirgli di portare a compimento i propri propositi.
"Ma che cazzo ci fai qui?" l'ho apostrofato con grazia, scostandomi dalla soglia per farlo passare, "Sei fortunato che non c'è mio padre."
Lui mi ha lanciato un'occhiata vagamente risentita, come si sentisse offeso dal fatto che io potessi mettere in dubbio le sue capacità di sopravvivenza in una lotta ad armi pari con mio padre. Sfido chiunque ad ingaggiare una lotta ad armi pari con un ubriacone, dico io.
"Stavi pulendo?" mi ha chiesto, per nulla sorpreso dal fatto, come se per lui fosse assolutamente normale entrare e trovarmi lì con una fascia a tenere indietro i capelli e le maniche della maglietta arrotolate fin sotto alla spalla mentre stringevo fra le mani il bastone del mocio.
Ho annuito lentamente, ancora troppo stupito dalla sua presenza lì per articolare un qualsiasi pensiero coerente.
"Be', che c'è?" ho chiesto alla fine, dopo aver passato cinque minuti a fissarlo mentre lui fissava me, entrambi in piedi, ritti come due idioti in mezzo alla stanza col pavimento ancora umido.
Lui ha sospirato, passandosi una mano sugli occhi, poi sulla testa e dietro, fino alla nuca.
"Possiamo parlare?" ha chiesto. Io ho annuito fingendo indifferenza, mentre lo accompagnavo verso il divano e mi sedevo sulla parte sfondata per lasciare a lui la metà integra, ma in realtà ero nervoso. Come avrei potuto non esserlo? C'erano già troppi particolari che stonavano - lui era a casa mia, sembrava nervoso, non sorrideva. Non mi aveva nemmeno baciato.
Per la verità non è che, anche allora, la notizia mi sia arrivata così all'improvviso, senza darmi il tempo di prepararmi. Voglio dire, io e Fler avevamo cominciato a vederci molto meno già da un po', e inoltre sapevo che lui e Chakuza avevano ripreso a frequentarsi. Quella storia poteva finire solo con un omicidio, o con un matrimonio. E' consolante che sia finita con un matrimonio, ma non per me.
Insomma, dopo essersi seduto, Fler mi ha guardato intensamente negli occhi e, come prima cosa, mi ha detto che gli dispiaceva. Credetemi, fosse stato chiunque altro l'avrei preso a pugni sul muso e poi l'avrei scaraventato nel cassonetto dell'immondizia dall'altro lato della strada assieme ai sacchi di bottiglie vuote e confezioni di cibo da asporto unte che avevo raccolto per il soggiorno prima di spazzare e spolverare, ma era Fler, e i suoi occhi dicevano che gli dispiaceva davvero.
Ho sospirato, guardando in basso, alle mani che tenevo intrecciate mollemente in grembo.
"Sta succedendo, vero?" gli ho chiesto. Non è che volessi dargli una mano, in realtà non mi andava proprio di dargli una mano a lasciarmi, è che comunque la giornata - una delle rare giornate decenti della mia esistenza - era già stata rovinata, per cui tanto valeva uscirne in fretta.
"Danny," ha cominciato lui dopo l'ennesimo sospiro, facendo per spostarsi più vicino a me sul divano. Io gli ho piantato le mani sul petto, tenendolo dov'era.
"No, resta lì," ho detto, "Il divano. Da questa parte è sfondato. Se facciamo troppo peso cadiamo col culo per terra," ho aggiunto con un breve sorriso di scuse, per spiegarmi. Mentivo, naturalmente. Cioè, non è che mentissi proprio, era vero che se si fosse seduto anche lui da quella parte saremmo finiti col culo per terra, ma il punto è che se l'avessi voluto vicino non me ne sarebbe fregato un accidenti. Invece preferivo che restasse lì. Stavo morendo per un abbraccio, ma dentro di me sapevo di non volerlo. Non saprei spiegarlo meglio, era come dover combattere contro due dolori devastanti nello stesso momento, quella fitta di dolore acuta e profonda che mi dava il fatto che mi stesse lasciando - per Chakuza, poi - e quel dolore più intimo e sordo che con un abbraccio si sarebbe placato, ma che sarebbe tornato a pulsare con più forza una volta che inevitabilmente il momento fosse passato, perché quando lui fosse uscito da quella porta qualsiasi cosa avessimo costruito nel corso dei mesi precedenti sarebbe morta, rasa al suolo da due parole, dalle mani di un austriaco di merda che non sono in grado di fare altro che combinare danni e provocare devastazione nelle vite altrui, e forse fra me e Fler avrebbe potuto continuare ad esistere qualcosa, una sorta di qualche rapporto, ma non sarebbe più stato lo stesso, non sarebbe più stato perfetto, e quella cosa perfetta che c'era prima io l'avrei persa per sempre, perché non ero stato abbastanza furbo da assaporarla sapendo che prima o poi sarebbe finita quando ancora ce l'avevo.
Lui mi ha guardato, e tutto questo l'ha capito senza che io avessi bisogno di dirglielo. E' rimasto lì fermo, senza neanche toccarmi. Davvero, se qualcuno dovesse mai lasciarvi, nella vostra esistenza, vi auguro che sia una persona simile a Fler. Non ce ne sono tanti, nel mondo, che riescano a fare quasi ogni cosa tenendo sempre presente che le azioni hanno conseguenze, e che pertanto, in mezzo alla gente, bisogna muoversi con delicatezza.
"Mi dispiace davvero," mi ha detto, "E' che Chakuza..."
E io lì l'ho fermato, perché non avevo alcuna voglia di sentirmelo dire, ma d'altronde lui se lo aspettava, per cui non è che avesse davvero preparato qualcosa da dirmi a proposito di cosa Chakuza fosse o cosa rappresentasse all'interno della sua vita. Gli bastava dirmi "è che Chakuza...", ed a me bastava sentirmelo dire per capire che era tutto finito.
Quella sera non ci siamo detti niente di particolare quando poi l'ho riaccompagnato alla porta. Se avessimo smesso completamente di vederci, devo dire che sarebbe stato un addio davvero poco entusiasmante. Lui mi ha detto "allora vado", io ho risposto "ciao" e poi sono rimasto sulla porta ad osservarlo allontanarsi dopo aver tirato su sia il cappuccio della felpa che quello della giacca. Ancora pioveva, e lì per strada faceva un freddo della madonna mentre io pensavo che in effetti aveva senso, per una storia che era nata senza un nome, finire senza che quel nome venisse mai pronunciato, finire senza che venisse pronunciato neanche il nome di ciò che l'aveva uccisa.
Sono tornato in casa, e sapevo che prima di uscire avrei dovuto almeno dare una seconda passata di straccio, e magari portare fuori i quattro giganteschi sacchetti neri di plastica pieni di immondizia che avevo messo in fila in corridoio perché non mi fossero d'impaccio, ma poi guardandoli ho pensato che non m'importava veramente. Che anche pulire in giro in realtà era solo stato un modo come un altro per passare il tempo, che nessuno l'avrebbe notato, che mio padre non mi avrebbe fatto i complimenti per avergli fatto trovare casa pulita quando fosse tornato, che io stesso, quando fossi tornato all'alba dopo aver spacciato tutta la notte in giro fra strade e discoteche, non avrei notato le stanze per una volta non invase di sporcizia e ciarpame, non avrei notato l'odore di pulito, non mi sarei sentito meglio per averlo fatto, e questo perché non me ne fregava niente. Non era stato che un modo per riempire il vuoto fra un evento e l'altro, come farsi un solitario, come aprire l'armadio e fare il cambio stagione - a chi cazzo serve poi davvero il cambio stagione, dai -, come prepararsi un panino e mangiarlo guardando TRL e sputando merda su tutti gli artisti in classifica.
Insomma, ho tolto la fascia, ho srotolato le maniche della maglietta, mi sono infilato la felpa e la giacca e sono uscito fuori nella pioggia e nel freddo anch'io, sperando che mi risvegliasse da quello strano torpore che mi aveva preso dopo aver visto Fler, sperando che le strade del ghetto dessero un senso al mio vagare fra gli attimi nella sola attesa che prima o poi succedesse qualcosa che potesse cambiarmi definitivamente la vita.
A ripensarci adesso è divertente aver capito che, in effetti, nel momento esatto in cui Fler mi ha lasciato per Chakuza il meccanismo che si stava preparando a cambiarmi la vita per davvero si stava giusto mettendo in moto, ed avrebbe continuato a lavorare in sottofondo, senza fare rumore, fino a portarmi qui, in questa casa, di fronte a questa finestra, con la pioggia fuori e i compiti di trigonometria sulla penisola della cucina.
Sorrido nel chiudere il libro e il quaderno, mentre mi avvio verso l'ingresso per recuperare la giacca ed uscire, stavolta portando con me anche un ombrello. La distrazione è arrivata, e tutto sommato io potevo prenderla meglio, ma potevo anche prenderla peggio, quindi in fondo non mi lamento.

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