Eine Kugel Reicht

di tabata
"... Bill?"

Quando le sue telefonate iniziano così, so che non devo aspettarmi niente di buono. Mi chiama per nome soltanto quando si tratta di qualcosa di serio, per tutto il resto del tempo sono Principessa.

Stringo la presa sul telefono e faccio un respiro profondo, chiudendo e aprendo gli occhi nel tentativo di trovare una calma che non ho. Non devo sentirlo spiegare per sapere che si è messo nei guai, perché lo fa sempre. A volte si tratta solo di andarlo a recuperare in qualche schifo di posto, ubriaco da far paura, prima che lo trovino i giornalisti, alle volte si tratta della sua fottuta gang. E quelle sono le volte peggiori.

Mi chiedo quale delle due situazioni sia stavolta, se mi vomiterà addosso o se all'ospedale gli daranno quattro punti per una coltellata al braccio. Non sarebbe la prima volta e probabilmente neanche l'ultima.

Due mesi fa mi ha costretto a trascinarlo di peso al pronto soccorso, stivali di pelle e occhiali di Prada, io che lo sorreggo fino al banco dell'accettazione da solo. No Bill, niente polizia. E' una cosa che ci risolviamo fra di noi. Tu non puoi capire.

Io non capisco, e intanto ho sempre il suo sangue sulle mani, perché di me si fida. Ecco qual'è il problema con lui: ci mette tanto a fidarsi, ma quando lo fa ti scarica addosso ogni cosa: voglia, amore, sesso. I suoi guai.

Siedo sul letto e mi passo una mano tra i capelli, ero già pronto per andare a dormire e il mio viso struccato mi guarda attraverso il riflesso nello specchio. "Dimmi," sussurro stanco.

"Ascolta, adesso non andare nel panico, d'accordo?"

Il miglior modo per farmi andare nel panico è dirmi di non farlo. Adesso so che la cosa è perfino più grave di quanto avessi pensato. "Anis, dove sei?"

"Sto venendo lì," mi dice.

"Anis, cosa-"

Riattacca prima che io possa chiedergli niente.
Chiudo il telefono e lo getto sul letto con uno scatto nervoso. Non so cos'altro fare se non sfogare la rabbia contro gli oggetti inanimati. Vorrei chiamare Tom ma so già quello che mi direbbe, abbiamo avuto questa discussione così tante volte prima di stasera che potrei non aver bisogno della sua persona dall'altra parte del telefono per ripeterla tutta, parola per parola.

A Tom Bushido piaceva.

Anzi, forse piaceva più a lui che a me. Lo adorava, letteralmente.
A chiederlo a lui, Bushido era l'uomo perfetto, un modello di vita, da imitare sotto ogni punto di vista: la musica, lo stile, le fighe. Dalla bocca di mio fratello non uscivano che parole di amore assoluto per quell'uomo.

Il giorno che gli dissi che, oltre a cantare il suo passato nel ghetto e il suo presente nell'oro, aveva trovato anche il tempo di infilarsi nel mio letto Tom dette di matto. Non avevo pensato che la prendesse bene ma non mi aspettavo nanche una reazione del genere.

Non avevo mai visto nessuno riunire insieme tutti i cd del suo cantante preferito e saltarci davvero sopra per spregio fino a distruggere tutto ciò che fino a quel momento aveva venerato come un Dio.

Il mio tentativo di fermarlo fu del tutto inutile.
In quindici minuti mio fratello riuscì a dedicarmi una quantità di offese tale che avrebbe fatto impallidire perfino Anis. Mi accusò di qualunque cosa, in particolar modo di essere un maledetto frocio.

Disse proprio così: un maledetto frocio.
Esattamente come lo avrebbe detto un rapper serio; non uno come Bushido, evidentemente, che con quelli come me ci si trastullava.

In realtà non mi arrabbiai, capivo Tom come lo avevo sempre capito e non potevo davvero offendermi. Mio fratello si era sentito tradito: da me, che gli avevo confessato di essere omosessuale andando a letto con il suo idolo e da Bushido, il suo idolo, che si era portato a letto suo fratello. Era una situazione così surreale che non c'è da sorprendersi se non trovò la forza di tenere a freno le parole.

Quando finalmente venne a patti con quello che gli avevo detto, rendendosi conto che ero sempre io e che niente era davvero cambiato, allora gli rimase solo un sacco di rabbia che doveva pur sfogarsi da qualche parte e l'obbiettivo naturale finì per essere Bushido.

Cominciò a dirmi che uno così non andava bene per me e che se dovevo stare con un ragazzo allora doveva essere uno che mi volesse bene e che non mi sfoggiasse in giro come un trofeo; si attaccò al fatto che Anis continuava ad entrare ed uscire di prigione, che non mi avrebbe portato niente di buono, che non mi meritava.

Feci l'errore più grosso, convincendolo a parlare con lui: vennero quasi alle mani e Tom si rifiutò di sentire qualsiasi ragione. Da quel momento non ne vuole sentire parlare. Posso chiedergli qualunque cosa ma non vuole avere niente a che fare con la merda che devo affrontare per colpa di Bushido. Dice che me l'aveva detto, e l'unico consiglio che mi dà è quello di mollarlo.

Ho sperato che si ricredesse ma non è successo e ora che sono passati sei mesi e Bushido nel mi letto ci ha fatto il nido, non mi aspetto più di far capire a Tom come stanno le cose. Mi prendo quella parte di lui che ancora mi vuole bene e lui si accontenta di ciò che può sopportare di me. Il resto facciamo finta che non esista.
 
Lo sento bussare alla porta. Un colpo breve, uno lungo e uno breve di nuovo: lo abbiamo stabilito qualche settimana fa. A me è sembrata una stronzata ma lui ha insistito, ha detto che dovevamo avere un segnale per le emergenze. Quando gli ho chiesto a quali emergenze si riferisse non ha risposto e abbiamo finito per fare sesso.

Per Anis il sesso è la soluzione a tutte le risposte che non sa o non può darmi.
E' così importante per lui realizzare tutti i miei desideri che quando non può farlo, s'incazza e cerca di fare ammenda nell'unico modo che conosce. A volte il suo corpo dentro di me è più che sufficiente, a volte invece vorrei che mi parlasse.

Che se devo lavare a secco i miei pantaloni per togliere il sangue, vorrei almeno sapere il perché.

Quando apro la porta lo trovo appoggiato allo stipite, che mi sorride. "Hey Principessa," esala. Cerca di fare l'uomo del ghetto ma è a pezzi. Mi si accascia addosso un attimo dopo e sono costretto a fare un passo indietro per sostenerlo.

"Anis!" Esclamo, quando sento il freddo della pistola contro un fianco.

"Tranquillo, sono intero," mi risponde. "Chiudi la porta, svelto."

Cerca di tirarsi su e barcolla verso il letto mentre obbedisco e sprango la porta del mio appartamento. Lui si siede, ha gli occhi pesanti.

"Che diavolo è successo?"

"Niente."

"Niente un cazzo," ribatto perché sono infuriato e perché ha la maglia piena di sangue e non so se sia il suo. "Guarda come sei ridotto!"

Mi avvicino e mi afferra per la nuca, attirandomi a sè. Mi bacia e sento il sapore del ferro nella sua bocca. "Calmati, va tutto bene," mi dice.

Appoggio la fronte alla sua ed espiro, i miei nervi si distendono sotto le sue carezze ruvide. "Perchè deve sempre andare così?" Mugolo, chiudendo gli occhi.

"Piccolo, lo sai il perchè."

E' il suo mondo. E Tom ha ragione su questo: il suo mondo fa schifo.
Finché lo canti va bene, quando ci entri dentro è tutto una merda.
La crew non è la tua band, è la tua famiglia. Non la lasci e non la perdi mai, e viene prima di tutto: soldi, fama, donne. Amore.

Io so che Anis mi ama.

A modo suo, certo, ma lo fa.
Da lui non posso aspettarmi fiori e cioccolatini, non posso aspettarmi che mi tratti bene, che passi con me il natale o che si faccia in quattro per piacere a mia madre. A lui di mia madre non frega niente e non vuole portarmi a cena, al cinema o a passeggiare nel parco.

Lui vuole che io sia suo.

Che a differenza di tutte le puttane che si è fatto prima di incontrare me, significa che mi ama. Io ho il mio spazio nella crew, nessuno può toccarmi, nessuno può dire niente.
Questo è l'amore del ghetto: sono la ragazza del capo.

"Sei ferito?" Gli chiedo.

"E' solo un graffio," risponde, con una smorfia, strappandomi dalle mani il braccio che gli ho sollevato per controllare meglio.

Il suo graffio è lungo almeno dieci centimetri ed è abbastanza profondo perché ci vogliano dei punti che io non posso dargli. "Vado a prendere la cassetta del pronto soccorso."

"Aspetta," mi afferra per il braccio e mi bacia di nuovo.
Lascia scorrere la mano lungo il fianco e lo stringe con una disperazione che non gli ho mai visto addosso e che mi fa paura. Quando mi allontano mi sembra che tutto questo significhi molto di più

A curare le ferite ho imparato con Tom che ha passato l'infanzia a saltare ovunque, sbucciandosi le ginocchia. Le coltellate non sono esattamente la stessa cosa ma con Anis ho imparato ad occuparmi anche di quelle. "Chi erano stavolta?" Chiedo, mentre gli pulisco la ferita sul bicipite.

"Non hai bisogno di-"

"Dmmelo e basta. Mi pare un po' tardi per parlare del tempo, no?"

"Sono stati gli uomini di Fler," cede lui alla fine. O forse pensava di dirmelo fin dall'inizio, queste cose le programma sempre. "C'è stata una rissa, con i coltelli."

 "Perché hai in mano la Heckler, allora?"

"Bill lo sai come vanno queste cose, maledizione!" Sbotta e allontana il braccio, lasciandomi con la mano a mezz'aria mentre reggo il batuffolo di cotone. "Prima ci sono gli insulti, poi i coltelli. Alla fine qualcuno tira fuori la pistola e-"

"E qualcun altro muore!" Replico io. "Non ve le siete tirate abbastanza tu e Fler?"

Guarda altrove, come un bambino che è stato appena sgridato. "Tu non puoi capire, bimbo," butta lì, con la voce bassa da gangster che alle volte mi fa ridere e certe volte, come questa, mi fa venire voglia di picchiarlo.

"Spiegamelo, allora."

Quando faccio così, so che gli dò fastidio; rientra tutto nell'immagine che dovrebbe avere, che si era costruito prima del mio arrivo e che piano piano è andata frantumandosi per colpa mia fino a ridursi soltanto ad un pallido riflesso.

Un rapper dev'essere brutto, sporco e cattivo.
Deve spendere soldi e spandere merda. Prendersela col sistema ed essere politicamente scorretto con tutto e con tutti.

Ma soprattutto: un rapper non si innamora di un uomo.

Per una cosa del genere non c'è giustificazione.
La tua crew è autorizzata non solo a disconoscerti ma a dartele di santa ragione. E' quello che hanno fatto all'inizio, finché Anis non ha mostrato i denti e ha deciso lui per tutti che io stavo dove diceva lui.

E' a questo che Fler si è attaccato.
Ha cominciato a ridicolizzarlo, a mettere in chiaro i punti sconnessi tra la vita del rapper e la vita di Anis. E' difficile mantenere la credibilità, è difficile chiedere ai tuoi uomini di sopportare gli insulti, solo perchè ti piace avere un maschietto nel letto.

Per questo Anis non vuole che io metta bocca nelle sue questioni: è' l'unico modo che ha per mantenere in piedi la maschera del rapper; ha combattuto per me, e quello che mi si chiede è di non immischiarmi nei nessi logici del ghetto. Se lo faccio, si innervosisce.

E di solito obbedisco e seguo le istruzioni, godendomi i miei privilegi.
Godendomi lui, oltre ogni previsione. A me va bene tutto, anche fare la bambolina al suo fianco, ma se devo aprirgli la porta alle due di notte e ricucirgli un braccio, vorrei che mi mettesse al corrente degli eventi che mi hanno portato a farlo.

Anche la donna del capo ha i suoi limiti.

"Anis," chiedo ancora.

"Non sono cose che ti riguardano," replica di scatto. Poi alza gli occhi nocciola su di me e sospira, accarezzandomi la testa. "E' un fottuto casino, Bill, non voglio che tu ci vada di mezzo."

"Il mio copriletto lo ha già fatto," indico sorridendo il letto su cui è seduto e sul quale è colato del sangue. "Quindi perché non io?"

"Perchè non è uno scherzo," replica lui, senza che l'atmosfera si sia alleggerita. "Ci sono quattro dei suoi là fuori che mi stanno cercando e non so neanche se mi hanno seguito. Ho fatto male anche solo a chiamarti."

"Resta qui," dico deciso. "Domattina, ti fai venire a prendere dalla sicurezza della Universal. Una volta a casa non ci saranno problemi."

"Vuoi che mi prendano per un vigliacco?"

Espiro seccamente. Vorrei dirgli che non saprei che farmene del suo coraggio da sano maschio etero quando mi chiamerebbero all'obitorio per riconoscerlo ma mi trattengo perché litigare sarebbe una perdita di tempo. "Allora chiamiamo la polizia!"

Non mi risponde neanche.
Si avvicina alla finestra e scruta la strada dalle mie veneziane. "Merda!"

"Che succede?" Faccio per raggiungerlo.

"Stai lontano dalla finestra!" Mi ordina secco, voltandosi per un solo istante. Poi la sua voce si addolcisce. "E' pericoloso. Voglio che stai dall'altra parte della stanza."

Obbedisco e arretro, fermandomi solo quando ho il muro alle spalle, lo osservo mentre torna a voltarsi verso la strada. Stringe la presa sulla pistola, e vedo che è nervoso. "Sono qui?"

Annuisce.

In quel momento la mia percezione della situazione cambia. Ho sempre sentito parlare di crew e di faide, di patti d'onore e di vendetta; ma tutto è sempre stato molto lontano, a dire la verità. Perfino quando ho visto la Heckler per la prima volta, non mi è sembrata nient'altro che un giocattolo, con Anis ci ridevamo anche mentre cercavo di tenerla in mano e sembrava così assurdamente fuori posto tra le mie dita magre.

Le ferite mi preoccupavano, ma Anis era ancora in piedi, accanto a me.
E quindi niente poteva essere andato veramente male. Fler era un uomo ombra, troppo lontano per farmi del male.

Ora però sono sotto casa mia, Anis è alla finestra e mi ha appena urlato di stare lontano.
La mia testa non mi permette di credere che possa davvero succedere qualcosa di serio; sono i miei occhi a farlo.

Faccio due passi avanti e ripeto ad Anis che dovremmo chiamare la polizia, lui si gira per una frazione di secondo. E' soltanto un attimo e io non capisco esattamente cosa succede.



.....Denn eine Kugel reicht



Il frantumarsi del vetro non si sente, è una questione di colori.

Vedo la sua maglietta farsi rossa e il pavimento scuro riempirsi di mille frammenti di vetro trasparente. E' un fermo-immagine più colorato di quanto mi aspettassi. Il rosso del sangue non disegna nessun arco, ma colora la stoffa e poi mi accorgo che è spruzzato anche a terra. In tutto questo Anis è ancora in piedi.

Abbassiamo entrambi lo sguardo.
Il foro è lì dove prima non c'era; mi ritrovo a pensare che è immensamente piccolo.
Non so cosa mi aspettassi.

Quando lo guardo, nei suoi occhi c'è qualcosa che mi rifiuto di leggere.
"Bill," mi dice e io sto già scuotendo la testa e lui mi stringe i polsi.
Non so con che forza, ma lo fa.

Non faccio in tempo a sentirlo davvero che sento un secondo sibilo e lui si accascia su di me con un gemito strozzato e sono troppo occupato a tenerlo in piedi per rendermi conto che il sangue che mi scende sulla coscia e il mio.

Lo trascino a fatica sul letto mentre fuori il mondo sembra essersi svegliato tutto insieme.
Sento le sirene della polizia e le grida, c'è sicuramente qualcuno che corre; ma sono dettagli che non colgo al momento. Tutto ciò che vedo è Anis che socchiude gli occhi.
Non voglio gridare.

Gattono sul letto e lo raggiungo. Lo tocco freneticamente, come se volessi assicurarmi che è ancora lì. Ho bisogno di sentire la sua pelle ruvida. "Va tutto bene," mormora, mentre gli accarezzo il viso. "E' solo un graffio."

"Dobbiamo chiamare un'ambulanza," singhiozzo.
E il rumore che emetto mi spaventa, perché non mi ero accorto di piangere.

"Shh..." mi tira verso di lui e mi bacia piano sulle labbra. Sto piangendo così tanto che quasi mi soffoco. Mi sembra che i miei capelli siano ovunque, come il suo sangue. "Non piangere. E' tutto a posto."

So che dovrei chiamare un'ambulanza, ma lui mi tiene stretto a sè e non voglio allontanarmi dal suo calore. "Tuo fratello sarà contento," sorride. "Mi sono tolto dalle palle."

"Non dire così!" Strido. Cerco di liberarmi. "Devo chiamare un'ambulanza."

Lui mi trattiene giù, mi tira per i capelli gentilmente, come fa di solito, e mi guarda. Non ha bisogno di dirmelo, lo vedo dai suoi occhi. "Anis, no..."

"Se dipendesse da me, ti assicuro che starei qui," si sforza di sorridere. "La compagnia è senz'altro migliore.

Dio, Dio, Dio... cosa devo fare? Tutto questo sangue.
Penso stupidamente che adesso il disinfettante non mi basta più.

E mentre non so cosa fare, lui decide per entrambi.
Come sempre.

Chiude gli occhi e questa volta non li riapre.
Il suo respiro si ferma sulla mia bocca.

Tutto quello che segue lo faccio senza rendermene conto.
Mi dico che se Anis fosse qui saprebbe senz'altro cosa fare in questi casi.
Poi mi viene in mente che lui è qui, ma che non gli posso più chiedere niente.

Non riesco a pensare a nient'altro.

Su quel letto di solito ci scopavamo e adesso non è che il feretro del suo corpo.
L'uomo che amo è disteso là sopra in malo modo, con le braccia e le gambe che pendono fuori come se vi si fosse buttato sopra a casaccio. Sembra che dorma, o che finga di dormire, e aspetti me come fa sempre. Solo che c'è un lago di sangue che gocciola sul parquet e l'unica cosa che riesco a fare è contare le gocce, una dopo l'altra.

Aspetto l'ambulanza che se lo porti via, che me lo porti via.

Forse devo chiamare Tom.
Mi gira la testa e mi raggomitolo sul letto accanto a lui.
Spero che mio fratello non urli: Anis odia essere svegliato in malo modo.

Spero solo questo. Che Tom non gridi.

Il resto è quel che rimane del calore di Anis contro il mio corpo e io che ci piango sopra, come un bambino.

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Nie Wieder

di lisachan
Sulla pista oggi il vento è così forte che devo camminare per forza un po’ inclinato in avanti, mentre mi muovo verso la scala per salire sull’aereo. Intorno a me la gente si muove frenetica trascinando borsoni e sacchetti di plastica, sorridono quasi tutti. Partire per Miami, d’altronde, è una cosa che in genere rende allegri. È un bel posto per una vacanza ed è un bel posto anche per gli incontri lavorativi, come dimostrano i numerosi uomini d’affari che si ritagliano un po’ di spazio fra una famiglia e l’altra, avvolti nei loro completi gessati e in compagnia delle loro onnipresenti ventiquattrore. Io forse avrei potuto essere una persona così, una persona che va in giro in gessato e ventiquattrore. Forse potrei esserlo anche adesso, il mio mestiere non me lo vieterebbe, e forse è proprio perché non voglio che invece mi ostino ad andare in giro in jeans, maglietta e giacca di pelle, quando le circostanze non mi obbligano all’abito formale – ed anche lì, in genere, riesco comunque a piegarle al mio volere, le circostanze.
In sostanza sembro un pesce fuor d’acqua in mezzo a tutta questa gente che si muove inequivocabilmente o per turismo o per lavoro. Io perché mi muovo? A guardarmi non lo si saprebbe dire, ho con me solo uno zaino. Se mi guardassi da fuori, non saprei indovinarlo, il perché della mia partenza. In realtà ho difficoltà a capirlo anche guardandomi da dentro. Questo è un po’ un problema, ma penso me ne occuperò a tempo debito – cioè quando sarò già arrivato, perché trovare una risposta a questo perché potrebbe essere sufficiente a costringermi a rimanere qui, e nonostante tutto non voglio farlo. Anche se non so perché sto partendo, voglio partire lo stesso.
Oggi è il ventotto settembre. Quando, stamattina, ho chiamato Tom, per assicurarmi che fosse tutto a posto, attraverso la cornetta e sotto la voce agitata del mio stupido chitarrista preoccupato ho sentito il flusso persistente delle lacrime di Bill venare l’aria in un lamento continuo e regolare, ed ho sospirato.
Io penso che Bushido sia entrato dentro Bill fino ad impossessarsi di ogni singola cellula del suo corpo. Ci sono molti modi di sentire la mancanza di una persona e tutti coloro che hanno vissuto al fianco di quell’uomo – l’avessero fatto per mesi, per anni o per pochi giorni – adesso sentono il vuoto causato dalla sua assenza in modi molto diversi. Ognuno ha il proprio ed ogni modo è intimo e personale, ma nessuno – nessuno – si sente mancare un pezzo di sé come sta succedendo adesso a Bill. Bill, che era una persona della quale si poteva dire tutto meno che fosse incompleta – perché lo vedevi da come andava in giro, da come sorrideva, da come gli brillavano gli occhi, che non gli mancava niente – Bill adesso è una cosa spezzata in due e non riesce a recuperare il pezzo di sé che ha perso. Non oso immaginare cosa dev’essere stato per Tom scoprire che l’altra metà di suo fratello non era più lui, ma so che sono fiero di lui per come si sta comportando adesso, soprattutto perché con Bushido lui non era mai veramente venuto a patti e Bill non l’ha mai neanche aiutato ad avvicinarglisi, quindi è molto bello da parte sua, adesso, mettere da parte il proprio risentimento per stringersi attorno a suo fratello mentre lui piange e strepita come Bushido fosse morto ieri, solo perché oggi è il suo compleanno e non possono più festeggiarlo insieme.
Bushido, naturalmente, non è morto, e questo dovreste già saperlo. Solo che oggi, ventotto settembre duemilaotto, lo so solo io. E lui, dall’altro lato dell’oceano. Anche se non sono proprio sicuro che, nonostante sia sopravvissuto, al momento sia propenso a credersi vivo. Ci sono molti modi anche di morire, in fondo; non mi sembra di mentire, quando ripeto a me stesso che meno di tre mesi fa noi quell’uomo l’abbiamo seppellito per sempre. Quello che c’è adesso in quell’appartamento a Miami non è Bushido e non è nemmeno Anis Mohamed Youssef Ferchichi, e non è il King of Kingz e non è niente di quello che Bushido è stato quando era ancora se stesso ed era qui. Quindi sì, Bushido è morto. Pensarla in questi termini non è sbagliato.
Solo che è morto un nome. Un nome significa tanto, ma non tutto. C’è ancora un corpo, c’è ancora un uomo, quell’uomo è vivo e non riesce ad esserlo.
Questo è probabilmente il motivo per cui sto partendo, dopotutto.
Un bambino sfugge al controllo della madre e si mette a girare in tondo per la pista, facendo lo slalom fra i viaggiatori che un po’ ridono e un po’ sono infastiditi dal suo muoversi così frenetico. Io sbuffo un mezzo sorriso e resto appena il tempo di osservare il bimbo inciampare sui propri stessi piedini incerti e cadere per terra con un tonfo, subito seguito da uno scoppio di pianto accorato e lamentoso che mi ricorda moltissimo il pianto di Bill, motivo per cui distolgo lo sguardo e smetto di restare lì in attesa del niente: stringo una mano con forza attorno alla cinghia dello zaino e risalgo la scala, andando alla ricerca del mio posto. Quando lo trovo, mi siedo ed allaccio la cintura. Sistemo lo schienale del sedile perché sia ben dritto ed infilo lo zaino sotto il sedile di fronte al mio. Poi mi rilasso. Chiudo gli occhi. E non resto sveglio abbastanza da sentire la hostess spiegarmi come dovrò salvarmi la vita in caso di pericolo.
*
Bushido non sa che sono qui e probabilmente neanche se lo aspetta. Quando l’ho sentito l’ultima volta, ieri sera, non sembrava essere abbastanza presente a se stesso da aspettarsi alcunché, d’altronde. Di certo non poteva aspettarsi che avessi già il biglietto in mano mentre lo ascoltavo biascicare qualcosa sulla birra americana che sembra piscio, scuotendo il capo mentre si fracassava il ginocchio contro un mobile non meglio identificato e cominciava poi a mugolare di dolore accasciandosi a terra. Ora – che è più o meno lo stesso orario del giorno dopo – mi auguro solo di non ritrovarlo nello stesso posto in cui l’ho immaginato mentre parlavamo al telefono ieri, ed è con un sospiro sfiduciato che mi infilo in un taxi e ripeto a memoria l’indirizzo al conducente, recuperando poi il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans e componendo il numero di Tom.
Lui non risponde subito, e quando lo fa il suo tono di voce è soffice e un po’ assonnato.
- David…? – mugola, - Che ore sono…?
Io sorrido appena.
- Un ottimo orario per fare la nanna, in realtà. – lo prendo in giro, - Un po’ presto per i tuoi standard, ma potrebbe diventare un’ottima abitudine.
- Sei un cretino. – borbotta lui in un mezzo sussurro, - Bill dorme. – dice poi, senza attendere che sia io a chiederglielo, - È rimasto qui a parlare piangendo per ore, e poi s’è addormentato. Dovresti vederlo. È sfatto.
Serro la mascella, annuendo meccanicamente, anche se lui non può vedermi.
- Lo immagino. Lo tieni da te, stanotte?
- Ovvio. Che pretendi, che lo riporti a casa sua? – poi sospira e lo sento allungarsi sul materasso, stendendo un braccio. Bill mugola mentre lui lo stringe, ma sento nella cornetta il suo respiro tranquillo e regolare e so che non s’è svegliato, perciò sorrido. – Non ha fatto che parlare di lui. – continua Tom, la voce bassa venata di tristezza. – Non sono riuscito a farlo parlare d’altro.
- È ancora presto… - gli spiego, sospirando appena, - Starà meglio. Fra un po’.
- No, io non credo, David. – dice lui, e ne è talmente sicuro che non trovo la forza di rispondergli che è convinto così solo perché è piccolo e perché, come suo fratello, in questo momento è convinto che, morto Bushido, sia morto anche tutto il resto. Bill e Tom non sono mai stati tanto distanti l’uno dall’altro come lo sono adesso. Al contempo, però, non sono nemmeno mai stati tanto vicini. – Io non credo. – ripete più nervosamente. – Non so cosa fare con lui.
- Devi solo stargli vicino, Tom. – cerco di rassicurarlo, - Solo questo. Andrà meglio.
- Mi sono rotto di sentirtelo ripetere. – singhiozza lui, ed io mi rendo conto che questo ragazzino, perché di ragazzino si tratta, ha ascoltato per tutto il giorno il pianto disperato della persona cui tiene di più al mondo, e non ha potuto versare con lui neanche una lacrima. Perché quando Bill si dispera tu devi restare lucido, perché a Bill viene facile lasciarsi ricadere così profondamente nella propria tristezza da non essere più in grado di tirarsene fuori. E quindi serve qualcuno che resti lì pronto ad afferrarlo saldamente quando cade. Tom oggi non ha versato una lacrima. Tom piange adesso, al telefono con me. – Perché cazzo è dovuto succedere? – si lamenta, - Riportalo indietro. – ed io ho i brividi, perché Tom non sa che potrei farlo davvero, quello che mi chiede. Potrei e al contempo non posso.
- Tom… - lo chiamo a mezza voce, ma lui mi interrompe tirando su col naso.
- Scusami. – dice, asciugandosi le lacrime, - Ora passa. A me passa.
- Mi dispiace. – sospiro io, muovendomi a disagio sul sedile, - Appena torno a casa-
- Sei in viaggio? – cambia subito argomento lui, e nella sua voce non c’è quasi più traccia di pianto, - Dove vai?
- Affari. – rispondo io, vago, - Non preoccupartene. Cerca di badare ad una cosa per volta. – sorrido un po’.
- Sì. – annuisce lui. Non perde neanche tempo a domandare oltre, sa che se avessi voluto dirgli qualcosa l’avrei semplicemente fatto. Ed ha comunque altro cui pensare, al momento. – Allora ci sentiamo.
Annuisco e lo saluto a bassa voce, ascoltando la chiamata interrompersi ed il segnale della linea caduta sostituirsi alla voce impastata di Tom, mentre i freni del taxi stridono sotto di me e l’automobile si ferma di fronte al palazzo di Bushido. La strada è illuminata e piena di gente. Il tassista si volta e dice “arrivati, io pago e scendo dalla macchina senza dire una parola, guardandomi distrattamente intorno per recuperare la memoria fisica dell’ultima volta che sono stato qui e lasciare che siano i miei piedi a guidarmi verso il palazzo giusto, la scala giusta, la porta giusta. Apro con le chiavi, tengo il doppione nel mazzo che uso comunemente in Germania anche per quelle di casa mia.
L’appartamento è buio e, se non sapessi che per forza Bushido deve trovarsi qui, lo penserei disabitato. Le finestre sono tutte chiuse, peraltro, con le serrande abbassate, l’aria è pesante e densa e non si sente volare una mosca. Mi chiudo la porta alle spalle con delicatezza, ed evito di accendere la luce, muovendomi all’interno della casa con un po’ di difficoltà, finché non mi abituo all’oscurità.
Bushido sta dormendo sul divano. O almeno suppongo stia dormendo: non lo sento respirare, mi auguro che non sia morto davvero proprio quando io ho deciso di alzare il culo per venire a trovarlo.
Mi siedo sul bracciolo del divano ed inspiro profondamente.
- Tarek. – chiamo ad alta voce.
Lui non si sveglia.
Io sospiro ancora.
- Anis. – sussurro più dolcemente. E il suo respiro cambia ritmo. S’è svegliato.
Lo sento muoversi sul divano, la pelle crocchia sotto di lui, e poi lo osservo sbadigliare e stendere le braccia per stiracchiarsi, mettendosi seduto. Resta in perfetto silenzio finché non ha chiaro a grandi linee chi sia, dove si trovi, chi sono io e perché sono qui.
- David. – mi chiama quindi, - Andato bene il viaggio? – e la sua voce è ancora impastata di sonno ed alcool. Muovo un piede e si rovesciano per terra due o tre bottiglie di birra. Io sospiro, Bushido ride. – Spero non fossero ancora piene. – commenta. Io evito di rispondere che ho i miei dubbi al riguardo.
- Dormivi già? – chiedo, - È presto.
Lui scrolla le spalle.
- Avevo sonno. – risponde. Non “ero triste”, non “è meglio se dormo perché altrimenti mi ubriaco fino a vomitare l’anima”, nemmeno “mi annoiavo e non c’era nulla da fare”, che sarebbe sì una bugia ma comunque meno sfacciata di quella che ha detto. “Avevo sonno”, dice lui.
- E quando hai sonno non ti viene mai in mente di andare almeno a letto? – lo rimprovero, - Ti fotterai la schiena, continuando a dormire qua sopra.
Lui scrolla ancora le spalle. Giustamente, non gliene frega un accidenti di quello che succederà alla sua schiena da questo momento in poi.
Io, ancora appollaiato sul bracciolo, resto in silenzio qualche secondo in più, prima di parlare ancora.
- Ti ho portato un regalo. – affermo, recuperando lo zainetto e sistemandomelo in grembo mentre lo apro e comincio a rovistare all’interno. – Tanti auguri, a proposito.
Lui lascia andare un ghigno e sbuffa.
- Non ho voglia di festeggiare i trent’anni. – risponde, - Sto diventando vecchio.
- Ah, grazie mille. – ringhio io, tirandogli addosso il pacchetto avvolto nella carta argentata e lucida, - Ora chiudi la bocca e aprilo.
Lui frena la caduta del pacco lungo il suo petto, con una mano sola, e poi lo solleva all’interno del viso, guardandolo attentamente, come potesse sbirciare oltre la carta per scoprire di cosa si tratti.
- Cos’è? – chiede, rigirandoselo con cura fra le mani.
- Dio, ma aprirlo e basta no? – borbotto scivolando giù dal bracciolo sul cuscino accanto a lui.
Lui segue il consiglio, fortunatamente. Prende il pacchetto con entrambe le mani e lo scarta con una lentezza esasperante, stando bene attento a non strappare la carta né l’adesivo dorato che la teneva sigillata. Mi viene quasi voglia di rubarglielo di mano ed aprirlo io, il più in fretta possibile. Bushido è un uomo che le attese e i silenzi sa manipolarli bene. Io, in questo momento, non dovrei stare praticamente saltando sul divano, frustrato dall’aspettativa di vedere come reagirà a ritrovarsi il regalo sotto gli occhi, quando l’avrà aperto. Eppure lo sto facendo.
Quando il CD viene fuori dalla carta, Bushido lo guarda a lungo in silenzio, prima di voltarsi e sollevarlo a mezz’aria, guardandomi da sotto le sopracciglia inarcate. Non dice niente, me lo mostra e basta, e non capisco cosa mi stiano chiedendo i suoi occhi.
- Be’? – chiedo alla fine, - Il packaging è come lo volevi?
- Potevate usare la foto della sega elettrica. – borbotta lui, tornando a rimirare la custodia da ogni lato, - Mi piaceva di più, lo sapevi anche. E poi in questa sembro una specie di meccanico appena uscito da sotto una macchina.
- E questo ha mandato in delirio la Germania intera, se t’interessa saperlo. – comincio con entusiasmo, - Non hai nemmeno idea della quantità di ragazzine che… - ma mi fermo, quando capisco, dalla sua espressione, che no, non ha idea della quantità di ragazzine che, e soprattutto non gli interessa. – Comunque abbiamo usato anche quella. Quella della sega elettrica, dico. Lo so che ti piaceva di più.
Lui annuisce distrattamente.
- Come stanno andando le vendite? – chiede. Non che gliene freghi qualcosa. Comunque è già tanto averlo trovato in stato semicosciente e non semicomatoso, immagino, perciò se vuole fare un po’ di conversazione io di certo non gliela negherò.
- Ovviamente benissimo. – rispondo con un sospiro, - La Germania ti idolatra, Bushido. Sei diventato una specie di santo.
- E non sono nemmeno dovuto morire sul serio… - commenta con un ghigno fra l’ironico e l’incattivito, - L’Ersguterjunge?
Scrollo le spalle.
- Non si può pretendere si rimettano già al lavoro. È stato abbastanza faticoso costringere la Universal a fare pressione su Saad perché si decidesse a finire di produrti l’album e metterlo in commercio. Non erano mica d’accordo. Chakuza ha tirato su il bordello.
Lui sbuffa una mezza risata, rilassandosi contro lo schienale del divano.
- È ancora arrabbiato, Chaky? – chiede, gli occhi socchiusi e la testa reclinata all’indietro. Mi chiedo se non abbia intenzione di riaddormentarsi qui ed ora. E questo mi ricorda Bill durante tutto il suo primo mese di lutto, dopo la sua morte. Non faceva che dormire. Si svegliava, piangeva fino a sfinirsi e poi dormiva ancora. Tom mi ha detto che pensava fosse l’unico modo in cui suo fratello riuscisse a far trascorrere le giornate. Se non si fosse esaurito e poi addormentato, quelle non sarebbero mai passate. Credo che per Bushido sia più o meno la stessa cosa, adesso.
- È scosso. Come tutti. – sospiro. A Bill non accenno. – La settimana prossima saremo a TRL. Hanno organizzato con l’occasione del tuo compleanno, ma sono riuscito almeno a farla spostare di modo che non cadesse proprio oggi. Non sarebbe stato il caso.
Bushido annuisce lentamente.
- Suppongo di no. – concorda, stendendosi appena sul divano. Il CD è poggiato sul cuscino accanto a lui, e lui nemmeno lo tocca più. – Queste cose potevi anche dirmele per telefono, comunque. – ride poi, - Non c’era bisogno del viaggio transoceanico.
- Dico, uno si prodiga tanto… - borbotto, rimettendomi in piedi e tirando su i jeans che, nel mentre, minacciano di rovinare a terra. Poi gli tendo una mano. – Coraggio, in piedi.
Lui schiude gli occhi e mi guarda come fossi un alieno.
- Eh? – chiede, sollevando il capo dal divano.
- In piedi, ho detto. – ripeto, scandendo bene le parole perché siano chiare. – È il tuo fottuto compleanno. Per i miei trent’anni, sono andato in giro per bar fino alle sei del mattino. Non intendo riportarti a casa prima di allora.
Lui si irrigidisce, schiude le labbra e fa per dire qualcosa – so anche precisamente cosa: sta per dire “no”. E siccome i no di Bushido non sono semplici no, sono “no, non se ne parla, toglitelo dalla testa e se solo fai tanto di ostinarti ti faccio del male fisico”, gli impedisco di dirlo afferrando un cuscino proprio lì di fianco a lui e schiacciandoglielo contro il viso.
- Jo- - annaspa lui, agitando le mani mentre io premo contro la stoffa col palmo bene aperto, - Jost! – abbaia, e si libera della pressione scivolando sotto al cuscino e poi in piedi, - Avevi intenzione di ammazzarmi sul serio, Cristo santo?! – urla, a due centimetri dal mio viso.
- Be’, - lo affronto a muso duro, - sempre meglio farlo io che non osservarti mentre ti… ti consumi su questo divano, Bushido! Dico, ma ti sei guardato allo specchio, ultimamente?! Da quanto non ti radi? Da quanto non ti lavi, Dio mio, da quanto non mangi? – e lo spintono, rimettendolo a sedere sul divano e guardandolo dall’alto, i pugni piantati sui fianchi, piegandomi appena in avanti per fissarlo negli occhi. È così che rimprovero i piccoli, quando è necessario. È così che rimprovererò anche lui. – Sei magro, sfatto e inguardabile. Ti ho permesso di sopravvivere senza sputtanarti e sono intenzionato a costringerti a sopravvivere anche con dignità, se tu non senti il bisogno di farlo per te stesso. D’accordo? Quindi ora – lo afferro per le spalle e lo rimetto dritto. È dimagrito davvero. – alzati in piedi e muovi il culo, stronzo. Ti aspetto il tempo della doccia.
Lui mi fissa per un minuto buono con un paio di occhi da pesce lesso che mi fanno venire il nervoso. Sto giusto chiedendomi se non dovrei farlo cadere a terra con uno sgambetto e poi pestarlo con violenza fino a lasciare di lui solo un mucchietto d’ossa sanguinolente, quando lui prende e ride. Saranno mesi che non lo sento ridere così, Dio. Una bella risata piena, di quelle fatte con convinzione. Lo vedo gettare indietro il capo – i capelli arruffati che gli si scompongono appena sulla testa – e stendere il collo mentre chiude gli occhi e schiude le labbra, pressandosi una mano contro lo stomaco, la maglia bianca e larghissima che si arriccia in sbuffi attorno alle sue dita scure e bene aperte.
Imbarazzato, aggrotto le sopracciglia.
- E allora… - borbotto, spintonandolo contro una spalla. Lui ride ancora un po’, ed asciuga una lacrima dall’angolo di un occhio, scuotendo il capo.
- D’accordo, papà. – continua a ridere in singhiozzi minuscoli. Dico, che cretino. – Vado a rendermi guardabile, visto che me lo chiedi con tanta insistenza.
Quando esce dal bagno, in realtà, è molto più che guardabile. Faccio fatica a non distogliere lo sguardo perché – davvero – sarebbe ridicolo abbassare gli occhi adesso, ma è dura. È dura perché lui è seminudo, ancora un po’ umido di doccia, sbarbato e coi capelli scompigliati sulla testa. Stanno crescendo, e il fatto siano ancora pesanti d’acqua li porta ad appiccicarglisi sulla fronte. Lui li scosta con un gesto lento e distratto, sistemando meglio l’asciugamano attorno ai fianchi e piazzandosi davanti allo specchio del salotto – le gambe semidivaricate e il bacino lievemente sporto in avanti – per riavviarli con più cura sulle tempie e sulla nuca.
- Stanno allungando. – mi fa notare, guardando la propria immagine riflessa, - Non ho pensato di tagliarli.
- Non ti stanno male. – rispondo io con una scrollata di spalle, decidendomi finalmente a smettere di fissarlo.
- Vanno bene per Tarek. – continua lui, perso in chissà che cosa dentro la propria testa, - Magari li faccio allungare ancora.
- Potrebbe essere una buona idea. – annuisco io, fingendo interesse per la sua copertura qui, - Saresti ancora meno riconoscibile. – e ancora più bello, anche, ma è un pensiero che mi attraversa solo marginalmente, senza colpirmi in pieno. Ho imparato ad evitare cose simili, nei tre anni che hanno visto quest’uomo frequentare i miei ambienti più spesso di quanto già non facesse prima per cause lavorative.
Bushido non risponde alla mia ultima nota. Pianta le mani sui fianchi, sospira e si volta a guardarmi.
- Allora. – comincia quindi, - Dove mi porti?
Io inarco le sopracciglia.
- Nudo, da nessuna parte. – rispondo, accennando col capo all’asciugamano che è ancora l’unica cosa che lo copre, - Se ti vesti, andiamo a bere da qualche parte. E se fai il bravo magari ti compro anche una torta.
Lui sorride e non aggiunge altro, voltandomi le spalle ed infilandosi in camera da letto. Quando ne viene fuori, ha addosso una camicia bianca e un paio di jeans scuri. Infila le scarpe da tennis saltellando prima su un piede e poi sull’altro, quindi mi si para davanti a braccia larghe.
- Be’? – chiede, - Bello?
- Bushido, piantala. – ringhio io, tirandogli una spinta contro una spalla, - Ti preferivo depresso. – borbotto, muovendomi verso la porta.
- Balle. – ghigna lui, - E poi sciogliti un po’, Jost, è il nostro primo appuntamento, in fondo!
- Bushido, sei avvertito. – insisto, chiudendo la porta quando lui esce dietro di me, - Continua a fare il deficiente e prima ti ubriaco e poi ti lascio ad un angolo di strada.
Lui ride e solleva le mani all’altezza del viso, bene aperte, in segno di resa.
- Okay, okay, Jost. Hai vinto. Te lo concedo.
- Da quando… - mi lamento, girando le chiavi nella toppa, - Da quando le vittorie si concedono? Di solito le vittorie le vince chi le ha vinte.
Bushido ride ancora.
- Mi sono perso alla prima ripetizione del verbo vincere. – commenta, sistemandosi addosso la camicia mentre io cerco disperatamente di non guardarlo, - Comunque l’idea di andare in giro a bere mi piace. Anche se non saprei dove portarti. – e ride un po’, - Dovrei conoscerlo, questo posto, ormai. Sono tre mesi.
Mi volto a guardarlo con aria un po’ sconvolta.
- E non sei mai uscito di casa?
- Per la verità sì… - borbotta lui, scrollando le spalle, - Ma il minimarket è proprio qui sotto. Quindi, insomma, non è che abbia avuto veramente occasione di spingermi tanto in là nell’esplorazione del quartiere.
Io sospiro, passandomi una mano sulla fronte.
- Va bene, va bene… non mi va di litigare. – mi arrendo, sconfitto, - Adesso ti porto al Palms. O al Chico Loco. Magari se non vogliamo casino ci infiliamo al Tropical Paradise, conosco personalmente il proprietario e potrebbe trovarci un privè. O magari… - e continuo sulla stessa traccia per quelli che mi sembrano una decina di minuti, sciorinando un nome di locale alla moda dietro l’altro, al punto che al quindicesimo la cosa comincia a diventare disturbante perfino per me, ed è a quel punto che alzo lo sguardo su di lui e capisco che non è disturbante solo per me.
- Tu – dice Bushido, indicandomi con un dito, - sei veramente un esemplare perfetto di omosessuale in carriera. Io non ho parole.
Io cambio colore e lo sferzo con un’occhiataccia che spero lo uccida definitivamente, risolvendo in un colpo sia i miei che i suoi problemi. Bushido però non muore, la cosa non mi stupisce ed io smetto di arrabbiarmi. D’altronde, non è che possa dirgli “no, non sono un perfetto esemplare di omosessuale in carriera”. Sono un esemplare, sono un omosessuale, sono in carriera e sono indubbiamente perfetto, anche. Perciò pace.
- Diamoci una mossa. – dico quindi, - Se arriviamo tardi potremmo non trovare più privè. – e mi muovo verso l’ascensore. Bushido mi segue, e nello specchio dell’ascensore, quando le porte si aprono, scorgo l’ombra di una smorfia ad increspargli le labbra. – Qualcosa non va? – chiedo immediatamente.
- Niente di particolare. – scrolla le spalle lui, - Solo che pensavo che magari, invece di andarci a chiudere in un qualche locale alla moda pieno di fighetti ubriachi, potremmo andare in qualche pub meno frequentato. Una roba tranquilla, insomma. – lui osserva il mio sopracciglio sinistro inarcarsi in maniera convincentemente dubbiosa, e si affretta a precisare. – Mi diverto, Jost, promesso. Solo che non c’ho voglia di casini. Non mi va di vedere gente.
- Sono sconosciuti. – gli faccio notare. Non vedo che problema debba esserci ad avere a che fare con gente che non ti conosce, non vuole nemmeno conoscerti e probabilmente dimenticherà il tuo viso prima del sorgere del sole, il giorno dopo.
- Sono gente. – risponde semplicemente Bushido, e il suo tono di voce è netto e deciso. – Ora, visto che sai perfettamente che faccio già abbastanza fatica ad uscire di casa, al momento, - ed è raggelante la calma serafica con cui ne parla. Come fosse normale. Magari è convinto lo sia, - potresti almeno cedere se ti dico che non voglio vedere gente? Mi basti tu. Davvero.
Ed io cedo, che altro dovrei fare? D’altronde, Bushido è il mio datore di lavoro – e praticamente nient’altro – mi paga profumatamente per ciò che faccio ed io non dovrei prendermi certe libertà come cercare di salvarlo dalla depressione, quando è palese che l’ultima cosa che vuole è proprio essere salvato. Non mi paga per questo. Io dovrei ricordarmelo. Anche se probabilmente, proprio perché non è per questo che mi paga, questa è la cosa che dovrei fare con maggiore attenzione.
Alla fine non andiamo al Palms, non andiamo al Chico Loco e non posso neanche passare a salutare Micah al Tropical Paradise. Passeggiamo sul lungomare, invece, ed io osservo Bushido prendere lentamente coscienza del luogo in cui si trova. Quando mi ha detto che probabilmente Miami sarebbe stata la soluzione migliore per quella fuga assurda, io ho approvato per due motivi: primo, era abbastanza lontano da essere un luogo sufficientemente sicuro; secondo, era abbastanza bello da rappresentare una distrazione.
Il problema è che Bushido, in questi mesi, non s’è mai concesso di distrarsi. Lo sta facendo ora per la prima volta e si sta rendendo conto di aver vissuto in un paradiso senza mai lasciarsi la possibilità di esplorarlo. I suoi occhi si perdono seguendo la linea dell’orizzonte affogata nel mare, e la sua pelle si colora dei toni aranciati del tramonto che si sfuma in sera, e quando lo sento respirare a pieni polmoni respiro improvvisamente meglio anch’io. Perciò non mi lamento quando ci fermiamo in un localino proprio lì, sulla spiaggia, una specie di casotto di legno col tetto spiovente e un sacco di ghirlande di fiori che pendono dal soffitto decorando cocchi, manghi, papaye ed altri frutti di cui non conosco nemmeno il nome.
Il bancone gira tutto attorno al locale, io e Bushido prendiamo posto su due sgabelli e cominciamo a farci servire da bere. So che non dovrei permettergli di ingurgitare altro alcool dopo tutto quello che sicuramente ha mandato giù negli ultimi giorni, ma cazzo, è il suo compleanno. Non intendo impedirgli niente proprio oggi. Che beva pure. Tra l’altro, avere a che fare con lui ubriaco è comunque molto più semplice che avere a che fare con lui da lucido. Che poi è il motivo per cui lo stronzo cerca di ubriacarsi il meno possibile, quando è in compagnia. Gli piace rendere complicate le cose alla gente.
Oggi no, però. Evidentemente il divertimento che proverebbe nel rendermi difficile l’esistenza è surclassato in necessità dal bisogno che ha di stordirsi, perciò non ci pensa nemmeno a mantenersi lucido, e butta giù una birra dopo l’altra, chiedendo di tanto in tanto anche un cocktail o qualcosa di diverso per cambiare gradazione alcolica e stordirsi di più e più in fretta. Io bevo il minimo indispensabile, se non altro perché almeno uno dei due dovrà ricordarsi la strada di casa, quando questo strazio sarà finito.
Nel mentre lo ascolto parlare, e Bushido mi dice un sacco di cose, anche se nei fatti non mi sta dicendo praticamente niente. Lo so che Miami è un bel posto, Bushido, è assurdo che ancora non lo sapessi tu. Lo so che ti manca Berlino, Bushido, lo so. Lo so che ti manca tua madre. Sta bene tua madre, Bushido. Lo so che ti mancano i tuoi ragazzi, manchi tantissimo anche a loro. Lo so che qui fa troppo caldo per te, no, non ti ci potevo mandare in Antartide, Bushido. Lo so che non riesci a chiedermi di Bill. Sta male, Bushido. Sta un sacco male. Ma visto che non chiedi non rispondo. Per ora è meglio così.
Quando ci allontaniamo dal locale, molte ore più tardi, la luna è alta nel mezzo di un cielo nerissimo ed abbiamo speso un capitale in bibite. Bushido si regge a stento sulle gambe, tant’è che devo sostenerlo io, e meno male che è leggerissimo altrimenti ci accasceremmo entrambi per strada in un angolo e dovrebbero venirci a recuperare con un carro attrezzi prima di bloccare il traffico, domattina.
L’appartamento è sempre buio e incasinato, quando torniamo, e Bushido sta ancora blaterando roba, con la differenza che adesso lo sta facendo completamente steso contro di me, ad un centimetro dal mio orecchio, e mi sfiora piano il lobo con le labbra ogni volta che dice una parola.
- Sono stanco, - mi dice, - non mi piace stare qui. Posso tornare a casa?
- No, Bushido. – rispondo stendendolo sul proprio letto perfettamente rifatto e immacolato al punto che mi chiedo se ci abbia mai veramente dormito, - Non puoi, lo sai.
- Ma mi sento solo. – borbotta. Come fosse una giustificazione alle sue richieste assurde. Non lo è, Bushido, non ci sono giustificazioni per le tue richieste e non potrei lasciarti tornare anche se invece ce ne fossero. Mi dispiace. Dio sa che mi dispiace, cazzo. Ma non posso proprio.
Sfilo via le coperte da sotto il suo corpo e cerco di rimboccargliele sotto il mento, ma lui prima le scosta con una mano e poi, quando io insisto, si mette a scalciare come un moccioso.
- Va bene, va bene! – mi arrendo, - Dormi scoperto, come preferisci! Io vado di là. – affermo irritato, e faccio per mollarlo lì e trasferirmi sul divano, che ho sonno, il jet lag comincia a farsi sentire nonostante l’abitudine e domani a non-mi-ricordo-che-orario-devo-ricontrollare-la-carta-d’imbarco ho l’aereo per rientrare in Germania. Scemo io e fanculo ai viaggi transoceanici.
E invece niente, non mi allontano, non faccio nemmeno un centimetro, perché le dita della sua mano si chiudono come una tenaglia attorno al mio polso ed io quasi finisco steso sul letto accanto a lui. Riesco a tenermi in piedi per puro miracolo, e mi volto a guardarlo con un sopracciglio inarcato in segno di muta richiesta.
- Resti? – mi chiede a mezza voce. Ha gli occhi chiusi. Credo non voglia vedermi. Credo non voglia vedere niente.
- Sto già restando. – gli faccio notare, senza neanche provare a forzare la sua stretta, - Sono qui a due metri, se hai bisogno.
- Resta qui. – specifica lui, stringendo con maggiore decisione e tirandomi un po’, - Nel letto.
Mi giro per guardarlo attentamente, anche se lui ha ancora gli occhi chiusi e quindi di certo non può accorgersene. Schiude appena le dita per permettermi di girare anche il polso, così da non dovermelo torcere, e poi torna a stringermi. Non è che abbia bisogno di trattenermi. Vuole solo sentirmi sotto i polpastrelli.
- Bushido… - lo chiamo a bassa voce, - Non fare il coglione.
Lui stringe ancora la presa e non dice niente. Non dice niente tanto a lungo che finisco per sentirmi io il coglione della situazione. E quindi pianto un ginocchio sul materasso e lui, quando sente la pressione del mio corpo, si scosta per farmi spazio, così da lasciarmi distendere accanto a lui.
La situazione è assurda. La nostra posizione, anche. Io non dovrei essere qui disteso e lui non dovrebbe volere da me ciò che penso voglia. Sono io che dovrei volere queste cose da lui. Sono io che le voglio, in realtà, ma non dovrei potermele prendere. Bushido non dovrebbe volermele dare.
- Toccami. – dice piano, la sua voce è un sussurro pieno di bisogno.
- Bushido… - cerco di richiamarlo un’ultima volta, ma lui mi ferma.
- Ssh. – sospira, stendendosi meglio sul materasso. – Toccami.
Io mi mordo un labbro e sollevo una mano, e per un secondo la lascio lì a mezz’aria perché non ho idea di come dovrei o potrei toccarlo. Insomma, non è un uomo qualsiasi. È Bushido. Non so nemmeno da che lato prenderlo.
Mentre penso che farò sicuramente qualche cazzata colossale, e che anzi probabilmente la mia cazzata colossale la sto già facendo, poso una mano sul suo petto e la lascio scorrere verso il basso. Le dita si impigliano una ad una fra i bottoni della camicia e li slacciano uno dopo l’altro. Bushido rabbrividisce ogni volta che mi muovo. Schiude le labbra e stira indietro il capo, i capelli che si scompigliano contro il cuscino.
- Di più. – mormora fra le labbra, e spinge il bacino verso l’alto nello stesso momento in cui la mia mano ci finisce sopra, sfiorandolo appena. Slaccio i pantaloni e lo accarezzo piano, stringendo le dita attorno alla sua erezione ancora incompleta e pompando lentamente. Dio mio, cosa sto facendo? Perché lo sto facendo? Resto qui, il gomito piantato sul materasso, lievemente sollevato per guardarlo meglio, e lo osservo inarcarsi sotto i miei movimenti, ed è praticamente l’unica cosa che fa. Non mi cerca con le mani, non mi cerca con le labbra, non mi cerca neanche coi pensieri, Bushido, lo so perfettamente cos’è che sta cercando. Non posso ridartela io la tua principessa, Bushido. Non può ridartela nessuno. Ti toccherà accontentarti.
Quando smette di farsi bastare la mano, quando comincia a volere di più, io non lo capisco perché me lo dice. Lo capisco perché si mette seduto in un movimento lento e strascicato, insospettabilmente sensuale – ci resto a bocca aperta, non me lo aspettavo per niente, ma Dio mio, appena lo vedo sollevarsi in quel modo, la testa piegata su una spalla e le braccia tese, deglutisco a fatica e respiro con difficoltà se possibile ancora maggiore.
Sfilo la mano e lui si volta verso di me, mettendosi in ginocchio sul materasso.
- Stenditi. – sussurra piegandomisi addosso, - Voltati.
Obbedisco e in aggiunta mi spoglio anche. È chiaro che lui non lo farà ed è chiaro che invece si aspetta lo faccia io per lui. continua a tenere gli occhi chiusi, non mi guarda, non mi parla se non per lo stretto indispensabile e soprattutto non mi bacia nemmeno. Da nessuna parte. Si regge sulle braccia, sospeso sopra di me, sento il suo calore intorno ma non addosso, e aspetta che io mi sia spogliato abbastanza per lasciarmi scivolare un paio di dita umide fra le natiche. Rabbrividisco sotto la leggera pressione dei suoi polpastrelli e mi inarco contro di lui, lasciando scivolare fra le labbra un ringhio roco.
- Mi manchi. – lo sento sussurrare contro la mia spalla, - Dio… mi manchi. – ed affonda dentro di me, sostenendosi sul materasso con entrambe le mani, - Cazzo, mi manchi. – lo so che ti manca, Bushido. Cazzo, lo so. Lo so che stai male. Non avrei mai dovuto permetterti niente di simile. Non avrei mai dovuto lasciarti uscire dai confini della fottuta Germania, non avrei mai dovuto lasciarti andare, non avrei – cazzo, sì – non avrei mai dovuto permetterti di mettere su questa commedia del cazzo – Dio, Bushido, più forte – e adesso dovrei prenderti a ceffoni – – dovrei riportarti a casa per i capelli – sì, cazzo, sì – dovrei – cazzo, sì – non lo so, affondo il viso nel cuscino mentre vengo e lo sento spingere ancora un paio di volte, ma lui non viene. Non viene, cazzo. Le spinte si smorzano e basta, il suo respiro, da concitato che era, si regolarizza, ed esce dal mio corpo insoddisfatto, lasciandosi rotolare sulla schiena e poi su un fianco senza guardarmi neanche per sbaglio.
Mi volto anch’io, mettendomi seduto a fatica e passandomi una mano sulla fronte.
- Bushido… - lo chiamo a bassa voce. Lui non mi risponde. Respira piano. Non dorme. Resta immobile.
Mi risistemo appena ed esco dalla stanza, abbandonandomi esausto sul divano appena incrocia la mia traiettoria, perché non mi reggo più in piedi. Quando chiudo gli occhi, lo faccio esattamente per lo stesso motivo per cui l’ha fatto Bushido. Non voglio più vedere niente. Anche se dubito che stanotte riuscirò a dormire.

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Schwarze Seite

di tabata
Saad è morto da meno di cinque minuti e il mio cervello non ha ancora realizzato niente. Quando lo farà - e prego che sia tardi, molto tardi - probabilmente succederà qualcosa di imprevedibile. Se mi va bene me la farò soltanto addosso dalla paura, se mi va male farò una cazzata. Per questo spero di realizzare molto tardi, così magari Fler avrà finito di fare qualunque cosa stia facendo e sarà con me. Lui mi impedirà di farla, la cazzata. Lui la prevederà - qualunque cosa sia - e mi impedirà di farla prima ancora che io abbia capito di cosa si tratta.
Il corpo di Saad è riverso a terra, e la neve si sta sporcando di sangue. E' una poltiglia, fa schifo. E fa schifo anche lui, cazzo. Il viso è una maschera di sangue, anzi il viso non c'è. E tutto un casino. Penso che gli dovremmo rispetto, comunque, non tanto perché è Saad ma perché è un essere umano, cazzo. E non lo uccidi un essere umano e poi pensi che il viso che gli hai appena spappolato fa schifo. Eppure non mi riesce neanche guardarlo.
Fler si passa una mano su gli occhi, inspira ed espira e so che sta cercando di inquadrare la situazione. Io sono ancora confuso, lui sta già pensando a cosa dobbiamo fare. Le direzioni da prendere, i danni da arginare. Il suo cervello viaggia ad una velocità diversa dalla mia, e sarebbe fantastico se non fosse così mostruosamente preoccupante. Questi meccanismi mentali li ha perché in mezzo a questa merda c'è cresciuto e, se in questo momento mi serve che sappia cosa fare con un morto ammazzato, in generale non lo so se mi piace la sua praticità.
"C’è un mucchio di lavoro da fare," dice. E io penso, sì c'è un sacco di lavoro da fare. Però non so neanche immaginare di che lavoro stiamo parlando esattamente. Siamo qui con un morto, e io l'ultimo morto che ho visto era mio nonno e se l'era preso l'ictus non Bill con una colpo dritto in testa. Che poi, cazzo, Anis gli ha insegnato a sparare o lo ha trasformato in un fottuto cecchino? In mezzo alla testa, lo ha preso.
"Chaku, riportalo a casa," ordina all'improvviso. Io alzo lo sguardo e vedo che indica Bill. Il mio cervello ancora molto confuso se ne strafrega istantaneamente del morto e della polizia che probabilmente qualcuno avrà chiamato e che sarà qui prima che possiamo decidere un bel niente. Se ne frega di tutto, il mio cervello, e per un attimo penso che non lo porto proprio da nessuna parte. Bill lo guarda come lo guardo io. E non so se il terrore nei suoi occhi dovrebbe compiacermi o farmi del male. "Da Tom," precisa Fler alla fine. E lo fa con rassegnazione. Mi sento incredibilmente stupido di fronte a lui, e non me ne frega niente nemmeno di questo. I due unici pensieri che ho in testa sono Saad morto e Bill da riportare a casa. E si scornano fra di loro perché non c'entrano un cazzo l'uno con l'altro. In tutto questo io non ho ancora capito che ho ucciso un essere umano. Non ho sparato, ma è come se lo avessi fatto perchè se qualcuno me lo chiedesse, sarei stato io di certo. O anche Fler. Uno dei due, ma non Bill. Quindi sì, ho ucciso Saad. Solo che non me ne sono ancora accorto. "Gliel’abbiamo promesso un po’ tutti, che gliel’avremmo riportato presto."
Tom si aspetta che glielo riportiamo, possibilmente intero. Fisicamente ce lo abbiamo un gemello intero da ridargli, ma la testa non so come sta messa. Da fuori sembra star bene, ma anche io sembro star bene. Nella testa ho un gran casino, però. Annuisco a Fler e stringo la presa sulla spalla di Bill, lui abbassa la testa e mi segue. Non dice una parola.
Qua non è come a Templehof che è un fottuto labirinto di vicoli luridi e ogni volta che ne imboccavamo uno mi chiedevo se ne saremmo usciti. Il quartiere di Saad è un quartiere non proprio di lusso come quello dei gemelli, ma la gente sta bene qui. Hanno abbastanza soldi per avere cancelli automatici e case di cinque o sei stanze. Per avere un garage e un'auto. Che poi non parte.
Se penso che ci siamo quasi fatti due isolati di corsa sui tetti non so come mi sento. Da una parte l'adrenalina lo rende qualcosa di fico - abbiamo corso, dietro a Saad, sui tetti, di notte. Lo abbiamo preso, il bastardo. Dall'altra c'è sempre la sua faccia che è uno schifo e non so cosa Fler abbia intenzione di fare al riguardo. Quindi forse a me sarebbe bastato prenderlo, il bastardo. Prenderlo e basta. Niente sangue, solo adrenalina.
Bill non parla e cammina svelto, stringendosi nel piumino. Non so come si senta, non so se chiederglielo. "Bill..." inizio.
Lui solleva un po' la testa ed espira, e non so come interpretare quello sguardo che lancia di lato. "Sto bene." Annuisco prima ancora che si giri. Quando lo fa però l'espressione è dolce. "Davvero."
Non parliamo più finché non raggiungiamo la macchina, che è ancora parcheggiata vicino al palazzo dove vive Saad. C'è una luce accesa al quarto piano e non voglio sapere che camera sia. Non voglio neanche sapere con che faccia guarderò Greta la prossima volta che mi capiterà di incrociarla. La luce si spenge e vedo Bill che abbassa lo sguardo, infila in macchina senza un'esitazione e mi ghiaccia sul posto mentre metto in moto. La sua voce è fredda, ma calma. "Almeno lei non dovrà lavarsi le mani per ore nella speranza che il sangue scompaia," dice.
Partiamo in silenzio, e la mia macchina fa un rumore d'inferno. Mi chiedo dove sono, e con chi sono. Mi chiedo se non ci toccherà prenderlo al volo questo qui, domattina, quando si renderà conto. Ringrazio che Tom sia lì. Ringrazio che Fler sia qui; perchè da soli io e Bill non so cosa faremmo stanotte.
Il viaggio lo facciamo tutto in silenzio. Lui guarda dritto davanti a sé e tiene le mani in tasca. So che in una stringe ancora la Heckler e so anche che probabilmente mi staccherebbe la testa a morsi se gli chiedessi di lasciarla andare. Non mi piace che la impugni ancora, non mi piace nemmeno che l'abbia tenuta. Ora capisco cos'è successo il giorno dopo il funerale, che noi l'abbiamo cercata per ore in quella casa enorme. E Saad - dio... - era incazzato come una bestia perché non riusciva a trovarla e ha infamato chiunque urlando e sbraitando che da qualche parte doveva pur essere. L'abbiamo data per persa, e invece era logico che l'avesse lui. Era così logico che non c'ho neanche pensato. E lui non ha pensato di dirmelo, per altro.
Sono le quattro del mattino quando parcheggio nell'enorme parco macchine del palazzo dove vive Tom. Anche la sua luce è accesa e ci sta aspettando. In pratica ci viene incontro nell'atrio prima ancora che prendiamo l'ascensore. Suo fratello mette piede nel palazzo e lui lo stringe a sé - lo ingloba - senza lasciargli il tempo di fare niente. "Stai bene," esala e socchiude gli occhi. Glielo si legge in faccia che ha pensato di tutto. Vedo Bill rilassarsi in quella stretta, lo vedo proprio sciogliere i muscoli e quando gli affonda il viso nel collo capisco che per stanotte va tutto bene. Da Tom non si allontanerà.
Entriamo tutti e tre nell'ascensore. Io non so perché li sto seguendo, probabilmente perché non so dove altro andare. Una parte di me vorrebbe ancora che Bill si staccasse da quella maglia enorme e si attaccasse alla mia felpa, come la notte in cui Bushido è morto. Vorrei che avesse bisogno di me, questo mi darebbe un motivo per fare le cose stanotte.
"Cos'è successo?" Chiede il biondo, e guarda me.
Faccio per aprire bocca, anche se non so che cosa dirgli, ma Bill mi precede. "Lo abbiamo trovato," dice, e il modo in cui struscia il naso contro il collo di suo fratello mi fa venire i brividi. E non voglio sapere di cosa. "E' morto."
"Morto?" La voce di Tom schizza due ottave sopra in maniera quasi ridicola. Cerca di scostarsi Bill di dosso per guardarlo in faccia ma Bill si tiene tenacemente a lui e gira il viso, nascondendolo al fratello e a me.
"Se qualcuno te lo chiede, Bill è sempre stato qui," intervengo io. Tom sgrana gli occhi e sussulta.
"Che cazzo avete combinato?"
"Niente," io e Bill lo diciamo insieme. E sono io ad insistere. "Lui era da te, e dormiva."
Tom è agitatissimo, quando le porte dell'ascensore si aprono guarda fuori come se si aspettasse di trovarci chissà cosa. Esala di continuo, e mi guarda e poi guarda Bill e so che vorrebbe dire qualcosa ma non sa esattamente cosa.
Una volta dentro casa, decide di essere arrabbiato. "Lo avete messo in pericolo," sibila nella mia direzione. Ha fatto sedere Bill sul divano ma, dal momento che Bill non lo lascia, si è dovuto sedere anche lui.
"Tomi, no..." arriva da Bill.
"E' sempre stato con noi," rispondo.
"Appunto," è furioso ed è spaventato. Una combinazione che condivido con lui stasera. Odio non potermene occupare io come ho fatto fino a qualche settimana fa e ho paura per tutti qui. E anche per quello che ho lasciato in mezzo alla strada a fare solo lui sa cosa. "Saad è morto," abbassa la voce. "Mio fratello non doveva essere lì."
Bill solleva la testa, ma continua a stringerselo contro. "Tomi, ti prego," chiede con un filo di voce stanchissima. "Ti prego. Non adesso."
"Bill-"
"Tomi," questa volta lo guarda e io non saprei dire esattamente a cosa sto assistendo. Riconosco quell'autorità nella voce di Bill, l'ha usata spesso. La usava anche quando Bushido era vivo, quando si era preso confidenza con noi. Che certe volte, nei giorni di partita, ci presentavamo tutti alla casa gialla e lui ci diceva di andare nell'altra sala a guardarla, che lui stava già guardando un dvd sulla tv al plasma. Ce lo diceva con quel tono lì, che di severo non ha nulla ma c'è tutto un mondo dietro. E noi cambiavamo stanza, più per lui che per Bushido ormai. Quanto rideva, Atze.
Solo che non è solo il tono, è anche il modo in cui lo guarda che è strano, e mi rendo conto che non l'ho mai visto quello sguardo lì. Mi disturba più di quanto dovrebbe, temo.
Tom però annuisce. "Ne parliamo domani," dice. E in quel momento mi suona il telefono.
Fler al telefono non è mai piacevole, neanche in situazioni normali. E' uno a cui le cose piace dirtele in faccia, che usa il telefono solo se deve darti appuntamento e quindi parla il minimo indispensabile. In questo frangente, è anche peggio. "Chaku?"
"Sì?"
"Bill è a posto?"
Istintivamente guardo Bill e lui guarda me. "Sì," dico ancora. "Siamo qui da suo fratello."
"Allora muoviti, ho bisogno di una mano."
"Cosa pensi di...?"
"Cazzo, vieni e basta." Mi aspetto che riattacchi senza salutare come fa di solito ma sento che esita. "La Heckler deve sparire."
E' il mio turno di stare zitto.
Lui sospira. "Spiegagli che non può tenerla lui, che nessuno di noi può. Capirà, le capisce queste cose."
Come prevedevo riattacca senza dire nient'altro. "Tom, credo che tuo fratello abbia bisogno di qualcosa di caldo," commento mentre mi rimetto il telefono in tasca.
Lui vorrebbe ammazzarmi ma si alza, forse perché non è una cattiva idea quella di fare un po' di camomilla, anche se è una scusa. Gli sorrido incoraggiante e lui si allontana con il consenso del gemello.
"E' mia," mormora Bill, non appena rimaniamo soli. Non so se ha sentito Fler o se pensava già che qualcuno gliel'avrebbe chiesta. Non si è levato il piumino ma vedo comunque la sua mano che stringe l'arma nella tasca.
"Dobbiamo farla sparire," dico con calma e mi sento in un film poliziesco. Queste sono cose da Fler, io non sono capace di dirle. "Lo sai anche tu che adesso è pericoloso."
Mi guarda a lungo con quegli occhi allungati e strani che cambiano sempre colore a seconda della luce. Sono color cioccolato adesso, ben più scuri del solito. Alla fine apre e chiude le ciglia un paio di volte prima di estrarre l'arma dalla tasca e appoggiarla sul mio palmo teso, coperto da un fazzoletto. Pesa tantissimo, più di quanto sembri, e suona sbagliata perfino nelle mie mani, figuriamoci nelle sue. "Grazie," dico.
Lui non dice niente, ma la osserva con attenzione mentre la copro con i lembi del fazzoletto e me la infilo in tasca, come se non volesse perderne neanche un dettaglio.
Tom rientra con una teiera e qualche bicchiere. "Non ho tazze," si scusa con una scrollata di spalle.
"Devo andare," annuncio, alzandomi. Bill mi segue con lo sguardo e all'improvviso vedo quanto sia stanco. Ha lo stesso sguardo solo e perso di quando a casa mia passava le notti a piangere sul pavimento del bagno.
"Peter?"
"Sì?"
C'è una lunga pausa di silenzio, carica di centinaia di cose che sono l'inizio di questa storia, e l'inizio della nostra storia e di quel pomeriggio maledetto in cui l'ho toccato. Questo silenzio è fatto di cose che appartengono a questa notte e di tutte le bugie che racconterà a suo fratello e a se stesso per superarla. Sento in bocca il sapore di parole che avremmo dovuto dirci e che rimarranno in questo silenzio per sempre perché non abbiamo avuto né il tempo né il coraggio.
Alla fine piega un po' gli angoli della bocca in un minuscolo sorriso. "Grazie."
"Di niente, Principessa."

*



Quando torno da Fler, lui è da solo in mezzo al vicolo dove io e Bill lo abbiamo lasciato. Mi fa specie dire che è solo, come se quando me ne sono andato fosse stato lì con qualcuno. I cadaveri non contano, immagino. Questa volta parcheggio più vicino, tanto che ci metto neanche due minuti a raggiungerlo e lo trovo seduto sulle scale antincendio che si è fatto di testa.
La ferita, per altro, gli perde ancora sangue. "Devi andare al pronto soccorso," esordisco, fermandomi di fronte a lui.
"Dopo," dice lui sbrigativo. "Prima dobbiamo occuparci di lui."
Lui è quello che posso solo supporre sia il corpo di Saad avvolto in un telo, che ora giace appena dietro la scala antincendio, all'ombra.
"Il telo dove lo hai trovato?" Chiedo sconvolto. O forse sono sconvolto perché non è davvero possibile che io sia qui nel cuore della notte pronto a trasportare un cadavere chissà dove. Io volevo fare il cuoco.
"Tra i cassonetti," risponde, intanto che si alza e afferra Saad per i piedi. "Forza, prendilo dall'altra parte."
Non mi muovo. "Aspetta, cosa stiamo facendo?"
"Lo stiamo mettendo nella tua macchina," risponde e tira su.
"Fler è follia! Non.. non possiamo prendere e caricarlo in macchina! Per far cosa poi? Buttarlo nel canale di Templehof col favore delle tenebre?"
Lui non fa una piega. Dio non fa una piega! Perché non fa una piega? Anzi mi guarda e fa un cenno del capo quasi impercettibile. "Questa era più o meno l'idea. Ora, per cortesia, vorresti tirarlo su dall'altra parte?"
Obbedisco e non so nemmeno perché lo faccio esattamente. E' probabile che la mia decisione dipenda dal fatto che se mi sembra assurdo buttarlo nel canale, mi sembra assurdo anche lasciarlo dietro una scala antincendio e intanto che capisco cosa fare posso pure caricarlo in macchina. Ma cosa sto dicendo?
In strada non c'è ancora nessuno, il che è una fortuna perché Saad è alto più di un metro e ottanta e pesa non so più nemmeno quanto quindi non facciamo che fermarci e stringere meglio la presa sul telo lurido con il quale lo trasportiamo.
Lo gettiamo nel baule, e non vorrei ma lo facciamo perché pesa, mi fa schifo e perché Fler non ha garbo. Lo tratta come fosse un sacco. Quando Fler chiude la bauliera gli chiedo stupidamente per quale motivo lo abbiamo infilato qua dentro.
"Vorrei evitare di avere un cadavere disteso sul sedile posteriore nel caso ci fermassero, tu cosa ne dici?" Risponde, e fa per salire in macchina. In effetti non ha tutti i torti.
"Credi che ci fermeranno?" Chiedo, e suono più spaventato di quello che vorrei.
Fler si stringe nelle spalle e mette la cintura, che per uno che ha appena infilato un cadavere nella mia bauliera con l'intenzione di disfarsene in un canale è un bell'accorgimento, ecco. "Sono quasi le cinque, quindi direi di no," ragiona. "Ma è meglio essere prudenti. Dobbiamo pure darci una mossa, tra poco non sarà più tanto buio."
Guido e sto in silenzio e per un po' mi sembra anche che per stanotte non ho fatto altro che guidare e stare in silenzio. E gli avvenimenti di qualche ora fa sembrano questioni di mesi e di anni fa. Di Saad ho una visione già sfocata. Continuo a pensarlo vivo eppure coscientemente so che è accartocciato nella mia bauliera e tutto questo è assurdo.
Una volta a Templehof parcheggio nei pressi del canale che è avvolto nel solito buio e ha sempre lo stesso fetido odore. Quando Fler diceva che Templehof era un posto schifoso ma che finivi per tornarci sempre, non lo capivo. Non capivo come si potesse voler rientrare in un ghetto del genere, dove la cosa meno pericolosa che ti può capitare è che qualcuno ti apra un sorriso da un orecchio all'altro con un coltello di venti centimetri. Ora, però, mi è tutto più chiaro. Templehof è un rifugio e com'è bravo ad ammazzarti è bravo anche a nasconderti, a coprirti, a farti sparire quando ti serve che il mondo là fuori, quello "a posto" non sappia di te. Come stasera. Non avrei mai pensato di dirlo, ma Templehof è tutto quello che spero ora: un posto che ci permetta di liberarci di Saad e tornare a casa. E dimenticare, credo. Non so se si possa.
In giro non c'è nessuno, qui meno che altrove, anche se ho imparato che da queste parti si trova sempre il modo di sapere le cose. Siamo sulla strada, appena sopra il canale e in questa zona franca tra la notte e l'alba, l'acqua sembra nera e compatta come pece. Fler scende dall'auto prima di me e quando lo raggiungo ha già aperto il bagagliaio e sta trascinando fuori Saad reggendolo per i piedi. Tira e non faccio in tempo a dargli una mano, il cadavere scivola fuori e guardo con orrore la testa del libanese che segue tutto il resto del corpo e si schianta in terra con poca grazia e un suono sordo - tipo un THUD - che mi immagino quello che c'è dentro al sacco, e mi sale la nausea. Fler sembra che non faccia una piega. "Ci servono delle zavorre," commenta con aria critica. "Ne hai qualcuna in macchina?"
"Zavorre?" Esclamo e non so se la veda l'atrocità della cosa. Se non la vede abbiamo un problema perché significa che per lui è normale e non voglio che pensi che sia normale. "Fler è un'auto! Ci vado in centro a Berlino con questa, ti pare che mi servano le zavorre?"
Quello che mi colpisce di più di Fler, stanotte, è che non ha nessuna reazione e il suo non cambiare espressione rasenta l'apatia. Il suo cervello è tutto concentrato nel trovare soluzioni, tant’é che ha già pronta un'altra possibilità. "Ci basta la ruota di scorta," esclama. "Ce l'hai la ruota di scorta?"
Io sono talmente stordito che ci penso anche. "Eh? No, l'ho usata l'anno scorso e non ce l'ho più rimessa."
Impreca e fa un gesto di stizza. "Cazzo Peter, sei un danno davvero!" Se la prende con me come se fosse colpa della mia ruota di scorta mancante. "Non hai neanche quella vecchia? Basta il cerchione."
Scuoto la testa.
"Ok, d'accordo, ora cerchiamo qualcos'altro," parla da solo. Alla fine lo vedo che si mette a scrutare il mio bagagliaio e un po' mi preoccupo. Faccio bene, d'altronde. Non conosco Templehof ma conosco un po' lui e lo so come ragiona. S'infila nel bagagliaio alla ricerca di qualcosa e ne esce fuori trionfante con il cric in mano. Me lo passa e io lo prendo meccanicamente. "Smonta il portellone. Ce lo distendiamo sopra e poi lo leghiamo, dovrebbe bastare," mi dice.
"Cosa?" Lo guardo con le braccia lungo i fianchi, e le spalle un po' cadenti. Il cric mi tira i muscoli della spalla in questa posizione ma non ci faccio caso. "E' la mia macchina, non smonto proprio un bel niente."
"Andiamo, è un catorcio!" Insiste. "Te ne compro una nuova."
Lo guardo malissimo. E' la mia macchina. Il mio catorcio. E, per la cronaca, ho un sacco di ricordi legati a questa macchina. Non voglio smontarla. "Fler tu sei fuori," commento.
"Ci serve qualcosa di pesante perché resti giù."
"Allora perché non lo abbracci e ti butti in acqua?" Replico.
Lui non si abbassa neanche a rispondermi a tono. "Smonta il portellone," ripete. "Io cerco una corda su uno dei barconi giù al canale."
Si allontana senza darmi nemmeno il tempo di rispondere e io rimango lì con Saad avvolto nel suo telo lurido. Mi chiedo se qualcuno sentirà i colpi del cric. Siamo piuttosto distanti dalle abitazioni ma immagino che in questo silenzio perfetto, rotto solo dagli uccelli che gracchiano sopra la mia testa, io che prendo a mazzate il portellone della mia macchina non passerei molto inosservato. Così decido che posso tirare due colpi alle giunture e vedere se si allentano. In effetti la macchina non è in buone condizioni: ha più di sei anni e l'ho comprata usata che già ne aveva tre, però ovviamente le giunture non cedono di un millimetro. Tiro un altro paio di colpi che per altro riecheggiano pure e quindi decido che così non va. Contemplo la mia macchina per qualche istante prima di rendermi conto che c'è un unico modo.
Quando Fler ritorna, con 3 metri di gomena arrotolata intorno ad una spalla, mi sto schiantando in retromarcia contro il muro di una piccola rimessa.
Lo vedo che sgrana un po' gli occhi mentre il portellone impatta contro la parete del casottino con un clangore tremendo. L'auto sobbalza e gira a vuoto mentre il portellone preme contro il muro e le ruote stridono.
"Cosa stai facendo?" Mi chiede lui, affiancandosi alla mia portiera aperta.
"Secondo te?" Replico e in quel momento il portellone si sganghera. Faccio appena in tempo a fermare la retromarcia evitando di schiantarmi con il resto dell'auto contro la rimessa che il portellone è in terra, divelto. Spengo l'auto.
"Visto?"
Fler mi guarda malissimo. "Perché non fai un po' più di casino, già che ci sei?" Mi sibila a bassa voce, raccogliendo di terra il pezzo di lamiera. "Dammi una mano, muoviamoci."
Stendiamo a terra il portellone e ci issiamo sopra Saad che sta albeggiando. Fler mi passa la corda mentre sistema bene il telo in modo che non si apra. "Fai passare la corda sotto la lamiera e stringi bene il nodo."
Io obbedisco ma mi passa per la testa un pensiero che forse avrebbe dovuto colpirmi prima, più o meno quando ho visto che lo aveva avvolto nel telo. "Queste cose le fai spesso tu?"
Non mi risponde ma riesce a congelarmi solo con lo sguardo. Mi pianta in faccia quei suoi occhi azzurrissimi, duri e freddi, e io mi rifiuto di leggerci dentro perché non voglio sapere. In qualche modo mi viene da pensare che a sapere proprio tutto quello che Fler nasconde poi sarebbe difficile accettarlo. Alle volte è meglio non sapere e basta. Giro di nuovo la corda intorno al corpo ma più in basso, all'altezza delle ginocchia. "Credi che gli avesse insegnato a sparare per questo?"
Lui rimane in silenzio così a lungo che finisco col credere che non mi abbia sentito, poi però si stringe nelle spalle e sbuffa una risata. "Se conosco Anis l'avrà fatto dicendogli qualcosa, tipo, che era necessario che lui le sapesse, queste cose... però forse sì. Pare che abbia dato un ruolo a tutti, in questa storia, prima di morire."
L'occhiata che mi lancia faccio finta di non sapere a cosa sia riferita. Non mi piace che si sia reso conto e non mi piace che mi ricordi che ruolo ho, io, visto che palesemente ho fatto un casino dopo l'altro.
“Cosa succederà, ora?” Cambio discorso. Cambio domanda. Ho bisogno che mi parli, e che mi dia soluzioni.
“Denunceranno la scomparsa e non lo troveranno,” Fler non mi guarda, continua a controllare bene i nodi. “Sai quanti ne sparisce al giorno?”
“Sì ma non era un senza tetto,” gli faccio notare. “Era Baba Saad e Greta sa che eravamo lì per farlo fuori.”
Fler rimane in silenzio un po’ più a lungo. “Quella donna sa solo che ce l’avevamo con lui,” dice alla fine. “Saad, però, ci ha seminati quasi subito. Eravamo troppo lenti.”
“Ha visto Bill.”
“No, non lo ha visto e neanche noi,” insiste Fler, “perché lui era con Tom.”
Mi rendo conto che nel tragitto che abbiamo fatto per venire qui deve aver pensato a tutto. Forse ci pensava da prima, in ogni caso continuo a credere che ci siano troppe incognite. “E se…”
“Quando siamo arrivati, lo stava coprendo,” mi interrompe. “Questo significa che sapeva perfettamente perché eravamo lì. E sapeva anche che prima o poi saremmo arrivati. Non parlerà, perché dovrebbe spiegare troppe cose. E in ogni caso non ha prove.”
Greta, in effetti, non può provare niente, tranne forse che quella notte siamo arrivati a prelevare suo marito. Nient’altro. Quello che è successo dopo è un segreto che io, Fler e Bill ci porteremo nella tomba. Voglio fidarmi di Fler perché finora non mi ha mai deluso, e in ogni caso non ho molte altre alternative. Ormai ci sono dentro, direi.
Alla fine tiriamo su di peso quella specie di lettiga e cerchiamo un punto dove lanciarla. L'ideale sarebbe avere una barca e portarla a metà canale dove l'acqua è più profonda ma non abbiamo né i mezzi né il tempo per farlo. Così scegliamo un punto in alto, nei pressi del porto, e lo lasciamo cadere. Seguo il volo oltre il parapetto e vedo il corpo e la lamiera che carambolano in aria prima di infrangere lo specchio d'acqua con un suono tutto sommato ovattato, per via della superficie ghiacciata. Non rimaniamo a guardare l'acqua che torna calma sotto il foro creato dal nostro lancio, ce ne andiamo subito via. "Dobbiamo ancora riportare la Heckler a casa di Anis," dice Fler.
Questa è la notte più lunga della mia vita.

*



La villa di Bushido è una specie di maniero giallo limone, tutto quadrato col tetto a spioventi e una serra all'ultimo piano che non è altro che il segno più smaccato lasciato dall'eccentricità di quell'uomo. In realtà, se aveva tempo, qualcosa ci coltivava ma perlopiù serviva a far colpo sulle ragazze che si portava a casa. Prima che arrivasse Bill, naturalmente. Dopo il suo arrivo, le piante aveva iniziato a farcele crescere davvero, che tanto quella sala enorme, con il lucernario e l'atmosfera romantica non poteva più usarle e su Bill non facevano più molto effetto.
La casa, a dire il vero, è sempre stato troppo grande per lui solo e la sua governante tunisina ma era perfetta come ritrovo per la crew, così finivamo sempre per organizzare le cose nel suo salotto che era una specie di piazza d'armi. Ci abbiamo passato le giornate dentro a giocare ai videogiochi o a guardare la partita. Alle volte ci lavoravamo anche.
"Io però non ho le chiavi," dico non appena usciamo dall'auto. "Le aveva Saad."
"Scavalcheremo il cancello," conclude subito lui.
Lo fermo prima che si arrampichi e indico con un cenno della testa. "Non da qui. Sul fianco della casa c'è un muretto dal quale poi è facile oltrepassare la cancellata. Bushido ha sempre detto che lo avrebbe buttato giù ma poi non lo ha mai fatto."
Fler mi segue senza protestare. Una volta dentro, ci guardiamo intorno. "Dovremo rompere una finestra," commenta pratico.
"Non ce ne sarà bisogno. La porta della cantina cade a pezzi, basterà tirargli una spallata."
Lui mi guarda, poi fa quel mezzo sorriso triste che gli vedo ogni tanto. "Si può sapere perché hai tirato fuori quella storia della chiave, allora?"
"Sarebbe stato più comodo," rispondo mentre percorriamo il vialetto sul retro della casa, "ma Bushido ne aveva distribuita solo una copia."
"E Bill?"
"Due copie," mi correggo, mentre testo la maniglia della vecchia porta in ferro che, come ricordavo, è fuori sagoma. Tendo a dimenticare che Bill ha le chiavi di questa casa, così come ce ne dimenticavamo quando Bushido era vivo. E' successo più di una volta che fossimo già tutti lì per qualche motivo a caso e che nessuno avesse avvertito lui che noi c'eravamo. Ho ricordi molto vividi di momenti discretamente imbarazzanti. Faccio presa sulla maniglia, quindi assesto una spallata secca alla porta che quasi mi rimane in mano.
"Bushido non era cambiato poi molto," commenta Fler, mente mi segue all'interno. Tasto il muro per trovare gli interruttori. "Gli piaceva avere sempre la sua corte intorno. Quando eravamo ragazzini sua madre l'abbiamo fatta impazzire. Eravamo sempre tutti lì buttati a casa sua..."
Non fatico ad immaginarlo, era esattamente questo che eravamo: una corte. Il Re e la Principessa c'erano dopotutto. E anche il nemico che, come in ogni buon film che si rispetti, non è mai estraneo. Mai dall'esterno. E nessuno di noi se n'è accorto. Ci vuole un attimo perché le ultime due ore mi ritornino in mente, e mi stupisco della facilità con la quale il mio cervello finga di ignorarle.
Gli faccio strada attraverso i meandri di questa villa enorme. "Dov'è la camera da letto?"
"Quella patronale è al secondo piano."
Lo sento emettere un suono di gola, una specie di grugnito e gli rivolgo un'occhiata interrogativa.
"Niente, lascia perdere. E' che mi fa specie che tu conosca questa casa tanto bene," mi liquida con un gesto della mano e riprende il discorso. "Ad ogni modo, se mi ricordo ancora qualcosa di Anis, scommetto che la teneva nel cassetto del comodino."
"Così l'aveva sempre sotto mano, immagino."
Annuisce. "L'hai pulita?" Mi chiede poi, e tende la mano.
Tiro fuori la Heckler dalla tasca del giubbotto e gliela porgo, ancora avvolta nel fazzoletto. "Solo un po'."
Lo vedo che procede a rimuovere ogni possibile impronta. Quando apro la porta della camera da letto, troviamo la stanza come l'ho vista l'ultima volta: un campo di battaglia con tutte le antine spalancate e i cassetti aperti.
Fler si guarda intorno. "Cos'è successo qui dentro? Un uragano?" Chiede, mentre usa un lembo della felpa per aprire il cassetto del comodino.
"No, noi che cerchiamo la pistola."
Fa un altro di quei sorrisi spenti. "Il ragazzino vi ha fregati per bene. Anis sarebbe orgoglioso," commenta. Quindi richiude il cassetto. "Io qui ho finito."
Annuisco mentre fuori albeggia. Quando i primi raggi di sole filtrano attraverso le tende tirate e disegnano una striscia sul letto sfatto, mi prende l’ansia. Voglio che usciamo fuori di qui, il prima possibile. "Andiamo."
Mi segue fuori dalla villa e aspetta che abbiamo scavalcato di nuovo il cancello prima di chiedere: "Ti dispiace riportarmi a casa? Sono stanco di andare a piedi."
“Non resti da me?” La domanda mi esce di bocca prima ancora che l’abbia pensata e mi do mentalmente dell’imbecille perché non ho tredici anni, ne ho ventisette e dovrei sapermi controllare. Soprattutto, dovrei poter evitare di sentirmi deluso se un altro uomo non vuole dormire con me. Da me. Al diavolo, chi sto prendendo in giro? La verità è che in una notte di merda come questa ho bisogno di lui più che in ogni altra notte di merda che abbiamo passato.
“...non mi pare il caso,” biascica appena, mentre saliamo sull’auto che adesso ha una bella presa d’aria sul retro e fa un freddo cane. “E poi non sei stanco? Vorrai pur dormire tranquillo nel tuo letto.”
Mi tiro su il colletto del giubbotto, incassando la testa nelle spalle mentre metto in moto. “C'è posto per due nel mio letto. Non dobbiamo necessariamente scopare, Fler,” dico secco.
Mentre mi avvio sulla strada lo vedo che si agita imbarazzato. Non credo lo imbarazzi la parola scopare, quindi suppongo che il problema sia scopare con me. Il che a conti fatti dovrebbe essere un problema anche per me; ma non me ne frega niente. Non stasera. Qui, in quest’auto, stanotte, la mia più grande preoccupazione dovrebbe essere che ho ucciso un cristiano, l’ho legato ad un portellone e l’ho gettato in un canale, ma così non è. Evidentemente le mie giuste priorità sono andate tutte a fanculo durante il corso degli ultimi quattro o cinque mesi. Vorrei poter dire che è tutta colpa di Bushido, ma un morto profanato basta e avanza per stanotte. Intanto Fler sta parlando e io mi sono perso a conversare con il mio cervello. “Sì, lo so,” dice incerto. “Ma non è il caso che resti e basta, credo.”
I semafori sono ancora tutti spenti, passo con attenzione un incrocio. “E' tardi, e dovrei fare due viaggi. E poi mi fa piacere.“
“Sì, anche a me farebbe...” comincia, ma poi scuote il capo. “Non puoi riportarmi a casa e basta? Non scompaio, giuro.”
Non rispondo subito perché quello che vorrei dirgli non è contemplato. Quindi svolto altre due volte prima di scendere a patti col cervello che non ne può più – sono stremato – e ammettere l’unica cosa che non era il caso di rendere nota. “E' stata una nottata di merda, pensavo fosse meglio non passare quello che ne resta per i cazzi nostri”, non lo guardo. Cambio marcia e controllo la strada. “Comunque, come vuoi.”
Sto imboccando la strada per casa sua quando lo sento bisbigliare quel: “D’accordo.” E poi subito dopo aggiunge, “Tanto dovevamo comunque fare un’altra fermata ed è più vicina a casa tua.”
Ormai non chiedo neanche più. Mi fa girare per una serie di stradine fino a casa di Dio e quando finalmente ci fermiamo, lo facciamo di fronte ad una rimessa che cade a pezzi più della mia macchina.
“Cosa ci facciamo qui?” Chiedo, sbattendo la portiera che se non le dai un gran colpo non si chiude. Fler infila una mano nella tasca dei pantaloni e ne tira fuori un mazzo di chiavi enorme. Ne sceglie una a colpo d'occhio e quindi si china ad alzare la saracinesca che sopra ha uno di quegli enormi disegni fatti con le bombolette spray.
"Ci mettiamo la tua auto," risponde. Segue con il braccio alzato la saracinesca finché non è quasi tutta su e poi quella segue i binari e scompare all'interno del muro. "Non possiamo lasciarla in giro in questo stato. Domani, con calma, vedremo come disfarcene." La rimessa è poco più larga della mia macchina, e sulla parete di fondo sono stipati quintali di oggetti alla rinfusa. Anche i muri interni sono pieni di murales.
"Che posto è?"
"Mi serviva quando spacciavo," mi dice, mentre sposta scatoloni polverosi pieni di chissà cosa. Li ammassa tutti in fondo. "Ci tenevo la roba. Anis lo usava come magazzino."
La notizia non la registro nemmeno, un po' perchè ora come ora non è poi così eclatante e un po' perché dei murales ho sempre avuto l'idea che fossero solo un modo molto complesso di scrivere offese sui muri. L'equivalente elaborato delle parolacce sulle porte dei bagni pubblici, insomma. Invece questi disegni sono bellissimi e me ne accorgo anche io che non sono un critico d'arte. "Li hai fatti tu?"
Fler si gira solo un istante. "Sì," dice sbrigativo. "Metti la macchina dentro, comincia ad esserci gente."
Mezz'ora dopo stiamo finalmente aprendo la porta di casa mia e credo di non averle mai voluto così bene. Fler mi segue senza dire una parola, chiude la porta e si toglie il giubbotto e la felpa con un grugnito più che un vero lamento. Quando tocchiamo il letto, inizio a sentire il peso della notte appena trascorsa. Scivolo sotto le coperte che sono così incredibilmente soffici da commuovermi. Guardo il soffitto che quasi non si vede nella penombra delle tende tirate. Berlino si è svegliata, sento i rumori, ma sono lontanissimi ed irreali. So solo chi sono e dove mi trovo, e non sono sicuro nemmeno di quello, tutto il resto non mi riguarda.
So che la scomparsa di Saad avrà delle conseguenze e che ci sarà un’inchiesta.
Fler si è appallottolato tutto sul suo lato - è strano dirlo di lui che non è esattamente piccolo - e mi dà la schiena. Quello che faccio mi viene istintivo: rotolo su un fianco e lo avvolgo in un abbraccio. Sento che si irrigidisce, come lo avessi colto di sorpresa, ma poi si rilassa e il suo corpo è scosso da un brivido.“Fler?” Mormoro, incerto.
“Hmn?”
Lo stringo di più perché qualcosa non va e il vago tremolio della sua voce mi fa pensare a cosa che probabilmente lui non vuole che veda. Non mi solleverò a controllare, so che queste lacrime deve piangerle per conto suo. “E’ finita,” dico soltanto e appoggio appena le labbra sulla sua spalla nuda.
Rimane in silenzio, poi lo sento annuire. “Già. E’ proprio finita.”

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Ersguterjunge

di tabata
Mi chiamo Anis Mohamed Youssef Ferchichi ma è una vita che il mio nome lo sento pronunciare soltanto in tribunale.

Per il resto del mondo, io sono Bushido.

Tra meno di quattro ore potrei essere un cadavere steso sull'asfalto, o forse potrei vincere una guerra di cui cerco la conclusione dal momento in cui è iniziata. Comunque vada a finire, stanotte questa faccenda vedrà la sua naturale conclusione.

Le probabilità che ho di sopravvivere sono le stesse che ho di morire; è per questo che io e Fler abbiamo deciso di chiuderla in questo modo. Solo io e lui, da uomo a uomo, su un campo di battaglia neutro che ci consegni e ci sottragga le stesse opportunità.

Non ho voluto nessuno stanotte.
Li ho mandati tutti a casa dalle loro donne, solo Saad mi aspetterà fuori dalla porta quando sarà il momento di andare. Non potevo chiedere a Chakuza di farmi da padrino, non è il momento.

E poi il suo compito è un altro.

A Bill non ho detto niente perché altrimenti so che sarebbe venuto immediatamente qui.
Lo conosco fin troppo bene; tanto da sapere che avrebbe martirizzato una delle sue guardie del corpo per farsi portare al mio appartamento e rispedirla subito indietro, per poi dirmi che non può tornare a casa perché è senza auto.

E' così che ha dormito a casa mia la prima volta.

Bill è una di quelle persone abituate ad avere tutto ciò che vuole; ma i suoi non sono capricci da diva, è determinazione. E' uno che quando pensa di meritarsi qualcosa, prima la chiede con gentilezza, e poi, se gliela neghi, ti rompe le palle finché non lo accontenti.

A me ha rotto le palle con una costanza che andava premiata, in qualche modo. E a distanza di mesi mi sono convinto che se non avessi ceduto, mi avrebbe fatto fuori perché la prova del suo fallimento venisse insabbiata per sempre. Era convinto che avesse il diritto di infilarsi nelle mie mutande, io la pensavo diversamente.

E ha vinto lui.

Mentre l'acqua riempie la vasca da bagno penso che vorrei tanto tornare indietro nel tempo e negargli la mia compagnia per l'ennesima volta, girarmi dall'altra parte mentre mi si offre disteso sul mio letto sfatto e poi rispedirlo a casa con un taxi e una risatina.

Quando ero piccolo mia nonna aveva una scatola dove teneva i suoi gioielli. Una volta che avevo bisogno di soldi, rubai un paio di orecchini col pendente di perla, convinto che non se ne sarebbe mai accorta, dal momento che non li metteva mai, e li consegnai ad un ricettatore che conoscevo per altri motivi.

Quando tornai a casa, trovai mia madre che consolava mia nonna. Quegli orecchini glieli aveva dati il marito prima di crepare in guerra e lei non li metteva mai perché aveva paura di rovinarli. Tornai dal ricettatore ma li aveva già venduti, riaverli era impossibile. Ricordo che mia nonna mi strinse a se abbracciandomi, totalmente ignara che fosse stata colpa mia.

Per anni l'unica cosa che ho desiderato era rimettere gli orecchini in quella scatola.

Anche Bill è uscito da quello scrigno.
E sono stato io ad aprire il coperchio di legno e a sottrarlo al velluto che lo proteggeva. Come da bambino, anche ora farei qualunque cosa per riporre la perla dove l'ho trovata, così stanotte non dovrei mentire.

Così stanotte questo non sarebbe necessario, forse.

Quello che mi aspetta, in realtà, io non l'ho mai passato.
Le risse le conosco, ci sono dentro fin da quando ho imparato a tenere in mano un coltello, ma i duelli sono tutta un'altra cosa. Le risse si basano sulle offese, sulle infamie, è un gioco a chi grida più forte e a chi fa più paura. Sono davvero rare le volte in cui si va oltre ad un paio di coltellate, sono ancora più rare le volte in cui il morto ci scappa di mezzo.

Bill è terrorizzato dalle risse; forse perché è tanto magro che ogni volta che lo stringo penso che gli romperò qualcosa. O forse, più probabilmente, è perché è cresciuto in un luogo che io non ho mai visto. Una campana di vetro che la sua famiglia prima, la Universal poi, gli hanno costruito intorno per preservarlo da qualsiasi cosa. Lui il male non lo tocca mai, anche se nelle sue canzoni si lagna sempre di conoscerlo da vicino. La gente che si perde nella droga, che si butta dai palazzi perché la sua vita fa veramente schifo, lui non l'ha mai vista. Quella campana lo tiene distante dalla realtà, insieme a suo fratello che se lo tiene così vicino che la gente pensa male. Nella campana ci ha sempre vissuto e ci vive tutt'ora, a parte le volte che esce per venire a trovare me che vivo nella merda dalla quale lo tengono lontano.

Per questo ha paura delle risse, e ha paura di me che ci finisco in mezzo.

Questa però non è una rissa.
Fler e io ci guarderemo negli occhi e poi all'improvviso uno dei due non sarà più qui a raccontare quello che è successo. All'altro spetterà il compito di riportare la storia così com'è avvenuta, senza puttanate. E' finito il tempo di insultarsi. Questo Fler me lo deve, e i lo devo a lui, in caso.
Sono così stanco di questa storia che non so neanche più quale conclusione preferirei. E' così fottutamente ironico che qualunque cosa succeda, avrò comunque un buco nel cuore.

Da una parte c'è stato un tempo in cui Fler era mio amico. Non uno qualsiasi però, uno di quelli che ti para il culo quando comincia a scendere la merda vera. Era qualcuno su cui contavo, non posso pensare di ammazzarlo e di dormirci la notte. Dall'altra c'è un tempo presente in cui se muoio io, qualcuno dovrà spiegare a Bill perché dopo un anno e quattro mesi che vive dei miei respiri, sono stato così coglione da farmi ammazzare lasciandolo solo con quell'amore che si è preso lo sbattimento di provare per entrambi.

Nel bagno ho acceso solo quattro candele, agli angoli della vasca come le mette lui. Osservo l'acqua che scende e mi perdo nei riflessi delle fiamme che ci danzano in mezzo. Dal marmo bianco della vasca, alle candele, all'acqua, alla luna che entra dalla finestra e mi battezza mentre mi tolgo la camica e la lascio scivolare a terra, tutto ha un che di sacrale e cerco di perdermici dentro perché mi sembra importante, anche se non so il perché.

A me non piace capire il senso delle cose, mi piace toccarle.
Voglio sentirle sotto le dita, è l'unico modo che ho per conoscerle. Come nella vita, non mi basta sapere che qualcosa fa male, devo farmi male. Così in questo bagno comprendo che c'è un significato importante dietro al rito di purificazione qualche ora prima di buttarmi per strada e vedere chi fra me e Fler tornerà a casa, ma tutto ciò che riesco veramente a capire è che se tocco il marmo, lo sento freddo contro la pelle.

Che se ce la faccio, forse stasera tornerò ad immergermi di nuovo in quest'acqua. Forse da solo, o forse con Bill. Che se non ce la faccio, non sarà questo il marmo che mi accoglierà, mentre chiudo gli occhi.

Mi sento un templare, anche se non ho una missione divina da portare a termine, né una terra santa da conquistare. Un guerriero il cui compito è uccidere. Mi chiedo come si possa dimenticare tutto il resto, come si possa annullare ogni pensiero, ricordo o motivazione e vibrare la spada. O premere il grilletto. Sfioro con le dita appena bagnate la Heckler appoggiata sul pavimento contro il bordo della vasca e mi fa rabbia rendermi conto che sono ore che non mi separo da lei.

Non mi sento sicuro.

Scivolo sotto il pelo dell'acqua e guardò verso l'alto ad occhi aperti. Non sento i suoni e tutto ciò che vedo è un soffitto scuro. Immagino che morire sia esattamente questo: nè suoni, né colori, nè odori.
Non è mia questa frase. L'ha detta Bill, una notte che era ubriaco fradicio e non aveva neanche la forza di reggersi in piedi. Nel buio della mia stanza mi si è aggrappato addosso, sistemando quel corpo magro contro il mio fianco come se non ci fosse stato altro posto al mondo in cui metterlo e ha detto proprio questo: Quando morirò non andrò da nessuna parte. Sarò sempre lì, ma non sentirò nessun profumo, nè sentirò nessuna voce o vedrò niente di ciò che ho visto fin'ora. Non sarò io ad andarmene, sarete voi.

E io me la ricordo bene quella frase, perché mi colpì. Bill dice troppe parole al minuto per essere una persona sola, ma a volte - in quella marea di cazzate che produce - c'è qualcosa che ti va dritta al cuore e da lì non si schioda più. Quando muore qualcuno, di lui ti mancano i dettagli fisici prima di tutto il resto. Prima di dire che gli volevi bene, o che era tutta la tua vita, dici che ti manca la sua voce a riempire i silenzi.

L'odore tra le lenzuola. Il colore dei suoi capelli quando ti svegli al mattino.

Ti manca lo spazio fisico che occupava e che all'improvviso è vacante, orfano di una forma, di un corpo che potevi toccare e annusare. Di cui conoscevi ogni cosa. Non è la mente delle persone che viene a mancare, quella ce l'hai dentro perché vive tramite parole che ricordi. E' il corpo che si rovina due metri sotto terra a farti più male. La pelle non ha memoria, ha bisogno di toccare sempre.
E mentre sono ancora sott'acqua a contare i secondi che mi tolgono il respiro, mi pento di non aver toccato Bill prima di iniziare questa giornata.

Avrei dovuto farlo.
Vorrei che avesse il mio odore addosso, in questo momento. Vorrei averglielo lasciato ovunque, perché vi si aggrappi se non resterà nient'altro di me.

Riemergo con uno schizzo e spargo acqua ovunque, respiro più aria che posso e sento che mi manca, che non è abbastanza. Esco, mi copro e recupero la Heckler. Devo trovare il modo di dimenticare tutto quello che lascerei e concentrarmi su quello che avrò se...

La mia vita è appesa ad un condizionale.

*



Saad è un uomo puntuale.

In trent'anni che lo conosco non l'ho mai visto arrivare tardi agli appuntamenti, così anche questa volta - anche se magari potrebbe - bussa alla mia porta all'una spaccata. Gli apro che sono già pronto. Sono pronto da ore, in effetti. Ho passato le ultime tre a guardarmi intorno e ad imprimermi nella testa ogni singolo dettaglio della mia casa.

Ogni angolo su cui ho posato le mani, o le ha posate lui.
Ormai non fa più differenza. E mi dico, ancora una volta, che se tutti i miei pensieri si fondono nell'unico che Bill rappresenta sono fottuto.

E lo so che sono fottuto.

"Hey, Atze." Quando entra, Saad mi dice soltanto questo. Hey, Atze. Niente Anis, Bushido. Niente. Anche se è mio cugino, la famiglia l'ha lasciata a casa. La sua donna in questo momento non esiste. Non esiste la sua bella bimba bionda che mi chiama zio.
Non c'è famiglia, non c'è casa, non c'è nessun posto dove tornare.

Ci siamo solo io e lui, e quell'Atze è la misura della nostra distanza, ma anche quella del nostro legame: siamo compagni.

Compagno è quello che ti cammina a fianco mentre ti dirigi sul campo di battaglia e calpesta con te la terra che potrebbe accogliere il tuo sangue. L'unica differenza è che lo fa senza la paura. Un fratello t'impedisce di fare cazzate, un amico ti supporta.

Un compagnio sa che devi farlo e lascia il cuore a casa per evitare di fermarti.
Non c'è giusto o sbagliato. C'è solo il dovere, e Saad è lì per ricordarmelo.

Per questo Chakuza non può essere qui stasera, ha una visione delle cose che gli impedirebbe di fare esattamente questo: caricarmi la pistola e controllare le pallottole una per una, immergendole nella rabbia perché colpiscano il bersaglio.

Per questo lui è a casa e sa già cosa fare se non lo chiamo prima di domattina.
Mi serviva qualcuno che non credeva ancora ciecamente nella vendetta e nel sangue per proteggerne un altro che vive per amore.

Saad guida in silenzio e non mi guarda.
La città fuori dal finestrino non è affatto silenziosa come mi aspettavo di trovarla. Ci sono mille voci e mille luci. C'è un casino d'inferno e mi chiedo se volevo che la mia guerra venisse combattuta tra il rumore di centinaia di persone che non hanno la minima idea di cosa stia avvenendo.

Forse è un bene.
Tra me e Fler la battaglia si è svolta sempre all'aperto. Io contro di lui, lui contro di me, di fronte a milioni di occhi adoranti che si crogiolavano nelle nostre stupide parole di vendetta.
Poi Bill che mi fa letteralmente impazzire, Fler che crede di avermi distrutto.

L'ho quasi sentito il boato della folla quando ho perso il controllo anche sulla crew.

E' sempre avvenuto tutto in mezzo al frastuono.
E Bill ha urlato più degli altri, pur senza dire una parola. E' bastato che fosse se stesso - che fosse, e basta - ed è stato come se avesse un megafono in mano.
Era troppo palese perché non urlassero.

Era un'eresia troppo grossa per non ribellarsi.
Ed ecco la mia Guerra Santa: io non ho portato la parola del Signore in una terra di barbari. Ho imposto l'eresia nella mia terra, che era già sacra.

E' per questo che ho dovuto urlare più forte.
Perché le voci erano già troppo alte. Bill troppo blasfemo.
E io volevo farla finita.

*



Trovo Fler seduto su un lastrone di cemento, mi guarda e getta il mento in alto senza sforzarsi ad aprire la bocca e a sputar fuori un saluto, come invece faccio io. Saad è rimasto in auto e non lo vedo.

"La puttanella l'hai lasciata a casa?" Mi chiede, con un ghigno sul viso quadrato.

Lascio che l'offesa mi scivoli addosso senza toccarmi.
Quando è stato necessario, ho difeso Bill da quelle parole perché le ho sentite pronunciare dalla bocca di chi mi aspettavo lo rispettasse. In quel caso sì, le offese avevano una forza e io ne ho usata altrettanta per vendicarmi.

Ma quelle di Fler sono offese di rito. Fa parte del gioco.
"Questa è una cosa tra me e te, Atze," gli dico.

"Non chiamarmi Atze. Per me tu non sei più niente." Sputa in terra, come a scongiurare il malocchio.

Ci ho provato, Dio mi è testimone.
Per mesi ho dedicato più attenzione all'uomo che ho di fronte che non a quello che mi dormiva nel letto. Ho parlato con Fler in ogni lingua che conosco per spiegargli come stavano le cose e trovare una via fuori dalla rabbia che provava.

Ma non ha ascoltato, mai.

Io non sono capace di rimettere a posto le cose. Bill una volta mi ha detto che con le persone sono come un bambino che smonta gli oggetti per vedere cosa nascondono: capisco sempre che cos'hanno dentro ma poi le rendo così vulnerabili che quelle non sono più capaci di ricomporsi. L'ho fatto con lui.

E l'ho fatto con Fler.

So che la rabbia che prova viene tutta da un'altra parte.
Fler ce l'aveva con me già da prima. Da quando ho lasciato l'Aggro Berlin per provare a farcela da solo. Si è sentito tradito e ha cercato una stronzata qualsiasi a cui aggrapparsi per offendermi e farmi del male. Lui voleva che reagissi, che m'incazzassi. Voleva che se lui stava male per colpa mia, allora io facessi lo stesso. Col tempo, la questione iniziale si è mutata in qualcos'altro, un mostro di cui nessuno in realtà ricorda l'origine e l'intera faccenda ha passato il punto di non ritorno.

E mi viene da ridere a pensare che si potrebbe dire la stessa cosa di me e di Bill. Quando abbiamo scopato la prima volta, non era niente. C'ero io e c'era lui, per una notte sola.
Il fatto che ora nell'armadio di Bill ci siano i miei vestiti e nel suo bagno il mio fottuto spazzolino da denti significa che anche noi abbiamo passato il punto di non ritorno.

"Fler, ascoltami. Non abbiamo bisogno di questo."

"Quando mi interesserà sapere cosa pensi riguardo ciò di cui ho bisogno, te lo chiederò. Fino ad allora, tappa quella fottuta bocca e comportati da uomo, non da frocio accomodante," mi dice. Inizia a girarmi intorno e mi costringe a seguirlo con lo sguardo.

Estrae il coltello dalla tasca e fa scattare la lama.
E io impreco: avrei voluto che ne parlassimo prima, il che non fa che dargli ragione. Un anno fa gli sarei saltato alla gola e poi forse gli avrei chiesto cosa ne pensava. Ora è tutto diverso, ora devo parlare.

Devo parlare sempre, e chiedere. Spiegare. Mediare.
E questa sì, è colpa di Bill.

Fler mi è addosso un attimo prima di quanto mi aspettassi, ma mi manca. Cadiamo a terra entrambi e faccio in tempo a rotolare di fianco prima che sollevi il coltello di nuovo. Si rialza e tenta di colpirmi ancora, si abbatte su di me con la furia di un animale e al momento non posso fare altro che tentare di difendermi: ho il coltello incastrato nella tasca posteriore dei pantaloni.

Lo afferro per i polsi e cerco di tenerlo a distanza perché mi tiene la lama a qualche centimetro dal viso. Non so per quanto rimaniamo in stallo in quel modo, le mani mi tremano per lo sforzo ma le sue dita sono così strette intorno al manico del coltello che non sono certo che si fermerebbe se lo lasciassi andare. Faccio forza sulle gambe e lo ribalto con un ringhio, provo a tenerlo giù ma è molto più incazzato di me.

Ha una forza che io non riesco a tirare fuori, semplicemente perché non vorrei trovarmi qui.

"Fler, piantala!" Ringhio.

"Vaffanculo, Anis," digrigna i denti così vicino al mio viso che le vedo le lacrime nei suoi occhi, per questo s'incazza. Per questo mi chiama per nome.

Vorrei fare la stessa cosa, dirgli quel Patrick mi dispiace, che vuole sentirsi dire da anni e che non gli basterebbe comunque perché pretendere scuse e ricevere scuse non è abbastanza virile. Deve pestarmi. E' la legge della giungla che però non condivido più.

Ed è questo il punto di tutto. Di me, di Bill, di Fler.
L'ho tradito una volta, lasciando l'etichetta. Lo tradisco ora voltando le spalle a ciò in cui credevamo insieme. E' per questo che Fler è così incazzato e forse non ha neanche tutti i torti.

Mi grida addosso e rotoliamo ancora sul cemento che mi strappa la felpa di acetato scuro. Lo colpisco tra le costole e cerco di piegargli il braccio ma non molla la presa. Mi piego di lato, cercando spazio in cui infilarmi per recuperare il serramanico. Lui schiaccia una mano sulla mia gola e preme.

Recupero il coltello con le dita che tremano, rischia di sfuggirmi di mano. Mi manca il fiato e il collo mi fa male: quasi non riesco più a tenere lontana la mano che regge il coltello.
"Non ti arrendere," mi dice. E ripete quello che gli ho detto io quando sono uscito dagli studi di registrazione, l'ultimo giorno all'Aggro Berlin. Ci sento dentro tutta l'ironia e tutta la rabbia. "Non ti arrendere... Bushido."

La lama scatta e lo colpisco ad una gamba. Non troppo in alto, sopra una coscia. Voglio solo che si allontani. Ulula e si scosta, e io ne approfitto per farmi indietro. "Chiudiamola qui," sibilo ansante passandomi una mano sulla gola.

"Col cazzo!" Mi sbatte addosso e non so nemmeno come ha fatto a muoversi tanto veloce. Mi schianta contro un muro e mi pianta un ginocchio nelle palle così forte che vedo bianco. E un istante dopo sento lo strappo della pelle e la maglietta che si bagna lungo il braccio. Il colpo è stato casuale, non volutamente innocuo. Voleva prendere il cuore, solo che non è abbastanza lucido per pensare di mirare. Anzi, non vuole pensare perché gli richiede tempo e lui vuole chiuderla subito prima che la rabbia si esaurisca e lui corra il rischio di non ottenere il suo scopo. E' andato e non mi riesce di fermarlo.

Lottiamo ancora e non voglio.

Questa volta sono io a ringhiare. Prima che mi blocchi di nuovo gli tiro un calcio nello stomaco e lo stendo a terra con due pugni in faccia ben assestati. Il coltello gli vola dalle mani e io gli tiro una pedata in modo che finisca il più lontano possibile. Sto in piedi a fatica e il braccio mi fa fottutamente male, ma gli tiro altri due calci su un fianco e lo guardo arrotolarsi su se stesso con un gemito strozzato. "La chiudiamo qui," ripeto con più convinzione.

Non si muove mentre mi allontano, e spero che non lo faccia fino a che non avrò messo abbastanza distanza tra di noi.

*



A quest'ora di notte e con la faccia che mi ritrovo, se incrocio la polizia mi fermano. Non sarebbe la prima volta che mi costringono a seguirli in centrale. Non è mai facile provare che sono tedesco con il sangue di mio padre che mi scorre nelle vene.

O il mio che mi cola lungo il braccio, magari.

Mi sono allontanato di corsa e non so dove sia Saad. Non ho il tempo di cercare la sua macchina e ad ogni modo non ci penso neanche. Ho una sola cosa in testa, ed è Bill.
E' una questione di adrenalina e di paura. Prima di uscire di casa volevo dimenticarmi anche solo della sua esistenza perché non mi frenasse, ora che Fler non mi ha ucciso, voglio vederlo.

Vederlo e toccarlo.

Sono nervoso, ed esaltato. E le due emozioni fanno a pugni una con l'altra perché non so quale delle due devo seguire. Non è finita proprio per un cazzo, ma per stasera respiro ancora. E voglio respirare addosso a Bill.

Il suo telefono squilla a vuoto almeno dieci volte e ringhio tra i denti pensando che forse sta dormendo e non mi risponderà. Nè aprirà la porta. Dio, ho voglia di sentire la sua voce.

"Pronto?"

"... Bill?" Chiudo gli occhi ed espiro. Sentirlo non fa che peggiorare la mia situazione. Adesso che mi parla all'orecchio, voglio stringerlo tra le braccia.

"Dimmi."

Sembra stanco, e non mi stupisce. Quando lo chiamo di notte, sa già cosa deve aspettarsi. E' coraggioso il mio ragazzino, anche quando irrompo nella sua campana di vetro lui non si scompone. "Ascolta, adesso non andare nel panico, d'accordo?" Dico, e mi scappa un sorriso perché mi sembra di essere tornato indietro a quando ho chiamato mia madre la prima volta che mi hanno portato in centrale. Ho iniziato la telefonata proprio così.

"Anis, dove sei?"

Mi piace quando pronuncia il mio nome. Quelle quattro lettere gli si sciolgono sulla lingua e poi rotolano fuori, è quasi ipnotizzante seguire il movimento dietro le labbra. "Sto venendo lì," rispondo. Non voglio spiegargli, voglio solo raggiungerlo. Chiudo il telefono e chiamo un taxi.

*



Bill è una visione.

Ho sempre pensato che fosse bellissimo ma stasera, quando mi apre la porta, penso che non ho mai posato gli occhi su qualcosa di più bello. E non importa che sia in pigiama e che sia struccato. Il fatto che io possa vederlo lo rende già di per sé meraviglioso. "Hey, Principessa," lo saluto, con un mezzo sorriso stanco.

Sono stati i ragazzi a chiamarlo così la prima volta, per prenderlo in giro. Eppure io ho sempre pensato che fosse un soprannome perfetto: Bill è davvero una principessa. E' viziato, elegante e abituato a farsi servire. Quando ha varcato la soglia di casa mia, con tutti i ragazzi svaccati in salotto che davano il peggio di sè tra rutti e volgarità, non c'era possibilità che lo accogliessero bene. Nè che lui accogliesse bene loro, naturalmente.

Erano due mondi che si infrangevano come onde sullo stesso frangiacque. Me.

Mi appoggio allo stipite della porta e cerco di apparire al meglio, ma la verità è che non mi reggo in piedi. La mia pantomima dura due secondi, poi gli frano addosso senza preavviso e lui mi sostiene con la forza nervosa che ha sempre addosso.

"Anis!" Mi grida direttamente nell'orecchio e io strizzò gli occhi, un po' ridendo.
E' un impiastro.

"Tranquillo, sono intero," rispondo. "Chiudi la porta, svelto."

Per una volta non protesta e obbedisce, e io ringrazio il Signore perché non sono proprio dell'umore di discutere sul fatto che lui non è uno dei ragazzi e io non posso dargli ordini; già me lo vedo che si mette la mano su un fianco e mi seppellisce sotto venti minuti di motivazioni. Intanto mi trascino sul suo letto e mi ci lascio andare sopra con un sospiro, chiudendo gli occhi.

"Che diavolo è successo?"

"Niente."

"Niente un cazzo," dice lui. Pensano tutti che Bill non dica parolacce, ma non è vero. Solo che c'è una differenza tra lui e gli scaricatori di porto come me. Bill quando impreca è perché proprio non ha più pazienza. Le impregna d'odio e frustrazione le sue parolacce. Valgono di più. "Guarda come sei ridotto!"

In questi casi c'è solo una cosa da fare. Lo afferro per la nuca e lo bacio, senza scomodarmi a farlo con gentilezza. Non voglio trattarlo con i guanti, adesso. Lo voglio e basta. Per un secondo fa resistenza e poi mi si scioglie in bocca, come sempre. Bill non è contento se prima non fa finta che non gli piaccia. "Calmati, va tutto bene."

Mi si appoggia addosso e io gli accarezzo i fianchi. Lo sento rilassarsi sotto le dita e per un attimo inspiro il suo odore, quello che ha quando non si è ancora messo il profumo. E' deciso, ma morbido. Esattamente come lui. "Perchè deve sempre andare così?" Mugola, chiudendo gli occhi.

Bill mugola di continuo, ed è una tortura.
La prima volta che l'ho sentito mugolare in quel modo ero dentro di lui, da allora associo il momento al suono e tutto si traduce in brividi lungo la schiena. Ogni volta che mugola, vorrei vederlo e sentirlo fare anche tutto il resto che ha accompagnato il suono la prima volta.

E' così che mi ha completamente fottuto il cervello. Con quel suo mugolare candido, che poi è la cosa più zozza che c'è.

"Piccolo, lo sai il perchè," deglutisco.
Mi perdo da quanto è caldo e morbido sotto le mie dita.

"Sei ferito?" Mi chiede.

"E' solo un graffio," rispondo e gli strappo via dalle mani il braccio che sta toccando per controllare. Vorrei evitare di fare smorfie e lamentarmi di fronte a lui, anche se il graffio è lungo almeno dieci centimetri e forse dovrò mettermi i punti. Fà un male d'inferno.

"Vado a prendere la cassetta del pronto soccorso."

A Bill piace fare la crocerossina, e io gliela lascio fare perché fondamentalmente mi piace che mi tocchi. In qualsiasi eccezione del termine. Però non può farlo subito, perché io vengo dal brutto mondo là fuori e potrei morire se non lo bacio di nuovo. "Aspetta," lo afferro per un braccio e me lo trascino addosso. Gli forzo le labbra e voglio che mi risponda, voglio sentirlo. Gli stringo forte un fianco, portandolo più vicino e quello che ci scambiamo è un bacio umido e rozzo.

E' un bacio mio.

E voglio che se lo senta ovunque, perché è così che mi piace che sia: devo essere su di lui e in lui anche quando non sono fisicamente presente. E' questo che significa appartenermi.
Deve avermi addosso.

"Chi erano stavolta?" Chiede, mentre mi pulisce la ferita delicatamente.

"Non hai bisogno di-"

"Dmmelo e basta. Mi pare un po' tardi per parlare del tempo, no?"

"Sono stati gli uomini di Fler," mento alla fine. "C'è stata una rissa, con i coltelli."
Non posso dirgli che eravamo soltanto io e lui, quindi evito di guardarlo negli occhi.
Lo sguardo mi cade sulla mia mano, su ciò che vi ho fatto tatuare sopra.

Non è la stessa cosa, mi dico.

Ci sono verità che fanno più male della menzogna. E Bill non vuole affatto sapere che io e Fler ci siamo saltati alla gola nel vano tentativo di dimostrare quanto siamo migliori l'uno dell'altro.

"Perché hai in mano la Heckler, allora?"

Perchè mi sono cagato in mano in quel vicolo, piccolo.
Come faccio a dirgli che per tutto il viaggio in taxi l'ho tenuta stretta tra le dita con la convinzione che mi sarebbe servita? Non so come giustificare il brivido freddo che non mi ha mai abbandonato, nonostante l'entusiasmo di aver vinto, di aver visto lui. Di essere lì. La Heckler mi serve, ma lui non può capire. "Bill lo sai come vanno queste cose, maledizione!" Sbotto e allontano il braccio di scatto. Non volevo essere così stronzo ma è un meccanismo di difesa che ho fin da quando ero un ragazzino e questo nemmeno lui è riuscito a togliermelo. "Prima ci sono gli insulti, poi i coltelli. Alla fine qualcuno tira fuori la pistola e-"

"E qualcun altro muore!" Replica lui. "Non ve le siete tirate abbastanza tu e Fler?"

"Tu non puoi capire, bimbo," dico.

"Spiegamelo, allora."

Quando fa così, mi dà veramente sui nervi. Per quanto abbia ragione e per quanta pazienza io abbia nei suoi confronti, odio la sua insistenza su certi argomenti. Il mio mondo ha un codice comportamentale così stretto che ad allargare le maglie per farci passare lui ci ho quasi rimesso ogni cosa. La faccia, il nome. E stasera anche la vita. Vorrei dirgli che la coltellata che sta disinfettando me la sono presa proprio perché lui non dovrebbe farmi domande del genere.

"Anis."

"Non sono cose che ti riguardano," replico di scatto, imbestialito. Poi però lo vedo che trasale e non posso fare a meno di accarezzargli la testa e addolcirmi perché proprio non se le merita le mie urla. Lui che cazzo c'entra se il mio mondo fa schifo? "E' un fottuto casino, Bill, non voglio che tu ci vada di mezzo."

"Il mio copriletto lo ha già fatto," sorride e mi indica il letto. E penso che quel sorriso dovrebbe dedicarlo a qualcuno che non gli sanguina addosso così spesso. Bill è una cosa troppo bella perché la tenga io. "Quindi perché non io?"

"Perchè non è uno scherzo," replico. E invento, la mia nottata si riempie di persone con le quali ho inbastito una guerra. "Ci sono quattro dei suoi là fuori che mi stanno cercando e non so neanche se mi hanno seguito. Ho fatto male anche solo a chiamarti."

"Resta qui," esclama alla fine. "Domattina, ti fai venire a prendere dalla sicurezza della Universal. Una volta a casa non ci saranno problemi."

"Vuoi che mi prendano per un vigliacco?"

"Allora chiamiamo la polizia!"

Lo sento, anche se è appena percettibile. Lo usavamo per avvertirci a vicenda dell'arrivo della polizia quando rubavamo nei negozi di notte, da ragazzini. Un fischio con un suono preciso.
L'ho inventato io, quindi lo riconosco.

Le mie mani si stringono intorno alla pistola quasi istintivamente mentre mi avvicino alla finestra e scruto la strada là fuori tra le veneziane. Lo vedo praticamente subito, dall'altra parte del marciapiede; ha il viso pesto ma ride nella mia direzione e mi saluta con due dita sulla visiera del cappello. "Merda!"

"Che succede?"

Mentre mi chiedo come cazzo ha fatto Fler ha sapere l'indirizzo di Bill, lui viene verso di me. E io ho un brivido di terrore. "Stai lontano dalla finestra!" Gli ordino nel panico. "E' pericoloso. Voglio che stai dall'altra parte della stanza."

"Sono qui?"

Annuisco.

Il mio cervello gira più veloce del normale e il cuore pompa adrenalina come stava facendo prima che la presenza di Bill lo inducesse a calmarsi. Ora quella stessa presenza allerta i miei sensi e il mio primo pensiero non è per me, ma per lui. Non voglio che mi stia vicino perché potrebbe essere pericoloso.

Guardo Fler due piani sotto di me e i miei occhi si agganciano ai suoi. Mi guarda e per la prima volta in più di dieci anni che lo conosco non riesco a leggergli dentro niente. Se ne sta semplicemente lì, in piedi sul marciapiede e mi guarda: so che può vedermi attraverso le veneziane e, anche se così non fosse, saprebbe perfettamente dove sono.

Fler è stato un Atze prima ancora che lo fosse Saad. E forse si era scavato un posto dentro di me prima che lo facesse Bill. E in un istante mi dispiace veramente che tutto questo sia successo; davanti a questa finestra vorrei trovare un modo per rimettere a posto le cose, perché so di averle mandata a fanculo io.

So che mollando l'Aggro Berlin, ho mollato anche lui. E l'ho fatto solo per me e per i soldi che poi ho guadagnato. Dico sempre che la crew viene prima di tutto, ma con lui non l'ho fatto.

So che presentando Bill come l'ho presentato, gli ho dato un posto che non era giusto avesse. Ed è di questo che Fler mi accusa.

Vorrei poter ricostruire quest'enorme puzzle che ho distrutto, ma certi pezzi ormai non si trovano più e certi altri sono rotti senza rimedio.

Bill, poi, viene da un'altra scatola.
E mi chiedo se le sue estremità si incastreranno mai nel mio disegno, magari forzando un po'.

"Anis, ti prego! Chiamiamo la polizia!" Lo sento dire e mi giro.
Niente polizia, piccolo. Lo sai, no?

.....Denn eine Kugel reicht





Fa male, cazzo.

E' la prima cosa che penso. In realtà nell'attimo preciso non ho sentito niente, soltanto il sibilo del proiettile che frantumava la finestra. In una frazione di secondo ho capito che mi avrebbe colpito, e subito dopo è succeso. Il dolore è arrivato con la consapevolezza che non ho uno straccio di speranza. E' il fegato.

Fa male, cazzo. Cazzo.

Abbasso lo sguardo sulla maglietta macchiata di rosso e l'unica cosa che mi riesce di pensare è che non sembra affatto sangue. A casa ho una maglietta bianca con sopra il mio simbolo che è dello stesso identico colore. L'ho sempre guardata pensando che quel rosso fosse innaturale, fatto apposta per le magliette. E invece no, guarda qui: è rosso sangue. Bello limpido e chiaro.

Non ho veleno nelle vene, solo sangue.
Il King of Kingz è umano. E' questo il problema, stasera.

Ho lo sguardo fisso su quel foro minuscolo che fa un male del cazzo, porca puttana e Bill lo guarda con me. Cristo, Bill. Mi ero dimenticato che fosse qui: sta così immobile che non sembra neanche vivo. Ironico. "Bill..." lo chiamo, e lo prendo per i polsi. Voglio portarlo via dalla finestra. Se devo crepare, lo farò ma devo prima distrarlo.

Un secondo dannato sibilo.
Ancora una volta il collegamento è immediato, il movimento invece no. Il proiettile mi trapassa una gamba e mentre soffoco un gemito lo sento entrare ed uscire dall'altra parte.
Mi accascio su di lui e spero che mi regga perché stavolta proprio non ce la faccio.

Sento il rumore di gente che corre alle mie spalle, forse qualcuno ha sentito gli spari ma non m'importa. L'unica cosa che percepisco davvero è il dolore forte che ormai si è preso tutto il corpo. Anche le mani di Bill sono una presenza vaga, da qualche parte. Mi sento in dovere di rassicurarlo, non fosse altro perché mi sta andando nel panico e non è così che voglio lasciarlo. "Va tutto bene," gli dico con un po' di voce che tiro fuori non so da dove, mentre mi accarezza il viso. "E' solo un graffio."

"Dobbiamo chiamare un'ambulanza," singhiozza.

Cristo, non piangere. Non piangere. Resta qui. Allungo una mano e lo tiro verso di me. Voglio baciarlo prima di perdere sensibilità. "Shh..." Le sue labbra sono calde, morbide e umide di lacrime. "Non piangere. E' tutto a posto."

Me lo godo per quel che mi resta e me lo stringo addosso.
La sua lingua sulla mia fà ancora un dannato bene e ringrazio chi di dovere per sentire ancora i brividi lungo la schiena quando lo sento rispondere ai baci. Tra le lacrime e i singhiozzi e il sangue, è tutto dannatamente bagnato.

Non avevo mai pensato veramente a come sarebbe stato, e non ci penso neanche adesso a dire il vero. Forse non mi rimane altro che qualche minuto e non voglio sprecarlo a cercare chissà dove il senso di una vita che forse non ce l'ha mai avuto. L'unico motivo per cui è valsa la pena di un'infanzia schifosa, di essere arrestato, delle risse, l'unico motivo per tutto ce l'ho tra le braccia e tanto mi basta. Penso a suo fratello e a quante volte deve avermelo augurato mentre gli portavo via Bill notte dopo notte. "Tuo fratello sarà contento," sorrido. "Mi sono tolto dalle palle."

"Non dire così!" Stride. Quando è nervoso gli si alza la voce di botto. Cerca di liberarsi ma glielo impedisco. "Devo chiamare un'ambulanza."

Lo tengo giù con le ultime forze che mi sono rimaste e gli tiro i capelli gentilmente, perché mi guardi. Perché capisca. Non c'è più niente da fare, piccolo. Basta, smetti.
Non te ne andare. Resta qui. Voglio chiudere gli occhi con il tuo odore e le tue mani addosso.

"Anis, no..."

"Se dipendesse da me, ti assicuro che starei qui," mi sforzo di sorridere, ma non vedo già più niente. Il suo viso posso solo immaginarlo, e me lo porterò dietro. "La compagnia è senz'altro migliore.

L'ultima cosa che penso è che...


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Verräter

di lisachan
A quattordici anni, quando non hai un padre, la prima cosa che fai è cercartelo. Sei piccolo e stupido, perciò non pensi; l’unica cosa che vuoi è avere un figo davanti agli occhi e dirti “Cazzo, sì, è così che voglio essere quando sarò cresciuto. Esattamente così”.
Il primo padre che mi sono scelto era un coglione di dimensioni notevoli. Era sempre completamente fatto, l’unica cosa buona che si potesse dire di lui era che aveva un talento mica male per la… scrittura artistica, se così si può dire. È stato lui a mettermi la prima bomboletta spray in mano ed a mostrarmi come, dove e quando usarla.
E così sono finito di fronte al tribunale minorile.
Di quel giorno ricordo solo mia madre piangere sul più grande errore della sua vita ed il sollievo che provai quando il giudice mi condannò a sei mesi di servizio sociale.
Per la verità era anche ironico trovarsi a coprire il proprio stesso nome con la vernice bianca per le strade. Avevo scritto un enorme “Patrick” sul muro che delimitava il campo giochi di un asilo, ed era una scritta coi controcoglioni, azzurra e gialla, stupenda. Il pensiero di trovarmi di nuovo di fronte a quella scritta con l’obbligo di cancellarla mi dava i brividi, ma non erano brividi del tutto spiacevoli.
Annulli il passato e ti muovi verso il futuro. O qualcosa di simile.
Comunque sia, quando mi ripresentai ai servizi sociali per ricevere l’attrezzatura, i permessi e sapere chi avrebbe condiviso lo strazio con me per quel periodo di tempo, avevo rinunciato all’idea di cercarmi un nuovo padre. In qualche modo, pensavo, se non ce l’hai non ti serve.
E poi lo vidi.
Anis, tanto per cominciare, sembrava più grande di tutti gli altri. Forse perché era già così alto, così scuro, e l’atteggiamento era di quelli tipici di chi ti fa sapere senza dirtelo che è una persona pericolosa, e che perciò ti conviene stare alla larga se non vuoi trovarti coinvolto in qualcosa di brutto.
L’assistente sociale me lo indicò con un cenno del capo. Stava seduto su una sedia di plastica gialla, un piede sollevato sul sedile, la posizione svaccata di chi ha già vissuto troppo per badare alla buona educazione ed uno stecchino immobile fra le labbra.
La stanza era piena di ragazzetti ricoperti di piercing e bianchi come il latte, che si facevano fighi fra loro parlando delle loro ultime meravigliose imprese – tipo entrare nella casa del vicino per mettergli paura e rubare qualche centinaio di marchi – e che a causa di ciò avrebbero passato i prossimi mesi a portare il pranzo e la cena ai vecchi del quartiere.
Anis restava immobile. Nessuno gli rivolgeva la parola e la cosa non sembrava turbarlo.
- Ehi. – lo avvicinai, cercando di mostrarmi tosto quanto lui, - Sembra che dovremo farla insieme, questa cosa.
Lui mi lanciò un’occhiata assolutamente incomprensibile, sfilando lo stecchino di bocca senza neanche cambiare posizione.
- Tu che hai fatto? – chiese con una certa curiosità.
- Eh? – chiesi di rimando io, lasciando ricadere la mano che gli avevo porto e che lui, ne sono sicuro, non aveva pensato di stringere nemmeno per un secondo.
Anis rise.
- Come mai sei finito qui? – precisò, alzandosi lentamente in piedi.
Mi superava in altezza almeno di una ventina di centimetri. Era disturbante.
- Sono un tagger. – risposi con un certo orgoglio.
Lui non si scompose.
- E basta?
E a me diede i brividi.
Quella fu la nostra prima conversazione. Da quel momento in poi, Anis passò la sua intera esistenza a sfottermi.
So che può sembrare allucinante da dire così, ma io mi adattai subito. Voglio dire, mi adattai quando mi disse che lui era finito in galera perché spacciava. Io, che mi sentivo tanto figo ad andare in giro scrivendo il mio stupido nome sui muri di Tempelhof, mi sentii improvvisamente, oltre che scemo, anche puro come un neonato. Quello spacciava, cazzo. E gli spacciatori lo sapevamo tutti, com’erano. Non erano come noi, che giravamo col serramanico in tasca solo perché faceva figo. Loro lo usavano, il fottuto serramanico.
Mi sfotteva per il mio nome, mi sfotteva per il mio stile, perché ero troppo bianco, perché non avevo ancora mai accoltellato nessuno, mi sfotteva di continuo. Io gli davo del coglione ed ogni tanto un pugno sulla spalla o sul petto, ma Anis sembrava di ferro, cazzo. Incassava senza muoversi. E rideva. Di continuo. Di me e di qualsiasi altra cosa.
Non decidemmo noi di chiamarci Frank White e Sonny Black. Lui l’avevano già soprannominato così da tempo, come il capomafia, perché aveva tutto un suo giro di gente che già gli pendeva dalle labbra – ed aveva solo diciassette anni, cazzo, quando si dice il potenziale – perciò quando cominciai a farmi vedere sempre al suo fianco ai ragazzi venne naturale darmi del Frank White.
Anis mi sfotteva anche per quello.
- Lo sai chi è Frank White?
- No.
- Ma l’hai mai visto King of New York?
- No.
E giù risate.
- C’è questo qui, - mi spiegò, - che è Cristopher Walken, l’attore, dico, ma nel film è il signore della droga di New York. Uno cazzuto. Tu non ti sai neanche preparare gli spinelli.
Altre risate.
- E come finisce questo? – chiesi io, sbuffando, - Conquista l’America e diventa presidente?
- Ci prova. – rise lui, - Ma finisce morto ammazzato. Ovviamente. – un sospiro, - Perché, come pensi che finiremo noialtri?
Non mi spaventò, perché da quando andavo in giro con lui il pensiero della morte era molto meno spaventoso di prima. Voglio dire, puoi avere paura le prime due, tre volte che ti puntano un coltello alla gola. Ma quando la scampi – quando cominci a scamparla puntualmente – il brivido lo perdi. Ti riempi un po’ di stupido orgoglio e un po’ di presunzione, e ti ficchi in testa che morirai solo quando lo deciderai tu, perché fino a quando hai voglia di lottare puoi sempre tirare fuori un coltello più grosso o un calcio meglio assestato.
Però la sua rassegnazione aveva un che di deprimente.
Lui era in assoluto il più forte del quartiere, non avrebbe dovuto avere paura di nessuno. Eppure conosceva perfettamente la propria situazione e sapeva esattamente cosa aspettarsi dalla vita.
Era triste, in qualche modo.
- Comunque, sta’ tranquillo. – mi disse quel giorno, lanciandomi una pacca tale sulla spalla che io quasi caddi dal muretto sul quale c’eravamo arrampicati, - Prima di morire, altro che Re di New York. Io diventerò il Re dei Re.
Sul muretto, sotto di noi, avevamo appena finito di scrivere “King of Kingz”. Avevo eseguito gli ordini senza capire. Era un bel lavoro.
Scoppiai a ridere. Lui con me.
Decisi ciò che volevo essere. Uno di quei kingz ai quali lui avrebbe dato ordini. Era tutto ciò che volessi dalla vita.
*
Io lo so, cosa credono tutti. Io so tutto perfettamente. Perché Bushido mi ha chiamato traditore per anni, ma lui è così, ha un modo proprio di vedere la vita che, anche quando cozza contro la realtà, non cambia di un millimetro. Io non ho tradito proprio nessuno. Se qui qualcuno ha tradito qualcosa, quel qualcuno è Bushido e quel qualcosa siamo noi. Sono io. È ciò che c’era, ciò che sognavamo insieme.
Per la verità ogni tanto sospetto lui non abbia mai sognato in coppia con nessuno. Quando lui parlava di Re dei Re, non lo faceva come per dire “io sto sopra ma anche voi non siete malaccio, vi porto con me con piacere”. No, l’intento era un altro.
Stare sopra. Sopra tutti. Sopra tutto.
Io non ho tradito proprio nessuno. Quando siamo entrati all’Aggro Berlin, l’abbiamo fatto insieme. Quando abbiamo cambiato nome, l’abbiamo fatto insieme. Quando è uscito King Of Kingz, io ero lì. Ero in tutte le tracce. Ero nei sampler ed ero con Bushido quando Sido non gli avrebbe dato un centesimo.
Poi Bushido ha cominciato a fare i soldi. Quelli veri. Quelli che perfino Sido gli invidiava.
Chi è il traditore se, quando le cose cominciano a girarti bene, prendi e te ne vai?
Il traditore sei tu che sei andato via, o quelli che restano e che cominciano ad odiarti?
Bushido ha le idee chiare in merito. Tradisce chi resta ed odia. Chi non riesce proprio a dimenticarsi un vecchio sogno, e ci resta aggrappato con tutte le proprie forze.
Anche io ho le idee chiare in merito. Tradisce chi va via. Chi, quel sogno, lo prende e lo calpesta senza pensarci su neanche mezza volta.
In questi mesi, sia io che lui non abbiamo fatto altro che ribadire costantemente le nostre idee. Spalandoci merda addosso a vicenda. Per quanto inutile possa sembrare come modo di condurre un litigio, in realtà non abbiamo fatto altro che preparare questo giorno.
Tu non puoi adorare qualcuno e poi ficcargli un coltello nello stomaco da un giorno all’altro.
Hai bisogno di una scusa. E come scusa non basta che quella persona ti molli nella merda. Noi abbiamo avuto bisogno di lunghi mesi di diffamazione. Di dircelo in pubblico, cosa pensavamo l’uno dell’altro. Di far sapere al mondo che ora ad unirci c’era solo l’odio.
E così, giorno dopo giorno, abbiamo costruito le basi per stanotte. Offesa dopo offesa, insulto dopo insulto.
Sido pianta il freno e si lascia andare contro il sedile.
- Era qui? – chiede disinteressato. È chiaro che vorrebbe trovarsi da tutt’altra parte.
Sido ha una moglie ed una figlia. Sido è un rapper, non un criminale. Sido, con tutto questo, non c’entra niente.
- Sì. – rispondo, aprendo lo sportello, - Puoi andartene. Non c’è bisogno che resti.
Lui sospira.
- Fler, io lo voglio morto almeno quanto te. – borbotta, fissandomi con l’espressione tipica di quando vuole farmi una paternale, - Però non mi pare il caso… avanti, che ne sai che non ti si presenta con tutta la crew e ti lascia bucato come groviera sull’asfalto?
Scuoto il capo. Non può proprio capire.
- È una cosa fra me e lui. Bushido sarà di parola.
- Sì. – sospira esasperato, - Di solito lo è, eh?
Ghigno. Punto per lui.
Bushido è scorretto con chi non ritiene degno della sua onestà.
E sono in pochi.
Io, forse, avanzo delle pretese che non merito, ma voglio fidarmi. Stavolta voglio farlo.
- Non ti preoccupare, stanotte non crepo di certo. – butto lì, più per rassicurare me stesso che non per rassicurare lui. In realtà, ciò che rende questo buio così scuro, questa luna così brillante e queste strade così silenziose è proprio il brivido dell’incertezza.
Io non ho nessuna garanzia di sopravvivenza, perché la persona che un tempo mi difendeva oggi mi affronterà con una pistola in mano.
Io non ho nessuna garanzia di sopravvivenza anche perché tutto ciò cui ho potuto pensare in questi ultimi anni si condensa in stanotte. Tutti i miei obiettivi sono qui. Tutte le mie ossessioni, oggi finiranno.
La mia più grande ossessione. Me la troverò faccia a faccia in un vicolo vuoto. E toccherà a me ucciderla. O esserne ucciso.
Quando la mia ossessione arriva, mi trova seduto su un lastrone di cemento. Svaccato e perfettamente a mio agio. Per qualche secondo spero che questo possa servire a ricordargli due ragazzini in un tribunale minorile che aspettano i rulli, le tute e la vernice bianca.
M’illudo, lo so.
- Fler. – mi saluta con un cenno del capo. Io sollevo solo il mento.
- La puttanella l’hai lasciata a casa? – ghigno cattivo, mettendomi in piedi.
Lui non fa una piega. Non si muove. Neanche si offende, lo stronzo.
- Questa è una cosa tra me e te, Atze. – mi dice.
Il moto di stizza mi porta a serrare i pugni. Gli darei un cazzotto qui ed ora, senza pensarci. Ma non è il momento.
- Non chiamarmi Atze. Per me tu non sei più niente. – e sputo in terra. Sputo in terra perché lui è qui e può vederlo. Che ciò che eravamo era perfetto. E ciò che siamo adesso fa schifo.
Sputo su ciò che siamo. Sputo perché odio ciò che siamo. E perché stanotte lo ucciderò.
Lui sospira ed abbassa lievemente lo sguardo. Posso leggere perfettamente, al di là dei suoi occhi scuri come il petrolio, che sta cercando una via. Un modo per farmi ragionare, per convincermi a rivedere la mia posizione.
Questo atteggiamento un po’ mi indispone ed un po’ mi fa ridere. Bushido non è abituato a convincere gli altri con le parole. Bushido le impone, le cose. Come ha imposto la sua fidanzata nel mondo del rap tedesco, come ha imposto i propri soldi sulla giustizia austriaca quando ne ha avuto bisogno, come ha imposto se stesso su un mercato che non credeva di avere bisogno di un tunisino incazzato col mondo e pronto a sputare in faccia alla Germania per farle vedere tutte le sue brutture.
Bushido convince così, imponendosi. Ed il rap tedesco ha dovuto accettare Bill Kaulitz. E l’Austria ha dovuto chinare il capo. E la Germania ha capito che non aspettava altri che quel tunisino.
Però, con me vuole parlare.
- Fler, ascoltami. – dice a bassa voce, mettendo quasi le mani avanti, - Non abbiamo bisogno di questo.
- Quando mi interesserà sapere cosa pensi riguardo ciò di cui ho bisogno, te lo chiederò. Fino ad allora, tappa quella fottuta bocca e comportati da uomo, non da frocio accomodante.
Anche perché non lo sai, di cosa ho bisogno. Non più.
Infilo una mano in tasca. Il coltello arriva subito, neanche l’avessi chiamato. Forse lo stavo facendo. Comincio a girargli intorno come un predatore, fissandolo negli occhi.
- Cazzo. – dice lui. È frustrato. È deluso. È arrabbiato.
Ha paura.
Gli salto addosso. Non gli lascio neanche il tempo di guardarsi intorno, lo getto a terra e lo spingo sul marciapiedi con tutto il peso del mio corpo. Mi sfugge, il bastardo – ci tiene alla pelle, si vede. È cambiato anche in questo. Rotola su un fianco, io mi sollevo sulle ginocchia e lo attacco ancora, puntandolo col coltello. Ghigno, perché non è riuscito a recuperare il suo. Cerca di tenermi lontano a mani nude, ma io ho la lama. Io taglio.
Sono il traditore e faccio più male di te.
Sono il tradito, ed odio molto di più.
- Fler, piantala! – ringhia, mentre cerca di tenermi stretto per i polsi.
Forzo la sua stretta. È sempre dannatamente potente. Mi fa un male cane. Vorrei ficcargli questo coltello nella gola e risolvere il problema, ma non so se ne sarei veramente capace. Probabilmente, se mi lasciasse andare, mi fermerei.
- Vaffanculo, Anis. – digrigno i denti e gli sono così vicino che mi sento addosso il suo fiato. Ed è orribile, è tremendo, mi fa pensare cose che non dovrei, mi fa ricordare cose che non dovrei, cose che toglierebbero a chiunque la voglia di ammazzare chicchessia, pomeriggi noiosi passati a tirare le pietre nel canale, notti adrenaliniche e silenziose per fare la posta a questo o a quel debitore insolvente, fargli il palo mentre sgattaiola silenzioso fuori dal letto di una donna non sua ma che s’è preso lo stesso, ed io c’ero, io ero lì, ero davanti al suo sorriso e al suo “grazie, Atze, ti devo un favore”. E quanti favori mi devi, adesso? Te li inciderei tutti sulla pelle, Anis, uno dopo l’altro. Ma non so se ne ho davvero la forza.
Grido, rotoliamo sul marciapiedi, la felpa gli si strappa, io mi distraggo e ricevo in cambio una gomitata fra le costole che mi mozza il fiato. Cerca di riprendersi, lo stronzo, di recuperare il solito coltellino sul fondo della tasca dei jeans, ma non posso lasciarglielo fare.
Lo afferro per la gola. Stringo forte e premo fino a farmi sentire sottopelle. Fino a lasciargli addosso l’impronta delle mie dita, che poi è l’unica impronta che possa lasciargli, oltre allo strappo di una coltellata o al foro di una pallottola.
Lo sento che cede. Lo sento che smette di crederci. Lo sento e gli leggo negli occhi – annebbiati, confusi, tristi? – gli stessi sentimenti che agitavano me quando ha mollato l’Aggro Berlin. Quando mi è passato davanti come se, dentro di lui, di me fosse rimasto solo un ricordo sbiadito. Mi ha guardato sorridendo, mi ha detto “Non arrenderti”, ed io ho pensato “Allora è così che finisce, coi sogni? Ti esplodono dentro e ti lasciano devastato come neanche dopo una guerra, ma da fuori non si vede? È questo tutto quello che resta, una traccia invisibile?”.
E perciò gli faccio il verso.
Gli faccio il verso perché anche di lui resterà solo una traccia invisibile.
- Non ti arrendere. – sibilo, - Non ti arrendere… Bushido.
Ed io non so se è stata una distrazione o se in qualche modo volevo che recuperasse quel fottuto coltello e lo usasse contro di me, ma tutto quello che sento è un dolore acuto e forte sulla coscia, una quindicina di centimetri sopra il ginocchio.
Mentre grido e mi sposto di lato, tocco la ferita e sento il sangue. E penso che è giusto così. Che ce ne ha messo, di tempo, per farmi sanguinare. Ma alla fine è la cosa più giusta, perché io in realtà sanguino da anni, il problema è che il sangue non riusciva a venire fuori. Ed ora è ovunque – sulle mie mani, sui miei vestiti, sul marciapiedi. Ed è giusto così.
Ma manca ancora qualcosa.
- Chiudiamola qui. – ansima lui, tirandosi indietro.
No, non la chiudiamo qui. Manca qualcosa. Ora la sua traccia io ce l’ho addosso. Manca la mia su di lui.
- Col cazzo! – mi slancio in avanti e lo sbatto contro un muro.
Prima un calcio nelle palle, stronzo, così impari ad andare col primo fighetto di turno fottendotene perfino di ciò che sei.
E poi la coltellata. Il mio marchio. Avrei voluto piantartelo nel cuore, lo sai? Però è vero, non ci riesco.
Forse volevo solo il tuo sangue addosso. E non come le mille volte in cui sono andato recuperandoti per le strade dopo una rissa o un regolamento di conti, no. Volevo essere io a ferirti.
Sulle mie mani, il nostro sangue si mescola.
Ora siamo davvero fratelli. Ironia della sorte.
E mentre io sento il tepore del suo sangue sui polpastrelli, lo sente anche lui, scendere silenzioso lungo il braccio. E ne ha davvero paura. Sangue significa che puoi morire. Paura significa che hai qualcuno che ti aspetta.
Bushido non vorrebbe davvero essere qui.
Bushido ha qualcuno che lo aspetta.
Bushido non è più un criminale e nemmeno un rapper.
Bushido non ha più niente a che vedere con me.
Cerco ancora di schiacciarlo contro il muro, ma c’è qualcosa che non va. Si riprende. Mi tira nello stomaco un calcio tale che mi viene da vomitare. Mi allontano e ricevo come ringraziamento due cazzotti che mi fanno vedere doppio. Cado a terra. Mi fa male la gamba ed anche tutto il resto del corpo. Il coltellino è volato via. Lo vedo ad un metro circa da me, mi basterebbe allungare un braccio e recuperarlo, ma nonostante la ferita Bushido è più veloce. Lo scalcia lontano, ed io non lo vedo più.
La sua voce mi raggiunge alle spalle.
- La chiudiamo qui.
È netta e cupa.
È dolorosa.
È stupido, ma non ho più voglia di lottare. Lo ascolto allontanarsi e non mi muovo più.
*
Terremoto.
No. Mani. Mi scuotono.
- ‘ca puttana, Fler, riprenditi.
La voce. È Sido.
Apro gli occhi.
- Cazzo. – continua lui, - Cazzo. Sei ferito.
- Sì… lo so da me, grazie. – ansimo, cercando di rimettermi quantomeno seduto.
- È profonda?
Lancio un’occhiata alla mia gamba. Ovviamente non posso guardare attraverso i jeans, ma quello che sento lo so benissimo.
- Ho visto di peggio. – mormoro, mentre lui mi aiuta ad alzarmi, - Tranquillo. Te l’ho detto che non crepo, stanotte.
- Sì, certo. – borbotta Sido, tirandomi in piedi, - Ce la fai a reggerti?
Mi allontano da lui e ci provo. Annuisco.
- Perfetto. Allora vieni in macchina, ti porto all’ospedale.
Rifletto.
- Ho da fare.
- ‘Cazzo hai da fare, Fler, hai un buco in una gamba! – mi rimprovera lui, evidentemente esasperato dalla situazione. Per un attimo mi dispiace. Se sono rimasto lì arrotolato per terra non era per il dolore alla gamba. Era per il dolore a tutto il resto. Mi dispiace che si sia preoccupato per qualcosa di così stupido, Sido non merita niente del genere. Lui è un uomo d’affari ed un cantante. Non merita questo.
- Ho un conto da regolare. – spiego, il più pacatamente possibile, - E se non lo risolvo stanotte, non lo risolvo più.
C’è assolutamente qualcosa che devo dire ad Anis.
A me basta così. Io sono stato abbastanza male. Anche lui. Possiamo… siamo pari. Lo siamo davvero.
- Mi sono rotto i coglioni. – risponde Sido in un ringhio di frustrazione. Poi sospira. – Dov’è che devo portarti?
Gli sollevo addosso un’occhiata incredula.
- Come, scusa?
- Sei ferito ad una gamba. Prima risolviamo qui, prima ti porto all’ospedale. – ragiona nervosamente, - Devo ricordarti che sei la punta di diamante dell’Aggro Berlin? – chiede poi con un cipiglio dittatoriale che è ciò che ha permesso a questa sua faccia da nerd di sopravvivere nonostante tutto in questo mondo assurdo. – E certi legami contano sempre, Atze. – aggiunge poi, - Perciò, dimmi dove devo portarti.
Mi viene un po’ da ridere e lo seguo fino alla BMW. So esattamente dov’è andato Anis. So anche come raggiungerlo, il posto, perché una cosa non è riuscito a farla, ed è stato tenere nascosto l’indirizzo di casa sua. Cose che capitano, quando la tua fidanzata campeggia sulla copertina di Bravo una volta ogni due settimane. Qualcuno fa una foto e tu casualmente riconosci il quartiere e magari anche il palazzo.
Indico a Sido dove andare e, quando ci arriviamo, mi faccio lasciare a qualche metro dalla traversa giusta.
- Aspetta qui. – dico piano.
Lui non risponde, spegne il motore, le luci ed accende la radio.
Io mi muovo piano. La gamba mi fa un cazzo di male, ma non è il momento di pensarci. Il palazzo lo riconosco subito. Sto qui che cerco di capire se posso suonare il campanello o qualcosa del genere, ed oltretutto mi chiedo se conosco davvero Bushido al punto da indovinare le sue mosse – non è mica detto sia qui, in fondo – quando sento qualcosa che mi confonde.
Mi confonde perché è il nostro fischio. Ma non è Bushido a farlo, perché lo riconoscerei. E non sono nemmeno io. Posso esserne ragionevolmente certo.
Non so chi è che abbia fischiato, ma non avrebbe dovuto farlo.
Sollevo lo sguardo sul palazzo e vedo una figura scura affacciarsi ad una delle finestre. È lui. Lo vedo. Lo saprei anche se non lo vedessi. Mi guarda, lo guardo, non capisco cosa sta succedendo. Vorrei avvertirlo, c’è qualcosa che non mi torna. Vorrei dirgli che siamo a posto, più di ogni altra cosa.
Siamo a posto, Atze.

.....Denn eine Kugel reicht

- Cazzo è successo?! – è la prima voce che sento. Ed è Sido che, evidentemente, m’ha seguito. – Fler!
- Non sono stato io! – urlo a mia volta, agitato. Al primo sparo si sovrappone il secondo. L’eco dal primo non s’è ancora spenta nel vicolo vuoto. Si aggiunge un urlo. È la voce di Kaulitz. Passi. Non so di chi. Luci che si accendono, qualche cane che abbaia.
La sinfonia distorta di un omicidio.
Sollevo lo sguardo sulla finestra, che è ancora buia, ma non c’è più nessuna sagoma. Siamo solo io e Sido in un fottuto vicolo deserto, e questo è molto male.
Sido mi tira via.
- Vieni, porca troia! Merda… - mormora furioso, - Merda, siamo nella merda…
Ed io penso che è vero.
Fisso la finestra. Non urla più nessuno.
Cominciano a sentirsi le voci delle altre persone, però. Fra poco qui sarà un disastro, ed io so esattamente con chi se la prenderà l’universo intero quando Bushido sarà morto.
…la mia ossessione è morta.
Ed io non posso prendermela neanche con me stesso.
*
L’ultima settimana della mia vita è stata in assoluto la peggiore. Non mi hanno neanche lasciato il tempo di soffrire in pace. E questo, per uno come me – che s’è crogiolato nel dolore e nel risentimento per anni, prima di decidersi a farne qualcosa – è stato tremendo. Ho risposto a non so quante domande. Sido ha continuato a rimproverarmi per ore, ed io mi sono sentito molto un bambino. Molto stupido.
Stavo molto male.
Ecco tutto.
Ma sono qui. Sono qui perché c’è anche lui, qui. È dentro una bara e non può sentirmi, ma cazzo, mi ha visto, prima di morire. E quindi io dovevo esserci. Anche se forse non sono abbastanza uomo da farmi vedere – perché non hanno potuto incriminarmi, visto che la mia pistola non ha sparato, ma l’ersguterjunge non ha bisogno di documenti ufficiali per sapere su chi gettare il biasimo di questa morte.
Solo che no, non sono stato io.
Io non volevo neanche.
La signora Luise piange rumorosamente. Abbraccia Saad, che la sostiene come un cavaliere, fissando gelido di fronte a sé. La signora Luise mi fa una pena infinita.
La signora Luise probabilmente adesso mi odia, anche se è l’unica donna oltre mia madre che ricordi la mia data di nascita, e questo perché le feste di compleanno le ho organizzate a casa sua per anni, prima di entrare all’Aggro Berlin con Anis.
Prima di diventare grande.
Troppo grande.
Mi mancano, quei pomeriggi.
Sto molto male, vaffanculo.
Sido è quasi in prima fila, in rappresentanza dell’Aggro Berlin. So che non vorrebbe essere qui, ma lui è uno responsabile, ed è uno con le palle, perciò s’è presentato. Davanti a tutti e senza chinare il capo, anche se, lo so, tutta l’ersguterjunge lo tratta come fosse un mandante o chissà che.
Tutte balle. Non so come faremo ad uscire da questa rete di stronzate.
Quando arriva la macchina nera che accompagna Kaulitz, ce ne accorgiamo tutti. Si irrigidiscono tutti. È una sensazione che rende elettrica l’aria, ed arriva fino a me, che sono nascosto dietro una stupida enorme tomba di famiglia a metri e metri di distanza.
Lo osservo scendere dalla macchina. È in nero, sembra minuscolo e stravolto. Mi fa pena anche lui. C’è il fratello, al suo fianco, ma resta in disparte. Lo vedo che gli stringe appena una spalla, come per consolarlo, e poi Kaulitz si muove da solo. La fidanzata che si cerca un posto.
Fosse stato davvero una donna, la donna di Anis, l’avrebbero lasciato passare con tutti gli onori. Ed invece guardalo, non lo lasciano nemmeno avvicinarsi. Deve andare a prenderlo Chakuza. Chakuza, Cristo santo. Non ha diritti, il ragazzino.
Saad s’irrigidisce e lascia la signora Luise alle cure della propria madre. Si allontana e poi lo perdo di vista. Non ci bado molto, osservo il prete che si lancia in un discorso privo del benché minimo senso, che Anis odierebbe. Cazzo, la saltavamo insieme, la messa della domenica. Ed in ogni caso lui era sempre troppo scuro per piacere alle brave famiglie che trovavamo fra le panche in chiesa.
Io mi appoggio contro la parete del mausoleo e mi viene un po’ da ridere.
Sarebbe una bella cosa, farsi una risata. Peccato io stia piangendo come non mi capitava da anni.
- Bella faccia tosta a presentarti qui.
Mi volto, accanto a me c’è Saad.
Non rispondo.
- Sappiamo tutti che sei stato tu.
- Allora sapete molto più di quanto non sappia io. – rispondo seccamente.
Faccio per voltarmi ed andarmene, perché questo confronto è proprio l’ultima cosa che voglio.
- Ti incastreremo. – dice lui, freddo e pratico.
Scrollo le spalle.
Saad non piange.
È tutto ciò che riesco a pensare.

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Chained To You

di lisachan
Questa serata si conclude come si concludono tutte le mie serate da una quantità di settimane così enorme da risultare quasi disturbante, se ci penso.
Io non sono una persona molto paziente. So esserlo, certo, quando ne riconosco l’utilità – o quando preferisco così – ma tendenzialmente la mia pazienza si esaurisce nel momento stesso in cui, dopo aver detto no, mi trovo ad ascoltare nient’altro che una richiesta più insistente di prima.
Se dico no è no. Ed è sempre stato così.
Per un qualche motivo che non comprendo, i miei no non hanno alcun effetto su Bill.
E questo è disturbante.
Mi aspetta sotto casa come al solito; stringe fra le mani un sacchetto di plastica e sta tutto avvoltolato in una specie di piumino dentro al quale il suo corpo magro e ossuto si perde senza speranza. Mi avvicino con un sospiro poco convinto.
È stata una giornata pesante e non ho voglia di dire no a nessuno.
Negare è sfiancante. Per negare devi motivare il tuo rifiuto. Accettare è molto più semplice, basta un mezzo sorriso.
Quando arrivo al suo fianco, stringendo in mano le chiavi di casa, so già che non sarò in grado di negare alcunché.
- Immaginavo che saresti tornato tardi… - sorride lui, serrando le dita attorno alle maniglie del sacchetto, - Avevi le registrazioni per quel video… - lo vedo che si sforza, mi viene quasi da ridere. – Reich…
- Sì. – taglio spiccio, infilando le chiavi nella serratura e facendola scattare poco dopo, - Quello. – preciso con un ghigno, sapendo che non ricorderà mai a memoria il titolo. Mi chiedo se abbia mai ascoltato la mia musica, o se tutta questa storia che si trascina da eternità non sia solo ciò che resta di un fratello che mi idolatrava e di qualche flirt un po’ troppo spregiudicato in televisione.
Nonostante la luce gialla dei lampioni renda l’aria della notte quasi fosforescente, lo vedo per un secondo illuminarsi di qualcosa di più puro del neon.
- Reich mir nicht deine Hand! – conclude con un sorriso, - Era questa, giusto? Mi avevi parlato di un video in riva al mare…
Sinceramente stupito, inarco un sopracciglio.
- Già. – annuisco aprendo la porta, - Be’?
Lui deglutisce e sembra ricordarsi solo adesso perché è qui. Solleva il sacchetto all’altezza del viso.
- Ti ho portato qualcosa da mangiare. – dichiara tranquillo, - Spero che ti piacciano gli hamburger.
- A chi non piacciono? – chiedo retorico, facendogli strada in casa.
Karima si affaccia dalla cucina. Dalle sue spalle arriva l’odore sottile e insinuante del soffritto di cipolle appena messo sul fuoco.
- Buonasera, signor Ferchichi. – mi saluta educatamente, - Il signor Kaulitz si ferma per cena? – chiede poi, salutando con un cenno del capo Bill al mio fianco.
- Sì. – annuisco io, rimpiangendo già qualsiasi cosa meravigliosa stesse preparando, mentre il mio buongusto abdica in favore di Bill, - Ma non c’è bisogno di preparare. Bill ha portato qualcosa.
Questa donna, che conosco da anni, sorride in un modo che mi fa un po’ paura, annuisce e si ritira in cucina per tirar giù la padella dal fuoco. Io sospiro ancora – perché ci sono volte in cui mi sento molto una pedina di qualcosa che non mi piace affatto – e faccio strada a Bill all’interno della casa, per quanto mi renda conto sia ridicolo, visto che ormai la conosce fin troppo bene.
- C’era freddo? – mi chiede all’improvviso, mentre sistemo i panini – una quantità industriale – sul tavolo di fronte a noi.
Sollevo lo sguardo.
- Cosa? – ribatto, vagamente confuso.
- …dove avete girato. – precisa con imbarazzo palpabile, giocando nervosamente con un paio di fazzolettini di carta sottilissima tirati fuori dal sacchetto, - Era in riva al mare, perciò ho pensato… forse faceva freddo.
Non so davvero cosa dovrei rispondere.
- Avevo il giubbotto. – dico alla fine. Non so se sia la risposta giusta, perché non ho la minima idea di cosa mi abbia chiesto.
- Ah. – annuisce Bill, e scosta la sedia dal tavolo per accomodarsi di fronte alla distesa di panini. – Tu quali preferisci? – chiede ancora, esitando nello scegliere la propria cena, - Ne ho presi di tutti i tipi, ce ne sono con le cipolle, coi cetriolini, senza niente, e poi col pollo, col manzo, credo, col vitello, forse uno col pesce ma non ricordo, è che non so che-
- Uno qualsiasi andrà bene. – lo fermo, sedendomi al suo fianco un po’ stordito, - Sei la solita macchinetta. – commento con un mezzo sorriso.
Lui aggrotta le sopracciglia ed io mi mordo un labbro. L’ho offeso.
- Tu, invece, sei il solito pezzo di ghiaccio. – ritorce. Il suo tono è glaciale almeno quanto mi accusa di essere, e le parole suonano come stilettate in un posto che non saprei identificare, ma fa un po’ male.
Forse è questa l’abitudine. Quando sei affezionato ad un sorriso e quello, all’improvviso, si spegne.
E tu non hai neanche capito che in realtà ti piaceva.
Scrollo di dosso i pensieri molesti, perché devo cercare di ricordarmi che qui si sta parlando di me e di Bill Kaulitz, non di una coppia da fotoromanzo. Queste idee malsane non dovrebbero neanche sfiorarmi.
- Vuoi litigare? – chiedo stancamente. Spero che risponda no, perché io non voglio.
Bill sospira.
- No. – risponde mesto. Bravo bambino. – Ma potresti essere un po’ più gentile, magari.
Sbuffo un mezzo sorriso e mi allungo verso di lui. Non ho la minima idea di cosa sto facendo, dev’essere il sonno. Gli passo una mano fra i capelli – sono morbidi e tiepidi – e poi la lascio scivolare sulla sua spalla – appuntita e spigolosa – stringendola con una sorta di affetto mal dissimulato.
- Sono esausto. – ammetto, dirigendo la stessa mano che l’ha toccato verso i panini, per recuperarne uno a caso, - Tu che hai fatto, oggi?
Lo osservo soffermarsi un attimo sul mio volto, come incuriosito dalla mia espressione. La mia espressione dev’essere piuttosto stupida, perché lui si mette a ridere. Non è fastidioso – non completamente, ma…
- Ti ho fatto una domanda, potresti anche rispondere. – protesto, aggrottando le sopracciglia.
- Sì, certo. – dice lui, spegnendo la risata e scacciando via una piccola lacrima di divertimento dagli occhi, - Sono stato un po’ in giro. Nulla da fare. Una noia. Ho giocato con Tomi.
- Il ritratto perfetto della giornata di un bimbo diligente. – dico con un sorriso, addentando il panino e rendendomi conto di avere in effetti un certo appetito.
- Be’, poi sono scappato e ho preso la cena. – completa lui, scrollando le spalle, - Non tanto diligente.
- Bill. – sospiro, mandando giù il… sarà pollo? Non riconosco il gusto. Potrebbe non essere neanche carne, per ciò che so o che m’importa. – Il tuo manager sa perfettamente che sei qui, così come sa perfettamente che sarai a casa prima di mezzanotte. Come Cenerentola.
Bill s’arruffa tutto come un pulcino, quando è arrabbiato.
È quello che fa anche adesso.
- Ci tieni tanto a guadagnarti la fiducia di David? – scocca a bruciapelo, - Fai sempre quello che dice lui!
- Ma non lo faccio perché lo dice lui. – preciso sorridendo, - Quello è il tuo compito.
- Be’, nemmeno io faccio le cose perché le dice lui. Anzi, - sospira pesantemente, - in genere, quando le dice, non le faccio e basta.
Ridacchio.
- E quindi sei qui per una sorta di ribellione adolescenziale nei confronti della tua figura paterna del momento?
Se lui può arruffarsi, posso anch’io.
Bill si morde l’interno di una guancia ed abbassa lo sguardo, offeso. Improvvisamente, me lo rivedo com’era due giorni fa, in questo stesso salotto, mentre cercava di convincermi a lasciarlo dormire con me. Allora dissi qualcosa di molto simile – qualcosa di molto stupido tipo “sei qua solo perché ti sei fatto un film che con la realtà non c’entra niente”. Non si dovrebbero mai dire cose simili a qualcun altro, perché in fondo non puoi sapere niente che cosa gli gira per la testa.
Un sentimento è un sentimento.
Ciò che provi non smetti di provarlo se ti dicono che non è reale.
Questo vale per Bill e purtroppo vale anche per me.
- Ora che ci penso… - commento distaccato, cercando di darmi un tono e farmi forza: se riesco a rimandarlo a casa anche stasera, magari non si ripresenta più. – È giusto l’ora della nanna. Se ti chiamo un taxi adesso, magari arrivi a casa in orario.
Scatta in piedi con la furia di un cucciolo in pericolo di vita. Non ha la minima idea di come difendersi, ma lo farà finché ne avrà la possibilità.
- Posso restare a dormire qui. – propone pacatamente, stringendo una mano attorno al bordo del tavolo, come volesse aggrapparvisi per non volare via.
A causa di cosa, non lo so, visto che sono tutto meno che forte come un uragano.
- No che non puoi. – nego risoluto.
- Hai milioni di stanze! Non devo stare per forza da te!
- Sì, e poi finisce come, quand’era?, la settimana scorsa? Devo ricordarti come mi sono svegliato?
Bill arrossisce ed abbassa lo sguardo.
- Non posso fidarmi di te. – continuo, - Non se t’intrufoli in camera mia nottetempo e cominci a… Bill, avanti, siamo seri. – scuoto il capo, il pensiero confonde anche me. Quella notte s’è stretto al mio corpo come non volesse più lasciarlo andare. Mi ha baciato, e d’improvviso ho realizzato quanto pericolosa fosse questa relazione, e quanto ancora più pericolosa potrebbe diventare se si concretizzasse in qualcosa di serio. Non posso lasciare accadere niente di simile. Io non sono un pazzo e non sono un suicida. – Torna a casa. – sollevo lo sguardo su di lui e non ci metto molto a capire che fra un po’ scoppierà a piangere. Mi avvicino, sfiorandogli una guancia con due dita. – Sei piccolo e molto molto avventato. Non hai idea di cosa sta succedendo.
E non hai idea di cosa mi stai facendo.
Lui solleva una mano e stringe con forza le mie dita fra le sue. Ho fatto male a toccarlo. Ho fatto malissimo.
- Non mandarmi via. – sussurra avvicinandosi ancora, fino ad aderire completamente al mio corpo, - Io non sono un problema. Cazzo, io ti amo.
Non so come faccio a trattenere il lamento di puro dolore che mi nasce in gola.
Io non so come governarlo.
Non so come fermarlo.
Non ho idea di come dovrei gestirlo, questo ragazzino così stupido.
So che fino ad un secondo fa il suo corpo era premuto contro il mio solo perché lui lo voleva. Adesso, però, adesso che me lo stringo contro, lo voglio anche io.
Io non sono bravo a mentire.
A me le menzogne non piacciono.
La verità è importante al punto che me la sono scritta addosso.
Lo bacio senza la minima delicatezza, perché nessuno di noi due la vuole. Non sono io. Quello che si contiene e quello che rimane impassibile e quello che non tocca e quello che nega e quello che rifiuta. Non sono io. Questa cosa fredda non sono io.
Il corpo di Bill è così caldo che riscalda tutto.
Lo sento sotto le dita, mentre le lascio scivolare sotto la sua maglietta, e lo sento sulla pelle del mio collo, dove il suo viso si posa alla ricerca di un riparo dall’imbarazzo, e dove le sue labbra si fermano, incerte su cosa fare. Così imparo la sua forma: la linea dritta dei suoi fianchi, la curva morbida della sua pancia, le colline e le valli della sua spina dorsale. La magrezza delle sue braccia e la pelle un po’ ruvida sui tatuaggi. La fragilità della sua nuca e l’impeto della sua eccitazione, premuta forte contro la mia in una sfida senza vincitori che è solo la dimostrazione fisica del nostro desiderio.
Lo spingo indietro fino al tavolo, buttando giù i panini per terra, e penso distrattamente che Karima domani mi maledirà in tunisino finché non mi verrà la nausea per le mie stesse radici.
Bill ride contro il mio orecchio.
- Ops.
Rido anche io.
- Sei una peste. – commento baciandolo in punta di labbra, un attimo prima di liberarmi dell’ingombro della sua maglietta.
- Ehi… - biascica imbarazzato, stringendosi a me come ad una coperta, - Li hai fatti cadere tu…
Le mie mani sfidano l’orlo dei suoi jeans e lo sconfiggono, passando oltre. È morbido e dolce, Bill, e fa dei mugolii deliziosi quando scendo a stuzzicarlo fra le natiche.
Mi piace il suono. Ne voglio ancora.
I pantaloni che indossa sono così stretti che mi rendono i movimenti difficili. Lui se ne accorge e sbuffa, agitato.
- Tirali via! – biascica ansiosamente sulle mie labbra, mentre le cerca per un altro bacio.
Obbedisco su tutti i fronti, i pantaloni scompaiono ed il mio movimento si fa più libero. Posso stuzzicarlo anche fra le gambe. La morbidezza delle sue cosce si chiude attorno al mio polso, mentre lo sfioro per tutta la lunghezza della sua erezione, prima di afferrarlo saldamente alla base e cominciare ad accarezzarlo con più decisione.
Bill si aggrappa con forza alle mie spalle. Poi cambia idea e mi si stringe al collo, come non si sentisse sicuro di restare in piedi, se non può avvolgersi completamente attorno a qualcosa. Alla fine, lascia andare un mugolio di pura frustrazione e, mentre io sto quasi abituandomi all’idea di stare facendo una sega ad un maschio che non sono io stesso e che è Bill Kaulitz, stringe i pugni attorno alla mia maglietta e la solleva furiosamente, tirandomela via di dosso.
- Non è giusto che stia così solo io… - borbotta scendendo e mordicchiarmi nervosamente le spalle ed il petto.
Io lo trovo tenero, non posso farci niente.
Lo afferro sotto le ginocchia, mettendolo seduto sul tavolo ed interrompendo i suoi lamenti con un altro bacio, mentre mi sistemo fra le sue gambe ed i nostri bacini collidono, azzerando la mia capacità di pensiero razionale.
- Fai piano… - sussurra lui ad un millimetro dalle mie labbra, ed io sorrido divertito, perché non ho ancora cominciato a fare niente.
Lo sento tremare sotto le mie mani. Non so se sia nervoso perché non si fida o perché l’aspetta da tanto tempo che non vedeva l’ora. In ogni caso, sono nervoso anche io. Ed il motivo proprio non lo so. So, però, che non devo perdere la calma. Né la lucidità.
Perché qua io potrei tranquillamente lasciarci il cervello.
E non è proprio il caso.
La logica stringente del mio raziocinio si scontra contro i baci di Bill. Che sono peggio di qualsiasi droga io abbia mai provato – e credo non me ne sia sfuggita nemmeno una – perché mi sento completamente fottuto nel momento stesso in cui lui artiglia i miei pantaloni e li sbottona, e quelli, totalmente dimentichi della mia volontà, proprio non ci pensano a restare su, e si lasciano ricadere inermi a terra.
Il tessuto che ci separa adesso è niente.
Anche del mio cervello non resta più niente.
Cerco di pensare. Cerco di riportare alla memoria la planimetria del mio appartamento. Quanti metri ci separino dalla camera da letto – chilometri, se ricordo ancora la disposizione delle stanze. Chilometri, la maggior parte dei quali su scale. Ma poi: ci sono dei preservativi, in casa? Be’, quelli dovrebbero esserci. C’è del lubrificante? Mi sembra già più improbabile.
- Bill… - faccio per chiamarlo, e non so se essere felice o triste o completamente rincoglionito e basta, - Non c’è-
- La mia borsa. – mugola lui, come la ricordasse solo in quel momento, stendendosi lungo tutta la superficie del tavolo per raggiungerla dov’è, agganciata allo schienale di una sedia.
Dio mio, è bellissimo.
Ma cos’ho guardato, fino ad oggi?
Scendo sul suo petto e gioco con un capezzolo, lingua e denti. Bill chiude gli occhi e ferma il braccio; poi si fa forza, recupera la borsa e la lascia ricadere con un tonfo accanto a noi. Io non mi separo da lui neanche per un secondo, e lui continua a lanciare mugolii che mi mandano fuori di testa, mentre cerca qualcosa sul fondo di un borsone che sembra profondo come quello di Mary Poppins.
Alla fine, riemerge con un tubetto in plastica bianca che si posa sulla pancia. Lo prendo tra le mani e lascio un bacio sopra al suo ombelico, mentre lui torna a cercare i preservativi e li trova immediatamente.
Mi allontano da lui, eliminando i restanti indumenti di troppo, ed indosso il preservativo.
Lui mi guarda come mi vedesse per la prima volta.
- Problemi? – chiedo sarcastico, inchiodandolo al tavolo fra le mie braccia.
Lui si copre il viso con entrambe le mani, ma riesco a vedere il rossore sulle sue guance, nonostante tutto.
- È bellissimo! – butta lì velocemente, in un singhiozzo imbarazzato che è semplicemente una delle cose più carine del mondo.
Rido a bassa voce e mi avvicino a lui, cercando a tentoni il tubetto di lubrificante che ho lasciato da qualche parte sul tavolo.
La sua morbidezza accoglie prima i miei polpastrelli, che la accarezzano in lungo e in largo, cercando di lubrificare il più possibile, e poi le mie dita. Non ho la minima idea di cosa dovrei fare, cerco di pensare a cosa preferirei fosse fatto a me ma non riesco molto bene nell’impresa. Mando un indice in avanscoperta, Bill ansima contro il mio collo e mi chiede di non fermarmi. Lo tocco piano, non mi sembra una cosa strana, mi sembra strano non averlo fatto prima.
- Ancora… - bisbiglia dopo un po’, - Ancora, ti prego…
A me sembra presto, per ciò che chiede. Mando in avanscoperta anche il medio, ed in effetti era presto, perché lo sento irrigidirsi a disagio tutto intorno a me, e le sue unghie si chiudono con forza sulla mia pelle.
- Tutto okay? – chiedo soprapensiero, mentre lo bacio su una guancia.
Lui annuisce.
- È un po’ ingombrante. – risponde, - È un po’ come te.
Per un attimo, mi preoccupo.
Sta parlando di due dita.
Non so davvero come potremo arrivare a sopravvivere a questa notte.
Lascio il suo corpo e lui mugola contrariato, spingendosi contro di me come a voler cercare di recuperare ciò che lo riempiva.
- Aspetta, aspetta… - sussurro fra i suoi capelli. Ho come l’impressione che dovrò essere io a imporre il passo successivo. Dannazione. Così sembra colpa mia.
Sono pensieri stupidi, comunque.
Mi spingo lentamente contro la sua apertura e, come immaginavo, la resistenza è ostinatissima.
- Non ti fermare. – ordina lui, trattenendo il fiato.
Io scuoto il capo e lo stringo a me.
- Puoi mordere, se vuoi. – annuisco deciso.
Bill schiude le labbra e poi le richiude attorno alla mia spalla.
Io aspetto. Poi mi muovo.
I suoi denti si conficcano nella mia carne con tanta forza che la sento strapparsi e cedere. Ma non è il mio turno di provare dolore, perciò non dico una parola.
Rimango fermo per qualche secondo, e faccio una fatica disumana perché qua dentro si sta bene da impazzire. Bene proprio da morirci senza rimpianti. Ho voglia di sentirlo mugolare ancora, vorrei sentirgli chiamare il mio nome, ma tutto ciò che sento sono respiri spezzati e la difficoltà di un bambino di abituarsi a qualcosa di troppo difficile.
- È davvero come te… - lo sento ansimare alla fine, già esausto.
Riprendo a muovermi con un sospiro di sollievo, e lui non riesce neanche a lamentarsi.
- Mi dispiace, piccolo. – sospiro baciandolo, - Sei bellissimo, lo sai?
Ha le lacrime agli occhi ed è bellissimo davvero.
- Sì, lo so. – trova le palle di rispondere, e d’improvviso penso che lo amo anche io. Che non me ne fotte un cazzo di niente, posso tenerlo fra le braccia anche se è maschio ed anche se tutto ciò si tramuterà in un disastro enorme.
Posso perfino andarne orgoglioso.
Ne vado orgoglioso, cazzo.
- Oddio. – si lamenta quando le mie spinte si fanno più potenti, - Ti manca molto?
Ghigno un po’.
- Che domande…
- Scusa! – biascica, - È che non so… fa un po’… non me ne sto pentendo! – si affretta a precisare, - …cosa devo fare…?
Tu niente, penso con fin troppa naturalezza, faccio io.
E lo faccio davvero. Ricomincio ad accarezzarlo fra le gambe, e le mie spinte e le mie carezze diventano un movimento unico. Vanno a ritmo coi suoi sospiri, coi suoi mugolii strozzati e con le spinte del suo bacino incontro al mio. Per un attimo sorrido, perché questo sì che è senso musicale.
Affondo con forza, così in profondità che ho paura di spaccarlo in due, ed è allora che lui rilascia un mugolio completamente diverso dai precedenti, e la sua stretta si fa più forte.
- Lì… - implora a mezza voce, - Era lì…
Annuisco e mi nascondo contro il suo collo. Non so se sono imbarazzato o ho solo voglia di lui. Comunque il suo collo è un buon rifugio, mentre torno a spingere ad un ritmo più serrato, cercando di colpire di nuovo il punto che l’ha fatto godere. I suoi lamenti scompaiono. Si fanno richieste. Ed io, a sentir dire certe cose da questa vocetta da bimbo mai cresciuto, perdo pure il senso del limite. Spingo con violenza, ma lui non protesta. Continua a riempirmi le orecchie, così, più forte, ancora, Dio, Anis, e quando lui lo dice, davvero, quando dice il mio nome, scarico una spinta che mi stordisce, come mi stordisce l’orgasmo mentre si schianta contro il preservativo e lascia me in stato di semicoscienza, completamente abbandonato contro il suo corpo.
La mia mano attorno alla sua eccitazione è umida.
Sorrido trionfante. Lui lo nota e mi dà uno schiaffo sulla nuca.
- Sei tremendo. – decreta alla fine, serrandosi attorno a me come il disastro che è.
Io mi riservo il diritto di non rispondere. Ed anche di non pensare.
Quando il sangue tornerà a circolare naturalmente nelle mie vene, e quando l’ossigeno tornerà ad arrivare al cervello, forse capirò per bene l’immenso casino in cui mi sono appena cacciato. Un immenso casino che sono le dita magre ed agili di Bill che disegnano il tatuaggio sul mio collo. Un immenso casino che sono i suoi capelli a solleticarmi il naso. E le sue gambe ancora attorno ai fianchi.
È un immenso casino che realizzerò dopo.
Adesso, devo solo ritrovare la camera da letto.

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Del Perché Bill Si Ritrovò A Dover Comprare Una Casa Nuova

di lisachan
Io e Tom non abbiamo ancora imparato ad andare d’accordo e, per come mi sta guardando in questo momento – come volesse prendermi a cazzotti ma non si sentisse ancora fisicamente pronto a farlo, un atteggiamento tipico dei ragazzini – penso che non impareremo mai. È una cosa di cui in un certo senso mi dispiaccio, è una cosa di cui si dispiace Bill – per il quale è fondamentale che le persone che ama vadano d’accordo – è una cosa di cui si dispiace Jost – che vorrebbe sempre pace intorno a sé, mentre io e questo scricciolo coi rasta seguitiamo a privarlo in questo senso – ed è una cosa di cui si dispiace pure la mia crew, soprattutto Chakuza e soprattutto quando lo mando a prendere Bill in momenti in cui è con Tom. Ammetto di farlo apposta, ecco. Solo che Chakuza non sono io e Tom non si permette di guardarlo con gli occhi con cui guarda me. E, in ogni caso, sa bene che a Chaky non dà fastidio prendere a tirargli uno scappellotto sulla nuca per rimetterlo a cuccia. Io, invece, Tom non posso toccarlo.
Per questo motivo – perché devo fare il bravo, insomma – adesso cerco di stare tranquillo e non farlo rotolare fino alla parete di fronte con una schicchera sul naso, e mi appoggio allo stipite della porta, reggendo il mio pacco regalo ben stretto sotto il braccio. Lui mi guarda come un leoncino incazzoso, e stringe la presa sulla porta. Sembra indeciso sulla possibilità di scostarsi o sbattermela in faccia.
- Cosa. Ci. Fai. Tu. Qui.
È incredibile come, attraverso lo schermo di un televisore o fra le pagine patinate di una rivista, possano passare messaggi così distorti. Il mondo intero è convinto che il gemello rompiballe sia Bill. Bill – e posso assicurarlo di persona, perché io sono un uomo paziente ma ho dei limiti molto rigidi – è delizioso. Una volta che chiarisci bene patti e regole, andare avanti con lui è meraviglioso, perché non sgarra di niente. Cammina sempre lungo la linea tratteggiata, non inciampa e, se deve farti il casino, te lo fa privatamente.
Tom, invece, è una piaga solenne. Dio mio, è intollerabile. Io non so come faccio a non spaccargli la faccia come meriterebbe ogni volta che posso o ogni volta che me ne dà occasione – tipo quando parla con l’aria di una checca oltraggiata, calcando le sillabe ed usando punteggiature opinabili.
- In quella domanda, se era una domanda, - preciso rimettendomi dritto, visto che gli atteggiamenti fascinosi che mandano Jost in brodo di giuggiole su Tom non hanno il minimo effetto, - tanto per cominciare ci andava un punto interrogativo sul finale. E poi ho come l’impressione che-
- Tu non dovresti essere qui! – mi fa notare, ignorando apertamente la lezione di grammatica che stavo faticosamente tirando su solo per lui, - Tu e Bill avete litigato! Gli hai tirato un pacco enorme per il compleanno!
Sospiro pesantemente e non fatico ad immaginare perché Tom abbia il dente così avvelenato sul punto. Bill, in genere, non si lagna con lui di me, visto che sa che il fatto che stiamo insieme non gli va giù. Ma suppongo che la faccenda del compleanno mancato l’abbia mandato abbastanza su di giri da impedirgli di considerare chi – della massa indistinta di spalle su cui piangere che vede quando è depresso – fosse la persona con cui stavaparlando.
- Questo è esattamente il motivo per cui sono qui, Tom. – rivelo quindi, sospirando ancora, - Mi dispiace non essere potuto venire a festeggiare con voi i diciott’anni-
- Per quello che mi riguarda, mi hai fatto un regalo bellissimo!
- …ma ho avuto da lavorare. – proseguo, cercando di trattenere le mani. – E comunque sia, sono venuto a chiedere scusa a Bill. – annuisco, indicando compiaciuto il pacco regalo. – A te non ho portato nulla, s’intende. – ghigno poi, infilando una mano nella tasca interna della giacca, - Almeno a voler considerare “nulla” il Fler 90210 Mixtape. – rivelo poi, estraendo il cd e sventolandoglielo davanti agli occhi neanche fosse una caramella.
Tom si mette a brillare. Io sorrido soddisfatto. Bill ricordava bene, questo Mixtape è stato fra le vittime innocenti del massacro della mia discografia ad opera dell’Escalade. Lo vedo che allunga le mani verso il disco neanche fosse un’apparizione divina, le labbra dischiuse e gli occhi enormi.
Sollevo il braccio.
- Sai quanto m’è costato? – lo prendo in giro, - Non tanto in termini economici, quanto in termini di orgoglio. Voglio dire, roba di Fler…!
Lui si mette a saltellare.
- Oh, dammelo! Dammelo! – borbotta, allungandosi su di me per raggiungerlo, mentre io lo sollevo sempre più in alto, ben deciso ad arrivare anche a mettermi sulle punte per impedirgli di toccarlo prima dell’esatto momento in cui vorrò io.
L’esatto momento in cui lo voglio arriva pochi secondi dopo, quando – a seguito delle manovre per cercare di impossessarsi del disco – l’occhio di Tom cade inavvertitamente sulla confezione del regalo.
- Bushido… - borbotta rimettendosi in piedi ed allontanandosi di qualche centimetro, - Ma quella carta…
Io comincio a sudare freddo. Non gli do il tempo di finire, comunque: gli faccio passare Fler sotto il naso e lui ne segue tipo l’odore, è una cosa buffissima. Certe volte penso che mi basterebbe andare dalle parti dell’Aggro Berlin, dire a Fler che magari si può tornare amici e poi tornare qui a regalarlo a Tom, e tutti i miei problemi sarebbero risolti, potrei entrare e uscire impunemente da questa casa senza causare scompensi ormonali a nessuno e il mondo vivrebbe in pace. Poi mi ricordo che certe cose non dovrei pensarle nemmeno per scherzo, e che comunque Fler non si meriterebbe di essere usato a questo modo, nonostante tutto, e lascio perdere.
Lascio Fler nelle mani del suo legittimo proprietario – che a pensarla così mi fa pure un po’ senso, nonché darmi del fastidio indistinto che comincerò immediatamente ad ignorare – e mi dirigo verso la camera di Bill mentre Tom biascica che non me la farà passare liscia e il momento in cui pagherò per tutte le mie colpe è solo rimandato. Però lo dice con un’aria talmente sognante, mentre accarezza la copertina e fluttua verso il mega-impianto stereo che è stato il primo regalo che ho fatto a Bill quando ci siamo messi insieme, che non mi preoccupo nemmeno.
Busso piano alla porta e aspetto. Il singhiozzo che mi raggiunge dall’altro lato, dato che siamo appena al due settembre, non mi stupisce.
- Non voglio guardare The Notebook un’altra volta, Tomi! – si lagna la principessa, probabilmente immersa in un caos di cuscini e lenzuola, come ogni sua degna compagna di fiabe, - Piango già abbastanza anche senza stimolo, mi pare!
Mi viene un po’ da ridere, a sentirlo così depresso. Se lo conosco bene – ed è così – saranno già ventiquattro ore almeno che pensa senza sosta che evidentemente io non lo amo abbastanza, che devo essermi completamente dimenticato di lui e del suo compleanno e che sicuramente mi starò divertendo con un branco di groupie seminude come niente fosse stato. Mi starà ricoprendo di improperi e si starà dicendo che non vuole più vedermi né sentirmi. E piange perché non è vero che non vuole più vedermi né sentirmi.
Non gli rispondo, voglio vedere la sua faccia prima che abbia il tempo di prepararsi alla mia presenza, perciò mi limito a poggiare una mano sulla maniglia e ruotarla, spingendo lievemente la porta.
- E non entrareeee! – continua a lagnarsi lui, - Sono impresentabile! – ma io entro lo stesso.
La sua espressione, quando si rende conto di chi sono, è un capolavoro. Spalanca gli occhi – liquidi e persi – e schiude le labbra – vagamente gonfie e un po’ umide – e resta lì, immobile, un ammasso di capelli scomposti sulla testa e il faccino più confuso che gli abbia mai visto addosso. È tutto raggomitolato in uno spicchio di letto, le ginocchia al petto e le braccia a stringere le gambe. Solo la testa si solleva e mi dà modo di capire che quello è ancora il mio ragazzo e non una palla di emodepressione da piagnisteo immotivato.
- Principessa… - lo saluto con un cenno del capo e un sorriso un po’ stronzo, - sono venuto a fare ammenda per i miei peccati.
- Anis… - esala lui, con lo stesso tono con cui mi è capitato di sentirgli chiamare il mio nome mentre ancora dormiva. Resta con quell’espressione deliziosa addosso ancora solo per un secondo. Poi ricorda di essere Bill Kaulitz, di aver appena compiuto diciott’anni e di avere tutti i diritti di questo mondo di farmi sentire una merda perché non c’ero. Perciò aggrotta le sopracciglia e stringe le labbra in una smorfia piccata e delusa. – Anis. – ripete, più duramente, - Hai finalmente trovato il tempo per ricordarti della mia esistenza?
Io sospiro e roteo gli occhi, entrando in camera e chiudendomi la porta alle spalle.
- Ti ho chiamato, ieri, piccolo. – gli ricordo, - Non mi sono dimenticato della tua esistenza.
- Non c’eri! – mi attacca subito lui, saltando in ginocchio con uno scatto da capriolo imbizzarrito, - Io ero lì che spegnevo le mie diciotto candeline… diciotto candeline!... e tu non c’eri!
Mi lascio andare ad un altro sospiro, mettendomi seduto ai piedi del suo letto. È meraviglioso come, quando mi ha sotto gli occhi, Bill non riesca a fare a meno di starmi vicino. Non so com’è che abbia sviluppato questo bisogno, probabilmente dipende dal fatto che io ho la necessità fisica di toccarlo di continuo. Quando siamo nella stessa stanza, è molto raro che non gli stia addosso in qualche modo. Se succede, ho qualche motivo serio per non stargli appiccicato – tipo stare lavorando o stare litigando con Saad. Ma in genere quando litigo con Saad sto anche bene attento a tenere Bill il più vicino possibile. Giusto perché il messaggio sia sempre chiaro e mai contraddittorio.
Comunque sia, appena mi appoggio sul materasso, Bill gattona verso di me, e subito dopo me lo trovo accucciato al fianco. Visto che è ancora arrabbiato, però, tutto il contatto che condividiamo è la sua mano stretta attorno al mio braccio, come volesse tenermi lì per tutto il tempo della sfuriata. E infatti, subito dopo ricomincia a parlare.
- E poi non ha nessuna importanza che tu abbia chiamato! – mi rinfaccia, le labbra strette in un broncino da baci, - Chissà cosa stavi facendo mentre eri al telefono con me! – ripesco dai file di memoria: stavo pestando Chakuza perché si ostinava a non collaborare attivamente per il duetto che devo infilare nell’album. Niente di compromettente. – E comunque avresti dovuto esserci! – conclude quindi, strattonando il braccio un po’ qui e un po’ lì, come a richiamarmi dal punto in cui mi sono perso. Bill sa sempre quando smetto di ascoltarlo.
- Ho capito, principessa, ho capito. – annuisco, - Avrei dovuto esserci. – allungo un braccio e me lo tiro contro. Bill non fa la minima resistenza, si lascia avvolgere e si schiaccia contro di me aderendo immediatamente al mio corpo, neanche fosse nato apposta. Mi stringe le braccia attorno al collo e nasconde il viso sulla mia spalla, strusciando il naso contro la maglia come a volersi scavare una via per la pelle. – Ho pensato a te di continuo. – gli sussurro fra i capelli, - E mi è dispiaciuto sentirti così arrabbiato, al telefono. Avrei preferito farti un po’ di coccole.
- Ma eri tipo lontanissimo… - mugola, risalendo il mio collo con le labbra.
- Avrei potuto coccolarti lo stesso. – rido, e lui arrossisce e mi dà un pizzicotto poco convinto sulla nuca.
- Non dire queste cose… - borbotta, strusciandosi un po’.
Io sogghigno.
- Ti ho portato un regalo. – dico poi, separandomi controvoglia dal calore del suo corpo, - Non vuoi aprirlo?
Lui mi guarda con un paio d’occhi enormi e brillanti, gli nasce il sorriso sulle labbra ed io, invece di sentirmi in colpa come sarebbe giusto, comincio a gongolare pensando alla faccia che farà quando vedrà cosa gli ho portato. Certe volte raggiungo picchi di infantilismo tali da stupirmi da solo, davvero.
- Un regalo…? – cinguetta estasiato, giungendo le mani sotto il mento nella posa tipica da ragazzino innamorato che mi somministra sempre quando vuole intenerirmi, - Cos’è? Cos’è? È per farti perdonare?
- Già. – annuisco compitamente, recuperando il pacchetto e consegnandoglielo. Bill non è come suo fratello, davvero, Bill è allo stesso tempo una delle cose più diverse ed uguali che esistano rispetto a Tom, e comunque sia gli manca la conoscenza di base di cui invece suo fratello è anche troppo pieno. Per dire, Tom l’ha capito subito che questo pacco viene da un sexy shop. Bill, invece, si ferma ad osservare la carta nera con il nome del negozio traslucido e quasi irriconoscibile se non in controluce e l’enorme fiocco rosso che chiude il tutto, e si limita a squittire di gioia perché è un pacchetto molto elegante e potrebbe contenere qualsiasi cosa, da un rolex a un bracciale di diamanti al microfono originale usato da Nena al suo primo concerto, per dire.
Lo osservo con un compiacimento probabilmente illegale e decisamente inopportuno, mentre scioglie con navigata grazia il fiocco – anni e anni di gavetta come cucciolo di casa e favorito dalle fan, suppongo – e spacchetta il tutto, ficcando le mani nella carta velina e riemergendo due secondi dopo con un’espressione adorabilmente sconvolta e un dildo nero e arancione da trenta centimetri per le mani.
Ah, che soddisfazione. Dio, potessi tirare fuori una macchina fotografica e scattargli una foto in questo preciso istante, giuro che lo farei. È strepitoso: mi guarda come non riuscisse a capacitarsi della mia esistenza in questo momento e in questo luogo, stringe le mani attorno al giocattolo ed ha le labbra dischiuse come volesse dirmi qualcosa ma non sapesse cosa.
È stupendo, giuro.
- Anis! – urla alla fine, agitandomi il coso davanti agli occhi come se da solo bastasse a farmi sentire inopportuno. Io, naturalmente, scoppio a ridere, - ‘Cazzo ridi?! – si lamenta lui, mettendosi dritto sulle ginocchia e attaccandomi con entrambi i pugni chiusi, finendo inevitabilmente per lasciarsi intrappolare i polsi fra le mie dita.
- Be’, è una cosa utile e simpatica! – mi giustifico ridendo e trattenendolo mentre lui si sforza di essere minaccioso, - E poi sono i tuoi colori preferiti!
- I miei colori preferiti! – ripete lui, incredulo, - Ma sentilo!
Io rido ancora e lo tiro giù, e quando lo bacio lui mi si scioglie sulle labbra. Mugola e si dibatte solo un secondo – mentre già la sua lingua gioca a nascondino con la mia – poi cede e mi sbuffa contro, stringendomi nuovamente al collo con le braccia. Mi tiene così stretto che il giocattolo quasi si intromette fra di noi, dato che lui si ostina a tenerlo in mano, ed io lo scosto con un gesto sbrigativo, prima di accarezzarlo morbidamente su una guancia e seguire i suoi movimenti mentre inclina il capo e mi si sistema a cavalcioni in grembo, approfondendo il bacio.
Lo attiro contro di me stringendolo con un braccio alla vita, e lui lascia andare un versetto acuto e stupito che mi fa sorridere. Sorride anche Bill, mi sorride addosso e so che abbiamo già fatto pace. È fantastico che io non abbia nemmeno dovuto chiedere scusa. Io e Bill siamo perfetti per questo, perché non possiamo stare lontani, perché non abbiamo bisogno di dire le cose, perché c’incastriamo con una facilità sconvolgente. Perché non vedo niente quando me lo trovo in giro, perché non vede niente nemmeno lui, perché quello che è stato prima e quello che sarà poi, quando stiamo così vicini, non importa nemmeno. Perché siamo liberi, quando siamo insieme. Anche se poi liberi non siamo affatto, visto che non facciamo che imprigionarci a vicenda. Ma è giusto così.
- Ho pensato che non ci saremmo più rivisti, perché ti ho chiuso il telefono in faccia a quel modo… - biascica confusamente, tirando la mia maglia verso l’alto mentre io scendo a sfiorare con le labbra la pelle tenera e calda del suo collo, - Ho pensato… Anis, la maglietta… - mi scosto con una mezza risata, così che lui possa finalmente togliermela di dosso, e poi lo lascio riprendere a parlare, perché quando la principessa ha bisogno di sfogarsi, inutile lamentarsi, la si deve lasciar fare, - Ho pensato che avresti cominciato ad odiarmi perché mi ero arrabbiato… e poi ti ho odiato anch’io perché c’erano tutte le persone alle quali voglio bene, a quella festa, e però non c’eri tu…
- Lo so, piccolo… - lo zittisco, mozzandogli il respiro con un morso lieve, - La tua testa è un disastro, sai? – lo prendo in giro, stringendogli i glutei attraverso il tessuto leggero del pigiama. Lui mugola, a metà fra l’imbarazzato e il compiaciuto.
- Non è un disastro… - borbotta, - I pantaloni…
Lo ribalto sul materasso e lo spingo un po’ indietro. Lui non ha ancora lasciato andare il giocattolo, cosa che un po’ mi fa ridere, se devo dire la verità.
- Cos’è… - lo prendo in giro mentre, guardandolo dall’alto, comincio a sfibbiare lentamente la cintura, - ti ci sei già affezionato? – chiedo, indicando il dildo con un cenno del capo, - Il prossimo passo è dargli un nome?
Lui arrossisce istantaneamente e lo lascia andare di peso sul materasso, ma non riesce a staccarmi gli occhi di dosso. Io ghigno e lascio la cintura a pendere dai fianchi, retta solo dai passanti dei jeans, afferrando Bill per la vita e sistemandolo sul materasso, introducendomi fra le sue gambe perché ogni mio movimento ed ogni suo movimento coincidano con uno sfiorarsi dei nostri bacini.
- Togli… - lo sento lamentarsi, mentre sfiora con le dita il bottone e la zip dei miei pantaloni, - Per favore…
Annuisco compiaciuto, sfibbiando il bottone ed aprendo la zip, e non potrei essere più lento di come sono. Sto impazzendo di desiderio ma adoro guardarlo quando è così perso, adoro guardarlo quando noi siamo l’unica cosa che riesce a realizzare e adoro guardarlo quando fissa il mio corpo con quest’aria innamorata e confusa, come non sapesse dove vuole mettere le mani prima e solo per questo motivo sta fermo immobile senza toccare niente.
- Anis… - mi chiama, e quando mi chiama io non resisto più. È sempre stato così, fin dalla prima volta, e se vado ancora più indietro con la memoria, alle notti in cui ancora non stavamo insieme, ad esempio, e mi chiedeva di restare, ricordo che è sempre grazie a quello che ha avuto la meglio su di me. Gli bastava chiamarmi per nome ed io ero finito, non potevo più dirgli no. È incredibile, se ci penso. Mi sento anche un po’ un cretino, volendo. Gli è bastato chiamarmi per nome, davvero, tutta la nostra storia è questo, lui mi ha chiamato per nome e mi ha sconfitto così. Penso che quando basta così poco è amore. È amore e basta.
Resto semivestito solo perché ho voglia di spogliare lui. Resto semivestito anche perché ho altri progetti per la serata, in realtà, e se mi spogliassi – se la mia pelle toccasse la sua, se non ci fosse più niente fra di noi – di sicuro perderei il controllo e finirei con il non riuscire a realizzarne neanche uno. Ed invece è giusto che la mia principessa si goda il suo regalo. Prima che, Dio, io mi goda lei, finalmente.
- Ora aspetta un secondo, principessa… - gli sussurro all’orecchio, dopo essermi liberato del suo pigiama, - ti va di giocare?
Bill mi fissa con aria supplichevole, poggiando le mani sulle mie spalle ed attirandomi a sé.
- No… - mugugna scontento, - Non mi va di giocare, mi vai tu…
Io rido, sfiorandogli lentamente il collo in una scia di baci umidi.
- Anche a me vai tu, ma prima voglio vederti giocare un po’. Avanti, non vuoi provarlo, il tuo regalo?
- Noo-oh… - mugola, spingendo in alto il bacino alla ricerca del mio, - Per favore, Anis…
- A-ha. – scuoto il capo, mettendomi dritto e poi sistemandomi seduto fra i cuscini, poggiandomi di schiena alla testiera del letto e sporgendomi verso il comodino per aprirne il cassetto e tirare fuori un preservativo e un tubetto di lubrificante semivuoto. – Tu fai contento me, io faccio contento te, principessa. Le conosci le regole.
Bill, ancora disteso sul materasso, mi guarda al contrario per qualche secondo – i capelli dispersi ovunque sulle lenzuola bianchissime – e poi sospira pesantemente e si mette seduto, andando a tentoni fra le coperte per recuperare il giocattolo e poi gattonando con aria impacciata e infantile fino a me.
- D’accordo… - pigola arreso, - però posso starti addosso? Almeno sentirti… - e struscia un po’ il viso contro il mio petto.
Annuisco sorridendo e lui lascia andare un sospirone felice che mi fa ridere, perché non c’è mai davvero stata la possibilità che potessi rifiutargli una concessione simile. Dopodiché lo aiuto a sistemarsi seduto sul mio grembo. Il che vuol dire che impazzirò per tutto il tempo in cui vorrò guardarlo.
Dannazione.
Bill si volta a lanciarmi un’occhiatina furba e io gli mordo una spalla per protesta.
- Come sei scorretto… - lo rimprovero. Lui ride, gettando indietro il capo e strusciandosi contro di me.
- Tu fai contento me, io faccio contento te, mio signore. – dice, per tutta risposta. – Le conosci le regole.
- Ti sei fatto troppo furbo, sai? – rido, baciandolo lentamente. Lui risponde mugolando, mi ruba dalle mani il tubetto di lubrificante e poi si scosta un po’, restando a cavalcioni ma puntellandosi sul materasso con le ginocchia, in modo da restare sollevato.
- E ora sta’ a guardare e pentiti. – sussurra a bassa voce, spargendo un po’ di lubrificante su due dita e scendendo ad accarezzarsi da solo fra le natiche, stuzzicandosi con lentezza assassina e godendo del mio sguardo perso che segue i suoi movimenti come mi stesse ipnotizzando. Si mordicchia distrattamente un labbro, gli occhi chiusi, i capelli cadono liberi e selvaggi sulle spalle, lungo la schiena, solleticandomi il petto, e mentre lui si muove per accogliersi più disinvoltamente io lascio scivolare una mano dentro i pantaloni e cerco di darmi un po’ di sollievo. Bill mi lancia un’occhiataccia glaciale – come mi abbia visto è un mistero – ed io smetto subito. – Tu no. – borbotta, - Tu guardi.
Tiro fuori la mano, sorridendo divertito.
- Agli ordini, principessa.
Bill lascia andare una risata leggera ed allunga una mano.
- Me lo passi…? – chiede, stendendo bene le dita per accogliere il giocattolino. Io comincio a pensare concretamente all’eventualità di mettergli in mano ben altro che il dildo, ma lascio comunque scivolare le dita fra le lenzuola e recupero l’affare dal punto in cui Bill l’ha lasciato cadere mentre mi si sistemava addosso, passandoglielo un po’ di controvoglia. – Grazie. – sorride, recuperandolo dalle mie mani. Lo stringe un po’, guardandolo da un lato e dall’altro come a volerne memorizzare per bene la struttura, per poi poterlo utilizzare al meglio – ha guardato così anche me, qualche volta, agli inizi – e mentre io sono qui che immagino le sue manine sottili ricoperte di lubrificante che accarezzano il dildo in tutte le direzioni, ecco che lui mi stupisce. Ravvia una ciocca di capelli dietro l’orecchio, di modo che possa guardarlo bene in viso, e chiude gli occhi, mentre lascia scivolare il giocattolo fra le labbra e comincia a succhiarlo come fosse un gelato molto gustoso. Facendo pure un sacco di rumorini compiaciuti, peraltro.
- Sei… - ringhio, allungando una mano ad accarezzargli possessivamente il collo e la nuca, - Sei una cosa incredibile.
Lui solleva la mano libera e la posa sulla mia, è così pallida che il contrasto con la mia pelle e coi suoi capelli la rende quasi abbagliante. Combatto contro una forza di gravità tutta particolare – quella che spinge il mio corpo verso il suo – per non cedere all’impulso di tirarmelo contro, sfilargli quella roba dalle labbra e mettere al suo posto qualcosa di decisamente più interessante, qualcosa su cui lascerebbe scorrere la lingua allo stesso modo che ora mi fa vedere con aria sfacciata, qualcosa che sparirebbe fra le sue labbra a profondità ancora maggiori, perché Bill quando mi prende non mi prende solo in bocca, mi tira giù fino in gola, si fa sentire ovunque, ed è odioso che invece a godersi questo trattamento privilegiato sia un dannato pezzo di plastica che nemmeno se ne accorge. Deficiente io, come ho potuto pensare che potesse essere un regalo appropriato?
- Bill… - lo chiamo confusamente, tirandolo un po’. Lui sbuffa una mezza risatina e scuote il capo.
- No-oh. – mi rimprovera, sfilando il dildo dalla bocca, - Volevi guardare, no? – “no”, risponde una voce dentro di me, ma va be’, - Guarda.
Mi guarda, mentre accoglie disinvoltamente il dildo dentro di sé. So che vorrebbe sorridere, lo vedo da come gli brillano gli occhi; so anche, però, che la mia principessa è tanto brava a fingersi adulta quanto poi non è capace di mantenersi tale quando ciò che si aspettava in un modo va in un altro. Ed ecco che piange se non mi presento alla sua festa di compleanno. Ed ecco che adesso, con un cazzo di gomma da trenta centimetri a farsi strada dentro il suo corpo, il bambino proprio non ce la fa a fare il furbo e sorridere come volesse sfidarmi. Resta lì, gli occhi pesanti e il respiro ridotto a singhiozzi. Mi guarda e si muove piano, lentamente, in gesti lunghi e un po’ irregolari, confusi. Sorrido, perché fa tenerezza. Ci sono dei momenti in cui ricordo d’un tratto quanto Bill sia piccolo, e finisco sempre per sentirmi in colpa.
Me lo tiro contro. La sua schiena aderisce al mio petto e lui mugola scontento quando il movimento causa un effetto troppo brusco sul modo in cui regge il dildo, che gli sfugge di mano e rotola sul materasso, lontano da noi. Si allunga a recuperarlo - le dita che scivolano fra le lenzuola alla cieca, confuse ma bene aperte - ed io lo fermo, trattenendolo per un polso e conducendolo verso di me. Mi stringe subito, la principessa, appena mi tocca. Come fossi una cosa sua e ci tenesse a ribadirlo. Sa che può farlo, perché sa che è vero.
- Non ti serve. - gli sussurro all’orecchio, baciandolo lievemente sulla linea della mascella.
- Ma me l’hai regalato tu… - borbotta, e lo fa solo per prendersi gioco di me, visto che sento nei tremiti dai quali è scosso che brucia del mio stesso desiderio.
- E adesso non ti serve. - ripeto, la voce bassa che vibra direttamente sulla sua pelle, mentre lo sollevo appena e mi faccio strada dentro di lui, seguendo la via già aperta dal dildo e sentendolo adattarsi lentamente alla mia forma con un mugolio soddisfatto.
- Anis… - mi chiama in un sospiro pesante, sollevando entrambe le braccia ad allacciarmi al collo mentre io lo stringo fermamente per la vita e, con una mano, accarezzo la sua erezione, seguendo il ritmo dei miei movimenti. I miei ansiti si perdono nei suoi, la sua voce nella mia, non so più, a un certo punto, se è lui che continua a ripetere il mio nome o sono io che continuo a ripetere il suo. Seguo la traccia fisica dei suoi suoni sul suo corpo. Il petto che si gonfia aritmicamente, le labbra umide che si arrossano sotto la scia di morsi coi quali le tortura, i muscoli del collo e delle spalle che si flettono e si tendono mentre lui si muove per assecondare i miei gesti. È la nostra musica. La sentiamo solo noi.
Getta indietro il capo quando gli mordo una spalla. Si appoggia contro di me e si muove più velocemente; quando la principessa smania è perché c’è vicina, ed io sorrido fra me e me stringendolo con maggiore decisione ed affondando dentro di lui con maggiore forza, perché odio farlo aspettare. Odio deluderlo, in realtà. Succede già abbastanza spesso fuori dalle lenzuola, perché io possa permettere di ripetere l’errore anche quando siamo a letto. Questi momenti sono perfetti. Devono esserlo. Ci sono coppie per le quali il sesso non è che l’appendice in aggiunta di tutto il resto. Io e Bill ci esprimiamo col corpo. La voce è per cantare, non per le dichiarazioni d’amore. Io e Bill ci dichiariamo facendolo.
Quando mi piego un po’ in avanti, alla ricerca delle sue labbra, noto che, per quanto tenga gli occhi chiusi e tutto il suo corpo sia rilassato contro il mio, si sta trattenendo. Perché dalla sua gola vengono fuori solo singhiozzi strozzati. Il che è uno spreco addirittura offensivo, perché la voce della mia principessa è stupenda, quando geme ed ansima. È stupenda quando chiama il mio nome. È stupenda quando urla.
- Piccolo… - gli sussurro, mordendogli il collo, - non ti stai facendo sentire…
- Anis… - borbotta lui, aggrottando appena le sopracciglia, - perché devi sempre… c’è Tomi di là…
- Non è qua. - concludo, baciandolo sotto l’orecchio, - Avanti. Fammi sentire quanto mi senti.
Lo stringo ancora e lui mi accontenta. Mi chiama a bassa voce. Mi chiama di nuovo, il tono che si alza al ritmo delle mie spinte. E quando viene, lo fa urlando. Urlando e stringendosi attorno a me in quel modo che mi fa impazzire, che mi fa sentire a posto e senza fiato. In quel modo che mi fa ringhiare direttamente sulla sua pelle, il modo che mi costringe a morderlo e leccarlo e succhiarlo fino a lasciargli i segni. Perché li veda e sappia che gli sono addosso anche quando non lo sto toccando.
Restiamo fermi il tempo necessario per riprendere fiato e tornare lucidi. È incredibile quanto sia facile spegnere il cervello quando sono in compagnia di Bill. In realtà ogni tanto penso che i momenti che passiamo insieme e nei quali non ci stiamo toccando - non necessariamente in senso sessuale: il più delle volte basta anche solo una carezza - non siano altro che diversivi in attesa del momento in cui ci toccheremo. E poi, in quel momento lì - quello in cui finalmente ci tocchiamo - è tutto perfetto. Mettiamo il punto alla frase e diamo un senso alla giornata.
Non so da quando il nostro rapporto sia diventato così di dipendenza. Probabilmente dal primo momento in cui l’ho sfiorato ed ho sentito che mi piaceva la consistenza della sua pelle sotto i polpastrelli, almeno quanto a lui piaceva la pressione delle mie mani sul suo corpo.
- Non sono più tanto arrabbiato con te… - confessa, stirandosi sonnacchioso sul materasso prima di appallottolarsi nuovamente contro il mio petto, - Ti ho perdonato. - annuisce poi, con aria seria, - Il regalo, comunque, me lo tengo.
- Assolutamente no. - borbotto io, giocando distrattamente coi suoi capelli mentre lui disegna cerchi inesistenti sul mio petto, - Lo buttiamo dalla finestra appena riprendo a muovere le gambe.
- A parte che dovrei essere io quello con difficoltà di movimento… - si lamenta, pizzicandomi appena un fianco, - Ormai mi sono affezionato! Potrei davvero dargli un nome e sarebbe un’ottima compagnia per le fredde notti in cui tu non ci sei…
Lascio scorrere la mano lungo il suo collo, fino alla spalla, e lì mi fermo, stringendo forte.
- Magari potremmo evitarle, queste fredde notti in cui non ci sono.
Lui solleva appena il viso. I suoi occhi ambrati si fanno enormi - sono ancora liquidi e un po’ annebbiati, ma brillano di una luce incredibilmente intensa, tutta sua - e lo osservo schiudere le labbra e cercare le parole per una sequela di infiniti, terribili minuti.
- Cosa-
- Non dobbiamo per forza pensarci adesso. - sorrido conciliante, - E’ solo un’idea. Almeno non dovresti dare un nome al dildo. - sdrammatizzo, baciandogli la fronte.
Bill mugola un assenso confuso, ma è imbarazzato e il rossore sulle sue guance si diffonde con tonalità così carine che mi viene voglia di prenderlo a morsi o a pizzicotti, neanche avesse due anni. Lo stringo a me, coccolandolo un po’. Non sono mai stato così tenero con nessuno, nella mia intera esistenza. Mai.
- Quando devi andare…? - mi chiede in un miagolio scontento, stringendomi le braccia attorno alla vita e strusciando il naso contro il mio petto.
- Presto, piccolo. - sospiro, - Mi aspettano agli studi. Sono scappato di nascosto da Saad.
Lui ride, cristallino e divertito, e scuote il capo.
- Ti farai buttare fuori dalla tua stessa etichetta.
- Per riuscirci dovranno farmi fuori, principessa. - gli faccio notare ridendo a mia volta, - E comunque guarda che io sono immortale.
- Sì, certo! - mi rimbrotta, omaggiandomi anche di un piccolo pugno sul petto. - Rivestiti, dai. Ti accompagno alla porta.
- Nudo?
Finisco a rivestirmi sul pavimento, dopo che mi ci ha spinto. Adoro - Dio, adoro - prenderlo in giro.
*
Appena usciamo nel corridoio, realizzo all’improvviso che la nostra musica, quella mia e di Bill, non l’abbiamo sentita solo noi. La prima cosa che vediamo è Tom. Tom, per la precisione, sta tutto raggomitolato sul divano come se per terra fosse stato pieno di scorpioni fino ad un minuto prima che noi venissimo fuori dalla stanza di Bill. Tiene stretta fra le braccia la copertina del CD che gli ho regalato e, mentre la voce di Fler si diffonde per la stanza riempiendomi di una certa nostalgia che non riesco ad ignorare come vorrei, ci fossa con gli occhioni spalancati, come avesse paura di noi. Guarda suo fratello e sembra vederlo per la prima volta. Guarda me e fa come se nemmeno mi vedesse.
Palesemente non era pronto a sentirci scopare. Posso comprenderlo, neanche la mia crew era pronta, quando è successo a loro.
Bill sospira pesantemente e mi scorta fino all’ingresso senza lasciarmi andare neanche per un secondo. Mi bacia sulla soglia e mi dice che mi chiamerà più tardi.
- Per la buonanotte? - chiedo io, con un sorrisetto stronzo.
Lui sorride nello stesso modo.
- Per la buonanotte. - annuisce compiaciuto.
Faccio per ridere e baciarlo, prima di andare via, ma mi fermo, perché Tom si mette in ginocchio sul divano e solleva un dito come a chiedere il permesso di parlare. Io e Bill ci voltiamo a guardarlo, siamo ancora così vicini che posso sentirmi il suo profumo addosso. Non è mai facile dare retta a qualcun altro che non sia lui, a queste condizioni, ma Tom è tutto sommato speciale. Quando Tom parla, lo si ascolta. Se non altro perché ascoltare Tom è una delle attività preferite di Bill, nonostante tutto.
- Io credo… - comincia il principino, un po’ incerto, - …che a te serva un appartamento nuovo, Bill. - annuisce compunto, - Un posto dove startene per i fatti tuoi, ecco. - si interrompe un secondo, ci guarda e poi annuisce ancora. - Già, già. - conferma, immergendosi nello sfoglio del libretto accluso al CD.
La risata, stavolta non la trattengo. Ride anche Bill. Nella sua risata c’è una nota incerta che non fatico a ricondurre alla mia proposta di qualche minuto fa, ma suppongo sia giusto che esiti al riguardo. È ancora piccino, in fondo. Ha appena fatto diciott‘anni.
Lo saluto con un bacio, lui mi si appende al collo come una scimmietta per qualche secondo e poi mi lascia andare con un mugolio piagnucoloso. Uscendo dall’appartamento ed entrando in ascensore, tiro le somme della giornata odierna e stabilisco che, in fin dei conti, il bilancio non è affatto negativo. Suppongo che, anche stasera, Saad sbraiterà a vuoto.

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Gunning Down Romance

di lisachan
Neanche ci provo, a pensare sia venuto qui per qualcosa di diverso dal sesso.
Io so quando Anis è in vena di chiacchiere. So quando è in vena di cazzate, so quando è in vena di relax, so quando è in vena di tenerezze. Lo so perché i suoi occhi sono scuri e incomprensibili solo per chi non li guarda con la dovuta attenzione ed il dovuto rispetto.
Per me è sempre tutto molto chiaro.
Neanche ci provo, a pensare sia venuto qui per qualcosa di diverso dal sesso.
Non stasera.
- Piccolo, questa casa è un casino più del solito. – butta lì con un ghigno affamato che mi fa correre brividi caldi lungo tutta la schiena.
Io mi inumidisco le labbra e faccio un passo verso di lui. I miei piedi mostrano un’incertezza che non vorrei possedere, fermandosi a metà del movimento e facendomi inciampare comicamente sulla punta degli stivali.
Anis ride e la sua risata mi scivola sulla pelle come lava bollente. In questi momenti mi viene voglia solo di chiudere gli occhi e lasciarmi scivolare sulla prima superficie disponibile.
Il pavimento.
Una parete.
Il letto.
Lui.
- Passata una bella giornata? – continua a parlare. Il tono è malizioso, non è quello che utilizzeresti per una conversazione casuale. Non fa che confermarmi ulteriormente le sue intenzioni. Me le confermano la sua voce ed anche le sue dita, quando afferra con studiata lentezza il risvolto della giacca e se la sfila di dosso, posandola con disinteresse sul divano.
Lui sa che lo trovo sexy.
Lo sa che, quando gioca a fare il padrone della situazione, io gli impazzisco dietro.
Fortunatamente, così come lui sa tutte queste cose, io so che mi desidera da matti. Questo mi consola un po’, e mi aiuta a superare gli angoscianti momenti d’attesa durante i quali mi accerchia, prima di sbattermi sul materasso.
Gli piace farmi sentire desiderato.
Gli piace perché, quando lo fa, io non riesco a staccargli gli occhi di dosso.
- Così. – rispondo, cercando di eliminare qualsiasi traccia di ansia nella voce. A giudicare dal suo sorriso consapevole, non mi riesce bene. – Un po’ noiosa.
- Che cosa disdicevole. – commenta, avvicinandosi come un predatore. È scuro e misterioso e pericoloso e, quando vuole, come adesso, anche sinuoso come una pantera. Mi mordo un labbro. – Questa giornata va migliorata. – conclude, chinandosi su di me.
Non annulla la nostra distanza, però. Non è molto più alto di me, ma riesce sempre a mantenere quei due, tre centimetri di spazio fra le nostre bocche, che se solo provo a contarli davvero mi sento morire dentro.
Aspetta.
Io capisco cosa vuole.
Sollevo le braccia e le stringo attorno al suo collo. Mi tiro su e gli sfioro piano la bocca con la mia. Asciutto e timoroso. Dio solo sa se vorrei divorarlo qui seduta stante, ma ogni gioco ha le sue regole, e le regole di questo gioco Anis le ha decise molto tempo fa.
Mi sbuffa una mezza risata sulle labbra, stringendomi alla vita senza la minima gentilezza. La collisione dei nostri bacini genera nella mia testa una reazione tale che vedo le scintille, e mi lascio sfuggire un mugolio per metà sofferente e per metà talmente soddisfatto che ho quasi paura lui possa pensare mi basti così.
Poi mi rilasso: forse potrebbe bastare a me, ma di sicuro non basta a lui.
- Sei sexy quando sei così eccitato. – commenta a voce bassa contro il mio orecchio, mentre lascia scivolare una mano giù lungo la mia schiena, fino a stringere forte una natica. Mentre lo fa, mi spinge con maggiore decisione contro il proprio bacino, ed io sento la forza prepotente della sua erezione premere contro la mia.
Lo voglio. Adesso. Subito. È già tardi.
Mi attacco alla sua maglietta con l’urgenza ed i lamenti di un bambino capriccioso, strattonandola qua e là senza neanche capire esattamente da che lato tirarla per togliermela di torno.
- Pazienza, bimbo. – aggiunge in un’altra risata, scendendo a leccarmi voluttuosamente il collo, mentre una sua mano, quella non impegnata a stringermi il sedere come fosse una cosa sua, scende in lenta esplorazione della mia pancia e s’infiltra agile ed esperta oltre l’orlo dei jeans, alla ricerca della mia dolorosa erezione.
- Dio, sì… - ansimo, abbandonandomi contro la sua spalla, già a corto di fiato, - Bu…
- Mmmh… - mugola lui, soddisfattissimo, accarezzandomi dal basso verso l’alto, - Sì?
Vuole farmelo dire. Gli piace il suono di quella parola, penso. Posso capirlo, a ma piace quando lo dice lui.
- Scopami… - sussurro piano, tirandomi indietro abbastanza da poterlo baciare ancora.
Lui ride e stringe di più la presa attorno al mio cazzo, ed io per poco non mi lascio cadere per terra davvero.
- Stanotte ti scoperò finché non ne potrai più. – ringhia direttamente sulle mie labbra, artigliando l’orlo della mia maglietta e tirandolo su fino a sfilarmela dalle braccia.
Penso distrattamente che la possibilità che dica “adesso basta” sembra lontana come la fine del mondo, e corro con le mani ai bottoni dei suoi jeans.
Troppi vestiti inutili. Troppi, Dio, troppi.
Mi afferra sotto le cosce, prendendomi in braccio e muovendosi velocemente verso la prima parete disponibile, addosso alla quale mi schiaccia, prima di chiudermi addosso le labbra come una trappola. Chiudo gli occhi e mi lascio andare contro il muro, cercando di respirare senza riuscirci in maniera particolarmente convincente. Le sue labbra divorano centimetri di collo, petto, pancia, non so neanche come faccia ad essere ovunque contemporaneamente. Quest’uomo ha un dono.
Sospiro con forza, piantandogli le unghie nelle spalle, e mi infastidisce sentire sotto i polpastrelli il tessuto morbido in cotone. Preferirei di gran lunga la grana liscia e calda della sua pelle. E la resistenza ostinata dei suoi muscoli tonici.
Ricomincio a tirare la maglietta, ma lo faccio evidentemente dal punto sbagliato. Non lo so, non viene via, la stronza. Anis ride ancora e si allontana un attimo, lasciandomi andare, per esaudire il mio desiderio.
Nel mentre, per tenermi al mio posto, mi schiaccia con più forza contro il muro. La tensione del mio desiderio sta cominciando a farsi fastidiosa. Anche la sua, ci scommetto.
- Anis… - lo chiamo, ma esce fuori un’implorazione davvero vergognosa. Però pregarlo non mi dispiace. Lui, almeno, ascolta sempre. E fa anche i miracoli. Non è male, come Dio personale.
- Piccolo, se mi chiami così non mi trattengo. – mi avverte, fissandomi negli occhi con aria assassina.
Ci sono momenti in cui mi guarda e non riesco a sentirmi al sicuro. Non riesco a sentirmi a mio agio. Non voglio. Mi fa sentire come un pezzo di carne. Un pezzo di carne vivo e fottutamente bello.
- Non farlo… - sussurro piano contro la sua guancia, lasciandogli addosso una scia di baci umidi che si fermano e muoiono sulle sue labbra, come sempre, come tutto, come le mie proteste quando si ostina ad ignorare il mio bisogno per concentrarsi sui miei capezzoli, come i miei mugolii quando finalmente torna ad accarezzarmi fra le gambe, come l’ansito di pura sorpresa che mi coglie all’improvviso quando sento la punta della sua erezione stuzzicare insistentemente la mia.
Mugolo rocamente, spingendomi verso il basso, nel tentativo di procurarmi un po’ di sollievo con qualche strusciatina. La verità è che niente di quanto potrò provare così sarà anche solo lontanamente paragonabile a quello che sentirò quando lui sarà dentro di me, quando mi si spingerà contro con tanta forza da darmi l’impressione di volermi spaccare in due, quando toccherà quel punto segreto che ogni volta mi fa urlare come un pazzo, aggrappandomi al suo collo e ai suoi fianchi per non cadere dal letto in preda ad una spaventosa vertigine.
Anis è perfetto per me. Non è troppo. Non è appena giusto. È perfetto.
La prima volta che l’ho visto nudo, mi ha fatto una paura bestiale. Stava lì, di fronte a me, evidentemente compiaciuto, e mi si mostrava come la nostra fosse una competizione. Io, buttato sul materasso fra i cuscini, pallido, smorto e livido dalla paura per com’ero, mi sentivo veramente miserevole. Lui, dritto in piedi accanto al letto, liscio e teso, si stagliava in tutta la sua fottuta odiosa perfezione contro le mie tende bianchissime. Era il contrasto più eccitante che mi fosse mai capitato di guardare.
Quella notte, Anis ha osservato il mio sguardo perso posarsi addosso ad ogni centimetro del suo corpo, ed ha ghignato soddisfatto quando mi sono fermato vergognosamente proprio lì dove guardarlo era più piacevole, a causa della voglia indomabile che mi bruciava nei lombi non appena sfioravo l’idea.
“Non preoccuparti”, mi ha detto piano, salendo sul materasso al mio fianco, “se ti piace, non può farti male”.
Io ho chiuso gli occhi e l’ho ricordato esattamente come l’avevo visto contro le tende: le braccia rilassate lungo i fianchi, la linea tonica della schiena, le gambe leggermente divaricate, il suo profilo appena intuibile nel buio.
Se ha fatto male, non lo ricordo più.
Adesso non m’interessa.
Anis è perfetto per me. Non fa male neanche per sbaglio. Mi piace, mi piace e basta.
Mi si schiaccia contro ed io rilascio un sospiro che al dolore somiglia soltanto, mentre lo sento farsi strada dentro di me. Rude, veloce, come fosse arrabbiato. Riesce a mantenere ritmi simili anche per mezz’ora, ed è una cosa alla quale non riuscirò mai a rassegnarmi, perché dovrebbe essere fisicamente impossibile.
Ma non me ne frega niente: finché posso sentire la sua pelle contro la mia, finché posso sentire il calore assurdo della sua voglia dentro di me, finché lui è mio ed io sono suo in questo modo così speciale da farmi male al cuore, a me non interessa più niente.
Gli mordo forte una spalla mentre vengo contro la sua mano, sporcandogli la pancia. Ho voglia di scendere e leccare ogni centimetro del suo addome, giocare a nascondino contro il suo ombelico e poi prenderlo tutto in bocca fino in gola, fino a sentirmi stordito, ma Anis mi afferra forte per la vita e mi si stringe contro una, due, tre volte, fino ad esplodermi dentro, ed io respiro direttamente dalle sue labbra, senza pensare a nient’altro. Così accompagno gli ultimi tremiti dell’orgasmo, ed assieme alle sue spinte viene meno anche la voglia.
Lo abbraccio con una tenerezza che in genere non mi appartiene.
Rimango ad occhi chiusi e stringo le gambe attorno al suo bacino, quando lo sento muoversi piano per portarmi in camera da letto.
Appena tocco il materasso – fresco contro la mia pelle sudata e bollente – realizzo che non ci vedevamo da una settimana. E capisco la sua urgenza, i suoi occhi da predatore ed anche il mio desiderio folle.
Anis mi lascia scivolare una mano lungo la guancia, e la posa sulla curva del mio collo, attirandomi a sé per un altro bacio.
- Ci riposiamo un po’? – chiede con aria stupidamente tenera, aiutandomi ad accoccolarmi sul suo petto.
Sarà una notte sfiancante, penso, mentre sento le sue braccia stringersi possessivamente attorno alle mie spalle ed alla mia vita.
- Sì. – annuisco, continuando a guardarlo senza nemmeno battere le palpebre.
La seconda volta sarà più dolce. Lo è sempre.
La terza sarà una dichiarazione mancata. Lo è sempre.
Alla quarta non arriveremo, crolleremo addormentati l’uno fra le braccia dell’altro. Come sempre.
Le regole del gioco sono sempre le stesse. Anis le ha decise tanto tempo fa. Io le ho sottoscritte e continuo a farlo con ogni bacio che poso sulle sue labbra.
Finché possiamo – il più a lungo possibile – giocare è tutto.

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Kalter Krieg

di tabata
Io non so che cosa vi abbiano raccontato ma sono quasi certo che sia una montagna di cazzate.

Niente di ciò che per mesi si è detto in giro era mai completamente vero, perché alla gente piace inventarsi le storie. Ma soprattutto gli piace crederci. A rileggere adesso i giornali di un anno fa, sembrava che la cosa fosse stata organizzata a tavolino e che tutti e due fossero d'accordo a fingersi quello che non erano per guadagnare più soldi e recuperare quel po' di attenzione mediatica su cui non avevano ancora messo le mani.

Se fosse stato così, noi non saremmo in questa situazione.

E forse ci saremmo anche divertiti del resto. A reggergli il gioco, intendo. Se la casa discografica avesse deciso, di punto in bianco, che la punta di diamante della Erguterjunge dovesse spacciarsi per uno a cui piacevano i ragazzi, tutta la crew si sarebbe aggregata di conseguenza.

Con un po' di perplessità, magari. Un po' molta.

D'accordo, forse ci saremmo incazzati; ma non ci sarebbe stato di che sorprendersi. Siamo rapper: siamo brutti, sporchi, cattivi ed etero. Cos'avevamo a che fare noi con un ragazzino effeminato che cantava finto rock pre-adolscenziale? Cos'aveva a che fare Bushido con lui, con suo fratello e con tutta quella banda di mocciosi?

Il punto però non è questo. Il punto è che se fossimo stati messi al corrente, se avessimo dovuto discuterne e avessimo potuto dire la nostra, allora nessuno di noi si sarebbe sentito preso per il culo. E invece no. Invece siamo stati gli ultimi a saperlo, insieme a tutta la Universal.

Quindi no, non fu una cosa organizzata.
E io c'ero, per cui lo so meglio di qualunque giornalista che ebbe la voglia e il modo di scrivere di Bushido e di Bill in quel periodo.

Potrei dirvi che, di quando in quando, l'idea che qualcosa non stesse girando per il verso giusto c'era venuta e passeremmo tutti per persone un po' più furbe. In realtà, nessuno si accorse di niente.
Bill ci è passato non so quante volte sotto il naso, nascosto in camera da letto mentre tutti quanti noi eravamo in salotto a vedere la partita, in casa di Bushido. E lui un mese sì e uno no spariva e - se anche uno solo di noi avesse avuto una sorella dell'età giusta - avremmo scoperto che se ne andava sempre dov'erano loro, i Tokio Hotel.

Avremmo dovuto sospettarlo, d'accordo.

Ma sinceramente, voi lo avreste fatto? Da uno che ha passato metà della sua vita a porsi come un gangester del ghetto e l'altra metà a girare video con più figa che ritornello, voi vi aspettereste che all'improvviso decida di cambiare sponda?

Ve lo dico io: no.

E' per questo che nessuno di noi si è mai chiesto perché Bushido partisse nel cuore della notte, per raggiungere mete a noi sconosciute. Né perché quel ragazzino che sembrava una femmina, avesse improvvisamente così tanto spazio tra un testo e l'altro delle sue canzoni.

Non ce lo siamo mai chiesto perché non avevamo motivo di credere che Bushido avesse una relazione con Bill Kaulitz.

Questo finché Saad non entrò in sala registrazione incazzoso come una scimmia a cui hanno appena bruciato il culo e dichiarò solennemente che suo cugino era impazzito.

Dunque, le cose andarono piu' o meno in questo modo.
Io, Eko e gli altri siamo allo studio di registrazione e Bushido non c'é, anche se non ricordo bene dove si trovi. Fatto sta che Saad entra e sta già imprecando.

Saad è uno che se gli dai la possibilità ti tira giù tutti i santi, non solo quelli cristiani ma anche i profeti musulmani, quelli ebrei e, avendo tempo, un gran numero di dei egizi. Alle volte è troppo scurrile perfino per noi. Comunque, lo lasciamo fare e lo seguiamo con lo sguardo mentre si aggira per la stanza urlando improperi. Quando vedo che forse un po' si è calmato, gli chiedo: "Atze, che diavolo succede?"

E Saad mi dice che Bushido ha perso la testa e si è messo a fare dichiarazioni in televisione. Chiedo delucidazioni e lui mi dice: "Toh, guarda da solo," si appropria del computer e cerca su You Tube. I ragazzi si affollano tutti intorno a noi e attendiamo che il filmato finisca di caricarsi. Qualche attimo dopo, Bushido è seduto su quel divano e dice che vuole un pompino da Bill Kaulitz.

In un primo momento, nessuno dice niente. Quando succedono cose come questa, che il capo della tua etichetta, quello che dovrebbe un po' rappresentare l'immagine del gruppo e tutto dice una cosa simile, tu inizialmente non è che t'incazzi subito. Cerchi di capire. In un qualche modo stonato ti rendi conto che non puoi semplicemente sparare a zero come se Bushido fosse il primo coglione che passa per strada. Non getti merda così, a caso. Quindi li sento, tutti, che si spostano a disagio alle mie spalle. Eko finge un colpo di tosse.

Noi tutti sappiamo chi sia Bill Kaulitz.

Da un paio d'anni a questa parte, se vivi in Germania e hai un paio d'orecchie non puoi non conoscere Bill Kaulitz. Neanche se vivi su un albero e non possiedi un televisore; sicuramente qualche ragazzina invasata passerà sotto il tuo ramo e ti dirà chi diavolo é.

La sua apparizione nelle nostre vite, Bill Kaulitz l'ha fatta due mesi prima di quel filmato, ad una festa della Universal. Era con suo fratello, se non ricordo male. Noi invece eravamo tutti insieme e, come un branco di coglioni, in massa gli abbiamo sbavato dietro tutta la sera. Ci abbiamo messo due ore a capire che era un ragazzino, un po' di più per superare il trauma. Eko, per dire, non si è ancora ripreso del tutto.

Da quella festa, però, niente. Voglio dire, lui i suoi video, noi i nostri. Nient'altro. Certo non ci aspettavamo di risentire il suo nome in bocca a Bushido, in quel modo poi.
"Lo avete sentito," dice Saad. "Era lì seduto e mi spara fuori la vaccata senza neanche prendersi il fottuto disturbo di avvertirmi prima." E non è che puoi dargli torto se è un po' alterato. Insomma, non le prendi bene queste cose se sei costretto anche a reggere il gioco per non sfondare la faccia a tuo cugino davanti alle telecamere.

Dal momento che nessuno dei miei compagni si azzarda a dire una parola che sia una, provo ad avanzare l'ipotesi che forse voleva soltanto fare lo spiritoso. "Lo sai come fa, no?" Cerco di risultare poco colpito dalla faccenda ma la verità è che non lo so nemmeno io come fa. Sono uno degli ultimi arrivati, dovrei avere il diritto di starmene in silenzio e attendere che gli altri che lo conoscono da più tempo lo difendano, trovino una giustificazione, adducano delle spiegazioni razionali. E invece no, tocca a me dare un senso a quell'uomo. Che, per dire, mi fa anche piacere ma - cazzo - mi dessero un po' una mano...

"Io conosco mio cugino," sbotta Saad. "Lo so quando scherza. E non stava scherzando."

"Ragioniamo Saad, con tutta la figa di cui si circonda ogni giorno, per quale motivo dovrebbe volere una cosa del genere da un maschio," io in questo momento vorrei davvero aver accettato quel posto da magazziniere l'anno scorso. In questo modo starei scaricando furgoni invece di discutere sui gusti sessuali di un tunisino. "In diretta nazionale, per di più."

Saad si lascia andare su una sedia e guarda fisso davanti a sè, tanto che ad un certo punto comincio a pensare che non si senta bene. Sono un po' a disagio, lo ammetto. Mi volto a cercare supporto e quei bastardi mi lasciano a piedi. Eko sta addirittura leggendo! Tutti che fingono di fare qualcos'altro. Grazie.

"Saad, scusa? Ma lui dov'é?" Chiedo.

"Sono qui," risponde Bushido, entrando in quel preciso momento. "Devo mancarvi di brutto quando vado via! Bambini non piangete, papà è tornato."

In questo stanzino si sta compiendo un dramma epocale e lui entra tranquillo, come se non fosse lui la causa della pressione alta di suo cugino. Lo guardiamo tutti senza dire una parola.

"Beh?" Chiede, guardandosi intorno. Le facce su quei divani sono tutto un programma. L'occhio gli cade sul computer ancora acceso. E lo vedo sorridere in maniera così stronza che mi viene pure da ridere. "E io che volevo trovare un modo carino di dirvelo!"

A questo seguono due o tre secondi di agghiacciante silenzio.
Non so se avete idea di quello che è appena avvenuto. Bushido ha fatto una battuta che non fa ridere. Non fa ridere proprio per un cazzo, non quando siamo tutti qui a chiederci se è frocio o meno, e quanta credibilità perderemo nelle prossime ventiquattrore perché lui spara cazzate in televisione. Quando la situazione è simile e qualcuno fa una battuta di merda, tu tendenzialmente gliele tiri di santa ragione. Oppure lo mandi a fanculo, perché è quello che si merita.

Bushido non lo possiamo mandare a fanculo.

Quindi stiamo zitti. Stiamo zitti e ci guardiamo le unghie, perché non c'è altro da fare.
E la cosa finisce clamorosamente lì perché così com'è entrato, così si siede e si mette a lavorare al nuovo singolo. In quel momento, a nessuno viene in mente che cosa ne pensi Bill Kaulitz della faccenda.

Bushido con Bill, è sempre stato così: normale.
Qualunque cosa lo avesse spinto a cambiare sponda, lui dava l'impressione di non essersi mai chiesto perché. L'aveva saltata e basta, e tanti saluti. In questo senso, per lui, ho sempre provato un profondo rispetto. Non so se avrei avuto il coraggio di alzarmi una mattina e decidere di fare quello che ha fatto lui. Voglio dire, all'inizio anche a me sembrò una grande stronzata ma poi, cazzo, lo vedevi con Bill e ti rendevi conto che qualcosa c'era.
E anche se non eri finocchio, un po' ti veniva da chiederti se non ne valesse la pena.

A me veniva.

Per un certo periodo mi sono chiesto quando fossero iniziate le cose tra Bushido e Bill Kaulitz, quale fosse il momento preciso in cui quei due si erano trovati a condividere qualcosa. Ho poi saputo da Bill che quando Bushido fece quella dichiarazione, loro se la intendevano già da un po'. Anche se Bill non ha detto proprio così, perchè lui ha un modo tutto suo di discutere di queste cose.

E allora ho capito una cosa.
Bushido è sempre stato un tipo che le questioni le prendeva di petto.
Se era convinto di un'idea, una qualsiasi, e pensava si trattasse della svolta che avrebbe cambiato il corso degli eventi, non te la presentava come una possibilità. Te la presentava e basta, perchè di solito non c'era altro da dire. Era già pronta, l'aveva già confezionata lui e a te non rimaneva che scartarla, aprirla e vedere cosa c'era dentro; e di solito poi, andava tutto secondo i piani.

Bushido aveva questo potere di fare esattamente quello che doveva essere fatto; che non era automaticamente la cosa giusta: era solo la cosa giusta da fare in un certo momento. Quindi io credo che quando si sedette su quel divano e chiese a Bill un pompino, sapeva perfettamente che si sarebbero incazzati tutti - forse perfino Bill - ma sapeva di doverlo fare. Sapeva che quello era il momento di fare una cosa simile.

E di dircelo in quel modo.

In fondo, se ci avesse presi tutti da parte - come in un consiglio speciale delle Giovani Marmotte - e ci avesse spiegato che era innamorato perso di un uomo, lo avremmo preso per il culo fino alla terza generazione. E ne avremmo avuto il diritto, perchè tu alla crew non dici così neanche se stai con una femmina, figuriamoci con maschio.

Si comportò da rozzo e da coglione, come ci saremmo aspettati da lui in una situazione che non coinvolgesse Bill Kaulitz. E lo fece perché noi capissimo quanto era serio. Saad lo capì subito d'altronde. E noi dopo qualche mese.

Ora come ora, se mi chiedessero che cos'avvenne e quando, non saprei ricordarlo.
Io so solo che ad un certo punto, Bill è diventato un argomento di discussione costante insieme ai testi da scrivere, alle promozioni da fare e a Fler che, isterico, ci sputava veleno addosso per essere sicuro che non ci dimenticassimo di lui tra un premio e l'altro che vincevamo alla faccia sua.

Quando dico che Bill era un argomento di discussione, mi riferisco a liti furiose, non ad amabili discussioni tra pasticcini e té tunisino. Una in particolare me la ricordo bene perchè ero convinto che Saad e Bushido sarebbero venuti alle mani.

Io arrivo che loro due stanno già litigando. Eko mi apre la porta della casa di Atze e mi dice soltanto: "Ci risiamo, lui e quel fottuto ragazzino."

Io entro, ho con me la birra e l'appoggio sul tavolo della cucina. Intanto ascolto cosa si dicono dal salotto. A quanto pare Bill ha richiesto la presenza di Bushido a due stati da qui. E lui stanotte parte, con un album da promuovere e quattro esibizioni da fare. Saad è furioso, come al solito: d'altronde non lo vedo calmo da settimane. "Tu non puoi mollarci così."

"Non sto mollando nessuno," dice Bushido. Lo scorgo attraverso la porta aperta. E' in piedi vicino alla finestra ed è calmo quanto Saad si sta agitando. "Prenderò il primo aereo domenica pomeriggio e sarò qui in tempo per esibirmi sul-"

"Non me ne fotte un cazzo se prendi il fottuto aereo domenica pomeriggio! Cristo!" Lo interrompe Saad. "E' questa storia di merda che non ha senso."

"Questa storia di merda sto cercando di gestirla."
Qui avrebbe potuto dire che sono cazzi suoi e non lo fa. E io che sto ancora togliendo le birre dalla busta del supermercato penso che è una grande prova da parte sua.
La crew viene prima di tutto, se non ammettesse neanche questo potrebbero esserci problemi.

"Non la gestisci proprio per un cazzo," replica Saad. "Se la gestissi avresti mandato quel ragazzino a fanculo molto tempo fa."

"Non permetterti di dirmi che cosa devo fare, Saad."

Saad ride, che è un po' il suo modo di avvertirci tutti che ha perso l'ultimo barlume di lucidità mentale. "Dovremmo stare tutti zitti alla corte di sua maestà, allora?" Chiede.

Bushido si massaggia le tempie. Mi dirigo verso il salotto e incrocio la gente che ne esce e mi viene in contro. Vedo Kay One scuotere la testa. Mi dice "E' pazzo" a mezza voce. Io ascolto.

"Non mettermi in bocca parole che non ho mai detto."

"Non le hai dette tu, Anis. Le ho dette io," replica Saad. "Ti stai comportando da stronzo e prima o poi finiremo tutti quanti nella merda per colpa della tua fottuta Principessa. Se ci avessi detto subito che ti piaceva scopare gli uomini, ci saremmo risparmiati la fatica di stare dietro alle tue idiozie del cazzo!"

A quel punto io penso che Bushido lo attaccherà al muro e lo pesterà a sangue, perché ha quella faccia, quella di quando non gliene importa un cazzo se finirà in galera per averti spaccato tutte le ossa. Lo fa comunque. E' capitato giusto due mesi fa che qualcuno dicesse due parole sbagliate in una discoteca.

Quello che Saad ha detto non sono esattamente due parole sbagliate. E' tipo far notare a Bushido che è una testa di cazzo. Ora, al tizio della discoteca lo hanno ricoverato d'urgenza in terapia intensiva. A Saad non so cosa succederà. Un'altra volta mi ritrovo in prima fila ad assistere mentre gli altri dietro fingono di essere altrove. Qualcuno stappa una bottiglia di birra e il tappo fa un rumore tremendo. E' Eko, sicuramente.

Siamo tutti lì col fiato sospeso. Mi sporgo quasi in avanti, che sarebbe una bella figura di merda, se permettete. Tre secondi, e poi Bushido ghigna. Dio, ci credete? Ghigna e gli dice la cosa più fuori di testa in assoluto. Lo guarda ridendo e gli dice: "Le mie idiozie del cazzo ti pagano le ville, le feste e la scuola della bambina. Se le mie idiozie del cazzo non ti piacciono, sai dov'è la porta."

E la discussione finisce lì; cioè non c'è più storia.
Saad può solo uscire dalla porta o stare zitto. E sceglie di stare zitto, che a mio avviso è anche la scelta migliore. Comunque in tutto questo, e si parla di mesi ormai, noialtri Bill Kaulitz lo abbiamo visto solo sulle copertine di Bravo.

Col tempo, i ragazzi cominciarono a chiedersi che tipo fosse, perché dalla televisione non ne usciva fuori benissimo. Ogni volta che passavano un suo video o una sua intervista, ci mettevamo sempre dieci minuti a capire che non era una donna. A vederlo, come si muove e come sorride, Bill sembra una checca. E questo non era un punto a favore di nessuno, quando questa storia è iniziata. Nè nostro, nè suo. Se almeno fosse stato un po’ più maschile; non lo so, in realtà.

Bill non puoi sapere com’è fatto finché non lo conosci di persona.
La gente crede che, siccome è tanto grazioso, sia anche clamorosamente stupido come certe bionde che sculettano sui palchi di mezzo mondo. Lo pensavamo anche noi. E invece no. Bill sa esattamente quello che vuole e fa di tutto per ottenerlo. Se n’è fregato di noi che lo prendevamo per il culo dalla mattina alla sera, e di tutta la gente che lo odiava, accusandolo di aver rovinato Bushido. Bill ha sempre scrollato le spalle. E a chi lo accusava di stare insieme a Bushido solo per pubblicità, ha risposto presenziando al suo funerale nonostante fosse pericoloso. Nonostante nessuno lo volesse lì. Quando hanno calato in terra la bara, piangeva. E sfido chiunque a trovare lacrime più sincere delle sue, quel giorno.

Io Bill l’ho conosciuto prima di tutti gli altri, quando Bushido mi chiese di andarlo a prendere all’aeroporto perché lui non poteva. La curiosità della crew, quando tornai agli studi il giorno dopo, era oltre i livelli di guardia. Io lo so che quanto sto per dire non fa del bene né a mé ne agli altri ragazzi, voglio dire loro - ma anche io - ci terrebbero a passare per un gruppo di duri, ci terrebbero a farci una figura un po' meno di merda di quanta non ne abbiano già fatta in tutto questo periodo con Bushido che ama Bill e il resto, ma dal momento che ho promesso a Bill di essere sincero mentre racconto, devo dire la verità.

Quel giorno, io lascio Bill di fronte a casa di Bushido alle dieci spaccate perché questi sono gli ordini che ho ricevuto. E sono precisi. Quando Atze mi ha detto al telefono quello che dovevo fare - compreso il pagare di tasca mia la cena di uno che sembra anoressico ma, vi assicuro, non lo è per niente - mi ha pure informato che se non glielo riportavo puntuale non avrei visto la luce di domani. E io non mi azzardo a ritardare neanche di un secondo, anzi parto parecchio in anticipo: ho la sua macchina, il suo ragazzo; vorrei evitare di finire ingessato solo perché ho trovato traffico sui viali.

Saluto Bill e recupero la mia auto, e intanto penso che è stata una gran sorpresa.
Non so cosa mi aspettassi di preciso ma di certo non è quello che ho trovato: Bill è simpatico. E nonostante le frecciatine che mi ha tirato tutta la sera, è molto facile parlare con lui. Come se lo conoscessi da sempre. Forse comincio a capire cosa ci veda Bushido in quel ragazzino. A parte che quando lo guardi, in qualche modo, ti disturba qualcosa dentro.

Quando il giorno dopo apro la porta degli sudi di registrazione, sono ancora immerso in un ragionamento tutto mio che vede un po' troppo Bill Kaulitz per i miei gusti. E quelli mi assalgono.

"Che tipo è?"

"Sei stato ben attaccato al muro, Chaku?"

Sollevo lo sguardo e ce li ho tutti lì davanti, in formazione a ventaglio. E mi guardano come se possedessi le chiavi dell'universo. Perfino Saad è curioso, anche se lui se ne sta seduto sul divano e fa finta che tutto ciò non gli interessi affatto. Io mi tolgo il giubbotto. "E' un essere umano," annuncio alla fine.

"Che cazzo significa!" Esclama Kay One, che è rimasto in tensione fino a quel momento.

"Ma è un maschio o una femmina, alla fine?" Mi chiede Eko, con quella faccia da topo che si ritrova. E io giuro che sbatto gli occhi perché a volte davvero non so come comportarmi con lui.

"E' un maschio, Eko," esclamo esasperato. "Mi pare che questo lo avessimo chiarito mesi fa!"

"Beh, beh non si sa mai!" Proclama lui, agitando la bottiglia di birra che tiene per il collo e guardando di fronte a sè. "Potrebbe essere una femmina che è diventata maschio."

"E' un maschietto," ripeto scuotendo la testa.

"E tu come lo sai? Glielo hai visto nelle mutande?" Replica lui, stizzito.

A parte che mi agghiaccio. Un po' perchè non ho assolutamente voglia di vedere cosa ci sia nelle mutande di Bill Kaulitz, un po' al pensiero che se anche ne avessi voglia probabilmente non vivrei abbastanza per raccontarlo, una volta scoperto. "E' una pertica," rispondo a quel cretino del mio compagno di crew. "Sarà un metro e 87, tipo. Non ci sono donne così."

"Ecco, vedi!" Mi indica con la bottiglia, sparge birra. E lo odio perché ho su le scarpe nuove che costano quanto l'ultima rata dell'auto.

"Vedo, cosa, deficente?" Ribatto, mentre afferro un tovagliolo di carta che c'è sul tavolo e me lo passo sui pantaloni.

"E' altissimo. Quindi forse non è una donna diventata un uomo," esclama, colto dall'illuminazione di un qualche dio minore. Quello che lo tiene misericordiosamente in vita, probabilmente. "E' un uomo che si è fatto donna!"

"E tu sei evidentemente un coglione senza speranza!" Ritorco, tirandogli uno scappellotto sulla testa rasata. "E' solo un ragazzino molto effemminato. Punto."

In quel momento si apre la porta. Anzi, s'è già aperta prima, solo che non ci abbiamo fatto caso. Ci facciamo caso quando Bushido ci guarda tutti uno per uno come se volesse darci fuoco. "Quel ragazzino effeminato prima o poi lo porto qui," dice. "E voi lo conoscerete."
E ci abbiamo pure fatto una gran figura di merda, aggiungerei.

Prima o poi, sono due settimane più tardi, quando meno ce l'aspettiamo: durante la partita.
Io credo che ci voglia una grande quantità di sadismo per decidere di portare il proprio ragazzo a conoscere i tuoi amici quando non dovresti avere un ragazzo e i tuoi amici sono impegnati ad urlare all'arbitro che è un cornuto e che sua madre si fa scopare da un gran numero di animali da fattoria.

Bushido è sadico, evidentemente.

L'idea è quella di riunirsi tutti a casa di Bushido per vedere l'ultima di campionato. Il che, tradotto, significa: divano, casino, cibo e birra. Pacifico, per noi. Bushido ci dice che arriverà più tardi, di fare come a casa nostra. Le chiavi le abbiamo.

Le abbiamo sì. Le ha Saad, in effetti.

Siamo arrivati alle cinque, ci siamo svaccati. E quando la porta si apre, Eko è in piedi sul divano senza le scarpe, Kay One sta imprecando contro ogni singolo giocatore della squadra avversaria e io sono piegato in due a terra a maledire quell'accidenti di portiere che se n'è fatta scappare una così.

Voglio dire, quello non è il giorno per portarsi Bill Kaulitz a casa.

Bushido entra per primo e saluta: non se lo caga di pezza nessuno, perché abbiamo appena subito ed è un offesa che prendiamo sul personale. Ci stiamo lamentando come prefiche perché non possiamo finire il primo tempo sull'1-0 per loro. "Abbiamo un ospite," dice.

La parola ospite riesce ad attraversare anche i nostri cervelli ottenebrati dalla partita. Alziamo tutti lo sguardo e ci fermiamo lì dove stiamo. Bill è un passo dietro a Bushido e si guarda intorno con aria spaesata. Io l'ho già visto, a me non fa effetto ma per gli altri è come assistere alla comparsa di una creatura mitologica. Il Bill Kaulitz.

Bushido lo spinge avanti e lui fa due passi incerti. Ci guarda tutti e poi sorride. Non è il sorriso sicuro di sé che gli ho visto fare quando all'aeroporto c'ero soltanto io. E' un sorriso più tenero, più dolce e quasi spaventato. "Ciao," dice soltanto, agitando la mano con le dita divaricate. A quel gesto vedo Saad che chiude gli occhi ed inspira, chiedendo a Dio di dargli la forza suppongo.

Bill è così... fuori dal ghetto.

Quando nessuno risponde, abbassa la mano e anche lo sguardo. Mi chiedo se si senta incredibilmente stupido come mi sento io per tutti gli altri, mentre me ne sto qui per terra e lo fisso. Lo vedo fare un passo indietro, sembra voler sprofondare in Bushido che gli sta alle spalle e sembra bloccargli ogni via di fuga. Mi alzo da terra e gli sorrido. "Hey, quanto tempo!" Esclamo. E spero che quei rincoglioniti dietro di me si diano una svegliata.

Bill si sistema una ciocca di capelli dietro l'orecchio e mi guarda, con gli occhi grandi spalancati. "Già. Cha...kuza, giusto?" Mi dice.

Annuisco. "Vieni, ti presento gli altri," lancio un'occhiata a Bushido e lui mi fa un cenno positivo con la testa. Bill mi segue, io non lo tocco. Lo vedo che si volta verso Bushido una volta ma poi mi ascolta. "Questo è Kay One."

"Ciao, Bill." Gli afferra una mano alla nostra maniera, Bill è un po' frastornato ma cerca di ricambiare la stretta.

"Eko Fresh." Il topo gli fa un cenno con la testa. Bill alza di nuovo la mano. Non posso fare a meno di pensare che sia tenerissimo e mi viene in mente la figlia della mia vicina di casa, quando ero più piccolo e sua madre la costringeva a giocare con noi. Quando le presentavo i miei amici era esattamente così. "E Baba Saad."

Saad non si muove. Rimane lì a fissarlo e io non capisco cosa gliene venga a fargli così soggezione. "E' un po' burbero," sussurro per finta all'orecchio di Bill e lui ride.

"E' un piacere conoscerti," dice, un po' più convinto.

Il disagio è comunque palpabile. Il suo, il nostro. Nessuno sa dove guardare e Bushido non ci aiuta per niente perché, come al solito, lui crede che tutto questo sia normale semplicemente perché a lui va così. Anzi, sparisce pure in cucina. "Bill, vuoi qualcosa da bere?"

"Abbiamo solo la birra," fa notare Eko.

"La birra andrà bene," esclama Bill.

Di nuovo silenzio. Bill guarda sempre per terra, o le sue scarpe. Noi invece, guardiamo lui perché è una specie di attrazione. E' una cosa nuova, in qualche modo. Ci siamo perfino dimenticati della partita. Ha addosso dei vestiti che mi turbano, seriamente. Non ho idea di come ci sia entrato dentro perchè quei pantaloni sono stretti. O non ha le ossa, oppure non è umano. E anche la maglia è due taglie più piccola di quello che dovrebbe essere. Quattro o cinque se prendiamo il nostro abbigliamento come termine di paragone.

Ha un po' di pancia scoperta.
Credo sia questo il motivo per cui Saad è diventato verde. Le uniche persone che girano con la pancia scoperta dalle nostre parti sono le ballerine vestite da zoccola dei nostri video. O le danzatrici del ventre nei locali tunisini in cui Bushido ci trascina. Il fatto che quella stella stia sopra un bacino maschile lo sta turbando profondamente.

Turba chiunque in quella stanza.

Bushido torna e gli porge la bottiglia di birra già stappata. Bill se la porta alla bocca e come ci appoggia intorno le labbra sento Kay One trattenere a stento una risatina. Eko gli va dietro e ridono come due ragazzini deficenti, neanche avessero dodici anni. E non dovrebbero farlo, che poi viene da ridere anche a me. Bill diventa rosso, allontana la bottiglia dalle labbra e guarda a terra. Non ha neanche bevuto.

Eko ridacchia ancora. Provo a tirargli una gomitata, così mi distraggo. Lo prendo pieno nelle costole e almeno smette di ridere. Bushido ci guarda tutti come se si aspettasse che risolviamo la cosa tra di noi. Ci suggerisce soltanto di spostarci tutti quanti in salotto a vedere la partita, così finisco schiacciato sul divano tra il bracciolo e Bill che si tiene la birra sulle ginocchia e non guarda nessuno.

Il fatto è che finché lo abbiamo insultato e abbiamo fatto ogni tipo di congettura su di lui mentre non c'era, andava bene. Ora che ce lo abbiamo seduto sul divano e non è nè la diva isterica nè una specie di zoccola al maschile ma un ragazzino che ha dieci anni meno di noi, non è così facile dargli addosso. Il problema è che Bushido magari ha qualcosa in comune con lui - non so cosa, per dio - ma noi come crew, cosa dobbiamo farcene?

Abbiamo un modo tutto nostro di stare insieme. Di solito ci prendiamo a male parole e urliamo e facciamo casino; qua nessuno ha il coraggio di urlare più nemmeno contro l'arbitro perché Bill è seduto sul divano e tiene le ginocchia così strette che sembra un'educanda. Vorrei dirgli di lasciarsi un po' andare, che l'ho sentito imprecare, che io lo so che è un maschio e che è un essere umano ma penso che sarebbe un po' stupido farglielo notare.

La tortura di questa partita dura più di quello che pensavo, ma arriva il momento di ordinare la pizza, di mangiare. A mangiare la gente è più amichevole; almeno io la penso così. Quando sono arrivato alla ErGuterJunge, proprio dentro intendo, quando mi hanno fatto il contratto. Bushido mi ha invitato a cena e c'erano anche gli altri. Ed è stato facile conoscerli, perché mentre mangi, viene naturale parlare di cazzate.

Bill siede accanto a Bushido, ma anche accanto a me. Sembra che degli altri non si fidi, il che è ancora più tenero. "Guarda, mangia," mi sussurra Eko. Mi giro verso di lui lentamente e basito. Sono senza parole. La mia faccia dev'essere abbastanza esplicativa, perchè aggiunge in fretta. "Voglio dire, è normale!"

"E cosa pensavi che facesse?"

"Non lo so, che si agitasse, un po' così sai?" Mi fa il verso di uno che muove le braccia in maniera sconclusionata. Credo voglia indicare una persona omosessuale particolarmente palese, ma gli viene fuori la brutta imitazione di un tarantolato.

Lo guardo, apro la bocca per dire qualcosa e non so nemmeno cosa. "Eko, è gay non epilettico!" Esclamo, proprio nel momento in cui tutti gli altri si zittiscono e nella stanza si sente solo la mia voce. Mi guardo intorno e desidero ardentemente di avere con me una vanga per sotterrarmi. Sono quasi certo che i pavimenti della casa di Bushido siano fatti di marmo pregiato ma posso ben scavare anche lì se mi si dà una buona motivazione.

Bill mi sta guardando e non riesco a decifrare la sua espressione. Alla fine inghiotte il pezzo di pizza che stava masticando e si pulisce la bocca col tovagliolo, educatamente. "Io non sono gay," dice con tutta la calma di questo mondo; che detto da uno truccato con kajal e matita e le unghie con la french manicure, diciamo che è un po' un azzardo. La tavolata si zittisce. Cosa gli dici ad uno così? Guarda, forse ti sei confuso, tu sei gay. "A me piace soltanto Anis," dice.

E lì capisco che cos'è che hanno in comune lui e Bushido: ti impongono la loro visione delle cose. Ed è quella giusta, porca puttana. Bill è seduto qui, a questo tavolo, ed è timido, sperso, si sente fuori posto - anzi, lo è! Perchè lui qui, davvero, non c'entra niente - eppure ti dice che gli piace Bushido. E te lo dice come se fosse la cosa più normale del mondo, come se non ci fosse un bel nient'altro da dire a quel punto. Può non capire un cazzo di tutto il resto ma lui una cosa la sa: che gli piace Anis, e quello ti dice.

Anche se è seduto ad una tavolata piena di rapper che lo prendono in giro per come si veste, si trucca e beve a bottiglia. Anche se è solo contro noi tutti qui, senza nemmeno Bushido che lo appoggia perché lo ha lasciato praticamente a nuotare da solo in questo acquario di piranha. Lui ce lo dice. E non perché sia scemo, ma perché sa che le cose stanno così e noi non ci possiamo fare un bel niente.

Cazzo, è vero.

"Nemmeno io ero mai riuscito a zittirli in questo modo," Bushido ride, per metà orgoglioso e per metà divertito. "I miei complimenti."

Lì vedo Bill sorridere, lo vediamo tutti. Ed orgoglioso anche lui: di se stesso e di Bushido. Spero che lo sia anche un po' di noi, che alla fine non ce lo siamo mangiati vivo proprio per niente. China la testa graziosamente in un mezzo inchino.

E io penso che la nostra Principessa sia appena salita al trono.

La Principessa sul trono c'è rimasta più di un anno.
Fin quando Eko non mi chiama alle quattro del mattino e io mi sveglio con la precisa idea di strangolarlo non appena vedo il suo numero sul cellulare.

E lo farei. Mi vestirei, prenderei la macchina e salirei su fino a casa sua per stringergli le mani intorno al collo se la prima cosa che mi dicesse non fosse: "E' morto."

"Quando?"

"Due ore fa."

E io non trovo niente da dire se non "Bill, lo sa?"

Sento Eko sospirare, non so se di dolore o esasperazione. "Era da lui," mi dice.
E io non mi fermo a chiedermi perché Bushido fosse a casa di Bill la notte in cui avrebbe dovuto battersi con Fler. Mi chiedo come stia Bill perché so già che da qui in poi nessuno sarà lì a dargli una mano. Morto lui, Bill non conta un cazzo.

E a me questa cosa non va giù. "Dov'è?"

"Chi?"

"Bill."

"Cristo, Chaku! Bushido è morto e mi chiedi di quel fottuto ragazzino?" Mi sbraita Eko. "Chi se ne frega di dove cazzo è. Chiediti piuttosto dove sia quello stronzo di Fler che ha premuto il grilletto. Due colpi ha sparato. Due, il bastardo! Kay lo sta già cercando."

Allora gli urlo di dirmi dove cazzo è Bill e mi risponde il nome di un ospedale, così posso riattaccargli in faccia. Bill lo trovo che fissa il vuoto, nella sala d'aspetto. Bushido in sala operatoria c'è arrivato già morto e a lui non lo fanno entrare a vedere il cadavere. La signora Luise Maria è dentro, sento le urla. Con lui c'è Tom che gli tiene la mano, ma è come se non vedesse niente. Quando entro si gira però, mi guarda e poi scoppia a piangere.

Quella notte lo abbraccio per la prima volta.

La Principessa sul trono c'è rimasta più di un anno.
E per quanto mi riguarda c'è seduta anche adesso, perchè non posso fingere che Bill non abbia mai fatto parte della vita della crew solo perché Bushido è morto. Purtroppo non è così per tutti. Per dirne una, il corpo di Bushido non era ancora freddo quando Saad ha dichiarato che voleva Bill fuori dai piedi immediatamente. E io ho pensato che non potevamo, che lui l'ha visto morire, che fino a ieri mangiava con noi. Solo che, a quanto pare, conto quanto lui, o poco più. E non ce n'è uno che mi dia ragione, qui.

Il funerale è oggi, e c'è un casino di gente. E mi viene da pensare che Atze sarebbe stato contento: i sudditi del King of Kingz ci sono tutti, anche quelli che forse avrebbero dovuto evitare di presentarsi.

Bushido era ateo ma sua madre no, quindi il funerale è una sfarzosa cerimonia cristiana. Ci sono centinaia di gigli ovunque. La signora Luise è vicina alla fossa vuota e la reggono in tre - c'è il padre di Bushido ma c'è anche Saad che la stringe forte sotto un braccio perché lei continua a lasciarsi cadere a terra. Piange così forte che sembra che non respiri e mi chiedo se abbia mai smesso da quando l'ho vista in ospedale. Adorava suo figlio. Ha in mano un fazzoletto nero tutto stropicciato. Continuo a fissarlo perché se guardo lei sto male. E' come se provasse troppo dolore. Forse si sfalderà sotto le dita di chi la sta sostenendo e di lei non rimarrà più niente dopo questo giorno.

Dietro di lei, come un corteo di avvoltoi, ci sono i pezzi grossi della Universal. Quasi tutti, almeno. In pochi sono venuti a piangere la perdita di un uomo. Sono molti di più quelli che stanno già calcolando quante volte possono ristampare l'ultimo album e farlo viaggiare sull'onda del mito: il rapper dalla vita sregolata, morto per un regolamento di conti.
Ne ho visti abbastanza di funerali come questo per sapere come vanno le cose.

Noi, l'Erguterjunge al gran completo, siamo dall'altra parte della fossa. Siamo una grossa macchia nera di dolore e di rabbia. Sento Eko, accanto a me, tirare sul col naso di tanto in tanto ma non piange. Al funerale di un atze non si piange, si odia: il bastardo che l'ha ucciso, l'ultimo giorno che l'ha visto in vita e anche la fossa vuota che attende il cadavere.
Guardo Saad e cerco sul suo viso tracce di un dolore che fatica a mostrare. La sua espressione è indecifrabile, tesa e scura. Da quando è successo non parla molto. Credo che sia il suo modo di affrontare la cosa. Io ho dovuto distruggere parecchi oggetti: in casa mia non c'è più un soprammobile.

Fler non si è più visto.
So che Kay lo ha cercato per ore quella maledetta notte; ha battuto ogni strada ma senza successo. Quelli dell'Aggro Berlin lo proteggono, ovvio. L'avremmo fatto anche noi se le cose fossero andate al contrario. Sido però è qui, e nessuno gli ha detto di andarsene. E' un segno di rispetto, dicono. L'Aggro Berlin rispetta il Re. L'Aggro Berlin rispetta un compagno, un collega e un avversario. Sono solo cazzate. Sido è qui per coprire quello stronzo di Fler e per non coprire di merda tutta la loro fottuta etichetta.

Per la polizia, Fler non c'entra perché la sua pistola non ha sparato. Non hanno prove, dicono. Ma chi altri poteva essere se non lui? Bill dice che c'era qualcuno sotto casa quella notte, che Bushido l'ha visto in faccia ma non ha fatto nomi. Non sa altro, guarda solo il vuoto. E non abbiamo avuto le palle di chiedergli nient'altro dopo che la polizia lo aveva tenuto dentro per ore. Suo fratello, sua madre, il suo manager hanno creato una cortina di protezione intorno a lui. Non ci fanno avvicinare. Non mi fanno avvicinare. Non ci vogliono.

Bill arriva a bordo di un Mercedes nero, tirato a lucido. E' una macchina enorme che occupa metà della strada e, quando si ferma, lo sanno tutti chi scenderà. Lo aspettavano. Vedo i giornalisti correre per essere i primi a piantargli in faccia le macchine fotografiche non appena metterà piede fuori. Sputerei in terra se non fossimo su un campo santo.

Prima di Bill scende suo fratello Tom. Poi la guardia del corpo che gli apre la portiera. Bill è magrissimo, sembra ancora più magro del solito. cammina fiero e diritto ma è stretto tra le spalle e nella giacca a tre quarti che gli pende addosso come se fosse stata inventata per lui. Anche oggi, se non ci fossero centinaia di persone morbosamente incuriosite dal fatto che è un maschio, tutti penserebbero che c'è una ragazza sotto le lenti scure e il cappellino.

Suo fratello lo accompagna fino al limitare dell'erba, poi gli stringe una spalla e lo lascia andare da solo. Cammina fiero e diritto e non guarda nessuno. Stringe una calla bianca tra le dita. Lo guardano tutti e nessuno muove un dito. Ci sono solo i flash dei fotografi che lo seguono finché possono, finché il servizio di sicurezza non li rispedisce indietro: ma hanno già quello che vogliono. Ed è un pezzo di Bill al funerale di Bushido. Ricordo quanto hanno ricamato su quello che c'era tra loro, adesso mi chiedo quanto inventeranno su quello che invece non c'era.

Lo perdo di vista per un istante, mi aspetto di vederlo ricomparire ma non succede. E allora capisco: non lo stanno facendo passare. Se ne stanno in piedi e fingono di non vedere che sta cercando un varco per coprire i sei metri che lo separano dalla tomba della persona che ama. Non dice una parola. Non chiede niente, come non ha mai chiesto niente. Non ha mai voluto veramente infastidire nessuno, eppure sembra quasi che sia colpa sua.

Sido è qui. Sido che spalleggia l'omicida. Sido che non rappresenta soltanto l'Aggro Berlin, ma anche Fler; lui è qui e nessuno ha detto niente. Perchè la morte nel ghetto si giustifica in qualsiasi caso, l'amore invece... beh, quello evidentemente bisogna passarlo al vaglio. Sempre.

"Che pezzi di merda," sibilo ad Eko, che è il solo lì di fianco che può sentirmi. Ma lui ovviamente guarda in terra, come tutti gli altri non crede che Bill dovrebbe essere qui. E allora vaffanculo anche a lui. Bushido lo avrebbe voluto vicino, loro lo sanno perfettamente.
Faccio una corsa fino a raggiungerlo. La gente guarda anche me adesso, bene. Sono qui per reggere gli sguardi che Bill da solo non può sopportare. Non lo tocco, gli faccio soltanto spazio perché lo so che non vuole crollare, non vuole sembrare un bambino. O una donna.

Vuole arrivarci in piedi in fondo al vialetto.

Lo scorto passo dopo passo. Sento i mormorii della gente che si chiede cosa ci faccia lui qui. C'è chi anche davanti al cadavere di Bushido ha la faccia tosta di fare battute su di lui e sul fatto che era la fidanzata. Le ha fatte anche Saad, cazzo. Ha detto che non voleva la vedova a piangere sulla bara del cugino. Mi giro a cercarlo ma non so dove sia sparito.

Bill mi ringrazia in un sussurro quando lo porto fuori dalla massa di gente e lo lascio davanti alla fossa. Le lacrime che gli scendono sulle guance io le vedo bene. E sono chiare e corpose, e crudelmente vere. Non ho idea di cos'abbia provato a vederselo morire davanti. E vorrei poter fare qualcosa.

Il prete lo guarda ma non dice niente. La cerimonia è lenta e impersonale. Quell'uomo non sa niente di Bushido, ma non importa. Va bene così. Le sue parole al vento mi danno modo di pensare a quello che Bushido era davvero, come me lo ricordo io. E probabilmente non andrà in paradiso, e non andrà neanche all'inferno. Lui non ci credeva. Diceva che per le settanta vergini del Corano, non aveva bisogno di crepare, gli bastava aspettare il backstage di un concerto.

La bara nera la calano lentamente, un pezzo alla volta. E per ogni centimetro che affonda, sento che mi sale la rabbia. E le lacrime anche, cazzo. La mano di Bill trema, la vedo da qui.
Quando il prete finisce, la prima ad avvicinarsi è la signora Luise. Getta un po' di terra sulla bara e poi fa una cosa bellissima perché alza lo sguardo di fronte a sè e annuisce a Bill.

La calla finisce sulla bara un attimo dopo.
Il re è morto, ora.

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Sleeping With Ghosts

di lisachan
Chaku è appena andato di là a dormire. So che non voleva perché di solito aspetta che io mi sia addormentato, così può posarmi una coperta sulle spalle, augurarmi una buona notte silenziosa e scivolare calmo nel suo letto ripetendosi che anche per stasera ha salvato la Principessa dal tracollo emotivo.
Stasera però il sonno non arriva. Sono già le quattro del mattino e Chaku è andato a letto solo perché ho insistito nel fargli notare che la sveglia alle sette sarebbe passata del tutto inosservata se non fosse andato immediatamente a riposarsi. Non che in genere la cosa basti a farlo rassegnare, di solito quando dico cose simili mi rimpinza di birra e a quel punto il sonno viene come conseguenza naturale, ma stasera i miei occhi erano troppo vispi e svegli, credo, per dargli ad intendere ci fosse una possibilità di mandarmi in stand by.
Non ce n’è. Lo so. Stasera non sono proprio riuscito a salvarmi dal tracollo emotivo.
Il salotto – o almeno, questa stanzetta minuscola che Chaku fa passare per salotto, cosa che mi fa ridere molto se penso alla villa gialla di Anis ed alle mille sale che la componevano come una reggia – è scuro e silenzioso attorno a me. Il plaid scozzese che mi sono tirato su fino al naso non è fisicamente in grado di scaldarmi ed io non so se sia perché c’è freddo o perché lo sento e basta.
Alla fine, immagino non faccia molta differenza. Le sensazioni sono quelle, il corpo non mente mai. Se alla mia pelle manca il calore di un abbraccio, se mi manca la pressione di dita che conoscevo a memoria e che non potrei mai confondere con quelle di nessun altro, allora è semplicemente così che sto ed è quella la mia verità. L’unica che conti. Poco importa se in genere dopo tre settimane dalla chiusura di un rapporto si ha già dimenticato tutto e si va alla ricerca di un altro.
Il mio rapporto non s’è chiuso. Il mio rapporto è morto.
Anis è morto.
A volte questo pensiero non c’è. O c’è ed io non me ne rendo conto. Ma se non lo vedo posso almeno fingere che non ci sia, perciò diciamo che non c’è. A volte la realtà è più forte dei miei ricordi, perché comunque la realtà è un po’ così: fastidiosa ed invasiva. E c’è David che mi dice cosa devo fare e mi chiede come sto, e c’è Tomi che mi spintona qua e là per negozi e poi mi piazza davanti al DVD di The Notebook dandomi un motivo valido per piangere ancora, e ci sono Georg e Gustav che fanno i pagliacci e c’è Andi che mi chiama per descrivermi la nuova sfumatura di platino dei suoi capelli e c’è mamma che mi compra i regali e me li manda via posta o me li porta di persona, e naturalmente quando sono tanto triste da non farcela più c’è Chaku che non mi rifiuta mai una birra ed un posto sul divano, perciò sì, il più delle volte ce la faccio e provo pure a dirmi che sono forte e non sto affatto male.
Di notte, però, capita che mi ritrovi senza niente da fare e con nessuna voce nelle orecchie. Nessuno che mi distragga, nessuno che mi indichi dove andare a sbattere la testa per mandare la memoria in coma e staccarle definitivamente la spina. Perciò resto così, come adesso, avvolto da una coperta inutile che non è calda la metà dell’abbraccio che non avrò più, e fisso il soffitto come se da lì dovesse venire una qualche risposta, e mi ritrovo terrorizzato all’improvviso quando comprendo che la risposta che aspetto non arriverà, semplicemente perché non esiste.
E perché i morti non parlano, ovviamente.
Tranne che nella mia testa. L’ultimo luogo dove sono sicuro di poter ritrovare la voce di Anis sempre, e non nelle sfumature metalliche di un lettore musicale, ma nella sua completezza. In tutto lo splendore dei toni cupi di quando era triste, di quelli più acuti della sua risata da bambino mai cresciuto e in quelli ruvidi e caldi di quando era eccitato e mi sussurrava nell’orecchio sapendo che mi avrebbe ridotto ad un mucchietto di voglia da rigirarsi fra le mani.
La cosa peggiore è che non sono davvero memorie, non sono cose riconducibili a momenti ben precisi. Di quelli ne ho pieno il cervello. Di lui esausto buttato sul divano dopo una giornata intensa che mi chiede per piacere di parlare a bassa voce, per fare un esempio. O di lui che squittisce – e lo faceva davvero, un suono acuto e pungente come la risata dei bambini insopportabili, ma che sulle sue labbra era dolce tanto quanto tu eri impreparato a sentirlo – di fronte a qualcosa di particolarmente buono da mangiare. Aprire gli occhi e trovarlo addormentato al mio fianco con le braccia e le gambe larghe fino ad avermi rubato tanto di quel materasso da costringermi a rotolargli addosso. E dargli una gomitata in pieno petto mugugnando che proprio non sa dormire in coppia, mentre lui mi chiude le braccia attorno alle spalle e mormora “dormi e basta” direttamente sul mio collo. Che poteva esserci freddo da morire o un caldo intollerabile ma fra quelle braccia si stava bene comunque, regolavano la temperatura dell’aria attorno a me.
Questi sono ricordi. Sono contestualizzabili. Mi basta chiudere gli occhi e non guardare divani cibi letti eccetera, per non pensarci. Mi basta concentrarmi abbastanza su un foglio di carta e su tutto lo schifo che ci voglio gettare sopra, per dire.
Con le sensazioni è più difficili, perché le sensazioni non sono contestualizzabili. Quelle, bastarde, strisciano sopra e sotto la pelle, ed una volta che le hai provate diventano parte di te, ti scorrono dentro e non hanno neanche bisogno di azionare un interruttore per risalire a galla.
Soprattutto, quando ce la fanno, non le puoi fermare. Non basta chiudere gli occhi. Restare da solo le amplifica. Circondarsi di voci rumori e suoni le rende solo più urgenti. Non scappi. Che tu sia solo su un divano o in mezzo a una folla vociante, sei solo tu e l’eco della tua voglia che ti si arrampica addosso e ti colonizza il cervello.
Anis è una sensazione. I ricordi non contano, ma la sua presenza resta. Ce l’ho sempre qui, attaccata alla pelle, come fosse una cosa viva. Come se lui fosse ancora vivo. E non me lo sono tatuato addosso ma lui c’è rimasto lo stesso. Lì, dove non l’ho mai messo. Dove è arrivato da solo. Nel posto che s’è guadagnato in mezzo al mio petto. In realtà, andandosene non ha lasciato un buco: perché non è mai andato via.
La coperta scivola via alla terza volta che mi rigiro sul cuscino del divano di Chaku che ormai ha preso la mia forma. Mi ci sono scavato una tana a forza di premerci contro le ossa, è diventato un po’ il mio posto qua dentro. È strano che casa di Chaku mi ricordi tanto Anis, perché casa di Anis era un palazzo maestoso e questo è un trilocale che sembra una topaia, ma a pensarci capisco subito che il collegamento è diverso: non è una questione di ricordi, sono appunto le sensazioni. Qui c’è l’odore di Anis. C’è l’odore della sua presenza, che è rimasta attaccata alle pareti. Chissà quante volte è venuto qui a passare una serata in compagnia, o per recuperare Chaku prima di andare da qualche parte o chissà che altro. E il suo odore s’è imposto su queste pareti, su questi cuscini e pure sulle particelle di ossigeno, tanto che lui ora è ovunque.
Un po’ ho paura di realizzare che potrebbe essere uscito da me. Potrei avercelo portato io respirando, muovendomi, rigirandomi sul divano.
Chino il capo ed annuso la pelle della mia spalla.
Anis è ancora lì, lo sento. È denso e scuro com’era da vivo. Se chiudo gli occhi abbastanza forte sento la pressione dei suoi polpastrelli, ed è calda e dolce, premurosa. Me lo vedo che si china su di me e borbotta “Ma perché ti sei addormentato sul divano?”, e per un attimo mi chiedo che cosa ci faccia qui, visto che teoricamente non dovrebbe – potrebbe – esserci, ma poi guardo la curva apprensiva delle sue labbra serrate e scuoto lentamente il capo. “Non lo so”, rispondo, “guardavo la tv”, ed è una bugia ma mi secca rispondergli che pensavo a lui, lo so che gli dispiacerebbe sapermi ancora triste e debole.
Lui scuote il capo rassegnato e si china, è in ginocchio proprio qui accanto, se mi sporgo solo un po’ lo sfioro con le labbra, ed ho davvero voglia di farlo ma mi sento stanco e pesante, perciò mi limito a guardarlo, così è lui che deve chinarsi. Lo fa dondolandosi appena sui talloni, un movimento oscillatorio un po’ infantile, si china e me lo sento sulle labbra. Si allontana quasi subito ed io assaggio il suo sapore, o ciò che ne resta, direttamente dalla mia bocca. D’improvviso mi rammarico di non averlo baciato più a fondo.
“Torna qui…”, mugolo pietosamente, ma Anis si rimette in piedi facendo leva sulle ginocchia e guida la mia mano a recuperare la coperta da terra.
“Mi fai spazio?”, mi chiede poi, ed io mi raggomitolo tutto diventando un pallina minuscola, così lui, che a dormire in due non ha mai imparato, può prendersi tutto lo spazio che vuole.
Crolla accanto a me ed i cuscini sbuffano, fanno puff, si gonfiano e si sgonfiano sotto di noi. Anis ride divertito ed io mi sciolgo. Mi sciolgo da me stesso e mi sciolgo su di lui, ed è una sensazione così nostalgica e liberatoria che mi viene quasi da piangere, perciò pigolo un lamento a caso mentre mi adatto nuovamente alla superficie dura del suo petto e del suo ventre.
“Che c’è, piccolo? Cos’è che ti manca?”, chiede, e mi prende in giro. Mi manchi tu, stupido, mi manchi da morire. Mi uccide non poterti seguire. Ma tu ora sei qui, quindi va bene.
Mi sollevo pressando le mani sulle sue gambe. Lui tende i muscoli per non farsi male ed io li sento gonfiarsi sotto di me e per un secondo vorrei ricadergli addosso e basta, ma so che me ne pentirei, perciò finisco di mettermi seduto e lo bacio. Cerco le sue labbra con una voracità che credevo di avere perduto, e lui mi risponde con un’ansia che non credevo possibile, sento la pressione delle sue braccia forti attorno alla vita, mi tira verso di sé ed è tutto un concentrato di calore e fermezza mentre io sono debole e mi arrendo una dieci cento mille volte ai tocchi della sua lingua e delle sue dita, mentre s’insinua sotto la maglietta leggera ed oltre l’orlo dei pantaloni ed io mi ricordo che lo faceva sempre, non sopportava di avermi così vicino e tollerare i vestiti, erano di troppo, sempre, sono di troppo anche i suoi ma per qualche motivo non riesco a trovare abbastanza lucidità mentale da toglierglieli e basta, perciò lascio che sia lui a guidarmi, come ha sempre fatto, e va bene così.
Si separa da me con una risatina divertita ed io me la sento trillare nelle orecchie. Rispondo con un sorriso perché mi fa felice vederlo felice. Tutto qua.
“Sei morbido…” mi dice contro un orecchio.
“Sei tu.”, rispondo io in un singhiozzo, e lui ride ancora. Non credo che capisca. Non credo che realizzi.
Nemmeno io credo di capire o di realizzare. È lui. Dio, è lui.
Scende a sbottonarmi i jeans ed io ridacchio.
“Non sei cambiato affatto”, lo apostrofo, baciandolo sulla punta del naso.
“E perché avrei dovuto?”, borbotta lui, aiutandomi a sollevarmi un po’ per liberarmi dai pantaloni il minimo indispensabile per mettermi le mani addosso, “Non ho mica fatto niente, di recente. Una noia mortale”. E mi viene voglia di prenderlo a pugni ed invece mi abbatto contro di lui e rido, rido, rido piano per non svegliare Chaku e per non svegliarmi neanche io, presso il naso contro la sua spalla e sento l’odore pulito e fresco del cotone – conosco questa maglietta, la B rossa sul davanti, non dovrei pensarci, la ignoro – Anis mi fa scorrere una mano lungo la schiena e l’altra davanti s’infila oltre l’orlo dei boxer e prende a giocare col mio corpo, che risponde subito. Dio, ne ho sentito così tanto la mancanza… così tanto…
Stringo le braccia attorno al suo collo e mi lascio solleticare dalla barba un po’ ispida, ansimando forte sulla sua pelle.
“Ti piace, piccolo?”, bisbiglia lui baciandomi sotto l’orecchio.
“Sì…”, sì che mi piace, vorrei di più ma mi piace, faccio per muovermi e scendere giù, cercando a tentoni la zip dei suoi jeans perché lo voglio davvero, non mi sembra possibile poterlo toccare ancora ed allora lo voglio tutto, ma non capisco perché quando tocco non tocco niente, le mani vagano a vuoto, c’è solo aria; apro gli occhi e lui è ancora qui che mi sorride e mi accarezza, ed io stringo i denti e contraggo i muscoli sperando di non venire ancora, non ancora, non ancora, ti prego, lo voglio sentire dentro, prima, ma lui bisbiglia “lascia perdere, piccolo, lascia perdere” e mi bacia ancora, ed io lo sento che è fisico e vero, non è solo aria, ma le mie mani non toccano più nulla, non c’è più nulla da toccare e non c’è più nulla da sentire, eppure le labbra sono lì, le mordo con forza mentre mi libero contro la sua mano, ed è allora che riesco a toccare qualcosa, qualcosa che è duro e consistente ed umido – umido? – e nudo – nudo? – ed apro gli occhi e lui non c’è.
Lui non c’è.
Ed io non sono seduto, sono ancora disteso.
E la coperta è ancora per terra.
E le mie mani stanno toccando me stesso.
Ho il fiatone e mi sanguina un labbro. Mordevo me stesso. Toccavo me stesso. Lui non c’era. Non c’è mai stato. Dormivo o sognavo ad occhi aperti o qualsiasi cosa fosse – lui non c’era. Non c’era. Non c’è.
Mi alzo in piedi di scatto e non so come faccio ad arrivare fino al bagno senza inciampare nei pantaloni che cascano o nella coperta aggrovigliata sul pavimento. Arrivo fino al bagno e mi abbatto contro il water, stringo forte le dita attorno al bordo della mezza vasca che lo fiancheggia e svuoto il niente che mi tengo dentro, perché stasera non ho neanche mangiato. La bile è acida e amara contro il palato, ha un sapore orrendo che mi fa venire voglia di vomitare ancora di più.
Sono amare pure le lacrime, vaffanculo a loro. Perché? Perché lo faccio? Perché mi prendo in giro? Perché non posso semplicemente mandare via o buttare giù o lasciare indietro o tirare avanti o qualunque sia la banale espressione che si usa per dire che rivoglio la mia vita, merda, la rivoglio sana, non voglio guardarmi allo specchio e ritrovarmi ogni volta disperso in un milione di pezzi…
Io non so come fare a ricompormi, non ne ho la più pallida idea… ho sempre lasciato che fosse Tomi a rimettermi insieme, e non capisco perché non ci riesce proprio stavolta che ne avrei più bisogno in assoluto…
- Bill? – la voce di Chaku è assonnata e confusa, all’inizio, ma poi lo sento muoversi dietro di me e capisco che sta cominciando a ragionare. La seconda volta che mi chiama, infatti, è più deciso. – Bill. – ripete, raggiungendomi in due passi ed accucciandosi accanto a me, - Che hai? Stai male?
Annuisco perché non ho la forza neanche di mentire.
- Cos’è? Lo stomaco? – chiede lui, lanciando un’occhiata poco convinta all’acqua torbida nel water, - Vuoi che ti prenda qualcosa? – ma tanto non c’è niente che possa farmi bene. – Bill?
Mi trascino sul pavimento verso di lui e mi schiaccio contro il suo petto. Che è caldo e si muove un po’ ansiosamente al ritmo del suo respiro.
- Bill…?
- Ho bisogno… - faccio fatica a parlare e mi nascondo contro di lui perché mi sento terribilmente in imbarazzo, - …posso stare un po’ così?
Lui annuisce appena e mi circonda con un braccio, mentre con la mano libera recupera un pezzo di carta igienica e si sporge verso la vasca, aprendo il rubinetto ed inumidendolo per poi passarmelo sulle labbra.
- Non riuscivi a dormire? – mi chiede, palesemente perché il silenzio s’è fatto insopportabilmente pesante.
Scuoto il capo. Dormivo ed il mio corpo andava fuori controllo. Vorrei non dormire mai più. Vorrei che non calasse più il sole.
- Sicuro di non volere usare il mio letto? – chiede ancora lui, imbarazzato e a disagio. – È davvero più comodo ed ho… - esita, - ho cambiato le lenzuola stamattina, se questo ti preoccupa e-
- Non sono preoccupato. – mando giù un po’ di saliva. Mi brucia la gola. – Non possiamo rimanere un po’ così e basta?
Chakuza si arrende. Smette, probabilmente, di cercare di scavarmi nella testa. Tanto sa che, se volessi dirgli qualcosa, gliela direi.
Restiamo immobili finché alla luce artificiale del bagno non si aggiunge quella del primo sole che filtra dalla finestra in alto. Non sembra meno artificiale dell’altra, ma io non sono neanche più tanto sicuro che riuscirei a distinguerle.

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Ich hab dich nicht vergessen

di tabata
Bushido è morto tre mesi fa.

La EsguterJunge è un'enorme macchina da soldi ferma perchè manca il suo ingranaggio principale.
Abbiamo fatto tre riunioni nel tentativo di decidere cosa farne di noi e dell'etichetta, e non ne abbiamo cavato un ragno dal buco. La prima volta siamo stati tutti in silenzio. Le altre due abbiamo iniziato ad azzannarci alla gola, come era ovvio che succedesse. Saad sostiene che dobbiamo trovare un altro leader e metà della crew vuole lui al comando. L'altra metà di noi è convinta che così non vada. E non troviamo un accordo.

Io credo che l'EsguterJunge debba morire con il suo re.
Che senso avrebbe trovare un altro uomo, un'altra faccia, un altro nome? Bushido era l'Esguterjunge. Senza di lui, non esiste neanche il gruppo. A dire la mia, comunque, non ne ricavo niente. Non sono ancora così in basso da prendermi le urla, ma il silenzio quello sì. Smettono tutti di parlare, mi guardano e poi abbassano la testa, fanno finta di non aver sentito. Per loro l'importante è mandare avanti la baracca, forse hanno paura che a scioglierci ora andremo tutti a vendere pesce al mercato, non so.

Bill è tornato alla sua vita, o a quel che ne resta.
Dopo il funerale è partito con suo fratello ed è stato via tre settimane, per una destinazione sconosciuta perfino al suo stesso management. Il suo manager è arrivato a telefonarmi per chiedere se ne sapessi qualcosa; io mi sono guardato bene dal dire a David Jost che le cartoline mi arrivavano dalle Maldive. I giornalisti hanno cominciato a dire che era finito lui, e che era finita la band. Per questo quando i gemelli sono tornati a casa, la Universal li ha fatti uscire con un nuovo disco, due dvd e una tabella di marcia così serrata da farmi pensare che più che promuoverli volessero ammazzarli. Sia mai che il ragazzino possa crogiolarsi nel suo dolore. Per i Tokio Hotel, Bushido non è mai esisito.
Per l'EsguterJunge non è mai esistito Bill.

A volte mi chiedo se sono l'unico a ricordarsi che questi due sono stati insieme.

In realtà Bill esiste eccome, e ci vediamo di continuo; molto più di quanto sarebbe logico vedersi. E per lui Bushido non è un ricordo, è un qualcosa di tangibile che gli è rimasto ancora addosso, come il giubbotto che indossa, o l'anello di Atze che non si toglie mai. Qualche volta ne parliamo, di Bushido intendo. Bill ha gli occhi tristi, ma sorride. Credo che non sopporti il silenzio che gli hanno imposto. Lui vuole parlare. Gli fa bene.

In televisione, hanno smesso di scavare a fondo perché la loro storia non fa più notizia, ma le cose non vanno meglio; anzi. Hanno ripreso a fare le stesse fottutissime domande, a cui però Bill non può dare la stessa risposta. Quando gli chiedono del suo grande amore, non può rispondere L'avevo trovato. Deve dire che è là fuori, da qualche parte. E quando mi capita di vederle, queste interviste, mi chiedo chi è la testa di cazzo che prepara le domande e vorrei spaccargli la faccia. Trattano ancora Bill come se avesse quindici anni e fosse divertente farlo parlare della fidanzatina. O del fidanzatino. Non è divertente per un cazzo. E Bill non è più un adolescente che guarda in camera dicendo che crede nell'amore vero.

Ci credeva, ma gliel'hanno ammazzato a sangue freddo.

Le cose sono cambiate, ma tutti fanno finta che non sia così. E' per questo che io e lui finiamo a passare le serate a giocare a monopoli sul pavimento del mio salotto, perché quando parliamo non facciamo mai finta che Bushido sia vivo. Io non fingo che lui non sia diventato adulto e lui non finge di stare bene. Questo è il tipo di sincerità che fa male, cazzo; ma è giusta così. Le cose che vanno fatte non sono sempre quelle migliori.

Ad ogni modo, stasera è una di quelle sere.
Quelle in cui Bill mi telefona per dirmi che è sotto casa mia, se gli apro per favore. Mi guardo e cerco di togliermi le briciole dalla maglietta: stavo svaccato sul divano a guardare un film mal doppiato quando ha chiamato. La casa è un macello, non aspettavo ospiti e, diciamocela tutta, anche se li avessi aspettati sarebbe stata un macello uguale. Io ci vivo solo, qui.

"Questa casa fa schifo, Chaku," esordisce lui, non appena gli apro la porta e lo lascio passare. Si tira su gli occhiali da sole, incastrandoli bene sulla testa.

"Lo so, me lo dici sempre." Richiudo la porta e lo seguo in cucina. Benedico la lavastoviglie che mi permette di non avere la pila dei piatti sporchi da rigovernare nel lavandino. Sbatto tutto là dentro, quando ho voglia. Quando cucino, in effetti. Di solito è tutto precotto.

"Perché ogni volta spero che mi ascolti, e ti prenda una cameriera," dice annuendo, con un sorriso. "Una di quelle portoricane rotonde, magari. Tomi dice che sono carine."

Lo guardo divertito. "Tomi dice che sono carine?" Chiedo. Lui si stringe nelle spalle, come a dire che non gli interessa. Le uniche volte che ci siamo trovati insieme a fare apprezzamenti su una donna, io parlavo delle tette, lui parlava delle scarpe. E lo abbiamo capito dopo due ore di discussione: per me non erano mai troppo grandi, e lui si ostinava a dirmi che se erano troppo grandi non poteva camminare. "Ti va un po' di pizza avanzata?" Offro.

"Da quanti giorni è lì?" Chiede dubbioso. Quando solleva un sopracciglio, gli si muove tutta una parte della fronte. E' il suo sguardo da diva intransigente.

"Solo due," rispondo orgoglioso, mostrando le dita.

Bill si issa sul tavolo, e quei due metri di gambe che si ritrova quasi toccano ancora terra mentre è la sopra. "Accidenti, allora sono fortunato," esclama spalancando gli occhi. Poi solleva una busta. "Ho portato il cinese, uomo del ghetto."

"Come facevi a sapere?"

Mi sorride, un sorriso a metà, tutto di traverso. Furbo. "Che ti andava il cinese o che non avevi niente in casa?"

"Ehm..."

"Le due cose sono collegate, comunque: tu non hai mai niente in casa, ergo ti serviva del cibo." Mi spiega, infilando la testa nel sacchetto. "E so che ti piace il cinese... ti va l'involtino primavera o l'insalata di polpo? Mi lasci l'insalata che sono a dieta?"

Recupero la confezione di cartone che mi sta passando.
"Suppongo che mi vada l'involtino," rispondo.

Si sistema meglio, sempre seduto sul tavolo. Gli piace stare là sopra, o sullo schienale del divano. Non l'ho mai visto seduto per bene. Io afferro una sedia e lui mi passa le bacchette che ha tirato fuori dalla busta. "Com'è che sei a dieta?"

"Ho messo su qualche chilo," risponde, mettendosi in bocca un pezzo di polpo.

"Dove?" M'informo. Da qualunque parte lo guardi, è bidimensionale. Come quelle scarpiere che stanno anche dietro la porta del bagno. "Se dimagrisci un altro po', finisce che scompari!"

Lui sorride, e abbassa lo sguardo sulla sua insalata. Rimaniamo in silenzio per un po', finchè non sento cambiare qualcosa nell'aria. Succede tra il mio pollo al curry e il suo riso alla cantonese. E' una cosa che mi capita spesso con Bill, quando sta per dire qualcosa su cui ha pensato molto. Si prepara, si tende tutto. Lo vedo giocare con le bacchette nella scatolina. "Chaku?"

"Hmm?"

"MTV sta preparando una trasmissione su Anis," mormora. "Uno di quegli speciali, sai, per la morte dei cantanti con le interviste e... le testimonianze."

Non dico niente.

"Credo che faranno qualche stupido gioco d parole con King of Kingz nel titolo, roba così," gioca ancora con le bacchette, sembra pensieroso e non alza lo sguardo finché non aggiunge: "Mi hanno invitato."

Rimango lì con la mia scatola di cartone in mano. Non me la sento di evitare il suo sguardo, perché lo capisco che ha alzato la testa per vedere la mia reazione. "Che cos'hai deciso di fare?"

"Non ho deciso niente," si stringe nelle spalle. "Ho detto che ci pensavo."

Annuisco e ficco le bacchette nel pollo più forte di quanto volessi. Mi alzo e appoggio tutto sul tavolo, sento lo sguardo di Bill seguirmi mentre recupero la birra dal frigo. "Vuoi andarci?" Gli chiedo.

"Non lo so," risponde. Si guarda le mani, le unghie sono dipinte di nero stavolta. "Tu pensi che dovrei?"

"Non devo decidere io, Bill."

Si gira, sul tavolo, e appoggia una mano di fianco a sé. "Voglio solo sapere che cosa ne pensi."

Io penso che non abbiamo bisogno di una trasmissione ultra-sponsorizzata che infastidisca tutte le persone che ancora si ricordano bene di Bushido e svenda le sue immagini con musiche da commiato e interventi in diretta di vicini in lacrime. E penso che lo faranno a pezzi in quello studio.

Ma non posso dirgli quello che penso, perchè so cosa pensa lui.
Quella trasmissione è un modo per parlare di Bushido, del suo Bushido, e magari dire la sua su quello che è successo tra di loro. Forse lo sa anche lui che non è una grande idea, ma ha una gran voglia di andarci lo stesso e glielo leggo sul muso. Sul broncio della labbra. Non vuole dirmi che vuole andarci, però, se io penso che sia una stronzata.

Solo che io non lo so se sia davvero una stronzata. Non so un cazzo di niente. Proprio come lui. In questi momenti, quando crede che io conosca tutte le risposte, vorrei dirgli che è davanti alla persona sbagliata. Io non sono Bushido. E poi mi sento uno stronzo perchè magari lui non pretende niente da me, magari vuole solo parlare dal momento che a casa sua non può farlo. Gli dico solo la metà passabile dei miei pensieri. "Penso che ci saranno un sacco di stronzi in quello studio."

"Beh, ci saresti anche tu," mi guarda fisso.

Gli passo la birra che ho in mano, solo per potermi infilare di nuovo nel frigo a prenderne un'altra. "Fino a prova contraria, non mi hanno invitato."

"Lo faranno. Chiameranno tutta l'Ersguterjunge, è questione di ore," mi dice lui. Poi abbassa la voce. Lo fa sempre quando deve dire qualcosa che sa provocherà un cataclisma. "Chiameranno anche l'Aggro Berlin. E Fler."

"Cosa?" Mi tirò su di scatto e batto la testa contro lo spigolo di un mobile. "Cazzo!"

"Chaku!" Bill salta giù dal tavolo e mi raggiunge. La scena è un po' surreale perché me lo ritrovo piegato addosso ed è almeno dieci centimetri più alto di me. Non dovrebbe esserlo. E non so nemmeno perché non dovrebbe esserlo. La testa mi fa un male cane.

"Non è niente."

"Togliti il cappello."

"Non è niente!" Insisto e cerco di allontanarmi, ma dimentico sempre che non è una ragazza e ha la mia stessa forza, se non di più. Mi afferra per una spalla e mi toglie il cappello nonostante le mie proteste.

"Ti esce il sangue," commenta. Lo vedo che afferra i tovaglioli di carta e li bagna, me li preme sulla testa con l'aria di chi sa cosa sta facendo.

"Cazzo!" Sibilò di nuovo.

"Stai fermo," dice, mentre scruta la ferita e la pulisce piano. "Non è niente, comunque. E' solo un taglietto."

Incrocio il suo sguardo e lo sento smettere di premermi il tovagliolo sulla testa. Apre le labbra per dire qualcosa, ma poi se le inumidisce e basta. Mi passa il tovagliolo. "Tieni," dice, "Tienilo premuto ancora per un po', così smette."

Annuisco, perchè mi sembra la cosa più sensata da fare mentre lui fa tre passi indietro. "Ti capita spesso di curare musicisti feriti?"

"Mi capitava," risponde e incrocia le braccia al petto, tanto per darsi qualcosa da fare. Io mi sento un cretino.

"Scusa, pessima battuta."

"Non importa."

Ci sono momenti in cui prendo in seria considerazione l'idea di suicidarmi, anche se va contro tutto quello in cui credo. Farmi ammazzare con una coltellata per strada, forse, ma togliermi volontariamente la vita, quello mai. Mia madre ha sempre sostenuto che fare il lavoro che faccio, con il rischio altissimo che qualcuno mi spari, è un po' come suicidarsi, e forse ha ragione. Ad ogni modo non è questo il punto. Sto per aprire bocca e tentare di rimediare alla gloriosa figura di merda che ho fatto quando Bill parla prima di me.

"Chaku," mi dice. "Io credo di volerci andare."

E il Chaku ti accompagna, Principessa. Perché col cazzo che ti faccio entrare in quello studio da solo. Annuisco e poi getto il tovagliolo sporco di sangue nel cestino. "Va bene, ci andiamo."

Bill solleva lo sguardo e si illumina tutto. E' una roba un po' difficile da spiegare: spalanca gli occhi e vedi che brilla, come se avessero acceso le luci da dentro. Le prime volte ci rimanevo un po' come un ebete a fissarlo.

"Ci vieni davvero?"

"Vuoi andarci da solo?"

"No," esclama lui. "No. Io voglio che vieni anche tu. Vieni?"

Rido, perchè si è agitato e quando si agita si muove troppo.
E' troppo magro, quindi è come vedere un attaccapanni che ondeggia, un qualcosa di simile. Non credo che gli piacerebbe sapere che ho avuto quest'immagine mentale di lui. "Ti ho detto di sì!" Rido e poi lo spintono verso il salotto. "Ti va un film?"

Bill si stringe nelle spalle e annuisce.

Quando Bill viene qui, faccio in modo che sul tappeto del mio salotto non ci siano i panni sporchi di una settimana. Capita, a volte. Non che io mi impegni a rimettere a posto, ma devo dargli un posto in cui sedersi o rimarrà in piedi: l'ho visto. Le prime volte dimenticavo che Bill non ha niente a che spartire con Eko e Kay One, i quali sono in grado di mangiare cose dal mio frigorifero che non ho idea di quando vi sono entrate. Tanto per darvi un'idea.

Scelgo un flm qualsiasi. Uno che abbia un po' di sparatorie, ma che contenga un minimo di trama: qualcosa che Bill possa guardare e struggersi un po'. Credo abbia voglia di struggersi. Non ho mai capito perché, quando è depresso, abbia voglia di deprimersi ancora di più, è qualcosa che sfugge alla mia logica. Qualcosa che è tipicamente femminile, per altro, perchè anche la mia ex passava le ore a guardarsi film strappalacrime quando gli ormoni del mestruo la gettavano nel suo mensile baratro di disperazione.

Ora, dal momento che Bill non ha le mestruazioni - e ancora mi rivedo Eko che insiste col dirmi che secondo lui in realtà è una donna - ne devo dedurre che la sua ricerca di depressione inizia quando qualcosa gli va storto. Il che è anche peggio, perchè tu puoi avere le palle girate ben più di una volta al mese.

"Chaku?"

Mi giro, rendendomi conto che mi sono perso nei miei pensieri di nuovo. Capita spesso, di recente. "Sì?" Mi volto verso di lui e lo vedo che si trascina sul divano, accoccolandosi con la testa sul bracciolo opposto al mio.

"Ti dispiace se dormo qui? Non ho voglia di tornare a casa."

Lo avevo dato per scontato. "Certo. Puoi usare la mia camera, se vuoi."

Lui scuote la testa. "No, il divano va bene. Mi piace il tuo divano."

Bill non ha mai voluto dormire nella mia stanza.
Inizialmente pensavo che fosse una forma di cortesia: già si auto-invitava a casa, non voleva disturbare oltre. Poi sono arrivato alla conclusione che il divano gli piaccia davvero e non ho idea di come questo sia possibile. E del perchè mai una persona della sua misura possa trovare piacevole dormire appallottolato in metà dello spazio che gli servirebbe. Bill è una creatura aliena che è entrata nella mia vita un po' troppo in fretta perché l'abbia ancora studiata per bene. "Sei sicuro?" Chiedo. Lo faccio sempre. "Non starai scomodo?"

Lui ha gli occhi semichiusi e tanto sonno, ma sorride guardandomi di traverso. "Sto bene, voglio dormire qua sopra, però."

"Ai tuoi ordini, Principessa." Rido.

Mi tira un cuscino. "Piantala di chiamarmi così, stronzo."

"E come dovrei chiamarti?"

Lui tira su un sopracciglio, che con lo sguardo che ha - quello assonato - è tutto un programma. Non so come spiegarlo, ma smette di essere femminile. Quel sopracciglio, quello sguardo. E' strano. "Con il mio nome magari. Che ne dici, Peter?"

"Tu non dovresti sapere quel nome," faccio una smorfia. Devo averglielo detto chissà quando, in un momento in cui eravamo tutti quanti molto ubriachi, temo.

Bill si stringe nelle spalle. "Lo avrei comunque trovato su Wikipedia."

"Mi hai cercato su Wikipedia?"

Lui annuisce. Recupera la sua birra e tira giù un sorso. "Te e tutti gli altri, ovviamente. Dovevo sapere con chi avrei avuto a che fare quando Anis mi portò a conoscervi."

Annuisco, sgranando gli occhi come se fossi meravigliato. "E certo Wikipedia poteva aiutarti in quel senso," esclamo sarcastico. "Avresti potuto chiedere direttamente a lui."

"L'ho fatto, ma non era obbiettivo," commenta. "Eravate tutti dei bravi ragazzi, per lui."

"E non lo siamo?" Sollevo le sopracciglia un paio di volte.

"Tu lo sei."

Non riesco a dire niente, a questo punto. E lui comunque non si aspetta una risposta, torna a guardare il film.
Mi viene in mente una serata precisa, quella prima della morte di Bushido. Ci siamo io, lui e due birre come stasera. Solo che Bushido mi sta seduto di fronte e non stiamo guardando uno stupido film. Ricordo i suoi occhi e la serietà che c'era dentro, mi veniva quasi da ridere, ero nervoso: le cose non erano mai state davvero così serie da aver bisogno di quella faccia lì. E poi Bushido mi guarda e mi dice che potrebbe morire, che Fler potrebbe ucciderlo intendo, e che io devo prendermi cura di Bill.
Ho sentito il cuore finirmi in gola e non ho mai capito se fosse per lui che moriva o per Bill che rimaneva da solo. E io gli dico di sì, ovviamente, perché sono suo amico e perché Bill mi piace e non voglio che finiscano per mangiarselo vivo solo perché non sa come funzionano queste cose. Non lo sa che nessuno osa dirgli niente solo perchè c'è Bushido a proteggerlo. O forse lo sa, ma non ha idea di che cosa vorrebbe dire non vivere più nell'ombra di uno come lui.
Certo a me non daranno retta al punto di lasciarlo in pace, ma io so difendermi dal branco. Bill no.

E quindi, d'accordo Atze, fidati di me.

Ho sperato che non ce ne fosse mai bisogno, che Bushido tornasse a riprenderselo dopo aver fatto il culo a Fler.
E invece la Principessa è sul mio divano, e non sa che farsene di se stesso ora che non verrà nessuno a portarlo via.
Siamo in due però. Nemmeno io so cosa cazzo fare. Con lui, con me. Stiamo aspettando, e non sappiamo che cosa.

Due ore dopo, Bill ha finito la sua birra e questo è bastato a stenderlo definitivamente.
Si è appallottolato tutto su un angolo del divano, con le mani sotto la guancia e io ho dovuto andare a cercare una coperta, nel casino del mio supidissimo armadio, per coprirlo. Sennò domattina si sveglierà con il raffreddore, il mal di gola e chissà cos'altro e non voglio che centinaia di ragazzine nel mondo rimangano deluse se lui non può più cantare.

Certo, centinaia di ragazzine nel mondo...

Quando bussano alla porta, sono a metà strada tra la mia stanza e il divano, con in mano un piumino azzurro a nuvolette bianche che non so come sia finito nel mio armadio. Non è mio. O meglio, non è più mio da quando avevo dodici anni: suppongo che mia madre sia passata da queste parti mentre non c'ero.

Copro Bill e poi raggiungo la porta, dove continuano a bussare neanche stesse andando a fuoco il corridoio. "Arrivo!" Sibilo, che poi è inutile perchè se parlo piano dall'altra parte nessuno può sentirmi. Quando apro, comunque, sono pronto a trovarci chiunque, ma non lui.

Non lui, e la sua faccia di merda che mi fissa.
M'incazzo così tanto e così istantaneamente che non mi rendo nemmeno conto che non è in sé; lo afferro per la maglietta e lo sbatto di violenza contro il muro dall'altra parte del corridoio. "Cosa cazzo ci fai tu, qui?" Gli ringhio in faccia.

Fler si lascia schiantare contro il muro e alza le mani. "Devo parlarti," alita e il fiato gli puzza così tanto che potrei indovinare cosa cazzo ha bevuto. Lo tiro via dalla parete e ce lo sbatto contro di nuovo, solo per il gusto di vedere la sua testa che ondeggia e colpisce le mattonelle. Si lamenta.

"Non hai un cazzo da dirmi, stronzo!"

Lo lascio andare e cade per terra, dove lo prendo a calci un paio di volte. Dio, sono così fottutamente incazzato che potrei spaccargli la testa qui, nel corridoio del mio palazzo. Lo vedo piegarsi a riccio mentre lo prendo a pedate nello stomaco e l'unica cosa che mi viene in mente è: ha ucciso Bushido. Ha sparato due colpi. Bushido è morto. Bushido è morto per colpa sua.

Voglio ammazzarlo.

Il pensiero che Bushido sarebbe qui se lo stronzo ai miei piedi non avesse premuto il grilletto è l'unica cosa che riesco a razionalizzare. E mi viene voglia di pestarlo. E lo faccio, porca puttana. Mi chino in terra sulle ginocchia e gliele tiro dirette in faccia. Un pugno dopo l'altro. "Con che coraggio ti presenti qui?" Gli grido, e colpisco. "L'hai fatto fuori bastardo!" Grido e colpisco. E non mi importa se si sveglierà il palazzo. Se si sveglierà Bill.

Voglio il sangue.

E lo voglio perché mi ha presentato la sua faccia qui, come se niente fosse. Come se non fosse tutto un fottuto casino dopo la morte di Bushido. Vaffanculo. Vaffanculo. Vaffanculo.

E poi lo dice. "Non sono stato io, Chakuza!"
La prima volta lo colpisco lo stesso, perché le sento a stento le sue parole. Si copre il viso, ma gli esce sangue dal naso e dalla bocca.

"Stai zitto!"

"Cristo Santo!" Impreca. "Fermati! Io non c'entro un cazzo!"
Grida e Grida. Lui non colpisce. Lui se ne sta lì a farsi picchiare e dice che non è stato lui. E mi fermo.

Lascio che si alzi a sedere e vedo che si pulisce la bocca. Sputa nel corridoio. "Cazzo!" Si guarda le mani che sono sporche di sangue e poi si passa l'avambraccio sulla bocca. "Mi hai quasi spaccato la faccia."

"Che cosa cazzo vuoi?"

"Te l'ho detto: parlare," risponde lui, sarcastico. "Pensavo si usasse dalle vostre parti." Si tampona il naso.

"Ti dò un minuto per spiegarti, poi ti butto fuori di qui a calci nel culo."

"Peter-"

"Chakuza."

"Chakuza, ascoltami-"

"Cinquanta secondi..." scandisco.

Fler sospira. "Non sono stato io," ripete. "Quella notte ero sotto casa sua ma non ho sparato. Qualcuno lo ha chiamato e sono partiti i colpi. Io non ho fatto niente."

"Perché dovrei crederti?"

"Perchè cazzo sarei qui?" Ringhia lui. "Pensi che sarei così coglione da venire a bussarti a casa se fossi stato io?"

Ci penso, e ha ragione. Quale motivo avrebbe avuto di uscire allo scoperto per venire da me?
Seriamente, Fler non è mai stato una cima ma non è mai stato davvero così stupido. Sa che noi, noi dell'Esguterjunge, lo vogliamo tutti morto.
Quindi ghigno. "Non si sa mai con voi dell'Aggro Berlin," replico. E poi gli tendo una mano. "Alzati."

Lui si aggrappa e si tira su a fatica. Barcolla, un po' perché è ancora ubriaco e un po' perchè gliele ho tirate veramente. "Guarda che anche il tuo Re era uno dei nostri, te lo ricordi?" Biacica.

"Stai zitto, prima che te le tiri di nuovo. Hai ancora venti secondi." Lo trascino in casa e lui si accascia su una sedia. Lo lascio a guardarsi intorno e vado a prendergli uno straccio perchè eviti di grondarmi sangue sul pavimento. Glielo tiro praticamente in faccia quando ritorno.

"Mi metti in conto anche questi, di secondi?"

"Dieci," rispondo, incrociando le braccia al petto. "Ti conviene sbrigarti."

"Okay, okay," mette le mani avanti. "Ascolta, sono qui solo perchè dovevo dirlo a qualcuno, va bene?"

"Perchè a me?"

"Perchè sembri il meno stupido," mi fulmina lui. "Ora me li lasci usare questi fottuti dieci secondo o no?"

"Sette."

"Io e Bushido ci siamo presi a coltellate, poi lui me le ha tirate e se n'è andato lasciandomi in terra come uno stronzo. Immaginavo che sarebbe corso dal suo ragazzino, quindi sono andato lì anche io. L'ho visto attraverso la finestra. Volevo soltanto... cazzo, non lo so... ma ad un certo punto qualcuno ha fischiato. Il nostro fischio, intendo, roba mia e sua di quando eravamo due ragazzini e lui si è affacciato per quello. Cristo. E poi gli hanno sparato. Due colpi."

"Chi?"

"Non lo so."

E i suoi sessanta secondi sono finiti, ma non posso mandarlo via.
In questo preciso momento non so cosa pensare. Non lo so perchè ho davanti quello che credevo l'omicida di uno dei miei migliori amici, e invece non lo è. O dice di non esserlo. Ma io non trovo un solo motivo per cui dovrebbe mentire.

La polizia già lo crede innocente. Io potevo solo ammazzarlo a sprangate, quindi a venire qui, a sparare cazzate, non ci guadagnava niente. Fler sta dicendo la verità. E questo forse mi preoccupa più di tutto il resto; uno, perchè mi sono accorto che tra Fler e Bushido non c'è un cazzo di differenza. Hanno lo stesso sguardo incazzato, gli stessi occhi scuri che ti guardano e non capisci mai cosa cazzo c'è dentro il più delle volte. Però ci sono volte che ci leggi dentro tutto, perchè lo fanno apposta. Ci parlano con gli occhi questi due.

E due, due perchè se non è stato Fler - che aveva un motivo, che lo conoscevamo, che ce l'ho davanti e potrei pure strangolarlo - allora significa che è stato qualcun altro. E potrebbe essere chiunque.
Anche uno che non aveva un cazzo di motivo valido e quindi potrebbe pure venire ad ammazzare me, o Saad.

O Bill, cazzo.

"E comunque dovevo togliermi il peso prima di quella fottuta trasmissione," dice Fler.

"Quale trasmissione?"

"Quella di TRL. Hanno chiamato anche noi dell'Aggro Berlin," risponde e stringe la mano a pugno. "Sono dei bastardi, è chiaro che vogliono vedere come ci ammazziamo in televisione."

A quel punto mi chiedo perché Bill lo sapesse, e lo sapesse anche Fler mentre io ero a casa mia e non sapevo un cazzo. Devo parlare con Saad. In quel momento, però, sulla soglia compare Bill e la sequenza di eventi che ne segue è surreale.

Fler si gira verso di me e mi chiede "Cosa ci fa il ragazzino a casa tua?" E ha uno sguardo e un ghigno che non voglio interpretare per quelli che sono perché sennò ricomincio a pestarlo. Solo che non farei in tempo.

"Tu!" Bill percorre lo spazio che lo separa da noi ad una velocità impressionante e gli si fa addosso come una furia.

Fler fa in tempo a dire, "Kaulitz, lascia che-" poi si prende un'altra scarica di botte e scopre che Bill sembra fragile, ma ha delle mani enormi. Ed è tutt'ossa. Quindi fa male. Malissimo.

"L'hai ammazzato!" Grida Bill. "Sei un maledetto bastardo."
Fler si copre di nuovo la testa, gli cade lo straccio di mano. E quando Bill lo butta giù dalla sedia e gli si avventa addoso io comincio seriamente a temere per la sua vita.

"Bill, fermo!" Provo, ma non mi ascolta. E giustamente.
Ha per le mani l'assassino del suo ragazzo, se non lo fa a brandelli ora è un miracolo.

"Cristo, Chakuza! Toglimelo di dosso!"

"Bill! Bill, adesso calmati!" Lo afferro da dietro e me lo stringo addosso. Cerco di strapparlo da Fler che è ancora in terra e lo tiro via mentre scalcia e urla e tenta di liberarsi.

"Mi è morto tra le braccia, cazzo!" Ringhia verso Fler. Lo stringo più forte, e lo sento tremare. "Lo sapevi questo, figlio di puttana? Te lo hanno detto che gli ho pianto addosso finchè non se n'è andato? Ti sei divertito all'idea?" In quel momento si calma, perde come tutte le forze. "Bastardo!" Mormora. Sto per lasciarlo andare ma fa uno scatto in avanti e così lo riprendo al volo. Non pesa niente, niente. Ma è un fottuto fascio di nervi. "Vaffanculo!" Ringhia. "Chaku lasciami!"

"No!" Grido quanto lui. "Lui non c'entra niente!"

"Cosa?"

"Adesso ti lascio andare e tu ti siedi," gli dico. "E ti spiego tutto. Va bene?"
Bill non reagisce, così stringo la presa. "Va bene?" Chiedo di nuovo.

Lui fa un cenno secco con la testa e io, lentamente, lo lascio andare.
Rimane in piedi e guarda Fler come se volesse incenerirlo. Lo prendo come un miglioramento, quindi dico a Fler di ripetere tutto da capo. Lui lo fa e Bill non gli crede proprio per un cazzo, ovvio.

"Non è vero," dice.

"Io non ho sparato," ripete Fler. E Bill mi guarda e io annuisco, per rassicurarlo.

"Se non sei stato tu, chi diavolo è stato?" Chiede. "Soltanto tu avevi un buon motivo per ucciderlo."

"Io e altre centinaia di persone. Forse non te lo ricordi, ma la buonanima non era uno stinco di santo," risponde Fler. "Era un bastardo, come me."

Per qualche istante rimaniamo tutti quanti in silenzio, il che è un bene, Credo che Bill abbia bisogno di tempo per metabolizzare la novità e per superare lo scatto omcida nei confronti di Fler. A me, per dire, prudono ancora le mani e non tanto per la morte di Bushido, quanto per tutto il resto. Fler ne avrebbe di cose per farsi pestare.

Poi Fler abbassa la testa, e sospira. "Mi dispiace, ragazzino. Lo so come ti senti."

Bill gli dà un ceffone talmente forte che sento lo schiocco. D'istinto incasso la testa nelle spalle perché sberle del genere a me le dava solo mia madre. Perfino Fler ha due occhi che sembra un gufo. Sibila un, "Cazzo," tenendosi la guancia.

"Tu non lo sai come mi sento," mormora alla fine Bill. La testa bassa anche lui. "Ma Grazie."

La mattina successiva, riporto Bill a casa e lo scarico praticamente tra le braccia tese di suo fratello che non è per niente contento di vederlo passare la notte da me. Non che dica niente, sia chiaro, ma so che se sta zitto lo fa solo perché Bill di me - o della mia casa - sembra avere bisogno. Fosse per lui me ne avrebbe già dette chissà quante.

La mia seconda tappa è Saad: se Fler non è l'omicida di Bushido, allora lo deve sapere. E poi dobbiamo pensare a come muoverci perché qui la cosa è piuttosto seria.
Gli suono direttamente a casa e attraverso il citofono mi arriva la voce di sua figlia.

"Chi è?"

"Sono Chakuza. Papà è in casa?"

Sento un trambusto, quindi la bimba che strepita un "Papà c'è CaZUka!" e subito dopo la risata di Saad e lo scatto del cancello che si apre. La casa di Saad non è come la mia: è pulita. D'altronde lui non deve farsi il bucato, non deve cucinare e non deve pulire per terra.

E non deve farlo nemmeno sua moglie: hanno una cameriera.

"Hey Atze, cosa ci fai qui?" Mi accoglie.

"Devo parlarti." Lui evidentemente capisce che non sono venuto lì a cazzeggiare così mi indica il suo studio con un cenno della testa. La bimba attraversa la stanza con la palla in mano e lui la sgrida leggermente, dicendole che finirà per rompere qualcosa.

"Che cosa c'è?" Mi chiede, chiudendosi la porta dello studio alle spalle.

"Fler è venuto da me, ieri."

Si ferma per un istante con la mano ancora sulla maniglia della porta, poi raggiunge la poltrona girevole della sua scrivania e ci si lascia andare sopra. "Spero che tu lo abbia ammazzato di botte," risponde gelido.

"Per un po' l'ho fatto."

"Che bastardo. Con che faccia-"

"Dice che non è stato lui," butto lì, sedendomi.

Saad ride e scuote la testa. "Lo ha sempre fatto. Non è stato lui, la sua pistola non ha sparato," dice. Poi il suo sguardo si fa serio e batte un indice sul piano del tavolo. "Però Anis è morto. La sua tomba è al cimitero, coperta di fiori. Sua madre ci piange ancora tutti i giorni sopra."

"Lo so. Lui però dice che era lì e che i colpi che ha sentito li ha fatti partire qualcun altro," insistito. "Qualcuno che sapeva come richiamare Bushido alla finestra."

"E tu credi ad un traditore?"

"Credo ad uno che ha rischiato di farsi ammazzare di botte pur di dirmi questo," rispondo, guardandolo dritto negli occhi. Io e Saad abbiamo sempre avuto un qualche problema di fondo ma è sempre andato tutto bene finché io non ho cominciato a pensarla diversamente da lui.

Rimane in silenzio per un tempo lunghissimo e guarda il vuoto di fronte a sé. Saad lo fa spesso, ci mette ore a rispondere e a formulare pensieri perchè ogni parola è studiata al dettaglio. Saad è l'esatto contrario di Eko, che vomita parole ancora prima di averle pensate. "Anche ammettendo che non sia stato lui, cosa a cui non credo. Questo non cambia le cose." Mi dice alla fine.

"C'è qualcuno là fuori che ha seccato Anis per un motivo," rispondo. "Potrebbe essere chiunque e potrebbe non aver finito."

Voglio sperare che stia solo meditando e che progetti di rispondermi, così attendo; ma non lo fa. Rimane immobile a fissare qualcosa che non vedo appena oltre la mia spalla.

Saad è alto e ha la pelle chiara. Non ha niente del libanese. Chiunque lo incontri per la prima volta non dubita per un solo istante che sia tedesco: la mascella quadrata, i capelli biondi e gli occhi verde scuro. Pura razza ariana, insomma. In realtà è solo una versione di Bushido messa in candeggina: una minoranza etnica che si è messa a gridare la merda di questa nazione quando ad un certo punto non ce l'ha fatta più. Credo che sia questo che li ha resi entrambi così incazzati e così uniti nella loro incazzatura: nel caso di Bushido, è stato un padre che se n'è andato lasciandolo mezzo tunisino in un mondo di tedeschi. Nel caso di Saad è stata una guerra civile che lo ha vomitato in Germania, dove ne ha trovata un'altra.

Bushido, però, di quella rabbia ne aveva fatto un lavoro. E una volta diventato il King of Kingz, quella rabbia l'aveva relegata tutta nei suoi cd. Saad no. Saad ha sempre continuato ad odiare, è sempre rimasto incazzato lui. E lo è anche adesso. Lo è quando non mi sta neanche a sentire se gli dico che Fler è venuto a farsi prendere a sberle pur di ammettere la propria innocenza. Per Saad sembra non esserci un'altra realtà, se in quella che conosceva ha riposto tutto il suo odio.

Sospiro. Cambio discorso. "Perchè non sapevo niente della trasmissione di TRL?" chiedo.

Lui alza lo sguardo su di me e mi osserva per qualche istante prima di tornare al presente, credo. Non so, non è facile seguire i suoi pensieri perché non gli passano dagli occhi. "Contavo di dirtelo oggi," mi dice. "Ti avrei chiamato in mattinata, ma mi hai battuto sul tempo."

Avrebbe potuto chiamarmi ieri, mi dico.
"Ci sarà anche Bill," lo informo. Lui non mi risponde una parola, ha solo un'aria vagamente irritata. "Forse sarebbe il caso che ci organizzassimo per proteggerlo."

"Proteggerlo non è affar nostro," replica lui. "In generale, lui non è affare nostro."

"Era il ragazzo di-"

"Non era niente," mi interrompe lui. "Anis ha sempre fatto così: si ostinava nelle cose quando gli dicevi di non farle. Si è impuntato perchè eravamo contrari."

Tu eri contrario, vorrei dirgli. Invece gli dico: "Bushido voleva bene a Bill."

"Se lo scopava," mi corregge lui, con tanto disgusto nella voce che mi aspetto che vomiti da un momento all'altro. "Non so quale contatto gli fosse saltato nel cervello, ma di certo non era amore."

"Si è fatto sparare, per Bill,"

"Si è fatto sparare perchè era un coglione," replica lui. "Trattare quel finocchio come la sua ragazza. Cosa pensava che lo avrebbero applaudito?"

Mi sorprende che Saad sia così esplicito.
Sono mesi, anzi ormai è più di un anno, che la pensa così ma non si è mai azzardato a dire niente quando Bushido era ancora in vita. Non ha detto niente nemmeno quando ci siamo trovati tutti all' Esguterjunge a discutere se eleggere o meno un nuovo leader. Se l'è tenute tutte dentro le sue cose; ora, però, al sicuro tra le quattro mura del suo ufficio le spara fuori una dietro l'altra.

"Quindi chiunque gli ha sparato ha fatto bene?"

"Non ho detto questo," si riappoggia alla poltrona di pelle. "E' stata una cargona, ma una carogna che si è aggrappata a qualcosa che lui stesso gli aveva fornito. Non puoi vivere in questo ambiente e pensare di cambiare le regole nel modo in cui pensava lui. Non lo fai e basta. Credi forse che gli sia andato contro, giorno dopo giorno, per il gusto di farlo? Io non mi divertivo a scornarmi con lui, tentavo solo di farlo ragionare."

Non dico niente. Che cazzo dovrei dire?

"Ho solo tentato di salvarlo," conclude poi, battendo una mano sul piano del tavolo. "Solo questo. Ma credi che mi abbia dato ascolto? Lo sai anche tu com'era!"

Sì lo so, com'era: innamorato.
E' una parola che non ho mai usato così spesso come in questi ultimi mesi. Con Bill intorno, però, è impossibile non usarla perchè il suo mondo è fatto esclusivamente d'amore. Se anche lui e Bushido facevano sesso, lui non te lo dirà mai. Ti dirà che facevano l'amore. Ti dirà che Anis lo amava e che lui amava Anis. Quando parli con Bill non c'è spazio per tutto lo schifo che Saad ci vedeva e ci vede dentro. E se provi a guardare quello che è successo con gli occhi di Bill, ti accorgi che ha ragione lui.

Bushido non ha mai cercato di dire che stare con un maschio effemminato era la nuova via da seguire per i rapper. Ha solo detto che lui aveva scelto Bill, cos'altro poteva fare? Cos'altro poteva fare Bill se a lui Anis piaceva?

"Non siamo riusciti a proteggere Bushido, forse dovremo provarci con Bill," dico ancora. "Presentandosi a quella trasmissione rischia più di quanto abbia fatto nell'ultimo anno."

"Che non si presenti, allora."

"Ne ha il diritto."

"E allora ne paghi le conseguenze."

"Saad, lui non ha idea di cosa significhi," esplodo. "Non immagina nemmeno che potrebbe essere pericoloso."

Saad si alza in piedi e sbuffa. E quando fa così, con quegli occhi cattivi che si ritrova, sembra uno di quei capomafia italiani nei film. "Lo scoprirà, allora. Tu cosa ne dici?"

"E' un ragazzino."

"Viziato e cresciuto nella bambagia," mi fa notare. "Ha solo 4 anni meno di me e l'unica cosa che è in grado di fare è mettersi lo smalto sulle unghie. Non è affar mio se vuole cacciarsi in qualcosa di più grande di lui. Il fatto che Bushido sia morto sul suo letto avrebbe dovuto dargli la misura delle cose."

"Non puoi davvero-"

"Posso, perchè non me ne frega niente, Chakuza." Ed è così netto, freddo e deciso che non so più chi diavolo mi ritrovo davanti. Penso che no, proprio non ce lo voglio all'Esguterjunge. "E poi ha le sue guardie del corpo."

"Addestrate per tenere a bada branchi di ragazzine semi-nude..."

"Che lui comuque non guarderà," sorride sarcastico. "Ascolta, te l'ho già detto, Bill Kaulitz non è un problema nostro e, se mai lo è stato, ha smesso di esserlo quando mio cugino ha lasciato questo mondo. Ora, se vuoi scusarmi, devo andare a trovare Luise Maria. Qualcuno fra di noi deve pur farlo."

Saad si alza e mi accompagna alla porta senza lasciarmi nemmeno il tempo di provare di nuovo a convincerlo. Rimango seduto in macchina di fronte a casa sua finché non lo vedo uscire, diretto alla casa della madre di Bushido. Non so cosa cazzo fare, sinceramente. Bill vuole andare a quella trasmissione e, con in giro un bastardo assassino di cui non sappiamo niente, la cosa equivale ad un suicidio. Io però sono da solo. Così non mi resta altro che fare qualcosa che mi sarei volentieri evitato.

Quattro ore dopo, io e Fler siamo seduti in un caffé a metà strada tra la sede dell'Esguterjunge e quella dell'Aggro Berlin. C'è un sacco di gente e un sacco di traffico.
"D'accordo, ripetemi perché sono qui?" Fler si guarda intorno come una volpe inseguita da una muta di cani da caccia. Ha un occhio completamente chiuso e l'altro violaceo. Il labbro è tagliato e così anche la fronte. Uno dei due polsi è fasciato e ricordo distintamente di averlo colpito io.

"Chiamiamola una zona franca," rispondo.

Lui solleva l'unico sopracciglio sano e mi guarda come se fossi un pazzo.

"Tu non hai ucciso Bushido," dico.

"Cristo, no," sbotta lui. "Non ti sono bastate quelle che mi hai tirato ieri. Vuoi ripetere lo spettacolo di fronte ad un pubblico pagante? Non gli ho sparato, non ho premuto il grilletto ma non ho idea di chi sia stato. Ora, da quale parte mi salterà addosso quella strega indemoniata?"

"Chi?"

"Kaulitz."

Rido. "Non c'è, stai tranquillo e comunque no, sono qui per un'altra cosa. Alla trasmissione di TRL ci sarà anche a lui e io credo che abbia bisogno di protezione."

"Noi non gli faremo niente. Sido è contro la violenza - povero pazzo - e io sono un po' stanco della faccenda," commenta.

"Mi riferivo a chi ha ucciso Bushido."

"Quello è un problema vostro. Kaulitz è uno di voi, voi lo proteggete."

Mi piacerebbe che fosse così. Se Bill avesse fatto parte della crew, Saad avrebbe avuto poco da protestare ma Bill ne è sempre rimasto fuori. Era un'altra cosa. "Saad non ci sta e gli altri lo seguono a ruota. Sono col culo a terra."

"E questo dovrebbe interessarmi perchè?"

"Perchè se ti interessa dimostrare la tua innocenza, allora questa potrebbe essere la tua occasione. Aiutami a proteggere Bill come prova di tutto ciò che hai detto."

Fler mi guarda a lungo, e io guardo lui come è successo la prima volta a casa mia, ma non riesco a leggere niente sul suo viso se lui non vuole. Infine fa un cenno impercettibile col capo. "Siamo d'accordo."

Sorrido. "Siamo d'accordo... Atze."

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Dieser Eine Wunsch

di lisachan
Sapevo che sarebbe stato un disastro fin dal momento in cui Bill entrò nel mio ufficio e mi guardò con quegli occhi lì. Che non sono i suoi occhi normali, perché in genere Bill quando ti guarda in maniera normale non ti fa paura. È quando dà alle sue occhiate quell’inflessione cucciolosa ed amorevole e apparentemente innocua che mira a scioglierti il cuore per assoggettarti al suo volere, che tu cominci a tremare. Ma tremare davvero.
Perciò, quando lo vidi entrare nella stanza, timido e timoroso e tutto occhi, io tremai, e cercai di farmi minuscolo sulla poltrona in pelle marrone, quasi per sparirci dentro.
Naturalmente non c’era alcuna possibilità che una cosa simile avvenisse. Eravamo solo io e lui nella stanza, lui non parlava ancora ma io sapevo perfettamente che l’avrebbe fatto da lì a poco, e che quello sarebbe stato l’inizio della fine. E non c’era niente che potessi fare se non prepararmi al peggio e sperare di contenere i danni.
Che sarebbero stati enormi.
Lo seppi con certezza nel momento in cui si sedette – senza avere ricevuto alcun invito in proposito, s’intende – e si dedicò per qualche secondo alla complicata operazione di torturarsi le dita, prima di sollevarmi addosso quelle pozze castane e schiudere le labbra per garantire una via di fuga a cinque minuscoli sussurri – l’inizio della fine, appunto: sai, David, Anis ed io…
- No. – risposi pacatamente, sistemando dei documenti sparsi sulla scrivania. Avrebbero tranquillamente potuto essere carta straccia o fogli bianchi, non era importante: ciò che importava era darsi un tono e, soprattutto, dare ad intendere a Bill fossi indaffaratissimo e non fossi perciò disposto ad ascoltare le sue follie.
Lo vidi combattere per un secondo fra la possibilità di mantenere l’espressione da cucciolo o mettere su un broncio molto indispettito. Probabilmente non sapeva quale fra i due potesse avere, a lungo andare, maggiore effetto sul sottoscritto. Sperai imboccasse la strada sbagliata.
Lui si mantenne cucciolo ed io imprecai contro il mio cattivo karma.
- Non sai neanche cosa stavo per dirti… - mugolò dispiaciuto, sorridendo appena in un modo lieve e lontano da diva delusa dalla vita.
Io finii di rassettare le inutili scartoffie e mi chinai verso di lui, guardandolo severamente.
- Non ne ho bisogno, Bill. – spiegai, - Hai nominato Bushido. Qualsiasi cosa sia, non può che essere un disastro, visto che saremo in giro per la Germania per tutta la prossima settimana. – mi fermai un attimo. – In tour. – precisai poi, nel caso l’avesse dimenticato.
Bill annuì freneticamente, un sorriso un po’ più fiducioso a farsi strada sul suo volto.
- È proprio per questo che pensavo che magari Tom avrebbe potuto trasferirsi nel tourbus di Georg e Gustav e-
Lo fermai con un cenno della mano, guardandolo negli occhi con la fissità di un pazzo.
- Cioè tu vuoi mandare tuo fratello da Georg e Gustav per tenere Bushido nel tuo tourbus. – esplicai con aria assente, - Vuoi distruggere ciò che resta dei Tokio Hotel, Bill?
Lui inarcò le sopracciglia ed abbassò lo sguardo, palesemente colpevole.
Niente da dire riguardo le capacità quasi schizofreniche di Bill di cambiare umore ogni qualvolta se ne presenti la necessità. E io ci casco come un cretino, sempre.
- Bill, non puoi chiedermelo. – cercai di farlo ragionare. Sarebbe stata la guerra. Io non potevo permettermi di dare all’unico chitarrista che accettasse di suonare nei Tokio Hotel un’occasione per mollarli definitivamente e diventare un uomo del ghetto come desiderava. Soprattutto perché, se fosse diventato un uomo del ghetto in quel periodo, come minimo avrebbe scatenato una guerra fra bande nel tentativo di massacrare di botte Bushido e tutta la sua compagnia. Il che mi avrebbe portato a dover organizzare un funerale che non ero davvero sicuro di voler organizzare – anche se avrebbe risolto un mucchio di problemi alla base.
- Ci vediamo così poco, David… - rispose semplicemente lui, riprendendo a torturarsi le dita, - È davvero troppo poco. È riuscito a ritagliarsi una settimana libera. Lo capisci, David? Tu lo sai perfettamente quanto costi una settimana di libertà. – tornò a guardarmi, improvvisamente serio. Nei suoi occhi, una luce matura che mi spaventò non poco. – Per favore. Solo questa volta.
Sospirai.
- Naturalmente dovrò vedermela io, con tuo fratello. – borbottai irritato, ricominciando ad affastellare fogliame di fronte a me, sperando, chissà, di creare una pila e nascondermi agli occhi dei miei impegni.
Bill ridacchiò lievemente.
- Ancora con me non parla. – disse a bassa voce, e non aggiunse altro.
Feci un vago gesto con la mano.
- Sparisci. – buttai lì, disperdendo la pila di inutili fogli e cercando di capire cosa farne, - E digli di venire solo all’ultimo momento! – aggiunsi mentre Bill letteralmente scattava in piedi, scavalcava la scrivania e mi saltava addosso, affogandomi nei propri capelli.
Non riuscii a scollarmelo di dosso per tutta la successiva mezz’ora, ma non posso dire che mi dispiacque.
Mi dispiacque moltissimo ciò che fui costretto a fare dopo, però.
Entrai in camera di Tom che lui già subodorava guai. Tom ha questo talento particolarissimo per le situazioni di pericolo: quando sa che nel giro di poco tempo potrebbe succedere qualcosa di brutto per se stesso o per suo fratello, scatta sull’attenti e dà il via alle manovre di fuga. Chessò: fugge alle Maldive, o torna a casa a Loitsche o si dà alla macchia. In ogni caso, scompare e si tira fuori d’impaccio.
Quella volta arrivai in anticipo – se sia stata fortuna o sfortuna non saprei dirlo – e lo trovai nel bel mezzo di una frenetica preparazione di borsone per la notte.
Guardai lui. Il borsone. Di nuovo lui.
- Dove stai andando? – chiesi in tono casuale, come fosse una normale curiosità di manager.
Lui deglutì e rispose con la stessa falsa neutralità.
- Da Andi. – disse annuendo, - Mi andava di cambiare aria, per un po’. Almeno fino all’inizio del tour.
Annuii.
- Perfetto. – concordai, - Mi sembra un’ottima idea. Ma prima dobbiamo parlare.
E lì Tom naturalmente cominciò ad andare fuori di testa. Probabilmente non immaginava cosa stessi per dirgli di preciso, ma dalla curva delle mie sopracciglia doveva averne intuito la generica gravità. Fui per un attimo orgoglioso di lui, ma tornai subito in me.
- Tu non ti arrabbierai. – ordinai tranquillamente, puntandolo con un dito.
Tom aggrottò le sopracciglia.
- David, non dirmelo neanche.
Sospirai.
- Devo prepararti al-
- Non dirmelo neanche!!! – ripeté, strillando come un indemoniato, - Non dirmelo, cazzo, no!
- Tom, calmati! – cercai di fermarlo afferrandolo per le braccia, prima che cominciasse a lanciare tutto intorno il contenuto del borsone. Lui mi ignorò.
- Dimmi che viene stasera. Cazzo, dimmi che sta con lui stasera perché io stasera non ci sono, David. Posso sopportarlo, se sto a chilometri di distanza!
- Tom… - sospirai pesantemente, spingendolo con tanta forza da mandarlo seduto sul letto. Non ne servì molta, in realtà. Tom è piuttosto gracile, ed anche quando è davvero arrabbiato la sua forza non aumenta, perché con la rabbia Tom ci si svuota del tutto. - …tuo fratello ci tiene moltissimo. – partii, sperando che questa fosse la via giusta.
Non lo era, naturalmente, ma non me ne stupii più di tanto. Qualcosa nel mio karma era decisamente storto.
- Non me ne frega un cazzo di ciò a cui tiene lui! – sbraitò furiosamente, cercando di rimettersi in piedi. Glielo impedii.
- Si vedono poco.
- Potrebbero non vedersi mai!
- Bushido ha faticato per prendersi una settimana di ferie.
- Poteva risparmiarselo! – si fermò. - …quale settimana?
- Tom, tu non ti arrabbierai.
- Io. Sono. Già. Arrabbiato. – e lo disse con freddezza. Con una specie di furia immobile che mi diede i brividi. Guardandomi negli occhi, lo disse, senza evitare i miei neanche per un secondo.
Sospirai ancora.
- Starai nel tourbus con Georg e Gustav.
- No.
- Solo per una settimana!
- No, Cristo!
Scattò nuovamente in piedi e non fui abbastanza veloce da fermarlo. Me lo trovai che mi fissava dai dieci e passa centimetri di cui mi stacca in altezza, ed il fuoco che bruciava nei suoi occhi nocciola aveva veramente qualcosa di inestinguibile che faceva paura.
Non mi stupì che Tom non volesse parlare con suo fratello. Probabilmente quello sguardo era l’unica cosa che si sentisse davvero in obbligo di risparmiargli. Più degli insulti o delle incomprensioni o della mancata accettazione.
- Qualsiasi cosa tu possa dire o fare, Tom, non cambierà la situazione. – mi sforzai di dire seccamente. Lui aggrottò le sopracciglia ed il suo sguardo si fece distante. Io non stavo parlando solo del tour e lui l’aveva capito.
- Ho bisogno di… - biascicò scuotendo il capo e passandosi una mano sulla fronte. Poi si rese probabilmente conto del fatto che ripetere la stessa lagna di sempre – ho bisogno di tempo per abituarmi, la colonna sonora delle ultime settimane – sarebbe stato completamente inutile, e lasciò perdere. – Tanto devo per forza accettarlo, no? – ringhiò cattivo, - Bill ha sempre ragione, alla fine dei giochi.
Sospirai e scrollai le spalle.
- Bill è innamorato.
Tom ringhiò ancora e non rispose. E meno male, perché non so cosa avrebbe potuto dirmi con precisione, ma immagino piuttosto bene che sarebbe stato qualcosa di davvero poco piacevole.
Viste le premesse, avrei dovuto aspettarmi che la cosa potesse solo peggiorare, da quel momento in poi. Ed infatti me lo aspettai. Tornai da Bill, lo rassicurai sul fatto che suo fratello non avrebbe compiuto una strage ma che gli sarebbe convenuto comunque stargli alla larga se non voleva mettere alla prova la propria fortuna e poi mi preparai ad accogliere Bushido in casa mia. Più o meno.
Con Bushido avevo avuto pochi scambi ridotti al minimo, fino a quel momento. Il periodo di tempo più lungo mi fosse capitato di condividere con lui era stato quando, asfissiato dalle lamentele di un Tom sull’orlo di un crisi isterica per la preoccupazione, m’ero diretto all’infausta Villa Gialla degli Orrori e mi ero eretto contro la porta per poi sgonfiarmi subito dopo nel ritrovarmi davanti una donnina alta un metro e venti che mi invitava ad accomodarmi e chiedeva al padrone di casa, all’interno, se mi sarei fermato a cena.
Bushido non mi chiese se mi andasse di mangiare con loro. Aspettò che lanciassi uno sguardo un po’ incerto a Bill – accucciato in un angolo del divano in una tuta palesemente ottomila taglie più larga di quella che gli sarebbe servita – e poi mi fece strada all’interno della villa.
Restai solo per il tempo della cena e, per qualche strano motivo, Bushido mi convinse. Non dovette fare nulla di particolare – nulla più che sorridere e… suppongo indossare una camicia bianca sotto un maglione blu. Ma questo non deve necessariamente essere reso noto. – ma lo fece. Andai via che mi sentivo bene.
Ciò non toglieva che Bushido rappresentava la fonte primaria dei miei problemi, in quel momento. Non potevo prenderlo alla leggera.
Allora non immaginavo che sarebbe stata una maledizione dura a morire. A ripensarci adesso è quasi divertente. Quasi.
La partenza era fissata per le quattro del pomeriggio. Erano le due e Bill stava saltellando, chiaro segno che Bushido sarebbe arrivato a minuti. Osservai il minore dei Kaulitz specchiarsi in qualsiasi superficie riflettente lo circondasse e poi decidere che doveva necessariamente andare in bagno a darsi una risistemata. Sparì nel corridoio e sentii i suoi passi frenetici muoversi ticchettando sul pavimento e poi la chiave girare nella toppa.
Suonò il campanello in quel preciso istante e la casa venne avvolta nel silenzio.
Deglutii profondamente e mi diressi verso la porta. Quando la aprii, mi trovai di fronte Bushido in posa plastica, un braccio mollemente poggiato contro lo stipite ed una mano in tasca. Il solito sorriso brevettato. Il maglioncino e la camicia.
Mi diedi dell’idiota.
- Tu. – notificai, cercando di mantenere un’impassibile freddezza che non mi facesse sembrare uno stronzo irritato – perché non lo ero – ma neanche gli desse a intendere che lo trovassi simpatico – perché così non era.
Il sorriso sul volto di Bushido si allargò e lo vidi rimettersi dritto in una posa che non dovesse necessariamente ricordare quella di una foto da poster, prima di farsi avanti, trascinandosi alle spalle una valigia di dimensioni – ringraziando il cielo – piuttosto contenute.
- Non sono qui per te, Jost. – mi prese giovialmente in giro, - Anche se possiamo organizzarci.
Mi allontanai, aggrottando le sopracciglia. Alle mie spalle, risuonò la voce di Bill.
- Anis! – lo sentii sillabare in tono di rimprovero, - Che dici?!
Bushido mi staccò gli occhi di dosso e li portò su Bill. E per un istante potei capire esattamente per quale motivo Bill fosse disposto ad andare perfino contro l’altra metà di se stesso, per tenersi attaccato a lui. Lo si vedeva chiaramente nei loro sguardi che in fondo – ma neanche troppo in fondo – ne valeva semplicemente la pena.
- Vieni qui. – rise Bushido, giocosamente.
Bill gli si catapultò fra le braccia. Quando lo sentii mormorare “un’intera settimana! Puoi crederci?”, ritenni più opportuno farmi da parte. Tom andava aiutato a preparare valigie che non voleva assolutamente essere costretto ad usare.
*
Bushido era, invero, un uomo molto discreto. Non si sarebbe detto, e in effetti forse “discreto” non è la parola più adatta per descriverlo. Probabilmente era solo… opportuno, ecco. Era la grande differenza che correva fra lui e Tom, una differenza motivata principalmente dallo scarto d’età che li separava. Bushido aveva imparato a memoria pregi e difetti della propria posizione e della propria personalità, e li usava con discernimento e disinvoltura. Tom no. Tom era un bambino che si agitava a casaccio. Proprio per questo motivo, creò molti più problemi lui che non l’uomo, durante il passare della lunga settimana di tour che ci accompagnò in giro per tutta la Germania.
Bill non si accorse di nulla. Un po’ perché, quando scendeva dal palco, si catapultava nel tourbus e da lì non usciva fino al giorno dopo. Un po’ anche perché le manovre contenitive a base di birra pizza e cazzeggio sul tourbus di Gustav e Georg sortirono i loro positivi effetti e Tom riuscì non dico a rasserenarsi ma almeno a svagarsi un po’.
In ogni caso, non successe nulla di irreparabile. Bill uscì da quella settimana come trasfigurato. Mi piaceva vederlo in quel modo. Era raro vederlo così felice, prima di Bushido.
- Non sei proprio una completa e totale dannazione. – gli dissi una mattina, preparando il caffè sul loro tourbus. Bill dormiva felicemente, mi aspettavo lo facesse anche lui e mi stupii non poco quando invece me lo vidi apparire accanto in maglietta e pantaloncini.
Lui rise, palesemente divertito.
- Non sapevo mi considerassi una dannazione. – commentò distrattamente, mentre si allungava a recuperare dei biscotti dal ripiano.
Risi anch’io.
- È difficile considerarti un miracolo, visto lo sconvolgimento che porti.
Scrollò le spalle, aprendo il frigorifero e mandando giù circa mezzo litro di latte direttamente dal cartone.
- Tu sei uno bravo a sistemare le cose, vero, Jost? – chiese, senza aggiungere niente al mio precedente commento.
Inarcai le sopracciglia, inclinando lievemente il capo.
- Quando serve. – risposi vagamente, tornando a concentrarmi sul caffè.
Lui annuì.
- Perfetto. – rispose con una mezza risata ed una scrollatina di spalle, - Allora non hai nulla di cui preoccuparti, sistemerai anche me.
Lo fissai, ancora un po’ intontito dal sonno, mentre recuperava una tazza, versava il latte rimanente e vi lasciava piovere sopra una cascata di biscotti, spezzettandoli distrattamente a colpi di cucchiaio prima di tornare verso le cuccette.
- …non si mangia in zona notte! – fu tutto ciò che riuscii a dire. Passai naturalmente ignorato.

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Driving Bill Kaulitz

di tabata
Sono all'areoporto di Parigi a fare scalo in attesa dell'aereo che finalmente mi porterà a Berlino.

Sono in volo da 12 ore e sono così stanco che potrei mettermi ad urlare. Non so chi me lo ha fatto fare di lasciarmi alle spalle un albergo a quattro stelle, il mio management e mio fratello per passare due - giorni - due a Berlino, accampato come un profugo in casa d'altri.

In realtà so che cosa me lo ha fatto fare. E' un perché con la pelle color cioccolata che mi aspetta al Berlin-Schönefeld. Un po' sorrido e un po' gongolo; non ci vediamo da tre settimane, sono così in fibrillazione che mi viene difficile non saltellare.

Le due ore d'aereo che mi mancano mi sembrano un'eternità.
Non voglo salire su un altro aereo, e voglio salirci subito per arrivare più in fretta.

Mi alzo di nuovo dalla scomoda sedia in pura plastica che mi ha accolto all'arrivo e che non ha fatto il suo lavoro per niente bene. Ho il sedere indolenzito e la schiena a pezzi, voglio qualcosa da bere ma la macchinetta è troppo lontana. E poi non voglio lasciare la valigia.

Che poi non è che sia proprio una valigia. Anis mi ha detto che se mi presentavo con un bagaglio che pesava più di cinque chili mi lasciava fuori di casa, così ho dovuto scegliere bene cosa portarmi dietro e far star tutto nella vecchia borsa da viaggio che mi ha prestato David.

Sospiro e mi guardo intorno.
Sono le cinque del pomeriggio e il sole sta calando. C'è una luce arancione meravigliosa sulla pista d'atterraggio e io mi annoio. Nel giro di mezz'ora riesco a rifarmi il trucco, a contare tutti i voli in partenza e a fare l'inutile somma dei minuti presenti sul tabellone: 374, per inciso.
Leggo perfino Marie Claire, ma non m'intrattiene nemmeno quello. Odio quando la moda non è sufficiente a distrarmi. E al mio volo manca ancora un'ora.

Quell'orologio va sicuramente più lento del normale.
E' rotto di certo. Manca un'ora da venti minuti.

Recupero il pacchetto di caramelle gommose che mio fratello mi ha sicuramente infilato nella borsa, lo fa sempre. E difatti eccolo lì, ben riposto nella tasca laterale. M'infilo l'i-pod nelle orecchie e mastico: da uno a dieci quanto sono indecente se ascolto Schmetterling?

Gioco con le borchie del polsino. Lo faccio girare avanti e indietro, e dentro e fuori.
Mi.Sto.Annoiando.Da.Matti.

E manca ancora mezz'ora.

Decido che è meglio controllare sul cellulare. Lo estraggo dalla borsa e mentre guardo con astio i numeri sul display che sono gli stessi che compaiono sull'orologio a muro dell'aeroporto, il telefono si mette a squillare. E' Anis.

"Ciao!" Premo il bottone e rispondo nello stesso istante. "Ciao," ripeto poi, perché non sono certo che la chiamata fosse già attiva la prima volta.

"Eri attaccato al telefono?" Lo sento ridere. Divento rosso e non mi riesce di trovare una cosa intelligente da dire. Con lui finisce sempre che faccio di queste figure. E sì, se posso, controllo il display del telefonino più di quanto dev'essere legalmente possibile. "Ascolta," riprende. "Quando parte il tuo aereo?"

"Alle sei."

"Hm-mh," lo sento che rimugina. "Quindi sarai qui per le otto."

Sorrido. Lo so che è stupido, ma questa frase mi fa un effetto strano, come se la sua attesa avesse tutto un altro significato. Come se fosse un qui che vuol dire casa nostra e non casa di Anis. Poi magari non è vero ma io un po' mi ci crogiolo in queste cose. "Allora mi vieni a prendere?" Chiedo.

"C'è un problema, Piccolo."

"Quale?" Io odio i problemi.
Rimango in attesa per sapere se devo arrabbiarmi oppure no.

"Mirko mi ha appena chiamato, devo andare a ritirare un premio. Una cosa da niente, ma devo esserci," mi dice. "Non riesco a venirti a prendere."

Qui urge un silenzio imbronciato. Ma io non so stare in silenzio. "Avevi promesso," pigolo.

"Lo so, ma possiamo vederci a casa."

Non è la stessa cosa, e glielo dico. "Non è la stessa cosa."
So che fa fatica a capire cosa ci trovi di così importante nello scendere dall'aereo e trovarlo lì ad aspettarmi. In linea di massima, arrivare in taxi fino a casa sua, aprire la porta e trovarlo seduto sul divano sarebbe un'emozione altrettanto bella. Ma diversa.

Quando scendo dall'aereo e lo trovo lì in piedi, invece, in mezzo a tutte le altre persone che aspettano i loro parenti a me il cuore batte forte. Perchè è una cosa normale, da persone normali. Io voglio prendere la mia valigia e sapere che lui mi aspettava già da un po', che ha seguito l'arrivo del mio aereo sul tabellone, che ha visto la lucetta lampeggiante ed è corso agli arrivi per vedermi non appena mettevo piede in aeroporto.

E poi voglio lasciare la valigia in terra e correre per qualche metro aggrappandomi al suo collo, che tanto siamo entrambi così coperti tra cappuccio e occhiali che nessuno si accorgerebbe di noi due in un posto in cui si stanno abbracciando tutti.

Se ci vediamo direttamente a casa è bello, sì.
Ma non è la stessa cosa.

Lo sento sospirare. "Mi dispiace," mormora.

Non so cosa dirgli, perché in questo momento non me ne importa se gli dispiace. E poi aveva promesso, e io c'ho fatto un viaggio di 12 ore con quella promessa.

"Bill?"

"Hm?"

Sorride. Non lo vedo, ma so che lo fa. "Non tenermi il broncio."

"Sono arrabbiato," preciso, come se qualcuno non lo avesse ancora capito.

"No non sei arrabbiato, sei solo deluso," mi corregge saggiamente. E io lo odio quando fa il saggio perché generalmente c'azzecca. "Lo so che volevi fare tutta la scena di venirmi incontro correndo e tutto il resto, ma non è colpa mia. E' stato un impegno imprevisto."

"Rimanda."

"Stai facendo il bambino."

"Io SONO un bambino."

"Certo, solo quando vuoi tu." Sospira di nuovo. "Ascolta, per farmi perdonare ho fatto in modo che tu non debba venire da solo in taxi."

La proposta, in effetti, è allettante.
"Sarebbe?" Chiedo, facendo il sostenuto.

Lo sento sorridere di nuovo. Non so come spiegarlo, forse è una vibrazione del respiro o il tono con cui poi parla ma io so sempre quando sorride. "Verrà a prenderti Chakuza con la mia auto."

"Chakuza?"

"Sì."

"Anis, chi diavolo è Chakuza?" Sbotto. Ho tirato le gambe sulla sedia e me le sono strette al petto. Non so se sono più arrabbiato perché non viene a prendermi, perché non è sufficientemente contrito o perché mi sta facendo venire a prendere da Dio-solo-sa-chi.

"E' uno dei miei ragazzi."

"Ah, perché siamo in molti?" Chiedo sarcastico.

Alza gli occhi al cielo. Lo so che lo fa, già me lo vedo.
"Intendo," precisa, "che è uno della crew."

Controllo l'orologio. Manca un quarto d'ora all'imbarco, così tirò su la borsa e me la sistemo su una spalla mentre mi guardo intorno in cerca del gate giusto. "Sì ma io questo non lo conosco."

"Lo conosco io," mi dice lui. Grazie, adesso sì che sto più tranquillo.

"E questo cosa dovrebbe significare?"

"Che può venirti a prendere lui e portarti a casa mia. Dovrei liberarmi per le nove, massimo per le dieci se devo esibirmi."

"E io cosa dovrei farci con questo Cha-"

"Chakuza," ride lui.

"Quello che è."

"Bill, deve solo accompagniarti a casa."

"Sì, ma non so nemmeno che faccia abbia, siete tutti uguali voi rapper," sbotto.

"Grazie, eh."

Mostro il mio biglietto alla hostess e passo oltre. "Vedi? Se venissi tu di persona ti riconoscerei."

Lui mi ignora. "Non dovresti già essere sull'aereo?"

"Ci sto salendo."

"Bravo bimbo"

*


Alla fine ha vinto lui. Non che non lo faccia sempre del resto.
E adesso io sono qui agli arrivi, ad aspettare uno che non so nemmeno che faccia abbia.

Ed è pure in ritardo.

Mi siedo con la borsa tra le gambe e ricomincio a mangiare le mie caramelle. Non era esattamente così che me lo aspettavo l'arrivo a Berlino. Insomma, che razza di week-end romantico è se già mi tocca aspettare le ore che qualcuno mi venga a prendere? Qualcuno che nemmeno conosco, per giunta.

"Scusami, mi sono perso due volte venendo qui. Mi dispiace."

Alzo lo sguardo e lo so che non è uno sguardo gentile. Anzi, è uno sguardo scostante e incazzoso, le caramelle gommose che mastico non migliorano la situazione. Lo fisso: ho le lenti scure che mi coprono metà viso per cui lui non ha idea del sopracciglio alzato e di tutto il resto. Indossa gli stessi abiti di mio fratello e, nonostante il triste esordio da sfigato, si atteggia a grand'uomo vissuto.
"Tu devi essere Chakuza," commento asciutto.

"Esatto," mi sorride. Cioè, mi sorride giulivo. La prossima volta che Tom mi dice che quello del rap è un mondo di duri e puri gli rido in faccia. Questo sembra il cugino degli orsetti del cuore. Gli mollo la borsa da viaggio e stringo sotto braccio la mia di Prada.

"Possiamo andare?" Chiedo.

"Certo."

Si prende la borsa senza fare una piega e cammina come se i pantaloni gli stessero per cadere da un momento all'altro; ho sempre ringraziato che Anis non si vesta in questo modo. Certo devo combattere con i suoi mocassini ma c'è di peggio al mondo.

"Fatto buon viaggio?" Mi chiede.

Non pensavo che avremmo fatto conversazione. "Dopo quattro ore qualunque viaggio non è più buono," rispondo. "Ho il culo quadrato." Lo vedo che sgrana gli occhi. "Che c'é?"

"No, niente," mi risponde grattandosi la nuca. "E' che pensavo... non so"

"Che fossi un educata signorina dei quartieri alti?" Ghigno.

Lui diventa color pomodoro e giuro che la linea tra la tenerezza e il sadismo a quel punto diventa veramente sottile. "Qualcosa del genere."

Sorrido e scuoto la testa. "Dove hai parcheggiato?" Chiedo, mentre usciamo dall'aeroporto. Mi guardo intorno, accendendomi una sigaretta.

"Vieni, di qua."

L'auto di Anis è un transatlantico, esattamente come quella di Tom. I due hanno in comune così tante cose che ci sono dei momenti in cui un po' m'inquietano le mie scelte. Chakuza si preoccupa di infilare nel bagagliaio la mia borsa da viaggio e sembra indeciso se debba o meno aprirmi la portiera: temo che abbia l'impressione di trovarsi di fronte alla Donna del Capo, o qualcosa di straordinariamente simile.

Quando si è ormai quasi deciso e ha la mano sulla maniglia, intervengo. "Vuoi che guidi io?" Esclamo con un ghigno.

Diventa rosso. "No, certo che no" si affretta a dire. E circumnaviga la macchina facendo l'indifferente mentre io entro. E' così semplice farlo andare nel panico che mi sento potente.
E' così che deve sentirsi Anis quando è con me.

Per un po', in auto, stiamo in silenzio. Fingo di annoiarmi mentre lo guardo, perché quest'uomo m'incuriosce. Intanto mi chiedo come sia possibile che un collega di Anis - perché è un collega, per dio, mica ha un patto di sangue con lui - accetti di fare da chaperon al suo ragazzo quando lui non può.

Cioè, questo Chakuza, che nella vita fa il cantante rap, è dovuto partire da quella che presumibilmente è la sua casa dall'altra parte di Berlino per venire a prendere me, di venerdì sera, quando magari c'aveva altro da fare anche lui. Voglio dire, avrà una vita no? O sta anche lui accanto al telefono ad aspettare che Anis lo chiami e gli dia degli ordini?

"Non ti dispiace farmi da autista?" Chiedo.

Si stringe nelle spalle. "No, anzi, mi fa piacere. Volevo conoscerti." Sollevo un sopracciglio e lui prosegue, guardando la strada. "Atze non fa che parlare di te."

"Chi?"

"Ehm... Bushido," si corregge. "E' così che ci chiamiamo fra di noi, sai.. Atze, Man.. roba così."

"Hm, carino."

Svolta a destra e riconosco la strada che stiamo facendo. Mi sistemo meglio sul sedile e mi prendo la libertà di mettere i piedi un po' dove voglio, tanto è la macchina di Anis. Lui mi ammazzerebbe se lo sapesse, ma Chakuza questo non lo sa.

"Sai, non aveva voglia di andare a quella premiazione-"

"Non ha bisogno che tu lo difenda," lo fermo lì.

"Difatti non ci pensavo neanche," ride lui. "Mi aprirebbe in due come un melone, se mi azzardassi a farlo."

"Non è il vostro compito?"

"Credo che tu ti confonda con la mafia," mi dice sorridendo. Ecco una cosa che insieme mi stupisce e trovo piacevole: Chakuza sorride sempre. E' da quando è arrivato a prendermi che non fa altro, come se fosse imprescindibilmente felice.

"Pensavo che doveste coprirgli le spalle durante le risse e cose di questo genere," commento dubbioso mentre ci fermiamo ad un rosso.

"Oh se ce ne fosse una, sicuramente lo faremmo," dice convinto. "Ma di solito ci pensano prima quelli della security."

"Quindi?"

Si prende un attimo per guardarmi, poi torna ad occuparsi della strada. "Siamo la sua crew. E' un po' come dire... la sua band, anche se è un po' diverso."

"Dubito che Georg sarebbe mai andato a prendere Anis se io non avessi potuto," ragiono.

"Te l'ho detto che è diverso."

A questo punto io potrei fare altre domande, perché la cosa mi incuriosisce in maniera viscerale. Io non so niente di questo Chakuza che mi siede accanto, nè tantomeno della crew. Anis non mi dice mai niente di loro, a parte il fatto che prima o poi li dovrò conoscere.

Non se vorrò, o se potrò. Dovrò. Non si è mai parlato di un mio possibile rifiuto a riguardo.

Sto per aprire bocca e sommergerlo con le mie domande, quando mi anticipa - il che è un caso più unico che raro nella storia della Germania, credo. Nessuno anticipa Bill Kaulitz. Nutro improvvisamente del profondo rispetto per Chakuza.

"Ti va di mangiare qualcosa?" Propone.

Sorrido di traverso.
"Chaku, cos'è? Ci stai provando?"

Rosso, di nuovo. "NO!" Esclama allarmato. Lo vedo che si arruffa tutto, maglie e contro maglie e gli si sposta pure il cappellino. "Io intendevo così, vista l'ora! Tanto per aspettare Atze che finisca..."

Rido di gusto. Lo so, sono stronzo.
"Calmati, scherzavo!" Gli comunico. Quindi tiro indietro gli occhiali scuri e me li sistemo tra i capelli con attenzione. Sorrido. "Dove mi porti?"

"In un posto che dovrebbe piacerti."


*


Chakuza ha capito tutto nella vita.

E non perchè è entrato a far parte della crew del secondo uomo più influente della Germania (che poi è mio, tra l'altro. Quindi insomma...). No. Lui ha capito tutto nella vita perché, diciamocelo, ha capito tutto ciò che c'era da capire di me.

"McDonald's!" Esclamo, e non mi riesce di tenere bassa la voce. Cioè, quest'uomo mi ha portato nel luogo dove avvengono tutti i miei sogni erotico-gastronomici che non comprendano Anis. E a volte perfino alcuni di quelli. Io i fast-food li adoro.

Chakuza si è già messo in fila alla cassa, e io lo seguo indegnamente trotterellante. Provo a darmi un contegno prima che si giri e chieda. "Che cosa prendi? Offro io," e poi aggiunge. "Ordini di Atze."

Quando ci avviamo al tavolo, sul mio vassoio c'è un Big Mac Menu grande, due porzioni di patatine, ali di pollo, Mcflurry al cioccolato e anche un Happy Meal perché mi piaceva la sorpresa. Lui ha preso un insalata. Mi sembra David.

Solo che David è un salutista vegetariano.
Chakuza, in teoria, dovrebbe essere un gangesta spietato che mangia le vacche a morsi. Da qui mi viene il sospetto che la sua non sia voglia di restare in forma, quanto pecunia di denaro.

"Dove la metti tutta quella roba?" Mi chiede, mentre appoggia il vassoio sul tavolo. Sono certo che non abbia cercato di tirarmi indietro la sedia solo perché aveva le mani occupate. E' ancora un po' intimorito da questa cosa che io vado a letto con il suo Atze.

"Sulla pancia, come tutti," rispondo. "Solo che faccio molto movimento."

"Sport?"

Chakuza è tenerissimo. Lo realizzo quando reagisce in questo modo. Mio fratello, con una hint del genere, si sarebbe buttato sulla prima volgarià disponibile e sarebbe andato avanti per ore e ore ridendo della sua stessa idiozia. "Più o meno," rispondo evasivo. "Allora, che cosa ti ha detto Anis di me?"

"Fà strano sentirlo chiamare così."

"Anis?"

Annuisce.

"Non hai risposto alla domanda. Lo fai di continuo."

Lui si schernisce dietro al bicchiere di CocaCola. "Atze ha un modo strano di dire le cose. Non sappiamo quasi niente di te, in realtà, ma ti tiene sempre in considerazione."

Credo di capire. E' così che mi parla di loro. Io non so come si chiamano, né quello che fanno o quale sia il loro ruolo nella vita di Anis però ci sono sempre quando prende delle decisioni, anche quelle che riguardano noi due. La crew fa parte di lui. Sapere che dall'altra parte della faccenda lui riserva un trattamento del genere anche a me mi riempie di orgoglio. E di gioia. Cristo, non è nemmeno presente e lo adoro.

Il resto della cena lo passiamo a parlare del più e del meno e scopro che io e Chakuza abbiamo un sacco di cose in comune. E che forse Anis me lo ha mandato di proposito questo qui a prendermi, perché passare le due ore che mi separano da lui insieme a Chakuza è di sicuro più piacevole che stare ad aspettarlo sul divano di casa sua.

"Credo sia l'ora di andare," mi dice ad un certo punto, guardando l'orologio patacca che si ritrova. Non possono davvero andarsene in giro in questo modo, offendono il mio senso estetico. Per un istante mi chiedo quanto sarebbe offensivo da parte mia offrirmi di rivestirli tutti.

Chakuza parcheggia sotto casa di Anis e mi aiuta a recuperare la borsa. Quell'enorme casa gialla al buio sembra fosforescente e, se quando vengo qui non mi interessasse soltanto rinchiudermi nella stanza di Anis e non uscirne per due giorni, lo costringerei a farla ridipingere. "Beh, grazie per essermi venuto a prendere e avermi fatto compagnia," dico.

Lui chiude il bagagliaio e mi sorride. "E' stato un piacere Bill."

"Quando racconterai agli altri che ti sei dovuto scarrozzare in giro il fidanzato di Bushido cerca di non farmi risultare troppo antipatico, intesi?" Scherzo.

"Cercherò di fare il possibile," mi dice lui, sparendo in macchina.

Quando entro in casa, è tutto buio. Mi aspettavo di trovare la cameriera di Anis che non perde mai un secondo, quando arrivo, per portarmi via borse e cappotto e invece oggi mi lasciano da solo a trascinare un borsone che pesa il doppio di me.

"Anis?" Chiamo.

Nessuna risposta. Continuo ad aggirarmi per le diecimila stanze di questa villa che è palesemente solo uno sfoggio di denaro. Anche se ci venisse a vivere con tutta la sua crew, i Tokio Hotel e anche il resto della mia famiglia, la casa sarebbe ancora troppo grande.

E comunque non sono sicuro di volere mio padre e Anis sotto lo stesso tetto. Ho il forte dubbio che non andrebbero molto d'accordo. Per questo ho istruito Tom perché menta se papà gli chiede qualcosa riguardo alla mia attuale relazione sentimentale. Come un disco ben registrato, Tomi risponderà: rapper tunisino? Papà ma cosa stai dicendo? Guarda là, hai visto che sole?

Attraverso il corridoio fino alla sala. "An-"

L'enorme soggiorno è illuminato soltanto da decine e decine di piccole candele bianche sparse per ogni dove e Anis è in piedi in mezzo alla stanza, con un cartello bianco in mano che recita: "BILL KAULITZ."

Sorrido e lascio andare a terra la borsa, correndogli incontro. Gli getto le braccia al collo e mi stringe a sè, poggiando la fronte contro la mia. "Fatto buon viaggio?"

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Affirmation

di lisachan
Mezz’ora fa il letto era caldo di noi. Era caldo del mio corpo teso e sfatto sotto le sue mani, ed era caldo del suo, forte ed ostinato sotto le mie. Ad Anis piace quando dormo da lui. Succede di rado, perché casa sua finisce sempre per essere casa della crew, ma quando succede lui si esalta.
Dal momento che io sono un dormiglione, non mi sveglio mai prima di lui. Quando apro gli occhi, è sempre perché ho già le sue mani addosso.
Alle volte perfino dentro.
Mentirei, se dicessi che all’inizio non mi abbia turbato. Credo di aver fatto un salto di tre metri e di averlo pure schiaffeggiato, nell’incoscienza del dormiveglia, la prima volta che l’ha fatto.
Poi però è entrata in gioco l’abitudine – e soprattutto mi sono reso conto che questo modo appiccicoso e bruciante di desiderio che ha di porsi con me, non è altro che il suo modo di fare l’amore.
Lui non si esaurisce col sesso.
Io sono suo. Sempre. Soprattutto quando non scopiamo.
Adesso, la sua parte del letto è fredda; la mia, invece, è calda solo del mio scazzato rigirarmi fra le lenzuola. Che poi, mi sento assurdo quando penso cose simili: io non ho una mia parte del letto. Questo è solo lo stupido letto matrimoniale della stupida camera in cui dorme quando non sta con me. Dovrei odiare questo fottuto posto. E invece il suo profumo è ovunque.
Dal soggiorno arrivano le risate sguaiate di Saad. Eko si sta lamentando di qualcosa, sento la sua vocetta noiosa che si muove come in un flusso sotterraneo sotto le risate.
Anche Anis sta ridendo. Però la sua voce la sento nel petto, e mi scuote.
Mezz’ora fa, c’era la sua voce ovunque. Le sue mani ovunque.
Ed io, adesso, sono qui: nudo solo e disperatamente vuoto.
Mi sfioro da sopra le lenzuola.
Anche se chiudo gli occhi e provo a immaginare lui, le mie mani fanno schifo, come sostituto.
Piccole, magre, fragili. Gli artigli, poi.
Io amo le mie mani, cazzo. Prendere ad odiarle solo perché non mi scivolano addosso bene come le sue è… disturbante. Ecco. Non dovrei pensare queste cose.
Penso che dovrei scivolare silenziosamente fuori da questa stanza, ficcarmi in bagno e farmi una bella doccia per calmare i bollenti spiriti. Magari, se una doccia non basta, anche due. O una sega, Dio, qualsiasi cosa.
Mi stendo a pancia sotto, arrotolo il lenzuolo fra le gambe ed abbraccio il cuscino. Resto a pensare un po’. L’odore di Anis sta svanendo, il mio stupido profumo se lo sta mangiando tutto. Odio profumare così tanto, anche se ad Anis piace. Ciò che piace a me dovrebbe venire sempre prima, ed io vorrei essere inodore ed insapore, così da annusarmi e sentirmi addosso lui quando ci separiamo.
Invece, quando lui va via io resto solo io e non sono niente.
E dovrei veramente smetterla di pensare.
Sospiro, faccio per alzarmi, rimango seduto a fissarmi le punte dei piedi.
Dal fondo del corridoio sento un “’cazzo fai, Atze?” che mi costringe ad un ghigno irritato, perché io odio questo stupido nomignolo che si scambiano a vicenda. Non posso usarlo, perché ci sono cose che non potrò mai fare. Anche se un giorno questo mondo stronzo che s’è scelto o gli è capitato – non so – dovesse accettarmi, ci sono determinate cose che io non sarò mai e non potrò mai fare.
Sono giusto ad un centimetro dalla sponda del letto – cercò già con gli occhi le scarpe sul parquet – quando la serratura scatta e la porta si apre.
Vado nel panico.
Cristo.
Non sanno che sono in casa.
Anis non lo dice mai.
Io in genere resto buono zitto e tranquillo finché non vanno via.
Oddio.
Chi cazzo è?
Afferro il lenzuolo e lo porto a coprirmi di scatto, così di scatto che mi sfugge dalle dita e mi do da solo un pugno sul mento.
Sono ridicolo.
Ed infatti, chiudendosi la porta alle spalle, Anis ride.
- Solite seghe mentali di primo mattino, Bill? – chiede sarcastico, muovendosi perfettamente a proprio agio dalla porta al letto e lasciandosi ricadere con un tonfo sul materasso accanto a me.
Guardo altrove, imbarazzato.
- Sono quasi le undici. – mormoro incerto, - Il primo mattino è passato da un pezzo.
Si china e mi bacia sulle labbra, senza preavviso e senza un perché.
È una cosa che, Dio, adoro di lui. Mi tocca sempre. Come volesse lasciarmi un’impronta addosso.
- Non contraddirmi. – dice poi. Il tono è rude, ma sorride. – O almeno, se vuoi farlo, contraddicimi sulle cose importanti. Non sull’orario.
- Non mi stavo facendo le seghe mentali! – mi giustifico mentendo. È un giochino stupido, lui sa sempre quando mento. S’è tatuato addosso la verità mica per caso: ha un talento per riconoscerla.
Mi si spinge un po’ contro, pretendendo centimetri di materasso. Io mi scosto borbottando, finendo dalla sua parte e lasciandolo distendersi sulla mia. Ne prende possesso con tutto il corpo, allarga le braccia, allunga il collo, stira le gambe e tende la schiena. La camicia si stringe sul suo petto, i bottoni tirano un po’. Vorrei staccarli a morsi, uno dopo l’altro.
- Mi dispiace di essermi interrotto, prima. – sospira, socchiudendo gli occhi sul cuscino, - Non potevo lasciarli fuori dalla porta.
- Certo che no. – mugugno, guardando altrove. – La crew prima di tutto.
- Be’, per te la famiglia viene prima di tutto, no?
- La tua famiglia è tua madre. Non avrei niente in contrario se aprissi a tua madre, anche se nel mentre stiamo facendo sesso. – mi fermo, lui ride di cuore. – Cioè! – mi agito immediatamente, - Ovviamente ci fermeremmo! Avanti… hai capito.
Si rimette seduto e si allunga, afferrandomi con un braccio attorno al collo e trascinandomi verso di sé.
- Ho capito che sei geloso come un adolescente in calore. – spiega annuendo, - Cosa che peraltro sei. Spiegami chi me l’ha fatto fare.
Mi lascio andare ad un ghigno cattivo.
- La tua irrefrenabile libidine e il mio culo da ragazzina?
Sul culo da ragazzina lascia uno schiaffo che è una provocazione e un pegno d’affetto.
- Forse. – sorride furbo, - Per quanto debba ammettere che anche quello che hai davanti non mi faccia particolarmente schifo… - continua, insinuando una mano sotto al lenzuolo, fra le mie cosce.
Rabbrividisco ma mi lascio andare contro il suo petto, incapace di protestare.
- Non hai decenza. – sospiro sul suo collo, - Come fai a dire cose così palesemente…
- …dillo, su.
- …be’, gay!
Anis mi ride fra i capelli, il suo respiro arriva fino al mio orecchio e lo accarezza.
Sono eccitato come non mai, lui mi accarezza lentamente. Io chiudo gli occhi.
- Per quanto tu possa continuare a truccarti, piccolo, resti un maschietto. Sto toccando con mano la prova, al momento. – ride ed io rabbrividisco ancora. È vero, non ha decenza. – Ora, se io sono venuto a patti con la tua virilità, perché tu non ci sei ancora riuscito?
Perché forse mi piacerebbe essere donna.
Forse, se fossi donna, le pretese che ho su di te sarebbero legittime.
Forse nessuno mi guarderebbe come fossi un fenomeno da baraccone.
Forse quelle teste di cazzo dei tuoi amici mi avrebbero già accettato un casino di tempo fa.
Potrei prenderti dentro senza sensi di colpa. Potrei accoglierti come meriti.
Ed invece ti ritrovi con un surrogato di sesso. Con un maschio. Con uno che ti complica la vita.
Ma sono contento che resti.

- Io e la mia virilità stiamo benissimo. – protesto a denti stretti. La sua carezza si fa più decisa, ora mi stringe con sicurezza fra le dita. – Dio, continua… - sospiro, stendendomi meglio sopra di lui, per rendere i suoi movimenti più agevoli.
- Ho voglia di scoparti adesso, piccolo. – dice fra una carezza e l’altra, scendendo a lambire un lobo con le labbra, - Ti va?
- Ci sono quelli, di là… - mugugno lamentoso. In realtà sto pensando che non me ne frega un cazzo. Allargo le gambe e ruoto il bacino, sedendomi direttamente addosso a lui, proprio sopra la sua eccitazione.
- …ti va. – risponde lui per me, ridendo contro il mio collo e baciandomi sulla nuca, umido e caldo, proprio sul tatuaggio del simbolo dei Tokio Hotel. Questo mi fa sorridere, perché in fondo anche io ho un mio mondo al quale lui non appartiene ed all’interno del quale sarebbe stonato come un bucaneve ai tropici, però la cosa non lo mette a disagio come mette a disagio me.
Sospiro e mi lascio andare contro di lui. Vorrei pregarlo di smettere di accarezzarmi, o verrò subito ed odio venire quando non l’ho ancora sentito dentro, ma capisco in fretta di non avere bisogno di chiedergli niente: il ritmo delle sue carezze diminuisce e poi si ferma del tutto, mentre sbottona i jeans e vaga con la mano verso il comodino, alla ricerca dei preservativi.
Lo afferro e lo riporto verso di me.
- Piantala coi convenevoli. – sbotto a un centimetro dalle sue labbra, - Voglio sentirti mentre vieni.
Lui rilascia un sospiro improvviso e più profondo degli altri. Gli vedo brillare negli occhi una luce che è soddisfazione, orgoglio e desiderio. Una mistura che conosco bene, perché è la stessa che illumina me.
Mi spinge in avanti. Cado in ginocchio sul materasso e poi mi piego, piantando i gomiti nella gommapiuma per non scivolare col viso fra le lenzuola. Lui mi morde il collo e si sistema dietro di me, stuzzicando la mia apertura con la punta della sua erezione, già lievemente bagnata. La strofina lentamente avanti e indietro, forzandomi appena e ritirandosi subito dopo, cercando di lubrificare l’entrata nel modo più naturale possibile.
Questa frizione è così tesa ed erotica che mi mozza il respiro.
Cerco di mugolare a bassa voce e stringo le mani attorno alle lenzuola.
- Fatti sentire anche tu, però. – sibila ad un centimetro dal mio orecchio.
Scuoto il capo con una nettezza che è resa ridicola dalla mia ansia.
- Ci sono quelli, di là. – ripeto con più decisione.
Anis sorride ed entra dentro di me in un solo colpo, secco e deciso. Mi mordo un labbro per non urlare. Fa male, ma è lui. Ed è così lui che fa male.
- Anis… - mormoro in un lamento spezzato, strizzando forte le palpebre mentre mi chiudo attorno a lui, sentendolo mugolare di piacere contro la mia schiena. Tirargli fuori dalla bocca lamenti simili è oltremodo eccitante ed emozionante. Non te li aspetti, da uno come lui, ma quando si tratta di darsi Anis si dà e basta. Smette perfino di pensare.
Lo sento pompare velocemente dentro il mio corpo; stringe forte i miei fianchi tra le dita, e d’istinto capisco che è troppo preso per occuparsi di me. Scendo a sfiorarmi fra le gambe e lui sospira compiaciuto, sporgendosi per guardarmi.
- Cristo, sei bellissimo quando ti tocchi… - si complimenta con voce roca, baciandomi la nuca.
Sorrido e continuo a farlo, ma sono un completo disastro. Non riesco ad andare incontro alle sue spinte, ogni volta che lo sento battere dentro di me vorrei soltanto spingere e urlare, ma devo trattenermi perché cazzo, va bene fare sesso con gli altri di là, ma dare anche spettacolo no; e perdo il ritmo, e mi confondo, ed Anis ride dietro di me e mi dà un bacino sullo zigomo.
- Impiastro… - mormora, mordendomi la spalla e scendendo a sfiorarmi fra le gambe, - Devo fare tutto io?
Per dimostrare che anche io sono ancora in grado di fare qualcosa, contraggo i muscoli attorno a lui. Anis sorride e mi tira per il mento con la mano libera, baciandomi profondamente per attestare un assenso che non ha veramente bisogno di esplicitare. Però i suoi baci mi piacciono, perciò lo accetto con tutti i sentimenti.
- Oddio, Anis… - lo chiamo, cercando di reggermi in ginocchio senza tornare a cadere in avanti. Spero che lui continui a tenermi per la vita, o avrò poco da tentare in ogni caso, - Sto venendo… più forte… dai… - non so neanche cosa sto dicendo, è imbarazzante da morire. Cerco almeno di tenere la voce bassa. Oddio, spero che non ci senta nessuno.
- Piccolo… - spinge, spinge, accarezza e spinge, - Non ti sento…
- Anis…
- Cazzo, dillo forte!
Ed io lo urlo, cazzo, lo urlo e vaffanculo al resto, Anis, vaffanculo la crew, Anis, vaffanculo il non essere soli e l’ostinazione a non accettarmi e le umiliazioni che mi riservano quando non posso sentire ed anche i contrasti e le diffidenze, Anis, Anis, Anis, chiudo forte gli occhi e lui viene dentro di me, mi spingo contro il suo bacino e lo seguo col battito di cuore successivo.
Mi lascia andare ed io, prevedibilmente, cado in avanti. Meno prevedibilmente, lui mi segue, stendendosi su di me. Non pesa. È dolce.
- Non ti allontanare subito… - mormora. Sento le sue ciglia contro il collo, è una sensazione stupenda. – Abbiamo tempo.
- Non ne abbiamo. – rido a bassa voce, - Quelli sono ancora di là. – preciso.
- Sai che è insopportabile, quando lo dici? – ride, stringendomi alla vita. Poi sospira e scioglie le braccia, allontanandosi da me e rimettendosi in piedi. – Faccio subito. – commenta, abbottonando alla buona i jeans ed uscendo velocemente dalla camera.
Incuriosito, metto su un mezzo broncio che mi dispiace lui non possa vedere e mi avvolgo nel lenzuolo, alzandomi a mia volta in piedi e spiando attraverso la porta dischiusa ciò che avviene in soggiorno. C’è una bella visuale, piena e completa, da qui. Saad, Chakuza ed Eko stanno seduti sul divano, l’aria fra lo scazzato ed il forzatamente disinteressato. Eko ha le braccia incrociate ed un’espressione furiosa a stravolgere i tratti del viso, ma quell’uomo è così naturalmente divertente che non posso fare a meno di lasciarmi andare ad una risatina stupida.
Non dicono niente, si limitano a guardarlo mentre lui, controllatissimo, si china a recuperare una bottiglia di birra aperta e ne beve un sorso, tenendola saldamente per il collo.
Manda giù, la ripone sul tavolo e inarca le sopracciglia.
- Cosa? – chiede gelido, guardando tutti in generale e nessuno in particolare.
- Cosa, chiede lui. – borbotta Saad, alzandosi furiosamente in piedi, - Stavamo-
- Per concludere. – completa con aria assassina e sorriso sereno. – A domani?
Saad lo manda a fanculo. Eko scuote il capo e lo segue, borbottando qualcosa sull’amore che è una fregatura e basta. Chakuza non può fare a meno di ridacchiare. “Tu sei pazzo, Atze”, commenta – è una cosa che dice spesso – ma non mi sembra lo faccia con cattiveria. I rapper, comunque, valli a capire.
Sento battere la porta di casa meno di due secondi dopo.
Anis beve un altro sorso di birra.
- Finalmente soli, eh? – ghigna divertito, facendomi un cenno col capo per informarmi che sa esattamente che lo sto spiando da quando è andato via.
Sorrido, apro la porta e lascio cadere per terra il lenzuolo.

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This Moment Is Eternity

di lisachan
Se dovessi provare a descrivere quanto è bello in questo momento, neanche ci riuscirei. Anis non è una persona cupa, anzi, ride spesso, ma ci sono dei momenti in cui vedi che non sta solo ridendo, no, dietro c’è tutto un universo che sta nella sua testa e che è ciò che l’ha portato a sorridere in quella maniera. Sono i momenti in cui capisco che non ha fatto altro che pensare a me per ore, fino ad avere nella mente un’idea più che chiara di ciò che avrebbe dovuto dirmi, e quando ride così io so che lo fa perché ha progettato qualcosa di assolutamente meraviglioso e non vede l’ora di dirmelo.
Così si presenta oggi, apro la porta e lui è lì, appoggiato allo stipite, che mi fissa con un sorriso furbo da bambino monello che mi fa venire voglia di lasciargli addosso baci a stampo finché non gli vengo a noia.
- Principessa. – mi saluta con un cenno del capo vagamente simile ad un inchino, mentre io mi lascio contagiare dal suo sorriso e mi scosto dall’uscio per farlo passare. – Hai qualcosa da mangiare? Non ho ancora toccato cibo oggi.
Vorrei dirgli che non ricordo di aver comprato niente di commestibile, ma lascio perdere quando lo osservo infilarsi risolutamente in cucina ed uscirne subito dopo con una fetta di prosciutto che pende dalle labbra ed un bicchiere di succo d’ananas in una mano.
- Non so da quanto fossero in frigo… - lo avverto con una risatina.
Lui scrolla le spalle.
- Il sapore non è male. – mi rassicura, mandando giù il prosciutto. – A casa di Chakuza abbiamo preso tante di quelle intossicazioni epiche che mi sa che ormai ho l’intestino di ferro. – conclude bevendo d’un fiato anche il succo e dandosi un pugnetto sull’addome come a dimostrarmene la resistenza.
Penso che ho davvero un po’ paura di casa di Chakuza, me ne parlano tutti come di un posto molto pericoloso. A dare un po’ di corda ad Eko ti racconta di certi incontri ravvicinati con scarafaggi multiformi, nel bagno, da lasciarti agghiacciato. Non so, ho come l’impressione che quell’appartamento non vedrà la mia persona tanto presto.
Nel mentre, Anis si stiracchia soddisfatto ed il secondo dopo mi si abbatte addosso, strizzandomi in un abbraccio che sa di voglia e di una certa nostalgia stupida e pure molto tenera.
- Sono distrutto. – borbotta, - Voglio andare in pensione.
- Non sei ancora abbastanza vecchio. – lo rassicuro, visto che so che è esattamente quello che vuole sentirsi dire.
Lui ride e si china a baciarmi stringendomi per la vita, ed io sono già lì che allungo le mani cercando di eliminare lo stupido giubbotto che ancora lo avvolge per arrivare a toccare qualcosa di caldo, qualcosa di buono, qualcosa di suo, quando lui si allontana ridendo ancora, in uno sbuffo che riesco a soffocare fra le labbra solo in parte.
- Aspetta, aspetta. – mi dice facendo sfoggio di una pazienza che, dipendesse da me, schiaccerei sotto le scarpe per poi schienarlo sul letto, - Ho altri programmi per oggi.
- Io no! – biascico cominciando a spingerlo verso la camera da letto, piantandogli entrambe le mani sul petto. Lui ride e scuote il capo ma non protesta, indietreggia mentre lo spingo e continua a guardarmi come se fossi una cosa bellissima e inspiegabile. Adoro quando lo fa.
Impatta contro il letto e ci si lascia schienare davvero, mi fiondo entusiasta su di lui e sfilo via il dannato giubbotto che è peggio dei vestiti, perché è ruvido e freddo dell’aria della notte. Faccio per lasciarlo ricadere per terra ma lui mi ferma - “aspetta, aspetta!”, sempre ridendo, è meraviglioso il suono che fa – lo prende fra le mani e lo adagia con cura sul pavimento. Poi nota il disappunto nel mio broncio ed allarga le braccia – “okay principessa, riprendi da dove hai lasciato” – ed è tutto ciò che ho bisogno di sentirmi dire, afferro la maglia e la tiro via, resisto all’impulso di baciarlo ovunque solo perché devo disfarmi di tutti gli altri vestiti – i miei, i suoi, sono solo barriere inutili – e solo quando ci sono finalmente riuscito mi sistemo meglio sul suo grembo e mi struscio come un gatto contro la sua pelle, mi nutro del suo calore, lo sfioro ovunque ed ovunque mi lascio sfiorare. E lui continua a ridere. Ed è stupendo. Sono arrossito fino alla punta dei capelli e mi sento una liceale, ma in questo preciso istante non me ne frega un accidenti.
Mugolo un po’, rimettendomi seduto e incrociando le braccia sul petto.
- Ma non stai facendo niente! – mi lamento, imbronciandomi di nuovo.
Anis ride e solleva le mani a cingermi i fianchi, passa il pollice sul tatuaggio a forma di stella e lo disegna distrattamente, dandomi i brividi ovunque.
- Te l’ho detto che avevo altri programmi. – mi prende in giro con un sorrisino stronzo, ed io inarco un sopracciglio.
- E non li puoi cambiare? – chiedo, e sottolineo la richiesta spingendomi col bacino contro di lui.
Grazie a Dio Anis ha sempre reazioni corporee molto prevedibili, perciò mi prendo giusto un secondo per esultare interiormente quando vedo il suo sorriso cambiare colore e mi ritrovo all’improvviso rivoltato sul letto con tutto il suo peso addosso e le labbra schiacciate con forza contro il collo.
Lo abbraccio stretto, mugolando compiaciuto e sorridendo trionfante, visto che lui non può vedermi. Lui ride ancora – mi ride dritto sulla pelle – e borbotta “sarai la mia rovina, principessa”, ed io penso che mi va benissimo, perché lui è già la mia.
Non passa molto prima di ritrovarmi le sue mani ovunque, e rido divertito bisbigliando “non eri stanco…?”, mentre lui mi morde sul collo per mettermi a tacere. E d’accordo, penso io, non dico altro, da qui in poi solo mugolii, anche perché so che gli piacciono. E mugolo. Mugolo mentre mi sfiora e mi bacia e mi accarezza piantandomi le mani addosso di prepotenza, scrivendomi sul corpo l’intensità del suo desiderio, un desiderio che gli pulsa fra le gambe con una furia incontrollata, lo stesso desiderio che accolgo dentro di me fra i suoi, i miei, i nostri sospiri, il desiderio che lui spinge con forza fino in fondo al mio corpo, fin dove fa male e fin dove mi fa godere di più, il desiderio che mi costringe a piantargli le unghie nella schiena e i denti nella spalla, il desiderio per cui ansima contro la mia pelle, lo stesso desiderio per cui ansimo anche io. Il desiderio per cui vengo fra le sue dita è lo stesso per cui lui viene dentro di me. Siamo identici. Siamo uno. Siamo perfetti e questo momento è eterno.
Riprendo a respirare lentamente, fra le sue braccia, schiacciato fra il suo corpo e il materasso. Inspiro il suo odore, quello un po’ acre del suo sudore che si mischia all’odore del tabacco ed a quello del dopobarba. Rimango semplicemente immobile, gli occhi chiusi, e so che finirei per addormentarmi se lui non si riscuotesse e si mettesse seduto sul letto al mio fianco. Non si copre, non ha il minimo senso del pudore. Gli getto addosso il lenzuolo solo perché, in caso contrario, non riuscirò mai a smettere di guardarlo.
- Allora, questi grandi piani che avevi? – sbotto, cercando di darmi un tono mentre mi sistemo a mia volta, coprendomi come posso e ritrovandomi immediatamente addosso le sue mani che tirano via le coperte un po’ per infastidirmi ed un po’ perché gli piace fissarmi.
- Ah, già! – e gli ricompare sulle labbra il sorriso giocoso col quale è arrivato, mentre si sporge oltre il mio corpo e recupera il giubbotto da terra, posandoselo in grembo, - Hai dei peluche?
Inarco le sopracciglia.
- …quando sono venuto a vivere qui, Tomi mi ha obbligato a portarmi dietro i regali delle fan, c’è uno scatolone da qualche parte… - rifletto, - Tipo sull’armadio, controlla. Perché, comunque?
Anis annuisce ma non risponde. Si alza in piedi ed io distolgo lo sguardo perché altrimenti da questa situazione non uscirò mai vivo, ma lo osservo comunque tirarsi dritto sulle punte per raggiungere lo scatolone in cima all’armadio e poi tirarlo giù, rovistando all’interno. Ne tira fuori un paio di slip e cinque o sei reggiseni di cui non ricordavo l’esistenza. Li tiene su due dita, inarca le sopracciglia e un po’ mi prende in giro, un po’ è infastidito dalla loro presenza.
- Buttali via! – protesto imbarazzato, e lui ride e li rimette a posto. Dopodiché comincia sistematicamente a tirar fuori ogni singolo peluche mi sia stato regalato nell’ultimo anno, e li sistema ordinati sul pavimento, a ridosso della parete, proprio di fronte al letto. Uno accanto all’altro, come un plotone d’esecuzione.
Comincio giustamente a temere.
Lui rimira il lavoro soddisfatto ed io gli tiro addosso i pantaloni sperando indossi almeno quelli. Li ignora felicemente, lasciandoli ricadere a terra per poi voltarsi e tornare a sedersi accanto a me sul letto, prendendomi fra le braccia e costringendomi a sedermi praticamente addosso a lui. Non che mi dispiaccia, ma palesemente non uscirò vivo da questa situazione.
- Allora, principessa, stasera ti insegno una cosa che, in quanto mio compagno, devi saper fare per forza.
Io dovrei preoccuparmi, ma mi ha appena detto che sono il suo compagno, perciò decido che me ne frego, qualsiasi cosa sia la farò.
- Cosa? – chiedo curiosamente mentre mi sistemo contro di lui cercando di non scatenare imprevedibili reazioni a catena né nel mio né nel suo corpo.
È lì che lui si allunga verso il giubbotto, lo riporta vicino e fruga un po’ nelle tasche. E poi riemerge con la Heckler. Io la guardo con un po’ di timore perché generalmente evita di tirarla fuori in mia presenza. È una cosa tremenda, mi ricorda pezzi di lui che preferirei ignorare del tutto – e che per contro non posso ignorare affatto. Perché sono il suo compagno, appunto.
- …Anis, tu non vuoi, vero, che io-
- Userai i peluche come bersagli. – annuisce tranquillamente lui, - Non preoccuparti, ti aiuterò io, le prime volte.
- Anis, io non posso sparare ai peluche! – cerco di tirarmi indietro, ma lui ride, posa la pistola e mi stringe in un abbraccio fermo e deciso, soffiandomi sul collo.
- Calmati. – dice a bassa voce, - Sono solo pezzi di stoffa. Non sono neanche tuoi. E poi devi saperlo fare.
Il suo fiato sulla pelle non è veramente sostenibile. Cerco di distrarmi.
- Sentiranno gli spari…
Torna a sollevare la pistola.
- Vedi questo? – dice, indicando una specie di cilindro sulla punta, - È il silenziatore. Sai cosa significa? Che, quando spari, si sente solo una specie di psiuh.
Rido un po’ perché il suono che ha fatto è abbastanza ridicolo. All’improvviso, mi viene voglia di sentirlo, questo psiuh. Allungo una mano, il palmo bene aperto, ed Anis sorride e mi consegna la pistola. Naturalmente, è pesante da morire. La mia presa fa schifo e sia la mia mano che la pistola cadono sul materasso. Anis ride ed io mi imbarazzo furiosamente, distogliendo lo sguardo.
- Riprendila, dai. – annuisce incoraggiante. Io obbedisco. La tengo con due mani, me la rigiro fra le dita. È fredda ed enorme e così dannatamente impersonale che vorrei gettarla via.
- Fosse mia, le metterei un po’ di teschi qua e là… - rifletto a mezza voce, - È così spoglia…
Anis ride di cuore, la sua risata vibra tutta attraverso il mio corpo ed io mi ritrovo a pensare senza un perché che mi piace amplificare la sua voce. Dovrebbe parlare solo attraverso di me.
- Avanti. – riprende lui, stringendo le mie mani fra le sue e puntando la pistola verso il primo peluche della fila, una specie di topo deforme con le ali viola. – Spariamo a lui. È brutto, vero?
Lo osservo.
- È un insulto al decoro, direi.
Anis annuisce.
- Ora lo togliamo di mezzo. Uno psiuh e resterà solo un mucchietto di ovatta. Ci sei? – annuisco e mi concentro, aggrottando le sopracciglia. Anis ride ma so che lo fa perché mi trova tenero. Le sue risate hanno toni così differenti e precisi che, una volta imparate tutte a memoria, potrebbe anche solo ridere senza dire una parola per tutto il resto della sua vita, e lo capirei comunque.
Socchiudo gli occhi. Non intendo prendere la mira. Lascio che lo faccia Anis, dietro di me. Premo l’indice sul grilletto e lui preme il proprio sul mio. Pressa più forte di me.
Fa davvero psiuh. È un suono talmente ridicolo, e il topo viola si sfalda con una facilità così sciocca che non so, per un secondo dimentico di stare maneggiando una pistola e scoppio semplicemente a ridere. Così, piegandomi pure un po’. Anis si abbatte contro la mia schiena e ride a propria volta, lasciandomi un bacio su una vertebra a caso, ed io riapro gli occhi e vedo la pistola enorme fra le mie mani piccolissime fra le sue che invece sono grandi e forti e sono felice di una felicità molto molto stupida. Che forse non dovrei provare. E che però è qui e mi riscalda tutto.
- Bene! Abbiamo tolto di mezzo il topo viola. – commenta entusiasta Anis, - Passiamo al prossimo. – e punta contro il successivo.
- Ma no, è un gattino… - mi lamento io, mugolando infelice, - È carino, lasciamolo per ultimo!
- Vero. I belli sempre per ultimi, prima li si scopa, poi li si ammazza. L’arte della guerra. Sei un talento! – mi prende in giro lui, baciandomi sul collo. Io rido.
- Quell’altro. – dico, indicando un drago con due orribili occhi rossi e pallati, - Mi inquieta, posso sparare a lui?
Anis sorride compiaciuto.
- Provi da solo? – io annuisco. – Se fai centro, un bacio in premio.
Psiuh.
Il drago è illeso, in compenso la carta da parati non può dire lo stesso.
Il bacio in premio, però, visto che sono la principessa, lo prendo comunque.

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Natural Disaster

di lisachan
La casa di Anis mi ha sempre messo un po’ di paura.
Prima di tutto perché, oltre ad essere spaventosamente gialla, è anche spaventosamente grande. La odio proprio concettualmente, perché è una stupida casa da single straricco. Una casa da rimorchio, ecco. Quella che, quando la ragazza di turno si avvicina, provoca gridolini isterici e oh, mio dio, hai anche la terrazza? E me lo vedo lui, che sorride e risponde non è una terrazza, e poi le porta su, all’ultimo piano, e c’è la serra con il soffitto in vetro completamente apribile, come un’enorme finestra sul cielo.
No, dico, una serra.
Che se ne fa un rapper di una serra?
Neanche la cura lui!
Però gli piace, dice che dentro ci si trova bene e che ogni tanto gli piace fare crescere le cose. Vallo a capire.
Comunque sia, odio questa casa e ne ho pure paura. Poco da fare.
Ogni tanto, però, mi ritrovo a passarci giornate intere completamente da solo. Non è neanche così inusuale: ultimamente, poi, col fatto che passiamo a Berlino la quasi totalità del nostro tempo, è questione quasi quotidiana. Non ce la faccio a stare tutto il giorno appresso a Tom, non ce la faccio perché per Tom ogni occasione è buona per ricordarmi che odia il mio uomo ed odia il fatto che io ci stia insieme.
Visto che, per quanto mi riguarda, parlerei di Anis tutto il giorno, le occasioni per Tom si moltiplicano all’infinito, e la cosa è… frustrante.
Perciò, visto che non ci vuole niente ad afferrare Saki e strillare “scortami”, lo faccio spesso. Di solito qui c’è sempre Karima ad attendermi. Anche se ha sempre qualcosa da fare – e ci credo: questa casa è enorme e lei la governa praticamente da sola – trova sempre un po’ di tempo per farmi il tè al gelsomino, ed è una cosa fantastica. Anche perché di solito poi ci mettiamo a parlare e vengono fuori cose meravigliose tipo “quella volta che il signor Ferchichi si ritrovò un gatto in balcone e per poco non si ammazzò cadendo di sotto nel tentativo di recuperarlo prima che s’infilasse nella serra”, o altre amenità simili.
Il mio uomo, ovviamente, non si degna di farsi vedere prima delle otto di sera, minimo. Mi chiedo cosa se ne faccia di questa casa – cosa se ne faccia di tutti i suoi appartamenti, in genere – se poi ne usa solo le camere da letto, per dormire o altro, dipende. Dovrebbe imparare ad usare gli ambienti in maniera più creativa. Che so… dormire in salotto, o sul tavolo della cucina. Così tutte le stanze avrebbero un loro perché.
Oggi, quando sono arrivato, la casa era desolatamente vuota. Ho lasciato scivolare le chiavi sulla consolle all’ingresso, ho buttato in un angolo la borsa ed ho improvvisamente realizzato che è venerdì: ciò significa giornata libera di Karima e… per Anis non lo so, lui è sempre pieno di impegni, non ha un giorno libero neanche a pagarlo. Che poi lo pagano per tenersi impegnato, quindi mi pare pure normale.
Mi sono aggirato con aria da zombie per le stanze che conosco – vale a dire l’ingresso, il salotto e la cucina – poi sono andato a spalmarmi sul suo letto in camera, ho rotolato fra le lenzuola, ho disfatto tutto, combinato un casino epocale e poi, sorridendo come un bambino, sono tornato nella sala e mi sono gettato sul divano a peso morto, andando alla ricerca del telecomando per accendere la tv e vedere se per caso beccavo qualcosa di interessante – lui. Me. Nena. E così via.
Alla fine, mi sono rassegnato. Il vuoto regnava incontrastato ovunque e l’unica cosa interessante che ho scoperto dalla televisione è che VIVA non ci passa più spesso quanto prima. In compenso, ha i Killerpilze in rotazione continua, e ciò è oltremodo irritante. Dovrò parlarne con David.
Rimango accucciato sul divano, le adidas a strisciare con una certa crudele lentezza sulla pelle nera e – precedentemente – immacolata del cuscino, e proprio quando mi sembra di cominciare a sentire le voci nella testa per la noia – tipo: c’è mio fratello che continua a ripetermi “te l’avevo detto, che ti avrebbe trascurato!” – ricordo un particolare fondamentale e importantissimo che potrebbe cambiare la mia giornata.
Ultimamente, Karima s’è fatta prendere da una certa mania salutista che non so sinceramente da chi abbia preso – posso solo pensare all’unica, singola e mai ripetuta volta in cui David è passato di qui per riportarmi a casa ed Anis l’ha invitato a restare per cena.
No, la cosa va raccontata. A parte il fatto che mi sono sentito enormemente orgoglioso del mio uomo, per come in due-sorrisi-due sia riuscito a stregare David al punto che dopo cena ha accettato anche di andarsene a mani vuote, cioè senza il sottoscritto. Ma poi quest’uomo che in teoria mi ha quasi cresciuto ha fatto in dieci minuti più capricci di quanti ne faccia io in una settimana intera. E non vuole mangiare carne, e la salsa è troppo piccante, e nella pasta non ci saranno mica dei fegatini, perché io non li posso mangiare!
Insomma, la povera Karima gli ha dato da mangiare una ciotola di biada, tipo, e lui le ha fatto un sorriso talmente enorme e grato che credo l’abbia turbata nel profondo.
Perciò ha deciso che in questa casa si mangia solo lattuga.
Ora, se qui ci vivesse David, la cosa sarebbe pacifica: lui e Karima continuerebbero a ruminare erbacce e si amerebbero per tutto ciò che resta delle loro vite. Purtroppo, però, in questa casa orribile ci vive Anis, che è tutto meno che vegetariano, e quando torna a casa in genere è così affamato che bisogna ringraziare non ci mangi me e la cameriera crudi e vestiti per come siamo.
Si può immaginare bene che per un uomo impegnato come lui tornare a casa e trovare una vasca di roba verdognola e umidiccia non sia esattamente il ritratto di una cena perfetta. Certe volte guarda Karima con occhio triste, chiedendosi dove sia finita la brava cuoca tunisina cipolla-friendly che credeva di conoscere.
E poi, una o due notti fa, me l’ha confessato. Stavamo arrotolati sul suo letto, io stavo cercando di convincerlo a scoparmi ancora ma con scarsi risultati – anche Anis ha i suoi limiti, c’è da dirlo – e lui ha grugnito un dissenso random e poi ha detto “Ho fame. Mi mangerei un vitello. Karima mi affama. Voglio del kebab”. Così, tutto di seguito. I punti neanche c’erano, li aggiungo io per facilità di pensiero, perché mi dà fastidio ammettere che qualcuno oltre me possa pensare senza punteggiatura.
Ed ecco che ogni mio problema si risolve. So cosa fare!
Balzo in piedi senza spaccarmi in due per un motivo che posso imputare solo al sacro fuoco dell’amore che mi sostiene – altrimenti la mia schiena non avrebbe retto, posso giurarlo – e mi fiondo in cucina. Questo posto che mi è totalmente alieno. Io non cucino mai. Io faccio cucinare mio fratello, e non perché sia bravo, ma perché non voglio prendermi responsabilità in questo senso.
Vengo colto da un momento di panico.
Cosa sto facendo? Non voglio veramente farlo.
Poi mi torna in mente il mio Bu senza virgole e con tanta fame e sospiro.
Dunque, il manuale delle ricette di Karima dev’essere qui da qualche parte. Lei lo tira fuori solo in occasioni speciali, per piatti inusuali o che comunque non prepara da tempo, ma fortunatamente ha appuntato anche un sacco di ricette più semplici, più che altro perché quando è solo Anis lo usa per cucinare le uova coi piselli in tegame, per dire. Ha bisogno delle spiegazioni passo dopo passo.
Mi guardo intorno. La mensola. Ci sono tutta una serie di gioiosi libri. Mi avvicino con aria sprezzante e godo internamente nel non aver bisogno dello sgabello su cui Karima si arrampica di continuo, per arrivare a vedere i titoli sulle costine. In mezzo a un sacco di roba inutile, una copertina in pelle marrone un po’ logora mi colpisce, ed io sorrido. Ecco qua la mia Bibbia per le prossime due ore.
Tiro giù il volume e lo apro sul tavolo con una certa sacralità. Non posso credere che ci sia la ricetta per il latte e biscotti – comprensiva di conteggio preciso dei secondi per i quali il singolo biscotto può stare a mollo senza sfaldarsi – o quella per montare la moka, eppure ci sono. Se non fosse ridicolo sarebbe tenero. Prendo nota mentalmente di sfottere Anis fino alla morte per tutto ciò e passo avanti.
La ricetta del kebab ovviamente c’è. È verso la fine – ricette di livello avanzato, leggo scritto sulla pagina che le precede – e già ad una prima occhiata so che non le sopravvivrò. Intanto, già qua mi dice che ho bisogno di una cinquantina di fette di carne. Ora, non esiste. Sarò già fortunato a trovarne due. Facciamo che cerco di moderare le quantità degli ingredienti, ecco.
Corro verso il frigorifero giallo come la casa che domina incontrastato la cucina dall’alto dei suoi quasi tre metri d’altezza, e mi fiondo nel reparto carne – che poi è un cassetto accanto al reparto salumi, che è un altro cassetto.
In effetti, sono piuttosto fortunato: ben tre bistecche attendono solo che io le trasformi in qualcosa di commestibile.
Per un attimo mi chiedo se le bistecche vadano bene, come tipo di carne. Non ne sono proprio sicuro, qua la figura – sì, ci sono le foto, fissate alla pagina con le puntine da disegno rosse a pallini neri, come le coccinelle – sembra completamente diversa, ma comunque. Scrollo le spalle: in fondo è l’unica carne che c’è.
La ricetta ora dice che devo insaporirla con le spezie e marinarla.
Marinare non so nemmeno cosa significhi, sinceramente. Dovrei metterla a mollo in acqua salata?
Be’, le spezie, prima. Apro uno stipetto e tiro fuori tutto ciò che mi sembra possa corrispondere alla descrizione. Origano, menta, peperoncino, cannella… coriandolo? Che razza di nome è coriandolo, per una spezia? Ma poi, dovrò metterle tutte insieme?
La ricetta non è così specifica. Forse Karima sapeva che Anis non ci avrebbe mai messo su le mani, perciò non l’ha resa Bushido-friendly.
Mi piace questo modo di appellarmi alle cose.
Questa ricetta non è Bill-friendly, comunque. Ma è ciò che Anis vuole, perciò lo preparerò.
Dunque, afferro un pentolone da uno dei ripiani sotto il lavello, lo riempio d’acqua, spargo un po’ di sale e ci butto dentro le tre fette di carne. Fanno splash e si posano sul fondo senza ribellarsi. Annegano, ed io spargo sopra le ceneri di questo funerale. Origano, menta, peperoncino, cannella e pure coriandolo, che in realtà me l’aspettavo più simpatico, e invece e una roba fatta di palline inquietantissime.
A questo punto, suppongo vada cotta. Lancio un’occhiata a caso al ricettario e vedo un “un’ora e mezza circa” che immagino sia il tempo di cottura. Sinceramente, il tutto mi fa un po’ senso, perciò decido che basta così: accendo il fuoco sotto la pentola, ci metto su un bel coperchio e chiudo il tappo in alto, così il vapore non fugge via, e poi abbandono la cucina. Tornerò a controllare quando sarà scaduto il tempo.
Nel mentre, vagolo un po’ per casa. Questo posto è noiosissimo, quando non c’è nessuno in giro. Tanto per cominciare, c’è un silenzio di tomba, e questa cosa è inquietante. Continuo ad aspettarmi che salti fuori qualcuno random da un angolo, brandendo un coltello o qualcosa di peggio. È spettrale. Il fatto che qui intorno sia tenuto d’occhio da qualcosa come dieci o quindici guardie del corpo non mi rassicura minimamente.
Saltello in salotto e mi riapproprio del divano. Il telefono, dal tavolino alto qui a fianco, mi guarda e mi fa l’occhiolino. Potrei chiamare Tom, ma suppongo che litigheremmo. Potrei chiamare Anis, ma poi capirebbe che sono qui e vorrei fargli una sorpresa. Magari chiamo Chaku. No, e se poi è con lui e glielo dice? Be’, potrei sempre aprire la telefonata strillando “Non dirgli assolutamente che sono io!”, ma poi succederebbe come l’ultima volta, che lui sarebbe costretto a rintanarsi in un angolo e tutti si metterebbero a sfotterlo dicendogli che se ha una donna deve presentarla alla crew come tutti gli altri. E così poi lui dovrebbe dire che ero io e, a parte rovinare la sorpresa, Anis s’incazzerebbe pure, perché quando va in modalità è-mio-e-nessuno-lo-tocca io posso anche dirgli che Chaku è adorabile ma non ci combinerei mai niente, lui non mi ascolta comunque.
Insomma, non mi resta che annoiarmi. Annoiarmi e aspettare che il mio kebab – che, visto l’amore che ci ho messo nel prepararlo, non potrà che risultare buonissimo – sia pronto.
Un’ora e mezza.
Magari, se metto la sveglia nel cellulare, posso farmi una dormita…
*
Mi sveglio presto. Nel senso che la suoneria del cellulare non è ancora suonata. Lo so perché l’orologio piccolo tondo e giallo che fa da indicatore è ancora lì sul display. Quando suona, scompare. E invece è ancora lì. E io sono già sveglio. Il mio orologio biologico è molto ingiusto, nei miei confronti.
Poi realizzo di botto che il mio orologio biologico sta cercando di salvarmi la vita. Lo realizzo nel momento stesso in cui sento un fischio dannatamente spaventoso provenire dalla cucina e svegliarmi del tutto.
Salto giù dal divano e corro verso il mio povero kebab. Il tappo della pentola salta – è come un’esplosione, batte contro il soffitto e poi cade a terra, io strizzo gli occhi terrorizzato.
- Cristo! – rantolo in un impeto di frustrazione, mentre cerco di avvicinarmi alla pentola senza finire ustionato dagli schizzi d’acqua o abbrustolito dal fumo. Acqua, per la verità, ne è rimasta ben poca, e s’è trasformata in una brodaglia rappresa e schifosa che fa un puzzo infernale. La carne s’è carbonizzata quasi tutta, e le uniche cose che riesco davvero a distinguere sono le palline di coriandolo, ancora perfettamente sferiche, solo un po’ tostate, mescolate a granelli e fogliette di ogni tipo di schifezza.
Mi viene da vomitare.
Allungo una mano e faccio girare la manopola del fornello, spegnendo il fuoco.
Oddio, non so che fare.
Provo a prendere la pentola dalle maniglie, ma mi rendo conto anche a qualche centimetro di distanza che sono incandescenti. Dio, farò del male a Karima per tutto ciò. La sua ricetta era tutta sbagliata e troppo complicata da seguire, e vaffanculo!
Non so come mettere a raffreddare questa cosa.
Dio, è così calda che ho paura si possa sciogliere.
Ma l’acciaio inossidabile sarà pure… inscioglibile? Ma esiste, la parola?
Dio. Dio, dio, dio. Mi odio così tanto, cazzo.
Rifletto un po’. Mi viene da piangere, merda. Non ci riesco, a riflettere.
Penso solo al frigo. È mezzo vuoto, il giorno della spesa è domani, non c’è quasi più niente. Ci sarà lo spazio per una pentola. Apro lo sportello e vedo che, in effetti, c’è un ripiano completamente vuoto. È quello dei dolci, sta in alto, più vicino al freezer. Magari è pure più freddo. Magari, se la metto lì, si rinfresca più in fretta, ed avrò pure il tempo di pulire tutto questo disastro prima che Anis torni. Magari la scampo.
Dio. Voglio piangere.
Prendo la pentola con due strofinacci umidi e la metto là in alto. È una cosa tremenda. Stavo per morire! Stavo anche per fargli esplodere la casa, ma soprattutto stavo per morire! Già me lo vedo, tutto in nero al mio funerale, con un completo sobrio e semplice, le scarpe nere e lucide ed una camicia scura, senza cravatta, un cappello a tesa larga calato sul viso. Bellissimo! Ed io in una stupida bara a farmi mangiare dai vermi. Non posso credere di avere quasi privato il mio Bu della mia presenza, è una cosa indecente.
Piagnucolo un po’ mentre esco dalla cucina e vado di nuovo verso il telefono. Ho dannatamente bisogno di parlare con qualcuno. Accarezzo l’idea di chiamare comunque Tom, senza un perché, non m’interessa che mi rimproveri o mi prenda in giro, ho voglia di sentire un essere umano che mi parla. Potrei chiamare Anis e dirgli di venire subito, ma fare la solita figura del cretino che non sa come risolvere i guai in cui si caccia, e sinceramente non voglio che sia questa l’idea che ha di me. Non voglio che pensi di non potermi lasciare solo a casa senza che io combini qualche danno, anche se è vero che se mi lascia solo a casa ne combino.
Mentre sto qui ad accarezzare la cornetta di questo stupido e vecchio telefono d’epoca che non sono neanche sicuro funzioni, perché quando è in casa Anis va in giro col cordless ed usa solo quello, sento uno strano frizz frizz proveniente dalla cucina. Ho appena il tempo di sollevare il capo e dirmi “oddio, ancora no, ti prego”, che sull’intera villa cala un buio pesto e sconvolgente.
- Oddio… - mugolo terrorizzato, portandomi una mano sul petto, - Oddio… - cerco di muovermi senza urtare niente, ma non è facile perché i mobili non ricordo esattamente dove sono, sono troppi, perciò sbatto un po’ ovunque e domani avrò tanti di quei lividi che cominceranno tutti a pensare Anis mi picchi, ne sono sicuro.
Raggiungo la cucina e cerco di capire se sia successo qualcosa di irreparabile o se sia solo un guasto momentaneo, quando poso il piede su qualcosa di umido e scivoloso e casco a terra di schiena.
- Merda… - cerco di muovermi. Sono praticamente immerso in una pozza d’acqua. Mi sono infradicito tutto. Mi fa male la schiena ed anche il sedere, vaffanculo. Non so cosa sia successo ma di sicuro è una cosa tremenda, qui è tutto bagnato ed io non so più dove sbattere la testa, e la voglia di piangere non è più nemmeno una voglia, perché sto piangendo davvero. Coi singhiozzi e tutto. È tremendo. Sono un cretino.
Mi sollevo sui gomiti e, già che ci sono, mi bagno pure lì. Questo fottuto frigorifero non voglio neanche provare ad aprirlo. Che esploda pure, se vuole. Fanculo lui e tutto il resto.
Mi trascino stancamente fino all’angolo più lontano della cucina, e se non divento un disgustoso ammasso di schifezze devo ringraziare solo Karima che passa lo straccio due volte al giorno. Mi raggomitolo contro la parete e chiudo gli occhi, perché tanto non vedo niente ed in ogni caso, anche se vedessi qualcosa, non mi andrebbe di guardarla.
Resto così non so per quanto tempo. Posso sentire solo i miei singhiozzi e i miei respiri strozzati. Sono esattamente il bambino per cui mi piace farmi passare. Non esiste un Bill Kaulitz più maturo, sono una stupida maschera da palcoscenico. Non c’è niente di maturo o di adulto, in me, e non ho la minima idea del perché Anis mi trovi attraente o possa desiderare di stare con me, difendermi o mettersi nei casini mentre lo fa. Non me lo merito. Non mi merito niente. Faccio schifo.
Quando sento le chiavi girare nella toppa e la porta aprirsi e poi richiudersi, vorrei davvero chiamarlo. Ma un po’ mi vergogno, un po’ ho paura di ciò che potrebbe dire, un po’ proprio non mi riesce di smettere di piangere, perciò rimango qui a singhiozzare come un deficiente e neanche mi muovo, anzi, stringo ancora più le ginocchia al petto, fino a scomparirmi dentro.
Un interruttore scatta a vuoto. Una volta, due volte.
- Ma che…?
La voce di Anis mi fa saltare in cuore in gola. Mi sento soffocare e tossisco un po’.
- Chi c’è? – chiede lui, il tono fermo e deciso col quale immagino sia pronto ad affrontare qualsiasi devastazione.
Ma eri pronto per una devastazione simile, Anis…?
- Sono io… - piagnucolo disperato, stringendomi nelle spalle, - Sono in cucina…
La gomma delle suole delle sue scarpe da tennis striscia sulle piastrelle in marmo misto e si muove velocemente nella mia direzione.
- Bill? – chiede dolcemente, - Piccolo, ma dove sei? Da quando se n’è andata la luce?
- Non se n’è andata… - continuo a piangere, mentre lui prova a far scattare l’interruttore della cucina, anche stavolta senza successo, - L’ho fatta andare via io… - motivo confusamente, raggomitolandomi a palla.
Lui ridacchia, un po’ incerto.
- Non sei affatto così brutto. – cerca di consolarmi, - Ma mi dici dove sei?
- Qua in fondo! – strillo istericamente, sollevando il capo e battendolo forte contro qualcosa che non voglio identificare. – Ahi… - mugolo, - Mi va tutto storto, è un disastro…
- Okay, senti, calmati. – dice lui, conciliante, - Vado a prendere una torcia. Non ti muovere.
E chi ci pensa. Rimango in silenziosa attesa del suo ritorno, e sollevo lo sguardo solo quando sento la luce giallastra e calda della torcia scivolarmi curiosamente sul corpo.
- Cazzo, piccolo, ma che è successo…? – chiede lui, fissandomi sgomento dalla porta della cucina, - Ma stai bene?
- No. – rispondo a bassa voce, tornando ad abbassare lo sguardo.
La torcia mi abbandona. Vaga intorno al mio corpo, davanti al frigo, sui fornelli.
- Non dirmi che hai provato a cucinare… - esala lui, senza fiato e senza muoversi.
Io non rispondo.
- Bill, dai. – mi richiama pazientemente, - Vieni qui. Su.
- No! – ripeto ancora, più deciso.
Non so cosa sto facendo. Mi sento una merda e basta.
Anis sospira ed evita la pozzanghera, raggiungendomi ed accucciandosi al mio fianco, stringendomi immediatamente fra le braccia. Mi ci sciolgo senza pensare, affondando nella felpa che ha il suo profumo ed è morbidissima, al contrario della merda che mette Tom e che mi irrita sempre il viso.
- Mi dici cosa è successo? – chiede dolcemente.
- Tu volevi il kebab! – rispondo ansioso, aggrappandomi con forza alla sua maglia.
- Aha. – annuisce, - Okay, è colpa mia?
- …vaffanculo.
Anis ride fra i miei capelli. Capisco che stava scherzando. Non è che non lo sapessi, ma la sua risata mi conforta, un po’.
- Senti, è tutto okay. Ci sarà stato un corto circuito. Adesso tu mi reggi la torcia e lo sistemiamo, d’accordo?
È carino che abbia usato il plurale. Voglio dire, io non sarò mai e poi mai in grado di riparare un guasto all’impianto elettrico, non so neanche cambiare le lampadine, voglio dire, non sono nato per fare cose simili!, ma è lo stesso carino che lui provi a farmi sentire parte di questa cosa.
- Ti tengo la torcia… - annuisco piano, rimettendomi in ginocchio e poi in piedi, mentre lui continua a sorreggermi come avesse paura di vedermisi sfaldare fra le mani.
Lascia la cucina e torna qualche secondo dopo con una cassetta degli attrezzi.
No, vorrei ripeterlo: una cassetta degli attrezzi.
C’è qualcosa che non sappia fare?
- Vieni qui, dai. Diamoci una mossa. – dice spiccio, afferrando quei millemila quintali di frigorifero e spostandoli come niente.
- Ma… è pesante… - commento annichilito.
- Ha le rotelle, sotto. – risponde lui con un mezzo sorriso, chinandosi sul pavimento. – Aspetta. – borbotta, - La maglia è nuova, non la posso distruggere così. – la tira via con un gesto accorto e immediato, e me la tende educatamente, - Reggi?
Prendo la maglia e gli pianto la torcia addosso.
- Sì, ma non negli occhi. – sorride lui, riparandosi dalla luce - Tanto vuoi guardare più in basso, no?
Arrossisco e gli punto effettivamente la torcia sul petto.
- Ma la smetti di fare il cretino? – ride ancora, ed io non posso fare altro che seguirlo. – Puntamela qui sulla presa. – ordina poi, tornando serio. Io ubbidisco e lo sento mugugnare. – Eh, infatti, guarda, è perché s’è bagnato tutto. Magari dentro non s’è neanche bruciato. Il salvavita in teoria dovrebbe scattare prima. Mi passi il cacciavite a croce?
- Il che…? – chiedo, un po’ disorientato. Mi fa stranissimo sentirlo parlare così. L’uomo del ghetto, voglio dire. Ma com’è che non lo prendono a calci dalla mattina alla sera, quelli della crew? Io lo farei. Chakuza, che è un peluche, in confronto mi sembra un vero uomo di strada, al momento.
- Lo riconosci subito. – dice lui senza scomporsi, - Ha il manico rosso e giallo, è praticamente fosforescente.
Facilmente individuabile al buio. Sono ufficialmente sconvolto.
Lui stacca la presa, la apre, la tasta un po’.
- Sì, è bagnato ma non è andato in corto. – si volta e mi sorride. Io non lo vedo, perché la torcia è di nuovo puntata altrove, visto che la presa e gli addominali sono troppo vicini per puntare una ed ignorare gli altri, però lo sento lo stesso. – Siamo stati fortunati. – decreta alla fine, - Questa la lasciamo asciugare tranquilla ed ora riattacchiamo la luce. – annuisce e si rimette in piedi. Io me lo ritrovo improvvisamente a due centimetri dal mio corpo, mezzo nudo, lievemente sudato e coi pantaloni fradici d’acqua.
Non so come faccio a resistere alla tentazione di schienarlo e farmi scopare ora e subito.
- Passato lo spavento? – chiede, inclinando lievemente il capo.
Io annuisco senza neanche respirare.
- Perfetto. – annuisce anche lui, - Aspetta qui, vado a riattaccare l’interruttore principale.
Fa per muoversi e lasciare la cucina. Lo afferro per la cintura e lo tengo fermo.
La torcia cade a terra, per un qualche miracolo non si rompe e rotola oltre il suo corpo, proiettando le nostre ombre sulla parete di fronte.
Non dico niente. Socchiudo gli occhi. La sua ombra si china sulla mia e poi mi sento addosso le sue labbra.
- La luce può aspettare. – sussurra contro il mio collo.
Sorrido e mi lascio sollevare sul tavolo.

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Gegen Meinen Willen

di tabata e lisachan
Io mi chiamo Tom Kaulitz e in questa storia di me non sentirete parlare.
Forse vi hanno abituato a sentire il mio nome affiancato a quello di mio fratello ma la mia presenza, negli eventi che seguono, non è rilevante. Io con Bushido e con Bill non c'entro niente. L'Esguterjunge e l'Aggro Berlin erano e sono rimaste per me soltanto due etichette che sfornavano buona musica. Del loro incontro, del loro stupido fidanzamento e della catastrofe che ne è conseguita io non sono che uno spettatore, e neanche uno dei più attivi. Non sono mai stato d'accordo con Bill per le scelte che ha fatto e i fatti, alla fine, mi hanno dato ragione. La sua storia con Bushido è durata un anno. Adesso, qualche mese dopo la sua morte, Bill è un mucchio di cocci rotti che non sa rimettersi insieme.
Ovviamente, l'inizio di questa storia non coincide col momento in cui essa è iniziata per me. Bill e Bushido stavano già insieme da un sacco di tempo prima che io venissi a saperlo, ma dei mesi che hanno preceduto la mia scoperta della faccenda non mi interessa. Anzi, non voglio proprio saperne niente. Bill ha cercato tante volte di raccontarmi, ma non gliel'ho mai permesso.
Non voglio sapere come sia stato possibile che uno come Bushido sia finito a farsela con mio fratello. Non voglio sapere cos'ha provato Bill a baciare - o qualsiasi altra cosa - un altro uomo. Io voglio bene a Bill e lo accetto per quello che è. Ma i dettagli no, grazie.
Dunque, ricordo molto bene il giorno in cui tutto questo è iniziato per me. Me lo ricordo per due motivi precisi: il primo è che non vedevo mio fratello da una settimana; il secondo è che se tuo fratello ti dice, tutto in una volta, che è omosessuale e si scopa il tuo cantante preferito, te lo ricorderai a vita. Ve lo assicuro.
Io e Bill abbiamo appuntamento in questo ristorante che io adoro, ed è una specie di RoadHouse americana dove servono bistecche grosse come cavalli. Dovrei sapere che quando Bill si offre di pagare e acconsente a pranzare in un posto del genere deve farsi perdonare qualcosa ma in quel momento non ci penso. E non ci penso perché Bill è appena tornato da chissàdove. Non ha voluto dirmi dove andava quando è partito sette giorni fa, e nonostante mi telefonasse quattro volte al giorno, tutti i giorni, si è sempre rifiutato di dirmelo. Così, quando lo trovo già seduto ad un tavolo in quel cazzo di ristorante, non vado a pensare che abbia prenotato e mi offrirà il pranzo perchè nasconde qualcosa. Cioè, lo penso, ma me ne frego.
Bill se ne sta seduto in un angolo dell'enorme sala del ristorante. Sta giocando distrattamente con la forchetta, facendo le righe sulla tovaglia. E' un po' nervoso, lo vedo da come ciondola i pedi. Sorrido perchè quando è solo Bill non ha la minima percezione di se stesso ed è bello da guardare. Non è in posa. Rimango accanto ad una colonna, seminascosto e lo osservo mentre gioca con una ciocca di capelli e poi se la sistema dietro un orecchio. Col fatto che sono sette giorni che non lo vedo, mi batte forte il cuore.
A me batte sempre forte il cuore quando non ho Bill accanto a me, mi manca l'aria; e non perchè io lo ami in quel senso, o puttanate simili. E che penso che per un lungo periodo di tempo non ce l'ho avuto sotto gli occhi e non avrei potuto farci niente se gli fosse successo qualcosa. Ho paura. E quando posso rivederlo, toccarlo e abbracciarlo di nuovo tiro un sospiro di sollievo, perchè a quel punto niente può più andar male. In realtà sì, ma non è questo il punto.
Che poi non è proprio un pensiero cosciente, è più una sensazione. Dal momento che non abbiamo mai davvero bisogno di parlare, il mio rapporto con Bill è fatto di sensazioni. Io percepisco quello che prova in qualche modo che ovviamente non so spiegare, ma c'è. E' lì.
Ed è lo stesso tipo di capacità che permette a lui di sentire che io sono arrivato. Difatti si gira e mi sorride. "Tomi!"
Faccio finta di non essere così estremamente felice di vederlo che lo stritolerei in un abbraccio e non lo lascerei più andare. Lo voglio intensamente ma Bill se n'è andato senza dirmi dov'era diretto - in altre parole: mi ha mollato a casa come un cretino - quindi sarò felice di vederlo, ma non lo coccolerò come ho intenso desiderio di fare. Si merita almeno una punizione. Quando si alza e mi si stringe addosso, però, tutti i miei buoni propositi vanno alle ortiche. Il mio fratellino è qui, non è finito in un fosso senza un rene. Non. Importa. Nient'altro. Lo stringo fortissimo e gli piazzo un bacio sulla guancia, tanto nel ristorante non c'è quasi nessuno e poi non me ne frega un cazzo. Bill non è nemmeno passato da casa quando è sceso all'aeroporto. Mi ha dato appuntamento direttamente qui. Io non ho avuto modo di sdarmi in smancerie, quindi lo faccio adesso. E chi se ne frega.
"Dove sei stato?"
"Tomi!" Miagola lui e sbuffa, tornando a sedersi.
"Non cominciare. Sei stato via una settimana," dico imitandolo. "Avresti almeno potuto avvertirmi."
"L'ho fatto," risponde. "Ti ho detto che andavo via."
"Ah beh allora!" Commento sarcastico. La cameriera ci porta i menu e io lo apro, sfogliandolo distrattamente. "Potevi essere chissà dove!"
"Non sono andato molto lontano," mormora. Sollevo gli occhi e vorrei essere arrabbiatissimo, ma lo fa anche lui e mi stende. Bill quando vuole è un maledetto bastardo, conosce tutti i miei punti deboli. E lui che mi fa gli occhioni è un punto debole. Questo perché Bill sa che mostrarsi incredibilmente fragile e delicato fa leva sul mio senso di protezione.
"D'accordo, non fa niente," cedo alla fine, scuotendo la testa. "Se avevi bisogno di levarti dalle palle per un po', non sarò certo io a dirti che non potevi farlo; però mi hai sempre detto dove andavi. Anzi, ci andavamo insieme."
Si morde un labbro e abbassa di nuovo lo sguardo, quindi sospira.
"Volevo dirtelo, Tomi, davvero. E' solo che è successa una cosa e io dovevo rifletterci sopra."
"Che cos'è successo?"
Lui sorride. "Prima mangiamo, va bene?"
Lo fisso negli occhi e cerco di trovarci la risposta che mi serve. Non posso leggere nella testa di mio fratello, ovviamente, ma sono bravo a cogliere le sfumature delle sue espressioni. Per esempio, adesso so che è nervoso e preoccupato, quindi teme la mia reazione. Qualsiasi cosa sia successa, forse non è grave in generale, ma di certo avrà un forte impatto su di me. Comunque so che non devo metterlo sotto pressione. "Va bene," dico. "D'altronde mi stavo giusto preparando la salsa prima che tu mi chiamassi dall'aeroporto."
"La salsa senza di me?" Chiede oltraggiato lui, spalancando gli occhi e poi scoppiando a ridere.
Rido anche io e poi ordiniamo.
Mi faccio portare un piatto di carne bello sostanzioso perchè so che mi aspetta qualcosa di assurdo. Bill non ha mai fatto un colpo di testa simile, di andarsene senza lasciare tracce. Deve passargli qualcosa di grosso per la testa. Lui, comunque, mangia almeno quanto me. Segno che gli serve coraggio, o che sta prendendo il tempo, il che un po' mi fa ridere e un po' m'innervosisce. E' quando arriva il dolce che gli chiedo: "Allora?"
Lui annuisce e butta giù il pezzo di cheescake. Si pulisce la bocca e poi si tortura le mani. "Sai tutte quelle cose che mi dicono sempre?"
"Quali cose?"
"Su di me, sul fatto che io sia..." si stringe nelle spalle.
"Gay?" Concludo per lui e, quando annuisce, aggiungo: "Stai ancora dietro a quello che dicono? Fregatene. Lo sappiamo che non-"
"Lo sono." Mi fissa.
Sono ancora a metà della frase precedente, ho la bocca aperta, la mano in aria che si agita. "Cosa?" Mi esce fuori una specie di lamento strozzato, come se mi fosse rimasto incastrato un pezzo di pane in gola. Tossisco, mi batto anche. "Come?"
"Io sono gay," sussurra.
D'accordo, mi aspettavo che fosse una cosa grossa; ma non così grossa. Cioè, cosa diavolo significa che lui è gay? Lui non è gay. E' mio fratello! "Bill che cosa stai dicendo? Sei... sicuro?"
Lui sorride, un po' imbarazzato. "Tu cosa ne dici?"
"Non lo so!" Mi agito. Lo so che mi agito e non vorrei. Inizio a muovere le braccia ovunque quando sono agitato, sembro un pazzo. "Magari credi di essere gay. Magari è una fase, poi ti passa. Insomma, quelle cose lì. Siamo adolescenti, no? Sei solo confuso."
Scuote la testa. Dio, la scuote. Dovrebbe dirmi Sì, hai ragione Tomi. Dev'essere come dici tu e invece scuote la testa. "Ci penso da tanto sai?" Sbatte gli occhioni. "Non è una cosa che ho scoperto l'altro giorno. E poi sono successe delle cose. Volevo dirtelo subito ma..." sospira. "Avevo paura che non l'avresti presa bene."
Vorrei chiedergli quali cose sono successe, ma non lo faccio.
Bill aveva paura di non essere compreso. Da me. Scherziamo? Io sono il suo gemello. Il solo fatto che abbia anche solo vagamente pensato che non avrei capito è un fatto gravissimo che cancella tutto quanto il resto. Io sono Tom Kaulitz. Io sono suo fratello gemello. Qualunque cosa mi dica, io sono con lui. Lo vedo che tiene gli occhi bassi e si guarda le mani. "Ok, ok non importa. Bill, guardami." Mi affretto a dire. E lui alza la testa. "Senti, va bene. Insomma, non è niente di che, d'accordo? Io ti voglio bene lo stesso."
Lui mi guarda.
"Dico davvero," annuisco. Sto mentendo spudoratamente. Io non voglio che mio fratello sia gay. Ma non voglio neanche che pensi che non lo accetterò per quello che è perchè, cazzo, non è così. E' Bill, lo accetterei in qualunque modo. "Non ha nessuna importanza. Io... sono contento che tu me lo abbia detto."
Mi fissa ancora per un po' e poi sorride. Il suo sorriso, quello bello, chiaro e solare che illumina tutta la stanza. Quello di mio fratello. "Grazie Tomi, sapevo che avresti capito."
Eh, capito un cazzo.
Non faccio neanche in tempo a recuperare quel poco di cervello che avevo e che mi ha letteralmente disintegrato con questa splendida bomba, che me ne tira subito un'altra. "Io sono... innamorato di una persona."
Ok, questa è più difficile. Insomma, voglio dire, è la solita storia: finchè il discorso si fa in generale, non ci sono problemi. Gli omosessuali? Io non ho nessun problema con gli omosessuali. Io sono una persona con la mente aperta. Però se penso che c'è uno che vuole mettere le mani addosso a mio fratello, mi viene voglia di spaccargli la faccia; se poi penso che Bill mi sta dicendo che quelle mani addosso le vuole, mi viene da spaccare la faccia anche a lui. E non posso. No, Tom, non puoi proprio, mi dico. Bill ti sta confessando la cosa più importante della sua vita e tu non puoi mollarlo lì così solo perchè il tuo cervello fatica ad ingranare.
"D-davvero?" Butto lì, cercando di essere disinvolto. Mi verso un bicchiere d'acqua che basterebbe ad annegarmi. "E' qualcuno che conosco?"
Lui annuisce. Un po' sorride, ma è nervoso. Comunque lo sa che la situazione non è ancora esattamente stabile. Mi sembra che stiamo entrambi camminando su un tappeto di uova, neanche troppo sode. "... Sì."
A questo punto ci sono due opzioni.
O si tratta di Andi, e giuro su mia madre che se ha toccato Bill più del dovuto prima che io gli dessi la mia benedizione lo faccio a pezzi. Oppure è Georg, che fino a ieri non era gay; ma non lo era neanche mio fratello. E se Bill dice che lo conosco, e non è Andi, allora non può essere che Georg, che con quella piastra per capelli un po' di dubbi me ne ha sempre fatti venire. E per quanto sia il mio migliore amico non uscirà vivo dal tourbus.
Ovviamente non mi fermo neanche lontanamente a pensare che forse - forse - magari i due non hanno affatto circuito mio fratello. Non me ne frega niente di questa possibilità. Nè Andi nè Georg dovevano permettersi di... permettersi di cosa? Andare con mio fratello se mio fratello voleva? Cristo, che casino. "Chi è?"
"Prometti che non ti arrabbierai?"
Quindi è Andi. "E' Andi?" Lo ammazzo. Probabilmente gli andava dietro da anni, avrà giocato sul fatto che Bill dice di non fidarsi delle fan perché amano la maschera pubblica e non lui. Lo avrà intortato con le cazzate, Andi è bravo a parlare. In effetti non ha mai veramente detto di essere gay, ma lo abbiamo sempre pensato tutti, aspettavamo solo che trovasse il coraggio di uscire dall'armadio. Certo poteva evitare di uscirci a braccetto con mio fratello! Che cazzo!
Eppure era chiaro, si comportavano allo stesso modo. E alla fine che Bill sia davvero gay non è poi questa novità sconvolgente. Ok, non l'ho presa bene, ma cioè... non è come se me lo dicesse Gustav, per dire. Che poi è il motivo per cui non penso si tratti del mio batterista. Gustav non potrebbe mai essere gay. E' Gustav!
Intanto, mentre sono perso nel mio delirio, mi rendo conto che Bill mi sta parlando e lo guardo, seguo il labiale dal momento che i miei pensieri stanno coprendo la voce. "No, non è Andi," dice.
"Georg?" Sbraito allora. Tutto ciò non è davvero possibile. "Dio Mio, come puoi essere innamorato di Georg? Non si ama nemmeno lui, guarda come va in giro!"
"Cosa c'entra Georg? Non sapevo che fosse gay," commenta lui.
"Non lo è!" Replico. "O almeno non lo so, chi se ne frega! Non è Georg?"
"No."
A quel punto mi trovo un pò spiazzato. Se non è nè Andi nè Georg, direi che non so proprio di chi si possa trattare e che io lo conosca, sinceramente, mi pare un po' improbabile. Continuo a guardare mio fratello in attesa di delucidazioni. Lui si morde nervosamente un labbro. "Tom, prometti davvero che non ti arrabbierai?"
"Perchè dovrei farlo?"
"Perchè è un po' più grande di me," risponde.
"Un po' quanto?"
"Un po'," insiste. Allunga un braccio sul tavolo a cercare le mie dita e le stringe. "Ma è davvero una persona fantastica."
D'accordo, questa persona fantastica verrà investita dall'Escalade, alla guida della quale ovviamente ci sarò io. Chiunque egli sia. Che poi, se ci penso, l'unica persona che racchiude in sé tutte le caratteristiche - gay, che io conosco, più grande di Bill - è David. E io voglio sperare, per il mio manager soprattutto, che non sia lui perché altrimenti scorrerà il sangue. E no, non sarò io a tirargliele. Pagherò qualcuno più grosso e più incazzato di me. Offenderò delle madri a nome suo, se necessario.
Solo che Bill non mi dà il tempo. Non mi dà il tempo di chiedergli se si tratta del nostro manager, non mi dà il tempo di prepararmi. Apre la bocca e lo dice.
"E' Bushido."
In quel preciso istante le lettere che compongono il nome del rapper più famoso della Germania non trovano un senso nella mia testa. Bill deve aver cambiato discorso mentre ero perso tra le mie paranoie. "Cosa c'entra Bushido?"
"E' lui," dice. "Mi sono innamorato di lui."
Mi vengono a mente le cose che Bushido ha detto a mio fratello nelle varie interviste. L'ultima, neanche tanto tempo fa, era assolutamente indecente. Solo che questo fa parte dello spettacolo, è il suo modo di fare. Sono dei gran coglioni all'Eguterjunge: Bushido tratta Kay-One come se fosse il suo cagnolino da compagnia...
"E' per via di quello che ha detto?" Chiedo. A volte Bill è così ingenuo che-
"Siamo andati a letto insieme."
"Cosa?"
A quel punto mi aspetto da lui qualunque cosa, prima fra tutte quella che neghi. Che rida e mi dica che mi sta prendendo per il culo. Bill può essere una merda, quando vuole. Può tirarti scemo e farti lo scherzo più stronzo del mondo e poi continuare a ridere anche quando tu ne hai avuto abbastanza e preferiresti piantarla lì. Ci sono certe volte che ti viene da picchiarlo da quanto fa il cretino. Però questa volta proprio non ride, neanche un secondo. "Bill, cosa cazzo stai dicendo?"
"E' successo tre mesi fa."
"Tre mesi... tre mesi fa?" Sono fuori di me, solo che non sono mai stato il tipo da urlare. Batto un pugno sul tavolo che ribalta sia il mio che il suo cucchiaino. "Tre fottuti mesi fa? Cosa aspettavi a dirmelo? Chi cazzo lo sa?"
"Nessuno," poi ci ripensa. "David."
"David," mi sento scemo a ripetere tutto quello che sento ma se dicessi quello che mi passa per il cervello, finirei per litigare con lui. Che poi, cazzo, ci voglio litigare. Ho tutto il diritto di litigare con lui perchè se ne sta lì seduto, dopo una settimana che non lo vedo, dopo tre mesi di puttanate in cui mi ha nascosto una cosa del genere. Vaffanculo, Bill. "Avresti dovuto dirmelo."
"Non volevo dirtelo finché non era una cosa sicura."
"Perchè avete intenzione di sposarvi?" Esclamo sarcastico. "Oppure stavi solo aspettando che ti scopasse per dirmelo? Come funziona fra voi?"
Bill serra le labbra in una linea sottilissima, lo vedo stringere il tovagliolo con forza; però non ho voglia di ragionare. Non ho proprio un cazzo di voglia di rimanere seduto a questo tavolo e razionalizzare quello che Bill si è premurato di farmi sapere tutto quanto insieme.
Allontano con forza la sedia dal tavolo e mi alzo senza dirgli una parola. Lo sento vagheggiare alle mie spalle ma non mi volto. In questo preciso istante non voglio saperne niente di lui. Capita di rado che non m'importi di Bill ma quando succede è una cosa violenta. Esco dal ristorante senza guardare in faccia nessuno e raggiungo la macchina.
Apro la portiera quasi scardinandola e so di avere lo sguardo fisso del pazzo. Sto per fare qualcosa che mesi fa pensavo impossibile. Recupero il porta-cd, che fra l'altro è nero con dei disegni tribali, una roba che poteva regalarmi soltanto mio fratello, e comincio ad estrarre ogni singolo cd di Bushido che possiedo. Tutti. Gli originali, i masterizzati, le B-side, qualunque cosa contenga anche una sola delle sue canzoni. Li getto a terra di fronte all'Escalade, velocemente ma con soddisfazione. Ogni volta che ne cade uno sull'asfalto sento un moto di gioia sadica. Ora come ora penso che sono stato un cretino, in quel preciso momento penso che questa è la cosa più vicina a Bushido su cui posso passare sopra con la macchina.
Risalgo in auto e vedo Bill in lontananza uscire dal ristorante. Sento che mi chiama, ma io sono troppo impegnato a disintegrare i cd del suo fottuto amante con le ruote della mia Escalade. Sono talmente incazzato che sto andando avanti e indietro con la portiera ancora aperta.
"Tom!" Mi si piazza davanti al cofano, col rischio che metta sotto anche lui.
"Bill, levati di lì"
"No."
Lo metto sotto, penso esattamente questo. Ora premo l'acceleratore e lo metto sotto. Fine di Bushido. Fine di mio fratello. Ma, soprattutto, fine di Bushido che si fotte mio fratello. Faccio pure per mandare avanti l'auto e lui piazza entrambe le mani sul cofano. "Tomi, aspetta!"
Stringo le mani intorno al volante, inspiro ed espiro. Poi ringhio perchè tanto l'ha sempre vinta lui. "Che cos'altro devi dirmi?"
Fa il giro dell'auto, tenendoci sopra una mano e guardandomi dritto negli occhi. Quindi sale, si chiude dietro la portiera ed espira. "Non volevo che andasse così."
"Così come? Con te che sei gay e ti scopi Bushido?"
Lo vedo stringere le mani a pugno e la cosa un po' mi sorprende perchè di solito Bill scatta e basta, non ragiona. E' isterico. Si fa sempre come dice lui e basta. Questa volta no però, e il fatto che non si comporti come il solito Bill mi innervosisce perchè è come se volesse dimostrarmi che sta facendo la persona adulta, mentre io no.
"Tom, è una cosa importante," prova a dire. Alza lo sguardo su di me e ha quegli occhioni da cerbiatto di nuovo. "Lo so che ci sei rimasto male, e mi dispiace."
"Non abbastanza," ritorco.
"Che cosa avrei dovuto fare?"
"Dirmelo."
"Mi dispiace," ripete. "Ma sapevo che l'avresti presa così. E poi non ero sicuro.. è stato tutto un casino."
"E' stato?"
"E'. E' un casino," precisa. Poi sospira. "Non volevo tagliarti fuori, avevo soltanto bisogno di tempo."
"Tempo per trasformare uno rapper perfettamente normale in una checca," esplodo. E lo sguardo che mi lancia è così assurdamente incredulo che per un istante mi viene quasi da ritirare tutto. Poi penso che mio fratello se la fa con Bushido - Bushido, capite? - e la rabbia mi prende alla gola di nuovo. "Che cazzo! Sei infettivo!"
"Io... cosa?"
"Fino a qualche mese fa, a quello piacevano le ragazze!"
"Quello, come lo chiami tu, ha dichiarato di voler far sesso con me di fronte a milioni di spettatori," mi ricorda. "O te lo sei dimenticato?"
"Scherzava, Cristo! Faceva parte del personaggio!"
"Quel personaggio già veniva a letto con me quando diceva quelle cose, come la mettiamo?" Mi urla contro. "Io e Bushido stiamo insieme da molto prima!"
Rimango pietrificato. Il mio bel mondo dorato si frantuma in tante piccole schegge e su ogni scheggia c'è il viso di Bushido, serissimo. E lì tutta la rabbia che ho dentro esplode, o lo farebbe se non me ne andassi. Tutto si concentra in un'unica lunga sequenza di follie: il mio mito non è un mito proprio per un cazzo, e mio fratello è frocio, e io non l'ho saputo finché ormai non era troppo tardi. Tardi per cosa non lo so, ma di certo è tardi. E io sono incazzato nero. "Scendi."
"Cosa?"
"Scendi, porca puttana!" Grido. "O oltre ad essere un maledetto frocio, hai anche perso l'udito?"
Bill fà come gli ho detto. Scivola giù dall'Escalade e chiude la portiera, quasi delicatamente. Non mi fermo a guardarlo perchè so che mi fermerei. So di avergli detto delle cose orrende, so che dovrei scusarmi, ma non voglio. E' il mio momento di ribellione.
Se sta male, sono contento.
Le cose, comunque, non migliorano nei mesi successivi. Bill sembra non essersela presa affatto per quello che gli ho detto e vuole a tutti i costi che accetti questa relazione. Credo che lo faccia perchè, in effetti, non è mai succeso che uno di noi due prendesse una decisione senza l'approvazione dell'altro. Quando voglio qualcosa chiedo sempre a Bill cosa ne pensa e, se a lui non sta bene, allora non sono più tanto sicuro di volerla.
Forse sono arrabbiato anche per questo: io non voglio che lui si faccia scopare da Bushido, eppure questo non gli impedisce di sparire ogni volta che può e passare giorni interi murato vivo in casa di quell'uomo. Vuole che io sia felice della sua scelta, lo vuole disperatamente, ma se io non lo sono non sembra aver comunque intenzione di rinunciare a Bushido.
Questo dovrebbe darmi un'idea di quanto ci tenga, naturalmente, ma è chiaro che in quel momento non me ne frega niente. Per me Bill sta solo facendo una grandissima stronzata e si ostina a non darmi retta per il solo gusto di farlo. E se pensa che cambierò idea, si sbaglia.
Le cose continuano ad andare sempre peggio, principalmente perchè io non voglio che migliorino. Non voglio che lo porti a casa. Non voglio che me ne parli. Non voglio vederli insieme. Più Bill prova a parlarmene, meno voglio starlo a sentire. E lo so che sto facendo gratuitamente lo stronzo ma mio fratello deve farsi perdonare ancora un mucchio di cose, prima fra tutte il fatto che David lo abbia saputo prima di me.
Questo non mi va giù. Bill è mio fratello, avrei dovuto saperlo per primo. Dentro di me sono ancora convinto che se lo avessi saputo prima, avrei potuto impedire questa catastrofe. Perchè è così che la vedo io: come un disastro naturale di proporzioni epiche. E mi sono anche convinto di come sono andate le cose: Bill è finalmente venuto a patti con la propria sessualità e Bushido se n'è approfittato. Lo ha blandito con due moine, lo ha fatto sentire il centro del mondo - e Dio solo sa se Bill è egocentrico - e gli ha fatto due o tre regali, solo per portarselo a letto, ovviamente. Magari si è anche vantato con quelli della sua crew.
Le donne nel mondo del rap non contano un cazzo (okay, Bill non è una donna ma è come se lo fosse perchè se mi viene a dire che è lui a farsi Bushido, allora ho un problema molto più grave), io lo so. Mia madre odia il rap per questo, dice che le donne vengono trattate come pezzi di carne. E ora quel pezzo di carne è mio fratello. E io dovrei lasciarglielo così, senza dire niente? Già immagino quando Bushido si stancherà di lui e lo scaricherà così come lo ha tirato sue e di mio fratello non rimarrà che un mucchietto di pezzi rotti sul pavimento.
Bill non va a letto con la gente se non s'innamora prima. Quindi adesso ho un fratello innamorato di uno che se lo scoperà finchè non gli sarà venuto a noia. E poi tanti saluti, torna da dove sei venuto. E poi toccherà a me rimetterlo insieme, e mi dirà che è stato un cretino, che avrebbe dovuto capirlo. E io non potrò dirgli sì, è vero, sei stato un cretino. Dovrò consolarlo e basta; tenermi per me i miei 'te l'avevo detto'.
E poi Bushido ha quasi 30 anni: è indecentemente troppo vecchio per Bill.
Non so neanche per quale motivo odiarlo di più: se perché mi ha deluso profondamente come idolo o perché per farlo ha usato mio fratello. Vorrei dirgliele tutte queste cose e Bill deve captare una volta di più il vorticoso roteare dei miei neuroni perché una mattina entra in camera mia e ha sulle labbra il sorriso tirato che esce sempre quando fra di noi c'è una tensione irrisolta e lui non sa come reagirò.
La sera prima abbiamo litigato selvaggiamente, con tanto di piatti e padelle che volavano da tutte le parti, finchè io non l'ho insultato come non avevo mai fatto prima. Come un bambino di otto anni mi sono attaccato alle cazzate e gli ho dato della troia, insinuando che con ogni probabilità se la fa un po' con tutti quelli della crew, non solo con Bushido.
Sono geloso del tempo che passa con quella gente, in posti in cui io non posso essere. Non so quello che fa, non so quello che gli succede e non voglio farmelo dire. E' una situazione di merda.
Lui a quell'affermazione si è morso soltanto un labbro e mi ha mormorato che lo sapevo che non era vero. E infatti lo so. Bill non lo farebbe mai. L'ho detto solo perchè sono incazzato. Mi sento in colpa per le parole che mi sono uscite di bocca ma non ho intenzione di cedere, nè di ritrattare.
Però, quando entra nella mia stanza e mi dice che vorrebbe che ci incontrassimo - io e Bushido -, che se ci parlassi capirei che sto sbagliando, alla fine cedo. Cedo perchè mi sento in colpa e perchè in fondo voglio proprio parlarci con questo pezzo di merda. Voglio chiudere questa storia e riprendermi mio fratello.
Secondo la mia logica, Bushido non ha alcuna ragione di esistere vicino a mio fratello perché è un uomo e perchè è Bushido. E se potrò, un giorno, venire a patti col fatto che sia un uomo, non potrò mai venire a patti col fatto che sia Bushido.
Dal momento che lui è il King of Kingz e io sono solo il gemello della sua stramaledetta fidanzata, devo incontrarlo a casa sua. La casa di Bushido è una specie di reggia color giallo limone e ovviamente non ci vive da solo. Dentro ci trovo tutta la crew - fino a qualche tempo fa incontrarli era un mio sogno, ora farei ben a meno di loro - e ci trovo mio fratello che fa la sua figura, in piedi dietro Bushido, come si addice alla donna del capo.
Questa cosa non inizia affatto bene.
Bushido è seduto su una poltrona di pelle e mi guarda, non sembra nè divertito nè incazzato. E' perfettamente a suo agio, e la cosa è irritante. Mi chiedo come ho fatto a voler comprare tutti i suoi cd. Rimpiango di essere stato a due sue concerti. Lo odio.
Bill semba nervoso, si sistema una ciocca di capelli dietro l'orecchio e poi mi fa cenno di sedermi su un'altra poltrona. Questo salotto sembra l'interno di una tenda araba. Alchè il fatto che Bushido sia mezzo tunisino acquista improvvisamente un senso. Ci sono cuscini ovunque, anche per terra, e un basso tavolino con sopra un narghilé. L'idea di mio fratello vestito da odalisca mi balena nel cervello e mi viene voglia di vomitare.
Si siede sul bracciolo della mia poltrona e mi sorride. "Grazie per esser venuto," sussurra.
Io non gli rispondo, intanto una cameriera entra e ci serve dei pasticcini e del té, credo.
Non che abbia voglia di mangiare. L'ospitalità è comunque notevole. Quindi mi arrabbio di più. Bushido si sporge e mi tende la mano: al polso ha un orologio che costa all'incirca come la mia auto; si vede che gli piace sfoggiare le sue cose. "Tom, è un piacere rivederti."
"Non posso dire altrettanto."
Vedo Bill irrigidirsi. "Tom," sibila.
Bushido alza una mano. "No, va bene. E' normale che ce l'abbia con me," esclama.
E riesce a farsi odiare in maniere che non credevo possibili. Sento una linea netta che separa me da tutti i presenti e all'improvviso credo che avrei dovuto portarmi dietro Gustav e Georg. E magari anche Andi. Mi piacerebbe far sentire Bill come mi sento ora io: messo da parte. Vorrei che provasse questo. Adesso ha gli uomini del suo uomo a spalleggiarlo, vorrei vederlo al mio posto. Vorrei ridere. "Serviti pure," mi indica il vassoio dal quale gli altri della crew stanno prendendo cibo senza problemi. Incontro lo sguardo di Eko Fresh che ha in bocca due pasticcini e ne tiene un terzo in mano. Mi guarda come un topo appena sorpreso a rubare del grano. Chakuza gli dà una di quelle pacche sulla schiena che penso gli abbia smontato i polmoni.
Tutto questo è assurdo. Io non dovrei essere qui. Bill non dovrebbe essere qui. E tutta questa gente dovrebbe essere su un palco a cantare. Invece mangiano i pasticcini tunisini.
Ad ogni modo, non m'interessa se Bushido mi offre da mangiare o fà il grand'uomo in casa sua. Non ho intenzione di farmi incantare. "Che intenzioni hai con Bill?"
"Tom!" Bill scatta isterico.
"Mi hai detto che dovevo parlarci, giusto? Bene. Allora voglio sapere questo," mi volto di nuovo verso Bushido. "Che cosa credi di fare con mio fratello?"
"Io amo Bill," mi dice lui, senza scomporsi di una virgola.
"E ti aspetti che io ci creda?"
Bushido scrolla le spalle. "No e neanche m'interessa," risponde. "Non ho nessun bisogno che tu mi approvi, Tom. Se ho accettato di discuterne è solo perché Bill ci teneva ma so già che qualunque cosa io ti dica, tu non sarai d'accordo."
"Hai la coda di paglia."
"No, ho 30 anni mentre tu ne hai 19, e so molte più cose di te." Mi guarda, forse per vedere come reagisco, ma io tengo duro. Alla fine sospira. "Senti lo so che ce l'hai con me perchè mi vedi come una minaccia, ma ti assicuro che non lo sono."
"Bill non è roba per te."
"Lascialo decidere a lui," replica.
Ci guardiamo a lungo, in silenzio. Con la coda dell'occhio vedo gli altri che sono rilassati quanto lui, con i loro pasticcini e il loro té, ma sono pronti a scattare ad un suo cenno. Vorrei menare le mani, non l'ho mai fatto in vita mia ma mi viene voglia di farlo adesso, solo che lui non me ne dà la possibilità. Rimane serio e controllato. Mi usa il tono da paternale.
"Tu vuoi bene a tuo fratello e vorresti proteggerlo. Lo capisco questo, ma non c'è niente al mondo che mi spingerebbe a fargli del male."
"Stronzate!" Esclamo, stringendo le mani a pugno. "Cosa succederà quando ti stancherai di lui?"
"Tomi, adesso basta!" Esclama Bill.
"Non lo farò," mi guarda dritto negli occhi. Ignoriamo entrambi Bill, come se non esistesse e una parte di me neanche troppo nascosta sa che questo significherà danno tra qualche minuto. Bill odia essere ignorato. "Puoi arrabbiati se vuoi, va bene, è un tuo diritto, ma non ti aspettare che le cose cambino semplicemente perchè sei venuto qui a battere i piedi. Tu non sei mai stato un ostacolo."
"Anis!" Grida Bill.
"Oh sarò un ostacolo eccome, stronzo," a quel punto sbotto perchè se qui c'è qualcuno che gli romperà le palle, e gliele romperà anche bene, quello sono io. Nessuno mi porta via mio fratello, nemmeno i miei che divorziano, figuriamoci un mezzo-tedesco saltato fuori da due stradine luride a cantare cazzate. E divento anche razzista, già che ci siamo. "Scommettiamo che le dichiarazioni che hai fatto sono passabili legalmente?"
Mi alzo, si alzano tutti. Bushido no, però.
"Avanti fà pure," mi dice.
"Adesso basta!" Bill esplode e usa tutta la voce che possiede, ed è tanta. Ci guarda entrambi, e ha lo sguardo di nostra madre quando è veramente molto arrabbiata. "Tom, non ho bisogno che tu mi difenda, davvero, soprattutto quando non sono minacciato. Ti ho chiamato per ascoltare non per offendere. E Anis-"
Bushido lo anticipa. "Bill ha ragione. Non ci siamo comportati da persone civili. Tom, vogliamo ricominciare da capo?"
Cala il silenzio e la crew è un po' vagamente allibita. Credo che Bill non abbia mai urlato da quando è qui. Non di fronte a loro, le loro facce mi dicono questo e anche altro. Questi qui non hanno idea di che vipera diventi mio fratello quando vuole, altro che geisha servizievole.
Bill mi guarda così male che mi viene praticamente naturale non provarci nemmeno ad essere conciliante. "No, non vogliamo," rispondo. "E ora che ho fatto i conti, so che potrei denunciarti per molestie sessuali ai danni di minore, stupro, plagio mentale. La lista è molto lunga," pausa. Lo guardo negli occhi e perdo definitivamente la testa. "Pedofilo di merda."
A quel punto c'è una stasi. A ripensarci ora è una roba da film ed è divertente, in quel preciso momento lo è un po' meno. Solo che non ci penso perchè comincio a dubitare di me stesso, soprattutto, comincio a credere che forse anche questo gruppo di mangiatori di pasticcini tunisini potrebbe effettivamente essere pericoloso. Si ferma il tempo, quindi, e anche il vento. L'aria. Il respiro di mio fratello.
Bushido mi lancia uno sguardo che non riesco a decifrare. "Toglietemelo da davanti," esclama. Quindi si solleva dal divano e, con la coda dell'occhio, vedo Chakuza fare altrettanto. Lui solo. Bushido prende mio fratello per un fianco e se lo tira dietro. Incrocio il suo sguardo e vedo che abbassa gli occhi. Bill, che cazzo...
Solo qualche mese fa, mio fratello e io ci spalleggiavamo a vicenda. Ora arriva Bushido, gli fa conoscere le gioie del sesso, e mio fratello non vede altro. Sono qui per cercare di farlo rinsavire e quello nemmeno ha le palle di guardarmi mentre stanno per massacrarmi.
In realtà non mi massacrano, Chaku mi tira solo una sberla sulla nuca e mi spinge in avanti con quella. "Fidati, è meglio se la chiudi qui, per oggi," mi dice, con quella voce roca.
Mi butta praticamente fuori di casa e io, come un cretino, rimango sulla porta di quell'orrenda casa gialla per almeno due ore. Spero che mio fratello esca e mi raggiunga. Ogni minuto che passa fisso sempre di più lo sguardo su quella porta, neanche potessi aprirla col pensiero. Cazzo, è la dentro. Ha lasciato che mi buttassero fuori. Vaffanculo. E' rimasto lì. Bill è là dentro con quell'uomo, a fare chissà cosa. Uno che lo tratta come se fosse roba sua. "BILL, VAFFANCULO!" Lo urlo forte, senza rendermene conto. Mi spavento da solo con la mia voce.
La cosa si chiude lì, per un po'. Sono così arrabbiato e geloso e deluso e mille altre cose che non mi va di parlare con Bill. In realtà mi va, ormai mi capita così raramente di vederlo - lavoro a parte - che quando rimane in albergo con noi invece di raggiungere Bushido, vorrei sommergerlo di parole e raccontargli tutto, però non lo faccio. Non lo faccio perchè ho un orgoglio e non lo faccio perchè so che ci sta malissimo. Bill odia non potermi parlare. Lo vedo che ci prova di continuo ma io faccio in modo che le mie risposte siano sempre più scostanti. Ormai un po' ci provo gusto a vederlo abbassare gli occhi tristi. Ti sta bene.
Ti sta bene un paio di palle, mi manca da matti.
Quando esce a volte lo seguo finchè non lo vedo entrare in qualche albergo o in qualche discoteca e allora lì mi fermo, davanti all'entrata. Quando si danno appuntamento in un locale, non è mai Bushido ad aspettarlo. Bill dice il suo nome al buttafuori, quello controlla sulla lista e poi, puntualmente, Chakuza esce e se lo viene a prendere. Questa cosa mi fa girare le palle, lo tratta come una fottuta groupie. E lui che gli va dietro come un cagnolino.
Quando esce lo fa dopo ore. A volte non esce nemmeno e io dormo in macchina. David dà di matto quando torno perchè sono impresentabile. Scusa se non me ne frega niente di come mi stanno i capelli quando mio fratello ha palesemente perso la testa e nessuno sembra rendersene conto.
Una di queste sere, comunque, quando arrivo di fronte all'ennesimo locale sono già troppo ubriaco per rendermi conto che non ha senso raggiungere l'entrata del locale e farmi ridare Bill. Non ha senso perchè Bill ci và di sua spontanea volontà là dentro, e non ha senso perchè io sono solo e loro sono parecchi di più. Quella sera mio fratello non lo vedo nemmeno dipinto, non vedo neanche Bushido però. Quando torno a casa ho un occhio viola, ma so per certo che anche un paio di loro ne ha una copia identica. E qualche graffio, forse.
La telefonata che temo da quando mio fratello si è messo con Bushido arriva alle due di notte di quasi sei mesi dopo, in uno di quei momenti in cui sono pacificamente adormentato e il problema di Bill non è più tale. Ci siamo visti oggi ed era così bello e felice che per un po' mi sono dimenticato che è fidanzato col capo dell'Ersguterjunge e che è così innamorato che si respira già aria di convivenza. Quando il telefono squilla, io sono stranamente in pace con il mondo.
Poi arriva la voce spezzata di mio fratello, e mi prende il panico.
"Bill?"
Solo fottuti singhiozzi.
"Bill che succede? Stai bene?"
"E' morto," mormora. "Tomi, è morto."
"Chi? Bill che cosa stai dicendo?" Mi alzo dal letto, portandomi dietro il cellulare. Cerco a tentoni la luce sul comodino e cerco di capirci qualcosa.
"Anis..." e quel nome è appena un sussurro. Bill lo dice piano piano, e mi sembra quasi di vederlo - ranicchiato come poi lo troverò dopo - che mormora quelle quattro lettere come se a dirle troppo forte si avverasse qualcosa. "E' morto. Dio, è morto ed è qui. Me lo porteranno via, Tomi..."
Mi vesto mentre lo sento scoppiare in lacrime, i suoi singhiozzi sono rochi e violenti, e mi si spezza il cuore. "Adesso, ascoltami," cerco di superare il sibilo del suo respiro. "Dimmi dove sei."
"E' morto, Tomi."
"Bill, dimmi dove sei."
"A casa."
Non sento altro, sono già in macchina. Guido come un pazzo, infilo un rosso dopo l'altro e rischio quasi di ammazzarmi ad un incrocio ma non me ne frega niente. Voglio essere lì prima che arrivino i medici perchè non sapranno come trattarlo. Devo essere lì quando caricheranno Bushido sull'ambulanza. Devo essere lì e prendere Bill al volo quando cadrà. Parcheggio sotto casa quando anche i medici lo stanno facendo. Salgo con loro, appena dietro l'ultimo ma sono io ad aprire loro la porta. Chi è lei? Sono il fratello. Non gli serve altro, non importa al momento.
Quando raggiungo la stanza da letto, per un attimo non vedo assolutamente niente. Voglio dire, il letto, il pavimento, la finestra, è tutto lì ma non ha senso. Il vetro è rotto, il parquet, le coperte, tutto quanto è coperto di sangue. "Bill!"
Bill non alza lo sguardo. E' ranicchiato in posizione fetale contro il fianco di Bushido che è disteso sul letto, le gambe e le braccia che pendono. Ha lo sguardo rivolto al soffitto. I medici sciamano alle mie spalle, mi spostano senza guardarmi due volte e si avventano sull'uomo che è così assurdamente immobile in mezzo alla frenesia di questa stanza.
"Si sposti, per favore," dice uno dei paramedici.
Bill risponde: "No," poi guarda la donna che gli ha appena parlato e aggiunge, "Non portatelo via."
I medici non lo ascoltano, sono in due e si sistemano accanto al corpo. Bill cerca di mettersi in mezzo perchè continuano ad allontanarlo, così lo abbraccio. "Vieni via," gli mormoro premendogli il naso contro una guancia. "Bill, ci sono qua io."
"No," ansima. Non sembra sicuro di quello che dice, sembra che non sappia nemmeno dove si trovi e il mio cuore si spezza ancora un po'. "No..."
Lo tiro via, lui guarda solo Bushido che appare e scompare dietro ai medici che si muovono intorno a lui. "NO!" E' un grido rauco e violento, i medici non si voltano neanche. La freddezza con la quale ignorano il suo dolore fa male anche a me. So che devono farlo, che non avrebbe senso per loro girarsi ora. Che Bill deve strillare e loro devono ignorarlo, ma quando si piega in due contro il mio braccio che lo regge e scoppia di nuovo a piangere, li odio perchè non stanno facendo niente, perchè Bushido è morto e Bill sta male; e io non posso impedire che succeda. Bill si lascia andare in terra, sono costretto ad andargli dietro. Lo costringo a voltare la testa e lo schiaccio contro il mio petto. Fa resistenza ma poi rinuncia e mi si preme contro. "Tomi..."
Io continuo a guardare. Cerco di capire perchè gli girano ancora intorno, perchè provano e tentano e provano ancora. Il respiro è lievissimo, ma c'è. Lo sento dire ad uno dei medici, ma è solo un sussurro. Un sussurro soltanto. Non lo dicono a Bill. Io non glielo dico, perchè Bushido non sembra respirare. L'aria che esce dalle sue labbra è così poca che è come se non ci fosse. Non c'è. E' meglio che Bill non lo sappia. Soltanto dopo David mi dirà che Bushido è morto in ambulanza mentre lo portavano all'ospedale, che il più debole dei respiri c'era ancora quando sono arrivato io.
Io e Bill siamo seduti in terra, lui fra le mie braccia, e io gli accarezzo i capelli e penso che Bushido abbia aspettato che arrivassi. Non voleva lasciarlo solo.

*


Le lacrime di mio fratello non si sono ancora asciugate – nel senso che la traccia c’è ancora, la vedo distintamente che spicca appena un po’ più scura sulla sua pelle arrossata – quando mettiamo piede nell’appartamento di Bushido. La casa è enorme esattamente come l’ultima volta che ci sono stato, ma solo oggi riesco a comprenderne veramente le dimensioni. Quando ci sono stato io era pieno di rapper e pasticcini. Oggi è vuota, ci siamo solo io e Bill e l’eco di tanti di quei ricordi che non riesco a ignorarli nemmeno io, anche se mi danno il voltastomaco e mi fanno un male cane.
Non riesce ad ignorarli neppure mio fratello, però. E per lui è peggio, quindi sto zitto. Sto zitto tutto: non parlo e non penso neanche.
Malgrado tutto, comunque, Bill si muove con disinvoltura. È chiaro che non ci vede – perché a piangere così non vedi a un palmo dal tuo naso – ma non sbatte contro niente, va dritto per la sua strada con una sicurezza invidiabile. Lo guidano i piedi. Lo guidano i ricordi. Forse, qua dentro, c’è ancora qualcosa di Bushido. Ed è quello che lo guida.
- Tomi… - mi chiama debolmente, ed io stringo lo zaino nero fra le mani e gli vado dietro deglutendo appena, mentre mi guardo intorno, terribilmente a disagio. Non abbiamo nemmeno acceso le luci perché tanto Bill non ne ha bisogno ed io seguo lui, e non mi serve vederlo, per farlo.
Bill apre una porta e si ferma sulla soglia. Lo vedo che trattiene il respiro. Ho paura che possa soffocare perciò tiro giù un respiro tale che spero valga per due, e l’errore è quello perché il loro odore, qui dentro, è fortissimo. C’è il profumo di Bill, su tutto, e c’è la colonia di Bushido che lo segue e lo completa e si intreccia senza creare nessun fastidio.
Mio fratello è immobile e non respira, io respiro per due e ho gli occhi pieni di lacrime.
Distrattamente, penso che ogni volta che abbraccio mio fratello i nostri profumi si intrecciano allo stesso modo. E capisco perché mio fratello non vuole respirare. Perché l’amore è anche questo, profumi che s’intrecciano. Anche io ho desiderato smettere di respirare l’odore di Bill, quando lui si è allontanato da me. È per questo che Bill adesso non vuole più respirare l’odore di Bushido.
Gli poso una mano sulla spalla e lui lascia andare un singhiozzo che spezza l’incantesimo. Se non l’avessi toccato, penso che avrebbe potuto continuare a non respirare per sempre. Ma si sgonfia tutto, appena lo sfioro, e lui è già così piccolo che quasi scompare, perciò per non annullarsi del tutto alla fine a respirare è costretto per forza, e lo fa.
- Sì. – annuisce, come a rassicurarmi, - Di qua. – e mi porta verso una cassettiera che non è né grande né piccola ma non c’entra assolutamente niente con l’arredamento minimale della camera da letto. Il legno è più chiaro e un po’ rovinato e ci sono dei decori floreali che stonano eccome con il legno liscissimo e scuro del letto dallo scheletro quasi invisibile e i comodini sottilissimi. David – che è l’unica persona io conosca con un minimo di gusto, in generale – non sarebbe d’accordo con una scelta stilistica simile. Mi chiedo cosa ci faccia un mobile del genere in questa stanza, e Bill indovina la mia domanda e sorride appena, sfiorando lievemente la superficie un po’ ruvida e impolverata del ripiano colmo di portagioie che, in effetti, c’entrano poco pure loro. – È di sua madre. – illustra intenerito, - C’è un po’ di roba di sua madre sparsa per casa.
Annuisco, anche se non so bene a cosa. Non mi sento a mio agio perché non c’entro niente con questa casa e con questo buio e con queste serrande abbassate, né tantomeno con questa cassettiera ed i suoi portagioie. Bill mi sta aprendo davanti un mondo che non volevo conoscere – che non dovrei affatto conoscere.
Apre un cassetto e passa una mano fra le magliette ordinatamente piegate una sull’altra. Ne viene fuori un buon profumo di cotone appena lavato, e sono quasi sicuro che là dentro ci sia pure una di quelle bustine di granelli che tengono lontane le tarme. Non mi stupisce, la cassettiera sembra vecchia. È lavanda, ecco. È un buon profumo.
Bill tira fuori una maglietta dopo l’altra ed io apro lo zaino e tendo le braccia, tenendolo fermo davanti a lui. Mio fratello scuote il capo. No, queste non le porta via. Queste vuole tenerle un po’ fra le dita e basta.
Ogni maglietta si prende un pezzo di ripiano – Bill le drappeggia con cura sui portagioie così sembrano un po’ gonfie, così c’è dentro qualcosa che somigli a un po’ di vita – e quando lo spazio finisce Bill impila le nuove magliette sulle vecchie. E ci sono miriadi di disegni e colori che io ho visto solo ai concerti e nelle apparizioni pubbliche, ma che per Bill hanno un sapore e un significato tutto diverso.
Non fa niente di melodrammatico, mio fratello. Non schiaccia il viso contro il tessuto e non piange fino a sputare i polmoni. Sta lì a guarda le magliette. Il profumo arriva lo stesso e le lacrime scendono lo stesso, ma non c’è bisogno di esibire niente. Il dolore è già abbastanza vivo così.
- Cosa vuoi prendere…? – chiedo un po’ timoroso, poco dopo.
- Non lo so ancora con certezza. – confessa in una breve risatina che è un singhiozzo mascherato. Chiude il primo cassetto ma non posa le magliette, ed apre il secondo. Io mi giro mentre tutto il resto della biancheria di Bushido viene prelevato e riposto meticolosamente sul legno chiaro del mobile. Mio fratello guarda tutto con una sorta di soddisfazione e vorrei dirgli che sono solo vestiti, ma dubito servirebbe a qualcosa, com’è sempre servito poco in genere qualsiasi cosa gli abbia detto a proposito dell’uomo che amava.
Dell’uomo che amava, Dio. Quanto tardi l’ho capito? Quanti sorrisi di Bill mi sono perso? Ed ora mi ritrovo solo con le sue lacrime.
Quando torno a guardarlo, sulla cassettiera non c’è più niente. In compenso, ogni capo d’abbigliamento è stato spostato sul letto. Il letto è grande e li contiene tutti meglio, perciò non c’è niente che si accavalli su nient’altro e Bill può guardare tutto in un’unica volta, godendosi lo spettacolo. Si morde un labbro e quasi sicuramente si sta chiedendo perché non può portare via qualcosa. E si sta anche rispondendo che non gli servirebbero a niente, perché lui il suo amore non lo vuole nascondere, no, vuole sfoggiarlo. E vestiti simili non potrebbe indossarli comunque. Ecco perché a un certo punto lo vedo voltarsi nuovamente verso la cassettiera e scoperchiare un portagioie in legno nero, per scoprirne i tesori.
Stringo lo zaino fra le mani e mi chiedo se ci metteremo dentro qualcosa. Bill infila le mani fra i gioielli e ne tira fuori un bracciale di brillanti che luccica anche al buio. Se le pietre fossero solo un po’ più grandi ci si potrebbe specchiare dentro, e invece sono piccole e piuttosto discrete. È un gioiello piuttosto femminile. Mi chiedo se ce l’abbia lasciato Bill. Dall’ansia con la quale Bill lo stringe fra le dita e poi lo lega al polso, però, intuisco piuttosto facilmente che no, non è suo. Bill non tratta i suoi gioielli con quest’urgenza, perché sono la sua normalità. Il bracciale è di Bushido.
Fruga ancora un po’, mentre io ripiego lo zaino desolatamente vuoto sul braccio.
L’indice di Bill riemerge addobbato da un piccolo cerchietto opaco che intuisco appena nel buio.
- Cos’è? – chiedo curioso, e sul viso di Bill si apre un sorriso che è il primo sincero e pieno che gli vedo fare da quando… da mesi.
- Sapevo che l’avrei trovata… - commenta trasognato, rimirandola da ogni angolo, - È la sua fede.
- La fede…? – per un attimo, mi attraversa la mente un pensiero completamente idiota: si sono sposati? Vedo Las Vegas e costumi ridicoli, un finto prete drogato di caffè che si regge in piedi per forza di volontà mentre loro, completamente ubriachi alle cinque del mattino, si scambiano una promessa che vale molto più di quanto non stiano dicendo. Vorrei quasi dirlo a Bill, magari riderebbe. Lui non me ne dà il tempo, comunque.
- È stato sposato, in passato. – rivela tranquillo, - Non era facile che si decidesse a parlarne.
Faccio una smorfia.
- E tu ti metti addosso un anello che prova che un tempo era di qualcun altro?
Bill sorride.
- Non capisci. – dice, - È la parte di lui che non dava a nessuno, invece. L’ha data solo a me. – ed infila l’anello all’anulare sinistro. Adesso capisco, comunque, perciò annuisco compitamente.
A questo punto, però, mi sento inutile. Oltre a fare da pubblico mentre mio fratello si riappropria di ciò che di Bushido gli è sempre appartenuto – e che non poteva prendere perché, finché Bushido era in vita, non ne aveva bisogno – io ed il mio zaino vuoto non serviamo assolutamente a niente. Siamo fuori posto e fuori fase e fuori tutto.
- Questo…? – chiedo, sollevando lo zaino all’altezza del viso.
- Sì, qui ho finito. – annuisce Bill, e si avvia verso il letto. Sfila le federe dai cuscini e me le passa. – Queste. – dice spiccio, mentre volteggia veloce dal letto alla cassettiera per riporre i vestiti. Spoglia il materasso dalle lenzuola. – Anche queste. – io metto tutto dentro senza una parola, appallottolando ogni cosa. Mio fratello si sposta ed apre il cassetto del comodino a destra. Mi passa un orologio. – Il tempo. – dice piano. Un pacchetto di preservativi ed una confezione di lubrificante. – Questi. – ed arrossisce. Io non chiedo e non abbasso lo sguardo, non posso. Un pacchetto di sigarette quasi vuoto. – Questo. – si alza, fa il giro, apre l’altro cassetto.
Una pistola.
- La Heckler.
Deglutisco. La nascondo fra le lenzuola.
Bill sospira e si guarda intorno, le mani sui fianchi, un cipiglio critico ad aggrottare le sopracciglia.
- Ho fatto un disastro… - commenta fissando le magliette gettate alla rinfusa nel primo cassetto, assieme ad altra biancheria che in realtà stava nel secondo. – Tu sei più bravo a riordinare.
- …anche tu sai piegare le magliette. – borbotto.
Lui annuisce.
- Non voglio. – singhiozza poi. – È pieno lo zaino?
Non c’entrerebbe altro neanche volendo.
- Sì.
- Andiamo?
- Sì.
Quando Bill si chiude la porta alle spalle il profumo scompare e mi sembra un po’ di riuscire a riappropriarmi dello spazio e del tempo. Della giusta dimensione, insomma. In quella stanza l’aria non era viva, era ghiacciata in un passato in cui viva era stata.
La casa è ancora avvolta nell’oscurità. Le serrande sono abbassate e le tende tirate. La poca luce che filtra si perde inevitabilmente prima di poter essere in qualche modo utile. Brancolo nel buio ed anche mio fratello, ora che ha perso il motivo per stare qui, non sembra stare molto meglio.
Stiamo qui immobili a non capire cosa fare di noi stessi almeno fino a quando non gira una chiave nella toppa della porta d’ingresso. Bill si volta a guardarla con uno scatto isterico e la luce nei suoi occhi parla di un’intimità violata troppo presto e del tutto impunemente.
La porta si spalanca su cinque uomini che parlano animatamente fra loro. Litigano, direi. La luce si accende e l’espressione di Bill si addolcisce solo quando, fra i presenti, riconosce Chakuza. L’espressione di Bill si addolcisce perché negli occhi di quell’uomo ritrova un po’ dell’intimità di cui gli altri quattro non fanno parte – come potessi dimenticare il modo in cui Bill l’ha abbracciato quando è arrivato all’ospedale. Come potessi dimenticare il modo in cui gli si è attaccato al collo, ai vestiti, al petto, alla vita, per non cadere. Io ero lì per tenerlo e Bill si attaccava… a uno sconosciuto. Come potessi dimenticarlo.
Abbasso lo sguardo e mi mordo un labbro. Bill fissa i cinque. Chakuza solleva gli occhi mentre sta dando del coglione ad Eko Fresh. E strilla “Cristo!”, tirandosi indietro spaventato.
Bill lascia andare un sorriso timido un po’ sperduto. Io lo guardo solo per un attimo e poi mi concentro sui nuovi arrivati. Saad fissa mio fratello come fosse un prodotto di scarto di un’operazione necessaria. L’operazione necessaria era Bushido. Finché c’era Bushido, si teneva anche lo scarto. Adesso quei suoi occhi così spaventosamente verdi stanno dicendo che non c’è proprio più nessun motivo di tenere le scorie. Qualcosa di simile vedo riflessa negli occhi di Nyze, mentre in quelli di Eko Fresh c’è solo una leggera ansia ed in quelli di Kay One un’incredulità un po’ confusa.
Chakuza è solo stupito. E intenerito, credo.
- Bill… - sussurra incerto, abbozzando un sorriso, - Mi hai spaventato! Che… che ci fai qui?
Mio fratello sorride ancora e si stringe nelle spalle. Io mi stringo contro lo zaino come se fosse una cosa mia, perché ho paura che se lo portino via. E se Bill non potrà avere queste cose nel suo letto, stasera, me ne farò una colpa finché vivrò.
- Sono venuto a… prendere delle cose che avevo lasciato. – spiega mio fratello, senza perdere la calma, - Immaginavo che sareste venuti a ripulire, non volevo portaste via per sbaglio anche qualcosa di mio.
Chakuza annuisce comprensivo e Saad avanza nell’ingresso borbottando che, ora che ha preso tutto, può anche andare. Bill lo vede muoversi deciso verso il corridoio e gli saetta negli occhi la consapevolezza che, se entrerà in camera di Bushido, capirà che ha rovistato fra le sue cose.
La pistola, penso come in loop, oddio, la pistola.
- Dovrebbe esserci ancora un po’ di birra, in frigo. – dice Bill all’improvviso, facendosi avanti con un coraggio tutto nuovo, - Vi va di bere qualcosa?
Saad rotea gli occhi.
- Come se mi andasse di bere con te!
- Saad! – lo riprende Chakuza. Teoricamente sta un gradino più in basso di lui, ma credo questi siano i momenti in cui l’età conta di più. Sai meglio cosa fare. Smussi gli angoli. Penso con un po’ di tenerezza a Bushido che è morto a trent’anni e gli angoli li smussava benissimo, tanto che fra un angolo e l’altro è riuscito a far passare pure mio fratello. Che sarà pure sottile, ma resta ingombrante comunque.
Il libanese ringhia qualcosa di indistinto, ed Eko gli va vicino.
- Coraggio, Atze, è solo una bevuta.
Bill non perde quel cipiglio serio e fiero neanche per un secondo.
Mio fratello si muove fra il salotto e la cucina con la disinvoltura del padrone di casa. Mi fermo a riflettere sul fatto che questo pavimento gliel’ha insegnato Bushido, metro dopo metro. Bill se n’è appropriato un passo dopo l’altro, nel modo più naturale possibile. Questa è anche un po’ casa sua. La sta lasciando con uno zaino pieno di odori e simboli. Una fede non sua al dito e una pistola nascosta che vale molto molto molto più di una promessa di matrimonio.
A me dispiace un po’ non esserci stato mentre il suo amore si consumava. Sono qui mentre consuma il suo lutto, comunque. Non è la stessa cosa, ma ci sono. Ci sono e Bill lo sa. Per me è okay.
Scivoliamo fuori dall’appartamento mezz’ora e cinque bottiglie di birra dopo. I cinque cavalieri di Bushido stanno sul divano e non sanno davvero da che parte girarsi. Bill aveva un obiettivo semplice, loro devono passare al setaccio una quantità oscena di metri quadri di casa. E ciò che cercano, probabilmente, neanche lo troveranno. Perché viene via con noi. E quando loro se ne accorgeranno, noi saremo già al sicuro a casa.
Ci dormirà, con quella pistola sotto il cuscino, mio fratello. Così potrà difendersi e un pezzo di Bushido gli resterà sempre addosso. Sotto la testa. Ancorato al dito. Legato al polso. Dentro e tutto intorno a lui.
Sono quasi orgoglioso del mio cucciolo. S’era scelto un brav’uomo, in fondo.

*


Quando squilla il telefono, nel dopocena stanco e nervoso che precede la notte di sonno che, domani, ci condurrà a TRL – non solo Bill, anche io. Suppongo vogliano qualcuno di molto scenografico per reggergli la mano, ed io rispondo in pieno a tutti i requisiti. Sono scenografico e gli reggo la mano con un qualche perché. – la prima cosa che penso è che non ho fatto in tempo a finire di essere geloso di un uomo che posso subito cominciare ad essere geloso di un altro.
So che Chakuza non ha intenzioni di questo tipo, con mio fratello, ma Bill… Bill non ha nessuna voglia di allontanarsi dal mondo di Bushido, e sospetto sarebbe in grado di attaccarsi a qualsiasi cosa, pur di non cedere. È per questo che ci sono notti in cui ho semplicemente smesso di aspettarlo. Quando va male – ma proprio male – lui va da Chakuza.
- Pronto? – rispondo svogliatamente, andandomi a trincerare in camera mentre Bill, che fino a due secondi fa stava guardando The Notebook spiaccicato contro la mia spalla, frana sul divano con un mugolio di disapprovazione. “Tomi…?”, mi chiama. “Torno subito”, rispondo. Dall’altro lato della cornetta, la voce roca di Chakuza si esprime in una risata quasi dolce.
- Sta bene? – mi chiede curioso.
- Non è una brutta serata. – rispondo io, chiudendomi la porta alle spalle. – Forse è anche un po’ emozionato.
- Capisco. – annuisce, ma c’è una nota di nervosismo, nella sua voce, che inquieta anche me.
- Hai chiamato per un motivo specifico, - chiedo sbrigativamente, - o volevi solo fare conversazione? No, perché in questo caso hai sbagliato gemello.
- Potresti smettere un istante di stare sulla difensiva? – protesta lui, quasi annoiato, - Vengo in pace, sai?
Io sbuffo come un bambino viziato e mi viene un po’ da ridere perché io e Bill siamo davvero – ma davvero – gemelli.
- Va bene, smetto di ringhiare. – concedo, - Quindi, parliamo del tempo o…?
- Parliamo della trasmissione di domani. – mi informa lui, atono e pure un po’ offeso, come se fossi io il cretino colpevole di non averlo capito subito. – Bill può sentirmi?
Dovrei cominciare a preoccuparmi, immagino.
- …no, ma… che problema c’è per domani?
Chakuza tira fuori un sospirone paziente. Io comincio ragionevolmente ad irritarmi.
E poi la butta lì.
- Sarò sincero con te, Tom. – ma anche no, vorrei dire. Solo che sarebbe troppo da irresponsabile perfino per uno come me. – Dal momento che non è stato Fler ad ammazzare Bushido, non abbiamo più il controllo della situazione. Non sappiamo chi sia stato né perché.
Trattengo il fiato.
- Che… - annaspo confusamente, - che mi sono perso? Non dicevate che la polizia l’aveva lasciato andare per mancanza di prove ma che eravate certi… voi eravate certi!
- Sì, lo so. – concede lui con la stessa pazienza di prima. Dovrei ringraziarlo per questo, immagino. – Adesso però siamo certi che non sia stato lui, e questo significa che sono cambiate le carte in tavola. Chiunque abbia premuto il grilletto quella notte, potrebbe avere un altro movente. – si interrompe un secondo, come aspettasse di lasciarmi digerire tutte le informazioni. - …o un altro obiettivo. Quella a TRL sarà la prima uscita pubblica di Bill, e… insomma. – conclude quindi con un mezzo sospiro.
Bill. Bill. Il pensiero mi esplode nel cervello all’improvviso e mi devasta. Mi devasta, Cristo. Bill. Il mio fratellino. Bill.
- La security, abbiamo… - ansimo, agitato, - noi siamo protetti e… - mi fermo. Chakuza non avrebbe chiamato, se avesse ritenuto la security abbastanza per proteggere Bill. - …cosa pensi di fare?
- Crediamo che i momenti più pericolosi saranno all’entrata e all’uscita degli studi. – espone lui, freddo come un generale, - All’interno non può arrivare nessuno, senza autorizzazione, ma in mezzo alla folla è tutto molto più semplice. – fa pause strategiche all’interno del discorso, perché sa che io con tutta questa roba non c’entro davvero niente. Avevo un bel coraggio a fare la voce grossa con Bill parlando di dinamiche di crew e di cose che ero certo lui non sarebbe mai riuscito a capire, ma io? Ero davvero diverso da lui? Mi sembra che Chakuza stia parlando di cose assurde, eppure la paura che provo è reale. È reale perché Bushido c’è morto davvero, per queste cose assurde. – La security terrà indietro la gente. – riprende, - ma non si aspetta davvero un attacco violento. Dovremo fargli muro intorno, renderlo un bersaglio meno isolato. Chiunque voglia colpirlo, dovrà prima incontrare noi.
Io. Non so. Che dire.
- S… sì. – tiro fuori a fatica, - Okay, io che devo fare? – cerco di prendere coraggio così, dandomi un perché, un motivo di esistere in mezzo a tutto questo casino, perché non ci sto a guardare mio fratello che va via, non di nuovo, non sul serio, non così. – Chaku, che devo fare?
- Tu devi scortarlo all’entrata. – risponde lui, un po’ meno freddo di prima. – E sarai da solo, perché noi non possiamo arrivare con te.
Mi sento come quando, da piccolo, Bill aveva la febbre e mamma doveva badare ai bambini degli altri per tirar su qualche soldo. Doveva badare ai bambini degli altri e non poteva davvero badare anche ai propri, perciò, tenerissima com’è sempre stata, mi tirava da parte e mi diceva “Tom, tu sei il fratello maggiore, devi prenderti cura di Bill. Devi fare in modo che stia bene e non gli accada niente, mentre io sono impegnata. Okay?”. Ed io mi facevo grande e gonfiavo il petto perché allora combattevo contro una febbre ed un broncio triste e sapevo di poterli gestire tranquillamente con un abbraccio e qualche caramella. Adesso sto combattendo contro qualcosa di molto più grande e non è cambiato niente: sono il fratello maggiore e devo gestirlo per forza.
- Va bene. – dico con sicurezza, annuendo al mio riflesso spaurito che mi fissa dallo specchio sulla parete di fronte, - Me ne occuperò io. Non ci saranno problemi. – sospiro perché adesso che l’ho detto sto meglio. Mi sento svuotato. Ma quando ti senti svuotato va bene, è un’occasione per riempirti di nuovo. Io devo diventare tutto coraggio. Per Bill. Posso farlo. – Chakuza, ma voi chi? – chiedo alla fine, più che altro per capire esattamente con quali dei cavalieri di Sua Maestà dovrò avere a che fare domani.
Lui fa una pausa, ma stavolta non è una pausa per me. È per se stesso. Come stesse cercando di fare mente locale.
- …io e Fler. – risponde alla fine.
- Fler! – strillo io, agitando il braccio non impegnato e reggere il telefono, - Chakuza, se per caso ‘sto stronzo è veramente quello che ha ammazzato Bushido e si sta infiltrando per far fuori anche mio fratello, e tu ci stai cascando come una pera, giuro che di te non rimarranno neanche le ossa! – vorrei anche capire cosa sto dicendo. Penso di essere arrabbiato e basta, perciò sparo cavolate. Io devo fidarmi del Chaku di Bill. Devo farlo per forza, non posso sbagliare di nuovo.
Chakuza ride, giustamente. Io non rido con lui solo per imbarazzo.
- Molto intimidatorio, davvero. – mi prende in giro, anche se non riesco a sentirmi offeso, - Ad ogni modo, Fler è uno dei nostri, adesso. Garantisco io per lui.
Sospiro e roteo gli occhi.
- Ah, be’, se garantisci tu… - Bill mi chiama dal salotto. “Tomi!” pigola con quella sua vocetta estenuata. Credo che il film sia finito, per carità, quando finisce The Notebook Bill non è felice se non mi scarica addosso almeno due ore di lacrime. – Senti, devo andare… - avviso Chakuza dall’altro lato della cornetta, - Un’ultima curiosità: come diavolo hai avuto il mio numero?!
- Uh? – sembra stupito, - L’ho chiesto al vostro manager, naturalmente. – spiega in breve, - Che ti aspettavi?
Eh, non lo so che mi aspettavo. Dovresti dirmelo tu cosa aspettarmi, Peter Pangerl detto Chakuza.
Peter Pangerl, poi. Che razza di nome è per un gangsta rapper?

*


Note: Come nelle migliori tradizioni del rap, questa è una collaborazione. D'accordo, tutta la serie lo è, ma questa one-shot è proprio scritta a quattro mani. E' una Tabata feat. Liz, ecco.
Dunque, Gegen Meine Willen è stato un po' il mio dramma personale. Amavo l'idea di dare voce a Tom, l'ho amata un po' meno quando poi mi è toccato scriverla. Tom mi dà dei problemi e forse me li dà perché è una voce totalmente estranea a tutta la serie. Tomi è fuori dal ghetto; ed è un personaggoi totalmente esterno. Come dice lui stesso: non c'entra niente. Ma potevano mancare il suo giudizio, la sua rabbia, il suo supporto ma, soprattutto... la sua versione della morte del Bushido?! XD. Prima che mi dimentichi, ho creato un gioioso schemino della timeline di EKR, così potete vedere la porzione temporale coperta da ogni singola fanfic. Enjoy.
Liz, in queste note, vuole aggiungere che ama Tomi!
E basta.

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Set Adrift on Memory Bliss

di tabata e lisachan
Questi ultimi giorni sono stati piuttosto stancanti.
Un po' perchè sono i giorni peggiori, quelli dove manca poco. Un po' perchè per questo motivo, chiunque mi conosca ha cercato di fare qualcosa per distrarmi intanto che aspettavo quel poco che rimaneva. Il problema è che nessuno mi ha chiesto cosa volessi fare io, e io volevo starmene in casa da solo, magari a rilassarmi. Ovviamente nel via vai di gente che andava e veniva, di stendersi due minuti in vasca o anche solo di svaccarsi davanti alla televisione di tempo non ce ne stato per niente.
Gustav prima, David poi; e quindi Andi, Georg e Chakuza che ha fatto la spola tra casa sua, l'Ersguterjunge e il mio appartamento, incrociandosi con Tom. Sembrava si fossero messi d'accordo: lui arrivava, mio fratello partiva. Uno dietro l'altro sono venuti tutti, da ogni angolo del mio personalissimo universo. Non mancava nessuno.
Qualche giorno fa, seduto sul mio letto, ho visto anche lui che mi guardava e sorrideva, con quel modo che aveva di guardarti che non sapevi mai se ti stava prendendo in giro oppure no. Mi stavo asciugando i capelli, è stato solo un istante ma nella mia memoria è ancora così nitido che mi è bastato per vederlo tutto.
Mi ha fatto notare che non dovevo lamentarmi di tutta quella gente che andava e veniva, che sono ancora la principessa ed è per questo che mi viziano tutti.
Nella mia testa, la sua voce è chiara quanto il suo viso.
Non è come ricordare vagamente il suono di come diceva le parole, è sentirlo parlare, come se in realtà fosse ancora qui.
Così mi ha detto che sono sempre la principessa e ho stretto forte la spazzola per aggrapparmi a qualcosa. Tom dice che se non smetto di piangere mi scioglierò e non rimarrà più niente di me; e io mi chiedo se voglio che resti qualcosa di me ora che non c'è più niente di lui. Poi ricordo che mio fratello morirebbe se morissi anche io, e all'idea di una morte effetto domino mi viene da ridere. Lo so che non è bello, ma so che lui riderebbe.
Anis rideva sempre quando qualcosa lo spaventava. Così fa meno paura, diceva.

Comunque sia, sono le due del pomeriggio e mio fratello ha passato qui la notte.
A dire la verità credo che sia solo il fortunato vincitore di una complicatissima partita a morra cinese in cui se la sono giocata un po' tutti questa nottata della vigilia; mi piace vedermeli riuniti ad un tavolo che tirano giù veloci sequenze di sasso forbice carta per vedere a chi tocca stare con la vedova la notte prima dello speciale di TRL. Ha vinto mio fratello, a quanto sembra. Ieri sera non avevo ancora finito di chiudere la porta dietro le spalle di mia madre, venuta fin da Loitsche per quattro splendidi giorni con suo figlio, che Tom si è presentato a casa mia, la sua sacca da viaggio e la chitarra, pronto per una serata fra gemelli: la salsa, The NoteBook, tutto il necessario da manuale, insomma.
Per un istante l'ho odiato, dico davvero. Volevo solo togliermi i vestiti, mettere quattro candele agli angoli della vasca e stare in ammollo finché non mi fossi rattrappito come una prugna; trovarmelo lì sulla soglia, che sorrideva amabile come me stesso quando non sono così sbattuto, mi ha fatto anche un po' girare i coglioni.
Poi mi sono reso conto che non ho mai veramente voluto stare da solo, che se mio fratello non si fosse presentato lì, probabilmente avrei finito per passare la serata avvolto nel plaid a guardare il mio album di fotografie. In realtà non ne avevo uno finché Anis non è morto; avevo un sacco di foto, quello sì, ma erano mucchi sparsi in giro per casa. La sera del funerale le ho riunite tutte sul pavimento del salotto, e ho cominciato a dividerle prima per mese, poi per occasione, poi in base al fatto che fosse da solo o ci fossi anche io, poi per i vestiti, e per un altro centinaio di caratteristiche stupide; tanto che sono rimasto alzato fino a tardi e non avevo ancora deciso quali inserire nell'album e quali scartare.
Alla fine le ho messe a caso. Ho cominciato a tirarle su dal mucchio con gli occhi chiusi, le guardavo e mi sorprendevo dell'espressione che avevo pescato. Era un po' come averlo lì, che non potevi controllare le sue reazioni.
Allora gli ho raccontato com'era andata la giornata: - C'era un sacco di gente, sai, amore?
E ho tirato su la foto e l'ho visto che sorrideva; gliel'ho fatta io quella, sul tourbus, una mattina che aveva detto qualcosa di stupido e ci stava ridendo su. Era ancora tutto scombinato, era Anis; non Bushido.
Quindi ho continuato a parlare. Gli ho spiegato che nessuno voleva farmi passare ma l'ho rassicurato: - Chakuza mi ha aiutato a farmi largo tra la folla.
Nella foto che ho tirato su c'era lui impegnato a cantare: gliel'ho fatta durante un concerto. Ero dietro le quinte, quindi il taglio è strano e lui è concentratissimo. Mi è sembrata un'espressione solenne. Anche quella è andata nell'album.
Sono andato avanti per un po', gli ho raccontato che Eko quasi piangeva e che lui mancava disperatamente a tutti. Foto dopo foto mi ha regalato di nuovo tutti i suoi sorrisi e tutte le sue facce buffe. Era anche arrabbiato a volte, con la mascella tesa e gli occhi scuri scuri, che a volte ti ci perdevi dentro e altre volte erano un muro, proprio.
Erano le quattro del mattino quando sono rimasto senza pagine nell'album, e avevo ancora un mucchio di fotografie da sistemare. - Ti ho messo una calla; ho detto all'improvviso. Non lo so perchè, ma in quel momento ho realizzato che la bara era chiusa e che forse non può vedere un bel niente. Ho detto: - Ti ho messo una calla. Sopra al legno però, perchè non ti hanno esposto. Eri già chiuso. David dice che lo hanno fatto per tua madre, che era meglio così. Comunque la calla te l'ho messa lì. Ecco.
E la foto che ho tirato su era bellissima. Era lui, con me; e tranne noi non si vede niente, ma io lo so che è stata scattata tra le coperte del mio letto, che ad inquadrare più in basso ci sono i nostri vestiti, io sono nudo e lui mi stringe attorno alla vita con le braccia forti, color nocciola. Nella foto però si vedono solo i nostri visi, fianco a fianco e io che rido come non ho più fatto da quando non c'è lui.
Sto guardando una foto anche adesso, comunque, quella che ho sullo specchio. E' una foto molto speciale, è quasi uno scherzo ecco, però a me piace. C'è tutta la crew, proprio tutta, non solo i ragazzi che mi odiano meno; Kay e Chaku sono di fianco ad Anis, come i cavalieri del re. Era una foto ufficiale, cioè, ne esiste una ufficiale proprio uguale, per un articolo di Backspin se non ricordo male. Quella che ho io, però, è lo scatto precedente; quello dove ci sono anche io che passavo di là e Anis mi ha portato di peso sul set e ha detto al fotografo di scattarne una. Così io sono lì, che sembra ritagliato da un’altra fotografia e incollato tra le braccia di Anis.
"Bill, sei pronto?" La voce di mio fratello arriva da dietro la porta della mia stanza chiusa.
"Un attimo! Arrivo!"
Tom ha dormito sul divano, stanotte. Il letto è solo mio, non può più toccarlo nessuno. Mi da fastidio anche solo che ci si siedano sopra. Ieri ho urlato a mia madre che si stava azzardando a rifarlo. Io cambio le lenzuola, io lo rifaccio, io sistemo i cuscini. E, ovviamente, io ci dormo dentro. Da solo. Anis ha dormito qui e ci abbiamo fatto l'amore. C'è morto sopra. Non posso dormirci che io, adesso. Qualsiasi altra persona sarebbe come profanarlo, non lo so.
Le prime due settimane non ho avuto nemmeno il coraggio di entrare in camera. Poi mi è presa la nostalgia e allora tornare in questo letto mi è sembrata la cosa più logica da fare. Per un po' ho dormito solo dalla mia parte, ma la metà di Anis rimaneva troppo fredda, così adesso sto esattamente in mezzo e allargo le braccia e le gambe, scaldo tutto così quando mi giro la notte, posso rannicchiarmi dalla sua parte al calduccio e fingere che si sia alzato per andare in bagno. Nel dormiveglia è consolante, e la mattina dopo non ho mai il tempo di pensarci davvero perchè passa sempre qualcuno a prendermi, parlare, distrarmi.
"Bill!" Di nuovo la voce di mio fratello. "Stiamo facendo tardi, posso entrare?"
Gli dico di sì e mi trova di fronte allo specchio mentre finisco di mettermi il mascara. Gli sorrido attraverso lo specchio: il mio riflesso è splendido. Sono in piedi da ore, mi ci sono impegnato, voglio apparire meglio del solito. Anis lo avrebbe voluto, credo.
Nella mia testa risuona il:- Fatti bello, stasera usciamo; che mi diceva al telefono. E io gli rispondevo sempre che ero già perfetto.
"Sicuro di volerti truccare?" Mi chiede. Lo guardo e capisce di aver detto un'idiozia. Come potrei non volermi truccare? Devono ricordarsi che sono io. Io per come sono, non per come sarebbe stato meglio che fossi. Che poi dovrei essere donna, per quello. "D'accordo, lascia perdere. Ho detto una stronzata. Comunque, tra due minuti usciamo."
Annuisco e lo vedo che scappa via di nuovo. Tom è nervoso e non capisco seriamente perchè. La situazione sarà difficile, ma lui non c'entra. Lui serve a me, probabilmente lo faranno parlare solo un paio di volte. Non dovrebbe essere nervoso, davvero.
Schiocco le labbra, quindi mi schiodo dallo specchio. Non faccio in tempo ad uscire dalla camera che mio fratello mi recupera e m'infila, letteralmente, nel mio cappotto. Mi chiude perfino i bottoni. "David è qui fuori. Tobi ci aspetta giù," mi dice sbrigativo mentre cerco di capire perchè mi sta trattando come avessi otto anni. Quindi mi tiene per la vita e mi guarda negli occhi. "Bill..."
"Che c'è?"
"Quando arriviamo, stammi vicino." Dice.
"Tomi, cosa?"
"Non ti allontanare da me," ripete. "Solo questo."
Mi ritrovo ad annuire senza averci capito granché, e poi mi abbraccia e preme le labbra contro la mia guancia per qualche secondo, per un attimo credo che non voglia lasciarmi più andare. Quando torna a guardarmi, sorride un po' di più. "Sei bellissimo," mi dice, accarezzandomi le braccia. "Li stenderai tutti."

Agli studi di TRL ci sono già stato quel milione di volte, eppure sono nervoso lo stesso.
Dal momento che di fronte agli studi c'è moltissima gente, David ha dato ordine che passassimo dal retro ma la situazione non cambia molto. La nostra auto viene bloccata dalla folla qualche metro prima di arrivare alla porta. Vedo David espirare dalle narici, segno che è così nervoso che potrebbe esplodere qui e ora. Dentro la macchina.
Guardo fuori e vedo quello che non mi aspettavo di trovare. Ci sono delle fan dei Tokio Hotel abbarbicate sulle transenne; le riconosco subito e non tanto dai cartelli, quanto dal fatto che urlano con tutto il fiato che hanno e sono seminude. Continuano a cantilenare il mio nome - Bill! Bill! Bill! - e sorrido perchè nonostante tutto mi fa piacere.
Quando è saltata fuori la mia storia con Anis, per davvero intendo, non le stupide dichiarazioni che fece per farmi arrabbiare, fra le mie fan ci fu una scossa di terremoto. Qualcuna dichiarò di amarmi comunque - perchè io ero io, indipendentemente dal fatto che fossi gay - e molte altre si dichiararono molto deluse. Mi dispiacque, ma mi sono sempre chiesto in che cosa le avessi deluse di preciso.
Ad ogni modo, David fu bravissimo a gestire la cosa ed organizzò la conferenza stampa del mio coming out, tra le urla di mio fratello e quelle della Universal. In barba a tutto la risposta del pubblico fu meravigliosa. E comunque io non avrei accettato qualcosa di diverso, non avevo nessuna intenzione di giustificarmi oltre.
Sono felice di ritrovarle qui, che mi urlano che sono dalla mia parte in una situazione così dove ho veramente bisogno di supporto. E, se mi fanno piacere loro, mi fanno ancora più piacere le ragazze con la maglietta bianca con la B rossa che spuntano qua e là tra le mie emo-vampire vestite di nero. Sono le fan di Anis, quelle. E quando finalmente con l'auto riusciamo a passare, sono lì che gridano il mio nome insieme alle mie fan.
E mi sento bene, dannatamente bene.
Fermiamo l'auto proprio davanti alla porta; quando Tobi scende, le urla si fanno più forti e Tom mi stringe la mano. Parla prima ancora che lo faccia David, e David sta zitto e guarda fuori.
"Tu scendi per ultimo," mi informa mio fratello. "Prima David, poi io. Aspetta che ti aprano la portiera, intesi?"
"Tom, calmati, ti prego," lo guardo negli occhi e cerco di capirci qualcosa. "Non è la prima volta che devo scendere da una macchina circondato dalle fan, ricordi?"
Lui non mi ascolta. "Fà come ti ho detto."
Ci mancava mio fratello a dirmi cosa devo fare. Prima mia madre, poi la Universal, poi David, Anis... e in fine lui. Che razza di Principessa sono se non posso mai fare di testa mia?
Sento gli scatti delle portiere, David esce col volto tirato. Nemmeno un sorriso per le ragazze che - se non lo vogliono morto credendolo un negriero - lo amano quanto amano me. Tom lo segue a ruota e non esce dalla macchina, rotola fuori. Sento il boato: non so se sapevano che ci sarebbe stato anche lui ma credo di sì, lo sanno sempre.
Due secondi e Tobi apre la mia portiera. Tom è lì accanto a lui e mi chiedo perchè non stia spargendo se stesso un po' ovunque, come al solito. Poi penso che forse non è il caso che lo faccia, siamo qua per un altro motivo.
Come metto piede fuori, mi trascinano via. Cerco di sorridere alle ragazze, anche solo per ringraziarle ma Tomi è molto sbrigativo, se non mi tira dentro gli studi di corsa poco ci manca.
Una volta dentro, è il solito turbinare di tecnici e assistenti che ci circondano parlando tutti insieme. Ho imparato che non ho nessuna necessità di ascoltarli perchè paghiamo David apposta per quello. Sarà poi lui a farmi un riassunto di tutto ciò che devo sapere. Tom mi indica i camerini e ci muoviamo in quella direzione. Mentre passiamo dò un'occhiata allo studio, il pubblico è già dentro ma nessuno, grazie a Dio, fa caso a noi.
"Nervoso?" Mi chiede Tom, stringendomi il braccio all'altezza del gomito.
"No," scuoto la testa. "Solo terrorizzato." Sorrido.
Svoltiamo l'angolo subito dopo Tobi, e vedo Chakuza parlare con Fler da una parte. Fler tiene le braccia incrociate al petto e lo ascolta attento anche se sembra un po' annoiato. Chakuza è tutto agitato e muove le braccia come a ribadire qualcosa. Sapere che è qui, che sarà in quello studio con me, un po' mi tranquillizza, e non me l'aspettavo. Insomma, mi sembrava che fosse un me contro loro. E mi rendo conto che è un noi contro l'Aggro Berlin. O forse no. Forse è semplicemente un noi, e altri, e mio fratello e i fan. Contro nessuno, perchè tanto il motivo di combattere lo abbiamo perso tre mesi fa.
Chakuza alza lo sguardo e mi vede, ha il viso tirato sotto quel cappellino. "Hey!" Saluta mio fratello con un cenno del capo e poi mi si avvicina e mi guarda. "Tutto bene? Mi hanno detto che non vi lasciavano passare."
"Al solito," mi stringo nelle spalle. "Le fan erano ovunque."
E lui fa quella cosa lì, quella che fa ogni volta che mi chiede come sto e io gli rispondo che sto bene. Non ci crede mai; e mi scruta tutto, da capo a piedi, neanche ce lo avessi scritto in fronte se mi sento male. E finché non è convinto non mi molla. Alla fine sembra capire che non sto per collassare perchè annuisce.
Forse sta anche per dirmi qualcosa, ma uno dei tecnici si avvicina e ci avverte che la trasmissione inizierà tra cinque minuti, di prendere posto. "Dobbiamo microfonarvi," spiega poi. Ci muoviamo tutti verso lo studio, intanto che Chaku si sente in dovere di spiegarmi la situazione. "Voi due siete con noi," dice. "Hanno diviso lo spazio in due zone nette."
"E dall'altra parte, l'Aggro?"
Chaku annuisce. "Ma non ci sono tutti, soltanto Sido e Fler."
Fler, tra l'altro, ci ha seguiti ma non ci parla. Quando oltrepassiamo l'entrata dello studio, raggiunge Sido e si siede, col microfono già al suo posto. La stanza non è piccola, ma lo spazio è ridotto dalla quantità enorme di pubblico, che in effetti non mi aspettavo. Sono tutti zitti e fermi, però, e questo è un bene. I nostri divani sono di un giallo fulminante, e mi viene in mente che assomiglia al giallo delle pareti di casa di Anis; Saad, Eko e Kay-one sono già seduti e l'ultimo poso vuoto fra loro è quello di Chakuza. Io e mio fratello abbiamo un divanetto più piccolo alla loro destra, il resto dell'Ersguterjunge è ammassato nello spazio che resta. Lascio malvolentieri che Chakuza si sieda lontano mentre mio fratello mi aiuta a sistemare il microfono dietro ai pantaloni. Uno dei tecnici ci scandisce di nuovo il tempo.
David mi ha fatto avere una copia della scaletta qualche ora fa, l'ho letta ma non ne ricordo nemmeno un pezzo. David non voleva che venissi, mi ha fatto una paternale più lunga di mia madre e poi, quando si è reso conto che non avrei mai cambiato idea, ha parlato con la redazione e ha preteso e ottenuto che non mi facessero domande troppo private.
Uno studio televisivo, dall'interno, non è come lo si vede in televisione. Innanzi tutto ci sono molte più persone di quelle che ti fanno vedere, e ci sono più tempi morti. Quando passeranno i filmati, a casa li vedranno a tutto schermo, noi avremo un solo piccolo televisore lì a terra per controllare quando il video finisce, e un sacco di minuti da sprecare a guardarci tra di noi. Solo che questa volta, invece di avere accanto la mia band, ho quella di Anis - che non mi può vedere - e quella di Fler - che mi ha sempre preso per il culo. Mi stringo involontariamente a Tom che se mi stesse anche solo un po' più vicino probabilmente mi ingloberebbe. "Va tutto bene?" Mi sussurra.
Annuisco.
"Due minuti!" Annuncia il tecnico, sollevando le dita. Lo studio si mette in fermento, lo vedi proprio il cambiamento. Un attimo prima sono tutti lì che parlano, l'attimo dopo si muovono tutti: ordinano, sistemano cose, si preparano. Scorgo David in fondo alla stanza, dove non inquadreranno, appoggiato con una spalla al muro. Mi fa cenno con le dita che è tutto okay.
Inspiro ed espiro, la mano di Tom apparentemente appoggiata a caso dietro di me sullo schienale. Non può accarezzarmi la schiena, così cerca metodi sostitutivi per confortarmi.
"Quattro secondi... tre... due... " il numero uno, il tecnico lo conta muto e poi parte la sigla di TRL.

Subito dopo la sigla ci siamo noi in studio.
L'inquadratura è concentrata su Patrice che saluta il pubblico e dà il benvenuto a questa puntata speciale di TRL, che s'intitola King of Kingz - Ghetto Tribute. Un notevole sforzo di fantasia; mi chiedo che cosa sarebbe venuto fuori se avessero lasciato l'incombenza di trovare un nome a questa trasmissione ad un branco di scimmie lobotomizzate. "Anis Moahamed Youssef Ferchichi, in arte Bushido, era uno dei rapper più amati della Germania," Patrice scandisce il suo nome con voce partecipe ma introduce l'argomento come se fosse una cosa da niente. Come se stesse presentando l'ultimo singolo di Anis piuttosto che una trasmissione in suo onore dopo la sua scomparsa. Non gliene frega niente, ma finge il contrario.
Blatera per ore sulla grave perdita del mondo della musica con aria contrita, come se avesse perso un caro amico oltre che un grande artista di fama nazionale. Dio, e dire che ero davanti alla televisione, l'ho visto quando ha detto in diretta nazionale "Se avete qualcosa da risolvere, tu e Fler, risolvetevelo fra voi". Io so che quest'uomo non provava per Anis il minimo rispetto, ma dalle sue parole adesso non lo direbbe nessuno.
Devo fingere di non odiarlo, o di non odiare quello che la trasmissione rappresenta in realtà: un enorme occasione per fare su quintali di ascolti. Devo ricordarmi perchè mi trovo qui, su questo divano, così mi inumidisco le labbra e faccio finta di ascoltarlo con interesse. "E adesso il live di Zeiten Ändern Sich tratto dal 7 Live DVD, poi di nuovo in studio con la sua crew e con gli altri numerosi ospiti di oggi," la regia fa una carrellata dello studio e poi sfuma sulle prime note della canzone.
Il tecnico ci fa cenno che il video è partito. Patrice perde tutta la sua aria solenne e si mette a parlare con la truccatrice che lo ha raggiunto immediatamente; io, invece non riesco a staccare gli occhi dal monitor.
E' un colpo. Uno di quelli forti al cuore, che non ti aspetti e per il quale non sei preparato. Io vedo Anis sempre: nei miei ricordi, nei miei pensieri, nelle foto e in ciò che di lui vive ancora dentro la mia testa, però non ho più guardato un solo filmato da quando gli hanno sparato. Se l'ho fatto vivere è stato solo dentro di me. Quando lo vedo su quello schermo, quando compare sotto il cappuccio di quella felpa grigia e lo vedo muoversi - Dio, muoversi - il cuore mi si stringe così tanto che non lo sento più neanche battere. Per i primi minuti del video c'è solo il palco, e il fumo, e lui è tutto coperto ma non mi serve niente per riconoscerlo: le spalle, le braccia, la linea dritta dei fianchi.
Inspiro, perchè il mio cervello è impazzito. Una parte di me grida che è vivo, che è lì, e se è lì dev'essere vivo per forza. Il resto di me si ricorda che ha chiuso gli occhi dicendomi di non volersene andare. Il video è un montaggio del live e di alcuni momenti del backstage, quindi c'è Anis che canta - ed è bellissimo, e preso, e la folla si agita al suo comando - ma c'è anche Anis che scherza, e gioca con gli altri ragazzi. Ridono. E mi rendo conto che forse ho sbagliato anche solo a pensare di poter stare qui. Vorrei alzarmi e correre perchè proprio mi sembra di non farcela. Vederlo là dentro, voler allungare una mano e toccarlo e non poterlo fare è devastante. Tom mi accarezza un braccio e mi tira un po', vuole che smetta di guardare.
"Bill, girati," mi dice. E io lo faccio, perché la voce di Tom ha un potere particolare. Quando lo faccio, ed incontro i suoi occhi, Tomi sorride. "Va tutto bene. Io sono qui."

Patrice accoglie il rientro in studio, spiegando di nuovo brevemente la situazione perchè - mi pare di capire - siamo anche andati in pubblicità. E' difficile stare dietro a tutto quello che succede quando non sei inquadrato. David ci ha raggiunti sul divanetto durante la pausa, mi ha detto di calmarmi anche lui, devo avercelo scritto in faccia che non sto proprio benissimo. Secondo la scaletta, adesso dovremmo commentarlo questo video e per un attimo sono felice di non fare parte della crew. La parola tocca a Saad che era già pronto lì a parlare.
"Abbiamo appena visto nel video uno dei vostri show," sta chiedendo Patrice, con lo sguardo intenso puntato su Saad. "Che tipo era Bushido sul palco?"
"Atze era una forza della natura," risponde Saad, e un po' sorride. Io so che lui mi odia, ma so anche che voleva bene ad Anis. In quel momento capisco che se fa male a me stare qui, probabilmente fa male anche a lui. "Non stava fermo un momento, a volte era devastante. E fuori dal palco era anche peggio."
"Ti ha inseguito con un carrello," commenta Patrice.
Saad ride, ridiamo un po' tutti. "In realtà lì non si è visto," spiega, indicando il monitor,"ma poi ha cominciato a ridere e non ha smesso per dieci minuti. Era un bambino."
Patrice annuisce, condividendo l'ilarità generale. Guarda la sua cartelletta con le sue belle domande infilate una dietro l'altra. "Bushido fonda l'Ersguterjunge," la regia inquadra Fler che ha sul viso un'espressione indecifrabile, "nel 2004, giusto?"
Segue un coro di assenso generale, si parlano addosso e io li trovo carini. Seguo la discussione con interesse stavolta, non mi capita spesso di sentirli parlare di lui tutti quanti insieme. "E io leggo qui che avete fatto uscire moltissimi lavori fra album, sampler e singoli vari."
"Cinquantasette, dall'apertura a oggi," annuisce Chakuza, spostandosi sul divanetto. Appoggia la gamba destra in orizzontale sull'altra e ci gioca sopra col microfono.
Patrice annuisce a propria volta, accarezzandosi il mento con una mano. Non fa una piega.
Ed io mi preoccupo, perché dai conduttori imperscrutabili non sai mai cosa aspettarti.
Trattengo il respiro quando apre bocca, ed appena lo sento parlare capisco di avere avuto ragione a farlo.
“Ed in tutti questi anni di collaborazione non avete mai dubitato del suo operato o delle sue scelte? Mai nemmeno un contrasto?”
Ci sono cose che senza l’ausilio visivo non si capiscono. Il senso della sua frase… non sarebbe lo stesso, se il monitor di fronte a noi – quello oltre le telecamere, quello che ci mostra la messa in onda – non rimandasse il riflesso del mio volto.
Sono io la scelta della quale avrebbero dovuto dubitare.
Mi mordo un labbro e provo a non fissare la telecamera perché ho dannatamente paura di cominciare a piangere e non voglio farlo di fronte a tutti. Cerco la mano di Tom, di nascosto, strisciando sul divanetto, e la trovo immediatamente, come se mio fratello non avesse fatto altro che aspettare quella stretta da che ci siamo seduti.
Chakuza si agita subito, si inumidisce le labbra e riporta il microfono alla bocca.
“Noi non-”, comincia incerto, ma Saad lo ferma con un colpo di tosse, e Chakuza torna subito al proprio posto, in silenzio.
“Naturalmente,” dice con estrema tranquillità, “di fronte a certe cose ci ritrovavamo spesso un po’ spiazzati,” annuisce, “ma Bushido da noi non è mai stato in discussione. E perciò,” conclude deciso, guardandomi dritto negli occhi, “nessuna delle sue decisioni lo era.”
Io ricambio la sua occhiata e trattengo a stento le lacrime quando lo vedo annuire nella mia direzione. Vorrei piangere per un milione di motivi diversi che non c’entrano niente l’uno con l’altro. Ed ho voglia di alzarmi in piedi e ringraziare Saad, ma anche di prenderlo a pugni fino a fargli dimenticare da che parte è il cielo e da che parte la terra, perché una concessione come questa sarebbe stata molto più utile quando Anis era ancora vivo e respirava e dell’approvazione poteva farsene qualcosa. Adesso è sepolto a chissà quanti metri sotto terra, e che mi venga concesso un posto quando lui non c’è è del tutto inutile.
Ma immagino che siano anche queste leggi del Ghetto. Probabilmente, se Anis non fosse morto, io questo posto non l’avrei avuto mai.
“Naturalmente,” ripete Patrice, annuendo per l’ennesima volta come sapesse esattamente di cosa Saad stia parlando. In realtà non ne ha la più pallida idea, perché su una cosa quest’uomo aveva ragione, quando invitava Bushido e Fler a vedersela fra loro: la televisione non è il posto adatto per risolvere queste questioni. La televisione non c’entra niente, con queste questioni. E quindi Patrice non ne sa niente e non ne capisce niente. “E non vi ha stupito nemmeno la sua uscita a TRL?” chiede senza il minimo filtro – la telecamera mi inquadra di nuovo ed io lancio un sospiro stremato mentre colgo con la coda dell’occhio David agitarsi nel backstage – “Insomma, non è una cosa tanto comune, vedere un uomo di quasi trent’anni che espone in questo modo la presunta omosessualità di qualcuno.”
Sento Fler sopprimere a stento una risatina. È senza microfono, ma non può proprio risparmiarsi di sputare un “Ma se non facciamo altro dalla mattina alla sera?” che Sido blocca con un’occhiataccia e per il quale io invece mi ritrovo a ridacchiare a bassa voce. Ridacchia anche Chakuza, ma lui al contrario di me cerca di mantenersi serio perché forse non ha ancora realizzato quanto tutto ciò sia una farsa. La sua espressione tesa nel tentativo di non lasciarsi andare all’ilarità è tenerissima.
Patrice si comporta come non l’avesse nemmeno sentito. Il suo sorriso di circostanza è una delle cose più odiose su cui mi sia mai capitato di posare gli occhi. Ed il fatto che, in questo preciso istante, sia rivolto proprio contro di me, è ancora più irritante.
“E tu come l’hai preso, quell’episodio?” chiede, dando finalmente voce a ciò che tutti stanno pensando.
Questo ragazzino, com’è che si ritrova qua in mezzo a parlare di un rapper morto ammazzato?
Questo ragazzino è qua perché quel rapper lo amava. E se l’è visto morire fra le braccia, cazzo.
Scorgo appena David che mi fa cenni da dietro una telecamera, ma se lo guardassi probabilmente coglierei della disapprovazione, nei suoi occhi. O il tentativo di impormi dei limiti. In questo momento, non ne sento affatto il bisogno. Stringo la mano di Tom e parlo.
“In realtà quando disse quelle cose a TRL stavamo già insieme,” rivelo candidamente.
Osservo con un certo divertimento la consapevolezza farsi strada negli occhi di chi non c’era ancora arrivato. Patrice, per primo, e poi il regista, l’aiuto-regista, i cameraman, truccatori, parrucchiere e via dicendo.
Il conto è semplice. Ci arriva anche chi non è tanto bravo in matematica.
“Quindi…” esplicita per la folla il nostro conduttore, a disagio, “tu eri ancora minorenne, quando la vostra storia è cominciata.”
…mi rendo improvvisamente conto di ciò che ho detto, nel momento in cui realizzo che, se da un lato ho ottenuto ciò che volevo – zittirli tutti dicendo qualcosa che decisamente non si aspettavano – dall’altro è probabile che io possa aver detto anche qualcosa che probabilmente avrebbe fatto meglio a stare nascosto.
La pacca che David si dà sulla fronte la sento fin da qui, nonostante il brusio del pubblico di fortunati che è stato ammesso in studio. Tom stringe ancora la presa sulla mia mano.
“Bushido non ha fatto niente di sconveniente, finché mio fratello non ha compiuto diciott’anni,” dice, e sta mentendo, naturalmente, ma in questo momento non è un problema.
“E non trovi sia piuttosto sconveniente parlare di ciò di cui ha parlato Bushido a TRL, dato che allora Bill aveva solo diciassette anni?” chiede Patrice, spostando la propria attenzione su di lui.
L’Ersguterjunge tutta, dal divanetto, si mette in agitazione. Ho come l’impressione che metà del gruppo – in particolare Kay, sta scalciando come un puledro imbizzarrito – vorrebbe alzarsi e pestare quest’uomo dimenticandosi completamente della televisione.
Saad li tiene tutti fermi usando semplicemente la propria stessa calma. Li vedo tutti, si voltano a guardarlo uno per uno, e quando vedono che sta zitto e buono cominciano a tranquillizzarsi anche loro.
Vorrei essere altrettanto bravo a gestirmi.
Mi faccio forza, comunque. Tom non risponde, all’ultima domanda di Patrice, ed ha ragione a non farlo.
“Anis…” riprendo quindi io, lo sguardo basso, “era una persona a cui piaceva stupire gli altri. Era tremendamente egocentrico, perciò era naturale che, dovendo scegliere un modo per farlo capire al mondo, avrebbe scelto il più fragoroso.” Perché Anis era davvero così, lo penso ma non lo dico ad alta voce, era rumore. Non ci s’infila nella vita degli altri col silenzio, non si diventa la vita degli altri rimanendo in disparte. “Io non ne ho saputo niente, finché non ho visto la trasmissione in tv.”
Patrice annuisce e mi si avvicina.
“E quando l’hai visto, come hai reagito?”
Scrollo le spalle.
“Ho riso,” e ride l’intero studio, “No, davvero,” rincaro la dose, sorridendo a mia volta, “mi sono perfino chiesto per quale motivo fare la richiesta pubblica, visto che già in privato ne avevamo a sufficienza,” aggiungo con un sorriso serafico, così che tutti la prendano per la battuta che, in parte, non è per niente, “Però alla fine ci sono arrivato. Era il modo che aveva scelto di dirlo al mondo.”
Patrice sorride bonario, tornando a spostare l’attenzione su mio fratello.
“E tu, invece? Come l’hai presa?” gli chiede, inarcando curiosamente le sopracciglia.
Tom le sue sopracciglia le aggrotta e si dà quell’aria seria e sicura con la quale in genere affronta tutti i drammi nella propria vita – ed anche nella mia.
“Quale delle due cose?” chiede di rimando, “Bushido che richiede un pompino pubblico o il suo stare con mio fratello?”
Patrice ride.
“Il suo stare con tuo fratello,” risponde.
Tom annuisce piano e dosa le parole, stringendomi più forte la mano.
“È stata una scelta di mio fratello, e in quanto tale meritava rispetto.”
Ricambio la sua stretta e sorrido fra me. Tomi sta dicendo un sacco di bugie, ma le sue scuse sono sincere.
“E su questo andiamo in pubblicità,” avverte Patrice, rivolgendosi gioviale alla camera, “A fra poco col resto della storia di Bushido e dell’Ersguterjunge. Restate con noi!” e le telecamere vanno in stand-by.
Sembra che lo stacco pubblicitario sarà piuttosto lungo, perché quando Eko chiede se può andare in bagno gli dicono di sì e non aggiungono di far presto. Lo vedo scivolare via dal divanetto mentre Chakuza si alza per sgranchirsi le gambe e Saad, invece, si rilassa contro i cuscini, lasciando andare un respiro di pura tensione. Chaku fa per venire da questa parte, ma guarda oltre la mia spalla e si ferma, perciò guardo anche io e vedo che c’è David che si sta avvicinando minaccioso. Mi faccio minuscolo ed attendo la strigliata.
“Io non ho parole!” lo sento sibilare tra i denti, “Volete darvi un contegno? Tom, tu sei sempre il solito porco, e tu, Bill…” sospira e scuote il capo, “…cerca di non esporti troppo, d’accordo?”
Si allontana scuotendo il capo ed io faccio per voltarmi a guardare Chakuza per fargli cenno che sì, ora può avvicinarsi, ma non lo trovo dove l’avevo lasciato e vedo che sta girellando come un avvoltoio attorno al divano su cui sono seduti Sido e Fler. Sido sta dicendo qualcosa sul non parlare a sproposito, sembra un padre severo, e Fler si disinteressa di ciò che dice con la stessa espressione annoiata di un bambino disubbidiente. Lo vedo alzarsi in piedi e raggiungere Chakuza dopo aver lasciato Sido a parlare da solo, e vedo che, appena lo raggiunge, Chaku si volta immediatamente e si ferma a guardarlo.
“Ma allora eri davvero ubriaco!” gli dice prendendolo in giro, io ripenso all’uscita di Fler di prima e mi viene di nuovo da ridere, ma mi trattengo.
“Non sono ubriaco!” risponde Fler, tirandogli un calcio contro uno stinco, “Era una battuta, e almeno tu potevi ridere! Ho fatto la figura del cretino!”
“Ah, che strano…”
Il loro dialogo sfuma nel brusio dello studio e s’interrompe del tutto quando l’aiuto-regista ci fa segno di riprendere posto.
Quando finisce lo stacco pubblicitario mi accorgo che mi batte forte il cuore. Realizzo che ho paura delle altre domande che potrebbe pormi Patrice e cerco di ripassare mentalmente tutte le altre occasioni in cui Anis ha parlato di me o io ho parlato di lui. Ce ne sono tante e sono tutte potenzialmente imbarazzanti, o almeno, sono state tutte precedute o seguite da cose che potrebbero potenzialmente essere imbarazzanti se le raccontassi.
La scelta della camicia che ho indossato ai Comet nel 2007, per esempio. Quando tutti si sono chiesti per quale motivo gli ultimi due bottoni fossero sganciati e mi si vedesse tutta la pancia. Anis mi aveva letteralmente imprigionato nel camerino ed ero riuscito ad uscirne solo un minuto prima del red carpet. A riabbottonare il tutto con discernimento non avevo nemmeno provato – il mio discernimento aveva smesso di esistere nel momento stesso in cui Anis mi aveva posato le mani addosso.
Oppure la volta in cui gli chiesero se fosse serio nei miei confronti e lui rispose che sì, le sue intenzioni erano molto serie, mi avrebbe portato ad Amsterdam e mi avrebbe sposato e poi saremmo partiti per una lunga luna di miele. La sera prima avevamo litigato per chissà che motivo idiota – non è vero, li ricordo tutti, i motivi dei nostri litigi, volevo invitare Tom a mangiare da noi e lui aveva protestato dicendomi che era già abbastanza stanco dopo una giornata di lavoro per non sentirsi in vena di tollerare anche mio fratello, ed io l’avevo presa malissimo – e insomma, Anis non era davvero tipo da scuse, però sapeva lo stesso come farsi perdonare, e quello era stato il suo modo.
Ed a cercare, a grattare appena un po’ la superficie dei miei ricordi, ne trovo a migliaia, di aneddoti simili. E d’improvviso mi rendo conto che mi hanno chiamato in questo posto per affondare le mani nella mia testa e buttare la mia vita su un palco, davanti ad una telecamera, molto più di quanto non sia già stato fatto con me fino ad adesso.
E mi fa piacere ricordare Anis per i suoi fan. Però non so se voglio davvero dividerlo col resto del mondo, in questo momento.
Mi salva un miracolo, è evidente, perché so che, se fossimo tornati in studio ed avessimo ricominciato a parlare di me, non avrei potuto frenarle ancora, le dannate lacrime. Ed invece, dopo la pubblicità, non si torna subito in studio, parte un filmato. Guardiamo tutti nel monitor e vedo una cosa che decisamente non mi aspettavo. Davanti a me c’è un Anis che ho visto solo su YouTube e in qualche foto a casa di sua madre, una delle volte in cui mi sono ritrovato da quelle parti con lui. È magro e incasinato, più magro e incasinato di quanto fosse quando stava con me. Non è fisicamente piccolo, però lo sembra.
È un Anis talmente lontano dal mio tempo che quasi mi stordisce.
È l’Anis che conosceva Fler.
Nel filmato stanno tutti e due su un palco. O meglio, si danno il cambio: uno dei due sta sul palco, l’altro scende e passeggia lungo l’intercapedine che separa il palco dal pubblico. Tutti tendono le mani, tutti vogliono toccarli, sia Fler che Anis cantano con una rabbia ed una passione che Anis non ha mai mostrato all’Ersguterjunge. In effetti, ora che ci penso, anche nelle sue canzoni più cattive, Anis non sembrava mai arrabbiato. Solo amareggiato, deluso, il più delle volte semplicemente tronfio e fiero del proprio successo. La rabbia era una cosa distante, perché anche quando se la prendeva con l’Aggro Berlin era più derisorio che infuriato.
Su quel palco, invece, all’Aggro Berlin c’era ancora. Ed Anis cantava con rabbia. Lui e Fler cantavano insieme gridando al vento che la Germania non se li meritava, che la Germania non li capiva, che la Germania poteva anche andare a farsi fottere, loro i soldi li avrebbero fatti comunque, ed alla fine sarebbero diventati re e l’avrebbero governata tutta.
Li guardo nel video e mi sembrano così simili che quasi mi confondo. Cantano le stesse cose. Con la stessa voce. Con la stessa furia. È un Anis che non mi appartiene affatto, questo; lo trovo bellissimo, ma non ne avrò mai alcun ricordo. Mi volto impercettibilmente a guardare Fler e lo trovo con lo sguardo azzurrissimo fisso sul monitor. Si morde un labbro, non sembra agitato né a disagio, è solo… concentrato. Come non volesse perdersi un attimo di ciò che sta guardando.
Chi, invece, sembra davvero parecchio a disagio, è Sido. Ho come l’impressione che quest’uomo tutto vorrebbe tranne che trovarsi qui. Che è un po’ una sensazione che ci accomuna tutti, d’accordo, ma noialtri – io, Fler, Saad, Chakuza – lo sappiamo perché ci troviamo qui davvero. Per nessuno di noi questa è solo una trasmissione. Ci stiamo facendo gratuitamente del male perché è così che funzionano i lutti, qualsiasi cosa sia ciò che hai perso: ti ci immergi, lasci che ti ricopra tutto come un velo. Ne risorgi solo dopo. È un processo lento. Noi ci siamo nel mezzo.
Sido, con questo, c’entra poco. Eppure è qui e mi sento un po’ orgoglioso, per Anis.
Il filmato si conclude e noi torniamo in studio, Patrice non perde tempo a recuperare la propria cartellina e leggere ad alta voce. “Settembre duemilatre,” racconta con aria partecipe, “il successo di Bushido è appena all’inizio ed ancora nessuno immagina che, a solo un anno da questa data, lascerà l’Aggro Berlin per fondare la propria etichetta.”
Si prende una pausa ad effetto, la sfrutta per muoversi verso il divano su cui stanno seduti Sido e Fler. La telecamera stringe sugli occhi di Fler, il pubblico da casa non può vederlo ma io sì: sono ancora fissi sul monitor, che non è spento, è solo in pausa, precisamente sull’ultimo fotogramma di Anis prima della fine del video. Sembra uno sguardo perso, a guardarlo in televisione, ma io lo vedo che non è perso: Fler cerca gli occhi di Anis con i suoi. Mi sento disturbato.
Il fatto è che Fler è qualcosa di cui Anis parlava spesso, ma mai davvero. A toccare l’argomento con lui si ricevevano occhiatacce infastidite, tanto per cominciare, oppure una risata sprezzante, e sempre la solita solfa: un traditore, un codardo, uno stupido, ecco cos’è Fler.
Io non so.
Anis lo conosco- lo conoscevo: l’unico motivo per il quale provava della rabbia era per le cose che non era riuscito a trattenere abbastanza a lungo. Per suo padre, ad esempio. Per la storia fra Eko e Valezka, quand’era finita.
Credo che, quando Anis ha lasciato l’Aggro Berlin, l’abbia fatto sperando che Fler l’avrebbe seguito. Forse è questo, il tradimento di cui parla.
Ma io posso solo immaginarlo, perché Anis con me di questo non ha mai parlato davvero.
“È, questo, qualcosa che non si è mai veramente capito, nel passato di Bushido. Un po’ la parte oscura-”
“L’Aggro Berlin non è la parte oscura del passato di Bushido.”
Quando Fler parla, interrompendo Patrice, non se l’aspetta nessuno. Nemmeno il conduttore, che si volta a guardarlo come se, invece di averlo contraddetto, l’avesse preso a insulti senza un motivo. Ma è bravo, Patrice, a gestirsi gli ospiti, si muove con sicurezza: si riprende subito e si volta verso di lui, appoggiandosi al bracciolo del divano con aria complice, come un confidente navigato.
“Prego, prego,” incita con un cenno del capo. Sido lancia a Fler un’occhiataccia, ma Fler non la vede – o la ignora volutamente, non saprei. I suoi occhi sono cupi. Anche Anis aveva momenti del genere. E non lo si capiva più.
“L’Aggro Berlin non è stato un periodo oscuro,” ribadisce, e parla come non si trovasse davvero qui. Non guarda Patrice, non guarda la telecamera, continua a fissare l’immagine di Anis nel monitor. Non posso fare a meno di pensare che forse è proprio con lui che sta parlando. “Semmai, è stato il suo periodo d’oro. Eravamo giovani, ma la fama non ci aveva ancora istupiditi. E non cantavamo per spalarci merda addosso, cantavamo perché avevamo qualcosa da dire,” sospira pesantemente, torcendosi le mani in grembo. Lo guardiamo tutti, è un momento molto particolare. Mi sembra che Fler stia mettendo di fronte alle telecamere qualcosa di perfino più privato rispetto a quello che ho messo io. “I soldi danno alla testa solo ai deboli, comunque,” conclude scuotendo il capo, “è questo che non gli ho mai perdonato.”
Il nostro conduttore annuisce comprensivo. Mi chiedo perché non poggi una mano sulla sua spalla, s’intonerebbe perfettamente con quest’immagine melensa che vuole dare di sé, dell’uomo che sa tutto e che comprende tutto. Se io fossi davvero la principessa di qualcosa, l’avrei già messo a morte. Siccome mi sa che non lo sono, mi mordo un labbro e resto zitto.
“Sembra ci fosse proprio un bel rapporto, fra voi.”
Fler è preso in contropiede, non sa che dire, torna a guardarlo per la prima volta da quando siamo tornati in studio. “…ci conoscevamo da molto tempo…” butta lì, come servisse a spiegare.
“E come hai preso le accuse che ti sono state rivolte? Di averlo ucciso tu, intendo.”
Spalanchiamo gli occhi. Tutti, ma proprio tutti. Perfino Tom, che questa vicenda l’ha seguita solo marginalmente, si sente in dovere di dimostrare il proprio sgomento dischiudendo le labbra. Dopo quello che ha detto Fler, Dio, dopo quello che ha detto adesso, non puoi fare una domanda simile. È una scorrettezza tale che, stupidamente, penso che quest’uomo nel ghetto non resisterebbe un giorno. Lo farebbero fuori tempo niente. Devi capirlo subito, quando sei in quell’ambiente, cosa puoi dire e cosa non puoi dire.
“Puttanate,” boccheggia lui, e vedo Chaku agitarsi sul posto. Lo capisco, anche a me sta salendo un nervosismo assurdo. Vorrei prendere e alzarmi. “Se qualcuno ci crede ancora, quel qualcuno è un idiota,” rincara la dose, evidentemente ferito.
“Eppure,” continua Patrice, perfettamente conscio di aver trovato terreno fertile, “chi ti accusa parla di un movente piuttosto chiaro, e ce l’hai quasi confermato adesso. Ed eri lì, la notte in cui è successo, no?”
Vorrei davvero prendere e alzarmi. Le mani so menarle anche io. Ho le unghie lunghe. Di sicuro gli lascerei addosso qualche sfregio che ricorderebbe per un bel po’.
Invece si alza Fler, e nel suo sguardo c’è tanta fierezza e indignazione che arrivo a sentirmi inadeguato e sporco e meschino pure io che ormai alla sua colpevolezza non ci credo più da tempo.
“Sono puttanate,” ripete deciso, “come questo cazzo di programma,” e, senza una parola di più, si allontana verso il backstage.
Patrice non cerca neanche di fermarlo, un po’ di dramma era esattamente ciò che voleva, e visto che non mi ha ancora visto piangere – e non gliela darò questa soddisfazione, a questo figlio di puttana – provare con Fler era la cosa più veloce e più sicura. In sala cade il silenzio e Patrice sorride prima di voltarsi verso la telecamera e scusarsi col gentile pubblico per questa scena assolutamente imprevista ed alla quale cercheranno tutti di porre rimedio durante lo stacco pubblicitario.
Prima di andare in pausa, però, Sido chiede la parola. Prende il microfono che Fler ha lasciato sul divano, ed è calmo ed educato, addirittura cortese. Lo guardo bene in viso e mi chiedo se sia veramente questo l’uomo contro il quale Anis urlava tanto, nelle sue diss. Ha un aspetto incredibilmente innocuo.
“Fra le etichette discografiche,” comincia pacatamente, “è esattamente come fra gli esseri umani. Arriva un momento in cui smetti di capirti e non puoi più coesistere con l’altro,” scrolla le spalle. Anche lui parla con aria assente, però è una distanza diversa da quella di Fler. Continuo a pensare che quest’uomo non c’entri niente, con tutto questo, però è una presenza rassicurante, in un certo qual modo. “Ma Fler non ha ucciso nessuno,” dice deciso, guardando dritto in camera, “Fler c’è solo finito in mezzo. Ed è stato così un po’ per tutti noi, perciò io eviterei domande di questo tipo, da qui fino alla fine del programma.”
La pubblicità parte prima che Patrice possa rispondere.

Mi rendo conto di essere andato in stand-by solo quando vedo tornare Chakuza e Fler insieme. Fler ha addosso un’aria talmente scazzata che penso potrebbe esplodere da un momento all’altro. È palese che non ha nessun motivo di stare ancora in questo posto, e neanche nessun desiderio. Non ho idea di come abbia fatto Chaku a convincerlo a tornare dentro. Non ho idea neanche di dove sia andato a ripescarlo. Non mi interessa più niente, in tutta sincerità anche io sono decisamente stufo. Posso crogiolarmi nel mio lutto anche a casa, ho lasciato in mezzo le fotografie, posso ricominciare da lì. E invece mi tocca star fermo.
Mi consola solo il fatto che mancano meno di venti minuti alla fine della trasmissione, il che significa che probabilmente faranno un paio di domande a caso a qualcuno che decisamente non sono io ed alla fine mi permetteranno di andare a casa, dove dormirò fino a dopodomani, lo giuro.
Sono spossato.
Patrice riaccoglie il pubblico, che applaude, e non può proprio risparmiarsi un commento sul ritorno di Fler. “Le acque si sono calmate,” dice con un sorrisetto stronzo. Fler sbuffa, infastidito al massimo, ma non aggiunge niente.
Io sto quasi per rilassarmi contro lo schienale del divano, quando Patrice ricomincia a parlare.
“Fino ad ora abbiamo esaminato la parte più professionale e pubblica della vita di Bushido,” racconta serio, “ma Bushido era soprattutto un uomo. Con degli affetti, degli interessi ed una vita privata. È anche di questo che parleremo adesso con Bill Kaulitz, sicuramente la persona che, in quel senso, lo conosceva meglio.”
Ed io mi sento morire.
Lancio un’occhiata a David, che s’è pietrificato accanto ad una telecamera. Le domande private non erano proibite? Finché le cose le racconto io, d’accordo, ma che quest’uomo s’intrufoli nella mia vita, nel mio rapporto con Anis, nella mia cazzo di storia, questo no, non lo posso accettare. Non lo posso tollerare.
Non lo reggo.
David scuote lentamente il capo, non sa che pesci prendere. Aveva fatto firmare ai produttori un contratto, io lo so, David è sempre attentissimo a queste cose. Vedo già nei suoi occhi i meccanismi del cervello che si mettono in moto, lui che pensa a come risolvere, a chi fare causa, a chi togliere in tribunale perfino le mutande, ed io continuo a pensare che Patrice nel ghetto non sarebbe sopravvissuto un giorno. Penso questo, lo guardo e basta.
“Bill,” chiede comprensivo, “te la senti di parlarne?”
Non so che dire. No che non me la sento, mi pare ovvio. Non so perché non ho pensato a quest’eventualità, quando ho deciso che volevo venire ed aprirmi il petto in due. Non so perché non ho pensato che al mondo non bastasse vedere il mio cuore, che preferisse di gran lunga afferrarlo fra le dita e strapparlo via. Io lo sapevo che sarebbe finita così. Solo che la prospettiva di affondare un po’ fra i ricordi con una giustificazione valida per poterlo fare mi ha annebbiato la vista.
Tom mi guarda preoccupato. Cerco di nuovo David nel backstage, ma è scomparso. Mi prendo un secondo per avercela con lui, deve essere colpa sua, in qualche modo.
Sospiro.
“Suppongo di sì…” concedo distrattamente, con un mezzo sorriso. Sul divanetto dell’Ersguterjunge vanno tutti in tensione, come stessi per sputtanare chissà che.
In effetti è vero.
“Tu ed Anis…” mi salta il cuore in gola e spalanco gli occhi, “Posso chiamarlo così, sì?” non rispondo perché mi manca il fiato, ma no, testa di cazzo, non puoi chiamarlo così, non puoi chiamarlo così perché lo fai per pietismo in virtù di una libertà che non ti è mai stata concessa. Non commuovi nessuno, Patrice, ficchi le mani dove non devi, solo questo. “Com’è che vi siete conosciuti?”
Il mio sguardo si perde nel vuoto per qualche secondo. Poi stringo le mani in grembo – ho lasciato andare Tom molto tempo fa e non intendo tornare a chiedergli aiuto proprio adesso – e deglutisco, sperando di rimandare il mio cuore al proprio posto.
“Una festa,” racconto a bassa voce, “lui era ancora sotto contratto alla Universal. Chiacchierammo un po’, e…”
“Fu lui a provarci con te?”
Sollevo lo sguardo e lo omaggio di una smorfia infastidita.
“Assolutamente no,” dico, velenoso, “Non capisco cosa impedisca di pensare che sia stato io a provarci. È esattamente così che è andata.”
“E lui ti ha subito fatto sapere che anche da parte sua c’era dell’interesse…”
Comincio seriamente a chiedermi che razza di storia sia girata alle nostre spalle nello show business, perché ciò di cui sta parlando Patrice non c’entra niente con la nostra verità.
“Sono stato io ad insistere,” spiego asciutto. Non so perché non sto piangendo. Forse perché sono più arrabbiato che triste, in questo momento. “Anis s’è innamorato di me solo perché io, il suo amore, me lo sono guadagnato. E questo è quanto.”
Patrice annuisce tranquillamente e si siede sul bracciolo del mio divano. Io faccio fatica a non scostarmi disgustato.
“E dimmi, nella vostra vita privata-”
“La nostra vita privata” lo interrompo con un’occhiata glaciale, “è appunto la nostra vita privata.” Sorrido un po’. “Vuoi chiedermi com’era quando si svegliava alla mattina? Se era dolce con me? Se mi tradiva? Com’era a letto?” sbuffo e scuoto il capo, mi vanno un po’ di capelli davanti agli occhi ma li tiro dietro un orecchio con decisione. Non sto piangendo e voglio che lo vedano tutti. Voglio che lo capiscano tutti: Anis mi manca, ma non lo rimpiango. Non ho nessun motivo di rimpiangere niente. “Lui era perfetto,” dico fieramente, fissando dritto negli occhi Patrice, “è tutto quello che dovete sapere.”
Lui si tira impercettibilmente indietro. Vedo Tomi che ghigna soddisfatto, al mio fianco, mentre il pubblico si scioglie in un applauso scrosciante che non era previsto, dato che, teoricamente, non lo era neanche questa mia uscita.
Mi rilasso contro lo schienale e guardo Chakuza. Mi fa un cenno d’approvazione, una cosa piccolissima, china appena il capo e sorride. Gli sorrido di rimando, mentre ascolto distrattamente Patrice riassumere ciò che è stato fatto e detto durante la serata e salutare il pubblico ricordando l’orario di TRL del giorno dopo.

Non aspetto neanche un secondo. Appena ci danno il segnale di libero, mi alzo in piedi e tolgo il microfono. Non guardo nessuno e non vedo nessuno: voglio solo uscire da qui il più presto possibile, infilare in macchina e poi chiudermi in casa con le mie foto, i miei ricordi e il mio Anis che con le stupide insinuazioni di Patrice non ha niente a che spartire.
Imbocco il corridoio, incurante del fatto che, alle mie spalle, Chaku e Tom mi stiano chiamando. Trovo David che sta già litigando com'era prevedibile. Urla e strepita, minaccia ripercussioni legali su ogni fronte. "Il ragazzo è provato," sta dicendo e punta vagamente il dito nella direzione dalla quale provengo, finendo per indicarmi davvero senza volerlo. "Avevamo concordato per delle domande molto più generiche."
"Signor Jost, il signor Kaulitz si è dichiarato in grado di rispondere," gli risponde una donna ben vestita e pettinatissima. Ha la coda così tirata dietro la testa che dà l'impressione di smontarsi se solo le si togliesse l'elastico. Purtroppo quello che dice è vero. Il contratto sarebbe passato in secondo piano se Patrice fosse riuscito ad ottenere la liberatoria direttamente dalle mie labbra. E lo ha fatto, prendendomi in contropiede in diretta.
Nonostante questo, mi viene da sorridere stupidamente di fronte a David che mi chiama affettuosamente il ragazzo. Non posso essere il Signor Kaulitz per lui, neanche quando si parla di affari legali, non quando la prima volta che ci siamo incontrati avevo undici anni e lui mi superava ancora in altezza. Quello è durato poco, comunque.
Ad ogni modo sono stanco, l'ho già detto, e di ridere davvero non ho molta voglia.
"David, lascia stare," dico e lui si volta. E' così furioso che ci mette due secondi a capire che lo sto chiamando e gli ho chiesto di smettere. "Voglio andare a casa."
David si riprende e non discute. Qualunque disaccordo tra band e manager si discute in privato, è la prima regola.
E' così che ci ha insegnato a non fare capricci davanti a nessuno, ad obbedire ai suoi ordini per poi - in caso - protestare anche violentemente sul tourbus. E' per questo che la stampa non ha ancora avuto modo di sapere quanto io sia capace di battere i piedi e quanto si lamentino anche le due G, che passano per due tipi tranquilli.
David, difatto, non discute. "Va bene. Tra cinque minuti usciamo, allerto la security."
Mi sforzo di sorridere. "Grazie."
Il mio manager annuisce e si allontana, senza dimenticarsi di indicare la donna ben vestita e annunciarle decisissimo: "Avrà notizie dai miei avvocati."
Io mi stringo a Tom e sospiro. Se dio vuole è finita: niente più tributi, niente più inquadrature strettissime sui miei occhi. Non sono pentito - non ho la forza per esserlo - ma sono contento di essermi ripreso il mio Bushido e di potermelo riportare a casa. Ve l'ho fatto vedere, ma ora basta.
"Bill..." la voce tesa di Chakuza mi risveglia dai miei pensieri. Apro gli occhi e gli faccio cenno di continuare. Sta per parlare, ma David ci raggiunge di nuovo e quindi non ne ha il tempo materiale.
"E' tutto a posto, andiamo." E poi aggiunge: "Niente autografi, niente foto. Non vi fermate. Vi voglio fuori da questo posto il più in fretta possibile."
Sono perfettamente d'accordo, quindi annuisco. Tom e Chakuza scivolano al mio fianco immediatamente, imitano perfino i miei passi. Sorriderei se fossimo altrove.
Vedo Fler con la coda dell'occhio e mi pare che ci segua.
David ci fa uscire da dove siamo entrati ma la situazione è totalmente diversa. Quando ci affacciamo sulla porta si scatena il delirio: c'è un mucchio di gente in più. Hanno transennato ulteriormente e le ragazze scalpitano, chiamano il mio nome e quello di mio fratello. Qualcuno batte le mani e mi si solleva il sopracciglio in automatico.
David apre la fila e cammina spedito, dettando il passo a noi che gli stiamo dietro. Prima di uscire, abbiamo assunto la solita formazione: una delle guardie del corpo mi sta incollata addosso, l'altra è con Tom che scalpita - anche lui - e, per qualche strana ragione vorrebbe camminare più avanti con me.
Appena metto piede fuori, localizzo con un'occhiata le altre guardie della security; anche questo me l'ha insegnato David: devo sempre sapere chi mi può aiutare e dove trovarlo. Ironico che da lì a due minuti saperlo non mi servirà assolutamente a niente.
Facciamo soltanto cinque metri. Non c'è modo di arrivare alla macchina senza passare attraverso il corridoio umano transennato. Mi sforzo di tenere la testa alta e un'andatura non troppo sostenuta. Mi secca apparire scostante.
Le cose vanno fuori controllo un attimo prima che io - chiunque di noi, credo - me ne accorga.
Quando il pubblico grida, tu senti solo un vociare indistinto; alle volte ti arriva chiaramente il tuo nome e qualche frase imbarazzante, sì, ma per il resto sono solo grida.
Le urla di qualcuno che viene buttato a terra e spintonato, i suoni di una rissa insomma, non li puoi distinguere.
Ecco perché quando la transenna va giù è già tutto iniziato e tu non lo sapevi. Quando il ferro tocca terra con quel rimbombo di campana è già perfino tutto finito.
Da qualche parte alla mia sinistra volano offese. Io mi guardo intorno spaesato e l'unica cosa che mi preoccupa è che Tom si trova proprio da quella parte.
Guardo in quella direzione e la mia guardia del corpo fa lo stesso. Sull'errore umano ci puoi sempre contare, alla fine.
La rissa, in realtà, è solo davvero una rissa ma lo capiamo quel secondo troppo tardi. Quello è il secondo che ci mette la transenna vicino a me a cadere.
Mi volto di nuovo e lo vedo, l'uomo col passamontagna armato di coltello. Lo vedo così bene che penso: è una lama di dieci centimetri, sono morto.
Poi non capisco più niente. Sento correre, sento il mio nome e poi mi buttano a terra. Il grido di dolore che ne segue non è mio, però. Ho solo battuto una spalla, e neanche tanto, non ho fiatato.
Quando riapro gli occhi sono disteso a terra e Tom sta gridando: "Lasciatemi andare, cazzo!"
Il mondo ci mette più di qualche secondo a ritrovare un senso. La prima cosa che noto è che si sono zittiti tutti. Non è che stanno in silenzio, ma non gridano più; c'è come un mormorio.
La seconda cosa che noto è che ho le ginocchia immerse in una pozza di sangue. E che a seguirne la traccia collosa trovo Peter che non si muove e ha gli occhi chiusi. Peter che sembra morto.
"Chaku..." lo dico piano, perchè so che se mi esce di bocca poi è vero. Alla fine però urlo, perchè il sangue è sempre lì. "CHAKU!"
Gattono fino a lui e non me ne frega niente di niente. Del sangue. Della gente. Del brusio e delle mille voci che mi sembra di riconoscere. Non me ne frega.
Lo guardo e sta fermo, disteso sulla schiena. Lo guardo e ogni secondo c'è più sangue di prima. Mi ritrovo a pensare: non anche lui! Non anche lui!
E sento il panico che mi prende alla gola. Non ho materialmente la forza per prendere in considerazione l'idea che qualcuno gli abbia infilato un coltello nello stomaco, che stia morendo. Che perderò anche lui.
E' tutto come tre mesi fa. Tutto, tutto uguale. Il rumore di fondo, la gente che urla, il sangue. Il rosso, sulla maglietta bianca che si tinge ad una velocità spaventosa. Lo afferro e me lo tiro addosso, in ginocchio lì dove sono. "Chaku..." le lacrime che ho trattenuto di fronte a quel figlio di puttana di Patice escono fuori adesso. Mi ci soffoco mentre lo chiamo ininterrottamente. "Peter, Dio mio rispondi!"
Mi dondolo e dondolo lui. Una parte di me mi dice che è già morto, l'altra mi dice che non può esserlo e io non ascolto nessuna delle due e mi convinco che se rimaniamo tutti fermi non cambierà niente. Non morirà. Si fermerà tutto, anche il sangue.
Mio fratello continua a gridare e poi arriva Fler. "Bill spostati adesso," mi dice. La sua voce è tesa e netta e autoritaria. Non l'ho mai sentita una voce così, con quel tono particolare. Invece sì, penso vago. E' la voce di Anis, lui parlava allo stesso modo.
Io però continuo a stringere Peter perchè se mi muovo, se cambio qualcosa, il sangue riprenderà ad uscire. E lui a morire. "SPOSTATI!" Lo urla stavolta, e me lo strappa dalle mani, mi spinge via. Io cado all'indietro e c'è mio fratello pronto a recuperarmi al volo.
Sto piangendo così forte che non sento nemmeno le mie parole. So di pronunciarle, ma non le sento. "E' vivo? Fler?" Chiamo, lui non si gira. "FLER! Non si muove... Tomi, non si muove.. non si muove."
Tomi mi stringe, ho le sue mani sullo stomaco e mi appoggio contro il suo petto. Non è un abbraccio tenero, mi stringe forte perché sa che mi getterei di nuovo in avanti. Tom non dice niente, non lo dice e io penso che se non parla è perché non può consolarmi. E se non può consolarmi allora vuol dire che è morto. Peter è morto.
Fler solleva la testa, si guarda intorno con rabbia. Quei suoi occhi azzurrissimi quasi lampeggiano. Quando dice: "Qualcuno chiami una fottuta ambulanza," non guarda nessuno eppure tutti si sentono tirati in causa.
L'ambulanza arriva dopo pochissimo. Qualcuno doveva averla già chiamata, oppure sono stati molto veloci. Non so. I paramedici scendono dall'automezzo uno dietro l'altro come le squadre speciali della SWAT nei film americani. E anche Fler è un film americano perchè è lui a dire tutto, a fare tutto. "Ferita da arma da taglio sull'addome, il coltello probabilmente era seghettato, avrà bisogno di... non lo so, almeno quattro punti, ed assistenza immediata," dice ad uno dei medici mentre issano Chakuza su una barella. E la sua voce è di nuovo in quel modo, netta e secca. Il medico annuisce e Fler ha il viso tirato. Si china sulla barella, su Peter e sussurra: "Stai tranquillo, Atze, ne vieni fuori. Non preoccuparti."

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The Hardest Part

di tabata e lisachan
Mi chiamo Anis Mohamed Youssef Ferchichi e l’ultima volta che ho parlato avevo un buco nel petto, uno nella gamba ed uno squarcio sul braccio, ero ricoperto di sangue e stavo morendo. L’ultima volta che ho parlato è stata proprio l’ultima volta che il mondo ha sentito la mia voce, perché io su quel letto ci sono morto davvero. D’accordo, non lì, su quel letto ci ho solo lasciato il cuore e sono morto dopo, in ambulanza, proprio un attimo prima di arrivare in ospedale. Non sono mai stato davvero un uomo fortunato.
Comunque la sostanza non cambia. La sostanza è il mio corpo che si decompone metri e metri sotto terra. Io con la sostanza non c’entro più niente. Un corpo non ce l’ho più. Il mucchio d’ossa che si polverizza nella bara non mi appartiene. Di me è rimasto solo questo. Voce che nessuno sente. Presenza che nessuno percepisce. La capacità di guardare il mondo – una capacità che non ho chiesto e che, sinceramente, al momento preferirei non avere.
Bill si stira contro il materasso, getta indietro il capo ed ansima forte, gli occhi chiusi, l’espressione rilassata, è completamente assente. Il mio bracciale brilla prepotente attorno al suo polso nonostante l’oscurità della camera ed io vorrei evitare di guardare, ma quando non hai occhi, quando sei tutto e non sei niente – cose che capisci solo da morto, davvero – non puoi davvero evitare scene simili. Sono la realtà e tu ne fai semplicemente parte.
*
L’ospedale è buio e silenzioso, nonostante non sia affatto notte. Jost – sempre bravo a risolvere i problemi – ha dato disposizioni perché il caos generato dalla rissa dopo TRL sia tenuto fuori dalla bolla di vuoto assoluto in cui ha infilato Bill per evitare di sconvolgerlo più di quanto già non sia. Allo stesso modo, dottori ed infermieri passano per il corridoio antistante la sala operatoria come fossero fantasmi, scivolando sul pavimento lucido in perfetto silenzio.
Occhi bassi e lacrime cristallizzate sulle ciglia, Bill resta immobile sulla sedia. Tom, seduto accanto a lui, gli stringe una mano e gioca con la fede attorno al suo anulare sinistro. È enorme, per le dita sottilissime di Bill – e d’altronde era mia, perciò la cosa non mi stupisce – fa tutto il giro e Tom ogni tanto la tira verso la nocca come volesse sfilarla. La rimette al suo posto ogni volta che Bill stringe appena le dita, quando la sente sgusciare via.
Oltre la porta che Bill sta fingendo di non fissare, c’è Chakuza sotto i ferri. L’intervento sta andando bene, fortunatamente il coltello era maneggiato da un incompetente. Avrebbe sicuramente ucciso Bill, se fosse arrivato a mettergli le mani addosso, ma Chakuza è un uomo forte ed è riuscito a salvare la pelle. La lama non è arrivata nemmeno a ferire lo stomaco – quello sarebbe stato un problema – c’è solo una lacerazione piuttosto ampia da ricucire. Fler è stato bravo a dare le giuste direttive.
Fler.
Fler sta vagando nervosamente per il corridoio, le sue scarpe da ginnastica sono l’unica cosa che fa rumore, mentre la suola scricchiola nervosamente sulle piastrelle grigie. Non si sente nient’altro fino a quando il cellulare di Jost non squilla. Suona La Bamba, negli anni ottanta era un pezzo che andava forte. Probabilmente sarebbe il caso di ridere, di fronte ad una cosa del genere, ma non ride nessuno ed ognuno ha i propri motivi per farlo.
L’uomo si affretta a rispondere non appena scorge il numero sul display. È nervoso ed agitato.
- Sì? – attende che dall’altro lato della cornetta dicano qualcosa, mentre Tom gli scocca un’occhiata infastidita e Fler si appoggia contro una parete incrociando le braccia e sollevando un piede ad ancorarsi al muro. Lascerà una macchia, ma non può più camminare perché faceva rumore, e però deve darsi qualcosa da fare, perciò picchietta la parete con la punta del piede ed ogni volta che solleva la scarpa si intravede al di sotto l’alone scuro della traccia che lascia la suola.
Bill non dice una parola.
- No. – continua Jost, ignorando volutamente qualsiasi cosa lo circondi per concentrarsi solo sul suo interlocutore, - No, non preoccuparti. È tutto a posto. Non sappiamo ancora i dettagli, ma è tutto sotto controllo.
- Ma con chi cazzo parli, David?! – sbotta Tom, stringendo un braccio attorno alle spalle di Bill, che si riscuote appena ma non solleva lo sguardo.
David si allontana un po’ dalla cornetta, incerto.
- …Briegmann. – risponde evasivo, guardando altrove.
- Be’, - continua Tom, insoddisfatto, - non mi pare il cazzo di momento in cui stare a parlare del cazzo di lavoro, David.
Bill singhiozza e solleva il viso verso il fratello. Sono tanto vicini che gli sfiora una guancia con le labbra, mentre gli parla.
- Tomi, ti prego…
Fler deve intercettare il tremito nella sua voce. Non so quando abbia imparato a capire così bene Bill. So che da Fler non potevo aspettarmi niente di meno, perché gliel’ho insegnato io come si sta al mondo e come si controllano le situazioni, gliel’ho insegnato io che i problemi non vanno risolti ma prevenuti, quando è possibile. Ed infatti Fler previene. Le lacrime di Bill potrebbero essere un problema ed io già le vedo – posso immaginarle – scorrere lungo le sue guance.
- Adesso ci calmiamo, Kaulitz. – utilizza apposta il cognome, non vuole essere invasivo, solo razionale. – Non c’è affatto bisogno di-
- Te lo dico io di cosa non c'è bisogno! – lo interrompe Tom, ben deciso a non cedere di un passo. La conosco l’ostinazione dei Kaulitz. – Non c'è bisogno che mio fratello sia qui, che pianga un amico con un buco in pancia, che tu venga a farmi la predica e che David parli con la fottuta Universal in questo cazzo di preciso momento! Ecco di cosa non c’è bisogno!
Nel silenzio che cala dopo quest’attacco, si sente distintamente il click che annuncia l’interruzione della chiamata da parte dell’interlocutore di David. Se quello era davvero il presidente della Universal Music Deutschland, Tom avrà dei problemi seri da risolvere, già a partire da domani. Ma posso immaginare che al momento la cosa non gli interessi granché.
Si volta invece a guardare Bill, sollevando anche l’altra mano a stringerlo attorno una spalla e cercando i suoi occhi.
- Ti riporto a casa. – dice, secco ma dolce. Conosco anche quel tono. È il tono con cui in genere convince Bill a fare qualsiasi cosa, perché a Bill piace moltissimo sentirsi amato e quel tono gronda amore da ogni lato, dannazione.
Bill si tende tutto sotto le sue mani.
- No. – risponde, e suo fratello aggrotta le sopracciglia, - Voglio restare qui.
- Non esiste. – protesta Tom con veemenza, - Tu vieni a casa con me. Non ci resti qui, stanotte.
Fler solleva un braccio come a chiedere il permesso di parlare.
- Posso restare anche io e-
- Non ci resta qui, stanotte. – precisa lui, senza staccare gli occhi dal fratello.
Bill lo guarda ancora ed in fondo alle sue pupille c’è un pizzico di rabbia che me lo fa ricordare esattamente com’era nei suoi momenti migliori. Quando era lui, non il fantasma piangente di se stesso. Quando s’imponeva e pretendeva conto e ragione di tutto, quando richiedeva attenzione e quando dichiarava candidamente che in ogni caso avrebbe fatto solo ciò che gli interessava o che sarebbe stato meglio per lui. Quando era ancora una cosa mia.
- Non sei tu a dover decidere. – dice duramente. Poi il suo sguardo si fa più dolce, e forza perfino un sorriso stremato mentre sfiora con due dita la guancia del fratello, - Fammi restare, per favore.
Tom sospira e sposta le mani dalle sue spalle al suo volto. Lo tiene come una cosa preziosa, delicatamente.
- Sei sfatto, cucciolo. Devi riposare. – suggerisce pacatamente, - Ti porto qui come prima cosa domani mattina, promesso. Ti prego, torna a casa.
Bill scuote il capo e si morde un labbro, sollevando entrambe le mani a stringersi attorno alla maglietta di Tom.
- Lo hanno portato dentro, Tomi, ed io voglio vederlo uscire. – dice a bassa voce, perfettamente lucido, - Deve uscire. Almeno lui.
Se avessi ancora un cuore che batte si fermerebbe adesso. Ma io non sono più sostanza da tempo. Non sono più corpo da tempo. Non sono più niente da tempo. Bill aveva torto. Il problema non è solo di chi resta. È anche di chi va via.
- E va bene, va bene. – ringhia Tom, scuotendo rassegnato il capo, - Però io resto. Voialtri – avverte infastidito con una breve occhiata a Fler e David, - potete andare via.
Negli occhi di Fler si fa strada una preoccupazione nuova. Mette giù il piede e scioglie le braccia lungo i fianchi, schiude le labbra per dire qualcosa ma Jost lo precede.
- Tom… - chiama piano, con lo stesso tono sommesso di un padre ormai da lungo tempo rassegnato.
- Non hai altro da fare, cazzo? – sibila il ragazzo, interrompendolo e squadrandolo cupamente.
David si tira indietro e non aggiunge altro. Fler non ha nessuna voglia di litigare ma qualcosa deve dirla comunque.
- Io non posso andare via con Chakuza là dentro. – dice pianamente, perfettamente a proprio agio, - Starò di fuori, per qualsiasi evenienza sapete dove trovarmi.
Seguo Fler finché non esce dal corridoio, svoltando nella sala accettazione dell’ospedale e dirigendosi verso la porta scorrevole che porta al parcheggio tutto intorno alla struttura, scomparendo nella notte com’è sempre stato bravo a fare all’occorrenza, e poi torno a guardare Bill, che s’è slacciato dal fratello ed ha ancora due lacrime immobili appena sotto le palpebre. Non so cosa aspettino, per scendere. I suoi lineamenti sono tesi e contratti, se non avessi impresso la sua forma – tutte le sue forme – così profondamente nella mia memoria – e la memoria è davvero l’unica cosa che resta – probabilmente faticherei a riconoscerlo.
Capisco cosa aspettavano quelle due lacrime per cadere quando la porta della sala operatoria si apre discretamente e ne esce fuori un esserino delizioso, biondo e pallido, con un paio di enormi occhi azzurri ed un sorriso incoraggiante sulle belle labbra rosse. L’infermiera perfetta, davvero. Tom la squadra compiaciuto dall’alto in basso, in fondo non è un suo amico quello che ha rischiato di morire. Ovviamente, Bill non ha occhi che per lei, anche se non è lei che sta guardando ma la sua divisa.
- Com’è andata? – chiede, la voce rotta, scattando in piedi mentre le lacrime caracollano giù lungo le sue guance ripercorrendo la scia ormai asciutta di un pianto già vecchio.
La signorina sorride più apertamente, inclinando il capo e lasciando la lunga coda bionda ondeggiare sulla schiena.
- Il signor Pangerl sta bene. – dice, ed il sospiro di sollievo che sfugge alle labbra di Bill non potrebbe ignorarlo nemmeno un sordo. La bionda sorride teneramente, prima di continuare. – Al momento è ancora sotto anestesia e non potrà ricevere visite almeno fino a domattina, ma l’intervento è andato bene, resterà solo una cicatrice. Purtroppo – sospira, - il coltello era seghettato, - e Bill sorride un po’, - perciò la lacerazione è stata complessa da ricucire, ma un buon chirurgo plastico dovrebbe poter risolvere il problema.
Viene un po’ da ridere anche a me – ed è tremendo voler ridere quando non puoi. Non so nemmeno se la mia risata riecheggerebbe sinistramente lungo questo corridoio semivuoto. La mia condizione non è molto simpatica. Comunque mi viene da ridere perché l’unica cicatrice che ha – quella sul sopracciglio – Chakuza se l’è fatta sbattendo contro un armadio. Non gli sembrerà vero di avere una vera e propria cicatrice da eroe. Secondo me la tiene.
- Non potrei… - Bill si interrompe mentre suo fratello, dietro di lui, comincia a raccogliere giubbotti e borse, dato che, se lo conosco bene, non intende restare nei paraggi se non si può entrare e visitare il povero ferito, - …vederlo? Solo per un attimo?
L’infermiera finge di esitare perché sa che non dovrebbe ma in realtà il linguaggio del suo corpo parla chiarissimo: il sorriso è dolce, le sopracciglia inarcate verso il basso, le lunghe ciglia battono su un paio di occhi incredibilmente lucidi. Bill se l’è già conquistata.
Parla chiaro anche la lunghissima occhiata che lancia a Tom, e che Tom le ricambia senza problemi di sorta, condendola pure con un sorriso malizioso. Il ragazzo lascia cadere i giubbotti sulle sedie di plastica e resta in piedi, mentre David sospira ed interrompe minuti interi di imbarazzato silenzio per salutare i ragazzi e dire che ripasserà domattina, mentre già armeggia alla ricerca del cellulare – probabilmente per riprendere la telefonata bruscamente interrotta qualche tempo prima.
- Solo qualche minuto. – dice l’infermiera agitando un dito ungulato perfettamente laccato di rosso sotto al naso di Bill. Apre la porta e Bill scivola di soppiatto oltre l’uscio; non nota affatto Tom avvicinarsi alla donna con aria predatoria. In una situazione normale gli tirerebbe dietro improperi fino a farlo diventare sordo.
Quando la porta gli si chiude alle spalle, Bill si ritrova in un ambiente stretto e poco confortevole. Ci sono un paio di sedie di plastica in un angolo, un tavolino spoglio con sopra una cartella medica che non capirebbe neanche se provasse a leggerla con attenzione e nient’altro. È pulito, ma vuoto in maniera desolante. A riempire più di metà della parete a destra, comunque, c’è un’enorme vetro spesso e lindo. Al di là del vetro c’è tutto ciò che gli interessa al momento.
Alcuni infermieri spostano Chakuza dal lettino operatorio alla barella sulla quale lo porteranno nella stanza che Saad ha esplicitamente richiesto per lui, pretendendo di sistemare tutto da solo nonostante David si sia impuntato fino all’ultimo per occuparsi dell’intera faccenda.
Bill fissa il corpo dell’uomo che viene spostato con delicatezza. Osserva gli occhi chiusi ed il tessuto leggero del ridicolo camice che gli hanno messo addosso sollevarsi appena al ritmo del suo respiro, che è debole e lento ma c’è.
Poggia una mano sul vetro. La fronte, subito dopo. Socchiude gli occhi e sorride.
Mi sento come se stessi spiando uno sconosciuto. Fa male anche se non ho più un corpo per sentire dolore.
*
L’indomani mattina Bill arriva all’ospedale ad un orario assolutamente indecente. Suo fratello è riuscito a trascinarlo controvoglia a casa nel momento in cui l’infermiera è tornata a riprenderlo nella saletta antistante la sala operatoria – visibilmente più scarmigliata e meno perfettamente truccata di prima – e Bill s’è sentito dire che tutto ciò che avrebbe potuto fare per il resto della notte sarebbe stato mettersi a fissare insistentemente il muro. Quando Bill ha chiesto a suo fratello se poteva comunque restare, Tom gli ha dato del pazzo da ricovero. Bill s’è sentito in dovere di dargli ragione e s’è lasciato scortare a casa.
Durante la notte non è cambiato molto. Fler è rientrato in ospedale verso le due del mattino, congelato e con un principio di raffreddore già in atto, stretto in una felpa bianca e nera che non sarebbe riuscita a proteggerlo dal ghiaccio della notte tedesca neanche se fosse stata in lana pura – ed era solo cotone pesante. S’è guardato in giro, ha individuato l’infermierina bionda vagolante di fronte alla camera di Chaky e le ha chiesto se il signor Pangerl stesse là dentro.
Lei ha risposto di sì ma che le visite non erano ammesse.
Fler ha flirtato in maniera veramente spudorata. Alla signorina non dev’essere sembrato vero beccarne due in una sera, comunque per tutto c’è un prezzo e Fler lo sa bene: il quarto d’ora passato a soddisfare l’infermiera nello sgabuzzino delle scope gli è valso la possibilità di starsene al caldo in camera di Chakuza, affondato in una poltrona in pelle marrone, per tutto il resto della notte.
Quando s’è seduto, tirando una gamba su un bracciolo e lasciandola penzolare nel vuoto mentre poggiava il viso contro le nocche del pugno chiuso e piantava il gomito nel bracciolo opposto, ha sospirato e borbottato “Atze, non hai idea del freddo che fa. Comunque lo sapevo che te ne saresti tirato fuori. E, oh, non hai idea di cosa ho dovuto fare per riuscire ad entrare qua dentro!”.
Avrei voluto ridere di nuovo, in tutta sincerità. Vedere Fler così dopo averlo visto per tutti gli ultimi cinque anni in una luce completamente diversa mi fa bene, credo. Le sensazioni di benessere non sono chiare come quelle di malessere. Ma non lo sono mai, non lo erano neanche quand’ero vivo.
Bill arriva, comunque, accompagnato da un fratello così gloriosamente scazzato da non lasciare adito a dubbio alcuno sulla sua voglia di trovarsi da tutt’altra parte. Oltretutto, come sono arrivati la biondina ha ripreso a ronzargli intorno, e Tom la guarda con lo stesso interesse col quale guarderebbe una merda di cane per strada, perciò la situazione in sé non è che sia esattamente idilliaca.
A me viene ancora da ridere, per inciso.
Bill entra di soppiatto nella stanza di Chakuza e vede Fler sonnecchiare sulla poltrona, il capo penzolante avanti e indietro. Gli si avvicina con un sorriso tenerissimo in viso, è un bel po’ che non lo vedo splendere in questo modo. I capelli sono sciolti e morbidi sulle spalle e non ha addosso un filo di trucco, solo qualche catenina, il mio bracciale e il mio anello.
Gli si piega addosso e lo scuote per una spalla.
- Fler, - lo chiama piano, per non disturbare Chaky, - ehi, ci siamo qui noi adesso… vuoi andare a casa?
Fler gli spalanca un paio d’occhi acquosi e assonnati addosso e si riscuote.
- No… - mormora confusamente, - sto bene, vado solo… - non si capisce cosa borbotti mentre torna a chiudere gli occhi. Bill ridacchia e lo scuote ancora, mentre Tom si appollaia letteralmente su un tavolino nell’angolo opposto della stanza. – Sì, sì! – si sveglia lui a quel punto, - Okay, ho capito… vado a darmi una sciacquata al viso e… volete del caffè? – i gemelli annuiscono in contemporanea, Fler si alza dalla poltrona e si sgranchisce le gambe e le braccia, prima di passarsi una mano sugli occhi e sbadigliare sonoramente. – Allora resti tu qui mentre sono via? – chiede un’ultima volta, come rassicurazione, muovendosi già verso la porta.
Bill annuisce tranquillo e si siede sulla poltrona.
- Oh, ma è caldissima! – ride.
Fler ride a propria volta, la mano già sulla maniglia.
- Sì, te l’ho tenuta così apposta. – scherza uscendo.
Abbiamo appena il tempo di sentire il mezzo strillo concitato dell’infermiera che se lo ritrova davanti agli occhi, prima che lui chiuda la porta gridando “no, ancora?!” e fuggendo verso i bagni degli uomini – di fronte alla cui porta non sono nemmeno sicuro che lei si fermerebbe – che la stanza ripiomba nel silenzio e tutto ciò che riusciamo a sentire è il bip continuo del macchinario che ci informa che Chakuza sta bene, così come i suoi respiri profondi e regolari.
- Senti, ma se continua a fare il bell’addormentato possiamo andare? – si lagna Tom, piantando le mani sul tavolo ed accavallando le gambe, facendo dondolare una seggiolina di plastica con un piede.
Bill si volta a guardarlo con aria estremamente disapprovante.
- Dobbiamo restare finché non si sveglia! Pensa tu se apre gli occhi e si ritrova da solo!
- Oh, sì. – ridacchia Chakuza. Bill sente la sua voce e si volta a guardarlo con la lentezza impaziente e desiderosa di conservare la meraviglia dell’attimo con la quale in genere si guarda alle sorprese più belle, - Avrei potuto spaventarmi moltissimo.
Bill gli getta le braccia al collo all’istante.
- Chaku! – urla, saltandogli letteralmente addosso, - Oddio, sei sveglio! Come stai?
- Ouch… - borbotta un po’ lui, cercando di scostarsi da Bill che preme contro la ferita ancora fresca di sutura, - Sono stato meglio, ma devo dire che pensavo che le coltellate facessero più male.
- Che uomo. – lo prende in giro Tom, inarcando un sopracciglio, - Quasi te ne facciamo avere un’altra, va’.
Bill gli lancia un’altra occhiataccia, rinunciando alla poltrona per accucciarsi sul letto accanto a Chakuza, una gamba piegata sul materassino, l’altra a reggere saldamente il peso sul pavimento.
Vorrei un corpo solo per poter uscire da questa stanza, adesso.
Fler rientra affannato, stringendo tra le braccia tre bicchierini colmi di caffè annacquato.
- Dio mio, ma è una strega… - biascica confusamente, tirando giù col gomito un lembo della felpa incastrata nella cintura dei pantaloni, - Ragazzi, ma anche a voi…? – solleva lo sguardo e lo punta su Chakuza, che nel mentre s’è sollevato a sedere ed ora lo sta guardando a propria volta, sorridendo come un bambino ed agitando una mano in segno di saluto nella sua direzione. - …lo sapevo. – ride, avvicinandosi e scuotendo il capo, - Bushido non poteva averti preso in crew senza che valessi veramente qualcosa.
È strano sentir parlare di se stessi da morti. Non è una cosa che dovrebbe naturalmente accadere. Forse invece accade sempre, ma io ne avrei comunque fatto volentieri a meno.
Bill si irrigidisce così all’improvviso e così repentinamente che il suo disagio si estende anche a tutti gli altri. Tom si fa teso sul tavolino, Chakuza rabbrividisce leggermente ed osserva il ragazzo – il mio ragazzo – scivolare sul materasso fino a lasciarsi ricadere sulla poltrona.
Fler capisce qualcosa che capisco anche io. Pure se preferirei non capirlo affatto. E si scusa.
Il silenzio che si prolunga dopo è tanto imbarazzante quanto confortante. Sorseggiano tutti i loro caffè avvolti in una bolla di disagio che si risolve scoppiando all’improvviso nel momento in cui Tom salta in piedi ed annuncia a gran voce che sono già in ritardo per l’appuntamento alla Universal e che David li starà sicuramente aspettando di fuori. Bill si morde un labbro e posa il proprio bicchierino ancora mezzo pieno sul comodino accanto al letto, alzandosi in piedi.
- Torno questo pomeriggio, d’accordo? – dice a Chakuza, ed io so che vorrebbe dirgli altro perché conosco i suoi occhi e so quando stanno nascondendo ciò che la sua voce non può ancora dire. Giuro che se potessi distoglierei lo sguardo.
Fler e Chakuza restano soli il secondo successivo. Fler riprende posto sulla poltrona e gli allunga una pacca amichevole sulla spalla. Chakuza si lamenta sonoramente.
- Un po’ di delicatezza, cavolo, sono stato ferito! – borbotta sistemandosi contro il cuscino.
Fler ride, incrociando le gambe sulla poltrona.
- Molto eroico, da parte tua. – commenta con un sorriso furbo.
Chakuza scrolla le spalle.
- Bill era in pericolo.
Fler sbuffa un’altra mezza risata e scuote il capo, sistemandosi meglio sul cuscino.
Chakuza si inumidisce le labbra e poi sorride lievemente.
- Sai che stanotte ti ho sentito?
Fler spalanca gli occhi su di lui, schiudendo appena le labbra ed arrossendo.
- Come, prego…? – chiede ansioso.
Chakuza ride con più convinzione.
- Non ero mica in coma, dormivo e basta! – spiega, - Mi hanno svegliato i rumori e poi ti sei messo a parlare…
- Ma farmi sapere che mi stavo sputtanando, no…?
Chakuza scuote il capo e ride ancora, piegandosi lievemente in avanti.
- Hai bevuto? – s’informa interessato, lanciandogli un’occhiata dubbiosa.
- Nemmeno un goccio. – risponde fieramente Fler. Poi ci riflette. – Be’, una birra. Ma sono stato in giro tutta la notte, rischiavo la morte per congelamento, avevo bisogno di un po’ d’alcool.
Chakuza lo guarda, disapprovandolo gravemente.
- Patrick… - comincia severo.
- Niente Patrick, non me la merito la strigliata! – borbotta Fler in risposta, incrociando le braccia sul petto.
Tutto quello che mi interesserebbe, al momento, sarebbe uscire da questa stanza e raggiungere Bill. Dovunque si trovi. Fargli sentire che ci sono, dannazione, che da qualche parte ci sono ancora, anche se lui non può vedermi né sentirmi. Anche se sono morto, cazzo, io esisto ancora. Resto bloccato – imprigionato – qui. Non sono più parte di questo mondo.
È incredibilmente crudele essere costretto a sapere comunque tutte queste cose.
*
Eko Fresh entra nella stanza – Dio, mi fa piacere rivederlo, non credevo l’avrei mai detto, pensato o qualsiasi cosa sia quella che sto facendo adesso – e lo dice. Così. Senza preavviso e senza nemmeno spiegarsi.
- Atze, l’hanno chiamato Flerkuza.
Su quella sua faccia allungata da topo lo stupore è comico da morire. Quand’è stupita, la faccia di Eko si allunga a dismisura.
- Hanno chiamato cosa in che modo? – sbotta Fler, riconoscendo immediatamente il proprio nome e non altrettanto immediatamente quello di Chakuza. È meraviglioso che non sappia di cosa Eko stia parlando. Io ci sono già passato, quindi sono un passo avanti.
- Ma sei ancora qui tu? – chiede Eko, notando solo in quel momento la sua presenza rannicchiata sulla poltrona, - Ma non ce l’hai una vita? – poi scrolla le spalle, voltandosi verso Bill che staziona ai piedi del letto di Chakuza ed avvolge un gomitolo di lana dal lungo filo che Chakuza tiene appallottolato in grembo e sbroglia con attenzione. – Ohi, principessa. – lo saluta con un cenno del capo, - Che combinate?
- Volevo fare un maglione! – borbotta Bill, imbronciandosi e gonfiando le guance, - Ma non sono stato capace.
Eko ridacchia.
- Ma per chi? Per Chaku?
Bill scuote il capo.
- Per Fler! – spiega, mentre Fler solleva un braccio come a dire “presente” e si stringe nelle spalle, tirando su col naso. – S’è preso un raffreddore assurdo, ma è perché va sempre in giro in felpa. Visto che si ostina a passare le notti all’addiaccio, volevo almeno che avesse qualcosa di caldo…
- Ruberò una borsa dell’acqua calda da casa di Sido. – biascica Fler, allungandosi a recuperare un fazzolettino dal comodino per soffiarsi il naso.
- Potresti dormire sulla poltrona e basta. – suggerisce Chakuza con un sorriso furbo, - Giuro che non origlio più. – aggiunge quando Fler gli lancia un’occhiataccia offesa e imbarazzata.
- Oppure potresti tornartene a casa tua, tanto per cambiare, e dimostrarci di averne una. – rincara Eko, recuperando la seggiolina di plastica e trascinandola fino al letto per poi sedersi a gambe divaricate e chinarsi in avanti con aria cospiratoria.
Bill si china immediatamente verso di lui. Ha sempre adorato dargli corda, parlare con Eko lo diverte oltremodo.
- Allora, cos’è che dicevi quando sei entrato? – lo stuzzica, tirando un po’ il filo per dire a Chakuza di darsi una mossa.
Eko annuisce con aria seria al punto che Fler si sente turbato e si china a propria volta, e tutti e tre fanno capannello attorno ad Eko che solleva un dito e si mette a raccontare.
- Stavo vagando su fanfiktion.de con Kay, e ci siamo imbattuti nel primo esemplare di Flerkuza della storia.
- Ma si può sapere che cazzo è ‘sto Flercoso? – sbotta Fler irritatissimo, tirando su il colletto della felpa e tirando su pure col naso, già che c’è.
Eko lo guarda con fastidio palese.
- Ma sei sempre così lento di comprendonio o che? – commenta impietosito, - Fler e Chakuza insieme fanno il Flerkuza.
- No… non ci credo! – ride Bill, battendo entusiasta una mano su un ginocchio e rischiando di disfare nuovamente il gomitolo che, rotolando sul materasso, raggiunge le mani di Chakuza, che possono così salvarlo prima di distruggere ore di lavoro per l’esaltazione di un momento, - Hanno già cominciato a scriverci su?
Chakuza si passa una mano sugli occhi, disperato.
- Non è possibile… - sospira affranto.
Fler continua a non capire, ma è giusto così, lui con le fanfiction non ha mai avuto a che fare.
- Ma scrivere su cosa? – chiede quindi, ed Eko rotea gli occhi battendosi una mano sulla fronte.
- Quando c’è stato il casino a TRL, non è che sia stata ripresa perfettamente proprio tutta la scena. – spiega pazientemente, - Diciamo che le riprese si sono focalizzate più che altro su te che prendi in mano la situazione ed aiuti a caricare Chaku sull’ambulanza improvvisandoti George Clooney dei poveri in un episodio di Ghetto-ER.
A Fler continua a sfuggire il passaggio fondamentale.
Chakuza lo esplicita per lui. O almeno ci prova.
- Credo che scrivano su noi due, Pat.
- Scrivano chi? E cosa?
Bill ha pietà delle nostre anime – soprattutto della mia che, a quanto pare, esiste davvero – risolvendo il problema con una lezioncina semplice ed accurata delle sue.
- Le fangirl, Fler. – spiega annuendo, - Mi sa che vi hanno preso in simpatia ed ora scrivono fanfiction su di voi. Ciò che Eko sta tentando di dire-
- Eko può dirlo da solo. – annuisce lui, interrompendolo e rivolgendosi a Chakuza, - Quindi insomma, c’era questa storia incredibile in cui tu stai all’ospedale in punto di morte e Fler è lì al tuo capezzale che piange e quindi tu ti risvegli e gli dici che in realtà l’hai sempre amato, e-
- Ma che roba è?! – scatta in piedi Fler, giustamente terrorizzato, - Cristo, ma è da malati mentali!
Eko agita una mano come a dirgli di aspettare.
- No, ma poi migliora! – commenta con competenza, ma a Fler non sembra interessare molto.
- Ma può pure essere il nuovo capolavoro della narrativa tedesca, fanculo! – si tira indietro, soffiandosi ancora il naso, - Vado a farmi un giro, cazzo. E dopo magari me ne vado davvero a casa.
- Volesse Iddio. – implora Eko, per poi tornare a guardare Chakuza, - Dicevo, tu l’hai sempre amato, e…
Bill salta giù dal materasso, rischiando di mandare all’aria Chakuza con tutto il letto.
- Fler! Aspetta! – lo richiama mentre lui esce dalla porta, - Ti accompagno.
Fler scrolla le spalle come se la cosa non gli importasse minimamente, ma aspetta comunque che Bill sia uscito dopo di lui per richiudere la porta. Dall’interno della stanza giungono le risate soffocate di Eko e di Chakuza, e Fler rotea gli occhi, infastidito.
- Non prendertela troppo… - cerca di consolarlo con un sorriso tenero dei suoi, - Ti va una cioccolata calda? – suggerisce indicando la macchinetta a qualche metro di distanza da loro.
Fler ghigna stanco.
- Se me la correggi con una dose abbondante di vodka, possiamo cominciare a parlarne.
Bill gli lancia un’occhiata curiosa, inclinando lievemente il capo, e Fler ride e scuote il capo.
- Prendiamo questa cioccolata, - concede, - e dopo andiamo a farci un giro fuori. Ti va, ragazzino?
Bill annuisce freneticamente e trotterella verso la macchinetta automatica, recuperando due cioccolate che insiste per pagare e seguendo Fler all’esterno dell’ospedale. Il suo sguardo si fa enorme e brillante quando si posa sul manto bianco che copre le strade.
- Ha nevicato…! – esala estasiato, stringendosi nel cappottino.
Fler rotea gli occhi.
- Perfetto, ci mancava solo questo. Morirò.
Bill ride e muove qualche passo sul marciapiedi, attento a non scivolare.
- Se ti rassegnassi a stare al chiuso, di notte, come tutte le persone normali… - suggerisce, giocando con la punta di una scarpa in un cumulo di neve attorno al lampione.
- Ci sono abituato, non è un problema. – borbotta Fler, agitando una mano, - Tu non ficcare i piedi là dentro, ti prenderai una polmonite.
- Guarda che sei tu quello che starnutisce da giorni! – ride Bill, socchiudendo gli occhi su una folata di vento particolarmente freddo.
Fler lo liquida con un cenno della mano e sbuffa, il suo fiato si condensa e lui e Bill lo osservano disperdersi nell'aria. Tirano giù un sorso di cioccolata bollente quasi contemporaneo e li sento sospirare di sollievo nello stesso modo, a distanza di pochissimi secondi.
- Dovresti veramente riguardarti, un po'... – borbotta Bill affiancandoglisi e cominciando a camminare lungo il marciapiedi, - Peter era preoccupato l'altra sera, quando non ti ha visto arrivare...
- Ah, davvero? – Fler arrossisce vagamente, è comico vederlo arrossire così, e poi si perde in un ghigno un po' più furbo, lanciando un'occhiatina allusiva a Bill, - E tu che ci facevi l'altra sera da Peter?
Bill sorseggia la cioccolata, incerto.
- Ogni tanto... – biascica fissando il vapore acqueo che risale dal bicchierino plastificato, - ...mi piace passare un po' di tempo con lui. Mi sento più a casa nel suo appartamento che non nel mio. È strano... – aggiunge con un sorriso triste, - perché casa mia è piena di ricordi di Anis, quindi dovrei trovarmi meglio lì, e invece...
Fler sbuffa una mezza risata, finendo la cioccolata e gettando il bicchierino in un cassonetto dell'immondizia.
- Guarda che non devi nasconderlo con me, se state insieme. – butta lì semplicemente, infilando le mani in tasca per proteggerle dal gelo, - Non ve la scrivo una diss contro.
Bill si volta a guardarlo come se avesse detto contemporaneamente la cosa più offensiva e la cosa più ridicola del mondo.
- Ma... non... – si agita arrossendo e stringendo il bicchierino fra le mani, - Non stiamo insieme!
Fler inarca un sopracciglio e lo fissa. La sua espressione non è incredula come dovrebbe essere, se davvero pensava stessero insieme. Ci sono un sacco di cose che mi sfuggono, in tutto questo. O forse la cosa spaventosa è che in realtà non mi sfugge niente e capisco tutto, e questo mi infastidisce perché non dovrei – sono morto, non dovrei davvero – e neanche vorrei.
- No? – insiste, mentre Bill butta via il bicchierino ancora mezzo pieno e tira fuori dalla borsa un paio di guanti, - Strano.
- Strano perché? – chiede lui, infilando i guanti con fin troppa cura per non dare chiaramente ad intendere di star cercando un pretesto per non guardare Fler, il quale scrolla indifferentemente le spalle.
- È stata la prima cosa che ho pensato quando ti ho visto a casa di Chakuza. – rivela in un mezzo sospiro, - Ho pensato che steste insieme.
Bill annuisce compitamente torcendosi le mani in grembo.
- Potresti… - biascica imbarazzato, - …non dirglielo? – Fler inarca un sopracciglio, incerto, e Bill si affretta a spiegarsi, - Ecco, - borbotta, - non vorrei che… cioè, io mi trovo bene con lui, non vorrei che decidesse di allontanarsi per un pettegolezzo. – sospira, - Io lo so, come sono fatto. Lo so che è difficile stami accanto senza che la gente pensi di tutto e di più. – sorride stancamente, - Sapessi quello che si pensa in genere di quella povera anima di mio fratello. – Fler ridacchia perché evidentemente lo sa, cosa si pensa di Bill e Tom, ed anche Bill si concede una risata. – Insomma, ci tengo che Chaku resti dov’è. Quindi non dirgli niente, ok? – conclude un po’ ansioso.
- Okay, okay, ragazzino, calmati! – sbotta Fler, divertito, sollevando entrambe le braccia in segno di resa, - Non avevo comunque alcuna intenzione di andare da Chakuza a chiedergli conferma né niente di simile. Tranquillo. – Bill annuisce ed abbassa lo sguardo, in imbarazzo. Fler sospira e cambia discorso, vedo un brillio di gratitudine negli occhi di Bill ed un po’ mi infastidisce davvero che qui si viva perfettamente anche senza di me. – Comunque, davvero, non preoccuparti per il sottoscritto. – lo rassicura stringendosi nelle spalle, - Ci sono abituato al freddo. Bushido mi teneva fuori anche fino alle quattro del mattino.
Bill annuisce e sulle sue labbra si forma un mezzo sorriso intenerito mentre si muove lentamente sul marciapiede. È un sorriso che anticipa una domanda che non sa se può fare. Potessi, tratterrei il respiro. Poi mi rendo conto che, in un certo senso, lo sto già facendo.
- Com’era? – chiede a bassa voce, stringendo le mani in grembo, - Da ragazzo, dico. Io ne so molto poco.
Fler inarca un po’ un sopracciglio, ma non sembra molto stupito di sentirsi chiedere una cosa simile.
- Be’, non era esattamente il tipo che a uno facesse piacere frequentare. – riflette, scavando fra i ricordi, - Voglio dire, era uno stronzo. Ed era pericoloso, ma non nel senso del romanzetto per ragazzine, cioè, non era il classico tipo cupo che al limite poi però ti tiene fuori fino all’una e mezzo e torna a casa. Quello rideva sempre ma ci metteva niente a infilarti un coltello nel fianco, all’occorrenza.
Bill ridacchia e si stringe nelle spalle.
- Sì, lo so che rideva spesso. – annuisce, guardando i mucchietti di neve ammassati lungo il marciapiedi.
- Nah, non lo sai. – Fler lo butta lì con indifferenza, Bill aggrotta le sopracciglia e fa per rispondergli male, ma si ferma appena si volta a guardarlo e lo vede sorridere nostalgico. – A diciott’anni Anis non rideva come ha cominciato a ridere dopo aver fatto i soldi.
- Certo che tu… - borbotta con un mezzo broncio, - quando te la leghi al dito è proprio per sempre, eh?
Fler scrolla le spalle.
- Non proprio per sempre. – risponde noncurante, - Per quanto merita.
Bill si morde un labbro e palesemente non sa se porre la domanda che gli trema sulle labbra. Alla fine lo fa. Mi fa tenerezza e sono anche un po’ contento – Bill non era davvero tipo si tenesse qualcosa dentro. Vorrei che tornasse a sorridere come faceva con me, anche se pare io non sorridessi con lui come facevo con Fler. C’è decisamente qualcosa che non va in quest’equazione.
- …Bushido meritava di essere odiato fino a quando non fosse morto?
Fler riflette. Fissa dritto di fronte a sé. Ho paura di ciò che potrebbe dire. Anche se sono morto e per me non cambierà niente, qualsiasi sia la sua risposta.
- …avrebbe meritato che continuassi ad odiarlo anche dopo.
*
A Chakuza, i medici hanno prescritto venti giorni di ricovero che lui ha passato tutti - uno per uno - a borbottare che stava bene e che non c'era bisogno lo tenessero lì. Ha insistito per alzarsi due giorni dopo l'operazione, fingendo che la sutura non gli facesse un male d'inferno e finendo per farsi saltare i punti. Due volte, nel giro di una settimana.
Fler, ad un certo punto, si è così spazientito di vederlo grondare sangue a casaccio che lo ha rimesso di peso sul letto urlando che era un coglione, e poi ha chiamato l'infermierina deliziosa che lo perseguitava da giorni e lo ha fatto sedare.
Il tutto tra le risate di Eko e gli occhioni sgranati di Bill che davanti al sangue ha ancora delle brutte reazioni. Fortuntamente, aggiungerei. Non voglio assistere al giorno in cui il sangue non gli farà più effetto.
In questi venti giorni, Chakuza non è mai rimasto solo. A parte sua madre - le cui visite meriterebbero un resoconto tutto loro, perché quella donna gli è ossessivamente attaccata e questo genera e ha generato scene di panico miste a scenate furiose ben poco austriache -, qualcuno della crew era sempre presente nella sua stanza. E questo mi ha reso molto orgoglioso di loro. E di me, che li ho tenuti insieme fino all'ultimo.
Da quando lo hanno portato in sala operatoria a quando hanno deciso di dimetterlo, ogni singolo membro dell'Ersguterjunge ha attraversato i corridoi dell'ospedale almeno una volta, per portargli i suoi saluti o per offrirsi di dare una mano a Bill e Fler che, invece, quella stanza non l'hanno praticamente mai lasciata.
Fler è uno che se si prende a cuore qualcosa, la fa fino in fondo. Fino a che la questione non è risolta e lui non ha più niente da fare al riguardo. Ha fatto così con l'Aggro Berlin - ci credeva, e ha continuato a crederci anche quando me ne sono andato. Sapeva di poterci lavorare sopra, e non l'ha mollata - e sta facendo così con Chakuza.
Nel momento in cui lo ha raccolto di terra con le budella di fuori e ha dato istruzioni ai medici, si è preso la responsabilità di vederlo arrivare vivo alla fine della faccenda. E la fine è fuori dall'ospedale, quindi Patrick è andato a trovarlo ogni giorno, dalla mattina fino alla sera.
I primi tre giorni, le infermiere - tutte, non solo quella che ha continuato a scoparsi nello sgabuzzino delle scope come prima cosa quando arrivava in ospedale, così poi lo lasciava in pace - hanno tentato di cacciarlo via perché si ostinava ad arrivare prima dell'orario di visita e ad andarsene solo a notte inoltrata. Poi hanno smesso, un po' perché Katrina - l'infermierina deliziosa - ha cominciato a parlare in giro del suo sguardo penetrante e poi perché lui il suo sguardo penetrante, quello vero, ha cominciato ad usarlo con le infermiere, così che gli sono cadute tutte ai piedi come sacchi di patate e perfino Karla, l'infermiera sessantenne di pediatria, si faceva quattro piani d'ascensore avanti e indietro per portargli un paio di cuscini in più per il Chaku. Una volta comprata la metà femminile della clinica, Fler non ha più avuto problemi, e si è perfino organizzato per andare a prendere Bill a casa e riportarcelo ogni giorno, con grande disappunto di Tom che pensava di essersi liberato di ogni rivale quando sono morto io e invece ora se ne ritrova due.
Bill, d'altronde, è un'altra storia. Quello che l'ha spinto a stazionare in quella stanza d'ospedale a chiacchierare per ore e giocare a carte - a guardare telenovelas anche. Ho visto Peter con il suicidio negli occhi - supera il senso dell'onore di Fler e di certo non ha niente a che vedere con l'amicizia di Eko o l'appartenenza della Crew.
Chakuza per Bill non è mai stato crew, ed ha smesso di essere un semplice amico il giorno in cui gliel'ho mandato all'aeroporto, ormai quasi un anno e mezzo fa. Chakuza è stato il primo ad accettarlo, e Bill gli vuole così bene che adesso che io non sono lì con lui, vederli insieme mi strappa il cuore.
Il medico è stato lì ieri sera e ha dato a Chakuza il permesso di tornare a casa.
Adesso Bill gli sta facendo la sacca, mentre Patrick gli passa le sue cose una ad una, semi-appoggiato al letto perché è ancora debole. Scherzano e fanno cose assolutamente innocenti; un anno fa pregavo che questo avvenisse in fretta - perché volevo Bill felice con la mia gente - e adesso anche solo il fatto che Chakuza rida alle battute di Bill mi infastidisce.
All'improvviso mi sembra che Chakuza stia oltrepassando una linea, che Bill glielo stia lasciando fare. O viceversa, non lo so. Eppure sono anche consapevole che non è vero, che quello che sto guardando è solo ciò che io capisco e che forse loro non sanno ancora.
E' come vedere il futuro scritto nei loro occhi. E non è lontano che dieci chilometri.
L'auto di Bill li aspetta nel parcheggio dell'ospedale.
Fler non è venuto, e se potessi lo costringerei ad esserci. Si è presentato qui per venti giorni consecutivi, uno dietro l'altro, ad orari improponibili e oggi che mi serve - oggi che Katrina è in ferie, per altro - Bill si offre di riportare Chakuza a casa e Fler non fa una piega. Dice sì, va bene. E io lo so perché lo ha fatto, e solo per questo vorrei pestarlo.
Bill è un pessimo guidatore, per questo Tom continua a portarlo in giro in auto nonostante abbia la patente: è terrorizzato all'idea che suo fratello finisca per schiantarsi contro un palo una delle tante volte in cui usa lo specchietto retrovisore per sistemarsi la frangia. Bill è vanesio, e questo contrasta in maniera pericolosa con la sua sicurezza in auto. Chakuza però non se ne accorge nemmeno, è troppo impegnato a godersi il viaggio e le parole di Bill che si srotolano nell'abitacolo senza soluzione di continuità, come al solito. Non so nemmeno che cos'abbia di nuovo da raccontargli, dal momento che non si sono persi di vista un secondo, ma Bill trova sempre qualcosa da dirti quando gli piace la tua compagnia. Ed è così bello mentre parla e si entusiasma che spesso non senti nemmeno quello che dice, ti perdi nel movimento delle sue labbra o nella luce che gli si accende negli occhi.
Bill parcheggia di fronte al palazzo dove abita Chakuza ma lui non gli permette di tirare fuori la sacca dal bagagliaio. "Ce la faccio, tranquillo," lo rassicura sorridendo.
Mi ritrovo a sperare che lo ringrazi e che poi si salutino, ma so perfettamente che è una speranza davvero stupida: Bill sale sempre, da tre mesi.
E adesso sembra anche più sensato che lo faccia: ci sono i punti ancora un po' aperti di Chaku. C'è la sua sacca pesante. Deve salire.
L'appartamento per una volta è in ordine. La madre di Peter ha approfittato dell'assenza del figlio e ha dato una pulita e una sistemata a tutte le cianfrusaglie che quell'uomo tiene in giro. Bill ridacchia e glielo fà notare. "Sembra tutta un'altra casa," dice scherzando.
"Non preoccuparti, non ci vorranno più di tre giorni a farla tornare come prima," risponde lui, che si è già avviato in camera.
Bill lo segue. Ha lasciato la borsa e il cappotto in salotto, come fa sempre. Ormai si muove a suo agio, sa quasi tutto di quella casa. Gli manca solo di capire dove riporre gli abiti, perché i cassetti della stanza da letto sono l'unica cosa che non ha mai avuto modo di aprire.
Eppure non sembra a disagio, tira fuori le maglie e i pantaloni, chiede dove vanno e poi le ripone. Lascia di proposito la biancheria, così a quella ci pensa Peter: cerca di non creare motivi di imbarazzo perché nell'aria ce n'è anche troppo. Anche se non è imbarazzo, e vorrei dirglielo. Quando la sacca rimane vuota, Bill si dà da fare a ripiegarla e Chakuza si dà da fare a prendergliela dalle mani e ad infilarla nell'armadio. Non si fermano e non si sfiorano, perchè lo sentono a pelle che a guardarsi e a toccarsi poi sarà difficile dare la colpa a quella sacca se Bill è ancora in piedi di fronte a Chakuza, entrambi protetti dall'anta dell'armadio aperta.
Prendono fiato insieme, ma è Chakuza a parlare. "Grazie," dice.
"Di niente," Bill scuote la testa con troppa forza. Si è fatto triste, all'improvviso. "Allora io... vado." Indica alle sue spalle, senza voltarsi e sforza un sorriso che però muore subito, perchè non è sincero. Non è felice, non vuole andare. Sorride solo perché è l'unico modo che ha per evitare che Chakuza gli chieda cosa c'è che non va.
Ringrazierei di non avere un cuore, se le mie sensazioni non fossero ancora tutte al loro posto e i miei battiti, sempre più forti, non li sentissi lo stesso, come un boato nelle orecchie. Succede quando Chakuza allunga una mano ad accarezzargli appena una guancia con il pollice. E' un gesto automatico, non ha pensato davvero di farlo ma quando la mano si è mossa lui non ha trovato un motivo per fermarla. Il motivo sono io, cazzo, ma sono morto quindi non valgo più.
Bill socchiude gli occhi e si appoggia contro il palmo della sua mano. Il suo sospiro di sollievo fa più male dei colpi di pistola che mi hanno ucciso. Significano: finalmente. Ed è un finalmente che non mi contiene più. L'attimo dopo Bill gli si spinge addosso, preme le labbra contro le sue e Peter lo considera un permesso sufficiente a proseguire. Sto male perchè non c'è un luogo preciso da cui sto guardando, sono ovunque. E non ho ostacoli. Fra me e loro non c'è niente che blocchi la visuale. Niente dietro cui possa nascondermi. La cosa avviene davanti ai miei occhi, senza che io possa veramente chiuderli.
Così vedo Bill schiudere le labbra e lasciarlo entrare. Lo vedo gettargli le braccia al collo e vedo il suo corpo che si accomoda in quell'abbraccio, si lascia stringere; le curve morbide della sua pancia si appoggiano contro gli addominali di Chakuza e io mi sorprendo che si incastrino bene, ancora convinto che questo possa accadere solo con me.
E allora realizzo che adesso è suo, o lo sarà presto. Che manca poco. In ogni caso il bacio di Bill è sincero ed è innamorato, è la concessione di un permesso che Chakuza desiderava da mesi senza saperlo e che Bill aveva tanta voglia e tanta paura di dargli.
Il bacio è dolce, ma breve. Per me i secondi si dilatano in eternità, ma non è passato che qualche istante quando riaprono gli occhi e si allontanano impercettibilmente senza un suono. Si guardano attraverso palpebre rese pesanti dalla voglia di conoscersi in altro modo, dal bisogno di toccarsi in maniera completamente differente. La distanza che hanno posto tra loro la coprono insieme, nello stesso istante. Il suono delle loro labbra che si incontrano di nuovo affonda nei sospiri di Bill e nei mugolii di Chakuza che lo stringe alla vita e lo spinge indietro, verso il letto.
Chakuza è impacciato, non ha mai avuto un ragazzo tra le braccia. Non ne ha mai toccato uno, a parte se stesso, e non sa dove mettere le mani; ma è una cosa che s'impara in fretta. Le sue dita trovano la strada sotto la camicia di Bill fin troppo velocemente. Bill esala il suo nome mentre Chakuza gli scivola addosso e prende il mio posto tra le sue gambe. Non ha idea di cosa sta facendo, ma lo fa comunque. Le mani di Bill sono abbastanza esperte da condurlo esattamente dove deve andare.
Bill gli toglie la maglia e la getta a caso oltre il bordo del letto, si aggrappa alle sue spalle e si spinge contro di lui per sentirlo ringhiare. L'assoluta padronanza di se stesso e dei suoi movimenti mi manda in bestia ora che la sta usando su qualcun altro. Vorrei gridare e non posso. Vorrei fermarli e non posso, perchè non sono lì. Perchè non sarebbe giusto. Perchè Bill è felice e io devo accettarlo. Si stira su quel materasso mentre getta indietro la testa e mugola. Chakuza ha il viso affondato nel suo collo e le mani sulla cintura dei suoi pantaloni. Lo sta spogliando a fatica, perchè vorrebbe anche accarezzarlo e strusciarglisi addosso, e ringhia di frustrazione per non poter fare tutte le cose insieme.
Bill è lì disteso per lui, senza più la camicia, che s'inarca sotto le sue dita. C'è da perderci il fiato e la testa. L'ho persa anche io così, allo stesso modo. Bill sembra sciogliersi tra un morso e l'altro che Chakuza gli lascia sul collo ma poi apre gli occhi e la magia s'infrange, in qualche modo. Ha il mio braccialetto ancora al polso, luccica nel buio e mentre io mi chiedo come possa farsi toccare da Chakuza avendolo ancora addosso, lui pensa la stessa cosa.
"Peter..." pigola incerto. E non so se lo faccia perchè è sull'orlo delle lacrime o se ha paura della reazione di Chakuza.
L'uomo solleva lo sguardo e si riprende quando vede quello negli occhi di Bill. Quando vede le lacrime che scivolano lente ai lati del suo viso. "Bill!" mormora nel panico. "Che succede?"
Lo so che nella sua testa si sta chiedendo se per caso non gli ha fatto male. Lo so perché c'è da chiederselo con Bill, non pesa niente. Sembra fatto di niente.
"Io non posso," sussurra Bill. "Non... non ci riesco. E' ancora troppo presto."
Mi prendo la soddisfazione di gustarmi la consapevolezza che si fa strada negli occhi di Chakuza. Capisce che lui c'entra poco in quelle lacrime; Bill sta piangendo per me.
Bill esita. "Mi dispiace."
"Non preoccuparti," Chakuza cerca di essere comprensivo. Ha capito, perché è un uomo sensibile, ma è anche incredibilmente frustrato perchè è un uomo, appunto. Si scosta da lui e gli dà modo di arrotolarsi su se stesso, perchè ne ha bisogno. Così come ha bisogno di piangere. "Ti lascio la stanza per... risistemarti," sceglie la parola con cura. Deve dirgli di rimettersi addosso i vestiti ma deve fargli capire che non può restare. Risistemarti è una buona scelta. Non troppo fredda e abbastanza chiara.
Bill annuisce, ma non dice niente. Lo lascia uscire prima di iniziare a singhiozzare.
Osservo quel suo corpo lunghissimo farsi minuscolo, mentre si abbraccia.
Le prime settimane dopo la mia morte le ha passate così, avvolto in se stesso a cercare un po' del calore residuo del mio corpo. E ora mi sento in colpa perché era tornato a sorridere e io in qualche modo, stanotte, quel sorriso gliel'ho strappato via di nuovo.
Aspetto con lui che il dolore si attenui; il mio o il suo, non ha importanza. Alla fine è passata un'ora quando si alza dal letto di Chakuza e si riveste. Aggancia la camicia nera di fronte allo specchio. Lo guardo e per un attimo il suo riflesso sembra fissare un punto indefinito alle sue spalle, dove mi piace immaginarmi. Fingo che ci stiamo guardando, ma non gli chiedo scusa per averlo turbato perché so che lui non la sta chiedendo a me.
Qualche minuto dopo si presenta da Chakuza che è seduto sul divano - il loro divano - e si tiene la testa fra le mani. Alza lo sguardo quando lo sente arrivare.
Bill gli mostra le chiavi dell'auto solo per un istante e poi torna a stringerle con violenza nel pugno chiuso. Sono i nervi a tenerlo insieme e ha paura che, parlando, andrà di nuovo in pezzi.
Ha paura anche Chakuza, per cui non si scambiano una parola.
Si annuiscono e basta.

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Crime of Passion

di tabata
Quando scendo dall'auto, il vento gelido mi spazza il viso portandomi il sapore della neve.
Mancano poche settimane a Natale, il primo senza di te. Mi chiudo la portiera alle spalle: ho voglia di rientrare nell'abitacolo e partire, magari per non fermarmi più. Sono giorni che mi sembra di non avere niente di concreto sotto i piedi, l'idea di stringere il volante e macinare chilometri d'asfalto sembra più allettante che passare le ore a guardare il soffitto in casa di Tomi, ad evitare le sue domande che sono sempre silenziosissime ma fanno più rumore di qualsiasi altra cosa. Lo sa che c'è qualcosa che gli nascondo, ma sa anche che non gliela dirò stavolta. Così sta zitto, chiede con gli occhi e quando non ottiene risposta sospira, e mi siede vicino. Non so quanto ho pianto negli ultimi giorni, non so quante volte gli ho nascosto il viso nel collo e ho pregato di trovarci una soluzione. A volte mi chiedo se non ho cercato la stessa cosa tra le braccia di Peter.
Mi avvio lungo il vialetto. Ho comprato un'altra calla bianca; mi piacciono le calle, sono fiori eleganti e raffinati. Mi piace pensare che ne avremmo avuto la casa piena, un giorno, io e te. In realtà mi piace pensare che la sala del rinfresco ne sarebbe stata piena ma è un pensiero sul quale indugio poco perché è sciocco, e me ne vergognavo anche quando eri vivo; non mi sognavo neanche di dirtelo: avevo paura mi prendessi in giro. Non ci saremmo mai sposati comunque, io e te non ne avevamo bisogno. Il fioraio mi ha detto che la calla significa stima e ammirazione, che è il fiore delle spose.
Ho sorriso. Facciamo che la tua morte era anche il nostro matrimonio, Anis? Facciamo che ti hanno sotterrato col mio bouquet?
La tomba tua madre l'ha voluta proprio al centro del cimitero. Di solito queste cose non te le lasciano fare, ma i soldi per fare quello che volevamo c'erano e quindi adesso hai un marmo bellissimo, che guarda verso Sud, esattamente dove lo voleva lei. Naturalmente non mi ha chiesto niente, ma anche se l'avesse fatto, l'avrei lasciata scegliere da sola. Preferisco pensare che a me toccasse occuparmi di te da vivo. Di quello che resta del tuo corpo non mi interessa granché, perché non significa niente. La tua tomba non è sfarzosa, c'è solo una lapide arrotondata col tuo nome inciso sopra, tutto quanto - Anis Mohamed Youssef Ferchichi - e le due date: 1978 - 2008. La foto l'ha scelta tua madre, è una bella foto. Sei tu che sorridi, e sei sempre stato bello mentre sorridevi. Il tuo vicino ha l'enorme statua di un angelo bendato a fare la guardia sulla sua tomba, è una roba immensa, credo sia a grandezza naturale - ammesso che gli angeli abbiano una misura conosciuta - è alto quanto me e tiene i palmi delle mani rivolte verso il cielo. E' notevole, ma esagerato. La tua lapide sembra piccola piccola lì di fianco. Tu però non hai bisogno di angeli custodi, ci siamo noi. Anzi, ci sono i ragazzi - che vengono a trovarti a turno quasi tutte le settimane - e ci sono io, che sto evidentemente impazzendo perché ho iniziato a parlarti che ancora non ero sceso di macchina.
"Ciao," quando mi fermo di fronte alla lapide, c'è un'altra di quelle folate di vento gelido. Mi stringo nel cappotto e fisso il tuo nome nel marmo. Ci sono solo io in questa parte del cimitero, così la mia voce risuona più forte e sembra che io stia urlando. "Scusa se la settimana scorsa non sono venuto. Ho avuto... dei problemi."
Intorno alla tua tomba ci sono sempre tantissimi fiori. Tolgo quelli più vecchi e secchi e li getto nel cestino. Riempio il vaso d'acqua e ci metto dentro la mia calla fresca. Non so esattamente come iniziare il discorso. E' un po' come quella volta che non potevo accompagnarti a quella premiazione perché Tom era geloso e voleva che stessi con lui, ti ricordi? Tu lo avevi già capito il perché ma volevi che te lo dicessi io e allora hai aspettato e aspettato finché alla fine non te l'ho detto. Quindi, in sostanza, io credo che tu lo sappia perché sono qui; se è come penso che sia una volta che si è morti, allora lo devi sapere per forza. "Abbiamo riportato Chakuza a casa," espiro alla fine. Un punto vale l'altro da cui iniziare, immagino. Tanto non è com'è cominciata, il problema, ma com'è finita. "I medici gli avevano dato venti giorni di ricovero ed è stato un inferno tenerlo in ospedale anche solo per due settimane. Sai che Fler ha dovuto ribaltarlo di peso sul materasso?"
La scena è stata memorabile in effetti: Chakuza che tenta fisicamente di uscire dalla stanza e Fler che, dopo aver cercato di farlo ragionare più volte, lo placca sulla porta e lo trascina urlante verso il letto. Sento ancora la risata di Eko, a volte. "Avresti riso, sai?" Ti dico, accarezzando il vetro della fotografia che con il gelo si è un po' appannato. Rimango in silenzio per un po' e gioco con la neve che ricopre l'erba intorno alla tomba. E' morbida.
L'anno scorso, in questo periodo, era poco che stavamo ufficialmente insieme e non avevamo voglia di andare in giro, con i fotografi sempre dietro ogni angolo nella speranza di trovarci. Però c'era la neve. Ed era tanta, bianca e soffice come questa. Ricordo che quando mi sono lamentato perché non potevamo andare da nessuna parte, mi hai tirato su di peso, hai aperto la portafinestra del giardino sul retro e mi ci hai buttato in mezzo, così com'ero vestito, con la tuta e basta. Ricordo che mi guardavi e ridevi di gusto, in piedi con le mani sui fianchi. Ricordo anche il bagno caldo, dopo. Ricordo tutto, in realtà. Non c'è un singolo istante di noi che io mi sia dimenticato. E' proprio questo il punto, credo.
Mi alzo da terra, comincia a farmi freddo sul serio: la sciarpa che ho rubato dall'armadio di Tomi stamattina - perché era rossa e bella, e stava bene con una maglia che neanche si vede sotto al cappotto - non mi tiene più abbastanza caldo, è umida di neve. "C'è una cosa che devo dirti," mormoro alla fine. Devo dirtela, questa cosa, perché mi rode dentro; anche se poi non lo so cosa farò una volta che l'avrai saputa. Per tutta la vita ho creduto che se mai fosse morto qualcuno di importante non avrei mai avuto bisogno di parlare sulla sua tomba perché sarebbe stato sempre con me; avrebbe saputo tutto quello che c'era da sapere della mia vita perché mi avrebbe osservato dall'alto. Lo penso ancora, in un certo senso, però ho bisogno di essere qui, adesso, e di dirlo alla tua foto, perché confessarlo senza guardarti negli occhi è troppo facile. "L'ho baciato, Anis," pensavo di mormorarlo e invece te lo dico forte e chiaro. La fitta al cuore che mi aspettavo non arriva. Non arriva niente, ogni cosa rimane la stessa, così provo a dirti tutto: magari cambia qualcosa; magari mi sento meno male. "Lo abbiamo quasi fatto sul suo letto," dico ancora. "Mi ha fermato il tuo braccialetto," sollevo il braccio e te lo mostro, ma lo sai qual'è. Sai che l'avrei preso io, mi piaceva così tanto. "Se non lo avessi avuto, l'avrei lasciato fare. Credo."
In realtà lo so. Quando ho baciato Peter sapevo cosa stavo facendo e sapevo cosa volevo; probabilmente era lui a non averne idea. Non so da quando ho cominciato a guardare Chakuza in modo diverso, non so fissare un punto preciso; so che ad un certo punto sedersi sul suo divano non era più come prima. Ho avuto paura, Anis. Ho pensato che fosse troppo presto e troppo all'improvviso. Mi sono detto che non potevo davvero volere Peter, perché tu mi manchi ancora. L'ho baciato lo stesso, però, e sono stato bene. E allora capisco perchè quella fitta non arriva: ti sto dicendo tutto questo perché sento ancora il bisogno disperato di renderti partecipe della mia vita, ma non sento quello di scusarmi. Baciare Peter è stato bello, tra le sue braccia sono stato bene. Non voglio scusarmi. Voglio solo dirtelo perchè lo devi sapere. Perchè dovrei dirtelo se fossi vivo; dentro di me lo sei ancora, perciò te lo dico.
"Lo avrei lasciato fare," annuisco alla fine. Non sono qui di fronte alla tua tomba per mentirti, non avrebbe alcun senso, ti pare?
Rimango in silenzio per un po': si è alzato il vento e dovrei tornare in macchina ma sto aspettando l'impossibile. Sono abituato a dirti tutto e a sentirmi rispondere, questa conversazione univoca non mi dà soddisfazione.
Alla fine mi mordo un labbro e decido di andare. Lo avrei lasciato fare, mi ripeto ancora. Lo ripeto a te. Lo avrei lasciato fare ma l'ho fermato. Non ci siamo sentiti per giorni e quando ha chiamato, mi tremavano le mani; ho pensato che volevo soltanto essere lì con lui ma che non conoscevo affatto il significato di quella voglia.
Gli ho detto di no per darmi il tempo di trovarlo. E per dirtelo.
Quando sono di fronte alla tua tomba è sempre difficile allontanarmi, è come se mi chiedessero di lasciarti di nuovo; ma fa troppo freddo, Anis. Posso andare? Torno presto, te lo prometto. Mi bacio le dita e le poso sulla tua foto, prego che tu senta il mio calore, come io sero di sentire il tuo. Torno presto, davvero.

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Staatsfeind Nr. 1

di lisachan
Sono le sei del pomeriggio circa. In realtà non so, potrei anche stare cannando completamente orario – il che sarebbe molto male, visto che ho un appuntamento in Alexanderplatz fra mezz’ora e come ci arriverò in tempo è un mistero. Comunque sia sono entrato in questa casa verso ora di pranzo portando con me un tipo di pasta che non avevo mai visto in vita mia ma che la signora Lotte mi aveva assicurato essere meravigliosa. In realtà né io né Chakuza sapremo mai di cosa sapesse quella pasta quando era calda e buona da mangiare. Abbiamo fatto altro appena sono arrivato – praticamente sulla soglia della porta. Ci sono momenti in cui ci penso e mi viene da ridere – poi abbiamo provato a mangiare ciò che era diventato un impasto gelido e colloso dal colore verdastro per nulla invitante, ma ci abbiamo rinunciato subito. Ci siamo svaccati sul letto ed è lì che siamo rimasti a parlare del nulla assoluto – non saprei richiamare alle mente nemmeno un argomento di conversazione spuntato fuori nelle ultime due ore – fino a quando non ho commesso il grave errore di sporgermi verso di lui per recuperare l’orologio da polso abbandonato sul comodino e controllare l’orario e, prima di riuscirci, mi sono sentito tirare verso il basso con una forza ed un’urgenza addirittura preoccupanti. E lì poi il senso del tempo l’ho perso del tutto.
Mi infilo la maglietta ed ho appena il tempo di sistemarmi i capelli quando la testa viene fuori dal colletto, che mi sento tirato all’indietro per un lembo e quasi cado di nuovo sul materasso. Mi volto e c’è Chakuza che mi fissa con l’aria di un ragazzino furbo e molto divertito. Mi strattona a intervalli regolari di due secondi e poi d’improvviso cambia il ritmo nell’evidente tentativo di sbilanciarmi.
- Be’? – chiedo, tirando l’orlo della maglia sul davanti, visto che il fatto che lui la tiri da dietro mi riduce continuamente seminudo, - La piantiamo?
- Eddai, resta! – continua a ridere, prendendomi palesemente in giro e continuando a tirarmi, - Tanto non hai niente da fare!
- E invece se proprio vuoi saperlo ho un appuntamento! – borbotto offeso, sottraendomi a questo ridicolo tira e molla ed abbottonando i jeans un attimo prima che la gravità riesca a farli cadere sul pavimento.
Chakuza inarca un sopracciglio, incerto.
- Donna?
Io sospiro e vorrei quasi rispondere “una specie”, ma mi trattengo.
- Sido. – rispondo. E sto mentendo. – Ti risulta femmina?
Lui annuisce, prendendo atto.
- Ma tu cosa c’entri con l’Aggro Berlin, Fler? – butta lì curiosamente, sistemandosi meglio sotto il lenzuolo, - Sono palesemente i cattivi di Berlino. Tu sei una specie di bambino sperduto.
- Tu che sei suor’Anna di carità cosa c’entri col rap? – rispondo acido, recuperando la felpa dall’angolo di letto in cui è finita. La apro per infilarla. – Chakuza, l’hai sporcata, cazzo! – mi lamento, tirandogliela addosso, - Quante volte ti devo dire che se mi togli i cazzo di vestiti devi buttarli in un posto in cui non possono sporcarsi?!
Lui impallidisce e si passa una mano sugli occhi.
- Fler, tu sei troppo schietto. – commenta fra il disperato e il rassegnato, - E comunque non posso averla sporcata io. Io non posso aver sporcato niente, sei tu quello che si sparge costantemente sul materasso.
Arrossisco e spalanco gli occhi, sento il calore ovunque sul viso.
- Chi è schietto, poi? – sospiro stremato. – Non posso andare in giro in maglietta, Chaku. Si gela. – gli faccio notare poi, stringendomi nelle spalle.
Lui indica casualmente l’armadio di fronte al letto.
- Prendi una delle mie felpe. – suggerisce.
- Potresti anche fare qualcosa, di tanto in tanto. – borbotto io, raggiungendo comunque l’armadio e rovistando all’interno alla ricerca di qualcosa che non sia irrimediabilmente corto di maniche.
- Non intendo rivestirmi. – si lamenta lui, stiracchiandosi sul materasso, - E non intendo neanche andare in giro nudo.
- Tanto, a meno che non sia spuntato qualcosa di nuovo negli ultimi dieci minuti, ho già visto tutto. – lo prendo in giro, infilandomi una felpa rossa che giudico abbastanza anonima perché il mio appuntamento non possa riconoscerla.
Ci credo poco. Ci spero, comunque.
- Torni a cena? – chiede vago in un mezzo sbadiglio.
- Punto primo: - mi volto io, sul piede di guerra, piantando un pugno sul fianco, - non ne hai ancora abbastanza, della mia presenza? – Chakuza ride. – Punto secondo: se vuoi mangiare la roba della signora Lotte, schioda il culo e valla a prendere! – Chakuza mi tira un cuscino ed io lo evito. – Punto terzo: - ed ora comincio a blaterare, lo so, perché non avevo un punto terzo ma faceva figo dirlo, dopo il cuscino evitato. - …dovremmo cambiare posto all’armadio. – butto lì. Mi do del cretino due secondi dopo, ma almeno ho detto qualcosa.
Chakuza mi guarda con aria allucinata.
- E perché? – chiede. Giustamente.
- …non cade bene la luce nella stanza. – motivo, del tutto a caso. – Cadrebbe meglio – ma che cazzo sto dicendo? La luce non cade! Che cazzo ho in testa? – se fosse tipo lì. – indico un punto random vicino al letto, - Capito?
Lui annuisce lentamente, come si fa coi pazzi. Mi prendo il mio assenso condiscendente e sospiro.
*
Sono per strada due minuti dopo e congelo. Congelo tipo all’istante, appena metto piede fuori dal palazzo di Chakuza. Odio dovermi muovere a piedi ma è questo il dramma di quando mi fermo a dormire qui. Cioè, non è come passare per caso mentre vado a lavorare, io vengo qui e non mi muovo fino al giorno dopo, perciò visto che non abito tanto lontano vengo a piedi ed evito…
…va be’.
Comunque sto andando da Bill e di sicuro non potevo dirlo a Chakuza. Tanto non credo abbia ancora preso l’abitudine di chiamare Sido per chiedergli se sono davvero con lui o se per caso non sono scappato da qualche altra parte. E lui e Bill… di sicuro in quest’ultimo periodo non si sentono granché. Perciò posso ragionevolmente pensare che questa piccola bugia non verrà mai alla luce.
So che è da cretini dirlo adesso, e infatti non lo dico, non l’ho mai detto neanche a Bill, che comunque è un ragazzino intelligente e quindi non ha bisogno delle conferme verbali, il più delle volte, comunque io non ho mai avuto un problema con Bill Kaulitz. In un periodo in cui tutto il mondo aveva un problema con chi Bill era e con come si conciava, il mio unico problema era che lui fosse il tipo con cui Anis andava a letto. Per quanto assurdo e malato possa sembrare, non era un problema di gelosia, era un problema di appartenenza ad un certo gruppo. Un problema di ideali, in un certo qual modo. Non sto dicendo che uno non possa andare a letto coi maschi - … - sto dicendo che tu non puoi dare del frocio a destra e a manca a chi t’ha aiutato ad emergere dalla merda in cui stavi sepolto da adolescente, e poi diventare frocio davvero. C’è qualcosa di sbagliato in questo. Era questa, la cosa che non concepivo.
…e poi avevo bisogno di un pretesto per insultarlo. Un pretesto che suonasse diverso dal “mi hai mollato senza un fottuto perché”. Perché dopo cinque anni cominciava a perdere in forza, come argomentazione per le diss.
Insomma, in definitiva io Bill non l’ho mai odiato. Non gli ho mai voluto male neanche per un cazzo. In buona sostanza lo trovo pure vagamente tenero, è un cosino piccolo che non c’entra niente con tutto questo e che s’è visto morire l’amore della vita fra le braccia, e insomma, anche se non ero lì anche io più o meno lo so come ci si sente in questi casi. Quindi mi dispiace pure.
Mi dispiace anche di più perché comunque non sono mai stato un cretino e, fra le tante cose che Anis m’ha insegnato, c’è anche la capacità di capire al volo le situazioni. Perché è più facile sbrogliare i casini quando capisci subito il problema.
Stavolta non ha aiutato – io il problema l’ho capito subito ma non sono stato in grado di arginarlo. Io l’ho capito subito che fra Bill e Chakuza c’era qualcosa. L’ho capito probabilmente prima che lo capissero loro.
Non è giusto quello che io e Chakuza stiamo facendo a Bill.
Non è giusto neanche quello che stanno facendo Bill e Chakuza a loro stessi, comunque.
Bill mi chiama sul cellulare e mi strilla entusiasta che s’è ricordato di un posto meraviglioso in Oranienburgerstraße.
- Si chiama Cafè Zapata, ci sono stato solo una volta con Anis ed è bellissimo! Mi raggiungi lì? Sono già seduto! – che suona più o meno come “non vorrai mica farmi alzare per andare altrove?!”.
- Bill, - sospiro, - Bushido aveva i soldi che gli crescevano pure nelle mutande. Quanto intendi farmi spendere per una cioccolata calda?!
- Ma possibile che tu sia sempre squattrinato? – borbotta lui. Lo immagino già con un broncio enorme e le braccia incrociate sul petto, - Che razza di rapper sei?
- Quello che non ha mollato l’etichetta per diventare multimilionario. – gli ricordo, e Bill ride. Mi piace che rida alle battute che faccio su Anis. In realtà mi piace che, per noi due, parlare di Anis sia ancora normale. Non lo facciamo con nessun altro.
- Avanti, offro io. – mi rassicura lui, ed io biascico qualcosa ma poi mi ricordo che sono uscito tipo con venti euro nel portafogli stamattina, perciò tanto vale lasciarlo fare, il ragazzino è meglio della zecca dello stato quanto a produzione di banconote.
- D’accordo, arrivo. – e quando arrivo lo trovo tutto stretto in un piumino enorme, gli occhiali da sole calcati sul naso ed un berretto di lana a cuffia che gli schiaccia tutti i capelli attorno al viso. Un paio di ciocche nere svolazzano a causa del vento debole ma penetrante che spazza la via, e Bill se le scosta infastidito dalle guance e dal naso quando sente il solletico.
Sollevo una mano per farmi notare e lui sorride appena mi individua, rispondendo con un ampio gesto del braccio.
- Ma perché ti sei seduto fuori, perdio? – mugolo disperato, stringendomi nella giacca e facendomi minuscolo sulla sedia gelata del cortile esterno del bar, - Ci sarà un cazzo di grado centigrado ed in questo cazzo di cafè c’è anche la galleria d’arte! Perché siamo qui?!
Bill sorride appena, stringendosi nelle spalle.
- Era estate, quando sono venuto qui con Anis.
E questo dà senso alla sua scelta e toglie forza alle mie polemiche, perciò sto zitto.
Io e Bill abbiamo preso quest’abitudine di vederci, da quando lui e Chakuza hanno smesso di farlo. Per quanto possa sembrare assurdo, non è stato lui a cercare me nella speranza di estorcermi qualche informazione su come stesse Peter o chissà che altro – anche solo per sentirsi di nuovo un po’ vicino a lui tramite me, chissà. Sono stato io a chiamarlo. Perché quando Chakuza mi ha chiesto di proteggere il ragazzino non intendeva soltanto “metterlo in salvo in caso di pericolo”. Ed anche se lui lo intendeva, non è questo che si intende con “proteggere”, per me. Proteggere vuol dire che mi preoccupo. Proteggere vuol dire che ci sono se ti servo ma anche se non ti servo, giusto per vedere se hai bisogno o meno. È una cosa complessa ed è una cosa che possono fare solo le persone oneste.
Io sono finito nei guai con la legge un bel po’ di volte, ma sono una persona onesta. Anis, prima di diventare uno stronzo, mi ha insegnato ad esserlo. È la parte di lui che non ho perso, e me la tengo stretta.
È stato in un’occasione simile – ma eravamo in un pub, era sera e c’era decisamente più caldo – che ho chiesto a Bill di raccontarmi come fosse morto. Ho visto i suoi occhi brillare all’improvviso e l’ho visto tendersi e irrigidirsi tutto come avessi provato a pungerlo con cattiveria, ma poi l’ho visto sciogliersi e sorseggiare piano la sua cola al limone, le dita a disegnare figure astratte sul legno ruvido del tavolo, mentre a mezza voce mi diceva del suo arrivo, del sangue, dei baci, della cassetta del pronto soccorso, del letto. Dei proiettili. Del suo sorriso. Del suo respiro sottilissimo.
Gli ultimi istanti della vita della persona più importante di tutta la mia intera esistenza. Una persona che avevo perso, da qualche parte, ma che era sempre rimasta dentro di me, in qualche modo. Quelli erano i suoi ultimi battiti. Le sue ultime parole. I suoi ultimi istanti. Bill me li ha regalati senza un tremito nella voce e con una lacrima incerta sulle ciglia, una lacrima che non è mai scesa e s’è sciolta in un sorriso quando, alla fine del racconto, m’ha visto chinare rassegnato il capo e scusarmi.
“Figurati,” mi ha detto, “sai quanto ho aspettato di poterlo raccontare così a qualcuno? Certe volte, finché non lo dici tutto per bene…” e s’è interrotto, ma io ho annuito lo stesso perché avevo capito dove voleva andare a parare: perché certe volte, finché non lo ascolti tutto per bene non ti sembra vero. Il meccanismo è lo stesso.
Bill mi lascia scorrere addosso lo sguardo ed abbassa appena gli occhiali sul naso, fissandomi curiosamente.
- Ma quella… - inizia, indicando i pezzi di felpa rossa che escono dal giubbotto semiaperto, - è di Chakuza?
Mi chiedo sinceramente come diavolo abbia fatto. Non ha senso dirmi “non dovresti stupirti, lo sai cosa c’è dietro”, è assurdo che riconosca una felpa rossa che ho scelto appositamente perché fosse il più anonima possibile, perché potesse essere di chiunque, perfino mia. Mi passa per la testa in un pensiero distratto che questo ragazzino ama troppo intensamente. Si farà un male cane, così. Vorrei dirglielo. Ci sono passato, ragazzino. Tiratene fuori finché puoi. Ma non ho alcun diritto di farlo.
- Sì, mi sono sporcato con della roba… - mugugno gesticolando a caso e implorando perché non chieda di che tipo di roba io stia parlando, - mi ha prestato una felpa per venire qui.
Solleva repentinamente gli occhi nei miei, rimettendo a posto gli occhiali.
- Eri con lui?
Sì e non posso dirtelo, ragazzino. Non posso dirtelo perché non dovrei nemmeno farlo, ma di farlo in qualche modo ho un bisogno fottuto, perciò mi dispiace ma non mi fermerò. Prima o poi ti passerà. Forse. Ed allora andrà meglio. O passerà a me – Dio, lo spero – e sarà perfetto.
- No, mi sono sporcato e lui mi veniva di strada. Mi sono fermato, gli ho rubato una felpa e sono corso qui perché ero già in ritardo. – racconto con un mezzo sorriso.
- Lo tratti proprio male, povero Chaku. – ridacchia lui.
Io annuisco e rido a mia volta.
Il cameriere ci chiede se siamo pronti per ordinare. Bill resta mezz’ora a domandarsi se sarebbe il caso di prendere una birra alla fragola – “la fanno solo qui, Fler!”, il che dovrebbe dargli un’idea di quanto faccia schifo, visto che nessun altro ha seguito il geniale esempio – oppure non sarebbe più saggio ripiegare su una più normale cioccolata. Lo costringo moralmente a prendere la cioccolata ricordandogli che non ho una macchina per portarlo in ospedale se sviene. Lui prova a dirmi che potrei chiamare un’ambulanza, in caso, ma quando lo guardo ed inarco un sopracciglio lui borbotta “okay, okay!” ed ordina un pastrocchio con panna, granella di cioccolato, granella di noci, una spruzzatina di caramello, una spruzzatina di caffè e litri di latte, al che io mi chiedo dove sia finita la cioccolata e suppongo sia meglio che almeno quella manchi, altrimenti questa roba invece di dieci euro ne costerebbe quindici.
Bill affonda il naso nella tazza appena se la ritrova fra le mani. Squittisce di gioia stringendola fra le dita e non sfalda la complicata coreografia di panna e decorazioni che esce da sopra come una montagnola innevata; sorseggia direttamente da lì, poggiando appena le labbra sul bordo, e quando risolleva il viso ha due baffi irregolari di panna sotto il naso. Rido e glieli indico, lui li cancella con una leccatina da gatto e si gratta la nuca, imbarazzato.
- Stai ancora da tuo fratello? – chiedo, sgranocchiando le arachidi che mi hanno portato con la Beck’s.
Bill annuisce.
- Tomi è molto preso. – racconta divertito, - Era da un po’ che non gli lasciavo fare il fratello maggiore con tutti i crismi. È tutto una coccola, è così servizievole! – ride e manda giù altra cioccolata, - E poi non mi si stacca mai di dosso. Mi mancava, devo ammetterlo. – aggiunge, arrossendo lievemente.
- Che fai, ragazzino? – lo prendo in giro, bevendo un sorso di birra, - Invece di progredire, regredisci? Dovresti crescere, diventare grande… e invece torni a vivere dal fratellone.
Bill aggrotta le sopracciglia e si morde un labbro.
- È una cosa temporanea, non sono tornato a vivere da lui. – borbotta offeso, - E poi io sono grande. Non sono un ragazzino. – sospira, - Però tu ormai hai deciso che ti piace chiamarmi così.
- Mi piace chiamarti così perché mi piace chiamare le cose col loro nome. – ridacchio, e lui annuisce, ridacchiando a propria volta. – Senti… - aggiungo poi casualmente, quasi a mezza voce. Un po’ spero che neanche mi senta. – Perché non ti fai vedere, di tanto in tanto, a casa del Chaku? – lui mi solleva addosso due occhioni terrorizzati, ed io mi affretto a sollevare entrambe le mani, come per rassicurarlo. – Magari quando siamo tutti insieme, ecco! O, se ti dà fastidio sentire quel coglione di Eko blaterare, magari andiamo da qualche parte noi tre. Potrebbe essere divertente. Che dici?
Bill sospira, abbassa un po’ lo sguardo sul fondo di panna che è rimasto nella tazza e poi torna a guardarmi. Dritto negli occhi. Vedo anche i suoi, nonostante la barriera ostile delle lenti scure.
- Dico che non posso. – risponde deciso, quasi freddo, - Lo sai.
Annuisco piano e ricomincio a sorseggiare la birra. Resto in silenzio mentre lui sfila gli occhiali e li posa sul tavolino in un gesto stanco accompagnato da un sospiro ancora più stanco. Lo osservo passarsi due dita sugli occhi – neanche un velo di trucco addosso – e massaggiarsi esausto la radice del naso. Non riapre gli occhi e non rimette gli occhiali. Però riprende a parlare.
- Fler… - chiede in un sussurro, - …tu pensi che questa situazione sia colpa mia?
Deglutisco appena, posando la birra.
- Quale situazione? – chiedo. Non perché voglio infastidirlo o forzarlo a parlare, ma perché davvero non so, fra tutte le situazioni, a quale si stia riferendo.
- Tutta questa situazione. – chiarifica lui, scuotendo il capo, - …Anis. Quello che gli è successo. E Chaku… - quello che ci è successo, ma lui non lo aggiunge.
Prendo un respiro profondo e metto in circolo un po’ dell’aria congelata di Berlino, sperando che possa aiutarmi a chiarire le idee. Sì che è colpa tua, ragazzino. Sì che, chiunque ha fatto fuori Bushido, l’ha fatto perché c’eri tu di mezzo. Sì che hai fatto impazzire Chakuza e sì che quello che è successo a me è una tua responsabilità indiretta.
- No. – rispondo deciso. E lo rispondo perché lo penso. Amare ed essere amati… non è veramente una colpa. E nemmeno una responsabilità.
*
- Stasera si esce.
Sono le mie prime parole quando Chakuza apre la porta. Mi guarda con aria incuriosita e poi si sporge appena per controllare se per caso non sto nascondendo del cibo dietro la schiena. Sospiro e roteo gli occhi, piantandogli una mano sul petto e spingendolo all’interno dell’appartamento, lontano dalla soglia, così da poter entrare.
- Non mangiamo? – mi chiede con l’aria di un cucciolo molto affranto, e mi viene un po’ voglia di pestarlo, quando fa così.
- Prenderemo un panino al volo, fuori. – spiego autoritario mentre recupero la sua giacca e gliela lancio.
- Fler, ma fuori c’è un freddo polare! – si lamenta, - Se ti va di bere qualcosa possiamo farlo anche qui!
Roteo di nuovo gli occhi, recupero il cappellino dall’appendiabiti e mi avvicino a lui, calcandoglielo sulla testa.
- Copriti che prendi freddo. – lo avverto. Perché è vero che fuori si congela e che, in una situazione normale, non avrei proprio nessuna voglia di uscire. Dio solo sa se non preferirei mettermi sotto le coperte e lasciare perdere.
Però Bill mi ha fatto pensare. In realtà Bill mi fa sempre pensare, per un motivo molto semplice che io capisco perché ho sempre addosso la solita maledizione-premio di Bushido che m’ha insegnato a sopravvivere, mentre a Bill e Chakuza sembra sfuggire completamente.
Qui ci stiamo tutti abbondantemente usando per non pensare.
E questo non va bene, perché c’è una persona che proprio non si merita di essere dimenticata prima di scoprire almeno chi l’ha gettata sotto terra dopo avergli sparato senza nemmeno avere il coraggio di guardarlo in faccia prima.
Io e Bill siamo gli unici che non si usano per distrarsi a vicenda; io e Bill, quando siamo insieme, siamo ancora perfettamente concentrati sull’obiettivo. E quindi uscire con Bill è come tornare a focalizzare la realtà per quella che è, ogni volta.
- Senti, ma almeno mangiamo qualcosa, prima. – borbotta Chakuza, richiudendo il giubbotto con la zip.
Lo gelo con un’occhiata infastidita.
- Mi sembra che abbiamo perso già abbastanza tempo. – commento serio.
Anche l’espressione di Chakuza cambia. Realizza.
- Dove stiamo andando, Fler?
Mi lascio andare ad un mezzo ghigno soddisfatto.
- A casa.
*
Sto vivendo un assurdo perché Chakuza è un maschio. Al di là di tutto il resto, se Chakuza fosse una femmina tanto per cominciare non sarebbe qui, e tanto per continuare non avrebbe una fissa tanto stupida quanto purtroppo comprensibile che suona più o meno come “la macchina è mia e la guido io”. “Anche se palesemente non so dove sto andando”, aggiungo io.
Insomma, gli sono girate le palle quando gli ho fatto capire che stavo manovrando la serata per cominciare ad andare un po’ in giro e provarci, almeno, a trovare ‘sto fottuto assassino. Perciò ha deciso di fare ostruzionismo e l’ostruzionismo si traduce nel restare alla guida in un posto che non conosce mettendoci peraltro in condizione di pericolo, perché Tempelhof non ti aiuta e non conoscerla è un peccato mortale.
Non credo lo stia facendo perché l’assassino di Bushido non vuole trovarlo affatto. Credo lo stia facendo perché sta provando ad andare avanti con la sua vita ed invece si ritrova da ogni lato gente che lo tira indietro. Sia Bill che io. Lo capisco, perciò non è questo quello che gli rinfaccio.
- Chakuza, se sbagli un’altra volta e non giri dove ti dico io al prossimo incrocio, giuro che ti butto nel canale. – è questa assurda cocciutaggine che contesto. È irritante.
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile ed addenta il panino strabordante di kebab che ha preteso di comprare una mezz’ora fa, quando stavamo ancora seguendo la via che avevo in mente e non c’eravamo irrimediabilmente invischiati in questo dannato reticolo che ci porterà a ritrovarci all’improvviso con la macchina semi-immersa nell’acqua, se ci va bene, o circondata da ragazzini in aria di fermo se ci va male. Faccio mente locale. Ce l’ho la pistola? Ce l’ho. Chakuza ce l’ha? Gli lancio un’occhiata poco convinta, lui sbrodola cipolle. Sospiro e alzo gli occhi al cielo.
- Basta, basta. – imploro, - Ferma la macchina. Posa quella merda. – mai capito come Anis potesse anche vivere solo di questa roba, sul serio. – E scendiamo.
- Continuiamo a piedi?! – dice lui, fermando la macchina ed aggrappandosi al panino come ad uno scoglio in mezzo al mare, - Fler, si congela!
- Sì. – annuisco sospirando ancora, - Non hai fatto che ripeterlo da che siamo usciti. Posteggia qui.
- Questo è un vicolo. Me la rubano.
- Tanto è un catorcio. – scrollo le spalle, - Vai mica in giro in BMW, tu. Avanti! – gli do un colpo sulla spalla, - Piantala di fare il coglione, è già quasi l’una!
Mugugna scontento ma posteggia dove gli ho detto e scende subito dalla macchina, seguendomi mentre io faccio gli onori di casa, accompagnandolo verso il canale. La strada che fiancheggia il corso d’acqua è sgombra e solitaria come sempre, non vedo nessuno in giro, tutta la vita del luogo è concentrata nei dintorni del porticciolo ed oltre gli alberi, sulla via puntellata di bar e kebaberie, e sembra distante chilometri da questo spiazzo silenzioso illuminato in pieno dalla luce della luna. L’acqua brilla di riflessi azzurri e bianchi e mi perdo un po’ a fissarli, questi bagliori che non vedevo da anni, mentre l’unico suono che sento oltre allo scorrere del fiume ed a quello dei miei pensieri, è lo scalpiccio delle suole delle scarpe di Chakuza, qualche metro indietro rispetto a me.
- Cosa stiamo facendo esattamente qui, Fler? – chiede, affiancandomisi mentre prendo posto sull’argine, le gambe che penzolano in basso verso il corso d’acqua e le mani ben piantate sul cemento, lo sguardo fisso alla luna senza nemmeno vederla. Mi manca questo posto. È assurdo perché non è poi così lontano rispetto al luogo in cui vivo adesso, ma sembra comunque tutta un’altra realtà. Può darsi che io non sia cambiato granché, ma sembra cambiato tutto il resto. Eppure anche tutto il resto è sempre uguale.
- Devo riprendere confidenza. – gli spiego, sentendo la grana un po’ irregolare della colata di cemento sotto i polpastrelli, - Ci sei già tu che non hai idea di dove andare a sbattere la testa. È bene che almeno uno di noi sappia dove stiamo andando.
- Perché diavolo dovremmo cercare qui? – chiede ancora lui, vagamente irritato, - Non è detto che l’assassinio di Bushido abbia a che fare con Tempelhof. Potrebbe venire da tutt’altro posto. Cristo, potrebbe essersi trattato anche solo di un cazzo di mitomane…
- …che l’ha seguito proprio la notte in cui io e lui ci accoltellavamo in un vicolo, per poi pensare bene di concludere il lavoro al mio posto? – scuoto il capo. Evito di dirgli che io i miei sospetti li ho, come tutti. Che essere stato a mia volta un sospetto non mi ha impedito di pensare. Però non posso parlare con Chakuza di questo, al momento, perché è troppo presto e non saprei nemmeno cosa dire, in realtà, perciò scrollo le spalle. – Qualsiasi problema di Bushido è sempre venuto da qui, comunque.
Chakuza inarca un sopracciglio e mi guarda, curioso.
- Storia della tua vita? – chiede con un mezzo sorriso sarcastico.
Io aggrotto le sopracciglia e lo fisso, offeso.
- Non sono così ciarliero. – mi lamento.
- Oh sì che lo sei. – ride lui, annuendo, - Ogni volta che cominci a raccontare qualcosa con una frase enigmatica, l’unica cosa che resta da chiedersi è per quante ore andrai avanti. Quanto all’argomento di conversazione, - aggiunge, tirandomi una gomitata affatto discreta, - è sempre lo stesso.
- Stronzo. – borbotto a bassa voce, allontanandomi un po’, - Volevo solo dire che quando vivi in questo posto e non riesci a scappare da piccolo, ti resta dentro. E te lo porti dietro. Dovunque vai, la tua origine è sempre questa. Tu ti porti ancora qualcosa dell’Austria?
Lui mi fissa incerto, scrollando le spalle.
- Non saprei dirti. – ammette a bassa voce, - È Berlino casa mia.
- Appunto. – annuisco, - Chi viene da Tempelhof invece non ha altra casa rispetto a Tempelhof. Chi viene da Tempelhof, ci ritorna, prima o poi, in qualche modo.
- Quindi l’assassino è di queste parti?
Mi mordo un labbro.
- L’assassino è uno che sapeva dove andare a cercare qualcuno che potesse aiutarlo a concludere il lavoro. – cerco di suggerire. Mi aspetto che colga un po’ il riferimento, ma Chakuza scuote il capo e sospira.
- Sei peggio di Bushido, quando parli per enigmi. – esala piegandosi in avanti, i gomiti sulle ginocchia, e prendendo a fissare lo scorrere lento del fiume.
Lascio perdere e sbuffo un mezzo sorriso, piegandomi come lui per poterlo guardare negli occhi.
- Tu vorresti essere da tutt’altra parte. – gli dico serenamente. Lui fa per aprire bocca e protestare, ma lo fermo scuotendo il capo. – Quando avremo finito qui… avrai tutto il tempo per andare dove vorrai. Non starò più tra i piedi.
Chakuza spalanca gli occhi e per un attimo dà segno di non capire, ma quando io annuisco tranquillo vedo la consapevolezza farsi strada dentro di lui e costringerlo a tendere nervosamente i tratti del viso.
- Tu non- - ritorce, ma non lo lascio concludere.
- È giusto. – annuisco ancora, raddrizzando la schiena, - Voi… - ed è chiaro chi sia l’altro di chi sto parlando, - non siete di qui. Non avete nessun conto in sospeso con Tempelhof, a parte Anis. Risolto quello… - sospiro e scrollo le spalle.
Chakuza non aggiunge niente. Si alza, però, puntando le braccia per terra e rannicchiandosi tutto per un attimo prima di scattare in piedi. Io rimango seduto e per qualche secondo lo guardo dal basso, mi rivedo appena quindicenne e vedo Anis che va per i venti e sta in piedi accanto a me, esattamente come Chakuza in questo momento, e mi dice “tanti auguri, ragazzino”, e improvvisamente ricordo anche perché mi piace chiamare Bill in questo modo. Non c’entra chiamare le cose col loro nome. È a causa di Anis.
Bill non ha davvero colpa, in questa storia.
Però sarebbe troppo facile, adesso, dare la colpa al morto.
- Avanti. – dice Chakuza, la voce incredibilmente cupa, tendendomi una mano per aiutarmi ad alzarmi, - Qui non troveremo un bel niente.
Annuisco ed afferro la mano che mi porge. Mi tiro in piedi e capisco quello che sta succedendo solo quando è già successo: ho messo male un piede e sono scivolato. Chakuza non mi ha lasciato anche se avrebbe tranquillamente potuto farlo ed il risultato è che ci siamo sbilanciati in due e siamo caduti, rotolando per tutta la parete obliqua del canale e rovinando in acqua alla fine della corsa, con un sonoro splash che spezza la quiete della notte ed anche il riflesso della luna sul fiume, le cui acque si allargano in cerchi attorno a noi ed attorno ad ogni singola gocciolina generata dal nostro tuffo. Riemergo tossicchiando e lanciando imprecazioni in giro, mentre osservo Chakuza trascinarsi stancamente verso la parete di cemento tentando di asciugarsi un po’ il viso.
- Fler, Cristo santo… - si lamenta, rabbrividendo dentro il giaccone zuppo, - Ma stare un po’ più attento, no?
Io tiro su col naso e mi appoggio sul cemento al suo fianco.
- Scusa. – biascico, scrollandomi un po’ d’acqua di dosso, - Bagneremo tutta la macchina.
- Sì, è il problema minore. – ringhia lui, - Il problema maggiore al momento è come usciamo da questo pantano, visto che gli argini qui sono inclinati a sessanta fottuti gradi. – constata passando una mano sulla parete e guardando in alto alla sponda che sembra irraggiungibile.
- C’è un ammasso di pietre, più giù, verso il ponte… - borbotto indicando un punto nella notte con un cenno del capo, - C’era già quando ero piccolo io, lo si usava per scendere a recuperare la palla quando cadeva.
Chakuza annuisce lentamente, aguzzando la vista per cercare di individuarlo e rinunciando pochi secondi dopo.
- Mi fido. – concede alla fine, scuotendo stremato il capo, - Ora possiamo per favore tornarcene a casa prima di morire di freddo?
Annuisco con aria assente e non so se è perché oggi ho parlato con Bill o perché siamo venuti per cercare l’assassino di Bushido ed invece non abbiamo trovato niente, oppure perché il fatto che abbia detto “andiamo a casa” mi ha fatto scorrere brividi strani lungo la schiena, ma realizzo all’improvviso che quello che penso quando in genere rifletto su me e Chakuza è sbagliato. Non passerà, se non lo faccio passare. Ed io devo farlo passare.
- Chaku… - lo chiamo, lui si volta e quando si volta mi presso contro di lui, labbra contro labbra. È un contatto che conosciamo a memoria ed al quale ormai sappiamo reagire bene, perciò non mi stupisco quando lui solleva una mano a stringermi per la vita, combattendo contro la giacca bagnata che si gonfia e si sgonfia ovunque, e lui non si stupisce quando infilo le mani sotto il suo giubbotto, raggiungendo la felpa e strizzandola fino a spremerla, bagnandomi più di quanto già non sia fradicio.
Quando ci separiamo, lui sorride appena.
- E questo? – chiede in uno sbuffo divertito e un po’ incredulo, - Così, in mezzo alla strada…
- Non c’era nessuno. – mi giustifico con una scrollatina di spalle, - E poi stanotte dormo a casa mia.
Lui aggrotta le sopracciglia.
- Pe-
- Passa a prendermi Sido domani. – mento sfacciatamente, zittendolo prima che possa anche solo pensare di cominciare ad imbastire una protesta.
Ho idea che sarà una lunga serie di menzogne, questa.
E devo anche sbrigarmi a vedere se ho ragione e se l’assassino di Bushido è chi io penso sia. Prima lo trovo, prima mi stacco. E poi sì che sarà davvero tutto perfetto.
*
Gli ultimi quattro giorni sono stati pesanti. Hanno cominciato ad essere pesanti quando, la sera del giorno dopo il nostro primo incontro con Tempelhof – il primo di Chakuza, almeno, per me più che altro s’è trattato di rivedere un’ex-ragazza che non so se avevo davvero tutta questa voglia di rincontrare – mi sono ritrovato appeso al citofono di Chakuza a litigare per farlo uscire di casa. In un dialogo delirante cominciato con un “ti sto aspettando” e concluso – fra un “sali, prima!” ed un “Chakuza, stai rompendo i coglioni” – con me che strillo “d’accordo, resta dentro, vado da solo” che sapeva di suicidio, dato che ero a piedi.
Grazie al cielo mi sono sentito afferrare da una mano fortissima circa due minuti dopo, mentre mi facevo strada nella neve per tornare verso casa e recuperare un mezzo di trasporto, e c’era Chakuza che mi fissava con estrema disapprovazione, dandomi silenziosamente della merda ed annunciandomi ad alta voce che non dovevo prendere iniziative, visto che avevamo un accordo.
Avrei voluto chiedergli se nell’accordo fosse compreso il diritto da parte sua di incazzarsi e rompere le balle qualora avessi smesso di darglielo. Mi sono trattenuto solo per educazione – e dire che in genere non passo per uno educato.
Al momento siamo in macchina e Chakuza sta cercando posteggio nel vicolo che ormai è diventato il nostro riparo durante queste ronde notturne. Stasera la zona è frequentata e non c’è un buco neanche a pagarlo oro, perciò Chakuza sta ringhiando ed io sto cercando di ignorarlo, ma non è così semplice quando, fra un ringhio e l’altro, colgo allusioni su come io sarei palesemente l’inizio e la fine di tutti i suoi problemi.
Sei tu stesso l’inizio e la fine di tutti i tuoi problemi, Chakuza. Mi ripeto che non posso dirtelo, ma in realtà sto smettendo di crederci e, quando mi convincerò, probabilmente ti prenderò a cazzotti come meriti, e magari ti dai una svegliata.
- C’è posto qui. – dico indicando un gigantesco parcheggio vuoto accanto al cancello di una ditta di trasporti.
- Non rompere i coglioni. – risponde lui con l’ennesimo ringhio, - Non ci entro.
- Non ci entri perché sei un’enorme testa di cazzo. – rispondo a tono, incrociando le braccia sul petto.
- Aha, hai anche tastato con mano. – ritorce Chakuza, velenoso, ed io sussulto.
- Potremmo tenere fuori questa roba dalle nostre uscite? – chiedo pacatamente, cercando di non far scoppiare una guerra che, nella testa di Chakuza, sta già infuriando da giorni.
- Certo. – sibila lui, infilandosi miracolosamente in un altro parcheggio e spegnendo il motore, - Teniamo fuori la roba dalle uscite. E tu ti tieni fuori dalla roba, invece. Senza un cazzo di motivo.
Spalanco lo sportello e lo schianto senza tanti complimenti contro la fiancata della macchina accanto a quella di Chakuza.
- Cazzo, non siamo mica sposati, Peter, datti una calmata!
- Vaffanculo. – risponde semplicemente lui, - E stai attento alla macchina, è l’unica che ho.
Agito stizzito una mano, il danno è stato veramente minimo. Volevo giusto scheggiargliela un po’. Visto il catorcio che è, nemmeno se ne accorgerà, se non glielo faccio notare.
- Comunque al momento abbiamo altre priorità che non siano scopare, Chakuza. Mi era sembrato di essere stato chiaro a riguardo.
- No, Fler, non sei stato chiaro, perché non ne abbiamo mai parlato, Cristo santo. – si interrompe e sospira, richiudendo la zip del giubbotto e sollevando il cappuccio per schermarsi dai fiocchi di neve che ricominciano a cadere appena ci immettiamo nel marasma di persone che entrano ed escono dai locali sulla via principale, - E comunque, non si tratta solo del sesso.
Lo dice come non avesse la minima importanza e come fosse perfettamente ovvio.
Io ci resto come uno stronzo, ovviamente.
- Che-
- Non avevamo altre priorità? – sbotta sarcastico, voltandosi prima che possa vederlo arrossire come un liceale.
Sarà difficile staccarmi da questa cosa. Sarà fottutamente difficile.
- Senti… - sospiro, tirando su il cappuccio della felpa, visto che la giacca non ce l’ha, e mettendomi al suo fianco per esplorare la via, - guarda che comunque non potevamo continuare in quel modo.
Chakuza solleva il capo e si guarda in giro, sta imparando a conoscere il quartiere e mi piacciono gli occhi con cui lo guarda. L’ha presa sul serio, alla fine, questa cosa, e sono contento che ce la stia mettendo tutta, scazzo a parte, ma in realtà mi piace solo come guarda Tempelhof. Mi piace che voglia impararlo a memoria e mi piace che lo stia facendo per non farmi ripetere continuamente sempre le stesse indicazioni.
- Perché, in che modo stavamo andando avanti? – chiede distrattamente, infilando le mani in tasca.
- Scopavamo, Chakuza. – gli ricordo con aria rassegnata, sperando di dirlo abbastanza schiettamente da fargli cogliere l’assurdo.
Non lo coglie.
- Non ha senso farmi un discorso simile. – mi dice infatti, scrollando le spalle, - A me piaceva.
- E questo era un nuovo episodio della fortunatissima serie televisiva ghetto-gay di ProSieben. – sospiro scuotendo il capo, - Chaku, ripigliati.
- E tu cerca di essere meno stronzo, piaceva anche a te. – odio che Chakuza riesca a mantenere l’attenzione su un argomento anche quando faccio di tutto per deviarla. Se non funzionano nemmeno le prese in giro, non so più a cosa attaccarmi. Potrei prenderlo a mazzate ma non so quanto servirebbe.
Sospiro.
- Sì, Chakuza, mi piaceva. Contento?
- No. – si ferma e mi guarda, io mi fermo a mia volta e mi cade un fiocco di neve sul naso. Incrocio gli occhi per guardarlo sciogliersi e Chakuza rimane interdetto un paio di secondi, prima di scuotere il capo e scoppiare a ridere. Questo suono non lo sentivo da un bel po’. Sorrido anch’io. – Sei un cretino. – mi riprende dandomi una spintarella, - Facciamo che stanotte resti da me anche perché nevica che sembra Natale, e poi domani ne parliamo con calma.
- Facciamo che prima il dovere e poi… tutto il resto, Chakuza. – cerco di mantenermi serio, spingendolo a mia volta. – Dai, entriamo là. – concludo indicando una kebaberia ad angolo di un vicolo poco invitante.
Lui annuisce ma adesso sorride, il che è molto male perché non gli piacerà come si concluderà questa serata – con me che gli do picche di nuovo, cioè – ma comunque entriamo nel locale e prendiamo posto e non abbiamo neanche il tempo di sederci che già Chakuza sta chiamando il cameriere per ordinare qualche quintale di questa schifezza di cui s’è innamorato ed alla quale io sinceramente non riesco a trovare un senso. Trovo difficile dare un senso alle cose di cui s’innamora Chakuza, in effetti, ma penso di poterlo accettare per com’è.
- Invece di mangiare a sbafo, guardati un po’ intorno. – ordino infastidito, attaccandomi come di consueto alla bottiglia di Beck’s, - Non siamo qui per cenare, siamo qui per individuare qualcuno a cui chiedere qualcosa.
- Sì, ma si dà il caso che non abbiamo cenato, in tutto questo, quindi prendiamo due piccioni con una fava e… Fler, metti giù quella bottiglia, non è acqua, prendi un respiro fra una sorsata e l’altra.
- Chaku, facciamo così, tu t’ingozzi ed io faccio il resto, d’accordo? – lui borbotta e ricomincia a mangiare, mentre io sollevo lo sguardo e vado alla ricerca di un tipo ben preciso di persone. Non mi aspetto certo di trovare l’assassino alla prima botta, cerco solo qualcuno a cui chiedere se magari sa qualcosa.
Sono circondato da bianchi che mangiano e bevono allegramente e mi chiedo se non ho sbagliato completamente posto. Non è questa la gente a cui dovrei rivolgermi. Non sono loro quelli che possono sapere qualcosa. Questi sono lavoratori che si concedono un’uscita con le loro donne di sabato sera. O ragazzini che non hanno nulla da fare e scendono nei quartieri bassi per vedere di cosa sa l’aria.
I miei obiettivi li individuo in un tavolo distante dal nostro, addirittura dall’altro lato del locale. Sono già abbondantemente ubriachi – li riconosco gli ubriachi, non stanno in piedi e ridono senza un perché – e chiacchierano del più e del meno gesticolando ed urtando le bottiglie vuote che tappezzano il tavolo.
Sono tunisini, soprattutto. Lo sanno tutti che è a loro che si chiede, quando si vuole sapere cosa gira e cosa non gira in questo quartiere. Lo sanno tutti e soprattutto lo so io. Sempre perché me l’ha insegnato Anis. Come tutto, dannazione. Sarà orgoglioso di me, il King. Gli sto facendo giustizia, piano piano.
Mi alzo in piedi e Chakuza mi guarda curiosamente per un attimo, ma quando gli faccio cenno di seguirmi molla immediatamente il panino e mi si mette alle calcagna. Se è nervoso o agitato, di certo non lo dà a vedere. Mi complimento interiormente con lui e mi avvicino al tavolo.
- Buonasera. – mi introduco con un sorriso. I due tunisini sollevano lo sguardo e non capiscono un accidenti di quello che sto dicendo, naturalmente. – Mi hanno mandato da voi perché pare che siate due che ne capiscono, di questo quartiere del cazzo. – cerco di farmeli amici, mentre Chakuza prova con tutte le proprie forze a non fare una piega, fermo al mio fianco come una bodyguard.
- Sei di fuori, ragazzino? – dice uno dei due, ridendo selvaggiamente, - Che ci fa uno come te qui? Quanti anni hai, dodici? Occhioni!
- Uno come te è carne da macello in questo posto! – gli dà man forte l’altro, - Quanto costa quella felpa? Duecento euro?
- Duecentocinquanta. – preciso, mentre Chakuza mi fissa sgomento. Ora, non è che se uno esce con venti euro nel portafogli non deve avere nient’altro in banca, dico. – E ne ho altrettanti da spendere, stasera.
I due ridono ancora, uno si abbatte sul tavolo e fa cadere tutta una serie di bottiglie per terra. Una va in pezzi, qualcuno si lamenta, torna tutto tranquillo dieci secondi dopo.
- Cos’è, ragazzino, vuoi la roba?
- Noi non ne vendiamo merda. Lo facciamo fare ai quattordicenni bianchi di pelle, finiscono in galera molto più raramente. Quando li beccano i poliziotti si accontentano di fare un giretto nelle loro mutande, non ce li mandano in galera, che poi si rovinano!
Cerco di trattenermi dal recuperare la bottiglia in frantumi e fare una cosa che non faccio da fin troppo tempo, e li ignoro, sedendomi accanto a loro su una sedia che rubo al tavolo di una coppietta poco distante. Chakuza resta in piedi dietro di me.
- Non cerco droga. – rispondo sorridendo, - Cerco informazioni.
I due ridono ancora e Chakuza sospira dietro di me.
- Questi non sanno un cazzo. – borbotta.
- Ehi, pupetto, dì al tuo amico di tenere a freno la lingua! – si agita uno dei due, il più vecchio, avrà una cinquantina d’anni. Lo osservo alzarsi in piedi e stendere un pugno in direzione di Chakuza, il quale afferra la mano chiusa fra le dita e torce il braccio del tunisino fino a farlo mugolare di dolore, - E Cristo, tieni a bada il nano forzuto, bimbo! Ce la siamo dimenticata l’educazione?
Scrollo le spalle.
- Non è che tu sia molto educato con me o con lui. – mi piace giocare con questi ruoli, mi sto divertendo. Anche Chakuza dietro di me, scommetto che non vedeva l’ora di sfogare un po’ di frustrazione contro qualcosa che non rimbalzasse quando cade per terra.
- D’accordo, d’accordo… - dice l’altro tunisino, sulla quarantina, sistemandosi meglio sulla sedia, - Parliamone un po’ da persone adulte, vi va? Il tuo amico si siede, bimbo?
- Tu chiamalo bimbo un’altra volta, - risponde Chakuza, - e mi siederò con le scarpe sulla tua testa, stronzo.
Il tunisino ride ed io mi passo una mano sugli occhi.
- Chaku, lascia parlare me. – lo imploro, mentre i due tunisini insieme cominciano a prenderci allegramente in giro parlando di fidanzamenti e accoppiamenti vari ed eventuali coi quali battezzare casa nuova appena papino e mammina ce la regaleranno, dopo il matrimonio. – Allora, io ho duecentocinquanta euro che scalpitano per uscirmi dalle tasche. – affermo, cercando di riportare la conversazione su un terreno che posso controllare, - Però se non intendete collaborare…
- Ma sì che collaboriamo, sì! – dice il cinquantenne, battendo una mano sul tavolo.
- Senza perdere tempo, su. – aggiunge l’altro, intrecciando le dita sotto il mento, - Cos’è che vi serve sapere?
Sorrido furbo, chinandomi verso di loro.
- So che sono venuti a reclutare gente in questa zona, per rompere i coglioni al ragazzino di Bushido, un mese fa. – insinuo, e vedo il cinquantenne ridacchiare.
- Chiamalo rompere i coglioni! – dice ilare, - Volevano che gli succedesse ben altro!
Il quarantenne gli tira una gomitata fra le costole. È più lucido dell’altro. Questo potrebbe essere un problema.
- Chi cazzo siete? – chiede.
No, così non va bene per niente.
- Amici. – rispondo con sicurezza.
Il tizio annuisce e si alza in piedi.
- Bene, allora da amici chiuderemo questa conversazione e da amici ci perderemo di vista.
L’altro si alza assieme a lui e Chakuza va in agitazione.
- Ehi, dove cazzo- - inizia, ma lo fermo con un cenno del capo.
- Sentite, non ce l’abbiamo con voi. – preciso conciliante, - Voglio solo sapere se potete dirmi chi è stato assoldato per portare a termine il lavoro. Tutto qua. Li troveremo noi.
- Li troverete anche senza il nostro aiuto. – dice il quarantenne con un vago gesto della mano, - Qui a Tempelhof le voci corrono in fretta.
Chakuza si fa avanti, bene intenzionato a menare le mani, ma lo fermo puntandogli una mano sul petto e scuotendo il capo.
- Agli ordini del bimbo, mi raccomando, eh! – ride il cinquantenne, - Sbaglio o è per questo che Bushido c’ha lasciato le penne? – continua sguaiato, mentre il quarantenne gli tira un’altra gomitata e lo spinge verso l’uscita del locale.
Chakuza ringhia – lo sento tremare sotto le dita nonostante il giubbotto imbottito e mi scosto per motivi che non capisco in pieno nemmeno io – e mi si piazza davanti con aria scazzata.
- Perché li abbiamo lasciati andare via?! – chiede infastidito, - Sapevano qualcosa!
- Sì, ma oggi è sabato sera e ci siamo già fatti notare abbastanza senza metterci dentro anche una rissa, Chaku. – cerco di spiegargli pazientemente, - Stai tranquillo, queste non sono cose che si risolvono in fretta…
- Sì, ma noi stiamo andando alla cieca da giorni! – protesta ancora lui mentre io mi avvio verso l’uscita, - E quando finalmente troviamo qualcosa-
- Quando finalmente troviamo qualcosa, quel qualcosa ci resta in mano, no? – sospiro, - Ora abbiamo la conferma che sì, è qui che l’assassino di Bushido è venuto a cercare una mano d’aiuto.
Chakuza sospira ed annuisce, rimettendosi a posto il cappuccio mentre ci immettiamo nuovamente nella strada principale, diretti alla macchina.
- Pensi che potrebbero essere stati quei due a…
- E cosa vuoi che ne sappia io? – scrollo le spalle, - Forse sì, forse no. Più probabilmente, sanno qualcosa ma non vogliono finirci di mezzo. – ghigno, - Non che non li capisca.
Chakuza annuisce ancora e resta in silenzio mentre ci facciamo strada nella folla stando attenti a non scivolare sulla neve mezza sciolta che ricopre quasi tutto il marciapiedi. Lo sento irrigidirsi qualche secondo dopo, ma non cambia l’andatura del passo e non si volta indietro. È solo più teso, lo sento a pelle. Mi volto a guardarlo.
- Be’? – chiedo curiosamente.
Lui si inumidisce le labbra.
- Credo che ci stiano seguendo.
Inarco un sopracciglio e sono già sul punto di dirgli “Chaku, ricordati che tu sei quello che sbatte negli armadi”, quando mi accorgo che in effetti ha ragione, c’è una figurina incappucciata e vestita di bianco che ci pedina e cerca di dissimulare tenendo un passo diverso. Mi accorgo che segue noi perché non è capace e quando perde il ritmo deve correrci dietro.
Sospiro, lanciando un’occhiata indietro ed individuandolo. È un nanetto. Sarà un ragazzino.
Annuisco a Chakuza e gli indico un vicolo che naturalmente non è quello in cui abbiamo infilato la macchina. Il nostro misterioso inseguitore, comunque, non dovrebbe saperlo. Faccio affidamento su quello quando io e Chakuza svoltiamo nella stradina laterale un po’ buia, e faccio affidamento sul giusto, perché quando ci voltiamo indietro la figurina bianca si ritrova spiazzata a fronteggiare due uomini con un’espressione vagamente incazzata sulla faccia e poca voglia di chiacchierare. Si tira un po’ indietro ed allarga le braccia, sulla difensiva, la tuta in acrilico bianco che brilla appena dei riflessi dei lampioni che costeggiano la strada principale, che da questa penombra umida e fredda sembra lontana chilometri e invece non disterà più di tre o quattro metri.
- Tranquillo. – dico con un mezzo sorriso, mentre lo osservo indietreggiare spaventato, - Scopriti il viso.
Chakuza resta zitto e buono al mio fianco ed il ragazzino si ferma e ficca le mani in tasca.
- Nevica. – risponde scaltro, - Ed anche voi avete i cappucci.
Mi viene da ridere ma non lo faccio. Sfilo il cappuccio, invece, e faccio cenno a Chakuza perché faccia lo stesso. Lui ghigna divertito e poi insieme osserviamo il ragazzino esitare, confuso, e scoprirsi, restando fiero e dritto nella neve che cade, il volto pallido arrossato dal freddo sulle guance e sulla punta del naso ed i capelli corti e biondi disordinati sulla fronte, scossi appena dal vento. Ci fissa con un paio d’occhi azzurrissimi resi scuri dall’ansia e dalla paura, sotto le sopracciglia aggrottate in una posa da duro che conosco benissimo.
Chakuza ride apertamente e io gli do una spinta.
- La pianti di prendere per il culo?! – lo rimprovero, ma sto ridendo anch’io, e colgo l’espressione del ragazzino distendersi e poi arricciarsi nuovamente in un broncio offeso e deluso. – Avanti, è stato bravo fino ad ora!
Chakuza annuisce e pianta le mani sui fianchi, guardandolo bonario.
- Quanti anni hai? – gli chiede, il vocione rude modulato da una nota di tenerezza che è davvero impossibile da ignorare.
Il ragazzino incrocia le braccia sul petto.
- Sedici! – protesta stizzito, battendo un piede per terra.
Io annuisco e cerco di frenare Chakuza prima che ricominci a ridere. Mi avvicino con le mani bene in vista, trattandolo da pari, è così che si gioca con questi ragazzini qui. Mi dispiace un po’ sapere che a continuare a vivere in questo postaccio diventerà davvero ciò che adesso sta solo imitando.
- Okay, e ti chiami? – mi informo fissandolo dritto negli occhi.
Lui è un po’ incerto, guarda altrove, non sa se è giusto dirlo o meno. È molto piccolo, dovrebbe stare a casa.
- Daniel. – risponde alla fine, mascherando con un cipiglio sicuro l’esitazione nella voce.
- E ci hai seguito perché…? – chiede Chakuza affiancandosi a noi. Daniel esita ancora, si tira un po’ indietro, poi si rimette dritto e ci fronteggia con sicurezza.
- Io lo so cosa state cercando. – dice annuendo, - Ma qui non ve ne parlerà nessuno, dovete per forza risalire alla fonte.
Mi verrebbe da ridere per come parla, se non sapessi perfettamente che da ridere, in questa situazione, non c’è niente.
- E come mai nessuno dovrebbe parlarcene? – indago, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
- Perché c’è gente importante invischiata. – risponde lui, - Gente importante del quartiere, intendo. Posso farvi i nomi, se volete.
Chakuza inarca un sopracciglio ed incrocia le braccia.
- E questo slancio di generosità è dovuto a…? – chiede curiosamente, ed io ridacchio.
Gli occhi di Daniel saettano prima su di lui, fulminandolo – o almeno provandoci – e poi tornano su di me e si fanno più imbarazzati e liquidi, prima di chinarsi ad osservare la punta delle scarpe da tennis macchiate di fango.
- …sono un fan dell’Aggro, io. – biascica a mezza voce, ed io spalanco gli occhi e rido compiaciuto, battendogli una pacca sulla spalla.
- Grazie! – rispondo con entusiasmo, mentre Chakuza borbotta al mio fianco, - È bello vedere che i giovani hanno ancora degli ideali.
Chakuza coglie la frecciatina e fa per tirarmi un cazzotto sulla spalla, ma io lo evito e smetto di ridere, riportando l’atmosfera su un piano meno divertito e più serio.
- Dunque, Daniel. – inizio piano, - Questi nomi?
- Devi cercare Samir Azad. – risponde pacato lui, tirando su la zip della felpa fino a coprirsi il mento. Comincia a fare più freddo, e già prima non si stava bene. Mi passa per la mente in un pensiero confuso che dovrò fare i salti mortali per fuggire da casa di Chakuza, stanotte, se mai ci rimetteremo piede. – Spaccia per suo fratello Jad, che si rifornisce da certa gente di Cuba… non li conosco molto bene, non sono ancora arrivato a quel livello là. Io per ora lavoro per un tizio che ho incontrato in riformatorio e che li conosce.
Annuisco lentamente, Chakuza è già confuso e scalpita al mio fianco ma la mia calma lo tranquillizza.
- E io questo Samir Azad dove lo trovo?
Daniel scrolla le spalle con aria navigata.
- È sempre in giro. – risponde con un cenno del capo.
- In giro dove? – chiede Chakuza, - Sii più preciso.
- Verso Alter Park… - dice, indicando con un gesto distratto oltre il canale, che s’intravede appena oltre la gente, le luci, la strada e gli alberi, - Lo riconosci subito perché è mezzo zoppo, ha perso un pezzo di piede quando lavorava in fabbrica.
Chakuza annuisce.
- Lo conosco Alter Park. – commenta, - È un posto carino.
Io ghigno.
- Non dopo mezzanotte. – e Daniel ride con me. Infilo le mani in tasca e tiro fuori il portafogli, guardando questo ragazzino che ridacchia come se fosse molto figo essere uno spacciatore e dare una mano a due spiantati per trovare due cazzo di quasi-assassini. Forse perché non sa come si finisce, a camminare su questa strada. O forse perché lo sa e crede di non avere alternativa.
Spero che questi duecentocinquanta euro lo tengano lontano dalle strade, per un po’.
Lui mi guarda mettere mano ai soldi e mi ferma, scuotendo il capo.
- Non l’ho fatto per farmi pagare. – dice col cipiglio serio del ragazzino che crede di sapere cosa sta facendo, - L’ho fatto perché sei tu. – aggiunge più candidamente.
Ripongo il portafogli nella tasca, annuendo lento. Poi sorrido.
- Adesso hai un amico che conta, Daniel. – aggiungo dandogli una pacca sulla spalla. Sospiro. – Sei mai stato arrestato? – chiedo a bruciapelo, e Daniel aggrotta le sopracciglia.
- No. – risponde con orgoglio, - Sono stato bravo.
- Fortunato. – correggo, stringendo la presa sulla sua spalla, - Cerca di mantenerla, questa fortuna.
Lui esita per un attimo e poi risponde con un sorriso più sincero prima di salutarci, scomparendo oltre il vicolo. Quando ne veniamo fuori io e Chakuza, ritornando in strada e guardandoci intorno per capire il da farsi, sembra svanito nel nulla.
- Non so se ridere di più per l’amico che conta o perché hai fatto colpo su un sedicenne. – mi prende in giro Chakuza dandomi una gomitata in pieno petto e ridendo sonoramente, - Guarda che è illegale, eh?
- Sì, be’, - arrossisco in maniera indecente io, - Non è che ora improvvisamente solo perché tu sei frocio lo sono anche tutti gli altri, Chaku.
Lui ride ancora, calandomi il cappuccio sulla testa.
- Tu te ne tiri fuori? – chiede, e nella sua voce c’è una nota un po’ più profonda di quella che usa in genere quando prende in giro e basta.
Non ti va giù che possa andarmene, vero, Chaku? Capissi perché, forse non me ne andrei.
Riprendiamo a camminare e mi accorgo solo dopo qualche passo che stiamo andando in due direzioni completamente diverse. Mi volto a guardarlo e lui si volta nello stesso momento, ed immagino che sulla mia faccia ci sia la stessa espressione ebete che c’è sulla sua.
- Dove stai andando? – chiedo curiosamente, senza muovermi dalla posizione plastica in cui mi sono praticamente congelato, interrompendo il passo a metà.
Lui solleva un dito ed indica una direzione ideale che è quella del vicolo in cui abbiamo posteggiato. Mi chiedo se saprebbe arrivarci da solo.
- A casa. – risponde quindi, - Non l’hai detto tu che queste cose non si risolvono mai in fretta e che ci siamo già fatti notare abbastanza?
- Sì, ma abbiamo ricevuto una soffiata! – dico io, voltandomi per intero, finalmente, e guardandolo sconvolto, - Non possiamo perdere l’occasione, rischiamo che li avvertano e non si facciano più trovare!
Chakuza sembra incerto ma annuisce e mi si affianca. Sono consapevole di stargli chiedendo uno sforzo. In realtà lo sto chiedendo anche a me stesso. È un po’ spaventoso essere così vicini alla soluzione. Fa paura anche perché la soluzione in realtà porterà un mucchio di problemi con sé. Con quest’assassino, cosa ci facciamo, una volta che l’abbiamo trovato? E se è chi io penso sia, come la mettiamo?
- Ehi… - Chakuza mi dà una mezza gomitata sul fianco, - che hai?
Scrollo le spalle.
- Tu non sei nervoso? – chiedo, guardando altrove mentre ci avviamo lenti verso Alter Park.
Chakuza sbuffa una mezza risata.
- Tu, il padrone delle strade!, chiedi a me se sono nervoso? – mi prende in giro, inarcando le sopracciglia, - La birra ti ha dato alla testa in ritardo?
- Ma perché devi essere sempre così stronzo? – ritorco, tirandogli un cazzotto sulla spalla, - Era solo una domanda.
Chakuza guarda dritto davanti a sé e si gratta la nuca, sotto il cappuccio.
- Non tantissimo. – ammette, - Mi preoccupa di più che tu sia nervoso, che non la situazione in generale.
Lo fisso, stupito.
- Come, scusa?
Lui scrolla le spalle.
- Eri a tuo agio, fino a poco fa. Se cominci a preoccuparti vuol dire che hai paura di qualcosa. Se ne hai paura tu, praticamente io posso già cominciare a scappare, in sostanza.
Ridacchio.
- Allora ammetti che è vero? Sei l’uomo che sbatte negli armadi?
Lui cerca di farmi lo sgambetto ma io lo evito.
- Non intendevo dire quello. – ride, - È che io la mia vita te la affiderei, Atze. – e mi si ferma l’aria in gola, - Quindi hai una responsabilità.
Arriviamo ad Alter Park e sinceramente credo che i miei piedi abbiano ricordato da soli la strada, perché Chakuza ha questa cosa che dice parole di cui secondo me non si rende conto. O meglio, lui se ne rende conto, lui lo sa perfettamente quanto vale quell’Atze o quando vale sentirmi dire che la sua vita è nelle mie mani, però non capisce che ci sono cose che quando le senti ti annullano i pensieri. Lui le dice e basta, lo fa con una certa innocenza, non è che voglia mandarti in black out. Però lo fa.
Ci sono momenti in cui mi è veramente semplice capire perché Bill sia perso fino al punto in cui è.
Chaku si guarda intorno con aria tranquilla, scruta il buio della notte attraverso i viali alberati e le fontane spente. Il cielo è coperto e continua a nevicare ma l’acqua bassa nelle fontane è ancora liquida, così com’è liquido il fiumiciattolo che scorre sotto il ponticello arcuato verso il quale ci avviciniamo.
- Dove stiamo andando, Fler? – mi chiede quando comincia a sospettare il nostro girovagare non abbia veramente un senso.
- Non lo so. – ammetto scrollando le spalle, - In giro. Se vedi uno storpio, dimmelo.
Chakuza fa una smorfia.
- Che vorrebbe dire, “se vedo uno storpio”? – borbotta, - A parte che, se vedo qualcosa, lo vedrai anche tu, visto che stiamo andando nella stessa direzione. E comunque qui non c’è nessuno. Con questo tempo da cani, non capisco nemmeno perché ci siamo noi…
Sospiro e roteo gli occhi, indicando un’ombra scura appoggiata sotto un albero.
- Lì c’è qualcuno. – gli faccio notare con aria tranquilla come fosse ovvio e scontato trovare lì quella figura incappucciata.
Chakuza annuisce e deglutisce.
- Lui? – chiede.
- Non mi pare storpio. – dico, osservando il tipo dondolarsi da un piede all’altro e cominciare a giocare con un sasso per terra. – Però è probabile sia un palo. Stammi vicino e non aprire bocca.
- Ehi-
- Non mi avevi affidato la vita? – ghigno furbo, e lui si zittisce mentre ci avviciniamo al tipo. Mi schiarisco la voce e pianto una mano sul fianco, fissando il tipo con aria non propriamente ostile ma neanche propriamente ben disposta. – Ci hanno detto che da queste parti c’è roba buona.
Quello solleva lo sguardo e mi scruta da sotto il cappuccio, masticando rumorosamente una gomma.
- Mai visti da queste parti. – risponde secco, - Sbirri.
Aggrotto le sopracciglia, le mani bene in vista.
- Io ci sono nato qui.
Lui sbuffa e tira su col naso.
- Io non ti ho mai visto.
Chakuza resta in silenzio al mio fianco ma percepisco il nervosismo nel suo respiro appena trattenuto.
Io roteo gli occhi.
- Quindi nessuno ti ha mai raccontato niente di Frank White? – ghigno sicuro di me. Potrebbe essere la cazzata più grande della mia vita. Se questo tizio c’entra con tutto il casino che è successo, o se anche solo il suo capo gliene ha detto qualcosa, siamo fregati. Se non sa niente, però, questo nome potrebbe essere il nostro lasciapassare definitivo.
Il tipo solleva lo sguardo e mi fissa, incerto.
- Tu saresti… - mi libero del cappuccio e lascio che mi guardi bene in faccia. - …oh. – prego vivamente che Chakuza non si faccia riconoscere. Il tipo, comunque, annuisce brevemente. – Al gazebo. – indica oltre il ponte, - Samir è là.
Annuisco e mi allontano, tirandomi dietro Chakuza. Il gazebo, se è ancora come lo ricordo io, è una struttura in legno bianco con una cupola di tegole nere, tutta circondata da una ringhiera ad assi incrociate che fa molto recinto di campagna da ricca famigliola americana, e da schiere di aiuole piene di cespugli che in primavera sono colorate e profumatissime. Il classico luogo che in genere viene adottato dalle coppie di fidanzatini per pomiciare, ed infatti succedeva eccome, almeno ai miei tempi, solo che, calato il sole, questo posto cambia faccia.
Quando arriviamo, lo scenario è molto più adatto allo spaccio che non ai flirt, comunque. Un po’ perché è inverno, e quindi delle aiuole colorate non è rimasto poi molto. Un po’ anche perché sono passati più di dieci anni. Quindi, anche del resto, non è che sia rimasto tanto.
Samir Azad, avvolto in un giubbotto in piuma d’oca, il viso nascosto da un ampio cappuccio col pelo sull’orlo, sta contrattando con un tizio dal volto semicoperto da berretto e sciarpa, e si muove avanti e indietro lungo le pareti del gazebo per non stare fermo, anche perché a star fermi si gela. Chakuza mi guarda, un’occhiata ferma e sicura, ha visto che zoppica: è lui, sì Chaku, è lui.
Mi appoggio contro una parete, incrociando le braccia e sollevando un piede contro il legno, che tanto è così pieno d’impronte da non farmi nemmeno più sentire in colpa per il fatto che sto calpestando la mia gioventù ed usando il mio nome – cose di cui vado abbastanza orgoglioso, insomma – per vendicare un uomo che mi ha mandato a fanculo e dal quale non mi sono mai sentito dire grazie. O scusa. Lui e tutte quelle canzoni del cazzo come quella in cui mi diceva che sperava stessi bene. Come se per me fosse possibile stare bene senza che mi desse una fottuta occasione per perdonarlo. Ma Bushido il mio perdono non lo voleva. Lui non ha mai sbagliato.
Il tipo col volto coperto si allontana e lascia il gazebo mentre Samir conta i soldi e li infila nella tasca posteriore dei jeans, prima di voltarsi verso di noi e farci cenno col capo. Mi avvicino e mentre lo faccio metto bene a fuoco la situazione. Samir probabilmente è armato. Così come saranno probabilmente armati anche i numerosi pali che ha sparso per il parco. Noi siamo in due, io ho una pistola ma dubito che Chakuza abbia la mia stessa fortuna, il che vuol dire che devo prendere immediatamente in mano la situazione, farmi dire ciò che mi serve di modo che poi lui non abbia più nulla da difendere e scappare via da qui il più in fretta possibile. Prima che lui allerti qualcuno, almeno.
Mi chiedo per un attimo chi mi abbia convinto a ficcarmi in una situazione che puzza di suicidio lontana chilometri. Poi ricordo che mi ci sono ficcato da solo. E ricordo anche che mi piacerebbe poter tornare da Bill e dirgli “visto? Te l’abbiamo preso, il figlio di puttana”. Ricordo, soprattutto, che sulla fottuta tomba di Bushido voglio tornarci presto. Magari lanciare un’occhiataccia a quella foto sorridente incastonata sulla lapide e poi dirglielo. Mi devi un favore enorme, stronzo, perciò… perciò non lo so. Mi piacerebbe credere in Dio e poter pregare, in una situazione del genere. Almeno non starei rischiando la vita per qualcosa di così inutile ma che sento come assolutamente inevitabile.
Chakuza non lo capisce, quello che sto facendo. Mi osserva con la coda dell'occhio ficcare una mano in tasca e quando fa per aprire bocca e chiamarmi se lo risparmia, perché capisce che è già tardi: c'è la mia pistola pressata con forza contro lo stomaco di Samir, e la mia mano libera è salita a chiudergli prepotentemente la bocca. Samir mi fissa con gli occhi spalancati, respira forte contro la mia mano e il suo fiato caldo scioglie il gelo dei miei polpastrelli. Stringo la presa attorno al suo viso fino a fargli male, lui si lamenta sotto di me e continua a fissarmi con quegli occhi enormi – è più giovane di me, avrà vent'anni, cazzo, forse nemmeno – ed io lo spingo indietro violentemente, cercando la ringhiera contro cui schiacciarlo. Lui incespica, il piede monco non lo aiuta, non cade a terra solo perché gli sto stringendo la mascella fra le dita come una tenaglia.
- Cristo... Fler! – strilla Chakuza venendomi vicino per nascondere la scena col corpo, - 'Cazzo stai facendo?
Io sorrido.
- Pubbliche relazioni. – rispondo, ripescando dalla mia adolescenza una faccia di culo che mi sembrava di avere perduto – anche perché non credevo ne avrei più avuto bisogno – e che invece viene fuori con una semplicità disarmante, come fosse sempre stata lì in agguato in attesa del momento giusto per rifarsi viva. Probabilmente è stato così per davvero. Ed io avevo proprio ragione a dire a Chaku che chi viene da questo quartiere di merda prima o poi, in qualche modo, ci ritorna e basta. – Ciao, Samir. – ghigno cattivo, affondandogli la canna della pistola nella pancia, - Serata fredda, mh? – lui mugola e cerca di liberarsi, ma Chakuza scatta a tenerlo fermo per le braccia ed ora siamo in due a schiacciarlo contro la ringhiera. Non ha cosa fare. – Ho qualche domanda da farti, quindi ora devo liberarti la bocca. Però tu non urli, altrimenti io ti ammazzo. Sono stato chiaro?
Samir annuisce freneticamente ed io sollevo la mano, lasciandolo libero di parlare. Lo stringo per la spalla, però, così che non gli venga in mente di fare qualche stronzata che, teso come sono, mi porterebbe a sparargli per davvero, anche se non ho la minima voglia di concludere la serata in un bagno di sangue.
- Che cazzo volete? – chiede lui, una nota di terrore profondissima nella voce tremante.
Io sospiro e mi avvicino a lui.
- Guardami bene in faccia. – gli dico, - Mi riconosci, Samir? Lo sai chi sono?
Chakuza mi lancia un'occhiata allarmata ed io spero che non si faccia saltare in testa qualche idea geniale delle sue tipo scoprirsi il viso. Ne basta già uno nella merda fino al collo, ed è più giusto che quell'uno sia io, perché se stasera andasse tutto a puttane e per uno di noi qualcosa dovesse andare storto, non me la sentirei proprio di restare io con Bill ed i fantasmi di due uomini che hanno contato tanto. Meritatamente o meno.
Samir, comunque, annuisce e chiude la bocca, mandando giù a vuoto.
- Lo volevi morto anche tu, Bushido. – dice con rabbia, cercando di scattare in avanti, ma lo riporto indietro a sbattere contro la ringhiera.
- Errore. – sibilo, stringendolo al collo, - Non mi pare di aver autorizzato nessun omicidio, negli ultimi tempi, tantomeno quello di Bushido. – gli faccio presente, - Ma non fare l'avvocato del diavolo, stronzo, so che non sei stato tu a farlo fuori. – ghigno, - Tu hai fatto il gradasso col suo ragazzino, vero? – ipotizzo, e so che non sto toppando perché ad ammazzare Bushido non può davvero essere stato lui. Io c'ero, quella notte, io lo so che qualche stronzo ha fischiato. Ma non può essere stato questo stronzo qui. Lui non ne sa niente, di fischi e simili. – Coraggio. – lo incito, - Sì o no? Posso farti un sacco di male, Samir.
- Fler, cazzo! – mi chiama Chakuza, ma io lo ignoro.
- Cristo! – geme Samir quando sente la pistola schiacciarsi più profondamente contro il ventre, - È vero, Cristo, è vero! Lo sapevo che era una cazzo di storia pericolosa, quello stronzo di un libanese non mi ha lasciato scelta, cazzo!
E lì il tempo, per un bel po', si ferma. Non contano i secondi e la neve che cade, Chakuza diventa un pezzo di ghiaccio al mio fianco e la sua stretta attorno alle spalle di Samir si fa fortissima per un istante, prima di disperdersi lentamente e diventare nulla.
Io riesco solo a pensare che, cazzo, avevo ragione. C'era un solo stronzo cui Bushido potesse aver parlato del nostro fottuto fischio. Quello stronzo non poteva che essere il suo braccio destro. Quello che doveva accompagnarlo quella notte. Quello che doveva essere il testimone della sua morte. Baba Saad. Il libanese. Alla fine, è stato testimone della sua morte per davvero. Lo stronzo figlio di puttana.
Mollo Samir e mi tiro indietro, tenendogli sempre la pistola puntata contro. Lui solleva le mani in segno di resa ma Chakuza non si muove. Non lo sta stringendo, però è ancora lì, lo fissa e gli tiene le mani addosso.
- Peter. – lo chiamo, ed uso apposta il nome di battesimo, perché Peter può essere chiunque e Chakuza non dovrebbe essere qui. Lo guardo dove dovrebbe esserci la sua faccia, ma non vedo niente. C’è buio ed il cappuccio è tirato così in basso che quasi gli sfiora il naso. – Peter! – lo chiamo ancora, e lui si volta appena, - Vieni via.
Lo vedo che solleva un po’ il viso e mi lancia una mezza occhiata incerta. Samir ha ancora le mani bene in alto e respira con fatica, probabilmente pensa abbia una pistola anche lui e trova la sua vicinanza un tantino troppo spaventosa.
Chakuza si schiarisce la voce un paio di volte, inspira ed espira e poi inspira ancora e trattiene il fiato, tant’è che davanti a lui non si forma più condensa e dopo un po’ comincio perfino a preoccuparmi. Ma poi apre la bocca e parla, e quando lo fa mi si attorciglia qualcosa dentro perché il tono che usa è tremendo. Non è debole, non trema, non è allarmato. Non è neanche freddo e distaccato come dovrebbe, però. È qualcosa che si avvicina molto ad un’incredulità allucinata che fa un po’ male. Mi viene da pentirmi di un mucchio di cose. Tipo di averlo portato qui. Tipo di averlo costretto a sentire una cosa simile. Insomma. Non è stato giusto.
- Stai parlando di Baba Saad? – chiede, e Samir annuisce senza aspettare un attimo.
- Cazzo, chi altri? – rincara la dose, - Ehi, amico, dì a questo tizio di mollarmi, non so nient’altro, cazzo, e non gliel’ho infilato io il coltello nello stomaco, al tuo uomo!
Ringhio e lo mando a fanculo, per un attimo ho perfino paura che Chakuza reagisca in maniera troppo infastidita, cosa che darebbe modo a Samir di capire o almeno intuire chi ha davanti – ma a Chakuza non interessa del suo stomaco, adesso. Credo di poterlo capire.
Lo lascia andare e si allontana, venendo verso di me.
- Tutto a posto? – gli chiedo quando è abbastanza vicino, lui non risponde.
- Cristo, dovreste chiederlo a me se è tutto a posto! – sbotta Samir, massaggiandosi lo stomaco.
Tendo il braccio, puntandolo alla testa.
- Tu mi fai il favore di strozzarti con la tua stessa lingua, grazie. – dico, per chiarire nuovamente le posizioni, - Prima che io ti faccia qualcosa di peggio.
Samir solleva di nuovo le mani ed annuisce.
- Okay, okay, amico, ti ho detto tutto quello che sapevo! Mi lasci andare?
Annuisco e faccio cenno di muoversi con la pistola, Samir si china a raccogliere la sua roba e poi lo vedo allontanarsi zoppicante ed agitato verso il ponte. Mi avvicino a Chakuza, e comincio a preoccuparmi davvero perché la situazione non è bella, dobbiamo decidere cosa fare e lui continua a fissare il vuoto. La cosa non mi piace.
- Chaku, ehi. – gli do una pacca sulla spalla, non ho la più pallida idea di come cazzo consolarlo perché tutto ciò cui riesco a pensare è che la voglia di concludere la serata in un bagno di sangue è tornata all’improvviso quando Samir ha parlato. Solo che ora so con precisione di chi voglio che sia, il fottuto sangue. – Ehi, ci sei?
- Sì. – risponde seccamente lui, guardandomi. – Cazzo. Saad. – e lo dice come se si aspettasse da me un “assurdo, vero?”. Boh, non so, forse dovrei accontentarlo, ma la verità è che non lo penso. E però non posso stare qui a dirgli “guarda che io l’ho sempre sospettato, eh”. Cioè, con che faccia gliela dico una cosa simile? Perciò mi limito a stringere ancora di più la presa sulla sua spalla, e cercare di guardarlo comprensivo.
- Lo so, Atze, lo so. Senti, dobbiamo muoverci da qui. – gli faccio presente, - Non è sicuro e dobbiamo vedere cosa fare.
Lui si scosta con un ringhio frustrato.
- Ma cosa cazzo vuoi fare, Fler?! – strilla, ficcandosi le mani in tasca e muovendosi nervosamente in tondo nel gazebo, - Cristo, proprio lui! Cazzo! Fler, che cazzo facciamo?!
Mi passo una mano sugli occhi e sospiro pesantemente.
- Ci pensiamo dopo, Chaku. – gli vado dietro, riprendendolo per le spalle per cercare di tenerlo fermo, - Ehi, senti, mi servi calmo e concentrato, ok? – lui fa per divincolarsi. Lo stringo con più forza e lo costringo a girarsi e guardarmi negli occhi, e poi lo fisso nel modo in cui fisso sempre la gente quando voglio farmi ascoltare e obbedire. Come se non vedessi altro, cioè. – Chakuza, ho davvero bisogno di te. Non mi mollare adesso, stai calmo.
Lui respira con forza.
- Stiamo parlando di Bushido, qui. – mi fa notare, come non ne fossi perfettamente consapevole, - Cristo, è Saad che ha ammazzato Bushido! Ti rendi conto?!
- Sì che me ne rendo conto. – rispondo annuendo, - E credimi, non c’è nessuno che vorrebbe saltargli addosso e strangolarlo più di me, al momento, ma… - mi interrompo, perché realizzo all’improvviso che invece c’è qualcuno che vorrebbe saltargli addosso e strangolarlo più di me. E quel qualcuno è un ragazzino pallido e magro che gela nell’inverno di Berlino per andare a bere una cioccolata disgustosa nel posto in cui è andato con Bushido magari anche solo una volta, ma che continua a ricordare come se le volte invece fossero state mille. Deglutisco. – Chaku… - lo chiamo, mentre lui continua a fissarmi smarrito, - Dobbiamo andare da Bill.
Chakuza non dice niente. Neanche una parola. Chiude la bocca e spalanca gli occhi e non fiata, ma tutto quello che deve dirmi lo sta dicendo in silenzio, guardandomi in questo dannato modo che mi manda fuori di testa ed al quale vorrei tanto rispondere “okay, dai, Chaku, torniamo a casa e vediamo se c’è ancora un po’ di pollo con le patate avanzato dall’ultimo rifornimento dalla signora Lotte e poi guardiamo un po’ di tv fino a che non ci viene sonno e poi si vede”, ma non posso, cazzo, non posso assolutamente farlo, perciò lo stringo ancora per le spalle e cerco di sorridere un po’.
- Chakuza, io glielo devo, al ragazzino. Ho bisogno di dirglielo. Non lo metterà in pericolo, questa cosa la risolviamo stasera. – mi fermo ed esito un po’, - …o la risolvo. Se preferisci… restare con lui, dico.
- Fler… - si passa una mano sulla fronte come stesse realizzando solo adesso tutta l’intera situazione per com’è. Sembra che voglia dire qualcosa, si ferma e poi riprende lo stesso. - …non lo vedo né sento da settimane. – dice a bassa voce. Il suo tono è talmente cupo e profondo che mi dà i brividi. Mi viene voglia di dargli un cazzotto e non capisco neanche bene perché.
- Sì, lo so. – cerco di fermarlo, ma lui scuote il capo e si ostina.
- No, non lo sai, Fler, la situazione fra me e Bill è… complicata.
Mi manca il fiato. Vorrei che questa serata fosse già finita. Non avrei mai voluto parlare di questa cosa, non con Chakuza, almeno. Con Bill è diverso, con Bill è tutto sempre molto più etereo e meno realistico. Cristo, se anche Bill mi dicesse in faccia e a chiare lettere che è innamorato di lui, non farebbe male nemmeno un quarto di quanto potrebbe fare male se invece…
- Lo so. – deglutisco a fatica. E quando lui prova a riprendere a parlare gli poso una mano sulle labbra e lo zittisco definitivamente. – Ti dico che lo so. Okay? Lo so. Ma, Chakuza, forse è vero che io ho la responsabilità della tua vita, d’accordo, però è molto più vero che invece tu hai la responsabilità della sua. Quindi ora basta con le cazzate, d’accordo? – sospiro e scuoto il capo. – Andrà tutto… esattamente per il verso migliore. Chiaro? Perciò ora piantala e torna in te. Non esiste farti vedere dal ragazzino in queste condizioni. Okay?
Quando lo lascio libero di parlare, Chakuza mi manda a fanculo. Proprio così, senza pensarci nemmeno un secondo, mi dice “vaffanculo, Fler”, e non aggiunge altro. Rimane lì con una mano sugli occhi a massaggiarsi le tempie col pollice e l’indice ed io continuo a tenergli le mani sulle spalle e stringere un po’ per fargli coraggio, e lui resta zitto per un sacco di tempo, mentre io non faccio altro che guardarlo. Quel vaffanculo era pieno di roba, Chakuza ce l’ha con me per un sacco di motivi, adesso, ma non si scosta, quindi va bene. Cioè, è incazzato ma non vuole davvero mandarmi a fanculo, e questa è una cosa buona, almeno per il momento.
Solleva lo sguardo solo qualche secondo dopo.
- D’accordo. – annuisce, - Andiamo.
Il tragitto in macchina non è silenzioso come mi aspettavo. Non so, credevo che avrebbe guidato in silenzio assoluto fino a casa di Bill e che avrebbe sclerato solo una volta lì, magari prima di entrare. E che poi si sarebbe calmato automaticamente, giocoforza, quando avremmo detto tutto a Bill e sarebbe stato il turno suo, del ragazzino, dico, di sclerare come si deve.
E invece no, sclera da subito, già in macchina, e per nascondere il fatto che sta sclerando si mette lì a farmi domande assurde delle quali non capisco il senso, perché se si aspetta da me che abbia una risposta a cose tipo “e quando lo prendiamo, che facciamo?” è veramente fuori strada. Come cazzo fa uno ad avere risposte simili?
- Cristo, Fler, ma non hai pensato a niente, prima di venire fino a qui?! – ringhia, costeggiando il canale per uscire da Tempelhof.
- Non contavo di dover fare niente di simile, stasera. – cerco di farlo ragionare, - E comunque calmati, Chaku.
- Non dirmi di stare calmo! Cosa facciamo? Lo portiamo alla polizia? Ma non ci crederà nessuno, Cristo, non possiamo portare uno spacciatore zoppo come testimone di un omicidio che non ha visto e per il quale non ha prove, cazzo!
- Ci inventeremo qualcosa, dai. Calmati.
- Non dirmi di stare calmo, Cristo santo, Fler! Non senti come suona male la frase? Stai calmo non puoi dirmelo mentre andiamo a casa di Bill per parlargli dell’assassino di Bushido!
Batto un pugno contro lo sportello.
- E allora vaffanculo, diventa isterico! – concedo urlando, - Cristo, sei una piaga!
Lui non risponde, si lascia andare ad un grugnito frustrato e stringe le dita attorno al volante. Riprende a parlare solo dopo molti minuti, quando siamo già nei paraggi di casa di Tom. Gli ho detto io di venire qui. Chakuza non sapeva che Bill si fosse trasferito da suo fratello, nell’ultimo periodo.
- Fler. – mi chiama, nella voce una strana tranquillità rassegnata che mi preoccupa un po’. – Voglio che, quando questa faccenda si sarà risolta, torni tutto come prima.
Esito per qualche secondo, mordendomi l’interno di una guancia.
- Prima quando? Quando non ci conoscevamo e Bushido era vivo?
Chakuza scuote il capo.
- Prima di venire a Tempelhof. – risponde senza guardarmi, – Quel prima lì.
Abbasso lo sguardo.
Non ce la farò mai a dirgli che voglio andare via.
- D’accordo. – annuisco, – Ora però sta’ tranquillo.
Ed annuisce anche lui.
Arriviamo a casa di Tom e per un po’ ci guardiamo intorno spaesati come non riconoscessimo l’ambiente. Chakuza ride nervosamente e rido anche io. È incredibile, sono questi i paesaggi urbani cui siamo abituati, ma per qualche ragione questo condominio che non c’entra niente con Tempelhof in questo momento ci disorienta.
Suoniamo educatamente al citofono e per un attimo dimentichiamo pure che abbiamo fretta e un assassino da recuperare: come fai ad attaccarti al campanello e suonare come ne andasse della tua vita, in un posto simile? Svegli i condomini. Ti insegue il custode coi dobermann, tipo, soprattutto a quest’orario indecente della notte. Mentre suono, guardo Chakuza e lui guarda me e ci passano per la mente gli stessi pensieri idioti: magari dormono, per dire. Non dovrebbe interessarci che i gemelli dormano o no, questa cosa è decisamente più importante, ma ci pensiamo lo stesso. È assurdo e mi viene di nuovo da ridere. Chakuza in effetti una mezza risata la sbuffa, ma poi scuote il capo e si ferma, così evito anche io.
- Sì? – la voce che mi risponde dall’altro lato è impastata e profonda, sa di sonno nonostante il citofono ne deformi i toni verso una nota fastidiosamente metallica. È una cosa tipica dei citofoni moderni iperfunzionali, ti scombussolano la voce. Quando parlo con Chaku al suo citofono scassato mi sembra quasi di avercelo davanti ed invece qui mi pare che la voce di Tom provenga da un altro pianeta.
- Tom? – chiedo un po’ incerto. Guardo Chakuza e, mentre realizzo che questo ragazzo fino a un anno fa andava in giro dicendo che adorava l’Aggro Berlin, lui mi fa cenno di spostarmi e prende la parola.
- Sono Chakuza. – dice con sicurezza, - Mi apri?
Lui resta un attimo in silenzio.
- Ma quello era Fler? – chiede, senza rispondere alla domanda.
Io inarco le sopracciglia e guardo Chakuza. Lui solleva gli occhi al cielo e sospira.
- Sì, Tom. Mi apri?
- Ma che ci fa qui Fler? – continua a chiedere Tom, come neanche lo sentisse, - Ma sono le tre del mattino! Cosa ci fa qui Fler? – un secondo di pausa, - E cosa ci fai qui tu?
- Grazie per aver ricordato la mia esistenza. – grugnisce Chakuza, appoggiandosi al muro, - Mi apri o no?
- Ma cosa vuoi?! – chiede ancora lui, ed io sospiro pesantemente. Un attimo prima che Chakuza si metta a lanciargli improperi di ogni tipo, gli tappo la bocca e lo scanso dall’altoparlante del citofono, schiarendomi la voce.
- Tom? – lo chiamo senza presentarmi, visto che ormai sono ragionevolmente sicuro che, nonostante le distorsioni del citofono, mi riconoscerà comunque, - Abbiamo bisogno di parlare con tuo fratello.
- Bill sta- - fa per lamentarsi lui, ma lo fermo.
- Lo so che è molto tardi e probabilmente Bill starà dormendo, ma abbiamo davvero bisogno di parlargli. – chiarisco calmo. – Ci fai salire, per favore?
Tom esita solo un attimo.
- Okay. – dice infine, facendo scattare la serratura del portone.
- Potevi aprire anche a me, Tom! – sbraita al citofono Chakuza, alle mie spalle.
- Lui ha chiesto per favore! – risponde piccato Tom, spaccando per l’ultima volta il silenzio della notte, prima di riagganciare.
Quando le porte scorrevoli dell’ascensore gigantesco con cui saliamo al settimo piano si spalancano, annunciando il nostro arrivo con un avviso sonoro da chiamata aeroportuale, mi ritrovo di fronte Bill che mi fissa con gli occhi spalancati dalla soglia di casa. Indossa una vecchia tuta azzurra ed una felpa nera con un logo talmente sbiadito da essere ormai irriconoscibile, ha i capelli tirati in una coda bassa dietro la nuca e, nel complesso, non sembra avere molto più di quindici anni. Sospiro pesantemente e mi faccio avanti.
Il guaio è che, appresso a me, viene pure Chaku. L’aria cambia consistenza appena mette piede sul pianerottolo, la sento tendersi tutta. Bill stringe le mani attorno agli stipiti della porta affondando quasi le unghie nel legno. Mi viene paura per la forza che ci mette, potrebbe farsi male. Le nocche sono diventate bianchissime per lo sforzo.
Chakuza rimane immobile e lo guarda, non s’è mosso molto dall’ascensore, è rimasto lì a due passi. La porta non si richiude perché lui continua a stare nel raggio d’azione della cellula fotoelettrica, e questo particolare insignificante mi irrita così tanto che mi viene voglia alternativamente sia di spingerlo di nuovo in cabina che di tirarlo via di lì per un orecchio.
Il primo a parlare è Bill. Deglutisce di prepotenza – sul suo collo magro il pomo d’adamo fa un viaggio difficilissimo, prima di tornare al proprio posto – e poi forza un mezzo sorriso.
- Ciao… - dice a bassa voce. E sta parlando solo con lui. Aggrotto le sopracciglia e tossicchio, e lui si volta a guardarmi, - Ciao, Fler. – aggiunge con calore, dimostrando ampiamente, neanche a farlo apposta, che in effetti fino ad un secondo fa non aveva nemmeno registrato la mia presenza in questo dannato corridoio.
Rispondo con un cenno del capo mentre Chakuza finalmente mi si affianca e solleva una mano per salutarlo. Il momento d’imbarazzo che segue il suo avvicinarsi a Bill è talmente deprimente che mi ritrovo ad incrociare le braccia e sospirare come una vecchia madre esasperata, e batto nervosamente un piede per terra. La moquette che ricopre tutto il corridoio impedisce alle mie scarpe di fare rumore, perciò fortunatamente non se ne accorge nessuno.
- Io direi – sbotto irritato, - che la questione fra voi due potete tranquillamente risolverla dopo. – e fatto entrambi una specie di mezzo salto, sollevano gli sguardi su di me e mi fissano allarmati come avessi appena pronunciato una qualche parola proibita. Me ne frego altamente e continuo, - Bill, io e Chakuza siamo stati un po’ in giro, ultimamente.
Lui annuisce senza capire. Non mi stupisce, è che mi blocco un po’ perché avrei preferito fosse più ricettivo. Sì, ok, sono le tre del mattino. Ma non è per niente facile quello che sto per dirgli e vorrei un po’ d’aiuto, solo che naturalmente non posso aspettarmelo da Chakuza, che ha palesemente smesso di pensare quando siamo entrati in ascensore, e non posso aspettarmelo neanche da Bill, che non è messo tanto meglio di lui e continua a fissarmi con questi occhi da cerbiatto sperduto.
Sospiro e gliela butto lì tutta. Nella maniera più semplice che posso. Gli parlo delle nottate a Tempelhof, dei tunisini, del ragazzino, di Samir e quando arrivo a Saad cerco di non esitare perché so che se esito è la fine, perciò mi faccio forza e lo dico. Avevi il nemico nascosto fra gli alleati, ragazzino, e non sei riuscito ad accorgertene. Non è posto per te, questo. Ma, chissà perché, piuttosto che allontanartene preferisco proteggerti e tenertici.
Bill non dice niente per un sacco di tempo, quando finisco di parlare. Continua a guardarmi in maniera quasi fastidiosa, come se si aspettasse altro. Ma non ho altro da dargli. Posso offrirgli la testa dello stronzo su un piatto d’argento, se vuole, ma dovrà concedermi un po’ di tempo in più se è questo il suo desiderio.
Deglutisce ed allenta un po’ la presa sugli stipiti prima di tornare a stringerli.
- Cosa avete intenzione di fare, adesso? – chiede pacatamente, e per qualche strana ragione a lui riesco a rispondere. Quando me l’ha chiesto Chakuza non ho avuto idea di cosa dirgli, ma di fronte agli occhi di Bill – che adesso brillano di rabbia in un modo del tutto nuovo rispetto alle altre volte in cui li ho visti brillare – so esattamente qual è il mio dovere.
- Gli andiamo dietro. Cerchiamo di beccarlo prima che lo avvertano ed abbia il tempo di scappare. – rispondo deciso.
Chakuza mi solleva addosso uno sguardo allucinato, ma io lo ignoro. Tutto ciò che mi importa è che invece Bill annuisce con approvazione.
E poi dice una cosa assurda.
- Vengo con voi.
- No! – sbottiamo contemporaneamente io, Chakuza e Tom. Allungo il collo per osservare dietro le spalle di Bill, ed in effetti suo fratello sta lì e lo guarda con aria inorridita, le mani piantate sui fianchi e una cascata di dread sciolti sulle spalle.
- Bill, sarà molto pericoloso. – gli fa presente Chakuza.
- E faticoso. – aggiungo io, inarcando le sopracciglia.
- E sono le tre del mattino! – conclude Tom, cercando di staccare il fratello dalla porta, senza peraltro riuscirci.
Bill ci guarda tutti e tre con tanta di quella supponenza da mettermi addosso i brividi, e per un attimo mi chiedo da dove venga quello sguardo. È solo un attimo, comunque, perché poi lo ricordo subito e sospiro: so già cosa dirà.
- Non sono affari vostri. – ci ricorda freddo, - E non mi sembra di aver chiesto nessun permesso. – si volta e guarda suo fratello. – Tomi? Fammi passare. – lui deglutisce e si fa da parte. Bill fa un passo e poi torna a guardarci, - Aspettatemi qui. – dice annuendo, - Metto le scarpe da tennis e torno. Faccio in un attimo. – ed è l’ultima cosa che sentiamo prima di vederlo scomparire in corridoio.
Io e Tom restiamo a guardarci per un po’ e non è affatto piacevole. Non lo so, mi fissa come se nemmeno mi vedesse, eppure per certi versi mi pare anche che mi guardi come se in tutto il resto del mondo non riuscisse a vedere altro. Dio quant’è fastidioso. Mi volto verso Chakuza e gli dico di aspettare lui Bill, mentre io comincio a scendere, ma lui mi arpiona per un polso e mi sibila un “non ci provare nemmeno” che mi fa spalancare gli occhi, perciò ammutolisco e resto lì, ma mi appoggio contro il muro, così da interrompere il contatto visivo. Tant’è che la cosa successiva che vedo, a parte l’ascensore che resta immobile in attesa che qualcuno lo chiami, è Bill stesso, che mi si presenta davanti avvolto in un piumino che lo ingloba praticamente tutto ed un cappello a cuffietta sulla testa. E le scarpe da tennis, ovviamente.
Mi guarda e sorride appena. Io mi rimetto dritto e faccio strada verso l’ascensore – quello che mi succede alle spalle, oltre il brusio insoddisfatto di Tom e la voce di Bill che lo rassicura sul fatto che tornerà presto, non più tardi dell’alba, mentendo palesemente, perché io non so nemmeno se torneremo, figurarsi avere un orario preciso, insomma, quello che sta succedendo dietro di me, non voglio saperlo. Vale a dire che se Bill e Chakuza si stanno lanciando occhiate particolari o che so io, se si stanno bisbigliando qualcosa, qualsiasi cosa stiano facendo, io non voglio saperla. Sto bene così.
Quando c’infiliamo in macchina e ci dirigiamo verso casa di Saad – e Chaku si trova finalmente qualcosa da fare, concentrandosi solo sulla guida e sulla strada da percorrere – Bill, che sta seduto dietro, sui sedili posteriori, si mette al centro e si sporge in avanti, incastrandosi fra i nostri sedili e sporgendo la testa a guardarmi. L’immagine in sé è molto tenera, sembra un bambino a spasso coi genitori. Però, appena questo pensiero mi attraversa la mente, mi sale una pelle d’oca assurda ovunque, perciò lo accantono e gli do retta, visto che nel mentre ha anche cominciato a parlare.
- Fler. – mi chiama pacatamente, - Quando lo prenderemo, cosa pensi che succederà?
La sua calma un po’ mi rassicura, perciò scrollo le spalle e sbuffo con naturalezza.
- Non lo so ancora, ragazzino. – ammetto. Poi sorrido, - La principessa ha qualche suggerimento?
Lui non abbassa lo sguardo neanche un secondo, e nei suoi occhi non passa neanche un’ombra d’incertezza.
- Io voglio farlo fuori. – dice, con un candore inquietante. E capisco che forse della sua serenità dovrei preoccuparmi. E un po’ m’incazzo con Anis, perché se Bill oggi è così, se è qui con noi che mette a rischio la propria vita e parla di uccidere Saad, se non è in giro con un gruppo di diciannovenni scemi a sfondarsi di rum e cola e scopare in giro, è colpa sua. Che non è stato capace di tenerlo lontano da questa mentalità del cazzo fino a che non è stato troppo tardi.
Mi lascio andare ad una risatina nervosa, mentre Chakuza stacca gli occhi dalla strada per la prima volta da quando è salito in macchina e lancia un’occhiata allarmata prima a lui e poi a me. Scrollo le spalle e gli indico il semaforo, deve fermarsi. Cerco di ignorare le ultime parole di Bill, perché l’eventualità che Saad possa rimetterci la pelle stasera c’è. E non so se sarebbe un bene o un male, se succedesse.
Quando arriviamo sotto al palazzo, mi guardo istintivamente intorno per cercare la macchina di Saad – e la voce di Anis mi risuona in testa: “quando prepari un agguato, ricordati sempre di controllare che lo stronzo che vuoi fare fuori non possa fuggire” – ma poi ricordo che non ho la minima idea di che macchina sia la macchina di Saad, e quando faccio per chiederlo a Chakuza lo vedo già muoversi tranquillamente verso il citofono, con estrema calma. Quando si accorge che lo sto guardando, si ferma un attimo – Bill è ancora impegnato a non affondare nel proprio giubbotto mentre si tira fuori dal catorcio di Chaku – e mi lancia un’occhiata incerta, come a chiedermi se sta facendo le cose per bene. Annuisco ed indico con un cenno del capo il citofono, per dirgli che va bene, l’intuizione era giusta, può andare.
Quando suona il campanello noi restiamo tutti tesi e in silenzio, e dopo un po’ sentiamo una voce di donna che risponde un po’ incerta. Faccio cenno a Bill di restare in silenzio e guardo fisso Chakuza mentre dice alla donna che si scusa per l’orario, ma ha urgentemente bisogno di parlare con Saad. La donna si lamenta, gli chiede se può passare domattina e lo fa con una certa confidenza, perciò immagino si tratti della moglie. Chakuza insiste, la signora esita e tergiversa, Saad dorme, la bambina pure – c’è una bambina? – insomma, Peter, ti sembra modo di presentarti così a casa dalla gente per bene?, e Chakuza insiste, si scusa e chiede di entrare, per favore Greta, è una cosa urgente, altrimenti non sarei mai venuto, e così alla fine lei cede, “d’accordo,” dice, “ma Saad non ne sarà contento”, ed io e Bill ci scocchiamo un’occhiata supponente inarcando lo stesso sopracciglio ironico. Non ne sarà contento eccome.
Quando scatta l’apertura del portone, Bill fa per passarmi davanti e prendere per primo le scale, ma io e Chakuza scattiamo ad afferrarlo uno per braccio e lui si ritrova tirato indietro in una mossa un po’ comica. Chaku lo lascia andare subito, come scottasse, io invece lo tengo ben stretto.
- Dietro, ragazzino. – borbotto contrariato, - Niente colpi di testa.
- Non volevo fare niente di male. – dice lui con un mezzo broncio. Non ci credo nemmeno se lo giura.
- Dietro. – ripeto, e faccio cenno a Chaku di darsi una mossa ad entrare.
Lui obbedisce e ci ritroviamo a salire le scale in fila indiana, lui davanti, io nel mezzo e Bill dietro che saltella e si sporge oltre le mie spalle per cercare, non lo so, di essere il primo a vedere Saad quando saremo di fronte alla porta. Lo fa con un’ansia tutta particolare, neanche fosse possibile uccidere con gli occhi e lui volesse assicurarsi di essere proprio il primo a farlo. Penso che no, non è possibile uccidere con gli occhi. Penso che però un po’ Bushido ci riusciva a farti male in quel modo. E Bill ha imparato tanto da lui.
Capisco che c’è qualcosa che non va nel momento in cui arriviamo sulla porta e ad attenderci troviamo la signora. Le abbiamo detto che volevamo parlare con Saad. Ma non c’è Saad assieme a lei. È sola. E non capisco perché.
Lancio un’occhiata allarmata a Chakuza, che però mi dà le spalle e quindi non mi vede, e fa un gran sorriso alla tipa, chiamandola pure per nome e sporgendosi a salutarla – lei risponde quasi senza toccarlo, tesa come una corda di violino.
- Allora, dov’è Saad? – chiede Chakuza, e lo sguardo di lei vaga un po’ oltre le sue spalle ed incontra noi, me e Bill, dico, che non facciamo una piega.
- Loro che ci fanno qui? – domanda con un filo di voce. Chakuza fa fatica a non balbettare una scusa a caso.
- Mi hanno accompagnato. Ma non entrano, tranquilla. – cerca di rassicurarla, continuando a sorridere, - Non entra nessuno, non vogliamo disturbare la bambina. Fai solo uscire Saad, per favore?
Lei esita ancora, e mentre io sono lì che sbuffo contro queste madri iperprotettive moderne – mia madre volendo mi lasciava fuori casa anche fino all’una del mattino, non che fosse una cattiva donna, solo che aveva capito di che pasta ero fatto, ecco tutto – vedo un’ombra che si muove alle sue spalle e capisco che no, non sta iperproteggendo nessuno, la bambina non c’entra, questa qui non ha intenzione né di farci entrare né di fare uscire nessuno.
- Chaku, togliti di mezzo. – sibilo burbero, e quando arrivo di fronte alla donna la guardo e dico “mi scusi” prima di prenderla di peso e spostarla letteralmente dall’altro lato della stanza, così improvvisamente che lei perde l’equilibrio e si accascia sulla moquette, e la prima cosa che fa è puntellarsi al pavimento e strillare “scappa!”, ed è lì che solleviamo tutti e tre gli occhi e quella che era solo un’ombra scura diventa Saad che afferra un paio di chiavi e prende un corridoio del quale da qui non riusciamo a vedere la direzione. – Cristo! – impreco furioso, ignoro la donna che cerca di fermarmi e mi lancio al suo inseguimento. Mi guardo indietro solo una volta, giusto per vedere se Bill e Chaku mi stanno seguendo, e quando mi accerto che lo stiano facendo e che Chaku stia dietro a Bill – che va un po’ troppo lento, per i miei gusti – mi concentro solamente sulla corsa.
La voce di Anis si fa sentire ancora. Me che continuo a girarmi indietro mentre scappiamo da non mi ricordo chi e lui che ride e dice “Guarda che devi scappare guardando in avanti, Frank. È la fine della strada, quella che ti interessa, non l’inizio”. Ed io che comincio a correre guardando solo lui. Perché tanto sta davanti a me. Lui e la fine della strada sono la stessa cosa.
Mentre imbocco il corridoio passo davanti ad una camera con la porta aperta e c’è una ragazzina seduta sul letto. Avrà dodici anni, tipo, è bionda e sottilissima, non riesco a vedere molto, un po’ perché la stanza è buia ed un po’ perché vado di fretta. È bionda e sottilissima, però, e indossa un pigiama bianco. Il padre di questa bambina è un assassino e probabilmente morirà prima di stasera.
Mi ripeto che è la vita che mi sono scelto e tiro dritto.
Saad è un corpo che si allontana. Imbocca una porticina laterale alla fine del corridoio e quando lo raggiungo lo trovo che cerca di mettere in moto la macchina. I passi di Chakuza e Bill mi inseguono, sono lenti, cazzo, così non va, se poi quello prende la macchina siamo fottuti, ma la macchina non parte ed io lo vedo attraversarla tutta fino ad uscire dallo sportello del passeggero e lanciarsi in una corsa furiosa oltre la saracinesca del garage, che si apre così lentamente che lui è costretto a piegarsi in due per uscirne.
Quando riesco ad uscire anche io, lo vedo arrampicarsi sulla scala antincendio che risale esternamente tutto il palazzo fino alla terrazza e, dopo essermi chiesto cosa cazzo voglia fare, mi metto a sperare che non chiuda la questione in qualche modo da bastardo tipo gettandosi di sotto.
- Stronzo! – gli urlo dietro, faccio per salire a mia volta ma mi guardo alle spalle e Chakuza e Bill non ci sono, perciò mi fermo e continuo a urlare, - Stronzo! Non ci pensare neanche! – e vorrei aggiungere che non ce l’ha il diritto di togliersi di mezzo, e poi penso per un attimo che quel diritto è di Bill, ma è un pensiero fugace: in realtà c’è qualcosa dentro di me che sta urlando di rabbia perché io a quest’uomo voglio strappare il cuore, cazzo. Ha ammazzato Bushido. Ha fatto passare me per un assassino. Cristo… ha ammazzato Anis.
Scalpito per cominciare la scalata e quando Chakuza e Bill escono finalmente dal garage mi metto a urlare anche contro di loro.
- Chakuza, Cristo santo, muovetevi!
Lui ringhia e posa una mano sulla schiena di Bill, spingendolo in avanti. Il ragazzino ansima neanche avesse corso in tondo per tutta la città.
- Te l’avevo detto. – grugnisco impaziente, - È salito di sopra. Dobbiamo andargli dietro. – e cerco di spiegare in fretta, perché lo vedo allontanarsi verso l’alto e non ho la minima idea di dove potrebbe andare una volta in terrazza.
Bill lancia una lunga occhiata terrorizzata alla scala antincendio e poi guarda me.
- Sì, fin lassù, Bill. – confermo senza attendere la sua domanda. Dopodiché, ho appena il tempo di scorgere con la coda dell’occhio Chakuza che gli posa una mano sulla spalla e gli chiede se ce la fa, che comincio a salire sbraitando che se non vogliono essere lasciati indietro faranno meglio a darsi una fottuta mossa.
La situazione è incasinata perché, se da un lato vorrei concentrarmi solo su Saad – che nel mentre sarà circa tre piani sopra di noi, il che vuol dire che fra meno di due minuti raggiungerà la terrazza, lo stronzo – dall’altro non riesco proprio a disinteressarmi di quello che mi succede alle spalle, ed il respiro forte di Chakuza si mischia a quello stremato di Bill, così ogni tanto mi volto e mi fermo. Un po’ li aspetto, un po’ li aiuto – al quinto piano Bill è talmente stanco che continua a incespicare negli scalini, perciò mentre Chakuza lo regge per la vita io lo tiro per le braccia e stiamo lì in due a sussurrare “coraggio Bill, ci siamo quasi”, e lui lì a fare l’ometto, “sto bene, tranquilli”, ma è stravolto al punto che mi viene un po’ voglia di tirarlo su di peso e trascinarmelo in braccio fino al tetto. Chakuza, d’altronde, non è che stia poi tanto meglio. Ed anche io, cazzo, non corro con ritmi simili da quando avevo sedici anni. La situazione è davvero incasinata.
E noi siamo davvero troppo lenti, me ne accorgo quando riusciamo ad arrivare in terrazza e, mentre lascio qualche secondo a Bill per riprendersi – e commentare che i tetti almeno sono tutti pianeggianti, perciò può risparmiarsi l’arrampicata – vedo Saad che è già passato sul tetto del palazzo accanto e sta correndo spedito verso il successivo.
Mi passo una mano sulla fronte, si gela e sono sudatissimo. Bill, imbacuccato nel giubbotto, s’è rimesso dritto.
- Stai bene? – gli chiedo, - Sei un danno. – aggiungo mentre lui annuisce e sorride un po’, intimidito. – Lo capisci che dobbiamo inseguirlo ancora, vero?
- Fler, lo sa. – mi interrompe Chakuza, aggrottando un po’ le sopracciglia. Io gli lancio un’occhiataccia inviperita.
- Tu bada a stargli dietro. – lo rimprovero, ed il fatto che lui si rifiuti di abbassare lo sguardo e continui a fissarmi con rabbia mi dà un po’ la misura di quanto io stia passando il segno, stasera. – Scusa. – mi correggo sospirando, - Non volevo essere-
- D’accordo. – mi dà una pacca sulla spalla ed indica Saad che si allontana. – Fai strada.
Io annuisco, guardo Bill e vedo che annuisce anche lui, perciò mi volto e riprendo a correre. Passare da un tetto all’altro è perfino facile, in questo condominio di blocchi di cemento tutti uguali, alti e monotoni. C’è solo da seguire la traccia, quell’ombra che si allontana senza variare di un millimetro il proprio percorso in linea retta.
Dobbiamo solo essere un po’ più veloci.
In effetti, l’assenza di scale aiuta: sul terreno pianeggiante Bill se la cava decisamente meglio e, dovendo badare meno a lui, anche Chakuza è molto più svelto. Saad è agitato e corre come una dannata antilope, fanculo a lui, mentre al quarto tetto io comincio a sentirmi un po’ appesantito. Prego non mi prenda un crampo. Non manderei Bill e Chakuza avanti neanche se ne andasse della mia vita. I motivi sono troppi per realizzarli tutti, adesso.
Ho un po’ perso il conto delle terrazze, quando Saad si decide ad imboccare una scala antincendio che lo riporterà in strada. Non so quante terrazze abbiamo passato, ma so che adesso siamo abbastanza vicini. Lo so perché assieme agli ansiti sconnessi e affaticati di Bill e Chakuza – ho un attimo di panico nel pensare che dovrò far scendere le scale a Bill, ho paura che ceda e cada, Cristo – riesco a sentire anche gli ansiti del bastardo. È talmente vicino che sento quasi l’odore del suo sudore. E sento che è terrorizzato.
- Ci siamo. – ansimo appoggiandomi al corrimano ghiacciato della scala che ha imboccato Saad, - Dobbiamo riprenderlo adesso. Per forza. – guardo in basso, non è tanti piani sotto di noi. Dobbiamo darci una mossa. – Bill. – lui solleva lo sguardo ed è talmente stanco che ha gli occhi annebbiati. Non sono neanche sicuro che mi veda bene. – Bill, ascoltami. Ci siamo quasi. Ci sei?
Lui annuisce debolmente.
- Sto bene… - esala in un fiato.
- No che non stai bene. – lo correggo io, mentre Chakuza lo sostiene tenendolo per un braccio, - Ma pensa che dopo potrai farti una bella vacanza. A costo di portarti io personalmente da qualche parte. D’accordo? Solo stanotte. Poi basta correre. Okay?
Bill annuisce ancora e raddrizza la schiena.
- Ce la faccio. – dice con più sicurezza, - Davvero.
Lancio un’occhiata a Chakuza, lui annuisce ed è tutto quello che mi serve sapere. Non lo lascerebbe mai cadere di sotto, questo lo so. E tanto mi basta. Mi lancio giù per la rampa senza assicurarmi che Bill e Chakuza mi seguano: devo riacciuffare Saad. Devo farlo e devo farlo per primo. Ci sono momenti in cui lo vedo così vicino che penso che se allungassi una mano lo toccherei, ma quando faccio per stendere il braccio ed afferrarlo davvero non ci riesco mai. Continuo a corrergli dietro per tutti i fottuti piani di questo fottuto palazzo che mi sembra alto quanto un grattacielo.
Quando riesco a prenderlo, succede all’improvviso. Come succede sempre tutto nella vita. Quello che ti aspetti non succede mai. Quello che non pensi si verifica sempre. Perdi di vista l’amico di una vita. Quell’amico muore. Finisci a letto con la persona sbagliata.
Io allungo il braccio e prendo Saad. Mi butto addosso a lui con violenza, col preciso intento di gettarlo a terra, e così perdiamo l’equilibrio e rotoliamo lungo tutta l’ultima rampa di scale, al punto che la prima cosa ferma che sento sotto la schiena è la consistenza granulosa e umida dell’asfalto bagnato. La neve sciolta impregna il giubbotto e i vestiti di sotto. C’è un freddo fottuto. Stringo Saad fra le braccia e non so com’è che non l’ho ancora fatto fuori personalmente.
Lui si dibatte, prova a tirarmi un calcio, io sento dolore a una tempia e non capisco se le gocce che mi bagnano lo zigomo al momento sono di sudore o di sangue. Sulla scia bagnata soffia un vento gelido che mi fa rabbrividire, ma non mollo la presa e lo tengo immobilizzato a terra.
- Cristo santo, stai fermo o giuro su Dio che ti ammazzo a sangue freddo e poi torno indietro ed ammazzo anche tua moglie e tua figlia, stronzo! Dico sul serio, cazzo! – gli urlo nell’orecchio, e per fargli capire che faccio sul serio lo stringo alla gola con un braccio. Stringo tanto e stringo forte, al punto che lo sento tossire affaticato ed il suo fiato si disperde in un incerto sbuffo di condensa tutto intorno a lui.
- Fler! – urla Chakuza, esausto, quando lui e Bill riescono a completare la discesa delle scale.
- Alla buon’ora, cazzo! – urlo io. Ed urlo come un pazzo. Non ho il minimo controllo sulla mia voce e neanche su quello che sto dicendo, - Toglietemelo dalle mani, toglietemelo dalle mani perché altrimenti gli spezzo il collo! Toglietemelo dalle mani! – e continuo a stringerlo. Ed ho anche un po’ l’impressione che se solo Bill o Chakuza si avvicinassero per cercare di liberarlo, mangerei loro il cuore.
E invece non mangio il cuore di nessuno, quando Chakuza mi si avvicina e si china su di me nemmeno mi muovo. Lo vedo che tiene Saad fermo per le braccia e poi annuisce, come a dirmi “ok, ora puoi lasciarlo”. Ed io lo lascio. Lo lascio, Cristo. Potrei ammazzarlo e lo lascio, invece. E rimango lì accovacciato in terra come un coglione, fissando in cagnesco lo stronzo che ha ammazzato Bushido mentre Chakuza lo tira lontano – e non fa neanche molta fatica, visto che la caduta dalle scale ha rincoglionito molto più lui che me.
Bill mi è accanto in un attimo.
- Fler! – mi chiama, inginocchiandosi al mio fianco, - Sei ferito! – mi passa una mano sulla tempia ed è gelida, nonostante abbia corso fino ad adesso. Quando mi volto a guardarlo vedo che ha le dita ricoperte di sangue.
- Non è nulla di grave. – borbotto, rimettendomi in piedi. Passo il dorso della mano sulla ferita per ripulirmi, ma quando lo faccio brucia da morire e sento la pelle tirare. Dev’essere un brutto taglio, ma ci penserò dopo.
Nel mentre Saad si riscuote, si rende conto di non riuscire a muoversi e comincia ad agitarsi, tant’è che Chakuza mi grida di avvicinarmi e cerca di tenerlo stretto come può. Saad scoppia a ridere ed è una risata che ho sentito qualche volta, quand’ero ragazzino. Bushido, quand’era ancora Sonny Black, le riduceva così le persone. Lui ghignava e quelli davano di matto e ridevano. Ridevano e ridevano, eccome. E lui continuava a ghignare e in genere quello che seguiva non era mai una bella cosa. Quando lo seguivo, di notte, ogni tanto mi chiedevo come fosse possibile che uno che faceva ciò che faceva lui fosse ancora a piede libero. Questo mi ha insegnato che la libertà non te la guadagni, te la prendi e basta, che tu la meriti o meno. È una lezione importante, perché è molto più realistica di qualsiasi cazzata sulla giustizia possano infilarti in testa mentre cercano di farti crescere come un essere umano normale.
Mi avvicino per dare una mano al Chaku e Saad mi guarda dritto in faccia con quegli occhi verdi e scuri che brillano di rabbia nella notte, e parla.
- Alla fine sei venuto allo scoperto. – mi dice, sorridendo strafottente, - Lo sapevo che quello veramente pericoloso saresti stato tu. Bushido è per sempre, eh? Una volta che ti mette le mani addosso…
- Sta’ zitto, stronzo! – urlo, restando a qualche passo da lui per il semplice fatto che, se dovessi davvero avvicinarmi di più, in questo momento, lui non sopravvivrebbe. Ed invece leggo negli occhi di Chakuza il desiderio chiaro e preciso di evitare altro sangue, per oggi, perciò mi fermo.
Saad ride ancora.
- Non lo sai? – continua a prendermi per il culo, - All’EGJ lo dicevamo sempre, anche quando Bushido era ancora vivo. Che in realtà ti aveva scopato ed era questo, il tuo problema, eri geloso della principessa. Ci ridevamo un casino, diglielo anche tu, Chaku. Ci rideva anche Anis.
Gli salto addosso che, sospetto, Bill e Chakuza non hanno ancora avuto nemmeno il tempo di registrare quello che ha detto. Mi abbatto su di lui con la furia di un animale, Chakuza insieme non ci regge e ci lascia andare, col risultato che rotoliamo sull’asfalto ed io ho la prontezza di spirito di mollargli un cazzotto sul naso prima che lui possa reagire in alcun modo. Il sangue comincia a scorrere a fiotti, Saad urla ed io continuo a prenderlo a pugni ovunque, sul viso, sulla testa, perfino sul collo e sul petto, ovunque, pur di fargli sputare sangue.
- Chiudi – cazzotto sui denti, mi faccio male anch’io, - questa fogna – un occhio che diventerà presto nero, sempre che io non l’ammazzi prima, - di merda! – e il respiro che gli manca, perché non gli do tregua neanche il tempo minimo per aprire la bocca ed inspirare da lì, dato che il naso è fuori uso.
Sento appena Chakuza chiamarmi per nome – “Patrick, Cristo santo!” – e Bill esalare un “oddio” sconvolto, ma li ignoro. Non sono io che mi fermo. È Chakuza che mi tira su di peso, ed anche quando lo fa io continuo ad agitarmi e sporgermi in avanti per colpirlo. Anche se so che non serve. Anche se mi accorgo che lo stronzo è praticamente svenuto e non riuscirebbe a muoversi neanche volendo. Lo voglio lasciare morto a terra. Lo voglio lasciare morto nel suo cazzo di sangue come immagino sia morto Bushido su quel fottuto materasso, e voglio esserci, alla morte di Saad, perché quella di Bushido non ho potuto vederla, ma quella di questo stronzo voglio godermela tutta, fino in fondo.
Chakuza mi tiene stretto, mi ha fatto passare le braccia sotto le ascelle e mi ha arpionato per le spalle. Sento la sua voce vicinissima all’orecchio – “Pat, Pat… calmati. Calmati. È tutto ok. Ha detto un mucchio di stronzate, non è vero niente. Ti calmi, sì?” – e sì, Chaku, mi calmo. È solo per questo che mi calmo. E me lo scrollo subito di dosso, il Chaku, non appena mi sono calmato, perché là dietro c’è Bill e non voglio che pensi cose. Non voglio che pensi niente. Non dovrebbe neanche essere qui o aver assistito a questo spettacolo. Ci sto male davvero, per lui. Se sopravvivo a me stesso, se non faccio qualche cazzata stanotte, qualcosa di pericoloso davvero – non so nemmeno se Saad è armato – giuro che me lo porto in vacanza davvero. In qualche bel posto che non ho mai visto, o in qualche posto che non ha visto nemmeno lui, anche se immagino abbia girato più o meno tutto il mondo. Non importa, a costo di dover arrivare fino in Groenlandia.
Mi avvicino al corpo quasi immobile di Saad e lo tiro su per un braccio.
- Una mano, Chaku. – ordino perentorio, e lui annuisce e si avvicina, aiutandomi a rimetterlo in piedi e tenendolo fermo per l’altro braccio. Sembriamo due cazzo di guardie giurate che piantonano un condannato.
Bill si avvicina e guarda Saad come lo stesse vedendo per la prima volta.
E lì ho la netta sensazione che Saad lo sia davvero, un condannato. E decido: non ho intenzione di fermare niente che possa portare alla sua morte, stasera.
- L’hai ucciso davvero tu? – chiede, con una vocina incerta ma molto meno malferma di quanto non mi sarei mai aspettato. Sembra tremi solo per il freddo. Sembra non c’entri niente la paura. I suoi occhi sono puri e cristallini. Mi ricordano Anis. Lui non aveva paura quasi mai.
Saad solleva appena il capo. Sanguina un po’ ovunque, è tutto sporco di fango e bagnato fino alle ossa, ma ghigna ancora. L’espressione di chi non ha niente da perdere ormai ce l’ha attaccata addosso. Se la porterà nella tomba.
- Sì. – annuisce, respirando a fatica.
- Perché? – chiede Bill, senza aspettare un secondo di più.
Saad ride, un suono roco e spaventoso.
- Per colpa tua, ovviamente. Ma questo lo sai già.
Bill annuisce.
Saad sorride più apertamente.
- Te la porterai dietro per sempre, questa colpa, eh, puttana? – gli parla proprio come se si stesse rivolgendo ad una femmina. E Bill non fa una piega. – Io spero di sì. Se non ci fossi stato tu, non ci sarebbe stato nessun motivo di ammazzarlo. Stava svendendo l’immagine dell’Ersguterjunge per il tuo bel culo. Ho sperato lo ammazzasse Fler, quella notte, così avremmo chiuso il conto ed io non mi sarei neanche dovuto sporcare le mani. Ma lui no, non ha avuto le palle nemmeno per fare questo… - sogghigna ed io faccio per ficcare la mano in tasca a recuperare il serramanico, ma Bill mi ferma con un’occhiata di ghiaccio.
- Continua. – dice, perfettamente a proprio agio. E non so proprio da dove gli arrivi, tutto questo autocontrollo.
Saad ghigna ancora.
- Nient’altro, principessa. Soddisfatto?
E Bill annuisce.
- Sì. – dice. Lo dice proprio. Non me lo sogno, lo sente anche Chakuza, tant’è che ci guardiamo negli occhi come due scemi e non capiamo. Non capiamo nemmeno quando lo vediamo pararsi davanti a Saad e mettersi ben dritto, neanche stesse cercando la posizione più adatta per tirargli un calcio nelle palle, per dire, e non capiamo nulla neanche quando abbassa la zip del giubbotto ed infila una mano all’interno.
Capiamo, però, quando tira fuori la pistola. Che è la Heckler.
- La riconosci questa, Saad? – dice freddissimo, avvicinandogliela al viso mentre io e Chakuza scattiamo a stringerlo con più forza attorno alle braccia, perché non possa fare niente di pericoloso.
- Bill… - lo chiama debolmente Chakuza, ma il ragazzino usa con lui lo stesso identico sguardo che ha usato con me poco fa, e Chakuza si congela ubbidiente sul posto.
- La pistola di Bushido… - esala Saad, ridendo appena, - Vorresti farmi paura, maneggiando quell’arma?
E lì Bill sorride. Per la prima volta oggi. Ed è un sorriso che spaventa. Mi dà i brividi per tutta la schiena. È Bushido, in questo momento. No, non è nemmeno Bushido. E non è Anis. È quello che ho conosciuto io. È Sonny, lo spiantato che governava Tempelhof a diciott’anni. Mi chiedo dove l’abbia visto Bill. Mi rendo conto che gliel’ha fatto vedere Anis.
- Dovrei. – risponde tranquillo il ragazzino, ed arretra di un passo. – So usarla.
Saad ride, io fisso attonito Chakuza e lui mi risponde col mio stesso sguardo sconvolto riflesso negli occhi. Al che guardo Bill. E lui invece mi sorride. Ed è un sorriso dolcissimo.
- Mi ha insegnato Anis. – spiega pacato.
Saad ride ancora e scuote il capo in un gesto di rassegnazione. Solleva il viso e lo guarda dritto negli occhi. Bill lo sta fissando e sorride ancora come ha sorriso a me. È tutto tremendamente fuori posto, in questo momento. Non so se Bushido avrebbe apprezzato una cosa simile.
Forse sì. Probabilmente, se esiste un cazzo di paradiso o di inferno e lui c’è finito dentro, e se da lì sta guardando, si sta sentendo perfino orgoglioso del suo ragazzino.
- Non puoi farlo. – ringhia Saad, sollevando supponente il mento.
- È un mio diritto farti fuori, - risponde Bill, - e tu lo sai.
Saad scuote il capo.
- La legge del ghetto non vale con te, principessa. Tu non sei dei nostri. Non te lo puoi permettere.
Bill sorride ancora.
- Io sono dei vostri, Saad. – solleva l’arma. – Sono la donna del capo. – punta l’obiettivo. – Se c’è una cosa che posso permettermi, è proprio questa. – e spara.
E Saad sta qui immobile, il suo corpo è pesante e c’è un buco precisissimo proprio nel mezzo della sua fronte. Dietro non voglio guardarlo perché lo so com’è quando ti sparano in testa.
Per un secondo vorrei fermare il tempo e ritornare indietro. Togliere la pistola dalle dita di Bill e premerlo io, il fottuto grilletto. Per sentire in qualche modo la vita scivolare via dal corpo di questo pezzo di merda con ogni goccia di sangue. Sentirla colorare il marciapiedi di rosso, sentirlo perdere forza e respiro, sentirlo morire e prendermi la mia soddisfazione, riappropriarmi di ciò che è mio – che avrei voluto fosse mio, che avrei voluto prendermi, che non ho mai avuto il coraggio di prendermi – ma poi lascio perdere.
È giusto che a fare questo sia stato Bill.
È giusto.
Non è ancora sorto il sole e tutto intorno c’è solo silenzio, quando io e Chakuza lasciamo cadere il corpo di Saad per terra. Si accascia ai nostri piedi con un tonfo pesantissimo che la neve sciolta ovatta un po’. Lo guardo di sfuggita e mi viene da vomitare, perciò distolgo subito gli occhi. Bill invece lo guarda a lungo, come volesse sincerarsi che sia proprio tutto come doveva essere, e poi annuisce ancora.
- Bill… - Chakuza lo chiama e gli si avvicina, gli mette una mano sulla spalla come a volerlo consolare, ma Bill non sembra aver bisogno di consolazione. I suoi lineamenti sono tesi e rigidi e di sicuro non sembra felice, però tutto sommato sembra stia bene. Lo vedo abbozzare un sorriso.
- È tutto ok. – ci rassicura, e poi si volta a guardarmi. – Perdi ancora sangue.
Io annuisco.
- Sto bene anch’io. – dico comunque, e Bill mi sorride.
- Se vieni da me, ho la cassetta del pronto soccorso e-
- No, credo… - sorrido appena, interrompendolo, - credo che un cerotto non basterà, Bill. Mi serviranno un paio di punti.
Bill lascia andare una risata soffice e cristallina.
- E stai qui a fare il grand’uomo?
Sospiro e guardo ancora il cadavere.
- C’è un mucchio di lavoro da fare. – metto da parte la nausea. Non è il caso di perdersi adesso, devo risolvere il problema. – Chaku, riportalo a casa. – dico, indicando Bill, e quando vedo una luce strana e vagamente terrorizzata farsi strada nei loro occhi, preciso: - Da Tom. Gliel’abbiamo promesso un po’ tutti, che gliel’avremmo riportato presto.
Chakuza annuisce e Bill abbassa lo sguardo. Li vedo allontanarsi per la strada – Chakuza si guarda intorno cercando di riprendere familiarità con l’ambiente e, quando ci riesce, punta un dito verso il palazzo di Saad che si vede ancora in lontananza, ed è in quella direzione che scompaiono entrambi, proprio mentre io mi chino a recuperare il corpo e cerco di fare il conto per vedere quanti chilometri mi separano da casa mia, dalla mia macchina e, poi, da Tempelhof. Ci tornano tutti, prima o poi. La cosa importante, però, è che in genere nessuno ci vada a cercare niente.

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Collide

di tabata
Io sono una persona che sa sempre esattamente ciò che vuole e quello che voglio, in un modo o nell'altro, lo ottengo sempre. Questo mi è possibile per due motivi fondamentali: il primo è che sono testardo. Il secondo è che conosco sempre le conseguenze dei miei desideri e, essendone a conoscenza, so sempre cosa mi aspetta una volta che li ho ottenuti..
Ora, in questo preciso momento, io voglio Tom Kaulitz fuori da casa mia. E, pur sapendo che questo mio bruciante desiderio porterà ore di sventura sulla mia persona, non penso neanche per un istante di rinunciarvi e prendo atto del mio destino.
Dunque, quando decido di dare l'ordine, so esattamente che cosa seguirà alle mie parole. Conosco la sequenza esatta delle azioni che andranno a compiersi un secondo dopo la mia.
Esclamo un generico, "Toglietemelo di torno," ed è sufficiente a farmi capire.
Non ho bisogno di fare nomi, rimangono tutti seduti tranne quello che sa di doversi alzare, ossia Chakuza. La situazione è palesemente chiara: Tom sta facendo il cretino, lo voglio soltanto fuori di qui, ed è Chakuza ad occuparsi di queste cose di solito.
E' il mio mediatore. Se avessi voluto pestarlo - se avessi dato loro l'impressione che volessi - si sarebbe alzato Nyze, o Saad. O molto più probabilmente lo avrei fatto io.
Chakuza è capace di fare molto male alla gente se decide di menare le mani ma, di solito, prima di farlo, ci pensa parecchio ed è per questo che mi piace.
In un branco di teste calde - me compreso - ne serve uno che nel bel mezzo di quella che potrebbe diventare una rissa abbia il candore di riportare tutti coi piedi per terra facendo notare che è ora di cena.
Lo vedo che si alza con un mezzo sorriso bonario; è alto la metà di Tom, praticamente, ma è grosso il doppio e, non so come, ma riesce ad apparire quasi minaccioso. Solo che non ne ha assolutamente intenzione. Gli allunga uno scappellotto e se lo porta via per lasciarlo appena fuori dalla porta. Sa che voglio solo questo: che quel ragazzino capisca che non può venire in casa mia a darmi del pedofilo e pensare che io chini la testa benevolo come se fossi suo padre. Non sono così fuori di testa da farlo gambizzare per un po' di capricci, ma non sono neanche abbastanza buono per sopportarlo oltre.
Tom in questo periodo è oggettivamente insopportabile e soltanto Bill potrebbe trovare il modo di giustificare le sue parole, le sue azioni e - in linea generale - quell'atteggiamento che ha deciso di assumere, strafottente nel mio caso, e disgustosamente protettivo nei confronti di suo fratello.
Difatti, come del resto avevo previsto, nel momento stesso in cui finisco di dare l'ordine, sento la stilettata degli occhi di Bill direttamente nel collo. Non mi volto a guardarlo, continuo a fissare suo fratello che mi ringhia contro come un cane rabbioso mentre Peter se lo porta via ridendo. E lì comincia.
Bill ha imparato che ha un posto ben preciso nel mio universo. E' un posto di riguardo, il posto migliore che si possa avere in casa mia se non si è un rapper e contemporaneamente si è anche un ragazzino effeminato con nessun diritto apparente di dormire nel mio letto. Bill non è una scopata qualunque che magari ha avuto la fortuna di rimanermi intorno per quella settimana lì, con gli altri che le danno più o meno l'importanza di un nuovo paio di scarpe. Bill è il mio compagno, che è una roba folle - forse - ma è anche una roba che ha un prezzo.
Il prezzo di Bill, nello specifico, è quello di stare zitto, che per lui è senza dubbio un grosso sforzo. Il realtà, nel nostro privato, può dirmi quello che vuole - e lo fa. Dio solo sa se lo fa! - ma davanti ai ragazzi no. Ho già dovuto prenderli a mazzate quasi uno per uno perché la piantassero di incazzarsi o prendermi per il culo perché avevo scelto lui, gradirei che non ricominciassero chiedendosi se non lo tengo a bada. E Bill, in effetti, sta zitto. Rimane rigido accanto a me, si fa prendere per la vita e non dice una parola. Il fatto che abbia i lineamenti così contratti da sembrare un'altra persona, però, non è affatto un buon segno.

*



Una volta fuori dalla visuale dei ragazzi, che alle nostre spalle hanno ripreso ad abbuffarsi con i pasticcini di Karima, Bill si divincola dalla mia stretta con quello che non posso che registrare come un movimento estremamente infastidito. Infila il corridoio che porta alle camere da letto senza una parola. Io conosco il corpo di Bill a memoria e so leggerlo come una cartina. Dal momento che è una creatura complicatissima, l’analisi del suo corpo è l’unico modo che ho di capirlo davvero. E’ il suo libretto di istruzioni. Adesso cammina spedito, una gamba dietro l’altra a ritmo costante, lunghe falcate in linea retta, con le braccia strette ai fianchi in una posa stizzita. E’ furioso e tutta quella furia, che finora è rimasta pressata nel suo stomaco, finirà per essere liberata, percorrere a gran velocità la lunghezza esagerata del suo busto ed esplodere con un fragore assordante. Da quando deve trattenerle, le sue incazzature sono dieci volte più violente, funzionano come polvere da sparo caricata nel suo corpo come fosse un mortaio. Una principessa pericolosa.
Lo guardo storto anche se non può vedermi, questo perché sono esasperato. Lo sono ancora prima di cominciare questa discussione, lo sono pur sapendo che alla fine lo sarò ancora di più. Forse sono esasperato proprio perché so con certezza che mi manderà fuori dalla grazia di Dio. “Bill,” lo chiamo.
Mi ignora, ovviamente, come la diva che è. Spalanca la porta con più forza del necessario e la sento sbattere contro la mia cassettiera da molti, molti euro. Odio quando lo fa, e lui lo fa perché sa che lo odio. Lo seguo all’interno con un sospiro e mi chiudo la porta alle spalle dal momento che la mia crew è ancora tutta al piano di sotto e io non voglio che assistano alla piazzata. Una certa parte di me ci tiene a dare l’immagine che sia tutto perfetto, senza mai un litigio. Devono credere che io abbia tutto sotto controllo. Tutto sotto controllo un cazzo, con lui. Bill fa sempre quello che vuole. Come me.
“Bill, ti ho chiamato, mi pare,” ripeto. Faccio fatica a non mandarlo a quel paese già ora. Lui di nuovo non mi risponde e lo trovo di fronte al cassettone che si toglie i braccialetti con gesti secchi, quasi tirandoli sul pianale. Così me lo graffia.
“Intendi tornare a parlarmi, prima o poi?” Incrocio le braccia al petto.
Lui mi dedica un’espressione talmente altezzosa che potrei fargli del male se solo non fosse Bill. Tra le altre cose, lui sa perfettamente che le mani addosso non gliele metterei nemmeno se fossi costretto, per cui ci marcia sopra. Fa così lo stronzo solo con me.
“E cosa dovrebbe dire la donna del capo in questi casi?”
“Suppongo che la donna del capo abbia abbastanza cervello per saperlo da sé, cosa deve dire.”
“Non avresti dovuto trattarlo in quel modo,” sputa fuori.
Eccolo qui, il problema. Non che non lo sapessi, ma pensavo ci avrebbe girato intorno molto di più. Di solito si scazza per qualcosa ma sbotta per tutt’altro, finché dopo una sequela assurda di motivazioni fuori luogo, quella vera non salta fuori quasi per caso.
“Avrei dovuto lasciare che mi insultasse in casa mia?” Chiedo.
Appoggia una mano sul cassettone e smette di togliersi anelli e catene come se provasse per loro del disgusto incontrollato. “La tua reazione è stata assurda,” dice, guardandomi. “Sembrava uno di quegli stupidi film di mafia. Doveva essere una discussione di famiglia, accidenti!”
Ci risiamo. “I ragazzi sono famiglia qui, lo sai.”
“No!” Scuote il capo. “La mia famiglia, Anis! Io, te, mio fratello. I parenti. Questa famiglia!”
“Per me le due cose si equivalgono,” dico. “E’ come se fossero davvero miei fratelli.”
“Non cercare di darmela a bere!” Replica. “Non erano tuoi fratelli su quel divano, e tu lo sai. Li hai usati per darti importanza. Tom da solo e tu con tutti i tuoi.”
“Questo non è assolutamente vero,” dico. E’ una mezza verità.
Lui nemmeno mi ascolta, si pinza la radice del naso. “Io riesco a convincerlo a venire a conoscerti per dimostrargli che non sei un delinquente e tu ti presenti come il capobanda. Grazie mille!”
E’ chiaro che in una situazione di questo tipo, quell’angelo di suo fratello non ha alcuna colpa. Ho avuto molta pazienza con entrambi i ragazzini. Il mio perché era il mio. E l’altro perché era il suo, cazzo. E io questa cosa la odio. “Tuo fratello non è certo partito ben disposto, nei miei confronti,” ritorco. E mi rendo conto che può sembrare un po’ infantile ma non ne posso più. “Perché credi che si sia lasciato convincere a venire fino a qui? Per dirmi quello che poi mi ha detto, è ovvio!”
Scuote la testa incredulo e anche vagamente esasperato, cosa inaccettabile. Qui quello esasperato sono io. “Tu avresti dovuto passarci sopra, Anis! None eri tu quello maturo?”
“A lasciar correre coi ragazzini si ricavano solo guai.” E lui ne è una prova evidente. Non mi pento mai di averlo fatto entrare nella mia vita, tranne quando diventa così insopportabile. In questi casi tremendi la prima cosa che mi viene da chiedermi è perché quella sera, invece di buttare a terra tutti gli hamburger che aveva portato e stenderlo sul tavolo, non ho rimesso tutti i panini nella loro bella bustina e gliel’ho restituiti, parcheggiandolo sullo zerbino come ogni altra dannata sera prima di quella.
A volte penso che la mia sanità mentale dipenda da quel soffritto di Karima che non ho mai assaggiato.
“Quello non è un ragazzino a caso, Anis. E' mio fratello, e tu non lo fai buttare fuori di casa come uno stronzo qualunque, chiaro?”
Quando gli trovo questo tono in bocca mi sale il sangue al cervello. Io a Bill permetto quasi tutto ma non di dirmi come mi devo comportare. Con il sottoscritto è prendere o lasciare, non mi si cambia. “Quando smetterà di comportarsi come uno stronzo qualunque, forse!” Alzo la voce e al diavolo la discrezione.
Pianta le mani sui fianchi e mi guarda minaccioso. “Non alzare la voce con me!” E la alza anche lui. Qui finisce che ce le diamo di santa ragione, o che scopiamo. Una delle due.
Ringhio un po’ e poi mi rendo conto che Bill ha diciannove anni e di queste cose, per quanto io lo ami, non ha capito una sega finora e dubito la capirà mai. “Bill,” cerco di calmarmi e di spiegargli per la milionesima volta come e perché io mi comporti così. “Mi conosci. Sai come gira da queste parti. E conosci tuo fratello, sai che non potevo lasciare che facesse il bello e il cattivo tempo. Non con me, in casa mia.”
Ci sono volte in cui Bill arriva a comprendere.
“Non me ne frega niente se quel branco di scimmie di là in salotto capisce solo la legge della giungla. Mio fratello non rientra nel gioco.”
A volte proprio no.
TU rientri nel gioco. Quello che Tom vuole è che tu ne esca ed io non sono disposto a cedere sul punto.”
“Non sei tu che devi decidere, te ne rendi conto? Sono io. E decido da solo, grazie.”
Ci mancava solo il bisogno di autoaffermazione, come se già io e altri otto uomini adulti e, in gran parte, con la fedina penale sporca, non fossimo ai suoi piedi per qualsiasi cazzata. “Ogni decisione ha le sue conseguenze, Principessa. Se tu decidi di restare, resti alle mie regole. Lo sai.”
Bill apre la bocca e quindi la richiude subito dopo, segno inequivocabile che è già oltraggiato oltre i limiti del concepibile. Bill risponde sempre, se quando schiude le labbra non esce alcun suono significa che il suo cervello ha registrato determinate parole ma fatica a crederci e non riesce ad inviare parole utili in un tempo di risposta adeguato. Ha un momento di stasi, ma si riprende quasi subito. “Io non sono uno dei tuoi uomini, Anis! Tu con me questi discorsi non li fai. Ho accettato un sacco di cose, sono anche disposto a fare la bella statuina al tuo fianco ma c'è un limite a tutto e quel limite è mio fratello! Regole o non regole!”
Se non fossi così mostruosamente alterato da questo suo atteggiamento, dal fatto che dovrei dimostrarmi maturo e non mi riesce per niente e dall’idea che per quanto io urli e sbraiti suo fratello me lo ritroverò sempre intorno – e lo so che è così! -, se non ci fossero tutte queste incognite, troverei Bill delizioso. E’ in piedi di fronte al mobile, l’anca un po’ spostata, in quella posa che lo aiuta a darsi un tono alle volte, e agita entrambe le braccia in una maniera non propriamente aggraziata che lo rende molto tenero. E’ un cucciolo che ringhia e si prende molto sul serio.
Io però non gliela do vinta nemmeno se paga. “Non sei uno dei miei uomini, d'accordo, ma sfortunatamente per te, non sei nemmeno una donna, quindi in queste cose rientri per forza. Non posso trattarti come se fossi la mia ragazza, non posso sorriderti e dirti Ci penso io, amore. Sei un maschio. Ragiona coi maschi. Le regole si seguono.”
Sì irrita e si arruffa tutto. Sa che ho ragione su questo, che se ha deciso di protestare, deve farlo con raziocinio. Non può semplicemente pestare i piedi perché non lo ascolterò. Mi mostri delle ragioni valide, e forse ne riparleremo. Passare sopra le cazzate di suo fratello solo perché è suo fratello non esiste proprio.
“Tu e le tue dannate regole!” Sbotta. E’ furente. “Tratti Tom come se fosse uno dei tuoi stupidi nemici giurati! Con lui potresti piantarla di fare il gangster di strada e parlare come una persona normale. Che cazzo, se tu fossi venuto a parlare con lui e ti avesse fatto buttare fuori dalla security, non sarebbe stata una bella cosa ti pare? C'ero già io lì che stavo zitto per non contraddirti di fronte agli oranghi - sia mai che il tuo ragazzino passivo, e quindi checca, ti tenga i piedi in testa- non c'era alcun bisogno di trattare Tom in quel modo. La tua supremazia assoluta da vero uomo del ghetto c'ero già io a dimostrarla.”
Sbuffo una risata sarcastica. “Non mi pare che questo abbia impedito a tuo fratello di insultarmi, però. Come la mettiamo?” Non è una domanda, quindi non mi aspetto che risponda, non gliene do nemmeno il tempo. “O gli metti una museruola, oppure non so che farmene del tuo silenzio-assenso, Bill.”
“Di certo tu non mi aiuti comportandoti in questo modo!” Sbraita ancora, mentre prende a togliersi il giubbotto che indossa, gettandolo a caso per la stanza. Cosa, anche questa, che mi dà sui nervi. E lui lo sa. “Io passo settimane a dirgli che non sei pericoloso e tu fai scene del genere! Chissà perché mio fratello non mi crede, vero?”
“A me non frega assolutamente niente di quello che crede!” Gli faccio notare, intanto che mi siedo sul letto e sfilo le scarpe. “L’unica cosa che mi importa è che stia alla larga.”
“Questo te lo puoi scordare, Anis.” Osserva nello specchio difetti che non ha.
“Non era una richiesta.”
“E la mia è un’affermazione,” replica, tornando a guardarmi con quell’aria strafottente.
“Tuo fratello lo voglio fuori dalle palle, Bill,” chiarisco. “Non farti dire chiaro e tondo che questo è un ordine.”
Smette di tirarsi la pelle degli zigomi come una quarantenne e mi osserva a dir poco sconvolto. “Spero che tu stia scherzando.”
“Mai stato più serio.”
“Anis, tu non puoi chiedermi una cosa simile!”
Mi stringo nelle spalle e mi tolgo la camicia. Sono stanco, voglio dormire e se potessi chiudere la conversazione in questo preciso istante con uno schiocco di dita non vorrei nient’altro. “Come vedi lo sto facendo. Tanto, in ogni caso, che rapporti avete adesso? Vi vedete, lui mi insulta e tu torni qui. Fai un favore a tutti ed evita di andare da lui e basta.”
“Sto cercando di recuperarlo, il mio rapporto con Tom, in caso ti fosse sfuggito.” Lo vedo che si spoglia e decido di non guardarlo perché finisce sempre che mi distraggo e poi quel pigiama assassino mi manda sempre in confusione il cervello. Ripongo il mio braccialetto e l’orologio nel cassetto del comodino. “Non mi sembra ci sia un granché da recuperare.”
“Oh certo!” Il sibilo mi si conficca nella schiena, tra le scapole. “A te non interessa niente, ti basta aver ottenuto quello che volevi! Non ti passa per il cervello che possa tenerci, io, vero? Tutto quello che mi deve interessare sei tu e il cazzo di mondo in cui vivi!”
Mi giro di scatto e non mi trattengo dal lanciargli l’occhiata peggiore che mi possa venire. Adesso ho raggiunto il limite, seriamente. Se vogliamo parlare di chi ha perso, rischiato e ottenuto cosa, avrei un paio di cose da dirgli su di noi e su quello che ho fatto per tenerci in piedi. “Vogliamo fare il gioco del chi ha ottenuto quello che voleva, Bill? E’ questo che vuoi?” Abbaio. “Devo rifare il conto di quante volte ti ho chiesto di tornartene a casa e non entrarci, nel cazzo di mondo in cui vivo? Chi è che si è ostinato? Chi è che vedeva solo quello che voleva e non pensava a nient'altro?”
Lo vedo stringere pericolosamente le dita intorno alla spazzola. “Quindi adesso mi tieni qui solo perché ho insistito al punto di romperti le palle? E' questo che stai dicendo?”
“Ma certo Bill. Tanto presentarti ai miei amici e farti accettare da mezzo mondo era una cosa da niente, potevo pure farlo a tempo perso. In realtà di te non mi interessa niente, sei qui solo perché non ho avuto tempo di buttarti fuori,” ironizzo.
“Cretino,” borbotta, prendendo a spazzolarsi i capelli come se volesse strapparseli dalla testa.
“In questo casino ti ci sei voluto ficcare anche tu. Prova a negarlo se ci riesci.”
“Questo non-“
“E ora che ci sei, ci resti, perché a questo punto sono io quello che non vuole lasciarti andare.”
Non mi risponde. Sulla stanza cala il silenzio, interrotto solo da lui che si spazzola e da me che finisco di cambiarmi e appoggio le mie cose su una sedia.
“Non ho mai pensato di andarmene,” dice alla fine. “Ma non sceglierò tra te e mio fratello, Anis. Scordatelo.”
“Puoi fare quello che vuoi, ma io non tollererò più di averlo intorno, libero di dirmi ciò che mi ha detto oggi,” replico. “Sono stronzate.”
“Lo sa anche lui,” risponde. “E’ solo che non ha altro modo di reagire. E’ evidente che hai più potere tu, lui…è solo arrabbiato.”
Mi passo una mano sugli occhi. Voglio dormire. Voglio dormire e basta, cazzo. Con lui o senza di lui, a questo punto e in questo momento, non m’interessa proprio. “Sono arrabbiato anche io, ma per qualche strano motivo questo sembra sfuggirti. Tom non è un bambino di tre anni, che si arrabbia e allora tira i capelli agli altri bambini. Si atteggia da adulto, quindi lo tratterò come tale.”
Bill sbuffa. “Non ha veramente intenzione di denunciarti.”
“Probabilmente no, ma se continua così, finirà per sparare le solite cazzate in un posto in cui non può permetterselo. Quindi, dal momento che è il tuo adorato gemello, vedi di tenerlo alla larga.”
Bill fa un mezzo inchino sarcastico. “Sì, padrone.”
“Non mi serve che tu annuisca e poi continui a fare il cazzo che ti pare, Bill. Cerca di essere una persona matura.”
“Tu cerca di fare meno lo stronzo, e poi ne riparliamo.”
“Se volessi fare lo stronzo ti spedirei in camera degli ospiti,” sibilo. “Così ti chiariresti le idee.”
Sento la spazzola sfrecciarmi a due millimetri dall’orecchio e faccio di tutto per non far vedere la mia sorpresa. Non mi giro, decidendo di ignorare dove sia andata ad atterrare, fracassando qualcosa che è andato in mille pezzi. “Sei fuori?” Sbraito.
“No sei tu quello fuori! Sai cosa ti dico? Sono io che vado nella camera degli ospiti!” Replica stizzito.“Non ho nessuna intenzione di dormire con te! Mai più!”
I capelli li ha tirati indietro con la sua fascia e gli ricadono ai lati del viso. Ha un musino comico. Io però sono incazzato e devo decidermi a ricordarlo. “Vai dove cazzo ti pare Bill!” Replico. “Da tuo fratello magari!”
“Sarebbe sicuramente meglio di te!” Bercia, prima di chiudersi la porta alle spalle con uno schianto.
Mi faccio prendere da uno scatto d’ira e con un gesto butto giù tutto quello che c’è sul comodino, per poi prenderlo a calci. Devo sfogarmi o finirò per tirargli davvero due ceffoni.
Come se potessi.

*



Anis è un cretino.
Anzi è più di un cretino, è un deficiente. Un deficiente stratosferico. Prepotente, egoista, supponente, arrogante e stronzo. Stronzo un sacco. Tom aveva ragione e io sono stato un imbecille a stargli dietro finora. Uno si sforza di capirci qualcosa qua dentro, che dovrebbero essere tutti cantanti e invece non ce n’è uno che lo faccia, e si sparano addosso. E l’onore. E le regole. Se sento un’altra volta la parola regole ammazzo qualcosa. Mi parla di regole! Lui che non le segue mai! Vogliamo parlare di regole quando decide anche per me senza consultarmi? Quando mi mette le mani addosso mentre dormo – e sì che gliel’ho detto un milione di volte che deve dirmelo prima. Le regole per lui non esistono, esistono solo per gli altri. E io non lo guarderò mai più per tutta la vita. Il sottoscritto se lo può scordare, da qui in avanti. Mai più, anche tornasse strisciando. E siccome lo so che Anis non striscia, allora non ci vedremo mai più. Da domani in poi. Torno da Tomi, e poi lo vedremo. Cretino.
Col cavolo che dormo con lui – che poi dormire con lui significa quasi sempre fare l’amore con lui. Che ci pensi da solo il grand’uomo del ghetto! Dormo nella camera degli ospiti. Sono pure uscito senza il cuscino, e ho su soltanto il pigiama bianco che è meraviglioso ma è trasparente, tipo.
E ci sono quelli, giù. ‘Fanculo!
Svolto l’angolo per scendere le scale perché, tra le altre amorevoli cose, la camera degli ospiti sta pure al piano di sotto, e mi scontro con Eko che deve aver, tipo, svuotato la dispensa perché ha in mano un panino che pesa quanto me, imbottito di prosciutto fino ad esplodere. “Frinshifeffa?” Mi chiede con la bocca piena.
“Eko, tu cosa diavolo ci fai qui?” Che poi lo so cosa ci fa qui. Ci fa che si accampano sempre in salotto, nemmeno fosse casa loro.
Lui si sfila il panino di bocca e non cambia espressione che, nel suo caso, significa guardarmi con due occhi rotondi come palline da golf. Lui, fra tutti, è quello che ho capito meno; in particolare non ho capito se c’è o ci fa, e cosa ne pensa di me, questo qui. Se non altro con Saad e Nyze è facile: non mi possono vedere e non si preoccupano di nascondermelo. Ma Eko? Si comporta come se non fosse mai nella stanza in cui si trova fisicamente. A volte non ho capito nemmeno se si è accorto che esisto.
“Stavamo mangiando qualcosa coi ragazzi,” mi dice. “Sono avanzati dei pasticcini. Tu, piuttosto, perché vai in giro nudo.”
“I ragazzi? Dico ma non ce l’avete una casa voi?” Replico. “E comunque non sono nudo, ho su il pigiama.”
Il pigiama me lo sono regalato da solo due mesi fa. Costa un occhio della testa ed è praticamente fatto di niente. Lo tengo da Anis, come un mucchio di altri vestiti. Il suo era un armadio perfettamente in ordine prima che decidessi di colonizzarne uno sportello con la mia roba. D’altronde non faccio che fare avanti e indietro da questa casa, non posso mica sempre portarmi le valige.
“Ma è tipo trasparente,” commenta Eko, con un notevole slancio di entusiasmo. Mi guarda e non so cosa stia vedendo. Sembra più sorpreso dal fatto che la stoffa è effettivamente trasparente piuttosto che dal mio ombelico che s’intravede. “Comunque tiriamo fino a tardi, Atze ci lascia fare… anzi, lo hai visto per caso?”
Questo è esattamente quello che intendevo, Eko sembra analizzare le situazioni che lo circondano con un metro tutto suo, che prende in considerazione solo certi dettagli e non altri che, per dire, sarebbero anche più logici ed evidenti per il resto del mondo. Io vivo praticamente qui, anche se non ufficialmente. Io e Anis siamo stati in camera negli ultimi quaranta minuti. Non è che passavo di qui per caso, cristo, è il mio uomo. E questa è una casa. E sono le una. L’avrò visto, ti pare? Dove vuoi che fosse se non in camera? Con me. Magari dovreste pure togliervi di torno, concederci privacy. E io sto parlando con Eko senza dirglielo da almeno mezz’ora. “Sì, è in camera il tuo Atze,” borbotto, incrociando le braccia. Quindi sospiro perché continua a fissarmi. “Eko ti dispiace smetterla di fissarmi? Cos’è, non hai mai visto un uomo nudo?”
Lui mi guarda sempre con quegli occhi a palla. “Beh, sì. Mio fratello quando facevamo la doccia insieme perché mancava l’acqua ma che c’entra? Tu non sei mio fratello,” mi fa notare. “Sei…”
“E’ meglio se non lo dici.”
“Non lo dico,” concorda lui. “Ma vai sempre a dormire così?”
“Beh, no. Ho anche altri pigiami-EKO!” Faccio un passo indietro e lui lascia andare l’orlo del pigiama che aveva preso con due dita e sollevato. Mi guarda come se non avesse fatto niente di sconveniente e io avessi urlato per nulla.
“Che c’è!” Mi dice infatti. “Sei tu che appari nel corridoio, seminudo e all’improvviso. Dov’è che stai andando? Ti serve qualcuno?”
Le domande me le fa una dietro l’altra, con lo stesso tono e un po’ credo di sapere da dove vengano. Qualcuno deve avergli detto come trattare con me perché, altrimenti, lui non è capace. Non ha ancora capito che cosa sono, figuriamoci se sa come comportarsi. Così adesso che ha visto che vago per i corridoi – sperduto, ai suoi occhi – ha pensato bene di informarsi, casomai la sua persona servisse a qualcosa.
“Sto andando nella camera degli ospiti,” dico un po’ mogio.
“E perché?” Mi solleva di fronte agli occhi quel panino assurdo. “Vuoi un pezzo? Ho preso solo roba non scaduta.” E vorrei vedere che ci fosse qualcosa di scaduto con Karima in casa. Quella è capace di tirarti scemo a furia di chiacchiere se trova anche solo un limone un po’ marcito nel cassetto del frigo.
Scuoto la testa e lui riprende a mangiare, stringendosi nelle spalle. “Perché il tuo capo è stronzo,” rispondo, invece, all’altra domanda. “Ecco perché.”
“Che cos’ha fatto?”
Sospiro e quindi mi siedo su una delle sedie imbottite che sono appoggiate al muro lungo il corridoio. Mi stringo nelle spalle mentre Eko mi staziona davanti. “Secondo te?”
“E’ per quello che abbiamo fatto a tuo fratello? Guarda che Chaku gli ha dato solo un buffetto, eh,” mi assicura, ingoiando pezzi di panino grossi come la sua testa. “Lo ha portato solo fuori di casa, sullo zerbino proprio. Non gli ha fatto niente.”
“Non è questo il punto,” sbuffo. “E’ il principio che ci sta dietro che è sbagliato.”
“Quale principio?” Mastica lui, beato. “Quello per cui Atze non ti toglie le mani di dosso nemmeno se gli sparano?”
“Certo che no! Si può sapere di cosa parlate voialtri quando non possiamo sentirvi?” Lo guardo un po’ storto. “Comunque mi riferivo al fatto che ha trattato Tom come il peggiore dei suoi nemici…. Fler, tipo.”
Eko ridacchia e si scuote tutto. “Spero che tu non lo abbia nominato di fronte a lui. Comunque, secondo me, stai un po’ esagerando. E’ stato solo un po’ severo.” Tira fuori una fetta di formaggio e me la sventola davanti. “Sicuro di non volere?”
“Dio no… mi sta salendo la nausea.”
“Comunque, è tutto qui il problema?” Riprende lui, peraltro pulendosi con la manica. “Che è stato severo con tuo fratello?”
“Non è stato severo,” puntualizzo. “E’ stato una specie di capomafia. E voi tutti dietro come cagnolini.”
Eko mi guarda come uno che sa tutto e deve spiegare questo tutto ad uno che non sa nulla, cioè io. E’ la stessa espressione di Bushido ma, a differenza di Anis, Eko sembra farlo controvoglia. “Dovevamo soltanto mettergli un po’ di strizza, al Principino.”
“P-principino?”
Eko sbuffa, evidentemente convinto di dovermi spiegare anche quello. “Visto che tu sei la Principessa, lui è il Principino, capito?”
Penso che mio fratello ammazzerebbe qualcuno – un bambino, un gatto, Eko… - se lo venisse a sapere. Non solo il nome non è virile per niente ma gliel’hanno dato solo in funzione del sottoscritto, donna del capomafia, praticamente l’onta massima. Mi immagino la faccia che farebbe, davvero, a sentirsi chiamare così e mi viene da ridere. Eko mi guarda un po’ confuso. “Che cos’altro non so?” Chiedo divertito.
“Beh, così su due piedi non saprei,” riflette Eko. “Lo sapevi che sfottiamo Bushido continuamente su chi porti i pantaloni fra voi due, sì?”
“Ah sì?” Sorrido compiaciuto. In questo preciso momento di rabbia verso quell’uomo che non mi avrà mai più nel suo letto, sento le campane per una rivelazione del genere.
“Sì, perché è piuttosto palese che quello mica ragiona quando ci sei di mezzo tu.”
Lo guardo scettico. “Ti assicuro che ragiona anche troppo,” borbotto, giocando con le dita. “Non fa che dare ordini.”
Eko annuisce come se sapesse di cosa sto parlando ma con lui non sono troppo sicuro che lo sappia davvero. Annuisce un po’ sempre lui. “E’ solo che è un tipo dispotico,” decreta. “E poi ha paura del Principino, devi tenere conto di questo.”
“Come scusa?”
“Ma sì,” mi liquida, come fosse una cosa da niente. “Questa cosa che siete legati, voi due gemelli; che non è come avere un fratello… è come avere tipo, un’anima gemella. E a lui questa cosa gli rode. E poi c’è anche che all’altro Kaulitz piace l’Aggro Berlin. Anche questo lo devi tenere in conto, Principessa, mica puoi pensare di non pensarci. Capito?”
Ho capito che Eko non si sa esprimere e non so come sia arrivato all’età che ha. In ogni caso quello che ha detto getta una nuova luce sulla questione. Improvvisamente scopro che Anis non è così palese come mi sembrava, che il suo cervello è capace di giri mentali contorti quanto i miei. “Quindi è per questo che si comporta così? Perché…è geloso?”
“Non è geloso, Principessa, gli girano le palle.”
“Perché è geloso,” insisto.
“Tu non lo dire mai, questo,” commenta lui, annuendo saggiamente. “Dai retta ad Eko. Comunque, gli girano le palle, ha paura che tu prenda e te ne torni da tuo fratello, che manco fosse tua madre, dico io!”
Sono senza parole. Bushido si pone in maniera molto epica col mondo, quindi tu ti aspetti che sia una persona epica, e abbia problemi epici. E invece no, col cazzo. E’ rimasto a Templehof, quando aveva quindici anni. “Mi pare giusto, da parte sua, comportarsi così e trattare male Tom, così starò sicuramente con lui. Che bambino!” Borbotto, per altro alzandomi e costringendo Eko ad andare a ruminare quattro passi indietro. “Siete tutti dei bambini!”
“Siamo maschi, ragioniamo a livello base,” mi dice candido, come se io non fossi un maschio. E a questo punto credo che sia convinto che non lo sono. Eko è meraviglioso, in questo senso, il mondo può girare per un certo verso e lui sarà comunque fuori dall’asse di rotazione. E senza un problema, anche.
“No, siete maschi col cervello di un bambino di cinque anni! Vi arruffate tutti per delle cazzate immani e poi fate le stronzate! E quel cretino del tuo capo mi ha praticamente buttato fuori di camera per far cosa poi? Lo sai cosa starà facendo adesso?”
Mi sgrana tanto d’occhi. “No, non ho idea di cosa faccia Bushido a letto.”
“Beh, sta borbottando! Sta borbottando perché aveva dei piani e se li è rovinati da solo,” replico, agitando le mani.
Eko va nel panico. Mi mette il panino davanti e con l’altra mano si copre un orecchio. “Okay, alt! Fermo! I piani di Bushido non mi interessano.”
“Eko, calmati. Non avevo alcuna intenzione di metterti al corrente della mia vita sessuale…”
“Sempre meglio specificare.”
“…che comunque, per la cronaca, prima di questa storia era ricca e godeva di ottima salute.”
“Principessa!” Sbraita lui, coprendosi l’altro orecchio col panino. “No, no, no! Di quello che fai, se lo fai, non voglio sapere niente. E’ roba tua… quella roba lì che fa te voi. Niente confessioni.”
Rido un po’, perché è terrorizzato dal sottoscritto impegnato a copulare con il suo capo. “Non preoccuparti, quelle toccano a Chakuza,” rispondo. In realtà mi è capitato una volta sola di uscirmene fuori con Chakuza riguardo ad una mia serata con Anis e non so nemmeno bene per quale motivo. Ricordo solo l’imbarazzo di quell’uomo che finge di non trovare niente di strano in quello che gli sto dicendo.
“Non lo invidio per niente,” commenta Eko.”Io comunque adesso scendo.” Fa un pausa come a valutare la situazione. “Vuoi che ti accompagni in camera degli ospiti?”
Che è solo al piano di sotto, lo ricordiamo. Dubito che mi possano assalire. “No, grazie,” sorrido. “Penso di aver cambiato idea.”
“Contento tu, Principessa,” si stringe nelle spalle, mentre infila le scale. “’Notte!”
“Buonanotte Eko e…” si ferma sulle scale e si gira, invitandomi a continuare. “Non fate troppa confusione, va bene? Sto per farci pace.”
Eko rimane immobile, ma proprio fisso, come morto. E mi guarda con l’occhio da gufo. “Pace pace,” mi chiede con cautela, “oppure pace.”
“Pace.” Tiro fuori la lingua. “Almeno credo.”
Eko annuisce, ma guarda un punto imprecisato sopra la mia spalla, sembra in stato confusionale. “Raduno gli altri. Aspetta dieci minuti, okay?” Fa per riprendere a scendere le scale ma torna indietro e questa volta mi guarda. “Dieci minuti, davvero. Non iniziare, capito? Niente… pace mentre io sono qui. Ho sentito troppa pace in questi mesi.”
Rido mentre lo sento buttare gli altri fuori di casa a forza di urla isteriche.

*


Sto scarabocchiando frasi senza senso da un tempo interminabile. In realtà non saranno che venti minuti ma sono passati lentissimi da quando la porta ha sbattuto e io gli ho gridato dietro di andare da suo fratello. In realtà so che se davvero salisse in macchina e raggiungesse Tom, probabilmente darei di matto. La sola idea che possa farlo sul serio - decidere che pretendo troppo e tornare da suo fratello, dico - mi manda nel panico perché non posso davvero prevedere le decisioni di Bill quando si tratta di Tom. I parametri che lo riguardano sono tutti sballati. Io sono certo di venire prima di qualunque cosa nella vita di Bill. Qualunque cosa, tranne Tom. E il dubbio che sia davvero così mi irrita in maniera inconcepibile.
La porta si apre e, un attimo dopo, Bill ci è appoggiato contro, le mani ripiegate dietro la schiena. Abbasso lo sguardo quasi subito, non voglio dargli attenzione. “Sei ancora qui?” Chiedo gelido, continuando a scrivere.
Anche senza guardarlo so che si è irrigidito. Bill non è abituato a sentirsi trattato con freddezza dal sottoscritto; io sono caldo con lui. Gli sono sempre addosso, non lo allontano mai, nemmeno quando invece dovrei. Quindi sta male se per caso sorge un muro tra me e lui.
“Possiamo… parlarne ancora un po’?” Lo sento tentennare.
“E per dire cosa?” Sollevo gli occhi dal mio foglio e lo trovo tutto stretto nelle spalle, che gioca con le dita dei piedi sul pavimento. E’ fin troppo tenero per quanto è lungo. “Mi sembra che non ci sia altro da aggiungere.”
Si stacca dalla porta e raggiunge i piedi del letto. “Posso?” Mi chiede, incerto.
Questa è la parte delle litigate che odio di più, quando Bill si sente rifiutato e torna a chiedermi il permesso per cose per le quali non dovrebbe mai chiederlo. Lui non vive qui, ma è come se fosse casa sua. Non dovrebbe farmi domande simili, è come sentirlo fare un passo indietro. “E’ anche il tuo letto,” gli ricordo. Come mi è venuto in mente di spedirlo in un’altra stanza. In un’altra casa. Da un’altra persona?
Si arrampica sul letto e poi si appallottola seduto contro la testiera. Si dondola un po’ e rimane in silenzio, io mi rimetto a scarabocchiare in attesa che si decida a dire o fare qualcosa. “Non…” inizia alla fine. Io lo guardo e lui sta seguendo con le dita il disegno del piumone. “Non devi pensare che io voglia andarmene,” dice alla fine, incontrando il mio sguardo.
Stavo pensando esattamente questo ma ovviamente non glielo dico. Mi limito ad emettere un mugugnio indistinto, con un cenno veloce del capo.
“Non voglio scegliere tra te e lui,” insiste.
Quando pronuncia quelle parole, mi sale di nuovo la rabbia. Tom non c’entra niente fra me e lui, per la miseria, dovrebbe fare il fratello, non il fidanzato abbandonato. La verità è che sono stati troppo attaccati quei due, finora, e questo è male. Molto male. L’ossessione di Tom per suo fratello sfiora quasi la malattia. “Non sopporto che lui ci metta in discussione,” sputo fuori alla fine, perché non ce la faccio più a trattenermi. Sospiro. “Noi non siamo in discussione, vero?”
Bill scuote la testa e il peso nel mio stomaco un po’ si alleggerisce. “Lui può dire quello che vuole, ma io non cambierò idea. Non l’ho mai neanche pensato.”
Mi allungo ad afferrargli la mano e lascio scorrere le dita tra le sue, intrecciandole. “D’accordo,” sospiro. E non so se di sollievo o rassegnazione per quella che non è una sicurezza nemmeno a parlarne.
“Tu però,” dice subito lui, infatti. “Dovresti cercare di non prendertela. Per Tomi è stato un trauma e io gli manco in un modo che non puoi capire.” Fa un mezzo sorriso triste. “E lui manca a me.”
Mi chiedo vagamente che cosa questo significhi. A volte mi sembra di non aver strappato Bill al suo mondo, ma di averlo strappato via da qualcosa di ben più profondo. Questo legame gemellare ha una forza che non comprendo, e la vedo negli occhi di Bill quando dice cose simili. Non gli ho impedito di vedere suo fratello, lavorano insieme, sta più con lui che con me… eppure gli manca. Non riesco ad immaginare come potessero essere più vicini di così, prima.
“Ci proverò,” lo accontento alla fine. “Ma è difficile non prendersela quando viene in casa mia ad insultarmi, ti pare?”
Bill sorride. “Hai messo le mani su suo fratello, è un’onta che va lavata col sangue.”
”Veramente sei tu che le hai messe addosso a me, se non ricordo male.”
Lui tira su il nasino e si dà un’aria tutta compunta. “Che discorsi, tu sei l’uomo maturo e io il ragazzino che ha 11 anni meno di te. E’ ovvio che sia tu il maniaco,” poi scoppia a ridere. “Ricordati che gli ho detto che ero gay e che venivo a letto con te nello stesso giorno. Non ha ancora superato il primo trauma, figurati il secondo...”
Mi sarebbe piaciuto essere presente quando Bill ha smontato suo fratello con una semplice abile mossa. Se mi avesse consultato prima, forse, suo fratello non avrebbe distrutto la mia intera discografia e anche qualche disco che con me non c’entrava niente ma c’è andato di mezzo comunque. “E va bene,” sospiro alla fine. D’altronde con i ragazzini non puoi fare altro. Sono ragazzini. “Facciamo, però, che per un po’ tu non me lo porti davanti e magari con il tempo la cosa migliora. Poi vedremo più avanti, che ne dici?”
Bill annuisce immediatamente, agitando la testolina. I capelli gli si muovono appena, sulle spalle. E quella fascetta che tiene dietro le orecchie a sventola mi manderà ai pazzi. “Allora dormi qui, stanotte?”
“Vuoi che dorma qui, stanotte?” Chiede con gli occhioni.
Stanotte, domani. E per tutta la vita, credo. Lo afferro per la nuca e me lo trascino contro, baciandolo piano. Bill sorride e schiaccia il naso contro il mio, la sua risatina è una di quelle leggere.
Mi lascio andare sul materasso e lui si distende con me, accoccolandosi nell’incavo del mio braccio. “Quelli sono ancora di sotto a brutalizzare il mio frigorifero?”
“Sì. Ho incontrato Eko nel corridoio,” risponde.
“Non c’è mai verso di stare tranquilli in questa casa,” borbotto e faccio per alzarmi. “Devono capire che devono smetterla di accamparsi qui le ore. Voglio un po’ di privacy...”
“No aspetta, lasciali stare!” Bill mi arpiona le spalle e mi tira giù. Mi bacia e come al solito mi perdo nella morbidezza della sua lingua sulla mia. Parla piano, lo sento appena. “Non danno fastidio.”
Disegno con il naso il suo profilo e poi lo bacio di nuovo. “Ai tuoi ordini, Principessa.”
Bill socchiude gli occhi, il brivido che lo percorre lo sento sulla pelle e capisco che non sono l’unico che sta pensando di fare altro. Gli scivolo addosso e lui si sistema sotto di me in un attimo, il movimento collaudato delle nostre notti insieme. “Eko mi ha chiesto dov’eri,” mi espira tra le labbra.
“E tu cosa gli hai detto?” Rispondo ma non me ne frega niente. Fingiamo ancora che non stiamo per fare l’amore. Gli bacio uno zigomo e la guancia prima di tornare a baciarlo sulle labbra ancora una volta.
”… che stavi borbottando perché i tuoi piani erano andati in fumo,” risponde, inarcandosi per strusciarsi contro di me. Mugola perché lo tengo giù. Troppa fretta, amore.
Un po’ rido e catturo le sue labbra, mordendo quello inferiore. “Si vede che mi conosci bene.”
”Hai sempre un solo piano tu!” Protesta lui, ad occhi chiusi. I baci che gli do li mugola tutti, uno per uno. E ogni volta che mugola lo bacio di nuovo.
Intrufolo una mano sotto la maglia del suo pigiama che è qualcosa di scandaloso. La stoffa è leggerissima e quasi trasparente, quando si muove si modella sul suo corpo e si vede qualunque cosa. “…Dio, questo pigiama,” mormoro mentre le mie dita gli stringono forte un fianco e affondo le labbra nell’incavo del suo collo per sentire il respiro che aumenta.
“Ce l’avete tutti col mio pigiama,” ridacchia lui e di nuovo si spinge in alto, ma lo tengo giù.
“Tutti chi?” Sollevo la testa di scatto, aggrottando la fronte.
Lui apre gli occhi e mi guarda un po’ confuso. “Beh, Eko…” risponde. “Me lo ha visto addosso prima, nel corridoio.”
Io coscientemente so che Eko non è una minaccia in questo senso, però mi irrita l’idea che abbia visto il pigiama addosso a Bill; che poi, dal momento che il pigiama è questo, significa aver visto Bill, così com’è. Tutto. Le spalle, la curva appena accennata dei fianchi, il pancino rotondo. Lo tocco mentre penso a tutte le cose che Eko deve aver intuito sotto questo pigiama.
“Non ha fatto niente,” dice subito Bill, che mi capisce sempre al volo. “Era solo stupito che me ne andassi a letto così.
Mi bacia e le sue labbra mi aiutano a dimenticare l’irritazione. La cancellano, a dire il vero, perché Eko può aver intravisto la sua pelle sotto la stoffa, ma sono io quello che sfiora e bacia e preme tra le sue gambe adesso. “Ha ragione, in effetti è indecente,” gli soffio sull’ombelico, su quel triangolo di pelle lasciato scoperto da un bottone slacciato di proposito. “… che tu ce l’abbia ancora addosso dico.”
“Chi doveva togliermelo non lo ha fatto.”
Mi presenta l’ombelico che mi batte sulle labbra e io sorrido, baciandolo piano. “Ma Principessa, sei grande ormai,” dico, risalendo il suo corpo molto lentamente. “Saprai spogliarti da solo, no?”
Solleva il bacino e io allontano il mio, con un ghigno.
“E’ più bello quando lo fai tu,” protesta.
“E non posso avere neanche un po’ di spettacolo?” Lo bacio e continuo a stare abbastanza sollevato perché lui non possa strusciarsi. Mugola frustrato.
“Per te c’è tutto il dopo,” offre con un soffio mentre lo bacio ancora.
Mi getta le braccia al collo e mi accarezza la nuca mentre il bacio si fa più urgente e più profondo, e per un attimo perdo anche il filo di quello che sto facendo.
“Anis…”
”Se vuoi che ti spogli, devi dirlo.”
“Spogliami.” Lo dice immediatamente, guardandomi dritto negli occhi con la voglia che era appena sotto la superficie un attimo fa e che ora gli scurisce le iridi e gli affretta il respiro.
La maglia mi rimane in mano dopo due bottoni. Bill ne scivola fuori facilmente, tornando a baciarmi l’attimo dopo che l’ho lasciata cadere per terra. “Anche questi?” Chiedo, lento e irritante, artigliando l’elastico dei pantaloni.
“Togli tutto!”
“Agli ordini,” sorrido e finisco di spogliarlo. Rimango incantato a fissare il suo corpo che non mi stanco mai di guardare, anche se lo so a memoria. Anche se è mio, come tutto il resto.
E’ Bill a trascinarmi di nuovo su di sé e questa volta non gli nego niente. Si spinge contro di me con un mugolio compiaciuto e per un po’assecondo i suoi movimenti, solo per vederlo reclinare la testa e mordersi un labbro.
Ci baciamo e non so se capita perché abbiamo bisogno di mordere qualcosa o perché non possiamo stare troppo a lungo senza farlo. Bill continua a muoversi, ha le braccia mollemente appoggiate ai cuscini ed è straordinariamente bello, adesso. E’ bello perché è abbandonato ed è bello perché è mio, senza che quasi lo tocchi.
“Hai deciso di non fare proprio niente?” Gli sussurro, baciandolo sulle labbra.
Lui non apre gli occhi e sorride. “Ho voglia di fare la Principessa,” risponde. Poi le sue dita mi tirano giù ancora una volta, finché non mi chiude i denti intorno al lobo e sospira. “E voglio che tu mi faccia urlare un po’, così mi sentiranno se sono ancora qui.”
Ringhio e mi abbasso a toccarlo tra le gambe. La sua voce si scioglie in un sospiro soddisfatto. Fa posto al mio corpo e mi cerca con le mani e con le labbra. Per un po’ non c’è nient’altro che lui che si muove e preme contro le mie dita e la sua lingua che accarezza la mia con desiderio. Anche il mio respiro si è fatto corto, ogni volta che si struscia contro di me perdo un po’ di lucidità. Gli mordo il collo piano, la sua pelle è umida dei baci che gli ho dato. “Ti farò urlare,” prometto, “ma tu pensa a recuperare quello che ci serve.”
Lo vedo che si scuote dal torpore e allunga un braccio ma non ci arriva. E’ disteso proprio al centro del letto e il comodino – col suo cassetto – è troppo lontano. “Aspetta,” si divincola. Scivola dalla mia stretta e gattona verso il bordo del letto.
Io mi ritrovo la forma rotonda del suo sedere davanti al viso – quel culo da ragazzina! Come gli dico quando voglio prenderlo in giro – e non resisto a chinarmi e lasciare un bacio su una delle natiche.
“Ehi!” Arriva la sua risata, accompagnata dal rumore delle cianfrusaglie che sta scostando. “Sono impegnato in una ricerca seria, qui!”
Mi spoglio per fare prima. “Dimmi che Karima non c’ha rimesso le mani.” Lo fa di continuo. Apre, asporta preservativi e lubrificante, quindi richiude senza colpo ferire. Il tutto nella speranza che l’incredibile peccato di sodomia che si compie tra le mura di questa casa non si compia mai più.
“C’è un casino…”
Gli scivolo addosso e mi stringo a lui in modo che mi senta. M’intrufolo tra le sue gambe, una mano che scivola sulla sua pancia e riprende da dove avevamo interrotto. Non credo di poter aspettare ancora a lungo. “Non puoi lasciar perdere?” Gli sussurro in un orecchio. Lui si spinge indietro ma il versetto che fa non è convinto. Mi spingo appena, premendo solo vagamente. “Dai…” cerco di convincerlo. Adesso che ho avuto l’idea, non voglio nient’altro. “Faccio piano, promesso.” Lo accarezzo ancora e lo stringo fra le dita. Lui mugola ed espone il collo ai miei morsi. “E’ un po’ che non ti sento senza niente in mezzo, piccolo.” Lo lecco così lentamente che rabbrividisce, finché non lo bacio dietro l’orecchio “Hm?”
Deglutisce e chiude gli occhi. “Okay…”
Annuisce e si lascia stendere sulla schiena. M’inumidisco le dita e lui mi guarda ipnotizzato mentre scivolo tra le sue gambe. Punta i piedi sul materasso quando entro in lui con il medio soltanto e io trattengo i suoi gemiti tra le labbra mentre lo muovo.
E’ rigido e in tensione, così riprendo ad accarezzarlo per distrarlo. Il secondo dito scivola dietro al primo e i suoi gemiti si fanno più forti e meno dolorosi. “Bill?” Gli sussurro piano all’orecchio.
Scuote la testa. “Aspetta… soltanto un po’.”
Potrei morire ma è lui che comanda. Così stringo i denti e mi concentro su di lui e non sul mio corpo del quale sto palesemente perdendo il controllo. Bill ha le gambe divaricate, per me e per le mie mani, e la testa gettata all’indietro mentre artiglia la coperta tra le dita. Il suo bacino segue i movimenti del mio polso e non aspetto altro che lo dica. Amore, dillo, per favore.
“Anis…”
Scivolo tra le sue gambe prima che abbia finito di pronunciare il mio nome. E solo dopo ricordo di cercare sul suo viso un cenno d’assenso che arriva, anche se leggerissimo. “Fermami se non va più bene, d’accordo?” Sussurro contro il suo orecchio mentre premo piano contro di lui.
Anche se non so se riuscirei davvero a fermarmi perché è caldo e morbido e stretto. Ed è Bill, qui. Per me e con me. Non so se mi fermerei. Non ho un solo pensiero razionale da quando sono affondato in lui, l’unica cosa che so è che è bellissimo. Ogni volta. “Cristo, Bill… sei…”
Non lo so che cos’è. Volevo solo renderlo partecipe, dirgli che è dannatamente bello averlo così e fra qualche secondo mi ricorderò che vorrei lo fosse anche per lui. Solo qualche secondo.
Lo bacio, perché non trovo le parole, e lui si attacca disperatamente a quel bacio, mi artiglia le spalle mentre entro in lui. Il suo respiro affannoso e il mio ansimante sono tutto ciò che sento al momento.
La sensazione è troppo forte, perdo il controllo, e la prima spinta e un po’ troppo violenta. Lo sento gemere. “Scusami,” lo bacio. “Stare fermo è impossibile.”
Stringiamo i denti entrambi, solo che i suoi occhi, a differenza dei miei, sono pieni di lacrime. “Lo so,” mormoro accarezzandogli i capelli. “Vuoi che mi fermi?”
Ti prego, non mi dire di no.
Lui però scuote la testa, così abbasso una mano ad accarezzarlo. “Fammi sentire la voce, piccolo, “ sussurro e cerco di calmarlo, cerco di farlo concentrare su qualcos’altro e non sul dolore che gli sto provocando. Speravo fosse più semplice, non è la prima volta. E’ la prima dopo tanto tempo, ma pensavo che non avrei visto le lacrime. Odio vederlo piangere per una cosa che a me fa stare così bene.
Lui grida, ancora indeciso tra il piacere il dolore. Il mio nome gli esce strozzato dalla gola tesa.
“Mi fai impazzire,” la verità che c’è in questo sussurro gliela lascio scivolare umida nell’orecchio e lungo il collo. Le mie spinte si fanno più forti, ma lui sta cedendo intorno a me e vedo il suo viso rilassarsi. “Ancora…”
Questa volta grida forte. Il mio nome si schianta contro il soffitto e lui si aggrappa a me e punta di nuovo i piedi sul materasso, mi viene incontro e io posso godermi il suo corpo senza sentirmi in colpa.
Il dolore gli abbandona il viso velocemente, più veloce ad ogni spinta, e non rimangono che i suoi gemiti contro la mia bocca che non riesce più a fare a meno della sua.
L’ultima carezza e mi viene tra le dita, caldo e umido come i suoi baci. Lo seguo l’attimo successivo e una parte di me lo sente più mio del solito, perché lo sto toccando di più e perché adesso sono in lui più di quanto sia mai stato prima.
Il silenzio che segue dura un tempo che non so quantificare. Io devo ritrovare la testa che ho perso e lui il fiato che gli mancava già qualche minuto fa. Mi accascio sulla sua spalla e quando poso un bacio sulla sua pelle accaldata lo sento ridere.
"Va tutto bene?" Ed è lui a dirlo, non io.
Mi sollevo a guardarlo e lo bacio di nuovo. "Non ne uscirei più, potendo."
Lui intreccia le caviglie "Beh, resta ancora un po', allora."
Rotolo sul letto e me lo porto dietro, stringendomelo addosso. "Di certo non vado giù a controllare che se ne siano andati," commento. In realtà credo che non ci sia più nessuno. La mandria se ne sarà andata al primo gemito. Meglio così.
Bill si muove, tra le mie braccia, e la smorfia che ha sul viso mi ricorda che ho delle responsabilità stasera. "Fa male?"
"Vuoi la risposta vera o quella diplomatica?"
Sorrido. "Dimmele tutte e due e poi deciderò quale tenere a mente."
Mi tira un pugno su una spalla. "Stronzo," commenta. "Comunque, nell'ordine, fà malissimo e non preoccuparti, Amore."
Gli prendo il mento e lo bacio con dolcezza. "Mi dispiace."
"Sei un uomo impegnativo," sospira. "Impegnativo e ingombrante."
"Non è sempre un male, no?" Lo guardo allusivo.
L'occhiata velenosa che mi lancia è troppo bella per non ridere. Alla fine, scoppia a ridere anche lui e poi mi bacia il petto, rannicchiandosi con uno sbadiglio che lo scuote tutto. Tra meno di un anno, qualcuno mi sparerà due colpi e morirò.
Nel preciso istante in cui uno dei proiettili mi trapasserà il fegato, ogni cosa perderà importanza. Le litigate, la mia crew, Tom che ci ha reso la vita un inferno.
Tutto ciò che conterà, allora, sarà ciò che stringo tra queste coperte adesso.
Ma lo capirò davvero solo insieme a quel proiettile.

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I Will

di tabata e lisachan
Ci sono dei momenti in cui Bill è bellissimo. Sono momenti molto precisi e specifici, perché Bill è generalmente bello, ma in quei determinati istanti splende. Quando è felice di vedermi, per esempio. Capita si passi settimane intere senza poter fare altro che sentirsi al telefono, e quando finalmente riusciamo a metterci le mani addosso sul suo viso si apre un sorriso così enorme che lui sembra illuminarsi tutto.
Adesso è uno di quei momenti. La stanza è immersa nella penombra del primo mattino, il sole non è ancora sorto e Bill sta dormendo al mio fianco. Non è carino e delicato come ci si aspetterebbe da uno con la sua faccia. Sta steso sul materasso, le braccia e le gambe larghissime, e dorme a bocca aperta, russando un po’. È così che finisce puntualmente per rovinarsi la voce, ogni volta si ritrova con la gola gonfia come un canotto e fa fatica perfino a parlare. È che qui siamo circondati da un terreno piuttosto ampio, somiglia un po’ all’aperta campagna, ed anche il freddo è quello dell’aperta campagna. Bill non riesce a ficcarselo in testa o, più probabilmente, non gli importa.
Mi rigiro su un fianco e pianto il gomito sul cuscino, tenendomi dritto per poterlo osservare dall’alto, e mi mordo subito un labbro. Io e Bill abbiamo un tacito accordo per il quale col suo corpo posso fare tutto ciò che voglio, ma sarebbe carino se almeno, prima di toccarlo, lo avvertissi che sto per farlo. Questo non perché Bill sia infastidito dall’idea di avere le mie mani addosso mentre dorme. No, è che Bill ha un estremo bisogno di sentirsi parte di questa coppia. Col fatto che nelle occasioni pubbliche è richiesto da lui il più religioso silenzio, Bill ha necessità di fare casino, quando siamo chiusi in casa, nel nostro mondo. E quindi vuole avere diritto di parola, se decido di toccarlo.
Bill, comunque, ci mette ore a svegliarsi. Ed in queste condizioni non posso certo aspettarlo.
Gli faccio scivolare un braccio dietro la schiena e l’altro sul ventre, stringendomelo contro. Lui non reagisce immediatamente ma, appena il suo corpo tocca il mio e ne percepisce il calore, si raggomitola sul mio petto come un gatto in cerca di coccole.
Sorrido appena, infilando una mano sotto la maglietta e scorrendo la traccia della sua spina dorsale lungo la schiena magra. Bill mi sbava un po’ sulla maglietta, mugolando scontento. “Tomi…”, borbotta, tirando un mezzo calcio al vuoto, ed io sbuffo una mezza risata e scuoto il capo. Fino a qualche mese fa, una cosa del genere mi avrebbe indisposto in maniera furiosa. Mi sarei alzato e Bill non mi avrebbe più rivisto fino a sera. Fino a qualche mese fa, un “Tomi” mugolato in questo momento sarebbe stato, più che un’offesa, il tentativo inconscio di Bill di ricordarmi che l’avevo portato via dal suo mondo. Che sì, d’accordo, lui forse aveva fatto uno sforzo per intrufolarsi nel mio, ma ero stato io a portarlo via definitivamente, stabilendo che stare con me significava anche stare solo con me.
Non lo nascondo e non me ne vergogno, so bene di quali colpe mi sono macchiato nel corso della mia vita: il rapimento di Bill rientra nell’elenco, assieme a tutto il resto, ma è una delle poche cose di cui nemmeno mi pento.
Lo bacio su una tempia e Bill si rilassa subito. Scioglie i lineamenti tesi del sonno disturbato e solleva le braccia a stringermi al collo. Il respiro profondo e quieto che gli scuote appena il petto mi conferma che sta ancora dormendo, ed io comincio apposta a muovermi piano, per non svegliarlo. Gli disegno addosso il mio nome, tutto per esteso, lungo il fianco. È da un po’ che parliamo di questo fianco, Bill vuole assolutamente scriverci su qualcosa ed è da quando me l’ha detto che non faccio che ripetergli che ho un nome abbastanza lungo da starci per esteso, fino all’inguine. Ogni volta lui ride e mi guarda e dice “Anis, lo sai che non si può…”, ma è più deluso che razionale. Lo so che gli dispiace. Potesse, mi starebbe attaccato addosso giorno e notte, altro che tatuaggi. Solo che non può. Perciò ho preso l’abitudine di scriverglielo addosso con la punta delle dita. A lui piace.
Insinuo le dita oltre l’orlo dei pantaloni. È ancora caldo di sonno. Respiro forte contro il suo collo e lui piega un po’ il capo, appoggiandosi sulla mia spalla e sfiorandola con le labbra umide. Io sorrido sulla sua fronte e vago un po’ lungo le cosce magre e i fianchi stretti prima di risalire lungo la cucitura dei boxer e poi superare l’orlo anche di quel sottile strato di cotone, sfiorandolo appena fra le natiche. Caldissimo e morbidissimo, Bill mi accoglie dentro di sé senza la minima difficoltà, ancora provato dalla notte appena trascorsa. Lo sento trattenere per un attimo il respiro mentre le dita da una diventano due, e quando scendo a succhiare avidamente la pelle liscia e sottile del collo avverto il ritmo dei suoi respiri cambiare all’improvviso, e quando il mugolio che trema dentro la sua gola mi annuncia che sta per svegliarsi rallento appena il ritmo con cui le mie dita si muovono dentro di lui, così che svegliandosi non debba sentirsi troppo invaso.
- Anis… - borbotta contro la mia spalla riprendendo conoscenza, il bacino che si muove indipendentemente dalla sua volontà per seguire il ritmo imposto dalle mie dita, - Lo stai facendo di nuovo…
- Mh-hm. – annuisco, baciandolo piano lungo il profilo della mascella, fino alle labbra, - Ti spiace?
- Quante… - ansima, piantandomi le unghie sul braccio, - quante volte… devo dirti… di chiedere…?
Sorrido e scendo a mordergli il collo, ipnotizzato dal movimento lento dei suoi fianchi.
- Posso entrare, principessa? – chiedo ironico, mordendo piano.
- Sei… - i suoi occhi chiusi fanno fatica a restare tali, le ciglia tremano impercettibilmente nel buio della stanza, - sei già dentro…
Rido un po’, stringendomelo addosso di modo che possa sentirmi alla perfezione.
- Non parlavo delle dita, Bill. – mormoro ad un centimetro dal suo orecchio, rallentando il ritmo, - Ho voglia di sentirti.
Bill ansima forte sulla mia pelle, gli occhi serrati.
- Ma… David-
- Aspetterà.
- …Anis, tutta la notte, noi…
- Dimmi che non vuoi e ti lascio subito in pace.
Bill ansima pesantemente e mi si abbandona addosso, cercando sollievo per la propria eccitazione pulsante fra le gambe.
- …come faccio a dirti che non voglio? – mugola, cercando le mie labbra per un bacio che gli concedo immediatamente.
- Non dirlo, principessa. – e Bill infatti non lo dice. Dimentica Jost, che probabilmente starà già tartassando il suo povero cellulare di chiamate che resteranno senza risposta, e si solleva sulle braccia, scavalcandomi e sedendosi su di me, allacciandomi al collo.
- Facciamo in fretta, però? – chiede con aria rassegnata, strofinandosi contro di me.
- Dammi il mio tempo, Bill. – obietto baciandolo velocemente.
- Anche se non te lo do… - mugugna lui sulle mie labbra, - te lo prendi lo stesso.
Rido a bassa voce, sistemandomelo per bene in grembo ed entrando lentamente dentro di lui. Bill si tende tutto intorno a me e getta all’indietro il capo, gli occhi serrati e le labbra dischiuse, il respiro debole e un po’ affannoso. È il mio modo di fare con tutto, credo. Se penso che qualcosa mi spetti, me la prendo. E le cose mi spettano se anche solo le voglio. Finché non pensavo che Bill mi spettasse, Bill nel mio letto non è entrato. O meglio, lui è entrato nel mio letto perché è un ragazzino cocciuto e testardo, ma io non sono entrato dentro di lui, e questa era una sfumatura molto importante. Ma quando l’ho voluto, me lo sono preso. E succede sempre così: quando voglio tempo, quando voglio attenzioni, quando voglio la sua presenza, quando voglio lui, io me lo prendo. Ho fatto così anche con altri, prima che lui arrivasse. In modi e per motivi diversi, ma l’ho fatto.
Suppongo sia una colpa anche questa.
Suppongo sia questo, anche, il motivo per cui questa sera uscirò con Chakuza e metterò in chiaro quello che a grandi linee sto cercando di fargli capire da quando l’ho mandato all’aeroporto a recuperare Bill.
Io mi sono messo nei casini da solo.
Si sta avvicinando il momento di pagare, in un modo o nell’altro.
Fra le tante cose che mi ha insegnato Tempelhof – ed è assurdo pensarci mentre Bill si muove lentamente su di me, sollevandosi ed abbassandosi in sincrono con le mie spinte – c’è anche la massima fondamentale della vita per cui non importa affatto chi ha ragione e chi torto. Il punto non è essere dei bravi ragazzi o dei cattivi ragazzi: la vita riserva solo merda per tutti. Il punto non è come ti comporti, il punto è se resti in piedi alla fine della serata. Se ancora respiri. Se non perdi sangue. E, in caso tu lo perda, se sei forte abbastanza da rimarginare la ferita prima che ti uccida. È questa l’unica cosa che conti.
Prima di Bill, non mi sarebbe importato di andare da Chakuza e spiegargli per bene che, per qualsiasi evenienza, toccherà a lui prendersi cura di Bill. Non mi sarebbe importato perché non avevo nessuno di cui m’importasse anche oltre me stesso. Io per Bill non ho paura solo finché resto in piedi. È il periodo che seguirà la mia caduta, che mi terrorizza. Non mi era mai successo, prima d’ora. L’unica altra persona per la quale ho provato un simile trasporto è stata mia madre, ma lei è troppo distante dal mio mondo e da ciò che sono ora, per essere davvero in pericolo. Al momento, a rischiare sono solo io, ma se io muoio non ho idea di cosa potrebbe succedere in giro. Non ho idea di cosa la mia assenza potrebbe scatenare.
Se Fler darà inizio alla fine del mondo facendomi fuori, voglio che Bill abbia un cavaliere dalla sua parte. E voglio che quel cavaliere sia Chakuza.
- Anis… - Bill mi chiama a bassa voce, stando bene attento a come pronuncia il mio nome, lasciando scivolare la s fra i denti e la lingua, ed io scendo ad accarezzarlo lentamente fra le gambe. Subito i suoi movimenti si fanno più ansiosi e concitati, e non passa molto prima di sentirlo tendersi e stringersi attorno a me, mentre lascia andare il capo all’indietro e viene fra le mie dita, arrendendosi alla mia stretta. Continua a muoversi anche dopo l’orgasmo, continua a farlo anche se è spossato e indolenzito. Non gli importa, sa che non vuole fermarsi finché non sarò venuto anch’io e quindi, testardo, continua ad agitarsi.
Io sorrido appena e cerco di trattenermi quanto possibile, perché adoro quando si muove in questo modo. Languido, sensuale, lento. Bill non lo è quasi mai, in genere è una pertica imbizzarrita priva della benché minima grazia, ma in questi momenti, quando è stanco e sopraffatto dalla sensazione indomabile dell’orgasmo che ancora lo scuote a tratti, riesce ad essere davvero sexy. Senza nemmeno volerlo, ed è quello il punto. Quando si atteggia, Bill può attrarre al massimo qualche sedicenne in aria di bisessualità. Sono i momenti in cui non si controlla, quelli in cui è veramente sensuale.
Venti minuti dopo – ha appena avuto il tempo di riprendere fiato, io sto ancora cercando il mio – sta già volteggiando confusamente dall’armadio allo specchio, impegnatissimo nell’attività di vestirsi nella maniera più adatta per andare alla Universal, affrontare suo fratello e fargli credere per lui sia indifferente ottenere la sua approvazione o meno. Bill, ogni tanto, tira fuori una combattività che non c’entra niente col ghetto e nemmeno con i capricci ostinati di una principessa. È una cosa propria del suo essere com’è, un misto di testardaggine infantile ed orgoglio spaventosamente adulto che costringono gli altri a chinare il capo. Con la crew c’è già riuscito. Suo fratello, però, è uguale a lui. Quindi servirà più tempo.
Mi sollevo dal materasso, lasciandomi ricadere di dosso le lenzuola, e scorgo l’occhiata imbarazzata che Bill mi lancia dallo specchio, prima di tornare a concentrarsi sul proprio riflesso e sulla sequela di bottoni che deve preoccuparsi di affibbiare assennatamente sul petto. Sorrido nell’ombra, non visto. Poche cose mi compiacciono come la consapevolezza che, ad avermi davanti ogni ora del giorno e della notte, Bill non riuscirebbe mai a staccarmi gli occhi di dosso. Non riuscirò mai a capire davvero a cosa pensasse la principessa bianca come la luna quando ha deciso di innamorarsi dell’uomo nero, ma so per certo che, quando l’ha fatto, l’ha fatto per davvero. E perciò, di fronte a me, Bill è arreso.
Lo stringo ai fianchi con le braccia ed a lui basta sentire la lieve pressione del mio sesso già quasi nuovamente pronto a prenderlo, per irrigidirsi ed arrossire.
- Anis… - sussurra piano, mentre io mi chino a baciargli il collo e lo solletico appena con le labbra, - Ma abbiamo appena finito, e poi è già tardi, e-
- Farò da solo quando sarai andato via. – gli respiro addosso. Bill mugola e stende il collo, ripiegando il capo contro la mia spalla.
- …è uno spreco. – biascica, spingendosi verso di me, - E non sono ancora completamente vestito…
Ghigno e gli mordicchio un lobo.
- Ma è già tardi. – concludo, chiudendo i bottoni dei jeans e poi allacciando la fibbia della cintura, - Stai attento che salti bottoni. – dico, accennando col mento alla sua immagine nello specchio. Mi fermo un po’ a guardarlo, mentre lo faccio. Respira profondamente, le sue mani seguono il profilo delle mie ed i suoi occhi sono lucidi e pieni di voglia. – Sei bellissimo.
Bill mi si rigira fra le braccia, allacciandomi al collo e strofinandosi sfacciatamente contro di me. La chiusura metallica della cinta, contro la mia pelle bollente, è quasi dolorosa.
- …posso restare a guardarti? – chiede, lasciando baci piccoli ed umidi lungo la linea delle mie clavicole, - Solo un po’…
- Devo fare da solo perché tu devi andare via, principessa. – gli faccio notare, stringendolo alla vita, - Se resti, non ho motivo di fare da me. Ti pare?
- È che… - si morde un labbro, sospirando pesantemente, - non ti ho mai visto, e invece tu…
Lo bacio lentamente, profondamente, fino a sentirlo confuso ed abbandonato in punta di lingua.
- Mi vuoi guardare, piccolo? – gli chiedo fra le labbra, e lui annuisce in silenzio, gli occhi socchiusi, le palpebre che tremano appena. Rido e lo bacio di nuovo. – Non adesso. – concludo, lasciandogli una sonora pacca sul sedere, - Jost poi mi insulta. – e mi allontano.
Bill rimane quei due, tre secondi a fissarmi dall’alto in basso – la linea dei pettorali, gli addominali, l’ombelico, le ossa sporgenti delle anche, il desiderio che svetta imponente fra le gambe – e poi si lascia andare ad un ringhio piccolo e frustrato, incrociando le braccia sul petto.
- Hai sempre avuto in testa questa cosa dell’obbedire a David, tu… - borbotta, ravviandosi i capelli dietro le spalle con un gesto stizzito.
Io rido.
- Be’, è un alleato utile, in ogni caso. Per dire, ti copre ancora con tuo fratello, quando lui accidentalmente dimentica che stiamo insieme da tre anni.
I lineamenti del volto di Bill si rilassano e la sua bocca si piega in un sorriso delizioso. Fare la conta degli anni con lui funziona sempre. In realtà funziona sempre anche con me – quando ci penso non mi sembra vero finché non realizzo che è davvero così. Certe lunghezze ti sembrano irreali, se non le misuri costantemente.
Sospira e torna ad aggrottare le sopracciglia, rimettendo su il broncio tipico delle finte offese.
- Be’, d’accordo, visto che non vuoi accettare la mia generosa offerta, resta qui da solo. – mi si avvicina di un passo e mi spinge all’indietro. Io lo lascio fare e cado sul letto. Mi tengo sollevato piantando i gomiti sul materasso e lo fisso di rimando, con aria di sfida. Lui mi fa una linguaccia. – Riprendi confidenza con la tua mano, mi sa che è troppo tempo che non ti do occasione di usarla. – io rido ed obbedisco, accarezzandomi lentamente un paio di volte. Bill arrossisce e si morde un labbro, guardandomi attentamente. – Ricordami di chiedertelo più spesso. – pigola poi, deglutendo a fatica. – Comunque ti odio! – borbotta, ed esce dalla camera sculettando infuriato, battendosi oltraggiato la porta alle spalle.
Rido e mi lascio andare disteso sul letto, rinunciando subito al proposito iniziale. Senza Bill non è lo stesso. E stasera penso che, per un po’, mi farò guardare.
Prima, però, ho una faccenda da risolvere.
Allungo una mano verso il comodino e recupero il cellulare, componendo a memoria il numero di Chakuza e restando in attesa finché lui non risponde.
- Chaky? – lo chiamo, mentre sento in sottofondo la voce di sua madre che gli chiede se per caso non sono Klaudia, e di salutarmi, in caso fossi lei. Ridacchio. – Ho un favore da chiederti. – lui annuisce, un “uh-hu” confuso che mi fa ridere ancora. – Possiamo vederci, più tardi? – lui risponde con un “ma sì, ovvio, a che ora?”. Io sospiro. – Nel pomeriggio. – poi ghigno un po’, - A patto che tu dica a tua madre che non sono la tua ex.

*

Bushido mi chiama che sto riparando un lavandino in casa di mia madre e un po' quella telefonata me l'aspettavo. Non che sapessi quello che poi mi avrebbe detto ma è evidente che in questi giorni sta accadendo qualcosa e che lui ci avrebbe chiesto favori.
A dirla tutta, sono due settimane che a casa sua facciamo finta che gli attacchi di Fler non si siano fatti più aggressivi e che le sue risposte non si siano automaticamente regolate di conseguenza. In questi ultimi tempi, Atze ha sempre tentato di essere diplomatico ma quando le offese pesanti hanno cominciato a piovere sulla Principessa, ha smesso con la convivenza pacifica e non ha più risparmiato una virgola a quel cretino di Fler.
Comunque lui non parla e noi non chiediamo. Sediamo nel suo salotto e beviamo birra. La nostra attività principale, tendenzialmente, è quella di ignorare: le diss di Fler, l'incazzatura che tende il viso di Bushido e Bill, ovvio.
Bill siamo bravissimi a fingere che non sia in casa e che non si stia facendo la doccia. Quando compare in salotto vestito, truccato e perfetto come sempre, noi fingiamo che le ore precedenti non le abbia passate a scopare con Bushido. Perfino Eko butta sempre lì un "Ciao Principessa" che sembra che Bill venga da fuori piuttosto che dalla camera da letto.
Una roba così, però, la reggi solo per poco; poi la tensione ti sfonda il fegato. Quindi sono contento quando quella telefonata arriva. Quasi sospiro di sollievo.
Esco fuori da sotto il fottuto lavandino che non ne vuole sapere di farsi rimettere in sesto - dovrò chiamare un cazzo di idraulico - e do a mia madre un nuovo buon motivo per ricominciare a dirmi che secondo lei dovrei stringere di più, oppure farlo di meno, o anche chiudere l'acqua che l'ho già fatto quattro ore fa quando sono arrivato qui ma ancora continua a dirmelo. Quando apro il flick, lei smette di improvvisarsi idraulico per chiedermi "E' Klaudia? Me la saluti?"
Klaudia non è più la mia ragazza da un mese e mezzo ma mia madre finge che non sia così. Le ho detto più volte che io e lei non ci vediamo più, che si è addirittura trasferita dall'altra parte della città e che ha rivoluto indietro quel quintale di ciarpame che aveva lasciato nei miei cassetti ma mia madre niente, da quell'orecchio non ci sente.
La verità è che la prolungata presenza di Klaudia nella mia vita l'aveva portata a convincersi - mia madre, non Klaudia - che ci saremmo sposati di lì a poco e che c'era un nipotino in arrivo, in non più di sei mesi, massimo un anno. Klaudia non stava pensando di avere figli e io comunque non stavo pensando di sposare Klaudia. In ogni caso ci siamo lasciati, per motivi - tra l'altro - che non posso spiegare a mia madre, per cui...
"No, mamma, non è Klaudia," sospiro alla fine e sento Bushido che ride. "Atze?"
Spingo gentilmente mia madre fuori dalla stanza e la sento borbottare che a lei quel Bushido non piace mica tanto.
"Disturbo?"
Incastro il telefono tra il collo e la spalla e mi lavo le mani. "No, figurati. Anzi, mi salvi da una mattinata di morchia giù da un lavandino."
"Conosco un paio di ragazze che pagherebbero per vederti in canotta e sporco di morchia."
Rido mentre m i asciugo le mani. "Grazie ma sono a posto così."
"E Klaudia?"
Dio, anche lui con questa Klaudia. "Andata," rispondo e mi siedo sul water coperto.
Per terra c'è un casino di attrezzi e di cenci luridi, nonché quel catino appena sotto il sifone che è pieno di roba schifosa.
"Un vero peccato," commenta lui. "Era un amore, Klaudia."
"Non so se avresti detto lo stesso, conoscendola," sorrido. "Era un po' isterica."
"Credo di essere abituato all'isteria," risponde lui. "Klaudia almeno non aveva 19 anni, Chakuza."
Qui evito proprio di rispondere. Ho paura ad aprire bocca su Bill, con Bushido non sai mai cosa puoi dire e cosa no. Per dire, io lo so che Bill a volte va fuori controllo - tipo che l'altro giorno che l'ho accompagnato al supermercato per ordine di Atze e non ha trovato le caramelle che cercava. Per venti minuti non gli ho potuto parlare perché qualunque cosa dicessi mi mangiava la testa. E questo è solo un esempio. Io però mica posso fare notare ad Atze che il suo fidanzato è fuori come un citofono. "C'era qualcosa che volevi dirmi?" Cerco di deviare il discorso, che di Klaudia mi sono anche un po' rotto.
"Sì, ho un favore da chiederti."
"Uh-uh" annuisco vago perché forse mi è venuto in mente che il problema del lavandino potrebbe essere il tubo stesso. E se devo cambiare un tubo, piuttosto compro a mia madre un bagno nuovo.
"Possiamo vederci più tardi?"
La voce non smette di essere divertita, ma cambia tono. E' più bassa, più netta e questo mi fa capire che c'è un certo grado di serietà dietro al cazzeggio. Klaudia serviva a coprire la pesantezza di una motivazione che non mi dice. "Sì, ovvio, a che ora?"
"Nel pomeriggio," ghigna. "A patto che tu dica a tua madre che non sono la tua ex."
Fissiamo in una birreria non lontana da casa mia. Quando riattacco, con il lavandino che gocciola in sottofondo, so che questa telefonata significa più di quello che sembra e, per quanto assurdo sia, mi incazzo all'idea che mi abbia raggiunto mentre riparavo il lavandino. Questa non è una telefonata normale, doveva arrivarmi nel momento meno normale del mondo. Invece sono a casa di mia madre, a fare una cosa per lei come faccio sempre ogni volta che riesce ad acchiapparmi e so che da lì a quattro ore Bushido mi dirà qualcosa che non mi piacerà per niente. Ma proprio no.

*

La birreria è un buco incastrato tra due palazzi giganteschi, in una via praticamente invisibile appena dietro casa mia. Quando mi sono trasferito, ci venivo quasi ogni sera perché era comoda e perché ci si mangiava bene e il mio frigo era sempre vuoto. La situazione della mia dispensa non è cambiata molto negli ultimi due anni, in effetti. Il mio problema non è che non mi vada di cucinare, anzi, io adoro cucinare. E' che non ho la testa per fare la spesa, tenere a mente le scadenze o comprare le cose giuste nella quantità giusta. Anche quando andavo all'istituto professionale - ho studiato da cuoco. Sì, io. - il mio problema non era mai preparare qualcosa ma avere tutti gli ingredienti, o gli utensili. Ero molto distratto. Il tipico caso di E' bravo ma non si impegna. Ad ogni modo, anche ad aver voglia di cucinare, non avevo mai niente in casa con cui farlo, per cui scendevo, mi facevo due passi a piedi e andavo a farmi sfamare dalla proprietaria del locale, che era una donna gigantesca e mi faceva quasi più paura di suo marito. Poi, più o meno sei mesi fa, i due hanno venduto e la birreria ha cambiato gestione, diventando di proprietà di una famiglia di tunisini, che le zuppe non te le fanno, ma ti preparano il kebab. Tra le altre cose, ho poi scoperto che questi sono parenti di Bushido. In effetti non so se siano parenti veri o parenti di altro tipo, con Bushido non si sa mai: ha le mani in pasta ovunque e la tendenza a chiamare parenti tutta una serie di persone diverse, per motivi che no so e neanche voglio sapere.
Quando spingo la porta, di fatto, lo trovo già dentro seduto ad uno dei tavoli riservati che parla con uno dei proprietari che indossa una canotta bianca tragica e ha al collo una patacca da far rabbrividire il buon gusto. Mi rendo conto che ho appena fatto dei giudizi di stile sul tunisino proprietario di una bettola della semi-periferia berlinese. Questa è evidentemente l'influenza malefica della Principessa e dei suoi giudizi cinici sulle donne in carne coi pantaloni a vita bassa. Devo decisamente chiedere a Bushido di trovare a Bill un'altra guardia del corpo che non sia io.
I due parlano fitto e Bushido ride in quella maniera un po' sguaiata che ha quando siamo fra di noi. E' da segnali come questo - il tipo di risata, le sue braccia che si appoggiano sullo schienale della sedia dove sta seduto al contrario - che capisci che è tranquillo e, di conseguenza, che in quel posto ti ci puoi rilassare. E' un posto amico.
Il tipo si chiama Fouad, se non ricordo male, ed ha una sorella bellissima, che si chiama Halida e non è quasi mai presente nel locale. E' timidissima, e l'abbiamo vista spuntare solo un paio di volte da dietro la porta delle cucine. Intanto che mi perdo nella mia testa e negli occhi di quella donna, che li ho visti una volta sola e potrei ricordarmeli finché campo, Bushido si accorge di me. "Chaky, da questa parte," mi chiama a gran voce, agitando la mano.
Mi siedo al tavolo e Bushido ordina per entrambi due birre rosse senza chiedere il mio parere. Fouad sparisce all'istante e solo allora noto che il locale è praticamente quasi vuoto.
"Allora? Che succede?" Chiedo quando il tunisino ritorna con le birre per poi eclissarsi di nuovo.
Bushido beve un sorso dal suo bicchiere e ci guarda dentro con un'aria pensosa che non mi piace. Quando uno si perde in mezzo litro di birra e sembra vederci dentro il futuro del mondo, significa che sta cercando le parole da dirti e che quelle parole sono le più pesanti che ti sia mai capitato di sentire.
"Immagino che tu sappia come stanno le cose tra me e Fler in questo periodo," dice alla fine.
E' un esordio che non mi aspettavo. Voglio dire, sapevo che avremmo parlato di Fler, ma non con questo tono. Me lo aspettavo arrabbiato, non così, come se Fler fosse il preambolo trascurabile di una questione ancora più seria. Al momento non ci sono questioni più serie di Patrick Losensky che spara minchiate sulla Principessa, su Bushido e sull'Ersguterjunge.
Mi sbaglio.
"Sì, direi di sì," rispondo, senza fargli notare che questa è una cosa che hanno capito anche i muri. Io dico che anche la signora Lotte, la mia vicina di casa, ormai lo ha capito che Fler e Bushido si odiano e che Fler lo prende in giro perché ha un fidanzato. "Credo che Fler abbia passato ogni limite."
Lui fa un mezzo sorriso intenerito, senza alzare lo sguardo. E' uno di quelli che fa incazzare Saad, che non li sopporta perché, generalmente, sono rivolti a due persone soltanto. Uno è Bill - e lasciamo perdere che cosa Saad pensi di quel ragazzino -, e l'altro è Fler al quale, nonostante tutto, Bushido si ostina a rivolgere una sorta di rispetto nostalgico che gli impedisce di riempire le nostre canzoni di merda vera. Urliamo a Fler da mesi ma Bushido non ci ha mai permesso di dirgli veramente chissà cosa. Saad per questo potrebbe uccidere, proprio non riesce a capire come faccia Bushido a permettergli tante delle cose che gli permette. E dire che è piuttosto semplice da capire: lui e Fler sono cresciuti insieme e si sono divisi per una cazzata tanto grossa che era quasi impossibile non rimanere con l'amaro in bocca. Voglio dire, sì d'accordo i soldi e gli ideali, ma erano cose di cui forse si poteva discutere, cose che non erano sufficienti a troncare i ponti, ad offendere madri e fidanzati. Quei due si rispettano perché erano amici e quando rispetti un'amicizia che non c'è più, in realtà quella c'è ancora o non la rispetteresti. E Saad, cazzo, mica lo vede. Va avanti per la sua strada e non c'è verso di farglielo capire.
"Ho visto Fler tre giorni fa," la voce di Bushido cambia tono e si fa più calda. Questa volta alza lo sguardo e mi osserva mentre io spalanco la mascella su una birra che ho appena assaggiato. "Abbiamo stabilito una tregua di qualche ora per poter parlare."
Annuisco lentamente. Certo, ha senso. Credo.
"E abbiamo deciso che chiuderemo la questione una volta per tutte."
Nella mia testa quelle parole suonano un po' come l'enorme gong di una chiesa buddista e rintronano sulle pareti del mio cervello, stordendomi neanche troppo leggermente.
Bevo. "E per chiudere, intendi...?"
"Intendo finirla," dice subito lui. "E' andata avanti troppo a lungo."
Io per un momento rimango immobile e mi chiedo se quello che ho capito ha un senso oppure no. Bushido non può veramente avere in mente di far fuori Fler. Quello canta e basta, cazzo. Noi cantiamo e basta. Mica puoi pensare sul serio di uccidere un cristiano come se fossimo in un film di Tarantino. Lui deve leggere la confusione sul mio viso, anche perché ce l'ho stampata in faccia - lo so perché mi conosco e quando trovo che qualcosa sia assurdo senza possibilità d'appello, la mia faccia riporta esattamente il mio pensiero. Ho i lineamenti di gomma, mi muovo tutto. Sono un pessimo giocatore di poker.
"Immaginavo che avresti reagito così," mi dice con uno sbuffo divertito.
"Non ho reagito in nessun modo."
Lui annuisce un po', come uno che vuole dirti di sì quando pensa tutto il contrario e poi beve di nuovo. "Tu quando non vuoi parlare, le cose le dici lo stesso," commenta. "Il viso, le mani, il modo in cui ti muovi. Se qualcosa non ti va o ti confonde, in qualche modo traspare. Non menti mai, per questo sei qui stasera."
"Non capisco," ammetto.
Lui prende un sospiro lungo, che fa ancora più paura del tempo che si è preso per cercare le parole che hanno dato il via a questa serata. E' un sospiro per darsi coraggio. E io mi chiedo a cosa gli serva questo coraggio. Cosa può far paura a Bushido che coinvolga me, Fler e questa birreria?
"Tra quattro giorni, io e Fler ci incontreremo e chiariremo la cosa fra di noi."
"Ma Atze, non-"
Mi ferma sollevando una mano, l'indice e il medio diritti e il resto delle dita leggermente piegato, come a chiedermi tempo più che a darmi ordini. E io mi fermo perché come al solito mi sono buttato senza aspettare.
"Quello che avrà luogo da qui a tre giorni è già stato deciso e non deve interessarti, se non per un motivo soltanto," quelle dita sollevate diventano una "Ed è lo stesso motivo per cui ti ho chiamato."
Questa volta sto zitto.
"Come ti ho detto al telefono, ho bisogno di un favore."
"Qualunque cosa, Atze."
"No." Mi ghiaccia con quel rifiuto e l'occhiata che mi lancia è sufficiente perché io mi senta in dovere di guardarlo. "Non accettare prima di sapere di cosa si tratta. Se dirai d sì, lo farai consapevole dell'impegno che ti sei preso."
L'aria è tipo elettrica, non ho idea di come ci sia riuscito. Fatto sta che sono in ansia e ora più che mai vorrei essere sotto il lavandino in casa di mia madre piuttosto che qui di fronte a quest'uomo che è visibilmente sul punto di rivelarmi qualcosa che non voglio sentire.
"Quando io e Fler ci scontreremo, non so come andrà a finire," esclama poi, dopo interminabili minuti di silenzio. "Fler ci sa fare con le armi, gliel'ho insegnato io."
Non so se dovrei preoccuparmi del fatto che sorride, anche se è sempre uno di quei sorrisi amarissimi che gli sollevano un solo angolo della bocca. "Quindi potrei creparci se quella sera decidesse di incazzarsi sul serio." Poi mi guarda. "E credimi, è sulla buona strada."
Il mio cervello non potrebbe girare più a vuoto di così perché adesso ho due interrogativi. In primo luogo mi sto chiedendo ancora una volta in che razza di universo parallelo sono finito per ritrovarmi nella condizione di ascoltare questa discussione. In secondo luogo, adesso devo anche cercare di capire quale sia il mio ruolo in tutto questo.
Rimango in silenzio e attendo il resto che mi arriva dritto in faccia, senza nessun preavviso. Con Bushido è facile capire quali siano le cose importanti: sono quelle che ti dice senza giri di parole. "Se io muoio, voglio che sia tu a prenderti cura di Bill."
Vorrei che avesse detto qualcos'altro. Il mio primo pensiero coerente dopo quelle parole è che vorrei non averle sentite, non male da parte della persona a cui le hai appena dette. Lui ha la prontezza di spirito di continuare a parlare e riempire il baratro che si è aperto tra me e lui e che è pieno di tutto ciò che quella richiesta implica. La morte di Bushido, la sofferenza di Bill e io che devo tenerlo insieme quando è chiaro che cadrebbe a pezzi.
"Dopo la mia morte," e lo ripete di nuovo, con quella calma assurda, "ci sarebbe un gran casino, credo. O almeno io lo spero che se crepo ci sia casino."
Fa un sorriso e ne strappa uno anche a me. La tensione un po' si scioglie, che è quello che ci vuole perché le cose serie vanno affrontate con un certo grado di rilassamento o non si ha abbastanza cervello per reagire nel modo giusto.
"Bill in questo casino ce l'ho trascinato io," dice poi, "ma non voglio che ci resti se io non sono con lui."
Annuisco perchè questo lo so già. Ho visto come lo tratta e con che cura lo guarda. Bushido non lo perde mai di vista, Bill, lo tiene sempre sott'occhio anche se non sembra. Anche quando non è lì fisicamente. E nessuno osa dirgli o fargli niente - Fler è un caso a parte - proprio perchè quel ragazzino il marchio di Bushido è come se lo portasse addosso. E' roba sua, lo sanno tutti. Però credo che lo distruggerebbero se sapessero che Bushido non può vederli né sentirli. E se conosco un po' Bill, non vorrà andarsene di qui se Bushido non ci sarà più. Anzi, si aggrapperà ancora di più a tutto quello che gli ricorda il suo uomo e non ci sarà verso di schiodarlo. E Dio solo sa come gli ridurrebbero la vita una merda se si arrogasse il diritto di far parte del giro anche senza avere più il letto di Bushido da scaldare.
Per quanto io possa ancora fare fatica ad accettare l'idea di un duello e di un morto, non mi è difficile capire che Bill avrebbe bisogno di protezione. Questo non c'entra niente con il ghetto e con le bande, c'entra con le persone. Se sei circondato da gente che ti odia, vorresti sempre qualcuno che sia dalla tua parte. Questo lo capisco anche io. E Bill ne avrebbe bisogno, se Bushido morisse. Ce l'avrà qualcuno che lo protegge, perché la possibilità di rifiutare non l'ho nemmeno presa in considerazione e me ne rendo conto all'improvviso, come una rivelazione divina.
Negli ultimi tempi io e quel ragazzino abbiamo passato un sacco di tempo insieme perché Bushido mi manda a prenderlo e riportarlo, e Bill mi parla un sacco - mi sfianca a furia di chiacchere, non sta mai zitto. E io un po' mi sono affezionato a quella pertica che urla e strepita davanti ai negozi di scarpe. Non voglio che stia male e non voglio neanche che qualcuno si azzardi a pensare di poterglielo fare solo perché Bushido non è più lì.
Ci sarò io con lui. "Conta su di me, Atze," gli dico.
"L'ho già fatto," e sorride.

Quattro giorni dopo, Bushido è morto e io stringo tra le braccia un Bill scosso dai singhiozzi che non si riprenderà se non quasi quattro mesi dopo, quando ogni cosa è ormai precipitata e io ho imboccato un casino dietro l'altro senza fermarmi in tempo.
Di quella sera in birreria mi resta ogni dettaglio, come se ce lo avessi marchiato addosso nella testa, perché di fronte a quei bicchieri di birra io a Bushido ho fatto una promessa importante e nel bene o nel male, quella promessa l'ho mantenuta.
Lui lo sa.

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Schmetterlingseffekt

di lisachan
C’è il sole, oggi. È una bella giornata, bella davvero, di quelle che poi da queste parti sono rare, perché il cielo di Berlino è quasi sempre una macchia grigia uniforme che ti dà l’impressione di essere un blocco di cemento. Ti sembra pesante allo stesso modo, almeno, ti sembra che a lasciartela cadere sulla testa ti schiaccerebbe a morte.
Dentro l’Audi nera d’ordinanza che mi è stata esplicitamente richiesta per mantenere il più possibile l’anonimato, io guardo il cielo di oggi – che non è grigio, ma di un bel celeste arioso e fresco – e penso che sto andando a tirarlo giù. Lo sto facendo consapevolmente e colpevolmente. Ed anche se, col cemento, quest’azzurro non c’entra niente, penso che, quando ci cadrà in testa, sarà pesante comunque.
Mi chiedo se Bill sia diventato forte abbastanza da reggere il colpo. Mi chiedo se sia maturato abbastanza, se le sue spalle si siano inspessite, se le sue gambe siano diventate più robuste, le sue braccia più salde. Me lo chiedo e lo rivedo come l’ho visto due giorni fa, prima che Chakuza lo caricasse in macchina per portarlo a Disneyland. Lo vedo piccolo e sottile e stupidamente felice come ha reimparato ad essere solo di recente. E realizzo che potrebbero passare anche anni, ma un colpo simile Bill non riuscirebbe a sostenerlo proprio mai.
*
Osservare le cose dall’esterno, in questi ultimi mesi, è stato come osservare delle piante ricrescere in giardino dopo l’inverno. Tra l’altro, il paragone è più che appropriato – suppongo che le metafore azzeccate siano ciò che mi resta in eredità dei Bed&Breakfast e degli aiuti a Bill quando ancora si rivolgeva a me se doveva scrivere una canzone – perché intorno a dicembre io mi sono guardato intorno e, proprio come un giardiniere, ho portato con desolazione le mani ai capelli e mi sono detto che, come niente, avrei perso tutto il roseto.
I problemi sono cominciati la notte – o meglio, l’alba – in cui Tom, strillando come una scimmia isterica, mi ha chiamato al telefono, implorandomi di andare subito a casa sua, perché Bill “palesemente s’era rincoglionito e lui aveva bisogno di una mano per tirarlo fuori dal pantano di merda in cui era caduto”.
Tom tende ad iperreagire, quando si tratta di suo fratello, questo c’è da dirlo. Basta toccarglielo e lui impazzisce. Gli ho visto fare delle cose assurde – investire la discografia di Bushido non è stata neanche la più allucinante; per dire, sono stato io ad applicare cerotti su cerotti su quella sua allucinante faccia da schiaffi, quando è tornato una notte alle quattro abbaiando che “quelli non erano rapper ma animali”. Alla mia domanda legittima – “Cosa hai fatto per meritare le botte, Tom?” – lui ha risposto altrettanto legittimamente – “Ho dato a Bushido del pedofilo” – e, a quel punto, sono stato io ad abbaiare “tu non sei un chitarrista, sei un microcefalo”. Questo per dire che, quando entra in conto Bill, Tom smette di ragionare e segue il flusso dell’amore indiscusso che prova per lui. Solo che è un cretino, quindi come si muove sbaglia.
In ogni caso, questa tendenza all’esagerazione di Tom mi ha portato a prendere sottogamba la questione. Voglio dire, io dormivo, quando lui ha chiamato. Per cominciare a ragionare con un minimo di senso, a me serve del caffè. E non ho mai del caffè in casa prima delle sette, perché per preparare del caffè devo prima alzarmi dal letto, naturalmente, e ciò non avviene quasi mai prima di quell’orario, a meno di casi straordinari. Quindi, in poche parole, ho cercato di calmarlo e rimandarlo a nanna – sperando che ci fosse stato, a nanna, almeno per qualche ora.
Il problema – enorme – di Tom è che, quando sragiona, si fissa. Non ne esce più. Ha odiato Bushido per anni, cominciando vagamente ad accettare l’idea della sua presenza – e più con rassegnazione che con piacere – solo qualche mese prima che morisse, per dire. E tutt’ora prova dell’antipatia palese per Chakuza, nonostante non sappia cosa c’è in realtà fra lui e suo fratello, perché a suo dire è troppo presente nella vita di Bill. E, ripeto, Tom non ha idea dei modi e delle misure in cui Chakuza è presente nella vita di Bill. Non sa che la vita di Bill è ancora una vita e non un insieme di vuoti solo perché Chakuza li riempie tutti. Non sa che c’è lui dietro ad ogni sorriso, ad ogni occhiata dolce, ad ogni gesto tenero di suo fratello. Non sa che Bill ha ricominciato a respirare davvero solo perché ora può farlo anche dalle sue labbra. E, pur non sapendo tutte queste cose, lo malsopporta.
Tom si è fissato anche quella notte. Mattina. Insomma. Non c’è stato verso di scollarlo dal telefono, perciò alla fine mi sono rassegnato, mi sono vestito, ho mandato giù del latte di soia nella speranza che risvegliare il mio apparato digerente servisse anche a risvegliare il resto del mio corpo e mi sono messo in macchina, alla volta dell’appartamento del mio angosciato chitarrista.
All’arrivo, Tom mi ha accolto con aria tesa. In genere, quando sclera, Tom è molto buffo, perché si agita tanto, strilla e strepita. Se ritiene tu non stia capendo abbastanza profondamente il motivo del suo sgomento, ti scuote per le spalle. Come se servisse a qualcosa. Quella mattina, invece, me lo sono ritrovato che mi fissava serio, le sopracciglia aggrottate, tutto intento a torturare coi denti il labbro inferiore, fino a screpolarlo.
“Sono sconvolto,” mi ha detto, mentre mi invitava ad entrare ed a chiudermi la porta alle spalle.
“Sì, lo vedo,” ho risposto io, appendendo la giacca all’attaccapanni e sbirciando lungo il corridoio verso l’unica luce che vedessi, e che proveniva dal salotto, “Qual è il problema?”
Tom ha esitato, prima di rispondere. Ha deviato un po’ lo sguardo verso un punto vuoto oltre le mie spalle, e poi è tornato a guardarmi fisso ed ha schiuso le labbra.
“Che Bill non lo è. Non è sconvolto. È questo, il problema.”
In realtà, questo era parte del problema. Io sono abituato a guardarli tutti in faccia e nel complesso, i drammi. Il mio mestiere è sbrogliarli. Risolverli. Fare in modo che tutto si concluda bene. E sono bravo a farlo – è questa la ragione per cui mi trovo oggi in questa posizione del cazzo. Tom no, Tom del problema vede solo quello che gli interessa. Come quando suo fratello è stato male e ciò ci ha costretti a cancellare un tour; per Tom, l’unica cosa importante era il dolore di Bill, non il dramma economico e pubblicitario che da quelle cancellazioni sarebbe derivato. In quel caso, fu la stessa cosa.
Suo fratello aveva ucciso Saad. Saad era l’uomo che aveva ucciso Bushido. Fler e Chakuza gli erano rimasti accanto per tutto il tempo e non avevano mosso un dito che fosse uno per fermarlo. Questo era il problema nella sua completezza. Ovviamente, però, a Tom interessava solo che suo fratello non fosse turbato quanto sarebbe stato giusto dall’aver premuto il grilletto e spedito un proiettile nel mezzo della fronte di un altro essere umano.
L’apatia di Bill – se poi di apatia si poteva parlare; io, per dire, l’avrei descritta più come serena accettazione – non era dunque tutto il problema. Ne era però una consistente parte, e questo era abbastanza chiaro. Io, Bill, lo trovai seduto sul divano che guardava fisso davanti a sé senza particolare interesse, come stesse guardando scorrere l’acqua di un fiume. Pure un po’ annoiato, per la verità.
Quando mi raccontò cos’era successo – ripetendo le stesse parole che aveva già detto al fratello, immagino, perché sembravano rodate. Di quei discorsi che vengono fuori dopo che te li sei ripassati mentalmente almeno una ventina di volte – lo fece con incredibile calma. Con enorme compostezza. Le mani rigide strette in grembo, le ginocchia che si sfioravano, il petto scosso appena dai respiri. Sul volto, un sorriso rassicurante e serafico che mi diede i brividi. Me li dà ancora, a ripensarci.
Bill non ha omesso niente, nel racconto. Tant’è che quando, per scrupolo, sono andato da Fler a chiedergli la sua versione dei fatti – anche per capire cosa ne avessero fatto del corpo. Ed è incredibile con quanta freddezza si possa arrivare a pensare, quando hai già visto un altro uomo morire – non l’ho trovata differente nemmeno in un punto.
Bill non ha cominciato ad avere un problema quel giorno. Bill ha cominciato ad avere un problema quando il suo problema principale è svanito.
Durante i mesi precedenti all’assassinio di Saad, Bill aveva vissuto con l’unico obiettivo di mettere il punto a quella storia. Voleva essere lui a farlo perché lo sentiva come un suo diritto. Anzi: perché Bushido gli aveva dato quel diritto. L’aveva fatto portandoselo a letto, dicendogli di amarlo, rendendolo una parte tutt’altro che ininfluente della propria esistenza. Facendolo suo, in pratica. Bill, quel diritto, l’aveva per concessione regale, per dirla con parole che a Bushido farebbero anche un gran piacere. Non credo che Bill pensasse di farlo fuori fin dall’inizio, eh. Penso però che volesse essere lui a trovare il modo in cui concludere la storia. E penso che, quando ha guardato Saad negli occhi – forse anche prima, forse anche solo pensando a come si sarebbe sentito guardando Saad negli occhi – abbia deciso che quello andasse bene. Che un proiettile fosse sufficiente.
Risolta la questione, Bill ha cominciato ad appassire. È una cosa piuttosto normale, credo: il fiore ha un fine. Il fine del fiore è il frutto. Il fiore muore, appena il frutto nasce.
Cosa sia successo fra Bill e Chakuza, io non lo saprò mai con certezza. Bill non ne parla volentieri. Neanche con me, pure se ha dovuto per forza informarmi almeno in parte di ciò che stava succedendo, visto che – come sempre – a me è toccato coprirlo. Con suo fratello, con la stampa, col mondo, sostanzialmente. Mi è sembrato di ripetere l’esperienza Bushido, per certi versi. Quasi avrei voluto dire a Bill “l’hai visto, com’è andata la prima volta. Allora?”.
Bill non parla di Chakuza perché Bill ha un modo molto intenso di vivere le storie d’amore, quando iniziano. Visto che è una testa dura e si caccia sempre in situazioni complicate, è naturale che poi abbia paura di distruggere tutto e vedere il frutto della propria fatica spargersi sul tavolo come un castello di carte abbattuto da un soffio. “Meno ne parlo”, pensa, “più facile sarà che resti tutto in piedi”. Quindi, anche se io so dove va a dormire, e con chi esce, e con chi scappa a Disneyland, e di chi sono i segni rossi che ha sul collo quando arriva agli studi brillando di luce propria, non saprò mai nel dettaglio com’è che i fatti si sono svolti. Come si siano mossi. Quando abbiano cominciato.
Per certi versi, è molto meglio così. Perché sono bravo a coprire le cose, ma ci sono persone alle quali non riesco a nascondere quasi niente.
Purtroppo, da un annetto a questa parte, lavoro alle dirette dipendenze di una di queste.
*
Fatto sta: Bill e Chakuza stanno insieme, e per quanto io abbia svariati milioni di motivi per pensare questo sia l’errore del secolo, per quanto io continui intimamente a credere che probabilmente avrei dovuto recuperare Bill per i capelli e riportarlo dalla parte giusta della Germania quando Bushido è morto, devo purtroppo ammettere che Bill non sarebbe qui – bello, in salute, possibilmente neanche vivo – se non ci fosse stato Chakuza. La tensione che ha tenuto Bill insieme quando Chakuza non c’era era la furia con la quale lui cercava di sfuggire a ciò che stava provando nei suoi confronti. Quando quella tensione si è sciolta – quando Bill ha smesso di fuggire – si sarebbe certamente disfatto, se a quel punto non ci fosse stata una forza di tutt’altro tipo a tenerlo insieme. La forza di tutt’altro tipo, nel caso di specie, è quella delle braccia di Chakuza. Delle sue spalle, della sua strana, complicata maturità e di quello che prova per Bill.
Chakuza, Dio mio, lo adora. Anche Bushido lo adorava, ma c’è qualcosa di fondamentalmente diverso, nei loro sguardi, che è evidente se solo li si sa guardare. Bushido guardava Bill come fosse una cosa propria, quasi un pezzo di corpo. I suoi occhi riflettevano un senso di appartenenza che rendeva Bill orgoglioso.
Chakuza, invece, lo guarda come se fosse un regalo. Qualcosa di totalmente inaspettato, che è nuovo ogni volta che cambia la luce, il giorno, l’angolazione o la prospettiva. Qualcosa di diverso che non riesce ancora a capire perfettamente e che, anche per questo, lo avvince. I suoi occhi riflettono un senso di gratitudine che rende Bill orgoglioso. Ancora. Credo che Bill abbia pensato che non avrebbe mai più provato niente del genere. Ed invece è capitato di nuovo. È per questo che Bill guarda Chakuza con la stessa gratitudine con la quale viene osservato.
Per certi versi, ciò che lega loro due è molto più maturo di ciò che un tempo ha legato Bill a Bushido.
Questa sarebbe una cosa bellissima. Se solo io oggi non fossi in questa dannata Audi nera di merda. Direzione aeroporto.
*
Bushido era un uomo molto organizzato. Il fatto che, generalmente, si comportasse come un cretino – divertendosi a tirare scemo chiunque, per esempio – mi ha spesso fatto perdere di vista la verità fondamentale per la quale, per fare il suo mestiere e gestirsi adeguatamente, uno debba per forza esserlo.
Il mestiere di Bushido… è complicato definirlo. Bushido era un cantante. Fin qui, tutto chiaro. Bushido era anche un personaggio pubblico, e questo faceva mestiere a sé indipendentemente anche dal canto. Era famoso perché cantava, ma non era rimasto famoso solo perché aveva cantato. Mantenere un’immagine pubblica che ti tenga di continuo sulla cresta dell’onda non dipende solo da quanti biglietti riesci a vendere in occasione di un concerto, o da quanti dischi d’oro riesci a piazzare appesi alle pareti dei tuoi studi. Serve altro, servono le sbruffonate, l’iperpresenza sugli schermi – di qualsiasi tipo – serve del fascino e serve saperlo usare. Bushido, in tutto questo, è sempre stato bravissimo. Suppongo fosse così perché s’è sempre gestito da solo, fin da piccolo. Errori su errori, a un certo punto impari.
In aggiunta a tutto questo, l’altro mestiere di Bushido – un lavoro a tempo pieno – era quello di non perdere contatto con le proprie origini. Quando vivi in un bel quartiere residenziale, circondato da alberi rigogliosi, con una piccola piscina sul retro, Spongebob in televisione e World Of Warcraft sempre acceso sul pc, ci può anche stare che ogni tanto ti dimentichi di essere venuto da un ghetto, dallo spaccio e da tutto il resto.
Bushido non era un criminale.
Non più, almeno.
Ma c’era un pezzo di lui che era rimasto a Tempelhof. Era un pezzo di lui che aveva il suo valore. E che in caso di bisogno doveva farsi valere.
Quindi no, Bushido non era un criminale. Ma aveva ancora un nome che sapeva farsi rispettare, se qualcuno aveva bisogno di un favore.
Ed anche questi sono mestieri, suppongo.
È evidente, comunque, che quando devi gestire tre situazioni così diverse fra loro – devi cantare e devi essere un pagliaccio e devi anche ricevere all’Ersguterjunge gente che ti parla dei suoi problemi in stile Padrino, ecco cosa intendo – devi anche saperti organizzare. Devi essere uno che guarda piuttosto avanti nel futuro, uno che capisce come andranno le cose prima ancora che quelle comincino a muoversi in una determinata direzione. Perché non puoi permetterti di essere impreparato di fronte ai casi della vita, no, devi prevederli sempre e devi prevederli tutti.
Nella maggior parte dei casi, non puoi nemmeno farcela da solo. Anche se Bushido, ammetto, si destreggiava più che bene anche prima che arrivassi io.
Io non ho capito cosa Bushido intendesse esattamente quando mi ha chiesto se ero bravo a sistemare le cose, almeno fino a che non ho avuto qualcosa da sistemare per lui. E questo è successo tre giorni prima che morisse.
Tre giorni prima che morisse – prima ancora di andare da chiunque altro, sospetto – Bushido è venuto da me. Mi ha detto chi era, mi ha tenuto fermo in una kebaberia per circa tre ore solo per descrivermi da dove veniva, cosa c’era nella sua testa e, soprattutto, cosa stava preparandosi ad affrontare.
Dopodiché, senza nemmeno chiedermi se per caso mi andasse di farmi assumere da lui, ha cominciato a darmi direttive.
Non è che abbia dato per scontato il mio assenso, eh. Questo ci tengo a precisarlo, perché Bushido non ha mai dato per scontato nulla. Anzi, è probabilmente l’uomo che si aspetta di meno in assoluto, dalla vita. Direi quasi che non si aspetta proprio un bel niente. E tutto il suo modo di pensare, di agire e di risolvere le cose, si esprime così. Proprio perché non si aspetta nulla di gratuito, lui le cose se le prende. Il mio assenso – la mia complicità… quello che ora si esprime in me che viaggio verso l’aeroporto – lui non l’ha dato per scontato. Se l’è preso. Punto.
Insomma, gli ordini erano molto semplici: “nel caso dovessi morire – nel caso, Jost, non fare quella faccia, lo so che ti mancherei più di quanto potresti sopportare, ma cerca di essere uomo e forte” “Bushido, fottiti” “Oh! Come sei sboccato” una risata delle sue, “Nel caso dovessi morire, Jost, a Bill sto già pensando da adesso. Chakuza, uno dei miei, non è ancora nel giro come gli altri. Non che sia un pivello, è solo che la sua testa fa più resistenza. Sarà che è austriaco. Sarà che è un cuoco. Sarà che stava in fattoria coi genitori, tipo. Sarà che era biondo ossigenato, quando l’ho conosciuto” e giù altre risate, “Comunque a Bill penserà lui. Lo terrà su di morale. Ma non posso contare sul suo lavoro per tenerlo anche lontano dai guai con la stampa. Quello posso tranquillamente affidarlo a te – posso, vero? – tu le sai sistemare, queste cose”.
Al di là del suo essere come al solito un intollerabile buffone, si capiva lontano un miglio stesse parlando con estrema serietà. Questo per il semplice fatto che Bushido era un uomo molto orgoglioso. Non arrivava a chiedere niente, se non sapeva di averne effettivo bisogno. È uno dei motivi per cui, quando Bushido chiedeva, la gente non si tirava mai indietro. Perché ci si rendeva tutti immediatamente conto del fatto che c’era evidente necessità.
Quando, tre giorni dopo, Tom mi chiamò per dirmi che lo stronzo era morto, che Bill piangeva avvinghiato al suo dannato cadavere fino a pochi minuti prima e che adesso il corpo era in viaggio verso l’ospedale – “…l’ospedale, Tom?” “…sì. Era ancora… respirava. Poco. Ma respirava. A Bill non l’ho detto.” – io sono andato lì solo perché dovevo preparare l’ospedale all’arrivo del mio protetto. Era ciò che mi aveva chiesto Bushido, in fondo, no? E conoscevo Bill abbastanza da sapere che, una volta realizzato che il corpo del suo uomo non era più lì, non gli stava piangendo addosso e non lo stava sentendo sotto le mani, la prima cosa che avrebbe chiesto – e l’avrebbe anche ottenuta, perché Tom, alla fine, non riesce a negargli mai niente – sarebbe stato farsi portare dovunque fosse lui.
Dovevo disporre la sicurezza. Dovevo parlare coi medici. Dovevo parlare con le infermiere.
Di certo non mi aspettavo che, appena messo piede nell’edificio, un medico mi raggiungesse e, con aria piuttosto seria, mi rivelasse candidamente che “avevano avuto esplicita richiesta di conferire solo con me”.
A ripensarci, rivedo la scena con una perfezione tale che non sembrano passati nemmeno due giorni. E invece è quasi un anno. Il medico che mi si avvicina – “Il signor Jost?” – io che esito – “Sono qui perché-…” – lui che mi interrompe – “Abbiamo ricevuto esplicita richiesta di conferire solo con lei” – io che lo fisso disorientato – e penso: è arrivato fino a questo punto, quell’essere assurdo? È venuto a parlare perfino coi medici, in previsione della propria morte? – e lui che mi poggia una mano sulla spalla e mi conduce di là. E Bushido sul lettino.
Mentre i miei ricordi indugiano sul suo volto pallido e provato – Bushido aveva la capacità di diventare, tipo, bianco, quando stava male. Non un bianco da carnagione chiara, un bianco spaventoso, cadaverico. Appropriato, direi, vista la situazione in cui si trovava in quel momento – le porte a vetri smerigliate e scorrevoli della sala arrivi dell’aeroporto si spalancano, ed io osservo il flusso di turisti americani che sfilano allegramente fra i nastri trasportatori per recuperare i bagagli e godersi un po’ di sane vacanze europee; osservo anche i tedeschi che tornano dalle spiagge d’oltreoceano, arrossati dal sole e con certi sorrisi da pubblicità – non tanto per la perfezione, quanto per la felicità che mostrano – che ti riempiono il cuore; e fra una persona e l’altra, un po’ mescolato fra la folla, i capelli lunghi che sfiorano il collo, gli occhiali da sole a coprire quasi metà del viso ed il pizzetto curato a rendere anonima e irriconoscibile l’altra metà, osservo anche lui.
Si guarda intorno. Sta cercando me. Le linee nere e definite del tatuaggio sul collo spuntano appena, giocando a nascondino col colletto della camicia bianca che spunta dallo scollo a v del maglioncino di cotone blu che indossa. È, forse, un po’ troppo leggero per il periodo in cui siamo. È roba primaverile, mentre qui le porte dell’autunno si schiudono lasciando passare i primi spifferi di freddo. Immagino che i lunghi mesi di soggiorno a Miami abbiano un po’ sfasato il suo termostato naturale. Ed era già sfasato di suo, eh, capacissimo di andare in giro in maniche corte in pieno inverno. L’ho visto coi miei occhi.
Quando finalmente mi trova, sorride. Ed anche se al momento vorrei alternativamente prenderlo a cazzotti, rispedirlo negli Stati Uniti con un calcio o terminare il lavoro che Saad non è stato evidentemente capace di concludere, sorrido anch’io. Perché mi tira fuori uno di quei sorrisi brevettati ai quali non puoi sfuggire. Sono cose solo sue.
Peraltro…
- Ma lo fai apposta a mettere sempre questi maglioncini qua, quando devi incontrarmi?
Bushido ride ad alta voce e posa l’enorme trolley rosso che si trascina alle spalle.
- Ti sono mancato, Jost? – chiede con aria fascinosa, piantando una mano sul fianco.
Io inarco un sopracciglio.
- Meno ti vedo, più felice sono. Questo mi sembrava fosse chiaro.
Lui finge disperazione ed inarca le sopracciglia verso il basso, sfilando gli occhiali da sole per potermi somministrare più disinvoltamente quella specie di occhiata da cucciolo bastonato che non so come riesca a tirare fuori all’occorrenza, dall’alto del suo abbondante metro e novanta.
- Ma mi hai fatto tornare tu! – si lamenta con aria affranta.
Io sospiro.
- Sì. – ammetto, - Ti ho chiamato io. – “e me ne sto già pentendo”, vorrei aggiungere. Ma lui ha ricominciato a sorridere. E insomma. – L’ho fatto per un motivo serio, comunque, e lo sai perfettamente. E invece, come al solito, stai facendo il deficiente.
- Sdrammatizzo, Jost. – mi corregge, riprendendo a muoversi disinvoltamente verso l’uscita. Ricorda ancora tutto perfettamente, un po’ mi fa pensare che sia venuto altre volte, nel corso dell’ultimo anno. Altrimenti non si spiega la sicurezza con la quale si riappropria degli ambienti. Poi però ricordo che lui è Bushido, che le cose non le vive, le possiede, perciò non mi pare più nemmeno tanto strano che ricordi ancora perfettamente Berlino-Schönefeld.
Io sospiro ancora e gli vado dietro. Non ho nemmeno bisogno di guidarlo verso la macchina, ricorda anche lei. Pure se l’ultima volta che l’ha vista è stata quando l’ho accompagnato proprio a questo aeroporto, un anno fa. L’altra volta era in partenza, però. Stavolta è di ritorno. E non so ancora per quanto.
- Allora. – comincia tranquillamente, aspettando che abbia aperto il portabagagli per posare al suo interno la valigia, - Cos’è cambiato, mentre ero via? A parte il fatto che la gente non ascolta più buona musica perché il Chaky mi chiude l’azienda, ovviamente. – aggiunge con una risata naturale.
È cambiato, tanto per cominciare, che il Chaky non ti vuole solo chiudere l’azienda, ma si diverte anche a chiudere il tuo ex ragazzo nel proprio appartamento. Con la di lui complicità e per la sua gioia, peraltro. Gioia che condividono solo loro due, inoltre, perché in quei periodi Tom sclera – e sto finendo le scuse plausibili al riguardo, lo ammetto. Credo di aver raschiato il fondo con “è in beauty farm”, la settimana scorsa – ed io non me la passo mai in maniera piacevole, quando Tom sclera. C’è di nuovo anche che, ricordi l’altra tua ex? Cassandra? Ecco, quando Tom non è impegnato a sclerare perché non capisce con chi sta uscendo suo fratello, si vede con lei. E non credo giochino a scacchi, quando lo fanno. C’è poi quell’altro tuo ex ragazzo, quello che non è mai diventato tale, Patrick, lo ricordi lui? Ecco, lui me lo sto perdendo. Non credo di aver mai visto Fler triste com’è in questo periodo. Ed è un anno che ci gira intorno, sai? Non è bello quando vedi uno che sta decorosamente bene ridursi così. Ed i motivi, peraltro, sfuggono a tutti meno che a me, perché grazie a te – o per colpa tua – ho imparato ad osservare.
Sono cambiate un mucchio di cose, Bushido. Del tipo che prima si stava bene. E adesso è un casino. Ma come si fa a dirtelo?
- Be’, fa più freddo. – annuisco con aria competente, - Sicuro di aver portato abbastanza roba pesante?
Lui scrolla le spalle ed entra disinvoltamente in macchina.
- Non ho lasciato niente lì. – risponde sovrappensiero, quando mi osserva sedermi al posto del guidatore. Lo guardo con sincero sgomento. – Intendo… tranne i soprammobili, ovviamente. E qualche vestito che-
- Bushido… - lo recupero dal vortice di pensieri assolutamente inopportuni in cui si sta allegramente gettando, - ne abbiamo già discusso, di questa cosa, e-
- Tranquillo, Jost. – mi interrompe con uno sbuffo infastidito, - Non ho intenzione di restare più del necessario.
Al che, giustamente, mi viene da rispondere “No, noi avevamo concordato che non saresti rimasto più di un mesetto, giusto il tempo di risolvere la questione. Com’è che adesso un mesetto è diventato il necessario? E perché il necessario mi fa paura, come periodo di tempo?”. Però non lo faccio.
- Sarà. – borbotto scontento, mettendo in moto. – Comunque sia-
- Non mi farò vedere da anima viva. – mi interrompe ancora, - Briegmann a parte, naturalmente, altrimenti come faccio a riprendermi l’EGJ?
- Sì… quello lo do per scontato, Bushido. Comunque sia, stavo dicendo, - sbuffo e guardo fuori dal finestrino. Non mi fa bene sentirmi in imbarazzo, al momento. Non mi fa bene sentirmi in imbarazzo perché ricordo fin troppo bene che nove mesi fa le dita che adesso pestano sulla tastiera del cellulare, scrivendo messaggi diretti non so e non voglio sapere a chi, sfioravano la mia pelle. Non mi fa bene. Non mi fa bene per niente. Sono evidentemente un cretino. - …bentornato, ecco.
Bushido ride, non solleva gli occhi dal cellulare e mi molla un paio di pacche sulla spalla.
- Anche io sono contento di rivederti, Jost. Mi sei mancato anche tu.
E se da un lato penso che, grazie a questa sfacciata naturalezza, per certi versi avere a che fare con lui è incredibilmente facile, dall’altro lato penso che lo odio. La mia giornata di oggi è un continuo realizzare che, da questa situazione, non riusciremo mai ad uscire vivi.
*
Ho appena lasciato Bushido in uno dei numerosi appartamenti che ha continuato a tenere qua a Berlino nonostante, quando è andato via, non si pensasse minimamente all’eventualità che potesse tornare. In realtà, il fatto che ci fossero ancora tutti questi appartamenti a suo nome, qui nei dintorni, avrebbe dovuto darmi da pensare in tal senso. Voglio dire, non tieni la zavorra inutile di dieci dannati posti vuoti, se non pensi che prima o poi tornerai a utilizzarli. Soprattutto, non li tieni quando sai che la tua etichetta è destinata a chiudere e sai anche perfettamente che, vendendo quelli, potresti tranquillamente sopravvivere di rendita per tutto il resto della tua esistenza. Quindi sì, in effetti avrei dovuto pensarci. O avrei dovuto costringerlo – convincerlo, Bushido non lo costringi mai – a venderli.
Gli ho promesso il kebab per cena. Quell’uomo, alle volte, è un bambino. Nel senso che se gli prende un capriccio, vallo a smuovere, poi. Non si può. Avrei potuto fargli la spesa e preparargli un buon piatto di pasta – dice di aver imparato a cucinare, mentre stava a Miami, ma che vuoi che si impari a cucinare in America? Gli hot dog? – ma lui no, lui vuole il suo intruglio malefico e disgustosamente piccante che peraltro io non posso mangiare in quanto riempito fino a esplodere di carne varia ed eventuale, ovviamente. Niente pasta, il kebab, per lui. È stato palesemente troppo lontano da casa.
Perciò, è cercando una kebaberia che chiamo Bill al cellulare. Giusto per capire se sta bene e se si diverte. O forse solo perché mi sento in colpa.
- David! – strilla lui, la voce che sprizza gioia ad ogni nota, come nei migliori casi di esaltazione zucchero-indotta. Chakuza deve averlo ingozzato di dolcetti.
Sorrido intenerito, anche se, da qualche parte dentro di me, sto strillando “santo cielo” in tutte le lingue che conosco. E non sono così poche.
- Bill, ciao. – lo saluto, individuando finalmente una kebaberia ed introducendomi all’interno dell’ambiente caldo e saturo dell’odore forte delle cipolle, delle olive, delle salse piccanti e della carne che ruota sullo spiedo. – Dove sei?
- Disneyland! – riprende a strillare. E lo immagino sollevare un braccio in segno di gioia. Come il bambino che sta ricominciando ad essere da quando può. – Puoi crederci? Siamo appena usciti… entrati… cioè, siamo usciti dal parco ed entrati in albergo! – e sottolinea l’imbarazzante confusione da allegria con una risatina sottile e divertita.
- Aha, capisco… - mugugno, indicando al ragazzo dietro al bancone di preparare due panini con… be’, tutto quello che vuole metterci, è indifferente. – Sei con… - ed esito, perché ho paura a parlarne con Bushido che mi aspetta in quell’appartamento buio e silenzioso a qualche strada da qui.
Bill, comunque, non mi lascia rispondere. È ansioso di dirlo lui, quel nome.
- Sìsì! – miagola entusiasta, - Sono con Peter, stiamo decidendo se andare fuori a cena! E oggi mi ha comprato un mucchio di caramelle, non è carino?
- …già. – annuisco a fatica, - Molto. Senti… pensate di rientrare in settimana? O comunque a breve?
- Assolutamente no! – ride ancora lui, - Avanti, David, è il nostro mesiversario, te l’ho detto tre giorni fa! Non starai mica per dirmi che c’è del lavoro da fare…
Per un secondo, accarezzo l’opportunità di smontargli i piani. Non perché non voglia che sia felice, tutt’altro, dubito che esista un’altra persona al mondo – a parte Tom – che voglia Bill felice più di quanto lo voglia io. Solo che mi viene da pensare che fra poco ricorrerà il compleanno di Bushido. Sarebbero trentun anni, se non fosse morto. Che poi non è morto davvero, d’accordo, ma certe volte – in maniera del tutto irrazionale – mi viene da pensare che Bill questo lutto non l’abbia vissuto per niente bene. Che si sia distratto troppo.
Non lo so, in realtà non mi pare che il lutto di Bushido sia stato davvero vissuto per bene da qualcuno. Forse solo da sua madre. La cosa è un po’ ironica e un po’ – tanto – triste. Vorrei solo che Bill non fosse con Chakuza, adesso. E lo penso mentre il ragazzo dietro al bancone mi consegna i due panini incartati e insacchettati.
- No, no. – lo rassicuro con una mezza risata, porgendo al ragazzo una banconota da dieci, e attendendo il resto, - È tutto a posto. Volevo solo esserne sicuro. Per stasera non ci sentiamo più, giusto?
- No, infatti. – annuisce lui, più tranquillo, - Pensavamo di fare tardi. – aggiunge poi, con una mezza risatina.
Sospiro profondamente, intascando le monetine e tornando in strada.
- D’accordo, Bill. Avete il mio benestare, anche se volete andare fuori a cena. Però, ti prego, non costringermi a correre dietro i paparazzi sventolando assegni nella speranza di salvaguardare la tua carriera e la tua immagine pubblica, d’accordo? – anche perché, vorrei aggiungere, pure se non lo faccio, dato che il giorno si avvicina, ovunque si stanno organizzando trasmissioni celebrative, concerti all’onore e bla bla bla. Tutta roba che quando la racconto a Bushido lo fa ridere di gusto. “Non sono mai stato amato tanto,” si lamenta giocosamente, “quando ero vivo”. Mi sa che ha ragione.
Bill non coglie il sottinteso del mio discorso. Meglio così, in fondo.
- Sì, sì, lo so. – si lagna sbuffando, - Niente baci, niente carezze, niente di niente in pubblico.
- Bravo. – mi complimento subito. – E… per quando tornerete a Berlino… - mi faccio forza perché devo dirlo. Devo dirlo per forza, perché non posso rischiare niente e se Bushido è in città io non posso mettere Bill nelle condizioni di farsi beccare da lui con Chakuza. Anche per un caso fortuito. Anche se quell’idiota decidesse davvero di non uscire ma si limitasse a guardare fuori dalla finestra e casualmente li vedesse. - …ho saputo da fonti fidate che Bravo è in cerca della paparazzata del secolo. Mi sa che non siete stati granché discreti ultimamente. – non è vero, sto inventando. Bill, però, non può saperlo. – Magari è meglio che tu e Chakuza vi vediate un po’ di meno, per le prossime settimane. D’accordo?
Il suo silenzio mi raggiunge come una stilettata in mezzo ai polmoni. Sento voci di persone, risate di bambini ed altri miriadi di rumori, tutti attorno a lui, ma lui resta in silenzio.
- …ma non ci siamo visti per niente, la scorsa settimana… - mugola scontento, - E presto dovremo rimetterci al lavoro…!
Ha ragione, insomma. Ha ragione.
- Bill, non mi deludere adesso. – ringhio, e sono irritato perché ho torto. – Un po’ di professionalità, Cristo.
Dall’altro lato della cornetta, lui esita, incerto.
- Non… - balbetta insicuro. Poi sospira. - …mi dispiace. È che ci vediamo così poco che… mi dispiace. Faremo come vuoi tu, David.
Il mio sospiro fa eco al suo. È ugualmente profondo e ugualmente affranto, almeno.
- Lo so, Bill. Lo so che è difficile. – e sono triste per Bushido, ma è Bill il mio bambino, in fondo. – Facciamo che alla prima pausa disponibile vi do due settimane solo per voi. – suggerisco con un mezzo sorriso che spero lui senta fra le vibrazioni delle mie parole.
- …due settimane? – chiede Bill, incredulo, - Intere?
- Sì. – confermo io senza un’esitazione. E non m’importa, in questo momento, se ciò significa che dovrò rispedire Bushido a Miami quanto prima, anche a costo di fare carte false. – Due settimane piene, senza nemmeno un impegno. Dì a Chakuza di organizzarsi. – concludo con una risatina.
L’urlo di gioia di Bill si fa attendere solo un secondo. Poi arriva, come previsto, spaccandomi i timpani e, in buona misura, anche il cuore. Io, davvero, non so che pesci prendere. Dovunque guardo vedo profilarsi disastri a lungo termine. Di quelli che rovinano la vita a lungo.
Io non ci credo che Bushido potrà passare per il suolo tedesco per poi tornarsene negli Stati Uniti senza colpo ferire. Io non ci credo, per il semplice fatto che quell’uomo non… non passa mai senza lasciare traccia. Non è neanche colpa sua. Non gli riesce e basta.
Allontano la cornetta dall’orecchio e parto con le lamentele di routine. Del tipo “Sono troppo buono, palesemente ti vizio, sei venuto su diva perché ti ho lasciato fare tutto quello che volevi” e così via. Bill mi ferma come al solito, ringraziandomi con quel tono dolce che non ammette repliche per il semplice fatto che, quando lo usa, ti sta parlando col cuore in mano.
- Saremo buoni buonissimi, David. Promesso. – cinguetta al settimo cielo.
Sorrido, inspiegabilmente soddisfatto di me stesso.
- Bravo. Ora vai, su. E divertiti.
Lui ridacchia appena.
- Lo farò. Grazie, David.
Mi si stringe il cuore.
- Figurati. Buonanotte.
Chiudo la telefonata prima che possa dire altro. Me lo vedo già che corre verso Chakuza, che chissà dove lo stava aspettando per non disturbarlo. È discreto, con lui. È gentile. È palesemente la scelta perfetta. La più perfetta che Bill poteva fare dopo Bushido.
Sospiro pesantemente.
- E tutto questo… - borbotto, incamminandomi verso l’appartamento, - perché quello mi ha scopato, una volta. Io devo essere completamente pazzo.

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Typisch Ich

di lisachan
Fler si attacca alla bottiglia con un’urgenza stranissima, e siccome non gliela vedo addosso da un sacco di mesi, questa necessità spasmodica di bere, un po’ mi preoccupo. Anche se mi rendo conto che forse avrei dovuto preoccuparmi già da prima, quando mi ha chiesto di uscire insieme perché doveva assolutamente parlarmi, ma io no, non mi preoccupo mai al momento giusto. Mi sono sentito dire “Usciamo? Ho bisogno di parlarti” ed ho pensato solo “Ah”. Ed era un “ah” ironico, del tipo “ma allora esisto ancora nel tuo mondo, pure se non ti fai più vedere e quando ti cerco sei evasivo e scostante”. Come se non sapesse che a me ‘ste cose danno fastidio.
A tutti gli effetti, l’ultima volta che ci siamo guardati negli occhi è stato circa due settimane fa, quando l’ho… quando gli ho di nuovo messo le mani addosso dopo una pausa che durava da… da Bill, praticamente. Analisi non ne ho fatte, conclusioni non ne ho tirate. Ho smesso di cercare di trovare un senso razionale al mio rapporto con Fler. Non c’è un senso razionale, siamo partiti col piede sbagliato e con quello continuiamo a camminare.
- Be’? Che mi dici? – provo a chiedere sorridendo, mentre rubo dal suo piatto gli stuzzichini che ci hanno portato con la birra. I miei sono già finiti perché sono così nervoso che li ho buttati giù senza nemmeno accorgermene.
Fler si guarda intorno con aria allarmata e posa la bottiglia. Gli rimane sul labbro inferiore una goccia di birra e la cancella velocemente con la lingua. Ci resto un tantino. Sulla lingua e sulle labbra. Il sapore di Fler lo conosco così bene che mi sembra quasi di sentirmelo addosso mentre lo guardo.
Devo calmarmi un po’.
Mando giù un altro stuzzichino.
- Non sono stato molto chiaro, quando ci siamo visti l’ultima volta. – comincia lui con una lucidità sorprendente. Fler è un tipo schietto ma s’imbarazza per un niente, che è una cosa che posso capire benissimo, visto che per me è uguale. Cioè, io sono meno schietto. Però m’imbarazzo lo stesso. Comunque adesso mi sta guardando negli occhi e non è imbarazzato neanche un po’. È perfettamente lucido e tranquillo, come se questo discorso se lo fosse ripetuto in testa per mesi.
Mi fa un po’ paura, come cosa. I discorsi si preparano solo quando sono importanti.
Annuisco vagamente ed allungo di nuovo la mano verso il suo piattino. Lui la schiaffeggia a mezz’aria.
- La pianti di mangiarti la mia cena? – ride, rilassandosi un po’ contro lo schienale, - Oggi sono da solo, non mi va di tornare a casa e cucinare. Fammi mangiare.
- Be’, potresti venire da me, passiamo dalla signora Lotte e… - mi fermo quando mi rendo conto che io per primo non capisco se lo sto invitando a mangiare o a fare altro. Nella mia testa c’è la stessa incertezza che leggo nei suoi occhi. La cosa è veramente spaventosa.
Fler sospira e mordicchia un crostino pieno di mozzarella filante, ma lo riposa subito. I suoi lineamenti si tendono all’improvviso, perché c’è crollato addosso il silenzio e non è facile riprendere un discorso in una situazione simile. Non è facile anche perché io lo sto guardando come se avessi paura di farlo sparire muovendomi, me ne rendo conto. Ma è tutto troppo strano, troppo serio forse, le nostre interazioni non sono quasi mai così. Spariamo cazzate o ci insultiamo, ma non siamo mai seri.
- Di cos’è che volevi parlarmi? – cerco di aiutarlo, chinandomi un po’ nella sua direzione.
Fler sospira, si morde l’interno di una guancia e manda giù un altro po’ di birra.
- Chaku, io adesso te lo dico, ma tu non dai di matto, okay? – e me lo chiede col tono incerto di chi sa perfettamente che ciò che dirà provocherà esattamente la reazione che sta cercando di scongiurare.
- Fler…? – lo chiamo incerto, aggrottando un po’ le sopracciglia.
- No, sul serio. – si sistema sulla sedia lui, mettendo le mani avanti, - Prima di tutto non è una cosa a lungo termine, e poi potrebbe essere la soluzione migliore, credo, e-
- Fler, tu stai giustificando qualcosa che non so. – gli faccio notare, vagamente allarmato, - Ti rendi comprensibile?
Sospira ancora, più forte, con aria quasi rassegnata. Poi cambia di nuovo posizione sulla sedia, e proprio mentre sto pensando che il suo non riuscire a stare comodo mi ricorda cose che non vorrei mai più richiamare alla memoria – e che però ogni tanto mi tocca ricordare comunque, se non altro perché me lo merito – lui parla.
- Ho pensato… - comincia piano, - che potrei andare un po’ fuori città. Non mi sembra che la mia presenza qui sia di aiuto a nessuno, dico, non a te né a me sicuramente, e Sido sta per andare in tour e pensavo che potrei andare con lui, anche perché è da tanto che non vado un po’ in giro a cantare e mi manca. Così sarebbe tutto molto più semplice, non credi?
Finisce di parlare ed io resto in silenzio. Lo fisso. E leggo nei suoi occhi lo stesso naturalissimo ragionamento che passa per il cervello a me: fosse un amico, sorriderei e direi “perfetto, Atze, mi sembra una cosa meravigliosa!”, gli allungherei una manata sulla spalla, gli offrirei il secondo giro di birra e poi lo saluterei augurandogli buona fortuna.
- Perché? – chiedo invece. Quindi mi sa che nel ragionamento perfettamente naturale di cui sopra c’è una falla. O che la falla sta nelle nostre teste. Per lo meno nella mia.
- Come, perché? – chiede Fler, spiazzato, inclinando il capo.
- Dico… - continuo, - l’altra sera… quando ti ho chiesto se non volevi più vedermi, hai detto che non era così, e ora-
- Ma non è che non voglia più vederti! – si affretta a correggermi lui, ma non mi guarda negli occhi. Cerco di resistere al bisogno di afferrarlo per il mento e costringerlo a farlo. – È solo per questo periodo, tu sei un po’ confuso ed è meglio che non ti stia intorno.
Aggrotto le sopracciglia e mi lascio andare ad un mezzo ringhio.
- Piantala di parlare come se capissi tutto. – borbotto contrariato.
Fler mi lancia un’occhiata supponente.
- E tu piantala di parlare come se io non capissi niente. – ribatte asciutto. – Hai questo brutto vizio, Chakuza, di considerarmi un cretino. È un errore madornale che continui a ripetere.
Incrocio le braccia sul petto.
- Io non penso che tu sia un cretino. – cerco di convincerlo, ma lui mi zittisce con un cenno della mano.
- Non ti stavo chiedendo il permesso. – dice duramente, - Parto dopodomani.
Spalanco gli occhi.
- …senti. – protesto a bassa voce, - Tu non puoi prendermi così per il culo, Fler. Tipo, non puoi dirmi… - abbasso la voce e mi avvicino, cercando di non attirare l’attenzione, - non puoi dirmi che non ti andava, l’altra sera, e pensare che io ci creda. Ti stavo toccando. Lo so che ti andava. Tu non capisci che non puoi dirmi no quando io so che dentro la tua testa c’è un sì. – lui fa una smorfia contrariata, ma io non mi fermo e non gli lascio il tempo di negare, - E non puoi dirmi che devi parlarmi di qualcosa e poi, vedendo che la mia risposta non ti piace, sperare di darmi a bere che non stavi chiedendo il permesso. Tu non sei mai sincero con me. Questa cosa deve finire.
Fler stringe le dita attorno alla bottiglia e mi fissa, sconvolto. Io trattengo il respiro.
- Chakuza… - comincia, ma si ferma subito. Ha gli occhi spalancati e ci posso vedere dentro tanto di quello schifo che mi sento male. Esita un po’ e per un secondo ho quasi paura che lo dica. Che finalmente lo ammetta a chiare lettere. Che lo sa, Cristo, che sa tutto, e che quindi sono io che dovrei smetterla di prenderlo per il culo. Piantarla e basta. Ma non lo dirà, io lo so. Infatti lo vedo abbassare lo sguardo e mordersi un labbro, posando un pugno chiuso sul tavolo, - …smettila. – conclude semplicemente. – È meglio per tutti.
Tiro un sospiro di sollievo e mi avvicino ancora un po’.
- Intanto, io non credo che sparire sarebbe meglio né per te né per me. – spiego, - Basta solo cercare di calmarsi un po’ tutti e due… - sono io che devo calmarmi, ma va be’, - Possiamo tranquillamente stare nello stesso posto senza che-
- Pensavo la stessa cosa mentre spostavamo l’armadio. – mi interrompe lui, occhi bassi, - E mi sbagliavo.
- Be’, quello magari è stato un errore. – non so dove voglio andare a parare, visto che ha ragione lui. Se resta, ricapiterà. È matematico. Lo so come funziona. Lo so come funziono. Funzioniamo così. – Possiamo evitarlo, in futuro.
- No che non possiamo. – protesta.
- Oh, avanti. – sbotto io, agitando una mano, - Non è che abbia voglia di saltarti addosso ogni volta che ti vedo. – Fler trasale e si irrigidisce sulla sedia. È offeso e io mi stupisco di quanto sia facile portarlo dove voglio. Poi mi ricordo che dovrei smetterla di stupirmi. In realtà io e Fler non facciamo che metterci agli angoli da quando ci siamo conosciuti. Il nostro non è un rapporto, è un incontro di boxe perenne. Lui mi spinge alle corde ed ottiene quello che vuole, e la stessa cosa faccio io nel momento successivo. È un meccanismo talmente rodato che pensare di interromperlo non è veramente possibile. – Non sempre, Fler, ma ogni tanto succede. – ammetto semplicemente. – Che dovrei fare? Ignorarlo?
La risposta è sì, ovviamente. La risposta che passa sul viso di Fler è “sì, stronzo, sì che dovresti”. Ma resta un riflesso sul suo viso, non si traduce in parole ed io sono ancora in vantaggio. Sono in vantaggio solo perché lui non mi sputtana, d’accordo, ma è un vantaggio comunque.
Paghiamo e usciamo in strada qualche secondo dopo; il vento secco e freddo del primo autunno mi sferza in pieno viso e tiro su il cappuccio della felpa, rimpiangendo immediatamente il tepore dell’interno del locale. Fler è teso e nervoso come mai, sento a pelle che, potesse, mi schiaccerebbe contro un muro e mi pesterebbe a sangue fino a farmi dimenticare come mi chiamo. È una sensazione che per certi versi posso capire: fino a due settimane fa ero perfettamente felice e sereno, non mi mancava niente. Da due settimane a questa parte, però, non faccio che darmi motivi per spaccarmi la testa contro un muro.
Forse dovrei farlo: risolverei un mucchio di problemi.
Passeggiamo in silenzio per un po’, mi pare di non avere una direzione, però a un certo punto ci fermiamo e Fler mi guarda.
- La tua macchina… è da queste parti? – mi chiede.
A me viene un po’ da sorridere. Certe volte si comporta in maniera assurda.
- No, dobbiamo andare da tutt’altro lato, verso-
- No. – riprende, scuotendo il capo, - La mia macchina è qui. – si ferma ed indica una mastodontica Escalade nera all’interno della quale la mia utilitaria entra due volte. Anche se me l’ha fatta sistemare per il compleanno – con il bagagliaio nuovo, la vernice nuova, la tappezzeria nuova, così bella come non mi sembrava fosse nemmeno quando l’ho comprata – resta comunque una cosa ridicola in confronto a questo gigante su ruote. Io rimango a boccheggiare qualche secondo e lui ne approfitta per continuare, - Io ora salgo e me ne torno a casa mia. Se vuoi, ti do un passaggio fino alla tua macchina. Poi tu ci sali e te ne torni a casa tua. – si ferma ancora, esita. – E poi sarebbe meglio non sentirci né vederci più, Chaku.
Odio che mi abbia detto una cosa simile col tono in cui l’ha fatto. Dolce, rassegnato, tranquillo. I toni della voce di Fler sono sempre molto chiari, perché quasi sempre lui sa esattamente cosa ti sta dicendo. Non parla a caso, Fler. Non apre la bocca per darle aria. È un uomo pratico, dice lo stretto indispensabile e te lo dice esattamente come deve dirtelo.
Odio che mi abbia detto una cosa simile con questo tono, perché adesso so che non stava mentendo quando mi diceva che no, non voleva. Non voleva davvero.
Odio che mi abbia detto una cosa simile. Lo odio e basta.
- Fler-
- No. – mi sorride appena, - Mi dispiace. Io ci tengo a te. È il massimo che sono disposto a dirti, Chakuza, ma tu sai esattamente cosa significano queste parole. Io ci tengo a te. Però non esiste, Chaku. Pensavo di… pensavo di star via per un po’ e credevo che, lasciando andare le cose com’era giusto andassero, quando fossi tornato avrei trovato una situazione migliore. Ma tu ci ricaschi, Chaku.
- Aspetta, Fler-
- No, guardati. – vorrei che la smettesse di cominciare tutte le sue frasi con un no. – Lo sai da quanto non mi guardavi così? – io deglutisco, ma mando giù solo aria. – Odio quando mi costringi a dirti cose simili. – riprende lui, un po’ infastidito, - Comunque questi occhi li ho aspettati per mesi e non sono mai arrivati. Tornano adesso quando decido di andarmene… ci ricaschi troppo facilmente, ed io sto cominciando a pensare che fra noi due non ci sia proprio niente, Chakuza.
Lo afferro per una spalla e lo sbatto contro lo sportello dell’Escalade. Lui non fa una piega, continua a guardarmi.
- Questo non puoi dirlo. – ringhio a bassa voce, - Non puoi dirlo, Fler.
- E invece lo dico. – non accenna nemmeno a scostarsi da me. Anzi, mi prende per il bavero della felpa e mi tira più vicino, così vicino che sento il suo respiro caldo addosso. Non capisco se mi sta torturando o se è solo dannatamente indeciso. Le sue parole non denunciano indecisione, comunque. – Lo dico perché mi stai mandando fuori di testa. Quando ho deciso di restarti intorno, Chaku, l’ho fatto dicendoti chiaramente di fare in modo che ne valesse la pena. Ti sembra di averlo fatto?
Lo afferro per i fianchi, di prepotenza, e mi schiaccio contro il suo corpo. Non mi interessa se siamo per strada. Non mi interessa se possono vederci. Non mi interessa neanche se vuole andarsene, io non lo lascio.
- Non in quel senso. – scuote il capo lui. Fra noi c’è la solita tensione di sempre. Fra me e Fler sono sempre scariche elettriche, non è mai una cosa tranquilla. Com’è che non le ho sentite, in questi mesi? Dov’ero con la testa?
E penso a Bill.
Lo penso a casa sua.
Lo penso che mi aspetta.
E penso a me e mi sento una merda.
Mi allontano.
- …no, credo di non averlo fatto, Patrick. – ammetto a bassa voce, - Mi dispiace.
Lui annuisce e si sistema i jeans, tirandoli su per i passanti della cintura. L’ho scombinato un sacco. Ha anche il giubbotto sollevato e un lembo di felpa incastrato nell’orlo dei pantaloni.
- Non ce l’ho con te. – dice, ma non è sincero. Vorrebbe non avercela con me. Però mi sta detestando. Probabilmente perché non riesco a trovare il modo giusto di trattenerlo.
So che un modo c’è.
So anche che dire addio a Bill per Fler, però, non è una possibilità contemplabile.
- Vorrei solo chiuderla nella maniera più semplice e tranquilla possibile. – continua lui, finendo di sistemarsi. Poi sbuffa un mezzo sorriso. – È patetico che io e te ci si decida a parlare chiaro solo alla fine, vero?
Mi inumidisco le labbra.
- Non volevo neanche che arrivasse, la fine. – dico sinceramente.
Lui ride un po’, è una risata per nulla risentita.
- Preferivi continuare a prenderci in giro tutti? – alzo lo sguardo e mi arrabbio, e lui ride ancora. – Te stesso compreso, ovviamente. – io sospiro e torno a guardarmi la punta delle scarpe. Sento ancora la sua risata, sottile e breve, e poi lo vedo chinarsi un po’ per recuperarmi: appoggia le labbra sulle mie e poi si rimette dritto, così che io sono costretto a risollevare il viso a mia volta, se non voglio perderlo. È un bacio così, asciutto e semplice. Non è per nulla una cosa nostra, noi non ci baciamo mai così. È sempre una cosa molto più fisica e bagnata, ed anche più violenta. Questa è una cosa che con noi non c’entra, ed è quello che mi fa pensare che un noi non c’è già più.
Però c’era. Io lo so. Che Fler ci creda o no, noi c’eravamo.
Le nostra labbra schioccano appena quando lui si allontana, ed io non ho il coraggio di chiedere di più, anche se lo vorrei. Anche se, mentre tenevo gli occhi chiusi e mi lasciavo baciare, non esisteva davvero nient’altro. Probabilmente dipende dal fatto che io e Fler abbiamo sempre usato il sesso principalmente come scacciapensieri. Più di ogni altra cosa, quelli erano i momenti in cui smettevamo di ragionare. Ed io decisamente avrei bisogno di smettere di ragionare, in questo momento. O di ricominciare a farlo, forse.
- Quello nel canale doveva essere l’ultimo. – mi dice piano, - Però potrebbe essere l’ultimo anche questo, suppongo.
Io sbuffo un po’.
- Ci pensi da tanto, eh?
Fler annuisce.
- Da molto più di tanto.
Restiamo in silenzio per qualche secondo, e nel tempo che passa Fler infila le chiavi nella serratura ed apre lo sportello, arrampicandosi disinvoltamente sul sedile e restando lì con una gamba penzoloni verso la strada e l’altra ben piantata sul bordo della portiera.
- Allora non ci vediamo più. – chiedo conferma, mentre sulle sue labbra affiora un sorriso tranquillo.
- Penso proprio di no. – annuisce.
- E non ci sentiamo più.
- No, Chaku. Non ci sentiamo più.
Annuisco anche io. Ho improvvisamente voglia di tornarmene a casa e prendere a cazzotti qualcuno dei soprammobili di gomma che mamma mi compra ogni tanto. Se ne esce con certe cose assurde. C’è un vaso – un vaso enorme, ha dentro fiori di plastica impolveratissimi – che servirebbe proprio bene allo scopo.
- Addio. – gli sussurro, mentre lui tira su l’altra gamba.
Fler ride.
- Come sei epico. – e sono le ultime parole che mi dice prima di chiudere lo sportello e farmi cenno con la testa di togliermi di mezzo, se non voglio finire investito dall’Escalade mentre la tira fuori dal posteggio.
Non lo seguo con gli occhi perché non voglio vederlo scomparire dietro un angolo. Cristo, non ricordo un giorno della mia vita nell’ultimo anno in cui Fler non ci sia stato, fra alti e bassi. Non può andarsene così, cazzo. Anche se l’ho lasciato andare, non avrei dovuto. Non è stato giusto.
Risalgo sul marciapiedi e comincio a dirigermi verso la macchina, le mani nelle tasche e lo scazzo che vortica a mille nella testa, quando squilla il telefono. Tiro fuori l’apparecchio con stizza e fisso lo schermo. È tardi per Bill, a quest’ora già dorme. E infatti non è lui.
- Eko…? – spalanco gli occhi e lo dico pure ad alta voce. Eko non mi chiama quasi mai, lo fa solo in momenti di reale bisogno. Quando è morto Bushido, per esempio.
Accetto la chiamata e rispondo.
- Pro-
- Chakuza, Cristo santo, ho un fantasma in casa!
Mi perdo.
Letteralmente.
Stringo il telefono fra le mani e deglutisco.
- Tu hai cosa dove, Eko?
- Cristo santo! – ripete lui, senza il minimo senso, - Il cazzo di fantasma! È tornato perché abbiamo fatto qualcosa di sbagliato! Cristo santo, Cristo santo! Chakuza, quando hai fatto fuori Saad tu eri sicuro che fosse lui l’assassino, vero? Perché se non era lui e quell’altro è tornato per vendicare il cugino morto, Cristo, giuro che ti appendo per le palle in Alexanderplatz, Chakuza!
Seriamente, non ho la più pallida idea di cosa stia parlando. So solo che quando ha nominato Saad m’è salito il cuore in gola e che spero vivamente non sia per strada a parlare di tutte queste cazzate, altrimenti lo appendo io per le palle in Alexanderplatz.
- Eko… - sospiro pesantemente, - È una serata di merda. Seriamente. Ma proprio di quelle che vorresti non fossero mai iniziate.
- Dillo a me! Apro la porta mentre aspetto il ragazzo delle pizze e mi ritrovo davanti il cazzo di fantasma che-
- Una serata di merda, dicevo, perciò… - controllo l’orario, - Eko, ‘cazzo chiedi la pizza a mezzanotte passata, scusa?!
- Ma non è la pizza il punto fondamentale, Chakuza! Tu hai dei problemi seri! – mi sbraita all’orecchio. E poi chiarisce una volta per tutte: - Il punto è che io ho aperto la porta e davanti mi sono ritrovato Bushido. Bushido, capisci?
No. Non capisco.
- Eko…?
- Un cazzo di fantasma, capito? Un fantasma. Cristo. – fa una pausa. – Io non ci rientro in casa, quindi tu ora mi passi a prendere e mi porti da te. E domani torno con un estintore bello pesante o qualcosa di più adatto. Come si uccidono i fantasmi, Chakuza?
- …dubito che la schiuma chimica funzioni. – sospiro. È evidentemente ubriaco. – Eko, senti. – non ci tengo a portarmelo a casa, stanotte, - Ora vengo da te e poi saliamo insieme. Così ti faccio vedere che non c’è nessun fantasma, in casa tua. Soprattutto non quello di Bushido.
- Fa’ un po’ quel che cazzo credi. – dice lui, improvvisamente compunto, - Comunque sono sicuro quasi al cento per cento che il fantasma sul pianerottolo sia colpa tua, in qualche modo contorto. Sei la fonte di tutti i mali. Magari dall’alto dei cieli ha saputo che vuoi chiudergli l’Ersguterjunge ed ora ci perseguiterà a vita.
- Eko, ti prego!
- Comunque il succo è: vieni perché sennò scappo da Kay. E tu non vuoi che io scappi da Kay, perché Kay vive in un porcile peggio di casa tua, e se sarò costretto a stare da lui poi vorrò le tue palle su un piatto d’argento.
- Per mangiarle? – sbotto irritato, - La tua fissazione per le mie palle è inquietante.
Mi manda a fanculo e chiude la conversazione senza neanche abbassarsi ad aggiungere altro.
Raggiungo la macchina in tempi ragionevoli ma non supersonici, ecco, se Eko è ubriaco può anche stare per strada a rinfrescarsi la testa per un po’. Intendo, non è il tipo cui salterebbero tutti addosso come Bill, e non è neanche il tipo da sfondarsi al punto da rotolare per i marciapiedi come Fler, perciò posso stare abbastanza tranquillo.
Quando arrivo sotto casa sua lo trovo a camminare avanti e indietro con aria furiosa, proprio di fronte al portone del palazzo. Accosto senza posteggiare, sperando di cavarmela in una decina di minuti, e scendo dall’auto.
- Cristo, Chaku, ci hai messo un’era! – mi assale lui, - Il senza-tetto? – chiede poi, guardandosi intorno. Si riferisce a Fler. Ogni volta che me lo vede piantato accanto parte col solito teatrino per il quale Fler in realtà non ha una casa e vive da me perché non ha i mezzi per pagarsene una propria, visto che è un rapper sfigato. Sarà meglio non parlare dell’Escalade con Eko.
Digrigno i denti e ringhio un po’.
- Non siamo mica sposati. – sbotto acido, - Non so nemmeno dove cazzo sia.
Lui annuisce.
- Questo spiega la tua ira, Atze. – dice con aria comprensiva, - Non dovresti rinnegare i tuoi sentimenti. Prendi esempio da Bushido, buon’anima: il suo fantasma sarà irrequieto, ma almeno nella vita s’è goduto tutto quello che ha voluto.
Per un attimo accarezzo con amore la possibilità di afferrare il cric dal portabagagli e prendere Eko a mazzate fino a lasciarlo svenuto per terra.
- A proposito di fantasma… - sbotto esasperato, - Non sono venuto qui per questo?
Lui annuisce come lo stesse ricordando in questo preciso momento.
- Eccome. – mi afferra per un braccio e comincia a trascinarmi, - Mi dirai tu se è vero o meno. Io, comunque, là dentro non ci torno.
- Va bene, va bene! Cristo! Ma non mi spingere così, so camminare da solo! – protesto quando prende a spintonarmi su per le scale, fino al secondo piano.
Facciamo tutto di corsa, che è una cosa che detesto – fare le cose di corsa, dico – e quando arriviamo di fronte alla porta dell’appartamento – ovviamente spalancata, Eko ha le pecore turche a pascolargli in testa, lo so – lui mi molla lì e si rifugia verso l’ascensore.
- Vai avanti. – dice con aria sconvolta, - Io aspetterò qui fuori il tuo urlo di terrore.
Sospiro pesantemente ed agito una mano, mandandolo a quel paese senza troppe cerimonie. Mi introduco nell’appartamento buio e silenzioso, convinto che tutto ciò che troverò sarà al limite qualche ladro che si è intrufolato qua dentro mentre Eko era fuori a sclerare e rompermi le palle, perciò mi sento addirittura fortunato quando vedo che l’ingresso è vuoto e così anche il salotto. Mi dirigo spedito verso la camera da letto, so che è là che Eko tiene gli orologi e le chiavi della Mercedes, perciò se c’è qualche malintenzionato sarà lì. L’idea del fantasma l’ho abbandonata da un pezzo. Era delirante, in fondo.
Per questo, quando mi si spalanca la porta del bagno di fronte al viso, quasi ci resto secco. Ma sul serio.
Perché questo non è un cazzo di fantasma. Qui non c’è proprio niente di simile. Qui c’è qualcosa di molto peggiore.
Qui c’è Bushido. Vivo.
Cristo.
Stringe una salvietta fra le mani e si asciuga lentamente i palmi, perfettamente a proprio agio. Io resto lì a guardarlo, troneggia su di me come una specie di statua di qualche dio antico. Ma ha un’espressione del cazzo che poi immagino sia la stessa che ho io. Voglio dire, mi fissa come se mi stesse vedendo per la prima volta. La luce giallastra del bagno lo colpisce in pieno da dietro, così che dal corridoio buio io non posso vederlo perfettamente in ogni dettaglio, ma scorgo la sagoma di una coda corta a svettare dietro la nuca e mi rendo conto del tempo passato.
Nove mesi.
Un anno fa sembra un altro universo.
Bushido è vivo.
- Chaky. – mi chiama lui, ed il tono è morbido e divertito. È esattamente la voce che ricordo. È lui. – Ho saputo che stai cercando di mandarmi in bancarotta. – e ride appena, uno sbuffo ironico e per nulla cattivo.
Continuo a guardarlo e non riesco a spiccicare una parola. Non riesco neanche a capire cos’è che dovrei dirgli.
Eko non mi sente urlare e si affaccia alla porta, fissandoci con aria allibita.
- Chaku… - mi chiama con voce tremante, - Perché non stai scappando?
Io deglutisco.
Non stacco gli occhi da Bushido.
Cerco a tentoni la tasca sui jeans ed il cellulare nella tasca. Quando lo trovo e lo sollevo all’altezza del viso, mi schiarisco la voce.
- Credo che chiamerò Fler. – esalo. E sono le prime ed ultime parole che dico, mentre Bushido ride e scuote il capo, per nulla stupito.
Cristo.
Non è stupito.
Se non è stupito da Fler… quante altre cose sa?
*
Riesco a sentire solo tre cose, in questo momento. Una è la voce di Eko, isterica e nasale e concitata, che si confonde nella raffica di domande con cui sta tartassando Bushido, che, per proprio conto, sta mangiucchiando pistacchi perfettamente a proprio agio, sul divano. Un’altra è la risata di Bushido stesso, che si intervalla alle domande di Eko quando si fanno troppo assurde. Tipo quando lui chiede se all’Inferno fa caldo e gli dà dello stronzo per non essere tornato prima.
Sopra tutto, comunque, sento il suono della linea libera sul cellulare di Fler. Che non mi risponde. Ovviamente.
Un po’ lo capisco. Me lo vedo, seduto al volante di quella cazzo di macchina enorme, che fissa il display del telefonino e impreca ad alta voce. “Che cazzo vuole ancora questo?”. Ti voglio qui perché c’è qualcosa che hai perso e abbiamo ritrovato. Ti voglio qui perché, anche se non lo sai, ho trovato qualcosa che hai perso e non volevo ritrovassi.
Ti voglio qui perché qui c’è l’unica cosa Bill abbia mai perso davvero.
E un po’ spero ancora che, se tu passassi attraverso quella porta, non vedresti niente, solo me ed Eko in paranoia di fronte al vuoto. Diresti “Be’? ‘Cazzo mi hai chiamato a fare, Chaku?”. Ed io mi guarderei intorno, Bushido sarebbe sparito e allora potrei ridere e dirti “Niente, non mi andava che te ne andassi, tutto qua”. E potrei avere ancora una possibilità di decidere per i giorni a seguire.
- Non ti ha voluto manco il diavolo in persona, Atze! – sento Eko che si affloscia sul divano accanto a Bushido con un tonfo pesante. Mi volto e lo vedo che sta lì, vicinissimo al bracciolo, come avesse paura di toccarlo, - Stai sul cazzo anche a lui!
E Bushido ride ancora.
Io interrompo la chiamata – che tanto squilla a vuoto – ed allo stronzo in fuga mando un messaggio. “Devo parlarti di Bushido”. Speriamo che almeno così la smetta di fare l’adolescente ribelle.
Bushido sta ancora ridendo e sgranocchiando pistacchi, nel mentre. È perfettamente tranquillo, neanche non fosse andato mai via. E invece di mezzo c’è una morte – la sua – un coltello in una pancia – la mia – un bacio – sbagliato – una relazione – la nostra, mia e di Fler – un’altra morte – di Saad – e un’altra relazione – la nostra, mia e di Bill.
Una resurrezione, francamente, mi pare eccessiva.
Lo stronzo in fuga non richiama. Ringhio e lo richiamo io. Non mi aspetto che risponda, voglio solo rompergli i coglioni, e invece eccolo che risponde al primo squillo, furioso.
- Chakuza, sei patetico, tirare fuori Bushido per-
- È vivo. – lo interrompo, senza aspettare che abbia concluso il cazziatone.
Lui rimane zitto e non respira nemmeno.
- Sei pessimo. – riprende a fatica dopo un po’, - Se era un tentativo di zittirmi per-
- Era un tentativo di zittirti. – ammetto, - Per poi spiegarti che è vivo davvero.
Fler esita. Io guardo ancora Bushido ed Eko – Eko gli sta rubando il pacchetto di pistacchi dandogli del fantasma egoista del cazzo – e Bushido solleva lo sguardo verso di me e mi sorride. Lo fa con calma e naturalezza, come ha sempre fatto. Sorrideva di continuo. È una cosa di cui ho parlato anche con Fler, in un tempo che mi sembra lontano secoli, ed anche lui ha ammesso che era vero, Bushido da quando era all’Ersguterjunge sorrideva sempre. Fler ha aggiunto acido anche “perché i problemi li aveva lasciati a noi poveri stronzi e di tutto il resto si era dimenticato”, ma il punto della questione era un altro: Bushido sorrideva sempre perché non aveva motivo di essere triste. La sua vita era perfetta.
È assurdo che sia morto e poi tornato in vita per ritrovarsi in mano un qualcosa che non esiste più. Non so nemmeno come farò a dirglielo.
- Chakuza. – mi richiama Fler dall’altro lato della cornetta, - Cosa cazzo stai dicendo?
Sempre che in qualche modo non lo sappia già, ovviamente.
- Vieni a casa di Eko. – ordino, comunicandogli l’indirizzo. Lui fa una smorfia infastidita di cui sento l’eco in un lamento. Lo zittisco. – È una cosa seria, Fler. Vieni. – vienitelo a riprendere.
Lui interrompe la chiamata imprecando ad alta voce, io ripongo il cellulare in tasca e torno in salotto, aggirandomi con aria inquieta attorno al tavolino basso davanti al divano.
- Lo stronzo sta a due isolati da qua. Ci puoi pensare? – mi dice Eko, che continua a fissarmi con gli occhi a palla come fosse ancora sicuro che l’ipotesi fantasma sia più razionale rispetto all’ipotesi “sono ancora vivo”. – Da due settimane. E indovina dov’è stato prima, per tutto questo tempo.
Bushido ride.
- …non ne ho idea. Sotto terra? – provo, fissando Bushido con lo stesso sguardo allucinato col quale Eko fissa me.
Bushido ride ancora ed io, sinceramente, vorrei la piantasse.
- A Miami! – sbotta Eko, allargando le braccia in segno di profondo sgomento.
In un primo momento non capisco. Penso solo: è a Miami che si va, dopo morti?
Poi realizzo.
E un po’ mi viene anche voglia di mandarlo a fanculo. A Miami va, il bastardo. A Miami.
Prendo fiato.
- Bushido, tu eri morto. – metto bene in chiaro, così che nessuno di noi possa scordarlo, visto che qui mi pare si stia passando sopra la cosa con un po’ troppa leggerezza. Lui annuisce e mi fa segno di sedermi in poltrona. Io obbedisco senza fiatare.
- È complicato da spiegare, Chaky. – dice, con una certa tenerezza, - Ma vi dirò tutto, piano piano. Prima, però, ho delle questioni da risolvere.
Ed io sono lì che tremo e prego in un centinaio di lingue che fra le varie questioni da risolvere non ci sia anche Bill, che suonano al campanello.
Io guardo Eko ed Eko guarda me.
- Mbe’? – sbotta, sollevando supponente il mento, - È il tuo uomo, tu l’hai chiamato, vai ad aprirgli.
Lo mando a fanculo e mi alzo in piedi mentre Bushido ride ancora – anche se c’è una sorta di tensione, nella sua risata, una nota un po’ stridente che nelle risate di prima non c’era. Non fatico a ricollegarla alla presenza di Fler oltre quella porta. A meno che non sia il ragazzo delle pizze che Eko minaccia di denunciare da ore.
Apro la porta e di fronte a me c’è un Fler che non ho mai visto in vita mia. Ha quattordici anni negli occhi, non uno di più. Poi non è cambiato per niente, ma gli occhi bastano: sono enormi, liquidi e persissimi. E dovrebbero essere gelidi, perché quando Fler è scazzato i suoi occhi diventano pezzi di ghiaccio, ma non c’è traccia di freddo in fondo alle sue pupille. Non ce n’è davvero per niente. Sono caldi, anzi. E non stanno guardando me.
- Sei venuto davvero… - esalo, un po’ sconvolto. A saperlo, avrei usato la scusa di Bushido per quando ha continuato a darmi picche nell’ultimo periodo.
Stupido Peter. Piantiamola un po’. Me lo dico da solo, va’.
Lui annuisce, comunque.
- Se scopro che è una cazzata, Chakuza, ti prendo a calci nelle palle fino a fartele uscire dalla gola.
Sospiro e mi lamento anche un po’.
- Ma che avete tutti stasera con le mie povere palle? – mugolo, scostandomi lievemente dall’uscio per farlo entrare.
- Le tue palle sono un pericolo pubblico. – precisa lui con una mezza risata, sfilandosi la giacca ed appendendola all’attaccapanni. Poi torna a guardarmi. È ancora un ragazzino e questa cosa mi distrugge in un modo che non capisco. Mi fa venire un groppo in gola che non so decifrare. – Mi spieghi un po’? – chiede appena, - E… a proposito… quello stronzo del padrone di casa?
- Eko è di là… - spiego, indicando il corridoio con un dito. Esito un po’, prima di aggiungere il resto. - …con lui.
Fler deglutisce e stringe le labbra.
- È tornato dalla morte?
Io scuoto il capo. No, è tornato da Miami.
Mi mordo la lingua.
- Pare non sia morto affatto, in realtà. E… sappia un mucchio di cose.
Fler annuisce anche troppo tranquillamente. Guarda un punto a caso nel vuoto e socchiude appena le palpebre, come si stesse perdendo nei propri pensieri ed avesse bisogno del giusto tempo per farlo. Poi sbuffa una mezza risata.
- Mi scazza e mi sembra anche un po’ assurdo da dire, - confessa alla fine, - ma è così schifosamente da lui che non fatico neanche a crederci. – poi scuote il capo e torna a guardarmi. – Mi ci porti? – e lo dice con lo stesso identico tono di un bambino un po’ impaurito che chiede al padre burbero di accompagnarlo sull’ottovolante.
Annuisco senza volerlo fare davvero e lancio un’occhiata alla porta come a chiedermi se esista la possibilità di afferrare Fler per il cappuccio della felpa, uscire da quest’appartamento e riprendere il corso della nostra vita esattamente per com’era prima di stasera. Non ho il tempo di concludere il pensiero che sto già portando Fler al cospetto di Bushido – ed è una cosa molto epica, a pensarci; questi due si sono lasciati accoltellandosi. Voglio dire. È assurdo.
Entro prima di Fler e non so bene come annunciarlo. Ci vado giù in maniera tranquilla.
- Atze? – e mi sento vagamente in colpa ad usare ancora questo soprannome, - Senti, c’è Fler.
Bushido ride e la voce di Patrick mi arriva dritta alle spalle come una pugnalata. È vicinissimo.
- Non ho mica bisogno del permesso, per ricevere udienza, io. – mi supera e si para davanti a Bushido con una calma impressionante, - Ho il lasciapassare automatico.
Bushido non si alza. Nemmeno si muove. Resta seduto sul divano e lo guarda con un sorriso strafottente sul volto. Sembra incredibilmente più giovane anche lui, il che è strano. Immagino sia l’effetto della presenza di Fler.
Ci sono un sacco di cose che mi vanno di traverso, stasera. Non mi piace proprio come si sta mettendo la situazione in generale.
Fler sorride appena e si siede sul tavolino basso, proprio di fronte a Bushido. Le loro ginocchia quasi si sfiorano e Fler si piega un po’ in avanti per guardarlo dritto negli occhi.
- Ero lì, quella notte, perché volevo dirti che eravamo a posto, Atze. – lascia scivolare le parole fuori dalle labbra con naturalezza disarmante, - Ero lì sotto per questo. Non sono stato io. Volevo dirtelo. Non sono stato io. E siamo a posto.
Bushido inspira ed espira, senza perdere il sorriso.
- Lo so. – dice a bassa voce. Non aggiunge nient’altro.
Vorrei poter dire qualcosa anch’io. Vorrei poterli mandare a fanculo entrambi, tanto per cominciare. Bushido perché è tornato, Fler per altre duemila ragioni. Cazzo, a guardarlo mi viene un nervoso che non so nemmeno descrivere. Mi prudono le mani. Ha ancora sulla faccia quel sorrisino di prima e lui e Bushido che si guardano negli occhi senza dire altro sembrano una cosa unica nata insieme. E mi viene da ridere perché Fler me l’aveva pure detto: non esplicitamente, ma tutte le volte che partiva in quarta a parlare di Anis, dietro ciò che diceva c’era sempre un concetto di base che lo vedeva coinvolto con lui in un modo diverso rispetto al modo in cui era stato coinvolto con chiunque altro nella sua vita. Ed io lì a ridere e prenderlo in giro. Io lì a pensare che fra noi ci fosse… io lì come un cretino.
Aveva ragione Fler. Se mai c’è stato qualcosa, non c’è più nulla già da un pezzo. E se pure un qualche frammento era rimasto, nell’ultimo minuto è stato spazzato via.
O almeno così mi sembra.
Non facesse così fottutamente male, forse lo capirei meglio.
Bushido si piega in avanti a propria volta. Lo fa con un sorriso strafottente sul volto. Si piega in avanti e sfiora quasi la fronte di Fler con la sua.
- …non so come chiamarti. – ride alla fine, e Fler lo segue, socchiudendo gli occhi e scuotendo il capo, - Mi viene in mente di tutto. – c’è Eko che li fissa sconvolto e poi guarda me quasi in imbarazzo, ma loro lo ignorano. Ci ignorano. – Ragazzino, Frank, Fler…
- Patrick andrà bene, Anis. – lo interrompe Fler, sorridendo più apertamente.
Patrick non va bene neanche per un cazzo. Io lo chiamo Patrick solo quando lo rimprovero. Neanche quando scopiamo. Fanculo. Patrick non va bene neanche per un cazzo.
- Io comunque non sono tornato dall’altro mondo per una rimpatriata. – dice ad un tratto Bushido, alzandosi in piedi e venendo verso di me, mentre Fler prende e si mette comodo sul tavolino, piantando i palmi sul vetro e stirandosi un po’ indietro con un mezzo sorriso soddisfatto sul volto. Non mi vede più da almeno mezz’ora e quella posizione lì mi fa incazzare oltre ogni dire. – Potrà sembrarti assurdo, Chaky, ma sono venuto per parlare con te.
Sollevo lo sguardo e lo fisso, sconvolto.
- Con me?
Ma vaffanculo, anche.
Lui annuisce.
- Volevo dirti personalmente, - dice con tono scherzoso, - di piantarla di mandare in malora la mia attività, prima che io ti prenda per le palle e te le stacchi di peso per usarle come bolas. – Fler scoppia a ridere. Anche Eko. Vorrei che lasciassero tutti in pace le mie palle ma mi rendo conto da solo che hanno ragione loro a volerle su un piatto. – Poi naturalmente lo ripeterò anche agli stronzi della Universal, ma con te ci tenevo a discutere la cosa in maniera più rilassata. – continua tranquillamente. – Quindi, magari, ora che sai che sono vivo, me la lasci aperta l’Ersguterjunge?
Avrei solo una domanda, da fargli, ed è: se dico sì, poi scompari?
Naturalmente, però, non chiedo. Mi limito ad annuire. E lui mi stringe al collo in un mezzo abbraccio grato che fa sorridere Fler.
Ironico. È la prima volta che mi vede da minuti interi. L’ha fatto solo quando Bushido mi ha toccato.
*
Eko non riesce fisicamente a stare zitto. Probabilmente è una reazione allo spavento e allo stupore ed anche alla felicità di ritrovarsi Bushido vivo e vegeto in carne ed ossa, proprio di fronte agli occhi. Continua a porgli domande allucinanti stile “e con cosa andavi in giro a Miami? Camicie hawaiane?”. Chiede e gesticola e chiede ancora e Bushido non fa che ridere e rispondere, “sì, Eko”, “no, Eko”, “nella maniera più assoluta e totale no, Eko, mai”, e tutto quello che io riesco a registrare, di tutto questo, è che Fler non gli ha ancora staccato gli occhi di dosso.
È una cosa incredibile, non l’ho mai visto comportarsi così: è come se ci fossero delle calamite, addosso a Bushido. Ovunque vada, comunque si muova, gli occhi di Fler non lo abbandonano mai, neanche per un secondo. È stato così anche durante quella dannata puntata di TRL, ma allora Bushido era un’immagine su uno schermo piatto a cristalli liquidi, non era una minaccia.
…ed allora io ero ancora una persona migliore. Una persona che non pensava a Bushido come ad una minaccia, appunto.
Comunque sia, sono ancora infastidito. Da qualche parte nel corso di questa serata, mentre Eko parlava e Bushido rideva e rispondeva senza guardarlo, ricambiando solo gli occhi azzurri di Fler con un compiacimento addirittura irritante, m’è venuta voglia di mettere una mano fra di loro. Una cosa proprio da bambini, mettere la mano ed agitarla, come a dire “allora? Vi ricordate che ci sono anch’io, qua di lato?”. Ma la verità è che non mi hanno messo loro in un angolo, mi ci sono rifugiato da solo, perché non ho la più pallida idea di cosa fare. Quest’uomo, prima di morire, mi ha affidato delle cose. Ed io dovrei, tipo, fare rapporto, no? Aggiornarlo sullo stato dei suoi beni.
Solo che il bene che mi ha lasciato io me lo sono preso.
E questo è un problema enorme.
Mi alzo in piedi.
- Mentre Eko continua a chiederti… cos’è che gli hai appena chiesto, Eko?
- Se ha visto qualche donna che s’infilava una noce di cocco su per il-
- Mentre Eko continua a chiederti delle discutibili abitudini sessuali delle flori… comunque si chiamino le donne che vivono in Florida, - Fler e Bushido ridono contemporaneamente, e Fler scuote pure un po’ il capo con rassegnazione. Mi sento vagamente in imbarazzo, - …io vado a preparare un caffè. Sarà una nottata lunga.
Bushido annuisce semplicemente ed io mi rifugio fra le quattro mura piastrellate della cucina di Eko. Una cucina palesemente vuota, peraltro, perché pare che tutti i rapper abbiano la brutta abitudine di non passare mai del tempo in casa propria. Tant’è che Eko è sempre buttato da Kay. Il quale però è sempre buttato dalla madre, perciò alla fine passano entrambi tutto il tempo a casa della povera donna. Col risultato che casa di Eko è quasi sempre vuotissima.
Armeggio qua e là spalancando tutti gli stipetti, perché non può davvero esistere un uomo che non tenga in casa del caffè ed una moka, ed infatti alla fine trovo tutto e, sospirando di sollievo, mi metto a preparare, sperando di perdere abbastanza tempo per… non so nemmeno io per che cosa. Per far riposare il cervello e tornare di là con una scorta di lucidità sufficiente ad affrontare quello che mi aspetta, suppongo. Anche se non ho idea di cosa mi aspetti, perché mi fa paura immaginarlo.
Mentre metto la caffettiera sul fuoco, sento Fler ridacchiare alle mie spalle ed aggrotto istantaneamente le sopracciglia, voltandomi a guardarlo. Lo trovo con le braccia incrociate sul petto, appoggiato con una spalla allo stipite della porta. Mi fissa, palesemente divertito, con un sopracciglio inarcato. Dio, odio quando è così… così.
- Be’? – chiedo sgarbatamente, ricominciando ad aprire ante e sportelli alla ricerca di qualche tazzina o, al limite, dei bicchierini di plastica. Il punto è che non posso pensare eroicamente cose tipo “mi aspetta la morte ma non cederò di un passo”, e pensarlo a riguardo di Bill, e poi vedermi apparire Fler sulla soglia e provare il desiderio praticamente irresistibile di tirarlo in cucina, chiudere la porta e stenderlo sul ripiano accanto al lavello. Non è… non posso continuare a fare così. Non posso.
Lui mi viene accanto ridacchiando serenamente, e mi aiuta nella ricerca.
- Sei troppo nervoso. – mi dice, - È un comportamento sospetto.
Be’, grazie, lo so anch’io.
- Non dovresti essere di là a ricordare a Bushido che non hai mai avuto occhi per altri che per lui? – ringhio infastidito, e lui si ferma e mi guarda per un secondo. Poi scoppia a ridere.
- Tu sei assurdo! – commenta ironico, - Come puoi essere geloso in questo momento?!
- Non sono geloso! – cerco di difendermi, anche se dovrei cominciare a ricordarmi più spesso che mentire a Fler serve a poco. Un po’ perché fiuta le menzogne – come quell’altro, accidenti a lui – ed un po’ perché comunque si convince di quello che vuole e poi ci marcia indipendentemente da come stiano le cose in effetti. Insomma, proprio come quell’altro. Stramerda.
- Chakuza, Dio mio, ma il fatto che io sia andato via, poco fa, non ti è servito a niente?
Spengo il fuoco sotto la caffettiera.
- Sei stato via praticamente mezz’ora. – borbotto a bassa voce, - Cosa vuoi che sia cambiato, in mezz’ora?
Vorrei che Fler si offendesse – in genere, quando lo prendo per il culo, lo fa – ma non fa che ridacchiare ancora e scuotere il capo.
- È che il discorso sulle noci di cocco aveva cominciato ad inquietare anche me. – dice, ignorando la frecciata e riprendendo il dialogo dall’inizio, - E poi volevo vedere come stavi.
- Oh, ma guarda. – sbotto, con la maturità di un bambino di dieci anni, - T’interessa?
Lui mi fissa per un secondo, ed in quel secondo i suoi occhi azzurrissimi brillano in maniera spaventosa.
- Certo che mi interessa, Chaku. – sospira, - Proprio perché m’interessa-
- Ora non partirtene col discorso di rito stile “è per te che lo faccio”. Non l’hai fatto per me, quando te ne sei andato.
Si appoggia al mobile ed allunga una mano ad aprire lo stipetto più in alto. Le tazzine sono là. Lui nemmeno le guarda, continua a fissare me.
- In ogni caso, sono stato via solo mezz’ora. E sono tornato quando mi hai chiamato.
- Perché ti ho parlato di Bushido.
Scrolla le spalle.
- Il motivo non è importante.
“Col cazzo”, vorrei rispondere, ma lo trattengo in punta di lingua perché questa discussione è già abbastanza assurda così.
- Dimmi la verità, Fler. – lo sfido, versando il caffè, - Perché sei tornato?
Lui sospira pesantemente e infila le mani nelle tasche. Sotto la spinta, i pantaloni si abbassano appena, scivolando lungo la sua vita e lasciandomi intravedere un lembo di pelle appena sopra i fianchi. Deglutisco.
- Cosa vuoi sentirmi rispondere, Chaku? – chiede lui, quasi dolcemente. – A questo punto, posso dirti tutto quello che vuoi. Non è importante.
- Sei tornato per vedere lui? – ringhio, voltandomi improvvisamente a guardarlo. Lo trovo che già ride.
- Sì. – dice tranquillamente, - O, in alternativa, per sventrarti in caso mi avessi detto una balla solo per farmi tornare. Soddisfatto così?
Soddisfatto un cazzo.
Sospiro pesantemente, mentre Fler recupera due delle quattro tazzine colme di caffè, allontanandosi verso la porta.
- Ah, dimenticavo. – dice con aria falsamente casuale. E lì capisco che mi sta prendendo in giro, o torturando, o comunque non si sta comportando in maniera corretta nei miei confronti. Odio avergli dato abbastanza ragioni per farlo senza sentirsi in colpa. – Anis vuole il riassunto delle puntate precedenti. Ed io quello che dovevo dirgli gliel’ho già detto.
- No, manca ancora la dichiarazione d’amore. – sbotto acido.
Fler non si abbassa al mio livello, inarca un sopracciglio e ghigna.
- Dici? – domanda allusivo, e poi scompare oltre la soglia.
Quando torno di là con la tazzina mia e quella di Eko, Fler è di nuovo seduto sul tavolino e sta di nuovo guardando Bushido come non vedesse altro. Mi rassegno: non è come, è così.
Resto in piedi, passo la tazzina ad Eko ed osservo Bushido che beve il proprio caffè e poi posa la tazza sul tavolino, proprio accanto al punto in cui è seduto Fler. Lo sfiora col braccio, proprio lì sul fianco, e per un attimo io guardo i loro corpi che vengono a contatto, colgo il leggero brivido che scuote le spalle di Fler e colgo anche quel breve lampo di compiacimento che increspa le labbra di Bushido, e mi chiedo cosa stia esattamente succedendo in questa stanza. Se si stiano comportando così solo perché sanno perfettamente che Eko certe cose non le vede – o fa finta di non vederle – e che io piuttosto che parlarne con anima viva mi farei volentieri sparare.
Non lo so.
Mi viene voglia di menare le mani, comunque.
Mi riscuoto quando Bushido si schiarisce la voce e mi chiama.
- Allora, Chaky… - dice, mettendosi comodo sul divano ed incrociando le braccia sul petto, - Cosa mi racconti?
Ed io per un attimo mi sento confuso. Cosa gli racconto? Cioè, davvero, cosa tiro fuori dal cappello? Cosa gli dico? Cosa, che non abbia a che fare con Bill – perché non voglio nemmeno che ci pensi – o con me e Bill – perché il solo pensiero che lo scopra in questo momento mi terrorizza – o con me e Fler – perché ho la vaga impressione che sarebbe perfino capace di uccidermi, se sapesse i dettagli di quest’ultimo anno.
Cosa mi invento?
Lancio un’occhiata a Fler e lui non è d’aiuto. I suoi occhi sono freddi e vuoti, mi guarda quasi con la stessa curiosità con cui mi guarda Bushido. Come se si stesse chiedendo anche lui “vediamo come se ne tira fuori”.
Io mi seggo su una poltrona e richiamo alla memoria i brevi stralci di racconto che sono riuscito a cogliere dalla conversazione fitta di domande e risposte assurde fra Bushido ed Eko, prima che Fler arrivasse. Bushido è qui da due settimane. Due settimane fa – come quasi sempre, quando abbiamo potuto, negli ultimi mesi – Bill era con me. Probabilmente era con me anche mentre lui era in volo. E mentre quest'uomo atterrava, il suo ragazzino urlava il mio nome, nel mio letto. E, cazzo, stavamo da Dio. Ora Bushido mi chiama Chaky, e la cosa mi devasta. Non so più nemmeno se odiarlo perché è tornato o chiedergli di essere comprensivo prima ancora di avergli detto perché.
Mando giù a fatica un respiro che sembra di cemento, tanta è la resistenza che fa mentre mi scende per la gola, e poi guardo il pavimento e comincio a parlare.
- I primi mesi dopo che sei morto – parlo come stessi parlando ad un fantasma. Forse perché quasi preferirei che fosse così. – sono stati un casino. Non sapevamo davvero dove voltarci o cosa fare. Era tutto un chiedere, interviste di continuo. Ci siamo gestiti abbastanza bene, ma è stato pesante.
Bushido sorride appena.
- Mi dispiace. – lascia scivolare fra le mie parole, senza interrompermi davvero. Io annuisco e riprendo.
- TRL ci ha un po’ scombussolati. Ma d’altronde già allora avevo parlato con Fler, e quindi sapevo che lui non c’entrava niente. È stato… molto d’aiuto, in quel periodo. – e mi stupisco di essere riuscito a non nominare Bill nemmeno una volta. Bushido inarca le sopracciglia. Se ne accorge, forse. Capisce che c’è qualcosa che non va. Non lo so. Io continuo. – Poi Fler mi ha convinto a fare qualche indagine. E così abbiamo scoperto chi era stato a farti fuori. – mi prendo un attimo di pausa per capire come dirglielo, perché credo che queste non siano notizie facili da dare. Queste non sono nemmeno notizie che si danno, in genere. Non dici a un morto chi l’ha ucciso. Non quando ti può ascoltare, almeno.
Lui, comunque, mi anticipa.
- Saad. – dice, ed io sollevo gli occhi nei suoi e lo fisso come se lo stessi vedendo adesso per la prima volta. – L’ho immaginato quando ho saputo che era morto. – mi spiega lui con un mezzo sorriso. – Sono stato… mi sono tenuto informato, ecco.
Io annuisco e deglutisco ancora, con maggiore difficoltà. Mi sembra che più cose io tiri fuori più ciò che resta dentro si allarghi e prenda tutto lo spazio. E mi rendo conto che in realtà non è così. In realtà è solo Bill che si espande. Prima stava compresso nel mio petto assieme a tutto il resto, ma adesso tutto il resto sta uscendo. E lui si sta riprendendo il suo spazio. Ed io non voglio buttare fuori anche lui. Non voglio.
- Quindi siete stati voi a- - comincia Bushido, ma non finisce, perché Fler lo ferma.
E, visto che Fler mi conosce, lo fa.
Sa che io non lo tirerò mai fuori. Sa di doverlo fare lui al mio posto.
- Ti ha vendicato Bill, Anis.
Bushido si irrigidisce sul divano. Lo faccio anch’io, sulla mia poltrona.
Fler respira per tutti e due. È l’unico che lo faccia, d’altronde.
Eko si schiarisce la voce e si alza in piedi.
- Me ne vado al cesso. – borbotta con tono serio, - Voi raccontategli pure dei mesi in cui piangeva di continuo, io non voglio più sentirne nemmeno accennare. – commenta, sparendo in corridoio. Eko ha tutta una serie di problemi, quando si parla della sofferenza di Bill. Un po’ perché l’ha sempre considerato una lagna, un po’ però anche perché ricordo che i primi tempi, quando passava a trovarmi e lo trovava piangente sul mio divano, non sapeva mai che pesci prendere. La principessa in lacrime lo confonde, non sa come consolarla. E c’erano serate in cui i suoi soliti movimenti goffi e sgraziati non bastavano a far sorridere Bill. Di quelle serate, Eko non vuole più sentir parlare.
Quando sento la porta chiudersi, Bushido sta già preparando quella faccia lì. Quella delle domande gravi e importanti. L’ultima volta gliel’ho vista addosso quando mi ha spiegato cosa avrei dovuto fare con Bill in caso lui fosse morto. Rivederla adesso, quando ho mancato in quasi tutti i compiti che mi erano stati assegnati – tranne in quello di tenerlo vivo – è tremendo.
- Come sta Bill?
Lo chiede a voce bassissima. È il tono delle grandi occasioni. Delle grandi domande. Di quelle che non ammettono rispose elusive.
Ed io non so che dirgli.
Sta bene, perché sta con me.
Sta bene, e non so come starebbe se sapesse di te.
Sta bene, e non voglio che scopra di te.
Sta bene, ed ho paura di immaginare che starebbe meglio se gli dicessi che sei vivo.
- Sta bene. – ma è la voce di Fler a parlare. – Sta bene, Anis. Non preoccuparti.
Lui annuisce e vedo chiaro nei suoi occhi il desiderio di chiedere di più. Però non sa cosa, e di questo ringrazio, perché giuro che io non so più neanche cosa pensare. Figurarsi se riuscirei anche a dirgli qualcosa. Comunque solleva lo sguardo e lo fissa nuovamente su di me, riprendendo a sorridere.
- Grazie, Chaky. Sei stato un ottimo braccio destro.
Io lo guardo ed è la prima volta in mesi che mi viene da piangere.
Fler si alza in piedi.
- Credo che dovremmo andarcene tutti a casa a dormire, Anis. – dice a mezza voce, sorridendo sereno, - Te compreso.
Lui ride.
- Io da qui non mi muovo, Eko ha una camera degli ospiti che è un paradiso. – scherza, alzandosi a propria volta. – E poi credo che abbia ancora qualche altra curiosità su noci di cocco e signorine di facili costumi, da soddisfare. Visto che comunque… - si prende una pausa e deglutisce, - …sono stato via a lungo, mi sembra giusto restare finché non sarà completamente a posto.
Andiamo via con Eko che ci strilla alle spalle di non lasciarlo solo con il fantasma. Bushido lo afferra per il collo e se lo tira dietro, strofinandogli forte le nocche contro la testa, fra i suoi addolorati lamenti di protesta, e Fler ride ad alta voce e dice ad Eko che ognuno ha quello che si merita, e mentre lui lo dice io non posso che pensare che è una delle cazzate più enormi che gli siano mai uscite di bocca. Mi chiedo se ci creda e, mentre lo osservo smorzare il sorriso fino a lasciarlo scomparire del tutto appena la porta si chiude, realizzo che no, non ci crede affatto, e ritrovo un pezzo del mio Fler – intendo, quello che ho conosciuto io, quello con cui ho praticamente diviso tutto per gran parte dell’anno scorso e quello a cui ho continuato a pensare mentre andavo avanti con la mia vita intrecciandola alla vita di Bill.
Sospiro.
- Sei stato insopportabile. – commento mentre ci avviamo verso l’uscita.
- Sì, me ne sono reso conto. – annuisce lui, tranquillissimo, - Mi dispiace. Non è una cosa che controllo. Dovresti averne una mezza idea.
Sospiro ancora, mentre apro lo sportello della macchina posteggiata qua davanti.
- Stai continuando ad essere insopportabile. – gli faccio notare, infilandomi nell’automobile. Aspetto che faccia il giro della macchina e prenda posto al mio fianco, lo aspetto con una naturalezza perfino disturbante, ma mi accorgo che è disturbante solo nel momento in cui lui è effettivamente seduto e ci guardiamo come non avessimo idea di cosa fare adesso.
- Ti accompagno a casa? – chiedo a mezza voce, continuando a guardarlo incerto.
- Ovviamente sì. – risponde lui, quasi inorridendo. – Che pensavi?
- Non pensavo. – mi mordo un labbro. – Ci credi, se ti dico che non pensavo, vero?
- Ovviamente no.
Ingrano la marcia e metto in moto la macchina.
- L’Escalade la lasci qui?
- Sì. – annuisce lui, - Ma se deve essere tutto questo dramma, riportarmi al mio fottuto appartamento, la recupero e vado da solo.
- Fler, ti prego, è stata una serata abbastanza difficile-
- Ed io dovrei già essere a letto con i bagagli pronti per dopodomani. – ringhia ancora lui, guardando la notte fuori dal finestrino. – Cazzo. Ora come lo dirò a Sido?
Lo guardo, fermandomi al semaforo.
- Dirgli cosa?
Lui sospira pesantemente, scuotendo il capo.
- Che non parto più.
Scatta il verde ma io non mi muovo. Nessuno suona perché sono le due del mattino e questa zona a quest’ora non è affatto frequentata, perciò resto lì a due passi dall’incrocio e l’unica cosa che riesco a pensare è…
- Non parti?
Fler sospira ancora e si volta finalmente a guardarmi. Lo vedo che fa fatica. Mi dispiace che debba fare tutta questa fatica. So che era più facile per lui, quando poteva concentrarsi solo su Bushido. So che non è facile restare da solo con me. Lo vedo dal modo in cui trema appena la luce nei suoi occhi.
- No. – risponde alla fine, - Qualcuno dovrà pure essere nei dintorni a raccogliere i pezzi, quando dirai a Bushido che il suo ragazzino ora è il tuo ragazzino.
Mi si ferma il cuore in gola e ripenso all’inizio di questa serata. A me che, sicurissimo, riflettevo e mi dicevo che era impossibile Fler lo ammettesse ad alta voce. Assolutamente impossibile. E parlavo, sicuro del mio vantaggio. Adesso mi sento vulnerabile come un bambino.
- …già. – annuisco, rimettendo in moto. – Mi dispiace. – aggiungo poi. Mi ci sento quasi costretto.
Lui ride.
- Pensi davvero che ce l’abbia con te per questo? – chiede a mezza voce. Io non lo so. So solo che dovrebbe avercela con me e basta, per un motivo qualsiasi. Scelga lui. – Noi siamo a posto, Chaku-
- Non è vero. – mi guarda, io lo evito. – Non è vero che siamo a posto. Non dirlo.
Lo sento sospirare ancora.
- Okay. – annuisce alla fine.
Non diciamo più nemmeno una parola, fino a che non arriviamo sotto casa sua. È lì che, quando lo vedo scivolare fuori dalla macchina, mi viene voglia di fermarlo. Ci sono delle serate che ho trascorso con Fler che ricordo come infinite. Una è quella in cui l’ho violentato. Una è quella in cui abbiamo ammazzato Saad. Questa è un’altra. Sono sempre sere che è difficile lasciare andare via. Lasciare che si concludano sembra assurdo. Lo fermo afferrandolo saldamente per un polso e lui ricasca sul sedile. Ha fatto la stessa cosa quella notte lì, la prima delle nostre notti infinite, solo che allora cadere l’ha costretto a mugolare di dolore. Ora sospira soltanto, rassegnato, come se lo aspettasse.
- Dimmi, Chaku.
Sospiro anch’io.
- Allora ci vediamo domani?
Lui si volta a guardarmi.
- Potresti… non lo so, fregartene? Fare finta che io non esista? Dimenticarti di me, cancellarmi completamente da quella testaccia di cazzo che ti ritrovi? È un’ipotesi contemplabile, Chakuza?
La risposta viene fuori naturale.
- No.
Restiamo immobili solo per un secondo. Lui ha già le gambe fuori dalla macchina ed una mano piantata nel sedile a sostenere il peso del corpo. Quando la solleva per afferrarmi per il bavero del giubbotto, si avvicina quasi automaticamente, e prima di poterlo realizzare davvero ci stiamo già baciando – frenetici e sconvolti, pure con una certa rabbia, come se nessuno dei due lo volesse davvero, o odiasse dover ammettere di volerlo, invece.
Si stacca da me con violenza, ansimando, ed io lo trattengo per la maglia. Non lo vedo, perché lascio gli occhi chiusi.
- Cristo. – me lo sussurra sulle labbra, - Vaffanculo. A te, ai tuoi no del cazzo e a questa situazione di merda. Vaffanculo.
Non rispondo, continuo a cercare di recuperare un ritmo più decente per il mio respiro. E continuo anche a trattenerlo.
- Lasciami andare, Chakuza, Cristo santo. – mi implora lui, quasi con dolore, ma non mi toglie le mani di dosso. Continua a stringermi per il giubbotto.
- Ti lascio appena mi lasci tu.
- Vaffanculo.
- Piantala.
- Vaffanculo, Chakuza.
Restiamo a respirarci addosso ancora per qualche secondo, in perfetto silenzio. Poi mi lascia andare e, quando lo fa, anche io lascio andare lui. Mi ritrovo i suoi occhi addosso appena apro i miei. Sono furiosi e gelidi. Deglutisco.
- Ora sono io che dovrei chiederti perché l’hai fatto. Dopo avermi detto che non volevi più vedermi, poi. – dico duramente, reggendo lo sguardo, - Ma non te lo chiedo, Fler. Perché lo so già. Tu che dici?
Dice che mi tira un cazzotto, evidentemente.
Batto con la testa contro il finestrino, dietro, e mi faccio un male cane. Non so se mi fa più male la testa o lo zigomo su cui è arrivato il cazzotto.
- Cazzo! – mi lamento, cercando di massaggiarmi ovunque contemporaneamente, - Fler?
Lui è già uscito dalla macchina.
- Sei un pezzo di merda. – mi dice, furioso, - Ci vediamo domani. – e poi chiude con violenza lo sportello ed entra nel palazzo, scomparendo alla mia vista.
Rientro in casa mezz’ora dopo con un mal di testa allucinante e lo zigomo gonfio e bollente. Vorrei ficcare la testa nel freezer, almeno… non so se servirebbe a qualcosa, in realtà, ma è quello che voglio fare adesso – anche solo per andare alla ricerca di un qualche cosa di freddo da mettermi in faccia – quindi apro lo sportello, e prendo a smadonnare quando chiaramente il cazzo di aggeggio è del tutto allagato, dal momento che ha deciso di rompersi. Fanculo anche a lui. L’acqua è colata fin nello scompartimento di sotto, e ne viene fuori un odore disgustoso. Dio che schifo.
Dovrei pulirlo, probabilmente, ma non mi va per niente. Sfilo il maglione che odora di Fler e mi viene la nausea. Sarà il senso di colpa: visto che sono troppo incasinato per percepirlo davvero, si presenta come voglia di vomitare. Sono già a due passi dal bagno, quando squilla il cellulare.
Il nome sullo schermo mi gela il sangue nelle vene. Lo fisso per un tempo che mi pare lungo minuti interi e non riesco a decidermi su cosa fare. Sono quasi le tre. Dovrebbe stare dormendo.
- Bill? – chiamo piano appena riesco a convincermi ad accettare la chiamata, - È successo qualcosa?
- Aaaah, Peter! – mi strilla nell’orecchio, ma non è un urlo spaventato, è solo concitato e un po’ ansioso e c’è anche una traccia di quell’eccitazione irrazionale che prende Bill quando è preoccupato per qualcosa di stupido che sa perfettamente andrà nel migliore dei modi ma sul quale si diverte a ricamare drammi senza motivo. – Ci hai messo una vita a rispondere, mi stavo preoccupando!
- Bill… - sospiro, - ma hai visto che ore sono?
- Sì, naturalmente, ma dovevo chiederti se sei riuscito a fermare Fler, non pretenderai mica che aspettassi domattina! Se non ci sei riuscito dovrò andarlo a recuperare io personalmente. – borbotta con aria cospiratoria, - Scommetto che hai fatto fiasco. Devo mettermi il cappotto? Metto il cappotto. Mi passi a prendere? Andiamo insieme.
Mi passo una mano sulla testa, cercando il bernoccolo. Lo trovo e lo pesto un po’. Cristo che male.
- Bill… - lo richiamo, mugugnando, - …sono quasi sicuro che tu mi abbia nascosto qualcosa.
Lui si lascia andare ad una mezza risatina imbarazzata.
- Fler mi aveva chiesto di non dirti che voleva andarsene. Perché voleva parlartene lui per primo, capisci?, non potevo tradirlo.
Mi si conficca uno spillo nel petto solo a sentire la parola. Solo a sentire lui parlare di tradimento. Lui che per me ha sfilato l’anello e il bracciale di Bushido. Li ha tolti di mezzo – e li aveva tenuti addosso per mesi, prima – solo per far spazio a me. Ed io… Cristo.
- Non devi preoccuparti per lui. – lo rassicuro, deglutendo a fatica, - Ha deciso di restare, alla fine.
Bill strilla contento.
- Davvero?! Ma è fantastico! E come ci sei riuscito?!
Ha provato ad andarsene e me lo sono stretto contro, Bill. Tutto qui.
- Gli ho fatto capire che avevamo ancora tutti bisogno di lui.
Bill ride ancora.
- Bravo! – si complimenta, - È vero.
- Già.
Mi lascio andare sul divano e poi affondo il naso fra i cuscini. C’è l’odore di Bill, qui. È un odore piacevole, un odore tranquillo. È sempre lui, sempre uguale, sempre lo stesso da mesi. Non è un intruso, non è sbagliato, è l’odore che dovrei avere addosso sempre. Poi ripenso a Bushido vivo in casa di Eko. Non so più quale sia l’odore giusto. Non lo capisco più.
- Peter? – mi chiama lui, - Sei stanco, vero? Lo sento dal modo in cui respiri.
Sbuffo una mezza risata.
- Capisci se sono stanco dai miei respiri?
Ridacchia anche lui.
- Ovviamente sì. – dice con una punta di orgoglio. – Ci sentiamo domani verso mezzogiorno? Così dormiamo e poi ci organizziamo per la giornata, okay? Ho voglia di vederti…
Inspiro ed espiro e penso solo al profumo.
- Sì, anch’io ho voglia di vederti.
Bill ride.
- Allora ci sentiamo domani. Buonanotte. – dice a bassa voce, prima di interrompere la conversazione.
Tutte le luci di casa sono spente ad eccezione di quella del bagno. Sento il bisogno fisico di una doccia, ma sento molto più il bisogno di dormire qui, perciò lascio perdere l’odore di Fler. Lo butto fuori dalla testa a calci. Affondo ancora più profondamente fra i cuscini e mi addormento.

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Scritto Sul Corpo

di lisachan
Quando apro la porta di casa, Bill è così slanciato in avanti che praticamente mi cade fra le braccia. Siccome non pesa niente, reggerlo non è difficile e non è che a ritrovarmelo addosso io faccia fatica a sostenerlo. Siccome, però, è illegalmente alto, se mi si getta addosso in questa maniera, mantenere il giusto equilibrio è un po' problematico, ed è per questo che, appena me lo vedo cadermi sopra, lascio andare un lamento un po' stupito e cerco – invano – di reggermi sulle due gambe che la natura mi ha dato. Purtroppo fallisco nel tentativo e in meno di due secondi io e Bill ci ritroviamo a terra. Io ho anche battuto con una certa forza – tra l'altro contro qualcosa che non sono certo di volere identificare – ma Bill sta ridendo, perciò è tutto ok.
Lo sento chinarsi un po' sul mio collo, mentre mi stringe con più convinzione e continua a ridere. Per un secondo penso voglia solo baciarmi, poi lo sento strusciare il naso contro la mia pelle e vado nel panico – solo un momento, il momento che in genere uso quando Bill sta per dirmi “sei stato con Patrick”. È un momento che mi serve perché “stare con Patrick” ha valenze tremende, nella mia testa. Sono valenze che non esistono, nella testa di Bill. Io non so lui cosa creda facciamo io e Fler quando stiamo insieme. Probabilmente è convinto che giochiamo a scacchi o qualcosa del genere. Comunque questo momento mi serve per tranquillizzarmi e convincermi del fatto che no, Bill non sta per accusarmi di alto tradimento, sta solo per annunciarmi che ho l'odore di Patrick addosso. Che per me equivale all'alto tradimento di cui sopra, ma per lui no. Quindi devo calmarmi per forza, se non voglio fare qualche cazzata delle mie.
- Hai ancora il suo odore addosso! - ride quindi, sistemandomisi in grembo e scatenandomi una guerra fra le gambe. Che poi, veramente, vorrei alzarmi e dare una testata contro il muro, ma di quelle forti, perché è indecente la successione di eventi che mi ha portato a questo momento. Cioè, io ieri ho quasi schienato Fler contro lo sportello della sua Escalade, eh. Ed eravamo tipo in mezzo alla strada. Io non so con che diritto faccio certe robe, giuro. Le faccio senza volerlo, forse. Che poi non è vero, è che probabilmente voglio un po' troppe cose tutte insieme.
Oltretutto, non è mica tanto normale che Bill mi riconosca addosso l'odore di Fler. Non è tanto normale che lo riconosca e non è tanto normale nemmeno che lo accetti lì com'è. Però c'è anche da dire che Bill probabilmente è davvero convinto noi si giochi, quando si va insieme da qualche parte. Che poi io e Fler non siamo mai andati da nessuna parte, tipo. Solo quando s'è trattato di Saad, e lì non si andava certo per divertirsi, comunque.
- Sì, ci... – invento palesemente, - è che aveva freddo.
Non che io mi renda conto di cosa ho detto. Cioè, aveva freddo. Che vuol dire, che l'ho scaldato? E come? Prego che Bill non me lo chieda perché non saprei come nascondergli che avevo una buona metà della sua lingua in gola, ieri sera, mentre ci dibattevamo come due ossessi fra il volante, il cruscotto e la leva del cambio. Penso a Fler, al cruscotto, alla leva del cambio, alla sua lingua in gola e cerco di calmarmi.
Bill, comunque, annuisce come se la mia fosse stata la risposta più logica possibile. E se me ne stupisco io davvero nella testa di questo ragazzo c'è qualcosa che non va. E d'altronde è il mio ragazzo. Sarebbe strano se fosse normale.
- L'importante è che sia rimasto. – dice quindi con una tranquillità addirittura inquietante. Dico io, d'accordo. Pure per me va bene se è rimasto. L'ho limonato perché rimanesse. Avrei probabilmente fatto di tutto purché rimanesse – e nemmeno sapevo che anche a Bill l'idea che lui partisse dava fastidio.
Non intendo sentirmi giustificato sul punto o pensare roba del tipo "eh, ma se alla fine Bill è d'accordo, il sacrificio è valso la pena". Baciare Fler ieri – e comunque mi ha baciato lui, credo – è stato quanto di più lontano da un sacrificio abbia mai vissuto nella mia intera vita.
Ma ho problemi più seri di questo, al momento. In realtà Bushido è vivo quindi io, a Fler, non dovrei nemmeno pensare. Così come non dovrei pensare a nient'altro che al fatto che Bushido è vivo anche ora che Bill mi si sistema addosso con la palese intenzione di farmi impazzire.
Oltretutto, pensare a Fler ieri mi dà ancora fastidio, soprattutto se lo associo a Bushido. Ma ho già detto che non dovrei pensarci, quindi perché lo sto facendo?
Comunque annuisco, anche perché Bill – a vedermi qua immobile che lo fisso con la solita occhiata da triglia che riservo di default a tutti gli uomini che scopo, per un motivo o per l'altro, quando dicono cose che mi sconvolgono – potrebbe pure insospettirsi. Quindi, appunto, annuisco e forzo un mezzo sorriso, incerto sul da farsi. Bill risolve il problema alla radice sporgendosi in avanti e baciandomi.
Io mi ci perdo tempo niente, nel senso che non si può davvero pretendere della razionalità, da me, perché io non ne ho in questi frangenti. Non riesco davvero nemmeno a colpevolizzarmi del tutto per aver baciato Fler, perché non è una cosa che mi stupisca. Io, davvero, non ce la faccio a frenarmi, di fronte a certe cose. Non lo faccio per cattiveria, lo faccio per affetto. Il mio enorme problema è che io Bill lo amo. Quindi se Bushido dovesse mettersi in testa che lo rivuole indietro, non so davvero come riuscirei a staccarmene. O come potrei fare a trattenermi e non saltargli addosso anche sapendo che non è più mio. Il problema si ripropone con Fler: io con quell'uomo c'ho una roba, non ho idea di cosa sia, mi fa paura la possibilità di capirlo un giorno, ma se mi si piazza davanti, io non ce la faccio a tener giù le mani. E' più forte di me, ma non è che voglio fargli del male. Non voglio fare del male a nessuno, io li voglio solo per me.
Lo stringo per i fianchi, attirandolo contro di me con una mano e cercando di eliminare la roba che ho sotto il sedere con l'altra. Il pavimento non è mai stato in cima alla lista dei posti in cui scopare, ma non ricordo di averlo fatto per terra con Bill neanche una volta, potrebbe essere un'esperienza. Bill mi mugola e mi sorride fra le labbra, io sorrido fra le sue e mi preparo a sentire dolore alla schiena per il resto dei miei giorni mentre lui mi appoggia le mani sulle spalle con una leggerezza che non ha bisogno di chiedere niente, e mi spinge a stendermi sul parquet, che scricchiola un po' sotto il nostro peso mentre Bill si solleva leggermente per sfibbiare i pantaloni e guardarmi con un sorriso sornione che mi manda fuori di testa.
Si tira su sulle ginocchia ed i jeans scivolano lungo i suoi fianchi stretti e magri. Io mi mordo un labbro e lui ansima pesantemente quando sollevo una mano a sfiorarlo attraverso il tessuto sottile dei boxer. Mi lascia fare, seguendo col bacino i movimenti della mia mano e strusciandosi lentamente contro il mio palmo aperto, e nel mentre afferra la maglia per gli orli inferiori e la tira su.
E lì i miei problemi vengono di nuovo fuori tutti nel loro ordine di importanza. Lì metto da parte le cazzate, veramente, perché c'è un particolare del corpo di Bill che tendo ad ignorare, dimenticare, cancellare – dato che lo odio – ma che esiste. È lì ed è enorme, è impossibile fingere che non esista.
Perciò deglutisco e, anche se continuo a muovere la mano sul suo corpo, so già che fare l'amore adesso non sarà bello come avevo sperato. Perché vedere quel tatuaggio a me mi manda fuori di testa. E non in senso positivo, per una volta.
Quattro mesi fa, Bill si è presentato a casa mia con un sorriso smagliante sul volto ed i lineamenti un po' tesi e provati. Bill ha quella faccia lì solo quando litiga con Tom, quando è stato ingiustamente privato della propria settimanale dose di Fler – che è peraltro una cosa che posso capire benissimo, anche se mi auguro che fra loro due non funzioni esattamente come funziona fra noi due – e quando torna stanco da un qualche impegno lavorativo. Al che, quando l'ho visto spuntare sulla soglia con quel faccino, mi sono giustamente preoccupato. Gli ho chiesto cosa ci fosse che non andava, lui ha risposto con un mezzo sorrisino scuotendo il capo e aggiungendo "è stata solo una giornata un po' faticosa", poi mi ha baciato, io l'ho tirato su per i fianchi, l'ho steso sul materasso e, quando gli ho sfilato di dosso la maglia, l'ho visto.
E lì mi sono fermato. Per la prima e unica volta nella mia intera esistenza – io non mi fermo mai – io mi sono fermato. Mi sono fermato, l'ho guardato, ho cercato di trattenermi e gli ho chiesto cosa cazzo fosse quel fottuto tatuaggio.
Sul suo fianco sinistro, ancora un po' arrossato e macchiato qua e là di inchiostro e qualche gocciolina di sangue già vecchio, campeggiava un'enorme frase il cui senso intrinseco ancora mi sfugge - "non smetteremo mai di gridare, torneremo alle radici", non è una frase che davvero significhi qualcosa: le radici dei Tokio Hotel sono i Devilish ed io mi auguro che Jost sia un uomo abbastanza furbo da impedire che questo crimine contro l'umanità possa avvenire. Comunque non era importante che quella frase avesse o meno un senso. Il punto non era la frase. Il punto era la forma del tatuaggio.
Quel tatuaggio è una B.
Mi si potrebbe dire che no, non è vero, non è una B, sono due dannate frasi che si intrecciano l'una con l'altra e l'illusione ottica di quell'intrecciarsi forma qualcosa di simile ad una dannata B – che peraltro, se anche fosse una B, potrebbe tranquillamente essere l'iniziale di Bill, Bill è un egocentrico e da lui un po' queste cose uno se le aspetta.
Se io non conoscessi Bill bene quanto lo conosco, probabilmente darei anche ragione a motivazioni simili. In realtà io lo conosco. In realtà so che, se non me ne ha parlato, è perché sapeva che non avrebbe avuto niente da dirmi al riguardo. Che la decisione era già presa ed io avrei anche potuto tirar giù la casa a cazzotti e urlargli in testa la qualsiasi, il risultato non sarebbe cambiato, lui quel tatuaggio l'avrebbe avuto.
Bill agisce così solo quando si tratta di Bushido. L'ho visto succedere. Ho visto venir giù un temporale epico, una roba da arca di Noè, verso i primi di gennaio, l'anno scorso. Ho visto Tom e Fler uniti nel tentativo di convincere Bill non fosse il caso di andare al cimitero a dare alla lapide di Bushido la lieta novella della morte di Saad per sua mano. Ma Bill è stato irremovibile, lui doveva andare e sarebbe andato, e l'ha fatto, alla fine. Fler l'ha accompagnato – Tom s'è giustamente rifiutato – ed al suo ritorno, quando me lo sono ritrovato congelato sulla soglia di casa che implorava per una secchiata d'acqua bollente in testa, mi ha raccontato scene allucinanti che vedevano Bill immobile davanti alla lapide che raccontava alla foto sorridente di Bushido ogni singolo minuto di quella notte disastrosa, mentre la bufera gli agitava i capelli e gli congelava le lacrime sulle ciglia e il sorriso sul volto.
Bill fa così, quando si tratta di Bushido. Ed è per questo che questo tatuaggio parla di lui.
Gli lascio scorrere addosso la mano libera, Bill geme ed io corro con le dita oltre l’orlo del boxer, perché si sta perdendo nelle mie carezze ed adoro quando lo fa. Adoro osservarlo quando chiude gli occhi ed il mio nome comincia a tremargli sulle labbra come volesse pregarmi e non riuscisse a capire bene per che cosa – come non riuscisse a capire se mi vuole più veloce, più lento, più a fondo o appena più indietro, semplicemente perché tutto ciò che vuole è avermi ovunque in ogni modo e non sa come chiedermelo.
- Peter… - mi chiama piano, ed io gli sfilo lentamente i boxer. E mentre lo faccio lo guardo e lo trovo ad accarezzarsi piano il fianco, dal basso verso l’alto. Mi ha detto che lo fa perché lì la pelle è molto sensibile e passarci sopra con la punta delle unghie gli dà i brividi.
Io credo che ogni tanto Bill abbia bisogno di accarezzarsi addosso Bushido. Credo che non lo faccia coscientemente, però ci sono dei momenti in cui ha bisogno di sentirselo sulla pelle, e questo ormai è l’unico modo in cui può farlo.
Fa male. Fa malissimo pensare che Bill ha tolto il bracciale e la fede e che togliere di mezzo quelle cose ha portato solo a peggiorare la situazione. Prima non c’era Bushido scritto sul suo corpo. Adesso sì. Adesso quell’onda di inchiostro nero gli marchia la pelle e resterà lì per sempre. Bill non se la strapperà mai di dosso, fa parte di lui. Come Bushido, in realtà: lui è sempre stato lì; questo tatuaggio, più che esserselo impresso sulla carne, Bill l’ha lasciato affiorare passo dopo passo. Ed io lo so. Lo so mentre lo stringo e mentre lo accarezzo fra le gambe e mi inumidisco le dita ed entro dentro di lui con tutti i dannati riguardi del caso, piano piano, lentamente, con delicatezza. E lo so mentre mugola e geme il mio nome, e smette perfino di accarezzarsi il fianco. Bushido resta lì, ed il fatto che resti lì è spaventoso adesso come mai prima, perché adesso Bushido è qui per davvero.
Ogni tanto mi chiedo se Bill non abbia tolto i gioielli pensando già a quando si sarebbe tatuato quella B addosso. O se forse sia stato un bisogno nato successivamente, proprio perché mancava il peso dell’oro e dell’argento e dei brillanti di Bushido attorno al suo polso ed al suo anulare sinistro. Mancava quel peso e lui s’è inciso addosso un peso diverso ma ugualmente importante, forse.
Non lo so.
Non riesco davvero a pensarci quando lo sento stringersi ritmicamente attorno a me, seguendo la traccia delle mie spinte lente e calibrate. Non riesco a pensarci anche se vorrei e forse dovrei, e per un attimo – solo uno – riesco perfino a dimenticare che Bushido è ancora vivo, che questa storia non può che finire male e che in questo momento ho l’impressione che la storia fra me e Bill non sia ancora nemmeno cominciata, che sembra già sia costretta a concludersi.
Riesco a dimenticare tutto per un solo momento, per il momento in cui Bill trattiene il respiro e poi viene fra le mie dita, per il momento in cui lo sento stringersi convulsamente un’ultima volta attorno a me e vengo anch’io, soffocando gli ansiti pesanti sulla pelle morbida e profumata del suo collo. Lo dimentico e spengo il cervello per tutti i secondi successivi, cercando di prolungare le dimenticanze il più possibile, cercando di infilare in quel buco nero di tutto – Bushido, Fler, perfino il mio incasinatissimo cervello – lasciando riaffiorare solo Bill.
- Mi sei mancato così tanto ieri… - mi sussurra Bill direttamente all’orecchio. I suoi capelli sono ovunque addosso a me, mi solleticano il naso e mi s’infilerebbero negli occhi se non tenessi le palpebre abbassate. Il pavimento è duro e scomodo ed io dovrei dire al mio ragazzo che il più grande amore della sua vita non è morto come crede. Ma non posso farlo, perché dirglielo implicherebbe perderlo. Ed io forse pecco di egoismo, ma non sono disposto a cederlo. Così come non sono disposto a cedere nient’altro.
Non so davvero come farò a guardare nuovamente negli occhi Bushido.
Non so davvero come farò a guardare nuovamente negli occhi nemmeno me stesso.
Non so davvero, soprattutto, come farò a guardare nuovamente negli occhi Bill.
- Anche tu mi sei mancato tanto. – rispondo tirandomelo contro per la nuca ed aiutandolo a sistemarsi per bene contro il mio corpo. – Resti un po’?
- Sono scappato col benestare di David! – mi informa lui con una risatina, mentre si stringe contro di me in cerca di un po’ di calore, - Resto a cena ed anche per la notte. Contento?
Io mi lascio sfuggire un sorriso un po’ triste. Fortunatamente, Bill non può vederlo.
- Sì, molto. – sussurro piano, prima di baciarlo ancora. E tapparmi la bocca. Perché è sicuramente meglio così.

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Crash Into Me

di tabata e lisachan
Io sono un tipo piuttosto abitudinario, nonostante il lavoro che faccio. O forse proprio per il lavoro che faccio. Quando passi periodi lunghissimi a dormire in una città diversa ogni notte, ti attacchi alle piccole cose pur di ricreare un minimo di atmosfera di casa. Per questo quando sono in tour faccio colazione con una certa marca di cereali, e solo con quella, che poi è la stessa che uso quando sono a casa. Voglio oggetti per il bagno precisi, voglio camerini che contengano più o meno tutti le stesse cose e il mio tour bus, per quanto è umanamente possibile, contiene tutto ciò che possa farmi dimenticare che mi trovo su un mezzo semovente. Nella mia cuccetta ho una specie di versione da viaggio della mia camera vera: stesse foto, stesse creme, stessi oggetti sul comodino.
Tom dice che sono quasi maniacale, io dico solo che questo è il mio modo di non alienarmi. Ci si perde facilmente senza punti fissi. Dopo due settimane di tour, per dire, già ti senti un po' fuori fase. Tre mesi lontano da casa, dormendo su un camion, possono avere delle conseguenze non indifferenti sul cervello umano. Mio fratello ovviamente non condivide i miei metodi. Lui per combattere l'alienazione ci entra dentro con tutte le scarpe. Dice che ha due vite diverse, una quando è a casa e una quando invece a casa non c'è. La differenza sostanziale tra le due vite è che in tour si permette di cambiare ragazza ogni notte e di scopare come se non ci fosse un domani, cosa che non fa quando è a Berlino perché quando è a Berlino non ha bisogno di scaricare nessuna tensione, né tantomeno di farsi bello raccogliendo donne come la rete per la pesca a strascico perché non abbiamo i giornalisti attaccati al sedere così spesso come invece uno pensa. Perché la verità su mio fratello, alla fine, è che fa sesso perché gli piace, certo, ma lo fa anche perché non fa nessuno sport e quello è il modo che gli rimane per scaricare lo stress. Beh, quello e la Wii, ma diciamo che preferisce la prima opzione per ovvie ragioni. Questo, tra le altre cose, mi fa venire in mente che Chakuza è uguale. Lui farà anche sport, credo, a dire il vero non lo so, ma quelle due spalle lì deve averle per qualche motivo, comunque il fatto è che Chakuza fa sesso per lo stesso motivo. E al momento la cosa mi riguarda da vicino perché, insomma, lo fa con me e questo significa che non c'è momento che passiamo insieme senza che lui mi spalmi su qualche superficie, così, senza nemmeno grandi discorsi a volte. Alché c'è da chiedersi se non sia molto, molto stressato ma credo di no. Credo che nel suo caso oltre allo stress, ci sia anche il fatto che gli piace proprio. E a me piace che a lui piaccia perché piace anche a me. E comunque mi sono perso.
Dicevo che io sono un tipo piuttosto abitudinario quando sono in tour, e anche a casa non scherzo. Se sono nel mio appartamento, e quindi non ho niente da fare, e quindi posso fare più o meno tutto quello che voglio, di solito non faccio assolutamente niente; che per uno che di solito lavora dalle sei del mattino alle tre di notte con l'obbligo di sorridere a chiunque, è la vacanza migliore del mondo.
Mi sveglio, faccio colazione e telefono a Peter per parlargli essenzialmente di nulla e distogliere la sua attenzione da qualunque cosa stia facendo per farlo concentrare su di me, che mi sono appena svegliato e ho assoluto bisogno di sentirmi amato. Lui di solito la mattina è un amore - Peter è sempre un amore, in realtà, tranne quando s'incazza per qualcosa, che di solito non sono io, però, quindi, in sostanza, per me è sempre un amore - e sta a sentire tutto quello che gli dico e ride. Ed è un bel suono il Chaku che ride al mattino. Quindi, di solito, dopo averlo tenuto un tempo indecente al telefono, telefono a mio fratello, che si ingelosisce se non faccio perdere almeno quaranta minuti anche a lui. A quel punto mi faccio la doccia, scelgo i vestiti e raggiungo Peter a casa sua, o lui viene qui. A volte vado alla Beatlefield se sono sicuro che Stickle non c'è. Ma di solito c'è, perché lui lavora.
In queste ultime settimane, però, la mia routine è stata ampiamente devastata dalle paranoie di David. Mentre ero a Disneyland con Peter mi ha fatto promettere che per un po' ci saremmo visti di meno, io e lui, e con più attenzione perché i giornalisti stanno cercando lo scoop. Averglielo promesso, in realtà, un po' mi scoccia perché quando prometto, poi mantengo anche e questo significa che per vedere Peter devo fare delle acrobazie che nemmeno il Cirque du Soleil, tipo che devo uscire di casa struccatissimo e con il viso tutto coperto e devo prima andare da qualche parte che con la casa di Peter non c'entra niente, qualcosa di poco interessante per i giornalisti nel caso fossero appostati, tipo, non lo so, il supermercato o un negozio qualunque - anche se poi non è vero che non gli interessa perché si inventano storie su qualunque cosa. Tipo vado al mercato, compro due mele, e all'improvviso sto seguendo una nuova dieta di qualche guru indonesiano che prevede solo due frutti al giorno. Vado in farmacia, e sono sicuramente sotto anti-depressivi. Entro in un negozio di animali e voglio comprare un chihuaua come Paris Hilton. In sostanza ovunque vada, se loro mi stanno dietro, uscirà un articolo. Però questo serve, li depista. Dopo un po' che compro mele, anti-depressivi e chihuaua torno a casa, loro si stufano e quindi io esco e vado da Peter.
Peter di questi problemi non ne ha, a lui non lo segue nessuno. A lui basta arrivare in macchina e lasciarla nel parcheggio interno del complesso residenziale. Lì dentro i paparazzi non possono entrare, per cui lui può anche scendere dall'auto con una freccia sulla testa e la scritta al neon - CHAKUZA - che lampeggia, tanto non lo vede nessuno. Comunque, dicevo, per via della paranoia di David, ho promesso di non andare di continuo da Peter. Quindi stamattina, dopo la mia colazione, dopo aver chiamato il mio amore e aver saputo che è a casa, si annoia, gli manco - e se fossi lì faremmo l'amore tipo ovunque, tipo in ogni modo, tipo che è meglio se non ci penso perché sono tre giorni che non lo vedo e non ho nemmeno la testa impegnata a preparare concerti e quindi lo voglio. Uffa. - dopo tutto questo, anche dopo Tom, la doccia, i vestiti e David che mi telefona per farmi promettere di fare il bravo - d'altronde lo fa solo quelle quattro o cinque volte al giorno - non ho niente da fare. Quindi mi accoccolo sul divano e decido che posso anche dare un'occhiata a quel mezzo quintale di riviste che mi arrivano per posta e che di solito ammucchio tutte insieme per leggerle quando proprio non riesco a cazzeggiare in altro modo. Ci sono un sacco di cataloghi di moda, qualche rivista del settore e tutta la stampa che per un motivo o per un altro possa contenere articoli che mi riguardano. Mi piace sapere cosa dicono su di me e tenere il conto delle volte che sono diventato anoressico, ho tentato il suicidio, oppure ho litigato con il mio manager per qualche motivo da diva. E poi, visto che sono chiuso in casa perché qualcuno cerca di capire con chi me la faccio, allora voglio sapere quanto ci sono andati vicino. L'ultima volta che abbiamo avuto un allarme del genere avevano puntato su Jimi Blue. Andiamo! Ma vi pare? Quando l'ho detto a Chakuza ha riso così forte che non riuscivo nemmeno a farlo smettere. Quando poi lo ha incontrato ad una serata, una settimana dopo, poca ci mancava che riprendesse a ridergli in faccia.
Se hanno pensato a Jimi Blue allora stanno seriamente pescando a caso, non sono davvero preoccupato. Tolgo di mezzo le riviste di moda, recupero le altre e ci do un'occhiata per vedere da quale partire. Di solito le metto in ordine di interesse, prima le notizie o gli articoli più noiosi, poi quelle che davvero vorrei leggere, così mi godo di più l'attesa. Solo che questa volta non funziona, perché mentre sto impilando le riviste, l'occhio mi cade sulla copertina di Bravo e mi congelo.
Chiunque ci sia dietro a tutto questo, ha un pessimo senso dell'umorismo e se solo riuscissi a staccare gli occhi da quello che vedo, allora starei già chiamando la redazione, David e chiunque in questo momento meriti le mie urla.
La foto in copertina mostra l'entrata della Unversal Music Deutschland, e un uomo che sta uscendo dal portone. E' alto e indossa un cappotto elegante, nero a tre quarti ma questo non importa, per certi versi non lo guardo nemmeno. E' il titolo che mi fa incazzare, perché Bravo ne ha dette tante, ma adesso ha passato ogni limite.
Sono tornato, dice il titolo. Chi sono? E poi i suoi due nomi. Sono le parole di Wer Ich bin e io voglio ammazzare qualcuno.
All'interno l'articolo è semplicemente disgustoso. Ci sono solo due foto, prese da angolazioni diverse, ma le tre pagine che compongono l'articolo le riportano all'infinito: ingrandite, speculari, sgranatissime, nel dettaglio. E ogni didascalia è peggio di quella che la precede, e sono così arrabbiato che mi viene da piangere. E piango, cazzo, perché non ne avevano il diritto. Dicono che Bushido è tornato, come se fosse andato - che cazzo ne so, in America! - e ora fosse di nuovo qui. Anis è morto, stronzi, non può tornare. L'articolo non lo leggo tutto, perché non ne ho bisogno. Già alla prima pagina sono nauseato e non m'importa neanche delle loro congetture. Vaffanculo.
Dicono che lo hanno visto, che era lui, giocano con un uomo che è morto un anno fa e con i sentimenti miei e di tutti gli altri. E non riesco nemmeno ad immaginare come si possa essere così stronzi da sfruttare un dolore simile pur di vendere.
Tornato un cazzo, se fosse tornato - come poi? COME? E' morto, lo sanno bene - se fosse tornato, in qualunque modo, è da me che sarebbe venuto. E invece lo abbiamo seppellito e sono stato a guardare ogni singolo grammo di terra che gli abbiamo versato sulla bara fin a ricoprire tutto per bene. E' morto e questi non riescono a lasciarlo in pace nemmeno dopo il suo funerale. Vaffanculo.
Sono in piedi e recupero il cappotto un attimo dopo. Al diavolo le paranoie di David, ho bisogno di vedere Peter. E ne ho bisogno adesso.
Se mi seguono, almeno scriveranno qualcosa di vero.
*
A casa di Peter ci sono arrivato con la mia auto, ignorando la guardia del corpo che ho sempre fra i piedi. Non ho nemmeno sentito cosa diceva, l'ho evitata e basta. Mi hanno anche fotografato, mentre uscivo, ho visto i flash e me ne sono fregato anche di quelli. Venitemi dietro, nessun problema. Se non capite con chi scopo, siete liberi di inventarvelo, venirmelo a chiedere, pedinarmi. Ma giocare con i morti, no.
Parcheggio di traverso, male e di fretta, in mezzo alla strada perché Peter si ostina ad abitare in un palazzo popolare, tipo, non lo so. C'è un sacco di gente nel suo condominio, alla faccia dell'anonimato. E non c'è portiere, il portone fa schifo. Mi attacco al campanello perché le chiavi di casa sua le ho nella borsa. E la borsa è a casa, col mio cellulare, per cui non ho nemmeno avuto modo di chiamare David ed urlargli contro mentre venivo qua.
"Chi è?"
"Bill. Apri."
Sono dentro praticamente mentre il portone scatta e mi faccio le scale a piedi, che tanto l'ascensore non funziona mai. Arrivo su che sto già imprecando e non so nemmeno che cosa dico, in realtà. "Ehi, che sorpresa, non ti... aspettavo." Lui mi guarda perché sono un disastro, sono tipo in tuta e sto urlando da solo. E piango. "Che succede?"
Chakuza si allarma subito se io sono sconvolto. O meglio, i primi tempi si agitava tutto perché - in effetti - non era abituato al fatto che io faccio un dramma di qualunque cosa, per cui era sempre in agitazione. Poi un po' ha imparato. Solo che ora sto piangendo e sono visibilmente fuori di me, quindi è preoccupato.
"Io non posso crederci!" Sbraito e lui mi fa entrare e chiude la porta. Mi guarda con gli occhioni rotondi sgranati. "I redattori di Bravo sono esseri ignobili sono la... la feccia dell'umanità. Io non capisco come si possano fare cose del genere e poi tornare a casa a dormire, cazzo! Ci sono cose su cui non si può scherzare, non si deve! Ma che cazzo di gente è, questa? Eh? Me lo spieghi?"
"... non lo so?" Poi mi ferma per le spalle. "Bill, non capisco niente se fai così. Mi dici che cos'è successo, per favore?"
E io tiro su col naso e poi annuisco. Quindi gli passo il giornale. "Sono dei bastardi," dico soltanto. E aspetto che anche lui legga il titolo e veda la foto. E s'incazzi. E lo voglio proprio il Chaku incazzato.
Aspetto. Lui legge. E io aspetto e non esplode.
"Quando è uscito questo numero?" E' la prima cosa che chiede quando finalmente alza gli occhi dalla rivista. Si è letto tutto l'articolo.
Mi stringo nelle spalle. "Non lo so, ieri credo. Non lo so! Chi se ne frega!" Replico. "Hanno preso le foto di uno che ci assomiglia e hanno messo su questa... questa cosa! Non è giusto! Non dovrebbero avere il permesso di fare cose del genere, loro-"
"Bill."
Io lo guardo per due motivi: il primo perché mi ha chiamato con un tono preciso, che mi mette una gran paura anche se non so perché. Il secondo è che mi rendo conto che non è affatto inorridito da tutta la faccenda. E dovrebbe. Chakuza riesce ad inorridirsi per molto meno. Quindi mi chiedo perché sia sbiancato, perché mi guardi e dentro i suoi occhi io ci veda un senso di colpa che non ha senso di trovarsi lì.
"E' meglio se ti siedi, vuoi?"
"Sedermi? No, non voglio sedermi, Peter," sbraito. "Voglio che andiamo da David, lo carichiamo in macchina e quindi andiamo a spaccare la faccia al direttore di Bravo. Ecco cosa voglio." Non mi risponde. Guarda me, guarda il giornale e non capisco cos'abbia da stare tranquillo. "Chakuza, questi bastardi usano Anis per aumentare le ven-"
"E' lui."
Per un istante io non registro esattamente le parole che dice, il concetto, di per sé, è già troppo da sopportare. La prima cosa che penso è che non ho capito, o che è impazzito, insomma che è assurdo. "Che cosa stai dicendo?" Chiedo. "Anis è morto." E non mi trema nemmeno la voce mentre lo dico perché è una cosa che non dovrei dirgli, dovrebbe già saperla. E' come dirgli che la Terra gira.
Chaku, vienimi incontro, Cristo.
"Bill, ti prego, siediti."
"No," insisto. "Si può sapere che ti prende?"
Lui si gratta la nuca, a disagio. Si siede lui al posto mio, sul bracciolo di una poltrona, posa la rivista sul tavolo e quella si arriccia tutta perché non abbiamo fatto che stropicciarla e tenerla arrotolata. "Bushido non è morto," mormora.
"Che cazzo stai dicendo?"
"Bill, ascolta."
"No! Che.Cazzo.Stai.Dicendo!" E urlo, perché sembra un incubo. Da una parte mi dicono che è tornato, dall'altro vengo qui e lui non trova niente di meglio da fare che prendermi per il culo. "Lo trovi divertente? Credi che sia divertente startene lì con la faccia seria e dirmi che è vivo? Non sei spiritoso!"
"Non sto scherzando!" E grida anche lui per sovrastare la mia voce, e forse anche i suoi pensieri. E la situazione, lo capisco dopo.
Sto zitto e lo guardo. Gli occhi di Peter sono bellissimi, di un verde non troppo chiaro e sono screziati. Bisogna stargli vicino per vederli bene e io li ho guardati così tanto in questo ultimo anno che li so leggere. Hanno paura, adesso, e sono occhi un po' tristi. E quel senso di colpa è sempre lì. C'è tutto questo, là dentro, ma non c'è nessuna bugia.
"Non è possibile," dico. Faccio un passo indietro, inconsciamente diretto alla porta e lui si alza di corsa e mi viene vicino, mi prende per i polsi.
"Bill, calmati, ti prego!"
"No!" Sbraito. "Ero al suo funerale, c'eri anche tu, cazzo, la bara! L'hai vista! E i proiettili e tutto quel sangue, Peter. Che cosa stai dicendo?" Scuoto la testa e piango senza rendermi conto di farlo. Lo so quando sento il sale sulle labbra mentre lui mi stringe le mani intorno ai polsi ancora più forte.
"Non abbiamo mai visto il corpo, Bill."
"Era là dentro," singhiozzo.
"No, non c'era," insiste lui. "Ricordi che volevi vederlo e non te lo hanno permesso?"
Ho urlato quel giorno e urlo adesso. "Non è possibile! Dov'era se non è morto? Dov'è stato? Perché? Peter, non dire cazzate!"
Lui non dice niente, mi guarda e basta. E io semplicemente so che è vero perché in realtà Chaku scherzi di merda come questi non me ne farebbe mai e perché ora sono sull'orlo della crisi isterica e lui piuttosto che ridurmi così si fa investire, quindi no. E' tutto vero. "Tu come lo sai?" Realizzo all'improvviso. "Tu lo sapevi da quanto?"
"Da poco," mi risponde subito lui. "Molto, molto poco."
"Perchè non me l'hai detto?"
"Bill, come facevo?"
"Come hai fatto adesso!" Replico. "Voglio vederlo. Dov'è?"
Scuote la testa. "Non lo so."
"Cazzate, Peter. Dimmelo."
"Io-"
"Dimmelo!" Stavolta urlo e lo spingo indietro, colpendolo al petto.
"Bill, è la verità!"
"Dimmi dov'è!" Urlo ancora, alzo le braccia, lo colpisco forte, e lui un po' si difende, un po' cerca di bloccarmi. "Tu lo sai dov'è e non vuoi dirmelo!"
"NON LO SO!" La voce di Chakuza rimbomba per tutta la stanza e mi zittisce, come sempre. Lui non lo sa. Bushido è vivo. E se è vivo la Terra può anche smettere di girare. Non so neanche cosa significhi davvero tutto questo. Singhiozzo mentre lui mi stringe a sé, forte, come volesse avvolgermi tutto, e la mia voce si sostituisce alla sua, nell'eco della stanza. "L'ho visto una sola volta. Non so dove sia adesso. Non pensavo nemmeno che fosse... ancora qui, Bill."
"Voglio vederlo," gli nascondo il viso addosso. "Peter, ti prego, dimmi chi lo sa."
Alla fine cede. "Fler," mormora e io non penso al perché Fler lo sappia, penso solo che lo sa e che sono già due persone che lo sapevano mentre io ero all'oscuro di tutto. Chakuza recupera il cellulare e mi trascina sul divano.
Io non voglio stendermi, voglio urlare, ma non ho la forza, così ascolto gli squilli mentre mi accoccolo contro di lui e penso che da qualche parte, in questo momento, Bushido è vivo. E respira. E penso che non sia possibile.
La voce di Fler è un borbottio, non sento cosa dice. Lo sento fare una pausa quando Chakuza gli dice che io so. E io trattengo il fiato, Fler conosce il posto. Penso solo questo. Peter gli dice che va bene, annuisce.
"Dov'è?" Chiedo subito.
Lui mi guarda, sempre a disagio. "E' meglio chiamare David," risponde.
"David? Il mio David?" Mi sollevo e mi scosto, sedendomi sul divano.
"Bill..."
"Non chiamarmi per nome!" Esclamò e lo sguardo oltraggiato che gli lancio lo costringe a guardare altrove. "Tu, Fler, David, qualcun altro a parte me? Il mondo intero, forse, visto che Bravo gli fa pure le foto come se fosse normale?" Mi ripeto che questa cosa non è possibile ma anche che se esiste una possibilità surreale che tutto ciò sia vero, allora sono così incazzato, oltre che sconvolto, che farò del male a qualcuno.
Lui espira, piano. "Solo noi tre," dice. "Ed Eko."
"Perfetto!" Ho già il telefono in mano. "Anche lo scemo del villaggio lo sapeva. Questa cosa è... è... vaffanculo!"
"Gli telefono," si offre lui.
"Non ti azzardare nemmeno," lo congelo sul posto. "David è roba mia."
Il cellulare di David è sempre occupato. A volte con gli altri ragazzi lo prendiamo in giro dicendo che, evidentemente, tutte le linee telefoniche dell'universo devono passare da lui perché a qualunque ora lo chiami, alla prima non ti risponde mai. E nemmeno alla seconda o alla terza. Finisce che devi riattaccare e riprovare in un secondo momento e ancora finché non hai il culo di beccarlo tra una telefonata e l'altra.
Io sono furioso, però, quindi non mi fermo. Compongo il numero, attendo e quando sento il segnale di occupato, riattacco, ricompongo il numero e ricomincio.
"Bill, calmati, per favore." Peter si è alzato e mi gira intorno come un condor. Sa che non deve neanche provare a toccarmi adesso, non può fare niente. Può solo sperare che mi tranquillizzi ma non ho intenzione di farlo perché Bushido è vivo. Penso con rabbia che mi deve delle spiegazioni. E poi, proprio mentre riattacco per richiamare David ancora una volta, mi rendo conto che se è vivo anche io ne dovrò una a lui.
"Pronto?"
"Dov'è?"
Mi sembra quasi di vederlo, David che aggrotta le sopracciglia. "Bill?"
"Lo so come mi chiamo," dico spiccio. "Dov'è?"
"Dov'è chi?" Fa lui. "Cosa stai dicendo? Hai per caso bevuto?"
Mi alzo perché non riesco a stare fermo, quasi mi scontro contro Chakuza che non sta fermo nemmeno lui. "Anis. Bravo lo ha fotografato."
"Bill," risponde piano e io so che sta per dirmi che è morto. "Bushido è morto."
"Già, questo è quello che credevo anche io ma quello nella foto è lui e Chakuza lo conferma. Quindi adesso tu mi dici dov'è."
Dall'altra parte della cornetta il silenzio è pesantissimo. Non lo sento nemmeno respirare. So che è ancora lì perché non è caduta la linea. "Sei a casa di Peter?"
"Sì."
"Fatti accompagnare da me. Ci andiamo insieme," la sua voce è professionale, quasi gelida. Ha una paura fottuta. E fa bene perché sono incazzato.
"Bushido è vivo e tu lo sapevi," dico. "Ti conviene avere un buon motivo per tutto questo David, perché giuro su Dio che me la paghi."
Quello che dice non lo sento, ho già riattaccato.
Io e Peter siamo fuori di casa l'attimo dopo ma in quel momento neanche mi rendo conto di quanto immenso sia il disastro che ho per le mani.
Io voglio solo vedere Anis.
*
Per tutto il tragitto in macchina di Peter, io non faccio che stringere un labbro tra i denti così forte che sento il sapore del sangue sulla lingua. Mi accorgo a malapena di quello che succede intorno a me. Colgo i lineamenti tesi e lo sguardo ansioso di Peter, colgo la calma surreale di David – che poi mi irrita oltremodo, perché è la calma con la quale in genere affronta le grane sul lavoro. Il fotografo è in ritardo? È con questa faccia che cerca di rintracciarlo al telefono. Le camere in albergo non sono ancora pronte? È con questa faccia che invita il consierge a darsi una mossa. Un giornalista fa una domanda eccessivamente personale? È con questa faccia che lo minaccia di trascinarlo in giudizio alla prima occasione favorevole. Qui, però, non si parla di lavoro. Si parla della mia vita. Della vita di Anis. David non dovrebbe avere quest’espressione addosso, e io riesco a tollerarla solo perché, appunto, in realtà tutto mi sta passando vicino senza sfiorarmi, come fossi fatto d’aria.
Sto guardando fisso davanti a me, vedo quello che mi passa davanti agli occhi – per dire, riconosco i quartieri, le strade, so che nei paraggi abita Eko – ma ne prendo nota come di particolari marginali. In realtà sto ripercorrendo a memoria gli ultimi nove mesi della mia esistenza e sto cercando il punto dal quale cominciare per parlare con Anis. Sto cercando di capire se dovrei cominciare picchiandolo perché mi ha spezzato il cuore fingendo di essere morto, o se forse sarebbe meglio cominciare spezzando il suo, confessandogli che sto con Chakuza.
E la cosa più assurda, la cosa più incredibile, è che sto dando per scontate così tante cose che, se solo penso di fermarmi a rifletterci e contarle tutte, mi viene quasi da ridere. Do per scontato che voglia rivedermi, do per scontato che provi ancora qualcosa per me, do per scontato anche di provare ancora io qualcosa per lui. Io amo Peter. Lo amo, no? Dio, sì che lo amo. L’ho aspettato per tanto di quel tempo, e sono così felice, Cristo, certo che lo amo. Ma la sola idea di rivedere adesso Anis mi confonde al punto che non so se le farfalle ce le ho nello stomaco o nella testa. O se quello che mi agita sia una folata di vento o un dannato uragano.
La macchina si ferma davanti al portone di un palazzo che non conosco. Mi sembra perfino di non averlo mai visto, il che è surreale, perché questa è Berlino, la Berlino di Anis, ed io con lui questa città l’ho vista tutta. Mi ha portato ovunque, me l’ha insegnata metro dopo metro, “la mia città sono io, principessa,” mi diceva, “se non conosci lei, non conosci me” ed io lo seguivo senza fare storie e mi perdevo nella sua voce mentre mi parlava delle cose più stupide, di come contava i metri per ricordare dove fossero posizionati i vicoli sicuri quando scappava dalla polizia in servizio la notte, di come avrebbe potuto girare senza sbagliare strada perfino ad occhi chiusi, dei locali che frequentava, dei posti in cui si nascondeva, delle case in cui dormiva quando si riduceva stremato al mattino dopo una notte di lavoro e cazzeggio. Dovrei ricordarmelo, questo posto, devo necessariamente esserci passato davanti, almeno una volta. Dovrei ricordare tutto, di quello che mi ha detto Anis. Ogni cosa che mi ha mostrato ed ogni parola con cui l’ha accompagnata. Ma ho il vuoto nel cervello, adesso, e questo posto non lo riconosco per niente.
- È qui.
Sento la voce di David come un’eco lontana. Peter non parla, e gliene sono grato, in questo momento. Vorrei voltarmi e dire a David che ha poco da fare l’epico, lui, ora come ora. Che è qui lo so, perché è qui che mi ha portato e lui sa perfettamente che, se solo avesse osato prendermi in giro e portarmi da qualche altra parte, gli avrei cavato gli occhi con le mie stesse mani. Che è qui lo so, anche perché me lo sento sotto la pelle. Guardo in alto, scorro tutto il palazzo – non ho idea di quale sia il piano in cui sta – e so che è lì dentro. So che è a qualche metro da me. So che fra meno di un minuto lo rivedrò. E mi copro di brividi, al punto che comincio a tremare.
Peter mi si avvicina. È discreto, lo è quasi sempre quando sa che a toccarmi male potrei esplodere. E invece non esplodo perché, come al solito, lui mi tocca benissimo. Allunga una mano e stringe la mia. La accarezza un po’, solo lievemente, sa che, se in questo momento si comportasse in maniera eccessivamente tenera, lo allontanerei. E invece non è eccessivo, è solo giusto, mi sfiora, mi stringe ed io mi calmo un po’. Abbastanza da voltarmi verso David e seguirlo con gli occhi senza ucciderlo mentre tira fuori dalla tasca dei jeans un mazzo di chiavi ed apre il portone, tenendolo dischiuso mentre mi fa cenno di entrare alla svelta. Obbedisco non perché me lo sta ordinando, ma perché la voglia di vedere Anis mi sta facendo bruciare da dentro.
Il tempo sta scorrendo a rilento. Vorrei poter essere più veloce, vorrei potermi muovere prima, vorrei essere già dov’è lui e vorrei averlo già sotto gli occhi. Ho paura che potrebbe andarsene di nuovo – ne ho paura e non l’ho ancora nemmeno rivisto – ho paura che, ad aprire quella porta in ritardo, Anis potrebbe non esserci. Non posso continuare a sopravvivere in questo stato ancora a lungo, perciò devo sbrigarmi e non mi riesce. Non mi riesce di essere più svelto e non mi riesce di essere già lì, cerco di divorare le scale di corsa e invece mi sento paralizzato.
David non so dove sia. È rimasto indietro, suppongo. Peter è sempre qui accanto a me. Continua a stringermi ed è d’aiuto davvero. Se mi lasciasse andare, probabilmente mi metterei a correre. E non posso correre, perché le mie gambe sono troppo rigide. Se solo mi muovessi nel modo sbagliato, penso che mi spezzerei. Sono un fascio di nervi e sento dolore ovunque, sudo freddo e sto male. Sto malissimo, cazzo. Forse mi sto già spezzando. Forse Peter non può aiutarmi anche stavolta.
Mi fermo quando Peter mi tira. Peter mi tira perché David gli ha indicato la porta giusta. Io seguo il cenno di David e fisso il legno fino ad impararne a memoria le venature. Poi David suona al campanello e sento i passi.
Non sono di Anis.
E infatti, quando la porta si apre, di fronte a me c’è Patrick. Che mi guarda come se fosse perfettamente normale. Tutto, poi. Che lui sia lì, che io sia lì, che Anis sia lì, da qualche parte. Neanche avessimo tutti avvisato per tempo e questa fosse una cordiale cena di famiglia. Non lo è, cazzo. Mi sta esplodendo il cuore. Non riesco nemmeno a respirare.
Patrick non parla. Però mi sorride. È intenerito, o forse no, i sorrisi di Fler sono sempre molto morbidi e questo è perfettamente uguale a tutti gli altri. Non so se sia sempre intenerito quando mi sorride, o se sia proprio il suo sorriso così. Dovrei chiedere a qualcuno che lo conosca meglio di me. Non mi viene in mente neanche un nome a parte Anis, e di decifrare i sorrisi di Patrick col suo aiuto, al momento, non mi interessa per nulla.
Mi faccio avanti di un solo passo, Fler tiene entrambe le mani sugli stipiti della porta ed ingombra l’entrata per intero. Potrei spostarlo solo a testate, e non sono sicuro che ci riuscirei davvero, anche provandoci. Comunque, nel movimento mi tiro dietro Peter, gli occhi di Patrick scendono sulle nostre mani ancora strette insieme e gli passa un lampo scuro negli occhi. I suoi lineamenti si tendono tutti e so che sta pensando che non dovrei stringere questa mano con Anis così vicino a noi. Lo so che lo sta pensando. Lo sto pensando anch’io. Ma se lascio Peter adesso vado in pezzi, perciò la mano resta dov’è.
La mano resta dov’è, sì, ma si irrigidisce anche lei, come i lineamenti di Fler. Sento le scintille nel punto in cui dovrebbe esserci Peter. Questa cosa la capisco meno, ma in realtà sto capendo pochissimo di quello che sta succedendo. Continuo a prendere nota dei particolari come dovessi riutilizzarli più tardi per ricostruire la scena di un crimine. Quello che vedo ora non sono che tasselli sparsi di qualcosa che non riesco a realizzare nella sua completezza. Vedo solo pezzi di cose. La mano di Peter, gli occhi di Fler, quel poco che si intravede oltre le sue spalle dell’appartamento illuminato poco e male. Nient’altro.
Mi inumidisco le labbra, prima di parlare.
- Voglio vederlo.
Fler inspira profondamente e poi trattiene il fiato per un secondo, prima di rispondermi.
- Lui vuole vedere te. – dice a bassa voce. E poi si scosta.
Forse perché sono un bambino, forse perché sono uno stupido, mi aspetto di trovarmi subito Anis davanti agli occhi come dovesse apparire per una qualche ragione. Non lo so, ci resto male quando non lo vedo. Resto fermo per un sacco di tempo. Lui lì all’ingresso non c’è.
- Dov’è? – chiedo, voltandomi a guardare Fler. Ho gli occhi pieni di lacrime, Patrick è una macchia sfocata che sbuffa una risata e mi precede. Seguo l’oscillare incerto delle mie lacrime che si colorano delle tinte della sua felpa, è una felpa ridicola che gli ho regalato io, bianca con le stelline verdi. Non posso credere che la indossi sul serio, è assurdo.
Gli vado dietro e Peter mi segue, continua a stringermi la mano ma è da quando ho messo piede nell’appartamento che ho perso sensibilità su tutto il corpo. So che le lacrime stanno scendendo – perché erano troppo pesanti perché le ciglia potessero tenerle intrappolate ancora a lungo – ma non me le sento scorrere addosso. So che mi sto muovendo, ma non sento i piedi toccare terra. So che Peter mi stringe, ma non sento il calore della sua pelle. Non sentirò più niente per tutto il resto della mia vita, lo so. Non ci riuscirò più. Però almeno ho smesso di sentire male. Anche se non posso dire di stare meglio così.
Patrick apre una porta senza bussare prima. Il mio cuore esplode. Di nuovo. E ancora.
Resta sulla soglia e si scosta per farmi passare. La mano è ancora lì. La stringo fortissimo, so che lo sto facendo. La stringo talmente forte che non posso evitare di accorgermene, quando la sento scivolare via.
Me ne accorgo e non vedo più niente, in un solo attimo.
Anis è lì. Sta in piedi davanti ad una poltrona, come si fosse appena alzato. Mi guarda dritto negli occhi ed ha quell’espressione buffissima che non si capisce mai se diventerà uno sorriso o uno sbuffo ironico. Ha i capelli lunghi – Dio mio, sono lunghissimi – ma li tiene stretti in un codino che spunta da dietro e gli solletica la nuca.
Sto piangendo, lo so. Devo essere un disastro. Ci stiamo vedendo adesso dopo un anno e sono tremendo.
Non riesco a spiccicare una parola, ho paura perfino ad aprire le labbra perché non so che mugolio in frantumi potrebbe venirne fuori. Parla Anis per me. Mi si avvicina piano, un passo dopo l’altro, e quando arriva tanto vicino che devo per forza sollevare lo sguardo per continuare a tenerlo piantato nei suoi occhi, si inginocchia. Così che lo sguardo posso fare a meno di alzarlo, e lo abbasso. Le lacrime scendono in goccioloni enormi. Le vedo e non le sento.
Ma ricomincio a bruciare nel momento esatto in cui la mano che prima stringeva quella di Peter finisce stretta fra le dita lunghe e forti di Anis. La tiene con una delicatezza che è solo sua, neanche fossi fatto di porcellana. La stringe appena. La bacia piano.
- È bello rivederti, principessa.
Ed io mi sento sciogliere. Non mi reggo più, gli frano addosso, non so come faccio a reggermi al suo collo mentre piango e mi lamento e lo stringo e non capisco più niente, ed è un bene che avesse un ginocchio piegato e sollevato da terra, o sarei caduto sbattendo contro pavimento così forte che avrei avuto un motivo molto più stupido per piangere. E invece sto piangendo per lui. Perché lo sto sentendo sotto le dita. Perché è vivo, perché è qui, perché sento il suo sorriso tenero contro il collo, perché sento il suo profumo, perché posso seguire con le labbra il profilo del suo viso e posso perdermici, posso farlo perché è vivo ed è tornato da me, ed al momento non mi interessano i motivi, non mi interesserebbe neanche se fosse morto davvero e poi risorto, anche se so che non è possibile: sarebbe comunque tornato da me, ed è tutto ciò che conta ora.
Sento solo distrattamente la porta che si chiude alle nostre spalle, ho gli occhi semichiusi e quel po’ che riesco a vedere resta filtrato dalle lacrime. Anis è una macchia scura con un buon profumo e un buonissimo sapore. Lo assaggio piano sulle labbra e in punta di lingua quando lui prova a baciarmi. E ci prova davvero, per la prima volta nella sua intera esistenza – comunque per la prima volta da quando mi tocca – non sta pretendendo niente. Mi sta solo dicendo che è qui e se lo voglio è ancora mio. Ed io lo voglio. Voglio che sia mio perché io non ho mai smesso di essere suo.
La sua fronte sfiora la mia e non si allontana dalla mia bocca, quando parla.
- Dovrei dirti un milione di cose, piccolo. – mi sussurra addosso, una mano che scivola contro il mio fianco, sotto la maglia.
Lo bacio lentamente.
- Dovresti. – annuisco senza schiudere gli occhi. Il suo naso sfiora il mio e mi solletica appena. Mi viene un po’ da ridere e lo faccio. È una risatina così piccola che mi stupisco che lui riesca a sentirla. Comunque la sente e ne fa una un sacco simile. Mi scoppia il cuore di gioia, cazzo.
Si tira in piedi, mi tiene saldamente per la vita e finisco per rimettermi dritto anch’io. Cerco di stringerlo forte al collo, o cadrò di nuovo.
- Ce la fai? – chiede a bassa voce, scivolandomi addosso lungo una guancia, il mento, il collo, - Ti tengo, se non ce la fai.
- Non ce la faccio. – ammetto spossato. Lui sorride e mi tira su di peso, allacciandomi sotto le gambe. Stringo le cosce così forte attorno alle sue anche, che quasi mi faccio male da solo.
Anis mi spinge contro una parete ed io piego il capo mentre bacia e morde ovunque riesca ad arrivare, sussurrandomi addosso cose stupende, o magari sono cazzate, però è la sua voce, e se la sento dire che gli sono mancato, se la sento dire che so ancora di buono, se la sento dire che sono esattamente come mi ricordava, anche se non è vero, anche se fa male, è bellissimo. È talmente bello che continuo a piangere, continuo a piangere anche se ormai sto ansimando e non faccio che agitarmi contro di lui perché non ce la faccio più, voglio sentirmelo contro e voglio sentirmelo dentro, e se non lo avrò immediatamente comincerò a piangere così forte che mi faranno male i polmoni.
Anis spoglia me e se stesso in un arco di tempo che non riesco a quantificare. Il suo calore e la sua forma pressati sulla pelle già da soli bastano a farmi mugolare di piacere. Non ricordo quando, sono riuscito a infilare due dita fra le maglie dello stupido elastico che gli teneva stretti i capelli, perciò ho sciolto la coda. Ora le mie dita passano attraverso le sue ciocche scure e mosse, le sento morbidissime sotto i polpastrelli e sorrido. Non li avevo mai potuti accarezzare così, i suoi capelli. Mi piacciono così tanto, spero che non li tagli più.
Lo chiamo pianissimo e stringo le dita sulle sue spalle, affondando quasi le unghie nella sua pelle. Lui ringhia e mi bacia con maggiore convinzione. Fa bene, ha ragione, gli ho detto che può farlo, voglio che lo faccia.
- Ti prego… - mugolo stremato, e lui non perde neanche un altro minuto prima di spingersi lentissimo contro di me. Si fa sentire appena, si tira subito indietro, - Ti prego! – ripeto, mordendogli le labbra, e l’attimo dopo è lì dentro di me. Esattamente al suo posto.
Si muove piano, così piano che a stento lo riconosco. Non è il suo ritmo questo, non è il suo modo di toccarmi. Questo continuo esitare e chiedersi se può – glielo leggo negli occhi, lo vedo oltre le ciglia lunghissime ed oltre la nebbia del piacere che prova – questo continuare a stringermi appena, questo non è lui. Io lo ricordo, com’era. Ricordo come mi sentivo a sbattere di schiena sulla testata del letto perché mentre mi scopava mi aveva tirato su di peso e mi ci aveva appoggiato contro per spingersi con più forza dentro di me. Ricordo com’era sentirlo affondare fino al limite, finché quasi faceva male, e ricordo com’era forte e salda la stretta delle sue mani contro i miei fianchi. Ricordo la sua lingua insinuarsi fra le mie labbra e giocare a rincorrere la mia senza chiedere per favore. È questo che voglio. Rivoglio il mio Anis. Lo rivoglio com’era. So che c’è ancora, lo rivoglio con me.
Lo chiamo pianissimo, gli mordo le labbra, gli chiedo di andare più veloce. Glielo chiedo, lo imploro, la voce spezzata dagli ansiti, le sue mani mi scorrono lungo i fianchi e così fanno anche i suoi occhi. Non mi ha ancora nemmeno accarezzato ed il solo modo in cui si muove dentro di me, colpendo tutti i punti giusti come se non avesse fatto altro fino al giorno prima, mi sembra già abbastanza per urlare e gemere ed ho paura di poter venire anche solo così, senza l’aiuto delle sue mani. Ne ho paura perché sarebbe stupendo – c’è riuscito solo lui – e ne ho paura perché sarebbe assurdo.
Lo sento sorridere contro il mio collo, sbuffando appena.
- Un tatuaggio nuovo… - commenta scivolando con le dita sulla scritta che si arrotola su se stessa fino alla mia anca, - È recente?
- È fra le cose di cui possiamo parlare dopo. – mi lamento cercando le sue labbra.
Lui si tira indietro apposta per non concedermele.
- È una B. – ride appena, e mi prende in giro sporgendosi un po’ solo per poi ritirarsi.
Lo tengo fermo chiudendo le mani a coppa sui suoi zigomi, e tirandomelo contro.
- Sei tu scritto addosso. – confesso, ed allora lui mi bacia. E ricomincia a spingere. Ed è duro, è forte, è veloce e impetuoso. È lui.
Smetto di trattenere la voce anche se fra noi e tutto il resto del mondo c’è solo una porta. Qui dentro siamo solo noi due, quindi – per quanto mi riguarda – anche in tutto il resto del mondo ci siamo solo noi due. Ci sono solo le dita di Anis, c’è solo il suo cazzo che si fa strada di prepotenza dentro di me, c’è solo lui che ricorda il mio corpo centimetro per centimetro, ci sono io che cerco il suo sapore ovunque, c’è solo il momento in cui mi stringe e trattiene il fiato, c’è solo il momento in cui una spinta più forte e mirata delle altre colpisce proprio il punto che mi fa urlare di piacere, c’è il momento in cui vengo, c’è il momento in cui viene lui, c’è un momento perfetto in cui esiste solo questo ed io non ho bisogno di nient’altro.
Ed è solo un momento. Purtroppo, dannazione, è solo un momento. Esito – le dita perse fra i suoi capelli – solo qualche secondo, il tempo di riprendere fiato, prima di cominciare a realizzare cosa è successo. Cosa ho lasciato succedesse, meglio. Ricomincio a fare la conta delle persone che popolano il mio mondo. Ricordo David – e che voglio pestarlo. Ricordo Patrick – e che voglio parlargli, anche se non so nemmeno di cosa.
Ricordo Peter.
Cristo.
Ricordo Peter. E non ho idea di come farò a guardarlo negli occhi quando sarò uscito da qui e lo troverò ad aspettarmi.
Anis mi poggia a terra ed ho di nuovo paura che mi cedano le gambe. Mi aggrappo con forza alle sue spalle, uso le unghie e lui si lamenta un po’.
- Fai piano, principessa… mi hai devastato abbastanza, ti pare?
Schiudo gli occhi – bruciano da impazzire per quanto ho pianto e per quanto forte li ho strizzati – e tutto quello che vedo, per un lungo periodo di tempo, è la pelle di Anis. Mi ci perdo come fosse un paesaggio di un nuovo mondo, annego nei suoi colori caldi e nel suo profumo aspro e forte, lo sfioro piano con la punta del naso e poi gli pianto le mani sul petto. E lo allontano.
Il mio movimento è molto più violento e repentino di quanto non volessi. Questo perché sento fisicamente che se non me lo allontano di dosso il prima possibile potrebbe succedere qualcosa di irreparabile.
Poi ci rifletto. E capisco che qualcosa di irreparabile è già successo.
Sollevo lo sguardo e trovo gli occhi di Anis. Mi fissano con un misto di confusione ed incredulità, e lui è tenerissimo, in questo momento: le labbra semidischiuse sono ancora umide dei baci che ci siamo scambiati e i capelli sono arruffati perché ci ho perso le mani dentro così a lungo che hanno perso il senso che la coda aveva loro imposto prima che la sciogliessi. Ha gli occhi grandi, il mio Anis, e li sta usando per chiedermi cosa mi prende. Perché non lo capisce. E mi viene di nuovo da piangere e mi dispiace che non capisca, e so che non potrebbe neanche volendo, perché io non ho la forza di dirgli cosa mi passa per la testa. Non ho la forza neanche di dirgli cosa è passato per la mia vita nell’ultimo anno. Non ho la forza di fare niente perché non ce la faccio a pensare che a solo pronunciare il nome di Peter affiancato al mio, come sarebbe giusto, potrei perdere Anis. Perderlo adesso dopo averlo ritrovato… io non posso farcela. Io non ho abbastanza sangue in corpo, non sono abbastanza forte e non ho altre lacrime da versare. Perciò faccio l’unica cosa che posso fare senza rischiare troppo.
- Stronzo. – sibilo astioso, e lo faccio perché ho ragione, perché voglio litigare e perché i litigi sono una cosa che io e Anis conosciamo bene. Sono una cosa dalla quale sappiamo come uscire. Ogni volta che litigavamo, prima che morisse, era come subire gli scossoni di un terremoto. Crollava la casa e dopo, con una serie interminabile di scosse di assestamento durante le quali lui concedeva qualcosa a me ed io concedevo qualcosa a lui, ricominciavamo ad andare d’accordo. Era tutto davvero così semplice. Voglio che torni ad essere tutto semplice com’era allora. – Stronzo. Tu… come hai potuto, Anis?
Lui inspira profondamente e le sue labbra diventano sottili come linee, mentre tutti i suoi lineamenti si tendono. Gli vedo passare negli occhi qualcosa che suona più o meno come un “ecco, ci siamo”, e stringo forte i pugni.
- Era necessario, piccolo. – risponde seccamente, - Eri in pericolo.
- Ero… - annaspo, stringendomi nelle spalle e cominciando a cercare in giro i miei vestiti, - Ti avevano sparato! Eri tu quello in pericolo! Cos’è, appena hai visto che eri riuscito a salvare la pelle, piuttosto che tornare da me dove saresti stato di nuovo in pericolo, hai preferito andartene?!
Gli passa sul volto un’ombra di offesa, la vedo nel modo caratteristico in cui aggrotta le sopracciglia, ma non ho il tempo materiale di soffermarmi su quello che gli ho detto – non ho modo di realizzare quanto sto essendo cattivo in questo momento – perché lui prova a fermarmi con un “Bill” stentato ed io non voglio lasciarglielo fare. Perché potrebbe consolarmi, e non voglio che sia lui a farlo. Perché voglio urlargli di tutto e non voglio lasciare che lui me lo impedisca.
- Tu… tu sei vivo, Cristo santo! Da quanto? Dove cazzo sei stato, Anis, nascosto qui dentro per tutto l’ultimo anno? Ti sei divertito, qui da solo? Come le hai passate le giornate, spiandomi? Mandando… mandando David a… il mio manager, cazzo, Anis, tu… non avevi il diritto di farlo!
- Piccolo, - cerca di avvicinarmisi, mettendo le mani avanti come avesse paura che potessi scattare improvvisamente a morderlo al collo, - non sai cos’è successo. Noi non dovremmo litigare, dovremmo parlare.
- No, sei tu che non sai cos’è successo! – urlo spintonandolo lontano, - Io sono quasi morto di dolore, stronzo! Ho pensato che non ce l’avrei fatta, mi sono sentito finito! Io ho ucciso un uomo per te! Lo sai questo? Te l’ha detto David? Ho ucciso un uomo perché quell’uomo aveva ucciso te, e tu non eri morto! – mi fermo a riprendere fiato ed Anis è lì fermo che mi guarda. Non c’è più traccia di offesa nella sua espressione, adesso è solo triste. Non riesco a capire se avergli detto queste cose fa di me una persona ingiusta o se semplicemente dovessi farlo e basta. Io non ho torto. Io non ho torto, cazzo. Io non posso pensare di avere torto, perché se ammettessi di aver sbagliato tutto fino ad ora, con questo litigio, con quello che abbiamo fatto prima, col modo in cui ho vissuto l’ultimo anno… se ammettessi di aver sbagliato tutto, io non saprei più da dove ricominciare. Anis non potrebbe aiutarmi. Non potrebbe aiutarmi Peter. Non potrebbe aiutarmi Tomi, non potrebbe aiutarmi Patrick, non potrebbe aiutarmi nemmeno David. E io non potrei farcela comunque. Sarei una persona finita. Non voglio. Io non ho torto. Io ho ragione. – Noi possiamo solo litigare, Anis. – dico infine, distogliendo lo sguardo e finendo di rivestirmi, - Perché non ho nient’altro di cui parlare con te.
E non aggiungo nient’altro. Non lo fa neanche lui. Restiamo a guardarci a lungo e io vorrei fare una cosa che, quando stavamo insieme prima, facevo spesso, dopo le litigate. Anis non è mai stato davvero morbido, con me, se mi meritavo di essere mandato a fanculo ci andavo anche. Nel senso che mi ci mandava senza problemi. Ed io ero sempre troppo cocciuto e arrabbiato e isterico e tutto per capire che quel “vaffanculo” era un “riprenditi, Bill, perché io non posso avere a che fare con un sedicenne, ne ho le palle piene”. E quindi sì, urlavo “d’accordo, come preferisci!”, ma prima di uscire sbattendo la porta dicevo sempre “a più tardi!”. Ed era una cosa carina perché succedeva sempre che dopo un paio d’ora, quando sentiva che la mia rabbia era sbollita ed ero di nuovo pronto al dialogo, Anis mi raggiungeva dovunque fossi – dovesse anche essere casa di mia madre a Loitsche – e veniva a riprendermi. Era il suo modo silenzioso di chiedermi scusa. Tornare a casa con lui era il mio modo silenzioso di chiedere scusa a lui.
Ora non posso farlo. Non posso dirgli “a più tardi!”, non posso dirgli proprio un bel niente. Non posso neanche permettermi di sperare che lui venga a riprendermi comunque, fra un paio d’ore. Posso solo tacere, finire di rimettermi a posto ed uscire dalla stanza. Perciò lo faccio. Anis non cerca nemmeno di fermarmi.
Il mondo, di fuori, mi sembra ghiacciato. Volto in giro lo sguardo alla ricerca di Peter e Patrick e non trovo nessuno dei due. Non fatico ad immaginare cosa possa essere successo: Peter avrà cominciato a devastare un appartamento non suo e Patrick, per evitare che lui si ritrovasse nei confronti di Bushido con più debiti di quanti non ne abbia già, l’avrà trascinato via. Ora starà probabilmente cercando di calmarlo a suo modo. Non ho mai capito in che modo Patrick calmasse Peter, ma è straordinariamente efficace. D’altronde non mi stupisce, Patrick è straordinariamente efficace nel calmare chiunque. Vorrei che fosse qui, adesso, così potrebbe calmare me. E poi potrei mandarlo a calmare anche Anis.
Mi accorgo di David solo quando lui si accorge di me. E non succede subito, visto che si era palesemente perso nella propria testa mentre osservava il vuoto, appollaiato sul bracciolo di una poltrona. Solleva lo sguardo chiarissimo su di me e non me la sento di urlare anche contro di lui. Però se lo meriterebbe.
- …sono esausto. – dico in un mezzo singhiozzo, e il secondo successivo David è accanto a me e mi stringe fra le braccia. E so che dovrei avercela a morte con lui e odiarlo furiosamente e tutto, ma mi concedo di rimandare. Non ce la faccio, voglio rimandare. Mi appoggio contro di lui e nascondo il viso nell’incavo del suo collo. Piango solo un altro po’. – Voglio andare a casa.
David annuisce piano, la sua guancia ruvida struscia lentamente contro la mia, infastidendo la pelle già irritata dalle lacrime, ma non lo allontanerei per niente al mondo.
- Ti ci riporto. Vuoi andare da Tom?
- No. – mi lamento, - Voglio andarmene a casa mia. Voglio… voglio andare a dormire. Mi porti al mio appartamento, per favore?
Lui annuisce ancora, e mi resta vicino mentre mi allontano ed asciugo le lacrime. Non diciamo una parola. Restiamo in silenzio fino a casa, ed anche lì l’unica cosa che sento è un saluto a bassa voce ed una richiesta, “fatti sentire quanto prima, Bill. Quando vuoi, ma quanto prima”. Annuisco e basta. Ho detto delle cose tremende, oggi. Voglio dimenticarmi che rumore fa la mia voce. Non lo tollero più.

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Missing

di tabata
Io non so come sia stato possibile che io e David, mentre pianificavamo la mia definitiva scomparsa da questo pianeta, abbiamo scelto Miami come luogo in cui farmi sparire.
Non so neanche a chi dei due precisamente sia venuta l’idea. Deve essere stata sua comunque perché mi rendo conto adesso che, se in quel momento fossi stato abbastanza lucido da fermarlo, di certo lo avrei fatto. Valutando tutte le possibili mete, David deve aver pensato che Miami fosse un buon modo per consolarmi della perdita di Berlino, della mia Principessa e – in generale – di trent’anni della mia vita; e, tutto sommato, che fosse anche un buon posto dove ricominciare: belle spiagge, belle donne e, tendenzialmente, la libertà di fare quello che volevo sotto forma di miliardi in dollari americani.
A leggerlo così, questo trasferimento suona più che promettente. Il problema è che a pensarci soltanto un po’ di più, diciamo se David – o anche io – avesse avuto quel po’ di tempo in più per decidere che cosa fare e dove farlo invece di dover scegliere un’opzione fra mille nello spazio di dieci minuti, stando ben attento a non svelare alle persone in sala d’aspetto che ero vivo e non morto come mi piangevano, allora forse anche David si sarebbe accorto che Miami non era affatto la scelta giusta.
Miami non è la città per me, non è la città di uno che viene da Berlino e ama Berlino come la amo io. Non lo è soprattutto il ventitré dicembre, quando sulla mia veranda ci sono trentadue gradi e sono costretto a girare in bermuda e infradito. Tanto per darvi un’idea, mancano due giorni a Natale e gli unici Babbo Natale che vedo agli angoli delle strade sono modelle taglia 42 vestite in bikini. Ora io apprezzo moltissimo le donne seminude e abbronzate, ma il natale scorso c’erano quattro metri di neve nel giardino di casa mia, giravo per strada con un cappotto di montone e nel mio negozio a Dircksenstrasse si vendevano lunghe sciarpe grigio in misto lana con sopra il mio nome. A Natale, per quanto mi riguarda, si sta davanti al caminetto acceso, non in veranda a sudare con un Tequila Sunrise in mano. A Natale fa freddo. Punto. Dovrebbe esserci una qualche legge universale a stabilirlo.
Quando David ha chiamato stamattina – chiama ogni mattina alle dieci spaccate – e gliel’ho detto, lui si è messo a ridere e mi ha risposto che confidava nella mia straordinaria capacità di adattamento e sopravvivenza – testata in vent’anni di vita nel ghetto – per sopportare una vita di stenti su una spiaggia privata da quindicimila dollari. L’ho mandato a fanculo.
In realtà non ho alcun motivo per interessarmi a questa festa. Nessuno a cui fare regali, nessuno che me ne faccia. Dubito fortemente che Conrad si presenterà a casa mia con un pacchetto ben avvolto in carta e porporina, o che se lo aspetti da me. E, considerando che alla domanda di David: “Che cosa vuoi per Natale?” Ho risposto “Templehof” e ne sono seguiti dieci minuti di gelo, immagino che anche lui lascerà perdere l’argomento. Quindi che ci sia il sole, la pioggia o il vento, dovrei poter scrollare le spalle e andare avanti – o meglio fingere di farlo – come ho fatto negli ultimi sei mesi.
La telefonata è andata avanti come proseguono tutte le nostre telefonate, con lui che mi spara una raffica di notizie inutili dietro l’altra per stordirmi e io che lo ascolto una volta su due.
Poi gli ho chiesto come andassero le cose e lui ha accuratamente evitato di scendere nel dettaglio, rifilandomi le tre o quattro cazzate che di solito mi rifila quando faccio questa domanda.
Stanno tutti bene, nessun problema. Stiamo decidendo le date del nuovo tour, ma lo sai no? Sì, lo so, ma non certo perché me lo dice lui. Lo so perché su internet posso recuperare qualunque tipo di informazione. Se i Tokio Hotel fossero un gruppo serio, questo non sarebbe sufficiente a tenermi informato su di loro – su Bill, diciamo – ma essendo il gruppo che sono, viene rilasciata ogni tipo di indiscrezione quindi, se ho voglia e tempo di cercare, spesso so perfino che cos’ha mangiato prima di un concerto. E dal momento che io lo so quello che mangia e non mangia, quello che dice e non dice, so anche distinguere le notizie vere da quelle false, anche se le prime magari sembrano troppo assurde per essere la verità.
Sono le due e mezza del pomeriggio, e io sono in ferie. Da che mi sono svegliato stamattina – un’alba d’afa tremenda, con tre o quattro ragazzini rosolati al sole come costine di maiale che già a quell’ora pattinavano sui rollerblade lungo il vialetto infinito che passa a due metri da casa mia – ho già bevuto più di quanto mi sia consentito e calcolando che non ho nessuna voglia di farmi un giro, né di vedere lo stuolo di artisti di strada che infestano le spiagge e che attirano quintali di turisti con le macchine fotografiche, tanto vale che apra di nuovo il portatile e cerchi quello che David non mi ha detto.
Questo computer, come tutto ciò che possiedo adesso, è ovviamente nuovo ed è così costoso e all’avanguardia che, mentre lo accendo e lui lampeggia informandomi in pochi secondi che non ho nuovi messaggi, ci sono dei nuovi feed rss ed esistono nuovi aggiornamenti, ancora mi stupisco di non trovarlo che mi prepara il caffè quando mi sveglio al mattino.
Non so cosa sia stato del mio vecchio portatile – David non poteva farlo sparire, quindi suppongo lo abbia ripulito e consegnato a mia madre, così che piangesse pure su quello, povera donna – ma ero qui da nemmeno due giorni quando l’UPS me ne ha consegnato uno nuovo di zecca. Mittente: David Jost.
Quando ho alzato la cornetta per protestare per il portatile nuovo che potevo pure comprare da solo e per il fatto che in quello vecchio avevo tutti i miei dati, Cristo, le foto, ogni cosa, David mi ha detto soltanto: “Guardaci dentro.”
E dentro c’era tutto, fino all’ultimo salvataggio di World of Warcraft.
C’erano perfino le fotografie di Bill, che pensavo avrebbe fatto sparire subito. Queste sono foto di lui che non ha nessuno, perché gliele abbiamo fatte noi. Gliele ho fatte io a casa mia, divertendomi a prenderlo di sorpresa, struccato e spettinato, che si arrabbiava da morire; e gliel’hanno fatte i ragazzi all’Ersguterjunge, quando alla fine si erano abituati ad averlo intorno. Ce ne sono un paio che Eko gli ha fatto mentre era casualmente vicino a Saad che mi fanno sempre ridere perché mio cugino sembra un avvoltoio, sempre incazzato. Apro questa cartella di foto ogni giorni e scopro che guardarle non è più facile di quanto lo fosse il giorno prima. Questo mi consola, credo. Non so se sopporterei di percepire che il tempo sta davvero curando ogni cosa. E’ troppo presto. Credo che l’essere umano, per superare il dolore, debba prima lasciarsi avvolgere, affondare e soffocare prima di poterne uscire. E io sto ancora nuotando verso il fondo.
Scorro velocemente le ultime pagine dei forum. Ci sono ancora notizie vecchie di tre giorni fa e qualche apparizione della band ad alcuni discutibili programmi musicali. Ho visto tutte le registrazioni: Bill non sta affatto bene come me lo dipinge David, anzi. E’ stanco e non ha nemmeno un decimo della grinta che aveva prima. Ci sono volte in cui sembra non sforzarsi nemmeno di fingere di cantare dal vivo. E’ uno spaventapasseri appeso all’asta di un microfono e se lo trascinano in giro come se fosse una bambola di pezza. Mi rendo conto che per il nostro ambiente non ha alcuna importanza se io sono morto e lui vorrebbe probabilmente fare altrettanto e che lo spettacolo deve continuare indipendentemente dai suoi sentimenti, per questo non dico niente, perché so che David ha le mani legate e so che il massimo che può fare lo starà già sicuramente facendo; questo però non m’impedisce di desiderarlo lontano dal palco per un po’. Quando sorride non è sincero e se il cuore che gli ho spezzato proprio non si può riparare, vorrei che almeno gli dessero il tempo per raccogliere tutti i pezzi.
Sto guardando una delle foto più recenti, lo screencap di un’intervista in Francia, quando sento bussare alla porta. “E’ aperto,” grido in inglese. Il mio accento violentemente teutonico si sta addolcendo in un più masticato americano della Florida.
Nella situazione in cui mi trovo sono in pochi a farmi visita, quindi non ho bisogno di vedere le sue lunghe gambe abbronzate varcare la soglia della veranda per sapere che si tratta di lei.
“Ma che strano trovarti qui attaccato al computer, “ esordisce ironica. Il suo accento, invece, è velato dallo spagnolo.
“E tu non dovresti essere a qualche festa sulla spiaggia a ballare la salsa e a bere sangria?” Replico, chiudendo il coperchio del pc, mentre lei sistema un piatto coperto sul mio tavolo.
“Solo perché sono portoricana, non significa che io passi il mio tempo a ballare sudamericano.”
Io sollevo un sopracciglio e lei ride.
“Ok, magari un po’ sì,” ammette. “Comunque ti ho portato il pranzo. Non hai mangiato, scommetto.”
Solleva il coperchio dal piatto e, non ho idea di cosa sia, ma è carne, ha un profumo meraviglioso ed è cosparsa di salse diverse. Se non avesse probabilmente un nome che finisce per S, potrebbe tranquillamente passare per un piatto tedesco. “Sembra buono,” dico.
“Lo è,” risponde lei e quindi si siede. “Coraggio mangia. Dio solo sa che quanto hai già bevuto stamattina.”
Mi permetto un sorriso storto, senza nemmeno alzare lo sguardo. So che adesso mi sta guardando con navigata severità, la stessa con la quale guarda i suoi tre fratellini quando fanno qualcosa di male. Se non avesse vent’anni e tutte le curve al posto giusto, mi ricorderebbe Karima.
“Non dovevi.”
“Lo so che non dovevo,” dice impertinente. “Ma se non ci fossi io a portarti da mangiare ogni tanto, finiresti col morire di fame.”
“Esagerata.”
“Mangia.”
Faccio come dice. La carne è deliziosamente tenera e la salsa appena più piccante di quanto in effetti sono abituato, ma è tutto molto buono. Lei accavalla le gambe e finge di non guardarmi mentre guarda il mare poco distante. E’ minuta e olivastra, la sua pelle ha una sfumatura appena più chiara della mia. Ha un visino dolce e rotondo, circondato da lunghi capelli neri che tiene legati in una coda di cavallo alta sulla testa. Porta bigiotteria un po’ pacchiana e colorata, è eccessiva, come tutte le ragazzine della sua età da queste parti. Mastica chewingum di continuo.
Io, lei, l’ho conosciuta nemmeno un paio di mesi fa e per caso, mentre andavo a lavorare al garage, più dentro che fuori dopo aver bevuto sei delle loro birre americane – ci vuole molto di più ad ubriacarsi senza avere a disposizione della buona birra tedesca. Sto scendendo lungo Washington Avenue quando la vedo che tenta di scaricare dal pick-up quattro borse più grosse di lei.
“Vuoi una mano?” Chiedo, avvicinandomi.
Lei si gira con l’intenzione di sbranarmi vivo ma poi, quando mi vede, il suo sguardo si addolcisce di colpo e finisce per gettarmi addosso un’occhiata quasi imbarazzante. Credo che mi abbia fatto una radiografia completa e che, se glielo chiedessi, potrebbe già rispondermi la misura delle mie mutande. “Grazie!” E mi sbatte contro il petto una busta. “C’è anche quella,” dice poi, indicandone un’altra.
Io fingo che entrambe non pesino venti chili. “Da che parte?”
Continua a guardarmi mentre indica a destra con un cenno della testa. Per un po’ camminiamo in silenzio, io calcolo che, ad occhio, non deve avere più di vent’anni anche se è truccata e vestita come se ne avesse molti di più. Non so perché mi sia offerto di aiutarla, forse è colpa della birra.
“Mezz’ora che camminiamo e non mi hai ancora chiesto come mi chiamo,” esordisce lei alla fine, con una risatina.
“Non pensavo fosse necessario, per aiutarti a portare la spesa.”
“No,” si stringe nelle spalle e si morde un labbro mentre mi guarda. “Però sarebbe carino.”
Non dovrei lasciarla flirtare in questo modo, ma oggi è una di quelle giornate che il mondo intero mi sembra una merda quindi, come un bambino, mi concedo ogni genere di capriccio dal momento che mi è proibito fare quello che veramente voglio. Non so chi sia questa ragazzina sconosciuta che mi sta giusto un passo avanti per poter ondeggiare i fianchi ma va bene così.
“E’ Marisol, comunque,” continua lei.
“Marisol,” me lo lascio scivolare sulla lingua, perplesso. “Piacere. Io sono Tarek.” Lei è la prima persona a cui mi presento con il mio nome nuovo di zecca, fa un certo effetto dirlo. Non mi appartiene per niente, è come se gli stessi presentando qualcun altro.
“Sei arabo?” Chiede lei. Non c’è nel suo sguardo il solito pregiudizio.
“Tunisino,” rispondo. Io e David non abbiamo mai deciso il paese di provenienza di Tarek Hassim, ma penso che non sarà un gran danno se salta fuori che è un mio connazionale. In fondo, per quanto ne dica la gente, noi tunisini saremo anche tutti uguali, ma non ci conosciamo tutti quanti. Tranne il fatto che, in effetti, io Tarek Hassim lo conosco. Mi viene quasi da ridere. “O meglio, lo sarei, se avessi mai vissuto là, ecco. I miei si sono trasferiti qui che avevo cinque anni.” Comincia ad essere divertente inventare i particolari di un uomo inesistente. Chissà se David lo aveva immaginato così il suo Tarek.
“Anche io non ricordo niente di Portorico,” si stringe nelle spalle. “E cosa fai da queste parti?”
“Quello che fanno tutti gli altri. Ci vivo.”
Lei ridacchia, prendendomi in giro. “Sei proprio un gran chiacchierone tu, eh?” Poi si ferma. “Comunque io sono arrivata.”
E io mi accorgo che sta davanti al garage di Conrad.
“Qui?” Chiedo incerto.
“Sì, qui,” Marisol si volta a guardarmi solo un secondo, prima di togliersi gli occhiali neri un po’ anni ’80 e infilare la testa nel garage. “Ehi, c’è nessuno?”
Dall’interno arriva musica sudamericana di un qualche tipo sparata a palla da due casse Alpine più grosse della mia testa, montate su una Nissan Skyline GT-R così truccata che stento quasi a riconoscerla. Sono due mesi che non vedo una bella macchina come si deve, e altrettanto tempo che non ascolto musica decente.
Conrad non c'è, è ad una qualche fiera da qualche parte vicino ad Orlando, ecco perché io posso permettermi di arrivare quasi ubriaco e con tre ore di ritardo. Non che non lo faccia anche quando lui è presente, solo che posso saltare tutta la parte delle giustificazioni. Dal minuscolo ufficio ricavato sul retro con due lamiere inchiodate al muro, esce Miguel, uno dei ragazzi. Ha l'espressione contrariata che ti viene in automatico quando stai lavorando a qualcosa che molto probabilmente ti porterà via tutta la mattina quando invece avevi preventivato soltanto poche ore e qualcuno si presenta all'entrata dell'officina con un problema probabilmente più grave e un'urgenza ancora maggiore di quella che hai per le mani.
Quando vede Marisol, però, cambia espressione. Non che diventi più simpatico, ma i suoi lineamenti si tendono in maniera diversa. La conosce perché la accoglie chiamandola per nome, ma poi si mettono a parlare in spagnolo e quindi per dieci minuti non capisco quasi niente. La mia conoscenza della lingua non è ancora arrivata oltre i saluti, anche se credo che mi toccherà impararla se voglio evitare che i miei colleghi, qui, continuino a prendermi per il culo, facendo battute che non posso capire.
Dopo le spiegazioni di Marisol, Miguel non sembra particolarmente soddisfatto, anzi il suo sguardo si posa su di me e lo riconosco perfettamente per quello che è: si chiede so ho o non ho messo le mani sulla sua roba, che in questo caso ha l'altezza, la forma e il viso di Marisol. Io alzo entrambe le mani. “Le ho solo portato la spesa, amico” esclamo.
“Voi due vi conoscete?” Chiede lei, spostando lo sguardo da me a Miguel, incredula.
“Lavora qui,” il portoricano mi lancia un ultimo sguardo, come a dirmi che mi tiene d'occhio. Io non rido, perché qui non è Berlino e questi non sanno chi sono e come sono fatto. C'è un certo limite entro cui puoi fare il coglione, e quel limite lo crei tu, abituando le persone al fatto che – generalmente – non te ne frega un cazzo di quello che dicono e fai sempre come ti pare.
Io Miguel lo conosco poco e per quel poco che lo conosco so che se mi vede ridere adesso, penserà che non lo rispetto e non, come in effetti è, che trovo solo tenero che difenda Marisol, qualunque cosa sia per lui, da me, che, ora come ora, tutto voglio tranne che imbarcarmi in una storia con qualcuno che ha almeno dieci anni meno di me. Lui non le sa queste cose, tirerebbe solo fuori il coltello che tiene incastrato come niente nei pantaloni e io non ho voglia di scatenare una rissa che probabilmente finirei per perdere, alticcio come sono. Quindi mi metto a lavorare sulla Buick che è arrivata qui ieri ed ha un problema al motore. Non so da dove venga, ma Miguel ha limato via il numero del telaio, quindi è un'altra donazione non consensuale. Ne abbiamo avute cinque solo questa settimana. E a me non fa né caldo né freddo.
Marisol decide di andarsene e non manca di lanciarmi un'occhiata che fa incazzare il portoricano alle mie spalle prima di allontanarsi, lasciando lì la spesa. Qualche istante dopo che è sparita lungo la strada, Miguel mi fa sapere tre cose fondamentali: che Marisol è sua cugina secondo un albero genealogico a me totalmente alieno che tocca anche il quarto e il quinto grado di parentela; che non ha vent'anni come credevo, ma diciassette. E che se anche solo la guardo mi farà fare il giro del quartiere legato per le palle al baule della sua auto. Una minaccia, questa, che apprezzo per la fantasia.
In realtà vorrei dirgli che non ne voglio più sapere, che un diciassettenne che mi aspettava ogni giorno sotto casa con la mia cena l'ho già avuto e che è per lui che sono qui adesso, ma poi sto zitto. Mi farebbe delle domande, immagino. E io non voglio dargli nessuna risposta. La verità è che per quanto a volte mi senta così solo da stare male, non voglio affatto parlare di quello che è successo perché non servirebbe a niente se non a farmi ricordare quello che ho deciso di lasciarmi alle spalle. E poi mi sembrerebbe quasi che a svelarlo, questo segreto, si sfalderebbe nell'aria e scomparisse come non fosse mai esistito. Forse è per questo che ti dicono sempre di parlare delle cose che ti fanno soffrire, perché poi spariscono.
Il punto è che non voglio far sparire proprio niente. Mi tengo il dolore, piuttosto. E mentre lo penso, mi viene in mente David che una sera, al telefono, mi ha detto esasperato di darci un taglio, che lo capiva che stavo male ma che dovevo tagliare questo cordone ombelicale. Jost però non ha idea di come mi sento, può solo immaginarlo, come ci sentiamo io e Bill. E siccome io lo so che la mia Principessa non ha ancora accettato l'idea che io sia morto, nemmeno io accetto l'idea di esserlo.
E prendiamo entrambi a testate la realtà.
Ad ogni modo, dopo quasi un'ora di sguardi truci tra un cambio delle ruote e l'altro della Nissan, Miguel ha deciso che mi ha silenziosamente minacciato abbastanza, e io penso che la questione si chiuda lì.
Invece, una settimana dopo, torno a casa e trovo la ragazzina davanti alla porta della mia villetta. Anzi non proprio sulla porta, ma seduta sulla staccionata della veranda, che penzola i piedi scalzi e guarda dalla parte opposta, tenendo in mano un sacchetto di Starbucks. Per un attimo ho come un deja-vu e mi fermo a qualche metro da lei. Una parte del mio cervello sa perfettamente che cosa sto guardando, l'altra invece si sta facendo del male. Vaglio anche l'ipotesi di girarmi e andarmene, ma non faccio in tempo perché lei mi vede e mi sorride, ma non è neanche la metà del sorriso che stupidamente mi aspettavo.
Quella sera parliamo sulla veranda. Il mio indirizzo l'ha trovato tra le carte del garage. Quando le chiedo cosa sia venuta a fare lei si stringe nelle spalle e io penso che così non va e non è neanche giusto. Per lei e per me. Solo che non riesco a mandarla via, forse perché davvero non posso continuare a vivere isolato dal genere umano, forse perché mi ricorda Bill, in qualche modo distorto che non ha niente a che vedere con i suoi diciassette anni, quanto piuttosto con il modo in cui mi tratta, come se noi due fossimo destinati a stare insieme. Non lo siamo, bambina, non lo siamo per niente. Me lo ripeto ogni volta che mi guardo allo specchio e penso che devo farglielo capire prima di frantumare il cuore anche a lei.
Per le settimane che seguono, cerco di non farle varcare neanche la porta di casa. Miguel non sa nulla del fatto che lei si trovi qui e questo è male, molto male. Lei, però, continua a venire quasi ogni giorno e ci fermiamo sulla veranda, seduti a terra sul legno scaldato dal sole. Una sera dopo l'altra inizio a rilassarmi in sua presenza, anche se non le racconto mai veramente niente di me. A lei sembra bastare, quindi va tutto bene. Io mi rendo conto di stare abbassando la guardia ma, come dicevo, evidentemente ho bisogno di farlo, perché non posso davvero pensare di vivere gli anni che mi restano rinchiuso in un prefabbricato americano di legno e sperare di bastare a me stesso.
Quello di cui non mi rendo conto, e nemmeno me ne stupisco, è che lei ha altri piani. Una sera di ottobre si presenta con due pizze e dice che non ha nessuna intenzione di mangiarle seduta per terra. Ho sempre ignorato come si tenessero a bada gli adolescenti con del carattere, ormai mi sembra evidente, per cui finisce che entriamo e lei sta apparecchiando nella mia cucina e rovistando nei miei armadietti quasi vuoti in cerca di stoviglie, quando io vedo quello che sta succedendo a casa mia. A Berlino, intendo.
Ho acceso la televisione pensando che la musica avrebbe creato un'atmosfera troppo intima, e lei mi trova che fisso lo schermo mentre l'ambulanza si porta via Chakuza e Fler, di fronte agli studi di TRL.
David mi ha parlato dello speciale sulla mia vita che sarebbe andato in onda oggi, e so anche che sarebbero stati tutti in studio a testimoniare quanto io sia stato un uomo buono, o quanto io sia stato in realtà un gran bastardo – Sido lo hanno chiamato per quello. Anche Fler, in realtà, ma lui non gli avrà certo detto che sono uno stronzo – solo che a due minuti dall'inizio mi è mancato il coraggio di guardare. Ho il nastro registrato dentro il videoregistratore e l'idea era quella di sbronzarmi abbastanza da vederlo, stasera, prima che Marisol arrivasse con le pizze e spostasse di qualche ora il mio appuntamento con la mia vita come non l'ho mai vista. In ogni caso doveva essere una semplice, cazzo di puntata commemorativa di TRL. Quindi perché adesso ho davanti un'ambulanza e il mio migliore amico accoltellato da dio solo sa chi?
“Che succede?” Chiede lei, ha in mano due bottiglie di birra diverse ed era entrata per domandarmi quale preferissi prima di trovarmi immobile. Non capisce, perché la voce che sta descrivendo la scena è quella di un cronista tedesco: ho sempre il televisore sintonizzato sulla parabola, non guardo quasi mai la televisione americana. Non le rispondo e continuo a guardare senza di fatto ascoltare né lei che continua a chiedere né la voce fuori campo. In basso scorre in continuazione il titolo di quest'edizione straordinaria: Ferito rapper a Berlino. Le riprese sono amatoriali, realizzate probabilmente con un telefonino, e mostrano l'arrivo dell'ambulanza e Fler che organizza i soccorsi. La mano che regge il telefono trema mentre si sposta sulla destra e poi zoomma sul viso in lacrime di Bill, piegato sul corpo di Chakuza. C'è così tanto sangue su entrambi che mi manca il respiro.
“Chi sono?” Chiede ancora Marisol, alle mie spalle. “Capisci il tedesco?”
E' quella domanda a risvegliarmi dallo stato di trance, in qualche modo mi rendo conto che non avrei dovuto dare a vedere che ne sapessi qualcosa, io, di quella gente o anche solo di tedesco. Solo che questa consapevolezza è solo una minuscola parte di me che da qualche parte si fa sentire per poi venir zittita dalla paura. “Marisol, scusami, ma non è la serata giusta, questa,” le dico, mentre con lo sguardo cerco il mio cellulare per la stanza. “Devo fare delle cose.”
Lei rimane ad osservarmi, senza capire. “Posso sapere almeno che cos'è successo?” Chiede. Si volta verso la televisione dove si ripete l'intera sequenza dei paramedici che sotto le direttive di Fler strappano a Bill il corpo di Chakuza. Mi fermo a guardare Tom che afferra suo fratello e se lo stringe addosso con forza, piegandosi tutto intorno a lui per fargli da scudo, per permettersi di baciarlo sulla guancia e calmarlo anche in mezzo alla folla, come ha imparato in anni di allenamento. Non si vede niente, tutto è coperto dalla sua figura, dai dreads, dalla maglia enorme, ma io lo so che le sue labbra sono così vicine alla pelle di Bill che i giornali domani impazzirebbero più per questo che per l'attacco a Chakuza se solo sapessero. Il fatto è che Bill quando sta male o ha paura, lo devi toccare, ti deve sentire. Dirgli che andrà tutto bene non serve a niente, glielo devi trasmettere. Così Tom gli deve stare addosso, anche perché altrimenti, io credo, nessuno potrebbe convincerlo a lasciare andare Chakuza.
Quello che non vedo e quello che mi preoccupa, è che tutto quel sangue potrebbe non essere solo di Peter. Bill non sembra ferito, eppure trema, tiene le mani sollevate e piange. “Vai a casa, “ dico a Marisol, senza nemmeno guardarla. “Ci vediamo domani.”
“Tarek...”
“Domani, Marisol.”
Nei miei occhi affiora il vecchio me stesso e lei annuisce. Sento la porta di casa chiudersi proprio quando trovo il telefono. Il numero di David è l'unico che mi sia rimasto in memoria. Lo sento squillare tre volte, prima che risponda piano. “Sì?” Capisco dal tono nervoso della sua voce che probabilmente lì con lui ci sono anche gli altri. Non ho neanche pensato alla possibilità che fosse rischioso chiamare alla cieca.
“Bill è ferito?” Chiedo.
“No,” il tono con cui risponde è molto controllato, cerca di essere assolutamente normale, come se non fossi io a chiamare dal mio Oltretomba di palme e oceano.
“Gli hanno fatto qualcosa?” Lo incalzo. “Che cazzo è successo a quella trasmissione?”
“No, non preoccuparti. È tutto a posto. Non sappiamo ancora i dettagli, ma è tutto sotto controllo.”
“Sotto controllo il cazzo, David!” Alzo la voce mentre cambio canale. Ogni fottuto telegiornale tedesco riporta la notizia dell'accoltellamento. Ora scopro che l'assalitore era tra la folla, a qualche centimetro da Bill, Cristo Santo. “Dove cazzo era il servizio di sicurezza?”
Jost sta per rispondermi quando sento la voce di Tom intromettersi nella discussione con prepotenza. Chiede con chi cazzo sta parlando e, nonostante in questo momento io stia affibbiando tutta la colpa di un incidente di cui non so neanche i dettagli a lui, Jost reagisce alla grande, come al solito.
“Briegmann,” dice pronto.
“Voglio che tu scopra cosa cazzo è successo e me lo dica,” continuo io. “E' chiaro?”
Lui non risponde perché a Tom la risposta non è affatto piaciuta. Gli grida che non è il cazzo di momento di stare a parlare del cazzo di lavoro e, se fossi in lui, probabilmente la penserei allo stesso modo. Immagino creda che Briegmann abbia chiamato per sfruttare la cosa nel modo migliore possibile, quando lui invece in testa ha solo Bill e il fatto che è rimasto coinvolto in un'aggressione a mano armata. Saprei io dove glielo infilerei a Briegmann il lavoro, e lo sa anche Tom.
Vorrei dire altre cose a David mentre finge di parlare con qualcun altro ma mi fermo quando sento la voce di Bill – una specie di sussurro. Lo sento appena, dice “Tomi, ti prego...” ed è una specie di pugnalata. Un po' perché la sua voce è così piccola e bassa che mi si stringe il cuore, un po' perché queste sono le prime tre parole che gli sento dire in sei mesi al di fuori di un televisore. E siccome, attraverso il cavo del telefono, mi sembra di essere un po' lì con loro, è come se le dicesse a me.
Un attimo dopo, Fler interviene ad arginare una situazione potenzialmente pericolosa, quella di Tom che non si controlla e di suo fratello che scoppia in lacrime come minaccia di fare, a sentire dal tono. Fler è uno che prevede le cose quell'attimo prima utile a non farle succedere in caso siano un problema. “Adesso ci calmiamo, Kaulitz...” dice conciliante. “Non c'è affatto bisogno di-”
Solo che Tom non ti ascolta, generalmente. Se c'è di mezzo suo fratello, tutto ciò che capisce è quello che c'è nella sua testa, indipendentemente dal fatto che sia sensato o meno. E nella posizione in cui mi trovo, cioè quando non ce l'ha direttamente con me, allora finisco anche per dargli ragione, perché – esattamente come prima – anche io la penso nello stesso modo. Cazzo, sono morto per questo. “Te lo dico io di cosa non c'è bisogno! “ Sbraita, infatti. “Non c'è bisogno che mio fratello sia qui, che pianga un amico con un buco in pancia, che tu venga a farmi la predica e che David parli con la fottuta Universal in questo cazzo di preciso momento! Ecco di cosa non c’è bisogno!”
Prima che si avvicini, strappi a David il telefono di mano e io sia costretto a dirgli che sono vivo e che ha ragione - Bill non doveva essere circondato da cose simili - e che è tutta colpa mia riattacco e poi stringo il telefono tra le dita, forte, cercando di calmarmi.
Passo il tempo che mi separa dalla telefonata di David cercando la notizia dell'assalto da un canale all'altro, da un sito all'altro, e quando mi rendo conto di aver già sentito com'è andata quel milione di volte, decido di guardare l'episodio di TRL, portando in salotto quasi tutta la birra che riesco a trovare.
Quando alla fine, verso l'una, David si degna di chiamarmi, io sono ancora abbastanza lucido per essere incazzato con un certo grado di consapevolezza.
“Sono io,” esordisce.
“Mi fa piacere,” replico stizzito. “Ti sei degnato, finalmente.”
Lo sento espirare, stanco. “Ti ho chiamato appena ho messo piede in casa,” spiega pacatamente. “Ho avuto molte cose da sistemare.”
“Come sta Chakuza?”
“Bene,” risponde con una buona dose di sollievo. “Il coltello non è arrivato allo stomaco. Ha solo una brutta ferita, dovuta al coltello che era seghettato. Ora è sotto sedativi, ma è fuori pericolo.”
Mi rendo conto soltanto mentre mi dice il contrario che questa conversazione poteva andare diversamente. David avrebbe anche potuto dirmi che Chakuza era morto e io non lo so come l'avrei presa. Con Bill che occupa tutti i miei pensieri, non ho mai permesso agli altri affetti della mai vita di tornarmi in mente. Quindi non lo so come starei se il mio migliore amico fosse morto, sono solo contento che non lo sia e non indugio troppo oltre sul suo ricordo perché altrimenti inizierà a mancarmi e, se mi manca lui, sarà solo questione di tempo prima che mi manchino tutti gli altri. Non voglio pensare ai prossimi giorni della mia vita se anche solo permetto alla mia testa di sfiorare il pensiero di Fler. “E Bill?” Chiedo, concentrandomi sull'unico dolore per cui sono già abituato a soffrire.
“Sta bene, è solo scosso,” risponde. “Era lì quando è successo.”
“L'ho visto. Avrebbero potuto colpirlo?”
“...”
“David?”
Sospira. “Sì,” ammette. “Il colpo era mirato a lui, solo che Chakuza si è messo in mezzo.”
Sento la rabbia salirmi alla testa. “Merda.” Mirava a Bill, il bastardo. Questo apre uno scenario completamente diverso. Se era lui la vittima designata, voglio sapere chi è il figlio di puttana che ci sta dietro. E perché.
“Sta bene,” ripete David. “Non ha nemmeno un graffio.”
“Ma potevano colpirlo!” Silenzio. “David, poteva morire.”
“Non è successo.”
“Non me ne frega un cazzo se non è successo!” Esplodo. “Poteva succedere e questo è già grave a sufficienza! Perché cazzo Bill era da solo? Dov'erano le guardie del corpo?”
“Un attimo prima è scoppiata una rissa e-”
“Un diversivo,” commento.
“Sì.”
“Il trucco più vecchio del mondo e le tue stramaledette guardie del corpo pagate milioni di euro si fanno fregare come niente.” Sto camminando avanti e indietro per la stanza e le ipotesi che mi attraversano il cervello sono una peggiore dell'altra. Se escludiamo Fler, ma anche Sido – quello è un gran figlio di puttana ma non è il tipo da mandare uno stronzo con un coltello da pane e comunque Fler lo avrebbe impedito. No, Sido non c'entra un cazzo – se escludiamo l'Aggro in toto, allora, chi cazzo poteva volere Bill morto dopo che non aveva più niente a che fare con me? “Chi è stato?”
“Non lo sappiamo.”
“Centinaia di ragazzine pressate le une sulle altre e questo trova il tempo di accoltellare Chakuza e di scappare?”
“Abbiamo pensato a Chakuza prima che all'aggressore.”
“Siete disorganizzati.”
“Ora non metterla su questo piano,” replica lui, stizzito. “Abbiamo fatto quello che dovevamo fare.”
“Avresti dovuto proteggere Bill.”
“L'ho fatto, maledizione!” Grida. “Non ci aspettavamo un assalto armato.”
“Avreste dovuto!”
“Bill ha sempre avuto tutta la protezione adeguata per il lavoro che fa!”
“Ma non per quello che è!” Lo attacco. “Cristo, David, pensavo che a questo punto lo avessi capito che le cose non girano più com'eri abituato tu. Non è più questione di fama! Non è più solo il tuo fottuto frontman! E' il mio compagno!”
“Era il tuo compagno,” mi corregge lui, piano.
Rido, amaramente. “Era, certo,” butto lì. “Questo non cambia il fatto che hanno cercato di farlo fuori.”
“Non è detto che sia per colpa tua.”
“Hai un'idea migliore?”
Resta in silenzio di nuovo.
“Devi portarlo via per un po',” riprendo, cercando di ritrovare lucidità. “Soltanto per i primi tempi, finché non si sarà staccato completamente da quello che sono io. Ci sono un sacco di mitomani in giro, ma dimenticheranno in fretta.”
“Non è possibile, Bushido. Ha delle responsabilità,” risponde. “Non è solo la tua Principessa, forse te lo sei dimenticato ma anche Bill è famoso.”
“Meglio morto sul palco che via per qualche mese?”
“Sai bene cosa voglio dire,” mormora. “Aumenterò il servizio di sicurezza, lo terremo d'occhio.”
“Come hai fatto finora?”
Quasi lo sento stringere i denti. Io lo so che David ha fatto tutto il possibile, me ne rendo conto, ma ho avuto troppa paura per ammettere che non è colpa sua ma della situazione di merda. Un attacco del genere era plausibile, e tutto quello che ho fatto è stato suggerire a Chakuza di tenere d'occhio Bill per me. E' bastato, perché Chakuza ha avuto il coraggio di buttarsi in mezzo, ma non era tenuto a farlo, in caso contrario forse le mie precauzioni del cazzo non sarebbero servite a niente. Non è colpa di nessuno, lo so, maledizione.
“Credi forse che non me ne freghi un accidente?” Esclama incazzato lui. “Credi che non abbia avuto anch'io una paura fottuta quando ho visto Bill ricoperto di sangue? Che non sappia quanto abbiamo rischiato? Lo so che poteva morire, Cristo, lo so meglio di chiunque altro, quindi non fare lo stronzo con me perché non sono disposto ad accettarlo, chiaro? Bill è uno dei miei ragazzi prima ancora che uno dei tuoi, tienilo a mente quando apri la bocca e spari cazzate!”
E' la prima volta che sento David così arrabbiato. Capisco che non si è concesso il lusso di avere paura fino a quando non ha composto il mio numero di telefono, che fino ad ora i suo nervi sono rimasti tesi, pronti a sostenerlo in tutte le faccende di cui si è dovuto occupare ma che di fronte alle mie accuse infondate non hanno retto. Siamo due uomini adulti che hanno rischiato di perdere una cosa importante e ci prendiamo a cornate tra di noi visto che non sappiamo dove sia il vero responsabile. Solo che David può scordarsele le mie scuse. “Cercherete chi è stato?”
“Naturalmente,” risponde, più calmo. “E lo troveremo.”
“Bene.”
Sospira. “Ti terrò informato sugli sviluppi.”
Annuisco. “David?”
“Sì?”
“Tienilo al sicuro,” dico. “E ringrazia Chakuza, anche da parte mia.”
“Lo farò.”
Due settimane dopo David mi informa che sta cercando una guardia del corpo personale solo per Bill e che il sistema di sicurezza è stato migliorato al punto che Tom si lamenta di non poter più andare da solo nemmeno al bagno. Chakuza si è ripreso e Fler, a quanto sembra, non si scolla più da tutti loro per qualche motivo che neanche David ha saputo spiegare. Del tipo che ha assalito Bill non sappiamo ancora niente, ma non ci sono stati altri tentativi. Le cose vanno più o meno bene, mi dice.
Mi piacerebbe che questo non significasse che la vita ha ripreso il suo corso tanto bene che non c'è poi tanto bisogno che io ritorni, come mi ero permesso di sperare.
Mi rendo conto di essermi perso nella mia testa quando Marisol mi sventola davanti una mano. “Terra chiama Tarek,” ride.
Io le sorrido. “Scusa, stavo pensando.”
“E quando mai non lo fai,” dice lei. “Sei l'uomo più incomprensibile che io conosca. Non si capisce mai dove sei con la testa quando decidi di scollegarti dal resto del mondo.”
“Scusa,” ripeto. Metto le posate nel piatto vuoto e mi sistemo sulla sedia. “Allora, che mi racconti?”
Marisol si stringe nelle spalle, i suoi orecchini d'oro tintinnano e catturano uno degli ultimi raggi di sole che entrano dalla finestra. “Tutto ok,” dice e fa un sorrisino che conosco bene perché questa qui è una che ti rigira come vuole e di solito quando lo fa prima ti sorride a quel modo.
Tutto ok. Penso che sembra andar bene proprio da tutte le parti, eppure io non mi sento affatto a posto, troppo lontano da Berlino, troppo inadatto a Miami. In questa città c'è troppo sole anche a Natale, e troppo poco Bill. Lascio che Marisol mi stordisca di chiacchiere mentre il tramonto si allunga sull'asfalto, non le permetterò di innamorarsi di me e non permetterò a me stesso di credere che possa andare bene lasciarglielo fare. Mai. Quindi stacco di nuovo la spina, senza pensare a niente, stavolta.
Dopotutto niente è meglio di qualcosa che non posso avere.

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I'm An Outsider Outside Of Everything

di lisachan
Per sapere che Bushido era ancora vivo, io ho dovuto fisicamente estorcere l’informazione a mio fratello, costringendolo in un angolo e schiacciandolo fra me stesso e la parete intrappolandolo fra le mie braccia finché non si fosse deciso a parlare e raccontarmi tutto. È stato in questo modo che ho appreso che io e lui eravamo venuti a conoscenza della cosa nello stesso modo, cioè attraverso la dannata rivista.
Quando mi sono ritrovato quella copertina davanti, la prima cosa che ho pensato è stata “Che cazzo, Bushido non andrebbe mai in giro con una fottuta coda”. E quindi, a quello che stavo guardando, non ho dato un centesimo.
Ho chiamato Bill, però, perché supponevo potesse avere voglia di smadonnare un po’. Cioè, trovi una roba così su una rivista del cazzo, ti viene un po’ voglia di tirare giù i santi uno per uno e dire loro cosa esattamente pensi delle loro sacre persone.
E invece niente. Chiamo, squilla, lui non risponde. E io mi preoccupo, ovviamente. Perché penso “Dio mio, se Bill è in quel periodo del mese in cui finge di avere il ciclo per ricordarsi che il suo obiettivo primario è diventare il più possibile donna senza farsi tagliare via l’uccello, allora ci sta anche che l’abbia presa un po’ tanto male. E quindi magari, più che avere voglia di tirare giù i santi, ha avuto voglia di piangere”.
Insomma, alzo il culo e mi muovo. Se Bill sta piangendo fino a sputare i polmoni, mi dico, è giusto che non stia da solo a farlo. Penso: magari se mi sbrigo arrivo pure prima di quella piaga sociale di Chakuza, che al momento, peraltro, sta così fottutamente appiccicato al culo di mio fratello da darmi da pensare voglia farci tutt’altro che starci solo appiccicato, a quel culo. Prima o poi dovrò prenderlo di petto e dirgli che è inutile che ci speri, a mio fratello piacciono alti, scuri e pericolosi, e lui non è niente di queste tre cose. Fler – che pure è tanto bianco che, appena fa un po’ di fatica, tira fuori un paio di guanciotte rosse neanche fosse Heidi che sono una cosa spassosa – al suo confronto è una minaccia molto più consistente. Anche se a Fler potrei anche darlo, mio fratello. Anche perché, tanto per cominciare, sa maneggiarlo, che con Bill non è una cosa così scontata. Anche Bushido, a volte, faticava a domarlo. Fler invece ci va in scioltezza. Senza problemi. E poi, andiamo, è Fler. Palesemente non potrei mai rifiutargli nulla.
Comunque, niente. Arrivo a casa sua e mi faccio tutto un filmino per il quale, quando mi aprirà e vedrà che sono io, mi si getterà fra le braccia chiamandomi piano fra i singhiozzi – “Tomi, Tomi!” – ed io potrò fare la parte del fratello maggiore adulto, maturo e comprensivo – che poi mi si adatta un casino, perché mi fa sempre bellissimo – e consolarlo stringendolo forte ed accarezzandogli i capelli, per poi piazzarlo con una pizza in grembo davanti a The Notebook fino a rincoglionimento totale e successiva nottata passata a dormire avvinghiati sul divano. Come da copione, insomma.
E invece niente, di nuovo. Mi accoglie il vuoto, Bill non c’è, ‘sticazzi. Medito se tornarmene a casa, ma poi mi dico “che diamine, magari era fuori e non lo sa ancora. Allora, a questo punto, è meglio che mi trovi qui, così potrò essere io a dirglielo”. E giù altri filmini con me – fratello perfetto – che mostro quella roba a Bill – piccolissimo e sconvolto – e dopo lo rassicuro dicendogli “vedrai, ora ne parliamo con David. Li lasciamo in mutande, quei bastardi”.
Comunque, resto lì armato di buone intenzioni e di infinita pazienza, ad aspettare che mio fratello torni da… dovunque si trovi. E resto lì le ore. Tant’è che a un certo punto mi rompo pure le palle ed uso il doppione delle chiavi per salire e infilarmi nel suo appartamento, dove mi svacco su uno dei divani e poi continuo a restare in attesa finché non sento il rombo del motore dell’Audi di David, che ormai conosco a memoria. E mi chiedo, in effetti, cosa ci faccia Bill con David. Però sono troppo cretino, forse, o forse troppo ingenuo, e comunque quella cosa sulla rivista non l’ho mica presa così sul serio, perciò tutto ciò che faccio è saltare in piedi e muovermi anche con aria piuttosto rabbiosa verso la porta, spalancandola nello stesso identico momento in cui mio fratello viene fuori dall’ascensore.
Disfatto.
Non si aspetta di vedermi, e quando mi inquadra spalanca gli occhi arrossati e stanchi.
- Tomi… - sussurra appena, immobilizzandosi sulla porta. – Come… perché-
- Dove cazzo sei stato?! – lo attacco io, preoccupato dai suoi lineamenti tesi e dalle tracce evidenti di pianto che ancora gli rigano le guance, - Cristo, non hai neanche portato con te il telefono! Mi sono preoccupato!
Bill si passa una mano sugli occhi, sospirando profondamente, e poi mi supera, infilandosi nel niente di spazio che c’è fra il mio corpo e lo stipite della porta.
- Tomi, per favore… - mugola, dirigendosi verso il frigorifero ed aprendolo alla ricerca di qualcosa da bere, - Oggi non è proprio giornata.
- Cazzo, no che non è giornata. – borbotto, e fanculo a tutti i buoni propositi del dirglielo con tatto. – Hai visto il Bravo di oggi?
Bill riemerge dal frigorifero con un bottiglia d’acqua in mano, e appena sente la parola “Bravo” si congela sul posto.
- …l’ho visto. – risponde in un soffio, senza guardarmi.
- Che stronzi, mh? Ora viene fuori che Bushido è risorto. – butto lì. E lo faccio con cattiveria, visto che quando qualcuno in qualche parte del mondo pronuncia il suo nome, Bill sta fisicamente male. – Il prossimo passo qual è, la santificazione?
Bill si volta a guardarmi con una calma raggelante. Non dice una parola, ma solo a cercare di leggere cosa c’è nel fondo dei suoi occhi mi salgono i brividi per tutta la schiena. Manda giù un altro sorso d’acqua, poi posa la bottiglia sul ripiano accanto al frigorifero e si asciuga le labbra col dorso della mano, come un bambino. È l’unica cosa che incrina appena la dignità glaciale e del tutto fuori luogo con la quale continua a parlare.
- Non è risorto. È lui.
E potrei ridere, dargli del cretino, mandarlo a fanculo o anche urlargli di piantarla di prendermi in giro. Ma non lo faccio. Perché quest’espressione qui io l’ho già vista, secoli fa. Anche se ormai stavo cominciando a dimenticarla.
Capisco che Bushido non può essere altro che vivo, perché questo è il suo Bill. Quello che s’era portato nella tomba. Ecco, adesso l’ha riportato fuori.
Bill guarda altrove e fa per evitarmi – lo vedo che si allontana verso la camera da letto, perfettamente intenzionato a non dire una parola di più sull’argomento – ma io decido che mi sono rotto i coglioni di non sapere cosa gira per la testa di mio fratello. Da quando mi sono mosso di casa non ho fatto che cercare di immaginare ciò che Bill avrebbe potuto fare o stesse facendo, e non ne ho presa una. Tutto sbagliato. E dire che un tempo riuscivo a capire quali sarebbero state le sue mosse ancora prima che lui le facesse. Ora non mi riesce nemmeno di immaginare cosa stia combinando nel momento in cui lo combina.
Mi alzo in piedi e mi muovo svelto verso di lui, piantando una mano sulla parete così improvvisamente che lui quasi va a sbattere contro il mio braccio. Si ferma appena in tempo e si volta a guardarmi con aria oltraggiata, le sopracciglia inarcate e le labbra piegate in una smorfia infastidita.
- Sono stanco. – mi informa atono, - Voglio andare a dormire.
- Non mi interessa. – rispondo io, sollevando anche l’altro braccio e intrappolandolo perché non possa sfuggirmi. – Cosa è successo?
- Niente. – ringhia a muso duro. Io aggrotto le sopracciglia e mi chino sul suo collo, annusandolo piano. Lui si scosta di pochissimo, trattenendo il respiro. Non è spaventato da ciò che sto facendo. È spaventato da ciò che potrei leggergli addosso.
- Hai scopato. – dico, tornando a guardarlo negli occhi, - Da quanto lo sai? Da quanto vi vedete?
- Non sono cazzi tuoi. – sbotta acido, e mi pressa le mani contro il petto nel tentativo di allontanarmi. Io batto i pugni contro il muro talmente forte che l’eco rimbomba per tutto l’appartamento silenzioso, e Bill mi guarda con aria sinceramente spaventata.
- Lo sono. – rispondo a voce bassa, gli sto così vicino che posso leggergli negli occhi qualunque cosa. Bill, ogni tanto, ha bisogno di essere costretto. – Come cazzo ha fatto? Perché l’hai visto? Perché ci hai scopato, Cristo santo? Da quanto è tornato?
Bill mugola e distoglie lo sguardo, mordicchiandosi un labbro con aria incerta.
- Non… non lo so, Tomi. – biascica, stringendosi nelle spalle, - Non so niente, so solo che è qui. Non volevo-
- Non dire balle. – lo interrompo con un grugnito contrariato, - Forse davvero non sai niente, ma non venirmi a raccontare che non volevi andarci a letto. Non ci saresti andato. – sospiro e mi scosto appena. – Non ti ha spiegato proprio nulla?
Lui non risponde subito.
- Non gliene ho dato veramente il tempo. – ammette alla fine, sospirando pesantemente, - Dice di averlo fatto per me. Dice… che era preoccupato. Che l’ha fatto perché ero in pericolo. Ma era lui quello a cui avevano sparato! Non io! – riprende con più veemenza. Io penso distrattamente che Bushido era in casa di mio fratello, quando è morto, anche se poi non è morto davvero. Penso che, se di fronte a quella finestra non ci fosse stato Bushido, fra mio fratello e tutto il resto, forse le cose sarebbero andate diversamente.
Penso che Bill, come al solito, non stia riuscendo a vedere la situazione nel modo corretto – ricordandosi cioè che esistono altri cervelli ed altri modi di affrontare le situazioni oltre al suo. Così come non ha mai capito perché io abbia distrutto l’intera discografia di Bushido, quando mi ha detto che stavano insieme, non riesce a capire perché Bushido abbia deciso di distruggere la propria vita, quando ha scoperto che stare insieme a lui era troppo pericoloso. È evidente.
- …come ha fatto? – chiedo quindi, allontanandomi da lui e lasciandolo nuovamente libero di muoversi, - Come c’è riuscito?
- A sopravvivere? – chiede lui di rimando, sorridendo amaramente mentre ricomincia a respirare, - O a starsene nascosto fino ad ora?
Io rido appena.
- Entrambe le cose.
La voce di Bill mi fa eco con una risata uguale.
- Non so neanche questo. – risponde con un sospiro, - Però c’entra David.
- Gli ha offerto i propri organi in regalo? – scherzo, - L’ho sempre detto io che il modo in cui lo guardava non mi tornava…
- Ma no! – ride più apertamente Bill, coprendosi le labbra con una mano, - Non c’entra col fatto che sia sopravvissuto, credo. Però con tutto il resto sì.
Io annuisco e per la testa mi passano pensieri di ogni tipo – dall’andare a pestare David finché non mi abbia spiegato per bene in che cazzo di casino si sia andato a ficcare lui trascinandosi dietro noi tutti quanti insieme, all’andare a fare la stessa precisa identica cosa anche con Bushido, per gli stessi precisi identici motivi e con gli stessi precisi identici intenti – e mio fratello nel mentre smette di ridere – la sua risata si spegne sfumandosi nel silenzio come un vecchio disco di musica anni Sessanta o chessò io – e si lascia andare seduto sul divano. Non sembra più tanto intenzionato a restarsene solo a piangersi addosso, e questo mi sta bene, perciò mi siedo al suo fianco e gli passo un braccio contro le spalle, stringendomelo addosso e coccolandolo un po’.
- Tomi… - si lamenta a bassa voce, nascondendo il viso sul mio collo, - Ho fatto una cazzata enorme.
Io annuisco perché sì, me ne rendo conto che andare a letto con Bushido sia stata una mossa un tantino avventata. Però io, in quel momento lì, non so un cazzo. Io mi sto davvero solo illudendo – come al solito – di avere vinto. Di sapere cosa ci sia nella testa di mio fratello.
Probabilmente io ho smesso di sapere con esattezza cosa ci sia in quella testa a diciassette anni. E non ho più ripreso.
Che sia stata una mossa un tantino avventata, perciò, è tutto ciò che penso. E lo stringo un po’ di più, e quando gli dico “si sistemerà tutto” lo faccio credendoci. Proprio perché non so un cazzo. Non si sistemerà niente, invece. Adesso che osservo mio fratello sbiancare mentre Bushido gli dice che sa tutto, invece, è molto più chiaro che non si risolverà proprio un bel niente. Ed io, in tutto questo, riesco solo a pensare che Bushido sa molto più di quanto non sappia io.
A volte mi sembra quasi di essere io, quello che è morto perdendosi pezzi della vita degli altri.
*
Cassandra è stata inizialmente solo una scopata, nonché l’unica cosa buona sia venuta fuori dalla frequentazione forzata di rapper cui mi ha costretto per lungo tempo il fatto che mio fratello andasse a letto col capobranco. Seriamente, io avrei fatto volentieri a meno di essere controvoglia risucchiato in un mondo che credevo il massimo del figo e tutto il resto, per scoprire che tutta la gente su cui avrei scommesso qualsiasi cosa era in realtà un manipolo di deficienti. Voglio dire, Chakuza è un cuoco. Eko un cretino. Io ero felice quando credevo che questa gente fosse gente pericolosa. Ero felice di odiare mio fratello perché stava infilandosi in un mondo oscuro e potenzialmente mortale. Ma questo ho potuto pensarlo per qualche mese, prima che – per forza di cose, perché ci mancava l’aria, altrimenti – io e Bill ricominciassimo a frequentarci e parlare. Quindi, tolti quei pochi mesi all’inizio, ho dovuto comunque fronteggiare più di due anni di frequentazione. Sarebbe stato veramente drammatico se, oltre alla distruzione dei miei miti infantili, io non avessi ricavato nient’altro.
Ok, ho conosciuto Fler, d’accordo, questo teoricamente sarebbe dovuto bastarmi anche senza Cassandra. Intendo, Fler è l’unica cosa che sia rimasta pressoché intatta di tutti i miei miti, perché è un figo davvero. Cioè, al di là di qualsiasi cosa si potesse dire di Bushido – compreso il fatto fosse palesemente un pedofilo; magari non violentatore, ma pedofilo di sicuro – era ovvio che lui fosse l’unico vero gangster del mucchio, in mezzo a gente che c’era entrata per caso. E Fler è uguale, però meglio perché non è uno stronzo intollerabile come invece Bushido è sempre stato, è ancora e sempre sarà se la Morte non si accorge di esserselo lasciato sfuggire e non viene a riprenderselo. Al di là di Fler, comunque, sono tutti veramente da prendere e buttare nel cesso, dal lato dell’Ersguterjunge. Ed infatti Fler non è dell’Ersguterjunge. Quelli dell’Aggro mi sono rifiutato di incontrarli, comunque; non vorrei ritrovarmi a scoprire controvoglia che Sido fa la maglia guardando Verbotene Liebe in pausa pranzo.
Comunque. Cassandra, dicevo. È un po’ inquietante che io volessi parlare di Cassandra e sia finito a raccontare quanto profondamente apprezzi Fler. È che lui è tipo una roccia, avreste dovuto vederlo quel giorno in cui è venuto a prendere Bill a casa per portarlo fuori – c’è stato un periodo, dopo quella notte tremenda, in cui solo lui portava Bill fuori, perché Bill voleva in giro solo lui – ed io ero ancora preso malissimo per tutta la faccenda di Saad – “la faccenda di Saad”, sentitemi, sono costretto a parlare per eufemismi, sennò non riesco – e quindi ho ringhiato e pure parecchio, sono arrivato quasi a buttarlo fuori di casa, e lui niente, mi si avvicina con quei fanali azzurri piantati nei miei occhi e fa “non ti ho chiesto il permesso di portare fuori tuo fratello, ragazzino”, che io quando mi sono sentito chiamare in quel modo mi sono pure sentito un sacco a disagio, perché boh, il suo “ragazzino” è Bill e va bene essere gemelli, ma non confondiamo, e comunque niente, mi sono zittito all’istante perché comunque ha un modo di parlarti che è pacato tranquillo pure quando vedi che se ti rifiuti di obbedire ti fa di tutto. Fa un sacco paura Fler, quando ti guarda e ti parla così.
Ma io volevo parlare di Cassandra.
Cassandra era una donna di Bushido. Problema numero uno degli uomini con carisma: quando ti mettono le mani addosso è la fine, una volta è per sempre. Quindi, niente, quando io ho conosciuto Cassandra lei ovviamente già non ci stava più con Bushido, però era ancora una delle sue donne, e per questo motivo metterle le mani addosso è stato assolutamente impossibile fino a quanto Bushido non s’è tolto dalle palle. Contando il fatto che era una dei pochissimi membri della famiglia allargata di Bushido con cui Bill andasse perfettamente d’accordo, e contando il fatto che per questo gravitava tantissimo intorno a casa nostra, potete bene immaginare la tortura di vedere questa bellezza color caramello svolazzarmi sotto il naso a intervalli regolari di una volta ogni due giorni, senza poterla toccare neanche per sbaglio pena morte istantanea preceduta da tortura pubblica nel cortile della Villa Gialla.
Insomma, per tutto il periodo in cui Bill è stato con Bushido, io ho approfittato del fatto che tutti – Bushido compreso – fossero distratti dall’omosessualità emergente del loro capo, ed ho cominciato ad accerchiare Cassie. Non ho fatto nient’altro ed in realtà anche quel poco che ho fatto non è stato niente di eclatante. C’è questo momento meraviglioso, nel corteggiamento, che sta proprio all’inizio; è un momento in cui tu non fai praticamente nulla, ti limiti a dare dei segnali e restare in attesa per vedere se quei segnali sono stati colti e accettati. Perciò c’è stato questo periodo stupendo in cui io e Cassandra non abbiamo fatto che sorriderci.
Non è che le morissi dietro, eh. Anche perché, con l’ombra scura di Bushido a pendere sopra le nostre povere teste innocenti, non è che mi aspettassi davvero qualcosa. Però era un’opportunità, era bella e tanto valeva tenerla da conto. Al più mi perdevo in qualche epica fantasia nella quale, in seguito ad un’esplosione particolarmente forte di tensione sessuale irrisolta, finivo per schienarla contro una parete senza pensare alle conseguenze di quel gesto; a quel punto, Bushido ci beccava ed il resto della fantasia ero io che restavo a fronteggiarlo a testa alta, riempiendolo di botte sotto lo sguardo estasiato sia di Cassandra – che, appena concluso il pestaggio, mi saltava al collo ringraziandomi per averla liberata dal giogo del crudele dittatore – che di Bill – il quale poi diceva a Bushido ancora in terra e sanguinante qualcosa di meraviglioso tipo “Anis… ti credevo un uomo forte”, per poi chinare il capo ed allontanarsi con me e Cassandra nella luce del tramonto, verso un futuro migliore.
Volete far felice un uomo? Dategli un pomeriggio da solo sul divano e la libertà di immaginare sesso, botte e dichiarazioni epiche nelle quantità che preferisce. Avrete salvato una vita. Io me la sono salvata così, per dire – ok, magari non la vita, ma la razionalità di sicuro; c’erano questi momenti in cui la presenza di Bushido, per quanto potessi sforzarmi di ignorarla, era così ingombrante che non mi sentivo libero di fare niente. Sono cose che possono mandarti al manicomio. Soprattutto se non te le sei scelte.
Comunque poi Bushido è morto, ed io non è che abbia avuto granché modo di pensare a Cassandra, tra mio fratello che si deprimeva, mio fratello che cominciava ad impiantarsi notte e giorno a casa del dannato Chakuza e mio fratello che finiva per uccidere libanesi in mezzo a una strada a due giorni da Natale. Insomma, fra mio fratello e mio fratello, non è che avessi granché tempo libero. Come sempre. Mio fratello riempie la totalità del tempo di chiunque gli graviti attorno. Tutti, poi. Anche contemporaneamente. Palesemente non può essere una persona sola. Io ho in realtà tre o quattro gemelli, me ne accoro da queste piccole cose ed anche dal fatto che non è possibile cambiare umore repentinamente tanto quanto fa mio fratello di continuo. Quindi per forza devono essere tre o quattro. Magari Bushido s’era rotto le palle per questo, quando ha deciso di disertare e darsi alla macchia. Comprendo la sua obiezione di coscienza.
Al di là delle cazzate, comunque, anche dopo la roba di Saad sono stato molto preso. Pure troppo preso, nel senso che sono entrato in loop iperprotettivo nei confronti di Bill. Peraltro è un cosa che lui detesta ma che a me serve perché, essendo sempre stati appiccicati come le gomme da masticare alla suola delle scarpe, quando me lo perdo di vista comincio a dare di matto. Sono perfettamente consapevole dell’assurdità di tutto questo e so anche che per Bill non è la stessa cosa – d’altronde, per quanto gemelli, siamo comunque due persone diverse e viviamo le relazioni in modi diversi – ma non posso farci niente. Quindi, in pratica, ho passato tutto un periodo orrendo in cui ho costretto Bill a vivere con me – anche se lui aveva decisamente bisogno di coccole, quindi non si è esattamente lamentato – e non ho permesso a nessuno di avvicinarsi a noi, con l’eccezione di Fler, di fronte al quale ero palesemente impotente e del quale comunque Bill aveva un intenso bisogno.
Da quella situazione, se Cassandra non avesse deciso autonomamente di smettere di sorridere e baciarmi, io probabilmente non ne sarei mai uscito. E in realtà dopo non è che sia veramente successo qualcosa. Solo, niente, ha ripreso a sorridere ma ha anche continuato a baciarmi. E tutto il resto.
Fra me e Cassandra c’è una cosa un sacco tranquilla. Che mi piace tantissimo. E credo di averne il bisogno, adesso – intendo, di tenere fra le mani qualcosa che sia dolce e buono e basta, senza dovermi preoccupare di vederlo crollare fra le mie mani da un momento all’altro. Il ritorno di Bushido, in questo momento, non mi interessa, e soprattutto non mi intralcia in nessun modo, perché Cassandra è forte davvero, e per quanto lui possa insistere con gli sguardi confusi e disapprovanti che mi lancia da ieri, e per quanto possa insistere a chiamarla “stella” anche quando siamo insieme, so che Cassandra è più forte di lui. Ne ho parlato con Fler, dopo quel disastro di cena che ha avuto luogo a casa di Bushido, e lui ha riso. “Donne del ghetto”, ha commentato. Io ho annuito perché mi sa che ha ragione. Sono le femmine, quelle veramente cazzute. Per quanto tutto ciò possa sembrare assurdo.
Tutta questa premessa – su me, su Cassandra, su Fler che non c’entrava ma c’è entrato lo stesso chissà come, e su Bill, naturalmente – io l’ho fatta per spiegare che, a parte le sparizioni settimanali alle quali ultimamente mio fratello si lascia andare e per le quali dovrò decidermi a torchiare per bene David – perché lui non può propinarmi scuse come “Bill è in beauty farm” ed aspettarsi pure che io ci creda – insomma, a parte questo, prima del ritorno di Bushido io stavo conducendo un’esistenza piuttosto felice e tranquilla. C’erano delle cose oggettivamente incomprensibili – il rifiorire immotivato di mio fratello, e non che non mi facesse piacere, ma restava incomprensibile; o l’ombra scura perennemente presente negli occhi di Fler; o la ruga che, sempre con maggiore insistenza, andava formandosi sulla fronte di David, proprio in mezzo alle sue sopracciglia – ma non erano cose che mi infastidissero particolarmente.
Ma ora è tutto diverso. E adesso, in questo salotto, di fronte a questa scenata indecente, di fronte alle lacrime di mio fratello, di fronte all’espressione dura e risentita e soprattutto ferita di Bushido, io devo prenderne atto.
*
Potrei raccontare nel dettaglio la giornata di oggi fin da quando mi sono svegliato, ma sono quasi sicuro che perdermi nella mia testa al momento sarebbe deleterio. Non devo perdermi, devo solo cercare di riassumere le ultime ore della mia esistenza per avere un punto fisso da cui ripartire quando finalmente riuscirò a prendere pienamente coscienza del disastro in atto.
Quindi niente resoconto dettagliato, non mi soffermerò su quanto fosse buono stamattina il profumo di Cassie attaccato alle mie lenzuola, alla mia pelle e ad ogni molecola d’aria che riempiva la stanza; non mi soffermerò su quanto abbia trovato odioso lo squillo del cellulare e non mi soffermerò su quanto mi sia sentito stupido nel rassegnarmi comunque a rispondere alla chiamata appena individuato il nome di Bill sul display. Non parlerò diffusamente di quanto mi sia sembrato strano sentirgli dire “vado da Anis… mi accompagni?” – Dio, come faccio a non parlarne diffusamente? Bill ha sempre visto i momenti di intimità con Bushido come, tipo, cose sacre e inviolabili, per quale cazzo di motivo avrebbe dovuto volermi fra le palle in una situazione come quella? – e non dirò nemmeno quanto io l’abbia trovato teso quando sono passato a prenderlo da casa sua per portarlo all’appartamento in cui Bushido sta per ora; non lo descriverò, anche se potrei dipingerle, le linee corrucciate delle sue sopracciglia, e disegnare il broncio teso e chiuso delle sue labbra.
Però posso raccontare quello che è successo da quando ho messo piede in questa casa, perché questo è importante. Posso raccontare di Bushido tanto scuro da fare paura, colore della pelle a parte. Posso raccontare della paura di Bill, perché me la sono sentita fisicamente addosso per tutto il tempo. Posso parlare del suo imbarazzo quando Bushido gli ha chiesto di andare a prendere da bere in cucina mettendoci meno tempo di quanto non ne avesse perso il giorno prima durante la cena. Posso parlare a lungo della luce tremolante negli occhi di mio fratello e di quella netta e brillante negli occhi di Bushido. Posso parlare di quel momento di immobilità in cui io mi ero già impossessato di un divano su cui svaccarmi e mi stavo ancora chiedendo cosa cazzo ci facessi proprio io e proprio in quel momento in quel dannato salotto, mentre alle mie spalle, fra gli occhi di Bill e quelli di Bushido, scoppiava una guerra tale che avrei dovuto sentirne il clangore anche se fossi stato su un altro pianeta. E invece niente. Invece il silenzio. Posso descrivere ogni sfumatura di quel silenzio – quella tesa, quella angosciata, quella già prematuramente disperata – posso farlo, devo farlo, perché quel silenzio è stato l’ultimo di questa giornata che abbia avuto un significato e sia valso qualcosa.
Poi Bushido ha parlato.
- So tutto.
La sua voce risuona in questo silenzio in maniera così fisica che mi sembra di poterla toccare. È scura e decisa. È molto da lui, così com’è molto da lui dare per scontato la gente capisca a prescindere di cosa stia parlando. Per me non è così ed evidentemente neanche per Bill, che si ferma a metà del salotto e si volta a guardarlo, inarcando appena le sopracciglia.
- Sai cosa? – chiede, forzando un sorriso talmente tirato che io lo guardo e penso “Cristo, Bill. Ma se lo sai già, perché chiedi?”. Ed io, in questo momento, continuo a non sapere un cazzo. Ed è un attimo di confusione che dura veramente pochissimo, solo pochi secondi. Il tempo che serve a Bushido per mettersi in piedi, sollevandosi in tutto il suo fottuto metro e novanta di altezza, e ricominciare a parlare.
- So di te e Chakuza, Bill.
E lì mi esplode il cervello. Perché, non so se vi è mai capitato, ma a volte succede che tu passi in mezzo ad una situazione, no?, diciamo pure che la vivi, ne sei partecipe e tutto, però non la comprendi pienamente. Ci sono un sacco di sfumature che ti sfuggono e il tuo cervello le registra però gli mancano tasselli, e visto che gli mancano tasselli non riesce a ricomporre gli indizi in un quadro che abbia un senso. Perciò quei particolari apparentemente stupidi – il nome di Chakuza che diventa Peter sempre più spesso sulle sue labbra, le fughe continue, i momenti di imbarazzo quando si parlava di lui e così via – tu poco a poco te li dimentichi, li archivi come cose prive di importanza.
E poi arriva qualcuno che invece la soluzione del puzzle già ce l’ha. E gli basta mezza parola, cazzo. Solo mezza. E a te basta sentirla che rimetti tutto al suo posto. E lì o razionalizzi o ti esplode il cervello.
A me esplode il cervello.
In mezzo a tutto quello che potrei pensare – Bill s’è messo con Chakuza; Bill è stato a letto con Bushido; Bill e Chakuza stanno ancora insieme? – io penso solo che è la seconda volta che mio fratello mi butta fuori a calci dalla sua vita. Penso che di tutto questo – di mio fratello che boccheggia a corto d’aria e di Bushido che continua a guardarlo con un misto di delusione e dolore – non mi importa niente. Penso che c’è stato un tempo in cui io e Bill eravamo attaccatissimi. E penso che mio fratello adesso non mi dice più nemmeno quando si innamora di qualcuno. Non mi dice quando è felice, non mi spiega perché lo è e non mi dà modo di gioirne con lui – Bill non ci ha nemmeno provato, a vedere se la mia reazione al sapere di lui e Chakuza sarebbe stata diversa rispetto a quella che ho avuto quando ho saputo di lui e Bushido.
E penso anche che tutto questo è ingiusto. Perché non posso sentirlo quand’è felice, ma in compenso quando il cuore gli batte tanto forte da fargli male lo sento ancora.
- Non hai niente da dire? – chiede Bushido a bassa voce, restando fermo dov’è. Bill deglutisce pesantemente.
- Anis- - comincia piano, ma Bushido lo ferma con un ringhio imperioso.
- Non so se voglio davvero sentirti parlare. – dice d’un fiato, guardandolo dritto negli occhi.
Bill china il capo e le lacrime cominciano a rotolargli lungo le guance in grossi goccioloni brillanti.
- Mi hai chiesto se non avevo niente da dire. Vorrei rispondere almeno a quello.
- Non so se la voglio, la tua risposta! – precisa Bushido alzando la voce e tendendosi tutto verso Bill, che incassa la testa nelle spalle come se l’urto della sua voce lo sentisse addosso né più e né meno di un ceffone.
- …Anis, ti prego. – cerca di calmarlo Bill, parlando dolcemente, anche se non riesce nemmeno a guardarlo e quindi, penso, l’effetto del suono della sua voce è di molto ridimensionato. – Lascia che ti spieghi.
- Cosa vuoi spiegarmi, Bill? – insiste lui, tagliente come una lama, - Vuoi spiegarmi perché mi sei caduto fra le braccia e ti sei fatto scopare nonostante stessi con lui da quasi un fottuto anno? – e si lascia andare ad una mezza risata ironica, incrociando le braccia sul petto mentre Bill serra le palpebre e stringe le labbra. – Quasi un anno! – ripete Bushido, il tono a metà fra il risentito e il crudelmente divertito, - Che bel lutto! Alla prima occasione favorevole-
- Non è stato così, Anis! – esplode mio fratello, stringendo i pugni, ma la sua esplosione non è niente paragonata al rombo della voce di Bushido, pochi secondi dopo.
- Te lo dico io com’è stato, cazzo! – urla, e parla proprio come se fosse stato qui sempre, in ogni momento. Perciò a me un po’ viene voglia di crederci, alla sua versione. – Quanto hai aspettato? Tre mesi? Quanto, prima di buttarti fra le sue braccia? E siete stati felici, fino ad ora? Sei tornato dritto a scopare con lui dopo avermi mandato a fanculo nonostante ti fossi fatto mettere le mani addosso- no, nonostante mi avessi chiesto tu stesso di metterti le mani addosso?!
Bill si copre il volto con le mani.
- Anis, ti prego… - mormora, e la sua voce attutita riempie la stanza in un lamento sofferente. Bushido inspira ed espira.
- Ho capito che voglio che parli, Bill. – dice freddamente, senza staccargli gli occhi di dosso, - Sono curioso di vedere se troveresti un modo di metterla che non ti faccia passare per una qualsiasi di tutte le altre troie che mi sono passate nel letto per tutta la mia vita.
Bill non solleva lo sguardo. Le sue mani stringono appena la presa sulle sue guance e poi scivolano lentamente nel vuoto, lungo i suoi fianchi. E lì restano, ai lati del suo corpo, a dondolare inermi. Seguo il tintinnio dei suoi bracciali e mi concentro su quello, perché preferisco quel suono alla voce di mio fratello che ammette “Non credo che esista, Anis”. Perché dice troppe cose tutte insieme.
Bill, che cazzo.
Che cazzo, Bill.
Bushido non se l’aspetta, comunque. Probabilmente – come me – credeva che si sarebbe difeso. Che avrebbe combattuto, in qualche modo. Che avrebbe cercato di metterla in un qualche modo che non lo facesse sembrare poi così colpevole. E invece mio fratello non esita un attimo per dargli ragione e chiudere il discorso.
Né io né Bushido ci aspettavamo niente di simile. Probabilmente perché né io né Bushido abbiamo la più pallida idea di come sia stato l’ultimo anno della vita di mio fratello. Ed in questo momento di chi sia la colpa di questa mancanza non importa poi neanche tanto.
- Fuori da questa casa. – la voce di Bushido è così bassa e lontana che sembra provenire da un altro luogo. Fa quasi paura. – Non ti ci voglio più vedere, qua dentro. Né altrove. Fanculo, Bill, noi abbiamo chiuso.
Bill solleva lo sguardo e gli punta addosso un paio di occhi enormi di terrore e lacrime.
- No… - mormora senza fiato, - Anis, no.
- Decido io, principessa. – dice lui, guardando altrove. Immagino lo faccia perché non è facile mandare a fanculo la persona per la quale ti saresti letteralmente fatto ammazzare guardandola negli occhi. – Come sempre. Sparisci.
Bill non si muove subito. Resta immobile per qualche secondo e lo guarda. Bushido non fa una piega. Il mondo intero sembra essersi del tutto dimenticato di me, ed io ne sono contento.
Riprendo a respirare solo quando Bushido si sposta e Bill prende quel movimento per ciò che è – un invito estremamente fisico a togliersi dalle palle. Obbedisce, si muove oltre la porta e scompare in corridoio, e lì ricordo che devo per forza andargli dietro – per quanto non sappia cosa dirgli e nemmeno se voglio dirgli qualcosa. O anche solo vederlo, stargli accanto, pensare a lui – primo perché è venuto in macchina con me e secondo perché io non voglio restarci in questa casa con quest’uomo che guarda il vuoto e si morde un labbro a sangue mentre negli occhi gli brucia di tutto. Perciò seguo Bill e lo faccio in silenzio, fino a quando non mi trovo sulla porta. Mentre io sono lì, Bushido lascia andare un sospiro ed io lo sento. Lo sento e non so perché mi sconvolge tanto, però lo fa.
Mi volto a guardarlo, cercando le parole. Non è facile. Non lo è per niente.
- L’ho capito perché l’hai fatto. – dico alla fine. Lui mi solleva addosso uno sguardo estenuato e non risponde. – Perché sei andato via, dico… non ho capito come, ma ho capito perché. – mi fermo un attimo e sospiro anch’io. – Mi dispiace. – aggiungo poi, - Se me ne avessi parlato, l’avrei portato via io.
Bushido serra le labbra e continua a restare in silenzio. Smette anche di guardarmi, però, e quindi decido di andare via davvero. Questo silenzio, stavolta, non sono proprio in grado di sostenerlo. Né di parlarne.

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Alles Verloren

di tabata
Io non sono un uomo buono.
In tutta la mia vita non lo sono mai stato. Gli uomini buoni sono persone che fanno qualcosa di veramente importante per gli altri. Sono quelli che migliorano il mondo, in qualche modo. Io non ho mai pensato di migliorare il mondo, ho sempre pensato a come stare bene io, che da ragazzino significava sfangarla giorno dopo giorno e farsi valere per non essere messo sotto; e poi, più tardi, significava fare i soldi, uscire dal ghetto e far vedere a quegli stronzi che anche un mezzo tunisino poteva arrivare in cima.
Ho fatto quello che c’era da fare per me, e per nessun altro. E non mi sono mai veramente posto il problema se quello che stavo facendo – fosse spacciare, pestare o cos’altro – fosse sbagliato. Non è mai sbagliato fintanto che mi serve.
Sono ben consapevole del mio egoismo, così come lo sono della mia prepotenza. Non si può ottenere quello che ho avuto io chiedendo permesso. Non è così che funziona. Ci vogliono le palle per prendere le decisioni, le cose bisogna guadagnarsele e poi tenersele strette perché c’è sempre gente che crede di poter fare il cazzo che vuole con le tue cose.
Quindi, in sostanza, no, non sono una persona buona e non voglio nemmeno esserlo perché le persone buone sono quelle che vengono sempre fregate. Io l’ho imparato un sacco di tempo fa che ad essere stronzi ci si guadagna. L’avevo dimenticato, evidentemente, ma me lo ricordo ora.
Le ultime sei fottute ore le ho passate chiuso in una stanza a cercare di capire come questo enorme casino sia potuto succedere. Non so che cosa mi dia più fastidio, se il mondo che è andato avanti anche senza di me o se il fatto che è andato avanti in questo modo di merda. Io sono morto per un motivo soltanto. E quel motivo era Bill. Non mi aspettavo che capisse, non mi aspettavo neanche che fosse facile per lui svegliarsi un giorno e non avermi più al suo fianco. Io lo sapevo che sarebbe stato male. Stavamo insieme da tre anni quando ho inscenato la mia morte. Non era più una storiella del cazzo, se mai lo è stata poi. Bill, quando l’ho conosciuto, era un cucciolo viziato. Un ragazzino intelligente e testardo, sì, ma un ragazzino. Gli undici anni che ci separano li sentivamo tutti quanti, ogni giorno. C’erano sempre tra noi perché io non potevo fare a meno di insegnargli a stare al mondo e lui di stare al mondo come gli insegnavo io.
C’è cresciuto, sotto le mie mani. L’ho visto farsi più forte, più deciso, l’ho visto imporsi con i miei uomini consapevole di cosa significasse farsi spazio nel mio mondo con quelle unghie dipinte. Era bellissimo il mio Bill.
Poi un giorno mi rendo conto che fino a quel momento non ho fatto nient’altro che metterlo in pericolo, che lo amo ma non posso oggettivamente proteggerlo in eterno e in ogni luogo. Capiterà che io non sia lì o, peggio, che ci sia e che per colpire me, finiscano per colpire lui. Mi rendo conto, per la prima volta nella mia vita, di avere qualcosa – Bill – che non posso rischiare di perdere. Se me ne sono andato, è stato per proteggerlo davvero come non avevo mai fatto prima. Lui avrebbe dovuto, semplicemente, tornare ad essere quello che era.
Scendo nel garage di questa casa che odio. E’ uno stupido appartamento, c’è troppa gente nel palazzo e io non faccio vita di condominio. David continua a dirmi che sta sistemando le cose per ridarmi la Villa, e intanto mi fa star buono restituendomi la Mercedes. L’aveva lui, come tutto il resto, parcheggiata in un deposito, in attesa che io decidessi cosa farne e me l’ha fatta trovare in garage dopo che ho incontrato Bill, dopo che pensava sapessi ogni cosa, forse. Non lo so.
Stringo le mani sul volante. Da quando ho di nuovo le chiavi non faccio che girare a vuoto, nel tentativo di perdermi ma adesso una strada da seguire ce l’ho. Ingrano la marcia e scatto al verde, le ruote stridono sull’asfalto. Mi è sempre piaciuto correre in auto, e Bill strillava sempre che ci saremmo ammazzati, che dovevo piantarla e gli stavo facendo paura. Si arrabbiava tantissimo, io lo facevo apposta, perché togliergli quel broncio dalle labbra, poi, una volta parcheggiati in qualche posto dimenticato da Dio era una sfida.
Il viso di Bill non mi abbandona. Da stamattina non faccio che rivedere l’espressione che aveva negli occhi quando gli ho chiesto di spiegare. Lo sguardo che mi ha lanciato quando ha detto che non c’era nessuna risposta da dare. Mi aspettavo una litania di giustificazioni e quando non è arrivata, come al solito, ho cercato di capire cos’avesse nel cervello perché l’ho sempre fatto e ce l’ho come abitudine. Le litigate più feroci della mia vita le ho fatte con lui, perché Bill non ti lascia mai l’ultima parola. Se lo accusi, si difende. Se ti difendi, attacca. Non subisce mai passivamente.
In realtà, forse volevo che negasse. Anzi non forse, lo volevo e basta. Se mi avesse detto che non era vero, io lo avrei aggredito – anche più violentemente – perché mentiva, ma sarebbero state soltanto quello: bugie di paura. O di vergogna, non lo so. Chi se ne frega. Se avesse mentito, allora c’erano solo cazzate dietro quella scena in cucina.
E invece così è un’altra cosa. Così è davvero una fottuta relazione, perché Bill lo sa che, cazzo, le bugie coprono solo quello che non ha davvero importanza. Vaffanculo, l’ha imparato da me.
Lascio l'auto dove capita e non sto evidentemente pensando perché, in un quartiere come questo, una macchina del genere non la vedi spesso, quindi fa da catalizzatore per i figli di puttana. Ce li ritroverò intorno come api col miele.
Qui non è Templehof, d'accordo, ma forse è peggio. Li a me la macchina non la ruberebbero, per dire. O forse anche sì, ma poi si pentirebbero.
Quello che mi si para davanti è un palazzotto bianco anonimo, con le finestre tutte uguali. Un mattone grigio in mezzo a tutti gli altri, queste cazzo di case popolari sembrano tutte uguali. E se penso che Bill c'ha passato chissà quante notti, mi incazzo. Cristo, come pensavi che fosse roba per te, eh, Chakuza?
La Principessa poggiava la testa solo su cuscini da trecento euro quando gliel'ho affidato. Solo alberghi a cinque stelle fra quelli che gli pagava David e quelli dove l'ho portato io. Casa sua è un casino di scatoloni, ma sarebbe bellissima se solo avessimo avuto il tempo di sistemarla. Se solo non avesse passato quasi tutto il suo tempo nella mia, di casa, quando ero vivo. Cos'è questo buco? E non so nemmeno perché sto facendo questo discorso, forse perché a qualcosa devo attaccarmi mentre salgo di corsa - il portone é uno schifo, non si è mai chiuso bene - e se penso a Bill che fa tutti questi gradini, e magari li fa stringendolo per mano, come faceva alla Villa quando mi trascinava al piano di sopra, mi sale la rabbia. Quindi vaffanculo, è un posto di merda, e lui non doveva neanche pensare di portarcelo Bill.
Batto due volte sulla porta con tutto l'avambraccio e visto che non apre nei due secondi successivi, ci batto sopra ancora tre volte.
"Che cazzo..." lo sento che bisbiglia, perché Chakuza che bisbiglia è come una persona normale che parla con un tono di voce accettabile. Tiro ancora due colpi, proprio sopra lo spioncino. "UN ATTIMO!"
"Chakuza," ringhio e lo sento tendersi dietro la porta. Stava camminando svelto un secondo fa, e adesso è fermo. A dividerci c'è solo il legno graffiato. Ti sento respirare, stronzo. Lo so che sei lì in piedi e ti chiedi se devi farmi entrare o meno, che ora lo so, quindi sono incazzato. Il punto è, Chakuza, che tu non puoi lasciarmi fuori. Tu mi devi un sacco di spiegazioni. Anzi no, mi devi che ora mi fai entrare e parlo io. Alla fine lo sento aprire le due serrature in alto. Lui abbassa solo la maniglia, la porta la spalanco io, e sono dentro prima che lui mi inviti a farlo.
"Atze..."
"...quale parte del proteggilo e abbi cura di lui era fraintendibile, Chakuza?" Chiedo, avanzando.
Lui arretra e gli leggo negli occhi la paura che hanno tutti quando vai a chiedere conto e ragione di qualcosa che ti hanno preso senza permesso e che si sono tenuti, i bastardi. Io ce l'ho nel sangue questa cosa, bussare in casa della gente e farmi dare quello che mi spetta. Ho nel sangue anche che ogni cosa che ho la difendo coi denti e lui deve smetterla di credere che davvero non gli farò il culo per la cazzata che ha fatto.
"Atze, di cosa stai parlando?"
"Non ti azzardare a mentirmi!" Urlo. "La mia dose di cazzate me l'ha già rifilata Bill due settimane fa. Tu adesso parli, invece." Continuo ad avanzare e sono una bestia per come lo guardo e cammino. Non me ne frega niente, non voglio essere ragionevole.
Lui fa qualche passo indietro, pesta qualcosa e nemmeno abbassa lo sguardo a vedere cos'è, questa casa non è veramete una casa. E' tutto un casino, qui, a cominciare dal proprietario. "Okay, d'accordo," annuisce e respira forte. Pensa, Peter, pensa a cosa voglio sentirmi dire. "Adesso ci sediamo e ne discutiamo, d'accordo?"
"Non c'è niente da discutere," replico. "Dimmi solo la verità. La domanda la conosci."
E lui non ha più così paura, si sta incazzando e questo fa incazzare anche me
Lo vedo che stringe i pugni e serra la mascella. Peter non è uno a cui piace litigare. Le spalle che ha, la forza che ha, non le usa come niente, tanto perché non ha niente di meglio da fare. C'era un motivo per cui lo trovavo affidabile, che era equilibrato nel gestirsi, a modo suo. Magari non capivi un cazzo di cosa gli passasse davvero in testa ma potevi stare certo che non ci sarebbe mai stato lui nei casini per una scazzottata. Vaffanculo, era per questo che avevo scelto lui. Nel suo cervello le cose non si risolvono con la violenza. Poi penso che lui il problema lo ha risolto scopandosi Bill. E soprattutto, lui in quel momento dice: "Sì Atze, la risposta è sì," e io voglio ammazzarlo.
Esistono due tipi di persone: quelle che ti tengono testa perché hanno le palle quadre come le tue, e quelle che credono di poterlo fare. Io non so ancora a che gruppo appartenga lui. Peter mi guarda e io nei suoi occhi leggo la stessa rabbia che so esserci nei miei. Solo che lui non ha nessun diritto di provarla.
Lo afferro per il collo della maglia e lo strattono violentemente. "Non ti azzardare a chiamarmi Atze, Chakuza," sibilo. Atze è per i compagni che ti coprono le spalle. L'onore di usare questa parola lui l’ha perso sul corpo di Bill.
"Lasciami."
Mi dà fastidio il modo in cui continua a fissarmi negli occhi senza battere ciglio. Non dovrebbe, cazzo. Sono io e sono qui per farlo a pezzi. Non sfidarmi Chakuza. Non me. Ringhio e lo schianto contro il muro che ha alle spalle, ma non lo mollo. "Quando cazzo è successo?"
"Otto... nove mesi fa," si corregge.
"Nove mesi?" Lo allontano dal muro e quasi lo sollevo da terra per risbattercelo contro. Nove. Fottuti. Mesi. "Quanto è andata avanti?"
Io lo so qual è la risposta perchè li ho sentiti parlare e gli occhi di Bill, stamattina, non lasciavano dubbi, ma voglio che me lo dica lui. Voglio che sia questo bastardo a guardarmi in faccia mentre mi risponde.
Lui non lo fa. Allarga solo le braccia, e mi irrita, cazzo, allarga le braccia solo per questo. Anche adesso, dura anche adesso. Ecco la risposta.
Che è quello che non voglio proprio sapere, in realtà. Se avessero scopato per niente farebbe meno male. Ma Bill non scopa per niente. Bill lo fa con convinzione e quindi adesso Chakuza mi sta dicendo cose che non voglio sentire affatto, perché anche lui è così. Chakuza scopa un sacco, ma le sue donne se l'è sempre tenute. Non è mai stato quello che vorrei che fosse, adesso.
Contro il muro ce lo sbatto di prepotenza stavolta, batte la testa e lo vedo incassare il colpo con le spalle. "E quando cazzo pensavate di dirmelo?"
"Avrei..." inspira forte "... lo avremmo fatto! Non ce ne hai dato tempo!"
"Tempo un cazzo!" Replico e ce lo sbatto ancora, contro quel muro. "Il fottuto tempo lo avevate, Chakuza. Sono qui da due stramaledette settimane! Che tempo volevi aspettare, eh?" Mi allontano e mi passo una mano sulla testa. Lo fisso e siamo solo a mezzo metro di distanza. Lui è ancora contro il muro. "Tu..." lo indico. "Tu lo sapevi, sei stato uno dei primi a vedermi. Me lo hai portato tu, cristo santo. E a nessuno dei due è venuto in mente di avvertirmi che scopavate, Chakuza? Non posso crederci. Perchè lui? Perchè Bill, cazzo?"
"Non potevo dirtelo prima che lo vedessi," mormora e il tono che sta usando è quello con cui spieghi le cose quando vuoi che vengono accettate prima di farle accettare in altro modo. Quando ci provi ad essere conciliante, un minuto prima di dire che si fa comunque come dici tu. E questo non è il tono che dovrebe usare. Chakuza non ha capito un cazzo. "E poi Bill non.... " espira. "Non lo so perché. E' successo e basta, okay?"
Okay il cazzo. Quando lo sbatto contro il muro, stavolta, sento la parete tremare. Una delle stampe del corridoio cade a terra e la cornice si rompe a qualche metro da noi. "Ti sembra una cazzo di giustificazione, Chakuza? Non lo so perché, è solo successo? Cazzo," continuo a schiantarlo contro il muro. "Ero scomparso da quanto, quando l'avete fatto? Cazzo. Vaffanculo!"
“Bushido…”
“Lo sai cosa mi fa incazzare di più, Chakuza? Lo sai cos’è?” Sono fuori di me. E’ come quando ero un ragazzino e qualcuno mi faceva incazzare di brutto. Tutta la rabbia che avevo mi vorticava in testa senza darmi il tempo nemmeno di ragionare. Era solo una nube, un casino infernale che mi martellava nel cervello e io gli andavo dietro, perché di calmarmi non c’era verso e allora non rimaneva che farsi guidare. In questo modo, però, fai anche un sacco di stronzate, di solito. “Che proprio tu, fra tutti, gli hai messo le mani addosso. A lui, cazzo!”
Il concetto, mentre lo esprimo, mi colpisce con tutta la forza possibile. Fino a qualche istante fa era solo un'idea vaga. Il pensiero che si, Bill sta con lui, che già da solo è insopportabile, ma adesso è ancora più forte nella mia testa: Chakuza lo ha toccato. E Bill gli ha sorriso, lo ha baciato. E' venuto tra le sue dita. Sollevo un braccio e gli fermo il pugno a due millimetri del viso. "Dì qualcosa." Giustificati, stronzo. Voglio sentirti accampare scuse che non hai.
Vedo i suoi occhi che si stringono e mi guardano come se fossi io quello che gli ha portato via qualcosa. "Io non gli ho messo le mani addosso," sibila. "Non parlarne come se fosse un gioco, cazzo!"
"Che cos'è allora? Io me ne vado e tu te ne approfitti. Questo è successo!"
"No!" Mi spintona indietro, furioso. "Sei stato tu a fare un fottuto casino, Bushido! Bella trovata, quella della morte! Bravo!" Continua a spintonarmi. Ad ogni colpo io faccio un passo indieto e lui uno avanti. "Bill era a pezzi, lo sai questo? Con i suoi non parlava e fuori tutti facevano finta che non foste mai esistiti insieme. Questo non te lo ha detto, David, vero? Non te l'ha detto della merda in cui lo hai lasciato quel ragazzino! Non so più quante notti ha passato a piangere in casa mia perchè era l'unico posto in cui si permetteva di farlo! Quindi non venire a dire a me cos'è successo. Tu non sai un cazzo!"
Io lo guardo e stringo i denti e i pugni. Si è permesso troppe cose. Sa troppe cose che io non so. C'è una parte di questa storia che lui conosce meglio di me, e io non lo sopporto.
"Io non ho messo le mani addosso a Bill," ripete e lo fa guardandomi dritto in faccia, il bastardo. "Ci siamo... ci siamo ..non lo so trovati! Non era programmato! Che cazzo dovevo fare?"
Lo colpisco così forte in faccia che crolla indietro e sbatte contro il muro, preso di sorpresa. Continuo a colpirlo anche quando alza la testa, il sangue che gli cola da un labbro. Ne incassa due, prima di caricarmi a testa bassa. Sento le sue nocche colpirmi lo zigomo. Sento il pugno nello stomaco. E il dolore è una nube, come la rabbia. "Stagli lontano," ringhio.
“Col cazzo!” Mi colpisce in viso e non si ferma. “Non mi farò da parte solo perchè sei tornato! Non avresti mai dovuto andartene!”
“L'ho fatto per lui! Perché ne uscisse. Invece torno e scopro che sono morto per niente, che Bill è ancora immerso in questa merda e tutto perché?” Lo afferro per la maglia e gli tiro un calcio al ginocchio. Continuo a pestarlo quando rovina a terra e non m’importa se ci sto andando pesante. Non me ne frega un cazzo. Ora come ora potrei pure ammazzarlo. “Perché tu non potevi tenere il cazzo nei pantaloni, Chakuza!”
“Non hai capito un cazzo!” Urla lui. “Bill ti amava, stronzo! Eri il suo fottuto Dio, non se ne sarebbe mai andato davvero da qui! C'eri tu qua dentro! Non ha fatto altro che cercare le tue ultime tracce ovunque! Credevi davvero che fingendoti morto lo avresti salvato? Stronzate! Lo hai lasciato qui da solo a soffrire! Non incolpare me per le tue cazzate! “
Ho il braccio sollevato ma non colpisco. Lui ne approfitta per tirare il fiato. Mi guarda, però, ed è un cane rabbioso steso a terra. Lo so che per Bill ero tutto. Anzi, per Bill ero troppo. Dipendeva da me e dalla mia presenza, è quello che succede quando ami una persona come ci amavamo noi. Tutta quella forza che avevamo, sarebbe stato il nostro punto debole. Era il mio punto debole. Me ne sono andato per questo, cazzo. Per evitare che lo usassero. Era meglio che soffrisse per avermi perso ora, che non più avanti quando sarebbe stato importante e lui sarebbe stato ancora più mio. Mi fa male che Bill non mi abbia capito, che sia rimasto lì a cercarmi quando avrebbe soltanto dovuto portarmi con sé.
Mi fa male che a consolarlo sia stato il mio migliore amico.
“Non... non azzardati ad avvicinarti di nuovo a lui, Chakuza.” Mi pulisco il sangue che cola dal naso con il dorso della mano. “Ti sto avvertendo, sono molto più pericoloso di quello che credi. Fatti da parte.”
“Vuoi farmi fuori e poi dirgli che mi hanno investito per strada?” Chiede sbuffando una mezza risata ironica mentre inizia a tirarsi su dal pavimento. “Perché non gli dici che sono andato a Miami?”
“Non mi sfidare, Chakuza,” lo avverto. “Non mentirei stavolta. Sono serio. Non ti avvicinare. Non lo toccare, non pensarlo neanche, dimenticati della sua fottuta esistenza ed anche della mia. Ci hai messo poco, comunque.”
Tre fottuti mesi.
Tre mesi ed ero già morto abbastanza per prendersi Bill.
Tre mesi ed ero già morto abbastanza perché Bill ci andasse a letto.
Io lo so che mi sto inventando cose. Non in questo momento, ma poi me ne renderò conto. Fra qualche ora il mio cervello si schiarirà e allora ricorderò com’è davvero la Principessa. Adesso però non so niente di quello che è stato. Tutto si concentra su nove mesi in cui non ero qui, e in cui tutto è cambiato.
Il Chakuza che conosco è solo quello che sta a terra ora. Lo stronzo che si è preso Bill e che mi guarda come se non mi dovesse niente. A Bill non ci penso, invece. Fa troppo male quello che mi ha fatto, e fa ancora peggio quello che penso di lui.
Voglio andarmene, anche se in realtà non so nemmeno dove. Tirerò la Mercedes finché non si fonde il motore, poi mi guarderò intorno e deciderò se sono abbastanza lontano. Berlino non mi consola più.
Faccio per allontanarmi, ma Chakuza parla.
E quando lo fa, all’inizio, mi sembra di non capire.
“Non hai nessuno fottuto diritto di chiedermi una cosa simile. Non hai più nessun cazzo di diritto su di lui! L'hai lasciato una volta, ora non lo tormentare!”
“Stammi bene a sentire, Chakuza!” In due passi sono di nuovo da lui e gli tiro un calcio nello stomaco. Lui si piega in due con un gemito. “Non ho bisogno di nessuno che mi ricordi i miei diritti e doveri, tanto meno di te, fottuto traditore!”
Mi guarda dal basso verso l’alto e, quando lo colpisco di nuovo, tossisce saliva e sangue. “Io non ho tradito nessuno.”
Lo colpisco alla caviglia, con forza. “Questo lascialo decidere al tradito, stronzo.” E ricomincio. Non doveva parlare. Non doveva fare niente. Doveva solo starsene in terra dove lo avevo lasciato, cazzo. Vaffanculo, bastardo.
Lui rotola sul pavimento, cerca di difendersi e in questo modo ho solo voglia di pestarlo di più. “Mi hai chiesto di proteggerlo... te l'ho protetto,” ansima. “Sono quasi morto per salvarlo. Come te. Solo che poi io gli sono rimasto vicino. Quello che dovevo fare, quello che mi avevi chiesto, io l'ho fatto!”
Non controllo nemmeno più la forza. Colpisco e basta, mi piego a tirargliele nel viso anche. Lui mi tira giù, risponde e sono le mie mani sul suo viso e le sue ginocchiate nello stomaco. Non capisco più niente. Ringhia furiosamente, stringe le mani intorno ai miei bicipiti e mi impedisce di avventarmi ancora su di lui. Ringhio anche io. Gli ringhio in faccia. “E poi non hai proprio potuto fermarti lì, vero? Dovevi fare come me anche in tutto il resto!”
“Piantala di parlarne come se fossi un cazzo di stronzo qualunque che si è divertito a giocare con lui!” Urla e nei suoi occhi non c’è solo rabbia. C’è anche un sacco di frustrazione e qualcos’altro che non voglio decifrare. Non lo so cos’è, ma non me ne frega. “Io non gioco, affatto. Sono nove mesi che sta con me! Nove mesi, Anis. E io non te lo lascio così solo perchè sei tu.”
Nove mesi è un tempo lunghissimo, Cristo. Loro ci hanno cancellato la mia esistenza, io ne ho creata una nuova tenendomi stretto al loro fottuto ricordo. E’ questa la differenza. Io non sono passato oltre, io non sono affatto morto, cazzo. “Fanculo!” Mi alzo e lo lascio a terra con una spinta. “Fanculo, Peter! Non presentarti mai più davanti a me.. Sparo a vista, sei avvertito. Questa è una cazzo di minaccia.”
Lui si solleva da terra e si pulisce la bocca con la manica. Gli cola sangue da un taglio sul sopracciglio e dalla testa, non so nemmeno quando e come l’ho colpito così. “Fà quello che vuoi. La tua amiciza, la tua fottuta etichetta.. non me ne frega niente. “
Me ne vado sbattendo la porta e infilo le scale senza davvero sapere dove sto andando.
In questo preciso momento nella mia vita non c’è più niente. Quello che ero l’ho seppellito. Quello che avevo se l’è preso Chakuza. E quello che sono diventato è chiuso in una casa di Miami dove non voglio tornare. Sono solo e non sono niente.
L’auto si mette in moto con un ruggito sommesso che mi vibra sotto le dita. Si sta facendo buio e su Berlino c’è un’ombra scura che si allunga e sembra quasi inseguire la Mercedes. Premo sull’acceleratore, il contachilometri segna i duecento. Non ha più importanza.
Io sono più veloce della notte che avanza.
E non ho più niente da perdere.

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Mein Revier

di lisachan
La notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda è che, alla fine, ho di nuovo casa mia. A quanto ho capito, è stata la prima cosa alla quale David ha pensato - dopo, naturalmente, avermi riportato in Germania con la stessa navigata disinvoltura con la quale mi aveva aiutato ad uscirne. Pare che qui, la mia bella villa gialla - sui cui mobili sto lasciando scorrere le dita proprio adesso - fosse diventata una specie di museo alla mia memoria. O qualche altra simile stronzata.
Quello che ho imparato dalla mia morte fasulla è che, quando morirò sul serio, voglio che niente sia come è stato stavolta. Non voglio un funerale, non voglio un museo, non voglio una ricorrenza, non voglio un cazzo. Non voglio essere ricordato. Preferisco andarmene nella tomba con la certezza che nessuno saprà chi sono già due ore dopo la mia scomparsa, piuttosto che crepare con la speranza di contare ancora qualcosa per qualcuno negli anni. Tanto nessuno ricorda mai davvero. Non sei mai davvero niente per nessuno. Quando muori vieni spazzato via. La vita va avanti. È giusto così. Per questo, non farò altri drammi.
Fanculo.
Ricominciamo da capo.
La notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda è che, alla fine, ho di nuovo casa mia. Non potete veramente capire quanto sia importante avere una casa fino a quando non vi costringono a chiamare in questo modo un posto che non lo è. Nel caso di specie io mi sono costretto da solo, ma in genere questo non conta poi molto, quando stai male. È il classico motivo per cui, quando sei triste e qualcuno ti dice “sì, ma te la sei andata a cercare”, tutto ciò che hai voglia di fare tu è prendere il dannato qualcuno per il collo e spaccargli la testa contro il muro. Cercato o no, è dolore, quello che sto sentendo. Abbine almeno rispetto.
Prima di rientrare qua dentro - non ho nemmeno chiesto a David come sia riuscito a rimetterci sopra le mani, immagino siano fatti suoi come ottiene le cose. Per me è okay - credevo che avrei odiato ogni singolo centimetro di questo appartamento, perché ogni singolo centimetro mi parla di Bill. Odora di lui, sa di lui, ho fotografie del suo corpo, del suo viso, dei suoi sorrisi, dei suoi occhi, su ogni fottutissimo centimetro di questi mobili, di questo pavimento, di queste pareti. È ovunque. E lo sapevo prima di rimetterci piede. Quindi pensavo avrei sofferto come un cane - rivedere Bill ovunque senza possibilità di dimenticarmi perfino che esistiamo ancora nello stesso mondo, impensabile.
E invece no. Cioè, naturalmente se dicessi adesso che non sto male al pensiero di Bill in questa città ed al pensiero di me che non posso più vederlo – perché sono stato io a buttarlo fuori dalla mia vita – ed al pensiero di quello che avevamo ormai completamente devastato dalla distanza e dal tempo, sto male. Ovvio che non posso guardare una fottuta parete senza rivederci contro Bill con una nettezza tale da poterlo quasi disegnare a memoria.
Allo stesso tempo, però, questo posto mi consola. Nonostante tutto quello che è successo, tutta la gente che c’è passata, tutte le cose che sono state portate via, toccate da sconosciuti, spostate da dove le tenevo sempre e via dicendo, questo posto è rimasto mio. Ha ancora intatti tutti i suoi colori, perfino gli odori – se cammino lentamente da una stanza all’altra – sono sempre gli stessi. Mancano pezzi interi di ciò che questa villa è stato, ma è ancora lei. Ed io sono uguale. Mancano pezzi interi di me, ma sono ancora qui. Quando mi seggo sul divano, guardo il vuoto e penso che senza Bill non posso sopravvivere – perché Bill era il motivo per cui sopravvivevo, cazzo, e ora non ce l’ho più – osservare la casa mi consola. Lei ha resistito. Se possono farlo dei fottuti mattoni, potrò farlo anch’io.
- Anis?
Sollevo lo sguardo e davanti a me c’è Pat, in piedi, con una mano sulla fibbia enorme della cintura che indossa e l’altra sollevata per aria, il mazzo di chiavi – che è il doppione delle chiavi di questo appartamento. Praticamente è stato la prima persona dalla quale mi sono catapultato con la copia, appena ho avuto le chiavi in mano – appeso all’indice che dondola lentamente avanti e indietro, mentre lui muove quasi impercettibilmente la mano per impedirgli di fermarsi.
Pat sarebbe palesemente la notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda, se non avessi riavuto casa mia. Siccome ho riavuto la casa, non è la notizia migliore ma resta comunque una notizia bellissima.
Tra le varie cose che ho trovato irrimediabilmente cambiate, quando sono tornato, Patrick è stato quello che mi ha spaventato di più. Da quando lui e quello stronzo di Chakuza hanno scoperto che ero vivo in poi, io e lui ci siamo presi un po’ di tempo per noi. Perché ne avevamo bisogno. Io e Pat ci siamo allontanati bruscamente troppe volte, nella nostra vita. La quasi totalità delle quali a causa mia, peraltro, ma non intendo certo pentirmi di ciò che ho fatto nella speranza di migliorare le cose. Così come non intendo pentirmi di essermi finto morto per cercare di tirare fuori Bill da un ghetto cui non appartiene e nel quale peraltro non ha mai veramente vissuto, non intendo pentirmi delle innumerevoli volte in cui ho lasciato indietro Patrick nel tentativo di risparmiare sia a me che a lui qualcosa che c’era e che tuttavia non poteva essere vissuto come sarebbe stato giusto viverlo, per una quantità di fattori talmente elevata che non mi va nemmeno di elencarli adesso.
Comunque sia, nel tempo che ci siamo presi per noi prima che io e Bill ci rivedessimo e poi tutto precipitasse, io ho trovato un Patrick molto diverso da quello che avevo lasciato prima di partire. Di lui possono essere dette molte cose, ma non di certo sia una persona spenta. C’ha sempre avuto il fuoco negli occhi, Patrick, fin da quando era piccolissimo. Ha continuato a tenere viva quella fiamma crescendo, e bruciava ancora quando mi ha infilato un coltello in un braccio in quel dannato vicolo, la notte in cui Saad mi ha quasi mandato all’altro mondo con due fottuti proiettili. E invece, tornando da Miami, io questo ho trovato. Un ragazzino spento.
Ci ho messo un po’ a ritrovarlo, ma adesso che è qui e gioca con le chiavi davanti a me non posso fare a meno di sorridere nel rendermi conto che mi è bastato grattare un po’ quella superficie opaca che gli copriva gli occhi, per riportarli alla loro lucentezza originaria. Ancora non ho la più pallida idea di cosa li avesse resi così cupi – posso pensare di essere stato io, morendo; ma non lo so. Patrick non s’è mai spento perché l’avevo lasciato, semmai il contrario, più io mi allontanavo, più lui brillava di rabbia – ma al momento non conta tantissimo. L’importante è che sia di nuovo qui e che mi sia rimasto accanto. Che viva praticamente a casa mia, ad esempio, sembra una cazzata – e in fondo lo è, lui sta comunque in giro per la maggior parte del tempo e quando stiamo insieme non facciamo che cazzeggiare – ma è importante. È necessario, io ne ho bisogno e lui lo sa, perciò resta anche se avrebbe decisamente di meglio da fare che non rimanere qui a distrarmi il più possibile per evitare di permettermi di pensare a Bill.
Per dire, s’è messo con Nicole, questa ragazza che gli va dietro da anni senza che lui sia mai riuscito ad afferrare anche solo lontanamente il concetto. Patrick, con le donne, è sempre stato un po’ così. Svampito. Nel senso che non è granché bravo ad averci a che fare. È più tipo da maschi, nel senso innocente del termine. Cioè, gli piace la compagnia maschile, è uno bravo a cazzeggiare, ride, gioca a basket, si attacca alla playstation dimenticandosi per ore del mondo che lo circonda e via così. È rimasto un sacco un ragazzino, perciò le donne le maneggia con una certa difficoltà. Al contempo, però, quando si mette con una tipa prende sempre quest’impegno molto sul serio, perché è uno responsabile, lui, quindi non capita mai che, se sta con una, si dimentichi della sua esistenza. Ecco perché Nicole è sempre fra i piedi, ad esempio. Fler non la molla mai, quando è in giro è sempre con lei e quando viene qui per cena la porta. Ora, per dire, sono sicuro che lei ci stia aspettando in macchina di fuori, visto che Patrick è passato per venirmi a prendere.
Insomma, quello che intendo dire, riassumendo, è che avrebbe sicuramente di meglio da fare che non passare con me le sue ore. Però, quando si fa tardi e siamo qui a giocare a carte da ore e Nicole comincia a sbadigliare, quello che Patrick fa non è augurarmi la buonanotte ed andarsene. No, lui riaccompagna Nicole a casa ed è a lei che augura la buonanotte, prima di tornare qui da me. È sempre qui che ritorna e in realtà è sempre qui che sta, e c’è stato perfino quando tutta l’intera crew è stata riunita in questa casa, due giorni dopo che era rientrata in mio possesso, perché io potessi parlare loro di quello che presumibilmente sarebbe stato il nostro futuro. C’è stato lui e c’è stata Nicole. Sono carini, insieme. Fler sembra felice, a guardarlo. Sorride. Insomma. È più di quanto non si potesse dire di lui sei anni fa.
La riunione è stata una cosa che David ha voluto fortemente quando mi ha spiegato – ridendo peraltro di me che avevo effettivamente sperato il contrario – che non ci sarebbe stata neanche la più piccola possibilità di riuscire ad uscire vivo dalle mani della Universal se, dopo essere risorto, non mi fossi lasciato usare per tirare su un po’ di quattrini. “Se volevi essere lasciato in pace,” mi ha detto, “potevi restartene a Miami. Sei voluto tornare, hai voluto la scena madre? Ebbene, ogni attrice di film muto che si rispetti, nella scena madre o muore o dona le proprie virtù ad un uomo. Tu morire non puoi…” quindi ho da donare le mie virtù alla Universal.
Lì, io ho arbitrariamente deciso che, a quel punto, se di ritorno si doveva trattare, non sarebbe stato solo quello di Bushido, ma dell’Ersguterjunge tutta. Come ha intelligentemente sintetizzato Fler – che, ovviamente, mentre io discutevo con David della faccenda, era lì a farsi fare le carezzine sul collo da Nicole, praticamente sdraiata addosso a lui – “allora non ti limiti a donare le tue, di virtù, doni anche quelle di tutti gli altri. Furbo”. Furbo, sì, e necessario. Sono un sovrano solo se ho dei sudditi, d’altronde. In caso contrario, non sono niente.
Quindi la riunione si è svolta in questi termini, più o meno: ho accolto in casa mia Eko, Nyze, Kay e Bizzy, mi sono seduto sulla mia poltrona preferita, Fler s’è seduto a sinistra sul bracciolo a pochi centimetri dalla mia mano, Nicole s’è ordinatamente messa in piedi dietro di lui e David si è posizionato dritto e fiero alla mia destra, le mani incrociate sul petto e lo sguardo sicuro e tranquillo del manager di successo.
Eko è stato il primo a sollevare un dito, puntarlo contro Fler e schiudere le labbra per chiedere, con la maggiore innocenza e col minor tatto possibile, perché il Senzatetto fosse seduto lì e dove fosse finita la Principessa. La domanda ha posto in luce tutta una serie infinita e molto controversa di questioni che io ho preso in blocco e, con l’autorità da me stesso autoconferitami, ho messo da parte, rispondendo solo in parte e, comunque, solo con le informazioni che mi conveniva lasciare trapelare. D’altronde ad Eko non serve sapere che Fler il posto su quel bracciolo se l’è guadagnato in anni e anni di duro lavoro senza peraltro beccare mai niente in cambio. Anzi, sono quasi certo che Eko abbia decisamente bisogno di non sapere niente del genere.
Patrick,“ ho specificato, “è qui perché quello il suo posto. Quanto alla Principessa,” ho continuato, “è scappata col fottuto usciere,” e tutti si sono voltati a guardarsi intorno. Hanno notato l’assenza di quello stronzo di Chakuza. Ed hanno capito. “Perciò, vi sarei grato se, da questo momento in poi, sia quella troia che quel pezzo di merda uscissero dai vostri pensieri e non se ne facesse parola più in mia presenza,” li ho informati sorridendo. “Ciò detto, per quanto riguarda la mia resurrezione…” e lì David mi ha fermato sbuffando, fortunatamente, ed è passato ad aprire il proprio lucentissimo portatile nel mezzo del tavolino da caffè per poi illustrare alla mia squadra quale sarebbe stato il programma della loro esistenza per i successivi anni a venire fino alla morte.
Ho approfittato del momento di confusione in cui la mia crew cercava di prendere atto dell’agenda più fitta su cui posassero gli occhi da mesi, per sollevarmi dalla poltrona e spostarmi in un angolo della casa in cui mi sentissi più a mio agio e libero di prendermi a testate da solo per ciò che avevo appena detto, ed il luogo deputato è stato la cucina. È stato lì che – dopo aver rinunciato al proposito delle testate ed aver ripiegato su una più salutare birra sulle bollicine della quale perdermi un po’ in attesa di sentirmi meglio e tornare di là – mi sono visto spuntare Patrick, le mani intrecciate sul petto, le sopracciglia inarcate ed un sorrisino stronzo a piegare le labbra sottili, mentre si appoggiava disinvoltamente con una spalla allo stipite della porta, incrociando le gambe.
“Piantala di fare la troia,” ho sputato fuori acido, “Entra, se devi entrare, e chiudi la porta. Oppure torna di là.”
Lui s’è messo a ridere, ma è entrato ed ha chiuso la porta.
“Hai il troia facile, oggi,” mi ha fatto notare, rubandomi la birra dalle mani e bevendone a propria volta, “Quello che mi chiedo è: perché dirlo quando non lo pensi?”
“Chi ti dice che non lo penso?” ho ringhiato, riappropriandomi della mia dannata bottiglia. Patrick ha riso.
“Nessuno me lo dice,” ha risposto candidamente, “Io lo so.”
E il problema è quello. Non che lui lo sappia. Ma che ha ragione, dannazione.
Il problema enorme che ho con Patrick è che con lui, anche senza volerlo, mi sono aperto troppo. Gli ho detto un sacco di balle, ma gli ho detto anche un sacco di cose vere, nel corso dei lunghi anni in cui ci siamo conosciuti. Gli ho dato modo di imparare a distinguere le mie bugie dalle mie verità, e il risultato di tutto questo è che io, adesso, con lui non posso mentire. Patrick non è mai palese, quando mi sputtana. Non mi dice mai che ho torto, non mi manda mai a fanculo come il cazzaro che sono meriterebbe. Però se io lo guardo negli occhi lo capisco, se lo sa o meno che ho detto una cazzata. E questo basta, il più delle volte, a farmi desistere dal dirgliela.
E questo è valso quella sera in quella cucina così come vale adesso, perciò non lo faccio attendere, mi alzo in piedi e mi sistemo i vestiti addosso, chiedendogli se Nicole sia fuori che ci aspetta, e rido divertito quando lo sento rispondere che ovviamente sì, è nell’Escalade ed è emozionatissima perché non è mai stata ad un allevamento di cani in vita sua. Rido perché in realtà neanche io sono mai stato ad un allevamento di cani e non ho idea di cosa aspettarmi da questa cosa, oggi. Per dire, non so se arriverò lì e sarò circondato da un’orda di cuccioli minuscoli e morbidissimi e sarò quindi costretto a dar via tutta la mia dignità in un colpo solo accasciandomi fra di loro e guardandoli tutti con occhi innamorati mentre non riesco a decidere quale prendere in braccio accarezzare grattare sprimacciare per primo.
I cani, voglio che sia comunque reso noto, sono stati un’idea di Patrick. Il giorno dopo aver ricevuto le chiavi della villa, Pat ha cominciato a piagnucolare perché era enorme e vuota. Non so che problema abbia con le case vuote, è una cosa che si trascina dietro da sempre, tant’è che faceva come un pazzo anche quando dividevamo l’appartamento e lo lasciavo lì solo troppo a lungo. Comunque, più è grande la casa più lui si lamenta. Casa mia, ovviamente, è enorme. Perciò lui s’è lamentato tantissimo. E la cosa più allucinante è che non ha posto il problema in termini “starai solo, qui dentro, i cani potrebbero farti bene”. No, l’ha posto in termini “questa casa è vuota da far spavento, ci voglio dentro dei cani”. Tranquillissimo, come dovesse fermarsi a vivere qui per sempre. Non è che la cosa mi dispiaccia in sé e per sé, ma anche datti una calmata, ragazzino.
Quindi, è stato Patrick a decidere che dovevo avere due cani – uno, a suo dire, per quanto grande, sarebbe stato comunque troppo poco per riempire la casa. Così come ha deciso che dovevo avere due cani, ha deciso anche di che razza dovevano essere – “Ovviamente labrador, Anis. Non c’è niente di meglio di una bella coppia di labrador per rendere una casa vivibile e rumorosa”. Ora, sul rumoroso posso anche essere d’accordo, ma quale casa extralusso quale la mia è diventa più vivibile con due cani a colonizzarne ogni singola stanza? – ed in conseguenza di ciò ha deciso anche dove dovevo andarli a prendere. Motivo per cui adesso siamo qui all’ingresso di questo allevamento in aperta campagna e ci guardiamo intorno con aria un po’ smarrita chiedendoci dove siamo finiti e soprattutto dove sia finita Berlino, che anche a sforzarsi non si scorge più nemmeno all’orizzonte.
Ovviamente l’aria smarrita è quella mia e di Nicole, perché Patrick è così incredibilmente a suo agio che un po’ mi viene da chiedergli se qui ci sia già stato. E infatti lo faccio. E lui mi guarda spalancando gli occhioni azzurri ed inarcando le sopracciglia, e risponde.
- No, è la prima volta. – candido come un giglio, - Ma ho cercato su qualche forum un consiglio per un buon allevamento specializzato, perché sai, no?, ogni allevamento, se è serio, si specializza su una sola razza, così da avere esemplari migliori, e poi niente, ho cercato su Google e già che vedevo le indicazioni stradali ho usato le mappe per farmi un’idea del posto. Indicativa, mica lo so a memoria. Giusto per capire dove dovevo andare, più o meno.
Annuisco e Nicole lascia andare una risatina tenera, dopodiché oltrepassiamo il cancello e ci introduciamo all’interno dell’allevamento. Io scorgo in lontananza un tizio che sembra un indigeno, cioè, insomma, uno del luogo, e lo indico col dito.
- Magari lui può aiutarci. – faccio, armato delle migliore intenzioni. Fler borbotta “nah” e mi liquida con un cenno disinteressato, puntando dritto verso un enorme casolare in fondo al vialetto di ghiaia sul quale stiamo camminando.
- È lì, - illustra, - quello là è il reparto maternità.
Ah, be’, ovvio. Il reparto maternità. Questo perché aveva solo un’idea indicativa del posto.
Io e Nicole continuiamo a seguire Fler come fosse il padrone di casa – probabilmente sulle mappe di Google deve averci passato la notte, altroché. Non gli crederò mai più quando mi chiede il computer per controllare la posta. Questo non è controllare la posta – e lo facciamo fino a che non raggiungiamo il casolare in fondo al vialetto.
- Dobbiamo entrare? – chiede Nicole.
Patrick sorride, scuote il capo e la prende per mano. Non prende per mano anche me solo per decenza, suppongo, però mi cattura con un’occhiata molto orgogliosa della sua persona e mi invita a seguirlo mentre svolta dietro l’edificio e ci mostra un enorme spiazzo occupato per più di metà da un recinto grandissimo. Ripieno di cuccioli. Sono così tanti e così piccoli che continuano a salire l’uno sull’altro, aggrovigliandosi come i gomitoli di lana nella cesta, pestandosi le orecchie a vicenda ed emettendo guaiti acuti e lamentosi ogni volta che si salgono addosso e si fanno male alle zampette e ai musetti.
Non c’è verso che noi tre qui si possa sopportare questa vista.
Nicole parte a squittire immediatamente, le mani giunte sul petto e gli occhi che brillano. Io resisto il tempo di un mugolio random e poi mi sciolgo in un’aw veramente poco regale, inclinando il capo e sorridendo mentre lascio scorrere lo sguardo sul nutrito branco di cagnetti, e Fler comincia a ridere felice, affiancandosi a Nicole ed abbracciandola da dietro, alle spalle, dondolando un po’ e sussurrandole all’orecchio qualcosa che non sento.
Ci si avvicina un tizio ma io non lo vedo, sono troppo concentrato a guardare questi batuffoli di pelo che si accavallano come le onde rotolando l’uno sull’altro. Sorrido appena, il tizio ride e si rivolge a Fler, che tiene ancora strettissima Nicole fra le braccia. Le ha poggiato il mento su una spalla e lei ha stretto le mani piccole dalle dita sottilissime attorno al suo avambraccio. Berlino spunta fra un dito bianchissimo e l’altro. La B, il ditino, la R, un altro ditino, pezzi di fiamme, un pezzo di I, un altro ditino. Mi concentro sul disegno e non sento una parola del dialogo fra Fler e l’uomo. tutto quello che so è che meno di un minuto dopo le porte del recinto ci sono state aperte e siamo tutti e tre seduti in terra e circondati da cagnetti troppo piccoli per potersi fidare di noi ma troppo curiosi per poterci stare alla larga. Nicole ne insegue uno gattonando, Fler le tira un pizzicotto sul fianco e poi prende in giro un cagnetto tirandolo per la coda e ridendo dei suoi guaiti irritati, ed io… io mi lascio scegliere.
Skyline è il primo ad avvicinarsi. Non so perché ma lo chiamo immediatamente così; quando vedo il batuffolo bianco panna che mi rotola incontro quasi accidentalmente, andando a sbattere contro il mio ginocchio, decido che sarà mio e che sarà Skyline. Il cane mi guarda curiosamente per qualche secondo, io guardo lui, allungo una mano e lui mi morde. Non ha neanche un dentino, dev’essere piccolissimo. Rido perché le sue gengive, nonostante tutta la forza che ci mette a stringere la mascella, mi fanno solo il solletico. Lo sollevo per la collottola fino al mio viso, lui mi guarda risentito, abbaia un paio di volte e poi si affloscia tutto come una specie di peluche svuotato del suo riempimento di lanugine, e io rido ancora.
Sherlee arriva dopo, ed arriva accompagnata da un altro maschietto bianco panna che le sta facendo la posta. Ho perso di vista Fler e Nicole da tanto di quel tempo che potrebbero essere scomparsi – sollevo il naso dal livello-cuccioli cui l’ho tenuto fino ad ora e mi rendo conto che sì, sono scomparsi. Nota per me, mandare a fanculo Patrick la prossima volta che si propone per accompagnarmi fuori città, è palese che ha solo voglia di un po’ di sesso outdoor ed io non ho davvero bisogno di concedergli cose simili per vivere un’esistenza felice – e insomma, resto qui seduto nell’erba e osservo questa macchiolina pelosa nera che sculetta altezzosa cercando di allontanarsi dall’altro maschietto. Skyline si è già abituato alle mie carezze e mi sta ronfando in grembo, ma quando si risveglia dal suo sonnecchiare e osserva la scena con quegli occhioni enormi color cioccolato si prende subito bene, salta in piedi, si lancia giù dalle mie gambe ed ovviamente capitombola in terra arrotolandosi su se stesso in una coreografia di cagnetti che si scostano per non finire travolti dal suo rollio.
A questo punto, nell’osservare Skyline rimettersi dritto sulle zampe e pararsi fra il maschietto e Sherlee, prima decido che non posso privare Skyline della cagnetta che vuole proteggere, e poi decido anche che si chiama Sherlee. Sherlee perché inizia per S come Skyline. Sherlee perché suona bene, accanto a Skyline. È musicale. Come Bonnie e Clyde. Come Bill e Bushido.
Quando Fler e Nicole tornano, ridendo come due deficienti, io tengo in braccio entrambi i miei cani minuscoli e sono perfettamente soddisfatto di me. Patrick mi chiede perché di colori diversi. Io rispondo che bianco e nero, insieme, sono una combinazione bellissima.
*
È la stessa cosa che penso delle ciocche bianchissime che scendono sulle spalle di Bill, intrecciandosi ai suoi capelli nero pece e risaltando sulla maglietta nerissima che indossa quando me lo vedo spuntare davanti agli studi della Universal, dove sono stato convocato oggi per discutere gli ultimi dettagli del mio piano di lavoro. Penso al bianco e al nero che si rincorrono fra i capelli di Bill in una pettinatura nuova, che non gli ho mai nemmeno immaginato addosso e che gli dà un’aria selvaggia che non riesce in alcun modo a scalfire l’innocenza ostinata dei suoi tratti da ragazzino, penso al bianco della sua pelle e penso ai toni scuri della mia, Skyline e Sherlee, bianco e nero è tutto ciò che penso. Non riesco a realizzare che Bill è effettivamente un dettaglio del mio piano di lavoro, finché non è David a farmelo notare.
David, per inciso, mi sta parlando da dieci minuti, e credo di non aver registrato in memoria neanche una delle cose che ha detto. Il che non è bene, perché fra poco David se ne accorgerà e farà come fa sempre quando mi disapprova moltissimo: pianterà le mani sui fianchi, sporgerà un’anca nello stesso preciso identico modo che ha passato a Bill come eredità ideologica e mi guarderà come fossi un essere umano indegno di solcare il suo stesso suolo perché non capisce la fortuna enorme che ha avuto nel trovare un uomo come lui perché si occupasse dei suoi affari. È vero, Jost, non merito per niente. Ma Bill è lì seduto su quella seggiolina di plastica dall’aria scomodissima, i capelli gli ricadono come una cascata sulle spalle e davanti al viso ed osservarlo guardare altrove con quell’aria persa, seria e tristissima, mi toglie tempo e voglia per fare qualsiasi altra cosa, compreso ascoltarti. È a lui che penso. È lui che vedo. È lui che ascolto, anche se non sto sentendo niente. Dov’è che vorresti essere, piccolo? Dove sei, amore mio?
Lo schioccare di dita che mi risveglia è sicuramente la cosa più omosessuale di cui abbia mai fatto esperienza in assoluto – e io, di esperienze omosessuali, posso parlare con una certa competenza – subito dopo lo sguardo da gay in carriera oltraggiato che David mi sta rivolgendo in questo momento. Ogni tanto mi ritrovo a pensare che io per quest’uomo provo del rispetto e non capisco perché invece lui non ne provi per se stesso.
- Bushido, mi stai ascoltando? – chiede con aria tendente all’isterico, mettendo le mani sui fianchi e sporgendo l’anca come da me ampiamente previsto, - È da mezz’ora che-
- Sì. – annuisco sbrigativamente, - Lo so. E no, non ti stavo ascoltando. – lui mi lancia un’occhiata semplicemente basita – e anche disgustata e offesa e ferita e un altro migliaio di cose circa – ed io mi affretto a rettificare. – Mi dispiace. – aggiungo, - Dicevi?
- Dicevo, - riprende, incrociando le braccia sul petto e battendo un piede per terra, - che ti sarei grato se restassi concentrato. E tranquillo. Oggi siamo qui perché tu e… - sospira e lancia un’occhiata a Bill ancora seduto sulla sedia. Finge di non essersi ancora accorta di me, la mia principessa, ma io so che sa perfettamente che sono qui. So che mi sente. - …insomma. – sospira ancora Jost,- Dovete tirare fuori qualcosa. Vogliono una collaborazione e la vogliono fra voi due. Non è in discussione, questo punto. Lo capisci questo, Bushido?
Annuisco compitamente. Lo capisco, sì. Non mi sta bene ma lo capisco.
- Troverò un modo di uscirne. – gli dico.
- No. – scuote il capo lui, - Tu non devi trovare un modo di uscirne. Devi trovare un modo di obbedire e basta, per una volta. Stare alle regole, ricordi cosa significa? – vorrei rispondere di no. Non ci sono mai stato, d’altronde. Ma risparmierò a David almeno questo peso, limitandomi ad annuire. – Regole. – ripete, - Ti concentri sul lavoro. Non perdi tempo. E… - il mio sguardo indugia ancora sulla figura magra di Bill, - e non lo tocchi. Gli parli il minimo indispensabile. Lo guardi anche meno. Chiaro?
Ringhio, riportando i miei occhi nei suoi.
- Stai parlando per dare aria alla bocca, Jost? – chiedo sprezzante. Come fosse possibile per me coesistere nello stesso universo di Bill staccandogli gli occhi di dosso o permettendogli di dimenticarsi della mia esistenza. Coglione io ad averlo pensato. Coglione io ad averci sperato. – Lo sai che-
- Quello che so, - mi interrompe lui, glaciale, - è che non mi interessa un fico secco di quale sia la relazione privata che al momento c’è fra te e Bill. Il tuo primo pensiero al mattino e l’ultimo alla sera sono saltargli addosso? Benissimo. Non mi riguarda. Me ne sbatto, Bushido. Ciò che pretendo da te, - e si sporge a battermi due dita petulanti contro il petto, - è un minimo di professionalità. Non mi fido di come agisci quando stai intorno a Bill, non mi fido di come reagisci alla sua presenza, ma la mia professionalità adesso mi impone di farlo. Spero che la tua ti imponga di rispettare tutto questo.
Agito disinteressato una mano. Jost pretende di ragionare con un pazzo. Io non sono una persona irrazionale. Sono, anzi, una persona molto metodica e dotata di un forte senso logico. Ciò non toglie io sia pazzo. Ciò non toglie io sia pazzo di Bill.
Nel momento in cui Jost si allontana ed esce dalla stanza, sospirando e scuotendo il capo e lasciando me e Bill qui da soli – io da un lato, lui dall’altro – immersi in una specie di ambiente sottovuoto fatto solo di silenzio compresso, io so che il discorso che mi ha appena fatto non è servito a niente. la mia professionalità, al momento, non mi impone un bel niente. Tutto ciò che mi impongo – assolutamente da solo, non ho bisogno di chiamare in causa nessuna responsabilità altrui – è continuare a guardare Bill fino a quando non avrà dato segno di aver accettato il fatto che sono qui e che gli tocca considerarmi.
Bill si rassegna quasi cinque minuti dopo, e sono cinque minuti talmente densi che sembrano cinque ore. Quando lo osservo sollevare un braccio e rigirarsi una ciocca bianca fra le dita, la tensione che si è accumulata in questi cinque minuti – cinque ore – di silenzio, si scioglie e scivola lungo le mie spalle, lasciando posto ad un nervosismo nuovo, più ansioso.
Bill si alza in piedi, afferra la sua seggiolina per lo schienale e la trascina fino al tavolo. Poi la rimette in terra, si siede e la sistema vicina al tavolo, in modo da poter poggiare i gomiti sul ripiano in formica.
- …ciao. – biascica quindi, - …non so che altro dire. – aggiunge poi sinceramente, abbassando lo sguardo.
Io lascio andare una mezza risata ironica, massaggiandomi distrattamente la nuca.
- È un ottimo inizio, principessa. – lo prendo in giro, - È quasi un mese che non ci vediamo e tu non sai cosa dire. La tua loquacità si è di molto ridotta, da quando frequenti Chakuza.
Lo vedo aggrottare le sopracciglia e stringere i denti. La sua mascella scatta silenziosamente – è appena un tremito sulla sua guancia – ed i pugni si serrano sul tavolo. Vorrei sorridere soddisfatto, perché mi piace scuoterlo in questo modo, ma mi trattengo.
- Non cominciare, Anis. – dice secco. Vorrebbe suonare come un ordine ma è più che altro un’implorazione strozzata. – Non è il caso di tirare in mezzo Peter.
- Sai cosa? No. – rido ancora io, - Non sarebbe per nulla stato il caso di tirare in mezzo Peter. – gli faccio il verso, sottolineando il nome con disgusto, - Ma non sono stato io il primo a farlo, mi pare. Sei tu che l’hai tirato in mezzo, facendoti fottere per nove cazzo di mesi, subito dopo la mia morte.
Bill mi guarda e boccheggia, sulle mie ultime parole. Stringe le dita e schiude le labbra, spalancando gli occhi e tendendosi tutto sulla sedia.
- Non ti permettere- - comincia, ma non mi è mai piaciuto sentirmi dire cose che limitassero la mia libertà di agire. Perciò limito io la sua, zittendolo come so fare meglio. Urlando.
- Mi permetto quello che cazzo voglio, Bill. – ringhio, - Tu non sei nella posizione di impedirmi niente. Conto i giorni, Bill, e tre mesi non sono un cazzo. L’hai superato in fretta, il lutto.
- Non ricominciare! – strilla lui, le lacrime agli occhi, - Mi hai già detto quello che pensi di me, non hai motivo di ripetermelo!
Mi alzo in piedi, battendo i pugni sul tavolo e sovrastandolo.
- Il motivo ce l’ho, ed è che non ti è ancora entrato in testa! – gli faccio notare, - Perciò te lo ripeterò finché non l’avrai capito, Bill.
Lui si alza lentamente. Pianta le mani sul tavolo e si solleva, guardandomi dritto negli occhi. Vuole piangere, è palese, ha già un paio di lacrimoni pronti per rotolargli lungo le guance, ma tiene duro. La mia principessa tiene duro.
- Ripetimelo, allora. – dice fiero, - Dillo ancora, Anis, avanti. Magari te ne convinci.
E lo ripeto.
- Troia.
A piena voce e senza esitazioni. Senza nemmeno abbassare lo sguardo. Non lo abbassa nemmeno lui, ed anzi ghigna quando mi sente scivolare l’offesa fra le labbra.
- Bravo. – e il suo sorriso mi sfida, - Suona bene? Ti piace? Dillo ancora.
- A te piace sentirtelo ripetere? – ringhio, sporgendomi verso di lui. Lui non indietreggia. – Troia. – ribadisco, - È quello che sei.
- È quello che sono. – annuisce lui, - Sono stato a letto con Peter. Mi sono innamorato di lui. Sono felice con lui, Anis. Questo fa di me una troia? – ride appena, una risata leggera, ed allarga le braccia, avvicinandosi a me, - Allora lo sono.
Ed io non ci vedo più. Passi essere stato a letto con quello stronzo di Chakuza, passi credere di amarlo – non è amore, Bill, non è come quello che hai con me, cazzo, non le senti le scintille? – passi anche la fottuta cazzo di felicità, ma a me non lo dici. Non così, non con quegli occhi. Non con quel sorriso. Io non sono disposto a sentirtelo dire, Bill, non sono disposto ad accettarlo. Perciò lo afferro per un polso e lo strattono violentemente verso di me, costringendolo a fare il giro del tavolo per poi spingerlo a schiantarsi di spalle contro la parete, con un tonfo sordo ed un mugolio di dolore appena accennato.
Lui solleva subito lo sguardo, scrollando il capo per liberarsi dalle pesanti ciocche intrecciate che gli ingombrano la vista. È fiera e altezzosa, la mia principessa, e mi guarda con occhi privi della minima pietà. È così arrabbiato che, potesse – non lo tenessi così schiacciato contro la parete – mi salterebbe al collo per sbranarmi.
- Non osare. – sibila, e dice proprio non osare, usa quel verbo lì, una cosa che ha del maestoso, del sacrale. Se mi avesse detto che non dovevo permettermi, gli avrei riso in faccia. Ma lui dice non osare ed io percepisco distintamente la sua furia e la sua offesa. Lo sento di nuovo mio come non lo sento mio da un anno intero, cazzo. E se ne rende conto anche lui, non appena pronuncia quelle poche parole. Il suo sguardo esita appena sul mio e poi torna a farsi affilato come un coltello. – No, Anis.
- No? – chiedo io, chinandomi su di lui, - No cosa?
- No. – ringhia, piantandomi entrambe le mani sul petto e pressando, - Non ci provare, non ci pensare nemmeno. Non voglio.
- Non sto pensando a niente, principessa. – gli soffio sul collo, e non lo sfioro nemmeno, se non col respiro. Sono solo parole, è solo aria. Io non ti sto toccando, principessa, quindi cos’è che dovrei smettere di fare?
- Non dire stronzate. – protesta lui, pressando con più forza le mani sul mio petto. La spinta si fa troppo insistente e fastidiosa, motivo per cui lo stringo per i polsi e poi lo blocco al muro, le braccia alte sopra la testa. – Anis!
- Bill. – lo chiamo a mia volta, e ghigno, - Sei felice col tuo principe azzurro, principessa? – chiedo, - Dillo ancora.
- Sono felice. – ripete, sostenendo il mio sguardo. Mi spingo contro di lui, i nostri bacini collidono e lui non riesce a trattenere un mugolio.
- Dillo ancora. – gli sussurro addosso, schiacciandomi addosso a lui con tanta forza che non può più neanche fingere di non aver sentito quanto sono duro oltre il tessuto spesso dei jeans. – Dimmi ancora che sei felice.
- Sono felice, Anis. – ripete lui in un sussurro che si confonde con un gemito, - Cazzo… sono felice, perché non ti rassegni?
- Perché… - gli scivolo addosso con la punta del naso, inspirando a fondo il suo profumo, - perché sei mio, piccolo. Lo sai.
Rabbrividisce sotto le mie mani, trema così forte che si scuote tutto, e le gambe quasi gli cedono.
Potrebbe dirmi che non è vero. Potrebbe dirmi che non è più mio da un pezzo. Ma non è questo quello che esce dalle sue labbra. Non è questo quello che dice.
- …mi hai mandato via tu. – respira a fatica, cercando di divincolarsi un paio di volte, prima di arrendersi alla mia stretta.
Io ghigno, ancora nascosto contro il suo collo, e mi spingo nuovamente fra le sue gambe. Lui le schiude con una naturalezza disarmante. È quello il mio posto, cazzo. È mio, mi spetta. Lo voglio, fanculo.
- È vero, ti ho mandato via io. – torno a guardarlo negli occhi, sussurrandogli sulle labbra, - Perché te lo sei meritato.
- Io non ho fatto niente. – ansima Bill, muovendo lentamente il bacino contro di me, - Spostati.
- Me lo chiedi spalancando le gambe, Bill? – rido a bassa voce, schiudendo le labbra sulla pelle sottile e morbida della sua gola, - E poi non sei una troia?
- Non sono la tua troia. – precisa lui, e le mie labbra gli si richiudono addosso. E lui ricomincia a tremare appena io inizio a succhiare. – Anis… cazzo.
Sorrido sulla sua pelle, mentre lui riprende a muoversi. Finge di stare provando a divincolarsi, ma in realtà non fa che strusciarsi più velocemente contro di me.
- Guarda come ti agiti. – rido, e mi allontano da lui. La macchia arrossata umida di saliva spicca sulla pelle bianca del suo collo come il sangue sulle lenzuola bianchissime del suo letto, la notte in cui sono morto. La nostra è una storia di contrasti. Il bianco e il nero, Bill. Non puoi dimenticartelo.
- Smettila. – ringhia, - Lasciami. – sono richieste vuote. Non sta chiedendo niente. Sta chiedendo me, dal modo in cui si struscia, dal modo in cui le sue labbra mi cercano schiudendosi appena mentre ansima a corto d’aria, io lo capisco che sta chiedendo me. – Anis… Anis, ti prego.
- Mi preghi di fare cosa, piccolo? – gli chiedo addosso.
- Lasciami. – prova lui, ma la sua voce è incerta.
- Sbagliato. – scuoto il capo io, baciandolo piano sul mento.
- Lasciami, cazzo. – prova ancora.
- Sbagliato. – ripeto, risalendo a baciarlo appena sotto il labbro inferiore.
Lui trema. Mi si scioglie contro, tiepido e arreso.
- Scopami. – ansima alla fine, - Anis, ti prego… ti prego, scopami.
Io ghigno. E lo lascio andare. Ed è una cosa così improvvisa che Bill, privato da un momento all’altro delle mie mani e del mio corpo che lo sostengono schiacciandolo al muro, quasi non riesce più a reggersi sulle gambe, e deve aggrapparsi con le unghie alla parete per non rovinare a terra. Mi guarda con quegli occhi da cerbiatto, enormi, il trucco nero ed elegante appena un po’ sbavato dalle lacrime che non si è ancora lasciato libero di versare.
Mi guarda e non mi chiede cosa sto facendo. Non mi chiede perché non lo sto più toccando o perché non ho già una mano fra le sue cosce. Legge tutto quello che gli serve nel mio sorriso, la principessa. Perché è brava a farlo, perché gliel’ho insegnato io a capirmi anche quando sto zitto, anche quando faccio di tutto per non essere capito. E quindi Bill mi capisce, si rimette dritto sulle gambe, si avvicina e mi schiaffeggia.
- Io non ti amo più. – mi dice seccamente, mentre torno a guardarlo, - Vaffanculo, Anis.
La mia mano si alza prima che possa fermarla e non sono tanto sicuro che, se ne avessi avuto il tempo, l’avrei fermata comunque. Si abbatte contro la sua guancia con violenza, lascia lo stampo rossissimo di quattro dita sulla sua pelle bianca ed osservo il viso di Bill scattare lateralmente, i suoi capelli ovunque, le lacrime che finalmente scendono non tanto per il dolore quanto perché lo schiaffo ha finalmente spazzato via la fissità dal suo volto, devastando quella stupida maschera di orgoglio e onore dietro al quale il mio piccolino si nascondeva. Non puoi giocare ad essere un altro con me, Bill. Così come non posso farlo neanch’io.
- Non sprecare fiato per mentire a me. – ringhio, - Comincia a pensare a come giustificherai i miei marchi con Chakuza, principessa. – consiglio, e non mi spreco nemmeno a ghignare, indicando con un cenno del capo il succhiotto che spicca ancora sul suo collo. E l’impronta del mio schiaffo.
La guancia mi fa incredibilmente male e credo che Bill mi abbia graffiato con le unghie. Sono marchiato anch’io. Ma aspetto di lasciare la stanza per portare una mano al volto e ringhiare.
*
In questi giorni ho scritto una canzone. Che non sia niente di eccezionale non è nemmeno da mettere in discussione, ma è tutto quello che sono riuscito a tirare fuori fra una cosa e l’altra. Dove il concetto “una cosa e l’altra” può essere tranquillamente riassunto in me e Fler sul divano che giochiamo alla playstation mentre Skyline e Sherlee devastano il mio salotto rovesciando i divani e mandando a terra i soprammobili, e Nicole prepara da mangiare. È la prima cosa che mi ha detto Patrick di lei, peraltro, “sai che è bravissima ai fornelli?”, fa, compiaciutissimo, “Devo farti provare il suo polpettone”. E da lì è diventato “devo farti provare il filetto al pepe”, “devo farti provare i maccheroni al sugo”, “devo farti provare il maiale alle mele” ed il risultato di tutti questi tentativi è che ormai davvero Nicole va via solo per andare a dormire. La mia casa è diventata un disastro. Ed io ho scritto una canzone. Che lo so che fa schifo, quindi non mi stupisce adesso, mentre la passo a Fler – sulla cui spalla Sherlee ha fatto il nido, divertendosi da mezz’ora a mordergli un orecchio – osservare le sue sopracciglia inarcarsi mentre lascia scorrere dubbioso gli occhi sul foglio, piegando le labbra in una smorfia poco convinta.
- E con questa – chiede, recuperando Sherlee per la collottola e sistemandosela in grembo, dove lei prende subito a mordergli la maglietta, - cos’è che intenderesti fare?
- Intendo, non intenderei, - preciso in un mezzo grugnito, - farne il singolo per il quale la Universal mi rompe i coglioni da una settimana.
Lui, naturalmente, scoppia a ridere. Dalla cucina arriva un buon profumo di funghi saltati in padella, e Skyline sgambetta felice verso quella direzione, il naso per aria e la coda che si dimena da un lato all’altro con tanta forza che penso potrebbe prendere il volo come una specie di elicottero peloso e con le orecchie.
- Okay. – borbotto, - Lo so che ho scritto di meglio.
- Oh, - ride ancora Patrick, - questo non è veramente in discussione. Più che altro mi chiedo se tu ti sia reso effettivamente conto di cosa stavi scrivendo, mentre lo facevi, o se ti è stato suggerito mentre eri tipo in trance artistica e non te ne sei accorto fino alla fine.
Solleva il foglietto spiegazzato che mi sono portato dietro in tutti questi giorni per scrivere quando avevo voglia, e me lo sventola davanti al naso.
- Prinzessin? – chiede quindi, con un ghigno stronzo, - L’amore del ghetto, il capo in guerra, le bande rivali e la principessa infedele, Anis?
Io distolgo lo sguardo con un lamento seccato.
- È solo una canzone. – borbotto, - Non c’entra niente con tutto il resto. È un’altra storia. Lei va a letto col capo della banda avversaria. – mi giustifico, gesticolando distrattamente verso il foglietto.
- Certo, assolutamente. – ride ancora lui, annuendo mentre cerca di liberare la maglietta dai dentini da latte di Sherlee, - D’altronde, non si può parlare di metafora, in questo caso. Non ritroveremo in questo… - torna a guardare il foglio, rileggendo velocemente un passaggio, - …uomo senza onore che ha tradito la sua stessa gente… - e ride di nuovo, - non ci ritroveremo certo Chakuza. E… - legge più in basso, - Lei, cane di razza, che ha morso la mano che la accarezzava, di certo non c’entra niente con Bill. Sono due persone assolutamente casuali.
- Senti. – ringhio io, strappandogli il foglio di mano, piegandomelo e sollevando il bacino dal divano per infilarlo nuovamente in tasca, - L’alternativa era: scrivo io o lascio che qualcuno alla Universal, magari Jost, scriva qualcosa per me. La seconda scelta, se permetti, non era una scelta, perché io-
- Tu di sicuro non ti fai scrivere un testo da un ex boybander che gestisce un gruppo di marmocchi che giocano alle rockstar, indubbiamente.
- Esatto. – annuisco animatamente io, - Questo è venuto fuori, d’accordo? Questo è.
- E questo farai cantare a Bill. – scrolla le spalle lui, - Com’è che fa il ritornello? Mi dispiace, non ero in me, riprendimi con te, grandioso re? Non ho letto bene.
Mi sollevo dal divano e lo mando a fanculo. Nicole viene fuori dalla cucina avvolta in un vecchio grembiule di Karima – Karima mi manca. Queste cose vado realizzandole ancora pezzo dopo pezzo – con una pirofila strabordante di pennette con panna e funghi, ed annuncia che il pranzo è pronto. Io però non mangio.
*
Chakuza, naturalmente, non è stata una mia idea. Come non è stata una mia idea niente di tutto questo, dal momento che avrei preferito di gran lunga scrivere un’autobiografia con i dettagli completi della mia morte e della mia resurrezione piuttosto che trovarmi in una situazione del genere. Ma se anche fosse stato possibile che questa canzone, questo video, questo momento di merda in cui io guardo Bill e Bill guarda altrove, fossero una mia idea, di sicuro Chakuza non avrebbe avuto un posto in tutto questo. Ed invece è qui perché i grandi capi della Universal, qui, non appena hanno messo gli occhi sul testo hanno cominciato a fregarsi le mani e sogghignare furbamente.
“Lo trovano perfetto,” ha ghignato Jost, dandomi la notizia, “Naturalmente. Sai ancora perfettamente come venderti. Dovresti smetterla di pagarmi per ciò che faccio.”
Vaglielo a spiegare che non ne avevo la benché minima intenzione.
Chakuza, comunque, non è stata una mia idea, ed in ogni caso non sono proprio sicuro che, dopo aver letto il testo, sia granché felice di essere qui a fare questa parte fingendocisi perfino a proprio agio – sorridente e cordiale con tutti meno che con Fler, di fronte al quale, per motivi che non comprendo, è letteralmente sbiancato nel momento in cui l’ha visto comparire sul set mano nella mano con Nicole. Suppongo non se lo aspettasse e basta, anche Bill, quando ha posato gli occhi addosso alla coppietta felice – l’unica nel raggio di chilometri – ha fatto una smorfia incredula che mi ha quasi fatto venire voglia di ridere.
Questa è la prima volta che ci vediamo tutti e tre insieme. Le registrazioni si sono svolte in momenti separati e distinti – “Ovviamente mi organizzerò perché non dobbiate mai incontrarvi neanche per caso all’uscita degli studi”, è stato il commento di Jost all’intera situazione, mentre prendeva appunti sulla propria agenda – ed è un bene che in questo momento noi si sia circondati da così tante persone. Perché Bill e Chakuza sono troppo vicini, per i miei gusti. Ed io comincio a sentire la rabbia crepitarmi come fuoco sulla pelle, tendendo tutti i miei sensi.
Al momento io sto seduto su un divanetto e Bill e Chakuza sono persi da qualche parte alle mie spalle, mentre il regista spiega per l’ennesima volta il concetto del video che ci siamo già sentiti ripetere abbondantemente uno per uno – almeno, a me avrà ricordato la questione del tu-sei-furioso-ma-non-vuoi-lasciarlo-andare quelle trecento volte, quindi mi auguro che, per giustizia divina, l’abbia ripetuta anche a loro. Sono qui su questo divano e tengo le braccia incrociate sul petto e mi chiedo perché abbia lasciato a Jost la possibilità di scegliere il regista per questo dannato video, visto che quest’uomo appartiene decisamente alla sua stessa razza – che poi temo sia quella cui appartengo anch’io, ma io sono molto meno palese – e continua a gesticolare brillando di luce propria ed autocompiacendosi per la genialità intrinseca del concept del suo meraviglioso storyboard per il video. Mi viene da dirgli che la storia che lui sta mettendo per immagini sul fottuto schermo l’ho scritta prima io nella mia fottuta canzone. E che comunque fa cagare. E in ogni caso è un inno all’omosessualità che sia io che il german rap ci saremmo volentieri risparmiati, perciò la smetta di volteggiare in giro per il set sventolando quella sua tremenda sciarpina in raso rosa e torni qui a fare il suo mestiere, così da poterci rimandare tutti a casa il più in fretta possibile, che ho Sherlee e Skyline soli a casa e nessuno che giochi con loro e dia loro da mangiare.
La tiritera, a Dio piacendo, dieci minuti dopo finisce. Herr Vorderberg – così si chiama la piaga sociale che ci dirige – si piazza sulla sua seggiolina di pezza stile regista hollywoodiano, accavalla le lunghe gambe avvolte in microscopici pantaloni a quadrucci bianchi e neri e batte le mani, lanciando a tutti noi un’occhiata fra l’annoiato e il disapprovante da dietro le lenti tonde dei suoi occhiali da sole. Continuo a chiedermi Jost dove l’abbia conosciuto, questo tipo, e poi mi alzo in piedi, perché il tizio comincia a mostrare segni d’impazienza e non voglio dargli l’opportunità di esibirsi nella scena madre che gli vedo brillare negli occhi, seguendo il copione della quale lui dovrebbe alzarsi in piedi, gettare indietro la sua sciarpina rosa ed uscire dal set pestando i piedi e strillando che siamo tutti degli incompetenti e non meritiamo la sua professionalità.
Quando mi giro, quello stronzo di Chakuza s’è già tolto dalle palle. Bill si aggira con aria abbattuta attorno al letto sfatto che ci fa da scenografia per la prima scena del video, ed io ghigno discretamente.
- Allora! – squittisce Vorderberg, - Via le magliette! I pantaloni potete anche tenerli su. – mi viene da ridere ma la mia espressione non lo dimostra, quando mi avvicino anch’io al letto e ne sfioro le lenzuola bianchissime con una mano, fingendo di risistemarle meglio. – Normalmente, il mio amore per il realismo mi imporrebbe di farvi spogliare integralmente, ma… - lo osservo lanciare un’occhiata a Jost, Jost la ricambia con una tale quantità di minacce che Vorderberg quasi indietreggia, - …ma per evitare problemi cercheremo di inquadrarvi solo a mezza figura. Ora, se volete cortesemente prendere posto…
La scena che dobbiamo girare è praticamente un porno softcore. Sapete, di quelli in cui la gente si muove e geme ed ansima e si capisce che sta scopando, ma in realtà non si vede niente di niente perché gli attori non stanno davvero scopando, stanno solo strusciandosi l’uno contro l’altro. Hans Vorderberg, il nostro talentuoso regista gay, ha deciso, leggendo il testo della canzone, che in ogni caso non potevamo comunque sputtanarci più di così, perciò tanto valeva darsi alla pazza gioia e girare questa lunga scena d’amore in cui io e Bill facciamo di tutto su questo letto, in modo da poterla intramezzare con altre parti del video durante il montaggio. Per tutto il resto delle riprese, questo sembrerà un video normale – scene di vita quotidiana, gente che canta su sfondo nero illuminata da luci azzurre e via così – ma oggi bisogna girare questa scena, quindi il set sembra quello di un porno, Bill è a disagio, Chakuza sta spalmato contro la parete a dieci metri di distanza – le braccia incrociate sul petto e una gamba sollevata, il piede piantato contro il muro – ed io ghigno.
Sfilo le scarpe e mi sistemo sul letto, lanciando un’occhiata a Bill che si stringe nelle spalle e guarda altrove. Sospiro, togliendo la maglietta in un gesto veloce e lasciandola poi ricadere per terra, osservando poi uno degli svariati assistenti biondi di Hans – tutti biondi, questi assistenti, una cosa surreale ed anche un po’ inquietante – chinarsi a recuperarla ed appoggiarla su una sedia, fuori dall’inquadratura.
- Signor Kaulitz, - lo richiama Vorderberg, agitando una mano con aria annoiata, - la mia insalata di alghe arame e rucola non aspetterà i suoi comodi e sono già le undici. Vogliamo darci una mossa? Deve solo sfilare la maglietta e stendersi, non mi sembra una richiesta esageratamente onerosa, da parte mia.
Bill gli lancia un’occhiata irritata e la stessa cosa fa Chakuza, ancora fermo in posa plastica contro il muro, mentre Fler nasconde una mezza risata ed io combatto contro me stesso una lotta impari per fermare il ghigno che tenta di risalire alle labbra. Lo lascio fare, alla fine, e quando Bill guarda me, togliendo la maglietta e stendendosi al mio fianco, se ne accorge.
- Ti diverti? – mi chiede acido, puntando i gomiti sul materasso per calciare via le scarpe da tennis e recuperando il lenzuolo dai piedi del letto, rimboccandoselo fino alle spalle.
- In realtà sì. – rispondo candidamente, continuando a ghignare, - Tu no?
- Affatto. – ringhia lui, - Speravo che, dopo quello che è successo, non ci saremmo più rivisti.
- Illuso. – rido io, mentre Hans ci strilla di metterci in posizione, motivo per il quale mi avvicino a lui e lo osservo girarsi su un fianco e togliersi il lenzuolo di dosso per darmi modo di girargli un braccio attorno alla vita.
- Già. – risponde lui, gelido, - D’altronde, l’erba cattiva non muore mai e tu ne sei un esempio perfetto.
- Bella battuta, principessa. – rido, tirandomelo contro. Lui trattiene il respiro per un attimo e poi lo rilascia tutto in una volta. Il suo fiato caldo mi sfiora il petto e la mia mano scende a stringergli un fianco con maggiore decisione. – Mi sei mancato, piccolo. – aggiungo, muovendomi impercettibilmente contro di lui.
Bill trema, stringendo una mano attorno al lenzuolo.
- Anis, ti prego. – mormora, - Non qui, almeno.
- Stiamo recitando. – gli ricordo, accennando alle telecamere tutte intorno a noi, - Rilassati.
- Tu non sei per niente rilassato. – mi prende in giro lui, allusivo.
- Mi fai quest’effetto. – rido ancora, accarezzandogli il fianco morbido col pollice, - Che posso farci?
- Avete preso confidenza per bene? – ci sfotte Vorderberg, picchiettando nervosamente con un tacco sul pavimento, - Allora. Tendenzialmente – comincia a spiegare, gesticolando fluido, - non servirebbe la musica di sottofondo, per girare questa scena. Ma voglio che siate il più sincronici possibile, perciò ve la metto. Seguite il flusso, lasciate fluire la musica in voi! E non siate esageratamente espliciti, già così subiremo tanti di quei tagli che il mio capolavoro ne verrà fuori irrimediabilmente danneggiato! – conclude con tono tragico. Dopodiché lo vediamo accennare col capo ad un altro assistente, le luci si spengono, si accendono i riflettori e tutto si fa silenzio, mentre le prime note del pianoforte si diffondono nell’aria.
La mia mano risale il fianco di Bill, sfioro col pollice la sua pancia e il suo petto e lui socchiude gli occhi, stringendo le labbra.
- Anis… - mi chiama piano, - Questa è stata una pessima idea.
- Rilassati, piccolo. – gli ripeto, accarezzandogli il collo e sistemandomi fra le sue gambe quando lui ne solleva una e la allaccia ai miei fianchi, - È solo un video.
- Non l’ho mai fatta una cosa del genere. – bisbiglia, piegando un po’ il capo per esporre il collo quando le mie labbra scendono a sfiorarlo, - È strano farla con te.
- Avresti preferito farla con Chakuza? – chiedo a bassa voce, mordicchiandogli il mento.
- Ti prego, non- - e geme un po’ quando mi spingo contro di lui, - …non metterlo in mezzo adesso. Anis, cosa stiamo facendo…?
- Devo spiegartelo coi disegnini? – rido un po’, mordendo la pelle tenerissima sotto l’orecchio, - Hai un buon profumo.
- Ti stupisce? – chiede lui, accarezzandomi la nuca, - L’ho sempre avuto.
- Mi stupisce. – annuisco io, sfiorandogli le labbra con le mie, - Tu non sei più lo stesso di un anno fa.
- Io sono lo stesso. – mugola mentre lo bacio piano in punta di labbra, - Sei tu che non mi riconosci più.
- Non è così, principessa. – gli sussurro sulla bocca, respirando appena contro di lui, - Tu sei cambiato.
Mi preme le mani contro il petto, spingendomi disteso sul materasso e seguendomi nel movimento, ritrovandosi seduto sul mio grembo, le mie mani sui suoi fianchi, le sue che viaggiano dai pettorali alle mie spalle.
- Io sono lo stesso. – ripete, scendendo su di me e schiacciandosi contro il mio corpo, - Sei tu che non mi riconosci più.
Mentre io lo guardo – e non esiste altro oltre a lui nel mondo, e so che per lui è lo stesso perché glielo leggo negli occhi – qualcuno impreca in fondo alla stanza. Hans manda un assistente a zittire colui che sta cercando di rovinare il suo meraviglioso lavoro e, dopo qualche secondo di bisbigli irritati e concitati la porta di uscita del set si spalanca e, tra il buio che regna sovrano nella stanza e la luce fortissima che viene da fuori, per un attimo la figura di Chakuza si staglia nettissima sulla soglia. Poi la porta si richiude, la figura scompare, Bill torna in sé e cerca di rotolare su un fianco, scendendomi di dosso. Io lo trattengo per i fianchi, però, e lui non riesce a muoversi.
- Lasciami. – sibila attonito, - Lasciami subito.
- Vorderberg non ha detto stop. – gli faccio notare, serrando la presa sui suoi fianchi. Bill si irrigidisce sotto le mie dita e mi graffia il petto con le unghie.
- Stronzo. – sputa fuori fra i denti, - Ti odio. Odio questa situazione del cazzo. Ti odio da morire.
La porta si apre ancora, la figura di Patrick la oltrepassa – seguita a breve da quella minuscola e sottile di Nicole – ed io continuo a tenere Bill fra le dita come non volessi più lasciarlo andare.
- Anche io ti odio. – ringhio, spingendomi dal basso verso l’alto contro di lui, - Sei una troia traditrice. Questa canzone è tua. Ci sei tu, qui dentro. Ti odio.
- Sei un bastardo. – risponde lui in un ringhio similissimo, continuando a stringermi le unghia addosso con tanta forza da farmi male, - Stai mentendo.
- Io non mento mai. – stringo più forte, - Ti odio. Cazzo, ti odio.
- Vaffanculo. – si dibatte lui sopra di me, - Lasciami andare. – ha gli occhi lucidi e non capisco se sia rabbia o tristezza o tutte e due le cose insieme, - Lasciami andare, stronzo, ti odio. Ti odio!
Lo afferro per la nuca, tirandomelo vicino e fermandomi solo quando siamo così vicini da poter respirare le stesse molecole d’aria, scambiandocele sulle labbra.
- Ti amo. – sussurro, guardandolo negli occhi.
- Vaffanculo. – ripete lui. – Ti amo. – e mi bacia, ma dura solo un attimo. Ci baciamo facendoci del male, questi non sono baci, sono morsi, e però sono baci lo stesso, e ci agitiamo sul letto così tanto che il lenzuolo scivola via, mentre ci aggrappiamo con forza l’uno all’altro. Ma è davvero solo un attimo, Bill cerca di separarsi da me quasi subito e, quando io non lo lascio andare, prima si dibatte violentemente e poi mugola forte, puntando le ginocchia sul materasso e staccandosi da me con tutta la forza che ha, ricadendo sul materasso al mio fianco, senza fiato. Gli occhi gli brillano di rabbia. È furioso.
- Luci! – strilla Hans, scattando in piedi e gesticolando animatamente. Quando le luci si accendono, lo osservo avvicinarsi furioso al letto, le mani fra i capelli ed i lineamenti deformati dalla rabbia, - Cos’è questo? Cosa?! Stavate andando benissimo e improvvisamente… impazzite! – ulula, appendendosi alla propria sciarpina con tanta forza da darmi l’impressione che finirà per strozzarsi, - Oh, Dio, ho bisogno di un tè e ne ho bisogno adesso. – mugola abbattuto, - Klaus! – urla poi, ed uno degli assistenti biondi, quello con camicia bianca e sciarpina di seta a scacchi – che le sciarpine siano una caratteristica distintiva di questa troupe? – si solleva dalla propria seggiolina e va immediatamente a recuperare il thermos, riempiendo una tazza di tè fumante e portandola velocemente ad Hans, che lo aspetta già con la mano tesa.
Bill abbassa lo sguardo e torna a coprirsi col lenzuolo. È in imbarazzo, si sente in colpa e gli sento addosso la voglia di correre e inseguire Chakuza, dovunque sia andato. Stringo i denti e mi rimetto in piedi, infilando le scarpe e recuperando la maglietta dalla sedia poco distante, mentre Hans continua ad inveire contro la nostra palese mancanza di professionalità e ci manda tutti a riposo nei camerini mentre lui mangia la sua dannata insalata di alghe arami e rucola.
Esco di fuori, perché restare lì con Bill non è un’opzione, e vado alla ricerca dei distributori automatici perché sento il bisogno di un caffè, e quando esco il mio sguardo incontra quello di Patrick, che sta borbottando qualcosa mentre Nicola gli sta ferma accanto, le mani strette in grembo.
- Tu! – mi urla lui, alzandosi in piedi e venendomi incontro, - Dico, sei uscito fuori di testa?! Come cazzo hai pensato che-
- Ehi! – lo fermo io, afferrandolo per i polsi per impedirgli di gesticolare in maniera così convulsa. Mi confonde. – Di che cazzo stai parlando? Stavamo girando!
- Girando il cazzo, Anis! – insiste lui, liberandosi con uno strattone dalla mia stretta, - Quello era-
- Stavamo seguendo il copione! – insisto, allargando le braccia ai lati del corpo. Veramente non capisco cosa Patrick si aspettasse da me, in una situazione come quella. Cazzo, io non capisco cosa si aspettino tutti da me nella situazione di merda in cui sono.
- Il copione! – strilla ancora lui, e poi si passa una mano sulla fronte e prende un respiro profondissimo, prima di parlare ancora. – Chakuza è furioso.
- Me ne sbatto i coglioni.
- Sei uno stronzo!
- Coraggio. – rido, - Dimmelo anche tu. Nicole, vuoi favorire? Oggi è la giornata dello stronzo libero.
Lei si stringe nelle spalle, immediatamente imbarazzata dal mio tono, ed abbassa lo sguardo, facendosi da parte. Si sente a disagio e io sono uno stronzo, è vero.
- Non tirarla in mezzo, Cristo santo! – mi rimprovera Patrick, frapponendosi fisicamente fra me e lei, più che per proteggere lei, per recuperare i miei occhi. – Anis, un minimo di controllo. Cazzo, controllo! Ne avevi anche troppo da ragazzino, e oggi che sei un uomo adulto… vai fuori di testa! Che cazzo!
- Senti, non ce l’ho il controllo di questa cosa, okay?! – sbraito gesticolando, - Non so cosa dirti! Non ho che farci! E non me ne frega un cazzo di Chakuza, cosa vuoi che ti dica? Che mi dispiace se sta male?! Non è vero!
- Oh, vaffanculo. – taglia corto lui, agitando un braccio nella mia direzione per sottolineare l’invito a fottermi e voltandomi le spalle, - Fai un po’ il cazzo che vuoi, tanto è quello che fai sempre. – e va via. Nicole lo segue docile, senza dirmi una parola, e io rimango lì come un coglione, anche più nervoso di quanto non fossi prima e ancora privo di caffè. Perfetto.
Quando anche David viene a cercarmi – ed ho appena raggiunto la dannata macchinetta del caffè, quindi il mondo sta appena cominciando a fare lievemente meno schifo – alzo gli occhi al cielo e mi chiedo se Dio non stia un po’ esagerando con le punizioni. So di essere colpevole di molte cose, ma preferirei scontarle all’inferno come previsto dal contratto, non ci tengo ad espiare in terra per poi magari ritrovarmi seminudo su una nuvola con la sola compagnia di un’arpa quando sarò morto.
- Tu! – mi punta, sprizzando rabbia dagli occhi.
- Io! – ammetto, sollevando le braccia, - Oggi non berrò neanche un caffè.
- Dico, - mi ignora lui, piazzandosi fra me e la macchinetta, le mani sui fianchi e l’anca in avanti, - cos’era esattamente quello, Bushido?!
- Un unicorno rosa. – borbotto allontanandomi, - Ora puoi per favore lasciarmi in pace?
- No! – mi viene dietro lui, cercando di tenere il mio passo, - Bushido, nessuno ti aveva chiesto di baciarlo sul serio!
- E invece è successo. – ringhio io, spalancando la porta e tornando sul set, dove Hans, appollaiato sulla sua seggiolina, sta ancora ruminando alghe, - Fammi causa.
David si ferma, spalancando la bocca e gli occhi. Poi torna ad aggrottare le sopracciglia.
- Ti stai comportando come un ragazzino. – mi rimprovera.
- Fammi causa anche per questo. – annuisco. Dopodiché lo ascolto mandarmi a fanculo – oggi, davvero, ne sto collezionando di ogni tipo – e comincio a vagare per i corridoi degli studi. Mancano ancora almeno dieci minuti alla ripresa dei lavori – dieci minuti o, comunque, il tempo necessario per mangiare delle alghe, che non so quanto sia, in realtà, anche perché nutro dei seri dubbi già sul fatto che delle alghe si possano effettivamente mandare già senza vomitarle assieme a svariati pranzi di svariati Natali precedenti. Io non ho un cazzo da fare e non posso tornare indietro perché non voglio rivedere David. Perciò vago e basta, senza una meta, senza nemmeno guardarmi intorno. A un certo punto, comincio perfino a pensare di essermi perso e che, tutto sommato, mi sta pure bene così.
E invece no, non mi sono perso e lo capisco fin troppo bene quando, vagando alla cieca, finisco di fronte alla porta del mio camerino. Sono ancora qui, non posso perdermi in uno spazio chiuso – così come non posso uscire dalla situazione in cui sono, che uscita non ne ha – e continuo a non sapere cosa fare.
È per questo, probabilmente, che faccio quei due metri che mi separano dal camerino di Bill. Non so se lui sia ancora là dentro – per la verità non so nemmeno se ci sia mai entrato – ma direi che posso fare un tentativo. Bill non è mai stato qualcuno da cui andare quando la situazione si faceva troppo complicata – Bill è stato tante cose, ma mai un salvagente; non gli ho dato modo di esserlo – ma non vedo perché non provare adesso. Magari mi darà la risposta che cerco. Come ne esco, piccolo? Come ne esco?
Non so neanche che risposta voglio, comunque. E quando entro – senza bussare – mi rendo pure conto di quanto io sia stato stupido a pensare, anche per un solo secondo, che Bill potesse darmene una. Una qualsiasi, figurarsi una sensata. Lo trovo che mi dà le spalle, le mani strette con forza contro lo schienale della poltroncina girevole davanti allo specchio, gli occhi chiusi e il viso basso, i capelli che scivolano sul suo viso e sul suo petto attorcigliandosi in quelle ciocche lunghissime e le labbra semidischiuse un po’ umide. Ha le sopracciglia aggrottate e si vede così bene, che sta malissimo, che per un attimo non posso proprio fare a meno di sentirmi sbagliato e fuori luogo. Non solo qui ed ora, in senso più generale. È la prima volta, in assoluto, che penso che forse avrei dovuto restare a Miami.
Dura solo un attimo, comunque. Lui non si accorge di me, almeno fino a quando le mie mani non si posano sulle sue spalle sottili e le stringono, massaggiandole lentamente. Rilascia un sospiro profondissimo, sciogliendo in un secondo tutti i muscoli tesi, e socchiude gli occhi.
- Perché… - mormora arreso, appoggiandosi stancamente contro di me, - Perché non mi lasci in pace?
- Perché non posso, piccolo. – rispondo sinceramente, strofinando appena le labbra contro la sua guancia, - E perché tu non vuoi.
- Io vorrei… - sospira, sollevando una mano a cercare la mia, - Vorrei riuscire a mandarti via.
Le mie labbra scendono lungo il suo collo, e lo sento rabbrividire.
- Perché non lo fai, allora? – chiedo in un sussurro contro la sua pelle.
Lui non risponde fino a che non mi si rigira fra le braccia. Mi lascia scorrere le mani sul petto, accarezzandomi attraverso il cotone sottile della maglietta, e mi guarda negli occhi.
- Perché non posso. – risponde. Ed è sincero anche lui.
Io sorrido appena e lui mi fa da specchio, ed è contro lo specchio che finiamo, quando lo spingo appena in avanti, pressando le labbra contro le sue e stringendolo possessivo alla vita mentre lui si aggrappa con forza alle mie spalle e mi si arrampica addosso, allacciandosi ai miei fianchi e piegando il capo per approfondire il bacio, lasciandosi accarezzare fra un ansito e un mugolio che mi riempiono le orecchie al punto che dimentico tutto il resto del mondo. Come sempre, quando si tratta di Bill c’è solo lui. Non ci sono più nemmeno io.
- Anis… - mi sussurra addosso lui, strusciandosi lentamente contro di me, - Anis, per favore…
- No. – rispondo io, lasciandogli un bacio lievissimo sulle labbra piene e arrossate, - Assolutamente no.
- Non sai nemmeno cosa voglio… - mi mugola sul collo, accarezzandomi la nuca e ridisegnando il mio tatuaggio – di cui ricorda ogni fottuta linea – con le labbra.
- Lo so, invece. – e per dimostrarglielo mi spingo contro di lui, accogliendo sulla lingua il suo mugolio affannato, - Ma non ti voglio così.
- Non mi… - ride appena, stringendomi forte a sé, - Anis, non-
- No. – mi separo deciso da lui, costringendolo a rimettere i piedi a terra, - Non sei mio. Non ti voglio.
Bill mi guarda per qualche secondo, gli occhi annebbiati di voglia, e resta in silenzio. Poi lascia andare un mezzo risolino incerto e mi si avvicina, sfiorandomi un braccio.
- Anis… - mi chiama piano, ma io mi scosto. Ed è allora che lui realizza che davvero non ho intenzione di scoparlo, i suoi occhi si schiariscono e le sue sopracciglia si aggrottano, il labbro inferiore che trema di rabbia mentre cerca le parole adatte con cui insultarmi. – Tu… non puoi dire sul serio. – mormora, - Anis, dopo quello che mi hai fatto oggi-
- Non ho fatto niente, piccolo. – ghigno io, sistemandomi la maglietta stropicciata addosso, - Sei tu che implori. Io nego e basta.
- Non giocare a fare lo stronzo con me! – strilla lui, piantandomi un dito nel centro del petto, ed io mi metto a ridere.
- Non gioco, piccolo. Non lo faccio più da tempo.
Gli volto le spalle ed ho perfino il tempo di allontanarmi da lui di un paio di metri, prima di sentirlo mormorare pianissimo un lamento incerto.
- Tu… non mi ami affatto. – sussurra, - Sei uno stronzo e basta. Uno così non può amare nessuno.
- Uno così – mi volto a guardarlo, - magari non ama più, ma di certo ha amato tantissimo. Questa è l’unica certezza che ho, principessa.
Bill nemmeno mi guarda. Si concede un sorriso minuscolo e socchiude gli occhi.
- Almeno ne hai una. – esala appena.
Almeno ne ho una. E preferirei non averla.
*
Bill mi passa sotto gli occhi – e sotto le mani – come un fantasma, nei giorni successivi. È un’illusione e lo vedo sfocato e sfuggente. Sul set del video lo tocco spesso – rifacciamo la scena, ne giriamo di altre, cantiamo e tutto il resto – ma lo sento evanescente e impalpabile sotto le dita. Mi prendo le rivincite dei bambini, parlo con Hans, faccio il fascinoso e faccio togliere qualche scena a Chakuza – “che poi lo vedi com’è, no? È meglio se mentre canta lui ci sono scene fra me e Bill, o scene di Bill da solo, è più elegante così” – Chakuza s’indigna e scalpita e strepita e scalcia come un puledro imbizzarrito, io non sono professionale – lo so, Chaky – io sono uno stronzo – lo so, Chaky – io sono un fottuto pezzo di merda – lo so, Chaky, e tu non hai palle perché tutte queste cose me le dici alle spalle, le sussurri e Bill, te ne lamenti con Jost, le ringhi addosso a Patrick quando casualmente lo becchi senza Nicole. Lo so, Chakuza, lo so cosa sono. Lo so bene, è per questo che riesco a non provare mai vergogna, qualsiasi cosa faccia.
Riesco a rivedere Bill come una cosa viva solo quando ormai le riprese stanno per concludersi, trascinandosi fiaccamente fra le ultime riprese di scene che abbiamo già ripetuto fino allo sfinimento al punto che – lo sento – il corpo di Bill è nauseato dal continuo sentirmi addosso, come il mio lo è dal suo continuo ritrarsi.
Andiamo in pausa – oggi il menu di Hans comprende riso in bianco con pisellini biologici e cubetti di prosciutto cotto magro senza conservanti – ed io fuggo dal set prima che Jost mi avvicini per la paternale quotidiana – come se sentirmi ripetere “comportati bene” fosse mai servito a spronarmi in questo senso – e quando mi avvicino ai distributori automatici per recuperare un caffè ed anche uno snack da propinare al mio stomaco che, a causa dell’eccesso di caffeina a digiuno degli ultimi giorni, sta già preparandosi all’arrivo dell’imminente gastrite, e lo vedo.
È stanco, il mio piccolo. È stanco almeno quanto lo sono io, ma le sue spalle sono così sottili che non riescono a reggerlo altrettanto bene. Non riesce nemmeno ad essere arrabbiato, sta lì, appoggiato con una mano alla macchinetta, mentre nell’altra mano regge un bicchiere ricolmo di un’imitazione di caffellatte che fa venire la nausea anche senza bisogno di sentirne l’odore.
Mi avvicino piano, discretamente, e sorrido appena quando mi fermo al suo fianco.
- È un po’ tardi per il caffellatte, non credi, principessa?
Bill mugola a bassissima voce, stringendo le dita attorno al bicchiere e socchiudendo gli occhi.
- Per favore, Anis… no.
Sospiro, smanettando coi pulsanti sul pannello della macchinetta ed infilando un euro nella fessura, restando poi in attesa del mio caffè.
- No. – rispondo a bassa voce, - Tu non sai neanche cosa mi chiedi di non fare.
- Ti sto chiedendo – ringhia Bill fra i denti stringendo tanto la presa sul bicchiere che ho quasi paura possa spaccarlo, - di non farlo, Anis. Non continuare a mettermi in questa situazione. Mi stai… - sospira pesantemente, trattenendo un attimo il fiato nei polmoni prima di rassegnarsi a lasciarlo andare, - mi stai torturando.
Recupero il mio bicchierino e lancio a Bill un’occhiata infastidita, appoggiandomi di spalle alla parete.
- Mi stai chiedendo di lasciarti in pace. – gli spiego pacatamente, - Di non vederti più. Di non guardarti, non toccarti e non pensarti nemmeno. È questo quello che mi stai chiedendo.
Lui apre gli occhi di scatto, dardeggiandomi con un’occhiata furiosa.
- Magari è quello che voglio.
Mi sollevo dalla parete e mi avvicino a lui, chinandomi per parlargli guardandolo negli occhi, così vicino che sento addosso il suo respiro.
- Se fosse ciò che vuoi, piccolo, non mi vedresti più. Te lo assicuro. Non metto le mani sulla roba degli altri.
Bill lascia andare un ghigno poco convinto, fronteggiandomi con una fierezza tale che sento il bisogno fisico di stringerlo alla macchinetta, costringendolo ad indietreggiare. Non sei più forte di me, piccolo. Non puoi esserlo, perché è per te che io sono così forte.
- Non sono tuo, non mi vuoi. – mi prende in giro, lasciando scivolare fra le labbra le stesse parole con cui l’ho apostrofato qualche giorno fa, - È vero, sai? – mi soffia addosso, - E allora perché continui?
Lo schiaccio contro la macchinetta, piantando le mani sopra la copertura di plastica e imprigionandolo fra le mie braccia.
- Non sei ancora suo. – sfioro il suo profilo con le labbra e con la punta del naso, lievissimo, - Lo sento che mi vuoi, piccolo.
Bill cerca di non gemere, quando mi spingo con forza contro il suo bacino, ma quel singhiozzo minuscolo che gli sfugge dalle labbra finisce sulle mie, che lo sfiorano soltanto e sono già abbastanza per mandarlo fuori di testa. E so che questo lo senti, piccolo. So che sei con me, adesso. Il punto è quello. Dovresti esserlo sempre. E invece lo sei solo quando ti sto così addosso. Come si può chiedermi di accettarlo?
- Anis, no. – mi implora, la voce rotta dall’ansia, - Qui no, davvero. In mezzo al corridoio… no.
- È questo il tuo problema, piccolo? – mi avvicino ancora, leccandogli appena il labbro inferiore, - Che potrebbero vederci?
- Sì! – risponde lui d’impeto, - E che… non dovresti. Quindi lasciami, per favore, ti prego… - si agita e punta le mani contro il mio petto, cercando di allontanarmi.
Io lo ignoro. Non è così che Bill mi allontanerebbe, se mi volesse davvero lontano. Non è così che mi manderebbe via, non è così che mi farebbe capire di non amarmi più. Non ci stai riuscendo, piccolo, non ci stai riuscendo affatto a mentirmi. Perciò avanzo ancora, lo stringo ai fianchi e lo schiaccio contro la macchinetta. E lui dice “no”, ed io non lo sento. Forzo le sue labbra e lui urla “no” ed io non lo sento. La mia lingua sfiora la sua, lui la morde, urla ancora, “no!”. Ed io non lo sento.
Però sento Chakuza. Sento la sua voce tuonare alle mie spalle e poi mi sento strattonare via con una forza insospettabile, e quando vado a sbattere contro la parete di fronte sollevo lo sguardo e lo vedo frapporsi fra me e Bill, il respiro pesante, i lineamenti del stravolti dalla rabbia e i pugni chiusi, le braccia rigide lungo i fianchi. Bill, ancora steso contro il distributore automatico, ansima e ci guarda, gli occhi enormi ed umidi di lacrime.
- Sei un pezzo di merda! – mi apostrofa in un ringhio. Ed è un ringhio dei suoi, fatti con quella voce lì, l’unica cosa di lui che possa veramente spaventare. Con me non attacca, comunque. Io non ho paura di niente. Ho visto la morte in faccia e meno di un mese dopo ero vivo e vegeto a Miami. Ho cercato di farmi fuori anche lì, ed ora sono qui. La sua voce non mi fa niente.
Mi rimetto dritto, guardandolo fiero dall’alto in basso.
- Non male. Puoi fare di meglio.
Chakuza mi è addosso il secondo dopo. Mi afferra per il colletto della maglia e mi spinge contro il muro, sollevandomi verso l’alto in un ringhio che si perde nell’urlo con cui Bill si stacca di prepotenza dalla macchinetta del caffè e gli si attacca alle spalle, cercando di tirarlo via.
- No! – grida, e Chakuza non se lo scrolla di dosso ma resta fermo a guardarmi con occhi di fuoco, digrignando i denti mentre io mi lascio andare ad un sorriso soddisfatto. – Peter, per favore… - lo implora, le mani che scendono lungo le sue braccia, - Lascialo andare. – ed io rido divertito, stavolta non mi trattengo. Principessa, principessa. Quest’arte te l’ho insegnata io. Piegare la volontà delle persone facendosi sentire loro addosso… stiamo giocando esattamente lo stesso gioco, piccolo. Lo stesso identico.
Chakuza mi lascia andare, ma lo fa con violenza, strattonandomi e sbattendomi ancora una volta contro la parete, prima di togliermi le mani di dosso.
- Bushido, - mi apostrofa poi, in un ringhio bassissimo, - Levati dalle palle. È l’ultimo consiglio che ti do.
Bill rabbrividisce, stringendo le dita sulle sue braccia e cercando di convincerlo ad allontanarsi.
- Che ti piaccia o no, - rispondo io a muso duro, - è qui che sto adesso, Chakuza. E non intendo andarmene da nessuna parte. Perciò, - ghigno, - è corretto che ti dica che non intendo farmi da parte.
- Cosa cazzo sta succedendo qui? – chiede David, apparendo in corridoio, probabilmente attirato dalle urla di Bill. Dietro di lui appaiono in fila Fler e Nicole, Tom e metà della mia crew. Abbiamo giocato sporco, io e Bill, ultimamente. Me ne rendo conto solo adesso che vedo tutti qui riuniti come ad una fottuta ultima cena. Abbiamo tutti i nostri rinforzi. Bill è sempre venuto qui con Tom, io mi sono sempre portato dietro la crew o quello che ne resta da quando i miei due uomini principali hanno deciso di essere entrambi due stronzi – ed uno è morto ammazzato, l’altro mi ha rubato tutto – e Chakuza invece niente. Chakuza nessuno. Chakuza era solo contro di me e contro Bill. Questo è giocare sporco, ma al momento non posso evitarlo.
La domanda di David resta senza risposta, ma ciò che sta succedendo sono tutti capacissimi di comprenderlo da soli, nel momento in cui Chakuza, guardandomi dritto negli occhi, parla ancora.
- Non ti aspettare che questo cambi qualcosa. – dice, e gli si tendono addosso tutti i muscoli. Sta facendo uno sforzo sovrumano per non prendermi a cazzotti, lo vedo nel modo in cui gli si irrigidiscono i muscoli delle spalle e del collo.
- Non me lo aspetto. – rispondo io, scuotendo il capo, - Voglio solo che tu sappia a cosa vai incontro.
Chakuza solleva il mento, sfacciato.
- Illuminami. – mi invita.
E io faccio un passo avanti. E quando rispondo, lo faccio guardando Bill.
- Io non gliele tolgo le mani di dosso.
- Bushido. – mi richiama David, facendosi avanti, ma finisce ignorato per la seconda volta quando a farsi avanti è Chakuza.
- Hai intenzione di importi su di lui?
- Ti risulta che io faccia sempre qualcosa di meno che impormi? – chiedo con un sorriso, - Nessuno decide se non ha dei motivi per farlo. Quindi devo darglieli.
Stiamo parlando di Bill come non fosse neanche presente. Ed in effetti è un po’ così – la mia principessa s’è allontanata di un paio di passi, non tiene più le mani sulle spalle di Chakuza e guarda il vuoto con occhi spenti, torturandosi il labbro inferiore fra i denti.
- Bel modo di dargli dei motivi. – commenta Chakuza, - Lo costringi a fare quello che vuoi.
- Imporre non è costringere. – gli faccio notare, fronteggiandolo serenamente, - Bill può sempre dire di no. Ma se mente, io lo capisco. Tu puoi dire lo stesso?
- Con me – risponde lui, - non deve mentire a prescindere. Non ha mai dovuto farlo.
- No? – rido io, - Allora probabilmente non gli hai mai chiesto cosa voglia dire il tatuaggio sul suo fianco. O magari mi sbaglio e te l’ha detto, che quel tatuaggio sono io. Magari non ti ha mentito ma questo non cambia il concetto di base.
Chakuza ringhia, stringendo i pugni.
- È passato un sacco di tempo. – ribatte, - Se Bill non fosse innamorato di me, non staremmo neanche discutendo. Sarebbe tornato con te senza battere ciglio e saremmo tutti a casa nostra.
- Per favore… - singhiozza Bill, passandosi una mano sugli occhi, - volete smetterla?
I miei occhi lo accarezzano tutto, anche se lui non può vedermi, e nessuno osa muoversi, dal fondo del corridoio. Fler scalpita, Tom è basito, David non sa cosa fare, c’è perfino Hans, lì in mezzo, e nessuno muove un dito per salvare la mia principessa che piange. Io non dovrei essere quello che pone fine a questa questione. Non voglio nemmeno. Io sono incazzato e sono cocciuto e lo rivoglio. Io guardo Chakuza e tutto ciò che penso è che vorrei provocarlo fino a costringerlo a saltarmi addosso, per poi sentirmi pienamente giustificato mentre gli spacco la faccia spegnendo il cervello. Ma Bill sta piangendo e, se nessuno si muove, è proprio perché, anche se non voglio, sono io che devo farlo.
- D’accordo. – annuisco, - Volevo solo mettere in chiaro le cose.
- E scommetto – ritorce Chakuza, - che con lui non ne hai mai parlato, prima. No, perché tu fai sempre così. Tu- tu non chiedi mai, tu decidi, gli altri si adattano! Scommetto che non gli hai mai chiesto se ti volesse addosso, tu te lo sei preso e basta.
Io aggrotto le sopracciglia.
- Gli ho chiesto se mi voleva. – ringhio, - Ha detto di no. Mentiva. – lancio un’occhiata a Bill, - Visto che a lui non rifili stronzate, diglielo.
Bill trasale e mi guarda per un secondo. Poi Chakuza si gira a guardarlo a propria volta, come in attesa della sua risposta, ed è il suo sguardo che Bill ricambia a lungo, mentre le lacrime gli offuscano gli occhi. E poi lo vedo serrare le palpebre – le lacrime rotolano lungo le guance e gli bagnano la maglietta – e portare le mani alle tempie, prima di scoppiare ad urlare.
- Basta! – grida, - Basta, basta, basta! Che cosa credi che sia, una bambola che parla a comando?! Bill digli questo, Bill digli quest’altro! – torna a fissare Chakuza, scosso dai singhiozzi, - E tu non mi guardare in quel modo, come fossi perfettamente innocente, cazzo! Smettetela! Tutti e due!
Lo guardo duramente, infilandomi le mani in tasca.
- Volevo solo chiarire, Bill. – ripeto, - Se continuiamo a non parlare, non riusciremo mai a chiarirci. Io potrei spaccargli il muso qui ed ora e lui potrebbe fare lo stesso con me, e non avremmo risolto niente comunque.
E io faccio per dire altro ma mi interrompo, perché Tom si fa strada sgomitando in mezzo al pubblico non pagante del fondo del corridoio e raggiunge suo fratello, stringendolo per le spalle sottili e tirandoselo contro.
- Adesso basta. – lo sento mormorare, - Bill, vieni via. Lascia che gli scimmioni si litighino il territorio come preferiscono. – ma Bill non lo ascolta. Si dibatte violentemente fra le sue braccia, scalcia e strepita, e poi mi urla contro.
- E per te questo è chiarire?! – strilla, - Per te chiarire è umiliare me dandomi ordini ed umiliare lui facendogli vedere quanto sei più bravo?!
- Bill… - cerca di intromettersi Chakuza, conciliante, ma Bill non ascolta nemmeno lui.
- No! – continua a urlare, - A me sembra che a nessuno di voi due freghi qualcosa di quello che provo io! L’unica cosa che volete è che io scelga in quale letto stare!
Tom digrigna i denti, stringendolo con maggiore decisione. E io m’incazzo. Non dovrei ma lo faccio.
- Umiliarti, cazzo! – ringhio, - Io sono sempre stato sincero con te, Bill! E invece io torno e tu mi menti! Non mi dici che stai con lui ma ci stai quando ti bacio, e Chakuza in tutto questo è sempre in mezzo ai coglioni, ed io come devo scoprirlo, cazzo, origliando! Non sono io che ti umilio, Bill, sei tu che umili te stesso.
- Tu te ne sei andato! – mi ricorda Bill, grazie principessa, come ci fosse ancora una minima, minuscola possibilità che io possa dimenticarlo, - Tu mi hai mentito molto prima che lo facessi io! Hai fatto finta di morire per poi tornare e non ti sei chiesto che cosa cazzo fosse successo nel mentre! Mi hai solo schienato contro quel cazzo di muro ed eri a posto, giusto? Certo che sì! Tu non chiedi mai, d’altronde! Ed hai tanti diritti quanti ne ha Peter, sappilo, non uno di più.
- Cazzo. – soffio io, serrando le labbra prima di lasciarmi andare ad un ghigno gratuito quanto liberatorio. Come tutto il resto di ciò che dico. – Neanche ti ci avessi costretto, a scopare. – faccio un passo verso di lui, Chakuza si mette di mezzo ed io lo spintono lontano anche se fa resistenza. Spero, me lo auguro davvero, che Tom non alzi un dito. O è la volta che succede qualcosa di veramente brutto. Non voglio niente fra me e Bill, adesso. – Te lo ricordi – ringhio chinandomi su di lui, - te lo ricordi quando ti infilavi nel mio letto e mi imploravi di lasciarti restare? Te lo ricordi quando mi hai detto di amarmi? E quando te l’ho detto io, te lo ricordi? Per me non è cambiato un cazzo, Bill. Proprio un cazzo.
- Per me sì. – risponde lui, ricambiandomi l’occhiata, - Perché ho dovuto ficcarmi in testa che non c’eri più, ho dovuto imparare a fare a meno di te, ed ora che sei tornato non puoi pretendere che cancelli un anno di sofferenza come niente. Sono stato male, cazzo, non puoi rinfacciarmelo, se ho cercato di superarlo!
Io lascio andare una risata amara, scuotendo il capo.
- No, non posso, è evidente. Era quello che volevo, in fondo. – ammetto, lanciando una mezza occhiata a David. Ma non trovo comprensione nel suo sguardo. Forse nemmeno la cercavo, comunque. So esattamente cosa aspettarmi da quello che ho qui, adesso. Ora lo so. È niente. È tutto ciò che posso aspettarmi. Un cazzo. – Farei meglio a tornarmene oltreoceano, mh? – chiedo, tornando a guardare Bill, - È questo che devi dirmi, piccolo? Se devi, trova le palle. Trovale adesso.
E Bill piange. Un pianto diverso da quello di prima, non è furioso, non è frustrato, la mia principessa è solo triste. Perché vorrebbe dirmi di andarmene ed allo stesso tempo non mi vuole lontano. Perché vorrebbe potermi mandare a fanculo e non riesce a permetterselo. Perché è felice con Chakuza, ed io lo so, ma so anche che lo amo e lui ama me. E forse sono anche io, quindi, che gli sto impedendo di lasciarmi andare. Ma lui mi sta aiutando. Io lo so che è così. Io ti conosco, principessa, io ti ho tirato su in tanti di quei modi che tu nemmeno ti rendi conto di quanti sono. Se sei così è perché è così che ti ho cresciuto, piccolo. E mi fa un cazzo di male vederti così adesso, ma lo capisci anche tu – me lo dice il tuo silenzio – che la situazione è davvero troppo complicata, per sbrogliarla e basta. Qui qualcuno dovrà stare male per forza. Qui dovremo stare male io e te. È così. Perciò basta nascondersi dietro ai vetri, Bill. Troppo trasparenti. E si rompono troppo facilmente.
Cerco di sorridere, mentre gli accarezzo una guancia, asciugando col pollice tutte le lacrime che incontro al mio passaggio.
- Non piangere. – chiedo piano, - Non c’è niente da piangere. Guardami negli occhi.
Bill fa un passo indietro, e suo fratello lo segue.
- Non farlo. – mi implora, la voce rotta.
- No. – nego io, avanzando ancora, - No, tu non farlo. Non mentire più. Dimmelo qui ed ora. Degli altri non mi frega niente, Bill. Tu dammi un motivo per restare ed io resto.
Lui solleva lo sguardo e mi fissa attentamente. Attraverso il velo di lacrime che gli intorbidisce lo sguardo, riesco a vedere i suoi occhi ridipingere noi due e solo noi due in questa stanza. Tom, che pure lo sta ancora stringendo protettivo per le spalle, non esiste più. Non c’è più la platea, non c’è nessuno, non c’è nemmeno Chakuza. Ci siamo solo noi, perché gli ho chiesto di decidere di noi. E Bill è uno che quando deve decidere lo fa per bene. Perciò si concentra, la mia principessa, e si concentra solo sul problema più pressante.
Odio essere un problema pressante. C’è stato un tempo in cui ero solo l’uomo che amavi, Bill. Vorrei lo ricordassi ancora. O vorrei smettere di ricordarlo io.
- Resta. – risponde alla fine, tirando su col naso, - Perché ho bisogno che tu resti, per favore. Ma non so più in che ruolo. – e lo dice in un mugolio così piccolo, così arreso, così da lui, che sorrido teneramente e, poco dopo, non riesco a trattenere la risata naturale che mi affiora alle guarda. Lui arrossisce e non si offende, perché i miei toni li ricorda ancora tutti benissimo e sa che in questo momento non lo sto prendendo in giro.
- Come amica del cuore, magari? – propongo con una scrollatina di spalle.
La risata non la trattiene neanche lui. Se lo permette solo perché nei suoi occhi siamo ancora soli.
- Piantala di fare il cretino. – borbotta, e poi inspira ed espira, e quando schiude le palpebre nei suoi occhi c’è di nuovo anche tutto il resto. Perciò mi adatto, ed anche per me è lo stesso. Faccio un passo indietro, ne faccio anche più di uno, e torno quasi vicino alla parete di fronte. – Forse è meglio se entrambi… provate un po’ a stare al vostro posto. Senza forzare le cose. – chiede Bill, guardando alternativamente me e Chakuza. Lo stronzo ringhia al mio fianco, e ne ha anche tutte le ragioni. Ma non si scosta e non mi manda a fanculo quando mi giro a fronteggiarlo, tendendogli la mano.
- Quello che la principessa dice, si fa. – dico pacatamente, - Questo mi auguro non sia cambiato. – Chakuza è un po’ incerto, non sa se stringermi la mano o meno, perciò aggiungo – Non è una tregua, è un patto di coesistenza.
E lui annuisce e la dannata mano, finalmente, la stringe pure.
- La parola della principessa è legge. – mi rassicura. E questo è tutto quello che mi serve sapere.

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The Way He Loves Him

di lisachan
Stamattina ho visto Fler.
Fler, in questo momento preciso della mia esistenza, è un problema che mi sto sforzando di ignorare. Nel senso, non lo so se vi è mai capitato: vi svegliate una mattina e scoprite che la vita che stavate vivendo in maniera non perfetta ma tutto sommato passabile fino al giorno prima è scomparsa. Non è che una cosa prende e va male, no, tutto comincia a muoversi nel verso sbagliato contemporaneamente, e uno in una situazione del genere comincia ad avere difficoltà a capire da che lato dovrebbe girarsi, no? Cioè, dovunque guarda vede solo casino, è un problema. Che mi si potrebbe pure dire: “be’, ma tu vivi una condizione di casino perenne dentro la tua testa, quindi qual è il problema?”, e il problema è proprio questo, che quando non sei un cazzo ordinato nel cervello il mondo esterno deve stare al proprio posto. Quando non riesci ad avere un punto di riferimento dentro di te, devi cercartelo fuori. Se fuori dalla tua testa tutti fanno il cazzo che vogliono – che è pure giusto, alla fine, ma mi crea problemi non indifferenti – tu i punti di riferimento non puoi più cercarli da nessuna parte. Ed è questo il problema.
Quindi, insomma, io mi sono svegliato una mattina e Bushido era vivo, Bill non era più così assolutamente innamorato di me e Fler s’era messo con una donna. Fra tutte queste cose, ovviamente, la priorità è Bill. Bill è sempre la priorità. Bushido arriva al secondo posto, perché a Bill è legato a doppio filo. E poi c’è Fler.
Di ciò che fa Fler, di dove va Fler ed anche di chi si scopa Fler, non dovrebbe fregarmi un accidenti. Beninteso, io lo so. Lo so che non dovrei assolutamente incazzarmi perché me lo vedo spuntare allegro e sorridente mano nella mano con una ragazza, lo so che dovrei accettarlo, congratularmi con lui ed anche esserne felice, ed esserlo sul serio, perché a me non piace che Fler stia male, e fino a prima di mettersi con Nicole lui indubbiamente soffriva, ed invece da quando ci si è messo insieme sta visibilmente meglio.
Però.
Il solo vederli vicini mi manda fuori di testa.
È una cosa assolutamente priva di senso, io me ne rendo conto perfettamente. Non vorrei che di me passasse un’idea ancora più fuori di testa di quanto già non sia nella realtà. Io lo so che non sono tanto normale, ma non sono ancora tanto pazzo da pensare che Fler mi debba fedeltà assoluta dopo tutto quello che gli ho combinato nel corso dell’ultimo anno. Per questo non gli dico niente e cerco di stare tranquillo, anche quando lo vedo con Nicole in giro, ma ciò non cambia la realtà dei fatti che appena io faccio tanto di mettergli gli occhi addosso e lo vedo che la stringe, le sfiora un braccio, le sorride o quel che è, la prima cosa che penso è che ho voglia di pestare lui e defenestrare lei. Che poi è la stessa cosa che ho provato quando l’ho visto interagire con Bushido la prima volta che si sono rivisti, in casa di Eko, solo che stavolta è anche peggio, perché, voglio dire, chi cazzo è Nicole? Siamo seri.
Comunque, stamattina è successo che sono andato a registrare le mie parti per Prinzessin. Io, di questa canzone, non voglio parlare. Perché è anche troppo evidente cosa Bushido ci abbia messo dentro. Ora, io lo so come lavora Bushido. È uno molto presente a se stesso, quando si sta vendendo ad un pubblico pagante; tiene sotto controllo tutto, programma tutto, niente succede se non è stato lui a deciderlo. Quando scrive no, però, quando scrive è molto più libero. Si ascolta molto, anche se credo sia solo uno strascico del suo egocentrismo del cazzo. La sua voce sovrasta quelle degli altri anche dentro di lui, quindi, quando scrive, lo fa ascoltando la parte più profonda di se stesso, quella con cui magari lui direttamente non parla, ma che lascia scivolare sul foglio, perché così è più semplice tenerla a bada. La canzone che ha scritto per Fler, in Heavy Metal Payback, l’ha scritta così. Ed io credo che Prinzessin sia nata nello stesso modo, perciò non è che posso avercela in maniera distruttiva con Bushido per il solo fatto di averla buttata giù.
Però ce l’ho con lui per il modo in cui la sta usando. Quindi no, non voglio parlare di questa canzone e di come a leggerne il testo io venga fuori come un pezzo di merda quando, in tutta franchezza, non ho fatto proprio un cazzo di male. Mi urta dovermi prestare a questo giochino per niente divertente, mi urta star qui a cantare cose che non penso quando io sui testi che avevo da cantare sono sempre riuscito a mettere mani e bocca per renderli il più possibile vicini al mio modo di sentire, e mi urta non esserci riuscito adesso solo perché, come mi ha detto Jost quando mi ha fatto sapere che la mia presenza era richiesta e no, non potevo rifiutarmi, “alla Universal sono già abbastanza incazzati per lo scherzetto che gli ha combinato Bushido. Pretendono la massima collaborazione e tu non vuoi davvero averli contro, Chakuza”. E no che non li voglio contro. Mi mancano davvero solo i pezzi grossi dell’industria musicale tedesco che mi vogliono fuori dal giro, e poi sono completo, cazzo.
Comunque, ovviamente prima di dire “d’accordo” mi sono informato, con Jost. Pazzo sì, cretino no. Gliel’ho chiesto, “sono registrazioni di gruppo?”, e lui naturalmente mi ha guardato e m’è scoppiato a ridere in faccia. Poi è tornato subito serio e fa “ma ovviamente no, Chakuza”, come a dire “ma per chi mi hai preso?”, ed in effetti io lo sospettavo che Jost non l’avrebbe mai permessa una cosa del genere, perché è uno che sul lavoro è molto preciso e gli danno fastidio i tempi, quando si allungano, perciò supponevo avesse già preso tutte le precauzioni del caso, ma sempre meglio chiedere, dico io, per scrupolo.
Comunque nella mia domanda era compreso anche Fler. Nel cervello di Jost no, invece, perché giustamente lui si dice “Fler non c’entra un cazzo”, ma per me Fler c’entra sempre, quindi se ti chiedo se c’è la possibilità per me di incontrare qualcuno, nei vari “qualcuno” possibili è incluso anche Fler. Nella mia testa questo è chiaro, in quella di Jost no, e questo è giusto, ma io tendo a dimenticarlo. Perciò oggi mi sono presentato agli studi con le palle girate, d’accordo, ma fiducioso che non mi sarei trovato a dover fronteggiare nessuna situazione difficile. E invece appena esco dalla sala d’incisione, dopo tre ore sfiancanti, chi mi vedo passare davanti? Ma la coppietta felice, naturalmente.
Non ho il tempo materiale di fuggire dietro il primo angolo disponibile dopo aver adocchiato Fler che cammina – un braccio attorno alle spalle di Nicole, lei ha intrecciato le dita con le sue – che lui si volta e mi guarda e, come fosse tutto perfettamente a posto, mi sorride. Così, tranquillissimo. Solleva anche una mano nella mia direzione, rilassatissimo, e mi saluta. Al che io non posso fare molto più che rispondere abbozzando un sorriso a mia volta, restando lì fermo impalato mentre lui mi si avvicina, trascinandosi dietro Nicole che è minuscola e scialbissima e non c’entra niente col tipo di donna che avrei affibbiato a Fler se mai avessi voluto affibbiargliene una. Per dire, visto che lui comunque è robusto ed ha la pelle e gli occhi chiari, accanto gli starebbe bene una ragazza alta con un sacco di curve, la pelle scura e gli occhi grandi e castani. Invece lui mi si presenta con questa cosina minuscola, pallidina, biondiccia, con questi occhietti marroncini anonimi, boh, Fler poteva pretendere di più, credo. Anzi no, lo so, Fler poteva pretendere di più eccome. Comunque mi sforzo di guardarla con calore, perché lei mi sorride timidissima e non me la sento di lanciarle occhiate intimidatorie. Non ne avrei nemmeno un motivo, peraltro.
- Ehi. – mi fa, perfettamente a suo agio, - Finito per oggi? – chiede, indicando con un cenno la porta chiusa della sala incisioni. Nicole stringe la presa delle proprie dita attorno alle sue ed io fisso l’intreccio delle loro mani per un po’ di secondi, prima di riscuotermi e decidermi a rispondere.
- Sì, - ammetto, - è stata dura ma ce l’ho fatta. – commento con una scrollatina di spalle. Lui annuisce e lo vedo chinarsi appena su Nicole, sfiorarle la guancia con un bacio lento e poi sussurrarle qualcosa che non riesco a percepire. Lei sorride ed annuisce, e mi saluta a bassa voce prima di sciogliersi dal suo abbraccio ed andare verso l’uscita degli studi. Inarco un sopracciglio e fisso Fler con aria curiosa. – Be’? – chiedo, indicando la porta dalla quale Nicole è appena uscita. Lui ride.
- Le ho chiesto di precedermi a casa sua. Ho voglia di spezzatino con le patate.
Mi lascio andare ad un mezzo ghigno, spostando il peso da un piede all’altro.
- La fai filare? – chiedo, e lui mi tira una mezza spinta, ridendo come un ragazzino.
- È solo gentile. – risponde, - Mi piace che lo sia. È dolce ed è semplice. Niente di neanche lontanamente paragonabile al resto della gente con cui sono stato.
- Ah, grazie mille. – rispondo, un po’ offeso, e lui ride ancora.
- Non sono mica stato solo con te. – mi fa notare, e penso pure che c’ha ragione e che questo dialogo è surreale.
- E… - gesticolo, perché non so se posso chiedere questa cosa e non so nemmeno se voglio chiederla, o meglio, voglio chiederla ma non so se voglio sapere la risposta; o meglio ancora, voglio sapere la risposta, ma non so se sono veramente pronto a sentirmelo dire. Quindi, in sostanza, gesticolo per tergiversare. - …da quant’è che state insieme?
Fler è a disagio e lo vedo subito nel momento in cui volta lo sguardo e scrolla le spalle.
- Lasciamo perdere. – taglia corto, - Ti va un caffè?
Annuisco, un po’ confuso, e gli vado dietro mentre ci avviciniamo ai distributori automatici. Fler mi chiede cosa voglio, io rispondo “un caffè ristretto” e, quando lo vedo recuperare il portafogli in tasca, gli chiedo cosa vuole lui, come fosse una curiosità come un’altra. Lui apre la taschina portamonete, rovista tintinnando e mi risponde sovrappensiero che lui ne prende uno doppio zuccherato. Perciò io infilo la mano in tasca, recupero due euro spersi nei pantaloni da chissà quanto tempo e pago per entrambi. Lui, che non aveva ancora racimolato la quantità sufficiente di monetine, se ne rende conto solo quando sente la macchinetta ronzare e cominciare a riempire il bicchierino di plastica col suo caffè, e mi lancia un’occhiata a metà fra lo sconvolto e il nient’affatto compiaciuto.
- Chakuza! – mi rimprovera, - Ma chi te l’ha chiesto?!
- …nessuno. – ammetto io, recuperando il bicchierino e porgendoglielo, - Mi faceva solo piacere farlo.
Lui accetta il bicchierino sospirando teatralmente in un roteare di occhioni azzurri che mi fa anche un po’ ridere, e poi resta in silenzio mentre io prendo il mio caffè e rimaniamo lì a sorseggiare lentamente, perché il coso è pure caldo, e nessuno qui vuole scottarsi la lingua. Restiamo in silenzio finché possiamo permettercelo – ossia finché non diventa troppo pesante – e poi gli chiedo come sta. Che è una cosa che faccio sempre quando non so cos’altro fare con lui. Fler non è semplice, da maneggiare, anzi. È uno che, tra l’altro, appena sbagli di un millimetro ti si volta contro in maniera devastante. Quindi, prima di fare o dire qualsiasi altra cosa, io devo chiedergli come sta. Così posso elaborare un piano d’azione, o pensare ad una strategia, o qualunque sia un modo meno idiota per definire il momento in cui cerchi di capire come muoverti per non passare come un fottuto carro armato addosso ad una persona alla quale tieni.
Lui scrolla le spalle, butta giù ciò che resta del suo caffè e si appoggia contro la macchinetta.
- Bene, credo. – risponde, - È un periodo un po’ incasinato, con Nicole e tutto il resto, ma sto tranquillo. Cioè, tutto il mondo è un casino, ma io sono tranquillo. Non so se capisci cosa intendo.
Annuisco vagamente, e non lo faccio per finta. Lo capisco cosa intende. Anche se è una cosa che non mi piace, perché vuol dire che è felice davvero. Mi piace vederlo felice, cazzo, ma… oh, insomma.
- Stai da lei? – chiedo, fingendo disinteresse. Lui mi sgama subito e sorride.
- Cosa vuoi sentirti rispondere?
- …la verità, suppongo. – borbotto senza guardarlo. Lui ride un po’.
- Penso che la prenderesti anche peggio. – mi informa con una risata da ragazzino che sembra prendermi in giro.
Simulo tranquillità, lanciandogli una mezza occhiata che mi auguro sia indecifrabile, e invece non lo è, perché lui si mette subito a ridere come un cretino, e io sbuffo.
- Be’, dimmelo se stai da Bushido. – sospiro alla fine, abbattendomi di spalle contro la parete. Lui ride ancora.
- Praticamente sì. – ammette, gettando il bicchierino ormai vuoto nella spazzatura, - Lo sai come funziono. Ragiono meglio se ho gente attorno.
- Che bisogno avrai di ragionare, adesso… - mi lamento io, e lo faccio solo perché non mi piace saperlo giorno e notte piantato in casa di Bushido.
- Be’, qualcuno dovrà pur farlo. – mi risponde lui, ed in effetti non posso dargli torto, perciò annuisco. – Comunque in genere sto bene. Come ti dicevo, Nicole è molto carina e dolce.
- E la ami?
…non so come funzioni con questo tipo di domande. Probabilmente ognuno, nel proprio cervello, ha una scatola con dentro tutte le domande scomodissime che non vorrebbe mai fare e delle quali però vorrebbe conoscere la risposta. E le domande vanno accumulandosi in questa scatola finché non diventano troppe, e quando diventano veramente tantissime ecco che salta via il coperchio e quelle cominciano ad uscire. E il problema è che, mentre stavano lì strette nella scatola, si sono aggrovigliate fra loro come i gomitoli di lana quando non li avvolgi bene e li lasci lì nella cesta per giorni, perciò quando ne esce una se ne porta dietro un’altra, e poi un’altra, e un’altra ancora, finché non escono tutte. Forse è così che funziona per tutti, o forse è così che funziona solo per me, fatto sta che di questa domanda io so che voglio conoscere la risposta, ma so anche che non avrei voluto porla. E perciò, dopo averla detta, non mi sento bene neanche per un cazzo. E guardare Fler esitare, prima di rispondere, non mi aiuta per niente.
Lo osservo rifletterci sul serio – nei suoi occhi chiarissimi i pensieri passano come in trasparenza, che se solo sei un po’ abituato a guardarci dentro, a quegli occhi, lo capisci cos’è che sta succedendo dentro la testa di Fler. Puoi perfino anticiparlo. Perciò, quando schiude le labbra, io so già cosa sta per dire, e mi tendo tutto, stringendo i pugni per cercare di fermare qualsiasi sia il gesto che vorrei compiere in reazione alle sue parole. Perché non posso permettermelo, perché non posso farglielo e perché in generale è più giusto se sto fermo.
- No. – risponde, comunque. È la cosa più bella che sento da giorni. – No, non credo proprio. – mi guarda, ed è tranquillissimo. – Ma lo sai già.
Annuisco lentamente, gettando via il mio bicchierino.
- Perché ci stai insieme? – chiedo, guardandolo dritto negli occhi. Lui sospira e mi ricambia lo sguardo.
- Perché è meglio che stare soli. Perché boh… non è così male. – sospira ancora, più pesantemente. – Perché anche se mi manchi non me ne faccio niente di questo sentimento. Mi sento anche uno scemo a dirtelo.
Mi mordo un labbro, schiacciandomi con forza contro la macchinetta per non avvicinarmi neanche di un passo.
- Non sei uno scemo. – rispondo a bassa voce, - Mi dispiace che tu stia così, Pat.
Lui tira fuori un mezzo sorriso e scrolla le spalle. Ogni tanto, quando lo fa, quando scrolla le spalle, dico, mi sembra voglia scrollarsi di dosso i problemi. Lo fa con una convinzione tutta particolare. Come servisse davvero.
- Non sto male. – ribadisce, - Ed ora basta parlare di me. – sorride più decisamente, tornando ad appoggiarsi qui accanto a me solo quando vede i miei muscoli rilassarsi e la voglia che ho di baciarlo scivolarmi lentamente via dagli occhi. – Tu com’è che stai, Chaku?
*
Com’è che sto mi ha chiesto Fler stamattina. Com’è che sto. Immagino che la risposta a questa domanda sia “non lo so”, ma “non lo so” non è veramente una risposta. È la scusa che usi quando non ti va di risolvere una questione, penso, e posso dire di parlarne con una certa competenza, visto che la uso molto spesso. Non è nemmeno una bugia: io davvero non so come sto. Non è la risposta completa, perché la risposta completa è “non lo so perché non voglio saperlo, perché non posso mettermi lì a risolvere la questione, perché mi fa male pensare di stare male”, ma non è una menzogna. È una parte di ciò che è. Ed è anche quello che ho detto a Patrick, che d’altronde da parte sua non ha nemmeno mai avuto bisogno delle mie risposte complete. Quelle incomplete sono sempre state sufficienti a dargli una base di partenza per trovare il resto di ciò che voleva sapere nei miei occhi, nella mia voce, nel mio odore, sul mio corpo.
Com’è che sto. Sto. In attesa, più che altro. A volte, ripensando a tutta la mia vita nell’ultimo anno, mi sembra di averla vissuta solo così. In attesa. Di Bill, naturalmente, perché niente è stato più importante di lui in questi ultimi dodici mesi. Niente è stato più importante di lui in generale, in tutta la mia vita, temo. E penso succeda così, in fondo, quando ti innamori di una persona, indipendentemente da chi sia. Fa come un balzo fra le tue priorità. Era lì, nel mucchio, e all’improvviso te la ritrovi su un piedistallo, in evidenza, e da lì non riesci a toglierla nemmeno con la forza. E poi neanche vuoi, in fondo.
Con Bill è stato così. Io ho vissuto in attesa di capire cosa stavo cominciando a provare per lui, all’inizio. Poi ho vissuto in attesa di un suo cenno d’assenso. Poi ho vissuto in attesa di risentire il suono della sua voce e guardarlo nuovamente negli occhi. Ed alla fine ho iniziato a vivere nell’attesa del momento successivo in cui avrei potuto tenerlo stretto a me, che poi è quello che ho fatto negli ultimi nove mesi ogni volta che per forza di cose siamo dovuti stare lontani, ed è quello che sto facendo anche ora che è tutto complicato e intricato e doloroso. Vivo in attesa di Bill. Ed è una cosa bellissima.
Quando il mio cellulare squilla, so già che si tratta di Bill. Perché questo è l’orario in cui mi chiama di solito, quando tutti gli altri si decidono a lasciarlo in pace e lui si ritrova finalmente tranquillo in casa propria. È l’orario in cui può smettere di tenere a freno il bisogno che ha di vedermi, e quindi quel bisogno sfonda gli argini e lui mi chiama, e quando mi parla lo fa con tenerezza ma anche con urgenza. Perciò, quando sento la sua voce, sorrido. Perché è stanca, è provata, è angosciata, è triste ed è un altro milione e mezzo di cose, ma soprattutto è piena del bisogno che ha di me. E siccome per me è lo stesso, io non posso fare a meno di esserne felice, e sorridere.
- Secondo te, - mi dice, senza nemmeno salutarmi, - anche se lo yogurt è scaduto da un paio di giorni, posso mangiarlo?
Rido a bassa voce, perché come si fa a restare seri di fronte ad una cosa del genere?
- Ho esperienza sul campo. – gli faccio notare, dal momento che entrambi conosciamo le condizioni del mio frigorifero, - Sono quasi sicuro di no, Bill. Forse è il caso se mangi qualcos’altro.
Lui sbuffa, e lo ascolto lasciarsi andare sul divano e raggomitolarsi in una pallina contro il bracciolo.
- Non c’è nulla di buono. – borbotta, - C’è qualcosa che mi ha comprato David, ma non saprei come metterla insieme e tirarne fuori qualcosa di commestibile.
Rido ancora, e quello che gli chiedo glielo chiedo solo perché lui me lo sta già chiedendo da quando questa telefonata è cominciata.
- Vuoi che venga a prepararti qualcosa? – suggerisco, - Sono quasi sicuro che David abbia comprato sufficienti ingredienti almeno per un piatto di pasta.
Lui sorride e mi dice che mi aspetta. Ed io rido un po’ perché fino a due minuti fa stavo pensando che l’intera mia esistenza – be’, ok, l’ultimo anno, ma in fondo se ci penso un po’ stavo aspettando qualcosa come Bill da sempre, qualcosa che mi sconvolgesse dentro, che mi trascinasse completamente in sé, qualcosa che mi prendesse come mi ha preso lui, quindi forse è davvero tutta la vita che lo aspetto – insomma, pensavo che l’intera mia esistenza fosse stata vissuta in sua attesa, e lui ora mi dice che mi sta aspettando. Che sembra una cazzata, ma è bello pensare che in qualche modo, in un certo senso, forse anche Bill stava aspettando me. Indipendentemente da tutto il resto, anche lui mi stava aspettando, ecco.
Quando arrivo a casa sua, lo trovo lì sulla soglia che mi guarda, una mano stretta nervosamente attorno allo stipite della porta e tutto il corpo proteso in avanti a cercare il mio. Quando Bill vuole un abbraccio, lo vedi da lontano, perché tutta la sua persona si prodiga per trovarlo. Ha dei bisogni molto fisici, Bill, perciò basta osservarlo e vedere come si sporge, come si espone, come tiene le braccia, come pianta un piede in avanti rispetto al corpo, per capire che ti vuole vicino e vuole sentirti addosso il prima possibile. Si fa rassicurare con così poco, alle volte, che sembra molto più fragile di ciò che è in realtà. Perché poi quasi te lo dimentichi che ha fatto fuori un uomo, per dire. Ma Bill è bellissimo soprattutto per questo, perché è un mistero continuo, che lo guardi a non capisci proprio come possa essere possibile che sia proprio così. E invece lo è. Se me ne fregasse qualcosa della religione, direi che è un miracolo. Della religione non mi frega un accidenti, e Bill è il mio miracolo comunque.
Lo tiro a me e lo stringo forte, richiudendomi la porta alle spalle, e Bill nasconde il viso contro il mio collo e mugola un po’, strusciando il naso lungo il mio zigomo e cercando subito le mie labbra per un bacio veloce.
- Mi sei mancato… - mi sussurra sulle labbra, mentre io lascio scivolare le mani sui suoi fianchi, accarezzandolo piano, - Puoi… puoi prepararmela dopo, la cena?
Io lancio un’occhiata all’orologio appeso al muro, sulla parete di fronte, e vedo che sono già quasi le dieci. Non c’è verso che, se gli faccio mangiare qualcosa adesso, lui riesca a digerirlo prima di mezzogiorno di domani. Oltretutto, fra meno di un’ora, qualsiasi cosa decidiamo di fare adesso, Bill sarà già crollato addormentato sulla prima superficie disponibile. Vorrei essere io, quella superficie. Perciò lo bacio piano sulle labbra e gli assicuro che sì, gli cucinerò qualcosa dopo, anche se so per certo che la prima cosa che preparerò per lui saranno le frittelle domattina, e mi lascio condurre dalle sue mani che si aggrappano ai miei vestiti, cercando di tirarli via, trascinandomi fino in camera da letto.
Lo stendo sul letto cercando di essere delicato, perché è stanco e lo sento dal modo arreso in cui si lascia maneggiare e accarezzare e mi si appoggia addosso, come avesse bisogno di aiuto per tenersi in piedi. È per questo che lo aiuto a distendersi, così non dovrà faticare per tenersi dritto. Schiude le gambe lasciandomi lo spazio per sistemarmi contro di lui, ed attraverso la stoffa sottilissima del pigiama sento il calore della sua pelle e quello della sua eccitazione, ed entrambi mi colpiscono in scariche elettriche che partono dalla base della mia schiena e si diffondono per tutto il mio corpo, rendendo più affamati i miei baci e i miei tocchi, finché lo sento ansimare pesantemente e gettare indietro il capo alla ricerca d’aria, quando scendo ad accarezzarlo sotto i pantaloni e lo sollevo con la mano libera da sotto la schiena, così che possa inarcarsi, schiacciandosi contro il mio corpo e stringendo le ginocchia sui miei fianchi, le cosce che si serrano come tenaglie attorno al mio polso ed alle mie dita.
- Peter… - mi chiama piano, ed il mio nome scivola sulle sua labbra in maniera tanto dolce che mi viene voglia di assaggiarlo, perciò mi sporgo a baciarlo, affondando dentro di lui che mi accoglie morbido come sempre, e questi sono i momenti in cui mi viene da pensare che forse, se mi sforzo, posso ancora fare in modo che sia come non fosse cambiato niente, come se Bushido non fosse mai tornato, come se Bill non fosse così indeciso come invece è. E quindi ce la metto tutta, cazzo, ce la metto tutta davvero, e lo stringo piano per i fianchi mentre accontento le sue richieste e mi faccio avanti dentro il suo corpo solo dopo averlo preparato per bene, dopo averlo sfiorato e baciato e toccato ovunque, e quando lo sento stringersi attorno a me, seguendo l’impronta che le mie spinte lasciano dentro di lui, chiudo gli occhi e lo bacio sul collo, sullo zigomo, sulla guancia, sugli occhi chiusi e stanchi, sulla tempia, e glielo dico piano, che lo amo, e non mi arrabbio se non mi risponde subito, non mi arrabbio nemmeno se non mi risponde affatto, perché so che è così, lo so che mi ama anche lui, se non me lo sta dicendo in questo momento è solo perché non è il momento opportuno, ed io questo lo rispetto. E Bill lo sa, che lo rispetto. Ed è tutto quello che mi interessa, in questo momento.
Quando si scioglie fra le mie dita ed io mi sciolgo dentro di lui, ascolto i suoi respiri inseguirsi affannosamente sul mio petto, dove ha poggiato le labbra, per molti minuti, prima che lui riesca a domarli abbastanza da costringerli a tornare ad un ritmo più regolare. Ed anche allora continuano ad accarezzarmi piano, così come io accarezzo lui, le dita che si incastrano fra le ciocche intrecciate dei suoi capelli e seguono il disegno sottilissimo e un po’ spigoloso delle sue scapole e della sua spina dorsale.
Come previsto, mi si arriccia addosso e comincia subito a scivolare nel dormiveglia, ed io sorrido mentre lo aiuto a sistemarsi comodamente sul mio corpo e tiro su le lenzuola perché ci coprano entrambi.
- La cena… - borbotta sul mio collo, - …domani, okay?
Rido ancora, sulla pelle un po’ accaldata della sua fronte, ed annuisco stringendolo a me. Domani, Bill, okay. Quando vuoi.

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When The Going Gets Tough The Tough Gets Going

di lisachan
Le questioni di parruccheria e cosmetica, con Bill, non sono mai state un problema. Per ciò che riguarda se stesso e il proprio aspetto, Bill segue fondamentalmente due criteri base, sui quali poi si può creare di tutto ma che vanno seguiti scrupolosamente. Bill è molto più creativo di ciò che la gente immagina guardandolo, solo che il suo strumento non è davvero la voce: Bill utilizza se stesso, ed è per questo che lui e Bushido sono tanto simili; hanno praticamente lo stesso modo di approcciarsi alla vita, prendendola di petto, sentendola su ogni centimetro della propria pelle. Non per coraggio, ma perché il loro corpo è la loro unica arma e il loro unico scudo. Perciò, il corpo è una cosa sulla quale Bill sente di dover avere un enorme controllo, ma allo stesso tempo è fantasioso per ciò che riguarda il suo utilizzo. I cambiamenti, per lui, non sono mai stati momenti difficili, quanto più gli unici istanti in cui Bill sentisse di poter esprimere appieno tutto il proprio talento. Tutto il contrario di suo fratello, che invece è una persona molto più normale ed il proprio corpo lo usa solo per scopare, perciò, se trova uno stile in cui si sente a proprio agio e nel quale si trova piacevole, tende a cercare di preservarlo per evitare di avere problemi.
Comunque, i due criteri base sui quali si basano le concessioni che Bill fa a truccatori e stilisti quando gli lavorano addosso sono: che lo mantengano il più femminile possibile e che, in mancanza di una femminilità sfacciata, si impegnino almeno a mantenerlo bellissimo. Sono le uniche due cose che Bill pretenda davvero quando si lascia andare alle mani esperte dei professionisti. Femmina. Se non femmina, talmente bello che ad un maschio non deve importare del suo sesso. È su questo che Bill ha basato tutta la propria carriera ed è per questo che Bill è diventato famoso. Perciò è questo che Bill vuole, sempre e comunque. Non so perché Bill odi il genere umano al punto da desiderare così ardentemente di metterlo in difficoltà ogni volta che mostra pubblicamente il musetto, così è, comunque, ed è per questo che si mostra struccato e trasandato solo di fronte agli occhi di chi ama: sono le uniche persone che non sente il bisogno di mettere a disagio o in imbarazzo.
Il motivo per cui sto dicendo tutto questo è che sto cercando di spiegare anche a me stesso quanto sia stato difficile convincere Bill a sottoporsi al solito restyling preventivo in attesa dei frutti del lavoro di Bushido, quando invece non mi è mai capitato neanche che fosse necessario chiederla, a Bill, una cosa del genere. Faceva tutto parte dello stato di esaltazione in cui Bill entrava in modo del tutto naturale ogni volta che gli veniva annunciata la data di uscita del nuovo lavoro. Era anche il motivo per cui lavorava alacremente, cercando di non sbagliare e mettendocela tutta, finanche a sfinirsi: tutto in previsione del momento in cui sarebbe potuto tornare a lavorare nel suo ambiente favorito, non lo spazio piccolo e chiuso delle sale di registrazioni, ma gli ampi spazi aperti dei palchi e degli stadi di tutto il mondo.
A questo giro, niente del genere di è verificato. Ho spiegato a Bill tutto quello che questo singolo avrebbe comportato – apparizioni pubbliche, un tour, riarrangiamenti di vecchi lavori, collaborazioni, presenze ovunque su qualsiasi canale televisivo, tutte cose che fino ad un anno fa l’avrebbero reso felice da scoppiare, ma la sua reazione è stata così tragicamente apatica da togliere perfino a me la voglia di lavorare.
Non mi aspettavo, naturalmente, di vederlo saltare in aria in preda alla gioia, questo è ovvio. Anche un idiota capirebbe che, in questo periodo della sua esistenza, Bill preferirebbe anche trovarsi completamente da solo appollaiato sulla punta di un iceberg in scioglimento al Polo Nord, piuttosto che restare qui a rimbalzare da un lato all’altro di Berlino nel tentativo di sbrogliare la matassa che ha al posto del cervello. Però speravo che il lavoro riuscisse a distrarlo. Ancora di più, speravo che riuscissero a distrarlo le fasi precedenti al lavoro, che sono quelle che gli piacciono di più. Quelle, appunto, in cui si restaura. Quelle in cui può chiudere gli occhi e lasciare che le persone lo coccolino, lo plasmino e squittiscano soddisfatte mentre lo osservano diventare stupendo sotto le loro dita, prima di lasciarlo tornare a guardarsi ed osservarlo sorridere soddisfatto di se stesso, perché ancora una volta ce l’ha fatta, ancora una volta è diverso ed ancora una volta è bellissimo. Sono le fasi dei trucchi, delle pettinature sperimentali, dei massaggi, dello shopping sfrenato. Bill ci impazziva, dietro a queste cose, un anno fa. Non posso fare a meno di chiedermi quanto di lui sia morto assieme a Bushido, visto che ci sono pezzi di sé che Bill non è riuscito a recuperare nemmeno grazie a Chakuza.
Bill non si aspettava che sarebbe stato costretto a lavorare con Bushido. C’è stato un tempo – che sembra lontano secoli – in cui l’idea era effettivamente balenata nella mente dei capi, alla Universal. Allora Bushido era vivo, lui e Bill erano la coppia d’oro dello show business tedesco ed erano presi al punto che, pur di stare insieme, avrebbero accettato qualsiasi tipo di contratto lavorativo, a qualsiasi condizione, purché permettesse loro di passare insieme la maggior quantità di tempo possibile.
Alla Universal l’idea del duetto piaceva moltissimo, s’era parlato di inserirla nel primo album disponibile – il nuovo lavoro dei Tokio Hotel, quello che non è mai uscito, visto che per Heavy Metal Payback, che invece è uscito postumo, le registrazioni s’erano già concluse da un pezzo – si stava addirittura cominciando a stilare qualche linea guida del progetto, prima di sottoporla all’attenzione dei diretti interessati.
Poi Bushido è morto e la Universal ha scrollato le spalle pensando di poter guadagnare dall’evento perfino più di quanto avrebbe potuto guadagnare col duetto, perciò l’idea non è mai uscita dagli uffici degli amministratori e non se n’è più nemmeno parlato, neanche per scherzo.
Il ritorno in vita di Bushido, ovviamente, ha cambiato di nuovo all’improvviso tutte le carte in tavola. Ai vertici della Universal, io, la sparizione di Bushido non ho potuto venderla come una trovata pubblicitaria. È gente che ha fiuto, per queste cose, è gente che le conosce, che ne comprende appieno i tempi e i modi. La morte di Bushido non si è svolta né nei modi più corretti né nei tempi più consoni, non c’era la minima possibilità che io potessi dire una balla simile a gente di quel calibro senza che loro mi ridessero dietro e mi licenziassero pure. Perciò, per quanto la cosa potesse farmi girare le palle, ho dovuto sputarla fuori tutta, mettendomici anche in mezzo, parlando dei timori di Bushido, della sua preoccupazione per Bill e del lungo periodo che l’aveva portato a maturare quella decisione.
In cambio per la mia sincerità, ho ottenuto altrettanta sincerità. Non pietà, naturalmente – non c’era speranza che ci si facesse sfuggire una storia simile lasciandola cadere nel dimenticatoio e concedendo a Bushido l’anonimato che voleva – ma non sono stato deriso, non sono stato trattato con sufficienza anche se era palese che nel gruppo qualcuno avesse sbagliato – e quel qualcuno ero io – e, cosa ancora più importante, non sono stato mandato a fanculo, né sono stato privato del mio incarico coi Tokio Hotel o con Bushido stesso. Tra l’altro, il mio impegno con Bushido non era mai stato ufficiale, alla Universal non avrebbero impiegato più di un minuto per togliermelo dalle mani – non avrebbero avuto neanche bisogno di tirare fuori il contratto per mostrarmelo. Insomma, diciamo che, tutto sommato, la trattativa non è andata poi così male.
L’unica cosa che proprio non potevo aspettarmi, da questa trattativa, è che fosse alla pari. Che fosse uno scambio. Quando firmi per una major, guadagni in fama, guadagni in denaro e guadagni anche in soddisfazione, ma perdi irrimediabilmente un pezzo molto consistente della tua indipendenza. Cose come “l’ultima parola sul proprio lavoro” diventano nient’altro che vecchi ricordi, perché neanche al più famoso dei gruppi viene mai consentito di uscire sul mercato se ciò che ha prodotto non è perfetto per l’etichetta, più che per il gruppo stesso.
Questo ragionamento Bushido lo conosce. Perché di fare il salto da indie e major l’ha deciso lui, e quando l’ha fatto sapeva esattamente dove stava andando e come e perché lo stava facendo. Perciò Bushido l’ha sempre saputo che, tornando allo scoperto, il momento delle pretese sarebbe arrivato.
Bill, invece, è sotto contratto da quando aveva quindici anni. Bushido sapeva quantificare ciò che stava perdendo in libertà proprio perché quella libertà, prima di firmare con la Universal, l’aveva vissuta pienamente. Bill no. Bill non ha mai vissuto in una realtà diversa da questa, e non ha mai vissuto nemmeno in una realtà in cui non sa dove andare a sbattere la testa perché ovunque sbatta fa troppo male per poterlo tollerare. Perciò non si aspettava che io arrivassi con la mia bella cartellina portandogli nuovo lavoro da fare. Si aspettava che le due realtà – la major e Bushido di nuovo in vita – non si incontrassero mai. Si aspettava una pausa, si aspettava che il resto del mondo in cui ha vissuto fino ad adesso fosse disorientato da quello che è accaduto esattamente come lui.
Non era preparato alle pretese. Non sapeva che sarebbero arrivate. Ed io non ho mai avuto il tempo né il modo di parlargliene, prima. Perciò il suo sguardo smarrito non mi ha stupito. Rattristato, sfiduciato, incupito. Ma non stupito. Bill è decisamente troppo piccolo, per tutto questo. Crescerà in un colpo, o finirà schiacciato dagli uomini troppo adulti che si è sempre ritrovato ad amare.
Ciò che Bill non ha mai tenuto in considerazione, nell’ultimo anno, nonostante sia uno che all’opinione della gente ci tiene eccome, è appunto cosa pensassero le persone di tutto quello che vedevano o sentivano. Nel corso di quest’ultimo anno, a Bill sono stati attribuiti flirt con chiunque gli gravitasse intorno, e perfino con tutta una serie di persone che invece col suo entourage non avevano niente a che fare. Questo perché la stampa scandalistica è un essere vivente e, in quanto tale, ha bisogno di nutrirsi. Il suo cibo è il pettegolezzo. Niente di diverso. Il lutto è stato un argomento di discussione valido per la stampa per un tempo addirittura minore di quanto non lo sia stato per Bill. Dopodiché i giornalisti hanno cominciato a pensare fosse assurdo che questo ragazzino ancora nel fiore degli anni non si concedesse, di tanto in tanto, qualche piccola scappatella. E si sono messi in moto per trovargliene una.
L’unico motivo per il quale non sono mai riusciti a dimostrare niente è che, in effetti, Bill di scappatelle non se n’è concessa nemmeno una. È passato dalla stretta asfissiante del proprio cordoglio a quella morbida e rassicurante di Chakuza, senza mai uscire allo scoperto con qualcosa di diverso. Per dirla in termini chiari, è stato come se fosse passato da una casa all’altra attraversando un sottopassaggio che le collegava. I giornalisti non lo hanno mai visto andar fuori con nessuno, e quando si è trattato di Chakuza è stato mio dovere coprirlo perché la loro storia restasse confinata in quella casa in cui Bill era passato, senza mai attraversare la porta principale ed uscire allo scoperto. Io non fallisco mai, quando mi si dà un incarico del genere. Deve ancora nascere il paparazzo che riuscirà a fregarmi.
Il risultato di tutto ciò, comunque – un risultato cui Bill non aveva dato la minima importanza, perché sì, per lui l’opinione della gente è importante, ma ogni singolo essere umano esistente al mondo è comunque scavalcato da se stesso, nella lista delle priorità – è che le illazioni dei giornalisti, dalla quasi totalità dell’universo intero, sono state prese, appunto, per semplici illazioni. Niente di diverso. E Bill è diventato una specie di vergine di ferro. Per i romantici, un ragazzino triste che non riusciva a liberarsi del fantasma del primo ed unico uomo avesse mai amato; per tutti gli altri, uno che, dopo aver capito quanti soldi poteva fare mostrandosi in giro al fianco di Bushido, ora aveva capito anche che poteva farne molti di più senza mostrarsi al fianco di nessuno. In entrambi i casi, per l’opinione pubblica, durante tutto quest’ultimo anno, Bill non ha mai combinato niente. Mai. Con nessuno.
Ecco perché, nel momento esatto in cui l’opinione pubblica è venuta a sapere della resurrezione di Bushido – pubblicizzata né più e né meno che con le armi che io stesso avevo fornito alla Universal, lasciando che i giornalisti raccontassero della dura vita del ghetto e di un uomo che non ci viveva più ma che, per quanto fosse andato lontano, non era mai riuscito a liberarsene – dopo il momento di smarrimento iniziale, dopo lo sgomento, dopo la realizzazione, dopo le risate per sdrammatizzare e cercare di tirare su milioni di fan che, per quella morte, avevano sofferto genuinamente, è venuta l’ora di pensare a Bill. E Bill, per tutti, era ancora la vedova sofferente di un anno prima.
Delle indagini di mercato che la Universal ha chiesto per organizzare un piano pubblicitario degno di questo nome e dell’evento che il ritorno di Bushido in Germania era, sono stato incaricato io. La Universal mi ha fornito un team di psicologi, sociologi e statistici e mi ha detto di tornare con dei numeri e delle percentuali ragionate. E quelle, naturalmente, non si sono fatte attendere. Ed erano sempre uguali. La gente li rivoleva insieme. Era la favola più romantica dell’ultimo decennio, più di Lady Diana, più di Carlo e Camilla, più di Letizia e Felipe di Spagna, più di chiunque altro.
Avessi dovuto sbrigarmela da solo, andando d’intuito e di supposizioni come ho fatto quando i Tokio Hotel li ho messi sotto contratto, quelli che sembrano milioni di anni fa, avrei raggiunto le stesse conclusioni di questo gruppo di studio, con la differenza che avrei potuto mentire al riguardo. Sarebbe stato pericoloso e folle e probabilmente mi sarebbe costato il posto di lavoro, ma avrei potuto farlo. A queste condizioni, circondato da gente pronta a parlare anche per cifre irrisorie, non potevo trattenere niente. E quindi il mio responso per la Universal è stato molto semplice e molto chiaro: se c’è qualcosa da organizzare, è fra Bill e Bushido che va organizzata.
Ed è fra Bill e Bushido che la organizzano, in effetti. Studiandola fin nel minimo dettaglio, la collaborazione, la promozione, il video, il packaging, un abbozzo di tour ed un mellifluo “stiamo a vedere come si evolve la cosa, prima di optare per qualcosa di più specifico”, come già questo non fosse specifico abbastanza. Ed è toccato a me andare da Bill ed osservarlo nel pieno della sua confusione mentale, per poi ricordargli che è ora di alzarsi e ricominciare a fare il proprio dovere. Che la sua vita non passa solo attraverso le mani dei due uomini che ha amato ed ama ancora, che la sua vita è qualcosa di più grande, che non appartiene a lui ma ad altri milioni di persone. Che l’ha venduta, la sua vita. “Solo quella pubblica”, mi dice lui, ed io annuisco perché è vero, ma gli ricordo anche che se si rifiuta di mostrarla ancora, quella vita pubblica, la gente comincerà a pretendere il privato. Bill ribatte che la gente lo sta già facendo ed io rispondo che non ha nemmeno idea di cosa possono arrivare a pretendere ancora da lui. Rispondo che il fatto sia ancora una stellina sulla cresta dell’onda non lo salva dal rischio di diventare una stellina che l’onda la guarda dal basso, ed alla quale non resta che lasciarsene travolgere. Gli rispondo che non ha idea di cosa ancora possano arrivare a chiedergli i grandi capi, non ha idea di che lavori umilianti siano costretti a fare i dimenticati dal mondo, per tirare su qualche spicciolo. Cantare alle sagre di paese, presenziare alle feste di compleanno dei ricchi rampolli della borghesia tedesca, è questo che vuoi, Bill? È questo che vuoi? No che non lo vuoi. Per cui non costringermi a ripetermi, Bill, alza il culo, oggi si comincia il restauro.
Morale della favola, per convincere Bill a muoversi non sono bastate le minacce, non sono bastati i rimbrotti, non è bastata la razionalità e suppongo non sarebbe bastata nemmeno una richiesta di Bushido o Chakuza in persona – figurarsi quella di un tizio a caso dalle alte sfere della Universal. Ho dovuto costringere al restauro anche Tom, pure se dall’etichetta per i Tokio Hotel adesso non hanno in programma niente. Se la cosa dovesse muoversi bene, è probabile che anche loro saranno coinvolti nel tour, ma per adesso è tutto molto vago e fumoso ed io preferisco di gran lunga non parlarne né con Tom né con Georg o con Gustav, perché Tom è già abbastanza esasperato dalla situazione e gli altri due ne sono già abbastanza infastiditi, senza che peraltro vedano il minimo motivo per sentirsene coinvolti. Posso capirli: un conto è dover faticare ed irritarsi per qualcosa che si sente come propria, per la quale ci si sente in diritto e in dovere di combattere – ed è quello che sta facendo Tom; un altro conto è osservare una situazione dall’esterno, detestarla già così e dover fronteggiare il rischio di sentircisi catapultati dentro senza la benché minima voglia.
Ciò che ho adesso per le mani, comunque, sono due ragazzini confusi e storditi, esattamente come prima, ma con due acconciature diverse. Non un gran guadagno, ma alla Universal sembra bastare. Almeno, è stato abbastanza per contattare Bushido e sottoporgli un ultimatum molto chiaro – ci diamo una mossa con una nuova canzone, o ce la diamo noi per te, una richiesta di fronte alla quale, lo sapevo, Bushido non poteva che cedere – e, subito dopo, contattare me e chiedermi gentilmente ma fermamente di cominciare a muovermi per un video.
Un video.
Confesso che, quando mi è piovuta la richiesta per telefono, fra capo e collo, un po’ m’è venuto da ridere. Finché si trattava di registrare e mandare il singolo in giro per radio, la cosa non era esageratamente problematica. Problematica sì, assolutamente, ma non era la fine del mondo. Ma un video. Un video. Prendere questi tre uomini ed i loro rispettivi entourage e costringerli insieme in un determinato posto. Follia.
Inutile dire che anche l’idea per il video è partita come suggerimento spassionato dagli uffici dei grandi capi. Naturalmente senza specifiche di alcun tipo, ma nel momento in cui ti senti dire “trova qualcuno che faccia al caso nostro, Jost”, e fino a due minuti prima s’è parlato di come sfruttare adeguatamente l’idea di Bill e Bushido come coppia reale dello showbiz tedesco, ancora viva nei cuori di migliaia di fan, chiaro che la prima cosa cui si pensa è portare il testo ad un regista con una certa passione per un determinato tipo di video, uno che sappia come sfruttare la chimica fra due persone, uno che capisca come funzionino queste relazioni, uno che sappia buttarle giù con uno storyboard spendibile sul mercato e tutto il resto.
Uno come Hans, insomma. Non avevo molta scelta.
Io ed Hans ci conosciamo da una vita. Ci siamo incontrati quando io ancora cantavo nei Bed & Breakfast, durante le riprese del video di Get It Right. Allora era appena uscito dall’accademia delle belle arti e non era che un ragazzino un po’ confuso che Herr Winkler aveva assunto da poco e maltrattava, da bravo regista ultracinquantenne con decenni di esperienza nel campo dei video delle boyband. Non ricordo bene com’è che facemmo amicizia, in realtà credo sia successo perché Hans aveva la brutta abitudine di lamentarsi sempre e comunque di qualsiasi cosa, era molto piagnucoloso – non che abbia mai smesso di esserlo – ed allora io ero un tipo dal cuore molto tenero che da queste cose si faceva prendere facilmente, perciò ci caddi con tutte le scarpe e finimmo per avvicinarci parecchio, anche se mai oltre un determinato limite – Hans è troppo checca perfino per il sottoscritto. Non che questo mi porti a volergli meno bene, ma a non desiderarlo sdraiato al mio fianco su un materasso sì, eccome.
Comunque sia, quando ho capito cos’è che volevano quelli della Universal da me, da Bill, da Bushido e da questa produzione, non ho esitato a contattare Hans. Perché è uno che sa il fatto proprio – almeno adesso – perché è bravo, perché sa lavorare e perché è un rompiballe. Che può sembrare una caratteristica poco meritoria, ma lo diventa improvvisamente tantissimo nel momento in cui si deve avere a che fare con gente ancora più rompiballe.
Nel caso di specie, Bushido.
Ora, ci tengo che non si pensi che il mio giudizio su Bushido sia falsato da ciò che provo per lui. D’altronde, puoi provare più o meno qualsiasi tipo di sentimento per un’altra persona, senza che questo oscuri la tua capacità di vederlo per ciò che è. Anzi, spesso è il contrario: quando provi qualcosa di più profondo per qualcuno è proprio perché l’hai visto in ogni sua sfaccettatura – anche le peggiori – e sei riuscito a dirti non che ti piacciono anche quelle – una cosa del genere è buona solo a riempire le bocche dei romantici, ma non può corrispondere alla realtà, non c’è verso per cui una persona sana di mente possa coscientemente amare un difetto – ma che puoi sopportarle, in favore di tutto il resto.
Quindi io lo so che Bushido è un rompiballe. Lo è per un miliardo di cose diverse, peraltro. Lo è per ciò che riguarda se stesso, lo è per ciò che riguarda la sua immensa e variopinta corte e lo è anche nei confronti di tutto il resto del mondo, perché quell’uomo è davvero fermamente convinto che, potesse mettere le mani su tutto l’intero orbe terracqueo per governarlo, sarebbe in grado di fare un lavoro splendido. Perciò tutto deve girare nel verso da lui prestabilito. È Bushido a stabilire l’ordine di rotazione della Terra e di tutti i pianeti circostanti, è lui che piazza il Sole al centro del Sistema Solare, è lui che traccia il tragitto di comete ed asteroidi, accende e spegne le stelle e regola l’espansione delle galassie. C’è poco da fare, quando uno vuole avere un controllo simile su tutto ciò che lo circonda. Non puoi non concederglielo, ed allo stesso tempo non puoi non limitarlo. Perciò io avevo bisogno di Hans. Avevo bisogno di qualcuno che fosse rompiballe tanto quanto lui, perché almeno ci fosse qualcuno pronto a litigarci, con Bushido, per costringerlo a vedere galassie diverse dalla propria. Per ricordargli che non è Dio ma un impiegato, e come tale deve lavorare.
Bushido, al momento, non è il maggiore dei miei problemi ma indubbiamente è un problema. Non può non esserlo anche quando non me lo trovo sotto gli occhi, perché anche quando non è con me, o io non sono con lui, in alcun modo posso dimenticare che al momento Bill e Chakuza stanno praticamente insieme e lui è praticamente solo. C’è una netta differenza fra ciò che il mondo sa – perché è ufficiale – e ciò che invece è vero e sappiamo solo noi. Il mondo sa che fra Bill e Bushido le cose sono tranquille – magari immaginano non siano più come un tempo, ma niente oltre a questo – non sa che Bill, quando dorme, dorme con Chakuza. E non sa che Bushido dorme solo in casa propria, con la compagnia di Fler in una stanza degli ospiti a caso, quando va bene. Ciò che è reale è questo. È ciò con cui dobbiamo fare i conti. Nessun altro oltre noi fa i conti con questo tipo di realtà, per il resto del mondo non esiste. Eppure è tanto vera che non ci si dorme la notte.
Mi sollevo dalla poltrona sulla quale sono stato affossato fino ad ora, poggiando il portatile bollente sul tavolino basso di fronte a me, e mi sgranchisco le gambe e le braccia, stendendo la schiena e mugolando soddisfatto quando sento le ossa crocchiare, i muscoli sciogliersi e i tendini riacquistare una parvenza di elasticità. Lancio una veloce occhiata all’orologio a muro: sono le undici ed io posso ragionevolmente dire di aver fatto quanto dovevo, per oggi. Il singolo è entrato in decima posizione nella classifica dei più venduti della settimana, e contando l’incertezza delle masse, in questo momento, è un risultato più che soddisfacente. Sarebbe qualcosa di cui gioire, se il gruppo per il quale lavoro fosse disposto alla gioia. Così non è, perciò la prendo come una gratificazione personale neanche tanto desiderata e mi chino ad arrestare il sistema, attendendo che il computer si spenga per chiuderlo e cominciare a prepararmi per andare a dormire.
Naturalmente c’è chi ha deciso che non posso. Potrei dare la colpa al buon Dio nel quale non è che abbia mai creduto, in realtà, ma visto che posso dare la colpa al suo più bravo imitatore qui sulla terra è nei confronti di Bushido che ringhio, nel momento esatto in cui rispondo al citofono e lo vedo apparire sul monitor, che guarda dritto in camera, come a ricambiarmi lo sguardo che gli sto lanciando io.
- Che sorpresa. – sbotto acido. Lui grugnisce qualcosa che somiglia a un “apri” ed io obbedisco roteando gli occhi e lasciandogli la porta aperta mentre torno in salotto e mi abbatto esausto contro il divano, preparandomi a quella che sarà sicuramente una discussione sfiancante. Semplicemente perché Bushido non viene a cercarti se non ha qualcosa da dirti, e non ha niente da dire che non sia sfiancante.
Appare sulla soglia della mia porta in jeans e maglietta, come si fosse appena alzato dal letto e si fosse messo addosso le prime cose trovate in giro per casa. Anche le infradito che porta sembrano ciabatte da casa, e nel complesso è molto buffo perché ha i capelli arruffati e si è appena sprecato a raccoglierli in una cosa disordinata, col risultato che un sacco di ciocche sono sfuggite all’elastico nero e sottile e ora gli incorniciano il viso, scendendo scurissime lungo gli zigomi, arricciandosi appena in punta.
È quasi illegalmente bello ed io distolgo lo sguardo.
Lui comunque non sembra della disposizione d’animo di venirmi incontro mentre mentalmente lo imploro di non essere, solo per una sera, se stesso. Perché quando è se stesso io non ragiono, ed in questo periodo ho bisogno di molta lucidità. E invece niente, Bushido non mi ascolta o non vuole farlo, e continua ad essere tragicamente se stesso mentre si lascia andare sulla poltrona al mio fianco e sospira pesantemente, il petto che si alza e si abbassa sotto il cotone sottilissimo della maglietta. È vecchia e usurata, attraverso le maglie un po’ slabbrate si intuisce il colore della sua pelle.
- Niente sonno? – chiedo fingendo disinteresse, sistemandomi sul divano in modo da poterlo guardare senza dovermi necessariamente voltare per farlo.
- No. – scuote il capo lui, guardando invece un punto a caso fra l’enorme vuoto che ha dentro il cervello e quello altrettanto grande che lo circonda. – Ho pensato di passare a vedere se eri sveglio.
Scrollo le spalle.
- Lo sono, come vedi. Ora, visto che è tardi e sono stanco, se-
- Tu non sei stato per niente un bravo collaboratore, David.
Spalanco gli occhi e non posso proprio, davvero, fare a meno di guardarlo. Perché tu, Bushido, non puoi dirmela una cosa simile. Io ho messo in gioco affetti, culo e credibilità, per te. Tu non puoi dirmi una cosa simile.
- Che intendi? – chiedo, glaciale. Ma perfino il mio astio si smorza quando lui solleva gli occhi nei miei ed io dentro ci vedo tanta di quella tristezza che una morsa mi stringe il petto e mi mozza il respiro, comprimendo la cassa toracica con tanta forza che mi sento mancare. Bushido era un uomo del quale si potevano dire moltissime cose, ma che fosse un entusiasta era indubbio. Perché era abituato a guadagnarsi ciò che possedeva, conosceva il brivido della lotta e del fare di tutto per ottenere qualcosa, ogni giorno era una sfida perché ogni giorno c’era qualcosa da rendere proprio o da mantenere tale. Nei suoi occhi adesso c’è solo un uomo che ha perso tutto e non sa né come riprenderselo, né se valga la pena tentare. E quindi forse è vero, Bushido. Forse non sono stato per niente un bravo collaboratore.
- Io credo che avrei fatto meglio a restare a Miami. – lo dice con una certa serenità, come non avesse fatto altro che pensarci per le ultime ore e questa fosse la naturale conclusione del suo naturale ragionamento, cosa che in effetti è anche possibile, considerata la situazione attuale. – Probabilmente, se avessi saputo che Bill era ancora nel giro ma era felice con qualcun altro… - si interrompe un attimo e si morde un labbro, esitando appena. Poi riprende, - Non ci sarebbe stato bisogno di dirmi che era Chakuza. Quello probabilmente non avrei voluto saperlo. Ma se avessi saputo che era semplicemente okay, non sarei tornato. Avrei trovato un altro modo, credo. L’Ersguterjunge è importante, ma guarda cosa ho fatto a Bill. E lui lo era di più, questa è una certezza. Eppure gli ho distrutto la vita, due volte, e non riesco a fermarmi. Continuo a farlo ogni volta che lo vedo. – lo sguardo è di nuovo fisso nel vuoto, sta ragionando fra sé. È insolitamente calmo, e questo vuol dire che sta insolitamente male.
Credo sia una cosa che succede spesso a chi ha la pretesa di gestire le vite altrui come fossero la propria, come fa Bushido. Quando gestisci la tua vita sai cosa aspettarti da te stesso. Se prendi una decisione, sai che gesti far seguire a quel pensiero. Se succede qualcosa, sai di chi è la responsabilità e puoi muoverti nella maniera più opportuna.
Gestire le vite degli altri non è impossibile. Solo che non puoi farlo come fossero pezzi di te stesso. È molto più complicato di così. Devi tenere ben presenti le differenze che separano ogni essere umano dall’altro, perché è solo grazie a quelle – grazie ai piccoli particolari che distinguono le persone – che puoi provare ad immaginare le loro reazioni ad una determinata decisione o ad un determinato evento. Bushido gestisce benissimo se stesso, ma dimentica di tenere a mente i particolari quando prova a gestire gli altri. Perciò, quando la vita gli ricorda che no, per quanto gli piaccia immaginare chi ama come un pezzo di se stesso, quelle persone comunque non lo sono, lui è sempre un po’ stupito, dalla cosa. Potranno passare anni, ma immagino sarà sempre così. Ora lui è qui che parla di Bill che si rifà una vita, di Bill che soffre nel vederlo tornare, di Bill che non sa più chi scegliere fra lui e Chakuza, e lo fa con rassegnazione, ma è una rassegnazione stupita e poco convinta. Perché non se l’aspettava e non riesce ad ammettere che al mondo possano succedere anche cose come queste. Cose che lui non ha previsto.
- Cos’è che dovrei dirti? – chiedo con un mezzo sospiro, massaggiandomi una tempia, - Hai ragione. Avrei dovuto dirtelo. Non l’ho fatto e se fossi stato più chiaro probabilmente tutto sarebbe andato in maniera diversa. Quindi cosa devo fare, adesso? Chiedere scusa?
Bushido resta in silenzio per un po’, prima di rispondermi.
- No. – dice alla fine, - No, non credo di volere le tue scuse. – si stira indietro contro lo schienale della poltrona, poggiando le braccia sui braccioli e continuando a guardare davanti a sé. – “Scusa” è solo una parola, in fondo. Sentirla o meno non mi cambia l’esistenza. Penso che le scuse andrebbero fatte solo quando possono servire a qualcosa. Salvare un rapporto o ricucire qualcosa che si è strappato. – mi guarda con un paio d’occhi indecifrabili, - Non credo che tu debba chiedermi scusa perché non ce l’ho con te e fra noi non è cambiato niente. Credo anche che sentirti in colpa, da parte tua, sarebbe molto stupido. Ci sono cose – continua con un sospiro, - che è difficile o impossibile prevedere. – e poi ghigna, - Se pretendessi delle scuse da te, dovrei pretenderle anche da me stesso. E non è così.
Ghigno un po’, scuotendo il capo.
- Figurarsi. – lo prendo in giro, - Il solo concetto è impensabile.
Lui ride di cuore, spalmandosi contro lo schienale della poltrona e scrollando le spalle. La sua espressione non cambia anche quando riprende a parlare, è sempre fissa nel vuoto ed ancora sorride, fa un po’ paura perché a vederlo così sereno si fatica ad intuire la tempesta che gli passa negli occhi.
- Sto facendo un casino dietro l’altro. – mi informa, come non lo sapessi già, - Patrick vive praticamente con me. Ed è strano, ed io non gli sto parlando come dovrei. C’è qualcosa che mi nasconde ed io non sto insistendo per farmela dire. – aggrotta un po’ le sopracciglia, pensieroso, - C’è qualcosa che vuole dirmi, sta solo aspettando che glielo chieda. E non glielo sto chiedendo, non voglio chiederglielo. – sospira, massaggiandosi la fronte, - Sto facendo così anche con Bill. Bill sta cercando di dirmi qualcosa ed io non glielo sto lasciando fare.
Traggo un respiro profondissimo, grattandomi distrattamente la nuca.
- Evidentemente non sei ancora pronto. – butto lì, scrollando le spalle. E Bushido lascia andare una risata piccolissima.
- Ho trentun anni. – mi fa notare, - Non c’è niente cui io non sia pronto. Se c’è qualcosa alla quale non sono pronto, vuol dire che sono cresciuto male. O non sono cresciuto abbastanza. Ed io non sono niente di queste due cose. Quindi, qualsiasi cosa sia quello che sto cercando di impedire a tutti voi di non-dire… dovrò accettarla e basta, penso. E decidere per conto mio.
- Continui a ripetere sempre gli stessi errori. – ringhio un po’, spostandomi a disagio sul divano, - Tu non stai impedendo niente a nessuno. Vola basso, Bushido, sei importante ma non sei il cazzo di creatore. Se Fler avesse voluto dirti qualcosa, pensi davvero che avrebbe aspettato una tua domanda? Se Bill volesse davvero dirti qualcosa, pensi che aspetterebbe placidamente che sia tu a lasciarlo parlare? L’aria di Miami ti ha stordito, o quello che è tornato in Germania non è più Anis, ma Tarek, perché ti ostini a dimenticare che siamo esseri umani, non marionette, e in quanto tali facciamo il cazzo che vogliamo, Bushido. Se Fler e Bill non ti stanno dicendo niente, vuol dire che non credono tu abbia il diritto o il dovere di sapere. È così che pensano le persone normali, Bushido. “Non lo so? Non me l’hanno voluto dire”. Non “Non lo so? Sto impedendo loro di dirlo.” Chiaro?
- Io non sono una persona normale. – ribatte lui, guardandomi dritto negli occhi.
- Lo sei! – mi agito io, battendo un pugno contro il bracciolo del divano, - Lo sei, Cristo santo, non sei davvero immortale, tu sei morto, Bushido!
- Non sono morto! – urla, alzandosi in piedi. Mi alzo a mia volta. Non che questo mi aiuti a fronteggiarlo da pari, ma almeno non è come continuare a guardarlo da seduto.
- Lo sei, Bushido! – sbotto gesticolando, - Respiri, il tuo cuore batte e rompi ancora i coglioni all’universo creato, ma tu sei morto! Sei un fantasma! E non sei più quello che eri due anni fa, devi venirci a patti!
Ed è così che mi ritrovo a sbattere contro il muro alle mie spalle, l’avambraccio di Bushido pressato contro il collo ed un dolore sordo che parte dalla base della schiena diffondendosi lungo tutta la spina dorsale, mentre respiro a fatica sotto la pressione del suo peso sul mio corpo.
- Io non sono morto. – ringhia a due centimetri dal mio viso, - È l’unica cosa che dovete davvero ficcarvi in testa, tutti quanti, e sulla quale non transigo. Io sono vivo, Jost. Sono vivo. Non sono un fottuto fantasma, sono vivo, cazzo.
Non rispondo perché non saprei che dirgli e perché non ho abbastanza fiato per farlo. In realtà dovrei dirgli che dargli del morto è inesatto tanto quanto dargli del vivo. Bushido è un uomo in bilico. Una parte di ciò che siamo muore giorno dopo giorno, questo è inevitabile. Con ogni persona cui diciamo addio, ogni posto che smettiamo di frequentare, ogni abitudine sulla quale smettiamo di insistere, va via un pezzo più o meno consistente della nostra esistenza. Quel pezzo muore, è irrecuperabile, ed è anche il motivo per cui siamo sempre persone diverse in qualsiasi momento della nostra vita ci si guardi.
Con Bushido, però, la cosa è ben più complicata. Non è un’abitudine, quella che lui ha ammazzato. Non è una frequentazione sporadica, non è una questione di conoscenza marginale o occasionale. Lui ha preso ciò che era, tutto, intero, completo, ci ha aggiunto ciò che era stato fino a quel momento, ed è quello ciò che lui ha ucciso. C’è un limite rispetto a quanto puoi uccidere di te stesso prima di ucciderti del tutto, e lui quel limite l’ha travalicato come travalica ogni limite gli si ponga davanti, perché – assoluto per com’è – doveva esserlo anche morendo. E quindi no, Bushido, tu non sei vivo. Forse non sei nemmeno morto, ma vivo non lo sei di sicuro, perché hai sacrificato troppo per esserlo ancora. Una persona può sacrificare un rene, può sacrificare un polmone, parti di stomaco o di intestino, parti di fegato, qualsiasi cosa. Ma prendere un cuore, asportarlo per intero e pretendere che un corpo continui a vivere è impensabile. Bushido non ha davvero una misura di ciò che ha fatto. E qualcuno dovrebbe dargliela.
Solo che io non sono capace. Perciò resto in silenzio e non riesco neanche a reggergli lo sguardo. Quando mi vede evitare i suoi occhi, mi lascia andare. Io scivolo un po’ contro la parete e fatico a reggermi sulle gambe, mentre mi massaggio distrattamente il collo indolenzito.
- Io non capisco cosa pretendi, Bushido. – dico sfiduciato, sospirando pesantemente, - Cos’è che vuoi? Che la vita riprenda il suo corso a partire dal momento esatto in cui sei andato via? O da qualche giorno prima, così da risparmiarci la visione del tuo corpo in un lago di sangue?
Stringe le labbra finché diventano due linee sottilissime, e lo vedo perché torno a guardarlo. Perché sono triste, per lui e per tutti, e non so cosa fare. Per la prima volta non ho idea di come risolvere questa situazione. Forse avevi torto, Bushido, forse avevamo torto entrambi. Non sono così bravo a sistemare le cose. Nemmeno quando serve.
- Io non so cosa dirti. – esalo alla fine, allargando arreso le braccia, - Non posso ridarti quello che hai perso, non può ridartelo nessuno. Non può ridartelo nemmeno Bill. Tu non hai perso solo lui, lo capisci questo? Te ne rendi conto?
Stavolta lo sguardo lo abbassa lui. Non muove un passo ma solleva una mano a coprirsi gli occhi. Osservo il movimento farsi sempre più stanco mentre massaggia la fronte e poi scivola fra i capelli, districandone nodi inesistenti e ravviandoli all’indietro, liberandoli dall’elastico e trattiene fra due dita e col quale comincia distrattamente a giocare, prima di tornare a guardarmi.
- Io non so cosa devo fare, David. – dice con sincerità così eccessiva da risultare dolorosa, - Io ho bisogno che tu mi dica cosa devo fare qui e adesso. Perché se tu non mi dici cosa devo fare della mia vita in questo preciso istante, penso che ne farò brandelli e la butterò nel canale, al suo posto.
Io sospiro, perché quest’uomo non è veramente gestibile. Continua a mettere la sua vita nelle mie mani, quando le mie mani sono l’ultimo posto in cui dovrebbe stare.
- Lo ami ancora? – chiedo a bassa voce, e lui lascia andare una mezza risata amara.
- Non fosse stato così, non sarei tornato. – ammette senza neanche pensarci su.
Io scrollo le spalle e sistemo la maglietta un po’ stropicciata.
- E allora ti sei risposto da solo. Sai già cosa fare. – lo osservo sbuffare un sorriso incerto, abbassando appena lo sguardo, e mi affretto a precisare, - E se interpreti quello che ti ho appena detto come “smetti di combattere e tornatene a Miami”, allora non hai palle.
Bushido ride e ride davvero, stavolta. Scuote lievemente il capo mentre ravvia i capelli fra le mani e li stringe in una coda piccola e alta dietro la testa, decisamente più ordinati rispetto a quanto non fossero quando è arrivato.
- Tu meriteresti di essere massacrato a legnate, Jost. – annuisce simulando serietà e ficcandosi le mani in tasca, - Ad ogni modo, grazie.
Sbuffo scrollando le spalle.
- Non ringraziare. Sono andato in vacanza alle Bahamas due volte, coi soldi che mi hai lasciato andandotene.
Ride ancora un po’, allontanandosi verso la porta dandomi le spalle e salutandomi con due dita, senza più guardarmi. Resto solo meno di due minuti dopo, ho come l’impressione di avere riaperto qualcosa che stava per chiudersi e non sono sicuro che qualcuno mi ringrazierà per questo. Non sono sicuro neanche che io stesso mi ringrazierò per questo, e peggio ancora non sono per nulla sicuro che lo farà Bushido.
Il portatile è spento, ma io non ho più sonno. Passerò la nottata a giocare a Free Cell.

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All the small things

di tabata
Perché io mi decidessi a parlare di lui, Bushido ha dovuto tornare in vita.
Se ci penso rido, ma in realtà è una cosa molto da lui fare l’impossibile pur di venire amato, se è quello che vuole. E lui di certo, quando ha deciso di farci credere che non lo avevamo più, avrebbe voluto che io dicessi qualcosa. Invece non ho detto una parola.
I giornalisti mi hanno inseguita per settimane e, naturalmente, non si sono risparmiati di invitarmi a TRL o di chiedermi interviste per tutti gli speciali che poi sono andati in onda nel tentativo di rivelare di Bushido anche quello che non esisteva affatto.
Io non ho mai accettato, non avrebbe avuto senso farlo. Io con l’etichetta non c’entro niente e non era mio il compito di ricordarlo.
Quando è morto, una parte di me è morta con lui.
Sembra una frase fatta, ma è la verità. Anis è un uomo che quando ti ama, lo fa in maniera totalizzante e per farlo, ti ruba un pezzo di cuore, così poi tu lo ami per forza, perché ha fra le mani una parte di te. Per questo quando hanno calato la bara, quello che di lui c’era in me ha cominciato a vacillare come la fiamma di una candela e io per proteggerlo, per mantenerlo il più vivo possibile, ho preferito il silenzio.
Avevo paura che si spegnesse.
Poi, anche a me è successo quello che è successo a chiunque altro lo conoscesse e gli volesse bene. Abbiamo iniziato a sentire la sua mancanza, una specie di morsa dietro lo stomaco, la sensazione netta che avesse lasciato un vuoto fisico e che ci stessimo tutti camminando intorno, evitando accuratamente di riempirlo con qualcos’altro. Era una specie di buca in cui evitavamo di cadere ma che non ci azzardavamo a riempire. Per questo abbiamo finito per avvicinarci tutti quanti. Era un modo per sentirlo vicino. Credo che prima o poi tutti abbiamo fatto lo stesso pensiero. Ci siamo detti che se stavamo insieme, se stavamo tutti nello stesso posto, potevamo fingere che non fosse successo niente. Eravamo lì perché stavamo aspettando lui. Non era morto, era solo da un’altra parte e come al solito si faceva desiderare.
Così un giorno sono uscita di casa e mi sono presentata all’Ersguterjunge e nessuno sembrava sorpreso di vedermi. Erano tutti lì, del resto. Perfino Fler, che avrebbe dovuto darmi da pensare e invece niente. I sudditi del re ragionano tutti allo stesso modo.
Per settimane non abbiamo fatto niente, stavamo solo lì. Arrivavamo prestissimo la mattina, ci sistemavamo negli uffici ed era come quando sei un ragazzino e ti trovi a casa di qualcuno. Non hai veramente qualcosa da fare, stai lì e basta. Le prime settimane eravamo soltanto noi, poi anche Bill ha cominciato a venire.
Ricordo quando è arrivato perché eravamo nello studio grande. Eko e Kay avevano trascinato nella stanza i due divani del salottino così che potessimo stare tutti quanti insieme. Avevo portato del cibo fatto in casa perché sapevo che se li avessi lasciati da soli a nutrirsi avrebbero mangiato soltanto pizza, cibo cinese e kebab.
Poi abbiamo sentito la porta aprirsi. Ci siamo guardati. Anzi, ci siamo contati. Ed eravamo tutti lì. Per un attimo abbiamo pensato ad Anis ed è stato un pensiero quasi felice. La scena era perfetta: noi già lì, lui che ci raggiunge ovunque fosse prima. Così quando sentiamo i passi, quando scorgiamo l’ombra, ci tendiamo verso la porta perché ci aspettiamo di vederlo comparire e sorridere dicendo “Cosa ci fate già tutti qui? Non avete una vita?” Invece è Bill. E il ragazzino è a pezzi..
Anis mi ha sempre parlato di lui. Veniva da me a mangiare qualcosa, ogni tanto, e mi raccontava di quello che stava accadendo. Anzi, in realtà veniva lì con quell’intenzione ma non diceva niente finché io non portavo in tavola i piatti e chiedevo per prima. Allora lui sorrideva alla sua maniera, quella che lo guardavi ed era contagioso, e mi diceva che era una gran casino. “E’ un gran casino, Cassie,” diceva proprio così. “Ma è il più bel casino della mia vita.”
Quando ha conosciuto Bill, io l’ho saputo il giorno dopo. Lo avrei saputo la sera stessa se non fossi stata abbastanza intelligente da spegnere il cellulare. Bushido è il tipo che se gli succede qualcosa è convinto che tu voglia saperla immediatamente, anche se – per dire – sono le quattro del mattino e tu stai dormendo. Io però lo conosco benissimo, quell’uomo lì, ci sono passata, li so i suoi colpi di genio di telefonare all’alba o magari presentarsi a casa mia alle tre di notte e offrirsi di cucinare due verdure al volo intanto che mi spiegava cose – che poi finiva che lo mettevo seduto buono e lo facevo parlare mentre gli riscaldavo qualcosa dal giorno prima perché non mi facesse saltare in aria la casa. Comunque ho imparato a spegnere il telefono. Quando la mattina mi sono svegliata avevo un numero illegale di chiamate non risposte e due messaggi. Uno che diceva “Devo parlarti” e l’altro che mi avvisava, “Sto passando da te.” Non ho neanche pensato di prepararmi di corsa, tanto lo sapevo che era già sulla porta, lui non ti avverte mai in tempo utile. E, ad ogni modo, se proprio voleva vedermi, si sarebbe preso anche il mio pigiama e le mie pantofole di pelo rosa.
Me lo ritrovo in casa nemmeno dieci minuti dopo ed è in uno stato di esaltazione tale da essere quasi insopportabile. Anis per certe cose è come un bambino, quando si emoziona o c’è qualcosa di particolarmente fantastico, non sa parlare d’altro e lo fa senza prendere fiato, ti travolge di parole. Entra, mi dà il tempo di chiudere la porta e poi mi bacia sulla guancia. “Non ho mangiato, hai niente?”
“Stavo per fare colazione,” gli dico. Faccio per indicargli la porta della cucina ma lui ci è già entrato e si sta pure già servendo. Non mi resta che raggiungerlo.
“Allora, cos’è questa storia che devi parlarmi?” Mi verso del caffè intanto che lui si fa fuori l’ultimo panino che mi è rimasto in casa. Alla faccia dell’educazione e della galanteria. Il fatto è che lui sa che glielo avrei dato se me lo avesse chiesto, quindi ha saltato un passaggio e se l’è direttamente preso. Ci vuole pazienza, con lui.
“Ieri sera ero da Oliver.”
“Chi?”
“Pocher,” specifica lui, facendomi cenno col mento sollevato, mentre apre il panino e ci spalma sopra il burro. Io annuisco vaga, avrò visto questo tipo un paio di volte ma non ho ben chiaro chi sia. Bushido ci va matto, comunque. Questo lo so. “Insomma, Oliver ha dato questa festa dopo lo spettacolo e c’erano praticamente tutti.”
Tutti quelli che contano, intende. Che poi significa, tutti quelli che non contano ma servono a lui per il suo assurdo piano di conquistare la Germania. Più o meno.
“Dov’è la novità?” Chiedo, sorridendo. “Quand’è l’ultima volta che sei stato in casa tranquillo senza tornare disfatto alle quattro del mattino? Hai dormito stanotte?”
“No, vengo diretto da lì,” mi dice. “Cioè, sono passato da Chaku una mezz’oretta, con i ragazzi, ma poi sono venuto qui.”
Lo guardo. Ha addosso i pantaloni di una tuta da ginnastica nemmeno tanto nuova e una maglietta a maniche corte con il logo dell’EGJ. “Ti sei cambiato?”
“Na-ah,” risponde lui, masticando.
“Ci sei andato così alla festa di Pocher?”
Si stringe nelle spalle. “Comunque, ti stavo dicendo. In mezzo a tutta questa gente c’erano anche i Tokio Hotel. Hai presente no?” Annuisco. Direi che è impossibile accendere la televisione senza vederli. “In realtà c’erano solo i gemelli, comunque fa lo stesso. Non è che gli altri due abbiano tutta questa importanza.”
“Perché loro due sì?”
Lui ride. “In un certo senso si. Per questa storia ce l’hanno, almeno. Comunque, sono due spettacoli, veramente. Tom, il biondo, è uno di quelli che arriva e lo vedi sparire tempo zero dietro alla prima figa con la scollatura ampia. L’altro, Bill è come lo vedi in televisione.”
“Vale a dire?” Chiedo, perché mi vengono in mente un sacco di aggettivi ma non credo siano quelli giusti.
“Pesa si e no quaranta chili ed è perfetto, tipo. Sembra una ragazza, è molto carino. Comunque, il punto non è questo. E’ che mi si è avvicinato, sbattendo gli occhioni. Ed è passato tra Kay e Nyze, educatissimo. Scusate, permesso. Dovevi vedere la faccia dei ragazzi.”
A me sorge il dubbio che ci sia qualcosa che Bushido ancora non ha capito. Lui non ha nemmeno finito di raccontare, non ha nemmeno iniziato anzi, e io già vedo cose che lui non immagina proprio, perché lo so com’è. Dopo che ci siamo lasciati – io ho lasciato lui, perché oggettivamente non era cosa tra me e lui. Quindi va bene che mi depredi la dispensa ma non che stia nel mio letto, grazie – lui ha avuto un sacco di ragazze, tutte ampiamente sotto i venticinque e tutte ampiamente stupide. Anis non è un tipo da relazione stabile – cioè, non lo era al tempo – però è un tipo da innamoramento. Lui delle donne si innamora. E anche con una facilità sorprendente. Questo perché è un uomo innamorato dell’amore. Gli piace l’idea che ci sia nel mondo una donna che è la sua donna, con la quale lui possa darsi una certa importanza e, sostanzialmente, possa fare lo splendido. Bushido le donne le rispetta, anche se purtroppo viene dal ghetto, quindi ha un certo tipo di mentalità – io Tarzan, tu Jane, per intenderci – ma lo si tiene a bada con un po’ di polso. Di solito le donne che si sceglie non ce l’hanno, ma va tutto bene così: lui ha le sue bamboline da riverire come dee e loro hanno una fonte quasi inesauribile di denaro, un bell’uomo con due braccia forti e sono tutti felici. Insomma, di donne ne ha avute dopo di me, e si è innamorato di tutte quante, quindi io li conosco gli occhi di Anis quando va in quella direzione. Ora è qui seduto di fronte a me e per raccontarmi Bill Kaulitz mi ha detto solo quanto pesa e quant’è carino. E io non so se prenderlo per il sedere perché si è lasciato di nuovo affascinare da un bel faccino, o perché il faccino è quello di un maschio.
“Senti un po’ qua, Cassie,” mi dice intanto lui, segno evidente che non ha capito niente di niente di se stesso, ancora. “Mi raggiunge, io lo guardo, l’ho visto solo in tv fino a quel momento. Quindi mi sorride, e mi chiede se mi ricordo di lui, che ci siamo visti a non so che premiazione. E allora me lo ricordo sì, ma non è che ci siamo visti. Ci siamo incrociati un secondo, tipo. Comunque iniziamo a parlare, ed è simpatico. Un ragazzino intelligente.”
Di queste descrizioni di Bill, Bushido me ne fa a centinaia nei mesi successivi. Da ragazzino intelligente, diventa sveglio, poi affascinante. E in fine, Cassandra, Bill è veramente un tipo interessante. Che è l’inizio della fine.
Una sera mi irrompe in casa alle due. Ha gli occhi lucidi, quindi ha bevuto e come entra lo mando a parcheggiarsi sul divano con un caffè, anche perché altrimenti si addormenta e io domani ho qui mia madre e le verrà un infarto se lo vede. Pensa di essersene liberata per sempre. “Cassie, ho un problema.”
Bushido non ha mai problemi, soltanto situazioni da risolvere. Quindi se ti dice che ha un problema, allora ce l’ha. Io sospiro e mi siedo. “Che succede?”
“E’ Bill.”
Negli ultimi tempi, si sono visti moltissimo. Quando il ragazzino non era in giro circondato da adolescenti e Bushido non era chiuso in sala di registrazione a balbettare testi per i quali palesemente non ha abbastanza fiato, erano insieme. Tutto super-segreto perché il bambino d’oro della musica tedesca non può certo incontrarsi in pubblico con il rapper brutto e cattivo, quindi sono stati costretti ad incontrarsi alla Villa Gialla, cosa che ha reso il tutto molto più intimo. “Che cos’ha combinato Bill?”
“Ci ha provato.”
Io lo guardo. “Cosa?”
Bushido annuisce, serissimo. “Eravamo a casa e stavamo guardando un qualche film assurdo che mi ha portato – non ti so dire cosa fosse, non è importante – e abbiamo bevuto un po’.”
“Anis c’è abbastanza materiale per scatenare l’inferno mediatico.”
“Certo, ti vedo andare da Sascha ad avvisarlo che intrattengo nella mia villa minorenni che poi faccio ubriacare per approfittarmene. Ti dispiace farmi continuare?”
“Prego,” lo invito. Voglio proprio vedere dove andiamo a parare.
“Stavamo parlando e stavamo benissimo. Prendevamo in giro LaFee e Bill mi raccontava di quanto sia isterico il suo manager. Poi gli ho detto che era carino-“
“Cosa?” E due.
“Beh lo era!” Si giustifica. “Comunque si è sporto verso di me e mi ha baciato.”
Alzo gli occhi al cielo. Certo poteva arrivarci, dico.
“Ma che ne so!”
“Che ne sai? Anis, ti veniva dietro, era palese.”
“Sì ma io non andavo dietro a lui, era palese anche questo,” mi dice. Io sollevo soltanto un sopracciglio ma poi non parlo. Non spetta a me dire ad un uomo che la sua eterosessualità sta vacillando.
“E che cos’hai fatto?”
“Quello che dovevo fare. L’ho rispedito a casa con un taxi,” sospira lui. E io lo sapevo che di quel sospiro dovevo preoccuparmi, perché è stato quello a portarci alla notte degli hamburger. Bushido, di quella notte, non si è risparmiato un dettaglio. So tutto, so anche troppo e forse Bill non sa quanto so. In ogni caso non lo ripeterò perché, sinceramente, non è che mi interessi molto.
Quello che è importante da dire, è che io c’ero quando Bushido ha davvero capito di essere innamorato di Bill. Si è seduto su quello stesso divano e mi ha guardato con due occhi neri e felici che non glieli vedevo addosso da un sacco di tempo, e mi ha detto che il ragazzino c’era riuscito. Il resto lo sapete.
La notte in cui è morto, io non riesco a ricordarmi dov’ero. E questo particolare, questo non riuscire a focalizzare i dintorni di dove mi trovassi quando Eko mi ha telefonato, mi ha sempre dato fastidio. Nel corso dell’ultimo anno ho superato tutto quanto, la sua morte, il dolore, tutto davvero, ma c’era quel minuscolo particolare che mi rodeva il cervello. E non so perché fosse tanto importante, forse perché mi sembrava che a non ricordarlo, gli mancassi di rispetto. Che a non ricordare il luogo, non avrei ricordato la data.
Quando andavo a trovarlo al cimitero e guardavo la sua foto, me lo immaginavo a chiedermi: Cassie che stavi facendo mentre io morivo? E io non avevo nessuna risposta da dargli. E senza quella risposta, mi dicevo, non avrei potuto contare il tempo che stava passando dal momento in cui si era spento. La sua morte era una specie di esplosione che aveva avuto luogo da qualche parte nel mio passato, chissà dove, chissà quando. Forse avevo paura che sparisse come una data poco importante della mia vita, quelle che ti dimentichi perché non le associ a niente che abbia una qualche rilevanza. Il mio primo appuntamento dal dentista? La prima volta che ho colto un fiore? Non lo so. Quando è morto Bushido? Non lo so. Ma è morto e io non c’ero. Ovunque fossi, non ero con lui.
Ricordo solo la telefonata.
So che Eko si è occupato di avvertire tutti, quella notte. E al sorgere dell’alba nessuno di noi stava più dormendo. Non sono andata all’ospedale.
Mentre sua madre urlava che glielo facessero vedere e Bill aveva smesso anche di muoversi, io ho parcheggiato l’auto di fronte alla Villa Gialla. E ho pianto lì. Mi sembrava che fosse il posto in cui forse potevo trovare ancora qualcosa di lui. Là dentro non ci sono più entrata, nemmeno quando la signora Louise mi ha chiamata perché avevano trovato qualcosa di mio. Ho chiesto a Chakuza di recuperarlo per me.
Da quel momento in poi, che lo volessimo o no, la vita è andata avanti comunque. Noi ci riunivamo agli studi e ci prendevamo cura di Bill che per i primi mesi non ha fatto altro che piangere, provocando le reazioni infastidite di Eko, il quale non è affatto cattivo, ma è molto sensibile su certe cose. E’ abituato a stare fra maschi che si prendono a manate sulle spalle, che sparano cazzate e vivono il dolore in maniera molto chiusa. Lui fa il cretino, e gli altri ridono. Uno così serve sempre, perché se sei felice e ridi è okay. Se sei triste e ti fanno ridere, va ancora meglio. Con Bill però non poteva fare così.
La principessa era fragilissima, viveva in bilico su quella fossa che tutti evitavamo. Mi viene da pensare che ci guardasse spesso dentro nella speranza di veder spuntare il viso di Anis. A volte ce lo vedeva, forse. E vacillava. Dovevi andarci piano con Bill, pesare ogni parola. C’erano giornate in cui sorrideva e mangiava con noi, sembrava star bene quasi. E giocavamo, magari. Poi all’improvviso qualcuno diceva o faceva qualcosa e lui crollava, senza un motivo apparente. E non sapevi nemmeno cosa fosse successo. Si copriva il viso con le mani, si rannicchiava sul divano e non potevi fare niente perché non voleva essere toccato né consolato. Era lì che Eko prendeva la sua roba e se ne andava, non importava che fosse allo studio da cinque minuti o da tre ore. Se Bill piangeva, lui se ne andava, e lo faceva per evitare di fare danni. Non avendo una misura in cui rientrare con le parole o con i gesti, rischiava di fare del male a Bill. Eko è uno buono ed è uno abituato a stare bene con le persone. Con Bill ha fatto una fatica assurda ad entrare in contatto quando Bushido era vivo, e quando è morto della principessa non c’era più traccia. Solo pezzi di Bill da rimettere insieme. E lui non era il tipo. Eko non è quello che ti tira su quando ti frantumi, lui è l’elefante nella cristalleria.
Quindi spariva, prima di sbriciolare del tutto la principessa.
La svolta, nel bene o nel male, l’abbiamo avuta con TRL. La puntata della trasmissione è stata disgustosa, e ve lo dice una che l’ha seguita da casa e ha notato tutte le espressioni falsamente contrite di Patrice e i primi piani strategici sugli occhi di Bill. Era tutto montato nel modo migliore per rifilare al mondo la struggente storia dell’uomo del ghetto che si fa strada nella merda con le unghie e con i denti, e poi incontra la signorina bene che diventa l’amore della sua vita. Zucchero e caramello da copertina patinata e quel pizzico di morboso che fa sempre bene – Quindi tu eri ancora minorenne quando questa storia è cominciata! –, quando invece fra loro era una roba complicatissima. E c’erano volute le palle di entrambi per tenerla in piedi alla faccia di tutti.
Il ferimento di Chakuza è andato in onda praticamente un quarto d’ora dopo, in edizione speciale del telegiornale. Le foto di Bill con le mani sporche di sangue che piange sul corpo di uno degli uomini di Bushido hanno fatto il giro del mondo per mesi. Senza contare Fler che prende in mano la situazione prima ancora di Jost – un fatto più unico che raro – e che agli occhi di milioni di ragazzine si trasforma da “bastardo, traditore, assassino dell’amore della vita di Bill, anche se la polizia lo ha scagionato” a cavaliere in armatura scintillante. L’ascesa di Fler nell’immaginario collettivo adolescenziale femminile delle fan dei Tokio Hotel è un caso da studi sociologici. Per settimane sui forum di queste bambine isteriche non compare nient’altro che la cronaca di come il nemico di Bushido ha caricato Chakuza sull’ambulanza e ha dato direttive mediche che neanche George Clooney in ER.
A questo seguono una serie di teorie, una più strampalata dell’altra in cui queste quindicenni impazzite – che dal pop travestito da rock di Bill sono tracimate come un fiume in piena nel rap dei bassifondi tedeschi di Bushido & co. – tentano di capire le dinamiche che hanno portato due uomini, Bushido e Fler, a mandarsi a fanculo dopo un’amicizia fraterna e come altri due uomini, Fler e Chakuza, si siano trovati a fare da angeli custodi al loro angelo del pop-rock. Come da questo si sia arrivati al Flerkuza non lo so e non lo voglio sapere, ma ci siamo arrivati. Ed Eko che ci insegue ovunque tentando di propinarci gli stampati di centinaia di storie è stato un’esperienza traumatizzante per tutti. Ho anche ben chiara in testa l’immagine di Fler che fugge dalla stanza d’ospedale di Chakuza non appena Eko apre bocca per raccontare l’ultimo capitolo di non so quale dramma umano che lo vedeva coinvolto con Peter. Bei momenti, non c’è che dire.
Ad ogni modo, la trasmissione e l’assalto mancato hanno fatto sì che ci scuotessimo tutti quanti un po’. Era ora che la smettessimo di fingere che Bushido sarebbe entrato da quella porta e recuperassimo le nostre vite da dove le avevamo lasciate andare. Continuavamo, sì, ad andare allo studio ma non così spesso e non tutti quanti insieme, finché alla fine tutto non è tornato come prima: la gente andava e veniva, qualcuno faceva finta di lavorare, ma non eravamo più lì per lui. Ed è anche giusto, da un certo punto di vista. Non puoi oggettivamente smettere di vivere quando muore qualcuno, non puoi e basta perché non sei stato tu a morire. In questo caso non era morto nemmeno lui, ma noi non lo sapevamo. Questo ha fatto bene a noi, ma non ne ha fatto a Bill.
Lentamente, complice il fatto che doveva tornare a lavorare – la Universal ti concede solo una certa quantità di tempo per rimetterti dai tuoi traumi, indipendentemente dal trauma – si è rinchiuso in casa, con l’unica compagnia di Tom e saltuariamente di Fler che per un motivo che poi ho scoperto in seguito, aveva preso il posto dell’onnipresente Chakuza.
E’ stato un brutto periodo, per lui.
In tutto questo, io e Tom siamo finiti insieme. Dunque, la cosa in realtà parte da prima, come sempre del resto. Io Tom l’ho conosciuto quando Bill è entrato a far parte del branco. Diciamo che è stata la conseguenza naturale del conoscere Bill. Questo dopo che lui e Bushido si erano già ampiamente scornati. Ricordo che Anis veniva a casa mia a lamentarsi perché quel ragazzino – no, non il mio Cassie, l’altro – era insostenibile. Insostenibile, così diceva, con un tono molto severo, come si stesse parlando di insubordinazione militare o che so io e non certo di una crisi di gelosia da abbandono. Tom è legatissimo a suo fratello e Bushido ha preso e gliel’ha portato via come ha sempre portato via tutto ciò che voleva. Era normale che Tom lo odiasse, ed era normale che Bushido si sentisse autorizzato a fare tutto quello che aveva fatto e che pretendesse anche che lo lasciassero fare come niente. Per questo lo lasciavo parlare, che tanto non c’era nient’altro da fare.
In questo periodo in cui Bushido usciva con Bill e io mi sorbivo tutte le confidenze di Bushido, improvvisamente tornato tredicenne, Tom non ha fatto niente, se si escludono le occhiate da triglia che mi lanciava ogni volta che ci capitava di incrociarsi. E tanti saluti al dio del sesso. Ogni volta che eravamo nella stessa stanza, faceva lo splendido con discrezione, nel senso che ovunque andassi me lo ritrovavo a portata d’occhiata. Non parlava, mi guardava e basta e, occasionalmente, mi dedicava questi ghigni da gangster, tutti di traverso con i quali, suppongo, avrei dovuto cadergli ai piedi o che so io.
Ad ogni modo, c’è stato questo periodo in cui continuavamo a sorriderci, lui perché è fondamentalmente timido e quindi deve accerchiarti da lontano, non viene lì e la prende di petto, e io perché non avevo motivo di non farlo. Non pensavo davvero che sarebbe finita in questo modo, sinceramente. Poi Bushido è morto, non ci siamo visti per un po’ e lui è finito a tenere suo fratello chiuso in casa, per paura che il mondo là fuori se lo mangiasse pezzo per pezzo. Quando mi è capitato di rivederlo, non gli ho permesso di sorridermi e l’ho baciato. Perché era anche l’ora di finirla.
Questo per spiegare perché adesso sono qui alla Beatlefield. Io sono qui perché aspetto Tom, che è qui perché Fler deve dargli qualcosa e Fler è qui perché c’è arrivato con Chakuza. Se penso che posso chiudere la catena parlando di Bill, mi viene quasi da ridere.
La Beatlefield non è molto grande, sono tipo due stanzette, tre contando quella dove i due proprietari si svaccano a turno quando fanno le ore piccole per stare dietro a qualche beat. Ed è un casino totale. Non perché sia piccola, ma perché è in mano a Chakuza. Quell’uomo ha la capacità di occupare sempre ogni centimetro dello spazio di cui dispone. Suppongo sia un qualche tipo di compensazione per lo spazio che non occupa lui personalmente. Ad ogni modo non c’è spazio per sedersi e non c’è spazio nemmeno per stare in piedi. Tom è entrato e mi ha mollata qui dove sono, cioè nel disimpegno fra una stanza e l’altra dove, in ordine, ci sono un divano che fa le veci dell’attaccapanni, un tavolino con quintali di bottigliette di plastica che sommergono un telefono a disco nero, dell’anteguerra e un non so davvero cosa appeso al muro. Cerco con gli occhi qualcuno da salutare, tanto per fare qualcosa, che poi sono due stanze, mi chiedo dove sia corso così di fretta Tom. Fler non può essere che dietro l’angolo.
Fler non lo trovo, ma trovo Chakuza che è seduto dietro ad un mixer che prende tutto il tavolo a cui è seduto. Sembra impegnato, quindi entro piano. L’altra metà della stanza è divisa da un vetro e dalla sala di registrazione. Là dentro però non c’è nessuno.
Dopo cinque minuti che sono lì, e volendo avrei potuto anche aggredirlo con una chiave inglese e tramortirlo, per dire – la Beatlefield non ha un portone d’entrata. Cioè il portone c’è ma si apre con una carta di credito, c’è riuscito Tom stamattina, perché il campanello non funzionava, e Fler non rispondeva al cellulare, panico!, quindi figurati. Potevo essere io, come poteva essere uno stronzo qualunque e Chakuza era bello che andato – alla fine si rende conto che c’è effettivamente un’ombra scura alle sue spalle.
“Cassie!” Si toglie le cuffie e sorride. Gli si muove la faccia, quando lo fa. E’ rotondo e mobile, quest’uomo qui. “Ciao, come va?”
Mi abbraccia e mi bacia, prendendomi per gli avambracci, quindi sposta le cianfrusaglie che occupano la seconda sedia girevole e mi invita a sedermi. Non si giustifica nemmeno per la confusione che c’è, per lui è un normale stato di cose. Il caos è la sua condizione esistenziale.
“Bene direi, “ commento con un sospiro. Cerco un posto per appoggiare la borsa e poi decido che me la tengo in grembo. “Tu?”
“Alla grande,” sorride. “Vuoi qualcosa da bere? Forse c’è della coca.” Con orrore lo osservo frugare tra un esercito di bottiglie di plastica sul pavimento.
“No grazie,” sparo lì e poi, siccome sono stata brusca sorrido. “Sono a posto così. Tom ha insistito per fare colazione prima di venire qua.”
Lui annuisce e rimette a posto una bottiglia che ha passato probabilmente troppo tempo in quella sala di registrazione. Qualcuno dovrebbe dire a Chakuza che le bibite gassate non vanno fatte invecchiare come vini del ’75. E dire che è un cuoco.
“Come mai siete qui?”
Io alzo gli occhi al cielo. “Fler,” rispondo. Patrick Losensky, per me, è una maledizione. Non lui in quanto lui, per carità. Fler è, tipo, la persona più buona che circoli da queste parti, davvero. E’ uno che se può fare qualcosa per te la fa, anche nelle stronzate. Per dire, è l’unico che se ceniamo tutti quanti insieme, si ricorda che forse quaranta fra piatti e scodelle sarebbe meglio non lasciarli nel lavandino. E lava. Lava i piatti. Per una donna sola circondata da maschi iper-testosteronici che non si azzarderebbero mai a prendere in mano una spugna, Fler è un miracolo divino. Uno così arrivi ad amarlo, capite? Sempre in senso metaforico, s’intende. Anche perché: uno, il berlinese dagli occhi di ghiaccio non è il mio tipo. E due, credo che questo sarebbe l’unico vero motivo per cui Bushido non mi rivolgerebbe mai più la parola.
Ad ogni modo, se, nonostante questo, Patrick Losensky è comunque una maledizione, è colpa di Tom. Tom lo venera in maniera quasi imbarazzante. Se si attacca a parlare di musica, lui non vede né sente nient’altro. Fler. L’Aggro Berlin. L’Aggro Berlin e Fler. Credo che quella che era nata come una semplice adorazione da ragazzino sia diventata una specie di ripicca per suo fratello, o qualcosa di simile. Bill se la faceva con l’Ersguterjunge? Bene, allora lui ascoltava solo l’Aggro, che ci sarebbe stato da fargli notare, ai tempi, che a Bill di chi ascoltasse non gliene importava un tubo. Tantopiù che la connessione tra Bill e il rap finiva làddove iniziava Anis, quindi insomma…
Ad ogni modo, quando poi Patrick è migrato dalle nostre parti, ed è diventato amico di Bill, Tom era già così preso che non poteva rinnegare niente. Anzi, si è fatto prendere ancora di più. Quindi adesso siamo qui perché Fler gli ha promesso – dio solo sa perché – di recuperargli non so quale mixtape che ancora non fa bella mostra di sé nell’altarino a lui dedicato a casa di Tom. E io che gli sto dietro, anche.
“Oh, si certo,” Chakuza annuisce. “Fler me lo ha detto. E’ venuto qui a riversarlo su cd. Era una roba dell’anteguerra, mi aspettavo che venisse a suonarmelo in sala di registrazione col mandolino, non lo so.”
Rido. Quasi me lo immagino Patrick col mandolino.
“Credo che quella cassetta l’abbiano sentita soltanto lui e Bushido, il giorno in cui hanno registrato le canzoni. Poi qualcuno, fortunatamente, ha impedito loro di pubblicarle.”
“Sei un uomo tremendo.”
Lui solleva entrambe le sopracciglia un paio di volte, velocemente. “Me lo dicono in tante,” poi ridacchia. Gli si alzano gli zigomi e gli occhi diventano piccoli, e io mi chiedo da quando ho preso l’abitudine a guardare tutti questi dettagli. Poi capisco che è sempre la solita storia. Quando perdi qualcosa, tutto ciò che resta te lo tieni stretto. Questa gente è il mio mondo, quindi voglio saperlo a memoria. Qualcosa del genere. Magari non conoscerò così bene Chakuza da farmi dire da lui cose che in realtà ho già ben capito da sola, però lo conosco, so come si muove. So che era il braccio destro di Anis, e non c’è altro da sapere, in realtà, su di lui. Poi, nell’attimo esatto in cui penso questo, Stickle urla dall’altra stanza – che presumo sia quella dove si trova anche Tom. Boh.
“Chaku, al telefono!”
“Chi è?”
Stickle ride. “La principessa.”
Chaku a quel punto ci mette meno di niente a tradirsi. Cioè, io oggettivamente, in quel preciso momento della mia vita, non lo so che Chakuza e Bill stanno insieme. Non lo so perché non l’hanno detto e perché, da quando Peter è stato ferito, io li vedo molto meno. Per dire, non passavo dalla Beatlefield da mesi e il tempo che Chakzua passa all’Ersguterjunge gli serve a tentare di convincere gli altri a non cercare un nuovo tunisino che conquisti la Germania, per cui, insomma, non ho avuto molte occasioni di sentirlo o vederlo con Bill.
Ce l’ho ora il tempo, però. E se unisco le immagini mentali che ho di lui prima di TRL e del modo in cui parlava e toccava Bill quando stava male, allora qualcosa mi suona nel cervello.
“Ehi,” quando risponde al telefono, si distende tutto e mette su un sorriso da triglia che è tale e quale quello di Tom poi. Alzo gli occhi al cielo e penso che dev’essere una questione di cromosomi. Lui sta parlando al telefono fisso, ha preso la chiamata da qui, quindi non si può alzare e certo non può chiedere a me di levarmi di torno. Quindi la telefonata la sento tutta. Bill ha la voce squillante, il suo pigolare lamentoso e annoiato da principessa senza niente da fare un po’ arriva anche a me. Bill ce l’ha questa cosa, di fare davvero la principessa a volte. E’ che è circondato da uomini che lo hanno viziato tantissimo, quindi lui se ne approfitta, come farebbe ogni donna, per altro.
E questo uomo qui, in particolare, lo ha sempre viziato in maniera indecente, anche quando non era affatto in odore di tresca.
Chakuza resta sul generico, comunque. Risponde per monosillabi e per ‘stai tranquillo’ e ‘decidi tu’. Ma gli brillano gli occhi tipo. Quando riattacca si schiarisce la voce e cerca di ritrovare un contegno, ma è discretamente difficile se stai camminando a dieci metri dal pavimento.
Io non posso seriamente dirgli quello che penso, perché non sono affari miei e poi potrei sbagliarmi – certo, come no! – però sarebbe bello prenderlo un po’ in giro. Penso che se lo sapesse Anis, lo farebbe a pezzi. Geloso com’era delle sue cose, non permetteva a nessuno di toccarle neanche quando le aveva lasciate andare. Prendete me, per dire. Il primo ragazzo dopo di lui, lo ha minacciato pesantemente. Ho dovuto picchiarlo perché la piantasse di fare il gradasso. Quindi se mi immagino un universo parallelo in cui Bushido ha lasciato Bill e lui si è messo con Chakuza, mi immagino anche Bushido che lo ammazza di botte senza motivo.
E in quel momento non lo so che lo saprà, e che lo pesterà, anche. Non lo so che il mio nome, alla fine, mi si adatta alla perfezione. Il massimo che posso immaginarmi è che Anis sia seduto su una nuvola a mangiare kebab insieme a Dio e che osservi tutto dall’alto. Me lo vedo che vorrebbe scendere e che il sant’uomo lo recupera per il colletto della tunica bianca prima che si butti di sotto senza paracadute.
Voglio dire, è sempre più probabile questo che non Anis che un giorno torna da Miami con venti centimetri di riccioli scuri e dice ‘Scherzo! Non sono morto!’.
Che poi è quello che ha fatto, in realtà.
L’uscita di Bravo con le sue foto sfocate in copertina, le mie urla e Tom che mi dice che è vero – ancora più stranito di me, perché lo ha sentito dalle labbra di suo fratello – però, ve lo risparmio. E’ stata una settimana tremenda, comunque. Provate a rendervi conto che la persona più importante della vostra vita non è morta. Dovete prima capire che quello che vi viene detto è reale. Poi dovete concepire che la persona in questione è fisicamente presente nel mondo. Non è facile, perché l’ultimo anno lo avete passato a farvi una ragione dell’esatto contrario.
Quindi niente, quel giorno, e mancano pochissime – davvero pochissime – ore al ritorno di Anis, io a Chakuza non dico niente. Mi limito a lanciargli un’occhiata allusiva che lui coglie alla prima, perché diventa viola ma poi basta. Tom mi raggiunge, parlando ancora con Fler che lo ascolta solo perché, probabilmente, le sue orecchie si sono autonomamente scollegate dal cervello mezz’ora fa e quindi ce ne andiamo.
Rivedere Anis è stato complicato. Voglio dire, dopo che l’ho schiaffeggiato per la cazzata che aveva fatto, il cuore mi è tipo esploso in petto. Poterlo toccare, accarezzare, poter trovare irritanti le sue battute, era tutto troppo bello. Quando passi mesi a sperare che entri da una porta e non lo fa, quando poi torna e non doveva – non poteva, cazzo! – beh è bellissimo e basta. Solo che quell’uomo è fuori posto, ora. Tutto quello che ho detto fino a questo momento era vero dentro i parametri della sua vita precedente, quando pendevano tutti dalle sue labbra perché le sue labbra c’erano e ti ci potevi appendere.
Nel momento esatto in cui si è finto morto e noi tutti abbiamo creduto che fosse disteso con quella bella faccia da schiaffi sotto due metri di terra, dovevamo trovarci un’altra testa da seguire o non seguirne affatto. Ed è quello che è successo.
Io lo so che Anis questo ragionamento non lo ha fatto. Cioè magari si, in qualche remoto angolo del suo cervello questa discussione con sé stesso è avvenuta ma lui non l’ha veramente ascoltata. La decisione di morire l’ha presa su due piedi e le motivazioni che ci stanno dietro posso anche capirle – forse, non lo so. Io mi sono sforzata in questi giorni di non sentirmi abbandonata e presa per il culo – ma avrebbe dovuto rendersi conto proprio perché perdeva tutto, che tornare non doveva essere un’opzione.
Quando mi si presenta a casa, stasera, è esattamente questo che vorrei dirgli ma non posso perché ad un uomo non puoi dirla una cosa così e allora niente. Lascio che si stenda sul divano e finga di stare bene anche quando è chiaro che non sta bene per niente. Tom mi ha detto cos’è successo.
“Immagino che tu lo sappia,” mi fa lui, mentre prende la bottiglia di birra che gli offro per il collo. Annuisco, ma non dico niente. “Sapevi tutto anche prima?”
“No. Anis-“
Lui sorride. “Non ho bisogno di questa parte del discorso. Ci ha già pensato Patrick,” getta la testa all’indietro per bere un sorso. Lo fa con un certo trasporto, è una scrollata di spalle come a dirmi che non gli importa. “Conosco Bill, conosco Chakuza…”
E adesso non sa cosa fare.
“Ci vorrà un po’ di tempo,” mormoro. E spero che capisca che mi riferisco a lui e non a Bill.
Anis non risponde, continua a bere e a guardare un punto indefinito del mio soffitto dipinto di viola. “Con cosa l’hai dipinta quella parete, con lo sparaneve?” Mi dice.
“L’ho fatto da sola,” mi giustifico, e non so nemmeno perché. E’ casa mia, lo dipingo come voglio il soffitto. E non è stato affatto facile stare lì in piedi sulla scala col secchio in mano. Sono molto orgogliosa di me stessa per esserci riuscita, nonostante la doccia di vernice.
“Si vede, “ commenta lui con aria disgustata. “Guarda le macchie che ci sono. Dovevi tirarlo a gesso prima. Sei sempre la solita casinista. Questo fine settimana vengo qui e lo sistemiamo.”
“Magari io questo fine settimana ho anche degli altri impegni.”
Lui mi guarda e capisco che non devo avere niente da fare questo fine settimana o non so dove lo ritrovo lunedì. Bushido è uno che si sa regolare finché ha qualcosa per cui vale la pena farlo, ma quando non ha più niente, è capace di distruggersi. “Va bene, puoi venire qui sabato mattina.”
“Il rullo ce l’hai?”
Annuisco. “E’ giù in cantina. Credo sia rimasta anche un po’ di vernice.”
Lui beve e annuisce, guardando davanti a sé.
Poi si volta e sul suo viso non c’è assolutamente niente, è l’espressione che più temo su di lui. Il momento in cui gli si spengono gli occhi è quando è difficile riprenderlo. “Ti dà fastidio se dormo qui?”
Scuoto la testa. “Ho ancora un po’ di cose tue,” mi stringo nelle spalle. “Puoi cambiarti con quelle, poi.”
Lui fa un mezzo sorriso sghembo. “Magari cominciamo domani,” mormora. “Con il soffitto, dico.”
“Magari sì.”
So che ieri ha dormito da Fler, perché non era a casa sua e non era nemmeno a casa di sua madre. “Ti prendo una coperta,” mi alzo.
So che da qui non riuscirò a mandarlo via.

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You were always on my mind

di tabata
A volte penso che tutto ciò che è successo fosse già previsto. Non da Anis, ovviamente, ma dal destino, o da Dio, o da qualunque altra entità che se ne stia lì, nell’alto dei cieli, a decidere delle nostre vite senza che noi possiamo metterci bocca. Voglio dire, sarebbe stato già abbastanza difficile gestire la situazione tra me, Anis e Peter per come si era presentata dopo il ritorno di Anis: con me in mezzo a loro senza poter decidere; ma essere costretto a girare un video con Anis, e peggio ancora, doverlo girare insieme ad entrambi e costringere Peter ad assistere mentre fingevo di fare sesso con Anis è stato decisamente troppo.
Nessuno di noi tre ha colpa in questo senso, e nelle scelte fatte per questa collaborazione la Universal ha dimostrato una quantità di sadismo involontario tale che c’è da chiedersi se questo Dio, davvero, non si stia divertendo, e in tal caso bisognerebbe dirgli di smetterla, perché io sinceramente non credo di poter andare avanti ancora per molto. Anzi lo so. E so anche che lui, il Dio intendo, non la smetterà affatto, perché non ha smesso neanche dopo la fine del video; se lo avesse fatto, io adesso non sarei qui a fare quello che sto facendo. Quindi mi chiedo quanto altro ancora voglia giocare, questo Dio, se siamo arrivati a questo e ancora non ci fermiamo.
Potrei anche dire che quest’entità ha smesso di operare sulle nostre vite giusto un secondo prima che iniziassimo a rovinarcele da soli, che poi è più o meno adesso, ma visto il casino che siamo, è più facile pensare di non aver avuto grosse alternative. Io lo sto pensando adesso mentre parlo con Peter, l’ho pensato quando Anis ha parlato con me. Quindi in qualche modo è vero, o è stato vero per un certo periodo di tempo.
Le riprese del video sono state il periodo più orribile che io abbia mai trascorso, se si escludono i mesi successivi alla morte di Anis. In quattro giorni di riprese – tanti ce ne sono voluti per gestire tutto, perché Hans è diventato isterico a metà storyboard e noi non eravamo da meno – Anis non si è mai risparmiato di mettermi addosso le mani, e Peter non ha fatto che incazzarsi e alternativamente prendere la macchina e andarsene per ore, oppure urlarmi addosso quand’eravamo soli e io non avevo neanche modo di rispondergli, perché in fondo aveva ragione e dirgli che ero confuso sarebbe servito a poco, quando tutto ciò che vedeva era Anis che mi toccava e io che non lo allontanavo abbastanza deciso. Ho rischiato di perderlo in un paio di occasioni, ed era quando mi accorgevo che non volevo affatto che il guaio ricominciava daccapo. C’era Anis da una parte e Peter dall’altra e io non volevo lasciare andare nessuno dei due.
Dopo le scene sul letto, Hans ha voluto girare le scene tra me e Bushido. Peter ha voluto comunque essere presente, e di nuovo è stato un disastro. Se il regista non sentiva abbastanza intimità tra noi due, dava di matto; se ce ne mettevamo la quantità sufficiente per il regista, dava di matto Peter e io non sapevo più come riprenderlo quando non mi voleva neanche parlare.
Durante le pause era un delirio, e nel camerino non era da meno. E la stessa cosa è successa quando è toccato a Chakuza girare le sue scene. Ho chiesto a Bushido di andarsene, ma figurarsi se ha voluto, e così loro non hanno mai veramente smesso di litigare, e io di ritrovarmi in mezzo, senza sapere che accidenti fare quando ci mancava poco che mi tirassero per un braccio per trascinarmi a casa entrambi.
Il fatto è che Bushido è insofferente alle regole imposte da qualcun altro che non sia lui, quindi tu non puoi dargliene una e sperare che la segua davvero. Avevo chiesto una tregua, ma sapevo che non l’avrebbe rispettata perché lui non rispetta niente se crede che fare qualcosa gli spetti di diritto. Io ero suo prima che morisse, ero suo mentre era morto e sono suo adesso che è tornato. Nel suo ragionamento non c’è spazio per tutti quei diritti che io ho dato a Chakuza e che Chakuza, per altro, meritava e non si è preso di prepotenza. Per certi versi io capisco Anis, perché lo conosco e so com’è che mi vede lui – mi lusinga il modo in cui mi vede – ma non per questo posso cancellare quello in cui credo oltre a lui. Non è così che funziona. E lui lo sa, me l’ha insegnato lui che quando prendi le tue decisioni e fai le tue scelte, devi farlo col cuore e, quando lo fai, devi essere conscio di ciò che significa. Se ti rimangi la parola con niente, le tue scelte non valgono un cazzo. Lui lo sa, lo sa benissimo, è per questo che insiste solo fino al limite e non oltre. Quello che vuole è che io pensi, scelga, e decida; ma che lo faccia col fottuto cuore.
Solo che il mio cuore, al momento, è impegnato a non esplodere, quindi non ce la fa a decidere. Ho chiesto una tregua e sapevo che lui non l’avrebbe rispettata, speravo almeno lo facesse Chakuza, perché lui alle regole ci sta. Solo che non avevo fatto i conti con la territorialità e col fatto che si sente giustamente minacciato. Quindi ha rotto la tregua nel momento in cui Bushido l’ha rotta, e in due – come i due arieti che sono – hanno immediatamente smesso di pensare a me, per concentrarsi su come prendersi a cornate l’un l’altro.
Quello che ne è seguito, ovviamente, è stato Bushido che mi attaccava al muro, io che ci perdevo la testa. Chakuza che mi sentiva l’odore di Anis addosso, e si riprendeva quello che era suo, riportandomi la testa dove stava prima. Questo finché Fler e Tom, che si sono beccati tutti i miei sfoghi, non hanno preso a portarmi via con loro e con le ragazze, ogni volta che finivamo di girare, di qualunque cosa si trattasse. Fossero dieci minuti o venti, mi permettevano di respirare un po’.
Dopo il video, in effetti, pensavo che le cose si sarebbero sistemate almeno un po’, che avremmo avuto di che calmarci e capire. Ho chiesto a David una pausa prima della promozione che, sapevo, ci avrebbe portato via un sacco di tempo e di energie e ci avrebbe di nuovo rimessi tutti nella stessa situazione perché questa canzone – questa stupida Prinzessin – non era altro che il primo passo della Universal verso questo delirio che ci comprendeva tutti e tre e avrebbe portato delle ospitate, e delle interviste, ci avrebbe portati in tour e non volevo che succedesse senza averci capito qualcosa. David mi ha concesso solo una settimana, intanto che montavano il video e lui si metteva d’accordo per tutto ciò che poi avremmo dovuto fare.
Chakuza mi ha chiesto di stare con lui in questi giorni e io non gli ho detto di no, perché volevo e perché lui sembrava amareggiato, per come si era comportato e per come mi ero comportato io. Così ho pensato che forse, stando da solo con lui per un po’, come avevamo fatto prima di questo immenso casino, avrei capito qualcosa. Chakuza voleva che andassimo in montagna, ha una casa di famiglia in Austria, ma David non voleva che lasciassi lo stato – forse aveva paura che fuggissi con lui, vallo a sapere – così ci siamo chiusi in un albergo appena fuori città.
Peter non ha mai davvero fatto lo stronzo con me durante questi nove mesi. Voglio dire, quando ci siamo messi insieme, io ero abituato ad Anis, che ha uno strano modo di dimostrare considerazione. Non è gentile, non è delicato. E’ molto brusco in quasi tutti i suoi aspetti, quindi capitava a volte che ci scontrassimo anche violentemente e che lui, pur di vincere lo scontro, diventasse cattivo. Ecco, Chakuza queste cose non le ha mai fatte, non è mai stato brusco con me, mai nemmeno lontanamente ironico. Durante le riprese, però, il suo atteggiamento era diventato simile a quello di Bushido, mi ha rinfacciato qualunque cosa, per questo si sentiva in colpa, e gliel’ho letto negli occhi quando mi ha chiesto di stare con lui.
Quella settimana l’abbiamo passata insieme, ed è tornato ad essere Peter. E io ho ripreso a pensare che andava bene così. Lo pensavo davvero. Lontano dal palco, lontano da tutti, con la possibilità di stendermi su un divano e non sentirmi le mani di Anis addosso, o le urla di Chakuza poco prima che si pestassero, mi sembrava che la soluzione fosse quella. E poi era bello poterlo abbracciare senza che mi annusasse il collo e mi guardasse con quell’espressione. Senza dovergli nascondere i morsi di Anis. Era semplicemente tutto giusto e tutto al suo posto.
Quando ho bisogno di stabilità, o di capire qualcosa, io ignoro qualunque problema mi si ponga davanti, non importa di che dimensione sia. Per affrontarli ho bisogno di non interessarmene finché non sono loro a farsi pressanti e inevitabili. E’ un meccanismo di difesa, del quale puntualmente mi servo quando non ho alternative. Anis però non te lo dimentichi semplicemente ignorandolo, e io questo tendo a non ricordarlo mai.
Non lo ricordo nemmeno oggi quando il campanello suona e lui è lì davanti alla pulsantiera. Attraverso il bianco e nero della telecamera, la sua pelle ha un tono grigio e compatto e i suoi occhi sembrano ancora più neri e profondi. Guarda dritto verso l’obbiettivo, e mi sorride un po’, come fa lui, che sembra sempre che nasconda qualcosa. “Mi fai salire, Principessa?”
“Anis…” mi lamento, mordendomi un labbro, con la cornetta del citofono in mano.
Lui solleva entrambe le mani. “Vengo in pace, promesso.”
Mentre lo dice, comunque, io ho già aperto il portone. Mi guardo intorno, e quando mi rendo conto che lo faccio con ansia, mi sento anche infinitamente stupido perché nessuno può vedermi.
La casa è vuota, sono solo e so che non dovrei farlo salire perché quando siamo soli, io e lui, facciamo sempre danno. Dovrei sentirmi un po’ in colpa. Chakuza ha dormito qui stanotte, ed era qui stamattina e io non dovrei, davvero… d’altronde, mi dico, non è detto che succeda niente. E so che mi sto mentendo in maniere che un’altra persona nemmeno riuscirebbe ad immaginare.
Con Bushido succede sempre qualcosa, che non significa necessariamente che finiremo a letto, è una questione più sottile. Basta che mi guardi, o che anche solo mi dica qualcosa – basta la voce, a volte. Un tempo succedeva al telefono, quando magari eravamo in due città diverse. Lui mi parlava e bastava quello perché la magia si ripetesse, ed era come averlo lì. Quindi se adesso entra nel mio appartamento mentre sono solo e potenzialmente potrebbe succedere di tutto, magari non succede ma è uguale, perché lui su di me ha un potere enorme.
Fino ad oggi non ci siamo visti e non ci siamo neanche sentiti, sono nervoso perché non so come reagirò quando uscirà da quell’ascensore, anzi lo so. Per questo sono nervoso. Sento lo stomaco che si contorce e l’energia isterica che mi attraversa da capo a piedi costringendomi ad andare avanti e indietro sulle punte dei piedi mentre aspetto di vederlo. Non faccio altro che questo da quando è tornato, ondeggiare tra le punte e i talloni. Tra Peter e Anis. Se mi fermo sulle punte, finirò per sporgermi in avanti, se mi fermo sui talloni, perderò l’equilibrio all’indietro. E’ per questo che rimango nel mezzo, è l’unico modo che ho per non cadere.
Anis è bellissimo nel suo maglioncino di cotone azzurro. Dal colletto spunta una camicia bianca inamidata che sembra quasi brillare contro la sua pelle color nocciola. Mi sorride, ma rimane sulla porta, in attesa di un qualche cenno da parte mia. Ed è una cosa così insolita per lui che qui c’è sempre entrato come fosse casa sua.
Io mi sento a disagio con addosso i vestiti peggiori che ho nell’armadio e i capelli tutti arruffati. Non dovrei affatto preoccuparmi di come sono conciato di fronte a lui, eppure mi sento i suoi occhi addosso e mi dà fastidio che mi trovino così in disordine. Mi sistemo una ciocca di capelli cercando di dissimulare tutto: il disagio, l’irritazione e la voglia che ho di baciarlo sulle labbra che so essere calde e morbidissime. “Che cosa ci fai qui?”
“Non esattamente l’inizio che mi aspettavo,” commenta lui, e quel sorriso non cede di un millimetro, “ma va bene anche questo. Mi inviti ad entrare?”
“Non credo sia il caso.”
Lui guarda oltre la mia spalla, scruta il mio salotto che è un disastro. La signora delle pulizie non viene da una settimana, e io non ho mai rimesso a posto in vita mia. “Lui è qui?” Mi chiede, tranquillo.
Non so che effetto mi faccia sentirlo pronunciare quelle tre parole con un tono senza inflessione, che non so se sia naturale o abilmente falsificato. So solo che sento un brivido al pensiero che Chakuza potesse essere qui e che questi due potessero incontrarsi di nuovo. Che Chakuza potrebbe pure rientrare, prima o poi ed è meglio che non s’incontrino. “No,” mormoro.
“Allora è il caso,” conclude lui. Io però non mi muovo, così lui china un po’ il capo e mi guarda da sotto in su. “Bill?”
Sospiro e mi scosto. “Entra,” borbotto.
Lui ridacchia e passa oltre. “Grazie,” risponde, mentre io chiudo gli occhi contro il suo profumo.
Lo seguo mentre fa qualche passo nel salotto e si guarda intorno. “Hai spostato il divano,” commenta.
Io mi stringo nelle spalle. “Mi ero stancato della disposizione.”
Ho costretto Tom ad aiutarmi tre volte nel giro di quattro giorni, è stato a settembre dell’anno scorso, poco prima della trasmissione. Avevo bisogno di qualcosa da fare che mi tenesse impegnato il cervello e combattesse la mia insonnia; per un po’ spostare mobili è stata la soluzione. Anis non commenta, si affaccia nel corridoio che dà alla camera. “Posso?” Chiede.
Io gli faccio cenno di andare e mi stacco dal muro solo qualche secondo dopo che lui si è mosso. Lo trovo sulla porta della mia stanza che guarda fisso davanti a sé, verso la finestra. E allora mi rendo conto che l’ultima volta che è stato in questa casa è morto.
Lui guarda la stanza, e io guardo lui. Lo vedo tendersi in maniera impercettibile, e stringere le dita intorno allo stipite. Posso immaginare come si senta, anche se non posso saperlo esattamente. Io ricordo il suo corpo immobile sulla barella, e come tutto sembrasse immerso nel sangue. Non so come si sentisse lui, cosa sentisse lui ma forse le nostre sensazioni sono gemelle perché ci sono morto anche io, per qualche istante, in questa stanza.
Entra piano, un passo dopo l’altro, delicatissimo come se ci fossero ancora i sigilli della polizia, e tutti i loro cerchi col gesso intorno ai frammenti più grossi della finestra; mentre Anis raggiunge il letto mi sembra quasi che intorno a lui si muovano sfocati ed evanescenti i paramedici e gli agenti di polizia. L’ispettore che il giorno dopo è venuto a parlarmi. Si spostano tutti intorno a lui, e per la prima volta sono loro ad attraversarlo come fantasmi. Non conto più le volte che ho immaginato lui ad aggirarsi per questa stanza trasparente e impalpabile.
“Che cosa ti ricordi?” Chiede all’improvviso, sfiorando con due dita il cassettone.
“Tutto.”
“Che cosa, di preciso?” Insiste. Non mi guarda, fissa i mobili della mia stanza come se non fossero veramente gli stessi che erano qui quando gli hanno sparato. I suoi occhi guardano il legno dell’armadio e gli infissi come se fossero riproduzioni di ciò che nella sua testa sta di nuovo prendendo forma.
“Tutto quanto, qualsiasi cosa,” rispondo. Improvvisamente questa stanza torna ad essere la stanza in cui lui è morto e io non riesco a fare più di due passi all’interno. Mi sembra di vedere il letto pieno di sangue e la finestra rotta. Mi sembra anche di vedere il suo corpo disteso tra i cuscini, quindi chiudo gli occhi e sto fermo contro lo stipite della porta mentre lui si aggira piano tra le mie cose e tocca ogni oggetto, senza mai staccare le dita dalle superfici. Il cassettone, la parete, il mio armadio nero e lucido, di nuovo la parete e poi il vetro della finestra.
“L’ho fatto cambiare,” dico stupidamente. Come se fosse possibile vivere per un anno con la finestra fatta a pezzi da due proiettili calibro nove. E questo è il segno di quanto tempo è passato e di come mi ha cambiato, il calibro l’ho imparato dopo che ho sparato a Saad con la pistola di Anis, che usa gli stessi proiettili.
“Dimmi quello che ricordi,” Anis sembra non avermi nemmeno sentito, guarda fuori, oppure guarda il vetro, anzi non guarda nessuna delle due cose. E’ perso dentro se stesso. “Io non ricordo quasi niente.”
“Davvero?”
Si stringe nelle spalle. “Ho solo immagini confuse. Ero qui, giusto?”
Annuisco, e mi avvicino. “Appena un po’ più in là.” Ricordo veramente ogni particolare, fino a quello più insignificante. Se fosse vestito com’era vestito allora sarei in grado di riprodurre anche le pieghe della sua maglietta e la disposizione delle macchie di sangue sulla spalla che Patrick aveva colpito. Lo sposto piano, lascio che le mie mani si modellino sui suoi fianchi. “Ed eri girato verso di me, mi guardavi e avevi paura.”
“C’era qualcuno là fuori,” risponde e guarda in terra. S’incupisce e gli si forma sulla fronte quell’unica ruga profonda. Sollevo una mano e lo sfioro appena, gli accarezzo una guancia e lascio che mi stringa per i polsi.
“Hai visto…?”
“No,” scuote la testa. “Sapevo che c’era qualcuno, ma non avevo idea che fosse Saad. E Fler era dall’altra parte della strada, che mi fissava dal marciapiede. L’ho capito subito che non aveva intenzione di sparare.”
Gli volto il viso perché mi guardi e lui ci mette un po’ a spostare gli occhi nei miei. Ha lo stesso sguardo di allora, come se giù in strada ci fosse ancora suo cugino pronto a sparargli. “Ti sei girato verso di me…” Per mesi mi sono costretto a rivivere questo momento preciso, e mi sono sempre chiesto se non fosse stata colpa mia. Io sono la debolezza di Anis. Sono il suo sbaglio, quella notte. L’errore umano su cui si può sempre contare.
“Eri troppo vicino alla finestra,” mormora. “Quando mi sono girato pensavo solo a questo, che eri troppo vicino alla finestra e potevano colpirti.”
“Hanno colpito te, però,” appoggio la mano dove so che c’è ancora la cicatrice, sento la sua pelle calda sotto il maglione e la camicia. “E poi c’è stato il secondo colpo.”
“Alla gamba,” annuisce lui.
“Anche attraverso la mia,” dico e sorrido leggermente, quasi a scusarmi. Lui sgrana un po’ gli occhi. Non lo sapeva, i miei quattro punti e la mia cicatrice che ha la forma vaga di una piccola farfalla…fa tutto parte del dopo. Dopo i paramedici, dopo l’ospedale. Dopo di lui e il suo funerale.
Lui scende ad accarezzarmi la coscia, e io gli fermo la mano là dove in effetti c’è quel piccolo segno. “Non è niente, non ha mai fatto davvero male.”
Anis stringe le dita, ma poi mi lascia andare. “Dopo so che ti ho guardato finché ho potuto. C’è stata la tua voce per un po’ ma non ho visto niente per minuti interi.”
“Ti ho parlato a lungo.”
“Non lo ricordo.”
“Ti sei come spento, pianissimo,” e lo vedo come l’ho visto un anno fa. Non si muoveva, né mi sembrava che respirasse. I suoi occhi hanno perso la luce come le sue mani il calore. E non mi riusciva di trattenerlo. Parlavo, parlavo, parlavo nella speranza che per la necessità di ascoltarmi non se ne andasse.
Anis esita sui miei fianchi e sul polso che ancora stringe fra le dita. Mi guarda e so che vorrebbe dirmi più parole di quante in realtà siano necessarie. Ha bisogno di parlare perché in queste settimane non ha fatto che toccarmi, non ha fatto che lasciarmi segni addosso e possedermi nei limiti in cui davvero poteva, senza sconfinare troppo al di fuori del territorio. Ha premuto quei limiti come spinge tutte le sue linee di confine, ossia finché non cedono. Finché la sua zona di appartenenza non si fa più ampia. Mi accarezza il braccio fino alla spalla, e io piego la testa quando le sue dita mi toccano il collo e la guancia. Il suo calore mi è stato addosso per mesi dopo che lo avevano portato via da questa stanza, era come una presenza fisica sulla mia pelle e m’impediva di ricordare che ero solo. Quando è svanito e ho cominciato a sentire freddo, è stato allora che ho realizzato che era morto e che non potevo più tenerlo stretto a me. Non c’era più niente a cui aggrapparmi, e dovevo andare avanti. Ora quel calore è di nuovo qui e io a volte voglio che mi avvolga, a volte vorrei impedirglielo solo per punirlo di avermi lasciato a gelare.
“Volevo soltanto proteggerti,” dice all’improvviso, come se mi avesse letto nel pensiero. Non mi stupisco, Anis non può sentire quello che penso ma può leggerlo attraverso il mio corpo. Così risponde a domande che non ho mai fatto e anticipa i miei desideri, mi abbraccia prima ancora che io capisca di volerlo. Non gli rispondo, non voglio farlo. Io lo so che lo ha fatto per me, e so anche che non voleva farmi soffrire ma è successo e c’è una parte di me che non lo perdonerà mai per questo. Io non ce l’ho con lui perché se n’è andato, ma perché non ha avuto nessuna fiducia in me e in quello che potevo affrontare. E adesso che gli ho dimostrato di poter tornare tutto intero, mi manda in pezzi di nuovo. Provo così tanto odio insieme all’amore che non riesco a scindere le due cose, a volte, e questo mi confonde perché io lui non l’ho mai odiato nemmeno quando glielo urlavo in faccia perché mi faceva incazzare. Non l’ho mai pensato. E invece in questi giorni è successo, le sue mani erano troppo belle e troppo sbagliate su di me perché non lo odiassi furiosamente pur di allontanarlo. Stammi lontano, eppure toccami. Non ho pensato altro.
Quando si avvicina, sapevo che lo avrebbe fatto e non ho la forza di fermarlo, o non ho la voglia, in ogni caso il suo profumo è aspro e fortissimo e io chiudo gli occhi contro le labbra che mi preme sul collo. Non dovrei, non dovrei proprio – lo so, cazzo. Sono mesi che lo so – ma il mio cervello continua a ripetermi cose che il resto del corpo non ha assolutamente voglia di ascoltare e allora lascio che mi accarezzi piano la schiena e che mi sfiori la guancia con le labbra. “Mi manchi da morire, Bill.” Mi chiama per nome soltanto quando si tratta di qualcosa di serio, per tutto il resto del tempo sono Principessa. E non c’è niente di più serio di me e di lui che ci siamo persi per strada. Aldilà di tutto, questa cosa non sarebbe mai dovuta succedere, e invece è successa – che io e Anis ci crediamo o no. Ed è per questo e per le conseguenze che ha portato – conseguenze a cui tengo e che si chiamano Peter – che tutta questa situazione mi fa incazzare. Non voglio decidere, non voglio avere questa responsabilità.
“Anche tu,” e non penso di parlare, lo faccio e basta. Sposto il viso finché le nostre labbra non si sfiorano, la scossa elettrica che mi attraversa tutto mi dice anche che non lo fermerò.
Vorrebbe baciarmi piano ma non c’è mai veramente riuscito. I baci di Anis sono violenti in una maniera particolare perché ha bisogno di imprimersi addosso alle persone che ama, ha questa necessità di farsi sentire.
“Dammi questa possibilità, Bill,” mi sussurra tra le labbra.
“Cosa?”
“Sono tornato, tu sei mio e lo sai,” parla, mi bacia, e parla ancora. E io non so veramente niente, e mi sento piccolissimo. Dopo un anno, ecco che torna e annienta tutto quello che sono, tranne ciò che sono diventato per merito suo. “Dammi la possibilità che mi spetta.”
Socchiudo gli occhi, mi sento le sue mani addosso ovunque e mentre mi lamento “Anis…” lui si sposta su di me: è un’ombra scura con due occhi ancora più neri.
Mi bacia e poi si allontana un po’, mi guarda così intensamente che mi sento in imbarazzo. Nel suo sguardo non c’è la fierezza che c’è di solito, sono velati da qualcos’altro. Sono gli occhi che avevo io quando cercavo di fargli capire che eravamo fatti per stare insieme e lui ancora non lo sapeva. Era una verità che avevo dentro di me, lui doveva ancora arrivarci. E ora lui sembra avere la stessa sensazione, lì, piantata nel cuore. “Vieni a vivere con me,” mormora.
Sono parole assurde. Ma sembra assurdo anche che io non sia suo, che lui sia morto e tornato dalla morte, che sia su questo letto, che sia sopra di me e sotto la mia maglia, quindi in realtà niente è veramente assurdo. Non penso, perché se pensassi non lo farei. Chiudo gli occhi e provo a sentire il suo corpo sul mio, il suo respiro e il cuore che mi batte ad una velocità che non è affatto normale. Dopo un anno, siamo di nuovo qui sopra insieme e lui è vivo, respira e mi tocca.
Ricordo quanto ho voluto che accadesse e mi viene quasi da piangere ma non lo faccio, mi stringo a lui e basta. Ed è in questa stanza e su questo letto la ragione per cui dico di sì. Non è soltanto in lui o in me. E’ in quello che questo luogo significa per noi. Nel momento in cui quel proiettile lo ha quasi ferito a morte c’eravamo solo io e lui a guardarci dritti negli occhi. A vederlo morire, io. E a sapere che mi stava abbandonando per sempre, lui. Nessun altro può capire.
Se dico sì è per quello che siamo, è per la sua morte, è per quello che io ho perso e lui ha lasciato. E’ perché non ci siamo mai davvero divisi, e non posso veramente allontanarlo senza prima aver dimostrato che quel dannato proiettile ci ha resi ormai così diversi per poterci ancora completare.
Per questo dico di sì. Sto spezzando il cuore a Peter, e lui nemmeno lo sa.
So che non è giusto, ma non era giusto nemmeno quel proiettile. Eppure ne è bastato uno per rovinare quello che avevo allora, e basta il suo ricordo per rovinare quello che ho adesso.
Mi dispiace, Peter. Mi dispiace davvero.

*


Ho buttato Bushido fuori di casa, e lui ha avuto l’accortezza di non ridere di trionfo anche se so che avrebbe voluto farlo. Quando lascerò questa casa per entrare nella sua, lo farò con la mia auto e senza di lui. Ci sono delle cose che devo sistemare, e non voglio che lui sia qui mentre lo faccio.
Quello che è successo fra noi nelle ultime ore, avrebbe dovuto aspettare. In queste cose, suppongo, ci sono delle procedure da seguire perché quando hai intenzione di frantumare il cuore di una persona che ti ama come mi ama Peter, tu dovresti avere il buon senso di fare le cose per bene; ma Bushido è uno che non ti permette di fare le cose secondo le regole se lui non vuole seguirle. Ho rifatto il letto e mi sono fatto una doccia, ma mi sento così in colpa che ho paura mi si legga in faccia ogni cosa, o forse ci spero perché così quando Peter sarà qui, sarà più facile iniziare il discorso e finirlo anche.
Quando suona il campanello, io sto facendo le valige. O meglio, non proprio, le ho soltanto tirate fuori dall’armadio e ne sto vagliando l’interno vuoto, come se potessero contenere le parole che dovrò dire. Sto tremando e sono nervoso, so che in qualunque modo pronuncerò questo discorso, non andrà bene, perché nessuno vorrebbe sentirlo e perché in realtà non è giusto, non così in fretta e non così all’improvviso. Solo che io lo so che devo farlo adesso, oppure non lo farò mai più o lo farò troppo tardi. E non lo so cosa mi spaventa di più, se aver preso una decisione o dover lasciare che Chakuza si arrabbi. Lo farà – giustamente – e con me non lo ha mai fatto. Ho paura di sentire la sua rabbia addosso, perché non so come sia e, nonostante questo, dovrò sopportarla perché ha tutti i diritti di provarla.
Peter è felice, e questo non fa che peggiorare la mia situazione. Soltanto ieri le cose fra noi andavano bene, anche se lui sapeva che la presenza di Anis era troppo pesante per non costituire una minaccia. In questi casi, però, quando vivi in bilico per giorni e giorni, senza che niente davvero cambi, finisci per adattarti a quella situazione come non ce ne fossero mai state di diverse prima, e ti lasci dondolare, sicuro che non cadrai mai da una parte e dall’altra perché non è mai successo. Riacquisti un barlume della felicità precedente, anche se non è la stessa ma solo una pallida imitazione. Adesso arrivo io, con la mia nuova consapevolezza, ed elimino ogni incognita che possa farci rimanere in equilibrio; ma sarò solo io a farlo, e lui ne subirà passivamente le conseguenze. E lo farò senza che fra noi ci siano problemi oggettivi: noi stiamo bene, lui mi ama e nonostante tutto, lo amo anche io. Quindi lasciarlo, senza discuterne, senza dargli la possibilità di difendersi è un colpo così basso che mi vergogno e mi sento male.
Lo aspetto sulla porta, stringendo forte lo stipite. Lui mi sorride in maniera tanto dolce che mi viene naturale rispondere, e poi penso che non dovrei farlo. O forse sì, non lo so.
“Ti ho preso questo,” mi dice, passandomi un sacchettino di carta bianca e lasciandomi un bacio sulle labbra prima ancora che io possa pensare di fermarlo.
“Che cos’è?” Chiedo, guardandoci dentro. Lui entra mentre io scopro che è passato dal mio negozio preferito e che tra questo momento e la nostra rottura ci sono due etti di vermi gommosi. Non riesco comunque a trattenere un gridolino e a metterne uno in bocca. “Grazie!”
Lui sorride e si toglie il cappotto. “Prego,” dice. “Scusa il ritardo, ma Stickle mi ha tenuto due ore inchiodato al mixer. Avevo un po’ di demo arretrate.”
Chakuza ha sempre demo arretrate, tanto che verrebbe da pensare che non fa niente dalla mattina alla sera e che il suo lavoro si accumula in grosse pile sulla sua scrivania. In realtà ha solo troppe cose per le mani e, in generale, preferisce comporre piuttosto che smistare decine di nuove proposte quando soltanto una su cento è vagamente passabile.
“Non fa niente,” mormoro.
“Hai cenato?” Mi chiede, inclinando un po’ la testa, ed entrando in cucina prima ancora di sapere la risposta.
“No,” ammetto. E d’altronde non ne ho avuto il tempo.
“Allora direi che è il momento di farlo,” esclama saggiamente. “Siediti lì, preparo qualcosa veloce.”
“Anis è stato qui.”
Lui si ferma per un istante, ma non si volta. Stringe la mano intorno al manico della padella che ha appena tirato fuori con sicurezza dal mio armadietto, poi ricomincia a muoversi. Recupera gli ingredienti e si aggira per la cucina scattando, senza mai guardarmi. “Sì?” Dice, c’è una nota aspra e sarcastica nella sua voce che mi fa già star male. Non voglio pensare a come sarà fra qualche istante.
“Noi… abbiamo parlato,” continuo. Sono in piedi, aldilà dell’isola della cucina e mi passo l’unghia dell’indice sul pollice, cercando il dolore. Penso a quale significato ha questo verbo nella mia vita, a quello che abbiamo davvero fatto – io e Anis – in quella stanza e mi ritrovo ad odiare una canzone che per un certo periodo della mia vita mi sono anche divertito a cantare.
Chakuza non risponde, si limita ad annuire mentre taglia un pezzetto di burro e lo fa sciogliere nella pentola, come se tutto fosse perfettamente normale. Vedo i suoi nervi tendersi lungo le braccia anche da qui, però. “Mi ha chiesto una cosa e io ci ho riflettuto e…”
“Che cosa ti ha chiesto?” Salta su lui. Lascia andare il coltello che fa un rumore metallico sul piano di marmo della mia cucina. Spegne il fuoco e si volta di scatto, il suo sguardo è così severo che faccio un passo indietro. “Avanti Bill, dimmelo e facciamola finita. Cosa ti ha chiesto e cosa gli hai risposto. Piantala di indorare la pillola, tanto non sei capace.”
Deglutisco. “Vuole che vada a vivere con lui.”
“Fantastico,” sibila Peter, neanche mezzo secondo dopo che gliel’ho detto. Si toglie il grembiule e lo getta con rabbia in terra. “Immagino che io ti abbia trovato in casa per sbaglio allora, com’è che non sei già in macchina con le valige nel bagagliaio?”
Vorrei poter correre in camera e rimettere a posto le valige aperte che sono sul letto, neanche Chakuza lo avesse detto perché le ha viste. Incasso il colpo e mi mordo un labbro. “Peter, è complicato..”
“No, non lo è, Bill,” mormora lui. “Tu vuoi stare con lui, fine del problema. Ed è sempre stato così, sempre, da quando questo schifo di situazione è iniziata.”
“Questo non è vero!”
“Sì che lo è,” mi aggredisce lui. “Tu la risposta la sapevi un mese fa, quando è tornato. Non c’è mai stata nessuna possibilità che tu rimanessi con me.”
Scuoto la testa e caccio indietro le lacrime perché vorrei parlarci con lui, non piangere. E poi so che stavolta non lo intenerirei né mi consolerebbe, e non voglio che succeda. Non voglio che rimanga immobile se ho bisogno di un abbraccio, è un’esperienza che non mi sento di affrontare adesso. “Non è così, Peter. Dav-.”
“Ti sei fatto scopare il giorno stesso che lo hai visto!” Urla senza lasciarmi finire.
Era dalla cena a casa di Anis che non lo ripeteva. Nonostante il gran casino che c’è stato in questi giorni non aveva più accennato al fatto che sapesse. Era un dettaglio scomodo che non pronunciava per il bene di entrambi, ma adesso gli leggo in faccia che sta troppo male per non ferirmi. Ne ha bisogno. E nonostante questo, io tento lo stesso. “Non…”
“Non ci provare nemmeno, Bill,” mi rimprovera subito. “Non dire che non è vero, cazzo. Almeno questo!”
Così sto zitto e guardo il pavimento, perché non riesco a sostenere il suo sguardo e per la prima volta da quando lo conosco, i suoi occhi non sono affatto buoni e gentili. Sono freddissimi, come non fossero più i suoi. C’è una buona parte di cattiveria, e di rabbia. Tutto il resto è delusione, e vorrei potermi rimangiare quello che ho detto. “Lo sapevi già,” ripete alla fine, dopo qualche istante e le sue parole, dopo questo silenzio, mi si conficcano dentro, fanno un male cane. “E avresti potuto dirlo invece di tirarmi scemo fino adesso.”
“Io non…” sospiro un mezzo singhiozzo, mentre mi passa accanto. D’istinto allungo un braccio per fermarlo ma lui si scosta con uno scatto talmente rabbioso che mi ritraggo. La sento quasi fisicamente la sua volontà di non volere avere più niente a che fare con me. “Mi dispiace, Peter,” mormoro.
“Non me ne faccio niente delle tue scuse,” è l’ultima cosa che mi dice, senza guardarmi, mentre si mette il giubbotto. Le lacrime riesco a trattenerle finché la porta non si chiude con uno schianto e non sento l’ombrelliera fuori sul pianerottolo finire a terra con un clangore metallico e poi rotolare lungo il corridoio. Peter è un grosso pezzo del mio cuore che si stacca e che con ogni probabilità non recupererò mai più.
Tra le lacrime, penso che ognuno di loro si è preso un pezzo di me e che non potrò mai più riaverlo indietro. Peter mi ha avuto a metà, e adesso Anis mi troverà ancora più incompleto di quanto non fossi quando mi ha lasciato; mi sgretolo e mi ricompongo come sabbia su una spiaggia, ma ogni volta ci sono meno granelli. Mentre chiudo le valige mi chiedo se alla fine di questa storia, qualunque sia, rimarrà abbastanza di me da riempire un bicchiere.
Spengo le luci e infilo le borse nell’ascensore, mentre guardo il portaombrelli a terra penso distintamente che dovrei essere più felice di così, ma dietro all’idea di me e di Anis riesco solo a vedere ciò che ho interrotto e mi dispiace. Solo questo.
Mi dispiace.

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Your Love Alone Is Not Enough

di lisachan
Mi piacerebbe poter dire che la mia vita fino a questo momento, nelle ultime settimane, abbia fatto schifo. Se fosse vero, non aspetterei con tanta ansia l’arrivo di Chakuza, stasera. Anzi, lo aspetterei come una specie di benedizione. Una cosa di cui ho bisogno. Se il mio rapporto con Nicole facesse schifo, non vedrei l’ora di rivedere Chakuza, perché so quello che Chakuza mi fa, e sentirmelo addosso – o anche sentirlo vicino – sarebbe l’unica cosa che vorrei, e la vorrei senza rimpianti, anche perché sarebbe un’ottima scusa per mettere fine al mio rapporto con lei.
La verità, purtroppo, è che a Nicole voglio bene, e con Nicole sto bene. Questo rende tutto molto più difficile, e sfortunatamente non cancella il problema: io continuo ad aspettare Chakuza con la stessa ansia, come fosse una benedizione, anche se so perfettamente che è quanto di più lontano esista da una cosa simile, soprattutto per me e soprattutto in questo momento.
A peggiorare una situazione già catastrofica, si aggiunge il fatto che io conosco Chakuza e so prevederlo. Il che non significa che sappia anche prevenirlo, perché purtroppo quella è una malattia che non riesco a farmi passare, ed anche quando mi sembra di essere guarito il contagio torna sempre a farsi sentire, ed è ogni volta un po’ più forte. Però, insomma, prevederlo sì. Quindi, quando apro la porta e me lo ritrovo di fronte che mi guarda con aria colpevole e un po’ abbattuta, tutto ciò che riesco a pensare è “me lo aspettavo”. Mi viene un po’ voglia di prenderlo a calci per il pianerottolo e buttarlo giù dalle scale, a dire la verità, ma a voler essere ancora più sinceri in realtà sono stato qui dentro da solo ad aspettarlo per qualcosa come sei ore e non ne posso più di sentire i miei stessi pensieri che rimbombano fra le pareti, perciò lascio perdere i propositi violenti e mi limito a guardarlo.
Era semplicemente ovvio che, dopo la questione fra Bill e Bushido, sfumata la rabbia, il Chaku mi si sarebbe rattristato in questo modo. Ed anche volendo, io non sarei per niente riuscito a mollarlo da solo nel casino del suo cervello, ed è questo il motivo per cui cinque o sei ore fa ho salutato Nicole, l’ho portata a casa sua e me ne sono tornato nel mio appartamento – nel quale non mettevo piede da settimane, avendo vissuto da Anis quando ancora Bill stava con Chakuza, e da Nicole quando poi il ragazzino s’è trasferito.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi. L’altroieri, però, mi ha mandato un messaggio sul cellulare. E oggi mi ha chiamato. Nel messaggio s’è limitato a salutarmi e chiedermi come stavo. Quando mi ha chiamato, abbiamo parlato della pioggia che ultimamente martella incessante Berlino, a ricordarci che ormai siamo in pieno autunno e fra poco saremo in inverno, sarà finito un altro anno e noi siamo ancora nello stesso identico punto in cui eravamo un anno fa, persi e senza voglia di fare niente.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi, ma gli ho sentito la voglia nella voce – l’ho sentita in come vibrava bassa contro la cornetta, scivolandomi lungo il collo in brividi – ed è stato più chiaro in quel modo, salutandomi appena dopo avermi ricordato di portare l’ombrello, se uscivo, di quanto non sarebbe stato chiaro se mi avesse comunicato l’orario in cui sarebbe passato di qua.
- Sei in ritardo di dieci minuti sulla tabella di marcia. – lo prendo in giro, lasciandogli libero l’ingresso ed addentrandomi all’interno dell’appartamento, verso la cucina. Cristo, quest’appartamento a volte mi sembra enorme. I chilometri, ci sono, fra l’ingresso e tutto il resto. – Dovresti già stare piagnucolando perché non ti senti abbastanza amato.
- Stronzo. – borbotta lui, entrando con un po’ d’imbarazzo e richiudendosi la porta alle spalle, - Cazzo, fra te e Bushido non so chi sia peggio.
- Lui, è ovvio. – scrollo le spalle, riemergendo dalla cucina con due bottiglie di birra, - Io sono un santo martire.
Chakuza lascia andare una mezza risata amara e si gratta lentamente la nuca, accettando la birra e seguendomi mentre mi lascio andare sul divano con un tonfo scazzato.
- Scusa se- - comincia, ma non ho intenzione di ascoltarlo mentre si dispiace di qualcosa di cui non è dispiaciuto, perciò lo fermo con un cenno della mano libera, scuotendo il capo prima di prendere una sorsata di birra.
- È ok. Immaginavo che non avresti voluto startene per conto tuo. Basta che sia chiaro che possiamo distrarci come vuoi tranne che facendo a botte, perché proprio non ho voglia di violenze oggi. D’accordo?
Lui annuisce ed abbassa lo sguardo, a disagio.
Io sospiro. Okay, mi sto comportando come una merda fatta e finita. Chaku è stato mollato, c’è qualcosa di ingiusto in tutto questo – per quanto non riesca a sentirmi triste neanche sforzandomi, se ci penso – e dovrei essere comprensivo e di supporto. In fondo, qualsiasi cosa sia successa fra me e lui, fra lui e Bill, fra Bill e Bushido e fra Bushido e me, io e Chakuza siamo comunque amici. Voglio dire, prima di tutto lo eravamo. Quello che sento adesso – qualsiasi cosa sia, Nicole o meno – oltre a non avere ragione di esistere, non dovrebbe impicciarmi mentre cerco di consolarlo. Perciò conto fino a dieci e mi modero un po’.
- Dunque… - riprendo più conciliante, grattandomi distrattamente la fronte, - è tremendo vederti così, Chakuza. Vuoi smadonnare un po’? Prometto che non ti prenderò a testate, se cominci a dare della troia alla signora Luise Maria.
- Sinceramente, - borbotta lui, poggiandosi stancamente contro lo schienale del divano, - l’unica persona cui vorrei dare della troia adesso non è nemmeno una donna. – e questo, assieme ai suoi occhi improvvisamente cupi ed alla linea tesa e nervosa delle sue labbra, mi basta a capire che non è di Bushido che sta parlando, ma del ragazzino.
Un po’ vorrei fargli una carezzina sulla testa – come a un bambino di dodici anni, sì – e dirgli che è troppo facile prendersela con Bill, in una situazione simile, solo perché non riesce a gestirsi. Chakuza non capisce che, per quanto Bill possa sembrare adulto e maturo, resta comunque un ragazzino. Con tutta la sua immaturità, Chakuza ha sempre quasi dieci anni più di lui. C’è qualcosa che non torna, in quest’equazione, nessuno dovrebbe aspettarsi da un bambino che agisca come un adulto. Io non me lo sono mai aspettato, da Bill. Bill lo prendi con le caramelle e gli abbracci teneri, e se ti sta bene questo deve starti bene anche che poi, di fronte ad Anis, non sappia controllarsi. Non sono due cose diverse, è solo che è piccolo. Non può piacerti quando ti fa comodo e darti fastidio quando improvvisamente ti pesta i piedi.
Però mi rendo conto che cose simili a Chakuza non posso mica dirle. Sarebbe come se, chessò, Nyze fosse venuto da me dopo che lui ed Anis erano andati via dall’Aggro, e mi avesse detto “sì, be’, però è facile prendersela con Bushido adesso”. Cazzo, era facile sì e non desideravo altro. So che Chaku non desidera altro, adesso, perciò lo lascio fare.
- Ti va di parlarne? – chiedo a bassa voce, mettendomi comodo sul divano e voltandomi verso di lui.
- Sai cosa? – sbotta lui, mandando giù un’altra sorsata di birra, - Mi andrebbe sì di parlarne, se solo riuscissi a capire cosa dire al riguardo!
Mi lascio andare ad un mezzo sorriso divertito, perché la sua espressione – gli occhi spalancati, le labbra arricciate in una smorfia stupita e le sopracciglia inarcate verso l’alto – è molto buffa.
- Intendi?
- Intendo che non ho ancora neanche capito cosa cazzo è successo, Fler. – sospira, tornando ad abbattersi fra i cuscini, - Voglio dire, stavamo… okay, non bene, d’accordo? Non bene. Con Bushido fra i piedi, come vuoi stare bene?, è impossibile. Però stavamo insieme. Capisci? Insieme e basta.
Capisco sì. Mi inumidisco le labbra e cerco di focalizzarmi sull’immagine appagante di lui che ruzzola giù dalle scale rotolando per strada attraverso la porta a vetri spaccata del mio palazzo. Che è una cosa alla quale nemmeno dovrei pensare, perché io sto con Nicole e adesso non dovrei essere geloso, ma tant’è.
- E all’improvviso, boh, tutto ciò che so è che vanno a vivere insieme. Motivo? Perché lui è Bushido. Ti pare un motivo, questo?
Rido un po’, sistemandomi più comodamente.
- Io l’ho quasi fatto fuori, perché lui era Bushido, ricordi? – ghigno indicandomi, - Mi pare un motivo eccome.
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, prima di mollarmi una spinta parecchio risentita contro la spalla.
- Non mi piace quando ne parli così. – sbuffa poi, ingollando in un sorso mezza bottiglia di birra.
- Così come? – lo prendo in giro io, giocando con la mia.
- Come una cosa importante. – spiega lui, tornando a guardarmi con quella strana aria cupa che, quando gliela vedo addosso, mi dà sempre i brividi.
- Chakuza, ma lui è importante. – gli faccio presente, e continuerei tranquillamente su questa china, come ho sempre fatto quando chiunque, amici o giornalisti che fossero, mi ha dato il la per cominciare a parlare di Anis, se solo non notassi le sue sopracciglia corrugarsi ulteriormente e il suo broncio farsi più marcato. - …e tu non ci tieni affatto a sentirtelo ripetere adesso, mh? – chiedo con un mezzo sorriso, chinandomi appena per cercare i suoi occhi.
- No, per niente. – annuisce lui, senza fuggire il mio sguardo, - Anzi, ti sarei grato se riuscissi per una volta a non essere così dannatamente palese, quando parli di lui, visto che in questo momento la sua esistenza sulla terra già basta a farmi uscire di testa.
Rido un po’, anche perché quando mi rendo conto quanto sia in effetti palese, come dice Chaku, il modo in cui mi rivolgo a Bushido, mi sento sempre in imbarazzo. È una questione di immaturità, credo; intendo, a lui è legato un pezzo di me che probabilmente non è mai cresciuto. Quindi, quando c’è lui di mezzo, penso ed agisco come un ragazzino. È ovvio che, quando Bill mi dice che non sa più dove sbattere la testa, io lo capisco senza nemmeno sforzarmi. È semplicemente ovvio.
- Scusami. – biascico, adocchiando la sua bottiglia ormai vuota, - Senti, vado a prendertene un’altra e poi ricominciamo. Accendiamo la tv e mentre guardiamo qualche cagata mi dici tutto per bene, d’accordo?
Mi alzo in piedi, ma Chakuza mi imita, ed io mi fermo a guardarlo con aria un po’ contrariata.
- Be’? – chiedo, - Non mi serve aiuto per-
- No, - mi interrompe lui, scuotendo il capo, - venire qui è stata una pessima idea. – borbotta, muovendosi un po’ incerto intorno al divano, come faticasse a trovare l’uscita. Eppure è lì a due metri. Forse non fatica a trovare l’uscita, forse fatica a trovare la voglia di uscire. – È meglio se vado e-
- Ehi, ehi, Chaku… - lo fermo, recuperandolo per le spalle e tenendolo fermo, mentre torno a cercare i suoi occhi, - Sta’ un po’ calmo, eh? Ti ho detto che mi dispiace, ero sovrappensiero e l’ho presa a ridere. Lo so che è una cosa seria. Se stai un po’ tranquillo ne parliamo, mh? Sul serio.
- No, davvero. – insiste lui, cercando di sottrarsi alla mia stretta, - Lo sto realizzando adesso. Non è il caso, non voglio nemmeno dirtele, queste cose. Tu sei… l’ultima persona dalla quale dovessi andare, e non dovresti nemmeno essere solo, perciò...
Non so perché m’impunto. Probabilmente perché, in fin dei conti, a lasciarlo andare proprio non ci riesco.
- Però lo sono. E mi fa piacere che tu sia venuto qui. – tiro fuori in un fiato, quasi a fatica, stringendolo più forte, - Io e te, ultimamente… abbiamo proprio fatto un sacco di casini, me ne rendo conto, però tu, Chaku, voglio dire, non sei così male, come persona. E dai, mi sembra assurdo perdersi così in un bicchiere d’acqua. – sospiro. – Resta un po’, ti va?
Lui sospira e mi alza addosso uno sguardo vagamente confuso.
- Senza fare altri casini? – mi chiede, sorridendo appena.
- Senza fare altri casini. – confermo annuendo, - Facciamo i bravi, per una volta. Tu mi parli delle tue pene di cuore e io ti somministro dell’alcool per dimenticare. È così che funziona fra la gente normale, giusto?
Lui annuisce a sua volta, distogliendo lo sguardo e massaggiandosi la fronte con una mano.
- Noi due non siamo normali per niente. – mi fa notare in un soffio, - Questo potrebbe essere un problema.
- Basterà tenere a bada l’uccello. – annuisco compostamente, tirandogli una pacca sulla spalla, - Credi di esserne capace?
- Che domanda del cazzo. – grugnisce lui, - In tutti i sensi, poi. Sei uno stronzo.
Sospiro un po’, allontanandomi da lui e dirigendomi lentamente verso il divano.
- Questo l’hai già detto entrando. Almeno rinnova il campionario d’insulti, se proprio devi.
- Be’, non sono io l’esperto di diss, qui dentro. – protesta, tirandomi uno scappellotto dietro la nuca.
Io lancio un lamento palesemente fasullo e mi massaggio il collo che non duole affatto.
- Tieni a posto le mani! – borbotto contrariato, lanciandogli un’occhiataccia colma di un risentimento non più vero di tutto il resto.
Chakuza sospira e mi lascia scivolare addosso uno sguardo che non promette nulla di buono. Anche se dipende dalla prospettiva in cui lo si guarda. Se la prospettiva da cui dovessi guardarlo adesso fosse semplicemente quella di me e lui in una casa vuota mentre fuori si fa buio, prometterebbe cose stupende. Il problema è che devo per forza guardarla dalla prospettiva in cui oltre a noi due in questa casa ci sono altre due persone là fuori. C’è un ragazzino che sta giocando col fuoco e c’è un uomo che si sta perdendo in un danno. E c’è anche una donna, la mia, a casa da sola, che aspetta domani solo per rivedermi. Quindi no, l’occhiata di Chaku non promette niente di buono, a livello generale. Anche se mi piacerebbe potermi fermare alla prospettiva semplice delle cose, per una volta.
- Non puoi chiedermi di tenere a posto troppe cose. – rincara, inumidendosi le labbra, - Faccio già abbastanza fatica.
“E ci risiamo”, mi viene da pensare mentre arrossisco come una liceale. Cristo santo, ci sono volte in cui, prima ancora che infilarlo in una cintura di castità e legargli le mani così che non possa più muoverle, avrei voglia di prendere dello scotch – quello spesso e largo, tipo da imballaggio – e tappargli la dannata bocca. I danni maggiori che fa quest’uomo, non li fa quando ti tocca. Quando arriva a toccarti è perché il danno l’ha già fatto parlando. Perché dice cose senza capire cosa sta dicendo, o se lo capisce è abbastanza stronzo o stupido o sincero – e non so quale sia la cosa peggiore – da dirlo lo stesso, e tu ci perdi la testa.
- Piantala di dire cazzate. – sbuffo, distogliendo lo sguardo, - Piantala prima ancora di cominciare, per favore. Avevamo detto di non fare altri casini.
- Non sto facendo niente. – mi rassicura lui, alzando entrambe le mani e mantenendo perfino la distanza di sicurezza, - Non siamo nemmeno vicini.
- E cerchiamo di mantenere la situazione il più a lungo possibile, ok? – chiedo con tono un po’ allarmato. Anche troppo. – Davvero, Chakuza, farlo è proprio l’ultimo degli errori possibili, okay? Non ce lo possiamo permettere.
Chakuza sbuffa contrariato, tornando a rilasciare le mani lungo i fianchi.
- Non voglio mica prenderti a calci. – si giustifica in un mugugno, - E d’altronde non capisco quale potrebbe essere il problema, se anche lo facessimo. Io non sto più con Bill, giusto?
- Giusto. – ringhio io, per tutta risposta, - Ma io sto con Nicole, nel caso tu non te ne sia accorto, e non sono la parete contro cui puoi rimbalzare quando ti pare, okay? Se non vuoi farti definitivamente mandare a fanculo come avresti meritato già da qualche mese, tieni a freno la lingua, il cazzo e anche tutto il resto. È un consiglio da amico.
Lui sospira e, ovviamente, fa l’ultima cosa che dovrebbe venirgli in mente di fare. Scommetto che invece è stato tipo il suo primo pensiero. Mi si avvicina lentamente, io sospiro a mia volta e mi appoggio già esausto contro lo schienale del divano, piegando un po’ le gambe e cercando di recuperare uno stato d’animo meno isterico ripescandolo da quando ero ancora tranquillo e sereno e Chakuza non voleva ancora scopare. Se mai c’è stato un momento in questa serata in cui non ha voluto farlo.
Quando arriva ad un passo da me, solleva le braccia e mi accarezza il collo, risalendolo tutto e poggiandomi le mani sulle guance, obbligandomi a sollevare lo sguardo per trovare i suoi occhi.
- Stiamo sbagliando di nuovo tutto. – mi avverte con un mezzo sorriso.
- No, tu stai sbagliando di nuovo tutto. – lo correggo contrariato, ma lui sorride ancora ed io mi mordo un labbro.
- E tu mi stai di nuovo lasciando fare. Perché continui a lasciarmi fare?
- Perché sei uno stronzo. – ed è l’unica risposta che si merita.
Lui ride e si piega un po’ a sfiorarmi le labbra.
- È vero. – mi sussurra addosso, - Però non è per questo che mi lasci fare.
- Se speri – ringhio di frustrazione, cercando con poca convinzione – e quindi poco successo – di farmi mollare, - se speri che ti dica qualcosa in questa situazione del cazzo, dico, se speri che te lo dica adesso, tu sei proprio fuori strada, pezzo di merda.
- Fler, ssh. – mi zittisce, baciandomi appena, - Non voglio che tu mi dica niente. Sul serio. Cristo, non sono tanto stronzo da venire a cercare una cosa simile da te se Bill non riesce a darmela perché c’è Bushido di mezzo.
Socchiudo gli occhi. Sta dicendo cose tremende. Non lo posso ascoltare.
- Chakuza, mi lasci andare?
Lui sospira.
- Quante volte me l’hai chiesto, da quando ci conosciamo?
- Tante… - sussurro stremato, - Troppe.
- Ed io l’ho mai fatto?
Rido amaramente, scuotendo il capo per quanto lui mi permette.
- Non è mai troppo tardi per cominciare, non credi?
Chakuza segue il profilo del mio viso con le labbra e poi esita solo qualche secondo, prima di baciarmi. E nei secondi in cui la sua bocca non è pressata sulla mia e le nostre lingue non si stanno cercando a vicenda, lui parla. E come al solito fa danni.
- Credo di sì, invece. – confessa piano, - Fler, noi due non ci perdiamo in un bicchiere d’acqua. Se questo fosse un bicchiere d’acqua, non ci perderemmo affatto. Il problema è che non lo è.
Dopodiché, mi bacia. Ed io, quando lui mi bacia, non capisco più niente. Giuro, nessuno mi ha mai baciato come mi bacia Chakuza, e la cosa allucinante è che all’inizio non era per niente così. Voglio dire, baciava bene ma non esattamente come piaceva a me, questa è una cosa che è venuta dopo, col tempo. E gliel’ho insegnata io. Gliel’ho insegnato io come e dove toccarmi, e questa cosa mi fa impazzire. Non saprei nemmeno dire come, mi fa impazzire e basta.
- Questo è… - ansimo quando mi lascia andare per tirarmi in piedi e cominciare a trascinarmi verso la camera da letto. Incredibile come ricordi ancora dov’è, qui c’è stato solo una volta. Evidentemente ha un talento per sviluppare planimetrie istantanee delle case, per ogni evenienza, - Questo è stato molto scorretto. Non le dovresti dire, queste cose.
- Non lo direi, se non fosse vero. – risponde lui, spingendomi sul materasso e salendomi a cavalcioni addosso, - Te ne dico poche cazzate, ormai…
- Già che tu ammetta di dirmene qualcuna… - gli faccio notare con un broncio che lui non si risparmia di mordere nemmeno per un attimo, - E comunque certe volte è anche peggio, quando sei sincero.
Si ferma solo un secondo. Che poi non è neanche vero, perché non si ferma per niente. È solo un po’ meno frenetico. Continua ad accarezzarmi un fianco con una mano ed a slacciarmi i pantaloni con l’altra, ma si solleva a guardarmi negli occhi e si prende un secondo, prima di parlare ancora.
- Se ti offrissi qualcosa di meno… - comincia serio, - intendo, se cominciassi a mentirti e basta, tu ci staresti? – sospira, - Sarebbe bello e sarebbe facile, ma tu non sei facile neanche per un cazzo. Probabilmente, già alla quarta stronzata prenderesti la tua roba e cambieresti città.
Annuisco, sollevando una mano ad accarezzargli la nuca.
- E infatti ci sono andato vicinissimo.
Annuisce anche lui, sollevandosi appena per sfilare la felpa.
- Sono contento che ci sia tu qui, adesso. – mi dice, continuando a guardarmi negli occhi, - Non so dove sarei, altrimenti.
- In qualche bordello, Chaku. – rido io, ma lui mi toglie il respiro spingendosi lentamente contro di me.
- Sono contento di essere con te, invece. – ribadisce, tornando a baciarmi, - Cristo, dimmi che non mi fermerai, stavolta. Mi sto scordando di cosa sai.
- Stronzate… - ansimo, piegando il capo per lasciargli campo libero sul mio collo, - mi hai baciato anche troppo spesso.
- Ti baciavo ogni giorno, fino a nove mesi fa. – intrufola un ginocchio fra le mie gambe e lo strofina contro la mia erezione da sopra il tessuto pesante dei jeans, - Ti scopavo ogni giorno. Non ti manca?
- Fanculo. – sibilo, seguendo i suoi movimenti col bacino, - Chaku, stai proprio parlando troppo stasera.
Mi bacia lentamente, lasciando scivolare la lingua sulla mia per dei secondi infiniti, e quando si separa dalle mie labbra si appoggia su di me, fronte contro fronte.
- Lo sai che oggi è diverso, vero? – cerca di convincermi, gli occhi scuri di voglia che cercano i miei nel buio della camera da letto, - Non è come quando ho portato Bill da Bushido. Oggi non sono fuori di testa come quel giorno. Sono lucido.
Scuoto il capo e finisco per sfiorare le sue labbra con le mie nel movimento.
- Non lo sei affatto. – gli faccio notare con un mezzo sorriso, - Lo vedi perché dico che parli troppo? Se stessi zitto, avresti un mucchio di problemi in meno.
- Fler… - mi chiama lui, riprendendo a strusciarsi contro di me, - Dico sul serio. – e mi bacia ancora, - Mi piace il tuo sapore.
Mi ci perdo dentro un secondo. Nella sua voce, nei suoi movimenti, nella frizione deliziosa della fibbia dei suoi pantaloni che striscia contro la mia erezione attraverso il cotone sottile dei boxer.
Mi ci perdo dentro un secondo. Un secondo solo.
- È per Bill che lo stai facendo. – gli sussurro all’orecchio mentre scioglie la cintura, - È per lui. Vero? È perché non hai lui che sei qui.
E lui si ferma. Trattiene anche il respiro, per un po’. Poi mi si spinge contro con una certa violenza, tant’è che io ho il tempo di sentirlo tutto – eccitato, frustrato, arrabbiato – e vedere le stelle, e poi mi ringhia sulle labbra.
- È per lui. – conferma, - Sì. Contento, adesso?
Subito dopo, smetto di sentire il calore e la pressione del suo corpo, e quando riprendo a guardarmi lucidamente intorno lo vedo seduto sul bordo del letto, le spalle curve e l’espressione corrucciata che non riesco a cogliere nei dettagli. Ma non ne ho bisogno, li ricordo comunque a memoria.
Tutto quello che riesco a pensare, in questo momento, è che Chakuza ora come ora non ci sta con la testa. Che, per questa situazione, la testa potrebbe perderla del tutto e definitivamente. Che non voglio che succeda. E che voglio essere io quello che gl’impedirà di perdersi dentro se stesso. Voglio essere io e non m’interessa di nient’altro. Non so nemmeno perché, forse da Anis ho ereditato anche questa stupida spinta pseudo eroica per la quale non riesco a stare bene se non so che è tutto a posto e che lo è perché io ho voluto così, non lo so. Fatto sta che mi sollevo a sedere, puntellandomi sul materasso con le mani, e sospiro profondamente. Mi avvicino a lui e sento il suo respiro, vedo la sua sagoma scuotersi appena nell’ombra e mi chino sulla sua spalla, lasciando un bacio sulla sua pelle calda.
Chakuza si volta a cercare i miei occhi. E li trova perché io non scosto lo sguardo.
- Fler- - mi sporgo in avanti e gli tappo la bocca, baciandolo piano.
- Piantala di parlare così tanto. – ordino mordendogli un labbro, - Cristo, piantala, per favore. Lo so, okay? So tutto, Chaku. E non me ne frega un accidenti, in questo momento.
- No, non lo sai! – insiste lui, agitandosi tutto e voltandosi verso di me, cercando di tenermi fermo per le spalle, - Tu sei convinto che io per te-
Lo fermo ancora, baciandolo più profondamente e più a lungo. Più lentamente, anche, così che possa perdercisi dentro e dimenticare che prima stava parlando.
- Lo so. – dico in un sussurro, quando mi allontano da lui, - Lo so che abbiamo una cosa, Chaku. Lo so.
Lui ride appena, è una risata amara.
- “Una cosa”… - ripete, e le virgolette che ci mette sono così evidenti che scappa da ridere anche a me.
- Esiste un altro modo di chiamarla? – lo prendo in giro, cercando le sue labbra. Lui mi accontenta, sporgendosi in avanti e stendendomi nuovamente sul materasso.
- Sì, penso che esista. – confessa, respirandomi addosso e sfilandomi i boxer, - Ma ho paura che se lo facessi poi mi si rivolterebbe il mondo sotto ai piedi.
Ed io annuisco e non parlo più. E lo lascio fare, mentre si inumidisce le dita e mi accarezza fra le natiche, mentre torna a baciarmi e mentre scende a mordermi sul collo, mentre mi masturba senza che debba chiederglielo, mentre si spinge contro di me e dentro di me, lento e preciso, fino a farmi perdere il controllo di ciò che penso dico e faccio, lo lascio fare e non dico una parola perché so che è vero, so che certe cose vanno tenute sotto silenzio, non le espliciti certe situazioni, restano non dette. Ed è meglio così, perché ci sono cose che a dirle scompaiono. Se, quando avevo sedici o diciassette anni, io avessi detto ad Anis quello che mi passava per la testa, oggi un noi – un me e lui, un Patrick ed Anis – non esisterebbe. Certe cose le conservi fino al momento giusto, per certe altre il momento giusto non arriva mai.
Chakuza non è mio. Noi il nostro momento giusto non l’avremo mai.
A questo punto, si tratta soltanto di farci l’abitudine.
*
Farci l’abitudine, comunque, richiede tempo. Per abituarsi a qualcosa, quella cosa deve ripetersi due, tre, quattro, cinque, infinite volte, così tu puoi scrivertela dentro, addosso e attorno, e non dimenticarla più. Invece, svegliarmi accanto a Chakuza – svegliarmi così vicino a lui, il naso affondato nell’incavo del suo collo e le sue gambe intrecciate con le mie – è una cosa completamente nuova, perciò non ci sono per nulla abituato. Quando apro gli occhi, fatico a riconoscere le mie lenzuola, il mio letto e la mia stanza, perché c’è Chakuza che rende tutto diverso. L’armadio a muro sulla parete di fronte a me non è più uguale a prima perché c’è la curva della sua spalla a tagliarlo in due, e le coperte non hanno più la stessa forma perché qui sotto ci siamo io e lui insieme, e io tutto questo non l’ho mai visto così, perciò in un primo istante non capisco dove sono né cosa sto facendo, e mi irrigidisco tutto fra le sue braccia, così repentinamente che, nonostante stia dormendo – e so bene che quando dorme svegliarlo è praticamente impossibile – lui mi sente, e si sveglia a propria volta.
- Pat…? – mugola confuso, sciogliendo il nodo delle sue dita dietro la mia schiena, - Che?
Mi imbarazzo subito ed abbasso lo sguardo, scuotendo il capo.
- Niente. – biascico, - Fa caldo.
- Ma non è vero per niente. – si lamenta lui, stringendomisi contro ed affondando il viso per metà contro il cuscino e per metà contro il mio collo, - È l’alba, torna a dormire.
- Mi sporgo un po’ oltre la sua testa per controllare la radiosveglia sul comodino, e realizzo che non è per niente l’alba. Anzi, l’abbiamo saltata da un pezzo.
- Sono quasi le undici e mezza. – lo informo, - Possiamo anche pensare direttamente al pranzo, altroché.
Si scosta da me con uno sbuffo risentito, guardandomi con attenzione, come volesse rendersi proprio conto del fatto che io sia qui in questo momento, così vicino a lui da dividere il suo stesso calore e il suo stesso odore ed anche il suo stesso respiro.
- Avevi programmi, per oggi? – mi chiede, senza particolari inflessioni nella voce.
Io sospiro, prima di rispondere, perché mi sento a disagio.
- Nicole. – ammetto in un soffio, - Dovevo vederla, ovviamente.
Lui annuisce, un po’ indispettito.
- Ovviamente. – commenta acido. Io lo guardo, inarcando un po’ le sopracciglia. – E non fissarmi in questo modo. – borbotta lui, e poi sospira a sua volta, ugualmente a disagio. - …io non posso chiederti niente.
Rido contro la sua spalla, scuotendo lievemente il capo.
- Scelta mia, insomma. – esplicito, cercando i suoi occhi. Lui ricambia il mio sguardo e mi bacia lievemente, prima di annuire.
- Scelta tua.
La mia scelta è molto semplice e non può che essere una sola. Io magari non lo realizzo chiaramente mentre mi lavo, mi vesto ed esco di casa, ma è l’unica cosa cui riesco a pensare quando arrivo all’appartamento di Nicole e suono al citofono per farmi aprire. Voglio sbrigarmi qui, voglio che sia una cosa breve perché voglio tornare da Chakuza che mi sta aspettando nel mio appartamento, dato che mi ha detto che si sarebbe preso l’intera giornata di riposo per dormire, visto quanto si sentiva stanco. Non puoi stare con una donna quando il tuo primo pensiero è che vorresti stare altrove con un’altra persona, sia essa maschio o femmina, perciò la mia scelta quella è, e quella resta. Devo lasciare Nicole.
Mi aspetta sulla soglia di casa, asciugandosi le mani sul grembiule bianco e un po’ vecchio che indossa sopra la tuta da casa. Ha i capelli raccolti dietro la nuca. È carina. Per un momento mi chiedo “ma perché lo sto facendo?”, e resto in attesa di una risposta che non arriva. Non so più nemmeno se è davvero Chaku il motivo per cui la lascio, forse alla fine l’avrei lasciata lo stesso, per una scusa o per l’altra. Forse l’unico merito di Chakuza è che questo momento sia adesso, adesso che per lei non è ancora così doloroso. Forse. Non lo so, se sarà doloroso. Per me non lo è, in questo momento, e per questo forse dovrei sentirmi in colpa. Ma non ci riesco.
- Oggi ho fatto un sogno assurdo. – ridacchia, sollevandosi sulle punte per baciarmi lievemente sulle labbra, - C’era questo cane enorme che stava a guardarmi da dentro la mia valigia, ed era pelosissimo e morbidissimo, e a un certo punto il cane si metteva a parlare e lo faceva con la tua voce. Non mi ricordo cosa diceva, ma mi veniva da ridere, forse perché era strano sentire parlare un cane con la tua voce!
Rido a mia volta, seguendola all’interno dell’appartamento. Il tavolo è ancora sgombro, forse ha appena cominciato a cucinare. Magari riesco perfino a non farle sprecare cibo.
- Non sei mica tanto carina a sognarmi come se fossi un cane, eh. – le faccio notare invece, e mi do dell’idiota da solo, subito dopo, perché sto perdendo tempo. Non dovrei voler perdere tempo. Forse un po’ in colpa mi ci sento, dopotutto, perché è vero che questa situazione è colpa mia.
- Non è che ti abbia dato del cane, Pat… - mi prende in giro lei, tornando a smanettare con le pentole di fronte ai fornelli. Io la seguo fino in cucina e la guardo muoversi tranquilla per un po’. Poi capisco che devo fermarla, e visto che non so come fare mi allungo a chiudere il gas girando una delle manopole.
- Scemo. – mi rimprovera lei, ridacchiando, e poggia la mano sulla manopola, pressando un po’ per riaccendere il fornello, solo che non ci riesce, perché io la fermo prima, posando una mano sulla sua e risalendo fino al polso, tirandola un po’ per costringerla a girarsi.
- Pat? – mi chiama, incerta, inarcando le sopracciglia verso il basso.
- Devo parlarti. – sputo fuori d’un fiato, guardandola dritta negli occhi.
Lei non dice niente e nemmeno si muove, in realtà. Non so se vi è mai capitato di dover dire qualcosa a qualcuno e arrivare a quel momento preciso, guardare quella persona negli occhi e sapere che già sa che cosa dovete dire. A rigor di logica dovrebbe rendere tutto più facile, perché è un po’ come se non ci fosse davvero niente da dire davvero, si tratta solo di sbrigare la formalità del dirlo ad alta voce, ma il concetto è già noto e magari l’altra persona dovrebbe pure aver fatto in tempo a prepararsi, visto che già lo sa. Però in realtà non è così. In realtà quando tu sai una cosa non hai ancora risolto un cazzo. Tu la sai, sì, è dentro di te, ma questo non ti solleva di niente dal dolore che provi quando poi quella stessa cosa la senti. È come sapere che un tuo parente o un tuo carissimo amico è malato terminale e sta in ospedale collegato a una macchina. Lo sai che morirà, cazzo, ovvio che lo sai, passano i mesi e tu ti prepari, ma quando poi lui muore lo stesso tu scopri che non eri pronto davvero perché nessuno te l’ha detto davvero. È una cosa complicata. È più facile dire la verità quando nessuno sa niente, è più gestibile. Quando ti dicono una cosa che già sai stai male il doppio, perché sei stupido e perché ti senti tale.
- Forse sarebbe il caso che noi due non ci vedessimo più, per un po’.
Lo dico perché è la prima cosa che mi viene in mente, e solo dopo che l’ho detto mi rendo conto che ho saltato tutta la parte in mezzo. Quella che fa più o meno non ti amo, credo di essere innamorato di un altro, credo che dovremmo lasciarci perché non è giusto per nessuno dei due restare in questa situazione, e solo dopo avrei dovuto dire anche il resto, sarebbe il caso di non vedersi più per un po’. Ma, forse perché volevo sbrigarmi in fretta, forse perché le palle per dire “ti lascio” non ce le ho, non l’ho detto.
Nicole sgrana gli occhi e mi guarda, annichilita.
- Pat- - prova a chiamarmi, ma io le lascio andare il polso e la interrompo.
- Scusa. – scollo a fatica, - Non volevo dirtelo così, è… ho fatto casino. – ammetto in un sospiro, - Il problema è che… - la guardo e non so se voglio davvero dirglielo. Non so se voglio davvero. Non… - sono innamorato. Di un’altra persona. – mi interrompo, prendo fiato, - Che è maschio. Ed è Chakuza.
Nicole schiude le labbra. Non come nel gesto di chi si prepara a dire qualcosa, eh. È solo stupita. Le sue labbra formano una o praticamente perfetta, mentre continua a guardarmi.
- Pat? – chiede. Magari si aspettava di essere lasciata, ma non per un uomo, ok.
- È complicato. – mi gratto la nuca, imbarazzato, - Va avanti da un po’.
- Mentre noi…
- No! – mi affretto a negare, - No, assolutamente, intendo, c’era prima di te. Poi non c’è stato per molto tempo, ed io ho pensato che… insomma, che potesse andare, fra noi due. Non ti ho mai tradita con lui. – preciso, guardandola dritta negli occhi. Non so cosa possa farsene, di questa precisazione, ma tant’è. – Né con nessun altro, ovviamente. – aggiungo in un mezzo sospiro esausto, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi.
Lei annuisce lentamente, respirando così piano che non riesco nemmeno a vedere il suo petto alzarsi ed abbassarsi. Tortura con le mani l’orlo del grembiule già stropicciato, mentre un paio di ciocche bionde sfuggono al mollettone dietro la testa, ricadendole ai lati del viso quando lo china per spostare lo sguardo sulla punta delle pantofole che indossa.
- Mi dispiace. – aggiungo. Non so cosa possa farsene anche delle mie scuse, in realtà mi sembra di starle riempiendo la testa per evitare che mi stia davvero a sentire. Io le ho detto che sono innamorato di un uomo, di Chakuza!, e poi ho continuato ad aggiungere particolari idioti e inutili, soltanto per deviare l’attenzione verso qualcosa che fosse meno scomodo rispetto alle immagini che sicuramente si staranno formando nella sua testa mentre io sono qui a dire e pensare e anche fare assurdità.
- Potresti… - dice con difficoltà poco dopo, inumidendosi confusamente le labbra, - …intendo, andare? Non… non me la sento di parlare adesso. – conclude in un mezzo singhiozzo. Io annuisco lentamente, allontanandomi a ritroso, senza voltarle le spalle.
- Non subito, ok? – mi raccomando, - Ma quando ti senti… più tranquilla, ecco, chiamami. Ne parliamo. Sono quasi sicuro che non serva a niente, ma-
- Non servirebbe a niente, infatti. – taglia corto lei, voltando lo sguardo altrove, - …ma ti chiamerò. Fra… qualche tempo.
E finisce così, con me che me la lascio alle spalle, chiudo la porta e scendo al piano terra, per poi mettermi a camminare tranquillo per le strade di Berlino, verso casa. Mentre svuoto la testa da tutto – tutto quanto – quasi non mi accorgo che i piedi, da soli, stanno andando verso casa di Chakuza. Quando lo capisco mi scappa una risata, perché sarebbe allucinante andare lì adesso, contando che Chaku è già dove dovrei andare, e cioè nel mio appartamento. Ricomincio a guardare le strade, cerco la via più breve per tornare a casa e quando torno – apro con le chiavi, non voglio disturbare, e poi è casa mia, che diamine – lo trovo che dorme sul divano. Ha perfino fatto la fatica di alzarsi dal letto, commovente.
- Chaku. – sbotto risentito, - Oh, guarda che quel divano costa quanto tutta casa tua intera, sai?
- Mmhn…? – apre gli occhi lui, stiracchiandosi per quant’è lungo – cioè poco – e puntando i piedi sul bracciolo, a rischio di scardinarlo, - Già tornato? – sbadiglia, - Fatto presto.
- Avevo poco da fare. – sospiro crollando sul divano accanto a lui, che tira indietro le gambe per farmi posto e poi si mette seduto, grattandosi distrattamente la pancia.
- È andata bene?
- Quando mai vanno bene queste cose?! – sbotto irritato, e lui ride, ma è una risata triste.
- Hai ragione. – annuisce distratto, cercando a tentoni coi piedi le pantofole che mi ha ovviamente rubato per affrontare l’impervio e lungo tragitto che lo separava dal letto al divano – tipo, cinque metri, comprensivi di corridoio ricoperto di moquette.
- Comunque, - sospiro, rilassando la schiena e il collo, - insomma, quello che dovevo fare l’ho fatto.
- Anche io. – dice improvvisamente lui saltando in piedi, sistemandosi le pantofole e muovendosi spedito verso la cucina neanche conoscesse già tutto l’appartamento a menadito, - Insalata di riso. Ne ho fatta un po’ tanta, ma si può sempre conservare. Ci ho messo l’olio così tiene di più, volendo ci si potrebbe mettere anche la maionese ma non ne avevi in casa. Comunque hai gli stipetti pieni di roba, me le sogno io ‘ste cose a casa mia, facciamo cambio di appartamento?
Sollevo la testa per guardarlo di sbieco mentre torna dalla cucina con una ciotola enorme piena di riso fino a scoppiare e due cucchiai in mano.
- Hai preparato da mangiare? – chiedo, - Ma funziona la mia cucina? Non la uso da secoli…
- No, non l’avevi mai usata. – ride lui, - Almeno, ho dovuto togliere io lo scotch dal fornello grande, quindi quello di sicuro non l’hai mai toccato.
Rido anch’io, vagamente imbarazzato.
- Ti sei subito messo a tuo agio. – commento, mentre lui si siede accanto a me e posa la ciotola sul divano, fra di noi, incurante di quanto enormemente potrebbe macchiarsi la fodera.
- Odio perdere tempo. – mi risponde, cercando a tentoni il telecomando mentre mi passa il mio cucchiaio. Accende la televisione, fa un po’ di zapping, si ferma su un programma scemo e poi mi fa un mezzo sorriso idiota.
- Buon appetito. – dice.
- Buon appetito. – rispondo.
E poi comincio a mangiare.
*
Se questa fosse una situazione normale – voglio dire, se io e Chakuza vivessimo una vita da persone normali, non ci sarebbero problemi di sorta. So come funzionano le relazioni, in genere quando t’innamori di una persona nuova – o ti innamori di nuovo della stessa persona per la centesima volta – attraversi un periodo in cui vedi esclusivamente solo quella persona e tutto ciò che fai, pensi e dici lo rivolgi idealmente a quella persona lì, come se nell’universo intero non esistesse nessun altro. A prescindere da quanto profondo sia l’affetto che stai provando, eh, perché può essere il vero amore così come una semplice cotta, funziona sempre allo stesso modo. Perciò io e Chakuza ci ritroviamo da un lato a non voler fare altro che starci intorno – non è nemmeno una cosa sessuale, il che mi sconvolge più di quanto dovrebbe – e dall’altro lato a renderci conto che comunque non è così che possiamo fare.
Almeno, non è così che può fare lui, dato che, al di là di tutto, c’è ancora un album da ultimare e definire, in uscita fra pochissimo e con un tour da preparare.
Quando mi sveglio, lo trovo già vigile, il che mi preoccupa. Chakuza raramente riemerge dal mondo dei sogni prima che lo faccia io, e quando lo fa è quasi sempre perché ha qualcosa di ingombrante e complicato che gli ingolfa la testa. Oltretutto, in genere quando si sveglia prima di me si alza anche prima di me. Si alza, prepara la colazione, si lava e comincia a vestirsi, semplicemente perché, come tutte le cose piccole, è uno che deve scaricare l’energia in fretta, perché poi non ci mette molto a ricaricarsi. Voglio dire, è come quando riempi d’acqua un vaso e un bicchiere contemporaneamente: il bicchiere si riempie subito, il vaso ci mette più tempo. Chakuza è un bicchiere, quindi è svelto nell’autoricarica.
Oggi invece niente, è sveglio e fissa il soffitto con aria contrita e seria, le sopracciglia aggrottate e le labbra così strette da sembrare disegnate. Mi sollevo sugli avambracci, piantando i gomiti sul materasso, e lo guardo.
- Posso sempre contare su di te quando si tratta di cominciare la giornata nel modo giusto, mh? – scherzo, e sento la tensione sciogliersi su di lui tutta in un colpo: rilassa i lineamenti e la sua mano, che prima mi stringeva un braccio con forza, allenta la presa e mi accarezza lentamente, come a scusarsi in caso mi avesse fatto male. Naturalmente non me ne aveva fatto, figurarsi, ma è carino che mi accarezzi, perciò lo lascio fare e sorrido anch’io, mentre lui sospira e si stiracchia un po’ a fatica. – Qual è il problema? – chiedo, e quando lo vedo partire in quarta per dirmi che non c’è proprio alcun problema lo fermo nel modo più efficace che conosco, baciandolo a fondo. – E non mi dire cazzate, ci metto due secondi a mandarti ko, austriaco.
Lui ride ancora, scuotendo il capo.
- Mi tocca andare in studio, oggi. – dice in un sospiro stanco, - Ti lascio immaginare quanto ne abbia voglia.
Sollevo gli occhi al cielo, esasperato.
- Abbiamo presentato la regressione infantile odierna di Peter Pangerl. – sbuffo, - Andiamo, Chaku. È il tuo lavoro, non fare il ragazzino.
- Ma ci sarà Bill… - mi fa notare in una mezza lamentela, e io vorrei tirargli un pugno sul naso e dargli del cretino, perché il fatto che io conosca a memoria il suo cervello non dovrebbe dargli l’impressione di avere il diritto di prendermi a coltellate come e quando gli pare, ma lascio perdere, preferendo un altro sbuffo e accasciandomi stancamente sul cuscino.
- Sensibile come al solito, vedo. Mi stupisci ogni giorno di più.
Lui mi si arrotola contro, nascondendo il viso nell’incavo del mio collo e respirando direttamente sulla mia pelle per qualche secondo, prima di parlare ancora.
- Scusa. – dice. Dovrei trasalire – Chakuza s’è appena scusato. Voglio dire, non so se ci si può rendere conto di quanto questa cosa sia assurda. Me lo sarò mica sognato? – ma lui non me ne dà il tempo. – Vieni con me? – chiede. Quando mi allontano un po’ per cercare i suoi occhi, lo trovo già lì pronto a ricambiarmi lo sguardo con una serietà ed una tranquillità che mi stupiscono profondamente.
- Perché? – chiedo un po’ incerto. Lui non distoglie lo sguardo.
- Perché ne ho bisogno. – risponde sinceramente. E poi lo ripete, ma stavolta non è una domanda. – Vieni con me.
E visto che non è una domanda, io non ho nemmeno bisogno di rispondere.
*
Non ho idea di come Chakuza potesse pensare che la mia presenza in questa stanza potesse risolvere le cose o renderle meno pesanti. Allo stato attuale dei fatti, probabilmente non fa che peggiorarle, perché io in questo gruppo di persone non c’entro neanche per sbaglio, perché Jost mi sta guardando come se fossi un folle – nei suoi occhi c’è qualcosa di molto simile a un “ma sei fuori a infilarti di tua iniziativa in questa guerra fredda?” – perché Anis non riesce a capire in che veste io sia qui al momento, perché Bill vorrebbe piangere e sento le sue lacrime come se mi stessero scorrendo sulla pelle anche se non ne ha ancora versata nemmeno una e soprattutto perché Chakuza si sta comportando in maniera talmente pessima che io per primo avrei voglia di prenderlo per la nuca e spaccargli la faccia contro una parete. La mia presenza qui non è semplicemente inutile, no, è deleteria.
Da quando siamo arrivati, Chakuza non ha rivolto a Bill nemmeno un saluto. Il che è idiota ed è irritante ed è ridicolo, perché io so che vorrebbe sollevare lo sguardo e cercare quantomeno di sorridergli, lo sa Bushido, lo sa Bill, lo sa Jost, tutti qui dentro sappiamo che dentro la testa di Chakuza c’è di tutto ma di sicuro non lo stimolo di ignorarlo. Ed è frustrante e imbarazzante osservarlo mentre fissa ostinatamente lo sguardo sul programma che Jost sta proiettando sulla parete di fronte – una sequela di date di cui prendo nota solo distrattamente, dato che so già che non avrò una parte nemmeno marginale in tutto questo – quando tutti sappiamo che di quel programma non gli frega un accidenti, quando tutti sappiamo che l’unica cosa che vorrebbe guardare è appena lì alla sua destra e sta smaniando per avere quegli occhi addosso almeno un’altra volta, anche solo per un attimo.
L’atmosfera non ci impiega niente a tendersi come un elastico, in queste condizioni. E, dopo qualche minuto, come un elastico scatta anche, e Chakuza deve solo ringraziare che Bushido ami Bill al punto da desiderare di non deluderlo mai, perché altrimenti l’ultimo saluto di Anis, prima di uscire, non sarebbe stato “a domani”, ma un pugno sul naso.
Quando la sala s’è svuotata quasi totalmente, i Tokio Hotel sono sfilati come una corte al seguito della Principessa che accompagnava il Sovrano e gran parte dello staff ha seguito l’illuminato esempio, Jost ci guarda a lungo, a me e a Chakuza, e poi solleva entrambe le braccia in un gesto di resa.
- Io non ne voglio sapere niente. – borbotta, e il secondo dopo è fuori anche lui. Lo osservo uscire ed anche se non vedo Chakuza e non lo sento muoversi, so che sta tremando di rabbia sotto la superficie della sua calma apparente, e vorrebbe devastare questa stanza facendone a pezzi ogni singolo mobile e buttando giù le pareti a testate. L’unica cosa che lo frena è che non è a casa sua e non è un vandalo, perché vivaddio i suoi genitori almeno l’hanno educato per bene, altrimenti in pochi minuti la Universal si ritroverebbe rasa al suolo per la furia di un solo uomo.
Mi volto a guardarlo sospirando anticipatamente. Lo faccio adesso, tanto so che dovrò ripetermi in futuro.
- Non dire una parola. – dice Chakuza, alzandosi in piedi di scatto e cominciando a vagare per la sala riunioni come una tigre in gabbia, - Nemmeno una parola.
- Non sto fiatando. – gli faccio notare, inarcando un sopracciglio e restando seduto dove sono, - E comunque sei tu quello che dovrebbe parlare.
- E per dire cosa, di grazia?! – sbotta lui, voltandosi repentinamente a guardarmi. Io scrollo le spalle.
- Per motivare il tuo comportarti come un ragazzino di due anni, magari? – ipotizzo, fingendo di rifletterci su, - O per ammettere di essere stato un coglione.
- Fler, vaffanculo. – taglia corto lui. Io sospiro ancora, come volevasi dimostrare, e mi alzo in piedi.
- Naturalmente. – annuisco, - Questo è il momento in cui io comincio con l’elenco puntato delle cose che ho sbagliato fino ad adesso, giusto? A partire da quando ti ho lasciato mettermi le mani addosso un secolo fa fino a quando te l’ho permesso per l’ennesima volta ieri, mh? – lo prendo in giro con un sorriso stronzo, - Oggi non mi va. – concludo con una scrollata di spalle, - Perciò a fanculo ti ci mando io, e visto che non sei abbastanza uomo da trovare le palle per muovere il culo e andare dal ragazzino per scusarti di esserti comportato come un idiota, lo faccio io. – lo osservo spalancare gli occhi e la bocca nel tentativo di dirmi qualcosa che probabilmente suona come un altro vaffanculo, anche se ben più risentito, ma non gli do il tempo di tradurre questa espressione scioccata in lingua tedesca, perché gli volto le spalle e mi dirigo tranquillamente verso la porta. – Comunque stasera porto la pizza, se ti trovo a imbrattare la cucina con qualche schifezza delle tue giuro che ti lascio a pulire da solo fino a domattina. – concludo. Mi volto solo sulla soglia, e guardandolo gli sorrido. – A più tardi.
Lui solleva una mano, punta un dito come a chiedere la parola e poi le sue spalle si rilassano in un sospiro stremato.
- …a più tardi. – si rassegna. Io sorrido ancora, uscendo dalla sala riunioni. Prendere nota: con Chakuza, litigare non serve. Potrebbe tornarmi utile in futuro.
*
Anis mi accoglie sulla porta con le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a due fessure. Conosco quell’espressione, è quella che, se noi si vivesse in un’altra epoca e ci si vestisse di raso e velluto con le armature al posto dei panciotti che comunque non usiamo ed enormi pantaloni a sbuffo che si fermano appena sotto il ginocchio, farebbe da preavviso al suo puntarmi contro il viso un indice e strillare “traditore!”. Visto che invece viviamo nel ventunesimo secolo e ci vestiamo in jeans e maglietta, lui comunque mi punta un indice contro il viso e comunque apre la bocca per darmi del traditore, ma l’effetto non è lo stesso, non c’è lo stesso pathos, perciò mi basta sbuffare platealmente, afferrare il suddetto dito e allontanarlo spiccio dalla mia persona, per intrufolarmi in casa sua e guardarmi intorno, riprendendo confidenza con l’ambiente circostante.
- Potrei denunciarti per violazione di proprietà privata. – mugugna Anis, massaggiandosi il dito come gliel’avessi lussato. Io sbuffo ancora, agitando una mano con aria disinteressata.
- Non cominciamo col giochino dell’elenco delle malefatte, perché sai che perderesti, okay? – taglio corto, tornando a guardarlo con le mani sui fianchi. – Bill?
Lui incrocia le braccia sul petto.
- È di sopra. – risponde burbero, - E non hai il permesso di andare a trovarlo.
- È una vera fortuna che non te l’abbia chiesto, allora! – esclamo con entusiasmo, dandogli le spalle e dirigendomi verso le scale, - E tu non hai il permesso di salire a interromperci, comunque.
- È una vera fortuna- - comincia lui, ma lo interrompo con una risata, saltando gli scalini a due a due per far prima, motivo per cui lui lascia perdere e si dirige in cucina con un “bah!” esasperato.
Bill – in camera del quale entro senza bussare – sta ascoltando musica con gli auricolari ben piantati nelle orecchie. È steso sul letto, i capelli sparsi sul cuscino e le gambe intrecciate. Ultimamente è così magro che sotto i pantaloni – che si allargano in sbuffi sul materasso sotto di lui – sembra non abbia niente a parte due stampelle per tenersi dritto.
Bill è un’ulteriore prova di quello che dicevo prima riguardo i contenitori piccoli che si riempiono più in fretta, mentre i contenitori grandi hanno bisogno di più tempo. Lui sarà sottile, ma è così incredibilmente lungo che per forza, quando succede qualcosa che lo drena e lo svuota del tutto, ha bisogno di lunghi periodi di nullafacenza, per potersi ricaricare per bene.
Solleva appena le palpebre ancora pesanti di trucco, e mi saluta con due dita.
- Stanco? – chiedo, lasciandomi andare di peso al suo fianco con tanta forza che il suo corpo, leggerissimo, saltella sul materasso e poi torna giù in uno sbuffo sommesso.
- Mmh-mh. – annuisce lui, è un gesto impercettibile. Lo noto solo perché ormai lo conosco abbastanza bene da non aver bisogno di gesti plateali, per comprenderlo. È anche questo, che lo stanca così tanto: non è facile capire Bill, per questo è costretto a esprimersi sempre in maniera chiassosa, o nessuno gli dà retta. Bill non è mai pacato, non è mai silenzioso, è sempre in qualche modo violento in ogni sua manifestazione. Però quando si scarica è in questi termini che si riduce. Esprimersi diventa una questione di millimetri, e tu devi imparare a misurarli correttamente, se vuoi continuare a stargli dietro.
- Lo immaginavo. – dico, accomodandomi meglio accanto a lui, - Chakuza è stato un coglione, puoi anche dirlo, sai?
Lui scuote il capo, due millimetri a destra, altri due a sinistra. Pressa appena il pollice contro il pulsante di spegnimento del lettore mp3, e poi mi guarda con l’aria di un cucciolo bastonato, gli occhi enormi su quel visino sfilato tanto umidi da stringermi il cuore. Spalanco le braccia, e lui si fionda su di me esaurendo probabilmente in un unico colpo tutta l’energia che era stato in grado di recuperare con l’immobilità che aveva tenuto fino a quel momento. Singhiozza contro il mio petto, macchiandomi la maglietta, e non me ne frega niente. Fosse qualsiasi altra persona in una qualsiasi altra situazione, ricorderei quanto questa maglietta di merda costi in realtà e sarei pronto a staccare più di una testa a morsi, come punizione. Ma è Bill e sta male, e quindi tutto il resto – maglietta di merda compresa – non vale un cazzo. Ed io lo lascio piangermi addosso.
Non dice niente per un sacco di tempo, un po’ perché sa che non c’è molto da dire, un po’ perché sa perfettamente anche di non aver bisogno di dire niente proprio a me, e così tutto quello che risuona per la stanza, per molti minuti, è il suo pianto sommesso. Non fa rumore perché non vuole che Anis lo senta, io lo trovo tenero ma mi annoda lo stomaco, perciò cerco di tranquillizzarlo abbastanza da farlo smettere, almeno un pochino. Gli accarezzo le spalle, lentamente, e lui mi si stringe contro, nascondendo il musetto contro di me, risalendo su fino alla spalla e al collo. Si lascia dietro una traccia scura che faticherò a giustificare a Chakuza – fa niente.
- Ehi… - lo chiamo dopo un po’, quando sento i suoi singhiozzi affievolirsi almeno un po’, - Meglio?
Scuote il capo, le sue spalle si scuotono con lui.
- È tutto… - singhiozza, la voce gli muore in gola, - Non ci capisco più niente, Patrick.
- Ma non c’è niente da capire. – cerco di sorridere, abbracciandolo stretto, - È solo un momento un po’ confuso, vedrai che lasciando al tempo fare il suo mestiere tutto andrà al suo posto.
Lui solleva gli occhi. Mi guarda con aria persa, le guance rigate di lacrime e le labbra che ancora tremano un po’.
- Ci credi davvero a questa cosa? – chiede debolmente.
Io scrollo le spalle.
- Il tempo ti ha guarito, quando credevi che Anis fosse morto. Ti guarirà anche adesso, in special modo perché non è morto nessuno.
Lo osservo abbassare lo sguardo per un attimo, e poi tornare a rifugiarsi nell’incavo del mio collo.
- Io non sono mai guarito da quel dolore. – sussurra sulla mia pelle, - È per questo che quando l’ho visto sono impazzito di gioia, nonostante tutto. Perché non mi ero mai veramente rassegnato. E se non l’ho fatto per lui, anche se ero convinto fosse morto… come pensi che potrei rassegnarmi adesso, sapendo che Peter invece è vivo?
Questo è il punto in cui dovrei stringermelo contro e rassicurarlo. Dirgli che presto questo dolore sordo che sente continuamente nel fondo del petto si affievolirà e passerà del tutto, dirgli che dimenticherà – anche se non è vero, perché nella vita non si dimentica mai, ed io ne sono la prova vivente, è che ti abitui, tutto qua, alla fine il dolore diventa una parte di te, mette radici o qualcosa del genere, come le radici degli alberi penetrano la terra fino a sconquassarla del tutto, e ne diventano parte, il dolore fa la stessa cosa col tuo corpo, e alla fine smetti anche di notarlo. Vorrei dirgli che è normale, è così per tutti, è perfino giusto sentirsi in questo modo, per certi versi, ma non posso. Non posso perché, uscito da questa casa, con la traccia del suo mascara ancora sulla maglietta, io prenderò la mia macchina e passerò in pizzeria, recupererò due pizze e due bottiglie di birra e nel giro di un’altra mezz’ora sarò a casa di Chakuza, e lì mangeremo metà pizza ciascuno, butteremo giù la birra in due minuti netti e il minuto successivo saremo già schiacciati contro una qualsiasi superficie a morderci ovunque come se dovessimo divorarci a vicenda. E quindi non ce la faccio, adesso, a guardare questo ragazzino disperato e dirgli che è giusto che soffra. Non ce la faccio.
- Si sistemerà tutto. – gli sussurro fra i capelli, e lui mi stringe al collo con tanta forza da togliermi il respiro, - Ti prometto che si sistemerà tutto. – ripeto, cingendolo alla vita.
Lui annuisce. Lo fa con forza, con l’ostinazione dei bambini, e so che non ci crede ma vuole provarci. Ce lo faremo bastare, ragazzino. Tu provaci. Proviamoci entrambi.

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Walls fall down

di tabata
Quando Karima pulisce, non passa soltanto lo straccio. Lei prende in consegna tutta la casa ed è come se in qualche modo riuscisse a buttarla giù e poi a ricostruirla in toto per poi riconsegnartela che è una casa nuova. Ho visto il salotto tornare alla vita dopo certe feste in cui la cosa più carina l'aveva fatta Saad vomitando nel vaso del Ficus Benjamin. E questo avveniva su base giornaliera. Potete immaginare quello che ha fatto quando oltre alla casa, David mi ha restituito anche lei. Non che ci fosse sempre rimasta dentro, ovviamente, ma nel momento esatto in cui ho ripreso possesso dei miei beni immobili, ho anche fatto in modo che David recuperasse questa donna, che immobile non è, e la facesse tornare qui, perché tra cani e il sottoscritto, nessuna delle stanze era più vivibile. E poi mi sembrava un passo ottimistico, in previsione di ristabilire anche tutto quanto il resto. Karima – esattamente come mi aspettavo - non ha fatto molte domande. Si è presentata sullo zerbino di casa mia due giorni dopo la convocazione di David, mi ha toccato per vedere se ero vivo come si diceva in giro, quindi mi ha detto che ero sciupato e che mi avrebbe preparato qualcosa. Dopodiché si è messa il grembiule e mi ha ribaltato la villa fino a che ogni singolo granello di polvere non è sparito e i pavimenti non hanno ripreso a brillare. I cani, che si erano felicemente abituati a dormire nella mia stanza, sono stati banditi in giardino e per quanto Skyline mi guardi tutt'ora in cerca di pietà attraverso la finestra del mio studio, non c'è niente che possa fare per lui perché in questa casa, in fatto di igiene e pulizia, comanda quella donna e io sono troppo felice di averla intorno che mi prepara soffritti di cipolla per un reggimento per discutere con lei sull'educazione dei miei labrador. Per il momento lascio che faccia come le sembra meglio.
L'unico momento in cui davvero mi preoccupo è quando le do la notizia che Bill verrà a stare con me. Lei mi chiede soltanto “E dove lo metto a dormire?” che è una domanda retorica, perché lei lo sa benissimo che Bill dorme con me. Quindi mi lancia un'occhiata disapprovante e se ne torna in cucina, borbottando che ci sarà il doppio da fare per lei. Ho quasi paura che finirà per spedire in giardino anche lui.

*


Quando penso a me e a Bill mi rendo conto che io e lui non abbiamo mai davvero seguito le regole. Più che corteggiarci, ognuno di noi ha costretto l'altro ad accettare la propria presenza. Siamo due manipolatori, anche se di due razze diverse, e a nessuno dei due in realtà, piace fare la preda, nemmeno a Bill che ama, sì, che il mondo gli giri intorno, ma vuole essere lui a decidere la direzione.
Era bello scommettere su chi ogni giorno avrebbe ceduto per primo, se io al modo in cui piegava le ciglia, o lui al modo in cui io piegavo le dita.
E' sempre stato un gioco di trucchi, fra di noi, non certo di avances. Una rete sottile di trappole che ci divertivamo ad imbastire, ma in cui era ancora più divertente fingere di cadere. Ora, però, mentre lo guardo pettinarsi rannicchiato ai piedi del letto, mi chiedo se quest'ultima trappola gli sia sfuggita e ci sia caduto davvero. Se a questo gioco, alla fine, sto giocando da solo.
Quando David ha saputo quali erano state le conseguenze dei suoi lungimiranti consigli, ha dato di matto né più né meno di quanto mi aspettassi. D'altronde, sapevo perfettamente che nel dirmi che dovevo tirare fuori le palle, non intendeva che io trascinassi Bill a vivere con me ma che, molto più sportivamente, mi rimettessi in gioco e gareggiassi con Chakuza per riprendermi la mia Principessa. C'erano dettagli che non aveva preso in considerazione, però. E sapevo anche che non lo avrebbe fatto perché David è uno che sa organizzarti il funerale, la fuga e la resurrezione, ma di come funzionano queste cose, c'ha sempre capito un po' poco, ne è un esempio il fatto che alla fine si sia innamorato del sottoscritto, che altro non può fargli che del male.
Prima di tutto, io non sono sportivo. Il mio codice d'onore prevede una serie di divieti ma non quello di giocare sporco - io vengo dalla strada, non conosco altro modo di giocare.
Secondo, se avessi seguito le regole non sarei stato io, e non trovando me, Bill avrebbe certamente scelto Peter che a comportarsi bene è sempre stato più bravo del suo capo. D'altronde era con me per questo, ricordiamolo.
Così ho fatto l'unica cosa che so fare, ho giocato a mio favore. Quando me ne sono andato, la domanda che non avevo mai fatto era rimasta nell'aria. Avevo avanzato l’ipotesi che si potesse vivere insieme, io e Bill, e al tempo quella non era un’esca quanto il tentativo di sondare il terreno, di vedere se il mio ragazzino si sarebbe spaventato di fronte ad un passo così significativo. Passare la notte con una persona è una cosa da grandi, viverci insieme è una cosa da adulti e se avevo qualche dubbio che Bill fosse mai uscito dall’adolescenza, di certo non ne avevo sul fatto che non fosse ancora un adulto. Quindi quella domanda l’avevo buttata lì vaga e per caso, giusto per annusare la reazione e, in caso fosse stata negativa e spaventata, deviarla come una granata prima che potesse esploderci addosso. Bill prima della mia morte non aveva risposto. Mi aveva solo guardato, cercando nei miei occhi una spiegazione più precisa, come a rassicurarsi di aver capito bene. Poi sono morto e quella possibilità che aveva apparentemente messo da parte ci è sfuggita tra le dita. Molte volte, nel corso dell’ultimo anno, mi sono chiesto come sarebbe stato vivere con lui, averlo sempre in giro per casa, come sarebbe stato fare la spesa, perfino! Tutto sembra stupendo quando non hai più la possibilità di farlo, né la paura di doverlo fare davvero.
Così, quando gliel’ho chiesto, nella sua stanza, tra i ricordi del mio assassinio e di tutto il sangue che c’era, a lui come a me è sembrato di poter tornare indietro e mettere a posto le cose, che forse significa una cosa diversa per ognuno di noi, ma non importa. Il discorso è sempre quello. C’eravamo noi, e possiamo esserci ancora e se per farglielo capire ho dovuto calcare la mano, va bene così.
O almeno pensavo che andasse bene così. Con Bill è sempre andata bene così: non ha mai voluto veramente il guanto di velluto. Una volta si annoiava ad essere solo accarezzato, bisognava fargli sentire un po’ di forza, giusto perché lui potesse fingere di doversi lamentare. E invece adesso lo guardo e non lo so più che cosa vuole.
Bill si è presentato a casa mia la sera stessa dell’invito, quasi tre settimane fa, con due valige e gli occhi nascosti dietro alle lenti scure dei sui Gucci nuovi di zecca. Per il suo rientro ufficiale in casa mia non mi aspettavo niente di elaborato, né niente di troppo epico. Mi sarebbe bastato vederlo felice di rimettere piede nel suo regno che senza di lui non era più lo stesso. Viverci con Fler è stato interessante, ma l’ho passata da tempo l’età della convivenza con i miei simili, e in più quando qui c’è stato Patrick io non ci stavo con la testa – non ci sto neanche ora – non me la sono goduta nemmeno questa rimpatriata fra me e lui. La verità è che queste pareti racchiudono molto di me e un po’ di Bill, e senza me o lui, questa casa manca di qualcosa.
Comunque, non mi aspettavo grandi cose, anche perché il punto della questione non era affatto che Bill varcasse la soglia di casa mia, ma che ci restasse, che me lo fossi ripreso. Non era una cosa così scontata. Difatti non sembrava neanche lui. Quando gli ho aperto la porta mi ha fatto solo un sorriso stanco mentre lo baciavo piano sulle labbra e poi mi ha chiesto “Mi aiuti a portarle su?”
Non mi aspettavo che le cose andassero bene da subito, capite? Sono un uomo in grado di realizzare l’impossibile – ho portato l’omosessualità nel rap, sono morto e sono risorto – ma sono anche uno disposto a fare le cose con calma, se necessario. Quindi non immaginavo un rientro allegro, con Bill che tornava all'istante quello che era stato mesi fa senza un solo problema al mondo.
Sapevo che non si sarebbe lasciato alle spalle Chakuza come una cosa da niente e, per com’è fatto lui, gli ci sarebbero voluti mesi per dimenticarlo e per non averne tutto quel bisogno che di solito prova verso le persone che ama. Mi bastava pensare a quanto fosse legato a Tom e a quanto tempo avevo impiegato a convincerlo che non sarebbe rimasto senz’aria se solo si allontanava di un passo da lui. Bastava pensare a com’era stato legato a me – a come volevo credere che fosse ancora legato – e a come si era disfatto nel momento in cui io non ero più stato accanto a lui.
In base a tutto questo, mi aspettavo che la conseguenza di una rottura tra lui e Chakuza avrebbe portato ad un lungo periodo di confusione da parte sua.
Quello che avevo previsto, però, non è neanche lontanamente paragonabile a quello che in effetti è, ossia l’ombra di Bill che si aggira per casa mia senza nessuno scopo apparente e con lo sguardo sempre perso altrove, in un punto in cui non riesco mai a raggiungerlo.
Io non ho mai avuto dei veri problemi a capire Bill, nonostante tutti i tentativi che ha sempre fatto di nascondersi dietro mura di irritazione, di contegno e di fragilità, io ci ho sempre visto attraverso, come fosse stato fatto di vetro. Ci ho visto attraverso fino a poche settimane fa, quando non mi ci è voluto niente ad averlo ai miei piedi toccandolo appena. Ora, però, faccio fatica a ritrovare quella stessa trasparenza, è offuscata, grigia, come se mancandomi un pezzo della sua vita, la sua persona non fosse più tanto limpida. E anche se me la raccontassero – me lo hanno raccontato, in effetti, che cos’è successo – non servirebbe a niente, perché quella macchia scura, ormai, per me, non si pulisce più. Devo tenermi questo Bill così com’è e sperare che col tempo, a furia di raschiare, torni un po’ più limpido.
In questi giorni fra me e lui c’è stato soltanto un barlume di tenerezza. Non che non lo desideri o che, se per questo, non lo faccia lui. E’ solo che fra di noi c’è un muro e quel muro è Chakuza. Paradossalmente è stato più facile toccarsi mentre Bill stava ancora con lui. Quando c’incontravamo, il nostro cervello si limitava ad escludere ogni dettaglio che non fossimo noi. Creavamo uno spazio in cui amarci indipendentemente da quello che era il presente, tirando in causa tutto ciò che era stato. Non serviva nient’altro. E se c’era Chakuza là fuori, poco importava. Una volta spezzata la bolla, la Principessa sarebbe tornata dritta tra quelle braccia. Io lo prendevo in prestito e lui, per così dire, si lasciava prestare, certo che niente sarebbe cambiato davvero. Era un’illusione.
Adesso però, non è così. Adesso se lui mi bacia, se io lo tocco, dobbiamo fare i conti con ciò che Bill ha deciso di lasciarsi alle spalle e, se a me il pensiero non provoca né il minimo rimorso né la minima preoccupazione, lui invece si frena e si tira indietro.
Non lo fa coscientemente, ma succede. Se lo abbraccio, sento il suo corpo irrigidirsi tra le mie braccia e anche se mi bacia e mi accarezza, c’è una distanza che non riesce a colmare. Posso andargli incontro fino ad un certo punto ma il resto della strada deve farla lui e non riesce. Abbiamo passato le notti abbracciati nel mio letto, lui guardava il cielo di Berlino fuori dalla finestra, come un anno fa, prima di addormentarsi dopo aver fatto sesso, ma la differenza che ho sentito è così grande che mi ha quasi dato alla testa. Vorrei scuoterlo, vorrei smetterla di accarezzarlo in punta di dita e poter premere le mani tra le sue cosce senza che l’abbandonarsi del suo corpo sia meccanico e dovuto.
Vorrei riavere Bill indietro e mi sforzo di non chiedermi dove esattamente l’ho lasciato perché credo di sapere la risposta e non mi va di dirla ad alta voce.
Oggi, dopo settimane di convivenza, una riunione alla Universal ci ha di nuovo costretto tutti insieme nella stessa stanza. Io, lui e Chakuza. Ormai siamo tre nomi che pronunciati tutti insieme presagiscono catastrofi e David lo sa tanto bene che ci fa sedere ognuno ad un lato diverso del tavolo così che almeno, se dobbiamo saltarci alla gola, dobbiamo prima fare tutto il giro della stanza e lui magari ha il tempo di fermarci. Ha installato un maxischermo in fondo alla sala, credo nella speranza di ipnotizzarci tutti con filmati in powerpoint ed evitare la rissa, quindi ha preteso silenzio e ha ignorato le occhiate che io ho lanciato a Chakuza e quelle ancora più rumorose che lui non ha lanciato a Bill. Ha ignorato la tensione e la presenza di Fler che, devo essere sincero, non ha ancora una spiegazione nemmeno per me. Non ho trovato il tempo di chiederglielo e, anche se ce l'avessi, dubito di conoscere un modo carino per chiedergli per quale fottuto motivo si è presentato al fianco di Chakuza quando avrebbe dovuto per ovvie ragioni guardarsi bene dal prendere una posizione diversa dalla mia. Ma non ho tempo, appunto, perché ora la mia priorità è Bill.
Comunque, Bill ha passato gran parte del suo tempo a fregarsene di ciò che David stava dicendo prevalentemente per lui – è lui quello che ha bisogno di programmi talmente dettagliati che ci manca solo gli dicano quando deve andare in bagno – per fissare Chakuza nella speranza che lo guardasse. Il solo fatto che lo facesse in maniera così plateale da essere quasi imbarazzante avrebbe dovuto essere un buon motivo per incazzarmi, ma conosco Bill, come dicevo. Lo so come si muovono i pensieri nella sua testa, come nascono e muoiono le sue paranoie e quanto profondo può essere il baratro della sua angoscia se, per qualche motivo, si dispiace per qualcosa. E l'aver scaricato Chakuza da un giorno ad un altro dev'essere stato un motivo bello grosso per dispiacersi. Dal suo punto di vista, naturalmente. Non ho idea dei termini esatti con cui questi due si sono lasciati, ma è evidente che Chakuza non gliel'ha perdonata e ha deciso per la via della punizione, il che dice molto sull'idea infantile che ha di Bill. Solo che Bill sta male, e vederlo cercare lo sguardo di Peter con tutta quella disperazione senza ottenere nemmeno un'occhiata mi ha fatto più che altro incazzare con quell'uomo che è tanto pronto a dirti che accetterà le scelte della sua Principessa quanto poi è bravo a renderle la vita una merda, non degnandola neanche di uno schifoso sguardo, come se non valesse più un cazzo. Solo per prendersi la rivincita dei bambini. Se in questo momento non è in giro con un altro occhio nero è solo perché Bill non avrebbe voluto, come non vuole tante altre cose. Per esempio non vuole che Chakuza stia male – come evidentemente sta –, non vuole perderlo come amico – come forse, di questo passo, potrebbe succedere – e non vuole questa situazione. Non vuole le conseguenze negative, perché di fatto non c'è ancora abituato del tutto. Lo abbiamo protetto tutti quanti un po' troppo; la colpa è di suo fratello, di David, mia e sì, anche di Chakuza che, a quanto posso immaginare, deve averlo tenuto come una cosina in cristallo di Boemia, attento che non si scheggiasse nemmeno. Anche prima di tutto questo casino era così. Se qualcosa andava storto, poi si raddrizzava. Qualunque cosa fosse. Nella sua testa si dev'essere formato a livello inconscio il concetto che tutto avesse una soluzione pacifica. Cristo, se ci pensate, nemmeno la morte è stata definitiva nel suo mondo di favola: mi ha perso, ha pianto, s'è disperato... ma sono tornato. La sua percezione della negatività nella sua esistenza dev'essere un completo disastro.
Da quando sono morto Bill ha fatto dentro e fuori dalla sua bella campana di vetro: io muoio – fuori – l'amicizia di Chakuza – dentro – l'uccisione di Saad – fuori – Chakuza che se lo scopa – dentro di nuovo. E ora ecco che si ritrova buttato fuori a calci, perché non puoi scaricare un uomo come ha fatto lui, metterti col suo fottuto rivale e pensare che quello rimanga il tuo amico del cuore. Anche se quell'uomo riesce a recuperare quel tanto che basta per esserti amico, non ci sarà un attimo della sua esistenza che, quando gli siedi accanto, non penserà rabbioso a com'era averti e a come avrebbe potuto essere continuare a farlo. E' così e basta.
Quindi lo so perché adesso se ne sta ai piedi del letto ed è tutto concentrato su quella spazzola e sul movimento, dall'alto verso il basso, che gli stira lentamente le lunghe ciocche nere e bianche. Ha bisogno di tenersi insieme, in qualche modo, perché in questo momento è una statua andata in frantumi e ricomposta alla meno peggio, ma senza colla. I pezzi sono solo appoggiati gli uni sugli altri e basta una folata di vento per mandarli tutti all'aria di nuovo. Il pianto che si è fatto con Fler, qualche ora fa, non è bastato a calmarlo. E non importa che abbia tentato di nasconderlo e che faccia finta non si sia lasciato andare ai singhiozzi, perché tanto io le cose gliele leggerei in faccia anche se non avesse gli occhi rossi e lucidi, e le labbra non tremassero di tanto in tanto, quando perde il controllo della sua testa e i suoi pensieri tornano a questo pomeriggio, a Chakuza, alla situazione e a Dio solo sa che cosa che non so e che probabilmente lo far star peggio di tutto il resto.
Il sospiro enorme che ha tirato prima di voltarsi e sorridermi mentre entravo nella stanza è stato il suo tentativo di lasciarsi tutta questa tristezza alle spalle, ma non lo so se gli è riuscito poi tanto bene.
Speravo che Fler potesse aiutare dal momento che sembra saperci fare con Bill e in più, a quanto pare, conosce anche Chakuza ma immagino che, dopotutto, i miracoli non riescono neanche a lui, se non riescono a me. Ci vorrà un po' più di tempo perché Bill impari a conciliare noi due con le conseguenze del nostro stare insieme.
Poso una mano sulla sua e lo fermo.
Solleva lo sguardo, senza capire. “Sei già bellissimo così,” mormoro con un mezzo sorriso, togliendogli la spazzola di mano e posandola sul comodino. “Adesso basta.”
Lui si lascia maneggiare come ha fatto per tutte queste due settimane e non oppone resistenza quando me lo tiro contro, anzi si accoccola contro di me e mi nasconde il viso nel collo. E' una cosa che mi rende felice, perché questo, invece, è la prima volta che lo fa da quando è tornato. Mi si sistema seduto in grembo e mugola quando lo abbraccio e poso le mani sui suoi fianchi.
“Stanco?” Chiedo.
Lui si stringe nelle spalle e intreccia le braccia dietro il mio collo, appoggiando la fronte alla mia. “Un po',” ammette.
“Evidentemente, Altezza, non siete più abituata a lavorare,” lo prendo in giro. Gli premo il naso col mio e lui lo arriccia un po'.
Mi fa un sorriso piccolo. “Se sono la Principessa, allora forse non dovrei mai lavorare.”
“Lo sai che nel mio regno, nessuno sta con le mani in mano,” gli ricordo. “Non mi piacciono i sudditi che vivono di rendita.” Quando ho Bill tra le braccia, è difficile trattenermi. Ho dato ampia prova di questo durante le riprese per il video di Prinzessin. Quindi adesso che siamo soli nella mia stanza, non mi trattengo dal lasciar scorrere le mani lungo la sua schiena e le labbra lungo il profilo del suo viso perfetto. Sento le sue ciglia che mi accarezzano.
“La principessa non è un suddito,” mi mormora tra le labbra. Lo assaggio appena e mi ritraggo quel tanto che basta per vedere che mi cerca. “Ha la corona.”
Chiudo gli occhi e lo bacio senza rispondergli. Si scioglie morbido quasi subito e lo sento sistemarsi bene sopra di me, puntando le ginocchia sul materasso, mentre serro la presa sui suoi fianchi e me lo spingo addosso. La frizione che ne segue è deliziosa, ma il mugolio che gli strappo di bocca è soltanto un assaggio di ciò che voglio davvero sentire.
In un anno che sono stato lontano, non ho mai dimenticato che sapore avesse Bill o che profumo avesse la sua pelle quando lo spogliavo. L'immagine del suo corpo tra le lenzuola non mi ha mai abbandonato, così come la sensazione di averlo tra le dita. Quindi adesso, mentre gli tolgo la maglia, non è una sorpresa, ritrovo solo quello che già ricordavo. E' un regno conosciuto, Bill. Il mio.
Sono passati mesi dal giorno assurdo in cui ci siamo ritrovati e lui mi è caduto tra le braccia, dimenticandosi di dirmi come stavano le cose. Da allora, però, l'ho soltanto sfiorato e Bill è consapevole che non è stato sufficiente. Le mie incursioni sul suo corpo non erano né più né meno che saluti innocenti, se si pensa che sul suo corpo io ho sempre avuto il controllo totale, che lo toccavo anche mentre dormiva. E lui se lo ricorda.
Io e lui non abbiamo mai avuto misura, stando insieme.
Ci amavamo facendoci male, a volte. Io non ho mai pensato che quel poco che pesa potesse essere un buon motivo per usargli cortesia quando avevo voglia di sbatterlo da qualche parte; lui non si è mai preoccupato quando mi ficcava le unghie nella schiena, mentre perdeva contatto con la terra e per lui restavo solo io, dentro di lui. Aggredirsi pur di sentirsi vicini era un bisogno e la mia priorità adesso è recuperare quella nostra violenza, così gliela cerco addosso mentre lo stendo tra le coperte e lui mi fa spazio, obbediente, le mani perse tra i miei capelli che ha subito sciolto perché gli ricadessero addosso. La facilità con la quale si perde subito tra le mie carezze, m'impedisce di preoccuparmi di come spogliarlo o di dove siano finiti i nostri vestiti dopo che l'ho fatto. La sua pelle sotto le dita è l'unica cosa che voglio sentire, in questo momento. Chiudo gli occhi e percorro tutto il suo corpo con le labbra, potrei tracciarne ogni singola curva anche senza guardarlo. Le sue mani seguono lo stesso itinerario su di me, scivolano lungo il mio petto e si aggrappano alle mie spalle quando lo sfioro appena. Il suo essere così falsamente arrendevole mentre si lascia aprire le gambe e la bocca, mentre si lascia esplorare, non fa che eccitarmi di più. Un po' ride e un po' geme quando ringhio, tirandomelo addosso. Se entro in lui quasi subito e quasi senza aspettare è perché lo sa che lo avrei fatto e il suo stringersi a me un attimo prima che lo faccia ne è la prova. Il respiro che mi lascia andare nell'orecchio è incredibilmente caldo e liquido, mi scivola lungo il collo e non so più cosa sto ascoltando se la mia voce o la sua che scandisce i miei movimenti. Ogni mia spinta, ogni suo tendersi e assecondarmi, torna automatico come se in questi nove mesi non fosse cresciuto lontano da me e il suo corpo non avesse conosciuto un altro piacere, un altro corpo, un altro uomo. Io non lo sento che è cambiato. Ad ogni spinta, Bill si stringe intorno a me e mi guarda con gli occhi scurissimi e velati della stessa voglia che c'è nei miei. Così lo spingo sul materasso e gli blocco i polsi contro il cuscino, lui sorride, sollevando i fianchi come a sfidarmi e quello che faccio dopo è strappargli di bocca un urlo, quando mi spingo in lui con più forza e mi lascio annegare nella soddisfazione di vederlo reclinare la testa, di sibilare e perdere quel poco di contatto con la realtà che gli è rimasto.
Ho sempre pensato che fra di noi ci fosse un'armonia quasi magica, un connessione così perfetta e casuale da non poter essere replicata che da noi due. Le magie, però, hanno un prezzo come ogni altra cosa. E il loro è che s'infrangono, prima o poi, per non tornare uguali mai più. Per non tornare affatto, a volte.
La nostra magia si spezza tra le sue labbra, quando mi respira addosso un nome non mio. Gli scivola sulla lingua e non è neanche completo. Pronuncia soltanto le prime lettere e il resto si scioglie in un gemito profondo e deliziato che esce dalla sua bocca e gli scivola addosso, sul corpo fino alle mani tra le sue gambe. Si sta toccando perché io mi sono fermato e per un attimo, uno solo, quando lo guardo vedo Bill com’è tra le braccia di Peter, e non più tra le mie.
Per un lungo istante penso che non so cosa fare né cosa dire. Se quella che ho fra le braccia fosse una persona qualsiasi, forse mi basterebbe incazzarmi e la cosa finirebbe nel giro dei dieci minuti che ci ho messo a sentire quello che ho sentito e a mandare a fanculo tutto. Ma si tratta di Bill. Qualunque cosa io decida di fare nei prossimi dieci minuti, non risolverà affatto la situazione. In realtà mi sorprende essere così lucido dopo una cosa del genere, mentre sono ancora dentro di lui, per altro. E' solo che per quanto uno si sforzi di pensare a come reagire in una situazione del genere, poi non può sapere come ci si sente quando capita davvero.
Io non provo niente. Lo guardo soltanto, mentre si stiracchia come fa sempre dopo aver scopato; si snoda tutto per quanto e lungo, le mani a pugno vicino al viso e i gomiti in alto sul cuscino. Ne segue un respiro soddisfatto e mentre mi stendo con lui e lo accolgo meccanicamente tra le braccia, il mio cervello elabora le parole senza che io possa davvero prima pensarle.
La mia stessa voce che rompe il silenzio mi sorprende. “Deve mancarti molto,” dico, serio.
Lui si volta ed è ancora così in estasi per l'orgasmo che apparentemente si è fatto dare da qualcun altro che non capisce cosa sto dicendo. Mi sorride e forse m'incazzo di più a pensare che sembra sincero in questa sua totale ignoranza. “Chi?” Chiede, sbattendo le ciglia lunghissime.
Avrebbe potuto chiedermi cosa, ma non lo ha fatto. “Come sapevi che stavo parlando di una persona?”
Bill si stringe nelle spalle, spaesato. “Anis, non capisco. ”
Potrei decidere di passarci sopra e andare avanti, che in fondo è una cosa da niente. Una confusione momentanea. Solo che non lo è. E io non sono mai passato sopra a questi due nemmeno quando avevano l'attenuante della mia presunta morte, non posso certo farlo adesso che sono vivo e che ero presente, un minuto fa, quando Bill ha detto il fottuto nome di Chakuza mentre erano le mie mani quelle che aveva addosso.
“Chakuza,” chiarisco. “Deve mancarti molto. “
Lo guardo dritto negli occhi perché la sua reazione è l'ultimo vero ricordo che avrò di noi due in questo letto e voglio che rimanga nella mia testa il più chiaramente possibile.
Lui sgrana gli occhi. Sento il suo cuore accelerare i battiti visto che è schiacciato contro il mio, che sospetto ormai si sia fermato. Davvero, stavolta.
Bill sembra continuare a non capire, ma il movimento impercettibile del suo corpo è una risposta sufficiente. Non vuole sentirlo nominare, perché non è in grado di affrontare le conseguenze dell'effetto che quel nome ha su di lui. Lo avevo notato nelle settimane appena trascorse, ma adesso è tutto così dolorosamente chiaro.
Mi guarda e si scosta una ciocca di capelli dal viso. “Che cosa c'entra Peter?” Chiede, incerto.
“Hai detto il suo nome.”
“Io non...”
S'interrompe perché nel mio sguardo legge tutto ciò che deve; che la mia non era una domanda, per esempio. E che non mi aspetto da lui nessuna giustificazione perché qualsiasi cosa sia avvenuta poco fa, non ce l'ha. Ed è mentre realizzo questo che capisco finalmente come stanno le cose e che posizione occupiamo noi – tutti quanti noi – in quest'universo nuovo di zecca dove io avrei dovuto essere morto e non lo sono.
Sono sempre stato abituato ad ottenere quello che pensavo fosse mio e mi spettasse di diritto, ma questo succedeva quando facevo parte della vita delle altre persone. Quando ho smesso di farlo, questo potere l'ho perso. L'ombra scura che ho visto intorno a Bill non è altro che l'impronta di Chakuza che ha spazzato via la mia nell'anno che è appena trascorso. E per quanto io mi sia sforzato di cancellarla, è ancora lì. Forse perché certe cose possono cambiare solo fino ad un certo punto, o forse perché Bill non ha voluto davvero che lo facessero. In ogni caso siamo arrivati a questo. A me che lo prendo e a lui che s'immagina quello che il suo cervello ormai considera la normalità. Una normalità che non sono più io.
All'improvviso mi rendo conto che se voglio recuperare il mio posto nell'universo, non posso farlo da un punto a caso, mettendo le mani dove non era previsto che le mettessi più. Non è una regola che posso infrangere, è logica. E quella non la posso cambiare. Bill, la nostra storia, perfino Chakuza, erano tutte cose mie. Ma quando muore, del morto, rimangono solo le cose che possedeva. Così loro sono rimasti, mentre io no.
Rimaniamo a lungo in silenzio. Io sto aspettando che lui dica qualcosa anche se non so cosa possa dire e credo che Bill sia cercando di capire quanto sia grave la situazione dal mio punto di vista. “Possiamo almeno parlarne?” Chiede alla fine, sedendosi e portandosi addosso quel poco di lenzuolo che riesce a recuperare dal casino di questo letto.
“Per dire cosa?”
Lu si stringe un po' nelle spalle. “Che mi dispiace,” esclama. “Non volevo. Non me ne sono neanche reso conto.”
“Appunto.” Scendo dal letto e recupero i pantaloni. Avrei voluto che fosse perfettamente consapevole di aver aperto la bocca e aver gridato in estasi il nome dell'uomo che se lo scopava fino a tre settimane fa, anche se non riesco ad immaginare uno scenario in cui la possibilità di Bill che lo grida consapevolmente possa avere una qualche logica. Il fatto che si sia trattato di un automatismo lo rende solo peggio. Chiami e vuoi le persone senza renderti conto di farlo solo quando ce le hai piantate in testa così profondamente che da lì non le sradichi più. Ed evidentemente in quella sua testolina mora, ora come ora, c'è ancora Peter Pangerl.
“Anis, per favore guardami.” Lo faccio e lui mi punta addosso quegli occhi castani e profondi. “E' stata una cosa involontaria, non stavo davvero pensando a lui.”
“E a cosa pensavi?”
“Non pensavo affatto!” Esclama. “Ero un tantino preso, tu che dici?”
Non dico niente, Bill. Che cosa dovrei dirti? Che io invece pensavo a te, a noi e al fatto che eri bellissimo, sul punto di disfarti tra le mie coperte? Non ti dico niente. “Credo sia meglio che tu non resti qui, stanotte,” mormoro e mi costa più di quando mi sia costato lasciare per sempre Berlino. O la mia vita intera, se è per questo. “Né mai più.”
Per un po' l'unico rumore nella stanza sono io che mi rivesto. Lui mi fissa attraverso lo specchio mentre mi sto mettendo la camicia e sembrerebbe tutto normale fra noi, se lui non stesse disperatamente cercando in me una soluzione che dovrebbe darmi lui. Fino a questo momento ho sempre pensato a tutto io, Bill. Avevo una risposta ad ogni domanda e, anche se non ce l'avevo, fingevo così bene che sembrava l'avessi. Mi sono occupato di ogni singolo dettaglio, ora però tocca a te. Non puoi pretendere che risolva anche questa. “Ti lascio la stanza fin quando hai bisogno,” dico, sistemandomi il colletto. “Solo non metterci troppo.”
Bill si stringe al petto il lenzuolo. La principessa ha l'aria persa come non l'ha mai avuta nemmeno le prime volte che è stato qui e gli sembrava assurdo che nonostante tutti gli sforzi che faceva per intrufolarsi nel mio letto, io non gli dessi affatto il permesso di rimanerci. Mi guarda come mi guardava allora, con quell'ostinazione infantile che tre anni fa mi faceva quasi tenerezza ma ora mi fa solo incazzare. “Che cosa non ti è chiaro, Bill?” Chiedo.
Lui sospira a fondo e lo conosco abbastanza bene per sapere che non è per darsi coraggio che lo fa, ma per ritrovare la pazienza, una cosa che non dovrebbe avere nemmeno perso, figuriamoci se deve cercarla. “Anis, ti preg-”
Sbatto sul letto una delle valige che si è premurato di svuotare ma non di rimettere a posto. Apro tutti i cassetti e le ante che contengono cose sue. “Prendi quello che ti serve,” scandisco lentamente, così che la situazione gli sia ben chiara. “Il resto tornerai a prenderlo in seguito.”
Aspetto immobile e in silenzio che scivoli fuori dal letto e che si vesta, stando ben attento a rimanere quanto più possibile nascosto nel lenzuolo. Non mi muovo neanche quando è costretto a girarmi intorno per recuperare delle maglie e dei pantaloni da dentro i cassetti. Getta le cose quasi a caso e ogni tanto mi lancia un'occhiata dal basso verso l'alto ed è un misto di rabbia ed imbarazzo quello che gli leggo negli occhi, un'emozione di cui può essere capace solo lui.
Alla fine riempie la valigia fino a farla esplodere ma la chiude abilmente con un po' di forza. Sospira mentre la tira giù dal letto. “Anis, non dovrebbe finire così,” mormora.
“No, non dovrebbe,” annuisco, aprendo la porta.
Lui esita ma ha sempre avuto un problema a oltrepassare i muri che costruivo quando per un motivo o per l'altro non ritenevo opportuno che mi si avvicinasse. Era così abituato ad avere libero accesso con me, che quando chiudevo la porta ci sbatteva contro senza neanche vederla. E adesso è la stessa cosa. Se ne sta lì e non sa che farci con questa nuova serratura di cui non possiede più la chiave. “Potremmo almeno parlare quando...non lo so, quando vuoi,” mormora.
“E' meglio che tu vada.”
Chiudo la porta un attimo prima che pianga, cedendo all'impulso che ha avuto fin'ora, e un attimo prima che io ci ripensi anche se non sono sicuro che questa volta lo farei davvero. Solo che non voglio rischiare.
Se c'è un limite ai tentativi che una persona può fare di recuperare qualcosa, io di certo l'ho superati da un pezzo e quello che è successo stanotte ne è la prova.
Recupero il rum dal mobile bar, l'unico souvenir che mi sono portato da Miami e non mi scomodo a versarlo in un bicchiere. Guardo il letto sfatto e penso a quello che avevo costruito, a quello che ho distrutto e pensavo di poter recuperare ma è evidente che anche il muro più solido, quando lo colpisci forte e lo mandi in mille pezzi, non puoi ricostruirlo con le stesse pietre.
Sento le gomme della sua auto scricchiolare sul viale d'ingresso e Skyline e Sherlee corrergli dietro finché il rombo del motore non si affievolisce fino a sparire e restano solo i loro latrati. Domattina dovrò spiegare a Karima perché il ragazzino non abita più qui. Lo sguardo che mi lascerà addosso mentre sparecchia il posto di Bill posso già immaginarlo, così bevo e mi rifilo la solita puttanata che domani starò meglio e che non mi importerà niente di dove starà facendo colazione il ragazzino.
Solo che è una puttanata, appunto. E io non ho abbastanza rum.

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The Way Things Go

di lisachan
Quello che dico io è: se muori, muori. C’è un motivo per cui ognuno può morire una volta sola, e non è una questione fisica, cioè, voglio dire, è anche una questione fisica, ma è che principalmente morire è una rottura di palle. Nel senso, c’è da prendersi cura del cadavere, c’è da affidarlo all’impresa di pompe funebri giusta, c’è da tenere d’occhio i preparativi del funerale, la veglia, la cena, e poi naturalmente c’è da avere a che fare col fatto che la gente è triste, eh, e non le viene mica voglia di sorridere, perché uno fa tanto di dire “per il mio funerale, voglio che ridiate e balliate nudi sui tavoli!”, e i suoi migliori amici in genere stanno lì a dire “ma sì, vedrai, rideremo, racconteremo barzellette e la danza delle odalische del ghetto sui tavoli non ce la farà mancare nessuno!”, ma poi, quando la disgrazia accade, non c’è tanta voglia di ridere, e se per caso ti azzardi a tirare fuori la faccenda delle odalische gli altri ti guardano come se fossi una specie di mostro assassino, perciò meglio lasciare perdere.
Insomma, quello che intendo è che non è che tu puoi morire e costringere tutta la tua famiglia e i tuoi amici a tutta questa serie di operazioni deprimenti, per poi venirtene fuori fresco come una rosa con un codino assurdo e i capelli morbidi e lucidi, vestito di bianco come Gesù Cristo dopo la resurrezione, e dire “be’, eccomi qui, in realtà non ero morto, sono tornato, amatemi come prima”. Voglio dire, è scorretto, non sono cose che si fanno.
Quando Bushido è morto, naturalmente sono successe un mucchio di cose. E parlo del mucchio di cose che sono successe subito, immediatamente dopo la sua morte, non di tutto il casino altrettanto incasinato che è venuto giù dopo con Fler infermiere, Fler e Chaku agenti speciali nella notte di Tempelhof e Saad traditore e assassino. Quello poi è stato l’apice. No, parlo delle cose immediatamente successive, tutto quello che abbiamo dovuto dire, e fare, e sopportare, la Principessa in pezzi, il Principino confuso, il Cavaliere del Re che quasi ci rimette lo stomaco se non peggio e il Senzatetto che passa più tempo intorno a noi che in casa sua. Voglio dire, sono stati sacrifici di una certa entità, roba che abbiamo tutti tollerato perché credevamo di avere un motivo per farlo, e quel motivo era che, in fondo, eravamo tutti uniti dalla perdita di quest’uomo insopportabile che però era il nostro capo e lo sarebbe rimasto comunque, anche dopo, indipendentemente da tutto.
Insomma, ci siamo fatti forza e siamo andati avanti, tutti insieme. Almeno fino a quando è stato possibile, poi ovviamente è venuta fuori quella roba di Saad e quindi “tutti insieme” ha un po’ cambiato la sua conformazione, nel senso che quello che stava apprestandosi a diventare il cardine della nuova Ersguterjunge naturalmente è venuto a mancare, per dirla così in termini blandi, quindi le maglie della nostra rete si sono un po’ sfaldate. Per dire, chi lo vede più Nyze, da un po’? Lui e Saad avevano un buon rapporto, deve esserci rimasto di merda quando ha scoperto che era stato lui ad ammazzare Bu. Oppure Kay, per dire. Lui bazzica ancora perché a parte il fatto che comunque siamo tutti affezionati l’uno all’altro – e vorrei dire, è anche ovvio, ti affezioni per forza alle persone con le quali ti sei scattato una foto in collant e mutande – lui con Bill e Tom si diverte parecchio, perché sono vicini come età, quindi sta ancora da queste parti, ma non è mica più come prima, con tutto questo fatto della fidanzata e della nuova casa in centro a Berlino e tutto il resto.
Insomma, ci siamo un po’ persi l’uno con l’altro, che non è stato proprio bello – anche perché eravamo tipo abituati a vivere in simbiosi tutti assieme, la Villa Gialla era un po’ la nostra tana… non so se avete presente, ci sono dei roditori glabri, da qualche parte nel mondo, che vivono tutti sotto terra e per non sentire freddo si spiaccicano l’un l’altro e vivono tutti assieme… okay, forse non erano roditori glabri, ma comunque mi è rimasta impressa questa foto di questo topo senza peli, rosa e cieco che… no, ma comunque non è questo il fulcro del discorso – insomma, non è stato bello ma ci abbiamo guadagnato in tranquillità. Voglio dire, quando le cose sono più tranquille lo capisci perché improvvisamente riesci ad organizzarti la vita senza che questo rappresenti un problema per il prossimo. Per dire, prima, subito dopo la morte di Bushido, c’era il problema-Principessa, e quindi, se a me saltava in testa di ordinare al ristorante un’impepata di cozze e mangiarmela – ora non so se si possa ordinare al ristorante un’impepata di cozze e farsela portare a casa, ma non è importante – insomma, non potevo farlo, perché alla Principessa l’impepata di cozze non piace ed io dovevo mettere in conto che se Bill mi si presentava a casa di umore piagnucoloso, dovevo nutrirlo, che poi è magro e mi deperisce, perciò la mia impepata di cozze non la potevo avere. Dovevamo tutti nutrirci con alimenti Bill-approvati, se no era un dramma.
La cosa è andata avanti per un bel po’, con alti e bassi di varia natura, almeno fino a quando Saad non è morto. Che poi vuol dire che Bill l’ha ucciso, ma questo è un segreto che non deve sapere nessuno, quindi state attenti con chi parlate, quando uscite di qui. Insomma, dopo quel momento sono successe svariate cose, non è che noi si sia tornati esattamente alla normalità – suppongo che una delle varie controindicazioni della morte, a parte il fatto che muori, sia che niente torna più come prima – però almeno abbiamo cominciato a risparmiarci le visite a sorpresa di Bill, che può sembrare una cosa banale, ma è invece una cosa importantissima, perché è importante sapere che puoi tornare a casa e svaccarti sul divano, alla sera, sapendo anche che nessuna Principessa parata a lutto si presenterà alla tua porta in cerca di coccole che non sei sicuro di essere in grado di darle, e che ti guarderà peraltro malissimo prendendo possesso del tuo divano e dormendoci anche, se non sarai in grado di soddisfarla pienamente. Almeno, non so se era così che Bill si comportava anche con gli altri, ma di sicuro era così che si comportava con me.
Insomma, questa situazione ha continuato ad essere più o meno pseudo pacifica per una buona quantità di tempo. Non so cosa facesse Bill, più che altro mi limitavo a pensare che fosse tornato una normale ragazzina della sua età e perciò, che ne so, avesse ricominciato a giocare con le bambole e via discorrendo. L’importante era che non mi importunasse e che, se volevamo vederci perché io potessi offrirgli da mangiare da qualche parte, fosse perché entrambi lo volevamo e non solo perché lui aveva voglia di rendermi il suo cuscino del pianto preferito per una notte.
Tutto ciò era evidentemente troppo bello per poter durare, e perciò Bushido – che non è uno che possa vantare di migliorare la qualità della vita della gente, in genere – ha pensato di mandare tutto a puttane risorgendo.
Insomma, io sono là che aspetto la mia pizza, no? Sono tornato a casa stanco dopo una giornata di registrazioni con Sentino – che non so se lo conoscete, ma è un fuori di testa più fuori di testa di me, eh. È uno che ti si presenta in studio cantando di aver visto trifogli rosa crescere lungo il battistrada del marciapiedi, perché prima di uscire s’è sparato una canna grossa quanto una bottiglietta d’acqua. Insomma, dopo una giornata passata con un tipo simile, che ogni tanto ti guarda con gli occhi vacui e le pupille dilatate, che tu ti chiedi se per caso una colonia di folletti non sia appena spuntata dal nulla sulla tua testa, tu hai voglia solo di tornartene a casa, abbatterti sul primo divano che incontri e muoverti solo per sollevare la cornetta del telefono, ordinare la pizza e poi andarla a recuperare sulla soglia della porta, punto.
Quindi è quello che faccio: mi getto sul divano, decido di ordinare una quattro formaggi perché voglio qualcosa di pesante che mi mandi in coma fino a domani mattina, e poi resto lì a rigirarmi i pollici, godendo del silenzio che mi rimbomba nella testa, fino a quando non suona il campanello.
Io lì non lo so che la mia vita sta per cambiare, perciò mi alzo tranquillo e sono pure felice perché penso “pizza!” e tutto ciò che voglio è soffocare nel formaggio e morire felice. Solo che quando apro la porta non mi trovo davanti il ragazzo delle pizze. No. Io mi trovo davanti Bushido.
E quindi, naturalmente, lo investo di testa e scappo.
Mentre scendo per le scale cercando di stare attento a non ruzzolare giù di testa, che sarebbe un po’ una conclusione eccessiva anche per una giornata tanto brutta come quella, l’unica cosa che riesco a pensare con chiarezza è che tutto ciò deve essere colpa di Chakuza. Cioè, per forza. Penso “magari Saad non c’entrava niente e Chaku e il Senzatetto hanno preso un abbaglio, inducendo in errore anche la Principessa” – penso così, “inducendo in errore”, perché mi viene in mente una volta che Bill s’è presentato a casa mia, Bushido era ancora vivo, ai tempi, e io gli faccio “Principessa, ma che cazzo ci fai qui?” e lui chiama Bushido e fa “Ani-iiis, sono a casa di Eko ma tu non ci sei!” con tono piagnucoloso e Bushido gli fa “passamelo” e io faccio a Bushido “pronto?” e lui mi fa “Bill credeva che ci saremmo visti da te”, e io giustamente rispondo “Bill ha sbagliato” e lui, tranquillissimo, mi ribatte “Bill con voi non sbaglia mai, tienilo a mente. Circostanze confuse l’hanno indotto in errore”, quindi è questo che mi viene in mente, circostanze confuse che poi sono Chakuza e il Senzatetto, che magari non sono circostanze ma confusi lo sono di certo, hanno indotto la Principessa a credere che fosse opportuno fare fuori Saad mentre così non era, e ora Bushido è tornato dal mondo dei morti per vendicare l’ingiusta scomparsa del cugino innocente. Solo che magari qualche circostanza confusa ha indotto in errore anche lui, e quindi lui, invece di prendersela con Chaku e il Senzatetto, che sono i diretti responsabili, se la prende con me.
Proprio per questo motivo, appena arrivo giù in strada e mi rovisto nelle tasche dei jeans trovando il telefonino, la prima cosa che faccio è chiamare lui.
- Pro- - mi fa, ma io non gli lascio il tempo di concludere.
- Chakuza, Cristo santo, ho un fantasma in casa! – dico tutto d’un fiato. E, voglio dire, nel momento in cui lo dico io ci credo, perché pensare che Bushido sia risorto dalle sue ceneri come la tunisina fenice è molto più sensato di una qualsiasi alternativa che la mia mente possa propormi, tipo che ha vissuto sotto un sasso dietro casa mia per tutti questi mesi, salvo poi rispuntare lindo e pinto come non fosse successo niente perché aveva finito il sale nella sua casa di pietra, per dire.
- Tu hai cosa dove, Eko? – fa Chaku con voce stridula, come non capisse minimamente cosa sto dicendo. Eppure, sto parlando in tedesco. Non può mica aspettarsi che tiri fuori dal cappello qualche dialetto alpino che conosce solo lui, la sua famiglia e qualche capra.
- Cristo santo! – ripeto io per buona misura, - Il cazzo di fantasma! È tornato perché abbiamo fatto qualcosa di sbagliato! Cristo santo, Cristo santo! – e, siccome lui sembra ancora non capire, mi spiego meglio: - Chakuza, quando hai fatto fuori Saad – dico sbrigativamente, dando a lui la colpa perché non mi va di ripetere il complesso processo mentale dell’indurre in errore la Principessa, - tu eri sicuro che fosse lui l’assassino, vero? Perché se non era lui e quell’altro è tornato per vendicare il cugino morto, Cristo, giuro che ti appendo per le palle in Alexanderplatz, Chakuza!
- Eko… - sospira lui, e lo fa con quel tono come a dire “ah! La santa pazienza che ho!”, mentre io vorrei dirgli “vola basso, austriaco, che tanto per cominciare sei anche più spostato di me, tu, e comunque sei un nano di merda”, - È una serata di merda. – sì, ma anche a me cosa me ne frega, - Seriamente. – ma puoi pure giurarmelo su tua madre! – Ma proprio di quelle che vorresti non fossero mai iniziate.
- Dillo a me! – esplodo gesticolando, - Apro la porta mentre aspetto il ragazzo delle pizze e mi trovo davanti il cazzo di fantasma che-
- Una serata di merda, dicevo, - riprende lui interrompendomi e facendo sfoggio di grande maleducazione, come se chiamarsi come l’amichetto preferito di Heidi lo esonerasse dal lasciar finire gli altri prima di cominciare a blaterare idiozie che non interessano a nessuno, - perciò… - lo sento che si interrompe un attimo e poi cambia argomento all’improvviso, che è una cosa che capisco bene perché pure io lo faccio, sono gli unici momenti in cui il cervello mio e quello di Chakuza funzionano in sintonia. - …Eko, ‘cazzo chiedi la pizza a mezzanotte passata, scusa?! – mi fa, solo che questo non è il momento di pensare alla pizza, naturalmente, e glielo dico pure.
- Ma non è la pizza il punto fondamentale, Chakuza! – gli faccio, - Ti hai dei problemi seri! Il punto è che io ho aperto la porta e mi sono trovato davanti Bushido. Bushido, capisci?
Lui si prende una pausa per realizzare.
- Eko…? – mi chiama. Io roteo gli occhi.
- Un cazzo di fantasma, capito? Un fantasma. Cristo. – e la pausa me la prendo io, per cercare di respirare di nuovo. – Io non ci rientro in casa, quindi tu ora mi passi a prendere e mi porti da te. – decido arbitrariamente, - E domani torno con un estintore bello pesante o qualcosa di più adatto. Come si uccidono i fantasmi, Chakuza?
- …dubito che la schiuma chimica funzioni. – sospira, - Eko, senti. Ora vengo da te e poi saliamo insieme. – mi fa con aria rassicurante, come se io potessi sentirmi rassicurato dalla sua presenza! – Così ti faccio vedere che non c’è nessun fantasma, in casa tua. Soprattutto non quello di Bushido.
- Fa’ un po’ quel cazzo che credi. – rispondo annuendo compitamente, perché Bushido buon’anima me lo diceva sempre, puoi dire tutte le parolacce che vuoi, ma la tua espressione dev’essere sempre quella di uno che sta dicendo le cose più educate del mondo, così la gente ti prende sul serio. E poi mi guardava a lungo, con aria comprensiva, e mi diceva “e Dio sa se hai bisogno di essere preso sul serio tu, Ekram”, me lo diceva proprio col mio nome, Dio l’abbia in gloria. – Comunque sono sicuro quasi al cento per cento che il fantasma sul pianerottolo sia colpa tua, in qualche modo contorto. Sei la fonte di tutti i mali. Magari – realizzo all’improvviso, e ancora lì non so quanto ho ragione, - dall’alto dei cieli ha saputo che vuoi chiudergli l’Ersguterjunge ed ora ci perseguiterà a vita.
- Eko, ti prego! – si lagna lui, e io scrollo le spalle.
- Comunque il succo è: vieni perché sennò scappo da Kay. E tu non vuoi che io scappi da Kay, perché Kay vive in un porcile peggio di casa tua, e se sarò costretto a stare da lui poi vorrò le tue palle su un piatto d’argento.
Lui mi chiede se intendo mangiarmele, e tutto ciò che rispondo io è un vaffanculo irritato, decidendo poi di restare lì in attesa perché di rimettere piede nel mio appartamento da solo non se ne parla nemmeno sotto tortura, nossignore: quando salirò nuovamente per quelle scale, sarà solo con un’adeguata vittima sacrificale di nome Chakuza al mio fianco.
La serata, comunque, procede in maniera abbastanza assurda, e se lo dico io potete fidarvi. Tra Chakuza che arriva e, come prima cosa, quando vede Bushido, decide di chiamare Fler, e Bushido che poi si mette a parlarmi di donne che fanno cose strane con le noci di cocco, anche quando poi rimaniamo soli perché lui ha deciso di dormire a casa mia per chissà che assurdo motivo, rischio di perderci la testa numerose volte, e sto evitando di parlare del momento tremendo in cui Bushido e il Senzatetto si sono messi a flirtare sul mio tavolino da caffè, perché sarebbe troppo da ripercorrere adesso per la mia povera psiche stanca, ecco.
Comunque, da una partenza del genere non si può certo migliorare, e da allora, appunto, le cose non hanno fatto che degenerare verso il fondo del fondo. Ripeto: c’è un motivo per cui si muore una volta sola e dalla morte non si torna. La gente ci mette tanto a ricostruirsi quando perde una parte così importante di sé, e tu non puoi tornare e mandare all’aria tutti gli sforzi che le persone che ti amavano hanno fatto per andare avanti. Bushido mi sa che non l’ha messa in conto, questa cosa, tornando. Non so esattamente cosa si aspettasse, ma di sicuro non si aspettava di trovare tutto sbagliato come poi è stato – lui non è uno cui piaccia mettersi in mezzo alle cose quando sa di non poterle rivoltare a proprio favore. Probabilmente si aspettava davvero che la Principessa tornasse ad essere sua e anche tutti noi riprendessimo i posti che avevamo prima che morisse. Non lo so. Un po’ mi dispiace che niente di quello che pensava si sia avverato, d’altro canto però mi dico che è stato lui a decidere di morire ed altrettanto ha fatto quando ha deciso di risorgere. Bushido non è mai stato uno da rifiutare le proprie responsabilità, e gli toccherà farlo anche adesso, che voglia o meno.
Il che ci riporta – non senza difficoltà, mi rendo conto, ma cercate lo stesso di seguirmi – a parecchie settimane dopo. Le signorine che fanno cose con le noci di cocco non sono che un vecchio ricordo, nelle menti di noi tutti, perché negli ultimi tempi è successo un putiferio: il mondo ha scoperto della resurrezione di Bushido e, cosa ancora peggiore, la Principessa ha scoperto della resurrezione di Bushido, cosa che ha portato con sé tutta una serie di drammi di varia entità e portata che hanno raggiunto il loro culmine nel momento in cui alla Universal hanno deciso che a loro non importa quanto male possa essere conciata una situazione, ciò che importa loro è la possibilità di ricavarne dell’utile. Ora, seguitemi: un rapper muore durante uno scontro a fuoco lasciando a casa una vedova affranta e peraltro appena maggiorenne; meno di un anno dopo, quello stesso rapper risorge dicendo di essere stato nascosto in America fino a quel momento e di essere appena tornato in Germania camminando probabilmente sulle acque, e quella stessa vedova affranta è apparentemente lì per lui, pronta a farsi riaccogliere nella regale dimora con gli occhi pieni di devoto amore.
Ciò che la Universal non sa è che, mentre loro facevano i loro calcoli, in mezzo è successo di tutto – cioè Bill e Bushido hanno consumato il loro amore, si sono apparentemente rimessi insieme e poi, dal nulla, è venuto fuori che Bill in realtà stava con Chakuza e aveva dimenticato di rendere noto il particolare a tutti noi – che va be’, non è importante – ed a Bushido stesso – che invece di importanza ne ha eccome.
Tanto per cominciare, già tutti dovremmo avere dei problemi col fatto che Chakuza stia con la Principessa. Questo perché la Principessa, checché ne dica il suo titolo onorifico – e il suo aspetto e tutto il resto – è un maschio. E Chakuza è Chakuza. E sì, lo so che dopo Bushido praticamente nulla dovrebbe più stupirmi e nulla dovrebbe essere automaticamente considerato eterosessuale fino a prova contraria, ma!, intendo, è di Chakuza che stiamo parlando, insomma, si dovrebbe avere almeno un po’ di raffinatezza, credo, per essere gay, quindi Chakuza dovrebbe essere tipo l’antitesi dell’omosessualità, lui, i suoi prosciutti stagionati del 1980 e le sue muffe nel frigorifero. E invece toh, viene fuori che è gay. Che è gay e che sta con la Principessa di qualcun altro, a rendere le cose ancora peggiori. Non so se vi rendete conto dell’enormità del tutto.
La cosa veramente grave è che Bushido si rende subito conto dell’enormità del tutto, e così – dopo aver buttato fuori di casa la sua Principessa privandola della sua corona e dell’anello nuziale che sanciva la sua sovranità – prende la spada e monta in groppa al suo cavallo arabo bianco, diretto a casa del suo personalissimo Lancillotto e fermamente intenzionato a lavare l’onta del tradimento col sangue. Che poi è un’altra cosa che mi turba molto, perché io ho studiato poco, nella mia vita, ma una cosa la so, e cioè che Lancillotto era un gran figo, altrimenti Ginevra col cazzo che mollava Artù per un paio di braccia forti a caso. Quindi il mio sconvolgimento è ancora maggiore, se penso che, se dovessi indicare tutta una serie di Lancillotti fra le persone che conosco, il Chaky, con tutto il rispetto, sarebbe l’ultimo della lista, sotto perfino al Senzatetto, quindi figurarsi.
A Bushido, però, non interessano questo tipo di discorsi. Lui vuole il sangue di Chakuza che ha messo le mani addosso a roba che non gli apparteneva, e quel sangue ottiene, spargendosene un po’ sulle mani e un po’ sulle pareti di casa del Chaky. Chakuza però non muore, come tutte le erbe cattive è parecchio resistente, da quel punto di vista; e forse è meglio, perché se fosse morto tanto per cominciare non so come avrebbe potuto reagire la Principessa, e tanto per continuare chi mi assicura che poi non sarebbe risorto anche lui, magari fra altri nove mesi, tornando dalla Lapponia o dall’Australia o che so io e generando ancora più caos di quanto già non ne abbia generato il sovrano sperimentando la propria immortalità ai danni di noi tutti?
Insomma, Chakuza non muore, Chakuza si rimette con Bill. Come, non lo so e non voglio nemmeno saperlo. Immagino sia stata una questione regolare, capito come?, Bill torna a casa, lo trova con l’occhio nero, bla bla, fetta di carne, bacio appassionato e via così, solo che Bushido non è mica uno che prende e molla l’osso per una minuzia simile – perché per lui i no delle persone tendenzialmente sono minuzie, soprattutto quando sa di avere le armi adatte per trasformarli in sì – no, lui è più il tipo che all’osso ci si attacca con tutta la sua bellissima chiostra di denti nuovi di zecca fino a quando non lo stacca dal resto del corpo, e quindi resta lì, attaccato a Bill come una patella sul suo scoglio; e uno magari si dice “eh, lui è ostinato, ma il karma saprà punirlo”. E invece no! Il karma non lo punisce mai, quest’uomo, gli è asservito come noi tutti, tant’è che cosa fa la Universal? Gli organizza un video in cui lui può molestare sessualmente la Principessa mascherando il tutto con le esigenze di copione! Se non è fortuna questa – per lui, sfortuna per tutto il resto del mondo – non so cosa possa esserlo.
Se c’è una cosa che Bushido sa fare, comunque, è usare il suo corpo. Anche perché lui non è uno che canta, è uno che si esibisce, e c’è una bella differenza, fra le due cose. Lui quel corpo è abituato a venderlo giornalmente – in senso puramente platonico, almeno credo – a migliaia di ragazzine, ragazzini, uomini adulti e puzzolenti e in sovrappeso e casalinghe in ansia da ribellione, nonché ad un altro svariato centinaio di tipologie umane, perciò nessuno di noi aveva veramente dei dubbi su chi sarebbe uscito vincitore dallo scontro fra titani. Che poi titani non sono, perché Chakuza al massimo può essere il cugino sfigato e sottomisura dei titani, per dire.
Insomma, fatto sta che: Bushido continua a girare intorno alla sua Principessa – e questo io lo so non perché vado in giro spiandoli, per carità, spiarli è l’ultimo dei miei desideri, lo era in passato, lo è adesso e lo sarà per sempre, come le cose che non cambiano mai tipo le muffe del frigo di Chaky che ormai le conosciamo per nome e i gerani degli studi dell’Ersguterjunge che non possono cambiare posizione sennò Bushido si indispone e non canta più a tempo nemmeno se lo minacci di infilargli il metronomo su per il culo – e la Principessa cede, perché è la Principessa e perché lui è Bushido.
E in fondo, io penso, il fulcro del tutto è un po’ questo. Io non sono bravo a trovare i nodi fondamentali delle questioni, perché come avrete potuto notare in realtà mi perdo spesso. Nella mia testa ma anche nel mondo che mi circonda. Ma questo punto è così fondamentale, così primario, così assoluto nella mia vita degli ultimi tre anni, che non posso proprio mancarlo. Come il mio nome o che ne so. È lì, c’è da tanto, c’è da troppo, non penso andrà più via. Il punto è che Bushido e Bill potranno anche smettere di amarsi come prima, amare altre persone, fare altro, trasferirsi in America o in Russia o in Papuasia, ma resteranno sempre quello che sono stati fino ad adesso, Bushido il Re e Bill la Principessa. Bill non smette di essere la Principessa di Bushido uscendo da quella porta. Ed altri uomini – io, il Chaky, chiunque altro – possono rivolgersi a lui utilizzando quello stesso nome, ma non sarà mai la stessa cosa, perché quel nome ha un senso preciso solo se usato da Bushido. È così che funziona, è così che gira, questa cosa non finirà mai. Io lo so che è così, e so che è vero che anche se la maggior parte dei punti fissi rappresentano delle garanzie – perché sono in quel modo e non cambiano mai e quindi, anche se tutto si distrugge, sempre da loro puoi ripartire – so anche che a volte sono degli ostacoli insormontabili. Perché a volte vuoi distruggere tutto. E i punti fissi te lo impediscono.
È questo che penso adesso, in questo preciso istante. Davanti a me – e davanti a un sacco di altra gente che queste cose non dovrebbe vederle, anche – ci sono Bill, Bushido e Chakuza. Bill piange, e continua a farlo stretto a suo fratello, per molto tempo. Bushido e Chakuza si guardano negli occhi e parlano di Bill come se non ci fosse. Esprimono una proprietà su qualcosa che non dovrebbe essere di proprietà di nessuno e sulla quale sentono entrambi di avere dei diritti. Guadagnati col tempo, con la fatica, con l’amore che hanno investito in questo ragazzino che più che altro, a me, sembra solo troppo piccolo e confuso per decidere qualcosa – qualsiasi cosa. E io questo penso. Le cose, purtroppo, vanno in un modo, e quando vanno in quel modo poi tornare indietro è impossibile. È per questo che non si torna dalla morte. Ma è anche per questo che la Principessa resterà Principessa funerali o meno.
È così che gira, e non è rassicurante pensarlo. Ma io queste cose non dovrei pensarle. E nemmeno dovrei dirvele. Quindi voi ricordatevi di dimenticarvele, prima di andare.

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By his side

di tabata
Se vi ricordate, io in questa storia non volevo entrarci. Anzi, a voler essere precisi, non volevo entrarci io e, soprattutto, non volevo che ci entrasse mio fratello che è forte, testardo e dotato di una grande forza di volontà – come dicono le biografie non autorizzate sui forum di mezzo mondo – ma che ha anche dei limiti. La morte dell'uomo che amava, per dire, era uno.
Il problema di Bill è proprio la sua sensibilità che, per quanto lo faccia sembrare carino, è ben lontana dall'essere un bene per lui. Se fosse stato anche solo un po' più stronzo di com'è, si sarebbe risparmiato un sacco di rogne. Per esempio, forse avrebbe avuto il coraggio di mandare Bushido a fanculo quand'è tornato da Miami; non sarebbe stata la cosa più giusta da fare, forse – quell'uomo aveva perso tutto per lui, si meritava un po' di pietà – ma gli avrebbe impedito di fare altri casini o almeno ne avrebbe fatti di meno. Non lo so. Se fosse stato un po' meno sensibile, lasciare Chakuza non lo avrebbe fatto precipitare nello sconforto in cui poi invece si è trovato. Prendete me, per esempio. Io quando lascio una ragazza per un'altra non ne faccio un caso di stato perché, quasi sicuramente, non è che ci tenessi molto ad un noi qualsiasi che poteva esserci prima e ora non c'è più. Siamo stati insieme, tanti saluti e grazie. Ma io non sono Bill. Io non scopo solo per amore. Io scopo per scopare, che è sostanzialmente diverso e ci riporta alla questione in oggetto.
Bill si è ritrovato in una di quelle situazioni in cui la gente come Bill non si dovrebbe mai trovare, per nessuna ragione al mondo. Dovrebbe essere una sorta di legge universale.
Seguitemi. Bill un giorno ha visto Bushido e se n'è innamorato. E non una cottarella da spiaggia – che poi neanche c'è il mare in Germania – l'amore della sua vita, proprio: annuncio pubblico, sentore di convivenza e direi profumo di fiori d'arancio e figli se questo fosse possibile, ma mi fermerò qui per decenza.
Insomma, Bushido era quello giusto. Io non ero tanto d'accordo, come del resto sapete, ma quello che penso io conta poco quando il cuoricino di mio fratello si mette in moto, quindi...
Quindi si amano – per altro molto rumorosamente – per ben tre anni. Poi arriva un libanese del cazzo e glielo ammazza per una questione d'onore o qualche altra cazzata del ghetto che non capisco e non capirò mai. Mio fratello ne esce devastato. E non esagero quando dico che abbiamo avuto tutti quanti paura che si lasciasse andare, decidendo che non valeva più la pena di vivere in un mondo privo del suo tunisino.
Lo abbiamo tenuto d'occhio peggio di un pazzo psicotico in manicomio, roba folle. E questo vi dice molto sulla capacità di osservazione mia, della mia famiglia e degli amici miei e di Bill, se pensate che nessuno di noi si è accorto che Bill usciva con Chakuza, ma lasciamo perdere.
Poi, appunto, Bill si rende conto che lui e l'austriaco non sono più soltanto amici e s'innamora... di nuovo. Ed essendo che mio fratello è eccessivo in ogni cosa e non fa mai un accidente che sia uno con misura, s'innamora peso di Peter Pangerl, il rapper col nome da supereroe, e decide che è il nuovo amore della sua vita, in assenza più che giustificata del primo.
Dal momento che mio fratello crede che io non accetti a prescindere nessuna delle sue relazioni omosessuali, io, come al solito, non c'ero mentre lui e Chakuza consumavano questa relazione – anche ampiamente, immagino, visto che so quanto può essere impegnativo mio fratello e mi sono arrivate certe voci di corridoio sulla malattia piuttosto grave che affligge Chakuza – ma posso intuire con quanta forza e quanto impegno Bill si sia gettato tra le braccia di quest'uomo alto la metà di lui perché, anche se mio fratello non mi dice le cose, io comunque lo conosco e lo so com'è quando è innamorato. Principalmente una piaga, d'accordo, ma è anche incondizionatamente dedito alla persona che ha scelto.
Nel suo caso l'amore è una cosa totalizzante. Non vede, non sente, non respira altro. E' una malattia invalidante. Quindi la posso immaginare la serietà con la quale si è messo insieme a Chakuza, anche se quando lo ha fatto ha pensato bene di tenerselo per sé e di scappare a casa del suo uomo rifilandomi una scusa dietro l'altra.
Ad ogni modo, le cose sarebbero anche potute andare bene così. In fondo Bill ha vent'anni, non poteva certo passare il resto della sua vita vestito a lutto sulla tomba di un uomo che, per altro, aveva undici anni più di lui già in partenza e prima o poi lo avrebbe comunque lasciato da solo a piangere la sua morte. Quindi andava bene. Io prima o poi avrei scoperto che mio fratello si scopava un altro rapper, avrei probabilmente avuto un'altra crisi isterica da paura ma l'avrei superata. In qualche modo ci saremmo rifatti tutti quanti una vita e la grande ruota cosmica della nostra esistenza avrebbe ripreso a girare per il verso giusto, quale che fosse. E invece no, col cazzo.
Il tunisino è tornato dal regno dei morti e la nostra bella ruota cosmica l'ha presa direttamente a calci, l'ha staccata dall'albero motore e ci ha mandato tutti quanti a culo all'aria. Non ha avuto nemmeno la decenza di tornare in stato di putrefazione avanzata, dopo un anno. No, è tornato abbronzato e col capello lungo e lucido, che dalle parti di mio fratello c'è stata un'impennata ormonale che nemmeno ai tempi d'oro della sua pubertà. Ora, sorvolando su quello che Bill non ha detto a Bushido appena lo ha rivisto e quello che ha fatto – e no, non prenderò posizione. Non voglio prenderla, non lo farò – c'è da dire che mio fratello si è comunque ritrovato scomodamente a stare in mezzo a due uomini che amava con la stessa intensità, tipica dei sensibili come lui. Ora, una persona come me, in una situazione del genere, può cavarsela bene o di striscio, dipende dalla faccia tosta che ha, ma trovarsi nei casini? No, mai. Nel senso che se io mi ritrovassi con due donne che mi amano e che sanno l'una dell'altra e magari si menano pure tra di loro per avermi... sarei estremamente contento. No, non è questo il punto. Il punto è che se mi trovassi in una situazione del genere sarebbe perché ho fatto il coglione e mi ci sono ficcato da solo, tipo che stavo con entrambe contemporaneamente o cose simili. Insomma come ci sono entrato, ne uscirei pure. Non avrei probabilmente nessun problema morale a sceglierne una o a piantarle tutte e due. Cose così. Ma Bill non ha fatto niente del genere. D'accordo, forse non è stato del tutto sincero e ha sbagliato le tempistiche in due o tre casi, ma non si è tirato addosso da solo questo casino. Non l'ha ammazzato lui Bushido e di certo non l'ha fatto resuscitare. Se avesse saputo che quell'uomo era vivo da qualche parte nel mondo, sarebbe rimasto in virginale attesa che gli prendesse la fregola e tornasse da lui o, molto più probabilmente, avrebbe rotto i coglioni a tutti quanti perché gli dicessero dov'era e potesse così partire, riducendo la virginale attesa di cui sopra al minor tempo possibile. Ma era morto, Cristo Santo. Se si è guardato intorno, non lo si può biasimare. Si potrebbe forse fargli qualche appunto sul fatto che ha messo il cuore in mano al nano malefico, fra tutti gli uomini che popolano il mondo – per dire, c'era Fler, due passi più avanti. Non sarebbe stato meglio darlo a lui il suo cuoricino da Principessa? Io per dire, avrei benedetto quest'unione nata direttamente in paradiso. Tanto per cominciare, Fler è l'erede naturale di Bushido. Un buon motivo perché fosse lui a prendersi cura della cosa più preziosa che quell'uomo aveva. Secondo motivo, da quando Bushido è morto, mio fratello si è attaccato a Fler come una cozza. Una cosa veramente indecente. C'erano pomeriggi in cui passavo a casa sua e trovavo quest'uomo – Fler – spalmato sul divano e mio fratello spalmato addosso a lui come fosse normale farsi trovare dal proprio gemello in atteggiamenti intimi al limite dell'erotismo con quello che si suppone sia solo un tuo amico. Che poi io lo so che, in questi casi, il sesso è l'ultimo dei pensieri di mio fratello e che è solo molto fisico con le persone a cui vuole bene – io ne sono l'esempio principale, per dire, ma ce ne sono tanti altri: Andi, Georg, Gustav, non ce ne uno che non abbia sofferto e ancora non soffra del monopolio che Bill è capace di prendersi sulla tua vita quando è in vena di coccole. Quindi, insomma, sono perfettamente consapevole che, se entravo in casa di Bill e lo trovavo drappeggiato addosso a Fler con il viso nascosto nel suo collo, non aveva affatto intenzione di farci alcunché, ma il primo impatto, quando ti ritrovi davanti una scena così, è sempre un po' forte. Fler però – e questo gli va riconosciuto, d'altronde io l'ho sempre detto che è un grande - non è mai scattato in piedi, gettando Bill dall'altra parte della stanza, millantando la propria innocenza e le proprie buone intenzioni. Niente. Neanche un fremito. Mi salutava con un cenno della testa e le sue mani rimanevano lì dov'erano, ben piantate sulla schiena di mio fratello, a qualche non riprovevole centimetro dal suo culo. Che poi vuol dire, in soldoni, che il culo non glielo toccava e quindi io non avevo un vero motivo per fare il fratello maggiore e protettivo che si preoccupa per l'onore del fratellino. Che poi, anche lì, se il fratellino decide di dar via... l'onore, non è che io abbia davvero i mezzi per fermarlo. Mi pare che Bill ve ne abbia dato ampiamente prova.
Comunque mi sono perso. Dicevo, l'unico appunto che posso fare a Bill è di aver scelto Chakuza, ma d'altronde se tutto il buon gusto che Madre Natura gli ha donato si limita all'inutile capacità di saper scegliere
tra un paio di stivali Jimmy Choo da 795 euro e uno da 950 euro apparentemente identici fra loro, non è colpa né mia né sua, insomma. A torto o a ragione, mio fratello in questo casino c'è finito e non gli riesce per niente di tirarsene fuori. Prendete, ad esempio, quando ha deciso di andare a vivere con Bushido. Io lo so perché quell'uomo gli ha chiesto una cosa simile – perché è furbo e conosce Bill, principalmente – e so perché Bill ha risposto di sì. Non ha seriamente pensato a ciò che sarebbe successo una volta aperta la boccuccia di rosa e dato a Chakuza il ben servito. Lui non ha pensato proprio. In generale nella vita.
A me questa cosa succede con lui, del tipo che se per qualche motivo non lo vedo per tantissimo tempo – se va in vacanza quindici giorni con Fler, per dire, che è una cosa illogica e io la disapprovo tantissimo – e quando torna mi chiede una cosa assurda, tipo di andare a fare shopping o magari, peggio, che lo accompagni a farsi i capelli, la ceretta, i massaggi tailandesi o qualsiasi altra follia abbia letto su qualche giornale da donna che non dovrebbe leggere, qualsiasi cosa sia, io gli dico di sì. E non penso a cosa significhi in pratica ciò a cui ho acconsentito. Per questo poi mi ritrovo in centri estetici ai limiti della follia, con massaggiatori rumeni alti due metri che mi snodano la spina dorsale vertebra per vertebra, sordi alle mie richieste di pietà mentre mio fratello, nell'altra stanza, viene ricoperto di fango e si diverte pure.
Alle conseguenze non ci penso mai perché, quando Bill mi chiede queste cose, io ho passato quindici giorni senza vederlo e anche arruolarci nella legione straniera mi andrebbe bene, pur di passare un po' di tempo insieme a lui. E per Bill è stato lo stesso. Non vedeva il tunisino da un anno, credeva che non lo avrebbe più rivisto, e quello non solo torna, non solo lo ama ancora come se si fossero visti fino al giorno prima, ma gli chiede pure di andare a vivere insieme che era, tipo, il coronamento del sogno d'amore di mio fratello che è sostanzialmente una Barbie nelle mani di una bambina di cinque anni: il re e la principessa che mettono su un castello circondato da rose rampicanti e animali della foresta, nel quale copulare felici e dare ordini agli uomini del re, ecco, una roba simile. E' ovvio e matematico che Bill gli abbia detto di sì. E non sto dicendo che Bill lo abbia fatto solo per questo, voglio dire, lo so che ama profondamente Bushido, ma se non avesse il cervello che ha – cioè un cervello selettivo in grado di innamorarsi perdutamente di un'idea ignorandone totalmente le conseguenze – non avrebbe detto sì e immediatamente dopo “Addio Chaku”, senza pensare che sarebbe stata dura convivere con Bushido dopo che, molto prevedibilmente, Chakuza lo avrebbe anche un po' mandato a cagare. Capite cosa intendo?
Ed è andata esattamente così. Io non c'ero ma lo so perché in un mondo assurdo in cui io sono gay, amo Bushido come non ho amato mai nessuno in vita mia e lui torna dalla morte dopo un anno, farei la stessa identica cosa. Ma ora vorrei che tutti noi ci dimenticassimo di quest'immagine raccapricciante che ho appena evocato e tornassimo immediatamente a parlare di mio fratello.
Nelle ultime settimane, dunque, Bill è tornato al castello e ha dormito nel letto del re. Devo ammettere che ero ancora discretamente infastidito dal fatto che non mi avesse parlato di Chakuza per non punirlo leggermente e dedicargli solo la metà dell'attenzione di cui aveva bisogno. Per questo quello che è successo, vengo a saperlo solo adesso che mi piomba in casa senza avvisarmi e mi trova, per altro, anche nel bel mezzo del primo vero tentativo di organizzare con Cassandra un'uscita seria, che non comprenda soltanto una pizza da me e poi letto fino al mattino dopo. Ho appena finito di parlare al telefono con il proprietario del ristorante che ho affittato intero per sabato prossimo quando la porta di casa mia si apre e spuntano le lunghe trecce di mio fratello.
“Il fatto che tu abbia le chiavi di questo posto,” dico posando il telefono e osservandolo mentre entra come fosse casa sua e chiude la porta, “non ti autorizza ad entrarci senza permesso. Non abiti più qui, ti ricordi?”
“Scusa,” mormora e mi alza addosso gli occhiali scuri di Prada. Le scuse insieme agli occhiali di marca significano grossi guai in vista. E se ancora avessi dei dubbi a riguardo, c'è anche l'enorme borsa nera di Gucci che è vecchia e dell'anno scorso, ma capiente abbastanza per infilarci dentro un cambio per passare la notte fuori. Visto che ormai è fuori moda, Bill la usa soltanto in caso di fuga di emergenza.
“Che cos'è successo?” Chiedo. “Non eri in luna di miele con sua maestà?”
E sono estremamente fuori luogo, me ne rendo conto subito quando non mi manda a quel paese e – cosa ancora più tremenda – non piange nemmeno. Rimane in silenzio e si rannicchia sul divano. Ok, è stata un'uscita infelice alla luce degli ultimi fatti, ma capitemi: io in quel momento penso che i due abbiano ripreso a litigare come litigavano prima, cioè per delle cazzate, non che Bill si sia confuso su chi se lo stesse facendo. Io che potevo saperne? Generalmente succedeva che Bill desse di matto per un'idiozia qualunque e la pazienza di Bushido raggiungesse il limite. I due si urlavano addosso cose improponibili e quindi Bill se ne andava sbattendo la porta e giurando che non sarebbe mai più tornato da quell'uomo abbietto che non se lo meritava. A quel punto si trascinava da me e mi ripeteva tutto quello che era successo, parlandomi di Bushido in modi tremendi. Io finivo per dargli ragione e allora lui si metteva a difenderlo, concludendo che in realtà, in effetti, era inutile litigare per delle sciocchezze. A quel punto prendeva armi e bagagli e se ne tornava a casa del re dove, con ogni probabilità, ogni cosa veniva presto dimenticata in modo sui quali tutti noi sorvoleremo. Ed è questo che mi aspetto adesso, che si sieda, mi chieda di bere qualcosa di altamente calorico del quale poi si lamenterà e che inizi ad insultare il tunisino. Invece niente.
Mi trovo un po' spiazzato. Di solito mio fratello parla anche più del legalmente consentito, non sono abituato a vederlo zitto. Anche quando l'hanno operato alle corde vocali si è fatto dare una lavagnetta per poterci affliggere tutti con la sua logorrea. Così mi siedo accanto a lui, indeciso sul da farsi. “Non parli, quindi dev'essere una cosa seria,” provo ad andare per logica.
“Tomi,” mormora, “Ho fatto una cazzata enorme.”
L'ultima volta che mi ha detto questa frase, Bushido era appena tornato da Miami, anche se in quel momento io pensavo che la cazzata enorme fosse che Bill aveva scopato con lui senza farsi dare nessuna spiegazione. Non che avesse scopato con lui senza farsi dare nessuna spiegazione mentre stava con Chakuza. Quindi un po' mi preoccupo se me la ripete su questo divano, mentre fa di tutto per non incontrare il mio sguardo.
“Scommetto che non è niente di irreparabile,” dico con un mezzo sorriso incoraggiante. In realtà sto mentendo, perché quello che penso è che quasi tutto quello che mio fratello fa è irreparabile, in tutti i modi in cui questo aggettivo può essere interpretato. Prendete, ad esempio, quello che ha fatto a Bushido e Chakuza. Non li ha fatti soltanto innamorare di lui, quei due per lui ci hanno perso la testa. Un danno irreparabile, appunto. Quindi se adesso lui è qui, non parla e dovrò evidentemente cavargli di bocca quello che è successo parola per parola, allora sì è un danno irreparabile.
“Questa volta davvero,” insiste.
Così sospiro e gli sistemo una ciocca di capelli dietro l'orecchio. “D'accordo. Allora spiegami cos'è successo. Hai litigato con Bushido?”
Vedo che serra le labbra e poi deglutisce prima di fissare lo sguardo sul mio bel pavimento di mattonelle di marmo bianco. “E' finita,” dice.
Ora, se avessi tenuto sul serio il conto di tutte le volte che ha detto che con Bushido era finita, a questo punto avremmo sicuramente superato i numeri a cinque cifre, quindi prendo l'informazione con le pinze. “E perché sarebbe finita?”
“E' finita, Tomi,” scatta lui. “Non sarebbe.”
“D'accordo, ma perché?”
“Ho detto il suo nome.”
Per qualche vergognoso istante l'unica cosa alla quale penso è che deve essermi senz'altro sfuggita la postilla al primo comandamento: Non nominerai il nome di Dio invano. E nemmeno quello di Bushido. Fortunatamente mi fermo prima di aprire bocca e dirlo. “Che significa?”
“Quello di Peter,” specifica. “Io e Anis stavamo... sì insomma, e l'ho detto,” nasconde il viso nelle mani e mugugna anche qualcos'altro che non so decifrare perché sono troppo occupato a sedare il moto di empatia che provo nei confronti di quest'uomo che mentre era impegnato a dare il meglio di sé, ha sentito mio fratello dare il merito di tutti i suoi sforzi a qualcun altro. Non oso nemmeno immaginare la sensazione che si provi in casi simili. Questa è un'onta che io personalmente laverei col sangue.
“Tomi...” si lamenta mio fratello e poi si contorce tutto per finire a spaccarmi la milza nel tentativo di farsi avvolgere in un abbraccio. Lo accontento e lui mi infila il muso nel collo.
Non so nemmeno che cosa dirgli. “Ma come diavolo hai fatto?”
“Non l'ho fatto apposta!” Mi sbraita lui nell'orecchio. “Io non me ne sono neanche accorto!”
E li il quadro che si è dipinto da solo nella mia testa va peggiorando. Immagino Bushido che lo avverte di quello che ha detto e mio fratello che cade dal pero come se invece di gemere il nome del suo ex-ragazzo, avesse indicato fuori dalla finestra durante una giornata di sole e avesse detto: Guarda Bu, che bel cielo azzurro! Questo non è un errore irreparabile, è una catastrofe. C'è di che spezzare per sempre l'ego di un uomo.
“Hai provato a parlarci?” Chiedo, anche se non immagino cosa si possa dire in casi simili. Non c'è una giustificazione che io accetterei, per dire.
Ed evidentemente non ne esiste nemmeno una che Bushido accetterebbe, perché mio fratello mi risponde: “Non ha voluto. Ha solo detto che non era il caso che dormissi più a casa sua.” Le sue dita mi stringono la maglia e lo sento premere forte la fronte contro la mia pelle. E' talmente impegnato nel tentativo di non piangere che ha tutti i muscoli tesi.
“Forse ha solo bisogno di un po' di tempo per digerire la cosa.”
Lui scuote la testa. “Mi ha fatto fare le valige,” mormora.
Questa è la seconda volta che Bushido bandisce Bill da casa sua in meno di due mesi e forse questo dovrebbe dare sia a me che a lui un'idea della situazione. Solo che non vorrei essere io a dirgli che magari le cose sono cambiate e che quando cambiano troppo, a volte è anche inutile rompersi la testa per riportarle com'erano perché non si può. Mentre gli accarezzo piano la testa penso a come formulare questo concetto senza che sembri troppo pesante, ma è lui ad anticiparmi. “Ti è mai successo?” Mi chiede.
“Che cosa?”
“Che una ragazza dicesse il nome di qualcun altro.”
Scuoto la testa. Se fosse successo forse non sarei andato a letto con l'elevato numero di donne con cui sono andato. La mia autostima è una creatura estremamente sensibile.
“E tu? Hai mai confuso i nomi?”
“Sì,” ammetto. “Ma non li sapevo già in partenza, quindi non è la stessa cosa.”
Lui si scosta da me e mi osserva. Pianta quei due occhioni castani nei miei e mi osserva, neanche stesse cercando tutte le risposte che gli servono direttamente sulla mia corteccia cerebrale. “Credi che significhi davvero qualcosa?” Chiede poi. “Credi che ci sia un motivo perché ho gridato il nome di Peter?”
Ah, l'ha pure gridato, penso. Tra qualche minuto salterà fuori che ci ha fatto anche tutto un dialogo con il Chakuza immaginario che era a letto con lui. Se c'è un Dio, e immagino che ci sia perché situazioni di questa portata devono essere pilotate da qualcuno più in alto di noi comuni mortali, beh quel Dio sicuramente mi odia perché ad un certo punto ha deciso arbitrariamente che io non dovessi più essere il confidente primario di mio fratello – DNA del mio DNA – e me lo ha portato via per tre lunghi anni facendolo accoppiare ripetutamente con un uomo tunisino di dubbio gusto prima e con un uomo austriaco di ancora più dubbio gusto poi, ma quando il filo degli eventi si è incasinato a tal punto che mio fratello ha confuso gli uomini di dubbio gusto, allora il buon Dio me lo ha restituito e con un sorriso gioviale ha esclamato bonario: Ecco, Tom, risolvi pure la questione. Mai che una volta mi si desse la possibilità di impedire il problema prima che si presenti. Se, per dire, quando mio fratello ha ricevuto dal capomafia l'offerta che non poteva rifiutare di trasferirsi a casa sua, Bill fosse venuto da me a parlarne, forse io avrei cercato di capire se nella sua testolina tutta lacca e treccine ci fosse ancora Chakuza. E invece no, il buon Dio dal sorriso bonario ha pensato bene di lasciare che mio fratello decidesse tutto da solo finché, chiaramente, il disastro non si è compiuto e ora io ce l'ho qui sulle ginocchia a pretendere risposte impossibili.
“Tu credi che significhi qualcosa?” Gli chiedo.
Lui si stringe nelle spalle. “Anis mi ha chiesto se Peter mi manca,” dice poi dopo qualche istante, torturandosi le dita.
“E la risposta qual è?”
Bill resta in silenzio a lungo prima di dire qualcosa. Anche se il solo fatto che lo faccia è già una risposta sufficiente. Da quando ho scoperto che lui e Chakuza stavano insieme, ho cominciato a ricordare il modo in cui Bill guardava quell'uomo le poche volte che passavo a casa sua un momento e lo trovavo lì seduto sul divano con lui. Mi ero convinto che fossero sguardi un po' annoiati, forse perché io ero certo che uno come Chakuza non potesse rappresentare un'attrattiva per Bill in nessun caso. Poi sono entrato in possesso dei particolari che mi mancavano, tipo che forse un attimo prima che suonassi il dannato campanello di mio fratello quei due ci stavano limonando sul divano e allora le occhiate non erano affatto annoiate ma impazienti. Che io me ne andassi, naturalmente, non che se ne andasse lui. E sono occhiate che non hanno smesso neanche dopo il ritorno di Bushido, neanche quando evidentemente mio fratello non sapeva più da che parte girarsi. Ed è stato lì che è successo casino, non tanto perché gli uomini fossero due ma perché mio fratello non aveva i mezzi per sceglierne uno. Che fosse Bushido a mettergli le mani addosso, o fosse Chakuza che se lo riprendeva, lui ci perdeva la testa. E quando non hai neanche un momento per fermarti a pensare davvero a quello che ti sta succedendo e a quello che vuoi, poi finisci per fare danni. E mio fratello è andato a vivere da Bushido, per dire.
“Io non lo so, Tomi,” Bill si affloscia, come se un sacco vuoto. “Mi manca, sì. Forse amo ancora Chakuza.”
Io sollevo un sopracciglio perché questo è il più bell'eufemismo che mi sia mai capitato di sentire dalle sue labbra ricoperte di gloss. Alcun dei migliori sono stati: ogni tanto mangio delle caramelle gommose. Apprezzo Nena e il doppio A volte parlo un pochino troppo. Questo di Chakuza, però, li batte tutti.
Forse?” Chiedo.
Lui si morde un labbro. “Okay, lo amo ancora,” ammette lui.
“Perché lo hai mollato allora?”
“Perché amo anche Anis,” esclama lui e lo fa con una rassegnazione terrificante. Come se questo discorso nella sua testa fosse avvenuto così tante volte che lui non ne potesse più di sentirlo. E con ogni probabilità è così. E' un po' come dire: le cose stanno così, e allora? Non posso farci niente. In realtà Bill poteva fare una cosa sola: sceglierne uno. Il problema è che quando ha tentato di farlo, ha scelto quello sbagliato. Ora non è che io dica che Chakuza sia l'uomo della sua vita, ma era sicuramente la scelta da fare se poi, quando si è trovato tra le braccia di Bushido, Bill ha fatto il suo nome. Se la scelta fosse stata giusta fin dall'inizio, niente di tutto questo sarebbe successo. Almeno credo. In realtà è un bel casino stare qui a sentenziare su quello che gira nel cuore di mio fratello, anche perché io non ho un granché voglia di avere la responsabilità di indicargli l'uomo giusto. Meno che mai di indicargli Chakuza.
Alla fine, però, sospiro e dico esattamente quello che so di dover dire. Anzi, quello che avrei dovuto dirgli prima che si trasferisse da Bushido, se solo il Dio bonario di cui sopra non avesse pensato bene di fargli fare tutto di testa sua. “Devi capire che cosa cerchi e... lo so che non vuoi sentirtelo dire, ma è così!” Gli prendo le mani e lo costringo a smettere di guardare il mio salotto come se tra una mano di bianco e l'altra mi fossi preso la briga di metterci dentro la risposta che gli serve. “Bill non guardati intorno, dannazione” lo riprendo. “La risposta la sai. E' da qualche parte in quella testa,” gli batto con un dito sulla fronte.
Lui mi scosta la mano. “E piantala!”
“Dico sul serio.”
Alla fine decide di drappeggiarmisi addosso come una copertina di lana e io decido di lasciarlo fare perché ne so abbastanza di lui per sapere che le sue rotelline si sono messa a girare. Posso solo sperare che gli ingranaggi non si inchiodino, stavolta. Restiamo in silenzio per un tempo talmente lungo che rischio quasi di addormentarmi, che è la cosa più sbagliata in casi come questo. Soprattutto se si tratta di Bill, che non ha mai pietà se per caso mi addormento nel bel mezzo di una delle sue lunghissime pause riflessive da film cinese. Alla fine, quando ormai sto contando con intenso fervore quante mattonelle ha il mio pavimento, lui si muove appena e lo sento che mi appoggia il mento sulla spalla e guarda dietro di me.
“Mi dispiace non averti detto di Peter,” mormora.
“Perché non lo hai fatto?” E' una cosa che mi chiedo da quando sono venuto a saperlo. Per quale assurdo motivo Bill ha pensato che fosse sensato tenermi all'oscuro della sua seconda relazione importante, quando tenermi all'oscuro della prima aveva prodotto le conseguenze che tutti sappiamo. “Ti avrei capito, lo sai.”
“Non ne ero sicuro.”
“Come prego?” Me lo scosto di dosso e lo costringo a guardarmi negli occhi. “Cristo Bill! Ma che ti è preso, si può sapere? Prima di questo tuo enorme casino di uomini, l'unico uomo di cui ti fidavi veramente ero io! Te lo ricordi?”
“Tom, non è questo,” sospira ancora lui e poi si disincastra dal groviglio di arti che eravamo e sospira.
“E allora cos'è?” Come io sia passato dal discutere con lui su quale sia la soluzione più giusta da prendere, al discutere quello che è prevalentemente il mio problema personale con lui, io non lo so. So solo che questa cosa mi rode dentro da quattro lunghi anni e visto che non c'è mai verso di inchiodarlo in un angolo senza che spuntino fuori gangster a salvarlo da tutte le parti, ne approfitto ora che siamo entrati in argomento e tutti i suoi amici sono o incazzati con lui o lontani, molto lontani da qui.
“A te Anis non è mai andato a genio,” risponde, le gambe incrociate e i piedi pianta contro pianta.
“Direi che è un bel modo ottimistico di metterla,” commento con un'alzata di sopracciglia. “Ma non vedo che cosa c'entri.”
Lui mi guarda storto perché ovviamente l'ho interrotto e non potevo. “Dicevo,” riprende, “che a te Anis non era mai andato a genio, ma alla fine ti eri abituato. E sei stato meraviglioso con me quando... “ fa un sospiro enorme, come a cercarla in fondo allo stomaco l'aria che gli serve. “... quando è morto. Così quando io e Chakuza abbiamo iniziato a frequentarci, ho pensato che avresti pensato...”
“Che non doveva importarti poi molto del tuo tunisino se avevi trovato il rimpiazzo nemmeno tre mesi dopo,” concludo io per lui.
“Già,” sospira.
E ti pareva che, alla fine, nonostante tutto, io non avessi capito come funziona il cervello di mio fratello? D'altronde il mio è della stessa marca mica per niente. “Grazie della fiducia,” commento.
“Tomi lo sai che non è questione di fiducia!”
“Sì che lo è,” insisto. “Come ti è saltato in testa che non avrei capito come stavano le cose?”
Lui si stringe nelle spalle. “Non avevi capito Anis.”
“Perché ci eri già andato a letto quando me lo hai presentato, senza per altro che io sapessi neanche che eri gay,” puntualizzo.
“Io non sono-”
“Bill piantala,” lo ignoro. Stasera non posso oggettivamente risolvere il suo problema sentimentale con Bushido e Chakuza, il mio problema di fiducia con lui e anche il suo problema ad ammettere apertamente che è omosessuale. “Pensavo che al secondo giro, magari, ti sarebbe venuto in mente di parlarmi di Chakuza prima di infilarti nel suo letto.”
“Non è esattamente andata così.”
Alzo gli occhi al cielo. “Bill non m'importa com'è andata! Non importa se prima di portarti a letto, ti ha giurato eterno amore in ginocchio fra i petali di rose! Qualunque cosa abbia fatto quel nano da giardino per convincerti che era cosa buona e giusta darglielo, a me sarebbe piaciuto che mi dicessi che ti eri innamorato!”
Ecco, gliel'ho detto ed esattamente come l'ho sempre pensato, anche, cosa che mi fa passare per un gran deficiente. Tendenzialmente dovrei fregarmene di quello che fa mio fratello, perché è appunto mio fratello e non la mia giovane sorellina adolescente in balia di uomini concupiscenti che vogliono da lei cose di cui lei non si rende neanche lontanamente conto. Bill si rende conto eccome, l'ha passato il tempo dell'innocenza, se mai c'è stato. Sa perfettamente che ci sono uomini concupiscenti là fuori nel mondo che venderebbero le loro madri per mettere le mani su di lui. E lui non è da meno, per altro. Lui se li cerca o scuri e pericolosi o.... beh, con due spalle enormi. Insomma, non è che devo star qui a difendere le vergini, io. Non ce ne sono. Solo che io non posso farci niente se ogni volta che qualcuno gli si avvicina a me viene da mordere. Prima di essere la Principessa del ghetto, Bill è mio fratello. E se proprio gli si deve mettere le mani addosso, a questa Principessa, che lo si chieda a me.
Mentre mi perdo in tutta questa metafora di principesse vergini che la danno via comunque dalle loro torri, mio fratello si è messo a ridere. “Non dovresti chiamarlo così,” mi fa, tirandomi una botta. “Non è carino.”
“Beh, ma è vero. Quando uscite sembri Biancaneve,” protesto. “Non sai quante volte volevo chiederti se gli altri sei te li eri mangiati.”
Lui mi tira un altro spintone. “Quanto sei stupido,” ride.
Rido anch'io, ma poi quando ci calmiamo glielo dico di nuovo. “Avresti dovuto dirmelo,” mi stringo nelle spalle. “Lo avrei capito che per te era importante com'era stato lui.”
Bill si stringe nelle spalle minuscole. “Hai ragione,” ammette. “Scusa.”
E qui io tipo potrei alzarmi e fare la danza della vittoria di Georg, che è una cosa raccapricciante e quando la fa tutti tentiamo di atterrarlo per evitarci la visione. Però, per dire, io che in piedi sul divano agito il culo e muovo in cerchio le braccia renderei abbastanza l'idea del mio trionfo interiore. Non lo faccio solo perché risolto questo piccolo problema ne abbiamo uno esageratamente più grosso, tipo che Bill ha detto quello che ha detto nell'impeto del momento... e che il Dio bonario mi tolga dalla testa l'immagine di mio fratello che geme, grazie. C'è un limite alle cose che anch'io posso sopportare.
“Ad ogni modo, non posso fare niente,” esclama Bill, risvegliandomi dalla mia danza mentale. “Peter non vuole parlarmi.”
“Direi che ha le sue buone ragioni,” commento. E lungi da me prendere le parti del nano malefico, ma in questo caso è oggettivamente impossibile non farlo. Quell'uomo ha ricevuto uno dei due colpi più mortali che un uomo può ricevere dalla... persona che si porta a letto. L'altro lo ha ricevuto Bushido. Mio fratello ha fatto una strage, Dio mio.
“Lo so.”
E qui faccio un gran sospiro perché quello che sto per dirgli mi costa tantissimo. Ora che Bushido ha pensato saggiamente di mandarlo via di casa prima di dire – o peggio, fare! - qualcosa di pessimo e che Chakuza non ne vuole sapere di lui, speravo di riaverlo per me. Magari anche di allontanarlo da tutto il Ghetto in generale. Ammetto di avercelo fatto un pensiero. Solo che non sarebbe giusto. Questo mondo si è preso una parte di Bill che rimarrà sempre qui, che io lo porti via o meno. Come tutti questi uomini non lo hanno avuto per intero, perché un po' era anche mio, così io non posso averlo tutto, perché è un po' anche loro. E mi rendo conto che con Bill è sempre una questione di pezzi regalati. Quando ti vuole bene e tu ne vuoi a lui, Bill ti consegna un pezzo di sé da conservare e tu, anche se per qualche motivo arrivi ad odiarlo, magari quel pezzettino te lo metti in tasca, ma a buttarlo via non ci pensi proprio.
Forse potrei mentirgli e dirgli che quel nome detto a sproposito non significa niente, ma poi mi toccherebbe fare i conti con la mia coscienza ogni giorno, mi toccherebbe doverlo guardare e sapere che a quegli occhi tristi un po' ho contribuito anch'io, perciò no. “Forse dovresti fare un altro tentativo,” dico. “Anzi, dovresti fare il primo vero tentativo. Non parli con lui da quando lo hai avvertito che andavi a vivere da Bushido.”
“Non vuole parlarmi,” ripete lui. “Lo hai visto anche tu alla riunione!”
“Forse non vuole parlarti lui,” ipotizzo. “Ma vuole che lo faccia tu.” E mentre lo dico mi sembra anche estremamente sensato. In fondo l'ultima cosa che Chakuza si è sentito dire da mio fratello, è che lo mollava. Non fosse altro che per sentirlo chiedere scusa, secondo me lo farà parlare. E se poi da lui vorrà soltanto questo, vorrà dire che sarò pronto a raccogliere col cucchiaino quello che a quel punto resterà di Bill. Ma se non fa un tentativo, anche disperato, quell'unica possibilità di salvare qualcosa, da qualche parte, la perdiamo in partenza. Peggio di così non può andare, no?
“E se non vuole?”
“Allora sarà andata così e non ci sarà nient'altro da fare,” concludo.”Ma devi almeno provare e fare chiarezza in quel casino di testa che ti ritrovi.”
Lui fa un sospiro gigante e non mi guarda, così gli sollevo il mento e gli sorrido. “Tu la risposta la sai già,” gli ripeto. “Solo che dirla ad alta voce ti fa paura.”
“No, non mi fa paura,” mi corregge lui. “Mi terrorizza.”
Sorrido. “Vai da lui, parlaci e stai a vedere.”
E mentre mio fratello si fa offrire una pizza in nome delle coccole che secondo lui gli devo per una qualche regola universale di gemellitudine e che io puntualmente gli faccio, perché io ci vivo seguendo questa regola universale nemmeno fosse un codice divino portato in Terra da profeti pre-cristiani, lo abbraccio e spero di non averlo appena spedito a fare la cosa più sbagliata fra le cose sbagliate di questo mondo.
Dio bonario, se mi senti, daccela buona almeno stavolta.

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A Wound Unhealing

di lisachan
Io sono una persona molto paziente. Lo sono perché da piccolino non ero paziente per niente, e questo mi ha insegnato molte cose. L’episodio più emblematico della mia esistenza, in questo senso, risale ai miei… dovevano essere quindici, da poco passati, o una cosa del genere. Anis – che allora era solo Sonny e andava in giro rattoppato e malconcio come l’immigrato che non è mai stato anche se avrebbe dovuto – aveva deciso di mostrarmi la sua fantastica moto, una roba di cui si parlava da mesi e della quale lui favoleggiava cose assurde tipo che potesse scalare i palazzi e cazzate simili ovviamente false ma alle quali io credevo ciecamente perché ero un ragazzino e la mia testa era tutto un concentrato di ammirazione per questo tipo assolutamente folle che poi in un modo o nell’altro mi avrebbe cambiato irrimediabilmente la vita.
Comunque sia, io ero molto emozionato per questo grande evento che mi coinvolgeva e che palesemente doveva aprirmi le porte di un futuro più luminoso e splendente che mai, ed ero così emozionato che, nel momento in cui vidi la saracinesca del garage dietro casa sua cominciare a sollevarsi, mi ci fiondai contro neanche fosse stata un materasso e io un uomo provato da dodici ore di lavoro continuativo in fabbrica.
In sunto, andai a sfracellarmi contro la saracinesca sollevata a metà e caddi a terra all’indietro, tagliuzzandomi peraltro i palmi delle mani sulle pietruzze che ricoprivano il vialetto là davanti e piagnucolando come un deficiente mentre Anis mi passava accanto a mi guardava allibito, tirando su quel che restava da tirare su sia della saracinesca che di me, ed aiutandomi a scrollarmi di dosso un po’ di terriccio bianco e polveroso.
- Guarda che tu devi calmarti. – mi disse allora, una mano sul fianco e il capo lievemente inclinato, - Facendo le cose di corsa, non arriverai da nessuna parte. Devi riflettere, con calma, segui il ritmo del tuo cervello. Non sei tanto lento da diventare un pericolo, se ti ascolti un po’. Hai un buon ritmo. – il che era palesemente il più bel complimento mi fosse mai stato fatto dopo “aaaw, Patty, che begli occhioni che hai, bello della mamma!”, detto da mia madre quando dovevo avere qualcosa come cinque anni.
Comunque sia, da quel momento – anche per non ripetere figuracce tipo la saracinesca presa di naso – ho cercato di fare tesoro di quell’insegnamento, e riflettere sempre. Che è una cosa che quando stai per strada ti aiuta molto, se non sei stupido. Cioè, se sei stupido è meglio che tu non rifletta, rischi di prenderti troppo tempo e non è il caso. Ma se il cervello si muove bene, se hai un buon ritmo, come mi ha detto Anis, allora è ok. E io ho cominciato a seguire il mio ritmo, e in effetti da quel momento le cose in generale per me hanno cominciato a girare in un verso lievemente migliore rispetto a quello che avevano imboccato prima.
Comunque, per spiegare quanto infinita e profonda sia la mia pazienza, basta osservare l’evoluzione del mio rapporto con Chaku nei secoli. Dico “nei secoli” un po’ perché fa ridere, e qua se non la si prende con simpatia è un dramma, e un po’ perché a volte davvero mi pare che siano passati centinaia d’anni da quando l’ho visto da vicino – più o meno, visto che ero nascosto dietro un mausoleo – durante il funerale di Anis.
Comunque sia, di strada ne abbiamo fatta un casino. Non è stato sempre semplice – in realtà non lo è stato mai – e non è stato sempre divertente – anche se spesso in realtà sì – eppure mi gloriavo, fino a qualcosa come due minuti fa, di essere riuscito comunque sempre a mantenerlo una costante della mia vita nell’ultimo anno, un qualcosa cui potessi affidarmi. Non a lui in quanto Chaku, per carità, non gli affiderei manco una pianta grassa, ma alla sua presenza in quanto tale, quello sì.
In questo momento, però, guardo il Chaku – lo vedo qui seduto sul mio divano che si torce le mani in grembo e fissa il vuoto con aria pallata cercando di trovare le parole per dirmi ciò che mi deve dire – e mi rendo conto che le costanti, in realtà, sono una stronzata enorme con cui gli esseri umani si divertono a illudersi di poter avere qualcosa di incrollabile nella propria esistenza, quando invece non esiste proprio un bel niente che sia incrollabile. Questa è l’ultima cosa che mi ha insegnato Anis, povero stronzo, che credeva di poter giocare con la vita e la morte ed uscirne vittorioso comunque, e invece ha perso, eccome se ha perso.
- Io… - comincia Chakuza, e a me viene voglia di dargli un buffetto su una guancia e mandarlo a mangiare gelati, che ne so. Davvero, Chaku non ha quasi mai problemi a dirti le cose che deve dirti, anche perché sono quasi sempre cose che riguardano problemi di ordine pratico. “S’è intasato il cesso” o “non funziona più il frigorifero”. Insomma, lui ti presenta un problema per il quale è sicuro che in due riuscirete a trovare una soluzione, questo è quanto. È così evidente che, adesso, sta cercando di trovare le parole per farmi un discorso completamente diverso, che davvero mi viene voglia di fargli due coccole e dirgli che non importa, suvvia, qualsiasi cosa sia andrà a posto da sola, non preoccuparti, Chaku.
Tra l’altro in tutto questo mi viene in mente – così dal nulla – che da quando è entrato non mi è ancora saltato addosso, e questo dovrebbe preoccuparmi. Mi viene in mente all’improvviso perché ormai quando ho il Chaku intorno ho imparato ad autosettarmi in una modalità di ricezione dati che sia Chaku-friendly, e siccome quest’uomo ha tempistiche tutte proprie devo anche adattarmici, o rischio di combinare casini. Mi viene anche da pensare che lui non si preoccupa di generare disastri quando si muove, lui si muove e basta devastando l’ambiente circostante, un po’ come Anis, ma questo non è davvero un problema, al momento. Io sono uno che a queste cose ci sta attento.
Comunque, è strano che non abbia già trovato una scusa random per espletare quella che è la sua funzione primaria nel mondo, ovvero disperdere il seme, per cui mi viene da pensare “cazzo, sarà davvero preoccupato per qualcosa di serio, il Chaku, o non sarebbe qui a rigirarsi i pollici invece di usarli in modo decisamente più proficuo”, e mi siedo al suo fianco sul divano, cercando di guardarlo negli occhi per provare a intuire cosa confonda ulteriormente il suo cervello già confuso a livello base.
Insomma, lui si gira e mi guarda. Solo per una frazione di secondo, e io lì, in quella frazione di secondo, leggo tutto quello che mi serve sapere: il senso di colpa. Parliamone. Quest’uomo non s’è mai – mai mai mai – sentito in colpa nei miei confronti anche quando ha fatto cose per le quali una persona normale sarebbe andata di gran carriera a costituirsi alla prima centrale di polizia disponibile. E, Dio mio, non oso immaginare cosa possa aver combinato questa volta per avere stampata in faccia un’espressione così colpevole da essere tanto palese, nella sua colpevolezza, da lasciarmi turbato.
- Chaku? – lo chiamo, un po’ incerto, - Togliti quella roba dalla faccia, se non è indispensabile che tu ce la tenga.
- …uh? – chiede lui, confuso, passandosi un dito su una guancia come ci fosse rimasto sopra uno sbuffo di panna o che so io, - Di che-
- Che cos’hai? – taglio corto io, anche perché non mi va di spiegargli che ormai lo leggo come un libro aperto e non è il caso che faccia tanto il misterioso, - Avanti, parla, o la testa ti diventerà così calda che ti prenderà fuoco il berretto.
Il Chaku inspira ed espira profondamente. Si gonfia tutto come un palloncino e poi si risgonfia, mi sembra improvvisamente molto piccolo, a guardarlo adesso, anche perché è tutto curvo e abbacchiato e non mi guarda e invece io sto qua con la schiena bella dritta e lo fisso perché mi piacerebbe anche avere una risposta entro il prossimo trentennio, Chaku, non è che posso restare qui in attesa del momento in cui ti sentirai pronto a svelare i misteriosi e oscuri segreti della tua psiche.
- Senti, io e te dovremmo parlare. – mi dice, e già il fatto che sia lì a usare condizionali a sproposito mi urta. Voglio dire, sei venuto fin qui, hai preso possesso del mio divano e sei qui a inspirare ed espirare teatralmente da mezz’ora, mi pare chiaro che dobbiamo parlare e non dovremmo parlare, quindi parla. – A proposito di una cosa molto importante.
Comincio a subodorare qualcosa, perché Chaku non ha molte cose veramente importanti, nella sua vita. Il suo lavoro, la sua famiglia. Bill. E siccome per lavorare lavora e lutti in famiglia non ce ne sono ancora stati, almeno che io sappia, mi sa che il problema qui è anche più grave di quanto non avessi immaginato. Ed ecco che si spiega il senso di colpa nei suoi occhi.
Mi alzo in piedi e mi dirigo verso la cucina, perché non voglio stare qui seduto mentre lui mi dice ciò che mi deve dire. Voglio avere le mani e la testa occupate. Prendo a montare la moka con una precisione quasi malata, stando bene attento a non versare caffè ed asciugare con un panno ogni singola gocciolina d’acqua sulla superficie metallica.
- Fler… - mi chiama lui, dalla soglia della porta, avvicinandosi a disagio. – Mi dispiace. – dice solo, abbassando lo sguardo. E io vorrei – anzi, voglio, stavolta voglio – fargli notare che non può dare sempre per scontato che io lo capisca a prescindere. Non può pretendere che lo scusi, non può pretendere che lo perdoni, se non trova neanche le palle di dirmi come stanno le cose. Io non posso farlo, se lui non si prende almeno la responsabilità di impedirmi di capirle da solo.
- Per cosa ti dispiaci? – chiedo, continuando a preparare il caffè e ripulendo il ripiano con una pezza umida. Il mobile in legno laccato bianco torna subito immacolato. Ho una bella casa, cazzo, la vivo così poco. Sono un cretino.
- …lo sai. – biascica lui, incapace di sollevarmi gli occhi addosso.
- No, non lo so. – continuo io, e mi rendo conto di essere odioso, e anzi, in un’altra situazione sicuramente a guardarmi agire con un atteggiamento simile mi prenderei a cazzotti da solo, ma qui ed oggi Chaku non può veramente pretendere della bontà da me, ed io in ogni caso non sono disposto a concedergliela.
Chakuza sospira, si avvicina e io faccio uno scatto indietro, perché non voglio che mi tocchi. Non voglio neanche che mi sfiori o che le sue mani possano arrivare ad una distanza tale da poterglielo permettere anche se poi non lo farà. Lui mi guarda come se l’avessi appena accoltellato alla schiena, e recupera la caffettiera, poggiandola sul fornello e accendendo il fuoco.
- Bill è venuto da me, qualche giorno fa. – comincia. Io comincio a contare i giorni in cui non l’ho visto, recentemente, e mi do dell’idiota. – Lui e Bushido hanno rotto. – comincio a contare anche i giorni in cui Anis ha chiamato, sempre più spesso, intrattenendosi in conversazioni sempre più lunghe, e mi do della testa di cazzo. – Bill dice di volerci provare. Dice di essere serio, stavolta.
E io mi mando a fanculo da solo e basta, davvero, perché certe cose puoi non vederle solo se non vuoi farlo.
Mi volto verso di lui con una lentezza che stupisce per primo me stesso. È come se il mio corpo stesse cercando di fermarmi per impedirmi di fare qualche pazzia. Ma io la voglio fare, questa pazzia. Cazzo, se la voglio fare, Dio, ora che lo guardo con quell’espressione colpevole ancora addosso ho come l’impressione di non aver mai voluto qualcosa così tanto, nella mia vita. È perché volevo te, Chaku. Ti ho voluto con una forza che tu non t’immagini nemmeno, ti ho voluto con una forza che nemmeno Bill può immaginare, perché io il ragazzino lo adoro, ma quello che ha voluto l’ha sempre ottenuto senza sforzare niente più dei suoi occhioni e delle sue labbra a sbattere un po’ più lentamente e piegarsi in un sorriso appena più triste. Cazzo, Chaku. Cazzo.
Il primo pugno non lo realizzo in maniera cosciente. Mi fanno male le nocche della mano e anche il dorso, quindi non posso fare a meno di realizzarlo a livello fisico, ma nella mia testa? io non sto picchiando nessuno. Se la mano mi fa male è perché la congiunzione astrale che proietta i suoi influssi su di noi ha evidentemente degli effetti negativi sul mio karma, effetti che poi si ripercuotono sotto forma di dolori ossei sparsi qua e là e concentrati sulla mia mano destra.
Il secondo pugno lo realizzo per forza, perché il Chaku comincia a sanguinare. Mi macchia di rosso il pavimento cadendoci a terra, e la cosa più assurda di tutte, la cosa più triste, è che non si difende. Non lo so, probabilmente starà pensando qualcosa del tipo “ora lo lascio sfogare, magari mi spezza qualche osso ma alla fine lascia perdere”. Chaku, guarda che ti stai sbagliando, e anche parecchio. Io sono fuori di me, non ci vedo più e tutto quello a cui riesco a pensare in questo momento è come inchiodarti meglio a terra per prenderti a cazzotti fino a quando a sporcare il mio pavimento non sarà solo il tuo sangue ma anche il tuo cervello spappolato. Per ciò, Chaku, alzati e reagisci, almeno prova a malmenarmi, se ti riesce, perché sennò da qui vivo non esci.
Lo afferro per i polsi e li tengo stretti tra le dita con più forza di quanta non vorrei utilizzarne – molta più di quanta ne serva, peraltro, perché Chakuza, d’accordo, non è esattamente esile come un preadolescente anoressico, ma la sua forza non è neanche paragonabile alla mia quando sono infuriato. Lui devasta le case? D’accordo, ma io pestavo gli spacciatori marocchini trentenni a sedici anni nei vicoli di Tempelhof. Misurati con questo, austriaco.
Stringo tanto forte che sento le ossa scricchiolare sotto i polpastrelli. Penso che potrei spaccargli i polsi e sarebbe divertente osservare la sua faccia stravolta mentre si rende conto che non ho intenzione di lasciarlo andare, ma poi capisco che sarebbe troppo netto, come avviso, che se davvero voglio fargli capire quali sono le mie intenzioni prima di portarle a termine e ucciderlo senza pietà come merita, devo andarci con mano più leggera. Perciò i polsi non li spacco, li tengo stretti e li imprigiono sotto le ginocchia, schiacciandolo contro il pavimento. Lui si dibatte per un po’, ma cazzo, non sono certo un peso piuma, e lui non riesce a muoversi. Voglio sentirti implorare, Chakuza, voglio che tu mi chieda sanguinando di lasciarti andare, perché ho come l’impressione che questo sarà l’unico modo in cui riuscirò a dirti addio davvero.
Certe relazioni che si aprono nel sangue, non possono fare altro che chiudersi nello stesso modo. È per questo motivo che avrei dovuto capire immediatamente che la mia relazione con Anis non avrebbe mai potuto chiudersi nel modo in cui pensavo si fosse chiusa, col nostro sangue mescolato su un marciapiede sporco e solitario in una strada secondaria persa nel nulla in mezzo a Berlino: la mia relazione con Anis non è cominciata nel sangue, quindi non poteva chiudersi lì. La nostra sì, Chakuza, quindi vediamo di chiuderla adesso.
All’inizio non sento che mi sta chiamando. Preso come sono a sbattergli addosso i pugni fra il viso e il petto, non riesco a trovare abbastanza concentrazione in più per mettere in funzione le orecchie e percepire la sua voce. Poi la sua voce – ridotta a un rantolo sottile e vischioso come i rivoletti di sangue che gli colano giù dalle labbra e dal sopracciglio – riesce a farsi strada fra i thud compatti delle mie nocche contro le sue ossa, e io lo sento. Per un secondo, più o meno, riesco a ignorare i complimenti interiori che gli rivolgo per essere sopravvissuto più a lungo di quanto altri esseri umani al suo posto non sarebbero stati capaci di fare, perché sentirlo gemere di dolore sotto i miei colpi è troppo soddisfacente, è una cosa che ho represso senza darle sfogo per troppo tempo per non apprezzarla in maniera assoluta e totale. Continuo a pestarlo, un cazzotto dopo l’altro, e ascolto la sua voce generalmente così profonda diventare sempre più sottile e mi compiaccio, davvero, perché quest’uomo nell’ultimo anno per me è stato una montagna concettualmente insormontabile, nonostante le sue dimensioni tutto sommato ridotte, e adesso sono io che l’ho messo giù, sono io che gli sto facendo del male, sono io che comando, sono io che decido, Chakuza, la tua vita è nelle mie mani e credimi, non sta facendo male un terzo di quanto non abbia fatto male a me lasciare il mio cuore nelle tue.
Mi fermo – del tutto all’improvviso e senza neanche volerlo – quando mi rendo conto che non sta più protestando. Non è facile, in realtà, perché sono molto più attratto da particolari scemi tipo la macchia di sangue che si allarga sulle piastrelle sotto di lui, o il modo in cui strizza le palpebre nel tentativo di proteggere almeno gli occhi. Quindi in un primo momento niente, il pensiero di poter essere andato un po’ oltre neanche mi sfiora, e per un po’ continuo a pestarlo come fosse ancora tutto a posto – in un certo senso – e questa fosse ancora una colluttazione normale in cui io attacco e lui si difende.
Poi, finalmente, capisco che non è così. Che lui è immobile, non parla, non si agita, e pure il respiro in realtà s’è fatto un tantino faticoso, che potrebbe essere perché gli sto seduto sullo stomaco, ma anche perché gli ho sfondato la testa a cazzotti, non essendo io medico non lo posso capire subito. Perciò, la prima cosa che faccio – dopo, naturalmente, aver frenato le mani, prima di devastarlo del tutto – è cercare di sincerarmi che sia ancora vivo.
- …Chaku? – chiamo piano, e voglio dire, mi viene anche un po’ da ridere perché io non posso pestare un uomo fino a fargli diventare il cranio ovale e poi chiamarlo Chaku, c’è qualcosa che non va. – Chaku, stai bene?
Dico, deficiente che non sei altro, non sta bene no. Ti pare – mi dico, sempre da solo, che tanto il Chaku non può parlare e sono quasi sicuro che, anche se potesse, non sarebbe un compagno di conversazione adatto – che uno può passare un’intera mezz’ora della propria vita sdraiato su un pavimento a farsi cambiare i connotati da un pazzo isterico cui non va giù di essere stato appena mollato?, che poi è questo che è successo, eh?, niente di meno e niente di più, io sono stato mollato e quindi gli sono saltato addosso con la chiara intenzione di ammazzarlo. Voglio dire, avevo i miei motivi, ma non si fanno, queste cose. Quindi no, chiaro che non sta bene, che cazzo gli chiedo?, che se potesse rispondermi mi tirerebbe uno dei suoi soprammobili oblunghi sul naso. Certo, sempre se fossimo a casa sua.
Comincio ad essere un po’ confuso.
- Chaku. – lo chiamo ancora, più seriamente, scendendogli di dosso così magari evito di ucciderlo definitivamente, e sollevandogli piano la testa per rendermi conto del fatto che no, non gliel’ho spaccata contro il pavimento, è ancora lì, perfettamente sferica, giusto un po’ bozzuta dove ha battuto, e la chiazza di sangue che c’è sotto tanto per cominciare non è così ampia come l’esaltazione di prima mi faceva pensare, e tanto per concludere, cosa ancora migliore, è giusto il sangue che è uscito dalle ferite sul viso, non è che gli ho bucato il cranio ed è scivolato fuori dalle orecchie quel po’ di cervello che gli era rimasto. È ancora integro, intendo, più o meno.
- Ok… - cerco di scandirmi il tempo da solo, nel silenzio surreale in cui è immersa la mia casa da quando ho smesso di picchiare Chakuza, - Vediamo di capire… - biascico, ma parlo senza neanche sapere cos’è che sto dicendo, perché in realtà voglio solo sentire qualcosa, dato che il vuoto un po’ mi spaventa. Non mi sento in grado di controllarlo, specialmente in questo momento. – Ora ti metti in piedi. – suggerisco, ma naturalmente il Chaku da solo non lo fa mica, anche se sento che ora respira meglio, quindi magari si sta riprendendo. Lo sollevo cercando di fare piano, me lo carico in spalla e lui si lascia dietro una scia di sangue neanche stessi trascinando un cadavere, sporcandomi tutta la maglietta.
Mi mugola qualcosa addosso mentre lo trascino verso il divano e poi lo sistemo fra i cuscini cercando di usare la maggior delicatezza possibile. Quando torno a guardarlo, lui ha gli occhi aperti. Cioè, non proprio aperti, diciamo meno chiusi di prima. E guarda il mondo con aria del tutto disinteressata. Probabilmente il cervello tutto a posto proprio non è, dev’essersi staccato dalle pareti della scatola cranica e ora galleggia lì in mezzo a liquidi non ben definiti con tutte le sinapsi scollegate, e già mi figuro il resto della vita di quest’uomo costretto a rimanere sul divano mentre Bill lo nutre con minestrine varie cercando di impedirgli di sbrodolarsi sul bavaglio. Oddio, conoscendo il ragazzino non reggerà neanche due mesi, ma d’altronde anche io probabilmente lascerei perdere dopo un periodo non tanto più lungo, perciò è meglio che lo rimetta in sesto o qua è un disastro.
- Cosa… - mormora lui, incerto, e io evito di restare lì in attesa mentre lui riprende coscienza di ciò che è e di cosa gli sta succedendo, e vado in bagno, nella speranza di avere lì una cassetta del pronto soccorso. È ridicolo, so dov’è la cassetta del pronto soccorso in casa del Chaku, so dov’è in casa di Bill, so dov’è in casa di Anis e so dov’era in casa di Nicole, ma non ho idea di dove sia qui in casa mia. Non so neanche se ci sia.
Fortunatamente c’è, quindi quando torno indietro non lo faccio a mani vuote come un cretino, ma con il disinfettante e un vario campionario di cerotti di diverse dimensioni fra le mani. Chakuza mi guarda senza capire cosa ci faccia io lì, probabilmente.
- Mi dispiace. – butto lì giusto per dire qualcosa, - Spero non faccia troppo male.
- Uh? – chiede lui, senza dimostrare particolare presenza a se stesso, - Male? Non direi, ma non lo so, sono un po’ intorpidito…
Fortuna che sei intorpidito, penso io, se eri vigile e attento probabilmente stavi giù urlando in preda al dolore desiderando la morte piuttosto che subire ancora questa tortura infinita. Mi seggo accanto a lui sul divano, imbevo un po’ di cotone idrofilo nel disinfettante – l’alcool che non brucia, quello dei bimbi piccoli, non ricordo nemmeno quando l’ho comprato ma ero sicuro che, se dovevo avere del disinfettante, sarebbe stato questo, perché odio il bruciore dell’alcool normale. Ne odio anche il colore, per la verità.
- Stai buono, - dico, passando il batuffolo sulle ferite, cercando di fare piano, - Ti do una sistemata.
Lui annuisce ed io mi metto lì buono a fare qualcosa che non so fare, perché quando andavo in giro pestando gente per strada e ricevendo da loro lo stesso quantitativo di botte che somministravo, era mia madre a rimettermi a posto. Poi, le varie fidanzate di Anis, donne che avevano imparato l’arte standogli accanto. E anche l’ultima volta, è stato Chakuza a prendersi cura di me.
Io non sono per niente capace, ma visto che sono stato io a ridurlo in questo stato pietoso, è giusto che mi prenda le mie responsabilità e lo rimetta in sesto. D’altronde, qualcuno dovrà pur farlo. Uno qualsiasi di tutti noi.
Restiamo in silenzio così a lungo che riesco, per un po’, a crogiolarmi nella piacevole sensazione che Chakuza si lascerà ripulire e poi andrà via sempre restando zitto. Sarebbe una bella cosa, da parte sua, almeno dimostrerebbe di aver capito quanto cazzo ci sto male, e di non voler rigirare ulteriormente il dito nella piaga.
Purtroppo, però, è di Chakuza, che stiamo parlando. Lui il dito nella piaga te lo rigira non perché non voglia, ma perché non arriva a capire che non è il caso.
- Fler, - comincia, - io non vorrei che tu pensassi—
- Io vorrei che tu non dicessi niente, adesso. – lo interrompo, riponendo tutto al proprio posto nella cassetta del pronto soccorso ed ammucchiando il cotone idrofilo sporco di sangue di lato, per gettarlo via, - Ho capito l’antifona. E, credimi, vorrei poterti dire che sono felice per te e che possiamo rimanere amici, ma non posso farlo. – vedo qualcosa spezzarsi nei suoi occhi. Schiude le labbra e so che vorrebbe provare a fermarmi, ed è proprio il caso che io non glielo permetta, perché stavolta non ce la posso fare, Chaku. Stavolta proprio no. – Non guardarmi così. – cerco di sorridere, - Sarai felice, anche senza avermi intorno. Probabilmente andrà anche meglio. – e poi torno serio, e il sorriso scompare. – Non cercarmi. Non mi lascerei trovare comunque.
Il nostro addio è molto più impersonale, impacciato e meno sentito di quanto non abbia mai pensato immaginandomelo. Lo accompagno alla porta con tranquillità, cercando di non dargli a vedere che mi reggo appena sulle gambe anche se so che lui se ne accorge. Lui mi saluta con un ciao dimesso, cercando di non darmi a vedere che gli tremano le mani anche se sa che io me ne sono accorto. Quando la porta si chiude alle sue spalle, il suo profumo resta nell’aria di casa mia appena il tempo di essere mangiato dall’odore dei mobili ancora troppo nuovi, e poi io scrollo le spalle, vado in cucina e comincio a ripulire per terra.
*
Da quando Chakuza è uscito da quella porta, nient’altro c’è passato. Nemmeno io, che sono chiuso in casa da cinque giorni. Non è che abbia chissà che paranoie in mente, paura di incontrarlo o chissà che – Berlino è grande e “frequentare lo stesso giro” ha perso senso da quando Bill e Bushido sono due giri diversi a sé stanti – è solo che non mi è venuta voglia. In casa avevo tutto ciò che poteva servirmi, ho dovuto raschiare un po’ il fondo del barile, ma tra scatolette e cibi precotti vari sono sopravvissuto dignitosamente a questa quasi-settimana di solitudine senza rimpiangere il mondo di fuori neanche per il calore del sole sulla pelle. Ti scalda altrettanto anche attraverso i vetri delle finestre.
Quando Bushido arriva, ovviamente senza prima preannunciarsi, mi trova con una pezza umida fra le mani e le maniche del maglione tirate su fino ai gomiti. Stavo lavando i piatti dopo un lauto pasto a base di fagioli in scatola riscaldati a bagnomaria. Ora sono le undici e mezza di sera, lui è sulla soglia della mia porta, è il primo essere umano che la attraversa da giorni ed è ubriaco.
- Anis…? – lo chiamo, ma lui non risponde. Mi fa un sorriso idiota e mi si scaraventa fra le braccia, si vede proprio che si lascia andare, che non ne può più di stare in piedi. Siccome è leggero come un materassino di gommapiuma, lo tengo dritto e lo accompagno verso il divano, chiudendomi la porta alle spalle e cercando di sistemarlo fra i cuscini cercando di impedire che rotoli a terra. – Anis, ma che cazzo—
- Sono ubriaco. – dice lui, come a volermene informare nel caso non l’avessi capito.
- Sì, l’avevo afferrato. – gli faccio presente con una smorfia, - Puzzi tanto che ti sentirei pure a due isolati di distanza, cazzo, ma quanto hai bevuto?
- A sufficienza. – risponde lui, annuendo come se servisse un tono professionale per parlare di una roba simile. Sospiro e roteo gli occhi, sedendomi accanto a lui sul divano e tirandogli un’ancata per costringerlo a spostarsi un po’ e farmi spazio.
- Sì, a sufficienza per farti esplodere il fegato. – ribatto, e lui subito scoppia a ridere come avessi fatto la battuta del secolo, e mi tira uno scappellotto sulla nuca. Solo che poi la mano resta là, e siccome di tenerla immobile non gli va, perché mai nulla nel suo corpo è immobile, prende a farmi delle carezzine minuscole, quasi impercettibili, neanche fossi un cane o un qualche altro animale domestico. – Che è successo? – chiedo con un sospiro, e sospiro perché già lo so cosa è successo, e so anche che sentirmelo ripetere non mi farà bene, perché ciò che Anis mi dirà ha delle implicazioni che lui non conosce e delle quali vorrei parlargli, ma non posso farlo. Tutto ciò che posso fare è restare in silenzio ed ascoltarlo mentre, fissando la parete di fronte a sé, in un punto vuoto defilato rispetto al televisore e ai quadri astratti che erano già qui quando ho preso l’appartamento, mi racconta quanto fa schifo la sua vita al momento, e perché.
La cosa sorprendente è che mi parla di tutto. Principalmente di Bill, com’è ovvio, ma in realtà non tralascia niente. Mi parla dell’etichetta a puttane, di tutta la rete di amicizie che aveva intessuto e che ora è scomparsa quasi del tutto, ma anche di sua madre e di quanto faticosamente abbia accettato tutto ciò e provi comunque a stargli accanto, seppur con difficoltà. Mi parla di suo padre che mentre lui era a Miami è morto e del fatto che non mi sa dire se gli dispiaccia non essere andato al suo funerale e non aver saputo a lungo neanche che un funerale ci fosse stato. Mi parla del vuoto nel petto che sente quando ci pensa e mi parla del freddo che c’è in casa, che è enorme, e mi parla del profumo di Bill che ogni tanto sente ancora quando apre l’armadio o schiaccia il naso contro un cuscino. E mi parla dello spazzolino della sua principessa che è ancora lì nel bicchierino in bagno, dei suoi asciugamani, di tutte le cose che non ha portato via perché erano oggettivamente troppe e in gran parte inutili, decorazioni stupide con cui rinforzavano entrambi la sensazione dello stare insieme. E che ora restano lì solo a testimoniare che insieme non esiste più.
Anis tutte queste cose può dirmele solo perché ora sta così. Perché non ce la fa più a tenersele dentro e l’alcool lo sta usando come scusa per tirarle fuori. Perché prima Bushido era la parte più grande di lui ed ora invece è solo il nome che usa per lavorare. E sarebbe bello vederlo ritornare Bushido davvero, non perché non mi piaccia Anis, ma perché Bushido è tutto ciò per cui Anis ha combattuto. È tutto ciò che si è guadagnato. Ed è orribile vederlo gettare via una parte così enorme e significativa di lui, indipendentemente dal fatto che sia colpa sua o meno se quella parte è morta.
Sollevo una mano, un po’ incerto, e gliela batto sulla spalla in un paio di pacche che spero siano consolatorie. Mi fa schifo dirgli cose banali quando lui invece fino a questo momento mi ha detto cose tremende e bellissime aprendosi il cuore in due e lasciandone venire fuori tutto il sangue, per capirci, ma non è che possa fare poi molto altro.
- Cerca di stare tranquillo. – gli dico, forzando un sorriso bugiardo anche più delle parole che pronuncio, - È probabile che sia solo un momento di confusione. Bill è piccolino, lo sai, è solo un ragazzino. Vedrai che… - deglutisco, prima di andare avanti. Mi chiedo “ma ci credi davvero?”, e rispondermi “no” non basta a fermarmi. – Vedrai che alla fine tornerà da te, e andrà tutto a posto.
Anis, che fino ad ora non mi ha guardato per niente, si volta nella mia direzione. Ha gli occhi lucidi e i capelli scompigliati che gli cadono sulla fronte e sulle tempie. La barba è un po’ più lunga del solito, ma il disegno è rimasto intatto. I suoi lineamenti dritti e fieri sono gli stessi che mi perdevo ad ammirare da ragazzino, quando cercavo di trattenere in corpo più alcool di quanto non potessi fisiologicamente lasciarmi scorrere nelle vene, solo per cercare di dimostrargli quanto fossi grande, quanto potesse ritenermi un suo pari, quanto potesse fidarsi di me.
- Per quanto mi riguarda, - risponde, il tono molto più lucido di quanto entrambi non vorremmo, - può restare dov’è per sempre. Se Chakuza lo rende felice, ci resti. Io… - sospira, cercando di rilassare i muscoli e gettando indietro il capo, poggiandolo sullo schienale e fissando il soffitto, - non ti dico che ho sbagliato. Ho fatto ciò che ho ritenuto opportuno in quel momento, ma purtroppo le cose non sono andate come avevo pensato. In questo momento non saprei neanche dirti se è vero che sono tornato solo per l’etichetta, o se forse non ero semplicemente arrabbiato perché non riuscivo più a tollerare di non avere più niente quando prima avevo tutto. Il punto è che mi sono stancato. – torna a guardarmi, la sua mano pressa ancora contro la mia nuca ed io non so se dovrei averne paura, - Ci ho provato, a rimettere le cose a posto. Ma non ci sono riuscito. Ed ora sono stanco. E non mi va più di tentare. Per cui, che vada come deve andare. Abbasso le armi, il re ha perso. Qualcuno ne sarà felice.
Mi verrebbe voglia di abbracciarlo, ma allo stesso tempo ho paura di cosa potrei fare se mi lasciassi andare a questo punto. Stringo un po’ la presa sulla sua spalla, come a cercare di rassicurarlo con maggiore convinzione. Lui mi guarda con un pizzico di delusione negli occhi e io distolgo lo sguardo.
- Vado a preparare un po’ di caffè. – dico dopo essermi schiarito la voce, alzandomi in piedi e liberandomi della sua mano ancora ferma e pesante sulla nuca, - Vediamo se posso rimetterti in sesto abbastanza da rimandarti a casa tua… altrimenti, c’è il divano. – dico, con una mezza risatina imbarazzata.
Scappo in cucina con la coda fra le gambe, mi sento una merda e non ci sto con la testa. L’agitazione che mi ha preso guardandolo negli occhi per quella frazione di secondo non è spiegabile se non con tutta l’interezza del nostro vissuto. Che è una cosa in cui pesano tanto le parole che ci siamo detti, ma ancora di più quelle che nessuno di noi ha mai avuto il coraggio di pronunciare ad alta voce.
Non so quanti secoli ci metto a preparare la dannata moka. Lo faccio con metodo perché voglio tempo e non voglio pensare, e questo mi ricorda Chakuza, ed al fatto che questa moka la stavo preparando così anche mentre lui cercava di mollarmi fallendo per principio, e questa cosa mi mette addosso ancora più agitazione. Ho paura per quello che potrebbe succedere questa notte in questa casa – ci sono cose che non dovrebbero mai accadere. Ci sono cose che è meglio se restano ipotesi. Io ci credo fermamente, in questa cosa. E so che Anis riuscirebbe a gettare in terra tutto quello che ho costruito con fatica in tutti questi anni senza la minima difficoltà. Io non ho quasi mai paura fino al punto da tremare, ma sto tremando come una foglia. E me ne accorgo solo quando le mani di Anis si posano sulle mie spalle, stringendo e mollando impercettibilmente la presa mentre sento il suo respiro caldissimo sulla nuca.
- Forse avevi ragione tu fin dall’inizio. – parla pianissimo, sulla mia pelle. Non riesco a ricordare molte occasioni in cui ho sentito il suo respiro così vicino da confonderlo col mio. – Sarei dovuto rimanere con te.
Mi cade la caffettiera dalle mani. Fa un baccano infernale andandosi a schiantare sul fondo del lavandino. Si apre in due, ne viene fuori tutto il caffè. Avevo appena pulito. Non riesco a voltarmi e nemmeno a parlare, mi sento di ghiaccio. Non so nemmeno se respiro ancora e sono ancora vivo, o se a tenermi in piedi è solo la tensione.
Lui si china appena in avanti, sento le sue labbra calde e un po’ umide sul mio collo e lascio andare un gemito involontario che è di pura sorpresa.
- Pat. – mi chiama lui, pianissimo, - Guardami.
Io non lo voglio guardare, ma quando entra in gioco Bushido volere e non volere sono cose indipendenti dalla tua volontà, per quanto tutto ciò possa sembrare assurdo. Quindi il punto non è se io voglio o meno, perché vuole lui, e tanto basta per costringermi a girarmi e obbedire.
Nei suoi occhi non lo capisco cosa c’è. Sono tristi, però. Sollevo una mano e gli accarezzo una guancia, lui si appoggia contro il mio palmo con un gesto esausto. Siamo vicinissimi, sento tutti gli spigoli e le curve del suo corpo addosso. Sento cose che preferirei non sentire. Mi viene da ridere se penso che lui di me e Chakuza non sa niente, in teoria dovrebbe ancora credermi etero – se mai gli è sorto il dubbio sul punto. Odio pensare a Chakuza anche in questo momento, vorrei poterlo buttare fuori dalla mia testa a calci, ma non ci sono mai riuscito in tutto quest’anno e mi spaventa, sinceramente, che non ci stia riuscendo neanche Anis adesso.
Poi si sporge in avanti e poggia le labbra sulle mie. È una cosa così stupida, siamo grandi, abbiamo superato l’adolescenza da abbastanza tempo per evitare i baci a stampo, soprattutto quando non è il caso di perdersi in cazzate simili, eppure all’inizio sono solo le sue labbra. Sanno di lui mischiato a tutto l’alcool che ha mandato giù prima di venire qui. Hanno esattamente lo stesso sapore che potevano avere dieci anni fa. Mi sembra di stare chiudendo un cerchio e mi fa paura anche questo perché i cerchi, per loro natura, sono ciclici. Chiuderne uno non vuol dire interromperlo.
La sua lingua mi accarezza piano dopo un po’, ed io esito solo un attimo, prima di lasciarla passare. E quando ci sfioriamo davvero, quando il bacio comincia a diventare una cosa seria, bagnata e calda, lo sento sporgersi in avanti con più decisione. Pianta le mani sul lavello, ai lati del mio corpo, e mi si schiaccia addosso. Io allaccio le braccia dietro la sua nuca e lo stringo con tanta forza che mi fanno male le spalle, le dita e i polsi. E tutto comincia a diventare più confuso, se non altro perché io mi rompo le palle di pensare, di farmi domande, di riflettere su quanto ci faremo schifo domani e quanto tutto ciò sarà stato inutile perché nella merda siamo e sempre lì resteremo indipendentemente da quanto a lungo e con quanta forza anche inconsciamente abbiamo atteso questo momento. C’è Anis che mi accarezza ovunque spingendosi contro di me, ho un suo ginocchio fra le gambe e le sue labbra che mollano le mie solo per permettermi di respirare, ma siccome non riescono ad abbandonarmi del tutto scendono lungo il mio collo, mentre le sue dita afferrano l’orlo del maglioncino e lo tirano violentemente verso l’alto per liberarsene.
Potrei cercare di fermarlo, ma non voglio. Il pensiero che sia ubriaco dovrebbe obbligarmi a cercare di interrompere tutto questo, ma me ne frego. C’è questo momento bellissimo in cui mi slaccia i pantaloni e me li lascia scivolare lungo le gambe, e prende ad accarezzarmi guardandomi negli occhi. Mi vanno a fuoco le guance e sono imbarazzato come mai in vita mia, ma non riesco a smettere di guardarlo a mia volta. Ansimo sulle sue labbra, quasi silenziosamente, e lui mi bacia solo ogni tanto, è come se aspettasse di sentirsi scivolare il mio sapore via dalla lingua e poi tornasse subito a cercare di catturarlo ancora, per vedere quanto a lungo riesce a trattenerlo. E poi gli afferro un polso per fermarlo e, quando riesco a farmi lasciare, faccio per voltarmi e dargli le spalle, ma lui mi ferma.
- No. – dice semplicemente, e quando io torno a guardarlo mi aiuta a issarmi sul ripiano della cucina. Quando lo sento duro fra le gambe, due secondi dopo, capisco cosa vuole, e lo bacio con foga, stringendo il suo viso fra le mani. Mi ci perdo del tutto, lui mi stringe per i fianchi e subito dopo sta già spingendosi con forza dentro di me. Non credo che si stia chiedendo qualcosa a riguardo, e mi sta bene così. Voglio che questo momento sia solo nostro, che non ci sia spazio per nient’altro.
Tremo quando ricomincia ad accarezzarmi fra le cosce, e chiudo gli occhi con tanta forza che vedo bianco. Lo sento ridere appena vicino al mio orecchio, con la mano libera torna a stringermi possessivamente il fianco.
Non mi dice nulla, anche se potrebbe dirmi qualsiasi cosa. Avrebbe davvero il potere di devastarmi la vita, in questo momento, se solo dicesse quelle tre parole che non so se gli siano mai girate per la testa in relazione a me, ma che per quanto mi riguarda sono state un pensiero fisso molto a lungo, tra un momento in cui cercavo di nascondermelo e l’altro. Però lui non lo dice. Forse ce l’ha lì, sulla punta della lingua, ma capisco chiaramente che preferirebbe staccarsela a morsi pur di non farmi del male adesso, e quindi non lo dice. Ed io vengo fra le sue dita con un gemito liberatorio, e me lo stringo forte contro mentre lui continua a spingere dentro di me finché non lo sento venire a sua volta, stringendomi forte i fianchi e mordendomi la spalla abbastanza forte da lasciarmi il segno ma non altrettanto da farmi male.
Restiamo immobili giusto il tempo di riprendere fiato, e quando ci allontaniamo, nell’attimo che passa fra il momento in cui fa un passo indietro e quello in cui torniamo a guardarci negli occhi, mi faccio assalire dalla paura irrazionale che guardandoci non ci riconosceremo, ci vedremo come due estranei e ci chiederemo che cazzo abbiamo fatto.
E invece, quando ci guardiamo, scoppiamo a ridere. Come due imbecilli. Io mi piego in due così tanto che cado dal ripiano e rotolo sul pavimento. Mi faccio un male cane ma non riesco a smettere di ridere, e Anis che mi guarda in queste condizioni non può fare altro che ridere più forte. Ed è un dramma quando succede così, perché le risate si alimentano di altre risate, perciò finisce che rimaniamo lì a rotolare sul pavimento della mia cucina dove cinque giorni fa ho pestato Chakuza fino a fargli uscire il cervello dalle orecchie, e ridiamo come deficienti per mezz’ore intere, non so nemmeno io quanto, tant’è che alla fine siamo del tutto senza fiato ed ansimiamo come se, invece di scopare e ridere, avessimo corso la maratona di New York. Una roba surreale.
- Ho fame. – dice lui, rimettendosi in piedi e risistemandosi sommariamente i vestiti, prima di porgermi la mano per aiutarmi ad alzarmi, - Che hai in casa?
- Ma io ho già cenato! – gli faccio notare, indicando le stoviglie pulite messe a scolare, - Dai, che palle, mi devi far rimettere a cucinare?
Lui scrolla le spalle ed apre il frigorifero. Osserva con attenzione tutto ciò che ha davanti, poi lo richiude, torna a guardarmi e risponde.
- Sì, perché non c’è niente di già pronto.
Ciò detto, apre tutti gli stipetti, tira fuori una serie di cose a caso che io a stento riconosco e probabilmente non ho neanche comprato, ed erano già qui quando ho comprato l’appartamento, assieme ai quadri astratti, e poi mi sorride trionfante.
- E che dovrei farci io con… - sollevo un barattolino a caso, - del brodo granulare di pesce?
Lui sorride ancora, più apertamente.
- Comincia a mettere l’acqua a bollire. – risponde, - Non so cucinare, ma ricordo a memoria il ricettario di Karima.

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I don't wanna miss a thing

di tabata
Quando tutto va storto, diceva mia madre quando ero piccolo, devi pensare alle cose belle.
All'epoca a me sembrava una cosa un po' stupida per ben due motivi: il primo era che non mi sembrava possibile pensare a qualcosa di bello se in quel momento qualcosa non andava – che fosse una sbucciatura al ginocchio o il pensiero che non avevo un padre perché quello aveva mollato mia madre incinta senza una spiegazione. Il secondo era che, per quanto forse mi avrebbe aiutato, trovavo incosciente pensare ad altro quando avevo un problema, perché non è che sarebbe sparito se non ci pensavo, il che vi dà la misura di che tipo di bambino io fossi. Uno di quelli che ragionano un sacco, e stanno anche le ore a fissare il paesaggio mentre rimuginano su ciò che gli è successo durante la giornata o nella vita in generale. Io ero così e i problemi mi piaceva risolverli quando c'erano – o almeno prenderne coscienza – e non infilarli in un cassetto pensando a quanto mi piacesse lo zucchero filato che non mangiavo quasi mai ed era buonissimo.
Poi ho imparato che in certi casi, magari non in tutti ma in certi sì, la teoria di mia madre è vera ed è anche l'unico modo per rimanere a galla quando la merda ti ha ricoperto fin sopra la punta dei capelli e tu hai una gran voglia di morirci dentro soffocato e non puoi.
Questo è uno di quei momenti. Ho appena picchiato Chakuza come non avevo mai picchiato nessuno in vita mia; e non parlo delle ferite inferte – per quello no, al confronto di certe risse in cui mi sono trovato coinvolto, a Peter non ho fatto praticamente niente – ma per la quantità e la natura delle sensazioni che ho provato mentre lo facevo. E' straniante essere consapevoli che una persona si merita i calci e i pugni che le stai tirando ma, allo stesso tempo, provare un affetto così totalizzante da spingerti a curarla dopo che hai finito. Con Bushido, se ci penso, è stata un po' la stessa cosa la notte della sua morte. Io volevo ammazzarlo, lo volevo con tutto me stesso perché era un bastardo, perché mi aveva incasinato la vita più di quanto avrebbe dovuto essergli possibile nonostante quella faccia di merda che si ritrova, eppure una parte di me non pensava che ci sarei mai riuscito o che potessi anche solo provarci. Da una parte pensavo che avrei affondato la lama così a fondo da spezzargli a metà il cuore, e dall'altra volevo soltanto abbracciarlo. Ma in quello scontro mancava qualcosa – non il sentimento, immagino – ma una certa intensità che, Dio solo sa perché, io provo solo per Chakuza. Così l'ho picchiato, e so che se lo meritava – lo sa anche lui, stavolta! – perché è un coglione e avrebbe fatto tanti meno danni se, anche per una sola volta nella sua vita, si fosse fermato un secondo a pensare con il cervello invece che con il cazzo e avesse poi agito di conseguenza. Gli bastava un secondo solo. D'altronde il pensiero coerente non è mai stato il suo punto di forza, e io non sono qui a pretendere questo da lui, ma quello che avrei voluto non era nemmeno la coerenza, quanto un minimo di istinto di sopravvivenza.
Lui Bill l'ha sempre voluto; voluto quasi come se gli fosse dovuto e questo perché, per certi versi, è sempre stato suo e non sono io che dovrei dirvelo, dal momento che sono arrivato molto dopo che si conoscessero, ma l'ho capito tempo un secondo quando li ho visti insieme la prima volta e dopo che gli altri mi hanno raccontato com'era la vita quando Bushido era vivo e a morire non ci pensava minimamente, a quanto pare. Bill è sempre stato guardato con diffidenza da tutti quanti, perché non si capiva cos'era, perché era piccolo e perché, fondamentalmente, è strano forte e bisogna un po' seguirlo per capire di cosa parla o come si sente. Avevano tutti dei problemi, tranne Chakuza; probabilmente perché il cervello di Peter naviga nell'assenza di senso, e Bill in quelle acque ci sguazza bene anche lui. Così questi due si sono trovati fin da subito. E all'inizio non si piacevano nemmeno, io posso pure immaginarlo questo, perché Bill adorava il suo tunisino come un Dio personale e Chakuza era del tutto ignaro della propria apertura sessuale, per cui il meccanismo che in genere lo porta a non capire più un cazzo quando annusa la possibilità – anche vaga – di fare sesso non era ancora scattato. Poi Bushido è morto, e l'improvvisa assenza della sua luminosità accecante ed esagerata ha permesso a Bill di vedere che dietro la statua del Dio tunisino, c'era un nano pelato un po' meno luminoso, forse, ma che aveva per lui praticamente la stessa dedizione. E da lì la scintilla: il bacio, l'allontanamento, il cercarsi ma-anche-no e tutta quella tortura a cui sono stato sottoposto, nella totale ignoranza di Bill ma nella completa consapevolezza di Chakuza. Per questo vi dico che è un coglione.
Se lui semplicemente, ad un certo punto – uno qualsiasi, cazzo! - di questa maledetta storia di gente che si lascia e si riprende, si fosse fatto un esame di coscienza e avesse constatato che la cosa che più di tutte voleva al mondo, sopra ogni cosa, era Bill – perché così è e anche una creatura di intelligenza limitata come lui lo capirebbe se solo si fermasse a pensare –, io non sarei qui appoggiato a questa stramaledetta cazzo di porta, dopo che l'ho pestato e curato, a chiudere le mani a pugno per impedirmi di riaprirla e tirarmelo dentro perché uno di noi due deve chiuderla e siccome lui non ne è capace davvero, devo farlo io.
Così chiudo gli occhi e aspetto pazientemente di sentire i suoi passi lungo le scale; ci mette una vita a muoversi, tipo minuti interi, non so cosa stia facendo ma, conoscendolo, se ne sta lì immobile a cercare di capire da che parte è girato, cosa dovrebbe fare ora e come, perché Peter è così: non capisce mai niente di cosa ci si aspetti da lui, nemmeno dopo che viene pestato a sangue e buttato fuori di casa. D'accordo, ammetto di essere stato vagamente ambiguo per i suoi standard, visto che non l'ho preso di peso e gettato nell'androne del mio palazzo – che sarebbe stato piuttosto esplicito – e dopo averlo pestato, l'ho curato – due azioni che si annullano in qualche modo a vicenda – ma viste le motivazioni che ci stavano dietro, forse dovrebbe aver afferrato la situazione; ciò non significa che lui reagisca automaticamente come farebbe ogni essere umano, ossia eclissandosi per il malessere che prova, ma probabilmente se ne sta lì e fissa il vuoto mentre nel suo cervello due ingranaggi casuali cercano invano di incastrarsi tra loro.
E sorrido perché nella testa ne ho a migliaia di immagini simili di lui che macina pensieri come se non ci fosse un domani senza cavarne niente. Non so perché, fra tutte le possibilità che ho a disposizione, mi torna in mente di quella volta che si ritrovò per le mani il volantino che ci aveva consegnato il dottorino la notte che Chakuza si è girato male e ha fatto la grande cazzata, quella che ha aperto la strada a tutte le altre. Come episodio non è neanche uno di quelli più indicativi dell'assurdità che quest'uomo può rappresentare, ma è uno di quelli più felici e forse è per questo che mi torna in mente; anche se in questo momento ho forse abbastanza motivi per ucciderlo e venire assolto da una giuria di miei pari, io voglio ricordarmi soprattutto perché ho permesso a questa persona di entrare di prepotenza nella mia vita con il suo metro e quaranta scarso e ribaltarmela.
Dunque, se ben ricordo, quel giorno ero stato a farmi un giro in città, perché avevo delle commissioni da fare e, già che c'ero, ne avevo approfittato per fare un salto a Tempelhof e cominciare a fare due chiacchiere con un paio di persone che conoscevo; per la questione di Saad, ovviamente, anche se al tempo era ancora solo la questione di Bushido. Sapevo che, ad un certo punto, avrei avuto bisogno di Chakuza – e Dio solo sa se non temevo quel momento – ma pensavo che fosse meglio coinvolgerlo nelle indagini solo quando non avrei avuto altra alternativa; cosa che poi è stato molto più tardi e abbiamo scoperto quello che io già sapevo e lui si immaginava, e cioè che avrebbe dovuto uscire da quella scuola per cuochi solo per entrare in un ristorante e lì restare per tutto il resto della sua vita.
Ad ogni modo decido che dopo aver fatto tutto ciò che ho da fare, posso presentarmi a sorpresa a casa di Chakuza perché non lo faccio mai e quindi lui non se lo aspetta per niente. Chakuza è uno incasinato a livelli improponibili a livello personale – il cervello soprattutto – ma ha una rigida organizzazione per quanto riguarda tutto il resto, ossia per le cose totalmente inutili. Del tipo che piega le magliette in un certo modo, quando entra in casa deve fare una certa sequenza di azioni e, più importante di tutti, quando vuoi vederlo o vuoi fare qualcosa con lui è meglio se ti prendi la briga di avvertirlo almeno tre o quattro giorni prima con una richiesta in carta bollata perché piombargli in casa come io sto per fare ha su di lui effetti imprevedibili. Ed è proprio per questo che lo faccio: sono di buon umore e ho voglia di rompergli le palle.
Sfortunatamente per me, lui è talmente preso dalla sua follia del giorno che non se la prende quando mi presento bello come il sole sulla porta di casa sua senza prima farmi annunciare da una telefonata. Naturalmente i suoi riflessi sono sempre i soliti per cui mi lascia lì sulla soglia come un coglione per almeno due minuti e mi fissa, con l'occhio da triglia, come se indossassi un costume da coniglio rosa o fossi completamente nudo. Per un istante spero solo che non mi stia vedendo nudo con solo qualche particolare del suddetto costume da coniglio addosso perché sarebbe molto da lui e io non voglio far parte di questa fantasia. Comunque poi salta fuori che dal ciarpame che tiene sparso per tutta quanta la casa secondo un ordine dettato dal caos primordiale dal quale anche lui dev'essere uscito in forma di ameba, è riuscito in qualche modo a recuperare questo volantino di cinquanta pagine che ci è stato consegnato come le tavole della legge sul sacro monte del pronto soccorso. Quando ciò è avvenuto io ero molto impegnato a non farmi saltare via i punti sedendomi male, per cui non ci ho fatto molto caso, ma lo riconosco immediatamente non appena glielo strappo di mano per vederlo meglio, anche perché non si può veramente scordare un volumetto con sopra un paio di tette. Lui naturalmente fa finta di non essere stato impegnato a leggerne ogni riga con grande dedizione fino al minuto prima di aprirmi la porta, anche se poi si è fatto trovare sulla soglia a leggerlo. L'incoerenza, Chaku ce l'ha. Il fatto è che si sente mortalmente in colpa – e fa bene – ma si sente anche mortalmente in imbarazzo – e questo è divertente – all'idea di doversi istruire meglio se vuole rifarlo. E lui vuole rifarlo, su questo nessuno ha dubbi, perciò non ha molta scelta. Per aumentare ulteriormente il suo desiderio di sotterrarsi per essere stato colto in flagrante a studiare per l'esame di omosessualità applicata che sicuramente darà tra poco e del quale io sarò l'esaminatore, decido che posso commentare questo vademecum per checche insieme a lui. Ci sistemiamo contro la penisola, lui dietro e io davanti, come del resto succede sempre, dal momento che Peter Pangerl è ufficialmente a favore del sesso con un uomo, purché sia lui ad infilare l'attrezzatura. Chiamalo scemo.
L'opuscolo ci informa che un uomo può essere tentato da un altro nei parchi o nelle saune – conosco persone che dopo aver letto queste pagine probabilmente vivrebbero murate vive in casa o non andrebbero mai più in palestra convinte che in tali luoghi di perdizione si annidino uomini concupiscenti pronti a rubarsi la loro verginità anale saltando fuori da ogni angolo oscuro – ma soprattutto in misteriose altre occasioni.
Noi, altra occasione; anche se dubito che gli autori di questa guida abbiano preso in considerazione uno stupro con vittima semi-consenziente – sempre che esista come figura – e stupratore semi-involontario. In quel momento, ma anche adesso, e per sempre temo, penso che la gente non mi crederebbe se gli raccontassi cos'è successo; un po' perché Chakuza che stupra qualcuno alto un metro e novanta non sembra fisicamente possibile finché effettivamente non lo fa e un po' perché, anche se fosse, magari uno pensa che qualche tempo dopo siamo finiti io in tribunale e lui in galera, non che siamo qui a fare i cretini immaginando come sarà che divorzieremo litigandoci il cane senza mai, di fatto, esserci sposati nemmeno per finta. Noi non siamo normali.
Sfogliando trovo anche due pagine di un marrone che più schifoso non lo potevano fare, nelle quali ci spiegano come indossare un preservativo, attraverso chiare e semplici illustrazioni. Lui ovviamente sa farlo, voglio dire, il sesso è anche un po' l'unico campo in cui abbia del talento per cui mi sembra il minimo che sappia le basi, ma è impagabile la faccia che fa quando gli chiedo: “Questo lo sai fare, mi auguro, avrai pure scopato nella tua vita, in generale!”
Lui si gonfia tutto come un tacchino alle fiere di paese, come se avesse raggiunto risultati mai visti e quindi riconosciuti a livello interplanetario dalla comunità scientifica internazionale. “Credo di superarti di gran lunga in quantità, Fler.” Non stento a crederlo. Un metro e venti di sesso puro, guarda.
Mi rendo conto di parlare bene e razzolare male, soprattutto se poi permetto all'ottavo nano, qui, di fare di me ciò che vuole; è che in effetti è piacevole. L'unico problema è poi arginare tutto l'egocentrismo di cui dispone e che tracima fuori da ogni orifizio visto il poco spazio in cui è contenuto, se solo si prova a dire che sì, in effetti, è capace di soddisfarti anche in maniera interessante. Per ogni complimento che gli si fa, bisogna buttarlo giù dal piedistallo due o tre volte, giusto per riequilibrare la bilancia cosmica su cui sta seduto col suo bel capoccione luccicante.
“Sei mica l'unico che abbia mai scopato, sai?” Gli faccio notare, perché è evidente che a volte si dimentica di non essere l'unico uomo sulla terra in grado di soddisfare sessualmente altri esseri umani; anche perché, a ben guardare, sarebbe alquanto agghiacciante se lui solo sull'intero pianeta custodisse il segreto dell'orgasmo. Immaginate cosa non sarebbe quest'uomo se davvero avesse questa posizione.
Innanzi tutto si creerebbe subito un culto, penso, e lui se ne starebbe tutto il giorno seduto su un trono molto alto, con il suo cappellino in testa mentre donne nude gli sventolano intorno foglie di palma. E le donne – e gli uomini – farebbero la fila fino ai suoi piedi per avere la dimostrazione pratica del suo potere. Chakuza eliminerebbe alla radice il concetto di atto di fede, elargendo i propri miracoli con atti pratici. Nessuno potrebbe mettere in dubbio la sua esistenza quando se ne andrebbe in giro con l'arnese in mano per farlo provare a tutti. La sola idea – ma anche la sola immagine – mi disturba in maniere che non so spiegare, forse perché nella mia follia per quest'uomo in scala io so che, per assurdo, sarebbe possibile. E quindi mi fa paura. “Guarda che a me mi venivano dietro a centinaia!”
Sbuffa una risata. “Non le hai nemmeno viste cento donne tutte insieme.”
“Perché tu sì?” Commento, quando fa così sarebbe da prendere a sberle. “Che tu sia uno che ha bisogno di passare metà del suo tempo a scopare, siamo tutti d’accordo. Che tu poi lo faccia davvero, è tutto un altro discorso.”
“Devo darti dimostrazione pratica?”
Io mi sistemo meglio su di lui, perché anche se fa il disinvolto, in realtà è già partito per la tangente e me ne accorgo perché contro il mio sedere ci sono sporgenze che prima non c'erano. “Lo farai fra meno di dieci minuti a giudicare da quanto sei diventato scomodo.” Nel sistemarmi guardo bene di strusciarmi come si deve, e lui fa una specie di grugnito a metà tra il sorpreso e l'infastidito; una cosa che gli esce di bocca tutte le volte che l'uccello gli si sveglia prima che le condizioni ambientali gli permettano di dargli retta. “E ricorda, una piccola scorta di preservativi – al posto giusto – è ideale, indipendentemente dal fatto che servano oggi o no."
Parlare di piccola scorta con Chakuza è riduttivo. In questa casa ci sono preservativi dappertutto e quando dico dappertutto, intendo in ogni luogo umanamente concepibile e non. E' piuttosto logico trovarli nei cassetti del comodino, naturalmente, o nell'armadietto del bagno ma lo è un po' meno trovarli dentro il pouf del salotto, nella cassettiera del corridoio ma, soprattutto, nel mobile della cucina. Tu quando entri nella cucina di qualcuno pensi che sia un luogo relativamente sicuro in quel senso: ci sono i fornelli – potresti inciamparci sopra e prendere fuoco – e c'è il temibile coltello elettrico – che io odio, mi fa paura e naturalmente il nano ce l'ha, anzi ne ha quattro, tipo, perché forse deve tagliare quintali di carne umana che ne so – e tu puoi avere paura di venir fatto a fette o cose simili, ma di certo non varchi la soglia della cucina pensando che qualcuno sia attrezzato per scoparti lì sul ripiano che sta usando per impastare la pasta della pizza. Seguitemi, non sto dicendo che non si possa scopare in cucina – uno può un po' scopare dove gli pare, ci mancherebbe – dico solo che non si può davvero essere preparati per l'evenienza spargendo preservativi nel cassetto sotto a quello dove si tengono le forchette. Andiamo! E' anche una questione pratica. Metti che viene a trovarti tua madre, per Dio, che cosa le dici? Che pratichi l'arrosto sicuro? Quest'uomo ha una sorellina piccola, e va bene che i ragazzini di adesso sono avanti anni luce rispetto a noi – rispetto a lui poi non ne parliamo – ma io non vorrei che mia sorella, cercando un cucchiaino per mangiare il gelato davanti ai cartoni animati, se ne venisse fuori con un preservativo. Lui però non si fa di questi problemi, anzi non lo vede nemmeno il problema, per lui è una questione di praticità, no?, gli servono spesso, quindi è meglio tenerli a portata di mano. E' un po' come per quelli che soffrono gravemente di asma e che quando hanno un attacco non possono superarlo senza l'inalatore e, allora, per evitare di stramazzare al suolo prima di poterlo raggiungerle, ne tengono uno in ogni stanza. Non si sa mai.
“Oh…questa è buffa,” lo fermo perché lo sento che si agita come un'anguilla, ma io non ho intenzione di darglielo fino a che non ho finito questo volumetto. “Ogni anno in Svizzera si vendono oltre 18 milioni di preservativi… Ma la Svizzera è uno sputo di terra. Devono scopare un sacco, fra le vacche e il cioccolato!”
“Beh quando intorno hai solo i monti e la neve, non hai un cazzo da fare, eh!” Commenta lui.
“Sento dell’empatia nei confronti degli svizzeri da parte tua.”
Lui tiene le mani intrecciate sul mio stomaco da quando abbiamo iniziato, che è una cosa un sacco carina; per questo quando inizia a baciarmi il collo chiudo l'opuscolo e sorrido. “Dieci minuti esatti, spacchi il minuto.”
Al che lui mi sbuffa addosso, sento proprio la nuvoletta d'aria che mi solletica il collo. “Devo fermarmi?” Chiede ridendo. E lo chiede perché sa che non ho intenzione di dirgli di sì – lo sa perché sono ben disposto e lui è molto bravo a capire la buona disposizione. Ha problemi solo quando gli dici di no, perché non concepisce che glielo si dica – altrimenti eviterebbe di chiedermelo, e andrebbe avanti.
“No,” piego il collo e ascolto il suo respiro mentre infilo una mano nei suoi pantaloni. “Vedi di fare lo Svizzero.”
“Sono Austriaco,” mi ricorda, anche con una punta di stizza. Chakuza tiene alla sua patria quasi quanto Bushido ci tiene a sottolineare che viene da Tempelhof, e non so quale dei due sia più ridicolo visto che il primo parla di uno sputo di terra che ha, sì, dato i natali ad un grande della musica classica come Mozart ma, dopo quello, è rimasta un po' lì a campare di rendita; il secondo, invece, parla di un quartiere lurido in cui la gente muore accoltellata e i ragazzini si fanno già a dodici anni come se, alla fine, fosse un bel posto in cui crescere perché ne esci fuori – se ne esci – duro e cazzuto; che, voglio dire, io adoro Tempelhof, per carità, ma non ne parlerei come il nuovo paradiso in terra dove tutti i genitori dovrebbero crescere i propri figli perché non vengano su dei pappamolla come succede quando invece uno vive in un quartiere dove nessuno spacciatore lo minaccia con un coltello a serramanico tutte le mattine all'uscita della scuola.
Mi spingo contro di lui e appoggio l'opuscolo sul tavolo, dove rimane poco perché lui mi stringe solo un istante prima di ribaltarmi sull'isola. “Ingegnati,” lo prendo in giro, lasciandolo fare mentre mi slaccia la cintura e fa praticamente tutto da solo. E' comodo, alle volte. “Li avete anche voi i monti e la neve, no?”
“Ovvio,” fa lui, tornando in fase-tacchino. “Abbiamo i monti più belli e molta più neve.”
“E poco altro, aggiungerei,” dico, agitandomi appena, tra le sue dita. Mi morde una spalla, e io mi piego indietro per ridere di lui, ma non me ne dà il tempo, ovviamente, perché mi bacia, io ci sto e perdo un attimo il filo. Tanto che quando si scosta, mi da un bacio a stampo sulle labbra e riprende a trafficare con i miei calzoni nemmeno ci volesse la laurea a toglierli, io ci metto quei due o tre secondi a capire dove mi trovo. “Gli Svizzeri, almeno, hanno la cioccolata!” Esclamo alla fine, fiero di non essere del tutto ignaro di cosa stessi dicendo.
Lui strattona la cintura e strattona anche tutto il resto, e non è contento finché non mi si pressa contro, neanche dovesse testare gli incastri. “Noi abbiamo le Palle di Mozart!” Esclama infine tronfio, e dal momento che – non so quelle di Mozart – ma io ho le sue premute contro il sedere, la cosa è molto comica.
“Questo spiega un sacco di cose,” rido, godendomelo finché è ancora lucido, prima che perda del tutto la cognizione di se stesso. Due secondi dopo, tipo. Ovviamente, se vai lì e lo scuoti ti dà retta, non è che è caduto in crisi mistica o robe simili, però ci vuole già uno scossone bello forte o un rompimento di coglioni di proporzioni notevoli – tipo il campanello che continua a squillare per minuti interi, o la suoneria di sua madre sul cellulare – per convincerlo a staccarsi da me e ad avere un qualche tipo di interazione col mondo esterno.
Così lo sento grugnire qualcosa di incomprensibile, mentre le sue mani s'infilano oltre l'elastico dei pantaloni e quello delle mutande, con la velocità che è quella del momento d'urgenza, quindi so già che se voglio dei preliminari dovrò aspettare il secondo round. Non rimango neanche particolarmente deluso perché con Chakuza è così che funziona e una volta che lo hai capito, vivi più sereno: tranne casi particolari, quando ti salta addosso la prima volta non puoi pretendere niente di vagamente tenero con lui perché mira dritto al punto e non vede nient'altro. Va alla cieca, come i pipistrelli e le talpe.
Poi dopo – perché c'è sempre un dopo, ed è un'altra cosa da imparare subito se si vuole sopravvivere – ti da tutto quello che vuoi e anche di più. Così mi sistemo meglio, pianto i piedi bene in terra e mi allungo sul tavolo. “La maglietta,” fa subito lui, che mi sta mordendo il collo e mi sta accarezzando, anche, così tira la stoffa a caso, che tipo non me la toglierebbe nemmeno per sbaglio, così.
Faccio io, che è meglio, e tocca a me mugolare quando me lo sento addosso con più chiarezza.
Peter appoggia appena le labbra sulla pelle della mia schiena, ma sento ogni singolo bacio che mi piove addosso mentre scivolo giù ancora una volta, seguendo il movimento della sua mano che dalla spalla mi accarezza il braccio fino al polso, fino a distenderlo e intrecciare le dita con le mie sul piano della cucina.
Appoggio la fronte al legno mentre i miei pantaloni cadono da qualche parte e quando li calcio me ne frego di dove siano finiti. Lui è agitato, credo perché si è preso bene, così mi molla le dita e si spoglia, ma non mi lascia. In qualche modo lo sento sempre, che sia perché mi si appoggia contro quando si toglie le scarpe, o perché mi bacia, mentre si toglie i pantaloni. E io in qualche modo mi perdo, perché è bello sapere quello che sta facendo anche se lo fa dove non posso vederlo e sono anche ad occhi chiusi.
Le sue mani calde che mi scendono lungo la schiena e fino alle natiche hanno smesso di essere un elemento estraneo in un giorno indefinito delle scorse settimane, non so inquadrare il momento ma so che è successo. Ad un certo punto mi sono reso conto che non era più strano sentire le sue dita scendere ad accarezzarmi, entrare pieno ed allargarsi per prepararmi. Mi chiedo quando ho cominciato a fidarmi di lui e capisco che è successo molto prima che questo significasse andarci a letto, anzi che siamo andati a letto – che lui non è finito in galera, soprattutto! – proprio perché mi sono fidato di lui il giorno stesso che mi sono offerto di dargli una mano a difendere il ragazzino.
Mi si appoggia addosso, spingendo le dita ancora più a fondo e, quando mi giro a cercare un bacio, lui è lì a darmelo. Penso distintamente che è una bella giornata. E ci mugoliamo addosso perché lui sa come muovere le dita e a me piace baciarlo, per cui forse potremmo rimanere così per qualche minuto in più del necessario.
Mi stupisco di come il suo corpo si adatti contro il mio, ed è una sorpresa tutte le volte, come se fosse sempre la prima, forse perché lui è talmente sgraziato e irruento nella sua vita di tutti i giorni, che quando sento la linea dritta dei suoi fianchi battere contro le mie anche e ci incastriamo senza sforzi, mi sembra impossibile. Anche quando appoggio la fronte sul tavolo e seguo la pressione della sua mano alla base della schiena che mi tiene giù mentre mi apre, mentre entra, mentre lo accolgo e sospiriamo insieme, mi sembra che tutto ciò sia così palesemente impossibile, che forse stiamo sfidando qualche legge suprema, che ne so. Il punto è che non è come quando ti capita di stare bene con una donna, perché una parte del tuo cervello pensa che la natura ti ha fatto così proprio per questo, per cui non dovresti stupirti troppo che funzioni; ma con lui, no. Con lui è un miracolo se ci riusciamo, e che sia così bello, sopratutto, perché quando si spinge – e non sento più solo la spinta, sento lui fino in fondo, che è una cosa che se mi fermo a pensarci forse mi spavento anche ma, siccome non sto già più pensando, è bella da morire – è una scossa elettrica lungo la schiena, nella pancia, fino alla punta delle dita dei piedi che mi si arricciano e ho voglia di mordere qualcosa.
Lo sento che ansima, Chakuza non parla, sono io quello che chiede. Di più, Peter, cazzo, più in fondo e lui esegue, perché quello della mia voce è l'unico canale che sente al momento.
Stringe la presa sui miei fianchi e mentre io mi spingo indietro, lui mi tira a sé, così che ogni volta che spinge, arriva più in fondo, più forte, è più bello e io potrei morire qui ed ora per quanto mi esplode il cuore, e per il fatto che ve lo racconto anche, e non dovrei.
E' una cosa nostra, cazzo, ma è bella e voi dovete saperla. Dovete saperlo voi e devo ricordarlo io mentre in piedi contro quella porta, con le mani strette e gli occhi serrati, cerco di tenere a mente che in passato io e Chakuza siamo stati bene, che c'è stato un momento – quello – in cui non eravamo solo un fottuto casino.
In quella cucina, su quel piano di legno, io volevo lui e lui voleva me in un modo che comprendeva anche Bill, forse, ma non ancora così tanto da farmi del male. Eravamo felici, cazzo. Lo eravamo, io lo so, ed è il motivo per cui non posso davvero odiarlo. Non odi la persona che ami, nemmeno quando quella viene a casa tua a dirti che tutte le speranze che avevi riposto in lei non sono bastate a farla restare.
Vedo l'opuscolo a terra, prima di gettare gli occhi al soffitto perché Chakuza ha fatto una roba che, non lo so, non so nemmeno cos'era, ma si è mosso in un modo che ha toccato cose che non pensavo di avere, “Peter, qualunque cosa sia, rifalla,” chiedo, serrando le dita sotto le sue sul tavolo.
Lui si tira fuori per rientrare e quando lo fa vedo le scintille. Non mi accorgo che mi lascia la mano, non mi accorgo nemmeno che mi accarezza tra le gambe, sono stordito. La natura ha tolto a quest'uomo molte cose, ma adesso mi è chiaro cosa gli ha lasciato. Devo ricordarmelo quando lo offendo la prossima volta.
Chakuza mi accarezza per tutta la lunghezza come se non ci fosse un domani e io sento quello, ma sento anche lui che si muove, la sua voce e il respiro caldo che mi sfiora la schiena e il collo, il tutto un po' confuso dalla beatitudine che mi avvolge come una nube.
Chiudo gli occhi e non c'è niente che non vada. La cucina, la morte di Bushido, le informazioni sul suo assassino che ancora non mi è riuscito di trovare, tutto sparisce nel movimento delle spinte di Chakuza, nel rumore di noi due che cerchiamo di non fare l'uno più rumore dell'altro perché fare sesso sì, ma urlare anche no. Gli vengo fra le dita e mi perdo l'attimo in cui viene lui. Ora che ci penso, un po' mi dispiace non avere memoria di quell'istante. So che mi piacerebbe averla.
Quando apro gli occhi sono di fronte alla mia porta e dall'altra parte non sento più niente. Mi sono perso anche il momento in cui se n'è andato; forse è un bene, forse davvero l'avrei fermato e non posso permettermelo. Mi passo una mano sugli occhi e rimango lì ancora un po', immobile perché sento l'eco di noi due che ridiamo accasciati sull'isola della cucina in casa di Chakuza dandoci dei cretini per essere in piedi, ansimanti e svestiti in mezzo alle patate e ai pomodori.
L'unica cosa che mi consola, e forse è per questo che alla fine non piango, che alla fine stringo ancora il pugno e a quel pensiero felice mi aggrappo come se ne andasse della mia vita, è che se non ha funzionato, non dipende da me. Forse non dipende nemmeno da lui, però, perché s'è solo innamorato e io lo sapevo già da prima che era un gran coglione e che due cose insieme, la sua testa, non le avrebbe sapute gestire. Ho provato lo stesso, però – perché se non provi non puoi mai sapere – e questo è quello che mi resta.
Un ricordo felice.

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Black Eyed

di tabata
La prima volta che ho fatto a botte avevo quattordici anni.
Non mi ricordo bene per cosa, ma quasi sicuramente c'era di mezzo una donna. All'epoca sarà stata una fidanzatina o qualcosa del genere, ma vale comunque. Quando due uomini decidono di mettersi le mani addosso, generalmente è perché uno dei due si è preso troppe libertà con la donna dell'altro, di qualunque donna si tratti: fidanzata, madre o sorella. Si può fare a botte per un centinaio di altri motivi diversi, naturalmente, ma non le tiri mai a qualcuno con la stessa convinzione, la stessa rabbia e la stessa violenza come quando pesti uno perché ti ha toccato la donna. E' matematico.
E' una questione di istinto primordiale, credo. Un qualcosa di legato alla funzione protettiva del maschio del branco o robe simili; o forse, in realtà, è perché la roba tua non deve toccarla nessuno e, anche se ovviamente poi fai di tutto per convincere la tua donna che sei uno di mentalità aperta e che sei per l'indipendenza e che certo, sì, lei è un individuo capace di prendere le sue decisioni e palle varie, poi alla fine – scava, scava – se qualcuno ti chiede perché hai menato quello che le ha fatto un complimento più pesante degli altri, la tua risposta è che lei è tua, in un modo che di romantico – del tipo “sei la donna della mia vita” – non ha proprio niente, ed è più un fatto di possessione. E da questa cosa non si scampa mai, nemmeno quando sei uno ragionevole che generalmente prima di prendere a sberle qualcuno magari ci parla.
Io, per dire, non amo fare a pugni, non mi è mai piaciuto, però le poche volte che l'ho fatto è stato per colpa di una donna; o meglio, visti i recenti sviluppi, di una persona che amavo. Non si è mai trattato di altre motivazioni, perché in altri casi, a mio avviso, non ne vale la pena. Magari m'incazzo; anzi, m'incazzo di sicuro perché io m'incazzo sempre, ma a quel punto distruggo mobili, non persone. Io sono fatto così. Se però di mezzo c'è una donna, allora la credenza si salva e sei tu quello che le prende. Non guardo in faccia nessuno. Ricordo che una volta, ero ancora in Austria, all'uscita di una discoteca nella quale ero stato trascinato contro la mia volontà e con la sola, palese, sicurezza che dopo avrei scopato, un tipo, uno di quei ragazzetti deficienti e pieni di soldi che il fine settimana vengono a farsi belli sulle piste da sci con i soldi di papà, ha preso per il culo prima me – e già mi giravano i coglioni – e poi ha detto qualcosa alla mia ragazza. Qualcosa che non ricordo, e che forse non ho neanche sentito completamente, ma siccome c'entravano lei e lui insieme e non era gentile, lui è finito in terra un attimo dopo. Io sono piccolo, ma non sono un fuscello e non ho fatto palestra per farmi bello davanti allo specchio da solo. E' una questione di sopravvivenza, la mia, e di spaccarti la faccia se ti azzardi a mancare di rispetto a me o alla donna che mi porto dietro. Peggio ancora se fai entrambe le cose nello stesso momento. Di quella serata so solo che al tipo ho spaccato il naso e che gli avrei spaccato molto di più se i miei amici non mi avessero portato via di peso. E non c'entra che poi con quella tipa io abbia rotto si e no quarantotto ore dopo, perché il sentimento che ti lega alla donna in questione aumenta solo, magari, la rabbia che ci metti nel reagire, ma che si tratti di una relazione di due ore o di nove mesi, reagisci comunque.
Ecco perché quando quattro mesi fa Bushido ha suonato alla mia porta, io l'ho aperta e lui mi ha massacrato di botte, ho capito perfettamente le sue motivazioni. Non che per questo non mi sia difeso – visto che le sue motivazioni erano motivazioni di merda – però le ho capite, cioè posso immaginare il ragionamento che ci stava dietro, ecco. E la sensazione che ho provato dopo che ci eravamo pestati senza di fatto risolvere nulla, era una sensazione che conoscevo bene e che, in un certo senso, mi aspettavo e volevo. Quando Bushido è tornato dalla morte, io lo sapevo che prima o poi saremmo arrivati a pestarci, perché io avevo Bill e lui pensava che Bill fosse ancora suo. Era logico che ci saremmo affrontati in questo modo perché parlare non era concepibile in una situazione simile. E poi chi voleva parlare? Lui no di sicuro e io nemmeno. Così quando ha chiuso quella porta con un labbro spaccato e io mi sono tamponato l'occhio nero, ero perfettamente consapevole di ciò che era successo, di come mi sentivo in quel momento e di come mi sarei sentito nei giorni a seguire perché anche questo rientra nell'istinto primordiale di prima. Ci eravamo sfogati, avevamo chiarito le nostre posizioni – le avevamo anche un po' ufficializzate – e ora potevamo pure cominciare a pensare a come finire questa storia una volta per tutte. Che poi, da lì alla fine – che nemmeno vediamo ancora, per altro – ce n'è di strada da fare, ma non importa. Importa però che ci siamo pestati, è una questione d'orgoglio, no?, qualcosa del tipo che lui voleva farmi sapere che quella era roba sua e io volevo fargli sapere che col cazzo che lo era. Ma poi non è che la questione si è chiusa, mi seguite?
Con Fler, adesso che sono appena uscito da casa sua, bendato e dolorante, la cosa è un po' diversa. Non è che non mi aspettassi le botte – anche per uno che ha difficoltà a capire al volo i sentimenti altrui come il sottoscritto era piuttosto prevedibile che Fler si sarebbe incazzato – quello che non mi aspettavo è come mi sento, che non ha niente a che vedere con come mi sono sentito quando, il giorno di Bushido, ho visto la porta chiudersi e solo allora mi sono permesso di perdere i sensi. E non so, esattamente, quale delle due sensazioni sia la peggiore. Bushido mi ha pestato per difendere qualcosa che, secondo lui, gli apparteneva; Fler perché quel qualcosa che, secondo lui, mi apparteneva l'ho lasciato andare.
E lo capisco ora che la porta si è chiusa e lui ci si è appoggiato senza fare un rumore, ma facendola tremare un po', così che l'ho sentito. E vorrei appoggiarci sopra la mano, sperare che ne senta il calore ma non lo faccio, perché questo è esattamente uno di quei momenti in cui devo evitare di fare un danno sull'altro, come mio solito. Chakuza, mi dice sempre, tu hai due problemi: non solo crei casini, ma poi nel tentativo di rimediare, ne crei degli altri, e per rimediare a quelli ne crei ancora così che il danno rappresentato dalla tua persona si moltiplica in maniera esponenziale all'infinito e nessuna radice quadrata di scuse potrà mai completamente estinguere il danno originale. E' un'esclamazione complicata, ma Fler ne tira fuori spesso quando parla di me perché in effetti io sono una persona complicata per gli altri. Così se io adesso appoggio la mano sul legno della porta e lui per caso la sente, sicuramente peggioro la situazione. Non so come, ma la peggioro. Mi allontano dalla porta e anche da casa sua, un passo alla volta perché non mi reggo in piedi e perché non riesco a fare di più. Forse spero che se vado piano, lui avrà il tempo di spalancare la porta e fermarmi, anche se sarebbe una scena da romanzetto rosa che non so se davvero voglio e, comunque, anche se mi fermasse, che cosa mi direbbe? Che cosa potrei dirgli io? Forse è proprio questo che mi fa sentire strano, che abbiamo chiuso una questione e quindi pestarci – anzi farmi pestare ancora – non servirebbe a molto perché poi dovrebbe di nuovo mettermi dei cerotti e poi dirmi di andare e io andrei, mi fermerei sulla porta ancora un po' a sperare che la riapra e a chiedermi che cosa cambierebbe se lo facesse. La verità è che non c'è niente da cambiare. Non è che pestandomi potesse o volesse cambiare le cose, mi ha pestato perché me lo meritavo. Punto. Fine. E non c'è più niente.
C'è che abbiamo avuto una cosa, io e lui, e poi Bill è tornato e quella cosa andava chiusa perché sennò ci avremmo perso la testa tutti, e andava chiusa con la mia faccia piena di lividi. Era l'unica soluzione possibile, penso. Non era una questione di orgoglio, né di chiarimenti, né di mio, tuo o che so io. Il suo pestarmi non era un modo di fare il punto della situazione e continuare, era metterci un punto e basta. Il che significa che per un po' io e Fler è meglio se non ci vediamo, forse è meglio se non ci vediamo per molto più di un po' perché non ci pesteremmo, né faremmo proprio niente, ed è questo che è agghiacciante: che io e Fler qualcosa abbiamo sempre fatto, ma chiusa questa cosa, non c'è più niente da fare per me e per lui. Per questo mi sento strano, perché non si è sfogato nessuno – non mi sento più leggero e di sicuro non ci si sente lui, io credo – e tutto è rimasto uguale a prima, solo che lui sta un po' più male e io sono un po' più solo.
Mentre scendo le scale ripenso a questa situazione di merda e a come ci siamo finiti. Voglio dire, come ci siamo finiti tutti, dal primo all'ultimo, non solo io e Patrick. E' una di quelle situazioni degenerative che tu non ti accorgi davvero che ti ci trovi in mezzo e che sta peggiorando, e quando (o se) lo fai, è già troppo tardi per rimediare e non puoi fare altro che startene lì in piedi ad osservare l'onda che monta, diventando sempre più alta, ed aspettare che si abbatta da qualche parte, così almeno avrai un'idea dei danni che farà; magari non potrai riparare niente, ma almeno tutto ti sembrerà più chiaro. 400.000 morti, per dire. Un numero preciso. Ora siamo proprio a questo punto, a quando cioè l'onda si è schiantata sulla costa, spargendo casette di legno e palme e morti da tutte le parti. Un sacco di corpi, per altro. E tu sei lì in piedi sulla spiaggia, dopo che l'onda si è ritirata, e pensi: ok, era questa la conseguenza, ma che diavolo avremmo potuto fare tutti quanti?
Quando Bushido è morto, e lo capisco soltanto adesso – magari mancavo solo io all'appello, magari è una roba che tutti gli altri hanno capito il giorno dopo ma io ovviamente no –, a noi è venuto a mancare qualcosa, che non era nemmeno lui ma quello che lui rappresentava. Eravamo tutti quanti uniti perché lui faceva da collante, il che non vuol dire che senza di lui ci siamo stati tutti sulle palle, ma solo che una volta lasciati a noi stessi, ci siamo guardati intorno e ci siamo chiesti che cavolo dovevamo fare tra di noi, senza di lui a credersi Dio sceso in terra di Germania. Non lo sapeva nessuno. Però ci abbiamo provato, a rimanere noi, intendo, noi come gruppo, noi come persone, a ricreare quello che era stato anche se Bushido era morto e Saad pure. Sembrava che da un momento all'altro quello che eravamo dovesse disperdersi solo perché questi due non c'erano e invece non potevamo lasciare che succedesse perché eravamo tutti parte di un gruppo e distruggere il gruppo probabilmente avrebbe distrutto noi. Ci siamo ripresi per non crepare con il re, ed è stato questo a dare il via alla reazione a catena.
Se non ci fossimo intestarditi nel tenerci insieme, nell'aggrapparci tutti a quello straccio di noi stessi che era rimasto e non s'era perso con il cadavere di Bushido, ci saremmo allontanati. Se non ci fossimo voluti bene – e cazzo, è vero, ci vogliamo bene. E non solo io e Bill, io e Fler, Fler e Bill e tutte le combinazioni principali di questa cazzo di lotteria, ma anche Eko e Cassandra e Tom e tutti. Ci vogliamo bene tutti, per proprietà transitiva e per colpa di Bushido, anche –, senza tutto questo affetto generale, io e Bill saremmo stati capaci di dimenticarci a vicenda dopo quel pomeriggio, o almeno sarebbe stato più facile tenersi lontani e non passare le giornate a guardare lo schermo del cellulare, chiedendosi se mandare un messaggio oppure no. E Fler non sarebbe rimasto con me, sia per me che per spingermi tra le braccia della principessa dove non avevo il coraggio di andare. E può sembrare una buona cosa perché io senza Bill significa Bushido con Bill. Significa Fler in tour con Sido, e cioè non con me, significa niente ripensamenti, niente bugie e io che forse torno a casa e me ne sbatto di questa città di merda. Significa Bushido che torna e trova meno di quanto ha trovato adesso – non ci sarebbe stato più nessuno – ma anche nessuno tsunami e nessun morto, che forse era meglio, non lo so. Noi però non lo sapevamo. A raccontarlo così sembra semplice e sembra assurdo che nessuno di noi immaginasse, dico dopo il ritorno di Bushido, non certo prima – nessuno poteva immaginarsi il ritorno dal regno dei morti –, ma in realtà non è così. Quando Bushido è tornato e io avevo Bill, e avevo Fler, non mi sono reso conto di dove tutti stavamo andando a parare. Quando ho visto Bushido ho pensato, sì, che ce le saremmo tirate, ma non cosa significasse. Quando Bill mi ha mollato e poi è tornato, doveva saperlo che era un gran casino questo qui, ma non sapeva quanto fosse enorme e non lo sapevo nemmeno io, che pur avevo più informazioni di lui. Insomma, quello che sto cercando di dire, mentre le scale di questo palazzo sembrano non finire mai e a me fa male tutto quanto, anche ossa che non pensavo di avere, è che per quanto sia immensamente ovvio che a furia di lasciarci e prenderci, ci saremmo fatti del male, non è stato chiaro e lampante finché in effetti non ci siamo trovati per terra con un labbro rotto e sanguinante – metaforicamente parlando e non. Mentre scendo l'ultimo gradino di questa scala infernale e penso a dove ho messo la macchina, mi viene anche in mente che in tutto questo casino, il maggior numero di vittime lo abbiamo fatto io e Bill. Diciamo che io occupo la prima posizione e lui la seconda, anche se lui annovera pure me fra i suoi cadaveri. Il punto è che con tutti i se e i ma che potrei elencarvi uno ad uno: se non ci fossimo baciati, se Fler non ci avesse fatti tornare insieme, se non avessimo avuto una storia, se lo avessi lasciato andare quando Bushido è tornato, se non me lo fossi ripreso quando lui è tornato da me, se, se, se... non cambia un cazzo, perché è tutto successo, quindi non serve nemmeno pensarci. Siamo in una situazione di merda e ce la teniamo.

*


Adesso vorrei solamente tornare a casa, buttarmi sul letto e rimanerci finché non mi sembrerà insopportabile starmene lì disteso. Allora forse darò fondo al frigorifero e cucinerò per ore mentre ragiono su quello che è successo e, soprattutto, su come girerà il mondo da qui in avanti, che è una cosa che naturalmente ho già intuito ma ho bisogno di pensarci a lungo prima di afferrarla. Non riesco ad immaginare la mia vita senza determinate possibilità, tipo quella di telefonare a Patrick se mi gira di uscire, per dire.
E' quello che mi succede sempre quando qualcosa cambia o deve cambiare, io non riesco ad immaginarmi cosa succederà finché in effetti non succede. Non sono particolarmente creativo, in questo senso, anche se è brutto da dire per uno che fa musica e, se non la facesse, di certo farebbe il cuoco. Non è ovviamente una questione di concetto: lo so che cosa cambierà nella mia vita ora, solo che non so come. E' una sensazione strana perché il mio cervello è consapevole del cambiamento ma non lo ha metabolizzato; Patrick che non fa più parte della mia vita è un'informazione di cui dispongo ma che non ho esattamente archiviato per quella che è. Qualche anno fa avrei scrollato le spalle, in attesa che la consapevolezza prima o poi arrivasse. Ora so che cosa succede quando poi arriva, so che un giorno alzerò la testa, capirò e dovrò ricomprare i mobili del salotto, so che starò male rendendomi conto di tutto quanto insieme. Quindi mi preoccupo, e non voglio, vorrei aver realizzato tutto già mentre scendevo le scale di casa di Patrick, ma non era possibile. Sono troppo stordito e sono anche troppo me stesso.
Naturalmente di tornare a casa non se ne parla, però. Non arrivo neanche a metà strada che Bill mi chiama sul cellulare ed è in una di quelle serate in cui è andato tutto storto, anche se probabilmente non stiamo parlando nemmeno della metà di cosa è successo a me. Contrariamente a quanto si pensa, Bill non è così difficile da gestire in generale; funziona a coccole, quindi fintanto che gliene fai, lui non è un problema. A volte basta davvero telefonargli – come quando sta lavorando lontano da casa – e lasciarlo parlare per delle ore. Gli piace raccontarti la sua vita, gli piace essere ascoltato e renderti partecipe, come se dovesse sostituire con la sua voce l'assenza della sua presenza fisica. Così quando è lontano e gli telefoni prima che lo faccia lui, Bill è contento, si sente cercato. In realtà non gli basta altro. Tranne che in giornate come questa, dove magari ha avuto da ridire con David o è andato storto qualcos'altro e allora non importa cosa gli dici, quali problemi tu abbia o se tenti di consolarlo: lui ha bisogno che tu sia proprio lì dov'è lui, che lo abbracci, lo baci e che tu sia fisicamente partecipe della sua disperazione. Così cerco di spiegargli che potremmo vederci domani mattina – mi serve almeno il tempo di far sgonfiare i lividi, – anche prima di colazione, se vuole, anzi, gliela preparo io, ma neanche la prospettiva di essere svegliato con i waffle riesce a convincerlo che non è il momento di farmi andare di corsa là. Che poi, se fosse la diva capricciosa che tutti si immaginano, sarebbe anche più semplice mandarlo a quel paese e dirgli: “No, Bill, guarda, stasera proprio no. Vengo domattina appena ti svegli,” perché sicuramente, piagnucolando, mi irriterebbe molto di più. Il problema, invece, è che non lo fa. Alla fine, dopo averci provato un po', mi dice solo “Okay”, ma con una voce che mi fa credere gli sia successo veramente qualcosa di brutto e siccome io sono da una parte asservito come non sono mai stato per nessuno e dall'altra traumatizzato da quel tono – perché era quello che usava i primi mesi dopo la morte di Bushido e non sapevo mai se, riattaccando la cornetta, avrei trovato il suo nome nei necrologi del mattino dopo – rinuncio al mio proposito di andare a morire sul letto di casa mia. Probabilmente lui lo fa apposta e io sono un cretino, ma non mi riesce davvero mai dirgli di no. Anche se in questo caso non so cosa inventarmi per questi lividi.
Il punto è che quando poi mi dice che mi aspetta e lo sento letteralmente saltellare dall'altra parte della cornetta, io mi dimentico che nemmeno dieci minuti prima volevo soltanto murarmi vivo tra le pareti della mia cucina e invece di svoltare a destra ad un isolato da casa mia, faccio inversione e mi dirigo praticamente dall'altra parte della città.
Quando apre la porta di casa, Bill è pronto a saltarmi in braccio e vomitarmi addosso tutte le ingiustizie della sua esistenza, lo so perché lo conosco e perché d'altronde mi ha chiamato per questo, ma si ferma sulla soglia non appena mi vede. Mi sono dato un'occhiata nello specchietto retrovisore: ho un occhio viola e gonfio, il labbro spaccato in due punti e quello che credo sia un ematoma sulla guancia. Poi naturalmente c'è il cerotto che Fler mi ha messo in fronte e che è grande abbastanza da prendermi parte della testa sotto al cappellino.
“Peter, che diavolo ti è successo?” Esclama sconvolto, sgranando gli occhi.
E io non so esattamente cosa rispondergli, perché venendo qua ci ho pensato e qualsiasi scusa mi sia venuta in mente non reggeva nemmeno nella mia testa.
“Fammi entrare,” dico soltanto ed entro prima che sposti il braccio. Lui si scosta e chiude la porta, seguendomi con lo sguardo finché non mi lascio andare sul divano e mi scappa un sospiro, come se non stessi seduto da ore, quando invece ho guidato fino a qui. Ho voglia di stendermi, mi gira la testa.
“Ma stai bene?” Mi chiede lui e mi si avvicina, guardandomi per dritto e per rovescio, come se non credesse che sono davvero in questo stato. “Vuoi che prenda la cassetta del pronto soccorso? Ti sei disinfettato?”
Io socchiudo gli occhi alla scarica di domande e intanto gli indico il mega-cerotto e in generale anche il fatto che non sanguino, sono solo a pezzi.
Lui si sistema meglio per terra e mi accarezza il viso, in quei due o tre centimetri in cui Fler ha avuto la grazia di non pestarmi. Sento la pelle che tira ovunque e vorrei dirgli di non toccarmi ma sto zitto perché se parlo c'è il rischio che voglia delle spiegazioni – che vorrà, naturalmente, ma magari finché non parlo io, non parla nemmeno lui –, così faccio solo una piccola smorfia quando sfiora appena uno dei lividi e, quando la faccio, mi viene automatico farne un'altra perché qualsiasi movimento è drammatico. Mi fanno male anche le dita dei piedi e non so bene perché.
Quando guardo Bill, mi rendo conto che non dev'essere affatto facile nemmeno per lui, perché questa situazione precisa scatena ricordi che non gli hanno mai fatto del bene. Potrei ripetere a memoria tutte le volte che mi ha raccontato di come Bushido arrivasse piegato in due a casa sua a spargere sangue sui divani da migliaia di euro e come ha imparato a fare cose che non si sarebbe mai sognato di dover fare. Lo vedo dai suoi occhi che nel cervello gli sta passando ogni genere di scenario, sono gli stessi occhi che aveva quando è passato a trovarmi il giorno che è stato Anis a pestarmi, e mi ha trovato con la borsa del ghiaccio in testa. “E' stato di nuovo lui?” Mi chiede alla fine.
Per una volta mi domando cosa succederebbe se mentissi, e poi capisco che sarebbe una cazzata. Innanzi tutto perché Bill lo scoprirebbe nel giro di un paio d'ore – anche se non parlasse con Bushido, cosa di cui dubito fortemente, parlerebbe con David che si sente talmente in colpa per avergli mentito finora che sarebbe capace di immolarsi personalmente. E anche se il manager non sa che è stato Patrick a menarmi, sa sicuramente che non è stato Bushido perché sa sempre ogni cosa che lo riguarda, ormai – e poi perché non ha senso fargli pensare che a Bushido ha dato di nuovo di volta il cervello ed è venuto fino da me a pestarmi: Bill ha fatto la sua scelta, e Bushido sa perfettamente che in questa decisione contavo quanto lui. Non avrebbe motivo di pestarmi come la prima volta. Di motivi per picchiarmi Patrick ne aveva, invece, ma Bill questo non può saperlo e io non me la sento di dirglielo adesso. Forse perché avrei dovuto farlo prima, e adesso e tardi; o forse perché ho appena perso qualcosa, e quel che ne resta voglio tenermelo per me, finché posso, che ad aprire bocca e raccontare mi sembra di darlo via. Saperlo, tanto, non gli serve, perché non l'ho mai tradito, perché mentirgli non lo danneggia, e con Patrick io non ho mai tolto niente a lui.
“No, non è stato lui,” ammetto.
“E allora chi?”
Medito se dire che sono caduto dalle scale, ma dovrei essere rotolato giù da un tempio Maya per essermi fatto così tanto male. Potei dirgli che mi hanno pestato per strada, anche, ma non ci riesco. Un conto è omettere la verità, un conto è guardarlo in faccia e dirgli che un branco di strafatti mi ha pestato a sangue per i cinquanta euro che ho nel portafoglio.
Lui mi guarda, e forse un po' spera che gli racconti com'è andata, ma non insiste.
E qui mi torna in mente una cosa che mi ha detto Fler il giorno che abbiamo lasciato il ristorante elegante dopo aver incontrato Greta. Secondo lui le donne del ghetto non sono donne come tutte le altre, ma hanno una consapevolezza tutta diversa del loro ruolo. Quando me lo ha detto, io gli ho risposto che era una cosa sessista e anche un po' retrograda pensare che le donne abbiano un certo ruolo e che devono pure mantenerlo con certi atteggiamenti. Lui quel giorno mi ha guardato e poi mi ha detto “Tu non capisci proprio un cazzo, Chakuza” e me lo ha detto in un modo totalmente diverso dal solito, tanto che ho intuito che stavolta era serio. Quello che voleva dire quando mi ha spiegato questa cosa, io lo capisco adesso qui con Bill. Apro bocca per rispondergli – non so cosa, ma ormai ci sono abituato – ma ho un colpo di tosse e allora mi ricordo che ho la gola secca da far paura.
“Ti prendo qualcosa da bere,” sospira lui alla fine, e i suoi occhi cambiano espressione proprio lì davanti a me. Un attimo prima sperava che rispondessi, l'attimo dopo ha rinunciato a sapere. Ma non è arrabbiato, più rassegnato direi. Come se in fondo in fondo una risposta non se l'aspettasse proprio, come se fosse un percorso collaudato quello di me che arrivo con un segreto evidente e lui che prova a chiedere ma non ottiene niente. E' una cosa che, per altro, mi sembra non riguardi soltanto me e lui o lui e Bushido, ma anche altra gente che io non conosco e non conosce nemmeno lui. Una specie di tradizione, memoria storica, retaggio culturale. Non lo so. Fatto sta che forse io non sono un gangster e sono fuori posto, ma Bill il suo ruolo ce l'ha, gliel'ha dato Bushido; e forse è con Bushido che Bill ha imparato ad essere una donna del ghetto, ma quel ruolo, quel modo di essere, gli è rimasto incollato addosso al punto che anche se arrivo io – che canto, che sono anche un cuoco, magari, ma di certo non sono un gangster – lui comunque si comporta come deve.
“Aspetta.” Prendo Bill al volo mentre si alza e me lo tiro addosso. Lui non fa nessuna resistenza, si lascia andare tra le mie braccia e mi appoggia la testa su una spalla, nascondendo il viso. “Non ho molta voglia di parlarne. Possiamo rimandare questa discussione?” Gli chiedo, posandogli un bacio sulla testa.
“Non importa, non devi dirmelo per forza,” fa lui. E non è davvero arrabbiato, né triste. E' qualcosa che non è mai stato fino a questo preciso momento perché non lo abbiamo mai avuto un momento così, e non so definirlo. Non alza la testa, sento solo le sue labbra muoversi contro il mio collo mentre si stringe nelle spalle. “Anche Anis non mi diceva mai niente.”
Ecco cosa voleva dire Fler; che il ghetto lascia un'impronta ben precisa su tutte le persone che vi sono coinvolte, e sulle sue donne l'impronta è che loro sanno esattamente come rimettere insieme i pezzi degli uomini che si scelgono, anche quando questi tornano in stato pietoso e non vogliono raccontare cos'è successo. Bill con me l'aveva fatto anche la prima volta, ora me ne rendo conto. Mi ricordo come ha recuperato la cassetta del pronto soccorso, come sapesse già esattamente che cosa fare, come sapesse già esattamente che era stato Bushido. Aveva già capito tutte le meccaniche o tutte quelle che gli serviva sapere. Anche adesso, anche se gli mancano dei particolari. Eppure non chiede, perché sa di non doverlo fare. Forse con Bushido questa cosa aveva più senso, perché lui forse avrebbe avuto da nascondere cose che col ghetto c'entravano davvero, ma non è questo il punto.
Questo ruolo, questo di raccogliere i pezzi una volta che gli altri si sono mossi, hanno fatto e disfatto, non impedisce a queste donne – non impedisce a Bill – di avere più forza di tutti gli uomini messi insieme. In fondo questo ragazzino ha superato la morte di un uomo che amava più della sua stessa vita e ha sparato in fronte ad un altro essere umano. Pensare che le donne del ghetto abbiano un certo ruolo potrà anche sembrare sessista, retrogrado e anche stupido considerando che Bill non è una donna, ma lui ha capito più cose di questo schifo di situazione di quante ne abbia capite io. E ne sa più di me, sempre, perché lui è nel posto giusto e io invece non so nemmeno dove sono. Forse è lui che dovrebbe fare a botte per me, forse finirebbe anche per uscirne vivo.
Me lo stringo addosso e lui mugola un po', nascondendo il viso con un sospiro. “Dimmi solo che non c'è di mezzo qualcosa di grosso,” mormora esasperato. Che immagino significhi qualcosa come Saad, quindi posso ragionevolmente rispondere di no.
Ho fatto un gran casino, senza dubbio, ma di cadaveri nel fiume, stavolta almeno, io e Fler non ne abbiamo buttati.

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All I Know Isn't Always The Truth

di lisachan
Sono solo, triste e mi sto annoiando. Se avessi ancora dieci anni – o se qui con me ci fosse Tomi, che in qualche modo il miracolo lo fa sempre e riesce a riportarmi a quando ero piccolissimo solo standomi accanto – metterei il broncio e piagnucolerei un po’, attaccandomi alla prima maglietta con dentro qualcuno che incontro e cominciando a strattonarla per farmi portare fuori ed offrire un gelato, una caramella o comunque qualcos’altro di altrettanto dolce che possa ingannare i miei sensi fino a farmi credere che sia tutto a posto e stia andando tutto bene, anche se poi non è vero, fosse solo per una mezz’ora.
Purtroppo non ho più dieci anni e qui in casa di Peter non c’è Tomi, quindi non posso neanche fingere di averli. Tra l’altro, anche se decidessi comunque di mettere il broncio in barba all’età ed ai passi avanti che dovrei aver fatto negli ultimi due anni – perché tutti si aspettano da me che sia cresciuto, e io non posso certo deluderli – non ci sarebbe nessuna maglietta da strattonare e nessuno che mi ricoprirebbe di attenzioni, perché come dicevo prima sono completamente solo. E triste. E mi sto annoiando.
Il motivo per cui sono solo è che apparentemente oggi Peter fatica a restare nello stesso ambiente ristretto con me per più di dieci minuti consecutivi. E il fatto che non ci riesca, peraltro, è il motivo per cui sono triste. Io e Chaku abbiamo forse avuto dei problemi di comprensione, in passato, col ritorno di Anis e tutto il resto che ci ha mandato entrambi fuori di testa, ma mai, mai l’ho visto tremare nella sua stessa pelle, come desiderasse uscirne e scappare il più lontano possibile com’era mentre, in macchina, mi portava qui dopo essere passato a prendermi dagli studi dell’EGJ.
Il motivo io non lo so. E fatico ad ammettere che è colpa mia se non lo so, è colpa mia se io e Peter ci stiamo allontanando, perché ultimamente sono stato così perso dentro di me per cercare di capire cos’è che mi stesse succedendo – il tremore quando pensavo ad Anis con qualcun altro, la paura ridicola per questa cosa che nemmeno dovrebbe riguardarmi, l’immagine del suo sorriso rilassato riproposta dentro la mia testa come in una telecamera a circuito chiuso senza che io potessi fare niente per scacciarla via o nasconderla, almeno per un po’ – da dimenticarmi completamente di tutto il resto. Fatico ad ammettere che è colpa mia perché non voglio ammettere di aver considerato Peter esattamente uguale a tutto il resto. E fatico ad ammettere di averlo considerato così perché in nessun caso mi va di dire che è vero, quando Anis entra nel mio campo visivo mi ruba il cervello, tutto, non ne lascia libero un centimetro. Cambia il ritmo cui batte il mio cuore, cambia i colori e le forme di ciò che vedo, tutto diventa sfumato e indistinto e scuro mentre lui è l’unica cosa chiara e precisa che riesco a mettere a fuoco.
Mi fa rabbia che abbia questo potere ancora adesso. Mi fa rabbia che non l’abbia mai perso, mi fa rabbia non essere mai stato in grado di toglierglielo, perché non l’ho mai davvero voluto. Mi fa rabbia essere ancora il ragazzino che ero quando mi sono innamorato ed ho cominciato ad assillarlo perché mi considerasse. Mi fa rabbia non essere mai cresciuto davvero. Perché tutti se lo aspettavano da me, perché io volevo farlo, e non ci sono mai riuscito. E vorrei poter dare ad Anis la colpa anche di questo, ma non posso. Posso dargli tante colpe – avermi spezzato il cuore andandosene, aver distrutto i miei sogni restando lontano, avermi devastato la vita tornando – ma dopo un anno io non posso incolparlo perché la mia vita non va avanti. La mia vita ha avuto un mucchio di occasioni per muoversi. E credevo lo stesse facendo. E invece è ancora lì, concentrata sul palmo della sua mano. Come sempre, gli basterebbe stringere per togliermi il fiato. E, forse, fino a un paio di settimane fa io mi crogiolavo nel pensiero che la nostre situazione fosse ancora in bilico. Che io fossi ancora lì, minuscolo, su quel palmo grandissimo, e che prima o poi lui avrebbe stretto la presa.
Vederlo sorridere con Patrick mi ha fatto capire che non sono più fra le sue mani da tempo, ormai. Mi ha poggiato da qualche parte ed è andato avanti e io nemmeno me ne sono accorto, perché stavo lì con gli occhi serrati terrorizzato ed emozionato ad aspettare che le sue dita si chiudessero attorno al mio corpo, e non ho visto che invece lui a stringere la presa non ci pensava più. Non con me, almeno.
Anche il fatto che io qui, adesso, stia a pensare ad Anis ed al fatto che non rappresento più una parte della sua esistenza, è una cosa profondamente sbagliata. Peter mi ha portato qui, a casa sua, è rimasto dieci minuti in casa con me e poi ha detto che aveva voglia di cucinare, ma visto che non c’era niente in casa sarebbe uscito a comprare qualcosa. Ed è scappato due secondi dopo senza neanche darmi un bacio perché si vedeva che faceva fatica perfino a starmi accanto, e io dovrei preoccuparmi di questo, questo dovrebbe essere al centro di tutti i miei pensieri, adesso, e invece io sto qui, solo, triste e annoiato, e penso ad Anis. C’è qualcosa di sbagliato, in me. Qualcosa che io non voglio raddrizzare. E mi sento in colpa a fare una cosa del genere proprio a Peter, perché lui è sempre stato sincero con me – be’, forse magari a parte la questione di quel pestaggio di cui alla fine non mi ha spiegato niente – e dovermi tenere dentro questa cosa perché mi vergogno a dirgliela e perché in realtà non è giusto neanche provarla, è devastante. Io non sono abituato a fare così, io— con Anis io non dovevo mai trattenermi, potevo dire tutto quello che mi passava per la testa. Ed invece ora non posso e non è neanche colpa di Peter. Vorrei qualcuno accanto che potesse dirmi di non preoccuparmi, che non è nemmeno colpa mia, ed allo stesso tempo non lo voglio, perché so che è colpa mia e non voglio sentirmi rifilare balle solo nel tentativo di farmi stare tranquillo, ma Dio mio, non sono sereno da così tanto, così tanto che mi esplode il cuore se ci penso, e voglio un po’ di pace, voglio smetterla di pensare, voglio— basta, non voglio più niente, non ce la faccio a volere qualcosa, sperare nelle soluzioni comporta troppa fatica emotiva. Non ho più energia, in quel senso. Né in nessun altro.
Mi passo una mano sulla fronte e fra i capelli, sospirando. Sono lì che mi stendo contro lo schienale del divano e getto indietro il capo, chiudendo gli occhi e chiedendomi se non potrei, magari, addormentarmi ora e svegliarmi domani scoprendo di aver sognato tutto e che durante la notte Chaku mi ha messo addosso una copertina, così potrei aprire gli occhi e chiedergli “ma che ci faccio qui?”, e lui potrebbe rispondermi “ti sei addormentata mentre chiacchieravamo, Principessa. Bushido è appena tornato da Monaco, dai che ti porto a casa sua”, quando sento la serratura della porta scattare e mi risollevo di scatto, fissando l’ingresso.
Peter si richiude la porta alle spalle con un calcetto, e tiene fra le braccia due sacchi di carta di quelli di un supermercato che non è il solito, segno che probabilmente ha preso la macchina e s’è fatto un giro, già che c’era. Forse per recuperare tempo perché non gli andava di tornare. Mi mordo l’interno di una guancia e provo a sorridergli un po’. La guancia tira, ancora stretta fra i denti, e fa male. Mi si riempiono gli occhi di quelle lacrime minuscole che pungono e bruciano, quelle tipiche di quando ti fai male da solo come uno scemo.
Lui, comunque, del mio sorriso neanche si accorge. La sua testa appare solo a tratti dietro i sacchetti, e in ogni caso non credo mi stia guardando.
- Ehi… - lo chiamo quindi. La voce mi viene fuori affaticata e debole, e me la schiarisco con un paio di colpetti di tosse. – Ehi, vuoi una mano? – chiedo, e faccio per alzarmi, puntando le mani sul divano. Lui si affaccia da sopra le buste e mi guarda come se gli avessi chiesto se per caso non ha visto dove stesse andando il coniglio col panciotto.
- No, faccio da me. – mi dice quindi, tornando a nascondersi là dietro e muovendosi spedito verso la cucina. Io resto lì a molleggiare sul divano per un po’, fino a quando non mi decido a scattare in avanti e mettermi in piedi. Muovo qualche passo incerto di fronte al divano, attorno al tavolino, ed osservo Peter poggiare i pacchi sull’isola e tirarne fuori di tutto, mentre posa alcune cose sul ripiano della cucina e ne conserva altre in frigo.
Mi avvicino piano, quasi con circospezione, guardandolo da sotto in su, che in pratica vuol dire che chino la testa e sollevo gli occhi e spero che lui si giri a guardarmi, lo spero insistentemente per un sacco di minuti, ma lui non lo fa. Perciò io mi avvicino sempre di più, progressivamente, e non mi accorgo che sta tremando, o meglio, me ne accorgo solo all’ultimo momento, che lui stringe la mano attorno a una confezione di panna da cucina e quella si deforma tutta e per poco non scoppia, e poi la sbatte sul ripiano, e sento il ringhio che gli esce dalla gola anche se lui prova a nasconderlo in tutti i modi. E continua a non guardarmi.
- Bill. – mi chiama, la sua voce è dura e tesa come i lineamenti del suo volto, - Che c’è?
- Volevo solo… - balbetto un po’, stropicciandomi l’orlo della maglia, una cosa che in una situazione normale non farei mai neanche sotto tortura, - chiederti se era tutto a posto, e se ti servisse una ma—
- Non mi serve una mano. – taglia corto lui, riprendendo sistemare roba tutta in fila come per una parata dell’esercito e poi voltandosi a recuperare una terrina dallo scaffale dietro, - Te l’ho già detto prima.
- Mh… - annuisco io. Lo guardo un po’, poi guardo qualcos’altro perché guardare lui fa male. – Ed è tutto a posto o no?
Lui resta zitto per qualche secondo, e durante questo periodo di tempo recupera due uova, le rompe e le versa nella terrina. Si volta a cercare una forchetta con cui sbatterle e io continuo a guardarlo e semplicemente lui non è il mio Chaku. Che è una cosa molto stupida e infantile, da dire, quelle cose cui in genere si risponde con un ghigno storto e un “evidentemente non mi conosci abbastanza”, ma è vero, in fondo, mi sento davanti ad uno sconosciuto, in questo momento.
Penso di sfuggita che dev’essere successo qualcosa, per forza, perché lo strappo fra com’era prima e com’è adesso è troppo netto per non essere il risultato di uno strattone di quelli forti. Ma è un pensiero che mi sfiora soltanto, perché poi mi prende l’ansia, che se non ritrovo Chaku – il mio Chaku – e non lo riporto indietro subito, perderò anche lui, e non me lo posso permettere, perché voglio ancora almeno una mano cui aggrapparmi, quindi mi avvicino ancora, e non ci penso se lui trema di nuovo e stringe convulsamente le dita attorno alla forchetta, muovendo la mano quasi con violenza, non m’interessa, lo vedo e non me ne curo, e quando gli poggio la mano sulla spalla e poi mi chino a strusciare il naso contro il suo collo lo sento che c’è qualcosa di sbagliato e che stiamo per fare un errore enorme, ma non riesco a fermarmi perché ho troppa paura che se lo facessi perderei l’attimo, e lui, per sempre.
- Bill. No. – mi dice lui. Ma è orribile sentirsi dire no proprio da Peter, lui che a me non lo dice quasi mai per nessun motivo, figurarsi per il sesso, perciò chiudo gli occhi così forte che vedo le macchie bianche ovunque e mi fanno male le tempie, e lo bacio piano lungo tutto il collo, fino alla mascella, allo zigomo, e poi ridiscendo e cerco le sue labbra, - No. – dice ancora lui, ma è più incerto, Peter è facile, da questo punto di vista, lui è facile ed io sono uno stronzo irresponsabile infantile e viziato e mi odio mi odio mi odio, e quando trovo le sue labbra lui non si tira indietro, mi bacia forse un po’ troppo incerto, sicuramente con meno voglia di quanta non vorrei ne provasse, perciò scivolo fra lui e l’isola, gli accarezzo il viso, gli allaccio le braccia dietro la nuca, approfondisco il bacio, ed è allora che le sue labbra si schiudono del tutto e la sua lingua corre a cercare la mia e mi si schiaccia addosso, e io non sento differenze finché non percepisco la stretta delle sue mani attorno alla mia vita, molto più forte e decisa del solito. E quando apro gli occhi e guardo dentro i suoi e li trovo annebbiati e stanchi e cupi e distanti, capisco che l’ho perso davvero.
Un attimo dopo, la terrina vola sul pavimento ed io sono semisdraiato sull’isola, i gomiti piantati sul ripiano per evitare di cadere all’indietro e Peter che mi si spinge contro e mi si tira addosso baciandomi con forza, mordendomi le labbra quando faccio tanto di allontanarmi per riprendere fiato, mentre una sua mano risale lungo la mia schiena e il mio collo per poi affondare fra i miei capelli e tirare, per costringermi a piegare il capo come preferisce.
Quando poggia entrambe le mani sulle mie ginocchia e mi costringe a spalancare le gambe, sobbalzo appena, spaventato. Lui si tira indietro per impedirmi di mordergli la lingua e gli vedo sulle labbra un’ombra di sorriso un po’ ghignante e un po’ sicuro di sé che non gli riconosco. Sento le sue mani che risalgono lungo le mie cosce ed ho i brividi ovunque quando mi afferra per l’orlo dei pantaloni e li strattona verso il basso. Me li tira via di prepotenza, ed io mi distraggo troppo facilmente con le sue labbra che scivolano lungo il profilo del mio collo, perciò non mi accorgo che sta rinsaldando la presa contro i miei fianchi – e fa quasi davvero male, scommetto che domani avrò due lividi spaventosi e dovrò mettere qualche maglietta lunghissima per evitare che si scoprano quando alzo le braccia – e quando me ne accorgo comunque è troppo tardi, gemo di sorpresa e un po’ anche di dolore perché Peter mi ribalta sul ripiano, costringendomi carponi, e mi tocca attaccarmi al bordo dell’isola per non ruzzolare di faccia per terra. Sbatto un’anca, sono i momenti in cui odio essere così magro. Me ne accorgo solo ora perché non mi ha mai trattato così. Mai.
Mi mordo un labbro e, quando mi accorgo che, nello stare carponi sul tavolo, c’è qualcosa che mi pressa contro una gamba, schiacciata fra il ginocchio e il piede dell’isola, per un attimo fatico a capire cos’è. Però fa male, quindi non riesco a smettere di farci caso, ed è allora che realizzo che è la cinghia della cintura. Che i miei pantaloni sono stati abbassati il minimo indispensabile. Che insomma, sono ancora del tutto vestito, e avrei dovuto capirlo prima perché non sento freddo né il legno plastificato del ripiano contro la pancia, e insomma, era ovvio. Peter non mi ha spogliato.
Peter non mi vuole. Vuole solo sfogarsi. Potrei essere qualsiasi persona, qualsiasi cosa, e per lui non farebbe differenza. Mi viene spontaneo chiedermi se non sia così anche per me. Potrebbe essere chiunque. Voglio solo spegnere il cervello. Perché sono triste, e sono solo, e sono annoiato. Anche adesso.
L’unica cosa che mi distoglie dal dolore della cinghia contro la gamba, è il dolore più acuto che sento quando Peter mi tiene per le ginocchia e, dopo avere indossato il preservativo, entra dentro di me. Senza perdere poi neanche tutto questo tempo a prepararmi. Lancio un mezzo grido fra il sofferente e il sorpreso e getto indietro il capo, inarcando la schiena per reazione. Lui mi tiene fermo per un fianco e si spinge a fondo dentro di me, e prima che io abbia la possibilità di tornare ad accasciarmi sul ripiano mi afferra di nuovo per i capelli e mi tira indietro, con forza, costringendomi ad inarcarmi ancora di più, tanto da farmi quasi male.
Scivolo all’indietro lungo il ripiano e la maglietta mi si alza. La pancia sfrega contro la superficie liscia dell’isola e l’attrito è così forte che si sente un suono scricchiolante e sinistro coperto appena dal mio gemito di fastidio mentre torno a poggiare i piedi a terra e Peter approfitta della mia nuova stabilità per spingere più forte. Mi viene da piangere e ho le ginocchia molli.
Solo quando appoggio i gomiti contro il ripiano e nascondo il viso fra le braccia, lasciandomi andare un singhiozzo strozzato, Peter forse si ricorda che dopotutto sta scopando un essere umano. Le sue dita mi corrono fra le cosce, ma non c’è niente da masturbare. Lui si incaponisce, comunque, perché è testardo – fa male – perché deve avere sempre ragione – fa male che faccia male – perché non vuole arrendersi al fatto che sta facendo una cosa orrenda – fa male volerlo da impazzire – e continua ad accarezzarmi, stringendo la presa ed insistendo così tanto che, alla fine, fosse anche solo per sfregamento meccanico, può gloriarsi di tenere stretta in mano la mia erezione.
Scoppio a piangere fra i gemiti di piacere che germogliano sulle mie labbra, lievi e strozzati. Faccio fatica a respirare, Peter non si ferma, non vuole fermarsi, e non so se, anche volendo, ci riuscirebbe. Tengo gli occhi serrati perché ho la netta impressione che, se li aprissi, mi vedrei crollare il mondo davanti. E sto già abbastanza male così.
Vengo per inerzia, che è lo stesso principio fisico per il quale suppongo venga anche lui. Che non geme, ringhia e basta. Arrabbiato come non l’ho mai visto. Mi si accascia addosso subito dopo, stremato, e non si preoccupa di pesarmi sulla schiena e quindi anche sul petto, impedendomi di respirare agevolmente. Resto lì ad affannarmi, cercando di gonfiare i polmoni e tenermi quanto più possibile sollevato dal tavolo – per chi mi hai preso, Peter? Cazzo, non ti reggo – ma non ce la faccio a chiedergli di spostarsi. E non solo perché sono tutto dolorante. Non ci riesco e basta.
Non so per quanto rimaniamo in questo modo. So che il legno plastificato sotto di me ha tutto il tempo di intiepidirsi e inumidirsi un po’ a contatto con la mia pelle accaldata e sudata, e che solo dopo aver cominciato a trovarlo fastidioso mi accorgo che il ritmo del battito del cuore di Peter è cambiato, s’è fatto più ansioso. Lo sento sollevarsi piantando le mani sul tavolo, ai lati del mio corpo, ed uscire da me con un movimento lento, quasi premuroso. Il primo della serata.
- Dio… - mormora, la voce persa, - Dio, Bill. – mi accarezza piano la schiena, i capelli, il collo, guardandomi da tutti i lati mentre io faccio leva sulle braccia per rimettermi in piedi e non riesco nemmeno a stare dritto, finendo per crollargli addosso un secondo dopo. Lui mi regge per le spalle e continua a mormorare imprecazioni, agitatissimo. – Bill, mi dispiace. Dio, mi dispiace tantissimo, come— cazzo, come stai?
- Non lo so… - biascico, tirando su col naso. Chino il capo perché ho pianto tutto il tempo e devo essere un mascherone orrendo. Non voglio che mi veda. Gli resto appoggiato addosso, però, perché non ce la faccio proprio a reggermi da me, e lui mi sistema tutto, mi ripulisce, mi tira su i pantaloni, mi maneggia come fossi fatto di porcellana, e io mi chiedo dove cazzo eri, Chaku? Dove cazzo eri dieci minuti fa, quando mi servivi così e invece eri un altro?
Mi porta fino al divano, e non mi prende in braccio solo perché suppongo voglia verificare che sono ancora in grado di camminare. Mi aiuta a sedermi comodo, poi si siede al mio fianco, e quando mi allungo a cercare un abbraccio lui mi stringe subito a sé, lasciandomi sistemare contro il suo petto ed accarezzandomi dolcemente i capelli. Piango un altro po’, silenziosamente. Non sono più nemmeno triste, lo faccio perché non sento nulla. C’era qualcosa, dentro di me— c’erano un sacco di cose, dentro di me. Non ho mai pensato di essere una bella persona, ma c’è stato un tempo in cui ero almeno una persona piena. Ora non resta nemmeno quello. Mi sono svuotato, e tiro fuori altre lacrime solo perché sto raschiando il fondo del barile. Finiranno anche quelle, prima o poi. O almeno lo auguro, perché i miei occhi sono stanchi, e bruciano, e non ne possono più nemmeno loro.
- Va un po’ meglio? – mi chiede qualche minuto dopo. Non ha mai smesso di accarezzarmi i capelli. Io annuisco lentamente, strusciando il viso contro il suo petto. Schiudo le labbra e me le inumidisco, prima di parlare.
- Ora me lo dici cos’è successo? – chiedo piano, e lui si irrigidisce subito. Si ferma anche la sua mano, e questa è la conferma definitiva che qualcosa deve per forza essere successo.
Deglutisce, il cuore gli batte forte. Resta immobile e quasi non respira – il suo petto non si alza né si abbassa, o se lo fa io non me ne accorgo, perché è un movimento impercettibile, appena accennato, come avesse paura di farmi scappare respirando troppo profondamente. Resto in silenzio, e in attesa.
- Bill. – sospira quindi lui, - …io devo dirti un po’ di cose.
Sollevo lo sguardo e trovo subito il suo, molto più limpido di quanto non fosse prima. Anche molto più carico, però, e questo mi fa paura. Mi allontano appena e lui non mi trattiene, perciò mi metto dritto e mi siedo più compostamente al suo fianco. Solo per un attimo, perché non ce la posso fare a reggere questa situazione senza darmi un po’ di conforto, almeno da solo, perciò finisce che due secondi dopo ho già sfilato le scarpe e tirato su le gambe sotto il corpo, rannicchiandomi accanto a lui.
Peter mi guarda e si vede che non sa come dirmi quello che vuole dirmi. Vorrei sapergli leggere nella testa per risparmiare ad entrambi questo momento.
- Io e Fler… - comincia abbassando lo sguardo e grattandosi nervosamente la nuca. Cosa c’entra Patrick? – Io e Fler abbiamo avuto una storia, Bill.
In un primo momento, credo di non aver capito bene. Lo guardo con aria interrogativa e lui non fa una piega, ed è lì che comincio a preoccuparmi.
- Cosa stai dicendo? – chiedo quindi, perché mi sembra una follia. E ora voglio che mi dica che scherzava. Pesce d’aprile. Puoi dirmelo, Chaku? Anche se non siamo in aprile.
- Io e Fler abbiamo avuto una storia. – ripete lui, e il suo tono è così colpevole che mi si secca la gola e devo per forza chiedergli se—
- Mentre io e te…?
- No! – torna subito a guardarmi lui, quasi oltraggiato, - No, Bill, no! Voi non… - esita appena, - non vi siete mai accavallati, te lo assicuro. Io e lui siamo stati molto vicini l’anno scorso, prima che tu… intendo, dopo che io e te abbiamo deciso di non vederci più. E, insomma, è durata. Un po’.
- Un po’ quanto? – chiedo, deglutendo a fatica, - Giorni, settimane, mesi?
- Praticamente… - scolla quasi con dolore, aggrottando le sopracciglia, - Praticamente fino a poco prima che io e te ricominciassimo a frequentarci e… sì, be’, insomma. Dopo la morte di Saad.
Faccio un rapido calcolo mentale e mi stupisco da solo di quanto giri bene la mia mente, di quanto sia lucido in questo momento. Comunque stiamo parlando di un sacco di tempo.
- E-- - comincio, ma non ho tempo né modo di finire perché lui mi interrompe con un cenno della mano.
- E poi, - riprende, - anche dopo. Quando è tornato Bushido e tu sei andato a vivere con lui, Bill, io e Fler ci siamo ritrovati di nuovo. E – dice tutto d’un fiato, quasi volesse liberarsi la coscienza il più in fretta possibile. Come quando tiri su scatoloni per interi piani, e gli ultimi gradini te li fai di corsa anche se non ce la fai più a muovere nemmeno un passo. Proprio perché non ce la fai più a muovere nemmeno un passo. – E l’ho lasciato io, Bill, quando tu sei tornato da me. È stato lui… lo so che mi hai detto che non c’è alcun bisogno di dirtelo, ma è stato lui a picchiarmi, quando sono tornato ricoperto di lividi.
Vorrei potergli dire qualcosa, giusto per fargli capire che sono ancora vivo. Il fatto è che non ne sono tanto sicuro nemmeno io.
- Ecco… - balbetto a disagio, scostando lo sguardo, - io—
- Io non ho finito. – mi interrompe lui, e il suo tono torna a farsi duro. Serro le labbra e aspetto. – Non ti ho detto tutto questo per capriccio, Bill. – sospira, i tratti del viso che tornano più dolci, più simili a come li amo, - Ma perché oggi l’ho rivisto, e quel qualcosa che ci ha tenuto insieme prima di te, era ancora lì. Anzi, non credo… non credo si sia mai davvero spento del tutto.
Non respiro nemmeno, per una quantità di secondi che non riesco a calcolare.
- Cosa stai cercando di dirmi? – gli chiedo. Vorrei che la mia voce potesse suonare stanca come mi sento, ma temo suoni solo gelida e urtata. Come, d’altronde, mi sento.
Peter mi fronteggia a muso duro, per un po’. Non che la sua espressione si incattivisca, solo che sta cercando di tirare fuori tutto il coraggio che ha. E io lo so che è tanto, solo che fino ad ora l’ha sempre usato per proteggermi, mai per ferirmi.
- Ho provato a baciarlo. – confessa atono, - Lui mi ha rifiutato. Io però ci penso. E non riesco a smettere di pensarci. Io ti amo, Bill, ma— non lo so. Forse amo anche lui. – si prende una pausa, inspira ed espira, si passa una mano sugli occhi, sulla fronte, sulla nuca e sul collo. È palesemente esausto e io mi sento in colpa e non capisco da dove venga questo sentimento. – A te non succede? – mi chiede poi, e mi si stringe il cuore perché ho paura che lo stia guardando, che mi stia spiando nel petto, e che per questo il mio cuore stia cercando di nascondersi, facendosi minuscolo per non farsi vedere. Solo che fa male, e io così non riesco nemmeno a respirare. – Non ti succede di pensare le stesse cose con Bushido?
E io ripenso ai tremori, e al sorriso di Anis, e a quanto facesse male guardarlo con Fler, e al palmo della sua mano, e alle volte che tornava da qualche viaggio promozionale in Svizzera o Austria, o quando mi veniva a prendere all’aeroporto, e penso a quando veniva a trovarmi a casa, a quando abbiamo preso l’appartamento, agli scatoloni, al sangue sulle lenzuola, a quanto era bello coi capelli lunghi vestito di bianco nella penombra di quel salotto in quell’appartamento sconosciuto, al suo profumo, agli hamburger di McDonald’s, alle ricettario di Karima, alla villa gialla enorme e bellissima che profumava di casa, a Tomi pieno di lividi, alla sua discografia in frantumi sotto l’Escalade, alle serate con la crew e le ubriacature e restare svegli fino all’indomani mattina e andare a Tempelhof solo io e lui e i progetti le vacanze la paura di perderlo quando non mi diceva qualcosa il suo odore il suo sapore la consistenza della sua pelle la sua voce il suo nome – e guardo Chakuza e ho gli occhi pieni di lacrime, e sono le lacrime più pesanti che ho versato da quando Anis è tornato a casa. Oltre il velo delle lacrime, io Chakuza lo vedo appena. Come sempre, la sola idea di Anis basta ad offuscarmi la vista.
- Sì. – ammetto. Perché non posso fare altrimenti, e non per le lacrime, ma perché quello che mi ha appena colpito al petto ricordando è troppo importante per poterlo tradire mentendo. – Sì. Cerco di fare di tutto per non pensarci, ma sì. Dio… - singhiozzo più forte, mi piego su me stesso, - Dio, sì. – e il Chaku è lì, com’è sempre stato lì quando io e Anis eravamo ancora il re e la principessa, e litigavamo ed io avevo bisogno di una spalla su cui piangere. Come allora, mi accartoccio come in mezzo alle fiamme e mi appoggio contro la sua spalla, e piango, piango tantissimo, e lui mi stringe a sé e ricomincia ad accarezzarmi i capelli.
Dovrei venire a patti col pensiero che abbiamo appena confessato l’uno all’altro di essere innamorati di altri uomini. Ma potrò farlo in un secondo momento.

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I Can't Hurt You Anymore

di lisachan
Bill mi guarda fisso, i suoi occhi brillano. Cova una rabbia che lo scuote tutto, il suo corpo è così sottile che trema sotto le ondate di livore che gli arrossano le guance. So che in questo momento potrebbe uccidermi, se solo avesse l’arma con cui farlo. I capelli scompigliati gli ricadono lungo il collo, il suo respiro è pesante e mi sfiora il viso in carezze quasi violente mentre lo schiaccio contro il muro, un avambraccio pressato sopra il collo e una mano a stringerlo con forza alla spalla. Mi guarda come se lo stessi torturando, come se il mio comportamento fino ad ora fosse stato quello di un despota, e lui stesse affrontando il martirio con orgoglio, coraggio e fierezza, e mentre presso il mio avambraccio con più forza contro la sua gola, mozzandogli il respiro e osservandogli inghiottire la preghiera di lasciarlo andare che è tanto forte da non lasciarsi sfuggire neanche per una sillaba, cerco di ricordargli che qui non ci sono vittime né carnefici, che ciò che ha fatto è sbagliato e che dovrebbe tornarsene a casa.
E poi lo bacio.
*
Il mio risveglio, stamattina, non sembrava preannunciare niente di speciale, figurarsi qualcosa di disastroso come Bill che irrompe nel mio ufficio rovesciando il mondo come ormai ha imparato a fare – e se sa farlo bene, pochi cazzi, è colpa mia, che nel ribaltamento dei mondi altrui sono un campione – costringendomi prima a schienarlo contro un muro, poi a tentare di soffocarlo, quindi a baciarlo sa Dio perché.
Stamattina mi sono svegliato col russare debole e regolare di Pat piantato nelle orecchie, e all’improvviso mi sono sentito addosso dieci anni di meno, ed ho borbottato “Frank, siamo in ritardo”. Al che lui ha aperto un occhio e mi ha guardato come se non capisse un accidenti di ciò che stavo dicendo, giustamente, e a quel punto ho riso perché non so cosa avessi pensato di preciso ma era evidente che mi stavo riferendo a qualcosa successo uno sproposito di anni prima, probabilmente una delle mille volte che mi sono fermato a casa sua perché il giorno dopo dovevamo andare presto da qualche fornitore prima dell’apertura dei negozi – prima che Tempelhof, o almeno la parte onesta di Tempelhof, quella che non viveva di notte, cominciasse a risvegliarsi. Era una scusa che usavo spesso, “resto da te così domani facciamo prima e non devo passarti a prendere”, ma la verità era che intanto adoravo i bignè che sua madre faceva in casa, e poi adoravo anche passare la notte con lui davanti alla tv parlando di cose assurde e fumando uno spinello fino a stordirci al punto di dire e vedere cose veramente allucinanti, crollare addormentati esausti alle cinque del mattino e poi, naturalmente, svegliarci in ritardo. Il che mi riporta alla prima frase che ho detto stamattina, e che comunque, non so, non è una cosa che parla solo di ritardi a un appuntamento o cose simili che poi scompaiono nel giro di pochi giorni, quanto più una cosa generale. Io e Patrick siamo in ritardo, è vero. È verissimo.
- Anis, vaffanculo. – mi fa lui, e si rigira a pancia sotto mentre io non riesco a smettere di ridere, - Ma perché cazzo mi dovevi svegliare… e piantala di ridere! – sbotta, e mi tira un cuscino sulla faccia mentre contemporaneamente cerca di scalciarmi via dal letto e anche di nascondersi sotto due chilometri di lenzuola per cercare di tornare a dormire. Io però a quel punto ormai sono sveglio, quindi niente, mi avvicino e me lo stringo contro, un po’ anche per la questione del ritardo, appoggiandogli il mento su una spalla e sorridendogli contro una guancia. – ‘Cazzo fai? – mi chiede lui, che sta ancora palesemente dormendo, e io rido e lascio scivolare una mano lungo la sua schiena, sotto le lenzuola.
- Suono la sveglia. – dico con una risatina, accarezzandolo distrattamente fra le natiche, al che lui solleva la testa dal cuscino come se solo ora avesse cominciato a capire cosa stia esattamente succedendo, mi guarda con gli occhi enormi e poi mi scoppia a ridere in faccia.
- Ma vaccagare. – ride come un demente, e poi salta in piedi e, nudo com’è, che io mi preoccupo pure che Karima possa vederlo e non sarebbe il caso – non perché Karima non sappia, quanto più perché poi partirebbe con la millecentesima tirata sui costumi discinti di questa casa, cosa che decisamente mi rovinerebbe il risveglio – insomma, nudo com’è mi informa che va a preparare il caffè e mi lascia tutto il tempo di suonarmela da me, la sveglia. Voglio dire. Ma chi me l’ha fatto fare di tirarmi in casa quest’individuo – ripetute volte negli ultimi dieci anni, peraltro – io non lo so.
Comunque, mi sono messo in piedi, anche perché era evidente che, a meno che non volessi accoppiarmi coi cuscini o col materasso mentre coperte e pareti ci spiavano libidinosi, lì nel letto non c’era trippa per gatti, dal momento che tutta la trippa e anche tutti i gatti s’erano spostati in cucina per preparare la colazione. Sono rotolato giù dal materasso, mi sono infilato la prima cosa che ho trovato così da poter urlare “ma è Fler che va in giro nudo, io no!” se Karima si fosse improvvisamente palesata in cucina prima delle nove ed ho infilato il corridoio. Fler fischiettava maneggiando la moka con mani esperte, ed io ho sorriso.
- Perché tutta questa fretta? – ho chiesto, guardandomi intorno per assicurarmi che Karima non ci fosse ancora e poi appendendomi alle sue spalle e sfiorandogli il collo con la punta del naso.
- Io non ho nessuna fretta. – ha risposto lui, serafico, continuando a maneggiare la moka, - D’altronde, mia madre non mi aspetta prima di mezzogiorno. Sei tu che devi essere all’Ersguterjunge fra tipo dieci minuti.
- Che? – ho sbottato con una smorfia infastidita, subito mitigata dall’odore penetrante del caffè in polvere che si è diffuso nell’aria in cucina non appena Fler ne ha aperto il barattolo, - Non vieni con me?
- No, te l’ho detto ieri che sono a pranzo da mia madre. – ha sbuffato lui, roteando gli occhi ed accendendo il fornello sotto la caffettiera, - È una settimana che mi chiama ogni giorno chiedendomi quando vado a trovarla. Scommetto che mentre ne parlavo non mi hai sentito.
- Dipende. – ho mormorato abbattuto, tornando a nascondere il naso contro il suo collo, - Stavamo facendo qualcosa, mentre me ne parlavi?
- Guardavamo la tv, Anis. – ha ridacchiato lui, asciugandosi le mani umide contro un panno.
- E allora è ovvio che non ti stessi ascoltando, non ero abbastanza concentrato su di te! – ho ribattuto, spingendomi verso di lui, - Provi a ripetermi i concetti base adesso? – ho proposto speranzoso, ma lui ha riso e si è divincolato senza fatica dalla mia stretta, dirigendosi tranquillo verso il bagno.
- Vatti a fare una doccia. – mi ha suggerito, - E per punizione, vai in bagno al piano di sopra.
In quel momento, naturalmente, Karima è uscita dalla sua stanza, vestita di tutto punto e perfettamente in ordine, pronta a cominciare le grandi pulizie che ogni mattina organizza e che si protraggono puntualmente fino a sera, ed ha osservato – non senza un certo turbamento – il sedere di Fler mentre, ondeggiando tranquillo, spariva dietro la porta del bagno, proprio nel momento in cui lui, sereno come un bambino appena sveglio di domenica mattina, tirava su una mano e la salutava col più serafico dei “buona giornata, Karima”. Al che lei, naturalmente, sopraffatta dalla perfezione di Fler – che è l’unico essere umano che riesce a gestire pure le situazioni più improbabili senza mai andare in imbarazzo, che mi viene da ridere se solo provo a ricordarmi com’era quando aveva quattordici anni e si scioglieva andando nel panico ogni volta che lo guardavo – non poteva guardarlo con disapprovazione, anche perché si sarebbe trovata a guardare con disapprovazione una porta chiusa, e pertanto si è voltata a guardare me con l’occhio torvo presagio di sventura.
- Che c’è? – ho sbottato, mentre lei scendeva dal piano di sopra carica di disapprovazione e severità, - Sono vestito!
Naturalmente non ha attaccato.
- Il signor Losensky non lo era. – ha risposto lei, tetra, passandomi davanti senza guardarmi, come se non mi meritassi ulteriore attenzione da parte sua.
- Potresti anche cominciare a chiamarlo Patrick, immagino. – ho borbottato, mentre lei passava davanti ai fornelli, sbirciava il caffè già uscito nella moka e spegneva il fuoco.
- Il nostro grado d’intimità – ha detto, sollevando un singolo sopracciglio da madre puritana di svariati secoli fa, - non è ancora tale da giustificare simili prese di confidenza. Inoltre, vorrei ricordarle che non mi ha ancora comunicato quando il signor Losensky ha deciso di tornare a stabilirsi definitivamente nel proprio appartamento, signor Ferchichi.
Forse perché di buttarlo fuori non ho la minima intenzione, ho pensato io guardandola con l’occhio pallato.
- Be’, per ora è qui, comunque. – ho concluso, scrollando le spalle, - Quindi sii gentile con lui, ha avuto un’infanzia difficile.
- E non fatico a immaginare di chi possa essere la colpa. – ha commentato lei, versando il caffè in due tazzine e cominciando ad armeggiare in giro con l’obbiettivo di raccoglie latte e biscotti in quantità industriale nel minor tempo possibile e poi, probabilmente, iscriversi al Guinness dei primati.
- Che cosa vorresti dire, con questo? – ho sbottato io, incrociando le braccia sul petto e mettendo il broncio come quando avevo tredici anni, che peraltro è una cosa che Karima non può sapere perché quando avevo tredici anni ancora non la conoscevo. Ogni tanto ho l’impressione che, siccome mi ha conosciuto già adulto, abbia dimenticato che un tempo sono stato un bambino anch’io, e che posso ricadere in quello stato infantile quando voglio, peraltro. Altre volte, invece, mi sembra che, anche se mi ha conosciuto che ero già grande, in realtà non abbia poi fatto mai molto affidamento sulla mia maturità.
In ogni caso, non mi ha risposto – probabilmente perché non ero degno della sua voce come non lo ero stato dei suoi occhi poco prima – e quando Patrick è uscito dal bagno lavato e vestito di tutto punto e lui e Karima si sono messi a confabulare strigliandomi perché ero ancora in pigiama e ovviamente in ritardo ho sbuffato “d’accordo, d’accordo, datemi tregua tutti e due!” e sono fuggito al piano di sopra, grandemente deluso dai miei sudditi indisciplinati e colmo di disappunto per la mia regale autorità violata.
Solo che, quando mezz’ora dopo sono uscito di casa, nonostante il pensiero delle ore infinite di noia che mi attendevano all’Ersguterjunge, sorridevo come un cretino. E questo non posso proprio negarlo.
*
Per dire, ero così felice che neanche la vista dell’Ersguterjunge è riuscita a deprimermi. E dire che in genere mi basta entrare in questo posto per sentirmi crollare addosso tutto. Voglio dire, io non dico che queste pareti le ho tirate su col sudore della mia fronte – perché così non è. Forse i soldi per comprarle li ho tirati su col sudore della mia fronte, ma le pareti decisamente no – però erano comunque una cosa mia, e in quanto cosa mia erano stati inglobati dalla mia persona e rimessi al mondo marchiati. Come tutto ciò che tocco, perché odio che ciò che tocco, ciò che amo, mi venga portato via, e l’unico modo che si ha per assicurarsi la paternità a vita di qualcosa è lasciargli addosso un segno. Nessuno vuole una macchina graffiata, nessuno vuole un motorino pieno di adesivi, nessuno – nessuno mentalmente sano, almeno – dovrebbe volere un corpo che ha addosso il sapore e l’odore di un altro. Poi non sempre va a finirti bene, però intanto tu il tuo marchio lo lasci. Almeno così hai più possibilità di tenerti stretto ciò che vorresti portarti dietro fin nella tomba.
Ora io mi guardo intorno e queste pareti non le riconosco. Il mio ufficio era pieno di poster. Miei poster, ovviamente. Quando hanno ritinteggiato, me li sono fatti mettere da parte perché volevo riappenderli subito dopo, solo che poi lo scatolone in cui avrebbero dovuto conservarli non s’è più ritrovato. E quindi io avevo una stanza che ero io, rappresentava me, una stanza in cui mi sentivo a mio agio, e ora invece mi sento un impiegato delle poste in uno stanzino bianco e anonimo che odio e che mi dà la nausea dal momento in cui ci metto piede al momento in cui ne esco. È una cosa devastante.
Eppure, ero così di buon umore che, entrando qua dentro e fissando le pareti bianchissime, non ho pensato “che schifo, dov’è finita la mia vita?” come faccio sempre, bensì “più tardi a casa devo ricordarmi di chiedere a Pat se gli è rimasto qualche poster vecchio, magari qualcosa dell’Aggro”, visto che dubito fortemente che si sia messo a collezionare poster delle mie uscite discografiche comprando Bravo travestito da quindicenne infoiata mentre passavamo le nostre giornate a insultarci da una parte all’altra di Berlino.
Questa sensazione di beatitudine interiore è durata naturalmente fino a quando la segretaria piccola e carina che si occupa di accogliere gli ospiti all’ingresso e smistarli nelle varie aree del palazzo in cui devono andare non è spuntata sulla soglia della mia porta e, con aria un po’ colpevole e un po’ impacciata, mi ha detto che il signor Kaulitz era all’Ersguterjunge e desiderava vedermi.
In un primo momento ho pensato “ma non esiste”. Ho anche rimandato a memoria la tabella degli orari e dei giorni lavorativi di Bill per essere proprio certo che no, oggi non avrebbe dovuto trovarsi qui, non a quest’orario né in nessun altro orario, ed avrei voluto guardare la segretaria negli occhi e dirle “dev’essersi sbagliata”, solo che poi mi sono reso conto di quanto sarebbe stato assurdo ed ho deglutito forzatamente, cercando di ricompormi.
- Sono molto impegnato. – le ho detto. Lei ha guardato la mia scrivania sgombra, il computer ancora spento e la generale aria di nullafacenza che si respirava nella stanza, e poi è tornata a guardare me, con occhi sempre più tristi e colpevoli, probabilmente chiedendosi quanto ci avrei messo a licenziarla, al punto che avrei voluto darle una pacca sulla spalla e rassicurarla, che tanto ormai non ho più potere neanche sui dipendenti in questa cazzo di etichetta.
- Ecco… - ha proseguito lei, incerta, - Il signor Kaulitz ha molto insistito. – ha detto, e io cosa potevo ribattere, a quel punto? “Digli di andarsene a fanculo e, se continua a insistere, insisti anche tu e defenestralo”? Ho sospirato tanto profondamente che mi ha fatto male il petto, ed ho annuito.
- Fallo passare.
Lei ha annuito come a volersi scusare ed è sparita in un secondo. Il secondo successivo, al suo posto c’era Bill, e io avevo smesso di respirare. Ho pensato distrattamente “è tremendo che il mio ultimo respiro sia stato così doloroso”, e poi non ho avuto spazio neanche per i pensieri. Bill stava già occupando tutto.
- Scusa se ti disturbo. – ha mormorato, gli occhi nascosti dietro un paio di giganteschi occhiali da sole a mascherina e i capelli tirati indietro e stretti in una coda alta a imprigionare le ciocche bionde, come a cercare di tenere a bada lui domando i suoi capelli. Come fosse possibile, l’una cosa o l’altra.
- Fa niente. – ho sputato con una difficoltà estrema, sperando che lui non la notasse. Lui ha abbassato appena gli occhiali sul naso, lanciandomi una lunga occhiata scrutatrice prima di sfilarli del tutto e riporli nella borsa a braccio in un gesto fluido e abitudinario. – Ti serviva qualcosa?
Lui si è guardato intorno con aria un po’ confusa, penso non fosse mai entrato qua dentro e deve aver fatto una certa fatica a riconoscere l’ambiente come familiare.
- Posso sedermi? – ha chiesto, al termine del giro di studio. Io ho piantato le mani sulla scrivania e mi sono alzato in piedi.
- A dire la verità preferirei di no. – ho detto in un fiato, osservando i suoi occhi macchiarsi della consapevolezza di non essere una presenza gradita, una cosa che aveva spesso osservato negli occhi di molti, ma mai nei miei. – Cosa ci fai qui, Bill?
- Volevo solo parlarti. – ha sbottato offeso, incrociando le braccia sul petto.
- Potevi prendere un appuntamento, come fanno tutti gli altri. – gli ho fatto notare.
- Tutti gli altri…? – ha spalancato gli occhi lui, incredulo, - Anis, capisco tutto, ma—
- Sono molto impegnato, Bill. – ho detto, battendo con una certa forza le mani sul tavolo e sperando che questo bastasse ad intimorirlo, o a farmi mandare a quel paese, raggiungendo comunque l’effetto desiderato, ovvero buttarlo fuori da questa stanza il prima possibile, per evitare di perdere il controllo di me stesso.
- Impegnato a fare cosa? – mi ha chiesto lui, senza cedere di un passo, fissandomi con gli occhi brillanti di rabbia, offesa, tradimento e tutte quelle altre piccole cose che è in grado di mettere in un solo sguardo quando vuole farti sentire una merda fatta e finita, - Impegnato a— a fare cosa, Anis? Cos’è che ti tiene tanto impegnato da non lasciarti neanche un minuto libero per stare a sentire me?
- Quali diritti speciali dovresti avere tu? – ho sbottato io, alzando la voce e sollevando le braccia come ad invitarlo ad andare oltre ed affondare il coltello, se ne era capace, - Sentiamo, Bill! Quali diritti che non ti sia già fottuto da solo nonostante io te li avessi ridati tutti in mano appena ti ho posato gli occhi addosso? Eh?
Lui ha spalancato gli occhi, le labbra gli tremavano.
- Non so, Anis. Quelli che si riservano a un normale essere umano quando ti chiede due minuti per parlare?
- Tu non chiedi, Bill! – ho tuonato io, esasperato, - Tu non chiedi, è questo che ti sfugge! Tu ti presenti e pretendi!
- Io non ho preteso niente! – s’è difeso lui, quasi stringendosi nelle spalle, - Io ti ho chiesto—
- Tu ti sei presentato qui come se riceverti da parte mia fosse una cosa ovvia! – gli ho fatto notare, allargando le braccia ai lati del corpo, - L’idea che a me non andasse di vederti non ti è mai passata neanche per l’anticamera del cervello! Tu agisci come se tutto ti fosse dovuto e te ne sbatti il cazzo di quello che il resto dell’universo possa pensare, perché tanto i sentimenti degli altri non sono importanti come i tuoi! Nessuno soffre come te, vero Bill? Nessuno è in una situazione peggiore della tua, giusto?
I suoi occhi si sono fatti liquidi all’improvviso, le guance arrossate e il respiro accelerato. Ho avuto paura che si sentisse male, ma non ho smesso di guardarlo duramente neanche per un secondo.
- Sei ingiusto. – ha esalato con un filo di voce, - Credi che per me sia facile, Anis? – mi ha strillato contro, - Pensi che per me vederti ritornare dopo un anno e tutto il resto sia stato semplice? Pensi che mi diverta, cazzo, che sia felice della situazione in cui siamo? Se pensi questo di me, allora non mi conosci, perché—
Gli sono saltato addosso prima che potesse concludere la frase. L’ho spinto contro il muro, mi sono schiacciato contro di lui, ho piantato un braccio contro il suo collo e l’ho guardato.
- Smettila di parlarmi come se fossi il primo stronzo cui puoi rifilare tutte le tue cazzate preimpostate da diva del cinema muto, Bill. – gli ho ringhiato addosso, - Vuoi sapere cosa penso? No, non penso che per te sia facile. Però penso che ti piaccia complicarla. Non penso che tu sia felice, però penso che il dolore ti faccia sentire al sicuro, perché non sei felice da tanto di quel tempo che provare della felicità vera ti spaventa. Non penso che tu ti diverta, ma penso che tu ti senta meglio quando mi trascini nel tuo cazzo di baratro di tristezza, Bill, questo penso. E non dirmi che non ti conosco. Perché sai che non è vero, come sai che invece è vero tutto quello che ho detto adesso.
E ora Bill mi guarda fisso, i suoi occhi brillano. Cova una rabbia che lo scuote tutto, il suo corpo è così sottile che trema sotto le ondate di livore che gli arrossano le guance. So che in questo momento potrebbe uccidermi, se solo avesse l’arma con cui farlo. I capelli scompigliati gli ricadono lungo il collo, il suo respiro è pesante e mi sfiora il viso in carezze quasi violente mentre lo schiaccio contro il muro, un avambraccio pressato sopra il collo e una mano a stringerlo con forza alla spalla. Mi guarda come se lo stessi torturando, come se il mio comportamento fino ad ora fosse stato quello di un despota, e lui stesse affrontando il martirio con orgoglio, coraggio e fierezza, e mentre presso il mio avambraccio con più forza contro la sua gola, mozzandogli il respiro e osservandogli inghiottire la preghiera di lasciarlo andare che è tanto forte da non lasciarsi sfuggire neanche per una sillaba, cerco di ricordargli che qui non ci sono vittime né carnefici, che ciò che ha fatto è sbagliato e che dovrebbe tornarsene a casa.
E poi lo bacio. Lo bacio perché è troppo vicino, lo bacio perché mi manca, lo bacio perché – cazzo – io questo ragazzino lo amo tanto che mi scoppia la testa se solo ci penso, che il mio corpo non mi sembra robusto a sufficienza per sostenerlo, lo bacio perché l’ho perso, perché voglio lasciarlo andare ma non ci riesco, lo bacio perché voglio il suo sapore sulla lingua e quando lui solleva le mani e mi stringe alla nuca, graffiandomi la pelle del collo fino a che sento il sangue scorrere in un rivolo lento e sottilissimo giù fino al colletto della maglietta, sento che lo vuole anche lui, sento che tutto il casino che c’è dentro la mia testa c’è uguale anche nella sua.
Lo allontano dalla parete schiacciandomelo contro, lo stringo fra le braccia e lui aderisce perfettamente al mio corpo come non si fosse mai allontanato nemmeno di un millimetro dal mio fianco. Siamo due universi paralleli e perfettamente distinti io e lui, adesso, eppure alle volte basta così poco e Bill è ancora lì, è ancora mio, e non capisco come tutto questo non possa essere vero e reale – so che non lo è, lo so, ma adesso che siamo così vicini mi sembra l’unica verità possibile. E quindi, ciò che invece è vero, lui con Chakuza, io con Patrick, deve essere una bugia.
Torniamo a dirci la verità, piccolo, vuoi?
È nel momento in cui lo penso – che poi è lo stesso momento in cui lo appoggio sulla scrivania sgombra e mi allontano appena dalle sue labbra per riprendere fiato – che mi rendo conto di quanto tutto questo sia assurdo, di quanto il mio cervello prenda a sragionare per vie incomprensibili quando ho Bill intorno. Cos’è che voglio dare a bere a questo ragazzino? Che non importa niente di quello che siamo diventati, che possiamo tornare com’eravamo prima che tutto questo accadesse dimenticando gli ultimi mesi e andando avanti per una strada che nemmeno esiste se non nelle nostre fantasie quando escludiamo dai pensieri tutto il resto del mondo che non siamo noi due? Che storia voglio raccontare a Bill, a me stesso? Che cosa cazzo sto facendo?
Lui schiude le palpebre quando non mi sente tornare a baciarlo. Sotto le sue ciglia, che tremano in un battito sottile come quello delle ali di una farfalla, passa la consapevolezza che è cambiato qualcosa rispetto a un secondo fa. Poso le mani sulle sue, allontanandole dal mio collo e posandogliele in grembo. Lui, seduto sulla scrivania, le spalle un po’ curve e l’espressione corrucciata, le labbra arricciate in una smorfia delusa e triste, mi guarda e mi implora di non farlo, non fermarmi, dargli mezz’ora di tregua dalla realtà.
Non posso farlo, piccolo, io ti amo troppo per mentirti così spudoratamente.
- Vai via. – gli sussurro sulle labbra. Stringo le mani attorno alle sue e ne accarezzo il dorso coi pollici.
Lui sospira stremato. La sua testa si piega in avanti in cerca di appoggio e la sua fronte trova il mio petto con una naturalezza che mi smuove qualcosa dentro. È sempre la stessa storia, queste piccole cose riaccendono la scintilla, ma è dura tenerla accesa quando il fuoco non prende.
- Non è come se mi stessi dicendo “vai, non ci vedremo più”… - mugola, strusciando la fronte contro la mia maglietta, - Fra poco comincia il tour… mi dici come faremo? Perché io non lo so.
- In qualche modo faremo. – sorrido appena, lasciando una delle sue mani per sciogliergli la coda ed accarezzargli lentamente i capelli, ravviandoglieli sulle tempie, dietro le orecchie, sul collo. – Tu però devi starmi lontano, piccolo. Io prometto che starò lontano da te.
Bill deglutisce a fatica, prendendosi un secondo prima di parlare.
- E se io non volessi starti lontano? – pigola a voce bassissima, e scommetto che gli è servita più forza per dirmi questa singola frase di quanta non gliene sia servita per presentarsi qui e mettersi a strillarmi contro. E già per fare quello gliene è servita parecchia.
Mi allontano da lui, lasciandolo andare. Sto ancora sorridendo, quando lui si rimette in piedi.
- Non vuoi nemmeno starmi vicino, però. – gli faccio notare. È straniante essere così tranquillo adesso. Mi sembra di stare facendo la prima cosa giusta in assoluto da quando sono tornato in Germania.
Lui non mi risponde. Si morde un labbro e nemmeno annuisce, abbassa lo sguardo e si ricompone in fretta prima di sgattaiolarmi alle spalle, oltre la porta, fuori dall’Ersguterjunge, fuori dalla mia vita spero almeno per la prossima settimana. Il tempo di prepararmi alla tortura che mi aspetta. Te lo prometto, piccolo, sarà tutto più facile, da ora in poi. Farò in modo che lo sia.

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Break The Circle

di lisachan
Sto gironzolando per casa annoiandomi terribilmente da quasi mezz’ora, quando Anis finalmente rientra. Ho passato il tempo giocando con Skyline e Sherlee, principalmente, rotolandomi nell’erba e sporcandomi al punto che, quando sono entrato in casa, a Karima è bastato uno sguardo per farmi capire che non avrei potuto muovere un altro singolo passo all’interno della villa senza prima andare a darmi una ripulita nella doccia. La doccia in giardino, ovviamente.
Non mi è pesato, dopotutto: ho buttato via i vestiti e mi sono infilato sotto il getto d’acqua gelida, magari un po’ esagerato visto che non è ancora precisamente estate, ma mi andava di fare le cose così, un po’ a caso. Mi sono sciacquato per bene, ho salutato i fotografi appostati dietro i cespugli intorno alla villa, ho evitato gli attacchi dei cuccioli che avrebbero visto di buon occhio la possibilità di saltarmi nuovamente addosso e rendere vana la mia doccia per giocare ancora un po’ e sono tornato dentro, dove Karima mi aspettava praticamente sulla soglia di casa con un accappatoio pulito in mano.
L’ho ringraziata indossandolo, e lei invece di rispondermi s’è espressa in una specie di sbuffo supponente che è un po’ il suo marchio di fabbrica ogni volta che le faccio notare che è stata carina a comportarsi gentilmente con me. È un po’ come volesse dirmi che non dovrei aspettarmi niente di diverso, visto che in fin dei conti si tratta del suo lavoro, ma visto che mi diverte continuo a ringraziarla. E lei continua a sbuffare.
Quando Anis si chiude la porta alle spalle, capisco subito che c’è qualcosa che non va, come l’ho capito sempre, fin da quando ero ragazzino. L’abitudine mi ha insegnato a tradurre i suoi gesti, i piccoli sospiri che rilascia gradualmente, per non farsi sentire mentre sospira in maniera troppo profonda o agitata, così come i gesti brevi e decisi, che danno sempre l’impressione che stia molto attento a controllare al massimo il proprio corpo, come lo percepisse come l’unica cosa della quale possa davvero decidere il destino. Suppongo sia normale, per uno come lui, da sempre abituato a tenere le redini di numerose vite, oltre che della sua, sentire con forza la paura di poter perdere il controllo da un momento all’altro. Ecco, quando lui sente questa paura, riparte sempre dalle basi, per ricordarsi che è ancora perfettamente in grado di gestire tutto. E le basi sono le facoltà motorie. La respirazione, i gesti, i movimenti degli occhi. Parecchi, quando sono nervosi e spaventati, perdono il controllo del proprio corpo. Per Anis è esattamente il contrario. È quando smette di sciogliersi che lo riacquista. Solo che quando smette di sciogliersi lo fa perché ha paura.
- Ehi. – lo saluto sorridendo. Un sorriso piccolo, niente di troppo entusiasta. A volte gli dà fastidio che gli si mostri della gioia quando lui non è felice. Ma d’altronde è così un po’ per tutti, suppongo. – Successo qualcosa? – mi informo con aria casuale, passandomi una mano sulla nuca per verificare che i capelli si siano asciugati.
Lui grugnisce qualcosa di poco convinto, appendendo la giacca all’ingresso e poi raggiungendomi in salotto attraversando tutto il corridoio senza fare nemmeno un rumore. Gli vado incontro, non so cos’è che voglio, un bacio forse. È una situazione strana perché da quando stiamo insieme, o qualsiasi cosa sia questa cosa in cui siamo invischiati adesso, insomma, non mi è mai successo di vederlo rincasare così cupo. In genere, tornando a casa mettermi le mani addosso è non dico il primo dei suoi pensieri, ma quasi. Non mi sono mai dovuto avvicinare io per salutarlo, è sempre stato lui a cercarmi, perciò mi sembra strano farmi avanti per primo.
Ed è ancora più strano quando lui mi ignora, passandomi oltre e mormorando un distratto “cosa c’è per cena?”, come non mi avesse nemmeno visto.
La cosa veramente grave, comunque, non è questa. La cosa veramente grave è che quando mi passa accanto io sento l’odore di Bill. Lo sento con forza, perché gli sono stato tanto vicino che ormai un po’ di quel profumo dolciastro così suo s’è aggrappato alle molecole che compongono le mie cellule, e lo riconosco con una facilità quasi dolorosa. Come l’ho sempre riconosciuto addosso a Chakuza, lo riconosco adesso addosso ad Anis, e mi tremano le mani. Mi tremano le mani perché non ne posso più di questo ragazzino che tocca e sporca tutto quello che voglio, tutto quello che amo. Lo odio, non lo sopporto, e poi ricordo che il problema non è suo, il problema è mio. Lui c’era prima. Sono io quello che s’è infilato in mezzo ad un gioco che non gli appartiene, e che non è ancora riuscito ad uscirne.
- Che ti prende? – mi volto a cercare i suoi occhi, seguendolo mentre si muove verso il divano. Vedo solo le sue spalle, non si volta a ricambiarmi lo sguardo.
- Niente. – risponde distrattamente, mettendosi a sedere ed accendendo la televisione. Sta mentendo.
- È successo qualcosa? – chiedo avvicinandomi. Mi siedo sul divano accanto a lui, ma non vicino come tutte le altre volte. Non addosso, nemmeno ci sfioriamo, in realtà. Sa che sta correndo un rischio enorme. Sa che posso fiutargli addosso la paura e l’incertezza e questo dannato odore dolce e infantile. Sa di avere sbagliato tutto, perché se solo avesse agito come se avere quell’odore addosso fosse naturale, io non mi sarei preoccupato. Avrei pensato che si fossero incontrati, salutati, abbracciati, che fossero andati a prendere un caffè insieme. Ma lui sta negando, io so che mente, e so che se lo fa ne ha motivo. – Qualcosa tipo Bill? – chiedo alla fine in un sospiro affranto, perché, seriamente, non ne posso più.
Tutti i lineamenti del suo viso si tendono all’istante. Cambia faccia all’improvviso, sembra una persona diversa. Il movimento con cui si volta a guardarmi è innaturalmente lento, tanto che ne ho quasi paura.
- Ma cosa ti salta in mente? – quasi ringhia, aggrottando le sopracciglia, - Non—
- Non vi siete visti. – dico, e sento tutto il mio corpo bruciare per la rabbia, - Né toccati. – mi avvicino appena, inspiro il suo odore a qualche centimetro dal suo corpo, così profondamente da farmi dolere i polmoni. – Né baciati. – concludo. E poi lo guardo dritto negli occhi. – Pezzo di merda.
- Pat—
- No, pezzo di merda! – ribadisco con maggiore convinzione, alzandomi in piedi e girando attorno al divano come se la sua sola vicinanza fosse sufficiente a mandarmi fuori di testa, cosa che in effetti è vera. – Ma cosa cazzo hai in testa? Ma cosa cazzo avete in testa tutti?! Ma per cosa cazzo mi avete preso?!
- Pat? – mi chiama lui, vagamente accigliato. È evidente dai suoi occhi che non capisce di che diavolo sto parlando, ed è evidente che non può, perché io non gliel’ho mai detto. Perché non l’ho mai detto a nessuno, cazzo, e sarà questa la cosa che mi farà andare fuori di testa, più di tutto il resto. Che io sto così male per una cosa che, agli occhi della quasi totalità delle persone che compongono il mio universo, non esiste nemmeno.
- Lascia perdere. – dico cupo, uscendo dal salotto ed infilando le scarpe da tennis abbandonate accanto alla porta una volta arrivato all’ingresso. Sento i suoi occhi addosso, so che mi ha seguito. Non voglio voltarmi a guardarlo.
- Pat. – mi chiama ancora, - Che problema c’è?
La sua voce è più seria, somiglia a quella che usava quando, da ragazzino, combinavo qualche guaio di cui non mi andava di fargli sapere. In qualche modo, riusciva sempre a sgamarmi e tirarmi fuori le parole di bocca. E tutto partiva sempre da questo tono qui.
Sorrido stancamente, schiudendo la porta e guardando di fuori il cielo che si fa più scuro dopo il tramonto.
- Nessun problema. – rispondo prima di allontanarmi. Non ce n’è mai, d’altronde.
*

Quando arrivo a casa di Chakuza, non realizzo che potrebbe essere in compagnia – in compagnia di Bill, ovviamente – fino a quando non ho già premuto il dito contro il bottone del citofono. È troppo tardi per scappare e non posso certo rimandare indietro il tempo, per cui resto là e riesco in qualche modo a non strillare quando sento la sua voce chiedermi chi sono.
- Fler. – rispondo. Sono evidentemente nervoso, e lui pure. Sento movimenti strani e la sua voce si abbassa di svariati toni quando parla ancora.
- Ma che… - comincia incerto, - È successo qualcosa? – chiede con una punta di preoccupazione.
- No… - rispondo io, grattandomi confusamente la nuca, - Ma c’è Bill? – chiedo quindi, e poi sospiro. – Scusa, mi tolgo dalle palle. Fingiamo che tutto questo non sia mai avvenuto.
- No! – mi ferma, la voce che torna alta e poi, neanche tanto sorprendentemente, si riabbassa, - No, dico… cioè, sì, c’è Bill, ma… - lo sento trafficare con qualcosa di indefinito, e solo dopo capisco che s’è infilato la giacca e, per farlo, ha poggiato la cornetta del citofono sulla consolle. – Scendo subito. – dice deciso, - Non te ne andare.
Non me ne vado. Mi appoggio al muro, proprio lì accanto al portone, e aspetto. Quando Chaku esce non si aspetta di trovarmi da qualche parte che non sia esattamente di fronte a lui, perciò si guarda intorno un paio di secondi buoni prima di voltarsi indietro e notarmi lì appoggiato con le mani nelle tasche. Sorrido appena e ne sfilo una, agitandola per salutarlo in silenzio.
- Ciao. – mi dice lui, avvicinandosi. Ha gli occhi un sacco preoccupati. Mi si scalda lo stomaco tutto insieme. – Che cos’hai? C’hai una faccia strana.
Evito i suoi occhi perché non voglio dirglielo, o almeno non così presto.
- Sto bene. – rispondo scrollando le spalle, - Avevo solo voglia di—
- Non raccontarmi balle. – mi interrompe lui, e mentre parla mi guarda e inarca un sopracciglio come a chiedersi quanto devo essere cretino per averci anche solo provato.
Io mi mordo un labbro, incerto su cosa fare. Facciamo qualche passo in silenzio, Berlino intorno a noi si agita tutta e nessuno sembra notarci. È completamente diverso rispetto a quando cammino accanto a Bushido, la sua presenza da sola basta ad attirarci addosso un mucchio di sguardi indiscreti, ma passeggiare accanto al Chaku è una cosa tranquilla e rilassante. C’è anche una temperatura piacevole, tiepida, un po’ incerta fra estate e primavera e mitigata appena da un venticello fresco e debole, per nulla fastidioso anche se ci viene contro.
Ci sediamo ad un tavolino fuori da un bar semivuoto e anche un po’ sfigato, sempre restando in silenzio. Non so quanto tempo passi – senza che nessuno venga a prenderci l’ordinazione, peraltro – prima che Chakuza parli ancora.
- Dimmi cosa ti è successo. – insiste, le mani appoggiate mollemente sul tavolo e gli occhi fissi su di me.
Mi inumidisco le labbra, guardandomi un po’ intorno.
- Mi mancavi. – dico, scrollando le spalle, - Non mi è consentito? Tutti quanti potete sentire nostalgia di tutto quello che volete e andare a prendervi tutto quello che volete senza pensare alle conseguenze, ma io no? Io non posso? E chi l’ha stabilito?
- …woah. – commenta lui, incerto, inarcando le sopracciglia, - Capisco. Cioè, in realtà no— cosa cazzo ti prende? – chiede, piegandosi un po’ in avanti, - Con chi hai parlato?
- Ma con nessuno! – insisto io, gesticolando animatamente e stabilendo poi che non è seduto a quel tavolino che voglio stare. – Ma quale cazzo è il vostro problema? – protesto ricominciando a camminare per la strada, mentre lui mi segue dubbioso, - Perché cazzo dovrei essere io quello che non sta bene? Ma vi siete guardati?! Siete un branco di disperati ed io sono il più sano di mente in mezzo, il che francamente è tutto dire. Eppure state tutti lì a chiedermi cos’ho. Io non ho niente, chiaro? Siete voi che vi comportate da pazzi, io cerco solo di tirare avanti, e sto benissimo!
- No, Fler, - sbotta lui, scuotendo il capo, - a parte il fatto che non ci sto capendo un cazzo, voglio dire, di chi stai parlando? Ma comunque, - e gesticola, come a voler mettere da parte questa prima considerazione in favore della successiva, di gran lunga più importante, - è palese dal fatto che stai straparlando che tu non stai bene. Ma tipo per niente.
- Be’, scusami se sono venuto a disturbare la tua vita perfetta e felice per farmi solo una chiacchierata. – sbuffo, allontanandomi di qualche passo, - Ma non ti preoccupare, mi tolgo subito dai coglioni. Non c’è problema. – non ce ne sono mai, di problemi. Non ce ne sono mai.
- La mia vita non è perfetta. – dice lui, cupo, ancora dietro di me. S’è fermato, perciò mi fermo anch’io, perché non volevo davvero allontanarmi. Lo guardo in silenzio, e lui sembra veramente stanco e un po’ sbattuto, come l’avessero preso a cazzotti e lui non fosse ancora riuscito a riprendersi. – La mia vita non è perfetta e non è felice, o almeno, sicuramente non è più felice o perfetta della tua, perciò piantala di dire stronzate e non cercare di farmi sentire in colpa per cose di cui non ho la responsabilità.
- Be’, se dobbiamo fare l’elenco delle responsabilità-- - comincio, ma non riesco a finire. Lui mi interrompe.
- Ti prego. – dice soltanto, sospirando profondamente, - Ti prego.
Io mi mordo un labbro e mi avvicino. Ci guardiamo negli occhi ed è così palese che questa cosa non funziona che mi viene voglia di pestarlo a sangue – di nuovo – e non vederlo mai più – sul serio – solo che so che non ci riuscirei, a fare nessuna delle due cose, peraltro, perciò sollevo le braccia e lo afferro per il colletto e lo strattono e non lo so.
- Peter. – lo chiamo. Lui respira e me lo sento addosso. Siamo in mezzo alla strada ed è tutto così strano e stupido e sbagliato e sconnesso. Mi sembra di stare sognando e non sono nemmeno ubriaco. Forse è l’effetto della rabbia, rende tutto ovattato e diverso, come se non lo stessi facendo davvero. Ma lo sto facendo.
- No. – dice, quando si rende conto di cosa gli stanno dicendo i miei occhi, - No, non— non esiste. – si allontana da me con uno strattone deciso e mi guarda come non mi avesse mai visto prima. – Io non sarò la persona da cui vieni quando ti girano.
- Tu l’hai fatto, con me! – urlo, e mi fa male il petto, - Tu— stronzo, tu l’hai fatto con me!
- Lo so! – urla anche lui. Ed io mi congelo sul posto, perché è la prima volta che lo ammette. – Lo so. – ripete a voce più bassa, - Ed è per questo che non posso farlo adesso. Fler, ma non capisci? Cazzo, sono quasi due anni che ci facciamo del male perché non siamo abbastanza forti da pensare prima di fare qualcosa. È un circolo vizioso e qualcuno deve pure venirne fuori per primo.
- Non adesso. – mi sto lamentando come un bambino e lo so. Mi avvicino di nuovo, lo allaccio al collo, me lo tiro contro e lui non si allontana, mi appoggia le mani sui fianchi e le nostre fronti si sfiorano. – Per favore. – dico con un filo di voce. Chakuza chiude gli occhi, inspira ed espira e so che gli sto facendo male.
- No. – insiste lui, deciso. – No, Pat. È il periodo, io ti capisco. È tutto confuso, e stanno cambiando delle cose, e… devi solo avere pazienza, poi andrà tutto a posto. – ed io non capisco cosa cazzo stia dicendo, e lui deve leggermelo negli occhi, perché sorride appena, spiegandosi meglio. – Andrà meglio. Le cose si calmeranno e potremo tornare tutti a pensare lucidamente. È solo che questo momento qui deve passare, perché è evidente che sennò usciremo tutti fuori di testa. Lo capisci cosa intendo?
E sì, lo capisco. Non del tutto, forse, c’è qualcosa che mi sfugge, ma al momento non posso pensare anche a questo, perciò chiudo gli occhi anch’io, cercando di adattare il ritmo del mio respiro al suo nella speranza che questo possa darmi un po’ della sua calma, per lo meno apparente, ma funziona poco. Però lo capisco.
Mi allontano, e lui non mi trattiene.
- Cosa sta succedendo? – chiedo. Lui distoglie lo sguardo. – Cosa è successo?
- Non è il caso di parlarne adesso. – risponde con un sospiro stanco. – Ma ti giuro che—
- Lasciamo perdere. – mi rassegno, abbassando gli occhi. Mi passa per la mente in un lampo la consapevolezza che il problema fondamentale che ci trasciniamo dietro da ormai quasi due anni è quest’assoluta incapacità che abbiamo di immaginarci a vivere una vita gli uni senza gli altri, e che se non superiamo questo scoglio non riusciremo mai a risolvere neanche la metà dei casini che ci rendono difficile l’esistenza.
Lui, comunque, annuisce. Quando mi volto per tornarmene a casa, non mi chiama. Mi lascia andare, e credo lo faccia con la consapevolezza che lasciandomi andare potrebbe anche non rivedermi più, ma da qualche parte dentro di sé la sente come la cosa giusta da fare, e io so che probabilmente è così. Perciò lo lascio andare anch’io, sperando che il Chaku abbia ragione. E cerco di non pensarci troppo.

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Chaosteorie

di tabata e lisachan
Nell'ultimo periodo le cose sono state un po' movimentate; anche se forse questo non è esattamente l'aggettivo giusto per descrivere il tumulto sentimentale-lavorativo che ci ha travolti tutti quanti, che lo volessimo o meno. Il problema di lavorare con una persona come Bushido – e devo averlo già detto da qualche altra parte – è che non puoi davvero aspettarti di passare il tempo facendo quello per cui sei pagato e di rispettare, quindi, un contratto con dei punti ben precisi secondo i quali sei tenuto a comportarti tu e anche i tuoi datori di lavoro. Attualmente, io sono ancora sotto contratto con la Universal – che sebbene sia composta da una manica di schiavisti, sarebbe comunque un bel posto in cui lavorare – ma questo non sembra fregare a nessuno, né ai dirigenti dell'etichetta, né soprattutto a Bushido che da quando è risorto e mi ha chiesto una mano per farlo, ha deciso che io lavorassi per lui. Dal momento che questo non contrasta, ma anzi favorisce, gli affari della Universal, l'etichetta non ha alcun problema a lasciarglielo credere. Così io, in sostanza sono pagato dalla Universal per stare dietro a lui come un bambino ed evitare che faccia cose di cui tutti noi ci pentiremmo. Certo sarebbe tutto più facile se i problemi che Bushido è in grado di causare fossero scandali di medio livello – Anis Ferchichi trovato in possesso di droga – o uscite pubbliche di dubbio gusto – Anis Ferchichi chiede sesso orale in diretta televisiva al frontman dei Tokio Hotel, no aspetta, questa l'ho passata davvero –, cose per le quali basta una sana scrollata di spalle, o al più una bella conferenza stampa o un'azione legale per rimettere le cose a posto; ma Bushido no, lui è in grado di smuovere le montagne, generare valanghe e, con ogni probabilità, deviare l'orbita del pianeta.
Così, dopo essersi reso conto che allungare le mani su Bill questa volta non gli sarebbe servito a niente, perché ad allungare le mani sul mio cantante erano in due e, a meno di non dividerlo a metà, uno dei due doveva lasciare la presa, si è fatto prendere dalla depressione, si è probabilmente sfondato d'alcol come fa sempre quando il primo tentativo non gli riesce come dovrebbe e quindi ha fatto l'unica cosa che poteva fare dopo che la sbronza gli è passata e si è ritrovato nella stessa situazione di prima: ha fatto irruzione in casa mia nonostante io volessi rimanere fuori dall'intera faccenda.
Finché c'è stato da organizzare voli transoceanici ed inscenare la sua morte, non ho avuto grandi problemi ma le loro questioni di cuore sono un'altra faccenda; che può sembrare strano, ma è così che stanno le cose. Io sono il manager di una band musicale e il mio lavoro consiste sostanzialmente nell'organizzare: la vita dei miei ragazzini, i concerti, le conferenze stampa. Quando si parla di organizzazione, non c'è molta differenza tra sistemare le cose perché dopo il concerto ci sia una stanza pronta secondo i desideri di un artista, e oliare le persone giuste perché fingano che qualcuno sia sparito dalla faccia della terra. Si tratta solo di calcolare i dettagli e di mentire. Alcune persone sono geneticamente impossibilitate a farlo, io invece sono bravissimo. Io mento continuamente, mento alle fan quando i concerti vengono ritardati, mento all'etichetta quando Bill dovrebbe aver finito di scrivere una canzone e invece ha passato l'intera settimana a prendere il sole su una spiaggia caraibica con il fratello o con uno dei suoi svariati cavalieri, fa parte del mio lavoro e, in un certo senso, è giusto che io lo faccia. Certo mentire a Bill è stato doloroso, ma di sicuro non complesso, era una cosa che potevo gestire e organizzare. Questa situazione però, no.
Non rientrava nei miei compiti sistemare le cose fra Bushido, Bill e Chakuza. Non spettava a me e non volevo che mi spettasse perché, ad essere del tutto sincero, non avrei saputo da che parte prenderli, nemmeno se, per analizzare la situazione, avessi preso in considerazione cosa fosse meglio per Bill il quale, per quanto possa sembrare un'interpretazione troppo materna, è l'unica vera vittima di questo casino.
Si fa presto a condannare quando non si è stati costretti a vedere le persone soffrire o non si ha avuto paura di perderle da un momento all'altro. Io con Bill questa paura l'ho provata fortissima e ringrazio il cielo che ora sono qui a raccontarvi di come sta facendo un casino dietro l'altro, piuttosto che a parlare al passato di come lo abbiamo seppellito accanto alla bara vuota di Bushido. Com'era logico, la gente si sta permettendo di giudicarlo – lui, ma anche Bushido e Chakuza – ma senza sapere effettivamente che cosa ci sia dietro a tutta questa storia.
Io sono nove anni che mi prendo cura di lui e so di che pasta è fatto. So come si comporta, come ragiona e di cos'è capace. Immagino che cosa deve essergli passato per il cervello nei mesi in cui è rimasto improvvisamente solo e se si guardava intorno non sapeva come fare a rialzarsi o quale motivazione darsi per continuare anche lui a vivere quando l'unica che aveva era appena stata seppellita. Una ragione gliel'ha data Chakuza e lui ci si è attaccato con le unghie e con i denti. Il sentimento che li ha legati, ad un certo punto di questa storia, era così forte che perfino io ho tirato un sospiro di sollievo; mi sono permesso di sperare che un po' di quella felicità ritrovata potesse tenerlo al sicuro dalle mie menzogne. Non mi sorprende, quindi, che sia andato in pezzi quando Bushido è tornato e lui si è trovato nella condizione di dover scegliere fra due uomini ai quali, per un motivo o per l'altro, aveva legato la sua vita. Il suo cuore si è spezzato a metà e nella consapevolezza di non poter trovare una soluzione che non fosse dolorosa, è andato in confusione. Io la trovo una cosa comprensibile, o forse la penso così perché so quanto Bill sia fragile nonostante tutta la forza che possiede. Ho visto quella forza crescere nel corso del tempo e poi frantumarsi sotto un peso troppo grande per lui da sopportare. L'ho sentito cedere di colpo e non è stato facile nemmeno per me; non quando era anche colpa mia.
Quando l'ho incontrato la prima volta, Bill era un cosino spettinato, convinto che avrebbe spaccato il mondo con la sola imposizione della sua persona. Allora io ridevo, pensando che tuttalpiù sarebbero stati famosi per qualche anno e poi forse ci sarebbe stato spazio per farli diventare qualcos'altro e invece sono diventati un fenomeno su scala internazionale. Aveva ragione, a quanto pare, perché il mondo si è piegato al suo volere quasi quanto adesso tutti noi ci pieghiamo a quello di Bushido, ed è per questo che quei due si sono trovati, naturalmente. Hanno una forza di volontà così potente che tu non puoi fare a meno di stargli dietro, anche se uno è viziato e l'altro è assolutamente irragionevole.
Quando Bill e Bushido si sono incontrati, io sono andato dal mio naturopata e gli ho chiesto di prescrivermi qualcosa che mi aiutasse a suicidarmi nel sonno ma lui mi ha detto che non era necessario e che mi sarebbero bastate due gocce giornaliere in più di guaranà per sostenere i miei nuovi impegni. Naturalmente sarebbe stato più facile suicidarmi, ma alla fine ho superato anche questa, e guardate che non è stato affatto facile perché questi due hanno avuto una storia piuttosto travagliata, della quale per altro voi non sapete un accidente perché ciò che vi è stato raccontato – per bocca del re, dei suoi uomini o per la boccuccia santa della loro principessa – è solo ciò che è successo dopo quei due benedetti proiettili. Niente, se non qualche accenno e qualche sporadico episodio, vi è stato riferito di ciò che in effetti abbiamo passato prima che Bill e Bushido diventassero quello che erano quando poi Bushido è morto. Del fatto che la reazione della stampa non fu affatto rosea, ad esempio, per non parlare di quella della crew di Bushido, di Tom e – in misura minore – anche di quelle due anime disperate di Georg e Gustav che ancora mi meraviglio non abbiano preso armi e bagagli e si siano trovati un'altra band che non prevedesse un frontman impegnato nella scalata al trono del ghetto.
In qualche modo, però, ci siamo sistemati e sono consapevole che in gran parte è stato merito mio che ho impedito ai giornalisti di mangiarsi vivo Bill e ho impedito a Tom di togliere per sempre il saluto a quella diva di suo fratello mandando a peripatetiche anni di duro lavoro. Bill, durante tutto questo processo, in cui si è trovato nell'occhio del ciclone, è stato bravissimo, è stato forte e siccome ha la testa dura come il cemento mi ha aiutato a portare avanti la carretta della sua band semplicemente volendo con tutte le sue forze entrambe le cose: la sua carriera e anche Bushido che, diciamocelo, con lui sembrava non azzeccarci assolutamente niente.
E' stato quando è morto che Bill ha perso tutta la sua forza. Si è svuotato completamente come se, morendo, quell'uomo si fosse portato via tutto quello che era e non è più stato lo stesso da quel momento; anche quando Bushido è tornato. Chakuza non lo ha certo rimesso in piedi com'era prima, non poteva dargli quello che aveva perso, così ne ha fatto un Bill nuovo che non sapeva più da che parte andare, perché era un po' dell'uno e un po' dell'altro. E io una cosa del genere non la posso sistemare. Non c'è niente che io possa organizzare per far tornare le cose a posto. E non posso nemmeno mentire, anche se poi in realtà l'ho fatto quando appunto Bushido ha fatto irruzione in casa mia a dirmi che non ero stato un bravo collaboratore e, naturalmente a volere l'impossibile. Come fa sempre.
Lui da me voleva la chiave per risolvere le cose, visto che la sua non aveva sortito un grande effetto. Bushido non è abituato a non ottenere quello che vuole con i propri metodi, non ci arriva proprio che a volte le cose non vanno come vorresti. E' un concetto totalmente estraneo alla sua mentalità. E siccome l'ultima volta che aveva avuto bisogno di un miracolo, l'ho fatto io per lui, pensava, immagino, di poter ripetere l'esperienza; solo che io potevo farlo morire di nuovo, ma non potevo convincere Bill a scegliere lui.
Prima che mi si venga a dire che in realtà tutto quello che è successo dopo è colpa mia, io vorrei far presente che Bushido mi ha frainteso; anzi, meglio, ha finto di fraintendermi e nelle mie parole – per altro chiarissime – ha letto esattamente solo quello che voleva sentirsi dire, giusto per fare quello che pensava di fare fin dall'inizio ma avere anche il mio supporto, in qualche modo.
Quando gli ho detto che, secondo me, l'unica cosa che poteva fare era lottare per il grande amore della sua vita, intendevo dire che si rimboccasse le maniche e riprendesse a corteggiare Bill, non che gli mettesse le mani addosso ad ogni occasione favorevole portando sia lui che Chakuza sull'orlo della follia. Ma ovviamente non potevo davvero aspettarmi che Bushido si comportasse come una persona normale, quindi scemo io che l'ho anche solo pensato. E, aggiungerei, scemo anche Bill che il massimo che sia mai riuscito a fare per allontanarlo in questi mesi è stato dare di matto in mezzo ad un corridoio, rischiando di scatenare la rissa fra lui e Chakuza e dire candidamente al mondo che avevamo per le mani un triangolo.
Da lì le cose sono ovviamente precipitate – d'altronde mi sarei alquanto stupito se uno qualsiasi dei due uomini bruti si fosse fatto da parte con buona pace di tutti – ma io me ne sono tirato fuori, e di questo non mi vergogno. Quando Bill ha mollato Chakuza per rimettersi con Bushido per poi scoparci, chiamarlo Peter e farsi buttare di nuovo fuori di casa, io ho gettato la spugna. Sono un manager, mi sono detto, quando torneranno a cantare mi troveranno pronto ad accoglierli a braccia aperte.
Quindi di come siano andate poi effettivamente le cose per cui la Universal ha finito per dover gestire non solo l'outing di Chakuza, ma pure quello di Fler, io non lo so perché non c'ero e quando c'ero cercavo di non entrare in argomento, di non ascoltarli quando ci entravano loro e di tapparmi anche le orecchie emettendo suoni stupidi se necessario; tanto più che conosco Bill e so che è capace di covare l'inimmaginabile per periodi di tempo non umani e che per questo una soluzione semplice che prevedesse lui e Bushido felicemente fidanzati con altra gente a lavorare insieme di buon grado nella stessa etichetta senza tentare di schienarsi a vicenda o mandarsi a quel paese non era nemmeno ipotizzabile.
Io tutto volevo tranne che cercare di farlo capire all'uno all'altro, perché – nonostante si pensi il contrario – ho anch'io una vita, degli affetti e anche delle cose personali di cui occuparmi, pertanto li ho lasciati lì a fare qualunque cosa volessero fare per rovinarsi l'esistenza e ho dedicato questo periodo a me stesso. Nello specifico sono stato impegnato ad incanalare la quasi totalità della mia energia positiva nella ristrutturazione del mio appartamento ad Amburgo. Nella fattispecie, ho buttato giù la camera degli ospiti e mi sono regalato un salotto più grande, cosa che mi ha permesso non solo di ricomprare l'intero arredamento della stanza – quella di acquistare articoli di design è una gioia che mi concedo troppo poco spesso –, ma anche di pagare degli uomini che girassero per casa seminudi senza per questo venir arrestato. E mi hanno anche ridipinto le pareti! Adoro ristrutturare.
Uno di essi, che ieri ha finito di posare il parquet, ha deciso di trattenersi quando abbiamo scoperto un interesse comune, nel senso che a me piaceva lui e a lui piacevo io, così stanotte ne abbiamo discusso parecchio e siamo giunti ad una conclusione estremamente soddisfacente. Non mi svegliavo così rilassato forse da anni e sto seriamente pensando di fuggire con quest'uomo massiccio, ruvido e meravigliosamente straniero e di non fare mai più colazione su niente che non siano i suoi addominali scolpiti. Sono un uomo commosso; anche se il suddetto muratore, che poi a quanto pare sarebbe un piastrellista, al momento sta curiosando in mezzo alla mia collezione con quelle mani enormi che sono adatte a fare un mucchio di cose tranne che toccare i miei vasi Matti Klenell. Se non gli urlo, è solo perché al momento il suo nome mi sfugge.
Quando torna a posarlo sul mobile, il vaso ondeggia per due lunghi istanti durante i quali io trattengo il fiato mentre lui nemmeno se ne accorge e continua l'ispezione della mia camera, nudo e impunemente tale.
Mi ricorda Bushido, e anche se lo fa in maniera inappropriata, mi aiuta ad alzare il fondoschiena dal letto e ad accettare la dura realtà: la mia vacanza è finita e, che lo voglia o no, devo tornare ad occuparmi della mia carriera, o di quello che ne resta mentre, in mia assenza, Bill e Bushido ne hanno probabilmente decretato la rovina con azioni che non posso prevedere ma che sicuramente sono irreversibili, come quasi tutto ciò che fanno. In questi giorni io ho vissuto un'esistenza beata, privandomi volontariamente di qualsiasi notizia li riguardasse, consapevole che se fosse successo qualcosa di grosso, con ogni probabilità qualcuno sarebbe venuto a prelevarmi direttamente a casa; ciononostante non ho potuto evitare di ricevere la notizia peggiore, perché in sostanza riguarda me e tutto il lavoro che ho fatto anche se ero in vacanza: il tour.
Io spero che sia ben chiaro a tutti – soprattutto a chi sta pagando e pagherà questo progetto – che cosa andremo a fare e come finirà, perché in tutta onestà è meglio se partiamo preparati, piuttosto che credere che questa cosa funzionerà anche solo la metà di quello che si pensava e poi vederla frantumarsi come un castello di carte quando non girerà nemmeno per sbaglio, ve lo assicuro. Non ci vuole la sfera di cristallo per capire che sarà un disastro, basta un minimo di buon senso; ma dal momento che questo è esattamente ciò che manca a tutti quanti, immagino che possiamo soltanto prepararci al peggio.
Ad ogni modo, tragedie sentimentali a parte, c'era anche il problema pratico di mettere insieme dei brani da far cantare ai ragazzi nel corso ci questo mini-tour. Far lavorare le due parti era impensabile perché, aldilà di tutto, non ce n'era proprio materialmente il tempo, e poi Bill ci mette gli anni a buttare giù due righe, quindi anche a mettergli in mano un blocco, allontanarlo dai suoi uomini e costringerlo a pane ed acqua finché non avesse prodotto qualcosa, ci avremmo messo dei mesi. Così il blocco lo hanno dato a me e io ho fatto quello che ho potuto. Ho pensato che potevamo riciclare delle canzoni che i Tokio Hotel canteranno da soli e altre dell'Ersguterjunge che Bushido e Chakuza potranno riadattare a modo loro, e ne ho unita qualcuna su cui i rapper possano fare freestyle, in modo che sembri organizzata – non lo è, ma spero che siano abbastanza professionisti da riuscirci. In fondo è il loro lavoro no? E poi, naturalmente, Prinzessin, che per quanto sia effettivamente carina è il motivo per cui alla fine di questo mese infernale io ammazzerò qualcuno e probabilmente mi ritroveranno coperto di sangue mentre ancora tremo di rabbia repressa.
Il mio piastrellista senza nome mi guarda mentre decreto la fine del nostro proficuo incontro. Ci scambiamo dei biglietti da visita con dei numeri di telefono che non chiameremo mai, ma quasi mi dispiace quando lo accompagno alla porta e lui sorridendo mi dice “Se si alza, chiamami” e io rimango lì a guardarlo per qualche istante prima di capire che sta parlando del parquet.
Due giorni dopo sono di nuovo a Berlino, ho con me l'agenda e il programma da seguire, sono pronto a tornare a lavorare e ho pregato Madonna perché mi aiuti. Un tour che parte a metà ottobre senza quasi nessun tipo di promozione potevamo farlo solo noi, immagino; ma a quanto pare ha funzionato. Il giorno della partenza, ossia oggi, le date non sono ancora sold-out ma molto probabilmente lo saranno e, anche se tutti quanti sappiamo che questa incredibile fortuna è legata al fatto che Bushido è tornato dal regno dei morti per contrastare la relazione della principessa con il suo migliore amico, ringraziamo lo stesso perché poteva andarci molto, molto peggio. Poi mi torna in mente che Justin Bieber sta spopolando senza alcuna ragione logica e quindi mi rendo conto che, tutto sommato, anche noi avevamo delle speranze.
Quando partiamo siamo tanti, troppi, e sembra quasi che l'intera casa di produzione abbia deciso di partire per questo tour lasciando vuoti gli uffici. L'unico che resta sul marciapiede quando i tourbus si allontanano è Fler, che onestamente non so perché sia sempre in giro anche quando lavoriamo perché dovrebbe, non so, andare da Sido e lavorare anche lui; comunque non importa perché, contrariamente alle mie aspettative, siamo partiti davvero e Bushido e Chakuza non si sono ancora ammazzati. Se non lo fanno entro i prossimi venti minuti avrò perso duecento euro, certo, e Georg e Gustav saranno un po' più ricchi ma io sarò un uomo senza dubbio meno stressato e questa è una bella cosa nell'ottica dell'infarto mortale che sicuramente mi aspetta. Sento una spinta di ottimismo, finché non incrocio lo sguardo di Fler oltre il finestrino e all'improvviso vorrei che avessero lasciato sul marciapiede anche me.

*


La teoria del caos, o meglio una parte di essa, dice che ogni piccolo evento, ogni piccola variazione in uno stato iniziale, per quanto apparentemente innocua, provoca variazioni sempre più grandi mano a mano che lo stato iniziale si evolve. Sono perfettamente consapevole del fatto che l’effetto farfalla sia solo una parte di un concetto ben più ampio e articolato, ma punto primo io non ho studiato – o meglio, ho studiato solo fin dove è stato necessario, e non perché mi servisse ma perché lo diceva la legge, per cui tutta la mia cultura sul punto viene da The Butterfly Effect e poco altro, comprendetemi – e punto secondo a me non serve il concetto complesso, per spiegare ciò che voglio dire, e cioè che questa è una teoria assolutamente validissima, ma palesemente incompleta. Nel senso, un battito d’ali di una farfalla può sì generare un uragano in Cina, ma questo posto che ai venti cinesi freghi qualcosa del fatto che, chissà dove, una farfalla ha battuto le ali.
Non sto personificando i venti e gli uragani cinesi, se è quello che vi state chiedendo, e non sto nemmeno impazzendo, perché so che la vostra seconda domanda sarebbe stata questa: sto contestualizzando. A volte non basta che la farfalla e l’uragano siano parte di uno stesso sistema, perché il secondo venga influenzato dalla prima. A volte ai venti cinesi non frega un accidenti che la farfalla abbia spiccato il volo in Papuasia o chessò io, perciò se ne stanno quieti, e starebbero quieti anche se tutte le dannate farfalle del dannato mondo decidessero di spiccare il volo nello stesso dannato momento, tutte assieme, solo per cercare di provocarli.
Nelle ultime settimane, io ho smesso di interessarmi alla vita di mio fratello. Il che non significa che abbia smesso anche di volergli bene, ma solo che la mia sopravvivenza nell’ultimo periodo non ha potuto prescindere dalla mia ignoranza riguardo qualsiasi cosa gli fosse capitata. E sono convinto che, dalle parti di mio fratello, sia capitato ben più di una semplice farfalla che svolazza in giro. Eppure, i miei venti sono calmi.
Bill è sempre stato troppo, fin da quando era piccolo. La sua mania di protagonismo è sempre stata tale da offuscarmi, quasi, e la cosa non poteva che peggiorare mettendo su una band insieme. Da quando esistono i Tokio Hotel – da prima, da quando ne esisteva l’abbozzo – siamo sempre stati “Bill e il suo gemello Tom”. Il problema è che per me è sempre andato bene così, non mi sono mai lamentato, ho sempre trovato plausibile e normale che la mia vita dovesse girare attorno a quella di mio fratello, esserne in un certo senso la conseguenza. Ho sempre pensato di essermi arrabbiato tanto per la faccenda di Bushido perché Bill non me ne aveva parlato prima, ma la pura e semplice verità era che, trovandosi un uomo, Bill stava strappando dalla mia vita quel pezzo consistente che girava sempre e solo attorno a lui. Sarebbe stata la stessa cosa se si fosse trattato di un altro uomo o di una donna qualsiasi, avrei reagito in maniera identica.
Ci ho messo troppo tempo a capire che dovevo semplicemente riappropriarmi di quella parte di me che non gli era mai appartenuta ed aiutarla a crescere, ma quando finalmente l’ho capito è stato tutto molto più semplice. È la vita, uno deve saper crescere. Bill non è mai stato tanto bravo in questo, e il suo problema è che s’era innamorato di un uomo a cui stava bene così, e che perciò per qualche motivo s’è aspettato che, scomparendo, Bill sarebbe comunque rimasto lo stesso, immutabile come una fotografia.
Mio fratello è cresciuto controvoglia, ecco perché non riesce ad accettare di averlo fatto. Se n’è accorto troppo tardi, ecco perché per lui smettere di amare Bushido non è un’opzione. Non sarebbe soltanto smettere di amare un uomo, sarebbe arrendersi agli anni e ad una maturazione che non ha voluto. E questa cosa io la capisco, nei suoi meccanismi, perché conosco mio fratello, ma non sono sicuro di poterla reggere, in nessun modo. Ed ecco perché non ho fatto domande. Non ho chiesto informazioni. E fondamentalmente non so nulla.
In questo senso, essere sistemato nel tourbus con Bushido mi aiuta molto. Non mi aiuta in nessun altro senso, ovviamente, perché a me Bushido sta ancora sul cazzo – nel senso che anche se ora lo conosco meglio e per certi versi lo capisco più facilmente di quanto non lo capissi due o cinque anni fa, mi è rimasto addosso quello strascico di odio infantile che mi ha portato a distruggerne l’intera discografia investendola – e quindi sarei stato molto più felice di organizzarmi sul tourbus di Georg e Gustav, ma d’altronde, come mi ha detto David guardandomi con l’aria di uno assillato da una serie infinita di problemi irrisolvibili, “non possiamo mica lasciarlo da solo”. E no che non possiamo, per cui niente. E comunque, come appunto stavo cercando di dire, meglio qui che con Bill, perché non avrei proprio saputo come affrontarlo, il suo sguardo. Non avrei neanche saputo cosa aspettarmi, se aspettarmi che mi saltasse addosso annegandomi nel tragico racconto degli ultimi mesi della sua vita, o piuttosto che continuasse ad ignorarmi lasciandomi nella mia beata ignoranza. Me lo sono chiesto, prima che David mi esponesse il capolavoro progettuale della sua idea dei tre tourbus da spartire fra noi sei, ed ho concluso che è una delle numerose domande di cui non voglio la risposta. La vita è piena di domande di questo tipo, e io ho imparato a conviverci da tempo.
David ha preso molto sul serio questa faccenda del tour. Io sono convinto che sappia che questa cosa non potrà che essere un drammatico fallimento, ma sono anche convinto del fatto che purtroppo, da qualche parte dentro di lui, in fondo sta sperando che qualche mese di contatti ravvicinati e obbligati possa aiutarci a rimettere insieme quello che c’era prima, a ricucire gli strappi. David sta battendo le ali, ma ignora – volutamente o meno, questo non lo so – che ai nostri venti cinesi la possibilità di rimettere a posto le cose non interessa. Siamo troppo impegnati ad agitarci per i fatti nostri.
A me dispiace per lui, intendo, è un uomo molto pratico, conosce il suo mestiere e sa cosa aspettarsene, ma è anche un uomo molto romantico, in fondo, perciò probabilmente si sta illudendo riguardo qualcosa che non arriverà probabilmente mai, e sicuramente non adesso, non su questo tourbus né su nessuno degli altri che seguono questa carovana depressa che dovrebbe pensare a lavorare ed invece è troppo logora per pensare anche soltanto a cosa vuole. Ed è normale che sia così, intendo, l’organizzazione perfetta di David impedisce a Bushido e Chakuza di prendersi a pugni, questo è ovvio, ma ha anche delle implicazioni non esattamente piacevoli, e non è semplice sentirsi a proprio agio quando Georg e Gustav sono relegati in un tourbus come a rimarcare ulteriormente che con tutta questa situazione c’entrano solo per caso, Bill e Chakuza fingono di fingersi una coppia felice in un altro tourbus a caso e io e Bushido condividiamo il terzo perché almeno fra noi due David non deve aspettarsi che succeda niente di troppo grave.
Non mi si può certo biasimare se io, con tutta questa situazione, ho cercato di non avere niente a che fare il più a lungo possibile. Anche perché non c’è niente che io possa fare per risolverla, l’unico che possa prendere la decisione adatta – ed io non saprei nemmeno suggerire un’ipotesi – è Bill, ma Bill non vuole decidere. Bill vuole fingersi piccolissimo e aspettare che qualcun altro decida per lui, che degli uomini si prendano a cazzotti sul naso per la sua virtù, che un cavaliere arrivi in groppa al suo cavallo bianco e lo salvi. E questo non perché Bill, contrariamente al suo nomignolo, abbia mai avuto qualche fantasia alla Raperonzolo o alla Bella Addormentata nel Bosco, ma semplicemente perché mio fratello non ha mai saputo come tirarsi fuori dai guai da solo, ha sempre aspettato che fosse qualcun altro a salvarlo. Bushido forse pensava di averlo cambiato in tal senso, ma si sbagliava. Mio fratello cambia solo alle proprie condizioni, e pur crescendo non matura. Varia e basta, come i colori sullo spettro visibile, dal violetto al rosso, ma resta sempre la medesima cosa. Il suo cambiare è una questione di intensità, non di sostanza. Qualcuno prima o poi dovrà capirlo, e cercare qualcosa di utile da fare con questa consapevolezza, visto che io non ci sono riuscito.
La parte più razionale di me mi spiega che per Bill è più difficile di quanto non lo sia per tutti noi, il che è motivato appunto dal fatto che lui una soluzione non prova nemmeno a trovarla, si lascia naufragare fra i problemi, che è il modo peggiore per affrontarli, ma è sempre questa stessa parte razionale che, ogni volta che mi guardo allo specchio, mi ripete che a me non importa. Ed è vero, sapete?, indipendentemente da quanto assurdo possa sembrare. La mia spalla sarà sempre pronta ad accogliere le lacrime di Bill. Sempre. Sempre. Ma solo quando sarà lui a decidere che è da me che vuole venire a piangerle. Io non posso continuare a corrergli dietro, ha già sufficienti uomini che lo fanno, per un motivo o per un altro, e io non voglio e non posso essere uno di loro. Sono suo fratello, lui sa che ci sono, o almeno lo saprà quando deciderà di uscire dal tunnel del “nessuno mi capisce, nessuno può aiutarmi”, non ho alcun bisogno né motivo di comportarmi come se fossi il suo ragazzo. A lui non serve, e nemmeno a me.
Il disastro totale del primo concerto del tour stupisce solo David, e non riesco a capire perché. Se stava cercando di appellarsi alla nostra presunta professionalità perché tutto andasse nel migliore dei modi, mi sembra evidente che aveva fatto affidamento sul nulla. Ma poi David ci conosce, via, sa che Bushido è di un’irresponsabilità perfino irritante, sa che per Bill la professionalità è solo l’ultima delle note a fondo pagina del libro mentale in cui ha imparato a comportarsi da diva e sa che fondamentalmente Chakuza è uno che volendo è anche un gran lavoratore, ma Bill nella sua testa ha la priorità perfino sull’aria che deve ricordarsi da respirare. Da un simile manipolo di imbecilli – e non lo dico nemmeno con affetto – non poteva davvero aspettarsi un comportamento razionale. E così lui, come tutti, ha dovuto rassegnarsi di fronte allo spettacolo agghiacciante del rap svogliato di Bushido, degli attacchi fuori tempo e fuori tono di un Bill troppo impegnato a compiangersi per notare la folla di ragazzine adoranti ai suoi piedi proprio di fronte al palco, e di un Chakuza che ci prova ma non riesce a concludere niente di concreto perché morso da chissà che preoccupazioni e sensi di colpa, mentre Georg e Gustav sospirano, si danno da fare, non ricevono supporto e io strimpello la chitarra solo perché m’hanno detto che è questo ciò che devo fare.
A metà concerto, durante la pausa, Bill decide arbitrariamente di scorciare la scaletta. Nessuno protesta. Io guardo altrove. David prova a dire qualcosa e lascia perdere il secondo successivo. Torniamo sul palco e facciamo quattro canzoni a fronte delle dieci che in teoria dovevamo ancora proporre al pubblico, e quando torniamo dentro, una volta finito, da fuori non ci chiedono neanche il bis. È una cosa che non mi è mai capitata da quando ho cominciato a suonare, e mi rendo conto all’improvviso che un po’ fa male. La fama non è mai stata una certezza, nella mia vita, ma l’amore del pubblico che ci seguiva sì. Sentirlo scemare così improvvisamente – e solo per colpa della nostra evidente incuria – mi ferisce. Vorrei prendere tutti a ceffoni, riportarli in sé, strillare loro che c’è gente che ha pagato, di fuori, e che tutto ciò che possiamo e dobbiamo fare è tornare sul palco e fornir loro uno spettacolo che valga tutti i soldi che hanno speso, ma mi basta lanciare uno sguardo in giro per capire che parole simili non sortirebbero il minimo effetto. Temo che non riuscirei a scuotermi nemmeno da solo, figurarsi gli altri, perciò sospiro e seguo gli altri in una fila scomposta e lenta, finché non torniamo tutti a rifugiarci nei nostri tourbus, divisi per gruppo di appartenenza perché così quantomeno non dobbiamo guardarci negli occhi e odiarci.
Bushido si rintana nella sua cuccetta non appena mette piede all’interno del tourbus. Io resto sveglio, vago in giro senza sapere cosa farmene di me stesso mentre la carovana si mette in moto e fuori dai finestrini la notte si fa più buia che mai. Ci muoviamo verso la prossima città, verso il prossimo disastro annunciato, e io non trovo niente di meglio da fare che accendere il portatile e passare le ore a fare solitari. Ogni tanto cambio il mazzo di carte giusto per ravvivare un po’ il tutto e non vedere sempre le stesse identiche cose. Perché sono stufo di non veder cambiare mai niente. Perché mi fa rabbia non avere il potere di cambiare niente, tranne queste cose minuscole.
Il tourbus si ferma verso le quattro del mattino, ancora neanche albeggia. Io sono sveglio come quattro ore fa, e appena ci fermiamo scendo immediatamente. Siamo nella piazzola di una stazione di servizio, ci sono tutte le luci accese e c’è in giro un sacco di gente. Tutti gli autisti, tanto per cominciare, anche se molti stanno dandosi il cambio, quindi si aggirano sonnolenti per la piazzola bevendo solo un po’ d’acqua e rifiutando con un sorriso terrorizzato ogni offerta di caffè. Agitano pure le mani. Li adoro gli autisti di notte, li vedi che si tengono su solo per forza di volontà, sono creature da cui c’è sempre da imparare.
Anche tutti i membri dello staff sono svegli. Alcuni bevono un po’ di birra, sono per lo più riuniti a gruppetti e chiacchierano del più e del meno. Qualcuno prova a commentare l’esibizione di oggi, qualcun altro lo ferma immediatamente dicendo “guarda, non parliamone nemmeno”. Mi sale addosso una gran rabbia. Non contro di loro, in generale.
David se ne sta per i fatti suoi, seduto su una specie di ringhiera in ferro. Sorseggia un caffè annacquatissimo e probabilmente disgustoso e fissa il vuoto come se non capisse cosa ci stia a fare lì in quel momento. Mi avvicino e cerco di sorridergli. Mi riesce male, ma tanto lui non mi sta guardando.
- Dovresti essere a dormire. – mi dice atono, e manda giù un po’ di caffè.
- Non ho sonno. – rispondo io, appoggiandomi al suo fianco sulla ringhiera. – Come stai?
David ride amaramente, sbuffando un po’.
- Non lo so. – risponde sinceramente, - Ma la cosa importante dovrebbe essere come state voi.
Rido anch’io, dondolandomi un po’ avanti e indietro.
- Mi sa che non è importante nemmeno questo.
David sospira e mi guarda di sfuggita, prima di tornare a fissare il vuoto di fronte a sé.
- È solo qualche mese, Tom. – mi dice con aria rassicurante, - Portiamo a casa il lavoro e poi prometto che avrete un po’ di vacanza. Vi farà bene.
Io annuisco – anche se è un gesto più che altro istintivo, non è che davvero ci creda – e mi inumidisco le labbra.
- Chissà se ce la facciamo, a portare a casa il lavoro. – dico a mezza voce, allontanandomi di qualche passo. David mi guarda con gli occhi spalancati, come non potesse credere alle mie parole. È evidente che non aveva tenuto conto del fatto che il suo battito d’ali avrebbe potuto creare un uragano che, in qualche modo, gli si sarebbe ritorto contro.



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A Sad-Eyed Lie

di lisachan
Mi lascio ricadere sul divanetto in fondo al tourbus con un sospiro stremato, e resto lì seduto a fissare il vuoto per qualche secondo, troppo stanco per provare a fare qualsiasi altra cosa, finché non mi sento letteralmente cedere e mi rassegno a stendermi lì per una decina di minuti, prima di trovare la forza di rimettermi in piedi, farmi una doccia e trascinarmi nella mia cuccetta. Lontano anni luce da me, sento Tom augurare la buonanotte a qualcuno e poi chiudere con forza lo sportello. Lo sento girare in tondo per qualche minuto, calmo, come stesse prendendo le misure dell’ambiente circostante, e poi sento i suoi passi avvicinarsi.
Apro un occhio.
- Sei vivo? – mi chiede. Sta dritto accanto a me, le mani sui fianchi, le fronte libera dalla solita bandana e la camicia aperta per metà sul petto.
- Chiedimelo di nuovo fra una decina di minuti. – rispondo a mezza voce. Lui si lascia sfuggire una mezza risata divertita.
- Stanotte esco. – m’informa poi, come fossi il suo cazzo di padre o chessò io. – Arriviamo a Magdeburgo verso le due. La notte, per allora, sarà ancora giovane, e ho tutta l’intenzione di riallacciare i rapporti con qualche vecchio amico.
- Amica è il termine esatto, Tom. – lo correggo aggrottando le sopracciglia. Se fossi solo un po’ meno stremato, salterei in piedi e lo prenderei a pugni su quel suo muso pulitino da Don Giovanni delle ragazzine, ricordandogli che sta con una delle mie donne, e in quanto tale le deve rispetto, ma sono veramente troppo, troppo stanco, e peraltro conosco Cassandra, so che non è una stupida ed immagino che il discorso del sesso in tour l’abbiano affrontato, prima che Tom partisse, per cui mi limito ad aggrottare le benedette sopracciglia e disapprovarlo silenziosamente.
- Sì, forse. – ride lui, malizioso.
- Jost te lo lascia fare? – chiedo, rassegnandomi a tirarmi su ed aggrappandomi al divano come ne andasse della mia vita.
- David è la tua balia, non la mia. – mi fa notare con un sorriso furbo. La cosa, purtroppo, è anche fin troppo vera. Purtroppo, Jost è umano. Se stringe la presa da una parte, deve mollarla dall’altra. E Dio solo sa quanto forte debba essere la presa, se si vuole avere a che fare con me. – E comunque al momento ha altro cui pensare. Il che mi fa molto comodo, visto che io, invece, non voglio pensare a niente.
Si allontana senza aggiungere una parola, e d’altronde non che ce ne sia davvero bisogno. Lui è, se possibile, quello che l’ha presa peggio, tutta questa storia del tour. Forse perché come noi non ne capisce il senso, ma differentemente da noi prima di imbarcarcisi stava bene. Io, Bill, Chakuza e per certi versi anche David, non è che fossimo sereni, prima di partire. Non è che ringraziassimo Allah ogni volta che aprivamo gli occhi al mattino, per dire. Tom invece no. Anzi, più precisamente, Tom invece chissà, perché chi l’ha visto, ultimamente? Chi ha visto lui o Cassie? Chi li ha visti ricostruirsi una vita mentre ancora noi vaghiamo sperduti e senza meta fra le macerie della vecchia?
Quindi, insomma, posso solo immaginare quanto doversi mettere in viaggio con noialtri possa averlo scazzato, soprattutto visti i risultati gloriosi che non facciamo che affastellare l’uno sull’altro da quando siamo partiti. Sono abbastanza sicuro che la macchia sulla mia reputazione, dopo questo tour, non andrà più via. C’è differenza fra l’improvvisare una piccola produzione e magari fare qualche spettacolo così alla buona ma con tanta passione, come quelli che facevamo io e Patrick da ragazzi, e l’avere a portata di mano una produzione potenzialmente perfetta, con tanto di scenografia del ghetto e robaccia simile – roba che se io e Bill avessimo avuto per le mani una proposta del genere un paio d’anni fa ne sarebbe venuto fuori un tour che la popolazione mondiale avrebbe ricordato nei secoli a venire, garantito – e buttare tutto nel cesso perché un po’ non ce la fai, e un po’ nemmeno vuoi provarci.
Io, per dire, non ce la faccio e nemmeno voglio provarci. Sono stanco, frustrato e voglio tornarmene a casa mia, come quando da piccolo mamma mi portava a cena la domenica dai nonni, e loro erano sempre rigidi e silenziosi come sputassi nei loro piatti. Non vedevo l’ora di potermene tornare a casa mia, non perché ci fosse chissà che ad attendermi – a conti fatti, ad attendermi non c’era proprio un bel niente – ma perché semplicemente casa era un posto sicuro. Avevo la mia cameretta col mio letto e i miei poster e i miei cd pirata e le mie cuffie enormi e il mio lettore cd gigantesco e vecchissimo e perennemente impolverato, e chiudevo gli occhi e smettevo di pensare. Adesso vorrei fare la stessa cosa, solo tornarmene a casa, chiudermi a doppia mandata nel mio studio e metter su della musica. Qualsiasi musica. Chiudere gli occhi e spegnermi, solo per un po’.
La parte peggiore del tutto, poi, non è nemmeno che il tour stia andando male dal punto di vista lavorativo. Un sacco di cose, nel corso della mia carriera, sono andate male da quel punto di vista, e lo dimostra il fatto che una roba che la gente comincia a fare quando ha meno di diciott’anni io ho cominciato a farla solo quando ne avevo ventuno, e neanche tanto seriamente – per la serietà, ho dovuto aspettare i venticinque. Solo che, quando le cose andavano male, io comunque andavo sempre bene. E quindi le cose potevano anche crollare tutte assieme come i castelli di carta che erano, perché tanto le mie spalle erano sempre abbastanza forti da reggere la frana.
Adesso è diverso. Adesso io sono troppo stanco per reggere alcunché. Tutto crolla e io non riesco a sopportarlo bene come avrei fatto dieci o cinque o anche un anno fa, ed a complicare tutto, naturalmente, c’è Bill. Che è la parte peggiore di cui parlavo, perché Bill può essere solo due cose, considerato ciò che è e ciò che fa e come lo fa, può essere la parte peggiore, o la parte migliore. Non ha mezzitoni, in questo senso, ed ha smesso di essere la parte migliore, per me, tanto di quel tempo fa che ogni tanto fatico perfino a ricordare com’era.
Sono rintanato nella mia cuccetta da almeno un’ora, quando sento il tourbus fermarsi. C’è silenzio, tutto intorno, ed è evidente che siamo nella piazzola di una stazione di servizio poco lontana dalla città, perché a quanto ho capito il servizio di sicurezza ha sconsigliato a Jost di entrare materialmente nelle città ed insediarci negli alberghi prima dei concerti. La pressione dei paparazzi e della critica su tutto quello che sta succedendo, la fame con cui ci strappano di dosso segreti misti a brandelli di carne è veramente esagerata, e sistemarci in un albergo, anche il più sicuro, sarebbe un suicidio. Perciò rimaniamo fuori, dove è più difficile che ci trovino. Il che non sarebbe un male nel complesso, se poi m’impedisse vie di fuga quando invece ne ho bisogno.
- Ohi. – dice Tom, sollevando la tenda e fissandomi. La sua è solo una sagoma nel buio, illuminata parzialmente dalle luci dei lampioni disseminati nella piazzola, di fuori. – Uno della security ci accompagna giù in città. – esita qualche secondo, mordicchiandosi un labbro. È così simile a suo fratello, certe volte. – Non è che ti va di venire?
Quello che vorrei chiedergli adesso è non è che a te va di restare?, ma lascio perdere.
- Vai tranquillo. – borbotto senza neanche sollevare la testa dal cuscino, - Sono stanco morto, nemmeno ti sentirò rientrare. Starò dormendo come un sasso entro dieci minuti al massimo.
Lui scrolla le spalle e non insiste.
- Come vuoi. – dice, lasciando andare la tenda. Sento i suoi passi pesanti allontanarsi lentamente lungo il corridoio e poi sparire, nel momento stesso in cui lo sento salutare giovialmente Schäfer e Listing ad alta voce, facendo qualche battuta sugli occhiali del primo e sui capelli del secondo.
Io mi tiro a sedere, dimenticando i propositi di sonno immediato, e piego le gambe, appoggiando gli avambracci alle ginocchia. Fisso il buio così a lungo che ad un certo punto riesco a distinguere le pieghe delle lenzuola stropicciate ed ammonticchiate ai piedi del materasso, ed è allora che sento lo sportello del tourbus aprirsi discretamente e poi richiudersi con un sottilissimo click.
Indossa le Adidas, riconoscerei quello scricchiolio infantile ovunque. So che strascica i piedi perché vuole che lo senta, e mi mordo con forza un labbro quando vedo le sue dita spuntare nella fessura fra le due tende che mi separano dal resto dell’universo, un secondo prima che lui le scosti. Lo guardo, mi guarda. Per un solo secondo, ci chiediamo entrambi che senso abbia tutto questo. Poi, lui mi sorride – un sorriso minuscolo, che sembra voglia scusarsi perfino di esistere – e si siede sul bordo della mia cuccetta, dandomi quasi le spalle. Lancia un’occhiata fuori dalla finestrella chiusa, sulla strada. La piazzola è già deserta, chi doveva andare in città c’è andato, gli altri si stanno riposando o sono all’interno della stazione di servizio per rifocillarsi o prendere un caffè.
- Ti andrebbe di andare a fare una passeggiata? – mi chiede a mezza voce, quasi trasognato. Inarco un sopracciglio, lui non lo vede ma precisa comunque, - Non ti ho chiesto di venire con me a passeggiare di fuori. Mi chiedevo… se io ti invitassi, tu verresti?
Sospiro profondamente, gettando le gambe giù dal letto e sedendomi accanto a lui.
- Perché vuoi rendere tutto più difficile, Bill? – gli chiedo a bassa voce. Lui sorride appena.
- Perché non c’è un modo facile per fare andare avanti tutto questo. Sapere che sei così vicino mi… - si interrompe, come cercando le parole. È probabile che non riesca a trovarle, comunque, perché lascia la frase sospesa. – Avevo voglia di vederti. – conclude quindi, come se questo potesse bastare a giustificare la sua presenza qui, ora, mentre il suo uomo presumibilmente dorme un tourbus più in là.
- Bill… - dico con un altro sospiro, grattandomi la fronte, - Sei un bimbo grande, ormai. Certe giustificazioni valgono sempre meno, man mano che cresci.
Lui ride piano, stringendosi nelle spalle.
- Il problema è questo qui, sai? Che sono cresciuto. – risponde, voltandosi a guardarmi. Anche nel buio, i suoi occhi brillano. Li sento addosso come fossero di fuoco.
- Forse non abbastanza, però. – obbietto io, - Ti stai comportando esattamente come quando eri un ragazzino e ti appostavi fuori da casa mia pregandomi di farti entrare per un po’. Continui a tornare.
Bill ride ancora, con maggiore convinzione.
- Questo forse dovrebbe dirci qualcosa. – commenta, - Anche perché continui a tornare pure tu. Torni anche dalla morte.
- Io non ero morto, Bill. – lo dico con durezza, severamente. Lui si volta a guardarmi come l’avessi offeso personalmente.
- Tu eri morto. – dice convinto, - Tu non annullerai il mio lutto solo perché sei risorto. Tu eri morto, Anis, tu sei stato morto per un sacco di tempo. Ora sei tornato, ma prima eri morto comunque.
Annuisco piano, guardando altrove. Sorrido, anche se solo un po’, quando riprendo a parlare.
- Fatico ancora a realizzare pienamente quanto male ti ho fatto. – confesso in un fiato, - Devi capire che la decisione che ho preso l’ho presa in un momento molto particolare, in cui la ritenevo necessaria. Ero convinto che sarebbe stata la cosa migliore da fare ed ho accettato l’eventualità che tu potessi soffrire perché riuscivo a vedere, in prospettiva, che prima o poi saresti stato nuovamente felice.
È la prima volta che riesco a dirgli una cosa simile esattamente come la penso e in maniera serena. È un po’ assurdo che noi si abbia avuto bisogno di sfiancarci, letteralmente, sia a livello fisico che a livello emotivo che a livello mentale, prima di poter parlare come persone civili. Intavolare questo discorso due o tre mesi fa avrebbe portato inevitabilmente ad un litigio in cui ci saremmo sputati addosso le cattiverie più indegne per il solo gusto di farci del male a vicenda. Oggi posso guardare il suo profilo nel buio del tourbus e dirgli tutto questo con tranquillità perché sono consapevole del fatto che se provassi a cercare dentro di me un briciolo di forza per attaccarlo, non ci riuscirei, e per lui vale lo stesso.
Se ci penso, facevamo così anche allora, quando tutto era più facile ed eravamo solo io e lui. Avendo sempre avuto i caratteri forti che abbiamo, ogni litigio era una guerra che poteva durare dei giorni, poteva essere logorante per davvero, ed era solo alla fine, quando entrambi eravamo stanchi di non poterci più toccare senza un velo di rabbia a coprire tutto il resto, che riuscivamo a riappacificarci, perché solo alla fine riuscivamo a ricominciare a parlare.
- Perché sei tornato? – mi chiede piano. Ho l’impressione che mi abbia già fatto questa domanda, in passato. Lui, o il lui che ho sempre avuto nella testa mentre stavo a Miami, che fossi ubriaco o meno. L’istinto mi direbbe di ripetere a lui quello che ho già detto agli altri, più e più volte. Il messaggio preimpostato per le riviste e i vecchi amici. L’Ersguterjunge stava crollando, l’unica cosa del tutto mia che mi rimaneva al mondo si stava sfaldando perché non avevo considerato troppi dettagli. Per una mia incuria, in definitiva.
Potrei farlo, potrei dirgli questo adesso, e so che in qualche modo questo porrebbe fine alle sue visite continuative in questo tourbus, ai discorsi sciocchi e privi di senso che facciamo sul cielo della notte, sul caffè dei distributori automatici e sullo scarico del cesso che nel suo tourbus funziona male, so che porrebbe fine anche a quello che in genere segue questi discorso, il vero problema principale che mi impedisce di accettare la sua presenza qui come qualcosa di positivo, ma so che, se voglio essere completamente sincero, io non voglio che questo finisca.
E non voglio che lui creda che sia solo per l’Ersguterjunge che ho deciso di rovinargli la vita, o ciò che ne restava dopo esserci passato sopra con un carro armato.
- Perché ti rivolevo indietro. – rispondo senza guardarlo, - Perché da qualche parte sentivo ancora che eri mio e non prendevo neanche in considerazione l’idea di potermi sbagliare. – inspiro ed espiro profondamente, voltandomi a guardarlo. Lui sta già guardando me. – Ti rivolevo indietro. – ripeto, - Tu sei il motivo per cui me ne sono andato, quello per cui sono tornato, e quello per cui continuerei ad andarmene e tornare all’infinito, se fosse necessario.
Bill smette di respirare. Per molti secondi non sento più aria passare attraverso le sue labbra, e lui resta immobile, come gli avessi sparato a bruciapelo nel centro del petto. Realizzo la portata di ciò che gli ho detto solo quando lui si sporge verso di me e poggia le proprie labbra sulle mie. Mi bacia in modo tenero, quasi infantile, come avesse dimenticato come si fa e stesse cercando sul mio corpo le tracce per imparare nuovamente a farlo. Allunga le braccia e me le allaccia al collo, mi scavalca con una gamba e si sistema impacciato sul mio grembo, pressandosi contro di me, ed io ho appena il tempo di lasciar scivolare le mani lungo la linea dritta della sua vita, sentendo la consistenza ossuta dei suoi fianchi sotto i polpastrelli quando scivolo appena sotto la maglietta leggera che indossa, che devo subito allontanarlo.
- No. – dico piano.
- Non dirlo, non dirlo, non dirlo. – mugola lui, disperato, - Ti prego, non dopo quello che mi hai detto. Fingi che tutto il resto non esista, ti scongiuro, sono stato così bene…
- No, Bill. – insisto, afferrandolo più decisamente per i fianchi e spostandolo di nuovo sul materasso, - Io ho voluto essere sincero, con te, ma fingere che tutto il resto non esista vuol dire tornare a mentirti, di nuovo. Ho deciso tempo fa che non l’avrei più fatto. Abbiamo entrambi due vite diverse, adesso, e—
- Io non ce l’ho! – strilla lui, fra le lacrime, - Io non ce l’ho una vita, tantomeno una vita diversa! Io ho uno schifo e sto male, Anis, e tu… - si abbatte quasi su se stesso, stremato, - Tu mi stai facendo impazzire. – dice in una serie di singhiozzi privi di forza, - Dici che mi vuoi, ma poi non mi vuoi mai. Dici che mi ami, ma fai di tutto per farmi credere che di me non t’importi niente. Io arrivo al punto che me ne frego del mondo, Anis, me ne frego di chi c’è e chi non c’è, me ne frego di Peter, me ne frego di Patrick, di Tom, di David, <>io non ce la faccio, non ce la faccio più…
- Io non posso salvarti da questa cosa, Bill! – dico ad alta voce, afferrandolo per le spalle e scuotendolo con forza, - C’è stato un tempo in cui io e te ci appartenevamo ed io potevo salvarti da questa e da un mucchio di altre cose, ma tu ora non sei mio, Bill, e se non sei mio e non sei di Chakuza non sei di nessuno. – lo lascio andare, alzandomi in piedi e scostando in una mossa le tende ancora un po’ basse della cuccetta. – E questo significa che devi salvarti da solo, perché nessun altro può farlo.
I suoi occhi si accendono di rabbia. Umidi come sono per via delle lacrime, sembrano quasi lampeggiare nel buio. Indietreggio per lasciargli spazio, e Bill scatta subito in piedi, fronteggiandomi furioso.
- Tu non hai mai potuto salvarmi da niente. – dice velenoso, - Tu non mi hai mai salvato da niente. Quando ti è sembrato di farlo, in realtà stavi solo preparando il terreno per farmi del male ancora, e ancora, e ancora. – si allontana di qualche passo, le braccia rigide lungo i fianchi, i pugni ostinatamente serrati, come quelli di un bambino. – Non capisco davvero perché continuo a pensare a te come la soluzione di tutti i miei guai, quando evidentemente ne sei la causa.
Non gli rispondo perché l’unica risposta che potrei dargli è che ha ragione. E ciò che dice vale anche per me. Ed anche io non riesco a capirne il motivo. Resto solo pochi secondi dopo, perché lui fugge via subito dopo aver pronunciato quelle poche parole, come l’aria del tourbus si fosse fatta improvvisamente irrespirabile. Cerco di trovare lo stimolo per tornare a stendermi, magari dormire un po’, ma la verità è che sono troppo nervoso. Mi tremano le mani.
Sospirando, lascio la zona notte e mi dirigo nella zona relax. Mi seggo ad un tavolo, osservo il portatile, lo guardo per un po’, poi lascio perdere ed accendo la Playstation. Molto meno impegnativa.
Tom rientra meno di un’ora dopo. Appena mette piede nel tourbus, lo vedo tirare su il naso come un segugio, e poi i suoi occhi si spostano su di me. Sembra considerare la possibilità di chiedermi direttamente se Bill è stato qui o meno, ma alla fine evita, e ripiega su qualcosa di meno compromettente.
- Tutto a posto? – chiede incerto, - Non avevi sonno?
Scrollo le spalle.
- Passato. – mento. Vuoi restare un po’ con me?, ma no, questo non posso chiederglielo.
- D’accordo. – risponde lui, scrollando le spalle, - Buonanotte. – dice disinteressato, scalciando le scarpe in giro ed infilandosi direttamente nella propria cuccetta. Avrei bisogno, un bisogno serio, di qualcuno con cui parlare. Quando una persona che non parla quasi mai con nessuno sente il bisogno quasi fisico di farlo, vuol dire che è molto, troppo vicina al punto di rottura.
Continuo a giocare. In silenzio.
*

Che qualcosa sia cambiato non c’è bisogno che nessuno lo dica. Si sente nell’aria, si avverte nella tensione nervosa che ci avvolge tutti l’indomani mattina, si legge negli occhi sfuggenti di Chakuza e nella linea tesa della sua mascella, nelle pupille dilatate di Bill che s’è fatto scopare nel bagnetto della toilette della stazione di servizio sapendo benissimo che noialtri saremmo stati qui davanti ai lavandini per sciacquarci il viso e lavarci i denti.
Quando lui e Chakuza sono usciti dal bagno, scarmigliati e arrossati e ancora ansimanti, Chakuza s’è teso come una corda di violino, ed è andato a sciacquarsi frettolosamente il viso al lavandino più distante possibile rispetto a quelli che stavamo usando noialtri. Listing e Schäfer hanno cercato di far finta di niente – so bene che è una situazione sulla quale in un momento diverso avrebbero ironizzato, ma in un momento diverso Bill non avrebbe mai fatto una cosa simile per vendetta, per cui è facile spiegare il loro imbarazzo – ma la cosa che mi colpisce di più, dopo la sfacciataggine di Bill che continua ad aggirarsi per il bagno come non avesse proprio un bel niente da farsi rimproverare, è come al solito una caratteristica di Tom: la sua incredulità.
Guarda suo fratello come non riuscisse proprio a credere a ciò che le sue orecchie hanno appena sentito, e io non so che idea avesse Tom di Bill prima che tutto questo gran casino scoppiasse, ma è evidente che, qualunque fosse, è stata devastata fino all’ultimo granello di purezza che conservava. Tom non sa, non ha idea di cosa Bill sia capace. Non ha idea di cosa io l’abbia reso capace di fare. Non insegnandogli a comportarsi in un certo modo – figurarsi: Bill, poi, non ha mai avuto bisogno che nessuno gli insegnasse alcunché – ma semplicemente mostrandogli un tipo di relazione diversa, più dura, in cui ottieni ciò che dai ma non prima di aver pagato pegno. Io non ne ho mai fatto passare una a Bill. Tanto ero accondiscendente coi suoi capricci più futili, tanto più m’incaponivo sulle questioni importanti.
Questa, per Bill, è una questione dannatamente importante. Ed è palese che non intende farmi passare niente.
L’argomento non esce con noi da quel bagno. Resta intrappolato lì, fra quelle quattro mura piastrellate di bianco. Nessuno ha voglia di parlarne, una volta fuori, comprensibilmente, e chi invece dovrebbe voler discutere la situazione sa che farlo, in fondo, sarebbe inutile. Jost ci osserva entrare ognuno nel proprio tourbus con gli occhi bassi e un imbarazzo generico a tendere i tratti del viso, e già sa che andrà male anche stasera. Come cazzo fai a lavorare con gente che non riesci nemmeno a guardare negli occhi?
Tom sta seduto sul divanetto davanti a me. Batte nervosamente un piede per terra ed appoggia una guancia al palmo della mano, reggendosi il capo col gomito ben piantato sul tavolino, in una posizione tale da impedirgli di incrociare il mio sguardo anche se io faccio di tutto per catturarlo. Non so con chi dovrei parlare, Tom mi sembra la soluzione migliore, ma io questo ragazzino in fondo non lo conosco, e non posso farlo.
La serata, naturalmente, va di merda. Ci rimettiamo in viaggio fra i fischi della folla che ci ha seguito fino a schiacciarsi tutta lungo le transenne. Qualcuno tira qualcosa – pezzi di carta arrotolati, per lo più – e noi ci rifugiamo ognuno al proprio posto con la testa bassa, vergognandoci come cani. Tom, seduto al proprio posto, incassa la testa fra le spalle e si lascia scivolare lungo la seduta del divanetto fino a che solo la sommità della sua testa spunta dal finestrino.
- Che schifo. – sussurra disgustato, - Che schifo. Vi odio tutti, stronzi irresponsabili di merda. Bambini del cazzo. Siete solo bambini del cazzo. Ma cosa stracazzo c’entravo io con questa merda, cosa.
Il suo è un mormorio continuo, somiglia vagamente allo sciabordio dell’acqua di quelle fontane zen che ti spacciano come perfette per dormire. Il mio ufficio ne è pieno, quello nuovo, dico. In quello vecchio non ce n’era bisogno. Comunque, il suono è simile. riesco ad ascoltarlo abbastanza a lungo – lui mormora abbastanza a lungo – da permettermi di scivolare in un sonno agitato e leggerissimo. Continuo a svegliarmi per ogni scossone e ad ogni singola curva. Quando mi sveglio definitivamente, è perché ci siamo fermati, e Tom mi sta scuotendo energicamente per una spalla.
- Io esco. – mi dice, - Ci fermiamo una ventina di minuti ed io non ne posso più di stare qua dentro.
Mi sollevo abbastanza da guardare il buio pesto della notte, fuori dal finestrino. Si vedono le luci di un paese, non troppo distante, ma sembra un buco minuscolo e non so cosa si aspetti di trovarci Tom alle quattro del mattino.
- Siamo in mezzo al nulla, Tom. – provo a dire.
- Sì, be’, è un miglioramento. – taglia corto lui, uscendo di corsa.
Io resto lì immobile per un paio di minuti, giusto il tempo di ascoltarlo chiedere ad una guardia del corpo a caso se lo accompagna giù in paese e di sentire il rombo del motore acceso subito dopo, dopodiché mi alzo in piedi e muovo un paio di passi incerti in giro. Mi sento a pezzi. Ho una voglia matta di un buon caffè, ma non so quanto distante da qui sia la stazione di servizio.
Mi affaccio al finestrino per controllare, ma non riesco davvero a vedere niente perché immediatamente il mio intero campo visivo si riempie della figura di Bill. Il tourbus che divide con Chakuza è parcheggiato proprio accanto al mio, il suo finestrino è alla stessa altezza di quello dal quale lo sto guardando. Vedo solo metà del suo corpo, ma quel che vedo è splendido, ed è nudo, ed è sporco e sbagliato. Appoggiato contro il finestrino, sta piegato in avanti, un avambraccio sollevato a reggere il peso del suo corpo e la fronte che lo sfiora lentamente ad ogni spinta. Si muove ritmicamente avanti e indietro, le sue labbra sono dischiuse ed umide, la lingua che ogni tanto saetta ad inumidirle, piccola e rosa come quella di un gattino.
Ha le palpebre abbassate, ancora bistrate di nero, e deglutendo a fatica riesco quasi a convincermi della casualità del tutto quando Bill si volta all’improvviso ed i suoi occhi incontrano i miei. Non sorride, ma so che vorrebbe. I suoi ansiti aumentano di volume e d’intensità ed io resto lì fino a che qualcuno non mi afferra per il colletto della maglietta, da dietro, e mi scaraventa sulla panca dalla parte opposta del tourbus.
- Cristo! – strilla David, tirando giù la tenda sul finestrino, - Cristo, Bushido! – e non aggiunge altro, prima di allontanarsi di nuovo ed uscire.
Decido che per oggi ne ho avuto abbastanza, e mi rintano nella mia cuccetta.
*

La sera successiva, Bill si fa più sfacciato. Tom esce con la solita fretta, complice il fatto che stasera siamo di nuovo vicini a un centro abitato che rischia perfino di essere ancora vivo verso le quattro del mattino, e io resto un po’ nel tourbus a non fare niente, guardandomi intorno e provando a sentirmi per capire come sto. A Miami avevo molto tempo per stare da solo a pensare, e questo tempo mi è stato quasi del tutto tolto, da quando sono tornato, e soprattutto da quando abbiamo ripreso a lavorare. Resto seduto con gli occhi chiusi, sento tutti i rumori che vengono da fuori. Il chiacchiericcio della corte di tecnici e guardie del corpo che ci accompagna, gli sbadigli degli autisti che danno il cambio a quelli che invece hanno dormito per tutto il pomeriggio in previsione del loro turno, le macchine che passano accanto a noi sfrecciando sull’autostrada.
Sento tutto, e poi sento anche qualcuno che bussa allo sportello.
Forse perché starmene un po’ tranquillo per i fatti miei mi ha messo di buon umore, mi alzo senza problemi e mi affaccio, cercando di mostrarmi sereno e rilassato. Naturalmente, fallisco nel momento esatto in cui vedo che, sulla strada, vestito solo con una maglietta larghissima, c’è Bill.
Non so a che gioco stia giocando. Non ha bisogno di bussare, per entrare. Avrebbe dovuto farlo sempre, ma dal momento che non l’ha fatto mai mi sembra soltanto un modo per stuzzicarmi. Ed il fatto che non abbia praticamente niente addosso peggiora le cose.
Sento qualche gocciolina di sudore scivolarmi lungo la schiena, e non capisco se sia solo caldo.
- Posso entrare? – mi chiede a bassa voce, - Non riesco a dormire.
- Bill. – cerco di interromperlo io, riducendo la fessura aperta dello sportello, - No. Che cazzo di ore sono? Tornatene a dormire.
- Ma non riesco! – insiste lui, sporgendosi verso di me e stringendo le mani al petto. Nel movimento, la maglietta gli si solleva sulle cosce, mostrando centimetri di pelle morbida e bianca. Ne ricordo il profumo, ricordo quando potevo affondarci il naso ed inspirare e mordere e leccare ovunque, perché tutto quel biancore e quella morbidezza erano miei. Miei e di nessun altro. – Ti prego, - mugola scontento, - voglio solo chiacchierare. Non sono venuto qui di nascosto, non voglio fare niente di male. Per favore.
- No, Bill, sono io che te lo chiedo per favore. – dico a corto di fiato, passandomi una mano sugli occhi con forza, - Tornatene a letto. Non darmi modo di fare cose di cui poi mi pentirei.
- Non faremo niente di cui potresti pentirti! – ribatte lui, mettendo un piede sul primo gradino della scaletta per salire, - Per favore, solo dieci minuti, giuro che me ne vado subito, e poi—
- Ma cosa cazzo stai facendo?!
La voce di Tom rimbomba nella piazzola silenziosa come il primo tuono di un temporale. Nessuno di noi se l’aspetta, perché nessuno l’ha sentito tornare. David stava sonnecchiando seduto su una panchina davanti ad un’aiuola alberata, poco più in là, gambe e braccia incrociate e capo chino sul petto, e si tira subito in piedi quando lo sente urlare così all’improvviso.
Bill si volta a guardare suo fratello e sbianca. Diventa così incredibilmente pallido che ho paura di vederlo scomparire.
- Tomi. – mormora terrorizzato. Suo fratello resta per qualche secondo a qualche metro di distanza da lui, le braccia rigide lungo i fianchi. Poi qualcosa nella sua espressione cambia, si accende, e divora lo spazio che li separa in pochissimi passi. Quando lo raggiunge, è troppo veloce perché io possa mettermi in mezzo.
Lo afferra per un polso e lo trascina lontano dal tourbus. Bill cade un paio di volte, i piedi e le gambe nude che si graffiano sull’asfalto ogni volta che scivola, e quando si sono allontanati abbastanza Tom lo costringe a rimettersi in piedi strattonandolo con violenza e poi lo schiaffeggia in pieno volto, con la mano bene aperta. La sua guancia, quando si rimette dritto, è tutta arrossata. So già che ne verrà fuori un livido di quelli enormi.
- Cosa cazzo stavi facendo?! – strilla Tom, tenendolo per il polso e schiaffeggiandolo ancora. Stavolta Bill è più preparato, e per quanto ancora scosso riesce a coprirsi col braccio libero. Tom s’infuria, e prende a picchiarlo con più decisione, contro quello stesso braccio con cui Bill cerca invano di difendersi. Altri lividi, posso quasi già vederli, anche se non spunteranno prima di domattina. – Cosa cazzo facevi là davanti nudo, brutto stronzo?! Coglione! – lo insulta e lo picchia, Bill si accascia per terra senza forze, scosso dai singhiozzi, e Tom lo prende a calci sugli stinchi e nello stomaco. – Sei una troia! Cosa cazzo vai in giro in quel modo?! Ma cosa cazzo vai a fare da Bushido?! Troia!
- Tom, cosa diavolo stai facendo?! – tuona Jost, avvicinandosi minaccioso.
- Stanne fuori, cazzo! – strilla Tom di rimando, afferrando suo fratello per i capelli e tirando finché non si rimette in piedi. Bill grida di dolore, il viso arrossato e gonfio rigato di lacrime. – Questa cazzo di cosa deve finire, Bill! Deve finire, è chiaro?!
- Basta! Tom! Lasciami andare! – piange Bill, e il suo grido è così forte che qualcosa, nelle coscienze di tutte le persone che stanno guardando questa scena, si risveglia. Chakuza, che non avevo visto uscire dal proprio tourbus ma che evidentemente deve averlo fatto mentre non guardavo, si precipita fra i due, stringe Bill in un abbraccio che lo nasconde tutto dagli occhi del mondo intero e lo porta via, mentre lui fatica perfino a camminare a causa delle botte e dei singhiozzi che lo scuotono tutto. David, nel mentre, si lancia in avanti, afferrando Tom per le spalle e stringendolo con forza mentre lui si dimena e urla, lasciandolo andare solo una volta che Bill e Chakuza sono ritornati a chiudersi nel loro tourbus. Tom si libera della sua stretta con uno strattone e un urlo da bestia ferita, aggirandosi per la piazzola in preda al nervoso per un paio di minuti prima di imprecare ad alta voce e dirigersi a passo spedito verso di me.
Mi spinge all’interno del tourbus, entra a propria volta e si chiude lo sportello alle spalle, superandomi mentre io resto immobile e prendendo posto su una delle panche.
- Siediti. – ordina a bassa voce, indicando il posto di fronte a sé con un cenno del capo. Io obbedisco. – Da quanto va avanti questa storia?
Scrollo le spalle e provo a ricordarmi quanto assurdo sia questo momento.
- Un po’. – rispondo quindi, espirando sconfitto.
- Perché non me l’hai detto? – chiede duramente, fissandomi negli occhi.
- Perché avrei dovuto farlo? – ritorco, inarcando le sopracciglia. Lui batte un pugno contro il tavolo, digrignando i denti.
- Perché stiamo parlando di mio fratello. – risponde, - Ti basta? Se non ti basta, fattelo bastare.
Sospiro, abbassando lo sguardo sulle mie dita intrecciate sul tavolo.
- Pensavo di poterlo gestire. – confesso stentatamente.
- Sì, è un errore che avete fatto in molti. – ringhia lui, - Ma la verità è che lo amate troppo per farlo. Tutti quelli che gli stanno intorno in questo momento lo amano troppo per farlo. E questo lo sta rovinando, te ne rendi conto?
- Abbiamo dei doveri, Tom. – ribatto serio, - Questo tour non l’abbiamo deciso perché ci divertiva l’idea.
- Dei doveri! – ride amaramente lui, guardandomi incredulo, - Ma ti sei accorto di come sta andando questo tour, Bushido? Ti pare di stare lavorando come uno che abbia dei doveri?
Abbasso nuovamente lo sguardo. Ha ragione, non c’è che dire.
- Io ci sto provando, Tom. – sospiro pesantemente, - Non è facile.
- Non lo è per nessuno di noi. – risponde lui, impassibile, - Cristo, - sbotta impaziente, - io non posso davvero crederci. Forse non avete capito che Bill è a tanto così dall’andare fuori di testa. Dico, ma l’hai guardato negli occhi? Ma cosa cazzo ci sei stato a fare per anni se poi non capisci nemmeno queste cose così elementari?
Mi mordo un labbro, ferito più di quanto non mi vada di ammettere.
- È così diverso da quando l’ho lasciato. – considero a bassa voce, - A volte lo guardo e non riesco a riconoscerlo. Eppure è lui, dentro di me lo sento ancora come prima. Questo è… - trattengo appena il fiato, - è peggio di morire e basta. Sono vivo e sto perdendo tutto.
Tom mi guarda a lungo – riesco a sentire i suoi occhi addosso anche se non ricambio il suo sguardo – e mi rassegno a sollevare il viso solo quando lo sento sospirare pesantemente e sistemarsi più comodamente sulla panca.
- Ti va una partita a PES? – chiede distrattamente, adocchiando la Playstation abbandonata in un angolo.
- Resti con me, stanotte? – chiedo io a bassa voce, senza rispondere.
Lui nemmeno annuisce, chinandosi a raccogliere i joystick da terra e passandomene uno, dopo aver tenuto il proprio per sé.
- Accendila, dai. – dice alla fine. Giochiamo fino all’alba. Quella sera, Bill va sul palco con gli occhiali da sole. Canta cinque canzoni. Poi si mette a piangere e dice a David che non ce la fa. Sono le nove e mezza di sera, quando impazzisce del tutto. E nessuno di noi se ne accorge.
*

- Vado a prendere un paio di birre, ti va? – chiede Tom, gettando via il volante della Wii e sollevando entrambe le braccia verso il soffitto, - Affoghiamo nell’alcool i dispiaceri della giornata di oggi. Se ne prendo quattro, magari ci affoghiamo anche quelli della giornata di ieri.
- Vuoi solo scappare perché il tuo Luigi non può nulla contro il mio Mario. – lo prendo in giro, agitando il mio volante in aria come un trofeo.
- Facciamo così, io vado a prendere la birra e poi sputo dentro alla tua. – ritorce lui, guardandomi malissimo, - Come ti va?
Rido ad alta voce, di cuore, e realizzo che mi è capitato di farlo più spesso nelle ultime ventiquattro ore con lui di quanto non si possa dire di tutto il resto del tempo da quando sono tornato in Germania.
- Vai, vai. – dico alla fine, - Nel mentre cerco un altro gioco, questo non mi va più. – dico. Lui mi osserva tirare fuori Mario e Sonic ai Giochi Olimpici, unico gioco al quale sia fino ad adesso stato in grado di battermi, e sorride uscendo. So che mi sto comportando in modo molto stupido, quasi da fratello maggiore, nei confronti di un ragazzino che ieri ha dimostrato di essere più che in grado di comportarsi da fratello maggiore nei confronti miei, ma non riesco a impedirmelo. È divertente, genuinamente divertente, in un modo che pensavo non mi sarebbe stato più accessibile. E invece eccolo qui.
Lo sportello si riapre nemmeno due minuti dopo. Mi volto per dire a Tom che ha fatto presto, ma sulla soglia del tourbus non c’è Tom. C’è suo fratello.
- Che ci fai qui? – chiedo a mezza voce, pietrificato. Non lo vedo da giorni. Dopo il crollo a Monaco sono già saltate due date, e Bill non è quasi mai uscito dal suo tourbus.
- Sei sorpreso? – mi chiede. La sua voce è soffice, sottilissima. Lo guardo e vedo che non si tratta del Bill degli ultimi giorni, e nemmeno di quello che è partito con noi per il tour. È un Bill diverso, più antico, ma non propriamente simile a quello che era mio. O forse sì, solo più ferito.
- Sì. – rispondo sinceramente, voltandomi ed alzandomi in piedi per guardarlo dritto in viso, - Non dovresti essere qui?
- E dove dovrei essere? – chiede lui con una risatina vuota, - Trovami un posto nel mondo e sistemamici. Un tempo era al tuo fianco. Adesso sono fuori posto dovunque vado. Dovunque mi metto. Sono sempre fuori posto. Fuori luogo. O fuori posto? Come si dice, Anis?
- …cosa? – chiedo incerto, - Bill, ti senti bene?
- Ma sì! – risponde lui, con una risata così tonante che lo piega in due, costringendolo a stringersi il ventre con entrambe le braccia, - Come potrei mai stare male? La mia vita è meravigliosa, vero? Non lo è? Tu sei tornato, e sei vivo!, e non sei il mio ragazzo, ma ho un ragazzo bellissimo che mi ama tanto e che per me farebbe di tutto! Ed ho un fratello così premuroso, lo vedi quant’è premuroso Tomi? – ridacchia, indicando un livido ancora enorme sullo zigomo, - È così premuroso che vuole che tutti lo vedano, perché tutti devono sapere quanto bene si prende cura del suo sciocco fratellino.
- …Bill. – sollevo entrambe le braccia e lo stringo alle spalle, cercando, non so, di calmarlo. Anche se a prima vista sembra abbastanza calmo, in realtà. I suoi occhi sono torbidi, però, non riesco a leggervi dentro. – Bill, tu non stai bene.
- Ma a te non importa. – si lagna lui, forzando la mia stretta per abbracciarmi alla vita, poggiando il capo contro il mio petto, - Non t’importa di niente, non t’importa di me. Ho fatto tante cose per capire se t’importasse, volevo vedere se era vero che te ne fregavi, ma non ci ho capito niente. Non ci capisco niente di un sacco di cose, ormai.
- Sì, di te stesso in primo luogo. – sospiro, - Bill, devi andartene. Tuo fratello sarà qui fra poco e non è il caso di—
- Oh, posso sopportare qualcun’altra delle sue tenerezze, se è per questo. – dice con un sorrisino storto, adocchiando il piazzale fuori dal finestrino, - I bambini crescono più forti quando li si picchia costantemente. Si fanno la pelle dura. Tomi ha cominciato a crescermi un po’ tardi, ma siccome sono già grande gli effetti non tarderanno ad arrivare. Vuoi provare? – chiede, tornando a guardarmi, - Picchia forte, dove fa male, dove ho ancora lividi e ferite aperte. Non piangerò nemmeno una lacrima, te lo giuro.
- Smettila subito! – dico inorridito, provando ad allontanarmi. Lui serra le dita attorno alla mia maglietta.
- Allora è vero che non te ne frega più niente! – quasi grida, improvvisamente sull’orlo delle lacrime, - Non vuoi neanche più farmi male! Cosa mi resta di te, me lo dici? Perché se è solo indifferenza, allora non la voglio, non ti voglio, tornatene all’inferno! – strilla, tempestandomi il petto di pugni.
- Bill, calmati. – dico piano, stringendogli i polsi fra le mani. Sono così sottili che, anche se cerco di fare piano, sento le sue ossa quasi scricchiolare sotto la presa salda delle mie dita. – Devi riposarti un po’.
- Mi riposo da giorni e non cambia mai. – dice lui, abbattendosi stremato contro di me, - Penso sempre le stesse cose, sempre le stesse cose. – solleva un braccio, accarezzandomi il viso con la punta delle dita, - A te importa ancora di me, vero Anis? Ti importa ancora.
- Mi importa, piccolo. – cedo. La voce mi esce fuori in un mugolio così addolorato che mi sento spezzare qualcosa dentro. Non ho mai parlato con questo tono, con nessuno. – Tu ti stai facendo del male, adesso, e devi smetterla.
- Sei tu che mi stai facendo del male. – insiste lui con un sorriso quasi sereno, come se avesse già sentito troppo dolore per poterne provare ancora, - Come fai a non accorgertene? È incredibile. È così evidente, eppure non lo noti.
Sospiro profondamente, ravviandogli una ciocca di capelli dietro un orecchio.
- Bill, non so cosa dirti. – ammetto sfiduciato, - Ti stai torturando. Vuoi darmene la colpa? D’accordo. Ma stammi lontano.
Lui sorride, sento le sue labbra tendersi attraverso il tessuto leggero della maglia che indosso.
- Te l’avevo detto che sarebbe successo, Anis. – dice a bassa voce, quasi cantilenando, - Io non voglio starti lontano, e non posso, e non ci riesco. Una sua mano scivola fra le mie. Le nostre dita si intrecciano, lui mi guarda e i suoi occhi sono pieni di lacrime, e vuoti di tutto il resto. – Vieni con me, per favore. – dice piano, tirandomi verso l’uscita del tourbus.
Non è abbastanza forte da trascinarmi, se oppongo resistenza. Il problema è che non la oppongo. Mi lascio accompagnare dolcemente fuori, sulla piazzola aranciata dalla luce del sole che tramonta dietro le montagne all’orizzonte, e Bill mi conduce fino all’entrata del proprio tourbus. Da dentro vengono i rumori di Chakuza che si affaccenda attorno ai fornellini elettrici… starà preparando il caffè. Immagino abbia una voglia smodata di cucinare, ma non potendo questa è l’unica cosa sulla quale possa ripiegare.
Bill si volta a guardarmi con un sorriso minuscolo a increspare le labbra pallide.
- Ora ho bisogno che tu resti qui, Anis. – dice sottovoce, dondolando un po’ il peso da un piede all’altro, - Ho bisogno di sapere che resterai qui, che non te ne andrai di nuovo. Resterai, vero? Me lo prometti?
Mi sento mancare il respiro ed ho paura di ciò che questa promessa potrebbe significare. Non voglio restare. Non voglio restare, Bill.
- Te lo prometto.
Bill sorride.
- Tornerò da te, quando avrò finito. – sussurra, sporgendosi fino a raggiungere il mio orecchio con le labbra, - Così potrai dirmi se t’importa ancora o meno.
Resto lì come pietrificato mentre lui risale in due saltelli la scaletta del tourbus, scomparendo oltre la soglia. Lascia la porta aperta e io fisso l’interno, incapace di spostarmi. Posso vedere perfettamente uno dei tavolini della sala relax, da questo punto. Non so ancora cosa mi aspetta, ma qualsiasi cosa sia ne ho paura. E io non ho mai paura di niente. Non ho mai paura di niente, ma Bill mi terrorizza.
Il tourbus è parcheggiato in un angolo riparato della piazzola, lo sportello dà su un muretto oltre il quale si estende un praticello che si sfuma alle pendici di una collina rocciosa. Nessuno verrà a cercarmi qui, se non sa dove sono. Chissà se Tom potrebbe immaginarlo. Chissà se ha già comprato la birra, chissà se è già tornato, chissà se si sta chiedendo dove posso essere sparito.
Sento dei mormorii dall’interno. Non riesco a capire una parola di ciò che Bill e Chakuza si stanno dicendo, ma è evidente che stanno parlando. Chakuza sembra stanco. Bill ridacchia come un ragazzino senza neanche un pensiero per la testa.
Il primo gemito lo sento con una forza tale che mi sembra di percepire la terra tremare sotto i piedi. Vorrei gridare, ma non ho voce abbastanza. Non ho forza abbastanza. Quando Chakuza adagia Bill sul tavolino, dandomi le spalle e insinuandosi fra le sue cosce mentre Bill si abbandona alle sue braccia e getta indietro il capo, sento il desiderio di piangere, ma non scende neanche una lacrima. Non riesco più a fare niente, a pensare a niente. C’è solo la figura di Bill che invade tutto il mio campo visivo, c’è il suo corpo che si muove contro quello di Chakuza, in sincronia perfetta con le sue spinte. Ci sono le sue braccia abbandonate sulle sue spalle, c’è la frenesia con cui serra le cosce attorno ai suoi fianchi e intreccia le gambe dietro la sua schiena, mentre il suo bacino si muove ritmicamente per accogliere la sua erezione più profondamente possibile. E io vedo tutto. Vedo tutto. Ed è un’immagine che non riuscirò più a levarmi dalla testa. E questo Bill lo sa. È per questo che l’ha fatto.
Quando Bill viene, le sue labbra si piegano in un sorriso minuscolo che è lo stesso in cui si piegavano quando erano le mie mani ed il mio corpo a portarlo all’orgasmo. Mi chiedo se Bill sia mai cambiato o se non si sia per caso trattato di un’illusione. Forse volevo credere con tutte le mie forze che non fosse più la persona di un tempo, semplicemente perché ammettere che fosse rimasto lo stesso ed avesse semplicemente smesso di amarmi era impensabile. Adesso non lo so più. Adesso lo guardo, completamente abbandonato contro il corpo di Chakuza, che respira con forza sulla sua pelle e lo stringe fra le braccia come fosse troppo piccolo e troppo prezioso e volesse proteggerlo da tutti i mali del mondo, e non so più niente.
Mi allontano lentamente, indietreggiando, senza mai dare le spalle al tourbus. Bill mi osserva andare via spalancando gli occhi, le sue mani si serrano attorno alle spalle di Chakuza in un gesto improvviso e nervoso. Qualcosa dentro di lui si sta spezzando. Anche dentro di me. È la promessa che ho fatto.
Accelero il passo, e quando esco sulla piazzola c’è Tom sull’uscio del nostro tourbus che mi cerca con gli occhi.
- Sei qui. – dice, scendendo celermente i gradini e venendomi incontro, - Dov’eri finito? – chiede curiosamente. Poi nota il mio sguardo ed aggrotta le sopracciglia, incerto. – Che ti prende? – domanda con evidente preoccupazione, - Che è successo?
Io faccio per aprire la bocca e dire qualcosa, ma gli occhi di Tom si spostano immediatamente a guardare un punto imprecisato dietro di me. Non ho bisogno di voltarmi, per capire che dove Tom sta fissando c’è Bill.
- Anis. – mi chiama debolmente, la voce rotta. Non riesco a voltarmi. Non voglio farlo.
- …andiamo dentro. – mi dice Tom, tornando a guardarmi e poggiandomi una mano sulla spalla, - Ho preso la birra.
Annuisco e lo seguo. Non so cosa faccia Bill o per quanto resti lì in mezzo alla piazzola. Del tutto irrazionalmente, però, so che sta piangendo. E non riesce ad importarmene.

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Overfired

di tabata
L'idea di un mini-tour per un singolo è venuta alla Universal che della nostra situazione non sa niente, e questo è evidente. Se anche uno solo dei dirigenti si fosse preso la briga di staccare il culo dalla sua bella poltrona in pelle e si fosse fatto un giro all'Ersguterjunge negli ultimi mesi prima di prendere qualunque decisione, avrebbe capito che la brillante idea di un tour non era poi così brillante e che, anzi, era una grande stronzata. Se lo avessero fatto, avrebbero visto che all'Ersguterjunge in questi mesi c'è stato solo Bushido e alle volte non c'è stato nemmeno lui; che io, Bushido e Bill abbiamo fatto accuratamente in modo di non vedersi mai, nemmeno per sbaglio e che l'intera organizzazione di questo tour è stata affidata ad un uomo – David – che ben consapevole di questa cosa, ha preso delle decisioni basandosi sul proprio buon senso, senza aver testato, in effetti, quello che sarebbe potuto succedere.
Ma nessuno dei grandi capi si è fatto vivo e questo qui, adesso, è il risultato.
Il punto è che alla Universal non frega un cazzo se noi tre non possiamo vederci, se David ha tentato di mettere le cose a posto e non c'è riuscito o se Bill è andato fuori da ogni controllo.
Quello che loro vogliono è un tour che abbia successo. Quello che noi dobbiamo dargli è un tour di successo. Tutto quello che sta nel mezzo, sono solo problemi nostri e loro non ne vogliono sapere.
Per questo quando saremo tornati a Berlino e ci chiameranno tutti nei loro mega-uffici all'ultimo piano per chiedere conto e ragione di quest'ultimo mese, ci faranno un gran culo: perché noi non stiamo riuscendo a finire una serata che sia una, questo tour fa decisamente schifo e con ogni probabilità, che sia sul palco oppure dietro le quinte, finiremo per massacrarci di botte.
A questo punto noi potremmo fare due cose, la prima sarebbe rimboccarsi le maniche, fingere che possiamo ancora sopportarci e tirare avanti fino alla fine, dare ai capi quello che vogliono e poi disperderci, giurando di non vedersi mai più. E questo sarebbe sensato. Oppure potremmo mandare a fanculo tutto fin da subito, perderci noi e far perdere alla casa discografica un mare di soldi ma toglierci il problema. E anche questo, a suo modo, avrebbe un senso.
Noi però non stiamo facendo né l'una né l'altra cosa. Noi continuiamo a trascinarci giorno dopo giorno, a fare concerti di merda e quindi a rintanarci nei nostri tourbus dove le cose, se possibile peggiorano ulteriormente e questo perché nessuno di noi ha le palle per fare quello che dev'essere fatto.
Questo è quello che penso stamattina quando apro gli occhi e la prima cosa che vedo è il dannato soffitto della cuccetta. Così mi torna in mente che se stanotte ho dormito in questo loculo invece che nel letto è perché Bill mi ha fatto girare i coglioni, e se c'è riuscito è per colpa della situazione, di Bushido e poi via a ritroso fino alla Universal e alla sua cazzo di decisione.
Mentre sto qui a chiedermi se non mi convenga rimanere esattamente dove sono e lasciare che il disastro si compia smettendo anche di fingere che me ne freghi lontanamente qualcosa di questo tour, sento Bill che si alza e si trascina nel cucinino con i passi strascicati con cui si sposta da quando siamo partiti. Dai rumori che mi arrivano so che si sta facendo il caffè, che probabilmente dimenticherà di mettere l'acqua nella caffettiera – o anche il caffè – e che imprecherà più volte non capendo per quale motivo la stupida macchinetta gli sta impedendo di assumere la sua dose giornaliera di caffeina, così mi alzo con un sospiro.
Quando mi vede arrivare s'irrigidisce tutto e poi finge che le dita non gli tremino mentre smonta la caffettiera. La parte superiore gli scivola dalle mani e finisce nel lavello facendo un gran casino, Bill impreca di nuovo. In questi giorni lo ha fatto di continuo e io ancora devo abituarmi. Ricordo che quando l'ho conosciuto mi prendeva in giro perché mi stupivo che anche lui dicesse le parolacce e la verità è che ancora adesso, a distanza di un anno, non riesco a concepire che lo faccia. Non mi piace, mi da fastidio. Sarà che lo fa solo quando è fuori di sé e quindi sentirlo imprecare mi ricorda che stiamo cadendo a pezzi, non lo so.
“Lascia, faccio io,” gli tolgo la caffettiera dalle mani e gli do le spalle perché non voglio che ci sentiamo entrambi in obbligo di parlare, come succede quasi sempre ormai quando ci guardiamo negli occhi. E' che una volta questo non succedeva. Non c'era niente da nascondere e guardarci e basta non significava aver paura di parlare. Adesso invece quello che sta succedendo lo sappiamo tutti e due, solo che lui non vuole dirmelo e io l'ho già fatto per lui una volta e non trovo il coraggio di farlo di nuovo.
Si appoggia alla parete, le braccia incrociate. Lo sento sospirare incerto. “Senti Chaku, ieri sera...”
“Ieri sera era ieri sera,” lo fermo. “Lascia perdere.”
L'aria è così pesante che faccio fatica a respirare e così anche lui. Quando prende fiato e lo inghiotte, sembra quasi che per un attimo gli sia rimasto incastrato in gola. Annuisce ad occhi bassi mentre gli passo la caffettiera pronta da mettere sul fuoco e vado a sedermi al tavolo. La cosa peggiore di questo pullman è che non c'è nessun posto dove andare, così anche quando hai l'istinto di allontanarti e scappare il più lontano possibile, finisci sempre a fare tre passi e a rimanere lì dove sei, che è una tragedia perché l'ansia di andartene si fa ancora più insopportabile a quel punto. Mi ostino a guardare fuori dal finestrino dove non c'è niente perché siamo in autostrada e intorno a noi sfrecciano solo campi e una sequenza infinita di fabbriche, ma se mi volto so che il mio sguardo cercherà automaticamente lui e io non voglio, perciò fisso la strada, anche se mi fa lacrimare gli occhi.
Dovrei distrarmi, magari cercare di concentrarmi per la data di stasera, ma come ho già detto non me ne frega niente se alla fine saliremo su quel palco a fare scena muta o peggio, a mandare a puttane una canzone dietro l'altra come è successo alla prima data; non m'importa se ci fischieranno o se ci tireranno qualcosa dietro. Non m'importa di niente, perché ogni volta che mi permetto di lasciare che mi importi, poi penso che in realtà il lavoro non conta veramente un cazzo, che sto perdendo qualcosa di importante, che ci stiamo perdendo noi e allora forse sarebbe meglio pensare a tutto il resto che non al lavoro.
Così finisce che non so di cosa preoccuparmi davvero e m'incazzo anche per questo, come se non fossi già incazzato abbastanza.
Bill si aggira per i due metri che abbiamo a disposizione ancora un po' e poi alla fine si rassegna a sedersi di fronte a me, visto che non può andare di là se deve controllare la caffettiera. Deglutisce così forte che fa rumore e so che mi sta guardando perché, nonostante tutti gli sforzi che sto facendo per distrarmi, vedo il suo viso riflesso nel vetro. Ha le guance un po' scavate e gli occhi cerchiati di nero, non ha dormito un cazzo, lo so, perché l'ho sentito agitarsi e poi passare accanto alle mie tende chiuse un paio di volte. Non ha avuto il coraggio di entrare però e io ho tenuto le mani in tasca per non tirarlo dentro, perché non volevo dargliela vinta, il che è stupido perché questa non è una ripicca e io non dovrei essere solo offeso, ma così incazzato da urlargli addosso finché ho voce, ma non mi riesce. E poi non posso nemmeno dire che non capisco quello che sta facendo e che mi sta tirando scemo perché non è così. Lui può anche far finta di non avere secondi fini quando mi salta addosso in un bagno pubblico ben sapendo che tutti gli altri possono sentirci, ma io non posso essere così stupido da non capire che i suoi gemiti sono più forti del necessario. Sfortunatamente per me lo conosco bene e c'è stato anche un tempo, in questa relazione, in cui non dovevo analizzare i suoi comportamenti quand'era con me perché non ne avevo motivo, così lo so quando mente, quando esagera, quando non lo sta facendo per me; ma se, nonostante questo, lo lascio fare, non posso dargli la colpa anche del fatto che non mi piace quello che siamo adesso perché, a modo mio, sto contribuendo a realizzarlo.
Prendiamo ad esempio quello che è successo ieri sera. Dopo i precedenti del bagno nella stazione di servizio, ho capito che cosa Bill avesse in mente nel momento esatto in cui mi si è avvicinato, perché Bill è sempre molto chiaro quando si tratta dei propri desideri, soprattutto quelli sessuali. Non ti manda mai segnali ambigui, per questo siamo sempre andati molto d'accordo sull'argomento. Così quando è rientrato sul tourbus e mi si è spalmato addosso con insistenza, l'ho capito che non faceva così perché aveva tanta voglia di farlo, ma solo perché gli serviva che io me lo scopassi e che possibilmente Bushido lo venisse a sapere, il che immagino sia successo visto che Bill ha fatto di tutto per appoggiarsi ad un finestrino e l'altro tourbus c'era parcheggiato proprio davanti. L'unica cosa che mi sono risparmiato è di guardare Bushido mentre lui guardava noi perché è un livello a cui al momento è sceso solo Bill e io vorrei non essergli complice almeno in questo.
Il caffè è pronto e Bill si trascina rumorosamente fuori dalla panca, così io mi rendo conto che mi sono perso nei miei pensieri un'altra volta, che non è una novità di per sé, ma mi fa perdere le speranze di trovare un attimo di pace in cui Bill o quello che fa non mi occupino la testa tutto il tempo quando sono sveglio e anche gran parte della notte, visto che arrivo perfino a sognarlo. Io che non mi sono mai ricordato un accidente di niente quando aprivo gli occhi al mattino, ora ho ricordi nitidissimi di lui che nei miei sogni mi dice tutto ciò che non voglio sentirmi dire. Tutto ciò che io non voglio dire a lui, per altro.
E' una specie di persecuzione e mi ricorda di quando ci siamo lasciati – anzi di quando mi ha lasciato – e io volevo soltanto poterlo mandare a fanculo e poi dimenticare che fosse anche solo esistito o, almeno, che fossimo mai esistiti io e lui insieme. Solo che non mi riusciva. Non mi riusciva nemmeno offenderlo come si deve, perché in fondo lo capivo e forse mi faceva più male l'idea che quel suo comportamento avesse un qualche cazzo di senso, da qualche parte, che non il fatto che avesse scelto lui alla fine.
Bill era confuso e io capisco la confusione, la capisco fin troppo bene. So cosa significa volere intensamente qualcosa e avere una piccola parte di te che tende tutta da un'altra parte. Pensi che se ragioni per grandezze, allora puoi stare tranquillo, la scelta è facile e quel pezzo di te che non ragiona in comune col resto si convincerà poi, sarà solo un piccolo strappo e via. Come togliere un cerotto. Solo che mentre si strappa, capisci che quella parte era più grande di quel che sembrava, che ci mette di più a staccarsi e allora rimani lì e non ti muovi, perché sai già quanto forte sarà il dolore e non vuoi sentirlo più. Pensi che magari, se non fai niente, la situazione rimarrà così per sempre e non ci sarà bisogno di scegliere, o lo farà qualcun altro al posto tuo. Per me, in fondo, è stato esattamente così: ha scelto Bill e a me non è rimasto che accettare; ha fatto male lo stesso ma in maniera diversa. Eppure so che gli è costato. Lo sapevo anche allora, nonostante tutto. Era comprensibile.
Adesso, invece, non lo capisco e se non reagisco come dovrei forse è perché credo non lo capisca nemmeno lui. Io lo so che Bushido ha ancora un posto speciale nel suo cuore, forse perfino più grande del mio, ma qualunque cosa sia che Bill vuole da lui – attenzione, riconoscimento, riaverlo indietro – la vuole disperatamente e sta passando sopra perfino a se stesso per ottenerla. E, non lo so, mi spaventa.
Le cose, comunque, vanno peggiorando perché mentre il resto del mondo conosce alla perfezione e mette in pratica il concetto per cui quando tocchi il fondo non ti resta che risalire, noi ci siamo specializzati nel prendere una vanga e scavare il più possibile, fino ad uscire dall'altra parte dell'universo dove le cose sono a rovescio, i morti risorgono e le persone che ti amano arrivano ad assecondarti anche quando il tuo più grande desiderio è scopare con loro solo per far ingelosire qualcun altro.
Ed è questo che in realtà io spero, è questo il pensiero a cui ogni giorno mi aggrappo con tutte e dieci le dita, e cioè che noi si sia già scavato e si sia già anche dall'altra parte di questo tunnel infinito, così tutto ha più senso e se proprio non ci piace, possiamo sempre infilarci di nuovo in questo buco e tornare indietro e vedere di risalire dall'altra parte. Il punto è che più passa il tempo e più ho l'impressione che siamo solo in fondo ad un burrone e invece di trovare la forza di risalire ce ne stiamo qui ad aspettare un aiuto che non arriverà mai, e intanto che stiamo qui ad aspettare, ci diamo l'un l'altro la colpa dell'essere caduti e questo, ovviamente, non ci aiuta affatto a risalire. Anche il mio aiutare Bill in questo suo assurdo tentativo di attirare l'attenzione di Bushido non è che un trattenerlo con forza a terra. Con me.
Dopo la caffettiera non c'è molto altro di cui parlare. Io bevo in silenzio e lui gioca con il liquido che ha nella tazza senza davvero l'intenzione di farci qualcosa di utile. Bill non va pazzo per il caffè, non so nemmeno perché lo abbia preparato, forse perché fare cose normali lo fa sentire normale. A me capita spesso, quando le cose vanno a puttane, di prendere il grembiule e cucinare, perché cucinare è una cosa che fanno le persone normali, non quelle come me e chi mi sta intorno, a cui succedono cose assurde. A volte hai solo bisogno di essere una persona noiosa, il cui più grande problema è che non si bruci il pollo nel forno e basta. Niente faide, niente storie d'amore tra mille persone diverse. Solo tu, la cucina e magari una vita normale.
Quella sera le cose fra me e lui non cambiano molto. Non ci diciamo niente perché non sappiamo di cosa parlare, ma continuiamo a starci intorno e io spero che Bill lo faccia per lo stesso motivo per cui lo faccio io, e cioè che ho paura che non ci sarà mai più modo di avvicinarmi se decido volontariamente di stargli lontano anche per un minuto. Ho la sensazione che se invece di andargli incontro, tiro e strappo dalla parte opposta, poi i due lembi non combaceranno mai più. Abbiamo già ricucito troppo, credo; anche mia nonna diceva che ad un certo punto gli stracci non si rammendano più.
Io e Bill però non siamo affatto abituati a stare in tensione, uno contro l'altro intendo. Questa sensazione di frustrazione e d'impotenza, io l'ho provata forte soltanto con Fler. C'erano volte in cui litigavamo, avevo voglia di pestarlo e lui aveva voglia di pestare me, e un attimo prima che ciò avvenisse, uno di noi due finiva per uscire e andarsene. Con Bill mi sembra strano provare la stessa cosa, probabilmente perché non è mai stato così fra di noi, e mentre con Fler era solo un momento di rabbia, una cosa quasi collaudata, adesso mi sembra che abbiamo passato un limite ben preciso, uno per cui se anche volessi rimediare non saprei come fare. Ci provo e lo prendo al volo, tirandomelo addosso sul divano mentre passa di lì. Lo stringo e gli premo il naso contro una guancia, provo un sorriso, ne provo due, tre, finché anche lui non risponde. Nessuno di questi sorrisi è vero, nemmeno il mio, ma in questo momento fingere di essere rilassati è meglio della tensione, della frustrazione o di qualsiasi altra cosa sto provando. Resistiamo si e no cinque minuti, lui prova ad accoccolarsi contro di me e io provo a stringerlo ma non funziona, come se durante la giornata che abbiamo passato senza toccarci avessimo cambiato forma e ora la sua schiena contro il mio petto non s'incastrasse più tanto bene. Sono consapevole del mio disagio e della sua smania, che gli fa muovere le mani e i piedi in continuazione come non trovasse pace.
Alla fine si alza. E' uno scatto il suo, come si fosse trattenuto fino a quel momento e ora proprio non ce la facesse più. “Esco un attimo,” dice in un sospiro, come se gli mancasse l'aria. Non si prende nemmeno la briga di mettersi addosso qualcosa, tanta è la fretta che ha di andarsene.
So che finirà per andare da Bushido perché lo vuole e perché anche se non lo volesse finisce sempre per orbitargli intorno, ma io non ho la forza di fermarlo e forse neanche la voglia.
Ho bisogno che qualcuno esca da questa stanza, e sono contento che ci riesca almeno lui.

*


Non so quanto tempo passa ma quello che succede dopo è evidentemente un grosso segnale che noi tutti sottovalutiamo. Io so che Bill sta male, lo so perché nessuno lo guarda più attentamente di me, nemmeno Bushido che si sforza di non prestargli attenzione – come si fa con i fantasmi. Non sei vero, non sei qui, io non ti vedo – solo che sto male anch'io, tanto, e non riesco a gestirci entrambi, non stavolta. I miei riflessi sono rallentati dalle mie sensazioni e per ogni cazzata che Bill fa devo mettere da parte la voglia che ho di mandarlo a fanculo prima di andare a recuperarlo e cercare di rimettere insieme quello che rimane di lui dopo che qualsiasi cosa fosse non è andata come voleva. Immagino che non dovrei farlo, che dovrei effettivamente mandarlo a fanculo, solo che non lo capisco in questo momento e comunque, anche capendolo, non lo farei perché corro il rischio di perderlo e questo, anche con la rabbia e la frustrazione e la voglia che ho di spaccare ogni singolo oggetto che mi trovo davanti, non è ancora un'opzione che riesco a prendere in considerazione.
Ad un certo punto devo essermi addormentato perché mi svegliano le grida, dapprima confuse, poi sempre più chiare, appena fuori dal tourbus. Ci metto un po' a realizzare che si tratta davvero di una rissa e che le voci che sento sono quelle di Bill e di suo fratello.
Li vedo dal finestrino e non è difficile capire cos'è successo, nemmeno per me che ho il cervello ancora intorpidito dal sonno. Bushido è in piedi sui gradini del suo tourbus e Bill ha addosso solo una maglietta, suo fratello deve averlo trovato così e dev'essere esploso, come del resto minaccia di fare da giorni.
E' stanco di Bill, siamo tutti stanchi di Bill, però lui in qualche modo è autorizzato a fare quello che sta facendo. E lo fa.
Vedo Tom trascinare suo fratello sull'asfalto della piazzola, tenendolo per un polso. Lo vedo alzare le mani su di lui vedo Bill che cerca di proteggersi con il braccio alzato. Mi si stringe lo stomaco perché Bill lo implora di smettere e quando lui non lo fa, gli occhi gli si riempiono di lacrime e lo so che non è per il dolore o per i calci ma perché è Tom che ha perso la pazienza. Bill è più consapevole ora di aver passato ogni limite di quanto non lo sia mai stato in questi giorni. Vedo solo questo e poi sono fuori perché non riesco a sopportare altro. Gli strappo Bill dalle mani mentre David tira via lui, e me lo stringo addosso più forte che posso.
Quando Bill mi affonda il viso nella maglia, per una volta, mi chiama per nome perché ha bisogno proprio di me e non importa che lo faccia adesso, dopo che chissà cos'ha combinato con Bushido. Non m'importa, per il momento mi basta sentirmi chiamare e sapere che non lo sta facendo a vuoto.
Sussurra anche che gli dispiace, ma a quello non credo. Fingo semplicemente di non aver sentito e lo accompagno verso il tourbus, piano perché trema e non si regge in piedi.
Mentre ci allontaniamo, sento alle mie spalle Tom che continua ad imprecare e sono quasi certo che Bushido sia ancora lì sui gradini del bus e stia guardando tutto con la stessa aria di rassegnazione che aveva a volte quando tentava di parlare con Fler e non ci riusciva, perché lui si chiudeva a riccio e attaccava per difendersi, facendo di tutto per non ascoltarlo. Sembra siano passati due secoli. E' buffo che me ne ricordi adesso, è buffo che il ricordo che ho di Fler sia completamente compromesso dall'immagine recente che ho di lui mentre l'immagine che ho di Bushido sia tornata ad essere il ricordo che mi sono portato dietro per mesi finché non è resuscitato per rovinarmi la vita.
E' tutto confuso, perfino il tempo. Se non mi concentro potrei anche perdermi. Bill mi piange addosso come se Bushido fosse morto e Bushido ci guarda senza sapere più cosa fare, come quando era ancora vivo. E' un casino, un grande e fottuto casino.
Faccio entrare Bill nel nostro tourbus, lui singhiozza ancora e continua a chiamarmi e poi a scusarsi ogni volta che io rispondo di essere lì. Mi guardo indietro un attimo prima di chiudere la porta e quello che vedo è così deprimente che provo pena per come siamo ridotti e per la prima volta ho la chiara sensazione che se non facciamo qualcosa, questa situazione sarà costretta a risolversi per conto suo e lo farà malissimo.
Raggiungo Bill che si è raggomitolato sul nostro letto e si tappa la bocca per nascondere i singhiozzi che però sono così forti e isterici che lo scuotono completamente. Mi stendo dietro di lui e lo abbraccio; ci mette un'eternità a calmarsi, sembra non debba smettere mai. Torniamo a passare le ore in silenzio, ma almeno lo facciamo vicini. Mentre guardo il soffitto penso che ad un certo punto le cose dovrebbero smettere di andare male, che tu risalga o che tu decida di scavare, non importa. Dovrebbe esserci un limite alle stronzate che le persone possono fare, al male che possono infliggersi a vicenda.
Deve esserci, o non so come cazzo faremo.

*


Sono ormai arrivato al punto che se la mattina mi sveglio e le cose non sono peggiorate dal giorno prima, lo considero già un notevole miglioramento, stamattina però Bill sembra stare meglio.
Quando mi siedo sul letto con la colazione, sorride e io quasi sospiro di sollievo perché con tutte le lacrime che ha versato, quasi non mi aspettavo più di vederglielo fare. Ha gli occhi rossi e gonfi, ma ha dormito un po' e spero che le frittelle facciano il resto.
Lo guardo mangiare e penso che dovrei chiedergli cosa c'è che non va e cosa cerca, qualunque sia la risposta che deve darmi, ma non ne ho il coraggio. Soprattutto in questo momento che mi sembra di riavere avuto indietro il Bill che faceva colazione a casa mia il sabato mattina, dopo essere scappato di nascosto da suo fratello, il quale sapeva che era con me e mi tartassava di telefonate minacciose che ci facevano ridere entrambi.
Lo guardo e spero che magari durerà. Magari non serve tirare di nuovo fuori l'argomento. Magari le cose tornano a posto.
Bill, però, è un castello di carte e io non so prevedere quale sarà il soffio di vento che lo farà crollare di nuovo. E' per questo che il concerto di quella sera è un vero disastro.
Nessuno di noi è concentrato come dovrebbe, ma Bill è totalmente fuori di sé e io credo che non sia neanche del tutto lucido. Il massimo che riesce a fare sono cinque canzoni, poi crolla e scoppia in lacrime. E' così isterico che singhiozza fino a togliersi il respiro e David è costretto a cancellare il resto della serata e mandare tutti a casa, fra i fischi del pubblico e le imprecazioni di Tom che non si trattiene nemmeno di fronte a suo fratello e gli dice in faccia che si è rotto i coglioni di questa situazione e che se stiamo tutti di merda è colpa sua. Bill piange solo più forte e lo fa per tutto il tragitto di ritorno, non riusciamo a farlo smettere ed è doloroso che si calmi solo quando alla fine cedo alle sue richieste quasi deliranti e scosse dai singhiozzi e gli metta le mani addosso, è doloroso che smetta di soffocare solo quando lo bacio e le sue dita possono stringersi intorno alla maglia che non mi ha dato nemmeno il tempo di togliere. Mi si è aggrappato addosso e mi ha cercato con le mani e con le labbra finché non abbiamo scopato e solo allora ha smesso di piangere, come se avesse bisogno di farlo per ritrovare il controllo. E' doloroso perché so che non sta davvero cercando consolazione, ha solo bisogno di non venire respinto anche da me.
Mi fa schifo che ci siamo ridotti a questo, perché questo non siamo noi. Dovrei spingerlo via invece di accarezzarlo, allontanarmi invece di affondare in lui ma tutto quello che riesco a fare è abbracciarlo e baciarlo e stringerlo perché non voglio perderlo. Non voglio e basta. Non è giusto.
Questo è il motivo per cui scopo con lui dopo il concerto e lo faccio anche la sera dopo quando rientra sul tourbus e l'ombra di Bushido si allunga oltre la porta mentre Bill si fa stendere sul tavolino.
Come se non mi fossi accorto che lui è lì, come se a Bill importasse qualcosa di questo.
Faccio l'amore con lui, anche se lui non lo fa con me.
Lo lascio fare perché lo amo. Sbaglio, perché lo amo.
E' questa la giustificazione che mi do – l'amore – quando David chiama e noi non siamo stati in grado di fermarlo in tempo.

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Let Your Fingers Do The Walking

di lisachan
Spengo la televisione quando le Crispy News di Mtv mi fanno capire che intendono mostrarmi altre immagini esclusive del tour dei Tokio Hotel con l’Ersguterjunge per la cinquecentesima volta circa nell’arco delle ultime ventiquattro ore. Quello che sta succedendo dall’altro lato della Germania, mi ripeto alzandomi in piedi e gettando il telecomando sul divano mentre mi dirigo speditamente verso il frigorifero nella speranza di trovarci qualcosa dentro, non mi riguarda. Non è che mi senta tagliato fuori, è solo che mi rendo conto che ci sono cose che Anis, Bill e Chakuza condividono, e delle quali io non faccio parte, semplicemente perché la mia presenza qui è il risultato di una combinazione di eventi che non esiterei a dire sfortunata e totalmente casuale. Professionalmente parlando, io non sono legato a nessuno di loro. Io ho l’Aggro – per quanto ormai Sido mi mandi a fanculo ogni volta che mi vede, e non fatico ad immaginare perché, visto che la mia faccia e quella di Anis campeggiano affiancate su ogni fottuta copertina del paese – ed è lì che voglio restare. Quella è famiglia, per me. Ed è del tutto diverso da ciò che invece lega quei tre disperati.
Non posso dire che non mi dispiaccia per loro, naturalmente. Voglio dire, Anis è stato la mia intera esistenza per una quantità di tempo spropositata, Chakuza è un pezzo esageratamente grande della mia vita recente – esageratamente soprattutto calcolate le sue dimensioni – ed il ragazzino, voglio dire, è il ragazzino, come si fa a non dispiacersi per lui per principio?, basta guardarlo in faccia. Per cui sì, mi dispiace, ma non posso negare che nell’ultimo periodo in cui sono stati lontani la mia vita abbia subito radicali cambiamenti in positivo, dannazione. È molto vero quello che dicono alcuni, occhio non vede, cuore non duole. Io ho una vaga idea di quanto stia succedendo da quelle parti, naturalmente, ma non esserci rende tutto incredibilmente meno pesante. Ci rifletto seriamente, mentre bevo la birra ghiacciata direttamente dalla bottiglia, a piccoli sorsi, e mi dico che forse la chiave per risolvere il problema è questa, in fondo. Esserci. Se ci sei stai male, se non ci sei soffri lo stesso, ma il dolore diventa sordo, un sottofondo cui puoi abituarti, non è lancinante come dover rivedere quegli stessi volti ogni giorno, e volerli, e non poterli avere, e doverti accontentare, e sentirti in colpa perché ti stai solo accontentando ed invece vorresti essere semplicemente felice con ciò che hai e basta.
Perso come sono nei miei pensieri, non sento il campanello squillare. O meglio, lo sento, ma è un’eco lontana, come se stesse squillando quello del vicino, o quello dello scapolo del piano di sopra, che in effetti riceve visite ad orari della notte veramente improbabili, orari come questo, in cui la gente per bene dorme ed i cretini come me bevono birra per alleggerirsi la coscienza, quindi non ci faccio nemmeno caso. Peraltro, è incredibile: non avendo mai veramente vissuto in questo palazzo, inconsciamente e stupidamente credevo anche che il palazzo non avesse mai veramente vissuto senza di me. In qualche modo, nella mia testa, questa era una scatola rettangolare e tridimensionale piena di vuoto in cui l’unico piano occupato da un appartamento, vuoto o pieno che fosse, era il mio. Da quando, invece, ci passo più tempo, ho scoperto che è un posto un sacco vivo. C’è questo tizio qui, e c’è la signora del primo piano che ha due gemelline deliziose, avranno quattordici anni e vanno sempre in giro vestite con colori combinati, tipo che se una è in nero con qualche dettaglio bianco, l’altra è in bianco con qualche dettaglio nero. Poi c’è la studentessa universitaria dell’ammezzato che fa la dogsitter ed ha sempre casa piena di cani non suoi che abbaiano continuamente e sporcano ovunque, e c’è una coppia di anziani signori all’ultimo piano che sono tipo la cosa più pimpante mai esistita e non prendono mai l’ascensore anche se è fondamentalmente per loro che il condominio l’ha fatto installare, robe da matti.
Insomma, per questo posto c’è un andirivieni continuo, e siccome io non aspetto visite fatico proprio a ricondurre il suono del campanello con la possibilità che sia il mio. Lo realizzo tipo al terzo squillo. Io li ho sentiti, quegli squilli, ma quando mi accorgo che è proprio il mio campanello che sta squillando la sensazione è di quelle che provi quando stavi sognando che stava accadendo qualcosa e quella cosa in un certo qual modo sta accadendo davvero, tipo che un boa constrictor ti stava staccando la testa a furia di stringerti fra le proprie spire, e invece magari era solo il lenzuolo, ma a staccarti la testa ci stava provando comunque. È un suono flebilissimo, all’inizio, e poi si fa via via più intenso, e alla fine stacco le labbra dalla bottiglia, guardo la porta e mi rendo conto che dovrei andare ad aprire, o quantomeno a vedere chi è.
Spalanco la porta senza neanche guardare attraverso lo spioncino chi ci sia dall’altro lato, e quando mi appare davanti questo tizio biondissimo con gli occhi azzurri e un visino che sarebbe pulitissimo se non avesse un labbro spaccato ed un sopracciglio messo non tanto meglio, naturalmente non lo riconosco.
- Sì? – chiedo, piegando appena il capo e illudendomi che a guardarlo di sbieco possa assumere una forma conosciuta, - Chi sei?
- Sono Daniel. – risponde lui, e lo fa con ovvietà, come se il suo semplice nome dovesse aprire chissà che bauli colmi di ricordi nella mia testa. Ma il tipo qui ha presente quanti Daniel esistano nel mondo, e quanti ne abbia incontrati nella mia vita? Per quanto ne so, potrebbe essere D-Bo accidentalmente finito in una macchina del tempo e tornato alla sua giovinezza, che ora cerca me per chiedermi aiuto solo perché Bushido non c’era in quanto impegnato a dannarsi la vita in tour col proprio ex e l’attuale fidanzato del suo ex che, per un’assurda combinazione di fattori, è anche l’ex del suo attuale fidanzato.
- A-ha. – annuisco poco convinto, - E io sono Patrick, piacere di conoscerti, Daniel. Farai così con tutto il resto del palazzo?
Lui gonfia le guance ed irrigidisce le braccia lungo i fianchi, offesissimo. Arriccia perfino le labbra in un broncio incredibilmente goffo, ma desiste subito, forse per il dolore. Ha un brutto taglio, lì, andrebbe disinfettato.
- Noi ci conosciamo già! – mi fa presente, - Non ti ricordi?
Cerco di riportare alla memoria una qualsiasi occasione in cui possa aver conosciuto un ragazzino della sua età. Mi vengono in mente solo i concerti, ed ultimamente non è che ne abbia fatti tanti. Ma cosa sta pretendendo questo essere assurdo da me?
- No, temo di no. – scuoto il capo, - Dovrei?
- Dovresti, sì. – dice lui, piantandomi una mano nel mezzo del petto e scostandomi letteralmente di lato per entrare in casa, - Ho rischiato la vita per te, un anno fa. – sbuffa, voltandosi a guardarmi.
Io chiudo la porta e gli ricambio un’occhiata incerta. Dev’essere successo qualcosa che non ricordo. Ero ubriaco? Mi sono perso e il moccioso qui mi ha riportato a casa in spalla, per quanto io possa faticare a credere ad una cosa simile? Ma allora perché avrebbe dovuto rischiare la vita?
- Senti. – sospiro, massaggiandomi stancamente le tempie, - È un po’ tardi per perdere tempo con misteri e indovinelli, ti pare? Dimmi chi sei e facciamola finita. Poi, se hai anche qualcos’altro da dirmi a parte il tuo nome, bene, sennò grazie della visita e buonanotte.
Lui si prende qualche secondo, prima di rispondere. Gira un’occhiata curiosa tutto intorno alla stanza e poi pianta una mano sul fianco con fare teatrale.
- E dire che dovresti essere un amico che conta. – sbotta, tornando a guardarmi, - Quanto valgono le tue promesse, Fler?
Improvvisamente, realizzo chi ho davanti. La mia memoria torna a un anno fa, ad una notte ghiacciata, a Tempelhof, alla ricerca di un uomo che credevo colpevole della morte di Anis. Ad un ragazzino che ci ha indicato la strada, a me e a Chakuza, quando credevamo di esserci completamente persi.
- Tu… - balbetto, indicandolo maldestramente, - Tu sei quel ragazzino. Daniel. Sì, certo, ora ricordo.
Sul suo volto si apre un sorriso spontaneo e repentino, come quello dei bambini, mentre il suo intero corpo si tende verso di me.
- Davvero? – chiede, gli brillano gli occhi. Poi torna a cercare di darsi un tono, altrettanto velocemente rispetto a quando l’ha perso. – Cioè, finalmente. – borbotta schiarendosi la voce con un paio di colpi di tosse. – Non c’è niente da bere in questa casa?
- Niente che possa dare a un palese minorenne. – rispondo inarcando le sopracciglia, - A parte l’acqua.
- Oh, andiamo! – sbotta lui, pestando un piede per terra, - E poi sono maggiorenne. Ho compiuto diciott’anni quest’anno.
- Sì, certo. – rido io, - Farò finta di crederci. Mi fa piacere rivederti, comunque. Almeno so che non hai gettato al vento la tua fortuna e non sei finito in galera, mentre non guardavo. – gli lancio un’occhiata incerta, - Non ci sei finito, vero?
- No. – risponde lui con una mezza risata, - Non ne avrei avuto il tempo, comunque. Ho avuto un anno piuttosto pieno.
- Ah, non dirlo a me. – alzo gli occhi al cielo, passandogli accanto per recuperare la birra che ho abbandonato sul tavolino prima di andare ad aprirgli, - E cos’è che ti porta qui stasera, Daniel? Ti annoiavi? Avevi finito i cerotti a casa? – chiedo, indicando distrattamente il labbro gonfio e il sangue che gli scivola lungo una tempia.
Lui si passa velocemente una mano sul viso, come a sincerarsi delle proprie stesse condizioni, e poi esita per un minuto buono, incerto sulle gambe – non fa che spostare il peso del corpo da un piede all’altro – e palesemente sul punto di scoppiare.
- Voglio che sia tu. – dice quindi, tutto d’un fiato, come se anche solo mettere in fila quelle quattro parole gli sia costato una fatica immane.
- …vuoi che sia io. – ripeto, indicandomi mollemente, - A fare cosa? A disinfettarti le ferite?
- Ma no! – sbotta lui, esasperato, e pesta di nuovo il piede per terra. È ridicolo che lo faccia, sembra ancora più ragazzino di quanto non sia. – Voglio che sia tu il primo!
- Ma il primo a fare che?! – insisto, allargando le braccia ai lati del corpo, - Non ti sai mettere un cerotto e sei venuto dal tuo guru del gangsta rap perché sia lui a mostrarti i misteri della cassetta del pronto soccorso?! Sii più chiaro!
- Sei… un idiota! – strilla lui, irrigidendosi tutto come un pezzo di legno, - Voglio che sia tu il primo a… - deglutisce a fatica, e io sento un brivido caldissimo scorrermi lungo tutta la schiena. È paura. – il primo a fare l’amore con me. – conclude, guardando fisso il pavimento. Vorrei poter riavvolgere il nastro e rimandarlo da capo, perché non sono proprio sicuro di aver capito bene.
- Come, scusa? – chiedo istintivamente. Mi rendo conto dell’idiozia della domanda, ma non riesco proprio ad impedirmelo, non riesco a fermarmi. Lui arrossisce fino alla punta delle orecchie, e volta il capo così velocemente che finisce per nascondersi dietro una tenda di capelli scarmigliati e che necessiterebbero decisamente di uno shampoo.
- Cos’è, te lo devo ripetere? – sputa fuori lui, acido.
- No. – rispondo immediatamente io, sollevando le braccia come di fronte a una pistola puntata contro. Mi arrendo, Daniel. Però prima parliamone cinque minuti. – È solo che, capisci, non è che mi capiti tutti i giorni di vedermi spuntare alla porta minorenni che—
- Non sono minorenne! – scatta lui. Si morde il labbro inferiore, quello spaccato. Gli fa così male che ha gli occhi pieni di lacrime.
- No, ok, ok. – annuisco io, cercando di calmarlo, - Quello che intendo dire è che la situazione è un po’ spinosa, non ti pare? Cosa ti aspetti che faccia?
- Ma non lo so! – sbuffa lui, abbattendosi sul mio divano e prendendosi la testa fra le mani, - Dovresti essere tu quello esperto, no? Senti, - sospira, - ho avuto una serata difficile, e ho davvero bisogno di—
- Di farti scopare? – chiedo, gli occhi enormi. Lui mi guarda e arrossisce ancora, perfino più intensamente di prima.
- No! – strilla, - Cioè, sì, ma per come la metti tu sembra una cosa di uno squallore tremendo! Era meglio come l’ho detta io prima.
- D’accordo, ma – insisto io, - …non ti capisco. – rinuncio subito dopo, abbattendomi sul divano al suo fianco. – Ti va di parlarne?
- Se avessi avuto voglia di parlarne, sarei andato dallo psicologo dei servizi sociali, ti pare?! – sbotta lui, immediatamente sulla difensiva. Poi sospira, accomodandosi meglio ed appoggiandosi indietro sullo schienale. – Ho fatto coming out sei mesi fa. – racconta a bassa voce, ed io mi sconvolgo, perché, voglio dire, ce li avrà diciassette anni?, eppure ha già avuto più coraggio di me, che alla sua età avrei dovuto e voluto dire cose che invece mi sono tenuto dentro fino ad ora, praticamente, - E se prima potevo dire di avere una vita di merda, era perché non immaginavo minimamente cosa sarebbe diventata dopo una cosa del genere.
- Immagino che non debba essere facile. – commento con un mezzo sorriso. Lui mi guarda malissimo.
- È un inferno. – mi corregge, usando una parola senza dubbio più adatta, - Non mi aspettavo che mio padre capisse, naturalmente, ma che almeno i ragazzi della banda mi stessero vicini… è gente che conosco da una vita.
- Evidentemente, loro non conoscevano te. – gli faccio notare.
- Nemmeno io conoscevo me stesso. – ribatte lui, - È… è solo capitato, cazzo. E non posso farci niente, non è che l’abbia deciso, “oh, sì, diventiamo gay, scommetto che dopo sarà tutto una figata, andrò a vivere a Beverly Hills ed indosserò solo pantaloni e camicie bianche con cinture e scarpe di pelle nera”… è solo capitato. – insiste, occhi bassi e sguardo cupo.
Ridacchio un po’ per l’immagine mentale che la sua descrizione oggettivamente strampalata della società gay americana mi offre, ed allungo una mano a sfiorargli i capelli. Sono di un bel biondo chiaro, molto tedesco. Scommetto che dopo una bella doccia saranno morbidissimi, al tatto.
- Danny, devi anche capire che vivi in mezzo a ragazzini che hanno sempre avuto un solo modo per guardare alle cose. Non puoi pretendere che capiscano.
- Va bene, ma che bisogno avevano di picchiarmi?! – sbotta lui, indicandosi il viso, - Il labbro è un gentile omaggio di mio padre, ma il resto no. Ci conoscevamo fin da piccolissimi, alcuni di loro sono parte della banda dalle medie, e io li ho visti arrivare quasi tutti. Ma non hanno esitato un secondo a prendermi a bastonate, quando l’ho detto, e anche molte volte dopo. Che cazzo.
Sospiro, passando le dita fra i suoi capelli e sciogliendone i nodi.
- Perché non te ne vai, da lì? – propongo, - Sono sicuro che—
- Che stai facendo? – chiede lui, voltandosi a guardarmi con aria sinceramente stupita.
- Cosa? – ribatto io, distrattamente. La mia mano non si ferma, e lui la indica con un dito. – Ah, questo. – registro come fosse una cosa normalissima, - Non lo so. Pensavo avessi bisogno di una qualche rassicurazione.
Lui sospira pesantemente, torcendosi le mani in grembo.
- Senti… - dice a mezza voce, - Tu mi piaci veramente tantissimo. – e lascia il concetto lì sospeso, come se l’idea di spogliarlo e prenderlo magari su questo stesso divano dovesse essere una diretta conseguenza di questa confessione. Non esiste niente che potrebbe giustificare me e te a scopare su questo divano adesso, ragazzino confuso che non ha ben chiaro praticamente niente riguardo a se stesso, alla vita e al mondo in generale.
- Io sono impegnato, Daniel. – gli faccio presente. Potrei partire con una lunga digressione sul mio impegno al momento, ma me la tengo da parte per momenti in cui leggerò meno voglia chiara e limpida nei suoi occhi azzurri e grandi. Questa situazione va arginata. Mi chiedo se ne sono in grado.
- Non importa! – dice, con la sicurezza avventata di chi immagina io gli stia dicendo una cosa del genere solo per fargli presente che per noi non potrebbero mai esserci e vissero tutti felici e contenti con castelli e principi azzurri in groppa a splendidi cavalli bianchi. Lo guardo dritto negli occhi, nella sua testa ci sono un mucchio di favole.
- Importa a me. – insisto, - I rapporti di coppia si basano sulla fiducia. Anis deve sapere che io non lo tradirò, mentre lui è via.
Ed io lo so, che Anis non mi tradirà mentre sono qui. Lo so. Lo so?
- Dimmi almeno che posso restare qui da te, per la notte. – mormora lui, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore.
- Cosa? – rido io, sbigottito, - No che non puoi.
- Non posso tornare a casa! – insiste Daniel, - Non subito, almeno. Dubito che mio padre abbia smesso di bere, quando me ne sono andato, e non voglio stare da solo con lui in una casa traboccante di bottiglie. Di solito le butto tutte via mentre dorme.
Lo guardo inarcando un sopracciglio, incerto.
- Perché le bottiglie? – chiedo. Daniel mi guarda fisso per qualche secondo, poi si allunga verso il tavolino, afferra repentinamente la bottiglia di birra vuota posata sul ripiano e la spacca contro il bordo. Fa un rumore frastornante, si spargono schegge di vetro per tutto il pavimento, e prima che possa capire cosa sta succedendo davvero lui è sulle ginocchia, così vicino che sento l’odore del suo sangue come se fosse il mio, e mi punta la bottiglia spaccata alla gola, tenendola per il collo.
- Per questo. – dice. Uno dei cocci di vetro mi punge con forza la pelle, fa male quasi come dovesse trapassarla. Daniel, però, mette subito via la bottiglia, appoggiandola sul tavolino e ritraendosi mentre io mi accarezzo la gola per verificare che non ci siano tagli. Nel mentre, lo osservo afferrare la felpa che indossa dagli orli inferiori e tirarsela via da sopra la testa. Non indossa nient’altro, sotto, a parte un tappeto di lividi. Non ci sono tagli recenti, almeno, ma lui non intende mostrarmi i segni superficiali delle violenze più nuove, no, vuole mostrarmi i segni indelebili di quelle più vecchie. Si volta e mi mostra un fianco, torcendosi come solo un ragazzino della sua età che sia così magro può fare. – Guarda qui. – dice, indicando una lunga cicatrice un po’ sformata che gli taglia in due la pelle proprio sopra l’anca, - Questo me l’ha fatto per il mio quindicesimo compleanno. – racconta a bassa voce, - Volevo uscire con i miei amici, ma a lui non stava bene. Alla fine, sono dovuto uscire per forza per andare al pronto soccorso. Mentre lui dormiva, perché prima non ha voluto lasciarmi andare.
Deglutisco a fatica, sollevando una mano e tracciando quella linea incerta e chiara con due dita. È liscissima sotto i miei polpastrelli, e il gemito che sfugge dalle labbra di Daniel, più che sentirlo con le orecchie, lo percepisco sottopelle. È un brivido che mi scuote fino alle punte dei piedi. Ho sentito donne gemere più forte e con più voluttà, e quello che non è altro che il gemito sgomento di un ragazzino impaurito che probabilmente soffre solo un po’ di solletico – perché lo so che non era un gemito programmato, quando ne senti tanti impari a capire cosa è simulato e cosa no – riesce a scuotermi più di quanto non abbia mai fatto nient’altro di simile fino ad ora.
- Mi dispiace. – dico a mezza voce. Sono sincero.
- A me no. – risponde lui con una risatina, avvicinandomisi impercettibilmente, - La pelle è ancora sensibilissima, in quel punto. Ho scoperto che mi faceva quest’effetto quando una delle tipe con cui andavamo per locali il sabato me lo ha succhiato. Le sue mani non facevano che sfiorarmi i fianchi e quello mi piaceva già da solo più della sensazione di sentire l’uccello nella sua bocca.
Deglutisco ancora, o almeno ci provo, ma stavolta non mi riesce. Una delle mani di Daniel scende a posarsi sulla mia, se la schiaccia con forza addosso.
- Daniel— - provo a chiamarlo. Lui mi sorride e io m’interrompo subito.
- Quando sono nel letto da solo e mio padre non mi ha picchiato troppo forte, - dice lui a bassa voce, - cioè, quando posso ancora muovermi senza che mi faccia male tutto, a volte, sollevo la maglietta che uso per dormire e la accarezzo. – porta la mia mano a muoversi su e giù contro il suo fianco, - E basta quello da solo per farmelo venire durissimo.
- Smettila. – dico senza fiato, ma la mia presa si stringe attorno al suo fianco senza che possa nemmeno provare a controllarla. La sua mano resta lì. Calda e un po’ sudata. È così agitato, Dio mio. Glielo vedo negli occhi che ha una paura folle.
- Ti prego. – dice lui, avvicinandosi ancora. Le sue labbra sfiorano le mie, ma non osa farsi più avanti di così. – Solo una volta. Non mi vedrai mai più, dopo, te lo giuro.
Resto immobile e non dico niente, ma il problema è che continuo a restare immobile e a non dire niente anche quando lui alla fine si fa avanti e copre i pochi centimetri di spazio che ancora ci separano, poggiando le labbra sulle mie. Non sa come muoversi e probabilmente anche se lo sapesse gli farebbe troppo male per farlo, sento in bocca il sapore del suo sangue ed è lo stesso sapore che sentivo quando per le strade di Tempelhof picchiavano me. È il sapore del mio sangue, non solo del suo.
Chiudo gli occhi e sollevo un braccio, poggiandoglielo sulla nuca e traendomelo contro. Lui sbuffa un lamento sorpreso che si trasforma in un gemito un po’ perso quando forzo le sue labbra con la mia lingua, accarezzandogli lentamente il fianco e sottolineando i contorni della cicatrice. Si scioglie sotto le mie dita con una semplicità disarmante, ed è tutto così semplice, il suo corpo magro è così duttile, si adatta al mio come una coperta di quelle sottili e fresche che ridisegnano le sagome di ciò che nascondono senza riuscire a nasconderlo davvero agli occhi di nessuno.
- Allora… - mormora, quando mi allontano abbastanza da dargli tempo e modo di riprendere fiato, - Vuoi davvero—
- Shh. – lo interrompo io, sorridendo appena. Sfioro le sue labbra con le mie, accarezzo il taglio su quello inferiore con la lingua e lui rabbrividisce con tanta forza che lo sento scuotersi fra le mie braccia come stesse tremando dal freddo. – Non parlare. Rischi grosso, a farlo.
- Non fa più tanto male. – insiste lui, sistemandomisi in grembo. Lo sento eccitato dentro i jeans larghi e spessi e sorrido perché con i ragazzini di quest’età basta davvero pochissimo. – Il labbro, dico. E tutto il resto, anche.
- Ne sono felice. – annuisco, stringendolo da sotto le cosce ed alzandomi in piedi con un colpo di reni. È così leggero, dannazione. Nel movimento, i nostri bacini collidono e poi strisciano l’uno contro l’altro. Daniel mi si aggrappa con forza alle spalle e mugola sul mio collo, la voce rotta in un singhiozzo di paura.
- Farà male? – chiede pianissimo, tanto che lo sento appena. Non lo chiede come uno che stia verificando che opportunità ha per scegliere la migliore, lo chiede come uno che di opportunità ne ha una sola, e vuole essere preparato per affrontarla al meglio.
- Dipende. – rispondo sinceramente io, entrando in camera da letto. Mi serve un secondo per ricordare dove sono tutte cose, letto compreso, nel buio. Alla fine, ci riesco.
- Da cosa? – chiede lui in un mormorio sommesso, mentre lo adagio sul letto ancora rifatto e mi sistemo fra le sue gambe dischiuse, sbottonandogli i jeans.
- Da un sacco di cose. – sorrido io, anche se lui nel buio non può vedermi, chinandomi a baciarlo lievemente su una guancia, e poi giù lungo il collo, sul petto ossuto e sulla pancia morbida, - Da quanto lo vuoi. Da come si muove la persona con cui lo fai. Da quanto pensi al dolore.
- Io non voglio pensarci. – sussurra lui. Mi puntello sul materasso col gomito e sfioro il profilo del suo viso con le labbra. Ha gli occhi chiusi, sento le sue palpebre battere lievissime, come le ali di una farfalla. – Non voglio pensare al dolore.
Sorrido, accarezzandogli nuovamente il fianco.
- E allora non farà male per niente. – lo rassicuro, baciandolo piano. – Sei proprio sicuro di essere maggiorenne, tu, vero? – chiedo un’altra volta. Lui si mette paura, anche se è evidente che non potrei mai mollarlo, giunti a questo punto. Spalanca gli occhi e mi fissa con terrore palese, sollevando le braccia e stringendo i pugni attorno alle maniche della maglia che indosso.
- Certo che sono maggiorenne. – ribadisce, annuendo con sicurezza, - Te lo giuro, per favore—
- Calmati! – rido divertito, allontanandomi abbastanza da costringerlo a mollare la presa e sfilandomi i vestiti di dosso lentamente, così che i suoi occhi, che ormai dovrebbero essersi abituati al buio, possano intuire i miei movimenti, e capire che ci siamo vicini. – Era solo per scrupolo. Giuri di non essere stato mandato qui da qualche losco figuro che poi userà la tua testimonianza su come ti ho picchiato e violentato per estorcermi chissà che somma di denaro?
- No, non… - fa per rispondermi lui, poi si interrompe e pare rendersi conto di qualcosa di molto importante. Si azzarda perfino a tirarmi uno schiaffo su una spalla, e io rido di gusto. – E smettila di prendermi in giro! Cazzo, sei odioso.
- Cos’è, tu puoi fare il fascinoso parlandomi di come ti diventa duro quando solo ti si sfiora la cicatrice sul fianco, - rido io, appoggiando una mano sopra i suoi boxer e stringendo la sua erezione fra le dita attraverso il tessuto in cotone sottile, - e io non posso prenderti in giro? Questo non è un rapporto paritario.
- Non lo sarebbe comunque. – borbotta lui, voltando il capo. So che lo fa perché vuole sottrarsi al mio sguardo, ma tutto quello che vedo in questo momento è il suo collo, perciò è su quello che mi chino, lo assaggio piano in punta di lingua e sento i suoi respiri tremare sotto la pelle ed uscire a fatica dalle sue labbra, mentre muovo la mano che ancora gli tengo fra le cosce, accarezzandolo lento come se la notte non dovesse mai finire.
- Questo lo fai, dopo esserti accarezzato la cicatrice…? – chiedo a bassa voce, direttamente sulla sua pelle, stringendolo con maggiore decisione fra le dita mentre le sue mani corrono veloci all’orlo dei boxer, per tirarli giù.
- Non avevi detto di smetterla di parlare? – chiede a fatica, ansimando pesantemente. Io gli sorrido addosso.
- Avevo detto che tu dovevi smetterla di parlare. – rispondo, lasciandolo andare così che lui possa togliersi di dosso la biancheria, così svelto che pare gli stia prendendo fuoco addosso. Mi si schiaccia contro subito dopo, lasciandosi sfuggire un respiro genuinamente stupito quando mi sente già duro contro una coscia.
- Non avevo idea che fossi così. – borbotta confusamente.
- Dovrei prenderlo per un complimento? – chiedo divertito, e lui sbotta un lamento esasperato.
- Non parlavo di questo… - si lagna, il petto che si alza e si riabbassa più velocemente quando riprendo ad accarezzarlo pelle contro pelle, - Dicevo come persona. Cioè, non so nemmeno com’è che ti immaginassi, in realtà, cambiavi spesso. Dipendeva dalla serata che avevo avuto, o da cosa mi stuzzicava di più in un determinato momento… ma questa è tutta un’altra storia.
- Sì, perché questo è vero. – annuisco in una mezza risata, strusciandomi lentamente contro di lui perché possa sentirlo, - Finché ti piace, comunque, non è detto che sia un male.
Inspira ed espira profondamente, sollevando le braccia ed allacciandomi al collo mentre schiude le gambe e m’invita a prendervi posto in mezzo, prima di rispondere.
- Mi piace. – dice in un fiato, spingendosi appena contro di me e ritraendosi all’ultimo momento, quando mi sente pressare contro la sua apertura in un incastro che tutto dovrebbe essere meno che naturale, e invece viene ad entrambi così spontaneo da fare quasi paura.
- Allora è tutto a posto. – sorrido, inumidendomi due dita con un po’ di saliva ed accarezzandolo piano fra le natiche. Lui rabbrividisce e si tira indietro quasi all’istante, mosso dalla paura. – Calmati. – gli sussurro sulle labbra, - Ti ho detto che non farà male, no?
- Sì, ma era la verità? – chiede giustamente lui, ed io rido a bassa voce.
- Dipende anche da te, ricordi? – dico baciandolo ancora, - Sei tu il primo che non deve pensarci. Il resto verrà da sé.
Lui annuisce – si rassegna, forse – e lo sento rilassarsi sotto di me mentre le mie dita umide tornano a sfiorarlo, facendosi strada dentro al suo corpo una alla volta. Lo sento trattenere il fiato così a lungo che poi, quando è costretto a tornare a respirare, lo fa tutto in una volta, sbuffando come una teiera ed ansimando pericolosamente. Rido un po’, e piego le dita come ho imparato a fare solo recentemente – uno dei numerosi regali di Anis, suppongo per scusarsi di tutto ciò che mi ha fatto e di tutto ciò che, indubbiamente, continuerà a farmi in futuro, perché io sono uno che, se solo gli dai tanto, ti permette di fare questo ed altro – ottenendo in risposta da lui un gemito acuto e prolungato, un po’ ridicolo, ma che mi agita qualcosa nel petto e nel fondo dello stomaco.
- Ti prego. – mormora stentatamente lui, muovendosi un po’ alla cieca nel tentativo di spingere le mie dita abbastanza in fondo da toccare nuovamente quel punto che, anche se solo per un secondo, gli ha fatto perdere la testa. Io ritraggo la mano, prendendolo da sotto le ginocchia e portando le sue gambe fin sopra le mie spalle, dove le appoggio, piegandolo in una posizione un po’ innaturale che lo costringe a schiudere gli occhi e guardarmi incerto nel buio, in cerca di una risposta per ottenere la quale non ha abbastanza coraggio da farmi una domanda.
Mi sistemo meglio contro di lui, inumidendomi di nuovo le dita e poi accarezzandomi velocemente per tutta la lunghezza, preparandomi ad entrare dentro il suo corpo. E succede tutto in un attimo, così veloce che io a stento me ne accorgo, come quando ha spaccato la bottiglia e poi me l’ha puntata alla gola. C’è lo stesso potenziale di pericolo in quello che ha fatto lui poco fa e in quello che sto facendo io adesso. Solo che lui non ha avuto il coraggio di affondare. Io invece sì.
Quando mi scavo a fatica un posto dentro di lui, che è stretto e caldissimo tanto da costringermi ad annaspare senza fiato, Daniel inarca la schiena e geme. C’è del dolore, forse, da qualche parte, ma lui non ci sta pensando. Ed è molto bravo a farlo, tanto che per un secondo quasi penso a lui con una punta di irrazionale orgoglio, perché ciò che ha reso forte lui è esattamente ciò che ha reso forte me. Siamo incredibilmente simili, anche se lui non se ne accorge, ed è questo che lo spinge a cercare proprio me, a volere proprio me, con tutti quelli che potrebbe cercare e volere nel mondo, anche se in questo momento è convinto di volermi solo perché io sono uno che ce l’ha fatta, uno cui guardare con ammirazione e rispetto. Siccome lui è piccolo, cerca qualcuno che possa ricordargli se stesso, solo un po’ meno sofferente. Quando sarà grande, ricorderà i sentimenti che sta provando adesso con un imbarazzo infinito. E questo lo so perché per me è lo stesso, e ci convivo ogni giorno. Quello che Anis prova per me è così diverso da quello che io provo per lui. Ed il fatto di pensarci e realizzarlo proprio ora è così ridicolo che mi viene da ridere.
Non lo faccio, naturalmente. Mi muovo piano, perché davvero voglio che non faccia male, e dopo un po’ sento Daniel cominciare a muoversi in sincrono con me, le sue spinte che vanno incontro alle mie, i nostri bacini che si scontrano sempre più spesso sul sottofondo quasi musicale del fruscio lievissimo delle lenzuola ancora perfettamente composte sotto i nostri corpi sudati, come se questo letto non fosse mio, come se nemmeno questa casa fosse mia e noi fossimo semplicemente entrati da una finestra per prendere possesso di qualcosa che non ci appartiene, solo per venti minuti di serenità.
Stringo la presa sulla sua erezione e mi muovo più velocemente solo quando la via all’interno del suo corpo è abbastanza aperta da permettergli di ansimare non più solo per il senso di pienezza inevitabile e quasi nauseante che è normale ti prenda quando qualcosa di così estraneo da te sfiora la tua intimità in maniera così invadente, ma anche per la sensazione piacevole delle mie labbra che lo sfiorano ovunque, delle mie mani che gli accarezzano i fianchi, delle mie dita che passano insistentemente lungo la linea irregolare della sua cicatrice, tirandogli via il respiro a tratti ed a tratti restituendoglielo all’improvviso. E rallento le spinte, aumentando solo il ritmo delle carezze, aspettando che lui sia venuto prima di riprendere a pompare più velocemente, abbandonandomi poco dopo ai brividi dell’orgasmo che mi portano inevitabilmente a franargli addosso in pochi secondi. Per un attimo, penso distrattamente che ho paura di schiacciarlo, restandogli così addosso. Lui, però, mi regge bene. Non si lamenta neanche. All’inizio respira a fatica, ma poi si calma ed il suo respiro assume un ritmo meno frenetico. E per riflesso mi rassereno anch’io.
- Ehi. – dico piano, rotolando sulla schiena e rimanendo al suo fianco. Una mia mano è rimasta sulla sua coscia. A me non dà fastidio lasciarla lì, a lui non dà fastidio che ci sia, per cui è lì che la lascio. – Dimmi la verità, non sei maggiorenne, vero?
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, perdendosi in un flusso di parole apparentemente privo di senso fino a quando, finalmente, non sbotta in un “tecnicamente no” che mi fa scoppiare a ridere.
- Ma lo sarò fra poco. – si giustifica con voce lamentosa, rovistando sotto di sé per disfare le coperte e nascondercisi sotto, - E poi ti ho promesso che non ti denuncerò, smettila di insistere sul punto, no?
Io rido ancora, mi volto su un fianco e gli accarezzo la frangia con la mano libera, ravviandogliela sulla fronte.
- Era solo per saperlo. – lo rassicuro, - Non devi giustificarti di niente.
- Ovvio che non devo, sarai tu a doverti giustificare davanti a un giudice, quando spiattellerò tutto al tipo che mi ha assoldato per venire a letto con te. – dice lui con naturalezza. Lo fisso, spalancando gli occhi. – Scherzo. – borbotta tirando fuori la lingua. Rido e mi sporgo a mordergli le labbra in un gesto che è un po’ una punizione e un po’ un complimento sincero. – Quindi… - biascica lui quando mi allontano, - Questa è stata la prima e l’ultima volta, mh? Non ci rivedremo più.
Sorrido, girandogli un braccio attorno alle spalle e tirandomelo contro.
- Invece magari domattina intanto ti porto a fare colazione in qualche bel posto, - propongo, - e poi per il resto vediamo col tempo. Che ne dici? Ti piace come idea?
Non lo vedo sorridere, ma sento le sue labbra tendersi contro la mia pelle, e le sue braccia chiudersi attorno alla mia vita.
- Mi piace. – risponde annuendo.
Io sorrido ancora.
- Allora è tutto a posto.

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Pictures

di lisachan
Io non sto bene, è evidente. Cioè, è già un chiaro segno di squilibrio il fatto che io abbia acconsentito a continuare a vedere Daniel, decidendo di ignorare il fatto che è palesemente minorenne solo per quieto vivere e perché non ho nessuna voglia di ritornare a pensare a quanto potrebbe fare schifo la mia vita in prigione se questa faccenda saltasse fuori – sempre ammesso che Anis possa decidere in coscienza di lasciarmi lì a marcire senza ricoprirmi di avvocati come ermellino sul mantello di un re, nel caso succedesse, ma potrebbe, se scoprisse che l’ho tradito col minorenne di cui sopra, o almeno credo, e quello che sto dicendo manca evidentemente di senso compiuto, me ne accorgo da solo, non c’è bisogno di farmelo notare, grazie mille.
Comunque, il succo del discorso è che devo stare proprio male, cioè, proprio fuori di testa se, oltre a tutto questo, io Danny prendo e me lo porto anche in casa del Chaku. Perché l’ho fatto? Il mio letto è più comodo del suo, c’è il materasso ortopedico mentre qui non sono neanche sicuro che il materasso ci sia. E casa mia puzza di meno, i rubinetti non perdono, non devi effettuare un corso preparatorio di introduzione alle lingue morte degli scarafaggi della tribù dello scaldabagno orientale prima di entrare nel cesso, e voglio dire, genericamente le condizioni di abitabilità del mio appartamento sono molto migliori rispetto a quelle di questa topaia disastrata che neanche il tocco magico di Bill – riassumibile in “no, Chaku, devi pulire, perché sennò io non posso poggiare il tacco dei miei stivali Armani da millecinquecento euro sulla tua moquette” – è riuscito a rendere un luogo abitabile da esseri umani veri, esseri umani che non siano Chakuza, intendo.
Mentre ricado sul letto accanto a Daniel e la mia schiena urla pietà, realizzo che è evidente che il materasso sotto di noi è solo un’illusione: vogliamo fortemente credere che un materasso ci sia, perciò ci sembra di stare sul morbido quando così non è. No, scherzavo. In realtà realizzo che se ho portato Daniel qui è perché, nonostante tutto, il paragone fra casa mia e casa del Chaku non regge nemmeno. Non è che l’ho portato qui per una sorta di ripicca, a-ha!, non ci sei e io scopo con un altro nel tuo letto, no, è che da quando le cose con Danny si sono fatte più intime – e non sto parlando solo di una scopata o due, ovviamente – ho davvero sofferto l’impossibilità di renderlo un pezzo della mia vita vera. Presentarlo ai miei amici, portarlo in giro, portarlo in un appartamento che per me potesse significare qualcosa in più della scatola in cui dormo quando non ho nessun altro posto dove andare. E questa casa, per me, rappresenta tutto questo. Scusami, Chaku, non è per te che lo faccio. È per me.
Daniel non aspetta nemmeno di riprendere fiato – o meglio: lui il suo l’ha già recuperato, è il mio che ancora si fa rincorrere, ma questo naturalmente ci riporta al problema dell’età già frettolosamente affrontato prima e sul quale non intendo soffermarmi ancora – e mentre io sono ancora qui che cerco di capire chi sono, cosa faccio al mondo e che nome m’abbia dato quella povera donna di mia madre, lui scatta a sedere e si piega oltre il bordo del letto, riemergendo mezzo secondo dopo col proprio zainetto, che appoggia in grembo ed all’interno del quale comincia immediatamente a rovistare come in cerca della pillola del giorno dopo come rimedio estremo dopo una notte di sesso non protetto che naturalmente non ha avuto luogo, non fatevi strane idee.
- Non puoi rimanere incinto, sai? – lo avverto, seguendo il filo dei miei pensieri e rendendomi conto del fatto che si tratta di pensieri prevedibilmente solo miei nel momento in cui lui mi lancia un’occhiata vagamente allucinata e poi ritorna a ficcare la testa nello zaino, riemergendo qualche secondo dopo con una macchina fotografica in mano.
- Ah, eccoti qua. – dice soddisfatto, stringendola fra le mani per accenderla e verificare le impostazioni.
- Che sarebbe quella roba? – chiedo, inarcando un sopracciglio. È ovvio che so che si tratta di una macchina fotografica, ma mi aspetto una risposta ben più esauriente, nonostante la domanda poco centrata.
- Una macchina fotografica. – risponde invece lui, pacifico come un putto addormentato su una nuvola col suo gonnellino bianco e la sua arpa in miniatura sotto il cuscino.
- Sì, lo so cos’è, Danny. – mi lagno io, inarcando anche l’altro sopracciglio, - Intendevo cos’è che vorresti farci?
- Be’, allora avresti dovuto chiedermi quello, tanto per cominciare. – ride lui. E poi, semplicemente, solleva la macchina fotografica in modo da centrarmi all’interno dell’obbiettivo e poi scatta.
- No, dai! – mi lagno io, ricadendo sul mio cuscino con un tonfo rassegnato, - Per favore, sono uno straccio.
- Ti prego, sei stupendo. – ride lui, scattandomi un’altra foto, - Vuoi sapere quando sembravi uno straccio? Quando ti sei fatto quella foto pseudo-MySpace con la canottiera bianca. Dio mio, che roba squallida.
- Dio mio, quanto sei gay. – sospiro, gettando uno sguardo implorante al soffitto.
- Oh, da che pulpito. – ride ancora Danny, stendendosi accanto a me e scattando una foto a entrambi. Lui sorride come il ragazzino che è, io lo guardo male come il vecchio scarpone brontolone che sono.
- Le foto sono l’ultimo dettaglio prima di mettere in atto il piano per denunciarmi alle autorità? – chiedo schermandomi con un braccio. Lui ride divertito, e stavolta rido anch’io, gli rubo la macchina fotografica dalle mani e gli salgo addosso, sovrastandolo e costringendolo a restare steso sul materasso senza pesargli troppo sopra, anche se so che mi regge più che bene. Non riesco a impedirmele, queste premure, per quanto sia sciocco.
- Che fai? – mi chiede, guardandomi dal basso. Il modo in cui i suoi occhi scorrono lungo tutta la superficie del mio corpo mi dà i brividi. Mi mordo un labbro, puntandogli addosso la macchina fotografica e scattandogli una foto.
- Sei fotogenico. – commento, osservando il risultato sul display, - Anzi, in realtà sei proprio bello. – continuo, guardandolo con sincero interesse. Lui arrossisce subito. – Hai mai pensato di fare il modello? Pagano bene, se arrivi a certi livelli.
- Non è roba per me, quella. – borbotta lui, aggrottando le sopracciglia, vagamente offeso. Io rido un po’.
- E cos’è roba per te? – chiedo curiosamente, restando dove sono e scattandogli un’altra foto. Lui guarda altrove, le labbra appena piegate in una smorfia addolorata. L’obbiettivo cattura i suoi lineamenti affilati, ne sembra inspiegabilmente attratto. È qualcosa che posso capire. – Non oso nemmeno immaginare dove vivi.
- Ehi, casa mia è a posto, ok? – sbuffa, incrociando le braccia sul petto e tirandosi un po’ su, per fronteggiarmi da una posizione meno svantaggiosa, - È mio padre che la rende una merda, ma la casa è ok.
- Avanti, vuoi farmi credere che il tuo sogno è restare a Tempelhof? In quel posto di merda? – sospiro, sdraiandomi al suo fianco e mettendo via la macchina fotografica.
- Non ho detto questo. – risponde lui, duro, - Ho solo detto che fare il modello non è la mia cosa. Io voglio rappare.
Non riesco a trattenere una risata.
- Sì, è una frase che ho già sentito, questa. – commento, scompigliandogli i capelli. Lui si sottrae dal mio tocco con uno scatto da bambino offeso, ma prima che possa cominciare a protestare il mio cellulare, poggiato sul comodino accanto al letto, si mette a squillare, e lui si zittisce immediatamente. È una cosa così automatica che un po’ mi spaventa, non dovrebbe essere così naturale per lui farlo. Non così presto, almeno.
Mi allungo a recuperare il telefono. Sul display, lampeggia il nome di Bill. Sono un po’ stupito – non lo sento da quando è partito in tour coi ragazzi – ma rispondo.
- Pronto? – dico, e per molti secondi nessuno risponde. È come se Bill si fosse addormentato col telefono in mano mentre il telefono squillava. – Pronto? – ripeto, perché non voglio chiamarlo per nome di fronte a Danny. Non che sia possibile pensare che ignori le mie frequentazioni col ragazzino, ma insomma.
- …scusa. – risponde finalmente Bill, il tono trasognato, la voce flebilissima. – Come stai?
- …dovrei chiederlo io a te. – rispondo incerto, - Ragazzino, è tutto a posto? Ti sento strano.
- Strano? – chiede lui, un po’ confuso, - No, perché dovrei?
- Non lo so, era un’impressione, sei… non lo so. – rispondo sinceramente, - Ma c’è qualche problema?
Bill si prende qualche altro secondo, prima di rispondere.
- Sai che ho tagliato i capelli? – mi dice quindi, - O forse devo ancora farlo, non ricordo. O forse l’ho già fatto, ma tantissimo tempo fa, e sono già ricresciuti.
…ok, c’è decisamente qualcosa che non va.
- Bill? – lo chiamo, rinunciando a qualsiasi forma di pudore e discrezione ancora residue nella mia testa e mettendomi immediatamente a sedere, come se il fatto di cambiare posizione potesse rendermi più agile, pronto a scattare nel caso dovesse dirmi che ha bisogno d’aiuto. – Bill, ma stai male?
- Male? – chiede lui, e ride. La sua risata è talmente vuota che se ci urlasse dentro si sentirebbe l’eco. – Ma no. Sto bene. Non devi preoccuparti. – e posso immaginare il sorriso sulle sue labbra, e mi dà i brividi. Deglutisco a fatica. – Ora devo andare. – riprende subito, impedendomi di insistere ancora per farmi dire cosa diavolo ha, - Mi sa che è proprio ora di tagliare i capelli.
Interrompe la telefonata subito dopo. Io resto seduto, osservando il suo nome che ancora lampeggia sul display finché non cade la linea e lo schermo torna ad oscurarsi del tutto.
- Problemi? – chiede Daniel, piantando il gomito sul cuscino ed appoggiando il mento al palmo della mano aperta. Io faccio per rispondergli, ma il telefono squilla di nuovo. Spero sia Bill che mi dice che si è trattato di uno scherzo. Ti permetto di prendermi in giro perché ci sono cascato, ragazzino. Ci sono cascato con tutte le scarpe.
Invece è Anis. Non riesco a nascondere la delusione nello sguardo e nella piega delle labbra. Daniel se ne accorge, sicuro come la morte. È un bene che Anis non sia qui, così almeno potrà evitare di accorgersene lui.
- Ehi. – rispondo, e cerco di forzare un sorriso.
- Con chi eri al telefono? – chiede subito lui, senza nemmeno salutarmi. Mi passa subito la voglia di provare ad essere conciliante.
- …sto bene, Anis, qui le cose vanno alla grande, non preoccuparti. – sbuffo, e mi rendo conto di quanto suoni ridicolo, soprattutto considerato che c’è Danny qui accanto che inarca un sopracciglio e sta pensando tutta una serie di cose poco carine, a ragione, peraltro, ma mi viene spontaneo. Anis inspira ed espira lentamente, dovunque si trovi in questo momento, e quando torna a parlare lo fa con un tono di voce completamente diverso.
- Mi dispiace. – sospira, - Avevo— davvero bisogno di sentirti, ecco, e quando ho provato a chiamarti trovare occupato mi ha infastidito.
- Sì, be’, ho una vita, sai? A parte te e il vostro carrozzone di pazzi scriteriati, intendo. – continuo a borbottare. Daniel mi guarda malissimo, o forse sono solo io che voglio sentirmi rimproverato dai suoi occhi azzurri e un po’ assonnati. Sospiro. – Scusa. Giornata difficile.
- Dillo a me. – ridacchia lui, espirando profondamente. – Successo qualcosa in particolare?
Lancio un’altra occhiata a Danny. S’è sdraiato tranquillo sotto le coperte e s’è messo a scorrere le foto che abbiamo scattato stasera, osservandole tutte con interesse nonostante gli occhi che già si chiudono. Dormirà fra pochi secondi. Sorrido un po’.
- Niente di che. Da voi?
Anis sospira così profondamente che mi chiedo se i suoi polmoni siano abbastanza grandi da contenerla, tutta quell’aria.
- È tutto un gran casino. – risponde a bassa voce, - Se fossi qui sarebbe diverso.
- No, non credo. – rido piano. Danny sta già praticamente russando quando stringe una delle mie mani fra le proprie e la porta ad accarezzarsi i capelli.
- Io ne sono sicuro, invece. – insiste Anis, - Se tu fossi qui, Bill avrebbe almeno un po’ di pudore.
Mi mordo un labbro, sistemandomi meglio sul materasso nonostante possa sentire le doghe della rete premermi contro la spina dorsale.
- Senti, se posso darti un parere spassionato, Anis, - sospiro appena, - la tua principessa non sta un cazzo bene.
Anis sospira a propria volta, e sarà almeno il millesimo sospiro che ci concediamo da quando abbiamo cominciato a parlare.
- La mia principessa non sta un cazzo e basta, Pat. – risponde con un sorriso amaro, - Non sta e basta.
Se fosse qui, lo abbraccerei. Ma non è qui, qui c’è solo Danny, perciò abbraccio lui. Gli passo un braccio attorno alle spalle e me lo tiro contro. Nel dormiveglia, lui mugola appena, così a bassa voce che Anis nemmeno lo sente, e si sistema contro il mio petto.
- Mi dispiace, Anis. – rispondo, sperando che la mia voce sia abbastanza dolce da farlo sentire compreso davvero. – Lo sai che mi dispiace.
- Sì, lo so. – risponde lui. Il suo sorriso, lo sento dal tono, è già meno teso e più sincero. – Vado a riposarmi un po’. – dice quindi, la voce improvvisamente carica di stanchezza, come non potesse più farcela a reggere il proprio stesso peso dopo essersi scaricato tanto. – Buonanotte.
- Buonanotte. – rispondo piano. Ascolto la voce del telefono e della conversazione interrotta per qualche secondo, prima di rassegnarmi a chiudere la telefonata ed impostare la vibrazione. Poso nuovamente il cellulare sul comodino e mi stendo più comodamente. Daniel mi si stringe contro, si appoggia del tutto sopra di me e quella del suo corpo così caldo e così vicino è la sensazione più bella che ho provato negli ultimi mesi della mia vita.
Quando il suono della vibrazione contro il legno del comodino si diffonde fastidiosamente nell’aria, per prima cosa penso di nuovo a Bill. Poi mi rendo conto che è molto più probabile che sia Chakuza. Infine, capisco che dovrei lasciare quel telefono squillare e ignorarlo, ed invece mi allontano lentamente da Daniel e, sperando di fare in tempo, recupero il cellulare e mi trasferisco in salotto.
- Chaku. – lo chiamo piano, e il respiro che rilascia quando sente la mia voce lo sento quasi sulle mie stesse labbra. – Ehi, tutto a posto?
- A posto? – ride un po’ lui, e posso sentire che è in un ambiente piccolo e isolato, forse nella sua cuccetta dentro il tourbus. La sua voce è bassissima, ma c’è così tanto silenzio che la sento comunque con una chiarezza impressionante. – Per dirti se le cose sono a posto, dovrei ricordarmi com’è che erano quando ci stavano. – risponde con un’altra risata un po’ disillusa.
- Ma insomma, me lo spieghi cosa cazzo sta succedendo? – borbotto io, lasciandomi ricadere sul divano e tirando su le gambe per stendermi, - Che cazzo, la chiarezza sicuramente non è un vostro dono.
- Nostro di chi? – chiede subito lui, stupito. Io mi mordo un labbro.
- …degli austriaci. – invento io, - Intendo, sembri preoccupato ma non mi spieghi perché. Parla, no? – dico, sperando di essere stato sufficientemente convincente. Sono quasi sicuro di non esserlo stato e sento ancora gli occhi azzurrissimi di Daniel addosso mentre silenziosamente mi lasciano credere che mi stanno disapprovando, ma dal modo in cui Chakuza risponde è palese che la mia prova come attore di teatro dell’improvvisazione non era importante per farlo sentire libero di parlare: ne ha così tanto bisogno che le parole gli escono dalla bocca come un fiume in piena, travolgendomi.
- Sta andando tutto di merda, Pat. – comincia, talmente ansioso di dirmi tutto che le parole inciampano l’una sull’altra, si confondono, si intralciano a vicenda, - Bill sta dando di matto e io non so come aiutarlo. Perché sto dando di matto anch’io. E Bushido non riesce a fare niente perché non ci può riuscire nessuno, e se anche le cose non stessero andando poi così male questo tour rimarrebbe comunque un errore enorme, e so che quando torneremo a casa questa cosa ci avrà scombinato talmente tanto che rimetterci a posto sarà impossibile, ed ho pensato spesso a te, perché tu sei bravo a rimettere a posto le cose, ma mi sa che davvero, davvero, Pat, avrai vita dura quando saremo tornati.
La franchezza con cui ammette di aspettarsi che, quando saranno tornati a casa, io sarò lì armato di cerotti e pronto a rimetterli insieme, mi turba più di quanto non facciano le sue stesse parole, le cose che mi racconta, il disagio che esprime. Non riesco ad identificare un momento nella mia vita in cui ho permesso a questi uomini di farmi questo. Qualsiasi cosa questo sia. Perché qualsiasi cosa sia è dolorosa, ed io non voglio sentirmi così.
- Direi… - mi sforzo di rispondere, schiarendomi la voce, - Direi che potremo pensarci quando sarete tornati, no? – dico con una mezza risata incerta, alzandomi in piedi e prendendo a girare lentamente attorno al divano giusto per darmi qualcosa da fare. – Che ne dici?
- Dico che non ho granché altro da scegliere, ti pare? – ride anche lui, incerto tanto quanto me. Vorrei chiedergli perché ha sentito il bisogno di chiamarmi, ma so che la risposta a questa domanda è una risposta che in questo momento non voglio sentire. È una risposta che mi farebbe piacere, in qualsiasi altro momento, ma non qui, non ora. Non così.
- Hai ragione. – annuisco. E per la prima volta, stasera, sono io a chiudere la questione. – Buonanotte, Chaku.
Lui non mi risponde perché non vorrebbe chiudere la telefonata, lo sento nel modo in cui respira, come se stesse solo aspettando di trovare le parole giuste per dirmi di non riattaccare. Le parole non arrivano, comunque, e dopo qualche secondo di speranzosa e stupida attesa, io riattacco.
Torno in camera da letto, e Danny sta ancora dormendo, tutto raggomitolato nella stessa posizione in cui l’ho lasciato. Scosto le lenzuola e mi stendo al suo fianco. Il suo corpo trova il mio al primo contatto, e ci riannodiamo come prima così facilmente da darmi l’impressione di non essermi mai mosso da qui. È una sensazione che riconosco subito. Perché non mi muovo da tanto di quel tempo che se solo ci penso mi manca l’aria per respirare.
Nonostante questo, me lo stringo contro, affondo il naso fra i suoi capelli e chiudo gli occhi. Non mi accorgo del momento in cui mi addormento, ma il calore del suo corpo resta lì, legato al mio, per tutto il tempo, e quando mi sveglio, l’indomani mattina, c’è ancora.

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Beautifully Broken

di lisachan
Stamattina mi sono guardato allo specchio e non mi sono riconosciuto. Non come dice la gente di solito nel senso di “non mi riconosco più”, che è la cosa più stupida che si possa dire al mondo, perché non è altro che una scusa, in fondo, no? Uno fa un sacco di stronzate e poi, quando qualcun altro glielo fa notare, ecco subito la risposta pronta: “lo so, non mi riconosco più”. Non ti riconosci più un cazzo. Vorresti non riconoscerti, vorresti poterti guardare allo specchio e dire che quella faccia coperta di errori e dolore e pezzi di vita buttati via non è la tua, invece ti riconosci eccome, ed è questo quello che ti fa male. Riuscire ancora a riconoscerti, nonostante tutto, nonostante il fango che ti sei buttato addosso. Essere ancora lì, sempre identico a te stesso, facilissimo da ritrovare se solo ti azzardi o qualcun altro si azzarda a grattare via la sottilissima patina di menzogne con cui ti mascheri il viso al mattino, giorno dopo giorno, come il trucco di scena, quello che io ho sempre voluto portare anche nella vita di tutti i giorni, perché per me i confini sono sempre stati troppo labili, troppo sfumati, ed andavo in scena ogni volta che aprivo gli occhi al mattino.
No, io mi sono svegliato, da solo nel mio letto, ed ho ascoltato a lungo il suono un po’ ovattato del respiro di Peter, ancora addormentato da qualche parte in questo tourbus, troppo lontano da me perché potessi sentire il calore del suo corpo e aggrapparmici come se me ne importasse ancora qualcosa, e poi semplicemente mi sono alzato, sono andato in bagno, mi sono fermato davanti allo specchio ed ho guardato il mio riflesso, e quello non ero io. È stata la sensazione più straniante che avessi mai provato prima di quel momento, mi sono sentito come incatenato ad una sedia, costretto ad osservarmi nello specchio mentre mi strappavano di dosso la pelle per mostrarmi il mio vero volto, al di sotto. Solo che la pelle non veniva via – ho sfregato, ho sfregato, non veniva via – ed io ho dovuto continuare a sopportare di guardarmi nello specchio e non riconoscermi, mentre sapevo già di avere una faccia diversa sottopelle.
E questo è stato il dolore più grande che abbia provato in quest’ultimo periodo. Un periodo che di dolori non è stato certo avaro, eppure mentre Anis mi strappava via il cuore e Chakuza si rifiutava di rimettermelo a posto lasciandolo sul pavimento come un soprammobile inutile da scansare con un calcio se intralciava il passaggio, e mentre io mi premuravo di devastarmi la dignità e mio fratello si assicurava di pestarne i resti sotto le scarpe di modo che nessuno mai potesse più ricomporla, e mentre nessuna delle persone che ho imparato a riconoscere come amiche ha mai dato un fottuto istante del proprio tempo per cercare di capire come cazzo fosse possibile che io stessi così male, di una cosa ero sempre stato sicuro, la mia identità. Il mio viso. Chi ero.
E poi mi guardo nello specchio e scopro che invece non lo so più. Mi guardo nello specchio e quello non sono io. E in un solo istante di me non resta più niente, riesco a vedere i miei occhi farsi vuoti e so che non sono i miei, i lineamenti del mio viso si stendono in una maschera priva di espressione ed io so che non mi appartengono. Non so più chi sono, ma so cosa decisamente non sono, ed io non sono quella faccia, quegli occhi, quelle labbra. Non ho più un nome, non sono più nulla, di me, di ciò che sono stato, non rimane neanche un frammento.
Allora mi sono alzato e sono uscito dal bagno. Non sono passato accanto a Peter per non svegliarlo, perché non dovesse vedermi così, qualunque fosse la cosa in cui mi ero trasformato senza che nessuno se ne accorgesse. Sono semplicemente uscito dal tourbus e mi sono guardato intorno. Il sole era ancora freddo e basso sull’orizzonte, tutto ciò che la sua luce poteva fare era gettare ombre lunghe sulla piazzola della stazione di servizio desolatamente vuota, tutta intorno a me. Il mondo sembrava identico a se stesso, ero cambiato io soltanto. Mancava così poco al momento in cui tutti avrebbero aperto gli occhi, e a quel punto nessuno avrebbe potuto evitare di vedermi. Ed io non volevo che accadesse. Perciò sono tornato all’interno del tourbus, cercando di fare il minor rumore possibile, ed ho preso un post-it da uno di quei cassetti pieni di cianfrusaglie vicini all’angolo cottura. Ho preso una penna, mi sono seduto al tavolo ed ho cercato un modo carino per dire a tutti quanti che avevo bisogno di un po’ di tempo solo per me. Non ne ho trovato uno, perciò ho scritto solo quello. Ho bisogno di un po’ di tempo solo per me. L’ho appiccicato sullo sportello del frigorifero, ho preso la borsa, ho spento il telefono e l’ho infilato in tasca. Poi sono uscito, ho scelto una direzione a caso e l’ho seguita.
Ho camminato per un sacco di tempo. Io sono un pigrone, in genere non mi muovo se non sono obbligato a farlo, ed anche quando sono obbligato spero sempre che arrivi qualcuno a prendermi in braccio perché sia lui a trascinarmi da un posto all’altro. Il pensiero di muovermi alle volte mi dà fastidio fisico. Però stavolta camminare non mi è pesato. Almeno un’ora di cammino a piedi, cercando di ignorare i fischi dei camionisti quando per caso qualcuno passava per la strada ancora deserta, e senza nemmeno stancarmi. Ed ecco che all’improvviso i contorni delle cose oltre il guardrail che costeggia l’autostrada cambiano. Fisso il paesaggio mutare sotto i miei occhi, e dove prima non c’era niente cominciano ad apparire delle cose. Enormi campi pieni di spighe tanto alte da fare il solletico al cielo, e case colorate, di mattoni veri, coi tetti rossi e i comignoli e le porte di legno. Non riesco ad impedirmi di sorridere, mentre stringo emozionato la presa attorno al manico della borsa, e per un attimo mi chiedo se ciò che sto guardando esista davvero o non sia uno scherzo che mi sta facendo la mia mente, perché di recenti me ne ha fatti davvero troppi perché io riesca ancora a distinguerli dalla realtà.
Decido che non m’importa se quello che vedo è vero o no: mi piace, e tanto basta. È molto più di quanto abbia potuto dire della mia vita recentemente. Quella era vera, e lo sapevo, ma faceva schifo. Perciò va bene anche se questo posto non esiste davvero, fintanto che io continuo a vederlo ed a sentirne il profumo.
Scavalco il guard-rail ed affondo fra le spighe. Mi fanno il solletico al naso, sento il bisogno di starnutire ma anche se prendo fiato per due volte lo starnuto proprio non viene fuori, perciò mi metto a ridere e comincio ad avanzare in quel mare dorato che si muove in onde discontinue guidate dal vento. Le spighe ogni tanto mi sbattono addosso con forza, dovrebbero darmi fastidio, irritarmi la pelle, ma riesco a trovarle solo stranamente piacevoli, tanto che quando spunto fuori e metto il naso dall’altra parte, di fronte a un paio di casette minuscole una accanto all’altra, quasi mi dispiace.
Le case somigliano un po’ a come ho sempre immaginato la casetta di marzapane della strega di Hansel e Gretel. E poi sono tutte uguali. Mi avvicino sorridendo allegro e solo all’ultimo secondo noto una vecchina che sta semisdraiata su una sedia a dondolo di fronte alla porta di una delle due case, e ondeggia avanti e indietro facendo la maglia.
- Signora Lotte! – la chiamo, anche se so che non è lei. La vecchina sorride, smettendo per un attimo di ricamare e poggiando saldamente i piedi per terra per fermare la sedia.
- Mi chiamo Ena. – mi corregge, e io annuisco. – Nonna Ena. – precisa lei, e io sorrido.
- Di chi sei nonna? – chiedo, guardandomi intorno e sperando di vedermi spuntare intorno nipotini come se piovessero. Non ne spunta nessuno. Quindi forse tutto ciò sta succedendo davvero.
- Di tutti e di nessuno. – risponde nonna Ena, enigmatica. E io penso che forse in realtà non sta succedendo niente. – Anche tua. – insiste lei, - Come ti chiami, bella bambina?
- Bill. – rispondo tranquillo. Lei sorride imperterrita.
- Che strano nome per una bambina. – commenta divertita.
- Mamma pensava che fosse carino. – le spiego io, - Ho anche un fratello che si chiama Tom. Puoi essere nonna anche per lui?
- Certo che posso. – annuisce nonna Ena, e io sorrido più sinceramente. – Siediti qui accanto a me, Bill. – dice, indicandomi con un cenno del capo la sedia a dondolo spuntata dal nulla accanto a lei, mentre io penso che sì, è molto probabile che tutto ciò non stia accadendo davvero, - Aiutami. Reggi il gomitolo.
Io mi allungo a recuperare il gomitolo da terra e lo stringo fra le mani. La lana è morbida, calda e un po’ grezza, mi pizzica i polpastrelli e le unghie rimangono impigliate lì in mezzo ogni volta che me la rigiro fra le dita. Quindi forse sta accadendo davvero.
Nonna Ena è quasi cieca. Oltre gli occhiali dalle lenti spessissime, i suoi occhi talmente chiari da sembrare trasparenti s’intuiscono appena, tanto sono piccoli. Non so come faccia ad intrecciare la lana per disegnare meraviglie come quella che sta facendo adesso, una specie di maglia traforata che sembra decorata da cristalli di neve enormi e morbidissimi, ma evidentemente dev’essere una cosa che ha fatto così spesso, nel corso della sua vita, da non avere bisogno di vederla per replicarla ancora. Una cosa che ormai s’è scritta dentro. Io pensavo che per me i concerti fossero così, pensavo che davvero, qualunque cosa fosse successa nella mia vita avrei comunque potuto continuare a salire sul palco ogni sera ed essere la parte più meravigliosa di me stesso, dimenticando tutti i dolori per cantare e sentirmi amato e basta. E invece no, forse perché sono ancora troppo giovane. Forse, quando avrò l’età di nonna Ena, cantare sarà per me automatico come fare la maglia per lei. Però allora non ci sarà più nessuno che avrà voglia di ascoltarmi, mentre la maglia di nonna Ena è così bella che me la metterei addosso anche subito, incompleta per com’è.
- Come si chiama questo posto? – chiedo guardandomi intorno. Ci sono degli uomini che indossano solo un cappello di paglia ed una salopette di jeans scura, riesco ad intravederli nei campi più lontani. E poi c’è una piazza, a qualche decina di metri da noi, e in mezzo a quella piazza c’è una fontana attorno alla quale si affollano donne che indossano vestiti lunghi e scuri con disegni floreali dai colori più disparati. Alcune di loro hanno il capo coperto da un foulard annodato nulla nuca, e quasi tutti i foulard hanno le stesse decorazioni degli abiti, come fossero accessori obbligatori da usare per accompagnare il vestito.
- È troppo piccolo per avere un nome. – risponde nonna Ena, riprendendo a dondolare, - Però è bello, vero?
- È bellissimo. – annuisco freneticamente io, osservando un gruppo di bambini sporchissimi, scalzi e scarmigliati che ci passa davanti correndo e ridendo. – Quanta gente ci abita?
- T’importa? – chiede nonna Ena con una scrollatina di spalle. E in effetti non è che m’importi davvero. – Joseph! – urla poi, guardando all’indietro verso la casa. Il portone è socchiuso, e da dentro giunge un “eh?” un po’ lontano. – La bambina ha fame, - continua, - portale una fetta di torta!
Io batto entusiasticamente le mani, appoggiandomi il gomitolo sulle ginocchia mentre la porta si schiude e sulla soglia appare un uomo pelato e panciuto, con un paio di occhiali e un paio di occhi identici a quelli di nonna Ena.
- Nonno Joseph! – lo chiamo allegro, - È quella coi mirtilli?
Nonno Joseph annuisce e a me viene voglia di chiedergli se per caso è austriaco, ma poi lascio perdere. Poso il gomitolo per terra e metto il piatto con la torta sulle ginocchia al suo posto. Poi mi ricordo di David, penso che dev’essere già ora di pranzo e tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans per accenderlo e avvertirlo che non posso ancora tornare.
Lui risponde subito, appena lo chiamo, non mi lascia completare nemmeno uno squillo.
- Bill! – grida, e poi lo sento allontanarsi repentinamente verso un posto meno affollato. – Bill. – ripete a voce più bassa, come per lasciarmi intendere che adesso siamo soli e posso parlare liberamente, - Ma dove diavolo sei?
- Ad una stazione di servizio, - mento, evitando lo sguardo di nonna Ena, - sull’autostrada.
- Se mi dici a che altezza, mando subito qualcuno a prenderti. – suggerisce David, professionale come sempre. Io sbuffo un sorriso un po’ abbattuto.
- No, voglio restare qui per un po’. – rispondo, - È un posto simpatico.
- Un posto simpatico, Bill? – chiede lui, sconvolto, - Ma dove diavolo sei?!
- David, per favore, dammi un po’ di respiro! – sbotto io, e lui si zittisce immediatamente. Mi sento subito in colpa, mi si stringe lo stomaco in una morsa talmente stretta da darmi quasi i crampi, perciò mi mordo un labbro per distrarmi da quel dolore e faccio di tutto perché, quando riprendo a parlare, la mia voce sia molto più dolce di quanto sia stata fino ad ora. – Faccio in tempo per il concerto di stasera, promesso. Qui fanno una torta buonissima. La mangio e torno subito a casa, d’accordo?
Lui fa per rispondermi, sicuramente vuole dirmi che non devo tornare a casa ma semplicemente ai tourbus, e farlo anche il più in fretta possibile, ma alla fine lascia perdere, sospira profondamente e mormora un “d’accordo” stentato, prima di chiedermi di non spegnere il cellulare. Io dico ok, ma lo spengo immediatamente, subito dopo avere interrotto la chiamata.
- Bambina, il tuo papà sarà preoccupato. – mi dice nonna Ena, corrucciata, mentre io addento la torta e mugolo di piacere nel sentire quanto è buona.
- Non è il mio papà. – borbotto fra un morso e l’altro, - È solo uno che si prende cura di me.
- E qual è la differenza? – mi chiede nonna Ena. Io non riesco a rispondere.
- Dici che dovrei tornare? – chiedo in un bisbiglio sommesso, posando la torta e guardando per terra, - Ma io voglio restare qui. Potrei aiutarvi, anche se non sono tanto bravo con i lavori domestici o… l’agricoltura e l’allevamento o qualsiasi altra cosa facciate qui per vivere. So solo cantare, a volte sospetto neanche tanto bene. Ma potrei cantare per voi! – propongo illuminandomi, - Ti va, nonna Ena? Posso cantare mentre ti reggo il gomitolo e tu lavori a maglia!
Nonna Ena sorride ed annuisce. Io batto ancora le mani, recupero il gomitolo e poi chiudo gli occhi, mettendomi a canticchiare qualche canzone a caso. Di quelle vecchissime, quelle che scrivevo nella mia cameretta da piccolo, quelle che a far parte del repertorio dei Tokio Hotel non ci hanno nemmeno provato. Roba orribile che solo Tom può vantare di avermi sentito cantare. Eppure le ricordo ancora, e per qualche secondo, mentre resto lì a dondolare con gli occhi chiusi e il gomitolo di nonna Ena mi si svolge fra le dita poco a poco, mi sembra quasi di aver ritrovato quell’automatismo che mi rendeva così facile salire sul palco e cantare senza pensare a nient’altro.
E poi, del tutto inaspettatamente, nonna Ena mi sussurra all’orecchio che sono stonato. Solo che non è nonna Ena, è una signora di mezza età magra, appuntita e spigolosa, con un mascherone di trucco sul volto, seduta al tavolino accanto al mio. La stazione di servizio è affollata perché ormai sono quasi le due, la zona ristorante è piena di automobilisti e famiglie in pausa dal viaggio. Quando eravamo piccoli, mamma e Gordon ci portavano spesso a fare di queste scampagnate. Saltavamo in macchina e ci allontanavamo solo di qualche chilometro, giusto per dire di averlo fatto. Raggiungevamo il lago, magari, ed andavamo in barca. Era divertente.
- Mi scusi. – biascico, imbarazzato fino all’inverosimile.
- Non preoccuparti, tesoro, non tutti siamo nati con una voce da usignolo. – dice lei, scrollando le spalle, del tutto disinteressata alla gravità di quanto ha appena detto. Evidentemente non mi conosce, o se anche ha sentito parlare di Bill Kaulitz non riesce a vedere quel nome in questo me stesso così diverso. Non capisco perché la cosa dovrebbe stupirmi, d’altronde: se stamattina io per primo non sono stato in grado di riconoscermi guardandomi allo specchio, come posso pretendere che ci riesca questa donna adesso?
Guardo in basso, verso il mio piatto. C’è ancora mezza fetta di torta ai mirtilli, ma sapere che non è stato davvero nonno Joseph a prepararla mi toglie improvvisamente tutta la voglia che avevo di finirla. La lascio dov’è, passo sbrigativamente alla cassa per pagare e poi esco, stringendomi un po’ nella giacca perché il sole sta cominciando a tramontare e in aperta campagna a quest’ora fa già freddo. Era così anche quando io e Tom eravamo piccoli. Attorno a Loitsche non c’era niente tranne, appunto, campagne sterminate. Io odiavo uscire anche allora, avevo sempre paura che un’ape potesse pungermi, ma Tomi in qualche modo riusciva sempre a convincermi ad accompagnarlo dovunque volesse, perciò finivamo sempre a passare un sacco di tempo all’aperto, nonostante a me facesse abbastanza schifo. E ricordo che Tomi non sentiva freddo quasi mai – più che altro perché s’era convinto che sentire freddo fosse una roba da femminucce, per cui magari congelava ma non rinunciava mai ad andare in giro in canottiera – ma portava con sé la felpa apposta per potersela sfilare ed appoggiarmela sulle spalle quando io, puntualmente, verso il tramonto, mi accucciavo da qualche parte e mi raggomitolavo come un riccio, tremando per il freddo.
Non mi manca quel periodo della mia vita, però mi mancano quei momenti in cui potevo dire di non avere altro che pensieri sul mio glorioso futuro da star in testa. Momenti in cui chiudevo gli occhi e, mentre Tomi blaterava al mio fianco, seduto su un sasso con gli occhi fissi sul sole che tramontava all’orizzonte oltre i campi arati di fresco, io mi concedevo una rara mezz’ora di silenzio dalla mia usuale logorrea e restavo lì, avvolto nella sua felpa enorme, col cappuccio calato sulla testa, e mi immaginavo cantare su un palco, felice come non ero mai stato e in altro modo non avrei mai potuto essere. E mi mancano quei momenti, perché allora nella mia mente era tutto chiaro. Avevo una strada da percorrere e non poteva essere altro che luminosa e splendida. Ora, dalla piazzola di una stazione di servizio persa nel niente nel bel mezzo della Germania, guardo l’autostrada verso sinistra e verso destra e non saprei nemmeno che direzione imboccare per tornare al tourbus.
Così, faccio quello che ho sempre fatto ultimamente in tutte le altre occasioni in cui mi sembrava di essere troppo confuso per decidere qualcosa da me. Tiro fuori il cellulare dalla tasca, lo accendo, ignoro chiamate perse ed sms cui non risponderò mai e compongo a memoria il numero di Fler.
- Pronto? – dice lui, e nel momento stesso in cui sento la sua voce prendo una direzione a caso e comincio a camminare con passo spedito lungo il ciglio dell’autostrada, radente al guard-rail. – Pronto? – ripete. Io deglutisco, guardando dritto di fronte a me.
- …scusa. – rispondo piano, - Come stai?
- …dovrei chiederlo io a te. – risponde Patrick, il tono talmente preoccupato che riesco quasi a immaginarlo qui con me mentre mi gira intorno e mi guarda da ogni parte per assicurarsi che sia ancora tutto intero. – Ragazzino, è tutto a posto? – insiste, - Ti sento strano.
- Strano? – chiedo io, mentre poco a poco, man mano che il paesaggio torna a farsi familiare ai miei occhi, mi rendo conto di aver fatto all’andata molta meno strada di quanto avessi immaginato, - No, perché dovrei?
- Non lo so, - risponde subito lui, - era un’impressione, sei… non lo so. – si interrompe appena, giusto il tempo di cui ho bisogno per capire che il modo in cui sono cambiato è così radicale ed evidente che se mi si conosce abbastanza bene non c’è nemmeno bisogno di guardarmi in viso per capire che è successo. Patrick lo capisce anche solo sentendomi parlare, e di questa cosa ho talmente tanta paura che chiudo gli occhi e proseguo per molti metri senza guardare niente, a rischio di ammazzarmi, terrorizzato dall’idea di ammettere che in fin dei conti la prospettiva non mi spaventa più di tanto. Fra le numerose cose che Anis ha devastato entrando, uscendo e poi rientrando nella mia vita a proprio piacimento, c’è anche la concezione di morte come qualcosa di irreversibile. In qualche modo, perfino adesso, sto pensando che se mi lasciassi scivolare sotto un camion e morissi, poi qualcuno arriverebbe a risvegliarmi dal mio sonno baciandomi sulle labbra. Il bacio del vero amore. Almeno, forse una cosa simile riuscirebbe ad indicarmi chi sia. – Ma c’è qualche problema? – chiede Fler, e io mi prendo qualche secondo, prima di rispondere.
- Sai che ho tagliato i capelli? – gli chiedo, e nel mentre mi passo una mano fra le ciocche scure e bionde che mi scivolano lungo il collo e sulle spalle, - O forse devo ancora farlo, non ricordo. O forse l’ho già fatto, ma tantissimo tempo fa, e sono già ricresciuti.
- Bill? – mi chiama subito lui, e sento l’ansia nella sua voce, - Bill, ma stai male?
- Male? – chiedo, e mi viene da ridere. Male, no, non sto male. Avrei potuto dire di stare male quando ancora ero in grado di sentire qualcosa, ma quando ogni centimetro del tuo corpo è già stato preso a bastonate più di quanto tu non sia in grado di sopportare, il dolore sfuma e non esiste più. Non lo so nemmeno cos’è che potrebbe farmi male adesso. – Ma no. – rispondo sorridendo, - Sto bene. Non devi preoccuparti. – inspiro profondamente e sollevo lo sguardo. Ad una decina di metri da me ci sono i tourbus, fermi dove li ho lasciati. Nessuno si accorge di me che arrivo, nessuno guarda nella mia direzione. – Ora devo andare. – dico a Fler, - Mi sa che è proprio ora di tagliare i capelli.
Interrompo la conversazione immediatamente, senza dargli il tempo di ribattere, o di fermarmi. Oltrepasso il cavalcavia e faccio qualche metro sulla terra brulla che anticipa il sollevarsi delle colline poco più avanti. Giro attorno ai tourbus, passo dal retro, m’infilo all’interno del mio senza che nessuno mi veda, e scivolo silenzioso in bagno. Il tourbus dev’essere vuoto, perché non si sente volare una mosca. Da fuori, sento l’eco un po’ bassa e distante di alcune persone che parlottano nella piazzola. Non riesco a capire chi sono, né cosa dicono. Me ne disinteresso.
Mi allungo a recuperare il beauty case, frugo un po’ all’interno e trovo il necessario per la manicure. E le forbicine. Non sono adatte per ciò che voglio fare, ma forbici grandi qui non ce n’è, perciò dovrò accontentarmi.
Taglio via una ciocca dopo l’altra. Quelle scure, quelle chiare. Le taglio prima verso là metà della lunghezza, irregolari e storte, e si spelacchiano tutte. Mi guardo allo specchio. Non sono ancora io. Taglio più in alto, un po’ qui e un po’ là. Cerco un me stesso più piccolo e più sorridente, un me stesso che poteva passare ore davanti allo specchio armato solo di una confezione di gel per capelli, per poi uscire dal bagno con un’acconciatura tale da far commentare ai passanti “ma non hai ancora imparato a non mettere le dita nelle prese elettriche, Kaulitz?”. Sorrido ripensando a quel bambino, e mi metto a piangere quando continuo a non trovarlo nonostante tutto. Dovrebbe essere ancora qui, sepolto sotto le macerie, in fin di vita ma col cuore ancora forte che batte nel petto, e invece è sparito. Non l’ho solo sepolto vivo, l’ho nascosto agli occhi del mondo, così profondamente e tanto a lungo da averlo perso per sempre.
Sto ancora sorridendo e piangendo insieme quando sento il click familiare della serratura della porta del bagno. Mi volto verso la porta che si apre e quando incontro gli occhi di David non mi chiedo neanche per un secondo come sia possibile che sia stato proprio lui a trovarmi. La mia vita è cominciata quando sono stato trovato da quest’uomo. Non sarebbe mai potuta andare diversamente adesso.
- Bill… - dice lui, senza fiato, i lineamenti del viso tesi in una maschera di apprensione e sconforto, - Quando… quando sei tornato?
Mi stringo nelle spalle e nello stesso istante in cui lo faccio il pianto silenzioso che mi ha accompagnato fino ad adesso si fa lentamente sempre più rumoroso. Gemo e singhiozzo e comincio a respirare male, perciò David entra in bagno, chiude la porta alle proprie spalle, si allunga a sbarrare la finestrella aperta in alto sopra la mia testa e poi si china su di me e mi stringe fra le braccia. Io sono talmente stanco che sento ogni fibra del mio corpo sciogliersi e perdere consistenza, mentre mi nascondo sul suo petto e stringo la sua maglietta tanto forte da farmi male alle dita. E continuo a piangere.
- Non so cosa sto facendo. – dico piano, a fatica, schiacciandomi con forza contro di lui perché non voglio vedere me stesso e non voglio vedere neanche nient’altro. – Non mi riconosco. Quando mi guardo in faccia, David, dico davvero, non sono io. Quello non sono io.
- Io ti riconosco. – mormora David, cullandomi lentamente, - Io lo so chi sei, Billi. Sei solo un po’ opaco, ma sei sempre tu. Guarda. – aggiunge con un mezzo sorriso, prendendomi per le spalle e facendo girare lo sgabello su cui sono seduto abbastanza da permettermi di guardarmi allo specchio, - Come fai a non vederti? Chi altri potrebbe essere così bello anche dopo essersi tagliato i capelli con gli occhi palesemente bendati ed avere poi pianto per mezz’ora?
- Sono orribile! – dico, distogliendo lo sguardo e coprendomi il viso con entrambe le mani. David le scosta, accompagnandole finché non le abbasso, e poi mi prende il mento fra le dita, obbligandomi a tornare a fissare il mio riflesso nello specchio.
- Sei bellissimo. – dice con sicurezza, - Anche se in effetti sono costretto ad ammettere che il lavoro che hai fatto con questi capelli è davvero raccapricciante, tesoro. – aggiunge con tono frivolo, gesticolando un po’ mentre si china a recuperare le forbicine dal lavandino, - Dico davvero, Bill, che delusione, sei un disonore per la tua intera razza. L’autorità costituita dell’Ordine Mondiale degli Omosessuali nel Mondo dello Spettacolo non sarà per niente contenta di tutto questo. A maggior ragione visto che sei il mio figlio spirituale, voglio dire, non ti ho insegnato niente in tutti questi anni? Si può soffrire, ma con grazia. – annuisce compitamente.
Io mi appoggio di schiena al suo petto e lo osservo mentre mi maneggia con una cura che non riesce a stupirmi nemmeno in parte. Lo ascolto mormorare rassicurazioni prive di senso e continuare a blaterare a caso su questo fantomatico Ordine Mondiale Gay che a suo dire dovrebbe strapparmi di dosso il distintivo di Vero Gay che nemmeno posseggo perché non sono stato in grado di tagliarmi decentemente i capelli mentre non riuscivo a vedere a due centimetri dal mio naso, tante erano le lacrime che mi offuscavano la vista. Lo guardo mentre pareggia il taglio ai lati della mia testa e sistema le ciocche di capelli più lunghi che sono rimasti in cima, osservando il tutto con aria critica fino a quando gli si illuminano gli occhi e lo vedo girare su se stesso con una piroetta entusiasta, spalancando sportelli in dieci centimetri di spazio per recuperare il rasoio elettrico prima di invitarmi a chiudere gli occhi e rilassarmi, che quando li avrò riaperti allora sì che riuscirò a riconoscermi.
Li riapro almeno mezz’ora dopo. Non sono sicuro di non essermi addormentato. Schiudendo le palpebre, i miei occhi incontrano il riflesso della mia immagine, nello specchio. David sta accarezzando i miei capelli con l’attenzione e l’affetto di un padre. Sulle sue labbra s’è aperto un sorriso distratto e lieve, mentre non lo guardavo. Passa le dita fra le ciocche scure, sistemandole sopra la mia testa con cura, e sembra sereno. Così sereno.
Riporto lo sguardo sullo specchio. Quello continuo a non essere io. Non riesco nemmeno a sentire le sue carezze, o il calore del suo petto che si alza e si abbassa sollevandomi ad ogni respiro, proprio dietro di me. Non c’è niente. Non c’è più niente.
Chiudo gli occhi e ricomincio a piangere. Silenziosamente. Non voglio dare fastidio a nessuno.
David finisce di sistemare il taglio e poi mi abbraccia piano, come avesse paura di disturbarmi.
- Ti lascio un po’ tranquillo, ok? – mi sussurra all’orecchio. Io annuisco e lui sorride ancora, stringendomi una spalla con fare rassicurante prima di uscire dal bagno. Pochi secondi dopo lo sento abbandonare anche il tourbus, e la mia testa comincia a girare in un modo nuovo. È una sensazione che non ho mai provato, come stare a guardare mentre le cose che decido e che faccio semplicemente accadono, una dietro l’altra. Non ho davvero una parte, in tutto questo. Sono attore e spettatore, ma quasi nemmeno mi muovo.
Esco dal bagno. Prendo uno zaino. Lo riempio di roba a caso. Dove sto andando, niente di tutto questo mi servirà, eppure per qualche motivo l’idea di muovermi senza niente mi disturba. Prendo il beauty case. Una maglietta. Un paio di calzini ed uno di mutande. Due merendine ed una bottiglietta d’acqua dal frigo. Il portafogli. Infilo la giacca ed esco all’esterno. Ritorno dentro, mi avvicino al tavolo e prendo un post-it dal cassetto del cucinino. Scrivo sopra che avevo sonno e mi sono infilato nella cuccetta. Prego di non svegliarmi fino a domani. Saluto Peter disegnando un cuore nell’angolo in basso. Lascio il post-it dov’è e torno fuori. Mi guardo intorno, non c’è nessuno nelle vicinanze. C’è un bel po’ di gente assiepata di fronte all’entrata dell’autogrill. Alcuni si agitano, guardano verso uno schermo. Probabilmente stanno seguendo qualche partita. Quando stavo con Anis ero sempre al corrente delle partite che si giocavano, ogni settimana. Dovevo, visto che lui il calcio lo adora. Era carino stare sdraiati sul divano la domenica sera. Lui guardava la tv, io guardavo lui e mi ripetevo quanto fossi fortunato.
Sorrido un po’, sperando che Anis sia dentro l’autogrill con gli altri. Sperando che stia guardando la partita e si stia divertendo e non stia pensando a niente. Giro attorno ai tourbus e scavalco il guardrail. Percorro a ritroso la stessa via che ho fatto tornando qui non più di un paio d’ore fa, e raggiungo la stazione di servizio della torta ai mirtilli in meno di venti minuti. Mi rendo conto di quanto abbia dilatato il tempo all’andata e anche al ritorno, e realizzo coscientemente per la prima volta che non c’era nessun villaggio perso in mezzo ai campi di grano, nessuna nonna Ena, nessun nonno Joseph.
Entro nell’autogrill, chiedo una fetta della stessa torta che ho mangiato prima e me la faccio mettere in una confezione da asporto. Dopodiché spiego che ho bisogno di raggiungere Berlino al più presto, ma il tipo oltre il bancone mi guarda come fossi completamente pazzo per qualche secondo, ed allora aggiungo che andrà bene anche una stazione ferroviaria, che poi da lì mi organizzerò da solo. Mi si avvicina una signora con un bimbo in braccio e mi dice che lei e suo marito stanno giusto tornando in città, e per loro non è un problema accompagnarmi fino alla stazione, se per me non è un problema viaggiare con estranei. Sorrido e la ringrazio, assicurandole che non c’è proprio nessun problema. Come potrebbe? Se non volessi viaggiare con un estraneo, non potrei viaggiare nemmeno con me stesso.
In macchina resto più che altro in silenzio. La signora e il signore mi fanno un sacco di domande, ed io rispondo a tutte, per quello che posso, ma senza aprirmi troppo. Il bimbo, ancorato al seggiolino sul sedile posteriore, proprio qui al mio fianco, ad un certo punto si mette a piangere, forse a causa di un po’ di mal d’auto. Afferro uno dei sonaglini sparsi in giro per la macchina e comincio a distrarlo. Il bambino mi segue, dopo un po’ smette di piangere. Continuo a farlo giocare facendo smorfie e agitando il sonaglio, e vedo i suoi genitori sorridere e sorridersi nel riflesso dello specchietto retrovisore. Mi viene un po’ da piangere, ma non cedo.
Arriviamo in stazione che è già buio, ma siccome non è tanto tardi c’è un sacco di gente in giro, e treni che arrivano e ripartono ad ogni binario. La stazione è tutta illuminata, c’è un McDonald’s aperto nel quale ho paura di entrare. Cerco sul tabellone il primo treno per Berlino. È un treno notturno e parte fra mezz’ora. Mi dico che sono stato fortunato anche stavolta, lo sono spesso e senza nessun motivo. Compro un biglietto e poi mi seggo in sala d’aspetto, tenendo sempre d’occhio il tabellone degli arrivi. Ho fame e mi annoio. Tiro fuori la fetta di torta ai mirtilli dalla sua confezione e la mangio con piacere immenso, chiudendo gli occhi ed assaporandola lentamente.
Quando finisco, è già ora di muoversi. Esco dalla sala d’aspetto, salgo sul treno, prendo posto in uno scompartimento quasi vuoto – c’è solo un uomo seduto dal lato opposto, e dorme profondamente – e mi appoggio al finestrino, guardando la notte e la città e la campagna mentre scorre davanti ai miei occhi diventando una macchia scura priva di contorni distinguibili, con qualche luce che appare all’improvviso e altrettanto all’improvviso scompare, lasciando solo una traccia sulla mia retina. Ogni traccia resiste per qualche secondo, sia che io tenga gli occhi aperti sia che io li chiuda, perciò a un certo punto li chiudo e resto lì appoggiato, inspirando ed espirando profondamente l’aria ghiacciata che entra dentro dallo spiraglio del finestrino appena abbassato.
Mi sembra di chiudere gli occhi solo per dieci minuti, o qualcosa del genere, ma quando li riapro è già mattina. Sono stanco esattamente come ieri, ma mi tiro in piedi e cerco di stare ben dritto sulle gambe quando il treno, dopo un millennio da quando ha cominciato a rallentare in prossimità della stazione, si ferma. Recupero il mio zaino e scendo barcollando, reggendomi a qualsiasi cosa incontri per strada e sia ancorata abbastanza saldamente al suolo. Dio, sono così stanco.
Controllo il cellulare che durante la notte, in modalità silenziosa, ha squillato di continuo. Trenta chiamate solo da Peter, non molte di meno da David, cinque o sei da Tom, un paio perfino da Anis. Il mio biglietto non deve averli convinti molto.
Sospiro, cancellando l’elenco delle chiamate e spegnendo il cellulare. Chiamo un taxi e, quando il tassista mi chiede dove voglio andare, per un secondo non ho idea di cosa rispondergli, perché non voglio andare da nessuna parte. Se nessuna parte esistesse, sarebbe lì che andrei. Sarebbe sicuramente un posto come quello che ho visto mentre sognavo, o comunque non ero in me, alla stazione di servizio. Poche case, una piazza, un pozzo, campi di grano ovunque, bambini, donne, persone anziane, lavoratori lontani come miraggi. Ma quel posto non esiste, e io ho bisogno di sentirmi al sicuro, e negli ultimi anni c’è solo un posto in cui sia riuscito a sentirmi così.
Do al tassista l’indirizzo della Villa Gialla, e sorrido man mano che le strade che percorriamo si vanno facendo sempre più familiari e rassicuranti. Riesco a rivedermi imboccare queste stesse strade sulla mia macchina, o su quella di Tomi, quando riuscivo a rubargliela o a convincerlo ad accompagnarmi lui, non perché ne avessi bisogno ma semplicemente perché mi piaceva l’idea. Perché quello era un periodo in cui potevo fare le cose anche solo perché mi andava. E mi manca.
Della Villa Gialla ho ancora le chiavi. Non le ho mai ridate ad Anis. Le tengo assieme a tutte le altre nel mazzo, un mazzo enorme con cinquecento portachiavi e che pesa più di me. Pago il tassista ed aspetto che il taxi sia sparito dietro il primo angolo prima di tirarlo fuori. Apro il cancello e sento i cani abbaiare. Sono aggressivi, all’inizio, tirano le catene tanto forte che mi viene quasi da pensare che riusciranno a muovere perfino le cucce, come nei cartoni animati, ma quando si allungano abbastanza da vedere che sono io il loro abbaiare si fa meno aggressivo e più festoso, smettono di tirare e cominciano a saltellare. Mi avvicino piano e mi chino davanti a loro, che subito si accoccolano davanti a me per un po’ di carezze. Gratto Skyline sulla pancia e Sherlee dietro le orecchie, poi mi rimetto in piedi ed entro in casa. È tutto buio e c’è silenzio ovunque. I cani riprendono ad abbaiare per qualche minuto, ma quando si rendono conto che non li farò entrare smettono, e tornano ad accucciarsi all’interno delle loro pittoresche casette di legno. Io spalanco le imposte di una sola finestra in salotto. La luce investe il divano ed è lì che mi vado a sedere, poggiando lo zaino sul pavimento e fissando un punto imprecisato nel vuoto.
È anche qui che mi trova Patrick quando entra in casa, non so quante ore dopo. Abbastanza perché il sole sia tanto alto nel cielo da colpire la stanza per intero, illuminandola tutta. Ho osservato i raggi farsi più ampi, li ho sentiti farsi più caldi, e smetto di guardarli solo quando sento la chiave girare nella toppa e la porta aprirsi su di lui, che mi individua subito, dall’ingresso, e spalanca gli occhi.
- Bill? – mi chiama. È talmente incredulo che gli trema la voce. – Bill, ma che cazzo ci fai qui?
Mi rannicchio un po’ sul divano, sorridendo debolmente. Sono così stanco, mi si chiudono gli occhi.
- Sono scappato. – ammetto, troppo stanco per inventare balle, - Non ce la facevo più.
- Sei— sei scappato? – sillaba lui, sconvolto, sedendosi sul divano e sporgendosi tutto verso di me, come avesse paura di vedermi crollare all’improvviso e dovesse tenersi pronto ad allungarsi per recuperarmi prima che mi schianti a terra.
- Sì. – biascico io, trovando non so dove la forza per annuire, - Patrick, non capisco più niente di quello che succede. Io credo di essere impazzito. – rido un po’, ma è una risata talmente debole e stanca che fa più paura a me di quanta ne faccia a lui. Ed a lui già ne fa tanta, lo vedo dal brivido che gli scorre per tutta la schiena, costringendolo a tremare impercettibilmente.
- Come sarebbe a dire che credi di essere impazzito? – mi chiede, strisciando sul divano fino ad avvicinarsi abbastanza perché il mio corpo possa reagire come fa sempre quando non ce la fa più a sostenersi da solo. Mi perdo fra le sue braccia, abbandonandomi contro il suo petto e chiedendomi se questo non sia poi il motivo principale per cui sono pieno di guai. Per la vita che mi sono scelto, io dovrei essere molto più forte di così. Però non lo sono, e questo mi porta a causare un sacco di guai a me stesso ed agli altri. Questa cosa è così ingiusta. Però io sono così stanco.
- Non sono più io. – mugolo confusamente, cercando di non piangere nonostante gli occhi siano così carichi di lacrime da bruciare, - Non mi riconosco. Sto un sacco male, Patrick.
Patrick mi stringe e mi accarezza i capelli e il collo, cullandomi col ritmo dei suoi respiri.
- Stai bene, così. – dice a bassa voce, passando le dita fra le punte cortissime dei miei capelli. Io ringrazio così piano che lui nemmeno mi sente. – Bill, - mi chiama, ed io istintivamente so che sta per dirmi qualcosa che non sono sicuro di voler sentire, - tu lo sai perché le cose vanno così male.
Stringo i denti, aggrottando le sopracciglia e stringendo un lembo della sua maglietta fra le dita.
- No che non lo so. – rispondo con tono lamentoso.
Lui mi stringe più forte, cullandomi lentamente.
- Alle volte le cose vanno fatte anche se ci fanno stare male. – dice, e gli trema la voce. E so che sta parlando per me, in questo momento, ma anche per se stesso.
- Non voglio. – piagnucolo. Non riesco più a trattenere le lacrime che nel mentre si sono gonfiate così tanto da cadere a gocce enormi sulla sua maglietta, sui suoi pantaloni e sulle mie mani.
- Bill, tu… - sospira e riprende ad accarezzarmi la nuca, senza smettere un secondo di ondeggiare avanti e indietro, - …tutti noi, in realtà. Ci siamo tutti persi. Abbiamo bisogno di ritrovarci, ma non possiamo farlo finché—
- Non dirlo.
- Finché non riusciamo a concentrarci solo su noi stessi. – conclude lui, stringendomi fortissimo perché sa che se non lo facesse scapperei. Ci provo, a divincolarmi, ma sono così stanco che non riesco. Trattengo il fiato così a lungo che mi sembra di potere esplodere, e poi lo rilascio e scoppio a piangere più forte di quanto non facessi prima, mugolando che non voglio, non voglio lasciarli, sono tutto il mio mondo, sono la ragione per cui sono qui, tutti loro, tutti e tre, in modo diverso ma ugualmente importante, e non ce la faccio proprio a metterli da parte, non ci riesco, non voglio. E mentre piango sempre più forte, e la mia voce si fa sempre più stridula e lagnosa, Fler mi stringe sempre con meno convinzione ed io realizzo che questa persona che piange e si lagna e non ha coraggio né forza di volontà non sono io. Ed è questo il motivo per cui mi guardo allo specchio e non mi riconosco. Questo stupido ragazzino impotente non sono io. Io non avevo ancora diciott’anni quando mi sono innamorato sul serio ed ho deciso che avrei conquistato l’uomo che amavo. Non avevo ancora diciott’anni quando ho ascoltato ciò che quest’uomo aveva da dirmi ed ho deciso di accettare tutto, di lui, perfino il suo passato, perché era ciò che serviva per averlo. Ed ero ancora più piccolo quando ho deciso cosa dovevo fare della mia vita, ero ancora più piccolo quando ho cominciato a lavorare, ad un’età in cui i ragazzini normali ancora si svegliano alle sette e si lamentano o inventano scuse per non andare a scuola.
Ora sono qui che piango e strepito e faccio i capricci come uno di quei ragazzini che non sono mai voluto essere. E questo non sono io. Non è così che mi voglio. E se è vero che mi sono perso, devo assolutamente ritrovarmi.
Mi allontano da lui, raddrizzando le spalle e passandomi una mano sugli occhi per asciugare le lacrime. Patrick mi osserva farlo e non ha bisogno di chiedermi niente per capire che finalmente ci sono arrivato anch’io.
Mi alzo subito in piedi, non perché voglia scappare, ma perché voglio fare qualcosa. Una cosa qualsiasi. Anche soltanto alzarmi in piedi e girare attorno al divano per sgranchirmi le gambe. Improvvisamente, sono molto meno stanco di quanto non fossi prima. Forse ero solo così pieno di tristezza da non riuscire a muovermi come volevo. Forse dovevo soltanto piangerla via.
- Partirò. – dico annuendo. Guardo fuori dalla finestra, le strade piene di persone e il sole altissimo nel cielo azzurro macchiato appena da qualche sbuffo bianco semitrasparente. – Me ne andrò in qualche bel posto con Tomi. Alle Maldive, magari. Io e lui dobbiamo dirci tante cose.
Patrick annuisce, sorridendo debolmente ed affiancandomisi per abbracciarmi ancora.
- Sarebbe meglio non sentirsi. Nemmeno noi. – dice, quasi per assicurarsi che abbia capito bene il concetto.
- Sì. – rido io, - Lo so perfettamente. Parlerò con David. Risolverò questa situazione.
Patrick si allontana, guardandomi con aria un po’ incerta ma profondamente divertita.
- Chi sei tu? – chiede ridacchiando, - Non ti ho mai visto così.
- Tu non mi hai mai conosciuto. – rispondo con un sorriso più dolce, allungandomi ad abbracciarlo a mia volta, - Quando sarò tornato, quando starò meglio, vorrò che tu mi conosca. Partiremo insieme, e stavolta sarà diverso da tutte le altre volte. Credimi.
Mi allontano ancora e frugo nelle tasche dei jeans, tirandone fuori il mazzo di chiavi. Lo guardo per qualche secondo, facendolo tintinnare sul palmo della mano, e poi stacco le chiavi del cancello e di questa villa, e le do a Fler.
- …sono…? – chiede lui con aria incerta. Io annuisco.
- Non le ho mai ridate ad Anis. – confesso, - Puoi fargliele avere tu?
Patrick annuisce, prendendo le chiavi in mano e conservandole subito in tasca. Lo saluto con un bacio sulla guancia, recupero il mio zaino e mi avvio lungo il corridoio.
- Stammi bene, ragazzino. – mi saluta lui, sbuffando un sorriso incerto. Gli faccio un cenno con una mano, prima di sparire oltre la soglia e lasciarlo in salotto. Sono ancora qui, ma non vedo l’ora di essere fuori. Chiamerò Tomi appena arrivato a casa. Gli dirò tutto. Sistemeremo tutto. Posso già sentire il calore del sole sulla pelle, la consistenza dei granelli di sabbia fra le dita, l’acqua ghiacciata che mi scivola fra i capelli e sul viso.
Attraverso tutto il corridoio e, quando arrivo a un passo dalla porta, mi volto verso lo specchio alto e largo sopra la consolle, e mi sorrido. Sento che sto sorridendo proprio a me stesso, e capisco che la direzione, stavolta, è quella giusta.

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Where do we go from here

di tabata
Ci sono momenti in cui non so davvero da che parte cominciare a raccontarvi le cose.
Non è una questione di come presentarvele perché so già che le capireste in qualsiasi modo io ve le proponga e non ho quel tipo di pudore nei vostri confronti che mi spinge a dipingere gli avvenimenti in maniera diversa per farli sembrare meno gravi, meno ridicoli o incredibilmente meno stupidi di quello che sono. Vi ho raccontato io stesso quasi tutte le parti più imbarazzanti della mia relazione con Chakuza, quindi direi che non c'è niente che non vi racconterei per vergogna.
Il punto è che mi trovo di fronte il problema di dovervi spiegare quello che è successo dall'ultima volta che qualcuno di noi vi ha parlato – era Bill ed era sconvolto, quindi fate voi – e si tratta di così tante questioni tutte insieme che in pratica è come quando la signora Lotte si presentava a casa di Peter con mezzo chilo di lana in una borsa e ci chiedeva di aiutarla a farne tanti gomitoli separati. Noi guardavamo questa matassa amorfa di fili colorati senza né capo né coda e ci chiedevamo da che parte esattamente dovessimo cominciare ad arrotolare. D'altronde è per questo che il compito è toccato a me, perché quando c'è da tirare le somme tutti si danno alla macchia e chi rimane sono sempre io. Il sottoscritto ha fatto il punto della questione quando Bushido è morto, quindi va da sé che debba farlo anche per la resurrezione. Per me non era così automatico, voglio dire, la metà di quello che sto per dirvi nemmeno mi riguarda!, ma non ho mai avuto voce in capitolo quindi direi che possiamo anche sederci e cominciare.
Io e Peter con la lana eravamo due disastri e ricordo che la signora Lotte lasciava ogni volta che la tirassimo fuori dalla borsa e che poi, nel tentativo di sbrogliarla, finissimo per annodarci; quindi sorrideva benevola e trovava in un secondo il capo che ci serviva, come se avesse sempre saputo che era là o come se ai suoi occhi quello brillasse per farsi individuare da lei più facilmente. Non so come facesse, ma le bastava guardarci per capirlo. Ora io non sono altrettanto bravo mentre guardo metaforicamente Chakuza, Bushido e Bill annodati tra i fili di lana con i quali hanno tentato per quasi un anno intero di legarsi e poi strangolarsi a vicenda, ma se guardo attentamente la questione e cerco di non pensare a come mi sento al riguardo, il capo lo vedo abbastanza bene. E quel capo, manco a dirlo, è Bill.
Non voglio certo dire che sia stato il ragazzino a scatenare la sequenza di disgrazie più o meno gravi degli ultimi mesi, ma di certo lui è il primo minuscolo sassolino che ha poi generato la valanga, e tutto, come sempre, senza muovere nemmeno un dito. E' un talento di Bill quello di essere involontariamente un guaio per il solo fatto di starsene lì come un piccolo sole al quale tutti orbitiamo intorno.
Ma stavo parlando di lana, di fili e di reazioni a catena. Lo so. Non sono Chakuza, io, non mi perdo, cerco solo di prendere tempo per riordinare le matasse.
Dunque, innanzitutto Bill ha deciso, per la prima volta nella sua vita, di seguire il consiglio di qualcuno e quando gli ho spiegato che forse la soluzione che ci serviva per sopravviere era separarci, mi ha dato ragione e ha fatto l'unica cosa che poteva fare: ha preso suo fratello e con il favore delle tenebre è sparito dalla faccia della terra, lasciando David Jost a coprire le sue tracce e, probabilmente, a farsi spettinare dai grandi capi della Universal che per colpa degli ormoni iperattivi del suo enfant prodige hanno perso non so nemmeno quanti miliardi. Lo stesso consiglio, che mi sono prodigato a dare a chiunque perché ero stanco e perché davvero ero e sono ancora convinto che fosse quello giusto, lo hanno seguito anche Bushido e Chakuza, il che paradossalmente ha creato più confusione, forse perché nel loro caso non c'era un manager gay pronto a deviare gli attacchi nemici a colpi di organizer. Chissà.
In pratica è andata così e vi avviso che non è stata una sopresa per nessuno. La Universal Music Deutschland ha pensato che l'esperimento con i non-morti fosse da considerarsi concluso e ha mandato a Bushido una bella lettera in cui scaricava lui, l'etichetta e tutti gli uomini trainati nel bene o nel male dal suo grande carretto dorato. Allo stesso tempo, ha perso la pazienza anche nei confronti dei quattro ragazzini e dopo aver permesso a David di mentire un'ultima volta su tutto ciò che era successo e chiedere del tempo per far riprendere Bill, ha scaricato anche i Tokio Hotel con un gran sorriso e l'augurio sincero che l'imminente periodo di vacanza potesse in effetti fargli bene.
Cos'abbia fatto esattamente David a quel punto io non lo so, perché avevo i miei problemi a cui pensare e perché non appena si è sparsa la voce che il contratto dei quattro era stato annullato, l'invasione mediatica delle supposizioni e degli avvoltoi si è fatta talmente pesante tra televisioni, radio e giornali da spazzare via totalmente anche la mia voglia di informarmi o di chiamare il ragazzino e chiedergli come stava.
So però cos'è successo all'Ersguterjunge perché ero ancora lì quando Bushido ha dato agli altri la notizia e c'ero solo perché Anis mi ha chiesto di esserci prima di perderci di vista per un po'.
Dal momento che il colossale fallimento del suo tour con l'uomo più odiato e quello più amato della sua vita era noto a chiunque, Bushido avrebbe potuto non dico chiedere perdono per aver lasciato che l'etichetta andasse allo sbando e per essersi fatto palesemente buttare fuori a calci da chi lo finanziava, ma almeno presentarsi agli studi con la vaga consapevolezza di essere nella merda e di averci trascinato una decina di uomini, giusto per dare l'impressione che gliene fregasse qualcosa; ma ovviamente lui non l'ha fatto perché è Bushido e invece di prendere atto della disastrosa situazione e poi inizire a raccogliere i pezzi, ha finto che non ci fosse nessun problema ed è entrato da quella porta spavaldo come se il mondo gli dovesse qualcosa. Ha preso il fatto di aver perso Bill, la sua casa di produzione e in generale tutta la sua vita in un colpo solo e lo ha ficcato da qualche parte in fondo allo stomaco, per avere la forza di vestirsi ed uscire di casa perché non sopporta di soffrire. Il fatto è che stavolta non c'era nessuno pronto a sopportare la sua spavalderia difensiva, tranne forse me e Chakuza che oscillava per gli stessi motivi tra la sua rabbia furiosa e uno di quegli attacchi di depressione che lo porta ad accasciarsi per non muoversi ipoteticamente mai più. E così l'Ersguterjunge ha subito la sua prima scissione.
A parer mio, Nyze è uno che non ha capito un cazzo della vita o della gente che gli sta intorno; da che sono qui non ho mai avuto una grande opinione di lui, se non quella di uno che voleva far parte di un gruppo di duri da film e si è ritrovato con intorno delle persone reali, senza contare che se davvero si trovasse in mezzo alla gente che vuole lui, probabilmente gli farebbe un gran culo. Così quando ha iniziato ad aggirarsi come un leone in gabbia, menando le mani in aria e imprecando al solo sentir nominare un'altra volta il ragazzino, non mi ha sorpreso proprio per niente perché è quello che vedi nei film, no? Il fratello di strada si agita quando spari cazzate e dice più cazzo possibile, per averlo in bocca nell'unico modo consentito, mica come facciamo noi.
Bushido ha provato ad essere conciliante, gli ha detto di calmarsi e che avrebbe sistemato tutto, che la Universal poteva pulircisi il culo con la lettera di recissione, ma Nyze non lo stava nemmeno a sentire, perché quello era il suo grande momento e voleva solo che lo guardassimo tutti mentre dava a Bill della troia, a noi dei froci e poi se ne andava sbattendo la porta. Una scena di una tristezza sconfinata. Se proprio voleva andarsene, che trovasse le palle di farlo prima invece di continuare a far parte di un'etichetta su cui aveva iniziato a sputare merda due anni prima.
Immagino che il teatrino fosse chiaro a tutti perché nessuno si è preso la briga di fermarlo, nemmeno Bushido, ma per come stavano le cose, con il re incapace di convincere perfino se stesso, l'apatia di Chakuza e davanti agli occhi la fine dei soldi di tutti quanti, nessuno ha avuto la forza di battersi le mani sulle cosce e far vedere che era ottimista. Forse sarebbe servito, ma d'altronde è difficile pensare che tutto andrà bene quando hai scritto in faccia il contrario.
A quel punto Peter si è alzato in piedi e se n'è andato, dando così il permesso a tutti gli altri di farlo.
Bushido si è seduto sulla sua scrivania ed è rimasto immobile finché nella stanza non c'eravamo solo io e lui, quindi con un gesto secco ha buttato giù tutto quello che c'era sul tavolo.
Sono rimasto a contemplare quel disastro finché lui non mi ha detto di andare.
Lo ha fatto senza nemmeno voltarsi e io ho solo annuito, perché me lo sono ricordato a diciotto anni fare la stessa cosa quando un affare andava in merda e Arafat poteva anche incazzarsi peso.
Mi teneva lì finché poteva, finché la rabbia non arrivava all'orlo e poi mi mandava via.
Mentre scendevo le scale ho sentito il vetro dei suoi quadri che andava in frantumi, mi è venuto in mente Chakuza e quasi ho sperato di trovarlo per strada anche se gli avevo detto che era meglio non vedersi per un po'.
Ho scosso la testa e ho come avuto l'impressione che non stessimo migliorando affatto.

*


Che io non so stare in casa da solo ve l'ho già detto così tante volte che ho la nausea perfino io.
Il punto è che finora, quando non volevo stare in casa mia a guardare i miei bei mobili mai usati, c'era sempre un altro posto in cui potevo andare. Quando ero un ragazzino era casa di Anis, poi c'è stata quella di Chakuza, poi lo studio dell'Ersguterjunge e dopo quella notte terribile in cui ho impacchettato Chakuza e l'ho spedito alla Principessa, c'era anche la casa di Nicole.
Ora invece non c'è un bel niente e quindi sto seduto qui di fronte al televisore a chiedermi se non dovrei vendere tutto e, non lo so, cominciare a vivere in albergo. Una stanza diversa ogni sera, così da non sentirmi a disagio se per caso mi guardo intorno e mi rendo conto che in quel posto non ci vivo, che a parte il letto tutto è ordinato, intoccato, come se fosse uscito giusto ora dal negozio.
Sono passati quasi due mesi da quando il casino è successo e in tutto questo tempo non ho fatto molto altro se non starmene seduto qui come sto adesso a chiedermi se invece non dovrei fare qualcos'altro senza poi farlo.
Gli unici momenti in cui effettivamente non sono immobile e non sto contemplando l'universo, sono quelli in cui Danny fa irruzione in casa mia e, come l'adolescente che è, m'impedisce fisicamente di occuparmi di qualsiasi cosa che non sia lui. Ascoltarlo e stargli dietro mi portano via tempo, che è esattamente ciò di cui ho bisogno, ma l'entusiasmo che ha per noi due – qualunque cosa siamo – è drenante e deleterio perché mi lascia più triste di come mi ha trovato quando poi Danny prende il suo zainetto sbrindellato e torna a casa, e mi ritrovo di nuovo qui a guardare il divano in pelle, con l'aggiunta che a quel punto ho in mente lui e mi ricordo che è piccolo, che non dovrei dargli corda e che lui è solo un altro casino in cui mi sono subito infilato quando ancora non ero uscito da quello prima. Solo che è un casino nuovo, sa di fresco e sembra ancora risolvibile, non come tutti gli altri.
Oggi è una di quelle giornate, anche se non vedo Danny da quattro giorni. O forse è una di quelle giornate proprio per questo, perché non so esattamente dove sia e, visto l'ambiente in cui vive, non sono tranquillo e finisco a pensare. A tutto. A lui, a me e a questa casa in cui non mettevo piede da così tanto che quando ho aperto la porta c'era un puzzo di chiuso che ti prendeva alla testa.
Mi chiedo se c'è stato un tempo nella mia vita in cui non ero così incasinato in questo modo perché ormai mi sveglio la mattina e mi sembra di essere sempre stato così e che in realtà non trovo una soluzione al mio problema perché il problema non c'è e dovrei semplicemente prendere le cose così come sono e continuare a vivere come presumibilmente vivevo anche prima, ma so che non è vero.
E se ci penso, so anche che una volta il mondo non andava a rovescio; mi viene da ridere quando mi rendo conto che quel tempo era quando stavo all'Aggro Berlin ed ero ancora incazzato con Anis. Avrei dovuto continuare a sputargli addosso, così questa distorsione spazio temporale in cui io sono l'ombra di me stesso non esisterebbe e sarei felice. Forse.
A quel tempo, Anis era vivo e io lo volevo morto, il che è ridicolo se si pensa che poi ho passato un anno in cui era morto e lo volevo vivo – quell'uomo è palesemente il più grande generatore di confusione nella storia dell'umanità – e mi viene in mente che allora, in effetti, c'era un altro posto in cui stavo quando non volevo entrare in casa mia: l'appartamento di Sido.
Non vedo Sido da uno sproposito di tempo, ormai, e lui ha anche rinunciato a minacciare di licenziarmi al decimo sms a cui non ho risposto. Forse mi ha anche licenziato senza dirmelo; ma in questo momento non ci penso perché il solo ricordo della sua casa mi fa stare bene. Non penso che magari lui ce l'ha a morte con me, non penso nemmeno che non posso presentarmi alla sua porta dopo non so quanti mesi di silenzio con una borsa in mano e aspettarmi di essere ospitato.
Il fatto è che tolti tutti i posti in cui vorrei andare e non posso, casa sua è l'unica in cui mi sembra di poter scappare ora che casa mia è tornata a soffocarmi, e non vedo motivo per non tentare.
La valigia la preparo così di corsa che non so esattamente cosa mi sto portando dietro perché apro i cassetti e li ribalto, scegliendo le cose che cadono nella borsa da sole e scartando quelle che finiscono sul pavimento. Mentre rovescio il cassetto dei calzini, però, mi fermo perché l'occhio mi cade sul peluche a forma di aragosta che c'è sul letto e del quale mi ero dimenticato.
L'ho portato via dalla casa di Chakuza l'ultima volta che sono stato lì con Danny.
Non so esattamente perché l'ho fatto, era lì sul divano e mi è sembrato di dover allungare una mano e prenderlo. Lui si è fatto prendere senza fare storie.
Quando è ubriaco, ma anche quando non lo è, Peter se lo mette su una spalla e ci parla. Alle sue domande Hummer Kummer risponde con una voce ancora più roca della sua perché Chakuza non è un cazzo bravo a fare le voci, però ci prova e l'unica cosa che gli riesce di fare è parlare di gola. Diceva che era un'aragosta da guardia. E lo diceva di continuo perché Peter si dimentica le cose e te le ripete decine di volte, convinto di non avertele dette mai. Metto in valigia anche Hummer Kummer perché è un pezzetto di casa e non si parte mai senza e perché qui da solo non può stare. Questa casa non va bene per lui.
Mando un sms a Danny e lo avverto che non sono più a casa mia e che mi chiami quando può, quindi chiudo la porta e già mi sembra di respirare meglio.

*


Quasi cinque settimane dopo quel giorno, cioè adesso, vivo ormai in pianta stabile da Sido, che non vuol dire che io mi sia trasferito da lui e dalla sua famiglia ma che passo lì da loro molto tempo. Torno a casa mia quando ho voglia, cioè quando c'è Danny, o quando devo fare le lavatrici perché, anche se Doreen laverebbe volentieri i miei vestiti, mi scoccia farglielo fare e così ogni tanto metto tutto nel mio borsone e faccio un salto a casa, che poi è un bene perché una casa non puoi davvero lasciarla così a perdersi per niente.
Sto facendo dei salti temporali enormi, mi rendo conto. Il fatto è che sono successe molte cose importanti ma che tra l'una e l'altra sono passati mesi di nulla e io non posso davvero stare qui a raccontarvi il nulla, mi sembra chiaro. Quindi sto cercando di darvi un'idea di tutto, ma senza soffermarmi sui singoli dettagli e voi stavolta dovete fare uno sforzo e starmi dietro perché, vi giuro, è un casino ed è un casino che finisce col botto. Voi non volete perdervi nella mia vita, adesso, ve lo assicuro.
Vi basta sapere che quando sono arrivato a casa di Sido, lui non voleva nemmeno aprirmi. O meglio, mi ha aperto ma quando ha visto che ero io, mi ha subito richiuso la porta in faccia, lasciandomi sullo zerbino. Ad aprirmi ed invitarmi in casa quasi mezz'ora dopo è stata in realtà sua moglie Doreen che si è scusata perché Paul era un po' nervoso. Io avrei voluto dirle che più che altro era incazzato nero, ma Doreen è così dolce e bionda e ammantata di brillantini che non me la sono sentita di farlo e ho solo annuito, ringraziando.
La prima a venirmi incontro è stata la bambina che mi è saltata addosso strangolandomi in un abbraccio da orso, come se la mia presenza lì fosse perfettamente normale, cosa che non ha fatto che confermare la mia sensazione e aumentare le rughe sulla fronte di suo padre che si era seduto sul divano fingendo come al solito di essere un uomo rilassato.
Ora, io conosco Sido da un sacco di tempo, quindi lo so com'è fatto. E' uno che si incazza un casino, ma poi alla fine è buono, per cui dopo aver mandato via la bambina e Doreen e dopo avermi urlato che ero uno stronzo, che tornavo qui perché quel bastardo di Bushido mi aveva lasciato di nuovo a piedi e che ero pazzo se pensavo di avere ancora un lavoro all'Aggro Berlin, mi ha indicato una poltrona e mi ha detto “Cazzo ci fai lì in piedi come un cretino? Stasera resti qui a cena, non vedo l'ora di sentirti mentre ti arrampichi sugli specchi per giustificarlo.”
Dopo cena sono rimasto a dormire e poi a colazione, pranzo e di nuovo cena finché la loro bellissima mansarda non è tornata ad essere camera mia e io mi ci sono installato dentro come due anni fa, con la vecchia playstation della bambina, lo stereo e Doreen che mi chiede se voglio fare merenda con il latte e i biscotti.
A questo punto dovrei stare bene. Dico, casa di Sido è un posto che mi fa stare tranquillo, Daniel è sempre un danno ma riesco a tenerlo sotto controllo, non vedo le altre tre piaghe da così tanto tempo che magari riesco pure a dimenticarmi le parti peggiori di loro e sto pure scrivendo, il che significa che ho ancora il mio vecchio posto e, se tutto va bene, riesco pure ad incidere qualcosa entro l'anno.
Quando le cose iniziano ad andare straordinariamente bene dopo che avevano passato un sacco di tempo ad essere così schifose che ti veniva da piangere, non te le godi per niente perché non ti sembrano reali. Generalmente, però, è solo una tua sensazione che dopo un po' di tempo si esaurisce lasciandoti soddisfatto e certo che la tua esistenza stia di nuovo prendendo la piega giusta. Ecco, a me queste cose non capitano.
Se mi sembra che qualcosa non vada, quel qualcosa non va.
Uno di questi giorni io sto cercando di mettere insieme tre note, approfittando dello studio vuoto dell'Aggro Berlin. Qua non è come da Bushido, nessuno viene in ufficio prima delle undici, perché nessuno va a letto prima delle quattro, così se vengo qui di buon'ora sono sicuro di essere da solo. Una cosa che mi permette di lavorare e di non sorbirmi le occhiate pesanti di tutti gli altri che non hanno preso affatto bene il mio ritorno. Non li biasimo, ma preferisco evitarli. La mia vita viaggia sul filo del disastro già abbastanza così com'è per doverci aggiungere anche le accuse di sodomia, tradimento e stronzaggine generalizzata.
Sono lì da qualche ora quando sento la porta aprirsi e rimango sorpreso perché non mi aspettavo nessuno così presto. Resto ancora più sorpreso quando, dopo Sido, vedo entrare Nyze che, per l'occasione sembra più cattivo del solito. Pantaloni più costosi, canotta più aderente, ha perfino la catena. Una roba così pacchiana che in confronto quella che avevo io sulla copertina di Neue Deutsche Welle era un gingillo dell'uovo di Pasqua. Quasi me lo immagino mentre davanti allo specchio si veste a festa per venire qui, come se qui fosse un posto diverso dall'Ersguterjunge e i rapper non fossero persone come lui. Credo non gli sia ben chiara la distinzione fra personaggio pubblico e privato. Nemmeno Sido porta la maschera al gabinetto, qualcuno gliel'ha detto?
Visto che qui dentro sono più a casa mia io di lui, non mi pongo il problema di farmi da parte e lo guardo dritto in faccia. Lui sostiene il mio sguardo e ci prova anche a mostrare disprezzo per la mia presenza qui, ma poi evidentemente ricorda che io sono soltanto tornato e che lui, invece, sta facendo una cosa pessima perché non è certo qui in visita e lo sappiamo tutti e due.
Sido mi fa un cenno con la mano mentre continua a discutere con lui di cose che non sento aldilà del vetro e poi entrambi spariscono nell'ufficio di Sido.
Nyze torna sempre una volta in più di quanto mi piacerebbe vederlo e i ragazzi dell'etichetta lo accolgono a braccia aperte e con grandi pacche sulle spalle. Nessuno parla di contratto, ma nessuno poggia il culo sulla poltrona in pelle di Sido così a lungo senza mettere una firma. La pelle si consuma, dice lui, e in qualche modo va ripagata.
Credo che gli altri vedano Nyze come una grande conquista, la bandiera avversaria sul campo di battaglia, o una roba altrettanto epica. Se sperano di cavare da Nyze qualcosa di utile, si sbagliano di grosso.
Lui ne sa quanto loro sulla sua etichetta. Quello che c'è da sapere su Bushido, lo sa solo Bushido.
Chiederlo a me, naturalmente, poteva essere un'idea ma una parte di questi uomini pensa che io sia in missione segreta per conto del re e l'altra è abbastanza intelligente da sapere che non gli direi niente nemmeno se con Bushido ci avessi litigato di nuovo.
In realtà, quello che mi preoccupa di più non è quello che vogliono fare loro di Nyze, ma quello che Nyze pensa di poter fare qui. Mi chiedo, infatti, cosa lo abbia spinto a presentarsi proprio all'Aggro Berlin, quando c'erano altri porti più amichevoli in cui andare. L'intera scena rap tedesca poteva andar bene con il casino mediatico che anche per vie traverse si porta dietro. Avrebbero fatto la fila per averlo tra i ranghi e poter raccontare cazzate sulle divergenze di opinioni con Bushido, con me, con chiunque tornasse comodo. Ma presentarsi all'Aggro Berlin con il rischio di essere prima mandato a fanculo e poi deriso fino alla terza generazione nei successivi dieci ansage che sarebbero usciti, non ha molto senso. A meno che non si abbia in mente di fare lo stronzo, e guarda caso è proprio quello che io penso di lui.
Ogni volta che cerco di parlargli in privato, Nyze trova il modo di evitarmi e devo dire che non è molto difficile in un posto in cui tutti più o meno lo fanno. Parlarne con Sido è quasi altrettanto impossibile. Se sono allo studio, generalmente ormai c'è anche Nyze – il che non fa che confermare i miei dubbi sul suo contratto – e Sido ha una regola per cui non parla di lavoro a casa, per cui una volta varcata la porta, l'etichetta magicamente scompare e lui è soltanto un padre di famiglia con una moglie bionda e bellissima che a sua volta torna ad essere cantante solo fuori da quelle quattro mura. Ed è una regola fondamentale, questa, e Sido la fa rispettare così duramente che alle volte ho paura che mandi in mansarda senza cena anche me, oltre che la bambina.
La questione mi irrita più di quanto dovrebbe.
Le cose non sono più quelle che erano e per quanto ne so, l'Ersguterjunge potrebbe non esserci già più e Nyze potrebbe davvero avere le migliori intenzioni del mondo. Magari Bushido è perfino tornato a Miami a fare il meccanico, l'idraulico o qualsiasi altra cosa facesse laggiù.
Questo discorso me lo ripeto spesso e ogni volta ci credo meno di quella prima. E non ci credo perché, anche se non mi sto volutamente informando su di lui o sulla sua etichetta, io semplicemente so che Bushido è ancora a Berlino e che, visto cos'è successo la prima volta, non si azzarderà a prendere un altro fottutissimo aereo senza prima averci avvertiti tutti quanti, magari con una bella cena di commiato durante la quale, ovviamente, noi finiremmo per legarlo da qualche parte impedendogli di prendere il volo, che poi è esattamente il motivo per cui farebbe quella cena, nel caso. Per farsi amare collettivamente, una cosa che non abbiamo esattamente fatto quando è tornato dalla morte. Scusaci Anis, se eravamo sconvolti.
In quanto all'etichetta, credo che Bushido preferirebbe darle fuoco e raderla al suolo con le sue stesse mani piuttosto che abbandonarla, chiuderla o venderla e siccome non mi è arrivata alcuna notizia di un incendio in Ritterstrasse, direi che quel posto è ancora in piedi e il suo proprietario è probabilmente barricato in casa per evitare di scendere in strada e prendere a testate qualche giornalista che lo perseguita.
Per qualche settimana decido di stare zitto, anche perché mi dico che forse sono paranoico e trovo pure il tempo di addossare le colpe di questa paranoia a Bushido che ogni tanto ce li aveva di questi momenti da perseguitato politico, in cui qualsiasi angolo giravamo c'era qualcuno che voleva fargli le scarpe, portargli via il posto o cose simili. In realtà io credo che si divertisse soltanto a fare il cretino, mentre tirava su la cornetta del telefono per controllare la conversazione che avveniva dall'altra parte o teneva sott'occhio le targhe delle auto che sostavano di fronte a casa sua per vedere se una tornava più spesso delle altre. E quando succedeva, mi diceva “Ecco la vedi quella? La vedi, ragazzino? Sono settimane che è ferma lì, è sicuramente uno di quegli spacciatori turchi. Quello ci tiene d'occhio.” E poi magari era il lattaio e lui lo sapeva, ma si divertiva a farmi cagare sotto o a fingere che la situazione fosse diversa da com'era.
Per un po' smetto di perseguitare Sido, anche perché vedo che medita di prendere me, il suo materasso e tutte le mie cianfrusaglie e di trasferire tutto sul marciapiede di fronte a casa sua e io non me la sento di tornare a casa, non vedo perché devo tornarci visto che è buia e vuota. Per un momento ho anche pensato di farci stare Daniel, ma poi sono arrivato alla conclusione che lui potrebbe mal interpretare il perché dell'invito e ho lasciato perdere.
Nyze continua a venire allo studio sempre più spesso e comincia anche a lavorarci; se c'è un contratto nell'aria, e come ho detto c'è, non è stato ancora annunciato. Non ho una buona motivazione per prendere quell'uomo e scaraventarlo fuori dalla porta, eppure lui continua a non piacermi. E' solo una sensazione, ma mi dico che Bushido la capirebbe. Lui le capisce sempre queste cose.
Potrei disinteressarmi della faccenda, naturalmente, perché la presenza di Nyze, in realtà, ha distolto l'attenzione dal sottoscritto e, sebbene io non sia più quello con cui farsi una birra, di certo non sono più il frocio che è tornato da Bushido per farsi fare cose che ora non starò qui ad elencarvi perché non sono mai stato così scurrile. A quanto pare, non sono nemmeno la talpa che certa gente pensava che fossi perché, guarda un po', non faccio che passare dallo studio a casa di Sido e da casa di Sido allo studio. Non ho una vita sociale al di fuori di Danny e i loro pedinamenti – sì, no, dico, vi sembra normale? - non devono aver fruttato molto altro che un sacco di avvistamenti di me e di lui che entriamo a casa mia con una pila di pizze e un film.
Potrei, dunque, disinteressarmi della faccenda ma, ovviamente, non lo faccio perché, come dice mia madre, ho la testa dura come il cemento e quando mi convinco di una cosa dev'essere quella per forza, anche se magari non è così, finché non ci sbatto la testa e allora capisco che potevo starmene buono ed evitare di farmi venire il bernoccolo.
Così un giorno faccio irruzione nello studio di Sido e lo trovo seduto sulla sua poltrona di pelle che guarda Berlino attraverso la grossa vetrata che si è fatto costruire dietro la scrivania. Gli manca solo il gatto e una risata malefica e poi sarebbe un cattivo perfetto per un film di James Bond.
Solo che, appunto, è Sido e io lo vedo uscire in mutande a righine ogni mattina dalla camera da letto, mentre sua figlia corre per casa recitando a memoria la sigla di Sailor Moon, per cui solo guardandolo gli tolgo tutta l'epicità che potrebbe mai possedere. Tra l'altro, sono lì con il sincero intento di salvare lui e la sua etichetta da una minaccia che, d'accordo, non so quale sia, ma la percepisco, quindi non penso nient'altro che a quello e mi sfugge il fatto che poteva non volere più avere niente a che fare con me e che io, a ben guardare, non avrei voce in capitolo anche se decidesse di vendere tutto a Nyze e andare in pensione, per dire. Insomma, faccio esattamente quello che non dovrei fare: mi getto contro il muro di testa a duecento chilometri orari.
Invece di partire dal principio e di fargli più o meno il discorso che ho fatto a voi, la prima cosa che gli dico è che Nyze è uno stronzo che non cercava altro che una buona occasione per dare addosso a Bushido e farci su anche dei soldi e che quell'occasione l'ha trovata all'Aggro Berlin, servita su un piatto d'argento.
“Credi che non lo sappia?” Mi dice lui. “Quello è qui a cercare qualcuno che possa sostenerlo in questa crociata contro il tunisino. Ho tutto sotto controllo, Fler.”
“No, non ce l'hai sotto controllo,” dico e sbaglio. Dio mio, se sbaglio. Se c'era una cosa sbagliata da dire l'ho appena detta. La cosa peggiore da fare quando ti sembra che chi ti sta davanti non abbia capito un cazzo è dirgli che non ha capito un cazzo. Ora puoi stare sicuro che non farà mai quello che dici tu.
“Lo hai sentito dire qualcosa?”
“No.”
“Lo hai visto fare qualcosa?”
“No, ma non mi piace.” Fa talmente schifo come risposta che non me ne accorgo solo ora che ve lo sto dicendo ma me ne accorgo subito, che ancora l'eco delle mie parole non si è spenta.
Sido mi guarda, gonfiando una guancia. “Quindi fammi capire, io dovrei mandare via questa persona che potenzialmente ci farà guadagnare un sacco di denaro semplicemente essendo dei nostri perché tu ti sei svegliato stamattina con l'acidità di stomaco?”
Mi gratto la fronte e poi una guancia. “Senti, okay. Ricominciamo da capo, va bene? Cerca di seguire il mio ragionamento.” E provo a dirgli quello che ho detto a voi, ma a quel punto è tardi perché Sido non sente altro che unghie sugli specchi e quello che ne viene fuori è in effetti una paranoia basata sul nulla più assoluto, tranne forse la gelosia.
“Cos'è che non ti va a genio, Fler?” Mi dice lui. “Che Nyze sia qui o che tu non sia più la punta di diamante di questo posto?”
Questo fa male. Cioè, lo sapevo, ma non me l'aveva detto chiaramente e quindi era tutta un'altra cosa. E comunque fa male, non sono abituato. Okay, forse sono un po' geloso ma ho ragione io. Vi ricordo che tutto questo è già successo, quindi quello che dico lo dico con cognizione di causa.
Io so di aver ragione.
“Senti, non stiamo parlando di me. Dico solo che quello non mi piace.”
“E non sai quanto la notizia mi spezzi il cuore,” risponde lui, sarcastico. “Ora, per favore, esci da questo ufficio e torna quando avrai qualcosa di utile da dirmi.”
“Quello ha qualcosa in mente.”
Sido inspira ed espira, quindi mi osserva. “Lo spero vivamente perché non ho intenzione di tenerlo sotto contratto a grattarsi il culo davanti alla tv.”
“Lo hai scritturato?” Chiedo. Lui annuisce. “Non ti è passato per il cervello che potrebbe essere tutto calcolato?”
“Da chi?” Esclama lui. “Da chi, Fler? Se lo ha mandato Bushido, allora dovrò dubitare anche di te perché sei stato tu a dirmi che si sono mandati a fanculo. Se invece c'è venuto da solo per rovinare Bushido, ben venga. Io non aspetto altro. Sarò ben lieto di dargli una mano.”
Sospiro e mi passo una mano sulla testa. “Quell'uomo è incazzato per un motivo ben preciso e io--”
“E guarda caso quel motivo sei tu,” mi interrompe lui. “Tu, Bushido e tutti gli altri froci che hanno smembrato l'Ersguterjunge fino a farla a pezzi.”
“Potresti evitare di usare quella parola?” Mi sto irritando.
“Ma dico, ti senti?” Esclama lui. “Io non so cosa ti sia successo e cosa.... cosa ti passi per il cervello ma non puoi venire qui a dirmi chi posso o non posso scritturare.”
“C'è qualcosa che non va.”
“Beh, lo credo anch'io,” dice lui, alzandosi in piedi. Mi guarda a lungo e poi sospira. Sento arrivare anche questa, perché vibra nell'aria un attimo prima di avvenire. “E' stato un grande errore farti tornare.”
“Cosa?”
“E' chiaro che tu non sei più quello che eri.” Almeno non sorride. Non credo avrei sopportato anche la presa per il culo con il doppio senso. “Non rappresenti più l'etichetta e io non credo che sia il caso tu rimanga qui.”
Scaricato. Cerco di avvertirlo. Cerco di parargli il culo, e lui mi scarica. Se la gente non la smette di farlo, potrei cominciare ad incazzarmi.
“Fa' il cazzo che vuoi,” dico, recuperando il cappotto. “Quando questo posto cadrà a pezzi, non venire a piangere da me. Io ti ho avvertito.”
Infilo la porta prima di ripensarci. Le scene epiche sono prerogativa di Bushido, è lui quello che parla come se leggesse un copione, ma come uscita di scena non è andata poi tanto male.
Sarei fiero di me se sul marciapiede appena fuori dallo studio non mi rendessi conto che non ho un posto dove andare; cioè, a parte casa mia.
Mentre mi avvio a piedi, perché la macchina ce l'ho da Sido, comincia a piovere e penso che a questo punto, almeno io, ho toccato il fondo. E invece, naturalmente, no.
La sfiga ha sempre un pala in più da prestare.
Nel nostro caso, ne ha una scorta intera.

*


Conoscendovi, vi starete chiedendo quando ho intenzione di raccontarvi com'è andata a finire. E dire che dovreste essere abituati al fatto che qui le cose non capitano mai in due pagine e che ci vogliono intere serie per raccontare di com'è morto un uomo o di come sia resuscitato. Abbiate pazienza.
Come vi ho già detto, io non sono Chakuza e se c'è una cosa che non mi è rimasta attaccata addosso di quell'uomo è proprio la sua tendenza a perdersi nel suo cervello per non riuscire più ad uscirne. Con la sua pazzia mi ci ha affogato mentre stavamo insieme ma, grazie a Dio, le sue acque acquitrinose si sono ritirate non appena l'ho perso di vista.
Dunque, cos'è successo? Dopo che Sido mi ha buttato fuori dall'etichetta e anche da casa sua, rifiutandosi per altro di avere a che fare con me vita natural durante – una cosa della quale tra qualche anno, in un posto e in una situazione molto diversi da questa, riderò così tanto che quasi finirò per soffocarmi – non ho avuto altra scelta che tornarmene davvero a casa mia, anche perché l'alternativa era mia madre e, per quanto io la ami, preferisco trascinarmi come un relitto umano nel mio appartamento che passare anche solo due giorni da lei senza sapere come spiegarle perché io non ho una fidanzata carina e non mi sistemo come il cugino Karl, che per altro ha un nome di merda e non lo vediamo mai più di due volte l'anno.
Okay, sì, forse un po' mi sto perdendo ma ci arrivo.
E' passato un mese dalla storia di Sido e circa sei da quando ho trovato Bill che vaneggiava in casa di Bushido e ho consigliato a tutti che fosse meglio andare ognuno per la sua strada. In tutto questo tempo, come ho già detto, ho finto che non fossero mai esistiti, ben sapendo che se avessi acconsentito ad accettarne anche solo la presenza nel mondo avrei finito per ricaderci e questo non era assolutamente concepibile, non dopo quello che avevamo passato tutti quanti.
Certo non è stato facile, voglio dire tu non puoi davvero scordarti dell'esistenza di una persona che conosci, figurati di una persona come Bushido che generalmente occupa anche fin troppo spazio nel cervello altrui, o di Chakuza – che Dio ce ne scampi – che è invasivo in tanti di quei modi che avrei bisogno di una lobotomia per dimenticarmelo, ma ho tirato avanti e non ho ceduto a nessuna tentazione che, nella maggior parte dei casi, consisteva nel numero di Peter che componevo sulla tastiera del cellulare fingendo come un cretino di fare numeri a caso. Una cosa di cui un po' mi vergogno, in effetti.
La mia vita l'ho trascorsa sostanzialmente continuando a scrivere le canzoni su cui avevo cominciato a lavorare e ho ripreso anche a disegnare, una cosa che potrebbe tornarmi utile per un progetto che ho già in mente da un po' e che forse è l'ora di mettere in pratica. Ho spostato quasi tutti i mobili del salotto per avere una parete libera e poterci dipingere su con le bombolette se ne ho voglia. Quando mi gira, prendo il rullo, do una mano di bianco e ricomincio tutto da capo. E' liberatorio.
Danny è stato piuttosto contento di sapere che lasciavo “Casa di mia madre Sido”, come la chiama lui, per tornare in pianta stabile nel mio appartamento perché questo gli ha permesso di riprendere la sana abitudine di comparire a casaccio sul mio pianerottolo con la valigia e decidere arbitrariamente del mio fine settimana, di me e della mia vita.
Cosa che io gli lascio fare anche oggi, che è la giornata peggiore in cui potesse capitare qui.
Naturalmente io questo non lo so quando mi sveglio al suono di lui che bussa alla porta.
E non lo so nemmeno quando gli apro, lui mi bacia incurante dei miei vicini e poi entra senza chiedere il permesso, occupando contemporanemente la poltrona con il suo zaino e il divano con il suo corpo. Ha fatto tutto in un lasso di tempo così breve che non ho nemmeno reagito e, quando mi chiama ridendo, io sto ancora lì davanti alla porta a stropicciarmi un occhio e a chiedermi se me lo sono sognato o cosa.
“Ti muovi a venire qui o no?” Mi dice, mentre si toglie la maglia e nel farlo si agita e ci si incastra dentro un paio di volte, spettinandosi tutto. Danny muore sempre di caldo, la prima cosa che fa quando entra in un posto è togliersi la felpa, anche se magari è inverno e ci sono quattro gradi. Il termosifone è il suo nemico naturale e lui gli ha giurato guerra.
Quando finalmente lo raggiungo in salotto, lui si è già tolto le scarpe, ha acceso il televisore e ha parcheggiato i piedi sul tavolino, allungando braccia e gambe da tutte le parti. E' tutto sproporzionato ancora e io mi chiedo se il suo mucchietto di ossa avrà mai davvero un senso.
Piega la testa sul divano e mi guarda sottosopra. “Ma sei vivo?” Chiede ridendo. “Hai una faccia da schifo!”
Mi passo una mano sul viso come se potessi far scomparire le occhiaie. “Mi sono svegliato adesso,” dico, guardando di sfuggita la tv senza capire cosa sto vedendo. “E poi che vuol dire faccia da schifo? Che modo di parlare è?”
“Adesso si dice così,” commenta lui, tornando a fissare lo schermo. “C'è qualcosa da mangiare?”
Sospiro. “Guarda in cucina, cavalletta. Io vado in bagno.”
Quando torno ricordo almeno come mi chiamo e lo trovo con un panino più grosso di lui e gli occhi incollati al televisore. La playstation è il grosso monolite nero e lui una delle scimmie di quel film di fantascienza.
“Che cosa ci fai qui?” Chiedo, adocchiando il suo enorme zaino da trasferta. “E' giovedì, domani non dovresti andare a scuola?”
Lui si gira a guardarmi solo un secondo e poi torna a farsi ipnotizzare dal suo videogioco. O meglio dal mio. “A parte che è venerdì, Fler,” mi dice col tono paziente di uno che queste cose le dice spesso. “E poi ho due settimane di vacanza.”
“Venerdì?” Alzò lo sguardo sull'orologio, che per altro mi informa che sono anche le sette di sera.
Lui mette in pausa, recupera il suo panino e si volta, inginocchiandosi sul divano. “Venerdì, sì,” ride, masticando. “Sei proprio fuori come un citofono, ma quanto hai dormito?”
A volte quando parla, mi sento vecchissimo. “Non lo so,” ammetto. “Sono stati due giorni un po' confusi.”
“Perché?”
Mentre mastica, sbriciola sul pavimento, una cosa che mi rende irrazionalmente nervoso. Così, mentre gli racconto di come mi è preso questo guizzo artistico e ho portato su dalla cantina quattro secchi di vernice da usare proprio col pennello, roba che non facevo da anni, vado in cucina e gli recupero un tovagliolo che gli spalmo in faccia. Lui ride, ci si pulisce la bocca e poi ci avvolge con cura quello che resta del panino.
“Devo aver perso il senso del tempo” gli dico mentre cerco anch'io di trovare una spiegazione. Quando ero più piccolo mi capitava spesso di farmi prendere dalla foga di un'idea per un disegno o una tag e non pensare più a nulla finché non l'avevo finita. Era un modo come un altro per staccare completamente il cervello dallo schifo che mi circondava. Mi davo qualcos'altro a cui pensare.
Danny si guarda intorno, finché non individua il telo che ho tirato dal soffitto fino a terra. E' il vecchio telo di una tenda di mia madre, tutto macchiato. L'ho usato per qualunque cosa, ce l'ho tipo da sempre. Lui mi fa un cenno col capo. “Leva, fai vedere.”
Per un momento ho paura di farlo perché se ho perso due giorni della mia vita, non sono nemmeno troppo sicuro di sapere che cosa ci sia disegnato l'ha sotto. Magari è uno schifo.
Tiro via il telo con uno strattone e Danny si butta giù dal divano e mi scosta per guardare meglio. La parete è lunga quasi quattro metri e io l'ho riempita completamente. Gran parte del disegno, ovviamente, è ancora solo abbozzato, ma ho cominciato a colorare l'angolo a destra dove c'è la fiancata di un vagone della metropolitana. Non è il mio solito stile spigoloso, volevo provare qualcosa di completamente diverso, più morbido e più fluido, qualcosa che riempisse gli spazi in maniera meno netta. Mi allontano e guardo il treno perdere colore e quasi svanire in prospettiva, delinato solo dalle mie linee a carboncino. Nel mezzo c'è una caricatura di Berlino, con la porta di Brandeburgo tozza e schiacciata e dietro la torre della tv che ondeggia. Sulla sinistra c'è un gruppo di personaggi ancora senza volto, hanno vestiti che sono una via di mezzo fra i nostri e un qualche tipo di super-eroe. Quello al centro, ovviamente è Anis, perché incrocia le braccia impettito. E poi ha alle spalle un cavallo bianco meccanico con un'espressione così fiera di sé che può essere soltanto suo. Mi viene voglia di continuarlo non appena ci poso gli occhi sopra.
“Ma è una figata!” Danny lo guarda passandoci sopra le dita, piano. Sono un po' orgoglioso di me stesso per essere riuscito a catturare la sua attenzione quanto Lara Croft. “E' gigantesco e lo hai fatto in due giorni?”
“Sì, solo il disegno però,” annuisco. “Ci vorranno settimane a colorarlo.”
Osservo la mia opera e ora che sono un po' più sveglio e un po' meno intriso dal sacro fuoco dell'arte – che poi più che altro era mezza bottiglia di Jack Daniel's – mi rendo conto di quanto sia effettivamente grande. Era da tanto tempo che non dipingevo legalmente su una superficie. Come ogni volta che non devo stare attento a correre via al minimo rumore e lasciare le cose non finite o fatte di fretta, penso che se avessi studiato avrei anche ottenuto dei risultati.
“Potrei aiutarti,” mi dice Danny, che ora sta ammirando il murales dal fondo della stanza, con la testa piegata di lato. Mi guarda. “Se ti va, ovvio.”
Penso: perché no? Qualche tempo fa mi ha trascinato in giro a vedere qualcuno dei suoi lavori e non se la cava male. Attraversare i luoghi dove io e Anis andavamo a taggare mi ha anche messo un sacco di nostalgia, perché adesso mi guardo intorno e ci sono tutte firme che non conosco. Se ci fosse stato lui, con me, invece di Daniel, sarebbe entrato nel primo negozio di fai da te disponibile e si sarebbe armato di bombolette per riprendersi il suo territorio. Quell'uomo è pazzo, del resto.
“Certo,” rispondo. “Domani cominciamo.”
E quelle, evidentemente, sono le parole esatte che la sfiga stava aspettando per entrare in scena. Se mi concentro la immagino anche, spietata e col visore sugli occhi per prendere meglio la mira, seduta dietro le quinte delle nostre esistenze in attesa che io pronunci la battuta che si aspettava.
Mi suona il cellulare e inizio subito a preoccuparmi, un po' per il mio sesto senso e un po' perché quella suoneria non la sento da sei mesi e qualsiasi cosa voglia da me Bushido, se non è dannosa fin da subito, sicuramente lo diventerà nel giro di qualche giorno. E' passato troppo poco tempo per considerarci tutti di nuovo a posto.
Ad ogni modo rispondo comunque perché lui continua a far squillare e ormai Daniel mi guarda con aria interrogativa. “Pronto?”
“Cristo, ma quanto ci hai messo a rispondere?”
Sollevo un sopracciglio. “Ciao anche a te, Anis.”
“Stai bene?” Il tremolio che sento nella sua voce mi fa passare la voglia di scherzare.
Passo il cellulare da un orecchio all'altro e cambio stanza. Con la coda dell'occhio vedo Daniel tendersi, ma non mi segue. “Sì, sto bene. Perché? Che succede?”
Chiudo la porta mentre dall'altra parte cala il silenzio.
“Anis?”
“Dobbiamo vederci,” mi dice. “Sto chiamando gli altri.”
Inspiro e penso che non è ancora il momento. “Io non credo che sia una buona idea, sono passati solo-”
“Ho ricevuto una chiamata anonima,” m'interrompe subito, sbrigativo, come se sapesse con assoluta certezza che lo avrei detto. “Dicono che uno dei miei è in fin di vita.”
Il mio cervello inizia a correre furiosamente come fa sempre quando sono sotto pressione. Nel giro di qualche istante ho già in mente almeno quattro scenari possibili, e il nome di Peter che continua a balenarmi in testa anche se lo scaccio via. “Chi?” Chiedo alla fine, dopo che ho deglutito un groppo in gola grosso quanto il mio pugno.
“Non lo so, non l'ha detto,” risponde. E poi, mi anticipa. “La voce era falsata. Non ho idea di chi cazzo fosse.”
Di nuovo una pausa e questa volta sento un ronzio vago e il suono di un clacson.
“Sei in auto? Dove stai andando?”
“Ho un indirizzo. Raggiungimi là.”
Copio l'indirizzo sul primo pezzo di carta che trovo e poi dico a Daniel di chiudersi in casa e di non aprire per nessuna ragione. Spero che non mi dica che sa badare a se stesso, ma ovviamente lo fa, così gli ripeto di non muoversi dall'appartamento con la faccia più seria.
Lui invece di obbedire mi chiede cos'è successo e, prima ancora di ottenere risposta, si offre di venire con me e di darmi una mano; io a quel punto faccio prima a portarmelo dietro che a cercare di convincerlo a restare. E poi non mi fido a lasciarlo da solo.
Mentre saliamo in macchina gli faccio un riassunto veloce e poi chiamo Chakuza.
Suona subito occupato, così m'incazzo, lo insulto e poi chiamo di nuovo. Quando risponde, tiro un sospiro di sollievo. “Che cazzo stavi facendo?”
“Ti stavo chiamando,” fa lui. “Stai bene?”
“Sì, a posto,” mi scappa un mezzo sorriso. “Dove sei?”
“Per strada. Ho l'indirizzo.”
“Ci vediamo lì, allora.”
Bushido mi ha dato il nome di una strada fuori mano, in piena zona industriale.
Quando ci arriviamo sono quasi le nove e mentre parcheggio come capita, lo vedo scendere di corsa dalla sua auto e indicarmi un capannone qualche centinaio di metri più in là.
Siamo arrivati quasi contemporaneamente: con lui c'è Kay e Chakuza sta parcheggiando accanto all'auto di Eko proprio adesso. Ci siamo tutti, non capisco.
Bushido ci fa strada, con la Heckler stretta in pugno. Mentre entriamo, tengo Daniel dietro di me e inpugno la pistola. E' una strana sensazione averla tra le mani dopo tanto tempo, è un sacco pesante e io sono troppo nervoso.
So cosa state pensando e, dal momento che non ho ancora parlato con Bushido, lo sto pensando anch'io.
Se in questo capannone c'è il ragazzino, io non so cosa faccio. Ho volutamente scansato l'idea fino ad ora, non ho nemmeno provato a contattarlo: se si trattasse di Bill, penso, Bushido me lo avrebbe detto. Lo avrà di certo chiamato prima di tutti quanti noi. Invece magari lo ha chiamato e Bill non ha risposto, ma Anis non me lo ha detto perché se lo dice è vero e quindi sta zitto.
Ad ogni passo mi chiedo che cazzo facciamo, noi, se il ragazzino è ferito.
Che cazzo facciamo, noi, se il ragazzino invece è morto.
Penso che se Bill è morto, forse è meglio che Bushido stia indietro.
La pozza di sangue inizia al centro del capannone e gira dietro una pila di casse marchiate di nero. Nel tempo che ci avviciniamo me ne convinco e penso solo è morto. Il ragazzino è morto.
Scosto Anis e passo prima di lui. Cristo, Bill.
Ma non è Bill.
E' David.
Ed è così assurdo che sia lui che per un attimo nessuno si muove. Lo guardiamo come se non avesse senso, forse il corpo di Bill ne avrebbe avuto di più. Non lo so. So che gli altri negli occhi hanno la mia stessa espressione ed è assurdo. C'è sangue ovunque, sulle casse, per terra, perfino sulle pareti.
Daniel arretra e si schiaccia non so dove dietro di me ma non mi volto, guardo Anis chinarsi e ribaltare piano il corpo. Quando ci riesce, lo stomaco di David si apre. Gli hanno inciso la parola VENDETTA da un fianco all'altro e il fiotto di sangue che ne esce mi fa salire la nausea. Prego che quelli non siano intestini.
In realtà prego che abbia ancora un senso il nostro essere qui.
Una volta Chakuza ha detto che la gente normale quando tocca il fondo risale.
Ma noi non siamo gente normale.
Quando Bushido solleva di peso il corpo di David, mi rendo conto che abbiamo appena ripreso a scavare.













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Il Giorno In Cui Sono Morto

di lisachan
Se dieci anni fa, quando ho cominciato ad interessarmi di produzione e composizione di canzoni, mi avessero detto “guarda che questo mestiere sarà il motivo per cui, in un giorno non molto lontano e ancora nel fiore dei tuoi anni, tirerai le cuoia”, ci avrei riso su. Davvero. Tutti i mestieri che avevo fatto, perfino il breakdancer e il cantante in una boyband, sembravano decisamente più pericolosi di quanto non potesse sembrare restare dietro le quinte a comporre canzoni per gente varia ed eventuale. Perfino svegliarsi al mattino, scendere dal letto e prepararsi il caffè sembrava più pericoloso. Potevi scivolare sulle ciabatte, per dire. O scottarti con la caffettiera. A scrivere canzoni e produrle cosa poteva accaderti? Potevi pungerti con la penna? Poteva venirti un crampo alla mano dopo aver passato ore al computer a modulare voci stonate per farle sembrare meno raccapriccianti di quanto fossero al naturale? Che gran pericoli! Che rischi!
Nel tempo, naturalmente, le cose sono un po’ cambiate, come alla fine cambia tutto, che tu gliene dia la possibilità o meno. Quello del cambiamento è un deprimente destino che ci accomuna tutti, l’unica cosa nella quale in effetti la vita non faccia differenza a seconda di chi va a colpire. Vedete il mio viso, ad esempio? Vedete queste piccole rughe attorno agli occhi, segni del tempo che non è stato possibile cancellare neanche a furia di badilate di creme molto più costose di quanto non possa per decenza rivelare? Ecco, queste stesse rughe assumeranno magari meno fascino su qualcun altro, ma ci saranno. Ci saranno sul viso di un ragazzino che per ora ha tredici anni, e quando arriveranno saranno uguali a quelle dell’uomo sul viale nel tramonto che magari ne ha sessantacinque. E quindi, come è cambiata la mia fisionomia, la grana della mia pelle, il colore dei miei capelli, è cambiato anche il modo che avevo di vedere determinate cose. Più che altro, c’è da ammetterlo, a causa dei Tokio Hotel.
Cinque, ormai quasi sei anni fa, io e Dave, che è un uomo che ormai mi sopporta da molto tempo, nonché l’esempio perfetto di come dovrebbe essere un omosessuale al giorno d’oggi, quando invece io sono circondato solo da checche in mezzo al gruppo delle quali certe giornate sento di poter prendere posto con fin troppa disinvoltura, fummo mandati dalla Universal a Loitsche. Le prime reazioni – di entrambi, peraltro, ai tempi giovani e pieni di possibilità – furono di sconforto. Perché ci mandavano a Loitsche? Cosa c’era, a parte i campi di patate, la campagna e il vuoto cosmico?
Saltò fuori che invece in quel buco dimenticato da Dio c’era un diamante grezzo dal valore inestimabile. Quattro ragazzi che si volevano bene, erano amici davvero, suonavano insieme e volevano divertirsi. Quattro ragazzi in mezzo ai quali si trovava Bill Kaulitz, e Bill era già Bill allora, credetemi. Forse un po’ più spettinato, coi denti un po’ più storti e con addosso vestiti meno costosi, ma Bill comunque.
È stato allora che tutto ha cominciato a cambiare. Improvvisamente la questione non era più circoscritta allo scrivere canzoni o a produrle o ad avere un rapporto di tipo lavorativo con un cantante, no. Io avevo quattro ragazzini da gestire, quattro ragazzini che mi erano stati affidati dalle rispettive madri apprensive e, in certi casi – in tutti i casi, cioè, che non fossero Simone – anche piuttosto diffidenti, e dovevo gestirli in casa mia, a stretto contatto con me, all’interno di spazi che, fino a quel momento erano stati solo miei.
Improvvisamente, il pericolo del mio lavoro mi si palesava in tutta la sua raccapricciante serietà. Si correva il rischio di svegliarsi al mattino e inciampare in Gustav, ad esempio, che ha sempre avuto la passione per la sveglia molto mattiniera ma, quando era molto piccolo, molto goloso e molto tondo, tendeva ad addormentarsi sul pavimento ai piedi del divano verso le otto del mattino, dopo essere sorto col sole alle sei. Si correva il rischio in incappare inaspettatamente nelle mutande sporche di Georg abbandonate nei posti più impensabili, e quando dico impensabili intendo davvero impensabili, come quando una volta lo scarico del lavandino in bagno cominciò a vomitare liquami puzzolenti e scoprimmo che in realtà tutto questo avveniva perché un paio dei suoi boxer più vecchi e sbrindellati ci era finito dentro. Il come, tutt’oggi, è ancora un mistero. Si correva il rischio di irritare Tom, che giuro, è un ragazzo di una bontà infinita, praticamente un santo martire, ma quando gli girano è la fine, soprattutto se gli girano a causa tua, perché poi riconquistarlo è un delirio paragonabile solo a certe quest impossibili coinvolgenti draghi, fuoco e cespugli di rovi per chilometri e chilometri, e di questo fatto Bill è la prova vivente, perché pur amandolo a livelli veramente indegni Tom con suo fratello, per molti mesi, ha chiuso in modi così definitivi da lasciarmi basito.
E poi, naturalmente, si correva il rischio di Bill, un essere umano che, nella sua interezza, ha sempre rappresentato un problema. Bill è una creatura incredibilmente affascinante, e come tutte le creature incredibilmente affascinanti è perennemente in bilico, geneticamente instabile, un disastro, insomma. Vivere con lui era come vivere con una bomba a tempo a ricarica continua in casa. Sapevi che sarebbe esplosa, non sapevi quando ma sapevi che sarebbe successo, e la cosa veramente devastante era sapere allo stesso modo che una sola esplosione non sarebbe bastata, non sarebbe stata definitiva come tutte le esplosioni sono, perché avevi la certezza che alla prima, chissà quando, chissà perché, prima o poi ne sarebbe seguita un’altra, e un’altra ancora, senza mai fine. E poteva essere per qualsiasi cosa, il motivo più stupido o quello più fondamentale, o solo perché magari era sotto stress e sentiva il bisogno di scaricare, ed allora dovevi solo sperare di non essere tu la vittima designata a fargli da sfogatoio proprio in quel momento, oppure rassegnarti in silenzio al tuo destino e subire finché non fosse stato soddisfatto.
Anche quello, comunque, non era niente in confronto al pericolo che mi sarei ritrovato a subire poi, ma in un certo senso partire da quel punto era importante, e non perché volessi far vedere quanto Bill in realtà sia la fonte primaria e unica dei miei guai – cosa anche possibile, ma non completamente vera, visto che magari Bill mi ha offerto molte possibilità di mettermi nei guai, ecco, ma i guai in cui sono incappato poi me li sono scelti tutti da solo. A partire da una vasta gamma, ma li ho scelti da solo – bensì perché solo quando cerco di ripensare a tutto fin dall’inizio mi rendo conto di quanto in realtà la catena di azioni che mi ha portato fino a qua sia stata comunque un percorso che avrei scelto di rifare anche se per questo avrei dovuto farmi sventrare altre trenta volte. Si parla della mia vita, qui. Della mia fortuna, di ciò che ho amato fare, di persone a cui ho voluto bene, ma bene davvero.
Se nel giorno in cui ho conosciuto Bill lui mi avesse guardato negli occhi e mi avesse detto “io ti ho visto nei miei sogni, so chi sei e so che finirai ammazzato in un magazzino vuoto, sporco e puzzolente, dimenticato ai confini di Berlino, e questo solo perché io mi innamorerò dell’uomo più giusto e più sbagliato in assoluto”, avrei detto “va bene, Bill”, avrei detto “portami da questa gente che mi farà a pezzi, ma portamici tu”. Era quello che volevo. È stato quello che ho ottenuto.
Il fatto è che a questi ragazzi io voglio troppo bene. Quando vuoi bene a qualcuno in maniera così totalizzante, non ti curi del dolore che, per sbaglio o di proposito, ti infligge. Bill non ha chiesto di innamorarsi di un uomo problematico come Bushido – se è per questo, non l’ho chiesto neanch’io. È successo, e non c’è uomo al mondo che possa capire Bill, in questo o in altri momenti della sua vita negli ultimi tre anni, come l’ho capito io. Non c’è uomo al mondo che possa dire di aver sentito dentro il suo dolore come l’ho sentito io, e non solo perché condividiamo certi aspetti della nostra esistenza, ma perché lui è mio. Io l’ho voluto così tanto che alla fine è stato un po’ come l’avessi generato da me. È stato, è e sarà sempre la cosa più vicina ad un figlio che abbia mai avuto, e ciò che vale per lui vale esattamente allo stesso modo per suo fratello, per Georg e per Gustav. In questi ultimi anni ho dovuto subire molte cose, nel tentativo di preservare la felicità di questi ragazzi. Non sempre ci sono riuscito, ma posso dire di averci sempre provato.
È stato con l’intenzione di provarci ancora che, un mesetto fa, sono andato alla Universal, divorato dall’ansia ma cercando di restare lucido e presente a me stesso. La situazione era in stallo da un po’, Bill aveva abbandonato la Germania già da un bel pezzo ma nessuno dei pezzi grossi mi aveva chiamato. Erano rimasti in attesa, e questo raccontavano i loro sogghigni carichi di pietà quando mi hanno visto entrare nel loro ufficio, minuscolo di fronte a loro, molti di più, molto più ricchi, molto più importanti. I loro sorrisi dicevano “finalmente le hai trovate le palle per presentarti, eh, Jost?”. Finalmente le avevo trovate, sì.
In realtà non c’era molto da discutere. Se anche avessi giurato e spergiurato loro che Bill sarebbe tornato nel giro di due giorni già pronto per rimettersi al lavoro, immagino mi avrebbero buttato fuori comunque. Si sono mostrati pazienti e magnanimi – “abbiamo fatto tutto il possibile, David, abbiamo cercato di sfruttare questa cosa con Chakuza, vi abbiamo dato i vostri tempi e i vostri spazi, e con cosa ci troviamo in mano, adesso?” – ed io sapevo perfettamente che dovevo già ringraziare se si limitavano a rescindere il contratto senza trascinarci tutti in tribunale per inadempienza, perciò l’incontro è durato poco. Loro hanno espresso le loro ragioni. Io ho concordato. Venti minuti dopo ero per strada e, per prima cosa, chiamavo Tom.
- È andata male, vero? – mi ha detto subito lui, non appena ha risposto, prima ancora di sentire il mio tono di voce. La sensibilità di Tom in molti aspetti della sua vita è strabiliante. Suppongo sia perché, quando vivi in simbiosi con uno come Bill, i tremiti nella forza devi imparare a percepirli prima che diventino scossoni di terremoto, per provare quantomeno ad arginarli. Lui in questo riesce benissimo, e perciò quando l’ho chiamato, dalla Germania alle Maldive, lui non ha nemmeno dovuto ascoltare il suono della mia voce per sapere che sì, era andata male davvero.
- Mi dispiace. – ho detto io, piano, sospirando profondamente. Tom s’è lasciato andare ad una risatina quasi liberatoria. L’ho immaginato restare in tensione fino a quel momento e mi è dispiaciuto per lui al punto che mi sono sentito stringere il cuore in una smorfia fisicamente dolorosa.
- L’hai già detto ai ragazzi? – s’è informato, una punta di preoccupazione viva nella voce.
- Non ancora. – ho ammesso con una certa vergogna, - Conto di farlo appena chiuso con te. – e poi ho preso un respiro enorme, perché per chiedere di Bill, di questi tempi, mi serve sempre una dose extra di coraggio. – Tuo fratello?
Tom ha lasciato passare qualche secondo, prima di rispondere. Ho sentito qualcosa frusciare, lì, da qualche parte, e ho immaginato subito si fosse sporto ad accarezzargli dolcemente i capelli, un gesto che gli ho sempre visto fare quando Bill gli si addormentava addosso, per un motivo o per l’altro.
- Adesso dorme. – mi ha risposto lui, la voce ridotta a un sussurro quasi eccessivamente dolce, - Ti spiace se a lui ne parlo fra qualche tempo? Non è ancora il momento.
Mi sono sempre fidato ciecamente della profondità con la quale Tom conosce Bill, perciò non ho avuto da ridire in quel caso, così come non avevo avuto da ridire in tanti altri casi durante la nostra storia insieme. Così tanti altri casi, così tanti momenti… ho chiuso la telefonata con un groppo in gola quasi soffocante, e mi sono preparato al peggio. Per non scappare, mi sono ripetuto che era mio dovere dare a quei ragazzi la notizia da me, prima che arrivasse loro la notifica dello studio legale. E per evitare di mostrarmi troppo sconvolto di fronte all’inevitabile furia che mi avrebbe travolto, ho cercato di immaginare tutti gli scenari possibili, dal più pacato al più violento, ma nulla, nulla avrebbe potuto prepararmi a quella mezz’ora passata in compagnia di Georg e Gustav agli studi. Adesso la mia vista è offuscata, così come la mia memoria, ma non dimenticherò mai più lo sguardo profondamente deluso di Gustav, così come non dimenticherò più le parole di Georg, così secche e lucide, incredibilmente dolorose. “Avete giocato con la nostra vita”. Aveva ragione. Nessuno di noi l’aveva voluto, ma alla fine era ciò che era successo. A furia di giocare a fare dio, uccidere persone per poi riportarle in vita e via così, io per primo ho dimenticato quanto altro ci fosse in ballo oltre a Bill, Bushido e il mio affetto per loro.
La vita, comunque, va avanti. È una frase fatta, ma la sua ragione d’esistenza si riflette nel fatto che è vero. A Georg e Gustav ho detto di non perdersi di vista, perché i Tokio Hotel non erano morti, erano solo in stand-by. Gustav s’è lasciato andare ad una risatina afflitta e Georg mi ha guardato con una rabbia in quantificabile.
- Non ti preoccupare, - mi ha detto astioso, - non ci perderemo di vista, ma non certo per i Tokio Hotel.
Io ho incassato e ho lasciato perdere, me ne sono tornato a casa mia, mi sono spogliato, mi sono fatto una doccia, ho indossato il pigiama, ho riscaldato una tazza di latte di soia, ci ho messo dentro un cucchiaino di miele, ho acceso il portatile, mi sono seduto in poltrona, ho fissato lo schermo con una foto di noi cinque insieme come wallpaper e poi mi sono messo le mani nei capelli e ho pianto per ore. La mia vita m’era scivolata via di mano mesi prima, era rimasta intrappolata fra le dita di un tunisino triste e poi era scivolata via anche da lì, perdendosi da qualche parte nell’oscurità come i rivoli di pioggia lungo le strade. E io me ne stavo accorgendo solo in quel momento, quando era troppo tardi per riportare tutto indietro.
Non so se vi è mai capitata una cosa del genere, ma alle volte la vita è come un labirinto. C’è solo una via che può portarti all’uscita, ma di mezzo ce ne sono tante altre che invece ti portano solo verso un vicolo cieco. Alcune di queste altre non ti prendono in giro, fai qualche passo, svolti un paio di volte a destra e a sinistra e subito ti parano un muro davanti alla faccia, e tu allora puoi darti del cretino, concederti un sorriso triste e poi tornare indietro per imboccarne un’altra. Ma ce ne sono di differenti che invece non ti aiutano. Si inerpicano per vie e viottoli costringendoti a decine di cambi di direzione, a destra, a sinistra, dritto, torna indietro, vai avanti per tre metri, fai un giro su te stesso e poi imbocchi la prima porta a destra, e quando tu sei lì che cammini per anni e senti che ormai l’uscita è vicina ecco che invece di fronte a te c’è una parete vuota. E tu ti ritrovi in mano la consapevolezza di dover tornare indietro e ripartire da zero, ma la verità è che non sai nemmeno se ci riusciresti, a ritrovare il punto di partenza, perché sono passati secoli dall’ultima volta che l’hai visto e chi si ricorda se al tale incrocio eri andato a destra o a sinistra? Chissà.
Su quella poltrona, di fronte a quella foto, io ho realizzato che per anni – molto più di tre, in realtà, perché queste cose, quando succedono, poi ti portano a riconsiderare tutto, pure situazioni in cui credevi di essertela cavata bene davvero – avevo percorso una strada che credevo fortemente fosse quella giusta. E lei mi aveva illuso procedendo per tanto, tanto tempo senza il minimo intoppo, salvo poi piazzarmene uno di fronte proprio adesso. Quella notte lì io mi sono detto “cazzo”, mi sono detto, “cazzo, David, e ora cosa fai?”, perché seriamente, mi sembrava di non avere più soluzioni. Non sapevo più che fare, capite, avevo perso tutto. I Tokio Hotel erano la mia vita e si stavano sfaldando senza che potessi fare niente per fermarli, era il più grande fallimento della mia esistenza, non ero stato in grado di prevederlo e non ero più in grado di fermarlo. E mi sono chiesto “e ora come ci torno indietro? Da dove parto, dove ho speranza di arrivare?”, e mi sono visto girare per anni e anni e anni in questo labirinto vuoto cercando l’entrata per ripartire da lì senza riuscire ad uscire mai da quei tre corridoi in croce che avevo percorso girando in tondo negli ultimi mesi.
Poi mi sono addormentato. Lì, in poltrona, tutto piegato su me stesso, col portatile ancora acceso che s’è andato scaricando per tutta la notte fino a spegnersi. E quando l’indomani mattina ho aperto gli occhi e non avevo nemmeno mal di testa, l’ho fatto con stupore. È così che la vita ti stupisce più spesso, d’altronde, non con le cose veramente meravigliose, ma con quelle più brutte: può accaderti la cosa peggiore del mondo, puoi piangere fino a sfinirti e ripeterti che è troppo da sopportare, non puoi più farcela, e sono quelle occasioni in cui sei così depresso, ma così depresso che arrivi a pensare che morire sarà una cosa naturale. Chiuderai gli occhi sentendoli bruciare per via delle lacrime, continuerai a singhiozzare fino a farti dolere i polmoni e poi perderai conoscenza, e l’ultima cosa che pensi è che in qualche modo, intimamente, dentro di te, sai che non ti risveglierai mai più. Ti fa paura ammetterlo, ma è così. Il tuo corpo e la tua mente sono così devastati che implorano solo il riposo eterno, e tu ti abbandoni al buio con la speranza segreta di concederglielo. È stato così, per me, quand’è morto mio padre.
Ma allora come adesso, il giorno dopo ho riaperto gli occhi. Li ho riaperti davvero e mi sono detto “sono ancora vivo”, e il pensiero mi ha irritato, mi ha stancato e mi ha portato a scattare in piedi e darmi una sistemata, lavarmi, vestirmi ed uscire, perché tollerare una tale dose di tristezza con la consapevolezza di essere vivo e sentirne ogni spigolo premere dolorosamente contro tutti i punti deboli del tuo corpo non è davvero possibile. Te la scrolli di dosso, e lo fai per proteggerti, perché non puoi fare altrimenti.
Quando è morto mio padre, il giorno dopo sono andato da mia madre, l’ho abbracciata e le ho sorriso. E lei ha sorriso a me. È così che sopravvivi al dolore. Mettendolo da parte.
L’ho messo da parte anche stavolta, e per molti giorni ho vissuto la mia vita normale, semplicemente senza il lavoro. Per alcuni potrà sembrare folle, soprattutto pensando ad uno che praticamente non smette mai di lavorare come me, ma in realtà è stato piuttosto semplice ed anche alquanto divertente. Ho semplicemente rimosso dall’agenda tutto ciò che poteva avere a che fare con la mia professione e mi sono concesso tutte quelle cose che avevo trascurato in favore del resto. Ho letto bei libri, mangiato buon cibo, sono tornato in palestra e lì ho avuto un incontro ravvicinato del terzo tipo col sospensorio di uno schermidore fascinoso dall’aspetto vagamente italianeggiante di nome Bruno ed ho colto un assaggio perfino di ciò che conteneva, con estrema soddisfazione da parte di entrambi. Poi mi sono goduto la mia casa, un appartamento che adoro e che ho arredato con amore direi quasi maniacale. Le sue poltrone bianche ergonomiche, la cucina in acciaio, il letto col materasso in latex, la vasca a idromassaggio nell’ampio bagno piastrellato in nero e bianco. Mi sono preso del tempo per me perché avevo bisogno di sentirmi coccolato e nessuno a parte il sottoscritto sembrava disposto a farlo. Mi sono arrangiato con ciò che avevo e non è stato affatto male. Stavo solo aspettando di trovare una nuova ragione per ricominciare a vivere in maniera più piena, e puntualmente questa ragione è arrivata qualche settimana dopo per via aerea, sotto forma di Bill Kaulitz, come spesso accade. Magari non a tutti, ma a me sì.
Tornati Bill e Tom in patria, la mia vita è cambiata di nuovo. Ho cercato di tenere un posto per palestra, yoga, cibo biologico e menate varie, ma i gemelli hanno semplicemente ripreso ad occupare la quasi totalità delle mie giornate, ed è stato stupendo. Era bello vedere che in qualche modo loro continuavano ad affidarsi a me quasi totalmente, come se non fosse cambiato niente rispetto a prima. Avevo perso Georg e Gustav, ma avevo ancora loro. Egoisticamente, non potevo che essere felice di questo, anche se sapevo che, se Georg e Gustav si erano allontanati, era stato solo perché erano cresciuti bene, per la strada giusta, ed avrei dovuto augurarmi la stessa cosa anche per i gemelli, ma non ci riuscivo. Era splendido averli di nuovo in giro, ritrovarmeli in casa senza un perché, portarli a mangiare fuori perfino quando questo voleva dire entrare in un McDonald’s. E poi c’è stato da dare a Bill la notizia – perché in tutto questo era saltato fuori che no, Tom non gli aveva detto niente, benedetto ragazzo, sarà un padre perfetto, totalmente succube di sua moglie – e maneggiarlo con cura, e tenerlo d’occhio, accertarsi che mangiasse, coccolarlo un po’. Ho ripreso contatto con la parte di me che cercava di far funzionare le cose con dei ragazzini in casa, e mi sono accorto che alla fine il punto di partenza l’avevo ritrovato. Ci ero finito quasi per caso, ma adesso era lì, e da lì potevo provare a ricostruire qualcosa, se volevo. E volevo.
Da quel momento, la mia vita ha imboccato una spirale tantrica ascendente, e tutto ha ripreso a luccicare. Alle volte basta così poco, devi solo scendere in basso, tanto in basso, che lì ti ritrovi di sicuro, soprattutto se stai solo con te stesso abbastanza a lungo da riuscire nuovamente ad ascoltarti, e poi è una passeggiata. Ho cominciato a guardarmi intorno, a sondare il terreno, a vedere se per i Tokio Hotel potesse esserci qualche altra possibilità. Sono tornato da Georg e Gustav e loro erano ancora lì esattamente dove sapevo che sarebbero stati, pronti a rimontare in sella. Ho lasciato che Bill li incontrasse, li ho tenuti da soli in una stanza per il tempo sufficiente e, quando ne sono venuti fuori, sapevo che la via della ricostruzione era stata imboccata, bastava percorrerla, e in quel momento non m’interessava che fosse un altro potenziale vicolo cieco, anche perché non potevo saperlo in anticipo. Ho affrontato il cammino col sorriso sulle labbra, ed effettivamente è anche col sorriso sulle labbra che, questa sera, sono uscito da casa di Bill.
Mi guardo intorno e la strada è deserta ma bene illuminata, spazzata dall’aria calda di inizio agosto. Ho la schiena imperlata di goccioline di sudore perché in casa di Bill si muore di caldo visto che la sua gola sempre sull’orlo di una crisi di nervi ci impedisce di accendere l’aria condizionata, e di sicuro spostare scatoloni per le ultime tre ore non mi ha aiutato a mantenere la mia temperatura corporea ad un livello accettabile, ma in fin dei conti mi ha fatto piacere dare una mano, e poi il dottor Schillinger giustamente dice che non è possibile sistemare la testa di qualcuno se quel qualcuno vive nel caos, perciò il caos che casa di Bill è sempre stata va riordinato. Ne va della sua sanità mentale, qualcosa alla quale tutti, inspiegabilmente, teniamo moltissimo. Forse perché lui, invece, non se ne cura affatto.
Insomma, soddisfatto di me stesso attraverso la strada e mi avvicino alla mia macchina. Splende nella notte, nera come la pece. La accarezzo con lo sguardo ed infilo le mani in tasca per recuperare le chiavi. Mi chino appena per inserirle nello sportello ed aprirlo, ed è allora che spuntano. Da dove, non so. Non li vedo arrivare, appaiono. Prima non ci sono e all’improvviso invece sì.
Capisco subito il pericolo – una cosa che ti abitui a fare quando per lavoro tieni d’occhio quattro ragazzini costantemente circondati da fanciulle isteriche in delirio ormonale – e faccio per spalancare la bocca e gridare, ma non ci riesco perché qualcuno mi schiaccia qualcosa sulla faccia. È gonfio e punge, capisco al primo tocco che si tratta di un maglione di lana decisamente scadente, sicuramente misto acrilico. Faccio una smorfia, schifato, e il tipo ne approfitta per spingere il maglione con più forza, facendomi male, mentre uno dei suoi compari mi afferra per le braccia e mi tiene fermo. Mi dimeno e scalcio, ma qualcuno mi afferra anche per le gambe, ed il tipo che tiene il maglione lancia un’imprecazione e dice ad un altro di fare in fretta con lo scotch, perché sono un indemoniato e non mi si tiene più. Puoi scommetterci, stronzo, lascia solo che mi liberi e ti strapperò l’uccello a morsi, e poi vedremo chi è che non si tiene più.
Continuo a dimenarmi come un ossesso. Non posso più parlare e, dopo qualche secondo, quando mi legano polsi e caviglie, non posso più nemmeno muovermi. Cado a terra come un sacco di patate, le palle che, per la frustrazione, vorticano al punto che, se non fossero al sicuro dentro le mutande, farebbero da eliche e mi permetterebbero di librarmi in volo. Cosa che, peraltro, al momento sarebbe piuttosto utile.
Impreco e insulto chiunque, anche se non si capisce una singola parola di quelle che mi escono dalla bocca. I tipi, ignorando la mia ira funesta, mi sollevano e mi caricano in una jeep che arriva qualche secondo dopo, una roba scalcinatissima che deve aver visto almeno dieci estati come quella che, fra meno di un mese, volgerà al termine anche quest’anno. Mi tirano di malagrazia sul sedile posteriore, due si sistemano alla mia sinistra, uno alla mia destra e il quarto sul sedile passeggero accanto all’autista.
- Fatelo stare zitto. – dice quest’ultimo. Non riconosco nessuna delle loro voci, e la cosa mi inquieta, perché se qualcuno ha pagato dei professionisti per rapirmi in primo luogo questo qualcuno deve essere bene organizzato, ed in secondo luogo deve volermi parecchio male.
Sudo freddo, nonostante l’afa, e mi zittisco immediatamente.
- Bravo. – mi dice il tizio alla mia destra. Quello sul sedile del passeggero guarda l’autista con preoccupazione e si morde il labbro inferiore.
- Ha fatto un sacco di schiamazzi, là fuori… - comincia. L’uomo lo zittisce con una scrollata di spalle.
- Nessuno ha visto né sentito niente. – lo rassicura, - Procediamo come stabilito.
- Klaus, facciamolo adesso. – insiste quello, ed il fatto che lo chiami per nome mi dà una chiara idea di quanto non stia pensando alla possibilità che io possa riuscire a vedere la luce del giorno, domani mattina. – E molliamolo al primo angolo di strada. Lo troveranno di certo. Aspettiamo un paio d’ore per essere sicuri che crepi e poi avvisiamo del punto in cui l’abbiamo lasciato. L’importante è che il messaggio arrivi, no?
- Procediamo come stabilito. – insiste l’uomo al volante. Deve trattarsi del capo, perché il tizio al suo fianco si zittisce immediatamente, dopo aver mormorato un “d’accordo” stentato. Continuo a rimanere immobile, sono pietrificato dalla paura. Restano tutti in silenzio mentre usciamo dal centro ed anche dalla periferia, ritrovandoci in aperta campagna. Non c’è nulla, sulla strada che percorriamo, per moltissimo tempo. Poi, ad una ventina di metri di distanza da dove ci troviamo, nella notte più profonda vedo sorgere una specie di baraccone che dev’essere abbandonato da moltissimo tempo. La jeep si ferma proprio lì davanti, i tipi scendono dalla macchina e mi trascinano con loro, tenendomi ben stretto. Riprendo a dimenarmi perché sento che il momento è vicino e so con certezza che, se mi lasceranno qui, morirò. Qualsiasi cosa vogliano farmi, se anche io dovessi riuscire a non morire sul colpo, col passare delle ore morirei comunque. E non voglio che succeda. Cazzo, non voglio che succeda.
Niente di ciò che faccio è utile alla mia causa, comunque. Quelli mi lasciano cadere per terra di faccia, e poi due di loro mi afferrano per i piedi e mi trascinano per il ciottolato che porta all’ingresso del baraccone. La maglietta mi si solleva tutta, esponendo la pancia alle pietruzze taglienti. Riesco a tenere il viso sollevato, anche grazie al maglione che mi è stato legato attorno alla testa, ma la pancia e i fianchi proprio no. Più tardi, ringrazierò per il dolore che sto provando in questo momento, perché le ferite già aperte diminuiranno l’intensità del male che mi procureranno quelle nuove, ma in questo preciso istante non ringrazio proprio per un bel niente. Fa male e sono terrorizzato. Voglio tornarmene a casa mia. E non voglio morire.
Entriamo nel baraccone ed i tizi chiudono subito la porta. Non la sprangano. Lo noto e mi chiedo se potrei fare qualcosa, sfuggire alle loro mani e saltellare fino a lì… e poi correre a piedi uniti nella notte fino alla prima stazione di polizia? Non sembra granché fattibile, come cosa. Smette di esserlo del tutto quando i tipi mi risollevano in piedi e poi mi scaraventano contro un mucchio di casse accatastate in un angolo. Sento distintamente qualche osso scricchiolare, ma sono troppi contemporaneamente perché possa identificarli uno per uno. So solo che fa un male fottuto, fa tanto male che mi metto a piangere. Non piangevo di dolore da decenni, da quella volta in cui sono cascato di testa durante uno spettacolo e mi sono serviti sei punti di sutura per richiudere la ferita.
- La checca piange. – dice uno dei cinque, ridendo divertito. Uno degli altri gli tira uno schiaffo contro la nuca e gli intima di tacere. Non posso saperlo con certezza, perché i loro volti sono coperti, ma immagino sia l’uomo che ha guidato la jeep fino a qui. L’atteggiamento da capo, almeno, è lo stesso.
- Niente di personale, Jost. – dice accucciandosi davanti a me e tirando fuori dalla tasca dei jeans neri un coltellino a serramanico. Spalanco gli occhi e quello che gli sento dire dopo non fa che sconvolgermi ancora di più. Tuttavia, non ho il tempo di pensarci troppo, perché subito dopo l’uomo mi solleva la maglietta e comincia a incidere. Un taglio, poi un altro. Tutti abbastanza profondi, ma precisi. Millimetrici. Vorrei poter dire che il dolore è tale da costringermi a non sentire più niente, ma purtroppo non è così che va. Nonostante le ferite ancora fresche, il dolore è lancinante. E infinito.
Quando si allontana nuovamente da me, sento il mio intero corpo bruciare. Sono rovesciato per terra ed esausto. Non riesco a respirare. Il maglione mi si è infilato in bocca e non riesco a spingerlo fuori perché non ho più forze. È palese che non sopravvivrò. Lo stronzo di merda mi ha scritto qualcosa addosso, ma non riesco a capire cosa. Non lo capirò mai, non ne avrò il tempo né il modo.
I tipi escono in fretta. L’ultimo, il capo, resta a guardarmi finché da fuori non vengono a richiamarlo. Immagino gli piaccia vedere la vita che mi scivola via dagli occhi. Io la sento che se ne va e non è piacevole per niente. Sto di nuovo piangendo e non so neanche dove ho preso la forza per farlo.
- Niente di personale. – mi ripete ancora, prima di uscire. E poi rimango solo, sento la jeep allontanarsi lungo la strada e il tempo perde senso, perché non riesco a misurarlo. Non ho un orologio con me, ed anche se l’avessi non riuscirei a guardarlo. Naturalmente, non ce ne sono intorno, appesi alle pareti. Non ho idea di quanto tempo passi sdraiato per terra a ridosso delle casse. Sento il sangue uscire dalle ferite in grossi rivoli, così tanto non ne ho mai visto tutto assieme. Si allarga attorno a me come una pozzanghera, impregnando i miei vestiti e gonfiando le assi di legno.
Passano minuti, forse ore. Non lo so. So che a un certo punto sento dei rumori intorno a me, ma sono come un’eco lontana. Non riesco a credere che stia succedendo davvero, che qualcuno mi abbia trovato, e non riconosco nessuna delle facce che ho davanti, anche se sono abbastanza sicuro che dovrei.
E poi, all’improvviso, i miei occhi incontrano quelli di Bushido. Un attimo prima di chiudersi.

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Es Kann Beginnen - Vol.1

di tabata
In questi mesi non sono stato tanto bene.
Se c'è un modo di iniziare a raccontarvi questa storia, credo sia proprio dirvi questo.
Era una cosa che si vedeva, naturalmente; la vedevano un po' tutti, tranne forse io perché quando stai veramente male non è che te ne rendi conto sul serio. Tu sei lì e sei consapevole di non essere felice, perché la mattina ti svegli e hai voglia di piangere – anzi hai voglia di piangere a tutte le ore del giorno e della notte – ma hai perso da tempo una visione chiara di te e di come stiano le cose, per cui alla fine tutto ciò che capisci è che sei infelice e cominci a dire e a fare cose che non hanno alcun senso o non sono per niente connesse con la realtà. Io avevo la testa così incasinata che ho camminato per due chilometri su una statale rischiando di farmi mettere sotto, convinto di stare andando lontanissimo e di essere finito chissà dove. Ho incontrato persone inesistenti e ci ho anche parlato, e ho fatto cose reali alle persone che amavo che faccio fatica ad accettare perché un po' me ne vergogno e un po' fanno ancora male se ci penso.
Questo finché non sono crollato completamente ed è lì che ha cominciato ad andare un po' meglio, anche se so che sembra strano da dire.
Il fatto è che non sempre i problemi sono insormontabili come crediamo; anzi, il più delle volte non siamo così sopraffatti da loro come ci sembra ma conserviamo un po' di lucidità che poi ci aiuta a superarli, prima o dopo a seconda di quanto siamo pratici e disfattisti. In quel caso, bene o male, tutto si risolve senza grossi danni e spesso succede ancora prima che ce ne accorgiamo.
Ci sono volte però, in cui il meccanismo s'inceppa, la lucidità va a farsi benedire e tutto ciò che facciamo è rimuginare sullo stesso problema o sullo stesso dolore, senza tentare di superarlo ma alimentandolo finché non diventa così forte che il cervello è costretto a spegnersi e riavviarsi, solo per non andare in sovraccarico ed esplodere, o qualcosa del genere. Ed è quello che è successo a me quando ho deciso di prendere il treno e senza saperlo sono andato dritto a casa di Anis. Non ricordo il momento in cui ho preso quella decisione, né perché proprio quella e non un'altra, ma so che è successo mentre il mio cervello ricominciava tutto da capo e, nel caricare i suoi bei dati ha rimesso tutto abbastanza a posto da farmi ragionare con lucidità quando poi Fler mi ha detto che dovevamo starcene tutti per conto nostro. Me lo avessero detto il giorno prima o due settimane prima, non l'avrei accettato perché tutto ciò che capivo era ciò che mi faceva star male, per quanto fosse una cosa che amavo.
Tutto ciò naturalmente non è che l'ho capito da solo per intervento divino, sono andato in analisi e mentre vi parlo non sono nemmeno vicino a finire perché, come dice il dottor Schillinger, ho la testa un sacco scombinata e ci vorrà del tempo per rimetterla a posto.
Prima di andare in analisi, comunque, ho fatto quello che avevo promesso a Patrick e sono andato alle Maldive con mio fratello, il quale si è trovato immediatamente d'accordo sul fatto che dovessi cambiare aria. Una volta che gli ho detto dov'ero e che aveva bisogno di andarmene, lui mi ha raggiunto a Berlino, dove siamo rimasti giusto il tempo di fare le valigie e avvertire nostra madre, poi siamo saliti sul primo aereo disponibile e non ci abbiamo pensato più. Mi sono accorto che il mio cuore ha ricominciato a battere regolarmente quando eravamo in volo e alla prima telefonata di David, al nostro arrivo, stavo già meglio di quando ero partito ed è stato più semplice accettare ciò che mi stava dicendo, e cioè che ci avrebbe pensato lui a sistemare ogni cosa ma che non mi aspettassi di ricevere comprensione dalla casa discografica, perché quella potevamo scordarcela tutti quanti.
Tutta la comprensione di cui avevo bisogno in quel momento, comunque, era quella di Tom e lui non mi ha deluso nemmeno per un momento. Non che mi aspettassi il contrario, ovvio, ma dopo tutto quello che gli ho fatto passare sarebbe stato anche logico che mi stesse vicino senza necessariamente buttarsi anima e corpo nell'impresa, e invece lui l'ha fatto e di questo gli sarò sempre grato.
In pratica mi ha preso in consegna su suolo straniero e mi ha liberato solo quando abbiamo di nuovo toccato suolo tedesco quasi tre settimane dopo, attaccandomisi addosso come una patella per diritto della sua condizione di gemello omozigote; e io, per la prima volta da tre anni a questa parte, sono stato felice di vederglielo fare per più di due giorni di seguito. Non chiedevo altro che di poter passare ogni singolo istante della mia giornata con lui, il quale ha la capacità di eliminare qualunque bolla di spazio vuoto in cui avrei rischiato, anche solo per sbaglio, di farmi venire la nostalgia dei tormenti che mi ero lasciato a casa.
I primi giorni sono stati molto difficili perché non puoi passare dall'essere costantemente circondato da determinate persone al non averle più accanto senza sapere se o quando ti capiterà di riaverle con te, e pensare di abituartici in un istante. Io, per esempio, non riuscivo proprio ad accettare l'idea, anche forse perché ero convinto che la decisione di dedicare del tempo a se stessi senza però fissare un momento preciso in cui ci saremmo rivisti fosse un modo come un altro per dirsi che andavamo ognuno per la sua strada con la speranza, forse, un giorno, di rincontrarsi in un altro momento della nostra esistenza.
E questa cosa non mi andava giù.
Ci saremmo rivisti un giorno, ma quando? Dove? Come? Non riuscivo a pensare ad altro, come se non ci fosse mai stato un tempo in cui io vivevo benissimo anche senza Bushido, Chakuza o Fler. In realtà, anche adesso, non riesco a ricordarmi di quel tempo perché prima di Chakuza c'era solo Bushido e prima di lui la mia testa è solo un gran vuoto, per cui capisco che avevo bisogno di staccare un po', ma non credo per niente al fatto di stare bene senza di loro. Del resto se sono ancora in analisi c'è un motivo, immagino.
Ad ogni modo, durante la mia prima settimana non ho avuto nessuna reazione, stavo lì dove Tom mi trascinava e fissavo il vuoto, a volte piangevo, e lui è stato un sacco paziente con me, non mi ha mai sgridato, neanche quando mi rifiutavo di uscire dal letto. Non ricordo niente di quello che mi diceva per cercare di distrarmi, mi ricordo solo che mi abbracciava spesso e non parlava mai di loro.
A pensarci adesso sembrava che fossi tornato indietro a quando Bushido era morto e non mi riusciva di trovare un buon motivo per cui dovessi continuare ad alzarmi al mattino e vivere la mia vita come prima; succede sempre un po' questo quando ti tolgono in un colpo solo tutto quello che è importante per te.
Poi, ogni giorno ha cominciato ad andare un po' meglio di quello prima finché una mattina non mi sono alzato e mi sono accorto di avere voglia di uscire e fare qualcosa.
Tomi mi ha portato sulla spiaggia a prendere il sole e, per la prima volta da quando eravamo arrivati, ho passato una giornata intera senza pensare ai miei due uomini, lo so perché mi sono venuti in mente solo la sera, quando siamo tornati in albergo ridendo, e la magia della giornata si è un po' spezzata.
Il dottor Schillinger dice che è un bene che io sia arrivato al punto in cui il pensiero di una cosa cambia il mio umore in peggio, significa che fino all'attimo prima di pensarci ero felice e questo è un miglioramento rispetto al mio stato di fissazione precedente, quello che mi ha fatto riavviare il cervello per intenderci.
Io non credo a tutto quello che dice il dottor Schillinger – per esempio lui sostiene che non dovrei chiamarli i miei due uomini, che il mio cervello è già abbastanza confuso così, però io lo faccio lo stesso perché non so come altro chiamarli – ma credo che questa cosa sia vera. Quando penso a Bushido e Chakuza e torno a stare male, mi aiuta sapere che l'attimo prima stavo bene anche se non me ne rendevo conto; posso almeno credere che prima o poi ricapiterà.
Ora, credo, si tratta solo di imparare a gestire quest'infelicità che salta fuori a momenti e che forse svanirà o forse diventerà solo più sopportabile, non lo so. Io propendo per la seconda perché so per esperienza che Bushido non se ne va mai dalla tua testa una volta che ci è entrato e Chakuza è uguale o non sarei qui a cercare di liberarmi anche di lui. Comunque ci vorrà un sacco di tempo e visto quello che sta succedendo in questo momento, forse ce ne vorrà molto più del previsto e torneremo anche indietro di qualche passo, una cosa che non va mai bene ma che succede sempre.
Alla fine, io e Tom alle Maldive ci siamo rimasti un sacco di tempo e ci saremmo rimasti anche tutta la vita, volendo, se David non avesse chiamato per avvertirci di tornare a Berlino il prima possibile. Immagino che avrei potuto appellarmi al mio crollo nervoso, aggrapparmi ostinatamente ad una sdraio e rifiutarmi di partire, ma a quel punto Tom non me l'avrebbe permesso perché lui capisce sempre quando merito del sostegno e quando invece vado preso a ceffoni, e credo che ormai lo sappiate benissimo.
Così abbiamo fatto le valige e abbiamo preso un volo verso casa, con la consapevolezza che non ci aspettava niente di buono laggiù ma che almeno lo avremmo affrontato un po' più serenamente e soprattutto insieme, dal momento che Tomi è stato tanto bravo da non ricucire solo me, ma anche noi due che a dire il vero in questi ultimi tempi ci eravamo un po' strappati.
David è venuto a prenderci direttamente in aeroporto con la sua macchina e come mi ha visto mi ha abbracciato strettissimo e allora mi sono reso conto che non mi vedeva da quando ero scappato dal tourbus. So che chiamava Tom per sapere come stavo ma immagino che finché non mi ha visto scendere dall'aereo sulle mie gambe non è stato davvero tranquillo. Da lì siamo andati a prenderci un caffè, ma la notizia non ce l'ha data subito, il che è indicativo di quanto anche lui sia fuori fase.
Quando c'erano dei guai, David non ce li ha mai tenuti nascosti, preferendo renderci partecipi fin da subito della gravità delle situazioni in modo che imparassimo a gestire gli imprevisti invece di farci prendere dal panico – questo naturalmente se si esclude che mi ha mentito per quasi un anno sul fatto che Bushido non era morto, naturalmente – stavolta invece ci è andato con i piedi di piombo, forse perché non avendomi avuto sott'occhio nei giorni immediatamente successivi al disastro, non aveva idea di come potevo reagire.
Premetto che mentre eravamo in vacanza, Tomi mi ha vietato di guardare la televisione o di leggere le notizie in rete, e io non avevo la testa per ipotizzare quanto potessimo essere nei guai per colpa mia, quindi, quando David mi ha dato la notizia, io non sapevo niente di niente e, per certi versi, nemmeno me lo aspettavo, dopo aver passato un tempo così lungo del tutto sconnesso non solo dalla ma vita ma dalla realtà in generale.
A quanto pare, mentre noi non c'eravamo, David ha tentato l'impresa disperata di spiegare alla casa discografica quale fosse il problema e che ci serviva del tempo per risolverlo, ma i grandi capi non sono stati per niente d'accordo e hanno annullato il nostro contratto. Questa, naturalmente, è la notizia in breve; in realtà David ha fatto un discorso di quasi un'ora cercando di indorare la pillola in modi quasi teneri finché non è stato costretto ad ammettere che eravamo tutti in mezzo ad una strada.
Se devo essere sincero, non so esattamente come mi ha fatto sentire. Qualche anno fa, probabilmente, avrei dato di matto se mi avessero detto una cosa del genere, ma d'altronde allora questo non sarebbe mai potuto succedere, perché la Universal vendeva noi quattro e noi eravamo lì per farci vendere, non ci saremmo mai sognati di fare casino e perdere la possibilità di cantare. Negli ultimi mesi, però, l'unica cosa che è stata davvero pubblicizzata siamo io e Bushido, e noi due non siamo mai stati in vendita. Per questo, forse, quando David mi ha detto che la Universal ci ha scaricato, io ho pensato subito che fosse meglio così, almeno non avrebbe più sfruttato le mie relazioni a suo piacimento. Poi ovviamente mi sono venuti in mente i ragazzi e ho chiesto di loro.
Nel rispondermi, David era molto teso, esattamente come mio fratello, il che mi ha fatto pensare che avessero già parlato in precedenza e non mi ha stupito affatto. D'altronde sono ben consapevole che loro debbano aver discusso del sottoscritto mentre io non ci stavo con la testa.
Gustav e Georg sono due persone estremamente pazienti e mi vogliono bene, per questo durante gli ultimi due anni in cui non solo la mia vita è stata un inferno ma ha condizionato anche la loro, sono stati comprensivi e non mi hanno fatto pesare niente. In questi due anni, però, avevamo ancora un contratto. David me lo ha riferito esattamente così e io ho capito che le due G non erano affatto disposte ad essere comprensive, stavolta. Vorrei poter dire che questo mi ha fatto disperare, ma non è stato così, per il semplice fatto che al momento sono ancora così stanco per ciò che ho passato da non avere la forza mentale di preoccuparmi di qualcos'altro. Non ho voglia di lottare, per niente.
Il dottor Schillinger dice che alla fine dovrò reagire, ma non ho ancora cominciato. Immagino che prima dovrò imparare ad accettare completamente quello che è successo e poi, forse, potrò pensare di rimettermi in carreggiata.
David però lo aveva previsto, lui prevede sempre tutto, quindi mi ha subito rassicurato che non appena la Universal ha ufficializzato il benservito, lui si è messo alla ricerca di un'altra casa discografica che potesse occuparsi di noi. Senza che io gli chiedessi niente, mi ha fatto un elenco infinito di nomi possibili e mi ha fatto sapere che sono in molti ad essere interessati. Gli ho detto che non ne dubitavo, ma non ho chiesto altro. Una cosa che invece volevo fare, anche se mio fratello non era molto d'accordo, era parlare con Gustav e Georg. Tomi non voleva perché, evidentemente, ci aveva già parlato lui e le due G non dovevano esserci andate troppo per il sottile; aveva paura che potessero non essere il massimo della gentilezza e che questo potesse essere un problema per me. Tomi è buffo perché non si fa nessun problema a trattarmi male personalmente ma sta ben attento che non lo faccia nessun altro. E' convinto di sapere solo lui quando e come sarò in grado di sopportare una sfuriata. In generale, per altro, ha anche ragione, ma credo che in questo caso non ci fosse molto da scegliere, io dovevo parlare con Gustav e Georg per forza perché non lo facevo da una vita e perché non poteva farlo lui al posto mio, che mi urlassero contro o meno.
Per cui l'ho fatto. Hanno urlato un po'. Tanto. Ma alla fine era solo di questo che avevano bisogno. A volte quando sei molto arrabbiato con una persona a cui vuoi bene, che sai che non potresti mai davvero odiarla, l'unica cosa che ti serve è urlarle contro tutta la tua frustrazione, in modo che anche lei sappia che la tua pazienza è finita e che è bene tu non la sfidi ulteriormente. Io questa possibilità a loro l'avevo tolta, perché tra una cosa e un altra non c'ero mai, e che non passavo un po' di tempo con loro in una stanza erano mesi, così quando mi hanno visto, hanno dato sfogo ad un bel po' di rabbia ma poi basta. E quando mi sono scusato – e so che mio fratello mi ha guardato sconvolto, perché io scusa non lo chiedo mai e invece questa volta ho cominciato con lui alle Maldive – Georg mi ha anche abbracciato. Mi ha detto che andava tutto bene e che ci saremmo ripresi, perché noi siamo dei grandi e non ci ferma nessuno. Perfino Gustav, che è emotivamente stitico, si è avvicinato per darmi il bentornato e, in uno slancio di megalomania, ha dichiarato che faremo un ritorno col botto tale, che la Universal tornerà in ginocchio piangendo, così potremmo sbatterle la porta in faccia e ridere.
Ora, mentre vi parlo sono passati mesi da quella rimpatriata e non abbiamo ancora notizie di nuovi contratti o anche solo di vaghe idee per un accordo, ma tutti gli altri sono ottimisti, anche David lo è e, secondo il mio psicologo, è bene che lo sia anch'io. Quindi lo sono.
Nello specifico, mi sto impegnando ad essere ottimista nella vasca da bagno.
Disteso sul fondo, guardo il soffitto e inseguo una melodia che dev'essermi comparsa in testa ieri notte e si è fatta trovare pronta quando ho aperto gli occhi questa mattina. E' tutto il giorno che cerco di tenerla a mente e spero che Tom abbia voglia di aiutarmi a metterci delle parole, è così tanto che non lo faccio che mi sento un po' arrugginito. Ho deciso che glielo chiederò dopo aver fatto il bagno, quindi voglio essere pronto per ripetergliela correttamente quando sarò uscito dalla vasca; ho assegnato ad ogni macchiolina sul muro una nota e le ripeto tutte in ordine all'infinito per paura che mi scappino e non tornino più.
Sono qui dentro da non so quanto tempo, ho le dita delle mani tutte raggrinzite.
Mi piace stare con la testa sott'acqua perché è tutto ovattato e mi aiuta a pensare, però così non sento niente. Per questo quando alla fine mi arriva la voce di mio fratello, non so bene da quant'è che stia urlando il mio nome aldilà della porta. Dev'essere parecchio, comunque, perché fa irruzione nel bagno con aria allarmata e si getta a fianco della vasca proprio mentre io ne riemergo di colpo.
“Che diavolo stavi facendo?” Mi accusa subito, spaventato. “Perché non rispondevi?”
Strizzo un po' gli occhi e mi tiro indietro i capelli. “Ero sotto l'acqua,” mi giustifico, lì per lì mica lo capisco che cosa gli è passato nel cervello. “Che succede?”
Lui si lascia andare seduto a terra e fa un sospirone sollevato. “Mi hai fatto prendere un colpo,” mormora, deglutendo. Poi si butta giù lungo disteso sul pavimento e guarda le macchioline del soffitto senza sapere che sta osservando la nostra nuova canzone. “Credevo...” si appoggia una mano sulla fronte e mi guarda. Da quella prospettiva i suoi occhi sono due linee sottili mentre scuote la testa. “Lasciamo perdere. Ma non farlo mai più, chiaro? Rispondimi la prossima volta.”
Io sorrido e mi appoggi al bordo della vasca. “Non mi suiciderò nella vasca da bagno,” prometto.
“Tu non ti suiciderai e basta, cretino,” replica e mi tira in faccia la prima cosa che gli capita sotto mano e che, purtroppo per me, sono i calzini sporchi che ho gettato a terra prima di entrare in vasca.
Faccio una smorfia mentre li lancio nel posto in cui si meritano di stare, ossia il cesto dei panni sporchi, mancandolo di quel mezzo metro standard con cui manco qualsiasi cosa in cui devo fare centro. “Allora, perché mi chiamavi? Se volevi vedermi nudo ti bastava guardarti allo specchio,” lo prendo in giro.
Tom appoggia di nuovo la testa in terra. “Ti suonava il cellulare.” Solleva il mio telefono in aria e se lo rigira tra le dita, senza guardarlo. Quando si volta verso di me è molto serio. “Bill, se ti faccio una domanda mi risponderai sinceramente?”
“Sì.”
Non me la fa subito, prima guarda di nuovo il soffitto. “Hai chiamato Bushido in questi giorni?”
Sono quasi sicuro di sussultare quando lo dice, perché quel nome non me lo aspetto proprio. Io non ci stavo pensando e, come ho detto, quello per lui è un argomento proibito. “No, perché?”
“Sicuro?” Mi guarda attentamente adesso. Non è arrabbiato, ma se per caso gli stessi mentendo e lui venisse a saperlo, sarebbe molto deluso di me. Riesco a leggere tutto questo dentro ai suoi occhi e sono molto felice di stare dicendo la verità.
“Sì.”
Mi sta ancora fissando quando il telefono, all'improvviso, si mette a squillare. Tomi legge il nome sul display e si mastica l'interno di una guancia. “E' lui,” dice e si vede lontano un miglio che la cosa non gli va a genio per niente.
Io guardo il cellulare che continua a squillare e mi sembra che lo faccia sempre più forte solo perché non premo il pulsante di risposta. Penso distintamente che non sono pronto a sentire la sua voce, ne ho paura ed è quasi come avere in mano una bomba ad orologeria che non smetterà di ticchettare finché non taglio il filo giusto. Potrei buttare il telefono in acqua.
“Non devi rispondere se non vuoi,” mi dice Tomi. “Non sei obbligato.”
“Potrebbe essere importante.” Quando premo il pulsante, non ho pensato davvero di farlo, è un gesto che mi viene automatico dopo che ho detto quella frase. Mi rendo conto solo vagamente che è appena scattato in me uno di quei meccanismi che Anis mi ha lasciato addosso.
Due anni fa, prima che Bushido morisse, prendevo molto sul serio le sue telefonate fuori programma perché erano quelle con cui mi comunicava di essere nei guai; che fossero le quattro del mattino, o stessi facendo altro, io rispondevo sempre perché poteva essere una cosa seria.
“Pronto?”
Anis non risponde subito, lo sento prima tirare un sospiro di sollievo. “Bill, stai bene?”
Per un attimo mi chiedo se anche lui era preoccupato che mi stessi suicidando nella vasca da bagno, ma poi mi rendo conto che questo non ha senso. “Sì, sto bene. Perché?”
“Dove sei?”
Io non mi stupisco del fatto che abbia chiamato dopo sei mesi e, senza nemmeno salutarmi, si stia impicciando dei fatti miei. Mi sarei preoccupato del contrario. “A casa di Tom,” rispondo.
Mio fratello è ancora a terra e guarda il soffitto fingendo disinteresse, ma da come si sta mangiando le unghie capisco che ci sta ascoltando ed è nervoso per questa telefonata, ma non si sente abbastanza in diritto di fare qualcosa al riguardo. Vorrei dirgli che sono nervoso anch'io, se la cosa può consolarlo.
“C'è qualcuno lì con voi?” Mi chiede ancora Anis. “Jost, magari? O una guardia del corpo.”
“No, siamo solo noi due. Perché che succede?”
Dall'altra parte è di nuovo silenzio e comincio a preoccuparmi, non fosse altro che perché l'ultima telefonata del genere che ci siamo scambiati è finita con lui morto sul mio letto. Vorrei evitare di ripetere l'esperienza, per qualche motivo ho la sensazione che ricomincerebbe tutto da capo.
“Chiedi a tuo fratello di portarti a casa mia,” riprende Anis, ignorando completamente la mia domanda.
“Cosa? Perché dovrei?”
Tom si solleva sui gomiti e mi fa cenno col mento verso il telefono. Io guardo nella sua direzione ma non sto davvero guardando lui mentre aspetto la risposta di Bushido.
“Non è sufficiente che te lo dica io?” Chiede Anis, alzando un po' la voce; ma non è arrabbiato, solo teso e preoccupato. E' per questo che non mi arrabbio.
“No, Anis, non è più sufficiente,” mormoro piano. Poi sospiro perché non è vero. “Dimmi che cosa sta succedendo, per favore.”
Tom è così bravo che capisce al volo quello che voglio fare, alzandosi in piedi per venirmi incontro con l'accappatoio prima ancora che io abbia finito di tirarmi fuori dalla vasca. L'acqua si sta freddando e non è più piacevole stare a mollo, e poi so che in qualche modo mi sto già preparando ad uscire di casa.
“Ho bisogno di saperti in un posto sicuro,” mi dice lui.
“Questa casa è sicura,” protesto.
Questa volta la pausa la fa perché vorrebbe rispondermi male e sa di non poterlo fare. “Preferirei che tu venissi da me,” si corregge, alla fine. “La villa è protetta e sarei più tranquillo se ti avessi lì.”
Sposto la cornetta da un orecchio all'altro per infilarmi l'accappatoio. “Te lo chiedo di nuovo, Anis. Si può sapere che cos'è successo? Tu dove sei?”
“In giro,” risponde. “Devo controllare una cosa.”
E a me non piace che sia così vago, né che ci siano delle fantomatiche questioni che richiedono il suo controllo in qualche parte della città, che poi scommetto è Tempelhof perché Berlino gli piace tanto ma poi, a conti fatti, tutto con lui si riduce sempre e solo al ghetto.
“Che senso ha che venga a casa tua, se tu non ci sei?” Gli faccio notare.
“Bill, te lo chiedo per favore,” insiste lui e la sua voce è così piena di apprensione che un po' mi dispiace non avergli obbedito subito. “Vai alla Villa. Appena arrivo ti spiegherò tutto, te lo prometto.”
Sospiro e guardo Tom che non ha sentito niente della telefonata ma ha già capito che qualcosa non va e che io ci sono finito in mezzo. D'altronde ho risposto, non poteva succedere che questo.
“Non ho più le chiavi,” dico alla fine, rassegnato.
“C'è Karima in casa, ci penserà lei ad aprirti.”
Io frugo fra la roba che ho sul letto per mettere insieme qualcosa di decente da mettermi, ma non parlo. Ascolto il suo respiro e il rumore vago che sento in sottofondo, anche se non so decifrare che cosa sia.
“Bill, sei ancora lì?”
“Sì,” sbuffo, cercando di infilarmi i pantaloni mentre tengo il telefono incastrato tra la testa e la spalla.
“Fai come ti ho detto, d'accordo? Entra in casa e chiuditi dentro, e non muoverti finché non arrivo. Sarò lì il prima possibile.”
Sospiro. “Ho capito.”
Esita un attimo. “D'accordo,” dice poi.
E chiude la telefonata.

*



La villa di Anis non è la fortezza che potrebbe essere, volendo, viste le dimensioni.
A volte si sente di queste case di attori famosi che, in quanto a sistemi di sicurezza, fanno concorrenza alle banche Svizzere e che per entrare là dentro – se per caso ti sei dimenticato le chiavi – ti ci vuole la scansione della retina, le impronte digitali e qualche codice supersegreto.
Ad Anis un sistema di sicurezza simile non servirebbe a molto, a parte a far vedere che è ricco e può permettersene uno, perché poi il più delle volte, se qualcuno gli suona il campanello, scende lui in ciabatte ad aprire il cancello, con i labrador che fanno già le feste prima ancora di vedere chi è l'ospite. Nonostante questo, però, un sistema di sicurezza c'è ed è comunque molto più avanzato del mio videocitofono, che è la sola cosa che s'interporrebbe tra me e un ipotetico malintenzionato, a parte la porta.
Innanzitutto c'è un sistema di telecamere che funziona. Sono ovunque, non solo sopra il cancello, ma anche lungo tutto il perimetro del giardino. Le porta di entrata è blindata, con doppia serratura, e la casa è protetta con un sistema d'allarme elettronico che si attiva e disattiva solo attraverso un codice a tempo collegato direttamente con la polizia, una cosa che i primi mesi ha fatto accorrere pattuglie su pattuglie finché non l'ho costretto a segnarsi le sei cifre che gli servivano su un pezzetto di carta da tenere nei pantaloni.
Quando arriviamo con la macchina di fronte al cancello, quello è chiuso e non si apre nemmeno quando sono costretto a scendere per inserire il codice a mano, segno che Bushido lo ha cambiato o ha bloccato tutto per sicurezza e che davvero mi toccherà suonare il campanello, una cosa che odio non per il campanello in sé, naturalmente, ma perché a rispondermi sarà Karima. E io odio quella donna.
La sua voce gracchiante esplode dall'interfono qualche secondo dopo che ho suonato. “Chi è?” Urla, come se non ci fosse un microfono e io dovessi sentirla parlare da dentro la casa, a duecento metri da lì e con le finestre chiuse.
“Sono Bill,” rispondo.
Lei sembra pensare un attimo. “Il signore Ferchichi non è in casa, signor Kaulitz,” mi risponde dopo un po', con il suo forte accento straniero. A volte quando parla nemmeno capisco quello che sta dicendo; per esempio, adesso, ha pronunciato il cognome di Anis in un modo in cui non lo pronuncia nemmeno lui e mi sembra che quasi lo faccia apposta.
“Lo so, mi ha chiesto lui di venire e di aspettarlo qui.”
Altro silenzio e poi sento il ronzio della telecamera sopra la mia testa che gira, così mi metto a favore e mostro i denti. “Sono io per davvero,” commento. E il cancello scatta.
Se fossi stato in pericolo, probabilmente avrebbero potuto farmi fuori semplicemente aspettando che scendessi a provare alla cameriera che non sono un impostore davanti alla telecamera a circuito chiuso.
Tom aspetta che io risalga, quindi oltrepassa il cancello che ha appena finito di aprirsi e già viene richiuso.
Parcheggiamo sul retro e appena chiudo la portiera ecco che Skyline e Sherlee mi vengono incontro abbaiando felici. Skyline si getta addirittura a terra per farsi grattare la pancia da mio fratello e poi guaisce come un invasato, dimostrando la sua natura di cane da guardia.
Karima ci aspetta sulla porta, un po' per vedere se davvero sono io, immagino, ma soprattutto per ricordarci immediatamente di pulirci le scarpe sullo zerbino, perché chissà quando ha piovuto e fuori c'è fango. Anis ha speso non so quanti milioni per fare ovunque vialetti in cemento, ma per lei la gente porta sempre fango in casa. Tra le altre cose non capisco come Bushido possa desiderare di tenerla con sé, quando palesemente gli sarebbe bastato vivere con sua madre che si sarebbe comportata allo stesso modo.
Io mi pulisco diligentemente i piedi, ma faccio entrare anche Skyline e Shrlee, che sono sicuro lei ha buttato fuori non appena Bushido si è allontanato, e la prima cosa che quei due fanno è urtare di corsa il tavolino e buttare in terra il vassoietto con le caramelle.
Karima non dice niente, ma mi guarda malissimo e io la ignoro mentre Skyline cerca di riparare ai suoi stessi danni mangiandosi le mentine che ha fatto cadere.
“Che cosa dovremmo fare, adesso?” Mi chiede Tom, quando finalmente riesce a trascinare via Skyline, tirandolo per il collare, in modo che Karima sia libera di pulire in terra senza che lui lecchi anche la scopa.
E' cresciuto un sacco in fretta, questo cane, non so cosa Anis gli dia da mangiare ma è enorme e massiccio, e ha la testa grossa come la mia.
Io mi siedo sul divano e Sherlee mi appoggia il muso sulle ginocchia. “Non ne ho idea,” faccio una smorfia. “Aspettare, credo.”
Skyline abbaia due volte, come a sostenere la mia tesi e allora faccio una carezza anche a lui, ora che si è messo buono accucciato ai piedi di Tom del quale è perdutamente innamorato da quando era un cucciolo, anche se l'ha visto si e no sei volte perché non è che mio fratello abbia passato molto tempo da queste parti da quando Bushido ha comprato i cani, se non per passare a prendermi e riportarmi.
Siamo lì da dieci minuti che ci guardiamo intorno quando all'improvviso Skyline scatta in piedi e si getta in corsa dall'altra parte della stanza scodinzolando e muovendo le orecchie, senza dimenticare di travolgere qualunque cosa si trovi sulla sua strada. “Skyline!” Lo chiamo, ma lui non mi ascolta e allora mi accorgo che nascosto in un angolino, dietro le tende, c'è un cagnolino minuscolo che trema e guarda Skyline terrorizzato, anche se quello in realtà abbaia e sbava solo perché è felice e vuole giocare.
“E tu che cosa saresti?” Chiede Tom, tirandolo su da terra e lontano dalle effusioni esagerate di Skyline, che allora si solleva su due zampe per piantargli quelle anteriori sui pantaloni nel tentativo di attirare l'attenzione e farsi dare il cucciolo.
“E' il motivo per cui quel mostro era fuori in giardino,” risponde Karima, finendo di ripulire le mentine con un colpo secco della scopa. Skyline sembra capire di essere stato offeso ingiustamente, perché uggiola e si mette seduto. “Il cane del signor Glöckler ha paura di Skyline.”
“Il signor Glöckler?” Chiede Tom, allontanando per un attimo l'attenzione dal cucciolo che ne approfitta per arrampicarglisi su una spalla e guardare Skyline, laggiù in basso, con aria sollevata.
“Kay One,” suggerisco. Nemmeno io sono abituato ad usare il nome e il cognome di Kenneth, mi sembra sempre strano perché il suo soprannome sembra già un nome proprio, non è come Fler, Bushido o Chakuza. “Non sapevo che avesse un cane. Come si chiama?”
“Chico,” risponde Karima con un sospiro. Poi alza gli occhi al cielo e scuote la testa, prima di scomparire in cucina.
Ridacchio mentre Chico fa conoscenza con mio fratello. Nonostante la propria generale scemenza, Skyline capisce al volo che dovrà dividere l'oggetto del proprio amore col piccoletto, e abbaia per farsi guardare.
Non invidio Tom neanche un pochino, non è facile stare nel mezzo.
Ad ogni modo, se Kay ha lasciato qui il suo cucciolo, significa che Bushido deve aver chiamato anche lui e che sono andati insieme, ovunque dovessero andare. Mi chiedo chi altro ci sia dei ragazzi e sopratutto che cosa sia successo. La voce di Anis era tesa e non aveva il solito tono un po' sbruffone che ha di solito in ogni altro momento, anche quando legge la lista della spesa. Era nervoso e preoccupato, e con ben poca voglia di scherzare, quindi deve trattarsi di qualcosa di grosso e non mi piace per niente.
Quello che più di tutto mi dà da pensare è che non ha preso la BMW ma l'altra auto, quella che non ha mai visto una premiazione o un concerto e che di solito sta parcheggiata sul retro sotto un telo. Questo significa una cosa soltanto e cioè che si tratta di una questione che vuole o deve risolvere da solo, una questione nella quale è possibile che abbia ragione ma, molto più probabilmente, ha torto perché, quando è dalla parte del giusto, Anis non si scomoda ad uscire di casa. Fa qualche telefonata e mette in campo il suo esercito di avvocati, assicurandosi che quelli gli riportino in tasca un mare di soldi anche per la minima idiozia. Quindi deve trattarsi di qualcos'altro e, mentre osservo la BMW e l'auto di Kenneth parcheggiate sul vialetto, mi chiedo dove sia e quanto grave è il guaio in cui si è andato a cacciare.
Mio fratello, naturalmente, è ignaro di tutti gli scenari tremendi che mi stanno passando per la testa in questo momento e se ne sta sul divano a giocare con i cani; non so esattamente che cosa pensi del fatto che siamo qui.
“Quando pensi che tornerà?”
Mi scosto dalla finestra e rimetto a posto le tende. “Non ne ho idea, non mi ha detto nemmeno dov'era.”
Sento Tom sbuffare. “Si ricomincia.”
Non posso arrabbiarmi con lui se non è contento, d'altronde non lo sono nemmeno io. Aspettare per chissà quanto in casa sua senza sapere dov'è o quando tornerà non è esattamente l'idea che mi ero fatto di un nostro ipotetico incontro dopo mesi, se mai ci fosse stato. Nella mia testa era qualcosa più sullo stile di me e lui che ci sediamo in un bar a parlare e sorridiamo perché io finalmente riesco a guardarlo in faccia senza che il cervello mi si scombini tutto di nuovo. Invece sono qui e non so come reagirò quando attraverserà quella porta, non so nemmeno in che stato sarà quando lo vedrò e se la questione che lo ha tenuto lontano da casa stasera sarà così grave da annientare qualunque altro problema avessimo.
Non mi piace non sapere niente; questo, per altro, è anche l'unico motivo per il quale abbiamo sempre litigato e per il quale è morto, anzi si è finto morto. Non ha mai capito che questa sua costante necessità di tenermi lontano da tutto ciò che lo riguarda per proteggermi non faceva altro che mettermi in ansia. Io voglio il controllo delle cose esattamente come lo vuole lui; e invece sono qui che mi aggiro per il suo salotto, dopo mesi che non ci mettevo piede, senza sapere perché.
Emetto un ringhio frustrato che fa girare i cani e mio fratello, e poi provo a chiamarlo sul cellulare. Squilla a vuoto non so quante volte prima che mi decida a riattaccare.
“Niente?” Chiede Tom.
“No,” sbuffo e torno a sedermi accanto a lui che mi passa un braccio intorno alle spalle e non dice una parola mentre gli appoggio la testa sulle ginocchia anch'io, come Chico e Skyline.
Karima compare sulla porta con un vassoio largo il doppio di lei e i cani si gettano alla carica immediatamente. Lei non si scompone come mi aspetto, li guarda dritti negli occhi e poi dice loro qualcosa in tunisino. Quelli si fermano e Skyline abbassa pure le orecchie, per buona misura, così lei può riprendere ad avanzare verso di noi con tranquillità.
“Scommetto che non avete mangiato niente,” dice apparecchiando per me e Tom direttamente lì sul tavolino da caffè, ben sapendo che altrimenti io, almeno, le risponderei di non aver voglia di arrivare fino al tavolo per mettere in bocca qualcosa. Questa donna mi conosce troppo bene. “Volete un po' di pasta al forno?”
Qualunque cosa io voglia, come al solito, non ha importanza perché lei mi sta già servendo, quindi sarà bene che accetti prima che cominci ad accusarmi di essere una cattiva persona perché non voglio mangiare quando in Tunisia i bambini muoiono di fame.

*


Alla fine io e Tom aspettiamo almeno tre ore prima che qualcuno si faccia vivo e, visto che suona il campanello, posso mettermi l'anima in pace e capire fin da subito che non si tratta di Anis.
Quello che non mi aspetto, però, è di vedere i ragazzi – tutti quanti – attraversare la porta di casa ricoperti di sangue dalla testa ai piedi. Mentre, uno dopo l'altro, cercano disperatamente di limitare i danni con due o tre strusciatine di scarpa sullo zerbino e poi si raggruppano in un angolo del salotto stretti stretti per sporcare il meno possibile, non riesco a pensare davvero a qualcosa. Quello che sto guardando non ha senso ed è peggio di qualsiasi cosa avessi pensato. Mi alzo in piedi e sento il calore di Tom subito dietro di me, ma solo quando mi tocca un braccio, forse nel debole tentativo di tenermi lì, ricomincio a pensare e a sentire tutto quanto, soprattutto le urla orripilate di Karima che un po' grida, un po' si lamenta, un po' minaccia di buttarli tutti fuori dalla finestra se sporcano il tappeto persiano e quelli, spaventati dal suo tedesco fantasioso, si spostano un po', cercando di non calpestarsi a vicenda.
“Che cos'è successo?” Mi avvicino e li guardo tutti, preoccupato. “Dov'è Anis?”
Fler si pressa i palmi delle mani sulle tempie, come se avesse l'emicrania. “Sta arrivando, ragazzino,” mi risponde con uno sbadiglio. “E' tutto a posto. E' ancora vivo.”
“Ancora?” Chiedo.
“E' vivo,” precisa Fler, col suo solito sorriso. Quello che mi rifila quando mi preoccupo inutilmente; eppure non mi sembra di essere così fuori dal mondo se sono in ansia vedendoli ricoperti di sangue. “E' dovuto andare... in un posto, ma sta tornando.”
Continuo a guardarlo diffidente e lui tira un sospiro più grosso degli altri. “Sta bene, Bill,” insiste. “Te lo giuro.”
Non sono convinto, anche perché lui non è qui, e questa è l'unica cosa che mi darebbe l'assoluta certezza che sta bene, però non posso fare altro che credere a Fler e poi, al momento, sono loro la priorità.
Sono una visione disturbante per come sono conciati, hanno sangue perfino nei capelli e in faccia. Mentre li guardo li conto, perché c'è qualcosa di strano. Sono cinque anche senza Anis, così mi rendo conto che c'è una faccia nuova. Squadro il ragazzo biondo da capo a piedi ma sono sicuro di non averlo mai visto, nemmeno in una delle tante occasioni in cui Anis o gli altri hanno ricevuto visite da qualche altro rapper. Si conoscono tutti e, quando non si vogliono morti per qualche motivo, vanno a trovarsi per chiedersi favori a vicenda, questo però avrà la mia età, se non è addirittura più piccolo, di certo non può venire dal passato di Anis o da quello di chiunque altro. “E lui chi è?” Chiedo, indicandolo. Lui prima mi guarda e poi guarda Fler, così guardo Patrick anch'io, in attesa di una risposta che evidentemente tocca a lui.
“Si chiama Daniel,” mi dice.
“Ed è il suo ragazzo,” s'intromette Chakuza con uno sbuffo irritato dal naso.
Io mi giro verso di lui un po' sorpreso perché quella possibilità non l'avevo nemmeno contemplata, e per un attimo ci guardiamo condividendo un vago senso di sconvolgimento prima di renderci conto che quella è la prima volta che ci diciamo qualcosa in sei mesi, e lo facciamo per parlare di una cosa del genere.
Chakuza tossisce e inchioda lo sguardo per terra e, mentre anch'io faccio lo stesso, so che finirà per passarsi una mano sugli occhi come se fosse stanco, perché è quello che fa sempre quando è imbarazzato.
In realtà, mi piacerebbe continuare questo interrogatorio e possibilmente trarne qualcosa di più soddisfacente di un nome e di una notizia incomprensibile, ma non posso perché Karima, alle mie spalle, si sta ancora lamentando del tappeto e della striscia di impronte rosse che i ragazzi si sono lasciati alle spalle; nel farlo, per altro, sta agitando i cani che si sono messi ad abbaiare e non smettono nemmeno quando Tom cerca di calmarli. Il piccolino è così spaventato che guaisce e indietreggia fino a tornare dietro la sua tenda. “D'accordo, adesso basta!” Esplodo. “Karima, perché non la smetti di urlare e vai a prendere gli asciugamani e dei vestiti puliti? E voi cinque filate in bagno a darvi una lavata, siete impresentabili.” Mi sorprendo anch'io quando mi obbediscono tutti, perfino Karima. “Il bagno degli ospiti!” Preciso poi, quando li vedo già pronti a salire al piano di sopra.
Cambiano direzione e borbottano molto perché il bagno di Anis è una reggia e la doccia è gigantesca, ma non esiste che io li faccia entrare là dentro in quello stato. Mi piange il cuore al solo pensiero che possano macchiare qualcosa, senza contare che Bushido mi ammazzerebbe.
Mio fratello mi osserva con la faccia di uno che vorrebbe dire molte cose ma sceglie di non dirle per il quieto vivere e io, in questo momento, apprezzo molto la sua decisione. Ho cinque uomini che sembrano usciti da un mattatoio e un uomo scomparso che dovrebbe tornare da non so dove, non so quando; per non parlare del fatto che sto pensando e parlando come farebbe Anis e questa cosa mi fa più paura di tutto quanto il resto. Io non ho nessun uomo, tanto per cominciare. E se anche lo avessi non dovrei dovermi preoccupare di fargli portare dei vestiti nuovi dalla cameriera.
Socchiudo gli occhi, respirando per calmarmi e poi raggiungo i ragazzi, appoggiandomi alla cornice della porta del bagno, che sembra l'unica cosa che sono riusciti a non sporcare.
Eko, che si è appena tolto la maglia, sta girando su se stesso nel tentativo di capire che farsene. “Mettila pure in terra, Ekrem,” sospiro. “Tanto dovremo buttarla quella roba.”
Eko esegue, ma poi si rende conto che sono stato io a parlare, si volta e mi guarda con gli occhi sgranati. L'attimo dopo ha afferrato la tenda della doccia e ci si è nascosto dietro. Faccio per spiegargli che non ce n'è alcun bisogno ma poi penso che non ho voglia di finire a parlare di noci di cocco, lo so che succederebbe, quindi lascio perdere. “Adesso volete dirmi che cos'è successo?” Chiedo, incrociando le braccia al petto.
Fler si sfrega la testa con l'asciugamano e poi mi guarda attraverso lo specchio sul lavandino. “Abbiamo avuto una piccola questione da sistemare,” risponde.
“Sistemare in che senso?” Chiedo.
“Eravamo in un magazzino a dieci chilometri da qui, ordini di Bushido,” la voce di Chakuza è ferma ed è tesa, e io mi accorgo che inconsciamente ho fatto di tutto per non guardare più nella sua direzione. Quando mi giro lui non mi sta guardando, impegnato a recuperare una maglietta dalla pila che Karima ha lasciato sul mobile. Se anche lui ha risposto ad una chiamata di Anis, ci sono due possibilità: o hanno fatto pace o questo è un gran casino. E di sicuro non è la prima.
“Di chi è questo sangue? Siete feriti?” Chiedo, quando il suo viso spunta di nuovo dal colletto della maglia.
“Nessuno è ferito,” mi assicura.
“Non in questa stanza per lo meno,” commenta Eko che, nel tentativo di nascondermi le quattro ossa decisamente poco attraenti che si ritrova, si sta annodando nella tenda della doccia.
“Che significa?”
“E' tutto a posto,” s'intromette subito Fler, mentre Kay colpisce Eko alla testa, confermandomi così che stanno mentendo tutti quanti.
“No, non è tutto a posto, Patrick. Anis mi ha chiamato spaventato e ha voluto che venissi qui a tutti i costi. E dopo quattro ore che aspetto senza uno straccio di notizia, voi arrivate coperti di sangue non vostro e lui non c'è. Quindi ora mi fate la cortesia di piantarla con questa stronzata del tutto a posto e mi dite che cosa cazzo è successo, chiaro?”
Kay si schiarisce la gola, quindi afferra una maglietta e si dilegua, praticamente inseguito da Eko che, dopo aver fatto il danno, se la dà a gambe senza ritegno. Io mi sposto solo per farli passare e poi mi rimetto dov'ero, guardando Fler e Chakuza in attesa di una risposta. Fler gonfia le guance e poi butta fuori l'aria tutta d'un colpo. “C'è stata un'aggressione,” inizia. “E qualcuno è stato ferito.”
“Chi?”
Fler mi ha sempre detto che è meglio non mentire mai, che poi è quello che sostiene anche Bushido, però entrambi sono bravi ad omettere la verità quando è necessario, ossia quando fa male. Per questo più passano i minuti e più mi preoccupo.
“Chi?” Ripeto, quando si ostinano a non rispondermi. “Chi è stato ferito?”
“Jost,” Chakuza è il primo a mormorarlo. Dice anche qualcos'altro, ma il mio cervello smette di ascoltare non appena dice quel nome.
“Cosa?” Quando sento qualcuno ridere ci metto un secondo di troppo a capire che sono io. “Che cosa c'entra David? Lui non ha niente a che fare con voi.”
Lo dico come se David facesse parte di un altro mondo, ma ha aiutato Bushido a fuggire e lo ha tenuto nascosto per un anno intero, quanto può essere diverso dagli altri? Chiunque entra nella vita di Bushido diventa una cosa di Bushido, dovrei saperlo bene. E le cose di Anis hanno la tendenza a rischiare grosso.
“Bill, ascolta....”
“No, lui non c'entra con queste cose,” insisto. “E perché siete andati tutti là? Come faceva Bushido a saperlo?”
“Una chiamata anonima,” mi spiega Fler. “Volevano che lo trovassimo lì.”
Scuoto la testa, tutto questo continua a non avere senso. David è il mio manager, uno che organizza concerti. La gente come lui non dovrebbe finire ferita nei magazzini.
“Come sta?” Chiedo.
Né lui né Chakuza mi guardano in faccia, e penso che non so nemmeno se David è ancora ferito o se è morto e la ferita risale a prima che lo trovassero. O magari anche alla telefonata. Non ho il coraggio di chiederglielo, non ce l'ho proprio. “Non ci credo...” mormoro. “L'ho visto poche ore fa e stava bene.”
Quando mi stacco dalla porta e mi allontano ce li ho subito dietro tutti e due.
“Anis lo sta portando in ospedale,” E' Fler che mi prende al volo prima che arrivi in salotto, mi afferra per un polso e mi tiene lì. Non guardo Patrick anche se ce l'ho proprio davanti, lo vedo muovere le labbra ma smetto di sentire la sua voce. Penso solo che, da qualche parte, stanotte David è stato aggredito e potrebbe morire.
“Bill, mi senti?” Fler mi scuote, e urla più forte finché non lo guardo. “C'è Anis con lui. Andrà tutto bene.”
Sono passati due anni e sei mesi, e io pensavo di aver chiuso con queste cose.
Il dottor Schillinger non sarà affatto contento.

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Es Kann Beginnen - Vol. 2

di tabata
Per tutta la mia vita ho sempre pensato che la persona più importante, nonché l'unica al mondo, sulla quale potessi sempre contare ero io, e questo mi è servito a salvarmi la pelle un sacco di volte quando ero ragazzino, senza contare che è solo grazie a questo ragionamento che sono arrivato in cima; ho sempre messo me stesso prima di tutto quanto il resto e ho avuto ragione.
L'unica volta che non l'ho fatto e mi sono messo davvero da parte per proteggere qualcosa che consideravo più importante di me, sapete bene com'è andata. Ora, non sto dicendo che la mia storia con Bill e tutto ciò che ne è seguito è stata un fallimento o che abbia provato in via definitiva che è meglio non essere mai altruisti, perché questo non è vero. Anzi, quello che ho fatto sarei pronto a rifarlo anche adesso, altre cento volte se necessario, perché ne è valsa la pena, di amarlo, prima di tutto, e poi anche di vederlo restare vivo nonostante quello che rischiava. Sono orgoglioso di averlo protetto e sono ancora più orgoglioso che sia stato mio; questo però non significa che, nel corso di tutti questi anni – e in special modo nell'ultimo periodo – io non abbia perso di vista chi sono.
Non è stato davvero Bill a cambiarmi, lui ha solo grattato la scorza per rendermi più sopportabile, sono stato io a decidere che volevo qualcosa di diverso per me stesso e che forse, dopo anni passati a guardare il mondo come se mi dovesse qualcosa, era l'ora di concedermi un po' di pace e di ammettere che, in fondo, quello che mi era stato tolto da piccolo, mi era stato tutto restituito con gli interessi.
Quello che non avevo calcolato è che avere qualcosa significa anche rischiare di perderlo e io non ho mai reagito bene di fronte alle situazioni che non posso controllare. Sono stato costretto a sistemare le cose in modo da poter essere io a decidere come dovessero andare, o almeno pensavo.
Probabilmente l'errore si è generato lì, quando ho cercato di comportarmi come un tempo, anche se non ero più la stessa persona. Erano due cose inconciliabili, e ovviamente me ne accorgo solo ora.
Un tempo, quando ero un ragazzo, abbandonare gli oggetti o le persone non era così difficile, non c'era niente al mondo a cui tenessi tanto da volergli stare incollato per sempre. Perfino Fler, che comunque è un pezzo importantissimo della mia vita, l'ho lasciato indietro quando ho voluto farlo. Ogni abbandono era inevitabile e come ogni scelta necessaria la affrontavo con la consapevolezza di non poter fare altrimenti, e che per questo tanto valeva non disperarsi. Con Bill però non poteva essere così, perché io non ero più così e ci tenevo così tanto a lui che era impensabile credere che avrei potuto lasciarmelo alle spalle semplicemente perché pensavo che fosse necessario e lo volevo. Non funzionava più così.
La mia lunga permanenza a Miami ha fatto il resto. Vivere per mesi come se fossi qualcun altro non mi ha trasformato davvero in quella persona, naturalmente, ma ha contribuito a cancellare altri aspetti del mio carattere, tanto che quando sono tornato a Berlino e la situazione mi è sfuggita di mano non ho saputo come gestirla e l'unica soluzione è stata scappare, prima da Bill e poi anche da tutto il resto.
Per tutto questo tempo in cui io e Bill ci siamo fatti del male e ne abbiamo fatto ad altre persone, sarebbe bastato fermarsi e ricordare quello che eravamo. Forse in quel caso avremmo visto quanto eravamo cambiati e avremmo scelto che cosa fare, se ricominciare da capo con un inizio nuovo di zecca o se lasciar perdere; ma con la piena consapevolezza di cosa stava accadendo e non quel gran casino che è stato.
Alla fine, quando tutto è precipitato, non c'era altra soluzione se non quella di non vederci per un po', perché stare da soli era l'unico modo che avevamo per pensare a noi stessi, senza l'impedimento che rappresentavamo l'uno per l'altro. Non puoi davvero farti un esame di coscienza se tutta la tua attenzione è concentrata altrove.
Inoltre, dopo che anche Nyze ci ha mandati tutti a fanculo ed è andato a grattare alla porta di Sido, era chiaro che bisognava facessi qualcosa, ma che non ero in grado di farlo nello stato in cui ero, quindi ho messo i ragazzi in attesa, ho detto loro che potevano fare quello che volevano fino a nuovo ordine e mi sono preso del tempo per me, tanto sapevo che potevamo tutti quanti campare per un po' senza lavorare.
Ho passato gli ultimi sei mesi a ritrovare me stesso e non è stato affatto facile, perché ero sparso tra qui e Miami e ogni pezzo era in un posto diverso.
La prima cosa che ho fatto è stato andare alla mia tomba perché non ci ero mai stato, anche se sembra impossibile. Mi sono portato dei fiori e li ho messi nel vaso con un po' d'acqua, ho anche buttato i mazzi vecchi e ripulito un po' come si fa quando c'è davvero un cadavere.
Poi ho guardato la foto sulla lapide – deve averla scelta mia madre perché sono in giacca e cravatta, e quando mai? – e ho pensato che ero un gran figo quando sono morto e che dovevo tornare ad esserlo, con il beneficio di due anni di esperienza in più. Io rispetto l'esperienza, è quella che ti rende più furbo.
Quindi ho chiamato le onoranze funebri – il loro numero è l'ultima cosa che ho chiesto a Jost prima di salutarlo a chissà quando – e ho preso accordi perché la cassa fosse dissotterrata e la tomba rimossa fino a che non fosse servita di nuovo. Immagino che non gli capiti spesso che uno dei loro clienti non sia soddisfatto, li ho rassicurati che non cercavo alcun rimborso e ho chiuso la chiamata ridendo e sentendomi molto meglio di prima.
A quel punto ho fatto un biglietto per Miami e sono andato a trovare Conrad, che ci ha messo quasi tre giorni a decidere che era incazzato con me – perché me n'ero andato di punto in bianco lasciandolo nella merda – ma non abbastanza per rifiutarsi di salutarmi e offrirmi una birra. E' un brav'uomo e non mi ha chiesto niente, si è bevuto con un sorriso la balla che gli ho rifilato senza avvicinarmi alla verità nemmeno un pochino e ha infilato in tasca l'assegno che gli ho passato per l'officina – o per quel cazzo che gli pare – e non ha domandato da dove venissero quei soldi, né tanto meno perché glieli stavo dando.
Ho sistemato le ultime cose che avevo lasciato in sospeso e l'ultimo giorno sono andato alla marina, a guardare le barche andare e venire dal molo e a sentire i pescatori della domenica parlare quel misto di spagnolo e americano che le prime settimane mi aveva confuso fin quasi all'esasperazione. Era già abbastanza difficile capire l'inglese per dover decifrare anche un'altra lingua.
Marisol ha finto di trovarmi lì e io ho finto di non aver detto a suo cugino dove andavo. Si è seduta sulla mia panchina guardando l'oceano e ha fatto la sostenuta, come se la mia presenza non la toccasse minimamente. Ho sorriso perché lei e Bill si somigliano in molte cose, forse semplicemente perché sono due ragazzini. Le ho detto che ero tornato per l'ultima volta e lei mi ha chiesto se la donna che mi ha portato via da Miami ne vale la pena. Le ho detto di sì, e poi le ho consegnato le chiavi dell'appartamento.
L'ho intestato a lei e potrà andarci a vivere quando sarà maggiorenne, fino ad allora sarà Miguel ad occuparsene e mi sono già messo d'accordo con lui che torno a fargli il culo se non rispetta le mie richieste.
Immagino che Jost non sarà affatto d'accordo su questa mia scelta, ma naturalmente me ne frego. Non volevo vendere quella casa, ed era uno spreco farla andare in rovina.
Dopo aver ucciso definitivamente Tarek ed essere uscito dalla mia tomba, sono di nuovo sparito dalla faccia della terra per qualche settimana, ma questa volta solo per andare in vacanza e quando sono tornato ero pronto a far sapere alla Universal e a Berlino che non ero affatto finito, ma anzi avevo molte più idee dell'ultima volta che mi avevano visto.
Ho scritto un sacco in questi ultimi tempi e ho cominciato a fare telefonate. La Universal mi ha scaricato, è vero, ma la mia etichetta è quasi indipendente e non vedo grossi ostacoli perché non lo diventi completamente, devo solo organizzarmi. Ci sarebbe anche la possibilità di unire l'Ersguterjunge e la Beatlefield, ma al momento non sono ancora sicuro di poter venire a patti con Chakuza, per cui sto cercando vie alternative. Sono lanciatissimo, comunque, e mi sento bene.
La giornata è iniziata bene, se si esclude Karima che prende come scusa una telefonata di mia madre per fare irruzione in camera mia e tirare le tende che è ancora quasi l'alba; lei sostiene che io mi debba alzare presto perché il mattino ha l'oro in bocca ma io sospetto di doverlo fare soprattutto perché i miei cani stanno uggiolando da ore e vogliono attenzioni che lei non gli dà. La sento borbottare qualcosa che non capisco mentre nascondo la testa sotto il cuscino per guadagnare ancora qualche minuto di sonno e Skyline e Sherlee ne approfittano per entrare abbaiando e saltare sul letto, a volte mi sembra di avere due bambini invece che due labrador.
Rido perché mentre Sherlee si accontenta di essere riuscita ad entrare in questo posto proibito e si stende composta ai miei piedi, Skyline si agita come un ossesso, gira in cerchio sul letto, e infila la testa sotto il cuscino per leccarmi la faccia, finché io non gli do retta e non mi alzo. Ha un giardino abbastanza grande per perdersi ma lui è viziato e vuole fare il cane da appartamento, ossia pretende che gli metta il guinzaglio ad orari prestabiliti e che lo porti fuori, così può vedere il quartiere, incontrare gente e farsi fare i complimenti da tutti quanti. Oggi non mi dispiace, comunque, perché ho delle cose da fare e posso portarmelo dietro, fortunatamente lui è anche il cane geloso, quindi se lascio Sherlee a casa troverò ancora intatto il mio paio di mocassini preferiti quando ritorno.
Io e Skyline abbiamo un percorso collaudato che ci piace molto, e lo facciamo da così tanto tempo che dopo aver attraversato il primo grosso stradone posso anche togliergli il guinzaglio perché non si perde più, e non scappa nemmeno. D'altronde non ha motivo di scappare visto che a casa mia mangia quattro volte al giorno, che è una volta in più di quanto faccio io visto che la mia governante dice che devo mangiare più sano.
Ci fermiamo a fare colazione, a comprare il giornale e poi tento disperatamente di farlo salire sul sedile posteriore della macchina, ma lui snobba qualsiasi mio ordine per sedersi sul sedile del passeggero, con il muso rivolto verso i bocchettoni dell'aria condizionata e gli occhi semichiusi e goduriosi di fronte al venticello fresco che gli manda indietro le orecchie. E' agosto e fa molto caldo, sta soffrendo un sacco povera bestia, magari lo porto al mare. Ho voglia di mare, anche se sono tornato nemmeno due settimane fa.
Quando arriviamo agli studi penso distintamente che è una giornata quasi perfetta e che sono particolarmente felice di come stanno andando le cose, questo perché non so che da lì a sei ore qualcuno rapirà Jost e lo aprirà in due come un'arancia. Le giornate troppo belle dovrebbero essere il primo segnale per chiudersi in casa e rimanerci.
Lo studio è chiuso da quando ho mandato tutti a pascolare e, siccome questo non è il club del cucito anche se ce lo hanno detto spesso visti i recenti sviluppi, nessuno si è preso la briga di pulire prima di andarsene, con il risultato che quando apro la porta l'odore che ne esce è nauseante e mi prende in gola fin quasi a farmi lacrimare gli occhi. Skyline si rifiuta di entrare e mi aspetta seduto sullo zerbino finché non ho finito di aprire tutte le finestre e arieggiare la stanza. Volevo mettermi a lavorare subito, ma è evidente che non posso se voglio sopravvivere, quindi decido di dare almeno una ripulita sommaria, giusto per avere una scrivania libera su cui lavorare. In realtà mi lascio prendere la mano, perché rimettere in piedi questo posto ha un che di metaforico, così quando ho finito è già tardissimo e faccio appena in tempo a provare qualche cosa al microfono, prima di dover avvertire in ritardo Karima che non riesco a tornare per cena, sentirla sbraitare che metterà tutto in frigo e dovrò mangiarmelo domani, e dividere mezza pizza ordinata al volo con il mio cane.
Sto per decidere di rimanere un altro paio d'ore, quando mi suona il telefono. Ci metto un po' a trovarlo perché non so dove l'ho lasciato mentre pulivo. Lo recupero al volo da sopra una sedia e bevo l'ultimo sorso di birra mentre premo il bottone. “Pronto?”
Dall'altra parte c'è un lungo silenzio, ma sento respirare, quindi non è caduta la linea. Mi scosto il cellulare dall'orecchio per dare un'occhiata al display; il numero è privato. “Pronto?” Ripeto.
“Bushido?”
La voce è ovattata, vagamente roca, e molto bassa come se chi sta dall'altra parte stesse sussurrando. Aggrotto le sopracciglia. “In persona. Chi parla?”
“Abbiamo preso uno dei tuoi, stanotte,” mi dice.
Smetto di passare il tempo di questa telefonata rimettendo a posto documenti che sono sparsi in giro per la stanza da quasi sei mesi e mi fermo, così all'improvviso che perfino il cane s'incuriosisce e lo sento guaire in un angolo. “Di che diavolo parli?” Chiedo. “Chi cazzo sei?”
“Qualcuno pensa che il tuo ritorno sia inopportuno, Bushido. Questo è solo un avvertimento. Troverai l'uomo in uno dei magazzini fuori città, dicono che li conosci bene” risponde la voce, ignorando la mia domanda.
“Che cosa gli avete fatto?”
Dall'altra parte c'è un sospiro di condiscendenza. “Non posso promettere che lo troverai ancora vivo, ma puoi sempre provare.”
Dieci anni fa Ari ci teneva la roba da quelle parti; ma è un labirinto. Ci sono centinaia di magazzini e la zona si estende per chilometri, mi servono più dettagli. “Dammi l'indirizzo preciso,” ordino, mentre recupero le chiavi della macchina e batto una mano sulla coscia per chiamare Skyline. Aspetto impaziente che esca prima di chiudere la porta.
La voce dall'altra parte bisbiglia, per un secondo sento altre voci. Chiunque sia al telefono, non è lui che prende le decisioni perché si sta consultando; presumo che neanche gli altri ne sappiano di più. “Ti darò l'indirizzo, ma non sperarci troppo,” dice alla fine, con una mezza risata. “Era messo male quando lo abbiamo lasciato.”
Quando la telefonata si chiude di colpo, ho una strada e il numero identificativo di una magazzino, ma non so ancora quale dei miei uomini sta morendo a quasi dieci chilometri da qui. Il mio cervello fatica a mettersi in moto. Doveva essere una serata tranquilla in studio, cazzo, e invece sto guidando a duecento all'ora in pieno centro a Berlino. Faccio mente locale, ma non serve a niente. Un tempo conoscevo a memoria gli spostamenti di tutti, adesso sono sei mesi che non vedo nessuno, i ragazzi potevano essere ovunque stasera. Chiunque può essere finito in quel magazzino.
I nomi sono tanti, ma il primo che mi viene in mente è Bill e il pensiero vaghissimo che mi sfiora il cervello fa così paura che non ci penso, lo chiamo e basta. Ci mette troppo a rispondere, io lo so che è lento e perde sempre tutto, che probabilmente il cellulare ce l'ha in un'altra stanza o, peggio, magari gli è cascato nel water o nel lavandino – ne compra uno al mese perché è un danno ambulante – ma in questo momento tutto questo non me lo ricordo e l'unica giustificazione che mi do per gli squilli a vuoto è che il telefono è perso su qualche marciapiede e Bill non può sentirlo perché è in quel cazzo di magazzino. Per colpa mia.
Quando sento la sua voce, tiro un sospiro di sollievo e faccio uno sforzo enorme per non perdermi nella gioia che provo nel sentirla dopo così tanto tempo. Gli chiedo se sta bene, se c'è qualcuno lì in casa ma lui e Tom sono da soli e questo non va bene. Gli chiedo di farsi portare alla villa, non è esattamente una fortezza impenetrabile, ma di sicuro è più protetta di casa loro e, nel caso succedesse qualcosa, la polizia arriverà prima lì che altrove perché l'allarme è collegato direttamente con la centrale. Per convincerlo ci metto le ore, una cosa che convince me del fatto che sta bene. Mi rendo conto che questa è la prima volta che ci sentiamo dopo il tour e non sto facendo che dargli ordini senza spiegargli nulla, ma non ne ho il tempo e lui dovrebbe arrivarci, ma ovviamente no. E' così orgoglioso che deve sempre dimostrare che non lo si può comandare a bacchetta. Alla fine la spunto, ma sono già sotto casa mia e quando riattacco sto parcheggiando col freno a mano praticamente davanti alla porta.
Prima di andare al magazzino devo recuperare la pistola. Da quando Fler mi ha restituito la Heckler e io l'ho infilata nel cassetto del comodino, non l'ho più tirata fuori. A parte che non ne ho avuto oggettivamente bisogno, so anche che impugnarla è più difficile di quanto non lo fosse prima. Forse perché è l'arma che ha ammazzato Saad, o forse perché c'erano sopra le impronte di Bill, finché Patrick non l'ha tutta ripulita, e questa, nonostante tutto ciò che è successo, è una cosa che ancora mi sorprende.
Quando entro, Karima è già in agitazione ma non posso prestarle attenzione. Salgo in camera e poi riscendo, senza accorgermi che Kenneth è nel mio salotto; allora mi ricordo che mi aveva chiesto in prestito uno dei portatili, perché il suo l'ha fracassato una delle sue donne, l'ultima, Dio solo sa se mi ricordo come si chiama, quando hanno litigato. Gli avevo detto di passare anche se non c'ero e prendersi quello che voleva ma a quanto pare ci sono e lui è vivo e vegeto. Il cerchio si restringe.
Lo ragguaglio su quello che è successo ed è con me quando esco, stavolta diretto al magazzino.
Lungo la strada chiamiamo tutti gli altri. Lo sento parlare con Eko, mentre io aspetto impaziente che Fler risponda a me. Anche lui ci mette un sacco di tempo, tanto che mi chiedo se non sia stato Bill ad attaccargli questo vizio di prendersela comoda quando uno lo chiama. Alla fine risponde, benedetto ragazzo, e sta bene anche lui, per fortuna. Gli do l'indirizzo e gli dico che ci troviamo là, proprio mentre Kenneth chiude la chiamata con l'austriaco, evitandomi di dovergli dimostrare che effettivamente sono preoccupato anche per lui. Non era molto nel giro prima, ma desso direi che ci entrato alla grande, con tutti i rischi oltre che le soddisfazioni. Sono convinto che non ne sia troppo contento.
Mentre brucio un rosso che mi costringe a serrare le dita sul volante e porta Kenneth a stringere forte il sedile, anche se poi non dice una parola, mi rendo conto che abbiamo telefonato a chiunque e che nessuno si trova in pericolo di vita. Pensavo che sarei stato più tranquillo sapendoli tutto al sicuro, ma ora sono più confuso di prima e quindi anche più preoccupato, perché non ho idea di cosa sia successo.
In genere quando ti sembra che le cose siano migliori di quello che credevi, è perché ti sei dimenticato un particolare fondamentale e, per quanto ripassi a memoria la lista di tutti i miei uomini e il conto mi torni sempre, mi chiedo che cosa non ho preso in considerazione e quale casino mi aspetta. Quando non me li aspetto sono sempre giganteschi.
Chi mi ha chiamato non voleva che mi perdessi tra le centinaia di magazzini e di container che ci circondano perché c'è una lampada accesa appena sopra la porta di metallo che corrisponde all'indirizzo di cui sono fornito; è solo un piccolo neon che non attira l'attenzione, sembra solo che qualcuno abbia dimenticato di spegnerlo. Entro per primo nel capannone, la pistola puntata anche se so che non ci sarà nessuno ad attenderci dentro. Questa non è un'imboscata, è un cazzo di avvertimento.
So che gli altri mi hanno seguito, ma non mi sono voltato a guardarli. Li sento camminare piano dietro di me, i nostri passi rimbombano nel magazzino che ha il soffitto altissimo; dall'eco che produciamo, dev'essere quasi vuoto ma non si vede niente, tranne un gruppo di casse al centro, dove la luce dall'esterno arriva ancora. E' per quello che vedo la pozza scura per terra.
Rallento il passo e mi preparo a quello che troverò dietro alle casse, ma Fler mi scosta di lato e mi supera scoprendo per primo perché siamo qui.
Quando lo raggiungiamo, i miei occhi non si abituano subito a quello che stanno vedendo. C'è un sacco di sangue, molto più di quanto ne abbiamo visto entrando; una macchia che si allarga sotto il corpo riverso di un uomo. Sento un imprecazione alle mie spalle, è solo un sussurro ma da voce ai miei pensieri, quindi lo sento chiaro come se venisse urlato. Non ci metto niente a riconoscere quel corpo, perché nella mia vita ci sono solo due persone che indosserebbero quei pantaloni e una l'ho chiusa in casa fino a nuovo ordine.
E' un istante lunghissimo, nel quale tutti ci fermiamo a guardarlo, e io riesco solo a chiedermi perché Jost, che cosa c'entra lui? Poi ripenso a quello che mi è stato detto al telefono. Che il mio ritorno non è opportuno. E se sono qui lo devo soltanto a lui.
Penso che avrei dovuto arrivarci da solo e che anche David è uno dei miei uomini, ormai. Ho ribaltato il mondo per proteggere Bill che è circondato da persone che si ammazzerebbero per salvarlo, e non mi sono reso conto che, per il solo fatto di avermi aiutato, David correva gli stessi pericoli. Qualcuno mi direbbe che devo smetterla di pensare solo in funzione della gente che mi scopo, e in questo momento mi sento di dare ragione a quella voce che arriva dal fondo del canale.
Mi inginocchio accanto al corpo prima ancora di sapere se è un cadavere. Quando lo giro, David geme piano e tiro un sospiro di sollievo, che però dura poco perché lo stomaco gli si apre, letteralmente, e butta fuori un fiotto di sangue che gli cola lungo i pantaloni, già macchiati di quello che si è fatto addosso.
“Jost,” lo chiamo, schiaffeggiandolo leggermente. Lui fatica ad aprire gli occhi, per un momento vedo solo il bianco e poi alla fine mi guarda ma fa fatica a mettere a fuoco. “David, ci sono qui io. Andrà tutto bene. Resta con me, capito? David, resta con me!”
Lo sollevo da terra e lui reclina la testa all'indietro, sul mio braccio teso. Lancio un'occhiata a Fler e lui annuisce mentre io mi faccio strada tra gli altri che sono fermi e guardano il sangue che ricopre ogni cosa, non solo il pavimento, ma anche le casse e perfino le pareti. Vado a sbattere contro un ragazzino biondo che non so chi cazzo sia né perché sia fra le palle ora, e continuo a chiamare Jost, che va e viene dal suo stato d'incoscienza. Non so quanto sia grave, ma dormire non conviene mai.
Quando raggiungo la mia macchina sono passati al massimo due o tre minuti, ma lui si lamenta sempre meno. Lo faccio distendere sui sedili posteriori e gli metto sotto la testa una vecchia maglia che tengo lì dentro per ogni evenienza.
“Jost, rimani con me, cazzo!” Gli dico, prima di chiudere la portiera e raggiungere di corsa il mio posto. Esco in retromarcia e poi accelero non appena arrivo sulla strada principale. Non posso portarlo all'ospedale, troppi occhi indiscreti e poi non mi fido. Voglio un medico da ricoprire di soldi perché lo ricucia e lo rimetta in piedi subito. Recupero il cellulare dalla tasca dei pantaloni e cerco di pensare velocemente, ho bisogno di un posto sicuro e di qualcuno che conosco, a cui non devo spiegare troppe cose.
Non è così difficile trovare entrambe le cose, visto che sono morto e poi resuscitato. La gente come me doverebbe sempre avere un medico di fiducia che la tiri fuori dalla tomba. Il mio è quello che David ha pagato profumatamente e mi ha ricoverato nella sua clinica privata sotto un nome falso per quell'unica settimana che sono rimasto a Berlino appena dopo la mia morte.
Mi chiedo se faccia ancora il medico o se lo abbiamo pagato abbastanza perché andasse in pensione. Lo chiamo e gli dico chi sono, per un attimo sta zitto. Il mio nome al telefono si porta sempre dietro una scia di silenzio al quale comincio lentamente ad abituarmi. Gli spiego che ho un amico ferito e che mi serve un medico pronto per quando arriverò alla clinica, ossia non più di dieci minuti. Lui capisce la mia necessità di riservatezza e capisce ancora di più i soldi che gli prometto.
“Non ti azzardare a crepare, chiaro?” Avverto David, voltandomi per vedere se respira ancora. Lui si lamenta per i fatti suoi, ma io decido di prenderla come una risposta positiva.
Sono stato in quella clinica solo una volta, ma so perfettamente dove si trova perché la strada che mi ha portato da lì all'aeroporto l'ho percorsa con la convinzione che non sarei mai più tornata indietro, così ho fatto in modo di ricordarmela per sempre. E' ironico che io non solo sia tornato a Berlino, ma che adesso ci stia portando di corsa l'uomo che per primo ci ha portato me.
Quando arriviamo, le luci nelle stanze sono quasi tutte spente ma l'entrata del pronto soccorso è ben illuminata. Parcheggio proprio davanti ed esce il mio medico in persona, con le infermier e la barella. Li aiuto a tirare fuori David e gli dico tutto quello che so, cioè praticamente niente, prima che lo portino dentro di corsa. Li seguo ma un'infermiera mi ferma poco prima della sala operatoria; impreco ma non mi ostino, non saprei che farci là dentro. Colpisco con un pugno la prima cosa che mi trovo sotto mano e rompo uno di quei quadretti con i disegni botanici dei fiori che ci sono sempre nei corridoi degli ospedali; così mi ritrovo ad agitarmi incazzato, senza poter davvero urlare e con una mano che gronda sangue. Tra il mio e quello di David sono davvero un bello spettacolo.
Finisco seduto su un lettino a farmi dare quattro punti mentre Jost è sotto i ferri e poi inizio ad aggirarmi come un animale in gabbia nella sala d'attesa perché l'operazione sembra non finire mai e chiunque esca da quella sala operatoria non sa mai un cazzo. Il mio cervello non si ferma un secondo, non riesco nemmeno a rimettere insieme i pezzi di questa giornata, voglio solo una risposta. E voglio sentirmi dire che è vivo.
Quando il medico mi raggiunge, ha la faccia tesa. L'operazione è andata bene, dice. Le incisioni erano profonde, hanno danneggiato degli organi interni – quali non lo so, fa una lista infinita, sembra che ne abbia il doppio di un essere umano normale da quanti sono – ma lo hanno ripreso in tempo. E' arrivato in tempo perché fermassimo l'emorragia. Ma. Mi aspetto un ma, perché quest'uomo non sorride, quindi ci dev'essere un fottuto ma.
David ha perso un sacco di sangue, continua il medico – e io penso che lo so, che i miei ragazzi lo stanno tutto ripulendo quel sangue e che ce n'era un lago di due dita sparso ovunque – e che non sanno se questo avrà delle conseguenze sul suo cervello. Non sanno nemmeno se passerà la notte.
“Possiamo solo aspettare, signor Ferchichi,” conclude. Quest'uomo avrà detto il mio cognome mille volte da quando è arrivato e continua a sbagliarlo. Sento che voglio prenderlo a pugni ed è l'unica cosa a cui voglio pensare. A spaccargli la faccia perché David potrebbe non svegliarsi mai e di qualcuno dovrà pur essere la colpa.
Mi offro di restare, ma lui mi dice che non servirà, che è meglio se vado a riposarmi. Potrei insistere, ma poi penso che devo parlare con i ragazzi. Ci serve una riunione straordinaria che non può aspettare domani.
E poi c'è Bill, naturalmente. Non era esattamente così – all'una di notte e ricoperto di sangue – che mi immaginavo di incontrarlo di nuovo, ma non ho altra scelta.
Lascio il mio numero al medico e praticamente lo minaccio di cose tremende se non mi chiama per qualunque cosa possa accadere. Voglio essere avvisato anche se Jost respira un po' più forte.
Quando arrivo a casa sono quasi le due e nel quartiere c'è un silenzio innaturale. Perfino da casa mia, che di solito è un casino allucinante, non arriva nemmeno un rumore eppure ci sono ancora le luci accese.
Sono tutti in salotto e sento i loro occhi addosso non appena attraverso la porta di casa.
“Anis, finalmente!” La voce di Bill in questa casa non risuonava da non so più nemmeno quanto ed è perfetta. Mi arriva prima che io possa vederlo ma quando mi volto, lo trovo esattamente come l'ho immaginato. Bellissimo, fiero e vagamente arrabbiato. “Come sta?”
Trovo il tempo di lanciare un'occhiata a Patrick il quale indica Eko e tutto mi appare moto più chiaro. Avrei dovuto chiarire bene con Ekram che doveva tenere la bocca chiusa finché non fossi arrivato io. “L'operazione è riuscita, ma ha perso molto sangue,” rispondo. “Deve passare la notte.”
Bill non dice una parola, ma il suo viso parla per lui. E' teso e triste, i suoi lineamenti sono affilati e le labbra tirate, e poi è così stanco che ha già gli occhi cerchiati di nero.
“Che cos'è successo?” Chiede suo fratello, guardandomi con tanta rabbia che è chiaro stia già dando la colpa di tutto a me. Questa volta ha ragione ma, visto che è lui a farlo, la cosa mi dà fastidio.
“Non lo so,” ammetto, passandomi una mano sul viso. Vorrei avere delle novità da dargli.
“Ma chi può avercela con lui in questo modo?” Chiede Bill. “E' solo il nostro manager.”
“Un sacco di gente,” rispondo con una smorfia. “Ma non si tratta di lui, si tratta di me. Jost mi ha aiutato molto negli ultimi due anni e la cosa non è andata a genio a qualcuno. Questo era solo un avvertimento, ecco perché adesso dobbiamo pensare a come affrontare la faccenda.”
“Aspetta un secondo.” Tom si pianta a gambe larghe proprio di fronte a me, le braccia incrociate e la stessa faccia che avevo voglia di prendere a schiaffi anche quando stavo con Bill. “Forse non ti è chiaro che non c'è nessuna faccenda da affrontare. Sporgeremo denuncia alla polizia e pregheremo perché David si riprenda, fine della storia.”
“Non è così semplice,” rispondo.
“Lo è,” ribatte. “Questo è un tuo problema che ci è finito addosso come tutti gli altri tuoi problemi, ma questa volta ci comporteremo come persone normali e non come se fossimo una fottuta banda di strada.”
Io non so perché questo ragazzino debba costantemente farmi venire voglia di fargli del male. Non capisco nemmeno perché si sia messo a blaterare quando stavo parlando, per dire cose che nessuno gli ha chiesto. Poi immagino che abbia arruffato il pelo per difendere suo fratello, ma non vengo investito da nessun moto di tenerezza nei suoi confronti. Voglio comunque buttarlo fuori di casa.
“Se c'è qualcuno là fuori che ce l'ha con me, e sono consapevole che stiamo parlando di un centinaio di persone possibili, al punto da prendere un uomo, incidergli la pelle fin quasi a perforare gli organi interni e farmelo trovare in un magazzino in un lago di sangue, allora forse potrebbe non fermarsi ad un avvertimento. Ti è chiaro, ora, il concetto?” Lui sta zitto e serra solo la mascella, esattamente come fa Bill quando vorrebbe replicare e non può. “Per questo ho bisogno di sapere dove siete, cosa fate e che siete al sicuro.”
“Fantastico,” sibila Tom, scuotendo la testa e lasciandomi libero di guardare suo fratello. “Ricominciamo con queste stronzate.”
Lo ignoro perché non ho voglia di stargli dietro, stasera. “So che avevamo deciso il contrario,” e guardo soprattutto Bill, Patrick e Peter. “Ma è importante che ci teniamo in contatto.”
Lo sguardo di Chakuza non è nemmeno descrivibile. Probabilmente l'unica cosa che lo trattiene dal prendere e andarsene sbattendo la porta è che ha visto David e, per quanto gli giri il culo dover collaborare con me – e credimi, Chaku, non faccio i salti di gioia nemmeno io – sa che non è prudente fregarsene ora.
Patrick mi guarda più o meno allo stesso modo, ma capisce prima. “Dovremo organizzarci,” esclama alla fine con un sospiro. “Programmare gli impegni in modo da non essere mai soli e tenere d'occhio lui,” aggiunge indicando Bill senza guardarlo.
“Cosa? No!” Esclama Tom dal divano dov'è seduto. “Bill ne ha passate abbastanza, non vi sembra? Se ha bisogno di essere protetto ci penseranno le nostre bodyguard.”
“E' solo una cosa di qualche settimana,” gli assicura Fler. “Il tempo di capire con chi abbiamo a che fare. E' solo una precauzione.”
“E' solo questa storia che ricomincia da capo,” replica lui. E poi si rivolge al fratello. “Bill, ti prego.”
La principessa è rimasta in silenzio fino ad ora e quando mi guarda, lo fa con un'espressione seria e rassegnata insieme, ma consapevole. Io non c'ero mentre cresceva in questo modo.
“D'accordo,” accetta alla fine e poi, a beneficio di suo fratello che sta già dando di matto, aggiunge: “Va tutto bene, Tom. Non c'è altro modo.”
“Sì che c'è. Si chiama polizia.”
“Mi fido dei ragazzi,” insiste lui, senza voltarsi a guardarlo. Guarda me, invece, e leggo nei suoi occhi tutto quello che devo sapere, ossia che accetta solo perché si rende conto della situazione e che dobbiamo fare in modo di non rovinare questi sei mesi in cui ci siamo dati da fare per rimetterci in piedi. Io lo capisco questo, e lo condivido anche, ma all'improvviso, ad averlo qui davanti e così vicino da poterlo toccare, ho voglia di sapere che cos'ha fatto in tutto questo tempo, con chi è stato, che cos'ha visto e come si sente. Ho una gran voglia di lui in generale e non è una buona premessa se voglio promettergli che non farò niente per distruggere il delicato equilibrio che sta cercando di recuperare.
“E' deciso,” sentenzia Fler, interrompendo il nostro sguardo e costringendomi a tornare presente in quella stanza. “Ci metteremo d'accordo sui dettagli nei prossimi giorni.”
Lentamente cominciano tutti a recuperare le proprie cose, accennando ad andarsene. Anche Bill cerca Tom con lo sguardo e il gemello ha già in mano la sua borsa e la sua giacca; lo porterebbe via col teletrasporto se ne avesse uno disponibile sotto mano.
“Tu stanotte resti qui,” dico e Bill si gira di scatto con tanto di quel panico negli occhi che un po' mi viene da ridere, perché sono proprio sgranati. “Nella stanza degli ospiti, naturalmente.”
Tom vorrebbe dire qualcosa da là dietro, ma non lo fa perché adesso è indispettito dal fatto che suo fratello non lo ascolta più, così finge che non gliene freghi nulla di quello che Bill farà, anche se il suo agitarsi sul posto come un indemoniato lascia ad intendere benissimo il contrario.
“Perché?” Chiede Bill, con un sospiro.
“Perché al momento questa casa è il posto più sicuro per te,” rispondo e non sto neanche mentendo. Come ho già detto ho un buon allarme e, cosa più importante, ci sono io in casa. Certo è improbabile che qualcuno possa tentare di fargli del male proprio stasera, ma non è necessario che lo sappia. “E' solo per un po', poi cercheremo una soluzione... meno problematica,” aggiungo, quando non lo vedo troppo convinto.
Bill fa un altro sospiro e poi annuisce, restituendo quasi contemporaneamente borsa e giacca a Tom che rimane lì in piedi con tutta la roba in mano e ci guarda sconvolto.
“Bill, non puoi fare sul serio,” esclama, avvicinandosi e girandogli intorno perché lui non accenna a voltarsi nella sua direzione. Gli tocca andargli proprio davanti al viso. “Ragioniamo un attimo, ok? Forse è meglio se chiami il dottor Schillinger prima di decidere. Dovresti sentire che cosa ne pensa lui.”
“Sto bene,” gli dice Bill e poi alza gli occhi al cielo. “Lo chiamerò domattina come prima cosa, d'accordo?”
“Bill...”
La principessa gli sorride e, per quanto sia dolce il modo in cui lo fa, quello è il gesto che chiude la questione. Tom ne è consapevole quanto me, così fa un passo indietro e ci rinuncia.
“Come vuoi tu,” cede. “Ma telefonami se qualcosa non va. Qualsiasi cosa.”
A quel punto Chakuza attraversa a grandi passi il salotto, saluta tutti burbero ed è il primo ad uscire di casa, senza voltarsi indietro nemmeno una volta. Bill finisce a guardarsi i piedi quasi nello stesso istante ma il momento è meno drammatico di quello che potrebbe essere, perché Patrick prende in mano la situazione come al solito e comincia a buttare fuori di casa tutti, come fossero pecore.
“Andiamo, coraggio, non c'è più niente da vedere,” esclama, spingendo Eko, Kay e il suo cane fuori dalla porta. Riesce a recuperare anche Tom e a trascinarlo via, “Vieni tu, e lascialo un po' respirare quel ragazzino. Finirà per crescere viziato, così.”
Tom vorrebbe non ridere ma lo fa e alla fine rilascia tutta la tensione. “Hai ragione, visto che adesso non lo è nemmeno un po',” scherza. Li sento ridere anche dopo che hanno chiuso la porta e mi sento un po' meglio anch'io, così quando mi giro di nuovo verso Bill spero che sia così anche per lui. La sua tensione però è ancora tutta lì. “Non ho niente con me,” sospira. “Dovrai prestarmi almeno un pigiama.”
“C'è ancora qualcosa di tuo, qui,” confesso. Praticamente tutto ciò che ha dimenticato e io non ho mai trovato il tempo né la voglia di restituirgli. “Ti faccio portare da Karima una maglietta e dei pantaloni insieme ad un altro cuscino. La camera degli ospiti sai dov'è, no?”
Lui mi fa un mezzo sorriso, poi sparisce nel corridoio dandomi la buonanotte.
Ripenso a questa serata assurda, ai miei piani che vanno in fumo e a David da solo in ospedale che lotta per restare con noi. Salgo al piano di sopra, lanciando un'occhiata indecisa alla stanza degli ospiti ma in quel momento Bill spegne la luce così scuoto la testa e continuo per la mia strada.
Sono passate meno di dodici ore da quando ci siamo ritrovati e c'è già un ferito grave e così tanto imbarazzo in questa casa che compensa quello che non abbiamo provato nei sei mesi in cui non ci siamo visti.
Questa storia non è ancora iniziata ed è già un casino.

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L'Apostolo della Sfiga

di tabata
Ci sono persone che credono nelle coincidenze, altre che credono nel destino o in una divinità benevola che li osserva dall'alto dei cieli e tira le fila della loro esistenza per fare o non fare accadere determinate cose che potrebbero anche cambiarla per sempre.
Io non sono molto religioso; da piccolo mia madre mi costringeva ad andare in chiesa tutte le domeniche e mia nonna ci faceva pregare prima dei pasti e prima di andare a dormire, per cui mi è rimasto un po' quel vago terrore dell'altissimo che ti viene istigato a forza di raccomandazioni apocalittiche quando sei un ragazzino pestifero com'ero io ma, a parte questo, non è che provi questa spinta mistica; per cui, non lo so, sicuramente Dio avrà cose molto importanti da fare per noi, ma non credo che ci sia proprio Lui dietro agli avvenimenti che sono in grado di cambiarti la giornata.
Questo, però, non significa che io li consideri frutto del caso, perché non credo nemmeno alle coincidenze. Per quanto mi riguarda, due avvenimenti simili ma del tutto slegati fra loro hanno la possibilità di avvenire contemporaneamente, al momento più opportuno e in maniera del tutto casuale quanta ne ho io di dire la cosa giusta al momento giusto, cioè una su un milione; e anche in quell'unico caso, non si tratterebbe comunque di una coincidenza.
Il che ci porta alla conclusione di quest'introduzione infinita, e cioè che io credo fortemente nella sfiga.
Se c'è un energia cosmica, un'entità sovrana o un alieno verde con le antenne seduto all'origine dell'universo con il compito di generare azioni casuali che influiscano sulla tua persona nel bene e nel male – ma soprattutto nel male – quella è la sfiga che, come risaputo, ci vede benissimo al contrario della fortuna.
E io nella sfiga ci credo perché sono il suo primo apostolo, a partire dalla mia calvizie precoce.
Volendo prendere in considerazione esempi più recenti del momento in cui i miei capelli hanno deciso di abbandonarmi per sempre, vi basta pensare che alle dieci di questa mattina ho avuto la possibilità di fare una scelta che poteva avere delle conseguenze negative oppure no. E ovviamente le ha avute.
Mi si potrebbe far notare che tutto è dipeso dal mio libero arbitrio ma così non è, perché io non avevo idea di quali fossero le mie opzioni, la mia scelta non è stata ponderata né consapevole, pertanto non c'entro assolutamente niente. Sono vittima delle circostanze, ma soprattutto della sfiga.
Dopo il tour disastroso, per dimenticare il quale ho fatto una cura di birra che mi ha portato sull'orlo dell'alcolismo, ho deciso che non potevo rimanere a Berlino se volevo sperare di trovare un po' di pace.
Io sono già di natura un tipo portato alla depressione e ho questi momenti di tristezza profonda in cui in sostanza mi accascio in un angolo lamentandomi della mia esistenza, finché un giorno mi sveglio tranquillo e del tutto dimentico di aver pensato di suicidarmi solo il giorno prima; questo fino a che non succede di nuovo, da capo.
Consapevole di ciò, ho fatto le valigie e sono andato in Austria, per altro convinto che ci sarei rimasto per sempre, visto che l'etichetta era andata a puttane e io, in generale, non è che avessi tutta questa voglia di cantare dopo quello che era successo. L'idea originale era di murarmi vivo nella casa di famiglia e lì ritirarmi in solitudine nel mio angolino di disperazione per tutto il tempo necessario e poi, finita la fase depressiva, fare un po' il cazzo che volevo fino a data da destinarsi. Per fare ciò, la casa avrebbe dovuto essere vuota e non c'era motivo per cui non lo fosse, visto che, sfortunatamente per me, i miei genitori e mia sorella vivono a Berlino da anni.
Invece, quando ho infilato il vialetto di casa con la macchina, eccoli lì tutti e tre, seduti in veranda come se nulla fosse. A quanto pare mia madre sentiva la mancanza dei suoi monti, mio padre delle mucche e mia sorella, non lo so, ma sicuramente l'hanno trascinata. Sono rimasto lì con le mie due valige in mano senza sapere cosa fare; ormai mi avevano visto, era impensabile risalire in macchina e scappare. Naturalmente anche loro erano sorpresi di vedermi, così ho dovuto spiegargli a grandi linee perché ero lì, generando così ogni genere di disgrazia possibile. Clara se l'è presa a morte perché non ho cercato di sistemare le cose con Bill prima che diventassero il disastro che sono adesso – addio sorella complice, benvenuta sconosciuta adolescente in lacrime per una popstar – mia madre ha preso il mio ritorno temporaneo come un trasferimento definitivo, ha cominciato a parlare di appartamenti in paese, di un lavoro in improbabili caseifici della valle, e di bellissime figlie di amiche mai sentite nominare che avrei potuto sposare entro l'anno per farle quintali di nipoti. La giustificazione ufficiale per il mio matrimonio combinato con una sconosciuta sarebbe che ormai ho quasi trent'anni ed è quindi ora che generi un erede. Affermazione a seguito della quale, mio padre a ricominciato a parlarmi, dopo aver inteso che non stavo più con un ragazzo e che si era dunque conclusa quella che lui chiama la mia fase omosessuale. A quanto pare sono tornato ad essere il suo prediletto e unico figlio maschio; prima non so cosa fossi diventato, secondo lui, ma sicuramente stava già intestando l'azienda a Clara che ora, immagino, sarà davvero triste di non ereditare più le sue quattrocento mucche pezzate.
Con la prospettiva di dovermi fidanzare con donne inguardabili, consolare l'inconsolabile sorella per la sua – ripeto: sua – preziosa perdita e occuparmi delle mie future mucche, avevo quasi pensato di tornare a Berlino con una scusa qualsiasi, ma visto che mi aspettavano solo un appartamento senza condizionatore e un frigo vuoto che non avrei mai avuto voglia di riempire, sono rimasto. Sei mesi.
Inutile dire che la mia vita è stata alquanto assurda in questo periodo, che sostanzialmente ho trascorso cercando modi per evitare tutti i miei famigliari, improvvisamente impazziti a causa della mia presenza. Se si esclude la mia necessità di nascondermi nel fienile ogni volta che mia madre portava a casa la figlia del panettiere, dell'ortolano, del postino e poi, credo, anche qualche povera disgraziata incontrata per caso per strada, i momenti più disperati sono stati quelli in cui mio padre si è messo in testa di dover rafforzare il nostro rapporto padre-figlio – o la mia virilità, non lo so, una delle due cose – e mi ha costretto a una serie di attività allucinanti e, soprattutto, mai fatte prima, forse convinto che, se me ne avesse fatte fare di più quand'ero ragazzino, tutto questo non sarebbe mai accaduto. La follia. Così mi ha portato a camminare per chilometri nei boschi, che ci siamo persi finendo per dover chiamare la forestale, e poi a tagliare legna con i boscaioli e a pescare, con tanto di sveglia alle quattro del mattino e lui che tenta di affrontare l'argomento maschi e femmine come se avessi sei anni. Quando ho provato a spiegargli che non è la teoria di base a mancarmi, ma che proprio me ne frego del sesso se qualcuno mi piace, mi ha indicato una trota sotto il pelo dell'acqua e mi ha detto “Hai visto? Te l'avevo detto che era pieno” e da quel momento non abbiamo più parlato.
In tutto questo, mia sorella è stata ingestibile per buona parte della mia permanenza a casa – cioè almeno fino a quando lei e papà non sono tornati a Berlino perché lei va ancora a scuola – e se arrivo a dirlo io, che in linea di massima la adoro e nessuno me la può toccare, vuol dire che proprio ha passato ogni limite. Clara era molto felice che io mi fossi messo con Bill; non felice per me, ma per se stessa, naturalmente, visto che è una grande fan dei Tokio Hotel. Mi ha fatto martire finché non gliel'ho fatto conoscere e quest'incontro ravvicinato del terzo tipo tra Bill e Clara un giorno dovrà raccontarvelo perché è stata la prima volta, in vita mia, che ho visto mia sorella imbarazzata fin quasi al mutismo.
Per questo motivo, voleva poi strangolarmi quando ho avuto la faccia tosta di presentarmi a casa dopo essermelo lasciato scappare, come dice lei. Il fatto che io non fossi un mostro e ci stessi pure male non era nemmeno contemplabile. Per calmarla e farla ragionare ho dovuto farle notare che, senza questa pausa forzata, Bill sarebbe probabilmente impazzito finendo per fare qualcosa di irreparabile.
Allora lei ha capito, se n'è fatta una ragione, ha dimostrato per Bill più pietà di quanta ne avesse dimostrata per suo fratello e quindi è tornata quella di sempre, che non so se sia esattamente una buona cosa, ma almeno sapevo cosa aspettarmi.
Dopo sei mesi di questa vita, ne avevo abbastanza anche della mia famiglia, a cui voglio un gran bene ma a volte troppo amore uccide, quindi era meglio che me ne andassi. Stamattina, dunque, ho messo le valige in macchina e, mentre lo facevo, mia madre mi ha chiesto se ero sicuro di voler tornare a Berlino, se magari non volevo restare un altro paio di mesi, che magari era meglio visto che in città sarei stato solo e triste – grazie mamma – e lei non voleva che stessi male. In quel preciso momento, avrei potuto risponderle di no, che non volevo tornare e che sarei rimasto. Non l'ho fatto, però, e dodici ore dopo, cioè adesso, ecco che mi arriva una chiamata di Kay che mi dice di raggiungere un magazzino di periferia perché abbiamo un problema. Coincidenze? Assolutamente no. Sfiga.
Ho guidato tutto il giorno, sono stanco e odio Bushido, percui non mi va affatto di farmi di nuovo tre piani di scale, togliere l'auto da un parcheggio meraviglioso proprio sotto casa per perdermi chissà dove; poi Kay mi riassume in breve il problema e, soprattutto, mi dice che c'è un uomo ferito in quel magazzino e che non sappiamo chi sia, così quando chiudo il telefono sono praticamente già in macchina e lo riapro soltanto per chiamare Fler, che è la prima persona che mi è venuta in mente. Suona subito occupato, così m'incazzo ma, proprio quando sto per richiamarlo, ci riesce prima lui e non importa che mi aggredisca chiedendomi cosa cazzo stessi facendo, perché sta bene e io posso smettere di bruciare tutti i rossi che trovo per il nervoso.
Il magazzino è enorme e male illuminato; quando entriamo non si vede quasi nulla a parte l'ombra di alcune casse al centro della stanza. Bushido è armato, una cosa che non mi mette a mio agio. Nonostante tutto quello che abbiamo passato, non mi sono ancora abituato a certe cose e di sicuro veder esplodere la faccia di Saad due anni fa non mi ha aiutato in questo senso. Ci sono volte in cui mi sembra solo che ci prendiamo tutti troppo sul serio, altre invece ho proprio l'impressione che ci stiamo mettendo nei guai, e questa è una di quelle. Soprattutto quando troviamo David Jost disteso a terra in un lago di sangue.
Io guardo un sacco di film di paura e mi diverto anche a farlo, ma credo che da questo momento in poi smetterò e mi darò per sempre ai cartoni animati. Non riesco a staccare gli occhi dal corpo di David eppure quello che vedo non mi piace. Innanzitutto è legato mani e piedi e sta disteso su un fianco, come probabilmente lo ha lasciato chi gli ha fatto questo, e poi ha la maglia strappata e una scritta incisa con il coltello sullo stomaco. La ferita butta ancora sangue che è di un rosso vivissimo, non sembra nemmeno reale. Poi, forse perché lui si lamenta quando Bushido lo gira, o non lo so, usciamo uno dopo l'altro dalla paralisi di stupore e cominciamo a muoverci, anche se non tutti facciamo qualcosa di utile. Io, per esempio, riesco finalmente a battere le palpebre e mi scosto quando Bushido mi passa accanto con in braccio David.
Rimaniamo a lungo in silenzio, ad ascoltare l'eco della porta del magazzino che si è chiusa e il rombo dell'auto di Bushido che si allontana, poi ci guardiamo in faccia e non abbiamo idea di che cosa fare. Io almeno non ce l'ho, e neanche Kay ed Eko sembrano saperne più di me.
“Dobbiamo sbrigarci,” esordisce Fler, prima ancora che noialtri si sia effettivamente capito di dover agire in qualche modo. Evidentemente lui si accorge dei nostri occhi vacui, perché aggiunge: “Questo posto va ripulito in fretta.”
“Perché?” Non so di aver fatto la domanda finché non sento la mia voce.
“Te lo spiego dopo,” risponde lui, senza nemmeno voltarsi. Si limita ad indicarci tutti quanti con un braccio mentre apre la porta. “Rimanete dove siete e non fate niente finché non torno.”
Ci ritroviamo a fissarci nelle palle degli occhi per la seconda volta in meno di dieci minuti e poi, tutti insieme nemmeno ci fossimo messi d'accordo, ci spostiamo lontano dal sangue ma in un punto che è ancora vagamente illuminato dal neon all'esterno e dal display del cellulare di Eko che lo agita in aria come volesse far atterrare un aereo all'interno del capannone.
“Hai finito?” Gli chiedo, dopo la decima volta che me lo sventola davanti alla faccia.
“Sto facendo luce,” replica lui.
Gli blocco la mano e conto fino a dieci, per evitare di saltargli al collo e stenderlo a suon di sberle. “No, stai dando fastidio.”
Eko borbotta qualcosa e poi va ad agitare il cellulare da un'altra parte. “E allora stai al buio.”
“Deve pur esserci un interruttore da qualche parte,” la voce è nuova, quindi ci giriamo tutti e tre per vedere a chi appartiene e ci rendiamo conto che questo ragazzino biondo, alto in maniera illegale per l'età che deve avere, dev'essere stato qui tutto il tempo e noi non ce ne siamo accorti. Lo guardiamo senza capire bene perché è qui davanti ai nostri occhi e lui scuote la testa con un sospiro, dirigendosi a passo svelto verso l'uscita. A metà strada il buio lo inghiotte, per poi mostrarcelo di nuovo come un'ombra vagamente illuminata qualche metro dopo. Lo vediamo armeggiare con qualcosa che c'è sul muro e alla fine sentiamo un colpo secco, un ronzio e lentamente il magazzino s'illumina, un settore alla volta partendo dal fondo. Le lunghe lampade al neon attaccate al soffitto sfarfallano un po', prima di assestarsi, ma poi si fanno luminosissime.
“Ecco fatto,” dice lui, spolverandosi le mani sui jeans.
“E tu chi saresti?” Domando. Il ragazzino ha una faccia familiare, eppure non so dove potrei averlo visto.
Lui ride e poi torna verso di noi. “Sono Daniel. Daniel Kobler,” risponde, come se il suo nome dovesse in effetti dirmi qualcosa. “Non ti ricordi di me, vero Chakuza?”
Eko si rende finalmente conto che il suo cellulare non serve più, così lo infila in tasca e squadra lo sconosciuto. “Chaku, perché ti porti sempre dietro i ragazzini? Siamo circondati di ragazzini. Non ne avevamo già abbastanza?” Vaneggia, prima di allontanarsi chissà dove e a fare cosa.
Faccio un cenno a Kay perché vada a recuperarlo prima che scivoli sul sangue e si spacchi la testa da qualche parte, mentre io vedo di capirci qualcosa di più. “Tu mi conosci,” dico.
Daniel annuisce. “Ci siamo incontrati quasi due anni fa.”
Io scuoto la testa, non ho la minima idea di cosa stia parlando.
“Tempelhof,” suggerisce. “Tu e Fler cercavate informazioni e io ve le ho date.”
Daniel Kobler. Il nome non mi dice niente, ma l'unica volta che io e Fler siamo andati a Tempelhof insieme è stata la notte di Saad, quindi cerco di fare mente locale. Abbiamo visto un sacco di gente in quell'occasione, ma lui proprio non mi sembra di ricordarlo e sto quasi per arrendermi quando ci arrivo. “Daniel?” Dico. “Il ragazzino che era fan dell'Aggro?”
Lui sorride. “Lo sono ancora.”
“Ma eri alto così!” Protesto, come se fosse colpa sua, se è cresciuto.
Daniel si stringe nelle spalle. “L'adolescenza ha i suoi lati positivi,” commenta.
Non so cosa gli abbia dato sua madre da mangiare, ma vorrei che avesse condiviso quel segreto con la mia. Ad ogni modo, sto perdendo un po' di vista il punto principale della faccenda. “Perché sei qui? Chi ti ha portato?”
“Sono venuto con Fler,” risponde, infilando entrambe le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni.
Io vorrei chiedergli parecchie cose, tipo cosa ci faceva lui con Fler, come mai lo conosce così bene e soprattutto perché lui lo ha portato qui, ma immagino che posso chiederlo direttamente al diretto interessato visto che è appena tornato, con in mano cinque spazzoloni e altrettanti secchi.
“Avete trovato la luce,” esclama, cominciando a distribuire. “Bene.”
Kay guarda gli oggetti come li guardo io, ossia come uno a cui raramente sono capitati in mano prima di quel momento. Eko invece è molto poco interessato al secchio, ma si è appoggiato allo spazzolone come fosse una lancia.
“Dovremo organizzarci, anche se l'area non è grandissima,” continua Fler, individuando un piccolo lavandino e dirigendosi in quella direzione. “Ho preso della candeggina, ma toglieremo prima il grosso con l'acqua.”
Noi lo guardiamo riempire il secchio per metà e poi mettersi a strofinare con forza la grossa macchia al centro del magazzino, non quella che era subito sotto il corpo di David, ma quella più lontana che si è formata con lo scorrere del sangue sul pavimento un po' inclinato. Lo spazzolone bagnato affonda nel sangue che è molto più denso dell'acqua e sembra di vederlo spalmare per terra del caramello filamentoso. E' una cosa disgustosa. “Kay, tu ed Eko occupatevi del posto in cui c'era David,” li istruisce. “Chakuza, tu stai qui con me. Cercate di raschiare forte, perché il sangue è un figlio di puttana. Quando sarà rimasta solo la macchia, passeremo la candeggina.”
Kay ed Eko guardano lo spazzolone e la macchia con aria dubbiosa, e nessuno di noi si muove, in realtà.
“Beh?” Chiede Patrick.
“Si può sapere perché dobbiamo pulire?” Chiedo alla fine, visto che gli altri due seguono il volo di farfalle inesistenti e hanno palesemente lasciato a me il compito di fare ostruzionismo.
Fler smette di pulire il pavimento. “Guardati intorno, Chakuza, ci sono le nostre impronte ovunque,” risponde.
“E allora? Abbiamo salvato un uomo,” gli faccio notare.
“O forse lo abbiamo torturato,” mi corregge lui. “O ucciso, dipende da quanto Jost ha intenzione di resistere.”
“Ma la polizia...”
“Se David muore, l'unica cosa che la polizia saprà con certezza è che noi siamo stati qui,” mi interrompe. “Ci sarebbe un'indagine, degli interrogatori e con tutto quello che io e Bushido abbiamo alle spalle, probabilmente non si fermerebbero a questo magazzino. Pensaci Chakuza, vuoi davvero che qualche ispettore venga a frugare nella tua vita adesso?”
No, l'ultima cosa che voglio è che qualcuno passi al setaccio gli ultimi due anni e magari si ricordi di quel Saad che lavorava con me e che un bel giorno, di punto in bianco, ha misteriosamente deciso di lasciare la moglie e la figlia senza motivo apparente, proprio qualche mese dopo il funerale del suo capo morto ammazzato da ignoti. Certo, Bushido è vivo ma la sua fuga a Miami non giocherebbe a favore di nessuno in questo frangente e apparirebbe ancora più sospetta. Sono sempre convinto che se nessuno ha ancora trovato nel canale il portellone di un'auto che adesso ha tutto un altro aspetto grazie a Fler, è solo perché non l'hanno cercato e di certo gli verrebbe in mente di farlo, prima o poi, se si mettessero in testa di indagare, cosa che non hanno mai fatto solo perché Greta doveva un favore a Bushido e, in memoria sua, non ci ha denunciati per averle ammazzato il marito. Ora che ci penso, visto che Bushido è vivo, quella donna potrebbe anche cambiare idea. Dobbiamo pulire questo sangue, senza dubbio.
Annuisco e vado a riempire il mio secchio. Sulla strada incrocio Daniel che scende da una delle casse su cui stava seduto e si sistema meglio i pantaloni. “E io?” Lo sento chiedere.
“Tu stai buono e aspetti che abbiamo finito,” gli dice Fler.
“Oh andiamo! Voglio dare una mano anch'io!”
Fler sospira, ma continua a pulire mentre Daniel gli gira intorno, per cercare di farsi ascoltare. “No, Danny.”
“Guarda che lo so come si pulisce il sangue,” protesta lui.
Io quasi faccio traboccare il secchio per seguire la scena. Fler lo guarda sospirando e poi annuisce con un cenno quasi impercettibile del capo. “Dai una mano a loro, laggiù” indica Kay ed Eko.
Daniel obbedisce al volo.
“Perché l'hai portato qui?” Inizio in un sussurro, mentre in due puliamo gli stessi cinquanta centimetri di sangue.
Fler non alza la testa, raschia solo più forte. “Era con me quando Anis ha chiamato.”
“E non hai trovato una babysitter?” Chiedo.
Lui sbuffa forte dal naso e si accanisce sul pavimento con particolare violenza. “Non mi fidavo a lasciarlo a casa mia da solo con in giro un pazzo che ammazza la gente.”
“D'accordo, ecco un'altra domanda. Cosa ci fa un ragazzino di Tempelhof che s'intende di spacciatori a casa tua?”
“E' il mio ragazzo,” risponde lui.
Lo spazzolone mi cade di mano e finisce prima sul mio piede e poi nella pozza di sangue. “Merda!” Impreco, recuperandolo con due dita e riuscendo comunque a sporcarmi. Mi pulisco la mano sui pantaloni, schifato. A parte che è sangue, è anche freddo e viscido. Fler, in tutto questo, ha continuato a pulire.
“Il tuo ragazzo?” Sibilo, incredulo.
“Sì, il mio ragazzo,” ribadisce e mi guarda serissimo. “Hai qualche problema con questo, Peter?”
Potrei iniziare ad elencarli adesso, i problemi, e finire domani alla stessa ora ma qualcosa mi dice che sono solo miei e posso pure tenermeli; solo che non posso stare zitto. “Ma se aveva dodici anni nemmeno due anni fa!”
“Ma non dire cazzate,” borbotta lui, infilando lo spazzolone nell'acqua che però ormai è rossa. “Ne aveva sedici, due anni fa, il che fa di lui un diciottenne adesso. Contento?”
Prende il secchio con impeto e va al lavandino a svuotarlo. Io lo seguo. “Ma quando è successo?”
“Sei mesi fa.”
Io faccio un rapido calcolo. “Stavi con Bushido sei mesi fa.”
Fler chiude l'acqua, si gira verso di me e mi fulmina. “Fermo restando che questi non sono cazzi tuoi, Peter...” si ferma, mi agita l'indice davanti alla faccia e poi sospira. “Beh, non sono cazzi tuoi.”
Si allontana velocemente e inizia a spargere candeggina sul pavimento. L'odore pungente mi entra nel naso e mi fa lacrimare gli occhi. Apro la bocca per dirgli qualcosa ma lui mi ferma prima. “Un'altra domanda e ti faccio a pezzi. Tanto sto già pulendo,” mi minaccia. Quindi si volta a controllare gli altri tre e lancia a Daniel il flacone di candeggina. “Ripulite con questa, ora.”
Il ragazzino lo prende al volo e gli fa il saluto militare con due dita. Adesso che lo so, non riesco a guardarlo alla stessa maniera e mi dà fastidio perfino il modo in cui sorride e il fatto che si siano capiti al volo quando Fler gli ha lanciato quell'affare. Torno a strofinare la mia macchia con la candeggina e penso che sono curioso di sapere com'è andata esattamente, se Bushido ne sa qualcosa di questo ragazzino, o se mentre noi affrontavamo i nostri molti problemi in tour, lui, da casa, contribuiva alla follia generale a modo suo.
Io e Fler finiamo prima degli altri tre perché la nostra macchia è più piccola, non è sparsa anche sulle casse circostanti, ma soprattutto non abbiamo Eko che drogato dagli effluvi della candeggina o, molto più probabilmente, così già di suo sta vaneggiando di un film turco che ha visto quando era piccolo a casa di suo zio Idris in cui i protagonisti fanno esattamente quello che stiamo facendo noi ora, ma poi alla fine la mafia li trova e dà i loro cadaveri in pasto ai maiali.
“Adesso sì che mi sento meglio,” sospira Kay, accucciato per terra a togliere macchioline spruzzate sul legno con uno straccio.
“Non ho mai sentito parlare di quel film, Eko,” esclama Daniel, “però ce n'è un altro che è uscito due o tre anni fa in cui gli scagnozzi del boss tentano di fregare il boss e finiscono a farsi un volo di trenta metri dal suo grattacielo.”
“D'accordo adesso basta con i pensieri felici,” li ferma Fler, battendo le mani. “Prima ci leviamo di qui e più probabilità abbiamo di evitare i finali splatter. Chakuza, aiutami a radunare ogni cosa.”
Venti minuti dopo abbiamo avvolto gli attrezzi nel nylon, stipando tutto nel bagagliaio dell'auto di Fler, che ha pensato proprio ad ogni minimo dettaglio. Mi viene da chiedergli quante altre volte gli sia capitato di ripulire un posto dal sangue, ma non lo faccio perché mi ricordo la disinvoltura con la quale ha fatto sparire il corpo di Saad e quanto la cosa mi abbia lasciato sconvolto. C'è sempre un lato di lui di cui non so niente e, per quanto sia brutto, voglio continuare a non sapere niente. Non ho mai pensato di essere in grado di accettarlo, quindi è meglio che ne rimanga all'oscuro. Dimenticherò questa serata come, salvo rari casi, ho dimenticato l'altra. Il mio cervello ha un sacco di difetti, ma in questo caso la sua capacità di rimuovere la quasi totalità di ciò che invece mi converrebbe ricordare torna utile.
Appena fuori dal magazzino, mentre chiudiamo la porta, ci guardiamo l'un l'altro stanchi e disfatti. Siamo ricoperti di sangue dalla testa ai piedi e non sappiamo nemmeno come visto che non abbiamo passato il tempo rotolandoci sul pavimento. Sarà che a differenza di Fler eravamo tutti piuttosto inadeguati e pulire bene una stanza dal sangue non è così facile come sembra, non quando schizza ovunque e si infila appiccicoso tra le piastrelle e non c'è verso di toglierlo. Se anche mi venisse la voglia di uccidere qualcuno, lo avvelenerei o lo strangolerei, comunque niente che coinvolga dello spargimento di sangue.
“D'accordo, andiamo. Ci troviamo a casa di Bushido tra mezz'ora.”
Ne segue un mormorio contrariato. Gli altri non so, ma io volevo farmi una doccia e non sentire Bushido che ci fa uno dei suoi discorsi epici sull'unità del gruppo, la sacralità della vendetta e il codice del ghetto che, a quanto mi pare di capire, stasera è stato violato in molti modi diversi.
Come se ciò non bastasse, vedo Daniel salire sull'auto di Fler e il viso serio e concentrato che ha mi disturba, perché ha lo stesso atteggiamento di Fler, pratico, attento e volto alla soluzione di ogni possibile problema, già presente o previsto. Fottuto ghetto, sempre nel mezzo.
Sbuffo e appoggio per un secondo la fronte al volante; questa notte è stata lunghissima e sembra non avere alcuna intenzione di finire.
Metto in moto e mi dirigo alla villa gialla.

*


Come se trovare un uomo che conosci sventrato a coltellate dentro un magazzino e doverne ripulire il sangue con la candeggina non fosse già abbastanza per una sola notte, a casa di Bushido c'è Bill e io non sono nella condizione di affrontare questa cosa al momento. Speravo che dopo sei mesi a fare l'eremita, sarebbe stato più facile guardarlo negli occhi, ma direi che così non è.
La rabbia che avevo alla fine del tour ce l'ho anche adesso, tale e quale a prima, e se in questi sei mesi non l'ho sentita è stato solo perché non ho visto né sentito lui. Ora che ce l'ho di nuovo davanti, però, è difficile ignorare quello che è successo, soprattutto perché se siamo qui stasera è per colpa di Bushido, che è un po' la causa di tutti i problemi tra noi due. Non sono ancora in quella fase in cui mi dico che era meglio se non tornava e poi mi sento in colpa per averlo pensato. Per ora lo penso e basta.
In tutto questo, la prima volta che io e Bill ci scambiamo due parole, lo facciamo per discutere di Daniel, che non è esattamente un approccio intelligente.
Ad ogni modo, la presenza di Bill è provvidenziale per lo stato in cui ci troviamo. Quando siamo entrati in casa, la governante di Bushido è praticamente impazzita – e non posso darle torto visto che stiamo lasciando sangue ovunque sui mobili di Bushido da cinquecento fantastiglioni di euro – e se non ci fosse Bill ad organizzare le cose, probabilmente saremo ancora in piedi a gocciolare sui tappeti persiani quando lui arriva. E' assurdo pensarlo, ma non ho più alcun ricordo di questa casa senza Bill dentro che dà ordini a destra e a manca, eppure ci venivo anche prima che arrivasse lui. E' come se ci fosse sempre stato. Così mentre ci stipa tutti nel bagno degli ospiti e ci fa lavare e cambiare, non sembra una cosa tanto strana perché c'era un tempo in cui eravamo abituati a passare le giornate qui dentro e c'era anche lui che, quando giocavamo a calcio in giardino, ci spediva uno dopo l'altro a farci la doccia perché non eravamo presentabili. E' quello che ci dice adesso, per altro, e non fa che aumentare questa sensazione di calore che non dovrei affatto provare.
Bill ci fa un sacco di domande e non vorremmo dirgli che si tratta di David Jost senza prima sapere se quell'uomo se la caverà o meno, ma non ne abbiamo veramente discusso e, siccome il cervello di Eko a volte è perfino più scollegato dalla realtà del mio, quello finisce per dirgli che in effetti qualcuno è ferito e a quel, punto, visto che Bill insiste e non ci darà pace finché non rispondiamo, gli dico le cose come stanno.
All'inizio non ci crede e poi va nel panico e Fler è costretto a scuoterlo per farsi guardare mentre gli dice che andrà tutto bene; vorrei essere altrettanto bravo a fingermi sicuro che le cose si sistemeranno, ma non lo sono affatto, anzi ho dei dubbi che David sia anche solo arrivato vivo in ospedale, per questo è meglio che ci pensi lui a rassicurare la principessa.
Alla fine, quando Bushido si presenta, Bill ha chiesto a Karima di preparare del caffè e ci siamo sistemati in salotto dove abbiamo passato un'ora praticamente in silenzio a fissare ognuno un punto diverso della stanza con grandissima attenzione, tranne forse Eko che si è tenuto impegnato a costruire castelli con le zollette di zucchero e Daniel, che dopo aver ficcato il naso dappertutto, si è addormentato sul divano con la testa appoggiata sulle ginocchia di Fler.
Bushido ha sempre cercato di rendere la propria immagine eroica, probabilmente perché, quando dice le sue stronzate, gli piace immaginarsi in cima ad un picco a strapiombo sul mare col vento che gli scombina i capelli – magari prima al particolare dei capelli non ci pensava, ma ora può perché sono lunghi e sembra il protagonista di uno di quei libri da donne, che sulla copertina hanno questi uomini con la camicia aperta e la criniera selvaggia – ecco perché, generalmente, ha sempre quest'aspetto da duro che non deve chiedere mai. Stasera, però, non fa niente per nascondere la spossatezza e quando entra in casa e chiude la porta, lo fa con passo stanco e le spalle curve, è così abbattuto che mi viene da chiedermi se David non sia morto davvero. Glielo chiede anche Bill, così viene subito a sapere che il segreto è stato svelato, ma ne prende atto con un cenno del capo e niente di più.
Fortunatamente David è vivo, ma deve riuscire a superare la notte e al momento mi sembra impossibile, più che altro perché la notte sta andando avanti in eterno; non mi ricordo nemmeno dov'è iniziata e quindi probabilmente non finirà mai. Sono stanco del buio, non ho nemmeno voglia di dormire, vorrei soltanto vedere la luce del sole che segni l'inizio di un giorno nuovo e, si spera, completamente diverso da questo.
La sensazione di deja vu, che mi accompagna da quando ho messo piede in questa casa, si fa ancora più forte quando Bushido annuncia che è necessario restare uniti, vista la situazione, e Tom non la prende affatto bene perché non vuole che suo fratello ci resti invischiato in mezzo.
Ora, sinceramente, io non sto facendo i salti di gioia all'idea di dover collaborare con quest'uomo, ma non posso negare che abbiamo davvero bisogno di tenerci d'occhio l'un l'altro, vista la situazione. E dal momento che la polizia meno s'impiccia e meglio è – penso che ormai sono un uomo che teme le forze dell'ordine, uno di quelli che mia nonna non voleva che frequentassi, povera nonna – allora non c'è altra gente di cui mi fidi se non quella che si trova in questa stanza. Tom però non è d'accordo e comincia a discutere con Bushido come ha sempre fatto, da che lo conosco, ogni volta che parlano di Bill.
Si scornano finché la nostra principessa non li mette a tacere entrambi e ovviamente comprende quello che è necessario fare, anche se non è facile nemmeno per lui, immagino, dover ricominciare con queste cose. Niente di quello che è successo è andato come doveva e, anche quando ci avevamo dato un taglio, qualcuno ha pensato bene di riportarci tutti al punto di partenza. Dopo che abbiamo scavato, toccato il fondo e scavato ancora per arrivare dall'altra parte, mi chiedo che cosa ci aspetti ancora che renderà la nostra vita una roba che non si racconta.
Bushido, naturalmente, si attiva subito per non lasciarmi troppo a brancolare nel buio e decide che se dobbiamo fare dei turni per tenere d'occhio Bill sarà meglio cominciare subito e sarà meglio cominciare da lui medesimo nella sua armatura scintillante e col suo bel sistema di allarme collegato alla Nasa.
Io so che, oggettivamente, questo è il posto migliore in cui tenere Bill per stanotte e per chissà quanto altro tempo ancora, ma so anche che Bushido è molto bravo a nascondere la propria sfacciataggine dietro motivazioni più o meno valide; e quindi sì, forse, questo è il posto migliore ma non sono troppo sicuro che lui avesse esattamente questo in mente quando ha deciso di tenerlo qui.
Quando Bill, alla faccia del tracollo emotivo che lo ha quasi portato a farsi investire su un autostrada sei mesi fa, accetta di restare senza fare una piega, penso che mi convenga uscire e farlo in fretta perché il peso di questa giornata comincia a farsi sentire e io non voglio avere comportamenti di cui poi mi dovrò scusare con lui. So che vede il mio viso mentre gli passo accanto e sa perfettamente come mi sento. Spero che, almeno un po', si senta così anche lui.
Saluto e penso che non vale la pena ricominciare da capo se tutto ciò che si ripete sono gli omicidi.

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E Il Giorno In Cui Sono Risorto

di lisachan
Apro gli occhi senza crederci, perché giuro che quando li ho chiusi ero convinto che non ce l’avrei fatta. La cosa che sento maggiormente, più ancora del dolore un po’ sordo, un po’ attutito, all’altezza dello stomaco, è un gran senso di confusione e, al contempo, vuoto in testa. È come se avessi il cervello ingombro di cose che però non riesco a vedere, come una vecchia soffitta riempita di antichità tutte coperte da veli bianchi e polverosi. Sai che sotto dev’esserci qualcosa, ma appena ci metti piede non hai idea di cosa. Quindi è come se non ci fossi niente, tu guardi questa distesa di bianco ingrigito e ti dici “oddio, ma cosa c’è qui dentro? Non c’è nulla”, quando magari hai sotto il naso un originale di Mirò, solo che non lo sai perché non puoi vederlo. Ecco, la mia testa è come se fosse questa enorme stanza piena di roba coperta di cui mi sembra di non sapere niente. Ho un po’ paura di sollevare i teli, però, perché magari se quei teli ci sono, in primo luogo, c’è un motivo. Uno non va in giro coprendo opere d’arte a caso, se lo fa dev’esserci una buona ragione.
- Signor Jost…? – la prima voce che sento non mi è nota. È una voce femminile un po’ acuta, piuttosto dolce, e non ricordo di averla mai sentita. – Oddio, s’è svegliato… dottor Schüster! – la sua voce si fa più alta e più fastidiosa, mi pizzica il timpano con violenza e per qualche secondo, mentre serro gli occhi infastidito dalla luce che entra dalla finestra, mi chiedo quanto tempo abbia passato qui a dormire se luci e suoni anche moderati mi sembrano così insopportabili.
Sento un frusciare di vestiti al mio fianco e mi forzo ad aprire almeno un occhio, per sbirciare cosa stia accadendo. Vedo poco, comunque, la mia vista è ancora annebbiata. Spero sia qualcosa di temporaneo.
- Abbassate le luci… - borbotto, e la mia voce suona aliena alle mie stesse orecchie. È gracchiante e ruvida, come non la usassi da mesi. Ho la gola secca. Comincio a preoccuparmi davvero: da quant’è che sono qui?
- Signor Jost, ricorda perché è qui? – chiede una voce maschile profonda ma calda, che immagino appartenga al dottor Schüster.
- Non proprio… - rispondo. Cerco di identificare la sua figura, ma la luce del sole si riflette sul biancore candido del suo camice e mi abbaglia, impedendomi di riconoscere la sua fisionomia. – Abbassate le luci, per favore.
- Infermiera. – dice immediatamente il dottor Schüster, e in pochi secondi la luce diventa più fioca. Sbatto le palpebre un paio di volte e poi, finalmente, apro gli occhi, trovandomi di fronte un uomo alto e abbronzato, con lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle e vagamente arricciati sulle punte e un pizzetto perfetto ad incorniciare labbra ugualmente perfette, mentre occhi azzurri dal taglio elegante mi scrutano con apprensione e partecipe benevolenza. Penso di essermi innamorato. – Signor Jost, sono il dottor Schüster, il medico di turno. Il dottor Neuer l’ha affidata alle mie cure. Mi dica come si sente.
- Ora molto meglio. – ammetto, ma tralascio di aggiungere “perché ho potuto posare gli occhi su di te, o divina creatura. Sfila il camice e mostrami i tuoi pettorali, li cospargerò di unguenti profumati e ti nutrirò coi frutti della terra. Infermiera! Spalanchi le finestre, che la luce entri e investa questo figlio dei cieli”. Mi sovviene all’improvviso che ancora non so da quanto sono qui. Guardo il dottor Schüster e cerco di non lasciar trasparire quanto voglio che butti fuori chiunque ci sia in questa stanza oltre noi, si denudi e mi prenda qui su questo letto. – Quanto tempo è passato da quando sono arrivato? – chiedo con finta serietà, mentre lo immagino sollevarmi tra le proprie possenti braccia e invitarmi a ballare la Lambada.
- Una settimana. – risponde lui, sedendosi sul bordo del letto. Oh, sì, dottor Schüster, perfino il cigolio delle molle del materasso sotto il tuo dolce peso è musicale. – È arrivato privo di conoscenza e quasi del tutto dissanguato. È un miracolo che siamo riusciti a prenderla in tempo, ed è ancora più miracoloso che lei sia riuscito a svegliarsi. È un uomo molto coraggioso, signor Jost.
No, vorrei dirgli, se fossi un uomo molto coraggioso mi solleverei, ti guarderei dritto negli occhi e ti direi di possedermi con forza, tanto da far sbattere la testiera del letto contro la parete fino a sfondarla. Lui però mi sorride all’improvviso, e il cielo si apre mostrando cori di angeli che cantano a festa per celebrare il momento, mentre il mondo diventa più bello, le guerre finiscono, la fame e la povertà nel mondo vengono sconfitte e putti alati coi sederini tondi suonano l’arpa volteggiando attorno a noi, leggeri come bolle di sapone. Mi sposi, dottor Schüster. Lei è l’uomo della mia vita.
- Che cosa mi è successo? – chiedo, ma non sono sicuro se gli sto chiedendo di spiegarmi com’è che sono finito qui o se piuttosto non voglio sapere se per caso nella mia flebo sia disciolta qualche sostanza stupefacente, o del viagra, o comunque qualcosa che possa giustificare le condizioni mentali pietose in cui mi trovo adesso guardando quest’uomo che riluce come una stella e sprizza testosterone da ogni poro della pelle caramellata e del tutto priva di imperfezioni.
- Per la verità, speravamo potesse dircelo lei. – dice lui, stringendosi appena nelle spalle, - Il dottor Neuer ha mantenuto il più stretto riserbo, sulla sua condizione, su esplicita richiesta del signor Ferchichi. Perciò immagino che se lei non ricorda cosa le è successo l’unica soluzione sia aspettare che il signor Ferchichi venga qui, non appena l’avremo avvertito, e possa spiegarglielo in prima persona.
Mi basta sentir parlare di Bushido perché nella mia testa improvvisamente tutto ritorni chiaro. Osservo quest’uomo stupendo entrare nella soffitta nascosta dentro al mio cervello e, invece di prendermi sul divano polveroso disteso sopra il quale io lo attendo nudo e con le gambe già spalancate e issate fin sopra le spalle, mettersi a sollevare tutti i teli da tutte le cose che coprono. Vengono fuori i tizi che mi hanno rapito, viene fuori l’incisione sul mio stomaco, che non ho ancora nemmeno visto, viene fuori il mio sangue, il magazzino buio e sporco, le casse accatastate in un angolo ed io che mi spacco qualcosa finendoci sopra. Viene fuori la storia degli ultimi mesi della mia vita, e non solo della mia, ma di quella di un’etichetta della quale non dovrebbe interessarmi niente, e che invece mi sta a cuore, perché ormai ne sono parte.
Soprattutto, comunque, vengono fuori le ultime parole che ho sentito prima di essere torturato fin quasi a morte. E sono parole che devo riferire a chi di dovere.
Sollevo gli occhi sul dottor Schüster e mi mordo un labbro per non pensare niente di sconveniente.
- Lo chiamo io. – dico. Lui inarca un sopracciglio perfettamente curato. Da ciò – dal sopracciglio e dal modo in cui lo inarca, dico – deduco che è gay, ma riprenderò la questione in seguito.
- Signor Jost, - mi informa, - non è la prassi.
Sorrido serenamente.
- Lo chiamo io. – ripeto. Il dottor Schüster sospira, solleva la cornetta, digita un codice sulla tastiera e poi mi appoggia il telefono in grembo, alzandosi in piedi ed uscendo dalla stanza dopo aver fatto cenno all’infermiera di seguirlo. Il telefono squilla un paio di volte, e poi Bushido risponde.
- Pronto? – dice, col tono casuale di chi non aspetta una telefonata importante. Io prendo un bel respiro, prima di parlare.
- Muovi il culo. – dico quindi, - Devo parlarti.
A lui il respiro manca del tutto, per qualche secondo.
- David? – annaspa. Sento accanto a lui un urletto agitato. È con Bill. – David, stai bene?
- Be’, sono ancora vivo. – rispondo scrollando le spalle. – E ora muoviti e vieni qui. Abbiamo un problema.
Bushido esita ancora per qualche secondo, e poi probabilmente intuisce di cosa sto parlando. Arriva meno di mezz’ora dopo, e con lui, come avevo immaginato, c’è anche Bill.
Nel tempo che passa fra il momento in cui la nostra chiamata s’interrompe e quello in cui lui arriva, io faccio mente locale e cerco di trovare un senso alle ultime parole che l’uomo col volto coperto mi ha sussurrato prima di cominciare ad aprirmi in due. Sono parole che in un mondo normale non dovrebbero avere senso, ma vivere a stretto contatto con Bushido, sapere che il suo uomo migliore, il più vicino a lui, voleva vederlo morto mi ha dato un’idea molto precisa di cosa significhino i legami fra uomini nel mondo da cui Bushido proviene, e che ha trascinato di forza nello show business tedesco perché voleva metterci le mani sopra, e poteva farlo solo conoscendolo bene. Ha dovuto portare il suo mondo nel nostro per stravolgerne le regole e riuscire a governarle, manipolarle come ha sempre fatto, in proprio favore, e quindi, sapendo questo, le ultime parole che ho sentito quando credevo sarei morto non solo assumono senso, ma assumono improvvisamente anche un peso non indifferente. Mentre aspetto, spero che Bushido porti con sé un paio di uomini di scorta in più, per lasciarmeli, perché ora che sono vivo si saprà in giro, ed è evidente che non posso restare da solo.
Vorrei chiederglielo subito, appena lo vedo spuntare, ma appunto noto che c’è Bill, con lui, perciò mi trattengo.
- David! – strilla Bill immediatamente, avanzando verso di me così velocemente che ho l’impressione che, se non avessi la flebo e fili che mi collegano a svariati macchinari da tutte le parti, mi salterebbe addosso e mi si siederebbe in grembo. Cosa che sono felice lui non possa fare, in parte perché oddiolamiapancia e in parte perché i segni del passaggio del dottor Schüster sono ancora evidenti sul mio corpo. Ciò che non può evitare di fare, comunque, è portare con sé un enorme cesto di frutta. Naturalmente non lo porta lui, anche perché deve pesare un quintale, e naturalmente non lo porta nemmeno Bushido, perché figurarsi, motivo per il quale due poveri infermieri un po’ sfigati, di cui uno con pancetta che tende il camice fino a sollevarlo e scoprire un po’ i fianchi, sono stati reclutati ad uso e consumo della sua tranquillità, e nel momento in cui lui fa il suo ingresso in questa stanza loro lo seguono con aria mesta, posano il cesto sul mio comodino e poi escono borbottando che la loro laurea non doveva servire a questo.
- Bill. – gli sorrido io, - Ma cos’è questa roba?
- Frutta. – risponde lui, annuendo compitamente ed aspettando che Bushido gli avvicini la sedia di plastica al mio letto per sedersi compostamente, la schiena dritta e le mani in grembo. – Mi hanno detto che fa bene.
- Ti hanno detto, eh? – rido io, e non appena lo faccio il dolore mi scoppia dentro così forte e improvviso da costringermi a piegarmi in due. Non riesco nemmeno a lamentarmi, ho il terrore che qualsiasi suono esca dalla mia bocca lo renda più forte, e voglio soltanto che smetta. Bill mi si piega addosso, poggiandomi una mano sulla spalla.
- Dada, stai bene? – chiede con aria preoccupata.
Mi volto a guardarlo per un secondo, e tra le lacrime – lacrime di dolore: di nuovo – riesco a vedere che sono pieni di lacrime anche i suoi occhi. Cerco di riprendermi, mi metto dritto, appoggio la schiena al cuscino sollevato dietro di me e respiro lentamente.
- Starò meglio quando le ferite si saranno richiuse, suppongo. – rispondo in un borbottio basso. Bill si morde un labbro, stringendosi nelle spalle.
- Che cosa ti hanno fatto? – mi chiede. Io esito, lancio un’occhiata a Bushido. Lui si schiarisce la voce e poggia entrambe le mani sulle spalle di Bill, in un gesto collaudato e paziente che mi fa inarcare un sopracciglio. Quant’è che ho dormito? Come ha detto il dottor Schüster? E cosa mi sono perso, nel mentre?
- Bill, forse è meglio se esci un attimo. – dice quindi. Bill si gira a guardarlo, oltraggiato.
- Cosa? – strilla, - No! Non esco affatto, stiamo parlando di David, qui, voglio sapere che gli è successo!
Mi allungo a stringere una delle sue mani fra le mie, e lui torna immediatamente a posarmi gli occhi addosso. Ha le sopracciglia inarcate verso il basso e l’espressione di chi sa già di dover cedere.
- Ti racconterò tutto dopo, Bill. – dico condiscendente, - Ora lasciaci da soli per un paio di minuti, vuoi?
Non vuole, naturalmente, ma lo fa. Se ho capito cosa sta succedendo – e l’ho capito – è solo una di tante cose che, per certi versi, riprenderanno a funzionare come un meccanismo ben oliato. La situazione è quella che è, e tutti noi non possiamo che affidarci alle mani di quest’uomo morto e risorto e sperare che non gli si aprano delle stimmate enormi sui palmi mentre noi cerchiamo di trovare posto per tutti fra le sue dita lunghe e proporzionate.
Sono ancora convinto che ci sia del viagra nella mia flebo.
Quando restiamo soli, l’atmosfera è tesa. Lui sa che ho qualcosa da dirgli, qualcosa di grave, e sta pensando che la situazione gli sembra già abbastanza brutta adesso che non la sa, perciò si chiede se sia effettivamente opportuno peggiorarla ulteriormente aggiungendo dettagli al quadro. Io, però, sono un manager. Sono uno che risolve i problemi. I dettagli sono il mio pane quotidiano. Quando Bushido è morto, si è affidato a me perché non poteva morire da solo. Ora gli toccherà fare lo stesso, se non vuole che capiti qualcosa di peggio.
- Chi è il medico? – gli chiedo quindi, - Lo conosci?
- Ma di chi parliamo? – chiede lui, preso alla sprovvista, spalancando gli occhi e sedendosi dove stava seduto Bill fino a poco fa, - Neuer?
- No. – rispondo io, scuotendo il capo, - Schüster. È lui che mi ha visitato quando mi sono svegliato.
- Ah. – annuisce Bushido, - È uno bravo. Lo conosco poco, ma sembra affidabile. Perché me lo chiedi?
- Perché voglio sposarlo. – annuisco compitamente, - È bellissimo. Dammelo. Me lo sono meritato. Sarà il mio indennizzo per essermi quasi fatto sventrare a causa tua.
Bushido ride di gusto, mentre io mi limito ad un sorriso divertito, visto che ho scoperto che da ora fino a chissà quando le risate rientreranno nella lunga lista di cose che non potrò fare.
- Mi dispiace. – dice quindi. Sta ancora sorridendo ed è bello come il sole. Io palesemente non potrò farcela a lungo. Medito di far causa all’ospedale. – Non ho mai voluto che ti succedesse una cosa simile.
- Ma sei venuto a salvarmi. – dico quindi, sistemandomi meglio contro il cuscino.
Lui mi lancia un’occhiata intensa, facendosi subito serio.
- Non ti avrei mai lasciato lì. Se anche mi fossi morto fra le braccia per strada— Non voglio nemmeno pensarci. Ti avrei portato in ospedale comunque e lo avrei messo sottosopra finché non ti avessero ricoverato.
Sorrido appena, piegando un po’ il capo.
- Anche se ciò avrebbe significato far ricoverare un cadavere? – chiedo a bassa voce.
- Sarebbe stato un cadavere a cui tenevo. – chiude il discorso lui. Io sorrido ancora.
- Grazie. Ma spero tu abbia pensato alle guardie del corpo da lasciarmi, perché ora che sono vivo—
- C’erano anche mentre eri morto. – mi interrompe lui. Alle volte, quando parlo con Bushido mi rendo conto che, quando siamo insieme, usiamo i termini vivo e morto con una naturalezza disturbante, come se entrambi stessero ad indicare due condizioni passeggere e semplicemente reversibili. Questa cosa mi dà i brividi. Per un lungo periodo, non sono riuscito a capire perché Bushido riuscisse ad usare espressioni tipo “quando sono morto” invece di “quando ho finto di morire”. Adesso che, fosse anche solo per una settimana, sono morto anch’io, riesco a capirlo meglio. Alla fine, l’unica conseguenza che ha la morte sul morto è quella di togliergli pezzi di vita. E questo è capitato a Bushido come pure a me, anche se nessuno di noi due è morto davvero, nel senso definitivo del termine.
Scivolo un po’ lungo il materasso, digrignando i denti quando sento i punti tirare. Devono essere un’infinità. Dio mio, la mia pancia sarà sfigurata per sempre. La mia bellissima, piattissima pancia. Sto soffrendo così tanto che il solo pensiero che Bushido possa rifiutarsi di regalarmi il dottor Schüster per il mio compleanno mi sembra un’eresia, un’ingiustizia bella e buona. Guarda cosa hai fatto alla mia pancia, Bushido. Dammi la mia ricompensa.
Lui mi aiuta, comunque. Scosta le lenzuola dal mio corpo e le tiene sollevate mentre io sollevo il camicione patendo le pene dell’inferno. Finalmente riesco a vedere quello che mi hanno scritto addosso.
Bushido schiude le labbra e spalanca gli occhi. Allunga una mano e sfiora i contorni delle lettere con la punta di un dito, così lieve che nemmeno lo sento. È come se si rendesse conto di quello che è successo per la prima volta, e probabilmente è davvero così dato che, per come mi avevano aperto e per tutto il sangue che dovevo avere addosso, non doveva essere semplice capire che forma avessero le mie ferite quando mi hanno trovato.
- Vendetta. – mormora pianissimo, deglutendo a fatica. Poi mi solleva gli occhi addosso, e il suo sguardo è pieno di timore. – Tu sai chi è stato. – dice, e gli trema la voce.
Io annuisco e inspiro. Moderatamente, però, sennò fa male.
- Nyze. – dico in un soffio, e vedo gli occhi di Bushido tornare indietro di mesi mentre ripensa all’etichetta che ha lasciato sprofondare nel nulla e agli uomini che ha perso e a Nyze, Nyze soprattutto, che non riusciva ad arrendersi al fatto che l’Ersguterjunge sarebbe affondata assieme al suo signore e padrone, e che ha piantato su un casino epocale prima, durante e dopo essersene andato. E mentre Bushido ricostruisce pezzi di storia e si rende conto di ciò che ci aspetta, io mi dico per un attimo che sono quasi morto per una lite fra rapper e poi mi correggo da solo. No, io non sono quasi morto per una lite fra rapper, io sono morto per una guerra del ghetto. Perché in qualche modo assurdo il ghetto è casa mia, anche se non ci ho mai messo piede. Perché Bushido l’ha portato di forza nella mia vita, perché qui non stiamo parlando di due rapper che si insultano a caso, qui stiamo parlando di fratelli che fanno giuramenti e si uniscono e fanno fronte comune contro sa Dio solo cosa, perché il problema del rap è che per farlo bene devi essere arrabbiato, ma arrabbiato davvero, e questa gente, in un modo o nell’altro, lo è, lo è tutta. E io non ho rischiato la vita per un’etichetta, ma per una famiglia. Una famiglia spaccata i cui membri adesso sono sparsi in giro per la città, e Nyze ne faceva parte, ma ora vuole solo distruggerla. E Dio solo sa fino a che punto.
Bushido deglutisce, annuendo lentamente. Ha le mani posate sulle ginocchia, adesso, e sono talmente in tensione che posso vedere le linee di tutti i tendini. I polpastrelli sono bianchi, tanta è la forza con cui li affonda contro il tessuto ruvido e spesso dei jeans scuri.
- Ho capito. – dice quindi, alzandosi in piedi. – Non preoccuparti di niente. Pensa solo a rimetterti. Riusciremo a gestire la cosa in maniera congrua.
- Qual è la maniera congrua? – chiedo stancamente, abbassando nuovamente il camicione e sistemandomi addosso il lenzuolo, - Rapirai uno dei suoi e gli scriverai addosso “marameo”?
Bushido ride un po’, grattandosi nervosamente la nuca.
- No, penso che—
- Non fare niente finché non sarò uscito da qui. – dico serio, - Aspettami, prima di prendere una qualsiasi decisione. Non fare niente di avventato.
La sua espressione un po’ stupita dall’interruzione si trasforma in un sorriso carico di tenerezza, mentre si avvicina e mi accarezza con una mano bene aperta la testa e il collo, prima di chinarsi a lasciarmi un bacio sulla fronte.
- Stavo appunto dicendo: “penso che aspetterò che tu sia uscito da qui”. E poi vedremo insieme, Jost. Per risolvere i problemi mi serve uno che sia capace di farlo.
Sorrido, tirando su un angolo della bocca con aria spavalda.
- E io, sfigurato o no, sono capace eccome.
- Appunto. – ride ancora lui. Poi mi volta le spalle, salutandomi con un cenno della mano. – Non addormentarti subito. – mi dice quindi, e io non capisco che intenda fino a quando, un paio di minuti dopo, il dottor Schüster mi raggiunge in camera.
- Il signor Ferchichi mi ha detto che aveva bisogno di me. – dice con un sorriso affabile, avvicinandosi e maneggiandomi con premura. – Sente fastidio da qualche parte?
Sorrido con estrema soddisfazione, mentre mi appresto a spiegargli esattamente dove il fastidio sia più pressante e come aiutarmi ad estinguerlo.

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Will You Release Me With A Kiss?

di lisachan
Ricordo di aver già vissuto una situazione simile, anche se a parti invertite. Stiamo parlando di molti anni fa, di un periodo in cui io e Bill stavamo insieme da forse un annetto e non c’erano nubi sul nostro orizzonte. O forse c’erano già e io mi rifiutavo di prenderle in considerazione. Sì, sicuramente era così. E tra l’altro è terribile ripensare già a quel periodo come “molti anni fa”. Faccio una gran fatica a star dietro allo scorrere del tempo, da quando sono morto. Probabilmente perché per i morti il tempo non ha un valore granché fondamentale, ed io, chiuso nella mia bara di sole e mare a Miami, non lo sentivo scorrermi addosso. Vivevo in un presente immutabile in cui ogni giorno si susseguiva al precedente per inerzia, senza cambiamenti di alcun tipo se non in dettagli insignificanti che dimenticavo subito dopo aver notato, sempre che riuscissi a notarli.
Comunque, erano molti anni fa, ed io andavo spesso a trovare Bill nell’appartamento che condivideva con suo fratello. Fu durante una di quelle occasioni che Bill si decise una volta per tutte a comprare un appartamento tutto per sé, anche se alla fine non ci ha trascorso tanto tempo, finché sono stato in vita. In ogni caso, allora era molto facile osservare me e Tom mentre ci scrutavamo dubbiosi sulla porta, lui dall’interno dell’appartamento, io dal pianerottolo. Era divertente, perché Tom era molto più piccolo ed era molto più facile e più divertente prenderlo in giro. Da allora sono cambiate troppe cose, anche – assurdamente – nel rapporto fra me e lui, e non è più così semplice fronteggiare i suoi occhi limpidi e sinceri. Per qualche strano motivo, è ancora meno semplice adesso che sul pianerottolo c’è lui, e io invece sono al sicuro dentro casa mia.
- Ho portato il cambio per domani. – dice Tom, dubbioso, e mentre lo dice io so che si sta ripetendo per la cinquecentesima volta da quando questa routine è cominciata che tutto ciò non ha senso. E io so che ha ragione, e so anche che non dovrei vivere in maniera tanto comoda la permanenza di Bill in questa casa, che si protrae ormai da un paio di settimane, soprattutto perché peraltro si basa su regole ridicole e assurde, come ad esempio il fatto che Karima non debba lavargli la biancheria perché “tanto è una cosa provvisoria”, e quindi Bill abbia bisogno del cambio portatogli da suo fratello ogni giorno. Tuttavia, è una routine alla quale ho fatto in fretta ad abituarmi. Perché sono un uomo molto più debole di quanto non abbia mai pensato.
- Grazie. – rispondo annuendo e recuperando il sacchetto di plastica dalle sue mani. – Vuoi entrare? – chiedo risollevando lo sguardo sul vuoto, perché mentre io controllavo che dentro il sacchetto ci fosse tutto ciò di cui Bill aveva bisogno Tom, sottile com’è, è scivolato attraverso la fessura della porta e s’è già introdotto in casa mia senza che io avessi bisogno di invitarlo. – Tom? – domando chiudendo la porta e inarcando un sopracciglio, - Cosa stai facendo?
Lui si guarda intorno come se non conoscesse questa casa a memoria, e scruta ogni angolo con attenzione, neanche si aspettasse di veder saltare fuori assassini ninja mimetizzati con la carta da parati da dietro ogni vaso.
- Controllo che tu tenga mio fratello in un ambiente consono alla sua persona. – risponde lui, gettandosi dietro le spalle le treccine nere.
- E ti sembra consono, quest’ambiente? – chiedo, posando il sacchetto su un divano e incrociando le braccia sul petto. Tom si lascia andare ad un ghigno che ho imparato a vedergli addosso solo di recente, e del quale inizialmente non conoscevo il significato. Figurarsi, sono andato fino da Jost in clinica, disturbandolo mentre, come mi ha detto, “si faceva visitare dal dottor Schüster” (qualcosa che penso non mi perdonerà mai. Più ancora dell’essere la causa del suo sventramento, lui mi odierà per sempre perché ho interrotto la sua sessione pomeridiana di petting selvaggio col suo medico curante. E questo è l’uomo che ci gestisce. E ho detto tutto), e gli ho chiesto che cosa diavolo stesse ad indicare questo sorriso un po’ sghembo ed esageratamente indisponente, e lui ha sorriso trionfante ed ha detto “è tornato?”, e poi mi ha spiegato che si tratta del sorriso che affiora spontaneamente sulle labbra di Tom quando sta pensando che in ogni caso, nella lotta per il cuore del proprio fratello, fra tutti i partecipanti ha vinto ancora una volta lui. E Jost ha riso, spiegandomelo, perché è la prima volta che io ho a che fare coi gemelli Kaulitz come gemelli, e non come fratelli in rotta perché uno dei due ha deciso di sposarsi contro il parere dell’altro. Per dire.
Questa cosa è tragicamente vera, e devo dire che se c’è una cosa che mi dà veramente sui nervi, al momento, del tutto irrazionalmente, è la consapevolezza che non esista essere umano che abbia influenza sul pensiero di Bill più di suo fratello, ora come ora. Naturalmente, Bill fa sempre di testa sua, come ha fatto per ogni minuto della propria esistenza da quando è nato, ma le parole di suo fratello molto spesso bastano a cambiargli l’umore o a condizionarlo a sufficienza da fargli cambiare idea su certe cose. Per dire, io so che se Tom avesse approvato incondizionatamente la permanenza di Bill in questa casa, Bill non avrebbe avuto alcun problema a stabilirvisi in maniera un po’ più onesta, magari continuando a dormire nella stanza degli ospiti, ovviamente, ma facendosi lavare la roba sporca da Karima, quantomeno. E invece no, Tom non gradisce, quindi Bill resta qui lo stesso perché è quello che vuole, o si rende conto che è la cosa migliore da fare, ma lo fa cercando di dargli l’impressione di essere sempre sul punto di andarsene.
Probabilmente è così solo perché si sono persi per tanto di quel tempo che, ora che si sono ritrovati, Bill si farà strappare il cuore dal petto prima di rassegnarsi a perderlo di nuovo, e quindi magari è una cosa provvisoria. Peraltro, so che non dovrei essere geloso di tutto questo, in nessun caso e in nessun senso, ma lo sono. Non posso dirlo a Bill, né a nessun altro, ma lo sono.
- Mio fratello? – chiede a un tratto lui, e sono sicuro che, per tutto il tempo, mentre io mi perdevo in questi pensieri molesti, è rimasto a guardarmi con quel ghigno insopportabile stampato sulla faccia. Ne sono sicuro anche perché poteva benissimo chiedermi di Bill, e invece mi ha chiesto di suo fratello, lo stronzetto indisponente. Cerco di ricordarmi che non posso prendere a sberle il suo bel visino da copertina di Bravo, e cerco di ribattere con un sorriso ugualmente odioso, tirando su solo un angolo della bocca.
- E se io non volessi lasciartelo vedere? – chiedo sfidandolo, ed è a quel punto, naturalmente, che Bill appare dietro le spalle di suo fratello, uscendo dal corridoio con un sorriso beato sulle labbra ed entrambe le mani sui fianchi.
- Da quando sono segregato? – chiede inarcando un sopracciglio. Karima sceglie quel momento per urlarmi che Skyline s’è introdotto in camera mia e ha sventrato a morsi il mio cuscino preferito. Ho capito di non essere stato un uomo buono, nella mia vita precedente, ma penso di aver già pagato per tutti i miei peccati. E invece no, sono lo zimbello del karma.
- Billi. – dice Tom, voltandosi a guardarlo. Nel movimento, il suo sorriso si addolcisce immediatamente, petali di rosa avvolgono la sua persona e una musica melensa si diffonde nell’ambiente.
- Tomi. – risponde lui, intrecciando virginalmente le dita sotto al mento e guardandolo con occhi colmi d’amore e gratitudine. Io mi appoggio con una mano allo schienale del divano e li osservo, trattenendo a stento i conati di vomito. Hanno dei momenti in cui diventano di un romanticismo esagerato, roba che uno poi non può neanche chiedersi perché le fangirl si facciano certe idee e le mettano pure su carta, perché la risposta è lì, davanti ai suoi occhi, palese come il sole a mezzogiorno. – Prego, accomodati. – dice quindi. Le loro mani si stringono e restano strette mentre si siedono entrambi sul divano, proprio sotto i miei occhi, e vorrei alzare un dito e dire che questa è ancora casa mia, ma Bill si volta verso il corridoio e strilla a Karima di portare del tè, ed io sento a pelle la consapevolezza che le mie convinzioni non sono altro che menzogne: questa casa non è più mia da quando Bill ne ha preso possesso. Devo rivedere le regole di questo gioco, perché così come sono non mi piacciono.
- Come stai? – chiede Tom, i pollici che accarezzano in gesti circolari il dorso delle mani di Bill. Sta bene, Tom, sta bene. Viene servito, riverito e protetto ventiquattro ore su ventiquattro, come vuoi che stia?
- Così così. – risponde naturalmente lui, con un gran sospiro, - Sono molto afflitto, Tomi.
- Bushido non ti tratta bene? – chiede subito lui, premuroso.
- Bushido è qui e vi osserva. Ma soprattutto vi ascolta. – mi intrometto io, ma vengo ignorato, cosa che mi fa dubitare di ciò che ho detto. Forse Bushido non è davvero qui, forse sono ancora morto e sono un fantasma, e sto raccontando questa storia sotto forma di spirito incorporeo che può vedere e sentire tutto ma non può essere visto né sentito da nessuno.
Mi fermo un attimo. Mi osservo nell’enorme specchio parietale di fronte a me. Che sciocchezze vado cianciando?
- No, Anis mi tratta bene. – risponde Bill, abbassando teatralmente lo sguardo. Io lascio perdere le rimostranze, vedo Karima apparire col tè e ne sono felice, fino a quando non noto che ci sono solo due tazze sul vassoio. Sono annichilito da quanto sta accadendo. La mia casa si ribella contro di me, il mio cane mangia il mio giaciglio, la mia cuoca mi affama, la mia donna mi ignora e il di lei fratello mi massacra dieci a zero in casa mia. Miami ritorna improvvisamente un’ipotesi plausibile. – Sono angosciato da questa storia. David è ancora in ospedale, sai?
- Sì, sono stato a trovarlo ieri. – ride Tom, - Non preoccuparti troppo per lui, si sta dando molto da fare per tornare in forma, se capisci cosa intendo. – È evidente che perfino Jost, un uomo che è stato sventrato ed è quasi morto due settimane fa, si diverte più di quanto non mi diverta io. Questa cosa è estremamente ingiusta. – A parte questo, Bill, credo che non sia più il caso, per te, di restare qui. – dice quindi, risoluto, allungandosi a recuperare la propria tazza di tè. Io aggrotto le sopracciglia. Non dico una parola ma sento il bisogno quasi fisico di buttarlo fuori di casa. Bill, però, mi lancia un’occhiata repentina e profonda, di quelle con le quali a volte sembra studiarmi. Prende un paio di zollette di zucchero e le immerge nel tè bollente, lo mescola meticolosamente e poi prende la tazza con tutto il piattino, e me la passa con un mezzo sorriso. Mi basta questo per calmarmi. Mi basta davvero, solo sapere che ogni tanto mi guarda ed è consapevole del fatto che io sono qui, che c’è anche lui, che siamo qui insieme, adesso. Mi basta così tanto che a volte è quasi troppo.
- Non è ancora sicuro. – dice Bill, sorridendo teneramente, tornando a guardare suo fratello. – Preferirei restare qui ancora un po’, per ogni evenienza. Solo qualche giorno ancora. Almeno finché David non esce dalla clinica.
Tom rotea gli occhi, alzandosi in piedi.
- Ti rendi conto di quanto è assurdo? – dice quindi, guardandolo dall’alto in basso. Bill non risponde, perché sa che suo fratello ha ragione. Ciò che Tom sta dicendo, implicitamente, è che è ormai chiaro al mondo intero che Bill non corre alcun pericolo, ma non ha la minima intenzione di andarsene. Non so se voglia restare semplicemente perché vuole farlo o perché ha l’impressione che se mollerà anche solo di qualche centimetro, se retrocederà di un passo soltanto dal ruolo che ha silenziosamente accettato di ricoprire ancora una volta restando al mio fianco in questa situazione complicata, allora gli scivolerà tutto via dalle mani. E sospetto che la mia principessa abbia qualche problema molto serio con tutto ciò che le scivola via dalle mani senza il suo esplicito consenso.
- Tomi, voglio solo— - prova a ribattere, ma suo fratello non gliene lascia il tempo. Disperde le sue parole nell’aria agitando una mano con fare disinteressato e dirigendosi a grandi passi verso la porta. Bill si alza in piedi e gli va dietro, le sopracciglia incurvate verso il basso e un accenno di broncio già nascente sulle labbra.
Io sorseggio il mio tè con noncuranza, e lo faccio solo perché ancora non so che fra qualche secondo mi toccherà sputacchiarlo.
- Almeno combinaste qualcosa. – borbotta infatti Tom, guardandoci entrambi malissimo. Bill impallidisce e diventa bianco come un lenzuolo. Io, appunto, sputacchio il tè. – E invece niente, siete— siete quasi frustranti, nella vostra assurdità. Lo sareste, se me ne fregasse qualcosa di voi due come esseri coinvolti in una relazione interpersonale, dico. – sospira ancora, scuotendo il capo. – Va be’, come non detto. – dice quindi. Come non detto il cazzo, Tom. – Bill, - lo chiama, allungandosi a baciarlo su una guancia, - fatti sentire quando hai bisogno. A presto. – lo saluta, e poi esce, chiudendosi da sé la porta alle spalle. Ormai non ho più nemmeno diritto a buttare la gente fuori da casa mia. Si butta fuori da sola.
Quando restiamo soli, l’aria è così pesante che entrambi facciamo fatica a respirare. Lo facciamo in silenzio, inspirando boccate lunghe e lente. La sensazione di tensione che ci avvolge è così fisica che ho l’impressione di percepirla stringermi realmente all’altezza della gola. Bill si porta una mano al collo e lo massaggia un po’, come volesse liberarlo da qualcosa di troppo stretto che vi sta annodato attorno, e il mio cuore manca un battito.
Sento Karima entrare e portare via il vassoio con le tazze in perfetto silenzio, e poi uscire, lasciandoci nuovamente soli. Bill deve avere racimolato abbastanza coraggio, nel mentre, perché finalmente si volta a guardarmi. Ha le labbra piegate in un sorriso mesto e imbarazzato.
- Scusalo. – dice a bassa voce, stringendosi nelle spalle, - Non la sta prendendo bene.
- Già. – ridacchio nervosamente io, - L’ho notato. – e poi deglutisco a fatica, - Bill, lo sai che puoi andartene quando vuoi, vero?
Lui mi solleva addosso un paio d’occhi sgranati e un po’ smarriti, e per molti secondi non risponde perché non sa che cosa dirmi. Schiude le labbra, le muove un po’, cerca di modellare parole che abbiano senso, ma non ne trova. Perciò finisce per abbassare nuovamente lo sguardo e sorridere appena, massaggiandosi nervosamente la nuca.
- Penso che andrò di là ad ascoltare un po’ di musica. – conclude, passandomi accanto e scomparendo in corridoio. Io resto immobile fino a quando Karima non appare alle mie spalle chiedendomi se può procedere a rimpiazzare il cuscino in camera da letto o voglio prima dargli un’occhiata. A che dovrebbe servire dare un’occhiata ad un cuscino fatto a pezzi adesso, Karima?, vorrei chiederle. Qui nessuno mi interpella per le cose importanti, ma tutti hanno sempre pronta una qualche domanda sciocca da rifilarmi quando mi sento troppo ignorato, per farmi credere che in realtà non sia così.
Per un attimo, accarezzo l’idea di andare in camera di Bill, spegnere la musica e provare a fargli sentire quanto ci sono per davvero. Ma poi lascio perdere, e seguo Karima in camera da letto.
*
Io e Bill ci alziamo di buon mattino. Lo facciamo sempre e lo abbiamo sempre fatto, quando stavamo insieme. È una cosa buffa, perché sia io che lui, quando siamo da soli, siamo incredibilmente pigri. Mi capitava di chiamarlo e trovarlo ancora assonnato alle undici del mattino, quando non si fermava a dormire da me e per un motivo o per l’altro era costretto a tornarsene al proprio appartamento. E nonostante questo, quando poi la sera successiva o due sere dopo tornava a dormire qui alla villa, al mattino avevamo entrambi già gli occhi spalancati per le otto massimo, senza che dovesse tirarci su di forza la sveglia, o Karima. Non so perché succedesse, forse il pensiero di essere insieme e dormire quando avremmo potuto fare altro – una qualsiasi altra cosa – era abbastanza per costringerci a spalancare gli occhi, forse semplicemente era un’abitudine che avevamo preso per chissà che motivo, comunque accadeva sempre.
Accade anche oggi, com’è accaduto per ogni giorno durante le ultime settimane. Mi sveglio, mi metto in piedi, indosso la vestaglia ed esco in corridoio. Mi dirigo istantaneamente verso il bagno, ma quando sento la porta della stanza in cui dorme Bill aprirsi tiro dritto e mi infilo in cucina, così che possa andarci lui per primo. Karima mi attende con una tazzina di caffè fumante in mano, ed io l’accetto volentieri, ringraziandola con un cenno del capo.
- Quali sono i suoi programmi per oggi, signor Ferchichi? – chiede lei con aria austera. Come al solito, non parla come se riconoscesse Bill come parte integrante di questa casa. Si è inserita alla perfezione fra le regole sbilenche che Bill ha stabilito per questa convivenza, perciò nella sua visione delle cose Bill è solo un ospite, un ospite che con i miei normali programmi quotidiani non ha niente a che fare, come fosse un cugino venuto a passare qualche settimana di vacanza a casa mia e che approfitta di trovarsi qui per visitare tutta Berlino. Qualcuno, insomma, i cui programmi non debbano coincidere con i miei come invece i programmi di Bill, in barba a tutte le regole, finiscono spesso per fare.
- Quando saremo pronti, - rispondo, usando volutamente il plurale perché lei capisca che Bill resterà con me, - andremo a trovare David in clinica. Passeremo lì qualche ora, non credo che sia il caso di preparare il pranzo.
Karima annuisce, prendendo nota del fatto senza fare una piega.
- Allora, - dice, - se il signor Ferchichi non ha più bisogno di me, io comincerei a rassettare il piano di sopra.
Io annuisco, e lei prepara la colazione per Bill – una tazza di latte bianco e cereali – prima di uscire dalla cucina ed andare verso lo stanzino per recuperare ciò che le serve.
La principessa arriva pochi minuti dopo, i capelli tutti scompigliati sulla fronte e la testa un po’ ciondolante, ma i suoi occhi sono svegli e attenti, e so che se cominciassi a parlargli all’improvviso di qualcosa di fondamentale riuscirebbe a seguirmi senza la minima difficoltà. Lo lascio in pace, comunque. Sa già che dopo colazione dovrà prepararsi e poi seguirmi da David, non è necessario che io glielo ripeta adesso, perciò mi limito a sorridergli e ad augurargli il buongiorno. Lui ricambia sia il sorriso che il buongiorno, e poi affonda il naso nel suo latte e cereali, concentrandosi solo ed esclusivamente su quello con una devozione quasi commovente.
Io giro sui tacchi e vado in bagno, cercando di fare mente locale sulla situazione. L’ultima volta che siamo stati da David, abbiamo discusso a lungo sulla prima possibilità che avevamo, ossia quella di vuotare il sacco con la polizia. Per molti sarebbe stata non solo la cosa più ovvia, ma anche l’unica da fare davvero. Correre alla prima stazione di polizia – ma non due settimane dopo, il mattino dopo – e denunciare l’accaduto. Per molte ragioni, per noi non poteva essere così.
David mi ha chiesto subito se al magazzino fossero rimaste tracce di quanto accaduto. Gli ho risposto di no, naturalmente. Non sapevamo se se la sarebbe cavata e non potevamo correre il rischio di restare con un cadavere sfregiato e zero testimoni su cui fare affidamento. Lui ha annuito, comprendendo perfettamente. La cosa mi ha un po’ turbato, ma immagino che quando riesci a manipolare l’universo per fargli credere che un uomo sia morto quando invece così non è, più o meno sei pronto a manipolarlo ancora per fargli credere qualsiasi altra cosa, perciò in quel momento Jost stava semplicemente prendendo informazioni in vista del proprio prossimo compito. Qualcosa che ho sempre ammirato in lui, peraltro.
In ogni caso, tutto ciò che sappiamo è che Nyze ha voluto mandarci un messaggio. Gli sono già andate storte le cose quando David è sopravvissuto – cosa che credo non avesse previsto, e d’altronde quell’enorme vendetta inciso in profondità nel ventre di David sarebbe bastato a indirizzarmi verso la risposta esatta anche se lui, risvegliandosi, non me l’avesse detta a viva voce – e di questo dobbiamo considerarci fortunati, ma è tutto ciò che abbiamo. Non sappiamo chi sia la gente che ha mandato, dove l’abbia pescata, ed andare a cercare informazioni a Tempelhof adesso sarebbe una condanna a morte. David non saprebbe riconoscere chi l’ha attaccato neanche sotto tortura, naturalmente, e quando ho preso contatto con qualche amico dei tempi andati per chiedere discretamente in giro se Nyze avesse un alibi per quella serata è spuntato fuori che sì, ce l’aveva, e che dal momento che stava cantando ad un concerto di gruppo con l’Aggro Berlin ci sarebbero stati non solo fior di testimoni, ma anche biglietti pagati pronti a dimostrare che lui era davvero lì quella sera.
“Con la credibilità che ho,” ha aggiunto David, lo sguardo basso e venato di rabbia, “non posso pretendere che qualcuno si basi sulla mia testimonianza di quella notte. Tutti sanno in che rapporti siamo io e te, se facessi il nome di Nyze potrebbero pensare ad una montatura con la complicità di una clinica privata pagata fior di quattrini, solo per mettere in cattiva luce un rivale.”
Ho concordato, immaginando che se era ormai chiaro per tutti che David fosse stato capace di farmi sparire per quasi un anno agli occhi del mondo, chiunque l’avrebbe creduto perfettamente in grado anche di farsi apparire degli sfregi sospetti sullo stomaco, all’occorrenza. Non che la cosa avesse un vero senso, ma si sa come funzionano gli scandali, e io lo so meglio di tutti perché quando ero ancora un rapper all’apice del proprio successo gli scandali li cavalcavo tutti come le onde su una tavola da surf. Queste situazioni ci mettono pochissimo a diventare televisive, soprattutto nel nostro mondo, ed una volta che lo diventano è la fine, perché alle persone piacciono le spiegazioni semplici, vogliono un colpevole che sia facile da individuare, possibilmente il più debole, quello con le spalle più fragili e tanti, tanti motivi per cui essere disprezzato, ed è meglio tenerci il più lontano possibile da una prospettiva del genere, perché ho idea che la situazione ci sfuggirebbe di mano molto facilmente. E non è qualcosa che possiamo permetterci, ora come ora.
Il discorso s’è chiuso con una serie di puntini di sospensione, perché il dottor Schüster è entrato in camera ed ha avvertito giovialmente David di prepararsi per il suo trattamento quotidiano a base di creme ed unguenti lenitivi, e a quel punto David ci ha buttato fuori col desiderio di non vedere più i nostri brutti musi per almeno un paio di giorni, motivo per cui io e Bill, ridendo divertiti, siamo usciti ed abbiamo stabilito di lasciargli qualche giorno per riposare.
Bill è estremamente preoccupato per David, anche ora che è fuori pericolo. Fosse per lui, gli risparmierebbe anche queste visite estemporanee che ogni tanto gli facciamo per discutere la situazione, ma sa bene non solo che la situazione va discussa, ma anche che David, nonostante quanto si lagni, desidera essere informato su ogni svolta, ogni particolare ed ogni cosa che decidiamo di fare. Posso capirlo, peraltro: se io e Bill siamo tanto arrabbiati per ciò che gli è successo, posso solo immaginare quanto debba esserlo lui stesso.
Mi lavo e mi vesto piuttosto velocemente. So che Bill si prenderà più tempo di quanto già usualmente non faccia perché ci tiene ad essere perfetto, quando David poserà gli occhi su di lui. Non vuole dargli più preoccupazioni di quante ne abbia già, dice, e a me viene un po’ da sorridere perché se David si preoccupa per Bill non sarà certo un filo di trucco in più a dargli motivo di smettere. Alle volte Bill si perde del tutto nel provare in ogni modo a fare ammenda per la grave colpa che s’è addossato nascendo gay e destinato a innamorarsi di me, solo che non capisce che non sono colpe davvero, e che non c’è modo per cui potrebbe farsi perdonare per essere semplicemente com’è. E siccome anche lui, a qualche livello inconscio dentro di sé, lo capisce, non riesce a trovare il modo corretto per porgere le proprie scuse, e lo fa nei modi più disparati. Offrendomi il proprio tè per non farmi sentire invisibile, ad esempio. O truccandosi come dovesse diventare la prova vivente dell’esistenza dell’orgoglio gay quando va a trovare David. Non ne sono sicuro, ma credo che ci sia fra loro un qualche discorso sospeso speciale su questa questione dell’omosessualità. La trovo una cosa divertentissima.
Bill, come preventivato, è pronto solo tre quarti d’ora abbondanti dopo. È splendido, avvolto in una felpa sottilissima con un cappuccio enorme che gli cade sulla testa e attorno al viso come un velo. Gli occhiali da sole a mascherina coprono gli occhi il cui trucco sgargiante ed eccessivo sono appena riuscito ad intravedere, ed è, come al solito, talmente pieno di gioielli addosso che tintinna ad ogni passo. Conto almeno tre collane di diversa lunghezza sovrapposte e qualcosa come sei bracciali per polso. Dovrei trovarlo ridicolo, e in ogni caso dovrebbe essere quanto di più lontano possa esistere dalla mia idea di bellezza. Lo è, in realtà. Eppure lo guardo e mi manca il fiato, e quando lo vedo lanciarmi un’occhiata da dietro le lenti scure mi precipito ad aprirgli la portiera della macchina.
Lui inarca un sopracciglio che fa capolino da sopra la montatura nera, e le sue labbra si piegano appena in un mezzo sorriso divertito.
- Non devi farlo, sai? – mi dice, sedendosi comunque al proprio posto. Io non rispondo subito. Aspetto di aver fatto nuovamente il giro della macchina ed essermi seduto al suo fianco. Poso le mani sul volante e guardo dritto davanti a me mentre il cancello automatico in fondo al garage si apre.
- Tu non devi davvero restare a casa mia. – ribatto. Lo sento tendersi tutto accanto a me, ma dura solo per un attimo. Poi si scioglie in un sorriso intenerito, me lo sento addosso, e so che sa dove voglio andare a parare.
- Già. – risponde quindi. Si sistema sul sedile e, nello spostarsi, si avvicina impercettibilmente. Ogni volta che cambio marcia, le nocche della mia mano sfiorano appena il suo ginocchio. Non diciamo altro per tutto il tragitto fino alla clinica, ma d’altronde non ne sentiamo il bisogno, per cui va bene così.
*
Quando arriviamo, David e il dottor Schüster stanno pomiciando allegramente, ma non in modo normale, nel modo in cui ti aspetti che un medico e un paziente possano pomiciare – se è lecito aspettarsi che un medico e un paziente pomicino – col paziente steso sulla propria branda e il medico chinato premurosamente sulle sue labbra, no: David si è alzato, portando con sé la sua flebo con tutta l’asta come fosse un bastone da passeggio, ed è arrivato fino al davanzale della finestra in fondo alla stanza, sul quale s’è appoggiato con una posa molto tragica da diva del cinema muto – ogni tanto mi basta guardare lui per capire che Bill non avrebbe potuto essere diverso da com’è nemmeno in un universo parallelo – e addossato al quale ha probabilmente aspettato che il dottor Schüster lo raggiungesse guardandolo con aria severa ma al contempo indulgente, rimproverandolo perché tornasse a letto, salvo poi avventarsi su di lui dimenticando che quest’uomo meno di tre settimane fa è stato sventrato ed avrebbe bisogno di molte cose, ma decisamente non del proprio medico che lo ribalta e lo denuda di fronte alla finestra per scoparselo in favore di luce naturale, che gli fa risaltare l’incarnato.
Bill, al mio fianco, stringe convulsamente le mani attorno all’enorme mazzo di girasoli e gerbere che ha voluto fermarsi a comprare mentre eravamo per strada, e lancia un urletto fra il pudico e il sorpreso, sollevando il mazzo stesso fino a coprirsi metà del viso, lasciando saggiamente scoperti gli occhi. Sollevo uno sguardo pietoso al cielo perché la teatralità è palesemente un vizio di famiglia, e lo faccio pensando che in realtà è molto teatrale in sé anche questo sguardo supplice che sto lanciando al paradiso, se c’è, perché mi venga in aiuto.
- Oh. – dice il dottor Schüster, allontanandosi da David come uno che non ha per niente voglia di allontanarsi dalla cosa con la quale stava intrattenendosi così piacevolmente. Il suo camice è aperto ed abbassato sulle spalle, e la maglietta verde che indossa al di sotto è sollevata fino al petto, e lascia scoperti sia la pancia piattissima che i pettorali prominenti, dai quali sporgono con aria quasi di sfida i capezzoli piccoli e appuntiti. Si risistema sommariamente, mentre David si stringe nel proprio pigiama e ci lancia un’occhiata estremamente disapprovante.
- Salve. – dico io, con un sorriso incoraggiante, agitando una mano nella loro direzione. Bill capisce che coprire tutta la metà inferiore del viso lasciando scoperta quella superiore non è un atteggiamento abbastanza pudico, e solleva ulteriormente le mani. I fiori frusciano nel movimento, e lui si stringe nelle spalle così tanto che diventa minuscolo, e al mio fianco com’è quasi scompare. – Non volevamo disturbare.
- Avreste potuto restarvene a casa, dunque, così non avreste corso il rischio di farlo. – sbotta Jost, roteando gli occhi e tornando velocemente a letto, trascinandosi dietro la flebo. Mi chiedo velocemente per quale motivo sto continuando a pagare questa stanza quando è evidente che quest’uomo resta qui non perché sta male ma perché vuole dei figli dal suo medico. Cosa che, per inciso, non riuscirebbe ad ottenere in modo naturale neppure in un milione di anni.
- Non avete disturbato. – sorride angelico Schüster, i lunghi capelli biondi che gli incorniciano il viso, - Avevo giusto finito di somministrare al signor Jost la sua terapia giornaliera.
Bill abbassa il mazzo di fiori, ma in compenso solleva un sopracciglio.
- Per via orale? – domanda curiosamente. Il dottor Schüster sorride con molta convinzione, mentre io cerco di non soffocare dalle risate e David si stampa sul viso un’espressione oltraggiata che, considerate le condizioni in cui l’abbiamo trovato, penso sia del tutto fuori luogo.
Alla fine, Schüster abbandona la stanza riuscendo in qualche modo a non perdere nemmeno un pizzico della sicurezza di sé che io e Bill, trovandolo a fare cose decisamente inopportune col proprio paziente, avremmo dovuto abbattere a sprangate con la nostra sola presenza. Così non è, brillava come il sole quando siamo entrati e continua a brillare quando esce. Posso quasi sentire l’eco di stuoli di infermiere che svengono aprendosi come il mar Rosso al suo passaggio. Quelle donne non sanno che in realtà è gay e il suo cuore selvaggio, sotto la pelle abbronzata, batte solo per David Jost. E forse è meglio che non lo sappiano.
Quando riporto lo sguardo su David, lui è seduto a gambe incrociate sul proprio letto e sul viso non porta più i segni della furia che l’ha preso poco fa, quando l’abbiamo interrotto. Sta abbracciando Bill e si sta lasciando sommergere dal solito flusso infinito di parole in libertà col quale la principessa usa stordirti – non solo lui, proprio in generale – quando non vuole essere rimproverata.
Io mi avvicino, trascinandomi dietro una sedia abbandonata in un angolo. La sedia già posizionata accanto al letto di David sarà quella sulla quale si accomoderà Bill quando avrà finito di sistemare il mazzo di fiori nel vaso che David ha sul comodino. Lo osservo togliere i fiori vecchi nonostante non siano nemmeno un po’ avvizziti e cambiare l’acqua facendo la spola fra il frigorifero e il bagno privato sulla parete opposta, e il suo viso in questo momento è il ritratto della serenità. Sa che non sta facendo qualcosa di particolarmente utile, ma almeno sta facendo qualcosa per David, e questo gli è sufficiente perché sente che a David fa piacere.
- Come stai? – chiedo a David quando i miei occhi riescono a staccarsi dalla figura di Bill.
- Benone! – risponde impulsivamente lui, e poi lo vedo accartocciarsi un po’ su se stesso, tossicchiando. – Cioè, abbastanza bene. Intendo, miglioro. Naturalmente miglioro. Ma non sono ancora—
- Non vuoi uscire da questo posto neanche se ti puntano una pistola alla tempia, sbaglio? – rido io, e David ride con me, grattandosi distrattamente la nuca.
- Sto tranquillo, qui. – risponde quindi, stringendosi nelle spalle, - Ho bisogno di stare un po’ tranquillo. E poi ho la certezza che, almeno finché starò chiuso qua dentro, tu non potrai fare niente di stupido, visto che mi hai dato la tua parola. Quindi è un accordo vantaggioso per tutti.
- Per la verità… - comincio io, cogliendo la palla al balzo, - è proprio per questo che siamo venuti a interrompere il tuo rituale di accoppiamento, oggi. Dobbiamo parlare.
Lui aggrotta le sopracciglia, sedendosi immediatamente in maniera più composta.
- È successo qualcosa? – chiede allarmato, mentre Bill si siede al proprio posto e giunge le mani in grembo.
- No. – scuoto il capo io, - È proprio questo il punto. Ormai sono passate quasi tre settimane, e non ci siamo mossi in nessuna direzione. C’è qualche possibilità che la gente che ti ha aggredito sia stata reclutata e Tempelhof, se non altro perché lì ce n’è di gente disposta a tutto per incasinarmi l’esistenza, ma se non ci muoviamo adesso rischiamo di perdere anche quel po’ di tracce che devono essere rimaste ancora in giro. Ora, non so bene chi potrei mandare a farsi un giro nel ghetto, quando si trattò della questione della mia morte mi hai detto che il giro se lo sono fatti Fler e Chakuza, ma con tutta la visibilità che hanno avuto recentemente non mi sembra il caso di mandarli in un posto dove rischierebbero grosso. – sospiro profondamente, non mancando di notare il brivido che ha percorso tutto il corpo sottile di Bill mentre parlavo della visibilità che Fler e Chakuza hanno acquistato con gli ultimi avvenimenti. – Qualche suggerimento? – concludo infine, tornando ad alzare lo sguardo su David.
Lui riflette per qualche secondo, incrociando le braccia sul petto. Il suo sguardo si fa cupo, visibilmente preoccupato, ed improvvisamente l’atmosfera della stanza, fino a qualche secondo fa gioviale e serena, si appesantisce tutta insieme, al punto che me la sento gravare addosso, tutta sulle mie spalle.
- Io penso—
- Se posso… - lo interrompe Bill, la voce bassa ma decisa. Entrambi ci voltiamo a guardarlo con più stupore di quanto il momento non lo richiederebbe. Io, soprattutto, dovrei essere abituato a vederlo intervenire in una discussione come questa, considerato il fatto che lo faceva spesso, quando stavamo insieme. A volte anche del tutto a sproposito. Ma da quel periodo sembrano passati decine d’anni, secoli addirittura, e quindi la sua voce suona quasi stonata, alle mie orecchie, come provenisse da un tempo diverso, arrivando al presente sotto forma di un’eco lontana e un po’ irreale. – Se ho capito bene, vorresti provare a capire qualcosa di quanto è accaduto, magari raccogliendo informazioni sparse per il ghetto, e poi… poi? Andare da Nyze e chiedergli conto e ragione di ciò che hai scoperto?
Scrollo appena le spalle, annuendo brevemente.
- Almeno così lo metteremmo alle strette. Sarebbe più facile cavargli qualcosa di bocca, se riuscissimo a trovare le informazioni giuste.
Bill riflette per qualche secondo. Non noto il sorriso divertito sulle labbra di David. Lo vedo, ma non ne prendo atto, non capisco che quest’uomo sa già cosa uscirà dalla bocca di Bill adesso e sta già ridendo in anticipo. Avendo tutte le ragioni per farlo, peraltro.
- Mi sembra una stronzata. – dice quindi Bill, e per poco non cado giù dalla sedia.
- Cosa…? – boccheggio, mentre David lascia andare la risata che ha trattenuto fino ad adesso. Bill si concede una smorfia, incrociando le braccia sul petto.
- Rifletti un attimo… - mi invita, pensieroso, - Se anche qualche informazione dovesse venire fuori, chi ti dice che sarebbe sufficiente a inchiodarlo? Ma poi… - sospira, - …due anni fa la situazione era diversa. Quello che abbiamo fatto Peter, Patrick ed io… quello che è successo quella notte non possiamo ripeterlo adesso. – abbassa un po’ lo sguardo, - Non puoi ripeterlo tu, è pericoloso, e… Dio, Anis, non sei stufo marcio di tutte queste pose da ghetto? – solleva nuovamente gli occhi, cercando i miei e trovandoli all’istante, - David è vivo per miracolo. Non posso dirti che… se fosse morto, ecco, forse anche io sarei con te, adesso, e vorrei soltanto vedere Nyze aperto in due come un vitello in macelleria, ma… - sospira ancora, socchiudendo gli occhi e stringendosi nelle spalle, - Se provassimo a lasciar perdere? Possiamo almeno provarci? A non sollevare un polverone ancora più grosso?
Schiudo le labbra, giusto perché mi pare il caso di informare la principessa che questa non è una questione che dipende solo da noi, che c’è un’altra parte, in gioco, e che quella parte potrebbe ritorcerci contro il nostro silenzio, attaccandoci di nuovo per indebolirci ancora di più, ma David mi interrompe prima ancora che io possa iniziare, schiarendosi la voce ed aspettando di avere la mia completa attenzione prima di cominciare a parlare.
- Io penso che Bill abbia ragione. – dice quindi, - Magari non funziona, e fra un paio di mesi verrà sventrato qualcun altro al posto mio… o magari tornano indietro e concludono il lavoro con me ricalcando quello che hanno già fatto. – aggiunge, deglutendo a fatica, - Ma magari invece va bene e riusciamo a smorzare la vicenda prima che diventi troppo ingombrante. Sai cosa vorrebbe dire? Vorrebbe dire lasciare in pace il mondo perché il suo tempo scorra come natura comanda, senza imporsi stile deus ex machina sull’universo, e vedere se si può tornare ad uno stato di normalità. – sorride con convinzione non simulata, quando mi appoggia una mano sulla spalla, - Il rischio è grosso, ma lo sarebbe anche mandando qualcuno dei ragazzi a Tempelhof. E le prospettive in questo secondo caso sono quelle di guerra aperta, mentre se funziona come suggerisce Bill… be’, la prospettiva è di pace. Non ti alletta l’idea?
Sospiro, già sconfitto in partenza. Il discorso di David fila, se non si tiene conto delle probabilità che avvenga una delle due cose piuttosto che un’altra. Probabilità che nel mondo del rap arrivi infine la pace e tutti ci si sieda attorno ad una tavola rotonda brindando alla nostra salute ed augurandoci vicendevolmente una vita prospera e serena? Zero. Probabilità che Nyze si senta incoraggiato a farmi trovare una testa di cavallo nel letto stasera appena mi ritiro a casa? Magari un numero piccolo, ma comunque superiore allo zero.
Lascio perdere, comunque, perché alla fine non è solo della mia vita che stiamo parlando qui, ma anche delle loro, e di quella di persone alle quali siamo tutti affezionati, e che nessuno di noi vuol vedere spegnersi sul pavimento sporco di un altro magazzino, che sia ora o fra un mese. Posso decidere di mettere a repentaglio la mia incolumità, se voglio, ma non posso giocare con quella degli altri. È per questo che sono morto due anni fa, perché mettere a rischio Bill non era un’opzione contemplabile. Quella deve essere la mia unica priorità, adesso, con la differenza che purtroppo le cose sono cambiate al punto che non si parla più solo di proteggere Bill, ma anche un sacco di altra gente. Non so se sarò in grado di proteggerli tutti— al diavolo. Certo che lo so. E certo che lo sarò.
Mentre usciamo dalla camera di David, una mezz’ora dopo, lasciandolo sul letto a stiracchiarsi fintamente sonnacchioso per darci ad intendere che si metterà immediatamente a dormire dopo che saremo andati via quando invece attenderà Schüster per due minuti e, quando non lo vedrà arrivare di sua spontanea iniziativa, si attaccherà al telecomando che ha appeso al letto premendo il tasto di chiamata finché il suo eroe non sarà giunto a salvarlo in risposta al suo grido d’aiuto, io penso che posso accettare questa improvvisa svolta nella politica interna del mio regno, ma forse non sono pronto ad accettarne le conseguenze. Prima fra tutte il fatto che, se voglio imporre la pace, non posso comportarmi come se fossi ancora in guerra.
E quindi, giocoforza, la principessa dovrà abbandonare la fortezza reale.
*
Faccio a pugni col pensiero per tutta la settimana successiva. Bill se ne accorge, naturalmente, perché è impossibile non vedere quanto diversamente mi comporto nei suoi confronti. Anche il fatto che cerchi il più possibile di non stare con lui nella stessa stanza, o il fatto che, alla fine, per la gioia di Karima i nostri programmi giornalieri abbiano cominciato a non coincidere più, se non nelle volte in cui siamo andati a trovare David, deve suggerirgli che qualcosa è cambiato, e quel qualcosa è il bisogno di trovarsi in questa casa. Riesco perfettamente ad immaginarmelo al mattino, nel bagno che mi sono premurato di lasciargli usare per primo come sempre, guardarsi nello specchio e chiedersi cosa stia facendo ancora in questa villa, perché non se ne sia tornato nel proprio appartamento, come sarebbe stato forse più giusto. Ieri Tom è venuto a trovarlo per portargli il cambio, e ha insistito ancora per convincerlo dell’opportunità di andare a stare altrove. “Puoi venire anche da me, se vuoi,” gli ha detto, mordicchiandosi incerto il labbro inferiore e giocando distrattamente col piercing, “Ma stare qui è… davvero poco conveniente, Bill, per un sacco di motivi.” E ha ragione, Tom, ha ragione da vendere.
Tanta ragione che ho visto Bill vacillare, nell’ascoltarlo, e non mi ha stupito. Così come non mi stupisce oggi entrare in camera sua e trovarlo con lo zainetto sul letto, intento a rassettare le proprie cose. Fuori dalla finestra, agosto finisce e si appresta a diventare settembre, e lo fa discretamente. Sembra che niente sia cambiato da quando Bill ha messo piede in questa casa, ma in realtà è passato un mese. Un mese sono un sacco di giorni. Non saprei dire se siano giorni persi.
- Bill? – lo chiamo piano. Lui non deve avermi sentito entrare, perché raddrizza la schiena all’improvviso e fa un passetto indietro mentre si volta a guardarmi, sussultando visibilmente.
- Sei tu. – dice con un piccolo sorriso, tornando a rilassarsi e lanciando un’occhiata imbarazzata al proprio zainetto. Probabilmente avrebbe preferito che non lo vedessi prepararlo. L’avrei preferito anch’io.
- Cosa fai? – gli chiedo, e glielo chiedo anche se lo so benissimo, perché spero che gli manchi il coraggio di rispondermi. Forse, se non sarà in grado di dirmi che va via, resterà. Penso a quanto mi sono lamentato, all’interno della mia testa, ovviamente, delle stupide regole che Bill aveva stabilito per far durare indeterminatamente questa convivenza, ed ora mi sento ridicolo nell’aggrapparmi a quelle stesse ridicole regole, arrivando a dirmi che forse se non sento qualcosa quella cosa non accadrà, pur di concedermi una speranza. Una sola. Di poterlo avere qui un po’ più a lungo. Fossero anche solo un paio di giorni.
Bill schiude le labbra, e vedo la fatica che fa nel provare a parlare. Lo capisco lì, che non vuole farlo davvero. Prima ancora che lui possa dirmi qualcosa a voce, il suo corpo mi sta già dicendo che se ci fosse anche solo un altro motivo per cui restare, resterebbe, perché i motivi che ha utilizzato fino ad oggi hanno perso validità giorno dopo giorno, e lui ha fatto di tutto per rimanere attaccato ai fili sottilissimi che erano diventati, ma ormai deve mollare la presa. E che se voglio che resti, devo dargli un motivo nuovo per farlo. Qualcosa di reale, con una fibra forte. Qualcosa che non si consumerebbe col tempo, che gli darebbe motivo di restare a lungo senza dover accampare pretesti e scuse uno dietro l’altro.
- Io penso… - esala stancamente, distogliendo lo sguardo e fissandolo insistentemente su un punto a caso nella parete dietro di me, - Anis, penso che dovrei—
- Non farlo. – lo interrompo, stringendo i pugni lungo i fianchi. Lui serra istantaneamente le labbra, tornando a guardarmi. I suoi occhi sono spalancati e colmi di paura ed emozione allo stesso tempo. Ricordo di aver visto una luce simile in questi stessi occhi, tanti, tanti, tanti anni fa. Lui era molto più piccolo, io molto più stupido. Entrambi eravamo molto più felici. Improvvisamente, quei giorni sembrano lontanissimi e incredibilmente vicini insieme. Impalpabili come sogni, ma straordinariamente reali. Non me ne accorgo consciamente, ma semplicemente escono dalla dimensione di incertezza in cui li avevo racchiusi chiedendomi per lungo tempo se fossero stati veri o meno, e ridiventano ricordi. Qualcosa di concreto, qualcosa che è successo davvero. Qualcosa a cui aggrapparmi.
Mi avvicino cautamente, perché il suo corpo trema impercettibilmente e ho paura di vederlo scattare di lato per evitarmi e fuggire attraverso la porta ancora aperta alle mie spalle. Un passo alla volta, sento il suo calore farsi più intenso, i suoi occhi più grandi, il suo profumo più forte, le sue labbra più invitanti. Mi sto lasciando guidare dall’istinto e non sto riflettendo su ciò che sto facendo. Non so se questo mi renda più o meno colpevole circa il baratro nel quale sto per ripiombare entrambi.
Bill, in ogni caso, non si muove. Non si muove mentre mi avvicino e non si muove nemmeno quando mi fermo, ad un paio di centimetri da lui. Basterebbe che mi dondolassi appena in avanti per sfiorare le sue labbra con le mie, ma non voglio che sia un movimento casuale a riunirci adesso. Non c’è mai stato praticamente niente di casuale in ciò che ci ha uniti, è sempre stata una nostra scelta. Impulsiva a volte, ben ponderata in altri casi, ma consapevole.
Sollevo le braccia e prendo il suo viso fra le mani. Accarezzo i suoi zigomi coi pollici mentre lui respira profondamente e si inumidisce appena le labbra. I suoi occhi non si staccano dai miei neanche per un secondo, almeno fino a quando, con un sospiro liberatorio, li chiude. Mi si stringe lo stomaco in una morsa di desiderio ed impazienza, e mi chino su di lui, poggiando le mie labbra sulle sue ed assaporandolo lentamente prima di bussare appena con la punta della lingua, implorandolo nella mia testa perché mi lasci passare. E lui si aggrappa con forza alla maglietta che indosso, ne strattona l’orlo con violenza e con rabbia, e quando accoglie la mia lingua nella sua bocca la cerca immediatamente con la propria, allacciandomi repentinamente al collo per tirarmi il più possibile contro di sé mentre le mie mani scivolano lungo il profilo del suo viso e del suo corpo, stringendosi attorno ai suoi fianchi.
E poi mi confondo, perché non so più dove sono, e per dove non intendo solo il luogo fisico, intendo anche il quando. Il tempo, il punto della mia vita in cui mi trovo adesso.
Le sue labbra che si muovono contro le mie sono affamate e cariche di desiderio bruciante, sono bollenti e dolci e sue, sue in un modo che mi ricorda quello che era un tempo, ma più profondo, sue come se quel pezzo di lui, quel pezzo che era stato mio e che è rimasto sepolto dentro di lui per tutto il tempo da quando me ne sono andato, stesse lentamente riaffiorando. È un Bill più piccolo e ingenuo, stropicciato e malconcio, che è stato male da morire e s’è consumato a furia di piangere, e per smettere di soffrire s’è conservato in un cassetto così da non dover più pensare di esistere e stare male anche solo per quello. E ora fa capolino, coi capelli scompigliati – e sono le mie mani che li scompigliano perdendocisi dentro, anche se ora sono molto più corti di quanto non fossero allora – e le guance arrossate – e sono i miei baci ad arrossarle, a dare loro quel colore acceso e brillante che tanto amavo – e si guarda intorno e mi chiede se può venire fuori, se adesso è sicuro, se non c’è qualche altro motivo per piangere.
E io me lo stringo contro e lo faccio con dolcezza, piano, perché è già abbastanza fragile e non voglio rischiare di spezzarlo. Voglio solo rassicurarlo. Sì che puoi venire fuori. Salta giù da dove ti sei nascosto. Io sono proprio qui sotto. Ti prendo al volo.
- Resta. – sussurro sulle sue labbra, mentre lo sollevo appena e lui stringe le cosce attorno al mio bacino. I suoi occhi sono persi nei miei, il suo respiro è affannoso e so che in questo momento, per lui, in tutto il mondo non esiste altro che sia degno di tutta l’attenzione che sta concentrando su di me.
- Mi viene da piangere. – mi confessa in un rantolo soffocato, - Dio, Anis. Mi viene da piangere.
Indietreggio appena, tenendolo stretto per la vita mentre chiudo la porta con un colpo secco e poi lo conduco verso il letto. Lo stendo sulle coperte e, appena si ritrova su una superficie morbida, lui si mette seduto e poi in ginocchio, sfila la maglietta, sbottona i jeans e poi allunga le braccia, cercando il mio corpo. Mi avvicino subito, puntando un ginocchio sul materasso mentre lui afferra la mia maglietta e la solleva fino a farmela passare sopra la testa, avventandosi immediatamente sul mio collo quando riesce a tirarla via, per poi lanciarla lontano.
Si lascia andare supino sul materasso e schiude le gambe per farmi posto. Io gli sfilo i pantaloni, prima di sistemarmi su di lui, e nel movimento lo zainetto rotola per terra, e mi rendo conto che era ancora vuoto. Sorrido mentre mi chino sul suo collo, riempiendolo di baci e succhiandone piano la pelle morbida e profumata, mentre lui prima getta indietro il capo in un ansito perso e poi affonda i denti sulla mia spalla, stringendo forte senza preoccuparsi di quanto male mi fa. Sa che posso sostenerlo, ed è così davvero, così come io so che nonostante tutti i mugolii sofferenti che mi sta propinando adesso, lui può sostenere un po’ di lentezza, perciò mi prendo il mio tempo per entrare nuovamente in confidenza col suo corpo, con le sue forme, col suo profumo. Sento le ossa appuntite del suo bacino premere contro la mia carne quando, ormai nudi, ci strofiniamo l’uno contro l’altro, e sento la morbidezza della sua pancia contro la punta della mia erezione quando, strusciandomi su di lui, salgo abbastanza in alto da sfiorargli l’ombelico.
Lui geme con una forza nuova, afferrandomi sotto le orecchie ed inarcando la schiena mentre mi spinge verso il basso, ed io percorro in punta di lingua tutto il suo corpo, baciando a lungo la stella sul suo inguine e riscrivendo con le dita il tatuaggio che gli ricopre il fianco sinistro, mentre sfioro con le labbra la punta della sua erezione e poi la prendo appena in bocca, accarezzandola per tutta la lunghezza con la lingua ed accogliendola il più profondamente possibile dentro di me.
Bill lancia un mezzo grido, affondando le dita fra i miei capelli e percorrendoli dalla radice alle punte mentre muove lentamente il bacino, aumentando il ritmo delle proprie spinte pian piano. E capisco che trova difficile fermarsi quando all’improvviso mi chiama per nome, la voce spezzata dagli ansiti di piacere.
Mi allontano da lui, risalendo un bacio dopo l’altro la stessa scia che mi ha portato verso il basso. Appena torno all’altezza del suo viso, Bill pretende le mie labbra, e mi stringe al collo con tanta forza che mi sento quasi mancare l’aria.
- Non lasciarmi andare più. – mi sussurra addosso mentre premo piano contro la sua apertura, - Mai più.
In qualche modo sento che mi sta dicendo che se lo voglio adesso mi impegno a volerlo per tutto il resto della mia vita. Ci stiamo legando in questo momento più di quanto non ci sia mai capitato in passato, ci stiamo legando ora più di quanto ci abbia stretti insieme il momento in cui il nostro sangue s’è mescolato sul letto del suo appartamento il giorno in cui sono morto. Ci stiamo dicendo adesso che dopo tutto quello che abbiamo vissuto, dopo tutto quello che è successo, siamo ancora disposti a prenderci e stringerci fra le dita per tutti i giorni che ci separano dal momento in cui moriremo davvero.
Bill mi sta dicendo di non fare l’amore con lui se non ci credo quanto ci sta credendo lui adesso.
Ma non è solo per fare l’amore con lui che annuisco e lo bacio per sancire la promessa prima di entrare dentro il suo corpo e riprendermi un posto che non ha mai smesso di essere mio di diritto.
*
È molto facile e molto naturale, poi, ricadere sdraiati sul letto nella nostra solita posizione. È molto più faticoso, per la verità, andare a ripescare nella memoria prove tangibili che questa fosse davvero la nostra posizione, perché sto parlando di un periodo che sembra troppo lontano perfino per esistere davvero, come quando a scuola ti parlano della preistoria, dell’uomo di Neanderthal e tutto. Ora, io non ho passato molto tempo fra i banchi di scuola a lasciare che il sapere venisse a me, ma ricordo la sensazione che provavo quando da ragazzino stavo seduto sulla mia seggiola ed ascoltavo la maestra parlare di cose avvenute centinaia e centinaia di anni fa, e non riuscivo a sentirle reali. Era come se mi stesse raccontando belle favole, forse realistiche, ma del tutto prive di concretezza. Fino a ieri, quando pensavo a me e Bill felici e insieme, mi sentivo allo stesso modo. Era una cosa che sapevo essere esistita. Potevo credere al fatto che fosse esistita. Ma non la percepivo più come mia. E anche se l’ultima mezz’ora ha ribaltato passato e presente rendendo reali tutte le cose che credevo di aver soltanto sognato, è difficile rientrare da subito in quell’ordine di idee.
Proprio per questo, in qualche modo, è straniante la facilità con la quale io mi sistemo disteso sul materasso e Bill si sistema disteso su di me. Passa le dita sul mio petto disegnando ghirigori invisibili e privi di senso, e io faccio lo stesso arrotolandomi fra le dita le ciocche un po’ più lunghe sulla sua nuca. Restiamo in silenzio a lungo, lo sento sorridere debolmente sulla mia pelle e guardo il soffitto perché ho paura di guardare in basso e non trovarlo lì. So che sentirei la voce della mia vecchia maestra cominciare immediatamente a parlare di quel periodo storico in cui centinaia di anni fa il re e la sua principessa vivevano felici nel loro prospero regno, e so che non riuscirei più a crederci. Perciò evito, e non voglio guardarlo, anche se me lo sento addosso e questo dovrebbe bastarmi a rassicurarmi. Non ci riesce. Perciò non lo guardo finché, all’improvviso, non si mette a parlare.
- Quando ho deciso che era meglio non vedersi per un po’… - la sua voce è un po’ impastata, incerta, come stesse cercando di raccontarmi un sogno essendo ancora in dormiveglia, - ero molto lucido. Presente a me stesso, dico. Ma non era sempre così, in quel periodo. Sia prima che dopo.
Lo osservo dall’alto, vedo le sue spalle sottili muoversi appena al ritmo del suo respiro. Appoggio una mano sul suo braccio pallido e magro, me lo stringo contro. Lui mugola un po’.
- Com’era quando non eri lucido? – chiedo a bassa voce. Sento il suo corpo vibrare ad ogni mia parola. È così sottile, Dio. Così piccolo, nonostante tutto. La ragione mi chiede uno sforzo, mi chiede di trattarlo da uomo, ma per me resterà sempre un ragazzino infreddolito in piedi accanto alla porta di casa mia mentre la notte oltre i lampioni che costeggiano la strada si fa scura e senza stelle.
- Pauroso. – risponde lui, continuando a giocherellare con le dita sul mio petto, - Non riconoscevo le cose. O le persone. Alle volte… - ride appena, nervosamente, - Una volta mi sono svegliato dopo aver dormito tipo per quattordici ore consecutivamente, e non ho riconosciuto Tomi. L’ho guardato e non sapevo chi fosse. Sapevo solo che era uno con la mia faccia ma un po’ diversa, e mi sono spaventato così tanto, Anis, così tanto che ho creduto che sarei morto. Ti è mai successo? Il mio cuore stava battendo troppo forte, avevo troppa paura, mi mancava troppo il respiro. Avrei potuto morire davvero.
Stringo la presa sul suo braccio, e lui sorride ancora un po’.
- Succedeva spesso?
Bill scrolla appena le spalle.
- Ogni tanto. – risponde, - Non ti saprei dire ogni quanto, perché per lo più non… non ero in me, capisci? Facevo cose che poi… non è che le dimenticassi, era come se non fossero successe davvero. Non ero io. – inspira ed espira a fatica, muovendosi un po’ fra le mie braccia per trovare una posizione più comoda. Glielo lascio fare, e torno ad adattarmi a lui non appena ha finito. – Il mio corpo, Anis, alle volte agiva in maniera completamente scoordinata rispetto alla mia mente. Puoi immaginare cosa significhi? – solleva una mano e la guarda con aria un po’ malinconica. La gira e la rigira, ne studia la forma. Lo faccio anch’io. Non posso immaginare cosa significhi, piccolo. Io ho sempre avuto il controllo del mio corpo. Ho perso il controllo di tante cose, ma mai di me stesso. – Non avevo più nulla. E non avevo più nemmeno un’identità. L’avevo uccisa, l’avevo uccisa da solo. Non avevo idea di come uscirne, mi sentivo così solo, Anis, e inutile, e senza speranza. – lo sento muoversi con un po’ di difficoltà. Si rigira, pianta una mano sul materasso ed una suo mio petto e si solleva un po’. Mi accorgo solo dopo qualche secondo che sta cercando i miei occhi, e quando lo capisco gli concedo all’istante la mia completa e totale attenzione. – Anis, noi stiamo facendo una cosa molto pericolosa. – mi dice. È incredibilmente lucido, fa quasi paura. – Io però la voglio fare, perché ti amo. Tu però— tu devi esserci. Perché io ho paura che potrei non esserci, ogni tanto. E quando io non ci sarò, devi esserci tu. Devi tenermi qui. – si stende nuovamente su di me, così che il suo corpo possa aderire completamente al mio, ma non smette di guardarmi negli occhi. È un contatto che non ha nulla di sessuale, questo. Credo voglia solo sentirmi addosso. Per me è la stessa identica cosa. – Devi tenermi con te quando mi perdo. Ho bisogno che tu lo faccia. Puoi farlo per me? Per noi?
Mi inumidisco le labbra, sollevando una mano ed accarezzandogli una guancia, dallo zigomo fino al mento. Gli sorrido il più serenamente che posso, e non posso dirgli che non ho paura, perché ce l’ho. Mi sta consegnando la sua vita in mano, di nuovo, come tanti anni fa. Ma ora è più grande, lo sta facendo con una consapevolezza maggiore. Questo aumenta anche la mia responsabilità. Ma se mi chiede se sono disposto a prendermela, la mia risposta non può essere che una.
- Lo farò.

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L'increscioso caso dei pantaloni di pelle (a mezzanotte)

di tabata e lisachan
Il telefono squilla, ed io ho tutto il tempo per rimpiangere i bei tempi andati in cui tutta la gente che frequentavo abitualmente si odiava o non poteva vedersi per motivi vari ed eventuali, prima di rotolare sulla pancia – e su J.J. steso accanto a me, naturalmente – ed artigliare il cellulare abbandonato sul comodino accanto alla sveglia. Sveglia che, peraltro, indica le ore sette del mattino. Nessun cantante ha mai da fare alle sette del mattino. I cantanti dormono ancora profondamente, alle sette del mattino, e così fanno i loro manager, naturalmente. Prego che non sia Bill, prego che sia mia madre che mi chiama per annunciarmi qualcosa di incredibilmente grave, prego sia Tom che mi cerca nel panico perché dal suo losco passato di sedicenne imbizzarrito è venuta fuori una groupie con un figlio di tre anni in cerca di un assegno di mantenimento, prego che sia qualcosa, insomma, che dia un senso a questo mio svegliarmi all’alba mentre sotto di me un uomo con addominali perfettamente scolpiti anche nella placidità del sonno inspira ed espira profondamente, sistemandosi appena per permettermi di restargli appoggiato addosso mentre prendo il cellulare fra le mani e ne scruto il display illuminato con aria perplessa.
Prego intensamente per tutto ciò, e invece, ovviamente, è solo Bill.
Mi abbatto già esausto su quella paradisiaca superficie che è la meravigliosa pancia di J.J., e lui comincia immediatamente ad accarezzarmi la nuca. Non capisco se dorma ancora o meno, ma comunque non m’importa, quest’uomo è palesemente il modo in cui il karma cerca di riequilibrarsi ridandomi gioia dopo avermi riempito di dolore fino ad ora, e quindi egli, se vuole, può continuare a dormire mentre mi accarezza come fossi un gatto. Dio lo benedica.
- Pronto? – biascico con aria palesemente poco compiaciuta, sperando che Bill capisca l’antifona e strilli “ho sbagliato momento, penso fuggirò in Papuasia per i prossimi tre mesi!”. Naturalmente, però, è di Bill che stiamo parlando, perciò lui strilla comunque, ma naturalmente per dirmi tutt’altro.
- Dada! – cinguetta felice, - Come ti senti oggi?
- Assonnato, Bill. – rispondo, - Come ogni giorno a quest’ora. Si può sapere cosa ci fai già in piedi? Il tuo tappeto rosso non si srotolerà prima di un altro paio d’ore almeno, all’incirca.
- Anis non ne voleva proprio sapere di lasciarmi in pace, stamattina. – borbotta lui, falsamente corrucciato, mentre io realizzo che ha usato l’espressione stamattina e che ciò implica una mattina più mattiniera di questa, che a me pare già mattiniera a sufficienza. Bushido, io e te dovremo parlare a lungo, quando mi sarò rimesso completamente in forze. – Ha cominciato subito a tocchicciarmi appena gli ho portato la colazione, e allora—
- Non voglio sapere i particolari, Bill. – sospiro stancamente, - Sono cose che ho avuto modo di apprendere con dovizia di particolari negli anni, il ripasso conservalo per quando avrai dei figli gay a cui somministrarlo.
Lui borbotta confusamente qualcosa che assomiglia molto ad una protesta perché non lo lascio esprimere nel modo che lui trova più consono, ma fa presto a riacquistare il buonumore quando insisto a chiedergli cosa voglia da me in questo preciso istante. Lo sento trillare come un campanellino scosso dal vento e battere entusiasticamente le mani come il mentecatto treenne che diventa quando crede di avere avuto un’idea meravigliosa, ed alzo gli occhi al cielo perché so già che invece non sarà proprio niente di eccezionale.
- Senti, senti, - mi dice infatti, con aria vagamente cospiratoria, - ho avuto un’idea meravigliosa.
- Sento, sento. – gli faccio eco io, abbattendomi sul fianco di J.J. Al momento, le sue dita fra i miei capelli sono l’unica cosa che mi tenga lontano dalla pazzia.
- Ho pensato, sono passati già un paio di giorni da quando sei stato dimesso, no? – chiede con gioia. Io inarco un sopracciglio.
- No, Bill. – rispondo, - Sono stato dimesso ieri. Meno di dodici ore fa, in realtà.
- Dettagli. – mi liquida lui, del tutto disinteressato alla precisazione che io invece ritengo essere di una certa importanza, - È passato comunque abbastanza tempo da non dover temere che, per esempio, mangiando un piatto di sciorba tu possa aprirti e spargere budella nel mio salotto, no?
- Bill. – mugolo con dolore reale, passandomi una mano sugli occhi, - Un piatto di sciorba mi ucciderebbe anche se fossi perfettamente in salute. E poi c’è la carne, io non la mangio la carne, ma che te lo ripeto a fare? Mi conosci da un millennio e se non ti è ancora entrato in testo dubito che lo farà mai.
- Sì, infatti sarebbe senza carne, mi pare ovvio. – ribatte lui, quasi oltraggiato dalla mia palese mancanza di fiducia nei suoi confronti. – Senza carne va bene?
- La carne è il minore dei problemi della sciorba, Bill. – gli faccio presente, - In quella roba, fra fagioli, ceci, triplo concentrato di pomodoro e peperoncino, c’è tanto di quel potenziale omicida che non riesco a credere che cucinare e servire una pietanza simile, pur nel privato, possa essere una pratica legale in un paese civile quale la Germania è.
Lui resta in silenzio per qualche secondo, ponderando la questione, e poi sbuffa.
- Non importa, ne mangerai di meno. – conclude quindi.
- Bill! – lo rimprovero io, sconvolto, e lui sbuffa ancora.
- Non voglio andare da Karima per dirle di cambiare menu! Ha già preparato tutto! Non c’è abbastanza tempo per chiederle di cucinare altra roba! – butta lì, come se queste fossero cose che nella mia testa dovessero avere un senso. Non ce l’hanno, però, è evidente. Non c’è abbastanza tempo perché? Che appuntamento è stato preso al posto mio mentre io mi rilassavo fra le possenti braccia di J.J.? Ho quasi paura a chiederlo. Ma devo.
- Bill. – dico piano, inspirando ed espirando profondamente, - Di cosa diamine stai parlando?
Bill si interrompe ancora, riflessivo.
- Ho invitato tutti! – dice quindi, ostinandosi a non dirmi quale sia invece il fulcro della questione, limitandosi a lasciarlo scivolare fra le parole.
- Bill. – lo chiamo con disappunto. Lui mi ignora.
- Ho pensato fosse una cosa carina! – insiste.
- Bill! – insisto anch’io.
- Non arrabbiarti! – piagnucola lui, - Ho organizzato una cenetta qui a casa di Anis, in tuo onore, s’intende, e ormai è tutto organizzato, vi aspettiamo tutti per le sette e mezza, quindi più o meno fra altre dodici ore esatte, quando sarai stato dimesso da ventiquattro ore piene, e volevo avvertirti! Mi sembra che la scelta di tempo sia stata sufficientemente buona, tu che dici? – chiede quindi. Faccio per protestare che no, ma mi rendo conto che non sta parlando con me, perché Bushido gli risponde con una risata incredibilmente divertita, e allora io capisco.
- Bill. – lo chiamo per l’ennesima volta, atono, - Passami tuo marito.
- Ma Dadaaa. – sbuffa lui, mugolando risentito. Io non dico una parola e spero che lo sguardo disapprovante che sto lanciando alla parete bianca di fronte a me travalichi i limiti spaziotemporali che lo separano da Bill e gli appaia come in sogno. Forse questo non succede davvero, ma un paio di secondi dopo sento una risata familiare alla cornetta e so che sono stato telefonicamente introdotto di fronte al signore e padrone di tutti i popoli e specialmente di questo sparuto gruppo di persone che siamo e che non hanno ancora deciso di prendere tutti il primo aereo per i quattro angoli più distanti del globo al solo scopo di liberarci dal suo giogo oppressore.
- Bushido. – dico severamente, - È stata una tua idea?
- La cena no. – risponde lui, con tutta la sincerità di questo mondo, - Chiamarti alle sette del mattino sì.
- Ma sei un cretino o cosa?! – strillo io, agitandomi e piantando un gomito nella parete addominale di J.J., che sarà perfetto ma in fin dei conti è fatto di carne e sangue anche lui, e nel momento in cui il mio gomito si piazza fra le sue povere viscere strabuzza gli occhi, sputa un considerevole sbuffo di fiato e si piega in due, obbligandomi a rotolare fino ai piedi del materasso mentre ancora mi dimeno come un esagitato. – Ma ce l’hai un minimo di rispetto per l’altrui persona?! E, cosa ancora più importante, ma non hai proprio un cazzo da fare nella vita, tu?! Hai un ragazzo, adesso, vivaddio ti è stato restituito pressoché intatto perché palesemente anche il karma ti è asservito senza un motivo ben preciso, e tu cosa fai? Perdi il tuo tempo chiamando me, o facendomi chiamare dal suddetto ragazzo, invece di approfittare del suo giovane corpo fremente di desiderio al tuo fianco! Sei una vergogna per la tua razza, ritirerò il tuo patentino di omosessualità immediatamente, appena verrò a casa tua.
Bushido, naturalmente, ride per tutto il tempo, dalla prima all’ultima parola. J.J. striscia sul materasso rantolando e poi si alza in piedi, annunciandomi che si farà una doccia e poi andrà a lavorare, lui che un lavoro serio ce l’ha. Io mugolo “nooo, non te ne andare”, e J.J. ride, e Bushido ride pure lui, e riesco perfino a sentire la risata di Bill, un po’ più distante, perché lui è come i neonati, che quando ti vedono ridere ridono pure loro per imitazione. Siccome immagino cosa dev’essere vedere Bushido ridere mentre il suo viso è incorniciato dai suoi lunghi e morbidi capelli corvini e tutto il mondo ritrova la pace sul suono della sua voce, non fatico a credere che Bill stia ridendo come un mentecatto perfino in questo momento, ma il risultato finale è solo che tutti ridono, e ridono di me, e io li odio. Mi rannicchio ai piedi del letto e sbuffo platealmente, sono molto arrabbiato e Dio, mi sento così bene che alla fine scoppio a ridere a mia volta, nella soddisfazione di tutti, mentre dal bagno cominciano a venire i suoni tintinnanti dell’acqua lungo le pareti della doccia e Bushido schiocca un discreto bacio di trionfo sulla guancia di Bill. Sospiro profondamente. Sono felice davvero.
- Jost. – mi chiama Bushido, la sua voce è allegra ma è venata da quel pizzico di serietà che utilizza sempre quando sta per dirti qualcosa di veramente importante, perciò mi metto sull’attenti e drizzo le orecchie, per ascoltarlo al meglio. – È una cosa di cui abbiamo tutti molto bisogno. – mi dice con franchezza. Io penso a loro due, penso a quegli altri due e alla loro inaspettata quanto inopportuna entrata a pieno titolo nel mondo delle coppie omosessuali dello showbiz tedesco ed annuisco.
- D’accordo. – confermo a voce, visto che nessuno qui può vedermi, - A stasera.

Tutti noi qui abbiamo bisogno di una cena in famiglia, e ciò è molto vero. È vero soprattutto perché fino a un mese fa, non volendo considerare il ritorno di fiamma fra i gemelli, l’unica coppia che avesse ancora senso definire tale era quella composta da Tom e Cassandra, mentre tutti noialtri andavamo in giro ramenghi, privi di un amore e di uno scopo per cui valesse la pena vivere.
Ebbene tutto questo è cambiato nel giro di tre giorni quando, dopo un mese di convivenza a casa di Bushido – a mio parere inutile e paragonabile solo ad un lungo e melenso preliminare platonico – la coppia reale s’è ritrovata rifulgendo splendore e spargendo nell’aria tedesca un miliardo di minuscole particelle subatomiche cariche di energia omosessuale positiva. Tale energia ha permesso a me e J.J. di continuare a vederci anche se lui non doveva più passarmi creme cicatrizzanti sulla pancia, e non solo, ha portato alla luce anche delle tragiche vibrazioni nella forza, e queste vibrazioni nella forza hanno prodotto una relazione fra Fler e Chakuza. Per molto tempo, tutti noi abbiamo aspettato che anche Eko Fresh ci presentasse il proprio ragazzo, cosa che almeno ci avrebbe rassicurato sulla follia generale, ma ciò non è mai accaduto, per cui ci siamo dovuti arrendere al fatto che fra Fler e Chakuza non c’era proprio niente di folle, e che quindi questa gente ci doveva quantomeno delle spiegazioni.
Insomma, viene fuori che in realtà ad accostare le parole Fler, Chakuza e gay si ottengono un mucchio di ricerche correlate stile Google, di alcuni risultati delle quali Bill era perfino a conoscenza!, che portano alla luce numerosi dettagli come il fatto che in realtà Fler e Chakuza avevano già una storia un millennio di anni fa, poi s’erano lasciati, poi s’erano ripresi, e via così lasciandosi e riprendendosi a fasi alterne a seconda che Bushido fosse vivo o morto, che Bill fosse o meno disponibile e che gli astri fossero o meno allineati. Nella storia, a un certo punto, s’è inserito un ragazzino minorenne biondo di cui so poco e intendo continuare a sapere poco. Le uniche informazioni in mio possesso sono il suo nome – Daniel – la sua età e il dettaglio per cui mentre Bushido era in tour a farsi uccellare da Bill e Chakuza, lui invece era a Berlino e si occupava di Fler, rimasto solo a leccarsi le ferite, facendosi in un certo senso uccellare anche lui, ma in modo diverso.
Ora, vi lascio immaginare quale possa essere stata la reazione di Bushido a tutto questo: io e lui eravamo in pratica gli unici in qualche modo coinvolti a non sapere un beneamato piffero di tutti questi intrecci sentimentali, ma mentre per me si trattava in fondo solo di una serie di informazioni di cui prendere atto, per lui è stata una tragedia; era un uomo felice, stava vivendo una nuova primavera, e in un colpo solo scopre non solo che Chakuza gli ha manomesso entrambi i fidanzati, ma che uno dei due, mentre lui era lontano, l’ha tradito con un imberbe del ghetto. Onta e disonore. È rimasto immusonito per settimane.
In pratica, nel giro di un periodo di tempo troppo breve e palesemente insufficiente a metabolizzare il tutto come sarebbe stato giusto, ci siamo ritrovati a passare dall’essere un gruppo di persone eterogeneo con variabili di omosessualità sparsa, a diventare una cooperativa gay a tutti gli effetti, di quelle che hanno tesserini, liste elettorali e tasse d’iscrizione. Non so se rendo l’idea. Non è che ci serva una cena, ce ne servono trecento per entrare nell’ordine di idee, ed altre trecento almeno per abituarci al tutto.
Perciò, è non dico con piacere, ma con coraggioso spirito di sacrificio che mi presento a casa di Bushido all’orario convenuto, portando J.J. con me. Tra l’altro, lui è stato meraviglioso: avrebbe tranquillamente potuto dirmi che lui con questa mandria di scoppiati non ha niente a che fare, che non è nemmeno il mio medico, cosa peraltro vera, e che solo una combinazione di eventi e l’anzianità del dottor Neuer l’hanno portato a doversi prendere cura di me e poi a diventare il mio ragazzo, e che per tale motivo potevo venire qui da solo e ci saremmo visti al limite in nottata o al massimo l’indomani mattina, e invece s’è dimostrato molto disponibile, e brillando di luce propria s’è offerto di staccare prima da lavoro per passare da casa mia e venire qui insieme, invece di presentarci separatamente. Dopo questo, gli ho chiesto di sposarmi, ma lui ha riso e mi ha scompigliato i capelli come se fossi un tredicenne. Qui nessuno capisce che il mio desiderio di metter su famiglia con un Adone buono come un santo è tremendamente reale e forte.
Comunque, a cena ci sono tutti. Ci sono Tom e Cassandra, Fler e Chakuza, Eko e Kay One – non nel senso di coppia, fortunatamente, solo nel senso degli unici due uomini spaiati presenti a tavola, anche se in realtà Kay One la ragazza ce l’ha e tutti sappiamo che esiste perché è Mandy delle Monrose, ma non ce l’ha mai presentata e suppongo sia perché lei davvero con questa follia non vuole avere niente a che fare – io e J.J. e naturalmente i padroni di casa. Del minorenne del ghetto non c’è traccia, probabilmente perché Fler l’ha lasciato e lui non deve averla presa molto bene, come qualunque minorenne del ghetto o meno, e anche Karima non c’è, ha la serata libera, e questo dà a Bill l’occasione di fingersi una massaia e portare a tavola pietanze come fossero frutto del suo duro lavoro, cosa che tutti quanti sappiamo non essere vera, anche se nessuno, vedendolo così felice e soddisfatto di sé, ha cuore di farglielo notare.
La conversazione inizialmente è stagnante. Non ci ritroviamo così tutti assieme da… forse non è mai successo di ritrovarsi così tutti assieme, per dire la verità, per cui i primi minuti siamo tutti molto freddi e ingessati. Facciamo i complimenti (immeritati) a Bill per la sciorba, che nonostante non abbia neanche un pezzettino di carne in sé è pesante come un macigno, parliamo del lavoro, di quanto sia dura ultimamente per le case discografiche investire alla cieca visto il clima di recessione generale, parliamo perfino del tempo e del fatto che quest’anno abbia cominciato a fare freddo prima del solito, e poi, quando siamo qui sull’orlo della tragedia che pensiamo già con disperazione di parlare della morte del polpo Paul giusto per darci qualcos’altro da dire, Eko comincia a delirare qualcosa di sostanzialmente incomprensibile su quanto sia buffo stare a tavola tutti insieme e quanto tutto questo lo faccia sentire in una puntata di Verbotene Liebe “ma più gay, cioè, ancora più gay”, e questo fa la magia.
Non è che succeda qualcosa di particolare, semplicemente ci mettiamo tutti a ridere e sentiamo che queste risate non sono false, non suonano strane, anzi, c’è una certa chimica che le avvolge, le fa risuonare nel modo giusto in questa stanza ed alle nostre orecchie, e quando smettiamo di ridere ci guardiamo e c’è una nuova consapevolezza che ci pervade tutti. È una vocina sottile e ancora un po’ timorosa che ci spiega che adesso è troppo presto per fare passi da giganti, per dire “è già tutto a posto”, ma al contempo ci rassicura sul fatto che ci stiamo muovendo nella direzione giusta, e non sarà stasera, e probabilmente neanche durante la prossima cena che faremo, ma se continueremo di questo passo prima o poi ritornerà tutto a posto davvero, e questi fili monchi che pendono potremo riallacciarli correttamente, e i nodi saranno stretti abbastanza da non sciogliersi più.
È con questa voce carezzevole che ancora mi riecheggia nelle orecchie che, un paio d’ore più tardi, mi appresto a salutare tutti ed andare via. Una decina di minuti fa, Bill ha fatto una marea di scene, s’è stiracchiato, ha sbadigliato ampiamente almeno trenta volte e poi, con voce fintamente impastata dal sonno, ha annunciato di essere molto stanco e di volere andare a dormire. Un modo molto tenero per dirci che la rimpatriata gli era piaciuta ma ora voleva restare solo con Bushido, per cui se avessimo potuto levarci di torno senza fare grandi storie lui l’avrebbe apprezzato moltissimo.
Unanime, un coro di “sì, effettivamente s’è fatto un po’ tardi” s’è sollevato da tutti gli astanti, e questo nonostante fossero appena le dieci e mezza. Il potere della persuasione, dei cui mistici segreti Bill è sempre stato gran custode e conoscitore. Quindi Bill s’è alzato da tavola, ha salutato tutti come quei bambini che vanno a letto presto e lasciano i grandi a discutere delle loro faccende e s’è defilato al piano di sopra. Noi ci siamo lanciati tutti una serie di occhiate vagamente confuse e vagamente divertite, e poi abbiamo cominciato a defluire verso l’uscita.
Io e J.J. ci allontaniamo per primi, anche perché la sciorba comincia a fare effetto e io sento di essere pronto alla morte. Lo faccio presente a J.J. che si offre di restare con me stanotte, cosa che io apprezzo enormemente. Di ciò che segue la mia dipartita verso casa non posso parlare, perché non c’ero, ma alla luce di ciò che se ne racconterà favoleggiando nei giorni successivi, penso che passerò il resto della mia vita a rimpiangerlo. E se si tiene presente che questa cena e questa serata sono stati i punti fermi su cui abbiamo poggiato il primo mattone per la ricostruzione di ciò che eravamo… be’, è abbastanza evidente che il futuro non poteva che presentarsi come parecchio complicato già in partenza.

*


Due giorni fa, al KaDeWe, ho visto un paio di pantaloni meravigliosi, di pelle, attillati in maniera indecente, praticamente due guanti. Non è che fossi uscito di casa con l'idea di fare spese – anche perché non sono proprio in condizione di spendere più di quanto guadagno, che poi è niente visto che non abbiamo ancora un'etichetta – ma loro erano lì in vetrina che mi imploravano di comprarli e io non ho avuto cuore di passare oltre e lasciarli al loro destino. Sono costati un occhio della testa ma, visto che li ho comprati soprattutto per usarli con Anis, li considero una specie di piccolo investimento. Serviranno per riaccendere il fuoco della passione; anche se in realtà non è che si sia mai spento, anzi, tra tutte le cose possibili, forse si è addirittura propagato, dal momento che Anis non mi lascia in pace un minuto e ho sempre le sue mani addosso, molto più di quanto le avessi prima. Il fatto è che Anis si annoia in fretta, quindi se voglio che questa situazione si perpetui nei mesi a venire, devo lavorare di fantasia.
Adesso io mi infilerò questi pantaloni di pelle e magari quella maglietta che Anis finge non sia da donna solo perché lo fa impazzire il modo in cui mi esce una spalla dallo scollo a barca, e poi scenderò al piano di sotto dove lui potrà possedermi selvaggiamente sulla prima superficie disponibile, dopo avermi strappato i vestiti di dosso a morsi. Metaforicamente parlando, s'intende.
Quest'idea di vestirmi in un certo modo solo per farmi spogliare il più velocemente possibile e battere così ogni nostro precedente record di preliminari, la covo già da un po', da molto prima di comprare i pantaloni in realtà. E' che durante il giorno Karima è sempre in casa e quando arriviamo alla sera e lei finalmente si ritira nella sua cuccia in cantina – o dovunque dorma, non lo so, in una catapecchia in giardino forse – alla fine mi passa di mente e con Anis finiamo a fare sesso a letto, che è sempre una cosa meravigliosa, ma non quella che volevo fare io.
Questa è la serata perfetta per portare a termine il mio piano geniale perché è il giorno libero di Karima, il che significa che una volta salutati i nostri amici e chiusa a doppia mandata la porta d'entrata, questa casa gigantesca sarà solo mia e di Anis, con tutti i benefici del caso. Se penso che stamattina quella strega malefica voleva mandare tutto all'aria rinunciando alla sua partita settimanale di canasta con le amiche e restare qui a cucinare e servire per un reggimento quell'unica volta che nessuno le aveva chiesto di farlo, mi sale di nuovo la rabbia.
Mi sono svegliato presto, forse qualche minuto dopo le sette, e non potete capire il disappunto di scendere le scale, attraversare il corridoio, infilarsi in cucina con l'idea di mettere insieme una colazione decente per poi organizzare l'intera giornata e trovarci lei, con la sua divisa color grigio topo che rimesta dentro un paiolo gigante. Soprattutto quando mi ero addormentato la sera prima con la convinzione che non l'avrei più rivista per almeno ventiquattro ore.
Nessuno dovrebbe mai svegliarsi in questo modo, la sola presenza di quella donna disturbava l'intera estetica della villa illuminata dal sole, di Anis che ancora dormiva nudo tra le lenzuola di seta del nostro letto imperiale, ma soprattutto la mia, visto che io odio fare colazione circondato dall'olezzo di mille cipolle. Interrogata, per altro, lei ha avuto il coraggio di dirmi che qualcuno doveva pur preparare la sciorba per la cena di stasera visto che né io né tantomeno il signor Ferchichi sappiamo farlo. Ora, questo è tragicamente vero, ma ciò non significa che lei non potesse preparare questa cosa raccapricciante ieri e lasciarla in una pentola dentro al frigorifero perché noi potessimo usarla come ci pareva, e perfino buttarla se poi a guardarla ci avesse fatto ribrezzo e avessimo voluto farci una pizza.
E invece no. Lei ha risposto che la sciorba non si può preparare il giorno prima, che non può mica stare in frigo che sennò si sciupa e un sacco di altre cose che però non ho ascoltato perché mentre lei le diceva io ho prendevo la colazione mia e di Anis e tornavo in camera, dove mi sono ampiamente lamentato dell'intera faccenda.
Anis, però, queste cose non le prende mai sul serio perché trova Karima adorabile, il che non mi sorprende poi molto perché quella fa la strega soltanto con me e quando poi io lo chiamo per dimostrarglielo, lei diventa uno zucchero e fa tutto quello che le dico senza protestare. Così alla fine Anis non crede mai a quello che gli riferisco e dice che sono esagerato e che non è vero niente.
Lo ha detto anche stamattina mentre si mangiava da solo tutte le brioche che avevo portato senza lasciarmene neanche una. Ovviamente mi sono lamentato anche di quello e gli ho fatto notare che in questa casa non mi si tratta da principessa nemmeno un pochino, ma da lì in poi non ricordo bene come sia andata; so solo che Anis si è messo a ridere e mi ha spogliato di nuovo, così abbiamo finito per fare l'amore e io mi sono dimenticato tutto quello che volevo da lui, almeno fino a quando non abbiamo finito e lui ha ceduto dicendo che le avrebbe parlato.
Alla fine si sono messi d'accordo perché Karima si prendesse solo mezza giornata libera e facesse l'altra mezza domani mattina, il che mi torna ancora più comodo perché adesso lei non c'è e non ci sarà nemmeno quando domani ci sveglieremo, così se vogliamo possiamo pure addormentarci sul tappeto del salotto e lei non potrà svegliarci tirando le tende e dicendo che è tardi e dobbiamo alzarci o, ancora peggio, con la solita storia che siamo due uomini e non sta bene e il cielo ci fulminerà riducendoci in cenere.
Comunque infilarsi questi pantaloni non è facilissimo. Nel camerino del negozio ho fatto delle scene molto ridicole, saltellando per riuscire a tirarli su senza dover necessariamente chiamare qualcuno a darmi una mano e anche adesso non è che mi riesca meglio, nemmeno se mi distendo sul letto e allungo le gambe. Spero che ad Anis non venga l'idea di salire a cercarmi perché potrei dire addio all'atmosfera, e poi comunque sono ancora mezzo nudo, cosa che rovinerebbe un po' tutta l'idea dello scendere e farlo come animali su uno a caso tra i mobili del soggiorno, magari anche senza spogliarsi – anzi, di sicuro senza spogliarsi visto che una volta che sarò riuscito ad infilarmi questi pantaloni né io né Anis saremo mai in grado di togliermeli del tutto in un tempo ragionevole a mantenere una certa libido.
Ci metto quasi dieci minuti, ma alla fine i pantaloni cedono un po', e le mie gambe ci finiscono dentro alla perfezione, la pelle non fa nemmeno una piega. Quando mi guardo allo specchio, penso che mi salterei addosso da solo se non mi piacessero gli uomini più virili di me; il che mi ricorda che Bushido è al piano di sotto e mi viene da ridere all'impazienza che mi fa saltellare e mi arriccia le dita dei piedi.
Non mi sentivo così bene da non so nemmeno quando. Non ho solo voglia di stare con lui, ho proprio voglia di giocare e mi sembra giusto ricominciare a farlo stasera, dopo questa cena che ha fatto tornare le cose più o meno com'erano prima.
Altri cinque minuti per sistemare lo scollo della maglia in maniera strategica e sono pronto. Tendo l'orecchio al piano di sotto ma non sento più il chiacchiericcio degli ospiti che hanno evidentemente colto il mio velato invito a levarsi di torno e se ne sono tornati a casa loro mentre io mi cambiavo; così scendo le scale con un mezzo sorriso stampato sulle labbra e non aspetto di arrivare in fondo alla rampa, mi basta scorgere il profilo di Anis vicino alla porta per annunciargli la mia presenza. “Amore, dammi un parere, come mi stanno questi pantaloni?” La butto lì così, come se fosse una questione di poco conto e naturalmente mi aspetto una reazione entusiasta che possa dare il via ad un dialogo più o meno azzardato da concludersi nella maniera più classica, il che a ben guardare sembra l'inizio di uno di quei terribili porno di serie zeta che ogni tanto guardano tutti insieme nemmeno fossero tredicenni con una casa libera a disposizione e quindi la possibilità di masturbarsi mentre mamma non c'è.
Comunque quello che sembra non importa affatto, perché qualunque cosa fosse viene eclissato da ciò che poi effettivamente succede, ossia che la risposta entusiasta mi arriva da due voci diverse e per un attimo il tempo si ferma, la Terra smette di girare e rimane sospesa nel buio gelido dell'universo, in attesa che la forza di inerzia si esaurisca e la lasci andare alla deriva chissà dove.
Bushido mi guarda e risponde “Sei bellissimo” ma sono le note più basse della voce di Chakuza che dice la stessa identica cosa nello stesso identico istante a far calare il gelo nella stanza.
All'improvviso mi sento a disagio e penso che questa sia stata una pessima idea, o almeno lo è stata non guardare se c'era effettivamente qualcuno nella stanza insieme ad Anis.
Il silenzio pesantissimo che ci avvolge ha appena distrutto qualunque tipo di serenità avessimo raggiunto nelle ultime due ore.
Mi sento a disagio e vorrei correre di sopra a cambiarmi, o farmi inghiottire qui dove sono dalla rampa di scale, ma Peter è mortificato e Anis lo guarda così male che ho paura stia per saltargli alla gola. Così resto e provo a sistemare le cose, anche se non ho mai prevenuto un omicidio violento prima d'ora e sono quasi sicuro che mormorare “Ragazzi...” con voce incerta non sia la maniera giusta di farlo.
Nessuno si volta nella mia direzione, come se io e i miei pantaloni di pelle fossimo scomparsi subito dopo il disastro che abbiamo generato.
E' Fler che fa ripartire il tempo e la porta che sbatte, uscendo furioso da questa casa, fa girare di nuovo la Terra, che forse non andrà più alla deriva ma di certo ha un grosso problema.

*


Io stamattina non mi ero affatto svegliato con l'intenzione di essere la farfalla che sbattendo le ali in Europa provoca uragani in Cina. Innanzitutto perché mai nella mia vita ho desiderato essere una farfalla, e poi perché mi ero appena ripreso dalla fatica di riparare i danni del mio ultimo uragano e tutto volevo tranne che scatenarne altri, che fossero dall'altra parte del mondo oppure nel salotto di casa dell'uomo che meno li avrebbe apprezzati.
Quella di oggi, in realtà, si era rivelata una giornata molto piacevole e niente aveva lasciato presagire che sarebbe finita in tragedia. Fler ha dormito da me ieri sera, come la sera prima e tutte quelle precedenti – in realtà ha quasi tutta la sua roba da me quindi forse già viviamo insieme da settimane, solo che non ne abbiamo mai seriamente parlato, quindi è come se fosse ancora un ospite – così stamattina abbiamo fatto colazione insieme e poi siamo passati alla EGJ a provare qualcosa, giusto per vedere se ci riusciva ancora.
Gli uffici non sono ancora del tutto attivi ma il grande capo vuole riaprili a breve e, da quanto ho capito di quello che Fler non mi dice con le sue risposte vaghe e imbarazzate, credo che Bushido abbia in mente di far entrare anche lui a far parte della nostra grande famiglia, il che immagino porterà ad una guerra fratricida con l'Aggro Berlin durante la quale Sido e il tunisino si sfideranno a colpi di pistola per decidere chi dei due debba tenere Fler e chi invece dovrà pagare gli alimenti e potrà vederlo soltanto un fine settimana ogni quindici giorni.
Ad ogni modo, stamattina in studio non ci abbiamo trovato nessuno, perché questa crew è in realtà composta da lavativi che per più di un anno e mezzo non hanno fatto assolutamente niente e continueranno a farlo finché l'intera produzione non ricomincerà a pieno regime, ossia quando il grande capo non andrà a prenderli a casa uno per uno e li trascinerà in ufficio dove, in realtà, nessuno farà nulla lo stesso, ma l'importante è che il gruppo sia di nuovo compatto. Io e Fler ci siamo appropriati di una cabina di registrazione e mentre io gli mandavo le basi e missavo, lui ha fatto un po' di freestyle così come veniva, e non è andata affatto male.
E' strano lavorare sulla voce di Fler, perché sono abituato a sentirla e ne conosco ogni singola sfumatura ma non mi era mai capitato di metterci sopra le mani, prima d'ora. Ha una bella voce, molto simile a quella di Bushido ma più alta, e un rappato molto più pulito e lineare del suo. Me ne accorgo soltanto ora che posso lavorarci sopra perché lo avevo ascoltato solo nelle canzoni che ha fatto con l'Aggro Berlin, che sono un vero e proprio scempio; non sono stati in grado di valorizzarlo per niente, sporcando le tracce invece di semplificare le basi per dare più spazio al suo modo di cantare.
Quello su cui abbiamo lavorato stamattina è un accenno di canzone che Fler attacca ormai da una settimana quand'è sotto la doccia. All'inizio nemmeno se n'era accorto, io ero lì che mi lavavo i denti e lui cominciava a prendersela col sistema, il governo e la Berlino borghese che lascia i ragazzi liberi di ammazzarsi in strada per un etto di eroina purché lo facciano lontano dalle case per bene.
L'ho ascoltato in silenzio per giorni, cercando la base giusta da mettergli sotto, e poi quando mi è sembrato di avere qualcosa, gliel'ho proposto e lui l'ha trovata una buona idea. Il ritornello è già piuttosto chiaro, quindi dobbiamo solo limare tutto il resto e cambiare un paio di rime perché funzionano solo con lo scroscio diseguale della mia doccia dell'anteguerra a coprirne la metà, un suono che mi rifiuto di inserire, nonostante l'insistenza di Fler, visto che rovinerebbe l'idea ben precisa che ho per questa canzone. Tra le altre cose io credo che ci vorrebbe una doppia voce, ma non una come la mia, qualcosa di molto più alto e caldo; una donna, probabilmente.
Stamattina sono uscito dallo studio molto soddisfatto del risultato, anche se in realtà per il momento abbiamo solo pasticciato; potrebbe essere un'ottima idea per ridare vita a quest'etichetta, ma per metterla davvero in cantiere devo parlarne con Bushido, più che altro perché la base è mia ma la canzone è di Fler e dobbiamo capire dove realizzarla. Naturalmente potrei chiedere a Patrick di produrla con la Beatlefield, ma questo scatenerebbe le ire di Bushido.
Io avrei avanzato volentieri l'ipotesi alla cena di stasera, ma Patrick mi ha chiesto per favore di non litigarci di proposito, quindi se non l'ho fatto è stato solo per lui.
Alla fine, durante questa bella rimpatriata – che è stata una palese idea di Bushido al quale, più di ogni altra cosa, piace stare seduto a capo tavola e guardare con aria soddisfatta un numeroso gruppo di persone fingendo di avere il comando assoluto – non c'è stato modo di tirare fuori l'argomento, anche perché le spirali di follia generatesi qualche settimana fa negli occhi di Bushido alla notizia che io sto con Fler non si sono ancora spente e quindi Patrick ha fatto di tutto per non farmi aprire bocca in quel senso.
Per quanto l'illuminato sovrano mi guardasse male, comunque, aveva ben poco da protestare e difatti è stato zitto. Non credo che lo farà adesso, però, e se devo essere sincero non me la sento nemmeno di dargli torto.
Siamo io, lui, Fler e Bill congelati nell'ultimo istante trascorso da quando Bill ci ha chiesto come stava con quei pantaloni praticamente disegnati addosso e io gli ho risposto che era bellissimo.
Cazzo! E' la prima cosa che penso non appena mi rendo conto di quello che ho detto. Avete presente quando dite qualcosa e nell'attimo stesso in cui la dite già sapete che è una stronzata ma ormai non potete più fare niente per evitarlo? Io questa sensazione non la provo così spesso, perché in genere non mi accorgo che quello che sto dicendo è una stronzata, sono anzi piuttosto sicuro di non stare facendo niente di male. Stavolta, però, ci arrivo anch'io e ci arrivo subito, nel momento stesso in cui quel “Sei bellissimo” mi esce di bocca, solo che esce così naturale e sovrappensiero che quando sarebbe l'ora di rimangiarselo lui è già lì che svolazza nell'aria dove tutti possono vederlo e sentirlo.
A mia discolpa posso dire che ero appunto impegnato ad informare Bushido che io e Fler, stamattina, stavamo lavorando ad un canzone e che se voleva poteva darci un'occhiata. Il mio cervello era talmente concentrato su questo che si è dimenticato di aggiornare la data e con essa il fatto che Bill non poteva stare parlando con me, visto che a quanto pare abbiamo rotto mentre ero in Austria.
Ad ogni modo la reazione di Bushido mi è completamente indifferente, sento il suo sguardo infuocato che mi perfora il cranio ma in sostanza lo ignoro perché in questo momento l'unica cosa che davvero mi preme è arginare la rabbia di Fler, che in piedi alle mie spalle si è acceso come una torcia umana e probabilmente esploderà nel giro di qualche secondo. Non faccio in tempo a girarmi per cercare di arginare il disastro che mi sono lasciato scappare di bocca che di lui non c'è già più traccia e la porta della villa ancora vibra per la forza con cui l'ha sbattuta.
Gli corro dietro e intanto cerco di mettere insieme le parole giuste per scusarmi e spiegargli la situazione, anche se forse dovrei semplicemente scusarmi e basta perché non credo voglia sentirmi giustificare un bel niente. Si è trattato di una risposta automatica e non stavo pensando a Bill fino al momento in cui effettivamente non ho alzato lo sguardo e l'ho visto sulle scale, ma Patrick non sarà affatto disposto a sopportare anche questa dopo l'incidente al ristorante polacco.
Mi aspetto di dover chiamare un taxi perché avrà preso la macchina e se ne sarà andato, e invece lo trovo ancora in giardino che prende a calci la cancellata ricoperta di siepi. Ci mette tanta di quella violenza che ogni tanto il cespuglio di gelsomino sbuffa una nuvola di petali.
Quando si accorge che sono lì, mi guarda così male che perdo ogni speranza.
Se c'è mai stata una volta in cui ho già perso in partenza, con lui, allora è sicuramente questa.

*


Chakuza ha due problemi fondamentali.
Il primo è che è una persona inopportuna, il secondo è che non si rende conto di esserlo; e anche se lo fa il suo ritardo è così oltraggioso che non lo si può giustificare in ogni caso. E' una di quelle persone capaci di farti gli auguri ad un funerale e le condoglianze ad un matrimonio, e in entrambi i casi accorgersene quando ormai è tornato a casa e si è messo il pigiama.
Così adesso si presenta qui davanti a me e la prima cosa che riesce a dirmi è che se continuo di questo passo probabilmente finirà per non rimanere più niente di questa dannata siepe di gelsomino.
Chi se ne frega del gelsomino, cazzo. E allora si rende conto e si scusa, in ritardo naturalmente.
“Non me ne faccio niente delle tue scuse,” gli dico.
Mi chiedo se sia consapevole del motivo per cui dovrebbe essere qui in questo momento, o se ha agito secondo il buon senso di qualcun altro.
“So che sei incazzato...”
“Io non sono incazzato Chakuza, io sono furioso,” preciso.
Lui si schiarisce la gola e guarda per terra, credo forse alla ricerca degli altri sei nani nascosti nell'erba per suggerirgli quello che deve dire. “D'accordo, so che sei furioso e hai tutti i motivi per esserlo, ma posso giurarti che non mi sono reso conto di quello che stavo dicendo.”
“Questa non è una novità, Chaku. Tu non hai mai la minima idea di quello che ti esce di bocca. Se questo fosse il mio problema, fra di noi sarebbe finita molti secoli fa e io, starei sicuramente molto meglio.”
Mi viene in mente che starei con Nicole, o starei con Daniel. Sarei con qualcuno che non si sarebbe mai sognato di volgere lo sguardo adorante verso il suo ex fidanzato e dirgli che è bellissimo quando è inguainato in un paio di pantaloni che sono così attillati che tanto varrebbe fosse nudo.
“Se non è quello che ho detto, allora...”
“Allora cosa?”
“Allora qual è il problema?” mormora incerto.
Io smetto di devastare il giardino di Bushido a calci e mi fermo ad osservarlo, ma nemmeno mi stupisco che sia qui di fronte a me e non abbia la minima idea di quello che ha fatto perché io lo sapevo che era così, quindi sarei stupido anche a sorprendermi. “Non sono le cazzate che dici il problema, perché quelle sono un flusso continuo ventiquattr'ore al giorno per tutti i giorni della settimana e non c'è modo di arginarle perché sono fatte della stessa merda di cui è foderato il tuo cervello! Il problema è tutto quello che c'è dietro.”
“Ma non c'è niente dietro!” Protesta lui che non ha mai capito che nelle discussioni in cui ha palesemente torto – cioè la quasi totalità di quelle in cui finisce – lui non ha nessun diritto di protestare. Mai.
“Certo come no.”
“Pat, dico sul serio.”
Sono felice che il suo catorcio sia di nuovo dal meccanico – d'altronde l'ho ridipinta e le ho messo un nuovo portellone, ma non è che potessi trasformarla in una macchina vera – così siamo venuti con la mia auto e posso decidere che ce ne andiamo ora. Anzi, posso anche decidere di lasciarlo a piedi, così può rimanere qui a fare la corte alla sua stupida principessa. Magari se aspetta un po' riesce a prenderla al volo quando Bushido la butterà fuori dalla finestra.
Lui invece mi segue allungando il passo e alla fine lo lascio salire, perché tanto alla fine devo andare a casa sua, quindi finirei per ritrovarmelo comunque tra i piedi. “Non stavo affatto pensando a Bill,” mi dice, chiudendo la portiera e regolando la cintura del sedile del passeggero perché non gli seghi la gola. Ogni volta che chiudo la macchina, quella li riporta automaticamente all'altezza iniziale, così le poche volte che si fa scarrozzare in giro, deve sempre rimetterci mano per non venirne strangolato.
“No, tu pensavi agli unicorni rosa che attraversano correndo gli arcobaleni del tuo cervello” commento lanciandogli un'occhiata impietosita mentre metto in moto. “Ed è ad uno di essi che hai detto che era bellissimo, casualmente nello stesso istante in cui Bill scendeva le scale.”
“Stavo parlando con Bushido, è stata una risposta automatica.”
“Vuoi peggiorare la situazione?”
“No, sto solo cercando di spiegarti come sono andate le cose,” insiste. “Ero distratto, lui ha detto quella cosa e ho risposto.”
“Quello che lui ha detto è: come mi stanno questi pantaloni, amore,” gli ricordo. “E mi pare chiaro che ti senti ancora compreso nella definizione.”
“Non mi sento affatto compreso nella definizione.”
Rido. “Oh ma ti piacerebbe tanto, vero?”
Chakuza tace perché sappiano entrambi che ho ragione, quindi è meglio se non replica dicendo che ormai Bill è acqua passata perché non è vero. Se quel ragazzino si svegliasse un giorno con la voglia di prenderlo a calci nelle gengive, Chakuza lo lascerebbe fare e gli chiederebbe pure di usare la punta rinforzata. Fa tanto l'uomo furioso, e poi si scioglie non appena la principessa lo guarda un po' più del necessario. E anche Bill avrebbe bisogno di una bella strigliata, ogni tanto, perché è vero che ora non vede che Bushido, ma se si risparmiasse di abbassare lo sguardo con le guance rosse quando Chakuza è in giro, risparmierebbe a tutti un sacco di acidità di stomaco.
Tutto il resto del viaggio lo facciamo in silenzio. O meglio, lui prova a dire qualcos'altro ma tanto sono solo cazzate per cui gli dico di stare zitto e almeno stavolta mi fa la cortesia di starmi a sentire.
Come se questa serata non fosse già stata abbastanza, torniamo a casa per scoprire che il tecnico che abbiamo chiamato nemmeno una settimana fa, in realtà non ha riparato un cazzo perché la caldaia è di nuovo rotta e nell'appartamento ci saranno due gradi e mezzo. In realtà non dovrebbe fare così freddo, perché non è ancora stagione, ma visto che viviamo in un perenne stato di sfiga nera, era anche piuttosto ovvio che la caldaia andasse a rompersi nell'unico anno in cui a settembre fa freddo come se fossimo in pieno inverno. Senza contare che questa casa ha i muri così sottili che basta un soffio di vento e c'è bisogno della sciarpa anche solo per passare un paio d'ore davanti alla TV in salotto.
Proviamo ad aprire al massimo i termosifoni ma non succede niente perché il problema è in cantina, come al solito. “Vado a dare un'occhiata,” dico prendendo la torcia. “Tu intanto cerca delle coperte pesanti, perché non credo che ci sia molto da fare. E guarda nel ripostiglio, dovrebbe esserci ancora quella ridicola stufa elettrica che abbiamo usato a Capodanno.”
Vado nel locale caldaie più per non averlo sotto gli occhi che per risolvere la situazione, anche perché sono quasi sicuro che non ci sia assolutamente niente da fare. Il tecnico ha detto che si trattava di un qualche pezzo – naturalmente costosissimo – da riparare e, dopo aver emesso una fattura che al confronto le estorsioni di Arafat sono plausibili richieste di pagamento per un servizio offerto, se n'è andato fischiettando e lasciando la caldaia esattamente com'era prima. La luce in questa specie di cantina non funziona mai e non c'è da sorprendersi visto che l'unica fonte di illuminazione è una lampadina da 25W appesa ad un filo che uno dei vecchi condomini deve aver tirato trent'anni fa, alla faccia dei sistemi di sicurezza dell'impianto elettrico. E' fulminata, naturalmente. E Meno male che il quadro elettrico è saltato di recente e Chakuza ha chiamato anche l'elettricista, sennò chissà che buio.
Quando apro la porta, che ovviamente cigola, la lampadina si mette ad oscillare macabra e io vedo l'ombra muoversi sul pavimento, nel cono di luce che ho creato entrando. Sembra la scena di un film dell'orrore. Adesso scendo per queste scalette anguste e chissà che cazzo ci trovo là sotto.
Accendo la torcia ed illumino un po' intorno, come se questo potesse salvarmi nel caso qualche esperimento genetico fosse davvero sfuggito da un laboratorio qui vicino e si fosse introdotto in questo palazzo fatiscente passando attraverso le fogne.
La caldaia che corrisponde all'appartamento di Chakuza è naturalmente quella più lontana dall'entrata e incastrata in un rientro nel muro che per raggiungerla devo fare i chilometri e lasciarmene alle spalle altrettanti di buio. Questa stanza non mi era sembrata così inquietante l'ultima volta che sono stato qui, forse perché ero troppo impegnato a tenere a bada Chakuza e le sue mani.
Quando alla fine arrivo alla caldaia, scopro che era esattamente come pensavo, ossia quella se ne sta lì e mi dice che non c'è pressione e io non so cosa farci. Provo a tirargli un paio di colpi con la torcia, ma quella rimane della sua idea e non funziona. Giusto per essere sicuri controllo anche un paio delle altre e sono tutte morte come quella del Chaku, quindi direi che è un problema dell'intero palazzo.
Torno all'appartamento recando pessime notizie, e trovo Chakuza che cerca di rimettere nel ripostiglio tutto il ciarpame che dev'essere esploso fuori quando ha aperto la porta. Là dentro c'è stipata talmente tanta roba sotto pressione che è sempre un pericolo passarci davanti, perché potrebbe esplodere. Almeno ha trovato la stufa e una pila di coperte.
“Non c'è pressione,” annuncio rientrando in casa, e vedo la sua testa che si affaccia subito dal corridoio. “Ma non è la tua caldaia. Tutto l'impianto è andato.”
“Fantastico,” commenta. Lotta con il mostro di cianfrusaglie che vive nel suo ripostiglio, ma alla fine vince lui e riesce a chiudere la porta. “Almeno la stufa funziona.”
“Bene. Vuoi quella o le coperte?”
“In che senso?” Chiede puntualmente lui.
“Non ho alcuna intenzione di dormire con te,” rispondo. “Quindi prendo il divano. Stufa o coperte?”
Lui trasfigura, come ogni volta che per qualche motivo succede qualcosa del genere. Se io sono qui in questa casa, la possibilità che non passi la notte nel suo letto non è nemmeno contemplata; quando ciò avviene, occupa istantaneamente il secondo posto nella sua scala delle tragedie. Visto che rimane con la bocca aperta un tempo sufficiente a farmi credere che sia morto in piedi, decido io. “Okay, tu prendi la stufa, io tengo le coperte,” dico, recuperandone un paio e sistemandole sul divano.
Solo allora lui si libera dall'incantesimo che lo aveva trasformato in pietra e mi segue, disfacendo il letto dove io lo faccio. “No, tu non dormi sul divano.”
“Invece è esattamente quello che farò,” ribadisco.
Sistemo il cuscino e lui lo toglie. “Tu non puoi dormire sul divano,” si corregge.
“Posso eccome, Chakuza.”
“Questa è casa mia e io non voglio che tu dorma sul divano,” sbotta lui, strappandomi dalle mani una coperta e gettandola via con stizza. Mi ricorda un po' quei ragazzini che prestano il loro pallone per giocare a calcio e poi se lo riprendono non appena iniziano a perdere.
“Ho capito,” annuisco e mi giro per rimettermi il cappotto.
Lui sospira, maledicendosi a voce abbastanza alta perché lo senta perfettamente anch'io. “No, Fler! Fler, aspetta! Non era questo che volevo dire. Mi è uscita male,” mormora, mentre mi segue verso l'ingresso.
“La cosa non mi sorprende affatto.”
“Non voglio che tu dorma in salotto perché sono io che ho fatto casino, quindi al massimo è il sottoscritto che deve dormire sul divano,” dice tutto d'un fiato, prima che io riesca ad aprire la porta. “Anche se preferirei che dormissimo entrambi nel letto.”
Io rimango fermo con la mano sulla maniglia qualche minuto e poi mi giro molto lentamente. “Peter...” mormoro frustrato. Giuro che a volte mi drena.
“Ho aperto bocca a sproposito, d'accordo. Allora fammi scusare. Se dormi sul divano è l'inizio della fine. Il passo successivo sarà riprenderti lo spazzolino da denti e la tazza per la colazione. Alla fine della settimana avrai già fatto le valige e sarai tornato da tua madre.”
“Peter, stai delirando!” Esclamo sconvolto.
“E allora fammi smettere di delirare e dormi nel letto!” Protesta lui, sgranando gli occhi.
Io scoppio a ridere, perché davvero non so che cos'altro fare.
Sono qui sulla porta e sto per andarmene senza sapere nemmeno se tornerò e lui si fa quasi prendere da una crisi isterica, cominciando a parlare di spazzolini da denti. E' una situazione surreale, eppure direi che dovrei esserci abituato.
“Per favore?” Tenta lui, in ritardo, come al solito.
Sospiro e mi tolgo il cappotto per la terza volta stasera. “D'accordo, Peter, ma sia ben chiaro che il fatto che io accetti di dormire nel letto con te non significa assolutamente che ti toccherà qualcosa stasera, anche perché sono ancora incazzato.”
“Naturalmente,” annuisce lui, tutto convinto.
Dieci minuti dopo siamo distesi a fissare il soffitto e io so che lui sta cercando nella sua testa le parole da dirmi, lo so perché non parla da un sacco di tempo e non tenta nemmeno di allungare le mani, il che può significare soltanto due cose, che dorme – ma dal respiro direi di no – o è molto concentrato.
“Ti esploderà il cervello con tutto questo pensare,” dico alla fine, perché voglio sapere se posso dormire oppure se devo aspettare che mi dica qualcosa.
“Non voglio sbagliare a parlare, stavolta,” si giustifica.
Sospiro, piegando una mano dietro la testa. “Sono quasi sicuro che lo farai lo stesso ma, andiamo, provaci. Ti sto ascoltando.”
Lui prende bene fiato, prima di rispondere. “Lo so che sentirmi rispondere in quel modo non è stato piacevole, ma ti giuro che non l'ho fatto apposta e che, se potessi, tornerei indietro e me lo rimangerei. Non posso farlo, però.”
“Va' avanti.”
Fa un sospiro di quelli fatti bene, che preannunciano cose che voglio sentire anche se non mi piacciono affatto. “Ho ancora difficoltà a dimenticare Bill,” ammette infatti “questo è vero e già lo sai, ma quella risposta non aveva nessuno significato. Mi è uscita di bocca come poteva uscirmi di bocca 'ancora cinque minuti' quando mia madre mi svegliava la mattina. Non è niente.”
Io rimango in silenzio e continuo a fissare il soffitto solo ed esclusivamente per farlo preoccupare ancora un po'. In realtà la rabbia mi è passata da un pezzo, più o meno quando ha cominciato ad agitarsi come se avessi minacciato di cambiare continente, ma voglio godermi un po' questo momento in cui, miracolosamente, sono una priorità.
“Fler?”
“Hmn.”
“Mi dispiace.”
Sorrido e mentre lo faccio, lui già mi scivola addosso, segno che mi stava osservando in attesa di una reazione. Dovrei dirgli di smettere perché non se lo merita, ma me lo merito io.
Quindi lo lascio fare.

Mattine come questa sono quelle che preferisco. Quelle in cui posso prendermi il mio tempo per aprire gli occhi, stiracchiarmi, stendere le gambe nel tepore immobile delle coperte e sgranchirmi tutto, piano piano, senza fretta. Mattine piacevolmente vuote, rilassate, tranquille. Di quelle che pensi di poter sentire sotto le mani, morbide. Mattine pigre come sbadigli, in cui il pensiero di non avere niente da fare ti culla un po’, e tu lo lasci fare perché sul serio, quante volte capita di potersi svegliare dicendosi che oggi potresti stare anche tutto il giorno a letto e non sarebbe un dramma perché tanto non sei atteso da nessuna parte, non devi incontrare nessuno e non c’è nessun beat ancora da limare che ti aspetta in sala incisioni per essere perfezionato e diventare una base.
Spesso, per non dire ogni volta, proprio perché una condizione simile è molto rara, in realtà non è vera. È una bugia che la tua mente ti sta raccontando. Tu sei lì al calduccio che ti fai i fatti tuoi e progetti vite intere sotto le coperte, chiedendoti se potrà esistere un modo per collegare con un filo e un paio di tubi, o magari una catena di montaggio elementare, il tuo letto, la cucina e il cesso, per avere tutto ciò che ti serve senza doverti praticamente muovere, e la tua testa avalla questi tuoi pensieri bisbigliando “ma sì, credici pure, progetta quanto vuoi, tanto oggi non c’è niente da fare!”, quando in realtà non potrebbe esistere niente di più lontano dalla verità. Però tu in quel momento non te ne accorgi.
La cosa vale anche per me, ma naturalmente in quel momento lì, come ho detto, non ci penso. E sono molto felice.
Quando apro gli occhi, c’è luce in tutta la stanza. Chakuza non chiude quasi mai le tapparelle, ma è raro che io riesca a vedere la luce del sole invadere completamente l’ambiente, perché quando mi sveglio in genere è troppo presto per assistere ad uno spettacolo simile. Le cose da fare, appunto, ci sono sempre. Quando ti svegli ogni mattina alle sette, sia perché devi andare agli studi o sia perché non è il caso di prendertela troppo comoda, visto che non sei a casa tua, al più puoi vedere le prime luci pallidissime che rischiarano l’ambiente, quando non è inverno e quindi di tiri su ancora col buio, ma stavolta invece c’è luce ovunque, si stende in lunghe strisce oblique per tutte le pareti, prendendone la forma, seguendone le linee.
Sollevo un braccio e il sole batte contro la mia pelle. Sulla parete si forma una macchia d’ombra, la guardo, sorrido e tiro giù il braccio, lasciandolo ricadere sul materasso per ridare alle strisce di luce la loro ordinata continuità.
Chakuza, qui accanto a me, all’improvviso si mette a ridere. Non mi ero accorto che fosse sveglio.
- Che stai facendo? – mi chiede. Io scrollo le spalle ed affondo fra i cuscini, ma non rispondo. Mi limito a sorridergli. Anche stanotte mi sono fermato a dormire qui come se fosse una cosa normale. Dopo aver scopato, esausti com’eravamo ci siamo lasciati ricadere sul materasso con un grugnito di approvazione. Chakuza s’è liberato del mio braccio che, in qualche modo, gli era planato sulla faccia nel movimento, e poi s’è voltato per dormire. Stessa cosa ho fatto io. E lui non mi ha chiesto conferme – niente domande del tipo “resti?”, che fino a qualche tempo fa un sacco frequenti, fra noi, anche se naturalmente parlo di un “qualche tempo fa” lontanissimo nel tempo – ha preso la mia presenza per un dato di fatto e io in realtà gliene sono stato grato, perché talvolta ricordarsi di mantenere un certo distacco e pensare di doversi alzare in piedi e fare almeno finta di cercare i vestiti per rimetterseli addosso a ritornare a casa prima che lui mi fermi chiedendomi di rimanere è talmente fastidioso – e ridicolo – da sfiorare l’assurdo.
Ieri sera, dunque, sono rimasto, e ora mi sento vagamente in difetto. Voglio dire, so che è assurdo, so che non dovrei, e tra l’altro è davvero ridicolo che due anni fa fossi già riuscito a superarlo, questo problema che adesso sembra tornato a farsi avanti, però davvero. Non è neanche il dormire con una persona che mi scombussola, con Danny l’ho fatto continuamente per mesi – Danny, santo cielo, devo proprio smettere di pensare a Danny, anche se negli ultimi giorni ha ricominciato a farsi sentire e io non sono granché sicuro di riuscire a gestirlo come dovrei, cioè allontanandolo di nuovo – è proprio lo stare con Chakuza, stare con lui come si sta in coppia che ogni tanto mi… non lo so. Mi turba troppo. È semplicemente strano, come sono strane quelle cose buffe che sembrano non avere spiegazione, come ad esempio quei trucchi di scena con cui i maghi ti fanno credere di aver segato in due il corpo della loro procace assistenza. Tu sai che dietro c’è una spiegazione perfettamente razionale, ma per quanto ci pensi non riesci a trovarla, quindi finisci per rimanere a fissare il tutto con aria ebete, come un bambino che non ha ancora visto nulla del mondo, e per quanto stupido ti sembri accetti quella cosa impossibile come possibile pure senza spiegartela, perché tanto, ti dici, non ci arrivi, è così e basta. E per me ora è uguale, io mi sento strano, sono convinto che ci sia una spiegazione razionale dietro, ma non la capisco. Che posso farci?
Talvolta, seriamente, credo di aver solo bisogno di sentirmi dire che sono normale, che sono ancora io, lo stesso che ero a quattordici, a diciotto, a venti, a venticinque anni. La cosa non è più tanto scontata com’era un tempo.
Nel mentre continuiamo a restare in silenzio, che non è una cosa brutta, in realtà, perché non è un silenzio di quelli imbarazzati. Non è che ci guardiamo negli occhi con aria confusa chiedendoci che cosa diamine stiamo facendo in questo letto così vicini, anche perché peraltro lo sappiamo benissimo cos’è che stiamo facendo in questo letto così vicini. Io guardo un po’ fuori, e c’è un bel sole. Dagli alberi che costeggiano la strada giunge il canto degli uccellini di città – questi esserini piccoli, fragili e spenti, che cantano solo alla mattina perché per tutto il resto del tempo la loro voce sarebbe inutile, sommersa dal traffico e dai rumori dei passanti – e io penso due cose contemporaneamente. Una è che sono ancora convinto di non avere niente da fare oggi, e vorrei che questa convinzione potesse durare ancora un po’, ma non è facile che sia così se penso alle ore che passano, al traffico che ci sarà e a quello che scorre fuori da quella finestra, motivo per il quale smetto di guardarla e torno a fissare la luce sulla parete. L’altra è che, malgrado io non abbia ancora ben chiaro quasi niente della giornata di oggi, quello che invece riguarda la giornata di ieri riesco a richiamarlo alla memoria senza la minima fatica.
Decido che è il momento di parlare, e dato che sto pensando a ieri tanto vale battere il ferro finché è caldo.
- Certo che non ho mai capito cosa ci trovi tu in Bill. – butto fuori d’un fiato, ma abbastanza tranquillamente da sperare di non preoccupare Chakuza. Non è che voglia farlo sentire attaccato o che, è solo che sono profondamente convinto che uno dei motivi per cui da questa cosa non ci si muove risiede nel fatto che Chakuza non ne parla. Mai. È il suo più grande tabù, non c’è modo di scucirgli informazioni al riguardo, e io se devo dire la verità non ci ho nemmeno provato granché, voglio dire, sono masochista ma non così tanto, ma è evidente che devo risolvere questo problema, se non voglio che scene come quella di ieri continuino a ripetersi all’infinito, anche quando noi quattro cavalieri dell’Apocalisse saremo vecchi decrepiti e Chakuza, Bushido ed io staremo seduti sulle nostre sedie a dondolo nel porticato della casa al mare che palesemente divideremo, e Bill uscirà chiedendoci se sta bene con la nuova dentiera. Ecco, vorrei evitare che allora Chakuza si permettesse ancora di rispondergli che sta benissimo all’unisono con Anis, perciò rimbocchiamoci le maniche e risolviamola adesso, finché siamo ancora in tempo.
Ovviamente, Chakuza si preoccupa lo stesso, perché nominare Bill di fronte a lui è un po’ come prendere una pistola e darla in mano al primo passante capiti a tiro: magari è un tipo freddo e tranquillo e la posa senza fare danni; magari invece è uno nervoso e isterico e fa partire un colpo, però. Quando nomini Bill non sai mai se Chakuza stia abbastanza bene da tenere ferma la mano, o se comincerà a tremare e sparerà a qualcuno.
- Niente. – risponde infatti, sulla difensiva, aggrottando le sopracciglia nell’unica espressione al mondo che fa sembrare cattivi i suoi lineamenti rotondi, l’espressione brevettata dei video musicali.
Io inarco un sopracciglio.
- Ci sei andato a letto per simpatia? – gli chiedo, con una mezza risata, e non posso davvero credere che stia cercando di rifilarmi la storia del non-è-stato-davvero-così-importante. Nel senso, ok, Chaku, capisco dove vuoi arrivare, sei molto carino a preoccuparti per me e a non volermi dire cose che potenzialmente credi che sarebbero in grado di farmi male, ma… no. Cioè, c’ero anch’io mentre accadeva, ricordi? Via.
- È carino. – insiste lui, socchiudendo gli occhi e grattandosi la fronte, naturalmente sordo alle mie mute protesta, - Fine.
Sospiro. È mai possibile che con quest’uomo non ci sia mai modo di avere una conversazione normale?
- È… strambo. – dico io, - E dolce. Secondo me è tutto qui. È come avere una sorellina. Almeno per me. – preciso, perché mi pare evidente che per lui non era così, anche se ora sta cercando di fare di tutto per darmi a bere il contrario.
La mano che grattava la fronte di Chakuza si abbatte contro il suo viso e poi scende a coprirgli gli occhi, mentre lui si lascia andare ad un sospiro affranto. A Chakuza non piace granché parlare, lo so, non è bravo a spiegarsi – non sempre, almeno. Anche lui ha i suoi momenti, comunque – io, invece, mi ci diverto da morire. Mettere in difficoltà il prossimo, irritarlo anche fino a fargli perdere il lume della ragione, è sempre stato un gioco divertente. Quando sei piccolo e cresci in un ambiente come il mio, la prima cosa che capisci è che ti devi fare grosso e muscoloso, perché devi costantemente avere a che fare con tipi che saranno sempre più grossi e più muscolosi di te, motivo per il quale devi cercare quantomeno di avvicinarti al loro standard per poter pensare di uscire vivo da una rissa. In attesa di quello, però, quando sei ancora un ragazzetto pelle e ossa senza un pelo e con gli occhi troppo grandi su una faccia troppo magra, devi sopperire ciarlando, e sperando che chi ti incontra sia stupido abbastanza da permetterti di rincoglionirlo quel tanto che basta da sfuggirgli dalle mani. Se hai la velocità delle gambe dalla tua, quella della lingua può completare il quadro che può riuscire a salvarti il culo anche in situazioni disperate. Il più delle volte è stato così che mi sono salvato io, nel periodo in cui cercavo di fare di tutto per portare a termine i miei compiti da solo, senza Anis in giro, per impressionare Arafat.
Chakuza, e lo dico con tutto l’affetto del mondo, credetemi, è abbastanza scemo da concedermi svaghi di questo tipo. Dico, non vuoi parlare seriamente di Bill per esorcizzarlo? D’accordo, va bene per me, ma allora lasciati torturare.
- Ma ti senti quando parli? - si lamenta, la voce un po’ attutita dalla mano ancora pressata con forza sul volto, - Come una sorellina? Mi sento male.
E certo che ti senti male, Chaku. Questo dimostra che tu non l’hai mai visto come una sorellina, tanto per cominciare, e anche che tutti quei bei discorsi di prima sul fatto che è solo carino ed è per questo che ci sei andato a letto per una vita e mezzo non erano altro che fesserie. Ma va be’.
Resto in silenzio per un intervallo di tempo che non sembra solo enorme, lo è. Chakuza ha bisogno di riprendersi, palesemente, e io gliene dà modo, perché non mi va di troncare la conversazione. Scherziamo? Mi sono divertito e vendicato ancora troppo poco, non esiste indisporlo al punto da costringerlo ad alzarsi in piedi e fuggire lontano. Voglio rosolarlo a fuoco lento.
- E a letto com’è? – chiedo quindi dopo un po’, senza muovermi di un millimetro.
- Fler! – sbotta lui, sconvolto, girandosi impercettibilmente a guardarmi.
- Be’, che c’è? – insisto io, scrollando le spalle e mantenendo una calma apparente tale che non capisco com’è che i membri dell’Academy non fanno irruzione dalla finestra appesi a delle funi per consegnarmi un Oscar estemporaneo per meriti acquisiti sul campo, - Sono curioso! Avrà delle qualità non da tutti, se è riuscito a rincoglionirvi senza speranza tutti e due.
Chakuza non risponde. Allunga una mano ad afferrare il cuscino in più che sta in mezzo fra i nostri guanciali e se lo schiaccia sul viso con un lamento disperato. In realtà in questi momenti così io mi diverto sempre tantissimo. Era una cosa che capitava spesso quando abbiamo cominciato a vederci più spesso, intendo, dopo l’incidente del tappeto e tutto. Ho usato una quantità spaventosa di armi, contro Chakuza, non solo la lingua. E non solo nel senso di usarla per parlare. E so che questi sono i momenti in cui Chakuza è sempre un po’ sul punto di mandarmi via, perché lo spalla che, in mezzo a tutti i poteri che lui ha su di me, ce ne sia uno che solo io posso vantare su di lui, ed è quello di riuscire a metterlo in imbarazzo. Lui, un uomo che non s’imbarazza praticamente mai. Quindi sì, lo so che in questo momento, come in tanti altri, si copre il volto e sta zitto solo perché vorrebbe potermi mandare via. In realtà mi esalta che non lo faccia mai.
Rido e mi giro sullo stomaco, sistemandomi a pancia in giù sul materasso ed allungando un braccio per togliere il cuscino di mezzo.
- Allora? – insisto curioso, - Dimmi!
- Non lo so! – si lamenta lui, cercando di coprirsi di nuovo con le mani.
- Sì che lo sai! – ride ancora io, - Anzi, dal fatto che non lo dici, immagino che debba essere parecchio bravo. Questo almeno spiega la follia di ieri sera.
- Possiamo smettere di avere questa conversazione? – implora debolmente Chakuza, sull’orlo di una crisi isterica. Io rido ancora, e naturalmente non gli do retta.
- Quante volte al giorno lo facevate? – chiedo, avvicinandomi un po’ per guardarlo in viso.
- Fler… - mugola lui, arreso.
- Una? – insisto io.
- Ma non hai niente da fare, stamattina? – piagnucola Chakuza. Qualche campanello dovrebbe suonare nella testa di entrambi, in questo momento, ma non suona. Io sono ancora perfettamente immerso nell’aura di beatitudine che mi accompagna dal risveglio, peraltro, convintissimo che il mondo non avrà mai più bisogno di me e che perciò posso anche mettere radici su questo materasso per tutto il tempo che mi resta da vivere, e nessuno avrà mai di che lamentarsene.
- No. – rispondo infatti, e sto mentendo, ma ancora non lo so. Che non se ne accorga neanche Chakuza, però, è abbastanza grave. – Due? – ritorno a insistere, - Tre, magari?
Chakuza non dice nulla, si limita a sospirare.
- Tre volte al giorno?! – sbotto sconvolto, e sento aprirmisi sulle labbra un sorriso incredulo ma anche parzialmente divertito. – Wow! Devi dirmi tutto. Cioè, seriamente, mai visto Bill in quelle vesti lì. Adesso sono curioso sul serio.
- Sei una piaga, Fler! – sbotta lui, scuotendo con decisione il capo, - Che devo fare per farti stare zitto?!
Io ridacchio, sistemandomi fra le lenzuola e piantando i gomiti sul materasso.
- Non so, che ne dici di rispondere? – suggerisco, - Quando sono soddisfatto, smetto.
Lui si volta a lanciarmi un’occhiata truce.
- Giuralo. – intima freddamente.
- Ma sì, sì, giuro. – concedo io, con un breve cenno del capo. – Allora?
Chakuza si prende il proprio tempo per sospirare ancora e sistemarsi meglio contro il cuscino. Solleva la schiena ed il lenzuolo che lo copre scivola giù lungo il suo corpo, arrotolandoglisi pigramente in grembo. Seguo il movimento del tessuto forse con un po’ troppa insistenza, ma mi riprendo subito, anche perché se si accorge che lo sto fissando troverà sicuramente modo di usare il dettaglio contro di me, e allora addio tortura.
- Cos’è che vuoi sapere? – si rassegna a chiedere, già palesemente esasperato prima ancora di cominciare a parlare.
- Be’, la prima volta, tanto per cominciare. – annuisco io, incrociando le braccia sul materasso, - Com’è stato?
Chakuza mi getta addosso un’occhiata dubbiosa.
- Non ti prenderà una delle tue solite paranoie, quando ti risponderò, giusto?
Rido ancora. Chakuza, ti prego, ma sei convinto di che? Guarda che lo sto portando avanti io il gioco in questo momento. Certo che ti sfuggono certi passaggi fondamentali che io veramente, boh, non so, alle volte, guardandoti, come sia possibile che tu esista. O sia sopravvissuto a te stesso.
- Ma va’. – rispondo rassicurante, - Avanti, sono solo curioso.
Chakuza sospira ancora ed aspetta qualche altro secondo. E in quei secondi riesco a vedere una sorta di soddisfazione mal dissimulata farsi strada nei suoi occhi e poi nella piega delle sue labbra, che si fa meno tirata e severa. La naturalezza con cui quest’espressione viene fuori è tale che, anche se dovrei arrabbiarmi un po’ – un bel po’ – nonostante l’abbia rassicurato sul contrario, non riesco. Sembra tutto così innocente che davvero non mi pare il caso.
Quando Chakuza parla, subito dopo, lo fa come si stesse tirando fuori dal petto un peso insostenibile.
- È stato grandioso. – annuncia seriamente, annuendo pure, come per dare forza alla cosa.
Mi viene da ridere in modi che nessuno che non sia me può comprendere. Cioè, guardatelo, tutto serio e compito, come se stesse dando un giudizio di merito di quelli che si danno durante le gare sollevando il cartellino col numero. No, ma io seriamente con quest’uomo non ce la posso fare, la sua pazzia è tale che pure nei momenti di normalità mi surclassa. E io tanto sano non sono di certo.
Comunque, riesco a trattenere le risate ed imito la sua espressione seriosa, annuendo a mia volta.
- Grandioso in che senso? – chiedo, - È stato come con una femmina o la faccia è tutta un bluff? – ridacchio. Mi fa bene prenderlo un po’ in giro, di tanto in tanto, il ragazzino. Davanti a lui non si può, che poi gli si riempiono gli occhi di lacrimoni perché non capisce mai se stai scherzando o sei serio, ma con Chakuza che non ci capisce niente, neanche che fra le altre cose sto prendendo per il culo anche lui, è molto più semplice.
- Ma non c’entra niente con le femmine, è tutta un’altra roba. – precisa infatti, agitando la mano come a voler dissolvere quell’ipotesi assurda, totalmente dimentico del fatto che pure io lo so perfettamente bene che con le femmine non c’entra niente. Dio, quant’è facile. – Cioè, di base è lo stesso, - mi illustra. Chaku, grazie, senza di te non l’avrei mai saputo, - ma ci ho perso la testa perché non me lo aspettavo, capisci, che la pressione fosse così forte. Insomma, Bushido nudo per voglia o per forza l’abbiamo visto un po’ tutti, - aggiunge, lanciandomi un’occhiata che nella sua testa è carica di allusioni. Ah, Chaku. Ti prego. – e conoscendo le dimensioni e sapendo quanto tempo erano stati insieme non me l’aspettavo per niente.
Annuisco ancora. Io non so se seriamente si rende conto del discorso totalmente allucinante che sta facendo, ma comunque starlo a sentire è uno spasso. Peraltro mi sovviene che la sua prima volta con un maschio è stata con me, che di sicuro non avevo il traforo del Monte Bianco nel culo, perciò mi viene da pensare che, se Chakuza quella notte fosse stato lucido abbastanza da accorgersi delle cose, probabilmente da quel momento in poi avrebbe decantato il mio sedere come la cosa più meravigliosa mai concepita da qualsiasi essere umano o divino che abbia mai calcato l’orbe terracqueo. Poi naturalmente c’è da dire che, se Chakuza quella notte fosse stato lucido abbastanza da accorgersi delle cose, difficilmente mi avrebbe piegato a novanta sul tappeto del suo salotto, per cui niente. Ho avuto la prima volta, ma non mi prenderò mai i complimenti dello chef. La vita a volte è ingiusta.
- È davvero così stretto? – chiedo con entusiasmo, - Dovrò provarci, qualche volta.
Chakuza si irrigidisce tutto come un pezzo di legno, e si allontana impercettibilmente. Oh, Dio. Lui doveva essere al bagno quando la mamma distribuiva i cervelli.
- C’è altro che volevi sapere? – butta lì frettoloso, spasimando per cambiare discorso.
- Non andare in paranoia, - lo prendo in giro, - non mi avvicinerei mai alla nostra illustre principessa. – aggiungo in un ghigno, al quale lui risponde con un’occhiataccia offesa. Fra le tante regole che vigono in questa casa, oltre alla prima che è quella di non nominare il nome di Bushido invano, c’è anche quella per cui è vietato perfino accennare alla sua esistenza e alle conseguenze che ha sul mondo circostante, almeno fino a quando non è impossibile fare altrimenti. Il fatto che io possa chiamare Bill “principessa” è palesemente una di queste conseguenze e, in ogni caso, adoro non rispettare nessuna delle regole che Chakuza crede di potermi imporre. Ha. – Comunque, - riprendo, - voglio sapere quante volte l’avete fatto quella notte. E se è venuto. E come l’hai fatto venire. E se è venuto tutte le volte. – mi fermo, faccio mentalmente il conto, poi torno a guardarlo, - E quante volte sei venuto tu, anche!
Chakuza lascia andare un mugolio irritato e confuso.
- E cosa vuoi, un resoconto dattiloscritto…? – biascica, - Comunque due. – risponde alla fine, cercando di ricordare tutte le domande, - E sì. Con la mano. Ancora sì. E… due. No, - precisa poi, - tre. – ammette con un certo imbarazzo.
A questo punto, il buon dio che protegge gli sfigati mi perdonerà, non ce la faccio più: rido e mi abbatto di faccia contro il materasso, affondando il viso sul cuscino per evitare di svegliare tutto il vicinato.
- Sei venuto tre volte?! – strillo incredulo, battendo un pugno fra le coperte, - Dev’essere stato bello davvero! E bravo Chaku!
Lui risponde con un borbottio indefinito, incrociando le braccia sul petto ed affondando col collo fra le spalle, fissando dritto la parete di fronte, come esistesse solo quella. Io cerco di riprendermi, per quanto non sia semplice, e torno a mettermi dritto. Ci metto un po’, a formulare la domanda successiva, perché è un tipo di domanda che conosco molto bene: quella che in genere ci porta lungo la china scivolosa di una mezza litigata che finisce per affogare invariabilmente nello stesso identico posto – fra le lenzuola. Oppure andandocene alternativamente di casa, ma più spesso fra le lenzuola, sì.
- E… - chiedo alla fine, - è stato così bello solo con lui?
Chakuza lascia andare un sospiro la cui traduzione letterale è “lo sapevo”. E io mi rimetto a ridere. Però più piano.
- Qui ti volevo… - commenta, scuotendo lentamente il capo, - No, non lo è stato solo con lui. – ammette infine, voltandosi a guardarmi, - Tu sei tutta un’altra cosa, però. Non ci sono paragoni da fare.
Rido ancora, e so che gli ho detto di non preoccuparsi, che l’avrei presa bene e tutto, ma un po’ mi piace sentirmi rassicurare così, anche su cose così idiote. E comunque gli riesce molto meglio quando dice la verità.
- Non fare il figo, adesso… - sbuffo divertito, - E comunque non volevo sapere se sono meglio di lui o no… solo se sono bravo anche io. – mi fermo per intercettare lo sguardo incredulo e vagamente ilare di Chakuza, ma blocco sul nascere qualsiasi battuta aggrottando le sopracciglia e tornando ad incrociare le braccia. Sia mai che ora mi faccia perculare da lui dopo essermelo rigirato sul palmo della mano per l’ultima mezz’ora. – E non guardarmi così. – borbotto, - Uno poi se le chiede, certe cose, se non è un cagasotto. Puoi rispondere, voglio saperlo. Ne va del mio onore di uomo.
Chakuza ride lievemente e mi guarda, ed a me per un secondo sembra di poter vedere solo i suoi occhi, sottili e verdi da far paura. Come riesca a sconfiggermi con un’occhiata nonostante tutto quello che gli ho fatto passare stamattina, proprio non lo so. È uno dei misteri che mi tengono attaccato a lui, suppongo.
- Hai detto che non hai niente da fare stamattina, giusto? – mi chiede, apparentemente senza nessun motivo. Qui non dovrebbe squillare un campanello, ma l’intero campanile di una chiesa. Solo che non ce n’è, nelle vicinanze, per cui continuiamo a illuderci rotolandoci idealmente nella deliziosa sensazione di ozio prolungato in cui ci siamo immersi senza pensare.
- No. – ribadisco, e visto che ormai sono quasi le nove la mia menzogna è talmente enorme che potrebbe quasi fare il giro e diventare una verità, - Ma che c’entra?
Chakuza si solleva e l’attimo dopo mi è addosso, ogni centimetro di pelle perfettamente aderente alla mia, il petto forte contro la schiena, il bacino già duro di desiderio contro il sedere, le gambe a cercare spazio fra le mie.
- Ottimo. – commenta solamente, chinandosi a baciarmi la schiena, seguendo il disegno della colonna vertebrale.
Io rido – ho i brividi fin nello stomaco – e faccio per scappargli da sotto le mani.
- Sei scorretto… - biascico, cercando di afferrare il cuscino per tirarlo via e scavarmi di prepotenza una via di fuga.
Chakuza allunga le braccia a coprire le mie e mi si spinge un po’ contro, in una domanda silenziosa.
- Mh-mh. – annuisce, - Anche tu, a fare certe domande. – e mi sospira sul collo, mentre io mi mordo un labbro.
- Mmmh… - mugolo, socchiudendo controvoglia gli occhi, - È vero, lo ammetto. Però… - m’interrompo un attimo, lanciando a Chakuza un’occhiata incerta oltre la spalla, e qui non ho davvero idea di cosa volessi aggiungere, perché appunto nel momento in cui mi volto a guardarlo del tutto accidentalmente i miei occhi finiscono sulla radiosveglia poggiata sul comodino e, tutto insieme, mi rendo conto di che ore sono, di che giorno e oggi e anche del fatto che la mia mente mi ha preso per il culo fino ad ora esattamente come fino a due secondi fa stavo facendo io con Chakuza, ed anche esattamente come lui avrebbe cominciato a fare in senso meno metaforico da qui in avanti se non l’avessi fermato. – Cazzo! – sbotto, agitandomi sotto di lui, - Cazzo, cazzo, cazzo, Chakuza!
- …sì, ne ho uno che si sente molto tirato in causa, al momento. – risponde lui, inarcando un sopracciglio ma scostandomisi di dosso quando vede che non accenno a placarmi. – Ma che ti prende? – domanda incerto, steso su un fianco, mentre io scatto in piedi e comincio a cercare i miei vestiti.
- L’Ersguterjunge! – sbotto io, infilando le mutande e i calzini al volo, saltellando prima su un piede e poi sull’altro, - La presentazione! Cazzo, devo andare a firmare il contratto! Siamo già in ritardo! Cazzo, cazzo, cazzo!
La luce della consapevolezza si fa strada negli occhi ancora un po’ annebbiati di Chakuza, e il secondo dopo lo vedo alzarsi dal letto come una furia, afferrando al volo il primo paio di mutande che incontra e correndo in bagno.
- Bushido mi ammazzerà. – annuncia lapidario, pallido come un cencio.
A me scappa di nuovo da ridere, e continuo a farlo anche se penso che è vero, ma che mi sa che se perdiamo altro tempo ammazzerà con gioia entrambi.

*


Ieri notte, io e Bill siamo andati a letto presto. Dopo che Chakuza è corso dietro a Fler nel tentativo di recuperare l’irrecuperabile, lasciandomi lì sullo zerbino a chiedermi nelle mani di chi stavo lasciando uno dei pochissimi esseri umani per la cui felicità darei volentieri la vita, non è che ci rimanesse molto altro da fare. Ci siamo guardati negli occhi per un lungo, infinito istante e poi Bill è arrossito tutto all’improvviso, come se solo in quel momento si stesse rendendo conto del casino che, palesemente senza volerlo, peraltro, aveva combinato. Si è voltato repentinamente e, visto che era ancora a metà delle scale, ha cominciato a correre per tornarsene in camera, senza lasciarsi sfuggire neanche un suono. Io ho sospirato pietosamente, lanciando uno sguardo supplice al cielo stellato fuori dalla villa prima di rassegnarmi a chiudere la porta e seguirlo in camera.
- Bill? – l’ho chiamato piano, schiudendo la porta e sbirciando all’interno. L’ho trovato già senza maglietta, tutto preso ad armeggiare coi pantaloni, - Bill, è tutto ok?
Lui s’è voltato a guardarmi con un paio d’occhi che sembrava l’avessi insultato invece di chiedergli come stesse.
- Come, scusa? – mi ha chiesto, basito, strattonando i pantaloni qua e là nel palese tentativo di strapparseli di dosso.
- Ti ho chiesto se è tutto ok. – ho sospirato ancora io, entrando nella stanza e chiudendomi la porta alle spalle. Ancora una volta, lui m’ha guardato con incredulità evidente.
- Ma che domanda è?! – ha sbottato quindi, tirando i pantaloni ancora un po’ e non ottenendo neanche una piccola vittoria all’interno della grande guerra che stava conducendo contro di loro, - Dovrei chiederlo io a te!
- E invece, guarda un po’, te lo sto chiedendo io. – gli ho sorriso, sedendomi ai piedi del letto. – Vieni qui, dai. – l’ho chiamato, schiudendo appena le gambe per fargli posto, - Ti do una mano con quelli, o finirai per distruggerli.
Lui ha abbassato lo sguardo, ma s’è avvicinato comunque, restando in piedi di fronte a me.
- Non me ne frega niente. – ha borbottato con aria colpevole, mentre sfilavo il bottone dalla sua asola e lasciavo scivolare la zip verso il basso, - Meglio se si rompono. Non li voglio più mettere.
- Bill, saranno costati un patrimonio. – ho riso, tirandoli delicatamente lungo le sue cosce bianche e magre, - E oltretutto sembra che te li abbiano disegnati addosso. Ti stanno molto bene.
- Ma cosa vuoi che me ne freghi dei soldi e di come mi stanno! – ha sbottato ancora lui, appoggiandosi alle mie spalle mentre lo invitavo a sollevare una gamba e poi l’altra per sfilarglieli del tutto. – Combino solo casini anche quando voglio fare cose belle. – ha mugolato quindi, stringendo la presa attorno alla mia maglietta, - Giuro che non volevo che andasse a finire così.
Ho sollevato lo sguardo, incontrando i suoi occhi scuri e brillanti pur nella luce fioca dell’abat-jour.
- Lo so. – ho risposto annuendo, - Non sentirti in colpa.
Lui ha sollevato una mano, accarezzandomi lentamente una guancia.
- È piuttosto difficile non sentirmi in colpa con te. – ha detto quindi, mordicchiandosi l’interno di una guancia. Io ho aggrottato le sopracciglia.
- Non voglio che sia così. – ho detto severamente, e lui ha sorriso un po’, piegando appena un angolo della bocca.
- Lo sai che non puoi farci niente? – ha ribattuto con dolcezza, - Fra le tante cose che puoi fare… - ha sussurrato sfiorandomi le labbra con due dita, - e sistemare… - le sue dita si sono fermate appena sotto il mio labbro inferiore, - e riaggiustare, - ha sospirato profondamente, - la possibilità di togliermi il senso di colpa dal petto quando ti ferisco non rientra nella lista.
Ho sospirato e scosso il capo, stringendogli la vita con le mani. Lui ha poggiato le braccia sulle mie, sfiorandomi appena il collo con la punta delle dita.
- Non mi hai ferito. – l’ho rassicurato.
- Non l’ho fatto intenzionalmente, forse, - ha protestato lui, - ma—
- No. – ho scosso il capo io, - Non mi hai ferito. Bill, - ho sospirato profondamente, - durante tutto l’anno scorso, sono successe molte cose. – lui ha trattenuto il fiato, serrando le labbra, - E tante di queste cose sono state spiacevoli, per usare un eufemismo. E come lo sono state per me, lo sono state per te. Non credere – sono tornato a sollevare lo sguardo, piantando gli occhi nei suoi, - non credere neanche per un minuto che io possa mai perdere di vista questo dettaglio fondamentale. È stata dura per tutti e due. Io non sono una vittima. Non lo sei neanche tu. Abbiamo fatto un casino infernale e ne abbiamo entrambi pagato le conseguenze, ma siamo qui, adesso. E tu – ho riso un po’, inarcando un sopracciglio con presunzione, - credi davvero che, dopo l’anno scorso, un paio di pantaloni che combinano un mezzo disastro possano ferirmi? Io sono d’acciaio, piccolo. – ho detto, accogliendo sulla pelle la sua risata un po’ triste ma soprattutto sollevata quando mi si è seduto in grembo, circondandomi le spalle con le braccia, - Niente mi scalfisce.
Bill ha pianto un po’, accucciato fra le mie braccia. L’ho sentito piangere molte volte, da quando lo conosco, ma questo è stato un pianto tutto diverso rispetto agli altri pianti che s’è fatto da quando sono entrato nella sua vita, e credetemi quando vi dico che stiamo parlando di numerosi pianti. S’è trattato di un pianto dolce, sommesso, sollevato. Venato da un pizzico di felicità che mi ha stretto il cuore. Giuro che non mi sono mai sentito bene come in questo periodo, in cui io e Bill ci stiamo affrontando con onestà, sciogliendoci poco a poco, ritrovandoci poco a poco, imparando a conoscerci di nuovo, con tutte le cose che sono cambiate in noi e che inevitabilmente non potremo più riavere, ma anche con tutte quelle altre cose che invece sono rimaste uguali, o comunque molto simili, rispetto a quelle che avevamo un tempo. È come riscoprirlo da capo. Ma è sempre lui. Credevo fosse impossibile tenere fra le mani qualcosa di così antico e così nuovo allo stesso tempo, eppure Bill per me lo è.
Per cui, sì, abbracciati com’eravamo poi siamo andati a dormire, perché seriamente, fare altro per quella sera non era proprio plausibile. E poi c’era anche da pensare a stamattina, naturalmente.
Stamattina ci siamo svegliati non prestissimo, ma di buon’ora, entrambi molto emozionati. Ho una idea abbastanza precisa di quello che è successo qui fra Bill e Fler mentre io non c’ero. Ne ho un’idea abbastanza precisa non soltanto perché Bill e Fler mi hanno più o meno raccontato tutti i fatti, ma anche perché conosco entrambi a memoria ed avrei potuto dirvi con largo anticipo come avrebbero reagito e come si sarebbero comportati l’uno con l’altro nel caso si fossero conosciuti, anche senza dover sapere niente delle situazioni che li avevano spinti a incontrarsi. Non fatico per niente a capire che Bill è felice per quello che sta per avvenire esattamente quanto me. Ed infatti il suo viso sembra splendere di luce propria ora che siamo qui nel mio ufficio all’Ersguterjunge, e attendiamo.
Eko, seduto sul divanetto in fondo alla stanza, si guarda intorno con aria incerta, come se lui in quel momento c’entrasse poco. Kay riempie il mondo di entusiasmo blaterando a caso su quanto sia una figata questa decisione, e su quanto è evidente che ci stiamo vendicando proprio bene su quegli stronzi dell’Aggro Berlin, quantomeno a livello commerciale.
- Vuoi mettere – mi dice, - la quantità di dischi venduti che si porta dietro Fler, rispetto a quelli che si porta dietro Nyze? Cioè, dai, palesemente ci stiamo guadagnando noi.
Io borbotto un assenso indefinito, lanciando un’occhiata nervosa all’orologio. Fler e Chakuza, naturalmente, sono in ritardo. Potrei approfittare di questo tempo concessomi per spiegare a Kay che prendere Fler sotto contratto all’Ersguterjunge ha ben poco a che fare con la guerra fra noi e l’Aggro, e ha ben poco a che fare anche con la quantità di dischi venduti in più che porteremo a casa a fine anno. È solo che lo rivoglio con me, li rivoglio tutti con me, e non intendo lasciarmene sfuggire uno che sia uno. Fler è solo il primo passo. Sto pensando a qualcos’altro. Ma prima devo parlarne con Jost, ed è ovvio che non posso farlo finché lui sarà ancora troppo impegnato a fingersi invalido per poter trascorrere le sue giornate a letto con Schüster. Ma non ha senso parlarne ora. Verrà il tempo.
E quello a mia disposizione adesso finisce nel momento in cui Fler e Chakuza fanno il loro ingresso nel mio ufficio, scompigliati e trafelati, scusandosi con tutti a destra e a manca. È abbastanza ovvio cosa abbiano avuto di così urgente da fare per non riuscire a presentarsi qui in orario. È ovvio non soltanto nel modo in cui si comportano o nel modo in cui sono conciati, ma nel modo in cui si sfiorano casualmente, si guardano, si sorridono, si parlano.
È inevitabile, per me, essere un po’ geloso. Stranamente, nei confronti di entrambi. Ma non m’importa più quando Fler si fa avanti e sorride, brandendo una penna.
- Dove devo firmare? – chiede.
- Sì, diamoci una mossa. – borbotta Chakuza, - Abbiamo tutti di meglio da fare.
Bill si lascia sfuggire una risatina divertita. Ed io faccio lo stesso, porgendo a Fler il suo contratto ed indicandogli il punto esatto in cui deve mettere la firma.

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Der Chef

di lisachan
DER CHEF

Io purtroppo non ho avuto il tempo fisiologico di abituarmi a Daniel.
Se Fler me l’avesse presentato nella giusta maniera – poco a poco, intendo, dandomi modo di capire esattamente di cosa si trattava e tutto il resto – probabilmente non proverei per lui tutto questo fastidio insopportabile. Magari sì, ok, mi farebbe rabbia l’idea di averlo ancora fra i piedi – e chi ci pensava, due anni fa, in quel vicolo, a Tempelhof? – però potrei tollerarlo, ecco.
E invece no.
Daniel per me era una cosa dispersa nella memoria di una notte da incubo, e poi è diventato d’improvviso “quello che era stato con Fler mentre io ero via”. E lo è diventato di botto, senza preavviso. E non è bastato neanche che Fler lo lasciasse, come mi ha poi confessato di aver fatto dopo la famosa cena in casa di Sido alla quale tutt’oggi non sono certo di essere sopravvissuto, no: Daniel è rimasto fuori dai piedi per qualche giorno, probabilmente rintanato a casa sua ad ascoltare i Cure o qualche altra variante sul tema e leccarsi le ferite, da bravo adolescente deluso e incazzato col mondo, e dopodiché, come nulla fosse successo, è tornato. Ha ricominciato a ronzare attorno a Fler, peraltro senza nascondere minimamente né l’astio che prova nei miei confronti – perché per lui è evidente che se Fler l’ha lasciato è stato per colpa mia, non perché era stufo di cambiargli i pannolini e nutrirlo col biberon otto volte al giorno – né tantomeno il suo essere ancora interessato all’uomo che al momento tra le altre cose oltre a non volerlo più sta con me. E non c’è stato verso di convincerlo a piantarla.
Da quel momento in poi, non ricordo un giorno in cui Daniel non ci sia stato tra i piedi o non sia stato fonte di inenarrabili guai. L’ultima volta, Fler ha fatto irruzione in casa mia tipo alle quattro del mattino, spingendo in avanti questa specie di cencio semovente che si è poi rivelato essere, appunto, Daniel avvolto in una felpa grande il doppio di lui e allegramente imbrattata di sangue. Al mio sguardo allucinato, sconvolto, stordito e pure un po’ assonnato, la risposta è stata “l’hanno inseguito con le spranghe, Chaku, non potevo lasciarlo lì nell’angolo dove l’ho trovato”. Al che, giustamente, io mi sono pure chiesto punto primo: che diavolo ci faceva Fler in giro per Tempelhof a quell’ora?, e punto secondo: spranghe?!, ma chiaramente non potevo mettermi lì a lamentarmi mentre il dannato moccioso perdeva sangue sullo zerbino.
E con Daniel è sempre così, peraltro. È sempre un ripetersi di “andiamo, Chakuza, non vorrai mica fregartene e lasciarlo sulla porta?”. Quando Fler pronuncia il mio nome a quel modo so sempre che, in caso di risposta affermativa – e Dio sa se ogni tanto non vorrei sbottare “sì, Fler, proprio lì sulla porta” – partirà una rappresaglia dalla quale difficilmente verrò fuori illeso. Perciò sono cose che cerco di evitare. Fler sa essere dannatamente convincente, quando vuole. Inoltre, effettivamente, il moccioso si presenta solo quando è davvero malconcio, ecco.
Il dramma è che gli capita anche troppo spesso.
Fino a due minuti fa io e Fler stavamo discutendo le possibilità della giornata. Visto che non è ancora nemmeno mezzogiorno, stavo cominciando a pianificare di andare a fare la spesa, cucinare qualcosa da mangiare e poi, non so, chiuderci in camera da letto fino a domattina anche se fuori c’è un bel sole e tira un bel venticello fresco – chissenefrega, insomma – e Fler stava giusto protestando in quel modo tipico di lui in cui continua a ripetere “no” intendendo “sì”, e quindi io ero pieno di buone speranze. E poi lo stupido campanello s’è messo a trillare.
Ovviamente io stavo illustrando a Fler il programma nel modo più pratico possibile – che poi è il motivo per cui continuava a dire “no”… ha dei problemi quando gli metto le mani addosso al mattino, dice sempre cose assurde tipo “dammi il tempo di svegliarmi”… non è necessario che sia proprio sveglio, mi piace quando è ancora semi-incosciente, fa dei bei suoni – comunque, in sostanza stavo cercando la via per la felicità e Fler invece non stava cercando che un pretesto per fermarmi, e lo stupido campanello è arrivato come una cazzo di ciliegina sulla cazzo di torta. Proprio a fagiolo, veramente.
Fler è corso ad aprire la porta scivolandomi dalle mani ed ora eccoci qua, inorriditi, che fissiamo questo mucchietto d’ossa pesto e livido che ci guarda oltre la soglia della porta. Sento Fler teso come una corda di violino, al mio fianco.
- Ciao. – borbotta Daniel, sollevando lentamente una mano per salutarci. Il braccio si ferma a metà. - …deve avermi slogato una spalla, stavolta.
Faccio per sbottare in un “Daniel!” che non so nemmeno cosa voglia dire – perché a un ragazzino così conciato, cosa gli dici? Davvero… - ma Fler mi anticipa, e la sua voce risuona secca e agitata per tutto l’appartamento.
- Daniel, Cristo! – lo richiama, avvicinandoglisi e sporgendosi a controllarlo da tutti i lati, - Ma che cazzo è successo? Sono stati di nuovo quei-
- No. – lo ferma lui, abbassando lo sguardo. Gli occhi azzurri si annebbiano appena, mentre si inumidisce incerto le labbra, - …mio padre. – confessa alla fine, sospirando pesantemente.
Fler si fa di ghiaccio per un secondo. Poi si allontana, tira un’imprecazione irripetibile e molla un calcio sconvolgente alla poltrona. Io lo fisso, allucinato, e Daniel continua a tenere gli occhi bassi, come si vergognasse.
- Fler…?
- Porca puttana! – urla ancora, afferrando un soprammobile a caso e gettandolo per terra. Quello rimbalza e s’infila sotto il divano con un suono sordo. – Fanculo a questa merda! – grida. Poi si ferma ancora, ed io riprendo a respirare.
- Pat. – lo chiamo a bassa voce. Lui solleva una mano.
- Un secondo, Chaku. – mi ferma, forzando un tono tranquillo nella voce. Io annuisco e lo aspetto. Vedo la tensione accumularsi nei muscoli delle sue spalle, sotto la maglietta leggera, ed i tendini tirarsi e scattare a chiudere e riaprire il pugno, come a cercare di scaricare la rabbia. – Daniel, entra.
Il ragazzino annuisce, fa un passo e casca. Allungo le braccia appena in tempo per recuperarlo, prima che si schianti contro il pavimento.
- Cristo… - borbotto, cercando di tenerlo dritto. Fler è ancora lì immobile e sospetto che, se si muovesse, tremerebbe il pavimento.
- Ce la fai? – mi chiede, la voce che trema. Io annuisco e lo porto verso il divano, dove cerco di stenderlo senza fargli male.
Ci inginocchiamo lì accanto e restiamo in attesa che si muova. Che è sveglio lo capiamo subito, perché apre le palpebre e ci guarda come volesse trovarsi da tutt’altra parte. Come volesse scusarsi. C’ha le scuse piantate negli occhi, questo ragazzino. Chiede perdono sempre, anche quando non fa niente. È una cosa che si vede solo quando lo si frequenta da un po’, perché la nasconde bene. Ora, io non è che lo frequenti da una vita, ma qualche settimana da quando gli ho posato gli occhi addosso è passata, ormai, perciò posso parlare con una certa cognizione di causa.
Comunque non si muove per un sacco di tempo. Solo dopo un bel po’ di minuti solleva un braccio lievemente meno malconcio per strofinarsi gli occhi.
- Mi ha pestato per bene, - dice poco dopo, un sorriso sghembo a deformare i tratti ancora infantili del viso, - ha scoperto la roba e ha dato di matto.
- Non c’entra un cazzo la droga. – trema Fler al mio fianco, - Quello dà di matto un po’ troppo, per i miei gusti. – si china su di lui e gli ravvia i capelli sulla fronte. C’è un taglio enorme proprio nel centro, sembra che gli abbiano tirato una cazzo di bottigliata. Mi dà i brividi. – Danny, io ne ho prese a pacchi, di legnate. Ma tu ne prendi il doppio, cazzo. Sei… guardati. – e sfiora appena il profilo dello zigomo violaceo e tumefatto. Deglutisco.
- …vado a prendere la cassetta del pronto soccorso. – mugugno alzandomi in piedi.
Fler asserisce senza nemmeno guardarmi, continuando a misurare i lividi sul suo viso, sul collo, sulle braccia.
- Ce la fai a sfilarti la maglia? – lo sento chiedere mentre, in bagno, recupero la valigetta.
Daniel dice che sì, certo che ce la fa, ma appena Fler prova a fargliela passare su per la testa comincia a lamentarsi in una maniera straziante.
- Fler… - lo chiamo avvicinandomi, la cassetta stretta in pugno, - Gliela tagliamo via, la maglietta? Così non-
- Ce la faccio. – ansima Daniel, liberandosi lentamente dell’ingombro di abiti, - Ce la… Cristo che male.
Il petto, il ventre e i fianchi sono una mappa di escoriazioni e lividi. Macchie rosse, giallastre e viola ovunque. Fler le fissa inorridito, le labbra dischiuse e gli occhi spalancati, ed io, credo, per la prima volta realizzo pienamente quanto schifo faccia la vita di questo ragazzino. Fler ha provato almeno una cinquantina di volte a dirgli per lo meno di piantarla di spacciare, che può dargli una mano lui, ma ogni volta Daniel gli ha risposto bruscamente di farsi i fatti suoi. È in questi piccoli dettagli che si vede quanto piccolo sia ancora, quanto disperatamente voglia che Fler si prenda cura di lui e al contempo quanto senta il bisogno di dimostrargli che ce la fa benissimo da solo.
- Cristo santo. – dice Fler, ed è appena un sussurro la voce non sembra neanche sua, tant’è debole e sconvolta.
Daniel deglutisce.
- …non guardarmi così. – chiede in una preghiera senza inflessioni. Lui e Fler si guardano a lungo, probabilmente si stanno anche dicendo qualcosa. Discretamente, senza parlare. Poi Fler si alza in piedi, facendo leva sul divano con entrambe le mani, come non avesse la forza di sollevarsi senza aiuto.
- Chaku. – mi chiama, tirandomi appena per la manica, - Posso parlarti di là un secondo?
Annuisco e mi sollevo, molleggiando un po’ sulle gambe. Guardo Daniel e lui mi fa cenno di andare senza neanche aspettare che gli chieda se possiamo lasciarlo qui da solo.
Fler mi anticipa in camera da letto muovendosi velocemente. Non ce la fa a restare in quella stanza, l’ho capito. Appena ci chiudiamo la porta alle spalle capisco subito che, se avesse qualcosa in mano, la stritolerebbe fino a distruggerla. Mi allungo a sfiorargli la spalla e lo sento tesissimo, un fascio di nervi sotto le dita.
- Pat, dai…
- Sono fuori di me, Chaku. – dice tutto d’un fiato, afferrando la mano e stringendola fra le sue, - Lo ammazzo, quel figlio di puttana. Lo ammazzo, Cristo.
So che ne sarebbe capace.
Mi avvicino, cerco di essere paziente anche se odio questa situazione ed odio le attenzioni di Fler nei confronti di Daniel.
Non so che dire, quindi mi limito a lasciar scorrere la mano libera lungo il suo braccio e poi stringerlo per una spalla, tirandomelo contro. Fler mi sfiora il collo col naso, una volta, due volte. Aspetto in silenzio e poi lo sento inspirare, ed allora mi rilasso: lo percepisco fare avanti e indietro lentamente, da sotto l’orecchio alla spalla, respirando piano, profondamente. Ogni tanto gli basta questo, il mio odore lo calma. Continuo a tenerlo stretto.
- Possiamo tenerlo un po’ qui? – mi chiede, proprio contro la pelle. Ed è un po’ buffo che me lo chieda, perché teoricamente lui sta ancora a casa sua. Ha un appartamento, a qualche isolato da qui, e ogni tanto ci dorme ancora. Però, invece di dirmi “lo porto a casa con me”, mi chiede se possiamo tenerlo qua.
- Non lo so, Pat. – lui mi lascia andare la mano e stringe appena le dita contro i miei fianchi. Resta lì per un po’, indeciso. Poi si rassegna e mi abbraccia. Io gli respiro addosso e lo stringo per le spalle. Siamo così vicini che non riesco a capire dove finisco io e dove comincia lui. Siamo intrecciati. – Ti sembra il caso?
- Non ce lo rimando, da quello. Lo ammazza, se continua così. – ripenso al torace stretto e magro di Daniel, tutti quei lividi, le ferite. È vero che finirà male, se non facciamo qualcosa. Ed è vero che, nonostante tutto, non voglio che finisca male. Perdio, è solo un ragazzino.
- Possiamo vedere di chiedere a Bushido se-
- Non c’entra un cazzo Bushido con questa storia! – mi ringhia addosso lui, stringendo la presa attorno alla mia vita, - Daniel è una cosa che non gli compete. Non è affare di nessuno.
Aggrotto le sopracciglia e provo l’irrefrenabile e improvviso desiderio di devastare qualcosa. Solo che l’unica cosa che posso toccare adesso è Fler e non ho alcuna intenzione di devastare lui – è già successo, so che non mi piace. So che non posso e non voglio farglielo – perciò mi trattengo, mi limito a stringerlo più forte.
- …va bene. – annuisco, - Okay, lo teniamo.
Lui si allontana un po’ e mi guarda. Ha gli occhi incredibilmente liquidi. Non credo riuscirò mai a capire davvero cosa leghi tanto Fler a questo ragazzino. Forse dipende dal fatto che ci sono ancora miriadi di cose che non so, sul suo conto. Su Fler, dico. Mi mancano dei tasselli enormi. Interi pezzi della sua vita. Forse, se li conoscessi, capirei. Ma ho sempre paura di capire troppo di lui. Non saprei quando fermarmi, me ne accorgerei in ritardo. Questa cosa che abbiamo ha rischiato di distruggersi troppo spesso perché io possa concedermi errori di questo tipo.
Si sporge a baciarmi ed io me lo tiro contro, baciandolo ed affondando dentro di lui perché adesso voglio sentire il suo sapore e voglio che sia quello a ricordarmi che è mio e non andrà da nessuna parte, Daniel o non Daniel. Fler mi lascia fare e risponde carezza su carezza; ora è lui che deve tranquillizzarmi. E lo fa.
- Grazie. – sussurra appena ci separiamo, - Lo sai che non succederà niente, vero? – e mi sfiora appena con la punta del naso.
- No? Davvero? – chiedo sarcastico, inarcando un sopracciglio.
- Davvero. – annuisce sicuro lui, - Io ti—
-Ok. – lo fermo, baciandolo prima che possa dirlo. Lo fermo perché odio che lo dica adesso, visto che lo fa come fosse un ringraziamento. E lo fermo perché io non gliel’ho ancora detto, mentre lui l’ha già fatto in svariati modi non so quante volte, non solo a parole, come ogni tanto gli è capitato in quest’ultimo periodo, ma anche con i fatti. Rispondere ad una cosa del genere è un problema, quando associato a quelle parole, per abitudine o per altro, c’è un altro volto, un altro sapore, un altro odore. – Ti credo. Non succederà niente.
Fler mi guarda e sembra un po’ deluso dal fatto che non gliel’abbia lasciato dire. Mi innervosisco perché così sembra volesse usarlo per ripulirsi la coscienza. So che non è veramente così, intendo, cazzo, so che quando lo dice lo pensa. Lo so che è vero. Sono ormai più di due anni che me lo dimostra, ogni giorno in cui torna, ogni volta che si fa toccare ed ogni volta che non mi manda a fanculo anche quando me lo merito ampiamente. Il problema non è quello.
Sono nervoso. C’è Daniel ricoperto di lividi di là ed ho appena accettato di tenerlo in casa per non so nemmeno quanto, e Fler sembra intenzionato a non togliergli le mani di dosso finché campa. In senso platonico o meno, mi scazza comunque.
È che Fler è una bella persona. Finisce per avere rapporti speciali con tutti. Non lo so. Non mi piace che… vorrei che non fosse così, ecco. Non so neanche se quello che penso ha un senso.
Quando torniamo di là, Fler mi sta ancora stringendo la mano – è successo quando abbiamo sciolto l’abbraccio, io ho lasciato scivolare la mano lungo il fianco e lui ha intrecciato naturalmente le dita con le mie, e là sono rimaste, senza un perché. Daniel lo troviamo impegnatissimo a sistemarsi da sé. S’è già bendato la testa ed ha spiaccicato cerotti e pomate un po’ ovunque. Nel momento in cui entriamo nella stanza, lo troviamo intento a coprire con un cerotto enorme un taglio sul mento. Si volta a guardarci, individua le mani strette e per un secondo io rafforzo la presa attorno alle dita di Fler. Poi non posso fare a meno di sentirmi in colpa – ed anche stupido: faccio il gradasso con un ragazzino, Dio mio – e lo lascio andare. Patrick non s’è accorto di niente perché sta guardando fisso il corpicino martoriato, facendo la conta dei danni.
- Lascia fare, ragazzino. – borbotta sedendosi al suo fianco e controllando la fasciatura attorno alle tempie. È troppo lenta. – Chaku… - mi chiama, ed io sospiro e mi avvicino, sciogliendo le garze per sistemargliele meglio ed andando alla ricerca di una retina da mettergli come cuffia, per tenerle ferme. Nel mentre, Patrick controlla i cerotti e asciuga gli sbuffi di pomata in eccesso con una pezzuola un po’ umida. La scena è surreale. Daniel resta immobile, arreso nelle nostre mani, per tutto il tempo.
Quando finiamo, sono ancora quasi convinto che il moccioso dovrebbe andare all’ospedale, ma sono anche ragionevolmente certo che, pur non andandoci, sopravvivrà; perciò sono soddisfatto così e non mi metto a fare storie. Anche perché so che ora arriverà la parte peggiore della giornata e voglio riservarmi di ringhiare per dopo.
- Danny, io e Chakuza abbiamo parlato e siamo d’accordo sul fatto che puoi restare qui, per un po’. – lo avverte lui, sfiorandogli un braccio, - Almeno fino a quando non ti troviamo un altro posto in cui andare. Comunque tu in quel posto di merda non ci torni.
- …ho una consegna a—
- No. – scuote il capo Fler, - Non hai capito. Te ne tiri fuori. Molli.
Il ragazzino digrigna i denti e si muove sul divano, agitato.
- Devo almeno andare ad avvertire i—
- No, cazzo, Daniel! – urla lui, battendo una mano contro il bracciolo del divano, - Cosa pensi, che queste cose si mollino salutando cordialmente quelli che ti hanno pestato e sfruttato negli anni? Credi che io sia andato casa per casa a porgere scuse e omaggi, quando Sido mi ha tirato fuori da quel merdaio? Cazzo! Te ne vai senza guardarti indietro, o non te ne andrai mai davvero.
Daniel incassa la testa nelle spalle e guarda per terra. Io resto qui in piedi e Fler resta lì seduto a guardarlo severamente, per una lunghissima serie di minuti che si conclude solo quando lo sento sospirare e passargli una carezza affettuosa sulla retina che ha sulla testa. Un gesto lento e tranquillo, per evitare di scombinarla.
- Riposati. – gli dice, adesso più dolcemente, - Io vado a casa tua a prendere la tua roba. Tornerò in un paio d’ore.
Ho appena il tempo di farmi passare per la mente la possibilità di restare da solo con Daniel, che lui subito la manda a puttane. Solleva una mano e la stringe attorno alla maglietta di Fler, tirando il tessuto leggero fino a deformare la scollatura.
- Resta qui. – dice a bassa voce, senza dimostrare di accorgersi della mia presenza, - Per favore.
Fler serra la mascella e lo guarda. Io stringo i pugni e guardo lui. Così intercetto l’occhiata che mi lancia ed ho tutto il tempo di cominciare ad incazzarmi furiosamente prima che esprima ad alta voce quello che già so mi dirà.
- Chaku, puoi—
- E va bene, Cristo! Va bene! – sbraito, agitando un braccio e dirigendomi a passi svelti verso l’ingresso, passando a strappare letteralmente la giacca dall’appendiabiti, - Fanculo.
Fler mi viene dietro due secondi dopo. Mi ferma sulla porta afferrandomi per le spalle e riportandomi indietro prima che imbocchi le scale.
- Aspetta, Chaku, non sai neanche dove andare… - mi ricorda, guardandomi con aria platealmente colpevole. Se spera che questo smorzi l’incazzatura, è del tutto fuori strada. Comunque ha ragione, non saprei dove andare a sbattere la testa, perciò resto lì zitto e buono a immagazzinare le indicazioni che sforna con una dovizia di particolari che mi fa venire voglia di demolire l’intero quartiere, vaffanculo a lui, perché sa così bene come arrivare da qui a casa di Daniel? C’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo. – Hai capito bene? – mi chiede alla fine, guardandomi dritto negli occhi come a cercare di leggerci dentro.
- Sì, certo. – borbotto io, - Quello che è.
Lui aggrotta le sopracciglia, irritato.
- Chakuza, ti ho solo chiesto un favore.
Rispondo afferrandolo per una spalla e schiacciandolo tra me e il muro. Gli sono addosso in meno di un secondo e lui neanche prova a fare resistenza. Non che la cosa mi stupisca, d’altronde. Non ricordo volte in cui sia successo.
- Il favore, se non te ne sei accorto, implica che io ti lasci qui da solo col tuo fottuto amante. – gli faccio notare, ringhiandogli a due centimetri dalle labbra. – Quindi non è solo un favore, Fler.
- Fanculo. – respira forte lui, cercando di liberarsi e riuscendo soltanto a strusciarmisi addosso, - Daniel non è il mio amante.
- Però te lo sei scopato. – sibilo sulla sua pelle, e se scendo ad annusare lungo il profilo della sua mascella posso quasi sentire l’odore di pomata e disinfettante, l’odore di Daniel. – Più di una volta. E ti è piaciuto.
Rabbrividisce sotto le mie dita e mi guarda. Non fa altro. Le labbra dischiuse e gli occhi spalancati su di me. Non li evito, mi avvicino ancora di più, fino a sentire la forma del suo corpo pressata contro la mia in maniera quasi dolorosa.
- Se tu lo tocchi, - lo avverto, sfiorandogli le labbra con le mie ad ogni parola, - io ti ammazzo. Se lui ti tocca, io ti ammazzo. Se succede qualcosa… - respiro forte e mi spingo un po’ contro di lui, - se succede una cosa qualsiasi, Fler, io ti… ti ammazzo. – e lui geme ad alta voce, senza nemmeno cercare di controllarsi.
Continuo a guardarlo e lo faccio finché Fler non mi dà quello che voglio. Quello che voglio arriva quasi subito, quando lo vedo annuire confusamente.
- Okay… - ansima, muovendosi a ridosso della parete e strofinandosi contro di me, - va bene, Chaku… va bene… - e mi guarda solo per un attimo, prima di socchiudere gli occhi ed abbassare lo sguardo mentre solleva le braccia a stringermi alle spalle, per muoversi più facilmente. Lo lascio fare per un po’, reggendogli il gioco finché non lo sento affondare le dita e trattenere il respiro, e poi mi allontano, guardandolo freddamente.
Resta talmente sbilanciato che deve aggrapparsi al muro, per non cadere. Ed a guardarlo così mi viene voglia di ribaltarlo contro la parete e scoparmelo adesso, un attimo prima di uscire, col ragazzino ancora di là sul divano. Gli occhi pesanti, le labbra umide, i pantaloni che tirano sull’inguine, la maglietta scomposta e il respiro affannoso. Cristo, Fler. Ma scuoto il capo e mi faccio indietro, infilando la giacca ed aprendo la porta.
- Non me ne fare pentire. – dico gelido.
Quando mi chiudo la porta alle spalle, sul pianerottolo, impreco contro un po’ di santi. Chi cazzo me l’ha fatto fare di avvicinarmi in quel modo? Ora palesemente non riuscirò nemmeno a camminare.
*
Quando Daniel si affaccia dal corridoio, mi trova ancora lì contro il muro che cerco di riprendere a respirare senza fare fatica. Mi guarda con aria un po’ incerta, come non sapesse minimamente cosa fare. Siamo in due, vorrei dirgli, io ho difficoltà anche a muovermi, al momento.
Cerco comunque di rimettermi dritto e mi schiarisco la voce con un paio di colpi di tosse, camminando lentamente verso di lui e riemergendo dalla penombra dell’ingresso di malavoglia. Ho addosso l’odore di Chakuza, ovunque, e questa cosa al momento mi sfianca.
- Non dovevi alzarti dal divano. – lo rimprovero, rimettendolo seduto con una spintarella.
Lui scrolla una sola spalla perché l’altra è ancora fuori uso. Non ha rimesso la maglietta ed è uno spettacolo angosciante.
- Le gambe stanno bene. – mi informa con una mezza risatina, - Le ho tenute nascoste sotto il corpo come mi hai—
- D’accordo. – lo fermo. Non riesco a liberarmi degli occhi di Peter e quando chiudo le palpebre mi sento addosso il suo corpo. Devo… cazzo. L’ha fatto apposta. Devo cercare di… devo assolutamente cercare di riprendermi. – Hai mangiato? Hai fame? – chiedo distrattamente, concentrandomi più sul tentativo di respirare con un ritmo meno affannoso, che non su quello che sto dicendo.
Lui risponde qualcosa che io non sento perché mi risuona ancora nelle orecchie la voce di Chakuza. Così non funziona, non ne esco. Forse avrei fatto meglio a non venire, oggi. Aspetta. Non ricordo da quant’è che sono qui. Di sicuro ieri ho dormito con lui e… forse anche l’altroieri e… è tutto troppo confuso da quando ho ricominciato a lasciare qui qualche vestito, non devo quasi più tornare periodicamente a casa mia e perdo il senso del tempo. Così non va per niente.
Vado verso il frigorifero e comincio a rovistare all’interno, magari trovo della roba con cui imbottire un panino. D’altronde Daniel i diciotto anni deve ancora compierli – e mi sa che, se non risolviamo la questione al più presto, festeggerà la maggiore età con una scarica di legnate non dissimile da quella di oggi, cazzo – perciò deve avere fame. A quell’età hanno sempre fame.
- Ma mi ascolti? – mi chiede piano, e la sua voce è troppo vicina per provenire dal divano, - Ti ho detto che non mi va di mangiare. – s’è alzato ancora.
Mi volto e sospiro. Parto con l’intenzione di rimproverarlo e me lo trovo a due centimetri dal viso che mi guarda incuriosito. Ormai è alto quasi più di me, nell’ultimo anno è cresciuto un sacco. Non so come ce l’abbia fatta. Insomma, intendo, ogni tanto lo guardo e mi chiedo come possa essere ancora vivo, addirittura. Poi ricordo che in fondo sono vivo anch’io e torna tutto.
Io però avevo Anis accanto, quando rischiavo di prendere botte ad ogni angolo di strada.
Daniel non ha mai avuto nessuno, prima di me.
- Dovresti andare a stenderti. – sospiro ancora, guardandolo dall’alto in basso, - …e rivestirti, anche.
Tira fuori un ghignetto che nelle intenzioni dovrebbe essere un concentrato di malizia ma, visto quanto è pesto e malconcio, in realtà fa solo ridere. E neanche poi così tanto.
- Cos’è, problemi? – chiede con aria strafottente. Io lo spintono verso il divano.
- Io no, Danny, ma se tu alle botte aggiungi la polmonite non sono sicuro di cosa potrebbe farti Chakuza quando tornerà a casa.
Lui cade sui cuscini con un tonfo e un mezzo lamento, e mi fissa con aria offesa.
- Lo lasceresti fare? – chiede in un sussurro, - Se mi mettesse le mani addosso, dico… lo lasceresti fare?
Sospiro, sedendomi sulla poltrona al suo fianco.
- Devo proprio rispondere a questa domanda?
Lui annuisce.
Io sospiro ancora.
- Sono il suo uomo, Danny.
Lui aggrotta le sopracciglia e fa per incrociare le braccia sul petto. Rinuncia appena si accorge che fa male.
- Tu non sei suo! – sbotta astioso, puntando le mani sui cuscini.
Io sorrido sarcastico.
- No? – chiedo, scrollando le spalle.
- Assolutamente no! – insiste lui.
- E sarei tuo, invece?
Lui abbassa lo sguardo e sulle sue guance il rossore si nota nonostante i lividi.
- Tu… potresti… - deglutisce e guarda altrove, - Io lo sono. Non sono di nessun altro. Solo tuo.
Sospiro ancora e scuoto il capo. Non so cosa dirgli, anche se so esattamente cosa si prova in situazioni come queste. Quando sai di appartenere a qualcuno ma non è quel qualcuno ad appartenere a te. Mi è successo abbastanza spesso da potermi dichiarare un veterano nel campo. So che fa schifo. So che si fanno assurdità. So che non ci si dà pace. Ma a questo ragazzino senza speranza io, davvero, non so cosa dire.
- Mi dispiace, Danny. – cerco di consolarlo, accarezzandogli una guancia, - Prima o poi ti passerà.
- Oppure insisterò fino a quando non cederai. – sbotta, appoggiandosi sulla mia spalla e strusciando il viso contro la maglietta, - Tu con Chakuza hai fatto così, in fondo…
Rido a bassa voce.
- No, Danny, non esattamente.
- Però più o meno.
Roteo gli occhi ed annuisco.
- Più o meno, sì. Ma non funziona sempre.
Solleva una mano – quella del braccio ancora a posto – e mi stringe alla vita.
- E come fai a sapere che non funzionerà fra noi?
Me lo stringo contro, coccolandolo un po’. Lui mugola subito e si attacca come un cucciolo di koala. Lo fa sempre. È una delle pochissime cose che gli concedo, da quando io e Chakuza abbiamo ripreso a frequentarci. È divertente, perché quando stavamo insieme non aveva bisogno di coccole, praticamente mai. Era molto estroverso ed espansivo, ma queste cose da femmine non gli interessavano per nulla. Ora che è l’unica parvenza di intimità che possiamo permetterci, le cerca come aria per respirare meglio.
So che la sto gestendo male, questa cosa. So che dovrei smettere di vederlo e basta, perché è l’unico modo per dimenticare davvero. Però non voglio. Non voglio prenderlo e cancellarlo dalla mia memoria. Non voglio prenderlo e cancellarlo nemmeno dal mio presente.
- Non funzionerà perché c’è Chakuza di mezzo, piccolo. – dico, facendogli scorrere una mano lungo il braccio e massaggiando piano, - Ci sono persone che ti colonizzano la testa. Quando ci entrano, non ne escono più. Chakuza l’ha fatto con me, io non riesco a immaginare di svegliarmi un domani e non averlo. Capisci cosa vuol dire questo?
Le sue ciglia si muovono appena contro la pelle del mio collo e mi fanno un po’ di solletico.
- Sì, lo capisco. – esala in un soffio.
Sorrido.
- Se lo capisci, dovresti anche rassegnarti.
Sorride anche lui, e mi sbuffa addosso.
- Non è la stessa cosa. E poi, scusa, se a te avessero detto “lascia perdere e rassegnati”, tu l’avresti fatto?
Ridacchio, scuotendo il capo.
- Daniel, Chakuza mi spingeva contro il muro ogni volta che ne aveva l’occasione. Rassegnarsi a quelle condizioni era molto molto difficile. Però ci ho provato.
Lui respira forte.
- E tu non… - comincia, cercando di insinuare la mano sotto la mia maglietta.
Lo fermo.
- No. – rispondo. – Io non voglio. D’accordo? Quindi no.
Daniel sbuffa, infastidito, e si separa da me con uno scatto secco.
- D’accordo. – borbotta in un mugolio di dolore, - Tanto mi fa tutto troppo male per scopare. – ammette, guardando altrove.
Io sorrido e torno a stringerlo piano, ondeggiando avanti e indietro.
Daniel è fondamentalmente un cretino ostinato e masochista.
Se Chakuza non capisce cosa c’è fra noi, vuol dire che ricorda poco dei miei primi mesi con lui.
Mi chino a baciarlo su una guancia e poi lo lascio andare.
- Ti prendo una coperta. – annuncio muovendomi verso la camera da letto, - Ma non dire a Chaku che ci siamo toccati, o finiamo entrambi sullo zerbino stasera, sai?
- Aaah, ma non posso dormire nel letto con voi? – borbotta agitandosi e mugolando come un bambino di tre anni.
Io rido.
- Assolutamente no! – e quando mi chiudo la porta alle spalle mi ritrovo nel buio della camera da letto e sospiro pesantemente. Sarà una giornata difficile. Sollevo un braccio ed annuso piano. L’odore di Chakuza è ancora lì. È più forte dell’odore del disinfettante. Sorrido ed apro l’armadio alla ricerca della coperta.
*
Poso i piedi sulla moquette che riveste il pavimento del corridoio e mi guardo intorno. Dunque, la casa è questa, c’era scritto Kobler sul cancelletto di fronte e la via non l’ho sbagliata. E questo nonostante questa sia una parte di Tempelhof in cui non sono mai stato, sono molto fiero di me.
Certo, sono un po’ meno fiero se penso che sto entrando in casa di sconosciuti per andare a mettere le mani nei cassetti della biancheria di un ragazzino che è stato col mio uomo e che, probabilmente, tra le mura di questo edificio ha visto solo legnate da quando è venuto al mondo. Ma comunque ormai ci sono, quindi basta lagnarsi e passiamo all’azione.
Tiro su le maniche fino a metà avambraccio e mi guardo intorno. Il posto non è tanto grande, è più corridoio che stanze, in realtà. Da qui si vede il bagno, la porta è socchiusa e il rubinetto perde. Faccio qualche passo girando gli occhi qui e là. In casa non c’è nessuno, a parte le gocce che si infrangono sulla ceramica non sento niente. Vago in giro e trovo una cucina sporca e piccola con un chilo di piatti ancora da lavare ammonticchiati nel lavabo, ed una specie di salottino con un divano e una tv. Sopra la tv c’è un’antenna tenuta insieme con lo scotch da imballaggio, quello marrone che lascia tracce ovunque quando lo tiri via. Ci sono tracce di scotch pure nei pezzi di antenna non incollati fra loro.
Ed io che pensavo di vivere in un porcile.
I gradini di legno scricchiolano mentre salgo al piano di sopra. Non me ne curo e, quando mi si apre davanti il corridoio del primo piano, mi salta il cuore in gola: dalla porta spalancata in fondo si intravede lo scorcio di una camera da letto ingombra di vestiti ammucchiati per terra e bottiglie rovesciate accanto al comodino. Sul letto – appena uno spicchio di materasso, è tutto quel che posso vedere da qui – c’è un uomo che dorme e russa. Una mano sulla pancia, l’altra pende verso il pavimento e sfiora la moquette.
Deglutisco forzatamente, muovendomi lento, in punta di piedi. Il respiro dell’uomo è pesante e rumoroso, ricorda quello di Fler quando collassava sulla poltrona, completamente ubriaco. Sospiro: è completamente ubriaco anche lui, e dev’essere il padre di Daniel. Non mi stupisce che la casa sia il casino che è.
Apro una porta a caso cercando di non fare rumore e mi meraviglio della mia fortuna. La camera non può che essere questa, le pareti sono tappezzate di poster e credo di non aver mai visto così tante immagini di Fler tutte insieme in vita mia. Questo ragazzino è palesemente una groupie.
Mi guardo intorno. Qui dentro, a parte un letto sgangherato, una scrivania in disordine ed un po’ di vestiti ammucchiati su una sedia, non c’è niente. Si può tranquillamente dire ci siano più poster attaccati alle pareti che non mobili nella stanza. Mi colpisce un manifesto pubblicitario enorme, sulla testiera del letto. È una vecchia pubblicità di un sampler dell’Aggro Berlin. Vecchia davvero, poi: c’è perfino Bushido. O almeno, dovrebbe esserci. La sua faccia è coperta quasi per intero da un’enorme x fatta col pennarello nero.
Mi lascio sfuggire una risata, senza pensare all’uomo addormentato nell’altra stanza, e quando mi ricordo della sua esistenza presso forte le dita contro le labbra, cercando di calmarmi, ma è molto difficile. La sola idea di Daniel che appende il poster al muro, lo squadra insoddisfatto e poi decide di eliminare la faccia di Bushido dalla superficie spennellandoci sopra è semplicemente troppo divertente perché io possa liberarmene.
Continuo a pensarci mentre vado in giro per la stanza raccogliendo i vestiti, che sinceramente non danno granché l’idea di essere puliti o altro. Cerco anche di pensare ad un modo per rifilarli a mia madre senza che si accorga che sono decisamente troppo piccoli per essere miei o di Fler. Peraltro, il fatto che mia madre ormai non trovi più nulla di strano nel lavare la mia roba assieme alla sua dovrebbe turbarmi, immagino. Certe volte ho l’impressione che il mondo intero abbia accettato l’idea di me e Fler come coppia prima di quanto non l’abbia accettata io. Mettiamoci di mezzo il fatto che ogni tanto faccio fatica ad accettarlo anche adesso, ecco.
Cerco in giro uno zainetto e ne prendo uno a caso in un angolo. È pieno di bustine di cui voglio ignorare il contenuto. Neanche faccio un tentativo con un altro zaino, mi limito a svuotare questo e riempirlo dei vestiti e della biancheria che sono riuscito a raccogliere.
Dopodiché tiro un enorme sospiro e comincio a staccare i poster dalle pareti. Immagino che, dovunque andrà a vivere Daniel dopo che l’avrò finalmente buttato fuori da casa mia, ne sentirà la mancanza, se non li avrà.
Comunque faccio un mezzo pensierino sul tenere io il poster della copertina di Deutscha Bad Boy. Mi frenano solo due cose: primo, non posso mica rubare un poster a un ragazzino così sfacciatamente innamorato; secondo… se anche lo tengo, dove cavolo lo metto? E non è un “dove cavolo lo metto” e basta, è un “dove cavolo lo metto per nasconderlo a Fler, dato che quando deve cercare cose rovista ovunque e, se mai dovesse avere la fortuna sfacciata di trovarlo, poi la mia vita sarebbe palesemente finita”.
Infilo tutto nello zainetto cercando di eliminare i pensieri molesti – tutti, in blocco, compresi i ricordi di Fler schiacciato contro il muro all’ingresso che mi hanno assalito appena mi sono distratto un attimo dall’obiettivo – e vengo fuori dalla stanza. Il signor Kobler ancora dorme ed io un po’ me ne dispiaccio: visto che quest’uomo è l’origine di tutti i miei mali, mi piacerebbe fargli capire cosa penso esattamente di lui e di tutti quelli come lui – ma soprattutto di lui, che cresce i figli in modo che poi quelli debbano sentirsi autorizzati ad infilare le mani nelle mutande degli uomini altrui. Comunque dorme ed immagino che Fler, quando mi ha mandato qui a recuperare le cose, non intendesse anche “ed uccidi quel bastardo”. Cioè, non sono proprio sicuro che Fler lo preferisca vivo. Comunque non è un mio diritto toglierlo di mezzo e francamente non ci tengo più di tanto, in realtà se anche ci tenessi non saprei da che parte cominciare, e comunque non voglio!, perciò scivolo al piano di sotto e poi oltre la finestra nel modo più veloce e furtivo possibile, e prendo a respirare serenamente solo quando mi ritrovo nuovamente immerso nell’aria fresca sul finire dell’estate di Tempelhof.
Mi guardo intorno.
Okay, un attimo di smarrimento.
Questa zona è, diciamo, la zona più “residenziale” del quartiere. Il che significa, in poche parole, che sto immerso in un quadrato di casette tutte uguali, con cancelli tutti uguali, giardinetti incolti tutti uguali, porte sgangherate tutte uguali e cassette delle lettere mezze abbattute tutte uguali. Non cambiano nemmeno i colori. Grigio e verde, grigio e verde, tutto grigio e verde. Così per chilometri, il quartiere è enorme.
Arrivare è stato un conto.
Andare via sarà più difficile.
Zaino sulle spalle e cappuccio calato sul volto, mi avvio in una direzione casuale di fronte a me. Prima o poi ne uscirò, immagino. O finirò per passare il confine, chissà. In ogni caso tutto voglio meno che restare qui. Sono quasi certo che la mia macchina non sia da quella parte, ma se mi toccherà uscire da questa merda di posto a piedi, allora lo farò. Verrò a recuperarla successivamente. Questo posto mi mette ancora i brividi.
Giro a vuoto per un po’. Un bel po’. Quando sono solo il tempo tende a passare sempre troppo lentamente perché io possa quantificarlo, quindi non saprei dire per quanto abbia girato, comunque sia quando mi infilo in una via e mi ritrovo di fronte alla casa del vicino del signor Kobler ho due scelte: o vado nel panico e mi siedo qui, afferro il cellulare e imploro Fler di venirmi a ripescare, o chiedo a un passante.
Visto che non ho la benché minima intenzione di implorare nessuno, e visto che sono uscito di casa mantenendo un certo tono e non ci tengo a fare la parte del cagnetto uggiolante proprio adesso, la scelta può essere una sola.
Mi avvicino al primo tizio che incontro. Avrà una ventina d’anni – per com’è vestito, con quei pantaloni aderentissimi di pelle nera e il vuoto sotto il chiodo borchiato, non più di venticinque – ma ha una faccia talmente sfatta che ne dimostra quasi il doppio. Occhiaie e rughe comprese. Al confronto io e Fler – ma anche Bushido, volendo – sembriamo ragazzini. Cammina ciondolando e nella tasca dei jeans si intravede chiarissima la forma di un serramanico ripiegato. Mi rendo conto che non si tratta della persona più affidabile cui chiedere delle indicazioni, ma non c’è nessun altro in giro e non mi pare di avere molta scelta. A parte quella scartata a priori del panico e di Fler che mi viene a riprendere neanche avessi dodici anni.
-Ehm… scusa? – chiedo, picchiettandogli con due dita sulla spalla perché si accorga di me.
Lui mi alza addosso un paio d’occhi celesti trasparenti come pezzi di vetro ma arrossati in maniera quasi allarmante. Non ho idea di cosa abbia mandato giù ma di sicuro non dev’essere stata roba buona.
- ‘Cazzo vuoi? – mi sbotta in faccia, e l’alito puzza di birra. Perfetto. Sono fottuto.
- Senti, ho bisogno di un’informazione… - comincio, nel modo più pacato possibile.
Lui mi guarda come fossi una merda pesticchiata sul marciapiedi.
- Li conosco gli sbirri come te. – mi accusa, tirando su col naso, - Stronzi figli di puttana, sbirri in borghese. Non so un cazzo.
- Ma io voglio solo—
- Non so un cazzo, ti dico, sbirro di merda.
Ringhio e cerco di mantenere la calma.
- Non sono un cazzo di sbirro. – grugnisco, le mani sui fianchi, - Se proprio vuoi saperlo, l’unica cosa certa della mia vita è che in mezzo alla manica di matti coi quali vivo io sono solo il fottuto chef. Ma non se lo ricorda mai nessuno!
Quello mi guarda per tutta una serie di secondi che non riesco a quantificare. La strada è immersa in un silenzio surreale, ci siamo solo io e lui e non riesco a sentire neanche i rumori delle macchine che sono quasi sicuro circolino ancora dalle parti del canale.
Mi schiarisco la voce.
- Ora… posso chiedere—
- Lo chef, dice lui… - mi interrompe il tipo, i lineamenti del volto deformati da un ghigno sghembo semplicemente terrificante, - Conosco una persona che non sarebbe per niente d’accordo. – ed ho appena il tempo di realizzare di aver detto una solenne cazzata, che lui ha già estratto il serramanico e me lo sta puntando alla gola. Faccio per indietreggiare e dire qualcosa, ma lui sfiora la pelle del collo con la lama appuntita e tagliente ed io deglutisco e rimango in silenzio. – Puoi chiedere dove ti porterò adesso? – mi fa il verso, continuando a ghignare, - No. Però puoi seguirmi senza fare storie.
- …non fare pazzie, amico, non—
- A-ha! – mi ferma, incidendo appena sotto la mascella, ed io trattengo perfino il respiro, - Senza fare storie, ho detto. Ci siamo capiti?
Annuisco. E lo seguo, che altro posso fare?
La prossima volta, giuro, vado nel panico e mi faccio venire a riprendere.
*
Sono passate sei ore quando comincio a preoccuparmi. La parte più razionale di me mi dice che non dovrei, che d’accordo, magari il Chaku è a Tempelhof, ma è pieno giorno. Cosa mai può succedergli in quel posto, per quanto pericoloso, alle due del pomeriggio? E poi in che guai può essersi cacciato dovendo semplicemente andare ad un indirizzo ben preciso per prelevare qualcosa prima di fuggire per sempre?
Devo stare calmo, mi dico. Calmo e rilassato. Fra qualche minuto mi chiamerà, si scuserà per non essersi fatto sentire per sei fottute ore e poi confesserà mugugnando che s’è perso, e mi implorerà di andarlo a recuperare in qualche angolo dimenticato da Dio che non saprà nemmeno descrivermi correttamente.
- Ho faaame. – miagola Danny, sbuffando platealmente, tutto arricciato sul divano, - Non si mangia?
- Aspettiamo Chakuza. – rispondo io, lanciando un’altra occhiata all’orologio. Sei ore e dieci minuti. Chakuza, Cristo, dove sei finito?
- Perché non lo chiami? – mi chiede lui, sporgendosi dal divano ed allungando un braccio verso il tavolino, per cercare di recuperare il telecomando poggiato sul ripiano, - Magari sta perdendo tempo da qualche parte e s’è dimenticato che lo stai aspettando. – suppone, la lingua fra le labbra e l’espressione concentrata mentre con un breve scatto si allunga abbastanza da afferrare il telecomando, per poi tornare ad abbattersi contro i cuscini sistemati con cura dietro la sua schiena, uggiolando di dolore.
- Non posso chiamarlo, Danny. – espiro in uno sbuffo contrariato, andando a sedermi sulla mia poltrona giusto per staccarmi dalla finestra prima che rimanga impressa sul vetro l’impronta indelebile del mio naso. – Magari ci sono stati problemi a casa tua. – gli spiego, lanciandogli un’occhiata risentita. Io ti adoro, Danny, ma tu non puoi mettere il mio uomo a rischio. Egli non è adatto. In generale. – Magari tuo padre s’è svegliato e lui ha dovuto nascondersi da qualche parte. Che faccio, lo chiamo rischiando che il cellulare riveli dov’è?
Daniel inarca un sopracciglio, guardandomi con aria scettica.
- Tutti sanno che quando si fanno cose simili il cellulare va tenuto silenzioso. – dice con naturalezza. E sì, certo, Daniel. Tutti lo sanno. Io lo so, tu lo sai. Se avessi mandato Anis a recuperare la tua roba potrei avere la certezza che lo sa anche lui. Ma Chakuza?
- Lascia che io ti dica che non hai capito niente del Chaku. – annuisco con aria professionale, - Come minimo non solo ha il cellulare con la suoneria attivata, ma pure al massimo volume. E personalizzata di modo che lo chiami per nome. – sospiro profondamente.
Daniel ride, incredibilmente divertito, ed accende la tv.
- Ma che ci fai con uno così? – mi chiede, con aria apparentemente distratta, concedendosi un po’ di zapping prima di fermarsi su un cartone animato a caso. La domanda è cosa ci faccio qui con te, semmai, Danny. – Cosa c’entri?
- Non ricominciamo. – borbotto, e in quel momento il cellulare vibra nella tasca posteriore dei miei pantaloni. Mi alzo in piedi all’istante, lo estraggo e lo guardo. Chakuza mi ha mandato un messaggio. – Era anche ora… - borbotto risentito, mentre mi affretto a premere il pulsante per leggerlo.
Ciò che i miei occhi vedono, comunque, è non affatto soddisfacente. Nel messaggio c’è scritto solo aiuto.
- Che ti prende? – chiede Danny, spegnendo istintivamente la televisione e lanciandomi un’occhiata preoccupata, - Sei sbiancato.
- Chakuza è in pericolo. – dico d’un fiato, girando sui tacchi e dirigendomi speditamente verso la porta d’ingresso, - Devo andare a cercarlo.
- Ehi— aspetta! – cerca di fermarmi lui, saltando giù dal divano e piegandosi immediatamente su se stesso per il dolore. Capisce che non ho tempo da perdere, comunque, e si rimette in piedi piuttosto alla svelta, tenendosi la pancia fra le mani e seguendomi. – Come sarebbe a dire che è in pericolo? Cos’è successo?
- Cosa vuoi che ne sappia! – urlo, voltandomi a guardarlo con rabbia. Lui arretra di un passo, serrando le labbra finché non diventano sottilissime e pallide. – Scusa. – cerco di calmarmi. Cazzo, non è colpa sua se Chakuza è in pericolo. Sapevo che avrei dovuto andarci io. Cazzo. – Mi ha mandato un messaggio, guarda. – dico, sollevando il cellulare per mostrarglielo. Daniel lo legge velocemente e i suoi occhi si fanno più cupi per qualche secondo, mentre annuisce sommessamente.
- Vengo con te. – dice quindi, tornando al divano per infilare le scarpe.
- Neanche per idea. – ribatto io, ignorandolo platealmente.
Lui mi passa davanti ed apre la porta, uscendo di casa prima di me.
- Non era una domanda. – conclude, cominciando a scendere le scale. Roteo gli occhi, correndogli dietro.
- Piccolo, torna in casa, dai. – dico dolcemente, accarezzandogli una spalla. Stavolta è lui a ignorare me.
- Potrei esservi utile. – dice. Ma esserci a chi? Io intendo andare da solo.
- Daniel, - sospiro, - sei ferito e dolorante, sei un rottame, dovresti essere in ospedale, che cazzo me ne faccio di te, me lo spieghi?
Lui mi lancia un’occhiata risentita, aggrottando le sopracciglia.
- Qualsiasi cosa. – risponde di getto, - È anche colpa mia se è nei guai.
- Danny, non—
- Sta’ zitto. – mi interrompe. Siamo già a piano terra. – Sai già a chi chiedere?
Lo guardo per qualche secondo, confuso.
- Che intendi? – gli chiedo, inarcando un sopracciglio. Lui sbuffa platealmente, roteando gli occhi.
- Dubito che sia stato mio padre a causargli guai. – spiega, - Se anche si fosse svegliato, nelle condizioni in cui era quando l’ho lasciato poteva sicuramente pestare me, ma non uno come Chakuza. Cioè, uno che possa rispondergli come merita. – sospira un po’, abbassando lo sguardo, e a me si stringe il cuore. – Deve aver fatto casino mentre era per strada. Magari ha preso uno dei miei zainetti speciali, quelli con la roba dentro. Hanno tutti una toppa particolare, così la gente del ghetto li riconosce e sanno che possono chiedermi. Se qualcuno l’ha vista, forse ha pensato che fosse del giro.
Non fatico a immaginare che, a partire da uno scenario simile, Chakuza possa essere finito in guai molto più catastrofici di quelli che riesco a immaginare in questo momento senza avere una crisi isterica. Inspiro ed espiro profondamente, cercando di razionalizzare. Potrei sbrigarmela da solo, andare a Tempelhof e perdere le ore partendo da zero, senza il minimo aggancio, per cercare di tirare fuori qualche informazione a qualche sconosciuto.
Oppure posso andare da Bushido, e chiedergli di contattare Arafat.
Vista la situazione, e visto soprattutto che una cosa so per certo, ed è che non voglio lasciare Chakuza da solo a Tempelhof troppo a lungo, faccio in fretta a decidere per il meglio. Daniel sorride soddisfatto, salendo in macchina e mettendosi comodo.
- Togliti quell’espressione dalla faccia. – mugugno io, talmente infastidito che per un attimo non faccio caso a quello che dico, - Sarai tu responsabile, se gli succede qualcosa.
Gli occhi di Daniel s’incupiscono un’altra volta, mentre lui si torce le dita in grembo, nervoso. È evidente che riesce a ragionare in maniera perfettamente lucida quando si parla di pianificare il salvataggio di qualcuno di cui tutto sommato gli importa pure poco, ma impazzisce d’ansia quando pensa anche solo per sbaglio che io potrei cominciare ad odiarlo per qualche motivo.
- Andrà tutto bene. – dice, più per rassicurare se stesso che per rassicurare me, anche perché io al momento non posso essere rassicurato.
Sospiro, allungando una mano ad accarezzargli piano la nuca.
- Sì, andrà bene. – confermo mettendo in moto.
Da Bushido ci arriviamo in tempo record, bruciando anche un paio di rossi. Per tutto il tempo, Daniel resta tranquillo al mio fianco, senza neanche muoversi in avanti quando freno o schiacciarsi indietro contro lo schienale quando accelero. Non ha nemmeno messo la cintura di sicurezza, cosa che suppongo dovrei trovare sconveniente al punto da fermarmi e cercare di convincerlo a metterla, ma non c’è nemmeno il tempo di razionalizzare il pensiero che la mia macchina si ferma perfettamente parallela al marciapiedi appena fuori dal cancello di casa di Bushido, ed a quel punto fargli indossare la cintura non avrebbe più molto senso.
Esco di gran fretta, e Daniel, per quanto le sue ossa peste glielo permettano, fa lo stesso, per cercare di non intralciarmi troppo. Karima ci mette troppo a rispondere al citofono, e quando sento la sua voce domandarmi chi sono e cosa voglio – è una donna d’altri tempi che non ha mai imparato ad usare il video nella parola videocitofono – rispondo sgarbatamente di farmi entrare e non perdere altro tempo. Lei rimane in silenzio per un altro paio di secondi, e io batto con forza una mano contro le grate del cancello, così improvvisamente che Daniel, al mio fianco, sobbalza lanciandomi una lunga occhiata colma di preoccupazione.
- Karima! – la chiamo, - Datti una mossa!
La serratura scatta il secondo successivo. Il cancello si apre sotto le mie mani e Skyline e Sherlee mi vengono incontro, saltellando ed abbaiando festosi. Io non ho tempo di star loro dietro, perciò passo in mezzo ai loro musi senza fermarmi neanche ad accarezzarli, e se non mi vengono dietro continuando ad abbaiarmi alle spalle è solo perché Danny, visibilmente più lento di me, non riesce a tenere il mio passo e non può sfuggire alla loro rumorosa richiesta di attenzioni, cedendo perciò a metà del vialetto e grattando entrambi dietro le orecchie in una sorta di pedaggio in seguito al pagamento del quale i due cuccioli lo lasciano libero di seguirmi.
Sulla soglia della porta non c’è Karima, probabilmente tanto oltraggiata dal mio comportamento da essersi già rintanata a pelare cipolle in cucina come fa sempre quando qualcosa non rientra nel ristretto campo delle sue approvazioni, perché, come ama dire, un po’ di cipolla tritata serve sempre ed è meglio averne un po’ di scorta per ogni evenienza. Quali evenienze improvvise potrebbero giustificare la presenza di terrine piene di cipolla già tritata nascoste in frigorifero io non lo so, ma tant’è, lei non è sulla porta ad attendere il nostro arrivo come dovrebbe essere. Ci sono sia Bushido che Bill, invece, e faccio appena in tempo a notare l’occhiata infastidita di Bill quando vede Danny alle mie spalle – a Bill non va granché giù che Danny sia tornato a ronzarmi intorno da quando io, invece, sono tornato a ronzare intorno a Chakuza – che quell’occhiata subito scompare, tramutandosi in qualcosa di diverso. I suoi occhi si spalancano, mentre porta una mano a coprirsi la bocca dischiusa in una smorfia inorridita.
- Ma che gli è successo? – chiede sconvolto, mentre Bushido prende atto delle condizioni del ragazzino con molta più praticità, osservandolo in lungo e in largo con aria concentrata, - Sta bene?
- Non è lui quello in pericolo, al momento. – rispondo seccamente io, spingendomi abbastanza in avanti per far sì che Bill e Bushido si scostino dall’uscio, lasciandomi entrare. – Chakuza è finito nei guai. – dico quindi, mentre Bushido aspetta che anche Danny sia entrato all’interno della villa, prima di chiudersi la porta alle spalle, - A Tempelhof. Da solo.
Bushido aggrotta le sopracciglia, i lineamenti del suo volto che si tendono repentinamente mentre irrigidisce le braccia lungo i fianchi.
- Cosa?! – strilla Bill, sconvolto, - Che c’è andato a fare lì da solo?
Bella domanda, ragazzino.
- Ne parliamo dopo. – taglio corto, - Anis, dobbiamo fare qualcosa. – tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e mostro alla coppia reale il messaggio che ho ricevuto ormai quasi venti minuti fa. Dio, venti minuti. Sono milleduecento secondi. Per uccidere un uomo ne basta uno.
Bill si lascia scivolare fra le labbra un gemito addolorato che gronda preoccupazione. Bushido non ha ancora aperto bocca, continua a studiare la situazione in silenzio, incrociando le braccia sul petto.
- Che ci fa lui con te? – chiede quindi Bill per riempire il vuoto che sente pesargli sul petto. Ci metto un po’ a capire che parla di Daniel, in parte perché non sono concentrato e in parte perché Bill non si prende nemmeno il disturbo di indicarlo. – Perché deve stare qui? Guarda quant’è pesto, mi rovina l’arredamento. – sbuffa infastidito.
- Bill. – scatto io, aggrottando le sopracciglia, - Non è il momento.
- Ah, non lo è? – ribatte lui, le mani sui fianchi e un’espressione di insopportabile superiorità sul volto, - Intanto lui è qui e il tuo uomo è nel ghetto da solo. – ribadisce, come se non ne fossi già insopportabilmente cosciente.
- Bill, sai che ti voglio bene, - dico, mordendomi con forza l’interno una guancia per forzarmi a ripetere queste parole, perché so che è una cosa vera ma in questo momento non mi sembra affatto, - ma fatti i cazzi tuoi. – concludo con un’occhiataccia.
Bill spalanca gli occhi, oltraggiato. Apre le labbra e fa per dire qualcosa, ma non riesce. Bushido è più svelto.
- Taci. – dice guardandolo, - E anche tu. – aggiunge guardando me. Io mando giù un blocco d’aria che pesa come il granito, mentre lui si volta a guardare Danny. – In che zona è andato? – chiede a lui, e per un secondo penso che l’abbia fatto perché ha già capito tutto, e trattandosi di Bushido la cosa non mi stupirebbe affatto. Poi razionalizzo, e capisco che ha chiesto a lui solo perché Danny a Tempelhof ancora ci vive, contrariamente a tutti noi. Afferro solo vagamente quanto deve essere costato a Bushido ammettere una cosa del genere, pur se implicitamente, e forzarsi a chiedere a un ragazzino un’informazione simile per salvare Chakuza. Mi riservo di ringraziarlo dopo per questo, visto che so per certo che nessuno a parte me può comprenderlo, e nessun altro lo ringrazierà.
Daniel si mordicchia il labbro inferiore, pensoso.
- È nella zona residenziale, - dice, - quella coi prefabbricati. Ma lì intorno ci sono i vecchi magazzini del mercato ortofrutticolo, e non sono più usati per frutta e verdura da tempo.
- Che rischi ci sono che l’abbia preso qualcuno di pericoloso? – chiede ancora, avvicinandosi al tavolino basso e recuperando il cellulare posato sul ripiano di vetro.
Daniel sospira profondamente.
- Per tutta una serie di ragioni, potrebbe essere finito nei guai con qualche corriere, credo.
- Con qualche corriere?! – strilla Bill, incapace di trattenersi oltre, - Cosa diavolo l’avete mandato a fare?!
- Bill, sta’ zitto. – ribadisce Bushido, digitando velocemente un numero a memoria e portando il cellulare all’orecchio.
- Lo stai chiamando? – chiedo io, a corto di fiato, fissandolo speranzoso.
- Sta’ zitto anche tu, ho detto. – dice lui, lanciandomi un’occhiata indecifrabile. Poi sospira, inumidendosi le labbra. – Sì. – dice quindi. Mi si annoda lo stomaco finché resta in silenzio, e poi sento un click sommesso ed una voce dal passato che risponde chiedendo festosamente a Bushido come sta, perché è da un sacco di tempo che non lo sente. – Ari. – dice Anis, il tono grave e lo sguardo concentrato mentre fa segno a Bill di recuperare un pezzo di carta ed una penna, - Mi servono un paio di indirizzi.
*
Naturalmente non riesco a parlare, ma visto che sono state le mie parole a generare tutto questo gran casino da una parte è meglio così. Sì, mi sta bene tacere, quello che non mi sta bene è che per farmi stare zitto mi abbiano legato questa robaccia attorno alla testa, e mi abbiano infilato due chili e mezzo di polistirolo in bocca. A parte che il sapore fa schifo, e a parte che mi sto cagando sotto perché, voglio dire, chi cazzo è questa gente?, a parte tutto questo, lo scotch sulle guance tira e fa un male fottuto, e non riesco a muovermi perché ho le braccia legate dietro la sedia in una posizione innaturale che mi fa dolere le spalle, e le gambe legate strettissime con delle vecchie corde sporche ai piedi della sedia.
In generale, sono finito proprio in una bella situazione di merda. E mi piacerebbe poter dare la colpa a Daniel, perché almeno così non dovrei stare seduto qui a soffrire, ascoltare stronzate e dovere avere a che fare in aggiunta con la consapevolezza che a trascinarmi in questo magazzino abbandonato con le finestre inchiodate non è stato il ragazzino, non è stata la richiesta di Fler, no, sono state la mia ostinazione a non voler chiedere aiuto e la mia boccaccia del cazzo.
- Allora. – riprende l’uomo che mi ha ricoperto di cazzate da quando sono stato portato al suo cospetto un paio d’ore fa. È vestito con una tuta integrale in pelle bianca, aperta fino allo stomaco rotondo e prominente. Indossa un paio di occhiali da sole dei quali in questa penombra non dovrebbe avere il minimo bisogno ed i suoi capelli sono acconciati in un ciuffo che si protende contemporaneamente in avanti e verso l’alto. I tacchi dei suoi stivali bianchi a punta producono un suono che mi snerva, ticchettando sul pavimento pieno di crepe mentre lui gira intorno alla sedia, guardandomi circospetto. – Mi dicono che ti piace andare per strada facendoti grande agli occhi dei passanti. – dice, - Lo chef, mi dicono, è così che ti fai chiamare. Ma oh, hai fatto i conti senza l’oste, mio caro amico pelato.
Io mugugno qualcosa, ma non riesco a farmi uscire dalle labbra niente che abbia un senso. In realtà tutto quello che vorrei strillare è “ma sei cretino?! Ti sei completamente bevuto il cervello?! Da quale epoca sei venuto fuori, scherzo della natura?! Santo Dio!”, quindi forse è meglio che io sia obbligato a tacere. Cristo, è passata quasi un’ora da quando sono riuscito a mandare quello scampolo di messaggio a Fler, e tutto ciò che ho ottenuto in cambio è stato che mi portassero via il cellulare e lo spaccassero in due sotto i miei occhi sofferenti. Quando e se tornerò a casa, comprare un cellulare nuovo sarà drammatico. Non mi abituerò mai al tastierino nuovo, non riuscirò mai a memorizzare il nuovo menu e dovrò fare i salti mortali per trovare qualcosa che non possieda la parola touch nel nome o nella descrizione delle caratteristiche principali. Che odio. Fler, dove cazzo sei finito?!
- Cos’è che hai detto? – chiede il tipo, chinandosi su di me e tendendo un orecchio, - Non ti ho sentito! Forse perché sei imbavagliato. – si rimette dritto, grattandosi pensosamente il mento. – Dovremmo forse lasciarti libero? – chiede retorico, lanciando un’occhiata ai due che stanno alla sua sinistra e alla sua destra. Uno è quello che mi ha portato qui, e l’altro un suo degno compare. Anche lui indossa un giubbotto di pelle senza niente sotto, ed un paio di jeans chiari con più buchi che brandelli di stoffa. – No che non dovremmo. – si risponde da sé Elvis, tornando a guardarmi severamente. – Hai capito perché sei qui, nano? – mi chiede quindi, e io mi dimeno perché con questi nomignoli del cazzo mi ha veramente frantumato le palle.
- Attento a come ti muovi, sbirro di merda. – dice il tizio che mi ha portato qui, puntandomi il serramanico alla gola, - Rispondi alle domande e fa’ il bravo, e se te lo meriterai potrai uscire di qui sulle tue gambe, quando ti lasceremo libero.
Io smetto di muovermi ed inspiro profondamente, cercando di ritrovare una calma che ho in realtà perso troppo tempo fa per poterle chiedere di venire in mio soccorso adesso. Provo a mugugnare qualcos’altro, qualcosa a caso, tanto è evidente che non riuscirei a farmi capire anche se dicessi qualcosa di sensato, ma Elvis mi ascolta con attenzione, annuendo partecipe. Dio santo, ma dove sono finito?
- Certo, certo, hai ragione. – dice annuendo ancora, - Quindi forse dovremmo proprio lasciarti libero, ma sai, c’è una cosa a cui tengo molto, una lezione che penso tu debba imparare prima di andare via, e penso che le condizioni in cui sarai quando uscirai da questo magazzino dipenderanno molto da quanto bravo sarai ad apprendere. Ci siamo capiti?
Io abbasso lo sguardo. Odio cedere, ma odierei anche morire in questo posto lugubre senza aver cucinato un’ultima volta, senza aver salutato i miei genitori e mia sorella, senza aver rivisto Bill, senza aver rivisto Fler. Senza aver toccato Fler, senza avergli detto che—
- Ci siamo capiti? – ripete Elvis, strattonandomi per una spalla. Io annuisco freneticamente. Ci siamo capiti, Elvis, ci siamo capiti. – Bene. – sorride compiaciuto. – Ora voglio che tu te lo ficchi bene in testa, mio buon amico: - dice a bassa voce, - c’è un solo chef, in questo quartiere, soprattutto da quando io e i miei compari abbiamo cominciato a studiare un piano per ammazzare tutti gli altri. – inarco un sopracciglio. Un piano? Che cazzo sta dicendo? – Be’, sì, non ci siamo ancora riusciti! – strilla istericamente, come leggendomi nel pensiero, o forse semplicemente leggendo l’incredulità nell’espressione del mio viso, - Ma prima o poi li faremo fuori tutti, ed allora resterò solo io! Per cui, impara bene la lezione fin d’ora, nano: chi è l’unico chef di Tempelhof…?
È a quel punto che succede. Inizialmente non ci capisco molto, perché non vedo niente. Sento, quello sì, un botto terrificante e il fischio di qualcosa di incredibilmente veloce che passa da qualche parte alla mia sinistra prima di andarsi a schiantare contro il pavimento a pochi centimetri dall’anfibio dell’altro compare di Elvis, quello che non ha ancora aperto bocca, e che la apre adesso per la prima volta per strillare “merda!” con quanto fiato ha in gola, saltando repentinamente all’indietro.
- Cosa cazzo succede?! – strilla a propria volta il tipo che mi ha portato qui, occhieggiando spaventato il buco sul pavimento e la pallottola che vi si è conficcata dentro. – Cazzo!
- Chi c’è?! – grida Elvis, parandosi in mezzo alla stanza con le braccia spalancate e le gambe piegate in una posa ridicola, - Chi osa?!
Un altro sparo parte da un punto totalmente opposto del magazzino, piantandosi sulla parete alla mia destra. Sobbalzo sulla sedia perché non ho una cazzo di idea di cosa stia succedendo. E se fossi finito in mezzo a una guerra fra bande? E se quelli che Elvis minaccia di volere uccidere avessero scelto proprio questo momento per impedirglielo ponendo fine alla sua triste e misera esistenza da sfigato nato con vent’anni di ritardo?
Non ho modo di capirlo, perché per qualche secondo, dopo l’urlo che Elvis ha lanciato in seguito al secondo sparo, il magazzino ripiomba nel silenzio. Magari è stato solo un avvertimento, mi dico. Non so bene come funzionino queste cose, Fler saprebbe spiegarmelo ma lui non c’è, probabilmente è impegnato a spargere pomata sulle ferite del suo ex e di me se ne strafrega, per cui aggrotto le sopracciglia e decido che me ne strafregherò anch’io, ma i miei propositi reggono pochissimo perché il secondo successivo dieci cento o forse anche mille pistole si mettono a sparare tutte contemporaneamente, l’aria diventa incandescente, fischia attorno a me, ne sento il rombo fin dentro le orecchie, e ci sono proiettili che volano impazziti dappertutto e io me la sto facendo sotto, cazzo, e prego soltanto che nessuno di questi fottuti proiettili mi prenda perché voglio tornare a casa, stasera, voglio riportare a Danny la sua roba, voglio vedere Fler, voglio abbracciarlo e dirgli che lo so che non ci andrà a letto col ragazzino, lo so che non mi tradirà, lo so che mi ama, voglio dirgli tutte queste cose e non è vero per un cazzo che me ne strafrego di lui. Non è vero per un cazzo.
Chiudo gli occhi con forza, cercando di incassare il più possibile la testa nelle spalle, e prendo nota solo confusamente dei tre uomini che mi tengono prigioniero mentre danno di matto, confusi dai rumori degli spari e dalle pallottole che soffiano minacciose ovunque attorno a loro. Mi pare di sentire un “no!” strozzato provenire da dietro un mucchio di vecchie casse in fondo al locale, ma non ho modo di badarci troppo perché oltre ai rumori degli spari l’aria è piena delle urla dei miei aguzzini. Li sento urlare, muoversi in cerchio, urlare ancora e poi trovare un’uscita. Le loro voci si fanno sempre più deboli e distanti, e così gli spari, che diminuiscono d’intensità e poi si spengono del tutto. Io sono ancora vivo e non ho male da nessuna parte, e sono profondamente convinto che questo sia un miracolo.
Apro prima un occhio e poi un altro, guardandomi confusamente intorno. Il pavimento e tutte le pareti sono pieni di segni dove i proiettili sono andati a schiantarsi. Sudo freddo a pensare che se uno a caso di queste decine di proiettili avesse deciso di non andare a conficcarsi per terra o sui muri ed avesse preferito conficcarsi nella mia testa, sarei morto. Ci penso insistentemente per un paio di secondi e poi Bill – no, ripetiamolo perché non riesco nemmeno a crederci: Bill! – spunta fuori da dietro le casse dalle quali mi era sembrato di sentir provenire quel “no!” e mi si avvicina, affrettandosi a chinarsi davanti a me e sciogliere tutte le corde che mi tengono legato.
Non appena sono libero, scivolo giù dalla sedia , esausto, e Bill mi accoglie fra le proprie braccia reggendo il mio peso abbandonato e floscio con una forza che non gli riconosco. Mi chiedo quando sia arrivata, tutta questa forza, perché proprio non c’era quando i nostri corpi stavano vicini spesso e molto più a lungo di adesso, ed è allora che Bushido esce da un angolo in ombra alla mia sinistra e Fler fa lo stesso dall’angolo opposto, accompagnato da Danny che zoppica ed ha la faccia contratta in un’espressione di dolore continua.
Il tempo riprende a girare e io e Bill ci allontaniamo contemporaneamente. La forza di adesso, quella che guida le sue braccia e le sue gambe e rende i suoi occhi brillanti e presenti nonostante siano pieni di lacrime, è una forza che non gli ho dato io.
- Dimmi solo che stai bene. – mi sorride mentre mi libera dallo scotch. Mi giro appena per sputare la palla di polistirolo ormai tutta masticata, e mi asciugo la bocca col dorso della mano prima di offrirgli un sorriso stanco ed annuire lentamente.
Bushido butta lì un paio di colpi di tosse e Bill si alza in piedi. Vedo nell’espressione rilassata del suo viso che non lo fa perché deve o perché si sente in colpa, ma soltanto perché vuole e sa che è giusto così. Io mi alzo in piedi, guardo Fler ma lui non mi ricambia l’occhiata. Fissa la propria pistola accarezzandola con lo sguardo e, sbrigativamente, anche con due dita, prima di riporla in una tasca interna della giacca. Non gli dico niente, né d’altronde lui dice niente a me mentre usciamo o mentre, con la sua macchina, riportiamo Bill e Bushido a casa loro, prima di tornare da me. Io resto seduto sul lato del passeggero a guardarlo guidare in silenzio, gli occhi fissi sulla strada, mentre Daniel prova a fare un po’ di conversazione e rinuncia al terzo tentativo andato a vuoto. Si sistema con la schiena contro il sedile di dietro, anche perché suppongo sia tutto un dolore e non ce la faccia proprio più a reggersi dritto con le sue sole forze, e nel farlo gli cade l’occhio sul suo zainetto gettato in un angolo. Lo solleva e lo guarda da ogni lato, spalancando la bocca in segno di stupore prima di riuscire veramente a parlare.
- Ma non è uno di quelli speciali! – sbotta, - Non c’è la toppa! È uno di quelli che tengo a casa per nascondere la roba! – si sporge in avanti, agitandomi lo zainetto davanti al naso, - Chakuza, mi dici come hai fatto a metterti nei casini se non è stato il mio zaino ad attirare quel malato mentale in tuta di pelle?
Io prendo atto dell’espressione assolutamente allucinata che mi lancia Fler ed incasso la testa nelle spalle, aggrottando le sopracciglia e fissando la strada che scorre lenta sotto la macchina al di là del parabrezza. Spiego quello che mi è capitato, partendo dal principio e ammettendo che, fondamentalmente, non c’ho capito un cazzo. Ma cos’è? Ora non si può più andare in giro dicendo di essere un cuoco che finisci catturato da un trio di decerebrati che si sono messi in testa per chissà che motivo che vuoi essere tu il new kid on the block? Ma anche no, è profondamente ingiusto. Mi premuro di dire anche questo a Daniel e Fler, che nel mentre mi guardano con aria sempre più sconcertata, spalancando occhi e bocche lentamente ma progressivamente, finché non scorgo nel fondo delle loro pupille azzurre inquietantemente simili che forse non lo faranno a voce alta, ma nella loro testa mi stanno deridendo. Ampiamente.
Naturalmente, l’unico a risparmiarsi di prendermi per il culo a voce alta è Fler, e solo perché suppongo fosse realmente preoccupato: stringe le mani attorno al volante e torna ad osservare cautamente la strada, mordicchiandosi l’interno di una guancia; Daniel, invece, si dà alla pazza gioia, rovesciando il capo sullo schienale del sedile e tenendosi la pancia mentre rotola qua e là in preda alla crisi di riso più devastante di tutti i tempi, talmente devastante, in effetti, che a un certo punto le sue risate cominciano a diventare rantoli seriamente addolorati.
- Oddio, - piagnucola, incapace di trattenersi, - ma non lo sai che chef sta per capo, nel ghetto? Oddio, sto soffocando! – uggiola, le lacrime agli occhi, - Mi fa male tutto e non riesco a smettere, Chakuza! – protesta, come se fosse colpa mia o potessi farci qualcosa, poi.
- Sì, be’, potresti sempre provare cominciando a tapparti la bocca. – suggerisco con un’occhiataccia, alla quale Daniel risponde intensificando volume e frequenza delle risate. Roteo gli occhi, inspirando profondamente e tornando a guardare la strada.
- Sei stato uno stupido. – dice Fler a bassa voce. Non mi guarda neanche e il suo tono è gelido, quasi preoccupante.
- Mi dispiace. – ammetto abbassando lo sguardo, - Non credevo che—
- Avresti dovuto essere più prudente. – insiste lui. Noto solo adesso che ha le nocche bianchissime, tanto sta serrando le dita attorno al volante. – Mi sono molto preoccupato, Peter.
Annuisco piano. L’eco delle risate di Daniel si fa sempre più distante. Lui sta ancora ridendo, ma Fler è molto arrabbiato, più di quanto non mi stia lasciando intendere mentre mi parla, e questo rende tutto automaticamente molto meno importante, o degno d’attenzione.
- Scusami. – dico mesto, - Non lo farò più.
Se mi comporto come un bambino che si sente rimproverato dallo sguardo severo di suo papà, è solo perché mi ci sento.
*
Daniel crolla addormentato sul divano nel momento esatto in cui io e Chakuza glielo copriamo con un lenzuolo ed un paio di coperte. È esausto, devastato, e chiaramente non ce la fa più a reggersi in piedi.
- Dio, mi fa male tutto. – ripete in un mormorio straziante, mentre appoggia la testa contro il cuscino. Non è tipo da lamentele continue, ma questa frase l’avrà ripetuta almeno dieci volte negli ultimi venti minuti, è come se non riuscisse a dire altro, o non riuscisse nemmeno a formulare nella mente parole differenti. Forse è in questi istanti, mentre gli sistemo addosso la coperta e lui si lascia sfuggire un mugolio sofferente prima di chiudere gli occhi ed espirare a fatica, che decido quello che farò. Lo decido tutto, seguo un filo che mi porta fino all’uscita del labirinto e vedo dov’è che andrà a finire, quali conseguenze comporterà questa mia decisione, e forse, in qualche modo, inconsciamente le sto già accettando tutte. Ma solo inconsciamente, e questo non è il momento di parlarne: mi limito a rimboccargli le coperte trattenendo a stento un’imprecazione e una smorfia addolorata quando sento il suo corpo magro tremare sotto le mie dita, e poi mi rimetto dritto e vado in cucina.
Chakuza sta armeggiando con la caffettiera, anche se l’orario non è proprio adatto per un caffè, soprattutto considerato il fatto che siamo entrambi a stomaco vuoto da stamattina.
- Dorme? – mi chiede nervosamente, - Pensavo di mettermi a cucinare qualcosa.
- Dorme, sì, e credo che continuerà a farlo fino a domani mattina. – rispondo io, inarcando un sopracciglio, - Che è la stessa cosa che dovresti fare tu.
- Non sono stanco. – ribatte lui, posizionando la caffettiera sul fornello ed accendendo il fuoco.
- Chaku, - sospiro, - hai appena detto di volerti mettere a cucinare qualcosa. Sei uscito da un magazzino all’interno del quale per cinque minuti siamo stati tutti trasportati in un episodio speciale di Walker Texas Ranger, non più di un’ora fa. Se il tuo desiderio di metterti ai fornelli adesso non è un chiaro segno di squilibrio mentale, non so davvero cos’altro potrebbe essere.
Chakuza sospira a propria volta, spegnendo il fuoco ed appoggiandosi al ripiano, lo sguardo basso, tutti i muscoli ancora tesi. Lo osservo a lungo, aspettando che decida cosa fare. Alla fine, lo sento sospirare un’altra volta, e lo vedo annuire lentamente.
- Hai ragione, sono un po’ scosso. – ammette, - Magari mi riposo una mezz’ora.
- Magari vai a letto e ti svegli quando sarai in grado di andare in giro senza sentire ancora il fischio dei proiettili dentro le orecchie, che ne dici? – chiedo piano. Lui mi solleva addosso un’occhiata sconvolta, sembra stia chiedendosi quando sono entrato nella sua testa e come ho fatto a riuscirci senza che lui se ne accorgesse. – Mi è capitato, qualche volta, di trovarmi in mezzo ad una sparatoria. – rispondo, scrollando le spalle e distogliendo lo sguardo, - Quando ero più piccolo.
Chakuza resta per qualche secondo in silenzio, come a digerire l’informazione.
- Eri molto simile a lui? – chiede dopo un po’, tornando a guardarmi negli occhi. Io scrollo le spalle ancora una volta.
- Avevo la stessa convinzione di poter riuscire a risolvere tutto con le mie sole forze. – rispondo, - Che è il motivo per il quale molto spesso ci riuscivo davvero. Io sono stato più fortunato, però. Non ultimo perché almeno mio padre non mi picchiava, anche se suppongo fosse solo perché non c’era.
Chakuza annuisce, restando appoggiato al ripiano.
- Intendi prenderti cura di lui, vero? – chiede quindi. Io annuisco. – D’accordo. – dice, e io non faccio in tempo a dirgli che non mi serve la sua approvazione, perché lui mi sorride, un sorriso dolce, vagamente colpevole, ma più di ogni altra cosa complice. – Voglio starti accanto.
Io sbatto le palpebre un paio di volte, incredulo.
- In che senso? – chiedo confuso.
- Quanti sensi esistono per una frase simile? – ride lui, - Io ti amo. – spiega quindi, e quando mi guarda riesco a leggergli dentro che è vero, che lo pensa e che lo pensa sempre, anche quando fa o dice una cazzata, anche quando sa di stare per farmi incazzare eppure non riesce ad impedirselo, so che è il pensiero fisso che lo accompagna senza ossessionarlo da quando si sveglia a quando va a dormire, indipendentemente da quanti altri pensieri gli ruotino intorno, e so che è giusto così.
Gli sorrido, sentendo tutti i muscoli del mio viso sciogliersi in un solo istante.
- Ti amo anch’io. – rispondo piano. Lo accompagno a letto e lo osservo addormentarsi standogli semplicemente sdraiato accanto. Lui mi si spalma addosso istantaneamente e per una volta è palese che lo fa solo per sentire il mio corpo contro il suo, perciò gli circondo il collo con le braccia e lo lascio fare, ascoltando il ritmo del suo respiro mentre rallenta e poi si stabilizza. Dalla stanza accanto proviene il russare sommesso di Danny, che ha il naso troppo pesto per respirare bene e quindi fa un sacco di piccoli rumori che usualmente non farebbe. Sorrido. Penso che mi piace quello che sento, e ripenso a Chakuza che mi chiede se intendo prendermi cura di lui.
Intendo farlo, Chaku. Intendo davvero farlo.

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di tabata
Dice un vecchio adagio: attento a ciò che desideri perché potresti ottenerlo.
Il fatto che io abbia sempre ignorato tale avvertimento e che ora esso mi si ritorca contro nel momento meno opportuno è, non solo la dimostrazione che i vecchi saggi sono veritieri, ma che lassù qualcuno mi odia; perché non si può dare ad un uomo tutto ciò che desidera in un comodo formato di un metro e ottanta, con lunghi capelli biondi e lombi guizzanti, e poi toglierglielo proprio quando stava ringraziando il cielo per tale dono, godendoselo per dritto e per rovescio come vuole la situazione. E' scorretto, dico solo questo.
Qualche mese fa stavo seduto alla mia scrivania e fissavo la casella di posta in arrivo del mio computer tragicamente vuota, là dove solo un anno prima c'erano state dalle dieci alle venti e-mail l'ora e io avevo fatto fatica anche solo a trovare il tempo di guardare se la posta era arrivata, figurarsi aprirla, leggera e rispondere.
Avevo preso l'abitudine isterica di aggiornare ripetutamente nella speranza di far comparire anche solo un'intestazione; poi, provando della pietà per me stesso, chiudevo tutto quanto quando mi rendevo conto che non sarebbe arrivato niente nemmeno per quel giorno, e forse non sarebbe arrivato niente mai, visto che non c'era più nessuno in tutta la Germania – ma anche nel mondo – che volesse arrischiarsi a mettere sotto contratto un cantante in cura psichiatrica a forte rischio di crisi depressiva e il resto della sua band, che magari è più sana ma, diciamocelo, è molto meno vendibile senza Bill.
C'è stato un momento preciso – era metà aprile – in cui ho pensato che forse sarebbe stato davvero meglio smettere di illudersi che la situazione potesse migliorare. Avevo contattato chiunque, anche gente con la quale non parlavo da anni e altra che non aveva niente a che vedere con noi e mai, nemmeno se l'avessimo pagata, avrebbe voluto averne. Per la prima volta nella mia intera esistenza accanto ai ragazzi, non avevo più nessuna carta da giocare in loro favore e immaginavo che avrei dovuto prenderli in disparte e metterli di fronte alla verità, piuttosto che mentirgli finché non si sarebbero resi ridicoli a furia di bussare a porte sprangate a doppia mandata. Era chiaro che nessuno sarebbe venuto a salvarci e che dovevamo cavarcela da soli, il che significava metterci il denaro di tasca nostra e sperare di non perderlo per non finire a fare fiori di carta sotto un ponte, com'era probabilissimo che accadesse.
L'alternativa a tutto questo, ossia lasciar perdere la musica e dedicarsi ad altro, era improponibile perché quei quattro sono cresciuti facendo soltanto questo: le rock star, e lasciati liberi nel mondo come persone normali non resisterebbero una settimana. Bill non sa fare nemmeno la spesa, figurarsi!
Ho pensato a lungo a cosa fare, ma alla fine mi sono convinto che non ci fosse altra soluzione e sono uscito di casa determinato a fare quello che andava fatto, a costo di dover arginare fiumi di lacrime in piena o qualche altra catastrofe di pari dimensioni. Solo che poi, quando sono arrivato allo studio, mi hanno accolto con tanto di quell'entusiasmo e una canzone già praticamente pronta che non me la sono sentita più e ho semplicemente desiderato che il giorno dopo qualcuno si svegliasse abbastanza coraggioso da puntare ancora su di loro perché se lo meritavano e non volevo essere io quello che distruggeva i loro sogni di gloria per sempre.
Questo desiderio è rimasto inespresso a lungo, tanto che io ho fatto in tempo a tornare a credere di dover vendere la casa al mare e investire tutti i soldi guadagnati aiutando Bushido nella sanità mentale del suo fidanzato che lui stesso aveva abbandonato per sparire in America, il che – pur avendo qualcosa di metaforico – non era esattamente quello che avevo previsto per i miei primi quaranta trentadue anni.
Poi, quindici giorni fa, il miracolo.
Ero a casa di J.J. e aspettavo che uscisse dalla doccia per saltargli addosso e travolgerlo di nuovo col fuoco della mia passione come avevo fatto nelle ultime due ore; mi sentivo piuttosto in vena, quindi ero pronto a fare faville e a convincerlo che il mondo là fuori non avesse davvero bisogno di lui.
Quello che in realtà è successo, però, è che io ho scaricato la posta, ho letto quell'unica e-mail che mi era arrivata dopo mesi di silenzio assoluto perfino da parte dei siti pubblicitari di pastiglie per l'allungamento del pene e sono praticamente entrato in bagno nudo e urlante, cantando a squarciagola Like a Virgin, il che ha portato J.J. a chiedermi se stavo bene e se c'era qualcosa che potesse fare per me; che detto da lui nudo, fradicio e caldo di vapore è un po' una domanda retorica.
In ogni caso, a quel punto, non avevo più il tempo di occuparmi di lui o del suo glorioso corpo nell'idromassaggio, perché avevo cose più urgenti – per quanto forse meno importanti – da fare.
Mi sono messo in strada e ho chiamato i ragazzi dall'auto, costringendoli a presentarsi in studio da lì a quaranta minuti. Con Gustav e Georg la cosa non è un grosso problema, ma con Tom significa dover capire dove si trova, chiamare più volte perché senta il telefono e, quando infine risponde, chiarirgli fin da subito che questa non è un'esercitazione e che se vuole continuare a fare finta di suonare la chitarra deve muovere il culo e fare quello che gli dico. Per quanto riguarda Bill, invece, sono passato direttamente a prenderlo da Bushido e l'ho trascinato fuori di casa in tuta, una cosa per la quale non mi perdonerà mai, soprattutto quando scoprirà che l'hanno fotografato in quelle condizioni.
La notizia che avevo da dare ai miei ragazzi era così enorme, così stratosferica, così stupendamente meravigliosa, che avrei dovuto ricordarmi, dopo tre aggettivi del genere, che tre di loro non sono omosessuali – è così difficile tenere a mente il numero degli etero in questo periodo! – e che Bill ha dei pessimi gusti musicali – tipo che si piace moltissimo da solo – in questo modo avrei evitato sia la figura di merda che la delusione.
“Ragazzi!” Ho esclamato brillando di una luce intensa e sfavillante che mi illuminava da dietro e irradiava glitter tutt'intorno a me come il venerdì sera quando vado per locali. “Non indovinerete mai chi mi ha spedito un'offerta per voi quattro.”
“Dal modo in cui luccichi ho paura di che razza di offerta sia,” ha commentato Gustav che, anche senza una batteria per le mani, tamburellava due bacchette sul tavolino da caffè. “Ricordi che non siamo ancora così disperati da fare film porno, sì?”
“Dipende, se ci sono donne...” Tom ha scrollato una spalla e suo fratello gli ha tirato uno scappellotto.
“Sei un uomo impegnato,” ha commentato e poi si è voltato verso di me, atteggiandosi come ha ripreso a fare da quando Bushido gli ha rimesso in testa la sua pesante corona di oro e cristallo. “David, per favore, potresti essere più specifico?”
“Signori,” l'ho introdotta con tutta la deferenza che richiedeva ma no, no, non uno che l'abbia apprezzata. Con loro è come gettare perle ai porci. “Siamo stati cortesemente convocati a sostenere un'audizione – che non dubito sapremo affrontare nel più favoloso dei modi – niente di meno che negli uffici della Maverick Records.”
Avessi dato l'annuncio durante una cena informale con una manciata dei miei amici a caso, il servizio buono di bicchieri si sarebbe infranto in un unico boato di felicità incontrollata. Qui aspetto di sentirlo per due minuti interi, ma non arriva mai e loro mi guardano perplessi, persi e anche un po' dispiaciuti come se fossi il caro nonno che è sceso per il pranzo con indosso soltanto le mutande. “Ragazzi, la Maverick Records,” ho ripetuto.
Le due G si sono guardate fra di loro, Tom ha guardato suo fratello e Bill ha guardato me.
“Evviva?” Ha tentato, incerto.
“Davvero non posso credere che nessuno di voi conosca la Maverick. Tu,” ho indicato Bill e ho cercato di caricarmi sull'indice almeno vent'anni di storia omosessuale. “Tu sei una vergogna per tutta la categoria, cosa che per altro non mi stupisce visto che ti accompagni ad un uomo che ho minacciato di privare del suo tesserino di gay più volte di quante riesca a ricordarne. Si dà il caso che la Maverick sia di proprietà della signora Louise Veronica Ciccone, vi dice niente?”
Per un attimo sono rimasti tutti zitti, ed è stato quasi un attimo di troppo, ma poi Gustav – che era l'unico che avrebbe avuto il diritto di non saperlo, se un diritto del genere esiste – ha evitato che io mi facessi prendere dalla mia prima crisi isterica dopo gli anni del liceo. “E' Madonna,” ha spiegato. “Certo che io sono ignorante, ma voi tre ve ne approfittate.”
“Madonna?” Ha chiesto Bill e poi, alzandosi di colpo in piedi mentre la consapevolezza della sua razza lo colpiva tutta insieme e con un ritardo di trasmissione di quasi venti minuti. “Madonna? Madonna quella Madonna?”
“Direi di sì, visto che l'altra sarebbe un po' blasfema, non ti pare?”
“Oh mio Dio! Madonna!” Ha continuato a ripetere. “E vuole metterci sotto contratto?”
Ho un po' nicchiato. “Per il momento i dirigenti vogliono che facciate un'audizione. Certo non siete i primi venuti ma proprio per questo non dovrà essere buona, dovrà essere perfetta.”
Bill ha annuito seriamente e mi ha veramente riempito di orgoglio vedergli tornare negli occhi la professionalità che ha sempre quando le cose si fanno concrete. E' molto bravo a perdersi e distrarsi – soprattutto ultimamente – ma non ha mai perso la capacità di lavorare come si deve, e io gliel'ho trovata addosso subito dopo quella notizia, anche se non aveva un microfono in mano.
“Quindi ci siamo, voglio dire, torniamo in pista,” ha chiesto Tom, con gli occhi sgranati come quando era ragazzino e mi guardava per essere sicuro di aver capito bene; d'altronde con il frastuono di suo fratello che cinguettava posso anche capire che ne avesse bisogno.
“Siamo in pista e torneremo più grandi di prima, Tom” ho sorriso. “E ora, cari miei, arriva la parte divertente. I dirigenti della Maverick non intendono muovere il culo e toccare suolo europeo per noi, il che ci costringe – posso prevedere con grande rammarico – ad un volo transoceanico, direzione Los Angeles, California.”
Il boato che ne è seguito è stato assordante. Non che sia la prima volta che i ragazzi vanno in Amerca, ma la cosa sembra sempre entusiasmarli in maniera irreale e io, nel preciso momento in cui ho dato loro la notizia, non ho nemmeno trovato motivo per dirgli di calmarsi e smetterla di andare in giro per la stanza urlando e dandosi forti pacche sulle spalle. Non li vedevo così felici da quasi due anni, quindi li ho lasciati fare.
Ora, il mio desiderio inespresso era stato esaudito e io mi sarei accontentato di questa meravigliosa seppur unica possibilità di dimostrare a qualcuno che non eravamo finiti e potevamo tornare a radunare eserciti di ragazzine urlanti che svenissero a ripetizione per ore anche a giorni di distanza da un concerto; mi bastava questo, e sarei stato felice. Ma naturalmente non poteva essere così facile, perché io mi chiamo David Jost, ho sulla pancia un'incisione larga dieci centimetri e profonda uno e mezzo, il cantante della band che gestisco è la donna di un delinquente, dal quale, per altro, io stesso sono attratto sessualmente e per questo l'ho aiutato a fingersi morto per più di un anno, motivo per il quale sono stato rapito, imbavagliato e torturato fin quasi a morte; quindi no, figurarsi se era facile.
Per prima cosa, Bill ha deciso che se andavamo in America, non potevamo semplicemente andare in America, come ogni persona sana di mente avrebbe fatto in queste circostanze, soprattutto in considerazione del fatto che non ci andavamo per divertimento.
La Principessa pensa che questa sia una straordinaria occasione per farci tutti quanti insieme una vacanza che rafforzi i legami ritrovati e ci dia modo di rilassarci in previsione di una nuova, sfolgorante carriera nel mondo della musica. Il problema, se già l'approccio all'intera faccenda non lo fosse, è che quando Bill dice tutti quanti intende tutto un gruppo di individui che non hanno nessuna ragione di esistere nemmeno in funzione della sua già numerosa famiglia allargata che comprende, oltre a Bushido, anche tutte quelle persone che gli gravitano intorno. E se possiamo soprassedere sulla presenza di Chakuza – che è sempre con lui perché Bill lo adora e comunque è nato civetta e quindi gli piace averlo intorno – e quella di Fler – che oltre ad accompagnare l'austriaco, è anche il BFF della Principessa e come tale non può certo essere lasciato a casa – di certo non si capisce perché alla carovana debbano aggiungersi anche Kay One ed Eko Fresh, ma così è perché la parola della Principessa è legge a meno che Bushido non si opponga; ma lui non lo fa perché l'idea lo diverte e perché non dovrà muovere un dito visto che ad organizzare tutto ci penseremo io e sua moglie.
Ho provato a ricordare a Bill che l'ultima volta che siamo partiti tutti quanti insieme, le porte dell'inferno si sono aperte, ma lui ha scrollato graziosamente le spalle avvolte nel suo maglioncino Dsquared e mi ha assicurato che questa volta sarà diverso, perché loro sono diversi e ci divertiremo come matti.
Inutile dire che ho paura, ma il suo terapista sostiene che debba ritrovare un ruolo ben definito in mezzo al gruppo di persone in cui vive – che immagino non sia quello di oscillare tra Bushido e Chakuza – e fargli gestire il branco, soprattutto per questioni simili, mi sembra un buon modo per aiutarlo in questo senso, visto che è esattamente ciò che faceva prima di tutti i problemi. Ora, non è che il dottor Schillinger parli con me, naturalmente, ma non passa giorno senza che Bill mi faccia il riassunto delle sue sessioni di terapia, per cui so sempre esattamente su cosa stanno lavorando.
Nemmeno quattro giorni dopo il grande annuncio, Bill mi ha fatto avere via e-mail il suo piano per la vacanza e io non ho fatto in tempo ad arrivare in fondo al documento in pdf che lui mi stava già chiamando per discutere l'intera situazione, ovvero dirmi di nuovo a viva voce quello che avevo appena letto.
Il piano non comprendeva, naturalmente, nessuna questione pratica – tipo dove dormire, dove mangiare, come spostarsi e altri sciocchi dettagli simili – ma era pieno di cose da vedere e soprattutto negozi da visitare, tra i quali aveva infilato l'audizione, preceduta e seguita da ogni genere di attività assurda che credo avesse trovato girovagando in rete.
“E il fine settimana prima di partire dobbiamo assolutamente andare a Disneyword,” mi ha detto, a conclusione di sette giorni di terrore in cui, secondo lui, dovremmo sostanzialmente vedere tutto quello che esiste sul suolo americano. “Io sono stato solo a quello di Parigi, ma questo è molto più grande e poi è l'originale, non posso farne a meno.”
“Bill, Disneyworld si trova in Florida.”
“E allora?”
“Noi dobbiamo andare a Los Angeles, California.”
“E allora?”
“E allora si trova dall'altra parte degli Stati Uniti,” gli ho fatto notare con un sospiro. “Non avremo tempo di andare fin là in una settimana.”
“Allora vorrà dire che rimarremo quindici giorni,” ha concluso lui. “E poi comunque dobbiamo già andare in Nevada, quindi è meglio se allunghiamo la permanenza.”
“Non si parlava di Nevada nel tuo programma, e poi perché il Nevada?”
“Anis vuole fare un salto a Las Vegas. Io gli ho detto che a nessuno fregava di Las Vegas, ma i ragazzi lo hanno sentito e hanno cominciato a gridare e ad agitarsi e allora per farli smettere ho detto di sì.”
A quel punto ho pensato di riattaccare, scrivere a quelli della Maverick che si erano sbagliati e io non conoscevo alcun gruppo di ragazzini che forse avrebbero potuto lavorare per loro e quindi prendere J.J. e tutto il denaro che mi è rimasto per sparire dalla faccia della terra alla ricerca di quella pace mentale che evidentemente, per colpa di Bill, non ho più; ma ovviamente non l'ho fatto. “Hai un'idea di quanto ci costerà tutto questo?” Ho chiesto invece.
“Potrebbe essere la nostra ultima possibilità di andare in America,” ha risposto lui, con un'aria contrita talmente plausibile che mi sono chiesto se non fosse il caso di portarlo anche ad Hollywood e vedere se me lo prendono come attore. “E poi ci serve, dobbiamo imparare di nuovo a stare tutti insieme.”
Per fare questo sarebbe bastato andare una settimana in montagna a due ore di macchina da Berlino, ma ho comunque accettato e, mentre chiudevo la telefonata, stavo già pensando agli hotel da chiamare e tutto il resto.
Non restava che organizzare il viaggio, fare la valigia e partire alla volta della Maverick per conquistare gli americani e riprenderci il mondo. Ho sistemato tutto quello che c'era da sistemare e ho constatato con immensa gioia che quasi un anno di fermo non avevano affatto scalfito la mia abilità di manager e che l'avere in più sua maestà e la corte tutta da gestire non mi creava nessun problema.
Per questo motivo sono sceso fischiettando dal soppalco in cui si trova il mio studio e sono andato a godermi il mio meraviglioso fidanzato dal fisico scolpito, come mi meritavo ampiamente dopo un pomeriggio di duro lavoro. Mi sono steso sul suo corpo piuttosto che sul divano e con un bacio gli ho annunciato che era tutto sistemato e che il viaggio della mia gente alla volta della terra promessa sarebbe iniziato da lì a quattro giorni.
Lui ha annuito e ha detto: “Ottimo. Senti, c'è una cosa che devo dirti.”
Questa frase a me non piace a livello generale nella vita – perché se senti il bisogno di avvisarmi che stai per darmi una comunicazione, significa che è una tragedia, altrimenti mi parleresti tranquillamente – quindi figurarsi se non sto male quando a dirmela è il medico con il quale vado a letto da quasi due mesi. Voi capite che è una doppia minaccia: potrebbe darmi pessime notizie su noi due ma, soprattutto, sulla mia salute e questo, naturalmente, mi provoca ansia. E ho bisogno di tutto meno che dell'ansia quando J.J. inizia ad accarezzarmi i riccioli più lunghi che ho alla base del collo e mi dice che deve dirmi una cosa.
“Una cosa di che genere?”, ho chiesto.
Jeremiah mi ha sorriso e mi ha guardato come se fossi la cosa più bella del mondo. “Sono felice che tu e i tuoi ragazzi abbiate un'altra possibilità di contratto.”
“Grazie,” ho risposto.
“E' una bella novità, dopo quest'ultimo periodo un po' turbolento.” Ed abbiamo riso entrambi perché turbolento non descrive nemmeno lontanamente quello che è stato questo periodo, che io gli ho raccontato e del quale lui non riusciva a capacitarsi. “Ecco perché ho deciso di dare anch'io una svolta alla mia vita. Ricordi quel programma di volontariato di cui ti parlavo qualche giorno fa?”
“Certo, quello a sostegno dei bambini autistici. Mi sembra una bella cosa.”
Lui è scivolato via dalla mia stretta per raggiungere il suo zaino appeso vicino alla porta. “Ecco, ho pensato che fosse troppo facile dire di fare volontariato facendo otto-dodici ore di lavoro e poi uscire, fare venti metri ed infilarmi in un altro palazzo qui in città. Ci vuole qualcosa di più, più impegno,” ha detto con un entusiasmo onestamente preoccupante. “E indovina un po' che cosa mi è capitato per le mani proprio mentre ne discutevo con dei colleghi all'ora di pranzo?”
“Cosa?” Ho chiesto, sempre più inquieto.
“Questo,” ha risposto lui, piazzandomi in mano un volantino di due pagine con sopra bellissimi bambini dagli occhi grandi che reggevano immancabili ciotole di riso. “E' la pubblicità di un'associazione di volontari che ha sede a Muhanga, in Ruanda. Non è meraviglioso?”
Inizialmente ho faticato a capire che cosa stesse cercando di dirmi ma, anche quando mi trovo in queste situazioni di dubbio, c'è sempre una parte di me più sveglia di tutto il resto che, come una specie di senso del ragno, pizzica e mi avvisa. “Meraviglioso sì,” ho detto. “E quanto starai via?”
“Un anno, per cominciare,” ha risposto lui, con un sorriso che la diceva lunga sul fatto che stesse affrontando l'intera faccenda in maniera molto diversa da come la stavo affrontando io. “Poi si vedrà, se le cose girano, anche di più. Oddio, David, sono così emozionato che non puoi immaginarti!”
No, in effetti non immaginavo e non immagino nemmeno ora che ve lo sto dicendo. Non che io non veda cosa ci sia di positivo nell'aiutare le persone che ne hanno bisogno, naturalmente, me per fare le valigie da un giorno ad un altro e sparire nel cuore dell'Africa uno si aspetta che ti sia successo qualcosa di tremendo o che qualcuno ti abbia spezzato il cuore o che so io; ma Jeremiah ha un bel cuore intero, sotto due gloriosi pettorali che a guardarli ti viene da piangere per la commozione, quindi perché andarsene? Perché non rimanere lì con me a farsi adorare come un Dio. Proprio non capivo.
“Ma, un anno?” Ho detto incerto, anche se in realtà avrei voluto dire: e come ci vedremo noi? Come hai intenzione di continuare questa relazione? Ma abbiamo una relazione? Perché per me vedersi ogni sera, almeno 5 sere alla settimana e scopare tutte le volte è una relazione. Poi possiamo discutere sul tipo, ma è una relazione. Sei perfino venuto a cena a casa dei Reali in qualità di mio accompagnatore, quindi abbiamo una relazione e se tu non la pensavi così avresti dovuto dirmi di no fin da subito, mi sento preso in giro. Ma non ho detto niente di tutto ciò e lui ha avuto modo di tirare fuori una cartina, indicarmi il paesino di Muhanga e quindi spiegarmi con l'entusiasmo di un ragazzino tutto ciò che laggiù non c'era e che lui avrebbe portato sulle sue possenti spalle, giusto un attimo prima di curare l'ebola con la sola imposizione delle mani.
“Parto dopodomani,” ha concluso alla fine, iniziando a mettersi il camice per andare a lavoro. “Quindi potremmo salutarci prima che tu vada alla conquista dell'America.”
“Sì, ma non dovremmo parlarne?” Ho chiesto, accompagnandolo alla porta.
“Certo, naturalmente ci organizzeremo,” mi ha sorriso e mi ha preso il viso fra le mani, dandomi un bacio in fronte che è una cosa capace di uccidere l'erotismo anche più del calzino bianco. “Non è perfetto, David? Così nessuno dei due sentirà la mancanza dell'altro mentre saremo via, perché saremo entrambi impegnati a seguire le nostre passioni!”
“Peccato che io sto via solo due settimane e poi torno.”
Ma questo l'ho detto solo quando ormai lui era già uscito.

*


Siamo ad a Heathrow in attesa del cambio per Los Angeles. Mentre ripenso a tutto ciò che mi è successo negli ultimi pochi giorni, mi convinco una volta di più che questo non sia altro che il prezzo da pagare per vedere realizzato il mio desiderio. Ho perso un uomo praticamente perfetto, ma ho ritrovato il lavoro. Immagino che potrei considerarmi soddisfatto del cambio e lo sarei, giuro, se non avessi intorno un branco di uomini rumorosi che stanno vivendo il ritardo di un aereo come la fine del mondo.
“Aspettiamo da due ore, Jost,” mi dice Bushido, sedendosi accanto a me nella sala d'aspetto. “Si può sapere quando vuole partire questo aereo?”
“Bushido, e secondo te io che ne so? In caso ti fosse sfuggito, non sono un pilota.”
Lui sbuffa. Si scioglie i capelli e se li lega di nuovo, solo per darsi qualcosa da fare. E' un'abitudine che ha preso da quando se li è fatti crescere; se li tocca di continuo, e non so se la cosa derivi dal fatto che sa di essere ipnotizzante quando lo fa, o se proprio gli viene naturale, dopo averli spostati dal viso, passarci anche le dita in mezzo. Mi fermo ad osservare il polso magrissimo intorno al quale è legato l'elastico e seguo le sue lunghe dita affusolate che lo agganciano e lo tirano, mentre con la sinistra regge i capelli raccolti alla base del collo. So di perdermici perché è uno di quei momenti in cui fisso qualcosa ma sono ancora consapevole di ciò che mi circonda, seppur distrattamente; è solo che non riesco a distogliere lo sguardo dal riflesso della luce che rende i suoi capelli lucidissimi.
E' la sua risata che mi riporta nel mondo dei vivi. “Jost, sei così palese che se fossi uno che si imbarazza, forse sarei anche arrossito,” mi dice con la sua solita sfacciataggine. “Poi lo dici tu a Bill che io non ho fatto niente.”
“Tu fai sempre qualcosa, Bushido,” commento io, alzandomi e sgranchiendomi le gambe.
“Siete sempre tutti quanti pronti a dare la colpa a me,” ride lui, anche se quando si toccano certi argomenti non so mai se è sereno o se invece un po' ci sta male davvero. “Questa famiglia mi odia.”
Io lo guardo con un sopracciglio sollevato. “Nessuno ti odia,” sospiro alla fine, alzando gli occhi al cielo e chiedendomi se nel distributore automatico in fondo alla stanza avranno del tè deteinato. “Siamo tutti troppo asserviti alla tua persona per poterlo fare.”
“Lo so,” commenta lui alla fine con un mezzo ghigno.
Vorrei picchiarlo e anche saltargli addosso. Questi due sentimenti contrastanti mi dicono che è proprio il momento di allontanarsi a cercare quel tè, ma scommetto che lui mi fiuta addosso l'attimo di libido incontrollata, perché mi segue e ha già le monetine pronte da passarmi quando arriviamo alla macchinetta.
“Dov'è Bill?” Cambio argomento per recuperare il controllo di questa conversazione. Ho imparato che non è mai saggio permettere a Bushido di condurre un discorso, ti porta sempre dove vuole lui.
“Con Fler,” risponde lui, osservando il mio riflesso attraverso il vetro del distributore automatico. Il mio tè al gelsomino oscura per un attimo entrambi i nostri volti prima di cadere dal suo supporto. “Sono andati in bagno.”
“Come due migliori amiche?”
Vedo il suo sorriso appena accennato, nell'ombra del vetro. “E' meglio che non vada in giro da solo,” precisa, senza cogliere la mia battuta più del dovuto. “Non sono ancora tranquillo.”
“Siamo a Londra, un po' fuori dal tuo territorio.”
Lui fa un sospiro enorme mentre infila le mani in tasca e insieme ci spostiamo verso le enormi vetrate che danno sulle piste. “Non è per quello che sono preoccupato,” dice alla fine. “Voglio solo averlo sempre sotto gli occhi.”
“Hai paura che scappi di nuovo?”
Ha lo sguardo fisso su un aereo poco distante e lo osserva staccarsi dal suolo con una concentrazione tale che quasi mi chiedo se mi abbia sentito. “Ho paura che nessuno sia lì se per caso sente di nuovo il bisogno di farlo,” precisa. “Per questo voglio che gli stiamo intorno il più possibile.”
Annuisco. “Ha sentito molto la mancanza del gruppo quando vi siete divisi, anche se...”
“Dovevamo lasciarlo in pace, lo so,” m'interrompe ma, quando mi giro, le sue labbra si aprono in un sorriso e capisco che non è affatto irritato. “Non sto facendo un grande lavoro in questo senso, eh?”
“Stai essendo te stesso,” mi stringo nelle spalle. “E' più di quanto si potesse dire di te o di lui solo sei mesi fa. Vi state riprendendo, andrà tutto a posto.”
Lui arriccia le labbra, come valutando quello che ho appena detto. “Sai, vorrei avere la tua stessa sicurezza,” dice alla fine e deve percepire la mia sorpresa nel sentirgli dire quelle parole perché si volta e ride. “Cos'è? Non posso avere dei dubbi?”
“Pensavo che i re non ne avessero,” lo prendo in giro, bevendo un sorso del mio tè, che penso sia soltanto acqua colorata con l'inchiostro visto quanto fa schifo.
Lui sorride, ma la sua espressione è un po' nostalgica. “Ne abbiamo eccome, ma non ci è permesso usarli come giustificazione,” risponde sospirando. “Se prendiamo una decisione dev'essere sempre quella giusta, non possiamo mai sbagliare.”
Un altro degli aerei in pista decolla e lascio svanire il rombo del motore prima di rispondergli. “Nessuno ti dà la colpa di quello che è successo.”
Lui stavolta ride e quando si volta a guardarmi lo fa divertito, quasi mi aspetto che mi scompigli i capelli. “Sei sempre il solito Jost. Sempre pronto a rassicurare le persone che ti stanno intorno.”
Io sollevo un sopracciglio. “In genere fa piacere,” commento.
“Ma io non cerco il perdono di nessuno,” precisa. “La colpa di tutto questo casino è indiscutibilmente mia e non vorrei altrimenti. Ricordati che quando non hai nessuna colpa e nessun merito è perché non hai deciso niente, e io non sono il tipo da lasciare qualcosa al caso.”
“Dimenticavo che il filo rosso del destino dev'essere sempre nelle tue mani,” dico, cercando un cestino dove buttare la lattina di questo surrogato chimico che mi farà sicuramente venire l'acidità nel giro di mezz'ora.
Lui rimane in silenzio e lo fa tanto a lungo che alla fine sospiro. “Bushido, che problema abbiamo esattamente?”
“Abbiamo?”
“No, il problema è tuo ma un tuo problema generalmente diventa anche un mio problema prima o poi. Ponendomi nella giusta mentalità fin da subito velocizzo il processo di accettazione,” spiego.
Lui mi guarda come se gli avessi spiegato le basi della dottrina taoista in cinese. “E questa da dove salta fuori? L'hai trovata in una di quelle assurde guide alla purificazione dell'anima che tieni infognate in biblioteca dietro l'enciclopedia?”
“Cosa ne sai tu delle mie guide...” chiudo gli occhi ed espiro profondamente, come in effetti sta scritto ne L'ABC del Risveglio, che non ho idea di come sia finito nelle sue mani. “Comunque no! E' un suggerimento del mio terapista e tu saresti molto gentile se rispondessi alla mia domanda invece di evitarla.”
“Nessun problema,” risponde lui, stringendosi nelle spalle. “Forse sono solo gli aeroporti a rendermi nervoso. Non mi piace aspettare.”
“Prima o poi partiremo,” sospiro. “Oppure ci indicheranno un albergo in cui passare la notte. All'improvviso la possibilità di non vedere le vostre brutte facce per otto ore mi sembra perfino l'opzione più desiderabile.”
Bushido indica la pista con un cenno del mento. “Anche l'ultima volta l'aereo ha fatto ritardo.”
Io faccio appena in tempo a rendermi conto che stiamo parlando della sua morte che lui torna a guardarmi e si stringe nelle spalle. “Una parte di me sperava di non tornarci per molto, molto tempo,” ammette. “Forse non è l'aeroporto a rendermi nervoso, è l'America.”
Vorrei rispondergli, ma non faccio in tempo perché la voce di Bill che parla a ruota libera di ritorno dal bagno si intromette fra noi anche a distanza e Bushido ne approfitta per allontanarsi dalla vetrata e da quella mezza confessione che forse gli è uscita di bocca senza volere. A volte le parole sfuggono anche a lui.
“Sembra che comincino ad imbarcare,” ci informa Fler, indicando vagamente alle sue spalle. “Il numero del gate sui monitor ha iniziato a lampeggiare.”
Io annuisco vagamente e dico loro di recuperare tutte le borse che sono riusciti a spargere in giro mentre le parole di Bushido continuano a girarmi in testa. Quell'uomo ha la straordinaria abilità di mandare in pezzi tutta la calma interiore che faticosamente riesco a costruirmi. Sono certo che se gli dicessi che mi preoccupo per lui, mi riderebbe in faccia; solo che io non riesco a farne a meno perché – come dice mia madre – ho bisogno di ordine intorno come ho bisogno di aria e non sto bene, non respiro, finché non ho sistemato ogni faccenda e raddrizzato fino all'ultimo quadro. Mi dico che ci penserò una volta che arriveremo a Los Angeles, dove per altro avrò modo di capire la portata del problema che mi si presenta.
Mentre passo sotto il metal detector giuro che se qualcun'altro di loro impazzisce, stavolta compro un'arma e comincio a sparare.

*


Los Angeles dal balcone della mia stanza è una città da cartolina e l'alba che colora i palazzi di luce arancione è così bella che non voglio staccarmene neanche per andare a prendere la macchina fotografica.
Il Kyoto Grand Hotel non è un cinque stelle, ma non ho saputo resistere al fatto che si trovi a Little Tokyo. Mi sembrava che potesse portarci fortuna ed era un buon modo di prenderci in giro. E poi in questo posto c'è un giardino giapponese che da solo giustifica la mia presenza qui, e una palestra nella quale li parcheggio tutti quando averli intorno si fa soffocante e nemmeno tra di loro si sopportano più.
Siamo qui da tre giorni e li abbiamo passati tutti inseguendo l'estro di Bill, che dividendo i vari compiti tra gli svariati uomini che lo circondano pronti ad assecondarlo, è riuscito a spuntare quasi tutta la sua lista ed è stato così felice di qualsiasi cosa che nessuno ha trovato motivo di protestare.
Abbiamo provato un paio di canzoni, tutti riuniti qui in camera mia. Una volta Bushido si è seduto sulla poltrona a gambe larghe con l'aria di uno che vuole dare un giudizio sulla situazione; invece guardava soltanto Bill con un affetto negli occhi e un orgoglio che ha fatto commuovere anche me. E' rimasto lì con la sua birra e non ha detto una parola finché Bill non ha smesso di cantare, così pieno di vita e così convinto che non era nemmeno imbarazzato di farlo di fronte all'unico uomo al mondo dopo suo fratello che possa davvero metterlo in difficoltà.
Bushido conviene con me che Bill sembra rinato e non lo vedevamo così bene da non ricordo più nemmeno quanto. Ancora qualche giorno e tornerà abbastanza se stesso da parlare troppo, imbottirsi di caramelle e quindi parlare ancora di più; per questo temiamo quel giorno e stiamo cercando di mantenere i suoi livelli di normalità un po' più bassi di quanto sarebbero in realtà.
Ad ogni modo, anche se mi rendo conto che è in forma e che anche gli altri lo sono nella scia del suo entusiasmo, non sono riuscito a dormire sapendo che il loro provino è fra sei ore.
Ieri sera li ho spediti tutti quanti a letto alle nove, con Bushido che brontolava di diritti coniugali negati e Chakuza che sosteneva di non entrarci niente e che poteva pure fare l'alba se voleva. Ho dovuto far giurare a Bushido che per quella notte, se proprio doveva, l'avrebbe fatta in solitaria perché non volevo che Bill si stancasse, mentre Fler si portava via il suo uomo che mi minacciava di ritorsioni fisiche e legali, nessuna delle quali mi ha messo granché paura. Dopodiché mi sono ritirato in camera mia e ho fatto yoga finché il sedere non mi è diventato quadrato.
Mi sembra di essere tornato agli inizi, quando si addormentavano nella stanza accanto alla mia, quattro marmocchi di quindici anni ammonticchiati gli uni sugli altri dopo quintali di pizza, e il mattino dopo dovevo svegliarli, spedirli in doccia e preparargli la colazione prima di portarli alla Universal e sperare che li prendessero sul serio.
L'unica cosa che mi risparmierò stamattina sarà bussare ad ogni porta, perché l'ultima cosa che voglio è vedermi aprire da Bushido, che lo farebbe nudo senza dubbio.
Alla fine decido che guardare l'alba che sorge dal mare – ovunque esso sia, da qualche parte in quella direzione, mi ha detto il portiere – è molto romantico ma è anche un tantino da sfigati, soprattutto quando sei solo come un cane, con il tuo pigiama peggiore perché ti sei scordato di fare la lavatrice prima di partire e sei seduto su un tappetino nella posizione del loto da quasi due ore; da quando, cioè, nemmeno il sole si era ancora svegliato.
Me la prendo comoda e faccio la doccia molto lentamente, lascio che l'acqua si porti via la tensione della notte e mi prepari alla mattina che mi aspetta, nonostante io la debba affrontare senza aver chiuso occhio. In bagno sto con l'orecchio teso nel caso squillasse il cellulare. Ci sono sedici ore di differenza tra la costa orientale degli Stati Uniti e l'Uganda, quindi alla missione di J.J adesso sono quasi le nove di sera e potrebbe ancora chiamarmi. Non lo ha mai fatto in una settimana, ma non si sa mai.
Mi piacerebbe molto, ma non me lo aspetto davvero, perché i nostri saluti all'aeroporto non sapevano nemmeno di pausa di riflessione; lui ha semplicemente scelto tra me e la missione e io non mi sono opposto abbastanza, non ho neanche provato a chiedergli che cosa ne sarebbe stato di noi visto che per lui la questione sembrava abbastanza chiara. Ad ogni modo, non è doloroso; è stata una rottura anestetizzata dall'entusiasmo di nuovi progetti e nemmeno l'ho ben capito ancora che non stiamo più insieme, difatti aspetto che chiami, quando è chiaro che fra tutte le cose che potrebbe mai fare nella vita è molto più probabile che diventi prete-medico in Africa o una roba altrettanto eroica.
Un tempo avrei saputo lasciare da parte le mie questioni personali per concentrarmi sul mio lavoro, ma immagino che questi due mondi si siano un po' confusi nel momento in cui mi hanno aperto lo stomaco da un rene all'altro e quelle che dovrebbero essere solo persone con le quali lavoro hanno iniziato ad occuparsi di me – e io di loro – come se fossimo una famiglia.
Lavoro e affetti si mescolano irrimediabilmente quando passi due anni della tua esistenza a stare dietro al tuo cantante come fosse figlio tuo per evitare che si ammazzi dopo che il suo uomo si è finto morto, e al suddetto uomo per evitare che muoia davvero. Quando non c'è più una linea netta tra quello che fai per i soldi – per la gloria, per campare, quello che vi pare – e quello che fai per affetto, poi diventa molto più difficile staccare la spina quando finisci di lavorare.
Non ho più quel distacco che mi permetteva di tagliare fuori le emozioni e lavorare venti ore filate senza preoccuparmi di nient'altro. Adesso, che io lavori o meno, c'è sempre in ballo la stessa carica emotiva e certe volte è sfiancante. “Oppure è molto più semplice e stai solo invecchiando,” mi dico, asciugandomi il viso e fissando impietoso il mio riflesso nello specchio. Quelle occhiaie non le tiro via nemmeno con la carta smerigliata, ormai.
Nella sala che ho fatto riservare per noi, visto il numero consistente che siamo, li trovo tutti quanti, compreso Eko che però si guarda intorno e continua a chiedersi per quale motivo sia sveglio. Eko mi dà da pensare perché spesso, non solo sembra inconsapevole del luogo in cui si trova o di quello che sta facendo, ma anche della sua stessa persona, come se in quel corpo ci fosse finito per caso e stesse cercando ancora di capirne i meccanismi, un processo che in un essere umano normale trova la sua naturale conclusione entro i primi dodici mesi di vita. Bushido ha già dato ordini per la colazione del branco, con la partecipazione straordinaria di Chakuza che, nonostante sia ancora accusato di alto tradimento e debba mantenersi ad una distanza di due metri da Bill, è sempre considerato il maggior esperto di cibo del gruppo ed ha quindi consigliato a sua maestà di far portare una colazione continentale con l'aggiunta di baguette e un qualche burro di provenienza ignota che solo lui conosce e che Bushido ha preteso per il solo fatto che era introvabile.
“Hai visto, Jost?” Mi accoglie con un sorriso che metterebbe incinta delle donne se ce ne fossero. “Non l'ho toccato con un dito. Ieri sera gli ho fatto bere del latte caldo, gli ho letto una favola della buonanotte e l'ho spedito subito a letto.”
Accarezza dolcemente il collo di Bill che gli lancia un'occhiata di traverso. “Quella non era una favola, Anis, era un articolo di Playboy,” sibila, per poi scuotere la testa e tornare ad asfissiare suo fratello con chissà quali problemi.
Bushido mi guarda e ride. “Tranquillo Jost, ho saltato le parti più pornografiche.”
Io mi limito a scuotere la testa mentre prendo coscienza del fatto che è questo che mi aspetta nei prossimi anni se davvero voglio continuare ad occuparmi di tutte queste persone, e non so sinceramente se sono in grado di farcela.
“Allora, per quando è fissata questa audizione?” Chiede Fler, sollevando gli occhi su di me solo un istante.
“Per le undici,” dico.
“Siete in anticipo di quasi tre ore,” mi fa notare lui. Poi una qualche forza mistica, che credo sia quella dell'abitudine, lo porta ad osservare Bill che è vestito di tutto punto, ma indossa dei semplici pantaloni di jeans e una maglietta troppo poco appariscente per essere davvero pronto ad uscire da questo albergo. “Oh, capisco. E' il tempo che servirà alla ristrutturazione.”
“Ti ho sentito,” commenta Bill, senza nemmeno voltarsi. Fa soltanto una pausa nel mare di chiacchiere che sta rifilando a suo fratello. Mi si stringe il cuore di felicità, perché era quasi un anno che la sua straordinaria abilità di intrattenere conversazioni multiple, tutte egualmente logorroiche, era sopita da qualche parte dentro di lui. Piano piano sta tornando, sento una vibrazione nella forza.
Fler incassa la testa nelle spalle come un bambino che è stato sgridato dalla mamma e, in silenzio, mi fa segno di aver compreso la situazione in cui mi tocca lavorare.
“Noi rimaniamo qui,” annuncia Bushido, improvvisamente composto e mi fa ridere che senta il bisogno di dirmelo, come se ci fosse stata la possibilità anche remota che me li portassi dietro tutti. Va bene che sono venuti fino in America come supporto morale, ma sarebbe alquanto poco professionale presentarsi agli uffici della casa discografica in dodici senza alcun motivo.
Ma visto che Bushido mi si è seduto accanto e mi parla con la faccia dell'adulto che ne prende da parte un altro per discutere di faccende serie mentre i bambini giocano, io decido che posso anche assecondarlo. Non mi costa niente e forse sciolgo anche un po' di tensione. “Apprezzo la collaborazione,” dico annuendo e fermandolo prima che continui a zuccherarmi il caffé. Tragedia, non era nemmeno dolcificante.
“Visto che gli spostamenti sono complicati, pensavo che possiamo raggiungervi più tardi, magari prendendo una macchina a noleggio.”
“Naturalmente,” cerco di restare serio io. “D'altronde non vogliamo certo atterrare sul tetto della Maverick con un elicottero.”
Lui aggrotta le sopracciglia e gli si forma una riga orizzontale marcatissima sulla fronte. “Mi stai prendendo per il culo, Jost?”
“E mi sto anche divertendo parecchio,” commento, sorseggiando il mio caffé con una certa soddisfazione.
Dall'altra parte del tavolo, incontro lo sguardo di Tom e vedo che sorride anche lui. Mi rendo conto all'improvviso che non gli ho più nemmeno chiesto che cosa fosse successo tra lui e Cassandra quella sera che mi ha telefonato a pezzi. L'avranno risolta, immagino, se ora è qui e, nonostante quello che ci aspetta, sembra tranquillo; eppure qualcosa mi dice che dovrei indagare e preoccuparmi perché so per esperienza che Tom non ha mai problemi, quindi se ti chiama per dirtelo e lo fa con una bella dose di ansia nella voce, allora forse è il caso di scoprire di che si tratta. Poi magari non è nulla, ma prevenire è meglio che curare.
Dovrò prenderlo da parte e discutere con lui, ma non adesso.
C'è un'audizione che ci aspetta.

*


Se faccio un rapido calcolo, saranno almeno sei anni che non li accompagno ad un'audizione e per questo sono nervoso come se dovessi farla io, che ho fatto l'ultima almeno quindici anni fa.
Comunque, prima di andare, non dimentico di mettere su la mia faccia migliore, quella che porta ancora gli ultimi rimasugli del mio distacco professionale e di rassicurarli che andrà tutto bene, anche se non ne ho la certezza e quest'etichetta è famosa per lanciare inviti un po' alla cieca e poi tirare su artisti con le reti per la pesca a strascico.
Uno dopo l'altro scendono dall'auto che ci ha portati qui e io mi ripeto per l'ennesima volta che non siamo cinque imbecilli qualunque. Certo non abbiamo cambiato il mondo della musica, ma abbiamo fatto il nostro bel baccano e questo dovrebbe essere sufficente in termini di mercato per darci anche solo una possibilità.
Con la speranza di tornare in pista, i ragazzi hanno fatto miracoli in studio. Se quella speranza si concretizzasse, niente potrebbe più fermarli. Io lo so e spero che se ne renda conto anche chi di dovere.
Gli uffici della Maverick sono imponenti ed esagerati come quasi tutto qui negli Stati Uniti e io devo ammettere di sentirmi un po' in soggezione a varcare una porta a vetri che in un qualche momento della storia ha visto il passaggio di Madonna.
E l'emozione di trovarmi di fronte al tempio di una donna che ho amato per gran parte della mia adolescenza e che, senza vergogna, amo ancora incondizionatamente, nonostante i suoi cambiamenti di religione frutto dei primi sintomi di demenza senile, non si placa nemmeno quando entriamo e veniamo investiti dall'ondata gelida dei condizionatori che tengono a bada i trentasei gradi esterni. Non posso fare a meno di pensare che anche tutto ciò che mi trovo davanti ha visto passare Madonna più e più volte. Si sarà sicuramente accostata al bancone della reception per chiedere di qualche appuntamento e si sarà seduta su una di quelle poltrone in pelle color crema, magari a prendere un caffè. La sola idea che potrebbe trovarsi in questo edificio, da qualche parte, mi farà trasformare ben presto nell'oca giuliva che in realtà sono se ci penso abbastanza a lungo.
“David?” Bill mi si avvicina togliendosi gli occhiali da sole e guardandomi con la pietà che probabilmente mi merito. Fa un cenno in direzione della ragazza dietro il bancone e si morde un labbro. “Non dovremmo annunciarci o fare qualcosa?”
“Sì, aspettatemi qui,” annuisco e mi dirigo verso la reception. Loro si riuniscono tutti in un angolo e fa quasi tenerezza vederli così poco a loro agio in un ambiente che dovrebbero conoscere ormai più che bene. Tom è tornato inconsciamente ad assumere gli stessi atteggiamenti di quando era un ragazzino, e si sistema il cappellino più volte del consentito, stropicciandosi l'orlo della maglia e fingendosi tranquillo mentre si siede a gambe larghe anche se il ginocchio gli trema furiosamente. In tutto questo, non perde mai d'occhio suo fratello che per non mangiarsi le unghie, sta mordicchiando l'asticella degli occhiali. Ringrazio che Gustav e Goerg siano costanti come lo sono sempre stati e mentre uno si è chiuso nel suo mutismo ascetico e tamburella con le mani sulle ginocchia, Georg cerca di tirare su il morale a tutti quanti facendo il cretino.
“Buongiorno, posso fare qualcosa per lei?” Mi dice la signorina, con un sorriso di plastica e un accento poco masticato che mi agevola e non poco la comprensione.
Il mio inglese è alquanto arrugginito, ma riesco a farmi capire e lei mi dice che siamo attesi al secondo piano, di aspettare in sala d'attesa e che la responsabile verrà a chiamarci tra poco.
“Facciamo anticamera!” Esclama Georg con un entusiasmo francamente incomprensibile mentre entriamo nell'ascensore nero e lucido, molto elegante.
Bill si volta verso di lui e gli posa addosso uno sguardo così infastidito che mi aspetto di vederlo frantumarsi in mille pezzi sotto il suo giudizio negativo.
“Beh, è eccitante,” si giustifica Georg, sbuffando per poi tornare subito allegro quando si accorge che le pareti sono trasparenti e si vede scorrere il muro dietro la pulsantiera. “Insomma, sempre meglio che sei mesi di televisione, seduti sul divano a mangiare schifezze.”
“Veramente io mi sono allenato,” precisa Gustav.
“E io ho scopato,” gli fa eco Tom.
Bill incrocia le braccia al petto e lo guarda con ancora più sufficenza. “Georg, io sono stato in terapia e tu rimani comunque più sfigato di me.”
Se potesse, il mio bassista abbasserebbe anche le orecchie. “Certo che siete senza pietà,” borbotta.
“Abbiamo ricominciato sul serio da meno di qualche settimana e già non vi sopporto più,” commento ridendo mentre arriviamo al piano. “Forza, uscite prima che ci ripensi.”
Mi passano davanti uno dopo l'altro e sento Tom ribadire “Sfigato!” a Georg per poi prendersi in pieno uno scappellotto che la sua goffaggine naturale non gli ha impedito di evitare.
“Quanti anni avete detto di avere?” Commento sarcastico, appena prima che una signora molto distinta in tailleur gessato si faccia avanti con la faccia di una che ha appena consumato un limone. Non so bene da quale delle due estremità.
“Il signor David Jost?” Chiede con una serietà tale che i nostri sorrisi muoiono e ci avviciniamo a lei con compostezza, sentendoci tutti incredibilmente stupidi e ad un funerale.
“In persona. Questi sono i ragazzi. Abbiamo un appuntamento con...”
“Sì, mi segua. Il signor Dashev non ha molto tempo.”
Cominciamo bene. Si esibiranno di fronte ad un uomo che dichiara di non avere tempo per un appuntamento che lui stesso mi ha dato più di due settimane fa, quando siamo anche in anticipo di venti minuti. Saremo fortunati se non sarà al telefono mentre cantano. Ciononostante sorrido ai ragazzi e ignoro l'occhiata che si lanciano fra loro.
Questa donna acida con un paio di occhiali Dolce&Gabbana dell'anno scorso ci fa strada lungo il corridoio e noi la seguiamo in silenzio per il semplice fatto che dà l'impressione di potersi girare e mostrare un paio di fauci da doberman se solo facciamo un po' di rumore.
Si ferma di fronte ad una porta e la apre per noi, fermandosi di lato per farci passare. All'interno l'arredamento sembra il risultato di una bomba al plasma da Sotheby’s.
L'unica cosa che accomuna i mobili è che costano ognuno un occhio della testa, perché sono pezzi antichi e probabilmente unici, ma sono di stili e materiali diversi e totalmente incompatibili tra di loro. Entro cercando di non fissare inorridito i dispositivi di ultima generazione accostati alla mobilia del settecento e mi consolo dicendo fra me e me che di certo la signora Ciccone non ha niente a che vedere con tutto questo. Poi mi ricordo che anche lei è americana e che c'è stato un tempo – che noi tutti fingiamo non esista, certo, ma che non possiamo dimenticare – in cui le sue sopracciglia, che il cielo mi perdoni, erano un'offesa al buon gusto e facevano piangere le estetiste di tutto il mondo, per cui anche un arredamento atroce come quello che trovo in questa stanza è perfettamente giustificabile.
“Salve,” dico, sforzandomi di spostare lo sguardo da ciò che mi circonda per concentrarmi sulla plancia di missaggio che prende gran parte dello spazio disponibile, mentre i miei quattro pargoli si sistemano alle mie spalle cercando di non apparire nervosi.
L'uomo dietro di essa, che presumo sia il signor Dashev, non ha neanche il tempo di salutarci e, dopo averci fatto aspettare cinque minuti in silenzio, ci fa cenno di procedere senza sollevare lo sguardo dalle manopole che sta girando apparentemente a caso.
Io sospiro e invito i ragazzi ad entrare nella cabina di registrazione alle nostre spalle. Rimango aldilà del vetro per poter sentire qualunque commento possa mai uscire dalle labbra di quest'uomo, se mai si deciderà a degnarci di un briciolo della sua attenzione, e sorrido incorraggiante mentre imbracciano gli strumenti e Bill si regola da solo il microfono. Lo vedo respirare profondamente una, due, tre volte e girare nervosamente il braccialetto di Bushido che porta al braccio, in attesa di un segno da parte di Dashev.
“I ragazzi sono pronti,” annuncio, nel caso l'immobilità della stanza e i colpi di tosse casuali non fossero un segno abbastanza chiaro. “Quando vuole possiamo cominciare.”
Dashev alla fine alza la testa, ci guarda come se ci vedesse per la prima volta e scruta Bill e gli altri a lungo, prima di appoggiarsi allo schienale della poltrona sulla quale si molleggia un po'. “Questi sarebbero i ragazzini tedeschi?” Chiede alla strega che ci ha accompagnati e che ora sta in piedi di fianco a lui, con le mani giunte e lo sguardo disgustato dietro le lenti.
“Sì, signore.”
Dashev annuisce, valutando non so cosa.
“Sentiamoli,” dice finalmente, accennando col mento mentre si mette le cuffie.
Infilo le mani in tasca e incrocio le dita.

*


In ogni ambiente esistono frasi in codice che gli addetti ai lavori possono usare tra di loro per non farsi capire da tutti gli altri. Potrei fare mille esempi, ma in questo momento me ne interessa soltanto uno e scommetto che, se ci pensate un attimo, forse lo indovinate anche.
Le faremo sapere. Sono solo tre parole ma sono in grado di rovinarti la vita per settimane, ossia per tutto il tempo necessario ad inghiottire il rospo che ti hanno fatto mangiare e ricominciare da capo.
Immaginate di prepararvi per mesi – senza contare che magari studiate da anni – per l'audizione della vostra vita. Ci mettete sangue, sudore e lacrime, passate le notti in bianco per imparare tutte le battute, o per imparare a non stonare sulle note alte. Vi fate venire la febbre dallo sforzo a furia di allenarvi su quel salto mortale all'indietro sui pattini che proprio non vi viene come volevate.
Vi svegliate la mattina dell'audizione nervosi ma carichi e vi presentate in un posto che non avete mai visto, con gente che non avete mai visto e che nel novanta percento dei casi già parte con l'idea che non valete abbastanza per essere lì e state facendo perdere del tempo a qualcuno più importante e migliore di voi.
Vi danno cinque minuti per provare di meritarvi la loro attenzione.
Cercate di immaginare quanta pressione si possa provare in una situazione simile e moltiplicatela per cinque anni di successo che per la vostra etichetta discografica non contano più niente perché ad un certo punto siete crollati in ginocchio e non vi siete rialzati in tempo. Adesso immaginate che tutto questo e tutta la fatica che avete fatto si concludano con un uomo dal viso immobile che dice “Le faremo sapere” e poi torna a guardarsi le mani aspettando solamente che usciate dalla stanza.
Dashev mi ha fatto la cortesia di dirmelo appena un attimo prima che Bill e gli altri uscissero dalla stanza, così qualche minuto dopo, quando mi hanno chiesto com'era andata, ho potuto inventarmi che sembrava davvero impressionato e che non volevo azzardare, ma forse c'era una possibilità.
In realtà l'unica possibilità che gli ho letto negli occhi è stata quella di andare o meno a pranzo.
Faccio questo lavoro da troppo tempo – e ho lavorato troppo a lungo per gente simile – per non aver capito al volo che era stato un viaggio a vuoto, non certo per i ragazzi che sono stati più bravi di quanto io stesso mi aspettassi, ma per il fatto che nessuno aveva mai voluto davvero credere in loro fin dall'inizio.
Così non sono molto sorpreso quando alla Maverick non si sprecano neanche a telefonarmi ma mi mandano una seconda e-mail in cui mi si dice che la mia band è valida e ha del potenziale – del potenziale! Cazzo, abbiamo cinque album all'attivo e un numero di premi che nemmeno ricordo più! – ma che purtroppo non incontra le esigenze dell'etichetta. Mi chiedo se le esigenze dell'etichetta siano decise da una scimmia che pesca a caso da un secchiello pieno di palline colorate dal momento che la Maverick, nel corso degli anni, ha prodotto cani e porci senza distinzione di genere.
Per calmarmi stavolta non basta lo yoga, così decido che prima di partire per il Nevada, posso sfruttare la palestra dell'albergo che fortunatamente trovo semi-vuota. Nessuno, a quanto sembra, ha voglia di fare pesi alle sei e mezza del mattino.
Non so nemmeno perché sono tanto furioso; se è per il semplice rifiuto, se è perché ci ho creduto troppo o perché sapevo perfettamente che sarebbe andata così e non ho trovato un'altra strada, o magari il coraggio di dire ai ragazzi che non c'era speranza, che forse potevano mettersi a recitare, a ballare o a vendere pesce per strada, ma che se volevano tornare sul mercato musicale, allora forse dovevano aspettare di essere vecchi e sfatti, farsi rifare da capo a piedi e saltare fuori come vecchie glorie, riportando in voga mode sepolte da anni. Ci sono riusciti i Take That e i Duran Duran, non vedo perché tra dieci anni non possono farlo loro. Ma adesso no, perché l'industria musicale non ha memoria – e presto si sarà dimenticata di loro abbastanza da poterli accogliere di nuovo a braccia aperte – ma finché non dimentica è impietosa, quindi tutto ciò che siamo, per lei, adesso, è rappresentato dal crollo di nervi di Bill e del suo oscillare fra Bushido e Chakuza. Di quello che la band è stata, non c'è più niente. Contano sempre di più gli sbagli, e forse è questo che mi fa così arrabbiare da caricare l'asta dei pesi a caso.
Quando mi stendo sulla panca e sollevo l'asta mi rendo conto di aver esagerato e mi spezzerei i polsi se due mani gentili non mi evitassero una brutta morte da soffocamento, rimettendola al suo posto sopra la mia testa. “Ehi, Jost, vacci piano!” Bushido ride e mi guarda dall'alto “Hai una certa età, ormai.”
“Bushido vaffanculo,” mi tiro su e lui ride ancora più forte mentre fa il giro per sedersi sulla panca accanto alla mia. “E poi cosa diavolo ci fai in palestra a quest'ora?”
“Insonnia, e poi Bill si è preso tutto il letto,” si stringe nelle spalle, prima di bere un sorso di una qualche bevanda energetica piena di coloranti. “Tu, invece, com'è che ti stavi suicidando?”
“Non mi stavo suicidando,” commento e poi allungo il braccio per farmi dare la bottiglia.
Lui me la passa ma mi guarda con un sopracciglio inarcato. “Okay, adesso mi fai davvero preoccupare. Tu la odi questa roba. Se non ricordo male, in una delle tue tirate salutiste sul buco nell'ozono e i vantaggi del latte di soia, mi hai detto che doveva finire il mondo prima che tu ingerissi, cito alla lettera, un tale concentrato di elementi chimici atti a rendermi assuefatto al prodotto stesso, in modo tale che io ne senta il bisogno e sia spinto a comprarne ancora.”
“Ne hai di memoria,” commento, restituendogli la bottiglia vuota che lui getta via con una smorfia, facendo canestro nel cestino. “Comunque il mondo è finito, per cui posso pure bucarmi lo stomaco.”
“Dopo che ti hanno appena ricucito?” Fa lui con un mezzo sorriso, un po' malinconico. “Allora, che succede?”
Immagino che a qualcuno dovrò cominciare a dirlo, e in questo momento preferisco che sia una persona che non reagirà troppo male. “Succede che quelli della Maverick mi hanno contattato per dirmi che i Tokio Hotel non incontrano le loro esigenze.”
Bushido impreca sotto voce, in un modo che non mi sarei aspettato da lui. Appoggia le braccia sulle ginocchia e si sporge in avanti, dal suo viso sparisce ogni traccia di euforia. E' serissimo, com'era serio in un tempo che ora mi sembra lontanissimo e che invece è legato a questo momento come nessun altro tempo prima di quello.
“Adesso dovrò dirlo ai ragazzi,” e me ne rendo conto mentre lo dico, perché fino a due minuti fa ero troppo occupato ad essere arrabbiato per poter anche pensare al fatto che sarò io a dover dare la brutta notizia. Mi sembrava che saperla fosse già abbastanza per stare male. “Bill era così pieno di entusiasmo. Non credo che se lo aspetti minimamente.” E magari se gli dicevo fin da subito che non era andata, se lo sarebbe aspettato; ma non mi si può biasimare – non tanto almeno – se ho cercato di sperarci anch'io.
“Vuoi che glielo dica io?” Si offre, e quando lo guardo negli occhi sento l'impulso di dirgli di sì, che ci pensi lui a distruggere definitivamente le speranze del suo fidanzato. Non voglio essere io quello cattivo, per una volta. Poi capisco che non sarebbe giusto e che se c'è qualcuno che deve riportare tutti con i piedi per terra, quello sono io – d'altronde sono sempre stato io – e che è meglio che Bushido sia lì per consolare Bill se e quando crollerà, i suoi abbracci saranno certamente più confortanti dei miei.
“No, ci penso io,” annuisco con un sospiro. “Ora, ti va se facciamo quello per cui siamo venuti qui?”
Lui ritrova il sorriso e poi mi raggiunge dietro la panca, dove mi aiuta a sollevare un peso più adeguato alla mia persona, per quanto imbestialita come lo sono io, ora.
Dopo non c'è più niente da dire e, visto che abbiamo entrambi in testa una Miami di notte calda come una fornace, in cui quello che c'era da dire nessuno dei due voleva sentirlo, non ci sembra vero di poter stare in silenzio senza sentirci in colpa perché davvero a volte di parole ne bastano poche.
Penso di aspettare la cena per parlare ai ragazzi, ma quando ci troviamo per colazione hanno tutti in faccia la stessa domanda, e io non so mentirgli per due volte di fila.
“D'accordo, sedetevi,” dico alla fine e Tom fa in tempo ad incrociare il mio sguardo che tenta fino all'ultimo di sfuggire a tutti loro, così immagino che capisca o comunque sospetti qualcosa. Suo fratello invece non sta nella pelle, quasi saltella, e io mi chiedo quanto ci metterà a spegnersi come sei mesi fa, se succederà subito, proprio davanti ai miei occhi, o se sarà una cosa lenta che forse, questa vota, potrò arginare in qualche modo. “La Maverick ci ha finalmente dato una risposta,” dico, arrancando. Ricordo che in passato mi vantavo di trovare molto più giusto non indorare la pillola. Adesso vorrei avvolgerla in lamine doro e cospargerla tutta di brillantini, prima di dargliela. “E' arrivata questa mattina e...”
“Non era adeguata alle vostre esigenze,” s'intromette una voce.
Mi volto e Bushido è appoggiato alla porta, le braccia incrociate al petto e lo sguardo serio e professionale. Si stacca dallo stipite con un colpo di reni e si avvicina mentre gli occhi dei ragazzi si riempiono di punti interrogativi.
“Non l'avrai mica rifiutata! Ma tu poi che diavolo c'entri?” Esclama Tom alzandosi e, quando il viso di Bushido basta a rispondere alla domanda, impreca lasciandosi andare seduto com un sacco di patate vuoto. “Cazzo, Bushido! Era l'unica possibilità che avevamo.”
Gli occhi di Bill si spostano da me a Bushido, increduli e un po' spaesati. “Anis, perché diavolo lo hai fatto?” Chiede.
“Perché siete genericamente quattro rompicoglioni – tu e tuo fratello più di Jack e Jill là dietro – ma non siete il primo gruppo di sbarbatelli che si presenta davanti a quel baraccone della Maverick a chiedere l'elemosina. Siete i Tokio Hotel, una macchina da soldi multimiliardaria. Con il contratto striminzito che hanno proposto, possono pulircisi il culo. Valete molto più di così, anche solo con il merchandising di quattro anni fa.”
Io e Bill lo fissiamo increduli, per due motivi totalmente diversi, immagino. Lui si starà interrogando sul perché il suo uomo abbia improvvisamente deciso di dimostrare interesse per una parte della sua vita di cui, paradossalmente, non aveva mai riconosciuto l'esistenza se non in modo vago. Bushido, difatti, non ha mai discusso troppo della carriera di Bill, posso supporre per evitare di dover esprimere pareri che sua moglie non avrebbe affatto condiviso. In quanto a me, io mi chiedo che cosa Bushido abbia intenzione di fare, se il suo è solo il tentativo di rendere più tenera la loro discesa verso l'anonimato o se abbia in mente qualcosa – ipotesi che mi terrorizza per svariati motivi.
“Bravo!” Esclama ironicamente Tom, aprendo bocca solo qualche istante prima di Georg che sembra sul punto di arrabbiarsi davvero. “Sono tutte parole bellissime, le tue, ma come al solito non servono ad un cazzo. Le tue prese di posizione, per altro non richieste, sai dove te le puoi mettere?”
Bill appoggia una mano sul braccio di suo fratello per calmarlo, ma lo sguardo che continua a riservare ad Anis non è affatto tranquillo. Tom inspira ed espira rumorosamente, stringendo forte i denti prima di decidere che non vale la pena di continuare il discorso e rivolgersi a me. “David non possiamo richiamarli e dire che c'è stato un malinteso e che non siamo stati noi a rifiutare ma un cugino ritardato che avevamo momentaneamente perso di vista?”
“Non è così semplice,” tento io che, in sostanza non so che dire. Ormai non posso più spiegargli che se non chiamiamo per riconfermare è perché ci hanno dato un due di picche grosso come una casa.
Tra l'altro mi aspetto che Bushido reagisca in quel modo infantile che fa scatenare Tom ancora di più, così fra meno di dieci minuti due di loro faranno a gara di insulti e gli altri cercheranno di convincermi a richiamare una casa discografica che non li vuole.
“Tom, è mai possibile che tu non abbia ancora imparato a sfruttare le ottime occasioni che ti si danno per stare zitto?” Dice invece lui, infilando una mano in tasca e sospirando. “Se ho preso in mano questa situazione l'ho fatto per due motivi: il primo è che se continuate ad andare alla cieca finiremo per farci tutti una vacanza in Lapponia, per bussare alle porte di una qualche casa discografica semi-sconosciuta che produce solo canzoni di Natale. Il secondo è che ho già un piano e se... Tom, fammi parlare o giuro che tu in Germania ci torni con tre voli diversi.” Tom sbuffa a quella minaccia di morte ma, visto che Bill continua a stringergli le dita al polso, incrocia le braccia e si siede. “Dicevo, ho un piano e, se volete, ve lo spiego.”
Bill annuisce. “Anis, io ti avverto, farai bene ad essere convincente.”
“Ahi! La Principessa non è contenta, Anis. Io fossi in te farei quello che ti dice” lo prende in giro Fler, seduto al contrario su una sedia. Ridacchia divertito anche quando Bill allunga un braccio per colpirlo dietro la nuca.
Bushido non perde un briciolo della propria sicurezza. “La soluzione è molto semplice,” annuncia. “Non avete bisogno di nessuna etichetta discografica sconosciuta. Vi produco io.”
Il silenzio che segue è pesante e carico di una tensione strana, non esattamente negativa ma che il mio sesto senso mi avvisa di non lasciare esplodere. “Bushido,” chiedo con cautela e un sorriso un po' tirato, poco credibile e molto isterico. “Che cosa ti salta in testa?”
“Con cosa vorresti produrci?” Sbotta Tom, battendo una mano sul tavolo. “Con la potenza della tua presunzione? La Universal ha scaricato anche te. O te lo sei dimenticato?”
Bushido sorride in maniera pericolosa, ossia con tanta di quella fiducia in se stesso che il generale senso di onnipotenza che prova per ogni sua azione trasuda da tutte le parti e ci investe soffocandoci. Ho la netta sensazione di annaspare controcorrente nell'oceano di arroganza che si è appena formato intorno alla sua persona e che, senza dubbio, sarà fonte di un tale numero di problemi che farei bene ad affogarmi adesso. “E' vero, la mia collaborazione con la Universal si è interrotta,” risponde “ma, a differenza di voi, io ho anche un'etichetta, che si dà il caso sia ancora in piedi, e un mucchio di soldi che sono disposto ad investire nel vostro progetto.”
Bill trattiene il fiato, sento il singulto che gli esce di bocca mentre continua a guardare Bushido con l'aria spaesata e non del tutto convinta; fortunatamente per lui, non ha bisogno di chiedere chiarimenti perché Tom ci pensa già per tutti e due.
“Certo, come se noi potessimo mai essere d'accordo,” sbotta con una risatina amara. “E che cosa vorresti in cambio, per farci un favore simile? Vergini immolate sul tuo altare?”
“Assolutamente niente del genere,” replica Bushido, con un sopracciglio sollevato e la faccia da schiaffi. “E poi non saprei dove metterle, tuo fratello è geloso. Già le amanti mi tocca tenerle nel capanno del giardino.”
Bill si scuote dalla suo stato di stupore per lanciargli un'occhiata di traverso ma divertita. “Certo che sei un cretino,” sibila.
Tom invece non ride e continua a guardarlo così in cagnesco che la risata di Bushido si fa perfino tenera e mi aspetto che da un momento all'altro gli dia un buffetto sulla guancia. “Andiamo Tom, non essere sempre così serio,” gli dice, tendendo la mano. “Sto dicendo davvero, voglio produrvi io.”
Tom adesso guarda in cagnesco anche la mano.
“Noi però non vogliamo cambiare genere,” s'intromette Georg, incerto ma non così diffidente. Dallo sguardo che ha sul viso mi sembra disposto a discutere l'idea e la cosa non mi stupisce. E' sempre esageratamente ottimista, una persona felice. “E vogliamo poter scrivere le canzoni e scegliere quali usare.”
“Non avreste nessuna limitazione da parte mia,” insiste Bushido, socchiudendo gli occhi e agitando la mano di fronte a sé come a dissipare ogni dubbio. “Io di quello che fate voi non me ne intendo, Jost rimarrebbe il vostro manager e il mio punto di riferimento per quanto riguarda la produzione.”
Io mi ero giusto azzardato a portare alle labbra la mia tazzina di caffé, ma mi va di traverso e lui nemmeno si volta a guardarmi per fornirmi una qualche spiegazione mentre rischio di soffocare e vengo salvato dalle tempestive pacche sulla schiena di Bill. Quando finalmente la mia tosse si placa e Tom ha smesso di ringhiare alla mano ancora tesa di Bushido, la voce di Gustav si fa sentire per la prima volta e dimostra una volta di più che il suo silenzio non è abitato da falene e balle di polvere come quello di Tom.
“E con i soldi come la mettiamo?” Chiede, guardando Bushido dritto negli occhi. “Noi non siamo un gruppo di sbarbatelli, lo hai detto tu.”
“Fammi indovinare, tu sei quello intelligente,” dice, mentre le sue labbra si piegano divertite per l'ammirazione. “La mia offerta iniziale è un 60 e 40... per voi, si capisce. Ma sono aperto alle trattative.”
China appena il capo, allargando le braccia in un gesto che riesce ad essere servile senza essere umile. “La decisione spetta soltanto a voi.”
I ragazzi si guardano fra di loro e poi tutti insieme guardano me che non ho la più pallida idea di cosa sia successo negli ultimi dieci minuti. “Anis...” Bill sospira, trattenendo a stento un po' di emozione. “E' una bella proposta, ma credo che dovremmo prima discuterne un po' tra noi. E con David.”
“Certo, naturalmente,” gli sorride e poi lo prende per il collo, lasciandogli un bacio tenero sulla tempia, sotto al quale Bill chiude gli occhi e si rilassa. “Pensateci pure quanto volete.”
Infila le mani in tasca e mi passa accanto per uscire, mentre i ragazzi riprendono a confabulare tra loro e sento il borbottio di Tom accavallarsi per una volta allo squittio di suo fratello. Lo fermo prima che mi sorpassi e capisco subito che era quello che voleva. “Non ti sembrava fosse il caso di parlarne prima a me?” sibilo tra i denti, con un sorriso isterico che si ostina a non abbandonarmi. Forse perché sono isterico.
“E perché?” Fa lui scrollando le spalle.
Io balbetto qualcosa di incomprensibile. “Perché...” comincio, prima di rendermi conto che quello che volevo dire si è perso di fronte alla noncuranza con la quale non si è sentito in dovere di consultare il manager di una band per offrirsi di produrla.
“Ho il denaro sufficiente per produrvi, la faccia di culo per promuovervi e il tuo cantante è il mio ragazzo, cosa che ci porterà più pubblicità di quanta ne vogliamo” dice riassumendo su tre dita. “E poi sono morto e risorto, Jost, sono l'occasione perfetta.”
E io non posso che dargli ragione.

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Paura E Delirio A Las Vegas

di lisachan
A me l’America non piace. Cioè, non so se l’America non mi piaccia, in realtà, perché l’America è grossa e lunga, cioè, intendo che è un continente molto esteso e tu non puoi passare un paio di settimane negli Stati Uniti in balia del piano-vacanze di una casalinga isterica così smaniosa che pare abbia messo piede fuori dalla Germania per la prima volta nella sua vita quando tu sai perfettamente che non è vero, e dire che l’America ti fa schifo. Principalmente perché non l’hai vista, hai visto solo quella frazione che la casalinga isterica di cui sopra, pianificando i tuoi spostamenti con una severità da generale nazista, ti ha permesso di vedere. Tutto il resto ti è ignoto, e in effetti tutto il resto è ignoto anche a me, ma posso dire con certezza che quello che ho visto dell’America non incontra il mio gusto, e d’altronde non avrebbe mai potuto essere altrimenti visto che, contrariamente alla quasi totalità del resto dei miei compagni di viaggio, io qui non ci volevo venire.
Seriamente. Quando Bill e Bushido, assisi sul loro trono di velluto e legno intagliato e laccato d’oro, hanno annunciato cerimoniosamente che saremmo partiti tutti assieme, come il circo che siamo, tutti si sono emozionati, perché Fler, per dire, al pensiero degli Stati Uniti si esalta ancora come un bambino, e New York è un po’ la sua Mecca personale, e per Bushido, Bill e Tom invece è un po’ come andare a stare nella cara, vecchia casa di villeggiatura che ormai si conosce a memoria ma si ama profondamente perché è comunque un posto che spezza la routine dei quattro palazzi in croce che sei sempre costretto a rivedere in loop quando resti a casa. Non vi dico poi la festa che hanno fatto Kay ed Eko, che pareva gli avessero annunciato, non lo so, che sarebbero presto stati ammessi in un club esclusivo che offre in dono ai propri iscritti un harem di vergini a testa.
Io, invece, non volevo partire. A me piace l’Austria, voglio dire, pure la Germania per la maggior parte del tempo mi sta sul cazzo perché è troppo metropolizzata, e quando tu sei uno che gli piace l’Austria, che gli piace stare nelle baite di montagna circondato solo da capre e vacche, che già il traffico sotto la finestra gli fa fare fatica a dormire, è chiaro che andare a passare tutti questi giorni in un posto in cui le macchine non si fermano mai, le persone parlano continuamente e di capre e vacche non se ne vedono nel giro di chilometri, non può essere la prima cosa da fare nella lista delle Cose Da Fare Assolutamente Prima Di Morire.
Ma sono partito, perché partivano tutti e non mi piaceva l’idea di fare il guastafeste e comunque Fler era così felice che non c’era proprio modo di disertare. Ci sono molte cose alle quali posso resistere – credo, anche se non ci ho mai provato, in realtà la resistenza non è proprio il mio forte – ma fra queste cose non c’è l’idea di andare in vacanza con Fler in un luogo distante miliardi di chilometri da Daniel. Lo so che non è una cosa bella da dire, o anche da pensare, e lo so che ormai il ragazzino in qualche modo è di famiglia, e non mi dà più nemmeno tutto questo fastidio, ma se mi si chiede, in tutta coscienza, “vuoi tu, Peter Pangerl, porre un oceano fra te, Patrick Losensky e Daniel Kobler?”, io, onestamente, non me la sento di dire che non voglio, sarebbe una menzogna bella e buona e io per lo più cerco di non mentire, visto che non sono capace di farlo.
Quindi sì, sono salito anch’io sull’aereo con tutti gli altri e ho ingoiato i numerosi rospi che mi è toccato mettere in bocca da quando ho messo piede in questo luogo che, peraltro, non presenta per me neanche un interesse di tipo scientifico-culinario. Voglio dire, sono passato davanti a dei ristoranti che avevano la faccia tosta di esporre davanti alla porta d’ingresso cartelli con sopra scritto “specialità di cucina americana”. Ma che specialità vuoi avere negli Stati Uniti? L’hot dog? Il pollo fritto? Capirei fossimo in Messico, ma qui! Gente che la cucina non sa nemmeno come la si usa, che i fornelli al più servono a scaldare i sughi pronti, che la cosa cotta più complessa che mangiano è la carne alla griglia. Suvvia. Era ovvio che mi sarei annoiato e infastidito oltre il limite consentito fin quasi a esplodere.
Ho sopportato, però. Avrei potuto essere molto più piaga di quanto non sia stato, avrei potuto guardare tutti in cagnesco e non lasciarmi coinvolgere quando Bushido, durante i pasti, mi chiamava al suo fianco per elencare il menu chiedendomi esplicitamente di riempirlo di assurdità se possibile nemmeno esistenti per far dannare i camerieri, avrei potuto stare sempre chiuso in camera senza seguire gli altri nei loro assurdi giri turistici, avrei potuto ignorarli tutti quanti quando si sono dati alla pazza gioia la mattina del provino, mentre i ragazzi stavano alla Maverick con Jost e noi siamo rimasti in albergo e poi Bushido ha avuto quella geniale idea della piscina ed Eko s’è messo a rincorrere quella ragazza con la gonnellina di mezze noci di cocco tenute su con un filo di spago, e invece no!, sono stato di compagnia, non mi sono immusonito troppo, ho bevuto, ho mangiato, cioè, ho partecipato a pranzi e cene senza affamarmi per protesta contro il trattamento palesemente poco equo che mi veniva riservato in quanto cittadino austriaco per nulla interessato a farsi una cultura sugli usi e i costumi statunitensi, ho supportato sua maestà nella nobile missione da lui scelta – fare impazzire tutti i capo-camerieri di tutti i (numerosi) alberghi in cui abbiamo soggiornato da quando siamo qui – e sono stato una compagnia generalmente piacevole anche se il più delle volte sono finito nella fila dietro con Kay ed Eko mentre Fler e Bushido andavano in giro tutti gonfi e tronfi a farsi belli per le strade di questa città orrenda con baracchini che vendono wurstel agli angoli sotto i semafori, persone che camminano venendoti addosso come se nemmeno ti vedessero e gente che dorme sotto i ponti avvolta nella carta di giornale.
Certo, però, non immaginavo che potesse esistere qualcosa di ancora peggiore rispetto a quello che avevo già visto. Mi sembrava di aver sopportato già abbastanza noia, luci notturne, venditori di hot dog e ragazze con lunghe chiome platinate finte ed enormi seni a palla finti e giganteschi sederi finti infilati in shorts di jeans costosi quanto una plastica facciale. E invece. Invece c’è Las Vegas.
Il problema di Las Vegas, sostanzialmente, è che è uguale a come te la immagini, uguale a come te la mostrano nei film. Questa è, a mio parere, una cosa profondamente sbagliata. I film non ti devono mostrare le cose come sono, i film devono esagerare e ingigantire ed eccedere. Io devo essere consapevole, quando guardo Bruce Willis che si prende in corpo tre pallottole, cammina scalzo e si rotola sui vetri infranti, sopravvive a due esplosioni e si rialza intatto dopo essere stato sbalzato per trentacinque metri su un’autostrada dopo essere stato investito da un camion che viaggiava a una velocità di cento chilometri orari, che quello che sto guardando è fasullo, nella realtà non c’è. È per questo che riesco a divertirmi. Perché so che, se un giorno dovessi darmi alla malavita e dovessi fuggire nella notte, non ci sarebbe nessun poliziotto in canotta nera con un caricatore per mitragliatore annodato in vita a mo’ di marsupio ad inseguirmi, e se anche un soggetto simile ci fosse, se io gli sparassi, lo lanciassi contro una vetrina infrangendola, gli piazzassi bombe sotto il sedere e infine lo investissi con un camion, lui morirebbe. Se non alla prima, alla seconda, o alla terza, o alla quarta. Prima o poi creperebbe, e io potrei scappare in Messico.
Quello che intendo è: è importante che i film ti mostrino la fantasia, così da darti gli strumenti per riconoscere la realtà. Confondere le due cose può essere pericoloso. Io diffido sempre dei film realistici, perché sapete come funzionano, i cosiddetti film “realistici”? Loro ti raccontano una storia verosimile, sì, ma poi ci mettono sempre quel particolare che non può accadere mai nella vita, tipo che lo sfigato di turno prende botte per tutto l’anno ma alla fine porta la reginetta della scuola al ballo scolastico, o tipo che la squadra più sfigata del campionato perde quindici partite di fila ma nella seconda parte della stagione cambia allenatore e quello mette tutti in riga ed alla fine loro vincono il titolo pur rimanendo dei bravi ed onesti calciatori da squadra di bassa classifica, o cose del genere. Il realismo è il cancro del cinema moderno, dico io, perché ti racconta una balla ma te la fa passare come una cosa plausibile, e tu ci credi, e questo porta solo casini. Più pallottole, meno lezioni di vita, questo voglio io dal cinema.
E quindi se il cinema mi mostra Las Vegas e i casinò e gli hotel e i bordelli di lusso e le insegne luminose e le conigliette di Playboy ad ogni angolo di strada e i turisti che spendono miliardi in una notte e la gente ubriaca che si diverte e tutte queste altre cose, mi aspetto che siano balle, e invece arrivi a Las Vegas e Las Vegas è esattamente così, uguale, precisa e sputata a com’era nei film che hai visto, e voglio dire, può esistere una cosa più sbagliata di questa? Io credo di no.
- Ma perché dobbiamo restare ancora? – chiedo, guardando malissimo l’entrata dell’albergo nel quale si suppone noi si dorma per le prossime due o tre notti, prima di tornare in Germania, - I Tokio Hotel hanno finito, no? Hanno già un radioso futuro che li attende fra le braccia di sua maestà, che per l’occasione assumerà il titolo di sua santità, suppongo. – dico sprezzante, - Potremmo anche tornare a casa, una buona volta.
Fler si allunga verso di me e mi tira uno scappellotto tanto forte che io quasi mi ribalto, mentre Jost mi passa accanto squadrandomi con malcelato schifo e poi prosegue il suo cammino oltre me con uno sbuffo stizzito.
- I ragazzi sono contenti di lavorare con Anis, - mi spiega Fler, mentre Bill, esaltato come un’adolescente in gita scolastica – e non sto mettendo apostrofi fra le parole a caso – informa suo fratello e Bushido di quanto meraviglioso sia l’albergo che lui e Fler hanno scelto appositamente per noi tutti, - ma ciò non vuol dire che siano felici all’idea di aver perso il treno con la Maverick, in qualunque modo ciò sia successo. – sospira, - Hanno bisogno di un po’ di svago.
- Sì, ma noi che c’entriamo?! – insisto io, pestando i piedi, - Io non mi sento depresso, o meglio, mi sento depresso, ma solo perché sono qui. Se tornassimo in Germania, starei subito meglio!
- Chaku, sei una rottura di palle. – commenta lui, sollevando gli occhi al cielo, - Non puoi provare a divertirti, per una volta?
- No! – sbuffo io, - Mi pare evidente di no! Voglio tornare a casa.
- Oh, tu non hai appena detto questa frase con questo tono di voce. – sibila Fler, voltandosi a guardarmi con sincero sconcerto.
- Sì, invece, l’ho detta. – annuisco io, per nulla imbarazzato dal palese sfoggio di infantilismo che mi sto concedendo con cognizione di causa, - Voglio tornare a casa. Odio questo posto. Voglio tornare a casa!
- Chakuza! – mi ferma lui, proprio nel momento in cui io stringo i pugni lungo i fianchi e quasi comincio a saltellare sul posto, - Abbi un minimo di contegno, santo Dio. Mi metti in imbarazzo. – borbotta, lanciando intorno a sé un paio di occhiate incerte.
- Tanto in questo posto incivile nessuno capisce il tedesco. – sbuffo io, contrariato. Lui inarca un sopracciglio.
- Dicevo con Georg e Gustav. Loro magari si aspettavano ancora che tu fossi una persona normale. – commenta incrociando le braccia sul petto.
- Ebbene non lo sono. – dico, scrollando le spalle, - Come d’altronde nessun altro in questo gruppo. E mi spieghi perché siamo venuti proprio in quest’albergo?!
- Perché è bello. – risponde lui con un mezzo sorriso, prendendomi per mano e cominciando a camminare in coda alla processione di gente che comincia ad entrare in hotel, - Le stanze sono tutte diverse, ognuna ispirata ad un tema differente, e vengono assegnate a caso. È divertentissimo, io e Bill quando siamo venuti qui in vacanza la prima volta ne abbiamo beccata una ispirata a Tarzan. Ti sarebbe piaciuta, c’erano anche i tanga leopardati nei cassetti.
- Ma che posto è questo?! – strillo allarmato, mentre entro in una hall tutto sommato normale, anche piuttosto elegante, piena di gente vestita benissimo che sorseggia martini e ride coprendosi la bocca col dorso della mano. - …no, sul serio, non sembra male. – commento calmandomi, mentre Fler ride divertito accompagnandomi all’ascensore, separandoci dal resto del gruppetto che comincia a sua volta a smembrarsi mentre le varie coppie vengono indirizzate verso ascensori diversi che conducono, suppongo, a diverse parti dell’albergo, - Adesso comincio ad avere paura di quello che troveremo in camera.
- Dai, se siamo fortunati becchiamo la stanza che hanno assegnato a me e a Bill al nostro… doveva essere il terzo o il quarto viaggio qui, sì. – annuisce.
- Ma si può sapere quante volte siete venuti qui insieme?! – sbotto irritato, mentre le porte dell’ascensore mi si chiudono a due centimetri dal naso.
- Era una stanza molto elegante, tutta nera e bianca. – racconta sognante Fler, ignorandomi o forse proprio non sentendomi, perso com’è nella sua testa, - Speriamo sia quella, dannazione alla mia memoria, non ricordo qual era il numero.
Io lo ignoro, perché non c’è molto altro che possa fare a parte afferrarlo per la nuca e fracassargli la testa contro una parete per farlo tacere, e perciò la sua voce rimane lì, una specie di sottofondo musicale mentre io cerco di pensare ad altro, tipo che massimo fra tre giorni sarò finalmente di nuovo a casa mia, dove mi accoglierà il familiare gocciolio di tutti i rubinetti sguarniti e quell’allegro rumore crepitante che fa tanto caminetto in cui si produce il forno elettrico ogni volta che sta acceso per più di venti minuti.
- Ah, eccola. – dice Fler, attirando la mia attenzione ed allontanandomi dai pensieri piacevoli ai quali mi stavo abbandonando, - La nostra stanza.
Lo affianco mentre lui lascia scivolare la tessera magnetica nell’apposita apertura e, quando la porta si spalanca sul palese universo parallelo che la nostra stanza è, impallidisco. Il perimetro della camera è ovale, e le pareti sono ricoperte di moquette viola traslucida, folta quasi come il pelo di un barboncino. Posso vedere fin da qui che, se mi appoggiassi al muro, la mia mano sparirebbe almeno fino al polso. C’è un armadio, in un angolo. Sembra in plastica. Ed è rosa. La sensazione è quella, straniantissima, di star guardando un mobile di Barbie ingigantito ed infilato in una stanza vera. Ho quasi paura di avvicinarmi ed aprirlo perché temo che, se tirassi la maniglia, le ante non si aprirebbero, ed io scoprirei che non sono vere ante, come quello non è un vero armadio, ma solo un blocco di plastica cavo con finte maniglie e finti solchi per far credere alla gente di poterlo aprire quando invece così non è.
Ma il pezzo forte dell’arredamento è un altro, ed i miei occhi lo registrano solo dopo, forse perché, ad un primo sguardo, l’immagine impressa nella mia retina era sembrata talmente assurda al mio cervello da non poter essere razionalizzata, motivo per il quale io avevo guardato la stanza e il letto non l’avevo neanche notato. Ma al secondo sguardo non posso proprio ignorarlo, e nel momento in cui comincio a rendermi conto della gravità della situazione sento provenire dal fondo della mia gola un rantolo esausto.
Il letto è un cuore enorme. Rosa, come l’armadio, ma morbido. È a forma di cuore la struttura in legno, è a forma di cuore la rete, è a forma di cuore il materasso, sono a forma di cuore pure le lenzuola ed i cuscini, tutto. Tutto sui toni del rosa, del bianco e del viola, per richiamare le pareti, suppongo, un tocco di classe che non può fare a meno di essere notato.
Fler allunga una mano ad accendere la luce. È rosa anche quella. E nel momento esatto in cui il lampadario – che sembra plastificato come l’armadio – si accende, si accende anche una fila di luci – neanche a dirlo: rosa – incastonate alla base del letto. Il quale, per pronto accomodo, si mette a ruotare su se stesso.
- Manca solo la colonna sonora. – uggiola Fler, sconcertato.
In quel momento, squilla il telefono. La suoneria sembra la musichetta di un carillon per bambini, con la differenza che suona molto somigliante a Lady Marmalade. E il Voulezvous couchez avec moi, ce soir? è polifonico.
Mentre io rimango in sconcertata contemplazione di questo disastro dell’arredamento moderno, una roba talmente pacchiana che anche se fossi ancora etero mi darebbe comunque i brividi dal disgusto, Fler attraversa la soglia, ne ha proprio il coraggio, ed io lo stimo molto per questo, e si avvicina al comodino sul quale è appoggiato il telefono, sollevandone la cornetta.
- Pronto? – risponde. Gli strilli ultrasonici che oltrepassano le barriere dello spazio e del tempo raggiungendo i miei timpani e facendoli esplodere in mille coriandoli sarebbero abbastanza per capire chi è il suo interlocutore, anche se qualche secondo dopo lui non lo esplicitasse. – Ciao, Bill. Dove siete finiti? Mh-hm, capisco. Noi siamo nella… - poggia una mano sulla cornetta, attirando la mia attenzione con un psst vagamente cospiratorio, - Chaku, - mi chiama sottovoce, - guarda un po’ dentro l’armadio, attaccato ad un’anta dovrebbe esserci un gagliardetto col nome della stanza.
- Ah, perché, si apre, quella roba? – chiedo, indicando l’armadio senza osare mettere piede nella stanza. C’è la moquette viola anche sul pavimento. Sarà alta almeno cinque centimetri. Scommetto che cresce spontaneamente e nessuno viene a tosarla perché ne hanno tutti paura. – E io non ci entro qua dentro, comunque.
Fler si china appena, apre il cassetto del comodino e ne tira fuori una sfilza di palle rosse attaccate l’una all’altra da supporti in plastica dello stesso colore, e me la tira addosso. Io la scanso con malcelato schifo, e mi concedo anche un urletto disgustato.
- Non fare il cretino. – mi rimprovera lui, ed io sospiro, rassegnandomi ad entrare ed aprendo l’armadio. Il gagliardetto c’è, sembra lo stemma della casata nobiliare delle Barbie dell’Ordine delle Vergini Devote al Rosa Fosforescente. Sopra c’è scritto “Pretty in Pink”. Se lo dice lui.
Riferisco il nome della stanza a Fler, che a sua volta lo riferisce a Bill. Sento la sua voce un po’ stridula chiedere “awww, il nome sembra così carino, com’è? È bella?”, e non lascia neanche il tempo a Fler di rispondere che subito si mette a strillare “io ed Anis siamo nella Presidential Beauty and Elegance! Ci fermiamo qui per cena, non scendiamo al ristorante. Voi restate in camera vostra?”
Fler mi lancia un’occhiata, e lo sgomento sul mio viso dev’essere tanto palese che non ha bisogno di pormi la domanda per rispondere.
- No, usciamo. – annuisce con sicurezza, - Porto il Chaku in giro. Sai cosa fanno gli altri? – chiede, una punta di speranza che rende più squillante il tono della sua voce, e che finisce immediatamente spazzata via dal suo volto quando Bill risponde blaterando qualcosa a proposito di Eko, di suo Kay One e di tournée per Las Vegas alla ricerca di ragazze da portarsi a letto coinvolgendo anche Tom e Georg per la bella presenza, mentre Gustav restava a dormire in camera propria per potersi svegliare all’alba ed uscire di buon’ora per scattare qualche bella foto del quartiere. – D’accordo. – sbuffa deluso, - Allora a doma—
- …cosa? – indago io, osservandolo allontanare la cornetta dall’orecchio per guardarla per qualche secondo come non potesse credere a ciò che ha appena sentito.
- Non ha neanche aspettato che finissi la parola! – sbotta sconvolto, riattaccando e lasciandosi ricadere stancamente sul letto. Io mi seggo al suo fianco, pensando chissà!, magari la consistenza morbida del materasso sotto il sedere mi ispira e riesco a sdraiarlo. Quest’orribile letto sembrerà meno orribile, se trovo un modo interessante per utilizzarlo.
E invece no, perché appena mi seggo alzo gli occhi al soffitto, giusto per capire se c’è la moquette anche lì, e vedo che, invece della moquette, c’è un enorme specchio, anche lui a forma di cuore, che riflette l’intera superficie del letto.
- …io qui non ci dormo. – sentenzia Fler, alzandosi istantaneamente in piedi. – Chaku. Usciamo.
- Sì. – annuisco, alzandomi a mia volta.
Io e lui non siamo mai stati così d’accordo in vita nostra, è prodigioso.
Finisce che c’infiliamo nel primo locale a portata di mano, che è un posto arredato come una tavola calda in mezzo al deserto, con gli sgabelli davanti al balcone e finti cactus di plastica pieni di lucine colorate fra un tavolino e l’altro.
Ci sediamo ad un tavolo accanto al quale un manichino vestito e acconciato come Uma Thurman in Pulp Fiction finge di ballare il twist. Ha i piedi imbottiti nudi e senza dita, è pallido come la morte e ha le labbra così rosse e le palpebre così nere da fare quasi paura. La parrucca che indossa è tutta scompigliata e, nel complesso, è l’immagine stessa della tristezza.
- Quando rientriamo ci facciamo cambiare stanza, Chaku, tranquillo. – cerca di rassicurarmi Fler, mentre fa cenno ad una cameriera di raggiungerci e lei, accelerando sui suoi pattini e disinteressandosi della gonnellina a quadretti che le si solleva sulle cosce nel movimento, si affretta ad obbedire, fermandosi proprio accanto a noi con un sorriso smagliante, già pronta a prendere l’ordinazione. – Due birre, grazie.
La ragazza prende nota e si allontana subito dopo. La sua lunga coda bionda termina in un boccolo dalla rotondità praticamente perfetta, che dondola sulla rotondità ugualmente perfetta del suo sedere mentre gira dietro il bancone per recuperare la nostra ordinazione. Io mi chiedo a cosa mi serva ancora notare cose del genere se tanto non le posso più toccare, e mi abbatto sul tavolino, sbuffando come una teiera.
- Già che ci sei, non potresti farci cambiare anche città? – provo in un uggiolio depresso, e Fler sospira, esasperato.
- Ne abbiamo già parlato. – mi ricorda, - Santo Dio, ti fa così fatica aspettare un paio di giorni?
- Se devo passarli in una stanza pelosa in cui tutta la mobilia è a forma di cuore, sì! – spiego io, rimettendomi dritto e battendo lievemente un pugno sul tavolo per sottolineare il punto della questione, e cioè che ho ragione. – Già in condizioni normali mi sarebbe di peso, perché voglio tornare a casa, ma così… e poi scommetto che la coppia reale ha una stanza come si deve, una stanza rispettabile! Spiegami perché noi siamo dovuti finire nel buduoir di Barbie Regina della Notte in Calze a Rete e Babydoll.
- Ti ho già spiegato che l’assegnazione delle camere è del tutto casuale, Chaku. – esala lui, scuotendo il capo e lanciando un’occhiata supplice al soffitto. Le nostre birre, nel mentre, arrivano, e Fler saluta la cameriera bionda con un sorriso fascinoso al quale lei risponde arrossendo e stringendosi nelle spalle prima di sparire in un elegante volteggio sui pattini a rotelle. Io grugnisco e afferro la mia bottiglia di birra, mandandone giù metà in un sorso solo.
- Non credere che non l’abbia visto. – borbotto cupamente, e Fler ride.
- Ci credo che l’hai visto, l’ho fatto apposta. – risponde in scioltezza, bevendo un paio di sorsi dalla propria bottiglia. Io spalanco gli occhi, sconcertato.
- Puttana. – sbotto, riprendendo a bere. Fler ride di nuovo, stringendosi nelle spalle.
- In qualche modo dovevo pur distrarti. – si giustifica, - Quello non fallisce mai.
- Ah, sì? – domando io, scettico, - Be’, se vuoi un suggerimento, non c’è bisogno di metterti a fare il cretino con le cameriere, per distrarmi. Mettiti in ginocchio, scendi sotto al tavolo e segui la scia luminosa verso il cavallo dei miei pantaloni. Quello mi distrae che è una meraviglia.
- E poi sono io, la puttana. – ride ancora lui, gettando indietro il capo. Io bevo ancora un po’ di birra e seguo la linea del suo collo. Improvvisamente, il letto luminoso e ruotante a forma di cuore in camera mi sembra meno orribile di prima. È un letto, dopotutto.
- Be’, io quantomeno certe cose le chiedo a te, non mi metto a fare il deficiente con altra gente a caso. – borbotto con disappunto, e lui torna a guardarmi, inarcando un sopracciglio.
- Ma se ti ho visto prima che le facevi una radiografia completa al culo come se ne andasse della tua vita? – mi prende in giro, e poi, notando che la mia bottiglia di birra è già vuota e che anche la sua si appresta a fare la stessa tragica fine nel giro di un altro sorso, chiede ad un cameriere di portarne altre due. Stavolta è un ragazzo, non avrà più di diciott’anni. È sui pattini anche lui, ha i capelli ricci e biondi e gli occhi di un azzurro tale che sembra finto. Faccio la radiografia anche al suo, di culo, mentre mando giù il primo sorso della mia nuova bottiglia di birra. Giusto per non farmi mancare niente. – Almeno non si può dire che tu faccia torto a qualcuno. – considera Fler, annuendo con una certa serietà, - Un po’ una categoria, un po’ l’altra. Non poniamoci limiti.
- Ma la pianti? – sbotto, tirandogli addosso un tovagliolino di carta strappato al dispensatore e appallottolato con furia fra due dita. Lui si scherma con un braccio, ridacchiando vago, e poi sembra placarsi, perché per un paio di minuti non dice una parola. Si limita a sorseggiare la propria birra guardandosi intorno con un sorriso un po’ ebete sulla faccia, e quando sento qualcosa intrufolarsi fra le mie cosce e strofinarsi insistentemente contro il cavallo dei miei pantaloni per un istante il mio cervello rifiuta categoricamente l’ipotesi che quel qualcosa possa essere una qualsiasi parte del corpo di Fler. Voglio dire, è così placido e calmo, sta guardando tutt’altro, e— e se non si ferma immediatamente saranno cazzi amari per tutti quanti. – Fler? – lo chiamo, deglutendo a fatica, - Guarda che scherzavo, prima.
- Scherzavi? – domanda lui, tornando a guardarmi con occhi grandi e puri, - Non capisco di cosa tu stia parlando. – esala con un filo di voce, tramutandosi in Bambi sotto ai miei occhi sconvolti e colmi di paura. Ho già visto abbastanza dell’America per dire che non mi piace. Adesso che ho visto cosa fa alla gente, posso affermare con estrema tranquillità che la odio, anche.
- Fler! – insisto io, alzando appena la voce perché sia chiaro che lo sto rimproverando e disapprovando tantissimo, - Ma sei ubriaco?! – chiedo, mandando giù un po’ di birra anch’io, per buona misura. Se lui è ubriaco, voglio esserlo anch’io. Non la voglio la responsabilità di quello che potrebbe accadere. Voglio ubriacarmi come mai sono stato ubriaco nella mia vita e poi dare la colpa a Bushido per qualunque guaio possiamo combinare io e Fler questa notte. Mi sembra una punizione giusta ed equa, voglio dire, lui mi ha portato in America. In qualche modo dovrà pagare. – Aspetta, - dico quindi, tornando per un attimo presente a me stesso, - ma come fai ad essere già ubriaco? Hai bevuto una bottiglia di birra e mezza, a voler esagerare.
Fler ridacchia divertito, facendo dondolare la sua bottiglia sul ripiano del tavolo e rischiando di rovesciarla un paio di volte.
- Potrei o non potrei aver bevuto qualcosa prima di arrivare in albergo, con Anis. – risponde, annuendo con ampi e lenti cenni del capo.
- Che diavolo vuol dire che potresti o non potresti?! – strillo sconvolto, battendo il palmo di una mano aperta sul tavolo, - O l’hai fatto, o non l’hai fatto! Ma soprattutto, quanto sei cretino se hai deciso di bere ancora pur sapendo di averlo già fatto? Li abbiamo già fatti due secoli fa, questi discorsi! Credevo che ormai ti sapessi controllare!
- Oh, andiamo, Chaku! – sbotta lui, roteando gli occhi, - Mi sto solo divertendo un po’. Non è che tutti gli alcolisti debbano per forza diventare astemi. Io non lo sono, per dire, a me bere piace.
- Sì, magari pure troppo. – sbuffo contrariato, - Dai, torniamo in albergo.
- No, c’è uno specchio enorme su quel letto. – risponde lui con una risatina divertita in maniera quasi criminale, - Non ci dormo là dentro. Chi ce la fa ad addormentarsi con la luce delle lampadine che ti si riflette sulla pelata e poi rimbalza sullo specchio e mi finisce negli occhi?
- Vorrà dire che terrò su il cappellino. – grugnisco, tirandogli uno schiaffetto contro una spalla ed alzandomi in piedi, - Dai, andiamo almeno a prendere un po’ d’aria. E poi questo posto fa schifo.
Inizialmente, Fler non è molto convinto della mia idea. Vorrebbe restare al locale ancora un po’, sospetto che non gli vada granché di muoversi, il che è molto male perché so per certo che se continua a bere e stare seduto prima o poi finisce che si addormenta, e in quel caso dovrò chiamare un carro attrezzi per riportarlo in albergo, motivo per il quale insisto e, alla fine, la spunto io. Andiamo un po’ in giro nella notte illuminata e chiassosa di Las Vegas, ma di aria fresca intorno a noi non ce n’è neanche a pagarne. Scommetto che in questo periodo a Berlino il venticello comincia già a soffiare fresco per le strade della città, e qui, invece? Caldo soffocante, sudato e appiccicaticcio. Questa città non ha lati positivi.
In compenso ha strade piene di lucine colorate di fronte alle quali Fler, in questo stato, è capace di restare immobile per minuti interi, in adorante contemplazione. Ed è durante una di queste adoranti contemplazioni alle quali io non bado, perché so che esaurito l’interesse si esauriscono anche loro, che Fler prende una decisione. Una decisione catastrofica, una decisione che cambierà le nostre vite per sempre, ed io sul momento nemmeno me ne accorgo perché, dopo averla pagata, mi sono portato via dal locale la seconda bottiglia di birra semivuota, ed ho continuato a sorseggiarla per tutto il tempo, e questo, lo ammetto, non ha giovato alla mia lucidità mentale.
Perciò, nel momento in cui Fler si ferma in mezzo al nulla e, fissando un punto a caso nel vuoto enorme che rimbomba dentro i suoi occhi, esala “ommioddio, Chaku, dobbiamo sposarci”, io, in un primo momento, non lo capisco.
- Eh? – biascico, fermandomi a mia volta e voltandomi a guardarlo. Lo trovo che non sta più fissando il vuoto dentro la propria testa, purtroppo, ma bensì qualcosa di decisamente più concreto. Una cappella, una di quelle che si vedono spesso nei film ambientati a Las Vegas in cui lui e lei, ubriachi fradici, si sposano senza essere pienamente coscienti di ciò che stanno per fare, e si risvegliano il giorno dopo con due anelli orrendi al dito, vestiti con costumi imbarazzanti e ridicoli, passando poi i successivi novanta minuti di pellicola a riempire se stessi e il telespettatore di paranoie sul matrimonio e sull’amore per poi scoprire che il contratto non è valido fuori da Las Vegas ma che loro due, in fondo, si amano abbastanza da procedere anche al rito vero, con tutti i crismi, per unirsi per sempre nei secoli dei secoli amen. Segue cerimonia in abito bianco che io non arrivo quasi mai a vedere perché con quei film di solito mi addormento intorno alla mezz’ora.
- Dobbiamo sposarci. – ribadisce lui, indicando la porta spalancata della cappella dalla quale escono un tizio che avrà come minimo sessant’anni abbracciato ad una tipa che ne avrà almeno quaranta di meno, e che camminano entrambi ondeggiando, ridendo ed agitando una bottiglia di champagne che sgocciola per strada. – Subito. Adesso. Lì.
- Fler, no! – cerco di riportarlo a più miti consigli, stringendogli una mano e provando a tirarlo via, - Dai, torniamo in albergo! Che c’entra sposarci adesso? Ma qui, poi? Avanti, è un cliché!
- È perfetto! – insiste lui, quasi saltellando sul posto e prendendo a trascinarmi verso la cappella, ottenendo peraltro molti più risultati di quanti ne abbia ottenuti io provando a trascinarlo dal lato opposto, - È questo il posto! Dev’essere qui. Coraggio, Chaku. È il grande momento!
- Ma il grande momento di cosa?! – strillo io, genuinamente terrorizzato, mentre attraversiamo l’entrata e ci dirigiamo speditamente verso un bancone vuoto sulla sinistra. O meglio, lui si dirige speditamente verso il bancone vuoto sulla sinistra. Io vengo trainato a rimorchio. – Fler, sul serio. Non sono abbastanza ubriaco per fare questa cosa.
- Io sì, invece. – mi liquida lui con una risatina divertita, premendo il palmo della mano contro il campanello dall’aria molto retrò poggiato sul tavolo. Il trillo si diffonde cristallino per la stanza e, pochi secondi dopo, un uomo vestito da prete che palesemente non è un prete né mai sarà un prete, con un bicchiere enorme di coca cola in una mano ed una confezione di patatine del McDonald’s nell’altra, si presenta al nostro cospetto e rutta.
- Avete suonato? – domanda, tirandosi un colpetto sul petto con un pugno chiuso, - Chiedo scusa. Stavo cenando.
- Vogliamo sposarci! – dice immediatamente Fler.
- No, non vogliamo. – piagnucolo io, provando a lanciare uno sguardo supplice al finto prete perché capisca che ho bisogno d’aiuto e mi salvi. Lui non lo capisce, e conseguentemente neanche mi salva.
- Invece sì. – insiste Fler, annuendo deciso, - Vogliamo sposarci e vogliamo una bottiglia di whiskey.
- Io posso darvi entrambe le cose. – annuisce il prete, poggiando cibo e bevanda sul tavolo e chinandosi ad aprire uno sportellino dietro il bancone, per tirarne fuori un’enorme bottiglia di liquore, - A cominciare dal whiskey. Per il matrimonio, sarà un po’ più complicato, ma non molto. Piacere, - sorride, porgendo la mano a Fler, - chiamatemi pure padre Isaiah.
- Piacere, padre. – sorride Fler, annuendo come se ci fosse qualcosa per cui annuire. Prende la bottiglia di whiskey e me la passa. – Tieni. – dice, - Fai in modo di essere ubriaco abbastanza per sposarti, fra una ventina di minuti.
Mi viene da piangere, ma prendo la bottiglia in mano e mi lascio ricadere su un’enorme poltrona rossa e morbidissima mentre osservo Fler e padre Isaiah volteggiare da un bancone all’altro, visionando enormi libri dai contenuti palesemente mistici ed oscuri che non possono portare nella mia vita nulla di buono.
Mi attacco alla bottiglia bevendo direttamente da lì, visto che non mi è stato fornito un bicchiere. Nel mentre, lancio un’occhiata all’altare, in fondo alla stanza. Un altro finto prete, più o meno dell’età del primo, ma con una faccia più grigia e l’aria di uno che è stato sveglio e al lavoro per diciotto ore filate, al punto da essere arrivato a reggersi in piedi solo tenendosi stretto ad una flebo di caffè endovena, sta sposando due tizi vestiti da Elvis e Marilyn. Sono carini, in qualche modo. Sembrano felici. Lei, avvolta nel suo abitino bianco e con una parrucca che le lascia scivolare sulla nuca qualche ciocca di capelli castana, si stringe a lui, infilato a forza in una tutina dorata aderentissima talmente appesantita dai decori e dalla brillantina da scivolargli quasi giù dalle spalle. Ridono, e quando dicono “sì” lo fanno urlando, come se ne andassero così orgogliosi da non riuscire a trattenere la gioia. Mi fanno sorridere, sorridere sinceramente. O forse è solo un effetto collaterale dell’alcool. La perdita totale di senno, intendo.
Come sia o come non sia non lo so, tutto ciò che so è che una mezz’ora dopo io sono ancora su questa poltrona e la bottiglia di whiskey è già semivuota. Il prete che ha sposato Elvis e Marilyn è sparito, quindi suppongo che il suo turno fosse finito, il che è un bene perché se dobbiamo sposarci tanto vale che ad unirci nel sacro vincolo del matrimonio di Las Vegas sia padre Isaiah, che quantomeno mi sembra un tipo sveglio.
- Chaku! – mi chiama ad un certo punto Fler, ed io sollevo lo sguardo e ci metto un po’ ad individuarlo. Lui e padre Isaiah si sono spostati praticamente dall’altro lato della cappella, vicino ad un grande banco frigo di fronte al quale Fler saltella e si sbraccia per farsi notare. Mi sollevo con un grugnito sofferente e disperato e, muovendomi come un orango in procinto di crollare in letargo – se gli oranghi vanno in letargo –, lo raggiungo.
- Cosa? – borbotto, guardando prima lui, poi padre Isaiah ed infine il banco frigo con aria molto sospettosa. Fler mi fa un sorriso da bambino così ampio da mangiargli via tutta la faccia.
- Prima ho scelto i nostri anelli. – mi racconta, mettendomi davanti al naso i due pugni chiusi, - Scegli la mano!
Io sospiro e batto uno schiaffetto lieve sulla destra. Fler ride e la schiude, rovesciandola col palmo verso l’alto così che io possa vedere cosa contiene. È un anello piuttosto grande, con un grottesco teschio con le orbite scavate e dipinte di rosso e tutti i denti in bella vista. È orripilante.
- E questo sarebbe il mio? – domando scettico. Fler annuisce, apre l’altro pugno e mi mostra il suo: altrettanto enorme, assomiglierebbe al mio in tutto e per tutto se non fosse decorato con un enorme cuore metallico con un lucchetto chiuso al centro. Benaugurante, non c’è che dire. – Fanno schifo. – sentenzio. Fler ridacchia.
- Sono meravigliosi. – stabilisce. – Comunque, ora ho scelto anche la torta. – continua, voltandosi verso il banco frigo, - Vediamo se indovini qual è!
- Mmh… - borbotto io, occhieggiando le belle torte dall’aspetto talmente perfetto da sembrare plastificate, come tutto da queste parti, mi rendo conto, tutte in fila sul bancone. Ce n’è una azzurra decorata da perline bianche, una bianchissima su cinque strati ed una bassa, ampia e rettangolare con delle decorazioni tali da far pensare al prato di un campo da calcio, ma scommetto che quella preferita da Fler è un’altra. – Quella rosa? – domando, indicando l’ultima sulla destra, e Fler batte le mani, annuendo compiaciuto.
- Bingo! – esulta, chinandosi a sfilarmi il cappellino per un secondo per lasciarmi un bacio sulla testa, prima di rimettere tutto a posto. – La tiri fuori, padre Isaiah!
Il prete, o quel che è, indossa brevemente un grembiule e, sorridendo divertito, apre il banco frigo, tirandone fuori la nostra bella torta e posandola sul tavolo accanto a noi. Fler ci si avvicina, rimirando il dolce da ogni lato e studiandolo come ci fosse qualcosa che non va.
- Che c’è? – domando, imitandolo e squadrandolo a mia volta. Fler si illumina e schiaccia con un dito l’omino di plastica che rappresenta lo sposo, facendo in modo di affondarlo nella panna fin quasi al petto.
- Adesso è perfetta! – ridacchia divertito, ed io non so se dovrei offendermi per la palese presa in giro alla mia statura, o soltanto preoccuparmi perché si è appena identificato con la sposa. Non vorrà mica che lo riporti in camera tenendolo in braccio?
- Bene, se volete seguirmi… - dice quindi padre Isaiah, facendoci strada verso l’altare, che è una specie di inginocchiatoio in plastica bianca tutto pieno di ditate e impronte di scarpe.
- Vieni qui, Chaku, inginocchiati. – dice Fler, inginocchiandosi per primo e tirandomi per la manica della maglietta per costringermi a fare lo stesso, - Facciamo le cose per bene.
- Non posso tornare a prendere la mia bottiglia di whiskey, prima? – piagnucolo io, senza fare in effetti troppa resistenza e prendendo posto al suo fianco, - Mi aiuterebbe molto.
- Sssh. – mi rimprovera lui, agitando un dito davanti alle labbra, - Sta per cominciare. – dice, come se stesse parlando di un film. O del matrimonio di qualcun altro.
Di quello che succede dopo non ho un ricordo precisissimo. Padre Isaiah dice qualcosa, sembra molto divertito, fa un discorso molto lungo sulla sacralità del vincolo che ci unirà e sull’importanza della famiglia come istituzione fondamentale della società, ma le parole precise che dice io non le ricordo, forse nemmeno le identifico, non mi interessano. Una cosa sola so, ed è che quando chiede a Fler se vuole prendermi come suo sposo, in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà, nella buona e nella cattiva sorte finché morte non ci separi, lui dice sì, e non lo dice come se fosse ubriaco. Il suo sorriso non è alcolico, la sua voce non è incerta, i suoi occhi sono chiari e limpidi e fissi nei miei. E quando rivolge la stessa domanda a me, la mia risposta è identica alla sua, sia nei modi che nelle intenzioni.
Quindi suppongo di sì. Sì, Fler. Lo voglio.
Quando ci alziamo, mi rendo conto che il sermone di padre Isaiah dev’essere stato di una certa lunghezza, perché mi fanno male le ginocchia. Fler si rimette subito a ridere, mi allaccia al collo e sussurra “ed ora lo sposo può baciare l’altro sposo”, prima di coprire le mie labbra con le sue. Io lo stringo alla vita, chiudo gli occhi e lo bacio profondamente, non so per quanti minuti. Tanti, comunque. Il suo sapore è piacevole, nonostante il retrogusto un po’ amarognolo della birra.
Quando ci separiamo, padre Isaiah ha indossato nuovamente il grembiule e ci ha tagliato due fette di torta.
- Mangiate, - dice, - io nel mentre vi impacchetto il resto.
Siamo fuori non più di dieci minuti dopo. Fler porta il pacco della torta come fosse un sacchetto della spesa, facendolo dondolare avanti e indietro lungo il suo fianco mentre io rimiro da ogni lato il mio anello trovandolo sempre meno brutto ogni secondo che passa. Ci sto facendo l’occhio, suppongo. Il suo è più brutto, c’è un cuore sopra. Sul mio, quantomeno, c’è solo un teschio. Una cosa con una sua dignità. Non fosse per quegli occhi rossi che lo fanno sembrare finto, sarebbe perfino un bel pezzo d’arredamento, visto che è grosso quanto un piccolo soprammobile. E pesante tanto quanto, peraltro.
È solo quando la mano di Fler si intreccia con la mia e mi volto a guardarlo che vedo che non ha più le guance rosse e il suo sorriso s’è fatto meno vago e infantile.
- Tu non eri ubriaco! – dico in un borbottio deluso, perché io invece adesso lo sono. Lui si mette a ridere.
- Invece sì. – annuisce, stringendo la presa sulla mia mano, - Ho bevuto davvero qualcosa, mentre stavo in giro con Anis. Però ho esagerato un po’ con le scene, lo ammetto. – ridacchia, - È che ero felice. Avevo bisogno di una spintarella.
- O non l’avresti mai fatto? – domando, continuando a guardarlo. Lui tiene il naso puntato per aria, e gli brillano gli occhi alla luce di tutte le insegne colorate che illuminano la strada che stiamo attraversando.
- No, forse no. – ammette, - Tu?
- Sicuramente no. – dico sinceramente. Lui, invece di arrabbiarsi, si mette a ridere e mi gira un braccio attorno alle spalle, stampandomi un bacio umido sulla guancia.
- Sei pentito? – mi chiede, restandomi appoggiato addosso.
Scuoto il capo con forza.
- Questo mai. – dico, cercando ostinatamente i suoi occhi finché non me li concede. Lui annuisce, sorridendomi serenamente. Vorrei che questa notte non finisse mai. Anche se sono confuso e un po’ nauseato e quella torta faceva schifo ed ho un anello orribile al dito e non credo di avere ancora realizzato pienamente cosa effettivamente io e Fler abbiamo appena combinato, vorrei che questi istanti potessero dilatarsi nel tempo e durare per sempre. Lo vorrei veramente.
E invece niente, perché il tempo c’ha questa brutta abitudine di passare, ed è sempre troppo poco, ma da un certo punto di vista va bene anche così, perché la cosa bella dei minuti che passano è che ce n’è sempre uno successivo, be’, almeno fino a quando non muori, ma non mi sembra questo il caso, e comunque adesso non ci voglio pensare. Per cui alla fine li prendo bene, questi secondi che non rimangono immobili e diventano altri secondi. Questi secondi in cui il sorriso di Fler si allarga, si istupidisce e si fa più sonnacchioso. Questi secondi che ci riconducono in albergo, su per l’ascensore e nella nostra stanza cuoriforme, rosa e pelosa.
- Non accendere la luce. – bisbiglia lui, tirandomi per un polso e trascinandomi verso il letto, - Sennò quell’affare si mette a girare. E poi non voglio vedere lo specchio.
Io annuisco, chiudendomi la porta alle spalle e seguendolo. Lui ricade sul materasso, io ricado su di lui e scoppiamo a ridere, ed il secondo dopo sto già scivolando con le labbra sul profilo del suo collo, che è da quando l’ho visto piegarlo al locale che sto pensando che vorrei baciarlo, e non mi sembra quasi vero di poterlo fare adesso, anche se i nostri mugolii sono sempre più bassi e confusi e i nostri movimenti sempre più lenti e goffi.
Alla fine non combiniamo niente. Fler si addormenta mentre gli sto slacciando la cintura, io rido e mi appoggio con la fronte contro la sua spalla, e questo è sufficiente, perché chiudo gli occhi e due secondi dopo sto già dormendo anch’io, con la sua cintura fra le mani e il teschio sull’anello che preme con forza contro la mia pancia, solo che sono tanto stanco e ubriaco che non ci faccio nemmeno caso.
Ci faccio caso l’indomani mattina, però, quando la terra improvvisamente si ribalta e io mi ritrovo col sedere sul pavimento dopo che il nord e il sud si sono capovolti, e tutto quello che riesco a capire è che Fler sta strillando e io sento un pizzicorino fastidioso proprio accanto all’ombelico.
- Ma cosa cazzo—?! – grida Fler dal bagno, prima di piegarsi sul water e vomitare anche l’anima, - Chaku! È tutta colpa tua! – strilla fra un conato e l’altro. Io sbatto le palpebre, fissando il vuoto con aria confusa. Che cosa è successo? Mi alzo in piedi e mi dirigo verso l’armadio, lo apro e guardo la mia immagine riflessa nello specchio fissato all’interno di una delle ante. Ho una faccia talmente stravolta… sono inguardabile.
Sollevo la maglietta, giusto per osservarmi la pancia, e quando vedo l’enorme stampa di un teschio sulla pelle arrossata spalanco gli occhi e comincio a ricordare.
Fler che vomita in bagno.
Quest’anello orribile che indosso.
La confezione in cartoncino ondulato della torta che abbiamo posato sul comò rientrando.
Oh, mio Dio.
- C’è nessuno? – chiede la voce un po’ stridula di Bill da fuori, battendo sulla porta come un indemoniato. Ogni colpo sul legno è una capriola del mio cervello, mentre Fler continua a vomitare e suppongo che ne avrà per un bel po’. Probabilmente ieri, quando mi ha detto di non aver bevuto poi così tanto, mentiva.
Mi dirigo verso la porta più per far cessare i colpi e far tacere Bill che perché mi vada davvero di mostrarmi al mondo in queste condizioni, per cui mi limito ad aprire e poi torno indietro, accasciandomi seduto sul letto come senza vita, le spalle curve, le braccia molli, il volto senza espressione.
- Ma che…? – borbotta Bill, facendosi strada all’interno della stanza, - Oddio, - commenta, incapace di trattenere una risatina, - questa suite è di una bruttezza che non si racconta.
Bushido, accanto a lui, tende l’orecchio e sente Fler che continua a diffondere nell’aria questa sinfonia di morte che mi accompagna ormai da cinque minuti buoni, e si irrigidisce come un pezzo di legno.
- Oh, no. – dice perentorio, ed io quasi vorrei scoppiare a ridere gonfiando il petto come un pollo e dirgli “ha! Visto? C’è qualcosa che non puoi controllare, e questa cosa è la nostra palese follia”. Lo farei davvero se non fosse ridicolo. No, ok, forse lo farei davvero anche se è ridicolo. È che ho troppo mal di testa.
- No cosa? – domanda Bill, con l’aria di un bambino che non abbia capito niente della vita in generale, descrizione che peraltro non si allontana di molto dalla realtà dei fatti, per quanto lo riguarda. I conati di Fler sembrano fermarsi, e mentre Bushido continua a fissarmi agghiacciato come avessi messo incinta la sua primogenita senza prima ottenere il suo consenso e la sua mano in matrimonio lo ascoltiamo esalare un sospiro soddisfatto e sereno che dura la bellezza di due secondi contati, dopo i quali riprende a vomitare come se non avesse già fatto la stessa identica cosa fino a due secondi prima. Cosa gli sarà rimasto nello stomaco da espellere non lo so, non voglio saperlo e nemmeno voglio provare a immaginarlo.
Io mi spalmo una manata sulla faccia. Bushido ringhia sottovoce. Bill esala un “non capisco” infantilmente confuso. Fler continua a vomitare.
Decido di prendere in mano la situazione. Mi alzo, raggiungo il comò, apro il pacchetto e ne indico il contenuto con un cenno del capo.
- Abbiamo molte cose di cui parlare. – esordisco con serietà. – Torta?

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Pick Me Up When I'm Feeling Blue

di lisachan
Sipping whiskey out the bottle
not thinking 'bout tomorrow
singing Sweet Home Alabama all summer long

Quando ieri notte sono andato a dormire – molto tardi, ho una regola personale secondo la quale non importa quando scatti la mezzanotte, il nuovo giorno comincia sempre quando mi sveglio dopo aver dormito. Sì, lavorando per i Tokio Hotel mi è capitato spesso che certi giorni durassero quarantotto o anche settantadue ore – l’ho fatto sperando che l’indomani non dovesse mai arrivare. Ieri sera sono uscito, ho acciuffato Dave – unico essere umano rimastomi amico da quando la mia intera esistenza ha smesso di ruotare attorno a quattro ragazzini con evidenti comportamenti asociali per spostarsi sull’asse di un tunisino pazzo, immortale e rompipalle – e l’ho portato in giro per locali come usavamo fare quando eravamo ancora entrambi single, in cerca di ragazzo e disperati abbastanza da pensare che, mal che andasse, potevamo sempre ritirarci in una villetta sul mare nel Devonshire ed allevare gatti finché la senilità non ci avesse uccisi nei nostri letti.
Ogni tanto, ad un uomo, cose come questa servono. Intendo, gli serve recuperare un buon vecchio amico, uno che non c’entri niente con tutti i casini che ha vissuto nel passato recente della sua esistenza, ed uscire con lui, recandosi in qualche allegro posto sperduto di periferia in cui uomini che di giorno fanno i lavascale indossano un costume da pompiere e si denudano per la tua gioia. Ad un uomo serve stare con quell’amico in quel posto e perdersi dentro una pinta di birra nel ricordare episodi divertenti della propria giovinezza, gli serve giusto per ricordarsi che, per quanto tremenda possa essere la sua vita in questo momento, c’è stato un periodo della sua esistenza in cui è stato giovane e stupido, mortalmente stupido, e nessun guaio può essere abbastanza da rimpiangere una cosa del genere.
Io, per dire, sapendo che, il giorno dopo, mi sarei svegliato quarantenne, avevo un bisogno estremo di chiacchierare con Dave e rivangare quell’agghiacciante periodo della mia esistenza in cui indossavo jeans oversize, portavo i capelli come Nick Carter dei Backstreet Boys ed osavo presentarmi in queste condizioni per dei photoshoot che poi finivano fra le pagine patinate di riviste per ragazzine preadolescenti.
Perfino compiere quarant’anni è meno imbarazzante di questo.
Intorno alle tre del mattino, ed intorno alla quinta birra, con gli occhi semichiusi e pesanti di sonno, Dave s’è voltato verso di me e, guardandomi con palese sofferenza, mi ha detto che, se non intendevo salire su un cubo e rimorchiare uno spogliarellista, sarebbe stato molto meglio chiudere lì la serata. Io ho guardato l’uomo dagli ondeggianti pettorali che si agitava come un tarantolato indossando solo un tanga leopardato ed un papillon rosso annodato attorno al collo, ed ho sospirato. “D’accordo,” ho detto, “torniamocene a casa.”
Sono arrivato sano e salvo al mio appartamento dopo un’ora e una decina di chilometri percorsi a passo d’uomo per evitare di attirare l’attenzione di qualche vigile urbano di pattuglia – perché sui rotocalchi mi bastano le facce della gentaglia che rappresento per un motivo o per l’altro, non ho alcun interesse a finirci anch’io ritratto dall’obbiettivo dell’autovelox, peraltro dopo non essere neanche riuscito a mettermi in posa – e dopo aver salutato Dave mi sono ritirato in camera da letto.
Attirato come una falena dalla luminescenza dello schermo del portatile rimasto acceso quando ero uscito, mi sono seduto per qualche istante davanti al computer ed ho lanciato un’occhiata falsamente distratta alla mia bacheca su Facebook ed ai circa cinquecento messaggi d’auguri che s’erano andati accumulando da mezzanotte alle quattro.
Sospirando pesantemente, mi sono alzato in piedi, ho tirato fuori il cellulare dalla tasca posteriore dei pantaloni, l’ho riacceso – dopo averlo colpevolmente tenuto spento per tutta la serata, completamente incurante del fatto che qualcosa di grave avrebbe potuto succedere e qualcuno avrebbe potuto avere bisogno di sentirmi con urgenza – ed ho aspettato che, per i successivi venti minuti, tutti gli sms, i messaggi in segreteria e gli avvisi di chiamata di chi mi aveva cercato per farmi gli auguri finissero di scaricarsi. Dopodiché, ho posato il telefono sul comodino, mi sono lasciato ricadere a quattro di bastoni sul letto e, nascondendo la testa sotto il cuscino in un’abile imitazione di struzzo africano, e sono crollato in coma etilico.
Qualche mese fa, quando sono stato trascinato in un capannone in periferia e lì sono stato aperto in due, nel momento in cui ho chiuso gli occhi mi sono sentito tragicamente depresso, perché ero convinto che la mia vita stesse per finire e trovavo questo pensiero assolutamente inaccettabile.
Qualcuno avrebbe dovuto dirmi allora che, qualche mese dopo, mi sarei addormentato fra le comode e morbide lenzuola di seta del mio letto indossando ancora i miei mocassini scamosciati blu, ed avrei desiderato di non svegliarmi più solo per non dover per forza compiere quarant’anni.
Sono sicuro che, se l’avessi immaginato, avrei accolto la possibilità della morte imminente con minor sconforto.
*
Non c’è niente nella vita che possa prepararvi a compiere quarant’anni, lasciate che ve lo dica. Se pensate di aver sofferto, nella vostra esistenza, se pensate di aver avuto una vita sufficientemente difficile da poter dire che passare dagli –enta agli –anta non sarà in grado di sconvolgervi nemmeno un pochettino, be’, vi sbagliate. Non è neanche una questione di vecchiaia in sé – naturalmente è anche una questione di vecchiaia in sé, chi voglio prendere in giro? Ma non è solo quello il problema, ecco – ma piuttosto una questione di traguardi.
A quarant’anni sei più o meno a metà della tua vita. Poi okay, magari arrivi a cento, ma quando hai quarant’anni questo non lo puoi sapere, ti basi sull’aspettativa di vita che la tua società di riferimento, le tue condizioni fisiche e psicologiche ed il modo generico in cui stai al mondo ti danno, e dici d’accordo, ci sono, sono al giro di boa, sono sulla cima del monte, da qui è tutta discesa, devo solo rotolare a valle. Ma mentre mi arrampicavo fino a qui, che cosa ho fatto?
E questa domanda, te la poni lì. A quarant’anni. Non a trenta, quando sei ancora troppo giovane per pensare di poter essere arrivato da qualche parte, e non a cinquanta, che peraltro è un’età talmente lontana che quando ti immagini nel futuro neanche la pensi, ma a quaranta. Quaranta è un bel numero, tondo, rassicurante, e allo stesso tempo spaventosamente netto. Quaranta è quel numero di anni raggiunto il quale per la società che ti ha cresciuto tu devi esserti realizzato.
Credetemi, è un bel casino, quando ci arrivi, capire se ci sei riuscito o meno.
Passare dai ventinove ai trenta, a ripensarci oggi, non è stato così traumatico. Insomma, sì, naturalmente avevo la sensazione di stare entrando in un nuovo periodo della mia vita, cominciavo a sentirmi sulle spalle il peso degli anni, cominciavo a notare in me stesso certi cambiamenti che mi obbligavano a rendermi conto di quanto fossi cresciuto nel tempo, ed anche a chiedermi come fosse stato possibile non notarlo tanto a lungo, ma lì è finita. Sapete quella sensazione che ogni tanto ti prende quando ti convinci che un certo avvenimento cambierà la tua vita, o quantomeno la tua percezione delle cose, e invece poi quella cosa accade ed il giorno dopo tu ti svegli e, di base, non è cambiato niente? E da un lato ti senti deluso per tutta quell’aspettativa sprecata, ma dall’altro sorridi perché ti senti quasi rassicurato dal fatto che la tua vita sia rimasta la stessa, perfettamente controllabile, perfettamente monotona come, in fondo, ti piace che sia?
Ecco, per me i trent’anni sono stati questo. Non ho fatto grandi tragedie, ho accolto con sorrisi di circostanza le battutine degli amici e dei parenti circa le rughe, gli anni che passano e l’essere ormai dei bimbi grandi, sono rimasto al telefono più di mezz’ora ascoltando pazientemente e senza risentimento le lagne di mia madre sul suo essersi ormai rassegnata a non diventare mai nonna, poi mi sono fatto una doccia, mi sono cambiato, sono uscito e mi sono presentato alla festa a sorpresa che i miei amici credevano di avere organizzato tanto perfettamente da non avermi fatto capire dove si fosse tenuta. È stata una bella serata, ne ho ricordi piuttosto chiari.
Ho riso senza falsità, mi sono concesso un capriccio o due, ho bevuto più di quanto non faccia di solito ma senza mettermi in ridicolo e, quando sono andato a dormire, l’ho fatto pensando che dal giorno dopo tutto sarebbe stato diverso, più bello, più entusiasmante, più vero, ma quando mi sono svegliato e ho capito che invece non sarebbe successo, non mi sono sentito triste. Per niente. Ho sorriso, ho fatto colazione, mi sono lavato i denti e sono andato a lavorare, e mi sono sentito contento così, anche se era palese che la mia pelle non fosse più la stessa dei vent’anni, anche se era vero che probabilmente non avrei mai dato un nipote a mia madre, anche se non avevo passato la notte con nessuno ed in generale non avevo diviso la mia vita con qualcuno in un lungo periodo di tempo. Ero a posto. Felice non direi, la felicità è un sentimento così breve e fugace, una scintilla che si accende ed è così preziosa proprio perché si smorza subito. Felice no, ma contento, contento sì.
Alla fine, sapete, la grande questione della gioia, nella vita, sta tutta lì. Nel tuo grado di contentezza quando vai a dormire dopo una giornata pesante, e nel tuo grado di contentezza quando ti svegli al mattino prima di affrontarne un’altra. È davvero tutto lì, in quel pensiero minuscolo col quale di coccoli prima di addormentarti e in quell’altro altrettanto minuscolo col quale ti dai la forza di uscire dal letto.
Ogni tanto può capitare che quel pensiero dolce, quel pensiero incoraggiante, manchino del tutto.
Che poi è il motivo di base per cui io, stamattina, non voglio neanche aprire gli occhi.
*
E invece squilla il telefono.
Tra le svariate miriadi di cose che lo squillo del telefono rappresenta – quasi tutte brutte, specie quando hai un incarico di responsabilità come il mio – ce n’è una molto reale, tangibile e particolarmente sgradevole: il suono del telefono è sempre forte, penetrante ed improvviso. Spezza il silenzio, fa automaticamente sobbalzare, non tanto per la paura, ma per quell’automatica reazione di allarme con la quale l’organismo umano reagisce a suoni simili.
Negli ultimi anni, la gente ha provato in ogni modo ad attutire questa sensazione spiacevole; ha cambiato le classiche suonerie con i toni polifonici, poi ha sostituito anche loro con suoni più particolari e scherzosi, come il miagolio di un gatto o una buffa voce che ti chiama in modi stupidi per attirare la tua attenzione, e poi anche questi suoni sono spariti per lasciare posto alle canzoni che più ci piacciono in un determinato periodo, o alle nostre preferite di sempre.
L’effetto non cambia. Il nostro cellulare potrebbe squillare anche con la canzone con cui ci addormentava nostra madre da bambini, e l’effetto continuerebbe a non cambiare. Quando squilla, improvviso, spaccando il silenzio che ti eri costruito attorno ed all’interno del quale ti eri rifugiato come in un bozzolo caldo e rassicurante, perdi il controllo sul tuo corpo e sobbalzi, sgrani gli occhi, ti volti automaticamente verso la fonte del suono per assicurarti che sia tutto a posto.
Il mio cellulare suona la Lambada, quando mi chiamano, e Dio solo sa se non ho ricordi meravigliosi legati a questa canzone e ad un avvenente portoricano di nome Gael col quale ho ballato su una spiaggia a notte fonda mentre l’eco di questa canzone giungeva a noi tramite la radiolina accesa di una panineria lì vicino, ma nonostante questo, quando squilla io sobbalzo, mi volto a guardarlo con terrore per un secondo e poi, già il secondo successivo, aggrotto le sopracciglia, fissandolo adesso con astio.
Sono ufficialmente le dieci del mattino del dodici agosto, io mi sono appena svegliato e perciò non posso più fingere di avere ancora trentanove anni e di essere ancora fermo al giorno prima, e fa un caldo tale che anche qualcuno con molta più voglia di vivere di me farebbe fatica a trovarne, se dovesse necessariamente alzarsi dal letto.
Sospiro ed allungo una mano verso il telefono, sollevandolo per scrutare il display. È Bill, naturalmente. Se non è mia madre, è sempre Bill.
Mentre sospiro un’altra volta chiedendomi quante possibilità ci siano che il mio figlioccio adottivo onorario decida di chiamare la polizia e denunciare la mia scomparsa se persisto nel non rispondergli, realizzo che a conti fatti non posso continuare ad ignorare la questione. Non è che ci siano possibilità che scompaia, che il tempo torni indietro o che in qualche modo i compleanni vengano cancellati dalla legislazione mondiale, se io insisto a non rispondere al telefono. In realtà, che io risponda o meno, non cambierà proprio niente, nella mia età. Ma almeno, se risponderò potrò smettere di ascoltare la Lambada.
Devo decisamente cambiare suoneria.
- Pronto?
- David! – Bill mi strilla nelle orecchie, la voce già rotta dal pianto liberatorio che immagino si starà lasciando scorrere lungo le guance assieme agli usuali venti chili di kajal, - Dio mio, David, ma sei impazzito? Ma sei impazzito? Hai idea di quanto mi hai fatto preoccupare? Ma come ti è saltato in testa di ignorare le mie chiamate, con tutto quello che è successo negli ultimi mesi?
In realtà, negli ultimi mesi non è successo niente di particolarmente assurdo, fatta eccezione per un viaggio negli Stati Uniti che si è concluso con un matrimonio inatteso e per la breve parentesi di momentaneo dolore emotivo durante la quale il mio ragazzo mi ha lasciato per andare a curare la malaria in Africa con la sola imposizione dei propri pettorali scolpiti nel marmo. L’avvenimento al quale Bill si riferisce, invece, è accaduto mesi fa, ha coinvolto solo me, le mie budella e un coltello non particolarmente affilato, e non avrebbe più modo di ripetersi, dal momento che Bushido, dopo l’accaduto, ha cominciato a pagare uomini perché mi proteggessero seguendomi nell’ombra e terrorizzandomi a morte quando, tornando a casa alle tre del mattino dopo una bevuta, me li vedo spuntare di fronte avvolti nei loro completi neri mentre mi rassicurano dicendo “è tutto a posto, signor Jost, vada pure”.
- Sono vivo, Bill. – annuncio pazientemente, staccandomi di dosso le lenzuola appiccicate alle gambe e sollevandomi faticosamente a sedere mentre ascolto Bill confermare il mio attuale stato in vita a qualcuno accanto a lui, qualcuno che deduco essere Bushido dal modo annoiato in cui risponde “ma te l’avevo detto, Bill”. – Posso andare, adesso? Ho bisogno di una doccia.
- No. – risponde Bill, perentorio, - Cioè, sì, potrai andare a farti una doccia presto, ma prima: tanti auguri! – mi strilla nelle orecchie, inutilmente eccitato per qualcosa che non eccita nemmeno me, figurarsi se dovrebbe avere lui qualche diritto a sentirsi eccitato al mio posto.
- Grazie. – concedo svogliato, - Ora posso andare?
- No! – sbotta Bill, offesissimo, - Ma che ti prende? Ho bisogno di sapere a che ora sei libero, stasera.
- No, Bill, non hai bisogno di saperlo. – gli spiego io con un sospiro stanco mentre costringo il mio vecchio corpo a sollevarsi dalla dolce comodità del materasso memory foam.
- No? – chiede lui, vagamente smarrito. Posso immaginarlo sbattere le lunghe ciglia ricurve, gli occhi di quel brillante castano dorato che fanno capolino da sotto le palpebre pittate di grigio metallizzato.
- No. – confermo, dirigendomi serenamente verso il bagno, - Perché non intendo partecipare ad alcuna festa, per i miei quarant’anni, - spiego, cercando di utilizzare il tono di voce più pacato che i nervi repressi che tremano sottopelle mi consentano, - Non intendo organizzarla a casa mia, non intendo lasciartela organizzare a casa tua, non intendo aprire regali e sorridere fingendo di essere contento nel festeggiare l’inesorabile restringersi della finestra di tempo che mi separa dalla morte e non intendo neanche stare ad ascoltarti mentre cerchi di convincermi che invece sarà una bella festa e ci divertiremo un sacco.
Dall’altro lato della cornetta, Bill resta in silenzio per tre minuti netti. Un record.
- Bill? – lo chiamo, - Sono stato chiaro?
- È scappato. – mi risponde Bushido. Non riesco a decifrare il tono della sua voce. – Gli hai detto che non vuoi saperne niente?
- In sostanza, sì. – annuisco, - Ed è quello che ripeto adesso anche a te. Inoltre, sto per spegnere il cellulare. Ti prego di non inscenare il finimondo, se non mi senti nell’arco delle prossime ventiquattro ore. Gradirei trascorrere questo giorno senza che mi venga ricordato continuamente che sono un vecchiaccio.
Bushido ride appena, lo immagino scuotere il capo.
- Jost, sei un cretino. – mi rimprovera, - Ma d’accordo.
Mi fermo, immobile, una mano sulla maniglia della porta del bagno, l’altra stretta attorno al telefono.
- D’accordo? – domando per conferma.
- D’accordo. – ribadisce lui con sicurezza, - Ci sentiamo, Jost.
D’accordo. Mi sarei aspettato una maggiore insistenza.
*
È una doccia lunga e rilassante, all’avocado e ai minerali del Mar Morto – sebbene io non abbia idea di quale sia l’odore dei minerali del Mar Morto, per cui principalmente è una doccia all’avocado e basta – quella che mi concedo e alla quale mi concedo come non mi sono mai concesso a nessun altro essere con una declinazione al femminile. Lei è buona, con me, mi tratta con rispetto, non sente il bisogno di farmi gli auguri e, pertanto, di farmi sentire vecchio.
Per la verità, dal momento che è una doccia ipertecnologica di ultima generazione, dotata di ogni comfort e di un dispositivo elettronico incredibilmente efficiente che le permette di esprimersi attraverso una voce femminile dalle tonalità suadenti e placide, se avessi attivato il programma “buongiorno del mattino” so che, dopo aver acceso la radio, mi ricorderebbe la data di oggi, l’orario di inizio della doccia, le principali notizie del mattino, gli aggiornamenti sulla viabilità e il traffico e, alla fine, mi farebbe anche gli auguri di compleanno. Fortunatamente, sono stato abbastanza furbo da disattivare quella modalità al secondo giorno di utilizzo, e pertanto la voce di Serafine, che poi è il nome con cui la voce suadente s’è presentata durante la configurazione al primo utilizzo, si limita ad augurarmi il buongiorno e a chiedermi se preferisco doccia semplice, idromassaggio o cromoterapia.
Opto per la doccia semplice, all’avocado e ai minerali del Mar Morto, come vi dicevo, e ne vengo fuori qualcosa come tre quarti d’ora dopo, raggrinzito come una prugna e stupefatto dal fatto che il guanto di crine che ho usato per lo scrub mi abbia lasciato ancora della pelle addosso. È una sensazione abbastanza meravigliosa, e posso sorridere sinceramente mentre, dopo essermi accuratamente asciugato, esco dal bagno avvolto in un microasciugamano che mi copre appena i fianchi. Vado in cucina, bevo una tazza del caffè che la caffettiera ha provveduto a preparare da sé una mezz’oretta fa, poi recupero il nuovo numero di Vanity Fair e passo la successiva ora seduto al tavolo della colazione, le gambe stese sull’unica altra sedia libera, a fingere di leggere mentre in realtà fantastico su immaginari lavori di ristrutturazione alla facciata del palazzo e immaginari operai unti di sudore e sporchi di gesso e cemento armato che fanno educatamente irruzione in casa mia dalla finestra, chiedono un bicchiere d’acqua per dissetarsi dalla calura estiva e poi mi prendono ripetutamente contro il piano in marmo bianco sopra la lavastoviglie. Uno dopo l’altro, a volte anche in coppia.
Dopodiché, ho bisogno di un’altra doccia.
*
Decidere dove andare, o cosa fare del resto della mia giornata, non è così semplice. Non facciamo mai caso a quanto i nostri impegni, intendo quelli che ci scandiscono le giornate, siano per lo più dipendenti dagli altri, più che da noi stessi, fino a quando non spegniamo il telefono. Nel momento in cui quel dettaglio viene a mancare, ecco che improvvisamente ci ritroviamo con un mucchio di tempo libero per le mani e nessuna idea su come impiegarlo.
Dopo essermi assicurato che il sole splenda e che la temperatura esterna oscilli fra i ventinove e i trentadue gradi, stabilisco che restare a casa non ha senso. Primo perché è un luogo facilmente identificabile. Chiunque volesse pensare di volermi trovare, cercherebbe qui per prima cosa. E io non intendo farmi trovare.
Secondo perché fa veramente troppo caldo, ed un uomo attento all’ambiente e al riscaldamento globale quale io sono non può in alcun modo sopportare di risolvere questo problema chiudendosi in una stanza col condizionatore a temperature polari. Qualche pinguino mi ringrazierà per questo, penso con orgoglio mentre indosso il costume da bagno, un paio di bermuda ed una maglietta e, infradito ai piedi, mi lancio verso Steglitz-Zehlendorf.
Tutte le mie buone intenzioni, il mio accorato sostegno verso la causa ambientalista e il mio affetto per i pinguini disagiati che perdono le loro case di ghiaccio a causa del riscaldamento globale, viene meno in un soffio quando, arrivato alla spiaggia del Wannsee, la trovo gremita di gente come non l’ho mai vista da che sono al mondo. E, ricordiamolo, stiamo parlando di quarant’anni. Evidentemente, oggi tutti devono avere avuto la mia stessa idea. Quanti eroi che vogliono salvare il mondo un condizionatore spento alla volta. Greenpeace sarà soddisfatta.
Tanto vale, mi dico, ormai sono qui. Recupero il borsone e mi faccio strada fra ragazzini impegnati a tirare su monumenti di sabbia, donne impegnate a diventare esse stesse monumenti cospargendosi abbondantemente il corpo di creme solari di ogni tipo e uomini che preferirebbero diventare monumenti anch’essi, pietrificandosi possibilmente sul posto, in modo da non dover passare un secondo in più della loro vita ad annoiarsi disperatamente sotto quel sole cocente.
In mezzo a questo acquerello di umanità varia, trovo un posticino grande abbastanza per ospitare il mio telo da mare e me stesso, entrambi piegati in due in modo da occupare il minor numero di metri quadrati possibile.
Ci sono tanti di quei colori, su questa spiaggia, tanti di quei suoni. Gli ombrelloni di ogni dimensione, aperti e puntati verso il sole, sono così tanti che sono sicuro che, se sorvolassi la spiaggia, li vedrei come pois multicolori sul vestito di una ragazza. I gabbiani strillano con forza, ma non abbastanza forte da sovrastare il mormorio incessante del chiacchiericcio delle persone, ognuno perso nelle proprie cose, ognuno annodato nel groviglio dei propri drammi personali, o coccolato nel tepore di qualcosa di bello. Una donna sta parlando del vestito da sposa di sua figlia con un’amica, lo descrive così minuziosamente che quando ha finito potrei disegnarlo senza sbagliare un dettaglio. Una bambina di una decina d’anni sta cercando di spiegare al fratellino, credo, o ad un amichetto più piccolo, come funzionano le onde del mare. Lui fatica a starle dietro e ad un certo punto lei, frustrata, strilla “ma sei stupido?!”, e corre a tuffarsi in acqua. Un uomo parla con un coetaneo, probabilmente un amico. Ha lo sguardo triste, dice “non ce la faccio più”. Non riesco a cogliere i dettagli del discorso, in realtà nemmeno voglio.
Mi appoggio al telo con entrambe le mani, le braccia tese ai lati del corpo. Mi piego indietro e scruto il cielo terso, macchiato qua e là da qualche sbuffo di nuvola. Sembrano fiocchi di panna montata. Nei pressi del sole, il colore del cielo si fa più chiaro, sbiadito, brillante, quasi trasparente. Dà proprio l’impressione di non essere altro che una campana di vetro, tutta attorno al pianeta, attraverso la quale i raggi del sole passano appena. Tuttavia, riesco a sentirli sulla pelle, ed è una sensazione piacevole.
Dietro di me, una famiglia composta da una madre e tre ragazzini di varia età si decide ad andare via, liberando un po’ di spazio. Me ne approfitto, prima che arrivi qualcun altro. Stendo per bene il telo, e mi ci stendo per bene sopra anch’io. Chiudo gli occhi, sorridendo appena. Li tengo chiusi a lungo.
*
La giornata scorre così tranquillamente da sembrare finta. Intorno a mezzogiorno, mi rifugio in uno dei numerosi ristoranti che affollano il lungolago, ed in barba a tutti i miei principi etici e morali passo un paio di piacevolissime ore rifocillandomi – cioè gozzovigliando come un maiale su metà del menu del giorno – e pascendomi nell’aria freddissima che riempie la stanza al punto che, entrando, pare di non essere nemmeno più in estate. Tutta questa gente con le loro giacchettine addosso mentre fuori le persone vorrebbero strapparsi ogni indumento e bruciarlo pur di sentire un minimo di fresco, sono esilaranti. Li osservo con divertimento, facendo punto d’onore nel restare in maniche corte per tutto il tempo nonostante la pelle d’oca da freddo.
Quando comincio a sentire le estremità del mio corpo perdere sensibilità, decido che ne ho avuto abbastanza. Pago, esco dal ristorante e l’escursione termica fra interno ed esterno è tale che un qualsiasi uomo meno fisicamente preparato di me sverrebbe all’istante. Fortunatamente, io sono ancora in forma, e sopporto con stoica testardaggine gli schiaffi del vento caldissimo che scompiglia i capelli di tutte le signore presenti, e poi torno in spiaggia.
C’è molta meno gente, adesso. Il sole sta cominciando ad abbassarsi, le ore migliori per la tintarella sono già finite e chi è qui dalla mattina comincia ad avere troppo caldo, e ad essere troppo stanco, per non desiderare di trovarsi altrove.
Io mi approprio di un paio di metri di sabbia umida in riva, e mi seggo a guardare il lago. L’acqua è meravigliosa, tutta azzurra e bianca, e si arriccia capricciosa attorno ai corpi dei ragazzi e delle ragazze che fanno il bagno. Con ogni schizzo, sembra di sentirla ridere.
Ci vogliono ore, prima che qualcosa cambi. Osservo il sole disegnare un arco perfetto nel cielo, e perdo completamente di vista la cognizione del tempo e dello spazio. È come essere solo, su questa spiaggia. Siamo solo io e il sole che scandisce i minuti e le ore fino alla fine di quella giornata, e gli sono grato, perché da un certo punto in poi sembra che si sia messo a correre, per far calare la notte il prima possibile. Molto premuroso, da parte sua. Starò sicuramente molto meglio, quando queste ventiquattro ore saranno finalmente passate.
E poi, improvvisamente, appena il sole fa tanto di bagnarsi la punta dei piedi, qualcuno si siede accanto a me, posa una bottiglia di whiskey sul mio telo, in mezzo a noi, e tira fuori un walkman – un walkman – dalla borsa nera che porta a tracolla.
Nel momento in cui capisco che si tratta di Bushido, lui mi ha già infilato un auricolare in un orecchio, e le note di Sweet Home Alabama cominciano a farsi strada dentro di me.
- Sul serio? – dico, voltandomi verso di lui con gli occhi sgranati, - Vuoi consolarmi per la mia triste vecchiaia e mi porti un walkman, del whiskey e una cassetta dei Lynyrd Skynyrd?
Bushido ride, il suono della sua voce è dolce, quasi tenero. Non mi guarda nemmeno, impegnato com’è a fissare il lago ormai praticamente vuoto.
- Hai il coraggio e la faccia tosta di dirmi che questa canzone non ti piace? – domanda.
Io sospiro, abbassando lo sguardo.
- La adoro. – ammetto, - Ma questo non significa—
- Bill c’è rimasto malissimo, sai? – mi interrompe. Io faccio una smorfia. Naturalmente, Bill. Lo dico senza risentimento, come il dato di fatto che è: con Bushido, tutto, sempre, è una questione di Bill. Qualsiasi cosa quest’uomo faccia o non faccia, la fa o non la fa tenendo sempre in considerazione Bill per primo, e poi, secondariamente, se necessario, tutto il resto del mondo. – Ci teneva un sacco.
- Non mi stupisce affatto. – commento con un mezzo sorriso, - Adora dare feste.
- Non è solo quello. – mi corregge Bushido, perfettamente calmo, - Tu sei stato come un padre, per lui. Tom ha avuto Gordon, ma Bill ha avuto te. Sei stato il suo mentore, e ricordati che è completamente a causa tua che oggi lui è quello che è. – lo osservo sospirare e poi sorridere, - Devi capire che è così felice di non averti perso che non farebbe che dare feste in tuo onore. E tu pretendi che non festeggi il tuo compleanno? – ridacchia appena, scuotendo il capo, - Ma non capisci che, se facessi il compleanno ogni giorno, lui organizzerebbe ogni giorno una festa diversa, solo ed esclusivamente per celebrare il fatto che esisti?
Non fingo nemmeno di provare a trattenere le lacrime. La cosa più odiosa è che tutto questo io lo so. L’ho sempre saputo, Bushido non è venuto qui a snocciolarmi verità sconosciute come il dio immortale che in realtà sospetto sia veramente. È solo venuto qui al momento giusto, nella cornice giusta, perfino con la giusta colonna sonora, per ricordarmelo.
- Sono veramente egoista, - sospiro, asciugandomi gli occhi, - vero?
- Sì. – risponde lui, sinceramente, - Ma dal momento che lo siamo tutti, almeno sei in buona compagnia. Tieni, - aggiunge poi, sollevando la bottiglia verso di me, - bevi. Ne avrai bisogno.
Obbedisco senza neanche chiedergli perché.
- Come hai fatto a trovarmi? – chiedo fra un sorso e l’altro. Bushido si limita ad indicare con un cenno del capo i due uomini vestiti di nero che mi sorvegliano attentamente dal molo. Poveretti, devono soffrire parecchio, con le cravatte annodate e le maniche lunghe. Chissà da quanto sono qui. – Lo sai, questo è stalking.
Bushido scrolla le spalle.
- Fammi causa. – butta lì, rubandomi la bottiglia. Gliela richiedo indietro pochi istanti dopo, e per molti minuti, finché non ne vediamo il fondo, restiamo lì in riva a bere e a lasciarci bagnare i piedi dalle onde.
*
Il motivo della bottiglia di whiskey lo capisco solo qualche ora dopo, intorno a mezzanotte. La festa, per la gioia di Bill, è stata splendida. Non è che mi abbia fatto dimenticare che sono depresso e che probabilmente mi chiuderò in una SPA per tutto il resto della prossima settimana per farmi massaggiare da giovani tailandesi finché non sarò ringiovanito abbastanza da poter mostrare nuovamente la mia faccia in pubblico, ma almeno è stato un modo piacevole per passare le ultime ore di questa giornata da cancellare con persone di cui m’importa, ed alle quali importa di me. La spiaggia era un luogo bellissimo, impersonale e rassicurante, ma in effetti il calore umano ha qualcosa in più rispetto a quello del sole. Quando capiranno cos’è e riusciranno a imbottigliarlo, scommetto che gran parte dei problemi del mondo potrà essere facilmente risolta.
Al momento, Chakuza è sdraiato a terra con un imbuto di dimensioni preoccupanti in bocca. Fler è disteso al suo fianco, e conta “uno! Due! Tre!” per ogni secondo che il suo nuovo marito riesce a passare in apnea bevendo birra bavarese che Eko Fresh versa direttamente nell’imbuto dalla spalliera del divano sul quale è appollaiato. Tom, che ha bevuto pure lui come un tacchino, è seduto su un divano, arrabbiato per chissà quale oscuro motivo, mentre suo fratello, ridendo come un deficiente per chissà che battuta, gli tira le treccine a casaccio.
Bill è raggiante. C’è come un alone di gioia e santità, attorno a lui. Praticamente vederselo passare di fronte è come avere una visione della vergine Maria quando era un’adolescente dark. O forse, appunto, è solo il whiskey ad aver reso più semplice una cosa complicata, più piacevole una cosa dolorosa. A volte anche fuggire così va bene, sapete, purché ci siano le braccia di qualcuno a tenerti ancorato a terra.
- Ehi. – mi saluta Bushido, il quale, con questo bicchiere di vino rosso che tiene in mano e il completo elegante che indossa, sembra quasi l’uomo serio che in realtà non è. Non potrò mai dimenticarmi che quest’uomo è venuto a recuperarmi su una spiaggia, al tramonto, portando con sé un walkman e i Lynyrd Skynyrd. – Tutto a posto?
- Direi di sì. – sorrido, accettando l’altro bicchiere di vino che mi porge, - Non sono già abbastanza ubriaco? – rido.
- No, sei ubriaco al punto giusto. – ride anche lui, e poi si sistema accanto a me, osservando la festa andare avanti con curiosità e divertimento, proprio come ho fatto anch’io fino ad ora. – Senti, - dice quindi, - lo sai qual è la cura per la malattia del non avere più vent’anni? – domanda.
Mi volto a guardarlo, inarcando un sopracciglio.
- Avere qualcuno che ce li abbia ancora. – ghigna lui. Io spalanco gli occhi. – Seconda stanza a destra al piano di sopra. – dice quindi, consegnandomi una chiave di ottone. – Va’ e riproduciti.
- Stai scherzando. – balbetto sconvolto.
Ma no, non sta scherzando. Ed ecco che il whiskey torna utile mentre scoppio a ridere, accettando di buon grado il suo gentile presente e lasciando che il giovanotto al piano di sopra mi aiuti a dimenticare quanti anni ho – e il mio nome, anche – prima di tornare a dormire.

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Fiori Di Cemento

di lisachan
Sono anni che non metto piede in un ufficio come questo, e l'ultima volta che l'ho fatto ero così piccola che ne ho conservato un ricordo da favola. L'ufficio in questione era quello dell'Ersguterjunge, che ai tempi non era ancora lo studio di lusso che è diventato nel post mortem del suo signore e padrone, ma che era già allora una roba di classe. Pareti bianche, pavimenti di marmo, mobili lucidi.
Mio padre lo adorava. Ogni tanto me ne parlava in modi che si capiva subito che l'idea di andare a incidere in un posto come quello lo rendeva orgoglioso, dava un senso alla strada che aveva percorso, a tutto quello che aveva affrontato per spostarsi dal Libano alla Germania e a tutte le sofferenze che aveva dovuto patire anche una volta trasferito, prima di incontrare Bushido e cominciare a farsi un nome.
Gli uffici dell'Aggro Berlin non sono belli come quelli dell'Ersguterjunge. E non è che Sido non abbia i soldi, ho come l'impressione che, se volesse, riuscirebbe a mettere in imbarazzo l'Ersguterjunge per dieci volte con locali degni di una major, invece del locale sotterraneo umido in cui si ostina a lavorare.
No, questi uffici non sono così per mancanza di soldi. Sono così per proteggere le apparenze. Sido e l'Aggro Berlin ci tengono ancora ad essere la crew sporca e cattiva di Berlino. Ci tengono ancora ad essere gli unici che possano dire con orgoglio "guardate Bushido, lui è tutto quello che noi odiamo, tutto quello che non vorremmo mai essere, e ne andiamo fieri".
Che poi, alla fine della storia, è il motivo per cui sono qui.
La ragazza bruna che è sparita oltre la porta cinque minuti fa finalmente si decide a tornare. Nei suoi occhi c'è un misto di preoccupazione e curiosità, che nasconde dietro un sorriso professionale.
- Prego, accomodati, - mi dice, - Terza porta a sinistra.
Io mi alzo, sistemo il cappello sulla testa e la ringrazio a bassa voce, seguendo le sue indicazioni.
Quando entro nel suo ufficio, Nyze mi guarda fisso, un sorriso divertito a piegare le labbra.
- E così, - dice, - Tu sei la figlia di Saad. Ti sei fatta grande.
Non so perché, le sue parole mi fanno scorrere un brivido lungo la schiena.
- Ho quattordici anni. - dico. Non so perché lo dico. Per un secondo mi fa sentire protetta, il fatto di avergli detto quanti anni ho, il fatto che adesso lui lo sappia. Ma il suo sorriso non cambia di un millimetro, ed io torno a rabbrividire.
- Perché non mi racconti la tua storia, tesoro? - mi chiede lui, mettendosi comodo sulla sedia girevole.
Non mi ha invitato a sedermi. Penso l'abbia fatto apposta, per cui resto in piedi. E comincio a raccontare.
*
Gli assassini di mio padre io li capisco. (Scommetto che non ve lo aspettavate.)
Il mio nome è Nyzaad El-Haddad. Ho quattordici anni. Quasi quindici. Ma è irrilevante. Quello che vi racconterò fa schifo, e fa schifo per una ragazzina di quattordici anni come lo farebbe per una di quindici. O di sedici. O di venti.
Non importa, comunque, non me ne frega niente, io le scelte che ho fatto le ho fatte da persona libera. Non mi pesa niente addosso. Non mi pesano gli anni, avere abbandonato mia madre, le cose a cui ho rinunciato, la vita che avrei potuto avere.
(Che vita, poi? Sono libanese, e resto libanese anche se sono nata a Berlino, com’è rimasto libanese mio padre fino all’ultimo, anche se in Germania ci si era trasferito con tutta la famiglia da ragazzino. Come resta tunisino Bushido. Come resta turco Eko Fresh. La Germania ti accoglie, lo fa, è vero. Ma non ti permette mai di dimenticare che avrebbe potuto non farlo. Che non sei roba sua. Che quello che prendi te lo devi guadagnare, anche se tua madre è bianca e bionda e bella come un’attrice degli anni ’40, anche se tuo padre ha fatto i soldi col rap. Tanto vale. È morto come l’ultimo dei criminali. E probabilmente lo era anche.)
Il mio nome è Nyzaad El-Haddad, ho quattordici anni, quasi quindici, sono nata a Berlino il venti gennaio millenovecentonovantanove e mio padre è morto ammazzato sulla terrazza di qualche palazzo nella stessa via dove abitavamo due anni fa. Quale palazzo non lo saprò mai, perché non c’ero e mia madre non ha voluto saperne niente.
Mio padre è morto ammazzato anche se nessuno lo sa. Mia madre non ha mai sporto denuncia. Io so che non l’ha fatto perché ha ricevuto una visita da parte di Fler e Chakuza. Che sono gli assassini. Che sono probabilmente anche le stesse persone che, a cose fatte, il corpo di mio padre l’hanno gettato nel canale, che poi se l’è mangiato.
Ma lo ripeto. Non importa. Io lo so cos’è successo. Ero una bambina, allora, quindi era impossibile che capissi perché stava accadendo mentre stava accadendo. Ora sono cresciuta, però. Quando ti muore un genitore non puoi restare bambino a lungo. È come se qualcuno ti svegliasse a schiaffoni, così, all’improvviso. Tu non hai fatto niente per meritarlo, stavi solo dormendo, ma succede lo stesso. E, frastornato, ti guardi intorno, cercando di capire cosa ti ha colpito, cercando di capire da dove venga il dolore, finché poi non t’importa più, t’importa solo che è ingiusto, la senti come un’offesa, dormivo, ti dici, cazzo, cos’avrò fatto di male per meritarmelo, non posso aver fatto niente di tanto brutto da meritarmelo, eppure è successo.
E t’incazzi.
E infatti non è il dolore che ti spinge a crescere, è la rabbia.
È questo il punto: io gli assassini di mio padre li capisco, mio padre aveva ammazzato Bushido, Bushido era morto, mio padre doveva morire. Solo che Bushido non era morto, non davvero. E mio padre invece sì.
E quindi io li capisco. Ma sono comunque incazzata.
Quando mia madre mi ha presa da parte per spiegarmi cos'era accaduto davvero, in realtà era già passato un anno dalla morte di mio padre. Nel mentre ci eravamo trasferiti. Per me era stato un colpo su un altro colpo, capite, prima mi dici che papà se n'è andato, non mi spieghi perché, non mi spieghi dove, per tenermi buona mi spingi giù per la gola con l'imbuto la stessa storiella di merda che hai spinto giù per la gola con l'imbuto anche a tutti gli altri, e poi mi dici che dobbiamo trasferirci. "È meglio così," mi dici, e siccome sei mia madre, e siccome ho dodici anni, e siccome sto male e piango da quando mi sveglio a quando vado a dormire perché mi manca papà e mi manca la mia vecchia vita e mi aggrappo a te perché ti voglio bene e sei l'ultima persona che mi è rimasta, ti seguo. Ti credo e ti seguo.
Vivevamo a Buckow da qualche mese (a quel tempo Bushido era già tornato dal mondo dei morti e gran parte della merda che ne era seguita aveva già avuto luogo, ed io avevo osservato il tutto con sconcerto, pensando a mio padre che era andato via proprio dopo la morte del suo più caro amico, e che si rifiutava di tornare anche adesso che Bushido era di nuovo fra i piedi), quando mia madre mi si avvicina portandomi una tazza di cioccolata calda, tutta piena di dignità ed eleganza com'era sempre anche in casa, avvolta nella vestaglia di raso bianco e coi capelli perfettamente acconciati alti dietro la testa, e mi fa "Nyzaad, amore, dobbiamo parlare. Sei grande abbastanza."
Grande abbastanza.
Avevo tredici anni e vivevo in un posto che odiavo, tutta campagna e solitudine, senza compagnia, senza un amico. Mi mancava la città, mi mancava ancora papà, il mondo come lo conoscevo prima. Frequentare l'Ersguterjunge, gli amici e i colleghi di papà, gente alla quale guardavo con ammirazione. Mia madre è bellissima ma non sono mai voluta essere quello che lei aveva sempre voluto essere. Una donna di classe, una donna ricca, non lo so. Sono fatta di un'altra pasta, io, della stessa pasta di papà. Non ne faccio una colpa a mia madre, siamo solo persone diverse, lei non ha torto e io non ho ragione, non la vedo in questi termini. Però per lei la vita a Buckow era sufficiente, le lunghe passeggiate, sorseggiare tè leggendo un libro, guardare un film in televisione, andare a cena fuori o uscire in serata per un gelato. Per lei andava bene così, mentre io nel mentre ero accesa come una miccia, e bruciavo, mi consumavo, aspettando di esplodere.
Avevo solo bisogno di una scusa, e mia madre lo sapeva. Mi vedeva agitarmi irrequieta, tornare a casa tardissimo dopo scuola, che poi non è che fossi stata chissà dove, non c'erano posti in cui andare, non c'erano possibilità di cacciarsi nei guai, ma si vedeva, lei lo vedeva, lo capiva, che lì non ci volevo più stare, che volevo chiederle di lasciarmi tornare a Berlino per il liceo.
Forse s'immaginava che raccontarmi la storia di papà, quello che aveva fatto, come era morto, potesse farmi cambiare idea. Che mi mettesse paura, mi facesse decidere che la vita a Buckow era più sicura, faceva più per me.
È successo l'esatto contrario. Ero un fuoco d'artificio. Sono diventata una polveriera.
Mio padre ha ammazzato Bushido per un motivo di merda. Dove Bushido ficcasse l'uccello non avrebbe dovuto essere affar suo. Specie dopo che era stato Bushido stesso a impedire che una sorte anche peggiore capitasse a suo cognato.
(Lo zio Thomas. Ogni tanto mi chiedo che fine abbia fatto. Eravamo tanto vicini, prima di tutto questo casino. Andando via, mia madre ha preso le distanze anche da lui, nonostante fosse una delle pochissime persone al mondo alle quali tenesse davvero.
La morte di papà non ha spezzato qualcosa solo dentro di me. Spesso me ne dimentico perché, in queste situazioni, è più facile essere egoisti. Ma la morte di papà ha spezzato qualcosa anche dentro la mamma. Che era una persona affettuosa, prima, e si è chiusa come un riccio subito dopo. Tutta aculei, mi abbracciava spesso, ma i suoi abbracci facevano male.)
La cosa avrebbe potuto essere più comprensibile se Bushido avesse messo a repentaglio gli affari dell'etichetta, cominciando a scoparsi Bill Kaulitz. Ma questo non era accaduto, e d'altronde per mio padre ammazzare Bushido non era stata una questione di soldi, ma di principio, di questo ero sicura. Un principio di merda, ma pur sempre un principio. La gente muore ogni giorno per principi di merda. I fondamentalisti religiosi, i disgraziati che vengono picchiati per le strade. Non sono sicura che Bushido fosse una vittima dell'omofobia perché non credo che quella di mio padre fosse omofobia in senso stretto (talvolta ci penso e sono contenta che sia morto prima di vedere quello in cui si è trasformata l'Ersguterjunge oggi, se fosse ancora vivo sono abbastanza sicura che il colpo in testa se lo sparerebbe da solo pur di risparmiarsi l'oltraggio, ma non credo si tratterebbe proprio di omofobia, più che altro una sorta di attaccamento a un'immagine del ghetto, del rap, delle bande, che affondava le sue radici in una parte antica della sua vita, prima ancora di Berlino), ma in ogni caso. Era la vittima di un principio del cazzo. Un principio che mio padre aveva deciso di seguire. Che in ultima analisi l'aveva portato a farsi ammazzare e gettare via come un sacco della spazzatura.
Ma Bushido era vivo. Era vivo, e mio padre invece no.
Ecco, fossero rimasti morti entrambi, forse sarebbe stato tutto diverso. Forse la mia reazione non sarebbe stata la stessa. Non posso saperlo, non lo saprò mai. Ma Bushido era vivo e mia madre mi aveva appena offerto della cioccolata calda, la cui tazza bollente stringevo tra le mani, tremando, scottandomi i polpastrelli e rifiutandomi di lasciarla andare, e mi aveva detto che invece mio padre non lo era, che non era scappato, che era morto ammazzato, morto per vendicare un uomo che non era mai morto davvero.
E per me era inaccettabile. Non c'era nessun principio dietro. Niente con cui potessi consolarmi dando una parvenza di logica a quello che era successo. Cosa m'importava che mio padre quel colpo l'avesse sparato davvero? Che Bushido fosse davvero stato colpito, che fosse davvero quasi morto, che si fosse davvero salvato solo per miracolo? Qualsiasi cosa fosse successa, un uomo che avrebbe dovuto essere morto per giustificare la morte di un altro uomo, di mio padre, era ancora vivo. E mia madre aveva accettato tutto questo, aveva accettato la morte di mio padre perché ne condivideva il principio ma non aveva visto quel principio farsi a pezzi e sbriciolarsi quando Bushido era tornato in Germania, e io non potevo più vivere con lei. Non potevo più nemmeno guardarla negli occhi, pensare di poterla ancora chiamare mamma.
Sono scappata una notte, mentre dormiva. Non avevo voglia di salutarla, sapevo che in qualche modo, con le buone o con le cattive, sarebbe riuscita a trattenermi. Volevo solo andare via, ricominciare da zero, trovare qualcosa, qualcosa che potesse darmi pace, in qualche modo. Volevo aspettare, forse, aspettare che sulla mia strada si presentasse senza chiederla l'occasione di riequilibrare la bilancia un'altra volta, in qualche modo. Non pensavo avrei mai avuto le palle di ammazzare Bushido per bilanciare l'equazione, ma qualcosa dovevo farla per forza, ed anche solo aspettare che si presentasse l'occasione mi obbligava quantomeno a muovermi. Su quale strada avrebbe dovuto presentarsi, se stavo chiusa in casa a Buckow?
Sono tornata a Tempelhof. Che può non sembrare il viaggio della vita quando ti muovi da Neuekölln, ma lo è. A Tempelhof è tutto diverso. Gli oceani d'asfalto, i muri ricoperti di manifesti sbriciolati dalla pioggia e tag scolorite e coperte cento volte con tag più nuove, che si scoloriranno e verranno ricoperte a loro volta negli anni a venire, e la commistione di etnie, gente di tutti i colori del mondo, gente da tutti gli angoli del mondo. Che non è che ti accolgano con più piacere, non è che facciano comunità, sono bande di ragazzini soli, bande di uomini soli, ma sei un ragazzino solo anche tu e finché conviene resti con loro, solo in mezzo a loro più soli di te, finché non ti senti in grado di tornare ad essere solo per conto tuo.
Mi sono fermata in una comunità di accoglienza per adolescenti disadattati, perché quando sono arrivata le due donne che la gestivano hanno capito che ero scappata di casa ed hanno promesso che avrebbero gestito il mio caso con discrezione. Che in sostanza voleva semplicemente dire che era a posto, potevo anche dare un nome falso, non avrebbero indagato. Chissà cosa devono aver pensato, vedendomi arrivare. Questa ragazzina con le trecce lunghissime e bionde e addosso vestiti nuovi che generalmente non vedevano addosso agli altri ragazzini a cui di solito davano aiuto.
Era un posto squallido, non è che sono rimasta con piacere. A gestirlo era un'associazione di volontariato senza il becco di un quattrino, sovvenzioni dallo stato non ne ricevevano come non ne riceveva quasi nessuno da quelle parti, ma se era quello il prezzo da pagare per la più assoluta discrezione a me stava bene. Non volevo dare il mio nome, non volevo che provassero a contattare mia madre. Avevo già deciso che, nel momento in cui avrebbero cominciato a fare troppe domande, sarei scappata via. Fino ad allora, però, potevo restare.
Stavo in una camera con tre letti ma spazio a sufficienza per sole due persone, e solo volendosi stringere. (Nessuna di noi voleva.) Le mie compagne di stanza si chiamavano Sandra e Leda, e della loro vita, dei motivi per i quali erano finite in quel buco assieme a me, non me n'è mai fregato niente. Infatti non ho mai chiesto.
In genere, sia che avessi qualcosa da fare sia che invece non avessi niente, uscivo la mattina, subito dopo colazione, per ritirarmi solo a pranzo, e poi uscivo di nuovo nel primo pomeriggio, per ritirarmi solo all'ora di cena. Le giornate potevano essere noiose, a volte, o freddissime e bagnate, ma stare in quel posto non mi piaceva, preferivo considerarlo una specie di appoggio, e d'altronde non c'erano riscaldamenti, né attività comuni organizzate dalle volontarie per cercare di tenerci occupati. Al morso della noia preferivo quello del gelo delle strade di Berlino, alle facce sempre uguali degli adolescenti che vivevano in quel posto preferivo quelle sempre diverse e inedite degli immigrati che a migliaia sciamavano per le strade del quartiere, immersi nelle attività più disparate. Giorno dopo giorno, ho imparato ad amare la strada più di quanto amassi il letto nel quale dormivo la notte, e quando mi sono resa conto di avere imparato tutto, di Tempelhof, dai nomi delle vie ai locali pubblici, dai punti d'incontro segreti delle bande ai nomi degli spacciatori di quartiere, riuscendo a riconoscere alla prima occhiata la loro nazionalità per ricondurli al gruppo etnico da cui provenivano, che poi alla fine era come riuscire a capire con uno sguardo a quale banda appartenessero e nelle mani di chi finivano i soldi del loro spaccio, ho pensato a mio padre, e seduta sull'argine in cemento sporco del canale ho pianto, quasi aspettandomi di vedere il suo cadavere riemergere sfigurato dalle acque, chiedendomi se sarebbe stato orgoglioso di me, adesso, se mi avrebbe detto che ero stata una brava bambina o mi avrebbe rimproverata per avere abbandonato mamma senza neanche un ripensamento.
Nel giro di qualche settimana, dover tornare indietro anche solo per i pasti aveva cominciato a diventare un obbligo insopportabile. Non ne avevo voglia, avrei fatto di tutto per smettere di doverlo fare, per potere uscire la mattina presto e ritirarmi solo a tarda sera, risolvendo il problema alla radice.
Dovevo trovarmi un lavoro. Qualcosa che mi permettesse di pagarmi i pasti da me, qualcosa che mi tenesse sulla strada più a lungo.
Sapevo anche cosa.
Mi tagliai i capelli. Da sola, davanti allo specchio. Combinai un disastro, ma tanto non era importante, non lo stavo facendo per nessuno, nemmeno per me stessa. Coi capelli corti e i lineamenti duri che avevo preso da mia madre, non era difficile passare per un ragazzo. Non era un'affermazione di mascolinità, o una negazione di femminilità, o un gesto in contrasto con quello che mia madre era sempre stata e avrebbe sempre voluto per me, il motivo per cui si prendeva personalmente cura dei miei capelli, spazzolandoli a lungo ogni sera ed intrecciandoli perché non si rovinassero durante la notte, era pura convenienza. Da femmina, nessuno mi avrebbe mai presa a lavorare per sé. I quattordicenni maschi che saltavano la scuola per spacciare per le strade invece erano decine, centinaia, e sarebbe stato facile mischiarmi fra di loro.
Andare dai libanesi non era un'opzione, era l'unica scelta possibile. Papà mi aveva insegnato un po' di arabo, quand'ero bambina. Era un po' arrugginito, ma l'avevo rispolverato passando le giornate in mezzo a gente che praticamente parlava solo quella lingua più per una presa di posizione che per reale necessità. Ero indecisa se avrei dovuto dire di chi ero figlia o meno, avevo paura che qualcuno, in qualche modo, avrebbe potuto avvertire mia madre, per cui, in definitiva, non dissi niente. Dissi di chiamarmi Nizar, che avevo quattordici anni ed avevo bisogno di soldi. Speravo che qualcuno mi avrebbe preso sotto la sua ala protettiva, che la mia avventura nel ghetto avrebbe magicamente potuto trasformarsi in una di quelle favole di rivincita e affermazione personale che spesso sentivo raccontare come leggende sia da papà che dagli altri della crew, ma non successe niente del genere. La gente della banda non voleva saperne niente, di me, ero loro utile solo finché potevo tenere uno zaino in spalla e muovermi discretamente da una parte all'altra della città per fare le consegne, che poi finissi ammazzata o in riformatorio per loro era del tutto irrilevante, com'era del tutto irrilevante dove andassi a dormire, o se avessi soldi abbastanza per comprarmi da mangiare quando avevo fame.
Se fosse sempre stato così e dunque tutte le storie che da bambina avevo sentito fossero solo bugie, o che semplicemente fosse cambiato qualcosa negli ultimi anni, quando il quartiere aveva cominciato a sovrappopolarsi e le etnie a mischiarsi sciogliendo legami che fino a quel momento erano stati tenuti insieme dal sangue e dall'unità familiare, io questo non lo so. Man mano che andavo abituandomi a quella nuova vita, mi accorsi anche che non m'interessava. Non ho bisogno di una famiglia, mi dicevo. I soldi, che qualcuno si preoccupasse per me o no, ce li avevo. Non soffrivo la fame. Se avevo bisogno di qualcosa, potevo quasi sempre permettermelo. E di quello che facevo durante il giorno non dovevo rendere conto a nessuno.
Era una vita difficoltosa, ma era una vita libera, e finché continuavo ad essere indecisa su cosa fare di me stessa, su come trovare un modo per rimettere in pari i piatti della bilancia, mi stava bene.
Aspettavo. Qualcosa succederà, mi dicevo, e se non dovesse succedere, vuol dire che non era cosa fin dal principio. Quando mi fermavo a pensare al passato, a mia madre e alle cose che mi ero lasciata alle spalle, pensavo che in fin dei conti preferivo un’eternità sulle strade rispetto a un’eternità in campagna. Non mi lasciavo sfiorare dalle opportunità che scegliere questa via mi aveva precluso. Finire la scuola, frequentare l’università, trovare un lavoro, incontrare qualcuno, formare una famiglia. Avevo tredici anni, quasi quattordici, e non pensavo a niente di tutto questo. L’unica cosa importante era arrivare intera a fine giornata. Imparare a rispondere quando mi chiamavano Nizar. Trovare qualcosa da fare quando i libanesi mi davano tregua, fosse anche bighellonare per ore lungo il canale o per i viali di Alter Park.
E poi, un giorno, mentre aspettavo di essere pagata, è successo.
Akeem, il tizio per cui spacciavamo, io ed altri cinque ragazzini del quartiere, aveva una panineria in Wölfertstraße, sul retro della quale ci riunivamo ogni lunedì mattina per fare un po’ di conti e ricevere la paga. Era un posto schifoso al quale non mi sarei avvicinata neanche con la pistola puntata alla tempia, non fosse stato per il fatto che lui pagava bene e non faceva troppe domande. Lo frequentavano pochissimi clienti, tutti libanesi, tutti di quelle parti, tutta gente in qualche modo imparentata fra loro e con Akeem stesso. Sospettavo che il posto fosse solo una copertura perché si cucinava pochissimo, e la roba che si cucinava non sembrava volerla mangiare mai nessuno (e a ragione). C’era sempre un gran viavai di gente, però, e un sacco di casino perché tutti chiacchieravano ad alta voce fra loro in arabo, e Akeem non spegneva mai la radio.
Io e gli altri cinque stavamo aspettando a pochi passi dalla porta di servizio, ed anche da lì si poteva sentire quella moltitudine di voci che si intrecciavano, sul sottofondo costante della musica rap.
È stato lì che l’ho sentita. La diss di Nyze.
Nyze era stato uno dei più cari amici di papà. Fra la gente dell’Ersguterjunge, era quello con cui andava più d’accordo. La vedevano allo stesso modo su un sacco di argomenti, e visto che Nyze non era sposato e non aveva figli molto spesso papà lo invitava a fermarsi a cena da noi, per stare un po’ in compagnia e discutere cose che magari non si sentiva ancora pronto a discutere con Bushido, o cose simili.
Il rap di Nyze non mi aveva mai fatto impazzire, per cui non furono i suoi meriti musicali ad attirarmi. (D’altronde, nel rap non lo sono quasi mai.) Fu quello che diceva. Era una vita che non si sentiva una diss seria alla radio, e non era difficile immaginare perché quella avesse generato una simile eco: attaccava Bushido, picchiandolo su tutti i nervi più scoperti (Bill Kaulitz, la finta morte, la resurrezione, tutta la merda con Fler e Chakuza), accusandolo di aver trasformato l’etichetta indipendente più importante del panorama hip hop tedesco in un circo di freak. (Come dargli torto.)
Per di più, lo faceva sotto l’etichetta dell’Aggro Berlin. Era passato con loro. (Una cosa per cui mio padre non l’avrebbe mai perdonato. Ma tant’è. Lui è morto. Nyze no. Bushido nemmeno. Ognuno fa quello che deve.)
Sono scappata senza neanche aspettare che Akeem uscisse a portarci i soldi. “Che cazzo fai?” mi gridavano gli altri ragazzini, “Dove te ne vai?”
Non li sentivo più. Avevo aspettato per mesi, rifiutandomi di credere anche solo per un momento che stessi aspettando a vuoto. E finalmente. L’occasione per riequilibrare i piatti della bilancia era arrivata.
*
Nyze mi guarda divertito, le mani giunte, i gomiti appoggiati sul tavolo. A un certo punto, mentre parlavo, si è acceso una sigaretta, che ora penzola mollemente dalle sue dita. Negli ultimi minuti non l’ha toccata, e credo si sia spenta, ma puzza ancora come lo schifo, puzza anzi peggio di prima. Mi dà un fastidio che se avessi solo un po’ di palle in più la afferrerei, gliela strapperei di mano e la pesterei sotto le scarpe. Non lo faccio, però, e lui continua a guardarmi.
- È tutto molto interessante, tesoro, - mi dice alla fine, schiacciandola nel portacenere ancora a metà com’è, come non gliene fregasse niente, - Ma da me cosa vuoi?
- Non lo so, di preciso. – rispondo, aggrottando le sopracciglia, - Usami. Posso servirti a qualcosa. Voglio affondarlo, quello stronzo.
- Questo non riporterà in vita tuo padre. – mi dice lui con ovvietà fastidiosa.
- Lo so da me, questo.
- E allora perché? – lui incrocia le braccia sul petto, le labbra ancora piegate in quel sorriso che mi fa sentire allo stesso tempo spogliata nuda e presa in giro.
- Perché se lo merita! – dico io, alzando la voce, - Perché non è giusto, quello che è successo a mio padre. Se non posso ammazzarlo, voglio almeno vederlo nel fango. Ma una diss non basta, è troppo poco, non serve a niente, io voglio vederlo ricoperto di diss, voglio— posso farle da me! – insisto, avvicinandomi alla scrivania ed appoggiandomici sopra, - Posso raccontare tutta la storia in una canzone! In dieci canzoni! Ti ci faccio un album, ti dico tutto quello che so, quello che mi ha detto mia madre, Bushido finirà in galera, e se non lui la sua principessa sul pisello, ed anche quelle due merde dei suoi tirapiedi, e se anche non sarà così in ogni caso nessuno potrà più guardarli nello stesso modo, lui sarà un uomo finito, e tu e l’Aggro avrete vinto.
Nyze sorride ancora. Butta lì una mezza risata che si conclude in un grugnito, e si accende un’altra sigaretta.
- Tesoro, - mi dice. Continua a chiamarmi così. È insopportabile. Non sono il tesoro di nessuno, io. Tantomeno il suo. – A me della vittoria dell’Aggro non frega un cazzo. – mi guarda serio, adesso, fumando lentamente, - A me questa label di merda ha fatto sempre schifo, fin dall’inizio. È per questo che avevo scelto l’Ersguterjunge. Tu credi che io voglia distruggere Bushido perché è un frocio di merda? – scoppia a ridere, - Dei buchi che frequenta il suo uccello mi frega tanto quanto quelli che frequenta il mio, cioè molto poco. Se gli piace il cazzo, sono fatti suoi. Credi che la roba che metto nelle diss stia lì per una questione di principio? Credi che lo fosse, per tuo padre? Tesoro, - ghigna, - L’unica questione di principio, qui, è sempre stata l’etichetta. La crew. Il gruppo che dovevamo essere. E che Bushido ha distrutto. Ed è per questo, - dice, puntando un indice contro la scrivania e picchiettandolo un paio di volte, - Che io distruggerò lui. Bushido è uscito dal ghetto, - aggiunge, scrollando le spalle, - Vive nella sua bella villa, frequenta un idolo pop, hai visto che gente ha in etichetta?, quello che fa non è più nemmeno hip hop. È lontano anni luce da Tempelhof. Cercare di ammazzare Fler in quel vicolo tre anni fa è stato l’ultimo atto da uomo del ghetto della sua vita. Avrebbe dovuto morirci, in quel vicolo. Come sarebbe stato giusto. Tuo padre lo sapeva, e lui, che era rimasto un uomo del ghetto per davvero, ha deciso di non fermarsi davanti a niente per fare ciò che era giusto fare. Come adesso sto facendo io.
Abbasso lo sguardo. Non voglio sentire. Pensavo sarebbe stato più facile, ma non lo è. Avrei voluto che lui avesse qualcosa da ordinarmi, qualcosa da farmi fare. Per mettermi al lavoro, subito. Cercare di smetterla di sentirmi come se fossi ancora in attesa di qualcosa che non arriva.
Ora invece attendo le sue parole, e ne ho paura, perché quest’uomo continua a raccontarmi cose che io non voglio sapere, e sarebbe stato più semplice continuare a credere che quella di mio padre fosse solo omofobia, che fosse senso del ridicolo, vergogna per quello in cui Bushido stava trasformando l’etichetta.
Ma è qualcosa di diverso. Qualcosa di più profondo. Qualcosa che non posso davvero arrivare a comprendere, una legge non scritta che somiglia più a un istinto primordiale che io non ho, perché il ghetto ho imparato ad amarlo dopo essere scappata ed essermici persa dentro, ma non ci sono nata, non sono figlia di quelle strade, di quei palazzi fatiscenti, del canale, delle strade piene di spazzatura agli angoli, dei muri anneriti e ricoperti di tag.
Mio padre aveva dentro qualcosa che io non ho e non avrò mai. Ed io, che credevo di averlo capito, non facevo altro che guardarlo dall’altro lato di un burrone che non potevo in alcun modo attraversare, da una distanza che non potevo in alcun modo colmare.
Non so più cosa sto facendo in questo posto. Mio padre ha ucciso Bushido in nome di una legge che non riconosco, non è la mia. E secondo quella stessa legge incomprensibile è morto. Poi Bushido è risorto, ma non è più la mia legge che può stabilirne la fine. È quella di qualcun altro, ma io non so se voglio più esserne uno strumento.
- Tesoro, - ride Nyze, - Non fare quella faccia. Cristo, ti ho detto qualcosa che ti ha fatto male? Mi dispiace. – si vede, dalla sua faccia, che invece non gliene frega niente. – E poi non è male, il tuo piano, - continua pensieroso, quel sorriso ancora stampato sulle labbra, - Esporre la verità, e dalla bocca della figlia del morto… sarebbe una cosa enorme. L’unico problema è Fler. Finché quello che facciamo lo implica in qualche modo, Sido non acconsentirà mai. Lo protegge come una fottuta chioccia, neanche fosse un moccioso del cazzo.
- Potremmo provare a lasciarlo fuori. – mi azzardo a suggerire, sollevandogli addosso lo sguardo.
Lui ride ancora.
- Neanche per sogno. – dice, - Se decidiamo di fare questa cosa, la facciamo per bene. Voglio vederli affondare tutti. Se cade Bushido, devono cadere anche tutti gli altri. Primo fra tutti il suo principe reggente. No, Fler deve restarci dentro. È un altro l’ostacolo che dobbiamo eliminare. Non so ancora come, però.
Io deglutisco, avvicinandomi un po’.
Questa non è la mia legge, ma non ho più niente. Niente. Nient’altro. E ho aspettato così tanto.
- Qualsiasi ostacolo sia, - dico, - Posso aiutarti a toglierlo di mezzo. Sono disposta a tutto.
Nyze si volta a guardarmi per un istante. Piega le labbra in un altro ghigno divertito, scostandosi dalla scrivania sulla poltrona girevole.
- Non so cosa farmene di te, tesoro, - dice, - Non ancora, almeno. Ma se vuoi diventare parte di questa cosa, devo sapere che posso fidarmi di te.
- Puoi! – rispondo, - Sono venuta qui! A raccontarti tutto!
- Certo, certo. – annuisce lui, - E io lo apprezzo. Ma quando dici di essere disposta a tutto, be’, non so se crederti.
- Mettimi alla prova. – dico. E nel momento in cui lo dico capisco, prima ancora di vedere il suo sorriso allargarsi, che è esattamente quello che voleva dicessi. Mi ha spinto all’angolo senza che me ne accorgessi, perché sono una ragazzina, perché sono scema anche se non mi piace crederlo, perché siamo troppo diversi e lui viaggia a velocità sostenuta cento passi avanti a me, perché è nato su strade che gli hanno lasciato addosso un’impronta che sulla mia pelle non c’è, anche se parlo arabo, anche se spaccio, anche se mi piace pensare di essere sbocciata a Tempelhof come un fiore di cemento. Non era cemento, era un prato. Sono volata in città e ora il cemento mi spezza alle radici.
Forse mia madre aveva ragione. Era Buckow il posto più adatto a me.
- D’accordo. – dice Nyze. Lo vedo sbottonarsi i jeans e abbassare la cerniera. Non dice niente, non ce n’è bisogno.
Forse mia madre aveva ragione, penso, ma non riesco a rassegnarmi. Mi piego sulle ginocchia, chiudo gli occhi e ingoio fingendo che non m’importi, provandogli che sono già sporca come lui pensa che io sia, anche se non è vero, anche se è lui che mi sta sporcando per primo.
Alla fine, Nyze è soddisfatto. Io penso solo che non vedo l’ora di tornare al canale, sedermi sulle sue sponde, guardare nelle sue acque scure, immaginare di vedere papà.
Sono stata una brava bambina, papà? Sono stata brava abbastanza?

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Blessings are not just for the ones who kneel

di tabata
Quando ero più giovane, ero fermamente convinto che non esistesse una sola definizione di normalità. La società – intesa come quell'insieme di persone benestanti che dall'alto della loro bella vita si permettevano di guardare noialtri del ghetto con superiorità – poteva ripetere all'infinito che normale, per un ragazzino di diciassette anni, era avere un padre e una madre, vivere in una casa con la luce e l'acqua corrente, andare a scuola, avere degli amici della sua età e un lavoretto part-time per imparare che il denaro lo si guadagna con fatica, ma per me che abitavo in un quartiere che era morto da tempo e resuscitava soltanto di notte, portandosi dietro la merda peggiore direttamente dall'inferno, la normalità non poteva essere quella. La mia normalità era avere soltanto una madre che si ammazzava di lavoro, quando riusciva a trovarlo, e piangeva per giorni quando invece non c'era. La mia normalità era passare più tempo per strada che in qualunque altro posto, e in certi anni non sapere neanche dove fosse la mia classe a scuola perché da quando era iniziato l'anno non ci ero mai entrato. Il mio lavoro part-time era fare il corriere per Arafat e non avevo alcuna necessità di imparare che i soldi bisogna sudarseli perché, magari non lavoravo in miniera, ma sapere che se mi fregavano la roba, non mi pagavano abbastanza o facevo casino con i conti quello poteva anche ammazzarmi, era sufficiente a rendere l'idea che dovevo metterci dell'impegno.
Ma d'altronde quella che era la mia normalità, era anche l'unica normalità che la società di cui sopra accettava per me, perché quelle belle madri bionde con il marito bancario che discutevano tutto il giorno con altre amiche bionde col marito imprenditore o politico di quanto orribile fosse la condizione di certi ragazzini, poi non volevano che i suddetti ragazzini passassero del tempo con le loro figlie bionde. C'era una normalità generica a cui bisognava aspirare e una normalità reale – quella del ghetto – che era normale per quelli come noi, non so se rendo l'idea.
Poi è arrivato il rap – o meglio, come sempre, mi sono dato la possibilità di farlo, non è che sia scesa dal cielo per volontà divina – e la mia normalità è cambiata di nuovo. Arafat è rimasto, ma mia madre ha smesso di piangere. Improvvisamente era normale per me, che fino al giorno prima per tutti quanti puzzavo d'immigrato senza mai esserlo stato, poter entrare nei salotti bene, entrare negli studi televisivi tra due ali di folla, ricevere premi. Perché se sei mezzo tunisino e spacci, devi essere una brutta persona. Ma se sei mezzo tunisino e vinci dischi di platino, la cosa che spacci tutti fanno finta di dimenticarsela. E' normale che tu venga trattato bene perché produci denaro, oltre che guadagnarlo.
La mia normalità sembrava essersi stabilizzata – anche perché mi sembrava di un tipo accettabile, uno di quelli che potevo anche dire va bene così, non voglio altro nella vita – ed è arrivato Bill. La questione di Bill l'abbiamo già ampiamente affrontata, mi pare. Non è che ora voglio stare qui a raccontarvi di nuovo di come ci siamo conosciuti, amati, e di come sono morto perché, francamente, questa cosa che tutti continuano ciclicamente a ricordarmelo – come se non lo sapessi – mi fa incazzare. Non sono morto davvero, sapete perché ho finto, ho dato una spiegazione più che esauriente e mi aspetto che non solo sia accettata, ma che non se ne faccia più parola. Ad ogni modo, Bill arrivando ha fatto una cosa precisa: ha distrutto non solo la mia normalità, ma quella di tutti gli altri. La normalità per quelli come noi - che in quel caso significava rapper del ghetto – era avere più donne, possibilmente idiote e zoccole, per un quantitativo abbastanza ragionevole di tempo e poi trovarne una con cui mettere la testa a posto e fare dei figli. Io ho scelto Bill – che di certo non era donna e non potevo farci dei figli – e per qualcuno questo non era normale. Come al solito, ho fatto come ho voluto io. E' per questo che adesso, esattamente tre anni dopo, quando normale significa avere a pranzo due uomini che si sono appena sposati a Las Vegas e una decina di altre persone che con loro compongono la mia famiglia allargata, ricevere notizie come quelle che sto ricevendo e organizzare la mia vita come sto per fare, capisco che una definizione per normalità esiste eccome, ed è insindacabile. Normalità e quello che io decido essere normale. Questa tavolata, per dire, lo è.
L'idea della cena è stata di Bill, che ultimamente si è ripreso così bene da far desiderare a tutti quanti che la sua convalescenza fosse durata di più. Durante il periodo in cui è stato male, ci siamo tutti beatamente dimenticati com'era, Bill, quando non aveva un solo problema al mondo e l'unica vita che conosceva era quella super-protetta che David gli aveva assicurato. Non che sia tornato così tanto indietro da costringermi a ricominciare tutto da capo, ma dal momento che David ha scampato la morte, lui e la sua band hanno ora la possibilità di tornare a suonare e Chakuza non ha portato a casa una donna qualunque che lui non avrebbe approvato costringendo me ad ucciderli entrambi, lui e Chakuza intendo, può concentrarsi sulle cose che preferisce, e cioè dare feste e coordinare i tovaglioli con le tende, una cosa che francamente non comprendo ma che sono disposto a sopportare se poi il risultato è qualcosa che approvo. Guardo questa stanza che va riempiendosi di persone che si salutano fra loro e mi dico che era esattamente questo l'obbiettivo che stavo cercando di raggiungere. Li volevo tutti insieme come sono adesso e ci sono riuscito. C'è voluto più del previsto, ma d'altronde non è mai stata una questione di tempo.
La scusa ufficiale per questa cena è festeggiare il matrimonio di Fler e Chakuza.
“Non capisco perché dovremmo farlo,” dice Eko, impedendo a Karima di prendergli il giubbotto e legandoselo stretto in vita per evitare che la mia povera domestica, già vessata dalla costante presenza di Bill nella sua vita per altro, tenti inutilmente di fare il suo lavoro. “Assistere all'intera cerimonia non era una tortura sufficiente?”
Bill ride, del tutto impermeabile all'atteggiamento di Eko verso questa cena in particolare ma anche verso tutto il resto. “Allora possiamo festeggiare il nostro ritorno da Las Vegas," propone. "Ciao Valezka.”
Valezka è un souvenir che abbiamo riportato a casa da Las Vegas. C'è chi riporta riproduzioni della Statua della Libertà dagli Stati Uniti, io un pezzo del mio passato. A pensarci bene, si potrebbe anche dire che una parte importante della mia storia è iniziata proprio con lei. E' per lei che Eko aveva perso la testa più di dieci anni fa. E' per lei che io mi sono schierato con lui aprendo quella crepa fra me e l'Aggro Berlin che poi mi ha portato ad allontanarmi da Fler e, in un certo senso, tutto quello che è successo dopo. E' solo giusto che adesso che quella parte della mia vita si è chiusa (la crepa no, ma non sei nessuno se non hai dei nemici, alla fine), anche lei fosse di nuovo con noi. Era un pezzo mancante che non stavo cercando, ma che come tutti gli altri è tornato a casa.
"Ragazzi, non fatemelo ripetere," la voce di Bill perde la sfumatura gentile che aveva un minuto fa e sovrasta quella di tutti. Ogni tanto ci dimentichiamo quanto può urlare. "Sedetevi."
Un tempo questa casa era una tana. Periodicamente i ragazzi la prendevano d'assalto, ci restavano dei giorni e quando se ne andavano il salotto era una scena di guerra, con cibo, bottiglie vuote e posaceneri pieni dappertutto. Era un incontro tra animali che si comportavano come la natura aveva insegnato loro.
Poi è arrivato Bill che ha costretto tutti quanti ad un salto evolutivo. Alcuni sono rimasti scimmie, ma almeno sanno sistemarsi il tovagliolo sulle ginocchia.
Sono felice e rilassato. Per la prima volta da molti mesi sento che ogni cosa è al suo posto e non devo preoccuparmi di niente – è un bel risultato dopo che abbiamo trovato David sbudellato in un magazzino.
Ma mentre prendiamo posto al tavolo, sento che qualcosa non quadra. E' difficile da spiegare. Non è un dettaglio che vedo o che sento, non è qualcosa di fisico.
Quando stai sulle strade per tanto tempo come ho fatto io, sviluppi un sesto senso che ti serve per sopravvivere. Quelli che non ce l'hanno muoiono, è semplice. Quando la tua vita dipende da quanto sei furbo, non puoi permetterti di reagire alle cose quando succedono. Devi reagire prima che capitino o, quanto meno, essere pronto ad accoglierle. E questo puoi farlo solo se riesci a cogliere quel minimo cambiamento, quella vibrazione che precede un grande evento. Devi saper annusare l'aria, ecco.
E in questo momento l'aria in casa mia ha un odore molto strano.
Li osservo tutti uno per uno, cerco la vibrazione che mi inquieta. Forse non è niente di grave – è vero che stiamo ancora cercando lo stronzo che ha quasi ucciso Jost, ma di certo non mi aspetto di trovarlo fra le persone sedute a questo tavolo – ma le sorprese non mi piacciono, per cui, qualunque cosa sia, voglio capire almeno da che parte ha intenzione di arrivare. Lo capisco quando poso gli occhi su Tom.
Io e Tom abbiamo un rapporto strano, non ci siamo mai stati troppo simpatici per tutta una serie di motivi che già sapete, ma siamo arrivati più o meno a capirci, strano a dirsi, quando io sono tornato da Miami. Di tutte le persone che avevo intorno lui è stato l'unico a capire per quale motivo avevo fatto quello che ho fatto, forse perché, a parti invertite, lui avrebbe fatto lo stesso o qualcosa di molto simile. Questo ci ha dato una possibilità, un terreno comune, diciamo, per poterci ragionevolmente sopportare. Lui ha apprezzato il mio tentativo di proteggere suo fratello – forse ha apprezzato il mio tentativo di scomparire dalla sua vita, in realtà, ma lascio correre – io ho apprezzato la sua comprensione. Basiamo su questo briciolo di rispetto la sopportazione l'uno dell'altro, e non facciamo mai nessun passo che possa portarci in qualunque altra direzione. Questa è la nostra dimensione, e va bene così. Ma ora lo leggo nei suoi occhi che qualcosa è cambiato. Anzi, per essere precisi, che è successo qualcosa, lui ha fatto qualcosa che sbilancia di nuovo gli equilibri.
Lo so perché, come ho detto, queste cose le sento, e anche perché nei suoi occhi quello sguardo io l'ho già visto. Conosco il modo nervoso in cui improvvisamente comincia a muoversi quando ha qualcosa da dire o qualcosa per cui rendere conto. L'ultima volta è stato quando si è presentato a casa mia in compagnia di Cassandra. Lui lo sapeva che non avrei apprezzato. Non che abbia rinunciato, ma si è presentato con una certa dose di inquietudine, sapendo che potevo reagire in qualsiasi modo, ma pronto a difendere le proprie scelte, questo va detto. Io pensavo che Tom fosse solo un cretino, ma in realtà è uno che ha fatto la guerra negli ultimi mesi, e nemmeno per colpa sua, e ne è uscito in piedi senza mai vacillare, non è cosa da poco. Quando ci siamo confrontati seriamente sulla questione Cassandra, io gli ho detto che lo avrei ammazzato se l'avesse fatta soffrire, ma Cassandra adesso è qui e sembra che fra loro vada tutto bene.
Lo osservo per tutta la sera e aspetto. Lui forse si sente il mio sguardo addosso o forse no, non lo so, ma in due ore che dura la cena non mi guarda mai. Parla con tutti, ride, ma i suoi occhi glissano su di me ogni volta che per caso si gira dalla mia parte. Il coraggio lo trova solo quando decidiamo di brindare.
"L' ultimo anno è stato molto impegnativo," dico alzandomi, la bottiglia di champagne sul tavolo di fronte a me, mentre i ragazzi si passano i bicchieri. Non perdo tempo a fare il riassunto di tutta la merda che abbiamo passato perché non ne possiamo più di raccontarcela a vicenda, ma voglio ricordare a tutti quanto siamo forti, questa è una cosa che ci meritiamo di sentire continuamente. "E gli ultimi mesi, in particolare, ci hanno messo alla prova. Hanno quasi ammazzato uno dei nostri," continuo con un cenno a David che annuisce, "e per questo pagheranno, ma possono colpirci solo quel tanto che gli permettiamo, e da questo momento in poi non lo faremo più."
I ragazzi annuiscono, esultano ed alzano i bicchieri e per un momento nella stanza c'è tanto di quel casino che devo alzare una mano e chiamarli perché si calmino e, quando non lo fanno, m'infilo due dita in bocca e fischio così forte che Bill al mio fianco fa una smorfia e si tappa un orecchio. "Non ho ancora finito," dico quando finalmente chiudono la bocca. Qualcuno si schiarisce la gola e guarda in basso. Mi viene da ridere perché sembrano tutti tornati alle elementari. "Abbiamo un'altra cosa importante da festeggiare," continuo invece, e piano piano il mio viso si distende per davvero e non riesco a non ridere perché dieci anni fa, forse, avrei ucciso qualcuno pur di lavare un'onta simile, e invece ora sono qui a brindare e, sinceramente, non me ne frega un cazzo di come la sfangheremo stavolta, non so nemmeno come la sfangheremo stavolta, perché è un gran casino far digerire alla gente che stai con uno come Bill, però ce la puoi fare se hai la testa dura, perché Bill, con la faccia che ha, ti aiuta. Voglio dire, pure se ti fanno schifo i finocchi, pure se la sola idea ti fa vomitare, Bill un po' ti scuote. Lo so che là fuori un sacco di gente ha mandato giù questa faccenda e non gli è rimasta incastrata in gola solo perché se strizzi gli occhi e non guardi bene, Bill ti confonde. E allora è facile pensare Ma non è proprio un maschio, quindi ci sta. Chakuza e Fler no, però. Tu non puoi guardare Fler, né tanto meno Chakuza, cazzo, e pensare di poterli digerire fingendo che non siano due maschi. C'è un limite alla fantasia umana e quel limite sono loro due, immagino. Ma non me ne frega niente. Per quanto Chakuza mi stia sulle palle in questo momento, per quanto non è che mi vada proprio bene che metta le mani su Fler, non me ne frega un cazzo di come usciremo da questo ennesimo bordello, di come manderemo giù per la gola alla gente anche loro. In qualche modo faremo, penso. Se c'è qualcuno che può farlo siamo noi, perciò vaffanculo a tutto. "Ai nostri due sposi," esclamo e rido perché Fler vorrebbe poter scavare un buco nel pavimento e saltarci dentro e sparire. Mi mandano tutti e due a cagare tra gli applausi generali e io penso che potrei vivere per questi momenti qui, momenti di gente che mi bestemmia dietro per delle belle ragioni, momenti in cui faccio quello che voglio - facciamo, noi tutti, quello che vogliamo - e non devo rendere conto a nessuno. Uno dovrebbe vivere solo di momenti come questi, mi dico, è per questo che lavori. Per poter fare il cazzo che vuoi con la gente che vuoi.
E poi Tom si alza in piedi e si schiarisce la gola. Finalmente, penso, le hai cercate tutta la sera le palle, alla fine le hai trovate. "C'è una cosa che devo dirvi," esordisce e poi mi alza addosso un paio di occhi allucinati che, francamente, comincio a pensare di dovermi preoccupare – poi è vero, mi devo preoccupare, ma in quel momento penso a qualcosa di veramente serio, tipo, polizia, droga, malattie mortali, cose del genere – e mantengo il sorriso solo perché non esiste che Tom si alza, si prepara a tirare una bomba e io m'inquieto. Non esiste proprio. "Se posso, Bushido," aggiunge anche, il che fa zittire anche tutti gli altri. All'improvviso sono tutti quanti consapevoli che sta per succedere qualcosa. Ci sono arrivati tardi, ma ci sono arrivati.
"Prego," concedo io, e mi siedo. Anzi no, prendo proprio possesso della sedia. Mi ci rilasso, se ne avessi una di quelle con i braccioli, mi ci appoggerei come un capocosca nei film sulla mafia. Allargo le gambe, appoggio la schiena, le braccia rilassate sulle ginocchia come fosse tutto tranquillo, perché lo so che lui non lo è.
Tom si schiarisce la voce e fa una lunga pausa, credo per cercare il modo di dire – di dire a me nello specifico – quello che deve dirmi, e ora lo so che poteva cercare anche tutta la sera e non avrebbe mai trovato le parole giuste perché non ci sono.
"Abbiamo detto che è bello essere di nuovo tutti qui," inizia un po' incerto, "e siamo tanti, dico bene?"
Cerca in giro un qualche consenso, qualcuno annuisce ma nessuno capisce dove voglia andare a parare, nemmeno io francamente.
"Ecco," annuisce, come se qualcuno gli avesse detto esattamente quello che voleva sentire. Poi alla fine non ce la fa più, sospira e alza lo sguardo su di me ancora una volta. "Presto saremo uno in più perché..."
Tutto il mio corpo si tende, una parte di me ha già capito prima che io me ne renda conto. Alla mia destra sento un movimento e so che è David, lo so perché subito dopo essersi mosso sulla sedia esala una specie di sospiro strozzato. "...perché Cassandra aspetta un bambino," conclude Tom con la voce di qualcuno che è pronto a morire ormai, perché davvero anche la morte sarebbe preferible al continuare a stare in piedi e parlare. E infatti si siede mentre la tavolata cade nel silenzio più assoluto e tutti si girano nello stesso momento verso di me.
Ci sono notizie che interiorizzo istantaneamente, sono quelle per le quali so che devo avere una reazione immediata. Quando ho visto David riverso al suolo, non mi sono fermato a pensare che poteva morire e lo avrei perso e poi avrei dovuto dire a Bill che era morto e lo aveva perso anche lui. Non avevo il tempo di abituarmi all'idea. In questo momento invece le parole di Tom mi arrivano chiare, e sono semplici, veramente semplici, ma non mi passa nemmeno per l'anticamera del cervello di accettarle così come sono. Non so nemmeno se quello che mi dà fastidio è che Cassandra è incinta o che è incinta di Tom. Credo che siano due nozioni diverse, nessuna delle quali sono pronto ad assimilare.
"Io ti ammazzo." E' la prima cosa che dico perché è la prima cosa, fra tutte quelle che valuto, che veramente mi sembra adeguata alla situazione. E' la verità, e la verità va quasi sempre bene, specialmente se è per chiarire la situazione a tutti quanti.
"Cassandra vuole tenerlo," dice Tom e poi, subito, aggiunge. "E anch'io."
La tavolata, sempre zitta, è scossa da un brivido collettivo. Poi qualcuno si alza, è Eko. Si è già messo a portare via i piatti. Tom si schiarisce di nuovo la gola sotto il mio sguardo che non si è spostato di un centimetro, sto veramente cercando di fargli un buco in testa solo guardandolo. "Ecco, sì, insomma," balbetta, "pensavamo che dovessi saperlo."
Alla mia sinistra sento lo sguardo di Cassandra e so perfettamente che non sta sorridendo, mi sta minacciando, lo so, per questo non mi giro. E anche per questo lei parla. "Bushido, nessuno ti sta chiedendo il permesso," mi dice con severità, ma assolutamente tranquilla. "Vorrei che questo fosse chiaro."
Ogni tanto, è vero, ho bisogno di ricordarmi che lei fa sempre come cazzo le pare. Vorrei dirle che, anche se le fosse passato per l'anticamera del cervello di chiedermelo, il permesso, ormai è tardi, che il danno l'hanno fatto e che, se proprio dovessi porre rimedio, a questo bambino toglierei il padre, non certo la possibilità di vivere. D'altronde a questo tavolo abbiamo una lunga tradizione di uomini senza padre, uno in più o uno in meno non farebbe granché differenza. Anzi, se c'è qualcosa che qui sappiamo fare è proprio crescere senza un padre. E' decisamente una delle specialità della casa.
"Capisco," dico alla fine. E poi è come se la stanza esplodesse, dico davvero. Io nella mia assoluta immobilità mentre intorno a me tutti quanti si alzano o allungano un braccio a battere sulla spalla di Tom o quella di Cassandra. Bill si getta tra le braccia del fratello e gli si attacca al collo urlando qualcosa riguardo al fatto che saremo presto zii, io e lui, che è una cosa sulla quale sarà meglio che discuta con lui più tardi. David in tutto questo sta piangendo. Piange e ride e singhiozza ancora più forte perché per qualche motivo le risate lo fanno piangere ancora di più. Non era così contento nemmeno quando gli abbiamo detto che non moriva.
Immagino che sia un po' come sentirsi dire che sta pre diventare nonno, d'altronde è un po' il padre dei gemelli, e infatti finisce che quei due lo abbracciano, e quello allora si mette a piangere ancora più forte.
Se qualcuno aveva da ridire sulle nostre scelte di vita, forse dovrebbe preoccuparsi del livello di emotività a cui siamo arrivati. "D'accordo, va bene, ora basta," commento, battendo le mani per attirare l'attenzione di tutti quanti. "Fatela finita. Ci sono talmente tanti ormoni liberi in questa stanza che comincio a sentirmi a disagio. Tom, siediti."
Tom si siede all'istante, con suo fratello avvolto addosso come una sciarpa. "Sì," dice. "Ascolta, Bushido, davvero, lo so che ti gira male, ma non è che..."
"Zitto."
"Sì."
"Bushido..." inizia Cassandra minacciosa.
Io sollevo una mano e sospiro. "Cassandra, lasciami parlare," dico. Aspetto di vederla annuire e poi continuo. "Sono dell'idea che dare al mondo un altro Kaulitz non sia una grande trovata, ma..."
"Anis!" Sbraita Bill indignato.
"Ma," insisto, con un sorriso che lo seda istantaneamente, "se c'è qualcuno che può migliorare i tuoi geni, Tom, quella è Cassandra, perciò ti auguro che prenda tutto quanto da lei."
Sento i nervi di tutti rilassarsi, c'è un unico grande sospiro di sollievo e penso e spero e lascio che calmi anche me perché l'unico modo che ho di accettare questa cosa è farla mia, come il resto. E mentre penso a questo, penso anche che una soluzione ce l'ho.
"Ha ragione," scherza David, tirando su col naso con un sorriso che gli va da un orecchio all'altro. "Comunque, questa bella notizia mi fa venire in mente che stavo giusto cercando una scusa per dare una festa. Ho bisogno di distrarmi dopo la perdita di J.J., pertanto siete tutti obbligati a venire da me. Non accetto un no come risposta."
"Ma è morto?" Chiede Chakuza.
"Chi?" Chiede Eko, che è tornato dalla cucina non appena ha sentito ridere.
"J.J." risponde Chakuza.
"E chi cazzo è J.J., ora?" Esclama Eko, sconvolto. Cose accadono intorno a lui e lui non ne sa niente. Non è già abbastanza che tornino i morti?
"L'uomo della mia vita," sospira David, annuendo sconsolato. "Ci amavamo molto, ma il mondo aveva bisogno di lui."
Eko non sembra granché impressionato dall'eroicità di J.J., lo perplime più che altro la festa. "E cosa dovremmo festeggiare? Che se n'è andato?"
"No, ovviamente! La festa serve per consolarmi," sbotta David, sospirando. "Eko, vieni e basta."
"Una festa mi sembra un'ottima idea," commento. Nella mia testa c'è un piano chiarissimo per il futuro e sono così compiaciuto della cosa che provo un piacere quasi fisico nel comunicarlo. "Celebreremo il nuovo arrivo, consoleremo David e ne approfitteremo per dire addio a tutto quello che ci siamo lasciati alle spalle. A tal proposito, ho anche io un annuncio da fare."
"E sarebbe?" Chiede Fler.
"Visti i recenti sviluppi e visto che vogliamo rimettere in piedi l'etichetta e comunicare un'idea di unità, visto che vogliamo che la gente là fuori sappia che siamo un gruppo compatto," dico e mi fermo, voglio vedere se qualcuno protesta, ma nessuno lo fa, "ho deciso di far costruire una serie di ville intorno a questa, per voi, per le famiglie che siete ora e per quelle che state per diventare. Non saremo più sparsi per il quartiere, saremo noi il quartiere."
Il silenzio cala di nuovo, ma stavolta io almeno sorrido.

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L'anatomia federale del Chaku

di tabata
Fra tutti i difetti che si possono trovare al sottoscritto, fra i quali vale la pena di menzionare che sono un delinquente, che ho spacciato, che ho gettato il cadavere di un uomo nel canale di Tempelhof e, naturalmente che non metto mai i calzini sporchi nel cestone, non si può dire che io non sia un uomo paziente. Ho sopportato cose per le quali un qualsiasi altro essere umano normale avrebbe dato di matto, e l’ho fatto per così tanto tempo che dovrebbero darmi un riconoscimento al valore. Oppure studiarmi, non lo so. Di sicuro non ho precedenti e sono quasi certo di essere un caso patologico. Potrei riscrivere interi manuali di psicologia.
Nel corso degli ultimi tre anni, l’uomo che vi sta parlando è stato in grado di passare sopra ad ogni genere di sopruso, e quando dico ogni genere, intendo proprio qualsiasi cosa. Chakuza ha collezionato un numero incalcolabile di cazzate perpetrate ai danni della mia persona e io ho sempre lasciato correre, perché quell’uomo mi fa cose che non so nemmeno spiegare e in virtù di queste cose inspiegabili io gli perdono veramente tutto.
Chakuza mi ha preso e lasciato almeno quattro volte, come e quando voleva lui e senza per altro mostrare nessun tipo di rimorso, e fra una volta e l’altra – se non lo avessi fermato – mi avrebbe anche usato come diversivo; perché Peter è così, caratterizzato da un’anatomia federale – tutte le zone del suo corpo ragionano autonomamente – per cui se decide di pensare con lo stomaco, mangia fino a schiantare. Se ragiona con l’uccello, vi lascio immaginare. Che ragioni con la testa è raro, per cui lasciamo perdere. Ad ogni modo, dicevo, quello ragiona per compartimenti stagni e di quello che fanno le sue singole parti, il suo cervello generalmente non sa mai niente per cui lui può anche essere un uomo buono – cosa che in effetti è, per l’amor di Dio – ma magari le sue mani, o le sue gambe, o altro – che è peggio – buoni non lo sono affatto. E allora fa cose. Questo per dire che anche quando non stava con me, mi sarebbe saltato addosso non so quante volte perché in quel momento aveva la libido distratta, non focalizzata sull’oggetto dei desideri giusto, e quindi gli bastava sentire l’odore che impazziva come un cavallo. E io lì a fermarlo, perché poi io oltre che paziente sono anche buono – buono tutto, per altro, perché la mia è un’anatomia repubblicana – e al ragazzino volevo bene per cui non mi sembrava proprio giusto fargli una carognata simile, dal momento che lui si fidava di entrambi.
E sono anche rimasto ampiamente sul trascurabile, rendiamoci conto; perché alla fine questo è niente se si pensa che fra me e lui è cominciata con un tappeto sporco di sangue – il mio – di cui, fra le altre cose, ho dovuto anche sbarazzarmi di recente, perché era ancora lì, nello sgabuzzino, recante il marchio dell’infamia; che io dico, almeno fallo lavare, se proprio devi tenerlo.
E’ che lui deve ricordare, ecco cosa. Solo, che si facesse una cura di fosforo, perché io queste reliquie non ce le voglio in casa mia.
Ma Chakuza non si è fermato lì, no, perché il mio uomo è uno che ti sorprende. Così non solo si è lasciato ampiamente guidare dagli istinti primordiali della specie, facendo a meno della decenza, della morale e del buon senso, ma quando pensavo che si fosse toccato il fondo, quando proprio pensavo che peggio di così non si potesse andare, ecco che lui peggiora. Chakuza può cose che voi nemmeno vi immaginate.
C’è da dire che da quando le cose sono tornate alla normalità, vale a dire da quando la coppia reale si è di nuovo riunita per spargere amore sul popolo tutto, e noialtri abbiamo smesso di scopare e basta e siamo tornati a cantare e scopare – che sono due attività da tenere assolutamente separate ma da portare avanti in contemporanea – Chakuza ha trovato un suo equilibrio interiore. Leggendo una frase simile, uno sarebbe portato a credere che tutti i miei problemi abbiano infine trovato una soluzione, che ora io e lui si viva felici in questo trilocale fatiscente ma pieno di teneri ricordi, copulando e cantando, benedetti nell’armonia celeste. No.
No, assolutamente. Punto primo, questo trilocale non ha teneri ricordi, ma tutt’al più scarafaggi grossi come noci che vengono giù dai rubinetti. Ed è fatiscente al punto che ogni giorno qualcosa si sfascia in maniera irreparabile, e allora ecco che la caldaia va presa a colpi di chiave inglese per farla partire, ecco che sul soffitto del bagno c’è una crepa enorme e quando fa brutto tempo piove in casa. Ecco che il vecchio fornello a gas non si accende se prima non ci batti contro forte col fianco, che sembra sempre che balliamo sudamericano anche per farci un caffè.
Punto secondo, noi non copuliamo. Copulare sarebbe senz’altro la definizione di due esseri umani normali che, provando del desiderio l’uno verso l’altro, consumano fino ad estinzione dello stesso. Io e Chakuza no. No, perché se dovessimo farlo finché a Chakuza passa la voglia, io non farei nient’altro nella vita, anzi forse non avrei una vita. Sarei morto due anni fa. Questo perché Chakuza non ha un limite, un tetto massimo da raggiungere, un punto d’arrivo in cui finalmente si dichiara soddisfatto. La sua soddisfazione dura il tempo che ci mette a riprendere fiato, poi se non lo fermi ricomincia. O anche se non lo fa subito, lo farà dopo un numero di ore eccessivamente basso per qualunque altro essere umano sulla faccia della terra. Io lo temo, a volte.
Quindi no, noi non copuliamo nel nostro nido d’amore, noi facciamo sesso ovunque, su ogni superficie disponibile dove io possa essere steso e anche no, finché non ho più fiato neanche per respirare e a quel punto fuggo. E lui mi insegue. Io quando canto lo faccio per non scopare, capite cosa intendo? Perché quando canto, posso dire di lavorare, quindi Chakuza si fa delle remore e non si avvicina almeno per le prime due ore. E io ho due ore di respiro. Sono un uomo che lavora per non scopare. Rendetevi conto.
L’armonia celeste che tiene in equilibrio i bioritmi di Chakuza non è quindi la pace dei sensi, mi sembra chiaro. E’ un’altra cosa, e di questa cosa – nonostante la sequela di torti che ho subito potesse già sembrare sufficiente – io ne ho piene le palle.
Chakuza non si è mai posto il problema di essere un maschio a cui piacevano i maschi, e di questo siamo tutti contenti. Io per primo, perché è sicuramente più facile tentare di stabilire una relazione con qualcuno che non si pone la questione. Il punto è che per Chakuza il fatto che io sia un uomo non è un problema fintanto che rientro nei suoi schemi, che in altre parole significa che lui non ha alcun problema finché sto sotto io; ma questo alla fine non è molto importante se riesci a godertela anche in altro modo, e io riesco, quindi a posto. Voglio dire, ogni tanto ci provo a ribaltare la situazione perché sono curioso di sapere come sarebbe, ma Chakuza è irremovibile quindi, niente. Ora, fino a qualche mese fa, e cioè fino a quando io – per motivi che al momento esulano dalla mia comprensione ma che sono sicuramente legati alla birra – mi sono trasferito in casa sua, noi eravamo assolutamente perfetti e Chakuza viveva questa relazione con una naturalezza sconcertante, nel senso che era un uomo che scopava con un altro uomo e se ne fregava di quello che diceva la gente – parenti a parte naturalmente, ma suo padre ha settantadue anni e viene da un infarto, diciamo che Chakuza ha le sue ragioni se vuole aspettare il momento propizio per dirglielo.
Evidentemente io, varcando la porta di casa sua – fate attenzione, perché il segreto di tutto è racchiuso qui: io che varco la sua porta – ho innescato un meccanismo mentale di cui ignoravo totalmente l’esistenza. In pratica, dal momento in cui mi sono trasferito, questa casa è diventata la nostra casa, che però inizialmente era la sua, quindi lui è automaticamente il capofamiglia. Ed è anche pazzo, per altro.
In pratica quest’uomo e il suo cervello hanno litigato quando lui era probabilmente ancora in fasce, e crescendo separatamente hanno sviluppato due identità distinte che hanno portato conseguenze disastrose. La più grave delle quali sono evidentemente io.
Chakuza non ha nessun problema con il mio essere maschio, perché lui fa una netta distinzione fra il sesso e tutto quanto il resto. Il sesso guida la sua intera esistenza come un faro, non c’è niente – niente! – che lui ponga al di sopra del sesso, che è sempre giustificato, anche quando lo fa con uomo, cioè non si pone nemmeno il problema. Nella sua testa non ci sono distinzioni di alcun genere. E’ sesso, punto. Per tutto il resto invece sì. Per tutto il resto lui è un convinto eterosessuale.
Secondo questo processo mentale, che avviene a livello assolutamente inconscio e seguendo il quale lui si comporta senza effettivamente rendersene conto, io sarei la sua donna. Che non vuol dire, attenzione!, che lui pensi a me come ad una donna – voglio dire, lo sa che sono un uomo – ma nell’ordine delle cose del suo universo, io occupo il posto della fidanzata. E non importa che io mi faccia la barba, pisci in piedi o possieda un pene. Sono comunque la fidanzata. Il suo cervello ha un meccanismo di autoconservazione tale da semplificare i processi logici, togliendo al ruolo di donna qualsiasi connotazione sessuale. E quando mi rendo conto di questi dettagli, rimango a guardarlo e mi chiedo se ho davanti l’evoluzione della specie umana – una creatura superiore, capace di auto-generare illusioni mentali tali da vivere felice per sempre – o se piuttosto si tratta di un’involuzione, e Chakuza non è altro che l’anello mancante tra l’essere umano e il bonobo.
La cosa ancora più inquietante, per altro, è che per lui non solo sono una donna, ma non sono nemmeno emancipata. Sono una signorina dell’alta società dei primi del novecento, tipo; che io dico, se proprio devo essere la tua fidanzata, immaginami almeno come una femminista coi controcoglioni, non lo so. Cazzo, se fossi donna sarei a bruciare i reggiseni in piazza, io. Mica mi farei aprire la porta o avvitare le lampadine. E invece lo fa, che Dio lo perdoni.
E io, se non sapessi con assoluta certezza che Chakuza non si rende davvero conto, lo ammazzerei, perché la mia dignità ha un limite molto elastico, ma ha un limite. Voglio dire, se scopiamo e io sto sotto, va bene. E’ necessario, qualcuno deve starci e ci sto io. Va bene. E comunque mi piace perché ci guadagno qualcosa, che ve ne rendiate conto o no. Ma se voglio mangiare qualcosa, posso ben aprirmelo da solo il fottuto barattolo dei fottuti sottaceti.
E’ per questo che adesso io sono qui in cucina ad agitare cetriolini e lui è in salotto, e ci urliamo addosso come la coppia di checche isteriche che evidentemente siamo, perché non c’è altra spiegazione. Non c’è voluto niente a passare da una mattinata assolutamente idilliaca in cui lui aveva scopato due volte – ed era felice – e io ero felice perché gli erano bastate due volte, all’inferno in cui siamo in questo momento. Io non ho fatto altro che aprire il frigorifero, appoggiare il mio barattolo sull’isola, girarmi per recuperare anche del prosciutto, e lui mi stava già aprendo il barattolo. No, Chakuza. No. Che cazzo! Che poi uno non si può davvero incazzare così per dei cetriolini, è che questa non è che l’ultima di una lunga serie di assurdità sulle quali sono passato sopra per non passare sopra a lui. Con l’Escalade. E adesso basta, sono esploso.
"Si può sapere che cazzo ti prende?” Fa lui, con l’occhio rotondo, che nemmeno mi fossi messo a ballare nudo sui tavoli.
"Mi prende che mi sono rotto le palle, Peter,” rispondo. “Non sono la tua fottuta ragazza.”
"Questo lo so, mi sembrava piuttosto chiaro fino a due minuti fa.”
E il cazzo, che ti era chiaro Chakuza. “No, non ti era chiaro prima e non ti è chiaro nemmeno adesso. E molla quel barattolo, cazzo!”
Glielo strappo praticamente di mano, il tappo vola per terra e gran parte dell’aceto si rovescia, così impreco io, impreca lui e iniziamo davvero ad urlarci addosso. “Tu non hai ancora capito come funziona,” gli dico, mentre sbatto di nuovo il barattolo sul tavolo. “Tu non hai capito un cazzo.”
"Ho solo aperto un barattolo.”
"E mi apri le porte, avviti le lampadine… non mi lasci fare mai niente,” replico. E l’aceto finisce per terra, goccia dopo goccia. Questo pavimento non può veramente sopportarlo.
"Cerco solo di essere gentile!”
"Fai il gentile con tua sorella, o con tua madre, non con me, chiaro?”
Il suo cervello fatica a seguirmi, e lo so perché il movimento delle sue rotelline appare chiarissimo sul suo viso, sempre. Quando ha quell’espressione indecifrabile è perché sta cercando di capire cosa gli sto dicendo, ma il mio ragionamento non trova nessuna logica nella sua testa. Questo perché il mondo ha un senso solo se gira secondo le sue regole, quando gliene proponi altre va completamente in tilt. “Che cosa ti dà fastidio esattamente?”
"Tu,” strepito. “Tu e il tuo stupido atteggiamento da sano maschio etero!”
"Da sano… “ sbuffa una mezza risata. “Fler cosa cazzo stai dicendo! Stavamo scopando un minuto fa, e stavamo a posto. Ho solo aperto un dannato barattolo!”
"No!” Sbraito. “Tu non hai aperto solo un dannato barattolo. Tu…. Tu fai cose! Cazzo! Mi tratti come una donna!”
“Non è assolutamente vero!”
"Devo farti una lista?” Chiedo, ironico. “Porti da solo le casse dell’acqua dal supermercato, vuoi occuparti tu di qualunque cosa e saresti asfissiante pure se fossi una donna, Cristo santo! Sai dirmi quand’è stata l’ultima volta che non ti sei quasi spezzato il collo pur di corrermi dietro e accompagnarmi con la fottuta macchina da qualche parte?”
Lui prende fiato e si gonfia tutto nemmeno fosse sul punto di esplodere. “Io non ti capisco,” che è poi il suo mantra giornaliero per qualsiasi cosa. Come se fosse lui quello normale e dovesse capire me. “Cerco soltanto di—”
"Non dirlo, okay? Non dirlo,” sibilo, pulendomi le mani col primo asciughino che trovo e poi passandolo pure sull’isola perché qua è un disastro. “Non voglio che tu cerchi di fare niente, tu non devi fare un bel niente.”
"Sei isterico.”
"E tu sei stronzo,” replico. E ringrazio che ci sia il tavolo a dividerci perché altrimenti qualcuno domattina dovrà avvertire Stickle che ha ereditato tutta la casa di produzione. “Uno stronzo e un pezzo di merda. E forse non ti è chiaro che anche se sei tu ad usare l’uccello in questa casa, questo non significa che tu sia il capobranco.”
"Fler—”
"Stai zitto!” Gli urlo in faccia, una cosa che non ho mai fatto. Una cosa che in genere non faccio mai a prescindere, perché è da bestie. “Finché non te lo ficchi in testa, con me hai chiuso. E ora levati dalle palle.” Faccio il giro della cucina e mi faccio spazio a spallate tra lui e la porta. Quindi m’infilo addosso le prime due cose che trovo e poi esco di casa. Lo sento buttare giù roba in cucina, e non me ne frega una sega. Stavolta se la sbriga da solo.

*



Io quando sono incazzato vado da Bushido. Anzi, entrambi quando siamo incazzati andiamo da Bushido – in realtà Chakuza va da Bill, ma questo è irrilevante – e quindi abbiamo creato questo flusso migratorio tra casa nostra e la Villa Gialla, che per altro non è proprio vicinissima, per cui ci facciamo i chilometri avanti e indietro come niente. Quasi mi verrebbe da accettare l’offerta che Bill ci fa da mesi, ormai, di trasferirci tutti nella villetta che Anis sta facendo costruire accanto alla sua; che poi, Bill ce lo sta chiedendo per ordine del re. E mi preoccupa che Anis la stia già costruendo, come se sapesse già da adesso che prima o poi cederemo. E non è così scemo, d’altronde se manda la principessa a fare gli occhi dolci a Peter, è praticamente matematico che quel coglione ci cada con tutte le scarpe. Tra l’altro io lo so perché Bushido ci tiene così tanto ad averci tutti lì intorno – non solo noialtri due, ma anche Tom e Cassandra e, se riesce a convincerlo con ingenti somme di denaro, anche Eko con la sua donna – e sono spaventato all’idea che davvero ci riesca.
Lui vuole la corte. Quand’era un ragazzino ce l’aveva, e quando poi è cresciuto si è costruito l’EGJ a suo piacimento, così che gli saltellavano tutti intorno come caprette innamorate. Poi ci ha tirato dentro Bill, e – per quanto io apprezzi, per ovvie ragioni, che il ragazzino voglia stare con lui e solo con lui – è stato il più grande errore della sua vita sotto questo particolare punto di vista.
Tra la sua morte e l’onda ormonale scatenata dalla Principessa, la sua bella corte di fedeli seguaci è andata a farsi benedire e una volta passato lo scandalo della nostra illuminata sovrana che scappa con l’usciere di corte, ecco che non c’è più una corte ma una sequela infinita di coppie da romanzetto rosa che litigano sui barattoli di cetrioli sottaceto. Ognuno a casa propria, per altro, e la reggia è deserta. Anis deve averla trovata una cosa inaccettabile.
Così ha preso tutto il terreno assolutamente inutile che aveva acquistato insieme alla villa, tanto per far vedere che aveva i soldi, e invece di tirarci sopra una colata di cemento o di dedicarlo al pascolo degli agnelli per farsi il kebab in casa, ha deciso di farci costruire tre case e di trascinarci dentro con la forza i suoi sudditi con famiglia. Quest’uomo però non si rende conto del disastro che sarà quando le case saranno pronte, quando ci vivremo dentro e quando la distanza fra noi non supererà i duecento metri. Lui crede, da sovrano assoluto qual è, che sotto il suo regno vivremo in armonia, secondo le sue regole e seguendo i suoi ordini. Le palle, dico io.
Innanzi tutto, tu non puoi mettere Chakuza e Bill nella condizione di potersi vedere senza prendere l’auto. Già adesso, ogni minuto della loro esistenza che non sia da una parte occupato da me e dall’altra occupato da Bushido, quei due lo passano insieme. L’unica cosa che li ferma dal vedersi di più è che a volte, complice il caldo, la poca voglia di vestirsi e in generale il culo peso, ad uno dei due fa fatica salire in auto e all’altro fa fatica salirci lui al suo posto. Quando avranno i giardini confinanti, passeranno tutto il tempo a struggersi d’amore non consumato appoggiati alla siepe, al cancelletto o a quello che sarà a dividerli.
Punto secondo, tu non puoi mettere Tom nella condizione di affacciarsi alla finestra e vedere me. Quel ragazzino è già abbastanza asfissiante ora che vive a quasi quattro chilometri di ostinato traffico da me, non oso immaginare che cosa sarà la mia vita quando gli basterà attraversare la strada per stabilirsi nel mio salotto e riempirmi di chiacchiere fino a stordirmi.
Punto terzo, per proprietà transitiva, tu non puoi mettere Bill e Tom nella condizione di devastarci tutti con la potenza della loro gemellitudine. Da soli sono due piaghe sociali, insieme sono una pestilenza e Bushido dovrebbe saperne qualcosa dal momento che ha fatto una guerra per separarli, e si è pure tenuto quello peggiore. Che poi, dico io, bisogna volersi male per trascinarsi vicino gli unici due uomini per i quali il suo ragazzino farebbe follie; se crede di esercitare un qualche controllo su di loro semplicemente facendogli ombra con la sua enorme villa, è fuori strada.
Comunque sia, ho il telecomando del suo cancello, perché parcheggiare e poi scendere al di fuori delle mura della reggia è praticamente impossibile. Qua ci sono paparazzi nascosti ovunque e non è pensabile suonare il campanello e farlo scendere, da quando lui come un pirla lo ha fatto davvero e a suonare era stato il presentatore di un qualche programma televisivo. Entro e parcheggio sul retro, stando ben attento a non investire le begonie di Karima. Un secondo dopo quei due grandi cani da guardia di Skyline e Sherlee mi corrono incontro scodinzolando. Anis dice che non attaccano solo perché riconoscono il motore dell’auto, io dico che anche se qualcuno tentasse di entrargli in casa, questi due finirebbero per leccare la faccia al ladro. E’ anche possibile che essendo Bushido amico di metà della delinquenza di questa città, i cani abbiano smesso di abbaiare quando hanno capito che ogni topo di fogna che passa da queste parti è benvenuto. Io comunque non sono un topo di fogna, e ho pure dei biscottini in tasca, quindi glieli lancio al volo mentre faccio il giro della villa e trovo Bill in piedi sulla porta di casa.
La principessa sporge l’anca tutta da un lato e, per i suoi standard, ha addosso solo uno straccetto qualsiasi, forse tirato a caso fuori dall’armadio.
"Hai riconosciuto anche tu il motore dell’auto?” Lo prendo in giro. “Sono solo, mi dispiace.”
"Cretino,” mi sibila subito lui, infastidito. “Ti ho visto dalla finestra e, dal momento che hai preso il cancello a velocità sostenuta, ne deduco che hai litigato con Chakuza.”
"Deduci bene, posso entrare?” Lui si fa da parte e mi indica l’interno con un gesto annoiato della mano. “Ma non c’è nessuno?”
"Karima,” sputa lui come se fosse un boccone disgustoso. “Anis è nello studio, sta lavorando, e ha detto che delle vostre beghe non ne vuole sapere e se ti azzardi a disturbarlo, stacca l’uccello sia a te che a Peter, così risolve due problemi. Parole sue.”
"Sempre gentilissimo,” commento. In quel momento Karima ci viene incontro con un cesto di panni da lavare più grosso di lei e io le faccio un sorriso da pubblicità del dentifricio per ingraziarmela, che già la vedo poco propensa a prepararmi la camera degli ospiti. “Karima! Daresti da bere ad un povero tedesco assetato?”
Bill mi segue con le braccia incrociate e la sua collaudata espressione di disappunto. In questo momento mi disapprova perché sto essendo educato e amichevole con la governante che odia, e perché, quasi sicuramente, nella sua testa sono stato io a fare qualcosa a Chakuza e non viceversa. Peter nella testa della Principessa non ha mai colpe.
"Che cosa le porto signor Losensky?”
Io quando fa così la sposerei. Nessuno mi chiama mai col mio cognome, mi sento un sacco importante quando succede. E tremo all’idea di quando finiranno per darmi del Pangerl come niente. “Una coca andrà bene,” rispondo. “Ghiacciata.”
"Anche per me,” si aggiunge Bill. “E portacele in veranda, grazie.”
"Subito, signor Kaulitz.”
Il ragazzino è insopportabile quando dà ordini a quella donna, ma non ho voglia di tirare fuori la questione ancora una volta. Sono qui per lamentarmi, quindi non gli darò modo di iniziare per primo e farmi sommergere dal racconto della sua vita infernale con un uomo pieno di soldi, in una villa bellissima, servito e riverito da una cameriera. Mi faccio invece trascinare in veranda, dove Bill ha fatto piastrellare tutto in cotto. Dove prima ci svaccavamo su delle sedie un po’ rustiche in paglia intrecciata, adesso c’è un tavolino da giardino di design con le sue belle sedie ergonomiche in poliestere che costano ognuna come un rene sul mercato nero. A Bill piace fare la padrona di casa e ricevere i suoi ospiti qui o nel salotto interno se fa molto freddo.
"Allora, che cosa gli hai fatto?” Mi chiede, guardandomi male.
Karima ci porta i bicchieri, con anche la fettina di limone e l’ombrellino.
"Perché devo essere stato io? Il tuo adorabile principe azzurro non è così adorabile come credi. E non è nemmeno azzurro, per altro.”
Bill beve dalla cannuccia, ma continua a guardarmi. “Quando litigate è quasi sempre perché tu non capisci quello che vorrebbe dirti.”
"In questo caso non mi dice proprio un bel niente,” replico. Io voglio parlare con Anis: sono entrambi schifosamente di parte, ma almeno lui è da quella giusta.
"Che cos’è successo?”
"E’ successo che mi tratta come una femmina,” replico. “Ed è una cosa intollerabile.”
Lui solleva un sopracciglio. “In che senso?”
Io sbuffo, odio dover spiegare le cose, che poi non mi piace nemmeno venirle a raccontare qui, è che ho bisogno di sfogarmi o lo ammazzo, l’austriaco, quindi per forza di cose non ho alternativa. Faccio a Bill un breve riassunto della mia vita negli ultimi mesi, e man mano che gli racconto quello che Chakuza mi fa e che è umanamente inconcepibile, mi rendo conto che sto parlando alla persona sbagliata per due motivi. Uno, dire male di Chakuza di fronte a Bill è un buon modo per non farsi proprio ascoltare. Bill non concepisce l’ipotesi che Peter possa essere insostenibile, testardo e testa di cazzo come in effetti è. Non ho idea di come si comportasse con lui, probabilmente era uno zucchero perché sia mai che Bill ci resti male per qualcosa, ma con me a volte è tremendo. E la Principessa naturalmente non ci crede.
E due, forse questa è anche peggio, Bill viene trattato come una femmina tutti i giorni e la cosa non sembra dargli granché fastidio. Bushido gli apre le porte, lo aiuta col cappotto, sta dietro ai suoi capricci e un milione di altre cose che davvero, ora che ci penso, mi convinco che non ha senso parlarne con lui.
"Io non capisco,” mi dice infatti. “E’ molto gentile, perché sei arrabbiato?”
"No, Bill. Non è affatto gentile,” protesto. “Io non sono una femmina. E lui non dovrebbe trattarmi come tale.”
"Ma aprirti i barattoli non significa trattarti da femmina,” commenta lui. “E’ una questione di gentilezza.” Gioca con la cannuccia, gli occhi appena socchiusi. A volte si dà un’importanza che lo prenderei a sberle; ma in questo momento prenderei a sberle chiunque, quindi suppongo che non sia propriamente colpa di Bill.
"Bill, ti sembra che io abbia bisogno che qualcuno mi apra i cetriolini sottolio?” Chiedo, e aspetto che mi guardi per bene dalla testa ai piedi, che veda i quasi due metri di altezza per più di ottanta chili di peso, che veda uno dei miei polsi grande quanto entrambi i suoi. Veda e capisca che un barattolo di cetriolini sottolio non sono poi questa grande impresa per il sottoscritto.
"Ma che c’entra? Sai aprire da solo anche le porte ma se qualcuno-“
"No.”
"Patrick…”
"No,” ripeto. “No, nella maniera più assoluta.”
Lui rimane un po’ interdetto dal fatto che l’ho interrotto. Bill odia quando succede. Il flusso delle sue parole dev’essere costante e fermarsi per sua volontà, e comunque solo per qualche istante, giusto per prendere fiato. L’interruzione per cause esterne non è nemmeno contemplata. “D’accordo,” ammette alla fine, molto lentamente. “Magari questa cosa dei barattoli è eccessiva per te, ma devi capire anche lui.”
"Che cosa c’è da capire su di lui, a parte che è uno stronzo, testone, gay ancora convinto di essere etero?”
"A parte che non è stronzo,” mi corregge lui, che non se ne lascia mai sfuggire una. “E’ appunto questo. E’ molto… maschile.”
"Ti sembro femminile, io?”
Lui sospira, alzando gli occhi al cielo. “Non maschile nel senso che sembra un maschio, maschile di testa, Fler. Lui dev’essere il capo. Ognuno ha un ruolo, no? Tu hai il tuo.”
"Cosa?” Mi esce così forte che Skyline, appisolato ai nostri piedi, tira su di scatto la testa per capire cosa sta succedendo. Peccato lo faccia con quei due, tre secondi di scarto. Come cane da guardia non vale niente.
"Cerca di seguirmi, okay? Non dico che debba davvero comandare, è ovvio che siate sullo stesso piano, solo che ha bisogno di avere il controllo, capisci? Dev’essere l’istinto primordiale del cacciatore, del capobranco, chi se ne frega, insomma, quelle cose lì. Anche Bushido è così. Se vivessimo nella preistoria, sarebbe Anis ad uscire dalla caverna ed abbattere dinosauri.”
"E tu staresti in casa a dipingerti le unghie con il succo di bacca, certo!” Replico ironico. “Bill, ti rendi conto di quello che stai dicendo?”
"Sì,” fa lui candido. “Ed ho anche ragione.”
"No che non ce l’hai!”
"Invece sì,” insiste. “E guarda caso, Chakuza ti apre le porte, ti svita i barattoli ed è sempre lui l’attivo.”
Io divento tipo di marmo, e probabilmente divento anche color ciliegia perché, pur non volendo, è sempre così che finisce. Io non avevo citato questo piccolo particolare. “E cosa te lo fa pensare?”
"Il fatto che sei esageratamente arrabbiato,” risponde, giocando col ghiaccio nel suo bicchiere ormai vuoto. “E il fatto che conosco Chakuza e so com’è a letto.”
Gradirei che Bill non me lo ricordasse ogni volta che può, dal momento che la sua presenza fra le lenzuola del letto mio e di Chakuza non s’è ancora vista e ciò un po’ mi consola. Bill in casa nostra c’è sempre, è ovunque Chakuza posi gli occhi e ricordi qualcosa che hanno fatto insieme, io la Principessa gliela leggo addosso quando lui ce l’ha in testa.
Quando scopa con me, però, non c’è. In quei momenti, Peter è un posto solo mio. Quindi non sopporto che Bill mi ricordi che sono stati insieme, anche se lo so che non lo fa con cattiveria. E’ che non sono razionale quando lo dice, e finisco per leggerci dentro la presunzione di sapere che rimane comunque lui quello più importante. Forse quella presunzione non c’è, non lo so. Ma è sempre meglio che Bill non ne parli.
"Com’è Chakuza a letto non c’entra niente,” replico secco, mentendo spudoratamente per altro, perché, come dicevo, ciclicamente si ripropone in casa nostra il teatrino di me che provo a schienarlo e lui che piuttosto si taglia le vene col coltello da pane. “C’entra però che io non sono una donna e lui deve ficcarselo in testa.”
"Io non capisco quale sia il problema.”
"Il problema è che è umiliante,” replico.
Bill mi punta addosso due occhi sgranati e oltraggiati. “Umiliante? Credi che essere quello di cui ci si prende cura sia umiliante?”
Mi sfida a concludere quel ragionamento, che messo in questi termini non può che suonare come un’offesa, io però ne so più di lui. Con Bill sono io quello più grande. “Penso solo che sarebbe carino se potessi anche io prendermi cura di lui.”
Lui finisce per ridere, che fra tutte le reazioni che potevano seguire la mia affermazione, era l’ultima che mi aspettavo.
"Che c'è da ridere?"
"C'è che sei assurdo," mi dice e poi piega la testa un po' di lato. "Tu non puoi davvero aver creduto di stare con lui e di prendertene cura."
"E tu non puoi davvero pensare che sia normale che lui mi apra i barattoli," ritorco subito, perché a me davvero sembra assurdo che qui quello assurdo debba essere io, quando è chiaro che l'unica cosa che vorrei è comportarmi come ogni essere umano che sta con un altro essere umano. Voglio dire, lasciamo perdere la divisione uomini e donne. Prendiamo gli esseri umani. C'è quest'essere umano, no? Questo austriaco che mi arriva alle costole e che io, per qualche assurdo motivo voluto dal fato o dal divino - o da qualsiasi cosa vi sembri appropriata - amo. Non gli voglio bene, non mi sta a cuore, non mi ci trovo bene. Io lo amo, che è un concetto che comprende tutti quelli precedenti: visto che lo amo io mi trovo bene con Peter, quindi gli voglio bene e pertanto mi sta a cuore. Ora, a causa di questa mia situazione di indigenza, mi sembra anche abbastanza plausibile volermi occupare di lui, no?
Bill sbuffa perché giocare alla signora della piantagione che dà buoni consigli alle giovani figlie delle sue amiche lo diverte soltanto fino ad un certo punto, soprattutto quando i suo consigli non sono accettati all'istante. "Ma insomma, tu cosa vuoi esattamente? Aprirgli anche tu i barattoli?"
"No che non voglio aprirgli i barattoli!"
"E allora cosa?" Fa lui. "Perché non ho capito che cosa pretendi da uno come Peter."
"Sarebbe troppo sperare che facesse la persona normale e non mi trattasse da femmina?"
Bill annuisce. Io all'inizio nemmeno ci credo, voglio dire, lo vedo annuire ma non ci credo davvero. E invece lui lo fa sul serio. "Non sarebbe molto più semplice se gli lasciassi fare quello che vuole? In fondo si tratta solo di cose minuscole."
"Qui si tratta del mio amor proprio," gli faccio notare. "E comunque perché lui può fare quello che vuole e io no?"
"Che cosa vorresti fare?"
"Io..." apro bocca e rimango in quella posizione per parecchi secondi, finché non mi rendo conto che in effetti non lo so. Non posso rispondere che vorrei aprirmi le porte e i barattoli, cioè sì che vorrei ma a dirlo suona assurdo e all'improvviso, ora che Bill me lo fa notare con questa calma pacifica come se fosse una cosa stupida, mi sembra una cosa effettivamente stupida. Insomma Chakuza è un coglione, ma io che cosa voglio esattamente se non il coglione in questione?
In ogni caso è lui in persona, dentro al suo catorcio, che mi salva dal dover rispondere. Difatti in quel momento il cancello della villa reale si apre e Skyline e Sherlee vanno a saltellare abbaiando festosi intorno alla macchina di Chakuza che parcheggia accanto alla mia.
"Ecco che arriva anche l'altro," mugugna Bushido, passando come un'ombra dentro casa, diretto in cucina per un panino fra un beat e l'altro. "Devo cambiare i codici del telecomando."

*

Di tutti i modi possibili in cui pensavo che sarebbe finita l'ennesima discussione, certo non avevo pensato a questo. Primo, perché non era una soluzione che io potessi prevedere. Secondo, perché non è una soluzione, è solo una cosa senza definizione che sta portando me e lui a fare qualcosa che non ci aiuterà a risolvere il problema primario ma ne creerà altri quasi peggiori. Forse, a pensarci bene, non era poi così imprevedibile, come cosa, visto che Chakuza ha sempre di queste grandi idee. Ora, ricapitolando, io e lui abbiamo litigato perché Peter è convinto di essere il capobranco e di avere verso di me delle responsabilità prettamente maschili quali difendere me e il territorio, procacciare il cibo e decidere il periodo di migrazione.
Per questo motivo, io mi sono notevolmente incazzato e sono andato a parlare con l'unica vera femmina del branco, che naturalmente ha appoggiato il grosso lupo nero che potrebbe averla quando vuole, e figurarsi se era il contrario. Ora, dopo questa sequenza di azioni assolutamente inutili, si potevano verificare due conseguenze: io che non sono disposto ad accettare questa situazione e me ne vado - molto improbabile a giudicare dai precedenti degli ultimi tre anni. Oppure Chakuza che si dichiara disposto a tentare di cambiare, io che fingo di credere che ci riuscirà, e noi due che scopiamo per il resto della giornata - estremamente probabile.
E invece no. Ma proprio per niente, no. Roba che se mi fermo un attimo a pensare non capisco nemmeno come sia potuto succedere che io ieri bevevo una coca con Bill e cercavo di spiegargli un ragionamento perfettamente razionale, e ora io sia qui, così, come se fosse normale. Parliamone!
In questo momento sono seduto sul sedile del passeggero dell'Escalade, sto andando in Austria e i biscotti che sto mangiando li ha comprati Chakuza. Con buona pace della mia fottuta questione di principio, quest'uomo qui accanto ha fatto tutto quello che ha voluto: protezione, cibo e migrazione. E non so come ci sia riuscito. Non lo so, e non riesco nemmeno a concentrarmi per capirlo perché i biscotti sono, tipo, svedesi o danesi, insomma chi se ne frega, del nord ecco, ma c'è una crema dentro che mi fa impazzire e mi confondo. Ogni tanto, quando ho un barlume di lucidità tra un biscotto e l'altro, mi rendo conto che in un certo senso è anche rapimento e che forse, non so, dovrei scrivermi 'AIUTO' sulle mani e poi appiccicarle al finestrino, così che alla prossima coda sull'autostrada tra Berlino e Linz qualcuno lo veda e mi salvi.
La verità è che Chakuza mi ha preso alla sprovvista e invece di cercare di spiegarmi il suo punto di vista, mi ha dato ragione - cioè, più o meno. Ha detto che gli dispiaceva, che è una cosa che non fa quasi mai, neanche ci si prendessero delle malattie veneree a chiedere scusa, e poi ha detto "Ho un'idea."
A questo punto della mia esistenza, io dovrei aver imparato che le idee di Chakuza non sono mai buone idee, che vanno temute e che - in generale - la prima reazione dev'essere la fuga in un posto lontano e per lui inaccessibile, fosse anche in cima ad un armadio. Ma è chiaro che a questo punto della mia esistenza io non mi voglio affatto bene, per cui quando mi ha detto di avere un'idea gli ho anche lasciato il tempo di espormela. Nel cervellino che riempie le rotondità della sua scatola cranica, la soluzione a tutti i miei mali era riempire due borsoni, caricarli sulla mia auto - che ha le sospensioni migliori e avrebbe retto in montagna - e trascorrere il fine settimana in Austria. Dai suoi. Come per lui guidare, comprare le provviste e portarmi dalle sue parti fosse un modo per scusarsi della sua grave mancanza di rispetto nei confronti della mia virilità, io in quel momento non l'ho capito. So però che quando mi ha guardato e mi ha detto "Ti va di conoscere i miei?" Il mio cervello si è scollegato. Ho sentito proprio la spina che si staccava, il calo di corrente e poi il lieve ronzio che precede il riavvio del sistema operativo.
Dopo l'analisi di sistema, sono arrivato finalmente a comprendere anche il ragionamento faticosamente elaborato dal microchip di Chakuza. Quest'uomo, questo qui che mi è seduto accanto e impreca in maniera brutale contro chiunque stia guidando una macchina nel raggio di venti metri intorno a lui - Chaku è un sacco violento alla guida - si è reso conto di comportarsi in maniera assurda, ma non può fare altrimenti, e lo capirò meglio quando avrò conosciuto tutti i Pangerl e mi renderò conto che sono tutti assurdi e che l'assurdità è una condizione genetica dell'essere un Pangerl. Quindi lui lo sa, e sapendo anche di non avere la soluzione giusta - tipo iniziare a comportarsi da essere umano - ha cercato quella che ci si avvicinava di più: il coming out con la sua famiglia. Quale modo migliore di trattarmi da uomo se non rivelare ai suoi parenti che è omosessuale? C'è del mistico nella testa di Peter, non mi stancherò mai di ripeterlo.
La casa di famiglia dei Pangerl è una baita di legno grande abbastanza per contenere tutte le famiglie che vivevano nel mio palazzo quando avevo quindici anni e Bushido si arrampicava su per la grondaia per venirmi a recuperare. Quando parcheggia sul prato così verde che sembra quello finto di plastica delle piscine, io scendo con la bocca aperta come un bambino, perché le baite come questa le ho sempre viste solo nei film, e in ogni caso erano piccoline e con una stanza sola, questo è una specie di albergo. Solo al piano di sopra conto quattro finestre.
E poi c'è la veranda e una specie di recinto, e sento lo scampanellio delle mucche, da qualche parte. Lascio che Chakuza scarichi la macchina, non me ne frega niente che sia lui a fare i lavori pesanti ora, devo assolutamente guardare tutto quello che mi si para davanti, perché è, tipo, spettacolare. Se sposto lo sguardo un po' più indietro c'è una vallata che scende morbida e rotonda, piena di fiori e penso che se osservo molto attentamente vedrò scendere Heidi, con cane, nonno e tutto il resto.
Ci sono altre decine di case così qui intorno, forse solo un po' più piccole, ma nessuna attaccata. Si vedono tutte, perché siamo nella vallata, ma sono abbastanza distanti che se guardi da una certa prospettiva ti sembra di essere solo in mezzo alle montagne.
In quel momento la porta della baita si spalanca con un tonfo e rompe l'idillio o, peggio, lo rende reale, perché sulla soglia c'è Heidi. Non proprio quella del cartone animato, ma quasi.
Questa qui avrà si e no quindici anni, e non ho bisogno che Chakuza mi dica che è sua sorella per capirlo, visto che sono praticamente due gocce d'acqua. Okay, lei è più carina, ma i colori e le forme sono quelli. E' biondo-rossiccia, come credo sarebbe Peter a giudicare dalle sfumature della barba, e ha due guance rosse come due mele, e non è un modo di dire, sono proprio tonde e rosse, cosparse di efelidi. E poi gli occhi, stesso colore, stesso taglio.
"Sei arrivato, ci hai messo una vita!" Fa lei, e gli si getta addosso di peso. Lui la prende al volo e per poco non cadono a terra tutti e due. Rimango lì a fissarli e mi viene da sorridere, Chakuza è tipo tenerissimo.
"Scusa," ride lui, rimettendosi dritto e aiutando la sorella. "C'era un sacco di traffico."
Lei si spolvera un po' la minigonna a pieghe e quindi si accorge della mia presenza lì di fianco. "E lui chi è?" Chiede.
"Lui è Patrick, passerà il fine settimana con noi," risponde. So che vuole dirglielo a cena, quindi non mi sorprende che non abbia specificato esattamente cosa sono. "Patrick, lei è Clara, mia sorella."
Clara non è solo fisicamente uguale a suo fratello, ma sospetto ne abbia anche la mentalità perché mi sorride nello stesso modo in cui lo fa Peter un attimo prima di saltarmi addosso, quindi sbatte gli occhioni truccati pesantemente come vanno di moda da quando la Principessa imperversa nelle TV di tutto il mondo. "Piacere Patrick senza un cognome," ride divertita. "Anche se immagino sia Losensky, dico bene?"
"E tu come lo sai?"
Clara si stringe nelle spalle. "Sui giornali non si parla d'altro che di te e di mio fratello," risponde.
"Cosa?" Esclamiamo in coro.
"Ma si che lo sai, Peter, dai!" Fa lei, un po' lagnosa, buttando gli occhi al cielo come se fosse una sciocchezza. "Il fatto che Bushido voglia rinnovare l'EGJ, sfruttando le collaborazioni con te e anche con lui, vista la riappacificazione e bla bla bla..."
Tiro un involontario sospiro di sollievo. Qua stiamo parlando di lavoro, per un attimo ho pensato che nelle sei ore che abbiamo trascorso in autostrada ci fossimo persi lo scandalo di qualche foto. "Quelle sono tutte speculazioni dei giornali," le dico afferrando il mio borsone prima che Peter si azzardi a farlo al posto mio.
Lei si stringe nelle spalle. "Non se le inventano mai del tutto," mi dice con un sorrisetto saccente. "Quindi immagino che ci sia davvero sotto qualcosa ma, visto che sei nostro ospite, non ti costringerò a dirmelo subito. Lo scoprirò a cena."
Entra in casa sculettando, e sapendo più o meno com'è fatto nel dettaglio il filamento del suo DNA, non posso non pensare che lo stia facendo apposta.
"Non lo metto in dubbio," sospira Chakuza al mio fianco.

*

Se da fuori la casa di Peter sembrava appunto la vera casa di Peter, il pastorello di Heidi, dentro è anche peggio. Non che ci sia un nonno barbuto e un sottotetto bassissimo – o forse quella è la casetta di Heidi e io sto confondendo i personaggi – ma è tutto di legno. Ma tutto davvero. E per un attimo mi chiedo quante volte sia andata a fuoco e se, da queste parti, magari non costa niente rimettere in piedi una casa visto che vanno a fuoco spesso. M'immagino queste vallate immense di sconfinato verde che ogni tanto si accendono di una fiammata improvvisa e l'attimo dopo, solo cenere. M'immagino anche delle squadre speciali che arrivano l'attimo ancora successivo a pulire tutto e poi rimontarci sopra una casa nuova. Magari uno esce la mattina per andare a lavorare, torna e la casa è andata a fuoco ed è stata ricostruita in un nano-secondo, tanto sono tutte uguali. Si differenziano per il numero dei gerani sui davanzali ma, anche lì, magari ci sono diverse case standard tra cui scegliere a due, tre o magari quattro vasi di gerani per terrazzo. Uno, penso, sceglie il modello che vuole e quando va a fuoco poi gli riportano lo stesso. Così il tipo di prima che è andato a lavoro e tornato, non si accorge del cambio.
La madre di Peter ci accoglie prima che io possa chiedermi a che numero di Pangerl-casa siamo, perché non ci credo che un tipo come Chaku non abbia mai lasciato cadere un fiammifero o agitato l'accendi-gas troppo vicino al tavolo in noce quand'era piccolo. Ma anche quand'era grande. Quindi questa casa non può essere in piedi da quando l'hanno costruita, con lui in casa.
"Patrick, che piacere vederti!” Esclama. Io le tendo la mano ma lei, dal suo metro e venti, tipo, non so, comunque dal quel poco che è alta, riesce a tirarmi in un abbraccio.
"Salve, signora Pangerl,” riesco a tirar fuori. Mi sento un po' a disagio perché io e lei ci siamo visti qualche volta, prima che si trasferisse definitivamente quassù fra i monti col marito dopo l'infarto, e mi ha anche lavato un paio di maglie perché le ha tirate su insieme alla roba sporca di suo figlio – non so nemmeno cosa, di preciso, ci abbia trovato su quelle maglie – ma tra quei momenti di beata ignoranza ed ora c'è che suo figlio si è fatto un sacco gay. E non lo so se mi abbraccerà così anche quando saprà che la nostra non è una sana amicizia virile. Se si escludono casi come l'esercito o la marina. In quel caso, ecco, forse il parallelismo calza a dovere.
"Avete fatto buon viaggio?” Prosegue lei, cercando di guardarci entrambi contemporaneamente. E' una cosa che fanno le madri, tutte, anche la mia. Quando portavo a casa Anis lei ci parlava e guardava un po' me e un po' lui e ci scrutava per capire se c'era qualcosa che potesse fare. “Volete mangiare qualcosa? Vi preparo due cose al volo.”
“No, mamma stiamo bene così. Possiamo aspettare la cena.”
"Allora perché non gli fai vedere la camera. L'ho già preparata,” e poi si gira verso di me con questi occhi verdi che sono proprio quelli del Chaku. “E' la stanza di quando lui era piccolo.”
Mi verrebbe da farle notare che c'è rimasto piccolo, ma sto zitto.
Peter era piccolo e la stanza, ovviamente, è a misura. Quando ci entriamo ho come un attacco di claustrofobia, il soffitto mi sembra vicinissimo e sono certo che i muri si avvicineranno fino a schiacciarmi. Morirò tra i monti austriaci e mi seppelliranno nel giardino dei Pangerl. O forse il signor Pangerl mi userà come concime per le sue mucche – chissà se hanno le mucche? - quando saprà che mi sono preso il suo unico erede maschio.
Mentre io mi figuro la mia morte per mano di mio suocero, o per mano dell'altissimo, che qui dev'essere più vicino senza dubbio, la signora Pangerl mi ha già spiegato l'ubicazione di tutto ciò che potrebbe essermi necessario nei prossimi giorni, comprese coperte, asciugamani, attrezzatura per l'alpinismo e anche dei vecchi calzini dismessi di non so quale parente che potrebbero servirmi in caso avessi freddo – perché qui, sai, Patrick la notte fa freddo. Anche a Berlino fa freddo, signora. Lo so gestire abbastanza.
Dopo ciò la donna ci lascia da soli e io vorrei trattenerla, vorrei prenderla per le cocche del grembiule e chiederle di raccontarmi com'era Chakuza da piccolo e com'era questo posto dimenticato da Dio, com'era nel '40 durante la guerra. Mi racconti la caduta del muro, signora, la prego. E lei mi farebbe notare che quando è caduto il muro io avevo sette anni e dovrei ricordarmelo e allora io le direi che vorrei sentire la voce di una persona che all'epoca era già adulta. O le chiederei di raccontarmi come si allevano le mucche, i maiali, le oche, qualsiasi cosa e questo perché alle mie spalle ho sentito lo sguardo del Chaku.
E quello sguardo promette sventure.
Alla signora Pangerl non chiedo niente, le cocche del suo grembiule spariscono oltre la porta chiusa e quando mi volto, lui è lì con l'occhio da triglia. Già pronto.
Chi non conosce Peter non può davvero credere a quello che è in grado di fare. E' un po' come essere amico di un supereroe e conoscerne all'improvviso i poteri, tipo che ha la super-forza, che è ignifugo o che sa volare. Ti spaventi e cerchi di dire a tutti che l'hai visto alzare una macchina a mani nude, saltare nel fuoco e prendere il volo. La gente naturalmente, quando lo fai, ti ride in faccia. E non ci crede. Come potrebbe? Così se io spiegassi che il Chaku non conosce tempi di ripresa, mi guarderebbe con aria di superiorità e mi accuserebbe di aumentare le doti dell'uomo che mi si porta a letto per vanteria. E invece non sto aumentando niente e non lo faccio per vantarmi, lo faccio per paura. La mia è una muta richiesta di aiuto che nessuno coglie. Io sono una persona disperata.
Se Chakuza fosse ignifugo, super-forte e sapesse volare, sarebbe meno inquietante di come invece è: pazzo e sesso-dipendente. Che poi detta così sembra che sia malato, in realtà credo che la situazione sia anche peggiore di così, sebbene io non abbia dei veri studi medici che lo dimostrano. Voglio dire, se fosse malato, se questa fosse una devianza, uno potrebbe vedere di curarlo, di trovare una profilassi da seguire, di farlo diventare un monaco amanuense dedito all'astinenza, sebbene Chakuza non sappia disegnare neanche un omino stilizzato senza che questo sembri di tutto tranne un omino stilizzato. Cioè, seguitemi, se questa sua particolare condizione derivasse da un malfunzionamento di qualche sua cellula neuronale o da uno stato della mente guaribile con la meditazione, ecco allora potremmo fare qualcosa. Farlo visitare, fargli ingerire delle pillole o, appunto, spedirlo in Tibet vestito di arancione. Invece le cose non stanno affatto così. Questo suo bisogno di fare sesso e rilasciare endorfine è naturale. Nel senso che fa parte della sua struttura fisica. C'è chi ha fisicamente bisogno di scaricare continuamente lo stress, c'è chi deve dormire molto, chi dorme oggettivamente poco. E lui fa sesso. Cioè, non è una degenerazione di qualche parte di lui che improvvisamente ha deciso che il sesso era la soluzione. Lui è così. E' questo che è agghiacciante.
Dall'ultima volta che lo abbiamo fatto sono passate sei ore, anzi no tre, perché a metà viaggio ci siamo fermati all'autogrill, che non è che sia successo proprio roba, ma ho deciso che con lui conta anche quella, perché è sfiancante. E insomma, stavo dicendo che non è che potesse mancargli l'aria dopo sole tre ore e invece eccolo lì che già smania. “Non ci pensare neanche,” dico. “Devo disfare la valigia.”
Prima mi arrivano le sue mani sul culo e poi dice: “Puoi farlo dopo.”
"Non posso farlo dopo, le magliette fanno le grinze.”
E questa è così gay che non avrebbe funzionato in nessun caso, figuriamoci in questo. Difatti si prende il tempo di chiudere giusto la porta e mi è addosso l'attimo dopo. Io ho provato a tirare fuori qualcosa, per vedere se lo fermavo, ma niente. Non ha alcun rispetto per la proprietà altrui e le grinze che finirà per causarci sopra.
Mi ritrovo disteso sul letto prima di poter effettivamente pensare a qualcosa di veramente sensato da dirgli per scostarmelo di dosso. E' questo il mio problema: a lui il cervello si spegne e si attiva una sorta di pilota automatico che prosegue qualunque sia la situazione contingente. Il suo obbiettivo è uno solo e avanza per raggiungerlo. Io, quando lui sta così, vorrei spegnerlo ma non so dove si trovi esattamente il pulsante – o se ci sia un pulsante – e, in ogni caso, non posso farlo perché quando mi tocca mi confondo e i miei tempi di reazione si allungano. Il suo pilota automatico si approfitta del mio momentaneo ritardo mentale. Insinua quelle sue zampette là dove non batte il sole e tanti saluti, non c'è più modo di fermarlo.
Così mi agito, cercando di farlo cadere ma niente. Uno potrebbe pensare che essendo lui com'è ed essendo io come sono, ci metto niente a lanciarlo dall'altra parte della stanza e invece, con lui, è come cercare di spostare un masso di granito. Quello che perde in altezza, lo guadagna in massa, è una roba che non ci si crede. “Peter, c'è tua madre di là.”
"Non ci sentirà.”
Io dico che ci sentirà se continua ad accarezzarmi come sta facendo, ma lui mi ferma anche lì perché m'infila la lingua in bocca e io dimentico che se sua madre ha la cattiva idea di spalancare la porta all'improvviso, poi ci toccherà portarla d'urgenza all'ospedale. Chakuza butta in terra qualcosa che credo fosse la mia valigia, quindi si prende il suo spazio, felice come può esserlo solo un uomo che nelle ultime tre ore non ha pensato a nient'altro. Ed è mentre mi morde il collo che la sua felicità si disintegra sotto i colpi alla porta della sua camera.
La successiva sequenza di azioni è che io riesco a ribaltarlo e a mettermi in piedi in una sola abile mossa mentre lui rotola a terra malamente, mancando con la testa lo spigolo di un comodino per una frazione di centimetro. Io penso che l'ho quasi ammazzato per non farmi trovare a letto con lui, forse questo significa qualcosa se lo analizziamo. Comunque sia bussano di nuovo. “Peter, posso entrare?”
Io generalmente non faccio una piega se mi punti una pistola in faccia, se mi minacci con un coltello o se, per dire, rischio di prendere tante di quelle botte che nemmeno mia madre mi riconoscerebbe. In quei casi freddo e impassibile, è la scuola di Bushido.
Alla scuola di Bushido, però, quell'uomo non mi ha mai insegnato come reagire a sangue freddo di fronte alle sorelline di quindici anni che rischiano di entrarti in camera mentre tu e il tuo uomo avete i pantaloni slacciati, il letto è già un casino ed è chiaro come il sole che stavate per scopare. O se Anis l'ha mai insegnata questa cosa qui, evidentemente io ho saltato la lezione. Intimo a Chakuza con lo sguardo di fare qualcosa e lui annuisce quasi annoiato. No dico, austriaco, è tua sorella, vorrai mica farti trovare in questo stato?
Quando alla fine Clara entra io sono seduto sul rientro della finestra e guardo i monti in maniera molto ispirata. Chakuza, invece, è assolutamente a suo agio. Come non avesse un pudore. E in effetti non ce l'ha.
"Che c'è?” Chiede, mentre apre la sua sacca da viaggio e ne estrae cose a caso, per dimostrarsi un uomo intento a disfare le sue valige con molta cura. Il mio povero borsone invece giace a terra riverso, innocente vittima di quell'uomo.
"Mamma dice che intanto che prepara potresti portare Patrick a conoscere la nonna,” fa lei. E si guarda intorno come solo una fangirl può fare. Io non avevo una grande esperienza con questo genere particolare di ragazze prima che la mia vita fosse devastata dalla nostra illuminata sovrana, ma ora sono quasi un esperto. Il fatto è che tu non puoi vivere a stretto contatto con Bill Kaulitz – e noi tutti ci viviamo, come sapete, perché egli regola la vita di noi tutti in un modo o nell'altro – senza dover fare i conti con le fangirl. Così ora, mentre Clara scandaglia la stanza, so per certo che in una frazione di secondo ha già preso nota di ogni dettaglio potenzialmente succoso che essa contiene. E anche tutti gli altri, che la sua fantasia si preoccuperà di rendere altrettanto fraintendibili. In questa stanza c'è un letto disfatto, due uomini palesemente impegnati a fingersi tranquilli – okay, un uomo, io, ma suppongo che conosca suo fratello abbastanza da decifrarne i segnali – e soprattutto ci sono i nostri anelli. Che sono diversi, ma io lo so che lei li ha già notati. Così m'infilo una mano in tasca, che è tipo la cosa più losca del mondo.
"Perché dovrei portarlo da nonna?”
Clara fa spallucce. Quando si gira la sua gonnella svolazza in giro. “Immagino voglia che tu faccia le cose per bene stavolta,” commenta con noncuranza.
Io mi congelo sul posto e mi sembra di avere sulla testa un cartello che lampeggia, avvisando il mondo che sono gay e sto con quest'uomo pelato al mio fianco.
Prima di sparire, Clara mi lancia un'occhiata che non sono effettivamente sicuro di capire, una via di mezzo fra la smorfia libidinosa del Chaku nella sua forma migliore e la sicurezza del ricattatore quando ti avvisa che sa cos'hai fatto l'estate scorsa.
E io adesso non sono più sicuro se questa ragazza mi salterà addosso o deciderà di chiedermi dei soldi per stare zitta.
Al momento, il fatto che saremo noi a parlare per primi a cena è del tutto irrilevante, anzi, forse peggiora solo la situazione. Prima potevo pensare che magari, all'ultimo, avremmo lasciato perdere. Ora ho quest'immagine mentale di noi che decidiamo di stare zitti e Clara che, candidamente, rivela la verità.
Un attimo dopo il signor Pangerl mi colpisce in fronte con un'accetta da taglialegna che teneva casualmente legata al fianco. Io non ce la posso fare.

*


La nonna di Peter è effettivamente la nonna di Peter, quello vero.
Quando arriviamo alla sua casetta, io non so davvero se ridere o se farmi prendere dal panico. Questa donna avrà duecento anni, ha la testa avvolta in un foulard azzurro probabilmente fatto a mano dalla nonna della nonna di sua madre e siede sulla veranda della sua casa a sbucciare piselli.
"Nonna?” Urla Chakuza, anche se siamo a, tipo, due metri di distanza.
Lei solleva la testa e ci guarda a lungo prima di riconoscere l'amato nipote. “Peter,” lo chiama, allungando le braccia. E io non posso davvero farcela. Adesso, ne sono certo, arriveranno Nebbia e anche gli agnellini a scodinzolare festosi intorno al pastorello.
La nonna più che centenaria lo abbraccia stretto mentre io sto lì in piedi come un cretino, in attesa che qualcuno mi faccia entrare nel cartone animato.
"E questo bel giovanotto chi è?” Chiede e poi, prima che qualcuno possa risponderle e dirle chi sono, lei si illumina tutta e le sue duemila rughe sulla fronte si distendono in un colpo. “Non dirmi che è Franz! Quanto sei cresciuto!”
"No, non è Franz. Questo è Patrick,” la corregge Chakuza, con un tono di voce altissimo. “E' un amico di Berlino.”
Un amico che casualmente ha sposato a Las Vegas, signora, ma non voglio confonderla troppo. “Salve signora,” faccio io, lì, un po' così. Di solito ci so fare con le anziane signore che ci circondano – la signora Lotte mi adora, per dire – ma al momento sono molto concentrato ad evitare di impazzire pensando che è, tipo, mia parente ora. O una cosa simile. Anche se lei non lo sa. Le tendo la mano ma lei mi tira giù in una morsa letale da montanaro. Le donne in questo posto fanno paura.
"Ecco perché eri sparito!” Mi fa, urlandomi nell'orecchio come fossi sordo anch'io. “Eh, voi giovani finite tutti per andarvene via. Questo non è un paese per voi!”
"Eh già.”
"E tua madre come sta? Me la ricordo quand'era piccola e veniva da me a comprare il latte!”
Signora, mia madre non è mai uscita da Tempelhof, figurarsi venire sui monti a comprare il latte della sua mucca.
"Nonna, questo non è Franz,” ripete Chakuza, con un sospiro. “Si chiama Patrick, capito?”
Lei lo guarda fisso e annuisce, poi si volta verso di me e mi fa questo sorriso mono-dentale raccapricciante. “E la tua sorellina? Quanti anni ha adesso?”
Appunto. Sospiro. “Sei,” sparo a caso.
Chakuza mi fa cenno di no con la testa. Indica in alto.
"Ehm, no. Quindici.”
Chakuza mi fa segno di tagliarsi la gola.
"E' morta,” concludo addolorato.
Vedo Chakuza accasciarsi con le mani sugli occhi, dietro sua nonna. Lei però non sembra aver capito un accidenti nemmeno stavolta. “Come passa in fretta, il tempo,” biascica in un tedesco oscuro di cui capisco solo due parole su tre e non sono sicuro nemmeno di quelle.
"Eh già,” commento.
Mi fa una carezza sulla guancia, guardandomi con questi occhi velati di bianco. “E ci andate ancora nei boschi tu e il mio Peter?”
Sollevo un sopracciglio, ghignando nella sua direzione. “Nei boschi, Peter? Ci andiamo ancora nei boschi?”
"Non facevate altro da ragazzini. Sempre nei boschi, sempre sporchi di fango.”
"Ah, però,” commento ridendo in direzione di Chakuza che credo voglia morire in questo momento. Devo indagare su questo Franz.
"Ora sarà meglio che andiamo, nonna,” fa subito lui, recuperandomi prima che io e sua nonna possiamo sviscerare i più reconditi segreti della sua adolescenza con Franz, suppongo. “E' quasi ora di cena.”
La nonna mi batte amorevolmente sulla guancia una mano ruvida come carta vetrata e annuisce a Dio solo sa cosa. “Andate, andate.”
"Franz?” Chiedo, mentre torniamo verso casa sotto un cielo che si sta scurendo.
"Era un compagno di scuola,” mi risponde.
"Con il quale ti rotolavi nell'erba fra i boschi?”
"No, deficiente,” commenta ridendo. “Nel bosco ci passavamo perché era più facile raggiungere il villaggio dall'altra parte della vallata, dove c'erano un paio di ragazze che ci piacevano.”
"E sua sorella?”
"Con lei ci sono stato, invece” mi fa, prima ancora di dirmi il nome e l'età. Io non so se essere incredibilmente affascinato dall'assoluto mistero del suo cervello o se dargli semplicemente dell'uomo schifoso come dovrei. “E tanto per la cronaca non è morta.”
"Che ne so io se mi fai il segno di tagliarti la gola!”
"Era per dirti di piantarla.”
"Allora ti do un suggerimento, la prossima volta—”
"Quando avete finito di litigare,” commenta Clara, in piedi sulla porta di casa con le mani sui fianchi e quell'espressione da giovane mafiosa, “la cena è in tavola.”
Forse se mi giro e corro molto veloce, posso arrivare alla macchina e fuggire prima che sia troppo tardi. Una volta varcato il confine sarei salvo.

*


Non appena vedo la cena della signora Pangerl capisco tante cose di Chakuza. Una fra tutte, la sua incapacità di dosare le misure. Per lui, una cena per due persone consiste in sei portate più la frutta e il dolce. Vi lascio immaginare che cosa prepara quando ceniamo tutti insieme, e soprattutto quando inizia a farlo. Ci sono volte in cui Bushido annuncia la data di una cena e poi mette in conto che per i tre giorni precedenti Chakuza non sarà reperibile per lavorare perché sarà impegnato a preparare fondi, pane ed elaborati piatti indonesiani la cui preparazione si aggira sempre intorno alle 25-30 ore. Ogni volta che dobbiamo riunirci con gli altri, casa nostra diventa la cucina di un albergo, ci sono pentole ovunque ad ogni ora del giorno e della notte e io non posso aprire il frigorifero senza che lui mi assalga urlando di non toccare niente perché ci ha messo dentro non so cosa ad addensarsi e, quando gli dico che ho sete, comincia a passarmi ciotole su ciotole che devo tenere in equilibrio sulle braccia mentre lui recupera il mio succo di frutta dal fondo, quindi mi rispedisce da dove sono venuto – generalmente il salotto – dove ho l'ordine di restare circondato di tartine senza poterne mangiare nemmeno una.
A quanto pare, con sua madre è la stessa cosa. La tavola che ha apparecchiato prende praticamente tutta la stanza, ma i piatti per noi cinque ne occupano solo una metà perché l'altra è ricoperta di cibo; e siccome vedo solo antipasti, primi e secondi, non so quali e quanti dolci siano nascosti in cucina.
"Siediti pure dove vuoi, caro,” mi dice la signora Pangerl con questo sorriso luminoso e pieno di speranza verso il futuro. Io sono qui per dirle che non avrà mai una nuora, signora, lei non dovrebbe sorridermi così.
Io lascio il posto di capo tavola al padre di Chakuza e intimo con lo sguardo a lui di sedersi alla sua destra in modo che, per uccidere me, quell'uomo debba prima uccidere suo figlio. In fondo sarebbe giusto così, è colpa sua se io mi trovo in questa situazione.
Clara mi si siede davanti e mi fa ancora quello strano sorriso che io ricambio, in automatico, con solo metà della bocca mentre cerco di non strozzarmi con la mia saliva nel deglutire. Esito a sedermi, perché sento l'enorme peso del destino sulle spalle e so che, una volta appoggiato il sedere su questa sedia, io non mi rialzerò mai più. Morirò qui, seduto a questa tavola. Sarà così che mi ricorderanno; forse avrei dovuto passare a salutare mia madre per l'ultima volta.
A farmi sedere ci pensa il signor Pangerl, semplicemente comparendo sulla soglia vestito come un uomo d'altri tempi, col pantalone con la riga, la camicia e il maglioncino con la cravatta dentro. Ha un viso serio e un'espressione così severa che il bastone con il quale si aiuta per camminare non gli toglie affatto vigore, anzi sembra più distinto e anche più pericoloso. Io lo guardo fisso, come i gatti di notte abbacinati dai fari delle auto, ma lui non mi degna di uno sguardo mentre si siede nel posto che gli ho lasciato.
"Siamo pronti!” Cinguetta la signora, cominciando a servire gli antipasti e facendo il giro di tutti i commensali, posizionando su ognuno dei piccoli piattini un tondino di pane con sopra una salsa e un'oliva, dei piccoli bignè riempiti di salsa tonnata e un'altra tonnellata di cose che basteranno a riempirmi fino a domattina, probabilmente. Ne segue un momento di silenzio in cui tutti aspettiamo che la signora Pangerl sia tornata a sedere e ci mettiamo il tovagliolo sulle ginocchia.
“Allora,” esordisce la mamma di Peter. “Che cosa ci racconti? Ci sono novità?”
Da dove cominciare, signora? Dall'ultima volta che io e lei ci siamo visti, io e suo figlio abbiamo avuto una tormentata storia di sesso, cominciata con un mezzo stupro da parte sua, che fra alti e bassi e altri uomini da ambo le parti, ci ha portati a vivere insieme. Siamo appunto venuti qui questo fine settimana per darvi la notizia non solo della nostra omosessualità ormai certa ma anche del nostro matrimonio, avvenuto a Las Vegas qualche settimana fa mentre eravamo entrambi ubriachi. “Ma, non molto,” rispondo, cercando di apparire disinvolto. “Tutto procede molto bene, per fortuna.”
"Sai, mamma, che forse lui e Peter lavoreranno insieme?” Esclama Clara, guardandomi con quell'aria da Pangerl che mi mette ansia. E poi, sarò paranoico, ma mi sembra che ammicchi e dica parole precise.
"Davvero?” Chiede la signora.
"Per ora è solo un'idea,” rispondo. “Non sappiamo ancora se riusciremo a realizzarla.”
Il signor Pangerl mangia in silenzio, tagliando con attenzione meticolosa tutto il cibo che poi porta alla bocca sotto due enormi baffi rossicci. “Come hai detto che ti chiami?” Chiede all'improvviso e, visto che ora mi guarda, io comincio a sudare freddo, come se ce lo avessi scritto in faccia che sono il ragazzo di suo figlio. Forse sì, ma insomma. “Patrick,” rispondo, deglutendo.
Lui annuisce tra sé e sé. “E che lavoro fai?”
"Sono un cantante.”
"Lavora anche lui per l'etichetta per cui lavora Peter,” chiarisce Clara.
Il signor Pangerl non sembra particolarmente impressionato, continua ad annuire, mentre si pulisce la bocca e si versa un bicchiere di vino. “Ne vuoi un po'?”
"Grazie,” gli porgo il bicchiere anche se in genere non vado matto per il vino. Non ci penso nemmeno a questo piccolo particolare. Eseguo e basta.
"Da quanto vi conoscete tu e Peter?”
Io cerco di fare il conto, ma non ci riesco perché per farlo devo prendere dei punti di riferimento e tutti quelli che ho mi ricordano perché sono qui. “Saranno—”
"Due anni, forse un po' di più,” dice Chakuza. “E' successo quando pensavamo che Bushido fosse morto, ricordate?”
"Sì, mi ricordo,” commenta lui senza particolare entusiasmo. Lascia che la moglie gli porti via il piatto degli antipasti, mentre Clara ci serve il primo. Queste dinamiche sono così disastrosamente antiquate con il capofamiglia e la moglie che sparecchia, che io non so come faremo a passarla liscia con una notizia del genere.
Chakuza si schiarisce la voce, “Patrick mi ha aiutato a sistemare certe questioni in quel periodo ed è stato molto vicino a me e a tutti gli altri ragazzi.”
La signora Pangerl ha fatto della pasta con le patate buonissima, così penso che posso spostare il discorso su territori più neutri parlandole di cucina. “Ora capisco da chi ha preso Peter. E' lui che cucina,” commento. “Per l'etichetta, intendo.”
Clara ridacchia mentre spilluzzica dal suo piatto di pasta.
"Ha preso tutto da me e da sua nonna,” risponde lei fiera, “Avrebbe dovuto fare il cuoco.”
"Ma lui doveva cantare,” commenta suo padre.
Chakuza sospira. “Potremmo non ricominciare con questa discussione? Riesco a mantenermi benissimo anche cantando.”
"Solo che se avessi fatto il cuoco, non rischieresti la vita come fai ora,” puntualizza lui, guardandolo dritto negli occhi, al che capisco che è una questione aperta da tempo fra loro due e, nonostante questo, non riesco comunque a stare zitto.
"Non deve preoccuparsi, il pericolo non è così reale,” dico con un mezzo sorriso incoraggiante. “Cantiamo, principalmente. Il resto è immagine.”
"Se non ricordo male,” fa subito lui, posandosi il tovagliolo sulle gambe e appoggiandosi allo schienale della sedia, “quel Bushido è stato colpito da due colpi di pistola e un vostro collega, un certo Saad qualcosa, è morto ammazzato due anni fa.”
Sì, ora però non sottilizziamo, signor Pangerl, e poi questi sono casi limite. Bushido se n'era tirati addosso parecchi di motivi per farsi ammazzare.
"Non mi succederà niente, papà,” commenta Peter, cercando di chiudere il discorso. “Passo la maggior parte del tempo in studio a creare basi, la gente non ha interesse a farmi saltare la testa.”
A quel punto Clara prende la parola per affogarci in un mare di chiacchiere sulla sua scuola e su mille attività che non so dove trovi il tempo di fare. Mi viene in mente la sua controparte maschile, le cui uniche attività sono il sesso e la cucina, che tenta di combinare per non dover far fatica due volte. Quando arriviamo al dolce io sono già così pieno che potrei esplodere, ma la signora Pangerl porta in tavola questa immensa torta alla panna e io non posso dirle di no perché sarebbe blasfemia. Chakuza, però, è nato per rovinarmi l'esistenza, perché decide che proprio questo è il momento perfetto per dirlo. La donna che mi sta di fronte, e che ora mi porge una torta meravigliosa e all'apparenza soffice e dolcissima, deve averlo generato perché un giorno egli mi impedisse di godermela, anche se non so esattamente il perché.
Chakuza mi guarda per avvisarmi che sta per farlo e io immagino di scuotere la testa al rallentatore mentre dico qualcosa che però esce fuori distorto per l'effetto cinematografico. In realtà mi limito a deglutire e a trattenermi dall'alzarmi in piedi e fuggire agitando le braccia.
"Devo dirvi un cosa,” esordisce, tirando indietro la sedia e appoggiando il tovagliolo sul tavolo accanto al piatto con la torta intoccata. Visto il tono che ha usato, tutti capiscono che si tratta di qualcosa di serio, quindi gli prestano attenzione e a me sale l'ansia. Forse speravo che lui aprisse bocca e che nessuno lo trovasse abbastanza interessante da ascoltarlo.
La signora Pangerl posa il coltello con cui stava tagliando la torta e si siede composta, stringendo le labbra con un sospiro e lo sguardo preoccupato. “Che cosa succede, Peter? E' qualcosa di grave?”
"No, al contrario, direi che è una cosa molto bella,” dice. E mi guarda. No, non mi guardare Peter, ti prego, tuo padre è un uomo dell'ottocento, falla almeno sembrare una cosa da uomini e non da checche innamorate che litigano sui barattoli dei cetriolini sottolio e subito scappano dalle loro migliori amiche gay a farsi consolare. “Io e Patrick stiamo insieme.”
L'Austria in questo periodo ha una temperatura piuttosto mite e oggi c'è il sole, un cielo azzurro che viene voglia di sorridere e non un filo di vento; ma in questa stanza ci saranno due gradi, adesso.
Il quadretto famigliare con la torta di panna e la madre di famiglia con il grembiule si è ormai frantumato in mille pezzi e l'immobilità delle tre persone che mi stanno davanti è inquietante. Osservo quell'assenza di movimento con molta attenzione e mi sembra di avere davanti tre manichini; ho la stessa sensazione che mi prende ogni tanto quando mi capita di entrare in un negozio quando sta per chiudere e sembra che i manichini siano pronti a strangolarti appena volterai lo sguardo. Il manichino della signora Pangerl sembra addolorato e non so dire quanto mi dispiaccia di non aver avuto nemmeno il tempo di mangiare la sua torta e dirle quant'era buona prima di distruggere tutte le sue speranze in questo modo. Il manichino del signor Pangerl, invece, non ho il coraggio di guardarlo direttamente, lo faccio con la coda dell'occhio e lo trovo nella stessa posizione di prima. Non so decifrarne l'espressione del viso, ma di sicuro non è amichevole. Clara invece, se potesse, sarebbe già esplosa urlando, ma immagino che aspetti di avere almeno il via libera di sua madre, per non rischiare di assecondare il fratello mentre quella muore d'infarto ecco.
"Spero che possiate accettarlo perché facciamo sul serio,” continua Chakuza, credo per dare il colpo di grazia ai suoi genitori ed ereditare le mucche e tutta la baracca. “Viviamo insieme da un po' e,” fa un pausa e io vorrei strangolarlo prima che lo dica, ma so già che lo farà perché è lui e perché è scemo “in realtà qualche tempo ci è capitato di sposarci a Las Vegas.”
Sua madre emette un versetto incomprensibile e si accascia sulla sedia, ma è suo padre quello che fa più rumore scostandosi con forza dal tavolo e allontanandosi senza dire una parola.
"Papà!” Peter cerca di fermarlo ma quando si alza, suo padre ha già lasciato la stanza e Clara si è sentita in diritto di saltarci addosso squittendo come un'invasata.
"Lo sapevo! Lo sapevo! Passavate troppo tempo insieme e poi le foto alle premiazioni? E tutti quei messaggi su Facebook? Si vedeva lontano chilometri, non so come siete riusciti a tenerlo nascosto finora.”
Io mi chiedo di che foto e messaggi stia parlando. Io e Chakuza avremo in totale due foto pubbliche insieme, e per l'appunto mentre ritiravamo dei premi. E in quanto ai messaggi, Chakuza scrive per informare delle sue sbornie e del mal di testa, lo avrò al massimo preso per il culo. Non so cosa ci abbia visto lei.
Ad ogni modo non le presto più di tanta attenzione per il semplice fatto che la signora Pangerl si è alzata e mi si sta avvicinando molto lentamente, con le braccia tese di fronte a sé e io non so se voglia picchiarmi o cosa ma rimango immobile perché è piccola e fragile e se vuole scassarmi la faccia a sganassoni può farlo, perché un po' me lo merito. E invece lei mi abbraccia; o meglio si appende alle mie spalle finché io non mi chino un po' e allora lei mi stringe fra le braccia teneramente. “Benvenuto,” mi dice. “L'importante è che siate felici.”
E io le voglio già molto bene.

*


Dopo cena mi sono offerto di lavare i piatti e la signora Pangerl e stata con me ad asciugarli, chiedendomi mille cose fra cui tutti i dettagli di un matrimonio di cui non mi ricordo assolutamente niente se non che avevo bevuto fino a sfondarmi e che, da qualche parte accanto a me, Chakuza stava facendo lo stesso. Lei però sembrava così interessata che ho un po' abbellito i dettagli e poi ho cercato di distrarla con la mia fede e con la serie di aneddoti assurdi che ho collezionato vivendo in casa con suo figlio bene o male tre anni. Lei ha riso molto e mi ha raccontato di com'era lui da bambino, promettendo di selezionare qualche foto significativa dagli album di famiglia senza sottopormi alla tortura dello sfoglio completo, cosa che ho molto apprezzato.
In tutto questo, Peter si è chiuso nello studio con suo padre e ora che è quasi mezzanotte e io sono disteso sul letto in camera sua a guardare il soffitto, non è ancora rientrato.
Provo a mettermi nei panni di quell'uomo e a capire cosa prova. Non dev'essere facile riporre certe aspettative su un figlio e vederle infrante in questo modo. Per lui già sognava una carriera che Chaku non ha intrapreso, magari sperava che avrebbe avuto almeno una bella moglie e dei bambini e invece ci sono solo io e direi che questo è tutto il massimo che quell'uomo si può aspettare.
Peter si presenta quasi mezz'ora dopo, richiudendo piano la porta, convinto che io stia dormendo visto che me ne sto qui con la luce spenta.
"Peter,” lo chiamo piano, voltando la testa.
Lui mi sorride e mi si stende addosso, socchiudendo gli occhi. “Ehi.”
"Com'è andata?” Gli tolgo il cappellino e lui si sistema meglio sul mio petto, mettendosi comodo.
"Come pensavo,” risponde. “Non ne vuole sapere. Ha ricominciato a parlare di fasi, poi mi ha accusato di farlo apposta e infine si è solo lamentato, chiedendosi dove ha sbagliato con me. Ci sono già passato.” Trattengo il fiato e lui sospira. “Scusa. Era solo per dire che—”
"Non importa,” sorrido perché ha capito da solo ed è un grande traguardo per lui. Gli faccio i cerchiolini sulla testa per punizione, però. “Quindi?”
"Non lo so, vediamo domattina. O smetterà di parlarci, oppure fingerà che la cena non sia mai avvenuta e che io non gli ho detto assolutamente niente.”
"C'è speranza che ci ripensi?”
Lui mugola contrariato e quindi comincia a muoversi, una cosa che mi aspettavo già qualche secondo fa ma si vede che la chiacchierata con suo padre gli ha sconvolto le tempistiche. “Non credo che succederà in tempi brevi, è piuttosto testardo.”
"Chissà da chi hai preso,” rido, mentre mi bacia il collo. “Io devo ancora disfare i bagagli, comunque.”
"Lo farai domani,” annuisce lui, aprendomi le gambe con un ginocchio e una pratica ormai collaudata. Mi sconvolge ogni volta la naturalezza con cui passa da uno stato mentale all'altro senza passare dal via, anche se il primo magari non è proprio il massimo per scopare. Tipo quando tuo padre ti ha appena ripudiato perché sei gay, ecco.
Quando allunga le mani le intercetto e le stringo, guardandolo con un mezzo sorriso. “Tu non vuoi davvero farlo su questo letto,” dico. “E' quello di quando eri piccolo.”
Lui cerca di liberarsi senza convinzione, ma io lo tengo stretto, per cui ci ritroviamo semplicemente a muovere le mani intrecciate. “Scherzi?” Dice, interrompendo per un istante il suo lavoro da certosino sul mio collo, solo per brillare di luce propria direttamente da dietro le orecchie. “E' uno dei miei sogni erotici.”
"Farlo nel letto di quando eri bambino?”
Lui annuisce e mi si siede sulle gambe, liberando finalmente le mani. “Quindi ora ti spogliamo,” dice tirandomi via la maglietta. “E tu mi aiuti a realizzare questo sogno.”
"Potrebbero sentirci,” tento di nuovo, mentre lui è già passato ai pantaloni.
Chakuza mi si stende addosso del tutto incurante delle proteste che ho già esternato e riesce a bloccare anche quelle successive semplicemente perché sa dove mettere le mani. Alla fine cedo, come se ritrovarsi in mutande sotto di lui non fosse già un silenzio assenso sufficiente, e siamo già molto presi quando lo scricchiolio inizia, dapprima debole per poi diventare sempre più forte, al punto che ogni volta che Chakuza prova a spingersi un po' più forte qua traballa tutto e il letto geme così forte che ho seriamente paura che qualcuno corra a vedere se non è successo qualcosa. Lui naturalmente finge che la cosa non gli interessi, si concentra ma lo gniko gniko che ci accompagna nel movimento distrugge la poesia a randellate e io non posso fare a meno di scoppiare a ridergli in faccia e poi accasciarmi sulla sua spalla e continuare a farlo, costringendo lui a fermarsi.
Rimane spiaggiato su di me ancora un po', finché non finisco di ridere, forse nella vana speranza che riprenderemo se aspetta abbastanza, ma poi si rassegna e borbotta qualcosa di incomprensibile fino ad affondare la faccia nel cuscino di fianco a me.
"Voglio scopare,” piagnucola dopo un po'.
Non c'è niente di più catastrofico per lui che non farlo. Già l'astinenza totale lo destabilizza fino a farlo diventare un'altra persona – una con la quale io generalmente non voglio avere a che fare – ma quando inizia e qualche fattore esterno gli impedisce di finire, il suo mondo va in pezzi lasciandolo solo in una valle di tenebra senza via d'uscita.
Così sospiro e gli accarezzo la schiena. “Lo faremo molto presto,” gli dico e di questo non ho alcun dubbio. Non so come e non so quando, ma lui troverà il modo di schienarmi senza che rumori molesti di alcun genere mi distraggano dal nostro obbiettivo primario.
Lui mugugna e nasconde la testa sotto al cuscino, spostandosi a disagio perché il suo corpo non si è ancora accorto che non abbiamo intenzione di combinare. “Un massaggio?” Mi offro.
"Grazie, ma la situazione potrebbe solo peggiorare.”
A me scappa da ridere, ma sono tanto bravo che non lo faccio. Non so se intenerirmi o scuotere la testa di fronte alla sua totale incapacità di gestire il proprio corpo. So che non è facile mettere il freno quando hai preso il via – sono un uomo anch'io e siamo qui per dimostrarlo – ma non ha più quindici anni, quindi dovrebbe essere in grado di tornare a controllarsi se la situazione lo richiede. E invece no, lui può solo soffrire in silenzio.
Rimango nella mia metà del letto e mi rimetto i pantaloni, tornando a guardare il soffitto che ha ancora attaccate delle stelle fosforescenti che adesso brillano un po'. Alla fine, lui un po' si riprende, striscia fuori dalla sua tana e torna ad abbracciarmi, sistemandosi comodo e senza rischi contro il mio fianco. “Dormiamo?” Mi chiede e sembra più stanco di quanto non sarebbe se avessimo effettivamente concluso qualcosa. Io annuisco e chiudo gli occhi.


*


La prima cosa che noto, aprendo gli occhi la mattina dopo, è una ciocca di capelli. In un primo momento mi rimetto a dormire perché sono stanchissimo, ma poi nel mio cervello si fa strada il pensiero che non ho più famigliarità con i capelli al mattino da almeno due anni, se si esclude la parentesi di Danny che comunque dorme con il codino, quindi i suoi capelli non si spargono in giro. Chakuza non ne ha e io continuo a tagliarli così spesso che a volte il parrucchiere mi manda via quando mi vede entrare, perché dice che non ha niente da tagliare e lo sto prendendo in giro.
A quel punto sono costretto a svegliarmi davvero se voglio risolvere il mistero dei capelli in questo letto e lo faccio sbattendo le palpebre più volte e cercando di stirarmi, per scoprire che non posso farlo perché il mio corpo è pressato tra altri due. E questo è inquietante.
Alle mie spalle Chakuza continua a dormire pacifico e mi tiene un braccio intorno alla vita, russandomi direttamente nelle scapole, tanto che il rumore me lo sento rintronare anche nella pancia. Fin qui tutto normale.
Davanti a me, però, dove ho paura di guardare, c'è una cascata di capelli biondo rossicci, una maglietta rosa aderente e la curva morbida di un fianco, tutti appartenenti a Clara.
Resto fermo e mi fingo morto.
Qualunque cosa sia successa ieri sera dopo la cena in famiglia, io non c'entro, signor Pangerl, glielo giuro. Sono sicuro che i suoi figli mi hanno drogato per poi abusare di me. La prego non mi uccida.
Nella situazione contingente il sonno mi passa del tutto, all'improvviso sono fresco come una rosa e devo capire cos'è successo. Quello che so per certo è che io non mi sono mosso da questo letto da quando abbiamo dovuto rinunciare a copulare perché scricchiolava e, a meno che uno di noi due non sia sonnambulo e sia andato a prendere Clara in camera sua – cosa altamente improbabile – allora è lei che si è intrufolata in questa stanza e, ancora più importante, in questo letto. Tra l'altro, ora che ci penso, se lei è entrata vuol dire che la porta era aperta, e se era aperta significa che ieri sera stavamo per scopare senza aver chiuso a chiave in casa dei suoi genitori. Io questo nano lo ammazzo.
Potrei continuare a fare ipotesi per ore, pur di rimanere immobile e non toccare la ragazzina nemmeno per sbaglio – che è una cosa difficile visto che è rannicchiata contro il mio corpo – ma lei decide di svegliarsi e lo fa allungandomi le braccia e le gambe addosso, fino a spalancarmi due occhi verdi identici a quelli del fratello direttamente davanti alla faccia. “Buongiorno,” mormora.
"Cosa ci fai tu qui?”
Lei ridacchia, prima di sbadigliare. “Perché?” Mi chiede, come se fosse normale che la sorella di mio marito dormisse nel letto con noi dopo che ha ormai passato da tempo i quattro anni d'età che l'avrebbero giustificata a farlo. “Non hai mai dormito con una ragazza?”
Questa è come Peter, ma uguale proprio.
"Sì, e potevano tutte votare,” ritorco. “Ora vuoi rispondermi e uscire da questo letto, per favore?”
"In quest'ordine, sei sicuro?”
"Clara,” sibilo, voltandomi a controllare Chakuza che però continua a dormire come se niente fosse. La tragedia di ieri sera gli ha tolto ogni forza.
"Stai tranquillo che non lo svegli con niente quando è in questo stato,” sussurra lei divertita. Poi alla fine disincastra le gambe dalle mie e non si dimentica di agitarle in aria prima di scendere dal letto. Cosa ne sa lei in che stato è lui, poi. “Comunque ieri sera sono andata a ballare, ho bevuto qualcosa, devo aver sbagliato stanza. Sono abituata collassare sul primo letto disponibile che generalmente è questo. Camera mia è al piano di sopra,” aggiunge con una faccia che è tutto un programma. “Così, in caso volessi saperlo.”
Sono allucinato di fronte alla sua faccia tosta. Sono sicuro che se Chakuza fosse nato donna sarebbe esattamente così; anche lei, come suo fratello, parte dal presupposto che io accetterò questo tentativo di seduzione adolescenziale, anche se sostanzialmente l'ho buttata fuori dal letto e la sto spingendo fuori dalla camera. Non legge i segnali che le mando, tanto è convinta di far centro con i suoi. La cosa più preoccupante è che, se davvero condivide con Peter questa parte di codice genetico, significa anche che non prenderà mai in considerazione un no come risposta e io non posso davvero sopportare due Pangerl. La metto nel corridoio quasi di peso. “Resta lì!” ordino, nemmeno fosse un cucciolo di cane a cui non è permesso entrare nella stanza. Sono disposto a legarla fuori se necessario. Richiudo la porta che lei sta ridacchiando e mi ci appoggio, tirando un sospiro di sollievo.
Questa casa è un inferno, ci sono Chakuza da tutte le parti.
Dopo un po' che sono lì in piedi, riapro la porta e mi sorprendo di non trovare Clara in mezzo al corridoio dove l'ho lasciata. Guardo a destra e a sinistra ma di lei non c'è più traccia e allora posso convincermi che l'ho sognata e che niente di ciò che ho vissuto in questi dieci minuti è mai avvenuto davvero.
"Che stai facendo?” La voce di Chakuza mi arriva che sono ancora mezzo dentro e mezzo fuori.
Rientro di scatto e chiudo la porta. “Niente! Ho sentito dei rumori e sono andato a controllare.”
Lui, che fino ad un secondo prima dormiva a pancia sotto e si era tirato su solo quel tanto che bastava a girare la testa e a guardarmi, come una foca, per intenderci, mi squadra con un occhio chiuso e uno aperto. Non sono nemmeno tanto sicuro che sia veramente sveglio. Alla fine scuote la testa e torna ad infilare la testa tra i cuscini, distendendo quell'enorme tatuaggio che ha sulla schiena. “Torna a letto. E' l'alba, cazzo.”
In realtà la sua sveglia di Superman sul comodino segna le nove meno un quarto, ma immagino che non sia il caso di farglielo notare. Salgo sul letto e, come mi stendo, lui mi avvolge un braccio intorno allo stomaco, tirandomi un po' più vicino.
"Che programmi abbiamo per oggi?” Chiedo, notando che le stelle sul soffitto sembrano sparire quando le inghiotte la luce del mattino che filtra appena dalle finestre. Sono troppo poetico per questa stanzetta e per lui che grugnisce di nuovo. “Alba” e poi “Dormi.”
L'alternativa sarebbe aggirarmi per casa in cerca di cibo con il rischio di incontrare suo padre o sua sorella, così mi stendo buono accanto a lui e, anche se non avevo più sonno, tra il suo calore e il generale senso di sicurezza che provo adesso che siamo di nuovo da soli io e lui, mi riaddormento come un bambino.

*

Quando dico che quest'uomo è pazzo, non lo dico tanto per dire. Io lo conosco, lo so come funzionano i suoi processi mentali e come s'incastrano le sue mille rotelline in rame. Dopo anni di frequentazione e numerosi sbagli, ora posso osservare il caos che lo governa e comprenderne a fondo i profondi abissi di tenebra. Sfortunatamente, questo mio fenomenale potere cosmico non mi aiuta ad impedire le sciocchezze che fa, ma solo a comprenderle una volta che le ha compiute. Così quando, finalmente, verso le undici si sveglia, io lo so già che il suo obbiettivo della giornata sarà una superficie che non cigoli, glielo leggo negli occhi a tavola, mentre sua madre ci riempie fino a scoppiare di qualsiasi cosa abbia in casa, scusandosi perché la torta si è bruciata e non ha fatto in tempo a farne un'altra.
Quello che non sapevo, e lo so ora, è che il posto perfetto per dare sfogo ai suoi istinti animali ce l'aveva già in mente – forse perfino da ieri sera – e che se me l'avesse detto in anticipo non ci saremmo mai mossi per raggiungerlo.
In pratica, dopo aver lasciato che sua madre mi mettesse all'ingrasso, mi dice di mettermi un paio di scarpe da ginnastica e poi mi trascina su per questa collina erbosa che da sotto non sembra, ma appena ci metti un piede sopra diventa ripida.
"Dove andiamo?” Chiedo, cercando con gli occhi un cartello per orientarmi ma qui c'è solo prato per chilometri a perdita d'occhio, quei prati verde smeraldo che sembrano di plastica da quanto sono perfetti e brillanti. E case, naturalmente, centinaia di case sparse come se una mano gigantesca avesse fatto cadere sulla valle una manciata di segnalini del Monopoli.
"Ti porto a vedere il pascolo,” fa lui, con le mani in tasca come fosse un vecchio montanaro navigato, quando fa fatica pure a salire le scale. “Da lassù si vede tutta la valle.”
"Che cosa romantica,” lo prendo in giro. “Scommetto che ci porti tutti i tuoi fidanzati.”
Lui soffia dal naso, che non vuol dire che è arrabbiato ma solo stanco di vivere, una condizione in cui si trova spesso. Ci sono momenti in cui è euforico oltre il sopportabile e momenti, come questo, in cui si guarda intorno e vede solo desolazione, anche se magari siamo in mezzo al verde, il cielo è azzurro ed è tutto perfettamente stupendo.
"Solo quelli che ho fatto conoscere a mia madre,” mi risponde mentre arriviamo in cima e imbocchiamo un sentiero minuscolo che serpeggia fino ad insinuarsi dentro un boschetto. In giro non c'è nessuno e io mi chiedo dove siano tutti gli altri austriaci.
“E sono molti?”
"Solo uno”, replica lui. Bill, beccati questa.
Sono così preso a bearmi virtualmente con la Principessa per essere arrivato dove lei non è riuscita, che non mi accorgo di lui che si è fermato e gli vado a sbattere contro. E' fortunato ad avere due spalle enormi perché io sono il triplo di lui e lo cappotterei se non fosse tanto sproporzionato. Il quasi tragico incidente, comunque, non sembra scuoterlo per nulla. Anzi, continua a scrutare non so bene cosa di preciso e io prima guardo lui, poi nella direzione generale del suo sguardo, poi di nuovo lui e non riesco a capire che cosa ci sia di tanto interessante da vedere. Quando sto per chiedergli perché, di grazia, siamo in piedi come due scemi in mezzo ad un bosco, lui stende un braccio e dice: “Là!” partendo in quarta.
Io lo seguo, più per evitare che si faccia del male che per vera e propria curiosità e quando lo trovo che sorride come un ebete sotto non so quale albero, non so bene cosa fare perché non aveva mai mostrato segni di demenza prima di adesso. “Qui è perfetto,” mi spiega, sollevando le fronde più basse che strisciano quasi a terra e mostrandomi il nascondiglio che esse racchiudono.
"Avevi detto che c'era un pascolo,” protesto, quando capisco dove stiamo andando a parare. “Io voglio vedere le mucche. Dove sono le mucche?”
"Sono qui intorno,” dice vago. E per intorno immagino intenda quei duemila chilometri di campi che ci circondano, dove se una mucca poco poco si allontana per fare una giratina, può anche sentirsi molto sola. “Vieni?”
Lo guardo, lì seduto a terra che mi tende le mani, e penso che mio marito mi ha mentito per attirarmi in un cespuglio e approfittare di me, questo matrimonio è un disastro.
"Voglio il divorzio,” protesto ancora mentre mi lascio stendere a terra, dove non è scomodo come pensavo perché l'erba è alta e morbidissima.
"Perché non ti faccio vedere le mucche?” Chiede lui ridendo e salendomi addosso con disinvoltura, come se in un momento non meglio precisato tra casa sua e questa tana da conigli gli avessi detto che non vedevo l'ora di farmi possedere sul terriccio umido, fra le braccia stesse della sacra madre terra d'Austria. Vorrei sapere quand'è successo perché io non me lo ricordo.
Come ho già detto e come ormai già sapete, perché questa lunga saga è moltissime cose fra cui un documentario sui nostri riti di accoppiamento, Chakuza, quando sa di poter andare a segno, perde la cognizione di quello che gli sta intorno, così che se, per assurdo, fossimo colti da un terremoto nel bel mezzo di un amplesso, lui prima concluderebbe e poi forse – se ha ancora abbastanza forza – si farebbe prendere dalla preoccupazione che ci si aspetterebbe da lui in un caso simile. Ci è successo di tutto mentre scopavamo, ma lui niente, dritto per la sua strada come se nulla fosse. Una volta la lavatrice ha cominciato a perdere, ma lui non se n'è accorto nonostante tentassi di avvisarlo da dieci minuti e lui stesso fosse immerso nell'acqua fino alle ginocchia.
Questa volta non è da meno, perché la sua volontà di interagire con me a parole si esaurisce nel momento stesso in cui riesce a stendermi ed infilarmi una mano sotto la maglia. In questo posto mi è più facile lasciarlo fare, soprattutto perché nessuno della sua famiglia può sentirci e questo è un bene, anche di fronte all'ipotesi che a scoprirci sia invece la forestale che ci metterebbe in galera e butterebbe via la chiave. Qualunque cosa è meglio dell'idea che suo padre capiti per caso in una stanza e trovi me piegato a novanta sul suo tavolo da biliardo dell'800 e suo figlio che manda in buca la palla numero otto con un colpo di fianchi.
Gli accarezzo un braccio e risalgo fino alla spalla e alla nuca, dove la mia presa si fa più salda.
Io sono un tipo che si perde nei baci, ma non in tutti quanti, solo quelli a misura mia e Chakuza ha imparato alla grande anche se non era partito esageratamente bene, così lo tengo lì a baciarmi finché non mi fanno quasi male le labbra e poi lo lascio andare e rilasso i muscoli delle spalle e anche tutti gli altri mentre lui si scosta per armeggiare con la sua cintura e lascia a me il compito di pensare alla mia.
Così, visto che dopo questo sarà probabilmente una cosa molto sbrigativa, perché Chakuza sta contando le ore e non avrà la forza mentale di rendere il tutto un momento particolarmente intenso, decido di prendermela comoda almeno nel denudarmi, nella speranza che il troll della foresta, qui, non si faccia venire un attacco di rabbia e mi strappi i vestiti a morsi per poi scuotere la testa in preda alla furia del momento come un un dobermann impazzito o che so io. Chakuza si trattiene, fa il bravo, ma mi infila le mani nelle mutande il secondo che ho finito di togliermi la cintura. Comunque non mi lamento perché le sue carezze sono più lente di quello che mi aspettavo e posso godermi il momento in cui mi prepara, con tutta la calma del mondo.
Il problema è che le sue mani sono così calde e lui così bravo che evidentemente non sento il rumore e di certo non lo sente lui, ormai perso nel suo mondo alla ricerca dell'orgasmo perduto, così non me l'aspetto proprio quando, aprendo gli occhi in preda all'estasi, mi ritrovo davanti due narici gigantesche e un naso rosa e tondo che occupa tutta la mia visuale.
Tiro uno strillo così acuto che mi vergognerei di me stesso se non fossi terrorizzato e faccio un salto di mezzo metro, sgroppando Chakuza che rotola via non so dove mentre io mi allontano correndo e tirandomi su i pantaloni di corsa. “Che cazzo è?” Urlo, senza nemmeno voltarmi. Mi fermo a venti metri di distanza solo quando sento il muggito un po' contrariato.
Chakuza scosta le fronde dell'albero con una mano ma resta dov'è, tanto che dietro alla rotondità della sua testa nuda vedo anche parte della mucca che agita le orecchie.
Mi schiarisco la gola, un po' imbarazzato. “E' una mucca,” dico in tono casuale, cercando di darmi un contegno.
"Che cosa pensavi che fosse?” Chiede contrariato. Ha lo sguardo di quando succede qualcosa che proprio non doveva succedere. Per esempio Bushido.
"Non lo so, ma è spuntata dal nulla.”
La mucca muggisce di nuovo e agita la coda.
Chakuza espira scuotendo la testa, ma non sembra convinto; un po' come quando lui dice qualcosa che oggettivamente non ha alcun senso e tu non puoi fare nient'altro che fissarlo allucinato mentre ti rendi conto che crede davvero di avere ragione. Ecco, ora lui mi sta guardando così, ma non ha alcun diritto di farlo, innanzitutto perché è lui e poi perché non ho detto una cosa assurda. Non è colpa mia se sono stato vittima di un agguato.
"Voleva mangiarmi la faccia,” concludo.
"Le mucche sono erbivore,” dice Chakuza, prima di rientrare nel suo talamo di verdura.
Lo seguo, ma con cautela. “Sei sicuro?” Chiedo, affacciandomi. Come metto la testa dentro, la mucca si gira verso di me e muove le orecchie.
"Sono quasi sicuro di sì,” commenta ironico, raccogliendo le nostre maglie e passandomi al volo la mia. “D'altronde hai mai sentito di uomini sbranati da un branco di pezzate?”
Io non ho idea di che cosa stia parlando, ma sto zitto e guardo la mucca mentre mi metto la maglia. Lei se ne sta pacifica lì dove l'ho lasciata e mastica erba con una lentezza che mi ricorda Eko quando mangia davanti alla TV. “Non ne avevo mai visto una da vicino.”
Chakuza si sistema la maglia e, con un gesto del tutto inutile, si passa una mano sulla testa prima di mettersi il cappellino. Lo fa di continuo e non ne vedo il motivo, visto che non ha capelli da sistemare. Temo che sia uno di quei gesti automatici che, imparati ad un certo punto della vita, poi non te li levi più. Tipo, avevo un amico che ha portato per anni gli occhiali da vista e quando finalmente si è messo le lenti, continuava a rimettere a posto la stanghetta come se l'avesse avuta ancora sul naso. “Come non hai mai visto una mucca?”
"Da vicino. Insomma viva, che non fosse in televisione oppure morta dal macellaio.”
Lui sembra sconvolto. “Non sei mai stato in una fattoria, da piccolo?”
“No, Chaku,” sbotto, anche un po' infastidito. “Non andavo da nessuna parte da piccolo perché non avevo soldi per farlo e nessuno dei miei vicini aveva una mucca.”
“Scusa,” sospira e, come ho già detto, è tipo un miracolo equiparabile solo alla comparsa della Madonna. “E' solo che mi è capitato di sentirlo dire solo dai bambini dell'asilo.”
"Stai peggiorando la situazione.”
"No, non volevo dire—Dico solo che quando porto le persone a vedere le mucche, generalmente le hanno già viste e vengono a vederle solo perché non è che ci sia molto altro da fare da queste parti e passano il tempo così. A meno che non siano bambini piccoli, allora è tutta un'altra storia perché è molto facile che quella sia la prima volta che vedono una mucca dal vivo.”
“Con quanti bambini hai avuto a che fare in vita tua, Chaku?” Sputo acido. Poteva fermarsi alle scuse, invece di perdersi a raccontare banalità varie ed eventuali.
"In realtà un sacco,” dice lui, accarezzando la mucca sulla testa. “Quando ero più piccolo e vivevo qui, venivano spesso le scolaresche a fare il giro dell'allevamento e a vedere gli animali e la produzione del latte. A volte capitava che mio padre avesse da fare, così il giro nei recinti lo facevo io.”
All'improvviso mi si forma in testa quest'immagine di Chakuza a petto nudo con la salopette di jeans e il cappello di paglia in testa – forse a quel tempo era ancora biondo platino – che spiega le mucche ai bambini affascinati, masticando una spiga di grano. Ho bisogno di tornare alla civiltà e allo smog, mi sembra evidente.
"Forza, vieni qui,” mi invita lui, incoraggiante. “E' una delle nostre, vedi?”
Per vedere il cartellino attaccato all'orecchio della mucca, che lui mi sta indicando, mi tocca avvicinarmi, ma me ne accorgo troppo tardi. E' subdolo, ora capisco come faceva ad ingannare i bambini. Comunque, a quel punto sono a due passi da lei, la mucca dico, quindi tanto vale restare. Scruto il cartellino ma ci sono sopra un sacco di numeri e timbri, quindi prendo per buono quello che mi dice lui.
"Quindi la conosci,” commento, squadrandola.
Chakuza ridacchia, grattandola dietro le orecchie. “Non siamo proprio amici amici, ma l'ho già vista da queste part. Qualcuno deve avermi detto che si chiama Carolina.”
Lo guardo storto. “Ti rendi conto che non ho cinque anni, vero?”
"Sì, è divertente per questo,” confessa lui, sorridendo con una tale faccia da schiaffi che i suoi zigomi rotondi si sollevano e diventano di un rosso acceso.
Quando è così allegro è anche molto dispettoso e io non so mai se baciarlo perché è bello o se picchiarlo perché è insostenibile. Alla fine decido per la via di mezzo e gli tiro un pugno non troppo forte.
Io e Carolina facciamo amicizia senza troppi drammi; anzi, lei non sembra neanche particolarmente interessata alla mia presenza. Se ne sta lì a masticare mentre le accarezzo la testa e il naso, finché non mi stanco e decido che le mucche sono animali molto noiosi.
Mentre torniamo verso casa, Peter continua ad essere felice e questa cosa mi preoccupa perché non ha scopato e dovrebbe essere talmente incazzato da attirare sulla valle grossi nuvoloni neri che portino nubifragi, perché se lui soffre anche gli altri devono farlo. E invece niente, cammina tranquillo lungo il sentiero e mi prende anche per mano. Sì, sbandieriamo il nostro orgoglio fra queste montagne, che se ci vede tuo padre ci brucia vivi.
Non che mi dispiaccia vederlo così rilassato e affettuoso, ma non è normale, potrebbe essere shock postraumatico, non devo sottovalutarlo; anche perché, se è solo l'effetto della campagna, ricopro il salotto di erba finta, compro una mucca e quando gli prende brutta lo chiudo lì dentro. Chissà quanto costa una mucca? Magari ne prendo due.

*

Il pranzo a casa Pangerl sarebbe esattamente come la cena a casa Pangerl, se ieri non avessimo dato la lieta novella del nostro matrimonio. Così sua madre mi trova deperito e mi riempie di cibo anche oggi, sua sorella mi guarda masticando con l'aria di una che ha in mente di fare cose diaboliche e Chakuza viviseziona l'arrosto per scoprirne i segreti, solo che il tutto avviene nel silenzio pesantissimo del capofamiglia che mangia senza guardare niente e nessuno.
Io so che non dovrei sentirmi in colpa, perché di sicuro non è colpa mia se mi sono innamorato del figlio di quest'uomo e di certo lui non può sapere quanto ho sopportato per questo nano da giardino che ha generato trent'anni fa. Di certo non è per dispetto che abbiamo deciso di stare insieme, però lo capisco e so anche che non dev'essere facile accettarlo. In fondo non è il primo e non sarà l'ultimo che, alla notizia, non ci abbraccia festoso. Ci è andata anche bene che non ci ha buttato fuori di casa a calci in culo, e questo Chakuza non lo capisce. Forse pensava che sarebbe bastato dirlo e – siccome lui non ha problemi – non ne avrebbe avuti nemmeno suo padre. Il problema di Chakuza è che è incapace di vedere le cose dal punto di vista degli altri e questo gli capita sempre, sia quando ha torto che, come in questo caso, quando ha ragione e, in entrambe le occasioni, la sua reazione è di chiudersi a riccio e non volerne sapere di risolvere la questione. Così adesso taglia la carne con gli occhi inchiodati al piatto e la mascella serrata. Fa uno strano effetto vederlo così dopo che era entrato così contento. Immagino che tutto il suo buonumore sia andato a farsi benedire nel momento in cui suo padre ha a malapena notato la nostra presenza quando lo abbiamo salutato. Il punto è che conosco Chakuza e so che è testardo come un mulo, di questo passo non farà mai pace con suo padre, ammesso che si possa.
Mi schiarisco la gola e quando parlo mi spavento da solo perché siamo in silenzio da un po' e, in confronto al tintinnio delle posate, la mia voce è molto più forte. “Sa, signor Pangerl, oggi siamo stati a vedere l'allevamento.”
D'accordo, più che altro abbiamo visto una mucca particolarmente curiosa e invadente, ma io avevo bisogno di un argomento di conversazione che potesse interessarlo, e non ne conosco altri. Se gli dico che ho una mezza idea di dare il via ad una linea di vestiti potrei solo peggiorare la situazione.
Lui rimane in silenzio ma almeno dimostra di avermi sentito, ondeggiando la testa su e giù.
“Peter mi ha detto che organizzate anche visite scolastiche,” continuo incerto, visto che la grande idea non ha sortito l'effetto sperato.
“Facciamo molte cose sì,” commenta lui vago.
“E' un'azienda molto grande, da quanto mi pare di capire.”
“Non aveva mai visto una mucca dal vivo prima d'ora,” s'intromette Peter, che forse c'è arrivato a capire quello che vorrei fare.
Suo padre rimane in silenzio per un tempo infinito e, quando poi parla, avrei preferito che non lo facesse. Nel progettare questo tentativo di fare quattro chiacchiere innocenti mi sono dimenticato di un particolare fondamentale, ossia che ho davanti la versione precedente del Chakuza. E' un Chakuza 1.0 e se già la versione aggiornata fatica a stare al passo, posso solo immaginare di cosa sia capace di non afferrare il prototipo. “L'azienda ha una secolare tradizione di famiglia,” m'informa, pulendosi i baffi rossicci con il tovagliolo. “Il mio bisnonno la passò a mio nonno, che la passò a mio padre che l'ha passata a me. E io, naturalmente, la passerò a Peter quando si sposerà.”
Trattengo il fiato e sento la signora Pangerl fare lo stesso.
”Papà,” sbuffa Clara.
“Allora sarà meglio cominciare a preparare i documenti,” commenta Chakuza. Io gli stringo un ginocchio da sotto il tavolo ma lui va avanti lo stesso. “Ti ho detto ieri che ci siamo sposati.”
Suo padre appoggia gli avambracci al tavolo e lo guarda dritto negli occhi. “Parli di un matrimonio che non ha nessun valore qui in Europa.”
“Questo non è un problema mio,” commenta lui.
I lineamenti del signor Pangerl si fanno ancora più duri. “Ne discuteremo in un secondo momento, quando questa cosa ti sarà passata.”
Provo un improvviso moto di rabbia, il primo da quando sono qui, quando lo sento dire che si tratta di una cosa. Io e Chakuza abbiamo una cosa, è vero, ma nessuno è autorizzato a definirla tale tranne me e lui, soprattutto chi non ne sa assolutamente niente.
“Ne abbiamo già discusso. Non ho più quindici anni, questa non è una fase,” esclama Chakuza, severo. “E a dire la verità non è neanche una scelta. E' così e basta. Fossi in te mi abituerei all'idea, perché questo sarà l'unico matrimonio che otterrai da parte mia.“
“Prendo il dolce?” Si intromette la signora Pangerl, con una nota nervosa nella voce. Siamo tutti impegnati a guardare intensamente cose di nessuna importanza e nessuno le risponde, così lei si risponde da sola. “Prendo il dolce,” dice, alzandosi, suppongo, per allontanarsi il più velocemente possibile da tavola. Quando torna con lo strudel c'è un silenzio tombale, Chakuza se n'è andato da tavola e io non so cosa fare.
Clara, la signora Pangerl e io ci guardiamo, mi fanno un mezzo sorriso incoraggiante.
Almeno il dolce, penso, è buono.

*


Alla fine riesco a lasciare la tavola senza dare l'impressione di darmela a gambe, nonostante lo sguardo severissimo del signor Pangerl che mi guarda come se fossi la causa di tutti i mali del mondo, quando, invece, Chakuza sarebbe sicuramente più adatto a ricoprire il ruolo; ma immagino di non poter pretendere che lo riconosca, visto che è suo figlio.
Cerco Peter praticamente per tutta la casa senza trovarlo e mi prende anche l'ansia che abbia preso la macchina e sia tornato a Berlino, dimenticandomi qui. Una persona normale non lo farebbe, ma lui non è normale, quindi nemmeno mi stupirebbe alla fine.
L'auto però è sempre fuori dove l'abbiamo parcheggiata, quindi lui dev'essere qui da qualche parte e, piccolo com'è, potrebbe trovarsi davvero ovunque.
Dopo la terza volta che apro la porta del ripostiglio per scoprire che Chakuza non è comparso magicamente sugli scaffali delle marmellate, Clara ha pietà di me e, annunciando la sua presenza con una risatina, mi dice che suo fratello quando è furioso si barrica nel fienile e rimane lì per delle ore. “E' molto probabile che lo trovi là dentro.”
Io ringrazio e quindi esco, saluto la nonna di Peter che riesce a vedermi, non so come, anche a duecento metri di distanza con un occhio cieco e quindi individuo il fienile appena dietro la casa. E' una costruzione gigantesca e, sinceramente, non so cosa se ne fanno visto che le mucche non stanno lì. Smetto di chiedermelo quando apro la porta e vedo che il Chaku sta praticamente prendendo a pugni e calci tutto ciò che si trova per le mani. E' ricoperto di paglia e fieno dalla testa ai piedi e ringhia un'imprecazione dopo l'altra mentre se la prende con una povera scala di legno. “Ehi,” lo chiamo, ma lui mi ignora, si abbatte con tutto il peso sulla scala che cade a terra facendo un gran fracasso. Immagino che se non corrono qui a vedere cosa sta succedendo, sia solo perché ci sono abituati.
“Peter,” lo chiamo di nuovo, avvicinandomi. Lui tira un calcio alla scala a terra, ma poi si ferma e sbuffa dal naso, irrequieto. “Non c'è bisogno che tu distrugga questo posto.”
“Invece sì,” sbraita lui. “Devo spaccare qualcosa.”
Ha accumulato un sacco di rabbia in questi due giorni e adesso deve scaricarla da qualche parte, così non ha pace nemmeno da fermo. Gli prendo il viso fra le mani e lo costringo a guardarmi negli occhi. “Ehi, va tutto bene,” dico sorridendo.
“No che non va tutto bene,” borbotta lui. “Non vuole capire.”
“Dagli tempo, non è facile nemmeno per lui.” Poi rido. “Non ci sei nemmeno andato leggero. Gli hai detto anche che siamo sposati.”
Lui sgrana gli occhi verdi, quasi oltraggiato. “Beh è vero.”
“Lo so, ma in questi casi si preferisce dire le cose per gradi, sai?” Rido ancora. “Non, ciao papà sono gay e mi sono sposato.”
Lui mi guarda storto, ma un po' sorride. “Mi piace dirlo,” mormora alla fine, in uno di quei momenti spiazzanti in cui dice cose bellissime senza averne la minima idea.
“A me piace sentirtelo dire,” appoggio la fronte alla sua e chiudo gli occhi, quando lui mi stringe un po' i fianchi. Rimaniamo lì in piedi per qualche minuto e lo sento calmarsi, anche il suo cuore contro il mio rallenta. “Dicevi sul serio sul matrimonio?”
“Uh?”
“Hai detto che questo è il tuo unico matrimonio." Improvvisamente mi sento in imbarazzo.
Lui solleva lo sguardo e, nel farlo, le sue labbra sfiorano le mie, così si prende del tempo per baciarmi molto lentamente, prima di rispondere. “Non lo so, dipende.”
Nel cono d'ombra tra i nostri volti lo vedo sorridere appena. “Da cosa?”
“Da cosa vuoi tu. Non posso rimanere sposato un'eternità da solo, ti pare?”
Divento rosso, credo. Ovviamente non lo so, ma ho le guance calde quindi è probabile. E' frustrante come niente mi imbarazza come lui con due parole. Immagino che anche questo voglia dire qualcosa. “Ho un anello bellissimo,” scherzo, pensando alle nostre fedi pacchiane e disuguali. “Credo che lo terrò ancora per un sacco di tempo.”
“Era quello che speravo.”
Quello che succede subito dopo è praticamente da manuale – il nostro, intendo; ma stavolta non è solo lui ad averne voglia. Mentre mi tira per la maglia verso un cumulo di fieno, spero distrattamente di aver chiuso bene la porta, quando sono entrato, ma ci sono poche speranze che l'abbia fatto perché quando sono arrivato non avevo idea di cosa aspettarmi e di certo non sapevo che avremmo finito per scopare in un fienile come nei peggiori romanzetti rosa per casalinghe disperate. Onestamente, però, non trovo il tempo di preoccuparmene mentre ci spogliamo. Per una volta, Chakuza fa le cose con calma e gli riesce talmente bene che si fa perdonare per tutte le volte che non l'ha fatto.
Ci accarezziamo guardandoci negli occhi e mi piace vedere i suoi che lentamente si fanno più torbidi mentre si perde nello stesso istante in cui mi perdo io.
Ripenso al motivo per cui siamo venuti fin qui e mi sembra che non abbia più nessuna importanza, e non perché Chakuza mi sta baciando per distrarmi da quel leggero fastidio che provoca entrando, ma perché mi rendo conto che voglio quest'uomo indipendentemente da chi di noi due aprirà i barattoli dei sottaceti. E lo voglio perché in mezzo al mare di cazzate che fa, ci sono cose di lui che adoro e di cui non posso fare a meno.
Passandogli le braccia al collo, cerco le sue labbra mentre lui si muove e lo fa con la dolcezza che di solito gli appartiene solo quando ormai è notte fonda e siamo così stanchi che quasi ci addormentiamo. Mi godo ogni singola spinta, ogni bacio, ogni carezza con la quale si sta ostinatamente impegnando a farmi venire prima di lui e non mi oppongo a questa decisione, gli permetto di spingere e baciarmi e accarezzarmi quanto vuole perché è riuscito di nuovo a creare uno spazio in cui ci siamo solo noi e non m'importa nient'altro, ed questo il motivo per cui potrà aprire tutte le porte, i barattoli e le portiere che vuole, perché a conti fatti nella mia vita solo lui c'è riuscito, lui e nessun altro. E questo basta. Dovrebbe bastare a tutti, come spiegazione.
Mentre reclino la testa e vengo tra le sue dita, ascolto il suo respiro farsi più concitato e poi aspetto quel suono un po' più forte degli altri, quel mugolio incerto e soddisfatto che accompagna tutti i suoi ultimi tremiti. Lo accolgo tra le braccia prima che si faccia da parte, me lo stringo addosso e non gli permetto di allontanarsi.
Non voglio ora, probabilmente non vorrò mai.

*


Quando alla fine ripartiamo, e siamo almeno sei ore in anticipo sulla tabella di marcia, a salutarci sulla porta di casa ci sono tutti tranne suo padre.
“Sei sicuro di non voler entrare in casa a salutarlo?” Chiedo, infilando i nostri borsoni nel bagagliaio.
“Sì,” dice.
“E' tuo padre,” insisto, inseguendolo mentre fa il giro della macchina per togliere qualche foglia caduta tra i tergicristalli.
“Appunto,” commenta, irremovibile.
In questo momento vorrei che Chakuza e suo padre non fossero due identiche teste di cazzo, perché io non posso proprio pensare che ce ne stiamo davvero andando da qui senza che questi due si salutino. Però succede. Chakuza saluta sua madre, che lo abbraccia più a lungo del dovuto, forse per scusarsi del marito, e sua sorella che lo stringe un po', prima di gettarsi tra le mie braccia e pretendere un abbraccio anche da me. Chakuza mi sorride e io allora mi sento abbastanza autorizzato a ricambiare. Le spettino i capelli come si fa con i bambini di cinque anni, però, nella speranza che riceva il messaggio. Mentre ci dirigiamo verso l'auto, lui tende la mano e io lo guardo con aria interrogativa.
“Le chiavi,” esplicita.
“Forse mi sbaglio,” esclamo, fermandomi lì dove sono mentre lui non si fa nessun problema ad arrivare fino alla portiera del guidatore. “Ma non siamo venuti qui in Austria proprio per confutare la teoria secondo la quale io sarei la tua ragazza?”
Chakuza quando lo cogli in flagrante fa come i bambini: sguardo a terra e orecchie rosse. “Pensavo che avessimo risolto,” borbotta.
Visto che l'Escalade è un'auto enorme, di lui vedo solo la sommità della testa e poco anche di quella. Così mi abbasso a guardarlo dai finestrini. “E vogliamo ricominciare?”
Chakuza sbuffa. “Lo sai che non mi piace fare il passeggero.”
Questa è la prima giustificazione sensata che mi dà da quando questo problema è saltato fuori e io la prendo per quello che è: il tentativo di avere comunque la macchina senza per questo urtare i miei sentimenti di fidanzato ferito. E' un grande sforzo da parte sua.
Gli lancio le chiavi da sopra il tettuccio.
“Ma ci fermiamo a mangiare dove dico io,” decido, aprendo la portiera.
Chakuza sorride e accetta la proposta. “Ma niente messicano, Pat.”
“Oh andiamo! Il messicano è buono. Ti piace il messicano.”
Suo padre non si fa vivo nemmeno mentre saliamo in auto e accendiamo il motore. Ammetto che un po' ci speravo di veder comparire i suoi baffi sulla porta all'ultimo minuto, come nei film. Dovrei averlo imparato, ormai, che i film non raccontano mai davvero cose reali.
Come noi due, per dire. Siamo così incasinati che in un film non funzioneremmo mai.
Rido da solo e mi chino a baciarlo sulla tempia.
Prima dei titoli di coda.

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A code of conduct in escapology

di tabata
Vi guardo – si fa per dire – e mi chiedo perché sono ancora qui a parlarvi, io, e, soprattutto, perché siete ancora qui ad ascoltarmi voi. Onestamente pensavo di aver finito di raccontare, semplicemente perché cose che avesse un senso raccontare avevano smesso di accadere; insomma, parliamoci chiaro, a parte quell'unica notte in cui tutto è ricominciato – quella in cui abbiamo trovato David mezzo sbudellato e la nostra tregua personale si è così conclusa, riportando le cose esattamente, o quasi, come stavano prima – la nostra vita è stata solo un susseguirsi di coppie che si formavano, matrimoni di dubbio gusto, feste per festeggiare le coppie che si formavano e i matrimoni di dubbio gusto, e naturalmente l'annuncio dell'arrivo di un infante, che a pensarci un attimo potevamo pure aspettarcelo, a dire il vero. Poteva l'unica coppia in grado di generare autonomamente la vita – Tom e Cassandra – non generarla in un momento delicatissimo quale questo è, facendo tremare le fondamenta stesse del regno che Bushido ha, non senza fatica, rimesso di recente in piedi? Ve lo dico io, ma dovreste già saperlo, la risposta è no. Niente di ciò che ci accade, quando accade, lo fa al momento appropriato e, se anche lo fa, di solito finisce male. Quindi, ovviamente, proprio quando Bushido ha finalmente sentito di aver di nuovo ripreso in mano la situazione – la principessa era di nuovo la sua principessa e tutti i suoi sudditi erano nuovamente riuniti intorno al suo trono e asserviti alla di lui persona – ecco che Tom gli fa presente che può controllare tutto quello che vuole ma non le ovaie di Cassandra, e questo lo costringe a realizzare molto più velocemente piani che nella sua testa avrebbero preso – e dovevano prendere – anni. E quindi, case. Case per tutti, in cerchio intorno ad un parco privato, come le tende di un campo scout. Dateci ancora un po' di tempo e ci troverete a cantare kumbaya vestiti di lino e a mangiare radici ringraziando la Madre Terra.
Comunque, vedete, non è che si sia proprio fatto vita da ghetto, da queste parti, ultimamente e io pensavo che dopo quasi due anni di morti ammazzati, cadaveri nei canali e sangue grattato via dal pavimento di magazzini fatiscenti con la candeggina a notte fonda, fosse arrivato anche per me il momento di smettere di raccontare incessantemente la mia esistenza e quella di chi mi sta intorno; anche perché, diciamocelo, ne ho di cose da metabolizzare in privato – tipo che mi sono sposato con un uomo e che sono il tutore legale di un ragazzino, per dirne due tra le più importanti – e mi avrebbe fatto comodo potermi ritirare in silenzio. Ma quando c'è calma è perché deve ancora montare il vento. Sono trent'anni che campo in questo modo, tra un uragano e l'altro, e dovrei saperlo. Diciamo che ultimamente mi sono lasciato distrarre.
Come dicevo, l'ultimo uragano ci ha restituito David Jost inciso come un'antica tavoletta sumera e, dal ritirarsi delle onde di uno dei più grossi tsunami psicofisici della nostra esistenza, è nata la NEGJ – un'etichetta sorta dalle ceneri di un disastro per arginarne un altro ancora più grosso, cosa mai potrebbe andare storto? – e per un po', dopo, abbiamo avuto la calma, solo che non ce ne siamo proprio accorti perché, tanto per cominciare, noi non sappiamo nemmeno esattamente come sia fatta, la calma, come la si vive, come la si riconosce. Voglio dire, c'è sicuramente stato un tempo in cui noi tutti vivevamo vite normali, ma è un tempo lontanissimo, che sa di leggenda. Nessuno di noi ha veramente memoria di com'era alzarsi al mattino e andare a letto la sera senza che nel tempo che divideva un'azione dall'altra fosse successo qualcosa di assurdo.
Abbiamo passato due anni in cui un giorno sì e l'altro pure la gente moriva o rischiava di farlo, veniva accoltellata o perdeva la testa, finendo a farsi una passeggiata sull'autostrada in preda alle allucinazioni. Ad un certo punto eravamo tutto così fuori dal mondo che tra uscire insieme per una pizza e uscire insieme per far sparire un cadavere, ci sembrava più logica la seconda opzione. Quando abbiamo iniziato a fare cose normali da gente normale, eravamo tutti così stanchi di vivere che non ci abbiamo ragionato sopra. Forse una parte di noi pensava anche sì, ora sto lavando i piatti dopo aver pranzato, ma vedrai se tra cinque minuti non devo correre a picchiare qualcuno da qualche parte. E' che non eravamo abbastanza lucidi per sentirla quella vocina nella testa che ci diceva vedrai, vedrai...
Poi, lentamente, ci siamo acclimatati alla nuova situazione ed è diventata normale quella – cioè, non proprio normalissima perché comunque Bushido tende un po' a rendere assurdo tutto quello che tocca – ma più nella norma, ecco. Il cervello le fa queste cose, ti aiuta ad abituarti alla situazione in cui ti trovi e spesso, se è molto diversa da quella di prima, ti fa dimenticare qual era la tua vita precedente in funzione di quella attuale, così tu vivi più sereno. Ora, a grandi linee io me lo ricordo com'era nei due anni passati e anche in quelli precedenti, me lo ricordo com'era prima che Bushido morisse e poi com'era quando Bushido è tornato – ormai gli eventi sono a.B, Avanti Bushido, o d.B, Dopo Bushido – ma sono i dettagli che mi sfuggono, è la routine, ecco, quella non me la ricordo. O forse nemmeno ce l'avevo una routine, perché tutto succedeva a caso, ecco perché non me la ricordo.
Per dire, io, onestamente, non ve lo so più dire cosa facevo tre anni fa la sera prima di andare a convivere con un nano pelato che vive l'interezza della sua esistenza cercando di copulare con me. Forse uscivo a bere. Sì, probabilmente bevevo. Adesso faccio solo due cose prima di andare a letto. La prima è costringere Danny ad andare a dormire, così magari la mattina si sveglia in tempo e non devo poi costringerlo anche ad alzarsi per andare a scuola. La seconda è tentare – e quindi fallire – di non dare il culo a Chakuza, che lo pretende come il mio culo fosse un'offerta votiva e lui fosse un qualche dio azteco pelato. E se la prima potrebbe anche essere la verità, la seconda di certo non lo è. E' questa la mia vita adesso; sveglia al mattino, defletti Chakuza, manda Danny a scuola, vai a lavorare, pranza con Chakuza, defletti Chakuza, torna a lavorare, cena con Chakuza e Danny, spedisci Danny a dormire, dai il culo a Chakuza. E alle volte non mi riesce di defletterlo durante il giorno, quindi insomma.
Ma nel mio mondo – che suona epico, mi rendo conto, ma è vero, ve lo assicuro, voi non vivete nello stesso mondo in cui vivo io, non sapete nemmeno com'è fatto davvero il mio mondo – non si dimentica mai davvero un bel niente, perché dimenticare equivale a non sopravvivere. Ricordi le regole, ricordi gli errori, soprattutto gli errori, ricordi di chi fidarti e di chi invece no, il tuo stesso corpo ha memoria: delle botte, delle carezze, dei corpi toccati e di quelli persi, delle reazioni. La memoria muscolare è un requisito fondamentale per stare per strada, dove basta l'esitazione di un attimo per non avere mai più attimi in cui esitare. E questo vale anche quando tu per strada non ci vivi più – come io adesso – perché questa, come decine di altre cose che impari sulla tua pelle quando per strada ci sei nato e cresciuto e pensi che ci resterai per sempre – perché ci resti o lei resta dentro di te – è una cosa che ti rimane incollata addosso e prima o poi, ci puoi contare, ti torna utile. E infatti succede anche a me, e un po' muoio dentro nel dirlo perché, ripeto, un po' ci speravo che invece no.
Quando Sido chiama sono le sei del pomeriggio, non esattamente l'orario in cui cominciano le tragedie. Non è notte fonda, non piove, non ci sono le sirene della polizia ad accompagnare o seguire qualcosa andato storto, perciò non mi aspetto quello che sta per dirmi né quello che, ovviamente, succederà poi; ma sto correndo e non va bene. La sua voce, però, quella è sufficiente, prima ancora che mi dica tutto, a farmi capire che la vita – la mia, la nostra, ormai non c'è differenza – è appena cambiata. E' un po' come quel film con Gwyneth Paltrow in cui il corso degli eventi dipende da dove lei decide di andare o non andare, se è più lenta o più veloce, se fa una cosa piuttosto che un'altra. Ecco, io ormai ho risposto al telefono, quindi non c'è niente che io possa fare per fermare la catena di eventi che ho scatenato involontariamente premendo il tasto verde sul mio cellulare. E infatti il mio corpo si prepara all'impatto. Capisco che prima ero rilassato solo perché ora mi tendo e sono improvvisamente un fascio di nervi.
“Patrick?” dice lui e io ho già capito che qualsiasi tregua stessi vivendo è finita e oggi si ricomincia. In parte è anche il fatto che il mio nome in bocca a lui è sinonimo di sventura. Sido è uno che si è occupato di me in un momento della mia vita in cui nessun altro lo faceva – anzi in svariati momenti della mia vita in cui sono stato abbandonato a me stesso – e quando mi chiamava per nome io sapevo che la sua pazienza era finita e dovevo riprendermi, che qualunque momento no io stessi attraversando non era più un momento, ma una situazione e le situazioni andavano affrontate. “Sono nella merda.”
Questa, mi rendo conto, è una situazione.
Infatti, chiedo subito, “Cos'è successo?”
Con quella domanda si attiva anche Chakuza. Lo vedo che si immobilizza in mezzo al salotto, sull'attenti come un pastore tedesco. Avesse le orecchie in cima alla testa, sarebbero dritte per captare il minimo suono. Sarei pure orgoglioso delle sue capacità di reazione se non sapessi che l'unica cosa che lo preoccupa in questo momento – o sempre, a dire il vero – è Bill. Esplodesse la NEGJ con tutti noi dentro, l'unica cosa che chiederebbe ai soccorritori una volta arrivato sul posto sarebbe “Ma Bill come sta?” Che, voglio dire, anche io voglio bene al ragazzino, mica lo voglio morto, per carità, ma abbi un minimo di prospettiva, ma neanche, non lo so, pensa prima a tuo marito, magari? Ogni tanto mi piacerebbe sapere che, messo di fronte alla tragedia della mia possibile dipartita, avrebbe prima un pensiero per me e poi forse per il suo amante platonico perito al mio fianco, ma non posso contare nemmeno su questo. Mi giro e gli do le spalle, che continui a interrogarsi sulle sorti della sua principessa mentre io mi occupo di cose serie.
Sido, nel mentre, è a metà tra lo stupito e l'incredulo. “Ma non ci vai su internet?” Mi chiede. “Ti ho lasciato che eri una persona normale. Un anno con quella gente e sei diventato una bestia.”
Vorrei spezzare una lancia a mio favore e dire che, di solito, sono uno che si informa sulle cose ma, ultimamente, la stampa – quella che può riguardare noi e quindi Sido, intendo – è pesante da digerire. Quando va bene, i giornalisti di settore ci guardano con condiscendenza e rassegnazione, come si fa con i bambini un po' indietro sul programma, e si aspettano di vederci finire a gambe all'aria ancora una volta. Quando va male, ci criticano aspramente o intervistano qualcuno che lo faccia al posto loro, alimentando il mercato delle diss contro di noi, il cui numero, al momento, raggiunge ampiamente le due cifre. Ci ha ricoperti di merda chiunque, non scherzo, e noi ad una certa ci siamo stancati di visitare rap.de e farci venire il sangue amaro. Se anche gli ordini dall'alto – da una parte quelli di Bushido, che ci ha messo la museruola, e dall'altra quelli di David, che gestisce la stampa su di noi esattamente come gestisce quella dei Tokio Hotel, e cioè calibrando con precisione quanto rispondere a chi e quando – non ci avessero imposto di voltarci dall'altra parte e ingoiare momentaneamente il rospo, avremmo smesso di leggere comunque. Quindi, se non ho idea di cosa stia succedendo esattamente al di fuori degli uffici della NEGJ, ho le mie motivazioni.
Ad ogni modo mi rendo conto che se Sido mi ha chiamato in seguito a qualcosa che lo riguarda e di cui si parla su internet, la faccenda è più seria di quanto pensassi. Spero solo che sia qualcosa che posso risolvere senza dover smontare il portellone posteriore di un'auto, stavolta. “Facciamo che me lo dici tu e risparmiamo tempo,” gli dico.
“Cristo,” lo sento imprecare sottovoce. “Hai presente Nyzaad?”
Devo fare mente locale, ma il nome mi dice qualcosa. Poi mi ricordo che è la ragazzina che Sido ha scritturato poco dopo essersi preso in casa Nyze. Quando lo ha saputo, Bushido è scoppiato a ridere e non ha smesso per dieci minuti buoni. Quando gli abbiamo chiesto che cosa ci trovasse di tanto esilarante, ci ha risposto che Sido doveva proprio essere disperato per prendersi i suoi scarti di seconda mano e poi scritturare una minorenne, che se voleva fare a gara di ragazzini, la NEGJ lo avrebbe stracciato anche su quello. Ora, io non lo so se sulla nostra scena musicale abbia più peso Bill o una sconosciuta che però, a differenza di Bill, fa rap, ma è pur sempre vero che scritturare adolescenti è sempre una mossa azzardata, a meno che tu non abbia per le mani il nuovo Tupac che, però, onestamente, non credo sia questo il caso. “Il tuo nuovo acquisto?” Chiedo. “Che cos'ha combinato?”
“Lei niente, ma Nyze ha fatto in modo che i giornalisti ci vedessero insieme.”
Resto in silenzio per qualche secondo, do il tempo a lui di riformulare la frase o al mio cervello di accettare quella che ha detto e, visto che lui non riformula, io mi schiarisco la voce. “In che senso?”
“Secondo te in che senso?!” Scatta lui nervosamente. “Patrick, cazzo, ma cosa sei, rincoglionito!?”
“Ma avrà sì e no tredici anni!” Mi riscuoto.
“Quattordici. Quasi quindici in realtà, ma ho problemi peggiori in questo momento.”
“Eh, non lo so se ce li hai, sai?” Commento, scettico. Dovrei informarmi meglio, ma sono quasi certo che l'età del consenso sia molto più alta. E lo so che io dovrei stare zitto perché neanche Danny era maggiorenne, ma mi piace pensare che fosse un po' più vicino alla maggiore età di questa cosina qua che, a stento, deve aver cominciato la scuola secondaria. Che cazzo, Sido!
“E' incinta,” fa lui, che evidentemente, mentre non guardavo, ha deciso che a questo punto della sua vita doveva suicidarsi professionalmente – ma anche letteralmente – e, a parte farsi esplodere in Alexanderplatz in nome della razza ariana o di quella sinti – non so esattamente quale delle due senta più vicina –, lo ha fatto nel modo più spettacolare.
“Va bene, hai vinto, hai problemi più gravi,” ammetto.
“L'etichetta mi sta già scaricando, questa cosa non può saltare fuori adesso,” fa lui.
“Per quello abbiamo tempo,” dico, cercando di fare il punto della situazione. Potremmo anche rimediare prima ancora che qualcuno lo scopra. No, anzi, dobbiamo rimediare prima che qualcuno lo scopra perché questa cosa non è assolutamente accettabile.
Lui, nel mentre, si perde dietro alla situazione di merda che dev'essere la sua vita in questo momento. “Doreen avrà sicuramente già visto le foto,” sospira. “Tornerà a casa giusto il tempo di prendermi a schiaffi, fare le valige e portarsi via la bambina.”
“Che altro cazzo ti aspetti che faccia?” Gli dico. “Che ti batta una mano sulla spalla e ti faccia i complimenti per la grandissima testa di cazzo che sei?”
“C'è dell'altro,” continua. E io apprezzo il fatto che sappia prendersi le offese quando se le merita – d'altronde non mi aspettavo niente di meno da lui – ma vorrei che non mi dicesse le cose a pezzi. “E' la figlia di Saad.”
Perfetto. A posto. Almeno adesso so perché questo è anche un problema mio. “Dove sei?”
“Barricato in studio, qua fuori è pieno di giornalisti.”
“E lei?”
Silenzio. E poi, “E' qui,” dice.
Bene, penso. L'ultima cosa che ci serve è un'adolescente nel panico braccata dai giornalisti. Sarebbe una mina vagante e le mine vaganti sono sempre pericolose; ma questo è tutto quello che so riguardo a situazioni del genere. Quando ero ragazzino e Arafat aveva un problema, di solito era un problema che andava fatto sparire, perciò sono ferratissimo su quel tipo di risoluzione, ma qui la situazione è diversa e ci vuole un tipo di tatto che non sono sicuro di avere. Mi serve un esperto di micromanagement che abbia esperienza con i media. Fortunatamente – tra tutte le sfighe – ne conosco uno. “Dammi dieci minuti,” dico a Sido. “Ti richiamo.”
Quando mi volto, trovo Chakuza che mi guarda con apprensione e, da come stringe le dita intorno alla bottiglia d'acqua che tiene in mano, sospetto non si sia mosso dall'ultima volta che l'ho guardato, circa un quarto d'ora fa. “Lui sta bene,” gli dico, ponendo fine alle sue inutili sofferenze. E vi giuro che vorrei prenderlo a schiaffi quando vedo tutto il suo corpo rilassarsi. Non ho nemmeno specificato chi, ma io so che lui sa che io so di chi gli interessava sapere. “Era Sido.”
La sua faccia si accartoccia in una smorfia fuori luogo in qualunque situazione, ma soprattutto adesso. “E cosa voleva?”
“E' nella merda.”
“E quindi?” Fa lui.
“E quindi ora chiamo Jost,” rispondo.

*

Chakuza impiega dieci minuti per decidersi a parlare e io apprezzo che abbia almeno prima tentato di stare zitto, sebbene senza riuscirci. Sono progressi che accolgo con la gratitudine che di solito si riserva ai miracoli del divino. “Non capisco perché dobbiamo farlo,” mi dice, mentre rallento al semaforo.
“Perché è una nostra responsabilità,” rispondo.
“Perché?” Insiste lui.
Si è voltato a guardarmi, così lo guardo anche io. “Perché è la figlia di Saad,” rispondo. Dovrebbe essere una ragione sufficiente per chiunque fosse coinvolto nella questione, ma non lo è per lui, evidentemente.
“E allora? Non l'abbiamo mica messa incinta noi.”
E meno male, penso. Almeno questa l'abbiamo scampata. Per una volta, essere tutti omosessuali ci torna utile. Le gravidanze indesiderate non ci appartengono. “Ma che c'entra?! Non è per questo che stiamo andando a prenderla.”
Quando ho chiamato David, lui non ha fatto domande, ha solo preso atto della situazione. A trovare soluzioni in breve tempo ha imparato facendo il manager, ma a farlo qualunque siano il problema e la situazione glielo ha insegnato Bushido. E' incredibile con quanta elasticità mentale sia passato dalla sua vita precedente a questa e poi le abbia unite diventando, non lo so, l'assistente definitivo. Ad ogni modo, mi ha detto che in nessun modo possiamo lasciare che la stampa abbia modo di vedere – e meno che mai parlare con – Nyzaad. Nelle prossime ore, mi ha spiegato, l'Aggro Berlin farà di Nyzaad una martire e userà Sido come capro espiatorio, prendendo le distanze da lui – lo ha detto con la sicurezza di uno che ha già visto il futuro e io non so se è perché gli è già capitato altre volte o se questa è la prassi standard per le etichette quando il nome di punta che le rappresenta si porta a letto una minorenne – il che significa che Sido si ritroverà molto solo e molto in fretta. Qualsiasi dichiarazione ufficiale da parte sua dovrebbe essere gestita con attenzione. Posso farlo io, mi ha detto, ma non senza il consenso di Bushido, e il solo fatto che abbia pensato a questo dettaglio vi dà la misura di quanto ne capisca, David, di tutto quanto. Gli ho detto che ovviamente capivo e poi abbiamo concordato che, in ogni caso, intanto possiamo occuparci di far sparire la ragazzina. E con sparire intendo mettere in un posto sicuro, ha specificato. Pensa come sarebbe stato se, per dire, avessimo avuto una di quelle incomprensioni linguistiche da film sulla mafia di serie Z.
“Tra l'altro,” prosegue Chakuza dopo un'altra preziosa parentesi di silenzio, “quanti anni hai detto che ha questa?”
“Quattordici o quindici.”
“Ecco, quindi stiamo anche andando ad aiutare un delinquente,” continua. “Ci manca solo che ci accusino di favoreggiamento.”
“Certo, perché se non fosse per quello che stiamo andando a fare, saremmo due persone che non hanno mai fatto niente di illegale in vita loro,” commento.
Lui incrocia le braccia al petto, diventando sostanzialmente una palla. “Almeno non siamo pedofili,” borbotta.
E' difficile dargli torto, ma non mi va di discutere su questo punto specifico, quindi cerco di spostare la sua attenzione altrove. “Vedila così,” gli dico. “Lascia perdere Sido, pensa a lei, a noi due, e forse anche a qualcun altro, conviene darle una mano. Non fosse altro che per il karma, tu cosa dici?”
Questo, ovviamente, lo zittisce per tutto il resto del viaggio.
Sido ha uno studio privato che comprò quando all'Aggro c'era ancora Bushido. Ai tempi, prima di Doreen, lo usava principalmente per portarci le groupie. Poi, quando è arrivata Doreen, ha cominciato ad andarci a lavorare davvero perché in casa c'era la bambina e agli studi dell'etichetta c'era troppo casino. Sarebbe stato perfetto se, ora che siamo tornati alle groupie, avesse ripreso ad usarlo, almeno non dovremmo eseguire questa manovra strategica di estrazione direttamente dagli studi dell'Aggro Berlin. L'unica cosa buona di questo posto è che è all'interno di un palazzo che ha un parcheggio sotterraneo. Le poche gioie che sto collezionando stamattina me le tengo strette. Faccio il giro del palazzo e vedo che qualcuno dei fotografi ci segue con lo sguardo, ma sia io che Chakuza siamo irriconoscibili sotto la tesa del cappellino e il cappuccio della felpa, perciò tornano tutti immediatamente a fissare le finestre del secondo piano che sono chiuse e con le tende tirate.
Sido ci accoglie con la faccia di uno che ha perso il controllo della propria vita ormai da giorni e non ha la minima idea di come recuperarlo. Le mani gli tremano così forte che a stento riesce a tenere in mano la tazza di caffè che ogni tanto si porta alla bocca. Non sono abituato a vederlo in questo stato. Lui mi fa un cenno mentre attraversiamo la porta e poi si acciglia quando riconosce Chakuza. “Lui cosa ci fa qui?”
“Me lo sto chiedendo anche io,” borbotta lui. “Quindi facciamoci un favore ed evitiamo l'argomento.”
Sido annuisce. Sospetto che, in questo momento, gli andrebbe bene qualunque cosa che possa in qualche modo tirarlo fuori dalla merda in cui si è infilato.
Io mi guardo intorno, come sono abituato a fare quando entro in un posto nuovo. All'inizio era una questione di sopravvivenza – quando avevi in spalla uno zaino pieno di droga che non ti apparteneva, non mettevi piede in una stanza senza avere idea di quanta gente ci fosse dentro e chi fosse quella gente – poi questa cosa mi è rimasta addosso, come tutte le altre, e ho cominciato a farla per abitudine. Entro in posta, al supermercato, in banca, e conto i cassieri, le guardie armate, le vie di fuga. In questo momento, però, mi sembra che questa abilità che ho sviluppato e affinato negli anni sia tornata al suo scopo originario. E infatti, appena metto piede nello studio, mi passa per il cervello il pensiero che forse è una trappola e ci siamo cascati con tutte le scarpe. Magari non c'è nessuna ragazzina incinta e volevano solo farci fuori. Se vogliono ammazzare me, penso, è per colpire Bushido perché lui, sì, uscirebbe di testa se io morissi. Mi rendo anche conto che sono da solo perché Chakuza io lo amo, ma lui è utilissimo solo se ti serve una cena per dieci persone pronta in un paio d'ore, ma in uno scontro armato è come portarsi dietro un bambino. Di buono, si fa per dire, c'è che sarebbe uno scontro armato molto breve, comunque, perché io non ho una pistola.
Nello studio, però, non c'è nessuno a parte Sido, che sta già facendo strada a Chakuza, il quale naturalmente non ha nemmeno pensato all'eventualità che questa potrebbe essere la nostra tomba. Mi rilasso leggermente e do un'ultima occhiata, tanto per stare tranquillo, e sto per chiedere dove sia la ragazzina, quando una porta di cui non mi ero accorto in fondo al corridoio si apre – bravo, Fler, penso, bella ricognizione – e ne esce questo esserino biondo che si pulisce la bocca con il dorso della mano.
Anche se non sapessi chi è, la riconoscerei comunque perché la guardo e vedo sua madre nella delicatezza del suo viso e nei suoi capelli dorati – non biondi, dorati proprio – come quelli di Greta. Ma soprattutto la guardo e vedo suo padre nella rabbia violenta con cui mi sta fissando. E' la sintesi esatta dei suoi genitori, e un po' ne ho paura, perché so che a spingerla è il rancore di Saad e a tenerla in piedi è la dignità di sua madre, e queste due cose insieme sono pericolose.
“Che cosa ci fai tu qui?” Mi ringhia addosso. Poi la vedo che sposta lo sguardo dietro di me, perché Chakuza, evidentemente, si è avvicinato. “Ah, siete venuti entrambi, vedo. Vi ha mandato lui, immagino. Perché è così che funziona, no? Lui ha un problema, voi vi sporcate le mani.”
E io lì capisco con orrore cose che avrei preferito non sapere. Che questa ragazzina sa tutto, per esempio. E non ho alcun dubbio che lo sappia e che non stia fingendo perché glielo leggo in faccia e perché so – semplicemente lo so, perché è una cosa che avrei fatto anche io – che sua madre le ha detto tutto quando ha reputato che fosse il momento giusto. Solo che, Greta, Cristo, Greta, non voglio dirti come crescere tua figlia, ma era troppo piccola per sapere. E' troppo piccola perfino adesso. Mi scambio uno sguardo con Chakuza che, miracolosamente, è al passo con la situazione; sarà che lo spettro della galera lo rende reattivo.
“Siamo qui per aiutarti,” le dico.
“Nessuno vi ha chiesto niente!” Sibila Nyzaad, che si pianta in mezzo al corridoio con aria di sfida. Sono sicuro di poterla sollevare con un braccio solo – peserà quaranta chili bagnata – ma sono anche certo che prima di permettermi di farlo troverebbe il modo di prendermi a calci e pugni finché non ci ripenso.
“Li ho chiamati io,” si intromette Sido, avvicinandosi.
“Beh, nessuno ha chiesto niente neanche a te, Paul!” Fa lei.
Mi fa strano sentirla chiamare Sido per nome perché non lo faccio nemmeno io. Lo fa solo Doreen. E allora capisco un'altra cosa importante, che il livello di intimità fra questi due è molto più profondo di quello che mi aspettavo e questo complica le cose.
“Ci serve una mano per uscire da questa situazione,” le spiega pazientemente lui.
“E la chiedi a loro?” Fa lei.
Lui sorride amareggiato. “Al momento sono un po' a corto di amici,” commenta.
“Loro non sono tuoi amici.”
Sido si stringe nelle spalle con la rassegnazione di qualcuno che fa fatica a vedere tutto o bianco o nero come fa lei che è una ragazzina e, sicuramente, divide il mondo in amici e nemici, dove i nemici sono quelli che le hanno ammazzato il padre e gli amici sono quelli che la aiuteranno ad ammazzare noi, suppongo. Il mondo non va quasi mai così, ovviamente, però lo capisci solo quando cresci. “Questo passa il convento,” commenta Sido. “Fatteli bastare. Ti prendo qualcosa da bere.”
Quando lui sparisce nel cucinotto, lei ci guarda e le sue intenzioni nei nostri confronti sono così chiare che io davvero non so bene come finirà questo stallo alla messicana nel corridoio.
“Non ho bisogno del vostro aiuto,” ci informa, superandoci entrambi e guidandoci nel corridoio. “Mi basta uscire di qui e dire quello che so al primo giornalista che incontro.”
“Non hai nessuna prova,” le faccio notare. Lo so che è un azzardo – le prove non ci sono adesso, ma il cadavere salterebbe fuori a dragare il canale e io non lo so se non ce ne sarebbero su di lui – ma non ho molta altra scelta.
“Mia madre potrebbe confermare.”
“Tua madre conosce le regole,” le dico seriamente.
Lei mi guarda con una tale quantità di oltraggio negli occhi che mi sentirei in colpa se mantenere questa recita non fosse di vitale importanza per me e Chakuza, principalmente, ma per tutti quelli che ci stanno intorno. “Non venirmi a parlare di regole!” Mi dice. “Avete ucciso mio padre per niente!”
“Tuo padre aveva ucciso Bushido.”
“Bushido non è mai morto!”
Ed è sempre quello il problema, mi dico, che Bushido non è morto. La quantità di casini che ci sono capitati tra capo e collo nell'ultimo anno dipende tutta, ma proprio tutta, da questa semplice constatazione: Bushido doveva essere morto e non lo è. Quando se n'è andato, noi abbiamo perso un pezzo e ci abbiamo costruito intorno e quando è tornato, lui si è ficcato a forza nel posto che aveva lasciato libero, ma c'è qualcosa che non va. E' come quando guardi un muro con un mattone che è leggermente più chiaro degli altri : è un mattone, è nel posto giusto, ma lo noti subito, lo noti troppo, come qualcosa di sbagliato. E così torniamo sempre lì: se Bushido fosse rimasto morto, ora...
“E' stato un regolamento di conti,” insisto. “Noi non potevamo sapere.”
“Questo non è un mio problema.”
Ho questa ragazzina davanti e non posso darle torto – non sono Bushido, non riesco a pormi di fronte al mondo credendo fermamente di avere sempre ragione – ma è difficile convincerla a fare come dico io quando è chiaro che la cosa più ragionevole da fare è quella che dice lei. Con Bushido in vita, Saad è morto inutilmente: l'unica soluzione è pareggiare i conti. “Nyzaad, questo non riporterebbe in vita tuo padre.”
“Però quando vi siete vendicati di mio padre, Bushido è tornato in vita,” dice lei.
“Solo perché non era mai morto,” le faccio notare.
Lei alza gli occhi al cielo. “Lo so, idiota, non sono mica ritardata,” mi dice, disgustata dal fatto che non colgo il suo frizzante senso dell'umorismo. “Ma a me non importa se questa volta non funzionerebbe, io voglio solo che la morte di mio padre venga vendicata e che la feccia che siete finisca dove merita. Una volta tolti di mezzo voi, anche il regno del re dei re avrebbe finalmente fine come è giusto che sia. Queste sono le regole. Mia madre non le ha capite per niente.”
Non è così facile, penso. Se lo fosse, Nyzaad, le nostre faide non durerebbero anni. Non ci lasceremmo per poi riprenderci per poi odiarci per poi trovarci ancora e perderci il giorno dopo. E quando arrivi ai coltelli, prima, e alle pistole poi, le cose si fanno ancora più complicate perché i limiti fanno presto ad essere oltrepassati. E io lo capisco che, occhio per occhio, tu vuoi giustizia per un cadavere – l'unico che è rimasto per terra alla fine della storia – ma non te la posso concedere, e io credo che non lo farebbe nemmeno tuo padre perché lui saprebbe che abbiamo agito com'era giusto per quello che sapevamo allora. Lui saprebbe che in qualche modo contorto siamo pari, noi e lui, perché abbiamo tutti guadagnato qualcosa – poco – e perso qualcosa – tanto, troppo. Ma come lo spiego a te, che ci hai solo rimesso?
Sto per aprire bocca, anche se non so bene cosa dire, ma Chakuza mi precede e io mi preoccupo perché se c'è una possibilità di peggiorare la situazione esprimendo un pensiero, lui di solito lo fa. E qui ce ne sono parecchie; e invece. “Avresti potuto farlo in qualunque momento,” dice, con una calma che non gli ho mai sentito nella voce. Si gira lei e mi giro io, e lo guardiamo. “Parlare con i giornalisti, intendo, ma non lo hai fatto. Sei qui da ore.”
Lei guarda altrove arrabbiata, incrociando le braccia al petto. “Potrei farlo adesso.”
“Certo,” annuisce lui. Chakuza, non ti seguo, dimmi che hai un piano. “Ma ci sarebbe un processo e tu non potresti sparire. Indagherebbero su questa storia delle foto, scoprirebbero la tua situazione e Sido ci andrebbe di mezzo.”
Lei pianta gli occhi sul pavimento. “Potrebbe non esserci nessuna situazione da scoprire.”
“A meno che tu non voglia farlo in casa, troveranno la tua cartella clinica, te lo garantisco,” le dice Chakuza, come se lo sapesse con assoluta certezza. “Sido ha quasi trent'anni e tu sei minorenne, finirebbe nella cella accanto alla nostra e butterebbero via la chiave. Ma non te lo devo dire io, questo, vero?”
Lei non risponde, ma sa che è la verità; e mentre lei si appoggia al muro sbuffando come l'adolescente che è, io guardo Chakuza e sono pieno di meraviglia, perché quest'uomo sostanzialmente quasi sempre inutile sa essere pieno di sorprese, a volte. O forse è solo che Nyzaad è una ragazzina – ancora più piccola della nostra illuminata sovrana – ed evidentemente a mio marito, quando si tratta di adolescenti e preadolescenti, scatta qualcosa nella testa e diventa un'altra persona. D'altronde avrei dovuto saperlo perché l'ho visto con sua sorella, ma soprattutto l'ho visto con Danny: nonostante sia geloso di lui, gli prepara tre pasti al giorno ed è riuscito, con un polso di ferro che non ha neanche per se stesso, a dargli una routine, neanche fosse sua madre. Forse abbiamo trovato un posto per lui in questo circo che siamo diventati: lui si occuperà delle pubbliche relazioni con chiunque sia sotto i vent'anni.
Sido sceglie quel momento per rientrare con una tazza di tè fumante. “Ecco, tieni,” le dice, porgendogliela. Dopo la discussione che abbiamo appena avuto questa scena è surreale, ma poi mi rendo conto che siamo tutti – ma proprio tutti – così spostati che a quanto pare stiamo recitando nella prima commedia romantica sulle gang di strada mai prodotta. Gang's Anatomy, o qualcosa del genere.
Nyzaad prende la sua tazza di tè e si stacca dal muro. “Vado con loro,” annuncia poi, prima di sparire nel corridoio.
Sido guarda prima lei e poi noi. “Come l'avete convinta?” Chiede, e c'è del sollievo ma anche della meraviglia nei suoi occhi stanchi.
“Non senza difficoltà,” commenta Chakuza, che mentre non lo tenevo d'occhio si è seduto su divano e sta facendo zapping come se nulla fosse. Lo conosco abbastanza da sapere che si è già scaricato. Qualsiasi tipo di tensione lo tenesse sull'attenti finora si è esaurita nel momento in cui ha capito che siamo riusciti ad ottenere quello per cui siamo venuti. “Fortunatamente è più sveglia di te e ha capito la situazione.”
Sido gli lancia un'occhiata storta nella quale riesco a vedere l'eco dell'uomo che era solo qualche mese fa quando sono tornato a vivere a casa sua perché Chakuza mi aveva fatto infuriare. Ricordate quando Chakuza poi è venuto a prendermi? Ecco, quella volta lì. Ma a quanto pare per lui era una vita fa. La conosco bene questa sensazione di ere geologiche che si susseguono all'interno di brevissimi periodi di tempo. Io, per dire, sono alla quarta.
Comunque sia, Sido mi afferra per un braccio e mi tira da parte in un angolo dello studio dove né Chakuza né Nyzaad possano sentirci e mi guarda serio. “Ascolta, io lo so quello che sa Nyzaad,” mi dice senza girarci intorno. “Lo so perché me lo ha detto lei, ma lo avevo intuito anche prima perché Saad di certo non aveva lasciato Berlino di sua spontanea iniziativa e a farlo sparire non potevi essere stato che tu.”
“Sido—“
“No, ascoltami. L'ho capito appena ha cominciato a girare la voce e non mi interessa. Quello che avete fatto è una questione vostra e io non voglio entrarci,” mi interrompe prima che possa anche solo provare a spiegargli le mie motivazioni o, non lo so, a giustificarmi perché a dirgli la verità è stata una ragazzina di quattordici anni che voleva rovinarmi e non io, dopo tutto quello che lui ha fatto per me. “Voglio solo che tu sappia che non le avrei mai permesso di trascinarti nella merda ed è per questo che siamo in questo casino.”
“Sido, non so di che cazzo stai parlando.”
Lui mi guarda con determinazione e poi mi abbraccia. “Avremo modo di parlarne, ora portala via,” mi dice, senza chiarire assolutamente niente.
Vorrei fargli delle domande, ma Nyzaad è appena tornata trascinandosi dietro uno zainetto grande abbastanza per contenere appena un cambio e poco altro. Chakuza si fa avanti per prenderlo – il suo animo da cavaliere servente si è acceso come un fiammifero, lui stesso d'altronde lo sembra, – ma lei non ci pensa neanche a lasciarlo andare. Se lo sistema meglio sulla schiena e incassa le spalle, quasi sparendo sotto una felpa che è il triplo di lei. “Come ci muoviamo?” Chiede.
Ci muoviamo che devi diventare invisibile, bambolina.

*

Ad un certo punto della mia esistenza – quando ho cominciato a cantare, per la precisione – ho giurato a me stesso che non avrei mai più fatto il corriere per qualche signore della droga. Il mio intento era trovarmi un lavoro vero, cantare possibilmente, non iniziare a contrabbandare esseri umani. Ma, come dice sempre mia madre, al proprio destino non si sfugge mai. Sarebbe solo carino, per una volta, non avere un destino di merda. Così, per cambiare. Invece eccomi qua, mentre due ali di folla si aprono al passaggio della mia auto che avanza a due chilometri orari per non mettere sotto nessuno. Nella mezz'ora – contata, giuro – che siamo stati nello studio di Sido, il numero dei giornalisti è triplicato. Sanno che si trova nello studio e sanno che prima o poi dovrà anche uscirne, perciò aspettano. Tutto sta nel vedere chi si stancherà prima, loro o Sido.
Io cerco di non apparire rigido al volante mentre qualcuno di loro – troppo, troppo vicino – sbircia dentro l'auto per capire se siamo interessanti. Sto sudando come se nel bagagliaio avessi dieci chili di coca appena arrivata dalla Colombia e invece ho soltanto una ragazzina distesa sul pavimento dell'auto, sotto una vecchia coperta. Non che sia meglio della droga, ma insomma.
“La vedranno,” sussurra Chakuza, o la statua di sale con le sue sembianze che mi è seduta accanto in questo momento. Era tranquillo finché eravamo nel parcheggio sotterraneo, si è pure occupato di nascondere Nyzaad personalmente, mentre io chiamavo Jost per tenerlo informato. Era talmente sicuro di sé che sembrava avesse passato la vita a nascondere minorenni, ma quando ha visto la folla che ci aspettava davanti agli studi, si è irrigidito e non si è più mosso. Colpa mia che gli ho detto di comportarsi normalmente per non destare sospetti. Cosa vuoi che ne sappia, Chakuza, di cosa sia la normalità.
“Non la vedranno,” rispondo, guardando dritto davanti a me, un po' per evitare di investire qualcuno e un po' perché sto cercando di mantenere la calma e lui non è famoso per avere su di me un effetto rilassante.
“Ci stanno addosso,” insiste lui.
“Ma non sanno chi siamo né che cosa trasportiamo,” dico. E poi Nyzaad è così minuta che, rannicchiata, riesce ad occupare solo lo spazio dietro al mio sedile. E' quasi come se sotto quella coperta non ci fosse niente. O forse questo è quello che vorrei, che nel tragitto dal parcheggio dello studio a qui fosse sparita, come un leprecauno.
Il leprecauno, però, parla. “Potrebbero chiederselo se non ti dai una mossa,” dice infastidita. “Se rallentiamo ancora un po', torniamo indietro nel tempo.”
Chakuza ride e io gli lancio un'occhiata che lo avvisa di quanto non scoperà stasera. Vedo la vita abbandonare i suoi occhi mentre perde il sorriso. “Silenzio, i mucchi di coperte non parlano.”
“Ti odio,” fa lei.
“Come farò a vivere d'ora in poi?” Commento, suonando il clacson perché si spostino. Va bene passare inosservato, ma di questo passo non ce ne andremo mai. Tutte le occhiate che riceviamo a quel punto me le sento addosso quasi fisicamente. Ora qualcuno ci riconosce, penso. Uno di questi giornalisti guarderà dentro la macchina e vedrà il sole riflettersi sulla fronte lucida di Chakuza. Siamo perduti. E invece no, la divinità che protegge i delinquenti ancora una volta ci arride. La gente si sposta, premo sull'acceleratore, siamo liberi.
Non appena siamo fuori dalla visuale dei giornalisti e ben avviati verso la nostra destinazione, mi permetto di tirare un sospiro di sollievo, che lo so che porta sempre male – questa volta no, però, giuro – ma ne ho bisogno, praticamente sto trattenendo il fiato da quando siamo arrivati. “Puoi venire fuori,” dico.
Percepisco Chakuza al mio fianco liberarsi dall'incantesimo e tornare un bambino vero e poi vedo la testa bionda di Nyzaad fare capolino dal sedile posteriore attraverso lo specchietto retrovisore. I suoi capelli sono un casino spettinato sopra la sua testa e quella felpa la fa sembrare ancora più piccola – non ci voglio pensare – mi sembra di portare in giro il mio cuginetto di quattro anni, se ne avessi uno e fosse femmina e fosse in realtà adolescente e incinta di uno dei miei più vecchi amici. Faccio due conti e penso se siamo ancora in tempo per scaricarla nel primo consultorio disponibile e poi andarci a gettare anche noi nel canale con tutta la macchina.
Nyzaad si sistema comoda e guarda fuori dal finestrino. Siamo già fuori da Tempelhof e nei quartieri alti dove un tempo – la sua era geologica precedente, immagino – viveva anche lei. Anzi, non siamo lontani da casa sua, se non ricordo male. Se se ne accorge, non lo dà a vedere. “Dove stiamo andando?” Mi chiede.
“Perché, hai delle preferenze?” Rispondo.
“Magari sì,” fa subito lei. “Fosse per me, gireresti la macchina e torneresti da dove siamo venuti. Da queste parti c'è solo gente con la puzza sotto al naso e i soldi che le escono dal culo.”
“Uscivano dal culo anche a te,” faccio presente.
“Da quello di mia madre,” precisa. “Ti sembro una che ne ha approfittato?”
No, penso. Poteva essere una ragazzina viziata che finge di fare la dura, ma dopo due giorni passati a dormire al freddo del ghetto torna indietro dalla mamma piangendo e invece lei si è trasformata. Ha lasciato indietro la sua vecchia pelle quando ha messo piede a Tempelhof ed è diventata qualcos'altro, anche se non so ancora cosa. E' coriacea, però. Fatta per resistere, come noi.
“Tempelhof non è un bel posto dove passare il tempo nascosti,” le dico.
Lei sbuffa. “Ma se non ci credi nemmeno tu?” Mi dice. “Comunque non hai risposto. Se fossi al mio posto non vorresti sapere dove stai andando?”
“Certo, ma sono al mio posto e non ho bisogno di chiederlo perché lo so.” Mi volto appena per sorriderle, ma lei non ricambia. Tutta quella rabbia che le vortica dentro senza un posto dove andare io me la ricordo, la provavo anche io e faceva male. Io, però, almeno non ero costretto a viaggiare dentro una macchina in compagnia degli assassini di mio padre. Io non ce l'avevo neanche un obbiettivo su cui scaricare la rabbia – l'universo, lo stato, il sistema? – ero arrabbiato e basta, quindi a lei deve fare ancora più male. Siamo qui, le mani macchiate di sangue, e lei non può farci niente.
Ad ogni modo, la sto portando a casa di Bushido, come mi ha detto di fare David. Quando gli ho fatto presente che poteva non essere la scelta migliore perché lei lo odia, David mi ha detto che ne era consapevole – Come? Che ne sai tu di questa ragazzina quando io la conosco da malapena due ore? Quanti occhi hai? Ti servi di un sistema di spionaggio di cui non siamo a conoscenza? Bushido lo sa? – ma che non abbiamo altra scelta. Serve una casa in cui possa sparire e nessuno di noi ne ha una sufficientemente grande che possa servire allo scopo. Ancora, per lo meno. Ho visto i progetti delle case che Bushido sta facendo costruire e, onestamente, non so se fra me e Chakuza abbiamo abbastanza mobili per riempire metà delle stanze. Quando litigheremo là dentro l'eco delle nostre urla andrà avanti per mesi e mesi.
Inoltre, e questa in realtà è una cosa fondamentale, da e verso la dimora reale c'è un costante via vai di auto ogni giorno, quasi a tutte le ore. Quando arriveremo e quando, una volta sistemata la faccenda, lei se ne andrà, nessuno noterà la differenza. Non sarebbe stato altrettanto facile se avessimo cominciato a fare avanti e indietro da una casa presa in affitto o da una delle nostre attuali case.
Non so quanto sia informata lei sulla Villa Gialla, o se ci sia mai stata quando era più piccola, ma spero onestamente che non capisca dove siamo diretti finché ormai non siamo dentro, non vorrei che decidesse di fare una botta di testa, aprisse lo sportello e si gettasse in strada. Anzi, va, fammi mettere la sicura alle portiere. Chi se ne accorge, naturalmente, è Chakuza – neanche lui era al corrente della destinazione – e lo vedo che si innervosisce subito perché non era pronto. Forse sta anche pensando che è uscito di casa con i primi vestiti che ha trovato, che non è pulito o sbarbato come dovrebbe, non è nella condizione appropriata, insomma, per presentarsi al cospetto della principessa. Peccato, Chakuza, il ragazzino dovrà accettarti per quello che sei: un nano impresentabile dal quale si è fatto entusiasticamente scopare per più di un anno. Non so se sarà in grado di affrontare la realtà. So per esperienza personale che ci vuole parecchio tempo.
Apro il cancello con il nuovo codice che Bushido mi ha dato e parcheggio accanto alla sua BMW e alla nuova Ford Lincoln che, a quanto pare, ha attraversato l'oceano atlantico per raggiungerlo. La terza, quella delle occasioni che ufficialmente non sono mai avvenute, è tornata sotto il telo fino a quando non servirà di nuovo. I cani ci vengono incontro abbaiando e scodinzolando. Nyzaad ride per la prima volta da quando l'abbiamo incontrata e accarezza la testa a Skyline, questo temibile e ferocissimo cane da guardia che si mette subito disteso e agita la pancia per farsela grattare.
“Togliamoci da qui”, le dico. Vorrei farla giocare con il cane, ma ho fretta di portarla dentro. Questo giardino ha i muri molto alti, ma non sarò tranquillo finché non la saprò in un posto dove nessuno può vederla.
Karima ci apre e ci fa accomodare nel salotto buono dove Bill ci raggiunge pochi minuti dopo, il viso serio e preoccupato perché ci siamo presentati senza preavviso. “E' successo qualcosa?” Chiede subito. “Stanno tutti bene?”
“Sì, tranquillo,” risponde Chakuza e si fanno questo mezzo sorriso che mi fa sempre prudere le mani perché, per un momento, si isolano e non c'è nient'altro per loro. E il modo che hanno trovato per gestirsi a vicenda senza fare danni, credo, ma i ceffoni che mi leverebbero dalle mani, se solo mi permettessi di perdere il controllo come a volte fanno loro due, inizierebbero a contarli ora e andrebbero avanti per i prossimi sei mesi.
“Siamo qui per un altro motivo,” informo la nostra principessa col pisello, così che possa pelare via gli occhi dal mio uomo e tornare a ricomporsi. “Bushido c'è?”
“No, mi ha chiamato poco fa. Torna più tardi, perché?”
“Vieni qua,” lo prendo per un braccio e lo tiro da parte mentre Chakuza spinge gentilmente Nyzaad verso il divano e le dice di accomodarsi. I cani, entrati in casa con noi, sono impazziti di gioia per la presenza di una persona nuova e fanno su e giù dal divano e dalle poltrone, abbaiando e cercando di attirare la sua attenzione.
“Chi è quella?” Bisbiglia Bill, lanciando un'occhiata alla ragazzina.
“La figlia di Saad,” rispondo. Si ricomincia.
Lui si volta di nuovo a guardarla, ma Nyzaad è troppo presa dai cani per accorgersene. Bill si volta di nuovo verso di me, gli occhi sgranati. “E cosa ci fa qui?” Bisbiglia ancora.
“E' nei guai e ha bisogno di un posto dove stare,” gli spiego molto semplicemente. “Solo per un po', finché non capiamo che cosa fare di lei.”
“Nel senso...?” Lui resta sul vago, confuso. “Ma l'avete rapita?”
“Cosa? No!” Lo prendo per una spalla e lo trascino ancora più lontano. “Ma se ti ho appena detto che ha un problema? Ma per chi ci hai preso, si può sapere? Quando mai abbiamo rapito la gente?”
“Che ne so di cosa fate! Magari era un corso di azione possibile!”
“No che non è un corso di azioni possibile! Insomma sì, ma no!” Poi mi rendo conto che questa discussione ha preso una piega surreale che neanche se mi impegnavo a farlo di proposito sarebbe venuta fuori così, perciò sospiro e mi calmo. “Bill, per favore, cerca di ragionare.”
“Sto ragionando. Non potete presentarvi qui e portarmela in casa,” mi dice, e ci prova a sostenere il mio sguardo, ma più che altro guarda per terra, una cosa che di solito è carina, ma ora in questo momento non tanto perché – strano a dirsi dopo tutti i nostri trascorsi – ora la persona fragile da proteggere in questa stanza non è lui ma lei, e io ho bisogno che Bill si tolga per un po' di dosso i panni di Raperonzolo e diventi il ragazzino cazzuto che sa essere quando vuole.
Io lo so che se Bushido dovesse arrivare e decidere che Nyzaad deve essere buttata in mezzo di strada e in pasto alla stampa, ci toccherebbe farlo, ma la realtà è che io so che Bushido non lo farà e non lo farà perché sarebbe contro le regole. E' sempre una questione di regole non scritte, di equilibri da rispettare, di comportamenti da tenere. Non saremo gente dell'alta società, ma ce li abbiamo anche noi i nostri non si fa e non sta bene, solo che ci sono tante di quelle sfumature che io non posso mettermi qui a spiegarle tutte a Bill una per una. Le imparerà vivendoci in mezzo, queste cose.
L'ospitalità, per dire, è sacra nei confronti degli amici, negata ai traditori e dovuta per onore ai nemici in difficoltà. Per questo David ha bisogno del permesso di Bushido per accollarsi le dichiarazioni ufficiali di Sido, ma non per decidere di scaricare Nyzaad a casa sua. Perché l'ospitalità gliela deve, tutto il resto no. Fosse solo per la sacralità del gesto, Bill non dovrebbe neanche fare discussioni, ma se anche il dettaglio gli dovesse sfuggire, dovrebbe rendersi conto di quanto pesi Nyzaad sulla sua vita. Questa è un'altra cosa che deve imparare e che gli posso insegnare subito. “Bill, ascoltami, questa cosa non è in discussione,” gli dico, così magari chiariamo subito che non gli sto chiedendo niente. “Le azioni hanno delle conseguenze e lei è la conseguenza delle tue.”
A quel punto lui sembra comprendere che non stiamo parlando soltanto di una ragazzina di quattordici anni parcheggiata in casa sua – nella casa del suo uomo, in realtà – che gioca con i suoi cani. Stiamo parlando di una notte a Tempelhof, di un colpo di pistola e di quello che ne è seguito che, per un po', è stato il suo senso di sollievo, la consapevolezza che aveva avuto la vendetta che gli spettava, e ora, invece, è questa cosina bionda qua, avvolta in una felpa più grande di lei.
Annuisce piano e sospira. “Che cosa dovrei fare?”
“Niente. Tienila qui,” gli dico. “Non farla uscire né affacciare alle finestre. Virtualmente lei non è mai stata qui e, se per una volta nella nostra esistenza abbiamo un po' di fortuna, la manderemo via prima che qualcuno si accorga che ci sia mai stata.”
Lui annuisce di nuovo e spero vivamente che quello sguardo vuoto con il quale guarda un punto non meglio precisato alla mia destra sia il segno che sta valutando la situazione e pensando a come procedere e non, come un po' sembra, che si stia dissociando dalla realtà come ha già fatto in passato. “Bill? Mi stai ascoltando?”
“Sì,” si riscuote lui e torna a guardarmi. Negli occhi è sparito il ragazzino ed è ricomparsa la donna del capo, quella determinata e dura come il cemento. Bravo, Bill, bravo. Lo so che speravi di rimandare il momento ancora un po' perché sei appena tornato. Noi stavamo prendendo le cose con calma, giuro, ma ci hanno forzato la mano. E' di nuovo un casino, bimbo, lo so, ma ne hai visti di molto peggio, no? Questa è una passeggiata. “Che cos'ha fatto?” Mi chiede.
Opto per la versione breve, anche perché è l'unica che so. “Si è trovata un uomo molto più grande di lei e la stampa lo ha saputo quattro anni prima che fosse legale.”
Lui mi guarda con la faccia di uno che ha già tratto le sue conclusioni e non gli piacciono. “Quanto più grande?”
“Diciamo Sido-più grande,” lo informo.
Bill fa una faccia disgustata. “Quell'uomo avrà quarant'anni!” Protesta.
“Quasi trenta, in realtà. Meno del tuo.”
“La mia situazione è completamente diversa,” fa lui, testardo. “Io sono maggiorenne ed ero comunque più grande di lei quando è cominciata.”
“E non eri nemmeno incinta,” sgancio la bomba e lui si gela, però fingo che questo pezzo di informazione non sia né più né meno grave di quelli che gli ho dato finora. Gli batto una pacca sulla spalla. “Conto su di te, Bill.”
E lui forse non lo sa che questo era un rito di passaggio che lui doveva attraversare prima o poi. Lo so che non ha scelto lui di rientrare nel gruppo delle donne del ghetto – che per quanto ci riguarda al momento sono molto, molto poche –, che a poter decidere, forse, avrebbe voluto essere qualche altra cosa, ma è andata così e ci sono cose che per questo gli sono dovute – il rispetto, ovviamente, fra tutte – e cose che invece lui deve al clan. Alcune di queste cose sono l'accoglienza, la cura, la comprensione incondizionate. Le donne del ghetto hanno tutte questo compito qui: sono porti sicuri a cui tornare o nei quali andare a nascondersi e riposare, a leccarsi le ferite. Gli uomini sono fiumi in piena in questo posto, si gonfiano, tracimano e distruggono. Le donne sono argini senza le quali ci spargeremmo ovunque. Cassandra è così. La madre di Anis è così. Mia madre è così. Io me lo ricordo che di quello che facevamo non voleva sapere niente, ma quando un paio degli uomini di Arafat si presentarono sotto casa di mia madre a cercare Bushido, non so nemmeno più per cosa, lei scese in pantofole e si piazzò in mezzo di strada, con le mani sui fianchi. Non era figlio suo e non gli doveva niente, ma era amico mio, perciò glielo doveva. E gli uomini di Arafat tornarono indietro, perché sarebbero stati uomini senza onore a fare altrimenti. E quando Anis si presentò due giorni dopo con il labbro spaccato e l'occhio viola – perché alla fine l'avevano beccato da un'altra parte – lei non fece domande. Lo fece sedere, lo curò e gli dette da mangiare, e poi lo rimandò fuori perché tanto era lì che lui voleva e doveva stare. E lo so che Bill non è una donna, ma so che è questo lo spazio che si è ritagliato da solo e quello, per altro, in cui si trova a suo agio. Non è proprio una questione di sesso, davvero. D'altronde, non ha saputo subito che cosa fare quando ci siamo presentati ricoperti di sangue l'ultima volta?
“Chakuza, stiamo andando,” informo la mia metà peggiore, che si sistema subito il berretto e fa un cenno a Bill, tenendosi a debita distanza. Le due enormi calamite legate dietro le loro schiene cercano di attirarli l'uno verso l'altro, ma la mia presenza da un lato e le notizie che ho appena scaricato addosso a Bill dall'altro li tengono ben ancorati a terra.
Lancio le chiavi a Chakuza, così si distrae. Benché le auto su di lui non abbiano più fascino di ciò in cui può infilare il cazzo, l'idea di essere lui a guidare e, quindi, a portarmi in giro, riesce sempre a fargli dimenticare quello che sta facendo in quel momento. Chakuza è un uomo dai ragionamenti complicati ma dagli automatismi semplici. Ci sono cose di lui che, se le capisci, riesci ad usarle per muoverlo come un burattino.
I cani ci accompagnano scodinzolando e abbaiando. Mentre saliamo in auto chiamo David.
Vorrei che fosse l'ultima volta che abbiamo faccende da sistemare, ma siamo solo all'inizio.

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