Talk Out And Break The Silence

di lisachan
Comincerò col dire che Sido non ce la può fare col fatto che ho quattordici anni. Il che, vi assicuro, lo rende già una persona migliore di tre quarti buoni del resto della gente che ho incontrato nella mia vita, anche se quello che sto per dirvi probabilmente cambierà la vostra opinione in merito. Naturalmente avreste torto. Se ve lo dico io, che è una bella persona, potete crederci, considerato che ci sto insieme.
Vi vedo sbiancare. So che vi chiedo uno sforzo di una certa rilevanza, ma cercate lo stesso di seguirmi. Avete visto di peggio, fra queste pagine. Io, alla fine, vi sto raccontando una storia d’amore del cazzo, quindi mettete un attimo da parte la mia età, la sua e tutto quello che può passarvi per la testa mentre cercate di unire i puntini e capire come sia possibile essere arrivati a questo punto dall’ultima volta che mi avete visto, e statemi semplicemente a sentire.
Che poi è quello che fra poco chiederò di fare anche a Sido, che d’altronde, appunto, come vi dicevo prima, col fatto che ho quattordici anni non ce la può ancora fare, e quindi quando lo approccio in un certo modo sbianca più o meno come voi.
“Dobbiamo parlare,” gli dico, entrando nel suo ufficio e chiudendo la porta. È tardi e grazie a Dio gli studi sono quasi completamente vuoti. A parte Ramon, che fa le pulizie e nonostante il nome è più tedesco di me, ci siamo solo io e lui, qua dentro, ed ecco perché mi sto azzardando a cominciare questo discorso adesso, anche perché, se lo lascio andare via, poi non ci sarà più modo di parlargli fino a domani, e invece questa è una cosa che va discussa subito, perché mi sa che ho rimandato fin troppo a lungo.
“Nyzaad…?” mi fa lui, sollevando da un mucchio di scartoffie quegli occhi castani enormi da zio timido che gli occhiali amplificano a livelli quasi intollerabili – io dico: quando decidi di diventare un rapper del ghetto, uno che racconta le brutture della Germania che nessuno vuole sentire, alcool, droga, criminalità minorile, violenza, devi averci la cazzo di faccia giusta; Bushido ce l’ha, per dire, la faccia di quello che grattugeresti contro una parete molto molto ruvida, d’accordo, ma una faccia con una sua credibilità, quando parla di certe robe. Sido c’ha un faccino che, veramente, alle volte alla gente per strada faccio più brutto io. Poi ci si stupisce che si presenti nei video e nelle occasioni pubbliche solo con la maschera a forma di teschio. “C’è qualche problema?”
“Sì,” rispondo io, onestamente, “Ma prima che te lo dica, baciami.” Non so perché glielo dico. È la sua faccia. Madonna, questa faccia. Io penso che quando esci dal ghetto, o almeno ci provi, che hai visto solo facce da galera per tutta la tua esistenza, non puoi fare a meno di innamorarti di uno che ha la faccia di un imbecille. E infatti eccomi.
Lui, però, diventa bianco come un lenzuolo, e questo perché, come vi accennavo prima, non ce la può fare col fatto che ho quattordici anni. Che, direte voi, poteva pensarci prima di scoparti. Lo so, ma che c’entra. Comunque non è quello il punto.
Insomma, si accascia tutto, il viso fra le mani, le mani sotto gli occhiali, gli occhiali che si suicidano lanciandosi nel vuoto e schiantandosi contro la scrivania.
“Nyzaad...” geme disperato. Io giro attorno alla scrivania perché voglio un bacio e non intendo continuare a parlare prima di averlo ottenuto. Potrebbe succedere di tutto, nei prossimi venti minuti. Quando avrò cominciato a dirgli quello che devo dirgli, non avrò più il controllo su questa situazione, e lui potrebbe, giustamente, buttarmi fuori di qui a calci o farmi ammazzare, se riconoscerà che me lo merito e rappresento un pericolo troppo grosso – cose, queste, entrambe vere. Quindi, voglio un bacio. Lo pretendo. Se fosse l’ultima cosa bella che mi spetta prima di sparire sul fondo del canale come mio padre prima di me, avrò un bacio da quest’uomo del quale mi sono innamorata contro ogni ragionevolezza e istinto di conservazione.
“Baciami,” insisto, afferrando la poltrona dai braccioli e girandola nella mia direzione, “Altrimenti non ti dirò niente.”
“Potrebbe vederci qualcuno. Ti prego, ragiona.”
“Non c’è nessuno, qua dentro.” E poi è evidente che ho smesso di ragionare. Anzi, forse non l’ho proprio mai fatto. Cristo, uno si fa tanto grande, convinto di non essere più un bambino. Io sono ancora una bambina. Sono sempre stata una bambina. E come i bambini, non ragiono.
“Nyzaad, prima o poi dovremo parlare di quello che sta succedendo,” sospira lui, “Parlarne seriamente, dico. Lo sai che...” mi guarda e dentro quegli occhi ci leggo di tutto. Di tutto. Trasparenti come vetro, se mai gli occhi di qualcuno lo sono stati. “Lo sai che ti adoro, ma questa cosa non è normale.”
“Non hai idea di quanto più anormale possa ancora diventare,” dico io, la voce che mi trema, “E sta per succedere. Quindi, prima che io dia di matto e mi metta a urlare, baciami, e poi ti dirò tutto quello che vuoi. Anzi, ti dirò di più di quello che vuoi, ti dirò tanta di quella merda che mi implorerai di stare zitta, e allora--”
“Gesù Cristo, Nyzaad!” lui si alza in piedi e mi stringe le spalle fra le dita, scrollandomi un po’, “Okay! Va bene. Calmati. Vieni qui. Mamma mia… vieni qui,” e mi tira verso di sé, e tre secondi dopo sento le sue labbra sulle mie, e chiudo gli occhi e rispondo al bacio e per altri venti secondi, almeno, posso stare bene.
Poi finisce, però. Come tutte le cose belle, finisce.
Lui si allontana da me, mi sorride e mi chiede se adesso sto meglio, e io mi sento una merda perché fra tutti gli stronzi che avrebbero potuto meritarsi quello che io ho fatto a lui, lui non figura proprio nemmeno nella lista.
Il danno, però, ormai è fatto. I danni. I molteplici danni.
Inspiro. Espiro. Chiudo gli occhi, poi li riapro. Lo guardo fisso e lui mi guarda di rimando ed è evidente che, non sapendo lui niente di buona parte della merda che mi trascino alle spalle, non si aspetta niente di tutto quello che io sto per riversargli addosso. Scusami, Sido. Volevi una cantante, hai incontrato una valanga. Adesso ti tocca rimanerci sepolto sotto.
“Sono incinta,” gli dico. Lui si paralizza e so che una parte del suo cervello è appena esplosa. “E questa è la buona notizia.”
Resta in silenzio così a lungo che comincio a chiedermi se gli sia venuto un ictus. Forse dovrei chiamare un’ambulanza. Poi si riscuote, lo sento che molla la presa sulle mie spalle – fa male in modi incalcolabili – e poi si lascia ricadere sulla poltrona come svuotato. Mi fissa con l’aria di uno che stia contando gli anni che gli toccherà scontare in galera, domandandosi se per un caso come il suo possa essere prevista la condizionale.
“Cosa vuol dire che questa è la buona notizia?” esala. Non perdo tempo a rattristarmi perché non mi abbraccia e non mi chiede della gravidanza. So che non è il momento. Non mi aspettavo niente di meno, da lui. E poi, comunque, questa era ancora la parte facile. Ora inizia quella difficile.
“Ci vorrà un po’ per raccontarti tutto,” dico. Lui annuisce con aria un po’ persa, come se ancora non si rendesse pienamente conto, con ogni fibra del suo essere, del disastro che si sta componendo davanti a lui, ma allo stesso tempo una piccola parte della sua coscienza fosse già in moto per arginare i danni.
“Tu comincia a parlare,” dice.
Io mi seggo sulla sua scrivania, allora. E comincio a parlare.
*
Gli racconto tutto dall’inizio. Un riassunto che a voi risparmio, primo perché sono tutte cose che mi avete già sentito dire e secondo perché penso che nessuno fra di voi stia morendo dalla voglia di riascoltarmi nuovamente mentre descrivo quella scena pietosa dietro la scrivania di Nyze, con lui seduto sulla sua bella poltrona girevole e io in ginocchio sul pavimento. Lasciamo perdere. Vi dico solo che Sido è un uomo abbastanza forte, uno con le palle, nonostante le apparenze, e per quasi tutto quello che gli racconto fino a quel momento si limita a impallidire e deglutire, ma quando arrivo a quel momento lì lo vedo che piega la testa e si copre la faccia con tutte e due le mani e fa “Gesù, Nyzaad,” con un tono di voce talmente annichilito che da solo sarebbe stato in grado di darmi la misura della gravità della cosa, anche se non l’avessi saputa già da me.
Per quello che racconto da quel momento in poi, invece, potete stare a sentire anche voi, così forse almeno l’attacco di questa storia tornerà ad avere un senso.
Comincio col dire che dopo quella volta lì Nyze non mi ha più toccata. D’altronde, che cazzo gliene frega a uno come lui di una ragazzina come me? Non ho mai pensato che il suo interesse nei miei confronti, nonostante mi avesse gentilmente invitato a prenderglielo in bocca, potesse essere di tipo genuinamente sessuale. Non è stato per piacere che si è fatto fare un pompino, ma per esercitare il controllo, per mettermi in una posizione di svantaggio e, soprattutto, per mettermi alla prova, per capire fino a che punto fossi disposta ad andare. Una volta fatto quello, ha avuto su di me tutti gli elementi che potessero aiutarlo a capire cosa farsene della mia persona, e infatti, due giorni dopo avermi detto di levarmi dai piedi e che si sarebbe fatto sentire lui quando avrebbe avuto le idee più chiare, mi ha effettivamente chiamato per dirmi che aveva una missione per me. E io, naturalmente, sono andata, perché giunta a quel punto non avevo nient’altro, nessun’altra forza a parte l’inerzia. Che altro avrei dovuto fare se non lasciarmi cadere e sperare di aggiungerci almeno anche quella di gravità, in modo da fare per lo meno un bello schianto quando finalmente fossi precipitata a terra?
È qui che si fa più difficile raccontare a Sido quello che gli devo dire, anche perché è qui che comincia il suo coinvolgimento in tutta la dannata storia. Nyze mi accoglie negli uffici dell’Aggro Berlin come se fossero i propri, ostenta una sicurezza che non rientra nei suoi diritti perché lui, fra queste mura, è l’ultimo arrivato, e lo sa, ed è proprio per questo che si fa grosso e cattivo e sorridente, perché è la prima cosa che impari alla scuola del ghetto: quando ti senti fuori posto, quando sei fuori dal tuo elemento, la prima cosa da fare è fingere di starci perfettamente a proprio agio. Il ghetto è una creatura viva, respira e si muove, e attacca di notte, e ha artigli costantemente sguainati. Fiuta la tua paura. L’unico modo di sopravviverle è fingere di non averne.
Nyze finge bene. Mi fa accomodare, mi tratta da pari a pari perché tanto mi ha già umiliata nell’unico momento in cui contava, continuare adesso che cerca un’alleata, o per lo meno qualcuno che porti a termine il suo piano, non avrebbe alcun senso. Mi parla di ciò che vuole fare – abbattere Bushido, distruggerne la leggenda fino a quando di lui non sarà rimasto nemmeno un buon ricordo nell’immaginario collettivo – ed è abbastanza intelligente da non stare lì a ribadirmi i motivi per cui vuole farlo. Sa che a me dell’Ersguterjunge non frega un cazzo, sa che non mi tocca minimamente l’idea che si sia trasformata in un baraccone di checche troppo impegnate a volare da un letto all’altro come le api di fiore in fiore per produrre musica, sa che tutto quello che dà fastidio a lui di ciò in cui la sua etichetta si è trasformata non ha per me il benché minimo significato. Sa che c’è una sola cosa che ci lega, in questo momento, ed è l’affetto per un uomo che è morto magari meritandolo ma senza giustizia. E su quella batte. Pronuncia il nome di mio padre più spesso in venti minuti di quante volte l’abbia sentito pronunciare a mia madre in due anni. Ogni volta è una coltellata, perché da un lato mi rendo conto che lo sta usando, sta usando lui, il suo ricordo, per usare me, che sono l’ultima cosa rimasta di lui su questa terra, e dall’altro mi rendo conto che, anche se sono consapevole che mi stia usando, mi sta bene.
Mi sta bene. Perché non ho nient’altro.
Lo dico a Sido e lui si solleva dalla poltrona e mi stringe le spalle con forza. Mi guarda al di là delle lenti degli occhiali e mi dice “Nyzaad”. Solo questo, solo il mio nome. Io mi mordo un labbro e lo invito a sedersi di nuovo. Non ho ancora finito.
Torno da Nyze. Che mi spiega che il suo grande piano non può essere portato a termine a causa di un piccolo intoppo sulla strada. Così lo chiama. Parla di Fler. Mentre lo dico, Sido si tende e gli vedo passare negli occhi la consapevolezza di aver potuto evitare tutto questo, probabilmente, a un certo punto nel recente passato, semplicemente ascoltando la persona giusta. Hai perso quel treno, Sizzy. Lo abbiamo perso entrambi.
La mia voce è troppo debole, mi dice Nyze, e me lo dice da un lato con la falsa umiltà di chi finge modestia per ingraziarsi chi ha davanti, e dall’altro col sorriso spavaldo di chi sa che le cose stanno per cambiare. Ho provato a farmi sentire senza un’etichetta alle spalle, ma è impossibile. Ho bisogno dell’Aggro per trascinare tutti quei froci nella merda. A Sido piace l’idea di qualche diss in un ansage ma non è disposto alla guerra totale, no, la guerra totale ferirebbe Fler e Dio non voglia che blaue augen possa mai soffrire per mano di Paul Würdig.
Ma Fler non fa più parte dell’etichetta, gli dico io, Fler non è più un problema.
Nyze guarda fuori dalla finestra, schioccando la lingua. Negli occhi gli passa un lampo di disgusto assoluto, che oscura tutto il resto. Fler sarà sempre un problema, mi dice. Questa gente è sempre un problema. E se Fler è un problema allora lo è anche Sido. Nyze non vuole ammazzare nessuno, non intende sporcarsi le mani, quello che vuole fare lo vuole fare col rap, vuole riportare indietro il confronto, dice, su un territorio che abbia senso, almeno fino a quando… dice, e lascia sospesa la frase, e io lo so cosa intende dire e non dice, almeno fino a quando tornare in quella direzione avrà senso, se poi ci sarà da imbracciare anche le armi tanto peggio, ma un tentativo di cantarlo, il risentimento che prova, un tentativo di ruggirlo, di farsi sentire, lo vuole fare. E per farlo deve eliminare Sido dalla scena.
E io, mi dice, io sono proprio quello che aspettava per riuscirci, il tassello mancante, l’asso nella manica, tutta un’altra serie di metafore che elenca come se stesse svolgendo un esercizio di comprensione del testo per cercare di farmi sentire più importante di quanto in realtà non sia.
E io ci casco. Perché sono una bambina e perché dopo mio padre nessuno ha mai cercato di farmi sentire importante. E non m’importa, mi dico, che a cercare di farmi sentire importante sia un uomo cattivo. Anche mio padre era un uomo cattivo. Il suo amore mi serviva lo stesso, mi dava linfa, come il sole a un albero.
Dimmi cosa devo fare, gli dico.
E lui mi dice, seduci Sido.
Io lo guardo. Fuori brilla un sole da pubblicità. Berlino è già sveglia e rincorre il tempo che le manca per cercare di riempire la mattinata il più possibile prima della pausa forzata del pranzo, e io non riesco a fare altro che pensare, e difatti glielo dico, “ma io ho quattordici anni”.
Lui ghigna, stringendosi nelle spalle. Se sei brava, mi risponde, non sarà un problema. E a me si ferma il cuore in gola. Come a Sido adesso, mentre glielo racconto.
Tengo gli occhi bassi, aspetto che dica qualcosa come un fervente cristiano aspetterebbe il giudizio universale, con la certezza assoluta di essere condannato all’inferno. Lui non si muove. Seduto com’è, mi guarda, ed io lo so anche se non lo vedo, perché mi sento i suoi occhi addosso, due macigni che mi soffocano. Mi aspetto qualsiasi cosa. Che mi prenda a parolacce, che mi picchi, che mi butti fuori di qui a calci. “Continua,” dice invece. Io continuo.
Comincio a parlargli di lui. Del giorno che ci siamo incontrati. Del fatto che la prima volta che l’ho visto ho pensato distintamente che di lui non me ne fregasse niente, che in fondo se era questo quello che dovevo fare per distruggere Bushido potevo farlo, non sarebbe stato tanto peggio di un mucchio di altre cose che avevo già fatto nella mia vita fino a quel momento. Gli dico che mi ricordo ancora di come sorrideva quel giorno, di quella mezza risata divertita che gli era scappata di bocca quando Nyze gli aveva detto che pensava dovesse darmi una chance. “Ma è una bambina,” aveva detto, e Nyze aveva sorriso e annuito e gli aveva risposto “già, la bambina di Saad.” Gli dico che quando ho visto la sua espressione cambiare al solo sentire il nome di mio padre mi si è smosso qualcosa dentro. Era il primo a cui vedevo fregare qualcosa della mia storia, di quello che avevo passato, delle mie radici. Gli dico che mi ricordo il tocco della sua mano sulla spalla. L’esatta sfumatura di gravità con cui mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: “tuo padre ha fatto un mucchio di cazzate, ma non si meritava di sparire così”. Quanto avevo apprezzato che dicesse “sparire” invece di “morire”, come sentisse il bisogno di essere delicato con me.
Gli racconto cose che già sa, ma aggiungendo particolari che prima non conosceva. Dipingo per lui scene che ha già vissuto, ma da una prospettiva diversa. È come se stessi aggiungendo il senso della profondità ad un disegno a matita, i tratti si espandono nello spazio, le figure diventano tridimensionali. Le cose assumono contorni nuovi, più realistici, e io gli getto in faccia ogni cosa perché non conosco nessun altro modo di parlare.
E così gli spiego che tutte quelle volte che credeva di trovarmi in studio perché mi piaceva lavorare fino a tardi, ossessionata dall’idea di vendicare mio padre con la mia voce arrabbiata, in realtà gli stavo raccontando una favola, la favola che Nyze mi aveva cucito addosso. Che quando si voltava ed ero lì non era mai per caso. Che ogni volta che gli sorridevo stavo rispondendo agli ordini di qualcun altro.
Gli racconto anche cose che non può sapere, come ad esempio di quella volta in cui Nyze mi chiese di parlare un attimo in privato e, una volta che fummo rimasti soli, mi tirò un ceffone tale, in pieno volto, che dieci minuti dopo ancora mi sentivo fischiare le orecchie. Tutto perché secondo lui non ero abbastanza dolce con Sido, non ero abbastanza tenera, non stavo cercando di irretirlo con abbastanza intenzione. E poi, che cazzo sono queste felpe. Come ti aspetti che ti consideri una donna, se non scopri un po’ di pelle?
Lo guardo coprirsi il viso con entrambe le mani e so che dovrei fermarmi. So che gli sto facendo male. Ma è come avere spaccato a martellate una diga – ormai non posso più fermare il lago che si rovescia, trattenuto a stento dagli argini troppo stretti del fiume. Gli dico ti ricordi quella volta?, quella volta che mi hai trovata addormentata sulla consolle? Fingevo. E quando mi hai presa in braccio per portarmi sul divano, non sapendo dove altro mettermi per la notte, e io ti ho allacciato le braccia attorno al collo e ti ho baciato appena appena sulle labbra, per poi tornare ad appoggiarmi a te come non me ne fossi neanche accorta, come se stessi baciando un sogno? Fingevo anche quello.
Le serate passate a chiacchierare? L’abbandono, la fiducia con la quale sembravo consegnarti la mia storia, i miei ricordi, simulando una fragilità che non ho mai conosciuto davvero? Bugie. Cazzate. Balle così grosse che quasi mi ci perdevo dentro da sola. E quel pomeriggio che ho provato a baciarti, sulla terrazza all’ultimo piano dello studio? Con quel tramonto che incendiava il cielo in sottofondo, che si rifletteva con le sue fiamme aranciate iridescenti sugli schermi trasparenti delle tue lenti come alla volte l’arcobaleno si riflette sulle bolle di sapone? Ricordi come mi tremavano le mani? Ricordi la mia espressione affranta quando mi hai allontanato sorridendo appena e ricordandomi che ero solo una bambina? Stronzate pure quelle. Ogni dettaglio della piega delle mie labbra. Ogni traccia di lacrime che ti è sembrato di poter scorgere nei miei occhi. Tutto. Ogni parola. Ogni frammento, ogni minuscolo granello di me che ho provato a lasciarti addosso come polvere sui mobili. Tutto falso.
“Adesso stai zitta,” dice Sido tutto a un tratto. La sua voce suona ovattata attraverso le mani che tiene ancora premute sul volto. “Stai zitta solo per un attimo. Dammi tregua.”
È buffo – da quando ho cominciato a parlare ho desiderato soltanto che trovasse un modo per fermarmi, e lui lo fa proprio nell’istante in cui non voglio più.
Mi chino di fronte a lui, per terra, con le mani sulle sue ginocchia solo per aggrapparmi a qualcosa mentre cerco i suoi occhi. Lui reagisce male – si alza in piedi, si allontana a passi nervosi, va verso la finestra, “Cristo, no,” dice, neanche avessi cercato di prenderglielo in bocca.
Io mi alzo in piedi, gli vado dietro. “Non fermarmi adesso,” lo imploro, “Devo dirti la cosa più importante.”
“Peccato che a me venga già da vomitare,” risponde lui, tetro. Io inghiotto a fatica. Saliva, paura, amarezza. Non so neanche io cos’altro. Mi vedo già per strada, alla fine di questa conversazione. Sola come lo ero prima di tornare qui. Ma se questo deve succedere, voglio almeno che lui sappia tutto, tutta la verità.
Stringo le dita attorno alla sua maglietta, tirando appena. Lui si volta a guardarmi e nei suoi occhi c’è così tanto dolore, e rimpianto, e pentimento. Se gli occhi fossero oceani, starei annegando. Invece sono solo occhi, mi fanno solo venire voglia di piangere.
“Mi odi?” chiedo.
Lui emette un suono a metà fra un ringhio e un lamento. “Non lo so,” risponde, “No. Sono incazzato, Nyzaad, e disgustato.” Solleva una mano e mi sfiora una guancia con il pollice. Mi accorgo che sto piangendo davvero solo perché sento la traccia umida che il suo dito mi lascia sulla pelle quando spazza via una lacrima. “Dimmi che questa storia migliora, ti prego. Dimmi che non sto buttando al cesso la mia vita per niente.”
Mi mordo un labbro e riprendo a raccontare.
Ti ricordi, gli chiedo, della nostra prima volta?, e lui distoglie lo sguardo e i lineamenti del suo volto si tendono. Pallido com’è, non so come faccio a distinguere l’ulteriore strato di cenere che gli si posa addosso, rendendolo quasi cadaverico. È nauseato e si porta una mano alla bocca, il palmo premuto forte contro le labbra, un ultimo tentativo di arginare il vomito. Poi si calma, socchiude gli occhi, annuisce.
“Ti ho fatto ubriacare apposta,” gli dico, “Sapevo che altrimenti non l’avresti mai fatto.” Lui annuisce ancora. Sta pensando a sua moglie, adesso, a come l’ha tradita. A suo figlio, alla loro vita insieme, che inevitabilmente dopo oggi cambierà. E certo, è vero, se perderà tutto questo è anche colpa sua, ma principalmente è colpa mia. Sono io ad averlo spinto, ad essermelo tirato contro di prepotenza. Proprio lui, la persona che meno se lo sarebbe meritato in assoluto. “Però è successo qualcosa,” abbasso lo sguardo, perché paradossalmente, di tutte le cose che gli ho detto, alcune davvero orribili, questa è quella di cui mi vergogno di più. Forse perché è quella che mi espone di più. Ed essere esposta adesso mi fa paura. “Mentre lo facevamo. È successo qualcosa.”
Sido solleva gli occhi su di me. Me li sento addosso, pesano. Vorrei liberarmene e allo stesso tempo non faccio che pensare che se anche dovessi perdere tutto, tutto quel poco che mi resta, il solo pensiero di continuare ad avere i suoi occhi, questi occhi scemi da cane che non ce la può fare, questi occhi onesti, questi occhi trasparenti, questi occhi che in fondo ci leggi il suo cuore perché amplificano i suoi sentimenti fino a urlarteli in faccia, se anche non avessi altro oltre che questi occhi sarei contenta lo stesso.
“Cosa?” mi chiede lui.
Cosa. Vorrei potergli dire che sono diventata una persona migliore. Che la pressione delle sue mani sulla pelle, il fuoco che ho sentito divamparmi nel ventre quando mi è entrato dentro, il tepore diffuso al centro del petto che mi ha causato il suo tocco delicato e gli occhi attenti con cui mi ha osservato mentre piano, dolcemente, mi scopava come se fossi l’unica donna al mondo, siano, da soli, stati in grado di trasformarmi.
Invece, non è stato così. Al contrario, provare tutte queste sensazioni mi ha trasformato in una persona peggiore. Perché improvvisamente mi sono resa conto di volerlo, e che il mio desiderio avrebbe sempre contato, per me, più di qualsiasi senso di colpa avrei mai potuto provare nei confronti delle persone che quel desiderio avrebbe finito per distruggere. Come sua moglie, suo figlio, perfino lui stesso.
“Mi sono innamorata di te,” gli rispondo, che è la cosa più onesta che posso dirgli.
“Nyzaad,” risponde lui, “Vaffanculo.”
Mentre lui si alza in piedi e comincia a vagare nervosamente per la stanza, animato dalla stessa frustrazione degli animali in gabbia, io incasso il colpo, e pure la testa in mezzo alle spalle, come mi fossi schiantata all’improvviso contro il soffitto dopo un decollo da elicottero. E penso che me lo sono meritato, che avrei dovuto aspettarmelo. Ma fa male uguale, e se penso a quello che la vita mi ha tolto non posso fare a meno di pensare anche che qualcosa avrebbe dovuto lasciarmelo.
Io volevo lui. Solo lui. E sarò anche una brutta persona, e non mi meriterò niente, ma qualcosa di mio dovrà pure esserci, in questa cazzo di vita di merda. Speravo fosse lui.
Ma se la vita mi ha insegnato qualcosa è che fa cagare e non dev’esserci per forza un motivo, cioè, un sacco di persone soffrono, passano in mezzo a cose orribili, senza che davvero abbiano fatto niente per meritarselo, ma alle volte sì. Alle volte, come è successo a me, come è successo a mio padre, raccogli quello che semini. E quindi mi preparo. Agli insulti, possibilmente ai ceffoni, sicuramente ad essere buttata fuori da questa stanza a calci.
Mi preparo, stringo i denti, sono pronta.
E poi invece succede qualcosa – mi si ferma quasi il respiro quando sento il profumo di Sido farsi più vicino, e poi il calore della sua pelle contro la mia, e il solletico che il suo pizzetto mi fa strofinandomi contro una guancia. E devo rimettere a fuoco la realtà, e non è mica facile, prima di capire che mi sta abbracciando.
Mi sta abbracciando.
Fra tutte le cose dolorose che poteva farmi, ha scelto di fare l’unica che fa male solo perché il sollievo mi scoppia nel petto come una bomba, che se fossi appena un po’ più fragile mi esploderebbe la cassa toracica e starebbero ancora raccogliendo brandelli di me dai soffitti del cielo fra cent’anni.
Non riesco a impedirmi un singhiozzo e mi copro la bocca con una mano mentre sparisco fra le sue braccia. Strizzo forte gli occhi e piango, e tutta scossa dai singhiozzi come sono sento la sua voce come fosse una melodia in sottofondo, come immagino debbano sentire i neonati le ninne nanne che le mamme cantano loro quando stanno per addormentarsi.
“Adesso calmati, piccina,” mi sussurra, cullandomi piano, “Per favore, non ti disperare così. In qualche modo ne usciamo.”
“Vuoi lasciarmi?” gli chiedo, ed è un lamento che mi gocciola dalla gola in lacrime amare, non ce la faccio a trattenermi, anche se suono come una bambina. Come dicevo prima, io sono una bambina. È vero, ho visto, fatto e subito troppo per conservare la mia innocenza, ma resto una bambina. E sono stanca di fingermi adulta in un mondo che di certo non rende agli adulti le cose semplici. Se dev’essere difficile in entrambi i casi, lo affronterò restando almeno fedele a me stessa.
Sido ride piano, la sua risata vibra su e giù per la mia schiena mentre mi appoggio di spalle al suo petto e io penso che, nella mia vita, fino ad ora ho conosciuto solo adulti che mi hanno mentito, per intenzione come mio padre, per omissione come mia madre e per banale manipolazione come Nyze, ma quest’uomo è sincero. È un uomo buono, incredibilmente buono, ed è onesto, e se davvero, per miracolo, la vita intende lasciarmelo, prometto che farò tutto quanto in mio potere per meritarmelo da questo momento in poi.
“Sei una pazza,” mi sospira addosso. Mi stringe per le spalle e mi fa girare, io mi volto a guardarlo e lui mi solleva il mento con le dita. Baciami, penso, e lui mi bacia come rispondendo per un istinto atavico alla mia richiesta silenziosa. “Sei la cosa più assurda che mi sia mai capitata.”
Mi dispiace di essere stata anche la peggiore.
“Scusa,” biascico. Lui ride ancora e mi stringe forte.
“Non voglio lasciarti,” dice quindi, “Ti amo.”
Mi aggrappo a lui come se stessi per annegare. Un po’ mi sento come se stessi per annegare.
“Ti amo anch’io.”
Credo sia la prima volta in assoluto che pronuncio queste parole. Dirle, da sole, mi sfianca più di quanto non mi abbia sfiancato tutto il resto. Decido che ho detto abbastanza, per oggi, e quindi chiudo la bocca. Mi lascio andare, quando Sido mi bacia ancora, e quando mi appoggia alla scrivania seguo il più naturale degli istinti e schiudo le gambe.
Lui ride e scuote il capo, nascondendomi il viso contro una spalla. “Mi manderai in galera,” dice. Io penso che è probabile, ma non glielo dico. Sarà un problema che affronteremo quando e se si presenterà.
*
Quando ci allontaniamo l’uno dall’altra e lui mi poggia sulla testa la sua felpa in modo che possa indossarla sopra i miei vestiti tutti scombinati, commetto il grave errore di essere felice per un istante. Di pensare che forse il peggio è passato. In qualche modo, mi dico, ne verremo a capo. Se Sido ci crede, posso crederci anch’io. Troveremo una soluzione a questo problema, quale che debba essere – e non mi lascio il tempo di pensare alla peggiore, anche perché, a conti fatti, non lo so nemmeno se abortire sarebbe la soluzione peggiore –, e riusciremo ad andare avanti.
È il lusso di un secondo, me lo concedo perché sono stanca di vivere nel terrore dell’attimo successivo.
Ma poi l’attimo successivo arriva, ed io realizzo che sarebbe stato molto meglio che avessi continuato ad avere paura.
Sido si avvicina alla finestra con aria corrucciata. Chiaramente non sospetta niente, perché lo fa con l’aria rilassata di chi, pur osservando qualcosa di strano, non ritiene di doverlo considerare un pericolo. Recupera una sigaretta dalla tasca posteriore dei pantaloni ancora sbottonati, la porta alle labbra, la accende. La sua bocca, intorno al filtro, si muove appena per mormorare “ma che…?”
Indosso la sua felpa, che anche se sono abbastanza alta mi sta enorme, e lo raggiungo accanto alla finestra. Nella strada, di sotto, c’è un gruppo di persone che parla a voce abbastanza alta da produrre un brusio che passa anche attraverso i vetri doppi del palazzo.
Una delle persone solleva lo sguardo e ci vede. Ci indica puntando il dito, e subito dopo una piccola onda di teste si volta nella nostra direzione.
È allora che cominciano a scattare i flash.
“Merda!” ringhia Sido, afferrandomi per una spalla e spostandomi dalla finestra di peso. Io lascio che mi muova in giro come fossi una bambola perché ho il cuore che mi martella nelle orecchie e pure se fossi una testa di cazzo saprei cosa vogliono dire quei flash in successione. Chiudo gli occhi e li vedo che ancora mi rimbalzano dietro le palpebre, come succede col sole quando ne fissi troppo a lungo il riflesso sulla portiera di una macchina, o sulla canna di una pistola in controluce.
Paparazzi. Deve averli mandati Nyze.
Con le dita che tremano, mentre io respiro affannosamente cercando di difendermi da un attacco di panico incombente che mi ribalta lo stomaco come e più delle nausee che hanno già cominciato a costringermi a piegarmi sulla tazza del cesso ogni mattina, Sido si allunga a schiacciare il pulsante che abbassa le serrande automatiche, ma il danno è fatto. Ci hanno visti. Ci hanno fotografati. E che la situazione è ancora peggiore di quello che pensiamo lo scopriamo pochi istanti dopo, quando il telefono di Sido squilla e lui si allunga ad afferrarlo con ansia. Lo guardo deglutire mentre osserva lo schermo. Poi lo vedo accasciarsi sulla sedia girevole, abbandonando il telefono sulla scrivania e, quasi nello stesso istante, la testa fra le mani.
“Sono fottuto,” rantola.
Io mi avvicino. Prendo il telefono e leggo l’ultimo messaggio arrivato. È un link ad un articolo di rap.de che parla di noi. O meglio, parla di Sido, e di come sia stato beccato da un paparazzo a ficcare la lingua in gola alla ragazzina che da qualche tempo sta producendo per un nuovo Ansage dell’Aggro.
La figlia di Saad.
Io.
Il messaggio è di B-Tight, che ha commentato il tutto con un “Atze, che cazzo?” che non ha bisogno di giustificazioni.
Le tessere del puzzle si legano l’una all’altra senza difficoltà. Il mosaico si compone e l’immagine è chiara. L’immagine che accompagna quest’articolo viene dall’interno di questo edificio. Posso identificarne perfino il momento – doveva essere appena qualche giorno fa. Quello è il cortile interno. Sullo sfondo si vedono le finestre della reception. La foto l’ha scattata qualcuno che, di nascosto, era qui insieme a noi mentre ci baciavamo – e non può essere stato che Nyze.
Quelli là fuori sono lì perché quest’articolo ha già cominciato a girare. Quello che hanno visto basta a confermare qualsiasi sospetto. A breve, questo telefono comincerà a squillare, e nessuna delle telefonate che arriveranno sarà piacevole.
Per buona misura, lo spengo. Poi mi volto a guardare Sido con un movimento meccanico e, dopo aver deglutito così a fatica che mi sembra di aver mandato giù una montagna, mormoro “e adesso cosa facciamo?”.
Pensavo che la vita mi avesse preparata a tutto. Pensavo di aver visto abbastanza merda, nella mia esistenza, da poter affrontare qualsiasi tipo di situazione. Pensavo di essere una per cui non esistesse un problema senza una soluzione, una per cui non esistesse una soluzione che fosse impossibile trovare, ma in questo momento, anche se ci penso e ci ripenso, non mi viene in mente niente che possa risolvere questo gran casino in cui mi sono cacciata perché ho voluto fare l’adulta senza potermelo permettere, prima di restarci incastrata dentro come succede sempre a tutti i bambini.
Sido solleva la testa e mi guarda, e nei suoi occhi c’è il vuoto. Un abisso di niente tanto profondo che mi riesce difficile guardarlo – ho paura di caderci dentro.
“L’hai spento, quello?” mi chiede. Io annuisco. “Riaccendilo,” dice quindi, “Devo chiamare Fler.”
Provo a deglutire ancora, ma stavolta non mi riesce. Non c’è più niente da mandare giù. E poi, ho esaurito le forze.
Muovendomi per inerzia, riaccendo il cellulare e glielo passo. Comincia a squillare da subito, ma lui ignora le telefonate, i messaggi e le notifiche dei social. Digita un numero a memoria, affidandosi agli automatismi del suo corpo. Il corpo sa, diceva sempre mio padre, l’istinto di conservazione è il più basico degli istinti animali. Il corpo sa. Vuole proteggersi. Sa come farlo. Lascialo decidere.
Se la cosa abbia funzionato per lui, io non lo so. Credo di no. Ma non ho molto altro da fare, adesso. Il mio corpo sa di doversi fermare, e quindi, immobile, mi affido al corpo di Sido, che sa di dover chiamare Fler. Spero che il suo corpo, quello di Fler, sappia cosa cazzo fare per tirarci fuori da questo merdaio.
È solo una speranza, lo so. Ma, dal momento che non ho nient’altro, devo farmelo bastare.

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A code of conduct in escapology

di tabata
Vi guardo – si fa per dire – e mi chiedo perché sono ancora qui a parlarvi, io, e, soprattutto, perché siete ancora qui ad ascoltarmi voi. Onestamente pensavo di aver finito di raccontare, semplicemente perché cose che avesse un senso raccontare avevano smesso di accadere; insomma, parliamoci chiaro, a parte quell'unica notte in cui tutto è ricominciato – quella in cui abbiamo trovato David mezzo sbudellato e la nostra tregua personale si è così conclusa, riportando le cose esattamente, o quasi, come stavano prima – la nostra vita è stata solo un susseguirsi di coppie che si formavano, matrimoni di dubbio gusto, feste per festeggiare le coppie che si formavano e i matrimoni di dubbio gusto, e naturalmente l'annuncio dell'arrivo di un infante, che a pensarci un attimo potevamo pure aspettarcelo, a dire il vero. Poteva l'unica coppia in grado di generare autonomamente la vita – Tom e Cassandra – non generarla in un momento delicatissimo quale questo è, facendo tremare le fondamenta stesse del regno che Bushido ha, non senza fatica, rimesso di recente in piedi? Ve lo dico io, ma dovreste già saperlo, la risposta è no. Niente di ciò che ci accade, quando accade, lo fa al momento appropriato e, se anche lo fa, di solito finisce male. Quindi, ovviamente, proprio quando Bushido ha finalmente sentito di aver di nuovo ripreso in mano la situazione – la principessa era di nuovo la sua principessa e tutti i suoi sudditi erano nuovamente riuniti intorno al suo trono e asserviti alla di lui persona – ecco che Tom gli fa presente che può controllare tutto quello che vuole ma non le ovaie di Cassandra, e questo lo costringe a realizzare molto più velocemente piani che nella sua testa avrebbero preso – e dovevano prendere – anni. E quindi, case. Case per tutti, in cerchio intorno ad un parco privato, come le tende di un campo scout. Dateci ancora un po' di tempo e ci troverete a cantare kumbaya vestiti di lino e a mangiare radici ringraziando la Madre Terra.
Comunque, vedete, non è che si sia proprio fatto vita da ghetto, da queste parti, ultimamente e io pensavo che dopo quasi due anni di morti ammazzati, cadaveri nei canali e sangue grattato via dal pavimento di magazzini fatiscenti con la candeggina a notte fonda, fosse arrivato anche per me il momento di smettere di raccontare incessantemente la mia esistenza e quella di chi mi sta intorno; anche perché, diciamocelo, ne ho di cose da metabolizzare in privato – tipo che mi sono sposato con un uomo e che sono il tutore legale di un ragazzino, per dirne due tra le più importanti – e mi avrebbe fatto comodo potermi ritirare in silenzio. Ma quando c'è calma è perché deve ancora montare il vento. Sono trent'anni che campo in questo modo, tra un uragano e l'altro, e dovrei saperlo. Diciamo che ultimamente mi sono lasciato distrarre.
Come dicevo, l'ultimo uragano ci ha restituito David Jost inciso come un'antica tavoletta sumera e, dal ritirarsi delle onde di uno dei più grossi tsunami psicofisici della nostra esistenza, è nata la NEGJ – un'etichetta sorta dalle ceneri di un disastro per arginarne un altro ancora più grosso, cosa mai potrebbe andare storto? – e per un po', dopo, abbiamo avuto la calma, solo che non ce ne siamo proprio accorti perché, tanto per cominciare, noi non sappiamo nemmeno esattamente come sia fatta, la calma, come la si vive, come la si riconosce. Voglio dire, c'è sicuramente stato un tempo in cui noi tutti vivevamo vite normali, ma è un tempo lontanissimo, che sa di leggenda. Nessuno di noi ha veramente memoria di com'era alzarsi al mattino e andare a letto la sera senza che nel tempo che divideva un'azione dall'altra fosse successo qualcosa di assurdo.
Abbiamo passato due anni in cui un giorno sì e l'altro pure la gente moriva o rischiava di farlo, veniva accoltellata o perdeva la testa, finendo a farsi una passeggiata sull'autostrada in preda alle allucinazioni. Ad un certo punto eravamo tutto così fuori dal mondo che tra uscire insieme per una pizza e uscire insieme per far sparire un cadavere, ci sembrava più logica la seconda opzione. Quando abbiamo iniziato a fare cose normali da gente normale, eravamo tutti così stanchi di vivere che non ci abbiamo ragionato sopra. Forse una parte di noi pensava anche sì, ora sto lavando i piatti dopo aver pranzato, ma vedrai se tra cinque minuti non devo correre a picchiare qualcuno da qualche parte. E' che non eravamo abbastanza lucidi per sentirla quella vocina nella testa che ci diceva vedrai, vedrai...
Poi, lentamente, ci siamo acclimatati alla nuova situazione ed è diventata normale quella – cioè, non proprio normalissima perché comunque Bushido tende un po' a rendere assurdo tutto quello che tocca – ma più nella norma, ecco. Il cervello le fa queste cose, ti aiuta ad abituarti alla situazione in cui ti trovi e spesso, se è molto diversa da quella di prima, ti fa dimenticare qual era la tua vita precedente in funzione di quella attuale, così tu vivi più sereno. Ora, a grandi linee io me lo ricordo com'era nei due anni passati e anche in quelli precedenti, me lo ricordo com'era prima che Bushido morisse e poi com'era quando Bushido è tornato – ormai gli eventi sono a.B, Avanti Bushido, o d.B, Dopo Bushido – ma sono i dettagli che mi sfuggono, è la routine, ecco, quella non me la ricordo. O forse nemmeno ce l'avevo una routine, perché tutto succedeva a caso, ecco perché non me la ricordo.
Per dire, io, onestamente, non ve lo so più dire cosa facevo tre anni fa la sera prima di andare a convivere con un nano pelato che vive l'interezza della sua esistenza cercando di copulare con me. Forse uscivo a bere. Sì, probabilmente bevevo. Adesso faccio solo due cose prima di andare a letto. La prima è costringere Danny ad andare a dormire, così magari la mattina si sveglia in tempo e non devo poi costringerlo anche ad alzarsi per andare a scuola. La seconda è tentare – e quindi fallire – di non dare il culo a Chakuza, che lo pretende come il mio culo fosse un'offerta votiva e lui fosse un qualche dio azteco pelato. E se la prima potrebbe anche essere la verità, la seconda di certo non lo è. E' questa la mia vita adesso; sveglia al mattino, defletti Chakuza, manda Danny a scuola, vai a lavorare, pranza con Chakuza, defletti Chakuza, torna a lavorare, cena con Chakuza e Danny, spedisci Danny a dormire, dai il culo a Chakuza. E alle volte non mi riesce di defletterlo durante il giorno, quindi insomma.
Ma nel mio mondo – che suona epico, mi rendo conto, ma è vero, ve lo assicuro, voi non vivete nello stesso mondo in cui vivo io, non sapete nemmeno com'è fatto davvero il mio mondo – non si dimentica mai davvero un bel niente, perché dimenticare equivale a non sopravvivere. Ricordi le regole, ricordi gli errori, soprattutto gli errori, ricordi di chi fidarti e di chi invece no, il tuo stesso corpo ha memoria: delle botte, delle carezze, dei corpi toccati e di quelli persi, delle reazioni. La memoria muscolare è un requisito fondamentale per stare per strada, dove basta l'esitazione di un attimo per non avere mai più attimi in cui esitare. E questo vale anche quando tu per strada non ci vivi più – come io adesso – perché questa, come decine di altre cose che impari sulla tua pelle quando per strada ci sei nato e cresciuto e pensi che ci resterai per sempre – perché ci resti o lei resta dentro di te – è una cosa che ti rimane incollata addosso e prima o poi, ci puoi contare, ti torna utile. E infatti succede anche a me, e un po' muoio dentro nel dirlo perché, ripeto, un po' ci speravo che invece no.
Quando Sido chiama sono le sei del pomeriggio, non esattamente l'orario in cui cominciano le tragedie. Non è notte fonda, non piove, non ci sono le sirene della polizia ad accompagnare o seguire qualcosa andato storto, perciò non mi aspetto quello che sta per dirmi né quello che, ovviamente, succederà poi; ma sto correndo e non va bene. La sua voce, però, quella è sufficiente, prima ancora che mi dica tutto, a farmi capire che la vita – la mia, la nostra, ormai non c'è differenza – è appena cambiata. E' un po' come quel film con Gwyneth Paltrow in cui il corso degli eventi dipende da dove lei decide di andare o non andare, se è più lenta o più veloce, se fa una cosa piuttosto che un'altra. Ecco, io ormai ho risposto al telefono, quindi non c'è niente che io possa fare per fermare la catena di eventi che ho scatenato involontariamente premendo il tasto verde sul mio cellulare. E infatti il mio corpo si prepara all'impatto. Capisco che prima ero rilassato solo perché ora mi tendo e sono improvvisamente un fascio di nervi.
“Patrick?” dice lui e io ho già capito che qualsiasi tregua stessi vivendo è finita e oggi si ricomincia. In parte è anche il fatto che il mio nome in bocca a lui è sinonimo di sventura. Sido è uno che si è occupato di me in un momento della mia vita in cui nessun altro lo faceva – anzi in svariati momenti della mia vita in cui sono stato abbandonato a me stesso – e quando mi chiamava per nome io sapevo che la sua pazienza era finita e dovevo riprendermi, che qualunque momento no io stessi attraversando non era più un momento, ma una situazione e le situazioni andavano affrontate. “Sono nella merda.”
Questa, mi rendo conto, è una situazione.
Infatti, chiedo subito, “Cos'è successo?”
Con quella domanda si attiva anche Chakuza. Lo vedo che si immobilizza in mezzo al salotto, sull'attenti come un pastore tedesco. Avesse le orecchie in cima alla testa, sarebbero dritte per captare il minimo suono. Sarei pure orgoglioso delle sue capacità di reazione se non sapessi che l'unica cosa che lo preoccupa in questo momento – o sempre, a dire il vero – è Bill. Esplodesse la NEGJ con tutti noi dentro, l'unica cosa che chiederebbe ai soccorritori una volta arrivato sul posto sarebbe “Ma Bill come sta?” Che, voglio dire, anche io voglio bene al ragazzino, mica lo voglio morto, per carità, ma abbi un minimo di prospettiva, ma neanche, non lo so, pensa prima a tuo marito, magari? Ogni tanto mi piacerebbe sapere che, messo di fronte alla tragedia della mia possibile dipartita, avrebbe prima un pensiero per me e poi forse per il suo amante platonico perito al mio fianco, ma non posso contare nemmeno su questo. Mi giro e gli do le spalle, che continui a interrogarsi sulle sorti della sua principessa mentre io mi occupo di cose serie.
Sido, nel mentre, è a metà tra lo stupito e l'incredulo. “Ma non ci vai su internet?” Mi chiede. “Ti ho lasciato che eri una persona normale. Un anno con quella gente e sei diventato una bestia.”
Vorrei spezzare una lancia a mio favore e dire che, di solito, sono uno che si informa sulle cose ma, ultimamente, la stampa – quella che può riguardare noi e quindi Sido, intendo – è pesante da digerire. Quando va bene, i giornalisti di settore ci guardano con condiscendenza e rassegnazione, come si fa con i bambini un po' indietro sul programma, e si aspettano di vederci finire a gambe all'aria ancora una volta. Quando va male, ci criticano aspramente o intervistano qualcuno che lo faccia al posto loro, alimentando il mercato delle diss contro di noi, il cui numero, al momento, raggiunge ampiamente le due cifre. Ci ha ricoperti di merda chiunque, non scherzo, e noi ad una certa ci siamo stancati di visitare rap.de e farci venire il sangue amaro. Se anche gli ordini dall'alto – da una parte quelli di Bushido, che ci ha messo la museruola, e dall'altra quelli di David, che gestisce la stampa su di noi esattamente come gestisce quella dei Tokio Hotel, e cioè calibrando con precisione quanto rispondere a chi e quando – non ci avessero imposto di voltarci dall'altra parte e ingoiare momentaneamente il rospo, avremmo smesso di leggere comunque. Quindi, se non ho idea di cosa stia succedendo esattamente al di fuori degli uffici della NEGJ, ho le mie motivazioni.
Ad ogni modo mi rendo conto che se Sido mi ha chiamato in seguito a qualcosa che lo riguarda e di cui si parla su internet, la faccenda è più seria di quanto pensassi. Spero solo che sia qualcosa che posso risolvere senza dover smontare il portellone posteriore di un'auto, stavolta. “Facciamo che me lo dici tu e risparmiamo tempo,” gli dico.
“Cristo,” lo sento imprecare sottovoce. “Hai presente Nyzaad?”
Devo fare mente locale, ma il nome mi dice qualcosa. Poi mi ricordo che è la ragazzina che Sido ha scritturato poco dopo essersi preso in casa Nyze. Quando lo ha saputo, Bushido è scoppiato a ridere e non ha smesso per dieci minuti buoni. Quando gli abbiamo chiesto che cosa ci trovasse di tanto esilarante, ci ha risposto che Sido doveva proprio essere disperato per prendersi i suoi scarti di seconda mano e poi scritturare una minorenne, che se voleva fare a gara di ragazzini, la NEGJ lo avrebbe stracciato anche su quello. Ora, io non lo so se sulla nostra scena musicale abbia più peso Bill o una sconosciuta che però, a differenza di Bill, fa rap, ma è pur sempre vero che scritturare adolescenti è sempre una mossa azzardata, a meno che tu non abbia per le mani il nuovo Tupac che, però, onestamente, non credo sia questo il caso. “Il tuo nuovo acquisto?” Chiedo. “Che cos'ha combinato?”
“Lei niente, ma Nyze ha fatto in modo che i giornalisti ci vedessero insieme.”
Resto in silenzio per qualche secondo, do il tempo a lui di riformulare la frase o al mio cervello di accettare quella che ha detto e, visto che lui non riformula, io mi schiarisco la voce. “In che senso?”
“Secondo te in che senso?!” Scatta lui nervosamente. “Patrick, cazzo, ma cosa sei, rincoglionito!?”
“Ma avrà sì e no tredici anni!” Mi riscuoto.
“Quattordici. Quasi quindici in realtà, ma ho problemi peggiori in questo momento.”
“Eh, non lo so se ce li hai, sai?” Commento, scettico. Dovrei informarmi meglio, ma sono quasi certo che l'età del consenso sia molto più alta. E lo so che io dovrei stare zitto perché neanche Danny era maggiorenne, ma mi piace pensare che fosse un po' più vicino alla maggiore età di questa cosina qua che, a stento, deve aver cominciato la scuola secondaria. Che cazzo, Sido!
“E' incinta,” fa lui, che evidentemente, mentre non guardavo, ha deciso che a questo punto della sua vita doveva suicidarsi professionalmente – ma anche letteralmente – e, a parte farsi esplodere in Alexanderplatz in nome della razza ariana o di quella sinti – non so esattamente quale delle due senta più vicina –, lo ha fatto nel modo più spettacolare.
“Va bene, hai vinto, hai problemi più gravi,” ammetto.
“L'etichetta mi sta già scaricando, questa cosa non può saltare fuori adesso,” fa lui.
“Per quello abbiamo tempo,” dico, cercando di fare il punto della situazione. Potremmo anche rimediare prima ancora che qualcuno lo scopra. No, anzi, dobbiamo rimediare prima che qualcuno lo scopra perché questa cosa non è assolutamente accettabile.
Lui, nel mentre, si perde dietro alla situazione di merda che dev'essere la sua vita in questo momento. “Doreen avrà sicuramente già visto le foto,” sospira. “Tornerà a casa giusto il tempo di prendermi a schiaffi, fare le valige e portarsi via la bambina.”
“Che altro cazzo ti aspetti che faccia?” Gli dico. “Che ti batta una mano sulla spalla e ti faccia i complimenti per la grandissima testa di cazzo che sei?”
“C'è dell'altro,” continua. E io apprezzo il fatto che sappia prendersi le offese quando se le merita – d'altronde non mi aspettavo niente di meno da lui – ma vorrei che non mi dicesse le cose a pezzi. “E' la figlia di Saad.”
Perfetto. A posto. Almeno adesso so perché questo è anche un problema mio. “Dove sei?”
“Barricato in studio, qua fuori è pieno di giornalisti.”
“E lei?”
Silenzio. E poi, “E' qui,” dice.
Bene, penso. L'ultima cosa che ci serve è un'adolescente nel panico braccata dai giornalisti. Sarebbe una mina vagante e le mine vaganti sono sempre pericolose; ma questo è tutto quello che so riguardo a situazioni del genere. Quando ero ragazzino e Arafat aveva un problema, di solito era un problema che andava fatto sparire, perciò sono ferratissimo su quel tipo di risoluzione, ma qui la situazione è diversa e ci vuole un tipo di tatto che non sono sicuro di avere. Mi serve un esperto di micromanagement che abbia esperienza con i media. Fortunatamente – tra tutte le sfighe – ne conosco uno. “Dammi dieci minuti,” dico a Sido. “Ti richiamo.”
Quando mi volto, trovo Chakuza che mi guarda con apprensione e, da come stringe le dita intorno alla bottiglia d'acqua che tiene in mano, sospetto non si sia mosso dall'ultima volta che l'ho guardato, circa un quarto d'ora fa. “Lui sta bene,” gli dico, ponendo fine alle sue inutili sofferenze. E vi giuro che vorrei prenderlo a schiaffi quando vedo tutto il suo corpo rilassarsi. Non ho nemmeno specificato chi, ma io so che lui sa che io so di chi gli interessava sapere. “Era Sido.”
La sua faccia si accartoccia in una smorfia fuori luogo in qualunque situazione, ma soprattutto adesso. “E cosa voleva?”
“E' nella merda.”
“E quindi?” Fa lui.
“E quindi ora chiamo Jost,” rispondo.

*

Chakuza impiega dieci minuti per decidersi a parlare e io apprezzo che abbia almeno prima tentato di stare zitto, sebbene senza riuscirci. Sono progressi che accolgo con la gratitudine che di solito si riserva ai miracoli del divino. “Non capisco perché dobbiamo farlo,” mi dice, mentre rallento al semaforo.
“Perché è una nostra responsabilità,” rispondo.
“Perché?” Insiste lui.
Si è voltato a guardarmi, così lo guardo anche io. “Perché è la figlia di Saad,” rispondo. Dovrebbe essere una ragione sufficiente per chiunque fosse coinvolto nella questione, ma non lo è per lui, evidentemente.
“E allora? Non l'abbiamo mica messa incinta noi.”
E meno male, penso. Almeno questa l'abbiamo scampata. Per una volta, essere tutti omosessuali ci torna utile. Le gravidanze indesiderate non ci appartengono. “Ma che c'entra?! Non è per questo che stiamo andando a prenderla.”
Quando ho chiamato David, lui non ha fatto domande, ha solo preso atto della situazione. A trovare soluzioni in breve tempo ha imparato facendo il manager, ma a farlo qualunque siano il problema e la situazione glielo ha insegnato Bushido. E' incredibile con quanta elasticità mentale sia passato dalla sua vita precedente a questa e poi le abbia unite diventando, non lo so, l'assistente definitivo. Ad ogni modo, mi ha detto che in nessun modo possiamo lasciare che la stampa abbia modo di vedere – e meno che mai parlare con – Nyzaad. Nelle prossime ore, mi ha spiegato, l'Aggro Berlin farà di Nyzaad una martire e userà Sido come capro espiatorio, prendendo le distanze da lui – lo ha detto con la sicurezza di uno che ha già visto il futuro e io non so se è perché gli è già capitato altre volte o se questa è la prassi standard per le etichette quando il nome di punta che le rappresenta si porta a letto una minorenne – il che significa che Sido si ritroverà molto solo e molto in fretta. Qualsiasi dichiarazione ufficiale da parte sua dovrebbe essere gestita con attenzione. Posso farlo io, mi ha detto, ma non senza il consenso di Bushido, e il solo fatto che abbia pensato a questo dettaglio vi dà la misura di quanto ne capisca, David, di tutto quanto. Gli ho detto che ovviamente capivo e poi abbiamo concordato che, in ogni caso, intanto possiamo occuparci di far sparire la ragazzina. E con sparire intendo mettere in un posto sicuro, ha specificato. Pensa come sarebbe stato se, per dire, avessimo avuto una di quelle incomprensioni linguistiche da film sulla mafia di serie Z.
“Tra l'altro,” prosegue Chakuza dopo un'altra preziosa parentesi di silenzio, “quanti anni hai detto che ha questa?”
“Quattordici o quindici.”
“Ecco, quindi stiamo anche andando ad aiutare un delinquente,” continua. “Ci manca solo che ci accusino di favoreggiamento.”
“Certo, perché se non fosse per quello che stiamo andando a fare, saremmo due persone che non hanno mai fatto niente di illegale in vita loro,” commento.
Lui incrocia le braccia al petto, diventando sostanzialmente una palla. “Almeno non siamo pedofili,” borbotta.
E' difficile dargli torto, ma non mi va di discutere su questo punto specifico, quindi cerco di spostare la sua attenzione altrove. “Vedila così,” gli dico. “Lascia perdere Sido, pensa a lei, a noi due, e forse anche a qualcun altro, conviene darle una mano. Non fosse altro che per il karma, tu cosa dici?”
Questo, ovviamente, lo zittisce per tutto il resto del viaggio.
Sido ha uno studio privato che comprò quando all'Aggro c'era ancora Bushido. Ai tempi, prima di Doreen, lo usava principalmente per portarci le groupie. Poi, quando è arrivata Doreen, ha cominciato ad andarci a lavorare davvero perché in casa c'era la bambina e agli studi dell'etichetta c'era troppo casino. Sarebbe stato perfetto se, ora che siamo tornati alle groupie, avesse ripreso ad usarlo, almeno non dovremmo eseguire questa manovra strategica di estrazione direttamente dagli studi dell'Aggro Berlin. L'unica cosa buona di questo posto è che è all'interno di un palazzo che ha un parcheggio sotterraneo. Le poche gioie che sto collezionando stamattina me le tengo strette. Faccio il giro del palazzo e vedo che qualcuno dei fotografi ci segue con lo sguardo, ma sia io che Chakuza siamo irriconoscibili sotto la tesa del cappellino e il cappuccio della felpa, perciò tornano tutti immediatamente a fissare le finestre del secondo piano che sono chiuse e con le tende tirate.
Sido ci accoglie con la faccia di uno che ha perso il controllo della propria vita ormai da giorni e non ha la minima idea di come recuperarlo. Le mani gli tremano così forte che a stento riesce a tenere in mano la tazza di caffè che ogni tanto si porta alla bocca. Non sono abituato a vederlo in questo stato. Lui mi fa un cenno mentre attraversiamo la porta e poi si acciglia quando riconosce Chakuza. “Lui cosa ci fa qui?”
“Me lo sto chiedendo anche io,” borbotta lui. “Quindi facciamoci un favore ed evitiamo l'argomento.”
Sido annuisce. Sospetto che, in questo momento, gli andrebbe bene qualunque cosa che possa in qualche modo tirarlo fuori dalla merda in cui si è infilato.
Io mi guardo intorno, come sono abituato a fare quando entro in un posto nuovo. All'inizio era una questione di sopravvivenza – quando avevi in spalla uno zaino pieno di droga che non ti apparteneva, non mettevi piede in una stanza senza avere idea di quanta gente ci fosse dentro e chi fosse quella gente – poi questa cosa mi è rimasta addosso, come tutte le altre, e ho cominciato a farla per abitudine. Entro in posta, al supermercato, in banca, e conto i cassieri, le guardie armate, le vie di fuga. In questo momento, però, mi sembra che questa abilità che ho sviluppato e affinato negli anni sia tornata al suo scopo originario. E infatti, appena metto piede nello studio, mi passa per il cervello il pensiero che forse è una trappola e ci siamo cascati con tutte le scarpe. Magari non c'è nessuna ragazzina incinta e volevano solo farci fuori. Se vogliono ammazzare me, penso, è per colpire Bushido perché lui, sì, uscirebbe di testa se io morissi. Mi rendo anche conto che sono da solo perché Chakuza io lo amo, ma lui è utilissimo solo se ti serve una cena per dieci persone pronta in un paio d'ore, ma in uno scontro armato è come portarsi dietro un bambino. Di buono, si fa per dire, c'è che sarebbe uno scontro armato molto breve, comunque, perché io non ho una pistola.
Nello studio, però, non c'è nessuno a parte Sido, che sta già facendo strada a Chakuza, il quale naturalmente non ha nemmeno pensato all'eventualità che questa potrebbe essere la nostra tomba. Mi rilasso leggermente e do un'ultima occhiata, tanto per stare tranquillo, e sto per chiedere dove sia la ragazzina, quando una porta di cui non mi ero accorto in fondo al corridoio si apre – bravo, Fler, penso, bella ricognizione – e ne esce questo esserino biondo che si pulisce la bocca con il dorso della mano.
Anche se non sapessi chi è, la riconoscerei comunque perché la guardo e vedo sua madre nella delicatezza del suo viso e nei suoi capelli dorati – non biondi, dorati proprio – come quelli di Greta. Ma soprattutto la guardo e vedo suo padre nella rabbia violenta con cui mi sta fissando. E' la sintesi esatta dei suoi genitori, e un po' ne ho paura, perché so che a spingerla è il rancore di Saad e a tenerla in piedi è la dignità di sua madre, e queste due cose insieme sono pericolose.
“Che cosa ci fai tu qui?” Mi ringhia addosso. Poi la vedo che sposta lo sguardo dietro di me, perché Chakuza, evidentemente, si è avvicinato. “Ah, siete venuti entrambi, vedo. Vi ha mandato lui, immagino. Perché è così che funziona, no? Lui ha un problema, voi vi sporcate le mani.”
E io lì capisco con orrore cose che avrei preferito non sapere. Che questa ragazzina sa tutto, per esempio. E non ho alcun dubbio che lo sappia e che non stia fingendo perché glielo leggo in faccia e perché so – semplicemente lo so, perché è una cosa che avrei fatto anche io – che sua madre le ha detto tutto quando ha reputato che fosse il momento giusto. Solo che, Greta, Cristo, Greta, non voglio dirti come crescere tua figlia, ma era troppo piccola per sapere. E' troppo piccola perfino adesso. Mi scambio uno sguardo con Chakuza che, miracolosamente, è al passo con la situazione; sarà che lo spettro della galera lo rende reattivo.
“Siamo qui per aiutarti,” le dico.
“Nessuno vi ha chiesto niente!” Sibila Nyzaad, che si pianta in mezzo al corridoio con aria di sfida. Sono sicuro di poterla sollevare con un braccio solo – peserà quaranta chili bagnata – ma sono anche certo che prima di permettermi di farlo troverebbe il modo di prendermi a calci e pugni finché non ci ripenso.
“Li ho chiamati io,” si intromette Sido, avvicinandosi.
“Beh, nessuno ha chiesto niente neanche a te, Paul!” Fa lei.
Mi fa strano sentirla chiamare Sido per nome perché non lo faccio nemmeno io. Lo fa solo Doreen. E allora capisco un'altra cosa importante, che il livello di intimità fra questi due è molto più profondo di quello che mi aspettavo e questo complica le cose.
“Ci serve una mano per uscire da questa situazione,” le spiega pazientemente lui.
“E la chiedi a loro?” Fa lei.
Lui sorride amareggiato. “Al momento sono un po' a corto di amici,” commenta.
“Loro non sono tuoi amici.”
Sido si stringe nelle spalle con la rassegnazione di qualcuno che fa fatica a vedere tutto o bianco o nero come fa lei che è una ragazzina e, sicuramente, divide il mondo in amici e nemici, dove i nemici sono quelli che le hanno ammazzato il padre e gli amici sono quelli che la aiuteranno ad ammazzare noi, suppongo. Il mondo non va quasi mai così, ovviamente, però lo capisci solo quando cresci. “Questo passa il convento,” commenta Sido. “Fatteli bastare. Ti prendo qualcosa da bere.”
Quando lui sparisce nel cucinotto, lei ci guarda e le sue intenzioni nei nostri confronti sono così chiare che io davvero non so bene come finirà questo stallo alla messicana nel corridoio.
“Non ho bisogno del vostro aiuto,” ci informa, superandoci entrambi e guidandoci nel corridoio. “Mi basta uscire di qui e dire quello che so al primo giornalista che incontro.”
“Non hai nessuna prova,” le faccio notare. Lo so che è un azzardo – le prove non ci sono adesso, ma il cadavere salterebbe fuori a dragare il canale e io non lo so se non ce ne sarebbero su di lui – ma non ho molta altra scelta.
“Mia madre potrebbe confermare.”
“Tua madre conosce le regole,” le dico seriamente.
Lei mi guarda con una tale quantità di oltraggio negli occhi che mi sentirei in colpa se mantenere questa recita non fosse di vitale importanza per me e Chakuza, principalmente, ma per tutti quelli che ci stanno intorno. “Non venirmi a parlare di regole!” Mi dice. “Avete ucciso mio padre per niente!”
“Tuo padre aveva ucciso Bushido.”
“Bushido non è mai morto!”
Ed è sempre quello il problema, mi dico, che Bushido non è morto. La quantità di casini che ci sono capitati tra capo e collo nell'ultimo anno dipende tutta, ma proprio tutta, da questa semplice constatazione: Bushido doveva essere morto e non lo è. Quando se n'è andato, noi abbiamo perso un pezzo e ci abbiamo costruito intorno e quando è tornato, lui si è ficcato a forza nel posto che aveva lasciato libero, ma c'è qualcosa che non va. E' come quando guardi un muro con un mattone che è leggermente più chiaro degli altri : è un mattone, è nel posto giusto, ma lo noti subito, lo noti troppo, come qualcosa di sbagliato. E così torniamo sempre lì: se Bushido fosse rimasto morto, ora...
“E' stato un regolamento di conti,” insisto. “Noi non potevamo sapere.”
“Questo non è un mio problema.”
Ho questa ragazzina davanti e non posso darle torto – non sono Bushido, non riesco a pormi di fronte al mondo credendo fermamente di avere sempre ragione – ma è difficile convincerla a fare come dico io quando è chiaro che la cosa più ragionevole da fare è quella che dice lei. Con Bushido in vita, Saad è morto inutilmente: l'unica soluzione è pareggiare i conti. “Nyzaad, questo non riporterebbe in vita tuo padre.”
“Però quando vi siete vendicati di mio padre, Bushido è tornato in vita,” dice lei.
“Solo perché non era mai morto,” le faccio notare.
Lei alza gli occhi al cielo. “Lo so, idiota, non sono mica ritardata,” mi dice, disgustata dal fatto che non colgo il suo frizzante senso dell'umorismo. “Ma a me non importa se questa volta non funzionerebbe, io voglio solo che la morte di mio padre venga vendicata e che la feccia che siete finisca dove merita. Una volta tolti di mezzo voi, anche il regno del re dei re avrebbe finalmente fine come è giusto che sia. Queste sono le regole. Mia madre non le ha capite per niente.”
Non è così facile, penso. Se lo fosse, Nyzaad, le nostre faide non durerebbero anni. Non ci lasceremmo per poi riprenderci per poi odiarci per poi trovarci ancora e perderci il giorno dopo. E quando arrivi ai coltelli, prima, e alle pistole poi, le cose si fanno ancora più complicate perché i limiti fanno presto ad essere oltrepassati. E io lo capisco che, occhio per occhio, tu vuoi giustizia per un cadavere – l'unico che è rimasto per terra alla fine della storia – ma non te la posso concedere, e io credo che non lo farebbe nemmeno tuo padre perché lui saprebbe che abbiamo agito com'era giusto per quello che sapevamo allora. Lui saprebbe che in qualche modo contorto siamo pari, noi e lui, perché abbiamo tutti guadagnato qualcosa – poco – e perso qualcosa – tanto, troppo. Ma come lo spiego a te, che ci hai solo rimesso?
Sto per aprire bocca, anche se non so bene cosa dire, ma Chakuza mi precede e io mi preoccupo perché se c'è una possibilità di peggiorare la situazione esprimendo un pensiero, lui di solito lo fa. E qui ce ne sono parecchie; e invece. “Avresti potuto farlo in qualunque momento,” dice, con una calma che non gli ho mai sentito nella voce. Si gira lei e mi giro io, e lo guardiamo. “Parlare con i giornalisti, intendo, ma non lo hai fatto. Sei qui da ore.”
Lei guarda altrove arrabbiata, incrociando le braccia al petto. “Potrei farlo adesso.”
“Certo,” annuisce lui. Chakuza, non ti seguo, dimmi che hai un piano. “Ma ci sarebbe un processo e tu non potresti sparire. Indagherebbero su questa storia delle foto, scoprirebbero la tua situazione e Sido ci andrebbe di mezzo.”
Lei pianta gli occhi sul pavimento. “Potrebbe non esserci nessuna situazione da scoprire.”
“A meno che tu non voglia farlo in casa, troveranno la tua cartella clinica, te lo garantisco,” le dice Chakuza, come se lo sapesse con assoluta certezza. “Sido ha quasi trent'anni e tu sei minorenne, finirebbe nella cella accanto alla nostra e butterebbero via la chiave. Ma non te lo devo dire io, questo, vero?”
Lei non risponde, ma sa che è la verità; e mentre lei si appoggia al muro sbuffando come l'adolescente che è, io guardo Chakuza e sono pieno di meraviglia, perché quest'uomo sostanzialmente quasi sempre inutile sa essere pieno di sorprese, a volte. O forse è solo che Nyzaad è una ragazzina – ancora più piccola della nostra illuminata sovrana – ed evidentemente a mio marito, quando si tratta di adolescenti e preadolescenti, scatta qualcosa nella testa e diventa un'altra persona. D'altronde avrei dovuto saperlo perché l'ho visto con sua sorella, ma soprattutto l'ho visto con Danny: nonostante sia geloso di lui, gli prepara tre pasti al giorno ed è riuscito, con un polso di ferro che non ha neanche per se stesso, a dargli una routine, neanche fosse sua madre. Forse abbiamo trovato un posto per lui in questo circo che siamo diventati: lui si occuperà delle pubbliche relazioni con chiunque sia sotto i vent'anni.
Sido sceglie quel momento per rientrare con una tazza di tè fumante. “Ecco, tieni,” le dice, porgendogliela. Dopo la discussione che abbiamo appena avuto questa scena è surreale, ma poi mi rendo conto che siamo tutti – ma proprio tutti – così spostati che a quanto pare stiamo recitando nella prima commedia romantica sulle gang di strada mai prodotta. Gang's Anatomy, o qualcosa del genere.
Nyzaad prende la sua tazza di tè e si stacca dal muro. “Vado con loro,” annuncia poi, prima di sparire nel corridoio.
Sido guarda prima lei e poi noi. “Come l'avete convinta?” Chiede, e c'è del sollievo ma anche della meraviglia nei suoi occhi stanchi.
“Non senza difficoltà,” commenta Chakuza, che mentre non lo tenevo d'occhio si è seduto su divano e sta facendo zapping come se nulla fosse. Lo conosco abbastanza da sapere che si è già scaricato. Qualsiasi tipo di tensione lo tenesse sull'attenti finora si è esaurita nel momento in cui ha capito che siamo riusciti ad ottenere quello per cui siamo venuti. “Fortunatamente è più sveglia di te e ha capito la situazione.”
Sido gli lancia un'occhiata storta nella quale riesco a vedere l'eco dell'uomo che era solo qualche mese fa quando sono tornato a vivere a casa sua perché Chakuza mi aveva fatto infuriare. Ricordate quando Chakuza poi è venuto a prendermi? Ecco, quella volta lì. Ma a quanto pare per lui era una vita fa. La conosco bene questa sensazione di ere geologiche che si susseguono all'interno di brevissimi periodi di tempo. Io, per dire, sono alla quarta.
Comunque sia, Sido mi afferra per un braccio e mi tira da parte in un angolo dello studio dove né Chakuza né Nyzaad possano sentirci e mi guarda serio. “Ascolta, io lo so quello che sa Nyzaad,” mi dice senza girarci intorno. “Lo so perché me lo ha detto lei, ma lo avevo intuito anche prima perché Saad di certo non aveva lasciato Berlino di sua spontanea iniziativa e a farlo sparire non potevi essere stato che tu.”
“Sido—“
“No, ascoltami. L'ho capito appena ha cominciato a girare la voce e non mi interessa. Quello che avete fatto è una questione vostra e io non voglio entrarci,” mi interrompe prima che possa anche solo provare a spiegargli le mie motivazioni o, non lo so, a giustificarmi perché a dirgli la verità è stata una ragazzina di quattordici anni che voleva rovinarmi e non io, dopo tutto quello che lui ha fatto per me. “Voglio solo che tu sappia che non le avrei mai permesso di trascinarti nella merda ed è per questo che siamo in questo casino.”
“Sido, non so di che cazzo stai parlando.”
Lui mi guarda con determinazione e poi mi abbraccia. “Avremo modo di parlarne, ora portala via,” mi dice, senza chiarire assolutamente niente.
Vorrei fargli delle domande, ma Nyzaad è appena tornata trascinandosi dietro uno zainetto grande abbastanza per contenere appena un cambio e poco altro. Chakuza si fa avanti per prenderlo – il suo animo da cavaliere servente si è acceso come un fiammifero, lui stesso d'altronde lo sembra, – ma lei non ci pensa neanche a lasciarlo andare. Se lo sistema meglio sulla schiena e incassa le spalle, quasi sparendo sotto una felpa che è il triplo di lei. “Come ci muoviamo?” Chiede.
Ci muoviamo che devi diventare invisibile, bambolina.

*

Ad un certo punto della mia esistenza – quando ho cominciato a cantare, per la precisione – ho giurato a me stesso che non avrei mai più fatto il corriere per qualche signore della droga. Il mio intento era trovarmi un lavoro vero, cantare possibilmente, non iniziare a contrabbandare esseri umani. Ma, come dice sempre mia madre, al proprio destino non si sfugge mai. Sarebbe solo carino, per una volta, non avere un destino di merda. Così, per cambiare. Invece eccomi qua, mentre due ali di folla si aprono al passaggio della mia auto che avanza a due chilometri orari per non mettere sotto nessuno. Nella mezz'ora – contata, giuro – che siamo stati nello studio di Sido, il numero dei giornalisti è triplicato. Sanno che si trova nello studio e sanno che prima o poi dovrà anche uscirne, perciò aspettano. Tutto sta nel vedere chi si stancherà prima, loro o Sido.
Io cerco di non apparire rigido al volante mentre qualcuno di loro – troppo, troppo vicino – sbircia dentro l'auto per capire se siamo interessanti. Sto sudando come se nel bagagliaio avessi dieci chili di coca appena arrivata dalla Colombia e invece ho soltanto una ragazzina distesa sul pavimento dell'auto, sotto una vecchia coperta. Non che sia meglio della droga, ma insomma.
“La vedranno,” sussurra Chakuza, o la statua di sale con le sue sembianze che mi è seduta accanto in questo momento. Era tranquillo finché eravamo nel parcheggio sotterraneo, si è pure occupato di nascondere Nyzaad personalmente, mentre io chiamavo Jost per tenerlo informato. Era talmente sicuro di sé che sembrava avesse passato la vita a nascondere minorenni, ma quando ha visto la folla che ci aspettava davanti agli studi, si è irrigidito e non si è più mosso. Colpa mia che gli ho detto di comportarsi normalmente per non destare sospetti. Cosa vuoi che ne sappia, Chakuza, di cosa sia la normalità.
“Non la vedranno,” rispondo, guardando dritto davanti a me, un po' per evitare di investire qualcuno e un po' perché sto cercando di mantenere la calma e lui non è famoso per avere su di me un effetto rilassante.
“Ci stanno addosso,” insiste lui.
“Ma non sanno chi siamo né che cosa trasportiamo,” dico. E poi Nyzaad è così minuta che, rannicchiata, riesce ad occupare solo lo spazio dietro al mio sedile. E' quasi come se sotto quella coperta non ci fosse niente. O forse questo è quello che vorrei, che nel tragitto dal parcheggio dello studio a qui fosse sparita, come un leprecauno.
Il leprecauno, però, parla. “Potrebbero chiederselo se non ti dai una mossa,” dice infastidita. “Se rallentiamo ancora un po', torniamo indietro nel tempo.”
Chakuza ride e io gli lancio un'occhiata che lo avvisa di quanto non scoperà stasera. Vedo la vita abbandonare i suoi occhi mentre perde il sorriso. “Silenzio, i mucchi di coperte non parlano.”
“Ti odio,” fa lei.
“Come farò a vivere d'ora in poi?” Commento, suonando il clacson perché si spostino. Va bene passare inosservato, ma di questo passo non ce ne andremo mai. Tutte le occhiate che riceviamo a quel punto me le sento addosso quasi fisicamente. Ora qualcuno ci riconosce, penso. Uno di questi giornalisti guarderà dentro la macchina e vedrà il sole riflettersi sulla fronte lucida di Chakuza. Siamo perduti. E invece no, la divinità che protegge i delinquenti ancora una volta ci arride. La gente si sposta, premo sull'acceleratore, siamo liberi.
Non appena siamo fuori dalla visuale dei giornalisti e ben avviati verso la nostra destinazione, mi permetto di tirare un sospiro di sollievo, che lo so che porta sempre male – questa volta no, però, giuro – ma ne ho bisogno, praticamente sto trattenendo il fiato da quando siamo arrivati. “Puoi venire fuori,” dico.
Percepisco Chakuza al mio fianco liberarsi dall'incantesimo e tornare un bambino vero e poi vedo la testa bionda di Nyzaad fare capolino dal sedile posteriore attraverso lo specchietto retrovisore. I suoi capelli sono un casino spettinato sopra la sua testa e quella felpa la fa sembrare ancora più piccola – non ci voglio pensare – mi sembra di portare in giro il mio cuginetto di quattro anni, se ne avessi uno e fosse femmina e fosse in realtà adolescente e incinta di uno dei miei più vecchi amici. Faccio due conti e penso se siamo ancora in tempo per scaricarla nel primo consultorio disponibile e poi andarci a gettare anche noi nel canale con tutta la macchina.
Nyzaad si sistema comoda e guarda fuori dal finestrino. Siamo già fuori da Tempelhof e nei quartieri alti dove un tempo – la sua era geologica precedente, immagino – viveva anche lei. Anzi, non siamo lontani da casa sua, se non ricordo male. Se se ne accorge, non lo dà a vedere. “Dove stiamo andando?” Mi chiede.
“Perché, hai delle preferenze?” Rispondo.
“Magari sì,” fa subito lei. “Fosse per me, gireresti la macchina e torneresti da dove siamo venuti. Da queste parti c'è solo gente con la puzza sotto al naso e i soldi che le escono dal culo.”
“Uscivano dal culo anche a te,” faccio presente.
“Da quello di mia madre,” precisa. “Ti sembro una che ne ha approfittato?”
No, penso. Poteva essere una ragazzina viziata che finge di fare la dura, ma dopo due giorni passati a dormire al freddo del ghetto torna indietro dalla mamma piangendo e invece lei si è trasformata. Ha lasciato indietro la sua vecchia pelle quando ha messo piede a Tempelhof ed è diventata qualcos'altro, anche se non so ancora cosa. E' coriacea, però. Fatta per resistere, come noi.
“Tempelhof non è un bel posto dove passare il tempo nascosti,” le dico.
Lei sbuffa. “Ma se non ci credi nemmeno tu?” Mi dice. “Comunque non hai risposto. Se fossi al mio posto non vorresti sapere dove stai andando?”
“Certo, ma sono al mio posto e non ho bisogno di chiederlo perché lo so.” Mi volto appena per sorriderle, ma lei non ricambia. Tutta quella rabbia che le vortica dentro senza un posto dove andare io me la ricordo, la provavo anche io e faceva male. Io, però, almeno non ero costretto a viaggiare dentro una macchina in compagnia degli assassini di mio padre. Io non ce l'avevo neanche un obbiettivo su cui scaricare la rabbia – l'universo, lo stato, il sistema? – ero arrabbiato e basta, quindi a lei deve fare ancora più male. Siamo qui, le mani macchiate di sangue, e lei non può farci niente.
Ad ogni modo, la sto portando a casa di Bushido, come mi ha detto di fare David. Quando gli ho fatto presente che poteva non essere la scelta migliore perché lei lo odia, David mi ha detto che ne era consapevole – Come? Che ne sai tu di questa ragazzina quando io la conosco da malapena due ore? Quanti occhi hai? Ti servi di un sistema di spionaggio di cui non siamo a conoscenza? Bushido lo sa? – ma che non abbiamo altra scelta. Serve una casa in cui possa sparire e nessuno di noi ne ha una sufficientemente grande che possa servire allo scopo. Ancora, per lo meno. Ho visto i progetti delle case che Bushido sta facendo costruire e, onestamente, non so se fra me e Chakuza abbiamo abbastanza mobili per riempire metà delle stanze. Quando litigheremo là dentro l'eco delle nostre urla andrà avanti per mesi e mesi.
Inoltre, e questa in realtà è una cosa fondamentale, da e verso la dimora reale c'è un costante via vai di auto ogni giorno, quasi a tutte le ore. Quando arriveremo e quando, una volta sistemata la faccenda, lei se ne andrà, nessuno noterà la differenza. Non sarebbe stato altrettanto facile se avessimo cominciato a fare avanti e indietro da una casa presa in affitto o da una delle nostre attuali case.
Non so quanto sia informata lei sulla Villa Gialla, o se ci sia mai stata quando era più piccola, ma spero onestamente che non capisca dove siamo diretti finché ormai non siamo dentro, non vorrei che decidesse di fare una botta di testa, aprisse lo sportello e si gettasse in strada. Anzi, va, fammi mettere la sicura alle portiere. Chi se ne accorge, naturalmente, è Chakuza – neanche lui era al corrente della destinazione – e lo vedo che si innervosisce subito perché non era pronto. Forse sta anche pensando che è uscito di casa con i primi vestiti che ha trovato, che non è pulito o sbarbato come dovrebbe, non è nella condizione appropriata, insomma, per presentarsi al cospetto della principessa. Peccato, Chakuza, il ragazzino dovrà accettarti per quello che sei: un nano impresentabile dal quale si è fatto entusiasticamente scopare per più di un anno. Non so se sarà in grado di affrontare la realtà. So per esperienza personale che ci vuole parecchio tempo.
Apro il cancello con il nuovo codice che Bushido mi ha dato e parcheggio accanto alla sua BMW e alla nuova Ford Lincoln che, a quanto pare, ha attraversato l'oceano atlantico per raggiungerlo. La terza, quella delle occasioni che ufficialmente non sono mai avvenute, è tornata sotto il telo fino a quando non servirà di nuovo. I cani ci vengono incontro abbaiando e scodinzolando. Nyzaad ride per la prima volta da quando l'abbiamo incontrata e accarezza la testa a Skyline, questo temibile e ferocissimo cane da guardia che si mette subito disteso e agita la pancia per farsela grattare.
“Togliamoci da qui”, le dico. Vorrei farla giocare con il cane, ma ho fretta di portarla dentro. Questo giardino ha i muri molto alti, ma non sarò tranquillo finché non la saprò in un posto dove nessuno può vederla.
Karima ci apre e ci fa accomodare nel salotto buono dove Bill ci raggiunge pochi minuti dopo, il viso serio e preoccupato perché ci siamo presentati senza preavviso. “E' successo qualcosa?” Chiede subito. “Stanno tutti bene?”
“Sì, tranquillo,” risponde Chakuza e si fanno questo mezzo sorriso che mi fa sempre prudere le mani perché, per un momento, si isolano e non c'è nient'altro per loro. E il modo che hanno trovato per gestirsi a vicenda senza fare danni, credo, ma i ceffoni che mi leverebbero dalle mani, se solo mi permettessi di perdere il controllo come a volte fanno loro due, inizierebbero a contarli ora e andrebbero avanti per i prossimi sei mesi.
“Siamo qui per un altro motivo,” informo la nostra principessa col pisello, così che possa pelare via gli occhi dal mio uomo e tornare a ricomporsi. “Bushido c'è?”
“No, mi ha chiamato poco fa. Torna più tardi, perché?”
“Vieni qua,” lo prendo per un braccio e lo tiro da parte mentre Chakuza spinge gentilmente Nyzaad verso il divano e le dice di accomodarsi. I cani, entrati in casa con noi, sono impazziti di gioia per la presenza di una persona nuova e fanno su e giù dal divano e dalle poltrone, abbaiando e cercando di attirare la sua attenzione.
“Chi è quella?” Bisbiglia Bill, lanciando un'occhiata alla ragazzina.
“La figlia di Saad,” rispondo. Si ricomincia.
Lui si volta di nuovo a guardarla, ma Nyzaad è troppo presa dai cani per accorgersene. Bill si volta di nuovo verso di me, gli occhi sgranati. “E cosa ci fa qui?” Bisbiglia ancora.
“E' nei guai e ha bisogno di un posto dove stare,” gli spiego molto semplicemente. “Solo per un po', finché non capiamo che cosa fare di lei.”
“Nel senso...?” Lui resta sul vago, confuso. “Ma l'avete rapita?”
“Cosa? No!” Lo prendo per una spalla e lo trascino ancora più lontano. “Ma se ti ho appena detto che ha un problema? Ma per chi ci hai preso, si può sapere? Quando mai abbiamo rapito la gente?”
“Che ne so di cosa fate! Magari era un corso di azione possibile!”
“No che non è un corso di azioni possibile! Insomma sì, ma no!” Poi mi rendo conto che questa discussione ha preso una piega surreale che neanche se mi impegnavo a farlo di proposito sarebbe venuta fuori così, perciò sospiro e mi calmo. “Bill, per favore, cerca di ragionare.”
“Sto ragionando. Non potete presentarvi qui e portarmela in casa,” mi dice, e ci prova a sostenere il mio sguardo, ma più che altro guarda per terra, una cosa che di solito è carina, ma ora in questo momento non tanto perché – strano a dirsi dopo tutti i nostri trascorsi – ora la persona fragile da proteggere in questa stanza non è lui ma lei, e io ho bisogno che Bill si tolga per un po' di dosso i panni di Raperonzolo e diventi il ragazzino cazzuto che sa essere quando vuole.
Io lo so che se Bushido dovesse arrivare e decidere che Nyzaad deve essere buttata in mezzo di strada e in pasto alla stampa, ci toccherebbe farlo, ma la realtà è che io so che Bushido non lo farà e non lo farà perché sarebbe contro le regole. E' sempre una questione di regole non scritte, di equilibri da rispettare, di comportamenti da tenere. Non saremo gente dell'alta società, ma ce li abbiamo anche noi i nostri non si fa e non sta bene, solo che ci sono tante di quelle sfumature che io non posso mettermi qui a spiegarle tutte a Bill una per una. Le imparerà vivendoci in mezzo, queste cose.
L'ospitalità, per dire, è sacra nei confronti degli amici, negata ai traditori e dovuta per onore ai nemici in difficoltà. Per questo David ha bisogno del permesso di Bushido per accollarsi le dichiarazioni ufficiali di Sido, ma non per decidere di scaricare Nyzaad a casa sua. Perché l'ospitalità gliela deve, tutto il resto no. Fosse solo per la sacralità del gesto, Bill non dovrebbe neanche fare discussioni, ma se anche il dettaglio gli dovesse sfuggire, dovrebbe rendersi conto di quanto pesi Nyzaad sulla sua vita. Questa è un'altra cosa che deve imparare e che gli posso insegnare subito. “Bill, ascoltami, questa cosa non è in discussione,” gli dico, così magari chiariamo subito che non gli sto chiedendo niente. “Le azioni hanno delle conseguenze e lei è la conseguenza delle tue.”
A quel punto lui sembra comprendere che non stiamo parlando soltanto di una ragazzina di quattordici anni parcheggiata in casa sua – nella casa del suo uomo, in realtà – che gioca con i suoi cani. Stiamo parlando di una notte a Tempelhof, di un colpo di pistola e di quello che ne è seguito che, per un po', è stato il suo senso di sollievo, la consapevolezza che aveva avuto la vendetta che gli spettava, e ora, invece, è questa cosina bionda qua, avvolta in una felpa più grande di lei.
Annuisce piano e sospira. “Che cosa dovrei fare?”
“Niente. Tienila qui,” gli dico. “Non farla uscire né affacciare alle finestre. Virtualmente lei non è mai stata qui e, se per una volta nella nostra esistenza abbiamo un po' di fortuna, la manderemo via prima che qualcuno si accorga che ci sia mai stata.”
Lui annuisce di nuovo e spero vivamente che quello sguardo vuoto con il quale guarda un punto non meglio precisato alla mia destra sia il segno che sta valutando la situazione e pensando a come procedere e non, come un po' sembra, che si stia dissociando dalla realtà come ha già fatto in passato. “Bill? Mi stai ascoltando?”
“Sì,” si riscuote lui e torna a guardarmi. Negli occhi è sparito il ragazzino ed è ricomparsa la donna del capo, quella determinata e dura come il cemento. Bravo, Bill, bravo. Lo so che speravi di rimandare il momento ancora un po' perché sei appena tornato. Noi stavamo prendendo le cose con calma, giuro, ma ci hanno forzato la mano. E' di nuovo un casino, bimbo, lo so, ma ne hai visti di molto peggio, no? Questa è una passeggiata. “Che cos'ha fatto?” Mi chiede.
Opto per la versione breve, anche perché è l'unica che so. “Si è trovata un uomo molto più grande di lei e la stampa lo ha saputo quattro anni prima che fosse legale.”
Lui mi guarda con la faccia di uno che ha già tratto le sue conclusioni e non gli piacciono. “Quanto più grande?”
“Diciamo Sido-più grande,” lo informo.
Bill fa una faccia disgustata. “Quell'uomo avrà quarant'anni!” Protesta.
“Quasi trenta, in realtà. Meno del tuo.”
“La mia situazione è completamente diversa,” fa lui, testardo. “Io sono maggiorenne ed ero comunque più grande di lei quando è cominciata.”
“E non eri nemmeno incinta,” sgancio la bomba e lui si gela, però fingo che questo pezzo di informazione non sia né più né meno grave di quelli che gli ho dato finora. Gli batto una pacca sulla spalla. “Conto su di te, Bill.”
E lui forse non lo sa che questo era un rito di passaggio che lui doveva attraversare prima o poi. Lo so che non ha scelto lui di rientrare nel gruppo delle donne del ghetto – che per quanto ci riguarda al momento sono molto, molto poche –, che a poter decidere, forse, avrebbe voluto essere qualche altra cosa, ma è andata così e ci sono cose che per questo gli sono dovute – il rispetto, ovviamente, fra tutte – e cose che invece lui deve al clan. Alcune di queste cose sono l'accoglienza, la cura, la comprensione incondizionate. Le donne del ghetto hanno tutte questo compito qui: sono porti sicuri a cui tornare o nei quali andare a nascondersi e riposare, a leccarsi le ferite. Gli uomini sono fiumi in piena in questo posto, si gonfiano, tracimano e distruggono. Le donne sono argini senza le quali ci spargeremmo ovunque. Cassandra è così. La madre di Anis è così. Mia madre è così. Io me lo ricordo che di quello che facevamo non voleva sapere niente, ma quando un paio degli uomini di Arafat si presentarono sotto casa di mia madre a cercare Bushido, non so nemmeno più per cosa, lei scese in pantofole e si piazzò in mezzo di strada, con le mani sui fianchi. Non era figlio suo e non gli doveva niente, ma era amico mio, perciò glielo doveva. E gli uomini di Arafat tornarono indietro, perché sarebbero stati uomini senza onore a fare altrimenti. E quando Anis si presentò due giorni dopo con il labbro spaccato e l'occhio viola – perché alla fine l'avevano beccato da un'altra parte – lei non fece domande. Lo fece sedere, lo curò e gli dette da mangiare, e poi lo rimandò fuori perché tanto era lì che lui voleva e doveva stare. E lo so che Bill non è una donna, ma so che è questo lo spazio che si è ritagliato da solo e quello, per altro, in cui si trova a suo agio. Non è proprio una questione di sesso, davvero. D'altronde, non ha saputo subito che cosa fare quando ci siamo presentati ricoperti di sangue l'ultima volta?
“Chakuza, stiamo andando,” informo la mia metà peggiore, che si sistema subito il berretto e fa un cenno a Bill, tenendosi a debita distanza. Le due enormi calamite legate dietro le loro schiene cercano di attirarli l'uno verso l'altro, ma la mia presenza da un lato e le notizie che ho appena scaricato addosso a Bill dall'altro li tengono ben ancorati a terra.
Lancio le chiavi a Chakuza, così si distrae. Benché le auto su di lui non abbiano più fascino di ciò in cui può infilare il cazzo, l'idea di essere lui a guidare e, quindi, a portarmi in giro, riesce sempre a fargli dimenticare quello che sta facendo in quel momento. Chakuza è un uomo dai ragionamenti complicati ma dagli automatismi semplici. Ci sono cose di lui che, se le capisci, riesci ad usarle per muoverlo come un burattino.
I cani ci accompagnano scodinzolando e abbaiando. Mentre saliamo in auto chiamo David.
Vorrei che fosse l'ultima volta che abbiamo faccende da sistemare, ma siamo solo all'inizio.

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