Chained To You

di lisachan
Questa serata si conclude come si concludono tutte le mie serate da una quantità di settimane così enorme da risultare quasi disturbante, se ci penso.
Io non sono una persona molto paziente. So esserlo, certo, quando ne riconosco l’utilità – o quando preferisco così – ma tendenzialmente la mia pazienza si esaurisce nel momento stesso in cui, dopo aver detto no, mi trovo ad ascoltare nient’altro che una richiesta più insistente di prima.
Se dico no è no. Ed è sempre stato così.
Per un qualche motivo che non comprendo, i miei no non hanno alcun effetto su Bill.
E questo è disturbante.
Mi aspetta sotto casa come al solito; stringe fra le mani un sacchetto di plastica e sta tutto avvoltolato in una specie di piumino dentro al quale il suo corpo magro e ossuto si perde senza speranza. Mi avvicino con un sospiro poco convinto.
È stata una giornata pesante e non ho voglia di dire no a nessuno.
Negare è sfiancante. Per negare devi motivare il tuo rifiuto. Accettare è molto più semplice, basta un mezzo sorriso.
Quando arrivo al suo fianco, stringendo in mano le chiavi di casa, so già che non sarò in grado di negare alcunché.
- Immaginavo che saresti tornato tardi… - sorride lui, serrando le dita attorno alle maniglie del sacchetto, - Avevi le registrazioni per quel video… - lo vedo che si sforza, mi viene quasi da ridere. – Reich…
- Sì. – taglio spiccio, infilando le chiavi nella serratura e facendola scattare poco dopo, - Quello. – preciso con un ghigno, sapendo che non ricorderà mai a memoria il titolo. Mi chiedo se abbia mai ascoltato la mia musica, o se tutta questa storia che si trascina da eternità non sia solo ciò che resta di un fratello che mi idolatrava e di qualche flirt un po’ troppo spregiudicato in televisione.
Nonostante la luce gialla dei lampioni renda l’aria della notte quasi fosforescente, lo vedo per un secondo illuminarsi di qualcosa di più puro del neon.
- Reich mir nicht deine Hand! – conclude con un sorriso, - Era questa, giusto? Mi avevi parlato di un video in riva al mare…
Sinceramente stupito, inarco un sopracciglio.
- Già. – annuisco aprendo la porta, - Be’?
Lui deglutisce e sembra ricordarsi solo adesso perché è qui. Solleva il sacchetto all’altezza del viso.
- Ti ho portato qualcosa da mangiare. – dichiara tranquillo, - Spero che ti piacciano gli hamburger.
- A chi non piacciono? – chiedo retorico, facendogli strada in casa.
Karima si affaccia dalla cucina. Dalle sue spalle arriva l’odore sottile e insinuante del soffritto di cipolle appena messo sul fuoco.
- Buonasera, signor Ferchichi. – mi saluta educatamente, - Il signor Kaulitz si ferma per cena? – chiede poi, salutando con un cenno del capo Bill al mio fianco.
- Sì. – annuisco io, rimpiangendo già qualsiasi cosa meravigliosa stesse preparando, mentre il mio buongusto abdica in favore di Bill, - Ma non c’è bisogno di preparare. Bill ha portato qualcosa.
Questa donna, che conosco da anni, sorride in un modo che mi fa un po’ paura, annuisce e si ritira in cucina per tirar giù la padella dal fuoco. Io sospiro ancora – perché ci sono volte in cui mi sento molto una pedina di qualcosa che non mi piace affatto – e faccio strada a Bill all’interno della casa, per quanto mi renda conto sia ridicolo, visto che ormai la conosce fin troppo bene.
- C’era freddo? – mi chiede all’improvviso, mentre sistemo i panini – una quantità industriale – sul tavolo di fronte a noi.
Sollevo lo sguardo.
- Cosa? – ribatto, vagamente confuso.
- …dove avete girato. – precisa con imbarazzo palpabile, giocando nervosamente con un paio di fazzolettini di carta sottilissima tirati fuori dal sacchetto, - Era in riva al mare, perciò ho pensato… forse faceva freddo.
Non so davvero cosa dovrei rispondere.
- Avevo il giubbotto. – dico alla fine. Non so se sia la risposta giusta, perché non ho la minima idea di cosa mi abbia chiesto.
- Ah. – annuisce Bill, e scosta la sedia dal tavolo per accomodarsi di fronte alla distesa di panini. – Tu quali preferisci? – chiede ancora, esitando nello scegliere la propria cena, - Ne ho presi di tutti i tipi, ce ne sono con le cipolle, coi cetriolini, senza niente, e poi col pollo, col manzo, credo, col vitello, forse uno col pesce ma non ricordo, è che non so che-
- Uno qualsiasi andrà bene. – lo fermo, sedendomi al suo fianco un po’ stordito, - Sei la solita macchinetta. – commento con un mezzo sorriso.
Lui aggrotta le sopracciglia ed io mi mordo un labbro. L’ho offeso.
- Tu, invece, sei il solito pezzo di ghiaccio. – ritorce. Il suo tono è glaciale almeno quanto mi accusa di essere, e le parole suonano come stilettate in un posto che non saprei identificare, ma fa un po’ male.
Forse è questa l’abitudine. Quando sei affezionato ad un sorriso e quello, all’improvviso, si spegne.
E tu non hai neanche capito che in realtà ti piaceva.
Scrollo di dosso i pensieri molesti, perché devo cercare di ricordarmi che qui si sta parlando di me e di Bill Kaulitz, non di una coppia da fotoromanzo. Queste idee malsane non dovrebbero neanche sfiorarmi.
- Vuoi litigare? – chiedo stancamente. Spero che risponda no, perché io non voglio.
Bill sospira.
- No. – risponde mesto. Bravo bambino. – Ma potresti essere un po’ più gentile, magari.
Sbuffo un mezzo sorriso e mi allungo verso di lui. Non ho la minima idea di cosa sto facendo, dev’essere il sonno. Gli passo una mano fra i capelli – sono morbidi e tiepidi – e poi la lascio scivolare sulla sua spalla – appuntita e spigolosa – stringendola con una sorta di affetto mal dissimulato.
- Sono esausto. – ammetto, dirigendo la stessa mano che l’ha toccato verso i panini, per recuperarne uno a caso, - Tu che hai fatto, oggi?
Lo osservo soffermarsi un attimo sul mio volto, come incuriosito dalla mia espressione. La mia espressione dev’essere piuttosto stupida, perché lui si mette a ridere. Non è fastidioso – non completamente, ma…
- Ti ho fatto una domanda, potresti anche rispondere. – protesto, aggrottando le sopracciglia.
- Sì, certo. – dice lui, spegnendo la risata e scacciando via una piccola lacrima di divertimento dagli occhi, - Sono stato un po’ in giro. Nulla da fare. Una noia. Ho giocato con Tomi.
- Il ritratto perfetto della giornata di un bimbo diligente. – dico con un sorriso, addentando il panino e rendendomi conto di avere in effetti un certo appetito.
- Be’, poi sono scappato e ho preso la cena. – completa lui, scrollando le spalle, - Non tanto diligente.
- Bill. – sospiro, mandando giù il… sarà pollo? Non riconosco il gusto. Potrebbe non essere neanche carne, per ciò che so o che m’importa. – Il tuo manager sa perfettamente che sei qui, così come sa perfettamente che sarai a casa prima di mezzanotte. Come Cenerentola.
Bill s’arruffa tutto come un pulcino, quando è arrabbiato.
È quello che fa anche adesso.
- Ci tieni tanto a guadagnarti la fiducia di David? – scocca a bruciapelo, - Fai sempre quello che dice lui!
- Ma non lo faccio perché lo dice lui. – preciso sorridendo, - Quello è il tuo compito.
- Be’, nemmeno io faccio le cose perché le dice lui. Anzi, - sospira pesantemente, - in genere, quando le dice, non le faccio e basta.
Ridacchio.
- E quindi sei qui per una sorta di ribellione adolescenziale nei confronti della tua figura paterna del momento?
Se lui può arruffarsi, posso anch’io.
Bill si morde l’interno di una guancia ed abbassa lo sguardo, offeso. Improvvisamente, me lo rivedo com’era due giorni fa, in questo stesso salotto, mentre cercava di convincermi a lasciarlo dormire con me. Allora dissi qualcosa di molto simile – qualcosa di molto stupido tipo “sei qua solo perché ti sei fatto un film che con la realtà non c’entra niente”. Non si dovrebbero mai dire cose simili a qualcun altro, perché in fondo non puoi sapere niente che cosa gli gira per la testa.
Un sentimento è un sentimento.
Ciò che provi non smetti di provarlo se ti dicono che non è reale.
Questo vale per Bill e purtroppo vale anche per me.
- Ora che ci penso… - commento distaccato, cercando di darmi un tono e farmi forza: se riesco a rimandarlo a casa anche stasera, magari non si ripresenta più. – È giusto l’ora della nanna. Se ti chiamo un taxi adesso, magari arrivi a casa in orario.
Scatta in piedi con la furia di un cucciolo in pericolo di vita. Non ha la minima idea di come difendersi, ma lo farà finché ne avrà la possibilità.
- Posso restare a dormire qui. – propone pacatamente, stringendo una mano attorno al bordo del tavolo, come volesse aggrapparvisi per non volare via.
A causa di cosa, non lo so, visto che sono tutto meno che forte come un uragano.
- No che non puoi. – nego risoluto.
- Hai milioni di stanze! Non devo stare per forza da te!
- Sì, e poi finisce come, quand’era?, la settimana scorsa? Devo ricordarti come mi sono svegliato?
Bill arrossisce ed abbassa lo sguardo.
- Non posso fidarmi di te. – continuo, - Non se t’intrufoli in camera mia nottetempo e cominci a… Bill, avanti, siamo seri. – scuoto il capo, il pensiero confonde anche me. Quella notte s’è stretto al mio corpo come non volesse più lasciarlo andare. Mi ha baciato, e d’improvviso ho realizzato quanto pericolosa fosse questa relazione, e quanto ancora più pericolosa potrebbe diventare se si concretizzasse in qualcosa di serio. Non posso lasciare accadere niente di simile. Io non sono un pazzo e non sono un suicida. – Torna a casa. – sollevo lo sguardo su di lui e non ci metto molto a capire che fra un po’ scoppierà a piangere. Mi avvicino, sfiorandogli una guancia con due dita. – Sei piccolo e molto molto avventato. Non hai idea di cosa sta succedendo.
E non hai idea di cosa mi stai facendo.
Lui solleva una mano e stringe con forza le mie dita fra le sue. Ho fatto male a toccarlo. Ho fatto malissimo.
- Non mandarmi via. – sussurra avvicinandosi ancora, fino ad aderire completamente al mio corpo, - Io non sono un problema. Cazzo, io ti amo.
Non so come faccio a trattenere il lamento di puro dolore che mi nasce in gola.
Io non so come governarlo.
Non so come fermarlo.
Non ho idea di come dovrei gestirlo, questo ragazzino così stupido.
So che fino ad un secondo fa il suo corpo era premuto contro il mio solo perché lui lo voleva. Adesso, però, adesso che me lo stringo contro, lo voglio anche io.
Io non sono bravo a mentire.
A me le menzogne non piacciono.
La verità è importante al punto che me la sono scritta addosso.
Lo bacio senza la minima delicatezza, perché nessuno di noi due la vuole. Non sono io. Quello che si contiene e quello che rimane impassibile e quello che non tocca e quello che nega e quello che rifiuta. Non sono io. Questa cosa fredda non sono io.
Il corpo di Bill è così caldo che riscalda tutto.
Lo sento sotto le dita, mentre le lascio scivolare sotto la sua maglietta, e lo sento sulla pelle del mio collo, dove il suo viso si posa alla ricerca di un riparo dall’imbarazzo, e dove le sue labbra si fermano, incerte su cosa fare. Così imparo la sua forma: la linea dritta dei suoi fianchi, la curva morbida della sua pancia, le colline e le valli della sua spina dorsale. La magrezza delle sue braccia e la pelle un po’ ruvida sui tatuaggi. La fragilità della sua nuca e l’impeto della sua eccitazione, premuta forte contro la mia in una sfida senza vincitori che è solo la dimostrazione fisica del nostro desiderio.
Lo spingo indietro fino al tavolo, buttando giù i panini per terra, e penso distrattamente che Karima domani mi maledirà in tunisino finché non mi verrà la nausea per le mie stesse radici.
Bill ride contro il mio orecchio.
- Ops.
Rido anche io.
- Sei una peste. – commento baciandolo in punta di labbra, un attimo prima di liberarmi dell’ingombro della sua maglietta.
- Ehi… - biascica imbarazzato, stringendosi a me come ad una coperta, - Li hai fatti cadere tu…
Le mie mani sfidano l’orlo dei suoi jeans e lo sconfiggono, passando oltre. È morbido e dolce, Bill, e fa dei mugolii deliziosi quando scendo a stuzzicarlo fra le natiche.
Mi piace il suono. Ne voglio ancora.
I pantaloni che indossa sono così stretti che mi rendono i movimenti difficili. Lui se ne accorge e sbuffa, agitato.
- Tirali via! – biascica ansiosamente sulle mie labbra, mentre le cerca per un altro bacio.
Obbedisco su tutti i fronti, i pantaloni scompaiono ed il mio movimento si fa più libero. Posso stuzzicarlo anche fra le gambe. La morbidezza delle sue cosce si chiude attorno al mio polso, mentre lo sfioro per tutta la lunghezza della sua erezione, prima di afferrarlo saldamente alla base e cominciare ad accarezzarlo con più decisione.
Bill si aggrappa con forza alle mie spalle. Poi cambia idea e mi si stringe al collo, come non si sentisse sicuro di restare in piedi, se non può avvolgersi completamente attorno a qualcosa. Alla fine, lascia andare un mugolio di pura frustrazione e, mentre io sto quasi abituandomi all’idea di stare facendo una sega ad un maschio che non sono io stesso e che è Bill Kaulitz, stringe i pugni attorno alla mia maglietta e la solleva furiosamente, tirandomela via di dosso.
- Non è giusto che stia così solo io… - borbotta scendendo e mordicchiarmi nervosamente le spalle ed il petto.
Io lo trovo tenero, non posso farci niente.
Lo afferro sotto le ginocchia, mettendolo seduto sul tavolo ed interrompendo i suoi lamenti con un altro bacio, mentre mi sistemo fra le sue gambe ed i nostri bacini collidono, azzerando la mia capacità di pensiero razionale.
- Fai piano… - sussurra lui ad un millimetro dalle mie labbra, ed io sorrido divertito, perché non ho ancora cominciato a fare niente.
Lo sento tremare sotto le mie mani. Non so se sia nervoso perché non si fida o perché l’aspetta da tanto tempo che non vedeva l’ora. In ogni caso, sono nervoso anche io. Ed il motivo proprio non lo so. So, però, che non devo perdere la calma. Né la lucidità.
Perché qua io potrei tranquillamente lasciarci il cervello.
E non è proprio il caso.
La logica stringente del mio raziocinio si scontra contro i baci di Bill. Che sono peggio di qualsiasi droga io abbia mai provato – e credo non me ne sia sfuggita nemmeno una – perché mi sento completamente fottuto nel momento stesso in cui lui artiglia i miei pantaloni e li sbottona, e quelli, totalmente dimentichi della mia volontà, proprio non ci pensano a restare su, e si lasciano ricadere inermi a terra.
Il tessuto che ci separa adesso è niente.
Anche del mio cervello non resta più niente.
Cerco di pensare. Cerco di riportare alla memoria la planimetria del mio appartamento. Quanti metri ci separino dalla camera da letto – chilometri, se ricordo ancora la disposizione delle stanze. Chilometri, la maggior parte dei quali su scale. Ma poi: ci sono dei preservativi, in casa? Be’, quelli dovrebbero esserci. C’è del lubrificante? Mi sembra già più improbabile.
- Bill… - faccio per chiamarlo, e non so se essere felice o triste o completamente rincoglionito e basta, - Non c’è-
- La mia borsa. – mugola lui, come la ricordasse solo in quel momento, stendendosi lungo tutta la superficie del tavolo per raggiungerla dov’è, agganciata allo schienale di una sedia.
Dio mio, è bellissimo.
Ma cos’ho guardato, fino ad oggi?
Scendo sul suo petto e gioco con un capezzolo, lingua e denti. Bill chiude gli occhi e ferma il braccio; poi si fa forza, recupera la borsa e la lascia ricadere con un tonfo accanto a noi. Io non mi separo da lui neanche per un secondo, e lui continua a lanciare mugolii che mi mandano fuori di testa, mentre cerca qualcosa sul fondo di un borsone che sembra profondo come quello di Mary Poppins.
Alla fine, riemerge con un tubetto in plastica bianca che si posa sulla pancia. Lo prendo tra le mani e lascio un bacio sopra al suo ombelico, mentre lui torna a cercare i preservativi e li trova immediatamente.
Mi allontano da lui, eliminando i restanti indumenti di troppo, ed indosso il preservativo.
Lui mi guarda come mi vedesse per la prima volta.
- Problemi? – chiedo sarcastico, inchiodandolo al tavolo fra le mie braccia.
Lui si copre il viso con entrambe le mani, ma riesco a vedere il rossore sulle sue guance, nonostante tutto.
- È bellissimo! – butta lì velocemente, in un singhiozzo imbarazzato che è semplicemente una delle cose più carine del mondo.
Rido a bassa voce e mi avvicino a lui, cercando a tentoni il tubetto di lubrificante che ho lasciato da qualche parte sul tavolo.
La sua morbidezza accoglie prima i miei polpastrelli, che la accarezzano in lungo e in largo, cercando di lubrificare il più possibile, e poi le mie dita. Non ho la minima idea di cosa dovrei fare, cerco di pensare a cosa preferirei fosse fatto a me ma non riesco molto bene nell’impresa. Mando un indice in avanscoperta, Bill ansima contro il mio collo e mi chiede di non fermarmi. Lo tocco piano, non mi sembra una cosa strana, mi sembra strano non averlo fatto prima.
- Ancora… - bisbiglia dopo un po’, - Ancora, ti prego…
A me sembra presto, per ciò che chiede. Mando in avanscoperta anche il medio, ed in effetti era presto, perché lo sento irrigidirsi a disagio tutto intorno a me, e le sue unghie si chiudono con forza sulla mia pelle.
- Tutto okay? – chiedo soprapensiero, mentre lo bacio su una guancia.
Lui annuisce.
- È un po’ ingombrante. – risponde, - È un po’ come te.
Per un attimo, mi preoccupo.
Sta parlando di due dita.
Non so davvero come potremo arrivare a sopravvivere a questa notte.
Lascio il suo corpo e lui mugola contrariato, spingendosi contro di me come a voler cercare di recuperare ciò che lo riempiva.
- Aspetta, aspetta… - sussurro fra i suoi capelli. Ho come l’impressione che dovrò essere io a imporre il passo successivo. Dannazione. Così sembra colpa mia.
Sono pensieri stupidi, comunque.
Mi spingo lentamente contro la sua apertura e, come immaginavo, la resistenza è ostinatissima.
- Non ti fermare. – ordina lui, trattenendo il fiato.
Io scuoto il capo e lo stringo a me.
- Puoi mordere, se vuoi. – annuisco deciso.
Bill schiude le labbra e poi le richiude attorno alla mia spalla.
Io aspetto. Poi mi muovo.
I suoi denti si conficcano nella mia carne con tanta forza che la sento strapparsi e cedere. Ma non è il mio turno di provare dolore, perciò non dico una parola.
Rimango fermo per qualche secondo, e faccio una fatica disumana perché qua dentro si sta bene da impazzire. Bene proprio da morirci senza rimpianti. Ho voglia di sentirlo mugolare ancora, vorrei sentirgli chiamare il mio nome, ma tutto ciò che sento sono respiri spezzati e la difficoltà di un bambino di abituarsi a qualcosa di troppo difficile.
- È davvero come te… - lo sento ansimare alla fine, già esausto.
Riprendo a muovermi con un sospiro di sollievo, e lui non riesce neanche a lamentarsi.
- Mi dispiace, piccolo. – sospiro baciandolo, - Sei bellissimo, lo sai?
Ha le lacrime agli occhi ed è bellissimo davvero.
- Sì, lo so. – trova le palle di rispondere, e d’improvviso penso che lo amo anche io. Che non me ne fotte un cazzo di niente, posso tenerlo fra le braccia anche se è maschio ed anche se tutto ciò si tramuterà in un disastro enorme.
Posso perfino andarne orgoglioso.
Ne vado orgoglioso, cazzo.
- Oddio. – si lamenta quando le mie spinte si fanno più potenti, - Ti manca molto?
Ghigno un po’.
- Che domande…
- Scusa! – biascica, - È che non so… fa un po’… non me ne sto pentendo! – si affretta a precisare, - …cosa devo fare…?
Tu niente, penso con fin troppa naturalezza, faccio io.
E lo faccio davvero. Ricomincio ad accarezzarlo fra le gambe, e le mie spinte e le mie carezze diventano un movimento unico. Vanno a ritmo coi suoi sospiri, coi suoi mugolii strozzati e con le spinte del suo bacino incontro al mio. Per un attimo sorrido, perché questo sì che è senso musicale.
Affondo con forza, così in profondità che ho paura di spaccarlo in due, ed è allora che lui rilascia un mugolio completamente diverso dai precedenti, e la sua stretta si fa più forte.
- Lì… - implora a mezza voce, - Era lì…
Annuisco e mi nascondo contro il suo collo. Non so se sono imbarazzato o ho solo voglia di lui. Comunque il suo collo è un buon rifugio, mentre torno a spingere ad un ritmo più serrato, cercando di colpire di nuovo il punto che l’ha fatto godere. I suoi lamenti scompaiono. Si fanno richieste. Ed io, a sentir dire certe cose da questa vocetta da bimbo mai cresciuto, perdo pure il senso del limite. Spingo con violenza, ma lui non protesta. Continua a riempirmi le orecchie, così, più forte, ancora, Dio, Anis, e quando lui lo dice, davvero, quando dice il mio nome, scarico una spinta che mi stordisce, come mi stordisce l’orgasmo mentre si schianta contro il preservativo e lascia me in stato di semicoscienza, completamente abbandonato contro il suo corpo.
La mia mano attorno alla sua eccitazione è umida.
Sorrido trionfante. Lui lo nota e mi dà uno schiaffo sulla nuca.
- Sei tremendo. – decreta alla fine, serrandosi attorno a me come il disastro che è.
Io mi riservo il diritto di non rispondere. Ed anche di non pensare.
Quando il sangue tornerà a circolare naturalmente nelle mie vene, e quando l’ossigeno tornerà ad arrivare al cervello, forse capirò per bene l’immenso casino in cui mi sono appena cacciato. Un immenso casino che sono le dita magre ed agili di Bill che disegnano il tatuaggio sul mio collo. Un immenso casino che sono i suoi capelli a solleticarmi il naso. E le sue gambe ancora attorno ai fianchi.
È un immenso casino che realizzerò dopo.
Adesso, devo solo ritrovare la camera da letto.

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