Ewige Nacht

di lisachan
Quando Bill mi ha chiamato al cellulare, oggi, io ho ringraziato una buona quantità di dei, perché non ne potevo già più di stare sul divano a fissare ed odiare ogni singolo centimetro del dannato pavimento di casa mia. Per quanto negli ultimi mesi abbia avuto modo di stare spesso a casa – sono stato più spesso da Sido, sì, ma non potevo pretendere di stabilirmi lì per sempre, non c’erano i motivi e sarebbe stato allucinante – non sono mai davvero riuscito ad appropriarmi di questo appartamento. Sarà che non lo voglio davvero, sarà che non me ne frega niente, sarà che gli unici due posti in cui sento di aver davvero vissuto sono la topaia che ho condiviso con Anis ai tempi dell’Aggro e la topaia che ho condiviso con Chakuza in tempi più recenti, insomma, non lo so cosa sarà, so solo che io questo posto lo odio e non lo ripeterò mai abbastanza.
Comunque, ho risposto pure con gioia – anche perché, ‘cazzo ne sapevo io che, mentre stavo a rigirarmi i pollici sul divano, in casa di Anis aveva luogo l’Apocalisse? – ma ho fatto in fretta a tornare coi piedi per terra. Bill ha un modo tutto suo di dirti che sta male anche senza dirtelo effettivamente. È qualcosa nel ritmo del suo respiro, nel modo in cui senti che sta cercando di trattenere perfino i battiti del proprio cuore, perché fanno male pure quelli e lui non sa come uscire da questo groviglio di dolore enorme che gli si è abbattuto contro. Bill è una persona che dovrebbe essere sempre felice, perché è evidente che il suo corpo non ha la costituzione adatta per resistere alla sofferenza. Ci vogliono spalle, per restare in piedi quando ti prende in pieno una valanga. Ci vogliono spalle e muscoli e la pelle di cuoio, non ti bastano i coglioni. Lui quelli ce li ha, ma gli manca tutto il resto.
Insomma, non ho avuto bisogno che mi dicesse niente. Peraltro, anche quando sono passato a prenderlo per portarlo a prendere una cioccolata da qualche parte, non ho esattamente avuto l’impressione che gli andasse di parlare. A volte è così, c’hai solo bisogno, tipo, di fare qualcosa. Hai quasi l’impressione che provando a spiegarti faresti solo danni maggiori, perciò niente, hai bisogno di distrarti, fare roba, andare in posti, vedere cose. Poi torni in te, poi puoi anche parlare, sul momento però no, e Bill era scosso e le sue guance erano ancora rosse e i suoi occhi ancora rossi, ma io non ho chiesto. E lui in genere risponde anche quando non chiedo, quindi il fatto che non rispondesse a prescindere mi ha dato l’idea che volesse, appunto, solo fare robe, andare in posti, vedere cose. E perciò gli ho fatto fare robe, l’ho portato in posti e gli ho dato da vedere cose.
E lui è stato anche un po’ meglio, mi ha sorriso e tutto, e poi niente, non mi ricordo com’è che abbiamo deciso di passare da Chakuza – probabilmente avevamo solo entrambi voglia di vederlo, solo questo, anche se non ce lo siamo detti, primo perché non ho bisogno che Bill mi dica quando ha voglia di vedere il Chaku, glielo sento addosso, e secondo perché non ho bisogno di dire a Bill quando ho voglia di vederlo io, perché non esiste – e lì è ovviamente precipitato tutto, perché fra le mille cose che potevamo aspettarci – o almeno, che poteva aspettarsi Bill, visto che effettivamente io non sapevo niente di quello che era successo fra lui e Bushido solo poche ore prima – l’immagine di Chakuza seduto su uno sgabello accanto all’isola con una borsa del ghiaccio spiaccicata sulla faccia era proprio l’ultima che potesse venirci in mente, ecco.
Il resto io l’ho visto accadere. Ci sono dei momenti – è una cosa che ho imparato a fare da ragazzino – ci sono dei momenti in cui smetto di viverlo, quello che mi sta succedendo, e mi limito a guardarlo. Non serve che sia una cosa necessariamente dolorosa o sconvolgente, basta che mi accorga che in un altro modo non potrei tollerarla. Perciò ho osservato Bill avvicinarsi a Chakuza, sussurrargli “è stato lui, vero?”, ho osservato Chakuza annuire, confermare, vuotare il sacco su tutto anche lì di fronte a me, e poi ho osservato Bill andare in bagno a prendere la cassetta del pronto soccorso, e lì – quando gli occhi verdi e pesti di Chakuza si sono spostati sui miei – lì mi sono tolto dalle palle, come suppongo avrei già dovuto fare da mesi e in maniera ben più radicale di quanto non abbia fatto.
E me ne sono tornato a casa.
Sono passate due ore da quando ho lasciato Chakuza appollaiato lì sullo sgabello, con Bill che si prendeva cura delle varie ferite e abrasioni che c’erano ovunque sul suo viso, sul suo collo, sulle nocche delle sue mani, dopo la scazzottata che ha avuto luogo a casa sua. Quello che dev’essere successo prima che io e Bill arrivassimo posso solo immaginarlo. Posso solo immaginarla, l’espressione di Anis, mentre si presenta a casa di Chakuza intenzionato a rivoltarlo come un fottuto calzino per l’imperdonabile colpa di aver messo le mani sul suo ragazzino quando non doveva. Posso solo immaginarla e mi viene anche un po’ da ridere, perché cazzo, Anis, tu sei morto. I morti non hanno diritti, ed i diritti non sono retroattivi: se resusciti, non puoi riavere indietro quelli che hai perso.
Ecco, se resusciti non puoi riavere indietro ciò che hai perso. Qualcuno dovrebbe dirglielo chiaro, ad Anis. Anche se io non penso che avrei il coraggio di farlo.
Comunque, sono passate due ore ed io, da quando sono tonato qui nel mio appartamento vuoto, ho cercato di non pensare. Ho riesumato il vecchio Game Boy che Sido mi ha passato quando sua figlia ha smesso di usarlo in favore della Playstation, ed ho tirato fuori qualche cartuccia recuperata secoli prima nelle cuccette dei tour-bus, quando ancora i ragazzi ci giocavano, con queste robe, e gli studi dell’Aggro, quando non si lavorava, erano tutto un risuonare delle musichette elettroniche del Tetris.
Insomma, mi sono seduto lì sul mio enorme divano bianco panna che è un divano palesemente da single, così come questa è una casa palesemente da single. Sarebbe anche bello usarla nel modo giusto – per rimorchiare, cioè – ma sto cominciando a rassegnarmi alla mia vita così per com’è ora. Triste da dire, ma non c’ho nemmeno voglia di andare per locali. È che, boh – e nel mentre Super Mario si infila in un tubo verde e ne riesce grande il doppio rispetto a quando c’è entrato – mi sembra di aver fatto una serie incredibile di buchi nell’acqua. Non parlo solo di Chakuza, anche Anis, pensandoci col senno di poi, Dio mio, è stato un disastro. Io non posso continuare ad avere solo relazioni che non sono relazioni. E con le donne non mi è mai andata bene, una dopo l’altra mi hanno sempre lasciato tutte. Insomma, uno deve pure rassegnarsi, quando si rende conto che non c’è speranza, no? Se non funziono con gli uni e non funziono con le altre, magari funziono da solo e basta.
Quello che è successo lo so. Lo so perché me l’ha detto il Chaku e lo so perché era esattamente ciò che volevo. Una cena per festeggiare il ritorno di Anis? Oh, andiamo. Mi meraviglio di come Anis stesso possa essere stato tanto stupido da cascarci, anche se probabilmente ha accettato solo perché di Bill e Chakuza non sapeva niente, quindi non poteva immaginare quanto potesse essere pericoloso infilarli in una casa in cui era presente anche lui.
Comunque io volevo che Anis venisse a saperlo perché né Bill né Chakuza avrebbero mai fatto il primo passo ed io non volevo essere il solito Patrick costretto a farlo al loro posto. Stavolta no. Stavano per distruggere la vita dell’uomo che li aveva fatti incontrare? Benissimo. Che lo facessero da sé, però. Io non volevo essere l’amico incaricato di dire le cose come stanno allo sfigato di turno. Mi sono già rotto le palle di questo ruolo. Non mi si addice nemmeno.
Però è tutto sommato vero che uno dovrebbe stare attento a ciò che desidera, perché potrebbe avverarsi davvero. Quante volte tutti noi abbiamo sperato che Anis tornasse vivo dalla morte? Io, un’infinità. Bill, quasi sicuramente, la mia infinità al quadrato. Perfino Chakuza deve averlo pensato, prima di innamorarsi di Bill. E quello è tornato davvero, causando il finimondo. Si fottano le stelle cadenti e il desiderio espresso dopo aver spento le candeline sulla torta di compleanno, non c’è bisogno di queste cazzate per far diventare qualcosa realtà. Basta essere in molti a volerlo, o almeno così pare. O forse così non è ed Anis è tornato in vita perché è un supereroe. Me lo ricordo a diciott’anni correre come una furia per le strade di Tempelhof e arrampicarsi sulle grondaie scalando le villette fino ai tetti, e penso che come possibilità quella dei superpoteri non è nemmeno tanto remota. E intanto Super Mario viene mandato a gambe all’aria da un funghetto con un’espressione cattivissima.
Comunque io adesso ho ottenuto ciò che volevo e dovrei essere perfettamente in pace con me stesso. So come funziona Anis, so che in genere la rabbia è la prima delle sue reazioni, ma che fa in fretta a tornare in sé, perché non sopporta di lasciarsi sfuggire il controllo delle situazioni problematiche dalle mani. Quindi ha mandato a fanculo Bill, ha mandato a fanculo Chakuza – pestandolo, già che c’era – ed ora starà riacquistando coscienza di sé e realizzando cos’ha combinato.
So perfettamente dove andrà quando questo processo sarà terminato. Ed era il mio obiettivo, sul serio, non essere io a dirglielo ma essere io a consolarlo, almeno un po’. So che accadrà e non riesco a sentirmi contento e soddisfatto come dovrei.
Purtroppo, so anche perché non riesco a sentirmi così. Non ci riesco perché mi dispiace per il ragazzino, tanto per cominciare. Perché il ragazzino ci credeva tanto, in se stesso e in Chakuza, proprio come coppia. Ed anche se non so se riusciranno a sopravvivere a questa tempesta uniti, so per certo che, pure se ci riuscissero, non sarebbe più come prima, non sarebbe più la stessa cosa. Anis c’è sempre stato, fra loro. Solo che prima era un fantasma. Non puoi più dare del fantasma a una persona che puoi vedere e sentire e toccare.
Mi dispiace anche per Anis, ovviamente. Mi dispiace perché forse se gliel’avessi detto io sarebbe stato diverso. Forse sarei riuscito a metterla in un modo che non sembrasse irrimediabilmente pessimo, forse sarei riuscito a convincerlo a pensare un po’, prima di gettarsi a peso morto in quel casino di rabbia e senso di colpa che gli ingolfava la testa. Forse, insomma, avrebbe anche sofferto di meno, se fossi stato io a dirglielo, nel giusto modo. Forse.
Soprattutto, comunque, mi dispiace per Peter. Peter era un sacco felice, davvero, prima che tornasse Anis. Anche se girargli intorno non era proprio la mia prima aspirazione della giornata, quando capitava perché esigeva di vedermi per un motivo o per l’altro tipo riappendere le tende in camera dopo averle lavate o risistemare lo scaldabagno defunto, stare con lui era piacevole. Perché, ecco, sorrideva e insomma, era simpatico. Chakuza non è il tipo che quando si innamora si dimentica della tua esistenza e di tutto il resto che non sia la persona che ama. Magari si distrae, magari si perde in se stesso, ma poi si ritrova, e quando si ritrova è bello stargli accanto.
Insomma, mi dispiace che si sia ritrovato con un occhio nero ed il ghiaccio sullo zigomo, alla fine di tutto questo, solo perché io non ho avuto le palle e la voglia di prendere Anis, stringerlo in un angolo e raccontargli l’unica cosa sulla quale valesse la pena tenerlo aggiornato, e che nessuno gli diceva.
Però è quello che ho voluto, me lo sono scelto e adesso ho poco da sfogarmi sui tastini mezzi scassati del Game Boy. Io sono uno che le sue responsabilità se le prende. L’ho sempre fatto. Quindi non faccio una piega quando qualcuno suona al citofono. Non guardo nemmeno l’orario, perché Anis non ha orari per cercarmi, non ne ha mai avuti. Quando eravamo ragazzini, me lo vedevo spuntare sotto la finestra anche all’alba. Se si svegliava presto e sentiva il bisogno di venire a cercarmi, chi ero io per dirgli no?
Al citofono è lui, anche se lui, quando glielo chiedo, non mi risponde.
Apro il portone con un sospiro e poi apro anche la porta e mi fermo lì sulla soglia ad aspettarlo. Il mio indirizzo è stata la prima cosa che Anis mi ha chiesto quando ci siamo incontrati da soli. Quello, e il mio numero di telefono. Non ha avuto bisogno di spiegarmi perché li volesse, era semplicemente evidente che, dal momento che ero andato a cercarlo nel suo appartamento dopo aver fatto anche la fatica di convincere Eko a svelarmi l’indirizzo, avremmo ricominciato a frequentarci, punto e basta. Perciò gliel’ho dato, l’indirizzo. Ed anche il numero di telefono. “Per ogni eventualità”. Ecco l’eventualità.
Anis fa le scale con una certa fatica. È ubriaco fradicio e io sto al quarto piano. E questo palazzo è di quelli vecchio stile, dove un piano vale tipo per due.
Inarco un sopracciglio.
- Potevi prendere l’ascensore. – gli faccio notare incrociando le braccia sul petto e cercando di comportarmi come non sapessi niente, - Quanto hai bevuto, Anis?
- Pochissimo. – grugnisce lui, che puzza di alcool lontano un metro, abbattendomisi letteralmente addosso ed aspettando quindi che sia io a trascinarlo all’interno dell’appartamento e chiudergli la porta alle spalle.
- Pochissimo, certo. – lo prendo in giro, - Hai già vomitato, almeno?
- No e non lo farò perché ho bevuto poco. Fanculo, Frank, non è serata, okay?
Mi stupisco solo un po’, quando mi sento chiamare in quel modo. Provo a tenerlo in piedi mentre lo aiuto a raggiungere il divano, e cerco i suoi occhi. Li trovo e sono cupi e confusi. Non c’è niente da leggere, lì dentro, stanotte. O forse c’è troppo ed io ho bisogno di un po’ di tempo per fare ordine e capire.
Comunque, che mi abbia chiamato Frank è ridicolo ma anche ovvio, contando il fatto che quando avevamo circa vent’anni – cioè lui ne aveva venti ed io desideravo averli già ma stavo ancora abbondantemente fermo sotto i diciotto – andavo sempre a raccoglierlo in giro per locali, quando si ubriacava così. Ed ero Frank, allora, Fler non era che un bel nome coreografico da dipingere sui muri di tutta Berlino. Quindi era ovvio che mi chiamasse così, com’è ovvio che mi chiami così anche adesso.
- D’accordo, d’accordo… - concedo, aiutandolo a distendersi sul mio divano bianco ed osservandolo mentre tira su i piedi con tutte le scarpe, mettendosi comodo. Mi rovinerà la fodera ma sta qui disteso con un avambraccio a coprirgli gli occhi e i capelli sparsi ovunque sui cuscini, quindi in fondo chissenefrega della fodera. – Che ti è preso? – continuo poi, sedendomi lì accanto, su quel po’ di spazio libero che lascia il suo corpo. Lui solleva le gambe, - I morti non dovrebbero bere, lo sai? – ed aspetta che io mi sia sistemato per bene sul cuscino, appoggiandomi allo schienale, per stendermi le gambe in grembo e tornare a stiracchiarsi.
- Bevo quanto cazzo mi pare e piace, Frank. – mi informa, tirandomi pure un calcio sul ginocchio, - Anche perché non sono morto. – e si prende una pausa, prima di dire quello che sta per dire. Se la prende lo stesso anche se io so cosa sta per dire, lui sa che io lo so ed io so che lui lo sa. – Purtroppo. – conclude infatti, alla fine, ed io lo mando giustamente a fanculo.
- Non dire stronzate, adesso, – lo rimprovero aspramente, scazzottandolo senza pietà contro una spalla, - o giuro che stavolta all’inferno ti ci mando davvero con le mie mani, così mi assicuro che arrivi a destinazione senza fermarti a Miami durante il viaggio.
Lui sorride appena – è un sorriso che gli sento sbuffare, più che altro – e scuote il capo.
- Non saresti capace. Nessuno è mai stato capace di farmi davvero fuori. Mi chiedo se non dovrei fare da me. Se vuoi un lavoro fatto per bene, fattelo da solo, si dice. No?
- Piantala. – ringhio a bassa voce, - ‘Cazzo ti prende? Se ti sei fatto non so nemmeno quante cazzo di ore di volo transoceanico per venirmi a dire che eri vivo e poi cominciare a parlare di suicidio, sappi che ti do una mano.
Lui ride ancora e si toglie il braccio dalla faccia. Lo lascia andare contro il divano e fissa il mio soffitto. C’è accesa solo l’abat-jour sul tavolino, che oltretutto sta dal mio lato, quindi il suo viso è quasi tutto in ombra e anche il resto della stanza non è che sia meglio illuminato. Anis inspira profondamente, prima di riprendere a parlare.
- Avresti dovuto dirmelo. – dice quindi, tutto d’un fiato.
Mi tendo come una corda di violino.
- Dirti cosa? – chiedo, guardando altrove.
Lui ride di nuovo.
- Lo sai cosa. David mi ha detto che sei stato molto vicino a tutti, mentre io ero via. È impossibile che tu non te ne sia accorto. Devi saperlo per forza.
- Non so niente. – borbotto infastidito. Anis struscia una gamba contro la mia, come non avesse la forza di sollevarsi a darmi una manata contro la spalla.
- Pat. – dice semplicemente. Ed io sospiro.
- Mi dispiace, Atze. – esalo in un fiato, abbassando lo sguardo, - Non sapevo come fare.
Anis si strofina gli occhi con entrambe le mani, inspirando ed espirando a pieni polmoni.
- Sono troppo ubriaco per pensare. – confessa alla fine, tornando a stendersi prendendo il maggiore spazio possibile, - Come cazzo è potuto succedere, Patrick?
- Conosci Bill, conosci Chakuza. – rispondo scrollando le spalle, - Ecco com’è successo.
Anis scuote il capo.
- No. – insiste, - No, Pat. Non posso… non ci riesco.
Io deglutisco. Mi scosto le sue gambe di dosso e mi metto in piedi, andando dritto verso la camera da letto. Lui non mi chiede cosa sto facendo, tanto è ovvio che sto andando a recuperargli una coperta, e non fa una piega quando torno con un vecchio plaid di lana grigia e glielo stendo addosso, rimboccandoglielo sotto il mento.
- Quando me ne sono andato, - mi dice, mentre faccio il giro del divano per tornarmene in camera, - Chakuza era ancora etero. Cioè, che Bill si sia innamorato di nuovo mi… - ride piano, - mi sembra meno assurdo dell’idea del Chaky che diventa gay. Sul serio.
Mi fermo e mi appoggio allo schienale, tirando su una gamba per sedermi in bilico sul bordo e aiutandomi a tenermi in equilibrio con una mano, mentre lo guardo dall’alto.
- Quante cose vuoi sapere, Anis? – gli chiedo sottovoce, fissandolo dritto negli occhi. Lui mi ricambia l’occhiata senza cambiare espressione.
- Per oggi sono a posto. – risponde annuendo. E chiude gli occhi.
Io gli riavvio i capelli sulla fronte in un gesto distratto, prima di muovermi verso la camera e, a metà del corridoio, decidere che non è lì che voglio stare. Prendo le chiavi ed indosso una giacca, e due minuti dopo sono fuori dal mio appartamento.
Fuori c’è un bel venticello fresco e secco, non troppo tagliente, molto piacevole. Mi rendo conto che sta finendo settembre, e poi, nell’ordine, ricordo che dopodomani è il ventotto ed Anis fa trentun anni. Mi metto a ridere così, in mezzo alla strada, anche se non c’è proprio niente da ridere perché quest’uomo è tornato da Miami solo per avere un compleanno di merda, in pratica. Però rido lo stesso, che posso farci, è assurdo. E nel mentre vado a zonzo per le strade di Berlino e come sempre, ogni volta che lo faccio, i miei piedi mi portano da Chakuza. Non so se sia colpa del fatto che ormai questo tragitto lo conosco a memoria, quindi se non penso a dove sto andando e inserisco il pilota automatico è lì che mi porta il mio corpo, senza che io abbia neanche bisogno di chiederglielo, comunque è così.
Quando arrivo sotto casa sua, guardo a lungo il palazzo prima di decidermi sul da farsi. È molto probabile che Bill sia ancora qui, visto che ce l’ho lasciato, e rifletto bene sulla possibilità di attaccarmi al campanello per svegliare lui e il Chaku con un infarto e poi fuggire silenziosamente nella notte, oppure suonare come una persona normale, svegliarli comunque e poi salire su e restare lì fino all’alba, così, giusto per il gusto di non lasciarli in pace. Potrebbe essere il mio regalo di compleanno per Anis, sono quasi sicuro che apprezzerebbe molto.
Alla fine, decido per la seconda opzione. Suono e, quando la voce assonnata di Chakuza mi risponde al citofono – quest’uomo dorme che è una meraviglia: può succedergli qualunque cosa, nel corso della giornata, ma appena gli si scaricano le pile lui prende e si spegne. Poco da fare – rispondo allegramente che sono io. Lui non ha bisogno di chiedere chi sia io, e mi apre il portone. Me lo ritrovo in pantaloncini e canotta che si stropiccia l’occhio sano, quando arrivo sul suo pianerottolo.
- Nostalgia di casa? – mi chiede, scostandosi dalla soglia per lasciarmi passare.
- Coglione. – rispondo in un grugnito infastidito, guardandomi intorno, - Il ragazzino dorme?
Chakuza chiude la porta e sospira sconsolato.
- Dobbiamo per forza parlarne? – mugola affranto, avvicinandosi a me e prendendo a gironzolarmi intorno come a voler capire cosa ho intenzione di fare prendendo le misure dei miei movimenti. – Comunque, - risponde alla fine, - se dorme, lo sta facendo a casa sua. Di certo non qui.
Io mi volto a guardarlo con una certa curiosità, appoggiandomi allo schienale della poltrona.
- L’hai mandato via?
- Lui è andato via. – precisa, aggrottando le sopracciglia, - Io l’ho lasciato andare.
Mi prendo una pausa di mezzo secondo, per dare enfasi al mio pensiero al riguardo.
- Coglione. – dico poi. Chakuza mi manda a fanculo e si infila nel cucinino, cominciando ad armeggiare con la caffettiera.
- Se non eri di umore nostalgico, - borbotta in mezzo allo scrosciare dell’acqua nel lavabo, - si può capire perché sei venuto da queste parti?
Scrollo le spalle, facendo il giro della poltrona e sedendomi compostamente per un secondo, prima di svaccarmi lanciando braccia e gambe in giro come fossi a casa mia.
- Passavo da queste parti. – rispondo in un mezzo ghigno. Poi prendo fiato. E rispondo sul serio. – Anis è venuto a trovarmi.
Chakuza diventa un pezzo di ghiaccio e, quando si riscuote, lo fa solo per chiudere il rubinetto e posare la caffettiera ancora aperta sul ripiano del lavello. Si asciuga le mani, poi si appoggia contro il mobile della cucina e si volta a guardarmi. Mi guarda tipo per dei secoli, là immobile, ed io inarco un sopracciglio.
- Be’? – chiedo infastidito. Chakuza sospira, gira attorno all’isola e viene a sedersi sul divano, qui di fianco, sporgendosi verso di me.
- L’idea della cena a casa di Bushido è stata tua. – mi spiega pacatamente. Non sorride ma non ha nemmeno un’espressione risentita. Non lo capisco e mi dà anche un po’ sui nervi, sinceramente. – Il fatto che io abbia accettato di prestarmi a quella ridicola mascherata non deve farti pensare che io non avessi capito dove voleva andare a parare. Ti conosco, Fler, non puoi prendermi per il culo. Quante volte devo ripetertelo? – faccio per mandarlo a fanculo come merita, ma lui mi ferma sorridendo appena. – Non vieni fino a qua per dirmi che Bushido è venuto a trovarti, Fler. Avanti. Sputa il rospo.
Resto lì con le labbra dischiuse a guardarlo per un po’. Poi mi ricompongo, mi metto dritto e gli tiro uno scappellotto tremendo sulla nuca, tant’è che la sua testa rimbalza in avanti e, quando solleva lo sguardo per mandarmi a cagare fissandomi negli occhi, lo fa con un’espressione a metà fra l’addolorato e l’oltraggiato.
- Piantala di fare lo splendido. – gli tarpo immediatamente le ali, tornando a svaccarmi sulla poltrona. E poi sospiro. – Che cosa vuoi che ti dica, Chakuza? Sei innamorato di quel ragazzino da tanto di quel tempo che mi sembra di averti sempre conosciuto solo così. È strano immaginare un mondo in cui tu non stai con Bill e non sei completamente perso per lui.
Chakuza arrossisce e guarda altrove, ed io mi rendo conto che è la prima volta che parliamo in questi termini di Bill. Suppongo che se lui avesse avuto l’accortezza di dirmi fin da subito che stavano insieme, come ha fatto Bill, le cose sarebbero andate molto diversamente. O forse no, perché Anis sarebbe comunque tornato e noi saremmo comunque dovuti passare attraverso la fine del mondo, che lo volessimo o meno.
- Allo stesso tempo, però… - continuo sospirando, - è strano immaginare un mondo in cui Anis possa rassegnarsi. Su una qualsiasi cosa, figurarsi il suo ragazzino adorato. – Chakuza ringhia, - E non fare il cane rabbioso. – lo rimprovero aspramente, incrociando le braccia sul petto, - Lo sai che è il suo ragazzino. Comunque lo è. Anche se adesso è tuo, resta suo.
- È assurdo. – borbotta Chakuza, - …credo che Bill stia cercano di spiegarmi la stessa cosa. Da quando Bushido è tornato.
Io mi stringo nelle spalle.
- Sarà assurdo, ma è così. Devo venirtelo a spiegare io, come funziona il tuo fidanzato?
Chakuza socchiude gli occhi e scuote il capo, espirando rassegnato.
- Quando le dici tu, le cose sembrano più vere. – dice alla fine, stendendosi contro lo schienale del divano. Io mi mordo un labbro e non rispondo, e restiamo entrambi fermi svaccati contro gli schienali dei nostri rispettivi e sdrucitissimi troni per un tempo indefinibile. Almeno fino a quando Chakuza non si decide a parlare ancora. – Cosa dovrei fare, secondo te?
Mi volto a guardarlo e faccio fatica a non dargli del coglione per la terza volta in mezz’ora.
- Come, scusa? – domando incredulo, - Tu stai chiedendo a me cosa penso che dovresti fare?
Annuisce senza fare una piega. Io lo guardo attentamente e, quando mi sono assicurato per l’ennesima volta da che lo conosco sul fatto che sì, è proprio vero ed è proprio così, nonostante la cosa mi causi ancora meraviglia quando ci penso, rispondo.
- Dovresti-
- Andare a fanculo non rientra fra le opzioni possibili. – si affretta a mettere le mani avanti, senza lasciarmi concludere. Io gli tiro addosso un cuscino.
- …lasciare parlare la gente, tanto per cominciare. E poi… - sospiro, mentre lui si toglie il cuscino dalla faccia e lo stringe sullo stomaco, - …e poi dovresti andare da Bill, Peter.
Chakuza mi guarda come avessi appena detto la cazzata del secolo. Questo sguardo, se posso permettermi – e posso – è una cosa alla quale lui non dovrebbe avere diritto, per ovvi motivi. Aggrotto le sopracciglia e lo minaccio fisicamente di strappargli il cuore a mani nude passando per la gola, se non se lo toglie immediatamente di dosso. Lui non riesce, ma almeno guarda altrove finché non riesce a trovare un’espressione facciale meno odiosa.
- Ma se n’è andato lui, Fler. – mi fa notare a mezza voce, - Non posso andargli dietro così.
Io roteo gli occhi.
- Mi meraviglio che tu non gli sia andato dietro immediatamente appena l’hai visto uscire dalla tua porta, Dio mio! – sbotto esasperato, - Io certe volte non lo capisco cosa c’hai nel cervello, Chaku.
Lui sospira, abbattendosi di nuovo contro lo schienale.
- Nemmeno io. – ammette, - Sarà che per la maggior parte del tempo non c’è niente. Quando improvvisamente appaiono cose, ho difficoltà a gestirle.
Rido di gusto e lui ride con me, fra un coglione che gli lancio e l’altro. Restiamo a ridere per un po’, ed è una cosa piacevole. È piacevole anche che, qualche secondo dopo, lui tiri fuori dal fondo del petto una voce dolcissima – così ruvida e profonda com’è la sua sempre, ma più tenera – e mi chieda come sto.
Io scollo le spalle.
- Sopravvivo. – rispondo sinceramente.
- Sicuro? – si assicura lui, lanciandomi un’occhiata incerta.
Io sospiro.
- Frena quello che sta apparendo adesso, Chaku. Qualsiasi cosa sia. – gli ricambio l’occhiata, - Non mi pare il caso, proprio ora che ti sto mandando da Bill.
Lui abbassa gli occhi con un’espressione da cane bastonato.
- Già. – annuisce. Poi si passa le mani sul viso e inspira ed espira profondamente, prima di alzarsi in piedi. - Chiudi tu casa? – chiede distrattamente, muovendosi già verso la camera da letto per vestirsi, - Ce le hai ancora le chiavi, giusto?
Io annuisco silenziosamente. Lo mando a fanculo, quando lo vedo ripassarmi davanti vestito di tutto punto, diretto alla porta. Lo mando a fanculo ma lui non lo sente. Anche perché non l’ho detto ad alta voce, l’ho solo pensato. Ed io e Chakuza ci capiamo bene, ma probabilmente non così tanto.
In casa di Chakuza io ci resto, e resto anche del tutto immobile per una mezz’oretta, circa. Poi mi alzo dalla poltrona e mi guardo intorno senza sapere bene cosa fare di me stesso. Per certo so che non voglio tornare a casa, ma so anche che se non mi do un motivo per restare qui non ci resterò, perché per quanto il Chaku possa ironizzare sul fatto che trascorro qui una buona metà della mia esistenza – o forse anche di più – questa non è casa mia. Perciò mi guardo intorno e, siccome qui è il solito bordello, mi metto a sistemare. Poso i soprammobili ai loro posti, spiego bene la fodera del divano e poi mi infilo nello sgabuzzino alla ricerca del piumino, per spolverare i mobili. Mentre cerco mi accorgo di sfuggita del vecchio tappeto peloso del Chaku, quello che prima stava in salotto, e che adesso è qui in un angolo arrotolato e stretto con lo scotch. Gli lascio scorrere sopra gli occhi ma non lo tocco. Recupero il piumino e spolvero tutto per bene, e quando ho finito tiro su le maniche della felpa, indosso il grembiule e comincio a lavare i piatti.
Alla fine mi faccio prendere bene ed entro in una specie di trance mistica. Quando riprendo coscienza di me stesso sono le tre del mattino, non ho idea di dove sia Chakuza, non so se Anis sia ancora a casa mia e questo appartamento splende come uno specchio, pulito come non è mai stato da quando Chakuza lo abita – e probabilmente neanche da prima. Soprattutto, però, non ho ancora neanche un filo di sonno. Voglio che questa notte finisca adesso perché non ne posso già più, perciò cerco la mia coperta coi cavallucci marini e, anche se non fa davvero freddo e non ne avrei bisogno, mi ci avvolgo dentro e mi butto sulla poltrona, tirando su le gambe e cercando di addormentarmi.
Ovviamente non riesco. Mi rigiro per un po’ e poi, prima di diventare isterico, mi metto in piedi, indosso nuovamente la giacca ed esco da qui, che l’odore del detersivo alla lavanda mi è entrato nel cervello e mi sta facendo lentamente impazzire. Chiudo bene la porta, con le chiavi – sì, Chaku, ce le ho ancora, stronzo, certo che ce le ho ancora – e comincio a camminare. Senza meta. Di nuovo dal Chaku non posso tornarci, perciò non metto il pilota automatico, cerco soltanto di spingermi il più lontano possibile sia da casa mia che da casa sua, andando verso il centro.
Non è che ci sia molta vita in giro, comunque. Siamo in mezzo alla settimana, domani la gente normale lavora ed è già molto tardi. I pub chiuderanno tutti fra poco ed io vado in giro col cappuccio calato fino al naso anche se è poco probabile che qualcuno mi riconosca. Tengo su il cappuccio anche quando mi decido ad entrare in un locale e sedermi su uno sgabello di fronte al bancone. Scorgo con la coda dell’occhio il barista che mi fissa con aria un po’ impaurita e faccio apposta la voce cattiva mentre gli ordino una birra. Quello mormora un “sì, subito” che mi fa quasi scoppiare a ridere e io resto in attesa giocando con le arachidi nella ciotolina di vetro – ne prendo qualcuna, la poso sul ripiano, le metto in ordine dalla più grande alla più piccola – però siccome non ho fame non ne mangio nemmeno una.
La mia birra nel mentre arriva, io comincio a sorseggiarla e mi sto già annoiando, quando mi sento picchiettare sulla spalla con due dita. Chiunque mi abbia riconosciuto nonostante il novanta percento del mio corpo sia nascosto, tatuaggi compresi, merita un premio, perché deve amarmi tantissimo. Perciò mi volto e sorrido, per nulla infastidito, e quando capisco chi è – ci metto un po’ a riconoscerla, perché non la vedo da una vita – capisco che non deve stupirmi il fatto che mi abbia riconosciuto.
- Nicole! – la saluto, scendendo dallo sgabello ed abbracciandola stretta, - Cazzo, saranno secoli!
Lei risponde con un sorriso allegro, lasciandosi stringere e facendomi un sacco di versetti festosi, motivo per cui rido. Quando si allontana, riavvia i capelli biondi dietro le orecchie e mi accorgo che li ha tagliati, dall’ultima volta, perciò le faccio i complimenti per la nuova pettinatura e lei arrossisce.
Nicole è molto più di una groupie e molto più di una fan, tant’è che non ci sono nemmeno mai andato a letto. Da quando nel… oddio, non ricordo, un sacco di anni fa, comunque, s’è infilata nel backstage di non mi ricordo che festival – cantavo ancora con Anis, allora – per sommergermi di complimenti riguardo quanto fossi bravo e quanto fosse evidente l’anima che ci mettevo nel cantare, ignorando completamente Anis che ringhiava offeso dietro le mie spalle, c’è sempre stato un bel rapporto fra di noi. Non siamo amici perché non ci frequentiamo, non abbiamo nemmeno i numeri di telefono, per dire, ma lei ha sempre creduto molto in tutto ciò che ho fatto e come cantante le piaccio davvero, quindi quando viene ai concerti stiamo sempre un po’ insieme e chiacchieriamo per delle mezz’ore. È un bel rapporto, per nulla impegnativo. L’unico della mia vita, palesemente.
Restiamo lì a chiacchierare per un po’ del più e del meno, lei mi parla degli uomini che le sono passati per le mani nell’ultimo anno – tutti cretini – ed io evito di parlarle dell’uomo che è passato per le mie – cretino uguale, ma non posso dirlo – quindi la consolo un po’, le offro da bere e, quando il proprietario del locale ci butta fuori per chiudere, ci mettiamo a girovagare per le strade. O meglio, lei girovaga ed io sto bene attento a seguirla, sennò finisce che torno a casa del Chaku, anche perché abbiamo bevuto un po’ e ora sono vagamente brillo, quindi le possibilità di trovarmi all’improvviso di fronte al suo palazzotto diroccato sono più alte di quanto non lo fossero un’ora fa.
Alla fine, fra una risata e l’altra, lei si ferma di fronte ad una bella porta a vetri e si stringe nelle spalle. È magra e bassa e quando lo fa sembra minuscola, ha anche due occhioni castani enormi sul suo viso un po’ segnato dal tempo – lo penso solo distrattamente che è più grande di me, più di Anis, peraltro, non mi interessa davvero.
- Se vuoi… se ti va, - balbetta incerta, - possiamo salire un po’ da me. È tardi.
Realizzo cosa mi sta chiedendo e realizzo anche che dovrei dirle di no. Dovrei fare il cavaliere, sorriderle e dirle che sono stanco ma sarà sicuramente per un’altra volta, anche se un’altra volta sicuramente non ci sarà.
Però, penso, perché cazzo dovrei farlo? Non faccio male a nessuno, salendo da lei. A nessuno importa se io vado a letto con questa donna, è una cosa che riguarda solo noi due. Io le voglio bene, un po’. E a lei interesso. Voglio dire, mi piace anche. Perché dovrei dirle di no? Perché dovrei rifiutarmi?
Penso che Chakuza non rifiuterebbe. Penso che nemmeno Anis rifiuterebbe. Penso a Bill e so che lui sì, direbbe proprio di no, perché lui è uno che se non ti ama non ci viene a letto con te, ma sul momento decido che non mi interessa. Non ho mai detto di essere una persona migliore di Bill e non l’ho nemmeno mai pensato. Quindi fanculo al resto. Fanculo tutto.
L’appartamento di Nicole è buio e non le lascio il tempo di illuminarlo, perché appena passiamo oltre la porta e ce la richiudiamo alle spalle la spingo delicatamente contro il muro e mi chino a baciarla, chiudendo gli occhi. Sa di birra, è esattamente lo stesso sapore che ho io. Un po’ amaro ma piacevole. La sua lingua scivola sulla mia e le mie mani le scivolano addosso, sulle spalle e lungo le braccia. La afferro per la vita e me la tiro contro, lei sussulta e lascia andare un gemito colmo di ansia ed aspettativa quando sente la mia erezione premerle contro il bacino. Io le sorrido sulle labbra e lei solleva le mani sfiorandomi le braccia a partire dai polsi, risalendo su verso il gomito, accarezzandomi i bicipiti e poi appendendosi alle mie spalle, saggiando la consistenza dei muscoli contratti sotto le dita, attraverso la maglia di acrilico.
Io mi scosto appena e sfilo la maglietta, lei mi guarda a lungo mordendosi un labbro e poi si china sul mio petto mordicchiando e leccando come una gattina un po’ a caso e lasciando andare anche dei miagolii da gattina che, assieme ai baci e alla sua lingua e ai suoi denti che scorrono sulla mia pelle, mi fanno sibilare il suo nome, mentre torno a stenderla contro la parete e scendo a morderle e succhiarle il collo, inspirando il profumo lieve e dolce che viene dai suoi capelli.
Le sbottono i jeans e l’aiuto a liberarsene, lei si solleva sulle punte e mi allaccia al collo, respirandomi addosso mentre io le accarezzo i fianchi e poi, lentamente, insinuo una mano fra le sue cosce. Il mugolio che mi scivola sulla pelle quando comincio a strofinare piano un dito contro di lei mi dà la conferma che no, non ho dimenticato come si tocca una donna per farla gemere, e mentre il suo bacino segue i movimenti della mia mano – che scivola più in profondità, dando modo alle mie dita di cercare e trovare il calore umido del suo corpo – io la afferro da dietro un ginocchio con la mano libera e la aiuto a divaricare le gambe. Lei non oppone resistenza e si appoggia senza fiato contro la parete, chiudendo gli occhi e respirando attraverso le labbra dischiuse e un po’ umide.
Torno a baciarla slacciandomi i jeans e lasciandoli scivolare verso il basso il minimo indispensabile, e lei mi morde un labbro, quando io la afferro per la vita e la tiro su. Mi stringe le gambe attorno ai fianchi, muovendosi contro di me; la sento bagnatissima contro la pelle accaldata e ringhio. Lei rabbrividisce, la sento tremare e scuotersi tutta sotto i polpastrelli, e visto che questa casa non la conosco e non so dove andare torno a spingerla verso la parete. Lei non riesce a parlare, a stento respira, ed io la stringo alla vita con un braccio, tenendola sollevata da terra mentre cerco il portafogli nella tasca posteriore dei jeans. Infilo le dita in una taschina, riemergo col preservativo, lo scarto e lo indosso. È tutto molto meccanico e non riesce a smettere di esserlo neanche quando mi spingo dentro di lei, neanche quando lei esala il mio nome fra gli ansiti – mi sembra una vita che non sento pronunciare il mio nome così da una voce di donna – e si inarca sotto le mie mani che le accarezzano la schiena. Il suo bacino si muove ritmicamente seguendo le mie spinte lente e misurate, lei si regge con forza su di me, piantandomi le unghie nelle spalle, e io ringhio, un po’ perché fa male, un po’ perché mi piace, ma quando mi svuoto contro il preservativo – solo qualche attimo dopo averla sentita lanciare un urletto e stringersi convulsamente attorno al mio cazzo – lo capisco anche senza rifletterci su, che sono venuto per sfregamento meccanico. Questo non è fare l’amore, non è neanche sesso.
Non so cos’è e a questo punto non mi interessa nemmeno scoprirlo, comunque. Aspetto che Nicole riprenda fiato, la aiuto a rimettersi coi piedi per terra e poi la sostengo delicatamente, mentre recupera la forza nelle gambe – è così piccola e magra che ho paura di spezzarla, se la stringo troppo forte. Lei mi si stringe contro e si appoggia al mio petto, intrecciando le dita delle mani con le mie. Non so perché la lascio fare, non dovrei essere tenero, adesso. Però sono stanco, non ho voglia di scostarla. Il suo corpo è caldo e sa del mio odore mischiato al suo. Il suo corpo al momento è l’unico posto al mondo in cui non sono solo, perciò me lo tengo stretto contro e mi lascio accompagnare verso la sua camera da letto.
Il letto di Nicole non sa di niente, però. Cioè, sa di pulito, sa di cotone, sa di detersivo, sa un po’ anche del suo profumo, ma se mi cerco non mi trovo e presto smetterò di trovarmi anche addosso a lei. La stringo il più possibile finché ci sono ancora, chiudo gli occhi e la accarezzo, cullandola un po’ mentre si addormenta stesa contro di me, e mi immagino altrove, in un altro letto, stretto fra altre braccia, con un corpo dalla consistenza completamente diversa schiacciato contro il mio, e penso che il mio odore in casa di Chakuza c’è. È sulla mia poltrona ed è nel suo letto, nonostante tutto, ed è nell’aria e soprattutto ce l’ha addosso lui, e non scompare. È la traccia che ci annusiamo addosso ogni volta che siamo vicini, è il motivo per cui dovrei smettere di vederlo, è il motivo per cui non riesco a smettere di vederlo, ed ora che il profumo di Nicole sta abbandonando anche la mia pelle ecco che l’odore di Chakuza riaffiora ed a me viene voglia di ficcarmi sotto una doccia e strofinare così forte da farmi male, per cercare di cacciarlo via, anche se so che non ci riuscirei.
Mi manca. Mi manca come non mi è mai mancato niente in tutta la mia vita, mi manca anche più di quanto non mi sia mancato Anis e non so dire se sia perché per un periodo di tempo ho creduto in noi – in me e in Chakuza, intendo – o se sia perché semplicemente mi sono preso una sbandata come non ne ho mai viste. Di quelle che ti fanno riconsiderare tutte le sbandate passate, perché quando lo senti così forte, il cuore che batte nel petto, e non hai nemmeno bisogno di vederla quella determinata persona, perché il tuo corpo reagisca, allora capisci che sei perso e che prima avevi solo giocato, o frainteso, e che comunque di amore fino a quel momento non ci avevi capito un cazzo.
Mi sono completamente fottuto il cervello. Chakuza, mi hai fottuto il cervello e non te ne frega niente.
Scivolo fuori dal letto di Nicole e lei spalanca subito quegli occhioni castani nel buio e mi guarda dispiaciuta, mordendosi un labbro.
- Ho sbagliato qualcosa? – chiede a mezza voce, ed io sorrido teneramente, tornando a sedermi accanto a lei sul materasso e riavviandole i capelli dietro un orecchio.
- Assolutamente no. È stato bellissimo. Ma devo tornare a casa, domani ho da lavorare e aspetto gente. – mai dette così tante bugie tutte assieme. Fosse qui, Anis mi prenderebbe a cazzotti fino a farmela passare del tutto, la voglia di mentire.
Lei annuisce ma insiste per darmi il suo numero. Lo scrive su un pezzetto di carta con una biro che funziona male e me lo consegna imbarazzata, abbassando lo sguardo. Io sospiro, sorrido ancora e la bacio sulla fronte, rimettendomi in piedi e risistemandomi i vestiti addosso prima di conservare il bigliettino. Non so cosa me ne farò, sinceramente.
Saranno più o meno le quattro e mezza, massimo le cinque del mattino, quando esco di nuovo in strada. Il sole non è ancora sorto, naturalmente, io non ho la minima intenzione di tornare a casa mia perché non intendo vedere Anis adesso, e quindi ripercorro a ritroso la strada che mi ha portato fino a qui. E me ne torno a casa di Chakuza.
Quando apro con le chiavi, per un secondo mi guardo intorno e resto basito. Non tanto perché l’appartamento è ancora deserto e non sono abituato ad entrare qui in situazioni simili, quanto piuttosto perché l’appartamento è pulitissimo e non ricordo di averlo pulito io. Vedere l’appartamento di Chakuza pulito è un miracolo paragonabile ad un’apparizione della Madonna, tipo, quindi resto un po’ sconvolto sulla soglia prima di ricordare cos’è successo e mettermi il cuore in pace.
La notte non si rassegna a finire ed io comincio ad essere davvero stanco di lei. La poltrona è scomodissima. Mi ci raggomitolo sopra con tutta la coperta, ma non riesco a prendere sonno e continuo a rigirarmi alla ricerca di una posizione comoda. Non la trovo, e quando mi decido ad alzarmi mi fanno male tutte le giunture.
- Catorcio… - mi dico, e la mia voce risuona all’interno dell’appartamento. Non c’è eco, fortunatamente, e per questo devo ringraziare le dimensioni ridicole di questo posto.
Mi sgranchisco un po’, mi guardo intorno e alla fine mando a fanculo il buonsenso e mi infilo in camera di Chakuza. Non l’ho sistemata io, ma la camera da letto del Chaku è sempre sistemata per principio, perciò non devo fare altro che scalciare via le scarpe e infilarmi sotto le coperte.
- Ciao… - mormoro inspirando a fondo l’odore di Peter dalle lenzuola. Non sono davvero tanto ubriaco da giustificare un comportamento simile. Non sono neanche tanto ubriaco da giustificare il fatto che sto un po’ piangendo, in questo momento, anche se non è niente di teatrale. Però faccio finta di esserlo per concedermi una scusante e perché, cazzo, ne ho bisogno.
Aspetto di essermi calmato, prima di recuperare il cellulare e il bigliettino, sedermi sul letto e, con le lenzuola tirate su fino al naso, chiamare Nicole. Lo faccio perché mi dispiace che sia sola adesso. Lo faccio perché non mi sono comportato bene. Lo faccio perché ho bisogno di sentire una cazzo di voce umana cui in questo momento importi della mia presenza, perché mi sembra di girare a vuoto, porca puttana, e non so come fermarmi, non so dove fermarmi, non so nemmeno se voglio davvero. Vorrei che Chakuza fosse qui, adesso. Chaku, non ti manderei via, se provassi a baciarmi ora. Però tu non ci sei, c’è solo il tuo odore e devo accontentarmi.
Nicole mi risponde anche se l’ho palesemente svegliata. La sua voce è un mugolio stanco e assonnato. È gentile e non mi manda a fanculo, anzi, ride e mi dice che non si aspettava che l’avrei chiamata sul serio. Io sbuffo una mezza risata ed ammetto sinceramente che non me l’aspettavo neanche io. Lei mi dà dello stronzo ed io la trovo una cosa carina, perciò le chiedo di vederci domani per un caffè, dopo pranzo. Decidiamo di vederci fuori dagli studi dell’Aggro e, quando chiudo la telefonata, non ho idea di dove andrò a finire continuando su questa strada. Nicole, comunque, è carina. E almeno lei c’è.
Il sole comincia appena a spuntare dietro i palazzi, quando finalmente mi addormento. Chakuza non è rientrato. Comincio a chiedermi se lo farà mai.
*
Non ho idea di quante ore siano passate, quando mi sveglio. Sento qualcuno trafficare da qualche parte nella stanza e, per quanto ne so, potrei anche essere regredito ai dodici anni, perché questi sono i rumori che faceva mia madre quando entrava in camera mia di mattina presto per raccogliere i vestiti sporchi da ficcare in lavatrice. Sento il fruscio del cotone e mugolo un “mamma…?” un po’ confuso, ma sono ancora talmente assonnato che non riesco ad aprire gli occhi.
Però Chakuza ride, ed allora li spalanco.
- Ben svegliato. – mi prende in giro. È fresco di doccia e sta rovistando in un cassetto alla ricerca di una maglietta da indossare. Il fatto che sia seminudo non mi aiuta in niente, mi sento in imbarazzo, vorrei sparire e mi rendo conto di aver dormito a casa sua. Cioè, lo so che ho dormito a casa sua, ma mi rendo conto solo adesso di quanto sia assurdo il fatto in sé.
- Sei tornato adesso…? – chiedo, la voce ancora impastata dal sonno, e lui ride ancora.
- Veramente da un paio d’ore. – risponde, individuando finalmente la maglietta che cercava e indossandola, - Ma dormivi così bene che non mi è sembrato il caso di svegliarti. Ti hanno sfrattato da casa tua? – io rispondo con un mugolio frustrato, rigirandomi fra le coperte e stiracchiandomi piano, mentre lui ride ancora. – Piuttosto, - riprende poi, sistemandosi per bene davanti allo specchio, - si può sapere perché cazzo mi hai ripulito casa? – chiede con aria divertita, - Mi è preso un colpo, quando sono entrato!
Scrollo le spalle, mettendomi seduto. Non mi va di scendere dal letto.
- Non lo so. – borbotto, - Era il solito bordello, ho sistemato qualcosa e mi sono fatto prendere la mano.
- L’ho visto! – ride ancora, - Aspetta un secondo. – aggiunge poi, quindi scompare oltre la porta e lo sento armeggiare di là. Quando torna, porta fra le mani un vassoio pieno di roba, ed io spalanco gli occhi.
- Che cazzo è, Chakuza? – chiedo, sconvolto. Lui ride ancora, posa il vassoio sulle mie ginocchia e poi si siede accanto a me.
- La colazione. – risponde, - Non sapevo che avevi dormito qui, altrimenti mi sarei fermato a comprare qualcosa fuori… comunque ti ho fatto il caffellatte ed ho riesumato delle merendine… - indica della roba ammaccaticcia chiusa in degli involucri di plastica, con un gesto distratto, - Erano nella credenza da un po’ ma dovrebbero essere ancora commestibili.
- …Chakuza, - lo fermo, pinzandomi la radice del naso, - perché mi hai portato la colazione a letto?
- Be’, - comincia lui, - ho fatto la doccia, tu continuavi a dormire, non avevo niente da fare e-
- Chakuza! – lo richiamo, alzando lievemente la voce. Lui deglutisce, prende una merendina, la scarta e ne manda giù un pezzetto, prima di sospirare e rispondermi.
- È andata… bene, con Bill. – dice senza guardarmi negli occhi, - Perciò credo di doverti ringraziare.
Prendo una tazza piena di caffellatte dolcissimo fra le mani, e ne bevo un po’.
- Non ringraziare. – dico tetro.
- …ma è merito tuo se-
- Lo so. – taglio corto, - Non ringraziare.
Chakuza sospira e mangia un altro pezzo di merendina. Poi lo sento spostarsi più vicino e mi passa un braccio attorno alle spalle. Così, dal nulla. Io vado nel panico più totale. Vado così nel panico che non riesco nemmeno a muovermi, divento una statua di sale e fisso il vuoto mentre lui mi stringe a sé, rischiando peraltro di ribaltare il vassoio.
- Ti va di parlarne? – mi chiede a bassa voce, sussurrandomelo contro una tempia.
- No, cazzo. – mi lamento sconvolto, - Lasciami.
- Piantala. Ti va di mandarmi a fanculo?
Sospiro.
- …sì.
Lui annuisce lentamente.
- E allora fallo.
- Fanculo, Chaku.
Restiamo in silenzio per un po’.
- Ti senti meglio? – mi chiede poi.
Io scuoto il capo.
- Per nulla. – rispondo.
Chakuza ride piano contro la mia pelle e mi stringe ancora un po’.
- Dovevi dirlo con più convinzione.
- Non mi andava e oh- insomma, Chakuza, mi lasci andare? – mi lamento, ma non mi scosto davvero, perciò Chakuza ride ancora e in effetti non mi lascia andare neanche un po’. Resta lì e il suo profumo lo respiro direttamente addosso a lui, che dopo una notte passata a cercarmelo addosso e fra le coperte è una bella cosa, intendo, avere finalmente l’originale a portata di mano.
- Va meglio adesso? – chiede alla fine, quando mi sente sospirare profondamente. Io mi rimetto dritto e solo allora lui mi lascia andare.
- Un po’. – ammetto controvoglia. Che ci posso fare, è vero. – Io non lo capirò mai cosa vuoi da me, Chakuza. – brontolo incrociando le gambe sul materasso ed incurvando un po’ le spalle. Mi sento quasi stanco.
Chakuza sospira a propria volta e mi sfiora appena un braccio col suo.
- Da te voglio te. – risponde in un soffio, - Non saprei metterla in un altro modo. Cerca di capirmi e basta.
- …insomma. – borbotto, mangiando pure io una merendina, - Non è che sia proprio facile starti dietro, Chakuza.
Lui ride piano.
- Lo so. – risponde.
Io sospiro e mi tolgo il vassoio di dosso. Lui non mi ferma quando mi rimetto in piedi, sistemo alla buona i vestiti stropicciati ed indosso le scarpe. Si limita a guardarmi con un’espressione a metà fra la tenerezza e la beatitudine e la sua felicità è così evidente che mi viene voglia di prenderlo a cazzotti, ma lascio perdere.
- Ci si sente, eh? – lo saluto con un cenno del capo. Lui risponde con un cenno uguale e mi fa un po’ strano, quando esco dal suo appartamento, non sentire i rumori tipici di lui che devasta casa perché me ne sono andato. Dovrò farci l’abitudine.
Quando arrivo a casa mia è quasi mezzogiorno. Apro e spero quasi di non trovarcelo Anis, qua dentro, perché sono veramente molto stanco e voglio farmi una doccia, sistemarmi, vestirmi, andare un’oretta agli studi e poi prendere il mio dannato caffè con Nicole.
Invece niente, ovviamente lui è ancora sul divano e ancora dorme. Durante la notte si è rigirato in ogni modo, i pantaloni della tuta gli sono risaliti su fino alle ginocchia ed ha una gamba ancorata allo schienale del divano. Un braccio pende giù verso il pavimento e l’altro è abbandonato dietro la testa, sul bracciolo. Respira con la bocca semidischiusa, la maglietta gli lascia scoperta la pancia ed i capelli gli sono finiti tutti sulla faccia, mentre la coperta si è arrotolata come un serpente tutta attorno al suo corpo. È talmente ridicolo che non posso proprio fare a meno di ridere, e quando lo faccio, anche se cerco di fare piano, lui si riscuote ed apre gli occhi.
Mentre si tira su a sedere con l’aria di uno che non capisce molto bene dove si trovi e perché, penso distrattamente che lui e Bill devono essere uno spettacolo, quando dormono insieme. Uno sbava e scalcia, l’altro si agita neanche fosse posseduto…
Realizzo in un secondo, mentre lo saluto con un cenno della mano e vado verso la cucina per preparare un caffè, che io ho dormito palesemente con troppi uomini, nel corso della mia esistenza. È impensabile che adesso io sia in questa situazione e conosca a memoria il modo in cui dormono tutti, Anis, Bill, Chakuza. È una cosa veramente assurda. Io sono un essere umano veramente assurdo.
Anis appare sulla soglia della cucina mentre io infilo la cialda nella macchinetta del caffè e decido di cambiare anche l’acqua nel recipiente, anche perché chissà da quanto è qui a ristagnare. Mi meraviglio di non trovarci dentro le rane.
- Che fai? – mi chiede grattandosi la pancia. Una gamba dei pantaloni è tornata al suo posto, l’altra è ancora tutta arricciata attorno al suo ginocchio. E poi, senza soluzione di continuità, aggiunge – Ma hai scopato?
Io lo guardo, e sono anche vagamente oltraggiato, lo ammetto.
- Ma che cazzo…? – chiedo, pigiando il bottone. La cucina si riempie dei rumori forti e vibranti della macchinetta, e Bushido scrolla le spalle.
- Ce l’hai tipo scritto in faccia. – mi fa notare, indicandomi il viso, - E comunque sei vestito come ieri. Che stronzo, io qui a deprimermi e tu in giro a scopare. Non ho parole.
- Tu non ti sei depresso, - gli faccio notare, piazzando due tazzine al loro posto sotto gli erogatori, - tu hai dormito. Sul mio divano. Non hai il diritto di contestare se scopo.
- E chi contesta! – ride lui, divertitissimo, - Chi è? La conosco?
Io scrollo le spalle, mugugnando risentito mentre spengo la macchinetta e gli porgo la sua tazzina piena. Con Bushido, il caffè si beve amaro.
- Nicole. – rispondo in un borbottio appena comprensibile. Anis spalanca gli occhi e schiude pure le labbra.
- …quella! – dice, tornando a puntarmi col dito, - Finalmente! Cristo, Pat, sono anni che ti viene dietro!
Io agito una mano e mando giù il caffè.
- Piantala di farti i cazzi miei. – lo minaccio con un’occhiata glaciale, - E tu non sembri per niente un uomo che abbia appena perso il grande amore della sua vita, comunque.
Anis si appoggia contro lo stipite e guarda un punto oltre la mia spalla, un punto che non significa niente e dove non c’è niente. Sorride ancora, ma è un sorriso così spento che mi mando a fanculo da solo e mi viene voglia di mangiarmi la lingua.
- No, eh? – chiede a mezza voce, sorseggiando il proprio caffè.
- …Anis- - provo a chiamarlo, ma lui mi ferma.
- Posso farmi una doccia? – chiede, posando la tazzina sul ripiano della cucina e stiracchiandosi un po’, - E mi presti qualcosa di tuo?
Io deglutisco, penso a Chakuza per un istante e poi lo sbatto fuori a calci dalla mia memoria. Mi concentro su Anis.
- Ti prendo un asciugamani.
Lui annuisce e sorride ancora. Quando scompare lungo il corridoio, aprendo porte a caso alla ricerca del bagno e chiedendomi se le uso tutte, queste fottute stanze, rido un po’. Magari stasera lo invito a cena.

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The Way He Loves Him

di lisachan
Stamattina ho visto Fler.
Fler, in questo momento preciso della mia esistenza, è un problema che mi sto sforzando di ignorare. Nel senso, non lo so se vi è mai capitato: vi svegliate una mattina e scoprite che la vita che stavate vivendo in maniera non perfetta ma tutto sommato passabile fino al giorno prima è scomparsa. Non è che una cosa prende e va male, no, tutto comincia a muoversi nel verso sbagliato contemporaneamente, e uno in una situazione del genere comincia ad avere difficoltà a capire da che lato dovrebbe girarsi, no? Cioè, dovunque guarda vede solo casino, è un problema. Che mi si potrebbe pure dire: “be’, ma tu vivi una condizione di casino perenne dentro la tua testa, quindi qual è il problema?”, e il problema è proprio questo, che quando non sei un cazzo ordinato nel cervello il mondo esterno deve stare al proprio posto. Quando non riesci ad avere un punto di riferimento dentro di te, devi cercartelo fuori. Se fuori dalla tua testa tutti fanno il cazzo che vogliono – che è pure giusto, alla fine, ma mi crea problemi non indifferenti – tu i punti di riferimento non puoi più cercarli da nessuna parte. Ed è questo il problema.
Quindi, insomma, io mi sono svegliato una mattina e Bushido era vivo, Bill non era più così assolutamente innamorato di me e Fler s’era messo con una donna. Fra tutte queste cose, ovviamente, la priorità è Bill. Bill è sempre la priorità. Bushido arriva al secondo posto, perché a Bill è legato a doppio filo. E poi c’è Fler.
Di ciò che fa Fler, di dove va Fler ed anche di chi si scopa Fler, non dovrebbe fregarmi un accidenti. Beninteso, io lo so. Lo so che non dovrei assolutamente incazzarmi perché me lo vedo spuntare allegro e sorridente mano nella mano con una ragazza, lo so che dovrei accettarlo, congratularmi con lui ed anche esserne felice, ed esserlo sul serio, perché a me non piace che Fler stia male, e fino a prima di mettersi con Nicole lui indubbiamente soffriva, ed invece da quando ci si è messo insieme sta visibilmente meglio.
Però.
Il solo vederli vicini mi manda fuori di testa.
È una cosa assolutamente priva di senso, io me ne rendo conto perfettamente. Non vorrei che di me passasse un’idea ancora più fuori di testa di quanto già non sia nella realtà. Io lo so che non sono tanto normale, ma non sono ancora tanto pazzo da pensare che Fler mi debba fedeltà assoluta dopo tutto quello che gli ho combinato nel corso dell’ultimo anno. Per questo non gli dico niente e cerco di stare tranquillo, anche quando lo vedo con Nicole in giro, ma ciò non cambia la realtà dei fatti che appena io faccio tanto di mettergli gli occhi addosso e lo vedo che la stringe, le sfiora un braccio, le sorride o quel che è, la prima cosa che penso è che ho voglia di pestare lui e defenestrare lei. Che poi è la stessa cosa che ho provato quando l’ho visto interagire con Bushido la prima volta che si sono rivisti, in casa di Eko, solo che stavolta è anche peggio, perché, voglio dire, chi cazzo è Nicole? Siamo seri.
Comunque, stamattina è successo che sono andato a registrare le mie parti per Prinzessin. Io, di questa canzone, non voglio parlare. Perché è anche troppo evidente cosa Bushido ci abbia messo dentro. Ora, io lo so come lavora Bushido. È uno molto presente a se stesso, quando si sta vendendo ad un pubblico pagante; tiene sotto controllo tutto, programma tutto, niente succede se non è stato lui a deciderlo. Quando scrive no, però, quando scrive è molto più libero. Si ascolta molto, anche se credo sia solo uno strascico del suo egocentrismo del cazzo. La sua voce sovrasta quelle degli altri anche dentro di lui, quindi, quando scrive, lo fa ascoltando la parte più profonda di se stesso, quella con cui magari lui direttamente non parla, ma che lascia scivolare sul foglio, perché così è più semplice tenerla a bada. La canzone che ha scritto per Fler, in Heavy Metal Payback, l’ha scritta così. Ed io credo che Prinzessin sia nata nello stesso modo, perciò non è che posso avercela in maniera distruttiva con Bushido per il solo fatto di averla buttata giù.
Però ce l’ho con lui per il modo in cui la sta usando. Quindi no, non voglio parlare di questa canzone e di come a leggerne il testo io venga fuori come un pezzo di merda quando, in tutta franchezza, non ho fatto proprio un cazzo di male. Mi urta dovermi prestare a questo giochino per niente divertente, mi urta star qui a cantare cose che non penso quando io sui testi che avevo da cantare sono sempre riuscito a mettere mani e bocca per renderli il più possibile vicini al mio modo di sentire, e mi urta non esserci riuscito adesso solo perché, come mi ha detto Jost quando mi ha fatto sapere che la mia presenza era richiesta e no, non potevo rifiutarmi, “alla Universal sono già abbastanza incazzati per lo scherzetto che gli ha combinato Bushido. Pretendono la massima collaborazione e tu non vuoi davvero averli contro, Chakuza”. E no che non li voglio contro. Mi mancano davvero solo i pezzi grossi dell’industria musicale tedesco che mi vogliono fuori dal giro, e poi sono completo, cazzo.
Comunque, ovviamente prima di dire “d’accordo” mi sono informato, con Jost. Pazzo sì, cretino no. Gliel’ho chiesto, “sono registrazioni di gruppo?”, e lui naturalmente mi ha guardato e m’è scoppiato a ridere in faccia. Poi è tornato subito serio e fa “ma ovviamente no, Chakuza”, come a dire “ma per chi mi hai preso?”, ed in effetti io lo sospettavo che Jost non l’avrebbe mai permessa una cosa del genere, perché è uno che sul lavoro è molto preciso e gli danno fastidio i tempi, quando si allungano, perciò supponevo avesse già preso tutte le precauzioni del caso, ma sempre meglio chiedere, dico io, per scrupolo.
Comunque nella mia domanda era compreso anche Fler. Nel cervello di Jost no, invece, perché giustamente lui si dice “Fler non c’entra un cazzo”, ma per me Fler c’entra sempre, quindi se ti chiedo se c’è la possibilità per me di incontrare qualcuno, nei vari “qualcuno” possibili è incluso anche Fler. Nella mia testa questo è chiaro, in quella di Jost no, e questo è giusto, ma io tendo a dimenticarlo. Perciò oggi mi sono presentato agli studi con le palle girate, d’accordo, ma fiducioso che non mi sarei trovato a dover fronteggiare nessuna situazione difficile. E invece appena esco dalla sala d’incisione, dopo tre ore sfiancanti, chi mi vedo passare davanti? Ma la coppietta felice, naturalmente.
Non ho il tempo materiale di fuggire dietro il primo angolo disponibile dopo aver adocchiato Fler che cammina – un braccio attorno alle spalle di Nicole, lei ha intrecciato le dita con le sue – che lui si volta e mi guarda e, come fosse tutto perfettamente a posto, mi sorride. Così, tranquillissimo. Solleva anche una mano nella mia direzione, rilassatissimo, e mi saluta. Al che io non posso fare molto più che rispondere abbozzando un sorriso a mia volta, restando lì fermo impalato mentre lui mi si avvicina, trascinandosi dietro Nicole che è minuscola e scialbissima e non c’entra niente col tipo di donna che avrei affibbiato a Fler se mai avessi voluto affibbiargliene una. Per dire, visto che lui comunque è robusto ed ha la pelle e gli occhi chiari, accanto gli starebbe bene una ragazza alta con un sacco di curve, la pelle scura e gli occhi grandi e castani. Invece lui mi si presenta con questa cosina minuscola, pallidina, biondiccia, con questi occhietti marroncini anonimi, boh, Fler poteva pretendere di più, credo. Anzi no, lo so, Fler poteva pretendere di più eccome. Comunque mi sforzo di guardarla con calore, perché lei mi sorride timidissima e non me la sento di lanciarle occhiate intimidatorie. Non ne avrei nemmeno un motivo, peraltro.
- Ehi. – mi fa, perfettamente a suo agio, - Finito per oggi? – chiede, indicando con un cenno la porta chiusa della sala incisioni. Nicole stringe la presa delle proprie dita attorno alle sue ed io fisso l’intreccio delle loro mani per un po’ di secondi, prima di riscuotermi e decidermi a rispondere.
- Sì, - ammetto, - è stata dura ma ce l’ho fatta. – commento con una scrollatina di spalle. Lui annuisce e lo vedo chinarsi appena su Nicole, sfiorarle la guancia con un bacio lento e poi sussurrarle qualcosa che non riesco a percepire. Lei sorride ed annuisce, e mi saluta a bassa voce prima di sciogliersi dal suo abbraccio ed andare verso l’uscita degli studi. Inarco un sopracciglio e fisso Fler con aria curiosa. – Be’? – chiedo, indicando la porta dalla quale Nicole è appena uscita. Lui ride.
- Le ho chiesto di precedermi a casa sua. Ho voglia di spezzatino con le patate.
Mi lascio andare ad un mezzo ghigno, spostando il peso da un piede all’altro.
- La fai filare? – chiedo, e lui mi tira una mezza spinta, ridendo come un ragazzino.
- È solo gentile. – risponde, - Mi piace che lo sia. È dolce ed è semplice. Niente di neanche lontanamente paragonabile al resto della gente con cui sono stato.
- Ah, grazie mille. – rispondo, un po’ offeso, e lui ride ancora.
- Non sono mica stato solo con te. – mi fa notare, e penso pure che c’ha ragione e che questo dialogo è surreale.
- E… - gesticolo, perché non so se posso chiedere questa cosa e non so nemmeno se voglio chiederla, o meglio, voglio chiederla ma non so se voglio sapere la risposta; o meglio ancora, voglio sapere la risposta, ma non so se sono veramente pronto a sentirmelo dire. Quindi, in sostanza, gesticolo per tergiversare. - …da quant’è che state insieme?
Fler è a disagio e lo vedo subito nel momento in cui volta lo sguardo e scrolla le spalle.
- Lasciamo perdere. – taglia corto, - Ti va un caffè?
Annuisco, un po’ confuso, e gli vado dietro mentre ci avviciniamo ai distributori automatici. Fler mi chiede cosa voglio, io rispondo “un caffè ristretto” e, quando lo vedo recuperare il portafogli in tasca, gli chiedo cosa vuole lui, come fosse una curiosità come un’altra. Lui apre la taschina portamonete, rovista tintinnando e mi risponde sovrappensiero che lui ne prende uno doppio zuccherato. Perciò io infilo la mano in tasca, recupero due euro spersi nei pantaloni da chissà quanto tempo e pago per entrambi. Lui, che non aveva ancora racimolato la quantità sufficiente di monetine, se ne rende conto solo quando sente la macchinetta ronzare e cominciare a riempire il bicchierino di plastica col suo caffè, e mi lancia un’occhiata a metà fra lo sconvolto e il nient’affatto compiaciuto.
- Chakuza! – mi rimprovera, - Ma chi te l’ha chiesto?!
- …nessuno. – ammetto io, recuperando il bicchierino e porgendoglielo, - Mi faceva solo piacere farlo.
Lui accetta il bicchierino sospirando teatralmente in un roteare di occhioni azzurri che mi fa anche un po’ ridere, e poi resta in silenzio mentre io prendo il mio caffè e rimaniamo lì a sorseggiare lentamente, perché il coso è pure caldo, e nessuno qui vuole scottarsi la lingua. Restiamo in silenzio finché possiamo permettercelo – ossia finché non diventa troppo pesante – e poi gli chiedo come sta. Che è una cosa che faccio sempre quando non so cos’altro fare con lui. Fler non è semplice, da maneggiare, anzi. È uno che, tra l’altro, appena sbagli di un millimetro ti si volta contro in maniera devastante. Quindi, prima di fare o dire qualsiasi altra cosa, io devo chiedergli come sta. Così posso elaborare un piano d’azione, o pensare ad una strategia, o qualunque sia un modo meno idiota per definire il momento in cui cerchi di capire come muoverti per non passare come un fottuto carro armato addosso ad una persona alla quale tieni.
Lui scrolla le spalle, butta giù ciò che resta del suo caffè e si appoggia contro la macchinetta.
- Bene, credo. – risponde, - È un periodo un po’ incasinato, con Nicole e tutto il resto, ma sto tranquillo. Cioè, tutto il mondo è un casino, ma io sono tranquillo. Non so se capisci cosa intendo.
Annuisco vagamente, e non lo faccio per finta. Lo capisco cosa intende. Anche se è una cosa che non mi piace, perché vuol dire che è felice davvero. Mi piace vederlo felice, cazzo, ma… oh, insomma.
- Stai da lei? – chiedo, fingendo disinteresse. Lui mi sgama subito e sorride.
- Cosa vuoi sentirti rispondere?
- …la verità, suppongo. – borbotto senza guardarlo. Lui ride un po’.
- Penso che la prenderesti anche peggio. – mi informa con una risata da ragazzino che sembra prendermi in giro.
Simulo tranquillità, lanciandogli una mezza occhiata che mi auguro sia indecifrabile, e invece non lo è, perché lui si mette subito a ridere come un cretino, e io sbuffo.
- Be’, dimmelo se stai da Bushido. – sospiro alla fine, abbattendomi di spalle contro la parete. Lui ride ancora.
- Praticamente sì. – ammette, gettando il bicchierino ormai vuoto nella spazzatura, - Lo sai come funziono. Ragiono meglio se ho gente attorno.
- Che bisogno avrai di ragionare, adesso… - mi lamento io, e lo faccio solo perché non mi piace saperlo giorno e notte piantato in casa di Bushido.
- Be’, qualcuno dovrà pur farlo. – mi risponde lui, ed in effetti non posso dargli torto, perciò annuisco. – Comunque in genere sto bene. Come ti dicevo, Nicole è molto carina e dolce.
- E la ami?
…non so come funzioni con questo tipo di domande. Probabilmente ognuno, nel proprio cervello, ha una scatola con dentro tutte le domande scomodissime che non vorrebbe mai fare e delle quali però vorrebbe conoscere la risposta. E le domande vanno accumulandosi in questa scatola finché non diventano troppe, e quando diventano veramente tantissime ecco che salta via il coperchio e quelle cominciano ad uscire. E il problema è che, mentre stavano lì strette nella scatola, si sono aggrovigliate fra loro come i gomitoli di lana quando non li avvolgi bene e li lasci lì nella cesta per giorni, perciò quando ne esce una se ne porta dietro un’altra, e poi un’altra, e un’altra ancora, finché non escono tutte. Forse è così che funziona per tutti, o forse è così che funziona solo per me, fatto sta che di questa domanda io so che voglio conoscere la risposta, ma so anche che non avrei voluto porla. E perciò, dopo averla detta, non mi sento bene neanche per un cazzo. E guardare Fler esitare, prima di rispondere, non mi aiuta per niente.
Lo osservo rifletterci sul serio – nei suoi occhi chiarissimi i pensieri passano come in trasparenza, che se solo sei un po’ abituato a guardarci dentro, a quegli occhi, lo capisci cos’è che sta succedendo dentro la testa di Fler. Puoi perfino anticiparlo. Perciò, quando schiude le labbra, io so già cosa sta per dire, e mi tendo tutto, stringendo i pugni per cercare di fermare qualsiasi sia il gesto che vorrei compiere in reazione alle sue parole. Perché non posso permettermelo, perché non posso farglielo e perché in generale è più giusto se sto fermo.
- No. – risponde, comunque. È la cosa più bella che sento da giorni. – No, non credo proprio. – mi guarda, ed è tranquillissimo. – Ma lo sai già.
Annuisco lentamente, gettando via il mio bicchierino.
- Perché ci stai insieme? – chiedo, guardandolo dritto negli occhi. Lui sospira e mi ricambia lo sguardo.
- Perché è meglio che stare soli. Perché boh… non è così male. – sospira ancora, più pesantemente. – Perché anche se mi manchi non me ne faccio niente di questo sentimento. Mi sento anche uno scemo a dirtelo.
Mi mordo un labbro, schiacciandomi con forza contro la macchinetta per non avvicinarmi neanche di un passo.
- Non sei uno scemo. – rispondo a bassa voce, - Mi dispiace che tu stia così, Pat.
Lui tira fuori un mezzo sorriso e scrolla le spalle. Ogni tanto, quando lo fa, quando scrolla le spalle, dico, mi sembra voglia scrollarsi di dosso i problemi. Lo fa con una convinzione tutta particolare. Come servisse davvero.
- Non sto male. – ribadisce, - Ed ora basta parlare di me. – sorride più decisamente, tornando ad appoggiarsi qui accanto a me solo quando vede i miei muscoli rilassarsi e la voglia che ho di baciarlo scivolarmi lentamente via dagli occhi. – Tu com’è che stai, Chaku?
*
Com’è che sto mi ha chiesto Fler stamattina. Com’è che sto. Immagino che la risposta a questa domanda sia “non lo so”, ma “non lo so” non è veramente una risposta. È la scusa che usi quando non ti va di risolvere una questione, penso, e posso dire di parlarne con una certa competenza, visto che la uso molto spesso. Non è nemmeno una bugia: io davvero non so come sto. Non è la risposta completa, perché la risposta completa è “non lo so perché non voglio saperlo, perché non posso mettermi lì a risolvere la questione, perché mi fa male pensare di stare male”, ma non è una menzogna. È una parte di ciò che è. Ed è anche quello che ho detto a Patrick, che d’altronde da parte sua non ha nemmeno mai avuto bisogno delle mie risposte complete. Quelle incomplete sono sempre state sufficienti a dargli una base di partenza per trovare il resto di ciò che voleva sapere nei miei occhi, nella mia voce, nel mio odore, sul mio corpo.
Com’è che sto. Sto. In attesa, più che altro. A volte, ripensando a tutta la mia vita nell’ultimo anno, mi sembra di averla vissuta solo così. In attesa. Di Bill, naturalmente, perché niente è stato più importante di lui in questi ultimi dodici mesi. Niente è stato più importante di lui in generale, in tutta la mia vita, temo. E penso succeda così, in fondo, quando ti innamori di una persona, indipendentemente da chi sia. Fa come un balzo fra le tue priorità. Era lì, nel mucchio, e all’improvviso te la ritrovi su un piedistallo, in evidenza, e da lì non riesci a toglierla nemmeno con la forza. E poi neanche vuoi, in fondo.
Con Bill è stato così. Io ho vissuto in attesa di capire cosa stavo cominciando a provare per lui, all’inizio. Poi ho vissuto in attesa di un suo cenno d’assenso. Poi ho vissuto in attesa di risentire il suono della sua voce e guardarlo nuovamente negli occhi. Ed alla fine ho iniziato a vivere nell’attesa del momento successivo in cui avrei potuto tenerlo stretto a me, che poi è quello che ho fatto negli ultimi nove mesi ogni volta che per forza di cose siamo dovuti stare lontani, ed è quello che sto facendo anche ora che è tutto complicato e intricato e doloroso. Vivo in attesa di Bill. Ed è una cosa bellissima.
Quando il mio cellulare squilla, so già che si tratta di Bill. Perché questo è l’orario in cui mi chiama di solito, quando tutti gli altri si decidono a lasciarlo in pace e lui si ritrova finalmente tranquillo in casa propria. È l’orario in cui può smettere di tenere a freno il bisogno che ha di vedermi, e quindi quel bisogno sfonda gli argini e lui mi chiama, e quando mi parla lo fa con tenerezza ma anche con urgenza. Perciò, quando sento la sua voce, sorrido. Perché è stanca, è provata, è angosciata, è triste ed è un altro milione e mezzo di cose, ma soprattutto è piena del bisogno che ha di me. E siccome per me è lo stesso, io non posso fare a meno di esserne felice, e sorridere.
- Secondo te, - mi dice, senza nemmeno salutarmi, - anche se lo yogurt è scaduto da un paio di giorni, posso mangiarlo?
Rido a bassa voce, perché come si fa a restare seri di fronte ad una cosa del genere?
- Ho esperienza sul campo. – gli faccio notare, dal momento che entrambi conosciamo le condizioni del mio frigorifero, - Sono quasi sicuro di no, Bill. Forse è il caso se mangi qualcos’altro.
Lui sbuffa, e lo ascolto lasciarsi andare sul divano e raggomitolarsi in una pallina contro il bracciolo.
- Non c’è nulla di buono. – borbotta, - C’è qualcosa che mi ha comprato David, ma non saprei come metterla insieme e tirarne fuori qualcosa di commestibile.
Rido ancora, e quello che gli chiedo glielo chiedo solo perché lui me lo sta già chiedendo da quando questa telefonata è cominciata.
- Vuoi che venga a prepararti qualcosa? – suggerisco, - Sono quasi sicuro che David abbia comprato sufficienti ingredienti almeno per un piatto di pasta.
Lui sorride e mi dice che mi aspetta. Ed io rido un po’ perché fino a due minuti fa stavo pensando che l’intera mia esistenza – be’, ok, l’ultimo anno, ma in fondo se ci penso un po’ stavo aspettando qualcosa come Bill da sempre, qualcosa che mi sconvolgesse dentro, che mi trascinasse completamente in sé, qualcosa che mi prendesse come mi ha preso lui, quindi forse è davvero tutta la vita che lo aspetto – insomma, pensavo che l’intera mia esistenza fosse stata vissuta in sua attesa, e lui ora mi dice che mi sta aspettando. Che sembra una cazzata, ma è bello pensare che in qualche modo, in un certo senso, forse anche Bill stava aspettando me. Indipendentemente da tutto il resto, anche lui mi stava aspettando, ecco.
Quando arrivo a casa sua, lo trovo lì sulla soglia che mi guarda, una mano stretta nervosamente attorno allo stipite della porta e tutto il corpo proteso in avanti a cercare il mio. Quando Bill vuole un abbraccio, lo vedi da lontano, perché tutta la sua persona si prodiga per trovarlo. Ha dei bisogni molto fisici, Bill, perciò basta osservarlo e vedere come si sporge, come si espone, come tiene le braccia, come pianta un piede in avanti rispetto al corpo, per capire che ti vuole vicino e vuole sentirti addosso il prima possibile. Si fa rassicurare con così poco, alle volte, che sembra molto più fragile di ciò che è in realtà. Perché poi quasi te lo dimentichi che ha fatto fuori un uomo, per dire. Ma Bill è bellissimo soprattutto per questo, perché è un mistero continuo, che lo guardi a non capisci proprio come possa essere possibile che sia proprio così. E invece lo è. Se me ne fregasse qualcosa della religione, direi che è un miracolo. Della religione non mi frega un accidenti, e Bill è il mio miracolo comunque.
Lo tiro a me e lo stringo forte, richiudendomi la porta alle spalle, e Bill nasconde il viso contro il mio collo e mugola un po’, strusciando il naso lungo il mio zigomo e cercando subito le mie labbra per un bacio veloce.
- Mi sei mancato… - mi sussurra sulle labbra, mentre io lascio scivolare le mani sui suoi fianchi, accarezzandolo piano, - Puoi… puoi prepararmela dopo, la cena?
Io lancio un’occhiata all’orologio appeso al muro, sulla parete di fronte, e vedo che sono già quasi le dieci. Non c’è verso che, se gli faccio mangiare qualcosa adesso, lui riesca a digerirlo prima di mezzogiorno di domani. Oltretutto, fra meno di un’ora, qualsiasi cosa decidiamo di fare adesso, Bill sarà già crollato addormentato sulla prima superficie disponibile. Vorrei essere io, quella superficie. Perciò lo bacio piano sulle labbra e gli assicuro che sì, gli cucinerò qualcosa dopo, anche se so per certo che la prima cosa che preparerò per lui saranno le frittelle domattina, e mi lascio condurre dalle sue mani che si aggrappano ai miei vestiti, cercando di tirarli via, trascinandomi fino in camera da letto.
Lo stendo sul letto cercando di essere delicato, perché è stanco e lo sento dal modo arreso in cui si lascia maneggiare e accarezzare e mi si appoggia addosso, come avesse bisogno di aiuto per tenersi in piedi. È per questo che lo aiuto a distendersi, così non dovrà faticare per tenersi dritto. Schiude le gambe lasciandomi lo spazio per sistemarmi contro di lui, ed attraverso la stoffa sottilissima del pigiama sento il calore della sua pelle e quello della sua eccitazione, ed entrambi mi colpiscono in scariche elettriche che partono dalla base della mia schiena e si diffondono per tutto il mio corpo, rendendo più affamati i miei baci e i miei tocchi, finché lo sento ansimare pesantemente e gettare indietro il capo alla ricerca d’aria, quando scendo ad accarezzarlo sotto i pantaloni e lo sollevo con la mano libera da sotto la schiena, così che possa inarcarsi, schiacciandosi contro il mio corpo e stringendo le ginocchia sui miei fianchi, le cosce che si serrano come tenaglie attorno al mio polso ed alle mie dita.
- Peter… - mi chiama piano, ed il mio nome scivola sulle sua labbra in maniera tanto dolce che mi viene voglia di assaggiarlo, perciò mi sporgo a baciarlo, affondando dentro di lui che mi accoglie morbido come sempre, e questi sono i momenti in cui mi viene da pensare che forse, se mi sforzo, posso ancora fare in modo che sia come non fosse cambiato niente, come se Bushido non fosse mai tornato, come se Bill non fosse così indeciso come invece è. E quindi ce la metto tutta, cazzo, ce la metto tutta davvero, e lo stringo piano per i fianchi mentre accontento le sue richieste e mi faccio avanti dentro il suo corpo solo dopo averlo preparato per bene, dopo averlo sfiorato e baciato e toccato ovunque, e quando lo sento stringersi attorno a me, seguendo l’impronta che le mie spinte lasciano dentro di lui, chiudo gli occhi e lo bacio sul collo, sullo zigomo, sulla guancia, sugli occhi chiusi e stanchi, sulla tempia, e glielo dico piano, che lo amo, e non mi arrabbio se non mi risponde subito, non mi arrabbio nemmeno se non mi risponde affatto, perché so che è così, lo so che mi ama anche lui, se non me lo sta dicendo in questo momento è solo perché non è il momento opportuno, ed io questo lo rispetto. E Bill lo sa, che lo rispetto. Ed è tutto quello che mi interessa, in questo momento.
Quando si scioglie fra le mie dita ed io mi sciolgo dentro di lui, ascolto i suoi respiri inseguirsi affannosamente sul mio petto, dove ha poggiato le labbra, per molti minuti, prima che lui riesca a domarli abbastanza da costringerli a tornare ad un ritmo più regolare. Ed anche allora continuano ad accarezzarmi piano, così come io accarezzo lui, le dita che si incastrano fra le ciocche intrecciate dei suoi capelli e seguono il disegno sottilissimo e un po’ spigoloso delle sue scapole e della sua spina dorsale.
Come previsto, mi si arriccia addosso e comincia subito a scivolare nel dormiveglia, ed io sorrido mentre lo aiuto a sistemarsi comodamente sul mio corpo e tiro su le lenzuola perché ci coprano entrambi.
- La cena… - borbotta sul mio collo, - …domani, okay?
Rido ancora, sulla pelle un po’ accaldata della sua fronte, ed annuisco stringendolo a me. Domani, Bill, okay. Quando vuoi.

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Your Love Alone Is Not Enough

di lisachan
Mi piacerebbe poter dire che la mia vita fino a questo momento, nelle ultime settimane, abbia fatto schifo. Se fosse vero, non aspetterei con tanta ansia l’arrivo di Chakuza, stasera. Anzi, lo aspetterei come una specie di benedizione. Una cosa di cui ho bisogno. Se il mio rapporto con Nicole facesse schifo, non vedrei l’ora di rivedere Chakuza, perché so quello che Chakuza mi fa, e sentirmelo addosso – o anche sentirlo vicino – sarebbe l’unica cosa che vorrei, e la vorrei senza rimpianti, anche perché sarebbe un’ottima scusa per mettere fine al mio rapporto con lei.
La verità, purtroppo, è che a Nicole voglio bene, e con Nicole sto bene. Questo rende tutto molto più difficile, e sfortunatamente non cancella il problema: io continuo ad aspettare Chakuza con la stessa ansia, come fosse una benedizione, anche se so perfettamente che è quanto di più lontano esista da una cosa simile, soprattutto per me e soprattutto in questo momento.
A peggiorare una situazione già catastrofica, si aggiunge il fatto che io conosco Chakuza e so prevederlo. Il che non significa che sappia anche prevenirlo, perché purtroppo quella è una malattia che non riesco a farmi passare, ed anche quando mi sembra di essere guarito il contagio torna sempre a farsi sentire, ed è ogni volta un po’ più forte. Però, insomma, prevederlo sì. Quindi, quando apro la porta e me lo ritrovo di fronte che mi guarda con aria colpevole e un po’ abbattuta, tutto ciò che riesco a pensare è “me lo aspettavo”. Mi viene un po’ voglia di prenderlo a calci per il pianerottolo e buttarlo giù dalle scale, a dire la verità, ma a voler essere ancora più sinceri in realtà sono stato qui dentro da solo ad aspettarlo per qualcosa come sei ore e non ne posso più di sentire i miei stessi pensieri che rimbombano fra le pareti, perciò lascio perdere i propositi violenti e mi limito a guardarlo.
Era semplicemente ovvio che, dopo la questione fra Bill e Bushido, sfumata la rabbia, il Chaku mi si sarebbe rattristato in questo modo. Ed anche volendo, io non sarei per niente riuscito a mollarlo da solo nel casino del suo cervello, ed è questo il motivo per cui cinque o sei ore fa ho salutato Nicole, l’ho portata a casa sua e me ne sono tornato nel mio appartamento – nel quale non mettevo piede da settimane, avendo vissuto da Anis quando ancora Bill stava con Chakuza, e da Nicole quando poi il ragazzino s’è trasferito.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi. L’altroieri, però, mi ha mandato un messaggio sul cellulare. E oggi mi ha chiamato. Nel messaggio s’è limitato a salutarmi e chiedermi come stavo. Quando mi ha chiamato, abbiamo parlato della pioggia che ultimamente martella incessante Berlino, a ricordarci che ormai siamo in pieno autunno e fra poco saremo in inverno, sarà finito un altro anno e noi siamo ancora nello stesso identico punto in cui eravamo un anno fa, persi e senza voglia di fare niente.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi, ma gli ho sentito la voglia nella voce – l’ho sentita in come vibrava bassa contro la cornetta, scivolandomi lungo il collo in brividi – ed è stato più chiaro in quel modo, salutandomi appena dopo avermi ricordato di portare l’ombrello, se uscivo, di quanto non sarebbe stato chiaro se mi avesse comunicato l’orario in cui sarebbe passato di qua.
- Sei in ritardo di dieci minuti sulla tabella di marcia. – lo prendo in giro, lasciandogli libero l’ingresso ed addentrandomi all’interno dell’appartamento, verso la cucina. Cristo, quest’appartamento a volte mi sembra enorme. I chilometri, ci sono, fra l’ingresso e tutto il resto. – Dovresti già stare piagnucolando perché non ti senti abbastanza amato.
- Stronzo. – borbotta lui, entrando con un po’ d’imbarazzo e richiudendosi la porta alle spalle, - Cazzo, fra te e Bushido non so chi sia peggio.
- Lui, è ovvio. – scrollo le spalle, riemergendo dalla cucina con due bottiglie di birra, - Io sono un santo martire.
Chakuza lascia andare una mezza risata amara e si gratta lentamente la nuca, accettando la birra e seguendomi mentre mi lascio andare sul divano con un tonfo scazzato.
- Scusa se- - comincia, ma non ho intenzione di ascoltarlo mentre si dispiace di qualcosa di cui non è dispiaciuto, perciò lo fermo con un cenno della mano libera, scuotendo il capo prima di prendere una sorsata di birra.
- È ok. Immaginavo che non avresti voluto startene per conto tuo. Basta che sia chiaro che possiamo distrarci come vuoi tranne che facendo a botte, perché proprio non ho voglia di violenze oggi. D’accordo?
Lui annuisce ed abbassa lo sguardo, a disagio.
Io sospiro. Okay, mi sto comportando come una merda fatta e finita. Chaku è stato mollato, c’è qualcosa di ingiusto in tutto questo – per quanto non riesca a sentirmi triste neanche sforzandomi, se ci penso – e dovrei essere comprensivo e di supporto. In fondo, qualsiasi cosa sia successa fra me e lui, fra lui e Bill, fra Bill e Bushido e fra Bushido e me, io e Chakuza siamo comunque amici. Voglio dire, prima di tutto lo eravamo. Quello che sento adesso – qualsiasi cosa sia, Nicole o meno – oltre a non avere ragione di esistere, non dovrebbe impicciarmi mentre cerco di consolarlo. Perciò conto fino a dieci e mi modero un po’.
- Dunque… - riprendo più conciliante, grattandomi distrattamente la fronte, - è tremendo vederti così, Chakuza. Vuoi smadonnare un po’? Prometto che non ti prenderò a testate, se cominci a dare della troia alla signora Luise Maria.
- Sinceramente, - borbotta lui, poggiandosi stancamente contro lo schienale del divano, - l’unica persona cui vorrei dare della troia adesso non è nemmeno una donna. – e questo, assieme ai suoi occhi improvvisamente cupi ed alla linea tesa e nervosa delle sue labbra, mi basta a capire che non è di Bushido che sta parlando, ma del ragazzino.
Un po’ vorrei fargli una carezzina sulla testa – come a un bambino di dodici anni, sì – e dirgli che è troppo facile prendersela con Bill, in una situazione simile, solo perché non riesce a gestirsi. Chakuza non capisce che, per quanto Bill possa sembrare adulto e maturo, resta comunque un ragazzino. Con tutta la sua immaturità, Chakuza ha sempre quasi dieci anni più di lui. C’è qualcosa che non torna, in quest’equazione, nessuno dovrebbe aspettarsi da un bambino che agisca come un adulto. Io non me lo sono mai aspettato, da Bill. Bill lo prendi con le caramelle e gli abbracci teneri, e se ti sta bene questo deve starti bene anche che poi, di fronte ad Anis, non sappia controllarsi. Non sono due cose diverse, è solo che è piccolo. Non può piacerti quando ti fa comodo e darti fastidio quando improvvisamente ti pesta i piedi.
Però mi rendo conto che cose simili a Chakuza non posso mica dirle. Sarebbe come se, chessò, Nyze fosse venuto da me dopo che lui ed Anis erano andati via dall’Aggro, e mi avesse detto “sì, be’, però è facile prendersela con Bushido adesso”. Cazzo, era facile sì e non desideravo altro. So che Chaku non desidera altro, adesso, perciò lo lascio fare.
- Ti va di parlarne? – chiedo a bassa voce, mettendomi comodo sul divano e voltandomi verso di lui.
- Sai cosa? – sbotta lui, mandando giù un’altra sorsata di birra, - Mi andrebbe sì di parlarne, se solo riuscissi a capire cosa dire al riguardo!
Mi lascio andare ad un mezzo sorriso divertito, perché la sua espressione – gli occhi spalancati, le labbra arricciate in una smorfia stupita e le sopracciglia inarcate verso l’alto – è molto buffa.
- Intendi?
- Intendo che non ho ancora neanche capito cosa cazzo è successo, Fler. – sospira, tornando ad abbattersi fra i cuscini, - Voglio dire, stavamo… okay, non bene, d’accordo? Non bene. Con Bushido fra i piedi, come vuoi stare bene?, è impossibile. Però stavamo insieme. Capisci? Insieme e basta.
Capisco sì. Mi inumidisco le labbra e cerco di focalizzarmi sull’immagine appagante di lui che ruzzola giù dalle scale rotolando per strada attraverso la porta a vetri spaccata del mio palazzo. Che è una cosa alla quale nemmeno dovrei pensare, perché io sto con Nicole e adesso non dovrei essere geloso, ma tant’è.
- E all’improvviso, boh, tutto ciò che so è che vanno a vivere insieme. Motivo? Perché lui è Bushido. Ti pare un motivo, questo?
Rido un po’, sistemandomi più comodamente.
- Io l’ho quasi fatto fuori, perché lui era Bushido, ricordi? – ghigno indicandomi, - Mi pare un motivo eccome.
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, prima di mollarmi una spinta parecchio risentita contro la spalla.
- Non mi piace quando ne parli così. – sbuffa poi, ingollando in un sorso mezza bottiglia di birra.
- Così come? – lo prendo in giro io, giocando con la mia.
- Come una cosa importante. – spiega lui, tornando a guardarmi con quella strana aria cupa che, quando gliela vedo addosso, mi dà sempre i brividi.
- Chakuza, ma lui è importante. – gli faccio presente, e continuerei tranquillamente su questa china, come ho sempre fatto quando chiunque, amici o giornalisti che fossero, mi ha dato il la per cominciare a parlare di Anis, se solo non notassi le sue sopracciglia corrugarsi ulteriormente e il suo broncio farsi più marcato. - …e tu non ci tieni affatto a sentirtelo ripetere adesso, mh? – chiedo con un mezzo sorriso, chinandomi appena per cercare i suoi occhi.
- No, per niente. – annuisce lui, senza fuggire il mio sguardo, - Anzi, ti sarei grato se riuscissi per una volta a non essere così dannatamente palese, quando parli di lui, visto che in questo momento la sua esistenza sulla terra già basta a farmi uscire di testa.
Rido un po’, anche perché quando mi rendo conto quanto sia in effetti palese, come dice Chaku, il modo in cui mi rivolgo a Bushido, mi sento sempre in imbarazzo. È una questione di immaturità, credo; intendo, a lui è legato un pezzo di me che probabilmente non è mai cresciuto. Quindi, quando c’è lui di mezzo, penso ed agisco come un ragazzino. È ovvio che, quando Bill mi dice che non sa più dove sbattere la testa, io lo capisco senza nemmeno sforzarmi. È semplicemente ovvio.
- Scusami. – biascico, adocchiando la sua bottiglia ormai vuota, - Senti, vado a prendertene un’altra e poi ricominciamo. Accendiamo la tv e mentre guardiamo qualche cagata mi dici tutto per bene, d’accordo?
Mi alzo in piedi, ma Chakuza mi imita, ed io mi fermo a guardarlo con aria un po’ contrariata.
- Be’? – chiedo, - Non mi serve aiuto per-
- No, - mi interrompe lui, scuotendo il capo, - venire qui è stata una pessima idea. – borbotta, muovendosi un po’ incerto intorno al divano, come faticasse a trovare l’uscita. Eppure è lì a due metri. Forse non fatica a trovare l’uscita, forse fatica a trovare la voglia di uscire. – È meglio se vado e-
- Ehi, ehi, Chaku… - lo fermo, recuperandolo per le spalle e tenendolo fermo, mentre torno a cercare i suoi occhi, - Sta’ un po’ calmo, eh? Ti ho detto che mi dispiace, ero sovrappensiero e l’ho presa a ridere. Lo so che è una cosa seria. Se stai un po’ tranquillo ne parliamo, mh? Sul serio.
- No, davvero. – insiste lui, cercando di sottrarsi alla mia stretta, - Lo sto realizzando adesso. Non è il caso, non voglio nemmeno dirtele, queste cose. Tu sei… l’ultima persona dalla quale dovessi andare, e non dovresti nemmeno essere solo, perciò...
Non so perché m’impunto. Probabilmente perché, in fin dei conti, a lasciarlo andare proprio non ci riesco.
- Però lo sono. E mi fa piacere che tu sia venuto qui. – tiro fuori in un fiato, quasi a fatica, stringendolo più forte, - Io e te, ultimamente… abbiamo proprio fatto un sacco di casini, me ne rendo conto, però tu, Chaku, voglio dire, non sei così male, come persona. E dai, mi sembra assurdo perdersi così in un bicchiere d’acqua. – sospiro. – Resta un po’, ti va?
Lui sospira e mi alza addosso uno sguardo vagamente confuso.
- Senza fare altri casini? – mi chiede, sorridendo appena.
- Senza fare altri casini. – confermo annuendo, - Facciamo i bravi, per una volta. Tu mi parli delle tue pene di cuore e io ti somministro dell’alcool per dimenticare. È così che funziona fra la gente normale, giusto?
Lui annuisce a sua volta, distogliendo lo sguardo e massaggiandosi la fronte con una mano.
- Noi due non siamo normali per niente. – mi fa notare in un soffio, - Questo potrebbe essere un problema.
- Basterà tenere a bada l’uccello. – annuisco compostamente, tirandogli una pacca sulla spalla, - Credi di esserne capace?
- Che domanda del cazzo. – grugnisce lui, - In tutti i sensi, poi. Sei uno stronzo.
Sospiro un po’, allontanandomi da lui e dirigendomi lentamente verso il divano.
- Questo l’hai già detto entrando. Almeno rinnova il campionario d’insulti, se proprio devi.
- Be’, non sono io l’esperto di diss, qui dentro. – protesta, tirandomi uno scappellotto dietro la nuca.
Io lancio un lamento palesemente fasullo e mi massaggio il collo che non duole affatto.
- Tieni a posto le mani! – borbotto contrariato, lanciandogli un’occhiataccia colma di un risentimento non più vero di tutto il resto.
Chakuza sospira e mi lascia scivolare addosso uno sguardo che non promette nulla di buono. Anche se dipende dalla prospettiva in cui lo si guarda. Se la prospettiva da cui dovessi guardarlo adesso fosse semplicemente quella di me e lui in una casa vuota mentre fuori si fa buio, prometterebbe cose stupende. Il problema è che devo per forza guardarla dalla prospettiva in cui oltre a noi due in questa casa ci sono altre due persone là fuori. C’è un ragazzino che sta giocando col fuoco e c’è un uomo che si sta perdendo in un danno. E c’è anche una donna, la mia, a casa da sola, che aspetta domani solo per rivedermi. Quindi no, l’occhiata di Chaku non promette niente di buono, a livello generale. Anche se mi piacerebbe potermi fermare alla prospettiva semplice delle cose, per una volta.
- Non puoi chiedermi di tenere a posto troppe cose. – rincara, inumidendosi le labbra, - Faccio già abbastanza fatica.
“E ci risiamo”, mi viene da pensare mentre arrossisco come una liceale. Cristo santo, ci sono volte in cui, prima ancora che infilarlo in una cintura di castità e legargli le mani così che non possa più muoverle, avrei voglia di prendere dello scotch – quello spesso e largo, tipo da imballaggio – e tappargli la dannata bocca. I danni maggiori che fa quest’uomo, non li fa quando ti tocca. Quando arriva a toccarti è perché il danno l’ha già fatto parlando. Perché dice cose senza capire cosa sta dicendo, o se lo capisce è abbastanza stronzo o stupido o sincero – e non so quale sia la cosa peggiore – da dirlo lo stesso, e tu ci perdi la testa.
- Piantala di dire cazzate. – sbuffo, distogliendo lo sguardo, - Piantala prima ancora di cominciare, per favore. Avevamo detto di non fare altri casini.
- Non sto facendo niente. – mi rassicura lui, alzando entrambe le mani e mantenendo perfino la distanza di sicurezza, - Non siamo nemmeno vicini.
- E cerchiamo di mantenere la situazione il più a lungo possibile, ok? – chiedo con tono un po’ allarmato. Anche troppo. – Davvero, Chakuza, farlo è proprio l’ultimo degli errori possibili, okay? Non ce lo possiamo permettere.
Chakuza sbuffa contrariato, tornando a rilasciare le mani lungo i fianchi.
- Non voglio mica prenderti a calci. – si giustifica in un mugugno, - E d’altronde non capisco quale potrebbe essere il problema, se anche lo facessimo. Io non sto più con Bill, giusto?
- Giusto. – ringhio io, per tutta risposta, - Ma io sto con Nicole, nel caso tu non te ne sia accorto, e non sono la parete contro cui puoi rimbalzare quando ti pare, okay? Se non vuoi farti definitivamente mandare a fanculo come avresti meritato già da qualche mese, tieni a freno la lingua, il cazzo e anche tutto il resto. È un consiglio da amico.
Lui sospira e, ovviamente, fa l’ultima cosa che dovrebbe venirgli in mente di fare. Scommetto che invece è stato tipo il suo primo pensiero. Mi si avvicina lentamente, io sospiro a mia volta e mi appoggio già esausto contro lo schienale del divano, piegando un po’ le gambe e cercando di recuperare uno stato d’animo meno isterico ripescandolo da quando ero ancora tranquillo e sereno e Chakuza non voleva ancora scopare. Se mai c’è stato un momento in questa serata in cui non ha voluto farlo.
Quando arriva ad un passo da me, solleva le braccia e mi accarezza il collo, risalendolo tutto e poggiandomi le mani sulle guance, obbligandomi a sollevare lo sguardo per trovare i suoi occhi.
- Stiamo sbagliando di nuovo tutto. – mi avverte con un mezzo sorriso.
- No, tu stai sbagliando di nuovo tutto. – lo correggo contrariato, ma lui sorride ancora ed io mi mordo un labbro.
- E tu mi stai di nuovo lasciando fare. Perché continui a lasciarmi fare?
- Perché sei uno stronzo. – ed è l’unica risposta che si merita.
Lui ride e si piega un po’ a sfiorarmi le labbra.
- È vero. – mi sussurra addosso, - Però non è per questo che mi lasci fare.
- Se speri – ringhio di frustrazione, cercando con poca convinzione – e quindi poco successo – di farmi mollare, - se speri che ti dica qualcosa in questa situazione del cazzo, dico, se speri che te lo dica adesso, tu sei proprio fuori strada, pezzo di merda.
- Fler, ssh. – mi zittisce, baciandomi appena, - Non voglio che tu mi dica niente. Sul serio. Cristo, non sono tanto stronzo da venire a cercare una cosa simile da te se Bill non riesce a darmela perché c’è Bushido di mezzo.
Socchiudo gli occhi. Sta dicendo cose tremende. Non lo posso ascoltare.
- Chakuza, mi lasci andare?
Lui sospira.
- Quante volte me l’hai chiesto, da quando ci conosciamo?
- Tante… - sussurro stremato, - Troppe.
- Ed io l’ho mai fatto?
Rido amaramente, scuotendo il capo per quanto lui mi permette.
- Non è mai troppo tardi per cominciare, non credi?
Chakuza segue il profilo del mio viso con le labbra e poi esita solo qualche secondo, prima di baciarmi. E nei secondi in cui la sua bocca non è pressata sulla mia e le nostre lingue non si stanno cercando a vicenda, lui parla. E come al solito fa danni.
- Credo di sì, invece. – confessa piano, - Fler, noi due non ci perdiamo in un bicchiere d’acqua. Se questo fosse un bicchiere d’acqua, non ci perderemmo affatto. Il problema è che non lo è.
Dopodiché, mi bacia. Ed io, quando lui mi bacia, non capisco più niente. Giuro, nessuno mi ha mai baciato come mi bacia Chakuza, e la cosa allucinante è che all’inizio non era per niente così. Voglio dire, baciava bene ma non esattamente come piaceva a me, questa è una cosa che è venuta dopo, col tempo. E gliel’ho insegnata io. Gliel’ho insegnato io come e dove toccarmi, e questa cosa mi fa impazzire. Non saprei nemmeno dire come, mi fa impazzire e basta.
- Questo è… - ansimo quando mi lascia andare per tirarmi in piedi e cominciare a trascinarmi verso la camera da letto. Incredibile come ricordi ancora dov’è, qui c’è stato solo una volta. Evidentemente ha un talento per sviluppare planimetrie istantanee delle case, per ogni evenienza, - Questo è stato molto scorretto. Non le dovresti dire, queste cose.
- Non lo direi, se non fosse vero. – risponde lui, spingendomi sul materasso e salendomi a cavalcioni addosso, - Te ne dico poche cazzate, ormai…
- Già che tu ammetta di dirmene qualcuna… - gli faccio notare con un broncio che lui non si risparmia di mordere nemmeno per un attimo, - E comunque certe volte è anche peggio, quando sei sincero.
Si ferma solo un secondo. Che poi non è neanche vero, perché non si ferma per niente. È solo un po’ meno frenetico. Continua ad accarezzarmi un fianco con una mano ed a slacciarmi i pantaloni con l’altra, ma si solleva a guardarmi negli occhi e si prende un secondo, prima di parlare ancora.
- Se ti offrissi qualcosa di meno… - comincia serio, - intendo, se cominciassi a mentirti e basta, tu ci staresti? – sospira, - Sarebbe bello e sarebbe facile, ma tu non sei facile neanche per un cazzo. Probabilmente, già alla quarta stronzata prenderesti la tua roba e cambieresti città.
Annuisco, sollevando una mano ad accarezzargli la nuca.
- E infatti ci sono andato vicinissimo.
Annuisce anche lui, sollevandosi appena per sfilare la felpa.
- Sono contento che ci sia tu qui, adesso. – mi dice, continuando a guardarmi negli occhi, - Non so dove sarei, altrimenti.
- In qualche bordello, Chaku. – rido io, ma lui mi toglie il respiro spingendosi lentamente contro di me.
- Sono contento di essere con te, invece. – ribadisce, tornando a baciarmi, - Cristo, dimmi che non mi fermerai, stavolta. Mi sto scordando di cosa sai.
- Stronzate… - ansimo, piegando il capo per lasciargli campo libero sul mio collo, - mi hai baciato anche troppo spesso.
- Ti baciavo ogni giorno, fino a nove mesi fa. – intrufola un ginocchio fra le mie gambe e lo strofina contro la mia erezione da sopra il tessuto pesante dei jeans, - Ti scopavo ogni giorno. Non ti manca?
- Fanculo. – sibilo, seguendo i suoi movimenti col bacino, - Chaku, stai proprio parlando troppo stasera.
Mi bacia lentamente, lasciando scivolare la lingua sulla mia per dei secondi infiniti, e quando si separa dalle mie labbra si appoggia su di me, fronte contro fronte.
- Lo sai che oggi è diverso, vero? – cerca di convincermi, gli occhi scuri di voglia che cercano i miei nel buio della camera da letto, - Non è come quando ho portato Bill da Bushido. Oggi non sono fuori di testa come quel giorno. Sono lucido.
Scuoto il capo e finisco per sfiorare le sue labbra con le mie nel movimento.
- Non lo sei affatto. – gli faccio notare con un mezzo sorriso, - Lo vedi perché dico che parli troppo? Se stessi zitto, avresti un mucchio di problemi in meno.
- Fler… - mi chiama lui, riprendendo a strusciarsi contro di me, - Dico sul serio. – e mi bacia ancora, - Mi piace il tuo sapore.
Mi ci perdo dentro un secondo. Nella sua voce, nei suoi movimenti, nella frizione deliziosa della fibbia dei suoi pantaloni che striscia contro la mia erezione attraverso il cotone sottile dei boxer.
Mi ci perdo dentro un secondo. Un secondo solo.
- È per Bill che lo stai facendo. – gli sussurro all’orecchio mentre scioglie la cintura, - È per lui. Vero? È perché non hai lui che sei qui.
E lui si ferma. Trattiene anche il respiro, per un po’. Poi mi si spinge contro con una certa violenza, tant’è che io ho il tempo di sentirlo tutto – eccitato, frustrato, arrabbiato – e vedere le stelle, e poi mi ringhia sulle labbra.
- È per lui. – conferma, - Sì. Contento, adesso?
Subito dopo, smetto di sentire il calore e la pressione del suo corpo, e quando riprendo a guardarmi lucidamente intorno lo vedo seduto sul bordo del letto, le spalle curve e l’espressione corrucciata che non riesco a cogliere nei dettagli. Ma non ne ho bisogno, li ricordo comunque a memoria.
Tutto quello che riesco a pensare, in questo momento, è che Chakuza ora come ora non ci sta con la testa. Che, per questa situazione, la testa potrebbe perderla del tutto e definitivamente. Che non voglio che succeda. E che voglio essere io quello che gl’impedirà di perdersi dentro se stesso. Voglio essere io e non m’interessa di nient’altro. Non so nemmeno perché, forse da Anis ho ereditato anche questa stupida spinta pseudo eroica per la quale non riesco a stare bene se non so che è tutto a posto e che lo è perché io ho voluto così, non lo so. Fatto sta che mi sollevo a sedere, puntellandomi sul materasso con le mani, e sospiro profondamente. Mi avvicino a lui e sento il suo respiro, vedo la sua sagoma scuotersi appena nell’ombra e mi chino sulla sua spalla, lasciando un bacio sulla sua pelle calda.
Chakuza si volta a cercare i miei occhi. E li trova perché io non scosto lo sguardo.
- Fler- - mi sporgo in avanti e gli tappo la bocca, baciandolo piano.
- Piantala di parlare così tanto. – ordino mordendogli un labbro, - Cristo, piantala, per favore. Lo so, okay? So tutto, Chaku. E non me ne frega un accidenti, in questo momento.
- No, non lo sai! – insiste lui, agitandosi tutto e voltandosi verso di me, cercando di tenermi fermo per le spalle, - Tu sei convinto che io per te-
Lo fermo ancora, baciandolo più profondamente e più a lungo. Più lentamente, anche, così che possa perdercisi dentro e dimenticare che prima stava parlando.
- Lo so. – dico in un sussurro, quando mi allontano da lui, - Lo so che abbiamo una cosa, Chaku. Lo so.
Lui ride appena, è una risata amara.
- “Una cosa”… - ripete, e le virgolette che ci mette sono così evidenti che scappa da ridere anche a me.
- Esiste un altro modo di chiamarla? – lo prendo in giro, cercando le sue labbra. Lui mi accontenta, sporgendosi in avanti e stendendomi nuovamente sul materasso.
- Sì, penso che esista. – confessa, respirandomi addosso e sfilandomi i boxer, - Ma ho paura che se lo facessi poi mi si rivolterebbe il mondo sotto ai piedi.
Ed io annuisco e non parlo più. E lo lascio fare, mentre si inumidisce le dita e mi accarezza fra le natiche, mentre torna a baciarmi e mentre scende a mordermi sul collo, mentre mi masturba senza che debba chiederglielo, mentre si spinge contro di me e dentro di me, lento e preciso, fino a farmi perdere il controllo di ciò che penso dico e faccio, lo lascio fare e non dico una parola perché so che è vero, so che certe cose vanno tenute sotto silenzio, non le espliciti certe situazioni, restano non dette. Ed è meglio così, perché ci sono cose che a dirle scompaiono. Se, quando avevo sedici o diciassette anni, io avessi detto ad Anis quello che mi passava per la testa, oggi un noi – un me e lui, un Patrick ed Anis – non esisterebbe. Certe cose le conservi fino al momento giusto, per certe altre il momento giusto non arriva mai.
Chakuza non è mio. Noi il nostro momento giusto non l’avremo mai.
A questo punto, si tratta soltanto di farci l’abitudine.
*
Farci l’abitudine, comunque, richiede tempo. Per abituarsi a qualcosa, quella cosa deve ripetersi due, tre, quattro, cinque, infinite volte, così tu puoi scrivertela dentro, addosso e attorno, e non dimenticarla più. Invece, svegliarmi accanto a Chakuza – svegliarmi così vicino a lui, il naso affondato nell’incavo del suo collo e le sue gambe intrecciate con le mie – è una cosa completamente nuova, perciò non ci sono per nulla abituato. Quando apro gli occhi, fatico a riconoscere le mie lenzuola, il mio letto e la mia stanza, perché c’è Chakuza che rende tutto diverso. L’armadio a muro sulla parete di fronte a me non è più uguale a prima perché c’è la curva della sua spalla a tagliarlo in due, e le coperte non hanno più la stessa forma perché qui sotto ci siamo io e lui insieme, e io tutto questo non l’ho mai visto così, perciò in un primo istante non capisco dove sono né cosa sto facendo, e mi irrigidisco tutto fra le sue braccia, così repentinamente che, nonostante stia dormendo – e so bene che quando dorme svegliarlo è praticamente impossibile – lui mi sente, e si sveglia a propria volta.
- Pat…? – mugola confuso, sciogliendo il nodo delle sue dita dietro la mia schiena, - Che?
Mi imbarazzo subito ed abbasso lo sguardo, scuotendo il capo.
- Niente. – biascico, - Fa caldo.
- Ma non è vero per niente. – si lamenta lui, stringendomisi contro ed affondando il viso per metà contro il cuscino e per metà contro il mio collo, - È l’alba, torna a dormire.
- Mi sporgo un po’ oltre la sua testa per controllare la radiosveglia sul comodino, e realizzo che non è per niente l’alba. Anzi, l’abbiamo saltata da un pezzo.
- Sono quasi le undici e mezza. – lo informo, - Possiamo anche pensare direttamente al pranzo, altroché.
Si scosta da me con uno sbuffo risentito, guardandomi con attenzione, come volesse rendersi proprio conto del fatto che io sia qui in questo momento, così vicino a lui da dividere il suo stesso calore e il suo stesso odore ed anche il suo stesso respiro.
- Avevi programmi, per oggi? – mi chiede, senza particolari inflessioni nella voce.
Io sospiro, prima di rispondere, perché mi sento a disagio.
- Nicole. – ammetto in un soffio, - Dovevo vederla, ovviamente.
Lui annuisce, un po’ indispettito.
- Ovviamente. – commenta acido. Io lo guardo, inarcando un po’ le sopracciglia. – E non fissarmi in questo modo. – borbotta lui, e poi sospira a sua volta, ugualmente a disagio. - …io non posso chiederti niente.
Rido contro la sua spalla, scuotendo lievemente il capo.
- Scelta mia, insomma. – esplicito, cercando i suoi occhi. Lui ricambia il mio sguardo e mi bacia lievemente, prima di annuire.
- Scelta tua.
La mia scelta è molto semplice e non può che essere una sola. Io magari non lo realizzo chiaramente mentre mi lavo, mi vesto ed esco di casa, ma è l’unica cosa cui riesco a pensare quando arrivo all’appartamento di Nicole e suono al citofono per farmi aprire. Voglio sbrigarmi qui, voglio che sia una cosa breve perché voglio tornare da Chakuza che mi sta aspettando nel mio appartamento, dato che mi ha detto che si sarebbe preso l’intera giornata di riposo per dormire, visto quanto si sentiva stanco. Non puoi stare con una donna quando il tuo primo pensiero è che vorresti stare altrove con un’altra persona, sia essa maschio o femmina, perciò la mia scelta quella è, e quella resta. Devo lasciare Nicole.
Mi aspetta sulla soglia di casa, asciugandosi le mani sul grembiule bianco e un po’ vecchio che indossa sopra la tuta da casa. Ha i capelli raccolti dietro la nuca. È carina. Per un momento mi chiedo “ma perché lo sto facendo?”, e resto in attesa di una risposta che non arriva. Non so più nemmeno se è davvero Chaku il motivo per cui la lascio, forse alla fine l’avrei lasciata lo stesso, per una scusa o per l’altra. Forse l’unico merito di Chakuza è che questo momento sia adesso, adesso che per lei non è ancora così doloroso. Forse. Non lo so, se sarà doloroso. Per me non lo è, in questo momento, e per questo forse dovrei sentirmi in colpa. Ma non ci riesco.
- Oggi ho fatto un sogno assurdo. – ridacchia, sollevandosi sulle punte per baciarmi lievemente sulle labbra, - C’era questo cane enorme che stava a guardarmi da dentro la mia valigia, ed era pelosissimo e morbidissimo, e a un certo punto il cane si metteva a parlare e lo faceva con la tua voce. Non mi ricordo cosa diceva, ma mi veniva da ridere, forse perché era strano sentire parlare un cane con la tua voce!
Rido a mia volta, seguendola all’interno dell’appartamento. Il tavolo è ancora sgombro, forse ha appena cominciato a cucinare. Magari riesco perfino a non farle sprecare cibo.
- Non sei mica tanto carina a sognarmi come se fossi un cane, eh. – le faccio notare invece, e mi do dell’idiota da solo, subito dopo, perché sto perdendo tempo. Non dovrei voler perdere tempo. Forse un po’ in colpa mi ci sento, dopotutto, perché è vero che questa situazione è colpa mia.
- Non è che ti abbia dato del cane, Pat… - mi prende in giro lei, tornando a smanettare con le pentole di fronte ai fornelli. Io la seguo fino in cucina e la guardo muoversi tranquilla per un po’. Poi capisco che devo fermarla, e visto che non so come fare mi allungo a chiudere il gas girando una delle manopole.
- Scemo. – mi rimprovera lei, ridacchiando, e poggia la mano sulla manopola, pressando un po’ per riaccendere il fornello, solo che non ci riesce, perché io la fermo prima, posando una mano sulla sua e risalendo fino al polso, tirandola un po’ per costringerla a girarsi.
- Pat? – mi chiama, incerta, inarcando le sopracciglia verso il basso.
- Devo parlarti. – sputo fuori d’un fiato, guardandola dritta negli occhi.
Lei non dice niente e nemmeno si muove, in realtà. Non so se vi è mai capitato di dover dire qualcosa a qualcuno e arrivare a quel momento preciso, guardare quella persona negli occhi e sapere che già sa che cosa dovete dire. A rigor di logica dovrebbe rendere tutto più facile, perché è un po’ come se non ci fosse davvero niente da dire davvero, si tratta solo di sbrigare la formalità del dirlo ad alta voce, ma il concetto è già noto e magari l’altra persona dovrebbe pure aver fatto in tempo a prepararsi, visto che già lo sa. Però in realtà non è così. In realtà quando tu sai una cosa non hai ancora risolto un cazzo. Tu la sai, sì, è dentro di te, ma questo non ti solleva di niente dal dolore che provi quando poi quella stessa cosa la senti. È come sapere che un tuo parente o un tuo carissimo amico è malato terminale e sta in ospedale collegato a una macchina. Lo sai che morirà, cazzo, ovvio che lo sai, passano i mesi e tu ti prepari, ma quando poi lui muore lo stesso tu scopri che non eri pronto davvero perché nessuno te l’ha detto davvero. È una cosa complicata. È più facile dire la verità quando nessuno sa niente, è più gestibile. Quando ti dicono una cosa che già sai stai male il doppio, perché sei stupido e perché ti senti tale.
- Forse sarebbe il caso che noi due non ci vedessimo più, per un po’.
Lo dico perché è la prima cosa che mi viene in mente, e solo dopo che l’ho detto mi rendo conto che ho saltato tutta la parte in mezzo. Quella che fa più o meno non ti amo, credo di essere innamorato di un altro, credo che dovremmo lasciarci perché non è giusto per nessuno dei due restare in questa situazione, e solo dopo avrei dovuto dire anche il resto, sarebbe il caso di non vedersi più per un po’. Ma, forse perché volevo sbrigarmi in fretta, forse perché le palle per dire “ti lascio” non ce le ho, non l’ho detto.
Nicole sgrana gli occhi e mi guarda, annichilita.
- Pat- - prova a chiamarmi, ma io le lascio andare il polso e la interrompo.
- Scusa. – scollo a fatica, - Non volevo dirtelo così, è… ho fatto casino. – ammetto in un sospiro, - Il problema è che… - la guardo e non so se voglio davvero dirglielo. Non so se voglio davvero. Non… - sono innamorato. Di un’altra persona. – mi interrompo, prendo fiato, - Che è maschio. Ed è Chakuza.
Nicole schiude le labbra. Non come nel gesto di chi si prepara a dire qualcosa, eh. È solo stupita. Le sue labbra formano una o praticamente perfetta, mentre continua a guardarmi.
- Pat? – chiede. Magari si aspettava di essere lasciata, ma non per un uomo, ok.
- È complicato. – mi gratto la nuca, imbarazzato, - Va avanti da un po’.
- Mentre noi…
- No! – mi affretto a negare, - No, assolutamente, intendo, c’era prima di te. Poi non c’è stato per molto tempo, ed io ho pensato che… insomma, che potesse andare, fra noi due. Non ti ho mai tradita con lui. – preciso, guardandola dritta negli occhi. Non so cosa possa farsene, di questa precisazione, ma tant’è. – Né con nessun altro, ovviamente. – aggiungo in un mezzo sospiro esausto, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi.
Lei annuisce lentamente, respirando così piano che non riesco nemmeno a vedere il suo petto alzarsi ed abbassarsi. Tortura con le mani l’orlo del grembiule già stropicciato, mentre un paio di ciocche bionde sfuggono al mollettone dietro la testa, ricadendole ai lati del viso quando lo china per spostare lo sguardo sulla punta delle pantofole che indossa.
- Mi dispiace. – aggiungo. Non so cosa possa farsene anche delle mie scuse, in realtà mi sembra di starle riempiendo la testa per evitare che mi stia davvero a sentire. Io le ho detto che sono innamorato di un uomo, di Chakuza!, e poi ho continuato ad aggiungere particolari idioti e inutili, soltanto per deviare l’attenzione verso qualcosa che fosse meno scomodo rispetto alle immagini che sicuramente si staranno formando nella sua testa mentre io sono qui a dire e pensare e anche fare assurdità.
- Potresti… - dice con difficoltà poco dopo, inumidendosi confusamente le labbra, - …intendo, andare? Non… non me la sento di parlare adesso. – conclude in un mezzo singhiozzo. Io annuisco lentamente, allontanandomi a ritroso, senza voltarle le spalle.
- Non subito, ok? – mi raccomando, - Ma quando ti senti… più tranquilla, ecco, chiamami. Ne parliamo. Sono quasi sicuro che non serva a niente, ma-
- Non servirebbe a niente, infatti. – taglia corto lei, voltando lo sguardo altrove, - …ma ti chiamerò. Fra… qualche tempo.
E finisce così, con me che me la lascio alle spalle, chiudo la porta e scendo al piano terra, per poi mettermi a camminare tranquillo per le strade di Berlino, verso casa. Mentre svuoto la testa da tutto – tutto quanto – quasi non mi accorgo che i piedi, da soli, stanno andando verso casa di Chakuza. Quando lo capisco mi scappa una risata, perché sarebbe allucinante andare lì adesso, contando che Chaku è già dove dovrei andare, e cioè nel mio appartamento. Ricomincio a guardare le strade, cerco la via più breve per tornare a casa e quando torno – apro con le chiavi, non voglio disturbare, e poi è casa mia, che diamine – lo trovo che dorme sul divano. Ha perfino fatto la fatica di alzarsi dal letto, commovente.
- Chaku. – sbotto risentito, - Oh, guarda che quel divano costa quanto tutta casa tua intera, sai?
- Mmhn…? – apre gli occhi lui, stiracchiandosi per quant’è lungo – cioè poco – e puntando i piedi sul bracciolo, a rischio di scardinarlo, - Già tornato? – sbadiglia, - Fatto presto.
- Avevo poco da fare. – sospiro crollando sul divano accanto a lui, che tira indietro le gambe per farmi posto e poi si mette seduto, grattandosi distrattamente la pancia.
- È andata bene?
- Quando mai vanno bene queste cose?! – sbotto irritato, e lui ride, ma è una risata triste.
- Hai ragione. – annuisce distratto, cercando a tentoni coi piedi le pantofole che mi ha ovviamente rubato per affrontare l’impervio e lungo tragitto che lo separava dal letto al divano – tipo, cinque metri, comprensivi di corridoio ricoperto di moquette.
- Comunque, - sospiro, rilassando la schiena e il collo, - insomma, quello che dovevo fare l’ho fatto.
- Anche io. – dice improvvisamente lui saltando in piedi, sistemandosi le pantofole e muovendosi spedito verso la cucina neanche conoscesse già tutto l’appartamento a menadito, - Insalata di riso. Ne ho fatta un po’ tanta, ma si può sempre conservare. Ci ho messo l’olio così tiene di più, volendo ci si potrebbe mettere anche la maionese ma non ne avevi in casa. Comunque hai gli stipetti pieni di roba, me le sogno io ‘ste cose a casa mia, facciamo cambio di appartamento?
Sollevo la testa per guardarlo di sbieco mentre torna dalla cucina con una ciotola enorme piena di riso fino a scoppiare e due cucchiai in mano.
- Hai preparato da mangiare? – chiedo, - Ma funziona la mia cucina? Non la uso da secoli…
- No, non l’avevi mai usata. – ride lui, - Almeno, ho dovuto togliere io lo scotch dal fornello grande, quindi quello di sicuro non l’hai mai toccato.
Rido anch’io, vagamente imbarazzato.
- Ti sei subito messo a tuo agio. – commento, mentre lui si siede accanto a me e posa la ciotola sul divano, fra di noi, incurante di quanto enormemente potrebbe macchiarsi la fodera.
- Odio perdere tempo. – mi risponde, cercando a tentoni il telecomando mentre mi passa il mio cucchiaio. Accende la televisione, fa un po’ di zapping, si ferma su un programma scemo e poi mi fa un mezzo sorriso idiota.
- Buon appetito. – dice.
- Buon appetito. – rispondo.
E poi comincio a mangiare.
*
Se questa fosse una situazione normale – voglio dire, se io e Chakuza vivessimo una vita da persone normali, non ci sarebbero problemi di sorta. So come funzionano le relazioni, in genere quando t’innamori di una persona nuova – o ti innamori di nuovo della stessa persona per la centesima volta – attraversi un periodo in cui vedi esclusivamente solo quella persona e tutto ciò che fai, pensi e dici lo rivolgi idealmente a quella persona lì, come se nell’universo intero non esistesse nessun altro. A prescindere da quanto profondo sia l’affetto che stai provando, eh, perché può essere il vero amore così come una semplice cotta, funziona sempre allo stesso modo. Perciò io e Chakuza ci ritroviamo da un lato a non voler fare altro che starci intorno – non è nemmeno una cosa sessuale, il che mi sconvolge più di quanto dovrebbe – e dall’altro lato a renderci conto che comunque non è così che possiamo fare.
Almeno, non è così che può fare lui, dato che, al di là di tutto, c’è ancora un album da ultimare e definire, in uscita fra pochissimo e con un tour da preparare.
Quando mi sveglio, lo trovo già vigile, il che mi preoccupa. Chakuza raramente riemerge dal mondo dei sogni prima che lo faccia io, e quando lo fa è quasi sempre perché ha qualcosa di ingombrante e complicato che gli ingolfa la testa. Oltretutto, in genere quando si sveglia prima di me si alza anche prima di me. Si alza, prepara la colazione, si lava e comincia a vestirsi, semplicemente perché, come tutte le cose piccole, è uno che deve scaricare l’energia in fretta, perché poi non ci mette molto a ricaricarsi. Voglio dire, è come quando riempi d’acqua un vaso e un bicchiere contemporaneamente: il bicchiere si riempie subito, il vaso ci mette più tempo. Chakuza è un bicchiere, quindi è svelto nell’autoricarica.
Oggi invece niente, è sveglio e fissa il soffitto con aria contrita e seria, le sopracciglia aggrottate e le labbra così strette da sembrare disegnate. Mi sollevo sugli avambracci, piantando i gomiti sul materasso, e lo guardo.
- Posso sempre contare su di te quando si tratta di cominciare la giornata nel modo giusto, mh? – scherzo, e sento la tensione sciogliersi su di lui tutta in un colpo: rilassa i lineamenti e la sua mano, che prima mi stringeva un braccio con forza, allenta la presa e mi accarezza lentamente, come a scusarsi in caso mi avesse fatto male. Naturalmente non me ne aveva fatto, figurarsi, ma è carino che mi accarezzi, perciò lo lascio fare e sorrido anch’io, mentre lui sospira e si stiracchia un po’ a fatica. – Qual è il problema? – chiedo, e quando lo vedo partire in quarta per dirmi che non c’è proprio alcun problema lo fermo nel modo più efficace che conosco, baciandolo a fondo. – E non mi dire cazzate, ci metto due secondi a mandarti ko, austriaco.
Lui ride ancora, scuotendo il capo.
- Mi tocca andare in studio, oggi. – dice in un sospiro stanco, - Ti lascio immaginare quanto ne abbia voglia.
Sollevo gli occhi al cielo, esasperato.
- Abbiamo presentato la regressione infantile odierna di Peter Pangerl. – sbuffo, - Andiamo, Chaku. È il tuo lavoro, non fare il ragazzino.
- Ma ci sarà Bill… - mi fa notare in una mezza lamentela, e io vorrei tirargli un pugno sul naso e dargli del cretino, perché il fatto che io conosca a memoria il suo cervello non dovrebbe dargli l’impressione di avere il diritto di prendermi a coltellate come e quando gli pare, ma lascio perdere, preferendo un altro sbuffo e accasciandomi stancamente sul cuscino.
- Sensibile come al solito, vedo. Mi stupisci ogni giorno di più.
Lui mi si arrotola contro, nascondendo il viso nell’incavo del mio collo e respirando direttamente sulla mia pelle per qualche secondo, prima di parlare ancora.
- Scusa. – dice. Dovrei trasalire – Chakuza s’è appena scusato. Voglio dire, non so se ci si può rendere conto di quanto questa cosa sia assurda. Me lo sarò mica sognato? – ma lui non me ne dà il tempo. – Vieni con me? – chiede. Quando mi allontano un po’ per cercare i suoi occhi, lo trovo già lì pronto a ricambiarmi lo sguardo con una serietà ed una tranquillità che mi stupiscono profondamente.
- Perché? – chiedo un po’ incerto. Lui non distoglie lo sguardo.
- Perché ne ho bisogno. – risponde sinceramente. E poi lo ripete, ma stavolta non è una domanda. – Vieni con me.
E visto che non è una domanda, io non ho nemmeno bisogno di rispondere.
*
Non ho idea di come Chakuza potesse pensare che la mia presenza in questa stanza potesse risolvere le cose o renderle meno pesanti. Allo stato attuale dei fatti, probabilmente non fa che peggiorarle, perché io in questo gruppo di persone non c’entro neanche per sbaglio, perché Jost mi sta guardando come se fossi un folle – nei suoi occhi c’è qualcosa di molto simile a un “ma sei fuori a infilarti di tua iniziativa in questa guerra fredda?” – perché Anis non riesce a capire in che veste io sia qui al momento, perché Bill vorrebbe piangere e sento le sue lacrime come se mi stessero scorrendo sulla pelle anche se non ne ha ancora versata nemmeno una e soprattutto perché Chakuza si sta comportando in maniera talmente pessima che io per primo avrei voglia di prenderlo per la nuca e spaccargli la faccia contro una parete. La mia presenza qui non è semplicemente inutile, no, è deleteria.
Da quando siamo arrivati, Chakuza non ha rivolto a Bill nemmeno un saluto. Il che è idiota ed è irritante ed è ridicolo, perché io so che vorrebbe sollevare lo sguardo e cercare quantomeno di sorridergli, lo sa Bushido, lo sa Bill, lo sa Jost, tutti qui dentro sappiamo che dentro la testa di Chakuza c’è di tutto ma di sicuro non lo stimolo di ignorarlo. Ed è frustrante e imbarazzante osservarlo mentre fissa ostinatamente lo sguardo sul programma che Jost sta proiettando sulla parete di fronte – una sequela di date di cui prendo nota solo distrattamente, dato che so già che non avrò una parte nemmeno marginale in tutto questo – quando tutti sappiamo che di quel programma non gli frega un accidenti, quando tutti sappiamo che l’unica cosa che vorrebbe guardare è appena lì alla sua destra e sta smaniando per avere quegli occhi addosso almeno un’altra volta, anche solo per un attimo.
L’atmosfera non ci impiega niente a tendersi come un elastico, in queste condizioni. E, dopo qualche minuto, come un elastico scatta anche, e Chakuza deve solo ringraziare che Bushido ami Bill al punto da desiderare di non deluderlo mai, perché altrimenti l’ultimo saluto di Anis, prima di uscire, non sarebbe stato “a domani”, ma un pugno sul naso.
Quando la sala s’è svuotata quasi totalmente, i Tokio Hotel sono sfilati come una corte al seguito della Principessa che accompagnava il Sovrano e gran parte dello staff ha seguito l’illuminato esempio, Jost ci guarda a lungo, a me e a Chakuza, e poi solleva entrambe le braccia in un gesto di resa.
- Io non ne voglio sapere niente. – borbotta, e il secondo dopo è fuori anche lui. Lo osservo uscire ed anche se non vedo Chakuza e non lo sento muoversi, so che sta tremando di rabbia sotto la superficie della sua calma apparente, e vorrebbe devastare questa stanza facendone a pezzi ogni singolo mobile e buttando giù le pareti a testate. L’unica cosa che lo frena è che non è a casa sua e non è un vandalo, perché vivaddio i suoi genitori almeno l’hanno educato per bene, altrimenti in pochi minuti la Universal si ritroverebbe rasa al suolo per la furia di un solo uomo.
Mi volto a guardarlo sospirando anticipatamente. Lo faccio adesso, tanto so che dovrò ripetermi in futuro.
- Non dire una parola. – dice Chakuza, alzandosi in piedi di scatto e cominciando a vagare per la sala riunioni come una tigre in gabbia, - Nemmeno una parola.
- Non sto fiatando. – gli faccio notare, inarcando un sopracciglio e restando seduto dove sono, - E comunque sei tu quello che dovrebbe parlare.
- E per dire cosa, di grazia?! – sbotta lui, voltandosi repentinamente a guardarmi. Io scrollo le spalle.
- Per motivare il tuo comportarti come un ragazzino di due anni, magari? – ipotizzo, fingendo di rifletterci su, - O per ammettere di essere stato un coglione.
- Fler, vaffanculo. – taglia corto lui. Io sospiro ancora, come volevasi dimostrare, e mi alzo in piedi.
- Naturalmente. – annuisco, - Questo è il momento in cui io comincio con l’elenco puntato delle cose che ho sbagliato fino ad adesso, giusto? A partire da quando ti ho lasciato mettermi le mani addosso un secolo fa fino a quando te l’ho permesso per l’ennesima volta ieri, mh? – lo prendo in giro con un sorriso stronzo, - Oggi non mi va. – concludo con una scrollata di spalle, - Perciò a fanculo ti ci mando io, e visto che non sei abbastanza uomo da trovare le palle per muovere il culo e andare dal ragazzino per scusarti di esserti comportato come un idiota, lo faccio io. – lo osservo spalancare gli occhi e la bocca nel tentativo di dirmi qualcosa che probabilmente suona come un altro vaffanculo, anche se ben più risentito, ma non gli do il tempo di tradurre questa espressione scioccata in lingua tedesca, perché gli volto le spalle e mi dirigo tranquillamente verso la porta. – Comunque stasera porto la pizza, se ti trovo a imbrattare la cucina con qualche schifezza delle tue giuro che ti lascio a pulire da solo fino a domattina. – concludo. Mi volto solo sulla soglia, e guardandolo gli sorrido. – A più tardi.
Lui solleva una mano, punta un dito come a chiedere la parola e poi le sue spalle si rilassano in un sospiro stremato.
- …a più tardi. – si rassegna. Io sorrido ancora, uscendo dalla sala riunioni. Prendere nota: con Chakuza, litigare non serve. Potrebbe tornarmi utile in futuro.
*
Anis mi accoglie sulla porta con le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a due fessure. Conosco quell’espressione, è quella che, se noi si vivesse in un’altra epoca e ci si vestisse di raso e velluto con le armature al posto dei panciotti che comunque non usiamo ed enormi pantaloni a sbuffo che si fermano appena sotto il ginocchio, farebbe da preavviso al suo puntarmi contro il viso un indice e strillare “traditore!”. Visto che invece viviamo nel ventunesimo secolo e ci vestiamo in jeans e maglietta, lui comunque mi punta un indice contro il viso e comunque apre la bocca per darmi del traditore, ma l’effetto non è lo stesso, non c’è lo stesso pathos, perciò mi basta sbuffare platealmente, afferrare il suddetto dito e allontanarlo spiccio dalla mia persona, per intrufolarmi in casa sua e guardarmi intorno, riprendendo confidenza con l’ambiente circostante.
- Potrei denunciarti per violazione di proprietà privata. – mugugna Anis, massaggiandosi il dito come gliel’avessi lussato. Io sbuffo ancora, agitando una mano con aria disinteressata.
- Non cominciamo col giochino dell’elenco delle malefatte, perché sai che perderesti, okay? – taglio corto, tornando a guardarlo con le mani sui fianchi. – Bill?
Lui incrocia le braccia sul petto.
- È di sopra. – risponde burbero, - E non hai il permesso di andare a trovarlo.
- È una vera fortuna che non te l’abbia chiesto, allora! – esclamo con entusiasmo, dandogli le spalle e dirigendomi verso le scale, - E tu non hai il permesso di salire a interromperci, comunque.
- È una vera fortuna- - comincia lui, ma lo interrompo con una risata, saltando gli scalini a due a due per far prima, motivo per cui lui lascia perdere e si dirige in cucina con un “bah!” esasperato.
Bill – in camera del quale entro senza bussare – sta ascoltando musica con gli auricolari ben piantati nelle orecchie. È steso sul letto, i capelli sparsi sul cuscino e le gambe intrecciate. Ultimamente è così magro che sotto i pantaloni – che si allargano in sbuffi sul materasso sotto di lui – sembra non abbia niente a parte due stampelle per tenersi dritto.
Bill è un’ulteriore prova di quello che dicevo prima riguardo i contenitori piccoli che si riempiono più in fretta, mentre i contenitori grandi hanno bisogno di più tempo. Lui sarà sottile, ma è così incredibilmente lungo che per forza, quando succede qualcosa che lo drena e lo svuota del tutto, ha bisogno di lunghi periodi di nullafacenza, per potersi ricaricare per bene.
Solleva appena le palpebre ancora pesanti di trucco, e mi saluta con due dita.
- Stanco? – chiedo, lasciandomi andare di peso al suo fianco con tanta forza che il suo corpo, leggerissimo, saltella sul materasso e poi torna giù in uno sbuffo sommesso.
- Mmh-mh. – annuisce lui, è un gesto impercettibile. Lo noto solo perché ormai lo conosco abbastanza bene da non aver bisogno di gesti plateali, per comprenderlo. È anche questo, che lo stanca così tanto: non è facile capire Bill, per questo è costretto a esprimersi sempre in maniera chiassosa, o nessuno gli dà retta. Bill non è mai pacato, non è mai silenzioso, è sempre in qualche modo violento in ogni sua manifestazione. Però quando si scarica è in questi termini che si riduce. Esprimersi diventa una questione di millimetri, e tu devi imparare a misurarli correttamente, se vuoi continuare a stargli dietro.
- Lo immaginavo. – dico, accomodandomi meglio accanto a lui, - Chakuza è stato un coglione, puoi anche dirlo, sai?
Lui scuote il capo, due millimetri a destra, altri due a sinistra. Pressa appena il pollice contro il pulsante di spegnimento del lettore mp3, e poi mi guarda con l’aria di un cucciolo bastonato, gli occhi enormi su quel visino sfilato tanto umidi da stringermi il cuore. Spalanco le braccia, e lui si fionda su di me esaurendo probabilmente in un unico colpo tutta l’energia che era stato in grado di recuperare con l’immobilità che aveva tenuto fino a quel momento. Singhiozza contro il mio petto, macchiandomi la maglietta, e non me ne frega niente. Fosse qualsiasi altra persona in una qualsiasi altra situazione, ricorderei quanto questa maglietta di merda costi in realtà e sarei pronto a staccare più di una testa a morsi, come punizione. Ma è Bill e sta male, e quindi tutto il resto – maglietta di merda compresa – non vale un cazzo. Ed io lo lascio piangermi addosso.
Non dice niente per un sacco di tempo, un po’ perché sa che non c’è molto da dire, un po’ perché sa perfettamente anche di non aver bisogno di dire niente proprio a me, e così tutto quello che risuona per la stanza, per molti minuti, è il suo pianto sommesso. Non fa rumore perché non vuole che Anis lo senta, io lo trovo tenero ma mi annoda lo stomaco, perciò cerco di tranquillizzarlo abbastanza da farlo smettere, almeno un pochino. Gli accarezzo le spalle, lentamente, e lui mi si stringe contro, nascondendo il musetto contro di me, risalendo su fino alla spalla e al collo. Si lascia dietro una traccia scura che faticherò a giustificare a Chakuza – fa niente.
- Ehi… - lo chiamo dopo un po’, quando sento i suoi singhiozzi affievolirsi almeno un po’, - Meglio?
Scuote il capo, le sue spalle si scuotono con lui.
- È tutto… - singhiozza, la voce gli muore in gola, - Non ci capisco più niente, Patrick.
- Ma non c’è niente da capire. – cerco di sorridere, abbracciandolo stretto, - È solo un momento un po’ confuso, vedrai che lasciando al tempo fare il suo mestiere tutto andrà al suo posto.
Lui solleva gli occhi. Mi guarda con aria persa, le guance rigate di lacrime e le labbra che ancora tremano un po’.
- Ci credi davvero a questa cosa? – chiede debolmente.
Io scrollo le spalle.
- Il tempo ti ha guarito, quando credevi che Anis fosse morto. Ti guarirà anche adesso, in special modo perché non è morto nessuno.
Lo osservo abbassare lo sguardo per un attimo, e poi tornare a rifugiarsi nell’incavo del mio collo.
- Io non sono mai guarito da quel dolore. – sussurra sulla mia pelle, - È per questo che quando l’ho visto sono impazzito di gioia, nonostante tutto. Perché non mi ero mai veramente rassegnato. E se non l’ho fatto per lui, anche se ero convinto fosse morto… come pensi che potrei rassegnarmi adesso, sapendo che Peter invece è vivo?
Questo è il punto in cui dovrei stringermelo contro e rassicurarlo. Dirgli che presto questo dolore sordo che sente continuamente nel fondo del petto si affievolirà e passerà del tutto, dirgli che dimenticherà – anche se non è vero, perché nella vita non si dimentica mai, ed io ne sono la prova vivente, è che ti abitui, tutto qua, alla fine il dolore diventa una parte di te, mette radici o qualcosa del genere, come le radici degli alberi penetrano la terra fino a sconquassarla del tutto, e ne diventano parte, il dolore fa la stessa cosa col tuo corpo, e alla fine smetti anche di notarlo. Vorrei dirgli che è normale, è così per tutti, è perfino giusto sentirsi in questo modo, per certi versi, ma non posso. Non posso perché, uscito da questa casa, con la traccia del suo mascara ancora sulla maglietta, io prenderò la mia macchina e passerò in pizzeria, recupererò due pizze e due bottiglie di birra e nel giro di un’altra mezz’ora sarò a casa di Chakuza, e lì mangeremo metà pizza ciascuno, butteremo giù la birra in due minuti netti e il minuto successivo saremo già schiacciati contro una qualsiasi superficie a morderci ovunque come se dovessimo divorarci a vicenda. E quindi non ce la faccio, adesso, a guardare questo ragazzino disperato e dirgli che è giusto che soffra. Non ce la faccio.
- Si sistemerà tutto. – gli sussurro fra i capelli, e lui mi stringe al collo con tanta forza da togliermi il respiro, - Ti prometto che si sistemerà tutto. – ripeto, cingendolo alla vita.
Lui annuisce. Lo fa con forza, con l’ostinazione dei bambini, e so che non ci crede ma vuole provarci. Ce lo faremo bastare, ragazzino. Tu provaci. Proviamoci entrambi.

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