Black Eyed

di tabata
La prima volta che ho fatto a botte avevo quattordici anni.
Non mi ricordo bene per cosa, ma quasi sicuramente c'era di mezzo una donna. All'epoca sarà stata una fidanzatina o qualcosa del genere, ma vale comunque. Quando due uomini decidono di mettersi le mani addosso, generalmente è perché uno dei due si è preso troppe libertà con la donna dell'altro, di qualunque donna si tratti: fidanzata, madre o sorella. Si può fare a botte per un centinaio di altri motivi diversi, naturalmente, ma non le tiri mai a qualcuno con la stessa convinzione, la stessa rabbia e la stessa violenza come quando pesti uno perché ti ha toccato la donna. E' matematico.
E' una questione di istinto primordiale, credo. Un qualcosa di legato alla funzione protettiva del maschio del branco o robe simili; o forse, in realtà, è perché la roba tua non deve toccarla nessuno e, anche se ovviamente poi fai di tutto per convincere la tua donna che sei uno di mentalità aperta e che sei per l'indipendenza e che certo, sì, lei è un individuo capace di prendere le sue decisioni e palle varie, poi alla fine – scava, scava – se qualcuno ti chiede perché hai menato quello che le ha fatto un complimento più pesante degli altri, la tua risposta è che lei è tua, in un modo che di romantico – del tipo “sei la donna della mia vita” – non ha proprio niente, ed è più un fatto di possessione. E da questa cosa non si scampa mai, nemmeno quando sei uno ragionevole che generalmente prima di prendere a sberle qualcuno magari ci parla.
Io, per dire, non amo fare a pugni, non mi è mai piaciuto, però le poche volte che l'ho fatto è stato per colpa di una donna; o meglio, visti i recenti sviluppi, di una persona che amavo. Non si è mai trattato di altre motivazioni, perché in altri casi, a mio avviso, non ne vale la pena. Magari m'incazzo; anzi, m'incazzo di sicuro perché io m'incazzo sempre, ma a quel punto distruggo mobili, non persone. Io sono fatto così. Se però di mezzo c'è una donna, allora la credenza si salva e sei tu quello che le prende. Non guardo in faccia nessuno. Ricordo che una volta, ero ancora in Austria, all'uscita di una discoteca nella quale ero stato trascinato contro la mia volontà e con la sola, palese, sicurezza che dopo avrei scopato, un tipo, uno di quei ragazzetti deficienti e pieni di soldi che il fine settimana vengono a farsi belli sulle piste da sci con i soldi di papà, ha preso per il culo prima me – e già mi giravano i coglioni – e poi ha detto qualcosa alla mia ragazza. Qualcosa che non ricordo, e che forse non ho neanche sentito completamente, ma siccome c'entravano lei e lui insieme e non era gentile, lui è finito in terra un attimo dopo. Io sono piccolo, ma non sono un fuscello e non ho fatto palestra per farmi bello davanti allo specchio da solo. E' una questione di sopravvivenza, la mia, e di spaccarti la faccia se ti azzardi a mancare di rispetto a me o alla donna che mi porto dietro. Peggio ancora se fai entrambe le cose nello stesso momento. Di quella serata so solo che al tipo ho spaccato il naso e che gli avrei spaccato molto di più se i miei amici non mi avessero portato via di peso. E non c'entra che poi con quella tipa io abbia rotto si e no quarantotto ore dopo, perché il sentimento che ti lega alla donna in questione aumenta solo, magari, la rabbia che ci metti nel reagire, ma che si tratti di una relazione di due ore o di nove mesi, reagisci comunque.
Ecco perché quando quattro mesi fa Bushido ha suonato alla mia porta, io l'ho aperta e lui mi ha massacrato di botte, ho capito perfettamente le sue motivazioni. Non che per questo non mi sia difeso – visto che le sue motivazioni erano motivazioni di merda – però le ho capite, cioè posso immaginare il ragionamento che ci stava dietro, ecco. E la sensazione che ho provato dopo che ci eravamo pestati senza di fatto risolvere nulla, era una sensazione che conoscevo bene e che, in un certo senso, mi aspettavo e volevo. Quando Bushido è tornato dalla morte, io lo sapevo che prima o poi saremmo arrivati a pestarci, perché io avevo Bill e lui pensava che Bill fosse ancora suo. Era logico che ci saremmo affrontati in questo modo perché parlare non era concepibile in una situazione simile. E poi chi voleva parlare? Lui no di sicuro e io nemmeno. Così quando ha chiuso quella porta con un labbro spaccato e io mi sono tamponato l'occhio nero, ero perfettamente consapevole di ciò che era successo, di come mi sentivo in quel momento e di come mi sarei sentito nei giorni a seguire perché anche questo rientra nell'istinto primordiale di prima. Ci eravamo sfogati, avevamo chiarito le nostre posizioni – le avevamo anche un po' ufficializzate – e ora potevamo pure cominciare a pensare a come finire questa storia una volta per tutte. Che poi, da lì alla fine – che nemmeno vediamo ancora, per altro – ce n'è di strada da fare, ma non importa. Importa però che ci siamo pestati, è una questione d'orgoglio, no?, qualcosa del tipo che lui voleva farmi sapere che quella era roba sua e io volevo fargli sapere che col cazzo che lo era. Ma poi non è che la questione si è chiusa, mi seguite?
Con Fler, adesso che sono appena uscito da casa sua, bendato e dolorante, la cosa è un po' diversa. Non è che non mi aspettassi le botte – anche per uno che ha difficoltà a capire al volo i sentimenti altrui come il sottoscritto era piuttosto prevedibile che Fler si sarebbe incazzato – quello che non mi aspettavo è come mi sento, che non ha niente a che vedere con come mi sono sentito quando, il giorno di Bushido, ho visto la porta chiudersi e solo allora mi sono permesso di perdere i sensi. E non so, esattamente, quale delle due sensazioni sia la peggiore. Bushido mi ha pestato per difendere qualcosa che, secondo lui, gli apparteneva; Fler perché quel qualcosa che, secondo lui, mi apparteneva l'ho lasciato andare.
E lo capisco ora che la porta si è chiusa e lui ci si è appoggiato senza fare un rumore, ma facendola tremare un po', così che l'ho sentito. E vorrei appoggiarci sopra la mano, sperare che ne senta il calore ma non lo faccio, perché questo è esattamente uno di quei momenti in cui devo evitare di fare un danno sull'altro, come mio solito. Chakuza, mi dice sempre, tu hai due problemi: non solo crei casini, ma poi nel tentativo di rimediare, ne crei degli altri, e per rimediare a quelli ne crei ancora così che il danno rappresentato dalla tua persona si moltiplica in maniera esponenziale all'infinito e nessuna radice quadrata di scuse potrà mai completamente estinguere il danno originale. E' un'esclamazione complicata, ma Fler ne tira fuori spesso quando parla di me perché in effetti io sono una persona complicata per gli altri. Così se io adesso appoggio la mano sul legno della porta e lui per caso la sente, sicuramente peggioro la situazione. Non so come, ma la peggioro. Mi allontano dalla porta e anche da casa sua, un passo alla volta perché non mi reggo in piedi e perché non riesco a fare di più. Forse spero che se vado piano, lui avrà il tempo di spalancare la porta e fermarmi, anche se sarebbe una scena da romanzetto rosa che non so se davvero voglio e, comunque, anche se mi fermasse, che cosa mi direbbe? Che cosa potrei dirgli io? Forse è proprio questo che mi fa sentire strano, che abbiamo chiuso una questione e quindi pestarci – anzi farmi pestare ancora – non servirebbe a molto perché poi dovrebbe di nuovo mettermi dei cerotti e poi dirmi di andare e io andrei, mi fermerei sulla porta ancora un po' a sperare che la riapra e a chiedermi che cosa cambierebbe se lo facesse. La verità è che non c'è niente da cambiare. Non è che pestandomi potesse o volesse cambiare le cose, mi ha pestato perché me lo meritavo. Punto. Fine. E non c'è più niente.
C'è che abbiamo avuto una cosa, io e lui, e poi Bill è tornato e quella cosa andava chiusa perché sennò ci avremmo perso la testa tutti, e andava chiusa con la mia faccia piena di lividi. Era l'unica soluzione possibile, penso. Non era una questione di orgoglio, né di chiarimenti, né di mio, tuo o che so io. Il suo pestarmi non era un modo di fare il punto della situazione e continuare, era metterci un punto e basta. Il che significa che per un po' io e Fler è meglio se non ci vediamo, forse è meglio se non ci vediamo per molto più di un po' perché non ci pesteremmo, né faremmo proprio niente, ed è questo che è agghiacciante: che io e Fler qualcosa abbiamo sempre fatto, ma chiusa questa cosa, non c'è più niente da fare per me e per lui. Per questo mi sento strano, perché non si è sfogato nessuno – non mi sento più leggero e di sicuro non ci si sente lui, io credo – e tutto è rimasto uguale a prima, solo che lui sta un po' più male e io sono un po' più solo.
Mentre scendo le scale ripenso a questa situazione di merda e a come ci siamo finiti. Voglio dire, come ci siamo finiti tutti, dal primo all'ultimo, non solo io e Patrick. E' una di quelle situazioni degenerative che tu non ti accorgi davvero che ti ci trovi in mezzo e che sta peggiorando, e quando (o se) lo fai, è già troppo tardi per rimediare e non puoi fare altro che startene lì in piedi ad osservare l'onda che monta, diventando sempre più alta, ed aspettare che si abbatta da qualche parte, così almeno avrai un'idea dei danni che farà; magari non potrai riparare niente, ma almeno tutto ti sembrerà più chiaro. 400.000 morti, per dire. Un numero preciso. Ora siamo proprio a questo punto, a quando cioè l'onda si è schiantata sulla costa, spargendo casette di legno e palme e morti da tutte le parti. Un sacco di corpi, per altro. E tu sei lì in piedi sulla spiaggia, dopo che l'onda si è ritirata, e pensi: ok, era questa la conseguenza, ma che diavolo avremmo potuto fare tutti quanti?
Quando Bushido è morto, e lo capisco soltanto adesso – magari mancavo solo io all'appello, magari è una roba che tutti gli altri hanno capito il giorno dopo ma io ovviamente no –, a noi è venuto a mancare qualcosa, che non era nemmeno lui ma quello che lui rappresentava. Eravamo tutti quanti uniti perché lui faceva da collante, il che non vuol dire che senza di lui ci siamo stati tutti sulle palle, ma solo che una volta lasciati a noi stessi, ci siamo guardati intorno e ci siamo chiesti che cavolo dovevamo fare tra di noi, senza di lui a credersi Dio sceso in terra di Germania. Non lo sapeva nessuno. Però ci abbiamo provato, a rimanere noi, intendo, noi come gruppo, noi come persone, a ricreare quello che era stato anche se Bushido era morto e Saad pure. Sembrava che da un momento all'altro quello che eravamo dovesse disperdersi solo perché questi due non c'erano e invece non potevamo lasciare che succedesse perché eravamo tutti parte di un gruppo e distruggere il gruppo probabilmente avrebbe distrutto noi. Ci siamo ripresi per non crepare con il re, ed è stato questo a dare il via alla reazione a catena.
Se non ci fossimo intestarditi nel tenerci insieme, nell'aggrapparci tutti a quello straccio di noi stessi che era rimasto e non s'era perso con il cadavere di Bushido, ci saremmo allontanati. Se non ci fossimo voluti bene – e cazzo, è vero, ci vogliamo bene. E non solo io e Bill, io e Fler, Fler e Bill e tutte le combinazioni principali di questa cazzo di lotteria, ma anche Eko e Cassandra e Tom e tutti. Ci vogliamo bene tutti, per proprietà transitiva e per colpa di Bushido, anche –, senza tutto questo affetto generale, io e Bill saremmo stati capaci di dimenticarci a vicenda dopo quel pomeriggio, o almeno sarebbe stato più facile tenersi lontani e non passare le giornate a guardare lo schermo del cellulare, chiedendosi se mandare un messaggio oppure no. E Fler non sarebbe rimasto con me, sia per me che per spingermi tra le braccia della principessa dove non avevo il coraggio di andare. E può sembrare una buona cosa perché io senza Bill significa Bushido con Bill. Significa Fler in tour con Sido, e cioè non con me, significa niente ripensamenti, niente bugie e io che forse torno a casa e me ne sbatto di questa città di merda. Significa Bushido che torna e trova meno di quanto ha trovato adesso – non ci sarebbe stato più nessuno – ma anche nessuno tsunami e nessun morto, che forse era meglio, non lo so. Noi però non lo sapevamo. A raccontarlo così sembra semplice e sembra assurdo che nessuno di noi immaginasse, dico dopo il ritorno di Bushido, non certo prima – nessuno poteva immaginarsi il ritorno dal regno dei morti –, ma in realtà non è così. Quando Bushido è tornato e io avevo Bill, e avevo Fler, non mi sono reso conto di dove tutti stavamo andando a parare. Quando ho visto Bushido ho pensato, sì, che ce le saremmo tirate, ma non cosa significasse. Quando Bill mi ha mollato e poi è tornato, doveva saperlo che era un gran casino questo qui, ma non sapeva quanto fosse enorme e non lo sapevo nemmeno io, che pur avevo più informazioni di lui. Insomma, quello che sto cercando di dire, mentre le scale di questo palazzo sembrano non finire mai e a me fa male tutto quanto, anche ossa che non pensavo di avere, è che per quanto sia immensamente ovvio che a furia di lasciarci e prenderci, ci saremmo fatti del male, non è stato chiaro e lampante finché in effetti non ci siamo trovati per terra con un labbro rotto e sanguinante – metaforicamente parlando e non. Mentre scendo l'ultimo gradino di questa scala infernale e penso a dove ho messo la macchina, mi viene anche in mente che in tutto questo casino, il maggior numero di vittime lo abbiamo fatto io e Bill. Diciamo che io occupo la prima posizione e lui la seconda, anche se lui annovera pure me fra i suoi cadaveri. Il punto è che con tutti i se e i ma che potrei elencarvi uno ad uno: se non ci fossimo baciati, se Fler non ci avesse fatti tornare insieme, se non avessimo avuto una storia, se lo avessi lasciato andare quando Bushido è tornato, se non me lo fossi ripreso quando lui è tornato da me, se, se, se... non cambia un cazzo, perché è tutto successo, quindi non serve nemmeno pensarci. Siamo in una situazione di merda e ce la teniamo.

*


Adesso vorrei solamente tornare a casa, buttarmi sul letto e rimanerci finché non mi sembrerà insopportabile starmene lì disteso. Allora forse darò fondo al frigorifero e cucinerò per ore mentre ragiono su quello che è successo e, soprattutto, su come girerà il mondo da qui in avanti, che è una cosa che naturalmente ho già intuito ma ho bisogno di pensarci a lungo prima di afferrarla. Non riesco ad immaginare la mia vita senza determinate possibilità, tipo quella di telefonare a Patrick se mi gira di uscire, per dire.
E' quello che mi succede sempre quando qualcosa cambia o deve cambiare, io non riesco ad immaginarmi cosa succederà finché in effetti non succede. Non sono particolarmente creativo, in questo senso, anche se è brutto da dire per uno che fa musica e, se non la facesse, di certo farebbe il cuoco. Non è ovviamente una questione di concetto: lo so che cosa cambierà nella mia vita ora, solo che non so come. E' una sensazione strana perché il mio cervello è consapevole del cambiamento ma non lo ha metabolizzato; Patrick che non fa più parte della mia vita è un'informazione di cui dispongo ma che non ho esattamente archiviato per quella che è. Qualche anno fa avrei scrollato le spalle, in attesa che la consapevolezza prima o poi arrivasse. Ora so che cosa succede quando poi arriva, so che un giorno alzerò la testa, capirò e dovrò ricomprare i mobili del salotto, so che starò male rendendomi conto di tutto quanto insieme. Quindi mi preoccupo, e non voglio, vorrei aver realizzato tutto già mentre scendevo le scale di casa di Patrick, ma non era possibile. Sono troppo stordito e sono anche troppo me stesso.
Naturalmente di tornare a casa non se ne parla, però. Non arrivo neanche a metà strada che Bill mi chiama sul cellulare ed è in una di quelle serate in cui è andato tutto storto, anche se probabilmente non stiamo parlando nemmeno della metà di cosa è successo a me. Contrariamente a quanto si pensa, Bill non è così difficile da gestire in generale; funziona a coccole, quindi fintanto che gliene fai, lui non è un problema. A volte basta davvero telefonargli – come quando sta lavorando lontano da casa – e lasciarlo parlare per delle ore. Gli piace raccontarti la sua vita, gli piace essere ascoltato e renderti partecipe, come se dovesse sostituire con la sua voce l'assenza della sua presenza fisica. Così quando è lontano e gli telefoni prima che lo faccia lui, Bill è contento, si sente cercato. In realtà non gli basta altro. Tranne che in giornate come questa, dove magari ha avuto da ridire con David o è andato storto qualcos'altro e allora non importa cosa gli dici, quali problemi tu abbia o se tenti di consolarlo: lui ha bisogno che tu sia proprio lì dov'è lui, che lo abbracci, lo baci e che tu sia fisicamente partecipe della sua disperazione. Così cerco di spiegargli che potremmo vederci domani mattina – mi serve almeno il tempo di far sgonfiare i lividi, – anche prima di colazione, se vuole, anzi, gliela preparo io, ma neanche la prospettiva di essere svegliato con i waffle riesce a convincerlo che non è il momento di farmi andare di corsa là. Che poi, se fosse la diva capricciosa che tutti si immaginano, sarebbe anche più semplice mandarlo a quel paese e dirgli: “No, Bill, guarda, stasera proprio no. Vengo domattina appena ti svegli,” perché sicuramente, piagnucolando, mi irriterebbe molto di più. Il problema, invece, è che non lo fa. Alla fine, dopo averci provato un po', mi dice solo “Okay”, ma con una voce che mi fa credere gli sia successo veramente qualcosa di brutto e siccome io sono da una parte asservito come non sono mai stato per nessuno e dall'altra traumatizzato da quel tono – perché era quello che usava i primi mesi dopo la morte di Bushido e non sapevo mai se, riattaccando la cornetta, avrei trovato il suo nome nei necrologi del mattino dopo – rinuncio al mio proposito di andare a morire sul letto di casa mia. Probabilmente lui lo fa apposta e io sono un cretino, ma non mi riesce davvero mai dirgli di no. Anche se in questo caso non so cosa inventarmi per questi lividi.
Il punto è che quando poi mi dice che mi aspetta e lo sento letteralmente saltellare dall'altra parte della cornetta, io mi dimentico che nemmeno dieci minuti prima volevo soltanto murarmi vivo tra le pareti della mia cucina e invece di svoltare a destra ad un isolato da casa mia, faccio inversione e mi dirigo praticamente dall'altra parte della città.
Quando apre la porta di casa, Bill è pronto a saltarmi in braccio e vomitarmi addosso tutte le ingiustizie della sua esistenza, lo so perché lo conosco e perché d'altronde mi ha chiamato per questo, ma si ferma sulla soglia non appena mi vede. Mi sono dato un'occhiata nello specchietto retrovisore: ho un occhio viola e gonfio, il labbro spaccato in due punti e quello che credo sia un ematoma sulla guancia. Poi naturalmente c'è il cerotto che Fler mi ha messo in fronte e che è grande abbastanza da prendermi parte della testa sotto al cappellino.
“Peter, che diavolo ti è successo?” Esclama sconvolto, sgranando gli occhi.
E io non so esattamente cosa rispondergli, perché venendo qua ci ho pensato e qualsiasi scusa mi sia venuta in mente non reggeva nemmeno nella mia testa.
“Fammi entrare,” dico soltanto ed entro prima che sposti il braccio. Lui si scosta e chiude la porta, seguendomi con lo sguardo finché non mi lascio andare sul divano e mi scappa un sospiro, come se non stessi seduto da ore, quando invece ho guidato fino a qui. Ho voglia di stendermi, mi gira la testa.
“Ma stai bene?” Mi chiede lui e mi si avvicina, guardandomi per dritto e per rovescio, come se non credesse che sono davvero in questo stato. “Vuoi che prenda la cassetta del pronto soccorso? Ti sei disinfettato?”
Io socchiudo gli occhi alla scarica di domande e intanto gli indico il mega-cerotto e in generale anche il fatto che non sanguino, sono solo a pezzi.
Lui si sistema meglio per terra e mi accarezza il viso, in quei due o tre centimetri in cui Fler ha avuto la grazia di non pestarmi. Sento la pelle che tira ovunque e vorrei dirgli di non toccarmi ma sto zitto perché se parlo c'è il rischio che voglia delle spiegazioni – che vorrà, naturalmente, ma magari finché non parlo io, non parla nemmeno lui –, così faccio solo una piccola smorfia quando sfiora appena uno dei lividi e, quando la faccio, mi viene automatico farne un'altra perché qualsiasi movimento è drammatico. Mi fanno male anche le dita dei piedi e non so bene perché.
Quando guardo Bill, mi rendo conto che non dev'essere affatto facile nemmeno per lui, perché questa situazione precisa scatena ricordi che non gli hanno mai fatto del bene. Potrei ripetere a memoria tutte le volte che mi ha raccontato di come Bushido arrivasse piegato in due a casa sua a spargere sangue sui divani da migliaia di euro e come ha imparato a fare cose che non si sarebbe mai sognato di dover fare. Lo vedo dai suoi occhi che nel cervello gli sta passando ogni genere di scenario, sono gli stessi occhi che aveva quando è passato a trovarmi il giorno che è stato Anis a pestarmi, e mi ha trovato con la borsa del ghiaccio in testa. “E' stato di nuovo lui?” Mi chiede alla fine.
Per una volta mi domando cosa succederebbe se mentissi, e poi capisco che sarebbe una cazzata. Innanzi tutto perché Bill lo scoprirebbe nel giro di un paio d'ore – anche se non parlasse con Bushido, cosa di cui dubito fortemente, parlerebbe con David che si sente talmente in colpa per avergli mentito finora che sarebbe capace di immolarsi personalmente. E anche se il manager non sa che è stato Patrick a menarmi, sa sicuramente che non è stato Bushido perché sa sempre ogni cosa che lo riguarda, ormai – e poi perché non ha senso fargli pensare che a Bushido ha dato di nuovo di volta il cervello ed è venuto fino da me a pestarmi: Bill ha fatto la sua scelta, e Bushido sa perfettamente che in questa decisione contavo quanto lui. Non avrebbe motivo di pestarmi come la prima volta. Di motivi per picchiarmi Patrick ne aveva, invece, ma Bill questo non può saperlo e io non me la sento di dirglielo adesso. Forse perché avrei dovuto farlo prima, e adesso e tardi; o forse perché ho appena perso qualcosa, e quel che ne resta voglio tenermelo per me, finché posso, che ad aprire bocca e raccontare mi sembra di darlo via. Saperlo, tanto, non gli serve, perché non l'ho mai tradito, perché mentirgli non lo danneggia, e con Patrick io non ho mai tolto niente a lui.
“No, non è stato lui,” ammetto.
“E allora chi?”
Medito se dire che sono caduto dalle scale, ma dovrei essere rotolato giù da un tempio Maya per essermi fatto così tanto male. Potei dirgli che mi hanno pestato per strada, anche, ma non ci riesco. Un conto è omettere la verità, un conto è guardarlo in faccia e dirgli che un branco di strafatti mi ha pestato a sangue per i cinquanta euro che ho nel portafoglio.
Lui mi guarda, e forse un po' spera che gli racconti com'è andata, ma non insiste.
E qui mi torna in mente una cosa che mi ha detto Fler il giorno che abbiamo lasciato il ristorante elegante dopo aver incontrato Greta. Secondo lui le donne del ghetto non sono donne come tutte le altre, ma hanno una consapevolezza tutta diversa del loro ruolo. Quando me lo ha detto, io gli ho risposto che era una cosa sessista e anche un po' retrograda pensare che le donne abbiano un certo ruolo e che devono pure mantenerlo con certi atteggiamenti. Lui quel giorno mi ha guardato e poi mi ha detto “Tu non capisci proprio un cazzo, Chakuza” e me lo ha detto in un modo totalmente diverso dal solito, tanto che ho intuito che stavolta era serio. Quello che voleva dire quando mi ha spiegato questa cosa, io lo capisco adesso qui con Bill. Apro bocca per rispondergli – non so cosa, ma ormai ci sono abituato – ma ho un colpo di tosse e allora mi ricordo che ho la gola secca da far paura.
“Ti prendo qualcosa da bere,” sospira lui alla fine, e i suoi occhi cambiano espressione proprio lì davanti a me. Un attimo prima sperava che rispondessi, l'attimo dopo ha rinunciato a sapere. Ma non è arrabbiato, più rassegnato direi. Come se in fondo in fondo una risposta non se l'aspettasse proprio, come se fosse un percorso collaudato quello di me che arrivo con un segreto evidente e lui che prova a chiedere ma non ottiene niente. E' una cosa che, per altro, mi sembra non riguardi soltanto me e lui o lui e Bushido, ma anche altra gente che io non conosco e non conosce nemmeno lui. Una specie di tradizione, memoria storica, retaggio culturale. Non lo so. Fatto sta che forse io non sono un gangster e sono fuori posto, ma Bill il suo ruolo ce l'ha, gliel'ha dato Bushido; e forse è con Bushido che Bill ha imparato ad essere una donna del ghetto, ma quel ruolo, quel modo di essere, gli è rimasto incollato addosso al punto che anche se arrivo io – che canto, che sono anche un cuoco, magari, ma di certo non sono un gangster – lui comunque si comporta come deve.
“Aspetta.” Prendo Bill al volo mentre si alza e me lo tiro addosso. Lui non fa nessuna resistenza, si lascia andare tra le mie braccia e mi appoggia la testa su una spalla, nascondendo il viso. “Non ho molta voglia di parlarne. Possiamo rimandare questa discussione?” Gli chiedo, posandogli un bacio sulla testa.
“Non importa, non devi dirmelo per forza,” fa lui. E non è davvero arrabbiato, né triste. E' qualcosa che non è mai stato fino a questo preciso momento perché non lo abbiamo mai avuto un momento così, e non so definirlo. Non alza la testa, sento solo le sue labbra muoversi contro il mio collo mentre si stringe nelle spalle. “Anche Anis non mi diceva mai niente.”
Ecco cosa voleva dire Fler; che il ghetto lascia un'impronta ben precisa su tutte le persone che vi sono coinvolte, e sulle sue donne l'impronta è che loro sanno esattamente come rimettere insieme i pezzi degli uomini che si scelgono, anche quando questi tornano in stato pietoso e non vogliono raccontare cos'è successo. Bill con me l'aveva fatto anche la prima volta, ora me ne rendo conto. Mi ricordo come ha recuperato la cassetta del pronto soccorso, come sapesse già esattamente che cosa fare, come sapesse già esattamente che era stato Bushido. Aveva già capito tutte le meccaniche o tutte quelle che gli serviva sapere. Anche adesso, anche se gli mancano dei particolari. Eppure non chiede, perché sa di non doverlo fare. Forse con Bushido questa cosa aveva più senso, perché lui forse avrebbe avuto da nascondere cose che col ghetto c'entravano davvero, ma non è questo il punto.
Questo ruolo, questo di raccogliere i pezzi una volta che gli altri si sono mossi, hanno fatto e disfatto, non impedisce a queste donne – non impedisce a Bill – di avere più forza di tutti gli uomini messi insieme. In fondo questo ragazzino ha superato la morte di un uomo che amava più della sua stessa vita e ha sparato in fronte ad un altro essere umano. Pensare che le donne del ghetto abbiano un certo ruolo potrà anche sembrare sessista, retrogrado e anche stupido considerando che Bill non è una donna, ma lui ha capito più cose di questo schifo di situazione di quante ne abbia capite io. E ne sa più di me, sempre, perché lui è nel posto giusto e io invece non so nemmeno dove sono. Forse è lui che dovrebbe fare a botte per me, forse finirebbe anche per uscirne vivo.
Me lo stringo addosso e lui mugola un po', nascondendo il viso con un sospiro. “Dimmi solo che non c'è di mezzo qualcosa di grosso,” mormora esasperato. Che immagino significhi qualcosa come Saad, quindi posso ragionevolmente rispondere di no.
Ho fatto un gran casino, senza dubbio, ma di cadaveri nel fiume, stavolta almeno, io e Fler non ne abbiamo buttati.

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