I'm An Outsider Outside Of Everything

di lisachan
Per sapere che Bushido era ancora vivo, io ho dovuto fisicamente estorcere l’informazione a mio fratello, costringendolo in un angolo e schiacciandolo fra me stesso e la parete intrappolandolo fra le mie braccia finché non si fosse deciso a parlare e raccontarmi tutto. È stato in questo modo che ho appreso che io e lui eravamo venuti a conoscenza della cosa nello stesso modo, cioè attraverso la dannata rivista.
Quando mi sono ritrovato quella copertina davanti, la prima cosa che ho pensato è stata “Che cazzo, Bushido non andrebbe mai in giro con una fottuta coda”. E quindi, a quello che stavo guardando, non ho dato un centesimo.
Ho chiamato Bill, però, perché supponevo potesse avere voglia di smadonnare un po’. Cioè, trovi una roba così su una rivista del cazzo, ti viene un po’ voglia di tirare giù i santi uno per uno e dire loro cosa esattamente pensi delle loro sacre persone.
E invece niente. Chiamo, squilla, lui non risponde. E io mi preoccupo, ovviamente. Perché penso “Dio mio, se Bill è in quel periodo del mese in cui finge di avere il ciclo per ricordarsi che il suo obiettivo primario è diventare il più possibile donna senza farsi tagliare via l’uccello, allora ci sta anche che l’abbia presa un po’ tanto male. E quindi magari, più che avere voglia di tirare giù i santi, ha avuto voglia di piangere”.
Insomma, alzo il culo e mi muovo. Se Bill sta piangendo fino a sputare i polmoni, mi dico, è giusto che non stia da solo a farlo. Penso: magari se mi sbrigo arrivo pure prima di quella piaga sociale di Chakuza, che al momento, peraltro, sta così fottutamente appiccicato al culo di mio fratello da darmi da pensare voglia farci tutt’altro che starci solo appiccicato, a quel culo. Prima o poi dovrò prenderlo di petto e dirgli che è inutile che ci speri, a mio fratello piacciono alti, scuri e pericolosi, e lui non è niente di queste tre cose. Fler – che pure è tanto bianco che, appena fa un po’ di fatica, tira fuori un paio di guanciotte rosse neanche fosse Heidi che sono una cosa spassosa – al suo confronto è una minaccia molto più consistente. Anche se a Fler potrei anche darlo, mio fratello. Anche perché, tanto per cominciare, sa maneggiarlo, che con Bill non è una cosa così scontata. Anche Bushido, a volte, faticava a domarlo. Fler invece ci va in scioltezza. Senza problemi. E poi, andiamo, è Fler. Palesemente non potrei mai rifiutargli nulla.
Comunque, niente. Arrivo a casa sua e mi faccio tutto un filmino per il quale, quando mi aprirà e vedrà che sono io, mi si getterà fra le braccia chiamandomi piano fra i singhiozzi – “Tomi, Tomi!” – ed io potrò fare la parte del fratello maggiore adulto, maturo e comprensivo – che poi mi si adatta un casino, perché mi fa sempre bellissimo – e consolarlo stringendolo forte ed accarezzandogli i capelli, per poi piazzarlo con una pizza in grembo davanti a The Notebook fino a rincoglionimento totale e successiva nottata passata a dormire avvinghiati sul divano. Come da copione, insomma.
E invece niente, di nuovo. Mi accoglie il vuoto, Bill non c’è, ‘sticazzi. Medito se tornarmene a casa, ma poi mi dico “che diamine, magari era fuori e non lo sa ancora. Allora, a questo punto, è meglio che mi trovi qui, così potrò essere io a dirglielo”. E giù altri filmini con me – fratello perfetto – che mostro quella roba a Bill – piccolissimo e sconvolto – e dopo lo rassicuro dicendogli “vedrai, ora ne parliamo con David. Li lasciamo in mutande, quei bastardi”.
Comunque, resto lì armato di buone intenzioni e di infinita pazienza, ad aspettare che mio fratello torni da… dovunque si trovi. E resto lì le ore. Tant’è che a un certo punto mi rompo pure le palle ed uso il doppione delle chiavi per salire e infilarmi nel suo appartamento, dove mi svacco su uno dei divani e poi continuo a restare in attesa finché non sento il rombo del motore dell’Audi di David, che ormai conosco a memoria. E mi chiedo, in effetti, cosa ci faccia Bill con David. Però sono troppo cretino, forse, o forse troppo ingenuo, e comunque quella cosa sulla rivista non l’ho mica presa così sul serio, perciò tutto ciò che faccio è saltare in piedi e muovermi anche con aria piuttosto rabbiosa verso la porta, spalancandola nello stesso identico momento in cui mio fratello viene fuori dall’ascensore.
Disfatto.
Non si aspetta di vedermi, e quando mi inquadra spalanca gli occhi arrossati e stanchi.
- Tomi… - sussurra appena, immobilizzandosi sulla porta. – Come… perché-
- Dove cazzo sei stato?! – lo attacco io, preoccupato dai suoi lineamenti tesi e dalle tracce evidenti di pianto che ancora gli rigano le guance, - Cristo, non hai neanche portato con te il telefono! Mi sono preoccupato!
Bill si passa una mano sugli occhi, sospirando profondamente, e poi mi supera, infilandosi nel niente di spazio che c’è fra il mio corpo e lo stipite della porta.
- Tomi, per favore… - mugola, dirigendosi verso il frigorifero ed aprendolo alla ricerca di qualcosa da bere, - Oggi non è proprio giornata.
- Cazzo, no che non è giornata. – borbotto, e fanculo a tutti i buoni propositi del dirglielo con tatto. – Hai visto il Bravo di oggi?
Bill riemerge dal frigorifero con un bottiglia d’acqua in mano, e appena sente la parola “Bravo” si congela sul posto.
- …l’ho visto. – risponde in un soffio, senza guardarmi.
- Che stronzi, mh? Ora viene fuori che Bushido è risorto. – butto lì. E lo faccio con cattiveria, visto che quando qualcuno in qualche parte del mondo pronuncia il suo nome, Bill sta fisicamente male. – Il prossimo passo qual è, la santificazione?
Bill si volta a guardarmi con una calma raggelante. Non dice una parola, ma solo a cercare di leggere cosa c’è nel fondo dei suoi occhi mi salgono i brividi per tutta la schiena. Manda giù un altro sorso d’acqua, poi posa la bottiglia sul ripiano accanto al frigorifero e si asciuga le labbra col dorso della mano, come un bambino. È l’unica cosa che incrina appena la dignità glaciale e del tutto fuori luogo con la quale continua a parlare.
- Non è risorto. È lui.
E potrei ridere, dargli del cretino, mandarlo a fanculo o anche urlargli di piantarla di prendermi in giro. Ma non lo faccio. Perché quest’espressione qui io l’ho già vista, secoli fa. Anche se ormai stavo cominciando a dimenticarla.
Capisco che Bushido non può essere altro che vivo, perché questo è il suo Bill. Quello che s’era portato nella tomba. Ecco, adesso l’ha riportato fuori.
Bill guarda altrove e fa per evitarmi – lo vedo che si allontana verso la camera da letto, perfettamente intenzionato a non dire una parola di più sull’argomento – ma io decido che mi sono rotto i coglioni di non sapere cosa gira per la testa di mio fratello. Da quando mi sono mosso di casa non ho fatto che cercare di immaginare ciò che Bill avrebbe potuto fare o stesse facendo, e non ne ho presa una. Tutto sbagliato. E dire che un tempo riuscivo a capire quali sarebbero state le sue mosse ancora prima che lui le facesse. Ora non mi riesce nemmeno di immaginare cosa stia combinando nel momento in cui lo combina.
Mi alzo in piedi e mi muovo svelto verso di lui, piantando una mano sulla parete così improvvisamente che lui quasi va a sbattere contro il mio braccio. Si ferma appena in tempo e si volta a guardarmi con aria oltraggiata, le sopracciglia inarcate e le labbra piegate in una smorfia infastidita.
- Sono stanco. – mi informa atono, - Voglio andare a dormire.
- Non mi interessa. – rispondo io, sollevando anche l’altro braccio e intrappolandolo perché non possa sfuggirmi. – Cosa è successo?
- Niente. – ringhia a muso duro. Io aggrotto le sopracciglia e mi chino sul suo collo, annusandolo piano. Lui si scosta di pochissimo, trattenendo il respiro. Non è spaventato da ciò che sto facendo. È spaventato da ciò che potrei leggergli addosso.
- Hai scopato. – dico, tornando a guardarlo negli occhi, - Da quanto lo sai? Da quanto vi vedete?
- Non sono cazzi tuoi. – sbotta acido, e mi pressa le mani contro il petto nel tentativo di allontanarmi. Io batto i pugni contro il muro talmente forte che l’eco rimbomba per tutto l’appartamento silenzioso, e Bill mi guarda con aria sinceramente spaventata.
- Lo sono. – rispondo a voce bassa, gli sto così vicino che posso leggergli negli occhi qualunque cosa. Bill, ogni tanto, ha bisogno di essere costretto. – Come cazzo ha fatto? Perché l’hai visto? Perché ci hai scopato, Cristo santo? Da quanto è tornato?
Bill mugola e distoglie lo sguardo, mordicchiandosi un labbro con aria incerta.
- Non… non lo so, Tomi. – biascica, stringendosi nelle spalle, - Non so niente, so solo che è qui. Non volevo-
- Non dire balle. – lo interrompo con un grugnito contrariato, - Forse davvero non sai niente, ma non venirmi a raccontare che non volevi andarci a letto. Non ci saresti andato. – sospiro e mi scosto appena. – Non ti ha spiegato proprio nulla?
Lui non risponde subito.
- Non gliene ho dato veramente il tempo. – ammette alla fine, sospirando pesantemente, - Dice di averlo fatto per me. Dice… che era preoccupato. Che l’ha fatto perché ero in pericolo. Ma era lui quello a cui avevano sparato! Non io! – riprende con più veemenza. Io penso distrattamente che Bushido era in casa di mio fratello, quando è morto, anche se poi non è morto davvero. Penso che, se di fronte a quella finestra non ci fosse stato Bushido, fra mio fratello e tutto il resto, forse le cose sarebbero andate diversamente.
Penso che Bill, come al solito, non stia riuscendo a vedere la situazione nel modo corretto – ricordandosi cioè che esistono altri cervelli ed altri modi di affrontare le situazioni oltre al suo. Così come non ha mai capito perché io abbia distrutto l’intera discografia di Bushido, quando mi ha detto che stavano insieme, non riesce a capire perché Bushido abbia deciso di distruggere la propria vita, quando ha scoperto che stare insieme a lui era troppo pericoloso. È evidente.
- …come ha fatto? – chiedo quindi, allontanandomi da lui e lasciandolo nuovamente libero di muoversi, - Come c’è riuscito?
- A sopravvivere? – chiede lui di rimando, sorridendo amaramente mentre ricomincia a respirare, - O a starsene nascosto fino ad ora?
Io rido appena.
- Entrambe le cose.
La voce di Bill mi fa eco con una risata uguale.
- Non so neanche questo. – risponde con un sospiro, - Però c’entra David.
- Gli ha offerto i propri organi in regalo? – scherzo, - L’ho sempre detto io che il modo in cui lo guardava non mi tornava…
- Ma no! – ride più apertamente Bill, coprendosi le labbra con una mano, - Non c’entra col fatto che sia sopravvissuto, credo. Però con tutto il resto sì.
Io annuisco e per la testa mi passano pensieri di ogni tipo – dall’andare a pestare David finché non mi abbia spiegato per bene in che cazzo di casino si sia andato a ficcare lui trascinandosi dietro noi tutti quanti insieme, all’andare a fare la stessa precisa identica cosa anche con Bushido, per gli stessi precisi identici motivi e con gli stessi precisi identici intenti – e mio fratello nel mentre smette di ridere – la sua risata si spegne sfumandosi nel silenzio come un vecchio disco di musica anni Sessanta o chessò io – e si lascia andare seduto sul divano. Non sembra più tanto intenzionato a restarsene solo a piangersi addosso, e questo mi sta bene, perciò mi siedo al suo fianco e gli passo un braccio contro le spalle, stringendomelo addosso e coccolandolo un po’.
- Tomi… - si lamenta a bassa voce, nascondendo il viso sul mio collo, - Ho fatto una cazzata enorme.
Io annuisco perché sì, me ne rendo conto che andare a letto con Bushido sia stata una mossa un tantino avventata. Però io, in quel momento lì, non so un cazzo. Io mi sto davvero solo illudendo – come al solito – di avere vinto. Di sapere cosa ci sia nella testa di mio fratello.
Probabilmente io ho smesso di sapere con esattezza cosa ci sia in quella testa a diciassette anni. E non ho più ripreso.
Che sia stata una mossa un tantino avventata, perciò, è tutto ciò che penso. E lo stringo un po’ di più, e quando gli dico “si sistemerà tutto” lo faccio credendoci. Proprio perché non so un cazzo. Non si sistemerà niente, invece. Adesso che osservo mio fratello sbiancare mentre Bushido gli dice che sa tutto, invece, è molto più chiaro che non si risolverà proprio un bel niente. Ed io, in tutto questo, riesco solo a pensare che Bushido sa molto più di quanto non sappia io.
A volte mi sembra quasi di essere io, quello che è morto perdendosi pezzi della vita degli altri.
*
Cassandra è stata inizialmente solo una scopata, nonché l’unica cosa buona sia venuta fuori dalla frequentazione forzata di rapper cui mi ha costretto per lungo tempo il fatto che mio fratello andasse a letto col capobranco. Seriamente, io avrei fatto volentieri a meno di essere controvoglia risucchiato in un mondo che credevo il massimo del figo e tutto il resto, per scoprire che tutta la gente su cui avrei scommesso qualsiasi cosa era in realtà un manipolo di deficienti. Voglio dire, Chakuza è un cuoco. Eko un cretino. Io ero felice quando credevo che questa gente fosse gente pericolosa. Ero felice di odiare mio fratello perché stava infilandosi in un mondo oscuro e potenzialmente mortale. Ma questo ho potuto pensarlo per qualche mese, prima che – per forza di cose, perché ci mancava l’aria, altrimenti – io e Bill ricominciassimo a frequentarci e parlare. Quindi, tolti quei pochi mesi all’inizio, ho dovuto comunque fronteggiare più di due anni di frequentazione. Sarebbe stato veramente drammatico se, oltre alla distruzione dei miei miti infantili, io non avessi ricavato nient’altro.
Ok, ho conosciuto Fler, d’accordo, questo teoricamente sarebbe dovuto bastarmi anche senza Cassandra. Intendo, Fler è l’unica cosa che sia rimasta pressoché intatta di tutti i miei miti, perché è un figo davvero. Cioè, al di là di qualsiasi cosa si potesse dire di Bushido – compreso il fatto fosse palesemente un pedofilo; magari non violentatore, ma pedofilo di sicuro – era ovvio che lui fosse l’unico vero gangster del mucchio, in mezzo a gente che c’era entrata per caso. E Fler è uguale, però meglio perché non è uno stronzo intollerabile come invece Bushido è sempre stato, è ancora e sempre sarà se la Morte non si accorge di esserselo lasciato sfuggire e non viene a riprenderselo. Al di là di Fler, comunque, sono tutti veramente da prendere e buttare nel cesso, dal lato dell’Ersguterjunge. Ed infatti Fler non è dell’Ersguterjunge. Quelli dell’Aggro mi sono rifiutato di incontrarli, comunque; non vorrei ritrovarmi a scoprire controvoglia che Sido fa la maglia guardando Verbotene Liebe in pausa pranzo.
Comunque. Cassandra, dicevo. È un po’ inquietante che io volessi parlare di Cassandra e sia finito a raccontare quanto profondamente apprezzi Fler. È che lui è tipo una roccia, avreste dovuto vederlo quel giorno in cui è venuto a prendere Bill a casa per portarlo fuori – c’è stato un periodo, dopo quella notte tremenda, in cui solo lui portava Bill fuori, perché Bill voleva in giro solo lui – ed io ero ancora preso malissimo per tutta la faccenda di Saad – “la faccenda di Saad”, sentitemi, sono costretto a parlare per eufemismi, sennò non riesco – e quindi ho ringhiato e pure parecchio, sono arrivato quasi a buttarlo fuori di casa, e lui niente, mi si avvicina con quei fanali azzurri piantati nei miei occhi e fa “non ti ho chiesto il permesso di portare fuori tuo fratello, ragazzino”, che io quando mi sono sentito chiamare in quel modo mi sono pure sentito un sacco a disagio, perché boh, il suo “ragazzino” è Bill e va bene essere gemelli, ma non confondiamo, e comunque niente, mi sono zittito all’istante perché comunque ha un modo di parlarti che è pacato tranquillo pure quando vedi che se ti rifiuti di obbedire ti fa di tutto. Fa un sacco paura Fler, quando ti guarda e ti parla così.
Ma io volevo parlare di Cassandra.
Cassandra era una donna di Bushido. Problema numero uno degli uomini con carisma: quando ti mettono le mani addosso è la fine, una volta è per sempre. Quindi, niente, quando io ho conosciuto Cassandra lei ovviamente già non ci stava più con Bushido, però era ancora una delle sue donne, e per questo motivo metterle le mani addosso è stato assolutamente impossibile fino a quanto Bushido non s’è tolto dalle palle. Contando il fatto che era una dei pochissimi membri della famiglia allargata di Bushido con cui Bill andasse perfettamente d’accordo, e contando il fatto che per questo gravitava tantissimo intorno a casa nostra, potete bene immaginare la tortura di vedere questa bellezza color caramello svolazzarmi sotto il naso a intervalli regolari di una volta ogni due giorni, senza poterla toccare neanche per sbaglio pena morte istantanea preceduta da tortura pubblica nel cortile della Villa Gialla.
Insomma, per tutto il periodo in cui Bill è stato con Bushido, io ho approfittato del fatto che tutti – Bushido compreso – fossero distratti dall’omosessualità emergente del loro capo, ed ho cominciato ad accerchiare Cassie. Non ho fatto nient’altro ed in realtà anche quel poco che ho fatto non è stato niente di eclatante. C’è questo momento meraviglioso, nel corteggiamento, che sta proprio all’inizio; è un momento in cui tu non fai praticamente nulla, ti limiti a dare dei segnali e restare in attesa per vedere se quei segnali sono stati colti e accettati. Perciò c’è stato questo periodo stupendo in cui io e Cassandra non abbiamo fatto che sorriderci.
Non è che le morissi dietro, eh. Anche perché, con l’ombra scura di Bushido a pendere sopra le nostre povere teste innocenti, non è che mi aspettassi davvero qualcosa. Però era un’opportunità, era bella e tanto valeva tenerla da conto. Al più mi perdevo in qualche epica fantasia nella quale, in seguito ad un’esplosione particolarmente forte di tensione sessuale irrisolta, finivo per schienarla contro una parete senza pensare alle conseguenze di quel gesto; a quel punto, Bushido ci beccava ed il resto della fantasia ero io che restavo a fronteggiarlo a testa alta, riempiendolo di botte sotto lo sguardo estasiato sia di Cassandra – che, appena concluso il pestaggio, mi saltava al collo ringraziandomi per averla liberata dal giogo del crudele dittatore – che di Bill – il quale poi diceva a Bushido ancora in terra e sanguinante qualcosa di meraviglioso tipo “Anis… ti credevo un uomo forte”, per poi chinare il capo ed allontanarsi con me e Cassandra nella luce del tramonto, verso un futuro migliore.
Volete far felice un uomo? Dategli un pomeriggio da solo sul divano e la libertà di immaginare sesso, botte e dichiarazioni epiche nelle quantità che preferisce. Avrete salvato una vita. Io me la sono salvata così, per dire – ok, magari non la vita, ma la razionalità di sicuro; c’erano questi momenti in cui la presenza di Bushido, per quanto potessi sforzarmi di ignorarla, era così ingombrante che non mi sentivo libero di fare niente. Sono cose che possono mandarti al manicomio. Soprattutto se non te le sei scelte.
Comunque poi Bushido è morto, ed io non è che abbia avuto granché modo di pensare a Cassandra, tra mio fratello che si deprimeva, mio fratello che cominciava ad impiantarsi notte e giorno a casa del dannato Chakuza e mio fratello che finiva per uccidere libanesi in mezzo a una strada a due giorni da Natale. Insomma, fra mio fratello e mio fratello, non è che avessi granché tempo libero. Come sempre. Mio fratello riempie la totalità del tempo di chiunque gli graviti attorno. Tutti, poi. Anche contemporaneamente. Palesemente non può essere una persona sola. Io ho in realtà tre o quattro gemelli, me ne accoro da queste piccole cose ed anche dal fatto che non è possibile cambiare umore repentinamente tanto quanto fa mio fratello di continuo. Quindi per forza devono essere tre o quattro. Magari Bushido s’era rotto le palle per questo, quando ha deciso di disertare e darsi alla macchia. Comprendo la sua obiezione di coscienza.
Al di là delle cazzate, comunque, anche dopo la roba di Saad sono stato molto preso. Pure troppo preso, nel senso che sono entrato in loop iperprotettivo nei confronti di Bill. Peraltro è un cosa che lui detesta ma che a me serve perché, essendo sempre stati appiccicati come le gomme da masticare alla suola delle scarpe, quando me lo perdo di vista comincio a dare di matto. Sono perfettamente consapevole dell’assurdità di tutto questo e so anche che per Bill non è la stessa cosa – d’altronde, per quanto gemelli, siamo comunque due persone diverse e viviamo le relazioni in modi diversi – ma non posso farci niente. Quindi, in pratica, ho passato tutto un periodo orrendo in cui ho costretto Bill a vivere con me – anche se lui aveva decisamente bisogno di coccole, quindi non si è esattamente lamentato – e non ho permesso a nessuno di avvicinarsi a noi, con l’eccezione di Fler, di fronte al quale ero palesemente impotente e del quale comunque Bill aveva un intenso bisogno.
Da quella situazione, se Cassandra non avesse deciso autonomamente di smettere di sorridere e baciarmi, io probabilmente non ne sarei mai uscito. E in realtà dopo non è che sia veramente successo qualcosa. Solo, niente, ha ripreso a sorridere ma ha anche continuato a baciarmi. E tutto il resto.
Fra me e Cassandra c’è una cosa un sacco tranquilla. Che mi piace tantissimo. E credo di averne il bisogno, adesso – intendo, di tenere fra le mani qualcosa che sia dolce e buono e basta, senza dovermi preoccupare di vederlo crollare fra le mie mani da un momento all’altro. Il ritorno di Bushido, in questo momento, non mi interessa, e soprattutto non mi intralcia in nessun modo, perché Cassandra è forte davvero, e per quanto lui possa insistere con gli sguardi confusi e disapprovanti che mi lancia da ieri, e per quanto possa insistere a chiamarla “stella” anche quando siamo insieme, so che Cassandra è più forte di lui. Ne ho parlato con Fler, dopo quel disastro di cena che ha avuto luogo a casa di Bushido, e lui ha riso. “Donne del ghetto”, ha commentato. Io ho annuito perché mi sa che ha ragione. Sono le femmine, quelle veramente cazzute. Per quanto tutto ciò possa sembrare assurdo.
Tutta questa premessa – su me, su Cassandra, su Fler che non c’entrava ma c’è entrato lo stesso chissà come, e su Bill, naturalmente – io l’ho fatta per spiegare che, a parte le sparizioni settimanali alle quali ultimamente mio fratello si lascia andare e per le quali dovrò decidermi a torchiare per bene David – perché lui non può propinarmi scuse come “Bill è in beauty farm” ed aspettarsi pure che io ci creda – insomma, a parte questo, prima del ritorno di Bushido io stavo conducendo un’esistenza piuttosto felice e tranquilla. C’erano delle cose oggettivamente incomprensibili – il rifiorire immotivato di mio fratello, e non che non mi facesse piacere, ma restava incomprensibile; o l’ombra scura perennemente presente negli occhi di Fler; o la ruga che, sempre con maggiore insistenza, andava formandosi sulla fronte di David, proprio in mezzo alle sue sopracciglia – ma non erano cose che mi infastidissero particolarmente.
Ma ora è tutto diverso. E adesso, in questo salotto, di fronte a questa scenata indecente, di fronte alle lacrime di mio fratello, di fronte all’espressione dura e risentita e soprattutto ferita di Bushido, io devo prenderne atto.
*
Potrei raccontare nel dettaglio la giornata di oggi fin da quando mi sono svegliato, ma sono quasi sicuro che perdermi nella mia testa al momento sarebbe deleterio. Non devo perdermi, devo solo cercare di riassumere le ultime ore della mia esistenza per avere un punto fisso da cui ripartire quando finalmente riuscirò a prendere pienamente coscienza del disastro in atto.
Quindi niente resoconto dettagliato, non mi soffermerò su quanto fosse buono stamattina il profumo di Cassie attaccato alle mie lenzuola, alla mia pelle e ad ogni molecola d’aria che riempiva la stanza; non mi soffermerò su quanto abbia trovato odioso lo squillo del cellulare e non mi soffermerò su quanto mi sia sentito stupido nel rassegnarmi comunque a rispondere alla chiamata appena individuato il nome di Bill sul display. Non parlerò diffusamente di quanto mi sia sembrato strano sentirgli dire “vado da Anis… mi accompagni?” – Dio, come faccio a non parlarne diffusamente? Bill ha sempre visto i momenti di intimità con Bushido come, tipo, cose sacre e inviolabili, per quale cazzo di motivo avrebbe dovuto volermi fra le palle in una situazione come quella? – e non dirò nemmeno quanto io l’abbia trovato teso quando sono passato a prenderlo da casa sua per portarlo all’appartamento in cui Bushido sta per ora; non lo descriverò, anche se potrei dipingerle, le linee corrucciate delle sue sopracciglia, e disegnare il broncio teso e chiuso delle sue labbra.
Però posso raccontare quello che è successo da quando ho messo piede in questa casa, perché questo è importante. Posso raccontare di Bushido tanto scuro da fare paura, colore della pelle a parte. Posso raccontare della paura di Bill, perché me la sono sentita fisicamente addosso per tutto il tempo. Posso parlare del suo imbarazzo quando Bushido gli ha chiesto di andare a prendere da bere in cucina mettendoci meno tempo di quanto non ne avesse perso il giorno prima durante la cena. Posso parlare a lungo della luce tremolante negli occhi di mio fratello e di quella netta e brillante negli occhi di Bushido. Posso parlare di quel momento di immobilità in cui io mi ero già impossessato di un divano su cui svaccarmi e mi stavo ancora chiedendo cosa cazzo ci facessi proprio io e proprio in quel momento in quel dannato salotto, mentre alle mie spalle, fra gli occhi di Bill e quelli di Bushido, scoppiava una guerra tale che avrei dovuto sentirne il clangore anche se fossi stato su un altro pianeta. E invece niente. Invece il silenzio. Posso descrivere ogni sfumatura di quel silenzio – quella tesa, quella angosciata, quella già prematuramente disperata – posso farlo, devo farlo, perché quel silenzio è stato l’ultimo di questa giornata che abbia avuto un significato e sia valso qualcosa.
Poi Bushido ha parlato.
- So tutto.
La sua voce risuona in questo silenzio in maniera così fisica che mi sembra di poterla toccare. È scura e decisa. È molto da lui, così com’è molto da lui dare per scontato la gente capisca a prescindere di cosa stia parlando. Per me non è così ed evidentemente neanche per Bill, che si ferma a metà del salotto e si volta a guardarlo, inarcando appena le sopracciglia.
- Sai cosa? – chiede, forzando un sorriso talmente tirato che io lo guardo e penso “Cristo, Bill. Ma se lo sai già, perché chiedi?”. Ed io, in questo momento, continuo a non sapere un cazzo. Ed è un attimo di confusione che dura veramente pochissimo, solo pochi secondi. Il tempo che serve a Bushido per mettersi in piedi, sollevandosi in tutto il suo fottuto metro e novanta di altezza, e ricominciare a parlare.
- So di te e Chakuza, Bill.
E lì mi esplode il cervello. Perché, non so se vi è mai capitato, ma a volte succede che tu passi in mezzo ad una situazione, no?, diciamo pure che la vivi, ne sei partecipe e tutto, però non la comprendi pienamente. Ci sono un sacco di sfumature che ti sfuggono e il tuo cervello le registra però gli mancano tasselli, e visto che gli mancano tasselli non riesce a ricomporre gli indizi in un quadro che abbia un senso. Perciò quei particolari apparentemente stupidi – il nome di Chakuza che diventa Peter sempre più spesso sulle sue labbra, le fughe continue, i momenti di imbarazzo quando si parlava di lui e così via – tu poco a poco te li dimentichi, li archivi come cose prive di importanza.
E poi arriva qualcuno che invece la soluzione del puzzle già ce l’ha. E gli basta mezza parola, cazzo. Solo mezza. E a te basta sentirla che rimetti tutto al suo posto. E lì o razionalizzi o ti esplode il cervello.
A me esplode il cervello.
In mezzo a tutto quello che potrei pensare – Bill s’è messo con Chakuza; Bill è stato a letto con Bushido; Bill e Chakuza stanno ancora insieme? – io penso solo che è la seconda volta che mio fratello mi butta fuori a calci dalla sua vita. Penso che di tutto questo – di mio fratello che boccheggia a corto d’aria e di Bushido che continua a guardarlo con un misto di delusione e dolore – non mi importa niente. Penso che c’è stato un tempo in cui io e Bill eravamo attaccatissimi. E penso che mio fratello adesso non mi dice più nemmeno quando si innamora di qualcuno. Non mi dice quando è felice, non mi spiega perché lo è e non mi dà modo di gioirne con lui – Bill non ci ha nemmeno provato, a vedere se la mia reazione al sapere di lui e Chakuza sarebbe stata diversa rispetto a quella che ho avuto quando ho saputo di lui e Bushido.
E penso anche che tutto questo è ingiusto. Perché non posso sentirlo quand’è felice, ma in compenso quando il cuore gli batte tanto forte da fargli male lo sento ancora.
- Non hai niente da dire? – chiede Bushido a bassa voce, restando fermo dov’è. Bill deglutisce pesantemente.
- Anis- - comincia piano, ma Bushido lo ferma con un ringhio imperioso.
- Non so se voglio davvero sentirti parlare. – dice d’un fiato, guardandolo dritto negli occhi.
Bill china il capo e le lacrime cominciano a rotolargli lungo le guance in grossi goccioloni brillanti.
- Mi hai chiesto se non avevo niente da dire. Vorrei rispondere almeno a quello.
- Non so se la voglio, la tua risposta! – precisa Bushido alzando la voce e tendendosi tutto verso Bill, che incassa la testa nelle spalle come se l’urto della sua voce lo sentisse addosso né più e né meno di un ceffone.
- …Anis, ti prego. – cerca di calmarlo Bill, parlando dolcemente, anche se non riesce nemmeno a guardarlo e quindi, penso, l’effetto del suono della sua voce è di molto ridimensionato. – Lascia che ti spieghi.
- Cosa vuoi spiegarmi, Bill? – insiste lui, tagliente come una lama, - Vuoi spiegarmi perché mi sei caduto fra le braccia e ti sei fatto scopare nonostante stessi con lui da quasi un fottuto anno? – e si lascia andare ad una mezza risata ironica, incrociando le braccia sul petto mentre Bill serra le palpebre e stringe le labbra. – Quasi un anno! – ripete Bushido, il tono a metà fra il risentito e il crudelmente divertito, - Che bel lutto! Alla prima occasione favorevole-
- Non è stato così, Anis! – esplode mio fratello, stringendo i pugni, ma la sua esplosione non è niente paragonata al rombo della voce di Bushido, pochi secondi dopo.
- Te lo dico io com’è stato, cazzo! – urla, e parla proprio come se fosse stato qui sempre, in ogni momento. Perciò a me un po’ viene voglia di crederci, alla sua versione. – Quanto hai aspettato? Tre mesi? Quanto, prima di buttarti fra le sue braccia? E siete stati felici, fino ad ora? Sei tornato dritto a scopare con lui dopo avermi mandato a fanculo nonostante ti fossi fatto mettere le mani addosso- no, nonostante mi avessi chiesto tu stesso di metterti le mani addosso?!
Bill si copre il volto con le mani.
- Anis, ti prego… - mormora, e la sua voce attutita riempie la stanza in un lamento sofferente. Bushido inspira ed espira.
- Ho capito che voglio che parli, Bill. – dice freddamente, senza staccargli gli occhi di dosso, - Sono curioso di vedere se troveresti un modo di metterla che non ti faccia passare per una qualsiasi di tutte le altre troie che mi sono passate nel letto per tutta la mia vita.
Bill non solleva lo sguardo. Le sue mani stringono appena la presa sulle sue guance e poi scivolano lentamente nel vuoto, lungo i suoi fianchi. E lì restano, ai lati del suo corpo, a dondolare inermi. Seguo il tintinnio dei suoi bracciali e mi concentro su quello, perché preferisco quel suono alla voce di mio fratello che ammette “Non credo che esista, Anis”. Perché dice troppe cose tutte insieme.
Bill, che cazzo.
Che cazzo, Bill.
Bushido non se l’aspetta, comunque. Probabilmente – come me – credeva che si sarebbe difeso. Che avrebbe combattuto, in qualche modo. Che avrebbe cercato di metterla in un qualche modo che non lo facesse sembrare poi così colpevole. E invece mio fratello non esita un attimo per dargli ragione e chiudere il discorso.
Né io né Bushido ci aspettavamo niente di simile. Probabilmente perché né io né Bushido abbiamo la più pallida idea di come sia stato l’ultimo anno della vita di mio fratello. Ed in questo momento di chi sia la colpa di questa mancanza non importa poi neanche tanto.
- Fuori da questa casa. – la voce di Bushido è così bassa e lontana che sembra provenire da un altro luogo. Fa quasi paura. – Non ti ci voglio più vedere, qua dentro. Né altrove. Fanculo, Bill, noi abbiamo chiuso.
Bill solleva lo sguardo e gli punta addosso un paio di occhi enormi di terrore e lacrime.
- No… - mormora senza fiato, - Anis, no.
- Decido io, principessa. – dice lui, guardando altrove. Immagino lo faccia perché non è facile mandare a fanculo la persona per la quale ti saresti letteralmente fatto ammazzare guardandola negli occhi. – Come sempre. Sparisci.
Bill non si muove subito. Resta immobile per qualche secondo e lo guarda. Bushido non fa una piega. Il mondo intero sembra essersi del tutto dimenticato di me, ed io ne sono contento.
Riprendo a respirare solo quando Bushido si sposta e Bill prende quel movimento per ciò che è – un invito estremamente fisico a togliersi dalle palle. Obbedisce, si muove oltre la porta e scompare in corridoio, e lì ricordo che devo per forza andargli dietro – per quanto non sappia cosa dirgli e nemmeno se voglio dirgli qualcosa. O anche solo vederlo, stargli accanto, pensare a lui – primo perché è venuto in macchina con me e secondo perché io non voglio restarci in questa casa con quest’uomo che guarda il vuoto e si morde un labbro a sangue mentre negli occhi gli brucia di tutto. Perciò seguo Bill e lo faccio in silenzio, fino a quando non mi trovo sulla porta. Mentre io sono lì, Bushido lascia andare un sospiro ed io lo sento. Lo sento e non so perché mi sconvolge tanto, però lo fa.
Mi volto a guardarlo, cercando le parole. Non è facile. Non lo è per niente.
- L’ho capito perché l’hai fatto. – dico alla fine. Lui mi solleva addosso uno sguardo estenuato e non risponde. – Perché sei andato via, dico… non ho capito come, ma ho capito perché. – mi fermo un attimo e sospiro anch’io. – Mi dispiace. – aggiungo poi, - Se me ne avessi parlato, l’avrei portato via io.
Bushido serra le labbra e continua a restare in silenzio. Smette anche di guardarmi, però, e quindi decido di andare via davvero. Questo silenzio, stavolta, non sono proprio in grado di sostenerlo. Né di parlarne.

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All the small things

di tabata
Perché io mi decidessi a parlare di lui, Bushido ha dovuto tornare in vita.
Se ci penso rido, ma in realtà è una cosa molto da lui fare l’impossibile pur di venire amato, se è quello che vuole. E lui di certo, quando ha deciso di farci credere che non lo avevamo più, avrebbe voluto che io dicessi qualcosa. Invece non ho detto una parola.
I giornalisti mi hanno inseguita per settimane e, naturalmente, non si sono risparmiati di invitarmi a TRL o di chiedermi interviste per tutti gli speciali che poi sono andati in onda nel tentativo di rivelare di Bushido anche quello che non esisteva affatto.
Io non ho mai accettato, non avrebbe avuto senso farlo. Io con l’etichetta non c’entro niente e non era mio il compito di ricordarlo.
Quando è morto, una parte di me è morta con lui.
Sembra una frase fatta, ma è la verità. Anis è un uomo che quando ti ama, lo fa in maniera totalizzante e per farlo, ti ruba un pezzo di cuore, così poi tu lo ami per forza, perché ha fra le mani una parte di te. Per questo quando hanno calato la bara, quello che di lui c’era in me ha cominciato a vacillare come la fiamma di una candela e io per proteggerlo, per mantenerlo il più vivo possibile, ho preferito il silenzio.
Avevo paura che si spegnesse.
Poi, anche a me è successo quello che è successo a chiunque altro lo conoscesse e gli volesse bene. Abbiamo iniziato a sentire la sua mancanza, una specie di morsa dietro lo stomaco, la sensazione netta che avesse lasciato un vuoto fisico e che ci stessimo tutti camminando intorno, evitando accuratamente di riempirlo con qualcos’altro. Era una specie di buca in cui evitavamo di cadere ma che non ci azzardavamo a riempire. Per questo abbiamo finito per avvicinarci tutti quanti. Era un modo per sentirlo vicino. Credo che prima o poi tutti abbiamo fatto lo stesso pensiero. Ci siamo detti che se stavamo insieme, se stavamo tutti nello stesso posto, potevamo fingere che non fosse successo niente. Eravamo lì perché stavamo aspettando lui. Non era morto, era solo da un’altra parte e come al solito si faceva desiderare.
Così un giorno sono uscita di casa e mi sono presentata all’Ersguterjunge e nessuno sembrava sorpreso di vedermi. Erano tutti lì, del resto. Perfino Fler, che avrebbe dovuto darmi da pensare e invece niente. I sudditi del re ragionano tutti allo stesso modo.
Per settimane non abbiamo fatto niente, stavamo solo lì. Arrivavamo prestissimo la mattina, ci sistemavamo negli uffici ed era come quando sei un ragazzino e ti trovi a casa di qualcuno. Non hai veramente qualcosa da fare, stai lì e basta. Le prime settimane eravamo soltanto noi, poi anche Bill ha cominciato a venire.
Ricordo quando è arrivato perché eravamo nello studio grande. Eko e Kay avevano trascinato nella stanza i due divani del salottino così che potessimo stare tutti quanti insieme. Avevo portato del cibo fatto in casa perché sapevo che se li avessi lasciati da soli a nutrirsi avrebbero mangiato soltanto pizza, cibo cinese e kebab.
Poi abbiamo sentito la porta aprirsi. Ci siamo guardati. Anzi, ci siamo contati. Ed eravamo tutti lì. Per un attimo abbiamo pensato ad Anis ed è stato un pensiero quasi felice. La scena era perfetta: noi già lì, lui che ci raggiunge ovunque fosse prima. Così quando sentiamo i passi, quando scorgiamo l’ombra, ci tendiamo verso la porta perché ci aspettiamo di vederlo comparire e sorridere dicendo “Cosa ci fate già tutti qui? Non avete una vita?” Invece è Bill. E il ragazzino è a pezzi..
Anis mi ha sempre parlato di lui. Veniva da me a mangiare qualcosa, ogni tanto, e mi raccontava di quello che stava accadendo. Anzi, in realtà veniva lì con quell’intenzione ma non diceva niente finché io non portavo in tavola i piatti e chiedevo per prima. Allora lui sorrideva alla sua maniera, quella che lo guardavi ed era contagioso, e mi diceva che era una gran casino. “E’ un gran casino, Cassie,” diceva proprio così. “Ma è il più bel casino della mia vita.”
Quando ha conosciuto Bill, io l’ho saputo il giorno dopo. Lo avrei saputo la sera stessa se non fossi stata abbastanza intelligente da spegnere il cellulare. Bushido è il tipo che se gli succede qualcosa è convinto che tu voglia saperla immediatamente, anche se – per dire – sono le quattro del mattino e tu stai dormendo. Io però lo conosco benissimo, quell’uomo lì, ci sono passata, li so i suoi colpi di genio di telefonare all’alba o magari presentarsi a casa mia alle tre di notte e offrirsi di cucinare due verdure al volo intanto che mi spiegava cose – che poi finiva che lo mettevo seduto buono e lo facevo parlare mentre gli riscaldavo qualcosa dal giorno prima perché non mi facesse saltare in aria la casa. Comunque ho imparato a spegnere il telefono. Quando la mattina mi sono svegliata avevo un numero illegale di chiamate non risposte e due messaggi. Uno che diceva “Devo parlarti” e l’altro che mi avvisava, “Sto passando da te.” Non ho neanche pensato di prepararmi di corsa, tanto lo sapevo che era già sulla porta, lui non ti avverte mai in tempo utile. E, ad ogni modo, se proprio voleva vedermi, si sarebbe preso anche il mio pigiama e le mie pantofole di pelo rosa.
Me lo ritrovo in casa nemmeno dieci minuti dopo ed è in uno stato di esaltazione tale da essere quasi insopportabile. Anis per certe cose è come un bambino, quando si emoziona o c’è qualcosa di particolarmente fantastico, non sa parlare d’altro e lo fa senza prendere fiato, ti travolge di parole. Entra, mi dà il tempo di chiudere la porta e poi mi bacia sulla guancia. “Non ho mangiato, hai niente?”
“Stavo per fare colazione,” gli dico. Faccio per indicargli la porta della cucina ma lui ci è già entrato e si sta pure già servendo. Non mi resta che raggiungerlo.
“Allora, cos’è questa storia che devi parlarmi?” Mi verso del caffè intanto che lui si fa fuori l’ultimo panino che mi è rimasto in casa. Alla faccia dell’educazione e della galanteria. Il fatto è che lui sa che glielo avrei dato se me lo avesse chiesto, quindi ha saltato un passaggio e se l’è direttamente preso. Ci vuole pazienza, con lui.
“Ieri sera ero da Oliver.”
“Chi?”
“Pocher,” specifica lui, facendomi cenno col mento sollevato, mentre apre il panino e ci spalma sopra il burro. Io annuisco vaga, avrò visto questo tipo un paio di volte ma non ho ben chiaro chi sia. Bushido ci va matto, comunque. Questo lo so. “Insomma, Oliver ha dato questa festa dopo lo spettacolo e c’erano praticamente tutti.”
Tutti quelli che contano, intende. Che poi significa, tutti quelli che non contano ma servono a lui per il suo assurdo piano di conquistare la Germania. Più o meno.
“Dov’è la novità?” Chiedo, sorridendo. “Quand’è l’ultima volta che sei stato in casa tranquillo senza tornare disfatto alle quattro del mattino? Hai dormito stanotte?”
“No, vengo diretto da lì,” mi dice. “Cioè, sono passato da Chaku una mezz’oretta, con i ragazzi, ma poi sono venuto qui.”
Lo guardo. Ha addosso i pantaloni di una tuta da ginnastica nemmeno tanto nuova e una maglietta a maniche corte con il logo dell’EGJ. “Ti sei cambiato?”
“Na-ah,” risponde lui, masticando.
“Ci sei andato così alla festa di Pocher?”
Si stringe nelle spalle. “Comunque, ti stavo dicendo. In mezzo a tutta questa gente c’erano anche i Tokio Hotel. Hai presente no?” Annuisco. Direi che è impossibile accendere la televisione senza vederli. “In realtà c’erano solo i gemelli, comunque fa lo stesso. Non è che gli altri due abbiano tutta questa importanza.”
“Perché loro due sì?”
Lui ride. “In un certo senso si. Per questa storia ce l’hanno, almeno. Comunque, sono due spettacoli, veramente. Tom, il biondo, è uno di quelli che arriva e lo vedi sparire tempo zero dietro alla prima figa con la scollatura ampia. L’altro, Bill è come lo vedi in televisione.”
“Vale a dire?” Chiedo, perché mi vengono in mente un sacco di aggettivi ma non credo siano quelli giusti.
“Pesa si e no quaranta chili ed è perfetto, tipo. Sembra una ragazza, è molto carino. Comunque, il punto non è questo. E’ che mi si è avvicinato, sbattendo gli occhioni. Ed è passato tra Kay e Nyze, educatissimo. Scusate, permesso. Dovevi vedere la faccia dei ragazzi.”
A me sorge il dubbio che ci sia qualcosa che Bushido ancora non ha capito. Lui non ha nemmeno finito di raccontare, non ha nemmeno iniziato anzi, e io già vedo cose che lui non immagina proprio, perché lo so com’è. Dopo che ci siamo lasciati – io ho lasciato lui, perché oggettivamente non era cosa tra me e lui. Quindi va bene che mi depredi la dispensa ma non che stia nel mio letto, grazie – lui ha avuto un sacco di ragazze, tutte ampiamente sotto i venticinque e tutte ampiamente stupide. Anis non è un tipo da relazione stabile – cioè, non lo era al tempo – però è un tipo da innamoramento. Lui delle donne si innamora. E anche con una facilità sorprendente. Questo perché è un uomo innamorato dell’amore. Gli piace l’idea che ci sia nel mondo una donna che è la sua donna, con la quale lui possa darsi una certa importanza e, sostanzialmente, possa fare lo splendido. Bushido le donne le rispetta, anche se purtroppo viene dal ghetto, quindi ha un certo tipo di mentalità – io Tarzan, tu Jane, per intenderci – ma lo si tiene a bada con un po’ di polso. Di solito le donne che si sceglie non ce l’hanno, ma va tutto bene così: lui ha le sue bamboline da riverire come dee e loro hanno una fonte quasi inesauribile di denaro, un bell’uomo con due braccia forti e sono tutti felici. Insomma, di donne ne ha avute dopo di me, e si è innamorato di tutte quante, quindi io li conosco gli occhi di Anis quando va in quella direzione. Ora è qui seduto di fronte a me e per raccontarmi Bill Kaulitz mi ha detto solo quanto pesa e quant’è carino. E io non so se prenderlo per il sedere perché si è lasciato di nuovo affascinare da un bel faccino, o perché il faccino è quello di un maschio.
“Senti un po’ qua, Cassie,” mi dice intanto lui, segno evidente che non ha capito niente di niente di se stesso, ancora. “Mi raggiunge, io lo guardo, l’ho visto solo in tv fino a quel momento. Quindi mi sorride, e mi chiede se mi ricordo di lui, che ci siamo visti a non so che premiazione. E allora me lo ricordo sì, ma non è che ci siamo visti. Ci siamo incrociati un secondo, tipo. Comunque iniziamo a parlare, ed è simpatico. Un ragazzino intelligente.”
Di queste descrizioni di Bill, Bushido me ne fa a centinaia nei mesi successivi. Da ragazzino intelligente, diventa sveglio, poi affascinante. E in fine, Cassandra, Bill è veramente un tipo interessante. Che è l’inizio della fine.
Una sera mi irrompe in casa alle due. Ha gli occhi lucidi, quindi ha bevuto e come entra lo mando a parcheggiarsi sul divano con un caffè, anche perché altrimenti si addormenta e io domani ho qui mia madre e le verrà un infarto se lo vede. Pensa di essersene liberata per sempre. “Cassie, ho un problema.”
Bushido non ha mai problemi, soltanto situazioni da risolvere. Quindi se ti dice che ha un problema, allora ce l’ha. Io sospiro e mi siedo. “Che succede?”
“E’ Bill.”
Negli ultimi tempi, si sono visti moltissimo. Quando il ragazzino non era in giro circondato da adolescenti e Bushido non era chiuso in sala di registrazione a balbettare testi per i quali palesemente non ha abbastanza fiato, erano insieme. Tutto super-segreto perché il bambino d’oro della musica tedesca non può certo incontrarsi in pubblico con il rapper brutto e cattivo, quindi sono stati costretti ad incontrarsi alla Villa Gialla, cosa che ha reso il tutto molto più intimo. “Che cos’ha combinato Bill?”
“Ci ha provato.”
Io lo guardo. “Cosa?”
Bushido annuisce, serissimo. “Eravamo a casa e stavamo guardando un qualche film assurdo che mi ha portato – non ti so dire cosa fosse, non è importante – e abbiamo bevuto un po’.”
“Anis c’è abbastanza materiale per scatenare l’inferno mediatico.”
“Certo, ti vedo andare da Sascha ad avvisarlo che intrattengo nella mia villa minorenni che poi faccio ubriacare per approfittarmene. Ti dispiace farmi continuare?”
“Prego,” lo invito. Voglio proprio vedere dove andiamo a parare.
“Stavamo parlando e stavamo benissimo. Prendevamo in giro LaFee e Bill mi raccontava di quanto sia isterico il suo manager. Poi gli ho detto che era carino-“
“Cosa?” E due.
“Beh lo era!” Si giustifica. “Comunque si è sporto verso di me e mi ha baciato.”
Alzo gli occhi al cielo. Certo poteva arrivarci, dico.
“Ma che ne so!”
“Che ne sai? Anis, ti veniva dietro, era palese.”
“Sì ma io non andavo dietro a lui, era palese anche questo,” mi dice. Io sollevo soltanto un sopracciglio ma poi non parlo. Non spetta a me dire ad un uomo che la sua eterosessualità sta vacillando.
“E che cos’hai fatto?”
“Quello che dovevo fare. L’ho rispedito a casa con un taxi,” sospira lui. E io lo sapevo che di quel sospiro dovevo preoccuparmi, perché è stato quello a portarci alla notte degli hamburger. Bushido, di quella notte, non si è risparmiato un dettaglio. So tutto, so anche troppo e forse Bill non sa quanto so. In ogni caso non lo ripeterò perché, sinceramente, non è che mi interessi molto.
Quello che è importante da dire, è che io c’ero quando Bushido ha davvero capito di essere innamorato di Bill. Si è seduto su quello stesso divano e mi ha guardato con due occhi neri e felici che non glieli vedevo addosso da un sacco di tempo, e mi ha detto che il ragazzino c’era riuscito. Il resto lo sapete.
La notte in cui è morto, io non riesco a ricordarmi dov’ero. E questo particolare, questo non riuscire a focalizzare i dintorni di dove mi trovassi quando Eko mi ha telefonato, mi ha sempre dato fastidio. Nel corso dell’ultimo anno ho superato tutto quanto, la sua morte, il dolore, tutto davvero, ma c’era quel minuscolo particolare che mi rodeva il cervello. E non so perché fosse tanto importante, forse perché mi sembrava che a non ricordarlo, gli mancassi di rispetto. Che a non ricordare il luogo, non avrei ricordato la data.
Quando andavo a trovarlo al cimitero e guardavo la sua foto, me lo immaginavo a chiedermi: Cassie che stavi facendo mentre io morivo? E io non avevo nessuna risposta da dargli. E senza quella risposta, mi dicevo, non avrei potuto contare il tempo che stava passando dal momento in cui si era spento. La sua morte era una specie di esplosione che aveva avuto luogo da qualche parte nel mio passato, chissà dove, chissà quando. Forse avevo paura che sparisse come una data poco importante della mia vita, quelle che ti dimentichi perché non le associ a niente che abbia una qualche rilevanza. Il mio primo appuntamento dal dentista? La prima volta che ho colto un fiore? Non lo so. Quando è morto Bushido? Non lo so. Ma è morto e io non c’ero. Ovunque fossi, non ero con lui.
Ricordo solo la telefonata.
So che Eko si è occupato di avvertire tutti, quella notte. E al sorgere dell’alba nessuno di noi stava più dormendo. Non sono andata all’ospedale.
Mentre sua madre urlava che glielo facessero vedere e Bill aveva smesso anche di muoversi, io ho parcheggiato l’auto di fronte alla Villa Gialla. E ho pianto lì. Mi sembrava che fosse il posto in cui forse potevo trovare ancora qualcosa di lui. Là dentro non ci sono più entrata, nemmeno quando la signora Louise mi ha chiamata perché avevano trovato qualcosa di mio. Ho chiesto a Chakuza di recuperarlo per me.
Da quel momento in poi, che lo volessimo o no, la vita è andata avanti comunque. Noi ci riunivamo agli studi e ci prendevamo cura di Bill che per i primi mesi non ha fatto altro che piangere, provocando le reazioni infastidite di Eko, il quale non è affatto cattivo, ma è molto sensibile su certe cose. E’ abituato a stare fra maschi che si prendono a manate sulle spalle, che sparano cazzate e vivono il dolore in maniera molto chiusa. Lui fa il cretino, e gli altri ridono. Uno così serve sempre, perché se sei felice e ridi è okay. Se sei triste e ti fanno ridere, va ancora meglio. Con Bill però non poteva fare così.
La principessa era fragilissima, viveva in bilico su quella fossa che tutti evitavamo. Mi viene da pensare che ci guardasse spesso dentro nella speranza di veder spuntare il viso di Anis. A volte ce lo vedeva, forse. E vacillava. Dovevi andarci piano con Bill, pesare ogni parola. C’erano giornate in cui sorrideva e mangiava con noi, sembrava star bene quasi. E giocavamo, magari. Poi all’improvviso qualcuno diceva o faceva qualcosa e lui crollava, senza un motivo apparente. E non sapevi nemmeno cosa fosse successo. Si copriva il viso con le mani, si rannicchiava sul divano e non potevi fare niente perché non voleva essere toccato né consolato. Era lì che Eko prendeva la sua roba e se ne andava, non importava che fosse allo studio da cinque minuti o da tre ore. Se Bill piangeva, lui se ne andava, e lo faceva per evitare di fare danni. Non avendo una misura in cui rientrare con le parole o con i gesti, rischiava di fare del male a Bill. Eko è uno buono ed è uno abituato a stare bene con le persone. Con Bill ha fatto una fatica assurda ad entrare in contatto quando Bushido era vivo, e quando è morto della principessa non c’era più traccia. Solo pezzi di Bill da rimettere insieme. E lui non era il tipo. Eko non è quello che ti tira su quando ti frantumi, lui è l’elefante nella cristalleria.
Quindi spariva, prima di sbriciolare del tutto la principessa.
La svolta, nel bene o nel male, l’abbiamo avuta con TRL. La puntata della trasmissione è stata disgustosa, e ve lo dice una che l’ha seguita da casa e ha notato tutte le espressioni falsamente contrite di Patrice e i primi piani strategici sugli occhi di Bill. Era tutto montato nel modo migliore per rifilare al mondo la struggente storia dell’uomo del ghetto che si fa strada nella merda con le unghie e con i denti, e poi incontra la signorina bene che diventa l’amore della sua vita. Zucchero e caramello da copertina patinata e quel pizzico di morboso che fa sempre bene – Quindi tu eri ancora minorenne quando questa storia è cominciata! –, quando invece fra loro era una roba complicatissima. E c’erano volute le palle di entrambi per tenerla in piedi alla faccia di tutti.
Il ferimento di Chakuza è andato in onda praticamente un quarto d’ora dopo, in edizione speciale del telegiornale. Le foto di Bill con le mani sporche di sangue che piange sul corpo di uno degli uomini di Bushido hanno fatto il giro del mondo per mesi. Senza contare Fler che prende in mano la situazione prima ancora di Jost – un fatto più unico che raro – e che agli occhi di milioni di ragazzine si trasforma da “bastardo, traditore, assassino dell’amore della vita di Bill, anche se la polizia lo ha scagionato” a cavaliere in armatura scintillante. L’ascesa di Fler nell’immaginario collettivo adolescenziale femminile delle fan dei Tokio Hotel è un caso da studi sociologici. Per settimane sui forum di queste bambine isteriche non compare nient’altro che la cronaca di come il nemico di Bushido ha caricato Chakuza sull’ambulanza e ha dato direttive mediche che neanche George Clooney in ER.
A questo seguono una serie di teorie, una più strampalata dell’altra in cui queste quindicenni impazzite – che dal pop travestito da rock di Bill sono tracimate come un fiume in piena nel rap dei bassifondi tedeschi di Bushido & co. – tentano di capire le dinamiche che hanno portato due uomini, Bushido e Fler, a mandarsi a fanculo dopo un’amicizia fraterna e come altri due uomini, Fler e Chakuza, si siano trovati a fare da angeli custodi al loro angelo del pop-rock. Come da questo si sia arrivati al Flerkuza non lo so e non lo voglio sapere, ma ci siamo arrivati. Ed Eko che ci insegue ovunque tentando di propinarci gli stampati di centinaia di storie è stato un’esperienza traumatizzante per tutti. Ho anche ben chiara in testa l’immagine di Fler che fugge dalla stanza d’ospedale di Chakuza non appena Eko apre bocca per raccontare l’ultimo capitolo di non so quale dramma umano che lo vedeva coinvolto con Peter. Bei momenti, non c’è che dire.
Ad ogni modo, la trasmissione e l’assalto mancato hanno fatto sì che ci scuotessimo tutti quanti un po’. Era ora che la smettessimo di fingere che Bushido sarebbe entrato da quella porta e recuperassimo le nostre vite da dove le avevamo lasciate andare. Continuavamo, sì, ad andare allo studio ma non così spesso e non tutti quanti insieme, finché alla fine tutto non è tornato come prima: la gente andava e veniva, qualcuno faceva finta di lavorare, ma non eravamo più lì per lui. Ed è anche giusto, da un certo punto di vista. Non puoi oggettivamente smettere di vivere quando muore qualcuno, non puoi e basta perché non sei stato tu a morire. In questo caso non era morto nemmeno lui, ma noi non lo sapevamo. Questo ha fatto bene a noi, ma non ne ha fatto a Bill.
Lentamente, complice il fatto che doveva tornare a lavorare – la Universal ti concede solo una certa quantità di tempo per rimetterti dai tuoi traumi, indipendentemente dal trauma – si è rinchiuso in casa, con l’unica compagnia di Tom e saltuariamente di Fler che per un motivo che poi ho scoperto in seguito, aveva preso il posto dell’onnipresente Chakuza.
E’ stato un brutto periodo, per lui.
In tutto questo, io e Tom siamo finiti insieme. Dunque, la cosa in realtà parte da prima, come sempre del resto. Io Tom l’ho conosciuto quando Bill è entrato a far parte del branco. Diciamo che è stata la conseguenza naturale del conoscere Bill. Questo dopo che lui e Bushido si erano già ampiamente scornati. Ricordo che Anis veniva a casa mia a lamentarsi perché quel ragazzino – no, non il mio Cassie, l’altro – era insostenibile. Insostenibile, così diceva, con un tono molto severo, come si stesse parlando di insubordinazione militare o che so io e non certo di una crisi di gelosia da abbandono. Tom è legatissimo a suo fratello e Bushido ha preso e gliel’ha portato via come ha sempre portato via tutto ciò che voleva. Era normale che Tom lo odiasse, ed era normale che Bushido si sentisse autorizzato a fare tutto quello che aveva fatto e che pretendesse anche che lo lasciassero fare come niente. Per questo lo lasciavo parlare, che tanto non c’era nient’altro da fare.
In questo periodo in cui Bushido usciva con Bill e io mi sorbivo tutte le confidenze di Bushido, improvvisamente tornato tredicenne, Tom non ha fatto niente, se si escludono le occhiate da triglia che mi lanciava ogni volta che ci capitava di incrociarsi. E tanti saluti al dio del sesso. Ogni volta che eravamo nella stessa stanza, faceva lo splendido con discrezione, nel senso che ovunque andassi me lo ritrovavo a portata d’occhiata. Non parlava, mi guardava e basta e, occasionalmente, mi dedicava questi ghigni da gangster, tutti di traverso con i quali, suppongo, avrei dovuto cadergli ai piedi o che so io.
Ad ogni modo, c’è stato questo periodo in cui continuavamo a sorriderci, lui perché è fondamentalmente timido e quindi deve accerchiarti da lontano, non viene lì e la prende di petto, e io perché non avevo motivo di non farlo. Non pensavo davvero che sarebbe finita in questo modo, sinceramente. Poi Bushido è morto, non ci siamo visti per un po’ e lui è finito a tenere suo fratello chiuso in casa, per paura che il mondo là fuori se lo mangiasse pezzo per pezzo. Quando mi è capitato di rivederlo, non gli ho permesso di sorridermi e l’ho baciato. Perché era anche l’ora di finirla.
Questo per spiegare perché adesso sono qui alla Beatlefield. Io sono qui perché aspetto Tom, che è qui perché Fler deve dargli qualcosa e Fler è qui perché c’è arrivato con Chakuza. Se penso che posso chiudere la catena parlando di Bill, mi viene quasi da ridere.
La Beatlefield non è molto grande, sono tipo due stanzette, tre contando quella dove i due proprietari si svaccano a turno quando fanno le ore piccole per stare dietro a qualche beat. Ed è un casino totale. Non perché sia piccola, ma perché è in mano a Chakuza. Quell’uomo ha la capacità di occupare sempre ogni centimetro dello spazio di cui dispone. Suppongo sia un qualche tipo di compensazione per lo spazio che non occupa lui personalmente. Ad ogni modo non c’è spazio per sedersi e non c’è spazio nemmeno per stare in piedi. Tom è entrato e mi ha mollata qui dove sono, cioè nel disimpegno fra una stanza e l’altra dove, in ordine, ci sono un divano che fa le veci dell’attaccapanni, un tavolino con quintali di bottigliette di plastica che sommergono un telefono a disco nero, dell’anteguerra e un non so davvero cosa appeso al muro. Cerco con gli occhi qualcuno da salutare, tanto per fare qualcosa, che poi sono due stanze, mi chiedo dove sia corso così di fretta Tom. Fler non può essere che dietro l’angolo.
Fler non lo trovo, ma trovo Chakuza che è seduto dietro ad un mixer che prende tutto il tavolo a cui è seduto. Sembra impegnato, quindi entro piano. L’altra metà della stanza è divisa da un vetro e dalla sala di registrazione. Là dentro però non c’è nessuno.
Dopo cinque minuti che sono lì, e volendo avrei potuto anche aggredirlo con una chiave inglese e tramortirlo, per dire – la Beatlefield non ha un portone d’entrata. Cioè il portone c’è ma si apre con una carta di credito, c’è riuscito Tom stamattina, perché il campanello non funzionava, e Fler non rispondeva al cellulare, panico!, quindi figurati. Potevo essere io, come poteva essere uno stronzo qualunque e Chakuza era bello che andato – alla fine si rende conto che c’è effettivamente un’ombra scura alle sue spalle.
“Cassie!” Si toglie le cuffie e sorride. Gli si muove la faccia, quando lo fa. E’ rotondo e mobile, quest’uomo qui. “Ciao, come va?”
Mi abbraccia e mi bacia, prendendomi per gli avambracci, quindi sposta le cianfrusaglie che occupano la seconda sedia girevole e mi invita a sedermi. Non si giustifica nemmeno per la confusione che c’è, per lui è un normale stato di cose. Il caos è la sua condizione esistenziale.
“Bene direi, “ commento con un sospiro. Cerco un posto per appoggiare la borsa e poi decido che me la tengo in grembo. “Tu?”
“Alla grande,” sorride. “Vuoi qualcosa da bere? Forse c’è della coca.” Con orrore lo osservo frugare tra un esercito di bottiglie di plastica sul pavimento.
“No grazie,” sparo lì e poi, siccome sono stata brusca sorrido. “Sono a posto così. Tom ha insistito per fare colazione prima di venire qua.”
Lui annuisce e rimette a posto una bottiglia che ha passato probabilmente troppo tempo in quella sala di registrazione. Qualcuno dovrebbe dire a Chakuza che le bibite gassate non vanno fatte invecchiare come vini del ’75. E dire che è un cuoco.
“Come mai siete qui?”
Io alzo gli occhi al cielo. “Fler,” rispondo. Patrick Losensky, per me, è una maledizione. Non lui in quanto lui, per carità. Fler è, tipo, la persona più buona che circoli da queste parti, davvero. E’ uno che se può fare qualcosa per te la fa, anche nelle stronzate. Per dire, è l’unico che se ceniamo tutti quanti insieme, si ricorda che forse quaranta fra piatti e scodelle sarebbe meglio non lasciarli nel lavandino. E lava. Lava i piatti. Per una donna sola circondata da maschi iper-testosteronici che non si azzarderebbero mai a prendere in mano una spugna, Fler è un miracolo divino. Uno così arrivi ad amarlo, capite? Sempre in senso metaforico, s’intende. Anche perché: uno, il berlinese dagli occhi di ghiaccio non è il mio tipo. E due, credo che questo sarebbe l’unico vero motivo per cui Bushido non mi rivolgerebbe mai più la parola.
Ad ogni modo, se, nonostante questo, Patrick Losensky è comunque una maledizione, è colpa di Tom. Tom lo venera in maniera quasi imbarazzante. Se si attacca a parlare di musica, lui non vede né sente nient’altro. Fler. L’Aggro Berlin. L’Aggro Berlin e Fler. Credo che quella che era nata come una semplice adorazione da ragazzino sia diventata una specie di ripicca per suo fratello, o qualcosa di simile. Bill se la faceva con l’Ersguterjunge? Bene, allora lui ascoltava solo l’Aggro, che ci sarebbe stato da fargli notare, ai tempi, che a Bill di chi ascoltasse non gliene importava un tubo. Tantopiù che la connessione tra Bill e il rap finiva làddove iniziava Anis, quindi insomma…
Ad ogni modo, quando poi Patrick è migrato dalle nostre parti, ed è diventato amico di Bill, Tom era già così preso che non poteva rinnegare niente. Anzi, si è fatto prendere ancora di più. Quindi adesso siamo qui perché Fler gli ha promesso – dio solo sa perché – di recuperargli non so quale mixtape che ancora non fa bella mostra di sé nell’altarino a lui dedicato a casa di Tom. E io che gli sto dietro, anche.
“Oh, si certo,” Chakuza annuisce. “Fler me lo ha detto. E’ venuto qui a riversarlo su cd. Era una roba dell’anteguerra, mi aspettavo che venisse a suonarmelo in sala di registrazione col mandolino, non lo so.”
Rido. Quasi me lo immagino Patrick col mandolino.
“Credo che quella cassetta l’abbiano sentita soltanto lui e Bushido, il giorno in cui hanno registrato le canzoni. Poi qualcuno, fortunatamente, ha impedito loro di pubblicarle.”
“Sei un uomo tremendo.”
Lui solleva entrambe le sopracciglia un paio di volte, velocemente. “Me lo dicono in tante,” poi ridacchia. Gli si alzano gli zigomi e gli occhi diventano piccoli, e io mi chiedo da quando ho preso l’abitudine a guardare tutti questi dettagli. Poi capisco che è sempre la solita storia. Quando perdi qualcosa, tutto ciò che resta te lo tieni stretto. Questa gente è il mio mondo, quindi voglio saperlo a memoria. Qualcosa del genere. Magari non conoscerò così bene Chakuza da farmi dire da lui cose che in realtà ho già ben capito da sola, però lo conosco, so come si muove. So che era il braccio destro di Anis, e non c’è altro da sapere, in realtà, su di lui. Poi, nell’attimo esatto in cui penso questo, Stickle urla dall’altra stanza – che presumo sia quella dove si trova anche Tom. Boh.
“Chaku, al telefono!”
“Chi è?”
Stickle ride. “La principessa.”
Chaku a quel punto ci mette meno di niente a tradirsi. Cioè, io oggettivamente, in quel preciso momento della mia vita, non lo so che Chakuza e Bill stanno insieme. Non lo so perché non l’hanno detto e perché, da quando Peter è stato ferito, io li vedo molto meno. Per dire, non passavo dalla Beatlefield da mesi e il tempo che Chakzua passa all’Ersguterjunge gli serve a tentare di convincere gli altri a non cercare un nuovo tunisino che conquisti la Germania, per cui, insomma, non ho avuto molte occasioni di sentirlo o vederlo con Bill.
Ce l’ho ora il tempo, però. E se unisco le immagini mentali che ho di lui prima di TRL e del modo in cui parlava e toccava Bill quando stava male, allora qualcosa mi suona nel cervello.
“Ehi,” quando risponde al telefono, si distende tutto e mette su un sorriso da triglia che è tale e quale quello di Tom poi. Alzo gli occhi al cielo e penso che dev’essere una questione di cromosomi. Lui sta parlando al telefono fisso, ha preso la chiamata da qui, quindi non si può alzare e certo non può chiedere a me di levarmi di torno. Quindi la telefonata la sento tutta. Bill ha la voce squillante, il suo pigolare lamentoso e annoiato da principessa senza niente da fare un po’ arriva anche a me. Bill ce l’ha questa cosa, di fare davvero la principessa a volte. E’ che è circondato da uomini che lo hanno viziato tantissimo, quindi lui se ne approfitta, come farebbe ogni donna, per altro.
E questo uomo qui, in particolare, lo ha sempre viziato in maniera indecente, anche quando non era affatto in odore di tresca.
Chakuza resta sul generico, comunque. Risponde per monosillabi e per ‘stai tranquillo’ e ‘decidi tu’. Ma gli brillano gli occhi tipo. Quando riattacca si schiarisce la voce e cerca di ritrovare un contegno, ma è discretamente difficile se stai camminando a dieci metri dal pavimento.
Io non posso seriamente dirgli quello che penso, perché non sono affari miei e poi potrei sbagliarmi – certo, come no! – però sarebbe bello prenderlo un po’ in giro. Penso che se lo sapesse Anis, lo farebbe a pezzi. Geloso com’era delle sue cose, non permetteva a nessuno di toccarle neanche quando le aveva lasciate andare. Prendete me, per dire. Il primo ragazzo dopo di lui, lo ha minacciato pesantemente. Ho dovuto picchiarlo perché la piantasse di fare il gradasso. Quindi se mi immagino un universo parallelo in cui Bushido ha lasciato Bill e lui si è messo con Chakuza, mi immagino anche Bushido che lo ammazza di botte senza motivo.
E in quel momento non lo so che lo saprà, e che lo pesterà, anche. Non lo so che il mio nome, alla fine, mi si adatta alla perfezione. Il massimo che posso immaginarmi è che Anis sia seduto su una nuvola a mangiare kebab insieme a Dio e che osservi tutto dall’alto. Me lo vedo che vorrebbe scendere e che il sant’uomo lo recupera per il colletto della tunica bianca prima che si butti di sotto senza paracadute.
Voglio dire, è sempre più probabile questo che non Anis che un giorno torna da Miami con venti centimetri di riccioli scuri e dice ‘Scherzo! Non sono morto!’.
Che poi è quello che ha fatto, in realtà.
L’uscita di Bravo con le sue foto sfocate in copertina, le mie urla e Tom che mi dice che è vero – ancora più stranito di me, perché lo ha sentito dalle labbra di suo fratello – però, ve lo risparmio. E’ stata una settimana tremenda, comunque. Provate a rendervi conto che la persona più importante della vostra vita non è morta. Dovete prima capire che quello che vi viene detto è reale. Poi dovete concepire che la persona in questione è fisicamente presente nel mondo. Non è facile, perché l’ultimo anno lo avete passato a farvi una ragione dell’esatto contrario.
Quindi niente, quel giorno, e mancano pochissime – davvero pochissime – ore al ritorno di Anis, io a Chakuza non dico niente. Mi limito a lanciargli un’occhiata allusiva che lui coglie alla prima, perché diventa viola ma poi basta. Tom mi raggiunge, parlando ancora con Fler che lo ascolta solo perché, probabilmente, le sue orecchie si sono autonomamente scollegate dal cervello mezz’ora fa e quindi ce ne andiamo.
Rivedere Anis è stato complicato. Voglio dire, dopo che l’ho schiaffeggiato per la cazzata che aveva fatto, il cuore mi è tipo esploso in petto. Poterlo toccare, accarezzare, poter trovare irritanti le sue battute, era tutto troppo bello. Quando passi mesi a sperare che entri da una porta e non lo fa, quando poi torna e non doveva – non poteva, cazzo! – beh è bellissimo e basta. Solo che quell’uomo è fuori posto, ora. Tutto quello che ho detto fino a questo momento era vero dentro i parametri della sua vita precedente, quando pendevano tutti dalle sue labbra perché le sue labbra c’erano e ti ci potevi appendere.
Nel momento esatto in cui si è finto morto e noi tutti abbiamo creduto che fosse disteso con quella bella faccia da schiaffi sotto due metri di terra, dovevamo trovarci un’altra testa da seguire o non seguirne affatto. Ed è quello che è successo.
Io lo so che Anis questo ragionamento non lo ha fatto. Cioè magari si, in qualche remoto angolo del suo cervello questa discussione con sé stesso è avvenuta ma lui non l’ha veramente ascoltata. La decisione di morire l’ha presa su due piedi e le motivazioni che ci stanno dietro posso anche capirle – forse, non lo so. Io mi sono sforzata in questi giorni di non sentirmi abbandonata e presa per il culo – ma avrebbe dovuto rendersi conto proprio perché perdeva tutto, che tornare non doveva essere un’opzione.
Quando mi si presenta a casa, stasera, è esattamente questo che vorrei dirgli ma non posso perché ad un uomo non puoi dirla una cosa così e allora niente. Lascio che si stenda sul divano e finga di stare bene anche quando è chiaro che non sta bene per niente. Tom mi ha detto cos’è successo.
“Immagino che tu lo sappia,” mi fa lui, mentre prende la bottiglia di birra che gli offro per il collo. Annuisco, ma non dico niente. “Sapevi tutto anche prima?”
“No. Anis-“
Lui sorride. “Non ho bisogno di questa parte del discorso. Ci ha già pensato Patrick,” getta la testa all’indietro per bere un sorso. Lo fa con un certo trasporto, è una scrollata di spalle come a dirmi che non gli importa. “Conosco Bill, conosco Chakuza…”
E adesso non sa cosa fare.
“Ci vorrà un po’ di tempo,” mormoro. E spero che capisca che mi riferisco a lui e non a Bill.
Anis non risponde, continua a bere e a guardare un punto indefinito del mio soffitto dipinto di viola. “Con cosa l’hai dipinta quella parete, con lo sparaneve?” Mi dice.
“L’ho fatto da sola,” mi giustifico, e non so nemmeno perché. E’ casa mia, lo dipingo come voglio il soffitto. E non è stato affatto facile stare lì in piedi sulla scala col secchio in mano. Sono molto orgogliosa di me stessa per esserci riuscita, nonostante la doccia di vernice.
“Si vede, “ commenta lui con aria disgustata. “Guarda le macchie che ci sono. Dovevi tirarlo a gesso prima. Sei sempre la solita casinista. Questo fine settimana vengo qui e lo sistemiamo.”
“Magari io questo fine settimana ho anche degli altri impegni.”
Lui mi guarda e capisco che non devo avere niente da fare questo fine settimana o non so dove lo ritrovo lunedì. Bushido è uno che si sa regolare finché ha qualcosa per cui vale la pena farlo, ma quando non ha più niente, è capace di distruggersi. “Va bene, puoi venire qui sabato mattina.”
“Il rullo ce l’hai?”
Annuisco. “E’ giù in cantina. Credo sia rimasta anche un po’ di vernice.”
Lui beve e annuisce, guardando davanti a sé.
Poi si volta e sul suo viso non c’è assolutamente niente, è l’espressione che più temo su di lui. Il momento in cui gli si spengono gli occhi è quando è difficile riprenderlo. “Ti dà fastidio se dormo qui?”
Scuoto la testa. “Ho ancora un po’ di cose tue,” mi stringo nelle spalle. “Puoi cambiarti con quelle, poi.”
Lui fa un mezzo sorriso sghembo. “Magari cominciamo domani,” mormora. “Con il soffitto, dico.”
“Magari sì.”
So che ieri ha dormito da Fler, perché non era a casa sua e non era nemmeno a casa di sua madre. “Ti prendo una coperta,” mi alzo.
So che da qui non riuscirò a mandarlo via.

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There's a time for everyone

di tabata
Avete mai avuto la sensazione che l'universo vi stesse prendendo in giro?
Non parlo di quelle giornate sfigate in cui tutto va storto, dal caffè che non sale la mattina, fino alle chiavi della macchina che non si trovano e al capo che vi dà del lavoro extra solo perché ha le palle girate e la vostra pettinatura gli urtava il sistema nervoso. Parlo di quando ti è toccato gestire una serie di situazioni complicate fino alla follia per un periodo ti tempo apparentemente infinito e, quando finalmente credi che tutto abbia trovato una soluzione accettabile, ecco che ti capita tra capo e collo uno di quei problemi che ti fanno rimpiangere all'istante tutto quello hai appena passato.
E' chiaro che dietro a situazioni come queste dev'esserci il piano diabolico di qualcuno, la mano infernale di un sadico che si è divertito a plasmare la tua vita perché fosse un compendio di disastri accuratamente messi in fila dal meno grave al più catastrofico in un escalation di problematiche destinate a culminare nel dramma più drammatico che possiate immaginare. Non può trattarsi di una coincidenza che proprio tu, in quel preciso momento, ti trovi in una data condizione per la quale le cose precipitano.
Eventi con un certo grado di complessità, ossia che dipendono da altri eventi a loro volta molto complessi, non capitano mai per caso perché hanno palesemente bisogno di pianificazione e il caso non è abbastanza intelligente per questo, esso non pianifica. Il caso capita – non per nulla – a caso.
Qui si tratta, invece, di una situazione più complicata, fatta di azioni e reazioni che provocano conseguenze, una specie di gioco del domino, in cui tu e la gente che ti circonda siete le tessere e l'universo, lassù, con la sua gigantesca mano cosmica, ha passato diversi anni del tuo tempo a mettervi una dietro l'altra ad una certa distanza specifica per poi dare un colpetto alla prima tessera e far cadere tutte le altre. La caduta, il movimento sequenziale, tutti questi fattori non sono per un cazzo casuali. L'ultima tessera non cade per un colpo di vento, ma perché la prima ha colpito la seconda, che ha colpito la terza e così via finché non ha potuto far altro che cadere anche lei, che era stata messa nel punto preciso perché ciò avvenisse.
Ora, questo non è affatto consolante, perché sapere che le tue disgrazie sono architettate da una divinità ultraterrena che ti odia non cambia il fatto che esse avverranno comunque, ma ti dà la possibilità di fare una cosa molto liberatoria, ossia dare la colpa all'evento scatenate e liberarti di ogni responsabilità.
Vorrei che teneste bene in mente questo mentre vi racconto: non è colpa mia, sono vittima degli eventi.
Dunque, fino a questa mattina la mia vita scorre abbastanza tranquilla; non è proprio perfetta ma, se paragonata al delirio che era nemmeno tre o quattro mesi fa, posso considerarmi un uomo soddisfatto. Mio fratello ha smesso di fissare il vuoto vaneggiando di torta ai mirtilli ed è tornato con il grande amore della sua vita – quello che considero il meno peggio fra i due, almeno – e il mio manager è sopravvissuto, per quanto adesso se ne vada in giro con la scritta VENDETTA sulla pancia e stia vivendo una seconda adolescenza di cui nessuno sentiva il bisogno con il suo medico curante. Non abbiamo ancora nessun contratto, ma i Tokio Hotel sono vivi e vegeti; anzi, se vi devo dire la verità, per quanto faccia paura sapere di essere privi di un'etichetta che ci copra le spalle, non ci siamo mai sentiti meglio di così. Per la prima volta in cinque anni stiamo scrivendo canzoni per il gusto di farlo e non perché siamo obbligati. Quello che ne è venuto fuori in poche settimane è strabiliante, e credo che quando finalmente troveremo qualcuno disposto a sostenerci, avremo un sacco di ottimo materiale da presentare.
Per suonare, David ci ha messo a disposizione lo studio di registrazione che si è fatto costruire in casa, così adesso passiamo gran parte del tempo da lui, ci facciamo portare a casa un sacco di schifezze che lui non approva e, finché Bushido non viene a prendere Bill con quel suo lungo macchinone da beccamorto, sembra quasi di essere tornati indietro nel tempo a quando avevamo quindici anni e ci preparavamo a sfondare.
Sono diretto proprio a casa di David quando Cassandra mi chiama. Cassie non è quel tipo di ragazza che vorrebbe sentirmi ad ogni ora del giorno e della notte; anzi, passo la maggior parte del tempo a chiedermi dove sia e cosa stia facendo, e soprattutto se posso chiamarla o meno perché il più delle volte la cosa la infastidisce. Le nostre telefonate sono molto brevi e, generalmente, io non ho ancora finito di salutarla quando lei riattacca. Non che mi dispiaccia avere una donna che mi lascia i miei spazi, devo solo capire che cosa farmene ora che ce li ho perché con Bill sempre in casa del tunisino, una ragazza anche solo leggermente meno autonoma mi farebbe comodo, ecco. Però non mi lamento.
“Ehi, splendore,” rispondo, tenendo il volante con la sinistra.
La sento ridere dall'altra parte della cornetta. “Ehi anche a te,” dice. “Sei allegro. Ti vedi con tuo fratello?”
“Non ti posso nascondere proprio niente,” commento con un sorriso. Mi chiedo se ci sia ancora qualcuno in questa specie di enorme branco che non prende in giro me e mio fratello per il legame che abbiamo. In quanto Principessa Bill dovrebbe fare una legge che lo proibisca. “Sto andando a casa di David a provare. Dimmi tutto.”
“Stai guidando con una mano sola, vero?” Mi rimprovera.
Io rido e metto il telefono in vivavoce. “Saprei guidare anche ad occhi chiusi, ma se ti fa stare più tranquilla, adesso ho entrambe le mani sul volante,” la accontento.
“Oh, ma io stavo tranquilla anche prima. Sei tu che rischi un frontale, mica io. Comunque ho bisogno di parlarti, pensi di riuscire a liberarti per pranzo?” chiede, ma la sua voce non è tesa come ci si aspetterebbe da un discorso simile, che in genere è il preludio ad un monologo infinito in cui la ragazza ti scarica addosso tutti i suoi problemi esistenziali e tu diventi il mostro che ha rovinato il rapporto perché non la ami abbastanza e non le hai dato ciò di cui aveva bisogno. Io, in realtà, non so se preoccuparmi di questo perché Cassandra sembra assolutamente tranquilla.
“E' successo qualcosa?” Chiedo. “Se vuoi possiamo incontrarci anche subito, avverto David.”
“No, non è necessario. E poi ho delle commissioni da fare prima. Ci vediamo all'una al solito ristorante.”
Cassie mi piace perché è molto pratica e, soprattutto non si aspetta mai che io sia a sua completa disposizione, questo perché generalmente non lo è mai nemmeno lei. Non so se sia perché ha quasi dieci anni più di me, ma è molto facile averci a che fare. “D'accordo, a do–“
Vorrei solo che mi lasciasse salutare.

*


Liberarmi di Bill è stato particolarmente difficile, oggi.
Non che di solito si limiti a salutarmi e torni a farsi gli affari suoi, perché non posso mai andare per la mia strada se prima non mi è stato incollato addosso per almeno due ore; solo che questa volta è stato peggio. Con il senno di poi comincio a credere che la donna che vive nel suo corpo abbia captato le vibrazioni che c'erano nell'aria, ma sul momento gli ho chiesto se fosse ubriaco perché non mi faceva nemmeno alzare dal divano, allungando quei due tentacoli che ha al posto delle braccia per allacciarmeli intorno al collo, sotto lo sguardo disapprovante del suo ragazzo, del quale sostanzialmente non mi frega un accidenti. Anzi, mi ha dato una grande soddisfazione fare le coccole a Bill sapendo che lui ci stava guardando e non poteva fare niente per impedirlo. Comunque sia, alla fine – seppur a malincuore, perché ero sicuro che con un altro paio di minuti a disposizione Bushido avrebbe iniziato a fumare dalle orecchie – sono dovuto uscire per non arrivare tardi all'appuntamento con Cassandra che trovo già seduta al nostro solito tavolo.
“E' molto che aspetti?” Chiedo raggiungendola.
Lei chiude il cellulare e lo infila in borsa. “No, tranquillo. Saranno due minuti. Tutto a posto allo studio?”
Do un'occhiata veloce al menù, ma ho voglia di hamburger da stamattina, quindi non ho bisogno di scegliere niente. “Sì, a parte Georg che si lamenta dell'acustica. Ma si lamenterebbe dell'aria che respira se sapesse che c'è qualcuno che può cambiargliela, quindi non fa molto testo.”
“Ma state già registrando?”
“No, per ora facciamo soltanto qualche prova. Siamo a buon punto però. Se trovassimo un'etichetta che ci rappresenti entro la fine dell'anno sarebbe perfetto.”
Cassandra è la prima ragazza del mio stesso ambiente con cui esco, e per me è una cosa nuova. Ho scoperto subito che è tutto diverso quando ti vedi con qualcuno che capisce alla perfezione cosa significa fare questo lavoro e che cosa comporta. E' bello poterne parlare senza che sia solo una discussione in cui io mi vanto di qualcosa e la ragazza che mi sta davanti mi guarda con aria sognante. Con Cassie posso effettivamente discutere di quello che faccio, chiederle pareri, vederla interessata e sapere che lo è per davvero e non perché io sono Tom Kaulitz. “Perché non vi producete da soli?” Chiede, spilluzzicando un pezzo di pane dal cestino.
Penso a David e alla risata che si è fatto quando Georg ha avanzato l'ipotesi. Stavamo cenando nello studio e ci siamo tutti fermati a guardarlo perché rideva proprio di gusto. A ben pensarci è un po' demoralizzante come cosa, ma in quel momento non ci abbiamo fatto caso perché David si è addirittura piegato in due, con le guance paonazze. Quando poi si è calmato, asciugandosi una lacrima, e si è accorto che nessuno di noi stava partecipando, si è schiarito la gola ed è tornato subito serio. “David dice che non siamo ancora pronti per questo,” riferisco a Cassie le sue parole.
Lei fa una mezza smorfia pensierosa. “Potreste chiedere ad Anis,” dice alla fine.
“La Universal ha scaricato anche lui.”
Lei annuisce e ordina al cameriere solo un'insalata e una bottiglia d'acqua. “Sì, ma l'Ersguterjunge ci si appoggiava soltanto. Adesso è totalmente indipendente.”
Sospiro e cerco di farle capire con uno sguardo quello che penso, così non sarò costretto a dirlo e forse questa discussione rimarrà innocente e piacevole com'è stata finora. Bushido che paga di tasca sua per tenere in piedi i Tokio Hotel non sarebbe soltanto un semplice errore, ma una catastrofe. Non oso pensare a cosa succederebbe se dessimo a quell'egocentrico megalomane la possibilità di rinfacciarci vita natural durante che se siamo su un palco è merito suo. No. Non esiste. E poi credo che sia anche conflitto di interessi, o qualcosa del genere, quell'uomo sta con mio fratello. E' come se mio fratello scopasse con lui per mantenere in vita la band. Non potrei mica accettarlo, devo proteggere l'onore di Bill.
“Non fare quella faccia, Tom!” Esclama lei, alzando gli occhi al cielo. “Non sarebbe poi questa gran tragedia, si tratta soltanto di lavoro. Bushido finanzia già la Beatlefield al 60% e dimmi se lui e Chakuza non hanno delle questioni private in sospeso.”
Appunto, quei due nemmeno si parlano. Ci manca solo che mio fratello litiga con Bushido e quello per ripicca ci lascia col culo per terra all'improvviso. Magari mio fratello scappa pure con Chakuza, devastando due etichette in un colpo solo. Bill ne sarebbe capace. “Ci penserò, d'accordo?” Prometto cercando di distrarla con un sorriso e fallendo miseramente. Intanto arrivano le nostre ordinazioni e io mi ricordo perché ci stiamo vedendo a pranzo. “E tu, invece? Di che cosa volevi parlarmi?”
Lei aspetta che il cameriere si sia allontanato, quindi si sistema il tovagliolo sulle ginocchia. “Sono incinta.”
Io mi alzo di scatto e scappo urlando, lasciandomi alle spalle una nuvola di polvere e, quando questa si dirada, di me non è rimasta nemmeno l'ombra, sono già su un aereo per il Sudamerica dove aprirò un bar e mi farò chiamare Pedro. O almeno questo è quello che vorrei fare, ma la verità è che sono pietrificato su questa sedia dalla paura e dagli occhi di Cassandra, che in verità sono gli stessi di sempre ma non è che mi fidi troppo in questa situazione.
“Incinta in che senso?” Chiedo, con la voce che mi si strozza in gola.
Cassie si lascia scappare una risatina, che è tipo l'ultima cosa che mi aspetto da lei. “Nel senso che aspetto un bambino e fra qualche mese partorirò.”
David ha sempre temuto questo momento. Tom, mi diceva, per quanto io ti insegni ad essere responsabile e per quanto tu prenda le dovute precauzioni, prima o poi una di queste ragazze finirà sicuramente col rimanere incinta. E non è sfiducia la mia, ragazzo, è una questione di statistiche e probabilità. E' matematica dei grandi numeri. Una volta capiterà, anche per sbaglio, anzi soprattutto per sbaglio e io dovrò tenermi pronto. Ora, non so esattamente quale piano di salvataggio David abbia messo in piedi nel corso degli ultimi sette anni che ho passato a scopare, ma vorrei tanto che fosse qui a spiegarmelo perché io non so cosa fare.
“E ne sei sicura?”
“Sono stata dal medico. Sono di sei settimane.”
Faccio un rapido calcolo. “Il week end ad Amburgo.”
“Sì, credo di sì.”
Non sono certo di come sia potuto accadere. Ho preso lei, la macchina, e di sicuro anche i preservativi, ma una volta arrivati nella vecchia casa mia e di mio fratello, abbiamo bevuto così tanto per festeggiare l'ultimo lavoro di Cassie che potrei anche non averli usati. Anzi, a questo punto direi che è sicuro.
Non che importi qualcosa, ormai, ma concentrarmi su questi dettagli assolutamente inutili allontana il momento in cui dovrò pensare alle cose serie.
Mi passo una mano sul viso e finisco a massaggiarmi la nuca di fronte al vuoto totale che c'è nella mia testa. So che dovrei dire qualcosa, ma non so esattamente cosa. L'unica questione a cui riesco a pensare è che è davvero un gran casino perché io e lei stiamo a malapena insieme. Nel senso, d'accordo, ci vediamo da più di un anno ma non abbiamo mai fatto progetti – io non voglio fare progetti! – e qui si parla di un bambino. Un neonato. Queste cose capitano alle altre persone, non a me.
“Tu...” sospiro, incerto. “Tu che cosa vuoi fare?”
Lei non ci pensa neanche un istante, ma quando mi risponde la sua voce è calda e tranquilla, come sempre. “Lo tengo,” dice, sorridendo appena. “Ma, Tom... Tom?”
Io non mi rendo conto di essere ridicolo mentre deglutisco e fisso un punto a caso che sta sul pavimento, alle sue spalle. Quando mi chiama, sollevo lo sguardo su di lei ma il mio cervello non sta funzionando e ringrazio che non sia una di quelle donne che non si sente mai ascoltata – come Bill – perché non è affatto vero. La sto ascoltando fin troppo bene, così bene che non vorrei averla sentita affatto.
“Ascolta, mi rendo conto che non lo avevamo affatto previsto ma è successo. Io la trovo una cosa bellissima e ho preso la mia decisione, ma non voglio che tu ti senta in alcun modo obbligato ad accettarla.”
“E' una mia responsabilità,” mormoro, ma sono solo le parole di David che filtrano attraverso i ricordi di un centinaio di discussioni avute con lui sull'argomento.
“No, è una nostra responsabilità,” precisa lei “ma ci sono molti modi di affrontarla. Io vorrei crescere questo bambino con te, ma solo se è quello che vuoi anche tu. Non ha senso che tu faccia il padre se non è quello che vuoi. Io terrò questo bambino in ogni caso, tu devi solo dirmi se vuoi esserci oppure no.”
Sono terrorizzato, e mi rendo conto di non esserlo mai stato veramente prima d'ora. Se il cuore potesse battermi più forte di così, probabilmente esploderebbe, credo. Non lo so.
E non so è anche la risposta alla domanda che lei in realtà non mi ha fatto, esponendomi la questione senza mettere alla fine nessun punto interrogativo che potesse crearmi più ansia di quanto la situazione già non faccia. Io comunque non ho ancora davvero realizzato che si tratta di un bambino reale, che sta dentro la sua pancia proprio mentre parliamo e che potrebbe cambiare per sempre la mia vita. Ho solo una comprensione vaga di un vago disastro e la certezza di dover prendere la decisione più importante della mia vita, lei invece sembra sicura di sé e non so come faccia a non avere paura. Io ce l'ho.
“Io devo andare adesso,” mi dice, recuperando la sua borsa dalla sedia accanto a lei.
“Ma non l'hai nemmeno toccata, quell'insalata.”
Lei fa una mezza smorfia, arricciando il naso. “Tanto non riesco a tenere nello stomaco quasi niente, per adesso,” risponde. “Nausee.”
“Oh,” dico. “Giusto.”
“Prenditi il tempo che ti serve, d'accordo?” Mi dice, sporgendosi sul tavolo per baciarmi. Io mi perdo nell'idea che sospeso sopra i nostri piatti adesso c'è qualcosa che un giorno diventerà un bambino. “Dico sul serio, accetterò qualunque decisione, purché tu la ritenga davvero quella giusta. Se non ne sei convinto, non farai felice nessuno, intesi?”
“Intesi,” sospiro.
Mi bacia di nuovo e poi è sparita.

*


Cassandra è incinta.
Ripeto questa frase da almeno mezz'ora, mentre me ne sto qui a fissare il mio riflesso nello specchio.
A differenza di tutte le parole ripetute all'infinito, queste non stanno affatto perdendo significato. Anzi, sembrano farsi ogni volta più concrete; più le dico, più la pancia di Cassie si fa rotonda, tesa, grossa. Se pronuncio un'altra volta questa frase, forse potrebbe addirittura partorire. Cazzo.
Mi scosto dallo specchio solo perché la mia faccia mi è venuta a noia. Posso stare qui anche tutto il giorno a dirmi che sono un cretino, e che sono nella merda, ma le cose non cambieranno.
Da quando Cassie me lo ha detto, non riesco a pensare a nient'altro, il che credo sia normale visto che questa è una di quelle cose che ti cambiano la vita per sempre.
A tal proposito, dovrei davvero smettere di chiamarla cosa e dargli un nome più preciso che la descriva esattamente per quello che è. Qualcosa come gravidanza. Oppure, mio figlio – che sono due parole molto spaventose e forse è meglio non usarle, per il momento – perché anche se decido di lavarmene le mani, la questione non svanirà in una nuvola di fumo. Non posso dargli un nome provvisorio nell'idea che tanto mi servirà giusto il tempo di decidere che non mi interessa. Tanto più che mi interessa, quindi è un discorso insensato a priori.
Voglio dire, sono terrorizzato, ma non ho perso di vista il quadro generale. Qui non si tratta soltanto di questo bambino – ecco, bambino è un termine preciso ma ancora sufficientemente generico – si tratta anche di Cassandra e di quello che succederà fra noi se io mi tirerò indietro.
In un anno che ci frequentiamo, un vero e proprio noi a voce alta non lo abbiamo mai detto, però c'è. Posso fingere che non sia così – che poi non è che fingo, semplicemente evito il discorso – ma sono consapevole di non provare più il bisogno di cercare qualcun'altra da quando c'è lei e che non mi sento soffocare quando mi sveglio la mattina e la trovo nel letto accanto a me. D'altronde è difficile trovarla troppo asfissiante quando riuscire a vederla per più di tre o quattro giorni di fila senza mandare all'aria almeno metà dei suoi mille appuntamenti settimanali è praticamente impossibile. Cassie non vive per me, e non si aspetta che io lo faccia per lei, ecco perché tra noi funziona.
E ha funzionato fin da subito, il che direi che è quasi un miracolo se penso che in generale le mie storie non hanno mai funzionato nemmeno sulla lunga distanza, quando per lunga distanza s'intendono i tre mesi, naturalmente.
Com'è iniziata già lo sapete, il resto in realtà risulterà ben poco emozionante da leggere in confronto alle strabilianti avventure di Bill e di tutti gli uomini che gli stanno appresso, ma sto cercando di fare un esame di coscienza, una lista dei pro e dei contro, o come la volete chiamare, qui, e mi serve ricordarmi com'è che sono arrivato a questo punto catastrofico in cui ho un figlio in arrivo e non so cosa diavolo fare; che poi mi sembra chiaro che questa è solo l'ultima tessera del domino di cui vi parlavo. Non è caduta mica per caso, lo capite, ora? La perfida mano del destino ha fatto in modo che mio fratello conoscesse Bushido – che intanto si era già lasciato con Cassandra – lo ha fatto, diciamo, uccidere perché Bill potesse struggersi d'amore perduto e io potessi, stando lì a consolarlo, conoscere Cassandra che nel frattempo si struggeva di dolore per l'amico morto. Uniti nello struggimento generale, io e Cassandra abbiamo combinato e visto che combinavamo discretamente bene abbiamo continuato a farlo anche dopo che Bushido è tornato dalla morte, precipitando il proprio regno nella follia, per sfuggire alla quale io e Cassandra - ormai provati – abbiamo perso di vista ogni limite e soprattutto la razionalità, mettendo in cantiere questo bambino.
Era tutto programmato. Questa non è una coincidenza. Risalendo a ritroso la linea degli eventi, la perfida mano del destino è più che evidente. Se Bushido non avesse incontrato mio fratello e non fosse poi morto, io non avrei dovuto consolarlo, Cassandra non avrebbe dovuto struggersi e non avremmo mai concepito.
E dal momento che Bushido è convinto di poter controllare tutto, compresa la rotazione del pianeta, non è difficile credere che controlli anche il resto dell'universo e con esso la gigantesca mano che muove le tessere del domino destinate a cadere secondo il suo specifico disegno. In sostanza se ora io e Cassandra aspettiamo un figlio è senz'altro colpa di Bushido.
D'accordo, sto delirando. Adesso mi farò una birra – una birra mi spetta, sono un uomo sconvolto – e poi cercherò di affrontare questa situazione con razionalità, che poi significa chiamare David.
Alla fine ne bevo tre prima di comporre il suo numero sul cellulare. Sono letteralmente accasciato sul tavolo del soggiorno, con la testa piegata di lato e il telefono appoggiato contro un orecchio quando dall'altra parte David mi risponde ridendo e chiedendo a qualcuno che evidentemente non sono io di tenere giù le mani dal suo sedere per cinque minuti. “Pronto?”
“Le mie orecchie sanguinano, David” borbotto.
“Tom?”
“Sono io. Volevo chiederti educatamente se stavo disturbando, ma non c'è più bisogno che tu mi risponda. E' possibile che tu non faccia altro che scopare?”
Lo sento chiedere a J.J. - che è il nomignolo con cui chiama il suo adorato dottor Schüster di cui ci racconta vita, morte, ma soprattutto miracoli con grande dovizia di particolari – di scusarlo qualche minuto. “Tom,” dice poi, dopo che si è chiusa una porta. “Va tutto bene?”
“Sì, tutto a meraviglia,” poi rido perché forse le birre erano quattro. “Una favola, proprio.”
“Ma sei ubriaco?”
Rido. “Mi sa di sì, David.”
“Sono le tre del pomeriggio, si può sapere che ti prende di metterti a bere così presto?”
“La birra va giù a qualsiasi ora.”
Sospira. “Che cosa succede?”
“Ho qui un problema che non puoi risolvere,” dichiaro. “Per la verità il problema ce l'ho io, ma ci siamo capiti.”
“Di cosa stai parlando?”
“Di una roba enorme,” sospiro.
Lo sento trafficare, anche se non capisco bene cosa stia facendo. “D'accordo, dove sei, a casa? Dammi un quarto d'ora e sono lì.”
Continua a parlare, a dirmi di non muovermi che appena arriva risolviamo tutto, e qui mi rendo conto che l'ho chiamato solo perché è sempre stato lui che ci sbrogliava i casini, ma stavolta non può andare così. Non ho più quindici anni, periodo in cui questa telefonata sarebbe stata giustificata. Questa è una faccenda tra me e Cassie, che si aspetta che io mi comporti come l'adulto che ormai sono anche se non ho idea di quando lo sono diventato. In questo momento, credo. “No, David, non c'è bisogno che tu venga qui,” lo fermo e mi sento incredibilmente più lucido. “Non avrei neanche dovuto chiamarti.”
“Tom...”
“Sto bene,” lo rassicuro. “Cioè, io sto bene, non mi è successo niente.”
“Hai detto di avere un problema.”
Annuisco, passandomi una mano tra i capelli. “Sì, ma non è un vero problema. E' più una questione, che devo capire come affrontare.”
“Se hai bisogno, posso venire lì,” insiste lui. “Qualunque sia questa questione di cui parli, possiamo discuterne insieme.”
“No,” ribadisco. “Devo fare una cosa. Subito. Ma tu non devi preoccuparti, perché io sto bene.”
“Se dici così mi preoccupo per forza,” replica. “Vuoi dirmi almeno che cosa devi fare?”
Io mi scosto dal tavolo con grande fatica perché il cervello sarà lucido ma le gambe non sono ancora state avvertite. Devo farmi una doccia e poi un caffè, o viceversa. “Devo parlare con Cassandra.”
Ne segue un lungo silenzio da parte sua, tanto che riesco a sentire che in sottofondo c'è uno stereo che suona qualche suo cd dell'anteguerra. “Che cos'hai combinato?” Dice alla fine.
“Non è stata colpa mia,” rispondo. “Cioè, all'atto pratico sì, è stata colpa mia, ma in generale è stato il destino e soprattutto il fatto che Bushido sia tornato dalla morte. Ora devo proprio andare, però.”
“Tom...”
“Ti chiamo stasera, promesso.”
Mentre riattacco mi chiede disperatamente di non fare cose che lui non farebbe.
E in qualche modo, il consiglio riesce a darmelo comunque.

*


Da Cassandra ci arrivo quasi due ore più tardi, dopo una doccia e qualcosa come due litri di caffè che di sicuro non mi fanno tanto bene ma almeno mi tengono in piedi e non mi fanno più girare la testa, due cose delle quali ho bisogno per mantenere un po' di credibilità. Sarò, forse, un tantino isterico ma penso sia più accettabile questo dell'alito che sa di birra, per altro scadente, per altro sempre in pieno pomeriggio.
“Ciao Tom.” Mi accoglie aprendo la porta ed osservandomi come una che non si capacita della mia presenza sullo zerbino di casa sua. Io non posso risponderle subito perché ho il fiatone, così lei solleva un sopracciglio perplessa. “Ma hai fatto le scale a piedi?”
Io annuisco, piegato in due e appoggiato al muro con una mano.
“E per quale motivo non hai preso l'ascensore? Sono sei piani!”
Io scuoto la testa. “Non arrivava mai...” rantolo. “C'era troppo da aspettare.” Mi sembra chiaro che la prossima cosa urgente da fare, dopo questa, sia iscrivermi di nuovo in palestra.
“Vuoi entrare? Ti prendo qualcosa da bere,” fa lei, lasciandomi la porta aperta perché possa strisciare senza dignità all'interno mentre lei si dirige in cucina. “O un polmone d'acciaio.”
“Spiritosa,” borbotto, sedendomi sul divano.
Mi passa un bicchiere d'acqua e rimane lì in piedi davanti a me, osservando impietosa che sono uno straccio mentre lei quasi risplende, nonostante sia vestita da casa e abbia i capelli tutti scompigliati. “Se doveva essere un'entrata ad effetto, non ti è riuscita molto bene,” scherza.
“Non esattamente quello che avevo in mente,” ammetto.
“Va un po' meglio?” Mi chiede.
I polmoni non minacciano più di abbandonarmi e il cuore batte forte, ma non come se stesse per venirmi un infarto, quindi direi che sto migliorando. “Più o meno.”
“Come mai questo fuori programma? Pensavo che oggi accompagnassi tuo fratello in giro per negozi.”
“C'è andato Fler,” rispondo, mentre penso alla mia telefonata disperata dell'ultimo minuto quando, con un piede già fuori di casa, mi sono ricordato di Bill e dello shopping del mercoledì.
Fortuna che Fler è un grande e si è offerto di sostituirmi, non sono mai stato tanto contento che Bill sia circondato da uomini asserviti, pronti a passare con lui un pomeriggio intero da Dolce e Gabbana. Spero solo che mio fratello non si arrabbi troppo vedendolo arrivare al posto mio, ma non credo visto che lui e Fler sono due amiche del cuore, tipo.
“Capito. Immagino che si divertirà comunque finché gli funziona la carta di credito.”
Io faccio un mezzo sorriso e poi mi inumidisco le labbra. “Sono venuto a... parlare.”
Cassandra sospira e poi si siede sul divano accanto a me, tirando su le gambe per abbracciarsi le ginocchia e appoggiarci sopra il mento, mentre guarda con aria assente la cucina che s'intravede dalle porte aperte aldilà del corridoio. “Sono passati soltanto tre giorni, Tom.”
Tre giorni che ho trascorso davanti allo specchio a ripetermi che lei era incinta e poco altro. “Ho avuto modo di pensare a questa situazione.”
“Tom...” Il suo tono è pacato, comprensivo, forse anche leggermente accondiscendente. “Prima che continui, voglio dirti che mi aspettavo ti prendessi un po' più di tempo per prendere questa decisione.”
“Lo so,” dico subito. “Lo so! Io stesso pensavo che ci avrei messo delle settimane anche solo per rendermi conto che stava succedendo davvero, credimi.”
Lei passa una mano tra i suoi riccioli e quelli si scostano soltanto un istante per poi tornare esattamente dov'erano prima, al loro posto. “E...?” Sospira.
“E ancora non me ne sono reso conto, anzi probabilmente non lo farò finché questo bambino non sarà arrivato e allora non potrò più negare che sia vero,” rispondo e poi scrollo le spalle. “Ma non importa, è questo il punto.”
“Tom, che cosa stai cercando di dirmi, che non credi all'esistenza dei neonati?”
“No, che non m'importa della situazione,” puntualizzo. “Cioè m'importa, ovviamente, ma non nel senso che debba essere un problema. Insomma sì, è un problema, perché ci sono gli esami e le visite e i vestiti e non so, delle cose da comprare, credo, ed è un bambino, voglio dire un bambino vero o che sarà vero quando sarà qui, ma non è un problema-problema. E' solo... una questione. Ecco sì, una questione.”
Io sono molto orgoglioso di quello che ho detto, anche se non so esattamente di che cosa si tratti. Quando sono uscito di casa avevo una mezza idea di come avrei affrontato il discorso e di come poi questo discorso si sarebbe sviluppato ma, quando sono arrivato sotto casa sua, in testa mi è rimasta solo una manciata di parole che si sono confuse ulteriormente quando poi ho aperto bocca. Ho lavorato con quello che avevo.
“Quindi questo bambino non è un problema ma una questione.”
“Esattamente.”
Lei gonfia una guancia, pensierosa. “Quanto caffè hai bevuto prima di venire qui?”
“Tanto,” annuisco.
“Questo spiega un sacco di cose.”
“Cassie, dico davvero,” esclamo, alzandomi di scatto in piedi perché mi sembra di non essere stato troppo convincente e io invece sono venuto qui per esserlo, perché mi sono già convinto da solo quindi adesso non mi resta che convincere anche lei. “Quando me lo hai detto ero terrorizzato e adesso lo sono ancora di più, ma è giusto che io lo sia, no?”
“Sì, ma...”
“Non avevamo preventivato questa situazione, è vero. E io di sicuro non l'avrei preventivata nemmeno se me l'avessi chiesta, ma è successo lo stesso e tu vuoi tenerlo, quindi la soluzione è semplice. Qualcuno deve cambiare i suoi schemi mentali e quello sono io.”
Lei agita le mani di fronte a sé. “No, è questo che ho cercato di dirti al ristorante. Tu non devi fare niente se non lo vuoi, proprio perché niente di tutto questo era programmato.”
“Io voglio questo bambino.” E quando finalmente lo dico, mi sembra all'improvviso tutto più facile. Non che adesso io sia pronto a diventare padre, a cambiare pannolini e a scordarmi per sempre la mia vita per come la amo e me la ricordo ora, solo che ho preso una decisione e questo mi toglie almeno metà dell'ansia. Mi sono dato un punto di partenza da cui iniziare a lavorare e ora il futuro – per quanto terrorizzante – è piuttosto chiaro. “In questi giorni ci ho pensato e ripensato e l'unica cosa che davvero non voglio è allontanarmi da te. Per la prima volta nella mia vita comincio a credere che potrei davvero stare con qualcuno per sempre e non butterò tutto all'aria solo perché qualcosa che forse avrebbe potuto capitare tra molti anni è invece capitato adesso. La questione è in realtà molto semplice: non voglio perderti Cassie. Ti voglio con me, e quindi voglio anche lui. Le due cose non sono affatto separate.”
Lei rimane pietrificata, o almeno questa è l'impressione che ne ho io quando non dice niente e schiude un po' la bocca, guardandomi fisso.
“D'accordo,” mormoro incerto. “Immagino di aver detto qualcosa di molto sbagliato, ma giuro che non volevo. Quello che intendevo è che...”
Lei mi piazza una mano sulla bocca, costringendomi a buttare fuori in uno sbuffo le ultime due o tre parole che stavo per dire. Mi guarda ancora per qualche istante e poi mi afferra per la nuca e mi bacia. Quando ci allontaniamo, mi sorride sulle labbra. “Certo che ne fai di casino, quando parli.”
“Dovrò smettere di farlo, sono d'accordo,” la bacio di nuovo e me la stringo contro, accarezzandole la testa mentre, ridendo come due cretini, ci sistemiamo meglio sul divano.
Quando ci calmiamo mi concentro sul suo respiro vicino al mio orecchio e sorrido.
Tra nove mesi i Kaulitz di questo branco saranno tre, e che sia colpa del caso, di Bushido o dell'universo, in realtà non importa davvero più.

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Blessings are not just for the ones who kneel

di tabata
Quando ero più giovane, ero fermamente convinto che non esistesse una sola definizione di normalità. La società – intesa come quell'insieme di persone benestanti che dall'alto della loro bella vita si permettevano di guardare noialtri del ghetto con superiorità – poteva ripetere all'infinito che normale, per un ragazzino di diciassette anni, era avere un padre e una madre, vivere in una casa con la luce e l'acqua corrente, andare a scuola, avere degli amici della sua età e un lavoretto part-time per imparare che il denaro lo si guadagna con fatica, ma per me che abitavo in un quartiere che era morto da tempo e resuscitava soltanto di notte, portandosi dietro la merda peggiore direttamente dall'inferno, la normalità non poteva essere quella. La mia normalità era avere soltanto una madre che si ammazzava di lavoro, quando riusciva a trovarlo, e piangeva per giorni quando invece non c'era. La mia normalità era passare più tempo per strada che in qualunque altro posto, e in certi anni non sapere neanche dove fosse la mia classe a scuola perché da quando era iniziato l'anno non ci ero mai entrato. Il mio lavoro part-time era fare il corriere per Arafat e non avevo alcuna necessità di imparare che i soldi bisogna sudarseli perché, magari non lavoravo in miniera, ma sapere che se mi fregavano la roba, non mi pagavano abbastanza o facevo casino con i conti quello poteva anche ammazzarmi, era sufficiente a rendere l'idea che dovevo metterci dell'impegno.
Ma d'altronde quella che era la mia normalità, era anche l'unica normalità che la società di cui sopra accettava per me, perché quelle belle madri bionde con il marito bancario che discutevano tutto il giorno con altre amiche bionde col marito imprenditore o politico di quanto orribile fosse la condizione di certi ragazzini, poi non volevano che i suddetti ragazzini passassero del tempo con le loro figlie bionde. C'era una normalità generica a cui bisognava aspirare e una normalità reale – quella del ghetto – che era normale per quelli come noi, non so se rendo l'idea.
Poi è arrivato il rap – o meglio, come sempre, mi sono dato la possibilità di farlo, non è che sia scesa dal cielo per volontà divina – e la mia normalità è cambiata di nuovo. Arafat è rimasto, ma mia madre ha smesso di piangere. Improvvisamente era normale per me, che fino al giorno prima per tutti quanti puzzavo d'immigrato senza mai esserlo stato, poter entrare nei salotti bene, entrare negli studi televisivi tra due ali di folla, ricevere premi. Perché se sei mezzo tunisino e spacci, devi essere una brutta persona. Ma se sei mezzo tunisino e vinci dischi di platino, la cosa che spacci tutti fanno finta di dimenticarsela. E' normale che tu venga trattato bene perché produci denaro, oltre che guadagnarlo.
La mia normalità sembrava essersi stabilizzata – anche perché mi sembrava di un tipo accettabile, uno di quelli che potevo anche dire va bene così, non voglio altro nella vita – ed è arrivato Bill. La questione di Bill l'abbiamo già ampiamente affrontata, mi pare. Non è che ora voglio stare qui a raccontarvi di nuovo di come ci siamo conosciuti, amati, e di come sono morto perché, francamente, questa cosa che tutti continuano ciclicamente a ricordarmelo – come se non lo sapessi – mi fa incazzare. Non sono morto davvero, sapete perché ho finto, ho dato una spiegazione più che esauriente e mi aspetto che non solo sia accettata, ma che non se ne faccia più parola. Ad ogni modo, Bill arrivando ha fatto una cosa precisa: ha distrutto non solo la mia normalità, ma quella di tutti gli altri. La normalità per quelli come noi - che in quel caso significava rapper del ghetto – era avere più donne, possibilmente idiote e zoccole, per un quantitativo abbastanza ragionevole di tempo e poi trovarne una con cui mettere la testa a posto e fare dei figli. Io ho scelto Bill – che di certo non era donna e non potevo farci dei figli – e per qualcuno questo non era normale. Come al solito, ho fatto come ho voluto io. E' per questo che adesso, esattamente tre anni dopo, quando normale significa avere a pranzo due uomini che si sono appena sposati a Las Vegas e una decina di altre persone che con loro compongono la mia famiglia allargata, ricevere notizie come quelle che sto ricevendo e organizzare la mia vita come sto per fare, capisco che una definizione per normalità esiste eccome, ed è insindacabile. Normalità e quello che io decido essere normale. Questa tavolata, per dire, lo è.
L'idea della cena è stata di Bill, che ultimamente si è ripreso così bene da far desiderare a tutti quanti che la sua convalescenza fosse durata di più. Durante il periodo in cui è stato male, ci siamo tutti beatamente dimenticati com'era, Bill, quando non aveva un solo problema al mondo e l'unica vita che conosceva era quella super-protetta che David gli aveva assicurato. Non che sia tornato così tanto indietro da costringermi a ricominciare tutto da capo, ma dal momento che David ha scampato la morte, lui e la sua band hanno ora la possibilità di tornare a suonare e Chakuza non ha portato a casa una donna qualunque che lui non avrebbe approvato costringendo me ad ucciderli entrambi, lui e Chakuza intendo, può concentrarsi sulle cose che preferisce, e cioè dare feste e coordinare i tovaglioli con le tende, una cosa che francamente non comprendo ma che sono disposto a sopportare se poi il risultato è qualcosa che approvo. Guardo questa stanza che va riempiendosi di persone che si salutano fra loro e mi dico che era esattamente questo l'obbiettivo che stavo cercando di raggiungere. Li volevo tutti insieme come sono adesso e ci sono riuscito. C'è voluto più del previsto, ma d'altronde non è mai stata una questione di tempo.
La scusa ufficiale per questa cena è festeggiare il matrimonio di Fler e Chakuza.
“Non capisco perché dovremmo farlo,” dice Eko, impedendo a Karima di prendergli il giubbotto e legandoselo stretto in vita per evitare che la mia povera domestica, già vessata dalla costante presenza di Bill nella sua vita per altro, tenti inutilmente di fare il suo lavoro. “Assistere all'intera cerimonia non era una tortura sufficiente?”
Bill ride, del tutto impermeabile all'atteggiamento di Eko verso questa cena in particolare ma anche verso tutto il resto. “Allora possiamo festeggiare il nostro ritorno da Las Vegas," propone. "Ciao Valezka.”
Valezka è un souvenir che abbiamo riportato a casa da Las Vegas. C'è chi riporta riproduzioni della Statua della Libertà dagli Stati Uniti, io un pezzo del mio passato. A pensarci bene, si potrebbe anche dire che una parte importante della mia storia è iniziata proprio con lei. E' per lei che Eko aveva perso la testa più di dieci anni fa. E' per lei che io mi sono schierato con lui aprendo quella crepa fra me e l'Aggro Berlin che poi mi ha portato ad allontanarmi da Fler e, in un certo senso, tutto quello che è successo dopo. E' solo giusto che adesso che quella parte della mia vita si è chiusa (la crepa no, ma non sei nessuno se non hai dei nemici, alla fine), anche lei fosse di nuovo con noi. Era un pezzo mancante che non stavo cercando, ma che come tutti gli altri è tornato a casa.
"Ragazzi, non fatemelo ripetere," la voce di Bill perde la sfumatura gentile che aveva un minuto fa e sovrasta quella di tutti. Ogni tanto ci dimentichiamo quanto può urlare. "Sedetevi."
Un tempo questa casa era una tana. Periodicamente i ragazzi la prendevano d'assalto, ci restavano dei giorni e quando se ne andavano il salotto era una scena di guerra, con cibo, bottiglie vuote e posaceneri pieni dappertutto. Era un incontro tra animali che si comportavano come la natura aveva insegnato loro.
Poi è arrivato Bill che ha costretto tutti quanti ad un salto evolutivo. Alcuni sono rimasti scimmie, ma almeno sanno sistemarsi il tovagliolo sulle ginocchia.
Sono felice e rilassato. Per la prima volta da molti mesi sento che ogni cosa è al suo posto e non devo preoccuparmi di niente – è un bel risultato dopo che abbiamo trovato David sbudellato in un magazzino.
Ma mentre prendiamo posto al tavolo, sento che qualcosa non quadra. E' difficile da spiegare. Non è un dettaglio che vedo o che sento, non è qualcosa di fisico.
Quando stai sulle strade per tanto tempo come ho fatto io, sviluppi un sesto senso che ti serve per sopravvivere. Quelli che non ce l'hanno muoiono, è semplice. Quando la tua vita dipende da quanto sei furbo, non puoi permetterti di reagire alle cose quando succedono. Devi reagire prima che capitino o, quanto meno, essere pronto ad accoglierle. E questo puoi farlo solo se riesci a cogliere quel minimo cambiamento, quella vibrazione che precede un grande evento. Devi saper annusare l'aria, ecco.
E in questo momento l'aria in casa mia ha un odore molto strano.
Li osservo tutti uno per uno, cerco la vibrazione che mi inquieta. Forse non è niente di grave – è vero che stiamo ancora cercando lo stronzo che ha quasi ucciso Jost, ma di certo non mi aspetto di trovarlo fra le persone sedute a questo tavolo – ma le sorprese non mi piacciono, per cui, qualunque cosa sia, voglio capire almeno da che parte ha intenzione di arrivare. Lo capisco quando poso gli occhi su Tom.
Io e Tom abbiamo un rapporto strano, non ci siamo mai stati troppo simpatici per tutta una serie di motivi che già sapete, ma siamo arrivati più o meno a capirci, strano a dirsi, quando io sono tornato da Miami. Di tutte le persone che avevo intorno lui è stato l'unico a capire per quale motivo avevo fatto quello che ho fatto, forse perché, a parti invertite, lui avrebbe fatto lo stesso o qualcosa di molto simile. Questo ci ha dato una possibilità, un terreno comune, diciamo, per poterci ragionevolmente sopportare. Lui ha apprezzato il mio tentativo di proteggere suo fratello – forse ha apprezzato il mio tentativo di scomparire dalla sua vita, in realtà, ma lascio correre – io ho apprezzato la sua comprensione. Basiamo su questo briciolo di rispetto la sopportazione l'uno dell'altro, e non facciamo mai nessun passo che possa portarci in qualunque altra direzione. Questa è la nostra dimensione, e va bene così. Ma ora lo leggo nei suoi occhi che qualcosa è cambiato. Anzi, per essere precisi, che è successo qualcosa, lui ha fatto qualcosa che sbilancia di nuovo gli equilibri.
Lo so perché, come ho detto, queste cose le sento, e anche perché nei suoi occhi quello sguardo io l'ho già visto. Conosco il modo nervoso in cui improvvisamente comincia a muoversi quando ha qualcosa da dire o qualcosa per cui rendere conto. L'ultima volta è stato quando si è presentato a casa mia in compagnia di Cassandra. Lui lo sapeva che non avrei apprezzato. Non che abbia rinunciato, ma si è presentato con una certa dose di inquietudine, sapendo che potevo reagire in qualsiasi modo, ma pronto a difendere le proprie scelte, questo va detto. Io pensavo che Tom fosse solo un cretino, ma in realtà è uno che ha fatto la guerra negli ultimi mesi, e nemmeno per colpa sua, e ne è uscito in piedi senza mai vacillare, non è cosa da poco. Quando ci siamo confrontati seriamente sulla questione Cassandra, io gli ho detto che lo avrei ammazzato se l'avesse fatta soffrire, ma Cassandra adesso è qui e sembra che fra loro vada tutto bene.
Lo osservo per tutta la sera e aspetto. Lui forse si sente il mio sguardo addosso o forse no, non lo so, ma in due ore che dura la cena non mi guarda mai. Parla con tutti, ride, ma i suoi occhi glissano su di me ogni volta che per caso si gira dalla mia parte. Il coraggio lo trova solo quando decidiamo di brindare.
"L' ultimo anno è stato molto impegnativo," dico alzandomi, la bottiglia di champagne sul tavolo di fronte a me, mentre i ragazzi si passano i bicchieri. Non perdo tempo a fare il riassunto di tutta la merda che abbiamo passato perché non ne possiamo più di raccontarcela a vicenda, ma voglio ricordare a tutti quanto siamo forti, questa è una cosa che ci meritiamo di sentire continuamente. "E gli ultimi mesi, in particolare, ci hanno messo alla prova. Hanno quasi ammazzato uno dei nostri," continuo con un cenno a David che annuisce, "e per questo pagheranno, ma possono colpirci solo quel tanto che gli permettiamo, e da questo momento in poi non lo faremo più."
I ragazzi annuiscono, esultano ed alzano i bicchieri e per un momento nella stanza c'è tanto di quel casino che devo alzare una mano e chiamarli perché si calmino e, quando non lo fanno, m'infilo due dita in bocca e fischio così forte che Bill al mio fianco fa una smorfia e si tappa un orecchio. "Non ho ancora finito," dico quando finalmente chiudono la bocca. Qualcuno si schiarisce la gola e guarda in basso. Mi viene da ridere perché sembrano tutti tornati alle elementari. "Abbiamo un'altra cosa importante da festeggiare," continuo invece, e piano piano il mio viso si distende per davvero e non riesco a non ridere perché dieci anni fa, forse, avrei ucciso qualcuno pur di lavare un'onta simile, e invece ora sono qui a brindare e, sinceramente, non me ne frega un cazzo di come la sfangheremo stavolta, non so nemmeno come la sfangheremo stavolta, perché è un gran casino far digerire alla gente che stai con uno come Bill, però ce la puoi fare se hai la testa dura, perché Bill, con la faccia che ha, ti aiuta. Voglio dire, pure se ti fanno schifo i finocchi, pure se la sola idea ti fa vomitare, Bill un po' ti scuote. Lo so che là fuori un sacco di gente ha mandato giù questa faccenda e non gli è rimasta incastrata in gola solo perché se strizzi gli occhi e non guardi bene, Bill ti confonde. E allora è facile pensare Ma non è proprio un maschio, quindi ci sta. Chakuza e Fler no, però. Tu non puoi guardare Fler, né tanto meno Chakuza, cazzo, e pensare di poterli digerire fingendo che non siano due maschi. C'è un limite alla fantasia umana e quel limite sono loro due, immagino. Ma non me ne frega niente. Per quanto Chakuza mi stia sulle palle in questo momento, per quanto non è che mi vada proprio bene che metta le mani su Fler, non me ne frega un cazzo di come usciremo da questo ennesimo bordello, di come manderemo giù per la gola alla gente anche loro. In qualche modo faremo, penso. Se c'è qualcuno che può farlo siamo noi, perciò vaffanculo a tutto. "Ai nostri due sposi," esclamo e rido perché Fler vorrebbe poter scavare un buco nel pavimento e saltarci dentro e sparire. Mi mandano tutti e due a cagare tra gli applausi generali e io penso che potrei vivere per questi momenti qui, momenti di gente che mi bestemmia dietro per delle belle ragioni, momenti in cui faccio quello che voglio - facciamo, noi tutti, quello che vogliamo - e non devo rendere conto a nessuno. Uno dovrebbe vivere solo di momenti come questi, mi dico, è per questo che lavori. Per poter fare il cazzo che vuoi con la gente che vuoi.
E poi Tom si alza in piedi e si schiarisce la gola. Finalmente, penso, le hai cercate tutta la sera le palle, alla fine le hai trovate. "C'è una cosa che devo dirvi," esordisce e poi mi alza addosso un paio di occhi allucinati che, francamente, comincio a pensare di dovermi preoccupare – poi è vero, mi devo preoccupare, ma in quel momento penso a qualcosa di veramente serio, tipo, polizia, droga, malattie mortali, cose del genere – e mantengo il sorriso solo perché non esiste che Tom si alza, si prepara a tirare una bomba e io m'inquieto. Non esiste proprio. "Se posso, Bushido," aggiunge anche, il che fa zittire anche tutti gli altri. All'improvviso sono tutti quanti consapevoli che sta per succedere qualcosa. Ci sono arrivati tardi, ma ci sono arrivati.
"Prego," concedo io, e mi siedo. Anzi no, prendo proprio possesso della sedia. Mi ci rilasso, se ne avessi una di quelle con i braccioli, mi ci appoggerei come un capocosca nei film sulla mafia. Allargo le gambe, appoggio la schiena, le braccia rilassate sulle ginocchia come fosse tutto tranquillo, perché lo so che lui non lo è.
Tom si schiarisce la voce e fa una lunga pausa, credo per cercare il modo di dire – di dire a me nello specifico – quello che deve dirmi, e ora lo so che poteva cercare anche tutta la sera e non avrebbe mai trovato le parole giuste perché non ci sono.
"Abbiamo detto che è bello essere di nuovo tutti qui," inizia un po' incerto, "e siamo tanti, dico bene?"
Cerca in giro un qualche consenso, qualcuno annuisce ma nessuno capisce dove voglia andare a parare, nemmeno io francamente.
"Ecco," annuisce, come se qualcuno gli avesse detto esattamente quello che voleva sentire. Poi alla fine non ce la fa più, sospira e alza lo sguardo su di me ancora una volta. "Presto saremo uno in più perché..."
Tutto il mio corpo si tende, una parte di me ha già capito prima che io me ne renda conto. Alla mia destra sento un movimento e so che è David, lo so perché subito dopo essersi mosso sulla sedia esala una specie di sospiro strozzato. "...perché Cassandra aspetta un bambino," conclude Tom con la voce di qualcuno che è pronto a morire ormai, perché davvero anche la morte sarebbe preferible al continuare a stare in piedi e parlare. E infatti si siede mentre la tavolata cade nel silenzio più assoluto e tutti si girano nello stesso momento verso di me.
Ci sono notizie che interiorizzo istantaneamente, sono quelle per le quali so che devo avere una reazione immediata. Quando ho visto David riverso al suolo, non mi sono fermato a pensare che poteva morire e lo avrei perso e poi avrei dovuto dire a Bill che era morto e lo aveva perso anche lui. Non avevo il tempo di abituarmi all'idea. In questo momento invece le parole di Tom mi arrivano chiare, e sono semplici, veramente semplici, ma non mi passa nemmeno per l'anticamera del cervello di accettarle così come sono. Non so nemmeno se quello che mi dà fastidio è che Cassandra è incinta o che è incinta di Tom. Credo che siano due nozioni diverse, nessuna delle quali sono pronto ad assimilare.
"Io ti ammazzo." E' la prima cosa che dico perché è la prima cosa, fra tutte quelle che valuto, che veramente mi sembra adeguata alla situazione. E' la verità, e la verità va quasi sempre bene, specialmente se è per chiarire la situazione a tutti quanti.
"Cassandra vuole tenerlo," dice Tom e poi, subito, aggiunge. "E anch'io."
La tavolata, sempre zitta, è scossa da un brivido collettivo. Poi qualcuno si alza, è Eko. Si è già messo a portare via i piatti. Tom si schiarisce di nuovo la gola sotto il mio sguardo che non si è spostato di un centimetro, sto veramente cercando di fargli un buco in testa solo guardandolo. "Ecco, sì, insomma," balbetta, "pensavamo che dovessi saperlo."
Alla mia sinistra sento lo sguardo di Cassandra e so perfettamente che non sta sorridendo, mi sta minacciando, lo so, per questo non mi giro. E anche per questo lei parla. "Bushido, nessuno ti sta chiedendo il permesso," mi dice con severità, ma assolutamente tranquilla. "Vorrei che questo fosse chiaro."
Ogni tanto, è vero, ho bisogno di ricordarmi che lei fa sempre come cazzo le pare. Vorrei dirle che, anche se le fosse passato per l'anticamera del cervello di chiedermelo, il permesso, ormai è tardi, che il danno l'hanno fatto e che, se proprio dovessi porre rimedio, a questo bambino toglierei il padre, non certo la possibilità di vivere. D'altronde a questo tavolo abbiamo una lunga tradizione di uomini senza padre, uno in più o uno in meno non farebbe granché differenza. Anzi, se c'è qualcosa che qui sappiamo fare è proprio crescere senza un padre. E' decisamente una delle specialità della casa.
"Capisco," dico alla fine. E poi è come se la stanza esplodesse, dico davvero. Io nella mia assoluta immobilità mentre intorno a me tutti quanti si alzano o allungano un braccio a battere sulla spalla di Tom o quella di Cassandra. Bill si getta tra le braccia del fratello e gli si attacca al collo urlando qualcosa riguardo al fatto che saremo presto zii, io e lui, che è una cosa sulla quale sarà meglio che discuta con lui più tardi. David in tutto questo sta piangendo. Piange e ride e singhiozza ancora più forte perché per qualche motivo le risate lo fanno piangere ancora di più. Non era così contento nemmeno quando gli abbiamo detto che non moriva.
Immagino che sia un po' come sentirsi dire che sta pre diventare nonno, d'altronde è un po' il padre dei gemelli, e infatti finisce che quei due lo abbracciano, e quello allora si mette a piangere ancora più forte.
Se qualcuno aveva da ridire sulle nostre scelte di vita, forse dovrebbe preoccuparsi del livello di emotività a cui siamo arrivati. "D'accordo, va bene, ora basta," commento, battendo le mani per attirare l'attenzione di tutti quanti. "Fatela finita. Ci sono talmente tanti ormoni liberi in questa stanza che comincio a sentirmi a disagio. Tom, siediti."
Tom si siede all'istante, con suo fratello avvolto addosso come una sciarpa. "Sì," dice. "Ascolta, Bushido, davvero, lo so che ti gira male, ma non è che..."
"Zitto."
"Sì."
"Bushido..." inizia Cassandra minacciosa.
Io sollevo una mano e sospiro. "Cassandra, lasciami parlare," dico. Aspetto di vederla annuire e poi continuo. "Sono dell'idea che dare al mondo un altro Kaulitz non sia una grande trovata, ma..."
"Anis!" Sbraita Bill indignato.
"Ma," insisto, con un sorriso che lo seda istantaneamente, "se c'è qualcuno che può migliorare i tuoi geni, Tom, quella è Cassandra, perciò ti auguro che prenda tutto quanto da lei."
Sento i nervi di tutti rilassarsi, c'è un unico grande sospiro di sollievo e penso e spero e lascio che calmi anche me perché l'unico modo che ho di accettare questa cosa è farla mia, come il resto. E mentre penso a questo, penso anche che una soluzione ce l'ho.
"Ha ragione," scherza David, tirando su col naso con un sorriso che gli va da un orecchio all'altro. "Comunque, questa bella notizia mi fa venire in mente che stavo giusto cercando una scusa per dare una festa. Ho bisogno di distrarmi dopo la perdita di J.J., pertanto siete tutti obbligati a venire da me. Non accetto un no come risposta."
"Ma è morto?" Chiede Chakuza.
"Chi?" Chiede Eko, che è tornato dalla cucina non appena ha sentito ridere.
"J.J." risponde Chakuza.
"E chi cazzo è J.J., ora?" Esclama Eko, sconvolto. Cose accadono intorno a lui e lui non ne sa niente. Non è già abbastanza che tornino i morti?
"L'uomo della mia vita," sospira David, annuendo sconsolato. "Ci amavamo molto, ma il mondo aveva bisogno di lui."
Eko non sembra granché impressionato dall'eroicità di J.J., lo perplime più che altro la festa. "E cosa dovremmo festeggiare? Che se n'è andato?"
"No, ovviamente! La festa serve per consolarmi," sbotta David, sospirando. "Eko, vieni e basta."
"Una festa mi sembra un'ottima idea," commento. Nella mia testa c'è un piano chiarissimo per il futuro e sono così compiaciuto della cosa che provo un piacere quasi fisico nel comunicarlo. "Celebreremo il nuovo arrivo, consoleremo David e ne approfitteremo per dire addio a tutto quello che ci siamo lasciati alle spalle. A tal proposito, ho anche io un annuncio da fare."
"E sarebbe?" Chiede Fler.
"Visti i recenti sviluppi e visto che vogliamo rimettere in piedi l'etichetta e comunicare un'idea di unità, visto che vogliamo che la gente là fuori sappia che siamo un gruppo compatto," dico e mi fermo, voglio vedere se qualcuno protesta, ma nessuno lo fa, "ho deciso di far costruire una serie di ville intorno a questa, per voi, per le famiglie che siete ora e per quelle che state per diventare. Non saremo più sparsi per il quartiere, saremo noi il quartiere."
Il silenzio cala di nuovo, ma stavolta io almeno sorrido.

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