Typisch Ich

di lisachan
Fler si attacca alla bottiglia con un’urgenza stranissima, e siccome non gliela vedo addosso da un sacco di mesi, questa necessità spasmodica di bere, un po’ mi preoccupo. Anche se mi rendo conto che forse avrei dovuto preoccuparmi già da prima, quando mi ha chiesto di uscire insieme perché doveva assolutamente parlarmi, ma io no, non mi preoccupo mai al momento giusto. Mi sono sentito dire “Usciamo? Ho bisogno di parlarti” ed ho pensato solo “Ah”. Ed era un “ah” ironico, del tipo “ma allora esisto ancora nel tuo mondo, pure se non ti fai più vedere e quando ti cerco sei evasivo e scostante”. Come se non sapesse che a me ‘ste cose danno fastidio.
A tutti gli effetti, l’ultima volta che ci siamo guardati negli occhi è stato circa due settimane fa, quando l’ho… quando gli ho di nuovo messo le mani addosso dopo una pausa che durava da… da Bill, praticamente. Analisi non ne ho fatte, conclusioni non ne ho tirate. Ho smesso di cercare di trovare un senso razionale al mio rapporto con Fler. Non c’è un senso razionale, siamo partiti col piede sbagliato e con quello continuiamo a camminare.
- Be’? Che mi dici? – provo a chiedere sorridendo, mentre rubo dal suo piatto gli stuzzichini che ci hanno portato con la birra. I miei sono già finiti perché sono così nervoso che li ho buttati giù senza nemmeno accorgermene.
Fler si guarda intorno con aria allarmata e posa la bottiglia. Gli rimane sul labbro inferiore una goccia di birra e la cancella velocemente con la lingua. Ci resto un tantino. Sulla lingua e sulle labbra. Il sapore di Fler lo conosco così bene che mi sembra quasi di sentirmelo addosso mentre lo guardo.
Devo calmarmi un po’.
Mando giù un altro stuzzichino.
- Non sono stato molto chiaro, quando ci siamo visti l’ultima volta. – comincia lui con una lucidità sorprendente. Fler è un tipo schietto ma s’imbarazza per un niente, che è una cosa che posso capire benissimo, visto che per me è uguale. Cioè, io sono meno schietto. Però m’imbarazzo lo stesso. Comunque adesso mi sta guardando negli occhi e non è imbarazzato neanche un po’. È perfettamente lucido e tranquillo, come se questo discorso se lo fosse ripetuto in testa per mesi.
Mi fa un po’ paura, come cosa. I discorsi si preparano solo quando sono importanti.
Annuisco vagamente ed allungo di nuovo la mano verso il suo piattino. Lui la schiaffeggia a mezz’aria.
- La pianti di mangiarti la mia cena? – ride, rilassandosi un po’ contro lo schienale, - Oggi sono da solo, non mi va di tornare a casa e cucinare. Fammi mangiare.
- Be’, potresti venire da me, passiamo dalla signora Lotte e… - mi fermo quando mi rendo conto che io per primo non capisco se lo sto invitando a mangiare o a fare altro. Nella mia testa c’è la stessa incertezza che leggo nei suoi occhi. La cosa è veramente spaventosa.
Fler sospira e mordicchia un crostino pieno di mozzarella filante, ma lo riposa subito. I suoi lineamenti si tendono all’improvviso, perché c’è crollato addosso il silenzio e non è facile riprendere un discorso in una situazione simile. Non è facile anche perché io lo sto guardando come se avessi paura di farlo sparire muovendomi, me ne rendo conto. Ma è tutto troppo strano, troppo serio forse, le nostre interazioni non sono quasi mai così. Spariamo cazzate o ci insultiamo, ma non siamo mai seri.
- Di cos’è che volevi parlarmi? – cerco di aiutarlo, chinandomi un po’ nella sua direzione.
Fler sospira, si morde l’interno di una guancia e manda giù un altro po’ di birra.
- Chaku, io adesso te lo dico, ma tu non dai di matto, okay? – e me lo chiede col tono incerto di chi sa perfettamente che ciò che dirà provocherà esattamente la reazione che sta cercando di scongiurare.
- Fler…? – lo chiamo incerto, aggrottando un po’ le sopracciglia.
- No, sul serio. – si sistema sulla sedia lui, mettendo le mani avanti, - Prima di tutto non è una cosa a lungo termine, e poi potrebbe essere la soluzione migliore, credo, e-
- Fler, tu stai giustificando qualcosa che non so. – gli faccio notare, vagamente allarmato, - Ti rendi comprensibile?
Sospira ancora, più forte, con aria quasi rassegnata. Poi cambia di nuovo posizione sulla sedia, e proprio mentre sto pensando che il suo non riuscire a stare comodo mi ricorda cose che non vorrei mai più richiamare alla memoria – e che però ogni tanto mi tocca ricordare comunque, se non altro perché me lo merito – lui parla.
- Ho pensato… - comincia piano, - che potrei andare un po’ fuori città. Non mi sembra che la mia presenza qui sia di aiuto a nessuno, dico, non a te né a me sicuramente, e Sido sta per andare in tour e pensavo che potrei andare con lui, anche perché è da tanto che non vado un po’ in giro a cantare e mi manca. Così sarebbe tutto molto più semplice, non credi?
Finisce di parlare ed io resto in silenzio. Lo fisso. E leggo nei suoi occhi lo stesso naturalissimo ragionamento che passa per il cervello a me: fosse un amico, sorriderei e direi “perfetto, Atze, mi sembra una cosa meravigliosa!”, gli allungherei una manata sulla spalla, gli offrirei il secondo giro di birra e poi lo saluterei augurandogli buona fortuna.
- Perché? – chiedo invece. Quindi mi sa che nel ragionamento perfettamente naturale di cui sopra c’è una falla. O che la falla sta nelle nostre teste. Per lo meno nella mia.
- Come, perché? – chiede Fler, spiazzato, inclinando il capo.
- Dico… - continuo, - l’altra sera… quando ti ho chiesto se non volevi più vedermi, hai detto che non era così, e ora-
- Ma non è che non voglia più vederti! – si affretta a correggermi lui, ma non mi guarda negli occhi. Cerco di resistere al bisogno di afferrarlo per il mento e costringerlo a farlo. – È solo per questo periodo, tu sei un po’ confuso ed è meglio che non ti stia intorno.
Aggrotto le sopracciglia e mi lascio andare ad un mezzo ringhio.
- Piantala di parlare come se capissi tutto. – borbotto contrariato.
Fler mi lancia un’occhiata supponente.
- E tu piantala di parlare come se io non capissi niente. – ribatte asciutto. – Hai questo brutto vizio, Chakuza, di considerarmi un cretino. È un errore madornale che continui a ripetere.
Incrocio le braccia sul petto.
- Io non penso che tu sia un cretino. – cerco di convincerlo, ma lui mi zittisce con un cenno della mano.
- Non ti stavo chiedendo il permesso. – dice duramente, - Parto dopodomani.
Spalanco gli occhi.
- …senti. – protesto a bassa voce, - Tu non puoi prendermi così per il culo, Fler. Tipo, non puoi dirmi… - abbasso la voce e mi avvicino, cercando di non attirare l’attenzione, - non puoi dirmi che non ti andava, l’altra sera, e pensare che io ci creda. Ti stavo toccando. Lo so che ti andava. Tu non capisci che non puoi dirmi no quando io so che dentro la tua testa c’è un sì. – lui fa una smorfia contrariata, ma io non mi fermo e non gli lascio il tempo di negare, - E non puoi dirmi che devi parlarmi di qualcosa e poi, vedendo che la mia risposta non ti piace, sperare di darmi a bere che non stavi chiedendo il permesso. Tu non sei mai sincero con me. Questa cosa deve finire.
Fler stringe le dita attorno alla bottiglia e mi fissa, sconvolto. Io trattengo il respiro.
- Chakuza… - comincia, ma si ferma subito. Ha gli occhi spalancati e ci posso vedere dentro tanto di quello schifo che mi sento male. Esita un po’ e per un secondo ho quasi paura che lo dica. Che finalmente lo ammetta a chiare lettere. Che lo sa, Cristo, che sa tutto, e che quindi sono io che dovrei smetterla di prenderlo per il culo. Piantarla e basta. Ma non lo dirà, io lo so. Infatti lo vedo abbassare lo sguardo e mordersi un labbro, posando un pugno chiuso sul tavolo, - …smettila. – conclude semplicemente. – È meglio per tutti.
Tiro un sospiro di sollievo e mi avvicino ancora un po’.
- Intanto, io non credo che sparire sarebbe meglio né per te né per me. – spiego, - Basta solo cercare di calmarsi un po’ tutti e due… - sono io che devo calmarmi, ma va be’, - Possiamo tranquillamente stare nello stesso posto senza che-
- Pensavo la stessa cosa mentre spostavamo l’armadio. – mi interrompe lui, occhi bassi, - E mi sbagliavo.
- Be’, quello magari è stato un errore. – non so dove voglio andare a parare, visto che ha ragione lui. Se resta, ricapiterà. È matematico. Lo so come funziona. Lo so come funziono. Funzioniamo così. – Possiamo evitarlo, in futuro.
- No che non possiamo. – protesta.
- Oh, avanti. – sbotto io, agitando una mano, - Non è che abbia voglia di saltarti addosso ogni volta che ti vedo. – Fler trasale e si irrigidisce sulla sedia. È offeso e io mi stupisco di quanto sia facile portarlo dove voglio. Poi mi ricordo che dovrei smetterla di stupirmi. In realtà io e Fler non facciamo che metterci agli angoli da quando ci siamo conosciuti. Il nostro non è un rapporto, è un incontro di boxe perenne. Lui mi spinge alle corde ed ottiene quello che vuole, e la stessa cosa faccio io nel momento successivo. È un meccanismo talmente rodato che pensare di interromperlo non è veramente possibile. – Non sempre, Fler, ma ogni tanto succede. – ammetto semplicemente. – Che dovrei fare? Ignorarlo?
La risposta è sì, ovviamente. La risposta che passa sul viso di Fler è “sì, stronzo, sì che dovresti”. Ma resta un riflesso sul suo viso, non si traduce in parole ed io sono ancora in vantaggio. Sono in vantaggio solo perché lui non mi sputtana, d’accordo, ma è un vantaggio comunque.
Paghiamo e usciamo in strada qualche secondo dopo; il vento secco e freddo del primo autunno mi sferza in pieno viso e tiro su il cappuccio della felpa, rimpiangendo immediatamente il tepore dell’interno del locale. Fler è teso e nervoso come mai, sento a pelle che, potesse, mi schiaccerebbe contro un muro e mi pesterebbe a sangue fino a farmi dimenticare come mi chiamo. È una sensazione che per certi versi posso capire: fino a due settimane fa ero perfettamente felice e sereno, non mi mancava niente. Da due settimane a questa parte, però, non faccio che darmi motivi per spaccarmi la testa contro un muro.
Forse dovrei farlo: risolverei un mucchio di problemi.
Passeggiamo in silenzio per un po’, mi pare di non avere una direzione, però a un certo punto ci fermiamo e Fler mi guarda.
- La tua macchina… è da queste parti? – mi chiede.
A me viene un po’ da sorridere. Certe volte si comporta in maniera assurda.
- No, dobbiamo andare da tutt’altro lato, verso-
- No. – riprende, scuotendo il capo, - La mia macchina è qui. – si ferma ed indica una mastodontica Escalade nera all’interno della quale la mia utilitaria entra due volte. Anche se me l’ha fatta sistemare per il compleanno – con il bagagliaio nuovo, la vernice nuova, la tappezzeria nuova, così bella come non mi sembrava fosse nemmeno quando l’ho comprata – resta comunque una cosa ridicola in confronto a questo gigante su ruote. Io rimango a boccheggiare qualche secondo e lui ne approfitta per continuare, - Io ora salgo e me ne torno a casa mia. Se vuoi, ti do un passaggio fino alla tua macchina. Poi tu ci sali e te ne torni a casa tua. – si ferma ancora, esita. – E poi sarebbe meglio non sentirci né vederci più, Chaku.
Odio che mi abbia detto una cosa simile col tono in cui l’ha fatto. Dolce, rassegnato, tranquillo. I toni della voce di Fler sono sempre molto chiari, perché quasi sempre lui sa esattamente cosa ti sta dicendo. Non parla a caso, Fler. Non apre la bocca per darle aria. È un uomo pratico, dice lo stretto indispensabile e te lo dice esattamente come deve dirtelo.
Odio che mi abbia detto una cosa simile con questo tono, perché adesso so che non stava mentendo quando mi diceva che no, non voleva. Non voleva davvero.
Odio che mi abbia detto una cosa simile. Lo odio e basta.
- Fler-
- No. – mi sorride appena, - Mi dispiace. Io ci tengo a te. È il massimo che sono disposto a dirti, Chakuza, ma tu sai esattamente cosa significano queste parole. Io ci tengo a te. Però non esiste, Chaku. Pensavo di… pensavo di star via per un po’ e credevo che, lasciando andare le cose com’era giusto andassero, quando fossi tornato avrei trovato una situazione migliore. Ma tu ci ricaschi, Chaku.
- Aspetta, Fler-
- No, guardati. – vorrei che la smettesse di cominciare tutte le sue frasi con un no. – Lo sai da quanto non mi guardavi così? – io deglutisco, ma mando giù solo aria. – Odio quando mi costringi a dirti cose simili. – riprende lui, un po’ infastidito, - Comunque questi occhi li ho aspettati per mesi e non sono mai arrivati. Tornano adesso quando decido di andarmene… ci ricaschi troppo facilmente, ed io sto cominciando a pensare che fra noi due non ci sia proprio niente, Chakuza.
Lo afferro per una spalla e lo sbatto contro lo sportello dell’Escalade. Lui non fa una piega, continua a guardarmi.
- Questo non puoi dirlo. – ringhio a bassa voce, - Non puoi dirlo, Fler.
- E invece lo dico. – non accenna nemmeno a scostarsi da me. Anzi, mi prende per il bavero della felpa e mi tira più vicino, così vicino che sento il suo respiro caldo addosso. Non capisco se mi sta torturando o se è solo dannatamente indeciso. Le sue parole non denunciano indecisione, comunque. – Lo dico perché mi stai mandando fuori di testa. Quando ho deciso di restarti intorno, Chaku, l’ho fatto dicendoti chiaramente di fare in modo che ne valesse la pena. Ti sembra di averlo fatto?
Lo afferro per i fianchi, di prepotenza, e mi schiaccio contro il suo corpo. Non mi interessa se siamo per strada. Non mi interessa se possono vederci. Non mi interessa neanche se vuole andarsene, io non lo lascio.
- Non in quel senso. – scuote il capo lui. Fra noi c’è la solita tensione di sempre. Fra me e Fler sono sempre scariche elettriche, non è mai una cosa tranquilla. Com’è che non le ho sentite, in questi mesi? Dov’ero con la testa?
E penso a Bill.
Lo penso a casa sua.
Lo penso che mi aspetta.
E penso a me e mi sento una merda.
Mi allontano.
- …no, credo di non averlo fatto, Patrick. – ammetto a bassa voce, - Mi dispiace.
Lui annuisce e si sistema i jeans, tirandoli su per i passanti della cintura. L’ho scombinato un sacco. Ha anche il giubbotto sollevato e un lembo di felpa incastrato nell’orlo dei pantaloni.
- Non ce l’ho con te. – dice, ma non è sincero. Vorrebbe non avercela con me. Però mi sta detestando. Probabilmente perché non riesco a trovare il modo giusto di trattenerlo.
So che un modo c’è.
So anche che dire addio a Bill per Fler, però, non è una possibilità contemplabile.
- Vorrei solo chiuderla nella maniera più semplice e tranquilla possibile. – continua lui, finendo di sistemarsi. Poi sbuffa un mezzo sorriso. – È patetico che io e te ci si decida a parlare chiaro solo alla fine, vero?
Mi inumidisco le labbra.
- Non volevo neanche che arrivasse, la fine. – dico sinceramente.
Lui ride un po’, è una risata per nulla risentita.
- Preferivi continuare a prenderci in giro tutti? – alzo lo sguardo e mi arrabbio, e lui ride ancora. – Te stesso compreso, ovviamente. – io sospiro e torno a guardarmi la punta delle scarpe. Sento ancora la sua risata, sottile e breve, e poi lo vedo chinarsi un po’ per recuperarmi: appoggia le labbra sulle mie e poi si rimette dritto, così che io sono costretto a risollevare il viso a mia volta, se non voglio perderlo. È un bacio così, asciutto e semplice. Non è per nulla una cosa nostra, noi non ci baciamo mai così. È sempre una cosa molto più fisica e bagnata, ed anche più violenta. Questa è una cosa che con noi non c’entra, ed è quello che mi fa pensare che un noi non c’è già più.
Però c’era. Io lo so. Che Fler ci creda o no, noi c’eravamo.
Le nostra labbra schioccano appena quando lui si allontana, ed io non ho il coraggio di chiedere di più, anche se lo vorrei. Anche se, mentre tenevo gli occhi chiusi e mi lasciavo baciare, non esisteva davvero nient’altro. Probabilmente dipende dal fatto che io e Fler abbiamo sempre usato il sesso principalmente come scacciapensieri. Più di ogni altra cosa, quelli erano i momenti in cui smettevamo di ragionare. Ed io decisamente avrei bisogno di smettere di ragionare, in questo momento. O di ricominciare a farlo, forse.
- Quello nel canale doveva essere l’ultimo. – mi dice piano, - Però potrebbe essere l’ultimo anche questo, suppongo.
Io sbuffo un po’.
- Ci pensi da tanto, eh?
Fler annuisce.
- Da molto più di tanto.
Restiamo in silenzio per qualche secondo, e nel tempo che passa Fler infila le chiavi nella serratura ed apre lo sportello, arrampicandosi disinvoltamente sul sedile e restando lì con una gamba penzoloni verso la strada e l’altra ben piantata sul bordo della portiera.
- Allora non ci vediamo più. – chiedo conferma, mentre sulle sue labbra affiora un sorriso tranquillo.
- Penso proprio di no. – annuisce.
- E non ci sentiamo più.
- No, Chaku. Non ci sentiamo più.
Annuisco anche io. Ho improvvisamente voglia di tornarmene a casa e prendere a cazzotti qualcuno dei soprammobili di gomma che mamma mi compra ogni tanto. Se ne esce con certe cose assurde. C’è un vaso – un vaso enorme, ha dentro fiori di plastica impolveratissimi – che servirebbe proprio bene allo scopo.
- Addio. – gli sussurro, mentre lui tira su l’altra gamba.
Fler ride.
- Come sei epico. – e sono le ultime parole che mi dice prima di chiudere lo sportello e farmi cenno con la testa di togliermi di mezzo, se non voglio finire investito dall’Escalade mentre la tira fuori dal posteggio.
Non lo seguo con gli occhi perché non voglio vederlo scomparire dietro un angolo. Cristo, non ricordo un giorno della mia vita nell’ultimo anno in cui Fler non ci sia stato, fra alti e bassi. Non può andarsene così, cazzo. Anche se l’ho lasciato andare, non avrei dovuto. Non è stato giusto.
Risalgo sul marciapiedi e comincio a dirigermi verso la macchina, le mani nelle tasche e lo scazzo che vortica a mille nella testa, quando squilla il telefono. Tiro fuori l’apparecchio con stizza e fisso lo schermo. È tardi per Bill, a quest’ora già dorme. E infatti non è lui.
- Eko…? – spalanco gli occhi e lo dico pure ad alta voce. Eko non mi chiama quasi mai, lo fa solo in momenti di reale bisogno. Quando è morto Bushido, per esempio.
Accetto la chiamata e rispondo.
- Pro-
- Chakuza, Cristo santo, ho un fantasma in casa!
Mi perdo.
Letteralmente.
Stringo il telefono fra le mani e deglutisco.
- Tu hai cosa dove, Eko?
- Cristo santo! – ripete lui, senza il minimo senso, - Il cazzo di fantasma! È tornato perché abbiamo fatto qualcosa di sbagliato! Cristo santo, Cristo santo! Chakuza, quando hai fatto fuori Saad tu eri sicuro che fosse lui l’assassino, vero? Perché se non era lui e quell’altro è tornato per vendicare il cugino morto, Cristo, giuro che ti appendo per le palle in Alexanderplatz, Chakuza!
Seriamente, non ho la più pallida idea di cosa stia parlando. So solo che quando ha nominato Saad m’è salito il cuore in gola e che spero vivamente non sia per strada a parlare di tutte queste cazzate, altrimenti lo appendo io per le palle in Alexanderplatz.
- Eko… - sospiro pesantemente, - È una serata di merda. Seriamente. Ma proprio di quelle che vorresti non fossero mai iniziate.
- Dillo a me! Apro la porta mentre aspetto il ragazzo delle pizze e mi ritrovo davanti il cazzo di fantasma che-
- Una serata di merda, dicevo, perciò… - controllo l’orario, - Eko, ‘cazzo chiedi la pizza a mezzanotte passata, scusa?!
- Ma non è la pizza il punto fondamentale, Chakuza! Tu hai dei problemi seri! – mi sbraita all’orecchio. E poi chiarisce una volta per tutte: - Il punto è che io ho aperto la porta e davanti mi sono ritrovato Bushido. Bushido, capisci?
No. Non capisco.
- Eko…?
- Un cazzo di fantasma, capito? Un fantasma. Cristo. – fa una pausa. – Io non ci rientro in casa, quindi tu ora mi passi a prendere e mi porti da te. E domani torno con un estintore bello pesante o qualcosa di più adatto. Come si uccidono i fantasmi, Chakuza?
- …dubito che la schiuma chimica funzioni. – sospiro. È evidentemente ubriaco. – Eko, senti. – non ci tengo a portarmelo a casa, stanotte, - Ora vengo da te e poi saliamo insieme. Così ti faccio vedere che non c’è nessun fantasma, in casa tua. Soprattutto non quello di Bushido.
- Fa’ un po’ quel che cazzo credi. – dice lui, improvvisamente compunto, - Comunque sono sicuro quasi al cento per cento che il fantasma sul pianerottolo sia colpa tua, in qualche modo contorto. Sei la fonte di tutti i mali. Magari dall’alto dei cieli ha saputo che vuoi chiudergli l’Ersguterjunge ed ora ci perseguiterà a vita.
- Eko, ti prego!
- Comunque il succo è: vieni perché sennò scappo da Kay. E tu non vuoi che io scappi da Kay, perché Kay vive in un porcile peggio di casa tua, e se sarò costretto a stare da lui poi vorrò le tue palle su un piatto d’argento.
- Per mangiarle? – sbotto irritato, - La tua fissazione per le mie palle è inquietante.
Mi manda a fanculo e chiude la conversazione senza neanche abbassarsi ad aggiungere altro.
Raggiungo la macchina in tempi ragionevoli ma non supersonici, ecco, se Eko è ubriaco può anche stare per strada a rinfrescarsi la testa per un po’. Intendo, non è il tipo cui salterebbero tutti addosso come Bill, e non è neanche il tipo da sfondarsi al punto da rotolare per i marciapiedi come Fler, perciò posso stare abbastanza tranquillo.
Quando arrivo sotto casa sua lo trovo a camminare avanti e indietro con aria furiosa, proprio di fronte al portone del palazzo. Accosto senza posteggiare, sperando di cavarmela in una decina di minuti, e scendo dall’auto.
- Cristo, Chaku, ci hai messo un’era! – mi assale lui, - Il senza-tetto? – chiede poi, guardandosi intorno. Si riferisce a Fler. Ogni volta che me lo vede piantato accanto parte col solito teatrino per il quale Fler in realtà non ha una casa e vive da me perché non ha i mezzi per pagarsene una propria, visto che è un rapper sfigato. Sarà meglio non parlare dell’Escalade con Eko.
Digrigno i denti e ringhio un po’.
- Non siamo mica sposati. – sbotto acido, - Non so nemmeno dove cazzo sia.
Lui annuisce.
- Questo spiega la tua ira, Atze. – dice con aria comprensiva, - Non dovresti rinnegare i tuoi sentimenti. Prendi esempio da Bushido, buon’anima: il suo fantasma sarà irrequieto, ma almeno nella vita s’è goduto tutto quello che ha voluto.
Per un attimo accarezzo con amore la possibilità di afferrare il cric dal portabagagli e prendere Eko a mazzate fino a lasciarlo svenuto per terra.
- A proposito di fantasma… - sbotto esasperato, - Non sono venuto qui per questo?
Lui annuisce come lo stesse ricordando in questo preciso momento.
- Eccome. – mi afferra per un braccio e comincia a trascinarmi, - Mi dirai tu se è vero o meno. Io, comunque, là dentro non ci torno.
- Va bene, va bene! Cristo! Ma non mi spingere così, so camminare da solo! – protesto quando prende a spintonarmi su per le scale, fino al secondo piano.
Facciamo tutto di corsa, che è una cosa che detesto – fare le cose di corsa, dico – e quando arriviamo di fronte alla porta dell’appartamento – ovviamente spalancata, Eko ha le pecore turche a pascolargli in testa, lo so – lui mi molla lì e si rifugia verso l’ascensore.
- Vai avanti. – dice con aria sconvolta, - Io aspetterò qui fuori il tuo urlo di terrore.
Sospiro pesantemente ed agito una mano, mandandolo a quel paese senza troppe cerimonie. Mi introduco nell’appartamento buio e silenzioso, convinto che tutto ciò che troverò sarà al limite qualche ladro che si è intrufolato qua dentro mentre Eko era fuori a sclerare e rompermi le palle, perciò mi sento addirittura fortunato quando vedo che l’ingresso è vuoto e così anche il salotto. Mi dirigo spedito verso la camera da letto, so che è là che Eko tiene gli orologi e le chiavi della Mercedes, perciò se c’è qualche malintenzionato sarà lì. L’idea del fantasma l’ho abbandonata da un pezzo. Era delirante, in fondo.
Per questo, quando mi si spalanca la porta del bagno di fronte al viso, quasi ci resto secco. Ma sul serio.
Perché questo non è un cazzo di fantasma. Qui non c’è proprio niente di simile. Qui c’è qualcosa di molto peggiore.
Qui c’è Bushido. Vivo.
Cristo.
Stringe una salvietta fra le mani e si asciuga lentamente i palmi, perfettamente a proprio agio. Io resto lì a guardarlo, troneggia su di me come una specie di statua di qualche dio antico. Ma ha un’espressione del cazzo che poi immagino sia la stessa che ho io. Voglio dire, mi fissa come se mi stesse vedendo per la prima volta. La luce giallastra del bagno lo colpisce in pieno da dietro, così che dal corridoio buio io non posso vederlo perfettamente in ogni dettaglio, ma scorgo la sagoma di una coda corta a svettare dietro la nuca e mi rendo conto del tempo passato.
Nove mesi.
Un anno fa sembra un altro universo.
Bushido è vivo.
- Chaky. – mi chiama lui, ed il tono è morbido e divertito. È esattamente la voce che ricordo. È lui. – Ho saputo che stai cercando di mandarmi in bancarotta. – e ride appena, uno sbuffo ironico e per nulla cattivo.
Continuo a guardarlo e non riesco a spiccicare una parola. Non riesco neanche a capire cos’è che dovrei dirgli.
Eko non mi sente urlare e si affaccia alla porta, fissandoci con aria allibita.
- Chaku… - mi chiama con voce tremante, - Perché non stai scappando?
Io deglutisco.
Non stacco gli occhi da Bushido.
Cerco a tentoni la tasca sui jeans ed il cellulare nella tasca. Quando lo trovo e lo sollevo all’altezza del viso, mi schiarisco la voce.
- Credo che chiamerò Fler. – esalo. E sono le prime ed ultime parole che dico, mentre Bushido ride e scuote il capo, per nulla stupito.
Cristo.
Non è stupito.
Se non è stupito da Fler… quante altre cose sa?
*
Riesco a sentire solo tre cose, in questo momento. Una è la voce di Eko, isterica e nasale e concitata, che si confonde nella raffica di domande con cui sta tartassando Bushido, che, per proprio conto, sta mangiucchiando pistacchi perfettamente a proprio agio, sul divano. Un’altra è la risata di Bushido stesso, che si intervalla alle domande di Eko quando si fanno troppo assurde. Tipo quando lui chiede se all’Inferno fa caldo e gli dà dello stronzo per non essere tornato prima.
Sopra tutto, comunque, sento il suono della linea libera sul cellulare di Fler. Che non mi risponde. Ovviamente.
Un po’ lo capisco. Me lo vedo, seduto al volante di quella cazzo di macchina enorme, che fissa il display del telefonino e impreca ad alta voce. “Che cazzo vuole ancora questo?”. Ti voglio qui perché c’è qualcosa che hai perso e abbiamo ritrovato. Ti voglio qui perché, anche se non lo sai, ho trovato qualcosa che hai perso e non volevo ritrovassi.
Ti voglio qui perché qui c’è l’unica cosa Bill abbia mai perso davvero.
E un po’ spero ancora che, se tu passassi attraverso quella porta, non vedresti niente, solo me ed Eko in paranoia di fronte al vuoto. Diresti “Be’? ‘Cazzo mi hai chiamato a fare, Chaku?”. Ed io mi guarderei intorno, Bushido sarebbe sparito e allora potrei ridere e dirti “Niente, non mi andava che te ne andassi, tutto qua”. E potrei avere ancora una possibilità di decidere per i giorni a seguire.
- Non ti ha voluto manco il diavolo in persona, Atze! – sento Eko che si affloscia sul divano accanto a Bushido con un tonfo pesante. Mi volto e lo vedo che sta lì, vicinissimo al bracciolo, come avesse paura di toccarlo, - Stai sul cazzo anche a lui!
E Bushido ride ancora.
Io interrompo la chiamata – che tanto squilla a vuoto – ed allo stronzo in fuga mando un messaggio. “Devo parlarti di Bushido”. Speriamo che almeno così la smetta di fare l’adolescente ribelle.
Bushido sta ancora ridendo e sgranocchiando pistacchi, nel mentre. È perfettamente tranquillo, neanche non fosse andato mai via. E invece di mezzo c’è una morte – la sua – un coltello in una pancia – la mia – un bacio – sbagliato – una relazione – la nostra, mia e di Fler – un’altra morte – di Saad – e un’altra relazione – la nostra, mia e di Bill.
Una resurrezione, francamente, mi pare eccessiva.
Lo stronzo in fuga non richiama. Ringhio e lo richiamo io. Non mi aspetto che risponda, voglio solo rompergli i coglioni, e invece eccolo che risponde al primo squillo, furioso.
- Chakuza, sei patetico, tirare fuori Bushido per-
- È vivo. – lo interrompo, senza aspettare che abbia concluso il cazziatone.
Lui rimane zitto e non respira nemmeno.
- Sei pessimo. – riprende a fatica dopo un po’, - Se era un tentativo di zittirmi per-
- Era un tentativo di zittirti. – ammetto, - Per poi spiegarti che è vivo davvero.
Fler esita. Io guardo ancora Bushido ed Eko – Eko gli sta rubando il pacchetto di pistacchi dandogli del fantasma egoista del cazzo – e Bushido solleva lo sguardo verso di me e mi sorride. Lo fa con calma e naturalezza, come ha sempre fatto. Sorrideva di continuo. È una cosa di cui ho parlato anche con Fler, in un tempo che mi sembra lontano secoli, ed anche lui ha ammesso che era vero, Bushido da quando era all’Ersguterjunge sorrideva sempre. Fler ha aggiunto acido anche “perché i problemi li aveva lasciati a noi poveri stronzi e di tutto il resto si era dimenticato”, ma il punto della questione era un altro: Bushido sorrideva sempre perché non aveva motivo di essere triste. La sua vita era perfetta.
È assurdo che sia morto e poi tornato in vita per ritrovarsi in mano un qualcosa che non esiste più. Non so nemmeno come farò a dirglielo.
- Chakuza. – mi richiama Fler dall’altro lato della cornetta, - Cosa cazzo stai dicendo?
Sempre che in qualche modo non lo sappia già, ovviamente.
- Vieni a casa di Eko. – ordino, comunicandogli l’indirizzo. Lui fa una smorfia infastidita di cui sento l’eco in un lamento. Lo zittisco. – È una cosa seria, Fler. Vieni. – vienitelo a riprendere.
Lui interrompe la chiamata imprecando ad alta voce, io ripongo il cellulare in tasca e torno in salotto, aggirandomi con aria inquieta attorno al tavolino basso davanti al divano.
- Lo stronzo sta a due isolati da qua. Ci puoi pensare? – mi dice Eko, che continua a fissarmi con gli occhi a palla come fosse ancora sicuro che l’ipotesi fantasma sia più razionale rispetto all’ipotesi “sono ancora vivo”. – Da due settimane. E indovina dov’è stato prima, per tutto questo tempo.
Bushido ride.
- …non ne ho idea. Sotto terra? – provo, fissando Bushido con lo stesso sguardo allucinato col quale Eko fissa me.
Bushido ride ancora ed io, sinceramente, vorrei la piantasse.
- A Miami! – sbotta Eko, allargando le braccia in segno di profondo sgomento.
In un primo momento non capisco. Penso solo: è a Miami che si va, dopo morti?
Poi realizzo.
E un po’ mi viene anche voglia di mandarlo a fanculo. A Miami va, il bastardo. A Miami.
Prendo fiato.
- Bushido, tu eri morto. – metto bene in chiaro, così che nessuno di noi possa scordarlo, visto che qui mi pare si stia passando sopra la cosa con un po’ troppa leggerezza. Lui annuisce e mi fa segno di sedermi in poltrona. Io obbedisco senza fiatare.
- È complicato da spiegare, Chaky. – dice, con una certa tenerezza, - Ma vi dirò tutto, piano piano. Prima, però, ho delle questioni da risolvere.
Ed io sono lì che tremo e prego in un centinaio di lingue che fra le varie questioni da risolvere non ci sia anche Bill, che suonano al campanello.
Io guardo Eko ed Eko guarda me.
- Mbe’? – sbotta, sollevando supponente il mento, - È il tuo uomo, tu l’hai chiamato, vai ad aprirgli.
Lo mando a fanculo e mi alzo in piedi mentre Bushido ride ancora – anche se c’è una sorta di tensione, nella sua risata, una nota un po’ stridente che nelle risate di prima non c’era. Non fatico a ricollegarla alla presenza di Fler oltre quella porta. A meno che non sia il ragazzo delle pizze che Eko minaccia di denunciare da ore.
Apro la porta e di fronte a me c’è un Fler che non ho mai visto in vita mia. Ha quattordici anni negli occhi, non uno di più. Poi non è cambiato per niente, ma gli occhi bastano: sono enormi, liquidi e persissimi. E dovrebbero essere gelidi, perché quando Fler è scazzato i suoi occhi diventano pezzi di ghiaccio, ma non c’è traccia di freddo in fondo alle sue pupille. Non ce n’è davvero per niente. Sono caldi, anzi. E non stanno guardando me.
- Sei venuto davvero… - esalo, un po’ sconvolto. A saperlo, avrei usato la scusa di Bushido per quando ha continuato a darmi picche nell’ultimo periodo.
Stupido Peter. Piantiamola un po’. Me lo dico da solo, va’.
Lui annuisce, comunque.
- Se scopro che è una cazzata, Chakuza, ti prendo a calci nelle palle fino a fartele uscire dalla gola.
Sospiro e mi lamento anche un po’.
- Ma che avete tutti stasera con le mie povere palle? – mugolo, scostandomi lievemente dall’uscio per farlo entrare.
- Le tue palle sono un pericolo pubblico. – precisa lui con una mezza risata, sfilandosi la giacca ed appendendola all’attaccapanni. Poi torna a guardarmi. È ancora un ragazzino e questa cosa mi distrugge in un modo che non capisco. Mi fa venire un groppo in gola che non so decifrare. – Mi spieghi un po’? – chiede appena, - E… a proposito… quello stronzo del padrone di casa?
- Eko è di là… - spiego, indicando il corridoio con un dito. Esito un po’, prima di aggiungere il resto. - …con lui.
Fler deglutisce e stringe le labbra.
- È tornato dalla morte?
Io scuoto il capo. No, è tornato da Miami.
Mi mordo la lingua.
- Pare non sia morto affatto, in realtà. E… sappia un mucchio di cose.
Fler annuisce anche troppo tranquillamente. Guarda un punto a caso nel vuoto e socchiude appena le palpebre, come si stesse perdendo nei propri pensieri ed avesse bisogno del giusto tempo per farlo. Poi sbuffa una mezza risata.
- Mi scazza e mi sembra anche un po’ assurdo da dire, - confessa alla fine, - ma è così schifosamente da lui che non fatico neanche a crederci. – poi scuote il capo e torna a guardarmi. – Mi ci porti? – e lo dice con lo stesso identico tono di un bambino un po’ impaurito che chiede al padre burbero di accompagnarlo sull’ottovolante.
Annuisco senza volerlo fare davvero e lancio un’occhiata alla porta come a chiedermi se esista la possibilità di afferrare Fler per il cappuccio della felpa, uscire da quest’appartamento e riprendere il corso della nostra vita esattamente per com’era prima di stasera. Non ho il tempo di concludere il pensiero che sto già portando Fler al cospetto di Bushido – ed è una cosa molto epica, a pensarci; questi due si sono lasciati accoltellandosi. Voglio dire. È assurdo.
Entro prima di Fler e non so bene come annunciarlo. Ci vado giù in maniera tranquilla.
- Atze? – e mi sento vagamente in colpa ad usare ancora questo soprannome, - Senti, c’è Fler.
Bushido ride e la voce di Patrick mi arriva dritta alle spalle come una pugnalata. È vicinissimo.
- Non ho mica bisogno del permesso, per ricevere udienza, io. – mi supera e si para davanti a Bushido con una calma impressionante, - Ho il lasciapassare automatico.
Bushido non si alza. Nemmeno si muove. Resta seduto sul divano e lo guarda con un sorriso strafottente sul volto. Sembra incredibilmente più giovane anche lui, il che è strano. Immagino sia l’effetto della presenza di Fler.
Ci sono un sacco di cose che mi vanno di traverso, stasera. Non mi piace proprio come si sta mettendo la situazione in generale.
Fler sorride appena e si siede sul tavolino basso, proprio di fronte a Bushido. Le loro ginocchia quasi si sfiorano e Fler si piega un po’ in avanti per guardarlo dritto negli occhi.
- Ero lì, quella notte, perché volevo dirti che eravamo a posto, Atze. – lascia scivolare le parole fuori dalle labbra con naturalezza disarmante, - Ero lì sotto per questo. Non sono stato io. Volevo dirtelo. Non sono stato io. E siamo a posto.
Bushido inspira ed espira, senza perdere il sorriso.
- Lo so. – dice a bassa voce. Non aggiunge nient’altro.
Vorrei poter dire qualcosa anch’io. Vorrei poterli mandare a fanculo entrambi, tanto per cominciare. Bushido perché è tornato, Fler per altre duemila ragioni. Cazzo, a guardarlo mi viene un nervoso che non so nemmeno descrivere. Mi prudono le mani. Ha ancora sulla faccia quel sorrisino di prima e lui e Bushido che si guardano negli occhi senza dire altro sembrano una cosa unica nata insieme. E mi viene da ridere perché Fler me l’aveva pure detto: non esplicitamente, ma tutte le volte che partiva in quarta a parlare di Anis, dietro ciò che diceva c’era sempre un concetto di base che lo vedeva coinvolto con lui in un modo diverso rispetto al modo in cui era stato coinvolto con chiunque altro nella sua vita. Ed io lì a ridere e prenderlo in giro. Io lì a pensare che fra noi ci fosse… io lì come un cretino.
Aveva ragione Fler. Se mai c’è stato qualcosa, non c’è più nulla già da un pezzo. E se pure un qualche frammento era rimasto, nell’ultimo minuto è stato spazzato via.
O almeno così mi sembra.
Non facesse così fottutamente male, forse lo capirei meglio.
Bushido si piega in avanti a propria volta. Lo fa con un sorriso strafottente sul volto. Si piega in avanti e sfiora quasi la fronte di Fler con la sua.
- …non so come chiamarti. – ride alla fine, e Fler lo segue, socchiudendo gli occhi e scuotendo il capo, - Mi viene in mente di tutto. – c’è Eko che li fissa sconvolto e poi guarda me quasi in imbarazzo, ma loro lo ignorano. Ci ignorano. – Ragazzino, Frank, Fler…
- Patrick andrà bene, Anis. – lo interrompe Fler, sorridendo più apertamente.
Patrick non va bene neanche per un cazzo. Io lo chiamo Patrick solo quando lo rimprovero. Neanche quando scopiamo. Fanculo. Patrick non va bene neanche per un cazzo.
- Io comunque non sono tornato dall’altro mondo per una rimpatriata. – dice ad un tratto Bushido, alzandosi in piedi e venendo verso di me, mentre Fler prende e si mette comodo sul tavolino, piantando i palmi sul vetro e stirandosi un po’ indietro con un mezzo sorriso soddisfatto sul volto. Non mi vede più da almeno mezz’ora e quella posizione lì mi fa incazzare oltre ogni dire. – Potrà sembrarti assurdo, Chaky, ma sono venuto per parlare con te.
Sollevo lo sguardo e lo fisso, sconvolto.
- Con me?
Ma vaffanculo, anche.
Lui annuisce.
- Volevo dirti personalmente, - dice con tono scherzoso, - di piantarla di mandare in malora la mia attività, prima che io ti prenda per le palle e te le stacchi di peso per usarle come bolas. – Fler scoppia a ridere. Anche Eko. Vorrei che lasciassero tutti in pace le mie palle ma mi rendo conto da solo che hanno ragione loro a volerle su un piatto. – Poi naturalmente lo ripeterò anche agli stronzi della Universal, ma con te ci tenevo a discutere la cosa in maniera più rilassata. – continua tranquillamente. – Quindi, magari, ora che sai che sono vivo, me la lasci aperta l’Ersguterjunge?
Avrei solo una domanda, da fargli, ed è: se dico sì, poi scompari?
Naturalmente, però, non chiedo. Mi limito ad annuire. E lui mi stringe al collo in un mezzo abbraccio grato che fa sorridere Fler.
Ironico. È la prima volta che mi vede da minuti interi. L’ha fatto solo quando Bushido mi ha toccato.
*
Eko non riesce fisicamente a stare zitto. Probabilmente è una reazione allo spavento e allo stupore ed anche alla felicità di ritrovarsi Bushido vivo e vegeto in carne ed ossa, proprio di fronte agli occhi. Continua a porgli domande allucinanti stile “e con cosa andavi in giro a Miami? Camicie hawaiane?”. Chiede e gesticola e chiede ancora e Bushido non fa che ridere e rispondere, “sì, Eko”, “no, Eko”, “nella maniera più assoluta e totale no, Eko, mai”, e tutto quello che io riesco a registrare, di tutto questo, è che Fler non gli ha ancora staccato gli occhi di dosso.
È una cosa incredibile, non l’ho mai visto comportarsi così: è come se ci fossero delle calamite, addosso a Bushido. Ovunque vada, comunque si muova, gli occhi di Fler non lo abbandonano mai, neanche per un secondo. È stato così anche durante quella dannata puntata di TRL, ma allora Bushido era un’immagine su uno schermo piatto a cristalli liquidi, non era una minaccia.
…ed allora io ero ancora una persona migliore. Una persona che non pensava a Bushido come ad una minaccia, appunto.
Comunque sia, sono ancora infastidito. Da qualche parte nel corso di questa serata, mentre Eko parlava e Bushido rideva e rispondeva senza guardarlo, ricambiando solo gli occhi azzurri di Fler con un compiacimento addirittura irritante, m’è venuta voglia di mettere una mano fra di loro. Una cosa proprio da bambini, mettere la mano ed agitarla, come a dire “allora? Vi ricordate che ci sono anch’io, qua di lato?”. Ma la verità è che non mi hanno messo loro in un angolo, mi ci sono rifugiato da solo, perché non ho la più pallida idea di cosa fare. Quest’uomo, prima di morire, mi ha affidato delle cose. Ed io dovrei, tipo, fare rapporto, no? Aggiornarlo sullo stato dei suoi beni.
Solo che il bene che mi ha lasciato io me lo sono preso.
E questo è un problema enorme.
Mi alzo in piedi.
- Mentre Eko continua a chiederti… cos’è che gli hai appena chiesto, Eko?
- Se ha visto qualche donna che s’infilava una noce di cocco su per il-
- Mentre Eko continua a chiederti delle discutibili abitudini sessuali delle flori… comunque si chiamino le donne che vivono in Florida, - Fler e Bushido ridono contemporaneamente, e Fler scuote pure un po’ il capo con rassegnazione. Mi sento vagamente in imbarazzo, - …io vado a preparare un caffè. Sarà una nottata lunga.
Bushido annuisce semplicemente ed io mi rifugio fra le quattro mura piastrellate della cucina di Eko. Una cucina palesemente vuota, peraltro, perché pare che tutti i rapper abbiano la brutta abitudine di non passare mai del tempo in casa propria. Tant’è che Eko è sempre buttato da Kay. Il quale però è sempre buttato dalla madre, perciò alla fine passano entrambi tutto il tempo a casa della povera donna. Col risultato che casa di Eko è quasi sempre vuotissima.
Armeggio qua e là spalancando tutti gli stipetti, perché non può davvero esistere un uomo che non tenga in casa del caffè ed una moka, ed infatti alla fine trovo tutto e, sospirando di sollievo, mi metto a preparare, sperando di perdere abbastanza tempo per… non so nemmeno io per che cosa. Per far riposare il cervello e tornare di là con una scorta di lucidità sufficiente ad affrontare quello che mi aspetta, suppongo. Anche se non ho idea di cosa mi aspetti, perché mi fa paura immaginarlo.
Mentre metto la caffettiera sul fuoco, sento Fler ridacchiare alle mie spalle ed aggrotto istantaneamente le sopracciglia, voltandomi a guardarlo. Lo trovo con le braccia incrociate sul petto, appoggiato con una spalla allo stipite della porta. Mi fissa, palesemente divertito, con un sopracciglio inarcato. Dio, odio quando è così… così.
- Be’? – chiedo sgarbatamente, ricominciando ad aprire ante e sportelli alla ricerca di qualche tazzina o, al limite, dei bicchierini di plastica. Il punto è che non posso pensare eroicamente cose tipo “mi aspetta la morte ma non cederò di un passo”, e pensarlo a riguardo di Bill, e poi vedermi apparire Fler sulla soglia e provare il desiderio praticamente irresistibile di tirarlo in cucina, chiudere la porta e stenderlo sul ripiano accanto al lavello. Non è… non posso continuare a fare così. Non posso.
Lui mi viene accanto ridacchiando serenamente, e mi aiuta nella ricerca.
- Sei troppo nervoso. – mi dice, - È un comportamento sospetto.
Be’, grazie, lo so anch’io.
- Non dovresti essere di là a ricordare a Bushido che non hai mai avuto occhi per altri che per lui? – ringhio infastidito, e lui si ferma e mi guarda per un secondo. Poi scoppia a ridere.
- Tu sei assurdo! – commenta ironico, - Come puoi essere geloso in questo momento?!
- Non sono geloso! – cerco di difendermi, anche se dovrei cominciare a ricordarmi più spesso che mentire a Fler serve a poco. Un po’ perché fiuta le menzogne – come quell’altro, accidenti a lui – ed un po’ perché comunque si convince di quello che vuole e poi ci marcia indipendentemente da come stiano le cose in effetti. Insomma, proprio come quell’altro. Stramerda.
- Chakuza, Dio mio, ma il fatto che io sia andato via, poco fa, non ti è servito a niente?
Spengo il fuoco sotto la caffettiera.
- Sei stato via praticamente mezz’ora. – borbotto a bassa voce, - Cosa vuoi che sia cambiato, in mezz’ora?
Vorrei che Fler si offendesse – in genere, quando lo prendo per il culo, lo fa – ma non fa che ridacchiare ancora e scuotere il capo.
- È che il discorso sulle noci di cocco aveva cominciato ad inquietare anche me. – dice, ignorando la frecciata e riprendendo il dialogo dall’inizio, - E poi volevo vedere come stavi.
- Oh, ma guarda. – sbotto, con la maturità di un bambino di dieci anni, - T’interessa?
Lui mi fissa per un secondo, ed in quel secondo i suoi occhi azzurrissimi brillano in maniera spaventosa.
- Certo che mi interessa, Chaku. – sospira, - Proprio perché m’interessa-
- Ora non partirtene col discorso di rito stile “è per te che lo faccio”. Non l’hai fatto per me, quando te ne sei andato.
Si appoggia al mobile ed allunga una mano ad aprire lo stipetto più in alto. Le tazzine sono là. Lui nemmeno le guarda, continua a fissare me.
- In ogni caso, sono stato via solo mezz’ora. E sono tornato quando mi hai chiamato.
- Perché ti ho parlato di Bushido.
Scrolla le spalle.
- Il motivo non è importante.
“Col cazzo”, vorrei rispondere, ma lo trattengo in punta di lingua perché questa discussione è già abbastanza assurda così.
- Dimmi la verità, Fler. – lo sfido, versando il caffè, - Perché sei tornato?
Lui sospira pesantemente e infila le mani nelle tasche. Sotto la spinta, i pantaloni si abbassano appena, scivolando lungo la sua vita e lasciandomi intravedere un lembo di pelle appena sopra i fianchi. Deglutisco.
- Cosa vuoi sentirmi rispondere, Chaku? – chiede lui, quasi dolcemente. – A questo punto, posso dirti tutto quello che vuoi. Non è importante.
- Sei tornato per vedere lui? – ringhio, voltandomi improvvisamente a guardarlo. Lo trovo che già ride.
- Sì. – dice tranquillamente, - O, in alternativa, per sventrarti in caso mi avessi detto una balla solo per farmi tornare. Soddisfatto così?
Soddisfatto un cazzo.
Sospiro pesantemente, mentre Fler recupera due delle quattro tazzine colme di caffè, allontanandosi verso la porta.
- Ah, dimenticavo. – dice con aria falsamente casuale. E lì capisco che mi sta prendendo in giro, o torturando, o comunque non si sta comportando in maniera corretta nei miei confronti. Odio avergli dato abbastanza ragioni per farlo senza sentirsi in colpa. – Anis vuole il riassunto delle puntate precedenti. Ed io quello che dovevo dirgli gliel’ho già detto.
- No, manca ancora la dichiarazione d’amore. – sbotto acido.
Fler non si abbassa al mio livello, inarca un sopracciglio e ghigna.
- Dici? – domanda allusivo, e poi scompare oltre la soglia.
Quando torno di là con la tazzina mia e quella di Eko, Fler è di nuovo seduto sul tavolino e sta di nuovo guardando Bushido come non vedesse altro. Mi rassegno: non è come, è così.
Resto in piedi, passo la tazzina ad Eko ed osservo Bushido che beve il proprio caffè e poi posa la tazza sul tavolino, proprio accanto al punto in cui è seduto Fler. Lo sfiora col braccio, proprio lì sul fianco, e per un attimo io guardo i loro corpi che vengono a contatto, colgo il leggero brivido che scuote le spalle di Fler e colgo anche quel breve lampo di compiacimento che increspa le labbra di Bushido, e mi chiedo cosa stia esattamente succedendo in questa stanza. Se si stiano comportando così solo perché sanno perfettamente che Eko certe cose non le vede – o fa finta di non vederle – e che io piuttosto che parlarne con anima viva mi farei volentieri sparare.
Non lo so.
Mi viene voglia di menare le mani, comunque.
Mi riscuoto quando Bushido si schiarisce la voce e mi chiama.
- Allora, Chaky… - dice, mettendosi comodo sul divano ed incrociando le braccia sul petto, - Cosa mi racconti?
Ed io per un attimo mi sento confuso. Cosa gli racconto? Cioè, davvero, cosa tiro fuori dal cappello? Cosa gli dico? Cosa, che non abbia a che fare con Bill – perché non voglio nemmeno che ci pensi – o con me e Bill – perché il solo pensiero che lo scopra in questo momento mi terrorizza – o con me e Fler – perché ho la vaga impressione che sarebbe perfino capace di uccidermi, se sapesse i dettagli di quest’ultimo anno.
Cosa mi invento?
Lancio un’occhiata a Fler e lui non è d’aiuto. I suoi occhi sono freddi e vuoti, mi guarda quasi con la stessa curiosità con cui mi guarda Bushido. Come se si stesse chiedendo anche lui “vediamo come se ne tira fuori”.
Io mi seggo su una poltrona e richiamo alla memoria i brevi stralci di racconto che sono riuscito a cogliere dalla conversazione fitta di domande e risposte assurde fra Bushido ed Eko, prima che Fler arrivasse. Bushido è qui da due settimane. Due settimane fa – come quasi sempre, quando abbiamo potuto, negli ultimi mesi – Bill era con me. Probabilmente era con me anche mentre lui era in volo. E mentre quest'uomo atterrava, il suo ragazzino urlava il mio nome, nel mio letto. E, cazzo, stavamo da Dio. Ora Bushido mi chiama Chaky, e la cosa mi devasta. Non so più nemmeno se odiarlo perché è tornato o chiedergli di essere comprensivo prima ancora di avergli detto perché.
Mando giù a fatica un respiro che sembra di cemento, tanta è la resistenza che fa mentre mi scende per la gola, e poi guardo il pavimento e comincio a parlare.
- I primi mesi dopo che sei morto – parlo come stessi parlando ad un fantasma. Forse perché quasi preferirei che fosse così. – sono stati un casino. Non sapevamo davvero dove voltarci o cosa fare. Era tutto un chiedere, interviste di continuo. Ci siamo gestiti abbastanza bene, ma è stato pesante.
Bushido sorride appena.
- Mi dispiace. – lascia scivolare fra le mie parole, senza interrompermi davvero. Io annuisco e riprendo.
- TRL ci ha un po’ scombussolati. Ma d’altronde già allora avevo parlato con Fler, e quindi sapevo che lui non c’entrava niente. È stato… molto d’aiuto, in quel periodo. – e mi stupisco di essere riuscito a non nominare Bill nemmeno una volta. Bushido inarca le sopracciglia. Se ne accorge, forse. Capisce che c’è qualcosa che non va. Non lo so. Io continuo. – Poi Fler mi ha convinto a fare qualche indagine. E così abbiamo scoperto chi era stato a farti fuori. – mi prendo un attimo di pausa per capire come dirglielo, perché credo che queste non siano notizie facili da dare. Queste non sono nemmeno notizie che si danno, in genere. Non dici a un morto chi l’ha ucciso. Non quando ti può ascoltare, almeno.
Lui, comunque, mi anticipa.
- Saad. – dice, ed io sollevo gli occhi nei suoi e lo fisso come se lo stessi vedendo adesso per la prima volta. – L’ho immaginato quando ho saputo che era morto. – mi spiega lui con un mezzo sorriso. – Sono stato… mi sono tenuto informato, ecco.
Io annuisco e deglutisco ancora, con maggiore difficoltà. Mi sembra che più cose io tiri fuori più ciò che resta dentro si allarghi e prenda tutto lo spazio. E mi rendo conto che in realtà non è così. In realtà è solo Bill che si espande. Prima stava compresso nel mio petto assieme a tutto il resto, ma adesso tutto il resto sta uscendo. E lui si sta riprendendo il suo spazio. Ed io non voglio buttare fuori anche lui. Non voglio.
- Quindi siete stati voi a- - comincia Bushido, ma non finisce, perché Fler lo ferma.
E, visto che Fler mi conosce, lo fa.
Sa che io non lo tirerò mai fuori. Sa di doverlo fare lui al mio posto.
- Ti ha vendicato Bill, Anis.
Bushido si irrigidisce sul divano. Lo faccio anch’io, sulla mia poltrona.
Fler respira per tutti e due. È l’unico che lo faccia, d’altronde.
Eko si schiarisce la voce e si alza in piedi.
- Me ne vado al cesso. – borbotta con tono serio, - Voi raccontategli pure dei mesi in cui piangeva di continuo, io non voglio più sentirne nemmeno accennare. – commenta, sparendo in corridoio. Eko ha tutta una serie di problemi, quando si parla della sofferenza di Bill. Un po’ perché l’ha sempre considerato una lagna, un po’ però anche perché ricordo che i primi tempi, quando passava a trovarmi e lo trovava piangente sul mio divano, non sapeva mai che pesci prendere. La principessa in lacrime lo confonde, non sa come consolarla. E c’erano serate in cui i suoi soliti movimenti goffi e sgraziati non bastavano a far sorridere Bill. Di quelle serate, Eko non vuole più sentir parlare.
Quando sento la porta chiudersi, Bushido sta già preparando quella faccia lì. Quella delle domande gravi e importanti. L’ultima volta gliel’ho vista addosso quando mi ha spiegato cosa avrei dovuto fare con Bill in caso lui fosse morto. Rivederla adesso, quando ho mancato in quasi tutti i compiti che mi erano stati assegnati – tranne in quello di tenerlo vivo – è tremendo.
- Come sta Bill?
Lo chiede a voce bassissima. È il tono delle grandi occasioni. Delle grandi domande. Di quelle che non ammettono rispose elusive.
Ed io non so che dirgli.
Sta bene, perché sta con me.
Sta bene, e non so come starebbe se sapesse di te.
Sta bene, e non voglio che scopra di te.
Sta bene, ed ho paura di immaginare che starebbe meglio se gli dicessi che sei vivo.
- Sta bene. – ma è la voce di Fler a parlare. – Sta bene, Anis. Non preoccuparti.
Lui annuisce e vedo chiaro nei suoi occhi il desiderio di chiedere di più. Però non sa cosa, e di questo ringrazio, perché giuro che io non so più neanche cosa pensare. Figurarsi se riuscirei anche a dirgli qualcosa. Comunque solleva lo sguardo e lo fissa nuovamente su di me, riprendendo a sorridere.
- Grazie, Chaky. Sei stato un ottimo braccio destro.
Io lo guardo ed è la prima volta in mesi che mi viene da piangere.
Fler si alza in piedi.
- Credo che dovremmo andarcene tutti a casa a dormire, Anis. – dice a mezza voce, sorridendo sereno, - Te compreso.
Lui ride.
- Io da qui non mi muovo, Eko ha una camera degli ospiti che è un paradiso. – scherza, alzandosi a propria volta. – E poi credo che abbia ancora qualche altra curiosità su noci di cocco e signorine di facili costumi, da soddisfare. Visto che comunque… - si prende una pausa e deglutisce, - …sono stato via a lungo, mi sembra giusto restare finché non sarà completamente a posto.
Andiamo via con Eko che ci strilla alle spalle di non lasciarlo solo con il fantasma. Bushido lo afferra per il collo e se lo tira dietro, strofinandogli forte le nocche contro la testa, fra i suoi addolorati lamenti di protesta, e Fler ride ad alta voce e dice ad Eko che ognuno ha quello che si merita, e mentre lui lo dice io non posso che pensare che è una delle cazzate più enormi che gli siano mai uscite di bocca. Mi chiedo se ci creda e, mentre lo osservo smorzare il sorriso fino a lasciarlo scomparire del tutto appena la porta si chiude, realizzo che no, non ci crede affatto, e ritrovo un pezzo del mio Fler – intendo, quello che ho conosciuto io, quello con cui ho praticamente diviso tutto per gran parte dell’anno scorso e quello a cui ho continuato a pensare mentre andavo avanti con la mia vita intrecciandola alla vita di Bill.
Sospiro.
- Sei stato insopportabile. – commento mentre ci avviamo verso l’uscita.
- Sì, me ne sono reso conto. – annuisce lui, tranquillissimo, - Mi dispiace. Non è una cosa che controllo. Dovresti averne una mezza idea.
Sospiro ancora, mentre apro lo sportello della macchina posteggiata qua davanti.
- Stai continuando ad essere insopportabile. – gli faccio notare, infilandomi nell’automobile. Aspetto che faccia il giro della macchina e prenda posto al mio fianco, lo aspetto con una naturalezza perfino disturbante, ma mi accorgo che è disturbante solo nel momento in cui lui è effettivamente seduto e ci guardiamo come non avessimo idea di cosa fare adesso.
- Ti accompagno a casa? – chiedo a mezza voce, continuando a guardarlo incerto.
- Ovviamente sì. – risponde lui, quasi inorridendo. – Che pensavi?
- Non pensavo. – mi mordo un labbro. – Ci credi, se ti dico che non pensavo, vero?
- Ovviamente no.
Ingrano la marcia e metto in moto la macchina.
- L’Escalade la lasci qui?
- Sì. – annuisce lui, - Ma se deve essere tutto questo dramma, riportarmi al mio fottuto appartamento, la recupero e vado da solo.
- Fler, ti prego, è stata una serata abbastanza difficile-
- Ed io dovrei già essere a letto con i bagagli pronti per dopodomani. – ringhia ancora lui, guardando la notte fuori dal finestrino. – Cazzo. Ora come lo dirò a Sido?
Lo guardo, fermandomi al semaforo.
- Dirgli cosa?
Lui sospira pesantemente, scuotendo il capo.
- Che non parto più.
Scatta il verde ma io non mi muovo. Nessuno suona perché sono le due del mattino e questa zona a quest’ora non è affatto frequentata, perciò resto lì a due passi dall’incrocio e l’unica cosa che riesco a pensare è…
- Non parti?
Fler sospira ancora e si volta finalmente a guardarmi. Lo vedo che fa fatica. Mi dispiace che debba fare tutta questa fatica. So che era più facile per lui, quando poteva concentrarsi solo su Bushido. So che non è facile restare da solo con me. Lo vedo dal modo in cui trema appena la luce nei suoi occhi.
- No. – risponde alla fine, - Qualcuno dovrà pure essere nei dintorni a raccogliere i pezzi, quando dirai a Bushido che il suo ragazzino ora è il tuo ragazzino.
Mi si ferma il cuore in gola e ripenso all’inizio di questa serata. A me che, sicurissimo, riflettevo e mi dicevo che era impossibile Fler lo ammettesse ad alta voce. Assolutamente impossibile. E parlavo, sicuro del mio vantaggio. Adesso mi sento vulnerabile come un bambino.
- …già. – annuisco, rimettendo in moto. – Mi dispiace. – aggiungo poi. Mi ci sento quasi costretto.
Lui ride.
- Pensi davvero che ce l’abbia con te per questo? – chiede a mezza voce. Io non lo so. So solo che dovrebbe avercela con me e basta, per un motivo qualsiasi. Scelga lui. – Noi siamo a posto, Chaku-
- Non è vero. – mi guarda, io lo evito. – Non è vero che siamo a posto. Non dirlo.
Lo sento sospirare ancora.
- Okay. – annuisce alla fine.
Non diciamo più nemmeno una parola, fino a che non arriviamo sotto casa sua. È lì che, quando lo vedo scivolare fuori dalla macchina, mi viene voglia di fermarlo. Ci sono delle serate che ho trascorso con Fler che ricordo come infinite. Una è quella in cui l’ho violentato. Una è quella in cui abbiamo ammazzato Saad. Questa è un’altra. Sono sempre sere che è difficile lasciare andare via. Lasciare che si concludano sembra assurdo. Lo fermo afferrandolo saldamente per un polso e lui ricasca sul sedile. Ha fatto la stessa cosa quella notte lì, la prima delle nostre notti infinite, solo che allora cadere l’ha costretto a mugolare di dolore. Ora sospira soltanto, rassegnato, come se lo aspettasse.
- Dimmi, Chaku.
Sospiro anch’io.
- Allora ci vediamo domani?
Lui si volta a guardarmi.
- Potresti… non lo so, fregartene? Fare finta che io non esista? Dimenticarti di me, cancellarmi completamente da quella testaccia di cazzo che ti ritrovi? È un’ipotesi contemplabile, Chakuza?
La risposta viene fuori naturale.
- No.
Restiamo immobili solo per un secondo. Lui ha già le gambe fuori dalla macchina ed una mano piantata nel sedile a sostenere il peso del corpo. Quando la solleva per afferrarmi per il bavero del giubbotto, si avvicina quasi automaticamente, e prima di poterlo realizzare davvero ci stiamo già baciando – frenetici e sconvolti, pure con una certa rabbia, come se nessuno dei due lo volesse davvero, o odiasse dover ammettere di volerlo, invece.
Si stacca da me con violenza, ansimando, ed io lo trattengo per la maglia. Non lo vedo, perché lascio gli occhi chiusi.
- Cristo. – me lo sussurra sulle labbra, - Vaffanculo. A te, ai tuoi no del cazzo e a questa situazione di merda. Vaffanculo.
Non rispondo, continuo a cercare di recuperare un ritmo più decente per il mio respiro. E continuo anche a trattenerlo.
- Lasciami andare, Chakuza, Cristo santo. – mi implora lui, quasi con dolore, ma non mi toglie le mani di dosso. Continua a stringermi per il giubbotto.
- Ti lascio appena mi lasci tu.
- Vaffanculo.
- Piantala.
- Vaffanculo, Chakuza.
Restiamo a respirarci addosso ancora per qualche secondo, in perfetto silenzio. Poi mi lascia andare e, quando lo fa, anche io lascio andare lui. Mi ritrovo i suoi occhi addosso appena apro i miei. Sono furiosi e gelidi. Deglutisco.
- Ora sono io che dovrei chiederti perché l’hai fatto. Dopo avermi detto che non volevi più vedermi, poi. – dico duramente, reggendo lo sguardo, - Ma non te lo chiedo, Fler. Perché lo so già. Tu che dici?
Dice che mi tira un cazzotto, evidentemente.
Batto con la testa contro il finestrino, dietro, e mi faccio un male cane. Non so se mi fa più male la testa o lo zigomo su cui è arrivato il cazzotto.
- Cazzo! – mi lamento, cercando di massaggiarmi ovunque contemporaneamente, - Fler?
Lui è già uscito dalla macchina.
- Sei un pezzo di merda. – mi dice, furioso, - Ci vediamo domani. – e poi chiude con violenza lo sportello ed entra nel palazzo, scomparendo alla mia vista.
Rientro in casa mezz’ora dopo con un mal di testa allucinante e lo zigomo gonfio e bollente. Vorrei ficcare la testa nel freezer, almeno… non so se servirebbe a qualcosa, in realtà, ma è quello che voglio fare adesso – anche solo per andare alla ricerca di un qualche cosa di freddo da mettermi in faccia – quindi apro lo sportello, e prendo a smadonnare quando chiaramente il cazzo di aggeggio è del tutto allagato, dal momento che ha deciso di rompersi. Fanculo anche a lui. L’acqua è colata fin nello scompartimento di sotto, e ne viene fuori un odore disgustoso. Dio che schifo.
Dovrei pulirlo, probabilmente, ma non mi va per niente. Sfilo il maglione che odora di Fler e mi viene la nausea. Sarà il senso di colpa: visto che sono troppo incasinato per percepirlo davvero, si presenta come voglia di vomitare. Sono già a due passi dal bagno, quando squilla il cellulare.
Il nome sullo schermo mi gela il sangue nelle vene. Lo fisso per un tempo che mi pare lungo minuti interi e non riesco a decidermi su cosa fare. Sono quasi le tre. Dovrebbe stare dormendo.
- Bill? – chiamo piano appena riesco a convincermi ad accettare la chiamata, - È successo qualcosa?
- Aaaah, Peter! – mi strilla nell’orecchio, ma non è un urlo spaventato, è solo concitato e un po’ ansioso e c’è anche una traccia di quell’eccitazione irrazionale che prende Bill quando è preoccupato per qualcosa di stupido che sa perfettamente andrà nel migliore dei modi ma sul quale si diverte a ricamare drammi senza motivo. – Ci hai messo una vita a rispondere, mi stavo preoccupando!
- Bill… - sospiro, - ma hai visto che ore sono?
- Sì, naturalmente, ma dovevo chiederti se sei riuscito a fermare Fler, non pretenderai mica che aspettassi domattina! Se non ci sei riuscito dovrò andarlo a recuperare io personalmente. – borbotta con aria cospiratoria, - Scommetto che hai fatto fiasco. Devo mettermi il cappotto? Metto il cappotto. Mi passi a prendere? Andiamo insieme.
Mi passo una mano sulla testa, cercando il bernoccolo. Lo trovo e lo pesto un po’. Cristo che male.
- Bill… - lo richiamo, mugugnando, - …sono quasi sicuro che tu mi abbia nascosto qualcosa.
Lui si lascia andare ad una mezza risatina imbarazzata.
- Fler mi aveva chiesto di non dirti che voleva andarsene. Perché voleva parlartene lui per primo, capisci?, non potevo tradirlo.
Mi si conficca uno spillo nel petto solo a sentire la parola. Solo a sentire lui parlare di tradimento. Lui che per me ha sfilato l’anello e il bracciale di Bushido. Li ha tolti di mezzo – e li aveva tenuti addosso per mesi, prima – solo per far spazio a me. Ed io… Cristo.
- Non devi preoccuparti per lui. – lo rassicuro, deglutendo a fatica, - Ha deciso di restare, alla fine.
Bill strilla contento.
- Davvero?! Ma è fantastico! E come ci sei riuscito?!
Ha provato ad andarsene e me lo sono stretto contro, Bill. Tutto qui.
- Gli ho fatto capire che avevamo ancora tutti bisogno di lui.
Bill ride ancora.
- Bravo! – si complimenta, - È vero.
- Già.
Mi lascio andare sul divano e poi affondo il naso fra i cuscini. C’è l’odore di Bill, qui. È un odore piacevole, un odore tranquillo. È sempre lui, sempre uguale, sempre lo stesso da mesi. Non è un intruso, non è sbagliato, è l’odore che dovrei avere addosso sempre. Poi ripenso a Bushido vivo in casa di Eko. Non so più quale sia l’odore giusto. Non lo capisco più.
- Peter? – mi chiama lui, - Sei stanco, vero? Lo sento dal modo in cui respiri.
Sbuffo una mezza risata.
- Capisci se sono stanco dai miei respiri?
Ridacchia anche lui.
- Ovviamente sì. – dice con una punta di orgoglio. – Ci sentiamo domani verso mezzogiorno? Così dormiamo e poi ci organizziamo per la giornata, okay? Ho voglia di vederti…
Inspiro ed espiro e penso solo al profumo.
- Sì, anch’io ho voglia di vederti.
Bill ride.
- Allora ci sentiamo domani. Buonanotte. – dice a bassa voce, prima di interrompere la conversazione.
Tutte le luci di casa sono spente ad eccezione di quella del bagno. Sento il bisogno fisico di una doccia, ma sento molto più il bisogno di dormire qui, perciò lascio perdere l’odore di Fler. Lo butto fuori dalla testa a calci. Affondo ancora più profondamente fra i cuscini e mi addormento.

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Scritto Sul Corpo

di lisachan
Quando apro la porta di casa, Bill è così slanciato in avanti che praticamente mi cade fra le braccia. Siccome non pesa niente, reggerlo non è difficile e non è che a ritrovarmelo addosso io faccia fatica a sostenerlo. Siccome, però, è illegalmente alto, se mi si getta addosso in questa maniera, mantenere il giusto equilibrio è un po' problematico, ed è per questo che, appena me lo vedo cadermi sopra, lascio andare un lamento un po' stupito e cerco – invano – di reggermi sulle due gambe che la natura mi ha dato. Purtroppo fallisco nel tentativo e in meno di due secondi io e Bill ci ritroviamo a terra. Io ho anche battuto con una certa forza – tra l'altro contro qualcosa che non sono certo di volere identificare – ma Bill sta ridendo, perciò è tutto ok.
Lo sento chinarsi un po' sul mio collo, mentre mi stringe con più convinzione e continua a ridere. Per un secondo penso voglia solo baciarmi, poi lo sento strusciare il naso contro la mia pelle e vado nel panico – solo un momento, il momento che in genere uso quando Bill sta per dirmi “sei stato con Patrick”. È un momento che mi serve perché “stare con Patrick” ha valenze tremende, nella mia testa. Sono valenze che non esistono, nella testa di Bill. Io non so lui cosa creda facciamo io e Fler quando stiamo insieme. Probabilmente è convinto che giochiamo a scacchi o qualcosa del genere. Comunque questo momento mi serve per tranquillizzarmi e convincermi del fatto che no, Bill non sta per accusarmi di alto tradimento, sta solo per annunciarmi che ho l'odore di Patrick addosso. Che per me equivale all'alto tradimento di cui sopra, ma per lui no. Quindi devo calmarmi per forza, se non voglio fare qualche cazzata delle mie.
- Hai ancora il suo odore addosso! - ride quindi, sistemandomisi in grembo e scatenandomi una guerra fra le gambe. Che poi, veramente, vorrei alzarmi e dare una testata contro il muro, ma di quelle forti, perché è indecente la successione di eventi che mi ha portato a questo momento. Cioè, io ieri ho quasi schienato Fler contro lo sportello della sua Escalade, eh. Ed eravamo tipo in mezzo alla strada. Io non so con che diritto faccio certe robe, giuro. Le faccio senza volerlo, forse. Che poi non è vero, è che probabilmente voglio un po' troppe cose tutte insieme.
Oltretutto, non è mica tanto normale che Bill mi riconosca addosso l'odore di Fler. Non è tanto normale che lo riconosca e non è tanto normale nemmeno che lo accetti lì com'è. Però c'è anche da dire che Bill probabilmente è davvero convinto noi si giochi, quando si va insieme da qualche parte. Che poi io e Fler non siamo mai andati da nessuna parte, tipo. Solo quando s'è trattato di Saad, e lì non si andava certo per divertirsi, comunque.
- Sì, ci... – invento palesemente, - è che aveva freddo.
Non che io mi renda conto di cosa ho detto. Cioè, aveva freddo. Che vuol dire, che l'ho scaldato? E come? Prego che Bill non me lo chieda perché non saprei come nascondergli che avevo una buona metà della sua lingua in gola, ieri sera, mentre ci dibattevamo come due ossessi fra il volante, il cruscotto e la leva del cambio. Penso a Fler, al cruscotto, alla leva del cambio, alla sua lingua in gola e cerco di calmarmi.
Bill, comunque, annuisce come se la mia fosse stata la risposta più logica possibile. E se me ne stupisco io davvero nella testa di questo ragazzo c'è qualcosa che non va. E d'altronde è il mio ragazzo. Sarebbe strano se fosse normale.
- L'importante è che sia rimasto. – dice quindi con una tranquillità addirittura inquietante. Dico io, d'accordo. Pure per me va bene se è rimasto. L'ho limonato perché rimanesse. Avrei probabilmente fatto di tutto purché rimanesse – e nemmeno sapevo che anche a Bill l'idea che lui partisse dava fastidio.
Non intendo sentirmi giustificato sul punto o pensare roba del tipo "eh, ma se alla fine Bill è d'accordo, il sacrificio è valso la pena". Baciare Fler ieri – e comunque mi ha baciato lui, credo – è stato quanto di più lontano da un sacrificio abbia mai vissuto nella mia intera vita.
Ma ho problemi più seri di questo, al momento. In realtà Bushido è vivo quindi io, a Fler, non dovrei nemmeno pensare. Così come non dovrei pensare a nient'altro che al fatto che Bushido è vivo anche ora che Bill mi si sistema addosso con la palese intenzione di farmi impazzire.
Oltretutto, pensare a Fler ieri mi dà ancora fastidio, soprattutto se lo associo a Bushido. Ma ho già detto che non dovrei pensarci, quindi perché lo sto facendo?
Comunque annuisco, anche perché Bill – a vedermi qua immobile che lo fisso con la solita occhiata da triglia che riservo di default a tutti gli uomini che scopo, per un motivo o per l'altro, quando dicono cose che mi sconvolgono – potrebbe pure insospettirsi. Quindi, appunto, annuisco e forzo un mezzo sorriso, incerto sul da farsi. Bill risolve il problema alla radice sporgendosi in avanti e baciandomi.
Io mi ci perdo tempo niente, nel senso che non si può davvero pretendere della razionalità, da me, perché io non ne ho in questi frangenti. Non riesco davvero nemmeno a colpevolizzarmi del tutto per aver baciato Fler, perché non è una cosa che mi stupisca. Io, davvero, non ce la faccio a frenarmi, di fronte a certe cose. Non lo faccio per cattiveria, lo faccio per affetto. Il mio enorme problema è che io Bill lo amo. Quindi se Bushido dovesse mettersi in testa che lo rivuole indietro, non so davvero come riuscirei a staccarmene. O come potrei fare a trattenermi e non saltargli addosso anche sapendo che non è più mio. Il problema si ripropone con Fler: io con quell'uomo c'ho una roba, non ho idea di cosa sia, mi fa paura la possibilità di capirlo un giorno, ma se mi si piazza davanti, io non ce la faccio a tener giù le mani. E' più forte di me, ma non è che voglio fargli del male. Non voglio fare del male a nessuno, io li voglio solo per me.
Lo stringo per i fianchi, attirandolo contro di me con una mano e cercando di eliminare la roba che ho sotto il sedere con l'altra. Il pavimento non è mai stato in cima alla lista dei posti in cui scopare, ma non ricordo di averlo fatto per terra con Bill neanche una volta, potrebbe essere un'esperienza. Bill mi mugola e mi sorride fra le labbra, io sorrido fra le sue e mi preparo a sentire dolore alla schiena per il resto dei miei giorni mentre lui mi appoggia le mani sulle spalle con una leggerezza che non ha bisogno di chiedere niente, e mi spinge a stendermi sul parquet, che scricchiola un po' sotto il nostro peso mentre Bill si solleva leggermente per sfibbiare i pantaloni e guardarmi con un sorriso sornione che mi manda fuori di testa.
Si tira su sulle ginocchia ed i jeans scivolano lungo i suoi fianchi stretti e magri. Io mi mordo un labbro e lui ansima pesantemente quando sollevo una mano a sfiorarlo attraverso il tessuto sottile dei boxer. Mi lascia fare, seguendo col bacino i movimenti della mia mano e strusciandosi lentamente contro il mio palmo aperto, e nel mentre afferra la maglia per gli orli inferiori e la tira su.
E lì i miei problemi vengono di nuovo fuori tutti nel loro ordine di importanza. Lì metto da parte le cazzate, veramente, perché c'è un particolare del corpo di Bill che tendo ad ignorare, dimenticare, cancellare – dato che lo odio – ma che esiste. È lì ed è enorme, è impossibile fingere che non esista.
Perciò deglutisco e, anche se continuo a muovere la mano sul suo corpo, so già che fare l'amore adesso non sarà bello come avevo sperato. Perché vedere quel tatuaggio a me mi manda fuori di testa. E non in senso positivo, per una volta.
Quattro mesi fa, Bill si è presentato a casa mia con un sorriso smagliante sul volto ed i lineamenti un po' tesi e provati. Bill ha quella faccia lì solo quando litiga con Tom, quando è stato ingiustamente privato della propria settimanale dose di Fler – che è peraltro una cosa che posso capire benissimo, anche se mi auguro che fra loro due non funzioni esattamente come funziona fra noi due – e quando torna stanco da un qualche impegno lavorativo. Al che, quando l'ho visto spuntare sulla soglia con quel faccino, mi sono giustamente preoccupato. Gli ho chiesto cosa ci fosse che non andava, lui ha risposto con un mezzo sorrisino scuotendo il capo e aggiungendo "è stata solo una giornata un po' faticosa", poi mi ha baciato, io l'ho tirato su per i fianchi, l'ho steso sul materasso e, quando gli ho sfilato di dosso la maglia, l'ho visto.
E lì mi sono fermato. Per la prima e unica volta nella mia intera esistenza – io non mi fermo mai – io mi sono fermato. Mi sono fermato, l'ho guardato, ho cercato di trattenermi e gli ho chiesto cosa cazzo fosse quel fottuto tatuaggio.
Sul suo fianco sinistro, ancora un po' arrossato e macchiato qua e là di inchiostro e qualche gocciolina di sangue già vecchio, campeggiava un'enorme frase il cui senso intrinseco ancora mi sfugge - "non smetteremo mai di gridare, torneremo alle radici", non è una frase che davvero significhi qualcosa: le radici dei Tokio Hotel sono i Devilish ed io mi auguro che Jost sia un uomo abbastanza furbo da impedire che questo crimine contro l'umanità possa avvenire. Comunque non era importante che quella frase avesse o meno un senso. Il punto non era la frase. Il punto era la forma del tatuaggio.
Quel tatuaggio è una B.
Mi si potrebbe dire che no, non è vero, non è una B, sono due dannate frasi che si intrecciano l'una con l'altra e l'illusione ottica di quell'intrecciarsi forma qualcosa di simile ad una dannata B – che peraltro, se anche fosse una B, potrebbe tranquillamente essere l'iniziale di Bill, Bill è un egocentrico e da lui un po' queste cose uno se le aspetta.
Se io non conoscessi Bill bene quanto lo conosco, probabilmente darei anche ragione a motivazioni simili. In realtà io lo conosco. In realtà so che, se non me ne ha parlato, è perché sapeva che non avrebbe avuto niente da dirmi al riguardo. Che la decisione era già presa ed io avrei anche potuto tirar giù la casa a cazzotti e urlargli in testa la qualsiasi, il risultato non sarebbe cambiato, lui quel tatuaggio l'avrebbe avuto.
Bill agisce così solo quando si tratta di Bushido. L'ho visto succedere. Ho visto venir giù un temporale epico, una roba da arca di Noè, verso i primi di gennaio, l'anno scorso. Ho visto Tom e Fler uniti nel tentativo di convincere Bill non fosse il caso di andare al cimitero a dare alla lapide di Bushido la lieta novella della morte di Saad per sua mano. Ma Bill è stato irremovibile, lui doveva andare e sarebbe andato, e l'ha fatto, alla fine. Fler l'ha accompagnato – Tom s'è giustamente rifiutato – ed al suo ritorno, quando me lo sono ritrovato congelato sulla soglia di casa che implorava per una secchiata d'acqua bollente in testa, mi ha raccontato scene allucinanti che vedevano Bill immobile davanti alla lapide che raccontava alla foto sorridente di Bushido ogni singolo minuto di quella notte disastrosa, mentre la bufera gli agitava i capelli e gli congelava le lacrime sulle ciglia e il sorriso sul volto.
Bill fa così, quando si tratta di Bushido. Ed è per questo che questo tatuaggio parla di lui.
Gli lascio scorrere addosso la mano libera, Bill geme ed io corro con le dita oltre l’orlo del boxer, perché si sta perdendo nelle mie carezze ed adoro quando lo fa. Adoro osservarlo quando chiude gli occhi ed il mio nome comincia a tremargli sulle labbra come volesse pregarmi e non riuscisse a capire bene per che cosa – come non riuscisse a capire se mi vuole più veloce, più lento, più a fondo o appena più indietro, semplicemente perché tutto ciò che vuole è avermi ovunque in ogni modo e non sa come chiedermelo.
- Peter… - mi chiama piano, ed io gli sfilo lentamente i boxer. E mentre lo faccio lo guardo e lo trovo ad accarezzarsi piano il fianco, dal basso verso l’alto. Mi ha detto che lo fa perché lì la pelle è molto sensibile e passarci sopra con la punta delle unghie gli dà i brividi.
Io credo che ogni tanto Bill abbia bisogno di accarezzarsi addosso Bushido. Credo che non lo faccia coscientemente, però ci sono dei momenti in cui ha bisogno di sentirselo sulla pelle, e questo ormai è l’unico modo in cui può farlo.
Fa male. Fa malissimo pensare che Bill ha tolto il bracciale e la fede e che togliere di mezzo quelle cose ha portato solo a peggiorare la situazione. Prima non c’era Bushido scritto sul suo corpo. Adesso sì. Adesso quell’onda di inchiostro nero gli marchia la pelle e resterà lì per sempre. Bill non se la strapperà mai di dosso, fa parte di lui. Come Bushido, in realtà: lui è sempre stato lì; questo tatuaggio, più che esserselo impresso sulla carne, Bill l’ha lasciato affiorare passo dopo passo. Ed io lo so. Lo so mentre lo stringo e mentre lo accarezzo fra le gambe e mi inumidisco le dita ed entro dentro di lui con tutti i dannati riguardi del caso, piano piano, lentamente, con delicatezza. E lo so mentre mugola e geme il mio nome, e smette perfino di accarezzarsi il fianco. Bushido resta lì, ed il fatto che resti lì è spaventoso adesso come mai prima, perché adesso Bushido è qui per davvero.
Ogni tanto mi chiedo se Bill non abbia tolto i gioielli pensando già a quando si sarebbe tatuato quella B addosso. O se forse sia stato un bisogno nato successivamente, proprio perché mancava il peso dell’oro e dell’argento e dei brillanti di Bushido attorno al suo polso ed al suo anulare sinistro. Mancava quel peso e lui s’è inciso addosso un peso diverso ma ugualmente importante, forse.
Non lo so.
Non riesco davvero a pensarci quando lo sento stringersi ritmicamente attorno a me, seguendo la traccia delle mie spinte lente e calibrate. Non riesco a pensarci anche se vorrei e forse dovrei, e per un attimo – solo uno – riesco perfino a dimenticare che Bushido è ancora vivo, che questa storia non può che finire male e che in questo momento ho l’impressione che la storia fra me e Bill non sia ancora nemmeno cominciata, che sembra già sia costretta a concludersi.
Riesco a dimenticare tutto per un solo momento, per il momento in cui Bill trattiene il respiro e poi viene fra le mie dita, per il momento in cui lo sento stringersi convulsamente un’ultima volta attorno a me e vengo anch’io, soffocando gli ansiti pesanti sulla pelle morbida e profumata del suo collo. Lo dimentico e spengo il cervello per tutti i secondi successivi, cercando di prolungare le dimenticanze il più possibile, cercando di infilare in quel buco nero di tutto – Bushido, Fler, perfino il mio incasinatissimo cervello – lasciando riaffiorare solo Bill.
- Mi sei mancato così tanto ieri… - mi sussurra Bill direttamente all’orecchio. I suoi capelli sono ovunque addosso a me, mi solleticano il naso e mi s’infilerebbero negli occhi se non tenessi le palpebre abbassate. Il pavimento è duro e scomodo ed io dovrei dire al mio ragazzo che il più grande amore della sua vita non è morto come crede. Ma non posso farlo, perché dirglielo implicherebbe perderlo. Ed io forse pecco di egoismo, ma non sono disposto a cederlo. Così come non sono disposto a cedere nient’altro.
Non so davvero come farò a guardare nuovamente negli occhi Bushido.
Non so davvero come farò a guardare nuovamente negli occhi nemmeno me stesso.
Non so davvero, soprattutto, come farò a guardare nuovamente negli occhi Bill.
- Anche tu mi sei mancato tanto. – rispondo tirandomelo contro per la nuca ed aiutandolo a sistemarsi per bene contro il mio corpo. – Resti un po’?
- Sono scappato col benestare di David! – mi informa lui con una risatina, mentre si stringe contro di me in cerca di un po’ di calore, - Resto a cena ed anche per la notte. Contento?
Io mi lascio sfuggire un sorriso un po’ triste. Fortunatamente, Bill non può vederlo.
- Sì, molto. – sussurro piano, prima di baciarlo ancora. E tapparmi la bocca. Perché è sicuramente meglio così.

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Green Eyed Monster - Vol. 1

di tabata
Qualche mese fa pensavo che per quanto ci avessimo provato, le cose non sarebbero mai tornate alla normalità. Voglio dire, avevamo scatenato un casino di dimensioni talmente epiche da ribaltare lo stato naturale delle cose, quindi mi aspettavo che – per quanto le acque potessero calmarsi – non ci sarebbe mai più stata una vera e propria condizione di normalità a cui tornare. E' quello che succede sempre quando ad un certo punto della tua vita ti rendi conto che tutto quello in cui credevi è andato a farsi benedire e intorno a te ci sono solo cose che non tornano. Sei così angosciato e perso nella tua personalissima e tragica visione delle cose che, in effetti, credi che non esisterà mai più una realtà diversa da quella che vedi in quel momento e che, per altro, ti fa stare malissimo. In realtà, poi, se anche ti sembra che il mondo vada a rotoli, non è detto che quello ci vada davvero. Anzi, non lo fa quasi mai. Tu sei lì che cerchi di rimanere a galla nel mare di problemi in cui stai affogando, e il mondo prosegue fregandosene di te e dei casini che hai per le mani in quel preciso momento. Quindi poi, alla fine, le cose in un modo o nell'altro si sistemano – magari non proprio nel modo in cui speravi tu, ma in qualche modo sì – e tu ritrovi la strada dalla quale ti eri momentaneamente allontanato e riprendi a funzionare con il resto del mondo. E' un po' come riprendere il filo di un discorso dopo che ti sei distratto un attimo. Ti chiedi Dov'eravamo rimasti? E riprendi da lì. Non te ne accorgi neanche, di farlo. Lo fai e basta, perché non dipende esattamente da te, ma da ciò che ti circonda, da quello che fai ogni giorno, dagli impegni e dagli affetti. Ti puoi volontariamente allontanare per un po', ma poi quelli tornano, ti assalgono e non puoi più ignorarli. Devi reagire e quando lo fai, basta, riprendi il via. Un giorno ti chiedi come si possa uscire da una certa situazione e il giorno dopo ti rendi conto che ci sei uscito, che lo volessi o no, che il mondo prima o poi riparte con o senza di te. E a quel punto fai meglio ad esserci perché se non ci sei è peggio.
Quel giorno per me è oggi. Sono disteso sul letto a guardare il soffitto e penso che sono felice. Non mi ricordo quando ho iniziato ad esserlo di preciso, ma non è successo adesso, di questo sono sicuro. Cioè, non è che ho aperto gli occhi e in quel momento sono stato felice. No, io so che lo ero anche mentre dormivo e quando sono andato a letto ieri sera, solo che non ci ho fatto caso. Ora invece è tutto quanto chiaro. Sono qui che guardo il soffitto e non la sento più quella morsa allo stomaco che mi faceva venire la nausea. Sto bene, ecco. Penso che quando capita in questo modo, cioè che passi un lungo periodo in cui sei così infelice da non sapere dove sbattere la testa e poi un giorno ti svegli e non lo sei più, significa che la felicità si è fatta strada piano piano, ha messo radici, è cresciuta e si è presa tutto lo spazio di cui aveva bisogno mentre tu ancora pensavi che niente mai sarebbe più tornato ad essere quello che era. E invece quella, la felicità dico, ora è ben salda dentro di te e ha intenzione di rimanerci il più a lungo possibile. Ha delle basi solide, penso, per rimanere lì ferma dov'è, nel centro esatto dello stomaco a liberare farfalle o a farti sentire leggero, o qualsiasi cosa sia che si sente quando si è veramente ma veramente felici. Insomma, penso che quando non sai com'è arrivata, non è una felicità momentanea, ma una cosa forte e duratura, il tipo di felicità migliore che esista. Lo penso davvero questa mattina.
Decido che questa conoscenza improvvisa vada condivisa così mi giro e cerco di fare più rumore possibile mentre lo faccio, ma Peter non accenna a svegliarsi. L'unica cosa che fa è allungare un braccio nel sonno e agganciarmelo in vita, per poi attirarmi a sé come un camion da rimorchio. Un attimo dopo sono incastrato tra lui e il materasso e ho poche speranze di uscire di lì se lui non decide altrimenti. Se non fosse che gli devo dire quanto sono felice, rimarrei qui dove sono perché non mi capita spesso di svegliarmi prima di lui. In genere quando apro gli occhi lui si sta già aggirando per casa a mettere in disordine o a far da mangiare, una delle due cose, quindi non lo vedo mai tranquillo e abbandonato come adesso.
Lo bacio piano sullo zigomo e sulla guancia e lui borbotta qualcosa di incomprensibile, infilandomi il viso nell'incavo della spalla mentre stringe la presa. Sto ottenendo l'effetto contrario, mi viene da ridere. Il fatto è che è stanchissimo, il mio amore, perché ha partecipato a non so quale manifestazione in Austria ed è tornato a Berlino solo quattro ore fa, l'ho sentito rientrare nel dormiveglia. In pratica non abbiamo neanche parlato perché quando è svenuto sul mio letto, stava già praticamente sonnecchiando e a me non è rimasto altro che accoccolarmi addosso a lui e riprendere a dormire. Quindi forse non dovrei tentare di farlo reagire baciandolo di nuovo, ma glielo devo proprio dire. Al terzo bacio arriccia il naso, ma si rifiuta ostinatamente di aprire gli occhi. “Bill, che c'è?” Mugola. “Ti senti male?”
“No,” rido. “No, affatto.” Lo bacio ancora sul naso e sulle guance. “Ti svegli?”
“Sono già sveglio,” commenta con gli occhi chiusi.
“Allora apri gli occhi.”
Sospira in maniera esageratamente drammatica e poi finalmente li apre. “Che succede?” Mi chiede, passandosi una mano sul viso.
“Sono felice,” dico. Cerco un bacio e lo trovo anche, perché Chakuza può anche dormire, ma è in grado di fare cose, nel mentre.
“No, sei una piaga,” mugola ridendo. “Sei felice di cosa?”
“Di tutto,” specifico. E quando lo spingo sul materasso si lascia stendere e maneggiare perché non ha ancora capito né come si chiama né dove si trovi esattamente, così io posso sedermi sopra di lui senza sforzo. Sbuffa solo un pochino quando atterro sullo stomaco. “Mi sono svegliato ed ero felice.”
Lui si mette a ridere. “Okay, sono felice che tu lo sia,” mi tira giù per la nuca e mi bacia di nuovo.
Io scivolo un po' in avanti e mi sistemo meglio. Gli do un motivo in più per non sgridarmi se l'ho svegliato. “... Ma credo di non avere molta autonomia per continuare questa conversazione.”
“A che ora sei tornato?” Chiedo.
“Le cinque.”
“Le cinque,” ripeto, baciandolo piano sul collo. “Sei un sacco stanco, allora.”
“Molto.”
Quando scendo a baciargli il petto, però, sento il suo respiro cambiare, così è facile capire che non è abbastanza stanco per decidere di non festeggiare questa mia felicità generale in maniera adeguata. Qualche giorno fa David deve avermi accennato ad una riunione, a delle prove, ad un'intervista o qualche altra sciocchezza simile per oggi. E non sono nemmeno tanto sicuro dell'ora, ora che ci penso. Dovrò chiamarlo. Ma al momento non vedo ragione per non rimanere un altro po' in questo letto ad occuparmi di quest'uomo così stanco e assonnato, appena tornato dalla terra straniera dove ha affrontato centinaia di austriaci tutto da solo.
“Credo che dovremmo fare qualcosa a riguardo.”
Sollevo gli occhi su di lui un'ultima volta, prima di scivolare oltre la linea dei suoi addominali. Quando mi chiama è relativamente sorpreso, perché in effetti non capita sempre che io sia così ben disposto. Non di prima mattina e di certo non così di punto in bianco. E' che non dev'esserci un vero e proprio motivo, o non è abbastanza divertente.
Peter a letto è uno a cui piace avere il controllo su qualsiasi cosa, per cui sedurlo è difficile. Voglio dire, non sto parlando di farlo cedere – quello è anche troppo facile. Addirittura non necessario a volte, perché lui parte sempre ben disposto a prescindere – ma di condurre il gioco, farlo impazzire un po', ecco quello è complesso. Farlo stare fermo e buono mentre tu fai il resto certe volte è impossibile perché a lui piace allungare le mani e averti sotto le dita, toccare, accarezzare. Gli piace averti, più di qualunque altra cosa. L'unico modo per coglierlo di sorpresa è fare qualcosa quando non se lo aspetta o quando, come adesso, si aspetta tutto un altro corso di eventi. E magari il fatto che non sia proprio ancora sveglissimo aiuta.
Così mi godo il suo corpo che si inarca sotto le mie labbra, mi godo il controllo che ho guadagnato e attendo con ansia quello che poi mi spetterà, una volta che gli sarà permesso di schienarmi come e quanto vuole. In questo preciso momento, io dovrei davvero fare uno sforzo e chiedermi se David non mi abbia detto qualcosa di importante, ma naturalmente non lo faccio.
Così quando suonano alla porta – non alla prima, non alla seconda, ma alla terza volta sì – sono costretto ad abbandonare i miei sogni di gloria e Peter è costretto a fare altrettanto perché non c'è modo di ignorare la voce insistente di Tom che chiama il mio nome.
Sospiro e lo bacio sul petto. “Mi dispiace,” mormoro e nell'allungarmi su di lui sento contro una coscia la speranza che Tom ha infranto senza pietà.
Chakuza mi prende per la nuca e mi trascina in un bacio profondo. “Ignoriamolo.”
Potrei. In questo momento ne ho molta voglia perché condivido la grossa speranza di cui sopra e mio fratello non rappresenta un ostacolo finché si trova al di fuori del mio appartamento.
“Bill, non costringermi ad aprire con le chiavi,” esclama Tom, alzando la voce. “Sappiamo entrambi che io non voglio vedere quello che stai facendo.”
Rido e piego un po' la testa per impedire a Chakuza di mordermi il collo. Ora che si è attivato, è difficile spegnerlo. “Devo aprire.”
“Scommetto che se lasci che entri per conto suo, poi non ci rompe più.”
“Forse,” mi scosto e gli do un bacio come consolazione. “Ma non vogliamo arrivare a questo.”
“No, non vogliamo,” cerca di convincersi lui, tirandosi su a sedere mentre io corro ad aprire la porta che Tomi minaccia di buttare giù a testate.
Mi do un'occhiata veloce: maglietta, pantaloni, capelli prima di aprire la porta con un sorrisone che inviti alla calma, alla pazienza e soprattutto all'amore fraterno duraturo nei secoli dei secoli, amen.
“Finalmente,” commenta Tomi, che non deve essersi svegliato affatto felice come il sottoscritto.
“Scusa, stavo...” gesticolo ma poi decido che non ho una scusa adeguata. “Ciao Tomi.”
“Ciao,” borbotta lui e si guarda intorno. Fa una scansione completa della casa ogni volta che viene a trovarmi come se si aspettasse di vederla cambiare irrimediabilmente o forse, non so, crede che un giorno sarà costretto ad entrare qui dentro con la forza perché nessuno gli aprirà e la troverà vuota. Non so come fargli capire che non ho nessuna intenzione di trasferirmi in Alaska da un giorno ad un altro senza dirgli niente. “Lui è qui?”
“Sì, sono qui.” Chakuza ci raggiunge e credo che il suo indossare soltanto i pantaloni del pigiama sia una chiara provocazione nei confronti di Tom. Saluta mio fratello con un cenno della testa, quindi ci supera per andare in cucina.
Non è che Tomi lo odi e credo che non lo disapprovi neanche. E' solo che ha sempre recitato la parte del fratello maggiore che deve proteggermi, quindi anche se si è imposto di non sclerare come è successo in passato, non riesce comunque ancora a passare sopra al fatto che Peter dorme da me tutte le volte che può e che, per questo, loro due s'incrociano molto spesso.
Quindi la situazione è questa: Tom non urla e strepita e, in generale si comporta molto bene, ma ha la necessità fisica di fare la faccia seria del Se fai del male a mio fratello, te la vedi con me, e di lanciare a Chakuza un sacco di occhiatacce. Fortuna vuole che Chakuza sia bravissimo ad ignorarlo, per cui in generale, non c'è molto da arginare.
“Beh, che succede?” Chiedo alla fine.
“Succede che David mi ha mandato qui a vedere se ti ricordavi dell'intervista di Bravo e a giudicare dal tuo pigiama e dalla faccia che non commenterò, direi che non te la ricordavi affatto.”
E allora mi torna in mente che in effetti David mi aveva parlato di un'intervista, per altro importantissima, perché è tipo la prima dopo l'uscita del singolo e dopo tutta questa grande rivoluzione. Ora che mio fratello me lo sta dicendo, ricordo perfino dov'eravamo, io e David, mentre mi spiegava per filo e per segno che cosa mi aspettava. Eravamo a pranzo fuori e lui aveva la faccia seria delle grandi occasioni. So che David mi ha chiesto di essere il più vago possibile su quello che riguarda la mia vita privata, anche se ovviamente la metà delle domande riguarderà quella. Sorridi, mi ha detto, ma non dargli corda. E per l'amor del cielo non ti arrabbiare. Come se fosse mai capitato in questi sei anni che per un qualche motivo io dessi di matto e staccassi la testa a morsi in diretta a qualcuno. “Sì, giusto, l'intervista,” cerco di fare mente locale. “Devo ancora farmi la doccia.”
“Allora muoviti,” alza gli occhi al cielo e mi spinge verso il bagno. “Hai mezz'ora per fare ogni cosa, poi ti prendo così come sei e ti porto da David. Io oggi potevo starmene a casa a far niente invece che farti da babysitter!”
“Ti voglio bene anch'io, Tomi.”

*


Tom diceva sul serio quando parlava di trascinarmi fuori di casa così com'ero.
A fare la doccia ci ho messo un po' più del necessario, ma lui non ha voluto sentire ragioni. Mi ha preso per un braccio e mi ha trascinato fuori di casa che avevo ancora da sistemarmi i capelli, così mi tocca farlo in macchina con l'aiuto dello specchio che c'è nell'aletta parasole, niente in confronto al mio specchio a muro. Tomi non mi ha lasciato nemmeno salutare Chakuza come si deve. “Un minuto in più non cambiava niente,” mi lamento.
“I tuoi minuti durano intere mezzore, Bill, dal momento che hai il vizio di trasformare un normalissimo saluto in una scena madre.”
“Esagerato,” mi difendo. “Sono solo affettuoso.”
“Troppo,” sibila lui. “Tra l'altro, sei sicuro che sia il caso di lasciare quell'uomo in casa tua da solo?”
“Quell'uomo,” specifico, “si chiama Peter.”
“Quello che è,” borbotta. “In ogni caso è sempre un estraneo.”
Alzo gli occhi al cielo. “Dobbiamo di nuovo avere questa conversazione?“
“Vorrei solo che tu facessi le cose con calma.”
“Non gli ho chiesto di venire a vivere con me!” Replico senza pensare.
Tom mi guarda e poi torna a guardare la strada. Rimaniamo in silenzio per un po' e siccome non so bene come riprendere il discorso e, a quanto pare, non lo sa neanche lui, accendo la radio e mi fermo sulla prima stazione che non passa la mia voce o quella di qualcuno coinvolto in questa conversazione. Mi sono svegliato felice, stamattina, e sono ben intenzionato a rimanere tale.
“Voglio solo che tu non ci batta il muso, stavolta,” esclama alla fine.
Rimango in silenzio.
“Bill, okay, senti... Io non è che non sia felice per te, okay?” Mi dice mentre cambia marcia, senza voltarsi a guardarmi. “Sono un sacco felice perché sei tranquillo e tutto, ma hai l'abitudine di farti prendere bene dalle cose quando vanno anche solo un minimo per il verso giusto. Ti dico solo di prendere le cose con calma, di non... esagerare.”
“Cassandra dorme da te più di quanto faccia io,” commento.
“Lei non ha le chiavi di casa mia, però.”
Sbuffo e guardo fuori dal finestrino. Il fatto è che sta montando su queste chiavi una storia che non esiste. Ho dato le chiavi a Peter perché in questo periodo è sempre in giro per questo o quell'altro motivo, e torna ad orari improponibili del mattino. Se dovesse andare a casa sua, dormire lì e poi passare da me, perderemmo tutti un sacco di tempo. Invece appena rientra, può venire a dormire a casa mia, così almeno ci svegliamo insieme. Guarda un po' se devo spiegare una cosa del genere a mio fratello che, voglio dire, non fa esattamente l'impiegato per cui lo sa quant'è difficile, alle volte, far coincidere i nostri orari con quelli del resto del genere umano che ha una vita normale. Figurarsi poi se la persona con cui usciamo ha i nostri stessi problemi. Ricordo che con Anis a volte era un disastro, quando io riuscivo finalmente a ritagliarmi un momento libero, lui magari doveva correre all'altro capo della Germania per ritirare un premio. O magari quando io rientravo a casa alle cinque del mattino da un after-party, lui si stava alzando per andare a girare un video in piena Templehof. Tom non ha mai avuto una fidanzata vera, ma aveva David che gli urlava in testa se per assurdo una delle sue groupie rimaneva tra i piedi fino all'ora di pranzo, per dire. Quindi dovrebbe proprio capirle queste cose, solo che il suo cervello si rifiuta di processare il concetto.
Alla fine, dopo cinque minuti di silenzio, Tom decide di mollare l'osso. “Siamo arrivati,” avverte. Generalmente quando veniamo intervistati, ci sono le guardie del corpo e soprattutto c'è David che gestisce tutto fin nei minimi dettagli ma questo è un caso particolare. Innanzitutto il nostro manager è impegnato a stabilire cosa riserva il futuro ai Tokio Hotel e, come se questo non bastasse, sta probabilmente cercando di capire come gestire il singolo che abbiamo appena registrato, nonché fatto uscire sul mercato, il tutto senza che io e Peter incrociassimo Anis. Non è stato facile, immagino, ma David ha compiuto il miracolo; solo che per farlo si è probabilmente complicato la vita, così adesso io e Tom dobbiamo arrivare in redazione da soli. Ci sarà sicuramente parte del nostro staff, là dentro, ma è comunque strano muoverci per conto nostro.
Se continua di questo passo, ha detto David, mi verrà una sincope e dovrete muovervi per conto vostro molto più spesso perché finirò in ospedale con un doppio bypass. Era così petulante che nessuno di noi è rimasto per ascoltare la fine della frase, credo.
Comunque conosco bene la giornalista che mi intervisterà e non sono nervoso nemmeno un po'. Non posso vantare una carriera ventennale, ma in questi casi ti basta essere stato in giro per tre mesi ai nostri livelli per prevedere più o meno che tipo di domande ti arriveranno. Io posso già ragionevolmente prepararmi qualche risposta. Il singolo sta andando benissimo e l'esperienza è stata senza dubbio interessante. Sono molto stanco, ma amo il periodo di promozione. No, la band non è così gelosa di me come sembra...
Gerda è piccolina e bionda, la sua mano sembra quasi sparire nella mia quando ci salutiamo. La prima volta che mi ha intervistato io avevo dodici anni e non vedevo l'ora di raccontarle tutta la mia esistenza. Lei sembrava entusiasta di scoprire cosa avessi da dire. Ora non è esattamente così per nessuno dei due, ma lei non è cambiata per niente e per quanto, forse, se ne freghi di cos'ha da dire Bill Kaulitz, è rimasta comunque molto gentile.
Ci fa accomodare nel suo ufficio e ci offre acqua, tè e caffè dalla macchinetta. Mio fratello coglie l'occasione per fare il galante e si preoccupa lui di recuperare qualcosa per lei. Alzo gli occhi al cielo e penso vagamente che se Cassandra anche solo lo viene a sapere gli stacca braccia e gambe e le usa per picchiarlo. In quest'ultimo periodo sono stato un po' troppo preso dai miei problemi per interessarmi come si deve a questa sua relazione che sta diventando più fissa di quanto lui dia a vedere, ma potrei sempre recuperare il tempo perduto invitandoli entrambi a cena. Credo sia da quando abbiamo tredici anni che mio fratello mi priva della possibilità di fare comunella con la sua ragazza, visto che da allora non ne ha più avuta una. E io non entro in confidenza con le donne di una notte.
Gerda prepara il suo minuscolo registratore e lo mette acceso vicino a me. “Da che cosa vogliamo cominciare,” inizia sorridendo. “Il tuo ritorno sulle scene dopo quasi un anno, il nuovo singolo o i pettegolezzi?”
“Hai detto cominciare, questo significa che posso solo decidere l'ordine ma non gli argomenti?” Scherzo.
Lei annuisce, sullo stesso tono. “Esattamente,” dice convinta.
“Allora iniziamo dal singolo,” scelgo. Se non altro è un terreno di lavoro sul quale sono molto ferrato dopo la conferenza di quattro ore che David ha tenuto solo per me. Grazie al girare furioso delle sue rotelline amburghesi ho già pronta una risposta per ogni plausibile domanda che mi verrà fatta nei prossimi dieci minuti.
“Com'è nata la scelta di una collaborazione con due artisti tanto diversi da te come Bushido e Chakuza.”
Non sono troppo sicuro che questa domanda sia nella categoria giusta. Le lancio una mezza occhiata interrogativa ma rispondo. “C'era da tempo l'idea di una collaborazione simile. Bushido aveva già lavorato in passato con cantanti pop, come Cassandra Steen e voleva ripetere l'esperienza. Prinzessin si prestava bene.”
“Quindi non è stata scritta, diciamo, a causa di certe circostanze.”
“No,” rispondo secco.
“E com'è lavorare con due rapper?” Corregge il tiro, lei. “Ci sono processi diversi tra diversi tipi di musica?”
“Non esattamente. In realtà non abbiamo lavorato insieme. Ognuno di noi ha registrato la sua parte e poi sono state unite insieme. Forse l'unica cosa che lo ha reso diverso è stato il fatto che questa è la prima canzone che canto senza aver messo mano al testo. Mi è stato semplicemente chiesto di interpretarla. Non era mai capitato prima.”
“In questo progetto sei stato coinvolto tu da solo,” prosegue lei. “Dobbiamo forse aspettarci una carriera solista?”
“No, assolutamente no,” esclamo. Mio fratello mi sta guardando come se ci fosse stata anche la più remota possibilità che dicessi di sì. “E' stata un'esperienza che si chiude qui. I Tokio Hotel stanno già lavorando al nuovo album e io sono ancora con loro, a meno che non decidano di buttarmi fuori.”
“Vedremo,” s'intromette Tomi ridendo.
“E del video cosa mi dici?” Continua Gerda. “Ha fatto scalpore. C'erano scene un po' forti.”
“Non esageriamo adesso,” la sminuisco sorridendo e guardandola dritta negli occhi, tant'è che è lei ad abbassare lo sguardo. “Era solo un video che nessuno si aspettava.”
“Un video in cui tu e Bushido-”
“Era un video tipicamente pop per una canzone che è essenzialmente rap,” la interrompo, portando la discussione altrove. Con la coda dell'occhio vedo che mio fratello si è mosso impercettibilmente più vicino a me. “Una cosa nuova. Lavorare con Hans è stato un vero piacere.”
“Potreste...” lei si schiarisce la voce, riordinando i fogli “... potreste lavorare con lui in un futuro. Magari per un video dei Tokio Hotel, stavolta?”
“Certo, perché no?”
Per qualche istante restiamo in silenzio. Tom mi ha portato un bicchiere e una bottiglietta di acqua naturale, così me ne verso un po' e bevo con tutta la calma nel mondo. Ho la chiara sensazione di avere tutto sotto controllo e la cosa mi dà una certa soddisfazione.
“D'accordo, passiamo oltre,” fa lei alla fine e mi rivolge un sorriso che preannuncia già quello che sta per dire, quindi sorrido anch'io. “Chakuza come sta?”
“Bene,” rispondo, ridendo. “Sta molto bene. Vi saluta!”
La notizia di me e di Peter è diventata di dominio pubblico almeno uno o due mesi fa e naturalmente non è successo per caso. Noi per primi abbiamo fatto pressione perché potessimo annunciare che stavamo insieme con una regolare conferenza stampa, in modo da ufficializzare la cosa nel migliore dei modi esattamente come ci eravamo promessi. Ma ovviamente la Universal non ci ha dato il permesso di fare le cose per conto nostro, sedendoci di fronte ad un microfono e ad una telecamera e dire semplicemente “Sì, stiamo insieme,” perché sarebbe stato perderne in qualche modo il controllo e perché, soprattutto, in questo modo non avrebbero potuto montarci sopra metà della promozione dell'album. Io e Peter eravamo contrari, naturalmente, ma David mi ha fatto capire che non avevamo molta scelta. Anzi, che non ne avevamo proprio nessuna. Così, preso atto del fatto che se volevamo rendere pubblica la nostra vita privata, dovevamo anche lasciare che i dirigenti se la inventassero, io mi sono rassegnato, Chaku ha rotto un mobile e poi si è rassegnato anche lui.
Dunque, la versione ufficiale è che durante la presunta morte di Bushido, io e Chakuza ci siamo avvicinati finché fra noi non è nato un sentimento sincero – queste sono le esatte parole del comunicato stampa che David deve aver composto sotto l'effetto di un quintale di zuccheri e molti film di Julia Roberts – la qual cosa, per altro, è l'unica parte vera della faccenda.
E poi da qui, hanno calcato la mano. Volevano poter vendere me e Chakuza come qualcosa che facesse scalpore, ma dal momento che la Universal gestisce principalmente me e non Bushido, hanno fatto in modo che se ci fosse qualcuno da biasimare, quello fosse lui. Così la versione ufficiale è che dopo il suo ritorno non previsto, Anis ha cercato di recuperare non solo il suo regno ma anche il suo rapporto con me, che ero contrario perché già occupato e non disposto a perdonarlo per essersi finto morto. Lo hanno dipinto come un egoista e un prepotente, che ha tentato più volte di imporsi sulla mia persona, così che io e Chakuza ne uscissimo come la rappresentazione dell'amore che trionfa o qualcosa di molto simile.
Non sono fiero di questa cosa, davvero, ma come ho detto, non ho avuto molta voce in capitolo. E possiamo considerarci fortunati che la Universal non abbia fatto circolare la notizia – con l'idea poi di non confermarla mai ufficialmente - che io e Anis fossimo andati per vie legali, che ci fosse di mezzo una restrizione cautelare e cose simili, perché so che la volontà c'era, anche se poi è stato deciso che avrebbe generato più casini che pubblicità.
Così la storia tra me e Chakuza è esplosa come una bomba e ha fatto il giro della Germania praticamente all'istante. La marea umana che ci segue da sempre e che si era ingigantita prima con la storia del Chaku ferito alla puntata di TRL e poi con la presenza costante di Fler nella mia vita, è naturalmente diventata immensa al ritorno di Bushido dal regno dei morti, con conseguente semi-santificazione da parte del suo popolo di fedelissimi, per poi diventare un'onda anomala dopo la mia rottura con Anis e il seguente annuncio del fidanzamento con Chakuza. Un'onda anomala che in un primo momento si è soltanto sollevata ruggendo, e che poi si è divisa e infranta su due scogliere diverse e opposte.
Adesso siamo in mezzo a due schieramenti contrapposti che sostanzialmente si basano sull'atteggiamento che tengono nei confronti di Chakuza e, in base a quello, ne consegue poi quello che pensano di me – che non è sempre bello ma con il quale ho imparato a convivere. David, l'altro giorno, con molta praticità, mi ha detto: finché non ti tirano dietro niente, non preoccuparti. E io l'ho trovata una cosa sensata.
Chi ha preso Chakuza in simpatia, lo fa perché ha un occhio di riguardo per il sottoscritto. Ci vogliono bene insieme, come coppia, e la frangia anti-Bushido più estremista – che poi è la stessa che già gli urlava contro anche prima e che non si era placata nemmeno con la sua morte – ora odia Bushido ancora più furiosamente, come solo certe fan sanno odiare.
Chi invece odia Chakuza, odia anche a me. Questo gruppo è composto soprattutto dalle persone che già odiavano me prima della morte di Anis e che non vedendomi di buon occhio allora, mi ci vedono ancora meno adesso perché ciò che considerano tiene conto soltanto di Anis e non di tutta la situazione. Giusto o meno che sia.
Ad essere onesti, esiste un terzo gruppo di persone, delle quali è più difficile parlare perché sono quelle a cui io e Bushido, insieme, dobbiamo di più. Sono le persone che volevano bene a noi due, come coppia e che ci hanno sempre sostenuti anche quando magari rapper e fan accanite ci davano contro. Loro ci credevano. Quando Bushido è morto hanno sofferto per lui e per me, quando è tornato e le cose non sono tornate com'erano, si sono sentite tradite. Da me, che non l'ho rivoluto e da lui che era sparito per lasciarmi solo e che, quando è tornato, non si è comportato come si aspettavano. Certo, queste erano decisioni che spettavano a me e a lui soltanto e dalle quali non avrebbero dovuto sentirsi così coinvolte, ma l'affetto del pubblico non lo puoi spegnere a comando. Se vuoi che ti supporti e gioisca con te, poi devi sopportare che si arrabbi quando ai suoi occhi fai una cazzata. E io, per loro, l'ho fatta.
“Non vi fate vedere spesso in pubblico, voi due,” la voce di Gerda mi riporta nella stanzetta tutto sommato minuscola in cui ci troviamo.
“Siamo solo molto bravi a far perdere le nostre tracce,” commento, senza mai allontanare lo sguardo da lei. Mi stringo nelle spalle. “E poi Peter non è tipo da feste mondane.”
“Preferisce stare in casa?”
Vedo Tom alzare gli occhi al cielo.
Sorrido, divertito. “Già, ma prometto che alla prima premiazione disponibile me lo porto dietro, così potete vederlo tutti,” uno dei fotografi del giornale da qualche parte alla mia destra mi scatta una foto. “Quindi votate per me se vi capita, così potrà salire sul palco.”
Immagino che Peter mi perdonerà se ho promesso di sfoggiarlo in giro come un trofeo.
Lei ride. “Non mancheremo, Bill,” dice.
E l'intervista si chiude, più facile del previsto.

*


“Che ore sono?” Chiedo a mio fratello, indossando gli occhiali da sole.
Siamo appena in primavera e già il sole picchia troppo forte per i miei gusti. Non che mi dispiaccia il caldo, è solo che se devo sudare preferisco essere su una spiaggia. Mi chiedo se Fler sarebbe disposto a fare un salto ai Caraibi con me, dopo la promozione, anche se quasi mi passa la voglia al pensiero di doverlo mettere su un aereo e tenercelo per otto o nove ore senza che si agiti in preda al panico. Senza contare che se adesso sto via con Patrick per una settimana, è capace che Peter si fa venire una sincope. L'ultima volta che ho provato ad accennargli l'idea, si è messo a fare l'insalata di riso e quella non è mai un buon segno. Ci vorrà ancora del tempo prima che riesca a convincerlo che io e Fler non facciamo niente di male e che ho bisogno di queste vacanze di tanto in tanto.
“Sono quasi le una,” mi dice mio fratello, sistemandosi la fascia sulle treccine.
Tiro fuori il telefono e, come pensavo, ci trovo un messaggio. Generalmente Peter non è mai in ritardo, quindi se adesso non è qui nell'atrio della redazione di Bravo, significa che non può venire.
“Che succede?” Tom inclina la testa di lato, cercando di decifrare l'espressione del mio viso mentre sto leggendo.
“Dovevo pranzare con Peter, ma non ce la fa a liberarsi,” mormoro. Dovrei sapere che queste sono cose che succedono, ma faccio comunque una smorfia. Stamattina mi ero svegliato bene, mi sarebbe piaciuto continuare su questa strada. Sospiro e rimetto a posto il telefono, chiedendomi se riusciremo mai a completare una giornata senza che uno dei due debba necessariamente avvertire l'altro che ha un impegno improrogabile.
“Senti facciamo così, ci vengo io a pranzo con te,” si offre Tom, mentre mette in moto l'auto. Si volta a guardarmi un istante, con un sorriso. “Dimmi dove vuoi andare.”
In questo preciso istante potrei fermare il nastro della mia vita e rimandarlo indietro, aspettare che mio fratello mi ripeta la domanda e quindi, presa coscienza della stupidità del mio subconscio, dare una risposta diversa da quella che invece mi esce dalle labbra. Ma non lo faccio, perché in quel momento non mi rendo conto delle associazioni di idee che dovrebbero essere lampanti.
A mio fratello do l'indirizzo di un piccolo ristorante in periferia. Una specie di locanda vecchio stile, con stoviglie e coperti rustici, cucina famigliare, quelle robe lì. Tom non l'ha mai sentito nominare, naturalmente, ma non fiata. Ci sediamo ad un tavolo d'angolo, un po' nascosto dietro una colonna. Direi che non ci sono gravi rischi di essere riconosciuti, dal momento che l'età media intorno a noi è di novantadue anni, ma non si sa mai.
Lui tira su il menu e guarda un po' me e un po' la lista. “Non fare quella faccia,” finge di essere annoiato e alza esageratamente gli occhi al cielo. “Vi siete visti due ore fa.”
“Lo so,” sbuffo.
“E vi rivedrete tra due ore,” continua.
“Lo so!” Sbuffo di nuovo.
Lui mi guarda. “E allora piantala di sbuffare, Principessa sul pisello. E datti una mossa a scegliere o non mangiamo più.”
Lo vedo che subito si auto-compiace del pessimo gioco di parole che è riuscito a tirare fuori. So che in questo momento vorrebbe avere al suo fianco Georg per condividere l'immensa volgarità del tutto. “Tomi, per favore...”
“Sì?” Fa lui, ancora ridendo, ma lo sento solo vagamente perché la porta si è aperta e Bushido è appena entrato nel locale. Seguito da Fler.
Mi chiedo perché oggi fra tutte le centinaia di migliaia di ristoranti di Berlino io abbia scelto proprio di venire qui. Poi mi do del cretino perché questo è il ristorante dove io e Anis venivamo quando lui piantava in asso la crew da un minuto all'altro e io riuscivo a scappare dalle grinfie di David abbastanza a lungo da mangiare un boccone con lui. E, visto che questo è un posto dimenticato da Dio, era facile incontrarsi qui. In più c'era la storia che Bushido adora questo posto perché, come dice lui, dentro ci lavora gente vera e non pinguini inamidati, che poi è come lui definisce i camerieri dei ristoranti eleganti in cui si fa vedere per dimostrare che anche i tunisini senza padre possono mettersi la cravatta. Evidentemente quando mio fratello mi ha chiesto il ristorante, io ho risposto sovrappensiero e non dovrei mai farlo. Dovrei impormi una regola zen per la quale non posso usare il cervello se non sono totalmente concentrato sull'azione precisa di usarlo.
Appurato questo, però, inizio a chiedermi perché lui, oggi, fra tutte le centinaia di migliaia di ristoranti di Berlino abbia scelto proprio di portare qui Fler. Io ho portato qui Tom, d'accordo. Ma portare qui Fler non è assolutamente come portare qui Tom.
Tom è terreno neutro.
“Bill, ma che ti prende?” Tom alla fine si rende conto che non ho mai iniziato a ridere della sua battuta e, visto che dà le spalle alla porta, non capisce il problema che mi si è appena presentato davanti. “Che diavolo stai guardan-?” Quindi si gira e io gli tiro una forchettata sul dorso della mano.
“Non ti girare!” Sibilo.
“Ahi! Cristo ma sei scemo?”
Io mi tengo dietro il menu e osservo Anis ridere. Si sono seduti ad un tavolo neanche troppo distante dal nostro ma per una volta sono contento di lamentarmi di continuo esageratamente perché, in realtà, questa locanda non è tanto piccola e mi dà la possibilità di stare qui e di non essere visto se proprio non mi metto ad agitare le braccia. Il loro tavolo sta perpendicolare al nostro, così posso vederli entrambi.
“C'è Anis,” mormoro a Tom, mentre intanto i due hanno già praticamente ordinato. Anzi no, è successo che Fler ha aperto bocca e Bushido ha ordinato per tutti e due ma a giudicare dalle fossette sulle guance di Fler, deve aver indovinato l'ordinazione.
“Tanto piacere,” borbotta mio fratello, che scuote ancora la mano ferita. Poi lo sento sospirare e mi costringe a voltare la testa verso di lui. “La pianti?”
“Non dovrebbe essere qui.”
“No?” Fa lui, sollevando un sopracciglio. “Mi sono perso il momento in cui hai comprato il ristorante e ci hai messo sopra il tuo nome.”
“Non è questo,” tento di guardare ancora, ma lui mi recupera tenendomi per il mento. “E' che non dovrebbe essere qui.”
“Molto esplicativo.”
“E' il nostro ristorante,” specifico. “E non può portare nessuno nel nostro ristorante.”
Tom si indica in maniera plateale.
“Tu non sei Fler!” Esclamo estenuato. Possibile che nessuno, né fuori né dentro la mia testa, capisca la gravità rappresentata dal concetto di Fler all'interno di questo preciso ristorante?
Patrick, dal canto suo, brilla di luce propria. Voglio dire, sono abituato a vederlo sorridere ed essere allegro, ce l'ha naturale la capacità di rischiararti l'esistenza quando ti senti uno schifo, ma non l'ho mai visto brillare così. E' quel tipo di luce che ti circonda quando tutte le tessere del tuo puzzle personale sono al loro posto e non hai più niente da chiedere. Quel tipo di luce che era accesa sopra di me stamattina, per dire. A me si è improvvisamente fulminata una lampadina.
“Bill, mi dispiace dirtelo,” esclama mio fratello, “ma voi non avete più un ristorante.”
Io mi volto a guardarlo di scatto perché questa è una di quelle considerazioni che mi coglie immotivatamente di sorpresa. Questo succede con gli avvenimenti che ti sei dimenticato di registrare per bene e poi di archiviare in un bel cassetto dentro la tua testa. Generalmente, quando succede qualcosa di grosso nella tua vita, tu quel qualcosa lo metabolizzi per primo – anche solo per il fatto che è l'avvenimento di proporzioni più grandi – e siccome, per farlo, ci metti un considerevole quantitativo di tempo, spesso tutti i piccoli dettagli che a questo grosso avvenimento sono legati a doppio filo, te li dimentichi. Li hai lasciati da parte per archiviarli in un secondo momento, in modo da avere la mente sgombra per metabolizzare il resto, e quelli sono rimasti in un angolo a prendere la polvere. Poi, mesi dopo, ti vengono in mente, ma l'avvenimento a cui erano collegati mica si fa vivo subito. E' colpa di quel metro e mezzo di filo che non hai ancora tagliato e che ti permette di muoverli in libertà senza dover aprire il cassetto chiuso a chiave.
I primi tempi, dopo la morte di Anis, mi succedeva di continuo. Pensavo “devo fare questo con Anis,” “devo dirlo ad Anis,” “devo chiedere ad Anis se...” e solo dopo mi veniva a mente che Anis era morto. E ci rimanevo di nuovo male, come se fosse morto in quel momento lì.
Adesso è più o meno la stessa cosa. Mio fratello ha ragione, non abbiamo nessun ristorante. Non c'è nessun noi a cui collegare alcunché.
La risata di Fler interrompe i miei pensieri prima che possa farlo Tom, già pronto al salvataggio. Mio fratello non lascia più che io mi estranei dalla realtà da quando Bushido è morto perché è terrorizzato all'idea di non riuscire più a tirarmene fuori. Quando è successo per la prima e unica volta, dopo il funerale, sono rimasto chiuso in casa per settimane e lui è rimasto chiuso con me, nella speranza che la sua sola presenza potesse risvegliarmi dallo stato comatoso in cui mi ero volutamente infilato per non sentire niente, non solo il dolore. Il punto era che avevo bisogno di toccare il fondo prima di dichiararmi pronto a tornare non dico a posto ma almeno un essere umano e, in qualche modo contorto, sapevo di doverlo fare da solo, che se avessi accettato la mano di mio fratello per rialzarmi poi non sarei più stato in grado di camminare senza che lui mi trascinasse. Per questo ho lasciato che se ne stesse lì in piedi senza reagire alla sua presenza.
Tom, però, questa cosa non la sa e quindi, adesso, ogni volta che mi vede un po' perso, parte subito all'attacco perché si sente in debito nei confronti del legame gemellare, visto che la prima volta gli sembra di non essere riuscito un granché bene nel suo compito. Ma Fler, come ho detto, è più veloce di lui. E' la sua risata piena e un po' rumorosa che riempie la sala a scuotermi. Io la conosco questa risata di Fler e, ora che ci penso, saranno mesi che non la sentivo.
Patrick ride in questo modo quando è felice; non che il resto del tempo non rida e se ne stia ingrugnito in un angolino ma i suoi sorrisi sono solo dolci – perché lui è fondamentalmente dolce e non importa quanto incroci le braccia, mostri le mani tese di fronte ad una telecamera o ripeta ossessivamente la parola merda nelle canzoni. E' dolce, punto. – e manca quella nota di tranquillità che invece c'è in questa risata. Io non c'ero quando lui e Anis erano ragazzini ed erano insieme, ma quando li guardo ora mi viene da pensare che fossero esattamente così e che quel tavolo, con loro due seduti e la birra e i panini caserecci, potrebbe benissimo trovarsi nel 2003 o quand'è stato che avevano la mia età e passavano il tempo per strada a taggare i treni delle metropolitane.
Per la prima volta da che li conosco entrambi mi sento tagliato fuori da qualcosa che li riguarda. Nemmeno il ghetto mi ha mai tenuto lontano con questa violenza. Qui non ci sono solo io che sembro stonato in un mondo di rapper, qua ci sono anni di un'amicizia che io non ho mai conosciuto e della quale Anis non parlava e non perché facesse male, come ho sempre pensato, ma per custodirla, perché non potessi farne parte.
E all'improvviso mi rendo conto che non so se non ci sia davvero più un noi, un me ed Anis, ma di certo adesso c'è di nuovo un loro, Fler e Bushido. O Frank e Sonny, come si fanno di nuovo chiamare adesso – cosa che mi manda in bestia perché pensavo che Sonny fosse morto quando Anis ha lasciato l'Aggro Berlin, eppure dovrei essere abituato ormai al fatto che Anis – in qualunque sua forma - non muore mai, si rigenera soltanto.
Sonny stava dormendo da qualche parte dentro di lui. Quello che mi rode, però, è che da me non si è mai fatto vedere. Non è mai stata una cosa mia. Era una cosa di Fler.
E Fler, a quanto vedo, se l'è ripresa.
“Tomi, andiamocene via,” sussurro, allungandomi a prendere la borsa per terra. C'è un'altra porta, proprio dietro di noi, possiamo uscire da lì e lui non ci vedrà.
“Ma non abbiamo nemmeno ordinato,” protesta.
“Non importa. Andiamo.” E visto che mi alzo, alla fine cede e mi segue.
Non mi guardo indietro perché non voglio vedere se si sono accorti o meno di noi.
Non m'importa. Stronzate. E mentre in silenzio saliamo sull'auto di Tom mi chiedo: se Sonny ha preso il posto di Bushido, quanto del mio posto ha preso Fler?

*


Tom non ha chiesto altro, cosa della quale gli sono molto grato perché non avrei saputo che cosa dirgli, esattamente. Qualunque sia la cosa che mi rode in fondo allo stomaco, per spiegarla a me stesso o a lui dovrei dargli un nome e, dal momento che sto fingendo di non vederla né sentirla, non posso farlo. Ho avuto un'ora per calmarmi ma non mi è riuscito tanto bene e ho scoperto che urlare lanciando i cuscini del divano per ogni dove non serve assolutamente a niente, se non a costringermi poi a rimettere in piedi tutto quello che ho buttato giù prima che arrivi Chakuza e mi faccia domande.
Quando arriva sono le sette e io ho fatto appena in tempo a far sparire i resti di un vaso che David mi aveva regalato a Natale e che se ne stava sul primo ripiano della libreria in attesa che trovassi il modo giusto per liberarmene senza dare troppo nell'occhio. A quanto pare è proprio vero che non tutto il male viene per nuocere.
In questo periodo Chakuza sta promuovendo alcune collaborazioni che ha fatto con gente di cui non ricordo mai i nomi e, fra le tante canzoni, c'è anche Prinzessin. Ogni volta che ci penso mi rendo conto che è buffo perché sia io che lui che Bushido ci troviamo in posti diversi della città a raccontare aneddoti sulla stessa canzone, senza per altro mai esserci messi davvero d'accordo su cosa dire o non dire al riguardo. Per quanto tentiamo di non darlo a vedere, dev'essere ben chiaro a tutti quanti che la responsabilità di questa canzone non la vuole nessuno e che ognuno di noi preferirebbe che ne parlassero gli altri due. Purtroppo questo non è possibile.
Chakuza è il meno entusiasta naturalmente, un po' perché è così di carattere e lui e la promozione – fino a prima del mio arrivo – avevano un rapporto che si concludeva con due interviste e un promo, più un video nel caso la canzone fosse cantata con sua maestà. Adesso invece la cosa gli pesa, gli pesa tantissimo: la canzone non gli piace affatto e non gli piace com'è stata modificata, per altro irrimediabilmente, secondo il volere di Anis, quindi non riesce a parlarne con entusiasmo né ad essere oggettivo, e siccome a mentire non è capace, glielo leggi in faccia che vorrebbe poter dire quanto volentieri butterebbe tutto nel cesso. Ma ciò che gli piace meno di tutto è quello che comporta il doverla promuovere, ossia rispondere alle domande su di me e su Bushido.
Per questo, quando la sera finisce di lavorare e poi ci vediamo, è sempre un po' nervoso e io faccio del mio meglio per farlo rilassare perché so che se lo lascio rimuginare, finisce che rompe qualcosa. Stasera, però, quando entra io sto ancora pensando a quello che ho visto nel ristorante e non sono fisicamente in grado – se mai lo sono stato – di interessarmi di qualcosa che non sia la mia persona e l'odio profondo che provo, anche se non so indirizzarlo. Voglio dire, posso odiare Bushido per svariati motivi: per avermi mentito, per non essersi fidato di me, per avermi lasciato e poi preso e poi accusato e per avermi fatto sentire in colpa a causa di Chakuza ben consapevole che mi ci sarei sentito. Posso odiarlo per avermi amato con la stessa intensità con cui l'ho amato io, perché se mi avesse respinto forse non sarebbe dovuto poi andare in America, o forse sarebbe morto davvero, non lo so, ma io e lui non ci saremmo mai fatti così tanto del male. Posso odiarlo per tutto questo, volendo, ma non di certo perché è entrato in quel ristorante in compagnia di Fler. Ne aveva tutto il diritto perché adesso è un uomo libero e non è mio.
Fler ha ancora meno colpe, credo. Fler non ne ha mai avute finora. Io non so neanche cosa l'abbia trattenuto dal restare con noi dopo la morte di Saad. L'avevamo scagionato, avrebbe potuto dire “Ci si vede” e poi sparire, tornare all'Aggro, farsi un'etichetta sua o espatriare, non lo so, ma di certo non aveva l'obbligo di rimanere lì a vegliare su di me al posto di Anis e a rimettere le cose a posto tra me e Peter. Il problema, di fatto, non sono loro singolarmente. Non ce l'ho con Anis, non ce l'ho con Fler, ce l'ho con loro insieme, col loro stupido starsene seduti lì nel mio ristorante a farsi gli occhi dolci. Fino a questo momento non mi ero mai reso conto dell'ammirazione con la quale Fler riesce a guardare Bushido; d'altronde non potevo saperlo se, quando stavo con Anis, quei due nemmeno volevano stare nella stessa stanza e poi, quando Bushido è tornato e hanno fatto pace io non ho mai avuto occasione di vederli davvero insieme. E ora che li ho visti, vorrei uccidere qualcosa di vivo giusto per provare la soddisfazione di sentire un cuore che si ferma sotto le mie dita. In questo preciso momento non mi rendo conto che è orribile pensarlo per finta quando l'ho fatto davvero, non mi ricordo nemmeno che è stato inutile. Voglio solo...
“Tu che cosa ne pensi?”
La voce di Chakuza mi arriva improvvisa, come se avessi riacquistato di colpo l'udito o qualcosa di straordinariamente simile. Mi rendo conto che ho perso il filo di un discorso che Chakuza ha iniziato entrando in casa e mi sento in colpa come se avessi appena fatto qualcosa di male. Lo osservo cercando qualcosa da dire, ma Chakuza apre il frigorifero e mangia un po' del pollo che è avanzato giorni fa, riprendendo a parlare. “Voglio dire, innanzi tutto vorrei sapere chi glielo ha dato il mio numero privato alla Universal,” esclama. “E poi vorrei sapere cos'è questa storia del tour.”
“Quale tour?” Non riesco a trattenermi e spero fortemente che non abbia passato gli ultimi due minuti a spiegarmelo.
“Appunto, quale tour? E' quello che gli ho chiesto anch'io,” mi fa lui, decidendo alla fine che spilluzzicare il pollo non è sufficiente e tirando fuori tutta l'insalatiera che lo contiene. “Da quanto è qui dentro questo pollo?”
“Qualche giorno.”
Peter annuisce e riprende a mangiare. Solo lui potrebbe considerare qualche giorno un quantitativo di tempo accettabile per continuare a mangiare qualcosa che contiene maionese. Io sospiro e mi passo la mano sugli occhi mentre ci sediamo sugli sgabelli. “E lui che cosa ti ha risposto?”
“Che la Universal vuole un tour,” risponde. E quando lo guardo con un'espressione che palesemente gli chiede che cosa sta dicendo, aggiunge: “Per Prinzessin.”
Prima ancora di chiedermi su quali basi la nostra etichetta pensi di mettere in piedi un tour per una canzone sola, mi rendo conto che questo significherebbe noi tre chiusi in uno spazio vitale ridotto, ossia secondo gli ultimi sviluppi delle nostre tre esistenze, significa che finiremmo per ammazzarci. Sento una stretta allo stomaco alla sola idea di dover occupare una cuccetta accanto o anche solo sopra o sotto a quella di Bushido. Non è mai capitato e prima che morisse lo volevamo parecchio – immaginavamo già di chiedere un bus per noi, anche se avremmo dovuto uccidere Tom e gettare il suo cadavere nel fiume per averlo – ma adesso no. Adesso non ci penso nemmeno, sarebbe un disastro di proporzioni apocalittiche anche solo ritrovarsi a giocare a carte la sera.
Per non parlare dei bisogni di Peter. Non gli ho mai chiesto come si regola lui quando è in tour, perché dubito che sopporti l'astinenza con calma ascetica. E visto che è un rapper e non ha un manager isterico e fissato che le ragazze sul bus non vuole vederle nemmeno dipinte, immagino che quando andavano in giro con Bushido, chissà che schifo non c'era in quelle cuccette. Quindi ecco, non lo so come ci comporteremmo tutti quanti, se lui volesse farlo – e vorrebbe, perché è lui e perché Bushido sarebbe lì – e io magari mi sentissi in imbarazzo. O se fosse Bushido a portarsi qualcuno. “No, non se ne parla nemmeno,” esclamo a voce alta, senza nemmeno rendermi conto che Peter non sa niente di ciò che è appena successo nella mia testa.
“Neanche io la trovo una grande idea,” mi dice.
“E poi non ha senso per una sola canzone,” insisto, scuotendo la testa.
Chakuza si schiarisce la voce e butta giù un po' d'acqua, cercando di contare quanti puntolini bianchi e neri ci siano sul piano in marmo della mia penisola, chiaro segno che deve dirmi qualcosa che di fatto non mi piacerà neanche un pochino. Tipo quando abbiamo programmato di fare determinate cose e lui passa a prendermi all'ora prefissata solo per dirmi che non c'è per tutto il resto della giornata a causa di eventi indipendenti dalla propria volontà, che nella maggior parte dei casi è Stickle. O sua madre. Così mi preparo e aspetto che alzi lo sguardo, come se i suoi occhi verdi, oltre ad essere belli, potessero in qualche modo anestetizzarmi prima di una qualsiasi notizia. Purtroppo non funziona così. “Non dovrei dirtela io questa cosa.”
“Perché?”
“Perché a me lo ha detto David e lui mi ha minacciato di morte, se te lo dicevo” commenta lui e nei suoi occhi ci vedo un po' di quello sconvolgimento che compare negli occhi di tutti quando capita loro di vedere il mio manager in una delle sue giornate peggiori. David può far paura.
“Te lo farò dire in un modo o nell'altro,” commento impassibile. “Nel caso dirò che ti ho estorto l'informazione con la forza.”
Chakuza scoppia a ridere in maniera così istantanea che mi sento quasi offeso e l'offesa compare sulla mia faccia talmente bene che lui smette subito, si nasconde dietro un tovagliolo e si scusa. “La Universal ha dei progetti,” dice poi. “Vorrebbe più collaborazioni, questo sarebbe solo un primo esperimento.”
“Collaborazioni?”
“La canzone sta andando bene,” Chakuza si stringe nelle spalle. “Siamo ai primi posti nelle classifiche. Alla gente piace.”
“Alla gente piace per quello che c'è dietro.”
“Lo so. Comunque non è sicuro,” dice Chakuza.
“Se David ti ha detto di non dirmelo, allora è quasi deciso,” replico, infastidito. Ed è un casino enorme se davvero le cose stanno così. Ne segue un silenzio un po' più lungo del normale che quasi ci mette in imbarazzo.
“Beh, Io non ti ci voglio sullo stesso tourbus con lui,” dice alla fine, lo sguardo nervoso e irritato.
Non lo voglio nemmeno io, Peter.
Perché non so come reagirei.

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Green Eyed Monster - Vol. 2

di lisachan
La mia settimana è cominciata molto male. Che non è come per dire che lunedì mi sono svegliato dopo un incubo e come prima cosa, per esempio, ho infilato le pantofole e dentro c’ho trovato uno scorpione ed ho sentito umido e mi sono accorto di avere la casa allagata scoprendo poi che s’erano rotte contemporaneamente tutte le tubature dell’appartamento a causa di un ingorgo del cesso del tipo del piano di sopra che tra l’altro ha fatto marcire tanto le travi del soffitto da costringerle a crollare e riversare liquami nel centro del mio salotto. No, quello sarebbe stato un brutto inizio di settimana, ma tutto sommato imputabile alle sfighe e ai casi della vita, le classiche cose di cui in genere ti fai una ragione rimboccandoti le maniche e scrollando le spalle prima di metterti al lavoro per rimettere tutto a posto.
No, il mio inizio di settimana è stato di gran lunga peggiore, ed è coinciso con un risveglio orribile, sì, ma per motivi molto più gravi di quelli che ho indicato sopra. D’altronde, Eko Fresh che si attacca al campanello di casa tua per mezz’ora alle sette del mattino è peggio di un incubo, uno scorpione, un allagamento e un chilo di liquami di dubbia origine, tutti assieme e centrifugati in un’unica, enorme Apocalisse. Eko Fresh è Eko Fresh, se non lo conosci non puoi capire, e se lo conosci lo eviti.
Comunque sia, immaginatemi. O se non volete immaginare me immaginate qualcun altro, non importa, in ogni caso: mi alzo, grugnisco come un orso ingiustamente svegliato dal proprio legittimo letargo, vado alla porta e spero almeno sia Bill, che pressa il campanello a ripetizione perché non mi vede da ben quattro ore e vuole assolutamente recuperare il tempo perduto chiudendosi a doppia mandata con me in camera da letto fino a domenica, e invece niente, è appunto Eko che mi guarda come gli avessero appena ucciso la madre, stringendo al petto un giornale con una mano e tenendo un pacchettino un po’ unto di olio nell’altra.
- Eko. – constato, e mi chiedo se magari posso trovare una scusa per mandarlo via, solo che lui non mi dà il tempo neanche di mettere in moto i meccanismi del cervello, perché mi scosta di lato, entra in casa e si chiude la porta alle spalle. Rigirando la chiave nella serratura. – Eko?! – chiedo, vagamente inquietato dal fatto che sia arrivato qui di corsa portando del cibo e segregandosi con me all’interno di un appartamento neanche tanto grande le cui pareti hanno visto troppo per potersi turbare ancora.
- È successa una cosa terribile. – esordisce lui, tetro, e io penso che sì, eccome se è successa una cosa terribile, siamo chiusi nel mio appartamento! Non vedo cosa potrebbe esistere di più terribile di questo. – Forse è meglio che ti siedi. – continua, annuendo pensieroso.
- Sto bene in piedi. – dico, vagamente preoccupato. Già sono in posizione svantaggiosa così, figurarsi se mi siedo. Cerco anche di dirmi che è del tutto irrazionale, da parte mia, pensare che Eko sia venuto qua e si sia chiuso con me qui dentro perché voleva approfittare del mio corpo, ma i meccanismi cerebrali di cui sopra sono ancora spenti e l’omino del cervello sta ancora passando ad oliarli tutti per bene prima di attivarli, perciò continuo a pensare che, appena mi sarò seduto, Eko mi ribalterà sull’isola della cucina e si prenderà la mia verginità, e per evitare tutto ciò resto in piedi.
- Credimi. – insiste lui, spingendomi verso l’isola della cucina – lo sapevo, io! – e forzandomi a sedere su uno sgabello, - E già che ci sei, prendi il krapfen.
- Che krapfen? – chiedo io, tirando su i pantaloni del pigiama fino ad altezze ascellari e pentendomi di non aver provveduto a comprare una cintura di castità per premunirmi rispetto ad eventualità simili.
- Quello che ti ho portato. – continua lui, perfettamente tranquillo, indicando il pacchetto unto che ha poggiato sul ripiano, - Mangia. Ne avrai bisogno.
- Senti, Eko! – mi ribello a quel punto io, saltando in piedi, - Non ho fame e non mi voglio sedere! Ora, mi spieghi qual è il tuo problema, prima che mi venga voglia di afferrarti per la collottola e buttarti fuori di casa dalla finestra?!
Eko mi guarda male e sbuffa, evidentemente indispettito dal mio comportamento, e con tutta la calma del mondo prende e mi srotola davanti agli occhi il giornale. È una rivista scandalistica di quelle che costano uno sputo ogni dieci, roba che gli edicolanti te le tirano dietro per quante gliene avanzano arrivati a domenica, e in prima pagina, proprio al centro, c’è una gigantografia di Fler e Bushido beccati da un paparazzo dentro un ristorante. Fronte contro fronte.
- …ah. – sillabo io, a corto d’aria, sedendomi istintivamente sul primo sgabello che trovo tastando con la mano dietro di me e mandando la mano non impegnata nelle ricerche ad afferrare il krapfen dentro il sacchetto. – Ah.
- “Ah” mi pare una reazione eufemistica. – commenta lui, e mentre io sono qua che stacco un morso di krapfen e spero che cioccolato e zucchero mi invadano le vene ed intontiscano il cervello, e mi chiedo quando abbia imparato il significato della parola “eufemistico”, lui si lancia in una dissertazione dissennata delle sue. – No, ma dico, ti rendi conto? Cioè, da Bushido non mi sconvolge, visti i precedenti, anche se forse dovrebbe sconvolgermi pure questo perché, voglio dire, Bill almeno sembrava femmina, potevamo dire che era confuso, - ma dire a chi, Eko? – ma il senzatetto? Voglio dire, Fler, gay? Ma te lo saresti mai aspettato?
- Io… - comincio, deglutendo a fatica. Il pezzo di krapfen è duro come marmo e non scivola giù per la gola manco morto. Rifletto brevemente sulla mia salivazione del tutto azzerata e mi rassegno a morire soffocato dal krapfen di Eko. - …non lo so.
- Ma poi! – continua lui, evidentemente scioccato da questa rivelazione, - Tu c’hai vissuto praticamente insieme per un millennio, ew! Non è che ti ha allungato mani addosso nel sonno? Tipo che ti ha ubriacato e mentre eri lì in coma etilico ti ha ribaltato sul materasso e ti si è fatto di nascosto? Hai controllato?
- No, Eko! – quasi sbotto io, fissandolo allucinato, - Non ho controllato e non— Fler non ha fatto niente del genere, andiamo, non è che siccome uno è gay… o quello che è… - inspiro ed espiro a fatica, - sente il bisogno di metterti le mani addosso e violentarti o cose simili! – spiego. E poi mi viene voglia di appendere una corda alle travi del soffitto e impiccarmi, perché… Dio mio. No, Eko, Fler non ha approfittato di me nel sonno, è più probabile che sia avvenuto l’esatto contrario, ma non è il caso che tu lo sappia.
- Bah! – conclude lui, allargando le braccia lungo i fianchi e sedendosi sullo sgabello di fronte a me, allargando la rivista sul ripiano per guardarla ancora, come volesse cogliere sfumature che non era riuscito a notare prima. – Che schifo, comunque.
- Ma che schifo cosa?! – esplodo io, irrazionalmente irritato da questa cosa, - Devo ricordarti che io sto con Bill?! Se vuoi venire a fare moralismo, vai a farlo in una casa in cui non si scopa abitualmente fra uomini!
Lui solleva gli occhi scuri e vacui e mi fissa a lungo, come non capisse dove voglio andare a parare.
- Ma che c’entra? – chiede infatti, - Bill è una cosa diversa. Lui è praticamente una donna.
E io vorrei rispondergli che no, semmai Bill è teoricamente una donna, ma praticamente è decisamente maschio, solo che poi ricordo l’indiscutibile verità nella testa di Eko – indiscutibile non perché sia esatta, ma perché è quella che vede lui e che non è disposto a cambiare neanche per tutto l’oro del mondo, visto che è l’unico universo in cui riesce a vivere senza traumi – e questa indiscutibile verità nella sua testa dice che Bill sì, potrà pure avere l’uccello, ma è comunque una femmina. Per cui per lui è ormai perfettamente normale che vada a letto coi maschi, o che un maschio abbia voglia di andare a letto con lui. Lei. Quel che è.
La cosa che mi turba davvero è che io lo so che Eko vede Bill in questi termini. E quindi, forse, se m’incazzo per quel “che schifo”, non è per Bill.
Il discorso muore lì, anche perché Eko quello che doveva fare – rovinarmi la giornata – l’ha fatto, e io due minuti dopo resto solo a darmi del coglione e pensare che tanto, peggio di così non potrà andare. Naturalmente mi sbaglio, perché due ore dopo incontro Bill e lui è taciturno ed evidentemente scazzato, e c’è un enorme problema quando Bill è sia taciturno che scazzato, perché Bill si scazza spesso ma ci tiene sempre a far sapere al mondo perché, visto che adora farlo sentire in colpa. Quando Bill si scazza e non sa dirti perché, il motivo è che non vuole farlo.
Da quando sta con me, è capitato una volta sola. Poi è venuto fuori che era per una litigata a caso con suo fratello, ma naturalmente io mi sono sempre preoccupato perché, prima che stessimo insieme, questi momenti di scazzo cronico gli venivano solo quando qualcosa gli ricordava Bushido. E allora lui era morto, quindi, insomma, non era il caso di immischiarmi. Ancora oggi, ci sono momenti come questo, in cui Bill è arrabbiato e, per continuare ad arrabbiarsi in pace, vola fino ad un altro pianeta – un pianeta sul quale io non posso raggiungerlo, dal quale mi sento distante.
Bill è rimasto su quel pianeta per tutta la settimana fino ad ora, e questo, sommato al fatto che Bushido sta con Fler e, Dio solo sa perché, questa cosa mi manda in bestia, ha reso la mia vita impossibile nell’ultima settimana.
Stamattina, comunque, dopo che ieri sera mi ha chiamato dicendomi che non sarebbe passato da casa perché era stanco e preferiva andarsene a letto a dormire – dichiarazione che in genere mi fa capire a che punto sia arrivata la sua malinconia – mi ha richiamato, per chiedermi se potevo passare a prenderlo dagli studi dell’Ersguterjunge, visto che aveva da fare qui per qualcosa. Dopo una settimana passata a vederci poco e male, e dopo l’ultima notte trascorsa senza di lui, mollarlo all’EGJ senza un passaggio per andare ovunque volesse, per quanto potessi essere irritato dalla sua distanza e dall’EGJ in generale, non era davvero un’opzione, perciò mi sono schiaffeggiato un paio di volte davanti allo specchio, mi sono dato un contegno, mi sono vestito e sono saltato in macchina.
Gli studi dell’EGJ, da quando Bushido è tornato, non sono più gli stessi che erano prima che morisse. Io ho dei ricordi stupendi, di questo posto. Serate passate ad ubriacarsi mangiando schifezze e parlando di cazzate finendo per dormire sui divani, giornate passate ad inseguire un’idea di Bushido e un beat particolarmente figo, voce su voce, in un’improvvisazione continua. Le feste, il cazzeggio, i giorni fantastici in cui il lavoro andava alla grande, tutto funzionava alla perfezione e sembravamo tutti ingranaggi minuscoli di un più grande meccanismo che una volta avviato andava avanti da sé senza dover più spingere niente.
Poi lui è morto, e gli studi sono diventati una grande camera ardente perenne. Anche senza la sua salma esposta in bella mostra in una bara col coperchio di vetro, era qui che ci riunivamo tutti per struggerci un po’, quando ne sentivamo il bisogno. Dopo il funerale, Saad ce l’aveva messa tutta per far riprendere i lavori, ma un po’ perché alcuni di noi – io per primo – non eravamo d’accordo, un po’ perché la Germania era ancora troppo scossa per pensare al rap, niente era mai ripartito per bene, perciò entrare qua dentro più che altro era riappropriarsi di quel pezzo di Bushido che avevamo perso tutti e che tutti potevamo ritrovare fra queste stanze, come se parte del suo spirito fosse rimasto intrappolato fra le molecole dell’aria, dell’intonaco grattato via dai muri, delle poltrone malandate.
Quando lui è tornato, poi, è stato anche peggio: la Universal ha preteso di colonizzare tutto, mandare emissari cui sono stati affidati uffici, e che hanno avanzato pretese, che hanno chiamato ditte di operai che hanno ristrutturato, ridipinto, rimodernato, riarredato, rinfrescato. Hanno preso tutto quello che c’era e l’hanno spazzato via, e adesso passare in mezzo a questi corridoi non mi dà più nessuna bella sensazione. Non c’è nessun ricordo legato alla moquette nuova o al divano impeccabile in pelle bianca. Non c’è nessun ricordo sulle porte girevoli o su quelle a vetri, automatiche e sempre lucide. Ora tutto ciò che mi resta camminando qua dentro è la rabbia per tutto quello che c’era e che nessuno di noi riuscirà mai più a ritrovare, perché è stato gettato via da troppe persone.
Comunque, nel momento in cui io sto qui che guardo il divano e mi chiedo se sedermi o meno, che tanto sta vicino all’ingresso e quindi, uscendo, Bill deve passare per forza di qui, in un modo o nell’altro, la voce di Fler mi impedisce di muovermi oltre.
- Che ci fai tu qui? – mi chiede, e non c’è cattiveria, nella sua voce, solo stupore e incredulità, come se si fosse immaginato tante volte la possibilità di trovarmi qui davanti a questo divano ed ogni singola volta si fosse detto “ma no, che cazzata, non accadrà mai”. È accaduto.
Mi volto lentamente, abbozzando un mezzo sorriso.
- Ciao. – comincio imbarazzato, - Scusa.
Lui sgrana gli occhi, fissandomi sempre più sconvolto.
- Di che ti scusi? – chiede giustamente. Di che mi scuso? Me lo chiedo anch’io. Mica è casa sua, questa, non sono entrato dalla finestra per svaligiargli l’appartamento. Perché non posso semplicemente dirgli “Bill mi ha chiesto di passarlo a prendere, lo sto aspettando”? Perché non posso avere una conversazione – o un rapporto – normale, con quest’uomo?
- Non lo so. – ammetto, ed è una risposta sia alla sua domanda che alle numerose che mi sono posto io negli ultimi trenta secondi. – Come stai?
Lui continua a fissarmi come fossi un alieno o sa Dio cos’altro.
- Bene, immagino. – risponde restando sulla difensiva, a qualche metro di distanza.
- Immagini? – chiedo io, inarcando un sopracciglio, - Stai bene o no?
- Sì! – sbotta lui, e poi si massaggia le tempie, sospirando profondamente. Quando torna a guardarmi negli occhi, è visibilmente più tranquillo. Invidio Fler per la capacità che ha di mettere ordine all’istante nella propria testa. Immagino sia una delle numerose eredità del ghetto, motivo per il quale non averla non è che mi deprima più di tanto, ma ammetto che è una capacità che sarebbe comodo possedere, di tanto in tanto. – Sì, sto bene, Chaku.
- Quella cosa che hai fatto… - sorrido un po’, accennando il movimento di lui che solleva le braccia ai lati della testa, - sembri un’altra persona, adesso. Funziona sempre?
Inspiegabilmente, lui capisce subito a cosa mi sto riferendo.
- Sì. – ride a bassa voce, - Stavi pensando che servirebbe anche a te?
- Esatto. – rido anch’io, e nel tempo che impiego a concedermi questa risata liberatoria, chiudendo anche gli occhi, lui si avvicina e mi posa due dita sulle tempie, massaggiando piano. Quando riapro gli occhi, la pressione delle sue dita e i suoi occhi assurdamente vicini sono le uniche cose vere in tutto l’universo. Perciò mi sembra il caso di dire qualcosa di altrettanto vero, e anche in fretta. – Mi sei mancato.
Lui smette subito di toccarmi, naturalmente, e si allontana di un paio di passi.
- Io dovrei- - comincia, ma naturalmente io gli impedisco di finire.
- È che non ci siamo più visti né sentiti! – comincio a blaterare, gesticolando come faccio solo quando non ho idea di cosa sto dicendo e spero che i miei movimenti possano distrarre dal contenuto delle mie parole, - Ero un po’ preoccupato, sai, per come ci eravamo lasciati. – realizzo solo mentre parlo che in realtà quello che è uscito da casa sua coperto di sangue ed ematomi, alcuni dei quali sono qui ancora oggi nonostante le lunghe settimane di mancata frequentazione, ero io, quindi forse dovrebbe essere lui quello che s’è preoccupato per me. Che ne sapeva, lui, di cosa mi succedeva nel mentre? Potevo uscire da casa sua e accasciarmi al primo angolo morendo per un’emorragia interna, per dire. Certo, poi i giornali in qualche modo gliel’avrebbero fatto sapere, e quindi – visto che sulle prime pagine di tutte le riviste scandalistiche non ci sono foto del mio cadavere all’obitorio bensì foto di me che passeggio con Bill, vado a cena con Bill, vado al parco con Bill e faccio un altro mucchio di cose con Bill – lui probabilmente non ha avuto motivo per preoccuparsi né nient’altro, però boh, è abbastanza assurdo che io adesso gli stia dicendo che ero preoccupato per lui. E peraltro ho continuato a parlare anche adesso che nel mentre mi stavo parlando nella testa, quindi non ho idea di cos’ho detto negli ultimi dieci minuti. Ma dev’essere qualcosa di assurdo, se mi sta guardando con quella faccia lì, come se stessi imprecando in latino mentre la testa mi ruota sul collo di trecentosessanta gradi e fiotti di vomito verde escono a fontana da ogni orifizio del mio corpo.
- Chaku… - mi chiama lui, un sorriso divertito appena accennato sulle labbra, - Chaku! – e io mi interrompo a metà di una parola che non ho pensato e non saprò mai di aver detto. – Mi sei mancato anche tu. – sorride più serenamente, appoggiandosi di spalle alla parete, - Sono contento che le ferite vadano meglio. Almeno non sei più inguardabile. – ridacchia.
E io non lo so cosa mi prende. Probabilmente la stessa cosa che mi è presa mentre Eko blaterava di lui e Bushido lunedì mattina in casa mia, ingozzandomi di krapfen e sperando bastassero per non sconvolgermi troppo. Probabilmente la stessa cosa che mi è presa tutte le volte in cui ero consapevole di doverlo lasciare andare, o doverlo quantomeno aiutare a staccarsi, o di dover rispettare la sua scelta di non volermi più rivedere. Probabilmente la stessa cosa che mi prende sempre, insomma, quando c’è di mezzo lui. Una cosa che non so e non posso fermare, una cosa a riguardo della quale mi fa paura ammettere che non voglio cercare di fermare.
Neanche me ne accorgo, quando mi avvicino, perché è un movimento talmente collaudato che ce l’ho tipo inciso nelle ossa. La forma del suo petto contro il mio, le sue spalle sotto le mie mani, le sue labbra pressate sulle mie. Il suo sapore che è sempre lo stesso.
Io non me ne accorgo, lui sì. Mi pianta addosso le mani e mi spinge indietro con forza, schiacciandosi contro la parete come se servisse a difendersi, e mi dà l’impressione che, se potesse, sfonderebbe il muro e indietreggerebbe ancora. Non può, ed è l’unico motivo per cui sto continuando a guardarlo negli occhi. Posso quasi vedermici riflesso dentro. La mia espressione confusa, come se io per primo non avessi capito cosa stavo facendo.
Lo capivo, Fler. Stavo sbagliando lo stesso, ma lo capivo.
*
Ho bisogno di appoggiarmi da qualche parte, e scelgo la parete perché sembra abbastanza rigida, dopotutto, anche se a volte ho come l’impressione che i muri all’EGJ siano fatti di cartone, tanto sono sottili, che se uno parla un po’ più ad alta voce dall’altro lato senti tutto.
Guardo Chakuza e vorrei potergli leggere nella sua testa con la disinvoltura con la quale in genere lo faccio quando non sono così confuso e turbato e minacciato – da cosa, neanche lo so – ma non ci riesco. Respiro profondamente, mi rendo conto che non mi basta, respiro ancora.
- Non- - comincio, incerto, - Non intendevo questo.
Lui mi guarda e non risponde. Ha le labbra dischiuse, gli occhi persi, e io non so che dirgli di più. Non so neanche se avergli detto quello che gli ho appena detto sia stato corretto, perché non è vero. Non lo è del tutto, almeno. Mi piacerebbe che lo fosse, ma non può esserlo se mi basta così poco per non capire più niente.
- Scu- - comincia lui, ma io mi agito subito, mi stacco dal muro e comincio a muovere le braccia per fermarlo.
- Non scusarti. – lo blocco, scuotendo il capo, - Mi sono fatto fraintendere io. Insomma, mi manchi, sì, ma non in quel senso. E poi sto con-
- Lo so con chi stai. – mi interrompe lui. Ho perso il conto delle volte in cui ci siamo parlati addosso, interrompendoci a vicenda, solo oggi. È un gioco che abbiamo condotto dalla prima volta che ci siamo visti, la verità è che io e Chakuza siamo due teste troppo dure perché dai nostri scontri possa davvero uscire qualcosa di buono. Motivo in più per cui è necessario chiuderla adesso. Sarebbe stato meglio chiuderla prima, ma se adesso è tutto ciò che resta, è adesso che dobbiamo chiuderla.
- Sto con Anis. – dico comunque. E lo dico scandendo bene ogni lettera, parlando chiaro e ad alta voce. Così che lui possa sentirlo, sentirlo davvero, e non possa ignorarlo.
Chakuza non mi guarda. Annuisce sbrigativamente, poi borbotta qualcosa sull’aspettare in macchina, che è meglio, e poi si dilegua in un batter d’occhio. Mentre lo osservo attraversare la porta per uscire dagli studi, colgo l’occhiata di sfuggita che mi lancia attraverso lo specchio accanto all’appendipanni, e nei suoi occhi – ora che sono lievemente più calmo – leggo chiaramente che sta già per dimenticare quello che gli ho appena detto, perché non c’è niente che Chakuza possa impedirsi di scordare, se gli fa comodo.
Sospiro pesantemente, riprendendo il corridoio e ricominciando a muovermi verso l’ufficio di Anis come stavo facendo prima di incontrare Chakuza di fronte al divano. Mentre busso alla porta, più per abitudine che perché Anis abbia mai richiesto da me un simile riguardo, penso che è altamente presuntuoso, e anche altamente stupido, da parte nostra, pensare di poter chiudere qualcosa che non abbiamo ancora nemmeno aperto. È il problema della nostra esistenza tentare di chiudere cose non aperte e tentare di convivere con cose mai chiuse come se lo fossero. E io ne so qualcosa.
Quando entro nell’ufficio, Anis si sta palesemente annoiando, e a me viene da ridere. Me lo ricordo ai tempi dell’Aggro, lui era uno capace di darsi alla macchia per giorni e comparire agli studi in tempo per la registrazione, fare la sua cosa e poi sparire ancora fino a chissà quando. Ora è diverso, ora c’è la Universal di mezzo, e la Universal ha tabelle con orari prefissati, appuntamenti programmati giorni prima, giornate di lavoro scandite nel minimo dettaglio. Il classico lavoro da impiegato statale dal quale Anis è sempre fuggito da che è nato, insomma, eppure ora è costretto a sottoporsi a cose simili, cose delle quali nemmeno comprende l’utilità, perché giustamente lui cosa ci sta a fare dietro a una scrivania se non ha canzoni da scrivere, demo da ascoltare o rapporti di vendita da visionare compiaciuto?
- Come va? – chiedo divertito, chiudendomi la porta alle spalle ed avvicinandomi. Lui smette di fingere di scorrere con gli occhi incartamenti inutili e si stende tutto sullo schienale della sedia, che è di quelli a molla e quindi segue la sua spinta, piegandosi all’indietro e permettendogli di stiracchiarsi come può con un grugnito di soddisfazione un po’ frustrata.
- Secondo te? – ribatte lui, tornando dritto e grattandosi distrattamente la fronte, - Voglio tornarmene a casa e non posso.
- Perché? – rido, appoggiandomi alla scrivania, - Aspetti che suoni la campanella?
- Devo incontrare un tipo… - borbotta lui, lanciandomi un’occhiata indispettita, - Un manager, cazzo ne so. Fra mezz’ora. Cristo, ma chi me l’ha fatto fare? Potevo stare sdraiato in una spiaggia a bere latte di cocco mentre le turiste mi guardavano come una specialità locale, adesso. E invece, guardami.
- E invece sei tornato nell’ostile Germania, il cui trono era stato usurpato dal tuo vigliacco fratellastro pelato, e hai combattuto per riconquistare regno e principessa.
- Per poi perderli entrambi. – sorride lievemente. Nei suoi occhi c’è una traccia di tristezza che è solo un’ombra. La scaccia via battendo le palpebre, e poi torna a guardarmi. – Cos’hai? – mi chiede, scrutandomi incuriosito.
Io distolgo lo sguardo, perché non voglio che veda. Alle volte, però, mi sembra quasi che non ne abbia bisogno. Mi sembra che i miei turbamenti li percepisca nell’aria, come quando dal niente ha capito che ero tornato a casa dopo aver scopato con Nicole. È una libertà di lettura che gli ho lasciato io e della quale pagherò per sempre le conseguenze.
- Niente. – biascico, - È tutto ok.
Lui non mi risponde, si vede lontano un miglio che non mi crede manco per niente. Resta un po’ seduto sulla propria poltrona, rigirandosi i pollici e guardandomi. Lo so perché, anche se sto fissando la parete come se stesse affiorando Gesù Cristo in persona da sotto l’intonaco, mi sento addosso i suoi occhi, e mi fanno sentire a disagio.
Poi lo sento alzarsi e fare il giro della scrivania, raggiungendomi, e solo allora torno a guardarlo e lo vedo che mi sorride. Faccio per dirgli qualcosa, ma lui si sporge in avanti e mi bacia leggerissimo sulle labbra. Sta ancora sorridendo.
Non devo dirgli niente. Chiudo gli occhi e sporgo appena le labbra. Lui ride, mi ride proprio addosso, e poi mi si stringe contro, facendosi spazio fra le mie gambe mentre io mi sollevo e mi seggo sulla scrivania, lasciandogli tutto il posto che gli serve. Piego il capo e lui approfondisce il bacio, attirandomi a sé con una mano sulla nuca. E non gli importa che la porta non sia chiusa a chiave, perché se per caso qualcuno la aprisse e ci vedesse, lui non avrebbe alcun problema a dirgli di andarsi a fare un giro mentre lui finisce di scoparmi. E questo può succedere perché lui mi porta a cena fuori, perché usciamo insieme, perché se gli chiedono se stiamo insieme, pure come una battuta, lui risponde di sì con tutta la serietà del mondo. Non perché stia legandosi a me per sempre come fossimo sposati, semplicemente perché sa che non c’è motivo di mentire a riguardo.
Non c’è niente di nascosto, di quello che siamo. È la prima volta che mi sento così in tutta la mia vita. Anis è stato l’unico a farmi sentire in questo modo. E io gli sono grato mentre lo aiuto a scostarmi i vestiti di dosso e piegarmi sul tavolo, prendendolo dentro con un gemito che gli spengo sulla spalla, prima di tempestarla di baci e morsi.
Quando vengo fra le sue dita, mi lascio sfuggire un gemito più forte degli altri, e lui sorride soddisfatto sul mio collo.
- Visto? – mi dice. Il suo respiro è pesante e sorrido anch’io. – Qualsiasi cosa fosse, ora è passata.
Lo abbraccio stretto, solo per qualche secondo. Non l’ho mai fatto con lui, non così, ma oggi mi sento piccolo, e l’ufficio all’improvviso mi sembra la cameretta in cui dormivo da ragazzino, nella casa con mamma, a Tempelhof. Adesso mia madre non ci vive più, là. La prima cosa che ho fatto, quando ho cominciato a vedere soldi veri, è stata comprarle una bella villetta in un bel quartiere pieno di verde dove passano i ragazzi a portare il giornale e il latte al mattino.
- È passata. – confermo, anche se forse non è del tutto vero. – Grazie.

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I Can't Hurt You Anymore

di lisachan
Bill mi guarda fisso, i suoi occhi brillano. Cova una rabbia che lo scuote tutto, il suo corpo è così sottile che trema sotto le ondate di livore che gli arrossano le guance. So che in questo momento potrebbe uccidermi, se solo avesse l’arma con cui farlo. I capelli scompigliati gli ricadono lungo il collo, il suo respiro è pesante e mi sfiora il viso in carezze quasi violente mentre lo schiaccio contro il muro, un avambraccio pressato sopra il collo e una mano a stringerlo con forza alla spalla. Mi guarda come se lo stessi torturando, come se il mio comportamento fino ad ora fosse stato quello di un despota, e lui stesse affrontando il martirio con orgoglio, coraggio e fierezza, e mentre presso il mio avambraccio con più forza contro la sua gola, mozzandogli il respiro e osservandogli inghiottire la preghiera di lasciarlo andare che è tanto forte da non lasciarsi sfuggire neanche per una sillaba, cerco di ricordargli che qui non ci sono vittime né carnefici, che ciò che ha fatto è sbagliato e che dovrebbe tornarsene a casa.
E poi lo bacio.
*
Il mio risveglio, stamattina, non sembrava preannunciare niente di speciale, figurarsi qualcosa di disastroso come Bill che irrompe nel mio ufficio rovesciando il mondo come ormai ha imparato a fare – e se sa farlo bene, pochi cazzi, è colpa mia, che nel ribaltamento dei mondi altrui sono un campione – costringendomi prima a schienarlo contro un muro, poi a tentare di soffocarlo, quindi a baciarlo sa Dio perché.
Stamattina mi sono svegliato col russare debole e regolare di Pat piantato nelle orecchie, e all’improvviso mi sono sentito addosso dieci anni di meno, ed ho borbottato “Frank, siamo in ritardo”. Al che lui ha aperto un occhio e mi ha guardato come se non capisse un accidenti di ciò che stavo dicendo, giustamente, e a quel punto ho riso perché non so cosa avessi pensato di preciso ma era evidente che mi stavo riferendo a qualcosa successo uno sproposito di anni prima, probabilmente una delle mille volte che mi sono fermato a casa sua perché il giorno dopo dovevamo andare presto da qualche fornitore prima dell’apertura dei negozi – prima che Tempelhof, o almeno la parte onesta di Tempelhof, quella che non viveva di notte, cominciasse a risvegliarsi. Era una scusa che usavo spesso, “resto da te così domani facciamo prima e non devo passarti a prendere”, ma la verità era che intanto adoravo i bignè che sua madre faceva in casa, e poi adoravo anche passare la notte con lui davanti alla tv parlando di cose assurde e fumando uno spinello fino a stordirci al punto di dire e vedere cose veramente allucinanti, crollare addormentati esausti alle cinque del mattino e poi, naturalmente, svegliarci in ritardo. Il che mi riporta alla prima frase che ho detto stamattina, e che comunque, non so, non è una cosa che parla solo di ritardi a un appuntamento o cose simili che poi scompaiono nel giro di pochi giorni, quanto più una cosa generale. Io e Patrick siamo in ritardo, è vero. È verissimo.
- Anis, vaffanculo. – mi fa lui, e si rigira a pancia sotto mentre io non riesco a smettere di ridere, - Ma perché cazzo mi dovevi svegliare… e piantala di ridere! – sbotta, e mi tira un cuscino sulla faccia mentre contemporaneamente cerca di scalciarmi via dal letto e anche di nascondersi sotto due chilometri di lenzuola per cercare di tornare a dormire. Io però a quel punto ormai sono sveglio, quindi niente, mi avvicino e me lo stringo contro, un po’ anche per la questione del ritardo, appoggiandogli il mento su una spalla e sorridendogli contro una guancia. – ‘Cazzo fai? – mi chiede lui, che sta ancora palesemente dormendo, e io rido e lascio scivolare una mano lungo la sua schiena, sotto le lenzuola.
- Suono la sveglia. – dico con una risatina, accarezzandolo distrattamente fra le natiche, al che lui solleva la testa dal cuscino come se solo ora avesse cominciato a capire cosa stia esattamente succedendo, mi guarda con gli occhi enormi e poi mi scoppia a ridere in faccia.
- Ma vaccagare. – ride come un demente, e poi salta in piedi e, nudo com’è, che io mi preoccupo pure che Karima possa vederlo e non sarebbe il caso – non perché Karima non sappia, quanto più perché poi partirebbe con la millecentesima tirata sui costumi discinti di questa casa, cosa che decisamente mi rovinerebbe il risveglio – insomma, nudo com’è mi informa che va a preparare il caffè e mi lascia tutto il tempo di suonarmela da me, la sveglia. Voglio dire. Ma chi me l’ha fatto fare di tirarmi in casa quest’individuo – ripetute volte negli ultimi dieci anni, peraltro – io non lo so.
Comunque, mi sono messo in piedi, anche perché era evidente che, a meno che non volessi accoppiarmi coi cuscini o col materasso mentre coperte e pareti ci spiavano libidinosi, lì nel letto non c’era trippa per gatti, dal momento che tutta la trippa e anche tutti i gatti s’erano spostati in cucina per preparare la colazione. Sono rotolato giù dal materasso, mi sono infilato la prima cosa che ho trovato così da poter urlare “ma è Fler che va in giro nudo, io no!” se Karima si fosse improvvisamente palesata in cucina prima delle nove ed ho infilato il corridoio. Fler fischiettava maneggiando la moka con mani esperte, ed io ho sorriso.
- Perché tutta questa fretta? – ho chiesto, guardandomi intorno per assicurarmi che Karima non ci fosse ancora e poi appendendomi alle sue spalle e sfiorandogli il collo con la punta del naso.
- Io non ho nessuna fretta. – ha risposto lui, serafico, continuando a maneggiare la moka, - D’altronde, mia madre non mi aspetta prima di mezzogiorno. Sei tu che devi essere all’Ersguterjunge fra tipo dieci minuti.
- Che? – ho sbottato con una smorfia infastidita, subito mitigata dall’odore penetrante del caffè in polvere che si è diffuso nell’aria in cucina non appena Fler ne ha aperto il barattolo, - Non vieni con me?
- No, te l’ho detto ieri che sono a pranzo da mia madre. – ha sbuffato lui, roteando gli occhi ed accendendo il fornello sotto la caffettiera, - È una settimana che mi chiama ogni giorno chiedendomi quando vado a trovarla. Scommetto che mentre ne parlavo non mi hai sentito.
- Dipende. – ho mormorato abbattuto, tornando a nascondere il naso contro il suo collo, - Stavamo facendo qualcosa, mentre me ne parlavi?
- Guardavamo la tv, Anis. – ha ridacchiato lui, asciugandosi le mani umide contro un panno.
- E allora è ovvio che non ti stessi ascoltando, non ero abbastanza concentrato su di te! – ho ribattuto, spingendomi verso di lui, - Provi a ripetermi i concetti base adesso? – ho proposto speranzoso, ma lui ha riso e si è divincolato senza fatica dalla mia stretta, dirigendosi tranquillo verso il bagno.
- Vatti a fare una doccia. – mi ha suggerito, - E per punizione, vai in bagno al piano di sopra.
In quel momento, naturalmente, Karima è uscita dalla sua stanza, vestita di tutto punto e perfettamente in ordine, pronta a cominciare le grandi pulizie che ogni mattina organizza e che si protraggono puntualmente fino a sera, ed ha osservato – non senza un certo turbamento – il sedere di Fler mentre, ondeggiando tranquillo, spariva dietro la porta del bagno, proprio nel momento in cui lui, sereno come un bambino appena sveglio di domenica mattina, tirava su una mano e la salutava col più serafico dei “buona giornata, Karima”. Al che lei, naturalmente, sopraffatta dalla perfezione di Fler – che è l’unico essere umano che riesce a gestire pure le situazioni più improbabili senza mai andare in imbarazzo, che mi viene da ridere se solo provo a ricordarmi com’era quando aveva quattordici anni e si scioglieva andando nel panico ogni volta che lo guardavo – non poteva guardarlo con disapprovazione, anche perché si sarebbe trovata a guardare con disapprovazione una porta chiusa, e pertanto si è voltata a guardare me con l’occhio torvo presagio di sventura.
- Che c’è? – ho sbottato, mentre lei scendeva dal piano di sopra carica di disapprovazione e severità, - Sono vestito!
Naturalmente non ha attaccato.
- Il signor Losensky non lo era. – ha risposto lei, tetra, passandomi davanti senza guardarmi, come se non mi meritassi ulteriore attenzione da parte sua.
- Potresti anche cominciare a chiamarlo Patrick, immagino. – ho borbottato, mentre lei passava davanti ai fornelli, sbirciava il caffè già uscito nella moka e spegneva il fuoco.
- Il nostro grado d’intimità – ha detto, sollevando un singolo sopracciglio da madre puritana di svariati secoli fa, - non è ancora tale da giustificare simili prese di confidenza. Inoltre, vorrei ricordarle che non mi ha ancora comunicato quando il signor Losensky ha deciso di tornare a stabilirsi definitivamente nel proprio appartamento, signor Ferchichi.
Forse perché di buttarlo fuori non ho la minima intenzione, ho pensato io guardandola con l’occhio pallato.
- Be’, per ora è qui, comunque. – ho concluso, scrollando le spalle, - Quindi sii gentile con lui, ha avuto un’infanzia difficile.
- E non fatico a immaginare di chi possa essere la colpa. – ha commentato lei, versando il caffè in due tazzine e cominciando ad armeggiare in giro con l’obbiettivo di raccoglie latte e biscotti in quantità industriale nel minor tempo possibile e poi, probabilmente, iscriversi al Guinness dei primati.
- Che cosa vorresti dire, con questo? – ho sbottato io, incrociando le braccia sul petto e mettendo il broncio come quando avevo tredici anni, che peraltro è una cosa che Karima non può sapere perché quando avevo tredici anni ancora non la conoscevo. Ogni tanto ho l’impressione che, siccome mi ha conosciuto già adulto, abbia dimenticato che un tempo sono stato un bambino anch’io, e che posso ricadere in quello stato infantile quando voglio, peraltro. Altre volte, invece, mi sembra che, anche se mi ha conosciuto che ero già grande, in realtà non abbia poi fatto mai molto affidamento sulla mia maturità.
In ogni caso, non mi ha risposto – probabilmente perché non ero degno della sua voce come non lo ero stato dei suoi occhi poco prima – e quando Patrick è uscito dal bagno lavato e vestito di tutto punto e lui e Karima si sono messi a confabulare strigliandomi perché ero ancora in pigiama e ovviamente in ritardo ho sbuffato “d’accordo, d’accordo, datemi tregua tutti e due!” e sono fuggito al piano di sopra, grandemente deluso dai miei sudditi indisciplinati e colmo di disappunto per la mia regale autorità violata.
Solo che, quando mezz’ora dopo sono uscito di casa, nonostante il pensiero delle ore infinite di noia che mi attendevano all’Ersguterjunge, sorridevo come un cretino. E questo non posso proprio negarlo.
*
Per dire, ero così felice che neanche la vista dell’Ersguterjunge è riuscita a deprimermi. E dire che in genere mi basta entrare in questo posto per sentirmi crollare addosso tutto. Voglio dire, io non dico che queste pareti le ho tirate su col sudore della mia fronte – perché così non è. Forse i soldi per comprarle li ho tirati su col sudore della mia fronte, ma le pareti decisamente no – però erano comunque una cosa mia, e in quanto cosa mia erano stati inglobati dalla mia persona e rimessi al mondo marchiati. Come tutto ciò che tocco, perché odio che ciò che tocco, ciò che amo, mi venga portato via, e l’unico modo che si ha per assicurarsi la paternità a vita di qualcosa è lasciargli addosso un segno. Nessuno vuole una macchina graffiata, nessuno vuole un motorino pieno di adesivi, nessuno – nessuno mentalmente sano, almeno – dovrebbe volere un corpo che ha addosso il sapore e l’odore di un altro. Poi non sempre va a finirti bene, però intanto tu il tuo marchio lo lasci. Almeno così hai più possibilità di tenerti stretto ciò che vorresti portarti dietro fin nella tomba.
Ora io mi guardo intorno e queste pareti non le riconosco. Il mio ufficio era pieno di poster. Miei poster, ovviamente. Quando hanno ritinteggiato, me li sono fatti mettere da parte perché volevo riappenderli subito dopo, solo che poi lo scatolone in cui avrebbero dovuto conservarli non s’è più ritrovato. E quindi io avevo una stanza che ero io, rappresentava me, una stanza in cui mi sentivo a mio agio, e ora invece mi sento un impiegato delle poste in uno stanzino bianco e anonimo che odio e che mi dà la nausea dal momento in cui ci metto piede al momento in cui ne esco. È una cosa devastante.
Eppure, ero così di buon umore che, entrando qua dentro e fissando le pareti bianchissime, non ho pensato “che schifo, dov’è finita la mia vita?” come faccio sempre, bensì “più tardi a casa devo ricordarmi di chiedere a Pat se gli è rimasto qualche poster vecchio, magari qualcosa dell’Aggro”, visto che dubito fortemente che si sia messo a collezionare poster delle mie uscite discografiche comprando Bravo travestito da quindicenne infoiata mentre passavamo le nostre giornate a insultarci da una parte all’altra di Berlino.
Questa sensazione di beatitudine interiore è durata naturalmente fino a quando la segretaria piccola e carina che si occupa di accogliere gli ospiti all’ingresso e smistarli nelle varie aree del palazzo in cui devono andare non è spuntata sulla soglia della mia porta e, con aria un po’ colpevole e un po’ impacciata, mi ha detto che il signor Kaulitz era all’Ersguterjunge e desiderava vedermi.
In un primo momento ho pensato “ma non esiste”. Ho anche rimandato a memoria la tabella degli orari e dei giorni lavorativi di Bill per essere proprio certo che no, oggi non avrebbe dovuto trovarsi qui, non a quest’orario né in nessun altro orario, ed avrei voluto guardare la segretaria negli occhi e dirle “dev’essersi sbagliata”, solo che poi mi sono reso conto di quanto sarebbe stato assurdo ed ho deglutito forzatamente, cercando di ricompormi.
- Sono molto impegnato. – le ho detto. Lei ha guardato la mia scrivania sgombra, il computer ancora spento e la generale aria di nullafacenza che si respirava nella stanza, e poi è tornata a guardare me, con occhi sempre più tristi e colpevoli, probabilmente chiedendosi quanto ci avrei messo a licenziarla, al punto che avrei voluto darle una pacca sulla spalla e rassicurarla, che tanto ormai non ho più potere neanche sui dipendenti in questa cazzo di etichetta.
- Ecco… - ha proseguito lei, incerta, - Il signor Kaulitz ha molto insistito. – ha detto, e io cosa potevo ribattere, a quel punto? “Digli di andarsene a fanculo e, se continua a insistere, insisti anche tu e defenestralo”? Ho sospirato tanto profondamente che mi ha fatto male il petto, ed ho annuito.
- Fallo passare.
Lei ha annuito come a volersi scusare ed è sparita in un secondo. Il secondo successivo, al suo posto c’era Bill, e io avevo smesso di respirare. Ho pensato distrattamente “è tremendo che il mio ultimo respiro sia stato così doloroso”, e poi non ho avuto spazio neanche per i pensieri. Bill stava già occupando tutto.
- Scusa se ti disturbo. – ha mormorato, gli occhi nascosti dietro un paio di giganteschi occhiali da sole a mascherina e i capelli tirati indietro e stretti in una coda alta a imprigionare le ciocche bionde, come a cercare di tenere a bada lui domando i suoi capelli. Come fosse possibile, l’una cosa o l’altra.
- Fa niente. – ho sputato con una difficoltà estrema, sperando che lui non la notasse. Lui ha abbassato appena gli occhiali sul naso, lanciandomi una lunga occhiata scrutatrice prima di sfilarli del tutto e riporli nella borsa a braccio in un gesto fluido e abitudinario. – Ti serviva qualcosa?
Lui si è guardato intorno con aria un po’ confusa, penso non fosse mai entrato qua dentro e deve aver fatto una certa fatica a riconoscere l’ambiente come familiare.
- Posso sedermi? – ha chiesto, al termine del giro di studio. Io ho piantato le mani sulla scrivania e mi sono alzato in piedi.
- A dire la verità preferirei di no. – ho detto in un fiato, osservando i suoi occhi macchiarsi della consapevolezza di non essere una presenza gradita, una cosa che aveva spesso osservato negli occhi di molti, ma mai nei miei. – Cosa ci fai qui, Bill?
- Volevo solo parlarti. – ha sbottato offeso, incrociando le braccia sul petto.
- Potevi prendere un appuntamento, come fanno tutti gli altri. – gli ho fatto notare.
- Tutti gli altri…? – ha spalancato gli occhi lui, incredulo, - Anis, capisco tutto, ma—
- Sono molto impegnato, Bill. – ho detto, battendo con una certa forza le mani sul tavolo e sperando che questo bastasse ad intimorirlo, o a farmi mandare a quel paese, raggiungendo comunque l’effetto desiderato, ovvero buttarlo fuori da questa stanza il prima possibile, per evitare di perdere il controllo di me stesso.
- Impegnato a fare cosa? – mi ha chiesto lui, senza cedere di un passo, fissandomi con gli occhi brillanti di rabbia, offesa, tradimento e tutte quelle altre piccole cose che è in grado di mettere in un solo sguardo quando vuole farti sentire una merda fatta e finita, - Impegnato a— a fare cosa, Anis? Cos’è che ti tiene tanto impegnato da non lasciarti neanche un minuto libero per stare a sentire me?
- Quali diritti speciali dovresti avere tu? – ho sbottato io, alzando la voce e sollevando le braccia come ad invitarlo ad andare oltre ed affondare il coltello, se ne era capace, - Sentiamo, Bill! Quali diritti che non ti sia già fottuto da solo nonostante io te li avessi ridati tutti in mano appena ti ho posato gli occhi addosso? Eh?
Lui ha spalancato gli occhi, le labbra gli tremavano.
- Non so, Anis. Quelli che si riservano a un normale essere umano quando ti chiede due minuti per parlare?
- Tu non chiedi, Bill! – ho tuonato io, esasperato, - Tu non chiedi, è questo che ti sfugge! Tu ti presenti e pretendi!
- Io non ho preteso niente! – s’è difeso lui, quasi stringendosi nelle spalle, - Io ti ho chiesto—
- Tu ti sei presentato qui come se riceverti da parte mia fosse una cosa ovvia! – gli ho fatto notare, allargando le braccia ai lati del corpo, - L’idea che a me non andasse di vederti non ti è mai passata neanche per l’anticamera del cervello! Tu agisci come se tutto ti fosse dovuto e te ne sbatti il cazzo di quello che il resto dell’universo possa pensare, perché tanto i sentimenti degli altri non sono importanti come i tuoi! Nessuno soffre come te, vero Bill? Nessuno è in una situazione peggiore della tua, giusto?
I suoi occhi si sono fatti liquidi all’improvviso, le guance arrossate e il respiro accelerato. Ho avuto paura che si sentisse male, ma non ho smesso di guardarlo duramente neanche per un secondo.
- Sei ingiusto. – ha esalato con un filo di voce, - Credi che per me sia facile, Anis? – mi ha strillato contro, - Pensi che per me vederti ritornare dopo un anno e tutto il resto sia stato semplice? Pensi che mi diverta, cazzo, che sia felice della situazione in cui siamo? Se pensi questo di me, allora non mi conosci, perché—
Gli sono saltato addosso prima che potesse concludere la frase. L’ho spinto contro il muro, mi sono schiacciato contro di lui, ho piantato un braccio contro il suo collo e l’ho guardato.
- Smettila di parlarmi come se fossi il primo stronzo cui puoi rifilare tutte le tue cazzate preimpostate da diva del cinema muto, Bill. – gli ho ringhiato addosso, - Vuoi sapere cosa penso? No, non penso che per te sia facile. Però penso che ti piaccia complicarla. Non penso che tu sia felice, però penso che il dolore ti faccia sentire al sicuro, perché non sei felice da tanto di quel tempo che provare della felicità vera ti spaventa. Non penso che tu ti diverta, ma penso che tu ti senta meglio quando mi trascini nel tuo cazzo di baratro di tristezza, Bill, questo penso. E non dirmi che non ti conosco. Perché sai che non è vero, come sai che invece è vero tutto quello che ho detto adesso.
E ora Bill mi guarda fisso, i suoi occhi brillano. Cova una rabbia che lo scuote tutto, il suo corpo è così sottile che trema sotto le ondate di livore che gli arrossano le guance. So che in questo momento potrebbe uccidermi, se solo avesse l’arma con cui farlo. I capelli scompigliati gli ricadono lungo il collo, il suo respiro è pesante e mi sfiora il viso in carezze quasi violente mentre lo schiaccio contro il muro, un avambraccio pressato sopra il collo e una mano a stringerlo con forza alla spalla. Mi guarda come se lo stessi torturando, come se il mio comportamento fino ad ora fosse stato quello di un despota, e lui stesse affrontando il martirio con orgoglio, coraggio e fierezza, e mentre presso il mio avambraccio con più forza contro la sua gola, mozzandogli il respiro e osservandogli inghiottire la preghiera di lasciarlo andare che è tanto forte da non lasciarsi sfuggire neanche per una sillaba, cerco di ricordargli che qui non ci sono vittime né carnefici, che ciò che ha fatto è sbagliato e che dovrebbe tornarsene a casa.
E poi lo bacio. Lo bacio perché è troppo vicino, lo bacio perché mi manca, lo bacio perché – cazzo – io questo ragazzino lo amo tanto che mi scoppia la testa se solo ci penso, che il mio corpo non mi sembra robusto a sufficienza per sostenerlo, lo bacio perché l’ho perso, perché voglio lasciarlo andare ma non ci riesco, lo bacio perché voglio il suo sapore sulla lingua e quando lui solleva le mani e mi stringe alla nuca, graffiandomi la pelle del collo fino a che sento il sangue scorrere in un rivolo lento e sottilissimo giù fino al colletto della maglietta, sento che lo vuole anche lui, sento che tutto il casino che c’è dentro la mia testa c’è uguale anche nella sua.
Lo allontano dalla parete schiacciandomelo contro, lo stringo fra le braccia e lui aderisce perfettamente al mio corpo come non si fosse mai allontanato nemmeno di un millimetro dal mio fianco. Siamo due universi paralleli e perfettamente distinti io e lui, adesso, eppure alle volte basta così poco e Bill è ancora lì, è ancora mio, e non capisco come tutto questo non possa essere vero e reale – so che non lo è, lo so, ma adesso che siamo così vicini mi sembra l’unica verità possibile. E quindi, ciò che invece è vero, lui con Chakuza, io con Patrick, deve essere una bugia.
Torniamo a dirci la verità, piccolo, vuoi?
È nel momento in cui lo penso – che poi è lo stesso momento in cui lo appoggio sulla scrivania sgombra e mi allontano appena dalle sue labbra per riprendere fiato – che mi rendo conto di quanto tutto questo sia assurdo, di quanto il mio cervello prenda a sragionare per vie incomprensibili quando ho Bill intorno. Cos’è che voglio dare a bere a questo ragazzino? Che non importa niente di quello che siamo diventati, che possiamo tornare com’eravamo prima che tutto questo accadesse dimenticando gli ultimi mesi e andando avanti per una strada che nemmeno esiste se non nelle nostre fantasie quando escludiamo dai pensieri tutto il resto del mondo che non siamo noi due? Che storia voglio raccontare a Bill, a me stesso? Che cosa cazzo sto facendo?
Lui schiude le palpebre quando non mi sente tornare a baciarlo. Sotto le sue ciglia, che tremano in un battito sottile come quello delle ali di una farfalla, passa la consapevolezza che è cambiato qualcosa rispetto a un secondo fa. Poso le mani sulle sue, allontanandole dal mio collo e posandogliele in grembo. Lui, seduto sulla scrivania, le spalle un po’ curve e l’espressione corrucciata, le labbra arricciate in una smorfia delusa e triste, mi guarda e mi implora di non farlo, non fermarmi, dargli mezz’ora di tregua dalla realtà.
Non posso farlo, piccolo, io ti amo troppo per mentirti così spudoratamente.
- Vai via. – gli sussurro sulle labbra. Stringo le mani attorno alle sue e ne accarezzo il dorso coi pollici.
Lui sospira stremato. La sua testa si piega in avanti in cerca di appoggio e la sua fronte trova il mio petto con una naturalezza che mi smuove qualcosa dentro. È sempre la stessa storia, queste piccole cose riaccendono la scintilla, ma è dura tenerla accesa quando il fuoco non prende.
- Non è come se mi stessi dicendo “vai, non ci vedremo più”… - mugola, strusciando la fronte contro la mia maglietta, - Fra poco comincia il tour… mi dici come faremo? Perché io non lo so.
- In qualche modo faremo. – sorrido appena, lasciando una delle sue mani per sciogliergli la coda ed accarezzargli lentamente i capelli, ravviandoglieli sulle tempie, dietro le orecchie, sul collo. – Tu però devi starmi lontano, piccolo. Io prometto che starò lontano da te.
Bill deglutisce a fatica, prendendosi un secondo prima di parlare.
- E se io non volessi starti lontano? – pigola a voce bassissima, e scommetto che gli è servita più forza per dirmi questa singola frase di quanta non gliene sia servita per presentarsi qui e mettersi a strillarmi contro. E già per fare quello gliene è servita parecchia.
Mi allontano da lui, lasciandolo andare. Sto ancora sorridendo, quando lui si rimette in piedi.
- Non vuoi nemmeno starmi vicino, però. – gli faccio notare. È straniante essere così tranquillo adesso. Mi sembra di stare facendo la prima cosa giusta in assoluto da quando sono tornato in Germania.
Lui non mi risponde. Si morde un labbro e nemmeno annuisce, abbassa lo sguardo e si ricompone in fretta prima di sgattaiolarmi alle spalle, oltre la porta, fuori dall’Ersguterjunge, fuori dalla mia vita spero almeno per la prossima settimana. Il tempo di prepararmi alla tortura che mi aspetta. Te lo prometto, piccolo, sarà tutto più facile, da ora in poi. Farò in modo che lo sia.

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Break The Circle

di lisachan
Sto gironzolando per casa annoiandomi terribilmente da quasi mezz’ora, quando Anis finalmente rientra. Ho passato il tempo giocando con Skyline e Sherlee, principalmente, rotolandomi nell’erba e sporcandomi al punto che, quando sono entrato in casa, a Karima è bastato uno sguardo per farmi capire che non avrei potuto muovere un altro singolo passo all’interno della villa senza prima andare a darmi una ripulita nella doccia. La doccia in giardino, ovviamente.
Non mi è pesato, dopotutto: ho buttato via i vestiti e mi sono infilato sotto il getto d’acqua gelida, magari un po’ esagerato visto che non è ancora precisamente estate, ma mi andava di fare le cose così, un po’ a caso. Mi sono sciacquato per bene, ho salutato i fotografi appostati dietro i cespugli intorno alla villa, ho evitato gli attacchi dei cuccioli che avrebbero visto di buon occhio la possibilità di saltarmi nuovamente addosso e rendere vana la mia doccia per giocare ancora un po’ e sono tornato dentro, dove Karima mi aspettava praticamente sulla soglia di casa con un accappatoio pulito in mano.
L’ho ringraziata indossandolo, e lei invece di rispondermi s’è espressa in una specie di sbuffo supponente che è un po’ il suo marchio di fabbrica ogni volta che le faccio notare che è stata carina a comportarsi gentilmente con me. È un po’ come volesse dirmi che non dovrei aspettarmi niente di diverso, visto che in fin dei conti si tratta del suo lavoro, ma visto che mi diverte continuo a ringraziarla. E lei continua a sbuffare.
Quando Anis si chiude la porta alle spalle, capisco subito che c’è qualcosa che non va, come l’ho capito sempre, fin da quando ero ragazzino. L’abitudine mi ha insegnato a tradurre i suoi gesti, i piccoli sospiri che rilascia gradualmente, per non farsi sentire mentre sospira in maniera troppo profonda o agitata, così come i gesti brevi e decisi, che danno sempre l’impressione che stia molto attento a controllare al massimo il proprio corpo, come lo percepisse come l’unica cosa della quale possa davvero decidere il destino. Suppongo sia normale, per uno come lui, da sempre abituato a tenere le redini di numerose vite, oltre che della sua, sentire con forza la paura di poter perdere il controllo da un momento all’altro. Ecco, quando lui sente questa paura, riparte sempre dalle basi, per ricordarsi che è ancora perfettamente in grado di gestire tutto. E le basi sono le facoltà motorie. La respirazione, i gesti, i movimenti degli occhi. Parecchi, quando sono nervosi e spaventati, perdono il controllo del proprio corpo. Per Anis è esattamente il contrario. È quando smette di sciogliersi che lo riacquista. Solo che quando smette di sciogliersi lo fa perché ha paura.
- Ehi. – lo saluto sorridendo. Un sorriso piccolo, niente di troppo entusiasta. A volte gli dà fastidio che gli si mostri della gioia quando lui non è felice. Ma d’altronde è così un po’ per tutti, suppongo. – Successo qualcosa? – mi informo con aria casuale, passandomi una mano sulla nuca per verificare che i capelli si siano asciugati.
Lui grugnisce qualcosa di poco convinto, appendendo la giacca all’ingresso e poi raggiungendomi in salotto attraversando tutto il corridoio senza fare nemmeno un rumore. Gli vado incontro, non so cos’è che voglio, un bacio forse. È una situazione strana perché da quando stiamo insieme, o qualsiasi cosa sia questa cosa in cui siamo invischiati adesso, insomma, non mi è mai successo di vederlo rincasare così cupo. In genere, tornando a casa mettermi le mani addosso è non dico il primo dei suoi pensieri, ma quasi. Non mi sono mai dovuto avvicinare io per salutarlo, è sempre stato lui a cercarmi, perciò mi sembra strano farmi avanti per primo.
Ed è ancora più strano quando lui mi ignora, passandomi oltre e mormorando un distratto “cosa c’è per cena?”, come non mi avesse nemmeno visto.
La cosa veramente grave, comunque, non è questa. La cosa veramente grave è che quando mi passa accanto io sento l’odore di Bill. Lo sento con forza, perché gli sono stato tanto vicino che ormai un po’ di quel profumo dolciastro così suo s’è aggrappato alle molecole che compongono le mie cellule, e lo riconosco con una facilità quasi dolorosa. Come l’ho sempre riconosciuto addosso a Chakuza, lo riconosco adesso addosso ad Anis, e mi tremano le mani. Mi tremano le mani perché non ne posso più di questo ragazzino che tocca e sporca tutto quello che voglio, tutto quello che amo. Lo odio, non lo sopporto, e poi ricordo che il problema non è suo, il problema è mio. Lui c’era prima. Sono io quello che s’è infilato in mezzo ad un gioco che non gli appartiene, e che non è ancora riuscito ad uscirne.
- Che ti prende? – mi volto a cercare i suoi occhi, seguendolo mentre si muove verso il divano. Vedo solo le sue spalle, non si volta a ricambiarmi lo sguardo.
- Niente. – risponde distrattamente, mettendosi a sedere ed accendendo la televisione. Sta mentendo.
- È successo qualcosa? – chiedo avvicinandomi. Mi siedo sul divano accanto a lui, ma non vicino come tutte le altre volte. Non addosso, nemmeno ci sfioriamo, in realtà. Sa che sta correndo un rischio enorme. Sa che posso fiutargli addosso la paura e l’incertezza e questo dannato odore dolce e infantile. Sa di avere sbagliato tutto, perché se solo avesse agito come se avere quell’odore addosso fosse naturale, io non mi sarei preoccupato. Avrei pensato che si fossero incontrati, salutati, abbracciati, che fossero andati a prendere un caffè insieme. Ma lui sta negando, io so che mente, e so che se lo fa ne ha motivo. – Qualcosa tipo Bill? – chiedo alla fine in un sospiro affranto, perché, seriamente, non ne posso più.
Tutti i lineamenti del suo viso si tendono all’istante. Cambia faccia all’improvviso, sembra una persona diversa. Il movimento con cui si volta a guardarmi è innaturalmente lento, tanto che ne ho quasi paura.
- Ma cosa ti salta in mente? – quasi ringhia, aggrottando le sopracciglia, - Non—
- Non vi siete visti. – dico, e sento tutto il mio corpo bruciare per la rabbia, - Né toccati. – mi avvicino appena, inspiro il suo odore a qualche centimetro dal suo corpo, così profondamente da farmi dolere i polmoni. – Né baciati. – concludo. E poi lo guardo dritto negli occhi. – Pezzo di merda.
- Pat—
- No, pezzo di merda! – ribadisco con maggiore convinzione, alzandomi in piedi e girando attorno al divano come se la sua sola vicinanza fosse sufficiente a mandarmi fuori di testa, cosa che in effetti è vera. – Ma cosa cazzo hai in testa? Ma cosa cazzo avete in testa tutti?! Ma per cosa cazzo mi avete preso?!
- Pat? – mi chiama lui, vagamente accigliato. È evidente dai suoi occhi che non capisce di che diavolo sto parlando, ed è evidente che non può, perché io non gliel’ho mai detto. Perché non l’ho mai detto a nessuno, cazzo, e sarà questa la cosa che mi farà andare fuori di testa, più di tutto il resto. Che io sto così male per una cosa che, agli occhi della quasi totalità delle persone che compongono il mio universo, non esiste nemmeno.
- Lascia perdere. – dico cupo, uscendo dal salotto ed infilando le scarpe da tennis abbandonate accanto alla porta una volta arrivato all’ingresso. Sento i suoi occhi addosso, so che mi ha seguito. Non voglio voltarmi a guardarlo.
- Pat. – mi chiama ancora, - Che problema c’è?
La sua voce è più seria, somiglia a quella che usava quando, da ragazzino, combinavo qualche guaio di cui non mi andava di fargli sapere. In qualche modo, riusciva sempre a sgamarmi e tirarmi fuori le parole di bocca. E tutto partiva sempre da questo tono qui.
Sorrido stancamente, schiudendo la porta e guardando di fuori il cielo che si fa più scuro dopo il tramonto.
- Nessun problema. – rispondo prima di allontanarmi. Non ce n’è mai, d’altronde.
*

Quando arrivo a casa di Chakuza, non realizzo che potrebbe essere in compagnia – in compagnia di Bill, ovviamente – fino a quando non ho già premuto il dito contro il bottone del citofono. È troppo tardi per scappare e non posso certo rimandare indietro il tempo, per cui resto là e riesco in qualche modo a non strillare quando sento la sua voce chiedermi chi sono.
- Fler. – rispondo. Sono evidentemente nervoso, e lui pure. Sento movimenti strani e la sua voce si abbassa di svariati toni quando parla ancora.
- Ma che… - comincia incerto, - È successo qualcosa? – chiede con una punta di preoccupazione.
- No… - rispondo io, grattandomi confusamente la nuca, - Ma c’è Bill? – chiedo quindi, e poi sospiro. – Scusa, mi tolgo dalle palle. Fingiamo che tutto questo non sia mai avvenuto.
- No! – mi ferma, la voce che torna alta e poi, neanche tanto sorprendentemente, si riabbassa, - No, dico… cioè, sì, c’è Bill, ma… - lo sento trafficare con qualcosa di indefinito, e solo dopo capisco che s’è infilato la giacca e, per farlo, ha poggiato la cornetta del citofono sulla consolle. – Scendo subito. – dice deciso, - Non te ne andare.
Non me ne vado. Mi appoggio al muro, proprio lì accanto al portone, e aspetto. Quando Chaku esce non si aspetta di trovarmi da qualche parte che non sia esattamente di fronte a lui, perciò si guarda intorno un paio di secondi buoni prima di voltarsi indietro e notarmi lì appoggiato con le mani nelle tasche. Sorrido appena e ne sfilo una, agitandola per salutarlo in silenzio.
- Ciao. – mi dice lui, avvicinandosi. Ha gli occhi un sacco preoccupati. Mi si scalda lo stomaco tutto insieme. – Che cos’hai? C’hai una faccia strana.
Evito i suoi occhi perché non voglio dirglielo, o almeno non così presto.
- Sto bene. – rispondo scrollando le spalle, - Avevo solo voglia di—
- Non raccontarmi balle. – mi interrompe lui, e mentre parla mi guarda e inarca un sopracciglio come a chiedersi quanto devo essere cretino per averci anche solo provato.
Io mi mordo un labbro, incerto su cosa fare. Facciamo qualche passo in silenzio, Berlino intorno a noi si agita tutta e nessuno sembra notarci. È completamente diverso rispetto a quando cammino accanto a Bushido, la sua presenza da sola basta ad attirarci addosso un mucchio di sguardi indiscreti, ma passeggiare accanto al Chaku è una cosa tranquilla e rilassante. C’è anche una temperatura piacevole, tiepida, un po’ incerta fra estate e primavera e mitigata appena da un venticello fresco e debole, per nulla fastidioso anche se ci viene contro.
Ci sediamo ad un tavolino fuori da un bar semivuoto e anche un po’ sfigato, sempre restando in silenzio. Non so quanto tempo passi – senza che nessuno venga a prenderci l’ordinazione, peraltro – prima che Chakuza parli ancora.
- Dimmi cosa ti è successo. – insiste, le mani appoggiate mollemente sul tavolo e gli occhi fissi su di me.
Mi inumidisco le labbra, guardandomi un po’ intorno.
- Mi mancavi. – dico, scrollando le spalle, - Non mi è consentito? Tutti quanti potete sentire nostalgia di tutto quello che volete e andare a prendervi tutto quello che volete senza pensare alle conseguenze, ma io no? Io non posso? E chi l’ha stabilito?
- …woah. – commenta lui, incerto, inarcando le sopracciglia, - Capisco. Cioè, in realtà no— cosa cazzo ti prende? – chiede, piegandosi un po’ in avanti, - Con chi hai parlato?
- Ma con nessuno! – insisto io, gesticolando animatamente e stabilendo poi che non è seduto a quel tavolino che voglio stare. – Ma quale cazzo è il vostro problema? – protesto ricominciando a camminare per la strada, mentre lui mi segue dubbioso, - Perché cazzo dovrei essere io quello che non sta bene? Ma vi siete guardati?! Siete un branco di disperati ed io sono il più sano di mente in mezzo, il che francamente è tutto dire. Eppure state tutti lì a chiedermi cos’ho. Io non ho niente, chiaro? Siete voi che vi comportate da pazzi, io cerco solo di tirare avanti, e sto benissimo!
- No, Fler, - sbotta lui, scuotendo il capo, - a parte il fatto che non ci sto capendo un cazzo, voglio dire, di chi stai parlando? Ma comunque, - e gesticola, come a voler mettere da parte questa prima considerazione in favore della successiva, di gran lunga più importante, - è palese dal fatto che stai straparlando che tu non stai bene. Ma tipo per niente.
- Be’, scusami se sono venuto a disturbare la tua vita perfetta e felice per farmi solo una chiacchierata. – sbuffo, allontanandomi di qualche passo, - Ma non ti preoccupare, mi tolgo subito dai coglioni. Non c’è problema. – non ce ne sono mai, di problemi. Non ce ne sono mai.
- La mia vita non è perfetta. – dice lui, cupo, ancora dietro di me. S’è fermato, perciò mi fermo anch’io, perché non volevo davvero allontanarmi. Lo guardo in silenzio, e lui sembra veramente stanco e un po’ sbattuto, come l’avessero preso a cazzotti e lui non fosse ancora riuscito a riprendersi. – La mia vita non è perfetta e non è felice, o almeno, sicuramente non è più felice o perfetta della tua, perciò piantala di dire stronzate e non cercare di farmi sentire in colpa per cose di cui non ho la responsabilità.
- Be’, se dobbiamo fare l’elenco delle responsabilità-- - comincio, ma non riesco a finire. Lui mi interrompe.
- Ti prego. – dice soltanto, sospirando profondamente, - Ti prego.
Io mi mordo un labbro e mi avvicino. Ci guardiamo negli occhi ed è così palese che questa cosa non funziona che mi viene voglia di pestarlo a sangue – di nuovo – e non vederlo mai più – sul serio – solo che so che non ci riuscirei, a fare nessuna delle due cose, peraltro, perciò sollevo le braccia e lo afferro per il colletto e lo strattono e non lo so.
- Peter. – lo chiamo. Lui respira e me lo sento addosso. Siamo in mezzo alla strada ed è tutto così strano e stupido e sbagliato e sconnesso. Mi sembra di stare sognando e non sono nemmeno ubriaco. Forse è l’effetto della rabbia, rende tutto ovattato e diverso, come se non lo stessi facendo davvero. Ma lo sto facendo.
- No. – dice, quando si rende conto di cosa gli stanno dicendo i miei occhi, - No, non— non esiste. – si allontana da me con uno strattone deciso e mi guarda come non mi avesse mai visto prima. – Io non sarò la persona da cui vieni quando ti girano.
- Tu l’hai fatto, con me! – urlo, e mi fa male il petto, - Tu— stronzo, tu l’hai fatto con me!
- Lo so! – urla anche lui. Ed io mi congelo sul posto, perché è la prima volta che lo ammette. – Lo so. – ripete a voce più bassa, - Ed è per questo che non posso farlo adesso. Fler, ma non capisci? Cazzo, sono quasi due anni che ci facciamo del male perché non siamo abbastanza forti da pensare prima di fare qualcosa. È un circolo vizioso e qualcuno deve pure venirne fuori per primo.
- Non adesso. – mi sto lamentando come un bambino e lo so. Mi avvicino di nuovo, lo allaccio al collo, me lo tiro contro e lui non si allontana, mi appoggia le mani sui fianchi e le nostre fronti si sfiorano. – Per favore. – dico con un filo di voce. Chakuza chiude gli occhi, inspira ed espira e so che gli sto facendo male.
- No. – insiste lui, deciso. – No, Pat. È il periodo, io ti capisco. È tutto confuso, e stanno cambiando delle cose, e… devi solo avere pazienza, poi andrà tutto a posto. – ed io non capisco cosa cazzo stia dicendo, e lui deve leggermelo negli occhi, perché sorride appena, spiegandosi meglio. – Andrà meglio. Le cose si calmeranno e potremo tornare tutti a pensare lucidamente. È solo che questo momento qui deve passare, perché è evidente che sennò usciremo tutti fuori di testa. Lo capisci cosa intendo?
E sì, lo capisco. Non del tutto, forse, c’è qualcosa che mi sfugge, ma al momento non posso pensare anche a questo, perciò chiudo gli occhi anch’io, cercando di adattare il ritmo del mio respiro al suo nella speranza che questo possa darmi un po’ della sua calma, per lo meno apparente, ma funziona poco. Però lo capisco.
Mi allontano, e lui non mi trattiene.
- Cosa sta succedendo? – chiedo. Lui distoglie lo sguardo. – Cosa è successo?
- Non è il caso di parlarne adesso. – risponde con un sospiro stanco. – Ma ti giuro che—
- Lasciamo perdere. – mi rassegno, abbassando gli occhi. Mi passa per la mente in un lampo la consapevolezza che il problema fondamentale che ci trasciniamo dietro da ormai quasi due anni è quest’assoluta incapacità che abbiamo di immaginarci a vivere una vita gli uni senza gli altri, e che se non superiamo questo scoglio non riusciremo mai a risolvere neanche la metà dei casini che ci rendono difficile l’esistenza.
Lui, comunque, annuisce. Quando mi volto per tornarmene a casa, non mi chiama. Mi lascia andare, e credo lo faccia con la consapevolezza che lasciandomi andare potrebbe anche non rivedermi più, ma da qualche parte dentro di sé la sente come la cosa giusta da fare, e io so che probabilmente è così. Perciò lo lascio andare anch’io, sperando che il Chaku abbia ragione. E cerco di non pensarci troppo.

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Let Your Fingers Do The Walking

di lisachan
Spengo la televisione quando le Crispy News di Mtv mi fanno capire che intendono mostrarmi altre immagini esclusive del tour dei Tokio Hotel con l’Ersguterjunge per la cinquecentesima volta circa nell’arco delle ultime ventiquattro ore. Quello che sta succedendo dall’altro lato della Germania, mi ripeto alzandomi in piedi e gettando il telecomando sul divano mentre mi dirigo speditamente verso il frigorifero nella speranza di trovarci qualcosa dentro, non mi riguarda. Non è che mi senta tagliato fuori, è solo che mi rendo conto che ci sono cose che Anis, Bill e Chakuza condividono, e delle quali io non faccio parte, semplicemente perché la mia presenza qui è il risultato di una combinazione di eventi che non esiterei a dire sfortunata e totalmente casuale. Professionalmente parlando, io non sono legato a nessuno di loro. Io ho l’Aggro – per quanto ormai Sido mi mandi a fanculo ogni volta che mi vede, e non fatico ad immaginare perché, visto che la mia faccia e quella di Anis campeggiano affiancate su ogni fottuta copertina del paese – ed è lì che voglio restare. Quella è famiglia, per me. Ed è del tutto diverso da ciò che invece lega quei tre disperati.
Non posso dire che non mi dispiaccia per loro, naturalmente. Voglio dire, Anis è stato la mia intera esistenza per una quantità di tempo spropositata, Chakuza è un pezzo esageratamente grande della mia vita recente – esageratamente soprattutto calcolate le sue dimensioni – ed il ragazzino, voglio dire, è il ragazzino, come si fa a non dispiacersi per lui per principio?, basta guardarlo in faccia. Per cui sì, mi dispiace, ma non posso negare che nell’ultimo periodo in cui sono stati lontani la mia vita abbia subito radicali cambiamenti in positivo, dannazione. È molto vero quello che dicono alcuni, occhio non vede, cuore non duole. Io ho una vaga idea di quanto stia succedendo da quelle parti, naturalmente, ma non esserci rende tutto incredibilmente meno pesante. Ci rifletto seriamente, mentre bevo la birra ghiacciata direttamente dalla bottiglia, a piccoli sorsi, e mi dico che forse la chiave per risolvere il problema è questa, in fondo. Esserci. Se ci sei stai male, se non ci sei soffri lo stesso, ma il dolore diventa sordo, un sottofondo cui puoi abituarti, non è lancinante come dover rivedere quegli stessi volti ogni giorno, e volerli, e non poterli avere, e doverti accontentare, e sentirti in colpa perché ti stai solo accontentando ed invece vorresti essere semplicemente felice con ciò che hai e basta.
Perso come sono nei miei pensieri, non sento il campanello squillare. O meglio, lo sento, ma è un’eco lontana, come se stesse squillando quello del vicino, o quello dello scapolo del piano di sopra, che in effetti riceve visite ad orari della notte veramente improbabili, orari come questo, in cui la gente per bene dorme ed i cretini come me bevono birra per alleggerirsi la coscienza, quindi non ci faccio nemmeno caso. Peraltro, è incredibile: non avendo mai veramente vissuto in questo palazzo, inconsciamente e stupidamente credevo anche che il palazzo non avesse mai veramente vissuto senza di me. In qualche modo, nella mia testa, questa era una scatola rettangolare e tridimensionale piena di vuoto in cui l’unico piano occupato da un appartamento, vuoto o pieno che fosse, era il mio. Da quando, invece, ci passo più tempo, ho scoperto che è un posto un sacco vivo. C’è questo tizio qui, e c’è la signora del primo piano che ha due gemelline deliziose, avranno quattordici anni e vanno sempre in giro vestite con colori combinati, tipo che se una è in nero con qualche dettaglio bianco, l’altra è in bianco con qualche dettaglio nero. Poi c’è la studentessa universitaria dell’ammezzato che fa la dogsitter ed ha sempre casa piena di cani non suoi che abbaiano continuamente e sporcano ovunque, e c’è una coppia di anziani signori all’ultimo piano che sono tipo la cosa più pimpante mai esistita e non prendono mai l’ascensore anche se è fondamentalmente per loro che il condominio l’ha fatto installare, robe da matti.
Insomma, per questo posto c’è un andirivieni continuo, e siccome io non aspetto visite fatico proprio a ricondurre il suono del campanello con la possibilità che sia il mio. Lo realizzo tipo al terzo squillo. Io li ho sentiti, quegli squilli, ma quando mi accorgo che è proprio il mio campanello che sta squillando la sensazione è di quelle che provi quando stavi sognando che stava accadendo qualcosa e quella cosa in un certo qual modo sta accadendo davvero, tipo che un boa constrictor ti stava staccando la testa a furia di stringerti fra le proprie spire, e invece magari era solo il lenzuolo, ma a staccarti la testa ci stava provando comunque. È un suono flebilissimo, all’inizio, e poi si fa via via più intenso, e alla fine stacco le labbra dalla bottiglia, guardo la porta e mi rendo conto che dovrei andare ad aprire, o quantomeno a vedere chi è.
Spalanco la porta senza neanche guardare attraverso lo spioncino chi ci sia dall’altro lato, e quando mi appare davanti questo tizio biondissimo con gli occhi azzurri e un visino che sarebbe pulitissimo se non avesse un labbro spaccato ed un sopracciglio messo non tanto meglio, naturalmente non lo riconosco.
- Sì? – chiedo, piegando appena il capo e illudendomi che a guardarlo di sbieco possa assumere una forma conosciuta, - Chi sei?
- Sono Daniel. – risponde lui, e lo fa con ovvietà, come se il suo semplice nome dovesse aprire chissà che bauli colmi di ricordi nella mia testa. Ma il tipo qui ha presente quanti Daniel esistano nel mondo, e quanti ne abbia incontrati nella mia vita? Per quanto ne so, potrebbe essere D-Bo accidentalmente finito in una macchina del tempo e tornato alla sua giovinezza, che ora cerca me per chiedermi aiuto solo perché Bushido non c’era in quanto impegnato a dannarsi la vita in tour col proprio ex e l’attuale fidanzato del suo ex che, per un’assurda combinazione di fattori, è anche l’ex del suo attuale fidanzato.
- A-ha. – annuisco poco convinto, - E io sono Patrick, piacere di conoscerti, Daniel. Farai così con tutto il resto del palazzo?
Lui gonfia le guance ed irrigidisce le braccia lungo i fianchi, offesissimo. Arriccia perfino le labbra in un broncio incredibilmente goffo, ma desiste subito, forse per il dolore. Ha un brutto taglio, lì, andrebbe disinfettato.
- Noi ci conosciamo già! – mi fa presente, - Non ti ricordi?
Cerco di riportare alla memoria una qualsiasi occasione in cui possa aver conosciuto un ragazzino della sua età. Mi vengono in mente solo i concerti, ed ultimamente non è che ne abbia fatti tanti. Ma cosa sta pretendendo questo essere assurdo da me?
- No, temo di no. – scuoto il capo, - Dovrei?
- Dovresti, sì. – dice lui, piantandomi una mano nel mezzo del petto e scostandomi letteralmente di lato per entrare in casa, - Ho rischiato la vita per te, un anno fa. – sbuffa, voltandosi a guardarmi.
Io chiudo la porta e gli ricambio un’occhiata incerta. Dev’essere successo qualcosa che non ricordo. Ero ubriaco? Mi sono perso e il moccioso qui mi ha riportato a casa in spalla, per quanto io possa faticare a credere ad una cosa simile? Ma allora perché avrebbe dovuto rischiare la vita?
- Senti. – sospiro, massaggiandomi stancamente le tempie, - È un po’ tardi per perdere tempo con misteri e indovinelli, ti pare? Dimmi chi sei e facciamola finita. Poi, se hai anche qualcos’altro da dirmi a parte il tuo nome, bene, sennò grazie della visita e buonanotte.
Lui si prende qualche secondo, prima di rispondere. Gira un’occhiata curiosa tutto intorno alla stanza e poi pianta una mano sul fianco con fare teatrale.
- E dire che dovresti essere un amico che conta. – sbotta, tornando a guardarmi, - Quanto valgono le tue promesse, Fler?
Improvvisamente, realizzo chi ho davanti. La mia memoria torna a un anno fa, ad una notte ghiacciata, a Tempelhof, alla ricerca di un uomo che credevo colpevole della morte di Anis. Ad un ragazzino che ci ha indicato la strada, a me e a Chakuza, quando credevamo di esserci completamente persi.
- Tu… - balbetto, indicandolo maldestramente, - Tu sei quel ragazzino. Daniel. Sì, certo, ora ricordo.
Sul suo volto si apre un sorriso spontaneo e repentino, come quello dei bambini, mentre il suo intero corpo si tende verso di me.
- Davvero? – chiede, gli brillano gli occhi. Poi torna a cercare di darsi un tono, altrettanto velocemente rispetto a quando l’ha perso. – Cioè, finalmente. – borbotta schiarendosi la voce con un paio di colpi di tosse. – Non c’è niente da bere in questa casa?
- Niente che possa dare a un palese minorenne. – rispondo inarcando le sopracciglia, - A parte l’acqua.
- Oh, andiamo! – sbotta lui, pestando un piede per terra, - E poi sono maggiorenne. Ho compiuto diciott’anni quest’anno.
- Sì, certo. – rido io, - Farò finta di crederci. Mi fa piacere rivederti, comunque. Almeno so che non hai gettato al vento la tua fortuna e non sei finito in galera, mentre non guardavo. – gli lancio un’occhiata incerta, - Non ci sei finito, vero?
- No. – risponde lui con una mezza risata, - Non ne avrei avuto il tempo, comunque. Ho avuto un anno piuttosto pieno.
- Ah, non dirlo a me. – alzo gli occhi al cielo, passandogli accanto per recuperare la birra che ho abbandonato sul tavolino prima di andare ad aprirgli, - E cos’è che ti porta qui stasera, Daniel? Ti annoiavi? Avevi finito i cerotti a casa? – chiedo, indicando distrattamente il labbro gonfio e il sangue che gli scivola lungo una tempia.
Lui si passa velocemente una mano sul viso, come a sincerarsi delle proprie stesse condizioni, e poi esita per un minuto buono, incerto sulle gambe – non fa che spostare il peso del corpo da un piede all’altro – e palesemente sul punto di scoppiare.
- Voglio che sia tu. – dice quindi, tutto d’un fiato, come se anche solo mettere in fila quelle quattro parole gli sia costato una fatica immane.
- …vuoi che sia io. – ripeto, indicandomi mollemente, - A fare cosa? A disinfettarti le ferite?
- Ma no! – sbotta lui, esasperato, e pesta di nuovo il piede per terra. È ridicolo che lo faccia, sembra ancora più ragazzino di quanto non sia. – Voglio che sia tu il primo!
- Ma il primo a fare che?! – insisto, allargando le braccia ai lati del corpo, - Non ti sai mettere un cerotto e sei venuto dal tuo guru del gangsta rap perché sia lui a mostrarti i misteri della cassetta del pronto soccorso?! Sii più chiaro!
- Sei… un idiota! – strilla lui, irrigidendosi tutto come un pezzo di legno, - Voglio che sia tu il primo a… - deglutisce a fatica, e io sento un brivido caldissimo scorrermi lungo tutta la schiena. È paura. – il primo a fare l’amore con me. – conclude, guardando fisso il pavimento. Vorrei poter riavvolgere il nastro e rimandarlo da capo, perché non sono proprio sicuro di aver capito bene.
- Come, scusa? – chiedo istintivamente. Mi rendo conto dell’idiozia della domanda, ma non riesco proprio ad impedirmelo, non riesco a fermarmi. Lui arrossisce fino alla punta delle orecchie, e volta il capo così velocemente che finisce per nascondersi dietro una tenda di capelli scarmigliati e che necessiterebbero decisamente di uno shampoo.
- Cos’è, te lo devo ripetere? – sputa fuori lui, acido.
- No. – rispondo immediatamente io, sollevando le braccia come di fronte a una pistola puntata contro. Mi arrendo, Daniel. Però prima parliamone cinque minuti. – È solo che, capisci, non è che mi capiti tutti i giorni di vedermi spuntare alla porta minorenni che—
- Non sono minorenne! – scatta lui. Si morde il labbro inferiore, quello spaccato. Gli fa così male che ha gli occhi pieni di lacrime.
- No, ok, ok. – annuisco io, cercando di calmarlo, - Quello che intendo dire è che la situazione è un po’ spinosa, non ti pare? Cosa ti aspetti che faccia?
- Ma non lo so! – sbuffa lui, abbattendosi sul mio divano e prendendosi la testa fra le mani, - Dovresti essere tu quello esperto, no? Senti, - sospira, - ho avuto una serata difficile, e ho davvero bisogno di—
- Di farti scopare? – chiedo, gli occhi enormi. Lui mi guarda e arrossisce ancora, perfino più intensamente di prima.
- No! – strilla, - Cioè, sì, ma per come la metti tu sembra una cosa di uno squallore tremendo! Era meglio come l’ho detta io prima.
- D’accordo, ma – insisto io, - …non ti capisco. – rinuncio subito dopo, abbattendomi sul divano al suo fianco. – Ti va di parlarne?
- Se avessi avuto voglia di parlarne, sarei andato dallo psicologo dei servizi sociali, ti pare?! – sbotta lui, immediatamente sulla difensiva. Poi sospira, accomodandosi meglio ed appoggiandosi indietro sullo schienale. – Ho fatto coming out sei mesi fa. – racconta a bassa voce, ed io mi sconvolgo, perché, voglio dire, ce li avrà diciassette anni?, eppure ha già avuto più coraggio di me, che alla sua età avrei dovuto e voluto dire cose che invece mi sono tenuto dentro fino ad ora, praticamente, - E se prima potevo dire di avere una vita di merda, era perché non immaginavo minimamente cosa sarebbe diventata dopo una cosa del genere.
- Immagino che non debba essere facile. – commento con un mezzo sorriso. Lui mi guarda malissimo.
- È un inferno. – mi corregge, usando una parola senza dubbio più adatta, - Non mi aspettavo che mio padre capisse, naturalmente, ma che almeno i ragazzi della banda mi stessero vicini… è gente che conosco da una vita.
- Evidentemente, loro non conoscevano te. – gli faccio notare.
- Nemmeno io conoscevo me stesso. – ribatte lui, - È… è solo capitato, cazzo. E non posso farci niente, non è che l’abbia deciso, “oh, sì, diventiamo gay, scommetto che dopo sarà tutto una figata, andrò a vivere a Beverly Hills ed indosserò solo pantaloni e camicie bianche con cinture e scarpe di pelle nera”… è solo capitato. – insiste, occhi bassi e sguardo cupo.
Ridacchio un po’ per l’immagine mentale che la sua descrizione oggettivamente strampalata della società gay americana mi offre, ed allungo una mano a sfiorargli i capelli. Sono di un bel biondo chiaro, molto tedesco. Scommetto che dopo una bella doccia saranno morbidissimi, al tatto.
- Danny, devi anche capire che vivi in mezzo a ragazzini che hanno sempre avuto un solo modo per guardare alle cose. Non puoi pretendere che capiscano.
- Va bene, ma che bisogno avevano di picchiarmi?! – sbotta lui, indicandosi il viso, - Il labbro è un gentile omaggio di mio padre, ma il resto no. Ci conoscevamo fin da piccolissimi, alcuni di loro sono parte della banda dalle medie, e io li ho visti arrivare quasi tutti. Ma non hanno esitato un secondo a prendermi a bastonate, quando l’ho detto, e anche molte volte dopo. Che cazzo.
Sospiro, passando le dita fra i suoi capelli e sciogliendone i nodi.
- Perché non te ne vai, da lì? – propongo, - Sono sicuro che—
- Che stai facendo? – chiede lui, voltandosi a guardarmi con aria sinceramente stupita.
- Cosa? – ribatto io, distrattamente. La mia mano non si ferma, e lui la indica con un dito. – Ah, questo. – registro come fosse una cosa normalissima, - Non lo so. Pensavo avessi bisogno di una qualche rassicurazione.
Lui sospira pesantemente, torcendosi le mani in grembo.
- Senti… - dice a mezza voce, - Tu mi piaci veramente tantissimo. – e lascia il concetto lì sospeso, come se l’idea di spogliarlo e prenderlo magari su questo stesso divano dovesse essere una diretta conseguenza di questa confessione. Non esiste niente che potrebbe giustificare me e te a scopare su questo divano adesso, ragazzino confuso che non ha ben chiaro praticamente niente riguardo a se stesso, alla vita e al mondo in generale.
- Io sono impegnato, Daniel. – gli faccio presente. Potrei partire con una lunga digressione sul mio impegno al momento, ma me la tengo da parte per momenti in cui leggerò meno voglia chiara e limpida nei suoi occhi azzurri e grandi. Questa situazione va arginata. Mi chiedo se ne sono in grado.
- Non importa! – dice, con la sicurezza avventata di chi immagina io gli stia dicendo una cosa del genere solo per fargli presente che per noi non potrebbero mai esserci e vissero tutti felici e contenti con castelli e principi azzurri in groppa a splendidi cavalli bianchi. Lo guardo dritto negli occhi, nella sua testa ci sono un mucchio di favole.
- Importa a me. – insisto, - I rapporti di coppia si basano sulla fiducia. Anis deve sapere che io non lo tradirò, mentre lui è via.
Ed io lo so, che Anis non mi tradirà mentre sono qui. Lo so. Lo so?
- Dimmi almeno che posso restare qui da te, per la notte. – mormora lui, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore.
- Cosa? – rido io, sbigottito, - No che non puoi.
- Non posso tornare a casa! – insiste Daniel, - Non subito, almeno. Dubito che mio padre abbia smesso di bere, quando me ne sono andato, e non voglio stare da solo con lui in una casa traboccante di bottiglie. Di solito le butto tutte via mentre dorme.
Lo guardo inarcando un sopracciglio, incerto.
- Perché le bottiglie? – chiedo. Daniel mi guarda fisso per qualche secondo, poi si allunga verso il tavolino, afferra repentinamente la bottiglia di birra vuota posata sul ripiano e la spacca contro il bordo. Fa un rumore frastornante, si spargono schegge di vetro per tutto il pavimento, e prima che possa capire cosa sta succedendo davvero lui è sulle ginocchia, così vicino che sento l’odore del suo sangue come se fosse il mio, e mi punta la bottiglia spaccata alla gola, tenendola per il collo.
- Per questo. – dice. Uno dei cocci di vetro mi punge con forza la pelle, fa male quasi come dovesse trapassarla. Daniel, però, mette subito via la bottiglia, appoggiandola sul tavolino e ritraendosi mentre io mi accarezzo la gola per verificare che non ci siano tagli. Nel mentre, lo osservo afferrare la felpa che indossa dagli orli inferiori e tirarsela via da sopra la testa. Non indossa nient’altro, sotto, a parte un tappeto di lividi. Non ci sono tagli recenti, almeno, ma lui non intende mostrarmi i segni superficiali delle violenze più nuove, no, vuole mostrarmi i segni indelebili di quelle più vecchie. Si volta e mi mostra un fianco, torcendosi come solo un ragazzino della sua età che sia così magro può fare. – Guarda qui. – dice, indicando una lunga cicatrice un po’ sformata che gli taglia in due la pelle proprio sopra l’anca, - Questo me l’ha fatto per il mio quindicesimo compleanno. – racconta a bassa voce, - Volevo uscire con i miei amici, ma a lui non stava bene. Alla fine, sono dovuto uscire per forza per andare al pronto soccorso. Mentre lui dormiva, perché prima non ha voluto lasciarmi andare.
Deglutisco a fatica, sollevando una mano e tracciando quella linea incerta e chiara con due dita. È liscissima sotto i miei polpastrelli, e il gemito che sfugge dalle labbra di Daniel, più che sentirlo con le orecchie, lo percepisco sottopelle. È un brivido che mi scuote fino alle punte dei piedi. Ho sentito donne gemere più forte e con più voluttà, e quello che non è altro che il gemito sgomento di un ragazzino impaurito che probabilmente soffre solo un po’ di solletico – perché lo so che non era un gemito programmato, quando ne senti tanti impari a capire cosa è simulato e cosa no – riesce a scuotermi più di quanto non abbia mai fatto nient’altro di simile fino ad ora.
- Mi dispiace. – dico a mezza voce. Sono sincero.
- A me no. – risponde lui con una risatina, avvicinandomisi impercettibilmente, - La pelle è ancora sensibilissima, in quel punto. Ho scoperto che mi faceva quest’effetto quando una delle tipe con cui andavamo per locali il sabato me lo ha succhiato. Le sue mani non facevano che sfiorarmi i fianchi e quello mi piaceva già da solo più della sensazione di sentire l’uccello nella sua bocca.
Deglutisco ancora, o almeno ci provo, ma stavolta non mi riesce. Una delle mani di Daniel scende a posarsi sulla mia, se la schiaccia con forza addosso.
- Daniel— - provo a chiamarlo. Lui mi sorride e io m’interrompo subito.
- Quando sono nel letto da solo e mio padre non mi ha picchiato troppo forte, - dice lui a bassa voce, - cioè, quando posso ancora muovermi senza che mi faccia male tutto, a volte, sollevo la maglietta che uso per dormire e la accarezzo. – porta la mia mano a muoversi su e giù contro il suo fianco, - E basta quello da solo per farmelo venire durissimo.
- Smettila. – dico senza fiato, ma la mia presa si stringe attorno al suo fianco senza che possa nemmeno provare a controllarla. La sua mano resta lì. Calda e un po’ sudata. È così agitato, Dio mio. Glielo vedo negli occhi che ha una paura folle.
- Ti prego. – dice lui, avvicinandosi ancora. Le sue labbra sfiorano le mie, ma non osa farsi più avanti di così. – Solo una volta. Non mi vedrai mai più, dopo, te lo giuro.
Resto immobile e non dico niente, ma il problema è che continuo a restare immobile e a non dire niente anche quando lui alla fine si fa avanti e copre i pochi centimetri di spazio che ancora ci separano, poggiando le labbra sulle mie. Non sa come muoversi e probabilmente anche se lo sapesse gli farebbe troppo male per farlo, sento in bocca il sapore del suo sangue ed è lo stesso sapore che sentivo quando per le strade di Tempelhof picchiavano me. È il sapore del mio sangue, non solo del suo.
Chiudo gli occhi e sollevo un braccio, poggiandoglielo sulla nuca e traendomelo contro. Lui sbuffa un lamento sorpreso che si trasforma in un gemito un po’ perso quando forzo le sue labbra con la mia lingua, accarezzandogli lentamente il fianco e sottolineando i contorni della cicatrice. Si scioglie sotto le mie dita con una semplicità disarmante, ed è tutto così semplice, il suo corpo magro è così duttile, si adatta al mio come una coperta di quelle sottili e fresche che ridisegnano le sagome di ciò che nascondono senza riuscire a nasconderlo davvero agli occhi di nessuno.
- Allora… - mormora, quando mi allontano abbastanza da dargli tempo e modo di riprendere fiato, - Vuoi davvero—
- Shh. – lo interrompo io, sorridendo appena. Sfioro le sue labbra con le mie, accarezzo il taglio su quello inferiore con la lingua e lui rabbrividisce con tanta forza che lo sento scuotersi fra le mie braccia come stesse tremando dal freddo. – Non parlare. Rischi grosso, a farlo.
- Non fa più tanto male. – insiste lui, sistemandomisi in grembo. Lo sento eccitato dentro i jeans larghi e spessi e sorrido perché con i ragazzini di quest’età basta davvero pochissimo. – Il labbro, dico. E tutto il resto, anche.
- Ne sono felice. – annuisco, stringendolo da sotto le cosce ed alzandomi in piedi con un colpo di reni. È così leggero, dannazione. Nel movimento, i nostri bacini collidono e poi strisciano l’uno contro l’altro. Daniel mi si aggrappa con forza alle spalle e mugola sul mio collo, la voce rotta in un singhiozzo di paura.
- Farà male? – chiede pianissimo, tanto che lo sento appena. Non lo chiede come uno che stia verificando che opportunità ha per scegliere la migliore, lo chiede come uno che di opportunità ne ha una sola, e vuole essere preparato per affrontarla al meglio.
- Dipende. – rispondo sinceramente io, entrando in camera da letto. Mi serve un secondo per ricordare dove sono tutte cose, letto compreso, nel buio. Alla fine, ci riesco.
- Da cosa? – chiede lui in un mormorio sommesso, mentre lo adagio sul letto ancora rifatto e mi sistemo fra le sue gambe dischiuse, sbottonandogli i jeans.
- Da un sacco di cose. – sorrido io, anche se lui nel buio non può vedermi, chinandomi a baciarlo lievemente su una guancia, e poi giù lungo il collo, sul petto ossuto e sulla pancia morbida, - Da quanto lo vuoi. Da come si muove la persona con cui lo fai. Da quanto pensi al dolore.
- Io non voglio pensarci. – sussurra lui. Mi puntello sul materasso col gomito e sfioro il profilo del suo viso con le labbra. Ha gli occhi chiusi, sento le sue palpebre battere lievissime, come le ali di una farfalla. – Non voglio pensare al dolore.
Sorrido, accarezzandogli nuovamente il fianco.
- E allora non farà male per niente. – lo rassicuro, baciandolo piano. – Sei proprio sicuro di essere maggiorenne, tu, vero? – chiedo un’altra volta. Lui si mette paura, anche se è evidente che non potrei mai mollarlo, giunti a questo punto. Spalanca gli occhi e mi fissa con terrore palese, sollevando le braccia e stringendo i pugni attorno alle maniche della maglia che indosso.
- Certo che sono maggiorenne. – ribadisce, annuendo con sicurezza, - Te lo giuro, per favore—
- Calmati! – rido divertito, allontanandomi abbastanza da costringerlo a mollare la presa e sfilandomi i vestiti di dosso lentamente, così che i suoi occhi, che ormai dovrebbero essersi abituati al buio, possano intuire i miei movimenti, e capire che ci siamo vicini. – Era solo per scrupolo. Giuri di non essere stato mandato qui da qualche losco figuro che poi userà la tua testimonianza su come ti ho picchiato e violentato per estorcermi chissà che somma di denaro?
- No, non… - fa per rispondermi lui, poi si interrompe e pare rendersi conto di qualcosa di molto importante. Si azzarda perfino a tirarmi uno schiaffo su una spalla, e io rido di gusto. – E smettila di prendermi in giro! Cazzo, sei odioso.
- Cos’è, tu puoi fare il fascinoso parlandomi di come ti diventa duro quando solo ti si sfiora la cicatrice sul fianco, - rido io, appoggiando una mano sopra i suoi boxer e stringendo la sua erezione fra le dita attraverso il tessuto in cotone sottile, - e io non posso prenderti in giro? Questo non è un rapporto paritario.
- Non lo sarebbe comunque. – borbotta lui, voltando il capo. So che lo fa perché vuole sottrarsi al mio sguardo, ma tutto quello che vedo in questo momento è il suo collo, perciò è su quello che mi chino, lo assaggio piano in punta di lingua e sento i suoi respiri tremare sotto la pelle ed uscire a fatica dalle sue labbra, mentre muovo la mano che ancora gli tengo fra le cosce, accarezzandolo lento come se la notte non dovesse mai finire.
- Questo lo fai, dopo esserti accarezzato la cicatrice…? – chiedo a bassa voce, direttamente sulla sua pelle, stringendolo con maggiore decisione fra le dita mentre le sue mani corrono veloci all’orlo dei boxer, per tirarli giù.
- Non avevi detto di smetterla di parlare? – chiede a fatica, ansimando pesantemente. Io gli sorrido addosso.
- Avevo detto che tu dovevi smetterla di parlare. – rispondo, lasciandolo andare così che lui possa togliersi di dosso la biancheria, così svelto che pare gli stia prendendo fuoco addosso. Mi si schiaccia contro subito dopo, lasciandosi sfuggire un respiro genuinamente stupito quando mi sente già duro contro una coscia.
- Non avevo idea che fossi così. – borbotta confusamente.
- Dovrei prenderlo per un complimento? – chiedo divertito, e lui sbotta un lamento esasperato.
- Non parlavo di questo… - si lagna, il petto che si alza e si riabbassa più velocemente quando riprendo ad accarezzarlo pelle contro pelle, - Dicevo come persona. Cioè, non so nemmeno com’è che ti immaginassi, in realtà, cambiavi spesso. Dipendeva dalla serata che avevo avuto, o da cosa mi stuzzicava di più in un determinato momento… ma questa è tutta un’altra storia.
- Sì, perché questo è vero. – annuisco in una mezza risata, strusciandomi lentamente contro di lui perché possa sentirlo, - Finché ti piace, comunque, non è detto che sia un male.
Inspira ed espira profondamente, sollevando le braccia ed allacciandomi al collo mentre schiude le gambe e m’invita a prendervi posto in mezzo, prima di rispondere.
- Mi piace. – dice in un fiato, spingendosi appena contro di me e ritraendosi all’ultimo momento, quando mi sente pressare contro la sua apertura in un incastro che tutto dovrebbe essere meno che naturale, e invece viene ad entrambi così spontaneo da fare quasi paura.
- Allora è tutto a posto. – sorrido, inumidendomi due dita con un po’ di saliva ed accarezzandolo piano fra le natiche. Lui rabbrividisce e si tira indietro quasi all’istante, mosso dalla paura. – Calmati. – gli sussurro sulle labbra, - Ti ho detto che non farà male, no?
- Sì, ma era la verità? – chiede giustamente lui, ed io rido a bassa voce.
- Dipende anche da te, ricordi? – dico baciandolo ancora, - Sei tu il primo che non deve pensarci. Il resto verrà da sé.
Lui annuisce – si rassegna, forse – e lo sento rilassarsi sotto di me mentre le mie dita umide tornano a sfiorarlo, facendosi strada dentro al suo corpo una alla volta. Lo sento trattenere il fiato così a lungo che poi, quando è costretto a tornare a respirare, lo fa tutto in una volta, sbuffando come una teiera ed ansimando pericolosamente. Rido un po’, e piego le dita come ho imparato a fare solo recentemente – uno dei numerosi regali di Anis, suppongo per scusarsi di tutto ciò che mi ha fatto e di tutto ciò che, indubbiamente, continuerà a farmi in futuro, perché io sono uno che, se solo gli dai tanto, ti permette di fare questo ed altro – ottenendo in risposta da lui un gemito acuto e prolungato, un po’ ridicolo, ma che mi agita qualcosa nel petto e nel fondo dello stomaco.
- Ti prego. – mormora stentatamente lui, muovendosi un po’ alla cieca nel tentativo di spingere le mie dita abbastanza in fondo da toccare nuovamente quel punto che, anche se solo per un secondo, gli ha fatto perdere la testa. Io ritraggo la mano, prendendolo da sotto le ginocchia e portando le sue gambe fin sopra le mie spalle, dove le appoggio, piegandolo in una posizione un po’ innaturale che lo costringe a schiudere gli occhi e guardarmi incerto nel buio, in cerca di una risposta per ottenere la quale non ha abbastanza coraggio da farmi una domanda.
Mi sistemo meglio contro di lui, inumidendomi di nuovo le dita e poi accarezzandomi velocemente per tutta la lunghezza, preparandomi ad entrare dentro il suo corpo. E succede tutto in un attimo, così veloce che io a stento me ne accorgo, come quando ha spaccato la bottiglia e poi me l’ha puntata alla gola. C’è lo stesso potenziale di pericolo in quello che ha fatto lui poco fa e in quello che sto facendo io adesso. Solo che lui non ha avuto il coraggio di affondare. Io invece sì.
Quando mi scavo a fatica un posto dentro di lui, che è stretto e caldissimo tanto da costringermi ad annaspare senza fiato, Daniel inarca la schiena e geme. C’è del dolore, forse, da qualche parte, ma lui non ci sta pensando. Ed è molto bravo a farlo, tanto che per un secondo quasi penso a lui con una punta di irrazionale orgoglio, perché ciò che ha reso forte lui è esattamente ciò che ha reso forte me. Siamo incredibilmente simili, anche se lui non se ne accorge, ed è questo che lo spinge a cercare proprio me, a volere proprio me, con tutti quelli che potrebbe cercare e volere nel mondo, anche se in questo momento è convinto di volermi solo perché io sono uno che ce l’ha fatta, uno cui guardare con ammirazione e rispetto. Siccome lui è piccolo, cerca qualcuno che possa ricordargli se stesso, solo un po’ meno sofferente. Quando sarà grande, ricorderà i sentimenti che sta provando adesso con un imbarazzo infinito. E questo lo so perché per me è lo stesso, e ci convivo ogni giorno. Quello che Anis prova per me è così diverso da quello che io provo per lui. Ed il fatto di pensarci e realizzarlo proprio ora è così ridicolo che mi viene da ridere.
Non lo faccio, naturalmente. Mi muovo piano, perché davvero voglio che non faccia male, e dopo un po’ sento Daniel cominciare a muoversi in sincrono con me, le sue spinte che vanno incontro alle mie, i nostri bacini che si scontrano sempre più spesso sul sottofondo quasi musicale del fruscio lievissimo delle lenzuola ancora perfettamente composte sotto i nostri corpi sudati, come se questo letto non fosse mio, come se nemmeno questa casa fosse mia e noi fossimo semplicemente entrati da una finestra per prendere possesso di qualcosa che non ci appartiene, solo per venti minuti di serenità.
Stringo la presa sulla sua erezione e mi muovo più velocemente solo quando la via all’interno del suo corpo è abbastanza aperta da permettergli di ansimare non più solo per il senso di pienezza inevitabile e quasi nauseante che è normale ti prenda quando qualcosa di così estraneo da te sfiora la tua intimità in maniera così invadente, ma anche per la sensazione piacevole delle mie labbra che lo sfiorano ovunque, delle mie mani che gli accarezzano i fianchi, delle mie dita che passano insistentemente lungo la linea irregolare della sua cicatrice, tirandogli via il respiro a tratti ed a tratti restituendoglielo all’improvviso. E rallento le spinte, aumentando solo il ritmo delle carezze, aspettando che lui sia venuto prima di riprendere a pompare più velocemente, abbandonandomi poco dopo ai brividi dell’orgasmo che mi portano inevitabilmente a franargli addosso in pochi secondi. Per un attimo, penso distrattamente che ho paura di schiacciarlo, restandogli così addosso. Lui, però, mi regge bene. Non si lamenta neanche. All’inizio respira a fatica, ma poi si calma ed il suo respiro assume un ritmo meno frenetico. E per riflesso mi rassereno anch’io.
- Ehi. – dico piano, rotolando sulla schiena e rimanendo al suo fianco. Una mia mano è rimasta sulla sua coscia. A me non dà fastidio lasciarla lì, a lui non dà fastidio che ci sia, per cui è lì che la lascio. – Dimmi la verità, non sei maggiorenne, vero?
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, perdendosi in un flusso di parole apparentemente privo di senso fino a quando, finalmente, non sbotta in un “tecnicamente no” che mi fa scoppiare a ridere.
- Ma lo sarò fra poco. – si giustifica con voce lamentosa, rovistando sotto di sé per disfare le coperte e nascondercisi sotto, - E poi ti ho promesso che non ti denuncerò, smettila di insistere sul punto, no?
Io rido ancora, mi volto su un fianco e gli accarezzo la frangia con la mano libera, ravviandogliela sulla fronte.
- Era solo per saperlo. – lo rassicuro, - Non devi giustificarti di niente.
- Ovvio che non devo, sarai tu a doverti giustificare davanti a un giudice, quando spiattellerò tutto al tipo che mi ha assoldato per venire a letto con te. – dice lui con naturalezza. Lo fisso, spalancando gli occhi. – Scherzo. – borbotta tirando fuori la lingua. Rido e mi sporgo a mordergli le labbra in un gesto che è un po’ una punizione e un po’ un complimento sincero. – Quindi… - biascica lui quando mi allontano, - Questa è stata la prima e l’ultima volta, mh? Non ci rivedremo più.
Sorrido, girandogli un braccio attorno alle spalle e tirandomelo contro.
- Invece magari domattina intanto ti porto a fare colazione in qualche bel posto, - propongo, - e poi per il resto vediamo col tempo. Che ne dici? Ti piace come idea?
Non lo vedo sorridere, ma sento le sue labbra tendersi contro la mia pelle, e le sue braccia chiudersi attorno alla mia vita.
- Mi piace. – risponde annuendo.
Io sorrido ancora.
- Allora è tutto a posto.

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Pictures

di lisachan
Io non sto bene, è evidente. Cioè, è già un chiaro segno di squilibrio il fatto che io abbia acconsentito a continuare a vedere Daniel, decidendo di ignorare il fatto che è palesemente minorenne solo per quieto vivere e perché non ho nessuna voglia di ritornare a pensare a quanto potrebbe fare schifo la mia vita in prigione se questa faccenda saltasse fuori – sempre ammesso che Anis possa decidere in coscienza di lasciarmi lì a marcire senza ricoprirmi di avvocati come ermellino sul mantello di un re, nel caso succedesse, ma potrebbe, se scoprisse che l’ho tradito col minorenne di cui sopra, o almeno credo, e quello che sto dicendo manca evidentemente di senso compiuto, me ne accorgo da solo, non c’è bisogno di farmelo notare, grazie mille.
Comunque, il succo del discorso è che devo stare proprio male, cioè, proprio fuori di testa se, oltre a tutto questo, io Danny prendo e me lo porto anche in casa del Chaku. Perché l’ho fatto? Il mio letto è più comodo del suo, c’è il materasso ortopedico mentre qui non sono neanche sicuro che il materasso ci sia. E casa mia puzza di meno, i rubinetti non perdono, non devi effettuare un corso preparatorio di introduzione alle lingue morte degli scarafaggi della tribù dello scaldabagno orientale prima di entrare nel cesso, e voglio dire, genericamente le condizioni di abitabilità del mio appartamento sono molto migliori rispetto a quelle di questa topaia disastrata che neanche il tocco magico di Bill – riassumibile in “no, Chaku, devi pulire, perché sennò io non posso poggiare il tacco dei miei stivali Armani da millecinquecento euro sulla tua moquette” – è riuscito a rendere un luogo abitabile da esseri umani veri, esseri umani che non siano Chakuza, intendo.
Mentre ricado sul letto accanto a Daniel e la mia schiena urla pietà, realizzo che è evidente che il materasso sotto di noi è solo un’illusione: vogliamo fortemente credere che un materasso ci sia, perciò ci sembra di stare sul morbido quando così non è. No, scherzavo. In realtà realizzo che se ho portato Daniel qui è perché, nonostante tutto, il paragone fra casa mia e casa del Chaku non regge nemmeno. Non è che l’ho portato qui per una sorta di ripicca, a-ha!, non ci sei e io scopo con un altro nel tuo letto, no, è che da quando le cose con Danny si sono fatte più intime – e non sto parlando solo di una scopata o due, ovviamente – ho davvero sofferto l’impossibilità di renderlo un pezzo della mia vita vera. Presentarlo ai miei amici, portarlo in giro, portarlo in un appartamento che per me potesse significare qualcosa in più della scatola in cui dormo quando non ho nessun altro posto dove andare. E questa casa, per me, rappresenta tutto questo. Scusami, Chaku, non è per te che lo faccio. È per me.
Daniel non aspetta nemmeno di riprendere fiato – o meglio: lui il suo l’ha già recuperato, è il mio che ancora si fa rincorrere, ma questo naturalmente ci riporta al problema dell’età già frettolosamente affrontato prima e sul quale non intendo soffermarmi ancora – e mentre io sono ancora qui che cerco di capire chi sono, cosa faccio al mondo e che nome m’abbia dato quella povera donna di mia madre, lui scatta a sedere e si piega oltre il bordo del letto, riemergendo mezzo secondo dopo col proprio zainetto, che appoggia in grembo ed all’interno del quale comincia immediatamente a rovistare come in cerca della pillola del giorno dopo come rimedio estremo dopo una notte di sesso non protetto che naturalmente non ha avuto luogo, non fatevi strane idee.
- Non puoi rimanere incinto, sai? – lo avverto, seguendo il filo dei miei pensieri e rendendomi conto del fatto che si tratta di pensieri prevedibilmente solo miei nel momento in cui lui mi lancia un’occhiata vagamente allucinata e poi ritorna a ficcare la testa nello zaino, riemergendo qualche secondo dopo con una macchina fotografica in mano.
- Ah, eccoti qua. – dice soddisfatto, stringendola fra le mani per accenderla e verificare le impostazioni.
- Che sarebbe quella roba? – chiedo, inarcando un sopracciglio. È ovvio che so che si tratta di una macchina fotografica, ma mi aspetto una risposta ben più esauriente, nonostante la domanda poco centrata.
- Una macchina fotografica. – risponde invece lui, pacifico come un putto addormentato su una nuvola col suo gonnellino bianco e la sua arpa in miniatura sotto il cuscino.
- Sì, lo so cos’è, Danny. – mi lagno io, inarcando anche l’altro sopracciglio, - Intendevo cos’è che vorresti farci?
- Be’, allora avresti dovuto chiedermi quello, tanto per cominciare. – ride lui. E poi, semplicemente, solleva la macchina fotografica in modo da centrarmi all’interno dell’obbiettivo e poi scatta.
- No, dai! – mi lagno io, ricadendo sul mio cuscino con un tonfo rassegnato, - Per favore, sono uno straccio.
- Ti prego, sei stupendo. – ride lui, scattandomi un’altra foto, - Vuoi sapere quando sembravi uno straccio? Quando ti sei fatto quella foto pseudo-MySpace con la canottiera bianca. Dio mio, che roba squallida.
- Dio mio, quanto sei gay. – sospiro, gettando uno sguardo implorante al soffitto.
- Oh, da che pulpito. – ride ancora Danny, stendendosi accanto a me e scattando una foto a entrambi. Lui sorride come il ragazzino che è, io lo guardo male come il vecchio scarpone brontolone che sono.
- Le foto sono l’ultimo dettaglio prima di mettere in atto il piano per denunciarmi alle autorità? – chiedo schermandomi con un braccio. Lui ride divertito, e stavolta rido anch’io, gli rubo la macchina fotografica dalle mani e gli salgo addosso, sovrastandolo e costringendolo a restare steso sul materasso senza pesargli troppo sopra, anche se so che mi regge più che bene. Non riesco a impedirmele, queste premure, per quanto sia sciocco.
- Che fai? – mi chiede, guardandomi dal basso. Il modo in cui i suoi occhi scorrono lungo tutta la superficie del mio corpo mi dà i brividi. Mi mordo un labbro, puntandogli addosso la macchina fotografica e scattandogli una foto.
- Sei fotogenico. – commento, osservando il risultato sul display, - Anzi, in realtà sei proprio bello. – continuo, guardandolo con sincero interesse. Lui arrossisce subito. – Hai mai pensato di fare il modello? Pagano bene, se arrivi a certi livelli.
- Non è roba per me, quella. – borbotta lui, aggrottando le sopracciglia, vagamente offeso. Io rido un po’.
- E cos’è roba per te? – chiedo curiosamente, restando dove sono e scattandogli un’altra foto. Lui guarda altrove, le labbra appena piegate in una smorfia addolorata. L’obbiettivo cattura i suoi lineamenti affilati, ne sembra inspiegabilmente attratto. È qualcosa che posso capire. – Non oso nemmeno immaginare dove vivi.
- Ehi, casa mia è a posto, ok? – sbuffa, incrociando le braccia sul petto e tirandosi un po’ su, per fronteggiarmi da una posizione meno svantaggiosa, - È mio padre che la rende una merda, ma la casa è ok.
- Avanti, vuoi farmi credere che il tuo sogno è restare a Tempelhof? In quel posto di merda? – sospiro, sdraiandomi al suo fianco e mettendo via la macchina fotografica.
- Non ho detto questo. – risponde lui, duro, - Ho solo detto che fare il modello non è la mia cosa. Io voglio rappare.
Non riesco a trattenere una risata.
- Sì, è una frase che ho già sentito, questa. – commento, scompigliandogli i capelli. Lui si sottrae dal mio tocco con uno scatto da bambino offeso, ma prima che possa cominciare a protestare il mio cellulare, poggiato sul comodino accanto al letto, si mette a squillare, e lui si zittisce immediatamente. È una cosa così automatica che un po’ mi spaventa, non dovrebbe essere così naturale per lui farlo. Non così presto, almeno.
Mi allungo a recuperare il telefono. Sul display, lampeggia il nome di Bill. Sono un po’ stupito – non lo sento da quando è partito in tour coi ragazzi – ma rispondo.
- Pronto? – dico, e per molti secondi nessuno risponde. È come se Bill si fosse addormentato col telefono in mano mentre il telefono squillava. – Pronto? – ripeto, perché non voglio chiamarlo per nome di fronte a Danny. Non che sia possibile pensare che ignori le mie frequentazioni col ragazzino, ma insomma.
- …scusa. – risponde finalmente Bill, il tono trasognato, la voce flebilissima. – Come stai?
- …dovrei chiederlo io a te. – rispondo incerto, - Ragazzino, è tutto a posto? Ti sento strano.
- Strano? – chiede lui, un po’ confuso, - No, perché dovrei?
- Non lo so, era un’impressione, sei… non lo so. – rispondo sinceramente, - Ma c’è qualche problema?
Bill si prende qualche altro secondo, prima di rispondere.
- Sai che ho tagliato i capelli? – mi dice quindi, - O forse devo ancora farlo, non ricordo. O forse l’ho già fatto, ma tantissimo tempo fa, e sono già ricresciuti.
…ok, c’è decisamente qualcosa che non va.
- Bill? – lo chiamo, rinunciando a qualsiasi forma di pudore e discrezione ancora residue nella mia testa e mettendomi immediatamente a sedere, come se il fatto di cambiare posizione potesse rendermi più agile, pronto a scattare nel caso dovesse dirmi che ha bisogno d’aiuto. – Bill, ma stai male?
- Male? – chiede lui, e ride. La sua risata è talmente vuota che se ci urlasse dentro si sentirebbe l’eco. – Ma no. Sto bene. Non devi preoccuparti. – e posso immaginare il sorriso sulle sue labbra, e mi dà i brividi. Deglutisco a fatica. – Ora devo andare. – riprende subito, impedendomi di insistere ancora per farmi dire cosa diavolo ha, - Mi sa che è proprio ora di tagliare i capelli.
Interrompe la telefonata subito dopo. Io resto seduto, osservando il suo nome che ancora lampeggia sul display finché non cade la linea e lo schermo torna ad oscurarsi del tutto.
- Problemi? – chiede Daniel, piantando il gomito sul cuscino ed appoggiando il mento al palmo della mano aperta. Io faccio per rispondergli, ma il telefono squilla di nuovo. Spero sia Bill che mi dice che si è trattato di uno scherzo. Ti permetto di prendermi in giro perché ci sono cascato, ragazzino. Ci sono cascato con tutte le scarpe.
Invece è Anis. Non riesco a nascondere la delusione nello sguardo e nella piega delle labbra. Daniel se ne accorge, sicuro come la morte. È un bene che Anis non sia qui, così almeno potrà evitare di accorgersene lui.
- Ehi. – rispondo, e cerco di forzare un sorriso.
- Con chi eri al telefono? – chiede subito lui, senza nemmeno salutarmi. Mi passa subito la voglia di provare ad essere conciliante.
- …sto bene, Anis, qui le cose vanno alla grande, non preoccuparti. – sbuffo, e mi rendo conto di quanto suoni ridicolo, soprattutto considerato che c’è Danny qui accanto che inarca un sopracciglio e sta pensando tutta una serie di cose poco carine, a ragione, peraltro, ma mi viene spontaneo. Anis inspira ed espira lentamente, dovunque si trovi in questo momento, e quando torna a parlare lo fa con un tono di voce completamente diverso.
- Mi dispiace. – sospira, - Avevo— davvero bisogno di sentirti, ecco, e quando ho provato a chiamarti trovare occupato mi ha infastidito.
- Sì, be’, ho una vita, sai? A parte te e il vostro carrozzone di pazzi scriteriati, intendo. – continuo a borbottare. Daniel mi guarda malissimo, o forse sono solo io che voglio sentirmi rimproverato dai suoi occhi azzurri e un po’ assonnati. Sospiro. – Scusa. Giornata difficile.
- Dillo a me. – ridacchia lui, espirando profondamente. – Successo qualcosa in particolare?
Lancio un’altra occhiata a Danny. S’è sdraiato tranquillo sotto le coperte e s’è messo a scorrere le foto che abbiamo scattato stasera, osservandole tutte con interesse nonostante gli occhi che già si chiudono. Dormirà fra pochi secondi. Sorrido un po’.
- Niente di che. Da voi?
Anis sospira così profondamente che mi chiedo se i suoi polmoni siano abbastanza grandi da contenerla, tutta quell’aria.
- È tutto un gran casino. – risponde a bassa voce, - Se fossi qui sarebbe diverso.
- No, non credo. – rido piano. Danny sta già praticamente russando quando stringe una delle mie mani fra le proprie e la porta ad accarezzarsi i capelli.
- Io ne sono sicuro, invece. – insiste Anis, - Se tu fossi qui, Bill avrebbe almeno un po’ di pudore.
Mi mordo un labbro, sistemandomi meglio sul materasso nonostante possa sentire le doghe della rete premermi contro la spina dorsale.
- Senti, se posso darti un parere spassionato, Anis, - sospiro appena, - la tua principessa non sta un cazzo bene.
Anis sospira a propria volta, e sarà almeno il millesimo sospiro che ci concediamo da quando abbiamo cominciato a parlare.
- La mia principessa non sta un cazzo e basta, Pat. – risponde con un sorriso amaro, - Non sta e basta.
Se fosse qui, lo abbraccerei. Ma non è qui, qui c’è solo Danny, perciò abbraccio lui. Gli passo un braccio attorno alle spalle e me lo tiro contro. Nel dormiveglia, lui mugola appena, così a bassa voce che Anis nemmeno lo sente, e si sistema contro il mio petto.
- Mi dispiace, Anis. – rispondo, sperando che la mia voce sia abbastanza dolce da farlo sentire compreso davvero. – Lo sai che mi dispiace.
- Sì, lo so. – risponde lui. Il suo sorriso, lo sento dal tono, è già meno teso e più sincero. – Vado a riposarmi un po’. – dice quindi, la voce improvvisamente carica di stanchezza, come non potesse più farcela a reggere il proprio stesso peso dopo essersi scaricato tanto. – Buonanotte.
- Buonanotte. – rispondo piano. Ascolto la voce del telefono e della conversazione interrotta per qualche secondo, prima di rassegnarmi a chiudere la telefonata ed impostare la vibrazione. Poso nuovamente il cellulare sul comodino e mi stendo più comodamente. Daniel mi si stringe contro, si appoggia del tutto sopra di me e quella del suo corpo così caldo e così vicino è la sensazione più bella che ho provato negli ultimi mesi della mia vita.
Quando il suono della vibrazione contro il legno del comodino si diffonde fastidiosamente nell’aria, per prima cosa penso di nuovo a Bill. Poi mi rendo conto che è molto più probabile che sia Chakuza. Infine, capisco che dovrei lasciare quel telefono squillare e ignorarlo, ed invece mi allontano lentamente da Daniel e, sperando di fare in tempo, recupero il cellulare e mi trasferisco in salotto.
- Chaku. – lo chiamo piano, e il respiro che rilascia quando sente la mia voce lo sento quasi sulle mie stesse labbra. – Ehi, tutto a posto?
- A posto? – ride un po’ lui, e posso sentire che è in un ambiente piccolo e isolato, forse nella sua cuccetta dentro il tourbus. La sua voce è bassissima, ma c’è così tanto silenzio che la sento comunque con una chiarezza impressionante. – Per dirti se le cose sono a posto, dovrei ricordarmi com’è che erano quando ci stavano. – risponde con un’altra risata un po’ disillusa.
- Ma insomma, me lo spieghi cosa cazzo sta succedendo? – borbotto io, lasciandomi ricadere sul divano e tirando su le gambe per stendermi, - Che cazzo, la chiarezza sicuramente non è un vostro dono.
- Nostro di chi? – chiede subito lui, stupito. Io mi mordo un labbro.
- …degli austriaci. – invento io, - Intendo, sembri preoccupato ma non mi spieghi perché. Parla, no? – dico, sperando di essere stato sufficientemente convincente. Sono quasi sicuro di non esserlo stato e sento ancora gli occhi azzurrissimi di Daniel addosso mentre silenziosamente mi lasciano credere che mi stanno disapprovando, ma dal modo in cui Chakuza risponde è palese che la mia prova come attore di teatro dell’improvvisazione non era importante per farlo sentire libero di parlare: ne ha così tanto bisogno che le parole gli escono dalla bocca come un fiume in piena, travolgendomi.
- Sta andando tutto di merda, Pat. – comincia, talmente ansioso di dirmi tutto che le parole inciampano l’una sull’altra, si confondono, si intralciano a vicenda, - Bill sta dando di matto e io non so come aiutarlo. Perché sto dando di matto anch’io. E Bushido non riesce a fare niente perché non ci può riuscire nessuno, e se anche le cose non stessero andando poi così male questo tour rimarrebbe comunque un errore enorme, e so che quando torneremo a casa questa cosa ci avrà scombinato talmente tanto che rimetterci a posto sarà impossibile, ed ho pensato spesso a te, perché tu sei bravo a rimettere a posto le cose, ma mi sa che davvero, davvero, Pat, avrai vita dura quando saremo tornati.
La franchezza con cui ammette di aspettarsi che, quando saranno tornati a casa, io sarò lì armato di cerotti e pronto a rimetterli insieme, mi turba più di quanto non facciano le sue stesse parole, le cose che mi racconta, il disagio che esprime. Non riesco ad identificare un momento nella mia vita in cui ho permesso a questi uomini di farmi questo. Qualsiasi cosa questo sia. Perché qualsiasi cosa sia è dolorosa, ed io non voglio sentirmi così.
- Direi… - mi sforzo di rispondere, schiarendomi la voce, - Direi che potremo pensarci quando sarete tornati, no? – dico con una mezza risata incerta, alzandomi in piedi e prendendo a girare lentamente attorno al divano giusto per darmi qualcosa da fare. – Che ne dici?
- Dico che non ho granché altro da scegliere, ti pare? – ride anche lui, incerto tanto quanto me. Vorrei chiedergli perché ha sentito il bisogno di chiamarmi, ma so che la risposta a questa domanda è una risposta che in questo momento non voglio sentire. È una risposta che mi farebbe piacere, in qualsiasi altro momento, ma non qui, non ora. Non così.
- Hai ragione. – annuisco. E per la prima volta, stasera, sono io a chiudere la questione. – Buonanotte, Chaku.
Lui non mi risponde perché non vorrebbe chiudere la telefonata, lo sento nel modo in cui respira, come se stesse solo aspettando di trovare le parole giuste per dirmi di non riattaccare. Le parole non arrivano, comunque, e dopo qualche secondo di speranzosa e stupida attesa, io riattacco.
Torno in camera da letto, e Danny sta ancora dormendo, tutto raggomitolato nella stessa posizione in cui l’ho lasciato. Scosto le lenzuola e mi stendo al suo fianco. Il suo corpo trova il mio al primo contatto, e ci riannodiamo come prima così facilmente da darmi l’impressione di non essermi mai mosso da qui. È una sensazione che riconosco subito. Perché non mi muovo da tanto di quel tempo che se solo ci penso mi manca l’aria per respirare.
Nonostante questo, me lo stringo contro, affondo il naso fra i suoi capelli e chiudo gli occhi. Non mi accorgo del momento in cui mi addormento, ma il calore del suo corpo resta lì, legato al mio, per tutto il tempo, e quando mi sveglio, l’indomani mattina, c’è ancora.

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Where do we go from here

di tabata
Ci sono momenti in cui non so davvero da che parte cominciare a raccontarvi le cose.
Non è una questione di come presentarvele perché so già che le capireste in qualsiasi modo io ve le proponga e non ho quel tipo di pudore nei vostri confronti che mi spinge a dipingere gli avvenimenti in maniera diversa per farli sembrare meno gravi, meno ridicoli o incredibilmente meno stupidi di quello che sono. Vi ho raccontato io stesso quasi tutte le parti più imbarazzanti della mia relazione con Chakuza, quindi direi che non c'è niente che non vi racconterei per vergogna.
Il punto è che mi trovo di fronte il problema di dovervi spiegare quello che è successo dall'ultima volta che qualcuno di noi vi ha parlato – era Bill ed era sconvolto, quindi fate voi – e si tratta di così tante questioni tutte insieme che in pratica è come quando la signora Lotte si presentava a casa di Peter con mezzo chilo di lana in una borsa e ci chiedeva di aiutarla a farne tanti gomitoli separati. Noi guardavamo questa matassa amorfa di fili colorati senza né capo né coda e ci chiedevamo da che parte esattamente dovessimo cominciare ad arrotolare. D'altronde è per questo che il compito è toccato a me, perché quando c'è da tirare le somme tutti si danno alla macchia e chi rimane sono sempre io. Il sottoscritto ha fatto il punto della questione quando Bushido è morto, quindi va da sé che debba farlo anche per la resurrezione. Per me non era così automatico, voglio dire, la metà di quello che sto per dirvi nemmeno mi riguarda!, ma non ho mai avuto voce in capitolo quindi direi che possiamo anche sederci e cominciare.
Io e Peter con la lana eravamo due disastri e ricordo che la signora Lotte lasciava ogni volta che la tirassimo fuori dalla borsa e che poi, nel tentativo di sbrogliarla, finissimo per annodarci; quindi sorrideva benevola e trovava in un secondo il capo che ci serviva, come se avesse sempre saputo che era là o come se ai suoi occhi quello brillasse per farsi individuare da lei più facilmente. Non so come facesse, ma le bastava guardarci per capirlo. Ora io non sono altrettanto bravo mentre guardo metaforicamente Chakuza, Bushido e Bill annodati tra i fili di lana con i quali hanno tentato per quasi un anno intero di legarsi e poi strangolarsi a vicenda, ma se guardo attentamente la questione e cerco di non pensare a come mi sento al riguardo, il capo lo vedo abbastanza bene. E quel capo, manco a dirlo, è Bill.
Non voglio certo dire che sia stato il ragazzino a scatenare la sequenza di disgrazie più o meno gravi degli ultimi mesi, ma di certo lui è il primo minuscolo sassolino che ha poi generato la valanga, e tutto, come sempre, senza muovere nemmeno un dito. E' un talento di Bill quello di essere involontariamente un guaio per il solo fatto di starsene lì come un piccolo sole al quale tutti orbitiamo intorno.
Ma stavo parlando di lana, di fili e di reazioni a catena. Lo so. Non sono Chakuza, io, non mi perdo, cerco solo di prendere tempo per riordinare le matasse.
Dunque, innanzitutto Bill ha deciso, per la prima volta nella sua vita, di seguire il consiglio di qualcuno e quando gli ho spiegato che forse la soluzione che ci serviva per sopravviere era separarci, mi ha dato ragione e ha fatto l'unica cosa che poteva fare: ha preso suo fratello e con il favore delle tenebre è sparito dalla faccia della terra, lasciando David Jost a coprire le sue tracce e, probabilmente, a farsi spettinare dai grandi capi della Universal che per colpa degli ormoni iperattivi del suo enfant prodige hanno perso non so nemmeno quanti miliardi. Lo stesso consiglio, che mi sono prodigato a dare a chiunque perché ero stanco e perché davvero ero e sono ancora convinto che fosse quello giusto, lo hanno seguito anche Bushido e Chakuza, il che paradossalmente ha creato più confusione, forse perché nel loro caso non c'era un manager gay pronto a deviare gli attacchi nemici a colpi di organizer. Chissà.
In pratica è andata così e vi avviso che non è stata una sopresa per nessuno. La Universal Music Deutschland ha pensato che l'esperimento con i non-morti fosse da considerarsi concluso e ha mandato a Bushido una bella lettera in cui scaricava lui, l'etichetta e tutti gli uomini trainati nel bene o nel male dal suo grande carretto dorato. Allo stesso tempo, ha perso la pazienza anche nei confronti dei quattro ragazzini e dopo aver permesso a David di mentire un'ultima volta su tutto ciò che era successo e chiedere del tempo per far riprendere Bill, ha scaricato anche i Tokio Hotel con un gran sorriso e l'augurio sincero che l'imminente periodo di vacanza potesse in effetti fargli bene.
Cos'abbia fatto esattamente David a quel punto io non lo so, perché avevo i miei problemi a cui pensare e perché non appena si è sparsa la voce che il contratto dei quattro era stato annullato, l'invasione mediatica delle supposizioni e degli avvoltoi si è fatta talmente pesante tra televisioni, radio e giornali da spazzare via totalmente anche la mia voglia di informarmi o di chiamare il ragazzino e chiedergli come stava.
So però cos'è successo all'Ersguterjunge perché ero ancora lì quando Bushido ha dato agli altri la notizia e c'ero solo perché Anis mi ha chiesto di esserci prima di perderci di vista per un po'.
Dal momento che il colossale fallimento del suo tour con l'uomo più odiato e quello più amato della sua vita era noto a chiunque, Bushido avrebbe potuto non dico chiedere perdono per aver lasciato che l'etichetta andasse allo sbando e per essersi fatto palesemente buttare fuori a calci da chi lo finanziava, ma almeno presentarsi agli studi con la vaga consapevolezza di essere nella merda e di averci trascinato una decina di uomini, giusto per dare l'impressione che gliene fregasse qualcosa; ma ovviamente lui non l'ha fatto perché è Bushido e invece di prendere atto della disastrosa situazione e poi inizire a raccogliere i pezzi, ha finto che non ci fosse nessun problema ed è entrato da quella porta spavaldo come se il mondo gli dovesse qualcosa. Ha preso il fatto di aver perso Bill, la sua casa di produzione e in generale tutta la sua vita in un colpo solo e lo ha ficcato da qualche parte in fondo allo stomaco, per avere la forza di vestirsi ed uscire di casa perché non sopporta di soffrire. Il fatto è che stavolta non c'era nessuno pronto a sopportare la sua spavalderia difensiva, tranne forse me e Chakuza che oscillava per gli stessi motivi tra la sua rabbia furiosa e uno di quegli attacchi di depressione che lo porta ad accasciarsi per non muoversi ipoteticamente mai più. E così l'Ersguterjunge ha subito la sua prima scissione.
A parer mio, Nyze è uno che non ha capito un cazzo della vita o della gente che gli sta intorno; da che sono qui non ho mai avuto una grande opinione di lui, se non quella di uno che voleva far parte di un gruppo di duri da film e si è ritrovato con intorno delle persone reali, senza contare che se davvero si trovasse in mezzo alla gente che vuole lui, probabilmente gli farebbe un gran culo. Così quando ha iniziato ad aggirarsi come un leone in gabbia, menando le mani in aria e imprecando al solo sentir nominare un'altra volta il ragazzino, non mi ha sorpreso proprio per niente perché è quello che vedi nei film, no? Il fratello di strada si agita quando spari cazzate e dice più cazzo possibile, per averlo in bocca nell'unico modo consentito, mica come facciamo noi.
Bushido ha provato ad essere conciliante, gli ha detto di calmarsi e che avrebbe sistemato tutto, che la Universal poteva pulircisi il culo con la lettera di recissione, ma Nyze non lo stava nemmeno a sentire, perché quello era il suo grande momento e voleva solo che lo guardassimo tutti mentre dava a Bill della troia, a noi dei froci e poi se ne andava sbattendo la porta. Una scena di una tristezza sconfinata. Se proprio voleva andarsene, che trovasse le palle di farlo prima invece di continuare a far parte di un'etichetta su cui aveva iniziato a sputare merda due anni prima.
Immagino che il teatrino fosse chiaro a tutti perché nessuno si è preso la briga di fermarlo, nemmeno Bushido, ma per come stavano le cose, con il re incapace di convincere perfino se stesso, l'apatia di Chakuza e davanti agli occhi la fine dei soldi di tutti quanti, nessuno ha avuto la forza di battersi le mani sulle cosce e far vedere che era ottimista. Forse sarebbe servito, ma d'altronde è difficile pensare che tutto andrà bene quando hai scritto in faccia il contrario.
A quel punto Peter si è alzato in piedi e se n'è andato, dando così il permesso a tutti gli altri di farlo.
Bushido si è seduto sulla sua scrivania ed è rimasto immobile finché nella stanza non c'eravamo solo io e lui, quindi con un gesto secco ha buttato giù tutto quello che c'era sul tavolo.
Sono rimasto a contemplare quel disastro finché lui non mi ha detto di andare.
Lo ha fatto senza nemmeno voltarsi e io ho solo annuito, perché me lo sono ricordato a diciotto anni fare la stessa cosa quando un affare andava in merda e Arafat poteva anche incazzarsi peso.
Mi teneva lì finché poteva, finché la rabbia non arrivava all'orlo e poi mi mandava via.
Mentre scendevo le scale ho sentito il vetro dei suoi quadri che andava in frantumi, mi è venuto in mente Chakuza e quasi ho sperato di trovarlo per strada anche se gli avevo detto che era meglio non vedersi per un po'.
Ho scosso la testa e ho come avuto l'impressione che non stessimo migliorando affatto.

*


Che io non so stare in casa da solo ve l'ho già detto così tante volte che ho la nausea perfino io.
Il punto è che finora, quando non volevo stare in casa mia a guardare i miei bei mobili mai usati, c'era sempre un altro posto in cui potevo andare. Quando ero un ragazzino era casa di Anis, poi c'è stata quella di Chakuza, poi lo studio dell'Ersguterjunge e dopo quella notte terribile in cui ho impacchettato Chakuza e l'ho spedito alla Principessa, c'era anche la casa di Nicole.
Ora invece non c'è un bel niente e quindi sto seduto qui di fronte al televisore a chiedermi se non dovrei vendere tutto e, non lo so, cominciare a vivere in albergo. Una stanza diversa ogni sera, così da non sentirmi a disagio se per caso mi guardo intorno e mi rendo conto che in quel posto non ci vivo, che a parte il letto tutto è ordinato, intoccato, come se fosse uscito giusto ora dal negozio.
Sono passati quasi due mesi da quando il casino è successo e in tutto questo tempo non ho fatto molto altro se non starmene seduto qui come sto adesso a chiedermi se invece non dovrei fare qualcos'altro senza poi farlo.
Gli unici momenti in cui effettivamente non sono immobile e non sto contemplando l'universo, sono quelli in cui Danny fa irruzione in casa mia e, come l'adolescente che è, m'impedisce fisicamente di occuparmi di qualsiasi cosa che non sia lui. Ascoltarlo e stargli dietro mi portano via tempo, che è esattamente ciò di cui ho bisogno, ma l'entusiasmo che ha per noi due – qualunque cosa siamo – è drenante e deleterio perché mi lascia più triste di come mi ha trovato quando poi Danny prende il suo zainetto sbrindellato e torna a casa, e mi ritrovo di nuovo qui a guardare il divano in pelle, con l'aggiunta che a quel punto ho in mente lui e mi ricordo che è piccolo, che non dovrei dargli corda e che lui è solo un altro casino in cui mi sono subito infilato quando ancora non ero uscito da quello prima. Solo che è un casino nuovo, sa di fresco e sembra ancora risolvibile, non come tutti gli altri.
Oggi è una di quelle giornate, anche se non vedo Danny da quattro giorni. O forse è una di quelle giornate proprio per questo, perché non so esattamente dove sia e, visto l'ambiente in cui vive, non sono tranquillo e finisco a pensare. A tutto. A lui, a me e a questa casa in cui non mettevo piede da così tanto che quando ho aperto la porta c'era un puzzo di chiuso che ti prendeva alla testa.
Mi chiedo se c'è stato un tempo nella mia vita in cui non ero così incasinato in questo modo perché ormai mi sveglio la mattina e mi sembra di essere sempre stato così e che in realtà non trovo una soluzione al mio problema perché il problema non c'è e dovrei semplicemente prendere le cose così come sono e continuare a vivere come presumibilmente vivevo anche prima, ma so che non è vero.
E se ci penso, so anche che una volta il mondo non andava a rovescio; mi viene da ridere quando mi rendo conto che quel tempo era quando stavo all'Aggro Berlin ed ero ancora incazzato con Anis. Avrei dovuto continuare a sputargli addosso, così questa distorsione spazio temporale in cui io sono l'ombra di me stesso non esisterebbe e sarei felice. Forse.
A quel tempo, Anis era vivo e io lo volevo morto, il che è ridicolo se si pensa che poi ho passato un anno in cui era morto e lo volevo vivo – quell'uomo è palesemente il più grande generatore di confusione nella storia dell'umanità – e mi viene in mente che allora, in effetti, c'era un altro posto in cui stavo quando non volevo entrare in casa mia: l'appartamento di Sido.
Non vedo Sido da uno sproposito di tempo, ormai, e lui ha anche rinunciato a minacciare di licenziarmi al decimo sms a cui non ho risposto. Forse mi ha anche licenziato senza dirmelo; ma in questo momento non ci penso perché il solo ricordo della sua casa mi fa stare bene. Non penso che magari lui ce l'ha a morte con me, non penso nemmeno che non posso presentarmi alla sua porta dopo non so quanti mesi di silenzio con una borsa in mano e aspettarmi di essere ospitato.
Il fatto è che tolti tutti i posti in cui vorrei andare e non posso, casa sua è l'unica in cui mi sembra di poter scappare ora che casa mia è tornata a soffocarmi, e non vedo motivo per non tentare.
La valigia la preparo così di corsa che non so esattamente cosa mi sto portando dietro perché apro i cassetti e li ribalto, scegliendo le cose che cadono nella borsa da sole e scartando quelle che finiscono sul pavimento. Mentre rovescio il cassetto dei calzini, però, mi fermo perché l'occhio mi cade sul peluche a forma di aragosta che c'è sul letto e del quale mi ero dimenticato.
L'ho portato via dalla casa di Chakuza l'ultima volta che sono stato lì con Danny.
Non so esattamente perché l'ho fatto, era lì sul divano e mi è sembrato di dover allungare una mano e prenderlo. Lui si è fatto prendere senza fare storie.
Quando è ubriaco, ma anche quando non lo è, Peter se lo mette su una spalla e ci parla. Alle sue domande Hummer Kummer risponde con una voce ancora più roca della sua perché Chakuza non è un cazzo bravo a fare le voci, però ci prova e l'unica cosa che gli riesce di fare è parlare di gola. Diceva che era un'aragosta da guardia. E lo diceva di continuo perché Peter si dimentica le cose e te le ripete decine di volte, convinto di non avertele dette mai. Metto in valigia anche Hummer Kummer perché è un pezzetto di casa e non si parte mai senza e perché qui da solo non può stare. Questa casa non va bene per lui.
Mando un sms a Danny e lo avverto che non sono più a casa mia e che mi chiami quando può, quindi chiudo la porta e già mi sembra di respirare meglio.

*


Quasi cinque settimane dopo quel giorno, cioè adesso, vivo ormai in pianta stabile da Sido, che non vuol dire che io mi sia trasferito da lui e dalla sua famiglia ma che passo lì da loro molto tempo. Torno a casa mia quando ho voglia, cioè quando c'è Danny, o quando devo fare le lavatrici perché, anche se Doreen laverebbe volentieri i miei vestiti, mi scoccia farglielo fare e così ogni tanto metto tutto nel mio borsone e faccio un salto a casa, che poi è un bene perché una casa non puoi davvero lasciarla così a perdersi per niente.
Sto facendo dei salti temporali enormi, mi rendo conto. Il fatto è che sono successe molte cose importanti ma che tra l'una e l'altra sono passati mesi di nulla e io non posso davvero stare qui a raccontarvi il nulla, mi sembra chiaro. Quindi sto cercando di darvi un'idea di tutto, ma senza soffermarmi sui singoli dettagli e voi stavolta dovete fare uno sforzo e starmi dietro perché, vi giuro, è un casino ed è un casino che finisce col botto. Voi non volete perdervi nella mia vita, adesso, ve lo assicuro.
Vi basta sapere che quando sono arrivato a casa di Sido, lui non voleva nemmeno aprirmi. O meglio, mi ha aperto ma quando ha visto che ero io, mi ha subito richiuso la porta in faccia, lasciandomi sullo zerbino. Ad aprirmi ed invitarmi in casa quasi mezz'ora dopo è stata in realtà sua moglie Doreen che si è scusata perché Paul era un po' nervoso. Io avrei voluto dirle che più che altro era incazzato nero, ma Doreen è così dolce e bionda e ammantata di brillantini che non me la sono sentita di farlo e ho solo annuito, ringraziando.
La prima a venirmi incontro è stata la bambina che mi è saltata addosso strangolandomi in un abbraccio da orso, come se la mia presenza lì fosse perfettamente normale, cosa che non ha fatto che confermare la mia sensazione e aumentare le rughe sulla fronte di suo padre che si era seduto sul divano fingendo come al solito di essere un uomo rilassato.
Ora, io conosco Sido da un sacco di tempo, quindi lo so com'è fatto. E' uno che si incazza un casino, ma poi alla fine è buono, per cui dopo aver mandato via la bambina e Doreen e dopo avermi urlato che ero uno stronzo, che tornavo qui perché quel bastardo di Bushido mi aveva lasciato di nuovo a piedi e che ero pazzo se pensavo di avere ancora un lavoro all'Aggro Berlin, mi ha indicato una poltrona e mi ha detto “Cazzo ci fai lì in piedi come un cretino? Stasera resti qui a cena, non vedo l'ora di sentirti mentre ti arrampichi sugli specchi per giustificarlo.”
Dopo cena sono rimasto a dormire e poi a colazione, pranzo e di nuovo cena finché la loro bellissima mansarda non è tornata ad essere camera mia e io mi ci sono installato dentro come due anni fa, con la vecchia playstation della bambina, lo stereo e Doreen che mi chiede se voglio fare merenda con il latte e i biscotti.
A questo punto dovrei stare bene. Dico, casa di Sido è un posto che mi fa stare tranquillo, Daniel è sempre un danno ma riesco a tenerlo sotto controllo, non vedo le altre tre piaghe da così tanto tempo che magari riesco pure a dimenticarmi le parti peggiori di loro e sto pure scrivendo, il che significa che ho ancora il mio vecchio posto e, se tutto va bene, riesco pure ad incidere qualcosa entro l'anno.
Quando le cose iniziano ad andare straordinariamente bene dopo che avevano passato un sacco di tempo ad essere così schifose che ti veniva da piangere, non te le godi per niente perché non ti sembrano reali. Generalmente, però, è solo una tua sensazione che dopo un po' di tempo si esaurisce lasciandoti soddisfatto e certo che la tua esistenza stia di nuovo prendendo la piega giusta. Ecco, a me queste cose non capitano.
Se mi sembra che qualcosa non vada, quel qualcosa non va.
Uno di questi giorni io sto cercando di mettere insieme tre note, approfittando dello studio vuoto dell'Aggro Berlin. Qua non è come da Bushido, nessuno viene in ufficio prima delle undici, perché nessuno va a letto prima delle quattro, così se vengo qui di buon'ora sono sicuro di essere da solo. Una cosa che mi permette di lavorare e di non sorbirmi le occhiate pesanti di tutti gli altri che non hanno preso affatto bene il mio ritorno. Non li biasimo, ma preferisco evitarli. La mia vita viaggia sul filo del disastro già abbastanza così com'è per doverci aggiungere anche le accuse di sodomia, tradimento e stronzaggine generalizzata.
Sono lì da qualche ora quando sento la porta aprirsi e rimango sorpreso perché non mi aspettavo nessuno così presto. Resto ancora più sorpreso quando, dopo Sido, vedo entrare Nyze che, per l'occasione sembra più cattivo del solito. Pantaloni più costosi, canotta più aderente, ha perfino la catena. Una roba così pacchiana che in confronto quella che avevo io sulla copertina di Neue Deutsche Welle era un gingillo dell'uovo di Pasqua. Quasi me lo immagino mentre davanti allo specchio si veste a festa per venire qui, come se qui fosse un posto diverso dall'Ersguterjunge e i rapper non fossero persone come lui. Credo non gli sia ben chiara la distinzione fra personaggio pubblico e privato. Nemmeno Sido porta la maschera al gabinetto, qualcuno gliel'ha detto?
Visto che qui dentro sono più a casa mia io di lui, non mi pongo il problema di farmi da parte e lo guardo dritto in faccia. Lui sostiene il mio sguardo e ci prova anche a mostrare disprezzo per la mia presenza qui, ma poi evidentemente ricorda che io sono soltanto tornato e che lui, invece, sta facendo una cosa pessima perché non è certo qui in visita e lo sappiamo tutti e due.
Sido mi fa un cenno con la mano mentre continua a discutere con lui di cose che non sento aldilà del vetro e poi entrambi spariscono nell'ufficio di Sido.
Nyze torna sempre una volta in più di quanto mi piacerebbe vederlo e i ragazzi dell'etichetta lo accolgono a braccia aperte e con grandi pacche sulle spalle. Nessuno parla di contratto, ma nessuno poggia il culo sulla poltrona in pelle di Sido così a lungo senza mettere una firma. La pelle si consuma, dice lui, e in qualche modo va ripagata.
Credo che gli altri vedano Nyze come una grande conquista, la bandiera avversaria sul campo di battaglia, o una roba altrettanto epica. Se sperano di cavare da Nyze qualcosa di utile, si sbagliano di grosso.
Lui ne sa quanto loro sulla sua etichetta. Quello che c'è da sapere su Bushido, lo sa solo Bushido.
Chiederlo a me, naturalmente, poteva essere un'idea ma una parte di questi uomini pensa che io sia in missione segreta per conto del re e l'altra è abbastanza intelligente da sapere che non gli direi niente nemmeno se con Bushido ci avessi litigato di nuovo.
In realtà, quello che mi preoccupa di più non è quello che vogliono fare loro di Nyze, ma quello che Nyze pensa di poter fare qui. Mi chiedo, infatti, cosa lo abbia spinto a presentarsi proprio all'Aggro Berlin, quando c'erano altri porti più amichevoli in cui andare. L'intera scena rap tedesca poteva andar bene con il casino mediatico che anche per vie traverse si porta dietro. Avrebbero fatto la fila per averlo tra i ranghi e poter raccontare cazzate sulle divergenze di opinioni con Bushido, con me, con chiunque tornasse comodo. Ma presentarsi all'Aggro Berlin con il rischio di essere prima mandato a fanculo e poi deriso fino alla terza generazione nei successivi dieci ansage che sarebbero usciti, non ha molto senso. A meno che non si abbia in mente di fare lo stronzo, e guarda caso è proprio quello che io penso di lui.
Ogni volta che cerco di parlargli in privato, Nyze trova il modo di evitarmi e devo dire che non è molto difficile in un posto in cui tutti più o meno lo fanno. Parlarne con Sido è quasi altrettanto impossibile. Se sono allo studio, generalmente ormai c'è anche Nyze – il che non fa che confermare i miei dubbi sul suo contratto – e Sido ha una regola per cui non parla di lavoro a casa, per cui una volta varcata la porta, l'etichetta magicamente scompare e lui è soltanto un padre di famiglia con una moglie bionda e bellissima che a sua volta torna ad essere cantante solo fuori da quelle quattro mura. Ed è una regola fondamentale, questa, e Sido la fa rispettare così duramente che alle volte ho paura che mandi in mansarda senza cena anche me, oltre che la bambina.
La questione mi irrita più di quanto dovrebbe.
Le cose non sono più quelle che erano e per quanto ne so, l'Ersguterjunge potrebbe non esserci già più e Nyze potrebbe davvero avere le migliori intenzioni del mondo. Magari Bushido è perfino tornato a Miami a fare il meccanico, l'idraulico o qualsiasi altra cosa facesse laggiù.
Questo discorso me lo ripeto spesso e ogni volta ci credo meno di quella prima. E non ci credo perché, anche se non mi sto volutamente informando su di lui o sulla sua etichetta, io semplicemente so che Bushido è ancora a Berlino e che, visto cos'è successo la prima volta, non si azzarderà a prendere un altro fottutissimo aereo senza prima averci avvertiti tutti quanti, magari con una bella cena di commiato durante la quale, ovviamente, noi finiremmo per legarlo da qualche parte impedendogli di prendere il volo, che poi è esattamente il motivo per cui farebbe quella cena, nel caso. Per farsi amare collettivamente, una cosa che non abbiamo esattamente fatto quando è tornato dalla morte. Scusaci Anis, se eravamo sconvolti.
In quanto all'etichetta, credo che Bushido preferirebbe darle fuoco e raderla al suolo con le sue stesse mani piuttosto che abbandonarla, chiuderla o venderla e siccome non mi è arrivata alcuna notizia di un incendio in Ritterstrasse, direi che quel posto è ancora in piedi e il suo proprietario è probabilmente barricato in casa per evitare di scendere in strada e prendere a testate qualche giornalista che lo perseguita.
Per qualche settimana decido di stare zitto, anche perché mi dico che forse sono paranoico e trovo pure il tempo di addossare le colpe di questa paranoia a Bushido che ogni tanto ce li aveva di questi momenti da perseguitato politico, in cui qualsiasi angolo giravamo c'era qualcuno che voleva fargli le scarpe, portargli via il posto o cose simili. In realtà io credo che si divertisse soltanto a fare il cretino, mentre tirava su la cornetta del telefono per controllare la conversazione che avveniva dall'altra parte o teneva sott'occhio le targhe delle auto che sostavano di fronte a casa sua per vedere se una tornava più spesso delle altre. E quando succedeva, mi diceva “Ecco la vedi quella? La vedi, ragazzino? Sono settimane che è ferma lì, è sicuramente uno di quegli spacciatori turchi. Quello ci tiene d'occhio.” E poi magari era il lattaio e lui lo sapeva, ma si divertiva a farmi cagare sotto o a fingere che la situazione fosse diversa da com'era.
Per un po' smetto di perseguitare Sido, anche perché vedo che medita di prendere me, il suo materasso e tutte le mie cianfrusaglie e di trasferire tutto sul marciapiede di fronte a casa sua e io non me la sento di tornare a casa, non vedo perché devo tornarci visto che è buia e vuota. Per un momento ho anche pensato di farci stare Daniel, ma poi sono arrivato alla conclusione che lui potrebbe mal interpretare il perché dell'invito e ho lasciato perdere.
Nyze continua a venire allo studio sempre più spesso e comincia anche a lavorarci; se c'è un contratto nell'aria, e come ho detto c'è, non è stato ancora annunciato. Non ho una buona motivazione per prendere quell'uomo e scaraventarlo fuori dalla porta, eppure lui continua a non piacermi. E' solo una sensazione, ma mi dico che Bushido la capirebbe. Lui le capisce sempre queste cose.
Potrei disinteressarmi della faccenda, naturalmente, perché la presenza di Nyze, in realtà, ha distolto l'attenzione dal sottoscritto e, sebbene io non sia più quello con cui farsi una birra, di certo non sono più il frocio che è tornato da Bushido per farsi fare cose che ora non starò qui ad elencarvi perché non sono mai stato così scurrile. A quanto pare, non sono nemmeno la talpa che certa gente pensava che fossi perché, guarda un po', non faccio che passare dallo studio a casa di Sido e da casa di Sido allo studio. Non ho una vita sociale al di fuori di Danny e i loro pedinamenti – sì, no, dico, vi sembra normale? - non devono aver fruttato molto altro che un sacco di avvistamenti di me e di lui che entriamo a casa mia con una pila di pizze e un film.
Potrei, dunque, disinteressarmi della faccenda ma, ovviamente, non lo faccio perché, come dice mia madre, ho la testa dura come il cemento e quando mi convinco di una cosa dev'essere quella per forza, anche se magari non è così, finché non ci sbatto la testa e allora capisco che potevo starmene buono ed evitare di farmi venire il bernoccolo.
Così un giorno faccio irruzione nello studio di Sido e lo trovo seduto sulla sua poltrona di pelle che guarda Berlino attraverso la grossa vetrata che si è fatto costruire dietro la scrivania. Gli manca solo il gatto e una risata malefica e poi sarebbe un cattivo perfetto per un film di James Bond.
Solo che, appunto, è Sido e io lo vedo uscire in mutande a righine ogni mattina dalla camera da letto, mentre sua figlia corre per casa recitando a memoria la sigla di Sailor Moon, per cui solo guardandolo gli tolgo tutta l'epicità che potrebbe mai possedere. Tra l'altro, sono lì con il sincero intento di salvare lui e la sua etichetta da una minaccia che, d'accordo, non so quale sia, ma la percepisco, quindi non penso nient'altro che a quello e mi sfugge il fatto che poteva non volere più avere niente a che fare con me e che io, a ben guardare, non avrei voce in capitolo anche se decidesse di vendere tutto a Nyze e andare in pensione, per dire. Insomma, faccio esattamente quello che non dovrei fare: mi getto contro il muro di testa a duecento chilometri orari.
Invece di partire dal principio e di fargli più o meno il discorso che ho fatto a voi, la prima cosa che gli dico è che Nyze è uno stronzo che non cercava altro che una buona occasione per dare addosso a Bushido e farci su anche dei soldi e che quell'occasione l'ha trovata all'Aggro Berlin, servita su un piatto d'argento.
“Credi che non lo sappia?” Mi dice lui. “Quello è qui a cercare qualcuno che possa sostenerlo in questa crociata contro il tunisino. Ho tutto sotto controllo, Fler.”
“No, non ce l'hai sotto controllo,” dico e sbaglio. Dio mio, se sbaglio. Se c'era una cosa sbagliata da dire l'ho appena detta. La cosa peggiore da fare quando ti sembra che chi ti sta davanti non abbia capito un cazzo è dirgli che non ha capito un cazzo. Ora puoi stare sicuro che non farà mai quello che dici tu.
“Lo hai sentito dire qualcosa?”
“No.”
“Lo hai visto fare qualcosa?”
“No, ma non mi piace.” Fa talmente schifo come risposta che non me ne accorgo solo ora che ve lo sto dicendo ma me ne accorgo subito, che ancora l'eco delle mie parole non si è spenta.
Sido mi guarda, gonfiando una guancia. “Quindi fammi capire, io dovrei mandare via questa persona che potenzialmente ci farà guadagnare un sacco di denaro semplicemente essendo dei nostri perché tu ti sei svegliato stamattina con l'acidità di stomaco?”
Mi gratto la fronte e poi una guancia. “Senti, okay. Ricominciamo da capo, va bene? Cerca di seguire il mio ragionamento.” E provo a dirgli quello che ho detto a voi, ma a quel punto è tardi perché Sido non sente altro che unghie sugli specchi e quello che ne viene fuori è in effetti una paranoia basata sul nulla più assoluto, tranne forse la gelosia.
“Cos'è che non ti va a genio, Fler?” Mi dice lui. “Che Nyze sia qui o che tu non sia più la punta di diamante di questo posto?”
Questo fa male. Cioè, lo sapevo, ma non me l'aveva detto chiaramente e quindi era tutta un'altra cosa. E comunque fa male, non sono abituato. Okay, forse sono un po' geloso ma ho ragione io. Vi ricordo che tutto questo è già successo, quindi quello che dico lo dico con cognizione di causa.
Io so di aver ragione.
“Senti, non stiamo parlando di me. Dico solo che quello non mi piace.”
“E non sai quanto la notizia mi spezzi il cuore,” risponde lui, sarcastico. “Ora, per favore, esci da questo ufficio e torna quando avrai qualcosa di utile da dirmi.”
“Quello ha qualcosa in mente.”
Sido inspira ed espira, quindi mi osserva. “Lo spero vivamente perché non ho intenzione di tenerlo sotto contratto a grattarsi il culo davanti alla tv.”
“Lo hai scritturato?” Chiedo. Lui annuisce. “Non ti è passato per il cervello che potrebbe essere tutto calcolato?”
“Da chi?” Esclama lui. “Da chi, Fler? Se lo ha mandato Bushido, allora dovrò dubitare anche di te perché sei stato tu a dirmi che si sono mandati a fanculo. Se invece c'è venuto da solo per rovinare Bushido, ben venga. Io non aspetto altro. Sarò ben lieto di dargli una mano.”
Sospiro e mi passo una mano sulla testa. “Quell'uomo è incazzato per un motivo ben preciso e io--”
“E guarda caso quel motivo sei tu,” mi interrompe lui. “Tu, Bushido e tutti gli altri froci che hanno smembrato l'Ersguterjunge fino a farla a pezzi.”
“Potresti evitare di usare quella parola?” Mi sto irritando.
“Ma dico, ti senti?” Esclama lui. “Io non so cosa ti sia successo e cosa.... cosa ti passi per il cervello ma non puoi venire qui a dirmi chi posso o non posso scritturare.”
“C'è qualcosa che non va.”
“Beh, lo credo anch'io,” dice lui, alzandosi in piedi. Mi guarda a lungo e poi sospira. Sento arrivare anche questa, perché vibra nell'aria un attimo prima di avvenire. “E' stato un grande errore farti tornare.”
“Cosa?”
“E' chiaro che tu non sei più quello che eri.” Almeno non sorride. Non credo avrei sopportato anche la presa per il culo con il doppio senso. “Non rappresenti più l'etichetta e io non credo che sia il caso tu rimanga qui.”
Scaricato. Cerco di avvertirlo. Cerco di parargli il culo, e lui mi scarica. Se la gente non la smette di farlo, potrei cominciare ad incazzarmi.
“Fa' il cazzo che vuoi,” dico, recuperando il cappotto. “Quando questo posto cadrà a pezzi, non venire a piangere da me. Io ti ho avvertito.”
Infilo la porta prima di ripensarci. Le scene epiche sono prerogativa di Bushido, è lui quello che parla come se leggesse un copione, ma come uscita di scena non è andata poi tanto male.
Sarei fiero di me se sul marciapiede appena fuori dallo studio non mi rendessi conto che non ho un posto dove andare; cioè, a parte casa mia.
Mentre mi avvio a piedi, perché la macchina ce l'ho da Sido, comincia a piovere e penso che a questo punto, almeno io, ho toccato il fondo. E invece, naturalmente, no.
La sfiga ha sempre un pala in più da prestare.
Nel nostro caso, ne ha una scorta intera.

*


Conoscendovi, vi starete chiedendo quando ho intenzione di raccontarvi com'è andata a finire. E dire che dovreste essere abituati al fatto che qui le cose non capitano mai in due pagine e che ci vogliono intere serie per raccontare di com'è morto un uomo o di come sia resuscitato. Abbiate pazienza.
Come vi ho già detto, io non sono Chakuza e se c'è una cosa che non mi è rimasta attaccata addosso di quell'uomo è proprio la sua tendenza a perdersi nel suo cervello per non riuscire più ad uscirne. Con la sua pazzia mi ci ha affogato mentre stavamo insieme ma, grazie a Dio, le sue acque acquitrinose si sono ritirate non appena l'ho perso di vista.
Dunque, cos'è successo? Dopo che Sido mi ha buttato fuori dall'etichetta e anche da casa sua, rifiutandosi per altro di avere a che fare con me vita natural durante – una cosa della quale tra qualche anno, in un posto e in una situazione molto diversi da questa, riderò così tanto che quasi finirò per soffocarmi – non ho avuto altra scelta che tornarmene davvero a casa mia, anche perché l'alternativa era mia madre e, per quanto io la ami, preferisco trascinarmi come un relitto umano nel mio appartamento che passare anche solo due giorni da lei senza sapere come spiegarle perché io non ho una fidanzata carina e non mi sistemo come il cugino Karl, che per altro ha un nome di merda e non lo vediamo mai più di due volte l'anno.
Okay, sì, forse un po' mi sto perdendo ma ci arrivo.
E' passato un mese dalla storia di Sido e circa sei da quando ho trovato Bill che vaneggiava in casa di Bushido e ho consigliato a tutti che fosse meglio andare ognuno per la sua strada. In tutto questo tempo, come ho già detto, ho finto che non fossero mai esistiti, ben sapendo che se avessi acconsentito ad accettarne anche solo la presenza nel mondo avrei finito per ricaderci e questo non era assolutamente concepibile, non dopo quello che avevamo passato tutti quanti.
Certo non è stato facile, voglio dire tu non puoi davvero scordarti dell'esistenza di una persona che conosci, figurati di una persona come Bushido che generalmente occupa anche fin troppo spazio nel cervello altrui, o di Chakuza – che Dio ce ne scampi – che è invasivo in tanti di quei modi che avrei bisogno di una lobotomia per dimenticarmelo, ma ho tirato avanti e non ho ceduto a nessuna tentazione che, nella maggior parte dei casi, consisteva nel numero di Peter che componevo sulla tastiera del cellulare fingendo come un cretino di fare numeri a caso. Una cosa di cui un po' mi vergogno, in effetti.
La mia vita l'ho trascorsa sostanzialmente continuando a scrivere le canzoni su cui avevo cominciato a lavorare e ho ripreso anche a disegnare, una cosa che potrebbe tornarmi utile per un progetto che ho già in mente da un po' e che forse è l'ora di mettere in pratica. Ho spostato quasi tutti i mobili del salotto per avere una parete libera e poterci dipingere su con le bombolette se ne ho voglia. Quando mi gira, prendo il rullo, do una mano di bianco e ricomincio tutto da capo. E' liberatorio.
Danny è stato piuttosto contento di sapere che lasciavo “Casa di mia madre Sido”, come la chiama lui, per tornare in pianta stabile nel mio appartamento perché questo gli ha permesso di riprendere la sana abitudine di comparire a casaccio sul mio pianerottolo con la valigia e decidere arbitrariamente del mio fine settimana, di me e della mia vita.
Cosa che io gli lascio fare anche oggi, che è la giornata peggiore in cui potesse capitare qui.
Naturalmente io questo non lo so quando mi sveglio al suono di lui che bussa alla porta.
E non lo so nemmeno quando gli apro, lui mi bacia incurante dei miei vicini e poi entra senza chiedere il permesso, occupando contemporanemente la poltrona con il suo zaino e il divano con il suo corpo. Ha fatto tutto in un lasso di tempo così breve che non ho nemmeno reagito e, quando mi chiama ridendo, io sto ancora lì davanti alla porta a stropicciarmi un occhio e a chiedermi se me lo sono sognato o cosa.
“Ti muovi a venire qui o no?” Mi dice, mentre si toglie la maglia e nel farlo si agita e ci si incastra dentro un paio di volte, spettinandosi tutto. Danny muore sempre di caldo, la prima cosa che fa quando entra in un posto è togliersi la felpa, anche se magari è inverno e ci sono quattro gradi. Il termosifone è il suo nemico naturale e lui gli ha giurato guerra.
Quando finalmente lo raggiungo in salotto, lui si è già tolto le scarpe, ha acceso il televisore e ha parcheggiato i piedi sul tavolino, allungando braccia e gambe da tutte le parti. E' tutto sproporzionato ancora e io mi chiedo se il suo mucchietto di ossa avrà mai davvero un senso.
Piega la testa sul divano e mi guarda sottosopra. “Ma sei vivo?” Chiede ridendo. “Hai una faccia da schifo!”
Mi passo una mano sul viso come se potessi far scomparire le occhiaie. “Mi sono svegliato adesso,” dico, guardando di sfuggita la tv senza capire cosa sto vedendo. “E poi che vuol dire faccia da schifo? Che modo di parlare è?”
“Adesso si dice così,” commenta lui, tornando a fissare lo schermo. “C'è qualcosa da mangiare?”
Sospiro. “Guarda in cucina, cavalletta. Io vado in bagno.”
Quando torno ricordo almeno come mi chiamo e lo trovo con un panino più grosso di lui e gli occhi incollati al televisore. La playstation è il grosso monolite nero e lui una delle scimmie di quel film di fantascienza.
“Che cosa ci fai qui?” Chiedo, adocchiando il suo enorme zaino da trasferta. “E' giovedì, domani non dovresti andare a scuola?”
Lui si gira a guardarmi solo un secondo e poi torna a farsi ipnotizzare dal suo videogioco. O meglio dal mio. “A parte che è venerdì, Fler,” mi dice col tono paziente di uno che queste cose le dice spesso. “E poi ho due settimane di vacanza.”
“Venerdì?” Alzò lo sguardo sull'orologio, che per altro mi informa che sono anche le sette di sera.
Lui mette in pausa, recupera il suo panino e si volta, inginocchiandosi sul divano. “Venerdì, sì,” ride, masticando. “Sei proprio fuori come un citofono, ma quanto hai dormito?”
A volte quando parla, mi sento vecchissimo. “Non lo so,” ammetto. “Sono stati due giorni un po' confusi.”
“Perché?”
Mentre mastica, sbriciola sul pavimento, una cosa che mi rende irrazionalmente nervoso. Così, mentre gli racconto di come mi è preso questo guizzo artistico e ho portato su dalla cantina quattro secchi di vernice da usare proprio col pennello, roba che non facevo da anni, vado in cucina e gli recupero un tovagliolo che gli spalmo in faccia. Lui ride, ci si pulisce la bocca e poi ci avvolge con cura quello che resta del panino.
“Devo aver perso il senso del tempo” gli dico mentre cerco anch'io di trovare una spiegazione. Quando ero più piccolo mi capitava spesso di farmi prendere dalla foga di un'idea per un disegno o una tag e non pensare più a nulla finché non l'avevo finita. Era un modo come un altro per staccare completamente il cervello dallo schifo che mi circondava. Mi davo qualcos'altro a cui pensare.
Danny si guarda intorno, finché non individua il telo che ho tirato dal soffitto fino a terra. E' il vecchio telo di una tenda di mia madre, tutto macchiato. L'ho usato per qualunque cosa, ce l'ho tipo da sempre. Lui mi fa un cenno col capo. “Leva, fai vedere.”
Per un momento ho paura di farlo perché se ho perso due giorni della mia vita, non sono nemmeno troppo sicuro di sapere che cosa ci sia disegnato l'ha sotto. Magari è uno schifo.
Tiro via il telo con uno strattone e Danny si butta giù dal divano e mi scosta per guardare meglio. La parete è lunga quasi quattro metri e io l'ho riempita completamente. Gran parte del disegno, ovviamente, è ancora solo abbozzato, ma ho cominciato a colorare l'angolo a destra dove c'è la fiancata di un vagone della metropolitana. Non è il mio solito stile spigoloso, volevo provare qualcosa di completamente diverso, più morbido e più fluido, qualcosa che riempisse gli spazi in maniera meno netta. Mi allontano e guardo il treno perdere colore e quasi svanire in prospettiva, delinato solo dalle mie linee a carboncino. Nel mezzo c'è una caricatura di Berlino, con la porta di Brandeburgo tozza e schiacciata e dietro la torre della tv che ondeggia. Sulla sinistra c'è un gruppo di personaggi ancora senza volto, hanno vestiti che sono una via di mezzo fra i nostri e un qualche tipo di super-eroe. Quello al centro, ovviamente è Anis, perché incrocia le braccia impettito. E poi ha alle spalle un cavallo bianco meccanico con un'espressione così fiera di sé che può essere soltanto suo. Mi viene voglia di continuarlo non appena ci poso gli occhi sopra.
“Ma è una figata!” Danny lo guarda passandoci sopra le dita, piano. Sono un po' orgoglioso di me stesso per essere riuscito a catturare la sua attenzione quanto Lara Croft. “E' gigantesco e lo hai fatto in due giorni?”
“Sì, solo il disegno però,” annuisco. “Ci vorranno settimane a colorarlo.”
Osservo la mia opera e ora che sono un po' più sveglio e un po' meno intriso dal sacro fuoco dell'arte – che poi più che altro era mezza bottiglia di Jack Daniel's – mi rendo conto di quanto sia effettivamente grande. Era da tanto tempo che non dipingevo legalmente su una superficie. Come ogni volta che non devo stare attento a correre via al minimo rumore e lasciare le cose non finite o fatte di fretta, penso che se avessi studiato avrei anche ottenuto dei risultati.
“Potrei aiutarti,” mi dice Danny, che ora sta ammirando il murales dal fondo della stanza, con la testa piegata di lato. Mi guarda. “Se ti va, ovvio.”
Penso: perché no? Qualche tempo fa mi ha trascinato in giro a vedere qualcuno dei suoi lavori e non se la cava male. Attraversare i luoghi dove io e Anis andavamo a taggare mi ha anche messo un sacco di nostalgia, perché adesso mi guardo intorno e ci sono tutte firme che non conosco. Se ci fosse stato lui, con me, invece di Daniel, sarebbe entrato nel primo negozio di fai da te disponibile e si sarebbe armato di bombolette per riprendersi il suo territorio. Quell'uomo è pazzo, del resto.
“Certo,” rispondo. “Domani cominciamo.”
E quelle, evidentemente, sono le parole esatte che la sfiga stava aspettando per entrare in scena. Se mi concentro la immagino anche, spietata e col visore sugli occhi per prendere meglio la mira, seduta dietro le quinte delle nostre esistenze in attesa che io pronunci la battuta che si aspettava.
Mi suona il cellulare e inizio subito a preoccuparmi, un po' per il mio sesto senso e un po' perché quella suoneria non la sento da sei mesi e qualsiasi cosa voglia da me Bushido, se non è dannosa fin da subito, sicuramente lo diventerà nel giro di qualche giorno. E' passato troppo poco tempo per considerarci tutti di nuovo a posto.
Ad ogni modo rispondo comunque perché lui continua a far squillare e ormai Daniel mi guarda con aria interrogativa. “Pronto?”
“Cristo, ma quanto ci hai messo a rispondere?”
Sollevo un sopracciglio. “Ciao anche a te, Anis.”
“Stai bene?” Il tremolio che sento nella sua voce mi fa passare la voglia di scherzare.
Passo il cellulare da un orecchio all'altro e cambio stanza. Con la coda dell'occhio vedo Daniel tendersi, ma non mi segue. “Sì, sto bene. Perché? Che succede?”
Chiudo la porta mentre dall'altra parte cala il silenzio.
“Anis?”
“Dobbiamo vederci,” mi dice. “Sto chiamando gli altri.”
Inspiro e penso che non è ancora il momento. “Io non credo che sia una buona idea, sono passati solo-”
“Ho ricevuto una chiamata anonima,” m'interrompe subito, sbrigativo, come se sapesse con assoluta certezza che lo avrei detto. “Dicono che uno dei miei è in fin di vita.”
Il mio cervello inizia a correre furiosamente come fa sempre quando sono sotto pressione. Nel giro di qualche istante ho già in mente almeno quattro scenari possibili, e il nome di Peter che continua a balenarmi in testa anche se lo scaccio via. “Chi?” Chiedo alla fine, dopo che ho deglutito un groppo in gola grosso quanto il mio pugno.
“Non lo so, non l'ha detto,” risponde. E poi, mi anticipa. “La voce era falsata. Non ho idea di chi cazzo fosse.”
Di nuovo una pausa e questa volta sento un ronzio vago e il suono di un clacson.
“Sei in auto? Dove stai andando?”
“Ho un indirizzo. Raggiungimi là.”
Copio l'indirizzo sul primo pezzo di carta che trovo e poi dico a Daniel di chiudersi in casa e di non aprire per nessuna ragione. Spero che non mi dica che sa badare a se stesso, ma ovviamente lo fa, così gli ripeto di non muoversi dall'appartamento con la faccia più seria.
Lui invece di obbedire mi chiede cos'è successo e, prima ancora di ottenere risposta, si offre di venire con me e di darmi una mano; io a quel punto faccio prima a portarmelo dietro che a cercare di convincerlo a restare. E poi non mi fido a lasciarlo da solo.
Mentre saliamo in macchina gli faccio un riassunto veloce e poi chiamo Chakuza.
Suona subito occupato, così m'incazzo, lo insulto e poi chiamo di nuovo. Quando risponde, tiro un sospiro di sollievo. “Che cazzo stavi facendo?”
“Ti stavo chiamando,” fa lui. “Stai bene?”
“Sì, a posto,” mi scappa un mezzo sorriso. “Dove sei?”
“Per strada. Ho l'indirizzo.”
“Ci vediamo lì, allora.”
Bushido mi ha dato il nome di una strada fuori mano, in piena zona industriale.
Quando ci arriviamo sono quasi le nove e mentre parcheggio come capita, lo vedo scendere di corsa dalla sua auto e indicarmi un capannone qualche centinaio di metri più in là.
Siamo arrivati quasi contemporaneamente: con lui c'è Kay e Chakuza sta parcheggiando accanto all'auto di Eko proprio adesso. Ci siamo tutti, non capisco.
Bushido ci fa strada, con la Heckler stretta in pugno. Mentre entriamo, tengo Daniel dietro di me e inpugno la pistola. E' una strana sensazione averla tra le mani dopo tanto tempo, è un sacco pesante e io sono troppo nervoso.
So cosa state pensando e, dal momento che non ho ancora parlato con Bushido, lo sto pensando anch'io.
Se in questo capannone c'è il ragazzino, io non so cosa faccio. Ho volutamente scansato l'idea fino ad ora, non ho nemmeno provato a contattarlo: se si trattasse di Bill, penso, Bushido me lo avrebbe detto. Lo avrà di certo chiamato prima di tutti quanti noi. Invece magari lo ha chiamato e Bill non ha risposto, ma Anis non me lo ha detto perché se lo dice è vero e quindi sta zitto.
Ad ogni passo mi chiedo che cazzo facciamo, noi, se il ragazzino è ferito.
Che cazzo facciamo, noi, se il ragazzino invece è morto.
Penso che se Bill è morto, forse è meglio che Bushido stia indietro.
La pozza di sangue inizia al centro del capannone e gira dietro una pila di casse marchiate di nero. Nel tempo che ci avviciniamo me ne convinco e penso solo è morto. Il ragazzino è morto.
Scosto Anis e passo prima di lui. Cristo, Bill.
Ma non è Bill.
E' David.
Ed è così assurdo che sia lui che per un attimo nessuno si muove. Lo guardiamo come se non avesse senso, forse il corpo di Bill ne avrebbe avuto di più. Non lo so. So che gli altri negli occhi hanno la mia stessa espressione ed è assurdo. C'è sangue ovunque, sulle casse, per terra, perfino sulle pareti.
Daniel arretra e si schiaccia non so dove dietro di me ma non mi volto, guardo Anis chinarsi e ribaltare piano il corpo. Quando ci riesce, lo stomaco di David si apre. Gli hanno inciso la parola VENDETTA da un fianco all'altro e il fiotto di sangue che ne esce mi fa salire la nausea. Prego che quelli non siano intestini.
In realtà prego che abbia ancora un senso il nostro essere qui.
Una volta Chakuza ha detto che la gente normale quando tocca il fondo risale.
Ma noi non siamo gente normale.
Quando Bushido solleva di peso il corpo di David, mi rendo conto che abbiamo appena ripreso a scavare.













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