E Il Giorno In Cui Sono Risorto

di lisachan
Apro gli occhi senza crederci, perché giuro che quando li ho chiusi ero convinto che non ce l’avrei fatta. La cosa che sento maggiormente, più ancora del dolore un po’ sordo, un po’ attutito, all’altezza dello stomaco, è un gran senso di confusione e, al contempo, vuoto in testa. È come se avessi il cervello ingombro di cose che però non riesco a vedere, come una vecchia soffitta riempita di antichità tutte coperte da veli bianchi e polverosi. Sai che sotto dev’esserci qualcosa, ma appena ci metti piede non hai idea di cosa. Quindi è come se non ci fossi niente, tu guardi questa distesa di bianco ingrigito e ti dici “oddio, ma cosa c’è qui dentro? Non c’è nulla”, quando magari hai sotto il naso un originale di Mirò, solo che non lo sai perché non puoi vederlo. Ecco, la mia testa è come se fosse questa enorme stanza piena di roba coperta di cui mi sembra di non sapere niente. Ho un po’ paura di sollevare i teli, però, perché magari se quei teli ci sono, in primo luogo, c’è un motivo. Uno non va in giro coprendo opere d’arte a caso, se lo fa dev’esserci una buona ragione.
- Signor Jost…? – la prima voce che sento non mi è nota. È una voce femminile un po’ acuta, piuttosto dolce, e non ricordo di averla mai sentita. – Oddio, s’è svegliato… dottor Schüster! – la sua voce si fa più alta e più fastidiosa, mi pizzica il timpano con violenza e per qualche secondo, mentre serro gli occhi infastidito dalla luce che entra dalla finestra, mi chiedo quanto tempo abbia passato qui a dormire se luci e suoni anche moderati mi sembrano così insopportabili.
Sento un frusciare di vestiti al mio fianco e mi forzo ad aprire almeno un occhio, per sbirciare cosa stia accadendo. Vedo poco, comunque, la mia vista è ancora annebbiata. Spero sia qualcosa di temporaneo.
- Abbassate le luci… - borbotto, e la mia voce suona aliena alle mie stesse orecchie. È gracchiante e ruvida, come non la usassi da mesi. Ho la gola secca. Comincio a preoccuparmi davvero: da quant’è che sono qui?
- Signor Jost, ricorda perché è qui? – chiede una voce maschile profonda ma calda, che immagino appartenga al dottor Schüster.
- Non proprio… - rispondo. Cerco di identificare la sua figura, ma la luce del sole si riflette sul biancore candido del suo camice e mi abbaglia, impedendomi di riconoscere la sua fisionomia. – Abbassate le luci, per favore.
- Infermiera. – dice immediatamente il dottor Schüster, e in pochi secondi la luce diventa più fioca. Sbatto le palpebre un paio di volte e poi, finalmente, apro gli occhi, trovandomi di fronte un uomo alto e abbronzato, con lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle e vagamente arricciati sulle punte e un pizzetto perfetto ad incorniciare labbra ugualmente perfette, mentre occhi azzurri dal taglio elegante mi scrutano con apprensione e partecipe benevolenza. Penso di essermi innamorato. – Signor Jost, sono il dottor Schüster, il medico di turno. Il dottor Neuer l’ha affidata alle mie cure. Mi dica come si sente.
- Ora molto meglio. – ammetto, ma tralascio di aggiungere “perché ho potuto posare gli occhi su di te, o divina creatura. Sfila il camice e mostrami i tuoi pettorali, li cospargerò di unguenti profumati e ti nutrirò coi frutti della terra. Infermiera! Spalanchi le finestre, che la luce entri e investa questo figlio dei cieli”. Mi sovviene all’improvviso che ancora non so da quanto sono qui. Guardo il dottor Schüster e cerco di non lasciar trasparire quanto voglio che butti fuori chiunque ci sia in questa stanza oltre noi, si denudi e mi prenda qui su questo letto. – Quanto tempo è passato da quando sono arrivato? – chiedo con finta serietà, mentre lo immagino sollevarmi tra le proprie possenti braccia e invitarmi a ballare la Lambada.
- Una settimana. – risponde lui, sedendosi sul bordo del letto. Oh, sì, dottor Schüster, perfino il cigolio delle molle del materasso sotto il tuo dolce peso è musicale. – È arrivato privo di conoscenza e quasi del tutto dissanguato. È un miracolo che siamo riusciti a prenderla in tempo, ed è ancora più miracoloso che lei sia riuscito a svegliarsi. È un uomo molto coraggioso, signor Jost.
No, vorrei dirgli, se fossi un uomo molto coraggioso mi solleverei, ti guarderei dritto negli occhi e ti direi di possedermi con forza, tanto da far sbattere la testiera del letto contro la parete fino a sfondarla. Lui però mi sorride all’improvviso, e il cielo si apre mostrando cori di angeli che cantano a festa per celebrare il momento, mentre il mondo diventa più bello, le guerre finiscono, la fame e la povertà nel mondo vengono sconfitte e putti alati coi sederini tondi suonano l’arpa volteggiando attorno a noi, leggeri come bolle di sapone. Mi sposi, dottor Schüster. Lei è l’uomo della mia vita.
- Che cosa mi è successo? – chiedo, ma non sono sicuro se gli sto chiedendo di spiegarmi com’è che sono finito qui o se piuttosto non voglio sapere se per caso nella mia flebo sia disciolta qualche sostanza stupefacente, o del viagra, o comunque qualcosa che possa giustificare le condizioni mentali pietose in cui mi trovo adesso guardando quest’uomo che riluce come una stella e sprizza testosterone da ogni poro della pelle caramellata e del tutto priva di imperfezioni.
- Per la verità, speravamo potesse dircelo lei. – dice lui, stringendosi appena nelle spalle, - Il dottor Neuer ha mantenuto il più stretto riserbo, sulla sua condizione, su esplicita richiesta del signor Ferchichi. Perciò immagino che se lei non ricorda cosa le è successo l’unica soluzione sia aspettare che il signor Ferchichi venga qui, non appena l’avremo avvertito, e possa spiegarglielo in prima persona.
Mi basta sentir parlare di Bushido perché nella mia testa improvvisamente tutto ritorni chiaro. Osservo quest’uomo stupendo entrare nella soffitta nascosta dentro al mio cervello e, invece di prendermi sul divano polveroso disteso sopra il quale io lo attendo nudo e con le gambe già spalancate e issate fin sopra le spalle, mettersi a sollevare tutti i teli da tutte le cose che coprono. Vengono fuori i tizi che mi hanno rapito, viene fuori l’incisione sul mio stomaco, che non ho ancora nemmeno visto, viene fuori il mio sangue, il magazzino buio e sporco, le casse accatastate in un angolo ed io che mi spacco qualcosa finendoci sopra. Viene fuori la storia degli ultimi mesi della mia vita, e non solo della mia, ma di quella di un’etichetta della quale non dovrebbe interessarmi niente, e che invece mi sta a cuore, perché ormai ne sono parte.
Soprattutto, comunque, vengono fuori le ultime parole che ho sentito prima di essere torturato fin quasi a morte. E sono parole che devo riferire a chi di dovere.
Sollevo gli occhi sul dottor Schüster e mi mordo un labbro per non pensare niente di sconveniente.
- Lo chiamo io. – dico. Lui inarca un sopracciglio perfettamente curato. Da ciò – dal sopracciglio e dal modo in cui lo inarca, dico – deduco che è gay, ma riprenderò la questione in seguito.
- Signor Jost, - mi informa, - non è la prassi.
Sorrido serenamente.
- Lo chiamo io. – ripeto. Il dottor Schüster sospira, solleva la cornetta, digita un codice sulla tastiera e poi mi appoggia il telefono in grembo, alzandosi in piedi ed uscendo dalla stanza dopo aver fatto cenno all’infermiera di seguirlo. Il telefono squilla un paio di volte, e poi Bushido risponde.
- Pronto? – dice, col tono casuale di chi non aspetta una telefonata importante. Io prendo un bel respiro, prima di parlare.
- Muovi il culo. – dico quindi, - Devo parlarti.
A lui il respiro manca del tutto, per qualche secondo.
- David? – annaspa. Sento accanto a lui un urletto agitato. È con Bill. – David, stai bene?
- Be’, sono ancora vivo. – rispondo scrollando le spalle. – E ora muoviti e vieni qui. Abbiamo un problema.
Bushido esita ancora per qualche secondo, e poi probabilmente intuisce di cosa sto parlando. Arriva meno di mezz’ora dopo, e con lui, come avevo immaginato, c’è anche Bill.
Nel tempo che passa fra il momento in cui la nostra chiamata s’interrompe e quello in cui lui arriva, io faccio mente locale e cerco di trovare un senso alle ultime parole che l’uomo col volto coperto mi ha sussurrato prima di cominciare ad aprirmi in due. Sono parole che in un mondo normale non dovrebbero avere senso, ma vivere a stretto contatto con Bushido, sapere che il suo uomo migliore, il più vicino a lui, voleva vederlo morto mi ha dato un’idea molto precisa di cosa significhino i legami fra uomini nel mondo da cui Bushido proviene, e che ha trascinato di forza nello show business tedesco perché voleva metterci le mani sopra, e poteva farlo solo conoscendolo bene. Ha dovuto portare il suo mondo nel nostro per stravolgerne le regole e riuscire a governarle, manipolarle come ha sempre fatto, in proprio favore, e quindi, sapendo questo, le ultime parole che ho sentito quando credevo sarei morto non solo assumono senso, ma assumono improvvisamente anche un peso non indifferente. Mentre aspetto, spero che Bushido porti con sé un paio di uomini di scorta in più, per lasciarmeli, perché ora che sono vivo si saprà in giro, ed è evidente che non posso restare da solo.
Vorrei chiederglielo subito, appena lo vedo spuntare, ma appunto noto che c’è Bill, con lui, perciò mi trattengo.
- David! – strilla Bill immediatamente, avanzando verso di me così velocemente che ho l’impressione che, se non avessi la flebo e fili che mi collegano a svariati macchinari da tutte le parti, mi salterebbe addosso e mi si siederebbe in grembo. Cosa che sono felice lui non possa fare, in parte perché oddiolamiapancia e in parte perché i segni del passaggio del dottor Schüster sono ancora evidenti sul mio corpo. Ciò che non può evitare di fare, comunque, è portare con sé un enorme cesto di frutta. Naturalmente non lo porta lui, anche perché deve pesare un quintale, e naturalmente non lo porta nemmeno Bushido, perché figurarsi, motivo per il quale due poveri infermieri un po’ sfigati, di cui uno con pancetta che tende il camice fino a sollevarlo e scoprire un po’ i fianchi, sono stati reclutati ad uso e consumo della sua tranquillità, e nel momento in cui lui fa il suo ingresso in questa stanza loro lo seguono con aria mesta, posano il cesto sul mio comodino e poi escono borbottando che la loro laurea non doveva servire a questo.
- Bill. – gli sorrido io, - Ma cos’è questa roba?
- Frutta. – risponde lui, annuendo compitamente ed aspettando che Bushido gli avvicini la sedia di plastica al mio letto per sedersi compostamente, la schiena dritta e le mani in grembo. – Mi hanno detto che fa bene.
- Ti hanno detto, eh? – rido io, e non appena lo faccio il dolore mi scoppia dentro così forte e improvviso da costringermi a piegarmi in due. Non riesco nemmeno a lamentarmi, ho il terrore che qualsiasi suono esca dalla mia bocca lo renda più forte, e voglio soltanto che smetta. Bill mi si piega addosso, poggiandomi una mano sulla spalla.
- Dada, stai bene? – chiede con aria preoccupata.
Mi volto a guardarlo per un secondo, e tra le lacrime – lacrime di dolore: di nuovo – riesco a vedere che sono pieni di lacrime anche i suoi occhi. Cerco di riprendermi, mi metto dritto, appoggio la schiena al cuscino sollevato dietro di me e respiro lentamente.
- Starò meglio quando le ferite si saranno richiuse, suppongo. – rispondo in un borbottio basso. Bill si morde un labbro, stringendosi nelle spalle.
- Che cosa ti hanno fatto? – mi chiede. Io esito, lancio un’occhiata a Bushido. Lui si schiarisce la voce e poggia entrambe le mani sulle spalle di Bill, in un gesto collaudato e paziente che mi fa inarcare un sopracciglio. Quant’è che ho dormito? Come ha detto il dottor Schüster? E cosa mi sono perso, nel mentre?
- Bill, forse è meglio se esci un attimo. – dice quindi. Bill si gira a guardarlo, oltraggiato.
- Cosa? – strilla, - No! Non esco affatto, stiamo parlando di David, qui, voglio sapere che gli è successo!
Mi allungo a stringere una delle sue mani fra le mie, e lui torna immediatamente a posarmi gli occhi addosso. Ha le sopracciglia inarcate verso il basso e l’espressione di chi sa già di dover cedere.
- Ti racconterò tutto dopo, Bill. – dico condiscendente, - Ora lasciaci da soli per un paio di minuti, vuoi?
Non vuole, naturalmente, ma lo fa. Se ho capito cosa sta succedendo – e l’ho capito – è solo una di tante cose che, per certi versi, riprenderanno a funzionare come un meccanismo ben oliato. La situazione è quella che è, e tutti noi non possiamo che affidarci alle mani di quest’uomo morto e risorto e sperare che non gli si aprano delle stimmate enormi sui palmi mentre noi cerchiamo di trovare posto per tutti fra le sue dita lunghe e proporzionate.
Sono ancora convinto che ci sia del viagra nella mia flebo.
Quando restiamo soli, l’atmosfera è tesa. Lui sa che ho qualcosa da dirgli, qualcosa di grave, e sta pensando che la situazione gli sembra già abbastanza brutta adesso che non la sa, perciò si chiede se sia effettivamente opportuno peggiorarla ulteriormente aggiungendo dettagli al quadro. Io, però, sono un manager. Sono uno che risolve i problemi. I dettagli sono il mio pane quotidiano. Quando Bushido è morto, si è affidato a me perché non poteva morire da solo. Ora gli toccherà fare lo stesso, se non vuole che capiti qualcosa di peggio.
- Chi è il medico? – gli chiedo quindi, - Lo conosci?
- Ma di chi parliamo? – chiede lui, preso alla sprovvista, spalancando gli occhi e sedendosi dove stava seduto Bill fino a poco fa, - Neuer?
- No. – rispondo io, scuotendo il capo, - Schüster. È lui che mi ha visitato quando mi sono svegliato.
- Ah. – annuisce Bushido, - È uno bravo. Lo conosco poco, ma sembra affidabile. Perché me lo chiedi?
- Perché voglio sposarlo. – annuisco compitamente, - È bellissimo. Dammelo. Me lo sono meritato. Sarà il mio indennizzo per essermi quasi fatto sventrare a causa tua.
Bushido ride di gusto, mentre io mi limito ad un sorriso divertito, visto che ho scoperto che da ora fino a chissà quando le risate rientreranno nella lunga lista di cose che non potrò fare.
- Mi dispiace. – dice quindi. Sta ancora sorridendo ed è bello come il sole. Io palesemente non potrò farcela a lungo. Medito di far causa all’ospedale. – Non ho mai voluto che ti succedesse una cosa simile.
- Ma sei venuto a salvarmi. – dico quindi, sistemandomi meglio contro il cuscino.
Lui mi lancia un’occhiata intensa, facendosi subito serio.
- Non ti avrei mai lasciato lì. Se anche mi fossi morto fra le braccia per strada— Non voglio nemmeno pensarci. Ti avrei portato in ospedale comunque e lo avrei messo sottosopra finché non ti avessero ricoverato.
Sorrido appena, piegando un po’ il capo.
- Anche se ciò avrebbe significato far ricoverare un cadavere? – chiedo a bassa voce.
- Sarebbe stato un cadavere a cui tenevo. – chiude il discorso lui. Io sorrido ancora.
- Grazie. Ma spero tu abbia pensato alle guardie del corpo da lasciarmi, perché ora che sono vivo—
- C’erano anche mentre eri morto. – mi interrompe lui. Alle volte, quando parlo con Bushido mi rendo conto che, quando siamo insieme, usiamo i termini vivo e morto con una naturalezza disturbante, come se entrambi stessero ad indicare due condizioni passeggere e semplicemente reversibili. Questa cosa mi dà i brividi. Per un lungo periodo, non sono riuscito a capire perché Bushido riuscisse ad usare espressioni tipo “quando sono morto” invece di “quando ho finto di morire”. Adesso che, fosse anche solo per una settimana, sono morto anch’io, riesco a capirlo meglio. Alla fine, l’unica conseguenza che ha la morte sul morto è quella di togliergli pezzi di vita. E questo è capitato a Bushido come pure a me, anche se nessuno di noi due è morto davvero, nel senso definitivo del termine.
Scivolo un po’ lungo il materasso, digrignando i denti quando sento i punti tirare. Devono essere un’infinità. Dio mio, la mia pancia sarà sfigurata per sempre. La mia bellissima, piattissima pancia. Sto soffrendo così tanto che il solo pensiero che Bushido possa rifiutarsi di regalarmi il dottor Schüster per il mio compleanno mi sembra un’eresia, un’ingiustizia bella e buona. Guarda cosa hai fatto alla mia pancia, Bushido. Dammi la mia ricompensa.
Lui mi aiuta, comunque. Scosta le lenzuola dal mio corpo e le tiene sollevate mentre io sollevo il camicione patendo le pene dell’inferno. Finalmente riesco a vedere quello che mi hanno scritto addosso.
Bushido schiude le labbra e spalanca gli occhi. Allunga una mano e sfiora i contorni delle lettere con la punta di un dito, così lieve che nemmeno lo sento. È come se si rendesse conto di quello che è successo per la prima volta, e probabilmente è davvero così dato che, per come mi avevano aperto e per tutto il sangue che dovevo avere addosso, non doveva essere semplice capire che forma avessero le mie ferite quando mi hanno trovato.
- Vendetta. – mormora pianissimo, deglutendo a fatica. Poi mi solleva gli occhi addosso, e il suo sguardo è pieno di timore. – Tu sai chi è stato. – dice, e gli trema la voce.
Io annuisco e inspiro. Moderatamente, però, sennò fa male.
- Nyze. – dico in un soffio, e vedo gli occhi di Bushido tornare indietro di mesi mentre ripensa all’etichetta che ha lasciato sprofondare nel nulla e agli uomini che ha perso e a Nyze, Nyze soprattutto, che non riusciva ad arrendersi al fatto che l’Ersguterjunge sarebbe affondata assieme al suo signore e padrone, e che ha piantato su un casino epocale prima, durante e dopo essersene andato. E mentre Bushido ricostruisce pezzi di storia e si rende conto di ciò che ci aspetta, io mi dico per un attimo che sono quasi morto per una lite fra rapper e poi mi correggo da solo. No, io non sono quasi morto per una lite fra rapper, io sono morto per una guerra del ghetto. Perché in qualche modo assurdo il ghetto è casa mia, anche se non ci ho mai messo piede. Perché Bushido l’ha portato di forza nella mia vita, perché qui non stiamo parlando di due rapper che si insultano a caso, qui stiamo parlando di fratelli che fanno giuramenti e si uniscono e fanno fronte comune contro sa Dio solo cosa, perché il problema del rap è che per farlo bene devi essere arrabbiato, ma arrabbiato davvero, e questa gente, in un modo o nell’altro, lo è, lo è tutta. E io non ho rischiato la vita per un’etichetta, ma per una famiglia. Una famiglia spaccata i cui membri adesso sono sparsi in giro per la città, e Nyze ne faceva parte, ma ora vuole solo distruggerla. E Dio solo sa fino a che punto.
Bushido deglutisce, annuendo lentamente. Ha le mani posate sulle ginocchia, adesso, e sono talmente in tensione che posso vedere le linee di tutti i tendini. I polpastrelli sono bianchi, tanta è la forza con cui li affonda contro il tessuto ruvido e spesso dei jeans scuri.
- Ho capito. – dice quindi, alzandosi in piedi. – Non preoccuparti di niente. Pensa solo a rimetterti. Riusciremo a gestire la cosa in maniera congrua.
- Qual è la maniera congrua? – chiedo stancamente, abbassando nuovamente il camicione e sistemandomi addosso il lenzuolo, - Rapirai uno dei suoi e gli scriverai addosso “marameo”?
Bushido ride un po’, grattandosi nervosamente la nuca.
- No, penso che—
- Non fare niente finché non sarò uscito da qui. – dico serio, - Aspettami, prima di prendere una qualsiasi decisione. Non fare niente di avventato.
La sua espressione un po’ stupita dall’interruzione si trasforma in un sorriso carico di tenerezza, mentre si avvicina e mi accarezza con una mano bene aperta la testa e il collo, prima di chinarsi a lasciarmi un bacio sulla fronte.
- Stavo appunto dicendo: “penso che aspetterò che tu sia uscito da qui”. E poi vedremo insieme, Jost. Per risolvere i problemi mi serve uno che sia capace di farlo.
Sorrido, tirando su un angolo della bocca con aria spavalda.
- E io, sfigurato o no, sono capace eccome.
- Appunto. – ride ancora lui. Poi mi volta le spalle, salutandomi con un cenno della mano. – Non addormentarti subito. – mi dice quindi, e io non capisco che intenda fino a quando, un paio di minuti dopo, il dottor Schüster mi raggiunge in camera.
- Il signor Ferchichi mi ha detto che aveva bisogno di me. – dice con un sorriso affabile, avvicinandosi e maneggiandomi con premura. – Sente fastidio da qualche parte?
Sorrido con estrema soddisfazione, mentre mi appresto a spiegargli esattamente dove il fastidio sia più pressante e come aiutarmi ad estinguerlo.

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