Walls fall down
L'unico momento in cui davvero mi preoccupo è quando le do la notizia che Bill verrà a stare con me. Lei mi chiede soltanto “E dove lo metto a dormire?” che è una domanda retorica, perché lei lo sa benissimo che Bill dorme con me. Quindi mi lancia un'occhiata disapprovante e se ne torna in cucina, borbottando che ci sarà il doppio da fare per lei. Ho quasi paura che finirà per spedire in giardino anche lui.
Quando penso a me e a Bill mi rendo conto che io e lui non abbiamo mai davvero seguito le regole. Più che corteggiarci, ognuno di noi ha costretto l'altro ad accettare la propria presenza. Siamo due manipolatori, anche se di due razze diverse, e a nessuno dei due in realtà, piace fare la preda, nemmeno a Bill che ama, sì, che il mondo gli giri intorno, ma vuole essere lui a decidere la direzione.
Era bello scommettere su chi ogni giorno avrebbe ceduto per primo, se io al modo in cui piegava le ciglia, o lui al modo in cui io piegavo le dita.
E' sempre stato un gioco di trucchi, fra di noi, non certo di avances. Una rete sottile di trappole che ci divertivamo ad imbastire, ma in cui era ancora più divertente fingere di cadere. Ora, però, mentre lo guardo pettinarsi rannicchiato ai piedi del letto, mi chiedo se quest'ultima trappola gli sia sfuggita e ci sia caduto davvero. Se a questo gioco, alla fine, sto giocando da solo.
Quando David ha saputo quali erano state le conseguenze dei suoi lungimiranti consigli, ha dato di matto né più né meno di quanto mi aspettassi. D'altronde, sapevo perfettamente che nel dirmi che dovevo tirare fuori le palle, non intendeva che io trascinassi Bill a vivere con me ma che, molto più sportivamente, mi rimettessi in gioco e gareggiassi con Chakuza per riprendermi la mia Principessa. C'erano dettagli che non aveva preso in considerazione, però. E sapevo anche che non lo avrebbe fatto perché David è uno che sa organizzarti il funerale, la fuga e la resurrezione, ma di come funzionano queste cose, c'ha sempre capito un po' poco, ne è un esempio il fatto che alla fine si sia innamorato del sottoscritto, che altro non può fargli che del male.
Prima di tutto, io non sono sportivo. Il mio codice d'onore prevede una serie di divieti ma non quello di giocare sporco - io vengo dalla strada, non conosco altro modo di giocare.
Secondo, se avessi seguito le regole non sarei stato io, e non trovando me, Bill avrebbe certamente scelto Peter che a comportarsi bene è sempre stato più bravo del suo capo. D'altronde era con me per questo, ricordiamolo.
Così ho fatto l'unica cosa che so fare, ho giocato a mio favore. Quando me ne sono andato, la domanda che non avevo mai fatto era rimasta nell'aria. Avevo avanzato l’ipotesi che si potesse vivere insieme, io e Bill, e al tempo quella non era un’esca quanto il tentativo di sondare il terreno, di vedere se il mio ragazzino si sarebbe spaventato di fronte ad un passo così significativo. Passare la notte con una persona è una cosa da grandi, viverci insieme è una cosa da adulti e se avevo qualche dubbio che Bill fosse mai uscito dall’adolescenza, di certo non ne avevo sul fatto che non fosse ancora un adulto. Quindi quella domanda l’avevo buttata lì vaga e per caso, giusto per annusare la reazione e, in caso fosse stata negativa e spaventata, deviarla come una granata prima che potesse esploderci addosso. Bill prima della mia morte non aveva risposto. Mi aveva solo guardato, cercando nei miei occhi una spiegazione più precisa, come a rassicurarsi di aver capito bene. Poi sono morto e quella possibilità che aveva apparentemente messo da parte ci è sfuggita tra le dita. Molte volte, nel corso dell’ultimo anno, mi sono chiesto come sarebbe stato vivere con lui, averlo sempre in giro per casa, come sarebbe stato fare la spesa, perfino! Tutto sembra stupendo quando non hai più la possibilità di farlo, né la paura di doverlo fare davvero.
Così, quando gliel’ho chiesto, nella sua stanza, tra i ricordi del mio assassinio e di tutto il sangue che c’era, a lui come a me è sembrato di poter tornare indietro e mettere a posto le cose, che forse significa una cosa diversa per ognuno di noi, ma non importa. Il discorso è sempre quello. C’eravamo noi, e possiamo esserci ancora e se per farglielo capire ho dovuto calcare la mano, va bene così.
O almeno pensavo che andasse bene così. Con Bill è sempre andata bene così: non ha mai voluto veramente il guanto di velluto. Una volta si annoiava ad essere solo accarezzato, bisognava fargli sentire un po’ di forza, giusto perché lui potesse fingere di doversi lamentare. E invece adesso lo guardo e non lo so più che cosa vuole.
Bill si è presentato a casa mia la sera stessa dell’invito, quasi tre settimane fa, con due valige e gli occhi nascosti dietro alle lenti scure dei sui Gucci nuovi di zecca. Per il suo rientro ufficiale in casa mia non mi aspettavo niente di elaborato, né niente di troppo epico. Mi sarebbe bastato vederlo felice di rimettere piede nel suo regno che senza di lui non era più lo stesso. Viverci con Fler è stato interessante, ma l’ho passata da tempo l’età della convivenza con i miei simili, e in più quando qui c’è stato Patrick io non ci stavo con la testa – non ci sto neanche ora – non me la sono goduta nemmeno questa rimpatriata fra me e lui. La verità è che queste pareti racchiudono molto di me e un po’ di Bill, e senza me o lui, questa casa manca di qualcosa.
Comunque, non mi aspettavo grandi cose, anche perché il punto della questione non era affatto che Bill varcasse la soglia di casa mia, ma che ci restasse, che me lo fossi ripreso. Non era una cosa così scontata. Difatti non sembrava neanche lui. Quando gli ho aperto la porta mi ha fatto solo un sorriso stanco mentre lo baciavo piano sulle labbra e poi mi ha chiesto “Mi aiuti a portarle su?”
Non mi aspettavo che le cose andassero bene da subito, capite? Sono un uomo in grado di realizzare l’impossibile – ho portato l’omosessualità nel rap, sono morto e sono risorto – ma sono anche uno disposto a fare le cose con calma, se necessario. Quindi non immaginavo un rientro allegro, con Bill che tornava all'istante quello che era stato mesi fa senza un solo problema al mondo.
Sapevo che non si sarebbe lasciato alle spalle Chakuza come una cosa da niente e, per com’è fatto lui, gli ci sarebbero voluti mesi per dimenticarlo e per non averne tutto quel bisogno che di solito prova verso le persone che ama. Mi bastava pensare a quanto fosse legato a Tom e a quanto tempo avevo impiegato a convincerlo che non sarebbe rimasto senz’aria se solo si allontanava di un passo da lui. Bastava pensare a com’era stato legato a me – a come volevo credere che fosse ancora legato – e a come si era disfatto nel momento in cui io non ero più stato accanto a lui.
In base a tutto questo, mi aspettavo che la conseguenza di una rottura tra lui e Chakuza avrebbe portato ad un lungo periodo di confusione da parte sua.
Quello che avevo previsto, però, non è neanche lontanamente paragonabile a quello che in effetti è, ossia l’ombra di Bill che si aggira per casa mia senza nessuno scopo apparente e con lo sguardo sempre perso altrove, in un punto in cui non riesco mai a raggiungerlo.
Io non ho mai avuto dei veri problemi a capire Bill, nonostante tutti i tentativi che ha sempre fatto di nascondersi dietro mura di irritazione, di contegno e di fragilità, io ci ho sempre visto attraverso, come fosse stato fatto di vetro. Ci ho visto attraverso fino a poche settimane fa, quando non mi ci è voluto niente ad averlo ai miei piedi toccandolo appena. Ora, però, faccio fatica a ritrovare quella stessa trasparenza, è offuscata, grigia, come se mancandomi un pezzo della sua vita, la sua persona non fosse più tanto limpida. E anche se me la raccontassero – me lo hanno raccontato, in effetti, che cos’è successo – non servirebbe a niente, perché quella macchia scura, ormai, per me, non si pulisce più. Devo tenermi questo Bill così com’è e sperare che col tempo, a furia di raschiare, torni un po’ più limpido.
In questi giorni fra me e lui c’è stato soltanto un barlume di tenerezza. Non che non lo desideri o che, se per questo, non lo faccia lui. E’ solo che fra di noi c’è un muro e quel muro è Chakuza. Paradossalmente è stato più facile toccarsi mentre Bill stava ancora con lui. Quando c’incontravamo, il nostro cervello si limitava ad escludere ogni dettaglio che non fossimo noi. Creavamo uno spazio in cui amarci indipendentemente da quello che era il presente, tirando in causa tutto ciò che era stato. Non serviva nient’altro. E se c’era Chakuza là fuori, poco importava. Una volta spezzata la bolla, la Principessa sarebbe tornata dritta tra quelle braccia. Io lo prendevo in prestito e lui, per così dire, si lasciava prestare, certo che niente sarebbe cambiato davvero. Era un’illusione.
Adesso però, non è così. Adesso se lui mi bacia, se io lo tocco, dobbiamo fare i conti con ciò che Bill ha deciso di lasciarsi alle spalle e, se a me il pensiero non provoca né il minimo rimorso né la minima preoccupazione, lui invece si frena e si tira indietro.
Non lo fa coscientemente, ma succede. Se lo abbraccio, sento il suo corpo irrigidirsi tra le mie braccia e anche se mi bacia e mi accarezza, c’è una distanza che non riesce a colmare. Posso andargli incontro fino ad un certo punto ma il resto della strada deve farla lui e non riesce. Abbiamo passato le notti abbracciati nel mio letto, lui guardava il cielo di Berlino fuori dalla finestra, come un anno fa, prima di addormentarsi dopo aver fatto sesso, ma la differenza che ho sentito è così grande che mi ha quasi dato alla testa. Vorrei scuoterlo, vorrei smetterla di accarezzarlo in punta di dita e poter premere le mani tra le sue cosce senza che l’abbandonarsi del suo corpo sia meccanico e dovuto.
Vorrei riavere Bill indietro e mi sforzo di non chiedermi dove esattamente l’ho lasciato perché credo di sapere la risposta e non mi va di dirla ad alta voce.
Oggi, dopo settimane di convivenza, una riunione alla Universal ci ha di nuovo costretto tutti insieme nella stessa stanza. Io, lui e Chakuza. Ormai siamo tre nomi che pronunciati tutti insieme presagiscono catastrofi e David lo sa tanto bene che ci fa sedere ognuno ad un lato diverso del tavolo così che almeno, se dobbiamo saltarci alla gola, dobbiamo prima fare tutto il giro della stanza e lui magari ha il tempo di fermarci. Ha installato un maxischermo in fondo alla sala, credo nella speranza di ipnotizzarci tutti con filmati in powerpoint ed evitare la rissa, quindi ha preteso silenzio e ha ignorato le occhiate che io ho lanciato a Chakuza e quelle ancora più rumorose che lui non ha lanciato a Bill. Ha ignorato la tensione e la presenza di Fler che, devo essere sincero, non ha ancora una spiegazione nemmeno per me. Non ho trovato il tempo di chiederglielo e, anche se ce l'avessi, dubito di conoscere un modo carino per chiedergli per quale fottuto motivo si è presentato al fianco di Chakuza quando avrebbe dovuto per ovvie ragioni guardarsi bene dal prendere una posizione diversa dalla mia. Ma non ho tempo, appunto, perché ora la mia priorità è Bill.
Comunque, Bill ha passato gran parte del suo tempo a fregarsene di ciò che David stava dicendo prevalentemente per lui – è lui quello che ha bisogno di programmi talmente dettagliati che ci manca solo gli dicano quando deve andare in bagno – per fissare Chakuza nella speranza che lo guardasse. Il solo fatto che lo facesse in maniera così plateale da essere quasi imbarazzante avrebbe dovuto essere un buon motivo per incazzarmi, ma conosco Bill, come dicevo. Lo so come si muovono i pensieri nella sua testa, come nascono e muoiono le sue paranoie e quanto profondo può essere il baratro della sua angoscia se, per qualche motivo, si dispiace per qualcosa. E l'aver scaricato Chakuza da un giorno ad un altro dev'essere stato un motivo bello grosso per dispiacersi. Dal suo punto di vista, naturalmente. Non ho idea dei termini esatti con cui questi due si sono lasciati, ma è evidente che Chakuza non gliel'ha perdonata e ha deciso per la via della punizione, il che dice molto sull'idea infantile che ha di Bill. Solo che Bill sta male, e vederlo cercare lo sguardo di Peter con tutta quella disperazione senza ottenere nemmeno un'occhiata mi ha fatto più che altro incazzare con quell'uomo che è tanto pronto a dirti che accetterà le scelte della sua Principessa quanto poi è bravo a renderle la vita una merda, non degnandola neanche di uno schifoso sguardo, come se non valesse più un cazzo. Solo per prendersi la rivincita dei bambini. Se in questo momento non è in giro con un altro occhio nero è solo perché Bill non avrebbe voluto, come non vuole tante altre cose. Per esempio non vuole che Chakuza stia male – come evidentemente sta –, non vuole perderlo come amico – come forse, di questo passo, potrebbe succedere – e non vuole questa situazione. Non vuole le conseguenze negative, perché di fatto non c'è ancora abituato del tutto. Lo abbiamo protetto tutti quanti un po' troppo; la colpa è di suo fratello, di David, mia e sì, anche di Chakuza che, a quanto posso immaginare, deve averlo tenuto come una cosina in cristallo di Boemia, attento che non si scheggiasse nemmeno. Anche prima di tutto questo casino era così. Se qualcosa andava storto, poi si raddrizzava. Qualunque cosa fosse. Nella sua testa si dev'essere formato a livello inconscio il concetto che tutto avesse una soluzione pacifica. Cristo, se ci pensate, nemmeno la morte è stata definitiva nel suo mondo di favola: mi ha perso, ha pianto, s'è disperato... ma sono tornato. La sua percezione della negatività nella sua esistenza dev'essere un completo disastro.
Da quando sono morto Bill ha fatto dentro e fuori dalla sua bella campana di vetro: io muoio – fuori – l'amicizia di Chakuza – dentro – l'uccisione di Saad – fuori – Chakuza che se lo scopa – dentro di nuovo. E ora ecco che si ritrova buttato fuori a calci, perché non puoi scaricare un uomo come ha fatto lui, metterti col suo fottuto rivale e pensare che quello rimanga il tuo amico del cuore. Anche se quell'uomo riesce a recuperare quel tanto che basta per esserti amico, non ci sarà un attimo della sua esistenza che, quando gli siedi accanto, non penserà rabbioso a com'era averti e a come avrebbe potuto essere continuare a farlo. E' così e basta.
Quindi lo so perché adesso se ne sta ai piedi del letto ed è tutto concentrato su quella spazzola e sul movimento, dall'alto verso il basso, che gli stira lentamente le lunghe ciocche nere e bianche. Ha bisogno di tenersi insieme, in qualche modo, perché in questo momento è una statua andata in frantumi e ricomposta alla meno peggio, ma senza colla. I pezzi sono solo appoggiati gli uni sugli altri e basta una folata di vento per mandarli tutti all'aria di nuovo. Il pianto che si è fatto con Fler, qualche ora fa, non è bastato a calmarlo. E non importa che abbia tentato di nasconderlo e che faccia finta non si sia lasciato andare ai singhiozzi, perché tanto io le cose gliele leggerei in faccia anche se non avesse gli occhi rossi e lucidi, e le labbra non tremassero di tanto in tanto, quando perde il controllo della sua testa e i suoi pensieri tornano a questo pomeriggio, a Chakuza, alla situazione e a Dio solo sa che cosa che non so e che probabilmente lo far star peggio di tutto il resto.
Il sospiro enorme che ha tirato prima di voltarsi e sorridermi mentre entravo nella stanza è stato il suo tentativo di lasciarsi tutta questa tristezza alle spalle, ma non lo so se gli è riuscito poi tanto bene.
Speravo che Fler potesse aiutare dal momento che sembra saperci fare con Bill e in più, a quanto pare, conosce anche Chakuza ma immagino che, dopotutto, i miracoli non riescono neanche a lui, se non riescono a me. Ci vorrà un po' più di tempo perché Bill impari a conciliare noi due con le conseguenze del nostro stare insieme.
Poso una mano sulla sua e lo fermo.
Solleva lo sguardo, senza capire. “Sei già bellissimo così,” mormoro con un mezzo sorriso, togliendogli la spazzola di mano e posandola sul comodino. “Adesso basta.”
Lui si lascia maneggiare come ha fatto per tutte queste due settimane e non oppone resistenza quando me lo tiro contro, anzi si accoccola contro di me e mi nasconde il viso nel collo. E' una cosa che mi rende felice, perché questo, invece, è la prima volta che lo fa da quando è tornato. Mi si sistema seduto in grembo e mugola quando lo abbraccio e poso le mani sui suoi fianchi.
“Stanco?” Chiedo.
Lui si stringe nelle spalle e intreccia le braccia dietro il mio collo, appoggiando la fronte alla mia. “Un po',” ammette.
“Evidentemente, Altezza, non siete più abituata a lavorare,” lo prendo in giro. Gli premo il naso col mio e lui lo arriccia un po'.
Mi fa un sorriso piccolo. “Se sono la Principessa, allora forse non dovrei mai lavorare.”
“Lo sai che nel mio regno, nessuno sta con le mani in mano,” gli ricordo. “Non mi piacciono i sudditi che vivono di rendita.” Quando ho Bill tra le braccia, è difficile trattenermi. Ho dato ampia prova di questo durante le riprese per il video di Prinzessin. Quindi adesso che siamo soli nella mia stanza, non mi trattengo dal lasciar scorrere le mani lungo la sua schiena e le labbra lungo il profilo del suo viso perfetto. Sento le sue ciglia che mi accarezzano.
“La principessa non è un suddito,” mi mormora tra le labbra. Lo assaggio appena e mi ritraggo quel tanto che basta per vedere che mi cerca. “Ha la corona.”
Chiudo gli occhi e lo bacio senza rispondergli. Si scioglie morbido quasi subito e lo sento sistemarsi bene sopra di me, puntando le ginocchia sul materasso, mentre serro la presa sui suoi fianchi e me lo spingo addosso. La frizione che ne segue è deliziosa, ma il mugolio che gli strappo di bocca è soltanto un assaggio di ciò che voglio davvero sentire.
In un anno che sono stato lontano, non ho mai dimenticato che sapore avesse Bill o che profumo avesse la sua pelle quando lo spogliavo. L'immagine del suo corpo tra le lenzuola non mi ha mai abbandonato, così come la sensazione di averlo tra le dita. Quindi adesso, mentre gli tolgo la maglia, non è una sorpresa, ritrovo solo quello che già ricordavo. E' un regno conosciuto, Bill. Il mio.
Sono passati mesi dal giorno assurdo in cui ci siamo ritrovati e lui mi è caduto tra le braccia, dimenticandosi di dirmi come stavano le cose. Da allora, però, l'ho soltanto sfiorato e Bill è consapevole che non è stato sufficiente. Le mie incursioni sul suo corpo non erano né più né meno che saluti innocenti, se si pensa che sul suo corpo io ho sempre avuto il controllo totale, che lo toccavo anche mentre dormiva. E lui se lo ricorda.
Io e lui non abbiamo mai avuto misura, stando insieme.
Ci amavamo facendoci male, a volte. Io non ho mai pensato che quel poco che pesa potesse essere un buon motivo per usargli cortesia quando avevo voglia di sbatterlo da qualche parte; lui non si è mai preoccupato quando mi ficcava le unghie nella schiena, mentre perdeva contatto con la terra e per lui restavo solo io, dentro di lui. Aggredirsi pur di sentirsi vicini era un bisogno e la mia priorità adesso è recuperare quella nostra violenza, così gliela cerco addosso mentre lo stendo tra le coperte e lui mi fa spazio, obbediente, le mani perse tra i miei capelli che ha subito sciolto perché gli ricadessero addosso. La facilità con la quale si perde subito tra le mie carezze, m'impedisce di preoccuparmi di come spogliarlo o di dove siano finiti i nostri vestiti dopo che l'ho fatto. La sua pelle sotto le dita è l'unica cosa che voglio sentire, in questo momento. Chiudo gli occhi e percorro tutto il suo corpo con le labbra, potrei tracciarne ogni singola curva anche senza guardarlo. Le sue mani seguono lo stesso itinerario su di me, scivolano lungo il mio petto e si aggrappano alle mie spalle quando lo sfioro appena. Il suo essere così falsamente arrendevole mentre si lascia aprire le gambe e la bocca, mentre si lascia esplorare, non fa che eccitarmi di più. Un po' ride e un po' geme quando ringhio, tirandomelo addosso. Se entro in lui quasi subito e quasi senza aspettare è perché lo sa che lo avrei fatto e il suo stringersi a me un attimo prima che lo faccia ne è la prova. Il respiro che mi lascia andare nell'orecchio è incredibilmente caldo e liquido, mi scivola lungo il collo e non so più cosa sto ascoltando se la mia voce o la sua che scandisce i miei movimenti. Ogni mia spinta, ogni suo tendersi e assecondarmi, torna automatico come se in questi nove mesi non fosse cresciuto lontano da me e il suo corpo non avesse conosciuto un altro piacere, un altro corpo, un altro uomo. Io non lo sento che è cambiato. Ad ogni spinta, Bill si stringe intorno a me e mi guarda con gli occhi scurissimi e velati della stessa voglia che c'è nei miei. Così lo spingo sul materasso e gli blocco i polsi contro il cuscino, lui sorride, sollevando i fianchi come a sfidarmi e quello che faccio dopo è strappargli di bocca un urlo, quando mi spingo in lui con più forza e mi lascio annegare nella soddisfazione di vederlo reclinare la testa, di sibilare e perdere quel poco di contatto con la realtà che gli è rimasto.
Ho sempre pensato che fra di noi ci fosse un'armonia quasi magica, un connessione così perfetta e casuale da non poter essere replicata che da noi due. Le magie, però, hanno un prezzo come ogni altra cosa. E il loro è che s'infrangono, prima o poi, per non tornare uguali mai più. Per non tornare affatto, a volte.
La nostra magia si spezza tra le sue labbra, quando mi respira addosso un nome non mio. Gli scivola sulla lingua e non è neanche completo. Pronuncia soltanto le prime lettere e il resto si scioglie in un gemito profondo e deliziato che esce dalla sua bocca e gli scivola addosso, sul corpo fino alle mani tra le sue gambe. Si sta toccando perché io mi sono fermato e per un attimo, uno solo, quando lo guardo vedo Bill com’è tra le braccia di Peter, e non più tra le mie.
Per un lungo istante penso che non so cosa fare né cosa dire. Se quella che ho fra le braccia fosse una persona qualsiasi, forse mi basterebbe incazzarmi e la cosa finirebbe nel giro dei dieci minuti che ci ho messo a sentire quello che ho sentito e a mandare a fanculo tutto. Ma si tratta di Bill. Qualunque cosa io decida di fare nei prossimi dieci minuti, non risolverà affatto la situazione. In realtà mi sorprende essere così lucido dopo una cosa del genere, mentre sono ancora dentro di lui, per altro. E' solo che per quanto uno si sforzi di pensare a come reagire in una situazione del genere, poi non può sapere come ci si sente quando capita davvero.
Io non provo niente. Lo guardo soltanto, mentre si stiracchia come fa sempre dopo aver scopato; si snoda tutto per quanto e lungo, le mani a pugno vicino al viso e i gomiti in alto sul cuscino. Ne segue un respiro soddisfatto e mentre mi stendo con lui e lo accolgo meccanicamente tra le braccia, il mio cervello elabora le parole senza che io possa davvero prima pensarle.
La mia stessa voce che rompe il silenzio mi sorprende. “Deve mancarti molto,” dico, serio.
Lui si volta ed è ancora così in estasi per l'orgasmo che apparentemente si è fatto dare da qualcun altro che non capisce cosa sto dicendo. Mi sorride e forse m'incazzo di più a pensare che sembra sincero in questa sua totale ignoranza. “Chi?” Chiede, sbattendo le ciglia lunghissime.
Avrebbe potuto chiedermi cosa, ma non lo ha fatto. “Come sapevi che stavo parlando di una persona?”
Bill si stringe nelle spalle, spaesato. “Anis, non capisco. ”
Potrei decidere di passarci sopra e andare avanti, che in fondo è una cosa da niente. Una confusione momentanea. Solo che non lo è. E io non sono mai passato sopra a questi due nemmeno quando avevano l'attenuante della mia presunta morte, non posso certo farlo adesso che sono vivo e che ero presente, un minuto fa, quando Bill ha detto il fottuto nome di Chakuza mentre erano le mie mani quelle che aveva addosso.
“Chakuza,” chiarisco. “Deve mancarti molto. “
Lo guardo dritto negli occhi perché la sua reazione è l'ultimo vero ricordo che avrò di noi due in questo letto e voglio che rimanga nella mia testa il più chiaramente possibile.
Lui sgrana gli occhi. Sento il suo cuore accelerare i battiti visto che è schiacciato contro il mio, che sospetto ormai si sia fermato. Davvero, stavolta.
Bill sembra continuare a non capire, ma il movimento impercettibile del suo corpo è una risposta sufficiente. Non vuole sentirlo nominare, perché non è in grado di affrontare le conseguenze dell'effetto che quel nome ha su di lui. Lo avevo notato nelle settimane appena trascorse, ma adesso è tutto così dolorosamente chiaro.
Mi guarda e si scosta una ciocca di capelli dal viso. “Che cosa c'entra Peter?” Chiede, incerto.
“Hai detto il suo nome.”
“Io non...”
S'interrompe perché nel mio sguardo legge tutto ciò che deve; che la mia non era una domanda, per esempio. E che non mi aspetto da lui nessuna giustificazione perché qualsiasi cosa sia avvenuta poco fa, non ce l'ha. Ed è mentre realizzo questo che capisco finalmente come stanno le cose e che posizione occupiamo noi – tutti quanti noi – in quest'universo nuovo di zecca dove io avrei dovuto essere morto e non lo sono.
Sono sempre stato abituato ad ottenere quello che pensavo fosse mio e mi spettasse di diritto, ma questo succedeva quando facevo parte della vita delle altre persone. Quando ho smesso di farlo, questo potere l'ho perso. L'ombra scura che ho visto intorno a Bill non è altro che l'impronta di Chakuza che ha spazzato via la mia nell'anno che è appena trascorso. E per quanto io mi sia sforzato di cancellarla, è ancora lì. Forse perché certe cose possono cambiare solo fino ad un certo punto, o forse perché Bill non ha voluto davvero che lo facessero. In ogni caso siamo arrivati a questo. A me che lo prendo e a lui che s'immagina quello che il suo cervello ormai considera la normalità. Una normalità che non sono più io.
All'improvviso mi rendo conto che se voglio recuperare il mio posto nell'universo, non posso farlo da un punto a caso, mettendo le mani dove non era previsto che le mettessi più. Non è una regola che posso infrangere, è logica. E quella non la posso cambiare. Bill, la nostra storia, perfino Chakuza, erano tutte cose mie. Ma quando muore, del morto, rimangono solo le cose che possedeva. Così loro sono rimasti, mentre io no.
Rimaniamo a lungo in silenzio. Io sto aspettando che lui dica qualcosa anche se non so cosa possa dire e credo che Bill sia cercando di capire quanto sia grave la situazione dal mio punto di vista. “Possiamo almeno parlarne?” Chiede alla fine, sedendosi e portandosi addosso quel poco di lenzuolo che riesce a recuperare dal casino di questo letto.
“Per dire cosa?”
Lu si stringe un po' nelle spalle. “Che mi dispiace,” esclama. “Non volevo. Non me ne sono neanche reso conto.”
“Appunto.” Scendo dal letto e recupero i pantaloni. Avrei voluto che fosse perfettamente consapevole di aver aperto la bocca e aver gridato in estasi il nome dell'uomo che se lo scopava fino a tre settimane fa, anche se non riesco ad immaginare uno scenario in cui la possibilità di Bill che lo grida consapevolmente possa avere una qualche logica. Il fatto che si sia trattato di un automatismo lo rende solo peggio. Chiami e vuoi le persone senza renderti conto di farlo solo quando ce le hai piantate in testa così profondamente che da lì non le sradichi più. Ed evidentemente in quella sua testolina mora, ora come ora, c'è ancora Peter Pangerl.
“Anis, per favore guardami.” Lo faccio e lui mi punta addosso quegli occhi castani e profondi. “E' stata una cosa involontaria, non stavo davvero pensando a lui.”
“E a cosa pensavi?”
“Non pensavo affatto!” Esclama. “Ero un tantino preso, tu che dici?”
Non dico niente, Bill. Che cosa dovrei dirti? Che io invece pensavo a te, a noi e al fatto che eri bellissimo, sul punto di disfarti tra le mie coperte? Non ti dico niente. “Credo sia meglio che tu non resti qui, stanotte,” mormoro e mi costa più di quando mi sia costato lasciare per sempre Berlino. O la mia vita intera, se è per questo. “Né mai più.”
Per un po' l'unico rumore nella stanza sono io che mi rivesto. Lui mi fissa attraverso lo specchio mentre mi sto mettendo la camicia e sembrerebbe tutto normale fra noi, se lui non stesse disperatamente cercando in me una soluzione che dovrebbe darmi lui. Fino a questo momento ho sempre pensato a tutto io, Bill. Avevo una risposta ad ogni domanda e, anche se non ce l'avevo, fingevo così bene che sembrava l'avessi. Mi sono occupato di ogni singolo dettaglio, ora però tocca a te. Non puoi pretendere che risolva anche questa. “Ti lascio la stanza fin quando hai bisogno,” dico, sistemandomi il colletto. “Solo non metterci troppo.”
Bill si stringe al petto il lenzuolo. La principessa ha l'aria persa come non l'ha mai avuta nemmeno le prime volte che è stato qui e gli sembrava assurdo che nonostante tutti gli sforzi che faceva per intrufolarsi nel mio letto, io non gli dessi affatto il permesso di rimanerci. Mi guarda come mi guardava allora, con quell'ostinazione infantile che tre anni fa mi faceva quasi tenerezza ma ora mi fa solo incazzare. “Che cosa non ti è chiaro, Bill?” Chiedo.
Lui sospira a fondo e lo conosco abbastanza bene per sapere che non è per darsi coraggio che lo fa, ma per ritrovare la pazienza, una cosa che non dovrebbe avere nemmeno perso, figuriamoci se deve cercarla. “Anis, ti preg-”
Sbatto sul letto una delle valige che si è premurato di svuotare ma non di rimettere a posto. Apro tutti i cassetti e le ante che contengono cose sue. “Prendi quello che ti serve,” scandisco lentamente, così che la situazione gli sia ben chiara. “Il resto tornerai a prenderlo in seguito.”
Aspetto immobile e in silenzio che scivoli fuori dal letto e che si vesta, stando ben attento a rimanere quanto più possibile nascosto nel lenzuolo. Non mi muovo neanche quando è costretto a girarmi intorno per recuperare delle maglie e dei pantaloni da dentro i cassetti. Getta le cose quasi a caso e ogni tanto mi lancia un'occhiata dal basso verso l'alto ed è un misto di rabbia ed imbarazzo quello che gli leggo negli occhi, un'emozione di cui può essere capace solo lui.
Alla fine riempie la valigia fino a farla esplodere ma la chiude abilmente con un po' di forza. Sospira mentre la tira giù dal letto. “Anis, non dovrebbe finire così,” mormora.
“No, non dovrebbe,” annuisco, aprendo la porta.
Lui esita ma ha sempre avuto un problema a oltrepassare i muri che costruivo quando per un motivo o per l'altro non ritenevo opportuno che mi si avvicinasse. Era così abituato ad avere libero accesso con me, che quando chiudevo la porta ci sbatteva contro senza neanche vederla. E adesso è la stessa cosa. Se ne sta lì e non sa che farci con questa nuova serratura di cui non possiede più la chiave. “Potremmo almeno parlare quando...non lo so, quando vuoi,” mormora.
“E' meglio che tu vada.”
Chiudo la porta un attimo prima che pianga, cedendo all'impulso che ha avuto fin'ora, e un attimo prima che io ci ripensi anche se non sono sicuro che questa volta lo farei davvero. Solo che non voglio rischiare.
Se c'è un limite ai tentativi che una persona può fare di recuperare qualcosa, io di certo l'ho superati da un pezzo e quello che è successo stanotte ne è la prova.
Recupero il rum dal mobile bar, l'unico souvenir che mi sono portato da Miami e non mi scomodo a versarlo in un bicchiere. Guardo il letto sfatto e penso a quello che avevo costruito, a quello che ho distrutto e pensavo di poter recuperare ma è evidente che anche il muro più solido, quando lo colpisci forte e lo mandi in mille pezzi, non puoi ricostruirlo con le stesse pietre.
Sento le gomme della sua auto scricchiolare sul viale d'ingresso e Skyline e Sherlee corrergli dietro finché il rombo del motore non si affievolisce fino a sparire e restano solo i loro latrati. Domattina dovrò spiegare a Karima perché il ragazzino non abita più qui. Lo sguardo che mi lascerà addosso mentre sparecchia il posto di Bill posso già immaginarlo, così bevo e mi rifilo la solita puttanata che domani starò meglio e che non mi importerà niente di dove starà facendo colazione il ragazzino.
Solo che è una puttanata, appunto. E io non ho abbastanza rum.