A Sad-Eyed Lie

di lisachan
Mi lascio ricadere sul divanetto in fondo al tourbus con un sospiro stremato, e resto lì seduto a fissare il vuoto per qualche secondo, troppo stanco per provare a fare qualsiasi altra cosa, finché non mi sento letteralmente cedere e mi rassegno a stendermi lì per una decina di minuti, prima di trovare la forza di rimettermi in piedi, farmi una doccia e trascinarmi nella mia cuccetta. Lontano anni luce da me, sento Tom augurare la buonanotte a qualcuno e poi chiudere con forza lo sportello. Lo sento girare in tondo per qualche minuto, calmo, come stesse prendendo le misure dell’ambiente circostante, e poi sento i suoi passi avvicinarsi.
Apro un occhio.
- Sei vivo? – mi chiede. Sta dritto accanto a me, le mani sui fianchi, le fronte libera dalla solita bandana e la camicia aperta per metà sul petto.
- Chiedimelo di nuovo fra una decina di minuti. – rispondo a mezza voce. Lui si lascia sfuggire una mezza risata divertita.
- Stanotte esco. – m’informa poi, come fossi il suo cazzo di padre o chessò io. – Arriviamo a Magdeburgo verso le due. La notte, per allora, sarà ancora giovane, e ho tutta l’intenzione di riallacciare i rapporti con qualche vecchio amico.
- Amica è il termine esatto, Tom. – lo correggo aggrottando le sopracciglia. Se fossi solo un po’ meno stremato, salterei in piedi e lo prenderei a pugni su quel suo muso pulitino da Don Giovanni delle ragazzine, ricordandogli che sta con una delle mie donne, e in quanto tale le deve rispetto, ma sono veramente troppo, troppo stanco, e peraltro conosco Cassandra, so che non è una stupida ed immagino che il discorso del sesso in tour l’abbiano affrontato, prima che Tom partisse, per cui mi limito ad aggrottare le benedette sopracciglia e disapprovarlo silenziosamente.
- Sì, forse. – ride lui, malizioso.
- Jost te lo lascia fare? – chiedo, rassegnandomi a tirarmi su ed aggrappandomi al divano come ne andasse della mia vita.
- David è la tua balia, non la mia. – mi fa notare con un sorriso furbo. La cosa, purtroppo, è anche fin troppo vera. Purtroppo, Jost è umano. Se stringe la presa da una parte, deve mollarla dall’altra. E Dio solo sa quanto forte debba essere la presa, se si vuole avere a che fare con me. – E comunque al momento ha altro cui pensare. Il che mi fa molto comodo, visto che io, invece, non voglio pensare a niente.
Si allontana senza aggiungere una parola, e d’altronde non che ce ne sia davvero bisogno. Lui è, se possibile, quello che l’ha presa peggio, tutta questa storia del tour. Forse perché come noi non ne capisce il senso, ma differentemente da noi prima di imbarcarcisi stava bene. Io, Bill, Chakuza e per certi versi anche David, non è che fossimo sereni, prima di partire. Non è che ringraziassimo Allah ogni volta che aprivamo gli occhi al mattino, per dire. Tom invece no. Anzi, più precisamente, Tom invece chissà, perché chi l’ha visto, ultimamente? Chi ha visto lui o Cassie? Chi li ha visti ricostruirsi una vita mentre ancora noi vaghiamo sperduti e senza meta fra le macerie della vecchia?
Quindi, insomma, posso solo immaginare quanto doversi mettere in viaggio con noialtri possa averlo scazzato, soprattutto visti i risultati gloriosi che non facciamo che affastellare l’uno sull’altro da quando siamo partiti. Sono abbastanza sicuro che la macchia sulla mia reputazione, dopo questo tour, non andrà più via. C’è differenza fra l’improvvisare una piccola produzione e magari fare qualche spettacolo così alla buona ma con tanta passione, come quelli che facevamo io e Patrick da ragazzi, e l’avere a portata di mano una produzione potenzialmente perfetta, con tanto di scenografia del ghetto e robaccia simile – roba che se io e Bill avessimo avuto per le mani una proposta del genere un paio d’anni fa ne sarebbe venuto fuori un tour che la popolazione mondiale avrebbe ricordato nei secoli a venire, garantito – e buttare tutto nel cesso perché un po’ non ce la fai, e un po’ nemmeno vuoi provarci.
Io, per dire, non ce la faccio e nemmeno voglio provarci. Sono stanco, frustrato e voglio tornarmene a casa mia, come quando da piccolo mamma mi portava a cena la domenica dai nonni, e loro erano sempre rigidi e silenziosi come sputassi nei loro piatti. Non vedevo l’ora di potermene tornare a casa mia, non perché ci fosse chissà che ad attendermi – a conti fatti, ad attendermi non c’era proprio un bel niente – ma perché semplicemente casa era un posto sicuro. Avevo la mia cameretta col mio letto e i miei poster e i miei cd pirata e le mie cuffie enormi e il mio lettore cd gigantesco e vecchissimo e perennemente impolverato, e chiudevo gli occhi e smettevo di pensare. Adesso vorrei fare la stessa cosa, solo tornarmene a casa, chiudermi a doppia mandata nel mio studio e metter su della musica. Qualsiasi musica. Chiudere gli occhi e spegnermi, solo per un po’.
La parte peggiore del tutto, poi, non è nemmeno che il tour stia andando male dal punto di vista lavorativo. Un sacco di cose, nel corso della mia carriera, sono andate male da quel punto di vista, e lo dimostra il fatto che una roba che la gente comincia a fare quando ha meno di diciott’anni io ho cominciato a farla solo quando ne avevo ventuno, e neanche tanto seriamente – per la serietà, ho dovuto aspettare i venticinque. Solo che, quando le cose andavano male, io comunque andavo sempre bene. E quindi le cose potevano anche crollare tutte assieme come i castelli di carta che erano, perché tanto le mie spalle erano sempre abbastanza forti da reggere la frana.
Adesso è diverso. Adesso io sono troppo stanco per reggere alcunché. Tutto crolla e io non riesco a sopportarlo bene come avrei fatto dieci o cinque o anche un anno fa, ed a complicare tutto, naturalmente, c’è Bill. Che è la parte peggiore di cui parlavo, perché Bill può essere solo due cose, considerato ciò che è e ciò che fa e come lo fa, può essere la parte peggiore, o la parte migliore. Non ha mezzitoni, in questo senso, ed ha smesso di essere la parte migliore, per me, tanto di quel tempo fa che ogni tanto fatico perfino a ricordare com’era.
Sono rintanato nella mia cuccetta da almeno un’ora, quando sento il tourbus fermarsi. C’è silenzio, tutto intorno, ed è evidente che siamo nella piazzola di una stazione di servizio poco lontana dalla città, perché a quanto ho capito il servizio di sicurezza ha sconsigliato a Jost di entrare materialmente nelle città ed insediarci negli alberghi prima dei concerti. La pressione dei paparazzi e della critica su tutto quello che sta succedendo, la fame con cui ci strappano di dosso segreti misti a brandelli di carne è veramente esagerata, e sistemarci in un albergo, anche il più sicuro, sarebbe un suicidio. Perciò rimaniamo fuori, dove è più difficile che ci trovino. Il che non sarebbe un male nel complesso, se poi m’impedisse vie di fuga quando invece ne ho bisogno.
- Ohi. – dice Tom, sollevando la tenda e fissandomi. La sua è solo una sagoma nel buio, illuminata parzialmente dalle luci dei lampioni disseminati nella piazzola, di fuori. – Uno della security ci accompagna giù in città. – esita qualche secondo, mordicchiandosi un labbro. È così simile a suo fratello, certe volte. – Non è che ti va di venire?
Quello che vorrei chiedergli adesso è non è che a te va di restare?, ma lascio perdere.
- Vai tranquillo. – borbotto senza neanche sollevare la testa dal cuscino, - Sono stanco morto, nemmeno ti sentirò rientrare. Starò dormendo come un sasso entro dieci minuti al massimo.
Lui scrolla le spalle e non insiste.
- Come vuoi. – dice, lasciando andare la tenda. Sento i suoi passi pesanti allontanarsi lentamente lungo il corridoio e poi sparire, nel momento stesso in cui lo sento salutare giovialmente Schäfer e Listing ad alta voce, facendo qualche battuta sugli occhiali del primo e sui capelli del secondo.
Io mi tiro a sedere, dimenticando i propositi di sonno immediato, e piego le gambe, appoggiando gli avambracci alle ginocchia. Fisso il buio così a lungo che ad un certo punto riesco a distinguere le pieghe delle lenzuola stropicciate ed ammonticchiate ai piedi del materasso, ed è allora che sento lo sportello del tourbus aprirsi discretamente e poi richiudersi con un sottilissimo click.
Indossa le Adidas, riconoscerei quello scricchiolio infantile ovunque. So che strascica i piedi perché vuole che lo senta, e mi mordo con forza un labbro quando vedo le sue dita spuntare nella fessura fra le due tende che mi separano dal resto dell’universo, un secondo prima che lui le scosti. Lo guardo, mi guarda. Per un solo secondo, ci chiediamo entrambi che senso abbia tutto questo. Poi, lui mi sorride – un sorriso minuscolo, che sembra voglia scusarsi perfino di esistere – e si siede sul bordo della mia cuccetta, dandomi quasi le spalle. Lancia un’occhiata fuori dalla finestrella chiusa, sulla strada. La piazzola è già deserta, chi doveva andare in città c’è andato, gli altri si stanno riposando o sono all’interno della stazione di servizio per rifocillarsi o prendere un caffè.
- Ti andrebbe di andare a fare una passeggiata? – mi chiede a mezza voce, quasi trasognato. Inarco un sopracciglio, lui non lo vede ma precisa comunque, - Non ti ho chiesto di venire con me a passeggiare di fuori. Mi chiedevo… se io ti invitassi, tu verresti?
Sospiro profondamente, gettando le gambe giù dal letto e sedendomi accanto a lui.
- Perché vuoi rendere tutto più difficile, Bill? – gli chiedo a bassa voce. Lui sorride appena.
- Perché non c’è un modo facile per fare andare avanti tutto questo. Sapere che sei così vicino mi… - si interrompe, come cercando le parole. È probabile che non riesca a trovarle, comunque, perché lascia la frase sospesa. – Avevo voglia di vederti. – conclude quindi, come se questo potesse bastare a giustificare la sua presenza qui, ora, mentre il suo uomo presumibilmente dorme un tourbus più in là.
- Bill… - dico con un altro sospiro, grattandomi la fronte, - Sei un bimbo grande, ormai. Certe giustificazioni valgono sempre meno, man mano che cresci.
Lui ride piano, stringendosi nelle spalle.
- Il problema è questo qui, sai? Che sono cresciuto. – risponde, voltandosi a guardarmi. Anche nel buio, i suoi occhi brillano. Li sento addosso come fossero di fuoco.
- Forse non abbastanza, però. – obbietto io, - Ti stai comportando esattamente come quando eri un ragazzino e ti appostavi fuori da casa mia pregandomi di farti entrare per un po’. Continui a tornare.
Bill ride ancora, con maggiore convinzione.
- Questo forse dovrebbe dirci qualcosa. – commenta, - Anche perché continui a tornare pure tu. Torni anche dalla morte.
- Io non ero morto, Bill. – lo dico con durezza, severamente. Lui si volta a guardarmi come l’avessi offeso personalmente.
- Tu eri morto. – dice convinto, - Tu non annullerai il mio lutto solo perché sei risorto. Tu eri morto, Anis, tu sei stato morto per un sacco di tempo. Ora sei tornato, ma prima eri morto comunque.
Annuisco piano, guardando altrove. Sorrido, anche se solo un po’, quando riprendo a parlare.
- Fatico ancora a realizzare pienamente quanto male ti ho fatto. – confesso in un fiato, - Devi capire che la decisione che ho preso l’ho presa in un momento molto particolare, in cui la ritenevo necessaria. Ero convinto che sarebbe stata la cosa migliore da fare ed ho accettato l’eventualità che tu potessi soffrire perché riuscivo a vedere, in prospettiva, che prima o poi saresti stato nuovamente felice.
È la prima volta che riesco a dirgli una cosa simile esattamente come la penso e in maniera serena. È un po’ assurdo che noi si abbia avuto bisogno di sfiancarci, letteralmente, sia a livello fisico che a livello emotivo che a livello mentale, prima di poter parlare come persone civili. Intavolare questo discorso due o tre mesi fa avrebbe portato inevitabilmente ad un litigio in cui ci saremmo sputati addosso le cattiverie più indegne per il solo gusto di farci del male a vicenda. Oggi posso guardare il suo profilo nel buio del tourbus e dirgli tutto questo con tranquillità perché sono consapevole del fatto che se provassi a cercare dentro di me un briciolo di forza per attaccarlo, non ci riuscirei, e per lui vale lo stesso.
Se ci penso, facevamo così anche allora, quando tutto era più facile ed eravamo solo io e lui. Avendo sempre avuto i caratteri forti che abbiamo, ogni litigio era una guerra che poteva durare dei giorni, poteva essere logorante per davvero, ed era solo alla fine, quando entrambi eravamo stanchi di non poterci più toccare senza un velo di rabbia a coprire tutto il resto, che riuscivamo a riappacificarci, perché solo alla fine riuscivamo a ricominciare a parlare.
- Perché sei tornato? – mi chiede piano. Ho l’impressione che mi abbia già fatto questa domanda, in passato. Lui, o il lui che ho sempre avuto nella testa mentre stavo a Miami, che fossi ubriaco o meno. L’istinto mi direbbe di ripetere a lui quello che ho già detto agli altri, più e più volte. Il messaggio preimpostato per le riviste e i vecchi amici. L’Ersguterjunge stava crollando, l’unica cosa del tutto mia che mi rimaneva al mondo si stava sfaldando perché non avevo considerato troppi dettagli. Per una mia incuria, in definitiva.
Potrei farlo, potrei dirgli questo adesso, e so che in qualche modo questo porrebbe fine alle sue visite continuative in questo tourbus, ai discorsi sciocchi e privi di senso che facciamo sul cielo della notte, sul caffè dei distributori automatici e sullo scarico del cesso che nel suo tourbus funziona male, so che porrebbe fine anche a quello che in genere segue questi discorso, il vero problema principale che mi impedisce di accettare la sua presenza qui come qualcosa di positivo, ma so che, se voglio essere completamente sincero, io non voglio che questo finisca.
E non voglio che lui creda che sia solo per l’Ersguterjunge che ho deciso di rovinargli la vita, o ciò che ne restava dopo esserci passato sopra con un carro armato.
- Perché ti rivolevo indietro. – rispondo senza guardarlo, - Perché da qualche parte sentivo ancora che eri mio e non prendevo neanche in considerazione l’idea di potermi sbagliare. – inspiro ed espiro profondamente, voltandomi a guardarlo. Lui sta già guardando me. – Ti rivolevo indietro. – ripeto, - Tu sei il motivo per cui me ne sono andato, quello per cui sono tornato, e quello per cui continuerei ad andarmene e tornare all’infinito, se fosse necessario.
Bill smette di respirare. Per molti secondi non sento più aria passare attraverso le sue labbra, e lui resta immobile, come gli avessi sparato a bruciapelo nel centro del petto. Realizzo la portata di ciò che gli ho detto solo quando lui si sporge verso di me e poggia le proprie labbra sulle mie. Mi bacia in modo tenero, quasi infantile, come avesse dimenticato come si fa e stesse cercando sul mio corpo le tracce per imparare nuovamente a farlo. Allunga le braccia e me le allaccia al collo, mi scavalca con una gamba e si sistema impacciato sul mio grembo, pressandosi contro di me, ed io ho appena il tempo di lasciar scivolare le mani lungo la linea dritta della sua vita, sentendo la consistenza ossuta dei suoi fianchi sotto i polpastrelli quando scivolo appena sotto la maglietta leggera che indossa, che devo subito allontanarlo.
- No. – dico piano.
- Non dirlo, non dirlo, non dirlo. – mugola lui, disperato, - Ti prego, non dopo quello che mi hai detto. Fingi che tutto il resto non esista, ti scongiuro, sono stato così bene…
- No, Bill. – insisto, afferrandolo più decisamente per i fianchi e spostandolo di nuovo sul materasso, - Io ho voluto essere sincero, con te, ma fingere che tutto il resto non esista vuol dire tornare a mentirti, di nuovo. Ho deciso tempo fa che non l’avrei più fatto. Abbiamo entrambi due vite diverse, adesso, e—
- Io non ce l’ho! – strilla lui, fra le lacrime, - Io non ce l’ho una vita, tantomeno una vita diversa! Io ho uno schifo e sto male, Anis, e tu… - si abbatte quasi su se stesso, stremato, - Tu mi stai facendo impazzire. – dice in una serie di singhiozzi privi di forza, - Dici che mi vuoi, ma poi non mi vuoi mai. Dici che mi ami, ma fai di tutto per farmi credere che di me non t’importi niente. Io arrivo al punto che me ne frego del mondo, Anis, me ne frego di chi c’è e chi non c’è, me ne frego di Peter, me ne frego di Patrick, di Tom, di David, <>io non ce la faccio, non ce la faccio più…
- Io non posso salvarti da questa cosa, Bill! – dico ad alta voce, afferrandolo per le spalle e scuotendolo con forza, - C’è stato un tempo in cui io e te ci appartenevamo ed io potevo salvarti da questa e da un mucchio di altre cose, ma tu ora non sei mio, Bill, e se non sei mio e non sei di Chakuza non sei di nessuno. – lo lascio andare, alzandomi in piedi e scostando in una mossa le tende ancora un po’ basse della cuccetta. – E questo significa che devi salvarti da solo, perché nessun altro può farlo.
I suoi occhi si accendono di rabbia. Umidi come sono per via delle lacrime, sembrano quasi lampeggiare nel buio. Indietreggio per lasciargli spazio, e Bill scatta subito in piedi, fronteggiandomi furioso.
- Tu non hai mai potuto salvarmi da niente. – dice velenoso, - Tu non mi hai mai salvato da niente. Quando ti è sembrato di farlo, in realtà stavi solo preparando il terreno per farmi del male ancora, e ancora, e ancora. – si allontana di qualche passo, le braccia rigide lungo i fianchi, i pugni ostinatamente serrati, come quelli di un bambino. – Non capisco davvero perché continuo a pensare a te come la soluzione di tutti i miei guai, quando evidentemente ne sei la causa.
Non gli rispondo perché l’unica risposta che potrei dargli è che ha ragione. E ciò che dice vale anche per me. Ed anche io non riesco a capirne il motivo. Resto solo pochi secondi dopo, perché lui fugge via subito dopo aver pronunciato quelle poche parole, come l’aria del tourbus si fosse fatta improvvisamente irrespirabile. Cerco di trovare lo stimolo per tornare a stendermi, magari dormire un po’, ma la verità è che sono troppo nervoso. Mi tremano le mani.
Sospirando, lascio la zona notte e mi dirigo nella zona relax. Mi seggo ad un tavolo, osservo il portatile, lo guardo per un po’, poi lascio perdere ed accendo la Playstation. Molto meno impegnativa.
Tom rientra meno di un’ora dopo. Appena mette piede nel tourbus, lo vedo tirare su il naso come un segugio, e poi i suoi occhi si spostano su di me. Sembra considerare la possibilità di chiedermi direttamente se Bill è stato qui o meno, ma alla fine evita, e ripiega su qualcosa di meno compromettente.
- Tutto a posto? – chiede incerto, - Non avevi sonno?
Scrollo le spalle.
- Passato. – mento. Vuoi restare un po’ con me?, ma no, questo non posso chiederglielo.
- D’accordo. – risponde lui, scrollando le spalle, - Buonanotte. – dice disinteressato, scalciando le scarpe in giro ed infilandosi direttamente nella propria cuccetta. Avrei bisogno, un bisogno serio, di qualcuno con cui parlare. Quando una persona che non parla quasi mai con nessuno sente il bisogno quasi fisico di farlo, vuol dire che è molto, troppo vicina al punto di rottura.
Continuo a giocare. In silenzio.
*

Che qualcosa sia cambiato non c’è bisogno che nessuno lo dica. Si sente nell’aria, si avverte nella tensione nervosa che ci avvolge tutti l’indomani mattina, si legge negli occhi sfuggenti di Chakuza e nella linea tesa della sua mascella, nelle pupille dilatate di Bill che s’è fatto scopare nel bagnetto della toilette della stazione di servizio sapendo benissimo che noialtri saremmo stati qui davanti ai lavandini per sciacquarci il viso e lavarci i denti.
Quando lui e Chakuza sono usciti dal bagno, scarmigliati e arrossati e ancora ansimanti, Chakuza s’è teso come una corda di violino, ed è andato a sciacquarsi frettolosamente il viso al lavandino più distante possibile rispetto a quelli che stavamo usando noialtri. Listing e Schäfer hanno cercato di far finta di niente – so bene che è una situazione sulla quale in un momento diverso avrebbero ironizzato, ma in un momento diverso Bill non avrebbe mai fatto una cosa simile per vendetta, per cui è facile spiegare il loro imbarazzo – ma la cosa che mi colpisce di più, dopo la sfacciataggine di Bill che continua ad aggirarsi per il bagno come non avesse proprio un bel niente da farsi rimproverare, è come al solito una caratteristica di Tom: la sua incredulità.
Guarda suo fratello come non riuscisse proprio a credere a ciò che le sue orecchie hanno appena sentito, e io non so che idea avesse Tom di Bill prima che tutto questo gran casino scoppiasse, ma è evidente che, qualunque fosse, è stata devastata fino all’ultimo granello di purezza che conservava. Tom non sa, non ha idea di cosa Bill sia capace. Non ha idea di cosa io l’abbia reso capace di fare. Non insegnandogli a comportarsi in un certo modo – figurarsi: Bill, poi, non ha mai avuto bisogno che nessuno gli insegnasse alcunché – ma semplicemente mostrandogli un tipo di relazione diversa, più dura, in cui ottieni ciò che dai ma non prima di aver pagato pegno. Io non ne ho mai fatto passare una a Bill. Tanto ero accondiscendente coi suoi capricci più futili, tanto più m’incaponivo sulle questioni importanti.
Questa, per Bill, è una questione dannatamente importante. Ed è palese che non intende farmi passare niente.
L’argomento non esce con noi da quel bagno. Resta intrappolato lì, fra quelle quattro mura piastrellate di bianco. Nessuno ha voglia di parlarne, una volta fuori, comprensibilmente, e chi invece dovrebbe voler discutere la situazione sa che farlo, in fondo, sarebbe inutile. Jost ci osserva entrare ognuno nel proprio tourbus con gli occhi bassi e un imbarazzo generico a tendere i tratti del viso, e già sa che andrà male anche stasera. Come cazzo fai a lavorare con gente che non riesci nemmeno a guardare negli occhi?
Tom sta seduto sul divanetto davanti a me. Batte nervosamente un piede per terra ed appoggia una guancia al palmo della mano, reggendosi il capo col gomito ben piantato sul tavolino, in una posizione tale da impedirgli di incrociare il mio sguardo anche se io faccio di tutto per catturarlo. Non so con chi dovrei parlare, Tom mi sembra la soluzione migliore, ma io questo ragazzino in fondo non lo conosco, e non posso farlo.
La serata, naturalmente, va di merda. Ci rimettiamo in viaggio fra i fischi della folla che ci ha seguito fino a schiacciarsi tutta lungo le transenne. Qualcuno tira qualcosa – pezzi di carta arrotolati, per lo più – e noi ci rifugiamo ognuno al proprio posto con la testa bassa, vergognandoci come cani. Tom, seduto al proprio posto, incassa la testa fra le spalle e si lascia scivolare lungo la seduta del divanetto fino a che solo la sommità della sua testa spunta dal finestrino.
- Che schifo. – sussurra disgustato, - Che schifo. Vi odio tutti, stronzi irresponsabili di merda. Bambini del cazzo. Siete solo bambini del cazzo. Ma cosa stracazzo c’entravo io con questa merda, cosa.
Il suo è un mormorio continuo, somiglia vagamente allo sciabordio dell’acqua di quelle fontane zen che ti spacciano come perfette per dormire. Il mio ufficio ne è pieno, quello nuovo, dico. In quello vecchio non ce n’era bisogno. Comunque, il suono è simile. riesco ad ascoltarlo abbastanza a lungo – lui mormora abbastanza a lungo – da permettermi di scivolare in un sonno agitato e leggerissimo. Continuo a svegliarmi per ogni scossone e ad ogni singola curva. Quando mi sveglio definitivamente, è perché ci siamo fermati, e Tom mi sta scuotendo energicamente per una spalla.
- Io esco. – mi dice, - Ci fermiamo una ventina di minuti ed io non ne posso più di stare qua dentro.
Mi sollevo abbastanza da guardare il buio pesto della notte, fuori dal finestrino. Si vedono le luci di un paese, non troppo distante, ma sembra un buco minuscolo e non so cosa si aspetti di trovarci Tom alle quattro del mattino.
- Siamo in mezzo al nulla, Tom. – provo a dire.
- Sì, be’, è un miglioramento. – taglia corto lui, uscendo di corsa.
Io resto lì immobile per un paio di minuti, giusto il tempo di ascoltarlo chiedere ad una guardia del corpo a caso se lo accompagna giù in paese e di sentire il rombo del motore acceso subito dopo, dopodiché mi alzo in piedi e muovo un paio di passi incerti in giro. Mi sento a pezzi. Ho una voglia matta di un buon caffè, ma non so quanto distante da qui sia la stazione di servizio.
Mi affaccio al finestrino per controllare, ma non riesco davvero a vedere niente perché immediatamente il mio intero campo visivo si riempie della figura di Bill. Il tourbus che divide con Chakuza è parcheggiato proprio accanto al mio, il suo finestrino è alla stessa altezza di quello dal quale lo sto guardando. Vedo solo metà del suo corpo, ma quel che vedo è splendido, ed è nudo, ed è sporco e sbagliato. Appoggiato contro il finestrino, sta piegato in avanti, un avambraccio sollevato a reggere il peso del suo corpo e la fronte che lo sfiora lentamente ad ogni spinta. Si muove ritmicamente avanti e indietro, le sue labbra sono dischiuse ed umide, la lingua che ogni tanto saetta ad inumidirle, piccola e rosa come quella di un gattino.
Ha le palpebre abbassate, ancora bistrate di nero, e deglutendo a fatica riesco quasi a convincermi della casualità del tutto quando Bill si volta all’improvviso ed i suoi occhi incontrano i miei. Non sorride, ma so che vorrebbe. I suoi ansiti aumentano di volume e d’intensità ed io resto lì fino a che qualcuno non mi afferra per il colletto della maglietta, da dietro, e mi scaraventa sulla panca dalla parte opposta del tourbus.
- Cristo! – strilla David, tirando giù la tenda sul finestrino, - Cristo, Bushido! – e non aggiunge altro, prima di allontanarsi di nuovo ed uscire.
Decido che per oggi ne ho avuto abbastanza, e mi rintano nella mia cuccetta.
*

La sera successiva, Bill si fa più sfacciato. Tom esce con la solita fretta, complice il fatto che stasera siamo di nuovo vicini a un centro abitato che rischia perfino di essere ancora vivo verso le quattro del mattino, e io resto un po’ nel tourbus a non fare niente, guardandomi intorno e provando a sentirmi per capire come sto. A Miami avevo molto tempo per stare da solo a pensare, e questo tempo mi è stato quasi del tutto tolto, da quando sono tornato, e soprattutto da quando abbiamo ripreso a lavorare. Resto seduto con gli occhi chiusi, sento tutti i rumori che vengono da fuori. Il chiacchiericcio della corte di tecnici e guardie del corpo che ci accompagna, gli sbadigli degli autisti che danno il cambio a quelli che invece hanno dormito per tutto il pomeriggio in previsione del loro turno, le macchine che passano accanto a noi sfrecciando sull’autostrada.
Sento tutto, e poi sento anche qualcuno che bussa allo sportello.
Forse perché starmene un po’ tranquillo per i fatti miei mi ha messo di buon umore, mi alzo senza problemi e mi affaccio, cercando di mostrarmi sereno e rilassato. Naturalmente, fallisco nel momento esatto in cui vedo che, sulla strada, vestito solo con una maglietta larghissima, c’è Bill.
Non so a che gioco stia giocando. Non ha bisogno di bussare, per entrare. Avrebbe dovuto farlo sempre, ma dal momento che non l’ha fatto mai mi sembra soltanto un modo per stuzzicarmi. Ed il fatto che non abbia praticamente niente addosso peggiora le cose.
Sento qualche gocciolina di sudore scivolarmi lungo la schiena, e non capisco se sia solo caldo.
- Posso entrare? – mi chiede a bassa voce, - Non riesco a dormire.
- Bill. – cerco di interromperlo io, riducendo la fessura aperta dello sportello, - No. Che cazzo di ore sono? Tornatene a dormire.
- Ma non riesco! – insiste lui, sporgendosi verso di me e stringendo le mani al petto. Nel movimento, la maglietta gli si solleva sulle cosce, mostrando centimetri di pelle morbida e bianca. Ne ricordo il profumo, ricordo quando potevo affondarci il naso ed inspirare e mordere e leccare ovunque, perché tutto quel biancore e quella morbidezza erano miei. Miei e di nessun altro. – Ti prego, - mugola scontento, - voglio solo chiacchierare. Non sono venuto qui di nascosto, non voglio fare niente di male. Per favore.
- No, Bill, sono io che te lo chiedo per favore. – dico a corto di fiato, passandomi una mano sugli occhi con forza, - Tornatene a letto. Non darmi modo di fare cose di cui poi mi pentirei.
- Non faremo niente di cui potresti pentirti! – ribatte lui, mettendo un piede sul primo gradino della scaletta per salire, - Per favore, solo dieci minuti, giuro che me ne vado subito, e poi—
- Ma cosa cazzo stai facendo?!
La voce di Tom rimbomba nella piazzola silenziosa come il primo tuono di un temporale. Nessuno di noi se l’aspetta, perché nessuno l’ha sentito tornare. David stava sonnecchiando seduto su una panchina davanti ad un’aiuola alberata, poco più in là, gambe e braccia incrociate e capo chino sul petto, e si tira subito in piedi quando lo sente urlare così all’improvviso.
Bill si volta a guardare suo fratello e sbianca. Diventa così incredibilmente pallido che ho paura di vederlo scomparire.
- Tomi. – mormora terrorizzato. Suo fratello resta per qualche secondo a qualche metro di distanza da lui, le braccia rigide lungo i fianchi. Poi qualcosa nella sua espressione cambia, si accende, e divora lo spazio che li separa in pochissimi passi. Quando lo raggiunge, è troppo veloce perché io possa mettermi in mezzo.
Lo afferra per un polso e lo trascina lontano dal tourbus. Bill cade un paio di volte, i piedi e le gambe nude che si graffiano sull’asfalto ogni volta che scivola, e quando si sono allontanati abbastanza Tom lo costringe a rimettersi in piedi strattonandolo con violenza e poi lo schiaffeggia in pieno volto, con la mano bene aperta. La sua guancia, quando si rimette dritto, è tutta arrossata. So già che ne verrà fuori un livido di quelli enormi.
- Cosa cazzo stavi facendo?! – strilla Tom, tenendolo per il polso e schiaffeggiandolo ancora. Stavolta Bill è più preparato, e per quanto ancora scosso riesce a coprirsi col braccio libero. Tom s’infuria, e prende a picchiarlo con più decisione, contro quello stesso braccio con cui Bill cerca invano di difendersi. Altri lividi, posso quasi già vederli, anche se non spunteranno prima di domattina. – Cosa cazzo facevi là davanti nudo, brutto stronzo?! Coglione! – lo insulta e lo picchia, Bill si accascia per terra senza forze, scosso dai singhiozzi, e Tom lo prende a calci sugli stinchi e nello stomaco. – Sei una troia! Cosa cazzo vai in giro in quel modo?! Ma cosa cazzo vai a fare da Bushido?! Troia!
- Tom, cosa diavolo stai facendo?! – tuona Jost, avvicinandosi minaccioso.
- Stanne fuori, cazzo! – strilla Tom di rimando, afferrando suo fratello per i capelli e tirando finché non si rimette in piedi. Bill grida di dolore, il viso arrossato e gonfio rigato di lacrime. – Questa cazzo di cosa deve finire, Bill! Deve finire, è chiaro?!
- Basta! Tom! Lasciami andare! – piange Bill, e il suo grido è così forte che qualcosa, nelle coscienze di tutte le persone che stanno guardando questa scena, si risveglia. Chakuza, che non avevo visto uscire dal proprio tourbus ma che evidentemente deve averlo fatto mentre non guardavo, si precipita fra i due, stringe Bill in un abbraccio che lo nasconde tutto dagli occhi del mondo intero e lo porta via, mentre lui fatica perfino a camminare a causa delle botte e dei singhiozzi che lo scuotono tutto. David, nel mentre, si lancia in avanti, afferrando Tom per le spalle e stringendolo con forza mentre lui si dimena e urla, lasciandolo andare solo una volta che Bill e Chakuza sono ritornati a chiudersi nel loro tourbus. Tom si libera della sua stretta con uno strattone e un urlo da bestia ferita, aggirandosi per la piazzola in preda al nervoso per un paio di minuti prima di imprecare ad alta voce e dirigersi a passo spedito verso di me.
Mi spinge all’interno del tourbus, entra a propria volta e si chiude lo sportello alle spalle, superandomi mentre io resto immobile e prendendo posto su una delle panche.
- Siediti. – ordina a bassa voce, indicando il posto di fronte a sé con un cenno del capo. Io obbedisco. – Da quanto va avanti questa storia?
Scrollo le spalle e provo a ricordarmi quanto assurdo sia questo momento.
- Un po’. – rispondo quindi, espirando sconfitto.
- Perché non me l’hai detto? – chiede duramente, fissandomi negli occhi.
- Perché avrei dovuto farlo? – ritorco, inarcando le sopracciglia. Lui batte un pugno contro il tavolo, digrignando i denti.
- Perché stiamo parlando di mio fratello. – risponde, - Ti basta? Se non ti basta, fattelo bastare.
Sospiro, abbassando lo sguardo sulle mie dita intrecciate sul tavolo.
- Pensavo di poterlo gestire. – confesso stentatamente.
- Sì, è un errore che avete fatto in molti. – ringhia lui, - Ma la verità è che lo amate troppo per farlo. Tutti quelli che gli stanno intorno in questo momento lo amano troppo per farlo. E questo lo sta rovinando, te ne rendi conto?
- Abbiamo dei doveri, Tom. – ribatto serio, - Questo tour non l’abbiamo deciso perché ci divertiva l’idea.
- Dei doveri! – ride amaramente lui, guardandomi incredulo, - Ma ti sei accorto di come sta andando questo tour, Bushido? Ti pare di stare lavorando come uno che abbia dei doveri?
Abbasso nuovamente lo sguardo. Ha ragione, non c’è che dire.
- Io ci sto provando, Tom. – sospiro pesantemente, - Non è facile.
- Non lo è per nessuno di noi. – risponde lui, impassibile, - Cristo, - sbotta impaziente, - io non posso davvero crederci. Forse non avete capito che Bill è a tanto così dall’andare fuori di testa. Dico, ma l’hai guardato negli occhi? Ma cosa cazzo ci sei stato a fare per anni se poi non capisci nemmeno queste cose così elementari?
Mi mordo un labbro, ferito più di quanto non mi vada di ammettere.
- È così diverso da quando l’ho lasciato. – considero a bassa voce, - A volte lo guardo e non riesco a riconoscerlo. Eppure è lui, dentro di me lo sento ancora come prima. Questo è… - trattengo appena il fiato, - è peggio di morire e basta. Sono vivo e sto perdendo tutto.
Tom mi guarda a lungo – riesco a sentire i suoi occhi addosso anche se non ricambio il suo sguardo – e mi rassegno a sollevare il viso solo quando lo sento sospirare pesantemente e sistemarsi più comodamente sulla panca.
- Ti va una partita a PES? – chiede distrattamente, adocchiando la Playstation abbandonata in un angolo.
- Resti con me, stanotte? – chiedo io a bassa voce, senza rispondere.
Lui nemmeno annuisce, chinandosi a raccogliere i joystick da terra e passandomene uno, dopo aver tenuto il proprio per sé.
- Accendila, dai. – dice alla fine. Giochiamo fino all’alba. Quella sera, Bill va sul palco con gli occhiali da sole. Canta cinque canzoni. Poi si mette a piangere e dice a David che non ce la fa. Sono le nove e mezza di sera, quando impazzisce del tutto. E nessuno di noi se ne accorge.
*

- Vado a prendere un paio di birre, ti va? – chiede Tom, gettando via il volante della Wii e sollevando entrambe le braccia verso il soffitto, - Affoghiamo nell’alcool i dispiaceri della giornata di oggi. Se ne prendo quattro, magari ci affoghiamo anche quelli della giornata di ieri.
- Vuoi solo scappare perché il tuo Luigi non può nulla contro il mio Mario. – lo prendo in giro, agitando il mio volante in aria come un trofeo.
- Facciamo così, io vado a prendere la birra e poi sputo dentro alla tua. – ritorce lui, guardandomi malissimo, - Come ti va?
Rido ad alta voce, di cuore, e realizzo che mi è capitato di farlo più spesso nelle ultime ventiquattro ore con lui di quanto non si possa dire di tutto il resto del tempo da quando sono tornato in Germania.
- Vai, vai. – dico alla fine, - Nel mentre cerco un altro gioco, questo non mi va più. – dico. Lui mi osserva tirare fuori Mario e Sonic ai Giochi Olimpici, unico gioco al quale sia fino ad adesso stato in grado di battermi, e sorride uscendo. So che mi sto comportando in modo molto stupido, quasi da fratello maggiore, nei confronti di un ragazzino che ieri ha dimostrato di essere più che in grado di comportarsi da fratello maggiore nei confronti miei, ma non riesco a impedirmelo. È divertente, genuinamente divertente, in un modo che pensavo non mi sarebbe stato più accessibile. E invece eccolo qui.
Lo sportello si riapre nemmeno due minuti dopo. Mi volto per dire a Tom che ha fatto presto, ma sulla soglia del tourbus non c’è Tom. C’è suo fratello.
- Che ci fai qui? – chiedo a mezza voce, pietrificato. Non lo vedo da giorni. Dopo il crollo a Monaco sono già saltate due date, e Bill non è quasi mai uscito dal suo tourbus.
- Sei sorpreso? – mi chiede. La sua voce è soffice, sottilissima. Lo guardo e vedo che non si tratta del Bill degli ultimi giorni, e nemmeno di quello che è partito con noi per il tour. È un Bill diverso, più antico, ma non propriamente simile a quello che era mio. O forse sì, solo più ferito.
- Sì. – rispondo sinceramente, voltandomi ed alzandomi in piedi per guardarlo dritto in viso, - Non dovresti essere qui?
- E dove dovrei essere? – chiede lui con una risatina vuota, - Trovami un posto nel mondo e sistemamici. Un tempo era al tuo fianco. Adesso sono fuori posto dovunque vado. Dovunque mi metto. Sono sempre fuori posto. Fuori luogo. O fuori posto? Come si dice, Anis?
- …cosa? – chiedo incerto, - Bill, ti senti bene?
- Ma sì! – risponde lui, con una risata così tonante che lo piega in due, costringendolo a stringersi il ventre con entrambe le braccia, - Come potrei mai stare male? La mia vita è meravigliosa, vero? Non lo è? Tu sei tornato, e sei vivo!, e non sei il mio ragazzo, ma ho un ragazzo bellissimo che mi ama tanto e che per me farebbe di tutto! Ed ho un fratello così premuroso, lo vedi quant’è premuroso Tomi? – ridacchia, indicando un livido ancora enorme sullo zigomo, - È così premuroso che vuole che tutti lo vedano, perché tutti devono sapere quanto bene si prende cura del suo sciocco fratellino.
- …Bill. – sollevo entrambe le braccia e lo stringo alle spalle, cercando, non so, di calmarlo. Anche se a prima vista sembra abbastanza calmo, in realtà. I suoi occhi sono torbidi, però, non riesco a leggervi dentro. – Bill, tu non stai bene.
- Ma a te non importa. – si lagna lui, forzando la mia stretta per abbracciarmi alla vita, poggiando il capo contro il mio petto, - Non t’importa di niente, non t’importa di me. Ho fatto tante cose per capire se t’importasse, volevo vedere se era vero che te ne fregavi, ma non ci ho capito niente. Non ci capisco niente di un sacco di cose, ormai.
- Sì, di te stesso in primo luogo. – sospiro, - Bill, devi andartene. Tuo fratello sarà qui fra poco e non è il caso di—
- Oh, posso sopportare qualcun’altra delle sue tenerezze, se è per questo. – dice con un sorrisino storto, adocchiando il piazzale fuori dal finestrino, - I bambini crescono più forti quando li si picchia costantemente. Si fanno la pelle dura. Tomi ha cominciato a crescermi un po’ tardi, ma siccome sono già grande gli effetti non tarderanno ad arrivare. Vuoi provare? – chiede, tornando a guardarmi, - Picchia forte, dove fa male, dove ho ancora lividi e ferite aperte. Non piangerò nemmeno una lacrima, te lo giuro.
- Smettila subito! – dico inorridito, provando ad allontanarmi. Lui serra le dita attorno alla mia maglietta.
- Allora è vero che non te ne frega più niente! – quasi grida, improvvisamente sull’orlo delle lacrime, - Non vuoi neanche più farmi male! Cosa mi resta di te, me lo dici? Perché se è solo indifferenza, allora non la voglio, non ti voglio, tornatene all’inferno! – strilla, tempestandomi il petto di pugni.
- Bill, calmati. – dico piano, stringendogli i polsi fra le mani. Sono così sottili che, anche se cerco di fare piano, sento le sue ossa quasi scricchiolare sotto la presa salda delle mie dita. – Devi riposarti un po’.
- Mi riposo da giorni e non cambia mai. – dice lui, abbattendosi stremato contro di me, - Penso sempre le stesse cose, sempre le stesse cose. – solleva un braccio, accarezzandomi il viso con la punta delle dita, - A te importa ancora di me, vero Anis? Ti importa ancora.
- Mi importa, piccolo. – cedo. La voce mi esce fuori in un mugolio così addolorato che mi sento spezzare qualcosa dentro. Non ho mai parlato con questo tono, con nessuno. – Tu ti stai facendo del male, adesso, e devi smetterla.
- Sei tu che mi stai facendo del male. – insiste lui con un sorriso quasi sereno, come se avesse già sentito troppo dolore per poterne provare ancora, - Come fai a non accorgertene? È incredibile. È così evidente, eppure non lo noti.
Sospiro profondamente, ravviandogli una ciocca di capelli dietro un orecchio.
- Bill, non so cosa dirti. – ammetto sfiduciato, - Ti stai torturando. Vuoi darmene la colpa? D’accordo. Ma stammi lontano.
Lui sorride, sento le sue labbra tendersi attraverso il tessuto leggero della maglia che indosso.
- Te l’avevo detto che sarebbe successo, Anis. – dice a bassa voce, quasi cantilenando, - Io non voglio starti lontano, e non posso, e non ci riesco. Una sua mano scivola fra le mie. Le nostre dita si intrecciano, lui mi guarda e i suoi occhi sono pieni di lacrime, e vuoti di tutto il resto. – Vieni con me, per favore. – dice piano, tirandomi verso l’uscita del tourbus.
Non è abbastanza forte da trascinarmi, se oppongo resistenza. Il problema è che non la oppongo. Mi lascio accompagnare dolcemente fuori, sulla piazzola aranciata dalla luce del sole che tramonta dietro le montagne all’orizzonte, e Bill mi conduce fino all’entrata del proprio tourbus. Da dentro vengono i rumori di Chakuza che si affaccenda attorno ai fornellini elettrici… starà preparando il caffè. Immagino abbia una voglia smodata di cucinare, ma non potendo questa è l’unica cosa sulla quale possa ripiegare.
Bill si volta a guardarmi con un sorriso minuscolo a increspare le labbra pallide.
- Ora ho bisogno che tu resti qui, Anis. – dice sottovoce, dondolando un po’ il peso da un piede all’altro, - Ho bisogno di sapere che resterai qui, che non te ne andrai di nuovo. Resterai, vero? Me lo prometti?
Mi sento mancare il respiro ed ho paura di ciò che questa promessa potrebbe significare. Non voglio restare. Non voglio restare, Bill.
- Te lo prometto.
Bill sorride.
- Tornerò da te, quando avrò finito. – sussurra, sporgendosi fino a raggiungere il mio orecchio con le labbra, - Così potrai dirmi se t’importa ancora o meno.
Resto lì come pietrificato mentre lui risale in due saltelli la scaletta del tourbus, scomparendo oltre la soglia. Lascia la porta aperta e io fisso l’interno, incapace di spostarmi. Posso vedere perfettamente uno dei tavolini della sala relax, da questo punto. Non so ancora cosa mi aspetta, ma qualsiasi cosa sia ne ho paura. E io non ho mai paura di niente. Non ho mai paura di niente, ma Bill mi terrorizza.
Il tourbus è parcheggiato in un angolo riparato della piazzola, lo sportello dà su un muretto oltre il quale si estende un praticello che si sfuma alle pendici di una collina rocciosa. Nessuno verrà a cercarmi qui, se non sa dove sono. Chissà se Tom potrebbe immaginarlo. Chissà se ha già comprato la birra, chissà se è già tornato, chissà se si sta chiedendo dove posso essere sparito.
Sento dei mormorii dall’interno. Non riesco a capire una parola di ciò che Bill e Chakuza si stanno dicendo, ma è evidente che stanno parlando. Chakuza sembra stanco. Bill ridacchia come un ragazzino senza neanche un pensiero per la testa.
Il primo gemito lo sento con una forza tale che mi sembra di percepire la terra tremare sotto i piedi. Vorrei gridare, ma non ho voce abbastanza. Non ho forza abbastanza. Quando Chakuza adagia Bill sul tavolino, dandomi le spalle e insinuandosi fra le sue cosce mentre Bill si abbandona alle sue braccia e getta indietro il capo, sento il desiderio di piangere, ma non scende neanche una lacrima. Non riesco più a fare niente, a pensare a niente. C’è solo la figura di Bill che invade tutto il mio campo visivo, c’è il suo corpo che si muove contro quello di Chakuza, in sincronia perfetta con le sue spinte. Ci sono le sue braccia abbandonate sulle sue spalle, c’è la frenesia con cui serra le cosce attorno ai suoi fianchi e intreccia le gambe dietro la sua schiena, mentre il suo bacino si muove ritmicamente per accogliere la sua erezione più profondamente possibile. E io vedo tutto. Vedo tutto. Ed è un’immagine che non riuscirò più a levarmi dalla testa. E questo Bill lo sa. È per questo che l’ha fatto.
Quando Bill viene, le sue labbra si piegano in un sorriso minuscolo che è lo stesso in cui si piegavano quando erano le mie mani ed il mio corpo a portarlo all’orgasmo. Mi chiedo se Bill sia mai cambiato o se non si sia per caso trattato di un’illusione. Forse volevo credere con tutte le mie forze che non fosse più la persona di un tempo, semplicemente perché ammettere che fosse rimasto lo stesso ed avesse semplicemente smesso di amarmi era impensabile. Adesso non lo so più. Adesso lo guardo, completamente abbandonato contro il corpo di Chakuza, che respira con forza sulla sua pelle e lo stringe fra le braccia come fosse troppo piccolo e troppo prezioso e volesse proteggerlo da tutti i mali del mondo, e non so più niente.
Mi allontano lentamente, indietreggiando, senza mai dare le spalle al tourbus. Bill mi osserva andare via spalancando gli occhi, le sue mani si serrano attorno alle spalle di Chakuza in un gesto improvviso e nervoso. Qualcosa dentro di lui si sta spezzando. Anche dentro di me. È la promessa che ho fatto.
Accelero il passo, e quando esco sulla piazzola c’è Tom sull’uscio del nostro tourbus che mi cerca con gli occhi.
- Sei qui. – dice, scendendo celermente i gradini e venendomi incontro, - Dov’eri finito? – chiede curiosamente. Poi nota il mio sguardo ed aggrotta le sopracciglia, incerto. – Che ti prende? – domanda con evidente preoccupazione, - Che è successo?
Io faccio per aprire la bocca e dire qualcosa, ma gli occhi di Tom si spostano immediatamente a guardare un punto imprecisato dietro di me. Non ho bisogno di voltarmi, per capire che dove Tom sta fissando c’è Bill.
- Anis. – mi chiama debolmente, la voce rotta. Non riesco a voltarmi. Non voglio farlo.
- …andiamo dentro. – mi dice Tom, tornando a guardarmi e poggiandomi una mano sulla spalla, - Ho preso la birra.
Annuisco e lo seguo. Non so cosa faccia Bill o per quanto resti lì in mezzo alla piazzola. Del tutto irrazionalmente, però, so che sta piangendo. E non riesce ad importarmene.

Bookmark and Share

lascia un commento!










Nota: Devi visualizzare l'anteprima del tuo commento prima di poterlo inviare.
Note: You have to preview your comment (Anteprima) before sending it (Invia).
 

torna su