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di tabata
Dice un vecchio adagio: attento a ciò che desideri perché potresti ottenerlo.
Il fatto che io abbia sempre ignorato tale avvertimento e che ora esso mi si ritorca contro nel momento meno opportuno è, non solo la dimostrazione che i vecchi saggi sono veritieri, ma che lassù qualcuno mi odia; perché non si può dare ad un uomo tutto ciò che desidera in un comodo formato di un metro e ottanta, con lunghi capelli biondi e lombi guizzanti, e poi toglierglielo proprio quando stava ringraziando il cielo per tale dono, godendoselo per dritto e per rovescio come vuole la situazione. E' scorretto, dico solo questo.
Qualche mese fa stavo seduto alla mia scrivania e fissavo la casella di posta in arrivo del mio computer tragicamente vuota, là dove solo un anno prima c'erano state dalle dieci alle venti e-mail l'ora e io avevo fatto fatica anche solo a trovare il tempo di guardare se la posta era arrivata, figurarsi aprirla, leggera e rispondere.
Avevo preso l'abitudine isterica di aggiornare ripetutamente nella speranza di far comparire anche solo un'intestazione; poi, provando della pietà per me stesso, chiudevo tutto quanto quando mi rendevo conto che non sarebbe arrivato niente nemmeno per quel giorno, e forse non sarebbe arrivato niente mai, visto che non c'era più nessuno in tutta la Germania – ma anche nel mondo – che volesse arrischiarsi a mettere sotto contratto un cantante in cura psichiatrica a forte rischio di crisi depressiva e il resto della sua band, che magari è più sana ma, diciamocelo, è molto meno vendibile senza Bill.
C'è stato un momento preciso – era metà aprile – in cui ho pensato che forse sarebbe stato davvero meglio smettere di illudersi che la situazione potesse migliorare. Avevo contattato chiunque, anche gente con la quale non parlavo da anni e altra che non aveva niente a che vedere con noi e mai, nemmeno se l'avessimo pagata, avrebbe voluto averne. Per la prima volta nella mia intera esistenza accanto ai ragazzi, non avevo più nessuna carta da giocare in loro favore e immaginavo che avrei dovuto prenderli in disparte e metterli di fronte alla verità, piuttosto che mentirgli finché non si sarebbero resi ridicoli a furia di bussare a porte sprangate a doppia mandata. Era chiaro che nessuno sarebbe venuto a salvarci e che dovevamo cavarcela da soli, il che significava metterci il denaro di tasca nostra e sperare di non perderlo per non finire a fare fiori di carta sotto un ponte, com'era probabilissimo che accadesse.
L'alternativa a tutto questo, ossia lasciar perdere la musica e dedicarsi ad altro, era improponibile perché quei quattro sono cresciuti facendo soltanto questo: le rock star, e lasciati liberi nel mondo come persone normali non resisterebbero una settimana. Bill non sa fare nemmeno la spesa, figurarsi!
Ho pensato a lungo a cosa fare, ma alla fine mi sono convinto che non ci fosse altra soluzione e sono uscito di casa determinato a fare quello che andava fatto, a costo di dover arginare fiumi di lacrime in piena o qualche altra catastrofe di pari dimensioni. Solo che poi, quando sono arrivato allo studio, mi hanno accolto con tanto di quell'entusiasmo e una canzone già praticamente pronta che non me la sono sentita più e ho semplicemente desiderato che il giorno dopo qualcuno si svegliasse abbastanza coraggioso da puntare ancora su di loro perché se lo meritavano e non volevo essere io quello che distruggeva i loro sogni di gloria per sempre.
Questo desiderio è rimasto inespresso a lungo, tanto che io ho fatto in tempo a tornare a credere di dover vendere la casa al mare e investire tutti i soldi guadagnati aiutando Bushido nella sanità mentale del suo fidanzato che lui stesso aveva abbandonato per sparire in America, il che – pur avendo qualcosa di metaforico – non era esattamente quello che avevo previsto per i miei primi quaranta trentadue anni.
Poi, quindici giorni fa, il miracolo.
Ero a casa di J.J. e aspettavo che uscisse dalla doccia per saltargli addosso e travolgerlo di nuovo col fuoco della mia passione come avevo fatto nelle ultime due ore; mi sentivo piuttosto in vena, quindi ero pronto a fare faville e a convincerlo che il mondo là fuori non avesse davvero bisogno di lui.
Quello che in realtà è successo, però, è che io ho scaricato la posta, ho letto quell'unica e-mail che mi era arrivata dopo mesi di silenzio assoluto perfino da parte dei siti pubblicitari di pastiglie per l'allungamento del pene e sono praticamente entrato in bagno nudo e urlante, cantando a squarciagola Like a Virgin, il che ha portato J.J. a chiedermi se stavo bene e se c'era qualcosa che potesse fare per me; che detto da lui nudo, fradicio e caldo di vapore è un po' una domanda retorica.
In ogni caso, a quel punto, non avevo più il tempo di occuparmi di lui o del suo glorioso corpo nell'idromassaggio, perché avevo cose più urgenti – per quanto forse meno importanti – da fare.
Mi sono messo in strada e ho chiamato i ragazzi dall'auto, costringendoli a presentarsi in studio da lì a quaranta minuti. Con Gustav e Georg la cosa non è un grosso problema, ma con Tom significa dover capire dove si trova, chiamare più volte perché senta il telefono e, quando infine risponde, chiarirgli fin da subito che questa non è un'esercitazione e che se vuole continuare a fare finta di suonare la chitarra deve muovere il culo e fare quello che gli dico. Per quanto riguarda Bill, invece, sono passato direttamente a prenderlo da Bushido e l'ho trascinato fuori di casa in tuta, una cosa per la quale non mi perdonerà mai, soprattutto quando scoprirà che l'hanno fotografato in quelle condizioni.
La notizia che avevo da dare ai miei ragazzi era così enorme, così stratosferica, così stupendamente meravigliosa, che avrei dovuto ricordarmi, dopo tre aggettivi del genere, che tre di loro non sono omosessuali – è così difficile tenere a mente il numero degli etero in questo periodo! – e che Bill ha dei pessimi gusti musicali – tipo che si piace moltissimo da solo – in questo modo avrei evitato sia la figura di merda che la delusione.
“Ragazzi!” Ho esclamato brillando di una luce intensa e sfavillante che mi illuminava da dietro e irradiava glitter tutt'intorno a me come il venerdì sera quando vado per locali. “Non indovinerete mai chi mi ha spedito un'offerta per voi quattro.”
“Dal modo in cui luccichi ho paura di che razza di offerta sia,” ha commentato Gustav che, anche senza una batteria per le mani, tamburellava due bacchette sul tavolino da caffè. “Ricordi che non siamo ancora così disperati da fare film porno, sì?”
“Dipende, se ci sono donne...” Tom ha scrollato una spalla e suo fratello gli ha tirato uno scappellotto.
“Sei un uomo impegnato,” ha commentato e poi si è voltato verso di me, atteggiandosi come ha ripreso a fare da quando Bushido gli ha rimesso in testa la sua pesante corona di oro e cristallo. “David, per favore, potresti essere più specifico?”
“Signori,” l'ho introdotta con tutta la deferenza che richiedeva ma no, no, non uno che l'abbia apprezzata. Con loro è come gettare perle ai porci. “Siamo stati cortesemente convocati a sostenere un'audizione – che non dubito sapremo affrontare nel più favoloso dei modi – niente di meno che negli uffici della Maverick Records.”
Avessi dato l'annuncio durante una cena informale con una manciata dei miei amici a caso, il servizio buono di bicchieri si sarebbe infranto in un unico boato di felicità incontrollata. Qui aspetto di sentirlo per due minuti interi, ma non arriva mai e loro mi guardano perplessi, persi e anche un po' dispiaciuti come se fossi il caro nonno che è sceso per il pranzo con indosso soltanto le mutande. “Ragazzi, la Maverick Records,” ho ripetuto.
Le due G si sono guardate fra di loro, Tom ha guardato suo fratello e Bill ha guardato me.
“Evviva?” Ha tentato, incerto.
“Davvero non posso credere che nessuno di voi conosca la Maverick. Tu,” ho indicato Bill e ho cercato di caricarmi sull'indice almeno vent'anni di storia omosessuale. “Tu sei una vergogna per tutta la categoria, cosa che per altro non mi stupisce visto che ti accompagni ad un uomo che ho minacciato di privare del suo tesserino di gay più volte di quante riesca a ricordarne. Si dà il caso che la Maverick sia di proprietà della signora Louise Veronica Ciccone, vi dice niente?”
Per un attimo sono rimasti tutti zitti, ed è stato quasi un attimo di troppo, ma poi Gustav – che era l'unico che avrebbe avuto il diritto di non saperlo, se un diritto del genere esiste – ha evitato che io mi facessi prendere dalla mia prima crisi isterica dopo gli anni del liceo. “E' Madonna,” ha spiegato. “Certo che io sono ignorante, ma voi tre ve ne approfittate.”
“Madonna?” Ha chiesto Bill e poi, alzandosi di colpo in piedi mentre la consapevolezza della sua razza lo colpiva tutta insieme e con un ritardo di trasmissione di quasi venti minuti. “Madonna? Madonna quella Madonna?”
“Direi di sì, visto che l'altra sarebbe un po' blasfema, non ti pare?”
“Oh mio Dio! Madonna!” Ha continuato a ripetere. “E vuole metterci sotto contratto?”
Ho un po' nicchiato. “Per il momento i dirigenti vogliono che facciate un'audizione. Certo non siete i primi venuti ma proprio per questo non dovrà essere buona, dovrà essere perfetta.”
Bill ha annuito seriamente e mi ha veramente riempito di orgoglio vedergli tornare negli occhi la professionalità che ha sempre quando le cose si fanno concrete. E' molto bravo a perdersi e distrarsi – soprattutto ultimamente – ma non ha mai perso la capacità di lavorare come si deve, e io gliel'ho trovata addosso subito dopo quella notizia, anche se non aveva un microfono in mano.
“Quindi ci siamo, voglio dire, torniamo in pista,” ha chiesto Tom, con gli occhi sgranati come quando era ragazzino e mi guardava per essere sicuro di aver capito bene; d'altronde con il frastuono di suo fratello che cinguettava posso anche capire che ne avesse bisogno.
“Siamo in pista e torneremo più grandi di prima, Tom” ho sorriso. “E ora, cari miei, arriva la parte divertente. I dirigenti della Maverick non intendono muovere il culo e toccare suolo europeo per noi, il che ci costringe – posso prevedere con grande rammarico – ad un volo transoceanico, direzione Los Angeles, California.”
Il boato che ne è seguito è stato assordante. Non che sia la prima volta che i ragazzi vanno in Amerca, ma la cosa sembra sempre entusiasmarli in maniera irreale e io, nel preciso momento in cui ho dato loro la notizia, non ho nemmeno trovato motivo per dirgli di calmarsi e smetterla di andare in giro per la stanza urlando e dandosi forti pacche sulle spalle. Non li vedevo così felici da quasi due anni, quindi li ho lasciati fare.
Ora, il mio desiderio inespresso era stato esaudito e io mi sarei accontentato di questa meravigliosa seppur unica possibilità di dimostrare a qualcuno che non eravamo finiti e potevamo tornare a radunare eserciti di ragazzine urlanti che svenissero a ripetizione per ore anche a giorni di distanza da un concerto; mi bastava questo, e sarei stato felice. Ma naturalmente non poteva essere così facile, perché io mi chiamo David Jost, ho sulla pancia un'incisione larga dieci centimetri e profonda uno e mezzo, il cantante della band che gestisco è la donna di un delinquente, dal quale, per altro, io stesso sono attratto sessualmente e per questo l'ho aiutato a fingersi morto per più di un anno, motivo per il quale sono stato rapito, imbavagliato e torturato fin quasi a morte; quindi no, figurarsi se era facile.
Per prima cosa, Bill ha deciso che se andavamo in America, non potevamo semplicemente andare in America, come ogni persona sana di mente avrebbe fatto in queste circostanze, soprattutto in considerazione del fatto che non ci andavamo per divertimento.
La Principessa pensa che questa sia una straordinaria occasione per farci tutti quanti insieme una vacanza che rafforzi i legami ritrovati e ci dia modo di rilassarci in previsione di una nuova, sfolgorante carriera nel mondo della musica. Il problema, se già l'approccio all'intera faccenda non lo fosse, è che quando Bill dice tutti quanti intende tutto un gruppo di individui che non hanno nessuna ragione di esistere nemmeno in funzione della sua già numerosa famiglia allargata che comprende, oltre a Bushido, anche tutte quelle persone che gli gravitano intorno. E se possiamo soprassedere sulla presenza di Chakuza – che è sempre con lui perché Bill lo adora e comunque è nato civetta e quindi gli piace averlo intorno – e quella di Fler – che oltre ad accompagnare l'austriaco, è anche il BFF della Principessa e come tale non può certo essere lasciato a casa – di certo non si capisce perché alla carovana debbano aggiungersi anche Kay One ed Eko Fresh, ma così è perché la parola della Principessa è legge a meno che Bushido non si opponga; ma lui non lo fa perché l'idea lo diverte e perché non dovrà muovere un dito visto che ad organizzare tutto ci penseremo io e sua moglie.
Ho provato a ricordare a Bill che l'ultima volta che siamo partiti tutti quanti insieme, le porte dell'inferno si sono aperte, ma lui ha scrollato graziosamente le spalle avvolte nel suo maglioncino Dsquared e mi ha assicurato che questa volta sarà diverso, perché loro sono diversi e ci divertiremo come matti.
Inutile dire che ho paura, ma il suo terapista sostiene che debba ritrovare un ruolo ben definito in mezzo al gruppo di persone in cui vive – che immagino non sia quello di oscillare tra Bushido e Chakuza – e fargli gestire il branco, soprattutto per questioni simili, mi sembra un buon modo per aiutarlo in questo senso, visto che è esattamente ciò che faceva prima di tutti i problemi. Ora, non è che il dottor Schillinger parli con me, naturalmente, ma non passa giorno senza che Bill mi faccia il riassunto delle sue sessioni di terapia, per cui so sempre esattamente su cosa stanno lavorando.
Nemmeno quattro giorni dopo il grande annuncio, Bill mi ha fatto avere via e-mail il suo piano per la vacanza e io non ho fatto in tempo ad arrivare in fondo al documento in pdf che lui mi stava già chiamando per discutere l'intera situazione, ovvero dirmi di nuovo a viva voce quello che avevo appena letto.
Il piano non comprendeva, naturalmente, nessuna questione pratica – tipo dove dormire, dove mangiare, come spostarsi e altri sciocchi dettagli simili – ma era pieno di cose da vedere e soprattutto negozi da visitare, tra i quali aveva infilato l'audizione, preceduta e seguita da ogni genere di attività assurda che credo avesse trovato girovagando in rete.
“E il fine settimana prima di partire dobbiamo assolutamente andare a Disneyword,” mi ha detto, a conclusione di sette giorni di terrore in cui, secondo lui, dovremmo sostanzialmente vedere tutto quello che esiste sul suolo americano. “Io sono stato solo a quello di Parigi, ma questo è molto più grande e poi è l'originale, non posso farne a meno.”
“Bill, Disneyworld si trova in Florida.”
“E allora?”
“Noi dobbiamo andare a Los Angeles, California.”
“E allora?”
“E allora si trova dall'altra parte degli Stati Uniti,” gli ho fatto notare con un sospiro. “Non avremo tempo di andare fin là in una settimana.”
“Allora vorrà dire che rimarremo quindici giorni,” ha concluso lui. “E poi comunque dobbiamo già andare in Nevada, quindi è meglio se allunghiamo la permanenza.”
“Non si parlava di Nevada nel tuo programma, e poi perché il Nevada?”
“Anis vuole fare un salto a Las Vegas. Io gli ho detto che a nessuno fregava di Las Vegas, ma i ragazzi lo hanno sentito e hanno cominciato a gridare e ad agitarsi e allora per farli smettere ho detto di sì.”
A quel punto ho pensato di riattaccare, scrivere a quelli della Maverick che si erano sbagliati e io non conoscevo alcun gruppo di ragazzini che forse avrebbero potuto lavorare per loro e quindi prendere J.J. e tutto il denaro che mi è rimasto per sparire dalla faccia della terra alla ricerca di quella pace mentale che evidentemente, per colpa di Bill, non ho più; ma ovviamente non l'ho fatto. “Hai un'idea di quanto ci costerà tutto questo?” Ho chiesto invece.
“Potrebbe essere la nostra ultima possibilità di andare in America,” ha risposto lui, con un'aria contrita talmente plausibile che mi sono chiesto se non fosse il caso di portarlo anche ad Hollywood e vedere se me lo prendono come attore. “E poi ci serve, dobbiamo imparare di nuovo a stare tutti insieme.”
Per fare questo sarebbe bastato andare una settimana in montagna a due ore di macchina da Berlino, ma ho comunque accettato e, mentre chiudevo la telefonata, stavo già pensando agli hotel da chiamare e tutto il resto.
Non restava che organizzare il viaggio, fare la valigia e partire alla volta della Maverick per conquistare gli americani e riprenderci il mondo. Ho sistemato tutto quello che c'era da sistemare e ho constatato con immensa gioia che quasi un anno di fermo non avevano affatto scalfito la mia abilità di manager e che l'avere in più sua maestà e la corte tutta da gestire non mi creava nessun problema.
Per questo motivo sono sceso fischiettando dal soppalco in cui si trova il mio studio e sono andato a godermi il mio meraviglioso fidanzato dal fisico scolpito, come mi meritavo ampiamente dopo un pomeriggio di duro lavoro. Mi sono steso sul suo corpo piuttosto che sul divano e con un bacio gli ho annunciato che era tutto sistemato e che il viaggio della mia gente alla volta della terra promessa sarebbe iniziato da lì a quattro giorni.
Lui ha annuito e ha detto: “Ottimo. Senti, c'è una cosa che devo dirti.”
Questa frase a me non piace a livello generale nella vita – perché se senti il bisogno di avvisarmi che stai per darmi una comunicazione, significa che è una tragedia, altrimenti mi parleresti tranquillamente – quindi figurarsi se non sto male quando a dirmela è il medico con il quale vado a letto da quasi due mesi. Voi capite che è una doppia minaccia: potrebbe darmi pessime notizie su noi due ma, soprattutto, sulla mia salute e questo, naturalmente, mi provoca ansia. E ho bisogno di tutto meno che dell'ansia quando J.J. inizia ad accarezzarmi i riccioli più lunghi che ho alla base del collo e mi dice che deve dirmi una cosa.
“Una cosa di che genere?”, ho chiesto.
Jeremiah mi ha sorriso e mi ha guardato come se fossi la cosa più bella del mondo. “Sono felice che tu e i tuoi ragazzi abbiate un'altra possibilità di contratto.”
“Grazie,” ho risposto.
“E' una bella novità, dopo quest'ultimo periodo un po' turbolento.” Ed abbiamo riso entrambi perché turbolento non descrive nemmeno lontanamente quello che è stato questo periodo, che io gli ho raccontato e del quale lui non riusciva a capacitarsi. “Ecco perché ho deciso di dare anch'io una svolta alla mia vita. Ricordi quel programma di volontariato di cui ti parlavo qualche giorno fa?”
“Certo, quello a sostegno dei bambini autistici. Mi sembra una bella cosa.”
Lui è scivolato via dalla mia stretta per raggiungere il suo zaino appeso vicino alla porta. “Ecco, ho pensato che fosse troppo facile dire di fare volontariato facendo otto-dodici ore di lavoro e poi uscire, fare venti metri ed infilarmi in un altro palazzo qui in città. Ci vuole qualcosa di più, più impegno,” ha detto con un entusiasmo onestamente preoccupante. “E indovina un po' che cosa mi è capitato per le mani proprio mentre ne discutevo con dei colleghi all'ora di pranzo?”
“Cosa?” Ho chiesto, sempre più inquieto.
“Questo,” ha risposto lui, piazzandomi in mano un volantino di due pagine con sopra bellissimi bambini dagli occhi grandi che reggevano immancabili ciotole di riso. “E' la pubblicità di un'associazione di volontari che ha sede a Muhanga, in Ruanda. Non è meraviglioso?”
Inizialmente ho faticato a capire che cosa stesse cercando di dirmi ma, anche quando mi trovo in queste situazioni di dubbio, c'è sempre una parte di me più sveglia di tutto il resto che, come una specie di senso del ragno, pizzica e mi avvisa. “Meraviglioso sì,” ho detto. “E quanto starai via?”
“Un anno, per cominciare,” ha risposto lui, con un sorriso che la diceva lunga sul fatto che stesse affrontando l'intera faccenda in maniera molto diversa da come la stavo affrontando io. “Poi si vedrà, se le cose girano, anche di più. Oddio, David, sono così emozionato che non puoi immaginarti!”
No, in effetti non immaginavo e non immagino nemmeno ora che ve lo sto dicendo. Non che io non veda cosa ci sia di positivo nell'aiutare le persone che ne hanno bisogno, naturalmente, me per fare le valigie da un giorno ad un altro e sparire nel cuore dell'Africa uno si aspetta che ti sia successo qualcosa di tremendo o che qualcuno ti abbia spezzato il cuore o che so io; ma Jeremiah ha un bel cuore intero, sotto due gloriosi pettorali che a guardarli ti viene da piangere per la commozione, quindi perché andarsene? Perché non rimanere lì con me a farsi adorare come un Dio. Proprio non capivo.
“Ma, un anno?” Ho detto incerto, anche se in realtà avrei voluto dire: e come ci vedremo noi? Come hai intenzione di continuare questa relazione? Ma abbiamo una relazione? Perché per me vedersi ogni sera, almeno 5 sere alla settimana e scopare tutte le volte è una relazione. Poi possiamo discutere sul tipo, ma è una relazione. Sei perfino venuto a cena a casa dei Reali in qualità di mio accompagnatore, quindi abbiamo una relazione e se tu non la pensavi così avresti dovuto dirmi di no fin da subito, mi sento preso in giro. Ma non ho detto niente di tutto ciò e lui ha avuto modo di tirare fuori una cartina, indicarmi il paesino di Muhanga e quindi spiegarmi con l'entusiasmo di un ragazzino tutto ciò che laggiù non c'era e che lui avrebbe portato sulle sue possenti spalle, giusto un attimo prima di curare l'ebola con la sola imposizione delle mani.
“Parto dopodomani,” ha concluso alla fine, iniziando a mettersi il camice per andare a lavoro. “Quindi potremmo salutarci prima che tu vada alla conquista dell'America.”
“Sì, ma non dovremmo parlarne?” Ho chiesto, accompagnandolo alla porta.
“Certo, naturalmente ci organizzeremo,” mi ha sorriso e mi ha preso il viso fra le mani, dandomi un bacio in fronte che è una cosa capace di uccidere l'erotismo anche più del calzino bianco. “Non è perfetto, David? Così nessuno dei due sentirà la mancanza dell'altro mentre saremo via, perché saremo entrambi impegnati a seguire le nostre passioni!”
“Peccato che io sto via solo due settimane e poi torno.”
Ma questo l'ho detto solo quando ormai lui era già uscito.

*


Siamo ad a Heathrow in attesa del cambio per Los Angeles. Mentre ripenso a tutto ciò che mi è successo negli ultimi pochi giorni, mi convinco una volta di più che questo non sia altro che il prezzo da pagare per vedere realizzato il mio desiderio. Ho perso un uomo praticamente perfetto, ma ho ritrovato il lavoro. Immagino che potrei considerarmi soddisfatto del cambio e lo sarei, giuro, se non avessi intorno un branco di uomini rumorosi che stanno vivendo il ritardo di un aereo come la fine del mondo.
“Aspettiamo da due ore, Jost,” mi dice Bushido, sedendosi accanto a me nella sala d'aspetto. “Si può sapere quando vuole partire questo aereo?”
“Bushido, e secondo te io che ne so? In caso ti fosse sfuggito, non sono un pilota.”
Lui sbuffa. Si scioglie i capelli e se li lega di nuovo, solo per darsi qualcosa da fare. E' un'abitudine che ha preso da quando se li è fatti crescere; se li tocca di continuo, e non so se la cosa derivi dal fatto che sa di essere ipnotizzante quando lo fa, o se proprio gli viene naturale, dopo averli spostati dal viso, passarci anche le dita in mezzo. Mi fermo ad osservare il polso magrissimo intorno al quale è legato l'elastico e seguo le sue lunghe dita affusolate che lo agganciano e lo tirano, mentre con la sinistra regge i capelli raccolti alla base del collo. So di perdermici perché è uno di quei momenti in cui fisso qualcosa ma sono ancora consapevole di ciò che mi circonda, seppur distrattamente; è solo che non riesco a distogliere lo sguardo dal riflesso della luce che rende i suoi capelli lucidissimi.
E' la sua risata che mi riporta nel mondo dei vivi. “Jost, sei così palese che se fossi uno che si imbarazza, forse sarei anche arrossito,” mi dice con la sua solita sfacciataggine. “Poi lo dici tu a Bill che io non ho fatto niente.”
“Tu fai sempre qualcosa, Bushido,” commento io, alzandomi e sgranchiendomi le gambe.
“Siete sempre tutti quanti pronti a dare la colpa a me,” ride lui, anche se quando si toccano certi argomenti non so mai se è sereno o se invece un po' ci sta male davvero. “Questa famiglia mi odia.”
Io lo guardo con un sopracciglio sollevato. “Nessuno ti odia,” sospiro alla fine, alzando gli occhi al cielo e chiedendomi se nel distributore automatico in fondo alla stanza avranno del tè deteinato. “Siamo tutti troppo asserviti alla tua persona per poterlo fare.”
“Lo so,” commenta lui alla fine con un mezzo ghigno.
Vorrei picchiarlo e anche saltargli addosso. Questi due sentimenti contrastanti mi dicono che è proprio il momento di allontanarsi a cercare quel tè, ma scommetto che lui mi fiuta addosso l'attimo di libido incontrollata, perché mi segue e ha già le monetine pronte da passarmi quando arriviamo alla macchinetta.
“Dov'è Bill?” Cambio argomento per recuperare il controllo di questa conversazione. Ho imparato che non è mai saggio permettere a Bushido di condurre un discorso, ti porta sempre dove vuole lui.
“Con Fler,” risponde lui, osservando il mio riflesso attraverso il vetro del distributore automatico. Il mio tè al gelsomino oscura per un attimo entrambi i nostri volti prima di cadere dal suo supporto. “Sono andati in bagno.”
“Come due migliori amiche?”
Vedo il suo sorriso appena accennato, nell'ombra del vetro. “E' meglio che non vada in giro da solo,” precisa, senza cogliere la mia battuta più del dovuto. “Non sono ancora tranquillo.”
“Siamo a Londra, un po' fuori dal tuo territorio.”
Lui fa un sospiro enorme mentre infila le mani in tasca e insieme ci spostiamo verso le enormi vetrate che danno sulle piste. “Non è per quello che sono preoccupato,” dice alla fine. “Voglio solo averlo sempre sotto gli occhi.”
“Hai paura che scappi di nuovo?”
Ha lo sguardo fisso su un aereo poco distante e lo osserva staccarsi dal suolo con una concentrazione tale che quasi mi chiedo se mi abbia sentito. “Ho paura che nessuno sia lì se per caso sente di nuovo il bisogno di farlo,” precisa. “Per questo voglio che gli stiamo intorno il più possibile.”
Annuisco. “Ha sentito molto la mancanza del gruppo quando vi siete divisi, anche se...”
“Dovevamo lasciarlo in pace, lo so,” m'interrompe ma, quando mi giro, le sue labbra si aprono in un sorriso e capisco che non è affatto irritato. “Non sto facendo un grande lavoro in questo senso, eh?”
“Stai essendo te stesso,” mi stringo nelle spalle. “E' più di quanto si potesse dire di te o di lui solo sei mesi fa. Vi state riprendendo, andrà tutto a posto.”
Lui arriccia le labbra, come valutando quello che ho appena detto. “Sai, vorrei avere la tua stessa sicurezza,” dice alla fine e deve percepire la mia sorpresa nel sentirgli dire quelle parole perché si volta e ride. “Cos'è? Non posso avere dei dubbi?”
“Pensavo che i re non ne avessero,” lo prendo in giro, bevendo un sorso del mio tè, che penso sia soltanto acqua colorata con l'inchiostro visto quanto fa schifo.
Lui sorride, ma la sua espressione è un po' nostalgica. “Ne abbiamo eccome, ma non ci è permesso usarli come giustificazione,” risponde sospirando. “Se prendiamo una decisione dev'essere sempre quella giusta, non possiamo mai sbagliare.”
Un altro degli aerei in pista decolla e lascio svanire il rombo del motore prima di rispondergli. “Nessuno ti dà la colpa di quello che è successo.”
Lui stavolta ride e quando si volta a guardarmi lo fa divertito, quasi mi aspetto che mi scompigli i capelli. “Sei sempre il solito Jost. Sempre pronto a rassicurare le persone che ti stanno intorno.”
Io sollevo un sopracciglio. “In genere fa piacere,” commento.
“Ma io non cerco il perdono di nessuno,” precisa. “La colpa di tutto questo casino è indiscutibilmente mia e non vorrei altrimenti. Ricordati che quando non hai nessuna colpa e nessun merito è perché non hai deciso niente, e io non sono il tipo da lasciare qualcosa al caso.”
“Dimenticavo che il filo rosso del destino dev'essere sempre nelle tue mani,” dico, cercando un cestino dove buttare la lattina di questo surrogato chimico che mi farà sicuramente venire l'acidità nel giro di mezz'ora.
Lui rimane in silenzio e lo fa tanto a lungo che alla fine sospiro. “Bushido, che problema abbiamo esattamente?”
“Abbiamo?”
“No, il problema è tuo ma un tuo problema generalmente diventa anche un mio problema prima o poi. Ponendomi nella giusta mentalità fin da subito velocizzo il processo di accettazione,” spiego.
Lui mi guarda come se gli avessi spiegato le basi della dottrina taoista in cinese. “E questa da dove salta fuori? L'hai trovata in una di quelle assurde guide alla purificazione dell'anima che tieni infognate in biblioteca dietro l'enciclopedia?”
“Cosa ne sai tu delle mie guide...” chiudo gli occhi ed espiro profondamente, come in effetti sta scritto ne L'ABC del Risveglio, che non ho idea di come sia finito nelle sue mani. “Comunque no! E' un suggerimento del mio terapista e tu saresti molto gentile se rispondessi alla mia domanda invece di evitarla.”
“Nessun problema,” risponde lui, stringendosi nelle spalle. “Forse sono solo gli aeroporti a rendermi nervoso. Non mi piace aspettare.”
“Prima o poi partiremo,” sospiro. “Oppure ci indicheranno un albergo in cui passare la notte. All'improvviso la possibilità di non vedere le vostre brutte facce per otto ore mi sembra perfino l'opzione più desiderabile.”
Bushido indica la pista con un cenno del mento. “Anche l'ultima volta l'aereo ha fatto ritardo.”
Io faccio appena in tempo a rendermi conto che stiamo parlando della sua morte che lui torna a guardarmi e si stringe nelle spalle. “Una parte di me sperava di non tornarci per molto, molto tempo,” ammette. “Forse non è l'aeroporto a rendermi nervoso, è l'America.”
Vorrei rispondergli, ma non faccio in tempo perché la voce di Bill che parla a ruota libera di ritorno dal bagno si intromette fra noi anche a distanza e Bushido ne approfitta per allontanarsi dalla vetrata e da quella mezza confessione che forse gli è uscita di bocca senza volere. A volte le parole sfuggono anche a lui.
“Sembra che comincino ad imbarcare,” ci informa Fler, indicando vagamente alle sue spalle. “Il numero del gate sui monitor ha iniziato a lampeggiare.”
Io annuisco vagamente e dico loro di recuperare tutte le borse che sono riusciti a spargere in giro mentre le parole di Bushido continuano a girarmi in testa. Quell'uomo ha la straordinaria abilità di mandare in pezzi tutta la calma interiore che faticosamente riesco a costruirmi. Sono certo che se gli dicessi che mi preoccupo per lui, mi riderebbe in faccia; solo che io non riesco a farne a meno perché – come dice mia madre – ho bisogno di ordine intorno come ho bisogno di aria e non sto bene, non respiro, finché non ho sistemato ogni faccenda e raddrizzato fino all'ultimo quadro. Mi dico che ci penserò una volta che arriveremo a Los Angeles, dove per altro avrò modo di capire la portata del problema che mi si presenta.
Mentre passo sotto il metal detector giuro che se qualcun'altro di loro impazzisce, stavolta compro un'arma e comincio a sparare.

*


Los Angeles dal balcone della mia stanza è una città da cartolina e l'alba che colora i palazzi di luce arancione è così bella che non voglio staccarmene neanche per andare a prendere la macchina fotografica.
Il Kyoto Grand Hotel non è un cinque stelle, ma non ho saputo resistere al fatto che si trovi a Little Tokyo. Mi sembrava che potesse portarci fortuna ed era un buon modo di prenderci in giro. E poi in questo posto c'è un giardino giapponese che da solo giustifica la mia presenza qui, e una palestra nella quale li parcheggio tutti quando averli intorno si fa soffocante e nemmeno tra di loro si sopportano più.
Siamo qui da tre giorni e li abbiamo passati tutti inseguendo l'estro di Bill, che dividendo i vari compiti tra gli svariati uomini che lo circondano pronti ad assecondarlo, è riuscito a spuntare quasi tutta la sua lista ed è stato così felice di qualsiasi cosa che nessuno ha trovato motivo di protestare.
Abbiamo provato un paio di canzoni, tutti riuniti qui in camera mia. Una volta Bushido si è seduto sulla poltrona a gambe larghe con l'aria di uno che vuole dare un giudizio sulla situazione; invece guardava soltanto Bill con un affetto negli occhi e un orgoglio che ha fatto commuovere anche me. E' rimasto lì con la sua birra e non ha detto una parola finché Bill non ha smesso di cantare, così pieno di vita e così convinto che non era nemmeno imbarazzato di farlo di fronte all'unico uomo al mondo dopo suo fratello che possa davvero metterlo in difficoltà.
Bushido conviene con me che Bill sembra rinato e non lo vedevamo così bene da non ricordo più nemmeno quanto. Ancora qualche giorno e tornerà abbastanza se stesso da parlare troppo, imbottirsi di caramelle e quindi parlare ancora di più; per questo temiamo quel giorno e stiamo cercando di mantenere i suoi livelli di normalità un po' più bassi di quanto sarebbero in realtà.
Ad ogni modo, anche se mi rendo conto che è in forma e che anche gli altri lo sono nella scia del suo entusiasmo, non sono riuscito a dormire sapendo che il loro provino è fra sei ore.
Ieri sera li ho spediti tutti quanti a letto alle nove, con Bushido che brontolava di diritti coniugali negati e Chakuza che sosteneva di non entrarci niente e che poteva pure fare l'alba se voleva. Ho dovuto far giurare a Bushido che per quella notte, se proprio doveva, l'avrebbe fatta in solitaria perché non volevo che Bill si stancasse, mentre Fler si portava via il suo uomo che mi minacciava di ritorsioni fisiche e legali, nessuna delle quali mi ha messo granché paura. Dopodiché mi sono ritirato in camera mia e ho fatto yoga finché il sedere non mi è diventato quadrato.
Mi sembra di essere tornato agli inizi, quando si addormentavano nella stanza accanto alla mia, quattro marmocchi di quindici anni ammonticchiati gli uni sugli altri dopo quintali di pizza, e il mattino dopo dovevo svegliarli, spedirli in doccia e preparargli la colazione prima di portarli alla Universal e sperare che li prendessero sul serio.
L'unica cosa che mi risparmierò stamattina sarà bussare ad ogni porta, perché l'ultima cosa che voglio è vedermi aprire da Bushido, che lo farebbe nudo senza dubbio.
Alla fine decido che guardare l'alba che sorge dal mare – ovunque esso sia, da qualche parte in quella direzione, mi ha detto il portiere – è molto romantico ma è anche un tantino da sfigati, soprattutto quando sei solo come un cane, con il tuo pigiama peggiore perché ti sei scordato di fare la lavatrice prima di partire e sei seduto su un tappetino nella posizione del loto da quasi due ore; da quando, cioè, nemmeno il sole si era ancora svegliato.
Me la prendo comoda e faccio la doccia molto lentamente, lascio che l'acqua si porti via la tensione della notte e mi prepari alla mattina che mi aspetta, nonostante io la debba affrontare senza aver chiuso occhio. In bagno sto con l'orecchio teso nel caso squillasse il cellulare. Ci sono sedici ore di differenza tra la costa orientale degli Stati Uniti e l'Uganda, quindi alla missione di J.J adesso sono quasi le nove di sera e potrebbe ancora chiamarmi. Non lo ha mai fatto in una settimana, ma non si sa mai.
Mi piacerebbe molto, ma non me lo aspetto davvero, perché i nostri saluti all'aeroporto non sapevano nemmeno di pausa di riflessione; lui ha semplicemente scelto tra me e la missione e io non mi sono opposto abbastanza, non ho neanche provato a chiedergli che cosa ne sarebbe stato di noi visto che per lui la questione sembrava abbastanza chiara. Ad ogni modo, non è doloroso; è stata una rottura anestetizzata dall'entusiasmo di nuovi progetti e nemmeno l'ho ben capito ancora che non stiamo più insieme, difatti aspetto che chiami, quando è chiaro che fra tutte le cose che potrebbe mai fare nella vita è molto più probabile che diventi prete-medico in Africa o una roba altrettanto eroica.
Un tempo avrei saputo lasciare da parte le mie questioni personali per concentrarmi sul mio lavoro, ma immagino che questi due mondi si siano un po' confusi nel momento in cui mi hanno aperto lo stomaco da un rene all'altro e quelle che dovrebbero essere solo persone con le quali lavoro hanno iniziato ad occuparsi di me – e io di loro – come se fossimo una famiglia.
Lavoro e affetti si mescolano irrimediabilmente quando passi due anni della tua esistenza a stare dietro al tuo cantante come fosse figlio tuo per evitare che si ammazzi dopo che il suo uomo si è finto morto, e al suddetto uomo per evitare che muoia davvero. Quando non c'è più una linea netta tra quello che fai per i soldi – per la gloria, per campare, quello che vi pare – e quello che fai per affetto, poi diventa molto più difficile staccare la spina quando finisci di lavorare.
Non ho più quel distacco che mi permetteva di tagliare fuori le emozioni e lavorare venti ore filate senza preoccuparmi di nient'altro. Adesso, che io lavori o meno, c'è sempre in ballo la stessa carica emotiva e certe volte è sfiancante. “Oppure è molto più semplice e stai solo invecchiando,” mi dico, asciugandomi il viso e fissando impietoso il mio riflesso nello specchio. Quelle occhiaie non le tiro via nemmeno con la carta smerigliata, ormai.
Nella sala che ho fatto riservare per noi, visto il numero consistente che siamo, li trovo tutti quanti, compreso Eko che però si guarda intorno e continua a chiedersi per quale motivo sia sveglio. Eko mi dà da pensare perché spesso, non solo sembra inconsapevole del luogo in cui si trova o di quello che sta facendo, ma anche della sua stessa persona, come se in quel corpo ci fosse finito per caso e stesse cercando ancora di capirne i meccanismi, un processo che in un essere umano normale trova la sua naturale conclusione entro i primi dodici mesi di vita. Bushido ha già dato ordini per la colazione del branco, con la partecipazione straordinaria di Chakuza che, nonostante sia ancora accusato di alto tradimento e debba mantenersi ad una distanza di due metri da Bill, è sempre considerato il maggior esperto di cibo del gruppo ed ha quindi consigliato a sua maestà di far portare una colazione continentale con l'aggiunta di baguette e un qualche burro di provenienza ignota che solo lui conosce e che Bushido ha preteso per il solo fatto che era introvabile.
“Hai visto, Jost?” Mi accoglie con un sorriso che metterebbe incinta delle donne se ce ne fossero. “Non l'ho toccato con un dito. Ieri sera gli ho fatto bere del latte caldo, gli ho letto una favola della buonanotte e l'ho spedito subito a letto.”
Accarezza dolcemente il collo di Bill che gli lancia un'occhiata di traverso. “Quella non era una favola, Anis, era un articolo di Playboy,” sibila, per poi scuotere la testa e tornare ad asfissiare suo fratello con chissà quali problemi.
Bushido mi guarda e ride. “Tranquillo Jost, ho saltato le parti più pornografiche.”
Io mi limito a scuotere la testa mentre prendo coscienza del fatto che è questo che mi aspetta nei prossimi anni se davvero voglio continuare ad occuparmi di tutte queste persone, e non so sinceramente se sono in grado di farcela.
“Allora, per quando è fissata questa audizione?” Chiede Fler, sollevando gli occhi su di me solo un istante.
“Per le undici,” dico.
“Siete in anticipo di quasi tre ore,” mi fa notare lui. Poi una qualche forza mistica, che credo sia quella dell'abitudine, lo porta ad osservare Bill che è vestito di tutto punto, ma indossa dei semplici pantaloni di jeans e una maglietta troppo poco appariscente per essere davvero pronto ad uscire da questo albergo. “Oh, capisco. E' il tempo che servirà alla ristrutturazione.”
“Ti ho sentito,” commenta Bill, senza nemmeno voltarsi. Fa soltanto una pausa nel mare di chiacchiere che sta rifilando a suo fratello. Mi si stringe il cuore di felicità, perché era quasi un anno che la sua straordinaria abilità di intrattenere conversazioni multiple, tutte egualmente logorroiche, era sopita da qualche parte dentro di lui. Piano piano sta tornando, sento una vibrazione nella forza.
Fler incassa la testa nelle spalle come un bambino che è stato sgridato dalla mamma e, in silenzio, mi fa segno di aver compreso la situazione in cui mi tocca lavorare.
“Noi rimaniamo qui,” annuncia Bushido, improvvisamente composto e mi fa ridere che senta il bisogno di dirmelo, come se ci fosse stata la possibilità anche remota che me li portassi dietro tutti. Va bene che sono venuti fino in America come supporto morale, ma sarebbe alquanto poco professionale presentarsi agli uffici della casa discografica in dodici senza alcun motivo.
Ma visto che Bushido mi si è seduto accanto e mi parla con la faccia dell'adulto che ne prende da parte un altro per discutere di faccende serie mentre i bambini giocano, io decido che posso anche assecondarlo. Non mi costa niente e forse sciolgo anche un po' di tensione. “Apprezzo la collaborazione,” dico annuendo e fermandolo prima che continui a zuccherarmi il caffé. Tragedia, non era nemmeno dolcificante.
“Visto che gli spostamenti sono complicati, pensavo che possiamo raggiungervi più tardi, magari prendendo una macchina a noleggio.”
“Naturalmente,” cerco di restare serio io. “D'altronde non vogliamo certo atterrare sul tetto della Maverick con un elicottero.”
Lui aggrotta le sopracciglia e gli si forma una riga orizzontale marcatissima sulla fronte. “Mi stai prendendo per il culo, Jost?”
“E mi sto anche divertendo parecchio,” commento, sorseggiando il mio caffé con una certa soddisfazione.
Dall'altra parte del tavolo, incontro lo sguardo di Tom e vedo che sorride anche lui. Mi rendo conto all'improvviso che non gli ho più nemmeno chiesto che cosa fosse successo tra lui e Cassandra quella sera che mi ha telefonato a pezzi. L'avranno risolta, immagino, se ora è qui e, nonostante quello che ci aspetta, sembra tranquillo; eppure qualcosa mi dice che dovrei indagare e preoccuparmi perché so per esperienza che Tom non ha mai problemi, quindi se ti chiama per dirtelo e lo fa con una bella dose di ansia nella voce, allora forse è il caso di scoprire di che si tratta. Poi magari non è nulla, ma prevenire è meglio che curare.
Dovrò prenderlo da parte e discutere con lui, ma non adesso.
C'è un'audizione che ci aspetta.

*


Se faccio un rapido calcolo, saranno almeno sei anni che non li accompagno ad un'audizione e per questo sono nervoso come se dovessi farla io, che ho fatto l'ultima almeno quindici anni fa.
Comunque, prima di andare, non dimentico di mettere su la mia faccia migliore, quella che porta ancora gli ultimi rimasugli del mio distacco professionale e di rassicurarli che andrà tutto bene, anche se non ne ho la certezza e quest'etichetta è famosa per lanciare inviti un po' alla cieca e poi tirare su artisti con le reti per la pesca a strascico.
Uno dopo l'altro scendono dall'auto che ci ha portati qui e io mi ripeto per l'ennesima volta che non siamo cinque imbecilli qualunque. Certo non abbiamo cambiato il mondo della musica, ma abbiamo fatto il nostro bel baccano e questo dovrebbe essere sufficente in termini di mercato per darci anche solo una possibilità.
Con la speranza di tornare in pista, i ragazzi hanno fatto miracoli in studio. Se quella speranza si concretizzasse, niente potrebbe più fermarli. Io lo so e spero che se ne renda conto anche chi di dovere.
Gli uffici della Maverick sono imponenti ed esagerati come quasi tutto qui negli Stati Uniti e io devo ammettere di sentirmi un po' in soggezione a varcare una porta a vetri che in un qualche momento della storia ha visto il passaggio di Madonna.
E l'emozione di trovarmi di fronte al tempio di una donna che ho amato per gran parte della mia adolescenza e che, senza vergogna, amo ancora incondizionatamente, nonostante i suoi cambiamenti di religione frutto dei primi sintomi di demenza senile, non si placa nemmeno quando entriamo e veniamo investiti dall'ondata gelida dei condizionatori che tengono a bada i trentasei gradi esterni. Non posso fare a meno di pensare che anche tutto ciò che mi trovo davanti ha visto passare Madonna più e più volte. Si sarà sicuramente accostata al bancone della reception per chiedere di qualche appuntamento e si sarà seduta su una di quelle poltrone in pelle color crema, magari a prendere un caffè. La sola idea che potrebbe trovarsi in questo edificio, da qualche parte, mi farà trasformare ben presto nell'oca giuliva che in realtà sono se ci penso abbastanza a lungo.
“David?” Bill mi si avvicina togliendosi gli occhiali da sole e guardandomi con la pietà che probabilmente mi merito. Fa un cenno in direzione della ragazza dietro il bancone e si morde un labbro. “Non dovremmo annunciarci o fare qualcosa?”
“Sì, aspettatemi qui,” annuisco e mi dirigo verso la reception. Loro si riuniscono tutti in un angolo e fa quasi tenerezza vederli così poco a loro agio in un ambiente che dovrebbero conoscere ormai più che bene. Tom è tornato inconsciamente ad assumere gli stessi atteggiamenti di quando era un ragazzino, e si sistema il cappellino più volte del consentito, stropicciandosi l'orlo della maglia e fingendosi tranquillo mentre si siede a gambe larghe anche se il ginocchio gli trema furiosamente. In tutto questo, non perde mai d'occhio suo fratello che per non mangiarsi le unghie, sta mordicchiando l'asticella degli occhiali. Ringrazio che Gustav e Goerg siano costanti come lo sono sempre stati e mentre uno si è chiuso nel suo mutismo ascetico e tamburella con le mani sulle ginocchia, Georg cerca di tirare su il morale a tutti quanti facendo il cretino.
“Buongiorno, posso fare qualcosa per lei?” Mi dice la signorina, con un sorriso di plastica e un accento poco masticato che mi agevola e non poco la comprensione.
Il mio inglese è alquanto arrugginito, ma riesco a farmi capire e lei mi dice che siamo attesi al secondo piano, di aspettare in sala d'attesa e che la responsabile verrà a chiamarci tra poco.
“Facciamo anticamera!” Esclama Georg con un entusiasmo francamente incomprensibile mentre entriamo nell'ascensore nero e lucido, molto elegante.
Bill si volta verso di lui e gli posa addosso uno sguardo così infastidito che mi aspetto di vederlo frantumarsi in mille pezzi sotto il suo giudizio negativo.
“Beh, è eccitante,” si giustifica Georg, sbuffando per poi tornare subito allegro quando si accorge che le pareti sono trasparenti e si vede scorrere il muro dietro la pulsantiera. “Insomma, sempre meglio che sei mesi di televisione, seduti sul divano a mangiare schifezze.”
“Veramente io mi sono allenato,” precisa Gustav.
“E io ho scopato,” gli fa eco Tom.
Bill incrocia le braccia al petto e lo guarda con ancora più sufficenza. “Georg, io sono stato in terapia e tu rimani comunque più sfigato di me.”
Se potesse, il mio bassista abbasserebbe anche le orecchie. “Certo che siete senza pietà,” borbotta.
“Abbiamo ricominciato sul serio da meno di qualche settimana e già non vi sopporto più,” commento ridendo mentre arriviamo al piano. “Forza, uscite prima che ci ripensi.”
Mi passano davanti uno dopo l'altro e sento Tom ribadire “Sfigato!” a Georg per poi prendersi in pieno uno scappellotto che la sua goffaggine naturale non gli ha impedito di evitare.
“Quanti anni avete detto di avere?” Commento sarcastico, appena prima che una signora molto distinta in tailleur gessato si faccia avanti con la faccia di una che ha appena consumato un limone. Non so bene da quale delle due estremità.
“Il signor David Jost?” Chiede con una serietà tale che i nostri sorrisi muoiono e ci avviciniamo a lei con compostezza, sentendoci tutti incredibilmente stupidi e ad un funerale.
“In persona. Questi sono i ragazzi. Abbiamo un appuntamento con...”
“Sì, mi segua. Il signor Dashev non ha molto tempo.”
Cominciamo bene. Si esibiranno di fronte ad un uomo che dichiara di non avere tempo per un appuntamento che lui stesso mi ha dato più di due settimane fa, quando siamo anche in anticipo di venti minuti. Saremo fortunati se non sarà al telefono mentre cantano. Ciononostante sorrido ai ragazzi e ignoro l'occhiata che si lanciano fra loro.
Questa donna acida con un paio di occhiali Dolce&Gabbana dell'anno scorso ci fa strada lungo il corridoio e noi la seguiamo in silenzio per il semplice fatto che dà l'impressione di potersi girare e mostrare un paio di fauci da doberman se solo facciamo un po' di rumore.
Si ferma di fronte ad una porta e la apre per noi, fermandosi di lato per farci passare. All'interno l'arredamento sembra il risultato di una bomba al plasma da Sotheby’s.
L'unica cosa che accomuna i mobili è che costano ognuno un occhio della testa, perché sono pezzi antichi e probabilmente unici, ma sono di stili e materiali diversi e totalmente incompatibili tra di loro. Entro cercando di non fissare inorridito i dispositivi di ultima generazione accostati alla mobilia del settecento e mi consolo dicendo fra me e me che di certo la signora Ciccone non ha niente a che vedere con tutto questo. Poi mi ricordo che anche lei è americana e che c'è stato un tempo – che noi tutti fingiamo non esista, certo, ma che non possiamo dimenticare – in cui le sue sopracciglia, che il cielo mi perdoni, erano un'offesa al buon gusto e facevano piangere le estetiste di tutto il mondo, per cui anche un arredamento atroce come quello che trovo in questa stanza è perfettamente giustificabile.
“Salve,” dico, sforzandomi di spostare lo sguardo da ciò che mi circonda per concentrarmi sulla plancia di missaggio che prende gran parte dello spazio disponibile, mentre i miei quattro pargoli si sistemano alle mie spalle cercando di non apparire nervosi.
L'uomo dietro di essa, che presumo sia il signor Dashev, non ha neanche il tempo di salutarci e, dopo averci fatto aspettare cinque minuti in silenzio, ci fa cenno di procedere senza sollevare lo sguardo dalle manopole che sta girando apparentemente a caso.
Io sospiro e invito i ragazzi ad entrare nella cabina di registrazione alle nostre spalle. Rimango aldilà del vetro per poter sentire qualunque commento possa mai uscire dalle labbra di quest'uomo, se mai si deciderà a degnarci di un briciolo della sua attenzione, e sorrido incorraggiante mentre imbracciano gli strumenti e Bill si regola da solo il microfono. Lo vedo respirare profondamente una, due, tre volte e girare nervosamente il braccialetto di Bushido che porta al braccio, in attesa di un segno da parte di Dashev.
“I ragazzi sono pronti,” annuncio, nel caso l'immobilità della stanza e i colpi di tosse casuali non fossero un segno abbastanza chiaro. “Quando vuole possiamo cominciare.”
Dashev alla fine alza la testa, ci guarda come se ci vedesse per la prima volta e scruta Bill e gli altri a lungo, prima di appoggiarsi allo schienale della poltrona sulla quale si molleggia un po'. “Questi sarebbero i ragazzini tedeschi?” Chiede alla strega che ci ha accompagnati e che ora sta in piedi di fianco a lui, con le mani giunte e lo sguardo disgustato dietro le lenti.
“Sì, signore.”
Dashev annuisce, valutando non so cosa.
“Sentiamoli,” dice finalmente, accennando col mento mentre si mette le cuffie.
Infilo le mani in tasca e incrocio le dita.

*


In ogni ambiente esistono frasi in codice che gli addetti ai lavori possono usare tra di loro per non farsi capire da tutti gli altri. Potrei fare mille esempi, ma in questo momento me ne interessa soltanto uno e scommetto che, se ci pensate un attimo, forse lo indovinate anche.
Le faremo sapere. Sono solo tre parole ma sono in grado di rovinarti la vita per settimane, ossia per tutto il tempo necessario ad inghiottire il rospo che ti hanno fatto mangiare e ricominciare da capo.
Immaginate di prepararvi per mesi – senza contare che magari studiate da anni – per l'audizione della vostra vita. Ci mettete sangue, sudore e lacrime, passate le notti in bianco per imparare tutte le battute, o per imparare a non stonare sulle note alte. Vi fate venire la febbre dallo sforzo a furia di allenarvi su quel salto mortale all'indietro sui pattini che proprio non vi viene come volevate.
Vi svegliate la mattina dell'audizione nervosi ma carichi e vi presentate in un posto che non avete mai visto, con gente che non avete mai visto e che nel novanta percento dei casi già parte con l'idea che non valete abbastanza per essere lì e state facendo perdere del tempo a qualcuno più importante e migliore di voi.
Vi danno cinque minuti per provare di meritarvi la loro attenzione.
Cercate di immaginare quanta pressione si possa provare in una situazione simile e moltiplicatela per cinque anni di successo che per la vostra etichetta discografica non contano più niente perché ad un certo punto siete crollati in ginocchio e non vi siete rialzati in tempo. Adesso immaginate che tutto questo e tutta la fatica che avete fatto si concludano con un uomo dal viso immobile che dice “Le faremo sapere” e poi torna a guardarsi le mani aspettando solamente che usciate dalla stanza.
Dashev mi ha fatto la cortesia di dirmelo appena un attimo prima che Bill e gli altri uscissero dalla stanza, così qualche minuto dopo, quando mi hanno chiesto com'era andata, ho potuto inventarmi che sembrava davvero impressionato e che non volevo azzardare, ma forse c'era una possibilità.
In realtà l'unica possibilità che gli ho letto negli occhi è stata quella di andare o meno a pranzo.
Faccio questo lavoro da troppo tempo – e ho lavorato troppo a lungo per gente simile – per non aver capito al volo che era stato un viaggio a vuoto, non certo per i ragazzi che sono stati più bravi di quanto io stesso mi aspettassi, ma per il fatto che nessuno aveva mai voluto davvero credere in loro fin dall'inizio.
Così non sono molto sorpreso quando alla Maverick non si sprecano neanche a telefonarmi ma mi mandano una seconda e-mail in cui mi si dice che la mia band è valida e ha del potenziale – del potenziale! Cazzo, abbiamo cinque album all'attivo e un numero di premi che nemmeno ricordo più! – ma che purtroppo non incontra le esigenze dell'etichetta. Mi chiedo se le esigenze dell'etichetta siano decise da una scimmia che pesca a caso da un secchiello pieno di palline colorate dal momento che la Maverick, nel corso degli anni, ha prodotto cani e porci senza distinzione di genere.
Per calmarmi stavolta non basta lo yoga, così decido che prima di partire per il Nevada, posso sfruttare la palestra dell'albergo che fortunatamente trovo semi-vuota. Nessuno, a quanto sembra, ha voglia di fare pesi alle sei e mezza del mattino.
Non so nemmeno perché sono tanto furioso; se è per il semplice rifiuto, se è perché ci ho creduto troppo o perché sapevo perfettamente che sarebbe andata così e non ho trovato un'altra strada, o magari il coraggio di dire ai ragazzi che non c'era speranza, che forse potevano mettersi a recitare, a ballare o a vendere pesce per strada, ma che se volevano tornare sul mercato musicale, allora forse dovevano aspettare di essere vecchi e sfatti, farsi rifare da capo a piedi e saltare fuori come vecchie glorie, riportando in voga mode sepolte da anni. Ci sono riusciti i Take That e i Duran Duran, non vedo perché tra dieci anni non possono farlo loro. Ma adesso no, perché l'industria musicale non ha memoria – e presto si sarà dimenticata di loro abbastanza da poterli accogliere di nuovo a braccia aperte – ma finché non dimentica è impietosa, quindi tutto ciò che siamo, per lei, adesso, è rappresentato dal crollo di nervi di Bill e del suo oscillare fra Bushido e Chakuza. Di quello che la band è stata, non c'è più niente. Contano sempre di più gli sbagli, e forse è questo che mi fa così arrabbiare da caricare l'asta dei pesi a caso.
Quando mi stendo sulla panca e sollevo l'asta mi rendo conto di aver esagerato e mi spezzerei i polsi se due mani gentili non mi evitassero una brutta morte da soffocamento, rimettendola al suo posto sopra la mia testa. “Ehi, Jost, vacci piano!” Bushido ride e mi guarda dall'alto “Hai una certa età, ormai.”
“Bushido vaffanculo,” mi tiro su e lui ride ancora più forte mentre fa il giro per sedersi sulla panca accanto alla mia. “E poi cosa diavolo ci fai in palestra a quest'ora?”
“Insonnia, e poi Bill si è preso tutto il letto,” si stringe nelle spalle, prima di bere un sorso di una qualche bevanda energetica piena di coloranti. “Tu, invece, com'è che ti stavi suicidando?”
“Non mi stavo suicidando,” commento e poi allungo il braccio per farmi dare la bottiglia.
Lui me la passa ma mi guarda con un sopracciglio inarcato. “Okay, adesso mi fai davvero preoccupare. Tu la odi questa roba. Se non ricordo male, in una delle tue tirate salutiste sul buco nell'ozono e i vantaggi del latte di soia, mi hai detto che doveva finire il mondo prima che tu ingerissi, cito alla lettera, un tale concentrato di elementi chimici atti a rendermi assuefatto al prodotto stesso, in modo tale che io ne senta il bisogno e sia spinto a comprarne ancora.”
“Ne hai di memoria,” commento, restituendogli la bottiglia vuota che lui getta via con una smorfia, facendo canestro nel cestino. “Comunque il mondo è finito, per cui posso pure bucarmi lo stomaco.”
“Dopo che ti hanno appena ricucito?” Fa lui con un mezzo sorriso, un po' malinconico. “Allora, che succede?”
Immagino che a qualcuno dovrò cominciare a dirlo, e in questo momento preferisco che sia una persona che non reagirà troppo male. “Succede che quelli della Maverick mi hanno contattato per dirmi che i Tokio Hotel non incontrano le loro esigenze.”
Bushido impreca sotto voce, in un modo che non mi sarei aspettato da lui. Appoggia le braccia sulle ginocchia e si sporge in avanti, dal suo viso sparisce ogni traccia di euforia. E' serissimo, com'era serio in un tempo che ora mi sembra lontanissimo e che invece è legato a questo momento come nessun altro tempo prima di quello.
“Adesso dovrò dirlo ai ragazzi,” e me ne rendo conto mentre lo dico, perché fino a due minuti fa ero troppo occupato ad essere arrabbiato per poter anche pensare al fatto che sarò io a dover dare la brutta notizia. Mi sembrava che saperla fosse già abbastanza per stare male. “Bill era così pieno di entusiasmo. Non credo che se lo aspetti minimamente.” E magari se gli dicevo fin da subito che non era andata, se lo sarebbe aspettato; ma non mi si può biasimare – non tanto almeno – se ho cercato di sperarci anch'io.
“Vuoi che glielo dica io?” Si offre, e quando lo guardo negli occhi sento l'impulso di dirgli di sì, che ci pensi lui a distruggere definitivamente le speranze del suo fidanzato. Non voglio essere io quello cattivo, per una volta. Poi capisco che non sarebbe giusto e che se c'è qualcuno che deve riportare tutti con i piedi per terra, quello sono io – d'altronde sono sempre stato io – e che è meglio che Bushido sia lì per consolare Bill se e quando crollerà, i suoi abbracci saranno certamente più confortanti dei miei.
“No, ci penso io,” annuisco con un sospiro. “Ora, ti va se facciamo quello per cui siamo venuti qui?”
Lui ritrova il sorriso e poi mi raggiunge dietro la panca, dove mi aiuta a sollevare un peso più adeguato alla mia persona, per quanto imbestialita come lo sono io, ora.
Dopo non c'è più niente da dire e, visto che abbiamo entrambi in testa una Miami di notte calda come una fornace, in cui quello che c'era da dire nessuno dei due voleva sentirlo, non ci sembra vero di poter stare in silenzio senza sentirci in colpa perché davvero a volte di parole ne bastano poche.
Penso di aspettare la cena per parlare ai ragazzi, ma quando ci troviamo per colazione hanno tutti in faccia la stessa domanda, e io non so mentirgli per due volte di fila.
“D'accordo, sedetevi,” dico alla fine e Tom fa in tempo ad incrociare il mio sguardo che tenta fino all'ultimo di sfuggire a tutti loro, così immagino che capisca o comunque sospetti qualcosa. Suo fratello invece non sta nella pelle, quasi saltella, e io mi chiedo quanto ci metterà a spegnersi come sei mesi fa, se succederà subito, proprio davanti ai miei occhi, o se sarà una cosa lenta che forse, questa vota, potrò arginare in qualche modo. “La Maverick ci ha finalmente dato una risposta,” dico, arrancando. Ricordo che in passato mi vantavo di trovare molto più giusto non indorare la pillola. Adesso vorrei avvolgerla in lamine doro e cospargerla tutta di brillantini, prima di dargliela. “E' arrivata questa mattina e...”
“Non era adeguata alle vostre esigenze,” s'intromette una voce.
Mi volto e Bushido è appoggiato alla porta, le braccia incrociate al petto e lo sguardo serio e professionale. Si stacca dallo stipite con un colpo di reni e si avvicina mentre gli occhi dei ragazzi si riempiono di punti interrogativi.
“Non l'avrai mica rifiutata! Ma tu poi che diavolo c'entri?” Esclama Tom alzandosi e, quando il viso di Bushido basta a rispondere alla domanda, impreca lasciandosi andare seduto com un sacco di patate vuoto. “Cazzo, Bushido! Era l'unica possibilità che avevamo.”
Gli occhi di Bill si spostano da me a Bushido, increduli e un po' spaesati. “Anis, perché diavolo lo hai fatto?” Chiede.
“Perché siete genericamente quattro rompicoglioni – tu e tuo fratello più di Jack e Jill là dietro – ma non siete il primo gruppo di sbarbatelli che si presenta davanti a quel baraccone della Maverick a chiedere l'elemosina. Siete i Tokio Hotel, una macchina da soldi multimiliardaria. Con il contratto striminzito che hanno proposto, possono pulircisi il culo. Valete molto più di così, anche solo con il merchandising di quattro anni fa.”
Io e Bill lo fissiamo increduli, per due motivi totalmente diversi, immagino. Lui si starà interrogando sul perché il suo uomo abbia improvvisamente deciso di dimostrare interesse per una parte della sua vita di cui, paradossalmente, non aveva mai riconosciuto l'esistenza se non in modo vago. Bushido, difatti, non ha mai discusso troppo della carriera di Bill, posso supporre per evitare di dover esprimere pareri che sua moglie non avrebbe affatto condiviso. In quanto a me, io mi chiedo che cosa Bushido abbia intenzione di fare, se il suo è solo il tentativo di rendere più tenera la loro discesa verso l'anonimato o se abbia in mente qualcosa – ipotesi che mi terrorizza per svariati motivi.
“Bravo!” Esclama ironicamente Tom, aprendo bocca solo qualche istante prima di Georg che sembra sul punto di arrabbiarsi davvero. “Sono tutte parole bellissime, le tue, ma come al solito non servono ad un cazzo. Le tue prese di posizione, per altro non richieste, sai dove te le puoi mettere?”
Bill appoggia una mano sul braccio di suo fratello per calmarlo, ma lo sguardo che continua a riservare ad Anis non è affatto tranquillo. Tom inspira ed espira rumorosamente, stringendo forte i denti prima di decidere che non vale la pena di continuare il discorso e rivolgersi a me. “David non possiamo richiamarli e dire che c'è stato un malinteso e che non siamo stati noi a rifiutare ma un cugino ritardato che avevamo momentaneamente perso di vista?”
“Non è così semplice,” tento io che, in sostanza non so che dire. Ormai non posso più spiegargli che se non chiamiamo per riconfermare è perché ci hanno dato un due di picche grosso come una casa.
Tra l'altro mi aspetto che Bushido reagisca in quel modo infantile che fa scatenare Tom ancora di più, così fra meno di dieci minuti due di loro faranno a gara di insulti e gli altri cercheranno di convincermi a richiamare una casa discografica che non li vuole.
“Tom, è mai possibile che tu non abbia ancora imparato a sfruttare le ottime occasioni che ti si danno per stare zitto?” Dice invece lui, infilando una mano in tasca e sospirando. “Se ho preso in mano questa situazione l'ho fatto per due motivi: il primo è che se continuate ad andare alla cieca finiremo per farci tutti una vacanza in Lapponia, per bussare alle porte di una qualche casa discografica semi-sconosciuta che produce solo canzoni di Natale. Il secondo è che ho già un piano e se... Tom, fammi parlare o giuro che tu in Germania ci torni con tre voli diversi.” Tom sbuffa a quella minaccia di morte ma, visto che Bill continua a stringergli le dita al polso, incrocia le braccia e si siede. “Dicevo, ho un piano e, se volete, ve lo spiego.”
Bill annuisce. “Anis, io ti avverto, farai bene ad essere convincente.”
“Ahi! La Principessa non è contenta, Anis. Io fossi in te farei quello che ti dice” lo prende in giro Fler, seduto al contrario su una sedia. Ridacchia divertito anche quando Bill allunga un braccio per colpirlo dietro la nuca.
Bushido non perde un briciolo della propria sicurezza. “La soluzione è molto semplice,” annuncia. “Non avete bisogno di nessuna etichetta discografica sconosciuta. Vi produco io.”
Il silenzio che segue è pesante e carico di una tensione strana, non esattamente negativa ma che il mio sesto senso mi avvisa di non lasciare esplodere. “Bushido,” chiedo con cautela e un sorriso un po' tirato, poco credibile e molto isterico. “Che cosa ti salta in testa?”
“Con cosa vorresti produrci?” Sbotta Tom, battendo una mano sul tavolo. “Con la potenza della tua presunzione? La Universal ha scaricato anche te. O te lo sei dimenticato?”
Bushido sorride in maniera pericolosa, ossia con tanta di quella fiducia in se stesso che il generale senso di onnipotenza che prova per ogni sua azione trasuda da tutte le parti e ci investe soffocandoci. Ho la netta sensazione di annaspare controcorrente nell'oceano di arroganza che si è appena formato intorno alla sua persona e che, senza dubbio, sarà fonte di un tale numero di problemi che farei bene ad affogarmi adesso. “E' vero, la mia collaborazione con la Universal si è interrotta,” risponde “ma, a differenza di voi, io ho anche un'etichetta, che si dà il caso sia ancora in piedi, e un mucchio di soldi che sono disposto ad investire nel vostro progetto.”
Bill trattiene il fiato, sento il singulto che gli esce di bocca mentre continua a guardare Bushido con l'aria spaesata e non del tutto convinta; fortunatamente per lui, non ha bisogno di chiedere chiarimenti perché Tom ci pensa già per tutti e due.
“Certo, come se noi potessimo mai essere d'accordo,” sbotta con una risatina amara. “E che cosa vorresti in cambio, per farci un favore simile? Vergini immolate sul tuo altare?”
“Assolutamente niente del genere,” replica Bushido, con un sopracciglio sollevato e la faccia da schiaffi. “E poi non saprei dove metterle, tuo fratello è geloso. Già le amanti mi tocca tenerle nel capanno del giardino.”
Bill si scuote dalla suo stato di stupore per lanciargli un'occhiata di traverso ma divertita. “Certo che sei un cretino,” sibila.
Tom invece non ride e continua a guardarlo così in cagnesco che la risata di Bushido si fa perfino tenera e mi aspetto che da un momento all'altro gli dia un buffetto sulla guancia. “Andiamo Tom, non essere sempre così serio,” gli dice, tendendo la mano. “Sto dicendo davvero, voglio produrvi io.”
Tom adesso guarda in cagnesco anche la mano.
“Noi però non vogliamo cambiare genere,” s'intromette Georg, incerto ma non così diffidente. Dallo sguardo che ha sul viso mi sembra disposto a discutere l'idea e la cosa non mi stupisce. E' sempre esageratamente ottimista, una persona felice. “E vogliamo poter scrivere le canzoni e scegliere quali usare.”
“Non avreste nessuna limitazione da parte mia,” insiste Bushido, socchiudendo gli occhi e agitando la mano di fronte a sé come a dissipare ogni dubbio. “Io di quello che fate voi non me ne intendo, Jost rimarrebbe il vostro manager e il mio punto di riferimento per quanto riguarda la produzione.”
Io mi ero giusto azzardato a portare alle labbra la mia tazzina di caffé, ma mi va di traverso e lui nemmeno si volta a guardarmi per fornirmi una qualche spiegazione mentre rischio di soffocare e vengo salvato dalle tempestive pacche sulla schiena di Bill. Quando finalmente la mia tosse si placa e Tom ha smesso di ringhiare alla mano ancora tesa di Bushido, la voce di Gustav si fa sentire per la prima volta e dimostra una volta di più che il suo silenzio non è abitato da falene e balle di polvere come quello di Tom.
“E con i soldi come la mettiamo?” Chiede, guardando Bushido dritto negli occhi. “Noi non siamo un gruppo di sbarbatelli, lo hai detto tu.”
“Fammi indovinare, tu sei quello intelligente,” dice, mentre le sue labbra si piegano divertite per l'ammirazione. “La mia offerta iniziale è un 60 e 40... per voi, si capisce. Ma sono aperto alle trattative.”
China appena il capo, allargando le braccia in un gesto che riesce ad essere servile senza essere umile. “La decisione spetta soltanto a voi.”
I ragazzi si guardano fra di loro e poi tutti insieme guardano me che non ho la più pallida idea di cosa sia successo negli ultimi dieci minuti. “Anis...” Bill sospira, trattenendo a stento un po' di emozione. “E' una bella proposta, ma credo che dovremmo prima discuterne un po' tra noi. E con David.”
“Certo, naturalmente,” gli sorride e poi lo prende per il collo, lasciandogli un bacio tenero sulla tempia, sotto al quale Bill chiude gli occhi e si rilassa. “Pensateci pure quanto volete.”
Infila le mani in tasca e mi passa accanto per uscire, mentre i ragazzi riprendono a confabulare tra loro e sento il borbottio di Tom accavallarsi per una volta allo squittio di suo fratello. Lo fermo prima che mi sorpassi e capisco subito che era quello che voleva. “Non ti sembrava fosse il caso di parlarne prima a me?” sibilo tra i denti, con un sorriso isterico che si ostina a non abbandonarmi. Forse perché sono isterico.
“E perché?” Fa lui scrollando le spalle.
Io balbetto qualcosa di incomprensibile. “Perché...” comincio, prima di rendermi conto che quello che volevo dire si è perso di fronte alla noncuranza con la quale non si è sentito in dovere di consultare il manager di una band per offrirsi di produrla.
“Ho il denaro sufficiente per produrvi, la faccia di culo per promuovervi e il tuo cantante è il mio ragazzo, cosa che ci porterà più pubblicità di quanta ne vogliamo” dice riassumendo su tre dita. “E poi sono morto e risorto, Jost, sono l'occasione perfetta.”
E io non posso che dargli ragione.

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