Schwarze Seite

di tabata
Saad è morto da meno di cinque minuti e il mio cervello non ha ancora realizzato niente. Quando lo farà - e prego che sia tardi, molto tardi - probabilmente succederà qualcosa di imprevedibile. Se mi va bene me la farò soltanto addosso dalla paura, se mi va male farò una cazzata. Per questo spero di realizzare molto tardi, così magari Fler avrà finito di fare qualunque cosa stia facendo e sarà con me. Lui mi impedirà di farla, la cazzata. Lui la prevederà - qualunque cosa sia - e mi impedirà di farla prima ancora che io abbia capito di cosa si tratta.
Il corpo di Saad è riverso a terra, e la neve si sta sporcando di sangue. E' una poltiglia, fa schifo. E fa schifo anche lui, cazzo. Il viso è una maschera di sangue, anzi il viso non c'è. E tutto un casino. Penso che gli dovremmo rispetto, comunque, non tanto perché è Saad ma perché è un essere umano, cazzo. E non lo uccidi un essere umano e poi pensi che il viso che gli hai appena spappolato fa schifo. Eppure non mi riesce neanche guardarlo.
Fler si passa una mano su gli occhi, inspira ed espira e so che sta cercando di inquadrare la situazione. Io sono ancora confuso, lui sta già pensando a cosa dobbiamo fare. Le direzioni da prendere, i danni da arginare. Il suo cervello viaggia ad una velocità diversa dalla mia, e sarebbe fantastico se non fosse così mostruosamente preoccupante. Questi meccanismi mentali li ha perché in mezzo a questa merda c'è cresciuto e, se in questo momento mi serve che sappia cosa fare con un morto ammazzato, in generale non lo so se mi piace la sua praticità.
"C’è un mucchio di lavoro da fare," dice. E io penso, sì c'è un sacco di lavoro da fare. Però non so neanche immaginare di che lavoro stiamo parlando esattamente. Siamo qui con un morto, e io l'ultimo morto che ho visto era mio nonno e se l'era preso l'ictus non Bill con una colpo dritto in testa. Che poi, cazzo, Anis gli ha insegnato a sparare o lo ha trasformato in un fottuto cecchino? In mezzo alla testa, lo ha preso.
"Chaku, riportalo a casa," ordina all'improvviso. Io alzo lo sguardo e vedo che indica Bill. Il mio cervello ancora molto confuso se ne strafrega istantaneamente del morto e della polizia che probabilmente qualcuno avrà chiamato e che sarà qui prima che possiamo decidere un bel niente. Se ne frega di tutto, il mio cervello, e per un attimo penso che non lo porto proprio da nessuna parte. Bill lo guarda come lo guardo io. E non so se il terrore nei suoi occhi dovrebbe compiacermi o farmi del male. "Da Tom," precisa Fler alla fine. E lo fa con rassegnazione. Mi sento incredibilmente stupido di fronte a lui, e non me ne frega niente nemmeno di questo. I due unici pensieri che ho in testa sono Saad morto e Bill da riportare a casa. E si scornano fra di loro perché non c'entrano un cazzo l'uno con l'altro. In tutto questo io non ho ancora capito che ho ucciso un essere umano. Non ho sparato, ma è come se lo avessi fatto perchè se qualcuno me lo chiedesse, sarei stato io di certo. O anche Fler. Uno dei due, ma non Bill. Quindi sì, ho ucciso Saad. Solo che non me ne sono ancora accorto. "Gliel’abbiamo promesso un po’ tutti, che gliel’avremmo riportato presto."
Tom si aspetta che glielo riportiamo, possibilmente intero. Fisicamente ce lo abbiamo un gemello intero da ridargli, ma la testa non so come sta messa. Da fuori sembra star bene, ma anche io sembro star bene. Nella testa ho un gran casino, però. Annuisco a Fler e stringo la presa sulla spalla di Bill, lui abbassa la testa e mi segue. Non dice una parola.
Qua non è come a Templehof che è un fottuto labirinto di vicoli luridi e ogni volta che ne imboccavamo uno mi chiedevo se ne saremmo usciti. Il quartiere di Saad è un quartiere non proprio di lusso come quello dei gemelli, ma la gente sta bene qui. Hanno abbastanza soldi per avere cancelli automatici e case di cinque o sei stanze. Per avere un garage e un'auto. Che poi non parte.
Se penso che ci siamo quasi fatti due isolati di corsa sui tetti non so come mi sento. Da una parte l'adrenalina lo rende qualcosa di fico - abbiamo corso, dietro a Saad, sui tetti, di notte. Lo abbiamo preso, il bastardo. Dall'altra c'è sempre la sua faccia che è uno schifo e non so cosa Fler abbia intenzione di fare al riguardo. Quindi forse a me sarebbe bastato prenderlo, il bastardo. Prenderlo e basta. Niente sangue, solo adrenalina.
Bill non parla e cammina svelto, stringendosi nel piumino. Non so come si senta, non so se chiederglielo. "Bill..." inizio.
Lui solleva un po' la testa ed espira, e non so come interpretare quello sguardo che lancia di lato. "Sto bene." Annuisco prima ancora che si giri. Quando lo fa però l'espressione è dolce. "Davvero."
Non parliamo più finché non raggiungiamo la macchina, che è ancora parcheggiata vicino al palazzo dove vive Saad. C'è una luce accesa al quarto piano e non voglio sapere che camera sia. Non voglio neanche sapere con che faccia guarderò Greta la prossima volta che mi capiterà di incrociarla. La luce si spenge e vedo Bill che abbassa lo sguardo, infila in macchina senza un'esitazione e mi ghiaccia sul posto mentre metto in moto. La sua voce è fredda, ma calma. "Almeno lei non dovrà lavarsi le mani per ore nella speranza che il sangue scompaia," dice.
Partiamo in silenzio, e la mia macchina fa un rumore d'inferno. Mi chiedo dove sono, e con chi sono. Mi chiedo se non ci toccherà prenderlo al volo questo qui, domattina, quando si renderà conto. Ringrazio che Tom sia lì. Ringrazio che Fler sia qui; perchè da soli io e Bill non so cosa faremmo stanotte.
Il viaggio lo facciamo tutto in silenzio. Lui guarda dritto davanti a sé e tiene le mani in tasca. So che in una stringe ancora la Heckler e so anche che probabilmente mi staccherebbe la testa a morsi se gli chiedessi di lasciarla andare. Non mi piace che la impugni ancora, non mi piace nemmeno che l'abbia tenuta. Ora capisco cos'è successo il giorno dopo il funerale, che noi l'abbiamo cercata per ore in quella casa enorme. E Saad - dio... - era incazzato come una bestia perché non riusciva a trovarla e ha infamato chiunque urlando e sbraitando che da qualche parte doveva pur essere. L'abbiamo data per persa, e invece era logico che l'avesse lui. Era così logico che non c'ho neanche pensato. E lui non ha pensato di dirmelo, per altro.
Sono le quattro del mattino quando parcheggio nell'enorme parco macchine del palazzo dove vive Tom. Anche la sua luce è accesa e ci sta aspettando. In pratica ci viene incontro nell'atrio prima ancora che prendiamo l'ascensore. Suo fratello mette piede nel palazzo e lui lo stringe a sé - lo ingloba - senza lasciargli il tempo di fare niente. "Stai bene," esala e socchiude gli occhi. Glielo si legge in faccia che ha pensato di tutto. Vedo Bill rilassarsi in quella stretta, lo vedo proprio sciogliere i muscoli e quando gli affonda il viso nel collo capisco che per stanotte va tutto bene. Da Tom non si allontanerà.
Entriamo tutti e tre nell'ascensore. Io non so perché li sto seguendo, probabilmente perché non so dove altro andare. Una parte di me vorrebbe ancora che Bill si staccasse da quella maglia enorme e si attaccasse alla mia felpa, come la notte in cui Bushido è morto. Vorrei che avesse bisogno di me, questo mi darebbe un motivo per fare le cose stanotte.
"Cos'è successo?" Chiede il biondo, e guarda me.
Faccio per aprire bocca, anche se non so che cosa dirgli, ma Bill mi precede. "Lo abbiamo trovato," dice, e il modo in cui struscia il naso contro il collo di suo fratello mi fa venire i brividi. E non voglio sapere di cosa. "E' morto."
"Morto?" La voce di Tom schizza due ottave sopra in maniera quasi ridicola. Cerca di scostarsi Bill di dosso per guardarlo in faccia ma Bill si tiene tenacemente a lui e gira il viso, nascondendolo al fratello e a me.
"Se qualcuno te lo chiede, Bill è sempre stato qui," intervengo io. Tom sgrana gli occhi e sussulta.
"Che cazzo avete combinato?"
"Niente," io e Bill lo diciamo insieme. E sono io ad insistere. "Lui era da te, e dormiva."
Tom è agitatissimo, quando le porte dell'ascensore si aprono guarda fuori come se si aspettasse di trovarci chissà cosa. Esala di continuo, e mi guarda e poi guarda Bill e so che vorrebbe dire qualcosa ma non sa esattamente cosa.
Una volta dentro casa, decide di essere arrabbiato. "Lo avete messo in pericolo," sibila nella mia direzione. Ha fatto sedere Bill sul divano ma, dal momento che Bill non lo lascia, si è dovuto sedere anche lui.
"Tomi, no..." arriva da Bill.
"E' sempre stato con noi," rispondo.
"Appunto," è furioso ed è spaventato. Una combinazione che condivido con lui stasera. Odio non potermene occupare io come ho fatto fino a qualche settimana fa e ho paura per tutti qui. E anche per quello che ho lasciato in mezzo alla strada a fare solo lui sa cosa. "Saad è morto," abbassa la voce. "Mio fratello non doveva essere lì."
Bill solleva la testa, ma continua a stringerselo contro. "Tomi, ti prego," chiede con un filo di voce stanchissima. "Ti prego. Non adesso."
"Bill-"
"Tomi," questa volta lo guarda e io non saprei dire esattamente a cosa sto assistendo. Riconosco quell'autorità nella voce di Bill, l'ha usata spesso. La usava anche quando Bushido era vivo, quando si era preso confidenza con noi. Che certe volte, nei giorni di partita, ci presentavamo tutti alla casa gialla e lui ci diceva di andare nell'altra sala a guardarla, che lui stava già guardando un dvd sulla tv al plasma. Ce lo diceva con quel tono lì, che di severo non ha nulla ma c'è tutto un mondo dietro. E noi cambiavamo stanza, più per lui che per Bushido ormai. Quanto rideva, Atze.
Solo che non è solo il tono, è anche il modo in cui lo guarda che è strano, e mi rendo conto che non l'ho mai visto quello sguardo lì. Mi disturba più di quanto dovrebbe, temo.
Tom però annuisce. "Ne parliamo domani," dice. E in quel momento mi suona il telefono.
Fler al telefono non è mai piacevole, neanche in situazioni normali. E' uno a cui le cose piace dirtele in faccia, che usa il telefono solo se deve darti appuntamento e quindi parla il minimo indispensabile. In questo frangente, è anche peggio. "Chaku?"
"Sì?"
"Bill è a posto?"
Istintivamente guardo Bill e lui guarda me. "Sì," dico ancora. "Siamo qui da suo fratello."
"Allora muoviti, ho bisogno di una mano."
"Cosa pensi di...?"
"Cazzo, vieni e basta." Mi aspetto che riattacchi senza salutare come fa di solito ma sento che esita. "La Heckler deve sparire."
E' il mio turno di stare zitto.
Lui sospira. "Spiegagli che non può tenerla lui, che nessuno di noi può. Capirà, le capisce queste cose."
Come prevedevo riattacca senza dire nient'altro. "Tom, credo che tuo fratello abbia bisogno di qualcosa di caldo," commento mentre mi rimetto il telefono in tasca.
Lui vorrebbe ammazzarmi ma si alza, forse perché non è una cattiva idea quella di fare un po' di camomilla, anche se è una scusa. Gli sorrido incoraggiante e lui si allontana con il consenso del gemello.
"E' mia," mormora Bill, non appena rimaniamo soli. Non so se ha sentito Fler o se pensava già che qualcuno gliel'avrebbe chiesta. Non si è levato il piumino ma vedo comunque la sua mano che stringe l'arma nella tasca.
"Dobbiamo farla sparire," dico con calma e mi sento in un film poliziesco. Queste sono cose da Fler, io non sono capace di dirle. "Lo sai anche tu che adesso è pericoloso."
Mi guarda a lungo con quegli occhi allungati e strani che cambiano sempre colore a seconda della luce. Sono color cioccolato adesso, ben più scuri del solito. Alla fine apre e chiude le ciglia un paio di volte prima di estrarre l'arma dalla tasca e appoggiarla sul mio palmo teso, coperto da un fazzoletto. Pesa tantissimo, più di quanto sembri, e suona sbagliata perfino nelle mie mani, figuriamoci nelle sue. "Grazie," dico.
Lui non dice niente, ma la osserva con attenzione mentre la copro con i lembi del fazzoletto e me la infilo in tasca, come se non volesse perderne neanche un dettaglio.
Tom rientra con una teiera e qualche bicchiere. "Non ho tazze," si scusa con una scrollata di spalle.
"Devo andare," annuncio, alzandomi. Bill mi segue con lo sguardo e all'improvviso vedo quanto sia stanco. Ha lo stesso sguardo solo e perso di quando a casa mia passava le notti a piangere sul pavimento del bagno.
"Peter?"
"Sì?"
C'è una lunga pausa di silenzio, carica di centinaia di cose che sono l'inizio di questa storia, e l'inizio della nostra storia e di quel pomeriggio maledetto in cui l'ho toccato. Questo silenzio è fatto di cose che appartengono a questa notte e di tutte le bugie che racconterà a suo fratello e a se stesso per superarla. Sento in bocca il sapore di parole che avremmo dovuto dirci e che rimarranno in questo silenzio per sempre perché non abbiamo avuto né il tempo né il coraggio.
Alla fine piega un po' gli angoli della bocca in un minuscolo sorriso. "Grazie."
"Di niente, Principessa."

*



Quando torno da Fler, lui è da solo in mezzo al vicolo dove io e Bill lo abbiamo lasciato. Mi fa specie dire che è solo, come se quando me ne sono andato fosse stato lì con qualcuno. I cadaveri non contano, immagino. Questa volta parcheggio più vicino, tanto che ci metto neanche due minuti a raggiungerlo e lo trovo seduto sulle scale antincendio che si è fatto di testa.
La ferita, per altro, gli perde ancora sangue. "Devi andare al pronto soccorso," esordisco, fermandomi di fronte a lui.
"Dopo," dice lui sbrigativo. "Prima dobbiamo occuparci di lui."
Lui è quello che posso solo supporre sia il corpo di Saad avvolto in un telo, che ora giace appena dietro la scala antincendio, all'ombra.
"Il telo dove lo hai trovato?" Chiedo sconvolto. O forse sono sconvolto perché non è davvero possibile che io sia qui nel cuore della notte pronto a trasportare un cadavere chissà dove. Io volevo fare il cuoco.
"Tra i cassonetti," risponde, intanto che si alza e afferra Saad per i piedi. "Forza, prendilo dall'altra parte."
Non mi muovo. "Aspetta, cosa stiamo facendo?"
"Lo stiamo mettendo nella tua macchina," risponde e tira su.
"Fler è follia! Non.. non possiamo prendere e caricarlo in macchina! Per far cosa poi? Buttarlo nel canale di Templehof col favore delle tenebre?"
Lui non fa una piega. Dio non fa una piega! Perché non fa una piega? Anzi mi guarda e fa un cenno del capo quasi impercettibile. "Questa era più o meno l'idea. Ora, per cortesia, vorresti tirarlo su dall'altra parte?"
Obbedisco e non so nemmeno perché lo faccio esattamente. E' probabile che la mia decisione dipenda dal fatto che se mi sembra assurdo buttarlo nel canale, mi sembra assurdo anche lasciarlo dietro una scala antincendio e intanto che capisco cosa fare posso pure caricarlo in macchina. Ma cosa sto dicendo?
In strada non c'è ancora nessuno, il che è una fortuna perché Saad è alto più di un metro e ottanta e pesa non so più nemmeno quanto quindi non facciamo che fermarci e stringere meglio la presa sul telo lurido con il quale lo trasportiamo.
Lo gettiamo nel baule, e non vorrei ma lo facciamo perché pesa, mi fa schifo e perché Fler non ha garbo. Lo tratta come fosse un sacco. Quando Fler chiude la bauliera gli chiedo stupidamente per quale motivo lo abbiamo infilato qua dentro.
"Vorrei evitare di avere un cadavere disteso sul sedile posteriore nel caso ci fermassero, tu cosa ne dici?" Risponde, e fa per salire in macchina. In effetti non ha tutti i torti.
"Credi che ci fermeranno?" Chiedo, e suono più spaventato di quello che vorrei.
Fler si stringe nelle spalle e mette la cintura, che per uno che ha appena infilato un cadavere nella mia bauliera con l'intenzione di disfarsene in un canale è un bell'accorgimento, ecco. "Sono quasi le cinque, quindi direi di no," ragiona. "Ma è meglio essere prudenti. Dobbiamo pure darci una mossa, tra poco non sarà più tanto buio."
Guido e sto in silenzio e per un po' mi sembra anche che per stanotte non ho fatto altro che guidare e stare in silenzio. E gli avvenimenti di qualche ora fa sembrano questioni di mesi e di anni fa. Di Saad ho una visione già sfocata. Continuo a pensarlo vivo eppure coscientemente so che è accartocciato nella mia bauliera e tutto questo è assurdo.
Una volta a Templehof parcheggio nei pressi del canale che è avvolto nel solito buio e ha sempre lo stesso fetido odore. Quando Fler diceva che Templehof era un posto schifoso ma che finivi per tornarci sempre, non lo capivo. Non capivo come si potesse voler rientrare in un ghetto del genere, dove la cosa meno pericolosa che ti può capitare è che qualcuno ti apra un sorriso da un orecchio all'altro con un coltello di venti centimetri. Ora, però, mi è tutto più chiaro. Templehof è un rifugio e com'è bravo ad ammazzarti è bravo anche a nasconderti, a coprirti, a farti sparire quando ti serve che il mondo là fuori, quello "a posto" non sappia di te. Come stasera. Non avrei mai pensato di dirlo, ma Templehof è tutto quello che spero ora: un posto che ci permetta di liberarci di Saad e tornare a casa. E dimenticare, credo. Non so se si possa.
In giro non c'è nessuno, qui meno che altrove, anche se ho imparato che da queste parti si trova sempre il modo di sapere le cose. Siamo sulla strada, appena sopra il canale e in questa zona franca tra la notte e l'alba, l'acqua sembra nera e compatta come pece. Fler scende dall'auto prima di me e quando lo raggiungo ha già aperto il bagagliaio e sta trascinando fuori Saad reggendolo per i piedi. Tira e non faccio in tempo a dargli una mano, il cadavere scivola fuori e guardo con orrore la testa del libanese che segue tutto il resto del corpo e si schianta in terra con poca grazia e un suono sordo - tipo un THUD - che mi immagino quello che c'è dentro al sacco, e mi sale la nausea. Fler sembra che non faccia una piega. "Ci servono delle zavorre," commenta con aria critica. "Ne hai qualcuna in macchina?"
"Zavorre?" Esclamo e non so se la veda l'atrocità della cosa. Se non la vede abbiamo un problema perché significa che per lui è normale e non voglio che pensi che sia normale. "Fler è un'auto! Ci vado in centro a Berlino con questa, ti pare che mi servano le zavorre?"
Quello che mi colpisce di più di Fler, stanotte, è che non ha nessuna reazione e il suo non cambiare espressione rasenta l'apatia. Il suo cervello è tutto concentrato nel trovare soluzioni, tant’é che ha già pronta un'altra possibilità. "Ci basta la ruota di scorta," esclama. "Ce l'hai la ruota di scorta?"
Io sono talmente stordito che ci penso anche. "Eh? No, l'ho usata l'anno scorso e non ce l'ho più rimessa."
Impreca e fa un gesto di stizza. "Cazzo Peter, sei un danno davvero!" Se la prende con me come se fosse colpa della mia ruota di scorta mancante. "Non hai neanche quella vecchia? Basta il cerchione."
Scuoto la testa.
"Ok, d'accordo, ora cerchiamo qualcos'altro," parla da solo. Alla fine lo vedo che si mette a scrutare il mio bagagliaio e un po' mi preoccupo. Faccio bene, d'altronde. Non conosco Templehof ma conosco un po' lui e lo so come ragiona. S'infila nel bagagliaio alla ricerca di qualcosa e ne esce fuori trionfante con il cric in mano. Me lo passa e io lo prendo meccanicamente. "Smonta il portellone. Ce lo distendiamo sopra e poi lo leghiamo, dovrebbe bastare," mi dice.
"Cosa?" Lo guardo con le braccia lungo i fianchi, e le spalle un po' cadenti. Il cric mi tira i muscoli della spalla in questa posizione ma non ci faccio caso. "E' la mia macchina, non smonto proprio un bel niente."
"Andiamo, è un catorcio!" Insiste. "Te ne compro una nuova."
Lo guardo malissimo. E' la mia macchina. Il mio catorcio. E, per la cronaca, ho un sacco di ricordi legati a questa macchina. Non voglio smontarla. "Fler tu sei fuori," commento.
"Ci serve qualcosa di pesante perché resti giù."
"Allora perché non lo abbracci e ti butti in acqua?" Replico.
Lui non si abbassa neanche a rispondermi a tono. "Smonta il portellone," ripete. "Io cerco una corda su uno dei barconi giù al canale."
Si allontana senza darmi nemmeno il tempo di rispondere e io rimango lì con Saad avvolto nel suo telo lurido. Mi chiedo se qualcuno sentirà i colpi del cric. Siamo piuttosto distanti dalle abitazioni ma immagino che in questo silenzio perfetto, rotto solo dagli uccelli che gracchiano sopra la mia testa, io che prendo a mazzate il portellone della mia macchina non passerei molto inosservato. Così decido che posso tirare due colpi alle giunture e vedere se si allentano. In effetti la macchina non è in buone condizioni: ha più di sei anni e l'ho comprata usata che già ne aveva tre, però ovviamente le giunture non cedono di un millimetro. Tiro un altro paio di colpi che per altro riecheggiano pure e quindi decido che così non va. Contemplo la mia macchina per qualche istante prima di rendermi conto che c'è un unico modo.
Quando Fler ritorna, con 3 metri di gomena arrotolata intorno ad una spalla, mi sto schiantando in retromarcia contro il muro di una piccola rimessa.
Lo vedo che sgrana un po' gli occhi mentre il portellone impatta contro la parete del casottino con un clangore tremendo. L'auto sobbalza e gira a vuoto mentre il portellone preme contro il muro e le ruote stridono.
"Cosa stai facendo?" Mi chiede lui, affiancandosi alla mia portiera aperta.
"Secondo te?" Replico e in quel momento il portellone si sganghera. Faccio appena in tempo a fermare la retromarcia evitando di schiantarmi con il resto dell'auto contro la rimessa che il portellone è in terra, divelto. Spengo l'auto.
"Visto?"
Fler mi guarda malissimo. "Perché non fai un po' più di casino, già che ci sei?" Mi sibila a bassa voce, raccogliendo di terra il pezzo di lamiera. "Dammi una mano, muoviamoci."
Stendiamo a terra il portellone e ci issiamo sopra Saad che sta albeggiando. Fler mi passa la corda mentre sistema bene il telo in modo che non si apra. "Fai passare la corda sotto la lamiera e stringi bene il nodo."
Io obbedisco ma mi passa per la testa un pensiero che forse avrebbe dovuto colpirmi prima, più o meno quando ho visto che lo aveva avvolto nel telo. "Queste cose le fai spesso tu?"
Non mi risponde ma riesce a congelarmi solo con lo sguardo. Mi pianta in faccia quei suoi occhi azzurrissimi, duri e freddi, e io mi rifiuto di leggerci dentro perché non voglio sapere. In qualche modo mi viene da pensare che a sapere proprio tutto quello che Fler nasconde poi sarebbe difficile accettarlo. Alle volte è meglio non sapere e basta. Giro di nuovo la corda intorno al corpo ma più in basso, all'altezza delle ginocchia. "Credi che gli avesse insegnato a sparare per questo?"
Lui rimane in silenzio così a lungo che finisco col credere che non mi abbia sentito, poi però si stringe nelle spalle e sbuffa una risata. "Se conosco Anis l'avrà fatto dicendogli qualcosa, tipo, che era necessario che lui le sapesse, queste cose... però forse sì. Pare che abbia dato un ruolo a tutti, in questa storia, prima di morire."
L'occhiata che mi lancia faccio finta di non sapere a cosa sia riferita. Non mi piace che si sia reso conto e non mi piace che mi ricordi che ruolo ho, io, visto che palesemente ho fatto un casino dopo l'altro.
“Cosa succederà, ora?” Cambio discorso. Cambio domanda. Ho bisogno che mi parli, e che mi dia soluzioni.
“Denunceranno la scomparsa e non lo troveranno,” Fler non mi guarda, continua a controllare bene i nodi. “Sai quanti ne sparisce al giorno?”
“Sì ma non era un senza tetto,” gli faccio notare. “Era Baba Saad e Greta sa che eravamo lì per farlo fuori.”
Fler rimane in silenzio un po’ più a lungo. “Quella donna sa solo che ce l’avevamo con lui,” dice alla fine. “Saad, però, ci ha seminati quasi subito. Eravamo troppo lenti.”
“Ha visto Bill.”
“No, non lo ha visto e neanche noi,” insiste Fler, “perché lui era con Tom.”
Mi rendo conto che nel tragitto che abbiamo fatto per venire qui deve aver pensato a tutto. Forse ci pensava da prima, in ogni caso continuo a credere che ci siano troppe incognite. “E se…”
“Quando siamo arrivati, lo stava coprendo,” mi interrompe. “Questo significa che sapeva perfettamente perché eravamo lì. E sapeva anche che prima o poi saremmo arrivati. Non parlerà, perché dovrebbe spiegare troppe cose. E in ogni caso non ha prove.”
Greta, in effetti, non può provare niente, tranne forse che quella notte siamo arrivati a prelevare suo marito. Nient’altro. Quello che è successo dopo è un segreto che io, Fler e Bill ci porteremo nella tomba. Voglio fidarmi di Fler perché finora non mi ha mai deluso, e in ogni caso non ho molte altre alternative. Ormai ci sono dentro, direi.
Alla fine tiriamo su di peso quella specie di lettiga e cerchiamo un punto dove lanciarla. L'ideale sarebbe avere una barca e portarla a metà canale dove l'acqua è più profonda ma non abbiamo né i mezzi né il tempo per farlo. Così scegliamo un punto in alto, nei pressi del porto, e lo lasciamo cadere. Seguo il volo oltre il parapetto e vedo il corpo e la lamiera che carambolano in aria prima di infrangere lo specchio d'acqua con un suono tutto sommato ovattato, per via della superficie ghiacciata. Non rimaniamo a guardare l'acqua che torna calma sotto il foro creato dal nostro lancio, ce ne andiamo subito via. "Dobbiamo ancora riportare la Heckler a casa di Anis," dice Fler.
Questa è la notte più lunga della mia vita.

*



La villa di Bushido è una specie di maniero giallo limone, tutto quadrato col tetto a spioventi e una serra all'ultimo piano che non è altro che il segno più smaccato lasciato dall'eccentricità di quell'uomo. In realtà, se aveva tempo, qualcosa ci coltivava ma perlopiù serviva a far colpo sulle ragazze che si portava a casa. Prima che arrivasse Bill, naturalmente. Dopo il suo arrivo, le piante aveva iniziato a farcele crescere davvero, che tanto quella sala enorme, con il lucernario e l'atmosfera romantica non poteva più usarle e su Bill non facevano più molto effetto.
La casa, a dire il vero, è sempre stato troppo grande per lui solo e la sua governante tunisina ma era perfetta come ritrovo per la crew, così finivamo sempre per organizzare le cose nel suo salotto che era una specie di piazza d'armi. Ci abbiamo passato le giornate dentro a giocare ai videogiochi o a guardare la partita. Alle volte ci lavoravamo anche.
"Io però non ho le chiavi," dico non appena usciamo dall'auto. "Le aveva Saad."
"Scavalcheremo il cancello," conclude subito lui.
Lo fermo prima che si arrampichi e indico con un cenno della testa. "Non da qui. Sul fianco della casa c'è un muretto dal quale poi è facile oltrepassare la cancellata. Bushido ha sempre detto che lo avrebbe buttato giù ma poi non lo ha mai fatto."
Fler mi segue senza protestare. Una volta dentro, ci guardiamo intorno. "Dovremo rompere una finestra," commenta pratico.
"Non ce ne sarà bisogno. La porta della cantina cade a pezzi, basterà tirargli una spallata."
Lui mi guarda, poi fa quel mezzo sorriso triste che gli vedo ogni tanto. "Si può sapere perché hai tirato fuori quella storia della chiave, allora?"
"Sarebbe stato più comodo," rispondo mentre percorriamo il vialetto sul retro della casa, "ma Bushido ne aveva distribuita solo una copia."
"E Bill?"
"Due copie," mi correggo, mentre testo la maniglia della vecchia porta in ferro che, come ricordavo, è fuori sagoma. Tendo a dimenticare che Bill ha le chiavi di questa casa, così come ce ne dimenticavamo quando Bushido era vivo. E' successo più di una volta che fossimo già tutti lì per qualche motivo a caso e che nessuno avesse avvertito lui che noi c'eravamo. Ho ricordi molto vividi di momenti discretamente imbarazzanti. Faccio presa sulla maniglia, quindi assesto una spallata secca alla porta che quasi mi rimane in mano.
"Bushido non era cambiato poi molto," commenta Fler, mente mi segue all'interno. Tasto il muro per trovare gli interruttori. "Gli piaceva avere sempre la sua corte intorno. Quando eravamo ragazzini sua madre l'abbiamo fatta impazzire. Eravamo sempre tutti lì buttati a casa sua..."
Non fatico ad immaginarlo, era esattamente questo che eravamo: una corte. Il Re e la Principessa c'erano dopotutto. E anche il nemico che, come in ogni buon film che si rispetti, non è mai estraneo. Mai dall'esterno. E nessuno di noi se n'è accorto. Ci vuole un attimo perché le ultime due ore mi ritornino in mente, e mi stupisco della facilità con la quale il mio cervello finga di ignorarle.
Gli faccio strada attraverso i meandri di questa villa enorme. "Dov'è la camera da letto?"
"Quella patronale è al secondo piano."
Lo sento emettere un suono di gola, una specie di grugnito e gli rivolgo un'occhiata interrogativa.
"Niente, lascia perdere. E' che mi fa specie che tu conosca questa casa tanto bene," mi liquida con un gesto della mano e riprende il discorso. "Ad ogni modo, se mi ricordo ancora qualcosa di Anis, scommetto che la teneva nel cassetto del comodino."
"Così l'aveva sempre sotto mano, immagino."
Annuisce. "L'hai pulita?" Mi chiede poi, e tende la mano.
Tiro fuori la Heckler dalla tasca del giubbotto e gliela porgo, ancora avvolta nel fazzoletto. "Solo un po'."
Lo vedo che procede a rimuovere ogni possibile impronta. Quando apro la porta della camera da letto, troviamo la stanza come l'ho vista l'ultima volta: un campo di battaglia con tutte le antine spalancate e i cassetti aperti.
Fler si guarda intorno. "Cos'è successo qui dentro? Un uragano?" Chiede, mentre usa un lembo della felpa per aprire il cassetto del comodino.
"No, noi che cerchiamo la pistola."
Fa un altro di quei sorrisi spenti. "Il ragazzino vi ha fregati per bene. Anis sarebbe orgoglioso," commenta. Quindi richiude il cassetto. "Io qui ho finito."
Annuisco mentre fuori albeggia. Quando i primi raggi di sole filtrano attraverso le tende tirate e disegnano una striscia sul letto sfatto, mi prende l’ansia. Voglio che usciamo fuori di qui, il prima possibile. "Andiamo."
Mi segue fuori dalla villa e aspetta che abbiamo scavalcato di nuovo il cancello prima di chiedere: "Ti dispiace riportarmi a casa? Sono stanco di andare a piedi."
“Non resti da me?” La domanda mi esce di bocca prima ancora che l’abbia pensata e mi do mentalmente dell’imbecille perché non ho tredici anni, ne ho ventisette e dovrei sapermi controllare. Soprattutto, dovrei poter evitare di sentirmi deluso se un altro uomo non vuole dormire con me. Da me. Al diavolo, chi sto prendendo in giro? La verità è che in una notte di merda come questa ho bisogno di lui più che in ogni altra notte di merda che abbiamo passato.
“...non mi pare il caso,” biascica appena, mentre saliamo sull’auto che adesso ha una bella presa d’aria sul retro e fa un freddo cane. “E poi non sei stanco? Vorrai pur dormire tranquillo nel tuo letto.”
Mi tiro su il colletto del giubbotto, incassando la testa nelle spalle mentre metto in moto. “C'è posto per due nel mio letto. Non dobbiamo necessariamente scopare, Fler,” dico secco.
Mentre mi avvio sulla strada lo vedo che si agita imbarazzato. Non credo lo imbarazzi la parola scopare, quindi suppongo che il problema sia scopare con me. Il che a conti fatti dovrebbe essere un problema anche per me; ma non me ne frega niente. Non stasera. Qui, in quest’auto, stanotte, la mia più grande preoccupazione dovrebbe essere che ho ucciso un cristiano, l’ho legato ad un portellone e l’ho gettato in un canale, ma così non è. Evidentemente le mie giuste priorità sono andate tutte a fanculo durante il corso degli ultimi quattro o cinque mesi. Vorrei poter dire che è tutta colpa di Bushido, ma un morto profanato basta e avanza per stanotte. Intanto Fler sta parlando e io mi sono perso a conversare con il mio cervello. “Sì, lo so,” dice incerto. “Ma non è il caso che resti e basta, credo.”
I semafori sono ancora tutti spenti, passo con attenzione un incrocio. “E' tardi, e dovrei fare due viaggi. E poi mi fa piacere.“
“Sì, anche a me farebbe...” comincia, ma poi scuote il capo. “Non puoi riportarmi a casa e basta? Non scompaio, giuro.”
Non rispondo subito perché quello che vorrei dirgli non è contemplato. Quindi svolto altre due volte prima di scendere a patti col cervello che non ne può più – sono stremato – e ammettere l’unica cosa che non era il caso di rendere nota. “E' stata una nottata di merda, pensavo fosse meglio non passare quello che ne resta per i cazzi nostri”, non lo guardo. Cambio marcia e controllo la strada. “Comunque, come vuoi.”
Sto imboccando la strada per casa sua quando lo sento bisbigliare quel: “D’accordo.” E poi subito dopo aggiunge, “Tanto dovevamo comunque fare un’altra fermata ed è più vicina a casa tua.”
Ormai non chiedo neanche più. Mi fa girare per una serie di stradine fino a casa di Dio e quando finalmente ci fermiamo, lo facciamo di fronte ad una rimessa che cade a pezzi più della mia macchina.
“Cosa ci facciamo qui?” Chiedo, sbattendo la portiera che se non le dai un gran colpo non si chiude. Fler infila una mano nella tasca dei pantaloni e ne tira fuori un mazzo di chiavi enorme. Ne sceglie una a colpo d'occhio e quindi si china ad alzare la saracinesca che sopra ha uno di quegli enormi disegni fatti con le bombolette spray.
"Ci mettiamo la tua auto," risponde. Segue con il braccio alzato la saracinesca finché non è quasi tutta su e poi quella segue i binari e scompare all'interno del muro. "Non possiamo lasciarla in giro in questo stato. Domani, con calma, vedremo come disfarcene." La rimessa è poco più larga della mia macchina, e sulla parete di fondo sono stipati quintali di oggetti alla rinfusa. Anche i muri interni sono pieni di murales.
"Che posto è?"
"Mi serviva quando spacciavo," mi dice, mentre sposta scatoloni polverosi pieni di chissà cosa. Li ammassa tutti in fondo. "Ci tenevo la roba. Anis lo usava come magazzino."
La notizia non la registro nemmeno, un po' perchè ora come ora non è poi così eclatante e un po' perché dei murales ho sempre avuto l'idea che fossero solo un modo molto complesso di scrivere offese sui muri. L'equivalente elaborato delle parolacce sulle porte dei bagni pubblici, insomma. Invece questi disegni sono bellissimi e me ne accorgo anche io che non sono un critico d'arte. "Li hai fatti tu?"
Fler si gira solo un istante. "Sì," dice sbrigativo. "Metti la macchina dentro, comincia ad esserci gente."
Mezz'ora dopo stiamo finalmente aprendo la porta di casa mia e credo di non averle mai voluto così bene. Fler mi segue senza dire una parola, chiude la porta e si toglie il giubbotto e la felpa con un grugnito più che un vero lamento. Quando tocchiamo il letto, inizio a sentire il peso della notte appena trascorsa. Scivolo sotto le coperte che sono così incredibilmente soffici da commuovermi. Guardo il soffitto che quasi non si vede nella penombra delle tende tirate. Berlino si è svegliata, sento i rumori, ma sono lontanissimi ed irreali. So solo chi sono e dove mi trovo, e non sono sicuro nemmeno di quello, tutto il resto non mi riguarda.
So che la scomparsa di Saad avrà delle conseguenze e che ci sarà un’inchiesta.
Fler si è appallottolato tutto sul suo lato - è strano dirlo di lui che non è esattamente piccolo - e mi dà la schiena. Quello che faccio mi viene istintivo: rotolo su un fianco e lo avvolgo in un abbraccio. Sento che si irrigidisce, come lo avessi colto di sorpresa, ma poi si rilassa e il suo corpo è scosso da un brivido.“Fler?” Mormoro, incerto.
“Hmn?”
Lo stringo di più perché qualcosa non va e il vago tremolio della sua voce mi fa pensare a cosa che probabilmente lui non vuole che veda. Non mi solleverò a controllare, so che queste lacrime deve piangerle per conto suo. “E’ finita,” dico soltanto e appoggio appena le labbra sulla sua spalla nuda.
Rimane in silenzio, poi lo sento annuire. “Già. E’ proprio finita.”

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Gorgeous Waves Of Sorrow

di lisachan
Allora, la cosa è andata così: stavo cercando di scrollarmi di dosso Chakuza, quando prende e mi squilla il cellulare. Il mio cellulare non squilla quasi mai perché tutti sanno che odio usarlo per parlare. Preferisco che mi si mandi un messaggio in cui mi si dice “fatti trovare lì alla tale ora”, ed io eseguo. Ma stare lì a discutere mi scazza a livelli profondi, perciò non mi chiama mai nessuno, con l’eccezione di mia madre per ovvi motivi e di Chakuza, che però, al più, mi dice “mbe’?” quando non sono già a casa sua per le nove massimo.
Comunque mi squilla il cellulare ed io sono schiacciato fra Chakuza e il suo armadio, perché la cosa è cominciata con lui che mi dice “okay, devo fare il cambio stagione, dammi una mano”. Ora, era palesemente una scusa, perché Chakuza ha un solo armadio e ci tiene dentro tutto, dalle maglie alle felpe ai jeans ai numeri di playboy, quindi cambio stagione il cazzo. Però io sul momento non ci ho pensato, il cambio stagione è una cosa normale, in fondo. Gli ho detto solo “ma a Natale?”, e lui ha risposto “non è ancora Natale”, ed era vero, in effetti, perciò amen.
Quindi, in sostanza, io qui ho lo spigolo dell’anta che mi pressa proprio nel centro della schiena e Chakuza tutto pressato addosso davanti, e palesemente sento squillare il cellulare per miracolo, perché fra il dolore e tutto il resto non è mica semplice. Comunque lo sento, e infilo una mano in tasca a dispetto delle dita di Chakuza che mi si stringono immediatamente attorno al polso, nel vano tentativo di fermarmi.
Peraltro, la scena è ridicola perché io sono qui che mi rifiuto di baciarlo da almeno mezz’ora, eh. Cioè, io l’ho baciato lì, nel canale, a Tempelhof, e dopo non l’ho più fatto e non intendo riprendere adesso. Contando poi il fatto che Sido mi ha chiesto se mi va di accompagnarlo in tour quando partirà, l’anno prossimo, e che quindi ho una possibilità effettiva di andarmene in modo che sembri normale, non intendo ricadere in qualche brutta abitudine.
Quindi niente, lui ha provato un po’ a baciarmi, ma visto che io continuavo a girarmi e dire “no”, “piantala” e via discorrendo, a un certo punto s’è arreso ed è passato al piano B, che generalmente è prendermi per sfinimento. Prendermi per sfinimento vuol dire infilarmi una mano nei pantaloni e posare le labbra… ovunque, tipo. Come ci riesca è un mistero, fatto sta che ci riesce, lo sento ovunque quando fa così, ed è un dramma, sul serio, continuare a dire no in queste condizioni. Lui lo sa, peraltro, certe volte lo vedo uscirsene con certi ghigni che mi viene voglia di dargli uno scappellotto e fargli volare il cappellino borbottando “abbassa un po’ la cresta”. Non lo faccio perché in genere ha ragione a ghignare, io cedo.
Stavolta, però, squilla il benedetto cellulare, e malgrado i suoi sforzi io riesco a recuperarlo e tirarlo su all’altezza del viso, per vedere almeno chi è.
Il display recita “numero privato”. Io non rispondo mai ai numeri privati. Se già non ho voglia di parlare con amici e parenti, figurati se ho voglia di stare a sentire un Cristo qualsiasi che chissà da chi ha avuto il mio numero e si sente in vena di dirmi roba, chiedermi favori o sa Dio solo cos’altro. Non esiste. Quindi no, in genere non rispondo. Stavolta, però, ho decisamente bisogno di una scusa per scrollarmi di dosso Chakuza, anche perché quella mano là sotto mi sta facendo impazzire e lui si sta strusciando da abbastanza tempo per essere già abbondantemente perso, quindi se qui non prendo in mano la situazione – possibilmente senza che questo mi porti a prendere in mano lui – finisce male.
Insomma, poggio il pollice sul tasto verde e Chakuza mi solleva addosso un’occhiata stile “ma fai sul serio?” cui rispondo spintonandolo malamente lontano da me. Solo che ha la mano incastrata nei miei jeans, quindi si allontana tipo trenta centimetri e poi il braccio lo tira e me lo ritrovo di nuovo schiacciato contro, mi dà pure un colpetto involontario sulla pancia, al che io faccio un verso tipo “ahuff” e lui ride. Gli do un pugno nel mezzo del petto e lui continua a ridere, massaggiandosi il punto dolorante, ed io approfitto dell’ilarità momentanea per rispondere.
Quello che sento dopo aver detto “pronto?” mi turba un po’. Non per altro: a parte mia madre, non mi chiama una donna da… be’, mesi, tipo. Perciò boh, mi fa un effetto strano sentire questa voce calma e gentile dall’altro lato della cornetta. Tant’è che faccio una smorfia allucinata e Chakuza mi guarda, inarcando interrogativo le sopracciglia. Io sollevo due dita per dirgli di far silenzio, mentre quella, dal telefono, mi fa “parlo col signor Losensky?”. Una donna che mi chiama Losensky è, tipo, una cosa mai sentita prima dai tempi della scuola. Ma sul serio. Ci resto un po’.
- Sì, sono io. – rispondo quando riesco a raccogliere abbastanza lucidità, - Scusi, con chi parlo?
- Sono Greta… - risponde lei. Faccio l’elenco delle groupie del mio periodo di gloria, tristemente defunto quattro o cinque mesi fa. Non mi pare di ricordare nessuna Greta. Non mi pare neanche di aver chiesto nomi, in realtà. Mah. – El-Haddad. – aggiunge lei. Vuoto. “Pure araba”, mi dico, e dico anche “ma che cazzo, quand’è che smetterà di rompere le palle la fottuta Africa?”, e mentre lo penso borbotto questo dannato cognome a mezza voce, giusto per vedere se facendolo mi torna in mente qualcosa, ed ho la malaugurata idea di sollevare gli occhi su Chakuza. E lo trovo che mi fissa congelato, pallido come un cencio.
El-Haddad. Ok. Saad.
Non so bene cosa dirle. Lei resta in silenzio.
- Buonasera. – butto lì, un po’ confuso. Mai vissuta una situazione simile. E di situazioni particolari posso vantarne un casino, io. – Posso fare qualcosa per lei?
- Sì, può… - comincia lei, vagamente incerta, - può darmi del tu e chiamarmi Greta, per cominciare, e poi… - si ferma ancora, e resta di nuovo in silenzio.
Io deglutisco.
- Sì? – la incito. Non posso davvero stare avendo questa conversazione con questa donna. E in tutto questo Chakuza continua a fissarmi come se fossi un unicorno sputafuoco apparso improvvisamente nel centro della sua stanza al posto dell’uomo che stava limonando o provando a limonare fino a pochi secondi prima. Giuro che se non la pianta lo prendo a cazzotti.
Lei si schiarisce un po’ la voce.
- Avrei bisogno di parlarti, Patrick.
Patrick. Cioè, parliamone. Io sono Patrick per mia madre, per Bill quando è in vena di tenerezze, per Chakuza quando è in vena di scazzi o quando faccio qualcosa di particolarmente fantasioso in un momento in cui non se la aspetta e per Sido quando è in vena di paternali – e neanche sempre. Patrick mi chiama, lei. C’è da andarci fuori di testa, davvero. Io ero lì mentre il suo uomo veniva ammazzato, Cristo santo.
- Sì. – rispondo a mezza voce, - Naturalmente. – anche se sto pensando “naturalmente il cazzo”. – Dove?
Lei sembra stupita. Resta in silenzio ancora un po’.
- Verrai? – chiede, incredula.
- Eh. – annuisco io, grattandomi la nuca, - Sì, se mi dici dove.
Lei mi fa il nome di un locale che solo a sentirlo mi vengono i brividi. So dov’è, è un posto sciccosissimo appena fuori città, una specie di enorme sala da tè riadattata a locale di lusso. Classico posto da tavolini tondi e piccoli con ampie tovaglie rosse drappeggiate che strisciano sulla moquette nera immacolata che copre il pavimento.
- Ci metterò un po’, non è esattamene dietro l’angolo. – le faccio presente, e lei mi rassicura: non ha fretta, non c’è problema.
- E potresti… hai qualche possibilità di portare con te anche Peter?
Guardo fisso davanti a me, Chakuza mi sta ancora lanciando occhiate terrorizzate.
- Sì, lo chiamo. – annuisco. – A fra poco.
Interrompe la chiamata prima che possa dire o anche solo pensare qualsiasi altra cosa.
Chakuza deglutisce.
- Era… - comincia, ed io lo fermo.
- Sì. – rispondo sbrigativamente, - Coraggio, datti una mossa, abbiamo un mucchio di strada da fare. – lui mi fissa allucinato ancora per un po’, gli occhi verdi enormi nella penombra della stanza, ed io lo squadro supponente dall’alto in basso. – Sì, ma devi cambiarti, non puoi mica-
- Fler! – mi ferma lui, esasperato, sistemandosi il cappellino sulla testa dopo aver finalmente rimosso le mani da dove ha continuato a tenerle per tutto il tempo della telefonata, - Ma di che cazzo stai parlando?!
- Prima di tutto, Cristo santo, vai a lavarti le mani prima di toccarti in giro! – sbotto io, tirandogli via la mano dal cappellino e trascinandolo in bagno, - E che cazzo, mi stavi facendo una sega fino a due secondi fa!
- A proposito-
- Concentrazione, Chaku, dobbiamo uscire. – borbotto aprendo il rubinetto e lavandogli le mani. Col sapone e tutto. Dio mio, che cosa sto facendo? Io dovrei essere a casa mia a dormire.
- Quando tu mi chiedi di uscire è sempre l’inizio di un guaio enorme. – risponde lui, occhi bassi e voce cupa, mentre si lascia maneggiare neanche avessi due anni. Questo è il modo in cui Chakuza mi dice che non ha proprio alcuna voglia di fare qualsiasi cosa sia quella che vorrei chiedergli. Diventa svogliato e insopportabile. Sono momenti tremendi, sono i momenti in cui la mia voglia di massacrarlo di legnate raggiunge i suoi picchi storici.
- Chaku, ti prego, non cominciare. Greta mi ha chiesto di vederci, ha bisogno di parlare con noi. Ci sei, fino a qui?
Lui annuisce controvoglia.
- Vieni, sì?
Annuisce ancora.
- Chaku?
- Mhn?
- Non mi costringere a fare qualcosa di cui poi dovrei pentirmi, d’accordo?
Lui grugnisce e si allontana da me, asciugandosi le mani con un panno.
- Prendermi a cazzotti, strillare che non vuoi più vedermi, buttarmi una secchiata d’acqua in testa…?
- Baciarti perché so che dopo mi ascolti. – rispondo, afferrandolo per una spalla e rivoltandolo, inchiodandolo contro la parete e guardandolo fisso negli occhi. – Devo proprio?
Lui mi guarda con tanto d’occhi e a me viene un po’ da ridere. Credo che Chaku abbia di me un’idea incredibilmente distorta. Come faccio ora a spiegargli che inseguivo con la spranga i debitori insolventi, in quel di Tempelhof, nel fiore dei miei sedici anni?
- …ti sto ascoltando. – mi rassicura lui, annuendo lentamente.
- Bene. – annuisco io a mia volta, - Dicevo che era la cazzo di moglie di Saad. Che ci ha chiesto un cazzo di appuntamento. A me e te. Non potevo dirle di no.
- Certo, le abbiamo solo ucciso il marito, in fondo. – risponde lui a muso duro. Io roteo gli occhi e lo lascio andare, rubandogli il panno dalle mani per asciugarmi.
- Appunto, Chakuza. – ritorco, rimettendo l’asciugamano al proprio posto. – Quindi muovi il culo. Ce l’hai un completo elegante?
Lui riprende a guardarmi con aria sconvolta e io sospiro di nuovo. Visto che io e Chakuza abbiamo un buon feeling, ogni tanto dimentico che lui non è nella mia testa e non segue perfettamente la linea dei miei pensieri. Che non è com’era con Anis, ecco, perché con lui davvero bastava mezza parola, a volte, e si capiva esattamente dov’è che si voleva andare a parare. Senza sprechi inutili, anche solo con gli sguardi. Con Chaku non posso fare così, lo dimentico spesso, ma non dovrei.
- Greta mi ha chiesto di raggiungerla in un locale molto elegante. Se ci presentiamo conciati così, - e gesticolo, indicando i nostri abiti scomposti da svacco casalingo, - neanche ci fanno entrare, figurarsi metterci a sedere con una signora.
Lui annuisce.
- Capisco. – biascica, - Però non credo di avere niente di adatto.
Faccio mente locale, cercando di riportare alla memoria i vestiti di Chakuza, ma oltre alle felpe, alle magliette e ai jeans di cui sopra ci sono davvero solo le riviste sconce, in quell’armadio, perciò poco da fare.
- Okay, senti. – sospiro, - Andiamo da me.
Lui mi solleva addosso uno sguardo incuriosito.
- A casa tua?
- Sì. – annuisco, - Vediamo se posso darti qualcosa io.
- Tu hai dei completi?
Dio mio, quanto lo odio quando fa così.
- Sì, Chaku. Non è che siccome Eko Fresh ha deciso che sono un pezzente, allora lo sono davvero.
Riusciamo ad uscire da quell’appartamento dieci minuti dopo, e quando arriviamo a casa mia ne sono passati altri dieci ed io comincio a darmi mentalmente dell’idiota per aver accettato e non aver chiesto a Greta di andare da qualche altra parte. È una situazione complicata: so che ora vuole parlarci, ma non so se sarà di questo stesso avviso fra una o due ore, e più tempo le diamo per riflettere maggiori sono le possibilità che cambi idea. Questa, vista la situazione contingente, è un’eventualità che non posso ammettere.
Soprattutto perché la scomparsa di Saad non è ancora stata denunciata. C’è questo “forse” enorme che pende su tutte le nostre teste, su quella di Chakuza, su quella di Bill, sulla mia, ed è veramente pesante. Se posso risolverla andando a parlare con la vedova, allora devo farlo, e devo farlo subito.
Casa mi accoglie come al solito – che poi è il motivo principale per cui evito di tornarci, la maggior parte delle volte. Non è che sia disordinata o sporca, non ha veramente modo di disordinarsi o sporcarsi. È solo desolatamente vuota. Non sono abituato a vivere da solo. Io e Bushido abbiamo diviso una topaia fino a che lui non ha cominciato a fare i soldi. E da quel momento in poi, cioè, da quando lui si è allontanato in poi, praticamente, ricordo di aver dormito più spesso da Sido che non in qualsiasi altro luogo, alberghi compresi quando si andava in tour.
L’appartamento è vuoto, freddo e buio. C’è ancora il letto sfatto dell’ultima volta che ho dormito qui – non ricordo nemmeno a quando risalga – lo intravedo dalla porta della camera semiaperta. C’è polvere ovunque. Non tantissima, ma è uno strato ben visibile. Chakuza si guarda intorno e deglutisce.
- È spettrale, questo posto. – commenta lanciando occhiate incerte al piccolo divano ed al tavolino che compongono, in sostanza, l’arredamento totale del soggiorno.
Scrollo le spalle.
- Vieni. – biascico, guidandolo verso la camera da letto, - Comincia a spogliarti. Qualcosa per te dovrò pure averla. – ed entrando in camera sfilo velocemente la felpa e la maglietta, dirigendomi deciso verso l’armadio e prendendo a rovistare fra gli abiti. Certe cose non le ho nemmeno mai messe. Doreen, la moglie di Sido, è una donna molto buona e gentile, ed ogni volta che esce a far shopping per la bambina – cosa che accade con cadenza regolare di una volta a settimana – prende sempre qualcosa anche per me. A volte, dal modo in cui mi hanno palesemente adottato in quella famiglia, non sembra nemmeno che Sido sia più grande di me di soli due anni.
Nel mentre, Chakuza mi fissa come se non avesse ancora capito un cazzo di ciò che sta succedendo. So che non è così perché so che non è stupido, perciò suppongo si tratti del fatto che adesso sono seminudo e mi sto sbracciando e tendendo per cercare qualcosa che gli stia.
Sospiro.
- Chaku, piantala di guardarmi a quel modo.
Stranamente, non comincia a lamentarsi come fa quasi sempre in questi casi. Questa è la conferma che ha capito perfettamente il casino in cui ci troviamo, e la cosa mi rassicura parecchio. Lo vedo annuire e cominciare a spogliarsi, mentre riesco a recuperare nel fondo dell’armadio un abito che non indosso da secoli e le cui maniche spero riesca a compensare con quelle spalle enormi che si ritrova. Quanto ai pantaloni, al limite gli faccio un paio di svolte verso l’interno.
Gli tiro il tutto e lo prendo in faccia mentre sbottona i jeans.
- Fanculo. – sbotta, ma ha praticamente il valore di un “okay”, quindi non perdo neanche tempo a rispondergli a tono e sfilo i pantaloni, recuperando il completo nero lucido che è stato l’ultimo regalo di Doreen in ordine di tempo, ed una camicia scura.
Posiamo entrambi la roba sul letto e già un secondo dopo i vestiti son tutti mischiati. Nel tirare su i pantaloni, Chakuza ha spedito la camicia che dovrebbe mettere fra le mie cose, ed io nel tirare su i miei ho mandato all’aria la giacca, che ora copre quasi per intero la sua roba. Perciò finiamo per vestirci a pezzi passandoci vicendevolmente la roba. Che è pure una cosa divertente, infatti ridiamo. Ed almeno ho la scusa del divertimento che si trascina, quando vedo che il mio abito gli cade addosso in maniera ridicola, e posso ridere senza offenderlo troppo, anche se immagino che lui capisca il motivo della mia ilarità.
Lo sento sospirare e lo osservo scuotere un po’ il capo, rassegnato.
- Quanto sono ridicolo, da uno a dieci? – borbotta.
- Be’, dai… - cerco di rassicurarlo, ridendo ancora, - Non sei poi così assurdo. Ti si potrebbe anche dare una botta, volendo.
Mi tira un calcio sul ginocchio che mi costringe a saltellare su un piede per un minuto buono, mentre continuo a ridere tranquillamente.
- Certo che sei stronzo forte, tu. – sbotta, riallacciando le scarpe da tennis. Quelle erano e quelle restano, peraltro, anche a me pesa il culo a cambiare le scarpe.
Quando ci rimettiamo in piedi, lui mi guarda un po’ con aria compiaciuta.
- …stai bene. – annuisce alla fine, come fosse una gran concessione. In realtà la concessione non è il complimento, è l’occhiata che mi lancia, che già da sola basterebbe a farmi capire a cosa sta pensando, anche se non fosse ulteriormente precisato dalla sua lingua che si muove lentamente a inumidirgli le labbra.
- Sono uno schianto. – preciso inarcando un sopracciglio. – Sto sempre bene, vestito elegante.
- E te la tiri come una fottuta primadonna, anche. – grugnisce per tutta risposta, scazzottandomi contro una spalla.
Ridiamo ancora un po’ e sono abbastanza contento della piega che ha preso la situazione. Intendiamoci: so perfettamente che, quando saremo a due passi da Greta, Chakuza comincerà a sclerare. Com’era prevedibile, non ha mai preso bene quello che è successo quella notte, ed ha continuato a vivere in uno stato di angoscia perenne per tutto questo tempo fino ad ora, mentre aspettavamo un segno. Non posso dire di capire davvero questo suo atteggiamento, perché io sono disabituato all’ansia. Non so più com’è essere agitati per qualcosa. Però suppongo sia una cosa abbastanza normale, che poi è il motivo per cui non me la prendo davvero con lui quando mi fissa con occhi confusi come ha fatto per quasi tutta questa sera.
Quindi, insomma, so che non sarà facile gestirlo quando saremo lì. Però se riesce a mantenersi almeno un po’ calmo è già un enorme passo avanti, e non può che semplificarmi le cose.
Quando arriviamo al locale, Chakuza fissa l’ingresso con la solita aria da poveraccio sperduto. Ma io dico, perché Eko Fresh ha deciso arbitrariamente che il pezzente fra i due sono io, se poi è ovvio che è Chakuza quello che certe cose non le ha viste mai in tutta la propria esistenza?
Io qui ci sono stato con Sido e famiglia un’abbondanza di volte, perciò sono abbastanza a mio agio mentre entro ed osservo il cameriere travestito da pinguino – che si muove così elegantemente da volteggiare quasi a qualche centimetro dal pavimento – avvicinarsi a noi e chiederci se abbiamo prenotato.
Dico che siamo attesi dalla signora El-Haddad e lui annuisce compitamente, facendoci strada verso l’interno. Il posto è elegante e riservato, i tavoli – piccoli e tondi, coperti da drappi rossi pesanti e lucidi che scendono in sbuffi fino a sfiorare la moquette nera che tappezza il pavimento – sono tutti piuttosto distanti l’uno dall’altro. Abbastanza da concedere a tutti il riserbo di cui hanno bisogno.
Dio sa se ne abbiamo bisogno anche noi.
Greta è semplicemente stupenda. La notte in cui abbiamo fatto fuori Saad non me ne sono accorto, un po’ perché avevo altro a cui pensare ed un po’ anche perché lei era sfatta, agitata e in vestaglia. Però a vederla adesso è palese, tant’è che io resto pure un po’ senza fiato. Chakuza fa una mezza risatina e mi dà una gomitata nel fianco.
- È sempre stata così. – mi sussurra, - Saad aveva un ottimo gusto.
Annuisco senza neanche rendermene conto, sono ancora un po’ imbambolato quando ci sediamo al tavolino di fronte a lei. Ha dei capelli biondi che sembrano grano, di quello delle pubblicità delle merendine ai cinque cereali, però, non di quello vero. Quello vero ha sempre un colorito un po’ smorto, soprattutto nelle campagne intorno alla città, mentre quello delle pubblicità è sempre, tipo, il biondo più bello che possa esistere – sarà che non esiste davvero; forse è per quello. Comunque il biondo di Greta è ancora più biondo di quel biondo lì, ed io mi perdo un po’ sulla frangia ondulata che le scende lungo la fronte e si ferma sulla tempia, guidata da un fermaglio nero molto elegante, con delle decorazioni floreali.
I capelli li ha raccolti in uno chignon alto e piccolo dietro la testa, sono sistematissimi, tanto da sembrare finti. Non ce n’è uno fuori posto. Però fanno un buon profumo di shampoo alle more, quindi finti decisamente non sono. E stanno bene un sacco con i suoi occhi, che sono azzurrissimi e tristi e un po’ stanchi, ma fieri.
Per un momento penso che adoro le donne del ghetto, perché hanno sguardi che ti sanno dire tutto in un niente. Mia madre è così, Luise Maria è così. Bill è così ed anche Greta è così.
Sistema per qualche secondo le numerose pieghe dell’abito bianco lungo che indossa, e che si perde in un morbido strascico che brilla quasi contro la moquette scura. Le mani sono pallide e curate, e si muovono con grazia appianando gli sbuffi di tessuto. Sia io che Chakuza restiamo interdetti e silenziosi per tutto il tempo; non c’è proprio niente da dire a riguardo: è bellissima, punto.
Quando solleva lo sguardo, io e Chaku facciamo quasi un salto sulle sedie. Ci guarda a lungo, dritti negli occhi, prima lui, poi me, e non sembra nemmeno respirare. Non sembra una creatura di questo mondo. Poi, lentamente, inspira. E quando apre la bocca Chakuza va immediatamente in tensione.
- Io ed Anis, - dice, e giuro che il suo nome era proprio l’ultimo, l’ultimo davvero, che potessi aspettarmi di sentire stasera, - eravamo molto amici.
Per un secondo, ci resto un po’. Voglio dire: mia madre ha sempre adorato Anis. Anche Luise Maria ha sempre adorato suo figlio. La Steen se l’è portato a letto per un considerevole quantitativo di tempo e ciò che faceva con Bill è abbastanza noto a livello mondiale, ormai, ed ora veniamo a scoprire che aveva le mani in pasta anche con la moglie di Saad. Quell’uomo non aveva limiti, cazzo. È assurdo a pensarci, non so se ricordarlo con un sorriso o con un “fanculo”.
Anche Chakuza sembra non fosse preparato alla cosa, tant’è che resta pure lui a guardarla come stesse recitando l’alfabeto al contrario o che so io.
- Mio fratello Thomas, - continua lei, intrecciando le dita sul tavolo, - ha avuto dei problemi piuttosto seri. Io e Saad eravamo sposati da poco ed eravamo… molto giovani e molto stupidi. Io, soprattutto, non sono stata in grado di accorgermi di niente, e quando ho scoperto dei debiti enormi che aveva accumulato a causa della droga non ho saputo cosa fare. Mi sono sentita persa, e le cose sono peggiorate ancora quando l’hanno arrestato. S’era messo a spacciare anche lui, per cercare di rimborsare i debitori. – fa una pausa, un po’ per riprendere fiato, perché si vede che fa fatica, nonostante sia piuttosto calma, ed un po’ per lasciare anche a noi il tempo di metabolizzare. Ci mette più tempo Chakuza, che pare si stia rendendo conto solo adesso di aver vissuto in mezzo ai criminali fino ad ora. Per me è vagamente più normale. Vagamente. – Ne ho parlato con Saad. Ci abbiamo riflettuto a lungo e l’unica cosa che siamo riusciti a capire era che da soli non potevamo tirarcene fuori. Saad ancora, sapete, non era sotto contratto all’Ersguterjunge. Lui ed Anis però si conoscevano, si conoscevano da un sacco di tempo, perciò l’idea iniziale era chiedere a lui. Solo un prestito, ovviamente, volevamo solo pagare gli avvocati. Thomas era costretto a stare in galera, in attesa del processo. E lui era… - si passa una mano sul collo, come a voler sciogliere i muscoli tesi, - Diciassette anni sono troppo pochi, per certe cose.
Vorrei dirle che io a diciassette anni ci avevo già abbondantemente fatto il callo, a questioni simili, ma non le dici certe cose a una sorella che parla del fratello in galera, così come non le dici ad una madre che dice lo stesso del figlio. Ci sono cose che uno non può dire.
Quando mi schiarisco la voce e parlo, è per dire tutt’altro.
- Cos’è che ha fatto Anis? – chiedo. Perché è questo il punto della questione. È attorno a questo che ruota tutto, altrimenti lei non l’avrebbe tirato in ballo.
Greta mi guarda a lungo, lo fa con una certa curiosità. E poi sorride appena.
- Ha risolto la questione. – dice, la voce modulata su un tono più dolce e caldo rispetto a prima, - Tutta l’intera questione, senza che noi neanche glielo chiedessimo. Gliela esponemmo e basta, gli chiedemmo dei soldi e lui rispose con uno strano sorriso buffo, dicendoci “vi sembro tipo da fare l’elemosina, io?”. E Thomas era fuori la settimana successiva. Fuori e senza più un debito.
Mi limito ad annuire. Così tipico di lui, mi dico con un mezzo sorriso. Anis era uno che le situazioni se le prendeva a cuore, in genere. Non tanto per altruismo o per ricavarne un utile, direi piuttosto per una specie di strano orgoglio. Abituato com’era a considerare propria qualsiasi cosa toccasse, era per lui un’offesa intollerabile che qualcuno si azzardasse a metterci sopra le mani. Perciò il fratello di un amico non può restare in galera, soprattutto se ha diciassette anni ed è palesemente carne da macello.
Greta sorride ancora.
- Lo conoscevi molto bene? – mi chiede, ed io sento Chakuza agitarsi al mio fianco. È la classica situazione che preferirei non vivesse, questa, ma ormai l’ho portato fino a qui, non ho più molto da fare a riguardo.
- Quanto bastava. – rispondo, - Quindi?
Lei inspira ed espira ancora, sistemandosi un po’ sulla sedia ed accavallando elegantemente le gambe.
- Quindi io amavo mio marito. Ma quello che c’era con Anis non era solo un debito. E non era solo affetto. – si interrompe ancora, sorseggiando il drink ancora intoccato che ha di fronte, - Mio marito l’ha ucciso. Voi avete ucciso lui. Io lo so. E ci metterei poco a scoprire quello che mi serve per incastrarvi. – Chakuza suda freddo, io cerco di tranquillizzarlo sfiorandogli una mano con due dita, da sotto il tavolo, ma serve a poco. E poi lei lo dice. – Ma non intendo farlo. Le regole valgono per tutti e… non siete stati voi ad infrangerle. È stato Saad.
Questo, molto semplicemente, chiude la questione. Le chiude tutte, anzi. Non voglio soffermarmi a riflettere sul legame che stringeva questa donna ed Anis, ho imparato tempo fa e a mie spese che con quell’uomo definire è molto pericoloso. Definire, ma anche non farlo, in fondo. Non ricordo di aver mai definito niente di ciò che c’era fra noi, con lui, e forse è per questo che mi pesa ancora addosso.
In tutto questo, da quando siamo arrivati, Chakuza non ha ancora spiccicato parola. D’accordo, non che io abbia fatto chissà che grandi discorsi – diciamo che Greta ha parlato abbastanza per tutti – ma fa strano davvero non sentirgli dire niente. Sospiro e stringo un po’ la presa sulla sua mano, lasciandolo andare subito dopo. Lui si riscuote e mi guarda, decidendosi finalmente a chiudere le labbra – fino ad ora semiaperte in un’espressione di sgomento mal dissimulato – e schiarirsi la voce, annuendo. Si sistema sulla sedia, a disagio, e io sorrido un po’.
Chakuza, ti regalerei un ristorante tutto tuo, certe volte. O anche un agriturismo in campagna, chissà. Bill sarebbe bravo ad accogliere i clienti ed accompagnarli nelle loro stanze mentre elenca i benefici della campagna senza crederci neanche un po’, visto che lui la odia. Però probabilmente con te ci verrebbe.
Greta freme e intreccia più strettamente le dita, prima di deglutire faticosamente e tornare a guardarci con una luce vagamente intimorita negli occhi.
- Potrei sapere dov’è? – chiede quindi, inumidendosi nervosamente le labbra. Al momento non saprei stabilire se sia più giusto che sappia o no. È passato un bel po’ di tempo da quando abbiamo buttato Saad nel canale. Io non credo che lo vorrei vedere un cadavere in quelle condizioni. Per quanto l’abbia amato quand’era in vita. Non so se vorrei vedere neanche quello di Anis, per dire.
Mentre mi perdo sul punto, Chakuza raddrizza la schiena e guarda Greta con una certa intensità.
- Non credo che sia il caso, Greta. – le dice dolcemente. Lei annuisce subito, e sorride un po’ timidamente.
- Sì. – esita un secondo, - Sì, Peter, credo che tu abbia ragione. Ma sai… - e gesticola un po’ con una mano, un movimento elegante e fluido, che dice tutto quello che abbiamo bisogno di sapere. Abbassiamo lo sguardo, ed è la prima volta da quando Saad è morto che mi sento veramente in colpa. – In ogni caso, - riprende dopo qualche secondo, - non denuncerò la sua scomparsa. Mi ha lasciato una lettera, prima di andare via, in cui mi diceva di dimenticarlo e perdonarlo. – Chakuza ci mette un po’ a realizzare che Greta non sta raccontando dei fatti ma inventando una nuova verità. Io sorrido un po’, perché anche questo è un lascito di Anis. La verità non è niente più che la descrizione di qualcosa su cui tante persone sono d’accordo. “Il fuoco brucia” non è verità perché sì, è verità perché tutti siamo d’accordo sul fatto che, se ci ficchiamo dentro la mano, la ritiriamo carbonizzata. Quindi la verità basta inventarla e poi fare in modo che nessuno possa o voglia contestarla. Bushido lo faceva continuamente. – Nyzaad è ancora arrabbiata, ma le passerà. Le dirò la verità, prima o poi.
Io annuisco. Nyzaad dev’essere la bimba bionda. Chakuza mi guarda. Realizza. Annuisce anche lui.
Greta sorride un’ultima volta, prima di alzarsi dignitosamente in piedi.
- Questa conversazione non ha mai avuto luogo. – dice, il sorriso ancora sulle labbra. – Restate pure quanto volete.
Non la osserviamo allontanarsi. Posso immaginarla passare davanti al guardaroba e farsi portare una pelliccia dall’addetto, prima di uscire sorridendo ancora, come non avesse appena discusso di morti e denunce con gli assassini di suo marito.
Chakuza inspira ed espira e l’attimo dopo lo vedo piegarsi in avanti e piantare i gomiti sul tavolo, mentre poggia la fronte contro i palmi aperti e si massaggia un po’, come avesse un gran mal di testa.
- Chaku…? – lo chiamo a bassa voce, chinandomi nella sua direzione. Lui, inizialmente, mi risponde solo con un mugolio esasperato. Poi parla.
- Non potrei dimenticarmi l’ultima mezz’ora neanche se volessi. – ammette insolitamente quieto, senza guardarmi, - Tutto quello che è successo… non potrò dimenticarlo mai.
Mi appoggio contro la sua spalla, discretamente, e mi sporgo verso il suo orecchio.
- Non devi. – sussurro, - È un pezzo di te. Ti renderà una persona migliore.
- Di queste cose, quante ne hai viste tu? – chiede a bruciapelo, restando immobile.
- …tante. – ammetto io, scrollando le spalle, - Troppe.
- E questo ha fatto di te una persona migliore?
La risposta è “no”. La risposta, anzi, è molto simile a “no, Chaku, io sono quasi una delle persone peggiori possa capitare di incontrare nella vita”. Ma dirlo ad alta voce non servirebbe a niente, perciò mi allontano da lui e mi alzo in piedi.
- Torniamo a casa, Chaku. Non abbiamo più niente da fare, qui.
*
Chakuza ha provato come al solito a farmi restare da lui per la notte. Io, come al solito, gli ho dato picche, e l’ho fatto anche con un certo fastidio, dicendomi “ma quanto gli ci vuole, a capire?”. La verità è che non è che Chaku abbia proprio torto, in questo senso. Voglio dire, io continuo a tornare. E se ripenso a prima, quando ha provato a scoparmi contro l’armadio… intendo, quella non è una scena così distante dalla nostra routine. Perché non so come sia successo o per quale motivo, o magari lo so e mi girano solo le palle ad ammetterlo, ma so che c’è comunque una cosa che, insomma, quando ci vediamo scatta. Magari la teniamo a bada per un po’, ma poi esplode. Prima della notte in cui abbiamo chiuso la questione con Saad, capitavano cose allucinanti del tipo: io stavo svaccato sul divano a guardare la tv, lui stava in bagno a farsi la barba, e lo vedevo spuntare ancora umido di risciacquo per dirmi “oh, ma non è che ti va, per caso?”. Frase cui ho risposto più di una volta con una risata e un vaffanculo, prima di alzarmi in piedi e schiacciarlo contro la prima parete disponibile. Perché sì, mi andava.
Quindi sì, insomma, non mi stupisce tanto che Chakuza non capisca cosa mi passa per la testa. Per la verità anche io ho dei momenti in cui mi chiedo che cazzo sto facendo. Suppongo sia normale.
Riassunto: sono riuscito a sganciarmi solo due minuti fa e, per riuscirci, ho dovuto tirare fuori Bill. Quando conosci tanto bene una persona è molto facile rigirartela fra le dita. Io so che per far cambiare umore al Chaku basta nominare il ragazzino, e lui si spegne subito. Non è affatto facile spegnere Chakuza, eh. Onore al merito del ragazzino che è riuscito a devastare il cervello di due degli uomini più cocciuti ed eterosessuali mi sia mai capitato di incontrare. Per quanto mi renda conto che dare ad Anis e Chakuza degli eterosessuali adesso suoni quantomeno ridicolo. Ma comunque.
Appena gli ho detto “Chaku, io devo andare a parlare con Bill”, lui ha immediatamente smesso di cercare il bottone dei miei jeans sotto il giubbotto, nell’androne del palazzo, e mi ha guardato con aria persa e supplichevole. Suppongo volesse guardarmi solo con aria persa, ma era anche supplichevole, io lo so. Lui non se ne rende conto, quando ti sta implorando di dargli una scusa per rivederlo. Però è così.
Insomma, gli ho sorriso e gli ho dato una specie di pugno sulla spalla, dicendogli “lo sai che non puoi venire. Devo dirgli cose importanti, e tu me lo distrai”, al che lui è sclerato ed ha cominciato a strillare che dovrei smetterla di dire cazzate sul punto. Avrebbe anche ragione – perché in teoria non sarebbero fatti miei – se non sapessi perfettamente di avere ragione, sulla questione. Però lui ha difficoltà enormi a parlarne con me, e inoltre sospetto che il giorno in cui gli dirò a chiare lettere “guarda che lo so, che ti piace”, gli verrà un infarto, perciò almeno per oggi me lo sono risparmiato e l’ho osservato salire le scale a passo di carica augurandomi di andarmi a schiantare contro un muro appena uscito di là. Ho riso perché non avevo nemmeno la macchina, visto che mi sono mosso con lui, quindi anche a schiantarmi contro un muro, camminando, al più mi schiacciavo il naso.
Bill lo chiamo solo quando sono già sotto casa sua. Guardo dritto alla finestra del suo appartamento e porto il cellulare all’orecchio, dopo aver composto il suo numero a memoria. Lui mi risponde con una vocina sonnacchiosa e pigolante.
- Fleeeer… - borbotta, - Ma che c’è?
- C’è freddo ed ho voglia di un caffè. – rispondo ridacchiando, - Mi fai salire?
Lui biascica qualcosa di incomprensibile ma sento un fruscio di lenzuola tutto intorno e poi il suo ciabattare annoiato per il corridoio. Pochi secondi dopo, la serratura del portone scatta ed io mi ritrovo nell’ingresso sobrio ed elegante. Le suole delle mie scarpe da tennis sono umide perché fuori c’è un po’ di ghiaccio sui marciapiedi, e nello strisciare contro il pavimento in marmo misto producono un rumore fastidiosissimo che riecheggia per tutto l’ambiente. Sospiro e questi due piani me li faccio a piedi, se non altro perché ho bisogno di riscaldarmi un po’.
Quando arrivo, Bill sta dormendo in piedi sulla porta. Senza esagerazioni, Bill è così, si addormenta ovunque. Lo trovo appoggiato con una spalla allo stipite, gli occhi chiusi e il capo dondolante avanti e indietro, e mi metto a ridere. Lui solleva appena le palpebre e si strofina gli occhi coi pugni chiusi, mugolando scontento.
- Fler, è tipo l’alba…
È appena mezzanotte e mezza, eh.
- Bill, - lo prendo in giro, spingendolo dolcemente all’interno dell’appartamento e chiudendomi la porta alle spalle, - quando ero un ragazzino come te, io arrivavo senza chiudere occhio dalle sei del mattino alle sei del mattino del giorno dopo!
Lui si lascia spingere ciabattando rumorosamente, e mi si accuccia contro la spalla appena ci sediamo sul divano.
- Io non sono un ragazzino… - biascica, la voce impastata di sonno, - sono una principessa, le principesse a quest’ora dormono…
Rido ancora, annuendo.
- Naturalmente. Ehi, ti svegli un po’? Il caffè devo farmelo da solo?
Lui mugola e mi tira per il giubbotto, che non ho ancora sfilato.
- Vieni a dormire? – borbotta, riuscendo finalmente a togliermi la giacca sbavandomi un po’ sulla spalla, - Cioè… - si riprende un po’, sforzandosi pure di aprire gli occhi, almeno uno spiraglio, - Se mi porti a letto poi giuro che ti ascolto… però c’è freddo qui, e voglio andare a letto…
Rido ancora.
- E come fai a sapere che devo parlarti? – ghigno, sgomitando un po’ per metterlo dritto.
Lui mi si riappoggia addosso e socchiude gli occhi.
- Hai addosso l’odore di Peter, quindi siete stati insieme… e quando state insieme succede sempre qualcosa… quindi cos’è successo?
Chiaramente, il cuore prima mi sale in gola e poi sprofonda fino al centro dello stomaco, quando glielo sento dire. All’odore di Chakuza, poi, non avevo nemmeno fatto caso. Non ci faccio più caso, in realtà, da un mucchio di tempo.
- D’accordo, ragazzino, - sospiro, e mi sento schifosamente in colpa, anche se non ne ho il dovere, - per stasera e solo per stasera, sei principessa sul serio. – dopodiché, mi alzo dal divano. Lui sonnecchia ancora, quindi rotola un po’ sui cuscini e poi apre gli occhi e mi fissa con aria persissima, asciugandosi le labbra col dorso della mano.
- Fler…? – mi chiama, ed io mi chino a prenderlo fra le braccia.
Non pesa niente, il ragazzino. Mi si accoccola contro e mi allaccia al collo, posando il capo sulla spalla e mugolando soddisfatto.
- La tua ragazza sarà fortunata un sacco, sai? – sussurra sulla mia pelle, sistemandomisi addosso.
Io rido, perché mi viene in testa che non sono mai stato innamorato di una donna. Scopare, d’accordo, ma a parte mia madre tutto ciò che posso dire di amare o aver amato con le femmine non c’entra niente. Eppure, con Bill fra le braccia che mi parla di un’ipotetica fidanzata, un po’ me ne viene voglia. Una bella ragazza gentile e fedele, una casa sul mare, dei bambini, un cane pigro. È una cosa che non c’entra niente con me, me ne rendo conto. È una cosa che probabilmente non mi piacerebbe nemmeno. Però un po’ ci si pensa, quando ti dicono che una donna potresti renderla felice. Che per lei potresti essere più che abbastanza. Soprattutto quando sai perfettamente che invece non potrai mai essere abbastanza per qualcun altro, insomma, ti viene un po’ voglia di provare a vedere come sarebbe avere la certezza assoluta della totalità dell’affetto di un’altra persona. Probabilmente con una donna sarebbe più facile. Non lo so.
Bill mi indica la strada per camera sua e, quando ci entro, smetto istantaneamente di pensare. È la prima volta che metto piede qua dentro. Questa è la stanza in cui è morto Bushido, quello è il letto su cui si è disteso e su cui è rimasto mentre moriva. Per un attimo immagino le lenzuola zuppe di sangue ed esito, nell’adagiare il corpo sottilissimo di Bill sul materasso. Mi sembra di vederci delle tracce rosse che non ci sono davvero, e non voglio lasciarlo andare. Lui però allarga entrambe le braccia e si riappropria di quello spazio come di un pezzo stesso del proprio corpo. Infila le mani sotto il cuscino e lo stringe fortissimo, ed io adocchio la federa e noto che c’è scritto Ferchichi sull’orlo. E mi viene un sacco da ridere. Perciò rido e basta.
Lui apre gli occhi e ridacchia di riflesso.
- Che c’è…? – chiede, tirandomi una mezza ginocchiata mentre mi siedo al suo fianco.
Io indico il cuscino.
- Il nome... – e Bill ride a voce più alta.
- Lo ha ricamato Karima. – dice, e poi, di fronte al mio sguardo smarrito, aggiunge – La domestica. – con aria un po’ più cupa.
- Si divertiva proprio a mettere il suo nome ovunque, mh? – chiedo teneramente, stendendomi un po’ sul fianco accanto a Bill e tenendomi sollevato dal materasso col gomito. Bill annuisce e sorride, e quando lo vedo posare per bene la testa sul cuscino e socchiudere nuovamente gli occhi, mi schiarisco la voce e riprendo a parlare, - Oggi mi ha chiamato Greta.
Lui torna a guardarmi, vagamente confuso. Poi capisce di chi sto parlando.
- Perché? – chiede. Non si muove, resta lì steso a guardarmi fisso dal basso, ma il punto è proprio questo: mi guarda fisso, non c’è più sonno nei suoi occhi, tiene le palpebre ben sollevate e i suoi occhi castani sono perfettamente lucidi e attenti.
Mi metto più comodo, sistemandomi con una mano un cuscino sotto la testa. Bill mi si sposta più vicino e mi copre col lenzuolo – ovviamente non serve a niente ed è una cosa assurda, anche perché ho ancora su le scarpe, quindi sto per metà fuori dal letto e il lenzuolo finisce per coprirmi solo con un triangolino sullo stomaco, ma è una cosa tenera lo stesso. Tutto quello che so dopo è che comincio a sentirmi un po’ più caldo, ed è perché Bill mi sta abbracciando. Mi viene naturale fargli passare un braccio dietro le spalle e stringerlo. Non sembra strano.
Io e Bill ci tocchiamo spesso. Intendo, quando ci vediamo lo cerchiamo spesso, questo tipo di contatto. Sappiamo entrambi perfettamente che è perché io ho preso da Anis l’abitudine di toccare tutto. E lui, invece, a quell’abitudine lì ci si era abituato.
Suppongo che la cosa dovrebbe stupirmi di più.
Sono un po’ stupito dal non stupirmi affatto.
Bill, in ogni caso, sa abbracciare. L’unico modo per godersi un abbraccio è che chi te lo dà sappia farlo. Sappia, per dire, che sono le tue forme che devono adattarsi a quelle dell’altro corpo, non quelle degli altri che devono modificarsi per farti spazio. Uno che sappia dosare la forza, che sappia modulare la stretta, uno che sappia come alterare il ritmo del respiro perché non dia fastidio all’altro sfiorandogli la pelle. Non è una cosa da tutti. Chakuza, per dire, ha un sacco di pregi ma abbracciare non è proprio la sua cosa. È anche tenero, quando lo fa, ma proprio perché si vede che non lo sa fare. È troppo impetuoso e, quando ti stringe, lo fa perché ti sta dicendo chiaramente che ti vuole vicino. Non è una cosa che fa con altruismo, è una cosa che fa con desiderio. È bello anche quello, a suo modo, ma non è la stessa cosa.
Bill sa abbracciare, non mi stupisce, e siccome so abbracciare anch’io ci incastriamo un sacco bene. Perciò, quando riprendo a parlare, lo faccio con molta meno ansia.
- Anis ti ha mai spiegato perché lui e Saad erano così amici?
Bill stringe la presa attorno alla mia maglia ed aggrotta le sopracciglia. Sento proprio i suoi lineamenti cambiare fisionomia perché, nella ricerca di una posizione comoda, ha finito per nascondere il viso nell’incavo del mio collo. Ora potrebbe dirmi qualsiasi cosa, del tipo “amici il cazzo”, che è un po’ quello che viene da pensare anche a me, in effetti, però non lo fa.
- No. – risponde, - Anis era sincero, non stupido. E io non ho mai preteso di ficcare il naso in faccende che non mi riguardassero.
Rido un po’.
- Bravo ragazzino. – commento, stringendo la presa sulla sua spalla, - Avevi un talento, come donna del capo.
Bill annuisce lentamente.
- Era la mia strada. – dice, e sta scherzando, è evidente, però la nota seria nella sua voce non mi sfuggirebbe neanche se fossi sordo. – Insomma, quindi…?
- Be’, - comincio a raccontare, - pare che sia cominciato tutto perché il fratello di Greta… Greta ha un fratello, lo sapevi?
Lui ride appena contro la mia pelle, e scuote il capo.
- Tu di mestiere non dovresti fare il rapper, sai? – mi prende in giro.
- Sì, infatti mi sto un tantino rompendo le palle di fare il detective da strada. – sbotto, agitandomi pure un po’, fra le sue risate. Approfitto del momento rilassato perché mi sa che se non vuoto il sacco col ragazzino adesso, non lo faccio più, - A proposito di questo, sai che pensavo di andare in tour con Sido, con l’anno nuovo? – Bill si irrigidisce e si allontana un po’, lanciandomi un’occhiata allarmata, - No, ehi, niente lagne. – lo avverto, guardandolo come stessi rimproverando un bambino di tre anni, - Fai il ragazzino grande.
- Ma Patrick! – comincia, sottolineando il mio nome in tono di rimprovero.
- Niente nemmeno “Patrick”, ragazzino. – borbotto ancora, tornando a stringermelo contro di prepotenza, così che lui smette di agitarsi come un’anguilla e sceglie la via del tentativo di commozione stritolandomi in un abbraccio pieno di bisogno.
- Non puoi andartene così… - biascica confusamente.
- Non vado mica via per sempre… - lo rassicuro, accarezzandogli piano la nuca, - Solo qualche mese.
- Ed io e Chaku faremo in tempo a impazzire, nel mentre. – lo dice a bassa voce, in tono quasi spettrale. Perfettamente consapevole di ciò che questa frase significa. O meglio, perfettamente consapevole di cosa significhi per lui. Di cosa significhi per me suppongo che non ne avrà mai idea. Anche perché io non gliela posso fare questa, al ragazzino. Non posso proprio. Sono destinato a perderli tutti in favore suo, penso, e mi viene un po’ da ridere mentre lo faccio. Anis era molto epico, nelle sue manifestazioni; immagino questi siano gli strascichi che si fanno sentire su di me.
La verità è che spero impazziscano sul serio. Impazziscano, una buona volta, e facciano questo dannato passo avanti. Io – cazzo – non voglio essere quello che andrà da Chakuza, fra uno o due mesi, per dirgli “be’? Guarda che ti sta aspettando”. Non voglio assolutamente, e il pensiero che invece potrebbe essere quello che mi toccherà fare, se resto troppo a lungo, mi tortura. Quindi voglio togliermi di mezzo e voglio farlo in fretta e voglio che, quando sarò tornato, tutto si sia già mosso nel modo giusto, e sia ormai irreversibile. Come quando Anis mi ha detto che sarebbe andato via solo a giochi fatti. Quando non potevo più nemmeno seguirlo, anche volendo. Perché così è più facile, Anis l’ha sempre saputo: è più facile quando sei di fronte a un fatto che non puoi cambiare. Ti metti il cuore in pace.
Comunque non ce la faccio ad affrontare un discorso alla “non ti lascerò andare via”, in questo momento. Soprattutto perché se Bill me lo chiedesse nel modo giusto, non potrei davvero farlo. Se davvero, guardandolo negli occhi, sospettassi che ciò che vuole davvero è avere me qui, perché senza non può stare, resterei. Sarebbe lo stesso con Chakuza. Se lui mi dicesse che il motivo per cui non può togliermi le mani di dosso è che sono io che faccio motivo da me, resterei. Ma sia il ragazzino che Chakuza mi vogliono tra i piedi solo perché così è più facile, inciampando in me non corrono il rischio di inciampare l’uno nell’altro.
Io non voglio dare adesso a Bill la possibilità di farmi pensare che mi voglia qui. Perciò lo tengo buono e ricomincio a parlare.
- Vedrai che non sarà così drammatico. – scrollo le spalle, riducendo la faccenda a una cosa di minima importanza, - Comunque sia questo benedetto fratello di Greta ha avuto dei brutti problemi con certi brutti tipi con i quali uno non dovrebbe mai avere a che fare. E in men che non si dica s’è ritrovato con la merda al collo. E indovina chi è arrivato sul suo fottuto cavallo bianco in una riedizione ghetto-style del principe azzurro?
Bill dimentica istantaneamente il resto della nostra conversazione e mi si abbatte addosso, ricominciando a ridere.
- Anis? – chiede, cercando di riprendere fiato fra una risata e l’altra.
- Cazzo, sì. – rido anch’io, scuotendo il capo, - Tra l’altro pare che abbia risolto sia i problemi coi brutti tizi che i problemi legali che ne erano derivati. Cioè, te lo vedi? Infilato in un completo nero che va a disquisire con gli avvocati fino a mezzogiorno, e poi avvolto in una tutaccia da svacco che va a minacciare di morte gli spacciatori per i vicoli di Tempelhof. Assurdo.
- Grandioso. – corregge lui con un sorrisino dolce.
Io rido ancora un po’.
- Già. – concedo alla fine. – Comunque, - riprendo con un sospiro, - questo è quanto. Anis salva il culo al ragazzino, gratitudine eterna da parte della donna del ghetto. Ovvio.
Bill ride ancora, scuotendo rassegnato il capo.
- Questo però non spiega tu cosa sia venuto a fare qui… - mormora confusamente. Poi sembra realizzare, e solleva lo sguardo a cercare il mio, - …a meno che tu non stia cercando di dirmi che è grazie a questo che…
Annuisco prima ancora che possa finire.
- Pare di sì. – aggiungo per rafforzare il concetto, - Insomma, siamo a posto. È andata. Finita. Ora puoi dormire tranquillo. – dico sbrigativamente, rimboccandogli il lenzuolo sotto il mento.
Bill si lascia maneggiare come stesse già dormendo, ma ha un’espressione assorta e lo vedo giocare con la fede che porta al dito, quella che mi ha detto di aver rubato da uno dei portagioie di Anis, perciò non lo lascio solo. È evidente che ha ancora qualcosa da dire.
- Quindi… - biascica infatti dopo un po’, mettendosi bene disteso sul materasso, - parentesi chiusa. È questo che intendi.
Scrollo le spalle.
- Be’, sì. – ammetto, - Dubito che sentiremo ancora parlare del fatto. Credo che, a domanda, Greta risponderà che è stato Saad a lasciarla senza farsi più vedere.
Bill annuisce. Prende atto. E poi sospira.
- Tu non ti muovi di qui, stanotte. – borbotta, appendendosi alla mia maglia – sono contento di essere passato a cambiarmi, prima di venire qui – e tirandomi scompostamente verso di sé.
- D’accordo, d’accordo! – concedo, sfilando le scarpe ed infilandomi sotto le coperte, - Sei viziato da morire. E Sido domani mattina mi farà il culo, arriverò con un ritardo stratosferico.
- Non ti ci faccio andare, da Sido! – continua a lagnarsi lui, ma già lo vedo che sta riprendendo sonno, - Tu poi non torni…
Sospiro profondamente.
- Torno, ragazzino, torno. Ti devo ancora una vacanza.
Mezzo addormentato per com’è, lo vedo sorridere mentre mi si adagia sul petto e crolla, esausto. Sistemo per bene le coperte, sistemo per bene i cuscini, sistemo per bene lui. E poi metto il punto alla giornata.

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Il Leone, La Strega E L'Armadio

di lisachan
Sono a casa di Chakuza perché s’è messo in testa di spostare i mobili della camera da letto.
…sono a casa di Chakuza perché io gli ho messo in testa che spostare i mobili della camera da letto sarebbe stato utilissimo, vista la pendenza con cui entra il sole nella sua stanza. E no, non avevo idea di cosa stessi dicendo. Ed è successo mesi fa, oltretutto, lui non avrebbe dovuto ricordarlo. E nemmeno io.
Sono a casa di Chakuza, fondamentalmente, perché credo di avere voglia di stare con lui. Non in qualche senso strano, solo perché avevamo un bel rapporto, al di là di tutto, e vederlo sfumare così nel niente è, non so, fastidioso? Irritante?
Sa dolorosamente di già visto, immagino. Tutto qui. Siccome ne ho già visto morire uno – prima ancora che Anis morisse davvero, oltretutto – non ci tengo a lasciarne morire anche un altro. E visto che non sono ancora riuscito a trovare le palle per andare via, tanto vale che, finché sono qui, continui a vederlo. Non facciamo niente di strano. So che non possiamo.
Quando sono arrivato qui, lui stava guardando la televisione con aria assente, e m’ha accolto con un sorriso da salvatore della giornata. Per la serie: meno male che sei arrivato tu, perché a stare qui da solo altri dieci minuti avrei potuto uscire pazzo. “Fler!”, mi ha detto, “Sei venuto per l’armadio?”. Io ho annuito ed ho tirato su un sacchetto pieno di bottiglie di birra, che è un po’ il prezzo che pago ogni volta che metto piede qui dentro. Non che Chakuza me l’abbia mai chiesto, naturalmente, è che io ho sempre bisogno di una scusa per presentarmi a questa porta. Ne ho bisogno per me ed ho bisogno di darla a lui.
Insomma, ho posato le birre in frigo e siamo andati in camera da letto perché – anche se non avevo la più pallida idea di come far pendere meglio il sole in camera sua – sarebbe stato allucinante arrivare fino a lì e poi dire “no, va be’, lasciamo perdere e guardiamo un film”. Abbiamo svuotato l’armadio trovandoci dentro roba che non ero sicuro di volere vedere, abbiamo guardato la finestra, ho finto di sapere cosa stessimo facendo ed ho cercato di ricordare dov’è che avevo detto di spostarlo quando gliene ho parlato la prima volta. Ho indicato un punto a caso sulla parete opposta. “Dovrebbe stare lì”, ho detto, “ingombrerebbe meno”. Chakuza ha riso ed ha annuito per inerzia, immagino.
Dopodiché abbiamo provato a spostare l’armadio prima sollevandolo e poi facendolo strisciare per terra, ma il peso non indifferente e la palese mancanza di rotelline sotto hanno reso entrambe le manovre impossibili. Perciò il risultato di più di un’ora di “aspetta, reggi lì” e “no, no, tienilo così” è stato che siamo riusciti a muovere la struttura di tre-centimetri-tre e solo dopo abbiamo capito che andava smontata e rimontata altrove, se non volevamo morire giovani.
Dal momento che il sole pendeva anche fin troppo bene, e batteva su di noi attraverso la finestra spalancata al punto che mi sono chiesto per quale motivo dovessimo davvero spostare l’armadio, ci siamo ritrovati in dieci minuti sudati come avessimo corso la maratona di New York. La conseguenza è stata che abbiamo sfilato le magliette, recuperato le istruzioni di montaggio e cercato di concentrarci su quelle perché stare seminudi e vicini non è più facile come lo sarebbe stato un anno fa. Nonostante tutto.
Quindi abbiamo smontato la struttura pezzo per pezzo – le ante, la base, la copertura, gli scaffali, la cassettiera – ed abbiamo spostato il tutto sull’altra parete. Abbiamo ottenuto solo che adesso armadio e letto distano tipo un metro, cioè niente, e la prossima settimana ci toccherà quasi sicuramente rismontare tutto da capo, perché così la camera da letto non è vivibile. Sul momento, però, eravamo stanchi morti, il sole aveva rotto le palle e quindi Chakuza ha detto “fanculo la pendenza, basta così” ed io ho annuito entusiasticamente. Ricordando peraltro di dover andare a pranzo con Sido entro le successive due ore, se non volevo farmi silurare anzitempo e perdere così la mia ultima occasione di fuga.
“Senti, mi faccio una doccia”, ho detto a Chakuza, grattandomi distrattamente la nuca, “Non ce l’ho il tempo di tornare a casa per farla”.
Lui ha annuito tranquillamente, biascicando un “Lo sai dove sono gli asciugamani e l’accappatoio” prima di recuperare la propria maglietta e ricominciare a riempire l’armadio con tutte le cose che avevamo buttato un po’ a casaccio fra letto e pavimento.
Mi sono diretto in bagno pieno di una certa soddisfazione. Stare nella stessa stanza e non saltarsi addosso era ancora un obiettivo possibile e la cosa non era di poco conto. Il sesso tende a rovinare tutti i rapporti, ed ero felice di sapere che invece qualcosa di salvabile fra me e Chakuza c’era ancora.
La doccia e l’acqua ghiacciata con cui ho sedato i pezzi di corpo ribelli che non erano d’accordo sulla parte del non saltarsi addosso mi sono sembrati rigeneranti. Sono uscito dal box con un sorriso di una soddisfazione tale da rasentare l’ebetismo.
E mentre recuperavo l’asciugamano e mi asciugavo, ho sentito le voci. Prima delle voci, anzi, la porta. E prima della porta i passi. Passi, porta, voci. “Chaku…”. Bill.
All’inizio è terrore panico. Non dovrei essere qui. Non dovrei essere nudo in questo bagno e non dovrei essermi fatto una doccia e in realtà non avrei neanche dovuto smontare e rimontare l’armadio di Chakuza. Non abbiamo fatto niente oggi, ma non è questo il punto. Bill non è stupido. Bill è tante cose ma purtroppo non è stupido.
Trattengo il fiato e sento la porta richiudersi e Bill muoversi all’interno dell’appartamento – l’inconfondibile ticchettio dei tacchi dei suoi stivali, l’unico segno di movimento perché Chakuza non fa alcun suono, quando si muove. O almeno da qui non riesco a sentirlo.
- Come mai qui? – chiede Chakuza premuroso, - Successo qualcosa?
Bill ridacchia.
- Ho una riunione fra un’ora, ho pensato di passare a trovarti… - il che mi riporta a Sido. Non arriverò mai in tempo. Non se dovrò stare nascosto qui per tutta la prossima ora. Devo trovare un modo di scappare e in realtà non voglio.
- Oh. – la prima esclamazione di Chakuza è atona. – Oh! – la seconda è più entusiasta ed è talmente ridicolo che vorrei ridere ma chissà perché non lo faccio. Non mi sento a mio agio. – Allora… ti va una birra? – c’è la mia birra nel frigo. È la mia tassa d’ingresso, non può darla al ragazzino.
In realtà può. Mi stringo nell’accappatoio perché sto cominciando a sentirmi davvero un idiota e lo sguardo che mi rimanda lo specchio non aiuta affatto.
Chakuza passa svelto di fronte al bagno – adesso i suoi passi li sento perché sono pesanti e frettolosi. Sento il frigo che si spalanca – il tintinnio delle bottiglie l’una contro l’altra – e poi si richiude, e Chakuza ripassa a due centimetri da me e ho come l’impressione che si sia dimenticato della mia esistenza. Scuoto il capo: non è mica possibile. Abbiamo spostato un armadio fino a mezz’ora fa.
Comunque non posso uscire e resto qua a guardarmi negli occhi da solo – il che è ridicolo, a pensarci – mentre sento Bill lamentarsi in lontananza dei ritmi assurdi che David impone loro, e di quanto sia stupido continuare a presenziare ovunque “se poi tanto non scrivo una parola, Chaku, e ci sto impazzendo, dietro questa cosa”.
Chakuza lo rassicura – anche se non sento di preciso cosa dice; colpa della sua voce, quella di Bill è chiara e squillante e la sentiresti a chilometri di distanza, quella di Chakuza invece è cupa come un tuono lontano e non capisci quello che dice a meno di non sentirtelo dire praticamente addosso – e sento solo le bottiglie fare avanti e indietro dal tavolo alle loro bocche, tintinnando contro gli anelli sulle mani di Bill e riempiendo il silenzio della loro conversazione quando, inevitabilmente, sfocia nel vuoto.
“Perfetto”, mi dico, anche se non ci credo neanche un po’. Perché anche io sono tante cose, ma non sono stupido. “Argomento esaurito. Ora si alza e se ne va”. È più una speranza che altro, ma in effetti sento dei suoni che possono darmi ad intendere qualcosa del genere – rumori ovattati, stoffa che striscia contro altra stoffa, gli anelli di Bill che continuano inesorabilmente a tintinnare – e mi sporgo per affacciarmi alla porta, giusto per capire esattamente quanto tempo passerò ancora qua dentro.
D’altronde Chaku non può veramente decidere di scopare col proprio ragazzo. Non mentre ci sono io qui. No?
Schiudo l’uscio.
Ed è come quando senti rumori strani in camera da letto dei tuoi genitori e, quando vai a curiosare, vedi qualcosa che non capisci ma che, per qualche strano motivo, ti fa schifo e ti disturba nel profondo.
Io, quello che vedo, non lo capisco perfettamente. So cosa sta succedendo – Bill e Chakuza in piedi, schiacciati contro lo schienale del divano, che si divorano l’un l’altro con gli occhi talmente serrati da sembrare in trance – ma mi rifiuto di capirne il perché. E questo nonostante io sappia esattamente cosa è successo. Nonostante sia stato proprio io a dargli il via, anzi. In questo preciso istante, con loro negli occhi e il silenzio della casa a riempirmi le orecchie, non riesco a fare altro che chiedermi quando sia successo. Dove fossi io mentre succedeva tutto questo. Penso “in questo bagno sto chiuso da mezz’ora o da… quanti mesi?”, e vorrei prendermi a schiaffi da solo. Per essere stato tanto cretino da pensare che il fatto che loro stessero insieme potesse sfiorarmi senza toccarmi. O farmi del male.
Il loro non è un bacio ansioso e non è un bacio frettoloso. È un bacio umido e aperto, sensuale e lento, di quelli ai quali tieni, di quelli dei quali vuoi conservare il sapore. È una cosa rodata. È una cosa che fra me e Chakuza, nonostante i mesi – mesi interi, Dio – che abbiamo passato a scopare, non c’è mai stata. Bill gli tiene le mani sul petto e lo esplora con competenza, ne traccia gli angoli e le curve, si sofferma a torturarlo con le unghie. Chakuza lo stringe alla vita e se lo tira contro, lo fa con una prepotenza che mi fa salire il sangue alla testa, e Bill gli mugola fra le labbra ed il suo mugolio mi s’infila nelle orecchie e si ripete come un’eco.
Vedo Chakuza che si allontana un po’, prende aria e la lascia prendere a Bill. Il ragazzino è perso, non riapre gli occhi e respira lentamente, pesantemente, appoggiandosi un po’ a Chakuza e un po’ al divano. Solleva le braccia e si aggrappa al suo collo, le punte delle dita sfiorano la sommità del tatuaggio di Chakuza che esce in parte dalla canotta scollata.
- Non pensavo… - gli mormora sulle labbra, e Chakuza s’irrigidisce.
- Non vuoi? – chiede con una certa premura, stringendolo teneramente attorno ai fianchi.
Bill esita qualche secondo, mordicchiandosi l’interno di una guancia, e poi lo bacia ancora. È lì che Chakuza comincia a tirarlo verso la camera da letto. Ma non sembra affatto che lo tiri, in realtà, perché i piedi di Bill si muovono senza particolari problemi.
Io so che dovrei avere almeno la decenza di chiudermi qua dentro e non uscirne più – possibilmente affogarmi da qualche parte, perché non è proprio possibile che io sia qui in questo momento ed abbia visto tutto questo – ma non riesco. Apro la porta e la richiudo silenziosamente alle mie spalle, cammino a piedi nudi sul pavimento come un criminale – e un po’ mi ci sento – e mi accosto alla soglia della camera da letto.
Io non sto bene. Non ci sto con la testa.
Quello che resta del mio cervello esplode quando vedo Bill sedersi sul letto cercando il materasso a tentoni con una mano dietro di sé, incapace di staccarsi dalle labbra di Chakuza, che lo guida come può – poco e male, visto che tiene gli occhi chiusi, ma a loro sembra bastare.
Bill afferra la canottiera di Chakuza per l’orlo e la tira su – adesso è affamato, lo vedo anche io, adesso c’è la fretta di sentirselo addosso pelle contro pelle – e Chakuza ringhia qualcosa di indistinto, qualcosa che fa mugolare Bill. I mugolii di Bill mi spaventano a morte. Il ragazzino è proprio perso.
Chakuza gli si stringe contro con una passionalità che mi sconvolge. Come volesse inglobarlo e tenerselo dentro. E lì penso che sono innamorati. Che sto guardando due innamorati che fanno l’amore. Sono un innamorato e sto guardando due innamorati che fanno l’amore. E non so quale delle tre cose sia la più sbagliata. Fanno male tutte, in un modo o nell’altro.
Il resto non ho veramente voglia di guardarlo. Mi nascondo dietro lo stipite e fisso gli occhi sulla parete vuota di fronte a me. Vorrei diventare un pezzo di arredamento. Ma non lo sono, posso sentire tutto e forse è meglio così, perché sento e immagino. L’immaginazione non è fisica quanto la realtà. E quindi io immagino Bill che gli si struscia addosso, immagino Chakuza che s’insinua fra le sue cosce, sento Bill trattenere il respiro e rilasciarne poi uno spezzato e sofferente. I fruscii delle lenzuola. E i respiri mozzati di Bill che diventano ansiti incerti, via via sempre più convinti. E so che Chakuza è dentro di lui e so che Bill lo voleva e so che stanno godendo insieme. Lo sento nelle loro voci, negli ansiti che rilasciano, nello schiocco dei baci che mi rimbomba nelle orecchie – e non riuscirò più a liberarmene, lo so.
I loro corpi battono l’uno contro l’altro e fanno un rumore che ricorda quello degli schiaffi.
Bill viene sospirando. Chakuza quasi in silenzio, soffocandosi contro la sua pelle. Lo schiocco dei baci è sempre lì e non va via, ma non so se si stanno baciando ancora o lo sento solo io.
Comunque si disincastrano – scivolano contro le lenzuola e se le tirano un po’ dietro, sudati come sono – solo per incastrarsi nuovamente due secondi dopo, mentre cercano di ridare un ritmo al loro respiro. Gli anelli di Bill tintinnano ancora mentre le sue mani scivolano addosso a Chakuza.
Non so quanto tempo è passato, quando sento Bill mugolare che non vuole andare via. E questo mi ferisce più di tutto il resto, ed ho quasi voglia di prendere e andarmene senza pensarci un secondo di più.
Chakuza ride e nella sua risata c’è soddisfazione. Ed io mi chiedo se ho la pistola nei pantaloni. Ma devo stare calmo. Devo stare assolutamente calmo.
- Devi andare. – gli ricorda pacato, - Ti aspettano.
Bill annuisce stancamente – mi sporgo di nuovo a spiarli sperando di non essere visto – e fa per alzarsi.
- Poi torno. – annuncia timidamente, e Chakuza sorride ancora. È il sorriso del salvatore della giornata. Era mio, fino a un’ora fa.
Si aggira per la stanza recuperando i vestiti. Solleva lo sguardo sull’armadio.
- E questo che ci fa qui?
Ed io vedo Chakuza trasfigurare. Non so se avere paura o sentirmi irrazionalmente e crudelmente felice. Il suo sguardo saetta per la camera e incontra la mia maglietta che è ancora lì sul letto a due centimetri dal suo corpo. Ci hanno praticamente scopato sopra. Dovrò andare via con addosso il loro odore, perché non posso farmi prestare qualcosa di Chakuza, non posso andare via con addosso un odore che è il suo e solo il suo.
- L’ho… spostato. – spiega brevemente.
Bill ridacchia.
- E perché?
Chakuza abbassa lo sguardo.
- …il sole illumina meglio la stanza, così.
Il ragazzino si guarda un po’ intorno, dubbioso.
- Ma ne sei sicuro? – chiede soprappensiero. Poi scrolla le spalle, - È un po’ ingombrante qui, comunque. – butta lì come un commento casuale. Si riveste e si china a baciarlo lievemente sulle labbra, prima di allontanarsi da lui.
Riprendo facoltà di muovermi. Mi costringo a farlo. Mi nascondo in bagno appena un attimo prima che Bill esca in corridoio. Stringo con forza il lavandino fra le mani – la ceramica fredda oppone una strenua resistenza contro i miei polpastrelli, e io stringo fino a farmi male e sentirla scricchiolare sotto i palmi.
Chakuza sta battendo alla porta del bagno un attimo dopo che la porta s’è richiusa dietro alle spalle magre di Bill.
- Sei ancora lì, vero? – chiede attraverso il legno.
Io respiro – ci provo, almeno – prima di rispondere.
- Sì, sto uscendo! – lo rassicuro, - Ho perso un po’ di tempo, scusa. Tanto l’appuntamento con Sido è fra mezz’ora!
Mi rivesto ed abbandono l’accappatoio sul mobile. Quando esco dal bagno, Chakuza è appoggiato al muro e posso leggergli in viso così chiaramente che si sente una merda che, anche se non avessi visto nulla, comincerei a sospettare.
- Ho dimenticato la maglietta da te.
Lui la solleva, stringendola in una mano.
- Grazie. – annuisco stringendola con la mia. Per un secondo lui non la lascia andare. Ridacchio. – Guarda che devo mettermela. – solo allora molla la presa.
- Senti, ci vediamo più tardi? – chiede con una certa urgenza, mentre io infilo la maglietta e mi dirigo verso la porta.
Vorrei urlargli che più tardi torna Bill. Che io in questa casa non dovrei mai più metterci nemmeno un piede.
- Magari, sì. – dico distrattamente. La maglietta sa davvero di loro. Mi toccherà chiamare Sido e dirgli che ritarderò una mezz’ora, perché devo per forza tornare a casa e indossarne un’altra. – Poi ci sentiamo.
Poi non so cosa succede, perché non ho il tempo di accorgermene. Non ho il tempo di osservare l’espressione di Chakuza cambiare, o di notare la luce nei suoi occhi farsi più intensa. So solo che mi blocca sulla porta e mi bacia di prepotenza. Non riesco a realizzare subito, sento solo la pressione. Non chiudo gli occhi, i suoi sono serrati.
- Ehi, ehi… - mi allontano con una mezza risata, scivolandogli via fra le braccia, - Cos’era? – mi viene da vomitare.
Chakuza distoglie lo sguardo.
- Ci vediamo più tardi, per favore? – dice semplicemente, ed io annuisco perché non trovo nulla di meglio da fare.
Esco da quell’appartamento e mi sembra di ricominciare finalmente a respirare. Appena arrivo alle scale, sento il primo soprammobile cadere. Chakuza sta distruggendo casa. Di nuovo. Mi toccherà accompagnare lui e Bill all’IKEA domani o dopodomani. Seguiranno scene deliranti delle quali non potrò fare a meno di ridere, perché ogni volta che Chaku distrugge casa Bill si mette in testa di riarredargliela, ma alla fine Chaku è cocciuto e compra sempre le stesse cose, dice che ci si è abituato.
Tornare indietro e fermarlo non è un’opzione contemplabile. Ma mi sa che passo il giro di compere, stavolta.
*
Sbatto di schiena contro la parete e per un secondo tutto ciò che riesco a sentire è un dolore lancinante un po’ ovunque su tutto il corpo. Parte dalla testa e si diffonde sulla nuca e lungo la spina dorsale, e da lì viaggia attraverso i nervi fino a quando ogni singola parte del mio fottuto corpo non sta soffrendo. Per un attimo penso che mi sta bene, perché cazzo, la situazione è quella che è ed io decisamente non dovrei essere qui adesso. Poi Chakuza mi si spinge contro ed io sento il suo cazzo battere contro il mio attraverso i vestiti e mi esplode il cervello. Così, boom, tutto bianco.
Lo afferro per le spalle e lo tiro lontano da me. M’è esploso il cervello e non dovrei poter pensare, ma in realtà è un attimo e dura niente, il momento dopo non c’è più bianco, ci siamo solo io e lui pressati contro un muro in una camera da letto buia con un armadio fuori posto e la serranda abbassata.
Otto, nove ore fa al massimo, stavo oltre quella porta e lo spiavo mentre scopava con Bill. Bill Kaulitz. Il ragazzino di Bushido.
Da allora, ho passato la giornata a cercare di capire come sia stato possibile ridursi a questo modo, partendo dai presupposti dai quali siamo partiti noi. Non è facile venire a capo di cose simili, soprattutto quando all’improvviso ti rendi conto che ti sei rovinato la vita quasi da solo. Avrei potuto evitare di spingerli l’uno fra le braccia dell’altro, e d’accordo, avrei avuto un ragazzino triste ed un Chakuza infelice, ma magari avrei ancora potuto dire di possedere qualcosa di mio. Sarebbe stata un’illusione stupida – Chakuza non è mio, non lo è mai stato, probabilmente non lo sarà mai – ma almeno sarebbe stato qualcosa, Dio.
È buffo che mi venga in mente solo adesso che una situazione simile è stata la prima dannata cosa che ho pensato quando sono entrato per la prima volta in questa casa. Chakuza mi aveva appena pestato a sangue, io avevo appena finito di raccontare la mia versione dei fatti e mi spunta il ragazzino tutto arruffato in palese rintontimento da sonno, ed io penso “cazzo, c’ha messo poco a dimenticarsi del morto. Come si chiama, passaggio del testimone?”. Ma è stato un pensiero fugace, poi l’ho capito – me l’ha fatto capire il ceffone di Bill – che non era niente del genere.
E però, ora che Chakuza forza la mia spinta e mi bacia con violenza, non riesco a fare a meno di pensare che forse in realtà la cosa era esattamente come l’avevo capita io. Solo che questi due ancora non lo sapevano.
- Chakuza. – faccio per chiamarlo, ma lui grugnisce e ritorna a schiacciarmisi contro. Si sente fottutamente in colpa, ed io ne sono felice; non intende parlare – di questo sono meno felice; quanto alla sua intenzione di scoparmi stanotte, non so che pensare. Lancio un’occhiata all’orologio a muro: sono le otto. Bill non aveva detto che sarebbe tornato? – Chakuza! – lo chiamo con più insistenza, e lui si separa da me e poggia la fronte contro la mia, tenendo gli occhi chiusi e sospirando pesantemente. È una cosa che fa sempre, o almeno, la fa quando cerco di fermarlo. È capitato spessissimo nove mesi fa ed aveva smesso di capitare negli ultimi mesi solo perché lui aveva smesso di provarci, per ovvi motivi. Non so se gli dispiaccia sentirsi dire no in generale o sentirselo dire da me.
- Cosa…? – chiede senza aprire gli occhi. È così vicino che sporgendomi un po’ potrei sfiorarlo senza problemi. Forse sarebbe meglio, almeno sarebbe una procedura brevettata, io che lo bacio, lui che mi afferra e mi rovescia sul letto e così via.
- Che stiamo facendo? – chiedo invece, senza muovermi di un millimetro, tenendo lo sguardo fisso sui suoi lineamenti tesi.
Lui si lascia andare ad un sorrisino frustrato. È a disagio.
- Devo spiegartelo con le diapositive? – scherza scendendo ad afferrarmi per i fianchi e trascinandomi verso di sé. I nostri bacini collidono ed io vedo di nuovo bianco. E poi torno di nuovo in me.
Realizzo d’improvviso che sono almeno… oddio, non lo so. Sei mesi circa, che non scopiamo. Sei mesi, forse di più. Dannatamente di più.
- Credevo fosse… passata. – butto lì in un sussurro, perché non saprei come altro metterla. Non c’era niente, in realtà. Sei mesi fa – di più, decisamente di più. Fanno nove mesi, mi sa. Nove mesi sono un’eternità – lui mi ha preso e mi ha scopato su un fottuto tappeto sul quale ora c’è il mio sangue. Almeno credo, il tappeto è sparito. Dopodiché abbiamo continuato a – non lo so. Cos’era? Affogavamo frustrazione? – insomma, per un mesetto circa. Poi la storia s’è conclusa, Bill ha fatto fuori Saad, la Vendetta di Bushido è stata compiuta ed io questo letto non l’ho più visto se non passandoci davanti per sbaglio.
Credevo fossimo tornati solo amici. Per quanto assurdo possa essere questo modo di mettere la questione – amici non lo siamo mai stati. Alleati, compagni, colleghi?, non so, decisamente non amici – credevo che Bill avesse risolto la nostra questione.
Chakuza mi scivola addosso con la punta del naso, disegna tutto il profilo della mia mascella e poi sale a sfiorarmi le labbra con le proprie. Sono delicatezze che nove mesi fa non esistevano neanche per ipotesi. Sono cose nuove, fanno parte di un modo completamente diverso di vedere la situazione. Sono cose che con me non ha mai fatto e so esattamente da chi le ha imparate. Ho la pistola nella tasca posteriore dei jeans e sono così eccitato che questi fottuti pantaloni sembrano stretti da morire. Schiacciato come sono contro il muro, il revolver mi pressa contro la schiena come volesse ricordarmi che esiste e posso usarlo.
È già la seconda volta oggi che vorrei ammazzare Chakuza per gelosia.
C’è qualcosa che non va in me.
- Mi sei mancato. – confessa in un sospiro.
Bianco. Bianco bianchissimo. Se continua così non capirò più niente, e però non è normale che non debba neanche più pressarmisi contro, per farmi andare fuori di testa. Non è normale che gli bastino un respiro e tre parole.
Sollevo le braccia e lo sfioro attraverso la maglietta. Lui mugola e si ripiega sul mio collo, lo sfiora con le labbra ma non fa altro. Per un attimo, oggi, mentre spostavamo l’armadio, sono stato felice. Io, cazzo, sono completamente uscito pazzo per quest’uomo. Lui no, ma poter passare del tempo insieme anche senza scopare era bello.
Ma lui si scopa il ragazzino. E ora vuole scoparsi anche me. Ed io continuo a ripetermi che è uno stronzo ma so che non è vero, Chakuza non è uno stronzo, non lo è mai stato, però cazzo. Cazzo, Chakuza.
E ciò che è peggio – io lo voglio. Io lo voglio, fanculo, lo voglio. È mancato anche a me, Dio, mi è mancata la forma dei suoi pettorali pressata contro la mia schiena, mi è mancato aggrapparmi alla sua vita mentre cercavamo una superficie sulla quale lasciarci andare, mi è mancata la sua bocca e mi è mancata la sua lingua, mi sono mancati i suoi denti e queste spalle assurdamente imponenti, che chiamano per dirti “appoggiati, tanto finché ci sono io non cadi”.
Le mie mani arrivano fino al suo collo e lì si abbandonano, rimanendo immobili.
Lo sto abbracciando. Dovrei sentirmi fuori posto. Chakuza solleva le braccia e mi stringe a propria volta. Sono a postissimo.
- Fler… - mi chiama, e si ferma. Non vuoi dirmelo, Chaku. Non dirmelo. - …mi dispiace. – non è vero. – Ci siamo un po’ allontanati, noi, ma… non volevo che accadesse. – sono bugie. Al ragazzino non le dici, ci scommetto. L’unica cosa che gli tieni nascosta siamo noi. Ma noi non siamo niente, quindi va bene. – Sono contento di-
Gli tappo la bocca nell’unico modo che so essere risolutivo, perché mi fa male sentirlo parlare così. Lo fa sembrare sincero. Io voglio credere che sia sincero. E allo stesso tempo non voglio. Ma se continuo ad ascoltarlo impazzirò del tutto, e non posso permettermi di impazzire. Forse avrei potuto permettermelo mesi fa, quando tutto quello che Chakuza voleva era proteggere il ragazzino e scopare con me. Ora Chakuza vuole scopare col ragazzino e proteggere me.
Ma io non ho bisogno di protezione. Anis mi ha insegnato a difendermi da solo. Me l’ha insegnato prima di diventare Bushido, prima di andarsene, prima di morire e lasciarci tutti nella merda. Ci sono cose che non dimenticherò mai – la prima tag, la prima volta in galera, la prima consegna da spacciatore, la prima scopata – e fra queste cose c’è Anis che, nel mezzo di un assalto così pieno di coltelli da farmi venire le lacrime agli occhi dalla paura, trova il tempo di lanciarmi un’occhiata sarcastica e ringhiare “Difenditi, Frank, o New York non ce l’avrà mai, il suo King”.
Ricordo le imprecazioni dei nostri avversari, la risata brillante di Anis, perfino la mia – divertita e sincera, nonostante la situazione. E ricordo il coltello che affonda nel fianco del fottuto stronzo che mi voleva morto perché pretendevo ci pagasse la merda che gli avevamo venduto.
Io so difendermi.
Io sono forte.
Mi separo da lui e lui grugnisce scontento, perché immagino abbia pensato che il mio bacio sarebbe stato solo il preludio al resto del nostro brevettatissimo rituale di riavvicinamento. Ma niente, Chakuza, non adesso, non per ora, non col ragazzino di mezzo, assolutamente no.
- Dormo a casa mia, stanotte. – dico con decisione, spingendolo via senza fretta, delicatamente. Non voglio che si senta rifiutato su tutta la linea. Voglio solo che sia chiaro che non mi scoperà.
Mi guarda come se l’avessi appena pugnalato alle spalle.
- Non resti…? – chiede, ha l’aria persa, gli occhi liquidi, brillano nel buio perché sono troppo luminosi per non farlo.
Scuoto il capo.
- È meglio così. – lo rassicuro con una pacca sulla spalla.
L’orologio segna quasi le nove. Non capisco se Chakuza abbia dimenticato la promessa di Bill, o se l’abbia sentito nel pomeriggio ed abbiano deciso di non vedersi, alla fine. Comincio un po’ a pentirmi della mia decisione di andarmene, perché lui continua a fissarmi come se lo stessi tradendo e mi sono sentito dare ingiustamente del traditore per tanti di quegli anni che ormai penso di essere condannato a sentirmi male ogni volta che anche solo penso la parola.
- Ci vediamo domani? – chiede lui, arrendendosi e lasciandomi passare. Quando nella mia testa si forma un ringhio rabbioso che dice esattamente “perché non mi fermi?”, scuoto il capo per scacciare i pensieri. Lui lo prende per un no. – Non vuoi più vedermi? Cazzo, Fler-
- No, no! – mi affretto a rassicurarlo, cercando di sorridere, - Sì, ci vediamo domani. Ho da fare all’Aggro ma quando finisco passo per l’Ersguterjunge, così se sei libero mangiamo un panino insieme.
Annuisce. Non è convinto. Si sente ancora in colpa, non gli ho dato modo di fare ammenda come avrebbe voluto.
Realizzo che nella sua testa la situazione è molto più semplice di quanto non sia nella mia. Si sente in colpa solo perché ha scopato con Bill mentre io ero qui, non perché sa che ho visto. Io, invece, sto male proprio perché ho visto. Per questo motivo penso che potrebbe scusarsi in tutti i modi del mondo e la cosa non avrebbe il minimo effetto, su di me: non si starebbe scusando per la ragione giusta, in ogni caso.
- Buonanotte. – dico a bassa voce, dandogli un’altra pacca sulla spalla.
Lui mi afferra per un polso. Non mi lascia andare.
- Sicuro che non vuoi restare a dormire? Anche sulla poltrona. È tardi.
Non è affatto tardi, ovviamente. Le nove non sono “tardi” neanche se hai dodici anni, figurarsi. Mi guardo intorno e vedo che gli effetti della devastazione di stamattina sono ancora visibili sul pavimento e sui mobili ingombri di roba rovesciata. Sembra abbia dato una sistemata, ma è ancora tutto un casino, il che vuol dire che prima di rassettare qui doveva davvero somigliare tantissimo al caos primordiale.
Non so. Se vado via, domattina questo palazzo sarà ancora in piedi?
Decido che non mi importa. È una bugia, ma per stanotte va bene così.
- Ci vediamo domani, Chakuza. – concludo. Sono fuori dalla porta appena in tempo per risparmiarmi la vista di un lume del comodino che si schianta contro il pavimento.

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Girls Just Wanna Have Fun

di lisachan
Io e Bill siamo alle Canarie. Non è la prima volta, perché la prima vacanza che ci siamo concessi insieme – solo io e lui, gliel’avevo promesso mentre inseguivamo Saad nel gelo di una notte che al momento non mi va di ricordare, e io le mantengo sempre, le mie promesse – l’abbiamo organizzata qui di proposito. Le Canarie sono un bel posto, sono piene di gente ma sono a misura d’uomo. Nel senso che è tutto molto carino e compatto, non ti ci perdi. Il che è fondamentale, quando devi andare dietro ad uno come Bill, che in pratica non fa che inseguire farfalle – sotto forma di borse Prada e pantaloni D&G.
Comunque sia, la prima volta che siamo venuti qui è stata proprio la prima volta in assoluto che ci siamo mossi da soli – e per quanto riguarda me era pure la prima volta che mettevo piede su un dannato aereo, la qual cosa mi ha fatto del male fisico che ho superato solo in virtù del fatto che non potevo lasciare Bill lì al check-in e tornarmene a casa correndo, urlando ed agitando le braccia sulla testa. Non sarebbe stato per niente qualcosa di cui andare orgoglioso e Chakuza mi avrebbe preso per il culo a parole – mentre cercava di prendermi per il culo anche in altri sensi – finché fossi rimasto in vita. La cosa non era proponibile.
Insomma, le Canarie – non so se ce le avete presenti – comunque sono questo arcipelago di isole paradisiache, ed è meraviglioso, perché uno non se la aspetta una roba simile in Europa. Cioè, quando uno immagina isole di questo tipo pensa automaticamente di dovere andare per forza oltreoceano. E invece niente, a due passi – più o meno – da casa, tu arrivi e c’hai tutto. Il mare e le spiagge e le lunghe vie affollate piene di palme e turisti in shorts che fanno tanto L.A. E sei sempre in Spagna, eh, non sei nemmeno uscito dall’Unione Europea. Secondo me è una cosa stupenda.
Comunque sia, la prima volta che siamo partiti eravamo entrambi un po’ scossi. Cioè, Bill lo era. O meglio, non lo era, la qual cosa era anche più preoccupante. E io ero circondato da gente che non riusciva a venirne a capo, nel senso che Jost non riusciva a capire come farlo tornare un essere umano normale che si preoccupasse di avere ucciso un uomo, e Tom era del tutto fuori di testa. A me, sinceramente, ha fatto paura, Tom, quando sono passato a prendere Bill per portarlo al Cafè Zapata ed offrirgli un gelato. Cioè, mi ha ringhiato contro e mi ha strillato “no che non te lo lascio portare fuori!”. A me. Tom mi venera, tipo.
E poi c’era il Chaku, naturalmente.
Gesù, un uomo incapace di comprendere cos’ha nella testa. Sempre, questo, ma in quel momento in maniera particolare. Perciò niente, nessuno poteva aspettarsi delle soluzioni da loro, perciò io ho arbitrariamente deciso che avrei risolto la situazione, ho preso Bill e l’ho portato in vacanza.
Il primo viaggio, quindi, l’ho pianificato io. Bill non ha fatto resistenza, quando l’ho invitato a partire, però non ha nemmeno mostrato chissà che entusiasmo, ecco, quindi mi sono dato da fare per portarlo in un posto carino e sono andato da un amico giù nel ghetto a chiedergli “ma tu un bambino dove lo porteresti, tipo, per farlo riprendere da un trauma di quelli belli grossi?”. E quello prende e mi trascina a casa sua, dove tira fuori chili di depliant pieni di roba su queste isole fantasmagoriche a due passi da casa, che sono cose che ti turbano, anche, non te l’immagini che uno spacciatore possa prendere a brillare come un bambino mentre ti illustra le meraviglie di un delfinario, perdio.
Così l’ho portato a Tenerife, che praticamente è un’isola per famiglie. Nel senso, c’è il parco acquatico e c’è, appunto, il delfinario e ci sono un sacco di posticini carini in cui portare i ragazzini, perciò niente, non ho fatto per nulla fatica, perché poi a Bill piace stare in mezzo alla gente, non è mica felice quando lo rinchiudi in una casa, quale che sia il motivo. Siccome vive con un bisogno costante di adorazione, ha sempre questa necessità spasmodica di trovarsi in mezzo a gente che possa venerarlo come si deve. Quindi, in sostanza, o è in famiglia e tutti lo venerano per partito preso – perché come fai a non volergli bene, al ragazzino? Andiamo, non puoi – oppure va per negozi a farsi venerare per un qualche motivo valido da commessi e commesse.
Insomma, la nostra prima vacanza, proprio perché l’ho progettata io, è andata alla grande. Ho portato Bill in un sacco di posti carini, l’ho portato anche al delfinario e l’ho osservato riacquistare poco a poco tutte le sue espressioni. Una cosa un sacco carina, peraltro, perché poi i sorrisi di Bill quando si aprono sono come quelli dei bimbi, grandi e improvvisi, e tu resti lì a fissarlo e ti chiedi come sia possibile che un ragazzo sia così tremendamente bellino. Suppongo che Bill ignori un sacco di regole, compresa quella per cui un ragazzo non può essere carino.
Quindi, la prima volta è andato tutto a meraviglia. Poi Bill s’è preso bene – anche troppo – ed ha deciso in primo luogo che le nostre vacanze andavano ripetute; in secondo luogo, che della progettazione delle altre si sarebbe occupato lui. Io avevo, in effetti, una mezza idea di dirgli “no, guarda, grazie mille ma ho altro da fare, nella mia vita”, ma insomma, il ragazzino, mente stavamo lì a guardare i delfini, mi si è sciolto in lacrime per la prima volta da quando eravamo partiti, e... e poi, insomma, non è che avessi molto da rimpiangere, io, lì a Berlino. Non è che abbia molto da rimpiangere anche adesso, d’altronde.
Per dire, al momento la situazione a Berlino è: ho un Chaku che, per ovvi motivi, s’è completamente dimenticato della mia esistenza – non ce l’ho con lui, lo capisco, l’ho mandato da Bill un paio di mesi fa e sono in pieno delirio romantico, al momento, non c’è spazio per me… il Chaku nemmeno lo cerca, lo spazio per me, d’accordo, ma lui è così, non ci si può fare niente, gli si vuole bene per il disastro che è o non gli si vuole bene affatto. Quindi, il risultato di tutto questo è che io un Chaku non ce l’ho per niente. E Sido non s’è ancora deciso a partire con il tour, per inciso, perciò se stessi a Berlino dovrei praticamente stare tutto il giorno in casa – solo – sperando di non vedermi spuntare all’improvviso Tom in aria di fanatismo. Non esattamente un paradiso.
Comunque, anche stare lì solo in casa tutto il giorno sarebbe rilassante e piacevole, al confronto con ciò che sto vivendo in questo preciso momento della mia esistenza. E se sapete almeno un po’ di quanto odi stare in casa da solo, immaginerete facilmente cosa voglia dire questa frase pronunciata da me medesimo.
Sto vivendo una tortura.
- Ommioddio!!! Pat!!! Guarda lì!!! Oddio, le voglio… oddio, le voglio tutte!
Bill sta gemendo in maniera surreale, qui accanto a me. Ed il fatto che stia gemendo così per delle caramelle già basterebbe ad inquietarmi. Il problema è che ho qualcosa di anche peggiore, intorno a me, al momento. Ed è questo quello che mi preoccupa di più.
Siamo sulla Gran Canaria, terza isola dell’arcipelago in ordine di grandezza. Per la precisione, in questo momento siamo sulla Playa dal Inglés.
Non ho idea del punto fino al quale si spinga la vostra conoscenza delle Canarie: io, comunque, le conosco abbastanza per sapere che ci troviamo in uno dei più importanti centri turistici omosessuali dell’intera comunità europea.
Sapevo che non avrei dovuto lasciare a Bill la possibilità di organizzare il viaggio senza consultarmi prima.
Lo vedo che si fionda letteralmente all’interno del negozio di dolciumi e lo afferro per l’orlo della maglietta, trascinandomelo dietro mentre avanzo per la strada, portando entrambe le nostre valigie – il suo trolley per il manico, il mio borsone a tracolla – e guardandomi intorno alla ricerca del nostro albergo, mentre cerco di tenere il depliant con l’immagine dell’hotel in equilibrio sulla testa, così da potere lanciare qualche occhiata all’immagine ed alla strada, alla ricerca del posto giusto.
- Non se ne parla, ragazzino. – lo rimprovero, mentre lui miagola e mugola e cerca in tutti i modi di farmi sentire in colpa per averlo trascinato lontano dall’amore della sua vita, - Prima ci sistemiamo in camera, poi se ne parla.
- Ma io-
- Ma tu niente. – insisto trascinandolo verso l’entrata dell’albergo. – E ora comportati bene, su. Non facciamoci rimproverare subito.
Lui si lascia andare ad una mezza risatina maliziosa e divertita e poi mette su la maschera della signorina di buona famiglia, le braccia strette lungo i fianchi e le mani intrecciate in grembo. Roteo gli occhi e lo lascio fare, pensando che il ragazzino certo si diverte in modi stranissimi.
Il consierge ci accoglie con estrema sollecitudine. Bill, oltre gli occhiali enormi e scurissimi, le labbra che brillano del riflesso dei raggi del sole contro il lipgloss, sembra una ragazzina, più che un ragazzino.
- I signori hanno prenotato?
Bill fa un sorriso piccolissimo e si stringe appena nelle spalle, in un’imitazione di timidezza che da sola mi fa venire voglia di sbottare “oh, andiamo!”. E invece niente, mi limito a tirare l’ennesimo sospiro stremato della mia giornata e poggio per terra tutta la roba che mi trascino dietro da ore, allungandomi sul banco della reception in cerca di un po’ di refrigerio dalla calura assurda che attanaglia questa città. Il legno, almeno, è fresco.
- Una matrimoniale a nome Losensky.
Bill lascia andare la risatina di rito, coprendosi le labbra con una mano. Il consierge inarca entrambe le sopracciglia ed io gli lancio uno sguardo tra l’esausto ed il pietoso, come a dirgli “vede con cosa devo avere a che fare ogni giorno?”. Però niente, lui non sembra interessato al modo in cui devo espiare ciò che secondo lui è così palese – cioè che io questa ragazzina me la porti a letto. Nella sua testa c’è sicuramente qualcosa di molto simile ad uno scocciato “sì, ma che cazzo vuoi? Te le cerchi adolescenti? Problemi tuoi”. Solo che io non me le cerco per niente adolescenti, Bill non è veramente una ragazzina e io, comunque, vivaddio non me lo scopo. Quindi un po’ di comprensione me la merito e quest’uomo è ingiusto nel non darmela.
Un facchino che sarà anche più piccolo di Bill recupera il nostro bagaglio e ci precede verso l’ascensore. Noi lo seguiamo qualche passo più indietro.
- Dico, era necessario? – ringhio, afferrando Bill per un gomito e tirandomelo vicino.
Lui ride ancora e non risponde, ma quel trillo argentino mi basta a capire che sì, era proprio necessario, perciò sospiro e lo lascio andare, dandogli modo di prendermi sottobraccio spalmandomisi addosso neanche fossimo fidanzati da anni.
Non so perché Dio – se esiste davvero – mi abbia circondato solo di piaghe sociali, al posto di darmi degli uomini normali. Devo aver fatto qualcosa di orribile in un’altra vita, ma proprio pesante. Magari ero tipo Giuda, perciò reincarnandomi… ma mi sa che sto facendo confusione fra le religioni.
Il motivo per cui Bill si sta comportando in questo modo disdicevole e disturbante, è che questo ragazzino, fondamentalmente, è un animale da palcoscenico. Soffre, quando non può esibirsi. E non sto parlando di esibizione di tipo canonico, quella in cui sali sul palco e fai ciò che sai fare meglio. No, Bill si esibisce nel senso che esibisce se stesso. Per questo soffre tanto, a Berlino: non può mostrarsi. Qui, invece, può godere dell’anonimato del mio nome – non sono esattamente uno che attiri la presenza dei paparazzi, io, ed anche a prenotare come Losensky tendenzialmente non ho nulla di cui preoccuparmi – e del fatto che nessuno si aspetti di vederlo qui in giro con uno sconosciuto. Così, mentre sui giornali lo accoppiano con Jimi Blue, lui passa una settimana a fingere di essere la fidanzata di questo sconosciuto me stesso in terra straniera, per poi tornare a Berlino più tranquillo. E tornare anche ad essere la fidanzata del suo legittimo proprietario.
Dopo esserci sistemati, lavati e cambiati, scendiamo giù e Bill decide che lo shopping può aspettare: vuole un cocktail e lo vuole a bordo vasca, nell’immenso giardino che ospita la piscina dell’albergo. Io lo squadro dal basso verso l’alto. In effetti, tra le infradito, la quantità oscena di ciarpame metallico che s’è gettato addosso apparentemente alla rinfusa e l’enorme cappello di paglia bianco che gli copre la testa e metà del viso, penso che gli manchi solo un ampio vestito scollato, morbido e con una stampa floreale, per essere indicato come una perfetta signora dell’alta borghesia che si concede un breve aperitivo in piscina.
- Ti sei almeno reso conto di essere ridicolo? – chiedo con una certa curiosità, spostandogli la sedia perché possa sedersi e prendendo poi posto di fronte a lui.
Lui fa un mezzo broncino deluso.
- Ma come… - biascica, - E io che mi sono messo tutto in ghingheri per te…
- Bill!
Lui ride ancora, gettando un po’ indietro il capo, ed io sospiro pesantemente.
- Avanti… - pigola, piegandosi tutto in avanti fino a guardarmi dal basso come una lolitina innocente, - fammi divertire un po’. Sei sempre così serio…
- Io non sono serio. – borbotto, - Mi limito ad avere un cervello.
Il cameriere ci si avvicina, sorridendo amabilmente. Bill fa per afferrare il menu e sbizzarrirsi con le richieste, ma lo fermo piantando una mano fra lui e il libriccino, schiacciandolo sul tavolo.
- Un succo alla pesca. – dico, rivolgendomi direttamente al cameriere per evitare l’occhiata da cucciolo oltraggiato che Bill mi rivolge, - E per me un caffè.
Il cameriere annuisce compitamente e scompare verso il piano bar – un bel bancone bianco sormontato da un sacco di ombrelloni colorati, dietro al quale svariate ragazze si dividono i gravosi compiti dell’agitare gli shaker per preparare i cocktail e dell’agitare i sederi per attirare i clienti. Cerco di salvare in memoria i tratti dei loro visi senza lasciarmi – troppo – distrarre dai suddetti sederi, per poi tornare a fare un giro da queste parti quando verso le dieci di sera Bill, stremato, sarà crollato fra i cuscini in camera, e poi torno a guardare la principessina oltraggiata. La quale mi sta a propria volta fissando come fossi una specie di barbaro che l’ha rapita e la sta trattando con ingiustificabile rozzezza.
- Be’? – chiedo con un sorrisetto divertito, - Che ti prende adesso? Non ti diverti più?
Bill aggrotta le sopracciglia ed incrocia le braccia sul petto, accavallando teatralmente le gambe.
- Tutti uguali, voi rapper. – borbotta a bassa voce, sciogliendo l’intreccio delle braccia solo per sistemare il cappello di paglia di modo che possa schermare la sua pelle – che deve restare bianchissima; Bill, quando prende il sole, diventa dello stesso colore di Anis. Dal momento che fuggiamo dalla Germania di nascosto come ladri, non posso riportarlo a casa troppo colorato, pena morte istantanea per mano di Jost, che sarà pure piccolo e carino ma sa farsi temere. – Anche Chakuza, quando vede Eleonor, non vede più niente.
Mi fermo e faccio mente locale, perché qui c’è qualcosa che non mi torna.
- Eleonor? – chiedo quindi, inarcando un sopracciglio, - Ma non si chiamava Ingrid?
Ingrid è la groupie inesistente che Bill ha affibbiato al Chaku. Quando il Chaku ha da fare perché, tipo, vivaddio Stickle l’ha incatenato al mixer e lo sta costringendo a tirare fuori qualcosa che non sia un delirio erotico-romantico dalla sua testaccia bacata, Bill, per farlo sentire in colpa per finta, comincia a tirare fuori la storia di questa Ingrid che dovrebbe essere – a quanto ho capito quell’unica volta che il Chaku, mentre gli pulivo casa, mi ha fatto una testa così lamentandosene – questa signorina bellissima e perdutamente innamorata del Chaku col quale il Chaku, appunto, va a letto, tradendo ripetutamente Bill. Ovviamente nulla di tutto ciò è mai avvenuto – suppongo che me ne sarei accorto – ma Bill la tira fuori di tanto in tanto, e ne parla proprio come fosse una persona vera, la descrive, le ha dato un carattere e tutto, quindi ormai la conosciamo come se fosse reale sul serio. L’ho detto, io, che il ragazzino si diverte in modi stranissimi.
- Dettagli. – sbuffa Bill, tirandosi un po’ indietro quando il cameriere arriva a portare la roba che abbiamo ordinato, e cominciando a sorseggiare il succo.
- Be’, - annuisco io, zuccherando il caffè – che è una cosa che ho preso per abitudine dormendo a casa del Chaku… lo prendevo amaro, prima, ma lui ha questo vizio di zuccherarlo a chili di default, quindi quando mi portava la tazzina o mandavo giù o gliela tiravo in testa. Quando ho capito, alla terza volta, che anche tirandogliela in testa all’infinito avrebbe continuato a zuccherarla, mi sono rassegnato. Questo, immagino, dice molto del Chaku e anche di me. Comunque, mando giù un sorso di caffè e continuo. – d’altronde, essendo una donna inesistente, può cambiare nome quando vuole, immagino.
Bill mugugna qualcosa di assolutamente incomprensibile e poi si stende contro lo schienale della sedia, occhi socchiusi e capelli che si agitano appena nel venticello del pomeriggio. Il sole è ancora altissimo nel cielo e non sembra che siano le cinque passate. Questo posto è meraviglioso, anche se siamo palesemente in una specie di riserva naturale gay, realizzo mentre lascio scorrere lo sguardo tutto intorno a noi e vedo solo uomini dai fisici perfetti ed anche perfettamente oliati. Per un secondo mi infastidisco e mi viene anche da chiedermi, allora, ‘cazzo sculettassero le signorine dietro il bancone. Poi realizzo tutto d’improvviso che probabilmente stanotte sarò l’unico essere umano vagamente eterosessuale nel raggio di chilometri, e la vita mi sembra improvvisamente stupenda.
- Lo sai che me l’ha detto? – sento improvvisamente arrivare la voce di Bill come provenisse da un altro pianeta, sottilissima e trasognata. Quando mi volto a guardarlo, lo trovo che fissa un punto imprecisato nel nulla, giocando con le dita sulla cannuccia. Ha le labbra piegate in un sorriso tanto piccolo e tanto tenero che mi viene voglia di dargli un bacio. Una cosa stupida, niente di malizioso, solo un bacetto a fior di labbra, sarà che io sono molto fisico, però glielo darei un bacio, in questo momento. Anche se mi ha appena confessato che Chakuza gli ha detto di amarlo.
Cerco di fingere che questa cosa non sia esattamente l’ultima che avessi voglia di sentire, in questo momento – ma anche in qualsiasi altro – e che non sia anche il motivo per cui sto cercando disperatamente di farmi trascinare da Sido in qualsiasi posto che sia lontano da questi due, e sorrido appena.
- In un momento di particolare entusiasmo? – chiedo, trasformando il sorriso in un ghigno stronzo.
Bill sbuffa, voltandosi a guardarmi con occhi colmi di disapprovazione.
- Ma no! – sbotta, - Che idea hai di Peter, Pat?! – ho quella che mi ha dato lui di se stesso, ragazzino. – Mica passiamo tutto il nostro tempo insieme a letto!
Che è, in effetti, molto più di quanto non possa essere detto di me e lui. Ed anche questo, suppongo, dice tanto sia di Chakuza che di me.
- E quando è successo, allora? – chiedo comunque, perché è evidente che il ragazzino vuole parlarne ed è evidente anche che l’unica persona con cui può farlo sono io.
Bill si entusiasma subito. Posa il bicchiere col succo sul tavolino e si tende tutto, voltandosi verso di me e cominciando a saltellare sul posto.
- Sapessi, Pat! – e comincia a raccontarmi questa storia incredibilmente romantica che è molto probabile abbia esagerato nei toni, per la quale Chakuza si è presentato a casa sua il giorno di non mi ricordo quale mesiversario – il sesto? Il settimo? Sto cercando di non tenere il conto – facendo apparentemente finta di aver dimenticato l’importanza fondamentale della data, per poi mostrarsi incredibilmente stupito nel momento in cui un facchino ha bussato alla porta di Bill portando con sé un enorme mazzo di rose rosse che poi, ovviamente, aveva ordinato lui perché arrivassero precisamente nel momento di maggiore sconforto di Bill – cioè una mezz’ora prima che il Chaku dovesse tornarsene a casa. E poi niente, gliel’ha detto.
- Assurdo. – commento con una mezza risata.
Bill sorride dolcissimo.
- Grandioso.
Il che, invece, dice molto di Bill e di Chakuza insieme.
*
Restiamo qui in piscina finché non si svuota. Piano piano, tutti gli uomini – e anche tutte le poche donne che ci sono in giro – cominciano a tornare all’interno dell’albergo. È quasi ora di cena. Bill sonnecchia sulla propria sedia e temo proprio che stasera non mangerà. Il che vuol dire che domani mattina dovrò avere l’accortezza di passare da qualche parte a prendergli qualcosa di buono, prima di tornare in camera e stendermi al suo fianco per abbracciarlo e rassicurarlo sul fatto che sì, ho dormito con lui, anche se in realtà non l’avrò fatto. Sì, lo so, non dovrei mentirgli. Però non mi sento per niente in colpa a farlo, il ragazzino non ha bisogno di sapermi a scopare in giro. Ci sono delle bugie che puoi dire. Ci sono delle cose che puoi tralasciare. Il ghetto – Anis – mi ha insegnato anche questo. La verità prima di tutto il resto – ma oh, quante facce possono avere il vero e il falso?
Ghigno un po’ mentre il sole tramonta sulla spiaggia che da qui si vede benissimo, e ripenso all’espressione concentrata e presuntuosa con la quale Anis mi spiegava questa sua illuminata teoria, e prima di cominciare a pensare cose di cui mi pentirei – tipo che mi manca; tipo che dovrei cominciare ad andare avanti come stanno facendo tutti intorno a me; tipo che a volte ho come l’impressione di voler continuare a frequentare Bill proprio per impedirmi di dimenticare quello che tutti gli altri sembrano aver già rimosso abbondantemente – mi tiro in piedi, sospirando pesantemente.
- Ragazzino? Dai, andiamo in camera.
- Ma non ho sonno… - si lamenta, la testa che penzola avanti e indietro.
- No, naturalmente. – rido io, tirandolo su di peso e stringendolo forte perché non cada, mentre lo trascino per il cortile e poi all’interno dell’albergo e nell’ascensore, fino in camera.
Quando lo adagio sul letto, lui mi trascina con sé, ed io faccio i salti mortali – quasi letteralmente – per non cadergli addosso e planare invece sul materasso al suo fianco.
- Resti? – mi chiede con un filo di voce, e io mi sollevo su un gomito e resto steso sul fianco mentre lui mi si accoccola contro.
- Mh-hm. – annuisco, riavviandogli i capelli dietro un orecchio in una carezza distratta che lo fa sorridere.
- Io ti voglio sempre bene, sai…? – continua a blaterare. Sta già praticamente dormendo. Fra dieci minuti russerà e domani mattina neanche ricorderà di avermi detto queste cose. – Anche se il Chaku mi ha detto che mi ama e gliel’ho detto anch’io, io ti voglio bene tantissimo…
Annuisco ancora, ridendo appena più forte. Non so più nemmeno se sta parlando con me o con la persona che i miei abbracci gli ricordano.
- Lo so, ragazzino. Ti voglio bene anch’io.
Bill sorride e poi, sfinito, crolla con la testa sul cuscino, profondamente addormentato. Gli rimbocco le coperte cercando di muovermi il più silenziosamente possibile, e poi medito sulle numerose possibilità che mi offre la mia serata.
Ovviamente, come a ricordarmi che nella mia testa non posso fare troppo spazio, visto che lui è assolutamente intenzionato a riempirla tutta, Chakuza mi chiama sul cellulare. Rispondo prima che la suoneria possa svegliare Bill, e sospiro pesantemente.
- Ma non hai mai niente da fare, tu?
Chakuza si lamenta borbottando a bassa voce, rigirandosi il telefono fra le mani.
- Ero solo preoccupato. – si giustifica, - Mica mi fido, a mandarvi in giro da soli.
- Siamo grandi e forti. Possiamo sopravvivere ad una vacanza.
- Bill non è grande e forte.
- Io lo sono.
Chakuza non risponde, non subito, almeno. Si prende il proprio tempo per inspirare ed espirare, e solo dopo parla.
- È tutto a posto, sì?
Vorrei rispondergli che può anche fare a meno di essere così discreto. Che lo so che lui e Bill stanno insieme. Che non è nemmeno tanto giusto non si senta in diritto di dirlo chiaramente. Che l’ho sempre saputo, e se non ho ancora cominciato a lamentarmi sul punto è ragionevole immaginare non comincerò mai. Perciò puoi stare tranquillo, Chaku. Puoi anche dirmelo, se ti manca e vuoi sentirlo.
- Sì, è tutto a posto. Bill già dorme. Dovresti anche tu.
- Alle otto di sera? – ride lui, una risata piccolissima e veramente divertita.
- Be’, almeno così non corri il rischio di fare cazzate perché ti senti solo. – rispondo io con una risata uguale.
- Avanti, - borbotta lui, - lo sai che non c’è verso di prendere sonno prima dell’una del mattino.
Io rido ancora.
- Sì, sei una piaga sociale. Comunque ti mollo, ho di meglio da fare che stare al telefono con te. Lo sai che sono tipo l’unico essere umano eterosessuale sull’isola?
- Che?! – strilla lui all’improvviso, - …okay, ci sono tante di quelle cose che non funzionano, in questa frase, che fatico a processarle tutte.
- Tranquillo, nessuno attenterà alla nostra virtù. – lo rassicuro, continuando a ridere, - In compenso non ti assicuro che non attenterò io alla virtù di qualche bella fanciulla, perché ho solo l’imbarazzo della scelta.
Lui mugugna qualcosa di assolutamente incomprensibile.
- Ovvio. – aggiunge poi, - Appena ti si toglie un attimo le mani di dosso… - e lì, per un secondo, mi si ferma il tempo nella testa. E si ferma anche nella testa del Chaku. - …scusa. – si affretta a correggersi subito dopo, - Non so da dove mi sia uscita.
Io sospiro.
- Fa niente. – rispondo con una scrollatina di spalle che lui non può vedere. – Ora mi fai riattaccare?
- Sì, - annuisce subito, - sì, naturalmente. Comunque richiamo domani.
Roteo gli occhi.
- Peggio di una vecchia madre. – biascico acido, - Buonanotte.
Lui ride. Il suo buonanotte mi arriva forse un po’ troppo dolce di quanto non sarebbe giusto suonasse, ma non sono in vena per lamentele di questo tipo, al momento.
Bill mugola nel sonno e mi si schiaccia addosso, sgomitandomi in mezzo alle costole e stringendomi come un peluche.
Sospiro.
Stasera non si scopa.

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The Hardest Part

di tabata e lisachan
Mi chiamo Anis Mohamed Youssef Ferchichi e l’ultima volta che ho parlato avevo un buco nel petto, uno nella gamba ed uno squarcio sul braccio, ero ricoperto di sangue e stavo morendo. L’ultima volta che ho parlato è stata proprio l’ultima volta che il mondo ha sentito la mia voce, perché io su quel letto ci sono morto davvero. D’accordo, non lì, su quel letto ci ho solo lasciato il cuore e sono morto dopo, in ambulanza, proprio un attimo prima di arrivare in ospedale. Non sono mai stato davvero un uomo fortunato.
Comunque la sostanza non cambia. La sostanza è il mio corpo che si decompone metri e metri sotto terra. Io con la sostanza non c’entro più niente. Un corpo non ce l’ho più. Il mucchio d’ossa che si polverizza nella bara non mi appartiene. Di me è rimasto solo questo. Voce che nessuno sente. Presenza che nessuno percepisce. La capacità di guardare il mondo – una capacità che non ho chiesto e che, sinceramente, al momento preferirei non avere.
Bill si stira contro il materasso, getta indietro il capo ed ansima forte, gli occhi chiusi, l’espressione rilassata, è completamente assente. Il mio bracciale brilla prepotente attorno al suo polso nonostante l’oscurità della camera ed io vorrei evitare di guardare, ma quando non hai occhi, quando sei tutto e non sei niente – cose che capisci solo da morto, davvero – non puoi davvero evitare scene simili. Sono la realtà e tu ne fai semplicemente parte.
*
L’ospedale è buio e silenzioso, nonostante non sia affatto notte. Jost – sempre bravo a risolvere i problemi – ha dato disposizioni perché il caos generato dalla rissa dopo TRL sia tenuto fuori dalla bolla di vuoto assoluto in cui ha infilato Bill per evitare di sconvolgerlo più di quanto già non sia. Allo stesso modo, dottori ed infermieri passano per il corridoio antistante la sala operatoria come fossero fantasmi, scivolando sul pavimento lucido in perfetto silenzio.
Occhi bassi e lacrime cristallizzate sulle ciglia, Bill resta immobile sulla sedia. Tom, seduto accanto a lui, gli stringe una mano e gioca con la fede attorno al suo anulare sinistro. È enorme, per le dita sottilissime di Bill – e d’altronde era mia, perciò la cosa non mi stupisce – fa tutto il giro e Tom ogni tanto la tira verso la nocca come volesse sfilarla. La rimette al suo posto ogni volta che Bill stringe appena le dita, quando la sente sgusciare via.
Oltre la porta che Bill sta fingendo di non fissare, c’è Chakuza sotto i ferri. L’intervento sta andando bene, fortunatamente il coltello era maneggiato da un incompetente. Avrebbe sicuramente ucciso Bill, se fosse arrivato a mettergli le mani addosso, ma Chakuza è un uomo forte ed è riuscito a salvare la pelle. La lama non è arrivata nemmeno a ferire lo stomaco – quello sarebbe stato un problema – c’è solo una lacerazione piuttosto ampia da ricucire. Fler è stato bravo a dare le giuste direttive.
Fler.
Fler sta vagando nervosamente per il corridoio, le sue scarpe da ginnastica sono l’unica cosa che fa rumore, mentre la suola scricchiola nervosamente sulle piastrelle grigie. Non si sente nient’altro fino a quando il cellulare di Jost non squilla. Suona La Bamba, negli anni ottanta era un pezzo che andava forte. Probabilmente sarebbe il caso di ridere, di fronte ad una cosa del genere, ma non ride nessuno ed ognuno ha i propri motivi per farlo.
L’uomo si affretta a rispondere non appena scorge il numero sul display. È nervoso ed agitato.
- Sì? – attende che dall’altro lato della cornetta dicano qualcosa, mentre Tom gli scocca un’occhiata infastidita e Fler si appoggia contro una parete incrociando le braccia e sollevando un piede ad ancorarsi al muro. Lascerà una macchia, ma non può più camminare perché faceva rumore, e però deve darsi qualcosa da fare, perciò picchietta la parete con la punta del piede ed ogni volta che solleva la scarpa si intravede al di sotto l’alone scuro della traccia che lascia la suola.
Bill non dice una parola.
- No. – continua Jost, ignorando volutamente qualsiasi cosa lo circondi per concentrarsi solo sul suo interlocutore, - No, non preoccuparti. È tutto a posto. Non sappiamo ancora i dettagli, ma è tutto sotto controllo.
- Ma con chi cazzo parli, David?! – sbotta Tom, stringendo un braccio attorno alle spalle di Bill, che si riscuote appena ma non solleva lo sguardo.
David si allontana un po’ dalla cornetta, incerto.
- …Briegmann. – risponde evasivo, guardando altrove.
- Be’, - continua Tom, insoddisfatto, - non mi pare il cazzo di momento in cui stare a parlare del cazzo di lavoro, David.
Bill singhiozza e solleva il viso verso il fratello. Sono tanto vicini che gli sfiora una guancia con le labbra, mentre gli parla.
- Tomi, ti prego…
Fler deve intercettare il tremito nella sua voce. Non so quando abbia imparato a capire così bene Bill. So che da Fler non potevo aspettarmi niente di meno, perché gliel’ho insegnato io come si sta al mondo e come si controllano le situazioni, gliel’ho insegnato io che i problemi non vanno risolti ma prevenuti, quando è possibile. Ed infatti Fler previene. Le lacrime di Bill potrebbero essere un problema ed io già le vedo – posso immaginarle – scorrere lungo le sue guance.
- Adesso ci calmiamo, Kaulitz. – utilizza apposta il cognome, non vuole essere invasivo, solo razionale. – Non c’è affatto bisogno di-
- Te lo dico io di cosa non c'è bisogno! – lo interrompe Tom, ben deciso a non cedere di un passo. La conosco l’ostinazione dei Kaulitz. – Non c'è bisogno che mio fratello sia qui, che pianga un amico con un buco in pancia, che tu venga a farmi la predica e che David parli con la fottuta Universal in questo cazzo di preciso momento! Ecco di cosa non c’è bisogno!
Nel silenzio che cala dopo quest’attacco, si sente distintamente il click che annuncia l’interruzione della chiamata da parte dell’interlocutore di David. Se quello era davvero il presidente della Universal Music Deutschland, Tom avrà dei problemi seri da risolvere, già a partire da domani. Ma posso immaginare che al momento la cosa non gli interessi granché.
Si volta invece a guardare Bill, sollevando anche l’altra mano a stringerlo attorno una spalla e cercando i suoi occhi.
- Ti riporto a casa. – dice, secco ma dolce. Conosco anche quel tono. È il tono con cui in genere convince Bill a fare qualsiasi cosa, perché a Bill piace moltissimo sentirsi amato e quel tono gronda amore da ogni lato, dannazione.
Bill si tende tutto sotto le sue mani.
- No. – risponde, e suo fratello aggrotta le sopracciglia, - Voglio restare qui.
- Non esiste. – protesta Tom con veemenza, - Tu vieni a casa con me. Non ci resti qui, stanotte.
Fler solleva un braccio come a chiedere il permesso di parlare.
- Posso restare anche io e-
- Non ci resta qui, stanotte. – precisa lui, senza staccare gli occhi dal fratello.
Bill lo guarda ancora ed in fondo alle sue pupille c’è un pizzico di rabbia che me lo fa ricordare esattamente com’era nei suoi momenti migliori. Quando era lui, non il fantasma piangente di se stesso. Quando s’imponeva e pretendeva conto e ragione di tutto, quando richiedeva attenzione e quando dichiarava candidamente che in ogni caso avrebbe fatto solo ciò che gli interessava o che sarebbe stato meglio per lui. Quando era ancora una cosa mia.
- Non sei tu a dover decidere. – dice duramente. Poi il suo sguardo si fa più dolce, e forza perfino un sorriso stremato mentre sfiora con due dita la guancia del fratello, - Fammi restare, per favore.
Tom sospira e sposta le mani dalle sue spalle al suo volto. Lo tiene come una cosa preziosa, delicatamente.
- Sei sfatto, cucciolo. Devi riposare. – suggerisce pacatamente, - Ti porto qui come prima cosa domani mattina, promesso. Ti prego, torna a casa.
Bill scuote il capo e si morde un labbro, sollevando entrambe le mani a stringersi attorno alla maglietta di Tom.
- Lo hanno portato dentro, Tomi, ed io voglio vederlo uscire. – dice a bassa voce, perfettamente lucido, - Deve uscire. Almeno lui.
Se avessi ancora un cuore che batte si fermerebbe adesso. Ma io non sono più sostanza da tempo. Non sono più corpo da tempo. Non sono più niente da tempo. Bill aveva torto. Il problema non è solo di chi resta. È anche di chi va via.
- E va bene, va bene. – ringhia Tom, scuotendo rassegnato il capo, - Però io resto. Voialtri – avverte infastidito con una breve occhiata a Fler e David, - potete andare via.
Negli occhi di Fler si fa strada una preoccupazione nuova. Mette giù il piede e scioglie le braccia lungo i fianchi, schiude le labbra per dire qualcosa ma Jost lo precede.
- Tom… - chiama piano, con lo stesso tono sommesso di un padre ormai da lungo tempo rassegnato.
- Non hai altro da fare, cazzo? – sibila il ragazzo, interrompendolo e squadrandolo cupamente.
David si tira indietro e non aggiunge altro. Fler non ha nessuna voglia di litigare ma qualcosa deve dirla comunque.
- Io non posso andare via con Chakuza là dentro. – dice pianamente, perfettamente a proprio agio, - Starò di fuori, per qualsiasi evenienza sapete dove trovarmi.
Seguo Fler finché non esce dal corridoio, svoltando nella sala accettazione dell’ospedale e dirigendosi verso la porta scorrevole che porta al parcheggio tutto intorno alla struttura, scomparendo nella notte com’è sempre stato bravo a fare all’occorrenza, e poi torno a guardare Bill, che s’è slacciato dal fratello ed ha ancora due lacrime immobili appena sotto le palpebre. Non so cosa aspettino, per scendere. I suoi lineamenti sono tesi e contratti, se non avessi impresso la sua forma – tutte le sue forme – così profondamente nella mia memoria – e la memoria è davvero l’unica cosa che resta – probabilmente faticherei a riconoscerlo.
Capisco cosa aspettavano quelle due lacrime per cadere quando la porta della sala operatoria si apre discretamente e ne esce fuori un esserino delizioso, biondo e pallido, con un paio di enormi occhi azzurri ed un sorriso incoraggiante sulle belle labbra rosse. L’infermiera perfetta, davvero. Tom la squadra compiaciuto dall’alto in basso, in fondo non è un suo amico quello che ha rischiato di morire. Ovviamente, Bill non ha occhi che per lei, anche se non è lei che sta guardando ma la sua divisa.
- Com’è andata? – chiede, la voce rotta, scattando in piedi mentre le lacrime caracollano giù lungo le sue guance ripercorrendo la scia ormai asciutta di un pianto già vecchio.
La signorina sorride più apertamente, inclinando il capo e lasciando la lunga coda bionda ondeggiare sulla schiena.
- Il signor Pangerl sta bene. – dice, ed il sospiro di sollievo che sfugge alle labbra di Bill non potrebbe ignorarlo nemmeno un sordo. La bionda sorride teneramente, prima di continuare. – Al momento è ancora sotto anestesia e non potrà ricevere visite almeno fino a domattina, ma l’intervento è andato bene, resterà solo una cicatrice. Purtroppo – sospira, - il coltello era seghettato, - e Bill sorride un po’, - perciò la lacerazione è stata complessa da ricucire, ma un buon chirurgo plastico dovrebbe poter risolvere il problema.
Viene un po’ da ridere anche a me – ed è tremendo voler ridere quando non puoi. Non so nemmeno se la mia risata riecheggerebbe sinistramente lungo questo corridoio semivuoto. La mia condizione non è molto simpatica. Comunque mi viene da ridere perché l’unica cicatrice che ha – quella sul sopracciglio – Chakuza se l’è fatta sbattendo contro un armadio. Non gli sembrerà vero di avere una vera e propria cicatrice da eroe. Secondo me la tiene.
- Non potrei… - Bill si interrompe mentre suo fratello, dietro di lui, comincia a raccogliere giubbotti e borse, dato che, se lo conosco bene, non intende restare nei paraggi se non si può entrare e visitare il povero ferito, - …vederlo? Solo per un attimo?
L’infermiera finge di esitare perché sa che non dovrebbe ma in realtà il linguaggio del suo corpo parla chiarissimo: il sorriso è dolce, le sopracciglia inarcate verso il basso, le lunghe ciglia battono su un paio di occhi incredibilmente lucidi. Bill se l’è già conquistata.
Parla chiaro anche la lunghissima occhiata che lancia a Tom, e che Tom le ricambia senza problemi di sorta, condendola pure con un sorriso malizioso. Il ragazzo lascia cadere i giubbotti sulle sedie di plastica e resta in piedi, mentre David sospira ed interrompe minuti interi di imbarazzato silenzio per salutare i ragazzi e dire che ripasserà domattina, mentre già armeggia alla ricerca del cellulare – probabilmente per riprendere la telefonata bruscamente interrotta qualche tempo prima.
- Solo qualche minuto. – dice l’infermiera agitando un dito ungulato perfettamente laccato di rosso sotto al naso di Bill. Apre la porta e Bill scivola di soppiatto oltre l’uscio; non nota affatto Tom avvicinarsi alla donna con aria predatoria. In una situazione normale gli tirerebbe dietro improperi fino a farlo diventare sordo.
Quando la porta gli si chiude alle spalle, Bill si ritrova in un ambiente stretto e poco confortevole. Ci sono un paio di sedie di plastica in un angolo, un tavolino spoglio con sopra una cartella medica che non capirebbe neanche se provasse a leggerla con attenzione e nient’altro. È pulito, ma vuoto in maniera desolante. A riempire più di metà della parete a destra, comunque, c’è un’enorme vetro spesso e lindo. Al di là del vetro c’è tutto ciò che gli interessa al momento.
Alcuni infermieri spostano Chakuza dal lettino operatorio alla barella sulla quale lo porteranno nella stanza che Saad ha esplicitamente richiesto per lui, pretendendo di sistemare tutto da solo nonostante David si sia impuntato fino all’ultimo per occuparsi dell’intera faccenda.
Bill fissa il corpo dell’uomo che viene spostato con delicatezza. Osserva gli occhi chiusi ed il tessuto leggero del ridicolo camice che gli hanno messo addosso sollevarsi appena al ritmo del suo respiro, che è debole e lento ma c’è.
Poggia una mano sul vetro. La fronte, subito dopo. Socchiude gli occhi e sorride.
Mi sento come se stessi spiando uno sconosciuto. Fa male anche se non ho più un corpo per sentire dolore.
*
L’indomani mattina Bill arriva all’ospedale ad un orario assolutamente indecente. Suo fratello è riuscito a trascinarlo controvoglia a casa nel momento in cui l’infermiera è tornata a riprenderlo nella saletta antistante la sala operatoria – visibilmente più scarmigliata e meno perfettamente truccata di prima – e Bill s’è sentito dire che tutto ciò che avrebbe potuto fare per il resto della notte sarebbe stato mettersi a fissare insistentemente il muro. Quando Bill ha chiesto a suo fratello se poteva comunque restare, Tom gli ha dato del pazzo da ricovero. Bill s’è sentito in dovere di dargli ragione e s’è lasciato scortare a casa.
Durante la notte non è cambiato molto. Fler è rientrato in ospedale verso le due del mattino, congelato e con un principio di raffreddore già in atto, stretto in una felpa bianca e nera che non sarebbe riuscita a proteggerlo dal ghiaccio della notte tedesca neanche se fosse stata in lana pura – ed era solo cotone pesante. S’è guardato in giro, ha individuato l’infermierina bionda vagolante di fronte alla camera di Chaky e le ha chiesto se il signor Pangerl stesse là dentro.
Lei ha risposto di sì ma che le visite non erano ammesse.
Fler ha flirtato in maniera veramente spudorata. Alla signorina non dev’essere sembrato vero beccarne due in una sera, comunque per tutto c’è un prezzo e Fler lo sa bene: il quarto d’ora passato a soddisfare l’infermiera nello sgabuzzino delle scope gli è valso la possibilità di starsene al caldo in camera di Chakuza, affondato in una poltrona in pelle marrone, per tutto il resto della notte.
Quando s’è seduto, tirando una gamba su un bracciolo e lasciandola penzolare nel vuoto mentre poggiava il viso contro le nocche del pugno chiuso e piantava il gomito nel bracciolo opposto, ha sospirato e borbottato “Atze, non hai idea del freddo che fa. Comunque lo sapevo che te ne saresti tirato fuori. E, oh, non hai idea di cosa ho dovuto fare per riuscire ad entrare qua dentro!”.
Avrei voluto ridere di nuovo, in tutta sincerità. Vedere Fler così dopo averlo visto per tutti gli ultimi cinque anni in una luce completamente diversa mi fa bene, credo. Le sensazioni di benessere non sono chiare come quelle di malessere. Ma non lo sono mai, non lo erano neanche quand’ero vivo.
Bill arriva, comunque, accompagnato da un fratello così gloriosamente scazzato da non lasciare adito a dubbio alcuno sulla sua voglia di trovarsi da tutt’altra parte. Oltretutto, come sono arrivati la biondina ha ripreso a ronzargli intorno, e Tom la guarda con lo stesso interesse col quale guarderebbe una merda di cane per strada, perciò la situazione in sé non è che sia esattamente idilliaca.
A me viene ancora da ridere, per inciso.
Bill entra di soppiatto nella stanza di Chakuza e vede Fler sonnecchiare sulla poltrona, il capo penzolante avanti e indietro. Gli si avvicina con un sorriso tenerissimo in viso, è un bel po’ che non lo vedo splendere in questo modo. I capelli sono sciolti e morbidi sulle spalle e non ha addosso un filo di trucco, solo qualche catenina, il mio bracciale e il mio anello.
Gli si piega addosso e lo scuote per una spalla.
- Fler, - lo chiama piano, per non disturbare Chaky, - ehi, ci siamo qui noi adesso… vuoi andare a casa?
Fler gli spalanca un paio d’occhi acquosi e assonnati addosso e si riscuote.
- No… - mormora confusamente, - sto bene, vado solo… - non si capisce cosa borbotti mentre torna a chiudere gli occhi. Bill ridacchia e lo scuote ancora, mentre Tom si appollaia letteralmente su un tavolino nell’angolo opposto della stanza. – Sì, sì! – si sveglia lui a quel punto, - Okay, ho capito… vado a darmi una sciacquata al viso e… volete del caffè? – i gemelli annuiscono in contemporanea, Fler si alza dalla poltrona e si sgranchisce le gambe e le braccia, prima di passarsi una mano sugli occhi e sbadigliare sonoramente. – Allora resti tu qui mentre sono via? – chiede un’ultima volta, come rassicurazione, muovendosi già verso la porta.
Bill annuisce tranquillo e si siede sulla poltrona.
- Oh, ma è caldissima! – ride.
Fler ride a propria volta, la mano già sulla maniglia.
- Sì, te l’ho tenuta così apposta. – scherza uscendo.
Abbiamo appena il tempo di sentire il mezzo strillo concitato dell’infermiera che se lo ritrova davanti agli occhi, prima che lui chiuda la porta gridando “no, ancora?!” e fuggendo verso i bagni degli uomini – di fronte alla cui porta non sono nemmeno sicuro che lei si fermerebbe – che la stanza ripiomba nel silenzio e tutto ciò che riusciamo a sentire è il bip continuo del macchinario che ci informa che Chakuza sta bene, così come i suoi respiri profondi e regolari.
- Senti, ma se continua a fare il bell’addormentato possiamo andare? – si lagna Tom, piantando le mani sul tavolo ed accavallando le gambe, facendo dondolare una seggiolina di plastica con un piede.
Bill si volta a guardarlo con aria estremamente disapprovante.
- Dobbiamo restare finché non si sveglia! Pensa tu se apre gli occhi e si ritrova da solo!
- Oh, sì. – ridacchia Chakuza. Bill sente la sua voce e si volta a guardarlo con la lentezza impaziente e desiderosa di conservare la meraviglia dell’attimo con la quale in genere si guarda alle sorprese più belle, - Avrei potuto spaventarmi moltissimo.
Bill gli getta le braccia al collo all’istante.
- Chaku! – urla, saltandogli letteralmente addosso, - Oddio, sei sveglio! Come stai?
- Ouch… - borbotta un po’ lui, cercando di scostarsi da Bill che preme contro la ferita ancora fresca di sutura, - Sono stato meglio, ma devo dire che pensavo che le coltellate facessero più male.
- Che uomo. – lo prende in giro Tom, inarcando un sopracciglio, - Quasi te ne facciamo avere un’altra, va’.
Bill gli lancia un’altra occhiataccia, rinunciando alla poltrona per accucciarsi sul letto accanto a Chakuza, una gamba piegata sul materassino, l’altra a reggere saldamente il peso sul pavimento.
Vorrei un corpo solo per poter uscire da questa stanza, adesso.
Fler rientra affannato, stringendo tra le braccia tre bicchierini colmi di caffè annacquato.
- Dio mio, ma è una strega… - biascica confusamente, tirando giù col gomito un lembo della felpa incastrata nella cintura dei pantaloni, - Ragazzi, ma anche a voi…? – solleva lo sguardo e lo punta su Chakuza, che nel mentre s’è sollevato a sedere ed ora lo sta guardando a propria volta, sorridendo come un bambino ed agitando una mano in segno di saluto nella sua direzione. - …lo sapevo. – ride, avvicinandosi e scuotendo il capo, - Bushido non poteva averti preso in crew senza che valessi veramente qualcosa.
È strano sentir parlare di se stessi da morti. Non è una cosa che dovrebbe naturalmente accadere. Forse invece accade sempre, ma io ne avrei comunque fatto volentieri a meno.
Bill si irrigidisce così all’improvviso e così repentinamente che il suo disagio si estende anche a tutti gli altri. Tom si fa teso sul tavolino, Chakuza rabbrividisce leggermente ed osserva il ragazzo – il mio ragazzo – scivolare sul materasso fino a lasciarsi ricadere sulla poltrona.
Fler capisce qualcosa che capisco anche io. Pure se preferirei non capirlo affatto. E si scusa.
Il silenzio che si prolunga dopo è tanto imbarazzante quanto confortante. Sorseggiano tutti i loro caffè avvolti in una bolla di disagio che si risolve scoppiando all’improvviso nel momento in cui Tom salta in piedi ed annuncia a gran voce che sono già in ritardo per l’appuntamento alla Universal e che David li starà sicuramente aspettando di fuori. Bill si morde un labbro e posa il proprio bicchierino ancora mezzo pieno sul comodino accanto al letto, alzandosi in piedi.
- Torno questo pomeriggio, d’accordo? – dice a Chakuza, ed io so che vorrebbe dirgli altro perché conosco i suoi occhi e so quando stanno nascondendo ciò che la sua voce non può ancora dire. Giuro che se potessi distoglierei lo sguardo.
Fler e Chakuza restano soli il secondo successivo. Fler riprende posto sulla poltrona e gli allunga una pacca amichevole sulla spalla. Chakuza si lamenta sonoramente.
- Un po’ di delicatezza, cavolo, sono stato ferito! – borbotta sistemandosi contro il cuscino.
Fler ride, incrociando le gambe sulla poltrona.
- Molto eroico, da parte tua. – commenta con un sorriso furbo.
Chakuza scrolla le spalle.
- Bill era in pericolo.
Fler sbuffa un’altra mezza risata e scuote il capo, sistemandosi meglio sul cuscino.
Chakuza si inumidisce le labbra e poi sorride lievemente.
- Sai che stanotte ti ho sentito?
Fler spalanca gli occhi su di lui, schiudendo appena le labbra ed arrossendo.
- Come, prego…? – chiede ansioso.
Chakuza ride con più convinzione.
- Non ero mica in coma, dormivo e basta! – spiega, - Mi hanno svegliato i rumori e poi ti sei messo a parlare…
- Ma farmi sapere che mi stavo sputtanando, no…?
Chakuza scuote il capo e ride ancora, piegandosi lievemente in avanti.
- Hai bevuto? – s’informa interessato, lanciandogli un’occhiata dubbiosa.
- Nemmeno un goccio. – risponde fieramente Fler. Poi ci riflette. – Be’, una birra. Ma sono stato in giro tutta la notte, rischiavo la morte per congelamento, avevo bisogno di un po’ d’alcool.
Chakuza lo guarda, disapprovandolo gravemente.
- Patrick… - comincia severo.
- Niente Patrick, non me la merito la strigliata! – borbotta Fler in risposta, incrociando le braccia sul petto.
Tutto quello che mi interesserebbe, al momento, sarebbe uscire da questa stanza e raggiungere Bill. Dovunque si trovi. Fargli sentire che ci sono, dannazione, che da qualche parte ci sono ancora, anche se lui non può vedermi né sentirmi. Anche se sono morto, cazzo, io esisto ancora. Resto bloccato – imprigionato – qui. Non sono più parte di questo mondo.
È incredibilmente crudele essere costretto a sapere comunque tutte queste cose.
*
Eko Fresh entra nella stanza – Dio, mi fa piacere rivederlo, non credevo l’avrei mai detto, pensato o qualsiasi cosa sia quella che sto facendo adesso – e lo dice. Così. Senza preavviso e senza nemmeno spiegarsi.
- Atze, l’hanno chiamato Flerkuza.
Su quella sua faccia allungata da topo lo stupore è comico da morire. Quand’è stupita, la faccia di Eko si allunga a dismisura.
- Hanno chiamato cosa in che modo? – sbotta Fler, riconoscendo immediatamente il proprio nome e non altrettanto immediatamente quello di Chakuza. È meraviglioso che non sappia di cosa Eko stia parlando. Io ci sono già passato, quindi sono un passo avanti.
- Ma sei ancora qui tu? – chiede Eko, notando solo in quel momento la sua presenza rannicchiata sulla poltrona, - Ma non ce l’hai una vita? – poi scrolla le spalle, voltandosi verso Bill che staziona ai piedi del letto di Chakuza ed avvolge un gomitolo di lana dal lungo filo che Chakuza tiene appallottolato in grembo e sbroglia con attenzione. – Ohi, principessa. – lo saluta con un cenno del capo, - Che combinate?
- Volevo fare un maglione! – borbotta Bill, imbronciandosi e gonfiando le guance, - Ma non sono stato capace.
Eko ridacchia.
- Ma per chi? Per Chaku?
Bill scuote il capo.
- Per Fler! – spiega, mentre Fler solleva un braccio come a dire “presente” e si stringe nelle spalle, tirando su col naso. – S’è preso un raffreddore assurdo, ma è perché va sempre in giro in felpa. Visto che si ostina a passare le notti all’addiaccio, volevo almeno che avesse qualcosa di caldo…
- Ruberò una borsa dell’acqua calda da casa di Sido. – biascica Fler, allungandosi a recuperare un fazzolettino dal comodino per soffiarsi il naso.
- Potresti dormire sulla poltrona e basta. – suggerisce Chakuza con un sorriso furbo, - Giuro che non origlio più. – aggiunge quando Fler gli lancia un’occhiataccia offesa e imbarazzata.
- Oppure potresti tornartene a casa tua, tanto per cambiare, e dimostrarci di averne una. – rincara Eko, recuperando la seggiolina di plastica e trascinandola fino al letto per poi sedersi a gambe divaricate e chinarsi in avanti con aria cospiratoria.
Bill si china immediatamente verso di lui. Ha sempre adorato dargli corda, parlare con Eko lo diverte oltremodo.
- Allora, cos’è che dicevi quando sei entrato? – lo stuzzica, tirando un po’ il filo per dire a Chakuza di darsi una mossa.
Eko annuisce con aria seria al punto che Fler si sente turbato e si china a propria volta, e tutti e tre fanno capannello attorno ad Eko che solleva un dito e si mette a raccontare.
- Stavo vagando su fanfiktion.de con Kay, e ci siamo imbattuti nel primo esemplare di Flerkuza della storia.
- Ma si può sapere che cazzo è ‘sto Flercoso? – sbotta Fler irritatissimo, tirando su il colletto della felpa e tirando su pure col naso, già che c’è.
Eko lo guarda con fastidio palese.
- Ma sei sempre così lento di comprendonio o che? – commenta impietosito, - Fler e Chakuza insieme fanno il Flerkuza.
- No… non ci credo! – ride Bill, battendo entusiasta una mano su un ginocchio e rischiando di disfare nuovamente il gomitolo che, rotolando sul materasso, raggiunge le mani di Chakuza, che possono così salvarlo prima di distruggere ore di lavoro per l’esaltazione di un momento, - Hanno già cominciato a scriverci su?
Chakuza si passa una mano sugli occhi, disperato.
- Non è possibile… - sospira affranto.
Fler continua a non capire, ma è giusto così, lui con le fanfiction non ha mai avuto a che fare.
- Ma scrivere su cosa? – chiede quindi, ed Eko rotea gli occhi battendosi una mano sulla fronte.
- Quando c’è stato il casino a TRL, non è che sia stata ripresa perfettamente proprio tutta la scena. – spiega pazientemente, - Diciamo che le riprese si sono focalizzate più che altro su te che prendi in mano la situazione ed aiuti a caricare Chaku sull’ambulanza improvvisandoti George Clooney dei poveri in un episodio di Ghetto-ER.
A Fler continua a sfuggire il passaggio fondamentale.
Chakuza lo esplicita per lui. O almeno ci prova.
- Credo che scrivano su noi due, Pat.
- Scrivano chi? E cosa?
Bill ha pietà delle nostre anime – soprattutto della mia che, a quanto pare, esiste davvero – risolvendo il problema con una lezioncina semplice ed accurata delle sue.
- Le fangirl, Fler. – spiega annuendo, - Mi sa che vi hanno preso in simpatia ed ora scrivono fanfiction su di voi. Ciò che Eko sta tentando di dire-
- Eko può dirlo da solo. – annuisce lui, interrompendolo e rivolgendosi a Chakuza, - Quindi insomma, c’era questa storia incredibile in cui tu stai all’ospedale in punto di morte e Fler è lì al tuo capezzale che piange e quindi tu ti risvegli e gli dici che in realtà l’hai sempre amato, e-
- Ma che roba è?! – scatta in piedi Fler, giustamente terrorizzato, - Cristo, ma è da malati mentali!
Eko agita una mano come a dirgli di aspettare.
- No, ma poi migliora! – commenta con competenza, ma a Fler non sembra interessare molto.
- Ma può pure essere il nuovo capolavoro della narrativa tedesca, fanculo! – si tira indietro, soffiandosi ancora il naso, - Vado a farmi un giro, cazzo. E dopo magari me ne vado davvero a casa.
- Volesse Iddio. – implora Eko, per poi tornare a guardare Chakuza, - Dicevo, tu l’hai sempre amato, e…
Bill salta giù dal materasso, rischiando di mandare all’aria Chakuza con tutto il letto.
- Fler! Aspetta! – lo richiama mentre lui esce dalla porta, - Ti accompagno.
Fler scrolla le spalle come se la cosa non gli importasse minimamente, ma aspetta comunque che Bill sia uscito dopo di lui per richiudere la porta. Dall’interno della stanza giungono le risate soffocate di Eko e di Chakuza, e Fler rotea gli occhi, infastidito.
- Non prendertela troppo… - cerca di consolarlo con un sorriso tenero dei suoi, - Ti va una cioccolata calda? – suggerisce indicando la macchinetta a qualche metro di distanza da loro.
Fler ghigna stanco.
- Se me la correggi con una dose abbondante di vodka, possiamo cominciare a parlarne.
Bill gli lancia un’occhiata curiosa, inclinando lievemente il capo, e Fler ride e scuote il capo.
- Prendiamo questa cioccolata, - concede, - e dopo andiamo a farci un giro fuori. Ti va, ragazzino?
Bill annuisce freneticamente e trotterella verso la macchinetta automatica, recuperando due cioccolate che insiste per pagare e seguendo Fler all’esterno dell’ospedale. Il suo sguardo si fa enorme e brillante quando si posa sul manto bianco che copre le strade.
- Ha nevicato…! – esala estasiato, stringendosi nel cappottino.
Fler rotea gli occhi.
- Perfetto, ci mancava solo questo. Morirò.
Bill ride e muove qualche passo sul marciapiedi, attento a non scivolare.
- Se ti rassegnassi a stare al chiuso, di notte, come tutte le persone normali… - suggerisce, giocando con la punta di una scarpa in un cumulo di neve attorno al lampione.
- Ci sono abituato, non è un problema. – borbotta Fler, agitando una mano, - Tu non ficcare i piedi là dentro, ti prenderai una polmonite.
- Guarda che sei tu quello che starnutisce da giorni! – ride Bill, socchiudendo gli occhi su una folata di vento particolarmente freddo.
Fler lo liquida con un cenno della mano e sbuffa, il suo fiato si condensa e lui e Bill lo osservano disperdersi nell'aria. Tirano giù un sorso di cioccolata bollente quasi contemporaneo e li sento sospirare di sollievo nello stesso modo, a distanza di pochissimi secondi.
- Dovresti veramente riguardarti, un po'... – borbotta Bill affiancandoglisi e cominciando a camminare lungo il marciapiedi, - Peter era preoccupato l'altra sera, quando non ti ha visto arrivare...
- Ah, davvero? – Fler arrossisce vagamente, è comico vederlo arrossire così, e poi si perde in un ghigno un po' più furbo, lanciando un'occhiatina allusiva a Bill, - E tu che ci facevi l'altra sera da Peter?
Bill sorseggia la cioccolata, incerto.
- Ogni tanto... – biascica fissando il vapore acqueo che risale dal bicchierino plastificato, - ...mi piace passare un po' di tempo con lui. Mi sento più a casa nel suo appartamento che non nel mio. È strano... – aggiunge con un sorriso triste, - perché casa mia è piena di ricordi di Anis, quindi dovrei trovarmi meglio lì, e invece...
Fler sbuffa una mezza risata, finendo la cioccolata e gettando il bicchierino in un cassonetto dell'immondizia.
- Guarda che non devi nasconderlo con me, se state insieme. – butta lì semplicemente, infilando le mani in tasca per proteggerle dal gelo, - Non ve la scrivo una diss contro.
Bill si volta a guardarlo come se avesse detto contemporaneamente la cosa più offensiva e la cosa più ridicola del mondo.
- Ma... non... – si agita arrossendo e stringendo il bicchierino fra le mani, - Non stiamo insieme!
Fler inarca un sopracciglio e lo fissa. La sua espressione non è incredula come dovrebbe essere, se davvero pensava stessero insieme. Ci sono un sacco di cose che mi sfuggono, in tutto questo. O forse la cosa spaventosa è che in realtà non mi sfugge niente e capisco tutto, e questo mi infastidisce perché non dovrei – sono morto, non dovrei davvero – e neanche vorrei.
- No? – insiste, mentre Bill butta via il bicchierino ancora mezzo pieno e tira fuori dalla borsa un paio di guanti, - Strano.
- Strano perché? – chiede lui, infilando i guanti con fin troppa cura per non dare chiaramente ad intendere di star cercando un pretesto per non guardare Fler, il quale scrolla indifferentemente le spalle.
- È stata la prima cosa che ho pensato quando ti ho visto a casa di Chakuza. – rivela in un mezzo sospiro, - Ho pensato che steste insieme.
Bill annuisce compitamente torcendosi le mani in grembo.
- Potresti… - biascica imbarazzato, - …non dirglielo? – Fler inarca un sopracciglio, incerto, e Bill si affretta a spiegarsi, - Ecco, - borbotta, - non vorrei che… cioè, io mi trovo bene con lui, non vorrei che decidesse di allontanarsi per un pettegolezzo. – sospira, - Io lo so, come sono fatto. Lo so che è difficile stami accanto senza che la gente pensi di tutto e di più. – sorride stancamente, - Sapessi quello che si pensa in genere di quella povera anima di mio fratello. – Fler ridacchia perché evidentemente lo sa, cosa si pensa di Bill e Tom, ed anche Bill si concede una risata. – Insomma, ci tengo che Chaku resti dov’è. Quindi non dirgli niente, ok? – conclude un po’ ansioso.
- Okay, okay, ragazzino, calmati! – sbotta Fler, divertito, sollevando entrambe le braccia in segno di resa, - Non avevo comunque alcuna intenzione di andare da Chakuza a chiedergli conferma né niente di simile. Tranquillo. – Bill annuisce ed abbassa lo sguardo, in imbarazzo. Fler sospira e cambia discorso, vedo un brillio di gratitudine negli occhi di Bill ed un po’ mi infastidisce davvero che qui si viva perfettamente anche senza di me. – Comunque, davvero, non preoccuparti per il sottoscritto. – lo rassicura stringendosi nelle spalle, - Ci sono abituato al freddo. Bushido mi teneva fuori anche fino alle quattro del mattino.
Bill annuisce e sulle sue labbra si forma un mezzo sorriso intenerito mentre si muove lentamente sul marciapiede. È un sorriso che anticipa una domanda che non sa se può fare. Potessi, tratterrei il respiro. Poi mi rendo conto che, in un certo senso, lo sto già facendo.
- Com’era? – chiede a bassa voce, stringendo le mani in grembo, - Da ragazzo, dico. Io ne so molto poco.
Fler inarca un po’ un sopracciglio, ma non sembra molto stupito di sentirsi chiedere una cosa simile.
- Be’, non era esattamente il tipo che a uno facesse piacere frequentare. – riflette, scavando fra i ricordi, - Voglio dire, era uno stronzo. Ed era pericoloso, ma non nel senso del romanzetto per ragazzine, cioè, non era il classico tipo cupo che al limite poi però ti tiene fuori fino all’una e mezzo e torna a casa. Quello rideva sempre ma ci metteva niente a infilarti un coltello nel fianco, all’occorrenza.
Bill ridacchia e si stringe nelle spalle.
- Sì, lo so che rideva spesso. – annuisce, guardando i mucchietti di neve ammassati lungo il marciapiedi.
- Nah, non lo sai. – Fler lo butta lì con indifferenza, Bill aggrotta le sopracciglia e fa per rispondergli male, ma si ferma appena si volta a guardarlo e lo vede sorridere nostalgico. – A diciott’anni Anis non rideva come ha cominciato a ridere dopo aver fatto i soldi.
- Certo che tu… - borbotta con un mezzo broncio, - quando te la leghi al dito è proprio per sempre, eh?
Fler scrolla le spalle.
- Non proprio per sempre. – risponde noncurante, - Per quanto merita.
Bill si morde un labbro e palesemente non sa se porre la domanda che gli trema sulle labbra. Alla fine lo fa. Mi fa tenerezza e sono anche un po’ contento – Bill non era davvero tipo si tenesse qualcosa dentro. Vorrei che tornasse a sorridere come faceva con me, anche se pare io non sorridessi con lui come facevo con Fler. C’è decisamente qualcosa che non va in quest’equazione.
- …Bushido meritava di essere odiato fino a quando non fosse morto?
Fler riflette. Fissa dritto di fronte a sé. Ho paura di ciò che potrebbe dire. Anche se sono morto e per me non cambierà niente, qualsiasi sia la sua risposta.
- …avrebbe meritato che continuassi ad odiarlo anche dopo.
*
A Chakuza, i medici hanno prescritto venti giorni di ricovero che lui ha passato tutti - uno per uno - a borbottare che stava bene e che non c'era bisogno lo tenessero lì. Ha insistito per alzarsi due giorni dopo l'operazione, fingendo che la sutura non gli facesse un male d'inferno e finendo per farsi saltare i punti. Due volte, nel giro di una settimana.
Fler, ad un certo punto, si è così spazientito di vederlo grondare sangue a casaccio che lo ha rimesso di peso sul letto urlando che era un coglione, e poi ha chiamato l'infermierina deliziosa che lo perseguitava da giorni e lo ha fatto sedare.
Il tutto tra le risate di Eko e gli occhioni sgranati di Bill che davanti al sangue ha ancora delle brutte reazioni. Fortuntamente, aggiungerei. Non voglio assistere al giorno in cui il sangue non gli farà più effetto.
In questi venti giorni, Chakuza non è mai rimasto solo. A parte sua madre - le cui visite meriterebbero un resoconto tutto loro, perché quella donna gli è ossessivamente attaccata e questo genera e ha generato scene di panico miste a scenate furiose ben poco austriache -, qualcuno della crew era sempre presente nella sua stanza. E questo mi ha reso molto orgoglioso di loro. E di me, che li ho tenuti insieme fino all'ultimo.
Da quando lo hanno portato in sala operatoria a quando hanno deciso di dimetterlo, ogni singolo membro dell'Ersguterjunge ha attraversato i corridoi dell'ospedale almeno una volta, per portargli i suoi saluti o per offrirsi di dare una mano a Bill e Fler che, invece, quella stanza non l'hanno praticamente mai lasciata.
Fler è uno che se si prende a cuore qualcosa, la fa fino in fondo. Fino a che la questione non è risolta e lui non ha più niente da fare al riguardo. Ha fatto così con l'Aggro Berlin - ci credeva, e ha continuato a crederci anche quando me ne sono andato. Sapeva di poterci lavorare sopra, e non l'ha mollata - e sta facendo così con Chakuza.
Nel momento in cui lo ha raccolto di terra con le budella di fuori e ha dato istruzioni ai medici, si è preso la responsabilità di vederlo arrivare vivo alla fine della faccenda. E la fine è fuori dall'ospedale, quindi Patrick è andato a trovarlo ogni giorno, dalla mattina fino alla sera.
I primi tre giorni, le infermiere - tutte, non solo quella che ha continuato a scoparsi nello sgabuzzino delle scope come prima cosa quando arrivava in ospedale, così poi lo lasciava in pace - hanno tentato di cacciarlo via perché si ostinava ad arrivare prima dell'orario di visita e ad andarsene solo a notte inoltrata. Poi hanno smesso, un po' perché Katrina - l'infermierina deliziosa - ha cominciato a parlare in giro del suo sguardo penetrante e poi perché lui il suo sguardo penetrante, quello vero, ha cominciato ad usarlo con le infermiere, così che gli sono cadute tutte ai piedi come sacchi di patate e perfino Karla, l'infermiera sessantenne di pediatria, si faceva quattro piani d'ascensore avanti e indietro per portargli un paio di cuscini in più per il Chaku. Una volta comprata la metà femminile della clinica, Fler non ha più avuto problemi, e si è perfino organizzato per andare a prendere Bill a casa e riportarcelo ogni giorno, con grande disappunto di Tom che pensava di essersi liberato di ogni rivale quando sono morto io e invece ora se ne ritrova due.
Bill, d'altronde, è un'altra storia. Quello che l'ha spinto a stazionare in quella stanza d'ospedale a chiacchierare per ore e giocare a carte - a guardare telenovelas anche. Ho visto Peter con il suicidio negli occhi - supera il senso dell'onore di Fler e di certo non ha niente a che vedere con l'amicizia di Eko o l'appartenenza della Crew.
Chakuza per Bill non è mai stato crew, ed ha smesso di essere un semplice amico il giorno in cui gliel'ho mandato all'aeroporto, ormai quasi un anno e mezzo fa. Chakuza è stato il primo ad accettarlo, e Bill gli vuole così bene che adesso che io non sono lì con lui, vederli insieme mi strappa il cuore.
Il medico è stato lì ieri sera e ha dato a Chakuza il permesso di tornare a casa.
Adesso Bill gli sta facendo la sacca, mentre Patrick gli passa le sue cose una ad una, semi-appoggiato al letto perché è ancora debole. Scherzano e fanno cose assolutamente innocenti; un anno fa pregavo che questo avvenisse in fretta - perché volevo Bill felice con la mia gente - e adesso anche solo il fatto che Chakuza rida alle battute di Bill mi infastidisce.
All'improvviso mi sembra che Chakuza stia oltrepassando una linea, che Bill glielo stia lasciando fare. O viceversa, non lo so. Eppure sono anche consapevole che non è vero, che quello che sto guardando è solo ciò che io capisco e che forse loro non sanno ancora.
E' come vedere il futuro scritto nei loro occhi. E non è lontano che dieci chilometri.
L'auto di Bill li aspetta nel parcheggio dell'ospedale.
Fler non è venuto, e se potessi lo costringerei ad esserci. Si è presentato qui per venti giorni consecutivi, uno dietro l'altro, ad orari improponibili e oggi che mi serve - oggi che Katrina è in ferie, per altro - Bill si offre di riportare Chakuza a casa e Fler non fa una piega. Dice sì, va bene. E io lo so perché lo ha fatto, e solo per questo vorrei pestarlo.
Bill è un pessimo guidatore, per questo Tom continua a portarlo in giro in auto nonostante abbia la patente: è terrorizzato all'idea che suo fratello finisca per schiantarsi contro un palo una delle tante volte in cui usa lo specchietto retrovisore per sistemarsi la frangia. Bill è vanesio, e questo contrasta in maniera pericolosa con la sua sicurezza in auto. Chakuza però non se ne accorge nemmeno, è troppo impegnato a godersi il viaggio e le parole di Bill che si srotolano nell'abitacolo senza soluzione di continuità, come al solito. Non so nemmeno che cos'abbia di nuovo da raccontargli, dal momento che non si sono persi di vista un secondo, ma Bill trova sempre qualcosa da dirti quando gli piace la tua compagnia. Ed è così bello mentre parla e si entusiasma che spesso non senti nemmeno quello che dice, ti perdi nel movimento delle sue labbra o nella luce che gli si accende negli occhi.
Bill parcheggia di fronte al palazzo dove abita Chakuza ma lui non gli permette di tirare fuori la sacca dal bagagliaio. "Ce la faccio, tranquillo," lo rassicura sorridendo.
Mi ritrovo a sperare che lo ringrazi e che poi si salutino, ma so perfettamente che è una speranza davvero stupida: Bill sale sempre, da tre mesi.
E adesso sembra anche più sensato che lo faccia: ci sono i punti ancora un po' aperti di Chaku. C'è la sua sacca pesante. Deve salire.
L'appartamento per una volta è in ordine. La madre di Peter ha approfittato dell'assenza del figlio e ha dato una pulita e una sistemata a tutte le cianfrusaglie che quell'uomo tiene in giro. Bill ridacchia e glielo fà notare. "Sembra tutta un'altra casa," dice scherzando.
"Non preoccuparti, non ci vorranno più di tre giorni a farla tornare come prima," risponde lui, che si è già avviato in camera.
Bill lo segue. Ha lasciato la borsa e il cappotto in salotto, come fa sempre. Ormai si muove a suo agio, sa quasi tutto di quella casa. Gli manca solo di capire dove riporre gli abiti, perché i cassetti della stanza da letto sono l'unica cosa che non ha mai avuto modo di aprire.
Eppure non sembra a disagio, tira fuori le maglie e i pantaloni, chiede dove vanno e poi le ripone. Lascia di proposito la biancheria, così a quella ci pensa Peter: cerca di non creare motivi di imbarazzo perché nell'aria ce n'è anche troppo. Anche se non è imbarazzo, e vorrei dirglielo. Quando la sacca rimane vuota, Bill si dà da fare a ripiegarla e Chakuza si dà da fare a prendergliela dalle mani e ad infilarla nell'armadio. Non si fermano e non si sfiorano, perchè lo sentono a pelle che a guardarsi e a toccarsi poi sarà difficile dare la colpa a quella sacca se Bill è ancora in piedi di fronte a Chakuza, entrambi protetti dall'anta dell'armadio aperta.
Prendono fiato insieme, ma è Chakuza a parlare. "Grazie," dice.
"Di niente," Bill scuote la testa con troppa forza. Si è fatto triste, all'improvviso. "Allora io... vado." Indica alle sue spalle, senza voltarsi e sforza un sorriso che però muore subito, perchè non è sincero. Non è felice, non vuole andare. Sorride solo perché è l'unico modo che ha per evitare che Chakuza gli chieda cosa c'è che non va.
Ringrazierei di non avere un cuore, se le mie sensazioni non fossero ancora tutte al loro posto e i miei battiti, sempre più forti, non li sentissi lo stesso, come un boato nelle orecchie. Succede quando Chakuza allunga una mano ad accarezzargli appena una guancia con il pollice. E' un gesto automatico, non ha pensato davvero di farlo ma quando la mano si è mossa lui non ha trovato un motivo per fermarla. Il motivo sono io, cazzo, ma sono morto quindi non valgo più.
Bill socchiude gli occhi e si appoggia contro il palmo della sua mano. Il suo sospiro di sollievo fa più male dei colpi di pistola che mi hanno ucciso. Significano: finalmente. Ed è un finalmente che non mi contiene più. L'attimo dopo Bill gli si spinge addosso, preme le labbra contro le sue e Peter lo considera un permesso sufficiente a proseguire. Sto male perchè non c'è un luogo preciso da cui sto guardando, sono ovunque. E non ho ostacoli. Fra me e loro non c'è niente che blocchi la visuale. Niente dietro cui possa nascondermi. La cosa avviene davanti ai miei occhi, senza che io possa veramente chiuderli.
Così vedo Bill schiudere le labbra e lasciarlo entrare. Lo vedo gettargli le braccia al collo e vedo il suo corpo che si accomoda in quell'abbraccio, si lascia stringere; le curve morbide della sua pancia si appoggiano contro gli addominali di Chakuza e io mi sorprendo che si incastrino bene, ancora convinto che questo possa accadere solo con me.
E allora realizzo che adesso è suo, o lo sarà presto. Che manca poco. In ogni caso il bacio di Bill è sincero ed è innamorato, è la concessione di un permesso che Chakuza desiderava da mesi senza saperlo e che Bill aveva tanta voglia e tanta paura di dargli.
Il bacio è dolce, ma breve. Per me i secondi si dilatano in eternità, ma non è passato che qualche istante quando riaprono gli occhi e si allontanano impercettibilmente senza un suono. Si guardano attraverso palpebre rese pesanti dalla voglia di conoscersi in altro modo, dal bisogno di toccarsi in maniera completamente differente. La distanza che hanno posto tra loro la coprono insieme, nello stesso istante. Il suono delle loro labbra che si incontrano di nuovo affonda nei sospiri di Bill e nei mugolii di Chakuza che lo stringe alla vita e lo spinge indietro, verso il letto.
Chakuza è impacciato, non ha mai avuto un ragazzo tra le braccia. Non ne ha mai toccato uno, a parte se stesso, e non sa dove mettere le mani; ma è una cosa che s'impara in fretta. Le sue dita trovano la strada sotto la camicia di Bill fin troppo velocemente. Bill esala il suo nome mentre Chakuza gli scivola addosso e prende il mio posto tra le sue gambe. Non ha idea di cosa sta facendo, ma lo fa comunque. Le mani di Bill sono abbastanza esperte da condurlo esattamente dove deve andare.
Bill gli toglie la maglia e la getta a caso oltre il bordo del letto, si aggrappa alle sue spalle e si spinge contro di lui per sentirlo ringhiare. L'assoluta padronanza di se stesso e dei suoi movimenti mi manda in bestia ora che la sta usando su qualcun altro. Vorrei gridare e non posso. Vorrei fermarli e non posso, perchè non sono lì. Perchè non sarebbe giusto. Perchè Bill è felice e io devo accettarlo. Si stira su quel materasso mentre getta indietro la testa e mugola. Chakuza ha il viso affondato nel suo collo e le mani sulla cintura dei suoi pantaloni. Lo sta spogliando a fatica, perchè vorrebbe anche accarezzarlo e strusciarglisi addosso, e ringhia di frustrazione per non poter fare tutte le cose insieme.
Bill è lì disteso per lui, senza più la camicia, che s'inarca sotto le sue dita. C'è da perderci il fiato e la testa. L'ho persa anche io così, allo stesso modo. Bill sembra sciogliersi tra un morso e l'altro che Chakuza gli lascia sul collo ma poi apre gli occhi e la magia s'infrange, in qualche modo. Ha il mio braccialetto ancora al polso, luccica nel buio e mentre io mi chiedo come possa farsi toccare da Chakuza avendolo ancora addosso, lui pensa la stessa cosa.
"Peter..." pigola incerto. E non so se lo faccia perchè è sull'orlo delle lacrime o se ha paura della reazione di Chakuza.
L'uomo solleva lo sguardo e si riprende quando vede quello negli occhi di Bill. Quando vede le lacrime che scivolano lente ai lati del suo viso. "Bill!" mormora nel panico. "Che succede?"
Lo so che nella sua testa si sta chiedendo se per caso non gli ha fatto male. Lo so perché c'è da chiederselo con Bill, non pesa niente. Sembra fatto di niente.
"Io non posso," sussurra Bill. "Non... non ci riesco. E' ancora troppo presto."
Mi prendo la soddisfazione di gustarmi la consapevolezza che si fa strada negli occhi di Chakuza. Capisce che lui c'entra poco in quelle lacrime; Bill sta piangendo per me.
Bill esita. "Mi dispiace."
"Non preoccuparti," Chakuza cerca di essere comprensivo. Ha capito, perché è un uomo sensibile, ma è anche incredibilmente frustrato perchè è un uomo, appunto. Si scosta da lui e gli dà modo di arrotolarsi su se stesso, perchè ne ha bisogno. Così come ha bisogno di piangere. "Ti lascio la stanza per... risistemarti," sceglie la parola con cura. Deve dirgli di rimettersi addosso i vestiti ma deve fargli capire che non può restare. Risistemarti è una buona scelta. Non troppo fredda e abbastanza chiara.
Bill annuisce, ma non dice niente. Lo lascia uscire prima di iniziare a singhiozzare.
Osservo quel suo corpo lunghissimo farsi minuscolo, mentre si abbraccia.
Le prime settimane dopo la mia morte le ha passate così, avvolto in se stesso a cercare un po' del calore residuo del mio corpo. E ora mi sento in colpa perché era tornato a sorridere e io in qualche modo, stanotte, quel sorriso gliel'ho strappato via di nuovo.
Aspetto con lui che il dolore si attenui; il mio o il suo, non ha importanza. Alla fine è passata un'ora quando si alza dal letto di Chakuza e si riveste. Aggancia la camicia nera di fronte allo specchio. Lo guardo e per un attimo il suo riflesso sembra fissare un punto indefinito alle sue spalle, dove mi piace immaginarmi. Fingo che ci stiamo guardando, ma non gli chiedo scusa per averlo turbato perché so che lui non la sta chiedendo a me.
Qualche minuto dopo si presenta da Chakuza che è seduto sul divano - il loro divano - e si tiene la testa fra le mani. Alza lo sguardo quando lo sente arrivare.
Bill gli mostra le chiavi dell'auto solo per un istante e poi torna a stringerle con violenza nel pugno chiuso. Sono i nervi a tenerlo insieme e ha paura che, parlando, andrà di nuovo in pezzi.
Ha paura anche Chakuza, per cui non si scambiano una parola.
Si annuiscono e basta.

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Cure For The Itch

di lisachan
Una Klosterbräu, una Becks e una Charly Brau. Poi una tequila. Poi dello scotch. Un’altra Klosterbräu e poi ho meditato se ricominciare il giro con un’altra Becks ed un’altra Charly Brau. Alla fine ho preso una Zipfer e sono sicuro all’ottanta per cento che sia a causa della fottuta birra austriaca se adesso sono qui. Avrei dovuto ricominciare il ciclo con la Becks, magari sarei svenuto nel locale. Il proprietario mi trova simpatico, dato che probabilmente gli sto pagando l’università per la figlia, visto quanto spendo lì ogni giorno. È meglio che non sappia che la ragazzina me la sono scopata un paio di volte la settimana scorsa, o finisce che invece di chiamarmi un taxi come ha fatto fino ad ora mi getta lungo disteso sul marciapiedi e lì mi lascia.
Comunque non l’ho presa, la Becks. Ho preso la fottuta Zipfer e mi ha rovinato il sapore in bocca per tutta la serata, che poi è il motivo per cui mi sono alzato e sono andato via e adesso sono qui in questa strada e mi sto dirigendo verso quel portone scassato là sotto.
Sbatto contro un tizio un attimo prima di attraversare la strada, e me ne accorgo solo perché lui mi mette le mani addosso e mi rimette dritto prima che io possa cadere sull’asfalto.
- Vattene a casa, ubriacone! – si lamenta quello, non vedo neanche che faccia abbia, lo ignoro. – Stai barcollando!
- Non sono nemmeno brillo… - rispondo a mezza voce, ma quello naturalmente non può sentirmi perché è già lì che se ne va avvolto in quel suo bel cappotto scamosciato beige e giusto che ci penso sto morendo di freddo, si vede che siamo a novembre, non ci posso più andare in giro in felpa, è meglio che me lo ricordi per il futuro, Dio, mi viene da vomitare.
Attraverso la strada e sbando un po’ di qua e un po’ di là, non tanto, insomma, non tantissimo, ecco, so che crollo sul muro e pesto un po’ di pulsanti a caso sulla placca del citofono. Speriamo di beccare quello giusto, nel mucchio. In questo momento non mi ricordo neanche come fa di cognome Chakuza. Un qualche stupidissimo cognome austriaco come la stupidissima birra austriaca che è quella che mi ha portato qui questa notte.
Mi risponde una voce di donna che decisamente non è Chakuza.
- Chi è? – chiede, per un attimo mi domando se non sia qualcuna che lui s’è portato a casa, ma il tono è quello della signora anziana e non sono ancora tanto ubriaco da pensare credibile un’ipotesi del genere… o magari a Chakuza piacciono vecchie, chissà, è pure possibile.
Okay, forse sono davvero ubriaco.
Non rispondo e premo un altro pulsante a caso, la tipa continua, “chi è? Chi è? Guardi che chiamo la polizia!” e vorrei rispondere che non è la prima volta, ma da un lato ho una nausea che già la metà basterebbe a stendermi se non ci fosse tutto questo fottuto freddo, e dall’altro sento una voce ruvida e profonda che si intreccia con quella acuta e spaventata della vecchina e penso “bingo! L’ho beccato!”, ed in effetti dall’altro lato del citofono c’è Chakuza che mi chiede chi sono.
- Sono Fler… - rispondo, e mi viene da ridere perché il mio nome è comico quando sono ubriaco, si allunga. Fleeeer.
Chakuza non dice nulla, per qualche secondo si prolunga un silenzio stranito e poi la serratura del portone scatta ed io posso rotolare dentro l’ingresso, che è congelato e odora di muffa. Sarei dovuto andare a casa di Sido, casa di Sido è stupenda e c’è il tappeto rosso all’ingresso e lungo tutte le scale, però non posso presentarmi da Sido in queste condizioni. Avrei dovuto andarmene a casa mia, che è congelata e odora di muffa esattamente come qui, ma almeno lì non mi sputtanerei con nessuno.
Arranco sulle scale maledicendo l’assenza di un ascensore, mi aggrappo al corrimano cercando di non scivolare ma ho le dita congelate e non fanno granché presa – peraltro è freddo anche lo stupido metallo, qui. Odio questo posto.
Chakuza mi aspetta sul pianerottolo, ha una mano sulla porta e la tiene aperta mentre si sporge per osservarmi emergere dalla rampa di scale, io lo individuo ed individuo anche una signora avvolta in una vestaglia felpata di un verde smeraldo così brillante che secondo me luccica sul serio, non per colpa della tequila.
- E questo chi sarebbe? – chiede la donna, è quella del citofono.
Chakuza è imbarazzato.
- Non si preoccupi, signora Lotte, è un amico.
- Sono un amico! – confermo annuendo. E tutto all’improvviso vedo il pavimento che si avvicina verso la mia faccia. Così, senza preavviso. Dico, ma dove vive Chakuza? In una casa che si muove per i fatti suoi? Non è una bella cosa.
Mi sento afferrato per le spalle un attimo prima che il pavimento mi dia uno schiaffo e quando sollevo lo sguardo vedo Chakuza che mi fissa allucinato, mentre mi rimette in piedi e cerca la mia vita per stringermi e aiutarmi a camminare.
- Diosanto, ma quanto hai bevuto?! – mi chiede, sconvolto, mentre la signora con la vestaglia fosforescente si rintana preoccupata in casa propria.
- Una birra! – rispondo con un mezzo broncio, nessuno crede che non sono ubriaco, dico, che sta succedendo in questa città?!
Chakuza si chiude la porta alle spalle mentre incespichiamo entrambi su qualcosa che c’è buttato sul suo pavimento, anche se non capisco cos’è… in realtà ci sono tante cose buttate sul suo pavimento, solo che è scuro e non è che riesca ad identificarle proprio tutte… forse quella era una maglietta, comunque. Rido.
- Non sono io che cado, è la tua casa che è piena di trappole, Chakuza! – ha un nome lunghissimo anche lui! Però è spigoloso, il mio è più divertente. – Chakuza, Chakuza… - lo richiamo, a forza di dirlo è carino, - te ne sei mai accorto che ho un nome lunghissimo? – lui mi guarda strano ed io gliene do la prova, - Fleeeer… - cantileno dondolandomi un po’.
- Ma se sono solo quattro lettere… - protesta lui. Evidentemente non sa contare le e! Sono molto deluso, - Cristo, Fler, ma lo sai che ore sono?!
Scrollo le spalle, non ne ho idea.
- Sono le tre del mattino! – mi informa, irritato.
- E tu già facevi la nanna? – lo prendo in giro, mi accorgo solo adesso che ha addosso solo una maglietta e un paio di pantaloncini, non so perché lo trovo divertente. Comunque rido.
Lui arruffa le penne e mi fissa come se mi dovesse rimproverare.
- “Già” è un concetto molto meno relativo di quanto non pensi tu! È oggettivamente tardi!
Mi lascia andare ed io cado su una poltrona. Cioè, prima sbatto col sedere su un bracciolo e poi scivolo con un tonfo sul cuscinone che fa puff e mi scappa un’altra risata perché questa casa sembra viva.
- Parli difficile, Chaku… - borbotto e sbadiglio perché ho sonno. Mi alzo in piedi. – Dov’è il letto?
Lui mi guarda stralunato, tira fuori un paio di occhi enormissimi.
- Il letto?
Mi avvicino e lo fisso male.
- Voglio dormire! – spiego. Perché non mi capisce?! Mi sembra di parlare facile!
- Oh. – prende atto, forse mi ha capito, - Oh, no! – aggiunge, e mi riprende per le spalle, riportandomi indietro neanche fossi un bambino piccolo. E va bene, se vuole che faccia il bambino piccolo farò il bambino piccolo!
Mi metto a piagnucolare.
- Chakuzaaaa… - lui ha un sacco di a. Ma le mie e sono più belle. – Fammi dormire!
- Quello che vuoi, Fler, ma non nel mio letto! – precisa, e mi sa che ha ragione, non si dorme nel letto coi maschi, me lo diceva sempre pure Anis, cioè, me l’ha detto una volta che è rimasto da me per la notte e gli ho detto che se voleva poteva dormire con me, tanto avevo il letto a una piazza e mezzo, ci stavamo, e lui ha riso e ha detto “non ci dormo mica nel letto con un maschio”, ed oggi se fosse vivo mi verrebbe un po’ da tirargli un cazzotto, ad Anis, eh, ma giusto perché è uno stronzo, cioè, era uno stronzo, mica per altro.
Ricado indietro sulla poltrona – sempre prima sul bracciolo, non c’è verso di centrare il cuscino, la bastarda si sposta – e mugolo. Chakuza mi guarda come se avessi le antenne.
- Che vuoi?! – gli tiro dietro un cuscino a caso, lui lo prende in faccia senza muoversi.
- Ma sei la stessa persona con cui ho parlato le altre volte…? – mi chiede sconvolto. Io mi accuccio sulla poltrona.
- No, il gemello cattivo. – rispondo tirando su le gambe, - O buono. Non lo so. A te piacciono i gemelli, eh Chakuuuu? – ha anche un sacco di u.
Scuote la testa e mi sento molto preso in giro, perciò chiudo gli occhi e mi volto dall’altro lato facendomi male ovunque perché la poltrona è dura, accidenti a lei, e proprio mentre sto per addormentarmi mi sento piovere addosso una cosa calda e morbida e apro gli occhi e ci sono cavallucci marini ovunque.
- L’oceano! – rido e batto le mani. Chakuza si è seduto sul divano, volto la testa e lo guardo dal basso verso l’alto, continuando a ridere, - Sono caduto in acqua!
Ride anche Chakuza, e mi dà una pacca sulla fronte.
- Cerca di dormire, sei completamente fuori…
Io annuisco perché, anche se mi tratta come un bambino, è stato tipo un bravo papà. Cioè, io non ce l’ho mai avuto un papà, e quando ho fatto tanto di trovarmene uno ho combinato un disastro, però Chakuza potrebbe essere un bravo papà, forse, ha delle belle coperte morbide con dei disegni carini. Gli dico buonanotte e lo sento ridere ancora prima di tornarsene in camera, e la sua risata un po’ roca è l’ultima cosa che sento e penso che uno a queste cose può anche abituarcisi in fretta.
*
Cristo che mal di testa del cazzo. Io non posso aprire gli occhi, stamattina. Cioè, mi fa male la testa al solo pensiero di aprire gli occhi e fare passare della luce attraverso le palpebre. Già quella che filtra è abbastanza da mandarmi in confusione. Dio mio come mi pulsa il cervello. Cazzo, non ricordo cosa ho bevuto ieri ma deve essere stato qualcosa di davvero disgustoso. Ma davvero tanto.
Faccio per muovere un braccio – non ho ancora aperto gli occhi né intendo farlo a breve – ma lo trovo incastrato. Non capisco cos’è che lo tenga incastrato perché ha perso totalmente sensibilità. Non sono neanche tanto sicuro di avercelo ancora, un fottuto braccio.
Dovrei aprire gli occhi e guardare ma sono terrorizzato dal dolore.
E però a un certo punto sento una risatina provenire da qualche parte alla mia destra e mi spavento al punto che gli occhi li spalanco di scatto.
E morire trafitto da un centinaio di lance sarebbe stato meno doloroso.
- Cristo! – sbotto, e tutto il mio intero corpo scatta e si richiude a riccio. Così scopro che, tanto per cominciare, il mio braccio era incastrato sotto la mia gamba, e non l’ho capito prima perché non è solo il mio braccio ad essere privo di sensibilità, è anche la mia gamba. E probabilmente pure tutto il resto del mio corpo.
Cerco di schermarmi contro la luce del sole che non ne vuole sapere di lasciarmi in pace e riesco perfino a dimenticare la risata che mi ha tanto spaventato. Solo che poi la risata ritorna.
Ed io mi volto lentamente verso la sua fonte.
E scopro altre due cose: primo, sto su una poltrona. Lo scopro perché, come mi giro, casco sul pavimento. Mi accoglie un tappeto peloso mica tanto pulito, ma almeno morbido.
La seconda cosa che scopro è, appunto, di aver comprato un tappeto peloso e sporco.
In alternativa, questa non è casa mia.
Sollevo lo sguardo e c’è Chakuza – no, dico, Chakuza! – che mi fissa.
Ok.
- Dove sono?
Chakuza ride ancora, ma stavolta non è una risatina, è proprio una risata, allegra, tonante, divertita, mi rimbomba nel cervello con una violenza inaudita ed io mi accoccolo sul tappeto, la testa fra le braccia, piagnucolando disperatamente.
- Cristo, pietà… parla piano… - imploro stremato, tornando a fingermi una palla incosciente mentre Chakuza si piega sulle gambe e molleggia un po’, battendomi un paio di pacche sulle spalle.
- Fleeeeer, - mi chiama divertito, - dovevi svegliarti, prima o poi.
Dolore. Perché strascica così il mio nome? Dio mio.
- Che hai da chiamarmi così? – protesto schiudendo un occhio e cercando di metterlo a fuoco con scarsissimi risultati.
- Fleeeeeer! – ripete lui, e ride ancora, sempre più divertito. Rinuncio a capirci qualcosa.
- Ma dove sono? – chiedo, aggrappandomi alla poltrona e rimettendomi in ginocchio mentre medito sulla possibilità di alzarmi perfino in piedi. Mentre io seguo questo logicissimo processo mentale, Chakuza salta in piedi con l’entusiasmo di un bambino di sei anni che va verso l’albero la mattina di Natale, e si dirige verso la cucina.
- A casa mia, naturalmente. – risponde serafico maneggiando la caffettiera.
- Questo è impossibile. – affermo issandomi sulla poltrona e asciando mici ricadere sopra, esausto, - Io non so dove abiti.
Chakuza ride.
- Sì che lo sai.
- Lo sapevo ma l’ho dimenticato! – cerco di spiegare. Non è facile fargli capire che in questo momento, se lui non avesse ripetuto il mio nome cantilenandolo come un deficiente, non ricorderei nemmeno quello. Che poi, Fler non è il mio nome. Non voglio chiedermi come mi chiamo, ho paura di non avere una risposta da darmi.
Chakuza annuisce e mette la caffettiera sul fuoco, appoggiandosi al cucinino con aria navigata mentre torna a guardarmi.
- Dì un po’, quanto hai bevuto ieri?
Imbarazzato, abbasso lo sguardo.
- …non me lo ricordo. – ammetto in un soffio.
- Hai dimenticato anche questo? – mi prende in giro lui, avvicinandosi e sedendosi sul divano qui accanto. Io non torno a guardarlo. – Seriamente, Fler, questa cosa si ripete spesso? Eri mezzo ubriaco pure la prima volta che sei venuto qui, ti ho dovuto riportare in te a cazzotti-
- Tu non mi hai preso a cazzotti per riportarmi in me, la prima volta che sono venuto a casa tua. – preciso con una smorfia colma di disappunto, tornando finalmente a guardarlo. Lo trovo che mi sorride tranquillo. - …succede ogni tanto, comunque. – mi ritrovo controvoglia a rispondere, con un sospiro.
Chakuza annuisce con competenza e mi guarda con compassione.
- Non ti sei ancora ripreso da- - fa per chiedermi, ma non intendo sostenere questa discussione, visto che so già dove va a parare, perciò mi alzo in piedi e combatto contro la mia debolezza, contro il dopo sbornia ed anche contro la forza di gravità per restarci, dritto come sono, e lo guardo dall’alto in basso.
- Non ti preoccupare per me. – ringhio infastidito, - Sono perfettamente in grado di badare a me stesso.
Chakuza inarca le sopracciglia e si solleva a fronteggiarmi da una posizione di svantaggio minore.
- Fler, tu non puoi presentarti a casa mia alle tre del mattino svegliando tutto il palazzo, crollare sulla mia poltrona, svenire, dormire dodici ore e poi dirmi che sei perfettamente in grado di badare a te stesso! È palese che non lo sei!
- L’alcool non mi ha ucciso in ventisei anni, dubito fortemente che comincerà a farlo adesso! – ribatto con veemenza, ed al momento non mi interessa se il discorso in sé non ha senso. Voglio solo ingannare il tempo mentre aspetto che il caffè sia pronto, poi scroccargli una doccia, magari, e tornarmene a casa, riprendere possesso dei miei spazi e fare finta che tutto questo non sia mai avvenuto.
E, già da stasera, ricominciare a sbronzarmi perché non so cosa farmene di me stesso ora che la mia ossessione è morta.
- Fler, potrebbe succederti di tutto! Potresti svenire per strada o sentirti male, che cazzo, vuoi proprio rimetterci la pelle?! – si infuria lui, dirigendosi a grandi passi verso la cucina e spegnendo il fornello per versare il caffè in due tazzine, - Cerca di volerti un po’ bene, Cristo, piantala di bere.
- Ma tu sei un rapper o una suora di carità? – mi lamento avvicinandomi a mia volta ed allungando una mano. Lui mi porge la tazzina senza che neanche io abbia bisogno di chiedergliela. – Grazie.
- Smetterai di bere? – mi chiede lui, invece di rispondere un più che adeguato “prego”.
- Non sei mica il mio frate confessore, eh. – protesto, - Anzi, per la verità non ti ho confessato proprio nulla, stai facendo tutto da solo.
Lui incrocia le braccia sul petto e non beve il suo caffè. Cerco di capire a cosa gli serva l’altra tazzina, ma avviene tutto molto naturalmente quando poso sul ripiano la mia ormai vuota, allungo di nuovo la mano e lui me la porge. Ecco a cosa serviva l’altra, penso, buttandone giù il contenuto amarognolo.
Torno a guardarlo. Adesso almeno sono sveglio.
- Posso farmi una doccia? – chiedo titubante. La domanda successiva è “mi presti qualcosa di pulito da indossare?” e non so perché la cosa mi manda nel panico.
- Intanto puoi dirmi che smetterai di bere. – insiste lui, fissandomi deciso.
- Sì, ma io non voglio dirtelo. – cerco di fargli capire, e quasi mi viene voglia di ticchettargli con le nocche sulla testa per vedere se si sente l’eco del vuoto. – Perché io non voglio smettere di bere.
- Stai facendo il bambino. – mi fa notare lui mentre io roteo gli occhi disapprovando ogni attimo di questa conversazione.
- Veramente, sto solo facendo quello che mi pare e piace. – correggo in uno sbuffo.
- Appunto. – annuisce lui con aria critica, - Fler, hai promesso che mi avresti aiutato a proteggere Bill.
Sibilo fra i denti, infastidito. Era proprio necessario andare a battere sui sensi di colpa? Come fossi un uomo sereno e rilassato, io. Come se mi servisse, tanto per cominciare, mettermi al servizio di un ragazzino che palesemente sta in un posto in cui non dovrebbe stare.
Poi ricordo che sì, mi serve, perché devo chiedere scusa a Bushido, in qualche modo. E questo è l’unico modo.
- Posso farmi una doccia? – ripeto, passandomi una mano sugli occhi.
- Smetti di bere o no?! – ritorce lui, un po’ indispettito, piantandosi mani sui fianchi fra me e il bagno.
- D’accordo, d’accordo! – concedo senza neanche rendermene conto davvero. Voglio solo farmi scorrere addosso un po’ d’acqua calda e tornarmene a casa, penso che direi di sì pure se mi chiedesse di vendergli mia madre per tenersela in salotto come scultura vivente. – Ora posso farmi una doccia?!
Chakuza sorride trionfante.
- Domani sera alle nove. – risponde.
Io lo fisso.
- Devo aspettare domani sera alle nove per farmi una doccia? – chiedo stupito, - E intendi tenermi qui per tutto il tempo?
Chakuza ride e mi tira una pacca sulla spalla. Io potrei anche morire, sento l’eco di quel ciaff in tutto il corpo.
- Domani sera alle nove ti voglio qui a rapporto per farmi vedere che non hai bevuto, Fler. – precisa bonario, - La doccia puoi anche farla ora.
Continuo a fissarlo.
- Come, scusa?
Chakuza annuisce come a rassicurarmi sulla perfetta normalità di ciò che ha detto. Potrei essere d’accordo, se non avesse appena deciso di essere il mio babysitter o qualcosa del genere.
- Hai detto che smetterai di bere, ma non pretenderai mica che ti creda sulla parola. – mi spiega.
- Cioè, cazzo, - sbotto io, allucinato, - mi stai chiedendo più garanzie ora per questa cazzata che non quando ti ho detto di credermi sulla mia innocenza per l’omicidio di Bushido! Hai qualcosa che non va nella testa, tu!
Scrolla le spalle.
- Be’, allora si trattava di una persona già morta. – illustra tranquillo, facendomi strada verso il bagno, - Potevo fidarmi o non fidarmi ma non sarebbe cambiato poi molto. Adesso invece si tratta di te che sei vivo. – sorride, - Quindi, fidarmi o non fidarmi può cambiare un sacco di cose.
Rimango un attimino a fissarlo imbambolato, lo ammetto.
Poi scoppio a ridere e neanche il mal di testa può fermarmi.
- Verrà fuori che sei vegano ed iscritto al movimento per la difesa dei diritti delle donne, io lo so. – lo prendo in giro, piegandomi un po’ sulle ginocchia perché questa risata è soddisfacente ma mi sta sfiancando. – Senti, ce l’hai qualcosa da prestarmi? – chiedo, decisamente più rilassato, mentre lo osservo distogliere lo sguardo imbarazzato. Scommetto che pensava di fare il gran figo, dicendo quella cosa prima. È quasi tenero. – Questi vestiti puzzano ed ho bisogno di un cambio, dopo la doccia. Prometto che poi ti riporto tutto lavato.
Chakuza borbotta qualcosa di indefinito mentre scompare in camera da letto e ne riesce qualche secondo dopo con un paio di asciugamani, una maglietta, un paio di pantaloni, dei calzini e dei boxer.
- Mai prestato roba mia ad un altro essere umano. – ci tiene a precisare porgendomi il tutto, - Ritieniti onorato. E appena domani ti presenti qui sbronzo, ti prendo a cazzotti. Di nuovo.
Rido e m’infilo in bagno senza una parola di più.
*
Aaah, non ricordo cosa ho bevuto. Mi irrita, questa cosa, a me piace fare la conta delle cose che ho bevuto, quando faccio la conta delle cose che ho bevuto vuol dire che riesco ancora a ricordarmele e quindi forse alla fine non ne ho bevute poi così tante, solo un pochino. E invece non riesco a fare la conta quindi mi sa che ho bevuto un tantino troppo.
Però sono in orario! Controllo di nuovo l’orologio al polso, le lancette sono un po’ sfocate però le vedo! La lunga fa “meno cinque”, la corta fa “nove” ed io ho ben cinque minuti per attraversare la strada, raggiungere l’altro marciapiedi e ricordare a che altezza sta il pulsante del citofono di Chakuza! Che si chiama Pangerl. Oggi me lo ricordo! Forse non sono poi così tanto ubriaco!
…o forse sì, l’asfalto è troppo vicino alla mia faccia e mi sa che non è la città che si muove, sono io che cado. Mi sa che non era nemmeno la casa di Chakuza che si muoveva ieri. Ero sempre io che cadevo.
Pianto le mani per terra e mi tiro in piedi mugugnando, c’è la gente intorno che mi dice cose ma io non le capisco. Faccio per guardare una signorina e chiederle cosa c’è, mica sto male!, però la tipa scappa via. Mi offendo, non sono abituato ad avere questo effetto sulle donne.
Attraverso la strada con le macchine che mi sfiorano, fanno woosh passandomi accanto, ed arrivo fino al citofono, suono a caso e mi risponde la vecchina di ieri.
- Chi è? – chiede ed io sospiro, il citofono di Chakuza non lo beccherò mai al primo colpo, è una maledizione.
- Sono Fler… - rispondo direttamente a lei, e mi aspetto un sacco di parolacce, perciò mi appoggio al portone in attesa della sfuriata e mi stupisco non poco quando invece sento solo un sospiro ed il clack della serratura. Comunque non ho tempo di stupirmi troppo, perché la porta si spalanca sotto il mio peso ed io rotolo indietro e faccio una mezza capriola sul pavimento.
Faccio per alzarmi ma ricado seduto. Mi sa che ho bevuto veramente troppo. Sto peggio di ieri. Chakuza si arrabbierà.
Nel frattempo, sopra la mia testa, sento il suono di una porta che si apre e di ciabatte che battono sulle mattonelle ed immagino la signora Lotte che bussa all’appartamento di Chakuza per dirgli che ha visite, ed in effetti poi sento l’eco di un campanello ed un’altra porta che si apre e c’è la voce cupa di Chakuza che probabilmente si aspettava la mia faccia, visto che sono le nove, ed invece vede quella della sua vicina di casa.
- Sono qua sotto… - lo informo, lui mi sente, io sollevo lo sguardo e lo vedo che si affaccia sulla tromba delle scale e mi guarda, sconvolto.
- Fler?
- Non ce la faccio ad alzarmi in piedi… - e sto un po’ piagnucolando perché mi dispiace dare spettacolo così.
Lo sento sospirare – l’eco amplifica pure il sospiro, è molto fastidioso – e poi scende giù per le scale e lo sento che mi afferra da dietro, sotto le ascelle, e mi tira in piedi di peso.
- Ma si può sapere come cazzo hai fatto, Fler? Sono le nove!
Mugolo mentre lui si fa passare un mio braccio sopra le spalle e mi regge con una mano per il polso e con l’altra per la vita, stringendo forte così che non possa cadere ancora.
- Mi sono portato avanti col lavoro… - biascico sperando di suonare divertente.
- Il che vuol dire che già alle sei eri in giro a bere, stronzo? – sbotta lui aiutandomi a salire le scale.
- Alle cinque. – preciso ridendo, - Se cominciavo alle sei non ce la facevo.
- Sei proprio uno stronzo. – la sua voce è cupissima e mi fa un po’ paura. Mi sa che si è arrabbiato davvero. – Avevi promesso.
- Io volevo solo farmi una doccia… - protesto, e manco il gradino successivo. Già mi vedo sbattere la faccia contro lo spigolo e svenire, però Chakuza è forte, stringe il braccio e mi tiene strettissimo, perciò invece di cadere in avanti mi sento tirato su e gli sbatto contro. Solo che non sono esattamente un fuscello, perciò lui finisce pressato contro la ringhiera ed io mi schiaccio contro di lui e decido che è comodo, perciò mi lascio andare e mi appoggio.
- Fler, Cristo santo! – si lamenta lui, cercando di rimettermi dritto, - Avanti, spostati!
- Ho sonno… - vorrei dirgli che è comodo, è per questo che mi addormenterei bene qui, però non trovo le parole, e poi mi sa che qualsiasi cosa, detta in questa situazione, suonerebbe tremendamente gay, che è una cosa che vorrei evitare, perciò non dico altro e mi appoggio meglio.
Lui tira fuori un tono paziente che mi intenerisce.
- Siamo quasi arrivati e poi dormi, ok? Un ultimo sforzo.
Mugolo un assenso e provo a rimettermi dritto. In realtà non ci riesco perché sto veramente crollando di sonno, perciò mi rimette dritto Chakuza e non so, per quanto mi riguarda potrebbe anche muovermi le gambe come un burattinaio per farmi arrivare fino al suo appartamento. Non ho la forza. Dio mio, non berrò mai più così, lo giuro.
Riprendo un po’ conoscenza solo quando sento aleggiarmi sotto il naso l’aroma familiare del caffè. Apro gli occhi e mi accorgo che sto sulla poltrona di Chakuza e lui sta in piedi davanti a me e mi porge una tazzina piena di caffè fino all’orlo. Ho la sensazione che, se non avesse pensato che una dose del genere potesse uccidermi, me ne avrebbe rifilato un bricco intero.
- Non lo voglio… - mi lamento voltandomi di scatto, ho la nausea.
- Tu lo prendi e cerchi di darti una sistemata. – ordina lui, afferrandomi per il mento e riportando i miei occhi su di sé. – Non ricominciare a fare il bambino. Hai quasi trent’anni.
- Anche tu! – protesto offeso. Io non sono vecchio.
- Sì, e infatti mi comporto come tale! Avanti, Fler! – e spinge la tazzina in avanti.
- Okay, okay… - borbotto io, la prendo fra le mani, cosa pure piacevole, perché è calda ed io ho le dita freddissime, e butto giù tutto in un sorso.
Il secondo successivo sono piegato in avanti e sto vomitando come non mi capitava da anni. Come avessi bevuto litri d’alcool, cazzo. Addosso a Chakuza.
- Fler! – è sconvolto e schifato, io comincio ad andare nel panico perché so già che quando l’alcool sarà tutto uscito dal mio corpo vedrò questa situazione con occhi completamente diversi e non mi verrà più tanto da ridere. Odio tornare sobrio. – Fler, cazzo!
Non riesco a fermarmi, mi piego ancora e sto per cadere a terra, sollevo un braccio e mi aggrappo alla sua spalla col terrore che mi prenderà per la mano, mi staccherà da sé e mi lascerà cadere a terra nel mio vomito, ma non lo fa. Posa una mano sulla mia e mi tiene ancorato alla sua spalla in quel modo, mentre con l’altra mano mi regge per il collo.
E se ne frega bellamente se gli sto vomitando addosso, se gli sto sporcando casa, se sto sporcando lui.
Tossisco un po’ e sputo per terra – tanto, peggio di così… - e penso che potrebbe anche lasciarmi andare, a questo punto, non rischio più niente. Ed invece continua a tenermi.
- Stai meglio? – chiede, e non è sarcastico. Cioè, non è come stesse cercando di dirmi “ora che ti sei svuotato sul mio tappeto va meglio, eh?”. È più come si fosse preoccupato davvero.
Annuisco impercettibilmente, con gli occhi chiusi. Mi fa male la testa.
Chakuza si alza in piedi e mi tira con sé, io apro gli occhi e vedo che gli ho veramente sporcato tutta la maglietta ed anche buona parte dei pantaloni. Cristo. Non facevo così neanche a sedici anni. Ma cosa cazzo mi sta succedendo?
- Vieni, ti aiuto a pulirti un po’… - sussurra, accarezzandomi lentamente il collo, che peraltro mi fa un male cane. Ci sa fare con gli ubriachi. O con le persone in generale, forse, non lo so.
Arriviamo in bagno e lui mi fa sedere sul coperchio del water.
- Togliti quella maglietta, avanti. – mi incita mentre apre il rubinetto del lavandino e miscela l’acqua. Vede che io non mi muovo e continuo a fissare il vuoto perciò sospira e mi viene vicino, togliendosi la maglietta lurida e ripetendo lo stesso gesto anche con me. – Coraggio, alzati in piedi, ti aiuto a lavarti. – sbotta, - Cristo, sei in condizioni pietose.
Mi sollevo appoggiandomi al lavandino e cado sopra Chakuza. Sbattiamo l’uno contro l’altro ed io sono congelato e lui è caldissimo, vorrei stargli un po’ più vicino ma non sono più nemmeno tanto ubriaco da concedermi una cosa simile. Mi rimetto dritto con un lamento, Chakuza mi fa passare un braccio attorno alla vita e mi tira vicino.
- Se stai a tre metri non posso lavarti. – spiega ficcando una mano sotto il getto d’acqua.
Poi fa esattamente come faceva mia madre quando mi sporcavo col cioccolato, da piccolo. Mi lava con una certa ruvida tenerezza bonaria, sospirando esattamente come un genitore. Il sapone profuma di lavanda e la sua mano un po’ ruvida mi passa sulla faccia, sul collo, sul petto. Mi riscalda e lava via lo schifo che mi sono gettato addosso.
Quando finisce, mi accompagna direttamente in camera da letto. Io non ho il coraggio di dire niente, non riesco nemmeno a sollevargli gli occhi addosso, mi sento davvero in difetto come un bambino piccolo. È irritante che mi faccia quest’effetto, non è davvero così tanto più grande di me. Questo rapporto dovrebbe essere più equilibrato.
Poi realizzo che questo non è un rapporto. Lo realizzo nel momento esatto in cui Chakuza mi sistema sul letto e mi dice di dormire un po’ e che domattina mi farà una paternale tale da farmi dimenticare perfino come mi chiamo. Socchiudo gli occhi sulla sua figura che si allontana e lo vedo ripassare davanti alla porta con un secchio ed un mocio in mano solo qualche minuto dopo. Mi addormento col suono consolante dello straccio che strofina con forza il pavimento. Mi sembra di avere di nuovo tredici anni. La sensazione non è completamente spiacevole.
*
Alla fine, quella mattina non mi ha rimproverato. Mi sono svegliato in un casino di lenzuola e l’ho trovato che dormiva accucciato sul divano, con il viso completamente affondato in un cuscino rovinatissimo. Mi è venuto da sorridere ed ho fatto un po’ come fossi a casa mia, nel senso che ero completamente sobrio e pure tanto in imbarazzo, visto che gli avevo praticamente rubato il letto da sotto il culo, perciò sono andato in cucina ed ho preparato il caffè. Quando lui ha aperto gli occhi mi ha trovato appollaiato su uno degli sgabelli attorno all’isola con una tazzina in una mano e l’altra mano sollevata a metà in un saluto. Per prima cosa, ho chiesto scusa. Quindi lui ha scosso il capo e si è alzato, ha chiesto un po’ di caffè ed ha detto “okay. Però stasera alle nove sei di nuovo qui”.
Un po’ mi scazza esserci sì, di nuovo qui, ma anche di nuovo ubriaco. Mi scazza perché non sono ubriaco come le altre volte – al secondo scotch qualcosa dentro di me ha detto “no” e non voglio pensare a quanto somigliasse alla voce di Chakuza – e se fossi almeno seriamente ubriaco tutto questo, adesso, sarebbe più facile. E invece sto qui, meno incosciente del solito, arrotolato sulla poltrona mentre Chakuza mi fissa con aria di disapprovazione dietro le braccia incrociate sul petto.
- Non sono ubriaco. – borbotto confusamente, abbassando lo sguardo.
- Ti puzza l’alito a chilometri, Fler. – mi fa notare serio.
- Sono solo un po’ brillo. – nego, tirando su le gambe sulla poltrona.
Lui si china su di me e mi inchioda con le mani alla spalliera, così che sono costretto a sollevare gli occhi e guardarlo.
- Tu l’alcool non lo devi toccare più neanche con un dito, Fler, hai capito? E non perché ti fa male e nemmeno perché in queste condizioni sei inutile, ma perché te l’ho chiesto io e tu hai promesso. Ti fai sempre grande con le questioni di onore ed onestà, quando canti, e poi con me ti comporti così.
Mentre mi rimprovera, penso distratto che Chakuza sa perfettamente che sono meno ubriaco del solito, altrimenti non mi starebbe facendo questo discorso. Non mi parla, se non è certo che io capisca alla perfezione ciò che mi sta dicendo.
Potrebbe almeno apprezzare la buona volontà, mi dico. E poi però ricordo che non c’è nessuna buona volontà dietro al mio essere meno sbronzo: solo la sua voce che mi minaccia e l’immagine tremenda di me stesso che vomita su di lui, sul suo tappeto e sul suo pavimento e che poi, per questo, finisce a dormire nel suo letto.
- Insomma, che cazzo. Mi sembrava di parlare con un adulto, ma sei un ragazzino. – continua lui, ed io torno ad abbassare lo sguardo, ma solo per un secondo: poi mi afferra per il mento e mi tira di nuovo su. – E guardami, quando ti parlo. Guarda che io ho davvero bisogno del tuo aiuto, ma non me ne faccio niente di uno in queste condizioni, d’accordo? Sei inutile.
Mi lascia andare, io torno a guardare in basso con un mugolio di dolore e lui si allontana di qualche passo.
- Se domani devi presentarti di nuovo così, Fler, risparmiati di venire. – annuncia, tirandomi addosso la coperta coi cavallucci marini che è andato a prendere in camera prima di cominciare la paternale. Mi lascia solo il secondo dopo ed io resto lì con la coperta piegata fra le mani. E non ho proprio nessuna voglia di dormire.
*
Lo fisso. Lui mi fissa.
Lo facciamo per un sacco di tempo ed alle mie spalle c’è la signora Lotte che fissa entrambi come fossimo due creature molto strane.
È uscita fuori perché, appena sono arrivato – in ritardo di dieci minuti – ho citofonato a Chakuza e lui mi ha strillato in testa che ero in fottuto ritardo e che per quanto gli interessava potevo pure andarmi a sfondare di tequila per tutto il resto della notte, com’era sicuro avessi fatto fino a quel momento, altrimenti sarei stato in orario. Poi mi ha chiuso il citofono in faccia.
A quel punto, ho citofonato alla signora Lotte ed il dialogo seguente s’è svolto più o meno in questi termini: “Signora Lotte? Sono Fler. Le dispiacerebbe cortesemente aprirmi? Ho litigato con Peter e vorrei risolvere la questione, ma lui non mi lascia entrare.” Silenzio allucinato. “…d’accordo, caro. Entra pure.” Tutto qui.
Quando sono arrivato davanti alla porta lui ha aperto già sul piede di guerra – probabilmente aveva immaginato avessi corrotto qualcuno pur di salire – e si è ritrovato me a fissarlo come sto facendo adesso. Cioè serio e perfettamente lucido. È per questo che anche lui, in questo momento, mi sta fissando.
- …non sei ubriaco. – commenta sinceramente stupito, una mano sullo stipite della porta, l’altra a ciondolare inerme lungo il fianco.
Sorrido trionfante.
- Oggi neanche un goccio. – rispondo tranquillo, - Me la offri tu una birra?
Scoppia a ridere all’improvviso, ed io lo imito poco dopo. Mi trascina dentro continuando a ridere e, fra una pacca sulla spalla e l’altra, mi dico che forse un rapporto c’è. Di quest’uomo posso fidarmi.

*

Non vedo Bill da tre giorni. Da quando ha stretto le chiavi nel pugno ed è andato via dopo avermi fermato, dopo averci fermati, non l’ho più visto né sentito. Sono state settantadue ore di assenza e non mi è mai successo di sentire così tanto la mancanza di qualcuno in vita mia. L’assenza di Bill sa di qualcosa di incompleto. C’era qualcosa, c’era qualcosa che si stava muovendo e che si stava creando e mi è veramente difficile accettare questo pensiero. Ma è molto più difficile accettare che invece possa all’improvviso non esistere più nulla solo perché…
…ho messo le mani dove non dovevo. Ho dannatamente messo le mani dove non dovevo. Cristo.
Questo pensiero non mi dà pace.
- Insomma, non ne posso più, non so perché le ho dato il numero di telefono ma mi sa che adesso mi toccherà cambiarlo perché chiama cinquemila volte al giorno. Mi sono rotto.
Fler sta parlando a macchinetta da circa un quarto d’ora ed io non faccio che pensare che a questa casa manca il chiacchiericcio infinito di Bill. Che manca a me. Che la voce di Fler non è la stessa, non ha gli stessi toni né gli stessi colori, non ha lo stesso entusiasmo e non raggiunge gli stessi picchi di dolcezza quando invece è triste. Per la verità non riesco a riconoscere proprio un cazzo, nella voce di Fler. E invece mi infastidisce da morire che sia quella che ho sentito più spesso, negli ultimi tre giorni, perché davvero, Fler non ne ha saltato uno: è venuto ogni santa sera da quando sono tornato a casa.
- Mhmh. – grugnisco in risposta, perché comunque sentirlo parlare è sempre meglio che sentire silenzio.
- Davvero, se avessi saputo che finiva così avrei dormito in un angolo per strada. – continua a borbottare lui, irritatissimo dal fatto che l’infermiera che ha rimorchiato mentre stavo in ospedale continui a non lasciarlo in pace. Non capisco cos’abbia Fler per la testa: la tipa è chiaramente interessata, lui non se la sarebbe scopata se non lo fosse stato a propria volta… perché non si rilassa e fa come farebbe un qualsiasi altro uomo normale al suo posto?
- Così invece di prenderti il raffreddore avresti preso una polmonite coi controfiocchi, Fler. – gli faccio notare distrattamente, - Ed ora non saresti qui a lamentarti.
- E sarebbe stato meglio! – sbotta lui, fissandomi malissimo. Mi viene un po’ da ridere perché Fler quando vuole sa tirare fuori degli occhi cattivissimi, ma in questo momento sta solo facendo il buffone. È facile vedere quando si arrabbia, gli si oscurano gli occhi. Adesso invece sono di un celeste purissimo e brillano, quindi non è arrabbiato. Non so, quando fa discorsi come questo – quando borbotta contro le stupidaggini – mi sembra sempre che voglia sentirsi solo dire “sì, piccolo, hai ragione”. Come non gliel’avessero detto abbastanza quando piccolo lo era davvero.
In realtà comunque non ho una cazzo di voglia di ridere. In genere le cavolate di Fler mi aiutano un sacco – se non altro perché ne ha sempre una riserva infinita da tirare fuori all’occorrenza – ma stasera sono irritato e di ridere proprio non mi va.
- Ti va una birra? – gli chiedo alzandomi in piedi e dirigendomi verso la cucina senza neanche aspettare la sua risposta.
- Oh, sì, grazie. – risponde comunque lui, annuendo, - In ogni caso se chiama di nuovo giuro che la mando a fanculo. Mi sei testimone tu!
- Sì, Fler, naturalmente. – sospiro annoiato, recuperando le due birre dal frigo e tornando di là per consegnargli la sua.
Fler la prende fra le mani e mi fissa con un broncio amareggiato, stendendosi un po’ contro lo schienale del divano.
- Certo che sei proprio una merda, quando ti ci metti, tu. – commenta con rabbia, attaccandosi alla bottiglia, scazzato.
Io spalanco gli occhi e mi lascio ricadere al suo fianco, fissandolo sgomento.
- Come, scusa?
Scrolla le spalle e posa la birra sul tavolino.
- È da quando sono arrivato che rispondi a monosillabi e grugniti. E quando le tue risposte superano le due sillabe, allora sono acide o comunque si capisce che non te ne frega un cazzo di quello che sto dicendo. – apro la bocca per negare e lui mi ferma con un’occhiataccia, di quelle vere, però, - E non provare a dire di no perché ti prendo a cazzotti!
Poso anche io la bottiglia ed incrocio le braccia sul petto.
- Non è vero! – e un po’ lo sto sfidando. Perché lo so che è vero.
Fler mi guarda per un secondo come volesse staccarmi la testa. Poi guarda altrove e dice una cosa che mi terrorizza. E che mi fa incazzare. Ed un altro milione di cose.
- Non hai visto Bill, oggi, eh?
Lo dice così. Come se sapesse perfettamente l’importanza che ha. Lo dice esattamente con l’importanza che merita. Perdo un respiro e poi due e poi tre ed alla fine mi rendo conto che mi sto impedendo di respirare perché ho paura di cosa mi potrebbe uscire dalla bocca se lo facessi. Sicuramente urlerei. Sicuramente ci andrebbe di mezzo Fler. Insomma, tutte cose che non ho il diritto di far accadere.
- Che cazzo intendi dire? – ritorco con ansia. E so che è la cosa peggiore potessi dire in assoluto, so che suona come una dannata ammissione quando non dovrei sentirmi in diritto neanche di ventilare l’ipotesi, ma al momento non mi interessa.
Fler scrolla le spalle e continua a non guardarmi.
- Niente. – risponde in un soffio, - Ipotizzavo.
- Ipotizzavi cosa, esattamente? – insisto.
Lui torna a guardarmi e lo fa con la stessa rabbia di prima.
- Secondo te sono un deficiente, Chakuza? O un cieco? Che cazzo. Non trattarmi come un bambino.
- Abbiamo già discusso di questo tempo fa. – rispondo con un ghigno incattivito, - Ed abbiamo stabilito che sei un bambino, perché ti comporti come tale. Anche adesso, - spiego con presunzione, - lanci il sasso e nascondi la mano. Butti lì l’insinuazione ma non mi spieghi cosa cazzo ti gira in testa. Dovrei trattarti come un adulto?
Lui volta di nuovo lo sguardo e non c’è verso di tirargli qualcosa fuori dalla bocca.
- Fler? – lo chiamo, già irritato, - Fler!
Stringe le labbra e continua a non guardarmi.
- D’accordo! – sbotto, tirandomi in piedi, - Fai il cazzo che vuoi, continua pure a pensare tutte le cazzate che preferisci-
- Cazzate, eh? – mi interrompe lui con un sorrisino strafottente, - Dio, odio quando mi si prende per il culo!
- Stai rompendo i coglioni, Fler! – gli urlo contro, combattendo l’impulso di buttarlo fuori di qui a calci, - E piantala di rispondere solo quando ti conviene! Sei un cazzo di ragazzino impossibile!
- Non sono un ragazzino! – si alza in piedi da solo, fronteggiandomi direttamente, - E tu sei un vigliacco, Chakuza!
Lo afferro per una spalla e lo sbatto contro la parete, che è molto più vicina di quanto non pensassi. Fler non se l’aspetta, perciò spalanca gli occhi e batte con forza, aggrotta le sopracciglia e si morde un labbro per il dolore e poi fatica un po’ a rimettersi in piedi da solo. Si appoggia con falsa casualità al muro, come non avesse bisogno di alcun supporto per stare dritto e invece ne ha bisogno eccome.
Mi fissa stordito, apre la bocca, so che – cazzo – sta per dire qualcosa e non ho alcuna intenzione di starlo a sentire. È solo per questo che lo afferro di nuovo per la stessa spalla di prima e lo trascino un po’ indietro, prima di spingere con forza ed obbligarlo a rovinare a terra, in ginocchio.
Batte sul pavimento, posso vedere il brivido di dolore correre lungo tutto il suo corpo, lo sento sotto il palmo della mano mentre stringo le dita attorno al suo braccio per torcerglielo dietro la schiena.
- Fanculo. – ringhia lui, fissandomi di sbieco mentre si piega in avanti per assecondare quanto più può il movimento innaturale del braccio, - Se devi pestarmi non fare tante cerimonie.
Non so se voglio pestarlo. So che voglio farlo stare zitto. So che mi dà fastidio che abbia parlato di Bill perché continuo a pensare che Bill dovrebbe essere una cosa mia e so che invece non lo è. E non lo sarebbe neanche se stessimo insieme. E non lo saremmo stati neanche se l’altro giorno mi avesse lasciato continuare, cazzo.
So che, merda, io lo volevo davvero. So che lo voglio davvero. So che mi sta montando una rabbia incredibile e che si sta traducendo in un desiderio indecente perché Fler è qui, arreso sotto le mie dita, e se stringo ancora un po’ posso fargli abbastanza male da farlo urlare.
Voglio sentirlo urlare.
Stringo e ruoto il polso. La spalla di Fler scricchiola un po’ e, come previsto, lui urla. Urla e si piega in avanti, sfiorando con la fronte il pavimento ghiacciato e digrignando i denti.
- Cristo, Chakuza! – ringhia furioso, - Cazzo, lasciami!
Ma non lo lascio. Mi schiaccio contro di lui perché mi piace questa posizione di vantaggio. Mi piace sentirlo debole e mi piace sapere che un minuscolo movimento del mio corpo basta a mandarlo fuori di sé dal dolore. Mi piace perché a Bill basta sbattere le ciglia per mandarmi fuori di me dal dolore. Gli basta respirare. Gli basta esistere, cazzo. Voglio anche io questo potere. Mi piace questo potere. Mi piace anche troppo, lo percepisco io e lo percepisce Fler che, quando sente la mia erezione premere contro la sua gamba, spalanca gli occhi e si irrigidisce, ma non dice una parola.
È una realizzazione improvvisa e un po’ assurda, ma so anche che è assolutamente vero: Fler non dice niente. Fler non dirà niente in ogni caso. Non so se sia sconvolto da ciò che sta succedendo o se dietro questo silenzioso assenso ci sia dell’altro, francamente in questo momento non mi interessa. Fingo di non prendere atto della sua eccitazione mentre lo lascio andare – il suo braccio batte sul pavimento e lui lo usa per tenersi dritto quando riesce a recuperare sensibilità, ma non combatte, non si oppone, non fa nulla – e gli sfibbio la cintura, sfilandola dai passanti dei jeans e lanciandola lontano. Fa un rumore assordante mentre striscia sul pavimento e va a incagliarsi contro la parete qualche metro più in là.
Sbottono i jeans e mi fermo un secondo. Mi sembra impossibile che non cominci a protestare. Ma non comincia, cazzo. È assurdo. D’un tratto mi viene da ridere se penso che fino a mezz’ora fa mi stavo chiedendo cosa ci fosse di strano nella sua testa, per portarlo a rifiutare così l’infermiera che gli muore dietro. Ora mi sa che lo capisco cosa c’è.
Lo vedo che stringe i pugni sul tappeto e socchiude gli occhi. Trattiene il respiro, in attesa. Mi sembra assurdo continuare a stare qui a tergiversare. Cazzo, non posso credere di stare facendo una cosa simile. Tiro giù jeans e boxer tutti assieme, incontro la resistenza della sua erezione e la ignoro ancora, gli faccio male, è palese nel suo ringhio frustrato, ma lui continua a non protestare e questo è assurdo ed eccitante allo stesso tempo. Lo lascio un attimo, non mi chiedo neanche se scapperà, so che non lo farà. Sbottono i miei jeans, mi libero di qualsiasi impedimento ancora esista fra me e lui e poi mi prendo un secondo – solo un fottuto secondo – per darmi ripetutamente del coglione.
È solo un fottuto secondo – e subito dopo spingo e mi dibatto per entrare dentro di lui.
È stretto e chiuso e non dovrei davvero poter entrare qua dentro. Mi chiedo se con Bill sarebbe lo stesso. Se sarebbe la stessa sensazione. Se urlerebbe come sta urlando adesso Fler.
Se sarei così violento, così impaziente, così sconsiderato anche con lui.
Se non baderei alle protezioni, con lui, se me ne fregherei di fargli male.
Mi chiedo se sia un problema del sesso, che faccia così schifo e sia così dannatamente appagante – mentre scavo a fondo nel corpo di Fler, mi ci ricavo un posto e comincio a spingere e lo sento stridere e fremere sotto le mie mani mentre lancia lamenti di cui non capisco il senso e che mi fanno rabbrividire fin dentro allo stomaco. Lo afferro per i fianchi per tenerlo fermo, perché voglio arrivare fino in fondo, perché Dio, la sensazione di calore umido attorno al mio cazzo è veramente irresistibile, e mi rendo conto che sto ansimando e che mi sta piacendo, e vorrei prendermi a cazzotti da solo, vorrei che me li desse anche Fler, i cazzotti, vorrei che si alzasse e se ne andasse ma non lo fa, non dà neanche cenno di volerlo fare. Tutto ciò che fa è chiudere gli occhi e stringere con più forza il tappeto. Non si tocca. Non fa niente. Rimane qui e, cazzo, si fa violentare. Si fa violentare, cazzo.
Mi spingo forte dentro di lui devastandolo fino all’ultimo centimetro e lo sento che si apre sotto di me. È una sensazione di potenza incredibile. È una sensazione meravigliosa, potrei non saziarmene mai. Mi piego sulla sua schiena con un grugnito e lo tengo stretto per la vita mentre vengo dentro di lui e lo sento che sibila di dolore e fastidio, perciò presso con più forza, fino a zittire perfino i lamenti, perché adesso non voglio sentire più niente.
Lo lascio andare solo quando sono certo di essermi del tutto svuotato. Scivolo fuori da lui e resto in ginocchio sui talloni, mentre lui crolla a terra, sfatto ed esausto, distrutto. Si trascina sul tappeto perché il suo corpo è per metà sul pavimento ed immagino senta freddo. Lo vedo strisciare e poi girarsi a pancia in su, una mano sugli occhi, la traccia delle lacrime evidente sulle guance. Distolgo lo sguardo perché non la reggo, questa vista. Il pensiero di essere stato io a ridurlo così è straziante. Non ne avevo alcun diritto.
Cerco di respirare.
- Fler… - lo chiamo debolmente.
- Sta’ zitto. – risponde lui in un rantolo arreso. Non ha neanche la forza di ricoprirsi. Cristo. Cosa ho fatto?
Mi rivesto velocemente mentre lui si asciuga stremato il viso. Quando toglie la mano vedo che ha gli occhi rossissimi. Mi fissa senza parlare. Non riesco a capire cos’è che vorrebbe dirmi e questo mi spaventa.
- Come ti-
- Una merda. – risponde senza neanche farmi finire la domanda, - Tu come cazzo ti sentiresti, Chakuza?
Mi mordo un labbro e mi muovo sulle ginocchia verso di lui.
- Non ti avvicinare. – allungo una mano, - Non mi toccare, Cristo, non ti avvicinare!
- Fler… - poso comunque la mano sul suo braccio, - Fler, ti prego-
- Cristo… - si copre di nuovo gli occhi con una mano ed io so che dovrei stare zitto ma non ci riesco.
- …non piangere… - lui ride amaramente e scuote il capo.
Mi avvicino ancora e mi piego su di lui. Cerco di essere delicato – mi rendo conto di essere in ritardo – mentre gli rassetto i vestiti, provando a coprirlo senza fargli troppo male. Lui si lascia maneggiare come fosse senza vita, non scosta la mano dagli occhi ed io vorrei lasciare stare tutto e scappare. Però allo stesso tempo non voglio. Non voglio affatto lasciarlo qui così.
- Ce la fai a rimetterti in piedi? – chiedo a bassa voce, sfiorandogli il collo con due dita.
Lui si scosta infastidito.
- No. – risponde sinceramente, ma fa comunque forza sulle braccia e si mette a sedere. Rinuncia immediatamente. Torna a distendersi, una ventina di centimetri più in là.
Sul tappeto c’è una macchia larghissima di sangue e sperma mescolati insieme.
Mi viene da vomitare.
- Cristo. – mormora Fler, - Sparisci. – chiede, la voce rotta.
Mi alzo in piedi e faccio per obbedire e nascondermi da qualche parte, magari in bagno, ma faccio solo un paio di passi e poi torno indietro. Mi siedo al suo fianco ed allungo una mano verso la sua. La stringo appena e mi stupisco di non sentirlo ritirarsi di nuovo.
- Mi dispiace. – dico a bassa voce, - Appena riesci a muoverti ti porto in ospedale. D’accordo?
Non mi aspetto che risponda e lui infatti non lo fa. Resto lì a tenergli la mano per tutto il tempo che passa a piangere in silenzio.

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Weird Carpet Thoughts On A Weirder Night

di lisachan
Resto lì a tenergli la mano per tutto il tempo che passa a piangere in silenzio. Sono quindici, venti minuti, una cosa del genere. Non è mai facile quantificare il tempo che passa quando è scandito dalle lacrime. Ricordo che quando morì mio nonno fu più o meno la stessa cosa, con mia madre. Non capii che erano passate quattro ore, da quando eravamo entrati nella camera ardente, fino a quando non uscimmo fuori e vidi che era già sera. Avevo dodici anni e la cosa mi turbò parecchio.
Insomma, potrebbero essere passate ore. Tutto ciò che so è che la mano di Fler è congelata anche se la sto stringendo da tutto questo tempo. E che i suoi singhiozzi invece sono caldissimi, anche se non dovrei sentirmeli addosso.
Lo chiamo a bassa voce, non credo neanche che mi senta. Stringo un po’ la presa attorno alle sue dita ed è lì che lui mi risponde.
- Sì. – dice, - Ora provo ad alzarmi. – ci riflette qualche secondo ed io lo guardo per tutto il tempo, ha gli occhi umidissimi, - Me la dai una mano? – chiede dopo un po’, - Non ce la faccio a mettermi seduto. Devo tirarmi subito in piedi.
Le cose che questo discorso implica sono troppe perché io possa pensarci con razionalità, perciò lascio perdere ad annuisco senza esitazione, mettendomi in ginocchio e passandomi un suo braccio sopra le spalle. L’ultima volta che siamo stati in questa posizione, lo stavo trascinando su per le scale ed era ubriaco perso. Lo stavo rimproverando ed avevo un motivo per farlo. Sembrano secoli fa. Ora dovrebbe rimproverarmi lui, ne avrebbe tutti i motivi, ma non mi dice niente.
Ci muoviamo lentamente e lui trattiene un gemito di dolore ad ogni passo. È palese che si lascerebbe volentieri ricadere sul pavimento senza protestare, se lo lasciassi. Non intendo lasciarlo e questo non riesce a lenire nemmeno in parte i miei sensi di colpa.
- Ti senti un po’ meglio? – chiedo titubante mentre raggiungiamo a stento la mia macchina, appena sotto casa.
- No. – sibila lui nel gelo della notte. – Piantala di chiedermelo.
Ed io la pianto.
Il viaggio in macchina verso l’ospedale – luogo ormai più che familiare per entrambi – e silenzioso e teso. Non riesco a fare a meno di sbirciare il suo profilo dritto e serio per tutto il tragitto. So che dovrei stare più attento alla strada che non ai mutamenti della sua espressione, ma non mi riesce. S’è seduto come un bambino capriccioso, una gamba sotto il sedere e l’altra penzolante in avanti. La gamba sotto il sedere lo tiene decisamente sollevato dalla superficie del sedile. Cerco di non pensare al perché abbia scelto proprio questa posizione qui.
Arriviamo in ospedale che è già praticamente notte fonda. Saranno le tre e mezza, probabilmente quasi le quattro del mattino. C’è giusto qualche infermiere scazzato in giro, nessuno che mi sembri di conoscere se non di sfuggita, il che è bene.
Naturalmente, all’accettazione troviamo Katrina.
Lancio un’occhiata allarmata a Fler – che zoppica ancora al mio fianco, anche se ora non sembra più avere bisogno di aiuto per camminare – e lo vedo irrigidirsi come congelato all’istante. Mi viene voglia di stringergli di nuovo la mano. Grazie a Dio mi fermo in tempo.
Katrina si mette letteralmente a saltellare non appena gli posa gli occhi addosso. Sarebbe comico, se la situazione non fosse quella che è. Fler sospira e rotea gli occhi. Ci avviciniamo lentamente al bancone e lei guarda subito me.
- Qualcosa che non va coi punti? – chiede con un sorriso affascinante, tornando subito a guardare Fler.
- No. – risponde lui al mio posto, - Qualcosa che non va col mio culo.
Cala un velo di ghiaccio su tutta la sala d’attesa, lo sento. È una sensazione veramente fisica. Katrina lo fissa, sconvolta.
- Col tuo…?
- Il Chaku, qui, mi ha scopato con un tantino di violenza in più rispetto al necessario. – sibila velenoso, ed io vorrei morire qui ed ora. Qui ed ora, giuro. – Lo dici al medico di turno che mi sa che ho qualcosa da ricucire?
Katrina abbassa lo sguardo, le guance rossissime, e sparisce subito in corsia. Io guardo Fler, allucinato.
- Fler…? – lo chiamo a bassa voce, e lui mi lancia un’occhiataccia furiosa.
- L’ho detto nel modo migliore possibile, credimi. – sbotta acido. – Senza indugiare sui particolari schifosi.
Non protesto perché so che è vero, c’è un particolare schifoso che avrebbe potuto menzionare. E non l’ha fatto.
Dal modo in cui il dottore ci accoglie in sala visite, capisco che Katrina è stata un’infermiera diligente e gli ha riferito per esteso la versione dei fatti fornita da Fler. Ci guarda bonario e, prima ancora di chiedere a Fler come sta, stringe ad entrambi la mano e ci fa accomodare.
- Non lei. – dice con un mezzo sorriso a Fler, - Lei si distenda pure sul lettino. A pancia sotto.
- …io devo restare? – chiedo indicandomi, e sono convinto di avere sulla faccia un’espressione da perfetto idiota, al momento.
- Oh, sì, tanto non c’è niente che verrà esposto stasera che lei non abbia già visto, a quanto pare, signor Pangerl.
Vorrei rispondere che invece sì, c’è qualcosa che non ho mai visto, e cioè la dignità di Fler che si perde come niente. Mi ricordo poi che ho visto la dignità di Fler perdersi ogni sera in troppe bottiglie di birra, ma non è la stessa cosa. Ora Fler è lucido.
- Oltretutto, se lei sta qui ci sbrigheremo molto più in fretta. Potrò medicarlo e parlarvi contemporaneamente ed avremo risolto molto prima. – il tono è pratico e professionale e mi rendo conto che probabilmente non mi sta obbligando a restare per cattiveria, ma la situazione nel complesso è veramente troppo grave per rassegnarmi al pensiero. Ciononostante, mi seggo su una poltroncina. Abbasso lo sguardo, però, appena gli occhi celesti di Fler me lo chiedono.
- Si spogli. – sento dire al dottore con tono asciutto.
- Tutto? – chiede Fler curiosamente.
- Solo i pantaloni andranno bene. – ride l’altro. È chiaro che il dottore l’abbia presa come una barzelletta. Se io veramente… se io veramente avessi solo esagerato durante una scopata normale, probabilmente la prenderemmo a ridere anche io e Fler. Probabilmente.
I bottoni vengono sganciati uno dopo l’altro ed i jeans di Fler cadono a terra assieme ai boxer. Entrambi gli indumenti sono macchiati di sangue. Mi volto.
- Prego, si distenda. – invita il dottore. Sento il fruscio del lenzuolo di carta sul lettino e non passano nemmeno trenta secondi prima che l’aria della stanza diventi satura dei sospiri e dei lamenti di Fler. Cerca di trattenerli invano. Non ho voglia di guardare cosa il dottore gli stia facendo, per la verità i movimenti del dottore non li sento neanche. Però sento ogni singola sfumatura dei gemiti di Fler e sento il rumore che fa la carta del lenzuolo quando lui la stropiccia sotto il pugno, chiudendolo, e sento anche i sospiri di sollievo che lancia quando il dottore smette per qualche secondo di toccarlo. E poi ricomincia da capo a rantolare.
- Con coppie formate da ragazzi giovani come voi, - comincia il dottore dopo un po’, coprendo la voce di Fler, - è normale ogni tanto fare errori come questo. Scommetto che era la prima volta, vero? – si interrompe appena e poi continua, - La prima volta dopo un bel po’, almeno. – precisa poi, ed io non ho nemmeno il tempo di chiedermi cosa intenda nello specifico, perché devo prima realizzare coscientemente che ci sta facendo una paternale. La cosa è assurda.
- Dottore, senta, - comincio, senza sollevare lo sguardo, ma lui mi ferma con un sospiro.
- Dicevo, - riprende serafico, - siete molto giovani e suppongo sia trascurabile se per una volta vi siete lasciati un po’ prendere la mano. Ma dovete assolutamente capire che il sesso anale presenta dei problemi non indifferenti. La lubrificazione non è automatica ed il preservativo non è solo una protezione contro le malattie veneree, ma soprattutto una protezione contro l’attrito inevitabile che lo sfregamento produce.
Sollevo lo sguardo. La visuale di Fler disteso ed esposto che colgo è abbastanza per costringermi a riabbassarlo.
- Dottore, guardi che-
- Non ho finito. – borbotta lui, - Mi lasci dire. Non la sto rimproverando, solo informando.
Fler ricomincia a gemere ed io mi concentro sul suono della sua voce. Non mi sono mai fermato a riflettere su quanto i gemiti di dolore siano simili ai gemiti di piacere durante il sesso. In effetti la cosa non mi stupisce quanto dovrebbe.
- Dovrò visitare anche lei, signor Pangerl. – dice il dottore subito dopo. Dovrei stupirmi del fatto conosca il mio nome? No, mi rispondo, gliel’avrà detto Katrina.
- Io sto benissimo. – rispondo cupamente, - Si concentri su Patrick.
Fler lancia un grugnito random del quale non capisco il significato. Suppongo sia una protesta ma ne ignoro il destinatario. La tengo per me, comunque: è giusto che sia arrabbiato.
- Ecco fatto! – continua il dottore dopo qualche minuto di silenzio, - Era meno grave del previsto.
- Ha perso molto sangue! – torno a sollevare il capo io. Fler è su un fianco, ha le lacrime agli occhi, è ancora seminudo e sta cercando di ricomporsi. Mi alzo e gli sono vicino in tre passi. Il modo in cui mi chino su di lui è equivoco pure nella mia testa, non oso immaginare quanto possa esserlo in quella del dottore che ci guarda con aria paterna e sorride. – È sicuro che non abbia bisogno di niente?
- Ha bisogno di stare a riposo e di qualche coccola fuori dalle lenzuola. – risponde in tono compiacente. Io e Fler ci guardiamo mentre lui rimette a posto boxer e pantaloni, e ci scorre un brivido identico lungo la schiena. Però non saprei dire cosa significa. – Oh, be’… - riflette poi, - magari anche dentro le lenzuola, se proprio dev’essere, ma starei lontano dal punto critico, se fossi in voi, almeno per i prossimi due, tre giorni.
Fler abbassa gli occhi e lo sento distintamente ridacchiare. Non è come la risata amara di quando piangeva. È un bel suono. Tiro il primo respiro a pieni polmoni della serata.
- Per quanto riguarda le precauzioni… - riprende il dottore poco dopo, mentre noi ci avviamo stancamente verso la porta, - vorrei darvi quest’opuscolo che potrebbe esservi utile. – si china sulla scrivania, apre un cassetto e ne tira fuori un libriccino colorato di una ventina di pagine, che sfoglia vagamente mentre si muove verso di noi.
Adesso ho voglia di tirargli un cazzotto, così, giusto per togliermi lo sfizio, ma Fler ride ancora, un po’ più convinto di prima, e lo ferma con un cenno della mano.
- Staremo più attenti, la prossima volta. – dice ironico, - Lo sappiamo, come si scopa. È che Peter era un po’ arrabbiato, stasera, tutto qua. – spiega. Io deglutisco. Non so. Cosa si fa in queste situazioni? La si abbraccia, una persona così?
Usciamo nel freddo di Berlino che devono essere le cinque passate e già albeggia. La temperatura è così bassa che perfino Fler ha difficoltà a reggerla. Anche se forse la sua difficoltà ha radici molto più profonde dell’inverno teutonico.
Raggiungiamo la macchina e m’infilo all’interno in due secondi netti. Fler perde un po’ più di tempo, resta a fissare il sedile con aria critica, prova quasi a sedersi come una persona normale ma poi ci rinuncia e si rimette nella stessa posizione da bambino scazzato che ha usato all’andata, ed io abbasso subito lo sguardo.
- Dove… - comincio a bassa voce, ma mi sento molto in imbarazzo e non riesco a concludere.
- A casa mia. – risponde lui, indovinando i miei pensieri, - Non è molto distante da qui. Saranno un quattro, cinque chilometri. Vai dritto di là. – ed indica la strada da prendere con la mano tesa, che trema un po’.
Potrebbe essere solo per il freddo. Potrebbe.
Distolgo lo sguardo – di nuovo – e seguo le indicazioni fino al suo appartamento, che è una bettola – il palazzo cade letteralmente a pezzi – e sta in una stradina laterale in cui penso non mi muoverei mai di mia spontanea iniziativa ma solo se costretto… e comunque molto armato.
- …è qui che tengono il cantante di punta dell’Aggro Berlin? – dico, fra lo stupito e l’ironico.
Fler grugnisce qualcosa di decisamente poco carino. Io penso che avrei fatto meglio a stare zitto.
Scivola fuori dalla macchina in un movimento troppo fluido per non sembrare sollevato. Mi fa male che sia così, soprattutto contando che durante il corso dell’ultimo mese era difficilissimo schiodarlo dalla poltrona, figurarsi mandarlo via dal mio appartamento. Non so, me ne rendo conto adesso che si allontana, che potrei non vederlo più e che mi mancherebbe. Cerco di evitare di pensare che queste sensazioni potrebbero essere solo un effetto collaterale dell’assenza di Bill. Facciamo che mi mancherebbe Fler. Facciamo così.
Allungo una mano quasi senza accorgermene, lo tiro per un polso e lui ne è preso così alla sprovvista che cade indietro sul sedile. Lo vedo irrigidirsi e tendersi e rabbrividire e soffocare un lamento, ma gli riesce malissimo.
- Oddio… - mi agito, sporgendomi verso di lui per controllare sia tutto a posto, - Scusami!
- Cristo, Chakuza! – si lamenta lui, spostandosi sul sedile in modo da trovare una posizione meno dolorosa, - ‘Cazzo t’è preso?
Resto in silenzio perché non ho idea di cosa dirgli.
- Mi lasci andare? – chiede Fler dopo qualche secondo, guardandomi con un misto di ansia e curiosità. Noto solo ora che lo sto ancora tenendo stretto per il polso.
- Sì… - annuisco lasciandolo libero, - Solo… buonanotte, okay?
Fler scrolla le spalle, rimettendosi in piedi.
- Quello che ne resta, almeno. – mugugna, indicando il sole ormai quasi alto nel cielo con un cenno del capo. – Fatti una dormita, Chakuza. Ne hai bisogno. – suggerisce poi. Mi muovo solo quando lo vedo sparire su per la tromba delle scale attraverso il vetro spaccato in più punti del suo portone.
*
Me lo vedo apparire di fronte la sera dopo alle nove precise e non ci voglio credere. Lo fisso per un tempo lunghissimo, mesi, anni, intere epoche, eppure la realtà non cambia. È qui davanti a me, mani ficcate a fondo nelle tasche dei jeans ed un sopracciglio inarcato con aria spavalda, come a voler rimarcare il fatto che io non me l’aspettassi ma lui, eh!, lui è proprio qui, altroché.
- Patrick…? – chiamo a bassa voce, del tutto sconvolto, continuando a fissarlo con l’aria, lo so, di un pesce lesso.
Lui fa una smorfia.
- Non devi mica fingere che siamo fidanzati, Chakuza, - sbotta acido, calcando con forza sul mio pseudonimo ed incrociando le braccia sul petto, - siamo soli, il dottore non c’è e non intendo averne bisogno in tempi brevi. Perciò chiamami col mio nome. Fler, dico.
Annuisco lentamente, come un automa.
- Be’? – continua Fler, sbuffando sonoramente, - Non mi fai entrare?
Mi scosto dall’uscio senza dire una parola. Fler mi sta guardando come fossi un cretino epocale e non mi sento di dargli torto. Sposta gli occhi da me – ringrazio parecchi santi, quando accade – soltanto per lanciare occhiate disapprovanti in giro. Stanotte – o meglio: nella fascia oraria fra le cinque e mezza e le sette del mattino – ho devastato un po’ casa. Solo un po’, ero incazzato. Voglio dire, avevo le mie ragioni. Poi ho rimesso tutto a posto, più o meno, però già che c’ero ho tolto il tappeto. Voglio dire, chi terrebbe una cosa simile in casa dopo… insomma, dopo aver combinato ciò che quella cosa testimonia?
Fler la nota subito, quell’assenza. Me la fa notare con un ghigno cattivo.
- Elimini le prove a tuo carico? – chiede furbo, sporgendosi un po’ verso di me. Io indietreggio, terrorizzato.
- Non era… - biascico incerto, - Voglio dire, non l’ho buttato, è ancora di là nello stanzino!
Fler mi spalanca gli occhi addosso e scoppia a ridere il secondo successivo.
- Chaku… calmati. – mi incita poi, muovendo qualche passo verso il divano, - Non intendo denunciarti né niente di simile. È già stato abbastanza faticoso parlarne ieri in ospedale. – rimane un attimo fermo sospeso fra il dire e il non dire, guarda il divano, la poltrona, poi me. – Me la offri una birra?
Io cerco di riacquistare le mie capacità di ragionamento basilari. Non che mi riesca del tutto, ma almeno recupero le funzioni motorie. Voglio dire, mi fa piacere vederlo. Non credevo che sarebbe successo. Non così presto. Non come fosse tutto… normale. Perché mi sembra assurdo pensarla in questi termini? È giusto che io mi senta in colpa dopo quello che ho fatto, ma negli occhi di Fler non vedo una richiesta simile. Non mi sta dicendo “pentiti!”, mi sta dicendo… non lo so. Sinceramente non lo capisco bene, cos’è che sta cercando di dirmi. Sempre che stia cercando di dirmi qualcosa, s’intende.
Annuisco e mi muovo lentamente verso la cucina. Scorgo con la coda dell’occhio Fler accucciarsi sul divano nello stesso modo in cui s’è seduto ieri in macchina. La suola delle scarpe da tennis striscia contro la fodera ma non sarò certo io a chiedergli di tirare giù i piedi.
Quando torno con la birra – una sola bottiglia, solo per lui – mi seggo direttamente al suo fianco e gliela porgo incerto. Lui la prende e la soppesa fra le mani per lunghi istanti. La guarda da ogni lato con falsa indifferenza, in realtà ci si perde un po’, fra le bollicine. Come stesse aspettando di trovare le parole giuste, o il momento più adatto per tirarle fuori.
Alla fine, torna a guardarmi e si china appena a posare la bottiglia sul tavolo.
- Ti stai comportando in maniera condiscendente. – afferma serio e quieto, accomodandosi meglio contro il bracciolo in modo da – me ne accorgo subito – mantenersi un po’ sollevato rispetto al cuscino del divano ed anche alla gamba che lo sostiene.
Chino il capo, torcendomi le mani in grembo. Un po’ vorrei tiragli uno scappellotto e cazziarlo, eh, voglio dire, dirgli qualcosa tipo “guarda che sei tu quello che si comporta in modo strano! Arrabbiati!”, ma mi rendo conto di non essere nella posizione più adatta per fare un discorso simile, perciò cerco delle parole migliori. Qualcosa che possa servire come una scusa. Non mi sembra di essermi scusato abbastanza.
- In realtà… - confesso a mezza voce, gli occhi bassi, - non ho la minima idea di cosa sto facendo, Fler. Non so cosa dirti o cosa fare con te, mi sento… insomma, capisci, è strano. Cosa dovrei fare?
Lui scrolla le spalle e mi guarda dritto negli occhi. È un’occhiata assassina, è troppo sincera. Non… non c’è neanche un cazzo di risentimento, in fondo a tutto quel celeste. Questa cosa è sconvolgente.
- Comportati come sempre. – suggerisce pacato, e sarebbe un suggerimento molto sensato e corretto se non fosse palesemente una cazzata. Non capisco, si aspetta che dica “oh, sì, certo!” e ricominci a… non lo so, gli faccia posto sulla poltrona e gli prenda la coperta e lo metta a nanna per poi rimproverarlo domattina? Per quale motivo dovrei rimproverarlo? Non si ubriaca più da secoli e l’unica cosa che gli si potrebbe additare come colpa è il non aver capito in tempo che cazzone tremendo io sia ed aver continuato a frequentare quest’appartamento.
Ma non è colpa sua, è colpa mia. Ce l’ho tenuto io, qui.
In questa situazione ci sono solo un carnefice ed una vittima. I ruoli non sono confusi. È solo colpa mia.
- Fler… - comincio, sporgendomi verso di lui e massaggiandomi una tempia. Cerco qualcosa da dire, qualcosa che suoni diversamente da “non dire puttanate!”, anche se è quello che penso. Cerco di andarci piano. Forse è un po’ confuso, dev’essere un po’ confuso. - …tu ti rendi conto di quello che ti ho fatto?
È allucinante che a fare questo discorso sia io. Allucinante.
Fler si tira indietro ed aggrotta le sopracciglia, infastidito probabilmente dall’ovvietà indegna delle mie parole.
- Sì, mi sembra di rendermene perfettamente conto, Chakuza. – butta lì freddo e spietato, sistemandosi sul cuscino nell’evidente tentativo di farmi impazzire dal rimorso.
È palese che non usciremo mai da questo discorso. È un labirinto. Lui vuole – se ho capito bene – che io sia lo stesso di sempre. Che lo tratti come se lui fosse lo stesso di sempre. Il problema è che io non sono più quella persona e non lo è nemmeno lui. Non possiamo andare avanti – qualsiasi cosa sia questa che si muove, intendo – senza prenderne atto e… accettarlo, credo. Ma Fler non vede niente, è convinto che si possa risolvere tutto con un cerotto. Con una bottiglia di birra. Tornando a comportarsi come prima.
- Senti… - borbotto, massaggiandomi la radice del naso e sospirando, - mi dispiace davvero, Fler. Non ho la minima idea di cosa mi sia preso ieri, ti giuro che non mi è mai passato neanche per l’anticamera del cervello di farti male a quel modo. E se pure avessi pensato che fra noi due potesse esserci qualcosa di simile, - sto palesemente blaterando. Vorrei che Fler mi fermasse ma lui non lo fa. – insomma, non avrei mai voluto che cominciasse in quella maniera. È stato tutto sbagliato e me ne scuso, ma tu non puoi-
Non faccio in tempo a finire la frase perché lui si sporge in avanti e me lo ritrovo pressato contro il secondo successivo. In realtà niente del suo corpo mi tocca, solo le labbra. Ma sono ferme sulle mie. Ferme e calde e sicure sulle mie. È già abbastanza per mandarmi in crisi.
Non mi muovo, comunque, resto con gli occhi aperti come un gufo e fisso il volto teso di Fler che invece gli occhi li tiene chiusi, ma non serrati. Le sopracciglia sono distese, le ciglia tremano appena. Continuo a non muovermi e questo ha un effetto collaterale piuttosto evidente: dopo qualche secondo, Fler si scosta. Si tira indietro con l’incertezza di un bambino che si è reso conto di aver fatto qualcosa di molto stupido, tipo dare fuoco alla coda del gatto coi petardi.
Riapre gli occhi sulla mia faccia basita e sconvolta e mi fissa con imbarazzo palese, stringendo le mani in grembo. La domanda muta nei suoi occhi mi sconvolge, perché non so bene cosa rispondere. “Cosa si fa?”, mi sta chiedendo. Ed io cosa devo dire? Cosa devo fare?
Mi allungo verso di lui. Rimango un po’ fermo, lo guardo. Lui mi guarda e non dice una parola. Nemmeno un fiato. Neanche un lamento, neppure quando lo afferro per le spalle e me lo tiro contro. E giuro che non so perché lo sto facendo. O meglio, lo so, ma non posso pensare a Bill anche in questo momento. Non posso farlo a Fler, non di nuovo. Non posso perché ci pensavo già mentre me lo scopavo, non posso perché ci pensavo mentre lo vedevo andare via, non posso perché è evidente che la sua mancanza mi manda fuori di testa, ma è Fler che tengo fra le braccia adesso, è Fler che sto baciando ed è Fler che ansima fra le mie labbra. Bill è il motivo, cazzo. Ma io non posso pensarci.
Chiudo gli occhi e mi lascio andare e non è per niente difficile. Fler è caldissimo, mi si stringe contro in un modo tremendamente impacciato che è similissimo al mio. Non so dove mettere le mani e non lo sa nemmeno lui, perciò andiamo completamente a casaccio e mi ritrovo una sua mano pressata forte sulla nuca e l’altra a tirarmi per la maglietta, mentre una delle mie cerca un posto sotto il suo braccio per stringerlo alla vita e l’altra si fa strada da qualche parte dietro la schiena alla ricerca di qualcosa di più caldo di un maglioncino di lana da toccare. Dio, la sensazione è quasi identica a quella che ho provato con Bill. La confusione e l’ansia e la smania di arrivare in fondo… è quasi identico. Quasi, cazzo. È il quasi che mi fotte ma è sempre il quasi che mi salva, allo stesso tempo, perciò stringo forte le palpebre ed affondo con la lingua fra le labbra di Fler, che mugola qualcosa che non comprendo e smette immediatamente di tirarmi la maglietta.
Non lo prendo come un segnale di cambiamento. Ho modo di pentirmene subito dopo, quando Fler si scosta imbarazzato e resta lì, ad un centimetro da me, il respiro pesante e gli occhi socchiusi, entrambe le mani pressate forte contro il mio petto per tenermi distante, anche se, cazzo, io continuo ad avvicinarmi neanche fosse una calamita.
- Aspetta… - mormora confusamente, cercando di scostarsi ancora, - Non… - esita appena, poi sospira, - Non voglio.
Avrebbe potuto dire qualsiasi cosa. Non me la sento, non è il momento, stiamo facendo una cazzata. Qualsiasi cosa. Ma “non voglio” è peggio di una coltellata nello stomaco. E so esattamente di cosa sto parlando.
- Patrick…? – chiamo con ansia, cercando di sporgermi ancora nella sua direzione.
- Fler. – mi ricorda lui, allontanandosi ancora, - Non voglio. – ripete poi, scuotendo il capo. – Mi lasci andare? Per favore.
Lo ammetto, esito un po’ prima di lasciarlo. Stringo la presa sui suoi fianchi – quand’è che le mie mani sono finite là sotto? – e lui viene scosso da un tremito appena percettibile di cui riconosco immediatamente le motivazioni. Solo allora lo lascio andare. E lui ha la delicatezza di non alzarsi all’istante come so vorrebbe fare. Si prende il suo tempo, invece, e mi lascia il mio. Quello di percepire il calore del suo corpo che si allontana, quello di sentirmi raffreddare contro la mia volontà, quello di prendere atto di un problema piuttosto fastidioso all’altezza del cavallo dei jeans ed anche quello di chiedermi se non sono davvero del tutto ammattito.
Mi saluta a bassa voce. Io non rispondo. Non sono arrabbiato – Cristo, in realtà sono furioso, ma non con lui – è che non so cosa dirgli. Questa situazione non mi è familiare. In nessuno dei suoi aspetti. Non sono in grado di gestirla.
Non lo guardo, mentre esce dalla porta. E penso per l’ennesima volta che probabilmente stavolta non tornerà davvero.
*
Non so che cosa sia veramente successo con Fler l'altra sera però continuo ad avere il forte sospetto che il problema sia Bill. E anche se le due cose non fossero collegate – io che mi limono Fler e Bill, dico – è comunque vero che Bill mi manca.
È una roba strana da dire, e da qualche parte credo che non dovrei dirla affatto. Non dovrebbe mancarmi Bill. Non dovrei aver limonato Fler. Non dovrei aver fatto niente di quello che ho fatto nelle ultime settimane – questo me lo dico soprattutto ogni volta che apro lo sgabuzzino e ci trovo dentro quel tappeto. Devo levarlo di lì, prima che lo trovi mia madre per sbaglio – e quando mi rendo conto di questo mi rendo anche conto che sto vivendo a casaccio e che è l'ora di finirla, in qualche modo. Chiamo Bill. Sì, lo chiamo.
Bill non si fa sentire da una settimana. Non è passato da casa, all'Ersguterjunge, non ha chiamato. Nemmeno un messaggio. Capisco che abbia tutto il diritto di comportarsi così ma sto facendo così tanti casini in così poco tempo che vorrei per lo meno parlarci. Se mi deve mandare a fanculo per quello che è successo, voglio che lo faccia. Vederlo sparire così nel nulla non mi va giù. In realtà non mi va giù neanche che mi mandi a fanculo, perché a me quello che è successo tutto sommato, non lo so... stamattina mi sono svegliato chiedendomi che cosa implica il fatto che mi sia piaciuto. Bill. Ma anche Fler. E non so nemmeno se il problema devo farmelo perché sono due, o perchè sono due uomini.
Non mi rispondo. Telefono; che non è una soluzione, ed è pure un danno perché se questa volta risponde non so cosa dirgli.
"... pronto?"
Ecco, appunto.
Mi passo il telefono da un orecchio all'altro. Sono in casa, in piedi in mezzo al salotto e, fra tutte le cose che potrebbero passarmi per il cervello, mi viene da chiedermi dove mettermi per avere quella conversazione. Non sul divano, è l'unica conclusione che raggiungo. Quindi sto in piedi, che è meglio. "Bill, sono... Peter."
Il mio nome suona sempre strano se non è lui a dirlo. Mi sento scemo a pronunciare quelle cinque lettere, perché ormai sono abituato all'altro. A Chakuza. Il mio vero nome non mi sembra più nemmeno tanto vero.
"Chaku..." lo sento inspirare e non so se è un sospiro rassegnato o se non se lo aspettasse. Se è emozionato, io ci provo a sperarlo. Mi fa male che non mi chiami Peter, però. Mi aspettavo che lo facesse. È una situazione da Peter. No?
"Ti disturbo?"
"No," risponde. Dovrei essere contento, in realtà è così incerto quando lo dice che forse dovrei prenderlo per quello che è: un modo carino di dirmi che invece lo disturbo. Solo che non lo faccio, ovvio. Un po' perché io non li ho mai capiti i velati suggerimenti e un po' perché ora che ho sentito la sua voce mi manca ancora di più. Sembra passato un secolo dall'ultima volta che eravamo seduti vicini a ridere.
"... volevo," metto il muto sul televisore. "... volevo sapere come stai."
"Bene," non lo dice con la convinzione con cui vorrei che lo dicesse e per qualche motivo me lo immagino che guarda in basso e giocherella con qualcosa a caso, tipo il laccio di una scarpa o l'orlo della maglietta. Quando è nervoso – lo so – stropiccia sempre qualcosa. Quand'era qui a cena e parlava di Bushido, finiva sempre con il piegare il bordo della tovaglia su se stesso finché non aveva più stoffa. Allora si fermava, rendendosi conto di aver ridotto la tovaglia ad un grosso serpente e rideva. La risata di quando si rende ridicolo, una specie di sbuffo, e gli diventano tutte le guance rosse.
"Dove sei?" Chiedo, cercando di far suonare la domanda casuale. Fino a quando non è successo il casino, sapevo sempre dov'era. Non si muoveva senza avvertirmi che sarebbe arrivato tardi, o a che ora sarebbe arrivato. Se andava da qualche parte, e da che parte andava. Ora che ci penso, ha passato i mesi prima della trasmissione a casa mia, e le settimane dopo in ospedale. E quando non c'era, raccontava dov'era stato. In ogni caso è stato sempre con me, in un modo o nell'altro. E' chiaro che mi manchi. Non è chiaro perché fosse così prima che gli mettessi le mani addosso. Non è chiaro perché gliele ho messe, le mani addosso.
"Sono da Tomi," mi dice.
Da Tomi non è una buona risposta. Da Tomi significa che sta male. Significa che ha pianto più di quanto sia normale che faccia, perché l'unica persona che si può sciroppare tutte le sue lacrime e che – soprattutto – sappia come fermarle, quello è Tom. All'improvviso mi chiedo che cos'abbia raccontato a suo fratello.
"Io sono a casa," gli dico, che è una cosa stupida dal momento che lui non me l'ha chiesto. E mi rendo anche conto che potrebbe suonare male, tipo che dal momento che sono qui, potrebbe venirci anche lui. Insomma, non è che l'avevo intesa così. "Cioè, così.. per dire," aggiungo. E riesco a peggiorare la situazione in molti modi diversi contemporaneamente. Tipo che faccio la figura dell'imbecille. Tipo che è chiaro a cos'ho pensato e perché ho dovuto specificare.
"Come vanno i tuoi punti?" Mi chiede lui. E lo stomaco mi fa un verso strano, mi si annoda, ecco. Poi ride, ed è ancora più bello. "Non li avrai fatti aprire di nuovo!"
Rido anche io. "No, è tutto a posto," già che ci sono uso la vetrinetta della credenza per darci un'occhiata, alzando la maglia. "Sta guarendo, devo andarli a togliere in settimana."
"Ti rimarrà la cicatrice?"
"Assolutamente sì," rispondo fiero senza nemmeno rendermene conto. Faccio una smorfia e mi do del cretino.
Lui però ride di nuovo. "Non dovresti essere tanto entusiasta," commenta, "ma immagino che per voi gangster sia motivo di vanto."
"Le cicatrici hanno il loro fascino."
"Già," la sua risata rimane, ma è un po' più spenta di prima. Capisco che stiamo di nuovo camminando su un terreno minato. "Gli altri come stanno?"
Intende Kay One ed Eko, ovviamente. E La domanda non mi sorprende, Bill si è sempre trovato bene anche con loro. Anche se Eko finge che di lui gli interessi meno della mia aragosta di peluche.
"Stanno bene," annuisco. "Sono stati a cena qui un paio di giorni fa."
"E sei riuscito ad offrire loro qualcosa di commestibile che non si muovesse già sulle sue gambe?"
"Hey, guarda che io so cucinare!" Protesto.
"Sì, ma non hai mai cibo in casa," ride lui. "Hai il metodo ma non la materia prima."
"Avevo fatto la spesa," specifico, "E hanno mangiato come maiali, per inciso."
"Beh Eko pesa poco più di me," commenta lui. "Non può aver fatto grossi danni."
Sollevo un sopracciglio. Non bene quanto lui, però. "Bill, tu mangi molto più di quanto sarebbe logicamente possibile."
"Mi stai dicendo che mangio troppo?"
"No!" E sbraito. Mi chiedo perché sbraito sempre quando sono agitato. Mi chiedo perché Bill abbia il potere di agitarmi tanto. "Sto solo dicendo che tutto quello che mangi poi non si sa dove lo metti. Ecco."
Lo sento ridere un po'. "Stavo scherzando, tranquillo."
A quel punto penso che potrei farlo, dirglielo ecco. Ci sto rimuginando da stamattina, da quando mi sono svegliato e ho pensato che fosse ora di telefonargli. Ho voglia di vederlo, e mi sembra che anche lui... non lo so, ecco. Non sembra infastidito. "Senti," comincio. E lo sento che si irrigidisce. Trattiene il respiro. Insomma, lo sento che siamo di nuovo tra le mine ma non mi fermo perché se lo faccio poi non avrò più il coraggio. "...magari potremmo prenderci una pizza una di queste sere..."
"Peter..."
Questo non è un discorso da Peter, cazzo.
"Possiamo andare al cinema, se non vuoi venire qui," mi correggo. "O andiamo a bere qualcosa. Sicuramente lo troviamo un posto in cui non ci siano fotogra-"
"Forse è meglio se non ci vediamo, per un po'," mormora. E ha la vocina sottile e dispiaciuta. Lo so che è dispiaciuto, ma io ho voglia di spaccare qualcosa lo stesso. Non gli dico niente, perché sicuramente di bocca mi uscirebbe la cosa sbagliata.
"Solo per un po'," insiste lui. La sua voce si è addolcita, sta cercando di convincermi di una cosa a cui non crede nemmeno lui. Quel poco di cui parla si trasformerebbe in molto. Forse in sempre. E tutto perché ho messo le mani dove non dovevo, quel pensiero continua a tormentarmi.
"Non succederà niente," esclamo alla fine. Non voglio rassegnarmi all'idea di una pausa. Lo so che è infantile e che me la sta chiedendo per favore, però non voglio dargliela. Ho paura che se lo lascio andare adesso e gli dico di sì, poi non lo recupererò più. "Te lo prometto, Bill."
Lui rimane in silenzio per qualche secondo. "Non puoi prometterlo," dice alla fine. "E nemmeno io."
Non posso dargli torto su questo. Non lo so cosa succederà davvero se me lo ritrovo davanti, perché nemmeno la prima volta so cos'è successo. Era lì, avevo voglia di toccarlo e l'ho fatto. Se non lo avessi fatto, questa telefonata non sarebbe mai esistita. E lui sarebbe qui adesso, sarebbe stato qui anche l'altra sera. La mia vita non sarebbe il disastro che è se io quella sera non lo avessi toccato. Eppure ho una gran voglia di rifarlo. Quindi forse ha ragione lui. Cazzo.
"Va bene," concedo alla fine, ma lo faccio controvoglia e solo perché è chiaro che se insistessi potrei ottenere quello che voglio e dovrei mantenere la mia promessa. La promessa non la manterrei. Ora lo so. La voce di Bill da sola basta a ricordarmi le sensazioni. E no, non la manterrei.
"Solo per un po'," ripete lui, ma tanto non serve a niente. "Ti chiamo io, va bene?"
Che vuol dire Non mi cercare. E nello specifico Questa è l'ultima volta che mi senti.
Non glielo dico che va bene, perché non va bene. "Io sono sempre qui, quando vuoi."
"Lo so," sussurra. Lo sento appena. E poi: "Mi ha fatto piacere sentirti."
"Anche a me."
Quando ci salutiamo gli trema la voce, e mi maledico perché non voglio che pianga. L'ho fatto piangere anche troppo nei giorni precedenti. Non gli dico niente però, perché sono nervoso e non saprei controllarmi. "Allora, ciao," mormora.
"Ciao principessa," chiudo il telefono prima di sentire qualunque cosa.
Né lacrime, né singhiozzi.
*
Non riesco più a stupirmi della presenza di Fler. Il che è allucinante, se si pensa che è effettivamente assurdo lui sia qui. D’accordo, dovrei fermarmi a pensare più approfonditamente al fatto che è stato lui a… farsi avanti andrà bene, come verbo? Comunque, a fare quello che ha fatto ieri sera. Io ci sono solo stato.
Dio.
Lancio un’occhiata all’orologio a muro, ovviamente sono le nove. Torno a guardare Fler che solleva una recipiente in plastica, quadrato e con un tappo rosa.
- Lasagne. – annuncia seriamente, - La signora Lotte mi aspettava sul pianerottolo.
Spalanco gli occhi.
- La signora Lotte ti ha dato delle lasagne per me?
- Be’, se vuoi mangiartele da solo, d’accordo, ma io non ho ancora cenato. Sempre che t’interessi. – borbotta facendosi strada all’interno del mio appartamento sgomitandomi in piena pancia.
- Attento! – blatero infastidito, - I punti!
- Tanto li togli giovedì. – scrolla le spalle posando il contenitore sul cucinino ed allungandosi verso uno stipetto per recuperare dei piatti che naturalmente non trova perché io non ho un servizio di stoviglie. Lo raggiungo e mi chino, ripescando un paio di piatti di plastica da un cassetto e posandoli accanto a lui. – Grazie. – annuisce aprendo il contenitore ed afferrando un coltello per dividere le porzioni, - Era giovedì, giusto?
Annuisco con aria assente e la mia porzione di lasagne si spiaccica sul mio piattino di plastica. La guardo: cola olio e mozzarella fusa e besciamella e tritato da ogni parte e tutto ciò è meraviglioso. Mi sale una fame boia, così all’improvviso, mangerei qualsiasi cosa. Fler mi allunga una forchetta ed io la affondo nella pasta il secondo successivo.
- Come mai così silenzioso? – mi chiede lui, osservando con aria critica lo sgabello. Ma pure seriamente, nel senso che lo squadra da ogni lato come se dovesse riprodurlo.
- Niente di particolare… - rispondo io, un po’ distratto perché mi perdo un attimo a cercare di capire cos’abbia di tanto sbagliato il mio sgabello perché Fler lo fissi in questa maniera intensa, - Fler, ma che c’è?! – chiedo alla fine, quando l’ansia si fa intollerabile.
Lui torna a guardarmi ed inarca un sopracciglio.
- Me lo dai un cuscino? – chiede quindi, indicando la superficie in legno sulla quale si suppone debba sedersi.
Potrebbe prendermi a ceffoni, di tanto in tanto. Sono sicuro che mi servirebbe.
- Subito! – mi agito, scattando in piedi e correndo letteralmente verso la camera da letto, dalla quale esco col cuscino che fa pendant con la sua coperta coi cavallucci marini. Lo agito tipo bandiera, come a rassicurarlo, sì, ce l’ho il tuo cuscino, Fler, ora puoi sederti.
Lui ride e me lo toglie di mano, arrampicandosi sullo sgabello – adesso morbido – con qualche problema di troppo, nonostante tutto.
- …come va? – mi forzo a chiedere mentre torturo le lasagne, chiedendomi se sia educato mangiare mentre si chiede una cosa simile.
Fler scrolla le spalle e manda giù una porzione di lasagne che probabilmente sarebbe stato meglio mangiare in due morsi differenti. Ma non posso fargli la paternale su questo.
- Oggi non è uscito sangue. – rivela alla fine. Non mi guarda ed io mi sento crollare qualcosa addosso e mi viene voglia di urlare.
- …ah. – annuisco imbarazzato.
- Credo sia una cosa buona. – continua lui, mandando giù un altro morso di lasagne, meno convinto del primo. Poi si volta a guardarmi e deve vedere lo sgomento nei miei occhi, perché riprende subito a parlare. – Non dovevo dirlo, mh?
- No, io-
- È che non ne parlo con nessuno. – aggiunge poco dopo, e su di noi cala il silenzio.
Annaspo.
- Sì! – cerco di dire con sicurezza, - Voglio dire, certo! Guarda che con me puoi parlarne! – annuisco deciso, - Sono contento che si stia… risistemando tutta la… situazione, mi fa piacere, ecco. Magari vieni in ospedale con me giovedì e… non so, ti fai controllare anche tu?
Fler scuote il capo.
- Io sto bene. – aggiunge, e manda giù altre lasagne. – Sul serio. Guarisco da solo.
- Fler-
- Mi hanno dato… delle cose. – è incerto, si mordicchia un labbro e i suoi occhi saettano confusi da una parte all’altra della stanza, - Intendo, lo so come devo curarmi. Non ti preoccupare.
Annuisco e lui finisce le lasagne mentre le mie sono ancora tutte qui. E dire che avevo fame sul serio.
Scende giù dallo sgabello e butta via il piattino, per poi dirigersi tranquillo verso il lavandino e cominciare a lavare la forchetta. Quando ha concluso mette le mani pure sul contenitore ormai vuoto ed unto, e mi sale un qualcosa dentro che mi fa scattare in piedi e muovermi verso di lui.
- Aspetta, aspetta… - sussurro, sfilandogli il contenitore di mano e chiudendo il rubinetto, - Non metterti a lavare i piatti, dai… - suggerisco con un sorriso.
Fler scrolla ancora le spalle e continua ad evitare i miei occhi.
- Era giusto per fare qualcosa. – dice, e nel suo tono c’è una certa ansia che non saprei identificare.
- Be’, lascia perdere. – dico, tirandolo un po’ verso il divano, - Faremo altro.
Fler si agita ancora, sento chiaramente che mi sta sfuggendo dalle mani e non ci sto.
- Okay, forse è meglio che me ne torni a casa. – borbotta, ma no, non voglio che se ne vada a casa. Dobbiamo risolverla, questa cosa, dobbiamo risolverla adesso o non ne usciremo davvero più.
Mi fermo e lo fronteggio, lo guardo dritto negli occhi e non intendo lasciarlo andare via prima di aver… concluso qualcosa. Qualsiasi cosa.
- Senti, non c’è bisogno di fare così. – dico con sicurezza, - Non voglio… farti male. – e stringo la presa sulle sue spalle. Solo che dopo scendo un po’. All’altezza dei gomiti. È troppo tardi quando mi accorgo di starlo stringendo per i polsi, lo sto già facendo. Non posso scendere più in giù di così, alle mani non posso arrivare, perciò mi accontento.
Fler deglutisce.
- Lo… lo so. – ma è incerto.
- No, non lo sai.
- No, no, credimi, - borbotta, cercando di liberarsi i polsi, - lo so che non era tua intenzione e che non ci pensi nemmeno a farmi niente, l’ho capito, stai tranquillo, sono solo-
Il calore umido della sua lingua lo incontro subito perché stava parlando senza guardarmi. Quindi non mi ha visto avvicinarmi. Non se n’è accorto. Ed è stato facile scivolare dentro di lui, perché era esattamente quello che volevo ed è facile zittire qualcuno che blatera così. Stringo e me lo tiro un po’ contro, Fler lancia un mugolio incerto ma quando schiudo gli occhi per controllare se sia con me vedo che lo è. Lo è eccome. Le palpebre sono distese e chiuse e le sue labbra si muovono morbide seguendo le mie.
Cristo, perché me lo lasci fare, Fler?
Lascio i polsi e lo stringo alla vita, è sottile per essere quella di un uomo, e lo attiro contro di me. Ci scontriamo l’uno contro l’altro e dal mio bacino parte una scarica elettrica che si diffonde nello stomaco e poi lungo le braccia, che scattano e lo stringono con più forza. Fler solleva le mani e le posa sulle mie spalle. Non stringe e non mi spinge, si posa lì e basta.
Mi muovo un po’ in avanti perché voglio trovare una superficie – una qualsiasi – contro la quale posarlo, perché voglio… non lo so nemmeno io cosa voglio ma voglio più libertà e stando così in mezzo alla stanza non ce l’ho, perciò avanzo ed alla fine trovo una parete, che non sarà il massimo della comodità ma almeno è solida e liscia. Fler ci si adagia contro ed io mi spingo contro di lui e rivoglio quella scarica lì, quella che ho sentito quando mi si è spinto addosso, arrivo a sentirla e mi ci perdo.
E lui allunga le mani e mi allontana. Un gesto secco ed affatto fraintendibile. Un attimo gli sono addosso, l’attimo dopo mi sta guardando come se non sapesse come darmi due di picche.
Vorrei dirgli che sto cominciando a farci il callo e di non preoccuparsi. Lascio perdere – mi chiedo quanto suonerebbe ridicolo e decido che sarebbe tanto.
- Pa- - comincio, ma mi fermo subito. – Fler?
- È tutto okay. – mi rassicura immediatamente lui, annuendo un po’ incerto, - Solo… basta così, per oggi, d’accordo?
Annuisco anche se vorrei mettermi ad urlare, nell’ordine, sull’okay che non esiste – perché niente è okay – sul basta così che non mi va giù – perché sono palesemente fuori di testa – e sul per oggi che mi fa ammattire su così tanti livelli che non posso nemmeno stare a contarli tutti.
- Senti, posso dormire qui stanotte? – mi chiede titubante.
Continuo ad annuire come uno stupido piccione e gli faccio strada verso la camera da letto – sono fuori di testa, è palese – se non che lui mi tira per la maglia e mi ferma ed io per poco non cado per terra ma mi volto a guardarlo come nulla fosse.
- Sì…? – cerco di informarmi sperando di non suonare come un completo deficiente, ma non mi viene bene.
- Dormo in poltrona. – annuisce tranquillo lui, - Mi dai solo la coperta?
Lo fisso.
- Ma non stai scomodissimo? – chiedo.
- No, va bene. – insiste lui, - Sul serio. Mi dai la coperta?
Penso che dovrei chiedergli perché non vuole tornare a casa sua. Ma ho un po’ paura di sentirmi rispondere che il problema non è che non vuole tornare a casa propria, ma che vuole restare qui nella mia. Il che è… decisamente troppo perché io possa decidere di affrontarlo adesso e con coscienza.
Sparisco in camera da letto e quando torno con la coperta lui s’è già rannicchiato in poltrona in una posizione incomprensibile. Lo copro e resto seduto sul divano finché non sono sicuro che dorma.
*
È giovedì. Gli ultimi tre giorni della mia vita sono riassumibili in pochi semplicissimi concetti e la mia mente è così stremata che ringrazio di essere ancora in grado di formularli.
Niente Bill. Che è in assoluto la cosa peggiore. Perché vuol dire che avevo ragione a pensare che “un po’” sarebbe diventato “sempre”. E non riesce ancora ad andarmi giù.
In compenso, Fler è venuto qui ogni giorno ed ogni notte s’è fermato a dormire. Sempre in poltrona. Ogni sera ha portato qualcosa da mangiare, tranne martedì, che s’è presentato senza niente ed io sono andato nel panico perché non c’era niente di veramente commestibile in tutto l’appartamento – forse la piantina di bambù che mi ha portato mia madre domenica, ma non sono sicuro che non sia già marcita anche quella. Alla fine gli ho fatto un uovo. Ce n’era uno solo, l’ho fatto a lui. Ha insistito per darmene a mangiare metà ed abbiamo passato il resto della notte piegati sul cesso a vomitare. Mercoledì, naturalmente, s’è presentato lui con del cibo chiesto palesemente in elemosina alla signora Lotte, che comunque l’ha preso in simpatia e lo fa con piacere.
Io sono tornato due ore fa dall’ospedale. I punti non ci sono più, è rimasta una striscia di pelle di un colore completamente differente rispetto al mio. È così diverso che sembra non mi appartenga neanche. Ma è un po’ una ferita di guerra e… me la sono procurata per Bill. Perciò resta dov’è, poco da fare.
Fler e ciò che sembra un’intera coscia di capretto attraversano puntualmente la soglia di casa alle nove. Fler sorride. Il capretto profuma di rosmarino.
Il terzo concetto base che sarebbe il caso io smettessi di farmi casualmente sfuggire di quando in quando, è che io e lui – Fler, non il capretto – continuiamo a saltarci addosso da quando ha stabilito che può dormire sulla mia poltrona. Prima o dopo succede comunque, e la cosa si muove sempre nello stesso modo. Io mi avvicino – o lui si avvicina – io lo sfioro – o lui mi sfiora – io lo bacio – insomma, ci baciamo – e poi lui mi allontana. E non è facile, non è facile neanche per un cazzo separarti da un corpo caldo che ti si stringe contro confondendoti al punto che non sai più neanche su che superficie lo stai schiacciando, non è facile fermarti anche se l’altra persona ti fa capire chiaramente che non vuole più andare avanti.
Mi sembra assurdo metterla in questi termini ma sono così frustrato che penso potrei esplodere. Così la scena che ha luogo fra me e Fler è del tutto surreale.
- Ho portato il capretto! – dice lui con entusiasmo, - Ti hanno tolto i punti?
- Sì, sì. – dico distrattamente io, avvicinandomi, - Ma quanti chili di capretto sono?
- Non così tanti… - borbotta lui soppesando l’enorme cosciotto con gli occhi. Questo non è un capretto, peraltro, come minimo è un vitello. – Comunque ora ci mettiamo qui tranquilli e lo mangiamo, se resta… no, non lo conservo nel tuo frigorifero. Finiamolo tutto. – annuisce alla fine.
- Ma non finirà mai! – mi sporgo e cerco di metterlo via, - E poi non ho fame!
Non so perché sto facendo così. Non è che voglia saltargli addosso, sono solo incredibilmente nervoso, voglio darmi qualcosa da fare e se questo qualcosa sarà tagliare fettine dalla coscia del capretto gigante geneticamente modificato fino a domattina per poi avvolgerle nel cellophane e metterle in freezer, d’accordo.
Ho voglia di urlare.
- Come mai non hai fame? – chiede Fler curiosamente. Ed io ho ancora più voglia di urlare. – Non ti senti bene?
- Sto benissimo! – ansimo agitato, mettendo le mani sul capretto e tirandolo via, - Parliamo d’altro! Tipo, fa un freddo cane, ti pare? Accendo i termosifoni.
- Non funzionano. – mi informa lui, cercando nuovamente di raggiungere il capretto. Io riprendo a tirarlo via. Mi sembra di stare giocando.
- Come non funzionano? – chiedo allibito. È casa mia, saprò cosa funziona e cosa no.
- Sentivo freddo ieri ed ho provato ad accenderli, ma niente. Dovrai sistemarli.
Per un attimo accarezzo l’idea di strillare “be’! visto che palesemente conviviamo e l’unica cosa che ci manca per dichiararci coppia di fatto è che, Cristo santo, non si scopa neanche a morire, direi che mi aiuti tu a sistemarli, i fottuti termosifoni, no?!”, ma poi lascio perdere. È evidente che non posso dire una cosa del genere. Piuttosto mi butto dalla finestra.
- …insomma! – biascico, e vado ad abbattermi sulla poltrona.
Fler mi viene vicino lasciando perdere finalmente il dannato capretto, e mi fissa con aria preoccupata.
- Chakuza, tu non stai bene. – annuncia seriamente, chinandosi un po’ verso di me, - Vai a letto, guarda, domani mattina ti sembrerà tutto più semplice. – annuisce convinto. Non so di cosa cazzo stia parlando. Probabilmente s’è convinto io sia ubriaco.
Non sono lucido, è vero, ma l’alcool non c’entra. Rilasso le spalle e mi passo una mano sugli occhi, sospirando pesantemente. Fler sospira a propria volta e resta dritto davanti a me, le mani sui fianchi, chiedendosi probabilmente cosa dovrebbe farsene di questa versione isterica di me stesso. Mi chiedo cosa dovrei farmene anche io. Mi servirebbe una doccia congelata.
Ed invece sollevo le mani e gliele stringo attorno alla vita, accarezzandogli vagamente i fianchi con i pollici.
- …ah. – prende atto lui, e resta immobile.
- …“ah” non è una risposta, Fler. – mi sgonfio io, stremato.
Lui trasale.
- Ma vuoi pure una risposta?! – chiede allucinato.
- Senti, ha senso non parlarne?! – chiedo io, ugualmente allucinato, tornando all’improvviso a guardarlo negli occhi.
Lui non se l’aspetta, tant’è che lo trovo che mi guarda con l’aria di una quattordicenne che non abbia proprio capito per quale motivo l’insegnante di ginnastica continui a fissarla con quegli occhi strani.
- Fler, mi dici qualcosa? – chiedo esasperato, stringendo la presa sui suoi fianchi, - Una qualunque cosa! Mandami a fanculo, se preferisci, però così non può continuare.
Lui esita. Mi guarda ancora un po’, poi si china su di me e cerca le mie labbra.
D’accordo, non è una risposta. Ma chi se ne frega.
Lo attiro per la nuca, lui si stupisce giusto per un attimo – è un attimo di rappresentanza, sapeva che l’avrei fatto – e poi, visto che la posizione così è scomoda, incastra le ginocchia ai lati del cuscino, vicino ai braccioli, così che sta a cavalcioni sopra di me ma non mi sta seduto addosso, che è una cosa intollerabile perché sta un casino lontano ed io invece me lo voglio sentire addosso sennò do di matto.
Faccio per tirarlo verso il basso e mi preparo a costringerlo se si rifiuta, ma non si rifiuta. Battiamo l’uno contro l’altro ed è la solita scarica, solo che poi continua, perché lui si muove ed ottiene uno strusciamento che Dio, mi manda in blackout, perciò lo tengo stretto per i fianchi e comincio ad odiare i vestiti, tutti, in blocco.
Decido che qui non possiamo più stare e scatto in piedi. Me lo trascino dietro, chiaramente rischiamo entrambi di morire perché non si può pretendere di alzarsi insieme da una poltrona e sopravvivere, comunque sopravviviamo per un qualche miracolo che non comprendo ed io comincio a spingerlo verso la camera da letto. Non mi sono ancora staccato dalla sua bocca neanche per un secondo. Non ci stiamo toccando moltissimo, per la verità, suona tutto un po’ troppo strano per prenderlo normalmente, però capita di sfiorarsi a caso, di tanto in tanto, ed i brividi sono fortissimi.
Non ci arriviamo, in camera da letto, Fler si abbatte contro la parete di fronte incespicando sulla moquette rovinata del corridoio ed io gli vado dietro, mi schiaccio contro di lui e lo sento che si ancora con un braccio al mio collo per non cadere. Non ci capisco molto, ho gli occhi chiusi, lui lancia un piccolo lamento ed io mi stacco dalle sue labbra – che sono gonfissime, Dio mio – e scendo a caso a morderlo sul collo, pure con una certa violenza, ma lui non sembra lamentarsi ed io penso Cristo, Cristo, Cristo, ci siamo, e dura tipo tre secondi.
Tre secondi sono il tempo che impiega Fler a schiudere gli occhi e visualizzare la camera da letto. Questi tre secondi li usa anche per irrigidirsi tutto, piantarmi le mani sul petto e spingermi via, come al solito.
- Fler… - mugugno affranto, perfettamente consapevole di stare riducendo in ginocchio la mia dignità, anche se alla fine mi pare di aver poco da perdere, nella situazione contingente, - cazzo, lo vuoi anche tu… - e non ho nemmeno il tempo di realizzare quanto stronza e cretina e fuori luogo suoni questa frase, che sono lontano già più di venti centimetri ed il calore del suo corpo non lo sento neanche per sbaglio.
- Forse è meglio che torni a dormire a casa mia. – borbotta confusamente, cercando di allontanarsi dalla parete senza per questo doversi avvicinare a me. Capisco che vuole veramente andarsene e cazzo, mi allontano. Cosa devo fare? Mi allontano e basta, cazzo.
Fler si muove lungo il corridoio ed io lo fisso e non so se vorrei uccidere lui o ammazzarmi da solo. Comunque non lo fermo. Quando sento il clack della porta che mi annuncia che è andato via, in compenso, mi dirigo serenamente verso il salotto e comincio metodicamente a distruggere casa. Prima i soprammobili – ormai mia madre porta solo roba di gomma. Qualsiasi cosa rimbalza sul pavimento e si perde sotto i mobili, ma non si rompe niente – poi i mobili – rovescio tutti gli sgabelli, uno dopo l’altro, ci finisce di mezzo pure il cosciotto del capretto geneticamente modificato che cade per terra e no, non si rompe ma di sicuro non sarà più mangiabile. Non so quanto tempo passi, so che me la prendo pure con i fornelli e con le cassettiere e so che per tutto il tempo non faccio che darmi del cazzone e non so neanche perché. Continuo ad avere difficoltà ad identificare il motivo del mio scazzo. Non so più neanche se è solo colpa di Fler. C’è ancora Bill, Cristo, è ovunque. È come se tutto partisse da lui. Non ce la faccio più.
Non so quanto tempo è passato quando arrivo di fronte alla poltrona. Mi viene voglia di farla a pezzi e bruciarla, almeno mi scalderei, ma poi la prendo per le gambe e la ribalto, sto accarezzando l’idea di saltarci sopra, sono sudato ed ansimo e non so come, sopra i miei respiri e sopra la rabbia, riesco comunque a sentire il campanello.
Fisso la porta con aria allucinata per un tempo lunghissimo, ci metto un po’ a rendermi conto che mi tocca comunque andare ad aprire. Prego in svariate lingue che non sia la signora Lotte – potrei averla svegliata. O qualche altro inquilino del palazzo, chissà fino a dove s’è sentito l’eco della devastazione.
E invece è Fler. Lo guardo e non riesco a realizzarlo, ma è lui. Mi fissa come non sapesse che dirmi, poi lancia uno sguardo all’appartamento, spalanca gli occhi e schiude le labbra.
Vorrei mandarlo a fanculo ma, quando apro la bocca, esce una cosa completamente diversa.
- Sei tornato…
Lui torna a serrare le labbra ed annuisce, semplicemente.
- E questo significa? – cerco di capire io, stringendo una mano attorno alla porta.
Palesemente non sa cosa dirmi. Abbassa lo sguardo, si tortura il bordo della felpa con le dita, poi torna a guardarmi e si fa avanti. Pressa le labbra contro le mie e sinceramente non mi serve sapere altro. Se mi manda in bianco di nuovo, però, giuro che l’ammazzo.
Mentre lo strattono con poca delicatezza verso la camera da letto – almeno quello posso offrirglielo – Fler cerca di ricavarsi lo spazio per qualche domanda fra le mie labbra.
- Chakuza… - ansima incontrollatamente, - ma come facciamo?
- In qualche modo. – rispondo deciso io, cercando di zittirlo, - Poi ci pensiamo.
- Poi è adesso. – insiste lui, cercando di allontanarsi, - Senti, è pericoloso, forse-
- Cristo. – lo interrompo, posandogli una mano sulla nuca e fermandomi un attimo prima di baciarlo ancora, - Sei tornato. Un modo lo troviamo. Non sarò… faccio attenzione, ok?
Lui esita un secondo e poi annuisce, io non ho la minima idea di cosa sto facendo né di cosa farò a breve ma lui mi lascia fare e finché lui mi lascia fare io sono a posto. Si stende sul letto ed io mi stendo sopra di lui, mi reggo sulle braccia e mi chino solo per baciarlo, non lo tocco quasi. Questa cosa non ha senso e non mi interessa. Lo prendo per un fianco e lo spingo di lato, spero che capisca che voglio che si giri perché non posso dirglielo ad alta voce.
Grazie a Dio lo capisce, lo vedo voltarsi ed affondare il viso contro il cuscino. Da qui in poi so come si fa, non bene ma posso intuirlo. Lo spoglio appena, solo quello che serve, la situazione è già abbastanza assurda così com’è e possiamo prenderla solo come una soddisfazione momentanea, se non ci spogliamo del tutto. Voglio dire, cazzo, sono giorni che mi tira scemo. È una soddisfazione e basta. Non è niente di che.
Cerco di fare piano. Il preservativo lo trovo in fondo al cassetto. Non ricordavo ci fosse, lo speravo e basta. Cerco di lubrificarmi con un po’ di saliva – abbondante, okay, lo ammetto, sono terrorizzato, cazzo – non so esattamente quanta ne serva, direi che vado ad intuito. Spero di non combinare disastri.
Mi fermo al primo gemito. Fler lo soffoca contro il cuscino ma io lo sento lo stesso. Non gli chiedo se devo smettere perché non voglio smettere. Prego che mi lasci andare avanti. Ma è un po’ difficile rispondere “no” ad una domanda che nessuno ti pone, perciò io non chiedo e lui non risponde. Lo prendo per un assenso e mi muovo ancora.
- Piano. – mormora lui, ma non solleva il viso dal cuscino. Non so cosa fare. Avanzo piano, è l’unica cosa cui riesco a pensare; questa, e quanto sia simile la sensazione rispetto a quella che ho provato la prima volta. Sentirlo aprirsi al mio passaggio è ancora inebriante. Sentirlo tendersi sotto di me è eccitante.
Faccio sinceramente fatica a tenermi fermo.
E quando lo vedo scendere ad accarezzarsi fra le gambe tiro un sospiro di sollievo e comincio a muovermi più velocemente. Mi piego su di lui e scorgo un pezzetto della sua faccia – l’espressione è tesa ed addolorata – non sta bene proprio per niente ed ho il timore che accarezzarsi non sia altro che una distrazione neanche tanto efficace. Vorrei poter fare di più, vorrei provarci almeno, ma non lo faccio. Continuo a spingere ed a me, cazzo, piace tantissimo. Lui ansima e geme ma non sta bene. Non sta bene ed io dovrei smetterla di essere la causa di questo suo non stare bene.
Cazzo.
È così stretto che mi muovo a stento.
Al momento spero solo che non sanguini.
Vengo e lui probabilmente nemmeno se ne accorge. Lui non viene affatto. Smette di accarezzarsi nel momento esatto in cui io smetto di spingere, confermando che sì, si trattava solo di una distrazione.
Tutto ciò è deprimente.
Non posso neanche dire non sia stato bello. Ma cosa cazzo è stato?
Mi seggo sul materasso al suo fianco e lui rimane immobile a lungo, si prende un sacco di tempo solo per riprendere fiato. Almeno non sanguina. Non sembra nemmeno felice, comunque. Rimango in silenzio ed aspetto che sia lui a dire qualcosa. Il problema è che non dice niente. Passato qualche minuto, tira su i jeans e si rimette in piedi.
Lo fisso, sconvolto.
- Fler? – chiedo, - Dove… come va?
Se mi sta guardando, non lo so. È buio, non lo vedo.
- Tutto a posto. – dice a bassa voce.
- Sì, okay. – insisto io, - Dove stai andando?
Solleva un braccio, indica la porta della stanza.
- Sulla poltrona. – risponde piano, - La coperta… - si china a recuperarla dal comodino dove l’ha posata lui stesso stamattina, prima di andare via.
- Aspetta… - mi agito e mi rivesto, allungandomi sul materasso verso di lui, - Non puoi andare sulla poltrona, Fler-
- Sto bene. – mi interrompe lui. È durissimo. Mi fermo come paralizzato, lui se ne accorge e sospira, moderando il tono di voce. – Sto bene. – ripete, più conciliante, - Preferisco dormire lì. Dormo meglio. – sorride, sento lo sbuffo nel buio. – Buonanotte.
Vedo solo la sua sagoma che si allontana. Fler non dimentica di chiudersi la porta dietro alle spalle, quando se ne va.

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Staatsfeind Nr. 1

di lisachan
Sono le sei del pomeriggio circa. In realtà non so, potrei anche stare cannando completamente orario – il che sarebbe molto male, visto che ho un appuntamento in Alexanderplatz fra mezz’ora e come ci arriverò in tempo è un mistero. Comunque sia sono entrato in questa casa verso ora di pranzo portando con me un tipo di pasta che non avevo mai visto in vita mia ma che la signora Lotte mi aveva assicurato essere meravigliosa. In realtà né io né Chakuza sapremo mai di cosa sapesse quella pasta quando era calda e buona da mangiare. Abbiamo fatto altro appena sono arrivato – praticamente sulla soglia della porta. Ci sono momenti in cui ci penso e mi viene da ridere – poi abbiamo provato a mangiare ciò che era diventato un impasto gelido e colloso dal colore verdastro per nulla invitante, ma ci abbiamo rinunciato subito. Ci siamo svaccati sul letto ed è lì che siamo rimasti a parlare del nulla assoluto – non saprei richiamare alle mente nemmeno un argomento di conversazione spuntato fuori nelle ultime due ore – fino a quando non ho commesso il grave errore di sporgermi verso di lui per recuperare l’orologio da polso abbandonato sul comodino e controllare l’orario e, prima di riuscirci, mi sono sentito tirare verso il basso con una forza ed un’urgenza addirittura preoccupanti. E lì poi il senso del tempo l’ho perso del tutto.
Mi infilo la maglietta ed ho appena il tempo di sistemarmi i capelli quando la testa viene fuori dal colletto, che mi sento tirato all’indietro per un lembo e quasi cado di nuovo sul materasso. Mi volto e c’è Chakuza che mi fissa con l’aria di un ragazzino furbo e molto divertito. Mi strattona a intervalli regolari di due secondi e poi d’improvviso cambia il ritmo nell’evidente tentativo di sbilanciarmi.
- Be’? – chiedo, tirando l’orlo della maglia sul davanti, visto che il fatto che lui la tiri da dietro mi riduce continuamente seminudo, - La piantiamo?
- Eddai, resta! – continua a ridere, prendendomi palesemente in giro e continuando a tirarmi, - Tanto non hai niente da fare!
- E invece se proprio vuoi saperlo ho un appuntamento! – borbotto offeso, sottraendomi a questo ridicolo tira e molla ed abbottonando i jeans un attimo prima che la gravità riesca a farli cadere sul pavimento.
Chakuza inarca un sopracciglio, incerto.
- Donna?
Io sospiro e vorrei quasi rispondere “una specie”, ma mi trattengo.
- Sido. – rispondo. E sto mentendo. – Ti risulta femmina?
Lui annuisce, prendendo atto.
- Ma tu cosa c’entri con l’Aggro Berlin, Fler? – butta lì curiosamente, sistemandosi meglio sotto il lenzuolo, - Sono palesemente i cattivi di Berlino. Tu sei una specie di bambino sperduto.
- Tu che sei suor’Anna di carità cosa c’entri col rap? – rispondo acido, recuperando la felpa dall’angolo di letto in cui è finita. La apro per infilarla. – Chakuza, l’hai sporcata, cazzo! – mi lamento, tirandogliela addosso, - Quante volte ti devo dire che se mi togli i cazzo di vestiti devi buttarli in un posto in cui non possono sporcarsi?!
Lui impallidisce e si passa una mano sugli occhi.
- Fler, tu sei troppo schietto. – commenta fra il disperato e il rassegnato, - E comunque non posso averla sporcata io. Io non posso aver sporcato niente, sei tu quello che si sparge costantemente sul materasso.
Arrossisco e spalanco gli occhi, sento il calore ovunque sul viso.
- Chi è schietto, poi? – sospiro stremato. – Non posso andare in giro in maglietta, Chaku. Si gela. – gli faccio notare poi, stringendomi nelle spalle.
Lui indica casualmente l’armadio di fronte al letto.
- Prendi una delle mie felpe. – suggerisce.
- Potresti anche fare qualcosa, di tanto in tanto. – borbotto io, raggiungendo comunque l’armadio e rovistando all’interno alla ricerca di qualcosa che non sia irrimediabilmente corto di maniche.
- Non intendo rivestirmi. – si lamenta lui, stiracchiandosi sul materasso, - E non intendo neanche andare in giro nudo.
- Tanto, a meno che non sia spuntato qualcosa di nuovo negli ultimi dieci minuti, ho già visto tutto. – lo prendo in giro, infilandomi una felpa rossa che giudico abbastanza anonima perché il mio appuntamento non possa riconoscerla.
Ci credo poco. Ci spero, comunque.
- Torni a cena? – chiede vago in un mezzo sbadiglio.
- Punto primo: - mi volto io, sul piede di guerra, piantando un pugno sul fianco, - non ne hai ancora abbastanza, della mia presenza? – Chakuza ride. – Punto secondo: se vuoi mangiare la roba della signora Lotte, schioda il culo e valla a prendere! – Chakuza mi tira un cuscino ed io lo evito. – Punto terzo: - ed ora comincio a blaterare, lo so, perché non avevo un punto terzo ma faceva figo dirlo, dopo il cuscino evitato. - …dovremmo cambiare posto all’armadio. – butto lì. Mi do del cretino due secondi dopo, ma almeno ho detto qualcosa.
Chakuza mi guarda con aria allucinata.
- E perché? – chiede. Giustamente.
- …non cade bene la luce nella stanza. – motivo, del tutto a caso. – Cadrebbe meglio – ma che cazzo sto dicendo? La luce non cade! Che cazzo ho in testa? – se fosse tipo lì. – indico un punto random vicino al letto, - Capito?
Lui annuisce lentamente, come si fa coi pazzi. Mi prendo il mio assenso condiscendente e sospiro.
*
Sono per strada due minuti dopo e congelo. Congelo tipo all’istante, appena metto piede fuori dal palazzo di Chakuza. Odio dovermi muovere a piedi ma è questo il dramma di quando mi fermo a dormire qui. Cioè, non è come passare per caso mentre vado a lavorare, io vengo qui e non mi muovo fino al giorno dopo, perciò visto che non abito tanto lontano vengo a piedi ed evito…
…va be’.
Comunque sto andando da Bill e di sicuro non potevo dirlo a Chakuza. Tanto non credo abbia ancora preso l’abitudine di chiamare Sido per chiedergli se sono davvero con lui o se per caso non sono scappato da qualche altra parte. E lui e Bill… di sicuro in quest’ultimo periodo non si sentono granché. Perciò posso ragionevolmente pensare che questa piccola bugia non verrà mai alla luce.
So che è da cretini dirlo adesso, e infatti non lo dico, non l’ho mai detto neanche a Bill, che comunque è un ragazzino intelligente e quindi non ha bisogno delle conferme verbali, il più delle volte, comunque io non ho mai avuto un problema con Bill Kaulitz. In un periodo in cui tutto il mondo aveva un problema con chi Bill era e con come si conciava, il mio unico problema era che lui fosse il tipo con cui Anis andava a letto. Per quanto assurdo e malato possa sembrare, non era un problema di gelosia, era un problema di appartenenza ad un certo gruppo. Un problema di ideali, in un certo qual modo. Non sto dicendo che uno non possa andare a letto coi maschi - … - sto dicendo che tu non puoi dare del frocio a destra e a manca a chi t’ha aiutato ad emergere dalla merda in cui stavi sepolto da adolescente, e poi diventare frocio davvero. C’è qualcosa di sbagliato in questo. Era questa, la cosa che non concepivo.
…e poi avevo bisogno di un pretesto per insultarlo. Un pretesto che suonasse diverso dal “mi hai mollato senza un fottuto perché”. Perché dopo cinque anni cominciava a perdere in forza, come argomentazione per le diss.
Insomma, in definitiva io Bill non l’ho mai odiato. Non gli ho mai voluto male neanche per un cazzo. In buona sostanza lo trovo pure vagamente tenero, è un cosino piccolo che non c’entra niente con tutto questo e che s’è visto morire l’amore della vita fra le braccia, e insomma, anche se non ero lì anche io più o meno lo so come ci si sente in questi casi. Quindi mi dispiace pure.
Mi dispiace anche di più perché comunque non sono mai stato un cretino e, fra le tante cose che Anis m’ha insegnato, c’è anche la capacità di capire al volo le situazioni. Perché è più facile sbrogliare i casini quando capisci subito il problema.
Stavolta non ha aiutato – io il problema l’ho capito subito ma non sono stato in grado di arginarlo. Io l’ho capito subito che fra Bill e Chakuza c’era qualcosa. L’ho capito probabilmente prima che lo capissero loro.
Non è giusto quello che io e Chakuza stiamo facendo a Bill.
Non è giusto neanche quello che stanno facendo Bill e Chakuza a loro stessi, comunque.
Bill mi chiama sul cellulare e mi strilla entusiasta che s’è ricordato di un posto meraviglioso in Oranienburgerstraße.
- Si chiama Cafè Zapata, ci sono stato solo una volta con Anis ed è bellissimo! Mi raggiungi lì? Sono già seduto! – che suona più o meno come “non vorrai mica farmi alzare per andare altrove?!”.
- Bill, - sospiro, - Bushido aveva i soldi che gli crescevano pure nelle mutande. Quanto intendi farmi spendere per una cioccolata calda?!
- Ma possibile che tu sia sempre squattrinato? – borbotta lui. Lo immagino già con un broncio enorme e le braccia incrociate sul petto, - Che razza di rapper sei?
- Quello che non ha mollato l’etichetta per diventare multimilionario. – gli ricordo, e Bill ride. Mi piace che rida alle battute che faccio su Anis. In realtà mi piace che, per noi due, parlare di Anis sia ancora normale. Non lo facciamo con nessun altro.
- Avanti, offro io. – mi rassicura lui, ed io biascico qualcosa ma poi mi ricordo che sono uscito tipo con venti euro nel portafogli stamattina, perciò tanto vale lasciarlo fare, il ragazzino è meglio della zecca dello stato quanto a produzione di banconote.
- D’accordo, arrivo. – e quando arrivo lo trovo tutto stretto in un piumino enorme, gli occhiali da sole calcati sul naso ed un berretto di lana a cuffia che gli schiaccia tutti i capelli attorno al viso. Un paio di ciocche nere svolazzano a causa del vento debole ma penetrante che spazza la via, e Bill se le scosta infastidito dalle guance e dal naso quando sente il solletico.
Sollevo una mano per farmi notare e lui sorride appena mi individua, rispondendo con un ampio gesto del braccio.
- Ma perché ti sei seduto fuori, perdio? – mugolo disperato, stringendomi nella giacca e facendomi minuscolo sulla sedia gelata del cortile esterno del bar, - Ci sarà un cazzo di grado centigrado ed in questo cazzo di cafè c’è anche la galleria d’arte! Perché siamo qui?!
Bill sorride appena, stringendosi nelle spalle.
- Era estate, quando sono venuto qui con Anis.
E questo dà senso alla sua scelta e toglie forza alle mie polemiche, perciò sto zitto.
Io e Bill abbiamo preso quest’abitudine di vederci, da quando lui e Chakuza hanno smesso di farlo. Per quanto possa sembrare assurdo, non è stato lui a cercare me nella speranza di estorcermi qualche informazione su come stesse Peter o chissà che altro – anche solo per sentirsi di nuovo un po’ vicino a lui tramite me, chissà. Sono stato io a chiamarlo. Perché quando Chakuza mi ha chiesto di proteggere il ragazzino non intendeva soltanto “metterlo in salvo in caso di pericolo”. Ed anche se lui lo intendeva, non è questo che si intende con “proteggere”, per me. Proteggere vuol dire che mi preoccupo. Proteggere vuol dire che ci sono se ti servo ma anche se non ti servo, giusto per vedere se hai bisogno o meno. È una cosa complessa ed è una cosa che possono fare solo le persone oneste.
Io sono finito nei guai con la legge un bel po’ di volte, ma sono una persona onesta. Anis, prima di diventare uno stronzo, mi ha insegnato ad esserlo. È la parte di lui che non ho perso, e me la tengo stretta.
È stato in un’occasione simile – ma eravamo in un pub, era sera e c’era decisamente più caldo – che ho chiesto a Bill di raccontarmi come fosse morto. Ho visto i suoi occhi brillare all’improvviso e l’ho visto tendersi e irrigidirsi tutto come avessi provato a pungerlo con cattiveria, ma poi l’ho visto sciogliersi e sorseggiare piano la sua cola al limone, le dita a disegnare figure astratte sul legno ruvido del tavolo, mentre a mezza voce mi diceva del suo arrivo, del sangue, dei baci, della cassetta del pronto soccorso, del letto. Dei proiettili. Del suo sorriso. Del suo respiro sottilissimo.
Gli ultimi istanti della vita della persona più importante di tutta la mia intera esistenza. Una persona che avevo perso, da qualche parte, ma che era sempre rimasta dentro di me, in qualche modo. Quelli erano i suoi ultimi battiti. Le sue ultime parole. I suoi ultimi istanti. Bill me li ha regalati senza un tremito nella voce e con una lacrima incerta sulle ciglia, una lacrima che non è mai scesa e s’è sciolta in un sorriso quando, alla fine del racconto, m’ha visto chinare rassegnato il capo e scusarmi.
“Figurati,” mi ha detto, “sai quanto ho aspettato di poterlo raccontare così a qualcuno? Certe volte, finché non lo dici tutto per bene…” e s’è interrotto, ma io ho annuito lo stesso perché avevo capito dove voleva andare a parare: perché certe volte, finché non lo ascolti tutto per bene non ti sembra vero. Il meccanismo è lo stesso.
Bill mi lascia scorrere addosso lo sguardo ed abbassa appena gli occhiali sul naso, fissandomi curiosamente.
- Ma quella… - inizia, indicando i pezzi di felpa rossa che escono dal giubbotto semiaperto, - è di Chakuza?
Mi chiedo sinceramente come diavolo abbia fatto. Non ha senso dirmi “non dovresti stupirti, lo sai cosa c’è dietro”, è assurdo che riconosca una felpa rossa che ho scelto appositamente perché fosse il più anonima possibile, perché potesse essere di chiunque, perfino mia. Mi passa per la testa in un pensiero distratto che questo ragazzino ama troppo intensamente. Si farà un male cane, così. Vorrei dirglielo. Ci sono passato, ragazzino. Tiratene fuori finché puoi. Ma non ho alcun diritto di farlo.
- Sì, mi sono sporcato con della roba… - mugugno gesticolando a caso e implorando perché non chieda di che tipo di roba io stia parlando, - mi ha prestato una felpa per venire qui.
Solleva repentinamente gli occhi nei miei, rimettendo a posto gli occhiali.
- Eri con lui?
Sì e non posso dirtelo, ragazzino. Non posso dirtelo perché non dovrei nemmeno farlo, ma di farlo in qualche modo ho un bisogno fottuto, perciò mi dispiace ma non mi fermerò. Prima o poi ti passerà. Forse. Ed allora andrà meglio. O passerà a me – Dio, lo spero – e sarà perfetto.
- No, mi sono sporcato e lui mi veniva di strada. Mi sono fermato, gli ho rubato una felpa e sono corso qui perché ero già in ritardo. – racconto con un mezzo sorriso.
- Lo tratti proprio male, povero Chaku. – ridacchia lui.
Io annuisco e rido a mia volta.
Il cameriere ci chiede se siamo pronti per ordinare. Bill resta mezz’ora a domandarsi se sarebbe il caso di prendere una birra alla fragola – “la fanno solo qui, Fler!”, il che dovrebbe dargli un’idea di quanto faccia schifo, visto che nessun altro ha seguito il geniale esempio – oppure non sarebbe più saggio ripiegare su una più normale cioccolata. Lo costringo moralmente a prendere la cioccolata ricordandogli che non ho una macchina per portarlo in ospedale se sviene. Lui prova a dirmi che potrei chiamare un’ambulanza, in caso, ma quando lo guardo ed inarco un sopracciglio lui borbotta “okay, okay!” ed ordina un pastrocchio con panna, granella di cioccolato, granella di noci, una spruzzatina di caramello, una spruzzatina di caffè e litri di latte, al che io mi chiedo dove sia finita la cioccolata e suppongo sia meglio che almeno quella manchi, altrimenti questa roba invece di dieci euro ne costerebbe quindici.
Bill affonda il naso nella tazza appena se la ritrova fra le mani. Squittisce di gioia stringendola fra le dita e non sfalda la complicata coreografia di panna e decorazioni che esce da sopra come una montagnola innevata; sorseggia direttamente da lì, poggiando appena le labbra sul bordo, e quando risolleva il viso ha due baffi irregolari di panna sotto il naso. Rido e glieli indico, lui li cancella con una leccatina da gatto e si gratta la nuca, imbarazzato.
- Stai ancora da tuo fratello? – chiedo, sgranocchiando le arachidi che mi hanno portato con la Beck’s.
Bill annuisce.
- Tomi è molto preso. – racconta divertito, - Era da un po’ che non gli lasciavo fare il fratello maggiore con tutti i crismi. È tutto una coccola, è così servizievole! – ride e manda giù altra cioccolata, - E poi non mi si stacca mai di dosso. Mi mancava, devo ammetterlo. – aggiunge, arrossendo lievemente.
- Che fai, ragazzino? – lo prendo in giro, bevendo un sorso di birra, - Invece di progredire, regredisci? Dovresti crescere, diventare grande… e invece torni a vivere dal fratellone.
Bill aggrotta le sopracciglia e si morde un labbro.
- È una cosa temporanea, non sono tornato a vivere da lui. – borbotta offeso, - E poi io sono grande. Non sono un ragazzino. – sospira, - Però tu ormai hai deciso che ti piace chiamarmi così.
- Mi piace chiamarti così perché mi piace chiamare le cose col loro nome. – ridacchio, e lui annuisce, ridacchiando a propria volta. – Senti… - aggiungo poi casualmente, quasi a mezza voce. Un po’ spero che neanche mi senta. – Perché non ti fai vedere, di tanto in tanto, a casa del Chaku? – lui mi solleva addosso due occhioni terrorizzati, ed io mi affretto a sollevare entrambe le mani, come per rassicurarlo. – Magari quando siamo tutti insieme, ecco! O, se ti dà fastidio sentire quel coglione di Eko blaterare, magari andiamo da qualche parte noi tre. Potrebbe essere divertente. Che dici?
Bill sospira, abbassa un po’ lo sguardo sul fondo di panna che è rimasto nella tazza e poi torna a guardarmi. Dritto negli occhi. Vedo anche i suoi, nonostante la barriera ostile delle lenti scure.
- Dico che non posso. – risponde deciso, quasi freddo, - Lo sai.
Annuisco piano e ricomincio a sorseggiare la birra. Resto in silenzio mentre lui sfila gli occhiali e li posa sul tavolino in un gesto stanco accompagnato da un sospiro ancora più stanco. Lo osservo passarsi due dita sugli occhi – neanche un velo di trucco addosso – e massaggiarsi esausto la radice del naso. Non riapre gli occhi e non rimette gli occhiali. Però riprende a parlare.
- Fler… - chiede in un sussurro, - …tu pensi che questa situazione sia colpa mia?
Deglutisco appena, posando la birra.
- Quale situazione? – chiedo. Non perché voglio infastidirlo o forzarlo a parlare, ma perché davvero non so, fra tutte le situazioni, a quale si stia riferendo.
- Tutta questa situazione. – chiarifica lui, scuotendo il capo, - …Anis. Quello che gli è successo. E Chaku… - quello che ci è successo, ma lui non lo aggiunge.
Prendo un respiro profondo e metto in circolo un po’ dell’aria congelata di Berlino, sperando che possa aiutarmi a chiarire le idee. Sì che è colpa tua, ragazzino. Sì che, chiunque ha fatto fuori Bushido, l’ha fatto perché c’eri tu di mezzo. Sì che hai fatto impazzire Chakuza e sì che quello che è successo a me è una tua responsabilità indiretta.
- No. – rispondo deciso. E lo rispondo perché lo penso. Amare ed essere amati… non è veramente una colpa. E nemmeno una responsabilità.
*
- Stasera si esce.
Sono le mie prime parole quando Chakuza apre la porta. Mi guarda con aria incuriosita e poi si sporge appena per controllare se per caso non sto nascondendo del cibo dietro la schiena. Sospiro e roteo gli occhi, piantandogli una mano sul petto e spingendolo all’interno dell’appartamento, lontano dalla soglia, così da poter entrare.
- Non mangiamo? – mi chiede con l’aria di un cucciolo molto affranto, e mi viene un po’ voglia di pestarlo, quando fa così.
- Prenderemo un panino al volo, fuori. – spiego autoritario mentre recupero la sua giacca e gliela lancio.
- Fler, ma fuori c’è un freddo polare! – si lamenta, - Se ti va di bere qualcosa possiamo farlo anche qui!
Roteo di nuovo gli occhi, recupero il cappellino dall’appendiabiti e mi avvicino a lui, calcandoglielo sulla testa.
- Copriti che prendi freddo. – lo avverto. Perché è vero che fuori si congela e che, in una situazione normale, non avrei proprio nessuna voglia di uscire. Dio solo sa se non preferirei mettermi sotto le coperte e lasciare perdere.
Però Bill mi ha fatto pensare. In realtà Bill mi fa sempre pensare, per un motivo molto semplice che io capisco perché ho sempre addosso la solita maledizione-premio di Bushido che m’ha insegnato a sopravvivere, mentre a Bill e Chakuza sembra sfuggire completamente.
Qui ci stiamo tutti abbondantemente usando per non pensare.
E questo non va bene, perché c’è una persona che proprio non si merita di essere dimenticata prima di scoprire almeno chi l’ha gettata sotto terra dopo avergli sparato senza nemmeno avere il coraggio di guardarlo in faccia prima.
Io e Bill siamo gli unici che non si usano per distrarsi a vicenda; io e Bill, quando siamo insieme, siamo ancora perfettamente concentrati sull’obiettivo. E quindi uscire con Bill è come tornare a focalizzare la realtà per quella che è, ogni volta.
- Senti, ma almeno mangiamo qualcosa, prima. – borbotta Chakuza, richiudendo il giubbotto con la zip.
Lo gelo con un’occhiata infastidita.
- Mi sembra che abbiamo perso già abbastanza tempo. – commento serio.
Anche l’espressione di Chakuza cambia. Realizza.
- Dove stiamo andando, Fler?
Mi lascio andare ad un mezzo ghigno soddisfatto.
- A casa.
*
Sto vivendo un assurdo perché Chakuza è un maschio. Al di là di tutto il resto, se Chakuza fosse una femmina tanto per cominciare non sarebbe qui, e tanto per continuare non avrebbe una fissa tanto stupida quanto purtroppo comprensibile che suona più o meno come “la macchina è mia e la guido io”. “Anche se palesemente non so dove sto andando”, aggiungo io.
Insomma, gli sono girate le palle quando gli ho fatto capire che stavo manovrando la serata per cominciare ad andare un po’ in giro e provarci, almeno, a trovare ‘sto fottuto assassino. Perciò ha deciso di fare ostruzionismo e l’ostruzionismo si traduce nel restare alla guida in un posto che non conosce mettendoci peraltro in condizione di pericolo, perché Tempelhof non ti aiuta e non conoscerla è un peccato mortale.
Non credo lo stia facendo perché l’assassino di Bushido non vuole trovarlo affatto. Credo lo stia facendo perché sta provando ad andare avanti con la sua vita ed invece si ritrova da ogni lato gente che lo tira indietro. Sia Bill che io. Lo capisco, perciò non è questo quello che gli rinfaccio.
- Chakuza, se sbagli un’altra volta e non giri dove ti dico io al prossimo incrocio, giuro che ti butto nel canale. – è questa assurda cocciutaggine che contesto. È irritante.
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile ed addenta il panino strabordante di kebab che ha preteso di comprare una mezz’ora fa, quando stavamo ancora seguendo la via che avevo in mente e non c’eravamo irrimediabilmente invischiati in questo dannato reticolo che ci porterà a ritrovarci all’improvviso con la macchina semi-immersa nell’acqua, se ci va bene, o circondata da ragazzini in aria di fermo se ci va male. Faccio mente locale. Ce l’ho la pistola? Ce l’ho. Chakuza ce l’ha? Gli lancio un’occhiata poco convinta, lui sbrodola cipolle. Sospiro e alzo gli occhi al cielo.
- Basta, basta. – imploro, - Ferma la macchina. Posa quella merda. – mai capito come Anis potesse anche vivere solo di questa roba, sul serio. – E scendiamo.
- Continuiamo a piedi?! – dice lui, fermando la macchina ed aggrappandosi al panino come ad uno scoglio in mezzo al mare, - Fler, si congela!
- Sì. – annuisco sospirando ancora, - Non hai fatto che ripeterlo da che siamo usciti. Posteggia qui.
- Questo è un vicolo. Me la rubano.
- Tanto è un catorcio. – scrollo le spalle, - Vai mica in giro in BMW, tu. Avanti! – gli do un colpo sulla spalla, - Piantala di fare il coglione, è già quasi l’una!
Mugugna scontento ma posteggia dove gli ho detto e scende subito dalla macchina, seguendomi mentre io faccio gli onori di casa, accompagnandolo verso il canale. La strada che fiancheggia il corso d’acqua è sgombra e solitaria come sempre, non vedo nessuno in giro, tutta la vita del luogo è concentrata nei dintorni del porticciolo ed oltre gli alberi, sulla via puntellata di bar e kebaberie, e sembra distante chilometri da questo spiazzo silenzioso illuminato in pieno dalla luce della luna. L’acqua brilla di riflessi azzurri e bianchi e mi perdo un po’ a fissarli, questi bagliori che non vedevo da anni, mentre l’unico suono che sento oltre allo scorrere del fiume ed a quello dei miei pensieri, è lo scalpiccio delle suole delle scarpe di Chakuza, qualche metro indietro rispetto a me.
- Cosa stiamo facendo esattamente qui, Fler? – chiede, affiancandomisi mentre prendo posto sull’argine, le gambe che penzolano in basso verso il corso d’acqua e le mani ben piantate sul cemento, lo sguardo fisso alla luna senza nemmeno vederla. Mi manca questo posto. È assurdo perché non è poi così lontano rispetto al luogo in cui vivo adesso, ma sembra comunque tutta un’altra realtà. Può darsi che io non sia cambiato granché, ma sembra cambiato tutto il resto. Eppure anche tutto il resto è sempre uguale.
- Devo riprendere confidenza. – gli spiego, sentendo la grana un po’ irregolare della colata di cemento sotto i polpastrelli, - Ci sei già tu che non hai idea di dove andare a sbattere la testa. È bene che almeno uno di noi sappia dove stiamo andando.
- Perché diavolo dovremmo cercare qui? – chiede ancora lui, vagamente irritato, - Non è detto che l’assassinio di Bushido abbia a che fare con Tempelhof. Potrebbe venire da tutt’altro posto. Cristo, potrebbe essersi trattato anche solo di un cazzo di mitomane…
- …che l’ha seguito proprio la notte in cui io e lui ci accoltellavamo in un vicolo, per poi pensare bene di concludere il lavoro al mio posto? – scuoto il capo. Evito di dirgli che io i miei sospetti li ho, come tutti. Che essere stato a mia volta un sospetto non mi ha impedito di pensare. Però non posso parlare con Chakuza di questo, al momento, perché è troppo presto e non saprei nemmeno cosa dire, in realtà, perciò scrollo le spalle. – Qualsiasi problema di Bushido è sempre venuto da qui, comunque.
Chakuza inarca un sopracciglio e mi guarda, curioso.
- Storia della tua vita? – chiede con un mezzo sorriso sarcastico.
Io aggrotto le sopracciglia e lo fisso, offeso.
- Non sono così ciarliero. – mi lamento.
- Oh sì che lo sei. – ride lui, annuendo, - Ogni volta che cominci a raccontare qualcosa con una frase enigmatica, l’unica cosa che resta da chiedersi è per quante ore andrai avanti. Quanto all’argomento di conversazione, - aggiunge, tirandomi una gomitata affatto discreta, - è sempre lo stesso.
- Stronzo. – borbotto a bassa voce, allontanandomi un po’, - Volevo solo dire che quando vivi in questo posto e non riesci a scappare da piccolo, ti resta dentro. E te lo porti dietro. Dovunque vai, la tua origine è sempre questa. Tu ti porti ancora qualcosa dell’Austria?
Lui mi fissa incerto, scrollando le spalle.
- Non saprei dirti. – ammette a bassa voce, - È Berlino casa mia.
- Appunto. – annuisco, - Chi viene da Tempelhof invece non ha altra casa rispetto a Tempelhof. Chi viene da Tempelhof, ci ritorna, prima o poi, in qualche modo.
- Quindi l’assassino è di queste parti?
Mi mordo un labbro.
- L’assassino è uno che sapeva dove andare a cercare qualcuno che potesse aiutarlo a concludere il lavoro. – cerco di suggerire. Mi aspetto che colga un po’ il riferimento, ma Chakuza scuote il capo e sospira.
- Sei peggio di Bushido, quando parli per enigmi. – esala piegandosi in avanti, i gomiti sulle ginocchia, e prendendo a fissare lo scorrere lento del fiume.
Lascio perdere e sbuffo un mezzo sorriso, piegandomi come lui per poterlo guardare negli occhi.
- Tu vorresti essere da tutt’altra parte. – gli dico serenamente. Lui fa per aprire bocca e protestare, ma lo fermo scuotendo il capo. – Quando avremo finito qui… avrai tutto il tempo per andare dove vorrai. Non starò più tra i piedi.
Chakuza spalanca gli occhi e per un attimo dà segno di non capire, ma quando io annuisco tranquillo vedo la consapevolezza farsi strada dentro di lui e costringerlo a tendere nervosamente i tratti del viso.
- Tu non- - ritorce, ma non lo lascio concludere.
- È giusto. – annuisco ancora, raddrizzando la schiena, - Voi… - ed è chiaro chi sia l’altro di chi sto parlando, - non siete di qui. Non avete nessun conto in sospeso con Tempelhof, a parte Anis. Risolto quello… - sospiro e scrollo le spalle.
Chakuza non aggiunge niente. Si alza, però, puntando le braccia per terra e rannicchiandosi tutto per un attimo prima di scattare in piedi. Io rimango seduto e per qualche secondo lo guardo dal basso, mi rivedo appena quindicenne e vedo Anis che va per i venti e sta in piedi accanto a me, esattamente come Chakuza in questo momento, e mi dice “tanti auguri, ragazzino”, e improvvisamente ricordo anche perché mi piace chiamare Bill in questo modo. Non c’entra chiamare le cose col loro nome. È a causa di Anis.
Bill non ha davvero colpa, in questa storia.
Però sarebbe troppo facile, adesso, dare la colpa al morto.
- Avanti. – dice Chakuza, la voce incredibilmente cupa, tendendomi una mano per aiutarmi ad alzarmi, - Qui non troveremo un bel niente.
Annuisco ed afferro la mano che mi porge. Mi tiro in piedi e capisco quello che sta succedendo solo quando è già successo: ho messo male un piede e sono scivolato. Chakuza non mi ha lasciato anche se avrebbe tranquillamente potuto farlo ed il risultato è che ci siamo sbilanciati in due e siamo caduti, rotolando per tutta la parete obliqua del canale e rovinando in acqua alla fine della corsa, con un sonoro splash che spezza la quiete della notte ed anche il riflesso della luna sul fiume, le cui acque si allargano in cerchi attorno a noi ed attorno ad ogni singola gocciolina generata dal nostro tuffo. Riemergo tossicchiando e lanciando imprecazioni in giro, mentre osservo Chakuza trascinarsi stancamente verso la parete di cemento tentando di asciugarsi un po’ il viso.
- Fler, Cristo santo… - si lamenta, rabbrividendo dentro il giaccone zuppo, - Ma stare un po’ più attento, no?
Io tiro su col naso e mi appoggio sul cemento al suo fianco.
- Scusa. – biascico, scrollandomi un po’ d’acqua di dosso, - Bagneremo tutta la macchina.
- Sì, è il problema minore. – ringhia lui, - Il problema maggiore al momento è come usciamo da questo pantano, visto che gli argini qui sono inclinati a sessanta fottuti gradi. – constata passando una mano sulla parete e guardando in alto alla sponda che sembra irraggiungibile.
- C’è un ammasso di pietre, più giù, verso il ponte… - borbotto indicando un punto nella notte con un cenno del capo, - C’era già quando ero piccolo io, lo si usava per scendere a recuperare la palla quando cadeva.
Chakuza annuisce lentamente, aguzzando la vista per cercare di individuarlo e rinunciando pochi secondi dopo.
- Mi fido. – concede alla fine, scuotendo stremato il capo, - Ora possiamo per favore tornarcene a casa prima di morire di freddo?
Annuisco con aria assente e non so se è perché oggi ho parlato con Bill o perché siamo venuti per cercare l’assassino di Bushido ed invece non abbiamo trovato niente, oppure perché il fatto che abbia detto “andiamo a casa” mi ha fatto scorrere brividi strani lungo la schiena, ma realizzo all’improvviso che quello che penso quando in genere rifletto su me e Chakuza è sbagliato. Non passerà, se non lo faccio passare. Ed io devo farlo passare.
- Chaku… - lo chiamo, lui si volta e quando si volta mi presso contro di lui, labbra contro labbra. È un contatto che conosciamo a memoria ed al quale ormai sappiamo reagire bene, perciò non mi stupisco quando lui solleva una mano a stringermi per la vita, combattendo contro la giacca bagnata che si gonfia e si sgonfia ovunque, e lui non si stupisce quando infilo le mani sotto il suo giubbotto, raggiungendo la felpa e strizzandola fino a spremerla, bagnandomi più di quanto già non sia fradicio.
Quando ci separiamo, lui sorride appena.
- E questo? – chiede in uno sbuffo divertito e un po’ incredulo, - Così, in mezzo alla strada…
- Non c’era nessuno. – mi giustifico con una scrollatina di spalle, - E poi stanotte dormo a casa mia.
Lui aggrotta le sopracciglia.
- Pe-
- Passa a prendermi Sido domani. – mento sfacciatamente, zittendolo prima che possa anche solo pensare di cominciare ad imbastire una protesta.
Ho idea che sarà una lunga serie di menzogne, questa.
E devo anche sbrigarmi a vedere se ho ragione e se l’assassino di Bushido è chi io penso sia. Prima lo trovo, prima mi stacco. E poi sì che sarà davvero tutto perfetto.
*
Gli ultimi quattro giorni sono stati pesanti. Hanno cominciato ad essere pesanti quando, la sera del giorno dopo il nostro primo incontro con Tempelhof – il primo di Chakuza, almeno, per me più che altro s’è trattato di rivedere un’ex-ragazza che non so se avevo davvero tutta questa voglia di rincontrare – mi sono ritrovato appeso al citofono di Chakuza a litigare per farlo uscire di casa. In un dialogo delirante cominciato con un “ti sto aspettando” e concluso – fra un “sali, prima!” ed un “Chakuza, stai rompendo i coglioni” – con me che strillo “d’accordo, resta dentro, vado da solo” che sapeva di suicidio, dato che ero a piedi.
Grazie al cielo mi sono sentito afferrare da una mano fortissima circa due minuti dopo, mentre mi facevo strada nella neve per tornare verso casa e recuperare un mezzo di trasporto, e c’era Chakuza che mi fissava con estrema disapprovazione, dandomi silenziosamente della merda ed annunciandomi ad alta voce che non dovevo prendere iniziative, visto che avevamo un accordo.
Avrei voluto chiedergli se nell’accordo fosse compreso il diritto da parte sua di incazzarsi e rompere le balle qualora avessi smesso di darglielo. Mi sono trattenuto solo per educazione – e dire che in genere non passo per uno educato.
Al momento siamo in macchina e Chakuza sta cercando posteggio nel vicolo che ormai è diventato il nostro riparo durante queste ronde notturne. Stasera la zona è frequentata e non c’è un buco neanche a pagarlo oro, perciò Chakuza sta ringhiando ed io sto cercando di ignorarlo, ma non è così semplice quando, fra un ringhio e l’altro, colgo allusioni su come io sarei palesemente l’inizio e la fine di tutti i suoi problemi.
Sei tu stesso l’inizio e la fine di tutti i tuoi problemi, Chakuza. Mi ripeto che non posso dirtelo, ma in realtà sto smettendo di crederci e, quando mi convincerò, probabilmente ti prenderò a cazzotti come meriti, e magari ti dai una svegliata.
- C’è posto qui. – dico indicando un gigantesco parcheggio vuoto accanto al cancello di una ditta di trasporti.
- Non rompere i coglioni. – risponde lui con l’ennesimo ringhio, - Non ci entro.
- Non ci entri perché sei un’enorme testa di cazzo. – rispondo a tono, incrociando le braccia sul petto.
- Aha, hai anche tastato con mano. – ritorce Chakuza, velenoso, ed io sussulto.
- Potremmo tenere fuori questa roba dalle nostre uscite? – chiedo pacatamente, cercando di non far scoppiare una guerra che, nella testa di Chakuza, sta già infuriando da giorni.
- Certo. – sibila lui, infilandosi miracolosamente in un altro parcheggio e spegnendo il motore, - Teniamo fuori la roba dalle uscite. E tu ti tieni fuori dalla roba, invece. Senza un cazzo di motivo.
Spalanco lo sportello e lo schianto senza tanti complimenti contro la fiancata della macchina accanto a quella di Chakuza.
- Cazzo, non siamo mica sposati, Peter, datti una calmata!
- Vaffanculo. – risponde semplicemente lui, - E stai attento alla macchina, è l’unica che ho.
Agito stizzito una mano, il danno è stato veramente minimo. Volevo giusto scheggiargliela un po’. Visto il catorcio che è, nemmeno se ne accorgerà, se non glielo faccio notare.
- Comunque al momento abbiamo altre priorità che non siano scopare, Chakuza. Mi era sembrato di essere stato chiaro a riguardo.
- No, Fler, non sei stato chiaro, perché non ne abbiamo mai parlato, Cristo santo. – si interrompe e sospira, richiudendo la zip del giubbotto e sollevando il cappuccio per schermarsi dai fiocchi di neve che ricominciano a cadere appena ci immettiamo nel marasma di persone che entrano ed escono dai locali sulla via principale, - E comunque, non si tratta solo del sesso.
Lo dice come non avesse la minima importanza e come fosse perfettamente ovvio.
Io ci resto come uno stronzo, ovviamente.
- Che-
- Non avevamo altre priorità? – sbotta sarcastico, voltandosi prima che possa vederlo arrossire come un liceale.
Sarà difficile staccarmi da questa cosa. Sarà fottutamente difficile.
- Senti… - sospiro, tirando su il cappuccio della felpa, visto che la giacca non ce l’ha, e mettendomi al suo fianco per esplorare la via, - guarda che comunque non potevamo continuare in quel modo.
Chakuza solleva il capo e si guarda in giro, sta imparando a conoscere il quartiere e mi piacciono gli occhi con cui lo guarda. L’ha presa sul serio, alla fine, questa cosa, e sono contento che ce la stia mettendo tutta, scazzo a parte, ma in realtà mi piace solo come guarda Tempelhof. Mi piace che voglia impararlo a memoria e mi piace che lo stia facendo per non farmi ripetere continuamente sempre le stesse indicazioni.
- Perché, in che modo stavamo andando avanti? – chiede distrattamente, infilando le mani in tasca.
- Scopavamo, Chakuza. – gli ricordo con aria rassegnata, sperando di dirlo abbastanza schiettamente da fargli cogliere l’assurdo.
Non lo coglie.
- Non ha senso farmi un discorso simile. – mi dice infatti, scrollando le spalle, - A me piaceva.
- E questo era un nuovo episodio della fortunatissima serie televisiva ghetto-gay di ProSieben. – sospiro scuotendo il capo, - Chaku, ripigliati.
- E tu cerca di essere meno stronzo, piaceva anche a te. – odio che Chakuza riesca a mantenere l’attenzione su un argomento anche quando faccio di tutto per deviarla. Se non funzionano nemmeno le prese in giro, non so più a cosa attaccarmi. Potrei prenderlo a mazzate ma non so quanto servirebbe.
Sospiro.
- Sì, Chakuza, mi piaceva. Contento?
- No. – si ferma e mi guarda, io mi fermo a mia volta e mi cade un fiocco di neve sul naso. Incrocio gli occhi per guardarlo sciogliersi e Chakuza rimane interdetto un paio di secondi, prima di scuotere il capo e scoppiare a ridere. Questo suono non lo sentivo da un bel po’. Sorrido anch’io. – Sei un cretino. – mi riprende dandomi una spintarella, - Facciamo che stanotte resti da me anche perché nevica che sembra Natale, e poi domani ne parliamo con calma.
- Facciamo che prima il dovere e poi… tutto il resto, Chakuza. – cerco di mantenermi serio, spingendolo a mia volta. – Dai, entriamo là. – concludo indicando una kebaberia ad angolo di un vicolo poco invitante.
Lui annuisce ma adesso sorride, il che è molto male perché non gli piacerà come si concluderà questa serata – con me che gli do picche di nuovo, cioè – ma comunque entriamo nel locale e prendiamo posto e non abbiamo neanche il tempo di sederci che già Chakuza sta chiamando il cameriere per ordinare qualche quintale di questa schifezza di cui s’è innamorato ed alla quale io sinceramente non riesco a trovare un senso. Trovo difficile dare un senso alle cose di cui s’innamora Chakuza, in effetti, ma penso di poterlo accettare per com’è.
- Invece di mangiare a sbafo, guardati un po’ intorno. – ordino infastidito, attaccandomi come di consueto alla bottiglia di Beck’s, - Non siamo qui per cenare, siamo qui per individuare qualcuno a cui chiedere qualcosa.
- Sì, ma si dà il caso che non abbiamo cenato, in tutto questo, quindi prendiamo due piccioni con una fava e… Fler, metti giù quella bottiglia, non è acqua, prendi un respiro fra una sorsata e l’altra.
- Chaku, facciamo così, tu t’ingozzi ed io faccio il resto, d’accordo? – lui borbotta e ricomincia a mangiare, mentre io sollevo lo sguardo e vado alla ricerca di un tipo ben preciso di persone. Non mi aspetto certo di trovare l’assassino alla prima botta, cerco solo qualcuno a cui chiedere se magari sa qualcosa.
Sono circondato da bianchi che mangiano e bevono allegramente e mi chiedo se non ho sbagliato completamente posto. Non è questa la gente a cui dovrei rivolgermi. Non sono loro quelli che possono sapere qualcosa. Questi sono lavoratori che si concedono un’uscita con le loro donne di sabato sera. O ragazzini che non hanno nulla da fare e scendono nei quartieri bassi per vedere di cosa sa l’aria.
I miei obiettivi li individuo in un tavolo distante dal nostro, addirittura dall’altro lato del locale. Sono già abbondantemente ubriachi – li riconosco gli ubriachi, non stanno in piedi e ridono senza un perché – e chiacchierano del più e del meno gesticolando ed urtando le bottiglie vuote che tappezzano il tavolo.
Sono tunisini, soprattutto. Lo sanno tutti che è a loro che si chiede, quando si vuole sapere cosa gira e cosa non gira in questo quartiere. Lo sanno tutti e soprattutto lo so io. Sempre perché me l’ha insegnato Anis. Come tutto, dannazione. Sarà orgoglioso di me, il King. Gli sto facendo giustizia, piano piano.
Mi alzo in piedi e Chakuza mi guarda curiosamente per un attimo, ma quando gli faccio cenno di seguirmi molla immediatamente il panino e mi si mette alle calcagna. Se è nervoso o agitato, di certo non lo dà a vedere. Mi complimento interiormente con lui e mi avvicino al tavolo.
- Buonasera. – mi introduco con un sorriso. I due tunisini sollevano lo sguardo e non capiscono un accidenti di quello che sto dicendo, naturalmente. – Mi hanno mandato da voi perché pare che siate due che ne capiscono, di questo quartiere del cazzo. – cerco di farmeli amici, mentre Chakuza prova con tutte le proprie forze a non fare una piega, fermo al mio fianco come una bodyguard.
- Sei di fuori, ragazzino? – dice uno dei due, ridendo selvaggiamente, - Che ci fa uno come te qui? Quanti anni hai, dodici? Occhioni!
- Uno come te è carne da macello in questo posto! – gli dà man forte l’altro, - Quanto costa quella felpa? Duecento euro?
- Duecentocinquanta. – preciso, mentre Chakuza mi fissa sgomento. Ora, non è che se uno esce con venti euro nel portafogli non deve avere nient’altro in banca, dico. – E ne ho altrettanti da spendere, stasera.
I due ridono ancora, uno si abbatte sul tavolo e fa cadere tutta una serie di bottiglie per terra. Una va in pezzi, qualcuno si lamenta, torna tutto tranquillo dieci secondi dopo.
- Cos’è, ragazzino, vuoi la roba?
- Noi non ne vendiamo merda. Lo facciamo fare ai quattordicenni bianchi di pelle, finiscono in galera molto più raramente. Quando li beccano i poliziotti si accontentano di fare un giretto nelle loro mutande, non ce li mandano in galera, che poi si rovinano!
Cerco di trattenermi dal recuperare la bottiglia in frantumi e fare una cosa che non faccio da fin troppo tempo, e li ignoro, sedendomi accanto a loro su una sedia che rubo al tavolo di una coppietta poco distante. Chakuza resta in piedi dietro di me.
- Non cerco droga. – rispondo sorridendo, - Cerco informazioni.
I due ridono ancora e Chakuza sospira dietro di me.
- Questi non sanno un cazzo. – borbotta.
- Ehi, pupetto, dì al tuo amico di tenere a freno la lingua! – si agita uno dei due, il più vecchio, avrà una cinquantina d’anni. Lo osservo alzarsi in piedi e stendere un pugno in direzione di Chakuza, il quale afferra la mano chiusa fra le dita e torce il braccio del tunisino fino a farlo mugolare di dolore, - E Cristo, tieni a bada il nano forzuto, bimbo! Ce la siamo dimenticata l’educazione?
Scrollo le spalle.
- Non è che tu sia molto educato con me o con lui. – mi piace giocare con questi ruoli, mi sto divertendo. Anche Chakuza dietro di me, scommetto che non vedeva l’ora di sfogare un po’ di frustrazione contro qualcosa che non rimbalzasse quando cade per terra.
- D’accordo, d’accordo… - dice l’altro tunisino, sulla quarantina, sistemandosi meglio sulla sedia, - Parliamone un po’ da persone adulte, vi va? Il tuo amico si siede, bimbo?
- Tu chiamalo bimbo un’altra volta, - risponde Chakuza, - e mi siederò con le scarpe sulla tua testa, stronzo.
Il tunisino ride ed io mi passo una mano sugli occhi.
- Chaku, lascia parlare me. – lo imploro, mentre i due tunisini insieme cominciano a prenderci allegramente in giro parlando di fidanzamenti e accoppiamenti vari ed eventuali coi quali battezzare casa nuova appena papino e mammina ce la regaleranno, dopo il matrimonio. – Allora, io ho duecentocinquanta euro che scalpitano per uscirmi dalle tasche. – affermo, cercando di riportare la conversazione su un terreno che posso controllare, - Però se non intendete collaborare…
- Ma sì che collaboriamo, sì! – dice il cinquantenne, battendo una mano sul tavolo.
- Senza perdere tempo, su. – aggiunge l’altro, intrecciando le dita sotto il mento, - Cos’è che vi serve sapere?
Sorrido furbo, chinandomi verso di loro.
- So che sono venuti a reclutare gente in questa zona, per rompere i coglioni al ragazzino di Bushido, un mese fa. – insinuo, e vedo il cinquantenne ridacchiare.
- Chiamalo rompere i coglioni! – dice ilare, - Volevano che gli succedesse ben altro!
Il quarantenne gli tira una gomitata fra le costole. È più lucido dell’altro. Questo potrebbe essere un problema.
- Chi cazzo siete? – chiede.
No, così non va bene per niente.
- Amici. – rispondo con sicurezza.
Il tizio annuisce e si alza in piedi.
- Bene, allora da amici chiuderemo questa conversazione e da amici ci perderemo di vista.
L’altro si alza assieme a lui e Chakuza va in agitazione.
- Ehi, dove cazzo- - inizia, ma lo fermo con un cenno del capo.
- Sentite, non ce l’abbiamo con voi. – preciso conciliante, - Voglio solo sapere se potete dirmi chi è stato assoldato per portare a termine il lavoro. Tutto qua. Li troveremo noi.
- Li troverete anche senza il nostro aiuto. – dice il quarantenne con un vago gesto della mano, - Qui a Tempelhof le voci corrono in fretta.
Chakuza si fa avanti, bene intenzionato a menare le mani, ma lo fermo puntandogli una mano sul petto e scuotendo il capo.
- Agli ordini del bimbo, mi raccomando, eh! – ride il cinquantenne, - Sbaglio o è per questo che Bushido c’ha lasciato le penne? – continua sguaiato, mentre il quarantenne gli tira un’altra gomitata e lo spinge verso l’uscita del locale.
Chakuza ringhia – lo sento tremare sotto le dita nonostante il giubbotto imbottito e mi scosto per motivi che non capisco in pieno nemmeno io – e mi si piazza davanti con aria scazzata.
- Perché li abbiamo lasciati andare via?! – chiede infastidito, - Sapevano qualcosa!
- Sì, ma oggi è sabato sera e ci siamo già fatti notare abbastanza senza metterci dentro anche una rissa, Chaku. – cerco di spiegargli pazientemente, - Stai tranquillo, queste non sono cose che si risolvono in fretta…
- Sì, ma noi stiamo andando alla cieca da giorni! – protesta ancora lui mentre io mi avvio verso l’uscita, - E quando finalmente troviamo qualcosa-
- Quando finalmente troviamo qualcosa, quel qualcosa ci resta in mano, no? – sospiro, - Ora abbiamo la conferma che sì, è qui che l’assassino di Bushido è venuto a cercare una mano d’aiuto.
Chakuza sospira ed annuisce, rimettendosi a posto il cappuccio mentre ci immettiamo nuovamente nella strada principale, diretti alla macchina.
- Pensi che potrebbero essere stati quei due a…
- E cosa vuoi che ne sappia io? – scrollo le spalle, - Forse sì, forse no. Più probabilmente, sanno qualcosa ma non vogliono finirci di mezzo. – ghigno, - Non che non li capisca.
Chakuza annuisce ancora e resta in silenzio mentre ci facciamo strada nella folla stando attenti a non scivolare sulla neve mezza sciolta che ricopre quasi tutto il marciapiedi. Lo sento irrigidirsi qualche secondo dopo, ma non cambia l’andatura del passo e non si volta indietro. È solo più teso, lo sento a pelle. Mi volto a guardarlo.
- Be’? – chiedo curiosamente.
Lui si inumidisce le labbra.
- Credo che ci stiano seguendo.
Inarco un sopracciglio e sono già sul punto di dirgli “Chaku, ricordati che tu sei quello che sbatte negli armadi”, quando mi accorgo che in effetti ha ragione, c’è una figurina incappucciata e vestita di bianco che ci pedina e cerca di dissimulare tenendo un passo diverso. Mi accorgo che segue noi perché non è capace e quando perde il ritmo deve correrci dietro.
Sospiro, lanciando un’occhiata indietro ed individuandolo. È un nanetto. Sarà un ragazzino.
Annuisco a Chakuza e gli indico un vicolo che naturalmente non è quello in cui abbiamo infilato la macchina. Il nostro misterioso inseguitore, comunque, non dovrebbe saperlo. Faccio affidamento su quello quando io e Chakuza svoltiamo nella stradina laterale un po’ buia, e faccio affidamento sul giusto, perché quando ci voltiamo indietro la figurina bianca si ritrova spiazzata a fronteggiare due uomini con un’espressione vagamente incazzata sulla faccia e poca voglia di chiacchierare. Si tira un po’ indietro ed allarga le braccia, sulla difensiva, la tuta in acrilico bianco che brilla appena dei riflessi dei lampioni che costeggiano la strada principale, che da questa penombra umida e fredda sembra lontana chilometri e invece non disterà più di tre o quattro metri.
- Tranquillo. – dico con un mezzo sorriso, mentre lo osservo indietreggiare spaventato, - Scopriti il viso.
Chakuza resta zitto e buono al mio fianco ed il ragazzino si ferma e ficca le mani in tasca.
- Nevica. – risponde scaltro, - Ed anche voi avete i cappucci.
Mi viene da ridere ma non lo faccio. Sfilo il cappuccio, invece, e faccio cenno a Chakuza perché faccia lo stesso. Lui ghigna divertito e poi insieme osserviamo il ragazzino esitare, confuso, e scoprirsi, restando fiero e dritto nella neve che cade, il volto pallido arrossato dal freddo sulle guance e sulla punta del naso ed i capelli corti e biondi disordinati sulla fronte, scossi appena dal vento. Ci fissa con un paio d’occhi azzurrissimi resi scuri dall’ansia e dalla paura, sotto le sopracciglia aggrottate in una posa da duro che conosco benissimo.
Chakuza ride apertamente e io gli do una spinta.
- La pianti di prendere per il culo?! – lo rimprovero, ma sto ridendo anch’io, e colgo l’espressione del ragazzino distendersi e poi arricciarsi nuovamente in un broncio offeso e deluso. – Avanti, è stato bravo fino ad ora!
Chakuza annuisce e pianta le mani sui fianchi, guardandolo bonario.
- Quanti anni hai? – gli chiede, il vocione rude modulato da una nota di tenerezza che è davvero impossibile da ignorare.
Il ragazzino incrocia le braccia sul petto.
- Sedici! – protesta stizzito, battendo un piede per terra.
Io annuisco e cerco di frenare Chakuza prima che ricominci a ridere. Mi avvicino con le mani bene in vista, trattandolo da pari, è così che si gioca con questi ragazzini qui. Mi dispiace un po’ sapere che a continuare a vivere in questo postaccio diventerà davvero ciò che adesso sta solo imitando.
- Okay, e ti chiami? – mi informo fissandolo dritto negli occhi.
Lui è un po’ incerto, guarda altrove, non sa se è giusto dirlo o meno. È molto piccolo, dovrebbe stare a casa.
- Daniel. – risponde alla fine, mascherando con un cipiglio sicuro l’esitazione nella voce.
- E ci hai seguito perché…? – chiede Chakuza affiancandosi a noi. Daniel esita ancora, si tira un po’ indietro, poi si rimette dritto e ci fronteggia con sicurezza.
- Io lo so cosa state cercando. – dice annuendo, - Ma qui non ve ne parlerà nessuno, dovete per forza risalire alla fonte.
Mi verrebbe da ridere per come parla, se non sapessi perfettamente che da ridere, in questa situazione, non c’è niente.
- E come mai nessuno dovrebbe parlarcene? – indago, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
- Perché c’è gente importante invischiata. – risponde lui, - Gente importante del quartiere, intendo. Posso farvi i nomi, se volete.
Chakuza inarca un sopracciglio ed incrocia le braccia.
- E questo slancio di generosità è dovuto a…? – chiede curiosamente, ed io ridacchio.
Gli occhi di Daniel saettano prima su di lui, fulminandolo – o almeno provandoci – e poi tornano su di me e si fanno più imbarazzati e liquidi, prima di chinarsi ad osservare la punta delle scarpe da tennis macchiate di fango.
- …sono un fan dell’Aggro, io. – biascica a mezza voce, ed io spalanco gli occhi e rido compiaciuto, battendogli una pacca sulla spalla.
- Grazie! – rispondo con entusiasmo, mentre Chakuza borbotta al mio fianco, - È bello vedere che i giovani hanno ancora degli ideali.
Chakuza coglie la frecciatina e fa per tirarmi un cazzotto sulla spalla, ma io lo evito e smetto di ridere, riportando l’atmosfera su un piano meno divertito e più serio.
- Dunque, Daniel. – inizio piano, - Questi nomi?
- Devi cercare Samir Azad. – risponde pacato lui, tirando su la zip della felpa fino a coprirsi il mento. Comincia a fare più freddo, e già prima non si stava bene. Mi passa per la mente in un pensiero confuso che dovrò fare i salti mortali per fuggire da casa di Chakuza, stanotte, se mai ci rimetteremo piede. – Spaccia per suo fratello Jad, che si rifornisce da certa gente di Cuba… non li conosco molto bene, non sono ancora arrivato a quel livello là. Io per ora lavoro per un tizio che ho incontrato in riformatorio e che li conosce.
Annuisco lentamente, Chakuza è già confuso e scalpita al mio fianco ma la mia calma lo tranquillizza.
- E io questo Samir Azad dove lo trovo?
Daniel scrolla le spalle con aria navigata.
- È sempre in giro. – risponde con un cenno del capo.
- In giro dove? – chiede Chakuza, - Sii più preciso.
- Verso Alter Park… - dice, indicando con un gesto distratto oltre il canale, che s’intravede appena oltre la gente, le luci, la strada e gli alberi, - Lo riconosci subito perché è mezzo zoppo, ha perso un pezzo di piede quando lavorava in fabbrica.
Chakuza annuisce.
- Lo conosco Alter Park. – commenta, - È un posto carino.
Io ghigno.
- Non dopo mezzanotte. – e Daniel ride con me. Infilo le mani in tasca e tiro fuori il portafogli, guardando questo ragazzino che ridacchia come se fosse molto figo essere uno spacciatore e dare una mano a due spiantati per trovare due cazzo di quasi-assassini. Forse perché non sa come si finisce, a camminare su questa strada. O forse perché lo sa e crede di non avere alternativa.
Spero che questi duecentocinquanta euro lo tengano lontano dalle strade, per un po’.
Lui mi guarda mettere mano ai soldi e mi ferma, scuotendo il capo.
- Non l’ho fatto per farmi pagare. – dice col cipiglio serio del ragazzino che crede di sapere cosa sta facendo, - L’ho fatto perché sei tu. – aggiunge più candidamente.
Ripongo il portafogli nella tasca, annuendo lento. Poi sorrido.
- Adesso hai un amico che conta, Daniel. – aggiungo dandogli una pacca sulla spalla. Sospiro. – Sei mai stato arrestato? – chiedo a bruciapelo, e Daniel aggrotta le sopracciglia.
- No. – risponde con orgoglio, - Sono stato bravo.
- Fortunato. – correggo, stringendo la presa sulla sua spalla, - Cerca di mantenerla, questa fortuna.
Lui esita per un attimo e poi risponde con un sorriso più sincero prima di salutarci, scomparendo oltre il vicolo. Quando ne veniamo fuori io e Chakuza, ritornando in strada e guardandoci intorno per capire il da farsi, sembra svanito nel nulla.
- Non so se ridere di più per l’amico che conta o perché hai fatto colpo su un sedicenne. – mi prende in giro Chakuza dandomi una gomitata in pieno petto e ridendo sonoramente, - Guarda che è illegale, eh?
- Sì, be’, - arrossisco in maniera indecente io, - Non è che ora improvvisamente solo perché tu sei frocio lo sono anche tutti gli altri, Chaku.
Lui ride ancora, calandomi il cappuccio sulla testa.
- Tu te ne tiri fuori? – chiede, e nella sua voce c’è una nota un po’ più profonda di quella che usa in genere quando prende in giro e basta.
Non ti va giù che possa andarmene, vero, Chaku? Capissi perché, forse non me ne andrei.
Riprendiamo a camminare e mi accorgo solo dopo qualche passo che stiamo andando in due direzioni completamente diverse. Mi volto a guardarlo e lui si volta nello stesso momento, ed immagino che sulla mia faccia ci sia la stessa espressione ebete che c’è sulla sua.
- Dove stai andando? – chiedo curiosamente, senza muovermi dalla posizione plastica in cui mi sono praticamente congelato, interrompendo il passo a metà.
Lui solleva un dito ed indica una direzione ideale che è quella del vicolo in cui abbiamo posteggiato. Mi chiedo se saprebbe arrivarci da solo.
- A casa. – risponde quindi, - Non l’hai detto tu che queste cose non si risolvono mai in fretta e che ci siamo già fatti notare abbastanza?
- Sì, ma abbiamo ricevuto una soffiata! – dico io, voltandomi per intero, finalmente, e guardandolo sconvolto, - Non possiamo perdere l’occasione, rischiamo che li avvertano e non si facciano più trovare!
Chakuza sembra incerto ma annuisce e mi si affianca. Sono consapevole di stargli chiedendo uno sforzo. In realtà lo sto chiedendo anche a me stesso. È un po’ spaventoso essere così vicini alla soluzione. Fa paura anche perché la soluzione in realtà porterà un mucchio di problemi con sé. Con quest’assassino, cosa ci facciamo, una volta che l’abbiamo trovato? E se è chi io penso sia, come la mettiamo?
- Ehi… - Chakuza mi dà una mezza gomitata sul fianco, - che hai?
Scrollo le spalle.
- Tu non sei nervoso? – chiedo, guardando altrove mentre ci avviamo lenti verso Alter Park.
Chakuza sbuffa una mezza risata.
- Tu, il padrone delle strade!, chiedi a me se sono nervoso? – mi prende in giro, inarcando le sopracciglia, - La birra ti ha dato alla testa in ritardo?
- Ma perché devi essere sempre così stronzo? – ritorco, tirandogli un cazzotto sulla spalla, - Era solo una domanda.
Chakuza guarda dritto davanti a sé e si gratta la nuca, sotto il cappuccio.
- Non tantissimo. – ammette, - Mi preoccupa di più che tu sia nervoso, che non la situazione in generale.
Lo fisso, stupito.
- Come, scusa?
Lui scrolla le spalle.
- Eri a tuo agio, fino a poco fa. Se cominci a preoccuparti vuol dire che hai paura di qualcosa. Se ne hai paura tu, praticamente io posso già cominciare a scappare, in sostanza.
Ridacchio.
- Allora ammetti che è vero? Sei l’uomo che sbatte negli armadi?
Lui cerca di farmi lo sgambetto ma io lo evito.
- Non intendevo dire quello. – ride, - È che io la mia vita te la affiderei, Atze. – e mi si ferma l’aria in gola, - Quindi hai una responsabilità.
Arriviamo ad Alter Park e sinceramente credo che i miei piedi abbiano ricordato da soli la strada, perché Chakuza ha questa cosa che dice parole di cui secondo me non si rende conto. O meglio, lui se ne rende conto, lui lo sa perfettamente quanto vale quell’Atze o quando vale sentirmi dire che la sua vita è nelle mie mani, però non capisce che ci sono cose che quando le senti ti annullano i pensieri. Lui le dice e basta, lo fa con una certa innocenza, non è che voglia mandarti in black out. Però lo fa.
Ci sono momenti in cui mi è veramente semplice capire perché Bill sia perso fino al punto in cui è.
Chaku si guarda intorno con aria tranquilla, scruta il buio della notte attraverso i viali alberati e le fontane spente. Il cielo è coperto e continua a nevicare ma l’acqua bassa nelle fontane è ancora liquida, così com’è liquido il fiumiciattolo che scorre sotto il ponticello arcuato verso il quale ci avviciniamo.
- Dove stiamo andando, Fler? – mi chiede quando comincia a sospettare il nostro girovagare non abbia veramente un senso.
- Non lo so. – ammetto scrollando le spalle, - In giro. Se vedi uno storpio, dimmelo.
Chakuza fa una smorfia.
- Che vorrebbe dire, “se vedo uno storpio”? – borbotta, - A parte che, se vedo qualcosa, lo vedrai anche tu, visto che stiamo andando nella stessa direzione. E comunque qui non c’è nessuno. Con questo tempo da cani, non capisco nemmeno perché ci siamo noi…
Sospiro e roteo gli occhi, indicando un’ombra scura appoggiata sotto un albero.
- Lì c’è qualcuno. – gli faccio notare con aria tranquilla come fosse ovvio e scontato trovare lì quella figura incappucciata.
Chakuza annuisce e deglutisce.
- Lui? – chiede.
- Non mi pare storpio. – dico, osservando il tipo dondolarsi da un piede all’altro e cominciare a giocare con un sasso per terra. – Però è probabile sia un palo. Stammi vicino e non aprire bocca.
- Ehi-
- Non mi avevi affidato la vita? – ghigno furbo, e lui si zittisce mentre ci avviciniamo al tipo. Mi schiarisco la voce e pianto una mano sul fianco, fissando il tipo con aria non propriamente ostile ma neanche propriamente ben disposta. – Ci hanno detto che da queste parti c’è roba buona.
Quello solleva lo sguardo e mi scruta da sotto il cappuccio, masticando rumorosamente una gomma.
- Mai visti da queste parti. – risponde secco, - Sbirri.
Aggrotto le sopracciglia, le mani bene in vista.
- Io ci sono nato qui.
Lui sbuffa e tira su col naso.
- Io non ti ho mai visto.
Chakuza resta in silenzio al mio fianco ma percepisco il nervosismo nel suo respiro appena trattenuto.
Io roteo gli occhi.
- Quindi nessuno ti ha mai raccontato niente di Frank White? – ghigno sicuro di me. Potrebbe essere la cazzata più grande della mia vita. Se questo tizio c’entra con tutto il casino che è successo, o se anche solo il suo capo gliene ha detto qualcosa, siamo fregati. Se non sa niente, però, questo nome potrebbe essere il nostro lasciapassare definitivo.
Il tipo solleva lo sguardo e mi fissa, incerto.
- Tu saresti… - mi libero del cappuccio e lascio che mi guardi bene in faccia. - …oh. – prego vivamente che Chakuza non si faccia riconoscere. Il tipo, comunque, annuisce brevemente. – Al gazebo. – indica oltre il ponte, - Samir è là.
Annuisco e mi allontano, tirandomi dietro Chakuza. Il gazebo, se è ancora come lo ricordo io, è una struttura in legno bianco con una cupola di tegole nere, tutta circondata da una ringhiera ad assi incrociate che fa molto recinto di campagna da ricca famigliola americana, e da schiere di aiuole piene di cespugli che in primavera sono colorate e profumatissime. Il classico luogo che in genere viene adottato dalle coppie di fidanzatini per pomiciare, ed infatti succedeva eccome, almeno ai miei tempi, solo che, calato il sole, questo posto cambia faccia.
Quando arriviamo, lo scenario è molto più adatto allo spaccio che non ai flirt, comunque. Un po’ perché è inverno, e quindi delle aiuole colorate non è rimasto poi molto. Un po’ anche perché sono passati più di dieci anni. Quindi, anche del resto, non è che sia rimasto tanto.
Samir Azad, avvolto in un giubbotto in piuma d’oca, il viso nascosto da un ampio cappuccio col pelo sull’orlo, sta contrattando con un tizio dal volto semicoperto da berretto e sciarpa, e si muove avanti e indietro lungo le pareti del gazebo per non stare fermo, anche perché a star fermi si gela. Chakuza mi guarda, un’occhiata ferma e sicura, ha visto che zoppica: è lui, sì Chaku, è lui.
Mi appoggio contro una parete, incrociando le braccia e sollevando un piede contro il legno, che tanto è così pieno d’impronte da non farmi nemmeno più sentire in colpa per il fatto che sto calpestando la mia gioventù ed usando il mio nome – cose di cui vado abbastanza orgoglioso, insomma – per vendicare un uomo che mi ha mandato a fanculo e dal quale non mi sono mai sentito dire grazie. O scusa. Lui e tutte quelle canzoni del cazzo come quella in cui mi diceva che sperava stessi bene. Come se per me fosse possibile stare bene senza che mi desse una fottuta occasione per perdonarlo. Ma Bushido il mio perdono non lo voleva. Lui non ha mai sbagliato.
Il tipo col volto coperto si allontana e lascia il gazebo mentre Samir conta i soldi e li infila nella tasca posteriore dei jeans, prima di voltarsi verso di noi e farci cenno col capo. Mi avvicino e mentre lo faccio metto bene a fuoco la situazione. Samir probabilmente è armato. Così come saranno probabilmente armati anche i numerosi pali che ha sparso per il parco. Noi siamo in due, io ho una pistola ma dubito che Chakuza abbia la mia stessa fortuna, il che vuol dire che devo prendere immediatamente in mano la situazione, farmi dire ciò che mi serve di modo che poi lui non abbia più nulla da difendere e scappare via da qui il più in fretta possibile. Prima che lui allerti qualcuno, almeno.
Mi chiedo per un attimo chi mi abbia convinto a ficcarmi in una situazione che puzza di suicidio lontana chilometri. Poi ricordo che mi ci sono ficcato da solo. E ricordo anche che mi piacerebbe poter tornare da Bill e dirgli “visto? Te l’abbiamo preso, il figlio di puttana”. Ricordo, soprattutto, che sulla fottuta tomba di Bushido voglio tornarci presto. Magari lanciare un’occhiataccia a quella foto sorridente incastonata sulla lapide e poi dirglielo. Mi devi un favore enorme, stronzo, perciò… perciò non lo so. Mi piacerebbe credere in Dio e poter pregare, in una situazione del genere. Almeno non starei rischiando la vita per qualcosa di così inutile ma che sento come assolutamente inevitabile.
Chakuza non lo capisce, quello che sto facendo. Mi osserva con la coda dell'occhio ficcare una mano in tasca e quando fa per aprire bocca e chiamarmi se lo risparmia, perché capisce che è già tardi: c'è la mia pistola pressata con forza contro lo stomaco di Samir, e la mia mano libera è salita a chiudergli prepotentemente la bocca. Samir mi fissa con gli occhi spalancati, respira forte contro la mia mano e il suo fiato caldo scioglie il gelo dei miei polpastrelli. Stringo la presa attorno al suo viso fino a fargli male, lui si lamenta sotto di me e continua a fissarmi con quegli occhi enormi – è più giovane di me, avrà vent'anni, cazzo, forse nemmeno – ed io lo spingo indietro violentemente, cercando la ringhiera contro cui schiacciarlo. Lui incespica, il piede monco non lo aiuta, non cade a terra solo perché gli sto stringendo la mascella fra le dita come una tenaglia.
- Cristo... Fler! – strilla Chakuza venendomi vicino per nascondere la scena col corpo, - 'Cazzo stai facendo?
Io sorrido.
- Pubbliche relazioni. – rispondo, ripescando dalla mia adolescenza una faccia di culo che mi sembrava di avere perduto – anche perché non credevo ne avrei più avuto bisogno – e che invece viene fuori con una semplicità disarmante, come fosse sempre stata lì in agguato in attesa del momento giusto per rifarsi viva. Probabilmente è stato così per davvero. Ed io avevo proprio ragione a dire a Chaku che chi viene da questo quartiere di merda prima o poi, in qualche modo, ci ritorna e basta. – Ciao, Samir. – ghigno cattivo, affondandogli la canna della pistola nella pancia, - Serata fredda, mh? – lui mugola e cerca di liberarsi, ma Chakuza scatta a tenerlo fermo per le braccia ed ora siamo in due a schiacciarlo contro la ringhiera. Non ha cosa fare. – Ho qualche domanda da farti, quindi ora devo liberarti la bocca. Però tu non urli, altrimenti io ti ammazzo. Sono stato chiaro?
Samir annuisce freneticamente ed io sollevo la mano, lasciandolo libero di parlare. Lo stringo per la spalla, però, così che non gli venga in mente di fare qualche stronzata che, teso come sono, mi porterebbe a sparargli per davvero, anche se non ho la minima voglia di concludere la serata in un bagno di sangue.
- Che cazzo volete? – chiede lui, una nota di terrore profondissima nella voce tremante.
Io sospiro e mi avvicino a lui.
- Guardami bene in faccia. – gli dico, - Mi riconosci, Samir? Lo sai chi sono?
Chakuza mi lancia un'occhiata allarmata ed io spero che non si faccia saltare in testa qualche idea geniale delle sue tipo scoprirsi il viso. Ne basta già uno nella merda fino al collo, ed è più giusto che quell'uno sia io, perché se stasera andasse tutto a puttane e per uno di noi qualcosa dovesse andare storto, non me la sentirei proprio di restare io con Bill ed i fantasmi di due uomini che hanno contato tanto. Meritatamente o meno.
Samir, comunque, annuisce e chiude la bocca, mandando giù a vuoto.
- Lo volevi morto anche tu, Bushido. – dice con rabbia, cercando di scattare in avanti, ma lo riporto indietro a sbattere contro la ringhiera.
- Errore. – sibilo, stringendolo al collo, - Non mi pare di aver autorizzato nessun omicidio, negli ultimi tempi, tantomeno quello di Bushido. – gli faccio presente, - Ma non fare l'avvocato del diavolo, stronzo, so che non sei stato tu a farlo fuori. – ghigno, - Tu hai fatto il gradasso col suo ragazzino, vero? – ipotizzo, e so che non sto toppando perché ad ammazzare Bushido non può davvero essere stato lui. Io c'ero, quella notte, io lo so che qualche stronzo ha fischiato. Ma non può essere stato questo stronzo qui. Lui non ne sa niente, di fischi e simili. – Coraggio. – lo incito, - Sì o no? Posso farti un sacco di male, Samir.
- Fler, cazzo! – mi chiama Chakuza, ma io lo ignoro.
- Cristo! – geme Samir quando sente la pistola schiacciarsi più profondamente contro il ventre, - È vero, Cristo, è vero! Lo sapevo che era una cazzo di storia pericolosa, quello stronzo di un libanese non mi ha lasciato scelta, cazzo!
E lì il tempo, per un bel po', si ferma. Non contano i secondi e la neve che cade, Chakuza diventa un pezzo di ghiaccio al mio fianco e la sua stretta attorno alle spalle di Samir si fa fortissima per un istante, prima di disperdersi lentamente e diventare nulla.
Io riesco solo a pensare che, cazzo, avevo ragione. C'era un solo stronzo cui Bushido potesse aver parlato del nostro fottuto fischio. Quello stronzo non poteva che essere il suo braccio destro. Quello che doveva accompagnarlo quella notte. Quello che doveva essere il testimone della sua morte. Baba Saad. Il libanese. Alla fine, è stato testimone della sua morte per davvero. Lo stronzo figlio di puttana.
Mollo Samir e mi tiro indietro, tenendogli sempre la pistola puntata contro. Lui solleva le mani in segno di resa ma Chakuza non si muove. Non lo sta stringendo, però è ancora lì, lo fissa e gli tiene le mani addosso.
- Peter. – lo chiamo, ed uso apposta il nome di battesimo, perché Peter può essere chiunque e Chakuza non dovrebbe essere qui. Lo guardo dove dovrebbe esserci la sua faccia, ma non vedo niente. C’è buio ed il cappuccio è tirato così in basso che quasi gli sfiora il naso. – Peter! – lo chiamo ancora, e lui si volta appena, - Vieni via.
Lo vedo che solleva un po’ il viso e mi lancia una mezza occhiata incerta. Samir ha ancora le mani bene in alto e respira con fatica, probabilmente pensa abbia una pistola anche lui e trova la sua vicinanza un tantino troppo spaventosa.
Chakuza si schiarisce la voce un paio di volte, inspira ed espira e poi inspira ancora e trattiene il fiato, tant’è che davanti a lui non si forma più condensa e dopo un po’ comincio perfino a preoccuparmi. Ma poi apre la bocca e parla, e quando lo fa mi si attorciglia qualcosa dentro perché il tono che usa è tremendo. Non è debole, non trema, non è allarmato. Non è neanche freddo e distaccato come dovrebbe, però. È qualcosa che si avvicina molto ad un’incredulità allucinata che fa un po’ male. Mi viene da pentirmi di un mucchio di cose. Tipo di averlo portato qui. Tipo di averlo costretto a sentire una cosa simile. Insomma. Non è stato giusto.
- Stai parlando di Baba Saad? – chiede, e Samir annuisce senza aspettare un attimo.
- Cazzo, chi altri? – rincara la dose, - Ehi, amico, dì a questo tizio di mollarmi, non so nient’altro, cazzo, e non gliel’ho infilato io il coltello nello stomaco, al tuo uomo!
Ringhio e lo mando a fanculo, per un attimo ho perfino paura che Chakuza reagisca in maniera troppo infastidita, cosa che darebbe modo a Samir di capire o almeno intuire chi ha davanti – ma a Chakuza non interessa del suo stomaco, adesso. Credo di poterlo capire.
Lo lascia andare e si allontana, venendo verso di me.
- Tutto a posto? – gli chiedo quando è abbastanza vicino, lui non risponde.
- Cristo, dovreste chiederlo a me se è tutto a posto! – sbotta Samir, massaggiandosi lo stomaco.
Tendo il braccio, puntandolo alla testa.
- Tu mi fai il favore di strozzarti con la tua stessa lingua, grazie. – dico, per chiarire nuovamente le posizioni, - Prima che io ti faccia qualcosa di peggio.
Samir solleva di nuovo le mani ed annuisce.
- Okay, okay, amico, ti ho detto tutto quello che sapevo! Mi lasci andare?
Annuisco e faccio cenno di muoversi con la pistola, Samir si china a raccogliere la sua roba e poi lo vedo allontanarsi zoppicante ed agitato verso il ponte. Mi avvicino a Chakuza, e comincio a preoccuparmi davvero perché la situazione non è bella, dobbiamo decidere cosa fare e lui continua a fissare il vuoto. La cosa non mi piace.
- Chaku, ehi. – gli do una pacca sulla spalla, non ho la più pallida idea di come cazzo consolarlo perché tutto ciò cui riesco a pensare è che la voglia di concludere la serata in un bagno di sangue è tornata all’improvviso quando Samir ha parlato. Solo che ora so con precisione di chi voglio che sia, il fottuto sangue. – Ehi, ci sei?
- Sì. – risponde seccamente lui, guardandomi. – Cazzo. Saad. – e lo dice come se si aspettasse da me un “assurdo, vero?”. Boh, non so, forse dovrei accontentarlo, ma la verità è che non lo penso. E però non posso stare qui a dirgli “guarda che io l’ho sempre sospettato, eh”. Cioè, con che faccia gliela dico una cosa simile? Perciò mi limito a stringere ancora di più la presa sulla sua spalla, e cercare di guardarlo comprensivo.
- Lo so, Atze, lo so. Senti, dobbiamo muoverci da qui. – gli faccio presente, - Non è sicuro e dobbiamo vedere cosa fare.
Lui si scosta con un ringhio frustrato.
- Ma cosa cazzo vuoi fare, Fler?! – strilla, ficcandosi le mani in tasca e muovendosi nervosamente in tondo nel gazebo, - Cristo, proprio lui! Cazzo! Fler, che cazzo facciamo?!
Mi passo una mano sugli occhi e sospiro pesantemente.
- Ci pensiamo dopo, Chaku. – gli vado dietro, riprendendolo per le spalle per cercare di tenerlo fermo, - Ehi, senti, mi servi calmo e concentrato, ok? – lui fa per divincolarsi. Lo stringo con più forza e lo costringo a girarsi e guardarmi negli occhi, e poi lo fisso nel modo in cui fisso sempre la gente quando voglio farmi ascoltare e obbedire. Come se non vedessi altro, cioè. – Chakuza, ho davvero bisogno di te. Non mi mollare adesso, stai calmo.
Lui respira con forza.
- Stiamo parlando di Bushido, qui. – mi fa notare, come non ne fossi perfettamente consapevole, - Cristo, è Saad che ha ammazzato Bushido! Ti rendi conto?!
- Sì che me ne rendo conto. – rispondo annuendo, - E credimi, non c’è nessuno che vorrebbe saltargli addosso e strangolarlo più di me, al momento, ma… - mi interrompo, perché realizzo all’improvviso che invece c’è qualcuno che vorrebbe saltargli addosso e strangolarlo più di me. E quel qualcuno è un ragazzino pallido e magro che gela nell’inverno di Berlino per andare a bere una cioccolata disgustosa nel posto in cui è andato con Bushido magari anche solo una volta, ma che continua a ricordare come se le volte invece fossero state mille. Deglutisco. – Chaku… - lo chiamo, mentre lui continua a fissarmi smarrito, - Dobbiamo andare da Bill.
Chakuza non dice niente. Neanche una parola. Chiude la bocca e spalanca gli occhi e non fiata, ma tutto quello che deve dirmi lo sta dicendo in silenzio, guardandomi in questo dannato modo che mi manda fuori di testa ed al quale vorrei tanto rispondere “okay, dai, Chaku, torniamo a casa e vediamo se c’è ancora un po’ di pollo con le patate avanzato dall’ultimo rifornimento dalla signora Lotte e poi guardiamo un po’ di tv fino a che non ci viene sonno e poi si vede”, ma non posso, cazzo, non posso assolutamente farlo, perciò lo stringo ancora per le spalle e cerco di sorridere un po’.
- Chakuza, io glielo devo, al ragazzino. Ho bisogno di dirglielo. Non lo metterà in pericolo, questa cosa la risolviamo stasera. – mi fermo ed esito un po’, - …o la risolvo. Se preferisci… restare con lui, dico.
- Fler… - si passa una mano sulla fronte come stesse realizzando solo adesso tutta l’intera situazione per com’è. Sembra che voglia dire qualcosa, si ferma e poi riprende lo stesso. - …non lo vedo né sento da settimane. – dice a bassa voce. Il suo tono è talmente cupo e profondo che mi dà i brividi. Mi viene voglia di dargli un cazzotto e non capisco neanche bene perché.
- Sì, lo so. – cerco di fermarlo, ma lui scuote il capo e si ostina.
- No, non lo sai, Fler, la situazione fra me e Bill è… complicata.
Mi manca il fiato. Vorrei che questa serata fosse già finita. Non avrei mai voluto parlare di questa cosa, non con Chakuza, almeno. Con Bill è diverso, con Bill è tutto sempre molto più etereo e meno realistico. Cristo, se anche Bill mi dicesse in faccia e a chiare lettere che è innamorato di lui, non farebbe male nemmeno un quarto di quanto potrebbe fare male se invece…
- Lo so. – deglutisco a fatica. E quando lui prova a riprendere a parlare gli poso una mano sulle labbra e lo zittisco definitivamente. – Ti dico che lo so. Okay? Lo so. Ma, Chakuza, forse è vero che io ho la responsabilità della tua vita, d’accordo, però è molto più vero che invece tu hai la responsabilità della sua. Quindi ora basta con le cazzate, d’accordo? – sospiro e scuoto il capo. – Andrà tutto… esattamente per il verso migliore. Chiaro? Perciò ora piantala e torna in te. Non esiste farti vedere dal ragazzino in queste condizioni. Okay?
Quando lo lascio libero di parlare, Chakuza mi manda a fanculo. Proprio così, senza pensarci nemmeno un secondo, mi dice “vaffanculo, Fler”, e non aggiunge altro. Rimane lì con una mano sugli occhi a massaggiarsi le tempie col pollice e l’indice ed io continuo a tenergli le mani sulle spalle e stringere un po’ per fargli coraggio, e lui resta zitto per un sacco di tempo, mentre io non faccio altro che guardarlo. Quel vaffanculo era pieno di roba, Chakuza ce l’ha con me per un sacco di motivi, adesso, ma non si scosta, quindi va bene. Cioè, è incazzato ma non vuole davvero mandarmi a fanculo, e questa è una cosa buona, almeno per il momento.
Solleva lo sguardo solo qualche secondo dopo.
- D’accordo. – annuisce, - Andiamo.
Il tragitto in macchina non è silenzioso come mi aspettavo. Non so, credevo che avrebbe guidato in silenzio assoluto fino a casa di Bill e che avrebbe sclerato solo una volta lì, magari prima di entrare. E che poi si sarebbe calmato automaticamente, giocoforza, quando avremmo detto tutto a Bill e sarebbe stato il turno suo, del ragazzino, dico, di sclerare come si deve.
E invece no, sclera da subito, già in macchina, e per nascondere il fatto che sta sclerando si mette lì a farmi domande assurde delle quali non capisco il senso, perché se si aspetta da me che abbia una risposta a cose tipo “e quando lo prendiamo, che facciamo?” è veramente fuori strada. Come cazzo fa uno ad avere risposte simili?
- Cristo, Fler, ma non hai pensato a niente, prima di venire fino a qui?! – ringhia, costeggiando il canale per uscire da Tempelhof.
- Non contavo di dover fare niente di simile, stasera. – cerco di farlo ragionare, - E comunque calmati, Chaku.
- Non dirmi di stare calmo! Cosa facciamo? Lo portiamo alla polizia? Ma non ci crederà nessuno, Cristo, non possiamo portare uno spacciatore zoppo come testimone di un omicidio che non ha visto e per il quale non ha prove, cazzo!
- Ci inventeremo qualcosa, dai. Calmati.
- Non dirmi di stare calmo, Cristo santo, Fler! Non senti come suona male la frase? Stai calmo non puoi dirmelo mentre andiamo a casa di Bill per parlargli dell’assassino di Bushido!
Batto un pugno contro lo sportello.
- E allora vaffanculo, diventa isterico! – concedo urlando, - Cristo, sei una piaga!
Lui non risponde, si lascia andare ad un grugnito frustrato e stringe le dita attorno al volante. Riprende a parlare solo dopo molti minuti, quando siamo già nei paraggi di casa di Tom. Gli ho detto io di venire qui. Chakuza non sapeva che Bill si fosse trasferito da suo fratello, nell’ultimo periodo.
- Fler. – mi chiama, nella voce una strana tranquillità rassegnata che mi preoccupa un po’. – Voglio che, quando questa faccenda si sarà risolta, torni tutto come prima.
Esito per qualche secondo, mordendomi l’interno di una guancia.
- Prima quando? Quando non ci conoscevamo e Bushido era vivo?
Chakuza scuote il capo.
- Prima di venire a Tempelhof. – risponde senza guardarmi, – Quel prima lì.
Abbasso lo sguardo.
Non ce la farò mai a dirgli che voglio andare via.
- D’accordo. – annuisco, – Ora però sta’ tranquillo.
Ed annuisce anche lui.
Arriviamo a casa di Tom e per un po’ ci guardiamo intorno spaesati come non riconoscessimo l’ambiente. Chakuza ride nervosamente e rido anche io. È incredibile, sono questi i paesaggi urbani cui siamo abituati, ma per qualche ragione questo condominio che non c’entra niente con Tempelhof in questo momento ci disorienta.
Suoniamo educatamente al citofono e per un attimo dimentichiamo pure che abbiamo fretta e un assassino da recuperare: come fai ad attaccarti al campanello e suonare come ne andasse della tua vita, in un posto simile? Svegli i condomini. Ti insegue il custode coi dobermann, tipo, soprattutto a quest’orario indecente della notte. Mentre suono, guardo Chakuza e lui guarda me e ci passano per la mente gli stessi pensieri idioti: magari dormono, per dire. Non dovrebbe interessarci che i gemelli dormano o no, questa cosa è decisamente più importante, ma ci pensiamo lo stesso. È assurdo e mi viene di nuovo da ridere. Chakuza in effetti una mezza risata la sbuffa, ma poi scuote il capo e si ferma, così evito anche io.
- Sì? – la voce che mi risponde dall’altro lato è impastata e profonda, sa di sonno nonostante il citofono ne deformi i toni verso una nota fastidiosamente metallica. È una cosa tipica dei citofoni moderni iperfunzionali, ti scombussolano la voce. Quando parlo con Chaku al suo citofono scassato mi sembra quasi di avercelo davanti ed invece qui mi pare che la voce di Tom provenga da un altro pianeta.
- Tom? – chiedo un po’ incerto. Guardo Chakuza e, mentre realizzo che questo ragazzo fino a un anno fa andava in giro dicendo che adorava l’Aggro Berlin, lui mi fa cenno di spostarmi e prende la parola.
- Sono Chakuza. – dice con sicurezza, - Mi apri?
Lui resta un attimo in silenzio.
- Ma quello era Fler? – chiede, senza rispondere alla domanda.
Io inarco le sopracciglia e guardo Chakuza. Lui solleva gli occhi al cielo e sospira.
- Sì, Tom. Mi apri?
- Ma che ci fa qui Fler? – continua a chiedere Tom, come neanche lo sentisse, - Ma sono le tre del mattino! Cosa ci fa qui Fler? – un secondo di pausa, - E cosa ci fai qui tu?
- Grazie per aver ricordato la mia esistenza. – grugnisce Chakuza, appoggiandosi al muro, - Mi apri o no?
- Ma cosa vuoi?! – chiede ancora lui, ed io sospiro pesantemente. Un attimo prima che Chakuza si metta a lanciargli improperi di ogni tipo, gli tappo la bocca e lo scanso dall’altoparlante del citofono, schiarendomi la voce.
- Tom? – lo chiamo senza presentarmi, visto che ormai sono ragionevolmente sicuro che, nonostante le distorsioni del citofono, mi riconoscerà comunque, - Abbiamo bisogno di parlare con tuo fratello.
- Bill sta- - fa per lamentarsi lui, ma lo fermo.
- Lo so che è molto tardi e probabilmente Bill starà dormendo, ma abbiamo davvero bisogno di parlargli. – chiarisco calmo. – Ci fai salire, per favore?
Tom esita solo un attimo.
- Okay. – dice infine, facendo scattare la serratura del portone.
- Potevi aprire anche a me, Tom! – sbraita al citofono Chakuza, alle mie spalle.
- Lui ha chiesto per favore! – risponde piccato Tom, spaccando per l’ultima volta il silenzio della notte, prima di riagganciare.
Quando le porte scorrevoli dell’ascensore gigantesco con cui saliamo al settimo piano si spalancano, annunciando il nostro arrivo con un avviso sonoro da chiamata aeroportuale, mi ritrovo di fronte Bill che mi fissa con gli occhi spalancati dalla soglia di casa. Indossa una vecchia tuta azzurra ed una felpa nera con un logo talmente sbiadito da essere ormai irriconoscibile, ha i capelli tirati in una coda bassa dietro la nuca e, nel complesso, non sembra avere molto più di quindici anni. Sospiro pesantemente e mi faccio avanti.
Il guaio è che, appresso a me, viene pure Chaku. L’aria cambia consistenza appena mette piede sul pianerottolo, la sento tendersi tutta. Bill stringe le mani attorno agli stipiti della porta affondando quasi le unghie nel legno. Mi viene paura per la forza che ci mette, potrebbe farsi male. Le nocche sono diventate bianchissime per lo sforzo.
Chakuza rimane immobile e lo guarda, non s’è mosso molto dall’ascensore, è rimasto lì a due passi. La porta non si richiude perché lui continua a stare nel raggio d’azione della cellula fotoelettrica, e questo particolare insignificante mi irrita così tanto che mi viene voglia alternativamente sia di spingerlo di nuovo in cabina che di tirarlo via di lì per un orecchio.
Il primo a parlare è Bill. Deglutisce di prepotenza – sul suo collo magro il pomo d’adamo fa un viaggio difficilissimo, prima di tornare al proprio posto – e poi forza un mezzo sorriso.
- Ciao… - dice a bassa voce. E sta parlando solo con lui. Aggrotto le sopracciglia e tossicchio, e lui si volta a guardarmi, - Ciao, Fler. – aggiunge con calore, dimostrando ampiamente, neanche a farlo apposta, che in effetti fino ad un secondo fa non aveva nemmeno registrato la mia presenza in questo dannato corridoio.
Rispondo con un cenno del capo mentre Chakuza finalmente mi si affianca e solleva una mano per salutarlo. Il momento d’imbarazzo che segue il suo avvicinarsi a Bill è talmente deprimente che mi ritrovo ad incrociare le braccia e sospirare come una vecchia madre esasperata, e batto nervosamente un piede per terra. La moquette che ricopre tutto il corridoio impedisce alle mie scarpe di fare rumore, perciò fortunatamente non se ne accorge nessuno.
- Io direi – sbotto irritato, - che la questione fra voi due potete tranquillamente risolverla dopo. – e fatto entrambi una specie di mezzo salto, sollevano gli sguardi su di me e mi fissano allarmati come avessi appena pronunciato una qualche parola proibita. Me ne frego altamente e continuo, - Bill, io e Chakuza siamo stati un po’ in giro, ultimamente.
Lui annuisce senza capire. Non mi stupisce, è che mi blocco un po’ perché avrei preferito fosse più ricettivo. Sì, ok, sono le tre del mattino. Ma non è per niente facile quello che sto per dirgli e vorrei un po’ d’aiuto, solo che naturalmente non posso aspettarmelo da Chakuza, che ha palesemente smesso di pensare quando siamo entrati in ascensore, e non posso aspettarmelo neanche da Bill, che non è messo tanto meglio di lui e continua a fissarmi con questi occhi da cerbiatto sperduto.
Sospiro e gliela butto lì tutta. Nella maniera più semplice che posso. Gli parlo delle nottate a Tempelhof, dei tunisini, del ragazzino, di Samir e quando arrivo a Saad cerco di non esitare perché so che se esito è la fine, perciò mi faccio forza e lo dico. Avevi il nemico nascosto fra gli alleati, ragazzino, e non sei riuscito ad accorgertene. Non è posto per te, questo. Ma, chissà perché, piuttosto che allontanartene preferisco proteggerti e tenertici.
Bill non dice niente per un sacco di tempo, quando finisco di parlare. Continua a guardarmi in maniera quasi fastidiosa, come se si aspettasse altro. Ma non ho altro da dargli. Posso offrirgli la testa dello stronzo su un piatto d’argento, se vuole, ma dovrà concedermi un po’ di tempo in più se è questo il suo desiderio.
Deglutisce ed allenta un po’ la presa sugli stipiti prima di tornare a stringerli.
- Cosa avete intenzione di fare, adesso? – chiede pacatamente, e per qualche strana ragione a lui riesco a rispondere. Quando me l’ha chiesto Chakuza non ho avuto idea di cosa dirgli, ma di fronte agli occhi di Bill – che adesso brillano di rabbia in un modo del tutto nuovo rispetto alle altre volte in cui li ho visti brillare – so esattamente qual è il mio dovere.
- Gli andiamo dietro. Cerchiamo di beccarlo prima che lo avvertano ed abbia il tempo di scappare. – rispondo deciso.
Chakuza mi solleva addosso uno sguardo allucinato, ma io lo ignoro. Tutto ciò che mi importa è che invece Bill annuisce con approvazione.
E poi dice una cosa assurda.
- Vengo con voi.
- No! – sbottiamo contemporaneamente io, Chakuza e Tom. Allungo il collo per osservare dietro le spalle di Bill, ed in effetti suo fratello sta lì e lo guarda con aria inorridita, le mani piantate sui fianchi e una cascata di dread sciolti sulle spalle.
- Bill, sarà molto pericoloso. – gli fa presente Chakuza.
- E faticoso. – aggiungo io, inarcando le sopracciglia.
- E sono le tre del mattino! – conclude Tom, cercando di staccare il fratello dalla porta, senza peraltro riuscirci.
Bill ci guarda tutti e tre con tanta di quella supponenza da mettermi addosso i brividi, e per un attimo mi chiedo da dove venga quello sguardo. È solo un attimo, comunque, perché poi lo ricordo subito e sospiro: so già cosa dirà.
- Non sono affari vostri. – ci ricorda freddo, - E non mi sembra di aver chiesto nessun permesso. – si volta e guarda suo fratello. – Tomi? Fammi passare. – lui deglutisce e si fa da parte. Bill fa un passo e poi torna a guardarci, - Aspettatemi qui. – dice annuendo, - Metto le scarpe da tennis e torno. Faccio in un attimo. – ed è l’ultima cosa che sentiamo prima di vederlo scomparire in corridoio.
Io e Tom restiamo a guardarci per un po’ e non è affatto piacevole. Non lo so, mi fissa come se nemmeno mi vedesse, eppure per certi versi mi pare anche che mi guardi come se in tutto il resto del mondo non riuscisse a vedere altro. Dio quant’è fastidioso. Mi volto verso Chakuza e gli dico di aspettare lui Bill, mentre io comincio a scendere, ma lui mi arpiona per un polso e mi sibila un “non ci provare nemmeno” che mi fa spalancare gli occhi, perciò ammutolisco e resto lì, ma mi appoggio contro il muro, così da interrompere il contatto visivo. Tant’è che la cosa successiva che vedo, a parte l’ascensore che resta immobile in attesa che qualcuno lo chiami, è Bill stesso, che mi si presenta davanti avvolto in un piumino che lo ingloba praticamente tutto ed un cappello a cuffietta sulla testa. E le scarpe da tennis, ovviamente.
Mi guarda e sorride appena. Io mi rimetto dritto e faccio strada verso l’ascensore – quello che mi succede alle spalle, oltre il brusio insoddisfatto di Tom e la voce di Bill che lo rassicura sul fatto che tornerà presto, non più tardi dell’alba, mentendo palesemente, perché io non so nemmeno se torneremo, figurarsi avere un orario preciso, insomma, quello che sta succedendo dietro di me, non voglio saperlo. Vale a dire che se Bill e Chakuza si stanno lanciando occhiate particolari o che so io, se si stanno bisbigliando qualcosa, qualsiasi cosa stiano facendo, io non voglio saperla. Sto bene così.
Quando c’infiliamo in macchina e ci dirigiamo verso casa di Saad – e Chaku si trova finalmente qualcosa da fare, concentrandosi solo sulla guida e sulla strada da percorrere – Bill, che sta seduto dietro, sui sedili posteriori, si mette al centro e si sporge in avanti, incastrandosi fra i nostri sedili e sporgendo la testa a guardarmi. L’immagine in sé è molto tenera, sembra un bambino a spasso coi genitori. Però, appena questo pensiero mi attraversa la mente, mi sale una pelle d’oca assurda ovunque, perciò lo accantono e gli do retta, visto che nel mentre ha anche cominciato a parlare.
- Fler. – mi chiama pacatamente, - Quando lo prenderemo, cosa pensi che succederà?
La sua calma un po’ mi rassicura, perciò scrollo le spalle e sbuffo con naturalezza.
- Non lo so ancora, ragazzino. – ammetto. Poi sorrido, - La principessa ha qualche suggerimento?
Lui non abbassa lo sguardo neanche un secondo, e nei suoi occhi non passa neanche un’ombra d’incertezza.
- Io voglio farlo fuori. – dice, con un candore inquietante. E capisco che forse della sua serenità dovrei preoccuparmi. E un po’ m’incazzo con Anis, perché se Bill oggi è così, se è qui con noi che mette a rischio la propria vita e parla di uccidere Saad, se non è in giro con un gruppo di diciannovenni scemi a sfondarsi di rum e cola e scopare in giro, è colpa sua. Che non è stato capace di tenerlo lontano da questa mentalità del cazzo fino a che non è stato troppo tardi.
Mi lascio andare ad una risatina nervosa, mentre Chakuza stacca gli occhi dalla strada per la prima volta da quando è salito in macchina e lancia un’occhiata allarmata prima a lui e poi a me. Scrollo le spalle e gli indico il semaforo, deve fermarsi. Cerco di ignorare le ultime parole di Bill, perché l’eventualità che Saad possa rimetterci la pelle stasera c’è. E non so se sarebbe un bene o un male, se succedesse.
Quando arriviamo sotto al palazzo, mi guardo istintivamente intorno per cercare la macchina di Saad – e la voce di Anis mi risuona in testa: “quando prepari un agguato, ricordati sempre di controllare che lo stronzo che vuoi fare fuori non possa fuggire” – ma poi ricordo che non ho la minima idea di che macchina sia la macchina di Saad, e quando faccio per chiederlo a Chakuza lo vedo già muoversi tranquillamente verso il citofono, con estrema calma. Quando si accorge che lo sto guardando, si ferma un attimo – Bill è ancora impegnato a non affondare nel proprio giubbotto mentre si tira fuori dal catorcio di Chaku – e mi lancia un’occhiata incerta, come a chiedermi se sta facendo le cose per bene. Annuisco ed indico con un cenno del capo il citofono, per dirgli che va bene, l’intuizione era giusta, può andare.
Quando suona il campanello noi restiamo tutti tesi e in silenzio, e dopo un po’ sentiamo una voce di donna che risponde un po’ incerta. Faccio cenno a Bill di restare in silenzio e guardo fisso Chakuza mentre dice alla donna che si scusa per l’orario, ma ha urgentemente bisogno di parlare con Saad. La donna si lamenta, gli chiede se può passare domattina e lo fa con una certa confidenza, perciò immagino si tratti della moglie. Chakuza insiste, la signora esita e tergiversa, Saad dorme, la bambina pure – c’è una bambina? – insomma, Peter, ti sembra modo di presentarti così a casa dalla gente per bene?, e Chakuza insiste, si scusa e chiede di entrare, per favore Greta, è una cosa urgente, altrimenti non sarei mai venuto, e così alla fine lei cede, “d’accordo,” dice, “ma Saad non ne sarà contento”, ed io e Bill ci scocchiamo un’occhiata supponente inarcando lo stesso sopracciglio ironico. Non ne sarà contento eccome.
Quando scatta l’apertura del portone, Bill fa per passarmi davanti e prendere per primo le scale, ma io e Chakuza scattiamo ad afferrarlo uno per braccio e lui si ritrova tirato indietro in una mossa un po’ comica. Chaku lo lascia andare subito, come scottasse, io invece lo tengo ben stretto.
- Dietro, ragazzino. – borbotto contrariato, - Niente colpi di testa.
- Non volevo fare niente di male. – dice lui con un mezzo broncio. Non ci credo nemmeno se lo giura.
- Dietro. – ripeto, e faccio cenno a Chaku di darsi una mossa ad entrare.
Lui obbedisce e ci ritroviamo a salire le scale in fila indiana, lui davanti, io nel mezzo e Bill dietro che saltella e si sporge oltre le mie spalle per cercare, non lo so, di essere il primo a vedere Saad quando saremo di fronte alla porta. Lo fa con un’ansia tutta particolare, neanche fosse possibile uccidere con gli occhi e lui volesse assicurarsi di essere proprio il primo a farlo. Penso che no, non è possibile uccidere con gli occhi. Penso che però un po’ Bushido ci riusciva a farti male in quel modo. E Bill ha imparato tanto da lui.
Capisco che c’è qualcosa che non va nel momento in cui arriviamo sulla porta e ad attenderci troviamo la signora. Le abbiamo detto che volevamo parlare con Saad. Ma non c’è Saad assieme a lei. È sola. E non capisco perché.
Lancio un’occhiata allarmata a Chakuza, che però mi dà le spalle e quindi non mi vede, e fa un gran sorriso alla tipa, chiamandola pure per nome e sporgendosi a salutarla – lei risponde quasi senza toccarlo, tesa come una corda di violino.
- Allora, dov’è Saad? – chiede Chakuza, e lo sguardo di lei vaga un po’ oltre le sue spalle ed incontra noi, me e Bill, dico, che non facciamo una piega.
- Loro che ci fanno qui? – domanda con un filo di voce. Chakuza fa fatica a non balbettare una scusa a caso.
- Mi hanno accompagnato. Ma non entrano, tranquilla. – cerca di rassicurarla, continuando a sorridere, - Non entra nessuno, non vogliamo disturbare la bambina. Fai solo uscire Saad, per favore?
Lei esita ancora, e mentre io sono lì che sbuffo contro queste madri iperprotettive moderne – mia madre volendo mi lasciava fuori casa anche fino all’una del mattino, non che fosse una cattiva donna, solo che aveva capito di che pasta ero fatto, ecco tutto – vedo un’ombra che si muove alle sue spalle e capisco che no, non sta iperproteggendo nessuno, la bambina non c’entra, questa qui non ha intenzione né di farci entrare né di fare uscire nessuno.
- Chaku, togliti di mezzo. – sibilo burbero, e quando arrivo di fronte alla donna la guardo e dico “mi scusi” prima di prenderla di peso e spostarla letteralmente dall’altro lato della stanza, così improvvisamente che lei perde l’equilibrio e si accascia sulla moquette, e la prima cosa che fa è puntellarsi al pavimento e strillare “scappa!”, ed è lì che solleviamo tutti e tre gli occhi e quella che era solo un’ombra scura diventa Saad che afferra un paio di chiavi e prende un corridoio del quale da qui non riusciamo a vedere la direzione. – Cristo! – impreco furioso, ignoro la donna che cerca di fermarmi e mi lancio al suo inseguimento. Mi guardo indietro solo una volta, giusto per vedere se Bill e Chaku mi stanno seguendo, e quando mi accerto che lo stiano facendo e che Chaku stia dietro a Bill – che va un po’ troppo lento, per i miei gusti – mi concentro solamente sulla corsa.
La voce di Anis si fa sentire ancora. Me che continuo a girarmi indietro mentre scappiamo da non mi ricordo chi e lui che ride e dice “Guarda che devi scappare guardando in avanti, Frank. È la fine della strada, quella che ti interessa, non l’inizio”. Ed io che comincio a correre guardando solo lui. Perché tanto sta davanti a me. Lui e la fine della strada sono la stessa cosa.
Mentre imbocco il corridoio passo davanti ad una camera con la porta aperta e c’è una ragazzina seduta sul letto. Avrà dodici anni, tipo, è bionda e sottilissima, non riesco a vedere molto, un po’ perché la stanza è buia ed un po’ perché vado di fretta. È bionda e sottilissima, però, e indossa un pigiama bianco. Il padre di questa bambina è un assassino e probabilmente morirà prima di stasera.
Mi ripeto che è la vita che mi sono scelto e tiro dritto.
Saad è un corpo che si allontana. Imbocca una porticina laterale alla fine del corridoio e quando lo raggiungo lo trovo che cerca di mettere in moto la macchina. I passi di Chakuza e Bill mi inseguono, sono lenti, cazzo, così non va, se poi quello prende la macchina siamo fottuti, ma la macchina non parte ed io lo vedo attraversarla tutta fino ad uscire dallo sportello del passeggero e lanciarsi in una corsa furiosa oltre la saracinesca del garage, che si apre così lentamente che lui è costretto a piegarsi in due per uscirne.
Quando riesco ad uscire anche io, lo vedo arrampicarsi sulla scala antincendio che risale esternamente tutto il palazzo fino alla terrazza e, dopo essermi chiesto cosa cazzo voglia fare, mi metto a sperare che non chiuda la questione in qualche modo da bastardo tipo gettandosi di sotto.
- Stronzo! – gli urlo dietro, faccio per salire a mia volta ma mi guardo alle spalle e Chakuza e Bill non ci sono, perciò mi fermo e continuo a urlare, - Stronzo! Non ci pensare neanche! – e vorrei aggiungere che non ce l’ha il diritto di togliersi di mezzo, e poi penso per un attimo che quel diritto è di Bill, ma è un pensiero fugace: in realtà c’è qualcosa dentro di me che sta urlando di rabbia perché io a quest’uomo voglio strappare il cuore, cazzo. Ha ammazzato Bushido. Ha fatto passare me per un assassino. Cristo… ha ammazzato Anis.
Scalpito per cominciare la scalata e quando Chakuza e Bill escono finalmente dal garage mi metto a urlare anche contro di loro.
- Chakuza, Cristo santo, muovetevi!
Lui ringhia e posa una mano sulla schiena di Bill, spingendolo in avanti. Il ragazzino ansima neanche avesse corso in tondo per tutta la città.
- Te l’avevo detto. – grugnisco impaziente, - È salito di sopra. Dobbiamo andargli dietro. – e cerco di spiegare in fretta, perché lo vedo allontanarsi verso l’alto e non ho la minima idea di dove potrebbe andare una volta in terrazza.
Bill lancia una lunga occhiata terrorizzata alla scala antincendio e poi guarda me.
- Sì, fin lassù, Bill. – confermo senza attendere la sua domanda. Dopodiché, ho appena il tempo di scorgere con la coda dell’occhio Chakuza che gli posa una mano sulla spalla e gli chiede se ce la fa, che comincio a salire sbraitando che se non vogliono essere lasciati indietro faranno meglio a darsi una fottuta mossa.
La situazione è incasinata perché, se da un lato vorrei concentrarmi solo su Saad – che nel mentre sarà circa tre piani sopra di noi, il che vuol dire che fra meno di due minuti raggiungerà la terrazza, lo stronzo – dall’altro non riesco proprio a disinteressarmi di quello che mi succede alle spalle, ed il respiro forte di Chakuza si mischia a quello stremato di Bill, così ogni tanto mi volto e mi fermo. Un po’ li aspetto, un po’ li aiuto – al quinto piano Bill è talmente stanco che continua a incespicare negli scalini, perciò mentre Chakuza lo regge per la vita io lo tiro per le braccia e stiamo lì in due a sussurrare “coraggio Bill, ci siamo quasi”, e lui lì a fare l’ometto, “sto bene, tranquilli”, ma è stravolto al punto che mi viene un po’ voglia di tirarlo su di peso e trascinarmelo in braccio fino al tetto. Chakuza, d’altronde, non è che stia poi tanto meglio. Ed anche io, cazzo, non corro con ritmi simili da quando avevo sedici anni. La situazione è davvero incasinata.
E noi siamo davvero troppo lenti, me ne accorgo quando riusciamo ad arrivare in terrazza e, mentre lascio qualche secondo a Bill per riprendersi – e commentare che i tetti almeno sono tutti pianeggianti, perciò può risparmiarsi l’arrampicata – vedo Saad che è già passato sul tetto del palazzo accanto e sta correndo spedito verso il successivo.
Mi passo una mano sulla fronte, si gela e sono sudatissimo. Bill, imbacuccato nel giubbotto, s’è rimesso dritto.
- Stai bene? – gli chiedo, - Sei un danno. – aggiungo mentre lui annuisce e sorride un po’, intimidito. – Lo capisci che dobbiamo inseguirlo ancora, vero?
- Fler, lo sa. – mi interrompe Chakuza, aggrottando un po’ le sopracciglia. Io gli lancio un’occhiataccia inviperita.
- Tu bada a stargli dietro. – lo rimprovero, ed il fatto che lui si rifiuti di abbassare lo sguardo e continui a fissarmi con rabbia mi dà un po’ la misura di quanto io stia passando il segno, stasera. – Scusa. – mi correggo sospirando, - Non volevo essere-
- D’accordo. – mi dà una pacca sulla spalla ed indica Saad che si allontana. – Fai strada.
Io annuisco, guardo Bill e vedo che annuisce anche lui, perciò mi volto e riprendo a correre. Passare da un tetto all’altro è perfino facile, in questo condominio di blocchi di cemento tutti uguali, alti e monotoni. C’è solo da seguire la traccia, quell’ombra che si allontana senza variare di un millimetro il proprio percorso in linea retta.
Dobbiamo solo essere un po’ più veloci.
In effetti, l’assenza di scale aiuta: sul terreno pianeggiante Bill se la cava decisamente meglio e, dovendo badare meno a lui, anche Chakuza è molto più svelto. Saad è agitato e corre come una dannata antilope, fanculo a lui, mentre al quarto tetto io comincio a sentirmi un po’ appesantito. Prego non mi prenda un crampo. Non manderei Bill e Chakuza avanti neanche se ne andasse della mia vita. I motivi sono troppi per realizzarli tutti, adesso.
Ho un po’ perso il conto delle terrazze, quando Saad si decide ad imboccare una scala antincendio che lo riporterà in strada. Non so quante terrazze abbiamo passato, ma so che adesso siamo abbastanza vicini. Lo so perché assieme agli ansiti sconnessi e affaticati di Bill e Chakuza – ho un attimo di panico nel pensare che dovrò far scendere le scale a Bill, ho paura che ceda e cada, Cristo – riesco a sentire anche gli ansiti del bastardo. È talmente vicino che sento quasi l’odore del suo sudore. E sento che è terrorizzato.
- Ci siamo. – ansimo appoggiandomi al corrimano ghiacciato della scala che ha imboccato Saad, - Dobbiamo riprenderlo adesso. Per forza. – guardo in basso, non è tanti piani sotto di noi. Dobbiamo darci una mossa. – Bill. – lui solleva lo sguardo ed è talmente stanco che ha gli occhi annebbiati. Non sono neanche sicuro che mi veda bene. – Bill, ascoltami. Ci siamo quasi. Ci sei?
Lui annuisce debolmente.
- Sto bene… - esala in un fiato.
- No che non stai bene. – lo correggo io, mentre Chakuza lo sostiene tenendolo per un braccio, - Ma pensa che dopo potrai farti una bella vacanza. A costo di portarti io personalmente da qualche parte. D’accordo? Solo stanotte. Poi basta correre. Okay?
Bill annuisce ancora e raddrizza la schiena.
- Ce la faccio. – dice con più sicurezza, - Davvero.
Lancio un’occhiata a Chakuza, lui annuisce ed è tutto quello che mi serve sapere. Non lo lascerebbe mai cadere di sotto, questo lo so. E tanto mi basta. Mi lancio giù per la rampa senza assicurarmi che Bill e Chakuza mi seguano: devo riacciuffare Saad. Devo farlo e devo farlo per primo. Ci sono momenti in cui lo vedo così vicino che penso che se allungassi una mano lo toccherei, ma quando faccio per stendere il braccio ed afferrarlo davvero non ci riesco mai. Continuo a corrergli dietro per tutti i fottuti piani di questo fottuto palazzo che mi sembra alto quanto un grattacielo.
Quando riesco a prenderlo, succede all’improvviso. Come succede sempre tutto nella vita. Quello che ti aspetti non succede mai. Quello che non pensi si verifica sempre. Perdi di vista l’amico di una vita. Quell’amico muore. Finisci a letto con la persona sbagliata.
Io allungo il braccio e prendo Saad. Mi butto addosso a lui con violenza, col preciso intento di gettarlo a terra, e così perdiamo l’equilibrio e rotoliamo lungo tutta l’ultima rampa di scale, al punto che la prima cosa ferma che sento sotto la schiena è la consistenza granulosa e umida dell’asfalto bagnato. La neve sciolta impregna il giubbotto e i vestiti di sotto. C’è un freddo fottuto. Stringo Saad fra le braccia e non so com’è che non l’ho ancora fatto fuori personalmente.
Lui si dibatte, prova a tirarmi un calcio, io sento dolore a una tempia e non capisco se le gocce che mi bagnano lo zigomo al momento sono di sudore o di sangue. Sulla scia bagnata soffia un vento gelido che mi fa rabbrividire, ma non mollo la presa e lo tengo immobilizzato a terra.
- Cristo santo, stai fermo o giuro su Dio che ti ammazzo a sangue freddo e poi torno indietro ed ammazzo anche tua moglie e tua figlia, stronzo! Dico sul serio, cazzo! – gli urlo nell’orecchio, e per fargli capire che faccio sul serio lo stringo alla gola con un braccio. Stringo tanto e stringo forte, al punto che lo sento tossire affaticato ed il suo fiato si disperde in un incerto sbuffo di condensa tutto intorno a lui.
- Fler! – urla Chakuza, esausto, quando lui e Bill riescono a completare la discesa delle scale.
- Alla buon’ora, cazzo! – urlo io. Ed urlo come un pazzo. Non ho il minimo controllo sulla mia voce e neanche su quello che sto dicendo, - Toglietemelo dalle mani, toglietemelo dalle mani perché altrimenti gli spezzo il collo! Toglietemelo dalle mani! – e continuo a stringerlo. Ed ho anche un po’ l’impressione che se solo Bill o Chakuza si avvicinassero per cercare di liberarlo, mangerei loro il cuore.
E invece non mangio il cuore di nessuno, quando Chakuza mi si avvicina e si china su di me nemmeno mi muovo. Lo vedo che tiene Saad fermo per le braccia e poi annuisce, come a dirmi “ok, ora puoi lasciarlo”. Ed io lo lascio. Lo lascio, Cristo. Potrei ammazzarlo e lo lascio, invece. E rimango lì accovacciato in terra come un coglione, fissando in cagnesco lo stronzo che ha ammazzato Bushido mentre Chakuza lo tira lontano – e non fa neanche molta fatica, visto che la caduta dalle scale ha rincoglionito molto più lui che me.
Bill mi è accanto in un attimo.
- Fler! – mi chiama, inginocchiandosi al mio fianco, - Sei ferito! – mi passa una mano sulla tempia ed è gelida, nonostante abbia corso fino ad adesso. Quando mi volto a guardarlo vedo che ha le dita ricoperte di sangue.
- Non è nulla di grave. – borbotto, rimettendomi in piedi. Passo il dorso della mano sulla ferita per ripulirmi, ma quando lo faccio brucia da morire e sento la pelle tirare. Dev’essere un brutto taglio, ma ci penserò dopo.
Nel mentre Saad si riscuote, si rende conto di non riuscire a muoversi e comincia ad agitarsi, tant’è che Chakuza mi grida di avvicinarmi e cerca di tenerlo stretto come può. Saad scoppia a ridere ed è una risata che ho sentito qualche volta, quand’ero ragazzino. Bushido, quand’era ancora Sonny Black, le riduceva così le persone. Lui ghignava e quelli davano di matto e ridevano. Ridevano e ridevano, eccome. E lui continuava a ghignare e in genere quello che seguiva non era mai una bella cosa. Quando lo seguivo, di notte, ogni tanto mi chiedevo come fosse possibile che uno che faceva ciò che faceva lui fosse ancora a piede libero. Questo mi ha insegnato che la libertà non te la guadagni, te la prendi e basta, che tu la meriti o meno. È una lezione importante, perché è molto più realistica di qualsiasi cazzata sulla giustizia possano infilarti in testa mentre cercano di farti crescere come un essere umano normale.
Mi avvicino per dare una mano al Chaku e Saad mi guarda dritto in faccia con quegli occhi verdi e scuri che brillano di rabbia nella notte, e parla.
- Alla fine sei venuto allo scoperto. – mi dice, sorridendo strafottente, - Lo sapevo che quello veramente pericoloso saresti stato tu. Bushido è per sempre, eh? Una volta che ti mette le mani addosso…
- Sta’ zitto, stronzo! – urlo, restando a qualche passo da lui per il semplice fatto che, se dovessi davvero avvicinarmi di più, in questo momento, lui non sopravvivrebbe. Ed invece leggo negli occhi di Chakuza il desiderio chiaro e preciso di evitare altro sangue, per oggi, perciò mi fermo.
Saad ride ancora.
- Non lo sai? – continua a prendermi per il culo, - All’EGJ lo dicevamo sempre, anche quando Bushido era ancora vivo. Che in realtà ti aveva scopato ed era questo, il tuo problema, eri geloso della principessa. Ci ridevamo un casino, diglielo anche tu, Chaku. Ci rideva anche Anis.
Gli salto addosso che, sospetto, Bill e Chakuza non hanno ancora avuto nemmeno il tempo di registrare quello che ha detto. Mi abbatto su di lui con la furia di un animale, Chakuza insieme non ci regge e ci lascia andare, col risultato che rotoliamo sull’asfalto ed io ho la prontezza di spirito di mollargli un cazzotto sul naso prima che lui possa reagire in alcun modo. Il sangue comincia a scorrere a fiotti, Saad urla ed io continuo a prenderlo a pugni ovunque, sul viso, sulla testa, perfino sul collo e sul petto, ovunque, pur di fargli sputare sangue.
- Chiudi – cazzotto sui denti, mi faccio male anch’io, - questa fogna – un occhio che diventerà presto nero, sempre che io non l’ammazzi prima, - di merda! – e il respiro che gli manca, perché non gli do tregua neanche il tempo minimo per aprire la bocca ed inspirare da lì, dato che il naso è fuori uso.
Sento appena Chakuza chiamarmi per nome – “Patrick, Cristo santo!” – e Bill esalare un “oddio” sconvolto, ma li ignoro. Non sono io che mi fermo. È Chakuza che mi tira su di peso, ed anche quando lo fa io continuo ad agitarmi e sporgermi in avanti per colpirlo. Anche se so che non serve. Anche se mi accorgo che lo stronzo è praticamente svenuto e non riuscirebbe a muoversi neanche volendo. Lo voglio lasciare morto a terra. Lo voglio lasciare morto nel suo cazzo di sangue come immagino sia morto Bushido su quel fottuto materasso, e voglio esserci, alla morte di Saad, perché quella di Bushido non ho potuto vederla, ma quella di questo stronzo voglio godermela tutta, fino in fondo.
Chakuza mi tiene stretto, mi ha fatto passare le braccia sotto le ascelle e mi ha arpionato per le spalle. Sento la sua voce vicinissima all’orecchio – “Pat, Pat… calmati. Calmati. È tutto ok. Ha detto un mucchio di stronzate, non è vero niente. Ti calmi, sì?” – e sì, Chaku, mi calmo. È solo per questo che mi calmo. E me lo scrollo subito di dosso, il Chaku, non appena mi sono calmato, perché là dietro c’è Bill e non voglio che pensi cose. Non voglio che pensi niente. Non dovrebbe neanche essere qui o aver assistito a questo spettacolo. Ci sto male davvero, per lui. Se sopravvivo a me stesso, se non faccio qualche cazzata stanotte, qualcosa di pericoloso davvero – non so nemmeno se Saad è armato – giuro che me lo porto in vacanza davvero. In qualche bel posto che non ho mai visto, o in qualche posto che non ha visto nemmeno lui, anche se immagino abbia girato più o meno tutto il mondo. Non importa, a costo di dover arrivare fino in Groenlandia.
Mi avvicino al corpo quasi immobile di Saad e lo tiro su per un braccio.
- Una mano, Chaku. – ordino perentorio, e lui annuisce e si avvicina, aiutandomi a rimetterlo in piedi e tenendolo fermo per l’altro braccio. Sembriamo due cazzo di guardie giurate che piantonano un condannato.
Bill si avvicina e guarda Saad come lo stesse vedendo per la prima volta.
E lì ho la netta sensazione che Saad lo sia davvero, un condannato. E decido: non ho intenzione di fermare niente che possa portare alla sua morte, stasera.
- L’hai ucciso davvero tu? – chiede, con una vocina incerta ma molto meno malferma di quanto non mi sarei mai aspettato. Sembra tremi solo per il freddo. Sembra non c’entri niente la paura. I suoi occhi sono puri e cristallini. Mi ricordano Anis. Lui non aveva paura quasi mai.
Saad solleva appena il capo. Sanguina un po’ ovunque, è tutto sporco di fango e bagnato fino alle ossa, ma ghigna ancora. L’espressione di chi non ha niente da perdere ormai ce l’ha attaccata addosso. Se la porterà nella tomba.
- Sì. – annuisce, respirando a fatica.
- Perché? – chiede Bill, senza aspettare un secondo di più.
Saad ride, un suono roco e spaventoso.
- Per colpa tua, ovviamente. Ma questo lo sai già.
Bill annuisce.
Saad sorride più apertamente.
- Te la porterai dietro per sempre, questa colpa, eh, puttana? – gli parla proprio come se si stesse rivolgendo ad una femmina. E Bill non fa una piega. – Io spero di sì. Se non ci fossi stato tu, non ci sarebbe stato nessun motivo di ammazzarlo. Stava svendendo l’immagine dell’Ersguterjunge per il tuo bel culo. Ho sperato lo ammazzasse Fler, quella notte, così avremmo chiuso il conto ed io non mi sarei neanche dovuto sporcare le mani. Ma lui no, non ha avuto le palle nemmeno per fare questo… - sogghigna ed io faccio per ficcare la mano in tasca a recuperare il serramanico, ma Bill mi ferma con un’occhiata di ghiaccio.
- Continua. – dice, perfettamente a proprio agio. E non so proprio da dove gli arrivi, tutto questo autocontrollo.
Saad ghigna ancora.
- Nient’altro, principessa. Soddisfatto?
E Bill annuisce.
- Sì. – dice. Lo dice proprio. Non me lo sogno, lo sente anche Chakuza, tant’è che ci guardiamo negli occhi come due scemi e non capiamo. Non capiamo nemmeno quando lo vediamo pararsi davanti a Saad e mettersi ben dritto, neanche stesse cercando la posizione più adatta per tirargli un calcio nelle palle, per dire, e non capiamo nulla neanche quando abbassa la zip del giubbotto ed infila una mano all’interno.
Capiamo, però, quando tira fuori la pistola. Che è la Heckler.
- La riconosci questa, Saad? – dice freddissimo, avvicinandogliela al viso mentre io e Chakuza scattiamo a stringerlo con più forza attorno alle braccia, perché non possa fare niente di pericoloso.
- Bill… - lo chiama debolmente Chakuza, ma il ragazzino usa con lui lo stesso identico sguardo che ha usato con me poco fa, e Chakuza si congela ubbidiente sul posto.
- La pistola di Bushido… - esala Saad, ridendo appena, - Vorresti farmi paura, maneggiando quell’arma?
E lì Bill sorride. Per la prima volta oggi. Ed è un sorriso che spaventa. Mi dà i brividi per tutta la schiena. È Bushido, in questo momento. No, non è nemmeno Bushido. E non è Anis. È quello che ho conosciuto io. È Sonny, lo spiantato che governava Tempelhof a diciott’anni. Mi chiedo dove l’abbia visto Bill. Mi rendo conto che gliel’ha fatto vedere Anis.
- Dovrei. – risponde tranquillo il ragazzino, ed arretra di un passo. – So usarla.
Saad ride, io fisso attonito Chakuza e lui mi risponde col mio stesso sguardo sconvolto riflesso negli occhi. Al che guardo Bill. E lui invece mi sorride. Ed è un sorriso dolcissimo.
- Mi ha insegnato Anis. – spiega pacato.
Saad ride ancora e scuote il capo in un gesto di rassegnazione. Solleva il viso e lo guarda dritto negli occhi. Bill lo sta fissando e sorride ancora come ha sorriso a me. È tutto tremendamente fuori posto, in questo momento. Non so se Bushido avrebbe apprezzato una cosa simile.
Forse sì. Probabilmente, se esiste un cazzo di paradiso o di inferno e lui c’è finito dentro, e se da lì sta guardando, si sta sentendo perfino orgoglioso del suo ragazzino.
- Non puoi farlo. – ringhia Saad, sollevando supponente il mento.
- È un mio diritto farti fuori, - risponde Bill, - e tu lo sai.
Saad scuote il capo.
- La legge del ghetto non vale con te, principessa. Tu non sei dei nostri. Non te lo puoi permettere.
Bill sorride ancora.
- Io sono dei vostri, Saad. – solleva l’arma. – Sono la donna del capo. – punta l’obiettivo. – Se c’è una cosa che posso permettermi, è proprio questa. – e spara.
E Saad sta qui immobile, il suo corpo è pesante e c’è un buco precisissimo proprio nel mezzo della sua fronte. Dietro non voglio guardarlo perché lo so com’è quando ti sparano in testa.
Per un secondo vorrei fermare il tempo e ritornare indietro. Togliere la pistola dalle dita di Bill e premerlo io, il fottuto grilletto. Per sentire in qualche modo la vita scivolare via dal corpo di questo pezzo di merda con ogni goccia di sangue. Sentirla colorare il marciapiedi di rosso, sentirlo perdere forza e respiro, sentirlo morire e prendermi la mia soddisfazione, riappropriarmi di ciò che è mio – che avrei voluto fosse mio, che avrei voluto prendermi, che non ho mai avuto il coraggio di prendermi – ma poi lascio perdere.
È giusto che a fare questo sia stato Bill.
È giusto.
Non è ancora sorto il sole e tutto intorno c’è solo silenzio, quando io e Chakuza lasciamo cadere il corpo di Saad per terra. Si accascia ai nostri piedi con un tonfo pesantissimo che la neve sciolta ovatta un po’. Lo guardo di sfuggita e mi viene da vomitare, perciò distolgo subito gli occhi. Bill invece lo guarda a lungo, come volesse sincerarsi che sia proprio tutto come doveva essere, e poi annuisce ancora.
- Bill… - Chakuza lo chiama e gli si avvicina, gli mette una mano sulla spalla come a volerlo consolare, ma Bill non sembra aver bisogno di consolazione. I suoi lineamenti sono tesi e rigidi e di sicuro non sembra felice, però tutto sommato sembra stia bene. Lo vedo abbozzare un sorriso.
- È tutto ok. – ci rassicura, e poi si volta a guardarmi. – Perdi ancora sangue.
Io annuisco.
- Sto bene anch’io. – dico comunque, e Bill mi sorride.
- Se vieni da me, ho la cassetta del pronto soccorso e-
- No, credo… - sorrido appena, interrompendolo, - credo che un cerotto non basterà, Bill. Mi serviranno un paio di punti.
Bill lascia andare una risata soffice e cristallina.
- E stai qui a fare il grand’uomo?
Sospiro e guardo ancora il cadavere.
- C’è un mucchio di lavoro da fare. – metto da parte la nausea. Non è il caso di perdersi adesso, devo risolvere il problema. – Chaku, riportalo a casa. – dico, indicando Bill, e quando vedo una luce strana e vagamente terrorizzata farsi strada nei loro occhi, preciso: - Da Tom. Gliel’abbiamo promesso un po’ tutti, che gliel’avremmo riportato presto.
Chakuza annuisce e Bill abbassa lo sguardo. Li vedo allontanarsi per la strada – Chakuza si guarda intorno cercando di riprendere familiarità con l’ambiente e, quando ci riesce, punta un dito verso il palazzo di Saad che si vede ancora in lontananza, ed è in quella direzione che scompaiono entrambi, proprio mentre io mi chino a recuperare il corpo e cerco di fare il conto per vedere quanti chilometri mi separano da casa mia, dalla mia macchina e, poi, da Tempelhof. Ci tornano tutti, prima o poi. La cosa importante, però, è che in genere nessuno ci vada a cercare niente.

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There's room for one more sun

di tabata
Il muro contro cui sbatto la schiena è bianco candido, non che lo veda al buio come siamo, ma lo so che è riverniciato di fresco; ci abbiamo pensato io e lui un mese fa e voglio ben sperare che non sia già pieno di impronte. In realtà lo hanno verniciato gli imbianchini che abbiamo dovuto chiamare dopo che la prima mano era venuta tutta a chiazze; che io non fossi portato per usare un rullo era abbastanza chiaro, pensavo che lo fosse almeno lui, però.
Mi si schiaccia addosso con tutto il corpo e io mugolo, un po’ perché so che gli piace, un po’ perché sono giorni che lo sogno ogni notte e ogni notte mi fa qualcosa di diverso. Il muro non è che l’inizio, e non è nemmeno la fantasia più originale.
E’ stata una serata molto difficile, ci hanno costretti ad aspettare e io odio farlo, soprattutto se mi sono già messo in testa di fare qualcosa. Quel qualcosa, nello specifico, siamo io e lui che finalmente riusciamo a fare l’amore dopo tre settimane che provo a farlo volare alternativamente a Parigi, Lisbona, Roma e lui che mi risponde che non c’è proprio verso di muoversi.
Io scendo all’aeroporto alle cinque del pomeriggio con l’idea di andare diretto a casa sua e Kay One mi chiama, insistendo per avermi a cena. Non voglio andare e non vuole nemmeno lui, eppure ci ritroviamo entrambi lì, seduti così distanti che pure strusciargli un piede tra le gambe è impossibile. Segue uno strazio di quattro ore, dove non facciamo altro che guardarci di sfuggita, e alzarci a turno da tavola per andare nei posti più strani e seguirci a vicenda. Siamo riusciti a toccarci appena e questo non mi basta . Sono più di venti giorni che non lo vedo, ho bisogno di sentirmelo addosso, e intorno e dentro. E ho bisogno anche delle coccole che vengono dopo, ma a questo penserò quando non avrò più un vestito addosso e saremo entrambi sul letto. Dio, un letto…
Reclino la testa all’indietro contro il muro, le sue mani mi scivolano addosso sotto la maglietta e stringono i fianchi. Sembra ieri che non sapeva come toccarmi.
Mi morde il collo e ci passa sopra la lingua, mi strappa un gemito così forte che quasi mi vergogno. Adoro quando lo fa – quando mi morde con il rischio che mi lasci il segno – e adoro che sappia quanto lo adoro. E’ l’idea che conosca tutti i miei bottoni ad eccitarmi, oltre al fatto che li preme nel giusto ordine ormai. Mi spingo in avanti, contro la sua erezione che mi struscia contro una gamba praticamente da quando siamo scesi di macchina e lui mi ha schiacciato contro il corrimano di tutte le rampe di scale fino al suo appartamento.
Non c’è un ascensore, in questo palazzo o lo avremmo fatto lì, avrei preteso che lo facessimo dentro le prime quattro mura chiuse disponibili, non ce la faccio più; e invece in questo palazzo le prime quattro mura utili sono quelle dell’appartamento di Chakuza che, neanche a farlo apposta, è grande poco più di un ascensore.
“Peter…” gli ansimo in un orecchio e lo sento che rabbrividisce, non so se sia la mia mano nei suoi pantaloni o la mia voce ma finisce che ringhia e mi fa fare tutto il corridoio appoggiato ai mobili che si trova sotto mano. Sono così abituato al suo trascinarmi in giro che calcolo la strada che stiamo facendo senza problemi: credenza, poltrona, divano. Inciampo nella moquette del corridoio ma mi stringe alla vita e non cado. Non cado mai, se mi regge lui.
Ci appoggiamo di nuovo al muro e lo sento che traffica con la mia cintura. Lo sento che impreca. “Cazzo, sempre questi affari…” mugola ma è indeciso, perciò mi infila la lingua in bocca subito dopo. E’ un bacio storto ma è eccitante comunque perché è la sua bocca e perché gli ho dato una mano a sganciare la fibbia quindi adesso ho i pantaloni quasi alle ginocchia, sono libero, e lo sento bene. Emetto un “oh!” nemmeno tanto calcolato quando mi attira verso di sé e posso aggrapparmi alle sue spalle per uscire dai pantaloni. Quasi non mi dà il tempo di finire che ha già ripreso a trascinarmi. Quando cado di schiena sul letto, ho ancora una gamba dei jeans che mi pende da un piede; la tira via lui con violenza un attimo prima di stendersi sopra di me.
M’infila un ginocchio tra le cosce ma non ha veramente bisogno di dirmelo: allargo le gambe e gli faccio spazio. Quando i nostri bacini s’incontrano vedo bianco e reclino di nuovo la testa all’indietro, gli do modo di adagiarsi sulla mia pancia e poi di spingersi in basso. Mugoliamo insieme stavolta e il basso ringhio che emette mi smuove qualcosa dentro. Lo voglio ora.
Gli tiro via la maglietta; il cappellino che finisce fuori dal letto è una doverosa conseguenza delle mie azioni. Il corpo di Peter non è longilineo né agile nell’accezione a cui sono abituato io. Piuttosto, la sua figura è solida e compatta, comunica forza.
Ed è forte quando mi stringe, anche se lo fa sempre con delicatezza. Ogni volta che mi tocca, anche in momenti come questo dove nel suo cervello – come nel mio – non c’è una sola idea coerente, i suoi movimenti non sono mai bruschi né violenti. Chakuza non è mai ruvido con me.
In questa assenza di ruvidezza ci ho fatto il nido alla fine. Mi sono adattato alla forma delle sue braccia mentre lui si abituava agli spigoli del mio corpo, e lo abbiamo fatto insieme.
Lascio scivolare le dita sui suoi addominali fino a trovare di nuovo la strada per i suoi pantaloni che sono enormi – al solito – e slacciati, perché da qualche parte tra l’atrio e la porta avevo anche iniziato a spogliarlo. Ringhia di nuovo e si spinge contro le mie mani, sorrido perché mi piace che si perda, e sorrido perché mi perdo io quando mi bacia di nuovo e sulla sua lingua ci sento tutto il bisogno che ha di me.
Ci metto poco a togliere tutta la stoffa che resta, e la sua pelle contro la mia è calda e piacevole. Ci muoviamo piano, finendo per incastrarci alla perfezione, come se fosse la cosa più normale del mondo – e lo è, per me. Ho il suo viso nel collo, le sue labbra così vicine all’orecchio che ogni volta che respira mi manda i brividi lungo la spina dorsale. Strofino il naso contro la sua guancia, cerco la sua bocca e lui mi concede un altro bacio lungo e umido che è il suo modo di chiedermi se sono pronto. Lo chiede sempre, in qualche modo. Non prende mai senza il mio permesso. E’ diverso, tutto diverso…
Non ho voglia di parlare, così lo guardo negli occhi – anche i suoi sono pesanti e quasi chiusi, ansima ed è così preso da noi che lo amo. Annuisco, deglutendo.
Cerca le nostre cose nel cassetto e mi piace dire che sono nostre perché sono lì da poco e ho ancora le farfalle nello stomaco se ci penso. E’ una parte di me che entra e colonizza questa casa. Sono oggetti che servono a lui quando è con me. E il solo pensiero che c’è un noi negli oggetti in quel cassetto mi fa stare bene quando sono lontano.
Gli tolgo il preservativo dalle mani, voglio farlo io. Scendo e stringo piano, mentre mi strofina il naso sul collo sibilando un “Bill” che vuol dire un milione di cose diverse ma soprattutto vuol dire che è meglio se mi sbrigo. Mi godo l’espressione soddisfatta che ha sul viso mentre lo accarezzo, quindi mi sistemo sotto di lui e lo vedo che mi osserva – come fa sempre – per cogliere ogni minima reazione. Le sue dita non sono più scomode da tempo, i suoi movimenti si sono fatti fluidi, così adesso mi aggrappo a lui e lo chiamo. “Ora, Peter…” lo prego. Non si fida mai, quando lo dico, però stavolta obbedisce. Si sistema su di me e si spinge dentro, lentamente, in un modo che mi toglie il fiato perché è una tortura, ma è bellissimo. Mi stringo a lui, al suo corpo, alle sue spalle massicce che mi coprono tutto. Resta fermo solo un istante, giusto il tempo di essere certo che vada bene anche a me, quindi inizia a muoversi; piano all’inizio, poi i suoi movimenti si fanno più serrati. Cerco di venirgli incontro e ogni volta che rientra, ogni volta che sfiora quel punto esatto che ha imparato a riconoscere ansimo più forte. “Toccami,” lo mormoro soltanto, appena contro l’orecchio, e lui scende ad accarezzarmi.
Gli mordo una spalla, piano, le sue spinte ci muovono entrambi, così punto i piedi sul letto e un po’ m’inarco sotto le sue mani che mi stringono alla vita. Quando mi chiama di nuovo so che c’è vicino, riconosco il tremolio nell’unica vocale che compone il mio nome. Serro i muscoli intorno a lui, serro le ginocchia intorno alla sua vita magra e non penso a niente che non siano i nostri corpi sul letto di casa sua, qui e adesso. Lo chiamo e mugolo, e non mi rendo conto che sto cercando sul suo collo un tatuaggio che non c’è mai stato. Vengo tra le sue dita un attimo prima che lo faccia lui con un ringhio dei suoi, soffocato contro la mia spalla.
Rimaniamo così, uno tra le braccia dell’altro, finché i nostri respiri non rallentano e io posso tornare a pensare con chiarezza. Esce piano, mi guarda ancora e gli sorrido stanco.
Sono esausto, davvero. Finora mi ha tenuto in piedi la voglia di lui ma sono settimane che dormo sei ore per notte e prendo aerei che mi scombinano i bioritmi, adesso che l’adrenalina e la voglia e il sesso sono passati, ho solo bisogno di dormire un po’.
Si stende accanto a me e mi sistema i capelli dietro un orecchio. “Dimmi che non te ne torni a casa a dormire, stanotte... ho sistemato qui.” Mormora e so che si riferisce alla casa che è sempre un macello e io mi lamento di continuo. L’ultima volta gli ho detto che non sarei più rimasto se il pavimento non era libero dalle cianfrusaglie.
Restare significa un sacco di complicazioni domattina ma io non ho la forza di alzarmi e poi mi manca dormire con le sue braccia intorno. In fondo sono in vacanza, anche se per poco, e posso godermi un po’ il mio ragazzo. Annuisco e sorrido quando lo vedo sorridere; mi sento un po’ in colpa con lui perché per farlo felice non devo fare quasi niente. Mi sembra di non dargli abbastanza e questa cosa a volte mi dispiace.
Si sposta un po’ sul fianco, in modo da creare per me uno spazio in cui rannicchiarmi. Rotolo verso di lui e lascio che mi acchiappi al volo, sistemandomi esattamente dove devo stare. Ridiamo mentre mi abbraccia. “Inventiamo una scusa per Tomi?”
Peter gonfia un po’ le guance e sbuffa pensieroso. Mi piace quando ha quest’espressione assorta ma buffa allo stesso tempo. Strofino il naso contro il suo e lui mi accarezza la testa, posandomi un bacio tenero sulle labbra. “Abbiamo guardato un film e sei crollato addormentato sul divano,” dice alla fine.
Sorrido furbo e gli sfioro ancora le labbra. “Sul divano, eh?”
“Sì, divano…” Cerca un altro bacio che gli concedo.
“Hmm-mm...capisco. E tu sei un uomo d'onore quindi Tom può fidarsi,” commento, guardando la sua espressione un po’ compiaciuta.
“Esattamente,” annuisce convinto. “Sa che non farei mai niente di disdicevole.”
“E quello che abbiamo appena fatto non è disdicevole signor Pangerl?”
Chakuza fa per stringermi ma sento una fitta alla schiena, all’altezza delle spalle e faccio una smorfia che lo blocca lì dov’è. “Che c’è?”
Mi volto un po’, cercando di capire e poi ricordo il muro all’entrata. “Guarda qua Chaku, mi verrà il livido,” fingo di lamentarmi, torcendomi come un’anguilla tra le sue braccia. “Ma devi sempre essere così violento?” Va leggermente nel panico e ammetto che un po’ mi diverto.
“Sempre?” Chiede, sgranando gli occhi.
“Beh a volte,” mugugno, storcendo un po’ il naso..
Chaku allunga un braccio a massaggiarmi la schiena. “Mi dispiace, fa ancora male?”
Mi sciolgo in modo indecente. “No,” ammetto. Quindi mi faccio baciare ancora.
Un attimo dopo, quel poco di energia che mi resta svanisce e mi addormento.

*


Il messaggio di Tom mi sveglia che sono le undici e mezzo del mattino. Questo significa essenzialmente due cose: la prima è che ho dormito ben dodici ore, il che è un record visti gli ultimi mesi; la seconda è che mio fratello sarà molto arrabbiato. Avrei dovuto avvertirlo prima. Il messaggio, infatti, non ha faccine ed è molto secco. Dove cazzo sei?
Tom è sempre stato ragionevolmente paranoico nei miei confronti, questo perché sono sempre stato io quello un po’ meno sveglio quando si trattava del mondo là fuori. Da quando ho rischiato di prendermi una coltellata nello stomaco, la sua follia protettiva non è andata migliorando. Non ho voglia di chiamarlo, però, se lo chiamo mi farà una paternale alla quale finirei per rispondere qualcosa che non devo. Così gli scrivo anche io. Da Chaku. Ieri sera guardavamo un film e mi sono addormentato sul suo divano. Scusa.
Tom ha sicuramente il cellulare in mano, così risponde due secondi dopo. E “Chakuza” non ce l’ha un telefono?
Le virgolette sono chiaro segno che crede che casa di Peter sia una scusa; il che è buffo perché la scusa in quella frase sono esattamente il film e il divano. Mi dispiace davvero, Tomi. La prossima volta ti avviso, promesso. Ci sentiamo dopo.
Non risponde e appoggio il telefono sul comodino, sbadigliando. “Come l’ha presa?” Chiede Chakuza, sulla porta della stanza. Sta sbattendo le uova in una terrina e io mi chiedo perché lo trovo tanto sexy con una frusta da cucina in mano.
Sbatto gli occhi e mi stiracchio, in ginocchio sul letto. “Crede che tu sia una scusa,” rispondo.
“E dove saresti, secondo lui?”
“Non lo so, a casa del primo che ho trovato per strada, suppongo.” Mi stringo nelle spalle e gli disfo tutto il letto per avvolgermi nel lenzuolo. “Mi faccio una doccia,” annuncio poi, passandogli di fianco e lasciandogli un bacio sulle labbra.
Lo sento vagheggiare sul fatto che la colazione è quasi pronta ma dubito di arrivare in tempo dal momento che non posso farmi una doccia più breve della mezz’ora. Dovrebbe saperlo, comunque, quindi non mi preoccupo che il mio cibo si freddi.
Io e Chakuza stiamo insieme da nove mesi tondi, festeggiati la settimana scorsa mentre eravamo uno a Berlino e l’altro a Mosca. L’ho tenuto un’ora al telefono a parlare di stupidaggini solo perché per me era un giorno importante e non mi andava giù che non potessimo stare insieme.
In realtà di stare insieme non se ne parla quasi mai perché nessuno sa niente e trovare un momento e un luogo per noi è diventato incredibilmente difficile, a meno che non vogliamo passare tutto il nostro tempo chiusi nel mio appartamento o nel suo; che poi è quello che facciamo, perché non ci sono molte soluzioni.
Il bagno di Peter è un ambiente strettissimo nel quale faccio sempre una gran fatica a muovermi. In più non ho con me le mie cose che sono rimaste nella valigia in macchina, quindi mi toccherà lavarmi col suo bagnoschiuma. Lo shampoo lo ha comprato apposta per me.
Un po’ mi infastidisce questa cosa che non posso lasciare niente da lui. E m’infastidisce perché significa che in tutto questo tempo ancora non ho trovato la giustificazione da dare a me stesso e al resto del mondo per quello che stiamo vivendo.
La doccia è miracolosamente pulita e l’acqua è calda, segno che ha riparato il boiler. Questa casa cade a pezzi e se non ci sono io a fargli notare che quello che non funziona va rimesso a posto, Peter lascerebbe andare tutto com’è. E’ un disastro.
Mi appoggio al box e sospiro. Tutto quello che è successo nell’ultimo anno non entrerebbe in una storia sola. A volte mi sembra di aver vissuto più di una vita perché non è possibile che in così poco tempo io abbia sofferto una morte e un tentato omicidio; che io abbia ucciso, anche, e che ora sia nudo nel bagno di Chakuza. Che facciamo l’amore, io e lui, quando pensavo che una cosa del genere non l’avrei più fatta con nessun altro.
La storia con Chakuza è stata un delirio. E’ un delirio, in effetti, se si pensa che dopo mesi siamo ancora qui a fingere con gli altri che fra di noi ci sia solo molto affetto e che Peter sia rimasto legato a me dopo tutto quello che è successo. O che io sia rimasto legato a lui, meglio; perché qui tutti pensano che sono io quello che non riesce a staccarsi dal brutto mondo cattivo in cui sono finito. In parte è così ma fra tutti quelli che mi hanno odiato c’era anche chi, come Chakuza – o Fler, o Kay - , è diventato mio amico e un po’ gli sarebbe dispiaciuto perdermi solo perché io avevo perso il motivo che me li aveva fatti conoscere in primo luogo.
Io e Chakuza, in realtà, ci eravamo rassegnati. Dopo quel primo bacio a casa sua, e io che scappo in preda ai sensi di colpa e mi costringo a non vederlo più per paura di ricascarci, pensavamo entrambi che fosse finita. Ho passato settimane a casa di Tomi con la convinzione di aver rovinato per sempre un'amicizia bellissima. E sono rimasto con questa convinzione fino ad un mese dopo la morte di Saad.
Quando Chakuza e Fler vennero a prendermi, quella notte, io Peter non riuscivo neanche a guardarlo in faccia. Mi mancava, volevo dirglielo, volevo perfino gettargli le braccia al collo ma non potevo perché non avevo idea di cosa sarebbe successo. L'idea di baciarlo di nuovo mi eccitava eppure sapevo che non era giusto perché Anis era ancora prepotentemente lì. Prepotente come al solito. Prepotente come non ha mai smesso di essere. Anche adesso che Chakuza è il mio ragazzo, che lo amo, che inizio ad immaginare un futuro che ci comprenda davvero entrambi. Anche adesso Anis è qui e ogni tanto immagino il suo sguardo su di me e non ho mai il coraggio di osservarlo abbastanza a lungo per scoprire se è benevolo o deluso.
Ricordo che quella notte abbiamo corso un sacco. Fler e Chakuza avevano trovato Saad non so come - dopo mi hanno detto che hanno frugato a Templehof e, siccome non ho altri dettagli, io me li immagino muoversi nei bassifondi come nei vecchi film noir. Fler ci faceva strada urlando. Correva più veloce di noi due e non si girava mai indietro. Ci urlava - correte, muovetevi! - ma non lo perdeva mai di vista.
Di quella notte ricordo solo cose vaghe perché è successo tutto troppo in fretta. So che un attimo prima lo stavamo inseguendo e un attimo dopo gli ho sparato. Cosa c'è stato nel mezzo non saprei dire, ma Chakuza era lì e so che non ci siamo mai veramente guardati.
E' stato dopo quella notte che sono crollato.
Quando Anis è morto ho provato un dolore tanto forte che mi è stato impossibile ignorarlo. Non ero vuoto, non potevo accasciarmi su me stesso e smettere di esistere come avrei voluto perché stavo male, e quel dolore in un modo o nell'altro mi teneva in piedi. Poi hanno tentato di uccidermi e hanno ferito Peter, allora al dolore si è aggiunta la rabbia. E poi la vendetta verso Saad. Se per mesi ti tiene in piedi soltanto la voglia di restituire tutto il male che ti è stato fatto nella stessa quantità, quando poi ci riesci, è lì che ti svuoti. E io ho fatto esattamente questo, mi sono afflosciato su me stesso come un sacco vuoto, senza più niente da fare. Niente da provare.
Mi sono chiuso a riccio, e da solo, perché da una parte Tomi non avrebbe affatto capito, e dall'altra vedere Chakuza non era neanche un'ipotesi. In quella situazione, Fler è stato quasi un miracolo. A ripensarci adesso non so cosa sarebbe successo se non ci fosse stato lui che ogni tanto mi trascinava a prendere una cioccolata e mi faceva parlare. E di certo è stato sempre lui a rimettere in moto le cose tra me e Chakuza, ne sono quasi certo perché è partito tutto una settimana dopo che eravamo fuori al bar e che non mi era riuscito di tenermi dentro niente.

*


E' febbraio, e io e Fler siamo seduti ad uno dei tavolini esterni del Café Zapata, che ormai è diventato il nostro bar. Lui non propone mai di andare da un'altra parte e io mi guardo bene dal farlo. Questo posto aveva un significato preciso quando l'ho scelto la prima volta, ma ne ha uno ben più preciso adesso. E' una linea di confine tra il mio mondo e il suo che - da quando Saad è morto, da quando io e Chakuza ci siamo baciati e poi allontanati - sono tornati ad essere due entità ben distinte. Il punto è che non faccio più parte del ghetto di Anis, ma sono così cambiato che non posso più neanche tornare nel mio. Ci sono persone che mi mancano, c'è tutto un intricato annodarsi di sensazioni che non spariranno semplicemente voltando le spalle ad una vita che ho vissuto per così tanto tempo. Forse non ho mai fatto parte della crew, ma la crew ha fatto parte di me e senza di loro mi sembra di non essere più niente. Sono fuori posto in ogni luogo.
"Finirò per dover impegnare la macchina," commenta Fler, dopo aver pagato per il suo gelato e per la mia cioccolata.
Sorrido, lo dice sempre.. "Sei tu che ti ostini a voler offrire," ribatto, tirando su un po' di panna con il cucchiaino. "Potremmo fare una volta per uno."
"Non se ne parla," brontola lui, rimettendo il portafoglio nella tasca posteriore dei pantaloni. Per Fler è una questione di orgoglio maschile, credo. Non mi fa mai pagare. Al che dovrei offendermi, ma non lo faccio perché lo conosco e so che le sue rotelline da gangster - seppure più oliate della media - perdono un giro quando la donna del capo si offre di pagare.
"Allora, che mi racconti?" Butta lì così e si guarda intorno, socchiudendo un po' gli occhi azzurrissimi. Sembra che non gliene importi niente della mia presenza dall'altra parte del tavolo, in realtà sta prendendo atto dei dintorni. E' quella che io chiamo la sua deformazione professionale. Si siede, finge di guardarsi intorno, e intanto controlla che in giro non ci sia gente strana. La settimana scorsa ha preteso pure che ci alzassimo e cambiassimo tavolo perché c'era qualcosa che non gli tornava.
Rido. "Vuoi calmarti? Nessuno tenterà di uccidermi."
"Eh?"
Mi allungo sul tavolo a togliergli gli occhiali da sole che lo fanno sembrare tanto cattivo quando invece è la persona meno violenta e più dolce che io conosca. "Le mie guardie del corpo sono dall'altra parte della strada e sono sufficienti," gli dico, con un sorriso. "Non sono più un disonore per la vostra categoria. Ora la mia più grande minaccia è solo un gruppo di fan con un pennarello in mano."
"Non si sa mai," mugugna, arrossendo. Cincischia un po' col suo gelato e quindi solleva di nuovo la testa. "Non hai risposto alla domanda."
Smetto di sorridere. Avrei preferito non parlare, in realtà. "Niente di particolare," rispondo, stringendomi nelle spalle. "Siamo un po' indietro con le canzoni del nuovo album e David è un po' isterico ma Tomi mi sta aiutando con un paio di idee e dovremmo avere tutto pronto in tempo per l'arrangiamento."
Lui annuisce. "Nessuna collaborazione?"
"Non ne ho volute."
Grazie al cielo Fler mi capisce al volo e non chiede altro. Non ho voglia di dirlo ad alta voce. La Universal aveva proposto almeno cinque artisti diversi ma ho detto no ogni volta. Adesso come adesso ho il potere sufficiente per permettermi di battere i piedi in questo modo, perfino David non ha detto una parola. I ragazzi sono stati fantastici e hanno capito.
Prima che Anis morisse, si parlava di una collaborazione tra lui e i Tokio Hotel. La Universal era entusiasta all'idea di sfruttare l'onda del pettegolezzo sulla nostra relazione per aumentare le vendite. L'idea c'era già, dovevamo solo definire i dettagli.
Dopo quello che è successo, non esiste che io collabori con qualcun altro per questo disco. Per i prossimi, forse, ma non per questo. Doveva esserci lui e, dal momento che non c'è, faremo a meno di chiunque altro.
Questo sarebbe il primo vero album che facciamo uscire da un po' di tempo a questa parte; il best of di quasi sei mesi fa non conta. Lo abbiamo messo insieme in meno di una settimana, aggiungendoci due canzoni che avevo buttato giù nei tempi morti dell'ultimo tour e che avevano ancora bisogno di un lavoro serio. David ci ha strimpellato su due note e ha cambiato qualche strofa, tanto per dare alla casa discografica qualcosa da vendere. "E tu?" Chiedo, nel tentativo di cambiare discorso.
Fler ha finito il gelato molto in fretta. "Sono ai lavori forzati," e ride. "Sido ha ancora le palle girate per questa storia che ho smesso di sputare veleno. Se non gli metto su un disco nuovo che possa insabbiare tutta la faccenda quello mi smonta pezzo per pezzo e mi rivende al mercato nero. Frequentare voialtri non porta altro che casini."
"Ne vale la pena," gli faccio la linguaccia.
"Devo ancora deciderlo, questo." Mi frega una cucchiaiata di panna e lo colpisco piano sulle dita con il mio cucchiaino. "Ma quanto ci metti a mangiare? Datti una mossa."
"Abbiamo fretta?"
"E' che a guardarti mentre mangi mi viene sonno," protesta.
Mi mordo un labbro e abbasso lo sguardo perché tutto questo mi ha fatto tornare in mente un altro momento e un'altra persona. Quando cenavo a casa di Chakuza davanti alla tv ci mettevo un'ora a finire la mia metà di pizza e lui mi prendeva in giro allo stesso. modo. "Ehi?" Mi chiama. "Tutto bene?"
Scuoto la testa. "Non è niente, mi ero solo incantato."
Mi guarda, anzi mi fa una radiografia completa, e poi sospira e scuote la testa. "Dovresti distrarti," mi dice.
"Sono qui."
"Ma sono sempre io," replica. "O ti chiudi in sala di registrazione o esci con me. Dovresti fare qualcos'altro. Qualsiasi cosa."
Infilo il cucchiaino nella tazza ormai quasi vuota e giro lo zucchero sul fondo, senza guardare Fler. "Non mi va."
"Potresti uscire con tuo fratello," propone. "David ve la darà una serata libera se la chiedete no?"
Faccio una smorfia ma continuo a non guardarlo. "Non è questo, Fler," mugugno incerto. E' una cosa sulla quale penso da giorni e non so se gliela voglio dire o meno.
"E allora cos'è?"
"Non lo so," sbuffo alla fine. "E' solo che Tom non... non lo so, non è la stessa cosa. Lui ce la mette tutta, e mi vuole bene ma non capisce. Anzi sembra quasi sollevato."
Tomi è il fratello migliore del mondo e oltretutto non riesce proprio a mentirmi, così glielo leggo in faccia che per lui la fine di questa storia è stata una benedizione. E lo capisco, davvero, per lui è così perché mi vuole bene e voleva che io smettessi di soffrire. Quello che non capisce è che la morte di Saad non mi ha tolto un peso, mi ha tolto un motivo per andare avanti e adesso non so più cosa farmene di me stesso.
A dire il vero non riesce a capire neanche certi miei ragionamenti, o il motivo per cui sono tanto legato a Fler, del quale - per altro - ignora totalmente il ruolo. Non segue la dinamica che ha portato la testa calda dell'Aggro Berlin a rimanere amico mio anche dopo che la vendetta di Bushido è stata compiuta. Non ci arriva, e io non riesco a spiegarglielo. Un po' è lui che non vuole veramente saperne e un po' sono io che vorrei essere circondato solo da persone che non hanno bisogno che io spieghi loro anche cose come questa. "Fler?" Chiedo all'improvviso, mentre lui ormai si è rassegnato a giocherellare con il fondo acquoso del suo bicchiere.
"Hmn?"
"Come sta?"
Con Fler non devo specificare. Capisce. E' proprio di questo che ho bisogno, di comprensione automatica. Ricordo che abbiamo avuto questa stessa discussione poco prima della notte di Saad. Questa domanda va contro le regole - le mie, quelle che mi sono imposto - e lo so che non dovrei fargliela perché poi mi verrà voglia di telefonargli e poi magari di vederlo ma non posso.
"Bene."
Dice solo questo. Bene. E io mi sorprendo di quello che sto pensando, perché non ho idea di che risposta mi aspettassi. Mi immaginavo forse Peter riverso su una sedia in preda allo sconforto? E' normale che stia bene. Dovrei essere contento. Dovrei anche accontentarmi di quell'unica risposta, e invece chiedo: "Lo hai visto di recente?"
Si muove a disagio sulla sedia. "Bill..."
"Lo so, hai ragione," annuisco e mi pulisco le labbra col tovagliolo.
Sento Fler sospirare. "Gli manchi anche tu."

Non passa nemmeno una settimana da quell'uscita che Chakuza si presenta a casa mia, quindi è indubbio che ce l'abbia mandato Fler. Quando lo vedo nel citofono vorrei strangolare Patrick. "Sì?"
"Bill, sono Chakuza." Lo avrei riconosciuto dal modo in cui ha detto il mio nome, anche senza che si presentasse e senza la telecamera. Lo stomaco mi si contorce tutto e non riesco a spiccicare una parola. "Posso salire?"
Gli apro senza rispondergli e quando si aprono le porte dell'ascensore sono sulla porta ad aspettare di vederlo spuntare. "Ciao," mormoro. Lui si ferma sulla soglia ma non entra finché non lo invito a farlo. Sono impacciato e non so come comportarmi: non lo vedo da settimane e l'unica giustificazione che ho per questo è che ho paura che ad averlo vicino potrei fare cose che non devo.
Chakuza indossa il cappellino ma anche il cappuccio della sua felpa grigia e gli occhiali da sole. Vorrei che li togliesse. "Scusa se piombo qui senza avvertire ma ho come l'impressione che se ti avessi chiamato non mi avresti fatto venire."
Abbozzo un sorriso. "Probabile."
Quindi rimaniamo in silenzio entrambi e questo momento di imbarazzo mi ricorda in tutto e per tutto quello che abbiamo avuto la notte di Saad. E' questo il problema tra me e lui, non ci siamo mai chiariti. Io ho chiuso la questione promettendogli di chiamarlo e non l'ho mai fatto. La parentesi di Saad era solo quello, appunto. Una parentesi. Non abbiamo avuto modo di...
"Senti.."
"Ascolta..."
Ci interrompiamo entrambi e siamo la scena perfetta di un film romantico. Peccato che se io di spalle posso passare per Julia Roberts, il Chaku non è di certo Hugh Grant. Alla fine Peter sospira. "Perché non ricominciamo da capo?"
Lo guardo senza capire.
Lui si toglie il cappuccio e gli occhiali, così lo sguardo lo vedo e un po' mi sciolgo. Mi manca. "Prima stavamo bene, no?" Dice e mi guarda. E quando mi guarda mi ricordo perché è sempre stato facile con lui: ha uno sguardo dolcissimo. Fa finta di essere un duro solo quando gli devono fare le foto promozionali. Non può fare il duro Chaku, non lo è. "Usciamo, ci prendiamo qualcosa da mangiare. Solo questo."
"Chaku, io non credo che sia il caso."
Penso che ci rimarrà male e invece non demorde. "Ho un'offerta che non puoi rifiutare, Principessa," dice, e si impettisce tutto. A me esplode il cuore, ma fa niente. "Gucci ha aperto un nuovo showroom-"
"Non posso presentarmi da Gucci senza scatenare-"
Chakuza solleva un dito e mi zittisce. "Dicevo, Gucci ha aperto un nuovo showroom che la premiata ditta Chakuza e Fler si è premurata di far chiudere al pubblico per te." Sgrano gli occhi e lui prosegue, afferrando il mio cappotto dall'attaccapanni e facendo per mettermelo. "Quindi adesso ti vesti, prendi la borsa e andiamo. Dopo se fai il bravo passiamo anche da McDonald."
M'infila il cappotto e non me ne accorgo nemmeno. Ho addosso un paio di jeans vecchissimi e una maglietta ancora più vecchia che ho probabilmente macchiato di gelato due ore fa. "Peter non posso uscire così, sono impresentabile!" Strillo. "Non mi sono nemmeno pettinato!"
Chakuza non mi ascolta, e mi spinge verso la porta. "Vai benissimo così," dice. "E se sono in vena ti porto anche al cinema. Ora forza, fuori di qui."
Un attimo dopo sono in piedi sulla porta di casa mia e gli sto anche passando le mie chiavi perché chiuda. Intanto, già che ci sono, mi do una sistemata, anche se nemmeno io posso fare miracoli conciato in questo modo.

Penso che sarà un pomeriggio tremendo, che saremo in imbarazzo anche solo per due piani in ascensore e invece mi sbaglio. E invece Chakuza è fantastico e io mi ero dimenticato quanto era bello stare con lui preso com'ero dalla paura di aver rovinato ogni cosa fermandolo quella sera. Mi trascina da Gucci ma da quel momento in poi sono io che trascino lui in giro da uno scaffale all'altro e lo tengo le ore fuori dai camerini uscendo e rientrando ogni volta con un vestito diverso. Chakuza mantiene il sorriso fino alla fine, non crolla un attimo e Dio solo sa se non avevo davvero bisogno di questo: del nulla assoluto. Dello shopping e di lui che mi guarda, storce il naso incerto e dice: "Tu sei proprio sicuro di volerli, eh?" quando esco con addosso un paio di pantaloni che sono molto da me ma molto poco da lui. E allora li mollo perché di fronte a tutti i modelli precedenti non ha spiccicato parola e faticava a guardarmi.
Quando lasciamo il negozio sono sicuro di due cose: la prima è che devo finire quell'album perché in banca non mi è rimasto un centesimo. La seconda è che dovrò fare i conti con David quando una delle commesse dirà a qualche giornale che sono andato a fare spese con Chakuza dell'Ersguterjunge.
Alla fine sembra che io sia stato molto bravo perché Peter mi porta sia al McDonalds che al cinema, mi lascia anche scegliere il film e io decido che l'ho martirizzato abbastanza per una giornata sola, quindi andiamo a vedere un film d'azione ma non troppo. Così lui può fare un po' l'uomo delle caverne ed esaltarsi per ogni cosa che fa BUM e io mi godo quel poco di storia d'amore che mi concedono tra una sparatoria e l'altra. Non m'interessa, sto troppo bene per annoiarmi. Passo quasi tutto il tempo a mangiare popcorn e a commentare quasi ogni scena, dando fastidio a chi mi circonda - forse anche un po' al Chaku. Ogni tanto lo sgamo che gira la testa e mi guarda e io faccio finta di non vederlo.
Alla fine, quando mi riaccompagna a casa, è passata mezzanotte e io mi rendo conto che non stavo così bene da mesi, e che non stavo così bene perché non stavo con lui. Questo deve pur voler dire qualcosa, penso, mentre mi aiuta a portare fuori dall'ascensore tutte le mie buste.
Ci fermiamo davanti alla mia porta di casa. Appoggia l'ultimo sacchetto sullo zerbino e mi guarda, infilandosi le mani in tasca e dondolando un po' sui talloni: è salito solo perché ho fatto troppe spese questo pomeriggio.
"Grazie per la bella giornata," dico e mi sistemo una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
"Grazie a te. Era da troppo tempo che non te lo vedevo fare."
"Cosa?" Scherzo. "Fare shopping?"
"Sorridere."
Abbasso lo sguardo e arrossisco. "Non ci sono stati molti motivi per farlo in questo periodo."
"Ce ne saranno, d'ora in poi."
Quello che dice mi fa sollevare di nuovo lo sguardo e quando incontro i suoi occhi non ci sono buoni propositi che tengano, né i suoi di farmi solo passare un bel pomeriggio, né i miei di considerarlo solo un amico. Il cuore mi batte troppo forte, non batte così per Fler.
Si china piano, mi dà il tempo di capire cosa vuole fare e di fermarlo se non voglio ma ho già chiuso gli occhi. Mi bacia appena, le sue labbra sulle mie sono leggerissime ma per qualche motivo questo adesso mi basta. E forse non era Chakuza ad essere un errore, ma la misura con la quale ci eravamo trovati. Troppo e troppo in fretta.
Mi scosto piano, riluttante ad allontanarmi dalle sue labbra calde e leggermente umide. "...Vuoi provarci sul serio, Peter? Davvero?"
Lo guardo e un po' ho paura, perché quello che gli ho chiesto è una cosa importante. Non so neanche che cosa vorrei mi rispondesse. So che non mi farebbe mai del male, eppure è già successo che ce ne facessimo a vicenda senza volerlo.
Lui però mi guarda e annuisce. "Faremo le cose con calma," mormora. "Piano. Andrà tutto bene."

Usciamo di nuovo, e ancora. Una volta dopo l'altra, settimana dopo settimana, io mi accorgo che una relazione, in effetti, ce l'abbiamo già. Stiamo insieme, e stiamo bene, anche se Chakuza si ferma ogni volta sul pianerottolo, mi bacia e torna a casa. Quando lo seguo con lo sguardo mentre entra nell'ascensore non sembra dispiaciuto, non sembra neanche che si sforzi di sopportare e l'atmosfera la sento cambiare, come se fosse una cosa fisica.
Quindi i suoi baci e i miei, anche, si fanno più profondi e più affamati finché il bacio della buonanotte non si trasforma in lui che mi spalma sul legno della porta di casa mia e mi fa cadere le chiavi di mano. Mugolo e me lo stringo addosso, passandogli le braccia intorno al collo. Mi piacciono i baci di Peter, sono lenti e dolci. Sono suoi, e non posso confonderli con altri baci, come a volte mi capita invece con le carezze, e quel modo che ha di stringermi un braccio intorno alla vita. Con queste cose, sì, a volte mi confondo ma quando mi bacia non posso farlo. Chiudo gli occhi ed è lui e so che lo è. Le sue labbra hanno un sapore preciso.
"Devo andare," mi soffia addosso quando, involontariamente o meno, mi inarco contro di lui e forse lo tocco un po' troppo. Mi dà un altro bacio che ci tiene incollati per venti secondi prima di riuscire a fare un passo indietro. "Buonanotte," deglutisce.
Io sto ancora prendendo fiato che lui è già diretto all'ascensore. Un po' mi viene da ridere perché ci manca poco che si metta a correre. Le porte si stanno aprendo quando mi decido a chiamarlo. "Chaku?" Mi mordo un labbro mentre una parte del mio cervello mi chiede cosa cavolo sto facendo...
"Si?"
"Ti và di entrare?"
Le porte fanno in tempo a richiudersi che Chakuza è ancora lì fermo immobile che mi guarda. Qualcuno chiama perfino l'ascensore ad un altro piano. Rido un po'. "E' un sì?"
Non mi risponde. Mi raggiunge che l'ascensore è tornato, ma io sto già aprendo la porta.

*


Il mio appartamento è fin troppo grande per una persona sola.
Quando sono andato a vederlo la prima volta, c'era mio fratello con me e continuava a ripetermi che non avrei saputo che farmene di tutte quelle stanze. In realtà penso che fosse il suo estremo quanto infantile tentativo di impedirmi di comprarla. Non mi poteva dire di non farlo – non mi poteva dire neanche che gli sarei mancato, infatti non l’ha fatto, perché voleva apparire più uomo del mio uomo, al tempo - quindi faceva l’esperto di case e cercava di farmi desistere, così che rimanessi a vivere con lui e, suppongo, potessimo continuare a litigare sul mio diritto o meno di portarmi a casa il fidanzato.
L’acquisto, ad ogni modo, si è reso necessario alla fine di una nottata piuttosto rumorosa, dopo la quale Tom non ha più potuto negare che una casa mia mi servisse e basta.
Quando apro la porta, Chakuza è ancora immobile di fronte all’ascensore. Non ho bisogno di voltarmi per vederlo, il nervosismo elettrico che emana quasi lo sento sulla pelle. Entro per primo e lascio la porta aperta: gli ho chiesto di entrare, non ha risposto. Suppongo che lui che varca la mia porta sia un sì, lui che rientra nell’ascensore sia un no. Un no bello grosso, direi. Mentre mi tolgo il cappotto lasciandolo scivolare dalle spalle mi rendo conto che non so come la prenderei se non entrasse. Sarebbe come dirmi che non gli interessa. Io ho aspettato per un motivo, lui che motivo avrebbe? Credo che se rientra nell’ascensore non gli rivolgerò mai più la parola.
Sorrido quando lo sento chiudere la porta. Forse dovrei chiedergli se vuole bere qualcosa, o se vuole mettersi comodo – in un mese che mi riaccompagna non è mai entrato in casa mia dopo il calare del sole, nemmeno fosse un vampiro - magari dovrei prenderla così, con calma. Solo che non mi va di sedermi sul divano e bere qualcosa, voglio che ci baciamo come abbiamo fatto un attimo fa.
Mi volto e lo trovo che mi guarda – e mi piace come lo fa, mi piace il fatto che continui a guardarmi perché non riesce ad aprire bocca per dirmi niente. Così mi avvicino e lo bacio, tanto per fargli capire che non l’ho invitato a varcare la soglia per rimanere all’ingresso. Che può toccare, se vuole.
L’ho spaventato – mi sono spaventato, la paura è stata anche e soprattutto mia – talmente tanto quel maledetto pomeriggio di non so quanti mesi fa che adesso non fa più una mossa se non è praticamente certo che sia quello che voglio anche io. Ha degli inizi poco spontanei Chakuza, ma non è decisamente colpa sua.
Gli prendo il viso tra le mani e mi stringo contro il suo petto. Peter, guarda che dico davvero. E mi viene da sorridere quando finalmente si scioglie un po’ e le sue mani mi prendono saldamente per i fianchi quasi all’istante. Le sue prese sono tutt’altro che tenere quando alla fine si decide. Mugolo quando mi apre la bocca e la sua lingua scivola sulla mia riprendendo da dove avevamo interrotto qualche attimo fa.
Muovo le mani alla cieca trovando il suo cappotto e glielo tiro via da quelle spalle enormi che si ritrova. Il solo pensiero di vederle senza la maglietta, in questo preciso momento, mi manda un brivido giù per la schiena e accelera i miei movimenti. Gli faccio scollare le mani dai miei fianchi solo per spogliarlo di quel tre quarti di panno che insiste a chiamare cappotto, e lui mi asseconda di fretta, per riprendere ad accarezzarmi un attimo dopo che la stoffa è caduta a terra, fra lo schiocco delle nostre bocche che si allontanano solo il tempo necessario a riprendere fiato.
Non so se sono io ad arretrare oppure lui a spingermi, fatto sta che ci muoviamo e lo stiamo facendo verso la mia camera da letto. Quindi forse sono io che guido, Peter si limita a starmi attaccato e a seguirmi perché a lasciarmi andare proprio non ci pensa più.
Sbattiamo contro il muro del corridoio che fa un po' angolo. Vorrei riprendere a camminare ma lui m'inchioda lì dove sono e invece di protestare finisco per mugolare, perché mi dà un bacio che mi toglie il fiato e mi lascia a cercare le sue labbra una volta che appoggia la fronte alla mia e mi guarda come credo non mi abbia mai guardato prima.
"Peter..." ansimo e cerco di baciarlo. Lui mi asseconda ma continua a guardarmi, con gli occhi verdissimi e concentrati.
"Sei sicuro?" Chiede. Non c'è cattiveria nella sua voce; anzi, le parole un po' tremano e capisco che ha fatto uno sforzo enorme per fermarsi e farmi quella domanda.
Non ho davvero la testa per ripensare adesso a tutti i motivi che mi hanno convinto a volerlo stanotte, però ci sono. Lo so. Ho delle ottime ragioni. Una di queste è che io a Peter voglio bene e lui ne vuole a me. Considerando che il vuoto che ho nel cuore niente e nessuno potrà mai riempirlo di nuovo, questo è il massimo a cui posso aspirare. Peter ha già tutto l'amore che ormai sono in grado di dare. Tutto quanto. Più di così non posso. Anzi, più di così posso solo concedergli quello che manca. E voglio che lo abbia stasera.
L'altro motivo, se mai ne servisse un altro, è che non è una concessione. Non ho scelto Peter perché era semplice buttarsi tra le sue braccia ma perché l'ho sempre voluto. Se ho aspettato così tanto è stato perché volevo essere pronto per lui, e non pronto e basta.
Così quando mi guarda negli occhi in attesa di una risposta, ricambio lo sguardo e sorrido. "Questa volta sì," mormoro.
Lui rimane serio e mi scruta, poi alla fine fa un cenno – uno piccolissimo, lo vedo solo perché siamo così vicini che respiriamo nello stesso, minuscolo spazio d’aria e io voglio solo che riprenda a baciarmi perché è bravo e perché quando lo fa mi ricordo di com’è iniziata questa serata e di come mi sono sentito quando mi ha schiacciato contro la porta. Voglio sentirmi ancora così.
Quando riprende a baciarmi, il sospiro di sollievo non lo trattengo, lascio che mi esca dalle labbra e che si sciolga sulle sue che sono morbidissime e hanno un sapore che ormai conosco bene.
Scivoliamo lungo il muro e mi porta lui, stavolta, ne sono sicuro perché io gli sto aggrappato al collo e a malapena cammino, e mugolo e mi perdo un sacco. Chakuza è bravo a farmi perdere, ci riesce benissimo.
La sensazione successiva è il materasso e lui che mi ci distende sopra. Mi lancia, tipo, non lo so. So solo che atterro e un attimo dopo lui è sopra di me e ci incastriamo benissimo, senza neanche un problema. Peter è gentile quando mi tocca ma lo fa con ansia e non so se la sua sia paura oppure eccitazione. O magari entrambe le cose insieme. Nella confusione di averlo addosso e di averlo ovunque, per altro, perché le sue mani sfiorano ogni parte del mio corpo e non riesco ad esalare un gemito che subito me ne strappa un altro, in tutto questo, dico, mi rendo conto che sono nervoso anche io e per me è una cosa nuova. Il sesso non mi ha mai reso nervoso, neanche la prima volta con Anis. E allora capisco che questa nottata significa così tante cose che sarebbe impossibile fare finta che non ci sia niente di cui preoccuparsi. Tipo, ad esempio, che potrebbe andare tutto storto. Tipo che Chakuza fino a due mesi fa andava dietro alle donne, e lo so che adesso ha la lingua nella mia bocca ma baciarmi è una cosa, fare l’amore è un’altra. E insomma, io non lo so.
Le sinapsi del mio cervello, comunque, si scollegano quando le sue dita mi scivolano sui fianchi e poi le sento infilarsi sotto l'elastico dei pantaloni che per una volta non sono di pelle e non hanno cintura. Mi stringe il sedere e io sollevo appena la gamba, stringo le ginocchia intorno alla sua vita strettissima e lascio che affondi il viso nel mio collo perché so che morderà e leccherà. Lo ha già fatto, lo voglio.
Non ci siamo neanche spogliati e sto già ansimando. Sento la sua eccitazione attraverso i vestiti, che mi struscia contro mentre Chakuza non può fare a meno di spingersi in basso, neanche troppo velatamente. Così seguo i suoi movimenti, mentre le sue mani mi vagano addosso senza fermarsi un istante.
Mi bacia e mi morde e mi tocca e non trovo il tempo né lo spazio di respirare.
“Chakuza, piano…” gli sussurro dolcemente. Lui solleva lo sguardo, ha gli occhi velati di voglia. E’ così palese che non ha altro che me nel cervello che mi manda in subbuglio lo stomaco. . “Non vado da nessuna parte. Promesso.”
Gli accarezzo una guancia e lo porto di nuovo giù a baciarmi, piano però. Struscio il naso contro il suo e gli sfioro appena le labbra. Il bacio che ne segue è umido ma lentissimo e sensuale. I suoi fianchi scattano verso il basso, io mugolo sulla sua lingua e vado incontro alle sue spinte ma stringo le ginocchia., voglio che sia lento. Voglio godermela. Voglio scoprirlo piano, Chakuza, e voglio che io per lui sia una sorpresa lenta. Non voglio che ci bruciamo solo perché abbiamo capito di poterlo fare.
Voglio che ci prendiamo tutto quanto il tempo, fino all’ultimo secondo. E se faccio la conta di tutti i miei desideri stanotte, mi rendo conto di essere viziato ma è così che sono. E lui lo sa.
Ansimiamo e i respiri si sono fatti caldissimi. “Troppi vestiti,” sussurro e scorro le mani sotto la sua felpa mentre lui gioca freneticamente con la cintura dei miei pantaloni. Si ferma solo un istante quando gli tolgo la maglia e al contatto delle mie labbra con i suoi pettorali, sento le sue mani farsi più impazienti. Alla fine si libera della cintura e mi stende di nuovo sul materasso per tirarmi via i jeans. Lo fa con la stessa furia con cui mi toccava prima, così quando torna a baciarmi e la sua lingua incontra la mia, per qualche istante non capisco più niente e penso solo che potrei fare qualunque cosa se continuasse a baciarmi così. Questo bacio è umido e caldo e sembra ovunque. E’ ovunque, perché ha una mano tra le mie gambe e mi accarezza e lo fa piano e bene, e per un attimo solo mi sembra impossibile che sia così dannatamente a suo agio anche con me. Sono un maschio, non può saperlo meglio di come lo sa adesso. Mugolo qualcosa che è a metà tra il suo nome e il suo soprannome, mi accorgo che non so come chiamarlo, che mi confondo. Chakuza viene naturale quanto Peter ma sembra così distante, così… di tutti. Mi inarco sotto le sue dita che stringono ed accarezzano, e io finisco per perdere un attimo il controllo della situazione e di lui che sotto controllo non è. Chiaro.
Ho gli occhi chiusi e sono concentrato sul movimento della sua mano che mi fa stringere le ginocchia e mi fa sollevare le gambe. Mi scappa di bocca un mugolio che le sue labbra non accolgono come hanno fatto fin'ora perché sono intente a succhiarmi il collo. Il suo corpo su di me è un peso che non conosco ma al quale posso ben abituarmi, soprattutto quand'è così deliziosamente caldo e forte e teso. Lo chiamo ancora e voglio che mi baci, un po' perché quando lo bacio perde tutta la fretta che ha di toccarmi ovunque e i suoi movimenti si fanno lenti in maniera eccitante, e un po' perché quando voglio qualcosa e la cerco mi piace ottenerla.
Si spinge di nuovo contro di me e smette di accarezzarmi. La mia protesta è liquida e poco convinta, e non penso nemmeno che forse dovrei stupirmi delle due dita che mi preme sulle labbra, e della naturalezza con cui lo fa: sono troppo impegnato ad annegare nella mia soddisfazione personale quando lo sento emettere quel suono delizioso nel momento esatto in cui faccio sparire come niente due falangi. Con la mia lingua che gli scivola intorno gli si chiudono gli occhi e mi impedisce di giocare ancora. Sento la scia umida lungo la gamba e cerco di rilassarmi nel bacio che mi sta dando mentre si fa spazio, lentamente.
Ho una gamba attorcigliata attorno alla sua vita e tutto il corpo premuto contro il suo. Quello che mi piace è che mi tiene stretto e quasi sollevato, non mi lascia e così siamo strettissimi.
Non so quanto tempo passa ma anche chissene frega e mi chiama con un'urgenza che è anche la mia per cui non vedo l'ora di esaudire il suo desiderio, che per altro mi preme addosso in maniera decisamente interessante. Lo sento liberarsi degli ultimi vestiti mentre mi lascia libero di accarezzarlo e riprendo a toccarlo fin dove riesco ad allungare le mani perché il corpo di Chakuza mi piace e mi piace toccarlo da quando l'ho fatto la prima volta, in un modo che di erotico non aveva niente. Gli abbracci di Chakuza me li ricordo fin da prima che significassero qualcosa di più.
Chakuza... Peter - devo ripetere il nome e devo usarlo, perché non ho mai fatto sesso con un personaggio, ma sempre con l'uomo che ci stava dietro. E' importante. - torna da me e mi spinge gentilmente, per invitarmi a stendermi ma non lo faccio. Lo fermo e la sua espressione di terrore è così palese che riderei se quello che sto per fare non fosse tipo la cosa più importante che potrà mai legare me e lui nello stesso momento. Sorrido e gli accarezzo la guancia, baciandolo piano.
Quando mi tolgo l'anello, capisce. Quando mi sfilo il bracciale mi guarda fisso e lo sa che deve guardare, sa che devo guardare anche io e che - forse - non lo so, ci aspettiamo di venir fulminati.
In realtà non lo farei se stanotte non avessi sentito quella scossa al cuore, se non fossi stato certo - nel più assoluto dei modi - che fosse la cosa giusta da fare. Così appoggio sul comodino l'anello e il bracciale, che non mi sono mai tolto in questi mesi e dai quali è il momento di separarmi. Ora posso, non devo fermarmi. Non devo più.
Lui mi osserva e non muove nemmeno un muscolo e io faccio tutto guardando lui dritto negli occhi perché è per lui che lo faccio e per noi e per quello che dovevamo essere fin da quando abbiamo fatto quell'errore assurdo. Quando ho finito di depositare i miei sigilli sul comodino mi si avvicina quasi con timore, e dire che mi aspettavo di averlo addosso. Lo voglio addosso.
Mi distendo tra i cuscini e me lo tiro contro e ne segue quel momento delizioso in cui ci incastriamo benissimo e non c'è niente che non vada. L'unica cosa che faccio quando mi bacia per distrarmi è mugolare. "Peter, ti prego, fai... piano," e lui si ferma e mi guarda - ed è bello che lo faccia perché è carino e tenero e ci tiene. E soprattutto trova abbastanza forza mentale da distrarsi ancora, cosa che palesemente gli sta costando un'ernia credo. "Non sono...è da tanto che..."
Solo che sono in imbarazzo quindi vago un po' ovunque con gli occhi e balbetto e mi sento anche scemo perché non è la prima volta, non sono davvero così principessa e non so nemmeno perché mi sto comportando in questo modo. Forse perché quell'espressione preoccupata e dolce insieme mi piace. E' così tipicamente la sua per me.
"Lo so. Non preoccuparti," mi dice con un bacio sulle labbra. "Faccio piano."
Struscio il naso contro il suo e poi cerco il suo odore nell'incavo del collo e mi rilasso tra le sue dita che hanno ripreso ad accarezzarmi. Quando entra è gentile ma fa male e vorrei che non lo facesse, vorrei che fosse tutto più facile. Poi, però, chiudo le labbra intorno alla sua pelle e penso anche che sia giusto un po' di dolore per me e per lui. Forse ce lo meritiamo. Il dolore - tutto il dolore - dura solo un istante e poi smette. All'improvviso. Smette quando Chakuza torna a guardarmi ed è dentro di me e tutto torna a posto. E mi piace.
L'espressione che ha non la so descrivere ma è bellissima e mi viene da baciarlo. Sorrido quando mi rendo conto che posso baciarlo da qui all'eternità. Quando mi rendo conto che sono felice.
Il bacio che ci scambiamo è lunghissimo e umido. Il mio mugolare coincide con i suoi ringhi e con i nostri movimenti sempre più frenetici e sempre meno coordinati. Mi aggrappo alle sue spalle e lui palesemente vorrebbe stringermi ai fianchi - ogni tanto una mano scivola - ma non lo fa, è carino. Mi accarezza. Mi stringo e mi inarco, le mani di Peter sono fantastiche. Lui è fantastico. Quando dice il mio nome, con quella voce, con quel tono, con quel tutto che è lui qui, stasera, con me, non ce la faccio più. Gli vengo tra le dita e continuo a stringermi per lui, che ora può afferrarmi i fianchi, può stringerli anche un po' con violenza e serrare i denti, totalmente perso nel suo mondo.
Ho il suo viso tra le mani, lo bacio e mi asseconda. Apre gli occhi, due tagli verdi scuri di voglia e mi appoggia la testa alla spalla, tremando forte. Qualche istante più tardi mi abbraccia e io mi rannicchio contro il suo corpo rilassato, avvolto dal profumo di noi due insieme.
Mi addormento senza che diciamo una parola, con lui che mi sistema i capelli dietro l'orecchio dopo aver cancellato dal mio corpo le ultime tracce che mi permettevano di ricordare.

*


Quando esco dalla doccia, lo trovo appoggiato alla porta del bagno, con le braccia incrociate. Fingo di stringermi oltraggiato nel suo accappatoio. "Entri in bagno senza bussare, adesso?" Scherzo.
"E' il mio bagno, fino a prova contraria."
"Ma sono nudo," protesto.
Lui scosta un po' i lembi di spugna e dà un'occhiata divertita. "Non mi sembra ci sia niente di nuovo dall'ultima volta che ho guardato."
"Scemo!" Rido mentre mi abbraccia e gli nascondo il viso nel collo, inspirando il profumo del suo dopo barba.
"Ti vanno le frittelle?"
Annuisco, strusciando i capelli umidi contro la sua guancia. Rimaniamo un po' li così a dondolare, c'è la radio accesa. Sento la musica dalla cucina.
"Ti ho portato su la valigia."
"Mhn.Grazie," lo bacio sulla guancia. "Ma lo sai che non posso rimanere qui, vero?"
Lui sgrana gli occhi verdi e inclina un po' la testa di lato."E perché no?"
"Per una serie di buonissime ragioni, una delle quali inizia per T e finiscono per OM," lo bacio sulle labbra e struscio il naso contro il suo. "Se non torno a casa mi fa a pezzi."
"Potresti passare da casa e poi tornare qui."
Inspiro e appoggio la fronte alla sua."E cosa gli dico?"
Mi spinge contro il muro. "Non lo so, magari ti si è allagata la casa, oppure ti piace il mio quartiere. Magari ti ho convinto ad iscriverti a qualche setta religiosa che ci obbliga a condividere l'appartamento."
Rido mentre mi morde il collo e facciamo freddare le frittelle. "Vedremo," esalo.
Lui mugugna vago e mi spinge lungo il corridoio, mi aggrappo al suo collo e fingo di lamentarmi. "Sai che mi ero fatto la doccia per poi vestirmi e mangiare qualcosa? Magari uscire, anche."
"Dopo usciamo, giuro."
"Oh certo," commento e mi lascio stendere di nuovo sul letto, tirandomelo addosso. "Se non sono a casa per pranzo, te la vedi tu con Tom."
Chakuza annuisce ma le sue mani sono già su di me quindi non parlo più e sorrido quando mi guarda e mi dice che sono bellissimo.
Se avessi saputo cosa sarebbe successo da lì a qualche giorno, avrei sorriso di meno.

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Schmetterlingseffekt

di lisachan
C’è il sole, oggi. È una bella giornata, bella davvero, di quelle che poi da queste parti sono rare, perché il cielo di Berlino è quasi sempre una macchia grigia uniforme che ti dà l’impressione di essere un blocco di cemento. Ti sembra pesante allo stesso modo, almeno, ti sembra che a lasciartela cadere sulla testa ti schiaccerebbe a morte.
Dentro l’Audi nera d’ordinanza che mi è stata esplicitamente richiesta per mantenere il più possibile l’anonimato, io guardo il cielo di oggi – che non è grigio, ma di un bel celeste arioso e fresco – e penso che sto andando a tirarlo giù. Lo sto facendo consapevolmente e colpevolmente. Ed anche se, col cemento, quest’azzurro non c’entra niente, penso che, quando ci cadrà in testa, sarà pesante comunque.
Mi chiedo se Bill sia diventato forte abbastanza da reggere il colpo. Mi chiedo se sia maturato abbastanza, se le sue spalle si siano inspessite, se le sue gambe siano diventate più robuste, le sue braccia più salde. Me lo chiedo e lo rivedo come l’ho visto due giorni fa, prima che Chakuza lo caricasse in macchina per portarlo a Disneyland. Lo vedo piccolo e sottile e stupidamente felice come ha reimparato ad essere solo di recente. E realizzo che potrebbero passare anche anni, ma un colpo simile Bill non riuscirebbe a sostenerlo proprio mai.
*
Osservare le cose dall’esterno, in questi ultimi mesi, è stato come osservare delle piante ricrescere in giardino dopo l’inverno. Tra l’altro, il paragone è più che appropriato – suppongo che le metafore azzeccate siano ciò che mi resta in eredità dei Bed&Breakfast e degli aiuti a Bill quando ancora si rivolgeva a me se doveva scrivere una canzone – perché intorno a dicembre io mi sono guardato intorno e, proprio come un giardiniere, ho portato con desolazione le mani ai capelli e mi sono detto che, come niente, avrei perso tutto il roseto.
I problemi sono cominciati la notte – o meglio, l’alba – in cui Tom, strillando come una scimmia isterica, mi ha chiamato al telefono, implorandomi di andare subito a casa sua, perché Bill “palesemente s’era rincoglionito e lui aveva bisogno di una mano per tirarlo fuori dal pantano di merda in cui era caduto”.
Tom tende ad iperreagire, quando si tratta di suo fratello, questo c’è da dirlo. Basta toccarglielo e lui impazzisce. Gli ho visto fare delle cose assurde – investire la discografia di Bushido non è stata neanche la più allucinante; per dire, sono stato io ad applicare cerotti su cerotti su quella sua allucinante faccia da schiaffi, quando è tornato una notte alle quattro abbaiando che “quelli non erano rapper ma animali”. Alla mia domanda legittima – “Cosa hai fatto per meritare le botte, Tom?” – lui ha risposto altrettanto legittimamente – “Ho dato a Bushido del pedofilo” – e, a quel punto, sono stato io ad abbaiare “tu non sei un chitarrista, sei un microcefalo”. Questo per dire che, quando entra in conto Bill, Tom smette di ragionare e segue il flusso dell’amore indiscusso che prova per lui. Solo che è un cretino, quindi come si muove sbaglia.
In ogni caso, questa tendenza all’esagerazione di Tom mi ha portato a prendere sottogamba la questione. Voglio dire, io dormivo, quando lui ha chiamato. Per cominciare a ragionare con un minimo di senso, a me serve del caffè. E non ho mai del caffè in casa prima delle sette, perché per preparare del caffè devo prima alzarmi dal letto, naturalmente, e ciò non avviene quasi mai prima di quell’orario, a meno di casi straordinari. Quindi, in poche parole, ho cercato di calmarlo e rimandarlo a nanna – sperando che ci fosse stato, a nanna, almeno per qualche ora.
Il problema – enorme – di Tom è che, quando sragiona, si fissa. Non ne esce più. Ha odiato Bushido per anni, cominciando vagamente ad accettare l’idea della sua presenza – e più con rassegnazione che con piacere – solo qualche mese prima che morisse, per dire. E tutt’ora prova dell’antipatia palese per Chakuza, nonostante non sappia cosa c’è in realtà fra lui e suo fratello, perché a suo dire è troppo presente nella vita di Bill. E, ripeto, Tom non ha idea dei modi e delle misure in cui Chakuza è presente nella vita di Bill. Non sa che la vita di Bill è ancora una vita e non un insieme di vuoti solo perché Chakuza li riempie tutti. Non sa che c’è lui dietro ad ogni sorriso, ad ogni occhiata dolce, ad ogni gesto tenero di suo fratello. Non sa che Bill ha ricominciato a respirare davvero solo perché ora può farlo anche dalle sue labbra. E, pur non sapendo tutte queste cose, lo malsopporta.
Tom si è fissato anche quella notte. Mattina. Insomma. Non c’è stato verso di scollarlo dal telefono, perciò alla fine mi sono rassegnato, mi sono vestito, ho mandato giù del latte di soia nella speranza che risvegliare il mio apparato digerente servisse anche a risvegliare il resto del mio corpo e mi sono messo in macchina, alla volta dell’appartamento del mio angosciato chitarrista.
All’arrivo, Tom mi ha accolto con aria tesa. In genere, quando sclera, Tom è molto buffo, perché si agita tanto, strilla e strepita. Se ritiene tu non stia capendo abbastanza profondamente il motivo del suo sgomento, ti scuote per le spalle. Come se servisse a qualcosa. Quella mattina, invece, me lo sono ritrovato che mi fissava serio, le sopracciglia aggrottate, tutto intento a torturare coi denti il labbro inferiore, fino a screpolarlo.
“Sono sconvolto,” mi ha detto, mentre mi invitava ad entrare ed a chiudermi la porta alle spalle.
“Sì, lo vedo,” ho risposto io, appendendo la giacca all’attaccapanni e sbirciando lungo il corridoio verso l’unica luce che vedessi, e che proveniva dal salotto, “Qual è il problema?”
Tom ha esitato, prima di rispondere. Ha deviato un po’ lo sguardo verso un punto vuoto oltre le mie spalle, e poi è tornato a guardarmi fisso ed ha schiuso le labbra.
“Che Bill non lo è. Non è sconvolto. È questo, il problema.”
In realtà, questo era parte del problema. Io sono abituato a guardarli tutti in faccia e nel complesso, i drammi. Il mio mestiere è sbrogliarli. Risolverli. Fare in modo che tutto si concluda bene. E sono bravo a farlo – è questa la ragione per cui mi trovo oggi in questa posizione del cazzo. Tom no, Tom del problema vede solo quello che gli interessa. Come quando suo fratello è stato male e ciò ci ha costretti a cancellare un tour; per Tom, l’unica cosa importante era il dolore di Bill, non il dramma economico e pubblicitario che da quelle cancellazioni sarebbe derivato. In quel caso, fu la stessa cosa.
Suo fratello aveva ucciso Saad. Saad era l’uomo che aveva ucciso Bushido. Fler e Chakuza gli erano rimasti accanto per tutto il tempo e non avevano mosso un dito che fosse uno per fermarlo. Questo era il problema nella sua completezza. Ovviamente, però, a Tom interessava solo che suo fratello non fosse turbato quanto sarebbe stato giusto dall’aver premuto il grilletto e spedito un proiettile nel mezzo della fronte di un altro essere umano.
L’apatia di Bill – se poi di apatia si poteva parlare; io, per dire, l’avrei descritta più come serena accettazione – non era dunque tutto il problema. Ne era però una consistente parte, e questo era abbastanza chiaro. Io, Bill, lo trovai seduto sul divano che guardava fisso davanti a sé senza particolare interesse, come stesse guardando scorrere l’acqua di un fiume. Pure un po’ annoiato, per la verità.
Quando mi raccontò cos’era successo – ripetendo le stesse parole che aveva già detto al fratello, immagino, perché sembravano rodate. Di quei discorsi che vengono fuori dopo che te li sei ripassati mentalmente almeno una ventina di volte – lo fece con incredibile calma. Con enorme compostezza. Le mani rigide strette in grembo, le ginocchia che si sfioravano, il petto scosso appena dai respiri. Sul volto, un sorriso rassicurante e serafico che mi diede i brividi. Me li dà ancora, a ripensarci.
Bill non ha omesso niente, nel racconto. Tant’è che quando, per scrupolo, sono andato da Fler a chiedergli la sua versione dei fatti – anche per capire cosa ne avessero fatto del corpo. Ed è incredibile con quanta freddezza si possa arrivare a pensare, quando hai già visto un altro uomo morire – non l’ho trovata differente nemmeno in un punto.
Bill non ha cominciato ad avere un problema quel giorno. Bill ha cominciato ad avere un problema quando il suo problema principale è svanito.
Durante i mesi precedenti all’assassinio di Saad, Bill aveva vissuto con l’unico obiettivo di mettere il punto a quella storia. Voleva essere lui a farlo perché lo sentiva come un suo diritto. Anzi: perché Bushido gli aveva dato quel diritto. L’aveva fatto portandoselo a letto, dicendogli di amarlo, rendendolo una parte tutt’altro che ininfluente della propria esistenza. Facendolo suo, in pratica. Bill, quel diritto, l’aveva per concessione regale, per dirla con parole che a Bushido farebbero anche un gran piacere. Non credo che Bill pensasse di farlo fuori fin dall’inizio, eh. Penso però che volesse essere lui a trovare il modo in cui concludere la storia. E penso che, quando ha guardato Saad negli occhi – forse anche prima, forse anche solo pensando a come si sarebbe sentito guardando Saad negli occhi – abbia deciso che quello andasse bene. Che un proiettile fosse sufficiente.
Risolta la questione, Bill ha cominciato ad appassire. È una cosa piuttosto normale, credo: il fiore ha un fine. Il fine del fiore è il frutto. Il fiore muore, appena il frutto nasce.
Cosa sia successo fra Bill e Chakuza, io non lo saprò mai con certezza. Bill non ne parla volentieri. Neanche con me, pure se ha dovuto per forza informarmi almeno in parte di ciò che stava succedendo, visto che – come sempre – a me è toccato coprirlo. Con suo fratello, con la stampa, col mondo, sostanzialmente. Mi è sembrato di ripetere l’esperienza Bushido, per certi versi. Quasi avrei voluto dire a Bill “l’hai visto, com’è andata la prima volta. Allora?”.
Bill non parla di Chakuza perché Bill ha un modo molto intenso di vivere le storie d’amore, quando iniziano. Visto che è una testa dura e si caccia sempre in situazioni complicate, è naturale che poi abbia paura di distruggere tutto e vedere il frutto della propria fatica spargersi sul tavolo come un castello di carte abbattuto da un soffio. “Meno ne parlo”, pensa, “più facile sarà che resti tutto in piedi”. Quindi, anche se io so dove va a dormire, e con chi esce, e con chi scappa a Disneyland, e di chi sono i segni rossi che ha sul collo quando arriva agli studi brillando di luce propria, non saprò mai nel dettaglio com’è che i fatti si sono svolti. Come si siano mossi. Quando abbiano cominciato.
Per certi versi, è molto meglio così. Perché sono bravo a coprire le cose, ma ci sono persone alle quali non riesco a nascondere quasi niente.
Purtroppo, da un annetto a questa parte, lavoro alle dirette dipendenze di una di queste.
*
Fatto sta: Bill e Chakuza stanno insieme, e per quanto io abbia svariati milioni di motivi per pensare questo sia l’errore del secolo, per quanto io continui intimamente a credere che probabilmente avrei dovuto recuperare Bill per i capelli e riportarlo dalla parte giusta della Germania quando Bushido è morto, devo purtroppo ammettere che Bill non sarebbe qui – bello, in salute, possibilmente neanche vivo – se non ci fosse stato Chakuza. La tensione che ha tenuto Bill insieme quando Chakuza non c’era era la furia con la quale lui cercava di sfuggire a ciò che stava provando nei suoi confronti. Quando quella tensione si è sciolta – quando Bill ha smesso di fuggire – si sarebbe certamente disfatto, se a quel punto non ci fosse stata una forza di tutt’altro tipo a tenerlo insieme. La forza di tutt’altro tipo, nel caso di specie, è quella delle braccia di Chakuza. Delle sue spalle, della sua strana, complicata maturità e di quello che prova per Bill.
Chakuza, Dio mio, lo adora. Anche Bushido lo adorava, ma c’è qualcosa di fondamentalmente diverso, nei loro sguardi, che è evidente se solo li si sa guardare. Bushido guardava Bill come fosse una cosa propria, quasi un pezzo di corpo. I suoi occhi riflettevano un senso di appartenenza che rendeva Bill orgoglioso.
Chakuza, invece, lo guarda come se fosse un regalo. Qualcosa di totalmente inaspettato, che è nuovo ogni volta che cambia la luce, il giorno, l’angolazione o la prospettiva. Qualcosa di diverso che non riesce ancora a capire perfettamente e che, anche per questo, lo avvince. I suoi occhi riflettono un senso di gratitudine che rende Bill orgoglioso. Ancora. Credo che Bill abbia pensato che non avrebbe mai più provato niente del genere. Ed invece è capitato di nuovo. È per questo che Bill guarda Chakuza con la stessa gratitudine con la quale viene osservato.
Per certi versi, ciò che lega loro due è molto più maturo di ciò che un tempo ha legato Bill a Bushido.
Questa sarebbe una cosa bellissima. Se solo io oggi non fossi in questa dannata Audi nera di merda. Direzione aeroporto.
*
Bushido era un uomo molto organizzato. Il fatto che, generalmente, si comportasse come un cretino – divertendosi a tirare scemo chiunque, per esempio – mi ha spesso fatto perdere di vista la verità fondamentale per la quale, per fare il suo mestiere e gestirsi adeguatamente, uno debba per forza esserlo.
Il mestiere di Bushido… è complicato definirlo. Bushido era un cantante. Fin qui, tutto chiaro. Bushido era anche un personaggio pubblico, e questo faceva mestiere a sé indipendentemente anche dal canto. Era famoso perché cantava, ma non era rimasto famoso solo perché aveva cantato. Mantenere un’immagine pubblica che ti tenga di continuo sulla cresta dell’onda non dipende solo da quanti biglietti riesci a vendere in occasione di un concerto, o da quanti dischi d’oro riesci a piazzare appesi alle pareti dei tuoi studi. Serve altro, servono le sbruffonate, l’iperpresenza sugli schermi – di qualsiasi tipo – serve del fascino e serve saperlo usare. Bushido, in tutto questo, è sempre stato bravissimo. Suppongo fosse così perché s’è sempre gestito da solo, fin da piccolo. Errori su errori, a un certo punto impari.
In aggiunta a tutto questo, l’altro mestiere di Bushido – un lavoro a tempo pieno – era quello di non perdere contatto con le proprie origini. Quando vivi in un bel quartiere residenziale, circondato da alberi rigogliosi, con una piccola piscina sul retro, Spongebob in televisione e World Of Warcraft sempre acceso sul pc, ci può anche stare che ogni tanto ti dimentichi di essere venuto da un ghetto, dallo spaccio e da tutto il resto.
Bushido non era un criminale.
Non più, almeno.
Ma c’era un pezzo di lui che era rimasto a Tempelhof. Era un pezzo di lui che aveva il suo valore. E che in caso di bisogno doveva farsi valere.
Quindi no, Bushido non era un criminale. Ma aveva ancora un nome che sapeva farsi rispettare, se qualcuno aveva bisogno di un favore.
Ed anche questi sono mestieri, suppongo.
È evidente, comunque, che quando devi gestire tre situazioni così diverse fra loro – devi cantare e devi essere un pagliaccio e devi anche ricevere all’Ersguterjunge gente che ti parla dei suoi problemi in stile Padrino, ecco cosa intendo – devi anche saperti organizzare. Devi essere uno che guarda piuttosto avanti nel futuro, uno che capisce come andranno le cose prima ancora che quelle comincino a muoversi in una determinata direzione. Perché non puoi permetterti di essere impreparato di fronte ai casi della vita, no, devi prevederli sempre e devi prevederli tutti.
Nella maggior parte dei casi, non puoi nemmeno farcela da solo. Anche se Bushido, ammetto, si destreggiava più che bene anche prima che arrivassi io.
Io non ho capito cosa Bushido intendesse esattamente quando mi ha chiesto se ero bravo a sistemare le cose, almeno fino a che non ho avuto qualcosa da sistemare per lui. E questo è successo tre giorni prima che morisse.
Tre giorni prima che morisse – prima ancora di andare da chiunque altro, sospetto – Bushido è venuto da me. Mi ha detto chi era, mi ha tenuto fermo in una kebaberia per circa tre ore solo per descrivermi da dove veniva, cosa c’era nella sua testa e, soprattutto, cosa stava preparandosi ad affrontare.
Dopodiché, senza nemmeno chiedermi se per caso mi andasse di farmi assumere da lui, ha cominciato a darmi direttive.
Non è che abbia dato per scontato il mio assenso, eh. Questo ci tengo a precisarlo, perché Bushido non ha mai dato per scontato nulla. Anzi, è probabilmente l’uomo che si aspetta di meno in assoluto, dalla vita. Direi quasi che non si aspetta proprio un bel niente. E tutto il suo modo di pensare, di agire e di risolvere le cose, si esprime così. Proprio perché non si aspetta nulla di gratuito, lui le cose se le prende. Il mio assenso – la mia complicità… quello che ora si esprime in me che viaggio verso l’aeroporto – lui non l’ha dato per scontato. Se l’è preso. Punto.
Insomma, gli ordini erano molto semplici: “nel caso dovessi morire – nel caso, Jost, non fare quella faccia, lo so che ti mancherei più di quanto potresti sopportare, ma cerca di essere uomo e forte” “Bushido, fottiti” “Oh! Come sei sboccato” una risata delle sue, “Nel caso dovessi morire, Jost, a Bill sto già pensando da adesso. Chakuza, uno dei miei, non è ancora nel giro come gli altri. Non che sia un pivello, è solo che la sua testa fa più resistenza. Sarà che è austriaco. Sarà che è un cuoco. Sarà che stava in fattoria coi genitori, tipo. Sarà che era biondo ossigenato, quando l’ho conosciuto” e giù altre risate, “Comunque a Bill penserà lui. Lo terrà su di morale. Ma non posso contare sul suo lavoro per tenerlo anche lontano dai guai con la stampa. Quello posso tranquillamente affidarlo a te – posso, vero? – tu le sai sistemare, queste cose”.
Al di là del suo essere come al solito un intollerabile buffone, si capiva lontano un miglio stesse parlando con estrema serietà. Questo per il semplice fatto che Bushido era un uomo molto orgoglioso. Non arrivava a chiedere niente, se non sapeva di averne effettivo bisogno. È uno dei motivi per cui, quando Bushido chiedeva, la gente non si tirava mai indietro. Perché ci si rendeva tutti immediatamente conto del fatto che c’era evidente necessità.
Quando, tre giorni dopo, Tom mi chiamò per dirmi che lo stronzo era morto, che Bill piangeva avvinghiato al suo dannato cadavere fino a pochi minuti prima e che adesso il corpo era in viaggio verso l’ospedale – “…l’ospedale, Tom?” “…sì. Era ancora… respirava. Poco. Ma respirava. A Bill non l’ho detto.” – io sono andato lì solo perché dovevo preparare l’ospedale all’arrivo del mio protetto. Era ciò che mi aveva chiesto Bushido, in fondo, no? E conoscevo Bill abbastanza da sapere che, una volta realizzato che il corpo del suo uomo non era più lì, non gli stava piangendo addosso e non lo stava sentendo sotto le mani, la prima cosa che avrebbe chiesto – e l’avrebbe anche ottenuta, perché Tom, alla fine, non riesce a negargli mai niente – sarebbe stato farsi portare dovunque fosse lui.
Dovevo disporre la sicurezza. Dovevo parlare coi medici. Dovevo parlare con le infermiere.
Di certo non mi aspettavo che, appena messo piede nell’edificio, un medico mi raggiungesse e, con aria piuttosto seria, mi rivelasse candidamente che “avevano avuto esplicita richiesta di conferire solo con me”.
A ripensarci, rivedo la scena con una perfezione tale che non sembrano passati nemmeno due giorni. E invece è quasi un anno. Il medico che mi si avvicina – “Il signor Jost?” – io che esito – “Sono qui perché-…” – lui che mi interrompe – “Abbiamo ricevuto esplicita richiesta di conferire solo con lei” – io che lo fisso disorientato – e penso: è arrivato fino a questo punto, quell’essere assurdo? È venuto a parlare perfino coi medici, in previsione della propria morte? – e lui che mi poggia una mano sulla spalla e mi conduce di là. E Bushido sul lettino.
Mentre i miei ricordi indugiano sul suo volto pallido e provato – Bushido aveva la capacità di diventare, tipo, bianco, quando stava male. Non un bianco da carnagione chiara, un bianco spaventoso, cadaverico. Appropriato, direi, vista la situazione in cui si trovava in quel momento – le porte a vetri smerigliate e scorrevoli della sala arrivi dell’aeroporto si spalancano, ed io osservo il flusso di turisti americani che sfilano allegramente fra i nastri trasportatori per recuperare i bagagli e godersi un po’ di sane vacanze europee; osservo anche i tedeschi che tornano dalle spiagge d’oltreoceano, arrossati dal sole e con certi sorrisi da pubblicità – non tanto per la perfezione, quanto per la felicità che mostrano – che ti riempiono il cuore; e fra una persona e l’altra, un po’ mescolato fra la folla, i capelli lunghi che sfiorano il collo, gli occhiali da sole a coprire quasi metà del viso ed il pizzetto curato a rendere anonima e irriconoscibile l’altra metà, osservo anche lui.
Si guarda intorno. Sta cercando me. Le linee nere e definite del tatuaggio sul collo spuntano appena, giocando a nascondino col colletto della camicia bianca che spunta dallo scollo a v del maglioncino di cotone blu che indossa. È, forse, un po’ troppo leggero per il periodo in cui siamo. È roba primaverile, mentre qui le porte dell’autunno si schiudono lasciando passare i primi spifferi di freddo. Immagino che i lunghi mesi di soggiorno a Miami abbiano un po’ sfasato il suo termostato naturale. Ed era già sfasato di suo, eh, capacissimo di andare in giro in maniche corte in pieno inverno. L’ho visto coi miei occhi.
Quando finalmente mi trova, sorride. Ed anche se al momento vorrei alternativamente prenderlo a cazzotti, rispedirlo negli Stati Uniti con un calcio o terminare il lavoro che Saad non è stato evidentemente capace di concludere, sorrido anch’io. Perché mi tira fuori uno di quei sorrisi brevettati ai quali non puoi sfuggire. Sono cose solo sue.
Peraltro…
- Ma lo fai apposta a mettere sempre questi maglioncini qua, quando devi incontrarmi?
Bushido ride ad alta voce e posa l’enorme trolley rosso che si trascina alle spalle.
- Ti sono mancato, Jost? – chiede con aria fascinosa, piantando una mano sul fianco.
Io inarco un sopracciglio.
- Meno ti vedo, più felice sono. Questo mi sembrava fosse chiaro.
Lui finge disperazione ed inarca le sopracciglia verso il basso, sfilando gli occhiali da sole per potermi somministrare più disinvoltamente quella specie di occhiata da cucciolo bastonato che non so come riesca a tirare fuori all’occorrenza, dall’alto del suo abbondante metro e novanta.
- Ma mi hai fatto tornare tu! – si lamenta con aria affranta.
Io sospiro.
- Sì. – ammetto, - Ti ho chiamato io. – “e me ne sto già pentendo”, vorrei aggiungere. Ma lui ha ricominciato a sorridere. E insomma. – L’ho fatto per un motivo serio, comunque, e lo sai perfettamente. E invece, come al solito, stai facendo il deficiente.
- Sdrammatizzo, Jost. – mi corregge, riprendendo a muoversi disinvoltamente verso l’uscita. Ricorda ancora tutto perfettamente, un po’ mi fa pensare che sia venuto altre volte, nel corso dell’ultimo anno. Altrimenti non si spiega la sicurezza con la quale si riappropria degli ambienti. Poi però ricordo che lui è Bushido, che le cose non le vive, le possiede, perciò non mi pare più nemmeno tanto strano che ricordi ancora perfettamente Berlino-Schönefeld.
Io sospiro ancora e gli vado dietro. Non ho nemmeno bisogno di guidarlo verso la macchina, ricorda anche lei. Pure se l’ultima volta che l’ha vista è stata quando l’ho accompagnato proprio a questo aeroporto, un anno fa. L’altra volta era in partenza, però. Stavolta è di ritorno. E non so ancora per quanto.
- Allora. – comincia tranquillamente, aspettando che abbia aperto il portabagagli per posare al suo interno la valigia, - Cos’è cambiato, mentre ero via? A parte il fatto che la gente non ascolta più buona musica perché il Chaky mi chiude l’azienda, ovviamente. – aggiunge con una risata naturale.
È cambiato, tanto per cominciare, che il Chaky non ti vuole solo chiudere l’azienda, ma si diverte anche a chiudere il tuo ex ragazzo nel proprio appartamento. Con la di lui complicità e per la sua gioia, peraltro. Gioia che condividono solo loro due, inoltre, perché in quei periodi Tom sclera – e sto finendo le scuse plausibili al riguardo, lo ammetto. Credo di aver raschiato il fondo con “è in beauty farm”, la settimana scorsa – ed io non me la passo mai in maniera piacevole, quando Tom sclera. C’è di nuovo anche che, ricordi l’altra tua ex? Cassandra? Ecco, quando Tom non è impegnato a sclerare perché non capisce con chi sta uscendo suo fratello, si vede con lei. E non credo giochino a scacchi, quando lo fanno. C’è poi quell’altro tuo ex ragazzo, quello che non è mai diventato tale, Patrick, lo ricordi lui? Ecco, lui me lo sto perdendo. Non credo di aver mai visto Fler triste com’è in questo periodo. Ed è un anno che ci gira intorno, sai? Non è bello quando vedi uno che sta decorosamente bene ridursi così. Ed i motivi, peraltro, sfuggono a tutti meno che a me, perché grazie a te – o per colpa tua – ho imparato ad osservare.
Sono cambiate un mucchio di cose, Bushido. Del tipo che prima si stava bene. E adesso è un casino. Ma come si fa a dirtelo?
- Be’, fa più freddo. – annuisco con aria competente, - Sicuro di aver portato abbastanza roba pesante?
Lui scrolla le spalle ed entra disinvoltamente in macchina.
- Non ho lasciato niente lì. – risponde sovrappensiero, quando mi osserva sedermi al posto del guidatore. Lo guardo con sincero sgomento. – Intendo… tranne i soprammobili, ovviamente. E qualche vestito che-
- Bushido… - lo recupero dal vortice di pensieri assolutamente inopportuni in cui si sta allegramente gettando, - ne abbiamo già discusso, di questa cosa, e-
- Tranquillo, Jost. – mi interrompe con uno sbuffo infastidito, - Non ho intenzione di restare più del necessario.
Al che, giustamente, mi viene da rispondere “No, noi avevamo concordato che non saresti rimasto più di un mesetto, giusto il tempo di risolvere la questione. Com’è che adesso un mesetto è diventato il necessario? E perché il necessario mi fa paura, come periodo di tempo?”. Però non lo faccio.
- Sarà. – borbotto scontento, mettendo in moto. – Comunque sia-
- Non mi farò vedere da anima viva. – mi interrompe ancora, - Briegmann a parte, naturalmente, altrimenti come faccio a riprendermi l’EGJ?
- Sì… quello lo do per scontato, Bushido. Comunque sia, stavo dicendo, - sbuffo e guardo fuori dal finestrino. Non mi fa bene sentirmi in imbarazzo, al momento. Non mi fa bene sentirmi in imbarazzo perché ricordo fin troppo bene che nove mesi fa le dita che adesso pestano sulla tastiera del cellulare, scrivendo messaggi diretti non so e non voglio sapere a chi, sfioravano la mia pelle. Non mi fa bene. Non mi fa bene per niente. Sono evidentemente un cretino. - …bentornato, ecco.
Bushido ride, non solleva gli occhi dal cellulare e mi molla un paio di pacche sulla spalla.
- Anche io sono contento di rivederti, Jost. Mi sei mancato anche tu.
E se da un lato penso che, grazie a questa sfacciata naturalezza, per certi versi avere a che fare con lui è incredibilmente facile, dall’altro lato penso che lo odio. La mia giornata di oggi è un continuo realizzare che, da questa situazione, non riusciremo mai ad uscire vivi.
*
Ho appena lasciato Bushido in uno dei numerosi appartamenti che ha continuato a tenere qua a Berlino nonostante, quando è andato via, non si pensasse minimamente all’eventualità che potesse tornare. In realtà, il fatto che ci fossero ancora tutti questi appartamenti a suo nome, qui nei dintorni, avrebbe dovuto darmi da pensare in tal senso. Voglio dire, non tieni la zavorra inutile di dieci dannati posti vuoti, se non pensi che prima o poi tornerai a utilizzarli. Soprattutto, non li tieni quando sai che la tua etichetta è destinata a chiudere e sai anche perfettamente che, vendendo quelli, potresti tranquillamente sopravvivere di rendita per tutto il resto della tua esistenza. Quindi sì, in effetti avrei dovuto pensarci. O avrei dovuto costringerlo – convincerlo, Bushido non lo costringi mai – a venderli.
Gli ho promesso il kebab per cena. Quell’uomo, alle volte, è un bambino. Nel senso che se gli prende un capriccio, vallo a smuovere, poi. Non si può. Avrei potuto fargli la spesa e preparargli un buon piatto di pasta – dice di aver imparato a cucinare, mentre stava a Miami, ma che vuoi che si impari a cucinare in America? Gli hot dog? – ma lui no, lui vuole il suo intruglio malefico e disgustosamente piccante che peraltro io non posso mangiare in quanto riempito fino a esplodere di carne varia ed eventuale, ovviamente. Niente pasta, il kebab, per lui. È stato palesemente troppo lontano da casa.
Perciò, è cercando una kebaberia che chiamo Bill al cellulare. Giusto per capire se sta bene e se si diverte. O forse solo perché mi sento in colpa.
- David! – strilla lui, la voce che sprizza gioia ad ogni nota, come nei migliori casi di esaltazione zucchero-indotta. Chakuza deve averlo ingozzato di dolcetti.
Sorrido intenerito, anche se, da qualche parte dentro di me, sto strillando “santo cielo” in tutte le lingue che conosco. E non sono così poche.
- Bill, ciao. – lo saluto, individuando finalmente una kebaberia ed introducendomi all’interno dell’ambiente caldo e saturo dell’odore forte delle cipolle, delle olive, delle salse piccanti e della carne che ruota sullo spiedo. – Dove sei?
- Disneyland! – riprende a strillare. E lo immagino sollevare un braccio in segno di gioia. Come il bambino che sta ricominciando ad essere da quando può. – Puoi crederci? Siamo appena usciti… entrati… cioè, siamo usciti dal parco ed entrati in albergo! – e sottolinea l’imbarazzante confusione da allegria con una risatina sottile e divertita.
- Aha, capisco… - mugugno, indicando al ragazzo dietro al bancone di preparare due panini con… be’, tutto quello che vuole metterci, è indifferente. – Sei con… - ed esito, perché ho paura a parlarne con Bushido che mi aspetta in quell’appartamento buio e silenzioso a qualche strada da qui.
Bill, comunque, non mi lascia rispondere. È ansioso di dirlo lui, quel nome.
- Sìsì! – miagola entusiasta, - Sono con Peter, stiamo decidendo se andare fuori a cena! E oggi mi ha comprato un mucchio di caramelle, non è carino?
- …già. – annuisco a fatica, - Molto. Senti… pensate di rientrare in settimana? O comunque a breve?
- Assolutamente no! – ride ancora lui, - Avanti, David, è il nostro mesiversario, te l’ho detto tre giorni fa! Non starai mica per dirmi che c’è del lavoro da fare…
Per un secondo, accarezzo l’opportunità di smontargli i piani. Non perché non voglia che sia felice, tutt’altro, dubito che esista un’altra persona al mondo – a parte Tom – che voglia Bill felice più di quanto lo voglia io. Solo che mi viene da pensare che fra poco ricorrerà il compleanno di Bushido. Sarebbero trentun anni, se non fosse morto. Che poi non è morto davvero, d’accordo, ma certe volte – in maniera del tutto irrazionale – mi viene da pensare che Bill questo lutto non l’abbia vissuto per niente bene. Che si sia distratto troppo.
Non lo so, in realtà non mi pare che il lutto di Bushido sia stato davvero vissuto per bene da qualcuno. Forse solo da sua madre. La cosa è un po’ ironica e un po’ – tanto – triste. Vorrei solo che Bill non fosse con Chakuza, adesso. E lo penso mentre il ragazzo dietro al bancone mi consegna i due panini incartati e insacchettati.
- No, no. – lo rassicuro con una mezza risata, porgendo al ragazzo una banconota da dieci, e attendendo il resto, - È tutto a posto. Volevo solo esserne sicuro. Per stasera non ci sentiamo più, giusto?
- No, infatti. – annuisce lui, più tranquillo, - Pensavamo di fare tardi. – aggiunge poi, con una mezza risatina.
Sospiro profondamente, intascando le monetine e tornando in strada.
- D’accordo, Bill. Avete il mio benestare, anche se volete andare fuori a cena. Però, ti prego, non costringermi a correre dietro i paparazzi sventolando assegni nella speranza di salvaguardare la tua carriera e la tua immagine pubblica, d’accordo? – anche perché, vorrei aggiungere, pure se non lo faccio, dato che il giorno si avvicina, ovunque si stanno organizzando trasmissioni celebrative, concerti all’onore e bla bla bla. Tutta roba che quando la racconto a Bushido lo fa ridere di gusto. “Non sono mai stato amato tanto,” si lamenta giocosamente, “quando ero vivo”. Mi sa che ha ragione.
Bill non coglie il sottinteso del mio discorso. Meglio così, in fondo.
- Sì, sì, lo so. – si lagna sbuffando, - Niente baci, niente carezze, niente di niente in pubblico.
- Bravo. – mi complimento subito. – E… per quando tornerete a Berlino… - mi faccio forza perché devo dirlo. Devo dirlo per forza, perché non posso rischiare niente e se Bushido è in città io non posso mettere Bill nelle condizioni di farsi beccare da lui con Chakuza. Anche per un caso fortuito. Anche se quell’idiota decidesse davvero di non uscire ma si limitasse a guardare fuori dalla finestra e casualmente li vedesse. - …ho saputo da fonti fidate che Bravo è in cerca della paparazzata del secolo. Mi sa che non siete stati granché discreti ultimamente. – non è vero, sto inventando. Bill, però, non può saperlo. – Magari è meglio che tu e Chakuza vi vediate un po’ di meno, per le prossime settimane. D’accordo?
Il suo silenzio mi raggiunge come una stilettata in mezzo ai polmoni. Sento voci di persone, risate di bambini ed altri miriadi di rumori, tutti attorno a lui, ma lui resta in silenzio.
- …ma non ci siamo visti per niente, la scorsa settimana… - mugola scontento, - E presto dovremo rimetterci al lavoro…!
Ha ragione, insomma. Ha ragione.
- Bill, non mi deludere adesso. – ringhio, e sono irritato perché ho torto. – Un po’ di professionalità, Cristo.
Dall’altro lato della cornetta, lui esita, incerto.
- Non… - balbetta insicuro. Poi sospira. - …mi dispiace. È che ci vediamo così poco che… mi dispiace. Faremo come vuoi tu, David.
Il mio sospiro fa eco al suo. È ugualmente profondo e ugualmente affranto, almeno.
- Lo so, Bill. Lo so che è difficile. – e sono triste per Bushido, ma è Bill il mio bambino, in fondo. – Facciamo che alla prima pausa disponibile vi do due settimane solo per voi. – suggerisco con un mezzo sorriso che spero lui senta fra le vibrazioni delle mie parole.
- …due settimane? – chiede Bill, incredulo, - Intere?
- Sì. – confermo io senza un’esitazione. E non m’importa, in questo momento, se ciò significa che dovrò rispedire Bushido a Miami quanto prima, anche a costo di fare carte false. – Due settimane piene, senza nemmeno un impegno. Dì a Chakuza di organizzarsi. – concludo con una risatina.
L’urlo di gioia di Bill si fa attendere solo un secondo. Poi arriva, come previsto, spaccandomi i timpani e, in buona misura, anche il cuore. Io, davvero, non so che pesci prendere. Dovunque guardo vedo profilarsi disastri a lungo termine. Di quelli che rovinano la vita a lungo.
Io non ci credo che Bushido potrà passare per il suolo tedesco per poi tornarsene negli Stati Uniti senza colpo ferire. Io non ci credo, per il semplice fatto che quell’uomo non… non passa mai senza lasciare traccia. Non è neanche colpa sua. Non gli riesce e basta.
Allontano la cornetta dall’orecchio e parto con le lamentele di routine. Del tipo “Sono troppo buono, palesemente ti vizio, sei venuto su diva perché ti ho lasciato fare tutto quello che volevi” e così via. Bill mi ferma come al solito, ringraziandomi con quel tono dolce che non ammette repliche per il semplice fatto che, quando lo usa, ti sta parlando col cuore in mano.
- Saremo buoni buonissimi, David. Promesso. – cinguetta al settimo cielo.
Sorrido, inspiegabilmente soddisfatto di me stesso.
- Bravo. Ora vai, su. E divertiti.
Lui ridacchia appena.
- Lo farò. Grazie, David.
Mi si stringe il cuore.
- Figurati. Buonanotte.
Chiudo la telefonata prima che possa dire altro. Me lo vedo già che corre verso Chakuza, che chissà dove lo stava aspettando per non disturbarlo. È discreto, con lui. È gentile. È palesemente la scelta perfetta. La più perfetta che Bill poteva fare dopo Bushido.
Sospiro pesantemente.
- E tutto questo… - borbotto, incamminandomi verso l’appartamento, - perché quello mi ha scopato, una volta. Io devo essere completamente pazzo.

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Scritto Sul Corpo

di lisachan
Quando apro la porta di casa, Bill è così slanciato in avanti che praticamente mi cade fra le braccia. Siccome non pesa niente, reggerlo non è difficile e non è che a ritrovarmelo addosso io faccia fatica a sostenerlo. Siccome, però, è illegalmente alto, se mi si getta addosso in questa maniera, mantenere il giusto equilibrio è un po' problematico, ed è per questo che, appena me lo vedo cadermi sopra, lascio andare un lamento un po' stupito e cerco – invano – di reggermi sulle due gambe che la natura mi ha dato. Purtroppo fallisco nel tentativo e in meno di due secondi io e Bill ci ritroviamo a terra. Io ho anche battuto con una certa forza – tra l'altro contro qualcosa che non sono certo di volere identificare – ma Bill sta ridendo, perciò è tutto ok.
Lo sento chinarsi un po' sul mio collo, mentre mi stringe con più convinzione e continua a ridere. Per un secondo penso voglia solo baciarmi, poi lo sento strusciare il naso contro la mia pelle e vado nel panico – solo un momento, il momento che in genere uso quando Bill sta per dirmi “sei stato con Patrick”. È un momento che mi serve perché “stare con Patrick” ha valenze tremende, nella mia testa. Sono valenze che non esistono, nella testa di Bill. Io non so lui cosa creda facciamo io e Fler quando stiamo insieme. Probabilmente è convinto che giochiamo a scacchi o qualcosa del genere. Comunque questo momento mi serve per tranquillizzarmi e convincermi del fatto che no, Bill non sta per accusarmi di alto tradimento, sta solo per annunciarmi che ho l'odore di Patrick addosso. Che per me equivale all'alto tradimento di cui sopra, ma per lui no. Quindi devo calmarmi per forza, se non voglio fare qualche cazzata delle mie.
- Hai ancora il suo odore addosso! - ride quindi, sistemandomisi in grembo e scatenandomi una guerra fra le gambe. Che poi, veramente, vorrei alzarmi e dare una testata contro il muro, ma di quelle forti, perché è indecente la successione di eventi che mi ha portato a questo momento. Cioè, io ieri ho quasi schienato Fler contro lo sportello della sua Escalade, eh. Ed eravamo tipo in mezzo alla strada. Io non so con che diritto faccio certe robe, giuro. Le faccio senza volerlo, forse. Che poi non è vero, è che probabilmente voglio un po' troppe cose tutte insieme.
Oltretutto, non è mica tanto normale che Bill mi riconosca addosso l'odore di Fler. Non è tanto normale che lo riconosca e non è tanto normale nemmeno che lo accetti lì com'è. Però c'è anche da dire che Bill probabilmente è davvero convinto noi si giochi, quando si va insieme da qualche parte. Che poi io e Fler non siamo mai andati da nessuna parte, tipo. Solo quando s'è trattato di Saad, e lì non si andava certo per divertirsi, comunque.
- Sì, ci... – invento palesemente, - è che aveva freddo.
Non che io mi renda conto di cosa ho detto. Cioè, aveva freddo. Che vuol dire, che l'ho scaldato? E come? Prego che Bill non me lo chieda perché non saprei come nascondergli che avevo una buona metà della sua lingua in gola, ieri sera, mentre ci dibattevamo come due ossessi fra il volante, il cruscotto e la leva del cambio. Penso a Fler, al cruscotto, alla leva del cambio, alla sua lingua in gola e cerco di calmarmi.
Bill, comunque, annuisce come se la mia fosse stata la risposta più logica possibile. E se me ne stupisco io davvero nella testa di questo ragazzo c'è qualcosa che non va. E d'altronde è il mio ragazzo. Sarebbe strano se fosse normale.
- L'importante è che sia rimasto. – dice quindi con una tranquillità addirittura inquietante. Dico io, d'accordo. Pure per me va bene se è rimasto. L'ho limonato perché rimanesse. Avrei probabilmente fatto di tutto purché rimanesse – e nemmeno sapevo che anche a Bill l'idea che lui partisse dava fastidio.
Non intendo sentirmi giustificato sul punto o pensare roba del tipo "eh, ma se alla fine Bill è d'accordo, il sacrificio è valso la pena". Baciare Fler ieri – e comunque mi ha baciato lui, credo – è stato quanto di più lontano da un sacrificio abbia mai vissuto nella mia intera vita.
Ma ho problemi più seri di questo, al momento. In realtà Bushido è vivo quindi io, a Fler, non dovrei nemmeno pensare. Così come non dovrei pensare a nient'altro che al fatto che Bushido è vivo anche ora che Bill mi si sistema addosso con la palese intenzione di farmi impazzire.
Oltretutto, pensare a Fler ieri mi dà ancora fastidio, soprattutto se lo associo a Bushido. Ma ho già detto che non dovrei pensarci, quindi perché lo sto facendo?
Comunque annuisco, anche perché Bill – a vedermi qua immobile che lo fisso con la solita occhiata da triglia che riservo di default a tutti gli uomini che scopo, per un motivo o per l'altro, quando dicono cose che mi sconvolgono – potrebbe pure insospettirsi. Quindi, appunto, annuisco e forzo un mezzo sorriso, incerto sul da farsi. Bill risolve il problema alla radice sporgendosi in avanti e baciandomi.
Io mi ci perdo tempo niente, nel senso che non si può davvero pretendere della razionalità, da me, perché io non ne ho in questi frangenti. Non riesco davvero nemmeno a colpevolizzarmi del tutto per aver baciato Fler, perché non è una cosa che mi stupisca. Io, davvero, non ce la faccio a frenarmi, di fronte a certe cose. Non lo faccio per cattiveria, lo faccio per affetto. Il mio enorme problema è che io Bill lo amo. Quindi se Bushido dovesse mettersi in testa che lo rivuole indietro, non so davvero come riuscirei a staccarmene. O come potrei fare a trattenermi e non saltargli addosso anche sapendo che non è più mio. Il problema si ripropone con Fler: io con quell'uomo c'ho una roba, non ho idea di cosa sia, mi fa paura la possibilità di capirlo un giorno, ma se mi si piazza davanti, io non ce la faccio a tener giù le mani. E' più forte di me, ma non è che voglio fargli del male. Non voglio fare del male a nessuno, io li voglio solo per me.
Lo stringo per i fianchi, attirandolo contro di me con una mano e cercando di eliminare la roba che ho sotto il sedere con l'altra. Il pavimento non è mai stato in cima alla lista dei posti in cui scopare, ma non ricordo di averlo fatto per terra con Bill neanche una volta, potrebbe essere un'esperienza. Bill mi mugola e mi sorride fra le labbra, io sorrido fra le sue e mi preparo a sentire dolore alla schiena per il resto dei miei giorni mentre lui mi appoggia le mani sulle spalle con una leggerezza che non ha bisogno di chiedere niente, e mi spinge a stendermi sul parquet, che scricchiola un po' sotto il nostro peso mentre Bill si solleva leggermente per sfibbiare i pantaloni e guardarmi con un sorriso sornione che mi manda fuori di testa.
Si tira su sulle ginocchia ed i jeans scivolano lungo i suoi fianchi stretti e magri. Io mi mordo un labbro e lui ansima pesantemente quando sollevo una mano a sfiorarlo attraverso il tessuto sottile dei boxer. Mi lascia fare, seguendo col bacino i movimenti della mia mano e strusciandosi lentamente contro il mio palmo aperto, e nel mentre afferra la maglia per gli orli inferiori e la tira su.
E lì i miei problemi vengono di nuovo fuori tutti nel loro ordine di importanza. Lì metto da parte le cazzate, veramente, perché c'è un particolare del corpo di Bill che tendo ad ignorare, dimenticare, cancellare – dato che lo odio – ma che esiste. È lì ed è enorme, è impossibile fingere che non esista.
Perciò deglutisco e, anche se continuo a muovere la mano sul suo corpo, so già che fare l'amore adesso non sarà bello come avevo sperato. Perché vedere quel tatuaggio a me mi manda fuori di testa. E non in senso positivo, per una volta.
Quattro mesi fa, Bill si è presentato a casa mia con un sorriso smagliante sul volto ed i lineamenti un po' tesi e provati. Bill ha quella faccia lì solo quando litiga con Tom, quando è stato ingiustamente privato della propria settimanale dose di Fler – che è peraltro una cosa che posso capire benissimo, anche se mi auguro che fra loro due non funzioni esattamente come funziona fra noi due – e quando torna stanco da un qualche impegno lavorativo. Al che, quando l'ho visto spuntare sulla soglia con quel faccino, mi sono giustamente preoccupato. Gli ho chiesto cosa ci fosse che non andava, lui ha risposto con un mezzo sorrisino scuotendo il capo e aggiungendo "è stata solo una giornata un po' faticosa", poi mi ha baciato, io l'ho tirato su per i fianchi, l'ho steso sul materasso e, quando gli ho sfilato di dosso la maglia, l'ho visto.
E lì mi sono fermato. Per la prima e unica volta nella mia intera esistenza – io non mi fermo mai – io mi sono fermato. Mi sono fermato, l'ho guardato, ho cercato di trattenermi e gli ho chiesto cosa cazzo fosse quel fottuto tatuaggio.
Sul suo fianco sinistro, ancora un po' arrossato e macchiato qua e là di inchiostro e qualche gocciolina di sangue già vecchio, campeggiava un'enorme frase il cui senso intrinseco ancora mi sfugge - "non smetteremo mai di gridare, torneremo alle radici", non è una frase che davvero significhi qualcosa: le radici dei Tokio Hotel sono i Devilish ed io mi auguro che Jost sia un uomo abbastanza furbo da impedire che questo crimine contro l'umanità possa avvenire. Comunque non era importante che quella frase avesse o meno un senso. Il punto non era la frase. Il punto era la forma del tatuaggio.
Quel tatuaggio è una B.
Mi si potrebbe dire che no, non è vero, non è una B, sono due dannate frasi che si intrecciano l'una con l'altra e l'illusione ottica di quell'intrecciarsi forma qualcosa di simile ad una dannata B – che peraltro, se anche fosse una B, potrebbe tranquillamente essere l'iniziale di Bill, Bill è un egocentrico e da lui un po' queste cose uno se le aspetta.
Se io non conoscessi Bill bene quanto lo conosco, probabilmente darei anche ragione a motivazioni simili. In realtà io lo conosco. In realtà so che, se non me ne ha parlato, è perché sapeva che non avrebbe avuto niente da dirmi al riguardo. Che la decisione era già presa ed io avrei anche potuto tirar giù la casa a cazzotti e urlargli in testa la qualsiasi, il risultato non sarebbe cambiato, lui quel tatuaggio l'avrebbe avuto.
Bill agisce così solo quando si tratta di Bushido. L'ho visto succedere. Ho visto venir giù un temporale epico, una roba da arca di Noè, verso i primi di gennaio, l'anno scorso. Ho visto Tom e Fler uniti nel tentativo di convincere Bill non fosse il caso di andare al cimitero a dare alla lapide di Bushido la lieta novella della morte di Saad per sua mano. Ma Bill è stato irremovibile, lui doveva andare e sarebbe andato, e l'ha fatto, alla fine. Fler l'ha accompagnato – Tom s'è giustamente rifiutato – ed al suo ritorno, quando me lo sono ritrovato congelato sulla soglia di casa che implorava per una secchiata d'acqua bollente in testa, mi ha raccontato scene allucinanti che vedevano Bill immobile davanti alla lapide che raccontava alla foto sorridente di Bushido ogni singolo minuto di quella notte disastrosa, mentre la bufera gli agitava i capelli e gli congelava le lacrime sulle ciglia e il sorriso sul volto.
Bill fa così, quando si tratta di Bushido. Ed è per questo che questo tatuaggio parla di lui.
Gli lascio scorrere addosso la mano libera, Bill geme ed io corro con le dita oltre l’orlo del boxer, perché si sta perdendo nelle mie carezze ed adoro quando lo fa. Adoro osservarlo quando chiude gli occhi ed il mio nome comincia a tremargli sulle labbra come volesse pregarmi e non riuscisse a capire bene per che cosa – come non riuscisse a capire se mi vuole più veloce, più lento, più a fondo o appena più indietro, semplicemente perché tutto ciò che vuole è avermi ovunque in ogni modo e non sa come chiedermelo.
- Peter… - mi chiama piano, ed io gli sfilo lentamente i boxer. E mentre lo faccio lo guardo e lo trovo ad accarezzarsi piano il fianco, dal basso verso l’alto. Mi ha detto che lo fa perché lì la pelle è molto sensibile e passarci sopra con la punta delle unghie gli dà i brividi.
Io credo che ogni tanto Bill abbia bisogno di accarezzarsi addosso Bushido. Credo che non lo faccia coscientemente, però ci sono dei momenti in cui ha bisogno di sentirselo sulla pelle, e questo ormai è l’unico modo in cui può farlo.
Fa male. Fa malissimo pensare che Bill ha tolto il bracciale e la fede e che togliere di mezzo quelle cose ha portato solo a peggiorare la situazione. Prima non c’era Bushido scritto sul suo corpo. Adesso sì. Adesso quell’onda di inchiostro nero gli marchia la pelle e resterà lì per sempre. Bill non se la strapperà mai di dosso, fa parte di lui. Come Bushido, in realtà: lui è sempre stato lì; questo tatuaggio, più che esserselo impresso sulla carne, Bill l’ha lasciato affiorare passo dopo passo. Ed io lo so. Lo so mentre lo stringo e mentre lo accarezzo fra le gambe e mi inumidisco le dita ed entro dentro di lui con tutti i dannati riguardi del caso, piano piano, lentamente, con delicatezza. E lo so mentre mugola e geme il mio nome, e smette perfino di accarezzarsi il fianco. Bushido resta lì, ed il fatto che resti lì è spaventoso adesso come mai prima, perché adesso Bushido è qui per davvero.
Ogni tanto mi chiedo se Bill non abbia tolto i gioielli pensando già a quando si sarebbe tatuato quella B addosso. O se forse sia stato un bisogno nato successivamente, proprio perché mancava il peso dell’oro e dell’argento e dei brillanti di Bushido attorno al suo polso ed al suo anulare sinistro. Mancava quel peso e lui s’è inciso addosso un peso diverso ma ugualmente importante, forse.
Non lo so.
Non riesco davvero a pensarci quando lo sento stringersi ritmicamente attorno a me, seguendo la traccia delle mie spinte lente e calibrate. Non riesco a pensarci anche se vorrei e forse dovrei, e per un attimo – solo uno – riesco perfino a dimenticare che Bushido è ancora vivo, che questa storia non può che finire male e che in questo momento ho l’impressione che la storia fra me e Bill non sia ancora nemmeno cominciata, che sembra già sia costretta a concludersi.
Riesco a dimenticare tutto per un solo momento, per il momento in cui Bill trattiene il respiro e poi viene fra le mie dita, per il momento in cui lo sento stringersi convulsamente un’ultima volta attorno a me e vengo anch’io, soffocando gli ansiti pesanti sulla pelle morbida e profumata del suo collo. Lo dimentico e spengo il cervello per tutti i secondi successivi, cercando di prolungare le dimenticanze il più possibile, cercando di infilare in quel buco nero di tutto – Bushido, Fler, perfino il mio incasinatissimo cervello – lasciando riaffiorare solo Bill.
- Mi sei mancato così tanto ieri… - mi sussurra Bill direttamente all’orecchio. I suoi capelli sono ovunque addosso a me, mi solleticano il naso e mi s’infilerebbero negli occhi se non tenessi le palpebre abbassate. Il pavimento è duro e scomodo ed io dovrei dire al mio ragazzo che il più grande amore della sua vita non è morto come crede. Ma non posso farlo, perché dirglielo implicherebbe perderlo. Ed io forse pecco di egoismo, ma non sono disposto a cederlo. Così come non sono disposto a cedere nient’altro.
Non so davvero come farò a guardare nuovamente negli occhi Bushido.
Non so davvero come farò a guardare nuovamente negli occhi nemmeno me stesso.
Non so davvero, soprattutto, come farò a guardare nuovamente negli occhi Bill.
- Anche tu mi sei mancato tanto. – rispondo tirandomelo contro per la nuca ed aiutandolo a sistemarsi per bene contro il mio corpo. – Resti un po’?
- Sono scappato col benestare di David! – mi informa lui con una risatina, mentre si stringe contro di me in cerca di un po’ di calore, - Resto a cena ed anche per la notte. Contento?
Io mi lascio sfuggire un sorriso un po’ triste. Fortunatamente, Bill non può vederlo.
- Sì, molto. – sussurro piano, prima di baciarlo ancora. E tapparmi la bocca. Perché è sicuramente meglio così.

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Crash Into Me

di tabata e lisachan
Io sono un tipo piuttosto abitudinario, nonostante il lavoro che faccio. O forse proprio per il lavoro che faccio. Quando passi periodi lunghissimi a dormire in una città diversa ogni notte, ti attacchi alle piccole cose pur di ricreare un minimo di atmosfera di casa. Per questo quando sono in tour faccio colazione con una certa marca di cereali, e solo con quella, che poi è la stessa che uso quando sono a casa. Voglio oggetti per il bagno precisi, voglio camerini che contengano più o meno tutti le stesse cose e il mio tour bus, per quanto è umanamente possibile, contiene tutto ciò che possa farmi dimenticare che mi trovo su un mezzo semovente. Nella mia cuccetta ho una specie di versione da viaggio della mia camera vera: stesse foto, stesse creme, stessi oggetti sul comodino.
Tom dice che sono quasi maniacale, io dico solo che questo è il mio modo di non alienarmi. Ci si perde facilmente senza punti fissi. Dopo due settimane di tour, per dire, già ti senti un po' fuori fase. Tre mesi lontano da casa, dormendo su un camion, possono avere delle conseguenze non indifferenti sul cervello umano. Mio fratello ovviamente non condivide i miei metodi. Lui per combattere l'alienazione ci entra dentro con tutte le scarpe. Dice che ha due vite diverse, una quando è a casa e una quando invece a casa non c'è. La differenza sostanziale tra le due vite è che in tour si permette di cambiare ragazza ogni notte e di scopare come se non ci fosse un domani, cosa che non fa quando è a Berlino perché quando è a Berlino non ha bisogno di scaricare nessuna tensione, né tantomeno di farsi bello raccogliendo donne come la rete per la pesca a strascico perché non abbiamo i giornalisti attaccati al sedere così spesso come invece uno pensa. Perché la verità su mio fratello, alla fine, è che fa sesso perché gli piace, certo, ma lo fa anche perché non fa nessuno sport e quello è il modo che gli rimane per scaricare lo stress. Beh, quello e la Wii, ma diciamo che preferisce la prima opzione per ovvie ragioni. Questo, tra le altre cose, mi fa venire in mente che Chakuza è uguale. Lui farà anche sport, credo, a dire il vero non lo so, ma quelle due spalle lì deve averle per qualche motivo, comunque il fatto è che Chakuza fa sesso per lo stesso motivo. E al momento la cosa mi riguarda da vicino perché, insomma, lo fa con me e questo significa che non c'è momento che passiamo insieme senza che lui mi spalmi su qualche superficie, così, senza nemmeno grandi discorsi a volte. Alché c'è da chiedersi se non sia molto, molto stressato ma credo di no. Credo che nel suo caso oltre allo stress, ci sia anche il fatto che gli piace proprio. E a me piace che a lui piaccia perché piace anche a me. E comunque mi sono perso.
Dicevo che io sono un tipo piuttosto abitudinario quando sono in tour, e anche a casa non scherzo. Se sono nel mio appartamento, e quindi non ho niente da fare, e quindi posso fare più o meno tutto quello che voglio, di solito non faccio assolutamente niente; che per uno che di solito lavora dalle sei del mattino alle tre di notte con l'obbligo di sorridere a chiunque, è la vacanza migliore del mondo.
Mi sveglio, faccio colazione e telefono a Peter per parlargli essenzialmente di nulla e distogliere la sua attenzione da qualunque cosa stia facendo per farlo concentrare su di me, che mi sono appena svegliato e ho assoluto bisogno di sentirmi amato. Lui di solito la mattina è un amore - Peter è sempre un amore, in realtà, tranne quando s'incazza per qualcosa, che di solito non sono io, però, quindi, in sostanza, per me è sempre un amore - e sta a sentire tutto quello che gli dico e ride. Ed è un bel suono il Chaku che ride al mattino. Quindi, di solito, dopo averlo tenuto un tempo indecente al telefono, telefono a mio fratello, che si ingelosisce se non faccio perdere almeno quaranta minuti anche a lui. A quel punto mi faccio la doccia, scelgo i vestiti e raggiungo Peter a casa sua, o lui viene qui. A volte vado alla Beatlefield se sono sicuro che Stickle non c'è. Ma di solito c'è, perché lui lavora.
In queste ultime settimane, però, la mia routine è stata ampiamente devastata dalle paranoie di David. Mentre ero a Disneyland con Peter mi ha fatto promettere che per un po' ci saremmo visti di meno, io e lui, e con più attenzione perché i giornalisti stanno cercando lo scoop. Averglielo promesso, in realtà, un po' mi scoccia perché quando prometto, poi mantengo anche e questo significa che per vedere Peter devo fare delle acrobazie che nemmeno il Cirque du Soleil, tipo che devo uscire di casa struccatissimo e con il viso tutto coperto e devo prima andare da qualche parte che con la casa di Peter non c'entra niente, qualcosa di poco interessante per i giornalisti nel caso fossero appostati, tipo, non lo so, il supermercato o un negozio qualunque - anche se poi non è vero che non gli interessa perché si inventano storie su qualunque cosa. Tipo vado al mercato, compro due mele, e all'improvviso sto seguendo una nuova dieta di qualche guru indonesiano che prevede solo due frutti al giorno. Vado in farmacia, e sono sicuramente sotto anti-depressivi. Entro in un negozio di animali e voglio comprare un chihuaua come Paris Hilton. In sostanza ovunque vada, se loro mi stanno dietro, uscirà un articolo. Però questo serve, li depista. Dopo un po' che compro mele, anti-depressivi e chihuaua torno a casa, loro si stufano e quindi io esco e vado da Peter.
Peter di questi problemi non ne ha, a lui non lo segue nessuno. A lui basta arrivare in macchina e lasciarla nel parcheggio interno del complesso residenziale. Lì dentro i paparazzi non possono entrare, per cui lui può anche scendere dall'auto con una freccia sulla testa e la scritta al neon - CHAKUZA - che lampeggia, tanto non lo vede nessuno. Comunque, dicevo, per via della paranoia di David, ho promesso di non andare di continuo da Peter. Quindi stamattina, dopo la mia colazione, dopo aver chiamato il mio amore e aver saputo che è a casa, si annoia, gli manco - e se fossi lì faremmo l'amore tipo ovunque, tipo in ogni modo, tipo che è meglio se non ci penso perché sono tre giorni che non lo vedo e non ho nemmeno la testa impegnata a preparare concerti e quindi lo voglio. Uffa. - dopo tutto questo, anche dopo Tom, la doccia, i vestiti e David che mi telefona per farmi promettere di fare il bravo - d'altronde lo fa solo quelle quattro o cinque volte al giorno - non ho niente da fare. Quindi mi accoccolo sul divano e decido che posso anche dare un'occhiata a quel mezzo quintale di riviste che mi arrivano per posta e che di solito ammucchio tutte insieme per leggerle quando proprio non riesco a cazzeggiare in altro modo. Ci sono un sacco di cataloghi di moda, qualche rivista del settore e tutta la stampa che per un motivo o per un altro possa contenere articoli che mi riguardano. Mi piace sapere cosa dicono su di me e tenere il conto delle volte che sono diventato anoressico, ho tentato il suicidio, oppure ho litigato con il mio manager per qualche motivo da diva. E poi, visto che sono chiuso in casa perché qualcuno cerca di capire con chi me la faccio, allora voglio sapere quanto ci sono andati vicino. L'ultima volta che abbiamo avuto un allarme del genere avevano puntato su Jimi Blue. Andiamo! Ma vi pare? Quando l'ho detto a Chakuza ha riso così forte che non riuscivo nemmeno a farlo smettere. Quando poi lo ha incontrato ad una serata, una settimana dopo, poca ci mancava che riprendesse a ridergli in faccia.
Se hanno pensato a Jimi Blue allora stanno seriamente pescando a caso, non sono davvero preoccupato. Tolgo di mezzo le riviste di moda, recupero le altre e ci do un'occhiata per vedere da quale partire. Di solito le metto in ordine di interesse, prima le notizie o gli articoli più noiosi, poi quelle che davvero vorrei leggere, così mi godo di più l'attesa. Solo che questa volta non funziona, perché mentre sto impilando le riviste, l'occhio mi cade sulla copertina di Bravo e mi congelo.
Chiunque ci sia dietro a tutto questo, ha un pessimo senso dell'umorismo e se solo riuscissi a staccare gli occhi da quello che vedo, allora starei già chiamando la redazione, David e chiunque in questo momento meriti le mie urla.
La foto in copertina mostra l'entrata della Unversal Music Deutschland, e un uomo che sta uscendo dal portone. E' alto e indossa un cappotto elegante, nero a tre quarti ma questo non importa, per certi versi non lo guardo nemmeno. E' il titolo che mi fa incazzare, perché Bravo ne ha dette tante, ma adesso ha passato ogni limite.
Sono tornato, dice il titolo. Chi sono? E poi i suoi due nomi. Sono le parole di Wer Ich bin e io voglio ammazzare qualcuno.
All'interno l'articolo è semplicemente disgustoso. Ci sono solo due foto, prese da angolazioni diverse, ma le tre pagine che compongono l'articolo le riportano all'infinito: ingrandite, speculari, sgranatissime, nel dettaglio. E ogni didascalia è peggio di quella che la precede, e sono così arrabbiato che mi viene da piangere. E piango, cazzo, perché non ne avevano il diritto. Dicono che Bushido è tornato, come se fosse andato - che cazzo ne so, in America! - e ora fosse di nuovo qui. Anis è morto, stronzi, non può tornare. L'articolo non lo leggo tutto, perché non ne ho bisogno. Già alla prima pagina sono nauseato e non m'importa neanche delle loro congetture. Vaffanculo.
Dicono che lo hanno visto, che era lui, giocano con un uomo che è morto un anno fa e con i sentimenti miei e di tutti gli altri. E non riesco nemmeno ad immaginare come si possa essere così stronzi da sfruttare un dolore simile pur di vendere.
Tornato un cazzo, se fosse tornato - come poi? COME? E' morto, lo sanno bene - se fosse tornato, in qualunque modo, è da me che sarebbe venuto. E invece lo abbiamo seppellito e sono stato a guardare ogni singolo grammo di terra che gli abbiamo versato sulla bara fin a ricoprire tutto per bene. E' morto e questi non riescono a lasciarlo in pace nemmeno dopo il suo funerale. Vaffanculo.
Sono in piedi e recupero il cappotto un attimo dopo. Al diavolo le paranoie di David, ho bisogno di vedere Peter. E ne ho bisogno adesso.
Se mi seguono, almeno scriveranno qualcosa di vero.
*
A casa di Peter ci sono arrivato con la mia auto, ignorando la guardia del corpo che ho sempre fra i piedi. Non ho nemmeno sentito cosa diceva, l'ho evitata e basta. Mi hanno anche fotografato, mentre uscivo, ho visto i flash e me ne sono fregato anche di quelli. Venitemi dietro, nessun problema. Se non capite con chi scopo, siete liberi di inventarvelo, venirmelo a chiedere, pedinarmi. Ma giocare con i morti, no.
Parcheggio di traverso, male e di fretta, in mezzo alla strada perché Peter si ostina ad abitare in un palazzo popolare, tipo, non lo so. C'è un sacco di gente nel suo condominio, alla faccia dell'anonimato. E non c'è portiere, il portone fa schifo. Mi attacco al campanello perché le chiavi di casa sua le ho nella borsa. E la borsa è a casa, col mio cellulare, per cui non ho nemmeno avuto modo di chiamare David ed urlargli contro mentre venivo qua.
"Chi è?"
"Bill. Apri."
Sono dentro praticamente mentre il portone scatta e mi faccio le scale a piedi, che tanto l'ascensore non funziona mai. Arrivo su che sto già imprecando e non so nemmeno che cosa dico, in realtà. "Ehi, che sorpresa, non ti... aspettavo." Lui mi guarda perché sono un disastro, sono tipo in tuta e sto urlando da solo. E piango. "Che succede?"
Chakuza si allarma subito se io sono sconvolto. O meglio, i primi tempi si agitava tutto perché - in effetti - non era abituato al fatto che io faccio un dramma di qualunque cosa, per cui era sempre in agitazione. Poi un po' ha imparato. Solo che ora sto piangendo e sono visibilmente fuori di me, quindi è preoccupato.
"Io non posso crederci!" Sbraito e lui mi fa entrare e chiude la porta. Mi guarda con gli occhioni rotondi sgranati. "I redattori di Bravo sono esseri ignobili sono la... la feccia dell'umanità. Io non capisco come si possano fare cose del genere e poi tornare a casa a dormire, cazzo! Ci sono cose su cui non si può scherzare, non si deve! Ma che cazzo di gente è, questa? Eh? Me lo spieghi?"
"... non lo so?" Poi mi ferma per le spalle. "Bill, non capisco niente se fai così. Mi dici che cos'è successo, per favore?"
E io tiro su col naso e poi annuisco. Quindi gli passo il giornale. "Sono dei bastardi," dico soltanto. E aspetto che anche lui legga il titolo e veda la foto. E s'incazzi. E lo voglio proprio il Chaku incazzato.
Aspetto. Lui legge. E io aspetto e non esplode.
"Quando è uscito questo numero?" E' la prima cosa che chiede quando finalmente alza gli occhi dalla rivista. Si è letto tutto l'articolo.
Mi stringo nelle spalle. "Non lo so, ieri credo. Non lo so! Chi se ne frega!" Replico. "Hanno preso le foto di uno che ci assomiglia e hanno messo su questa... questa cosa! Non è giusto! Non dovrebbero avere il permesso di fare cose del genere, loro-"
"Bill."
Io lo guardo per due motivi: il primo perché mi ha chiamato con un tono preciso, che mi mette una gran paura anche se non so perché. Il secondo è che mi rendo conto che non è affatto inorridito da tutta la faccenda. E dovrebbe. Chakuza riesce ad inorridirsi per molto meno. Quindi mi chiedo perché sia sbiancato, perché mi guardi e dentro i suoi occhi io ci veda un senso di colpa che non ha senso di trovarsi lì.
"E' meglio se ti siedi, vuoi?"
"Sedermi? No, non voglio sedermi, Peter," sbraito. "Voglio che andiamo da David, lo carichiamo in macchina e quindi andiamo a spaccare la faccia al direttore di Bravo. Ecco cosa voglio." Non mi risponde. Guarda me, guarda il giornale e non capisco cos'abbia da stare tranquillo. "Chakuza, questi bastardi usano Anis per aumentare le ven-"
"E' lui."
Per un istante io non registro esattamente le parole che dice, il concetto, di per sé, è già troppo da sopportare. La prima cosa che penso è che non ho capito, o che è impazzito, insomma che è assurdo. "Che cosa stai dicendo?" Chiedo. "Anis è morto." E non mi trema nemmeno la voce mentre lo dico perché è una cosa che non dovrei dirgli, dovrebbe già saperla. E' come dirgli che la Terra gira.
Chaku, vienimi incontro, Cristo.
"Bill, ti prego, siediti."
"No," insisto. "Si può sapere che ti prende?"
Lui si gratta la nuca, a disagio. Si siede lui al posto mio, sul bracciolo di una poltrona, posa la rivista sul tavolo e quella si arriccia tutta perché non abbiamo fatto che stropicciarla e tenerla arrotolata. "Bushido non è morto," mormora.
"Che cazzo stai dicendo?"
"Bill, ascolta."
"No! Che.Cazzo.Stai.Dicendo!" E urlo, perché sembra un incubo. Da una parte mi dicono che è tornato, dall'altro vengo qui e lui non trova niente di meglio da fare che prendermi per il culo. "Lo trovi divertente? Credi che sia divertente startene lì con la faccia seria e dirmi che è vivo? Non sei spiritoso!"
"Non sto scherzando!" E grida anche lui per sovrastare la mia voce, e forse anche i suoi pensieri. E la situazione, lo capisco dopo.
Sto zitto e lo guardo. Gli occhi di Peter sono bellissimi, di un verde non troppo chiaro e sono screziati. Bisogna stargli vicino per vederli bene e io li ho guardati così tanto in questo ultimo anno che li so leggere. Hanno paura, adesso, e sono occhi un po' tristi. E quel senso di colpa è sempre lì. C'è tutto questo, là dentro, ma non c'è nessuna bugia.
"Non è possibile," dico. Faccio un passo indietro, inconsciamente diretto alla porta e lui si alza di corsa e mi viene vicino, mi prende per i polsi.
"Bill, calmati, ti prego!"
"No!" Sbraito. "Ero al suo funerale, c'eri anche tu, cazzo, la bara! L'hai vista! E i proiettili e tutto quel sangue, Peter. Che cosa stai dicendo?" Scuoto la testa e piango senza rendermi conto di farlo. Lo so quando sento il sale sulle labbra mentre lui mi stringe le mani intorno ai polsi ancora più forte.
"Non abbiamo mai visto il corpo, Bill."
"Era là dentro," singhiozzo.
"No, non c'era," insiste lui. "Ricordi che volevi vederlo e non te lo hanno permesso?"
Ho urlato quel giorno e urlo adesso. "Non è possibile! Dov'era se non è morto? Dov'è stato? Perché? Peter, non dire cazzate!"
Lui non dice niente, mi guarda e basta. E io semplicemente so che è vero perché in realtà Chaku scherzi di merda come questi non me ne farebbe mai e perché ora sono sull'orlo della crisi isterica e lui piuttosto che ridurmi così si fa investire, quindi no. E' tutto vero. "Tu come lo sai?" Realizzo all'improvviso. "Tu lo sapevi da quanto?"
"Da poco," mi risponde subito lui. "Molto, molto poco."
"Perchè non me l'hai detto?"
"Bill, come facevo?"
"Come hai fatto adesso!" Replico. "Voglio vederlo. Dov'è?"
Scuote la testa. "Non lo so."
"Cazzate, Peter. Dimmelo."
"Io-"
"Dimmelo!" Stavolta urlo e lo spingo indietro, colpendolo al petto.
"Bill, è la verità!"
"Dimmi dov'è!" Urlo ancora, alzo le braccia, lo colpisco forte, e lui un po' si difende, un po' cerca di bloccarmi. "Tu lo sai dov'è e non vuoi dirmelo!"
"NON LO SO!" La voce di Chakuza rimbomba per tutta la stanza e mi zittisce, come sempre. Lui non lo sa. Bushido è vivo. E se è vivo la Terra può anche smettere di girare. Non so neanche cosa significhi davvero tutto questo. Singhiozzo mentre lui mi stringe a sé, forte, come volesse avvolgermi tutto, e la mia voce si sostituisce alla sua, nell'eco della stanza. "L'ho visto una sola volta. Non so dove sia adesso. Non pensavo nemmeno che fosse... ancora qui, Bill."
"Voglio vederlo," gli nascondo il viso addosso. "Peter, ti prego, dimmi chi lo sa."
Alla fine cede. "Fler," mormora e io non penso al perché Fler lo sappia, penso solo che lo sa e che sono già due persone che lo sapevano mentre io ero all'oscuro di tutto. Chakuza recupera il cellulare e mi trascina sul divano.
Io non voglio stendermi, voglio urlare, ma non ho la forza, così ascolto gli squilli mentre mi accoccolo contro di lui e penso che da qualche parte, in questo momento, Bushido è vivo. E respira. E penso che non sia possibile.
La voce di Fler è un borbottio, non sento cosa dice. Lo sento fare una pausa quando Chakuza gli dice che io so. E io trattengo il fiato, Fler conosce il posto. Penso solo questo. Peter gli dice che va bene, annuisce.
"Dov'è?" Chiedo subito.
Lui mi guarda, sempre a disagio. "E' meglio chiamare David," risponde.
"David? Il mio David?" Mi sollevo e mi scosto, sedendomi sul divano.
"Bill..."
"Non chiamarmi per nome!" Esclamò e lo sguardo oltraggiato che gli lancio lo costringe a guardare altrove. "Tu, Fler, David, qualcun altro a parte me? Il mondo intero, forse, visto che Bravo gli fa pure le foto come se fosse normale?" Mi ripeto che questa cosa non è possibile ma anche che se esiste una possibilità surreale che tutto ciò sia vero, allora sono così incazzato, oltre che sconvolto, che farò del male a qualcuno.
Lui espira, piano. "Solo noi tre," dice. "Ed Eko."
"Perfetto!" Ho già il telefono in mano. "Anche lo scemo del villaggio lo sapeva. Questa cosa è... è... vaffanculo!"
"Gli telefono," si offre lui.
"Non ti azzardare nemmeno," lo congelo sul posto. "David è roba mia."
Il cellulare di David è sempre occupato. A volte con gli altri ragazzi lo prendiamo in giro dicendo che, evidentemente, tutte le linee telefoniche dell'universo devono passare da lui perché a qualunque ora lo chiami, alla prima non ti risponde mai. E nemmeno alla seconda o alla terza. Finisce che devi riattaccare e riprovare in un secondo momento e ancora finché non hai il culo di beccarlo tra una telefonata e l'altra.
Io sono furioso, però, quindi non mi fermo. Compongo il numero, attendo e quando sento il segnale di occupato, riattacco, ricompongo il numero e ricomincio.
"Bill, calmati, per favore." Peter si è alzato e mi gira intorno come un condor. Sa che non deve neanche provare a toccarmi adesso, non può fare niente. Può solo sperare che mi tranquillizzi ma non ho intenzione di farlo perché Bushido è vivo. Penso con rabbia che mi deve delle spiegazioni. E poi, proprio mentre riattacco per richiamare David ancora una volta, mi rendo conto che se è vivo anche io ne dovrò una a lui.
"Pronto?"
"Dov'è?"
Mi sembra quasi di vederlo, David che aggrotta le sopracciglia. "Bill?"
"Lo so come mi chiamo," dico spiccio. "Dov'è?"
"Dov'è chi?" Fa lui. "Cosa stai dicendo? Hai per caso bevuto?"
Mi alzo perché non riesco a stare fermo, quasi mi scontro contro Chakuza che non sta fermo nemmeno lui. "Anis. Bravo lo ha fotografato."
"Bill," risponde piano e io so che sta per dirmi che è morto. "Bushido è morto."
"Già, questo è quello che credevo anche io ma quello nella foto è lui e Chakuza lo conferma. Quindi adesso tu mi dici dov'è."
Dall'altra parte della cornetta il silenzio è pesantissimo. Non lo sento nemmeno respirare. So che è ancora lì perché non è caduta la linea. "Sei a casa di Peter?"
"Sì."
"Fatti accompagnare da me. Ci andiamo insieme," la sua voce è professionale, quasi gelida. Ha una paura fottuta. E fa bene perché sono incazzato.
"Bushido è vivo e tu lo sapevi," dico. "Ti conviene avere un buon motivo per tutto questo David, perché giuro su Dio che me la paghi."
Quello che dice non lo sento, ho già riattaccato.
Io e Peter siamo fuori di casa l'attimo dopo ma in quel momento neanche mi rendo conto di quanto immenso sia il disastro che ho per le mani.
Io voglio solo vedere Anis.
*
Per tutto il tragitto in macchina di Peter, io non faccio che stringere un labbro tra i denti così forte che sento il sapore del sangue sulla lingua. Mi accorgo a malapena di quello che succede intorno a me. Colgo i lineamenti tesi e lo sguardo ansioso di Peter, colgo la calma surreale di David – che poi mi irrita oltremodo, perché è la calma con la quale in genere affronta le grane sul lavoro. Il fotografo è in ritardo? È con questa faccia che cerca di rintracciarlo al telefono. Le camere in albergo non sono ancora pronte? È con questa faccia che invita il consierge a darsi una mossa. Un giornalista fa una domanda eccessivamente personale? È con questa faccia che lo minaccia di trascinarlo in giudizio alla prima occasione favorevole. Qui, però, non si parla di lavoro. Si parla della mia vita. Della vita di Anis. David non dovrebbe avere quest’espressione addosso, e io riesco a tollerarla solo perché, appunto, in realtà tutto mi sta passando vicino senza sfiorarmi, come fossi fatto d’aria.
Sto guardando fisso davanti a me, vedo quello che mi passa davanti agli occhi – per dire, riconosco i quartieri, le strade, so che nei paraggi abita Eko – ma ne prendo nota come di particolari marginali. In realtà sto ripercorrendo a memoria gli ultimi nove mesi della mia esistenza e sto cercando il punto dal quale cominciare per parlare con Anis. Sto cercando di capire se dovrei cominciare picchiandolo perché mi ha spezzato il cuore fingendo di essere morto, o se forse sarebbe meglio cominciare spezzando il suo, confessandogli che sto con Chakuza.
E la cosa più assurda, la cosa più incredibile, è che sto dando per scontate così tante cose che, se solo penso di fermarmi a rifletterci e contarle tutte, mi viene quasi da ridere. Do per scontato che voglia rivedermi, do per scontato che provi ancora qualcosa per me, do per scontato anche di provare ancora io qualcosa per lui. Io amo Peter. Lo amo, no? Dio, sì che lo amo. L’ho aspettato per tanto di quel tempo, e sono così felice, Cristo, certo che lo amo. Ma la sola idea di rivedere adesso Anis mi confonde al punto che non so se le farfalle ce le ho nello stomaco o nella testa. O se quello che mi agita sia una folata di vento o un dannato uragano.
La macchina si ferma davanti al portone di un palazzo che non conosco. Mi sembra perfino di non averlo mai visto, il che è surreale, perché questa è Berlino, la Berlino di Anis, ed io con lui questa città l’ho vista tutta. Mi ha portato ovunque, me l’ha insegnata metro dopo metro, “la mia città sono io, principessa,” mi diceva, “se non conosci lei, non conosci me” ed io lo seguivo senza fare storie e mi perdevo nella sua voce mentre mi parlava delle cose più stupide, di come contava i metri per ricordare dove fossero posizionati i vicoli sicuri quando scappava dalla polizia in servizio la notte, di come avrebbe potuto girare senza sbagliare strada perfino ad occhi chiusi, dei locali che frequentava, dei posti in cui si nascondeva, delle case in cui dormiva quando si riduceva stremato al mattino dopo una notte di lavoro e cazzeggio. Dovrei ricordarmelo, questo posto, devo necessariamente esserci passato davanti, almeno una volta. Dovrei ricordare tutto, di quello che mi ha detto Anis. Ogni cosa che mi ha mostrato ed ogni parola con cui l’ha accompagnata. Ma ho il vuoto nel cervello, adesso, e questo posto non lo riconosco per niente.
- È qui.
Sento la voce di David come un’eco lontana. Peter non parla, e gliene sono grato, in questo momento. Vorrei voltarmi e dire a David che ha poco da fare l’epico, lui, ora come ora. Che è qui lo so, perché è qui che mi ha portato e lui sa perfettamente che, se solo avesse osato prendermi in giro e portarmi da qualche altra parte, gli avrei cavato gli occhi con le mie stesse mani. Che è qui lo so, anche perché me lo sento sotto la pelle. Guardo in alto, scorro tutto il palazzo – non ho idea di quale sia il piano in cui sta – e so che è lì dentro. So che è a qualche metro da me. So che fra meno di un minuto lo rivedrò. E mi copro di brividi, al punto che comincio a tremare.
Peter mi si avvicina. È discreto, lo è quasi sempre quando sa che a toccarmi male potrei esplodere. E invece non esplodo perché, come al solito, lui mi tocca benissimo. Allunga una mano e stringe la mia. La accarezza un po’, solo lievemente, sa che, se in questo momento si comportasse in maniera eccessivamente tenera, lo allontanerei. E invece non è eccessivo, è solo giusto, mi sfiora, mi stringe ed io mi calmo un po’. Abbastanza da voltarmi verso David e seguirlo con gli occhi senza ucciderlo mentre tira fuori dalla tasca dei jeans un mazzo di chiavi ed apre il portone, tenendolo dischiuso mentre mi fa cenno di entrare alla svelta. Obbedisco non perché me lo sta ordinando, ma perché la voglia di vedere Anis mi sta facendo bruciare da dentro.
Il tempo sta scorrendo a rilento. Vorrei poter essere più veloce, vorrei potermi muovere prima, vorrei essere già dov’è lui e vorrei averlo già sotto gli occhi. Ho paura che potrebbe andarsene di nuovo – ne ho paura e non l’ho ancora nemmeno rivisto – ho paura che, ad aprire quella porta in ritardo, Anis potrebbe non esserci. Non posso continuare a sopravvivere in questo stato ancora a lungo, perciò devo sbrigarmi e non mi riesce. Non mi riesce di essere più svelto e non mi riesce di essere già lì, cerco di divorare le scale di corsa e invece mi sento paralizzato.
David non so dove sia. È rimasto indietro, suppongo. Peter è sempre qui accanto a me. Continua a stringermi ed è d’aiuto davvero. Se mi lasciasse andare, probabilmente mi metterei a correre. E non posso correre, perché le mie gambe sono troppo rigide. Se solo mi muovessi nel modo sbagliato, penso che mi spezzerei. Sono un fascio di nervi e sento dolore ovunque, sudo freddo e sto male. Sto malissimo, cazzo. Forse mi sto già spezzando. Forse Peter non può aiutarmi anche stavolta.
Mi fermo quando Peter mi tira. Peter mi tira perché David gli ha indicato la porta giusta. Io seguo il cenno di David e fisso il legno fino ad impararne a memoria le venature. Poi David suona al campanello e sento i passi.
Non sono di Anis.
E infatti, quando la porta si apre, di fronte a me c’è Patrick. Che mi guarda come se fosse perfettamente normale. Tutto, poi. Che lui sia lì, che io sia lì, che Anis sia lì, da qualche parte. Neanche avessimo tutti avvisato per tempo e questa fosse una cordiale cena di famiglia. Non lo è, cazzo. Mi sta esplodendo il cuore. Non riesco nemmeno a respirare.
Patrick non parla. Però mi sorride. È intenerito, o forse no, i sorrisi di Fler sono sempre molto morbidi e questo è perfettamente uguale a tutti gli altri. Non so se sia sempre intenerito quando mi sorride, o se sia proprio il suo sorriso così. Dovrei chiedere a qualcuno che lo conosca meglio di me. Non mi viene in mente neanche un nome a parte Anis, e di decifrare i sorrisi di Patrick col suo aiuto, al momento, non mi interessa per nulla.
Mi faccio avanti di un solo passo, Fler tiene entrambe le mani sugli stipiti della porta ed ingombra l’entrata per intero. Potrei spostarlo solo a testate, e non sono sicuro che ci riuscirei davvero, anche provandoci. Comunque, nel movimento mi tiro dietro Peter, gli occhi di Patrick scendono sulle nostre mani ancora strette insieme e gli passa un lampo scuro negli occhi. I suoi lineamenti si tendono tutti e so che sta pensando che non dovrei stringere questa mano con Anis così vicino a noi. Lo so che lo sta pensando. Lo sto pensando anch’io. Ma se lascio Peter adesso vado in pezzi, perciò la mano resta dov’è.
La mano resta dov’è, sì, ma si irrigidisce anche lei, come i lineamenti di Fler. Sento le scintille nel punto in cui dovrebbe esserci Peter. Questa cosa la capisco meno, ma in realtà sto capendo pochissimo di quello che sta succedendo. Continuo a prendere nota dei particolari come dovessi riutilizzarli più tardi per ricostruire la scena di un crimine. Quello che vedo ora non sono che tasselli sparsi di qualcosa che non riesco a realizzare nella sua completezza. Vedo solo pezzi di cose. La mano di Peter, gli occhi di Fler, quel poco che si intravede oltre le sue spalle dell’appartamento illuminato poco e male. Nient’altro.
Mi inumidisco le labbra, prima di parlare.
- Voglio vederlo.
Fler inspira profondamente e poi trattiene il fiato per un secondo, prima di rispondermi.
- Lui vuole vedere te. – dice a bassa voce. E poi si scosta.
Forse perché sono un bambino, forse perché sono uno stupido, mi aspetto di trovarmi subito Anis davanti agli occhi come dovesse apparire per una qualche ragione. Non lo so, ci resto male quando non lo vedo. Resto fermo per un sacco di tempo. Lui lì all’ingresso non c’è.
- Dov’è? – chiedo, voltandomi a guardare Fler. Ho gli occhi pieni di lacrime, Patrick è una macchia sfocata che sbuffa una risata e mi precede. Seguo l’oscillare incerto delle mie lacrime che si colorano delle tinte della sua felpa, è una felpa ridicola che gli ho regalato io, bianca con le stelline verdi. Non posso credere che la indossi sul serio, è assurdo.
Gli vado dietro e Peter mi segue, continua a stringermi la mano ma è da quando ho messo piede nell’appartamento che ho perso sensibilità su tutto il corpo. So che le lacrime stanno scendendo – perché erano troppo pesanti perché le ciglia potessero tenerle intrappolate ancora a lungo – ma non me le sento scorrere addosso. So che mi sto muovendo, ma non sento i piedi toccare terra. So che Peter mi stringe, ma non sento il calore della sua pelle. Non sentirò più niente per tutto il resto della mia vita, lo so. Non ci riuscirò più. Però almeno ho smesso di sentire male. Anche se non posso dire di stare meglio così.
Patrick apre una porta senza bussare prima. Il mio cuore esplode. Di nuovo. E ancora.
Resta sulla soglia e si scosta per farmi passare. La mano è ancora lì. La stringo fortissimo, so che lo sto facendo. La stringo talmente forte che non posso evitare di accorgermene, quando la sento scivolare via.
Me ne accorgo e non vedo più niente, in un solo attimo.
Anis è lì. Sta in piedi davanti ad una poltrona, come si fosse appena alzato. Mi guarda dritto negli occhi ed ha quell’espressione buffissima che non si capisce mai se diventerà uno sorriso o uno sbuffo ironico. Ha i capelli lunghi – Dio mio, sono lunghissimi – ma li tiene stretti in un codino che spunta da dietro e gli solletica la nuca.
Sto piangendo, lo so. Devo essere un disastro. Ci stiamo vedendo adesso dopo un anno e sono tremendo.
Non riesco a spiccicare una parola, ho paura perfino ad aprire le labbra perché non so che mugolio in frantumi potrebbe venirne fuori. Parla Anis per me. Mi si avvicina piano, un passo dopo l’altro, e quando arriva tanto vicino che devo per forza sollevare lo sguardo per continuare a tenerlo piantato nei suoi occhi, si inginocchia. Così che lo sguardo posso fare a meno di alzarlo, e lo abbasso. Le lacrime scendono in goccioloni enormi. Le vedo e non le sento.
Ma ricomincio a bruciare nel momento esatto in cui la mano che prima stringeva quella di Peter finisce stretta fra le dita lunghe e forti di Anis. La tiene con una delicatezza che è solo sua, neanche fossi fatto di porcellana. La stringe appena. La bacia piano.
- È bello rivederti, principessa.
Ed io mi sento sciogliere. Non mi reggo più, gli frano addosso, non so come faccio a reggermi al suo collo mentre piango e mi lamento e lo stringo e non capisco più niente, ed è un bene che avesse un ginocchio piegato e sollevato da terra, o sarei caduto sbattendo contro pavimento così forte che avrei avuto un motivo molto più stupido per piangere. E invece sto piangendo per lui. Perché lo sto sentendo sotto le dita. Perché è vivo, perché è qui, perché sento il suo sorriso tenero contro il collo, perché sento il suo profumo, perché posso seguire con le labbra il profilo del suo viso e posso perdermici, posso farlo perché è vivo ed è tornato da me, ed al momento non mi interessano i motivi, non mi interesserebbe neanche se fosse morto davvero e poi risorto, anche se so che non è possibile: sarebbe comunque tornato da me, ed è tutto ciò che conta ora.
Sento solo distrattamente la porta che si chiude alle nostre spalle, ho gli occhi semichiusi e quel po’ che riesco a vedere resta filtrato dalle lacrime. Anis è una macchia scura con un buon profumo e un buonissimo sapore. Lo assaggio piano sulle labbra e in punta di lingua quando lui prova a baciarmi. E ci prova davvero, per la prima volta nella sua intera esistenza – comunque per la prima volta da quando mi tocca – non sta pretendendo niente. Mi sta solo dicendo che è qui e se lo voglio è ancora mio. Ed io lo voglio. Voglio che sia mio perché io non ho mai smesso di essere suo.
La sua fronte sfiora la mia e non si allontana dalla mia bocca, quando parla.
- Dovrei dirti un milione di cose, piccolo. – mi sussurra addosso, una mano che scivola contro il mio fianco, sotto la maglia.
Lo bacio lentamente.
- Dovresti. – annuisco senza schiudere gli occhi. Il suo naso sfiora il mio e mi solletica appena. Mi viene un po’ da ridere e lo faccio. È una risatina così piccola che mi stupisco che lui riesca a sentirla. Comunque la sente e ne fa una un sacco simile. Mi scoppia il cuore di gioia, cazzo.
Si tira in piedi, mi tiene saldamente per la vita e finisco per rimettermi dritto anch’io. Cerco di stringerlo forte al collo, o cadrò di nuovo.
- Ce la fai? – chiede a bassa voce, scivolandomi addosso lungo una guancia, il mento, il collo, - Ti tengo, se non ce la fai.
- Non ce la faccio. – ammetto spossato. Lui sorride e mi tira su di peso, allacciandomi sotto le gambe. Stringo le cosce così forte attorno alle sue anche, che quasi mi faccio male da solo.
Anis mi spinge contro una parete ed io piego il capo mentre bacia e morde ovunque riesca ad arrivare, sussurrandomi addosso cose stupende, o magari sono cazzate, però è la sua voce, e se la sento dire che gli sono mancato, se la sento dire che so ancora di buono, se la sento dire che sono esattamente come mi ricordava, anche se non è vero, anche se fa male, è bellissimo. È talmente bello che continuo a piangere, continuo a piangere anche se ormai sto ansimando e non faccio che agitarmi contro di lui perché non ce la faccio più, voglio sentirmelo contro e voglio sentirmelo dentro, e se non lo avrò immediatamente comincerò a piangere così forte che mi faranno male i polmoni.
Anis spoglia me e se stesso in un arco di tempo che non riesco a quantificare. Il suo calore e la sua forma pressati sulla pelle già da soli bastano a farmi mugolare di piacere. Non ricordo quando, sono riuscito a infilare due dita fra le maglie dello stupido elastico che gli teneva stretti i capelli, perciò ho sciolto la coda. Ora le mie dita passano attraverso le sue ciocche scure e mosse, le sento morbidissime sotto i polpastrelli e sorrido. Non li avevo mai potuti accarezzare così, i suoi capelli. Mi piacciono così tanto, spero che non li tagli più.
Lo chiamo pianissimo e stringo le dita sulle sue spalle, affondando quasi le unghie nella sua pelle. Lui ringhia e mi bacia con maggiore convinzione. Fa bene, ha ragione, gli ho detto che può farlo, voglio che lo faccia.
- Ti prego… - mugolo stremato, e lui non perde neanche un altro minuto prima di spingersi lentissimo contro di me. Si fa sentire appena, si tira subito indietro, - Ti prego! – ripeto, mordendogli le labbra, e l’attimo dopo è lì dentro di me. Esattamente al suo posto.
Si muove piano, così piano che a stento lo riconosco. Non è il suo ritmo questo, non è il suo modo di toccarmi. Questo continuo esitare e chiedersi se può – glielo leggo negli occhi, lo vedo oltre le ciglia lunghissime ed oltre la nebbia del piacere che prova – questo continuare a stringermi appena, questo non è lui. Io lo ricordo, com’era. Ricordo come mi sentivo a sbattere di schiena sulla testata del letto perché mentre mi scopava mi aveva tirato su di peso e mi ci aveva appoggiato contro per spingersi con più forza dentro di me. Ricordo com’era sentirlo affondare fino al limite, finché quasi faceva male, e ricordo com’era forte e salda la stretta delle sue mani contro i miei fianchi. Ricordo la sua lingua insinuarsi fra le mie labbra e giocare a rincorrere la mia senza chiedere per favore. È questo che voglio. Rivoglio il mio Anis. Lo rivoglio com’era. So che c’è ancora, lo rivoglio con me.
Lo chiamo pianissimo, gli mordo le labbra, gli chiedo di andare più veloce. Glielo chiedo, lo imploro, la voce spezzata dagli ansiti, le sue mani mi scorrono lungo i fianchi e così fanno anche i suoi occhi. Non mi ha ancora nemmeno accarezzato ed il solo modo in cui si muove dentro di me, colpendo tutti i punti giusti come se non avesse fatto altro fino al giorno prima, mi sembra già abbastanza per urlare e gemere ed ho paura di poter venire anche solo così, senza l’aiuto delle sue mani. Ne ho paura perché sarebbe stupendo – c’è riuscito solo lui – e ne ho paura perché sarebbe assurdo.
Lo sento sorridere contro il mio collo, sbuffando appena.
- Un tatuaggio nuovo… - commenta scivolando con le dita sulla scritta che si arrotola su se stessa fino alla mia anca, - È recente?
- È fra le cose di cui possiamo parlare dopo. – mi lamento cercando le sue labbra.
Lui si tira indietro apposta per non concedermele.
- È una B. – ride appena, e mi prende in giro sporgendosi un po’ solo per poi ritirarsi.
Lo tengo fermo chiudendo le mani a coppa sui suoi zigomi, e tirandomelo contro.
- Sei tu scritto addosso. – confesso, ed allora lui mi bacia. E ricomincia a spingere. Ed è duro, è forte, è veloce e impetuoso. È lui.
Smetto di trattenere la voce anche se fra noi e tutto il resto del mondo c’è solo una porta. Qui dentro siamo solo noi due, quindi – per quanto mi riguarda – anche in tutto il resto del mondo ci siamo solo noi due. Ci sono solo le dita di Anis, c’è solo il suo cazzo che si fa strada di prepotenza dentro di me, c’è solo lui che ricorda il mio corpo centimetro per centimetro, ci sono io che cerco il suo sapore ovunque, c’è solo il momento in cui mi stringe e trattiene il fiato, c’è solo il momento in cui una spinta più forte e mirata delle altre colpisce proprio il punto che mi fa urlare di piacere, c’è il momento in cui vengo, c’è il momento in cui viene lui, c’è un momento perfetto in cui esiste solo questo ed io non ho bisogno di nient’altro.
Ed è solo un momento. Purtroppo, dannazione, è solo un momento. Esito – le dita perse fra i suoi capelli – solo qualche secondo, il tempo di riprendere fiato, prima di cominciare a realizzare cosa è successo. Cosa ho lasciato succedesse, meglio. Ricomincio a fare la conta delle persone che popolano il mio mondo. Ricordo David – e che voglio pestarlo. Ricordo Patrick – e che voglio parlargli, anche se non so nemmeno di cosa.
Ricordo Peter.
Cristo.
Ricordo Peter. E non ho idea di come farò a guardarlo negli occhi quando sarò uscito da qui e lo troverò ad aspettarmi.
Anis mi poggia a terra ed ho di nuovo paura che mi cedano le gambe. Mi aggrappo con forza alle sue spalle, uso le unghie e lui si lamenta un po’.
- Fai piano, principessa… mi hai devastato abbastanza, ti pare?
Schiudo gli occhi – bruciano da impazzire per quanto ho pianto e per quanto forte li ho strizzati – e tutto quello che vedo, per un lungo periodo di tempo, è la pelle di Anis. Mi ci perdo come fosse un paesaggio di un nuovo mondo, annego nei suoi colori caldi e nel suo profumo aspro e forte, lo sfioro piano con la punta del naso e poi gli pianto le mani sul petto. E lo allontano.
Il mio movimento è molto più violento e repentino di quanto non volessi. Questo perché sento fisicamente che se non me lo allontano di dosso il prima possibile potrebbe succedere qualcosa di irreparabile.
Poi ci rifletto. E capisco che qualcosa di irreparabile è già successo.
Sollevo lo sguardo e trovo gli occhi di Anis. Mi fissano con un misto di confusione ed incredulità, e lui è tenerissimo, in questo momento: le labbra semidischiuse sono ancora umide dei baci che ci siamo scambiati e i capelli sono arruffati perché ci ho perso le mani dentro così a lungo che hanno perso il senso che la coda aveva loro imposto prima che la sciogliessi. Ha gli occhi grandi, il mio Anis, e li sta usando per chiedermi cosa mi prende. Perché non lo capisce. E mi viene di nuovo da piangere e mi dispiace che non capisca, e so che non potrebbe neanche volendo, perché io non ho la forza di dirgli cosa mi passa per la testa. Non ho la forza neanche di dirgli cosa è passato per la mia vita nell’ultimo anno. Non ho la forza di fare niente perché non ce la faccio a pensare che a solo pronunciare il nome di Peter affiancato al mio, come sarebbe giusto, potrei perdere Anis. Perderlo adesso dopo averlo ritrovato… io non posso farcela. Io non ho abbastanza sangue in corpo, non sono abbastanza forte e non ho altre lacrime da versare. Perciò faccio l’unica cosa che posso fare senza rischiare troppo.
- Stronzo. – sibilo astioso, e lo faccio perché ho ragione, perché voglio litigare e perché i litigi sono una cosa che io e Anis conosciamo bene. Sono una cosa dalla quale sappiamo come uscire. Ogni volta che litigavamo, prima che morisse, era come subire gli scossoni di un terremoto. Crollava la casa e dopo, con una serie interminabile di scosse di assestamento durante le quali lui concedeva qualcosa a me ed io concedevo qualcosa a lui, ricominciavamo ad andare d’accordo. Era tutto davvero così semplice. Voglio che torni ad essere tutto semplice com’era allora. – Stronzo. Tu… come hai potuto, Anis?
Lui inspira profondamente e le sue labbra diventano sottili come linee, mentre tutti i suoi lineamenti si tendono. Gli vedo passare negli occhi qualcosa che suona più o meno come un “ecco, ci siamo”, e stringo forte i pugni.
- Era necessario, piccolo. – risponde seccamente, - Eri in pericolo.
- Ero… - annaspo, stringendomi nelle spalle e cominciando a cercare in giro i miei vestiti, - Ti avevano sparato! Eri tu quello in pericolo! Cos’è, appena hai visto che eri riuscito a salvare la pelle, piuttosto che tornare da me dove saresti stato di nuovo in pericolo, hai preferito andartene?!
Gli passa sul volto un’ombra di offesa, la vedo nel modo caratteristico in cui aggrotta le sopracciglia, ma non ho il tempo materiale di soffermarmi su quello che gli ho detto – non ho modo di realizzare quanto sto essendo cattivo in questo momento – perché lui prova a fermarmi con un “Bill” stentato ed io non voglio lasciarglielo fare. Perché potrebbe consolarmi, e non voglio che sia lui a farlo. Perché voglio urlargli di tutto e non voglio lasciare che lui me lo impedisca.
- Tu… tu sei vivo, Cristo santo! Da quanto? Dove cazzo sei stato, Anis, nascosto qui dentro per tutto l’ultimo anno? Ti sei divertito, qui da solo? Come le hai passate le giornate, spiandomi? Mandando… mandando David a… il mio manager, cazzo, Anis, tu… non avevi il diritto di farlo!
- Piccolo, - cerca di avvicinarmisi, mettendo le mani avanti come avesse paura che potessi scattare improvvisamente a morderlo al collo, - non sai cos’è successo. Noi non dovremmo litigare, dovremmo parlare.
- No, sei tu che non sai cos’è successo! – urlo spintonandolo lontano, - Io sono quasi morto di dolore, stronzo! Ho pensato che non ce l’avrei fatta, mi sono sentito finito! Io ho ucciso un uomo per te! Lo sai questo? Te l’ha detto David? Ho ucciso un uomo perché quell’uomo aveva ucciso te, e tu non eri morto! – mi fermo a riprendere fiato ed Anis è lì fermo che mi guarda. Non c’è più traccia di offesa nella sua espressione, adesso è solo triste. Non riesco a capire se avergli detto queste cose fa di me una persona ingiusta o se semplicemente dovessi farlo e basta. Io non ho torto. Io non ho torto, cazzo. Io non posso pensare di avere torto, perché se ammettessi di aver sbagliato tutto fino ad ora, con questo litigio, con quello che abbiamo fatto prima, col modo in cui ho vissuto l’ultimo anno… se ammettessi di aver sbagliato tutto, io non saprei più da dove ricominciare. Anis non potrebbe aiutarmi. Non potrebbe aiutarmi Peter. Non potrebbe aiutarmi Tomi, non potrebbe aiutarmi Patrick, non potrebbe aiutarmi nemmeno David. E io non potrei farcela comunque. Sarei una persona finita. Non voglio. Io non ho torto. Io ho ragione. – Noi possiamo solo litigare, Anis. – dico infine, distogliendo lo sguardo e finendo di rivestirmi, - Perché non ho nient’altro di cui parlare con te.
E non aggiungo nient’altro. Non lo fa neanche lui. Restiamo a guardarci a lungo e io vorrei fare una cosa che, quando stavamo insieme prima, facevo spesso, dopo le litigate. Anis non è mai stato davvero morbido, con me, se mi meritavo di essere mandato a fanculo ci andavo anche. Nel senso che mi ci mandava senza problemi. Ed io ero sempre troppo cocciuto e arrabbiato e isterico e tutto per capire che quel “vaffanculo” era un “riprenditi, Bill, perché io non posso avere a che fare con un sedicenne, ne ho le palle piene”. E quindi sì, urlavo “d’accordo, come preferisci!”, ma prima di uscire sbattendo la porta dicevo sempre “a più tardi!”. Ed era una cosa carina perché succedeva sempre che dopo un paio d’ora, quando sentiva che la mia rabbia era sbollita ed ero di nuovo pronto al dialogo, Anis mi raggiungeva dovunque fossi – dovesse anche essere casa di mia madre a Loitsche – e veniva a riprendermi. Era il suo modo silenzioso di chiedermi scusa. Tornare a casa con lui era il mio modo silenzioso di chiedere scusa a lui.
Ora non posso farlo. Non posso dirgli “a più tardi!”, non posso dirgli proprio un bel niente. Non posso neanche permettermi di sperare che lui venga a riprendermi comunque, fra un paio d’ore. Posso solo tacere, finire di rimettermi a posto ed uscire dalla stanza. Perciò lo faccio. Anis non cerca nemmeno di fermarmi.
Il mondo, di fuori, mi sembra ghiacciato. Volto in giro lo sguardo alla ricerca di Peter e Patrick e non trovo nessuno dei due. Non fatico ad immaginare cosa possa essere successo: Peter avrà cominciato a devastare un appartamento non suo e Patrick, per evitare che lui si ritrovasse nei confronti di Bushido con più debiti di quanti non ne abbia già, l’avrà trascinato via. Ora starà probabilmente cercando di calmarlo a suo modo. Non ho mai capito in che modo Patrick calmasse Peter, ma è straordinariamente efficace. D’altronde non mi stupisce, Patrick è straordinariamente efficace nel calmare chiunque. Vorrei che fosse qui, adesso, così potrebbe calmare me. E poi potrei mandarlo a calmare anche Anis.
Mi accorgo di David solo quando lui si accorge di me. E non succede subito, visto che si era palesemente perso nella propria testa mentre osservava il vuoto, appollaiato sul bracciolo di una poltrona. Solleva lo sguardo chiarissimo su di me e non me la sento di urlare anche contro di lui. Però se lo meriterebbe.
- …sono esausto. – dico in un mezzo singhiozzo, e il secondo successivo David è accanto a me e mi stringe fra le braccia. E so che dovrei avercela a morte con lui e odiarlo furiosamente e tutto, ma mi concedo di rimandare. Non ce la faccio, voglio rimandare. Mi appoggio contro di lui e nascondo il viso nell’incavo del suo collo. Piango solo un altro po’. – Voglio andare a casa.
David annuisce piano, la sua guancia ruvida struscia lentamente contro la mia, infastidendo la pelle già irritata dalle lacrime, ma non lo allontanerei per niente al mondo.
- Ti ci riporto. Vuoi andare da Tom?
- No. – mi lamento, - Voglio andarmene a casa mia. Voglio… voglio andare a dormire. Mi porti al mio appartamento, per favore?
Lui annuisce ancora, e mi resta vicino mentre mi allontano ed asciugo le lacrime. Non diciamo una parola. Restiamo in silenzio fino a casa, ed anche lì l’unica cosa che sento è un saluto a bassa voce ed una richiesta, “fatti sentire quanto prima, Bill. Quando vuoi, ma quanto prima”. Annuisco e basta. Ho detto delle cose tremende, oggi. Voglio dimenticarmi che rumore fa la mia voce. Non lo tollero più.

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Hass

di lisachan
La prima cosa che ha fatto Fler quando Jost ci ha detto che forse era meglio lasciare Bill e Bushido da soli per un po’, è stata poggiarmi una mano sulla spalla. Il primo pensiero che è saltato fuori dalla nebbia confusa che avevo al posto del cervello in quel momento, è stato “fottiti, non mi serve la tua cazzo di mano sulla spalla, il mio ragazzo sta baciando il suo ex qui di fronte a me, come se io neanche esistessi più. Cazzo vuoi che mi serva la tua mano?”.
Ho capito poi che, in quel momento, lui la mano lì sopra l’ha messa non per consolarmi, ma per trattenermi. Questo perché Fler lo conosce bene, il mio corpo. Lo legge alla perfezione, ed anche in un tempo brevissimo. Perciò si è accorto della tensione nei miei muscoli e dello scatto in avanti che ho fatto, e l’ha fermato prima ancora che potessi realizzare coscientemente di aver desiderato quel movimento. In sostanza, non mi sono mosso di un millimetro. Ho realizzato che avrei voluto farlo solo dopo. E adesso ho in corpo una furia repressa che non riesco ad incanalare in nessun modo.
La mano di Fler, comunque, è ancora lì.
Mi volto appena e c’è Jost ancora nei paraggi della porta che s’è chiuso alle spalle. Sembra incerto fra la possibilità di andarsene e quella di restare.
- Quindi tu lo sapevi. – sibilo guardandolo, gli occhi ridotti a due fessure, - Ci hai presi tutti per il culo. Per tutto questo tempo.
I suoi occhi sfidano i miei. Sono azzurri ma non tanto azzurri. Fler mi ha abituato a sguardi ben più pesanti. Jost non ha possibilità di competere, perciò reggo tranquillamente la tensione dello scontro. La mano è lì e non si sposta.
- Ho fatto il mio lavoro.
- Il tuo lavoro – urlo, stringendo i pugni, - dovrebbe essere prenderti cura di Bill!
- Il mio lavoro – risponde lui, gelido, - è stato prendermi cura della situazione perché non degenerasse.
Ghigno ironico.
- Bel lavoro hai fatto. Questa ti sembra una situazione non degenerata?!
Esita per un attimo, probabilmente perché lo sa, cazzo, se ne rende conto che è vero, ho ragione io, questa situazione è degenerata sì. Eccome se è degenerata. Siamo in un fottuto casino. E se Bill ha spento il cervello e magari al momento non l’ha ancora realizzato, la stessa cosa non si può dire di noi tre. Che stiamo qui a dare aria alla bocca – David davanti alla porta, neanche stesse facendo la guardia, io immediatamente di fronte a lui e Fler poco dietro di me, la mano sempre lì – e siamo in assoluto le persone che l’entità di questo casino indescrivibile la capiscono meglio.
- Non sono affari tuoi. – risponde infine, rilassando disinvoltamente le spalle. – Io non rispondo a te.
- Risponderai a Bill. – gli faccio notare, ringhiando sottovoce. Lui annuisce.
- Sì. Appena porrà le domande, risponderò a lui. Fino ad allora, io rispondo solo a Bushido.
E io, cazzo, li odio. Odio lui, odio Bushido, odio Bill ed odio anche la fottuta mano di Fler. Odio chiunque non si senta come mi sento io in questo momento. Ed odio anche quelli che ci si sentono. Perché la rabbia mi sta divorando e mi sembra di essere l’unico che abbia il diritto di perdercisi.
Grugnisco frustrato, voltandomi di scatto. La mano di Fler e la mia spalla perdono contatto per un secondo netto. Il tempo di girarmi. Poi è di nuovo lì.
- E mollami, Cristo. – chiedo burbero, lanciandogli un’occhiataccia irritata.
Lui scuote il capo.
- Ti dà fastidio? – chiede, indicando la mano con un cenno del capo.
Io sbuffo.
- Non particolarmente.
- E allora resta lì dov’è. – conclude serio, - Almeno finché non la pianti di voler sfondare la porta a calci.
- Non voglio niente del genere. – nego, distogliendo lo sguardo.
Fler sorride. Non lo vedo ma lo sento nell’aria.
- Come preferisci. – risponde. E la mano non si sposta.
Resta lì mentre mi chiede se voglio andarmene. La risposta è “no”, ma annuisco. Perché è meglio che Fler mi porti via. Resta lì anche mentre scendiamo le scale verso il piano di sotto, oltrepassiamo la porta, il vialetto e il cancello, e ci infiliamo in macchina. Eravamo in tre, in questa macchina, quando siamo arrivati. Tutto mi aspettavo meno di trovarci Fler, qui da Bushido. O meglio, un po’ me l’aspettavo, ma evitavo di pensarci. Comunque era qui. In macchina c’eravamo io, Bill e Jost. Adesso ci siamo io e Fler. Alla fine della giornata, qualsiasi sia la cazzo di macchina coinvolta, qualsiasi cosa sia successa durante il giorno, se è stata una giornata di merda c’è sempre Fler al mio fianco sul sedile. Sempre lui. E la mano non si sposta. È scomparsa solo mentre ci mettevamo seduti. È di nuovo lì, adesso.
Rilasso la schiena contro il sedile e sospiro profondamente, gettando indietro il capo e chiudendo gli occhi. Sono furioso. Non serve a niente che faccia la sceneggiata dell’uomo triste ma tranquillo, Fler me lo sente addosso che non sono niente del genere. Non sono triste, sono furioso. Per niente tranquillo. Potessi, prenderei a mazzate un muro. Per il solo piacere di sentirmi dire “guarda che non puoi abbatterlo” ed abbatterlo comunque, fottuto mattone dopo fottuto mattone.
Un po’ mi dispiace che ci sia Fler in giro mentre sto così. Fler non ha molta fortuna. Almeno non con me. Finisce sempre che mi gira intorno quando ho voglia di devastare qualcosa. Non voglio finire di nuovo a devastare lui.
La mano di Patrick si stringe attorno alla mia spalla, massaggia un po’ i muscoli contratti – le dita bene aperte, il palmo aderente al tessuto della mia maglietta – e poi si ferma.
- Chaku, andiamo un po’ a casa tua, ti va? – e lo dice con un tono dolce che gli ho già sentito usare, qualche volta. Quelle volte in cui io e lui continuavamo a stare bene l’uno con l’altro anche quando non stavamo scopando, per esempio. Fler non ha una voce cattiva, ha una voce che può diventare tremenda se è gelida e furente, ma a livello base, quando è di buon umore, quando la ammorbidisce coi toni dolci, quando sorride, non è cattiva affatto. È piacevole.
Lo guardo, gli occhi socchiusi, e lui per qualche motivo arrossisce.
- Vuoi venire da me? – glielo chiedo non perché sono uno stronzo, ma perché voglio essere sicuro di aver capito bene. “Venire da me” non è mai stato privo di conseguenze, fra me e Fler. Ha sempre significato una cosa ben precisa. Stranamente, non mi sento in colpa nei confronti di Bill, a pensarlo adesso. Sarà perché so perfettamente cosa sta succedendo dietro la porta cui Jost sta facendo la guardia.
Fler spalanca gli occhi e, invece di ritrarsi come sarebbe ovvio, buono e giusto, stringe di più la presa.
- Peter… - mi dà i brividi che mi chiami per nome. Ultimamente, questo nome l’ha usato quasi solo Bill. Mi piace sentirlo su labbra non sue, da una voce non sua. Per una volta, cazzo, voglio che le prossime ore siano differenti dagli ultimi mesi della mia vita. C’è stato solo Bill nella mia vita, per nove fottuti mesi. Ciò che ho in cambio adesso è la sua bocca su quella di Bushido, le sue braccia attorno al suo collo e lui stretto al suo corpo come nel mondo intero non esistesse nient’altro. E allora no. Allora no, vaffanculo. Fa male. Non ci sto.
- Patrick. – lo chiamo a mia volta. Non distolgo lo sguardo e non mi muovo. La sua mano è ancora lì. Mi piace che sia ancora lì. Sono contento di non averlo scacciato.
È ridicolo, ci siamo appena chiamati per nome senza un perché.
- Forse è meglio se andiamo da qualche altra parte, invece di andare a casa tua.
- Forse è meglio se la smettiamo di nasconderci dietro un dito.
Fler arretra un po’. Solo qualche centimetro, poi si rende conto che è comunque seduto in macchina e non può certo attraversare lo sportello come fosse un fantasma. Si rende conto che per allontanarsi ancora dovrebbe per forza lasciarmi andare, voltarsi, tirare la maniglia, spingere ed uscire. Per qualche motivo che non comprendo – come al solito: non l’ho mai capito, io, perché Fler si ostinasse a restare – non si muove oltre. Resta lì. La mano trema appena, incerta.
- Peter, - continua a chiamarmi per nome, - io non ti sto mentendo. Mi manchi. Mi andrebbe. Ma non possiamo.
Mi muovo, accendendo la macchina ed ingranando la marcia, dirigendomi verso casa.
- Loro stanno potendo. Eccome. – ringhio, aggrottando le sopracciglia.
- Non sai se sta succedendo davvero. – dice lui, lasciando scivolare la mano lungo il mio fianco. Non può più tenerla lì dov’era ma non vuole interrompere il contatto. Comunque questo discorso potrebbe anche concludersi qui, perché io non gli ho neanche detto cosa penso e lui l’ha già capito. L’ha già capito perché anche lui l’ha pensato. E se lui l’ha pensato – e lui lo conosce bene, Bushido. E conosce bene anche Bill – allora sta succedendo. Cristo, io me lo sento nelle ossa, che sta succedendo. È una cosa così evidente e palese che mi sembra perfino ridicolo starne a discutere. – Non ti fidi?
- No. – sbotto senza neanche pensarci, - Non c’è scritto da nessuna parte che amare qualcuno significhi fidarsi di lui. Oltretutto, non mi pare che Bill mi abbia dato modo di fidarmi, negli ultimi dieci minuti. – mi fermo al semaforo, schiacciando la frizione con furia. – Magari, ok, glielo concedo, magari non scoperanno. Mi viene da ridere a pensarci, perché è una cosa ridicola, tu lo sai ed io lo so che scoperanno, ma ammettiamo per un istante che non lo facciano. In ogni caso, appena l’ha visto gli è saltato fra le braccia. Classica scena epica, ci aveva abituati tutti così, giusto?, Bushido gli si è inginocchiato di fronte, gli ha fatto il baciamano, “ciao, principessa”, e il secondo dopo eccolo che gli si scioglie addosso. A questo punto, scusa la franchezza, me ne sbatto il cazzo se scoperanno o meno. Mi sembra di avere già motivi a sufficienza per essere incazzato.
Non ribatte – ovviamente non ne ha il coraggio: ‘cazzo puoi ribattere se uno ha ragione? – perciò è così che restiamo – in silenzio, io mani sul volante, lui mano sul mio fianco – finché non arriviamo a casa mia. Non gli chiedo se vuole salire, a questo punto o sale con le sue gambe o lo trascino su io per il cappuccio della felpa.
Fortunatamente sceglie le proprie gambe. Io non so dove trovo la forza, la decenza e la presenza di spirito per non saltargli addosso appena ci chiudiamo la porta alle spalle. Fatto sta che, malgrado io non mi senta né forte né armato di decenza né tantomeno presente – allo spirito, a me stesso o a chicchessia – decido di prendermela comoda. Fler è qui, non penso intenda scappare ed al momento, se gli metto le mani addosso, mi sfogo. Non voglio sfogarmi. Non mi piace sfogarmi su di lui. Se dev’esserci qualcosa, oggi, non sarò io che gli faccio male. Non è questo che voglio. Lui è gentile a restare. Non se lo merita.
Comunque è nervoso. Lo vedo dal modo in cui cammina e si muove per l’appartamento, tirando su da terra le cose che incontra al proprio passaggio e continuando a lanciare occhiate incerte al frigorifero.
- Magari ci prendiamo qualcosa da bere? – biascica, indicandolo da qualche metro di distanza.
Scrollo le spalle.
- Non funziona. Non aprirlo. Ne viene fuori un odore nauseante. Non ti ci avvicinare nemmeno, fidati, è meglio. – e così dicendo, visto che non ho niente di meglio da fare, sfilo il cappellino e la felpa, restando in maglietta e pantaloni. Fler deglutisce.
- Potremmo provare ad aggiustarlo. – suggerisce a bassa voce, distogliendo lo sguardo.
Tolgo anche la maglia. Non intendo dirglielo ad alta voce. Non intendo dire ad alta voce che scoperò con qualcun altro che non sia Bill. Però voglio farlo. Voglio farlo ma non voglio dirlo, perché me ne vergogno. Mi torna in mente Fler che mi dice “mai vergognarsi delle proprie azioni, è da sfigati e noi non lo siamo”. Mi sa che sbagliavi, Pat. Sbagliavi alla grande.
- Sei un elettricista, per caso?
- No, ma so-
- Non mi interessa. – sfibbio il primo bottone dei jeans, - Non ti ho chiesto aiuto per sistemare il fottuto frigo.
Fler si inumidisce le labbra e resta in silenzio per qualche secondo. E poi indietreggia. Cristo, mi viene quasi da ridere. Indietreggia! Neanche lo stessi minacciando di pestarlo o chissà che. Cazzo. Si tratta di una scopata, cazzo. Ne abbiamo a decine in memoria, è una cosa quasi logica. A toccarsi solo un po’, andiamo avanti senza nemmeno rendercene conto. Lo so. Lo so che sarebbe così. Dovrebbe solo lasciarsi toccare, Cristo santo, e dopo sarebbe tutto normalissimo e naturalissimo. Dovrebbe concedermi solo questo.
- Patrick. – lo chiamo. Non so perché mi ostino ad usare il suo nome di battesimo. Sarà che oggi è strano. Se uso un nome che non uso spesso, posso fingere che non sia lui, posso fingere di non stare distruggendo qualcosa di bello che c’è nella mia vita per la frustrazione di una sera.
Fler mi ha detto no più volte di quante io riesca a contare. Mi ha detto una quantità sconcertante di no prima che mi mettessi con Bill ed ha ripreso a dirmi no quando io ho ripreso a mettergli le mani addosso. Posso tranquillamente dire che, da quando è morto Saad, le mie uniche costanti immancabili sono state Fler e i suoi no. Adesso, solo perché sono incazzato con Bill, le sto calpestando entrambe. E non mi va di farlo a Fler, perciò lo faccio a Patrick.
Lui mi guarda. È fantastico che non riesca a staccarmi gli occhi di dosso. Non posso dire che avessi dimenticato che era questo, l’effetto che facevo a Fler, perché in realtà non ho mai smesso di leggergliela negli occhi, la voglia. Così come lui non ha dimenticato come si fa a leggerla nei miei, suppongo. Ecco perché se n’è uscito con la questione dell’andare via. Perché ha visto la voglia tornare ed ha avuto paura di combinare qualche danno.
A me, in questo preciso momento, non frega più un cazzo. A non combinare danni per nove mesi, non ho guadagnato niente. La principessa mi perdonerà se, per qualche ora, la mando a fanculo, visto che lei lo sta facendo in favore di un re che dovrebbe – cazzo – essere morto.
Perciò niente, mi avvicino ancora e sfibbio un altro bottone. Fler indietreggia di un altro passo e trova il muro. Mi fissa con sgomento, quando solleva gli occhi su di me e mi trova a ghignare.
- Sei un tantino arrivato alla parete. – gli faccio notare con un mezzo sorriso.
Lui stringe le labbra, prima di parlare.
- Mi dai i brividi. – dice. E lo so. Do i brividi anche a me stesso. – Non voglio, Chaku.
- Peter.
- Chaku.
Scrollo le spalle e sfibbio l’ultimo bottone.
- Come vuoi. – faccio un altro passo verso di lui e siamo distanti appena un paio di centimetri. Sta schiacciato contro il muro, tanto è il bisogno che ha di non toccarmi. – Fler. Visto che ci tieni.
- Per favore. – chiede, ed a me viene ancora voglia di ridere. Potrebbe stendermi a cazzotti, se solo volesse. Potrebbe mandarmi a sbattere contro la parete opposta con uno spintone. Potrebbe rimettermi a posto in due minuti, non gli costerebbe nemmeno della vera fatica. Ma non lo fa. È debole, contro di me, ha una soglia di resa bassissima. Non so se questa consapevolezza, in questo momento, mi esalta o mi diverte di più. – Smettila.
- No. – dico seccamente, - Mi sono rotto i coglioni di smetterla. – lo afferro per i fianchi, tirandomelo contro. Impatto, scariche elettriche. Come sempre. Questo non cambia mai, Fler, come fai a non sentirlo?
- Chakuza! – mi chiama, più deciso, e fa il grave, gravissimo errore di posarmi le mani sul petto per cercare di spingermi via. Lo fa con una convinzione tutta particolare. Quella che sembra vera solo a guardarla dall’esterno. Perché io che mi sento le sue mani addosso non l’avverto per niente. E mentre mi tocca se ne accorge anche lui, che non mi sta allontanando davvero. Glielo leggo negli occhi, che lo capisce. E che si chiede che cazzo stia succedendo. Che cazzo stia facendo io e che cazzo stia permettendomi di fare lui.
- Andiamo, Fler. – lo schiaccio contro il muro, le mani sotto la maglietta a divorare centimetri di pelle, - Non mi prendere in giro.
- Non voglio. – dice a fatica. La sua voce mi vibra sulle labbra mentre gli mordo il collo.
- Vuoi. – lo correggo, sporgendomi un po’ verso la sua bocca, - Non mentire.
- Tu sei uno stronzo. – ansima mentre armeggio con la cintura dei suoi pantaloni, - Sei uno stronzo e sei un bugiardo. Non dire a me di non mentire.
- In questo momento, non ti sto mentendo. – ringhio, infilando una mano oltre l’orlo dei jeans ed accarezzandolo lentamente attraverso il tessuto sottile dei boxer, - Quello che voglio lo sai. Manca solo che te lo chieda ad alta voce. Devo farlo?
- No! – ringhia, piegando un po’ il capo e socchiudendo gli occhi, lasciandomi scivolare le mani dal petto fino alle spalle e stringendo forte, - Cristo, no. Smettila. Non voglio.
E non l’ho ancora baciato. Non riesce nemmeno a lasciarmi andare. Non ho ancora neanche fatto finta di baciarlo.
Lo faccio, perché a Fler piace baciare. Ci si perde. Mi spingo in avanti e gli catturo le labbra con le mie. Le sto forzando con la lingua il secondo successivo, anche se forzare non è il termine più adatto, perché le trovo già schiuse in attesa di me appena le sfioro. Come dicevo, a Fler piace baciare, oh sì, gli piace un monte. Ci si perde del tutto e non capisce più niente. È l’effetto che su di me ha il sesso. A lui bastano i baci. Ciò dimostra che è un ragazzino, lo è sempre rimasto malgrado tutto ed io sono davvero lo stronzo che dice lui. Molto semplice. Non ho voglia di sentirmi in colpa anche per questo, al momento. Basta già il pensiero di star tradendo Bill. Che, cazzo, se lo merita. Ma mi fa sentire in colpa lo stesso.
- Chaku… - ansima esausto quando mi allontano da lui e faccio per tirargli via la maglietta di dosso, - Cristo, sei una merda. Smettila, per favore.
- Stai piagnucolando come un ragazzino. – gli faccio notare, mordendogli una spalla da sopra il tessuto, - Se mi vuoi fuori dai coglioni, prendimi a calci. Altrimenti lasciami fare senza lamentarti.
- …sto cercando… - deglutisce, piegando il capo mentre risalgo con le labbra la linea del suo collo, - …di non farti del male. Stai già male.
- Sto alla grande. – ritorco, spogliandolo di prepotenza, - Mai stato meglio.
Lui non mi guarda. Quando non mi guarda è perché sa che mi basterebbe guardarlo negli occhi per leggerci dentro che pensa io abbia torto. Non vuole darmi torto. Cristo. Perché dev’essere così? Sarebbe molto più facile – sarebbe molto, molto più facile – se fra me e Fler non ci fosse niente. Almeno non lo conoscerei così a memoria. E non potrei elencare così alla perfezione tutte le centinaia di modi in cui gli sto facendo del male adesso.
Lo so, Fler. Lo so che ti sto passando addosso come un fottuto carro armato. Lo so che ci stai di merda. Lo so. So anche perché non riesci a dirmi no, cazzo, da qualche parte dentro di me l’ho sempre saputo. Ma non ce la faccio a fermarmi. Non voglio. Non riesco a trovare un motivo per farlo, non ci riesco neanche provandoci. Bill non è un motivo, in questo momento. E Bill è stato un motivo per quasi tutto l’ultimo anno della mia esistenza. Perciò mi fa male che non lo sia più. E non ce la faccio a fermarmi, a queste condizioni. Non ce la faccio e basta.
- Spegnimi il cervello. – glielo soffio addosso come un’implorazione. Suona affranto e sconfortato allo stesso modo, almeno alle mie orecchie. Gli sfioro una guancia con le labbra, non è un vero bacio, è solo uno sfregamento, però è una cosa intensa. Lui si irrigidisce e si tende tutto sotto le mie mani. Lo guardo negli occhi, prima di continuare. – Spegnimi il cervello. – ripeto, - Sei sempre stato bravo a farlo. Non dirmi di no. Per favore.
E lui in effetti non me lo dice. Le sue mani – che sono ancora sulle mie spalle. Lo sono come lo erano quando siamo usciti da quella dannata stanza. Il modo in cui Fler mi tocca non è mai davvero cambiato – scivolano verso l’alto, lungo il mio collo. Mi aggancia alla nuca e mi accarezza con una tenerezza che con il sesso non c’entra niente.
Ecco, questo mi calma.
…questo mi calma.
La sua fronte sfiora la mia e restiamo a guardarci negli occhi da una distanza minuscola.
- Devo farlo. – mi sussurra sulle labbra, con un mezzo sorriso, - Bill non resterà per sempre chiuso in quella stanza, Peter. Quando ne uscirà, dovrete parlare. Ed allora desidererai di non aver scopato con me. – si prende una pausa, continua ad accarezzarmi la nuca ed io mi sento esplodere il cuore. – Non voglio essere un rimpianto. Tu me lo devi, questo. Non puoi fare di me un rimpianto.
Saranno le carezze, non lo so. Sarà la sua voce, che è di nuovo dolcissima.
Sarà che ha ragione. Non posso. Nemmeno voglio. Fare questo, che sia a Fler o che sia a Patrick… no, non voglio.
Comunque mi allontano. Lo faccio senza piacere, perché staccarmi da lui è difficile. Dio, lo è sempre stato, anche quando passavamo il tempo a cazzeggiare, figurarsi se non lo è adesso che è tutto diverso, tutto complicato e tutto doloroso.
Mi allontano e gli lascio spazio. Lui mi ringrazia con un sorriso e si china a recuperare la maglietta. La indossa, riabbottona i jeans e si dà una sistemata generale senza guardarmi. Io non gli stacco gli occhi di dosso. Non sono pentito di aver lasciato perdere. Mi manca il suo calore, la forma del suo corpo e il suo odore, sì, ma in un certo senso mi mancano sempre. Quando non c’è Bill, quando sto facendo qualcosa di insopportabilmente noioso, quando guardo una cosa a caso che mi ricorda lui, queste cose mi mancano sempre. Quindi non c’è niente di diverso. Sono calmo. È riuscito a calmarmi e vorrei poterlo odiare per questo, ma non ci riesco.
- Mi dispiace. – ammetto a mezza voce mentre lui recupera la giacca e si muove verso la porta.
Lo sento ridacchiare piano.
- Lo so. – annuisce indossandola, - Tu sei un disastro. Ormai ci ho fatto il callo.
- …mi dispiace anche per questo. – sospiro. Lui annuisce ancora e mi saluta. È già sparito, chiudendosi la porta alle spalle, prima ancora che possa realizzare che lo sta facendo.
A questo punto mi guardo intorno. I soprammobili sono a posto. Non c’è quasi niente per terra. È tutto molto ordinato.
Conto le opzioni che ho per passare il resto della nottata. Non sono molte, penso, mentre afferro soprammobili a caso e comincio sistematicamente a lanciarli in giro per la stanza.

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Wahrheit

di tabata
Io pensavo che morire sarebbe stato complicato.
Cancellare tutto quello che ero – passato, presente e soprattutto futuro –, la mia intera esistenza, e sparire per diventare qualcun altro. Per diventare Tarek Hassim. Avrei dovuto costruire la sua persona da zero, dargli dei ricordi, un passato, una persona che lo avesse amato e che lui avesse lasciato altrove, nel paese da cui proveniva. Avrei dovuto dargli un carattere, mentire per mesi.
Mentre David mi imbarcava su un aereo per Miami, ricordo distintamente di aver pensato a tutte queste cose e di aver concluso che sarebbe stato così difficile da perderci la testa, che non puoi davvero smettere di essere quello che sei per diventare un altro, che una parte di te resta sempre, in fondo allo stomaco e che – conoscendomi – sarebbe saltata fuori anche troppo spesso. Con troppa forza.
In realtà non è stato così. Essere Tarek Hassim è stata la parte più facile. Ad uccidere Anis Moahmed Youssef Ferchichi sul pavimento di una casa di Miami non c’è voluto niente. Farlo risorgere dalla tomba, invece, si sta rivelando molto più complicato.
Quando ho messo piede a Berlino, due settimane fa, non l’ho fatto con l’idea cosciente di rimanerci. Davvero. Volevo sistemare le cose all’Ersguterjunge e, sì, d’accordo, volevo vedere Bill, assicurarmi che stesse bene. Volevo poggiare gli occhi su di lui tanto per avere un’immagine nitida della sua persona da riportare a casa. Stavo dimenticando com’era lasciar scivolare lo sguardo sulla sua pelle e la cosa mi faceva paura. Volevo sentire la sua voce dal vivo, sentire il suo profumo anche se da lontano. Non volevo davvero fare casino. Non coscientemente almeno.
David aveva organizzato l’incontro con i grandi della Universal con la maggior segretezza possibile. Tra me coperto fin sopra i capelli e loro che, fino all’ultimo istante, non sapevano chi stesse arrivando, quella riunione aveva i toni di un film di spionaggio. Ricordo che David ha portato l’auto fin sotto la sede dell’etichetta. Io ho fatto solo due metri, avvolto nel cappotto, dietro gli occhiali, con i capelli legati. Di corsa.
Nessuno sapeva che ero io. Nessuno lo ha saputo finché in quella stanza praticamente sigillata, di fronte a quattro uomini incazzosi che stavano perdendo soldi per i capricci di un manager isterico, non mi sono tolto gli occhiali e il cappotto e non ho detto “Salve signori,” e li ho visti sbiancare.
In quel preciso momento – devo ammetterlo – Tarek era già scomparso e io, come Bushido, ho dovuto trattenermi dal ghignare perché ci vuole del talento per sconvolgere quattro uomini adulti semplicemente salutandoli. E io sono uno che si autocompiace.
La discussione è stata surreale e sfiancante. Prima il naturale sconvolgimento di quattro persone che un anno fa si sono perse la gallina dalle uova d’oro e ora se la vedono tornare indietro, bella, sana e in salute a recuperare ciò che era suo. Poi si sono ripresi – e gente come loro si riprende in fretta, anche se risorgi e tendenzialmente non dovresti. Non mi hanno nemmeno chiesto perché ero morto, mi hanno solo snocciolato con disinvoltura sconcertante tutto ciò che poteva essere fatto, adesso, per sfruttare la mia ressurezione. Ovviamente erano inclusi un nuovo cd, apparizioni televisive, apparizioni pubbliche – non so se volessero anche farmi apparire in tunica scintillante sopra la cima di un monte con due tavole di leggi in mano – e un’altra sequela di cazzate di fronte alle quali ho riso di gusto. Finché non hanno nominato Bill.
Negli ultimi mesi prima che Saad mi sparasse la relazione mia e di Bill cominciava a dare i suoi frutti anche a livello economico. Ovunque fossimo, eravamo insieme. Bravo ci marciava così tanto sopra da avere una specie di conto alla rovescia – non ho mai ben capito – per il giorno in cui saremmo andati a vivere insieme, senza sapere, per altro, che io a Bill lo avevo già chiesto e Bill aveva sempre fatto in modo di non rispondere perché era – è, ancora – piccolo e spaventato e io non ci tenevo a tirarmelo in casa se non se la sentiva. Prima che io morissi, stavamo diventando una – anzi no, la – coppia dello showbiz e devo dire che ne sarei stato orgoglioso se in quei mesi già non fossi stato intento a preparare la mia fuga, che non era ancora morte, ma ci si avvicinava. Quindi è chiaro che nel momento in cui io mi sono presentato in quella stanza, vivo e vegeto, loro hanno subito pensato che tra le apparizioni televisive e il cd ci stesse anche un bel ritorno di fiamma, magari con Bill in lacrime in diretta Tv. E invece no. Non gli farei mai toccare Bill in questo modo, neanche se mi ricoprissero d’oro.
Quando hanno fatto il suo nome ho sollevato una mano, ho zittito David che stava per aprire bocca e ho fatto notare loro che non c’era nessuna possibilità che io tornassi in vita per il resto del mondo e che, se anche lo avessi fatto, nessuno avrebbe usato il mio ritorno e Bill per fare denaro. E ci credevo – ci credo anche adesso – solo che allora non sapevo che qualcuno avrebbe agito contro la mia volontà. Prima che morissi, non era mai accaduto. E’ stato lì che ho capito che non è difficile morire. E’ difficile tornare indietro.
David non ha detto quasi niente perché io non gliel’ho permesso. La mia intenzione non era quella di essere diplomatico, non era nemmeno quella di discutere a dire il vero. Ero lì per dire come stavano le cose, l’opinione della Universal al riguardo era del tutto irrilevante.
L’Ersguterjunge era aperta perché David si era opposto alla chiusura, ma era inattiva perché Chakuza era stato notevolmente convincente con gli altri ragazzi. Ora però, la Universal voleva far rientrare i costi di un’etichetta aperta che non produceva niente. E questo era assolutamente fuori discussione.
L’Ersguterjunge è una cosa mia, non è soltanto un’etichetta. E chiunque sa che se una cosa è mia, nessuno può metterci sopra le mani. Con David avevo discusso a lungo su come procedere, più che altro perché io sono uno che fa le cose a modo suo, ma in questo caso non si poteva perché c’erano di mezzo una morte, un quintale abbondante di avvocati e questi quattro uomini che adesso mi guardavano indecisi tra l’ascoltarmi e mandarmi a fanculo una volta per tutte. Il primo problema era convincere loro a non chiudere l’etichetta. Il secondo era convincere Chakuza a lavorare senza farmi vedere.
Per il primo problema, la soluzione era piuttosto semplice. L’etichetta era mia, loro si occupavano della distribuzione. Se volevano tenerla aperta e prendersi la loro percentuale, andava bene. Se volevano chiuderla, andava bene lo stesso avrei fatto a meno della loro distribuzione. Naturalmente non c’era alcun modo per cui io potessi mantenere aperta l’EGJ, occupandomi anche della distribuzione, tutto questo da Miami e senza la mia roba a fare da traino per tutti gli altri ma – come mi ha sempre detto Saad, pace all’anima sua – io ho la faccia come il culo. Quindi se ti dico che posso farlo, a te viene il dubbio che io possa davvero. Il dubbio è venuto anche a loro, soprattutto quando ho fatto notare che sotto la mia etichetta avevo persone in grado di rendere bene, che si trattava solo di sistemare la faccenda con i diretti interessati e che – a patto che non si facesse mai il mio nome – avrei rimesso in moto le cose. In fondo ero tornato per quello.
Risolto questo, si prensentava il problema di convincere Chakuza.
Ricordo che sono tornato in auto con una serie di idee e che David me le ha smontate una per una, scuotendo la testa e ripetendo fino alla noia che non era possibile. Per una settimana ho cercato di dargli torto e poi ho dovuto ammettere che Chakuza ha la testa di un’ariete e quando decide una cosa dev’essere quella e solo quella, non capisce né vede né ascolta nient’altro. Era impensabile che io lo costringessi a fare qualcosa senza incontrarlo di persona. Per questo ho dovuto farmi vedere. E David non voleva, ben inteso. David voleva rispedirmi a Miami con il primo aereo e pensarci lui. Il che voleva dire, con ogni probabilità, parlare con Chakuza per la milionesima volta e per la milionesima volta sentirsi rispondere di no.
Io lo so come fa Chakuza. Lo so perché quando mi ha inseguito per settimane con quella sua cazzo di demo, non mi ha lasciato in pace un minuto. Ho dovuto ascoltarla. E gli ho pure dovuto dire che era buona, perché lo era. E lui lo sapeva. Quindi se riteneva rispettoso non lavorare in onore dell’uomo morto, non potevi fargli cambiare idea se non dicendogli che l’uomo era vivo.
Così ho fatto quello che c’era da fare. Ho distratto David spedendolo a farmi la spesa, sono uscito di casa e sono andato da Eko.
Andare a casa del turco equivaleva a scatenare una reazione a catena, e lo sapevo. Il punto era che non avevo scelta. Se fossi andato direttamente da Chakuza, che abita a casa di Dio perché nonostante possa permettersi di meglio, è in qualche modo affezionato a quella topaia in cui si è rintanato, Dio solo sa perché – credo che il tutto sia legato al fatto che quella è la prima casa che si è pagato da solo, lontano dal tetto austriaco di suo padre o una roba simile -, se fossi andato da lui, avrei dovuto farmi mezza Berlino a piedi visto che David aveva preso la macchina e qualcuno mi avrebbe sicuramente visto. Se avessi saputo che qualche stronzo alla Universal aveva deciso di fare davvero lo stronzo vendendo la mia presenza a Bravo probabilmente sarei andato direttamente da Chakuza. Ma d’altronde se avessi saputo un sacco di altre cose probabilmente sarei andato da Chakuza e lui non avrebbe più avuto alcun motivo di farsi convincere a fare niente.
Io so che Eko ha tante buone qualità ma fra queste non c’è la sanità mentale. Da che lo conosco, e si parla del 2006, non è mai stato veramente normale. Non è che sia stupido, anzi, tutto il contrario, ha una mentalità molto pratica che si basa sostanzialmente sul fatto che lui vorrebbe vivere senza che gli dessero fastidio – il che è un po’ assurdo visto che alla fine, per finta o per davvero, fa il rapper e qui ci si sfancula come niente - ma vive in un mondo suo. A volte penso che quando Kool Savas lo ha portato via da quel negozio di scarpe, lui non se ne sia accorto del tutto. Quindi con la testa sta un po’ qui e un po’ là e questo, a volte, crea un po’ di problemi.
D’altra parte, immagino che anche una persona mentalmente stabile non avrebbe reagito bene a me che mi presento alla sua porta dopo che mi ha seppelito. Quindi, insomma, non posso biasimarlo. La faccia che fa, quando mi apre la porta, non credo di potermela dimenticare. Innanzi tutto sbianca. Il sangue gli va visibilmente tutto nei piedi, mi sembra quasi di vederlo scivolare lungo la sua faccia e lungo il collo per poi perdersi sotto la maglia. E mi guarda fisso, con gli occhi rotondi. Io sorrido e gli accenno un saluto ma come alzo la mano lui scatta e fa per chiudere la porta, ma ci infilo un piede in mezzo.
“Eko, sono io,” dico.
Lo sento trafficare ma non riesce a chiudere la porta. “Non è possibile. Tu sei morto. E se sei morto non puoi essere nel corridoio del mio palazzo.”
“Ma come vedi ci sono. Posso spiegarti, se mi fai entrare.”
“Ah!” Sbotta, convintissimo. “Non pensare che ci caschi. Lo so che non puoi entrare se non ti invito!”
Sollevo un sopracciglio. “Si chiama buona educazione, in effetti.”
“No, è che sei un fantasma,” precisa lui. E per farlo apre la porta. “Quelli non possono entrare se… o forse erano i vampiri?”
Se ne sta lì sulla soglia e rimugina, con una mano sotto il mento. E si è evidentemente dimenticato di me. O si è dimenticato che sono morto. Comunque devo schioccare le dita per riportarlo al presente. “Eko, ti spiace? Non dovrei essere qui, preferirei non farmi vedere dai tuoi vicini.”
Faccio un passo in avanti verso di lui e lui va nel panico, mi si getta contro di testa, costringendomi a tornare indietro e quindi prosegue correndo per il corridoio, gridando che lui non c’entra niente e ha sempre pensato che fosse una pessima idea. Di cosa stia parlando non lo so. Comunque ha lasciato la porta aperta, quindi entro e mi accomodo. Avevo intenzione di chiedergli di chiamare Chakuza ma a quanto pare dovrò prima aspettare che si calmi. E magari che rientri in casa.
La casa di Eko è un posto che non ti aspetti da uno come lui. Innanzi tutto è enorme per uno che ci vive da solo e poi, nel suo piccolo, è ordinatissima. Il problema è che l’arredamento di Eko non è un vero arredamento. Diciamo che quando si è trovato nella condizione di dover mettere dei mobili per riempire lo spazio ha comprato le cose che gli piacevano, indipendentemente dal colore e dallo stile, quindi il salotto ha un bellissimo divano in pelle nera, ma c’è anche un pouf muccato e un intero set da tè turco. Il frigorifero della cucina è ricoperto di calamite e nel corridoio c’è un’intera parete tappezzata di cianfrusaglie. Per il mio bene non sono entrato nella sua camera da letto. Non voglio sapere.
Quando Eko torna, io sono nel suo bagno blu. Sento un’altra voce oltre alla sua e quando esco dal bagno, asciugandomi le mani, ci trovo Chakuza, il quale non ha un aspetto migliore di Eko, quando mi vede. Anche nella penombra della stanza vedo che diventa color cenere. “Chaky,” gli dico sorridendo. “Ho saputo che stai cercando di mandarmi in bancarotta.”
Spero che abbia il buon senso di non scappare anche lui. Non so con chi potrebbe tornare. Alle sue spalle vedo spuntare Eko, venuto a vedere se me lo sono mangiato, o cosa.
“Chaku…” dice, tenendomi d’occhio nel caso mi facessi spuntare coda e artigli. “Perché non stai scappando?”
“Credo che chiamerò Fler,” Chakuza dice soltanto questo.
E io penso che non voglio affatto fermarlo. Dovrei, dovrei dirgli che sono qui per lui e che sarò qui soltanto per un breve periodo di tempo, che nessun altro deve vedermi, che ho uno scopo e questo scopo è spiegare a lui che non può chiudermi l’etichetta, ma quando nomina Fler e penso che può portarmelo qui e ora, non me ne frega niente di quante persone mi vedranno.
David mi ha detto che Patrick fa ormai parte della squadra, non ufficialmente certo – non credo che Sido mi perdonerebbe se glielo portassi via, anche se sapeva che volevo e che se non fossi morto ci sarei riuscito prima o poi -, che è diventato di casa e che tra lui e Chakuza si sono presi cura di Bill quando nessun altro ci riusciva. Io devo dirgli grazie. Quindi Chakuza fa bene a chiamarlo.

*


Eko sembra aver superato la fase di panico e adesso mi gironzola intorno, anche se si tiene sempre a debita distanza. Io sono seduto sul divano e mangio pistacchi. Adoro la casa di Eko perché è sempre piena di cibo; Eko mangia quando è nervoso e siccome lo è sempre, dissemina cibo ovunque in modo da averne sempre a disposizione. Alla sede dell’EGJ ha colonizzato tutti i cassetti, riempiendoli con merendine da sgranocchiare. Negli ultimi tempi non era affatto raro vedere lui e Bill che si aggiravano tra le stanze dello studio, raziando le loro riserve di cibo.
“E fa caldo all’inferno?” Mi chiede. Non so quante domande simili mi ha già fatto.
Rido. “Non so all’inferno, ma a Miami faceva caldo” gli rispondo. “Le donne girano in bikini a novembre.” Donne e bikini nella stessa frase sembrano accendergli qualcosa nel cervello ma non riesce ad elaborarlo, così mi dice che sono uno stronzo perché non sono tornato prima.
“Non era mia intenzione tornare, Eko,” gli faccio notare. “Ho dovuto.”
Eko non mi chiede perché me ne sono andato, né perché non avessi intenzione di tornare. Non può saperlo, non credo che lo sappia almeno, però si fida delle mie motivazioni, qualunque esse siano. Solo che è un tipo semplice e quindi rispetta le mie decisioni ma ci tiene a farmi sapere che gli è dispiaciuto.
“Sei stato uno stronzo comunque. Qua è stato un casino.”
Si mette a mangiare pistacchi anche lui e io sospiro. “Me lo merito.”
“Certo che te lo meriti. Sei uno stronzo,” annuisce con convinzione quindi inchioda immediatamente Chakuza di ritorno dalla cucina. “Lo stronzo sta a due isolati da qua. Ci puoi pensare?” Gli chiede. “Da due settimane. E indovina dov’è stato prima, per tutto questo tempo.”
Vedo Chakuza scuotere la testa. Quando dice: “…non ne ho idea. Sotto terra?” guardandomi allucinato, mi viene da ridere.
“A Miami!” Sbotta Eko, allargando le braccia.
Chakuza continua a guardare me e so che nella sua testa c’è un giudizio molto più feroce di quello di Eko. Tutte le emozioni di Peter sono violente, non ha mezze misure. E se la sua felicità di norma è incontenibile e contagiosa, le cose si fanno problematiche quando s’incazza. Io e lui siamo sempre andati molto d’accordo, solo che io non sono mai morto e lui non è mai stato costretto a combattere per la mia memoria, quindi forse devo aspettarmi che voglia smantellarmi pezzo per pezzo.
“Bushido, tu eri morto,” mi dice. E lo fa in maniera diversa rispetto ad Eko.
Chakuza sta cercando di trovare un senso alla mia persona perché in effetti lui non crede ai fantasmi, lui crede agli esseri umani. Solo che se sono seduto qui di fronte a lui significa che non sono mai morto e forse sta cercando di capire cosa deve farsene di questa informazione perché è bella grossa, e io lo so che lo é. Sono morto, Chaku, e sono risorto. Una cosa per volta. “È complicato da spiegare, Chaky,” mormoro. “Ma vi dirò tutto, piano piano. Prima, però, ho delle questioni da risolvere.”
In realtà mi sto chiedendo come posso spiegargli tutto quanto e come posso risolvere la situazione. Mi chiedo anche come riuscirò a lasciare questa città dopo questa giornata. O come farò ad affrontare David che, dopo aver messo il burro in frigo, scoprirà che non sono in casa, che sono uscito a piedi e che ho combinato questo casino. Forse morirò di nuovo, quindi alla fine risolverò il problema così. In quel momento suona il campanello e io cambio istintivamente il modo in cui guardo le cose. Non sono più qui con Eko e Chakuza. Sono qui e dietro quella porta c’è Fler.
“Mbe’?” Sbotta Eko, senza muoversi. “È il tuo uomo, tu l’hai chiamato, vai ad aprirgli.”
Io rido ma il suono che esce dalle mie labbra non è quello che vorrei. Non ho pensato nemmeno per un attimo che a suonare il campanello possa essere stato il ragazzo delle pizze che Eko sta aspettando. Io so che si tratta di Fler. Mi pare quasi di vederlo, alto e un po’ sgraziato – come siamo sempre stati io e lui perché siamo troppo alti e muoverci eleganti non è mai stato il nostro punto di forza. Non so in che modo Chakuza lo abbia chiamato qui, se sa che ci sono o se vuole dirglielo quando arriva, però non vedo l’ora che lo faccia.
Chaku spunta di nuovo in salotto dopo qualche istante. “Atze,” mi dice, un po’ confuso. “Senti, c’è Fler.”
Patrick non ha bisogno di essere annunciato.
“Non ho mica bisogno del permesso, per ricevere udienza, io.Ho il lasciapassare automatico.”
E lo sa.

*


Io non mi sono alzato. Seduto com’ero l’ho solo guardato come ho sempre fatto e lui ha reagito come volevo che facesse. Si è seduto sul tavolino, così vicino che ho dovuto spostare le gambe. L’ultima volta che siamo stati a questa distanza ci siamo tirati due coltellate e adesso abbiamo la possibilità di ricominciare tutto da capo. Di stare seduti, guardarci e dire quello che dovevamo dirci quella notte, prima che sentissi il suo sangue sulle dita, prima che lui sentisse il mio e poi tutto precipitasse. Non aver detto a Fler che quello sguardo alla finestra l’avevo capito era uno dei miei due rimpianti.
“Ero lì, quella notte, perché volevo dirti che eravamo a posto, Atze.” Me lo dice, ma lo so. C’era un gioco che facevamo quando Templehof non era ancora del tutto nostra e stavamo svaccati le ore su un muretto che Fler aveva appena taggato. Quando gli capitava qualcosa, bella o brutta che fosse, era raro che io non lo venissi a sapere. Così quando ci annoiavamo lui cercava di sorprendermi, dicendomi qualcosa che non sapevo. Se era stato con una donna, se aveva recuperato del denaro, se aveva comprato, rubato o sistemato qualcosa. Io lo sapevo sempre e lui si intestardiva. Alla fine, quando capiva che non c’era niente di lui che non sapessi, sospirava. A volte sembra quasi che se non le sai tu, le cose non siano successe per davvero, diceva.
E io ridevo. Ora che mi sta dicendo questo, capisco che è lo stesso gioco. “Ero lì sotto per questo,” ripete ancora, guardandomi dtritto negli occhi. “Non sono stato io. Volevo dirtelo. Non sono stato io. E siamo a posto.”
Io sorrido. “Lo so,” mormoro.
E se io lo so, allora è successo davvero. Mi chino in avanti, gli sfioro quasi la fronte. L’ultima volta che mi è capitato di farlo è stato molto tempo fa. Lui era molto piccolo e a me sembrava di essere troppo grande. Lo penso anche adesso che non è più un bambino e non trema più. “…non so come chiamarti,” rido alla fine. “Ragazzino, Frank, Fler…”
“Patrick andrà bene, Anis,” sorride lui.
Patrick va benissimo. Patrick era lui quando l’ho conosciuto. Era lui quando si metteva nei casini e allora doveva ricordarsi che Frank White e Fler erano nomi che doveva meritarsi. Erano nomi senza cazzate. Patrick è come lo chiamavo quando le cose erano importanti. Quindi, Patrick andrà bene perché c’è stato un tempo in cui per le strade solo lui mi chiamava Anis.
“Io comunque non sono tornato dall’altro mondo per una rimpatriata,” alla fine mi alzo perché Fler sa già tutto quello che doveva sapere. Con o senza parole. Lo lascio su quel tavolino e vado verso Chakuza che si è tenuto in disparte quasi quanto Eko. Sono ben consapevole di essere inopportuno con certe persone della mia vita. E’ che sostanzialmente me ne frego. “Potrà sembrarti assurdo, Chaky, ma sono venuto per parlare con te.”

*


Quello che è successo dopo, non ho bisogno di spiegarlo di nuovo.
Bravo ha pubblicato le mie foto, Bill le ha viste e ha voluto incontrarmi. Da quel momento in poi, le cose non hanno fatto che peggiorare. David, già furioso perché avevo parlato con Chakuza, ha seriamente rischiato di uccidermi dopo che ho incontrato Bill. La Universal ha cominciato a fare pressione per riavermi sul palco e sono ossessionato dai giornalisti che non mi fanno quasi uscire di casa. In tutto questo, Bill è praticamente sparito. Non l’ho sentito, non ha risposto al telefono e David non ha voluto darmi informazioni. So di avergli rovinato la vita per la seconda volta, ma non ho capito che cos’ho fatto, di preciso, in quella stanza, dopo che abbiamo fatto l’amore. Vorrei capire perché l’ho fatto piangere.
Per questo mi sembra assurdo trovarmi qui, adesso, nella cucina di casa mia, a tagliare verdure insieme a Fler, in attesa che l’Ersguterjunge tutta – al gran completo – si presenti a cena.
Una settimana dopo il mio incontro con Bill, cioè sette giorni di silenzio, con il Bild incollato al culo e David che ostinato non mi spiegava niente – Fler ha aggiunto pettegolezzo a pettegolezzo presentandosi a casa mia senza uno straccio di copertura. Io torno in vita e lui bussa alla porta di casa mia come niente. Come se non ci fossimo mandati a fanculo per anni. Bussa, saluta con la mano i paparazzi ed entra.
“Anis,” mi dice togliendosi il giubbotto e svaccandosi sul mio divano come lo avessi invitato a farlo, cosa che non ho fatto. E comunque non capisco nemmeno perché è qui. “Ho un’idea bellissima.”
“Ti rendi conto che chiunque ti ha visto entrare qua dentro?”
Lui annuisce.
“E non ti sembra strano?”
Lui mi guarda e ride divertito. “Più strano di te che torni dal regno dei morti? No, non direi,” commenta. “Dirò che volevo sincerarmi che fossi tu. In fondo sei un Atze, ti devo rispetto. E’ sempre stata una cosa così. Ora mi fai parlare?”
Sospiro e mi lascio andare seduto sulla poltrona, stavo scaricando i nervi sul sacco della palestra ma non è servito a granché. “Forza parla, allora. Quale idea?”
“Ci vuole,” mi dice sollevando il braccio per puntualizzare le sue parole. “Una cena.”
“Una cena?”
“Sì, per festeggiare il tuo ritorno,” spiega lui.
Ora che sono qui a tagliare verdure nella mia cucina - che non è la cucina della casa gialla perché qua è ancora tutto troppo un casino per poter recuperare la mia villa, ma lo farò, sia chiaro. Visto che rimango qui, voglio farlo nella mia casa – non ho idea del perché gli ho dato retta. L’ultima volta che ho visto Bill, mi ha mandato a fanculo. E gli altri non mi hanno ancora mai visto da vivo.
Come può una cena a casa mia essere auspicabile?
Fler però ne sembra convinto. L’ho messo a pelare patate, come ce lo mettevo quando di anni ne aveva quattordici, mia madre non c’era e lui veniva a stare da me. Anche da ragazzino sapevo che non si poteva vivere di solo kebab, quindi ogni tanto preparavamo qualcosa noi.
Io non amo cucinare e non sono nemmeno capace. Karima aveva preparato delle piccole guide per quando lei non c’era ed ero in casa da solo. Non ho mai capito come decifrarle. Nel corso dell’ultimo anno però, per forza di cose, ho imparato qualcosa. Certo avrei potuto vivere di take away ma non so quanto avrei resistito prima che mi si rivoltasse lo stomaco.
Così adesso sto cucinando. Io. Con Fler che pela patate per una cena che non ha senso.
“Sono arrivati,” esclama, saltando giù dallo sgabello e lasciando andare coltello e patate. “Vado ad aprire.”
Io ho quasi la tentazione di fermarlo. Mi sembra più sensato spedirli tutti quanti a cena fuori a spese mie che non farli accomodare nel soggiorno apparecchiato. Qualunque cosa io voglia, comunque, sono in ritardo per ottenerla. Fler ha già aperto la porta e sento la voce nasale di Eko che chiede cosa c’è per cena.
“Ora lo vedi,” risponde Fler.
“Hai cucinato tu?” Esclama Eko. E sembra inorridito, ma non in modo fastidioso. In quel modo che tu sai che sta scherzando anche se probabilmente fa la faccia schifata. E Fler ride di gusto. Mi rendo conto che non so esattamente cosa sia successo mentre ero via se Eko e Fler – Eko e Fler! – sono arrivati al punto di giocare così.
Sto ascoltando il casino che fanno nel corridoio. Parlano tutti insieme come ragazzine e io distinguo con esattezza ogni singola voce. Quella allegra di Kay, il suono basso e roco di Bizzy e quello ancora più basso e più roco di Chakuza che li sovrasta tutti anche quando sussurra. In mezzo ai miei ragazzi i saluti di Bill sono ancora più chiari e squillanti perché la sua voce viaggia su tutt’altro tono. Dietro di lui, la voce di suo fratello Tom – chi ha chiamato Tom? – e Cassandra.
“Lui dov’è?” Chiede Nyze.
“In cucina. I cappotti vanno nell’altra stanza,” risponde Fler. “Non c’è l’attaccapanni in questo buco.” Finisce di parlare mentre rientra in cucina. Ha la testa ancora rivolta verso il corridoio quando lo afferro. “Tom e Cassandra?” Chiedo. E mi rendo conto che i due nomi insieme suonano come … che ne so, David e Kitty Kat.
Fler fa un sorriso che sembra una smorfia, più che altro. “Nemmeno questa ti era arrivata, vero?”
“Questa cosa?”
“Sei vivo davvero.”
Cassandra parla gettandomisi addosso, quindi non posso chiedere delucidazioni a Fler perché sono troppo impegnato a non soffocarmi tra i riccioli di questa donna. “A quanto pare,” e mi concedo anche un sorriso fascinoso.
Lei mi osserva per qualche secondo, intensamente. “Stai bene?”
Io annuisco, intenerito. “Tutto intero.”
Cassandra mi tira una sberla disumana e finisco per frustarmi da solo con i capelli.
“Stronzo,” sibila.
“Ma sei impazzita?”
“E ringrazia che non te ne dia di più,” replica lei, mentre tutti gli altri ridono. Poi mi getta di nuovo le braccia al collo e mi stringe forte. “Ci sei mancato, cretino.”

*


La cena non è stata il disastro che doveva essere, anzi, a dirla tutta non è stata niente di particolarmente eclatante se si esclude che siamo uno sproposito intorno ad un tavolo inadatto allo scopo, in una stanza ancora più inadatta. Sembrano i pranzi a casa di Raf Camora quando c’è anche solo metà della sua famiglia. Italiani. Comunque sia, a parte la tensione sugli antipasti ed Eko che mi chiede di nuovo se le donne di Miami giocano con le noci di cocco – non so perché abbia questa fissazione. A me la sola idea inquieta – tutto è filato liscio.
Mi hanno fatto ogni genere di domanda ma sono stati tutti ben attenti a non chiedermi le motivazioni. Ho descritto Miami meglio di una guida turistica e per tutto il resto, Fler ha tenuto banco. Ancora mi stupisco che nessuno a quel tavolo abbia avuto da ridire sulla sua presenza. A quanto ho capito, fra una cosa e l’altra, passa il suo tempo libero all’Ersguterjunge. Eko lo chiama il Senzatetto e a volte di lui dice cose che non capisco, a differenza degli altri. Fler ha riso, lo ha mandato a fanculo. Ci sono battute che mi sfuggono e che nessuno spiega.
Bill ha sorriso un paio di volte, ma non a me. E non ho avuto il tempo e il modo di chiedergli come sistemare le cose o anche solo se vuole sistemarle. La distanza che ci separa da una parte all’altra del tavolo un po’ mi pesa ma direi che non posso pretendere niente. Mi rendo conto che sono tutti quanti andati avanti senza di me. Devo recuperare più di dodici mesi di vita, tra cazzate e cose serie e di certo non potevo sperare di aggiornarmi con una cena.
Mentre lo guardo senza rendermi conto di farlo, Bill si alza e inizia a radunare i piatti.
“Aspetta, Principessa,” lo chiama Eko. “Facciamo dopo.”
Bill sorride ed è incredibilmente adorabile. Ha addosso solo un paio di jeans e una maglietta ma, come al solito, splende lo stesso. “Non preoccuparti, non è un problema,” dice.
“Ti do una mano,” si offre Chakuza. E li vedo sparire entrambi in cucina.

*


Io ho pensato che questa potrebbe essere l’occasione buona per parlare un po’ con Bill, dal momento che non credo di potergli chiedere di fermarsi dopo cena. So che è venuto con Tom e Cassandra – e ancora non mi sono abituato a questi due. Tom deve rendermi conto – e so che il biondo non lo lascerebbe qui. So che Bill non vuole restare, quindi se voglio parlargli forse posso farlo adesso. Ho recuperato qualcosa da portare di là e mentre percorro il corridoio ho ancora addosso l’occhiata di Fler, una delle poche della mia vita che non ho capito.
In cucina, però, non ci entro nemmeno.
“… magari dovremmo parlarne,” Chakuza sussurra ma non può farlo davvero con quella voce. Le parole vibrano su frequenze assurde. “Non ti sembra?”
Io mi fermo appena fuori dalla porta perché il tono che sta usando e quello con cui Bill gli risponde, non mi piacciono affatto. C’è qualcosa che non va.
“Non so che cosa dirti, Peter.” Bill risponde altrettanto piano.
“Allora direi che abbiamo un problema.”
Sento la tensione nella stanza. E’ una cosa quasi fisica che riempie tutto lo spazio della cucina e mi arriva di riflesso. Sento Bill tendersi anche solo dal modo in cui inspira. “E’ complicato,” dice.
“No, Bill, non è affatto complicato,” protesta Chakuza. “Non è una notte, non sono due. Sono nove fottutissimi mesi.”
“Lo so.”
“E allora se lo sai forse sarebbe il caso di agire di conseguenza,” insiste Chakuza. Ne segue un silenzio di qualche istante e io non so se entrare. Chakuza decide per me. “Tu non vuoi dirglielo,” esclama alla fine, e lo sta evidentemente capendo adesso. “Tu non gli vuoi dire che stiamo insieme!”
“Non ho detto questo!” Bill alza la voce e dice anche qualcos’altro ma io non sento niente a parte il sangue che mi va alla testa. Non so cosa mi trattenga dall’entrare in cucina. Probabilmente il fatto che stanno parlando, che voglio capire. Che se devo ammazzare qualcuno voglio farlo con cognizione di causa. O forse, molto più probabilmente, mi trattiene il fatto che so perfettamente di non avere diritto su niente. Anche se Bill è mio.
“Allora dimmi cosa devo fare!”
“Dobbiamo parlarne adesso?” Bill ha alzato la voce, lo sento che si muove per la cucina. Sposta oggetti che tintinnano e mi chiedo se non sia il caso che me ne vada. Invece resto, appoggio la testa al muro e li ascolto.
“Sì dobbiamo parlarne adesso perché è una settimana che non ti fai sentire,” protesta Chakuza e sbatte i piatti così forte sul tavolo che non mi sorprenderebbe se li avesse rotti. “Quindi, visto che non rispondi al telefono e non ti fai trovare, sì, dobbiamo parlarne adesso.”
“Ho solo bisogno di tempo.”
“Per cosa?” Insiste Chakuza. “Per buttarti di nuovo tra le sue braccia come due settimane fa?”
“Io non…”
“No?” Chiede ironico. “Lo hai baciato e non ti sei nemmeno accorto che ero ancora lì.”
Stringo i pugni e non so nemmeno per quale dei mille motivi lo sto facendo. Odio il tono con cui lo sta trattando e odio che abbia ragione. Odio che Bill gli abbia dato un motivo per avere ragione. Odio che siano in questa cucina, che abbiano qualcosa da dirsi e che io non abbia una buona motivazione per incazzarmi, anche se lo sto facendo comunque.
“Peter…”
“Bill.” E’ ancora silenzio. E io vorrei vederli. Vorrei vedere Bill che non risponde e Chakuza, perché me lo immagino vicino a lui. “Non prendermi per il culo, okay?”
“Non lo sto facendo.”
“A me sembra di sì. Pensavo che ci fosse qualcosa a questo punto.”
“C’è qualcosa, “ sospira e rotea gli occhi. So che lo fa. “Peter c’è qualcosa. Lo sai. C’è molto più di qualcosa. E’ solo che… lui è Anis. Ed è vivo.”
“Quindi?” Chakuza lo incalza e lo so cosa sta facendo. Lo farei anche io. Bill tende a non parlare quando qualcosa di strano gli passa per il cervello, così è meglio tirarsele addosso le cose, farsele dire. “C’è qualcosa ma tanti saluti e grazie, Peter?”
“No!” Il primo è forte e chiaro, il secondo è dolce. “No. Ho solo bisogno di tempo, d’accordo? Peter, ascoltami. Peter! Devo .. devi lasciarmi il tempo di sistemare le cose. Non è facile, che tu ci creda o no.”
Chakuza è a due passi dalla porta, vedo l’ombra che attraversa la soglia. “E’ stato più facile farsi scopare, immagino.”
Io lo ammazzo.
“Spero che tu non stia pensando quello che credo.”
“Dimmelo tu cosa devo pensare, allora,” replica Chakuza. Tra un attimo lo vedrò spuntare dalla porta. Vedrò spuntare anche Bill, quindi mi sposto.
“Hai almeno una vaga idea di cosa significhi tutto questo per me?”
“Vorrei solo che ti rendessi conto che non puoi semplicemente fare finta che non esistiamo, cazzo!”
“Abbassa la voce,” la Principessa ha un tono autoritario. Un tono al quale anche Chakuza si piega. Il picco di tensione aumenta di botto, come un’ondata. E schifosamente elettrico, poi scema, esattamente come un’onda, sulla voce di Chakuza. “Bill…”
Bill sospira. “Non rendermi le cose più difficili, Peter,” mormora. “Sistemerò tutto. Solo…dammi il tempo.”
Vedo l’ombra della mano di Chakuza accarezzare la testa di Bill e non rimango abbastanza a lungo perché sul pavimento resti un’ombra soltanto. Lascio il vassoio sulla prima superficie disponibile. Fler m’incrocia sulle scale che portano al piano superiore ma qualunque cosa mi chieda non gli rispondo. “Manda via tutti,” dico. “Pensaci tu.”
In testa ho il vuoto perché mi rifiuto di pensare.
Mi rifiuto di vedere le cose come stanno, di accettare che neanche due settimane fa Bill è entrato in questa casa e non ha parlato, che abbiamo fatto l’amore e lui stava con Chakuza. Che Chakuza si è permesso di mettergli le mani addosso. Che io abbia sentito quei due parlare.
Fino a qualche minuto fa, niente di tutto questo era mai successo.
Ma ora che lo so, adesso che lo so io, allora è vero.

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I'm An Outsider Outside Of Everything

di lisachan
Per sapere che Bushido era ancora vivo, io ho dovuto fisicamente estorcere l’informazione a mio fratello, costringendolo in un angolo e schiacciandolo fra me stesso e la parete intrappolandolo fra le mie braccia finché non si fosse deciso a parlare e raccontarmi tutto. È stato in questo modo che ho appreso che io e lui eravamo venuti a conoscenza della cosa nello stesso modo, cioè attraverso la dannata rivista.
Quando mi sono ritrovato quella copertina davanti, la prima cosa che ho pensato è stata “Che cazzo, Bushido non andrebbe mai in giro con una fottuta coda”. E quindi, a quello che stavo guardando, non ho dato un centesimo.
Ho chiamato Bill, però, perché supponevo potesse avere voglia di smadonnare un po’. Cioè, trovi una roba così su una rivista del cazzo, ti viene un po’ voglia di tirare giù i santi uno per uno e dire loro cosa esattamente pensi delle loro sacre persone.
E invece niente. Chiamo, squilla, lui non risponde. E io mi preoccupo, ovviamente. Perché penso “Dio mio, se Bill è in quel periodo del mese in cui finge di avere il ciclo per ricordarsi che il suo obiettivo primario è diventare il più possibile donna senza farsi tagliare via l’uccello, allora ci sta anche che l’abbia presa un po’ tanto male. E quindi magari, più che avere voglia di tirare giù i santi, ha avuto voglia di piangere”.
Insomma, alzo il culo e mi muovo. Se Bill sta piangendo fino a sputare i polmoni, mi dico, è giusto che non stia da solo a farlo. Penso: magari se mi sbrigo arrivo pure prima di quella piaga sociale di Chakuza, che al momento, peraltro, sta così fottutamente appiccicato al culo di mio fratello da darmi da pensare voglia farci tutt’altro che starci solo appiccicato, a quel culo. Prima o poi dovrò prenderlo di petto e dirgli che è inutile che ci speri, a mio fratello piacciono alti, scuri e pericolosi, e lui non è niente di queste tre cose. Fler – che pure è tanto bianco che, appena fa un po’ di fatica, tira fuori un paio di guanciotte rosse neanche fosse Heidi che sono una cosa spassosa – al suo confronto è una minaccia molto più consistente. Anche se a Fler potrei anche darlo, mio fratello. Anche perché, tanto per cominciare, sa maneggiarlo, che con Bill non è una cosa così scontata. Anche Bushido, a volte, faticava a domarlo. Fler invece ci va in scioltezza. Senza problemi. E poi, andiamo, è Fler. Palesemente non potrei mai rifiutargli nulla.
Comunque, niente. Arrivo a casa sua e mi faccio tutto un filmino per il quale, quando mi aprirà e vedrà che sono io, mi si getterà fra le braccia chiamandomi piano fra i singhiozzi – “Tomi, Tomi!” – ed io potrò fare la parte del fratello maggiore adulto, maturo e comprensivo – che poi mi si adatta un casino, perché mi fa sempre bellissimo – e consolarlo stringendolo forte ed accarezzandogli i capelli, per poi piazzarlo con una pizza in grembo davanti a The Notebook fino a rincoglionimento totale e successiva nottata passata a dormire avvinghiati sul divano. Come da copione, insomma.
E invece niente, di nuovo. Mi accoglie il vuoto, Bill non c’è, ‘sticazzi. Medito se tornarmene a casa, ma poi mi dico “che diamine, magari era fuori e non lo sa ancora. Allora, a questo punto, è meglio che mi trovi qui, così potrò essere io a dirglielo”. E giù altri filmini con me – fratello perfetto – che mostro quella roba a Bill – piccolissimo e sconvolto – e dopo lo rassicuro dicendogli “vedrai, ora ne parliamo con David. Li lasciamo in mutande, quei bastardi”.
Comunque, resto lì armato di buone intenzioni e di infinita pazienza, ad aspettare che mio fratello torni da… dovunque si trovi. E resto lì le ore. Tant’è che a un certo punto mi rompo pure le palle ed uso il doppione delle chiavi per salire e infilarmi nel suo appartamento, dove mi svacco su uno dei divani e poi continuo a restare in attesa finché non sento il rombo del motore dell’Audi di David, che ormai conosco a memoria. E mi chiedo, in effetti, cosa ci faccia Bill con David. Però sono troppo cretino, forse, o forse troppo ingenuo, e comunque quella cosa sulla rivista non l’ho mica presa così sul serio, perciò tutto ciò che faccio è saltare in piedi e muovermi anche con aria piuttosto rabbiosa verso la porta, spalancandola nello stesso identico momento in cui mio fratello viene fuori dall’ascensore.
Disfatto.
Non si aspetta di vedermi, e quando mi inquadra spalanca gli occhi arrossati e stanchi.
- Tomi… - sussurra appena, immobilizzandosi sulla porta. – Come… perché-
- Dove cazzo sei stato?! – lo attacco io, preoccupato dai suoi lineamenti tesi e dalle tracce evidenti di pianto che ancora gli rigano le guance, - Cristo, non hai neanche portato con te il telefono! Mi sono preoccupato!
Bill si passa una mano sugli occhi, sospirando profondamente, e poi mi supera, infilandosi nel niente di spazio che c’è fra il mio corpo e lo stipite della porta.
- Tomi, per favore… - mugola, dirigendosi verso il frigorifero ed aprendolo alla ricerca di qualcosa da bere, - Oggi non è proprio giornata.
- Cazzo, no che non è giornata. – borbotto, e fanculo a tutti i buoni propositi del dirglielo con tatto. – Hai visto il Bravo di oggi?
Bill riemerge dal frigorifero con un bottiglia d’acqua in mano, e appena sente la parola “Bravo” si congela sul posto.
- …l’ho visto. – risponde in un soffio, senza guardarmi.
- Che stronzi, mh? Ora viene fuori che Bushido è risorto. – butto lì. E lo faccio con cattiveria, visto che quando qualcuno in qualche parte del mondo pronuncia il suo nome, Bill sta fisicamente male. – Il prossimo passo qual è, la santificazione?
Bill si volta a guardarmi con una calma raggelante. Non dice una parola, ma solo a cercare di leggere cosa c’è nel fondo dei suoi occhi mi salgono i brividi per tutta la schiena. Manda giù un altro sorso d’acqua, poi posa la bottiglia sul ripiano accanto al frigorifero e si asciuga le labbra col dorso della mano, come un bambino. È l’unica cosa che incrina appena la dignità glaciale e del tutto fuori luogo con la quale continua a parlare.
- Non è risorto. È lui.
E potrei ridere, dargli del cretino, mandarlo a fanculo o anche urlargli di piantarla di prendermi in giro. Ma non lo faccio. Perché quest’espressione qui io l’ho già vista, secoli fa. Anche se ormai stavo cominciando a dimenticarla.
Capisco che Bushido non può essere altro che vivo, perché questo è il suo Bill. Quello che s’era portato nella tomba. Ecco, adesso l’ha riportato fuori.
Bill guarda altrove e fa per evitarmi – lo vedo che si allontana verso la camera da letto, perfettamente intenzionato a non dire una parola di più sull’argomento – ma io decido che mi sono rotto i coglioni di non sapere cosa gira per la testa di mio fratello. Da quando mi sono mosso di casa non ho fatto che cercare di immaginare ciò che Bill avrebbe potuto fare o stesse facendo, e non ne ho presa una. Tutto sbagliato. E dire che un tempo riuscivo a capire quali sarebbero state le sue mosse ancora prima che lui le facesse. Ora non mi riesce nemmeno di immaginare cosa stia combinando nel momento in cui lo combina.
Mi alzo in piedi e mi muovo svelto verso di lui, piantando una mano sulla parete così improvvisamente che lui quasi va a sbattere contro il mio braccio. Si ferma appena in tempo e si volta a guardarmi con aria oltraggiata, le sopracciglia inarcate e le labbra piegate in una smorfia infastidita.
- Sono stanco. – mi informa atono, - Voglio andare a dormire.
- Non mi interessa. – rispondo io, sollevando anche l’altro braccio e intrappolandolo perché non possa sfuggirmi. – Cosa è successo?
- Niente. – ringhia a muso duro. Io aggrotto le sopracciglia e mi chino sul suo collo, annusandolo piano. Lui si scosta di pochissimo, trattenendo il respiro. Non è spaventato da ciò che sto facendo. È spaventato da ciò che potrei leggergli addosso.
- Hai scopato. – dico, tornando a guardarlo negli occhi, - Da quanto lo sai? Da quanto vi vedete?
- Non sono cazzi tuoi. – sbotta acido, e mi pressa le mani contro il petto nel tentativo di allontanarmi. Io batto i pugni contro il muro talmente forte che l’eco rimbomba per tutto l’appartamento silenzioso, e Bill mi guarda con aria sinceramente spaventata.
- Lo sono. – rispondo a voce bassa, gli sto così vicino che posso leggergli negli occhi qualunque cosa. Bill, ogni tanto, ha bisogno di essere costretto. – Come cazzo ha fatto? Perché l’hai visto? Perché ci hai scopato, Cristo santo? Da quanto è tornato?
Bill mugola e distoglie lo sguardo, mordicchiandosi un labbro con aria incerta.
- Non… non lo so, Tomi. – biascica, stringendosi nelle spalle, - Non so niente, so solo che è qui. Non volevo-
- Non dire balle. – lo interrompo con un grugnito contrariato, - Forse davvero non sai niente, ma non venirmi a raccontare che non volevi andarci a letto. Non ci saresti andato. – sospiro e mi scosto appena. – Non ti ha spiegato proprio nulla?
Lui non risponde subito.
- Non gliene ho dato veramente il tempo. – ammette alla fine, sospirando pesantemente, - Dice di averlo fatto per me. Dice… che era preoccupato. Che l’ha fatto perché ero in pericolo. Ma era lui quello a cui avevano sparato! Non io! – riprende con più veemenza. Io penso distrattamente che Bushido era in casa di mio fratello, quando è morto, anche se poi non è morto davvero. Penso che, se di fronte a quella finestra non ci fosse stato Bushido, fra mio fratello e tutto il resto, forse le cose sarebbero andate diversamente.
Penso che Bill, come al solito, non stia riuscendo a vedere la situazione nel modo corretto – ricordandosi cioè che esistono altri cervelli ed altri modi di affrontare le situazioni oltre al suo. Così come non ha mai capito perché io abbia distrutto l’intera discografia di Bushido, quando mi ha detto che stavano insieme, non riesce a capire perché Bushido abbia deciso di distruggere la propria vita, quando ha scoperto che stare insieme a lui era troppo pericoloso. È evidente.
- …come ha fatto? – chiedo quindi, allontanandomi da lui e lasciandolo nuovamente libero di muoversi, - Come c’è riuscito?
- A sopravvivere? – chiede lui di rimando, sorridendo amaramente mentre ricomincia a respirare, - O a starsene nascosto fino ad ora?
Io rido appena.
- Entrambe le cose.
La voce di Bill mi fa eco con una risata uguale.
- Non so neanche questo. – risponde con un sospiro, - Però c’entra David.
- Gli ha offerto i propri organi in regalo? – scherzo, - L’ho sempre detto io che il modo in cui lo guardava non mi tornava…
- Ma no! – ride più apertamente Bill, coprendosi le labbra con una mano, - Non c’entra col fatto che sia sopravvissuto, credo. Però con tutto il resto sì.
Io annuisco e per la testa mi passano pensieri di ogni tipo – dall’andare a pestare David finché non mi abbia spiegato per bene in che cazzo di casino si sia andato a ficcare lui trascinandosi dietro noi tutti quanti insieme, all’andare a fare la stessa precisa identica cosa anche con Bushido, per gli stessi precisi identici motivi e con gli stessi precisi identici intenti – e mio fratello nel mentre smette di ridere – la sua risata si spegne sfumandosi nel silenzio come un vecchio disco di musica anni Sessanta o chessò io – e si lascia andare seduto sul divano. Non sembra più tanto intenzionato a restarsene solo a piangersi addosso, e questo mi sta bene, perciò mi siedo al suo fianco e gli passo un braccio contro le spalle, stringendomelo addosso e coccolandolo un po’.
- Tomi… - si lamenta a bassa voce, nascondendo il viso sul mio collo, - Ho fatto una cazzata enorme.
Io annuisco perché sì, me ne rendo conto che andare a letto con Bushido sia stata una mossa un tantino avventata. Però io, in quel momento lì, non so un cazzo. Io mi sto davvero solo illudendo – come al solito – di avere vinto. Di sapere cosa ci sia nella testa di mio fratello.
Probabilmente io ho smesso di sapere con esattezza cosa ci sia in quella testa a diciassette anni. E non ho più ripreso.
Che sia stata una mossa un tantino avventata, perciò, è tutto ciò che penso. E lo stringo un po’ di più, e quando gli dico “si sistemerà tutto” lo faccio credendoci. Proprio perché non so un cazzo. Non si sistemerà niente, invece. Adesso che osservo mio fratello sbiancare mentre Bushido gli dice che sa tutto, invece, è molto più chiaro che non si risolverà proprio un bel niente. Ed io, in tutto questo, riesco solo a pensare che Bushido sa molto più di quanto non sappia io.
A volte mi sembra quasi di essere io, quello che è morto perdendosi pezzi della vita degli altri.
*
Cassandra è stata inizialmente solo una scopata, nonché l’unica cosa buona sia venuta fuori dalla frequentazione forzata di rapper cui mi ha costretto per lungo tempo il fatto che mio fratello andasse a letto col capobranco. Seriamente, io avrei fatto volentieri a meno di essere controvoglia risucchiato in un mondo che credevo il massimo del figo e tutto il resto, per scoprire che tutta la gente su cui avrei scommesso qualsiasi cosa era in realtà un manipolo di deficienti. Voglio dire, Chakuza è un cuoco. Eko un cretino. Io ero felice quando credevo che questa gente fosse gente pericolosa. Ero felice di odiare mio fratello perché stava infilandosi in un mondo oscuro e potenzialmente mortale. Ma questo ho potuto pensarlo per qualche mese, prima che – per forza di cose, perché ci mancava l’aria, altrimenti – io e Bill ricominciassimo a frequentarci e parlare. Quindi, tolti quei pochi mesi all’inizio, ho dovuto comunque fronteggiare più di due anni di frequentazione. Sarebbe stato veramente drammatico se, oltre alla distruzione dei miei miti infantili, io non avessi ricavato nient’altro.
Ok, ho conosciuto Fler, d’accordo, questo teoricamente sarebbe dovuto bastarmi anche senza Cassandra. Intendo, Fler è l’unica cosa che sia rimasta pressoché intatta di tutti i miei miti, perché è un figo davvero. Cioè, al di là di qualsiasi cosa si potesse dire di Bushido – compreso il fatto fosse palesemente un pedofilo; magari non violentatore, ma pedofilo di sicuro – era ovvio che lui fosse l’unico vero gangster del mucchio, in mezzo a gente che c’era entrata per caso. E Fler è uguale, però meglio perché non è uno stronzo intollerabile come invece Bushido è sempre stato, è ancora e sempre sarà se la Morte non si accorge di esserselo lasciato sfuggire e non viene a riprenderselo. Al di là di Fler, comunque, sono tutti veramente da prendere e buttare nel cesso, dal lato dell’Ersguterjunge. Ed infatti Fler non è dell’Ersguterjunge. Quelli dell’Aggro mi sono rifiutato di incontrarli, comunque; non vorrei ritrovarmi a scoprire controvoglia che Sido fa la maglia guardando Verbotene Liebe in pausa pranzo.
Comunque. Cassandra, dicevo. È un po’ inquietante che io volessi parlare di Cassandra e sia finito a raccontare quanto profondamente apprezzi Fler. È che lui è tipo una roccia, avreste dovuto vederlo quel giorno in cui è venuto a prendere Bill a casa per portarlo fuori – c’è stato un periodo, dopo quella notte tremenda, in cui solo lui portava Bill fuori, perché Bill voleva in giro solo lui – ed io ero ancora preso malissimo per tutta la faccenda di Saad – “la faccenda di Saad”, sentitemi, sono costretto a parlare per eufemismi, sennò non riesco – e quindi ho ringhiato e pure parecchio, sono arrivato quasi a buttarlo fuori di casa, e lui niente, mi si avvicina con quei fanali azzurri piantati nei miei occhi e fa “non ti ho chiesto il permesso di portare fuori tuo fratello, ragazzino”, che io quando mi sono sentito chiamare in quel modo mi sono pure sentito un sacco a disagio, perché boh, il suo “ragazzino” è Bill e va bene essere gemelli, ma non confondiamo, e comunque niente, mi sono zittito all’istante perché comunque ha un modo di parlarti che è pacato tranquillo pure quando vedi che se ti rifiuti di obbedire ti fa di tutto. Fa un sacco paura Fler, quando ti guarda e ti parla così.
Ma io volevo parlare di Cassandra.
Cassandra era una donna di Bushido. Problema numero uno degli uomini con carisma: quando ti mettono le mani addosso è la fine, una volta è per sempre. Quindi, niente, quando io ho conosciuto Cassandra lei ovviamente già non ci stava più con Bushido, però era ancora una delle sue donne, e per questo motivo metterle le mani addosso è stato assolutamente impossibile fino a quanto Bushido non s’è tolto dalle palle. Contando il fatto che era una dei pochissimi membri della famiglia allargata di Bushido con cui Bill andasse perfettamente d’accordo, e contando il fatto che per questo gravitava tantissimo intorno a casa nostra, potete bene immaginare la tortura di vedere questa bellezza color caramello svolazzarmi sotto il naso a intervalli regolari di una volta ogni due giorni, senza poterla toccare neanche per sbaglio pena morte istantanea preceduta da tortura pubblica nel cortile della Villa Gialla.
Insomma, per tutto il periodo in cui Bill è stato con Bushido, io ho approfittato del fatto che tutti – Bushido compreso – fossero distratti dall’omosessualità emergente del loro capo, ed ho cominciato ad accerchiare Cassie. Non ho fatto nient’altro ed in realtà anche quel poco che ho fatto non è stato niente di eclatante. C’è questo momento meraviglioso, nel corteggiamento, che sta proprio all’inizio; è un momento in cui tu non fai praticamente nulla, ti limiti a dare dei segnali e restare in attesa per vedere se quei segnali sono stati colti e accettati. Perciò c’è stato questo periodo stupendo in cui io e Cassandra non abbiamo fatto che sorriderci.
Non è che le morissi dietro, eh. Anche perché, con l’ombra scura di Bushido a pendere sopra le nostre povere teste innocenti, non è che mi aspettassi davvero qualcosa. Però era un’opportunità, era bella e tanto valeva tenerla da conto. Al più mi perdevo in qualche epica fantasia nella quale, in seguito ad un’esplosione particolarmente forte di tensione sessuale irrisolta, finivo per schienarla contro una parete senza pensare alle conseguenze di quel gesto; a quel punto, Bushido ci beccava ed il resto della fantasia ero io che restavo a fronteggiarlo a testa alta, riempiendolo di botte sotto lo sguardo estasiato sia di Cassandra – che, appena concluso il pestaggio, mi saltava al collo ringraziandomi per averla liberata dal giogo del crudele dittatore – che di Bill – il quale poi diceva a Bushido ancora in terra e sanguinante qualcosa di meraviglioso tipo “Anis… ti credevo un uomo forte”, per poi chinare il capo ed allontanarsi con me e Cassandra nella luce del tramonto, verso un futuro migliore.
Volete far felice un uomo? Dategli un pomeriggio da solo sul divano e la libertà di immaginare sesso, botte e dichiarazioni epiche nelle quantità che preferisce. Avrete salvato una vita. Io me la sono salvata così, per dire – ok, magari non la vita, ma la razionalità di sicuro; c’erano questi momenti in cui la presenza di Bushido, per quanto potessi sforzarmi di ignorarla, era così ingombrante che non mi sentivo libero di fare niente. Sono cose che possono mandarti al manicomio. Soprattutto se non te le sei scelte.
Comunque poi Bushido è morto, ed io non è che abbia avuto granché modo di pensare a Cassandra, tra mio fratello che si deprimeva, mio fratello che cominciava ad impiantarsi notte e giorno a casa del dannato Chakuza e mio fratello che finiva per uccidere libanesi in mezzo a una strada a due giorni da Natale. Insomma, fra mio fratello e mio fratello, non è che avessi granché tempo libero. Come sempre. Mio fratello riempie la totalità del tempo di chiunque gli graviti attorno. Tutti, poi. Anche contemporaneamente. Palesemente non può essere una persona sola. Io ho in realtà tre o quattro gemelli, me ne accoro da queste piccole cose ed anche dal fatto che non è possibile cambiare umore repentinamente tanto quanto fa mio fratello di continuo. Quindi per forza devono essere tre o quattro. Magari Bushido s’era rotto le palle per questo, quando ha deciso di disertare e darsi alla macchia. Comprendo la sua obiezione di coscienza.
Al di là delle cazzate, comunque, anche dopo la roba di Saad sono stato molto preso. Pure troppo preso, nel senso che sono entrato in loop iperprotettivo nei confronti di Bill. Peraltro è un cosa che lui detesta ma che a me serve perché, essendo sempre stati appiccicati come le gomme da masticare alla suola delle scarpe, quando me lo perdo di vista comincio a dare di matto. Sono perfettamente consapevole dell’assurdità di tutto questo e so anche che per Bill non è la stessa cosa – d’altronde, per quanto gemelli, siamo comunque due persone diverse e viviamo le relazioni in modi diversi – ma non posso farci niente. Quindi, in pratica, ho passato tutto un periodo orrendo in cui ho costretto Bill a vivere con me – anche se lui aveva decisamente bisogno di coccole, quindi non si è esattamente lamentato – e non ho permesso a nessuno di avvicinarsi a noi, con l’eccezione di Fler, di fronte al quale ero palesemente impotente e del quale comunque Bill aveva un intenso bisogno.
Da quella situazione, se Cassandra non avesse deciso autonomamente di smettere di sorridere e baciarmi, io probabilmente non ne sarei mai uscito. E in realtà dopo non è che sia veramente successo qualcosa. Solo, niente, ha ripreso a sorridere ma ha anche continuato a baciarmi. E tutto il resto.
Fra me e Cassandra c’è una cosa un sacco tranquilla. Che mi piace tantissimo. E credo di averne il bisogno, adesso – intendo, di tenere fra le mani qualcosa che sia dolce e buono e basta, senza dovermi preoccupare di vederlo crollare fra le mie mani da un momento all’altro. Il ritorno di Bushido, in questo momento, non mi interessa, e soprattutto non mi intralcia in nessun modo, perché Cassandra è forte davvero, e per quanto lui possa insistere con gli sguardi confusi e disapprovanti che mi lancia da ieri, e per quanto possa insistere a chiamarla “stella” anche quando siamo insieme, so che Cassandra è più forte di lui. Ne ho parlato con Fler, dopo quel disastro di cena che ha avuto luogo a casa di Bushido, e lui ha riso. “Donne del ghetto”, ha commentato. Io ho annuito perché mi sa che ha ragione. Sono le femmine, quelle veramente cazzute. Per quanto tutto ciò possa sembrare assurdo.
Tutta questa premessa – su me, su Cassandra, su Fler che non c’entrava ma c’è entrato lo stesso chissà come, e su Bill, naturalmente – io l’ho fatta per spiegare che, a parte le sparizioni settimanali alle quali ultimamente mio fratello si lascia andare e per le quali dovrò decidermi a torchiare per bene David – perché lui non può propinarmi scuse come “Bill è in beauty farm” ed aspettarsi pure che io ci creda – insomma, a parte questo, prima del ritorno di Bushido io stavo conducendo un’esistenza piuttosto felice e tranquilla. C’erano delle cose oggettivamente incomprensibili – il rifiorire immotivato di mio fratello, e non che non mi facesse piacere, ma restava incomprensibile; o l’ombra scura perennemente presente negli occhi di Fler; o la ruga che, sempre con maggiore insistenza, andava formandosi sulla fronte di David, proprio in mezzo alle sue sopracciglia – ma non erano cose che mi infastidissero particolarmente.
Ma ora è tutto diverso. E adesso, in questo salotto, di fronte a questa scenata indecente, di fronte alle lacrime di mio fratello, di fronte all’espressione dura e risentita e soprattutto ferita di Bushido, io devo prenderne atto.
*
Potrei raccontare nel dettaglio la giornata di oggi fin da quando mi sono svegliato, ma sono quasi sicuro che perdermi nella mia testa al momento sarebbe deleterio. Non devo perdermi, devo solo cercare di riassumere le ultime ore della mia esistenza per avere un punto fisso da cui ripartire quando finalmente riuscirò a prendere pienamente coscienza del disastro in atto.
Quindi niente resoconto dettagliato, non mi soffermerò su quanto fosse buono stamattina il profumo di Cassie attaccato alle mie lenzuola, alla mia pelle e ad ogni molecola d’aria che riempiva la stanza; non mi soffermerò su quanto abbia trovato odioso lo squillo del cellulare e non mi soffermerò su quanto mi sia sentito stupido nel rassegnarmi comunque a rispondere alla chiamata appena individuato il nome di Bill sul display. Non parlerò diffusamente di quanto mi sia sembrato strano sentirgli dire “vado da Anis… mi accompagni?” – Dio, come faccio a non parlarne diffusamente? Bill ha sempre visto i momenti di intimità con Bushido come, tipo, cose sacre e inviolabili, per quale cazzo di motivo avrebbe dovuto volermi fra le palle in una situazione come quella? – e non dirò nemmeno quanto io l’abbia trovato teso quando sono passato a prenderlo da casa sua per portarlo all’appartamento in cui Bushido sta per ora; non lo descriverò, anche se potrei dipingerle, le linee corrucciate delle sue sopracciglia, e disegnare il broncio teso e chiuso delle sue labbra.
Però posso raccontare quello che è successo da quando ho messo piede in questa casa, perché questo è importante. Posso raccontare di Bushido tanto scuro da fare paura, colore della pelle a parte. Posso raccontare della paura di Bill, perché me la sono sentita fisicamente addosso per tutto il tempo. Posso parlare del suo imbarazzo quando Bushido gli ha chiesto di andare a prendere da bere in cucina mettendoci meno tempo di quanto non ne avesse perso il giorno prima durante la cena. Posso parlare a lungo della luce tremolante negli occhi di mio fratello e di quella netta e brillante negli occhi di Bushido. Posso parlare di quel momento di immobilità in cui io mi ero già impossessato di un divano su cui svaccarmi e mi stavo ancora chiedendo cosa cazzo ci facessi proprio io e proprio in quel momento in quel dannato salotto, mentre alle mie spalle, fra gli occhi di Bill e quelli di Bushido, scoppiava una guerra tale che avrei dovuto sentirne il clangore anche se fossi stato su un altro pianeta. E invece niente. Invece il silenzio. Posso descrivere ogni sfumatura di quel silenzio – quella tesa, quella angosciata, quella già prematuramente disperata – posso farlo, devo farlo, perché quel silenzio è stato l’ultimo di questa giornata che abbia avuto un significato e sia valso qualcosa.
Poi Bushido ha parlato.
- So tutto.
La sua voce risuona in questo silenzio in maniera così fisica che mi sembra di poterla toccare. È scura e decisa. È molto da lui, così com’è molto da lui dare per scontato la gente capisca a prescindere di cosa stia parlando. Per me non è così ed evidentemente neanche per Bill, che si ferma a metà del salotto e si volta a guardarlo, inarcando appena le sopracciglia.
- Sai cosa? – chiede, forzando un sorriso talmente tirato che io lo guardo e penso “Cristo, Bill. Ma se lo sai già, perché chiedi?”. Ed io, in questo momento, continuo a non sapere un cazzo. Ed è un attimo di confusione che dura veramente pochissimo, solo pochi secondi. Il tempo che serve a Bushido per mettersi in piedi, sollevandosi in tutto il suo fottuto metro e novanta di altezza, e ricominciare a parlare.
- So di te e Chakuza, Bill.
E lì mi esplode il cervello. Perché, non so se vi è mai capitato, ma a volte succede che tu passi in mezzo ad una situazione, no?, diciamo pure che la vivi, ne sei partecipe e tutto, però non la comprendi pienamente. Ci sono un sacco di sfumature che ti sfuggono e il tuo cervello le registra però gli mancano tasselli, e visto che gli mancano tasselli non riesce a ricomporre gli indizi in un quadro che abbia un senso. Perciò quei particolari apparentemente stupidi – il nome di Chakuza che diventa Peter sempre più spesso sulle sue labbra, le fughe continue, i momenti di imbarazzo quando si parlava di lui e così via – tu poco a poco te li dimentichi, li archivi come cose prive di importanza.
E poi arriva qualcuno che invece la soluzione del puzzle già ce l’ha. E gli basta mezza parola, cazzo. Solo mezza. E a te basta sentirla che rimetti tutto al suo posto. E lì o razionalizzi o ti esplode il cervello.
A me esplode il cervello.
In mezzo a tutto quello che potrei pensare – Bill s’è messo con Chakuza; Bill è stato a letto con Bushido; Bill e Chakuza stanno ancora insieme? – io penso solo che è la seconda volta che mio fratello mi butta fuori a calci dalla sua vita. Penso che di tutto questo – di mio fratello che boccheggia a corto d’aria e di Bushido che continua a guardarlo con un misto di delusione e dolore – non mi importa niente. Penso che c’è stato un tempo in cui io e Bill eravamo attaccatissimi. E penso che mio fratello adesso non mi dice più nemmeno quando si innamora di qualcuno. Non mi dice quando è felice, non mi spiega perché lo è e non mi dà modo di gioirne con lui – Bill non ci ha nemmeno provato, a vedere se la mia reazione al sapere di lui e Chakuza sarebbe stata diversa rispetto a quella che ho avuto quando ho saputo di lui e Bushido.
E penso anche che tutto questo è ingiusto. Perché non posso sentirlo quand’è felice, ma in compenso quando il cuore gli batte tanto forte da fargli male lo sento ancora.
- Non hai niente da dire? – chiede Bushido a bassa voce, restando fermo dov’è. Bill deglutisce pesantemente.
- Anis- - comincia piano, ma Bushido lo ferma con un ringhio imperioso.
- Non so se voglio davvero sentirti parlare. – dice d’un fiato, guardandolo dritto negli occhi.
Bill china il capo e le lacrime cominciano a rotolargli lungo le guance in grossi goccioloni brillanti.
- Mi hai chiesto se non avevo niente da dire. Vorrei rispondere almeno a quello.
- Non so se la voglio, la tua risposta! – precisa Bushido alzando la voce e tendendosi tutto verso Bill, che incassa la testa nelle spalle come se l’urto della sua voce lo sentisse addosso né più e né meno di un ceffone.
- …Anis, ti prego. – cerca di calmarlo Bill, parlando dolcemente, anche se non riesce nemmeno a guardarlo e quindi, penso, l’effetto del suono della sua voce è di molto ridimensionato. – Lascia che ti spieghi.
- Cosa vuoi spiegarmi, Bill? – insiste lui, tagliente come una lama, - Vuoi spiegarmi perché mi sei caduto fra le braccia e ti sei fatto scopare nonostante stessi con lui da quasi un fottuto anno? – e si lascia andare ad una mezza risata ironica, incrociando le braccia sul petto mentre Bill serra le palpebre e stringe le labbra. – Quasi un anno! – ripete Bushido, il tono a metà fra il risentito e il crudelmente divertito, - Che bel lutto! Alla prima occasione favorevole-
- Non è stato così, Anis! – esplode mio fratello, stringendo i pugni, ma la sua esplosione non è niente paragonata al rombo della voce di Bushido, pochi secondi dopo.
- Te lo dico io com’è stato, cazzo! – urla, e parla proprio come se fosse stato qui sempre, in ogni momento. Perciò a me un po’ viene voglia di crederci, alla sua versione. – Quanto hai aspettato? Tre mesi? Quanto, prima di buttarti fra le sue braccia? E siete stati felici, fino ad ora? Sei tornato dritto a scopare con lui dopo avermi mandato a fanculo nonostante ti fossi fatto mettere le mani addosso- no, nonostante mi avessi chiesto tu stesso di metterti le mani addosso?!
Bill si copre il volto con le mani.
- Anis, ti prego… - mormora, e la sua voce attutita riempie la stanza in un lamento sofferente. Bushido inspira ed espira.
- Ho capito che voglio che parli, Bill. – dice freddamente, senza staccargli gli occhi di dosso, - Sono curioso di vedere se troveresti un modo di metterla che non ti faccia passare per una qualsiasi di tutte le altre troie che mi sono passate nel letto per tutta la mia vita.
Bill non solleva lo sguardo. Le sue mani stringono appena la presa sulle sue guance e poi scivolano lentamente nel vuoto, lungo i suoi fianchi. E lì restano, ai lati del suo corpo, a dondolare inermi. Seguo il tintinnio dei suoi bracciali e mi concentro su quello, perché preferisco quel suono alla voce di mio fratello che ammette “Non credo che esista, Anis”. Perché dice troppe cose tutte insieme.
Bill, che cazzo.
Che cazzo, Bill.
Bushido non se l’aspetta, comunque. Probabilmente – come me – credeva che si sarebbe difeso. Che avrebbe combattuto, in qualche modo. Che avrebbe cercato di metterla in un qualche modo che non lo facesse sembrare poi così colpevole. E invece mio fratello non esita un attimo per dargli ragione e chiudere il discorso.
Né io né Bushido ci aspettavamo niente di simile. Probabilmente perché né io né Bushido abbiamo la più pallida idea di come sia stato l’ultimo anno della vita di mio fratello. Ed in questo momento di chi sia la colpa di questa mancanza non importa poi neanche tanto.
- Fuori da questa casa. – la voce di Bushido è così bassa e lontana che sembra provenire da un altro luogo. Fa quasi paura. – Non ti ci voglio più vedere, qua dentro. Né altrove. Fanculo, Bill, noi abbiamo chiuso.
Bill solleva lo sguardo e gli punta addosso un paio di occhi enormi di terrore e lacrime.
- No… - mormora senza fiato, - Anis, no.
- Decido io, principessa. – dice lui, guardando altrove. Immagino lo faccia perché non è facile mandare a fanculo la persona per la quale ti saresti letteralmente fatto ammazzare guardandola negli occhi. – Come sempre. Sparisci.
Bill non si muove subito. Resta immobile per qualche secondo e lo guarda. Bushido non fa una piega. Il mondo intero sembra essersi del tutto dimenticato di me, ed io ne sono contento.
Riprendo a respirare solo quando Bushido si sposta e Bill prende quel movimento per ciò che è – un invito estremamente fisico a togliersi dalle palle. Obbedisce, si muove oltre la porta e scompare in corridoio, e lì ricordo che devo per forza andargli dietro – per quanto non sappia cosa dirgli e nemmeno se voglio dirgli qualcosa. O anche solo vederlo, stargli accanto, pensare a lui – primo perché è venuto in macchina con me e secondo perché io non voglio restarci in questa casa con quest’uomo che guarda il vuoto e si morde un labbro a sangue mentre negli occhi gli brucia di tutto. Perciò seguo Bill e lo faccio in silenzio, fino a quando non mi trovo sulla porta. Mentre io sono lì, Bushido lascia andare un sospiro ed io lo sento. Lo sento e non so perché mi sconvolge tanto, però lo fa.
Mi volto a guardarlo, cercando le parole. Non è facile. Non lo è per niente.
- L’ho capito perché l’hai fatto. – dico alla fine. Lui mi solleva addosso uno sguardo estenuato e non risponde. – Perché sei andato via, dico… non ho capito come, ma ho capito perché. – mi fermo un attimo e sospiro anch’io. – Mi dispiace. – aggiungo poi, - Se me ne avessi parlato, l’avrei portato via io.
Bushido serra le labbra e continua a restare in silenzio. Smette anche di guardarmi, però, e quindi decido di andare via davvero. Questo silenzio, stavolta, non sono proprio in grado di sostenerlo. Né di parlarne.

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Alles Verloren

di tabata
Io non sono un uomo buono.
In tutta la mia vita non lo sono mai stato. Gli uomini buoni sono persone che fanno qualcosa di veramente importante per gli altri. Sono quelli che migliorano il mondo, in qualche modo. Io non ho mai pensato di migliorare il mondo, ho sempre pensato a come stare bene io, che da ragazzino significava sfangarla giorno dopo giorno e farsi valere per non essere messo sotto; e poi, più tardi, significava fare i soldi, uscire dal ghetto e far vedere a quegli stronzi che anche un mezzo tunisino poteva arrivare in cima.
Ho fatto quello che c’era da fare per me, e per nessun altro. E non mi sono mai veramente posto il problema se quello che stavo facendo – fosse spacciare, pestare o cos’altro – fosse sbagliato. Non è mai sbagliato fintanto che mi serve.
Sono ben consapevole del mio egoismo, così come lo sono della mia prepotenza. Non si può ottenere quello che ho avuto io chiedendo permesso. Non è così che funziona. Ci vogliono le palle per prendere le decisioni, le cose bisogna guadagnarsele e poi tenersele strette perché c’è sempre gente che crede di poter fare il cazzo che vuole con le tue cose.
Quindi, in sostanza, no, non sono una persona buona e non voglio nemmeno esserlo perché le persone buone sono quelle che vengono sempre fregate. Io l’ho imparato un sacco di tempo fa che ad essere stronzi ci si guadagna. L’avevo dimenticato, evidentemente, ma me lo ricordo ora.
Le ultime sei fottute ore le ho passate chiuso in una stanza a cercare di capire come questo enorme casino sia potuto succedere. Non so che cosa mi dia più fastidio, se il mondo che è andato avanti anche senza di me o se il fatto che è andato avanti in questo modo di merda. Io sono morto per un motivo soltanto. E quel motivo era Bill. Non mi aspettavo che capisse, non mi aspettavo neanche che fosse facile per lui svegliarsi un giorno e non avermi più al suo fianco. Io lo sapevo che sarebbe stato male. Stavamo insieme da tre anni quando ho inscenato la mia morte. Non era più una storiella del cazzo, se mai lo è stata poi. Bill, quando l’ho conosciuto, era un cucciolo viziato. Un ragazzino intelligente e testardo, sì, ma un ragazzino. Gli undici anni che ci separano li sentivamo tutti quanti, ogni giorno. C’erano sempre tra noi perché io non potevo fare a meno di insegnargli a stare al mondo e lui di stare al mondo come gli insegnavo io.
C’è cresciuto, sotto le mie mani. L’ho visto farsi più forte, più deciso, l’ho visto imporsi con i miei uomini consapevole di cosa significasse farsi spazio nel mio mondo con quelle unghie dipinte. Era bellissimo il mio Bill.
Poi un giorno mi rendo conto che fino a quel momento non ho fatto nient’altro che metterlo in pericolo, che lo amo ma non posso oggettivamente proteggerlo in eterno e in ogni luogo. Capiterà che io non sia lì o, peggio, che ci sia e che per colpire me, finiscano per colpire lui. Mi rendo conto, per la prima volta nella mia vita, di avere qualcosa – Bill – che non posso rischiare di perdere. Se me ne sono andato, è stato per proteggerlo davvero come non avevo mai fatto prima. Lui avrebbe dovuto, semplicemente, tornare ad essere quello che era.
Scendo nel garage di questa casa che odio. E’ uno stupido appartamento, c’è troppa gente nel palazzo e io non faccio vita di condominio. David continua a dirmi che sta sistemando le cose per ridarmi la Villa, e intanto mi fa star buono restituendomi la Mercedes. L’aveva lui, come tutto il resto, parcheggiata in un deposito, in attesa che io decidessi cosa farne e me l’ha fatta trovare in garage dopo che ho incontrato Bill, dopo che pensava sapessi ogni cosa, forse. Non lo so.
Stringo le mani sul volante. Da quando ho di nuovo le chiavi non faccio che girare a vuoto, nel tentativo di perdermi ma adesso una strada da seguire ce l’ho. Ingrano la marcia e scatto al verde, le ruote stridono sull’asfalto. Mi è sempre piaciuto correre in auto, e Bill strillava sempre che ci saremmo ammazzati, che dovevo piantarla e gli stavo facendo paura. Si arrabbiava tantissimo, io lo facevo apposta, perché togliergli quel broncio dalle labbra, poi, una volta parcheggiati in qualche posto dimenticato da Dio era una sfida.
Il viso di Bill non mi abbandona. Da stamattina non faccio che rivedere l’espressione che aveva negli occhi quando gli ho chiesto di spiegare. Lo sguardo che mi ha lanciato quando ha detto che non c’era nessuna risposta da dare. Mi aspettavo una litania di giustificazioni e quando non è arrivata, come al solito, ho cercato di capire cos’avesse nel cervello perché l’ho sempre fatto e ce l’ho come abitudine. Le litigate più feroci della mia vita le ho fatte con lui, perché Bill non ti lascia mai l’ultima parola. Se lo accusi, si difende. Se ti difendi, attacca. Non subisce mai passivamente.
In realtà, forse volevo che negasse. Anzi non forse, lo volevo e basta. Se mi avesse detto che non era vero, io lo avrei aggredito – anche più violentemente – perché mentiva, ma sarebbero state soltanto quello: bugie di paura. O di vergogna, non lo so. Chi se ne frega. Se avesse mentito, allora c’erano solo cazzate dietro quella scena in cucina.
E invece così è un’altra cosa. Così è davvero una fottuta relazione, perché Bill lo sa che, cazzo, le bugie coprono solo quello che non ha davvero importanza. Vaffanculo, l’ha imparato da me.
Lascio l'auto dove capita e non sto evidentemente pensando perché, in un quartiere come questo, una macchina del genere non la vedi spesso, quindi fa da catalizzatore per i figli di puttana. Ce li ritroverò intorno come api col miele.
Qui non è Templehof, d'accordo, ma forse è peggio. Li a me la macchina non la ruberebbero, per dire. O forse anche sì, ma poi si pentirebbero.
Quello che mi si para davanti è un palazzotto bianco anonimo, con le finestre tutte uguali. Un mattone grigio in mezzo a tutti gli altri, queste cazzo di case popolari sembrano tutte uguali. E se penso che Bill c'ha passato chissà quante notti, mi incazzo. Cristo, come pensavi che fosse roba per te, eh, Chakuza?
La Principessa poggiava la testa solo su cuscini da trecento euro quando gliel'ho affidato. Solo alberghi a cinque stelle fra quelli che gli pagava David e quelli dove l'ho portato io. Casa sua è un casino di scatoloni, ma sarebbe bellissima se solo avessimo avuto il tempo di sistemarla. Se solo non avesse passato quasi tutto il suo tempo nella mia, di casa, quando ero vivo. Cos'è questo buco? E non so nemmeno perché sto facendo questo discorso, forse perché a qualcosa devo attaccarmi mentre salgo di corsa - il portone é uno schifo, non si è mai chiuso bene - e se penso a Bill che fa tutti questi gradini, e magari li fa stringendolo per mano, come faceva alla Villa quando mi trascinava al piano di sopra, mi sale la rabbia. Quindi vaffanculo, è un posto di merda, e lui non doveva neanche pensare di portarcelo Bill.
Batto due volte sulla porta con tutto l'avambraccio e visto che non apre nei due secondi successivi, ci batto sopra ancora tre volte.
"Che cazzo..." lo sento che bisbiglia, perché Chakuza che bisbiglia è come una persona normale che parla con un tono di voce accettabile. Tiro ancora due colpi, proprio sopra lo spioncino. "UN ATTIMO!"
"Chakuza," ringhio e lo sento tendersi dietro la porta. Stava camminando svelto un secondo fa, e adesso è fermo. A dividerci c'è solo il legno graffiato. Ti sento respirare, stronzo. Lo so che sei lì in piedi e ti chiedi se devi farmi entrare o meno, che ora lo so, quindi sono incazzato. Il punto è, Chakuza, che tu non puoi lasciarmi fuori. Tu mi devi un sacco di spiegazioni. Anzi no, mi devi che ora mi fai entrare e parlo io. Alla fine lo sento aprire le due serrature in alto. Lui abbassa solo la maniglia, la porta la spalanco io, e sono dentro prima che lui mi inviti a farlo.
"Atze..."
"...quale parte del proteggilo e abbi cura di lui era fraintendibile, Chakuza?" Chiedo, avanzando.
Lui arretra e gli leggo negli occhi la paura che hanno tutti quando vai a chiedere conto e ragione di qualcosa che ti hanno preso senza permesso e che si sono tenuti, i bastardi. Io ce l'ho nel sangue questa cosa, bussare in casa della gente e farmi dare quello che mi spetta. Ho nel sangue anche che ogni cosa che ho la difendo coi denti e lui deve smetterla di credere che davvero non gli farò il culo per la cazzata che ha fatto.
"Atze, di cosa stai parlando?"
"Non ti azzardare a mentirmi!" Urlo. "La mia dose di cazzate me l'ha già rifilata Bill due settimane fa. Tu adesso parli, invece." Continuo ad avanzare e sono una bestia per come lo guardo e cammino. Non me ne frega niente, non voglio essere ragionevole.
Lui fa qualche passo indietro, pesta qualcosa e nemmeno abbassa lo sguardo a vedere cos'è, questa casa non è veramete una casa. E' tutto un casino, qui, a cominciare dal proprietario. "Okay, d'accordo," annuisce e respira forte. Pensa, Peter, pensa a cosa voglio sentirmi dire. "Adesso ci sediamo e ne discutiamo, d'accordo?"
"Non c'è niente da discutere," replico. "Dimmi solo la verità. La domanda la conosci."
E lui non ha più così paura, si sta incazzando e questo fa incazzare anche me
Lo vedo che stringe i pugni e serra la mascella. Peter non è uno a cui piace litigare. Le spalle che ha, la forza che ha, non le usa come niente, tanto perché non ha niente di meglio da fare. C'era un motivo per cui lo trovavo affidabile, che era equilibrato nel gestirsi, a modo suo. Magari non capivi un cazzo di cosa gli passasse davvero in testa ma potevi stare certo che non ci sarebbe mai stato lui nei casini per una scazzottata. Vaffanculo, era per questo che avevo scelto lui. Nel suo cervello le cose non si risolvono con la violenza. Poi penso che lui il problema lo ha risolto scopandosi Bill. E soprattutto, lui in quel momento dice: "Sì Atze, la risposta è sì," e io voglio ammazzarlo.
Esistono due tipi di persone: quelle che ti tengono testa perché hanno le palle quadre come le tue, e quelle che credono di poterlo fare. Io non so ancora a che gruppo appartenga lui. Peter mi guarda e io nei suoi occhi leggo la stessa rabbia che so esserci nei miei. Solo che lui non ha nessun diritto di provarla.
Lo afferro per il collo della maglia e lo strattono violentemente. "Non ti azzardare a chiamarmi Atze, Chakuza," sibilo. Atze è per i compagni che ti coprono le spalle. L'onore di usare questa parola lui l’ha perso sul corpo di Bill.
"Lasciami."
Mi dà fastidio il modo in cui continua a fissarmi negli occhi senza battere ciglio. Non dovrebbe, cazzo. Sono io e sono qui per farlo a pezzi. Non sfidarmi Chakuza. Non me. Ringhio e lo schianto contro il muro che ha alle spalle, ma non lo mollo. "Quando cazzo è successo?"
"Otto... nove mesi fa," si corregge.
"Nove mesi?" Lo allontano dal muro e quasi lo sollevo da terra per risbattercelo contro. Nove. Fottuti. Mesi. "Quanto è andata avanti?"
Io lo so qual è la risposta perchè li ho sentiti parlare e gli occhi di Bill, stamattina, non lasciavano dubbi, ma voglio che me lo dica lui. Voglio che sia questo bastardo a guardarmi in faccia mentre mi risponde.
Lui non lo fa. Allarga solo le braccia, e mi irrita, cazzo, allarga le braccia solo per questo. Anche adesso, dura anche adesso. Ecco la risposta.
Che è quello che non voglio proprio sapere, in realtà. Se avessero scopato per niente farebbe meno male. Ma Bill non scopa per niente. Bill lo fa con convinzione e quindi adesso Chakuza mi sta dicendo cose che non voglio sentire affatto, perché anche lui è così. Chakuza scopa un sacco, ma le sue donne se l'è sempre tenute. Non è mai stato quello che vorrei che fosse, adesso.
Contro il muro ce lo sbatto di prepotenza stavolta, batte la testa e lo vedo incassare il colpo con le spalle. "E quando cazzo pensavate di dirmelo?"
"Avrei..." inspira forte "... lo avremmo fatto! Non ce ne hai dato tempo!"
"Tempo un cazzo!" Replico e ce lo sbatto ancora, contro quel muro. "Il fottuto tempo lo avevate, Chakuza. Sono qui da due stramaledette settimane! Che tempo volevi aspettare, eh?" Mi allontano e mi passo una mano sulla testa. Lo fisso e siamo solo a mezzo metro di distanza. Lui è ancora contro il muro. "Tu..." lo indico. "Tu lo sapevi, sei stato uno dei primi a vedermi. Me lo hai portato tu, cristo santo. E a nessuno dei due è venuto in mente di avvertirmi che scopavate, Chakuza? Non posso crederci. Perchè lui? Perchè Bill, cazzo?"
"Non potevo dirtelo prima che lo vedessi," mormora e il tono che sta usando è quello con cui spieghi le cose quando vuoi che vengono accettate prima di farle accettare in altro modo. Quando ci provi ad essere conciliante, un minuto prima di dire che si fa comunque come dici tu. E questo non è il tono che dovrebe usare. Chakuza non ha capito un cazzo. "E poi Bill non.... " espira. "Non lo so perché. E' successo e basta, okay?"
Okay il cazzo. Quando lo sbatto contro il muro, stavolta, sento la parete tremare. Una delle stampe del corridoio cade a terra e la cornice si rompe a qualche metro da noi. "Ti sembra una cazzo di giustificazione, Chakuza? Non lo so perché, è solo successo? Cazzo," continuo a schiantarlo contro il muro. "Ero scomparso da quanto, quando l'avete fatto? Cazzo. Vaffanculo!"
“Bushido…”
“Lo sai cosa mi fa incazzare di più, Chakuza? Lo sai cos’è?” Sono fuori di me. E’ come quando ero un ragazzino e qualcuno mi faceva incazzare di brutto. Tutta la rabbia che avevo mi vorticava in testa senza darmi il tempo nemmeno di ragionare. Era solo una nube, un casino infernale che mi martellava nel cervello e io gli andavo dietro, perché di calmarmi non c’era verso e allora non rimaneva che farsi guidare. In questo modo, però, fai anche un sacco di stronzate, di solito. “Che proprio tu, fra tutti, gli hai messo le mani addosso. A lui, cazzo!”
Il concetto, mentre lo esprimo, mi colpisce con tutta la forza possibile. Fino a qualche istante fa era solo un'idea vaga. Il pensiero che si, Bill sta con lui, che già da solo è insopportabile, ma adesso è ancora più forte nella mia testa: Chakuza lo ha toccato. E Bill gli ha sorriso, lo ha baciato. E' venuto tra le sue dita. Sollevo un braccio e gli fermo il pugno a due millimetri del viso. "Dì qualcosa." Giustificati, stronzo. Voglio sentirti accampare scuse che non hai.
Vedo i suoi occhi che si stringono e mi guardano come se fossi io quello che gli ha portato via qualcosa. "Io non gli ho messo le mani addosso," sibila. "Non parlarne come se fosse un gioco, cazzo!"
"Che cos'è allora? Io me ne vado e tu te ne approfitti. Questo è successo!"
"No!" Mi spintona indietro, furioso. "Sei stato tu a fare un fottuto casino, Bushido! Bella trovata, quella della morte! Bravo!" Continua a spintonarmi. Ad ogni colpo io faccio un passo indieto e lui uno avanti. "Bill era a pezzi, lo sai questo? Con i suoi non parlava e fuori tutti facevano finta che non foste mai esistiti insieme. Questo non te lo ha detto, David, vero? Non te l'ha detto della merda in cui lo hai lasciato quel ragazzino! Non so più quante notti ha passato a piangere in casa mia perchè era l'unico posto in cui si permetteva di farlo! Quindi non venire a dire a me cos'è successo. Tu non sai un cazzo!"
Io lo guardo e stringo i denti e i pugni. Si è permesso troppe cose. Sa troppe cose che io non so. C'è una parte di questa storia che lui conosce meglio di me, e io non lo sopporto.
"Io non ho messo le mani addosso a Bill," ripete e lo fa guardandomi dritto in faccia, il bastardo. "Ci siamo... ci siamo ..non lo so trovati! Non era programmato! Che cazzo dovevo fare?"
Lo colpisco così forte in faccia che crolla indietro e sbatte contro il muro, preso di sorpresa. Continuo a colpirlo anche quando alza la testa, il sangue che gli cola da un labbro. Ne incassa due, prima di caricarmi a testa bassa. Sento le sue nocche colpirmi lo zigomo. Sento il pugno nello stomaco. E il dolore è una nube, come la rabbia. "Stagli lontano," ringhio.
“Col cazzo!” Mi colpisce in viso e non si ferma. “Non mi farò da parte solo perchè sei tornato! Non avresti mai dovuto andartene!”
“L'ho fatto per lui! Perché ne uscisse. Invece torno e scopro che sono morto per niente, che Bill è ancora immerso in questa merda e tutto perché?” Lo afferro per la maglia e gli tiro un calcio al ginocchio. Continuo a pestarlo quando rovina a terra e non m’importa se ci sto andando pesante. Non me ne frega un cazzo. Ora come ora potrei pure ammazzarlo. “Perché tu non potevi tenere il cazzo nei pantaloni, Chakuza!”
“Non hai capito un cazzo!” Urla lui. “Bill ti amava, stronzo! Eri il suo fottuto Dio, non se ne sarebbe mai andato davvero da qui! C'eri tu qua dentro! Non ha fatto altro che cercare le tue ultime tracce ovunque! Credevi davvero che fingendoti morto lo avresti salvato? Stronzate! Lo hai lasciato qui da solo a soffrire! Non incolpare me per le tue cazzate! “
Ho il braccio sollevato ma non colpisco. Lui ne approfitta per tirare il fiato. Mi guarda, però, ed è un cane rabbioso steso a terra. Lo so che per Bill ero tutto. Anzi, per Bill ero troppo. Dipendeva da me e dalla mia presenza, è quello che succede quando ami una persona come ci amavamo noi. Tutta quella forza che avevamo, sarebbe stato il nostro punto debole. Era il mio punto debole. Me ne sono andato per questo, cazzo. Per evitare che lo usassero. Era meglio che soffrisse per avermi perso ora, che non più avanti quando sarebbe stato importante e lui sarebbe stato ancora più mio. Mi fa male che Bill non mi abbia capito, che sia rimasto lì a cercarmi quando avrebbe soltanto dovuto portarmi con sé.
Mi fa male che a consolarlo sia stato il mio migliore amico.
“Non... non azzardati ad avvicinarti di nuovo a lui, Chakuza.” Mi pulisco il sangue che cola dal naso con il dorso della mano. “Ti sto avvertendo, sono molto più pericoloso di quello che credi. Fatti da parte.”
“Vuoi farmi fuori e poi dirgli che mi hanno investito per strada?” Chiede sbuffando una mezza risata ironica mentre inizia a tirarsi su dal pavimento. “Perché non gli dici che sono andato a Miami?”
“Non mi sfidare, Chakuza,” lo avverto. “Non mentirei stavolta. Sono serio. Non ti avvicinare. Non lo toccare, non pensarlo neanche, dimenticati della sua fottuta esistenza ed anche della mia. Ci hai messo poco, comunque.”
Tre fottuti mesi.
Tre mesi ed ero già morto abbastanza per prendersi Bill.
Tre mesi ed ero già morto abbastanza perché Bill ci andasse a letto.
Io lo so che mi sto inventando cose. Non in questo momento, ma poi me ne renderò conto. Fra qualche ora il mio cervello si schiarirà e allora ricorderò com’è davvero la Principessa. Adesso però non so niente di quello che è stato. Tutto si concentra su nove mesi in cui non ero qui, e in cui tutto è cambiato.
Il Chakuza che conosco è solo quello che sta a terra ora. Lo stronzo che si è preso Bill e che mi guarda come se non mi dovesse niente. A Bill non ci penso, invece. Fa troppo male quello che mi ha fatto, e fa ancora peggio quello che penso di lui.
Voglio andarmene, anche se in realtà non so nemmeno dove. Tirerò la Mercedes finché non si fonde il motore, poi mi guarderò intorno e deciderò se sono abbastanza lontano. Berlino non mi consola più.
Faccio per allontanarmi, ma Chakuza parla.
E quando lo fa, all’inizio, mi sembra di non capire.
“Non hai nessuno fottuto diritto di chiedermi una cosa simile. Non hai più nessun cazzo di diritto su di lui! L'hai lasciato una volta, ora non lo tormentare!”
“Stammi bene a sentire, Chakuza!” In due passi sono di nuovo da lui e gli tiro un calcio nello stomaco. Lui si piega in due con un gemito. “Non ho bisogno di nessuno che mi ricordi i miei diritti e doveri, tanto meno di te, fottuto traditore!”
Mi guarda dal basso verso l’alto e, quando lo colpisco di nuovo, tossisce saliva e sangue. “Io non ho tradito nessuno.”
Lo colpisco alla caviglia, con forza. “Questo lascialo decidere al tradito, stronzo.” E ricomincio. Non doveva parlare. Non doveva fare niente. Doveva solo starsene in terra dove lo avevo lasciato, cazzo. Vaffanculo, bastardo.
Lui rotola sul pavimento, cerca di difendersi e in questo modo ho solo voglia di pestarlo di più. “Mi hai chiesto di proteggerlo... te l'ho protetto,” ansima. “Sono quasi morto per salvarlo. Come te. Solo che poi io gli sono rimasto vicino. Quello che dovevo fare, quello che mi avevi chiesto, io l'ho fatto!”
Non controllo nemmeno più la forza. Colpisco e basta, mi piego a tirargliele nel viso anche. Lui mi tira giù, risponde e sono le mie mani sul suo viso e le sue ginocchiate nello stomaco. Non capisco più niente. Ringhia furiosamente, stringe le mani intorno ai miei bicipiti e mi impedisce di avventarmi ancora su di lui. Ringhio anche io. Gli ringhio in faccia. “E poi non hai proprio potuto fermarti lì, vero? Dovevi fare come me anche in tutto il resto!”
“Piantala di parlarne come se fossi un cazzo di stronzo qualunque che si è divertito a giocare con lui!” Urla e nei suoi occhi non c’è solo rabbia. C’è anche un sacco di frustrazione e qualcos’altro che non voglio decifrare. Non lo so cos’è, ma non me ne frega. “Io non gioco, affatto. Sono nove mesi che sta con me! Nove mesi, Anis. E io non te lo lascio così solo perchè sei tu.”
Nove mesi è un tempo lunghissimo, Cristo. Loro ci hanno cancellato la mia esistenza, io ne ho creata una nuova tenendomi stretto al loro fottuto ricordo. E’ questa la differenza. Io non sono passato oltre, io non sono affatto morto, cazzo. “Fanculo!” Mi alzo e lo lascio a terra con una spinta. “Fanculo, Peter! Non presentarti mai più davanti a me.. Sparo a vista, sei avvertito. Questa è una cazzo di minaccia.”
Lui si solleva da terra e si pulisce la bocca con la manica. Gli cola sangue da un taglio sul sopracciglio e dalla testa, non so nemmeno quando e come l’ho colpito così. “Fà quello che vuoi. La tua amiciza, la tua fottuta etichetta.. non me ne frega niente. “
Me ne vado sbattendo la porta e infilo le scale senza davvero sapere dove sto andando.
In questo preciso momento nella mia vita non c’è più niente. Quello che ero l’ho seppellito. Quello che avevo se l’è preso Chakuza. E quello che sono diventato è chiuso in una casa di Miami dove non voglio tornare. Sono solo e non sono niente.
L’auto si mette in moto con un ruggito sommesso che mi vibra sotto le dita. Si sta facendo buio e su Berlino c’è un’ombra scura che si allunga e sembra quasi inseguire la Mercedes. Premo sull’acceleratore, il contachilometri segna i duecento. Non ha più importanza.
Io sono più veloce della notte che avanza.
E non ho più niente da perdere.

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Ewige Nacht

di lisachan
Quando Bill mi ha chiamato al cellulare, oggi, io ho ringraziato una buona quantità di dei, perché non ne potevo già più di stare sul divano a fissare ed odiare ogni singolo centimetro del dannato pavimento di casa mia. Per quanto negli ultimi mesi abbia avuto modo di stare spesso a casa – sono stato più spesso da Sido, sì, ma non potevo pretendere di stabilirmi lì per sempre, non c’erano i motivi e sarebbe stato allucinante – non sono mai davvero riuscito ad appropriarmi di questo appartamento. Sarà che non lo voglio davvero, sarà che non me ne frega niente, sarà che gli unici due posti in cui sento di aver davvero vissuto sono la topaia che ho condiviso con Anis ai tempi dell’Aggro e la topaia che ho condiviso con Chakuza in tempi più recenti, insomma, non lo so cosa sarà, so solo che io questo posto lo odio e non lo ripeterò mai abbastanza.
Comunque, ho risposto pure con gioia – anche perché, ‘cazzo ne sapevo io che, mentre stavo a rigirarmi i pollici sul divano, in casa di Anis aveva luogo l’Apocalisse? – ma ho fatto in fretta a tornare coi piedi per terra. Bill ha un modo tutto suo di dirti che sta male anche senza dirtelo effettivamente. È qualcosa nel ritmo del suo respiro, nel modo in cui senti che sta cercando di trattenere perfino i battiti del proprio cuore, perché fanno male pure quelli e lui non sa come uscire da questo groviglio di dolore enorme che gli si è abbattuto contro. Bill è una persona che dovrebbe essere sempre felice, perché è evidente che il suo corpo non ha la costituzione adatta per resistere alla sofferenza. Ci vogliono spalle, per restare in piedi quando ti prende in pieno una valanga. Ci vogliono spalle e muscoli e la pelle di cuoio, non ti bastano i coglioni. Lui quelli ce li ha, ma gli manca tutto il resto.
Insomma, non ho avuto bisogno che mi dicesse niente. Peraltro, anche quando sono passato a prenderlo per portarlo a prendere una cioccolata da qualche parte, non ho esattamente avuto l’impressione che gli andasse di parlare. A volte è così, c’hai solo bisogno, tipo, di fare qualcosa. Hai quasi l’impressione che provando a spiegarti faresti solo danni maggiori, perciò niente, hai bisogno di distrarti, fare roba, andare in posti, vedere cose. Poi torni in te, poi puoi anche parlare, sul momento però no, e Bill era scosso e le sue guance erano ancora rosse e i suoi occhi ancora rossi, ma io non ho chiesto. E lui in genere risponde anche quando non chiedo, quindi il fatto che non rispondesse a prescindere mi ha dato l’idea che volesse, appunto, solo fare robe, andare in posti, vedere cose. E perciò gli ho fatto fare robe, l’ho portato in posti e gli ho dato da vedere cose.
E lui è stato anche un po’ meglio, mi ha sorriso e tutto, e poi niente, non mi ricordo com’è che abbiamo deciso di passare da Chakuza – probabilmente avevamo solo entrambi voglia di vederlo, solo questo, anche se non ce lo siamo detti, primo perché non ho bisogno che Bill mi dica quando ha voglia di vedere il Chaku, glielo sento addosso, e secondo perché non ho bisogno di dire a Bill quando ho voglia di vederlo io, perché non esiste – e lì è ovviamente precipitato tutto, perché fra le mille cose che potevamo aspettarci – o almeno, che poteva aspettarsi Bill, visto che effettivamente io non sapevo niente di quello che era successo fra lui e Bushido solo poche ore prima – l’immagine di Chakuza seduto su uno sgabello accanto all’isola con una borsa del ghiaccio spiaccicata sulla faccia era proprio l’ultima che potesse venirci in mente, ecco.
Il resto io l’ho visto accadere. Ci sono dei momenti – è una cosa che ho imparato a fare da ragazzino – ci sono dei momenti in cui smetto di viverlo, quello che mi sta succedendo, e mi limito a guardarlo. Non serve che sia una cosa necessariamente dolorosa o sconvolgente, basta che mi accorga che in un altro modo non potrei tollerarla. Perciò ho osservato Bill avvicinarsi a Chakuza, sussurrargli “è stato lui, vero?”, ho osservato Chakuza annuire, confermare, vuotare il sacco su tutto anche lì di fronte a me, e poi ho osservato Bill andare in bagno a prendere la cassetta del pronto soccorso, e lì – quando gli occhi verdi e pesti di Chakuza si sono spostati sui miei – lì mi sono tolto dalle palle, come suppongo avrei già dovuto fare da mesi e in maniera ben più radicale di quanto non abbia fatto.
E me ne sono tornato a casa.
Sono passate due ore da quando ho lasciato Chakuza appollaiato lì sullo sgabello, con Bill che si prendeva cura delle varie ferite e abrasioni che c’erano ovunque sul suo viso, sul suo collo, sulle nocche delle sue mani, dopo la scazzottata che ha avuto luogo a casa sua. Quello che dev’essere successo prima che io e Bill arrivassimo posso solo immaginarlo. Posso solo immaginarla, l’espressione di Anis, mentre si presenta a casa di Chakuza intenzionato a rivoltarlo come un fottuto calzino per l’imperdonabile colpa di aver messo le mani sul suo ragazzino quando non doveva. Posso solo immaginarla e mi viene anche un po’ da ridere, perché cazzo, Anis, tu sei morto. I morti non hanno diritti, ed i diritti non sono retroattivi: se resusciti, non puoi riavere indietro quelli che hai perso.
Ecco, se resusciti non puoi riavere indietro ciò che hai perso. Qualcuno dovrebbe dirglielo chiaro, ad Anis. Anche se io non penso che avrei il coraggio di farlo.
Comunque, sono passate due ore ed io, da quando sono tonato qui nel mio appartamento vuoto, ho cercato di non pensare. Ho riesumato il vecchio Game Boy che Sido mi ha passato quando sua figlia ha smesso di usarlo in favore della Playstation, ed ho tirato fuori qualche cartuccia recuperata secoli prima nelle cuccette dei tour-bus, quando ancora i ragazzi ci giocavano, con queste robe, e gli studi dell’Aggro, quando non si lavorava, erano tutto un risuonare delle musichette elettroniche del Tetris.
Insomma, mi sono seduto lì sul mio enorme divano bianco panna che è un divano palesemente da single, così come questa è una casa palesemente da single. Sarebbe anche bello usarla nel modo giusto – per rimorchiare, cioè – ma sto cominciando a rassegnarmi alla mia vita così per com’è ora. Triste da dire, ma non c’ho nemmeno voglia di andare per locali. È che, boh – e nel mentre Super Mario si infila in un tubo verde e ne riesce grande il doppio rispetto a quando c’è entrato – mi sembra di aver fatto una serie incredibile di buchi nell’acqua. Non parlo solo di Chakuza, anche Anis, pensandoci col senno di poi, Dio mio, è stato un disastro. Io non posso continuare ad avere solo relazioni che non sono relazioni. E con le donne non mi è mai andata bene, una dopo l’altra mi hanno sempre lasciato tutte. Insomma, uno deve pure rassegnarsi, quando si rende conto che non c’è speranza, no? Se non funziono con gli uni e non funziono con le altre, magari funziono da solo e basta.
Quello che è successo lo so. Lo so perché me l’ha detto il Chaku e lo so perché era esattamente ciò che volevo. Una cena per festeggiare il ritorno di Anis? Oh, andiamo. Mi meraviglio di come Anis stesso possa essere stato tanto stupido da cascarci, anche se probabilmente ha accettato solo perché di Bill e Chakuza non sapeva niente, quindi non poteva immaginare quanto potesse essere pericoloso infilarli in una casa in cui era presente anche lui.
Comunque io volevo che Anis venisse a saperlo perché né Bill né Chakuza avrebbero mai fatto il primo passo ed io non volevo essere il solito Patrick costretto a farlo al loro posto. Stavolta no. Stavano per distruggere la vita dell’uomo che li aveva fatti incontrare? Benissimo. Che lo facessero da sé, però. Io non volevo essere l’amico incaricato di dire le cose come stanno allo sfigato di turno. Mi sono già rotto le palle di questo ruolo. Non mi si addice nemmeno.
Però è tutto sommato vero che uno dovrebbe stare attento a ciò che desidera, perché potrebbe avverarsi davvero. Quante volte tutti noi abbiamo sperato che Anis tornasse vivo dalla morte? Io, un’infinità. Bill, quasi sicuramente, la mia infinità al quadrato. Perfino Chakuza deve averlo pensato, prima di innamorarsi di Bill. E quello è tornato davvero, causando il finimondo. Si fottano le stelle cadenti e il desiderio espresso dopo aver spento le candeline sulla torta di compleanno, non c’è bisogno di queste cazzate per far diventare qualcosa realtà. Basta essere in molti a volerlo, o almeno così pare. O forse così non è ed Anis è tornato in vita perché è un supereroe. Me lo ricordo a diciott’anni correre come una furia per le strade di Tempelhof e arrampicarsi sulle grondaie scalando le villette fino ai tetti, e penso che come possibilità quella dei superpoteri non è nemmeno tanto remota. E intanto Super Mario viene mandato a gambe all’aria da un funghetto con un’espressione cattivissima.
Comunque io adesso ho ottenuto ciò che volevo e dovrei essere perfettamente in pace con me stesso. So come funziona Anis, so che in genere la rabbia è la prima delle sue reazioni, ma che fa in fretta a tornare in sé, perché non sopporta di lasciarsi sfuggire il controllo delle situazioni problematiche dalle mani. Quindi ha mandato a fanculo Bill, ha mandato a fanculo Chakuza – pestandolo, già che c’era – ed ora starà riacquistando coscienza di sé e realizzando cos’ha combinato.
So perfettamente dove andrà quando questo processo sarà terminato. Ed era il mio obiettivo, sul serio, non essere io a dirglielo ma essere io a consolarlo, almeno un po’. So che accadrà e non riesco a sentirmi contento e soddisfatto come dovrei.
Purtroppo, so anche perché non riesco a sentirmi così. Non ci riesco perché mi dispiace per il ragazzino, tanto per cominciare. Perché il ragazzino ci credeva tanto, in se stesso e in Chakuza, proprio come coppia. Ed anche se non so se riusciranno a sopravvivere a questa tempesta uniti, so per certo che, pure se ci riuscissero, non sarebbe più come prima, non sarebbe più la stessa cosa. Anis c’è sempre stato, fra loro. Solo che prima era un fantasma. Non puoi più dare del fantasma a una persona che puoi vedere e sentire e toccare.
Mi dispiace anche per Anis, ovviamente. Mi dispiace perché forse se gliel’avessi detto io sarebbe stato diverso. Forse sarei riuscito a metterla in un modo che non sembrasse irrimediabilmente pessimo, forse sarei riuscito a convincerlo a pensare un po’, prima di gettarsi a peso morto in quel casino di rabbia e senso di colpa che gli ingolfava la testa. Forse, insomma, avrebbe anche sofferto di meno, se fossi stato io a dirglielo, nel giusto modo. Forse.
Soprattutto, comunque, mi dispiace per Peter. Peter era un sacco felice, davvero, prima che tornasse Anis. Anche se girargli intorno non era proprio la mia prima aspirazione della giornata, quando capitava perché esigeva di vedermi per un motivo o per l’altro tipo riappendere le tende in camera dopo averle lavate o risistemare lo scaldabagno defunto, stare con lui era piacevole. Perché, ecco, sorrideva e insomma, era simpatico. Chakuza non è il tipo che quando si innamora si dimentica della tua esistenza e di tutto il resto che non sia la persona che ama. Magari si distrae, magari si perde in se stesso, ma poi si ritrova, e quando si ritrova è bello stargli accanto.
Insomma, mi dispiace che si sia ritrovato con un occhio nero ed il ghiaccio sullo zigomo, alla fine di tutto questo, solo perché io non ho avuto le palle e la voglia di prendere Anis, stringerlo in un angolo e raccontargli l’unica cosa sulla quale valesse la pena tenerlo aggiornato, e che nessuno gli diceva.
Però è quello che ho voluto, me lo sono scelto e adesso ho poco da sfogarmi sui tastini mezzi scassati del Game Boy. Io sono uno che le sue responsabilità se le prende. L’ho sempre fatto. Quindi non faccio una piega quando qualcuno suona al citofono. Non guardo nemmeno l’orario, perché Anis non ha orari per cercarmi, non ne ha mai avuti. Quando eravamo ragazzini, me lo vedevo spuntare sotto la finestra anche all’alba. Se si svegliava presto e sentiva il bisogno di venire a cercarmi, chi ero io per dirgli no?
Al citofono è lui, anche se lui, quando glielo chiedo, non mi risponde.
Apro il portone con un sospiro e poi apro anche la porta e mi fermo lì sulla soglia ad aspettarlo. Il mio indirizzo è stata la prima cosa che Anis mi ha chiesto quando ci siamo incontrati da soli. Quello, e il mio numero di telefono. Non ha avuto bisogno di spiegarmi perché li volesse, era semplicemente evidente che, dal momento che ero andato a cercarlo nel suo appartamento dopo aver fatto anche la fatica di convincere Eko a svelarmi l’indirizzo, avremmo ricominciato a frequentarci, punto e basta. Perciò gliel’ho dato, l’indirizzo. Ed anche il numero di telefono. “Per ogni eventualità”. Ecco l’eventualità.
Anis fa le scale con una certa fatica. È ubriaco fradicio e io sto al quarto piano. E questo palazzo è di quelli vecchio stile, dove un piano vale tipo per due.
Inarco un sopracciglio.
- Potevi prendere l’ascensore. – gli faccio notare incrociando le braccia sul petto e cercando di comportarmi come non sapessi niente, - Quanto hai bevuto, Anis?
- Pochissimo. – grugnisce lui, che puzza di alcool lontano un metro, abbattendomisi letteralmente addosso ed aspettando quindi che sia io a trascinarlo all’interno dell’appartamento e chiudergli la porta alle spalle.
- Pochissimo, certo. – lo prendo in giro, - Hai già vomitato, almeno?
- No e non lo farò perché ho bevuto poco. Fanculo, Frank, non è serata, okay?
Mi stupisco solo un po’, quando mi sento chiamare in quel modo. Provo a tenerlo in piedi mentre lo aiuto a raggiungere il divano, e cerco i suoi occhi. Li trovo e sono cupi e confusi. Non c’è niente da leggere, lì dentro, stanotte. O forse c’è troppo ed io ho bisogno di un po’ di tempo per fare ordine e capire.
Comunque, che mi abbia chiamato Frank è ridicolo ma anche ovvio, contando il fatto che quando avevamo circa vent’anni – cioè lui ne aveva venti ed io desideravo averli già ma stavo ancora abbondantemente fermo sotto i diciotto – andavo sempre a raccoglierlo in giro per locali, quando si ubriacava così. Ed ero Frank, allora, Fler non era che un bel nome coreografico da dipingere sui muri di tutta Berlino. Quindi era ovvio che mi chiamasse così, com’è ovvio che mi chiami così anche adesso.
- D’accordo, d’accordo… - concedo, aiutandolo a distendersi sul mio divano bianco ed osservandolo mentre tira su i piedi con tutte le scarpe, mettendosi comodo. Mi rovinerà la fodera ma sta qui disteso con un avambraccio a coprirgli gli occhi e i capelli sparsi ovunque sui cuscini, quindi in fondo chissenefrega della fodera. – Che ti è preso? – continuo poi, sedendomi lì accanto, su quel po’ di spazio libero che lascia il suo corpo. Lui solleva le gambe, - I morti non dovrebbero bere, lo sai? – ed aspetta che io mi sia sistemato per bene sul cuscino, appoggiandomi allo schienale, per stendermi le gambe in grembo e tornare a stiracchiarsi.
- Bevo quanto cazzo mi pare e piace, Frank. – mi informa, tirandomi pure un calcio sul ginocchio, - Anche perché non sono morto. – e si prende una pausa, prima di dire quello che sta per dire. Se la prende lo stesso anche se io so cosa sta per dire, lui sa che io lo so ed io so che lui lo sa. – Purtroppo. – conclude infatti, alla fine, ed io lo mando giustamente a fanculo.
- Non dire stronzate, adesso, – lo rimprovero aspramente, scazzottandolo senza pietà contro una spalla, - o giuro che stavolta all’inferno ti ci mando davvero con le mie mani, così mi assicuro che arrivi a destinazione senza fermarti a Miami durante il viaggio.
Lui sorride appena – è un sorriso che gli sento sbuffare, più che altro – e scuote il capo.
- Non saresti capace. Nessuno è mai stato capace di farmi davvero fuori. Mi chiedo se non dovrei fare da me. Se vuoi un lavoro fatto per bene, fattelo da solo, si dice. No?
- Piantala. – ringhio a bassa voce, - ‘Cazzo ti prende? Se ti sei fatto non so nemmeno quante cazzo di ore di volo transoceanico per venirmi a dire che eri vivo e poi cominciare a parlare di suicidio, sappi che ti do una mano.
Lui ride ancora e si toglie il braccio dalla faccia. Lo lascia andare contro il divano e fissa il mio soffitto. C’è accesa solo l’abat-jour sul tavolino, che oltretutto sta dal mio lato, quindi il suo viso è quasi tutto in ombra e anche il resto della stanza non è che sia meglio illuminato. Anis inspira profondamente, prima di riprendere a parlare.
- Avresti dovuto dirmelo. – dice quindi, tutto d’un fiato.
Mi tendo come una corda di violino.
- Dirti cosa? – chiedo, guardando altrove.
Lui ride di nuovo.
- Lo sai cosa. David mi ha detto che sei stato molto vicino a tutti, mentre io ero via. È impossibile che tu non te ne sia accorto. Devi saperlo per forza.
- Non so niente. – borbotto infastidito. Anis struscia una gamba contro la mia, come non avesse la forza di sollevarsi a darmi una manata contro la spalla.
- Pat. – dice semplicemente. Ed io sospiro.
- Mi dispiace, Atze. – esalo in un fiato, abbassando lo sguardo, - Non sapevo come fare.
Anis si strofina gli occhi con entrambe le mani, inspirando ed espirando a pieni polmoni.
- Sono troppo ubriaco per pensare. – confessa alla fine, tornando a stendersi prendendo il maggiore spazio possibile, - Come cazzo è potuto succedere, Patrick?
- Conosci Bill, conosci Chakuza. – rispondo scrollando le spalle, - Ecco com’è successo.
Anis scuote il capo.
- No. – insiste, - No, Pat. Non posso… non ci riesco.
Io deglutisco. Mi scosto le sue gambe di dosso e mi metto in piedi, andando dritto verso la camera da letto. Lui non mi chiede cosa sto facendo, tanto è ovvio che sto andando a recuperargli una coperta, e non fa una piega quando torno con un vecchio plaid di lana grigia e glielo stendo addosso, rimboccandoglielo sotto il mento.
- Quando me ne sono andato, - mi dice, mentre faccio il giro del divano per tornarmene in camera, - Chakuza era ancora etero. Cioè, che Bill si sia innamorato di nuovo mi… - ride piano, - mi sembra meno assurdo dell’idea del Chaky che diventa gay. Sul serio.
Mi fermo e mi appoggio allo schienale, tirando su una gamba per sedermi in bilico sul bordo e aiutandomi a tenermi in equilibrio con una mano, mentre lo guardo dall’alto.
- Quante cose vuoi sapere, Anis? – gli chiedo sottovoce, fissandolo dritto negli occhi. Lui mi ricambia l’occhiata senza cambiare espressione.
- Per oggi sono a posto. – risponde annuendo. E chiude gli occhi.
Io gli riavvio i capelli sulla fronte in un gesto distratto, prima di muovermi verso la camera e, a metà del corridoio, decidere che non è lì che voglio stare. Prendo le chiavi ed indosso una giacca, e due minuti dopo sono fuori dal mio appartamento.
Fuori c’è un bel venticello fresco e secco, non troppo tagliente, molto piacevole. Mi rendo conto che sta finendo settembre, e poi, nell’ordine, ricordo che dopodomani è il ventotto ed Anis fa trentun anni. Mi metto a ridere così, in mezzo alla strada, anche se non c’è proprio niente da ridere perché quest’uomo è tornato da Miami solo per avere un compleanno di merda, in pratica. Però rido lo stesso, che posso farci, è assurdo. E nel mentre vado a zonzo per le strade di Berlino e come sempre, ogni volta che lo faccio, i miei piedi mi portano da Chakuza. Non so se sia colpa del fatto che ormai questo tragitto lo conosco a memoria, quindi se non penso a dove sto andando e inserisco il pilota automatico è lì che mi porta il mio corpo, senza che io abbia neanche bisogno di chiederglielo, comunque è così.
Quando arrivo sotto casa sua, guardo a lungo il palazzo prima di decidermi sul da farsi. È molto probabile che Bill sia ancora qui, visto che ce l’ho lasciato, e rifletto bene sulla possibilità di attaccarmi al campanello per svegliare lui e il Chaku con un infarto e poi fuggire silenziosamente nella notte, oppure suonare come una persona normale, svegliarli comunque e poi salire su e restare lì fino all’alba, così, giusto per il gusto di non lasciarli in pace. Potrebbe essere il mio regalo di compleanno per Anis, sono quasi sicuro che apprezzerebbe molto.
Alla fine, decido per la seconda opzione. Suono e, quando la voce assonnata di Chakuza mi risponde al citofono – quest’uomo dorme che è una meraviglia: può succedergli qualunque cosa, nel corso della giornata, ma appena gli si scaricano le pile lui prende e si spegne. Poco da fare – rispondo allegramente che sono io. Lui non ha bisogno di chiedere chi sia io, e mi apre il portone. Me lo ritrovo in pantaloncini e canotta che si stropiccia l’occhio sano, quando arrivo sul suo pianerottolo.
- Nostalgia di casa? – mi chiede, scostandosi dalla soglia per lasciarmi passare.
- Coglione. – rispondo in un grugnito infastidito, guardandomi intorno, - Il ragazzino dorme?
Chakuza chiude la porta e sospira sconsolato.
- Dobbiamo per forza parlarne? – mugola affranto, avvicinandosi a me e prendendo a gironzolarmi intorno come a voler capire cosa ho intenzione di fare prendendo le misure dei miei movimenti. – Comunque, - risponde alla fine, - se dorme, lo sta facendo a casa sua. Di certo non qui.
Io mi volto a guardarlo con una certa curiosità, appoggiandomi allo schienale della poltrona.
- L’hai mandato via?
- Lui è andato via. – precisa, aggrottando le sopracciglia, - Io l’ho lasciato andare.
Mi prendo una pausa di mezzo secondo, per dare enfasi al mio pensiero al riguardo.
- Coglione. – dico poi. Chakuza mi manda a fanculo e si infila nel cucinino, cominciando ad armeggiare con la caffettiera.
- Se non eri di umore nostalgico, - borbotta in mezzo allo scrosciare dell’acqua nel lavabo, - si può capire perché sei venuto da queste parti?
Scrollo le spalle, facendo il giro della poltrona e sedendomi compostamente per un secondo, prima di svaccarmi lanciando braccia e gambe in giro come fossi a casa mia.
- Passavo da queste parti. – rispondo in un mezzo ghigno. Poi prendo fiato. E rispondo sul serio. – Anis è venuto a trovarmi.
Chakuza diventa un pezzo di ghiaccio e, quando si riscuote, lo fa solo per chiudere il rubinetto e posare la caffettiera ancora aperta sul ripiano del lavello. Si asciuga le mani, poi si appoggia contro il mobile della cucina e si volta a guardarmi. Mi guarda tipo per dei secoli, là immobile, ed io inarco un sopracciglio.
- Be’? – chiedo infastidito. Chakuza sospira, gira attorno all’isola e viene a sedersi sul divano, qui di fianco, sporgendosi verso di me.
- L’idea della cena a casa di Bushido è stata tua. – mi spiega pacatamente. Non sorride ma non ha nemmeno un’espressione risentita. Non lo capisco e mi dà anche un po’ sui nervi, sinceramente. – Il fatto che io abbia accettato di prestarmi a quella ridicola mascherata non deve farti pensare che io non avessi capito dove voleva andare a parare. Ti conosco, Fler, non puoi prendermi per il culo. Quante volte devo ripetertelo? – faccio per mandarlo a fanculo come merita, ma lui mi ferma sorridendo appena. – Non vieni fino a qua per dirmi che Bushido è venuto a trovarti, Fler. Avanti. Sputa il rospo.
Resto lì con le labbra dischiuse a guardarlo per un po’. Poi mi ricompongo, mi metto dritto e gli tiro uno scappellotto tremendo sulla nuca, tant’è che la sua testa rimbalza in avanti e, quando solleva lo sguardo per mandarmi a cagare fissandomi negli occhi, lo fa con un’espressione a metà fra l’addolorato e l’oltraggiato.
- Piantala di fare lo splendido. – gli tarpo immediatamente le ali, tornando a svaccarmi sulla poltrona. E poi sospiro. – Che cosa vuoi che ti dica, Chakuza? Sei innamorato di quel ragazzino da tanto di quel tempo che mi sembra di averti sempre conosciuto solo così. È strano immaginare un mondo in cui tu non stai con Bill e non sei completamente perso per lui.
Chakuza arrossisce e guarda altrove, ed io mi rendo conto che è la prima volta che parliamo in questi termini di Bill. Suppongo che se lui avesse avuto l’accortezza di dirmi fin da subito che stavano insieme, come ha fatto Bill, le cose sarebbero andate molto diversamente. O forse no, perché Anis sarebbe comunque tornato e noi saremmo comunque dovuti passare attraverso la fine del mondo, che lo volessimo o meno.
- Allo stesso tempo, però… - continuo sospirando, - è strano immaginare un mondo in cui Anis possa rassegnarsi. Su una qualsiasi cosa, figurarsi il suo ragazzino adorato. – Chakuza ringhia, - E non fare il cane rabbioso. – lo rimprovero aspramente, incrociando le braccia sul petto, - Lo sai che è il suo ragazzino. Comunque lo è. Anche se adesso è tuo, resta suo.
- È assurdo. – borbotta Chakuza, - …credo che Bill stia cercano di spiegarmi la stessa cosa. Da quando Bushido è tornato.
Io mi stringo nelle spalle.
- Sarà assurdo, ma è così. Devo venirtelo a spiegare io, come funziona il tuo fidanzato?
Chakuza socchiude gli occhi e scuote il capo, espirando rassegnato.
- Quando le dici tu, le cose sembrano più vere. – dice alla fine, stendendosi contro lo schienale del divano. Io mi mordo un labbro e non rispondo, e restiamo entrambi fermi svaccati contro gli schienali dei nostri rispettivi e sdrucitissimi troni per un tempo indefinibile. Almeno fino a quando Chakuza non si decide a parlare ancora. – Cosa dovrei fare, secondo te?
Mi volto a guardarlo e faccio fatica a non dargli del coglione per la terza volta in mezz’ora.
- Come, scusa? – domando incredulo, - Tu stai chiedendo a me cosa penso che dovresti fare?
Annuisce senza fare una piega. Io lo guardo attentamente e, quando mi sono assicurato per l’ennesima volta da che lo conosco sul fatto che sì, è proprio vero ed è proprio così, nonostante la cosa mi causi ancora meraviglia quando ci penso, rispondo.
- Dovresti-
- Andare a fanculo non rientra fra le opzioni possibili. – si affretta a mettere le mani avanti, senza lasciarmi concludere. Io gli tiro addosso un cuscino.
- …lasciare parlare la gente, tanto per cominciare. E poi… - sospiro, mentre lui si toglie il cuscino dalla faccia e lo stringe sullo stomaco, - …e poi dovresti andare da Bill, Peter.
Chakuza mi guarda come avessi appena detto la cazzata del secolo. Questo sguardo, se posso permettermi – e posso – è una cosa alla quale lui non dovrebbe avere diritto, per ovvi motivi. Aggrotto le sopracciglia e lo minaccio fisicamente di strappargli il cuore a mani nude passando per la gola, se non se lo toglie immediatamente di dosso. Lui non riesce, ma almeno guarda altrove finché non riesce a trovare un’espressione facciale meno odiosa.
- Ma se n’è andato lui, Fler. – mi fa notare a mezza voce, - Non posso andargli dietro così.
Io roteo gli occhi.
- Mi meraviglio che tu non gli sia andato dietro immediatamente appena l’hai visto uscire dalla tua porta, Dio mio! – sbotto esasperato, - Io certe volte non lo capisco cosa c’hai nel cervello, Chaku.
Lui sospira, abbattendosi di nuovo contro lo schienale.
- Nemmeno io. – ammette, - Sarà che per la maggior parte del tempo non c’è niente. Quando improvvisamente appaiono cose, ho difficoltà a gestirle.
Rido di gusto e lui ride con me, fra un coglione che gli lancio e l’altro. Restiamo a ridere per un po’, ed è una cosa piacevole. È piacevole anche che, qualche secondo dopo, lui tiri fuori dal fondo del petto una voce dolcissima – così ruvida e profonda com’è la sua sempre, ma più tenera – e mi chieda come sto.
Io scollo le spalle.
- Sopravvivo. – rispondo sinceramente.
- Sicuro? – si assicura lui, lanciandomi un’occhiata incerta.
Io sospiro.
- Frena quello che sta apparendo adesso, Chaku. Qualsiasi cosa sia. – gli ricambio l’occhiata, - Non mi pare il caso, proprio ora che ti sto mandando da Bill.
Lui abbassa gli occhi con un’espressione da cane bastonato.
- Già. – annuisce. Poi si passa le mani sul viso e inspira ed espira profondamente, prima di alzarsi in piedi. - Chiudi tu casa? – chiede distrattamente, muovendosi già verso la camera da letto per vestirsi, - Ce le hai ancora le chiavi, giusto?
Io annuisco silenziosamente. Lo mando a fanculo, quando lo vedo ripassarmi davanti vestito di tutto punto, diretto alla porta. Lo mando a fanculo ma lui non lo sente. Anche perché non l’ho detto ad alta voce, l’ho solo pensato. Ed io e Chakuza ci capiamo bene, ma probabilmente non così tanto.
In casa di Chakuza io ci resto, e resto anche del tutto immobile per una mezz’oretta, circa. Poi mi alzo dalla poltrona e mi guardo intorno senza sapere bene cosa fare di me stesso. Per certo so che non voglio tornare a casa, ma so anche che se non mi do un motivo per restare qui non ci resterò, perché per quanto il Chaku possa ironizzare sul fatto che trascorro qui una buona metà della mia esistenza – o forse anche di più – questa non è casa mia. Perciò mi guardo intorno e, siccome qui è il solito bordello, mi metto a sistemare. Poso i soprammobili ai loro posti, spiego bene la fodera del divano e poi mi infilo nello sgabuzzino alla ricerca del piumino, per spolverare i mobili. Mentre cerco mi accorgo di sfuggita del vecchio tappeto peloso del Chaku, quello che prima stava in salotto, e che adesso è qui in un angolo arrotolato e stretto con lo scotch. Gli lascio scorrere sopra gli occhi ma non lo tocco. Recupero il piumino e spolvero tutto per bene, e quando ho finito tiro su le maniche della felpa, indosso il grembiule e comincio a lavare i piatti.
Alla fine mi faccio prendere bene ed entro in una specie di trance mistica. Quando riprendo coscienza di me stesso sono le tre del mattino, non ho idea di dove sia Chakuza, non so se Anis sia ancora a casa mia e questo appartamento splende come uno specchio, pulito come non è mai stato da quando Chakuza lo abita – e probabilmente neanche da prima. Soprattutto, però, non ho ancora neanche un filo di sonno. Voglio che questa notte finisca adesso perché non ne posso già più, perciò cerco la mia coperta coi cavallucci marini e, anche se non fa davvero freddo e non ne avrei bisogno, mi ci avvolgo dentro e mi butto sulla poltrona, tirando su le gambe e cercando di addormentarmi.
Ovviamente non riesco. Mi rigiro per un po’ e poi, prima di diventare isterico, mi metto in piedi, indosso nuovamente la giacca ed esco da qui, che l’odore del detersivo alla lavanda mi è entrato nel cervello e mi sta facendo lentamente impazzire. Chiudo bene la porta, con le chiavi – sì, Chaku, ce le ho ancora, stronzo, certo che ce le ho ancora – e comincio a camminare. Senza meta. Di nuovo dal Chaku non posso tornarci, perciò non metto il pilota automatico, cerco soltanto di spingermi il più lontano possibile sia da casa mia che da casa sua, andando verso il centro.
Non è che ci sia molta vita in giro, comunque. Siamo in mezzo alla settimana, domani la gente normale lavora ed è già molto tardi. I pub chiuderanno tutti fra poco ed io vado in giro col cappuccio calato fino al naso anche se è poco probabile che qualcuno mi riconosca. Tengo su il cappuccio anche quando mi decido ad entrare in un locale e sedermi su uno sgabello di fronte al bancone. Scorgo con la coda dell’occhio il barista che mi fissa con aria un po’ impaurita e faccio apposta la voce cattiva mentre gli ordino una birra. Quello mormora un “sì, subito” che mi fa quasi scoppiare a ridere e io resto in attesa giocando con le arachidi nella ciotolina di vetro – ne prendo qualcuna, la poso sul ripiano, le metto in ordine dalla più grande alla più piccola – però siccome non ho fame non ne mangio nemmeno una.
La mia birra nel mentre arriva, io comincio a sorseggiarla e mi sto già annoiando, quando mi sento picchiettare sulla spalla con due dita. Chiunque mi abbia riconosciuto nonostante il novanta percento del mio corpo sia nascosto, tatuaggi compresi, merita un premio, perché deve amarmi tantissimo. Perciò mi volto e sorrido, per nulla infastidito, e quando capisco chi è – ci metto un po’ a riconoscerla, perché non la vedo da una vita – capisco che non deve stupirmi il fatto che mi abbia riconosciuto.
- Nicole! – la saluto, scendendo dallo sgabello ed abbracciandola stretta, - Cazzo, saranno secoli!
Lei risponde con un sorriso allegro, lasciandosi stringere e facendomi un sacco di versetti festosi, motivo per cui rido. Quando si allontana, riavvia i capelli biondi dietro le orecchie e mi accorgo che li ha tagliati, dall’ultima volta, perciò le faccio i complimenti per la nuova pettinatura e lei arrossisce.
Nicole è molto più di una groupie e molto più di una fan, tant’è che non ci sono nemmeno mai andato a letto. Da quando nel… oddio, non ricordo, un sacco di anni fa, comunque, s’è infilata nel backstage di non mi ricordo che festival – cantavo ancora con Anis, allora – per sommergermi di complimenti riguardo quanto fossi bravo e quanto fosse evidente l’anima che ci mettevo nel cantare, ignorando completamente Anis che ringhiava offeso dietro le mie spalle, c’è sempre stato un bel rapporto fra di noi. Non siamo amici perché non ci frequentiamo, non abbiamo nemmeno i numeri di telefono, per dire, ma lei ha sempre creduto molto in tutto ciò che ho fatto e come cantante le piaccio davvero, quindi quando viene ai concerti stiamo sempre un po’ insieme e chiacchieriamo per delle mezz’ore. È un bel rapporto, per nulla impegnativo. L’unico della mia vita, palesemente.
Restiamo lì a chiacchierare per un po’ del più e del meno, lei mi parla degli uomini che le sono passati per le mani nell’ultimo anno – tutti cretini – ed io evito di parlarle dell’uomo che è passato per le mie – cretino uguale, ma non posso dirlo – quindi la consolo un po’, le offro da bere e, quando il proprietario del locale ci butta fuori per chiudere, ci mettiamo a girovagare per le strade. O meglio, lei girovaga ed io sto bene attento a seguirla, sennò finisce che torno a casa del Chaku, anche perché abbiamo bevuto un po’ e ora sono vagamente brillo, quindi le possibilità di trovarmi all’improvviso di fronte al suo palazzotto diroccato sono più alte di quanto non lo fossero un’ora fa.
Alla fine, fra una risata e l’altra, lei si ferma di fronte ad una bella porta a vetri e si stringe nelle spalle. È magra e bassa e quando lo fa sembra minuscola, ha anche due occhioni castani enormi sul suo viso un po’ segnato dal tempo – lo penso solo distrattamente che è più grande di me, più di Anis, peraltro, non mi interessa davvero.
- Se vuoi… se ti va, - balbetta incerta, - possiamo salire un po’ da me. È tardi.
Realizzo cosa mi sta chiedendo e realizzo anche che dovrei dirle di no. Dovrei fare il cavaliere, sorriderle e dirle che sono stanco ma sarà sicuramente per un’altra volta, anche se un’altra volta sicuramente non ci sarà.
Però, penso, perché cazzo dovrei farlo? Non faccio male a nessuno, salendo da lei. A nessuno importa se io vado a letto con questa donna, è una cosa che riguarda solo noi due. Io le voglio bene, un po’. E a lei interesso. Voglio dire, mi piace anche. Perché dovrei dirle di no? Perché dovrei rifiutarmi?
Penso che Chakuza non rifiuterebbe. Penso che nemmeno Anis rifiuterebbe. Penso a Bill e so che lui sì, direbbe proprio di no, perché lui è uno che se non ti ama non ci viene a letto con te, ma sul momento decido che non mi interessa. Non ho mai detto di essere una persona migliore di Bill e non l’ho nemmeno mai pensato. Quindi fanculo al resto. Fanculo tutto.
L’appartamento di Nicole è buio e non le lascio il tempo di illuminarlo, perché appena passiamo oltre la porta e ce la richiudiamo alle spalle la spingo delicatamente contro il muro e mi chino a baciarla, chiudendo gli occhi. Sa di birra, è esattamente lo stesso sapore che ho io. Un po’ amaro ma piacevole. La sua lingua scivola sulla mia e le mie mani le scivolano addosso, sulle spalle e lungo le braccia. La afferro per la vita e me la tiro contro, lei sussulta e lascia andare un gemito colmo di ansia ed aspettativa quando sente la mia erezione premerle contro il bacino. Io le sorrido sulle labbra e lei solleva le mani sfiorandomi le braccia a partire dai polsi, risalendo su verso il gomito, accarezzandomi i bicipiti e poi appendendosi alle mie spalle, saggiando la consistenza dei muscoli contratti sotto le dita, attraverso la maglia di acrilico.
Io mi scosto appena e sfilo la maglietta, lei mi guarda a lungo mordendosi un labbro e poi si china sul mio petto mordicchiando e leccando come una gattina un po’ a caso e lasciando andare anche dei miagolii da gattina che, assieme ai baci e alla sua lingua e ai suoi denti che scorrono sulla mia pelle, mi fanno sibilare il suo nome, mentre torno a stenderla contro la parete e scendo a morderle e succhiarle il collo, inspirando il profumo lieve e dolce che viene dai suoi capelli.
Le sbottono i jeans e l’aiuto a liberarsene, lei si solleva sulle punte e mi allaccia al collo, respirandomi addosso mentre io le accarezzo i fianchi e poi, lentamente, insinuo una mano fra le sue cosce. Il mugolio che mi scivola sulla pelle quando comincio a strofinare piano un dito contro di lei mi dà la conferma che no, non ho dimenticato come si tocca una donna per farla gemere, e mentre il suo bacino segue i movimenti della mia mano – che scivola più in profondità, dando modo alle mie dita di cercare e trovare il calore umido del suo corpo – io la afferro da dietro un ginocchio con la mano libera e la aiuto a divaricare le gambe. Lei non oppone resistenza e si appoggia senza fiato contro la parete, chiudendo gli occhi e respirando attraverso le labbra dischiuse e un po’ umide.
Torno a baciarla slacciandomi i jeans e lasciandoli scivolare verso il basso il minimo indispensabile, e lei mi morde un labbro, quando io la afferro per la vita e la tiro su. Mi stringe le gambe attorno ai fianchi, muovendosi contro di me; la sento bagnatissima contro la pelle accaldata e ringhio. Lei rabbrividisce, la sento tremare e scuotersi tutta sotto i polpastrelli, e visto che questa casa non la conosco e non so dove andare torno a spingerla verso la parete. Lei non riesce a parlare, a stento respira, ed io la stringo alla vita con un braccio, tenendola sollevata da terra mentre cerco il portafogli nella tasca posteriore dei jeans. Infilo le dita in una taschina, riemergo col preservativo, lo scarto e lo indosso. È tutto molto meccanico e non riesce a smettere di esserlo neanche quando mi spingo dentro di lei, neanche quando lei esala il mio nome fra gli ansiti – mi sembra una vita che non sento pronunciare il mio nome così da una voce di donna – e si inarca sotto le mie mani che le accarezzano la schiena. Il suo bacino si muove ritmicamente seguendo le mie spinte lente e misurate, lei si regge con forza su di me, piantandomi le unghie nelle spalle, e io ringhio, un po’ perché fa male, un po’ perché mi piace, ma quando mi svuoto contro il preservativo – solo qualche attimo dopo averla sentita lanciare un urletto e stringersi convulsamente attorno al mio cazzo – lo capisco anche senza rifletterci su, che sono venuto per sfregamento meccanico. Questo non è fare l’amore, non è neanche sesso.
Non so cos’è e a questo punto non mi interessa nemmeno scoprirlo, comunque. Aspetto che Nicole riprenda fiato, la aiuto a rimettersi coi piedi per terra e poi la sostengo delicatamente, mentre recupera la forza nelle gambe – è così piccola e magra che ho paura di spezzarla, se la stringo troppo forte. Lei mi si stringe contro e si appoggia al mio petto, intrecciando le dita delle mani con le mie. Non so perché la lascio fare, non dovrei essere tenero, adesso. Però sono stanco, non ho voglia di scostarla. Il suo corpo è caldo e sa del mio odore mischiato al suo. Il suo corpo al momento è l’unico posto al mondo in cui non sono solo, perciò me lo tengo stretto contro e mi lascio accompagnare verso la sua camera da letto.
Il letto di Nicole non sa di niente, però. Cioè, sa di pulito, sa di cotone, sa di detersivo, sa un po’ anche del suo profumo, ma se mi cerco non mi trovo e presto smetterò di trovarmi anche addosso a lei. La stringo il più possibile finché ci sono ancora, chiudo gli occhi e la accarezzo, cullandola un po’ mentre si addormenta stesa contro di me, e mi immagino altrove, in un altro letto, stretto fra altre braccia, con un corpo dalla consistenza completamente diversa schiacciato contro il mio, e penso che il mio odore in casa di Chakuza c’è. È sulla mia poltrona ed è nel suo letto, nonostante tutto, ed è nell’aria e soprattutto ce l’ha addosso lui, e non scompare. È la traccia che ci annusiamo addosso ogni volta che siamo vicini, è il motivo per cui dovrei smettere di vederlo, è il motivo per cui non riesco a smettere di vederlo, ed ora che il profumo di Nicole sta abbandonando anche la mia pelle ecco che l’odore di Chakuza riaffiora ed a me viene voglia di ficcarmi sotto una doccia e strofinare così forte da farmi male, per cercare di cacciarlo via, anche se so che non ci riuscirei.
Mi manca. Mi manca come non mi è mai mancato niente in tutta la mia vita, mi manca anche più di quanto non mi sia mancato Anis e non so dire se sia perché per un periodo di tempo ho creduto in noi – in me e in Chakuza, intendo – o se sia perché semplicemente mi sono preso una sbandata come non ne ho mai viste. Di quelle che ti fanno riconsiderare tutte le sbandate passate, perché quando lo senti così forte, il cuore che batte nel petto, e non hai nemmeno bisogno di vederla quella determinata persona, perché il tuo corpo reagisca, allora capisci che sei perso e che prima avevi solo giocato, o frainteso, e che comunque di amore fino a quel momento non ci avevi capito un cazzo.
Mi sono completamente fottuto il cervello. Chakuza, mi hai fottuto il cervello e non te ne frega niente.
Scivolo fuori dal letto di Nicole e lei spalanca subito quegli occhioni castani nel buio e mi guarda dispiaciuta, mordendosi un labbro.
- Ho sbagliato qualcosa? – chiede a mezza voce, ed io sorrido teneramente, tornando a sedermi accanto a lei sul materasso e riavviandole i capelli dietro un orecchio.
- Assolutamente no. È stato bellissimo. Ma devo tornare a casa, domani ho da lavorare e aspetto gente. – mai dette così tante bugie tutte assieme. Fosse qui, Anis mi prenderebbe a cazzotti fino a farmela passare del tutto, la voglia di mentire.
Lei annuisce ma insiste per darmi il suo numero. Lo scrive su un pezzetto di carta con una biro che funziona male e me lo consegna imbarazzata, abbassando lo sguardo. Io sospiro, sorrido ancora e la bacio sulla fronte, rimettendomi in piedi e risistemandomi i vestiti addosso prima di conservare il bigliettino. Non so cosa me ne farò, sinceramente.
Saranno più o meno le quattro e mezza, massimo le cinque del mattino, quando esco di nuovo in strada. Il sole non è ancora sorto, naturalmente, io non ho la minima intenzione di tornare a casa mia perché non intendo vedere Anis adesso, e quindi ripercorro a ritroso la strada che mi ha portato fino a qui. E me ne torno a casa di Chakuza.
Quando apro con le chiavi, per un secondo mi guardo intorno e resto basito. Non tanto perché l’appartamento è ancora deserto e non sono abituato ad entrare qui in situazioni simili, quanto piuttosto perché l’appartamento è pulitissimo e non ricordo di averlo pulito io. Vedere l’appartamento di Chakuza pulito è un miracolo paragonabile ad un’apparizione della Madonna, tipo, quindi resto un po’ sconvolto sulla soglia prima di ricordare cos’è successo e mettermi il cuore in pace.
La notte non si rassegna a finire ed io comincio ad essere davvero stanco di lei. La poltrona è scomodissima. Mi ci raggomitolo sopra con tutta la coperta, ma non riesco a prendere sonno e continuo a rigirarmi alla ricerca di una posizione comoda. Non la trovo, e quando mi decido ad alzarmi mi fanno male tutte le giunture.
- Catorcio… - mi dico, e la mia voce risuona all’interno dell’appartamento. Non c’è eco, fortunatamente, e per questo devo ringraziare le dimensioni ridicole di questo posto.
Mi sgranchisco un po’, mi guardo intorno e alla fine mando a fanculo il buonsenso e mi infilo in camera di Chakuza. Non l’ho sistemata io, ma la camera da letto del Chaku è sempre sistemata per principio, perciò non devo fare altro che scalciare via le scarpe e infilarmi sotto le coperte.
- Ciao… - mormoro inspirando a fondo l’odore di Peter dalle lenzuola. Non sono davvero tanto ubriaco da giustificare un comportamento simile. Non sono neanche tanto ubriaco da giustificare il fatto che sto un po’ piangendo, in questo momento, anche se non è niente di teatrale. Però faccio finta di esserlo per concedermi una scusante e perché, cazzo, ne ho bisogno.
Aspetto di essermi calmato, prima di recuperare il cellulare e il bigliettino, sedermi sul letto e, con le lenzuola tirate su fino al naso, chiamare Nicole. Lo faccio perché mi dispiace che sia sola adesso. Lo faccio perché non mi sono comportato bene. Lo faccio perché ho bisogno di sentire una cazzo di voce umana cui in questo momento importi della mia presenza, perché mi sembra di girare a vuoto, porca puttana, e non so come fermarmi, non so dove fermarmi, non so nemmeno se voglio davvero. Vorrei che Chakuza fosse qui, adesso. Chaku, non ti manderei via, se provassi a baciarmi ora. Però tu non ci sei, c’è solo il tuo odore e devo accontentarmi.
Nicole mi risponde anche se l’ho palesemente svegliata. La sua voce è un mugolio stanco e assonnato. È gentile e non mi manda a fanculo, anzi, ride e mi dice che non si aspettava che l’avrei chiamata sul serio. Io sbuffo una mezza risata ed ammetto sinceramente che non me l’aspettavo neanche io. Lei mi dà dello stronzo ed io la trovo una cosa carina, perciò le chiedo di vederci domani per un caffè, dopo pranzo. Decidiamo di vederci fuori dagli studi dell’Aggro e, quando chiudo la telefonata, non ho idea di dove andrò a finire continuando su questa strada. Nicole, comunque, è carina. E almeno lei c’è.
Il sole comincia appena a spuntare dietro i palazzi, quando finalmente mi addormento. Chakuza non è rientrato. Comincio a chiedermi se lo farà mai.
*
Non ho idea di quante ore siano passate, quando mi sveglio. Sento qualcuno trafficare da qualche parte nella stanza e, per quanto ne so, potrei anche essere regredito ai dodici anni, perché questi sono i rumori che faceva mia madre quando entrava in camera mia di mattina presto per raccogliere i vestiti sporchi da ficcare in lavatrice. Sento il fruscio del cotone e mugolo un “mamma…?” un po’ confuso, ma sono ancora talmente assonnato che non riesco ad aprire gli occhi.
Però Chakuza ride, ed allora li spalanco.
- Ben svegliato. – mi prende in giro. È fresco di doccia e sta rovistando in un cassetto alla ricerca di una maglietta da indossare. Il fatto che sia seminudo non mi aiuta in niente, mi sento in imbarazzo, vorrei sparire e mi rendo conto di aver dormito a casa sua. Cioè, lo so che ho dormito a casa sua, ma mi rendo conto solo adesso di quanto sia assurdo il fatto in sé.
- Sei tornato adesso…? – chiedo, la voce ancora impastata dal sonno, e lui ride ancora.
- Veramente da un paio d’ore. – risponde, individuando finalmente la maglietta che cercava e indossandola, - Ma dormivi così bene che non mi è sembrato il caso di svegliarti. Ti hanno sfrattato da casa tua? – io rispondo con un mugolio frustrato, rigirandomi fra le coperte e stiracchiandomi piano, mentre lui ride ancora. – Piuttosto, - riprende poi, sistemandosi per bene davanti allo specchio, - si può sapere perché cazzo mi hai ripulito casa? – chiede con aria divertita, - Mi è preso un colpo, quando sono entrato!
Scrollo le spalle, mettendomi seduto. Non mi va di scendere dal letto.
- Non lo so. – borbotto, - Era il solito bordello, ho sistemato qualcosa e mi sono fatto prendere la mano.
- L’ho visto! – ride ancora, - Aspetta un secondo. – aggiunge poi, quindi scompare oltre la porta e lo sento armeggiare di là. Quando torna, porta fra le mani un vassoio pieno di roba, ed io spalanco gli occhi.
- Che cazzo è, Chakuza? – chiedo, sconvolto. Lui ride ancora, posa il vassoio sulle mie ginocchia e poi si siede accanto a me.
- La colazione. – risponde, - Non sapevo che avevi dormito qui, altrimenti mi sarei fermato a comprare qualcosa fuori… comunque ti ho fatto il caffellatte ed ho riesumato delle merendine… - indica della roba ammaccaticcia chiusa in degli involucri di plastica, con un gesto distratto, - Erano nella credenza da un po’ ma dovrebbero essere ancora commestibili.
- …Chakuza, - lo fermo, pinzandomi la radice del naso, - perché mi hai portato la colazione a letto?
- Be’, - comincia lui, - ho fatto la doccia, tu continuavi a dormire, non avevo niente da fare e-
- Chakuza! – lo richiamo, alzando lievemente la voce. Lui deglutisce, prende una merendina, la scarta e ne manda giù un pezzetto, prima di sospirare e rispondermi.
- È andata… bene, con Bill. – dice senza guardarmi negli occhi, - Perciò credo di doverti ringraziare.
Prendo una tazza piena di caffellatte dolcissimo fra le mani, e ne bevo un po’.
- Non ringraziare. – dico tetro.
- …ma è merito tuo se-
- Lo so. – taglio corto, - Non ringraziare.
Chakuza sospira e mangia un altro pezzo di merendina. Poi lo sento spostarsi più vicino e mi passa un braccio attorno alle spalle. Così, dal nulla. Io vado nel panico più totale. Vado così nel panico che non riesco nemmeno a muovermi, divento una statua di sale e fisso il vuoto mentre lui mi stringe a sé, rischiando peraltro di ribaltare il vassoio.
- Ti va di parlarne? – mi chiede a bassa voce, sussurrandomelo contro una tempia.
- No, cazzo. – mi lamento sconvolto, - Lasciami.
- Piantala. Ti va di mandarmi a fanculo?
Sospiro.
- …sì.
Lui annuisce lentamente.
- E allora fallo.
- Fanculo, Chaku.
Restiamo in silenzio per un po’.
- Ti senti meglio? – mi chiede poi.
Io scuoto il capo.
- Per nulla. – rispondo.
Chakuza ride piano contro la mia pelle e mi stringe ancora un po’.
- Dovevi dirlo con più convinzione.
- Non mi andava e oh- insomma, Chakuza, mi lasci andare? – mi lamento, ma non mi scosto davvero, perciò Chakuza ride ancora e in effetti non mi lascia andare neanche un po’. Resta lì e il suo profumo lo respiro direttamente addosso a lui, che dopo una notte passata a cercarmelo addosso e fra le coperte è una bella cosa, intendo, avere finalmente l’originale a portata di mano.
- Va meglio adesso? – chiede alla fine, quando mi sente sospirare profondamente. Io mi rimetto dritto e solo allora lui mi lascia andare.
- Un po’. – ammetto controvoglia. Che ci posso fare, è vero. – Io non lo capirò mai cosa vuoi da me, Chakuza. – brontolo incrociando le gambe sul materasso ed incurvando un po’ le spalle. Mi sento quasi stanco.
Chakuza sospira a propria volta e mi sfiora appena un braccio col suo.
- Da te voglio te. – risponde in un soffio, - Non saprei metterla in un altro modo. Cerca di capirmi e basta.
- …insomma. – borbotto, mangiando pure io una merendina, - Non è che sia proprio facile starti dietro, Chakuza.
Lui ride piano.
- Lo so. – risponde.
Io sospiro e mi tolgo il vassoio di dosso. Lui non mi ferma quando mi rimetto in piedi, sistemo alla buona i vestiti stropicciati ed indosso le scarpe. Si limita a guardarmi con un’espressione a metà fra la tenerezza e la beatitudine e la sua felicità è così evidente che mi viene voglia di prenderlo a cazzotti, ma lascio perdere.
- Ci si sente, eh? – lo saluto con un cenno del capo. Lui risponde con un cenno uguale e mi fa un po’ strano, quando esco dal suo appartamento, non sentire i rumori tipici di lui che devasta casa perché me ne sono andato. Dovrò farci l’abitudine.
Quando arrivo a casa mia è quasi mezzogiorno. Apro e spero quasi di non trovarcelo Anis, qua dentro, perché sono veramente molto stanco e voglio farmi una doccia, sistemarmi, vestirmi, andare un’oretta agli studi e poi prendere il mio dannato caffè con Nicole.
Invece niente, ovviamente lui è ancora sul divano e ancora dorme. Durante la notte si è rigirato in ogni modo, i pantaloni della tuta gli sono risaliti su fino alle ginocchia ed ha una gamba ancorata allo schienale del divano. Un braccio pende giù verso il pavimento e l’altro è abbandonato dietro la testa, sul bracciolo. Respira con la bocca semidischiusa, la maglietta gli lascia scoperta la pancia ed i capelli gli sono finiti tutti sulla faccia, mentre la coperta si è arrotolata come un serpente tutta attorno al suo corpo. È talmente ridicolo che non posso proprio fare a meno di ridere, e quando lo faccio, anche se cerco di fare piano, lui si riscuote ed apre gli occhi.
Mentre si tira su a sedere con l’aria di uno che non capisce molto bene dove si trovi e perché, penso distrattamente che lui e Bill devono essere uno spettacolo, quando dormono insieme. Uno sbava e scalcia, l’altro si agita neanche fosse posseduto…
Realizzo in un secondo, mentre lo saluto con un cenno della mano e vado verso la cucina per preparare un caffè, che io ho dormito palesemente con troppi uomini, nel corso della mia esistenza. È impensabile che adesso io sia in questa situazione e conosca a memoria il modo in cui dormono tutti, Anis, Bill, Chakuza. È una cosa veramente assurda. Io sono un essere umano veramente assurdo.
Anis appare sulla soglia della cucina mentre io infilo la cialda nella macchinetta del caffè e decido di cambiare anche l’acqua nel recipiente, anche perché chissà da quanto è qui a ristagnare. Mi meraviglio di non trovarci dentro le rane.
- Che fai? – mi chiede grattandosi la pancia. Una gamba dei pantaloni è tornata al suo posto, l’altra è ancora tutta arricciata attorno al suo ginocchio. E poi, senza soluzione di continuità, aggiunge – Ma hai scopato?
Io lo guardo, e sono anche vagamente oltraggiato, lo ammetto.
- Ma che cazzo…? – chiedo, pigiando il bottone. La cucina si riempie dei rumori forti e vibranti della macchinetta, e Bushido scrolla le spalle.
- Ce l’hai tipo scritto in faccia. – mi fa notare, indicandomi il viso, - E comunque sei vestito come ieri. Che stronzo, io qui a deprimermi e tu in giro a scopare. Non ho parole.
- Tu non ti sei depresso, - gli faccio notare, piazzando due tazzine al loro posto sotto gli erogatori, - tu hai dormito. Sul mio divano. Non hai il diritto di contestare se scopo.
- E chi contesta! – ride lui, divertitissimo, - Chi è? La conosco?
Io scrollo le spalle, mugugnando risentito mentre spengo la macchinetta e gli porgo la sua tazzina piena. Con Bushido, il caffè si beve amaro.
- Nicole. – rispondo in un borbottio appena comprensibile. Anis spalanca gli occhi e schiude pure le labbra.
- …quella! – dice, tornando a puntarmi col dito, - Finalmente! Cristo, Pat, sono anni che ti viene dietro!
Io agito una mano e mando giù il caffè.
- Piantala di farti i cazzi miei. – lo minaccio con un’occhiata glaciale, - E tu non sembri per niente un uomo che abbia appena perso il grande amore della sua vita, comunque.
Anis si appoggia contro lo stipite e guarda un punto oltre la mia spalla, un punto che non significa niente e dove non c’è niente. Sorride ancora, ma è un sorriso così spento che mi mando a fanculo da solo e mi viene voglia di mangiarmi la lingua.
- No, eh? – chiede a mezza voce, sorseggiando il proprio caffè.
- …Anis- - provo a chiamarlo, ma lui mi ferma.
- Posso farmi una doccia? – chiede, posando la tazzina sul ripiano della cucina e stiracchiandosi un po’, - E mi presti qualcosa di tuo?
Io deglutisco, penso a Chakuza per un istante e poi lo sbatto fuori a calci dalla mia memoria. Mi concentro su Anis.
- Ti prendo un asciugamani.
Lui annuisce e sorride ancora. Quando scompare lungo il corridoio, aprendo porte a caso alla ricerca del bagno e chiedendomi se le uso tutte, queste fottute stanze, rido un po’. Magari stasera lo invito a cena.

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Something about us

di tabata
Sono triste, credo.
Non saprei dirlo con certezza perché in questo preciso momento non riconosco nessuna delle sensazioni che provo. Forse non ci sono neanche sensazioni. E’ che sono seduto al buio sul divano da ore e non mi sono mai mosso. Ad un certo punto ho anche pensato distintamente che se non mi fossi mosso subito, sarei rimasto in quella posizione per sempre. Così ho fatto l’unica cosa che mi andava di fare, battere le ciglia.
Sul divano ci sono finito per sbaglio. Non avevo intenzione di fermarmici sopra, stavo solo passando per andare a prendere lo smalto in bagno, ma poi mi è tornato in mente quello che è successo e allora mi sono seduto. E dà lì più niente.
Il problema, quando cerchi di tirare avanti ignorando le cose che ti fanno soffrire, è che le puoi tenere nascoste solo per un certo periodo di tempo, non per sempre. Quelle poi saltano fuori quando meno te l’aspetti e ti lasciano a fissare il vuoto sul divano, al buio.
E’ come quando non vuoi rimettere a posto la stanza e continui a ficcare uno dietro l’altro tutti vestiti nell’armadio e quello poi alla fine si spalanca all’improvviso mentre stavi facendo altro, riversando ogni cosa sul pavimento.
Io le parole di Anis e l’espressione che aveva sul viso quando mi ha cacciato di casa, non posso dimenticarmele ma non posso neanche seriamente conviverci. Non subito, almeno. A dire il vero vorrei dire che non potrò conviverci mai, ma so che se ha deciso così e non cambia idea, allora sarà così e basta e io dovrò convicerci per forza, perché posso fargli cambiare idea solo se non è colpa mia, ma lo è quindi sta a lui decidere.
Non voglio allontanarmi da lui, l’idea che sia lui a non volermi vicino mi disorienta. E lì capisco che alla fine, come sempre, la pensiamo uguale. Lui è tornato senza neanche prendere in considerazione l’idea che potessi essere di qualcun altro – io lo so che non gli è passato nemmeno per l’anticamera del cervello perché altrimenti lo avrei visto nei suoi occhi – e adesso che l’ha capito, e che ha regito, io non riesco nemmeno a concepire l’idea di non potergli stare vicino, o di non mettere più piede in casa sua.
Se penso razionalmente a quello che è successo negli ultimi giorni, io dovrei sapere che aldilà del ritorno di Anis, niente è stato davvero una sorpresa. Quello che voglio dire è che io non mi aspettavo la sua resurrezione, naturalmente, ma certo potevo aspettarmi che una volta tornato in vita avrei dovuto dirgli di Chakuza e potevo aspettarmi che il non dirglielo subito, che l’avergli permesso di toccarmi nonostante tutto, lo avrebbe fatto infuriare; solo che non c’è stato il tempo reale per pensare a queste cose.
Quando ho posato gli occhi su di lui, dopo un anno che guardavo soltanto le sue foto, lui è riuscito immediatamente ad occupare tutto lo spazio che c’era nella mia testa. Ha pigiato in fondo in fondo tutto quanto il resto e si è allungato tutto, allargando braccia e gambe per tenere lontano qualsiasi altro pensiero. E lì è rimasto quel tanto che bastava perché avessi bisogno di lui addosso e soltanto di lui, ignorando tutto il resto. Lo aveva sempre fatto, d’altra parte, invadere i miei spazi, finché non vedevo altro che la sua persona.
Solo che poi gli altri pensieri sono tornati al loro posto, lo hanno sommerso e costretto a farsi più piccolo ed occupare meno spazio, che poi è la metà intera di me. Solo una metà, però. Che non è assolutamente ciò che aveva prima.
Ora, nonostante io sappia razionalmente che la situazione in cui mi trovo non è altro che la conseguenza naturale del suo ritorno e del mio amare Chakuza, è difficile per me accettarla quando nessuna voce in fondo alla testa mi dice che questo è esattamente quello che doveva succedere. E non lo fa perché farlo vorrebbe dire accettare cose che per me sono inconcepibili da sempre, non solo da questo preciso momento in cui tutto va a rotoli e io non so come fermarlo. Io e Anis non siamo mai stati divisi volontariamente. Non c’è mai stato un momento in cui io o lui non volessimo stare insieme. Anche quando litigavamo e ci tiravamo le cose, anche quando io gli davo dello stronzo e me ne andavo e lui mi urlava dietro che ne aveva piene le palle di me, se poi io tornavo ed entravo in casa sua con il mio mazzo di chiavi, lui non faceva una piega, perché poteva essere incazzato con me, ma mi voleva lì; che è un po’ il suo modo di vedere me e tutto ciò che gli appartiene. Quindi adesso che mi ha detto di andarmene, io non voglio ammettere che questo sia possibile, per quanto stupido possa sembrare.
Sto seduto su questo divano, guardo il vuoto e mi chiedo come sarà possibile da qui in avanti, se davvero Anis non cambia idea, che io sopravviva ai giorni che passano senza la possibilità di avere addosso il suo sguardo; che non è come è stato nell’ultimo anno dove dovevo imparare a non averlo intorno perché era morto. In questo caso dovrei imparare a stare senza di lui perché lui non vuole.
Sarebbe senza dubbio tutto molto più semplice se Peter non facesse parte della mia vita con la stessa prepotenza con cui ne ha sempre fatto parte Anis. Se fosse una cosa da niente fra me e lui potremmo scrollare le spalle e amici come prima, ignorando gli ultimi nove mesi. Il punto è che non si è mai trattato di questo. Tutto questo casino è successo perché io Peter lo amo e lui ama me e, a parte quell’unico istante in cui nel tornare Anis mi ha ribaltato la testa, io non me lo dimentico che sono una cosa di Peter adesso, che voglio essere una cosa sua. E’ questo il dannato, schifosissimo punto.
Non voglio che Anis mi mandi via, perché è tornato adesso e sembra assurdamente ingiusto che non si stia insieme perché mi è mancato, perché mi manca e perché, cazzo, lo so che gli mancavo anche io. Eppure non voglio neanche restituirgli la metà del cuore che ho dato a Chakuza, perché io e lui siamo fantastici insieme, e andava tutto benissimo prima che Anis tornasse. Avevo una vita, prima che lo facesse. Ne avevo una anche prima che morisse. E allora mi viene da mandarlo a fanculo perché entrambe le vite che ho, alla fine, me le ha date lui, che ci fosse o meno, e adesso che mi ha tolto la prima, vuole togliermi anche la seconda. Lui decide, sempre, ma sono io che poi sto male.

*


Sono di fronte al palazzo di Bill da quasi venti minuti e non sono nemmeno sceso di macchina. Il fatto è che sono partito con un sacco di buone intenzioni ma nessuna idea di cosa dirgli, cosa fare o come affrontare la questione. Voglio dire, non sapevo nemmeno se venirci, qui, anzi a dire il vero avevo già deciso che non avesse senso, quindi mi chiedo come potessi sperare che qualcosa mi venisse in mente per strada. Col cazzo, per strada il vuoto assoluto. E ora che sono qui mi rendo conto che non so niente.
Non so nemmeno se in realtà Bill abbia deciso che con me non vuole più starci ora che Bushido lo ha praticamente mandato a fanculo, magari gli è anche passato per il cervello che non vuole più avere niente a che fare con nessuno dei due. Magari il fatto che non sia rimasto a casa mia, stasera, era già un chiaro segno evidente di quello che gli passa per la testa. Se fosse rimasto, non c’erano problemi. Ma non ne ha voluto sapere, quindi forse… che ne so. Non lo capisco mai quando fa così, quando non mi dice le cose e poi si aspetta che le capisca, intendo. Io non leggo fra le righe, le righe da sole mi danno già abbastanza problemi per avere anche il tempo di frugarci in mezzo.
La luce in salotto è accesa, ma non è un granché indicativo. Bill è un sacco distratto, lascia tutto acceso e aperto dove passa. E’ già tanto se vivendo da solo non ha fatto saltare in aria la casa col gas. Non sarebbe la prima volta che se ne va a letto lasciando accesa la luce del salotto – che è la stanza che vedo da qui. Questo a voler sperare nella cosa migliore, perché magari è proprio uscito dimenticandola accesa. Oppure c’è l’ipotesi peggiore di tutte: non è andato a letto da solo. Magari quello stronzo prima si è fatto pestare, poi è andato dove cazzo gli è parso, quindi ha fatto in tempo a incrociare Bill mentre tornava a casa. Che ci sta pure, voglio dire.
Solo che se io salgo nel suo appartamento e dentro ci trovo Bushido, non lo so quello che succede. Al momento non me ne frega un cazzo se quell’uomo prima di crepare era l’amore della vita di Bill. E me ne frega ancora meno se è tornato dal regno dei morti. Lo abbiamo pianto, lo abbiamo seppellito, e sono pure pronto a sopportare la sua faccia di culo se ha deciso di restare, ma col cazzo che gli lascio Bill per niente.
Io gli lascio Bill solo se Bill vuole essere lasciato.
Ecco perché mentre suono il campanello, già ci sto ripensando.
E se Bill vuole essere lasciato davvero?

*


Quando il campanello suona, non me lo aspetto per niente. Sono le undici, e non ho idea di chi possa essere. Penso a Tomi, ma è fuori con Cassandra e poi credo che ce l’abbia con me perché non gli ho detto di Peter; ho sbagliato, forse. Anzi no, ho sbagliato di sicuro con lui, ma avevo paura che non capisse. Avevamo litigato così violentemente per Anis che non volevo farlo di nuovo per Peter. Non lo so. Non sapevo come spiegargli che mi ero innamorato di nuovo, dopo che sembrava non ci fosse per me modo di innamorarmi più. Per un po’ anche io ho pensato di non averne il diritto, quindi magari anche lui pensava la stessa cosa.
Quando alla fine mi alzo, e hanno già suonato due volte, lo faccio solo perché almeno ho una scusa per smettere di pensare anche a mio fratello, e a come si senta tradito. Anche lui. Sembra che io non faccia altro che deludere gli uomini che mi stanno intorno.
Alzo la cornetta del citofono e la telecamera inquadra Peter davanti alla griglia dei campanelli. Io rimango a guardarlo perché ho un po’ paura che appena parleremo, finiremo per litigare. E’ il motivo per cui non sono rimasto da lui stanotte, mi avrebbe chiesto di Anis e io avrei dovuto dirgli che non lo so. A Peter che io non sappia non può bastare.
“Peter?”
Lui si gira a favore di telecamera.”Ti va se salgo un attimo?”
Non gli rispondo, gli apro solo la porta. Che poi è quello che ho fatto quando è venuto a prendermi la primissima volta e mi ha trascinato fuori casa. Ricominciamo sempre da capo, io e lui. Lo aspetto sulla porta e quando esce dall’ascensore, è un po’ teso ma mi sorride. Mi fa bene che sorrida. Non lo so se mi aspettavo di trovarlo arrabbiato, oggi pomeriggio lo era – nervoso e irritato – ma non mi aspettavo la tenerezza, quindi lo lascio fare quando mi accarezza piano la testa e mi posa un bacio sulla fronte. “Stavi dormendo?” chiede mentre entriamo.
Stavo contemplando il vuoto, in realtà. Questa è la prima volta che mi alzo in non so quante ore, Peter. Ma non te lo posso dire, quindi… “No, stavo…” scuoto la testa e cerco una risposta sul pavimento. Non c’è un granché da trovare sul parquet lucido, lui comunque non chiede. “Come va il viso?”
“Sopravviverò,” risponde. Lo guardo spingere la porta con la mano fasciata e non so cosa dovrei fare. Offrirgli qualcosa come se fosse un ospite sembra assurdo quando fino a qualche settimana fa girava in mutande per la mia cucina a prepararmi la colazione, quindi ritorno sul divano e tiro su le gambe, mi guardo le dita dei piedi in attesa che faccia qualcosa anche lui. Si siede, ma non troppo vicino. Tipo che potrei sfiorarlo con la punta del piede se volessi. Voglio, in realtà, così allungo appena le dita, solo per sentire la stoffa morbida dei suoi pantaloni. Lo faccio sempre, e lui di solito mi accarezza i piedi e si passa le mie dita minuscole tra le sue enormi della mano.
Lo fa anche adesso mentre mi chiede, “Tu come stai?”
Non ho idea di quale sia la risposta a questa domanda, e me ne rendo conto adesso che me la sta facendo. Sono triste, ma sono anche stanco e confuso. E sono felice che lui sia qui. Che cosa devo dirgli?
“Non preoccuparti.”

*


Se c’è una cosa che ho capito di Bill in questi mesi è che quando ti chiede di non preoccuparti, in realtà ti sta urlando di farlo, perché è in uno stato di depressione tale che non sa come uscirne e non ha neanche la forza di cercare le coccole su di te, come invece fa sempre quando è felice e gli piace farlo per il semplice gusto di avere qualcuno che si occupi di lui. Quando le cose si fanno serie Bill si concentra a tal punto per non andare in pezzi che poi non gli rimane la forza di chiederti aiuto.
In realtà io credo che debba ancora davvero sfogarsi. Pensavo lo avesse fatto con Patrick – io lo so che in queste cose Fler è bravissimo, che ti capisce al volo e ti toglie di dentro tutto, in un modo o nell’altro – ma evidentemente no.
Provo per un istante a dimenticare che il ritorno di Bushido potrebbe aver rovinato tutto fra me e lui, e che niente potrà mai più essere come prima dal momento che quell’uomo non è morto e Bill non ha mai smesso di amarlo in tutto questo tempo.
Mi sforzo di pensare a come debba sentirsi ora che Bushido ha detto di non volerlo più vedere. Io non lo so cosa farei se lui lo dicesse a me. E’ un casino pensare sia all’una che all’altra cosa, però, perché io non ci so fare in questi casi, non capisco mai nemmeno me stesso, figuriamoci gli altri. Non so come comportarmi. Di solito vado per istinto, di solito lo tocco, in realtà, perché mi faccio capire meglio così, ma non so se voglia e non ho intenzione di farlo innervosire.
In realtà non credo affatto che Bushido manterrà fede alle sue parole, perché quell’uomo non ha mai mollato niente in vita sua e di certo non mollerà lui. Io lo so, cazzo, che non lo farà nemmeno stavolta. Non lo farò nemmeno io. Però è normale che Bill ci stia male, e anche se mi fa incazzare e in questo momento vorrei urlare, non posso farlo. Non ne ho nemmeno il diritto, in realtà. E per quanto posso fingere che sia il contrario, è così e basta.
Quello che provo io devo lasciarlo da parte, e devo lasciare da parte anche quello che penso stia provando Bushido, perché ora è Bill l’unico che non sa dove andare. Io e Bushido lo sappiamo benissimo.
“C’è qualcosa che posso fare?” Chiedo e cerco il suo viso con gli occhi.
Lui tiene la testa piegata e scuote il capo, così mi allungo ad accarezzargli una guancia, con un sospiro.
“Io ci sono, lo sai, si?”
Bill solleva lo sguardo su di me e ha gli occhi rossi e gonfi, gli stessi che aveva nove mesi fa. Non mi piace ricordarlo com’era allora, perché ci sono stati dei momenti in cui non sapevo come riprenderlo quando si perdeva nel suo dolore. Ora non è così, lo so, è una tristezza tutta diversa, ma è profonda uguale e io non voglio rischiare di vederlo chiudersi di nuovo in sé stesso senza poter far niente. Gli accarezzo piano una guancia, la mia mano la prende praticamente tutta, e lui la segue.
Bill mi si avvicina gattonando. Lo vedo snodare le gambe, e le dita dei suoi piedi smettono di stringere la stoffa dei miei pantaloni. Mi si appoggia addosso soltanto un po’ e struscia il naso contro il mio. “Sono contento che tu sia qui,” mormora, prima di baciarmi piano sulle labbra.

*


Sono contento davvero che ci sia, anche se avevo insistito io per andarmene questo pomeriggio. Il fatto è che credevo di dover stare da solo – forse devo davvero stare da solo, in realtà – ma non ne sono capace. Mi perdo nella mia testa quando sono da solo e non voglio, perché tra i miei pensieri fa un freddo cane e non c’è niente. Niente di niente, solo un gran casino, e non mi serve un gran casino in questo momento.
Ho bisogno di qualcosa a cui aggrapparmi, e le spalle di Chakuza sono perfette. Sono le sue braccia ad avermi sostenuto fino a questo momento, io avevo solo mollato la presa un istante. Loro sono sempre lì, però, e io posso tornare a stringerle.
Lo bacio perché voglio baciarlo, ma piano perché non so cos’altro voglio. Per ora è il suo calore che mi manca, mi manca che mi stringa e che mi coccoli. Quindi va bene così. E poi mentre mi perdo nel suo sapore e nel modo gentile che ha di stringermi le labbra tra le sue, mi rendo conto che Chakuza non è la soluzione ad un problema. Lui è la mia vita adesso, è quello che ho voluto finché Bushido non è tornato dalla morte e io ci tengo a Peter, quindi non lo so come sto, non so come farò se Anis non vuole neanche vedermi, non so un cazzo di niente; però so che amo Peter, e questo è sufficiente a farmi ricordare cosa siamo io e lui e quanto contiamo per me. Non è la soluzione al casino di cose che ho nella testa, ma lui non è il problema. Ed è più di quanto possa dire di tutto il resto.

*


Bill mi sembra sempre fragilissimo quando ce l’ho fra le mani.
Lo so che non si rompe con niente, lo so perché è stato capace di farsi sbatacchiare quando voleva, però non posso fare a meno di pensarlo. E’ una conseguenza, credo, del fatto che quando gli stringo i fianchi quasi riesco a toccarmi le dita, che quando lo abbraccio ci sta tutto tra le mie braccia. Come adesso, mentre ci baciamo e penso che queste cose qui – questo tipo di coccole, coccole e basta per il momento – non le facevo da quando avevo tredici anni. E da adulto le ho fatte solo con lui.
Bill ogni tanto ne ha bisogno, di iniziare così piano, intendo, che quasi sembra che non si inizi per niente. Di baciarmi che quasi non lo sento, di strusciare il naso contro il mio collo per minuti infiniti. Lo fa spesso se siamo stati lontani a lungo, e lui ha bisogno di riappropriarsi di me. Io ho imparato a lasciarlo fare, e non ero per niente abituato. All’inizio facevo anche fatica, per dire, perché a me lui piace da morire e quando ce l’ho vicino voglio toccarlo. Aspettare è un sacco difficile. Ma è lui che decide, quindi io aspetto.
Gli passo una mano tra i capelli, e lungo il collo, sento il suo corpo muoversi contro il mio e registro il suo respiro che cambia, i suoi occhi che si chiudono appena.
Alla fine mi stringe le dita intorno alla maglia e quando torna a baciarmi, lo fa in maniera tutta diversa. Schiude le labbra, così posso sentire il suo sapore e perdermici, sono giorni che non lo bacio, giorni che non lo vedo nemmeno per altro, e non so quanto controllo posso davvero tirare fuori, anche se non esiste che non sia lui a dettare il ritmo di questa cosa. Stasera, più di ogni altra sera, si fa come vuoi tu, Bill.
Lui si scosta solo un istante e mi guarda dritto negli occhi mentre si toglie la maglietta e io lo guardo allo stesso modo, la sua pelle che lentamente si scopre la intuisco soltanto e la sento sotto le dita prima ancora di vederla. E’ caldo e morbidissimo. Bill mi spoglia mentre gli accarezzo l’ombelico e lascio scivolare le dita sulle poche curve che ha e che poi si perdono nei suoi angoli e nelle linee dritte del suo busto.
Aspetto che si distenda e che mi tiri verso di sé, allargando leggermente le ginocchia, prima di sistemarmi con attenzione su di lui. Il divano è grande ma non abbastanza per farci stare comodi. Lui non mi dà il tempo di pensare esattamente a come stare in bilico qua sopra perché riprende a baciarmi e io decido che in qualche modo faremo.

*


Le mani di Chakuza scendono a togliermi i pantaloni. Mi sfiora appena coi pollici quando sgancia i bottoni e io mugolo, voglio che lo faccia ancora. “Peter…”
“Sono qui,” mi morde piano il collo, sento la sua lingua sulla pelle nel momento esatto in cui le sue dita si chiudono intorno a me. Stringo le ginocchia intorno ai sui fianchi e mi muovo come si muove lui. Socchiudo gli occhi, la testa appoggiata al cuscino e al bracciolo del divano, ogni tanto vedo il soffitto buio ma ci sto già perdendo la testa. E’ la mia pelle contro la sua e le sue mani, e in generale è lui. Lo voglio adesso, ma voglio anche che continui. Con Chakuza è sempre così, voglio un sacco di cose. E me le dà sempre tutte, ma devo aspettare. Ci muoio quando mi tratta in questo modo, perché mi sento un sacco speciale ma poi è difficile trattenermi.
Torna a baciarmi, io torno a perdermi e lo stringo a me quando sento il suo peso che si sistema bene tra le mie gambe.

*


Non ho niente con me ed è tutto esageratamente lontano per interrompere questo momento. Non voglio smettere di baciarlo, né di accarezzarlo, non voglio che smetta di muoversi sotto il mio corpo, mi piace proprio tutto, è tutto perfetto. Così faccio piano, anzi pianissimo. Quando il respiro gli si ferma in gola, trattengo il fiato anche io e finché non deglutisce, finché non mi fa segno, io sto fermo.
Bill è bellissimo così disteso, segue col corpo i movimenti del mio polso e con le labbra le mie labbra. Non smetto di baciarlo neanche quando mi chiama. “Peter, ora…” mi prega e io faccio ancora più piano, entro appena e lo vedo mordersi il labbro.
“Amore…?” Solo lui, questa parola.
“E’ tutto okay,” risponde e mi si struscia contro, lo fa lentamente, sollevando i fianchi dai cuscini, invitandomi a seguirlo ad ogni singola spinta. Quindi lo faccio, il gemito che ci scappa dalle labbra ci si scioglie in bocca, e non so più se è il mio suono o il suo che sto respirando adesso.
Lo sollevo leggermente, tenendolo per un fianco, e lui si aggrappa un po’ alle mie spalle con un mugolio delizioso. Serra gli occhi quando lo trovo e lo sento tremare anche sotto le dita. “Peter…” Lo so, Bill. Ti sento. Anche io.
Mi muovo più svelto dentro di lui, Bill mi bacia e mi geme in bocca, prima di reclinare la testa e scuotersi tra le mie dita, esalando il mio nome in un respiro che è tipo la cosa più eccitante del mondo. Le mie mani lo stringono forse un po’ troppo forte, quei lividi li bacerò via con cura più tardi, nel suo letto, ora c’è soltanto lui che mi si chiude intorno al ritmo perfetto delle mie spinte. Bill e quanto lo voglio, sono le uniche cose a cui riesco a pensare mentre mi si annebbia la vista e il cervello. Quando mi appoggio sulla sua spalla, mi accoglie con un bacio alla tempia e sorride. Lo dice.
E lo dico anch’io.

*


Più tardi, quando abbiamo di nuovo fiato, Peter mi porta a letto di peso.
Mi lascia cadere sul materasso e rido, un po’. Mi fa il solletico e penso che quando facciamo gli stupidi, io non mi sento mai così piccolo.
Facciamo l’amore ancora due volte, poi Peter mi bacia finché non mi si chiudono gli occhi, così mi addormento col suo sapore sulle labbra e mi risveglio che so ancora di lui.
Lui non c’è però. La sua metà di letto, che poi è anche la mia perché mi piace dormirgli addosso il più possibile, è fredda. Mi sollevo a sedere, arrotolato come sono nelle lenzuola azzurre e mi guardo intorno. Ricordo molte belle cose di stanotte, ma non le so mettere in fila. E comunque voglio un bacio.
Vado alla ricerca dei pantaloni del mio pigiama e sento i rumori dalla cucina. Peter non può fare a meno di cucinare quando trova un frigo pieno, e il mio lo è perché mia madre è terrorizzata all’idea che muoia di fame.
Lo raggiungo e strofino il muso contro il suo collo.
Il primo bacio del mattino sa tanto di noi e un po’ di caffè.

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That's the way it is

di tabata
Quando ho lasciato il suo appartamento, Bill era sul divano e stava guardando i cartoni animati, con in grembo una ciotola di cereali senza latte – perché pesa quaranta chili ma mangia come quattro persone, quindo dopo le frittelle e i waffle amorevolmente cucinati dal sottoscritto ha voluto anche i cereali –, il che significa che, ad occhio e croce fra un paio d’ore, mi telefonerà chiedendomi che cos’ho fatto in tutto questo tempo che non mi ha visto e se penso di passare a trovarlo nel pomeriggio, e magari restare per la cena, e la notte, e la colazione del giorno dopo.
Bill quando non deve lavorare è onnipresente, non puoi dimenticarti della sua esistenza perché lui non te lo permette. E a me sta bene, perché non ho nessuna intenzione di dimenticarlo. Non ho neanche alcuna intenzione di cederlo a nessuno, quindi quella telefonata la voglio. E ne voglio anche altre dieci al giorno se questo significa avere Bill.
Ad ogni modo sono le undici e mezza del mattino, e io sono tipo nel peggior ritardo della storia dei Pangerl. Mio padre ha una visita dal cardiologo all’ora di pranzo e mia madre non può accompagnarlo dal momento che mia sorella Clara non ha trovato di meglio da fare che farsi sospendere per quattro giorni, quindi lei deve parlare con i professori.
In tutto questo, io devo passare in studio a portare a Stickle le demo che stavo controllando, e se non lo faccio quell’uomo mi farà a pezzi, quindi lui e Raf mi ricopriranno di cemento e mi getteranno nel canale. Ho circa un’ora di tempo per passare da casa, farmi la doccia, portare i cd a Stickle e quindi andare dall’altra parte della città a recuperare mio padre per riportarlo vicino allo studio della Beatlefield perché il suo cardiologo è lì. Non ce la posso fare. Certo potrei anche dirgli di andarci da solo dal medico, ma quel dolore che sente al petto ogni tanto non mi piace per niente. Il suo cuore comincia a perdere colpi, temo, e siccome lui tende a non dare nessuna importanza a quello che gli dicono i medici liquidando il tutto con un assurdo “mio padre è campato cent’anni senza averne mai visto uno”, quando non si ricorda che per l’appunto nonno è morto d’infarto, allora forse sarà il caso che lo accompagni.
Per qualche miracolo non trovo traffico. Casa di Bill non è lontanissima dalla mia ma se dice di esserci gente per strada ci metto anche un’ora. Quando arrivo, parcheggio e faccio le scale stando attento a non farmi sentire dalla signora Lotte che la mattina non ha niente da fare e quindi si apposta sulla porta per braccarmi con qualche nuova ricetta che ha scovato sul giornale mentre era dalla parrucchiera, che poi mi fa anche piacere – che mi dia una ricetta nuova, non che vada dalla parrucchiera – ma oggi proprio no.
Quando entro in casa, non è casa mia. Cioè lo è: l’ingresso, la cucina, il salotto è tutto dove deve essere, solo che è pulito e il lavello non emana quell’odore di vaga putritudine che di solito ti accoglie quando apri la porta. Entro e mi guardo intorno circospetto. Sembra uno di quei film in cui un uomo sta via per qualche ora e quando torna nessuno lo riconosce, in casa sua vive altra gente, a lavoro non lo hanno mai visto e tutti convengono che lui non è chi dice di essere. Ecco, io adesso mi aspetto che dal salotto, per dire, esca uno e mi chieda cosa ci faccio in casa sua. Magari se chiamo Stickle quello mi dice che Peter è già lì a lavorare dalle sei – e lì già avrebbe dovuto capire che non ero davvero io, perché io non mi alzo prima delle nove.
Poi però vedo sul divano la coperta con i cavallucci marini e allora capisco che di qui è passato Fler. Quando arrivo in camera, capisco che non solo c’è passato ma che c’è anche rimasto, perché sta dormendo nel mio letto. Mi viene da sorridere, e non mi sconvolgo neanche. Insomma, forse dovrei, perché non ha senso che quest’uomo sia nel mio letto, ma so anche che quando sono uscito da qui era tardi e Fler odia casa sua, quindi è normale che abbia preferito restare qui. E’ normale perfino che abbia dormito nel letto e non sul divano. Il divano è scomodo e non è la prima volta che usa quel letto, quindi ha tutto perfettamente senso. E non so se il fatto che abbia senso ha un senso, ma alla fine chissene frega. Vado a farmi la doccia.
Quando esco con l’asciugamano in vita e un ritardo che si accumula, lui dorme ancora ed è uno spettacolo. Fler non dorme per niente composto, quando riesce allarga sia le braccia che le gambe e siccome è lungo, occupa un sacco di spazio, quasi tutto il letto da una diagonale all’altra. Ora però è anche più scomposto del solito: è disteso supino a gambe large, e si copre gli occhi con l’avambraccio perché ieri sera non ha chiuso le tende e c’è una luce assurda in questa stanza. L’altra mano la tiene sulla pancia ma come sempre si è grattato, quindi la maglia è tutta sollevata. Mentre sono li che apro e chiudo i cassetti per trovare una maglia, lo sento che si muove e chiama sua madre nel dormiveglia. Io rido e lui spalanca subito gli occhi. “Ben svegliato,” dico.
“Sei tornato adesso…?” Mugola e cerca di dissimulare il fatto che sia in imbarazzo. Si stropiccia anche un occhio, e sembra un bambino.
Rido. “Veramente da un paio d’ore,” il che probabilmente mi pone nella posizione di dover chiamare Stickle e dirgli che non gli porterò le demo e che se mi vuole cementare i piedi dovrà aspettare che abbia portato mio padre dal medico. Trovo la maglietta in fondo al cassetto, alla fine, e la infilo. “Ma dormivi così bene che non mi è sembrato il caso di svegliarti. Ti hanno sfrattato da casa tua?”
Lui mugola e basta e si stira fra le coperte, anche se più che stendersi ci si incastra dentro perché ha parte del lenzuolo intorno ad una gamba e il resto gli passa dietro la schiena fino ad imprigionargli una mano. Difatti tira e strattona, ma è tutto legato. “Piuttosto,” dico, sistemandomi per bene davanti allo specchio, “si può sapere perché cazzo mi hai ripulito casa?” Chiedo divertito. “Mi è preso un colpo, quando sono entrato!”
Lui scrolla le spalle e alla fine riesce a liberarsi dal boa constrictor di coperte, mettendosi seduto. “Non lo so,” borbotta, “Era il solito bordello, ho sistemato qualcosa e mi sono fatto prendere la mano.”
“L’ho visto!” Rido di nuovo, non è una spiegazione per niente logica. Casa mia è sempre un casino, non ti metti a sistemarla a chissà che ora della notte. Io dovrei prenderlo da una parte e farci due chiacchere. E lui dovrebbe fare lo stesso con me. O forse qualcun altro, uno bravo, dovrebbe parlare con entrambi. Soprattutto perché alla nostra follia non cè limite, soprattutto alla mia. “Aspetta un secondo,” lo avverto, prima di scomparire nell’altra stanza. Dico, io non lo so perché prima, mentre dormiva, gli ho preparato latte e caffè e non ho idea del perché sto mettendo la tazza e la brocca sul vassoio in questo momento. Sostanzialmente, però, non me ne frega neanche. Mi va di farlo. Forse mi sono preso bene stamattina. O forse a Bill l’ho preparata perché mi fa piacere farlo felice, e se ho potuto farlo è grazie a Fler, quindi la colazione la faccio anche a lui.
Quando torno indietro col vassoio, e con la minaccia di Stickle che mi pende sulla testa, lui mi sgrana tanto d’occhioni azzurri. “Che cazzo è, Chakuza?” Chiede, sconvolto.
Io rido mentre gli poso addosso il vassoio e mi siedo. “La colazione. Non sapevo che avevi dormito qui, altrimenti mi sarei fermato a comprare qualcosa fuori… comunque ti ho fatto il caffellatte ed ho riesumato delle merendine…” indico delle robe un po’ ammaccate e chiuse nella plastica che ho trovato per puro caso. “Erano nella credenza da un po’ ma dovrebbero essere ancora commestibili.”
“… Chakuza,” mi ferma lui, con quel tono che sta a metà tra il rimprovero e la rassegnazione di uno che mi deve spiegare le cose semplici del mondo. Fler lo usa di continuo con me, e di solito comincia col mio nome e si pinza la radice del naso. Difatti ecco che lo fa, si pinza la radice del naso. “Perché mi hai portato la colazione a letto?”
Io mi chiedo perché mi debba necessariamente chiedere cose di cui sa perfettamente che io non conosco la risposta. Insomma, mi conosce, lo sa come faccio le cose io. Cosa chiedi? Sospiro. “Beh…” mi stringo nelle spalle, “Ho fatto la doccia, tu continuavi a dormire, non avevo niente da fare e-“
Non avevo niente da fare? Sono consapevole di non avere il cervello collegato alla bocca. Forse non ce l’ho collegato con niente, in realtà. E’ un organo a se stante che non comunica con nessun’altra parte di me.
“Chakuza!” Mi richiama lui, il tono passa dal rassegnato al severo. Credo che se avesse dei figli, Fler li farebbe scattare sugli attenti con quella voce lì.
Io un po’ ragazzino mi ci sento adesso, per dire. Afferro una merendina per darmi qualcosa da fare e ne inghiotto un pezzo duro e insapore come il cemento, poi sospiro e decido di dirla come viene. Tanto lo sa perché, me lo ha letto in faccia. “E’ andata… bene, con Bill,” rispondo, e non riesco a guardarlo negli occhi. Voglio dire, in questo momento io sono felice perché non ho perso Bill e i miei vestiti sulla cesta in bagno hanno ancora il suo odore, e io quando sono felice lo vedi a chilometri perché non tengo dentro niente. Però credo che non dovrei stare così di fronte a Fler. Dovrei, non lo so, contenermi, credo, boh. Il fatto è che se io sto in un modo, in quel modo sto, non è che posso fare diversamente. “… perciò credo di doverti ringraziare.”
Lui beve il suo caffellatte. “Non ringraziare,” mormora con una voce tremenda.
Fler quando è arrabbiato, oppure sta per esserlo, te ne accorgi subito. E’ come quando sta per arrivare un temporale, e vedi le nuvole grigie un sacco di tempo prima.
Ciononostante, per il discorso di cui sopra, io non riesco mai a fermare la bocca.
“… ma è merito tuo, se…”
“Lo so,” taglia corto. “Non ringraziare.”
Io non ringrazio, e mangio un altro po’ di questa merendina tremenda, che probabilmente è andata davvero a male in chissà quale era geologica. Forse era già qui quando ho comprato la casa, vai a sapere. Ora, questa situazione è davvero imbarazzante.
Voglio dire, io sono qui che come apro bocca sbaglio, però non posso semplicemente alzarmi e andarmene via a fare quello che ho da fare.
Il punto è che niente di ciò che posso dire migliorerà la situazione. Quindi cosa lo dico a fare? Cosa posso dire a lui che mi ha praticamente spedito da Bill quando non lo voleva affatto, e lo ha fatto perché io invece lo volevo? Grazie non vuole, quindi niente. Non gli dico niente. Forse dirà qualcosa lui. Mi avvicino e gli passo un braccio intorno alle spalle. “Ti va di parlarne?” Mormoro piano contro la sua tempia. E’ così vicino che sento il suo profumo.
“No, cazzo,” si lamenta subito lui, sconvolto. Si agita per liberarsi ma non mollo la presa. Lo so come fa lui, che quando si sente a disagio inizia a divincolarsi e poi o non ti guarda o lo fa con l’occhio da uomo del ghetto, che è quella specie di occhiata intensa che dovrebbe metterti un sacco di paura e invece è un sacco ridicola se pensi che la sta facendo per darsi un tono ed evitare di sfuggirti dalle dita. “Lasciami,” mugugna.
“Piantala. Ti va di mandarmi a fanculo?”
Forse è questa la soluzione, che non è che mandarmi a cagare possa risolvere tutti i problemi del mondo ma di solito aiuta. Visto che la mia persona fa più danni di quanti sia in grado di ripararne io devo sottostare a questa pratica per cui, ad intervalli regolari, vengo mandato a fanculo. E tutto torna più o meno come prima. Che non sembra, ma a qualcosa serve.
Lui infatti sospira. “Sì.”
“E allora fallo,” lo invito. Sono pronto, con le braccia aperte.
“Fanculo, Chaku.” E non è che lo dica granché convinto.
Rimane mogio così com’era, quindi ne seguono due minuti di silenzio dove lui non parla e io non so cos’altro accidenti fare. “Ti senti meglio?” Chiedo.
“Per nulla.”
Rido piano contro di lui, è ancora caldo di sonno. Fler è una creatura termoregolante. Se fa caldo, è fresco. Se fa freddo, scalda. Quindi stamattina che in casa comincia a fare fresco, lui trattiene il calore del letto ed è piacevole stargli accanto. “Dovevi dirlo con più convinzione.” Per me la tensione si sta allentando. In realtà quando questo accade per il sottoscritto, non è così per il resto del mondo. E’ per questo che poi sparo cazzate, la gente ci resta di merda e devo quindi essere mandato a fanculo di nuovo. Il fatto è che a me non piace stare in tensione, non lo sopporto proprio. Mi stanco. Percui ci sto per un po’, poi, indipendentemente da chi abbia iniziato, o di chi sia la colpa, basta, smetto. E tendenzialmente il mio cervello sarebbe portato a pensare che tutti dovrebbero fare la stessa cosa. Ovviamente così non è, per questo alla fine l’unica cosa sensata da fare da parte mia è lasciare che la gente mi gridi addosso.
“Non mi andava e oh, insomma Chakuza mi lasci andare?” Lui si lamenta ma non si scosta proprio per niente, e quindi io lo prendo per un segno positivo. Quando Fler non vuole veramente qualcosa, mugugna ma poi non si attiva per ottenerla. E infatti mi si appoggia anche un po’ contro mentre mi dice che dovrei proprio scostarmi. Alla fine sospira e si rimette dritto. Solo allora lo lascio andare, questa volta un po’ di tensione sta scivolando via davvero. O magari la sta facendo scivolare.
“Va meglio adesso?” Riprovo.
“Un po’,” ammette lui alla fine. E poi si siede a gambe incrociate sul letto e mi dice questa cosa spiazzante. “Io non lo capirò mai cosa vuoi da me, Chakuza.”
Per me è semplicissimo. Cioè, non è che io coscientemente abbia una risposta a questa domanda. Io coscientemente non ho risposta a nessuna domanda che non siano quelle base, che mi puoi fare nella quotidianità: C’è del latte? Hai preso le chiavi? Dove hai parcheggiato l’auto?... per tutto quanto il resto io rispondo d’istinto, che non vuol dire che mento, vuol dire che quella è la risposta ma non l’ho pensata prima di esprimerla. Tutto lì. Quindi io lo so cosa voglio da lui, ed è qualcosa di estremamente semplice e lineare. Nella mia testa. “Da te voglio te,” rispondo piano. “Non saprei metterla in un altro modo. Cerca di capirmi e basta.” E’ la pura e semplice verità.
E in realtà non c’è proprio niente da capire in questa frase. Fler è Fler, e tutto quello che lui è e rappresenta ed è stato con me e anche senza di me, a me piace. Lo voglio. Che poi al momento questo concetto è indipendente dal sesso, ed è molto più generale.
Io non riesco proprio a concepire che Fler non ci sia nella mia vita; non comprendo nemmeno le parole una in fila all’altra quando le pronuncio in testa. E’ come togliere l’ingranaggio centrale ad un meccanismo e sperare che funzioni lo stesso. Girerà a vuoto. Quindi a me non passa neanche per l’anticamera del cervello di togliere il Patrick-ingranaggio. Deve stare lì. Con tutti i suoi denti ad incastrarsi con i denti di tutti gli altri ingranaggi che compongono la mia vita. Se tu me lo togli, non funziono più nemmeno io. Quindi da Patrick voglio Patrick, quello che è. Lui.
“… insomma,” borbotta, azzardandosi a mangiare anche lui una merendina della prima guerra mondiale. “Non è che sia proprio facile starti dietro, Chakuza.”
“Lo so,” rido piano perché è una cosa che mi dicono da quando sono piccolo, credo.
Non c’è soluzione purtroppo, questa è la testa che mi hanno dato. Mio zio Albert, il fratello maggiore di mio padre, dice sempre che quando Dio distribuiva la logica, io dovevo essere al gabinetto.
Fler a quel punto sospira di nuovo, uno di quei sospiri che riesce a scuotergli anche quelle spalle enormi che si ritrova, quindi si toglie il vassoio di dosso e si sistema i vestiti il meglio possibile. E’ tutto a grinze, sembra uscito dalla lavatrice. Quindi si mette le scarpe e se ne esce da casa mia con un “Ci si sente, eh?” Gettato così, un po’ a caso.
Lo saluto allo stesso modo. Io comunque devo andare. Mentre recupero le chiavi della macchina da sopra il tavolo di cucina, e non lo so perché le ho lasciate lì quando sono entrato, getto le stoviglie della colazione di Fler nel lavello. Il telefono squilla un secondo dopo, ed è Bill naturalmente. Ci parlo mentre salgo in macchina. Si è finalmente svegliato del tutto, che con lui è un processo lentissimo come dicevo, ed è euforico perché ha scoperto un sacco di cose che dobbiamo assolutamente fare – indipendentemente dal fatto che ci sia il tempo e la possibilità di farle, naturalmente – e per dirmele lui non può aspettare nemmeno che finisca di mettermi la cintura e calcoli mentalmente il percorso che devo fare. Io già lo so che mio padre è fuori dalla porta di casa ad aspettarmi con venti minuti d’anticipo quando io ne ho quaranta di ritardo.
Bill vuole uscire, e ce lo porto fuori. Mi vuole a cena, come previsto. Prima delle sei non sono lì nemmeno se mi teletrasporto, Bill. Lo sento che mette il broncio, e questo semaforo è sempre rosso. Facciamo che ci provo, va bene. Lo prometto, sì, Bill.
E c’è la coda naturalmente. Quando ride però, rido anche io. Quanto entusiasmo.
Ora ti lascio che sono arrivato. Sì, anch’io.
Mio padre mi fa notare il ritardo e l’auto ricoperta di polvere – non la lavo da mesi – non appena faccio tanto di accostarmi al marciapiedi. E mentre gli tolgo le cianfrusaglie dal sedile davanti, buttandole su quello dietro, lui ancora parla.
Conto fino a dieci e sospiro. E’ inutile che me la prenda, tanto non ho avvertito Stickle, quindi il mio destino è segnato.
Il canale. Il cemento.
Mi accompagnerà la voce di mio padre che mi chiede perché non ho la cravatta.
Papà, la cravatta sulla maglietta?

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Mein Revier

di lisachan
La notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda è che, alla fine, ho di nuovo casa mia. A quanto ho capito, è stata la prima cosa alla quale David ha pensato - dopo, naturalmente, avermi riportato in Germania con la stessa navigata disinvoltura con la quale mi aveva aiutato ad uscirne. Pare che qui, la mia bella villa gialla - sui cui mobili sto lasciando scorrere le dita proprio adesso - fosse diventata una specie di museo alla mia memoria. O qualche altra simile stronzata.
Quello che ho imparato dalla mia morte fasulla è che, quando morirò sul serio, voglio che niente sia come è stato stavolta. Non voglio un funerale, non voglio un museo, non voglio una ricorrenza, non voglio un cazzo. Non voglio essere ricordato. Preferisco andarmene nella tomba con la certezza che nessuno saprà chi sono già due ore dopo la mia scomparsa, piuttosto che crepare con la speranza di contare ancora qualcosa per qualcuno negli anni. Tanto nessuno ricorda mai davvero. Non sei mai davvero niente per nessuno. Quando muori vieni spazzato via. La vita va avanti. È giusto così. Per questo, non farò altri drammi.
Fanculo.
Ricominciamo da capo.
La notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda è che, alla fine, ho di nuovo casa mia. Non potete veramente capire quanto sia importante avere una casa fino a quando non vi costringono a chiamare in questo modo un posto che non lo è. Nel caso di specie io mi sono costretto da solo, ma in genere questo non conta poi molto, quando stai male. È il classico motivo per cui, quando sei triste e qualcuno ti dice “sì, ma te la sei andata a cercare”, tutto ciò che hai voglia di fare tu è prendere il dannato qualcuno per il collo e spaccargli la testa contro il muro. Cercato o no, è dolore, quello che sto sentendo. Abbine almeno rispetto.
Prima di rientrare qua dentro - non ho nemmeno chiesto a David come sia riuscito a rimetterci sopra le mani, immagino siano fatti suoi come ottiene le cose. Per me è okay - credevo che avrei odiato ogni singolo centimetro di questo appartamento, perché ogni singolo centimetro mi parla di Bill. Odora di lui, sa di lui, ho fotografie del suo corpo, del suo viso, dei suoi sorrisi, dei suoi occhi, su ogni fottutissimo centimetro di questi mobili, di questo pavimento, di queste pareti. È ovunque. E lo sapevo prima di rimetterci piede. Quindi pensavo avrei sofferto come un cane - rivedere Bill ovunque senza possibilità di dimenticarmi perfino che esistiamo ancora nello stesso mondo, impensabile.
E invece no. Cioè, naturalmente se dicessi adesso che non sto male al pensiero di Bill in questa città ed al pensiero di me che non posso più vederlo – perché sono stato io a buttarlo fuori dalla mia vita – ed al pensiero di quello che avevamo ormai completamente devastato dalla distanza e dal tempo, sto male. Ovvio che non posso guardare una fottuta parete senza rivederci contro Bill con una nettezza tale da poterlo quasi disegnare a memoria.
Allo stesso tempo, però, questo posto mi consola. Nonostante tutto quello che è successo, tutta la gente che c’è passata, tutte le cose che sono state portate via, toccate da sconosciuti, spostate da dove le tenevo sempre e via dicendo, questo posto è rimasto mio. Ha ancora intatti tutti i suoi colori, perfino gli odori – se cammino lentamente da una stanza all’altra – sono sempre gli stessi. Mancano pezzi interi di ciò che questa villa è stato, ma è ancora lei. Ed io sono uguale. Mancano pezzi interi di me, ma sono ancora qui. Quando mi seggo sul divano, guardo il vuoto e penso che senza Bill non posso sopravvivere – perché Bill era il motivo per cui sopravvivevo, cazzo, e ora non ce l’ho più – osservare la casa mi consola. Lei ha resistito. Se possono farlo dei fottuti mattoni, potrò farlo anch’io.
- Anis?
Sollevo lo sguardo e davanti a me c’è Pat, in piedi, con una mano sulla fibbia enorme della cintura che indossa e l’altra sollevata per aria, il mazzo di chiavi – che è il doppione delle chiavi di questo appartamento. Praticamente è stato la prima persona dalla quale mi sono catapultato con la copia, appena ho avuto le chiavi in mano – appeso all’indice che dondola lentamente avanti e indietro, mentre lui muove quasi impercettibilmente la mano per impedirgli di fermarsi.
Pat sarebbe palesemente la notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda, se non avessi riavuto casa mia. Siccome ho riavuto la casa, non è la notizia migliore ma resta comunque una notizia bellissima.
Tra le varie cose che ho trovato irrimediabilmente cambiate, quando sono tornato, Patrick è stato quello che mi ha spaventato di più. Da quando lui e quello stronzo di Chakuza hanno scoperto che ero vivo in poi, io e lui ci siamo presi un po’ di tempo per noi. Perché ne avevamo bisogno. Io e Pat ci siamo allontanati bruscamente troppe volte, nella nostra vita. La quasi totalità delle quali a causa mia, peraltro, ma non intendo certo pentirmi di ciò che ho fatto nella speranza di migliorare le cose. Così come non intendo pentirmi di essermi finto morto per cercare di tirare fuori Bill da un ghetto cui non appartiene e nel quale peraltro non ha mai veramente vissuto, non intendo pentirmi delle innumerevoli volte in cui ho lasciato indietro Patrick nel tentativo di risparmiare sia a me che a lui qualcosa che c’era e che tuttavia non poteva essere vissuto come sarebbe stato giusto viverlo, per una quantità di fattori talmente elevata che non mi va nemmeno di elencarli adesso.
Comunque sia, nel tempo che ci siamo presi per noi prima che io e Bill ci rivedessimo e poi tutto precipitasse, io ho trovato un Patrick molto diverso da quello che avevo lasciato prima di partire. Di lui possono essere dette molte cose, ma non di certo sia una persona spenta. C’ha sempre avuto il fuoco negli occhi, Patrick, fin da quando era piccolissimo. Ha continuato a tenere viva quella fiamma crescendo, e bruciava ancora quando mi ha infilato un coltello in un braccio in quel dannato vicolo, la notte in cui Saad mi ha quasi mandato all’altro mondo con due fottuti proiettili. E invece, tornando da Miami, io questo ho trovato. Un ragazzino spento.
Ci ho messo un po’ a ritrovarlo, ma adesso che è qui e gioca con le chiavi davanti a me non posso fare a meno di sorridere nel rendermi conto che mi è bastato grattare un po’ quella superficie opaca che gli copriva gli occhi, per riportarli alla loro lucentezza originaria. Ancora non ho la più pallida idea di cosa li avesse resi così cupi – posso pensare di essere stato io, morendo; ma non lo so. Patrick non s’è mai spento perché l’avevo lasciato, semmai il contrario, più io mi allontanavo, più lui brillava di rabbia – ma al momento non conta tantissimo. L’importante è che sia di nuovo qui e che mi sia rimasto accanto. Che viva praticamente a casa mia, ad esempio, sembra una cazzata – e in fondo lo è, lui sta comunque in giro per la maggior parte del tempo e quando stiamo insieme non facciamo che cazzeggiare – ma è importante. È necessario, io ne ho bisogno e lui lo sa, perciò resta anche se avrebbe decisamente di meglio da fare che non rimanere qui a distrarmi il più possibile per evitare di permettermi di pensare a Bill.
Per dire, s’è messo con Nicole, questa ragazza che gli va dietro da anni senza che lui sia mai riuscito ad afferrare anche solo lontanamente il concetto. Patrick, con le donne, è sempre stato un po’ così. Svampito. Nel senso che non è granché bravo ad averci a che fare. È più tipo da maschi, nel senso innocente del termine. Cioè, gli piace la compagnia maschile, è uno bravo a cazzeggiare, ride, gioca a basket, si attacca alla playstation dimenticandosi per ore del mondo che lo circonda e via così. È rimasto un sacco un ragazzino, perciò le donne le maneggia con una certa difficoltà. Al contempo, però, quando si mette con una tipa prende sempre quest’impegno molto sul serio, perché è uno responsabile, lui, quindi non capita mai che, se sta con una, si dimentichi della sua esistenza. Ecco perché Nicole è sempre fra i piedi, ad esempio. Fler non la molla mai, quando è in giro è sempre con lei e quando viene qui per cena la porta. Ora, per dire, sono sicuro che lei ci stia aspettando in macchina di fuori, visto che Patrick è passato per venirmi a prendere.
Insomma, quello che intendo dire, riassumendo, è che avrebbe sicuramente di meglio da fare che non passare con me le sue ore. Però, quando si fa tardi e siamo qui a giocare a carte da ore e Nicole comincia a sbadigliare, quello che Patrick fa non è augurarmi la buonanotte ed andarsene. No, lui riaccompagna Nicole a casa ed è a lei che augura la buonanotte, prima di tornare qui da me. È sempre qui che ritorna e in realtà è sempre qui che sta, e c’è stato perfino quando tutta l’intera crew è stata riunita in questa casa, due giorni dopo che era rientrata in mio possesso, perché io potessi parlare loro di quello che presumibilmente sarebbe stato il nostro futuro. C’è stato lui e c’è stata Nicole. Sono carini, insieme. Fler sembra felice, a guardarlo. Sorride. Insomma. È più di quanto non si potesse dire di lui sei anni fa.
La riunione è stata una cosa che David ha voluto fortemente quando mi ha spiegato – ridendo peraltro di me che avevo effettivamente sperato il contrario – che non ci sarebbe stata neanche la più piccola possibilità di riuscire ad uscire vivo dalle mani della Universal se, dopo essere risorto, non mi fossi lasciato usare per tirare su un po’ di quattrini. “Se volevi essere lasciato in pace,” mi ha detto, “potevi restartene a Miami. Sei voluto tornare, hai voluto la scena madre? Ebbene, ogni attrice di film muto che si rispetti, nella scena madre o muore o dona le proprie virtù ad un uomo. Tu morire non puoi…” quindi ho da donare le mie virtù alla Universal.
Lì, io ho arbitrariamente deciso che, a quel punto, se di ritorno si doveva trattare, non sarebbe stato solo quello di Bushido, ma dell’Ersguterjunge tutta. Come ha intelligentemente sintetizzato Fler – che, ovviamente, mentre io discutevo con David della faccenda, era lì a farsi fare le carezzine sul collo da Nicole, praticamente sdraiata addosso a lui – “allora non ti limiti a donare le tue, di virtù, doni anche quelle di tutti gli altri. Furbo”. Furbo, sì, e necessario. Sono un sovrano solo se ho dei sudditi, d’altronde. In caso contrario, non sono niente.
Quindi la riunione si è svolta in questi termini, più o meno: ho accolto in casa mia Eko, Nyze, Kay e Bizzy, mi sono seduto sulla mia poltrona preferita, Fler s’è seduto a sinistra sul bracciolo a pochi centimetri dalla mia mano, Nicole s’è ordinatamente messa in piedi dietro di lui e David si è posizionato dritto e fiero alla mia destra, le mani incrociate sul petto e lo sguardo sicuro e tranquillo del manager di successo.
Eko è stato il primo a sollevare un dito, puntarlo contro Fler e schiudere le labbra per chiedere, con la maggiore innocenza e col minor tatto possibile, perché il Senzatetto fosse seduto lì e dove fosse finita la Principessa. La domanda ha posto in luce tutta una serie infinita e molto controversa di questioni che io ho preso in blocco e, con l’autorità da me stesso autoconferitami, ho messo da parte, rispondendo solo in parte e, comunque, solo con le informazioni che mi conveniva lasciare trapelare. D’altronde ad Eko non serve sapere che Fler il posto su quel bracciolo se l’è guadagnato in anni e anni di duro lavoro senza peraltro beccare mai niente in cambio. Anzi, sono quasi certo che Eko abbia decisamente bisogno di non sapere niente del genere.
Patrick,“ ho specificato, “è qui perché quello il suo posto. Quanto alla Principessa,” ho continuato, “è scappata col fottuto usciere,” e tutti si sono voltati a guardarsi intorno. Hanno notato l’assenza di quello stronzo di Chakuza. Ed hanno capito. “Perciò, vi sarei grato se, da questo momento in poi, sia quella troia che quel pezzo di merda uscissero dai vostri pensieri e non se ne facesse parola più in mia presenza,” li ho informati sorridendo. “Ciò detto, per quanto riguarda la mia resurrezione…” e lì David mi ha fermato sbuffando, fortunatamente, ed è passato ad aprire il proprio lucentissimo portatile nel mezzo del tavolino da caffè per poi illustrare alla mia squadra quale sarebbe stato il programma della loro esistenza per i successivi anni a venire fino alla morte.
Ho approfittato del momento di confusione in cui la mia crew cercava di prendere atto dell’agenda più fitta su cui posassero gli occhi da mesi, per sollevarmi dalla poltrona e spostarmi in un angolo della casa in cui mi sentissi più a mio agio e libero di prendermi a testate da solo per ciò che avevo appena detto, ed il luogo deputato è stato la cucina. È stato lì che – dopo aver rinunciato al proposito delle testate ed aver ripiegato su una più salutare birra sulle bollicine della quale perdermi un po’ in attesa di sentirmi meglio e tornare di là – mi sono visto spuntare Patrick, le mani intrecciate sul petto, le sopracciglia inarcate ed un sorrisino stronzo a piegare le labbra sottili, mentre si appoggiava disinvoltamente con una spalla allo stipite della porta, incrociando le gambe.
“Piantala di fare la troia,” ho sputato fuori acido, “Entra, se devi entrare, e chiudi la porta. Oppure torna di là.”
Lui s’è messo a ridere, ma è entrato ed ha chiuso la porta.
“Hai il troia facile, oggi,” mi ha fatto notare, rubandomi la birra dalle mani e bevendone a propria volta, “Quello che mi chiedo è: perché dirlo quando non lo pensi?”
“Chi ti dice che non lo penso?” ho ringhiato, riappropriandomi della mia dannata bottiglia. Patrick ha riso.
“Nessuno me lo dice,” ha risposto candidamente, “Io lo so.”
E il problema è quello. Non che lui lo sappia. Ma che ha ragione, dannazione.
Il problema enorme che ho con Patrick è che con lui, anche senza volerlo, mi sono aperto troppo. Gli ho detto un sacco di balle, ma gli ho detto anche un sacco di cose vere, nel corso dei lunghi anni in cui ci siamo conosciuti. Gli ho dato modo di imparare a distinguere le mie bugie dalle mie verità, e il risultato di tutto questo è che io, adesso, con lui non posso mentire. Patrick non è mai palese, quando mi sputtana. Non mi dice mai che ho torto, non mi manda mai a fanculo come il cazzaro che sono meriterebbe. Però se io lo guardo negli occhi lo capisco, se lo sa o meno che ho detto una cazzata. E questo basta, il più delle volte, a farmi desistere dal dirgliela.
E questo è valso quella sera in quella cucina così come vale adesso, perciò non lo faccio attendere, mi alzo in piedi e mi sistemo i vestiti addosso, chiedendogli se Nicole sia fuori che ci aspetta, e rido divertito quando lo sento rispondere che ovviamente sì, è nell’Escalade ed è emozionatissima perché non è mai stata ad un allevamento di cani in vita sua. Rido perché in realtà neanche io sono mai stato ad un allevamento di cani e non ho idea di cosa aspettarmi da questa cosa, oggi. Per dire, non so se arriverò lì e sarò circondato da un’orda di cuccioli minuscoli e morbidissimi e sarò quindi costretto a dar via tutta la mia dignità in un colpo solo accasciandomi fra di loro e guardandoli tutti con occhi innamorati mentre non riesco a decidere quale prendere in braccio accarezzare grattare sprimacciare per primo.
I cani, voglio che sia comunque reso noto, sono stati un’idea di Patrick. Il giorno dopo aver ricevuto le chiavi della villa, Pat ha cominciato a piagnucolare perché era enorme e vuota. Non so che problema abbia con le case vuote, è una cosa che si trascina dietro da sempre, tant’è che faceva come un pazzo anche quando dividevamo l’appartamento e lo lasciavo lì solo troppo a lungo. Comunque, più è grande la casa più lui si lamenta. Casa mia, ovviamente, è enorme. Perciò lui s’è lamentato tantissimo. E la cosa più allucinante è che non ha posto il problema in termini “starai solo, qui dentro, i cani potrebbero farti bene”. No, l’ha posto in termini “questa casa è vuota da far spavento, ci voglio dentro dei cani”. Tranquillissimo, come dovesse fermarsi a vivere qui per sempre. Non è che la cosa mi dispiaccia in sé e per sé, ma anche datti una calmata, ragazzino.
Quindi, è stato Patrick a decidere che dovevo avere due cani – uno, a suo dire, per quanto grande, sarebbe stato comunque troppo poco per riempire la casa. Così come ha deciso che dovevo avere due cani, ha deciso anche di che razza dovevano essere – “Ovviamente labrador, Anis. Non c’è niente di meglio di una bella coppia di labrador per rendere una casa vivibile e rumorosa”. Ora, sul rumoroso posso anche essere d’accordo, ma quale casa extralusso quale la mia è diventa più vivibile con due cani a colonizzarne ogni singola stanza? – ed in conseguenza di ciò ha deciso anche dove dovevo andarli a prendere. Motivo per cui adesso siamo qui all’ingresso di questo allevamento in aperta campagna e ci guardiamo intorno con aria un po’ smarrita chiedendoci dove siamo finiti e soprattutto dove sia finita Berlino, che anche a sforzarsi non si scorge più nemmeno all’orizzonte.
Ovviamente l’aria smarrita è quella mia e di Nicole, perché Patrick è così incredibilmente a suo agio che un po’ mi viene da chiedergli se qui ci sia già stato. E infatti lo faccio. E lui mi guarda spalancando gli occhioni azzurri ed inarcando le sopracciglia, e risponde.
- No, è la prima volta. – candido come un giglio, - Ma ho cercato su qualche forum un consiglio per un buon allevamento specializzato, perché sai, no?, ogni allevamento, se è serio, si specializza su una sola razza, così da avere esemplari migliori, e poi niente, ho cercato su Google e già che vedevo le indicazioni stradali ho usato le mappe per farmi un’idea del posto. Indicativa, mica lo so a memoria. Giusto per capire dove dovevo andare, più o meno.
Annuisco e Nicole lascia andare una risatina tenera, dopodiché oltrepassiamo il cancello e ci introduciamo all’interno dell’allevamento. Io scorgo in lontananza un tizio che sembra un indigeno, cioè, insomma, uno del luogo, e lo indico col dito.
- Magari lui può aiutarci. – faccio, armato delle migliore intenzioni. Fler borbotta “nah” e mi liquida con un cenno disinteressato, puntando dritto verso un enorme casolare in fondo al vialetto di ghiaia sul quale stiamo camminando.
- È lì, - illustra, - quello là è il reparto maternità.
Ah, be’, ovvio. Il reparto maternità. Questo perché aveva solo un’idea indicativa del posto.
Io e Nicole continuiamo a seguire Fler come fosse il padrone di casa – probabilmente sulle mappe di Google deve averci passato la notte, altroché. Non gli crederò mai più quando mi chiede il computer per controllare la posta. Questo non è controllare la posta – e lo facciamo fino a che non raggiungiamo il casolare in fondo al vialetto.
- Dobbiamo entrare? – chiede Nicole.
Patrick sorride, scuote il capo e la prende per mano. Non prende per mano anche me solo per decenza, suppongo, però mi cattura con un’occhiata molto orgogliosa della sua persona e mi invita a seguirlo mentre svolta dietro l’edificio e ci mostra un enorme spiazzo occupato per più di metà da un recinto grandissimo. Ripieno di cuccioli. Sono così tanti e così piccoli che continuano a salire l’uno sull’altro, aggrovigliandosi come i gomitoli di lana nella cesta, pestandosi le orecchie a vicenda ed emettendo guaiti acuti e lamentosi ogni volta che si salgono addosso e si fanno male alle zampette e ai musetti.
Non c’è verso che noi tre qui si possa sopportare questa vista.
Nicole parte a squittire immediatamente, le mani giunte sul petto e gli occhi che brillano. Io resisto il tempo di un mugolio random e poi mi sciolgo in un’aw veramente poco regale, inclinando il capo e sorridendo mentre lascio scorrere lo sguardo sul nutrito branco di cagnetti, e Fler comincia a ridere felice, affiancandosi a Nicole ed abbracciandola da dietro, alle spalle, dondolando un po’ e sussurrandole all’orecchio qualcosa che non sento.
Ci si avvicina un tizio ma io non lo vedo, sono troppo concentrato a guardare questi batuffoli di pelo che si accavallano come le onde rotolando l’uno sull’altro. Sorrido appena, il tizio ride e si rivolge a Fler, che tiene ancora strettissima Nicole fra le braccia. Le ha poggiato il mento su una spalla e lei ha stretto le mani piccole dalle dita sottilissime attorno al suo avambraccio. Berlino spunta fra un dito bianchissimo e l’altro. La B, il ditino, la R, un altro ditino, pezzi di fiamme, un pezzo di I, un altro ditino. Mi concentro sul disegno e non sento una parola del dialogo fra Fler e l’uomo. tutto quello che so è che meno di un minuto dopo le porte del recinto ci sono state aperte e siamo tutti e tre seduti in terra e circondati da cagnetti troppo piccoli per potersi fidare di noi ma troppo curiosi per poterci stare alla larga. Nicole ne insegue uno gattonando, Fler le tira un pizzicotto sul fianco e poi prende in giro un cagnetto tirandolo per la coda e ridendo dei suoi guaiti irritati, ed io… io mi lascio scegliere.
Skyline è il primo ad avvicinarsi. Non so perché ma lo chiamo immediatamente così; quando vedo il batuffolo bianco panna che mi rotola incontro quasi accidentalmente, andando a sbattere contro il mio ginocchio, decido che sarà mio e che sarà Skyline. Il cane mi guarda curiosamente per qualche secondo, io guardo lui, allungo una mano e lui mi morde. Non ha neanche un dentino, dev’essere piccolissimo. Rido perché le sue gengive, nonostante tutta la forza che ci mette a stringere la mascella, mi fanno solo il solletico. Lo sollevo per la collottola fino al mio viso, lui mi guarda risentito, abbaia un paio di volte e poi si affloscia tutto come una specie di peluche svuotato del suo riempimento di lanugine, e io rido ancora.
Sherlee arriva dopo, ed arriva accompagnata da un altro maschietto bianco panna che le sta facendo la posta. Ho perso di vista Fler e Nicole da tanto di quel tempo che potrebbero essere scomparsi – sollevo il naso dal livello-cuccioli cui l’ho tenuto fino ad ora e mi rendo conto che sì, sono scomparsi. Nota per me, mandare a fanculo Patrick la prossima volta che si propone per accompagnarmi fuori città, è palese che ha solo voglia di un po’ di sesso outdoor ed io non ho davvero bisogno di concedergli cose simili per vivere un’esistenza felice – e insomma, resto qui seduto nell’erba e osservo questa macchiolina pelosa nera che sculetta altezzosa cercando di allontanarsi dall’altro maschietto. Skyline si è già abituato alle mie carezze e mi sta ronfando in grembo, ma quando si risveglia dal suo sonnecchiare e osserva la scena con quegli occhioni enormi color cioccolato si prende subito bene, salta in piedi, si lancia giù dalle mie gambe ed ovviamente capitombola in terra arrotolandosi su se stesso in una coreografia di cagnetti che si scostano per non finire travolti dal suo rollio.
A questo punto, nell’osservare Skyline rimettersi dritto sulle zampe e pararsi fra il maschietto e Sherlee, prima decido che non posso privare Skyline della cagnetta che vuole proteggere, e poi decido anche che si chiama Sherlee. Sherlee perché inizia per S come Skyline. Sherlee perché suona bene, accanto a Skyline. È musicale. Come Bonnie e Clyde. Come Bill e Bushido.
Quando Fler e Nicole tornano, ridendo come due deficienti, io tengo in braccio entrambi i miei cani minuscoli e sono perfettamente soddisfatto di me. Patrick mi chiede perché di colori diversi. Io rispondo che bianco e nero, insieme, sono una combinazione bellissima.
*
È la stessa cosa che penso delle ciocche bianchissime che scendono sulle spalle di Bill, intrecciandosi ai suoi capelli nero pece e risaltando sulla maglietta nerissima che indossa quando me lo vedo spuntare davanti agli studi della Universal, dove sono stato convocato oggi per discutere gli ultimi dettagli del mio piano di lavoro. Penso al bianco e al nero che si rincorrono fra i capelli di Bill in una pettinatura nuova, che non gli ho mai nemmeno immaginato addosso e che gli dà un’aria selvaggia che non riesce in alcun modo a scalfire l’innocenza ostinata dei suoi tratti da ragazzino, penso al bianco della sua pelle e penso ai toni scuri della mia, Skyline e Sherlee, bianco e nero è tutto ciò che penso. Non riesco a realizzare che Bill è effettivamente un dettaglio del mio piano di lavoro, finché non è David a farmelo notare.
David, per inciso, mi sta parlando da dieci minuti, e credo di non aver registrato in memoria neanche una delle cose che ha detto. Il che non è bene, perché fra poco David se ne accorgerà e farà come fa sempre quando mi disapprova moltissimo: pianterà le mani sui fianchi, sporgerà un’anca nello stesso preciso identico modo che ha passato a Bill come eredità ideologica e mi guarderà come fossi un essere umano indegno di solcare il suo stesso suolo perché non capisce la fortuna enorme che ha avuto nel trovare un uomo come lui perché si occupasse dei suoi affari. È vero, Jost, non merito per niente. Ma Bill è lì seduto su quella seggiolina di plastica dall’aria scomodissima, i capelli gli ricadono come una cascata sulle spalle e davanti al viso ed osservarlo guardare altrove con quell’aria persa, seria e tristissima, mi toglie tempo e voglia per fare qualsiasi altra cosa, compreso ascoltarti. È a lui che penso. È lui che vedo. È lui che ascolto, anche se non sto sentendo niente. Dov’è che vorresti essere, piccolo? Dove sei, amore mio?
Lo schioccare di dita che mi risveglia è sicuramente la cosa più omosessuale di cui abbia mai fatto esperienza in assoluto – e io, di esperienze omosessuali, posso parlare con una certa competenza – subito dopo lo sguardo da gay in carriera oltraggiato che David mi sta rivolgendo in questo momento. Ogni tanto mi ritrovo a pensare che io per quest’uomo provo del rispetto e non capisco perché invece lui non ne provi per se stesso.
- Bushido, mi stai ascoltando? – chiede con aria tendente all’isterico, mettendo le mani sui fianchi e sporgendo l’anca come da me ampiamente previsto, - È da mezz’ora che-
- Sì. – annuisco sbrigativamente, - Lo so. E no, non ti stavo ascoltando. – lui mi lancia un’occhiata semplicemente basita – e anche disgustata e offesa e ferita e un altro migliaio di cose circa – ed io mi affretto a rettificare. – Mi dispiace. – aggiungo, - Dicevi?
- Dicevo, - riprende, incrociando le braccia sul petto e battendo un piede per terra, - che ti sarei grato se restassi concentrato. E tranquillo. Oggi siamo qui perché tu e… - sospira e lancia un’occhiata a Bill ancora seduto sulla sedia. Finge di non essersi ancora accorta di me, la mia principessa, ma io so che sa perfettamente che sono qui. So che mi sente. - …insomma. – sospira ancora Jost,- Dovete tirare fuori qualcosa. Vogliono una collaborazione e la vogliono fra voi due. Non è in discussione, questo punto. Lo capisci questo, Bushido?
Annuisco compitamente. Lo capisco, sì. Non mi sta bene ma lo capisco.
- Troverò un modo di uscirne. – gli dico.
- No. – scuote il capo lui, - Tu non devi trovare un modo di uscirne. Devi trovare un modo di obbedire e basta, per una volta. Stare alle regole, ricordi cosa significa? – vorrei rispondere di no. Non ci sono mai stato, d’altronde. Ma risparmierò a David almeno questo peso, limitandomi ad annuire. – Regole. – ripete, - Ti concentri sul lavoro. Non perdi tempo. E… - il mio sguardo indugia ancora sulla figura magra di Bill, - e non lo tocchi. Gli parli il minimo indispensabile. Lo guardi anche meno. Chiaro?
Ringhio, riportando i miei occhi nei suoi.
- Stai parlando per dare aria alla bocca, Jost? – chiedo sprezzante. Come fosse possibile per me coesistere nello stesso universo di Bill staccandogli gli occhi di dosso o permettendogli di dimenticarsi della mia esistenza. Coglione io ad averlo pensato. Coglione io ad averci sperato. – Lo sai che-
- Quello che so, - mi interrompe lui, glaciale, - è che non mi interessa un fico secco di quale sia la relazione privata che al momento c’è fra te e Bill. Il tuo primo pensiero al mattino e l’ultimo alla sera sono saltargli addosso? Benissimo. Non mi riguarda. Me ne sbatto, Bushido. Ciò che pretendo da te, - e si sporge a battermi due dita petulanti contro il petto, - è un minimo di professionalità. Non mi fido di come agisci quando stai intorno a Bill, non mi fido di come reagisci alla sua presenza, ma la mia professionalità adesso mi impone di farlo. Spero che la tua ti imponga di rispettare tutto questo.
Agito disinteressato una mano. Jost pretende di ragionare con un pazzo. Io non sono una persona irrazionale. Sono, anzi, una persona molto metodica e dotata di un forte senso logico. Ciò non toglie io sia pazzo. Ciò non toglie io sia pazzo di Bill.
Nel momento in cui Jost si allontana ed esce dalla stanza, sospirando e scuotendo il capo e lasciando me e Bill qui da soli – io da un lato, lui dall’altro – immersi in una specie di ambiente sottovuoto fatto solo di silenzio compresso, io so che il discorso che mi ha appena fatto non è servito a niente. la mia professionalità, al momento, non mi impone un bel niente. Tutto ciò che mi impongo – assolutamente da solo, non ho bisogno di chiamare in causa nessuna responsabilità altrui – è continuare a guardare Bill fino a quando non avrà dato segno di aver accettato il fatto che sono qui e che gli tocca considerarmi.
Bill si rassegna quasi cinque minuti dopo, e sono cinque minuti talmente densi che sembrano cinque ore. Quando lo osservo sollevare un braccio e rigirarsi una ciocca bianca fra le dita, la tensione che si è accumulata in questi cinque minuti – cinque ore – di silenzio, si scioglie e scivola lungo le mie spalle, lasciando posto ad un nervosismo nuovo, più ansioso.
Bill si alza in piedi, afferra la sua seggiolina per lo schienale e la trascina fino al tavolo. Poi la rimette in terra, si siede e la sistema vicina al tavolo, in modo da poter poggiare i gomiti sul ripiano in formica.
- …ciao. – biascica quindi, - …non so che altro dire. – aggiunge poi sinceramente, abbassando lo sguardo.
Io lascio andare una mezza risata ironica, massaggiandomi distrattamente la nuca.
- È un ottimo inizio, principessa. – lo prendo in giro, - È quasi un mese che non ci vediamo e tu non sai cosa dire. La tua loquacità si è di molto ridotta, da quando frequenti Chakuza.
Lo vedo aggrottare le sopracciglia e stringere i denti. La sua mascella scatta silenziosamente – è appena un tremito sulla sua guancia – ed i pugni si serrano sul tavolo. Vorrei sorridere soddisfatto, perché mi piace scuoterlo in questo modo, ma mi trattengo.
- Non cominciare, Anis. – dice secco. Vorrebbe suonare come un ordine ma è più che altro un’implorazione strozzata. – Non è il caso di tirare in mezzo Peter.
- Sai cosa? No. – rido ancora io, - Non sarebbe per nulla stato il caso di tirare in mezzo Peter. – gli faccio il verso, sottolineando il nome con disgusto, - Ma non sono stato io il primo a farlo, mi pare. Sei tu che l’hai tirato in mezzo, facendoti fottere per nove cazzo di mesi, subito dopo la mia morte.
Bill mi guarda e boccheggia, sulle mie ultime parole. Stringe le dita e schiude le labbra, spalancando gli occhi e tendendosi tutto sulla sedia.
- Non ti permettere- - comincia, ma non mi è mai piaciuto sentirmi dire cose che limitassero la mia libertà di agire. Perciò limito io la sua, zittendolo come so fare meglio. Urlando.
- Mi permetto quello che cazzo voglio, Bill. – ringhio, - Tu non sei nella posizione di impedirmi niente. Conto i giorni, Bill, e tre mesi non sono un cazzo. L’hai superato in fretta, il lutto.
- Non ricominciare! – strilla lui, le lacrime agli occhi, - Mi hai già detto quello che pensi di me, non hai motivo di ripetermelo!
Mi alzo in piedi, battendo i pugni sul tavolo e sovrastandolo.
- Il motivo ce l’ho, ed è che non ti è ancora entrato in testa! – gli faccio notare, - Perciò te lo ripeterò finché non l’avrai capito, Bill.
Lui si alza lentamente. Pianta le mani sul tavolo e si solleva, guardandomi dritto negli occhi. Vuole piangere, è palese, ha già un paio di lacrimoni pronti per rotolargli lungo le guance, ma tiene duro. La mia principessa tiene duro.
- Ripetimelo, allora. – dice fiero, - Dillo ancora, Anis, avanti. Magari te ne convinci.
E lo ripeto.
- Troia.
A piena voce e senza esitazioni. Senza nemmeno abbassare lo sguardo. Non lo abbassa nemmeno lui, ed anzi ghigna quando mi sente scivolare l’offesa fra le labbra.
- Bravo. – e il suo sorriso mi sfida, - Suona bene? Ti piace? Dillo ancora.
- A te piace sentirtelo ripetere? – ringhio, sporgendomi verso di lui. Lui non indietreggia. – Troia. – ribadisco, - È quello che sei.
- È quello che sono. – annuisce lui, - Sono stato a letto con Peter. Mi sono innamorato di lui. Sono felice con lui, Anis. Questo fa di me una troia? – ride appena, una risata leggera, ed allarga le braccia, avvicinandosi a me, - Allora lo sono.
Ed io non ci vedo più. Passi essere stato a letto con quello stronzo di Chakuza, passi credere di amarlo – non è amore, Bill, non è come quello che hai con me, cazzo, non le senti le scintille? – passi anche la fottuta cazzo di felicità, ma a me non lo dici. Non così, non con quegli occhi. Non con quel sorriso. Io non sono disposto a sentirtelo dire, Bill, non sono disposto ad accettarlo. Perciò lo afferro per un polso e lo strattono violentemente verso di me, costringendolo a fare il giro del tavolo per poi spingerlo a schiantarsi di spalle contro la parete, con un tonfo sordo ed un mugolio di dolore appena accennato.
Lui solleva subito lo sguardo, scrollando il capo per liberarsi dalle pesanti ciocche intrecciate che gli ingombrano la vista. È fiera e altezzosa, la mia principessa, e mi guarda con occhi privi della minima pietà. È così arrabbiato che, potesse – non lo tenessi così schiacciato contro la parete – mi salterebbe al collo per sbranarmi.
- Non osare. – sibila, e dice proprio non osare, usa quel verbo lì, una cosa che ha del maestoso, del sacrale. Se mi avesse detto che non dovevo permettermi, gli avrei riso in faccia. Ma lui dice non osare ed io percepisco distintamente la sua furia e la sua offesa. Lo sento di nuovo mio come non lo sento mio da un anno intero, cazzo. E se ne rende conto anche lui, non appena pronuncia quelle poche parole. Il suo sguardo esita appena sul mio e poi torna a farsi affilato come un coltello. – No, Anis.
- No? – chiedo io, chinandomi su di lui, - No cosa?
- No. – ringhia, piantandomi entrambe le mani sul petto e pressando, - Non ci provare, non ci pensare nemmeno. Non voglio.
- Non sto pensando a niente, principessa. – gli soffio sul collo, e non lo sfioro nemmeno, se non col respiro. Sono solo parole, è solo aria. Io non ti sto toccando, principessa, quindi cos’è che dovrei smettere di fare?
- Non dire stronzate. – protesta lui, pressando con più forza le mani sul mio petto. La spinta si fa troppo insistente e fastidiosa, motivo per cui lo stringo per i polsi e poi lo blocco al muro, le braccia alte sopra la testa. – Anis!
- Bill. – lo chiamo a mia volta, e ghigno, - Sei felice col tuo principe azzurro, principessa? – chiedo, - Dillo ancora.
- Sono felice. – ripete, sostenendo il mio sguardo. Mi spingo contro di lui, i nostri bacini collidono e lui non riesce a trattenere un mugolio.
- Dillo ancora. – gli sussurro addosso, schiacciandomi addosso a lui con tanta forza che non può più neanche fingere di non aver sentito quanto sono duro oltre il tessuto spesso dei jeans. – Dimmi ancora che sei felice.
- Sono felice, Anis. – ripete lui in un sussurro che si confonde con un gemito, - Cazzo… sono felice, perché non ti rassegni?
- Perché… - gli scivolo addosso con la punta del naso, inspirando a fondo il suo profumo, - perché sei mio, piccolo. Lo sai.
Rabbrividisce sotto le mie mani, trema così forte che si scuote tutto, e le gambe quasi gli cedono.
Potrebbe dirmi che non è vero. Potrebbe dirmi che non è più mio da un pezzo. Ma non è questo quello che esce dalle sue labbra. Non è questo quello che dice.
- …mi hai mandato via tu. – respira a fatica, cercando di divincolarsi un paio di volte, prima di arrendersi alla mia stretta.
Io ghigno, ancora nascosto contro il suo collo, e mi spingo nuovamente fra le sue gambe. Lui le schiude con una naturalezza disarmante. È quello il mio posto, cazzo. È mio, mi spetta. Lo voglio, fanculo.
- È vero, ti ho mandato via io. – torno a guardarlo negli occhi, sussurrandogli sulle labbra, - Perché te lo sei meritato.
- Io non ho fatto niente. – ansima Bill, muovendo lentamente il bacino contro di me, - Spostati.
- Me lo chiedi spalancando le gambe, Bill? – rido a bassa voce, schiudendo le labbra sulla pelle sottile e morbida della sua gola, - E poi non sei una troia?
- Non sono la tua troia. – precisa lui, e le mie labbra gli si richiudono addosso. E lui ricomincia a tremare appena io inizio a succhiare. – Anis… cazzo.
Sorrido sulla sua pelle, mentre lui riprende a muoversi. Finge di stare provando a divincolarsi, ma in realtà non fa che strusciarsi più velocemente contro di me.
- Guarda come ti agiti. – rido, e mi allontano da lui. La macchia arrossata umida di saliva spicca sulla pelle bianca del suo collo come il sangue sulle lenzuola bianchissime del suo letto, la notte in cui sono morto. La nostra è una storia di contrasti. Il bianco e il nero, Bill. Non puoi dimenticartelo.
- Smettila. – ringhia, - Lasciami. – sono richieste vuote. Non sta chiedendo niente. Sta chiedendo me, dal modo in cui si struscia, dal modo in cui le sue labbra mi cercano schiudendosi appena mentre ansima a corto d’aria, io lo capisco che sta chiedendo me. – Anis… Anis, ti prego.
- Mi preghi di fare cosa, piccolo? – gli chiedo addosso.
- Lasciami. – prova lui, ma la sua voce è incerta.
- Sbagliato. – scuoto il capo io, baciandolo piano sul mento.
- Lasciami, cazzo. – prova ancora.
- Sbagliato. – ripeto, risalendo a baciarlo appena sotto il labbro inferiore.
Lui trema. Mi si scioglie contro, tiepido e arreso.
- Scopami. – ansima alla fine, - Anis, ti prego… ti prego, scopami.
Io ghigno. E lo lascio andare. Ed è una cosa così improvvisa che Bill, privato da un momento all’altro delle mie mani e del mio corpo che lo sostengono schiacciandolo al muro, quasi non riesce più a reggersi sulle gambe, e deve aggrapparsi con le unghie alla parete per non rovinare a terra. Mi guarda con quegli occhi da cerbiatto, enormi, il trucco nero ed elegante appena un po’ sbavato dalle lacrime che non si è ancora lasciato libero di versare.
Mi guarda e non mi chiede cosa sto facendo. Non mi chiede perché non lo sto più toccando o perché non ho già una mano fra le sue cosce. Legge tutto quello che gli serve nel mio sorriso, la principessa. Perché è brava a farlo, perché gliel’ho insegnato io a capirmi anche quando sto zitto, anche quando faccio di tutto per non essere capito. E quindi Bill mi capisce, si rimette dritto sulle gambe, si avvicina e mi schiaffeggia.
- Io non ti amo più. – mi dice seccamente, mentre torno a guardarlo, - Vaffanculo, Anis.
La mia mano si alza prima che possa fermarla e non sono tanto sicuro che, se ne avessi avuto il tempo, l’avrei fermata comunque. Si abbatte contro la sua guancia con violenza, lascia lo stampo rossissimo di quattro dita sulla sua pelle bianca ed osservo il viso di Bill scattare lateralmente, i suoi capelli ovunque, le lacrime che finalmente scendono non tanto per il dolore quanto perché lo schiaffo ha finalmente spazzato via la fissità dal suo volto, devastando quella stupida maschera di orgoglio e onore dietro al quale il mio piccolino si nascondeva. Non puoi giocare ad essere un altro con me, Bill. Così come non posso farlo neanch’io.
- Non sprecare fiato per mentire a me. – ringhio, - Comincia a pensare a come giustificherai i miei marchi con Chakuza, principessa. – consiglio, e non mi spreco nemmeno a ghignare, indicando con un cenno del capo il succhiotto che spicca ancora sul suo collo. E l’impronta del mio schiaffo.
La guancia mi fa incredibilmente male e credo che Bill mi abbia graffiato con le unghie. Sono marchiato anch’io. Ma aspetto di lasciare la stanza per portare una mano al volto e ringhiare.
*
In questi giorni ho scritto una canzone. Che non sia niente di eccezionale non è nemmeno da mettere in discussione, ma è tutto quello che sono riuscito a tirare fuori fra una cosa e l’altra. Dove il concetto “una cosa e l’altra” può essere tranquillamente riassunto in me e Fler sul divano che giochiamo alla playstation mentre Skyline e Sherlee devastano il mio salotto rovesciando i divani e mandando a terra i soprammobili, e Nicole prepara da mangiare. È la prima cosa che mi ha detto Patrick di lei, peraltro, “sai che è bravissima ai fornelli?”, fa, compiaciutissimo, “Devo farti provare il suo polpettone”. E da lì è diventato “devo farti provare il filetto al pepe”, “devo farti provare i maccheroni al sugo”, “devo farti provare il maiale alle mele” ed il risultato di tutti questi tentativi è che ormai davvero Nicole va via solo per andare a dormire. La mia casa è diventata un disastro. Ed io ho scritto una canzone. Che lo so che fa schifo, quindi non mi stupisce adesso, mentre la passo a Fler – sulla cui spalla Sherlee ha fatto il nido, divertendosi da mezz’ora a mordergli un orecchio – osservare le sue sopracciglia inarcarsi mentre lascia scorrere dubbioso gli occhi sul foglio, piegando le labbra in una smorfia poco convinta.
- E con questa – chiede, recuperando Sherlee per la collottola e sistemandosela in grembo, dove lei prende subito a mordergli la maglietta, - cos’è che intenderesti fare?
- Intendo, non intenderei, - preciso in un mezzo grugnito, - farne il singolo per il quale la Universal mi rompe i coglioni da una settimana.
Lui, naturalmente, scoppia a ridere. Dalla cucina arriva un buon profumo di funghi saltati in padella, e Skyline sgambetta felice verso quella direzione, il naso per aria e la coda che si dimena da un lato all’altro con tanta forza che penso potrebbe prendere il volo come una specie di elicottero peloso e con le orecchie.
- Okay. – borbotto, - Lo so che ho scritto di meglio.
- Oh, - ride ancora Patrick, - questo non è veramente in discussione. Più che altro mi chiedo se tu ti sia reso effettivamente conto di cosa stavi scrivendo, mentre lo facevi, o se ti è stato suggerito mentre eri tipo in trance artistica e non te ne sei accorto fino alla fine.
Solleva il foglietto spiegazzato che mi sono portato dietro in tutti questi giorni per scrivere quando avevo voglia, e me lo sventola davanti al naso.
- Prinzessin? – chiede quindi, con un ghigno stronzo, - L’amore del ghetto, il capo in guerra, le bande rivali e la principessa infedele, Anis?
Io distolgo lo sguardo con un lamento seccato.
- È solo una canzone. – borbotto, - Non c’entra niente con tutto il resto. È un’altra storia. Lei va a letto col capo della banda avversaria. – mi giustifico, gesticolando distrattamente verso il foglietto.
- Certo, assolutamente. – ride ancora lui, annuendo mentre cerca di liberare la maglietta dai dentini da latte di Sherlee, - D’altronde, non si può parlare di metafora, in questo caso. Non ritroveremo in questo… - torna a guardare il foglio, rileggendo velocemente un passaggio, - …uomo senza onore che ha tradito la sua stessa gente… - e ride di nuovo, - non ci ritroveremo certo Chakuza. E… - legge più in basso, - Lei, cane di razza, che ha morso la mano che la accarezzava, di certo non c’entra niente con Bill. Sono due persone assolutamente casuali.
- Senti. – ringhio io, strappandogli il foglio di mano, piegandomelo e sollevando il bacino dal divano per infilarlo nuovamente in tasca, - L’alternativa era: scrivo io o lascio che qualcuno alla Universal, magari Jost, scriva qualcosa per me. La seconda scelta, se permetti, non era una scelta, perché io-
- Tu di sicuro non ti fai scrivere un testo da un ex boybander che gestisce un gruppo di marmocchi che giocano alle rockstar, indubbiamente.
- Esatto. – annuisco animatamente io, - Questo è venuto fuori, d’accordo? Questo è.
- E questo farai cantare a Bill. – scrolla le spalle lui, - Com’è che fa il ritornello? Mi dispiace, non ero in me, riprendimi con te, grandioso re? Non ho letto bene.
Mi sollevo dal divano e lo mando a fanculo. Nicole viene fuori dalla cucina avvolta in un vecchio grembiule di Karima – Karima mi manca. Queste cose vado realizzandole ancora pezzo dopo pezzo – con una pirofila strabordante di pennette con panna e funghi, ed annuncia che il pranzo è pronto. Io però non mangio.
*
Chakuza, naturalmente, non è stata una mia idea. Come non è stata una mia idea niente di tutto questo, dal momento che avrei preferito di gran lunga scrivere un’autobiografia con i dettagli completi della mia morte e della mia resurrezione piuttosto che trovarmi in una situazione del genere. Ma se anche fosse stato possibile che questa canzone, questo video, questo momento di merda in cui io guardo Bill e Bill guarda altrove, fossero una mia idea, di sicuro Chakuza non avrebbe avuto un posto in tutto questo. Ed invece è qui perché i grandi capi della Universal, qui, non appena hanno messo gli occhi sul testo hanno cominciato a fregarsi le mani e sogghignare furbamente.
“Lo trovano perfetto,” ha ghignato Jost, dandomi la notizia, “Naturalmente. Sai ancora perfettamente come venderti. Dovresti smetterla di pagarmi per ciò che faccio.”
Vaglielo a spiegare che non ne avevo la benché minima intenzione.
Chakuza, comunque, non è stata una mia idea, ed in ogni caso non sono proprio sicuro che, dopo aver letto il testo, sia granché felice di essere qui a fare questa parte fingendocisi perfino a proprio agio – sorridente e cordiale con tutti meno che con Fler, di fronte al quale, per motivi che non comprendo, è letteralmente sbiancato nel momento in cui l’ha visto comparire sul set mano nella mano con Nicole. Suppongo non se lo aspettasse e basta, anche Bill, quando ha posato gli occhi addosso alla coppietta felice – l’unica nel raggio di chilometri – ha fatto una smorfia incredula che mi ha quasi fatto venire voglia di ridere.
Questa è la prima volta che ci vediamo tutti e tre insieme. Le registrazioni si sono svolte in momenti separati e distinti – “Ovviamente mi organizzerò perché non dobbiate mai incontrarvi neanche per caso all’uscita degli studi”, è stato il commento di Jost all’intera situazione, mentre prendeva appunti sulla propria agenda – ed è un bene che in questo momento noi si sia circondati da così tante persone. Perché Bill e Chakuza sono troppo vicini, per i miei gusti. Ed io comincio a sentire la rabbia crepitarmi come fuoco sulla pelle, tendendo tutti i miei sensi.
Al momento io sto seduto su un divanetto e Bill e Chakuza sono persi da qualche parte alle mie spalle, mentre il regista spiega per l’ennesima volta il concetto del video che ci siamo già sentiti ripetere abbondantemente uno per uno – almeno, a me avrà ricordato la questione del tu-sei-furioso-ma-non-vuoi-lasciarlo-andare quelle trecento volte, quindi mi auguro che, per giustizia divina, l’abbia ripetuta anche a loro. Sono qui su questo divano e tengo le braccia incrociate sul petto e mi chiedo perché abbia lasciato a Jost la possibilità di scegliere il regista per questo dannato video, visto che quest’uomo appartiene decisamente alla sua stessa razza – che poi temo sia quella cui appartengo anch’io, ma io sono molto meno palese – e continua a gesticolare brillando di luce propria ed autocompiacendosi per la genialità intrinseca del concept del suo meraviglioso storyboard per il video. Mi viene da dirgli che la storia che lui sta mettendo per immagini sul fottuto schermo l’ho scritta prima io nella mia fottuta canzone. E che comunque fa cagare. E in ogni caso è un inno all’omosessualità che sia io che il german rap ci saremmo volentieri risparmiati, perciò la smetta di volteggiare in giro per il set sventolando quella sua tremenda sciarpina in raso rosa e torni qui a fare il suo mestiere, così da poterci rimandare tutti a casa il più in fretta possibile, che ho Sherlee e Skyline soli a casa e nessuno che giochi con loro e dia loro da mangiare.
La tiritera, a Dio piacendo, dieci minuti dopo finisce. Herr Vorderberg – così si chiama la piaga sociale che ci dirige – si piazza sulla sua seggiolina di pezza stile regista hollywoodiano, accavalla le lunghe gambe avvolte in microscopici pantaloni a quadrucci bianchi e neri e batte le mani, lanciando a tutti noi un’occhiata fra l’annoiato e il disapprovante da dietro le lenti tonde dei suoi occhiali da sole. Continuo a chiedermi Jost dove l’abbia conosciuto, questo tipo, e poi mi alzo in piedi, perché il tizio comincia a mostrare segni d’impazienza e non voglio dargli l’opportunità di esibirsi nella scena madre che gli vedo brillare negli occhi, seguendo il copione della quale lui dovrebbe alzarsi in piedi, gettare indietro la sua sciarpina rosa ed uscire dal set pestando i piedi e strillando che siamo tutti degli incompetenti e non meritiamo la sua professionalità.
Quando mi giro, quello stronzo di Chakuza s’è già tolto dalle palle. Bill si aggira con aria abbattuta attorno al letto sfatto che ci fa da scenografia per la prima scena del video, ed io ghigno discretamente.
- Allora! – squittisce Vorderberg, - Via le magliette! I pantaloni potete anche tenerli su. – mi viene da ridere ma la mia espressione non lo dimostra, quando mi avvicino anch’io al letto e ne sfioro le lenzuola bianchissime con una mano, fingendo di risistemarle meglio. – Normalmente, il mio amore per il realismo mi imporrebbe di farvi spogliare integralmente, ma… - lo osservo lanciare un’occhiata a Jost, Jost la ricambia con una tale quantità di minacce che Vorderberg quasi indietreggia, - …ma per evitare problemi cercheremo di inquadrarvi solo a mezza figura. Ora, se volete cortesemente prendere posto…
La scena che dobbiamo girare è praticamente un porno softcore. Sapete, di quelli in cui la gente si muove e geme ed ansima e si capisce che sta scopando, ma in realtà non si vede niente di niente perché gli attori non stanno davvero scopando, stanno solo strusciandosi l’uno contro l’altro. Hans Vorderberg, il nostro talentuoso regista gay, ha deciso, leggendo il testo della canzone, che in ogni caso non potevamo comunque sputtanarci più di così, perciò tanto valeva darsi alla pazza gioia e girare questa lunga scena d’amore in cui io e Bill facciamo di tutto su questo letto, in modo da poterla intramezzare con altre parti del video durante il montaggio. Per tutto il resto delle riprese, questo sembrerà un video normale – scene di vita quotidiana, gente che canta su sfondo nero illuminata da luci azzurre e via così – ma oggi bisogna girare questa scena, quindi il set sembra quello di un porno, Bill è a disagio, Chakuza sta spalmato contro la parete a dieci metri di distanza – le braccia incrociate sul petto e una gamba sollevata, il piede piantato contro il muro – ed io ghigno.
Sfilo le scarpe e mi sistemo sul letto, lanciando un’occhiata a Bill che si stringe nelle spalle e guarda altrove. Sospiro, togliendo la maglietta in un gesto veloce e lasciandola poi ricadere per terra, osservando poi uno degli svariati assistenti biondi di Hans – tutti biondi, questi assistenti, una cosa surreale ed anche un po’ inquietante – chinarsi a recuperarla ed appoggiarla su una sedia, fuori dall’inquadratura.
- Signor Kaulitz, - lo richiama Vorderberg, agitando una mano con aria annoiata, - la mia insalata di alghe arame e rucola non aspetterà i suoi comodi e sono già le undici. Vogliamo darci una mossa? Deve solo sfilare la maglietta e stendersi, non mi sembra una richiesta esageratamente onerosa, da parte mia.
Bill gli lancia un’occhiata irritata e la stessa cosa fa Chakuza, ancora fermo in posa plastica contro il muro, mentre Fler nasconde una mezza risata ed io combatto contro me stesso una lotta impari per fermare il ghigno che tenta di risalire alle labbra. Lo lascio fare, alla fine, e quando Bill guarda me, togliendo la maglietta e stendendosi al mio fianco, se ne accorge.
- Ti diverti? – mi chiede acido, puntando i gomiti sul materasso per calciare via le scarpe da tennis e recuperando il lenzuolo dai piedi del letto, rimboccandoselo fino alle spalle.
- In realtà sì. – rispondo candidamente, continuando a ghignare, - Tu no?
- Affatto. – ringhia lui, - Speravo che, dopo quello che è successo, non ci saremmo più rivisti.
- Illuso. – rido io, mentre Hans ci strilla di metterci in posizione, motivo per il quale mi avvicino a lui e lo osservo girarsi su un fianco e togliersi il lenzuolo di dosso per darmi modo di girargli un braccio attorno alla vita.
- Già. – risponde lui, gelido, - D’altronde, l’erba cattiva non muore mai e tu ne sei un esempio perfetto.
- Bella battuta, principessa. – rido, tirandomelo contro. Lui trattiene il respiro per un attimo e poi lo rilascia tutto in una volta. Il suo fiato caldo mi sfiora il petto e la mia mano scende a stringergli un fianco con maggiore decisione. – Mi sei mancato, piccolo. – aggiungo, muovendomi impercettibilmente contro di lui.
Bill trema, stringendo una mano attorno al lenzuolo.
- Anis, ti prego. – mormora, - Non qui, almeno.
- Stiamo recitando. – gli ricordo, accennando alle telecamere tutte intorno a noi, - Rilassati.
- Tu non sei per niente rilassato. – mi prende in giro lui, allusivo.
- Mi fai quest’effetto. – rido ancora, accarezzandogli il fianco morbido col pollice, - Che posso farci?
- Avete preso confidenza per bene? – ci sfotte Vorderberg, picchiettando nervosamente con un tacco sul pavimento, - Allora. Tendenzialmente – comincia a spiegare, gesticolando fluido, - non servirebbe la musica di sottofondo, per girare questa scena. Ma voglio che siate il più sincronici possibile, perciò ve la metto. Seguite il flusso, lasciate fluire la musica in voi! E non siate esageratamente espliciti, già così subiremo tanti di quei tagli che il mio capolavoro ne verrà fuori irrimediabilmente danneggiato! – conclude con tono tragico. Dopodiché lo vediamo accennare col capo ad un altro assistente, le luci si spengono, si accendono i riflettori e tutto si fa silenzio, mentre le prime note del pianoforte si diffondono nell’aria.
La mia mano risale il fianco di Bill, sfioro col pollice la sua pancia e il suo petto e lui socchiude gli occhi, stringendo le labbra.
- Anis… - mi chiama piano, - Questa è stata una pessima idea.
- Rilassati, piccolo. – gli ripeto, accarezzandogli il collo e sistemandomi fra le sue gambe quando lui ne solleva una e la allaccia ai miei fianchi, - È solo un video.
- Non l’ho mai fatta una cosa del genere. – bisbiglia, piegando un po’ il capo per esporre il collo quando le mie labbra scendono a sfiorarlo, - È strano farla con te.
- Avresti preferito farla con Chakuza? – chiedo a bassa voce, mordicchiandogli il mento.
- Ti prego, non- - e geme un po’ quando mi spingo contro di lui, - …non metterlo in mezzo adesso. Anis, cosa stiamo facendo…?
- Devo spiegartelo coi disegnini? – rido un po’, mordendo la pelle tenerissima sotto l’orecchio, - Hai un buon profumo.
- Ti stupisce? – chiede lui, accarezzandomi la nuca, - L’ho sempre avuto.
- Mi stupisce. – annuisco io, sfiorandogli le labbra con le mie, - Tu non sei più lo stesso di un anno fa.
- Io sono lo stesso. – mugola mentre lo bacio piano in punta di labbra, - Sei tu che non mi riconosci più.
- Non è così, principessa. – gli sussurro sulla bocca, respirando appena contro di lui, - Tu sei cambiato.
Mi preme le mani contro il petto, spingendomi disteso sul materasso e seguendomi nel movimento, ritrovandosi seduto sul mio grembo, le mie mani sui suoi fianchi, le sue che viaggiano dai pettorali alle mie spalle.
- Io sono lo stesso. – ripete, scendendo su di me e schiacciandosi contro il mio corpo, - Sei tu che non mi riconosci più.
Mentre io lo guardo – e non esiste altro oltre a lui nel mondo, e so che per lui è lo stesso perché glielo leggo negli occhi – qualcuno impreca in fondo alla stanza. Hans manda un assistente a zittire colui che sta cercando di rovinare il suo meraviglioso lavoro e, dopo qualche secondo di bisbigli irritati e concitati la porta di uscita del set si spalanca e, tra il buio che regna sovrano nella stanza e la luce fortissima che viene da fuori, per un attimo la figura di Chakuza si staglia nettissima sulla soglia. Poi la porta si richiude, la figura scompare, Bill torna in sé e cerca di rotolare su un fianco, scendendomi di dosso. Io lo trattengo per i fianchi, però, e lui non riesce a muoversi.
- Lasciami. – sibila attonito, - Lasciami subito.
- Vorderberg non ha detto stop. – gli faccio notare, serrando la presa sui suoi fianchi. Bill si irrigidisce sotto le mie dita e mi graffia il petto con le unghie.
- Stronzo. – sputa fuori fra i denti, - Ti odio. Odio questa situazione del cazzo. Ti odio da morire.
La porta si apre ancora, la figura di Patrick la oltrepassa – seguita a breve da quella minuscola e sottile di Nicole – ed io continuo a tenere Bill fra le dita come non volessi più lasciarlo andare.
- Anche io ti odio. – ringhio, spingendomi dal basso verso l’alto contro di lui, - Sei una troia traditrice. Questa canzone è tua. Ci sei tu, qui dentro. Ti odio.
- Sei un bastardo. – risponde lui in un ringhio similissimo, continuando a stringermi le unghia addosso con tanta forza da farmi male, - Stai mentendo.
- Io non mento mai. – stringo più forte, - Ti odio. Cazzo, ti odio.
- Vaffanculo. – si dibatte lui sopra di me, - Lasciami andare. – ha gli occhi lucidi e non capisco se sia rabbia o tristezza o tutte e due le cose insieme, - Lasciami andare, stronzo, ti odio. Ti odio!
Lo afferro per la nuca, tirandomelo vicino e fermandomi solo quando siamo così vicini da poter respirare le stesse molecole d’aria, scambiandocele sulle labbra.
- Ti amo. – sussurro, guardandolo negli occhi.
- Vaffanculo. – ripete lui. – Ti amo. – e mi bacia, ma dura solo un attimo. Ci baciamo facendoci del male, questi non sono baci, sono morsi, e però sono baci lo stesso, e ci agitiamo sul letto così tanto che il lenzuolo scivola via, mentre ci aggrappiamo con forza l’uno all’altro. Ma è davvero solo un attimo, Bill cerca di separarsi da me quasi subito e, quando io non lo lascio andare, prima si dibatte violentemente e poi mugola forte, puntando le ginocchia sul materasso e staccandosi da me con tutta la forza che ha, ricadendo sul materasso al mio fianco, senza fiato. Gli occhi gli brillano di rabbia. È furioso.
- Luci! – strilla Hans, scattando in piedi e gesticolando animatamente. Quando le luci si accendono, lo osservo avvicinarsi furioso al letto, le mani fra i capelli ed i lineamenti deformati dalla rabbia, - Cos’è questo? Cosa?! Stavate andando benissimo e improvvisamente… impazzite! – ulula, appendendosi alla propria sciarpina con tanta forza da darmi l’impressione che finirà per strozzarsi, - Oh, Dio, ho bisogno di un tè e ne ho bisogno adesso. – mugola abbattuto, - Klaus! – urla poi, ed uno degli assistenti biondi, quello con camicia bianca e sciarpina di seta a scacchi – che le sciarpine siano una caratteristica distintiva di questa troupe? – si solleva dalla propria seggiolina e va immediatamente a recuperare il thermos, riempiendo una tazza di tè fumante e portandola velocemente ad Hans, che lo aspetta già con la mano tesa.
Bill abbassa lo sguardo e torna a coprirsi col lenzuolo. È in imbarazzo, si sente in colpa e gli sento addosso la voglia di correre e inseguire Chakuza, dovunque sia andato. Stringo i denti e mi rimetto in piedi, infilando le scarpe e recuperando la maglietta dalla sedia poco distante, mentre Hans continua ad inveire contro la nostra palese mancanza di professionalità e ci manda tutti a riposo nei camerini mentre lui mangia la sua dannata insalata di alghe arami e rucola.
Esco di fuori, perché restare lì con Bill non è un’opzione, e vado alla ricerca dei distributori automatici perché sento il bisogno di un caffè, e quando esco il mio sguardo incontra quello di Patrick, che sta borbottando qualcosa mentre Nicola gli sta ferma accanto, le mani strette in grembo.
- Tu! – mi urla lui, alzandosi in piedi e venendomi incontro, - Dico, sei uscito fuori di testa?! Come cazzo hai pensato che-
- Ehi! – lo fermo io, afferrandolo per i polsi per impedirgli di gesticolare in maniera così convulsa. Mi confonde. – Di che cazzo stai parlando? Stavamo girando!
- Girando il cazzo, Anis! – insiste lui, liberandosi con uno strattone dalla mia stretta, - Quello era-
- Stavamo seguendo il copione! – insisto, allargando le braccia ai lati del corpo. Veramente non capisco cosa Patrick si aspettasse da me, in una situazione come quella. Cazzo, io non capisco cosa si aspettino tutti da me nella situazione di merda in cui sono.
- Il copione! – strilla ancora lui, e poi si passa una mano sulla fronte e prende un respiro profondissimo, prima di parlare ancora. – Chakuza è furioso.
- Me ne sbatto i coglioni.
- Sei uno stronzo!
- Coraggio. – rido, - Dimmelo anche tu. Nicole, vuoi favorire? Oggi è la giornata dello stronzo libero.
Lei si stringe nelle spalle, immediatamente imbarazzata dal mio tono, ed abbassa lo sguardo, facendosi da parte. Si sente a disagio e io sono uno stronzo, è vero.
- Non tirarla in mezzo, Cristo santo! – mi rimprovera Patrick, frapponendosi fisicamente fra me e lei, più che per proteggere lei, per recuperare i miei occhi. – Anis, un minimo di controllo. Cazzo, controllo! Ne avevi anche troppo da ragazzino, e oggi che sei un uomo adulto… vai fuori di testa! Che cazzo!
- Senti, non ce l’ho il controllo di questa cosa, okay?! – sbraito gesticolando, - Non so cosa dirti! Non ho che farci! E non me ne frega un cazzo di Chakuza, cosa vuoi che ti dica? Che mi dispiace se sta male?! Non è vero!
- Oh, vaffanculo. – taglia corto lui, agitando un braccio nella mia direzione per sottolineare l’invito a fottermi e voltandomi le spalle, - Fai un po’ il cazzo che vuoi, tanto è quello che fai sempre. – e va via. Nicole lo segue docile, senza dirmi una parola, e io rimango lì come un coglione, anche più nervoso di quanto non fossi prima e ancora privo di caffè. Perfetto.
Quando anche David viene a cercarmi – ed ho appena raggiunto la dannata macchinetta del caffè, quindi il mondo sta appena cominciando a fare lievemente meno schifo – alzo gli occhi al cielo e mi chiedo se Dio non stia un po’ esagerando con le punizioni. So di essere colpevole di molte cose, ma preferirei scontarle all’inferno come previsto dal contratto, non ci tengo ad espiare in terra per poi magari ritrovarmi seminudo su una nuvola con la sola compagnia di un’arpa quando sarò morto.
- Tu! – mi punta, sprizzando rabbia dagli occhi.
- Io! – ammetto, sollevando le braccia, - Oggi non berrò neanche un caffè.
- Dico, - mi ignora lui, piazzandosi fra me e la macchinetta, le mani sui fianchi e l’anca in avanti, - cos’era esattamente quello, Bushido?!
- Un unicorno rosa. – borbotto allontanandomi, - Ora puoi per favore lasciarmi in pace?
- No! – mi viene dietro lui, cercando di tenere il mio passo, - Bushido, nessuno ti aveva chiesto di baciarlo sul serio!
- E invece è successo. – ringhio io, spalancando la porta e tornando sul set, dove Hans, appollaiato sulla sua seggiolina, sta ancora ruminando alghe, - Fammi causa.
David si ferma, spalancando la bocca e gli occhi. Poi torna ad aggrottare le sopracciglia.
- Ti stai comportando come un ragazzino. – mi rimprovera.
- Fammi causa anche per questo. – annuisco. Dopodiché lo ascolto mandarmi a fanculo – oggi, davvero, ne sto collezionando di ogni tipo – e comincio a vagare per i corridoi degli studi. Mancano ancora almeno dieci minuti alla ripresa dei lavori – dieci minuti o, comunque, il tempo necessario per mangiare delle alghe, che non so quanto sia, in realtà, anche perché nutro dei seri dubbi già sul fatto che delle alghe si possano effettivamente mandare già senza vomitarle assieme a svariati pranzi di svariati Natali precedenti. Io non ho un cazzo da fare e non posso tornare indietro perché non voglio rivedere David. Perciò vago e basta, senza una meta, senza nemmeno guardarmi intorno. A un certo punto, comincio perfino a pensare di essermi perso e che, tutto sommato, mi sta pure bene così.
E invece no, non mi sono perso e lo capisco fin troppo bene quando, vagando alla cieca, finisco di fronte alla porta del mio camerino. Sono ancora qui, non posso perdermi in uno spazio chiuso – così come non posso uscire dalla situazione in cui sono, che uscita non ne ha – e continuo a non sapere cosa fare.
È per questo, probabilmente, che faccio quei due metri che mi separano dal camerino di Bill. Non so se lui sia ancora là dentro – per la verità non so nemmeno se ci sia mai entrato – ma direi che posso fare un tentativo. Bill non è mai stato qualcuno da cui andare quando la situazione si faceva troppo complicata – Bill è stato tante cose, ma mai un salvagente; non gli ho dato modo di esserlo – ma non vedo perché non provare adesso. Magari mi darà la risposta che cerco. Come ne esco, piccolo? Come ne esco?
Non so neanche che risposta voglio, comunque. E quando entro – senza bussare – mi rendo pure conto di quanto io sia stato stupido a pensare, anche per un solo secondo, che Bill potesse darmene una. Una qualsiasi, figurarsi una sensata. Lo trovo che mi dà le spalle, le mani strette con forza contro lo schienale della poltroncina girevole davanti allo specchio, gli occhi chiusi e il viso basso, i capelli che scivolano sul suo viso e sul suo petto attorcigliandosi in quelle ciocche lunghissime e le labbra semidischiuse un po’ umide. Ha le sopracciglia aggrottate e si vede così bene, che sta malissimo, che per un attimo non posso proprio fare a meno di sentirmi sbagliato e fuori luogo. Non solo qui ed ora, in senso più generale. È la prima volta, in assoluto, che penso che forse avrei dovuto restare a Miami.
Dura solo un attimo, comunque. Lui non si accorge di me, almeno fino a quando le mie mani non si posano sulle sue spalle sottili e le stringono, massaggiandole lentamente. Rilascia un sospiro profondissimo, sciogliendo in un secondo tutti i muscoli tesi, e socchiude gli occhi.
- Perché… - mormora arreso, appoggiandosi stancamente contro di me, - Perché non mi lasci in pace?
- Perché non posso, piccolo. – rispondo sinceramente, strofinando appena le labbra contro la sua guancia, - E perché tu non vuoi.
- Io vorrei… - sospira, sollevando una mano a cercare la mia, - Vorrei riuscire a mandarti via.
Le mie labbra scendono lungo il suo collo, e lo sento rabbrividire.
- Perché non lo fai, allora? – chiedo in un sussurro contro la sua pelle.
Lui non risponde fino a che non mi si rigira fra le braccia. Mi lascia scorrere le mani sul petto, accarezzandomi attraverso il cotone sottile della maglietta, e mi guarda negli occhi.
- Perché non posso. – risponde. Ed è sincero anche lui.
Io sorrido appena e lui mi fa da specchio, ed è contro lo specchio che finiamo, quando lo spingo appena in avanti, pressando le labbra contro le sue e stringendolo possessivo alla vita mentre lui si aggrappa con forza alle mie spalle e mi si arrampica addosso, allacciandosi ai miei fianchi e piegando il capo per approfondire il bacio, lasciandosi accarezzare fra un ansito e un mugolio che mi riempiono le orecchie al punto che dimentico tutto il resto del mondo. Come sempre, quando si tratta di Bill c’è solo lui. Non ci sono più nemmeno io.
- Anis… - mi sussurra addosso lui, strusciandosi lentamente contro di me, - Anis, per favore…
- No. – rispondo io, lasciandogli un bacio lievissimo sulle labbra piene e arrossate, - Assolutamente no.
- Non sai nemmeno cosa voglio… - mi mugola sul collo, accarezzandomi la nuca e ridisegnando il mio tatuaggio – di cui ricorda ogni fottuta linea – con le labbra.
- Lo so, invece. – e per dimostrarglielo mi spingo contro di lui, accogliendo sulla lingua il suo mugolio affannato, - Ma non ti voglio così.
- Non mi… - ride appena, stringendomi forte a sé, - Anis, non-
- No. – mi separo deciso da lui, costringendolo a rimettere i piedi a terra, - Non sei mio. Non ti voglio.
Bill mi guarda per qualche secondo, gli occhi annebbiati di voglia, e resta in silenzio. Poi lascia andare un mezzo risolino incerto e mi si avvicina, sfiorandomi un braccio.
- Anis… - mi chiama piano, ma io mi scosto. Ed è allora che lui realizza che davvero non ho intenzione di scoparlo, i suoi occhi si schiariscono e le sue sopracciglia si aggrottano, il labbro inferiore che trema di rabbia mentre cerca le parole adatte con cui insultarmi. – Tu… non puoi dire sul serio. – mormora, - Anis, dopo quello che mi hai fatto oggi-
- Non ho fatto niente, piccolo. – ghigno io, sistemandomi la maglietta stropicciata addosso, - Sei tu che implori. Io nego e basta.
- Non giocare a fare lo stronzo con me! – strilla lui, piantandomi un dito nel centro del petto, ed io mi metto a ridere.
- Non gioco, piccolo. Non lo faccio più da tempo.
Gli volto le spalle ed ho perfino il tempo di allontanarmi da lui di un paio di metri, prima di sentirlo mormorare pianissimo un lamento incerto.
- Tu… non mi ami affatto. – sussurra, - Sei uno stronzo e basta. Uno così non può amare nessuno.
- Uno così – mi volto a guardarlo, - magari non ama più, ma di certo ha amato tantissimo. Questa è l’unica certezza che ho, principessa.
Bill nemmeno mi guarda. Si concede un sorriso minuscolo e socchiude gli occhi.
- Almeno ne hai una. – esala appena.
Almeno ne ho una. E preferirei non averla.
*
Bill mi passa sotto gli occhi – e sotto le mani – come un fantasma, nei giorni successivi. È un’illusione e lo vedo sfocato e sfuggente. Sul set del video lo tocco spesso – rifacciamo la scena, ne giriamo di altre, cantiamo e tutto il resto – ma lo sento evanescente e impalpabile sotto le dita. Mi prendo le rivincite dei bambini, parlo con Hans, faccio il fascinoso e faccio togliere qualche scena a Chakuza – “che poi lo vedi com’è, no? È meglio se mentre canta lui ci sono scene fra me e Bill, o scene di Bill da solo, è più elegante così” – Chakuza s’indigna e scalpita e strepita e scalcia come un puledro imbizzarrito, io non sono professionale – lo so, Chaky – io sono uno stronzo – lo so, Chaky – io sono un fottuto pezzo di merda – lo so, Chaky, e tu non hai palle perché tutte queste cose me le dici alle spalle, le sussurri e Bill, te ne lamenti con Jost, le ringhi addosso a Patrick quando casualmente lo becchi senza Nicole. Lo so, Chakuza, lo so cosa sono. Lo so bene, è per questo che riesco a non provare mai vergogna, qualsiasi cosa faccia.
Riesco a rivedere Bill come una cosa viva solo quando ormai le riprese stanno per concludersi, trascinandosi fiaccamente fra le ultime riprese di scene che abbiamo già ripetuto fino allo sfinimento al punto che – lo sento – il corpo di Bill è nauseato dal continuo sentirmi addosso, come il mio lo è dal suo continuo ritrarsi.
Andiamo in pausa – oggi il menu di Hans comprende riso in bianco con pisellini biologici e cubetti di prosciutto cotto magro senza conservanti – ed io fuggo dal set prima che Jost mi avvicini per la paternale quotidiana – come se sentirmi ripetere “comportati bene” fosse mai servito a spronarmi in questo senso – e quando mi avvicino ai distributori automatici per recuperare un caffè ed anche uno snack da propinare al mio stomaco che, a causa dell’eccesso di caffeina a digiuno degli ultimi giorni, sta già preparandosi all’arrivo dell’imminente gastrite, e lo vedo.
È stanco, il mio piccolo. È stanco almeno quanto lo sono io, ma le sue spalle sono così sottili che non riescono a reggerlo altrettanto bene. Non riesce nemmeno ad essere arrabbiato, sta lì, appoggiato con una mano alla macchinetta, mentre nell’altra mano regge un bicchiere ricolmo di un’imitazione di caffellatte che fa venire la nausea anche senza bisogno di sentirne l’odore.
Mi avvicino piano, discretamente, e sorrido appena quando mi fermo al suo fianco.
- È un po’ tardi per il caffellatte, non credi, principessa?
Bill mugola a bassissima voce, stringendo le dita attorno al bicchiere e socchiudendo gli occhi.
- Per favore, Anis… no.
Sospiro, smanettando coi pulsanti sul pannello della macchinetta ed infilando un euro nella fessura, restando poi in attesa del mio caffè.
- No. – rispondo a bassa voce, - Tu non sai neanche cosa mi chiedi di non fare.
- Ti sto chiedendo – ringhia Bill fra i denti stringendo tanto la presa sul bicchiere che ho quasi paura possa spaccarlo, - di non farlo, Anis. Non continuare a mettermi in questa situazione. Mi stai… - sospira pesantemente, trattenendo un attimo il fiato nei polmoni prima di rassegnarsi a lasciarlo andare, - mi stai torturando.
Recupero il mio bicchierino e lancio a Bill un’occhiata infastidita, appoggiandomi di spalle alla parete.
- Mi stai chiedendo di lasciarti in pace. – gli spiego pacatamente, - Di non vederti più. Di non guardarti, non toccarti e non pensarti nemmeno. È questo quello che mi stai chiedendo.
Lui apre gli occhi di scatto, dardeggiandomi con un’occhiata furiosa.
- Magari è quello che voglio.
Mi sollevo dalla parete e mi avvicino a lui, chinandomi per parlargli guardandolo negli occhi, così vicino che sento addosso il suo respiro.
- Se fosse ciò che vuoi, piccolo, non mi vedresti più. Te lo assicuro. Non metto le mani sulla roba degli altri.
Bill lascia andare un ghigno poco convinto, fronteggiandomi con una fierezza tale che sento il bisogno fisico di stringerlo alla macchinetta, costringendolo ad indietreggiare. Non sei più forte di me, piccolo. Non puoi esserlo, perché è per te che io sono così forte.
- Non sono tuo, non mi vuoi. – mi prende in giro, lasciando scivolare fra le labbra le stesse parole con cui l’ho apostrofato qualche giorno fa, - È vero, sai? – mi soffia addosso, - E allora perché continui?
Lo schiaccio contro la macchinetta, piantando le mani sopra la copertura di plastica e imprigionandolo fra le mie braccia.
- Non sei ancora suo. – sfioro il suo profilo con le labbra e con la punta del naso, lievissimo, - Lo sento che mi vuoi, piccolo.
Bill cerca di non gemere, quando mi spingo con forza contro il suo bacino, ma quel singhiozzo minuscolo che gli sfugge dalle labbra finisce sulle mie, che lo sfiorano soltanto e sono già abbastanza per mandarlo fuori di testa. E so che questo lo senti, piccolo. So che sei con me, adesso. Il punto è quello. Dovresti esserlo sempre. E invece lo sei solo quando ti sto così addosso. Come si può chiedermi di accettarlo?
- Anis, no. – mi implora, la voce rotta dall’ansia, - Qui no, davvero. In mezzo al corridoio… no.
- È questo il tuo problema, piccolo? – mi avvicino ancora, leccandogli appena il labbro inferiore, - Che potrebbero vederci?
- Sì! – risponde lui d’impeto, - E che… non dovresti. Quindi lasciami, per favore, ti prego… - si agita e punta le mani contro il mio petto, cercando di allontanarmi.
Io lo ignoro. Non è così che Bill mi allontanerebbe, se mi volesse davvero lontano. Non è così che mi manderebbe via, non è così che mi farebbe capire di non amarmi più. Non ci stai riuscendo, piccolo, non ci stai riuscendo affatto a mentirmi. Perciò avanzo ancora, lo stringo ai fianchi e lo schiaccio contro la macchinetta. E lui dice “no”, ed io non lo sento. Forzo le sue labbra e lui urla “no” ed io non lo sento. La mia lingua sfiora la sua, lui la morde, urla ancora, “no!”. Ed io non lo sento.
Però sento Chakuza. Sento la sua voce tuonare alle mie spalle e poi mi sento strattonare via con una forza insospettabile, e quando vado a sbattere contro la parete di fronte sollevo lo sguardo e lo vedo frapporsi fra me e Bill, il respiro pesante, i lineamenti del stravolti dalla rabbia e i pugni chiusi, le braccia rigide lungo i fianchi. Bill, ancora steso contro il distributore automatico, ansima e ci guarda, gli occhi enormi ed umidi di lacrime.
- Sei un pezzo di merda! – mi apostrofa in un ringhio. Ed è un ringhio dei suoi, fatti con quella voce lì, l’unica cosa di lui che possa veramente spaventare. Con me non attacca, comunque. Io non ho paura di niente. Ho visto la morte in faccia e meno di un mese dopo ero vivo e vegeto a Miami. Ho cercato di farmi fuori anche lì, ed ora sono qui. La sua voce non mi fa niente.
Mi rimetto dritto, guardandolo fiero dall’alto in basso.
- Non male. Puoi fare di meglio.
Chakuza mi è addosso il secondo dopo. Mi afferra per il colletto della maglia e mi spinge contro il muro, sollevandomi verso l’alto in un ringhio che si perde nell’urlo con cui Bill si stacca di prepotenza dalla macchinetta del caffè e gli si attacca alle spalle, cercando di tirarlo via.
- No! – grida, e Chakuza non se lo scrolla di dosso ma resta fermo a guardarmi con occhi di fuoco, digrignando i denti mentre io mi lascio andare ad un sorriso soddisfatto. – Peter, per favore… - lo implora, le mani che scendono lungo le sue braccia, - Lascialo andare. – ed io rido divertito, stavolta non mi trattengo. Principessa, principessa. Quest’arte te l’ho insegnata io. Piegare la volontà delle persone facendosi sentire loro addosso… stiamo giocando esattamente lo stesso gioco, piccolo. Lo stesso identico.
Chakuza mi lascia andare, ma lo fa con violenza, strattonandomi e sbattendomi ancora una volta contro la parete, prima di togliermi le mani di dosso.
- Bushido, - mi apostrofa poi, in un ringhio bassissimo, - Levati dalle palle. È l’ultimo consiglio che ti do.
Bill rabbrividisce, stringendo le dita sulle sue braccia e cercando di convincerlo ad allontanarsi.
- Che ti piaccia o no, - rispondo io a muso duro, - è qui che sto adesso, Chakuza. E non intendo andarmene da nessuna parte. Perciò, - ghigno, - è corretto che ti dica che non intendo farmi da parte.
- Cosa cazzo sta succedendo qui? – chiede David, apparendo in corridoio, probabilmente attirato dalle urla di Bill. Dietro di lui appaiono in fila Fler e Nicole, Tom e metà della mia crew. Abbiamo giocato sporco, io e Bill, ultimamente. Me ne rendo conto solo adesso che vedo tutti qui riuniti come ad una fottuta ultima cena. Abbiamo tutti i nostri rinforzi. Bill è sempre venuto qui con Tom, io mi sono sempre portato dietro la crew o quello che ne resta da quando i miei due uomini principali hanno deciso di essere entrambi due stronzi – ed uno è morto ammazzato, l’altro mi ha rubato tutto – e Chakuza invece niente. Chakuza nessuno. Chakuza era solo contro di me e contro Bill. Questo è giocare sporco, ma al momento non posso evitarlo.
La domanda di David resta senza risposta, ma ciò che sta succedendo sono tutti capacissimi di comprenderlo da soli, nel momento in cui Chakuza, guardandomi dritto negli occhi, parla ancora.
- Non ti aspettare che questo cambi qualcosa. – dice, e gli si tendono addosso tutti i muscoli. Sta facendo uno sforzo sovrumano per non prendermi a cazzotti, lo vedo nel modo in cui gli si irrigidiscono i muscoli delle spalle e del collo.
- Non me lo aspetto. – rispondo io, scuotendo il capo, - Voglio solo che tu sappia a cosa vai incontro.
Chakuza solleva il mento, sfacciato.
- Illuminami. – mi invita.
E io faccio un passo avanti. E quando rispondo, lo faccio guardando Bill.
- Io non gliele tolgo le mani di dosso.
- Bushido. – mi richiama David, facendosi avanti, ma finisce ignorato per la seconda volta quando a farsi avanti è Chakuza.
- Hai intenzione di importi su di lui?
- Ti risulta che io faccia sempre qualcosa di meno che impormi? – chiedo con un sorriso, - Nessuno decide se non ha dei motivi per farlo. Quindi devo darglieli.
Stiamo parlando di Bill come non fosse neanche presente. Ed in effetti è un po’ così – la mia principessa s’è allontanata di un paio di passi, non tiene più le mani sulle spalle di Chakuza e guarda il vuoto con occhi spenti, torturandosi il labbro inferiore fra i denti.
- Bel modo di dargli dei motivi. – commenta Chakuza, - Lo costringi a fare quello che vuoi.
- Imporre non è costringere. – gli faccio notare, fronteggiandolo serenamente, - Bill può sempre dire di no. Ma se mente, io lo capisco. Tu puoi dire lo stesso?
- Con me – risponde lui, - non deve mentire a prescindere. Non ha mai dovuto farlo.
- No? – rido io, - Allora probabilmente non gli hai mai chiesto cosa voglia dire il tatuaggio sul suo fianco. O magari mi sbaglio e te l’ha detto, che quel tatuaggio sono io. Magari non ti ha mentito ma questo non cambia il concetto di base.
Chakuza ringhia, stringendo i pugni.
- È passato un sacco di tempo. – ribatte, - Se Bill non fosse innamorato di me, non staremmo neanche discutendo. Sarebbe tornato con te senza battere ciglio e saremmo tutti a casa nostra.
- Per favore… - singhiozza Bill, passandosi una mano sugli occhi, - volete smetterla?
I miei occhi lo accarezzano tutto, anche se lui non può vedermi, e nessuno osa muoversi, dal fondo del corridoio. Fler scalpita, Tom è basito, David non sa cosa fare, c’è perfino Hans, lì in mezzo, e nessuno muove un dito per salvare la mia principessa che piange. Io non dovrei essere quello che pone fine a questa questione. Non voglio nemmeno. Io sono incazzato e sono cocciuto e lo rivoglio. Io guardo Chakuza e tutto ciò che penso è che vorrei provocarlo fino a costringerlo a saltarmi addosso, per poi sentirmi pienamente giustificato mentre gli spacco la faccia spegnendo il cervello. Ma Bill sta piangendo e, se nessuno si muove, è proprio perché, anche se non voglio, sono io che devo farlo.
- D’accordo. – annuisco, - Volevo solo mettere in chiaro le cose.
- E scommetto – ritorce Chakuza, - che con lui non ne hai mai parlato, prima. No, perché tu fai sempre così. Tu- tu non chiedi mai, tu decidi, gli altri si adattano! Scommetto che non gli hai mai chiesto se ti volesse addosso, tu te lo sei preso e basta.
Io aggrotto le sopracciglia.
- Gli ho chiesto se mi voleva. – ringhio, - Ha detto di no. Mentiva. – lancio un’occhiata a Bill, - Visto che a lui non rifili stronzate, diglielo.
Bill trasale e mi guarda per un secondo. Poi Chakuza si gira a guardarlo a propria volta, come in attesa della sua risposta, ed è il suo sguardo che Bill ricambia a lungo, mentre le lacrime gli offuscano gli occhi. E poi lo vedo serrare le palpebre – le lacrime rotolano lungo le guance e gli bagnano la maglietta – e portare le mani alle tempie, prima di scoppiare ad urlare.
- Basta! – grida, - Basta, basta, basta! Che cosa credi che sia, una bambola che parla a comando?! Bill digli questo, Bill digli quest’altro! – torna a fissare Chakuza, scosso dai singhiozzi, - E tu non mi guardare in quel modo, come fossi perfettamente innocente, cazzo! Smettetela! Tutti e due!
Lo guardo duramente, infilandomi le mani in tasca.
- Volevo solo chiarire, Bill. – ripeto, - Se continuiamo a non parlare, non riusciremo mai a chiarirci. Io potrei spaccargli il muso qui ed ora e lui potrebbe fare lo stesso con me, e non avremmo risolto niente comunque.
E io faccio per dire altro ma mi interrompo, perché Tom si fa strada sgomitando in mezzo al pubblico non pagante del fondo del corridoio e raggiunge suo fratello, stringendolo per le spalle sottili e tirandoselo contro.
- Adesso basta. – lo sento mormorare, - Bill, vieni via. Lascia che gli scimmioni si litighino il territorio come preferiscono. – ma Bill non lo ascolta. Si dibatte violentemente fra le sue braccia, scalcia e strepita, e poi mi urla contro.
- E per te questo è chiarire?! – strilla, - Per te chiarire è umiliare me dandomi ordini ed umiliare lui facendogli vedere quanto sei più bravo?!
- Bill… - cerca di intromettersi Chakuza, conciliante, ma Bill non ascolta nemmeno lui.
- No! – continua a urlare, - A me sembra che a nessuno di voi due freghi qualcosa di quello che provo io! L’unica cosa che volete è che io scelga in quale letto stare!
Tom digrigna i denti, stringendolo con maggiore decisione. E io m’incazzo. Non dovrei ma lo faccio.
- Umiliarti, cazzo! – ringhio, - Io sono sempre stato sincero con te, Bill! E invece io torno e tu mi menti! Non mi dici che stai con lui ma ci stai quando ti bacio, e Chakuza in tutto questo è sempre in mezzo ai coglioni, ed io come devo scoprirlo, cazzo, origliando! Non sono io che ti umilio, Bill, sei tu che umili te stesso.
- Tu te ne sei andato! – mi ricorda Bill, grazie principessa, come ci fosse ancora una minima, minuscola possibilità che io possa dimenticarlo, - Tu mi hai mentito molto prima che lo facessi io! Hai fatto finta di morire per poi tornare e non ti sei chiesto che cosa cazzo fosse successo nel mentre! Mi hai solo schienato contro quel cazzo di muro ed eri a posto, giusto? Certo che sì! Tu non chiedi mai, d’altronde! Ed hai tanti diritti quanti ne ha Peter, sappilo, non uno di più.
- Cazzo. – soffio io, serrando le labbra prima di lasciarmi andare ad un ghigno gratuito quanto liberatorio. Come tutto il resto di ciò che dico. – Neanche ti ci avessi costretto, a scopare. – faccio un passo verso di lui, Chakuza si mette di mezzo ed io lo spintono lontano anche se fa resistenza. Spero, me lo auguro davvero, che Tom non alzi un dito. O è la volta che succede qualcosa di veramente brutto. Non voglio niente fra me e Bill, adesso. – Te lo ricordi – ringhio chinandomi su di lui, - te lo ricordi quando ti infilavi nel mio letto e mi imploravi di lasciarti restare? Te lo ricordi quando mi hai detto di amarmi? E quando te l’ho detto io, te lo ricordi? Per me non è cambiato un cazzo, Bill. Proprio un cazzo.
- Per me sì. – risponde lui, ricambiandomi l’occhiata, - Perché ho dovuto ficcarmi in testa che non c’eri più, ho dovuto imparare a fare a meno di te, ed ora che sei tornato non puoi pretendere che cancelli un anno di sofferenza come niente. Sono stato male, cazzo, non puoi rinfacciarmelo, se ho cercato di superarlo!
Io lascio andare una risata amara, scuotendo il capo.
- No, non posso, è evidente. Era quello che volevo, in fondo. – ammetto, lanciando una mezza occhiata a David. Ma non trovo comprensione nel suo sguardo. Forse nemmeno la cercavo, comunque. So esattamente cosa aspettarmi da quello che ho qui, adesso. Ora lo so. È niente. È tutto ciò che posso aspettarmi. Un cazzo. – Farei meglio a tornarmene oltreoceano, mh? – chiedo, tornando a guardare Bill, - È questo che devi dirmi, piccolo? Se devi, trova le palle. Trovale adesso.
E Bill piange. Un pianto diverso da quello di prima, non è furioso, non è frustrato, la mia principessa è solo triste. Perché vorrebbe dirmi di andarmene ed allo stesso tempo non mi vuole lontano. Perché vorrebbe potermi mandare a fanculo e non riesce a permetterselo. Perché è felice con Chakuza, ed io lo so, ma so anche che lo amo e lui ama me. E forse sono anche io, quindi, che gli sto impedendo di lasciarmi andare. Ma lui mi sta aiutando. Io lo so che è così. Io ti conosco, principessa, io ti ho tirato su in tanti di quei modi che tu nemmeno ti rendi conto di quanti sono. Se sei così è perché è così che ti ho cresciuto, piccolo. E mi fa un cazzo di male vederti così adesso, ma lo capisci anche tu – me lo dice il tuo silenzio – che la situazione è davvero troppo complicata, per sbrogliarla e basta. Qui qualcuno dovrà stare male per forza. Qui dovremo stare male io e te. È così. Perciò basta nascondersi dietro ai vetri, Bill. Troppo trasparenti. E si rompono troppo facilmente.
Cerco di sorridere, mentre gli accarezzo una guancia, asciugando col pollice tutte le lacrime che incontro al mio passaggio.
- Non piangere. – chiedo piano, - Non c’è niente da piangere. Guardami negli occhi.
Bill fa un passo indietro, e suo fratello lo segue.
- Non farlo. – mi implora, la voce rotta.
- No. – nego io, avanzando ancora, - No, tu non farlo. Non mentire più. Dimmelo qui ed ora. Degli altri non mi frega niente, Bill. Tu dammi un motivo per restare ed io resto.
Lui solleva lo sguardo e mi fissa attentamente. Attraverso il velo di lacrime che gli intorbidisce lo sguardo, riesco a vedere i suoi occhi ridipingere noi due e solo noi due in questa stanza. Tom, che pure lo sta ancora stringendo protettivo per le spalle, non esiste più. Non c’è più la platea, non c’è nessuno, non c’è nemmeno Chakuza. Ci siamo solo noi, perché gli ho chiesto di decidere di noi. E Bill è uno che quando deve decidere lo fa per bene. Perciò si concentra, la mia principessa, e si concentra solo sul problema più pressante.
Odio essere un problema pressante. C’è stato un tempo in cui ero solo l’uomo che amavi, Bill. Vorrei lo ricordassi ancora. O vorrei smettere di ricordarlo io.
- Resta. – risponde alla fine, tirando su col naso, - Perché ho bisogno che tu resti, per favore. Ma non so più in che ruolo. – e lo dice in un mugolio così piccolo, così arreso, così da lui, che sorrido teneramente e, poco dopo, non riesco a trattenere la risata naturale che mi affiora alle guarda. Lui arrossisce e non si offende, perché i miei toni li ricorda ancora tutti benissimo e sa che in questo momento non lo sto prendendo in giro.
- Come amica del cuore, magari? – propongo con una scrollatina di spalle.
La risata non la trattiene neanche lui. Se lo permette solo perché nei suoi occhi siamo ancora soli.
- Piantala di fare il cretino. – borbotta, e poi inspira ed espira, e quando schiude le palpebre nei suoi occhi c’è di nuovo anche tutto il resto. Perciò mi adatto, ed anche per me è lo stesso. Faccio un passo indietro, ne faccio anche più di uno, e torno quasi vicino alla parete di fronte. – Forse è meglio se entrambi… provate un po’ a stare al vostro posto. Senza forzare le cose. – chiede Bill, guardando alternativamente me e Chakuza. Lo stronzo ringhia al mio fianco, e ne ha anche tutte le ragioni. Ma non si scosta e non mi manda a fanculo quando mi giro a fronteggiarlo, tendendogli la mano.
- Quello che la principessa dice, si fa. – dico pacatamente, - Questo mi auguro non sia cambiato. – Chakuza è un po’ incerto, non sa se stringermi la mano o meno, perciò aggiungo – Non è una tregua, è un patto di coesistenza.
E lui annuisce e la dannata mano, finalmente, la stringe pure.
- La parola della principessa è legge. – mi rassicura. E questo è tutto quello che mi serve sapere.

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The Way He Loves Him

di lisachan
Stamattina ho visto Fler.
Fler, in questo momento preciso della mia esistenza, è un problema che mi sto sforzando di ignorare. Nel senso, non lo so se vi è mai capitato: vi svegliate una mattina e scoprite che la vita che stavate vivendo in maniera non perfetta ma tutto sommato passabile fino al giorno prima è scomparsa. Non è che una cosa prende e va male, no, tutto comincia a muoversi nel verso sbagliato contemporaneamente, e uno in una situazione del genere comincia ad avere difficoltà a capire da che lato dovrebbe girarsi, no? Cioè, dovunque guarda vede solo casino, è un problema. Che mi si potrebbe pure dire: “be’, ma tu vivi una condizione di casino perenne dentro la tua testa, quindi qual è il problema?”, e il problema è proprio questo, che quando non sei un cazzo ordinato nel cervello il mondo esterno deve stare al proprio posto. Quando non riesci ad avere un punto di riferimento dentro di te, devi cercartelo fuori. Se fuori dalla tua testa tutti fanno il cazzo che vogliono – che è pure giusto, alla fine, ma mi crea problemi non indifferenti – tu i punti di riferimento non puoi più cercarli da nessuna parte. Ed è questo il problema.
Quindi, insomma, io mi sono svegliato una mattina e Bushido era vivo, Bill non era più così assolutamente innamorato di me e Fler s’era messo con una donna. Fra tutte queste cose, ovviamente, la priorità è Bill. Bill è sempre la priorità. Bushido arriva al secondo posto, perché a Bill è legato a doppio filo. E poi c’è Fler.
Di ciò che fa Fler, di dove va Fler ed anche di chi si scopa Fler, non dovrebbe fregarmi un accidenti. Beninteso, io lo so. Lo so che non dovrei assolutamente incazzarmi perché me lo vedo spuntare allegro e sorridente mano nella mano con una ragazza, lo so che dovrei accettarlo, congratularmi con lui ed anche esserne felice, ed esserlo sul serio, perché a me non piace che Fler stia male, e fino a prima di mettersi con Nicole lui indubbiamente soffriva, ed invece da quando ci si è messo insieme sta visibilmente meglio.
Però.
Il solo vederli vicini mi manda fuori di testa.
È una cosa assolutamente priva di senso, io me ne rendo conto perfettamente. Non vorrei che di me passasse un’idea ancora più fuori di testa di quanto già non sia nella realtà. Io lo so che non sono tanto normale, ma non sono ancora tanto pazzo da pensare che Fler mi debba fedeltà assoluta dopo tutto quello che gli ho combinato nel corso dell’ultimo anno. Per questo non gli dico niente e cerco di stare tranquillo, anche quando lo vedo con Nicole in giro, ma ciò non cambia la realtà dei fatti che appena io faccio tanto di mettergli gli occhi addosso e lo vedo che la stringe, le sfiora un braccio, le sorride o quel che è, la prima cosa che penso è che ho voglia di pestare lui e defenestrare lei. Che poi è la stessa cosa che ho provato quando l’ho visto interagire con Bushido la prima volta che si sono rivisti, in casa di Eko, solo che stavolta è anche peggio, perché, voglio dire, chi cazzo è Nicole? Siamo seri.
Comunque, stamattina è successo che sono andato a registrare le mie parti per Prinzessin. Io, di questa canzone, non voglio parlare. Perché è anche troppo evidente cosa Bushido ci abbia messo dentro. Ora, io lo so come lavora Bushido. È uno molto presente a se stesso, quando si sta vendendo ad un pubblico pagante; tiene sotto controllo tutto, programma tutto, niente succede se non è stato lui a deciderlo. Quando scrive no, però, quando scrive è molto più libero. Si ascolta molto, anche se credo sia solo uno strascico del suo egocentrismo del cazzo. La sua voce sovrasta quelle degli altri anche dentro di lui, quindi, quando scrive, lo fa ascoltando la parte più profonda di se stesso, quella con cui magari lui direttamente non parla, ma che lascia scivolare sul foglio, perché così è più semplice tenerla a bada. La canzone che ha scritto per Fler, in Heavy Metal Payback, l’ha scritta così. Ed io credo che Prinzessin sia nata nello stesso modo, perciò non è che posso avercela in maniera distruttiva con Bushido per il solo fatto di averla buttata giù.
Però ce l’ho con lui per il modo in cui la sta usando. Quindi no, non voglio parlare di questa canzone e di come a leggerne il testo io venga fuori come un pezzo di merda quando, in tutta franchezza, non ho fatto proprio un cazzo di male. Mi urta dovermi prestare a questo giochino per niente divertente, mi urta star qui a cantare cose che non penso quando io sui testi che avevo da cantare sono sempre riuscito a mettere mani e bocca per renderli il più possibile vicini al mio modo di sentire, e mi urta non esserci riuscito adesso solo perché, come mi ha detto Jost quando mi ha fatto sapere che la mia presenza era richiesta e no, non potevo rifiutarmi, “alla Universal sono già abbastanza incazzati per lo scherzetto che gli ha combinato Bushido. Pretendono la massima collaborazione e tu non vuoi davvero averli contro, Chakuza”. E no che non li voglio contro. Mi mancano davvero solo i pezzi grossi dell’industria musicale tedesco che mi vogliono fuori dal giro, e poi sono completo, cazzo.
Comunque, ovviamente prima di dire “d’accordo” mi sono informato, con Jost. Pazzo sì, cretino no. Gliel’ho chiesto, “sono registrazioni di gruppo?”, e lui naturalmente mi ha guardato e m’è scoppiato a ridere in faccia. Poi è tornato subito serio e fa “ma ovviamente no, Chakuza”, come a dire “ma per chi mi hai preso?”, ed in effetti io lo sospettavo che Jost non l’avrebbe mai permessa una cosa del genere, perché è uno che sul lavoro è molto preciso e gli danno fastidio i tempi, quando si allungano, perciò supponevo avesse già preso tutte le precauzioni del caso, ma sempre meglio chiedere, dico io, per scrupolo.
Comunque nella mia domanda era compreso anche Fler. Nel cervello di Jost no, invece, perché giustamente lui si dice “Fler non c’entra un cazzo”, ma per me Fler c’entra sempre, quindi se ti chiedo se c’è la possibilità per me di incontrare qualcuno, nei vari “qualcuno” possibili è incluso anche Fler. Nella mia testa questo è chiaro, in quella di Jost no, e questo è giusto, ma io tendo a dimenticarlo. Perciò oggi mi sono presentato agli studi con le palle girate, d’accordo, ma fiducioso che non mi sarei trovato a dover fronteggiare nessuna situazione difficile. E invece appena esco dalla sala d’incisione, dopo tre ore sfiancanti, chi mi vedo passare davanti? Ma la coppietta felice, naturalmente.
Non ho il tempo materiale di fuggire dietro il primo angolo disponibile dopo aver adocchiato Fler che cammina – un braccio attorno alle spalle di Nicole, lei ha intrecciato le dita con le sue – che lui si volta e mi guarda e, come fosse tutto perfettamente a posto, mi sorride. Così, tranquillissimo. Solleva anche una mano nella mia direzione, rilassatissimo, e mi saluta. Al che io non posso fare molto più che rispondere abbozzando un sorriso a mia volta, restando lì fermo impalato mentre lui mi si avvicina, trascinandosi dietro Nicole che è minuscola e scialbissima e non c’entra niente col tipo di donna che avrei affibbiato a Fler se mai avessi voluto affibbiargliene una. Per dire, visto che lui comunque è robusto ed ha la pelle e gli occhi chiari, accanto gli starebbe bene una ragazza alta con un sacco di curve, la pelle scura e gli occhi grandi e castani. Invece lui mi si presenta con questa cosina minuscola, pallidina, biondiccia, con questi occhietti marroncini anonimi, boh, Fler poteva pretendere di più, credo. Anzi no, lo so, Fler poteva pretendere di più eccome. Comunque mi sforzo di guardarla con calore, perché lei mi sorride timidissima e non me la sento di lanciarle occhiate intimidatorie. Non ne avrei nemmeno un motivo, peraltro.
- Ehi. – mi fa, perfettamente a suo agio, - Finito per oggi? – chiede, indicando con un cenno la porta chiusa della sala incisioni. Nicole stringe la presa delle proprie dita attorno alle sue ed io fisso l’intreccio delle loro mani per un po’ di secondi, prima di riscuotermi e decidermi a rispondere.
- Sì, - ammetto, - è stata dura ma ce l’ho fatta. – commento con una scrollatina di spalle. Lui annuisce e lo vedo chinarsi appena su Nicole, sfiorarle la guancia con un bacio lento e poi sussurrarle qualcosa che non riesco a percepire. Lei sorride ed annuisce, e mi saluta a bassa voce prima di sciogliersi dal suo abbraccio ed andare verso l’uscita degli studi. Inarco un sopracciglio e fisso Fler con aria curiosa. – Be’? – chiedo, indicando la porta dalla quale Nicole è appena uscita. Lui ride.
- Le ho chiesto di precedermi a casa sua. Ho voglia di spezzatino con le patate.
Mi lascio andare ad un mezzo ghigno, spostando il peso da un piede all’altro.
- La fai filare? – chiedo, e lui mi tira una mezza spinta, ridendo come un ragazzino.
- È solo gentile. – risponde, - Mi piace che lo sia. È dolce ed è semplice. Niente di neanche lontanamente paragonabile al resto della gente con cui sono stato.
- Ah, grazie mille. – rispondo, un po’ offeso, e lui ride ancora.
- Non sono mica stato solo con te. – mi fa notare, e penso pure che c’ha ragione e che questo dialogo è surreale.
- E… - gesticolo, perché non so se posso chiedere questa cosa e non so nemmeno se voglio chiederla, o meglio, voglio chiederla ma non so se voglio sapere la risposta; o meglio ancora, voglio sapere la risposta, ma non so se sono veramente pronto a sentirmelo dire. Quindi, in sostanza, gesticolo per tergiversare. - …da quant’è che state insieme?
Fler è a disagio e lo vedo subito nel momento in cui volta lo sguardo e scrolla le spalle.
- Lasciamo perdere. – taglia corto, - Ti va un caffè?
Annuisco, un po’ confuso, e gli vado dietro mentre ci avviciniamo ai distributori automatici. Fler mi chiede cosa voglio, io rispondo “un caffè ristretto” e, quando lo vedo recuperare il portafogli in tasca, gli chiedo cosa vuole lui, come fosse una curiosità come un’altra. Lui apre la taschina portamonete, rovista tintinnando e mi risponde sovrappensiero che lui ne prende uno doppio zuccherato. Perciò io infilo la mano in tasca, recupero due euro spersi nei pantaloni da chissà quanto tempo e pago per entrambi. Lui, che non aveva ancora racimolato la quantità sufficiente di monetine, se ne rende conto solo quando sente la macchinetta ronzare e cominciare a riempire il bicchierino di plastica col suo caffè, e mi lancia un’occhiata a metà fra lo sconvolto e il nient’affatto compiaciuto.
- Chakuza! – mi rimprovera, - Ma chi te l’ha chiesto?!
- …nessuno. – ammetto io, recuperando il bicchierino e porgendoglielo, - Mi faceva solo piacere farlo.
Lui accetta il bicchierino sospirando teatralmente in un roteare di occhioni azzurri che mi fa anche un po’ ridere, e poi resta in silenzio mentre io prendo il mio caffè e rimaniamo lì a sorseggiare lentamente, perché il coso è pure caldo, e nessuno qui vuole scottarsi la lingua. Restiamo in silenzio finché possiamo permettercelo – ossia finché non diventa troppo pesante – e poi gli chiedo come sta. Che è una cosa che faccio sempre quando non so cos’altro fare con lui. Fler non è semplice, da maneggiare, anzi. È uno che, tra l’altro, appena sbagli di un millimetro ti si volta contro in maniera devastante. Quindi, prima di fare o dire qualsiasi altra cosa, io devo chiedergli come sta. Così posso elaborare un piano d’azione, o pensare ad una strategia, o qualunque sia un modo meno idiota per definire il momento in cui cerchi di capire come muoverti per non passare come un fottuto carro armato addosso ad una persona alla quale tieni.
Lui scrolla le spalle, butta giù ciò che resta del suo caffè e si appoggia contro la macchinetta.
- Bene, credo. – risponde, - È un periodo un po’ incasinato, con Nicole e tutto il resto, ma sto tranquillo. Cioè, tutto il mondo è un casino, ma io sono tranquillo. Non so se capisci cosa intendo.
Annuisco vagamente, e non lo faccio per finta. Lo capisco cosa intende. Anche se è una cosa che non mi piace, perché vuol dire che è felice davvero. Mi piace vederlo felice, cazzo, ma… oh, insomma.
- Stai da lei? – chiedo, fingendo disinteresse. Lui mi sgama subito e sorride.
- Cosa vuoi sentirti rispondere?
- …la verità, suppongo. – borbotto senza guardarlo. Lui ride un po’.
- Penso che la prenderesti anche peggio. – mi informa con una risata da ragazzino che sembra prendermi in giro.
Simulo tranquillità, lanciandogli una mezza occhiata che mi auguro sia indecifrabile, e invece non lo è, perché lui si mette subito a ridere come un cretino, e io sbuffo.
- Be’, dimmelo se stai da Bushido. – sospiro alla fine, abbattendomi di spalle contro la parete. Lui ride ancora.
- Praticamente sì. – ammette, gettando il bicchierino ormai vuoto nella spazzatura, - Lo sai come funziono. Ragiono meglio se ho gente attorno.
- Che bisogno avrai di ragionare, adesso… - mi lamento io, e lo faccio solo perché non mi piace saperlo giorno e notte piantato in casa di Bushido.
- Be’, qualcuno dovrà pur farlo. – mi risponde lui, ed in effetti non posso dargli torto, perciò annuisco. – Comunque in genere sto bene. Come ti dicevo, Nicole è molto carina e dolce.
- E la ami?
…non so come funzioni con questo tipo di domande. Probabilmente ognuno, nel proprio cervello, ha una scatola con dentro tutte le domande scomodissime che non vorrebbe mai fare e delle quali però vorrebbe conoscere la risposta. E le domande vanno accumulandosi in questa scatola finché non diventano troppe, e quando diventano veramente tantissime ecco che salta via il coperchio e quelle cominciano ad uscire. E il problema è che, mentre stavano lì strette nella scatola, si sono aggrovigliate fra loro come i gomitoli di lana quando non li avvolgi bene e li lasci lì nella cesta per giorni, perciò quando ne esce una se ne porta dietro un’altra, e poi un’altra, e un’altra ancora, finché non escono tutte. Forse è così che funziona per tutti, o forse è così che funziona solo per me, fatto sta che di questa domanda io so che voglio conoscere la risposta, ma so anche che non avrei voluto porla. E perciò, dopo averla detta, non mi sento bene neanche per un cazzo. E guardare Fler esitare, prima di rispondere, non mi aiuta per niente.
Lo osservo rifletterci sul serio – nei suoi occhi chiarissimi i pensieri passano come in trasparenza, che se solo sei un po’ abituato a guardarci dentro, a quegli occhi, lo capisci cos’è che sta succedendo dentro la testa di Fler. Puoi perfino anticiparlo. Perciò, quando schiude le labbra, io so già cosa sta per dire, e mi tendo tutto, stringendo i pugni per cercare di fermare qualsiasi sia il gesto che vorrei compiere in reazione alle sue parole. Perché non posso permettermelo, perché non posso farglielo e perché in generale è più giusto se sto fermo.
- No. – risponde, comunque. È la cosa più bella che sento da giorni. – No, non credo proprio. – mi guarda, ed è tranquillissimo. – Ma lo sai già.
Annuisco lentamente, gettando via il mio bicchierino.
- Perché ci stai insieme? – chiedo, guardandolo dritto negli occhi. Lui sospira e mi ricambia lo sguardo.
- Perché è meglio che stare soli. Perché boh… non è così male. – sospira ancora, più pesantemente. – Perché anche se mi manchi non me ne faccio niente di questo sentimento. Mi sento anche uno scemo a dirtelo.
Mi mordo un labbro, schiacciandomi con forza contro la macchinetta per non avvicinarmi neanche di un passo.
- Non sei uno scemo. – rispondo a bassa voce, - Mi dispiace che tu stia così, Pat.
Lui tira fuori un mezzo sorriso e scrolla le spalle. Ogni tanto, quando lo fa, quando scrolla le spalle, dico, mi sembra voglia scrollarsi di dosso i problemi. Lo fa con una convinzione tutta particolare. Come servisse davvero.
- Non sto male. – ribadisce, - Ed ora basta parlare di me. – sorride più decisamente, tornando ad appoggiarsi qui accanto a me solo quando vede i miei muscoli rilassarsi e la voglia che ho di baciarlo scivolarmi lentamente via dagli occhi. – Tu com’è che stai, Chaku?
*
Com’è che sto mi ha chiesto Fler stamattina. Com’è che sto. Immagino che la risposta a questa domanda sia “non lo so”, ma “non lo so” non è veramente una risposta. È la scusa che usi quando non ti va di risolvere una questione, penso, e posso dire di parlarne con una certa competenza, visto che la uso molto spesso. Non è nemmeno una bugia: io davvero non so come sto. Non è la risposta completa, perché la risposta completa è “non lo so perché non voglio saperlo, perché non posso mettermi lì a risolvere la questione, perché mi fa male pensare di stare male”, ma non è una menzogna. È una parte di ciò che è. Ed è anche quello che ho detto a Patrick, che d’altronde da parte sua non ha nemmeno mai avuto bisogno delle mie risposte complete. Quelle incomplete sono sempre state sufficienti a dargli una base di partenza per trovare il resto di ciò che voleva sapere nei miei occhi, nella mia voce, nel mio odore, sul mio corpo.
Com’è che sto. Sto. In attesa, più che altro. A volte, ripensando a tutta la mia vita nell’ultimo anno, mi sembra di averla vissuta solo così. In attesa. Di Bill, naturalmente, perché niente è stato più importante di lui in questi ultimi dodici mesi. Niente è stato più importante di lui in generale, in tutta la mia vita, temo. E penso succeda così, in fondo, quando ti innamori di una persona, indipendentemente da chi sia. Fa come un balzo fra le tue priorità. Era lì, nel mucchio, e all’improvviso te la ritrovi su un piedistallo, in evidenza, e da lì non riesci a toglierla nemmeno con la forza. E poi neanche vuoi, in fondo.
Con Bill è stato così. Io ho vissuto in attesa di capire cosa stavo cominciando a provare per lui, all’inizio. Poi ho vissuto in attesa di un suo cenno d’assenso. Poi ho vissuto in attesa di risentire il suono della sua voce e guardarlo nuovamente negli occhi. Ed alla fine ho iniziato a vivere nell’attesa del momento successivo in cui avrei potuto tenerlo stretto a me, che poi è quello che ho fatto negli ultimi nove mesi ogni volta che per forza di cose siamo dovuti stare lontani, ed è quello che sto facendo anche ora che è tutto complicato e intricato e doloroso. Vivo in attesa di Bill. Ed è una cosa bellissima.
Quando il mio cellulare squilla, so già che si tratta di Bill. Perché questo è l’orario in cui mi chiama di solito, quando tutti gli altri si decidono a lasciarlo in pace e lui si ritrova finalmente tranquillo in casa propria. È l’orario in cui può smettere di tenere a freno il bisogno che ha di vedermi, e quindi quel bisogno sfonda gli argini e lui mi chiama, e quando mi parla lo fa con tenerezza ma anche con urgenza. Perciò, quando sento la sua voce, sorrido. Perché è stanca, è provata, è angosciata, è triste ed è un altro milione e mezzo di cose, ma soprattutto è piena del bisogno che ha di me. E siccome per me è lo stesso, io non posso fare a meno di esserne felice, e sorridere.
- Secondo te, - mi dice, senza nemmeno salutarmi, - anche se lo yogurt è scaduto da un paio di giorni, posso mangiarlo?
Rido a bassa voce, perché come si fa a restare seri di fronte ad una cosa del genere?
- Ho esperienza sul campo. – gli faccio notare, dal momento che entrambi conosciamo le condizioni del mio frigorifero, - Sono quasi sicuro di no, Bill. Forse è il caso se mangi qualcos’altro.
Lui sbuffa, e lo ascolto lasciarsi andare sul divano e raggomitolarsi in una pallina contro il bracciolo.
- Non c’è nulla di buono. – borbotta, - C’è qualcosa che mi ha comprato David, ma non saprei come metterla insieme e tirarne fuori qualcosa di commestibile.
Rido ancora, e quello che gli chiedo glielo chiedo solo perché lui me lo sta già chiedendo da quando questa telefonata è cominciata.
- Vuoi che venga a prepararti qualcosa? – suggerisco, - Sono quasi sicuro che David abbia comprato sufficienti ingredienti almeno per un piatto di pasta.
Lui sorride e mi dice che mi aspetta. Ed io rido un po’ perché fino a due minuti fa stavo pensando che l’intera mia esistenza – be’, ok, l’ultimo anno, ma in fondo se ci penso un po’ stavo aspettando qualcosa come Bill da sempre, qualcosa che mi sconvolgesse dentro, che mi trascinasse completamente in sé, qualcosa che mi prendesse come mi ha preso lui, quindi forse è davvero tutta la vita che lo aspetto – insomma, pensavo che l’intera mia esistenza fosse stata vissuta in sua attesa, e lui ora mi dice che mi sta aspettando. Che sembra una cazzata, ma è bello pensare che in qualche modo, in un certo senso, forse anche Bill stava aspettando me. Indipendentemente da tutto il resto, anche lui mi stava aspettando, ecco.
Quando arrivo a casa sua, lo trovo lì sulla soglia che mi guarda, una mano stretta nervosamente attorno allo stipite della porta e tutto il corpo proteso in avanti a cercare il mio. Quando Bill vuole un abbraccio, lo vedi da lontano, perché tutta la sua persona si prodiga per trovarlo. Ha dei bisogni molto fisici, Bill, perciò basta osservarlo e vedere come si sporge, come si espone, come tiene le braccia, come pianta un piede in avanti rispetto al corpo, per capire che ti vuole vicino e vuole sentirti addosso il prima possibile. Si fa rassicurare con così poco, alle volte, che sembra molto più fragile di ciò che è in realtà. Perché poi quasi te lo dimentichi che ha fatto fuori un uomo, per dire. Ma Bill è bellissimo soprattutto per questo, perché è un mistero continuo, che lo guardi a non capisci proprio come possa essere possibile che sia proprio così. E invece lo è. Se me ne fregasse qualcosa della religione, direi che è un miracolo. Della religione non mi frega un accidenti, e Bill è il mio miracolo comunque.
Lo tiro a me e lo stringo forte, richiudendomi la porta alle spalle, e Bill nasconde il viso contro il mio collo e mugola un po’, strusciando il naso lungo il mio zigomo e cercando subito le mie labbra per un bacio veloce.
- Mi sei mancato… - mi sussurra sulle labbra, mentre io lascio scivolare le mani sui suoi fianchi, accarezzandolo piano, - Puoi… puoi prepararmela dopo, la cena?
Io lancio un’occhiata all’orologio appeso al muro, sulla parete di fronte, e vedo che sono già quasi le dieci. Non c’è verso che, se gli faccio mangiare qualcosa adesso, lui riesca a digerirlo prima di mezzogiorno di domani. Oltretutto, fra meno di un’ora, qualsiasi cosa decidiamo di fare adesso, Bill sarà già crollato addormentato sulla prima superficie disponibile. Vorrei essere io, quella superficie. Perciò lo bacio piano sulle labbra e gli assicuro che sì, gli cucinerò qualcosa dopo, anche se so per certo che la prima cosa che preparerò per lui saranno le frittelle domattina, e mi lascio condurre dalle sue mani che si aggrappano ai miei vestiti, cercando di tirarli via, trascinandomi fino in camera da letto.
Lo stendo sul letto cercando di essere delicato, perché è stanco e lo sento dal modo arreso in cui si lascia maneggiare e accarezzare e mi si appoggia addosso, come avesse bisogno di aiuto per tenersi in piedi. È per questo che lo aiuto a distendersi, così non dovrà faticare per tenersi dritto. Schiude le gambe lasciandomi lo spazio per sistemarmi contro di lui, ed attraverso la stoffa sottilissima del pigiama sento il calore della sua pelle e quello della sua eccitazione, ed entrambi mi colpiscono in scariche elettriche che partono dalla base della mia schiena e si diffondono per tutto il mio corpo, rendendo più affamati i miei baci e i miei tocchi, finché lo sento ansimare pesantemente e gettare indietro il capo alla ricerca d’aria, quando scendo ad accarezzarlo sotto i pantaloni e lo sollevo con la mano libera da sotto la schiena, così che possa inarcarsi, schiacciandosi contro il mio corpo e stringendo le ginocchia sui miei fianchi, le cosce che si serrano come tenaglie attorno al mio polso ed alle mie dita.
- Peter… - mi chiama piano, ed il mio nome scivola sulle sua labbra in maniera tanto dolce che mi viene voglia di assaggiarlo, perciò mi sporgo a baciarlo, affondando dentro di lui che mi accoglie morbido come sempre, e questi sono i momenti in cui mi viene da pensare che forse, se mi sforzo, posso ancora fare in modo che sia come non fosse cambiato niente, come se Bushido non fosse mai tornato, come se Bill non fosse così indeciso come invece è. E quindi ce la metto tutta, cazzo, ce la metto tutta davvero, e lo stringo piano per i fianchi mentre accontento le sue richieste e mi faccio avanti dentro il suo corpo solo dopo averlo preparato per bene, dopo averlo sfiorato e baciato e toccato ovunque, e quando lo sento stringersi attorno a me, seguendo l’impronta che le mie spinte lasciano dentro di lui, chiudo gli occhi e lo bacio sul collo, sullo zigomo, sulla guancia, sugli occhi chiusi e stanchi, sulla tempia, e glielo dico piano, che lo amo, e non mi arrabbio se non mi risponde subito, non mi arrabbio nemmeno se non mi risponde affatto, perché so che è così, lo so che mi ama anche lui, se non me lo sta dicendo in questo momento è solo perché non è il momento opportuno, ed io questo lo rispetto. E Bill lo sa, che lo rispetto. Ed è tutto quello che mi interessa, in questo momento.
Quando si scioglie fra le mie dita ed io mi sciolgo dentro di lui, ascolto i suoi respiri inseguirsi affannosamente sul mio petto, dove ha poggiato le labbra, per molti minuti, prima che lui riesca a domarli abbastanza da costringerli a tornare ad un ritmo più regolare. Ed anche allora continuano ad accarezzarmi piano, così come io accarezzo lui, le dita che si incastrano fra le ciocche intrecciate dei suoi capelli e seguono il disegno sottilissimo e un po’ spigoloso delle sue scapole e della sua spina dorsale.
Come previsto, mi si arriccia addosso e comincia subito a scivolare nel dormiveglia, ed io sorrido mentre lo aiuto a sistemarsi comodamente sul mio corpo e tiro su le lenzuola perché ci coprano entrambi.
- La cena… - borbotta sul mio collo, - …domani, okay?
Rido ancora, sulla pelle un po’ accaldata della sua fronte, ed annuisco stringendolo a me. Domani, Bill, okay. Quando vuoi.

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When The Going Gets Tough The Tough Gets Going

di lisachan
Le questioni di parruccheria e cosmetica, con Bill, non sono mai state un problema. Per ciò che riguarda se stesso e il proprio aspetto, Bill segue fondamentalmente due criteri base, sui quali poi si può creare di tutto ma che vanno seguiti scrupolosamente. Bill è molto più creativo di ciò che la gente immagina guardandolo, solo che il suo strumento non è davvero la voce: Bill utilizza se stesso, ed è per questo che lui e Bushido sono tanto simili; hanno praticamente lo stesso modo di approcciarsi alla vita, prendendola di petto, sentendola su ogni centimetro della propria pelle. Non per coraggio, ma perché il loro corpo è la loro unica arma e il loro unico scudo. Perciò, il corpo è una cosa sulla quale Bill sente di dover avere un enorme controllo, ma allo stesso tempo è fantasioso per ciò che riguarda il suo utilizzo. I cambiamenti, per lui, non sono mai stati momenti difficili, quanto più gli unici istanti in cui Bill sentisse di poter esprimere appieno tutto il proprio talento. Tutto il contrario di suo fratello, che invece è una persona molto più normale ed il proprio corpo lo usa solo per scopare, perciò, se trova uno stile in cui si sente a proprio agio e nel quale si trova piacevole, tende a cercare di preservarlo per evitare di avere problemi.
Comunque, i due criteri base sui quali si basano le concessioni che Bill fa a truccatori e stilisti quando gli lavorano addosso sono: che lo mantengano il più femminile possibile e che, in mancanza di una femminilità sfacciata, si impegnino almeno a mantenerlo bellissimo. Sono le uniche due cose che Bill pretenda davvero quando si lascia andare alle mani esperte dei professionisti. Femmina. Se non femmina, talmente bello che ad un maschio non deve importare del suo sesso. È su questo che Bill ha basato tutta la propria carriera ed è per questo che Bill è diventato famoso. Perciò è questo che Bill vuole, sempre e comunque. Non so perché Bill odi il genere umano al punto da desiderare così ardentemente di metterlo in difficoltà ogni volta che mostra pubblicamente il musetto, così è, comunque, ed è per questo che si mostra struccato e trasandato solo di fronte agli occhi di chi ama: sono le uniche persone che non sente il bisogno di mettere a disagio o in imbarazzo.
Il motivo per cui sto dicendo tutto questo è che sto cercando di spiegare anche a me stesso quanto sia stato difficile convincere Bill a sottoporsi al solito restyling preventivo in attesa dei frutti del lavoro di Bushido, quando invece non mi è mai capitato neanche che fosse necessario chiederla, a Bill, una cosa del genere. Faceva tutto parte dello stato di esaltazione in cui Bill entrava in modo del tutto naturale ogni volta che gli veniva annunciata la data di uscita del nuovo lavoro. Era anche il motivo per cui lavorava alacremente, cercando di non sbagliare e mettendocela tutta, finanche a sfinirsi: tutto in previsione del momento in cui sarebbe potuto tornare a lavorare nel suo ambiente favorito, non lo spazio piccolo e chiuso delle sale di registrazioni, ma gli ampi spazi aperti dei palchi e degli stadi di tutto il mondo.
A questo giro, niente del genere di è verificato. Ho spiegato a Bill tutto quello che questo singolo avrebbe comportato – apparizioni pubbliche, un tour, riarrangiamenti di vecchi lavori, collaborazioni, presenze ovunque su qualsiasi canale televisivo, tutte cose che fino ad un anno fa l’avrebbero reso felice da scoppiare, ma la sua reazione è stata così tragicamente apatica da togliere perfino a me la voglia di lavorare.
Non mi aspettavo, naturalmente, di vederlo saltare in aria in preda alla gioia, questo è ovvio. Anche un idiota capirebbe che, in questo periodo della sua esistenza, Bill preferirebbe anche trovarsi completamente da solo appollaiato sulla punta di un iceberg in scioglimento al Polo Nord, piuttosto che restare qui a rimbalzare da un lato all’altro di Berlino nel tentativo di sbrogliare la matassa che ha al posto del cervello. Però speravo che il lavoro riuscisse a distrarlo. Ancora di più, speravo che riuscissero a distrarlo le fasi precedenti al lavoro, che sono quelle che gli piacciono di più. Quelle, appunto, in cui si restaura. Quelle in cui può chiudere gli occhi e lasciare che le persone lo coccolino, lo plasmino e squittiscano soddisfatte mentre lo osservano diventare stupendo sotto le loro dita, prima di lasciarlo tornare a guardarsi ed osservarlo sorridere soddisfatto di se stesso, perché ancora una volta ce l’ha fatta, ancora una volta è diverso ed ancora una volta è bellissimo. Sono le fasi dei trucchi, delle pettinature sperimentali, dei massaggi, dello shopping sfrenato. Bill ci impazziva, dietro a queste cose, un anno fa. Non posso fare a meno di chiedermi quanto di lui sia morto assieme a Bushido, visto che ci sono pezzi di sé che Bill non è riuscito a recuperare nemmeno grazie a Chakuza.
Bill non si aspettava che sarebbe stato costretto a lavorare con Bushido. C’è stato un tempo – che sembra lontano secoli – in cui l’idea era effettivamente balenata nella mente dei capi, alla Universal. Allora Bushido era vivo, lui e Bill erano la coppia d’oro dello show business tedesco ed erano presi al punto che, pur di stare insieme, avrebbero accettato qualsiasi tipo di contratto lavorativo, a qualsiasi condizione, purché permettesse loro di passare insieme la maggior quantità di tempo possibile.
Alla Universal l’idea del duetto piaceva moltissimo, s’era parlato di inserirla nel primo album disponibile – il nuovo lavoro dei Tokio Hotel, quello che non è mai uscito, visto che per Heavy Metal Payback, che invece è uscito postumo, le registrazioni s’erano già concluse da un pezzo – si stava addirittura cominciando a stilare qualche linea guida del progetto, prima di sottoporla all’attenzione dei diretti interessati.
Poi Bushido è morto e la Universal ha scrollato le spalle pensando di poter guadagnare dall’evento perfino più di quanto avrebbe potuto guadagnare col duetto, perciò l’idea non è mai uscita dagli uffici degli amministratori e non se n’è più nemmeno parlato, neanche per scherzo.
Il ritorno in vita di Bushido, ovviamente, ha cambiato di nuovo all’improvviso tutte le carte in tavola. Ai vertici della Universal, io, la sparizione di Bushido non ho potuto venderla come una trovata pubblicitaria. È gente che ha fiuto, per queste cose, è gente che le conosce, che ne comprende appieno i tempi e i modi. La morte di Bushido non si è svolta né nei modi più corretti né nei tempi più consoni, non c’era la minima possibilità che io potessi dire una balla simile a gente di quel calibro senza che loro mi ridessero dietro e mi licenziassero pure. Perciò, per quanto la cosa potesse farmi girare le palle, ho dovuto sputarla fuori tutta, mettendomici anche in mezzo, parlando dei timori di Bushido, della sua preoccupazione per Bill e del lungo periodo che l’aveva portato a maturare quella decisione.
In cambio per la mia sincerità, ho ottenuto altrettanta sincerità. Non pietà, naturalmente – non c’era speranza che ci si facesse sfuggire una storia simile lasciandola cadere nel dimenticatoio e concedendo a Bushido l’anonimato che voleva – ma non sono stato deriso, non sono stato trattato con sufficienza anche se era palese che nel gruppo qualcuno avesse sbagliato – e quel qualcuno ero io – e, cosa ancora più importante, non sono stato mandato a fanculo, né sono stato privato del mio incarico coi Tokio Hotel o con Bushido stesso. Tra l’altro, il mio impegno con Bushido non era mai stato ufficiale, alla Universal non avrebbero impiegato più di un minuto per togliermelo dalle mani – non avrebbero avuto neanche bisogno di tirare fuori il contratto per mostrarmelo. Insomma, diciamo che, tutto sommato, la trattativa non è andata poi così male.
L’unica cosa che proprio non potevo aspettarmi, da questa trattativa, è che fosse alla pari. Che fosse uno scambio. Quando firmi per una major, guadagni in fama, guadagni in denaro e guadagni anche in soddisfazione, ma perdi irrimediabilmente un pezzo molto consistente della tua indipendenza. Cose come “l’ultima parola sul proprio lavoro” diventano nient’altro che vecchi ricordi, perché neanche al più famoso dei gruppi viene mai consentito di uscire sul mercato se ciò che ha prodotto non è perfetto per l’etichetta, più che per il gruppo stesso.
Questo ragionamento Bushido lo conosce. Perché di fare il salto da indie e major l’ha deciso lui, e quando l’ha fatto sapeva esattamente dove stava andando e come e perché lo stava facendo. Perciò Bushido l’ha sempre saputo che, tornando allo scoperto, il momento delle pretese sarebbe arrivato.
Bill, invece, è sotto contratto da quando aveva quindici anni. Bushido sapeva quantificare ciò che stava perdendo in libertà proprio perché quella libertà, prima di firmare con la Universal, l’aveva vissuta pienamente. Bill no. Bill non ha mai vissuto in una realtà diversa da questa, e non ha mai vissuto nemmeno in una realtà in cui non sa dove andare a sbattere la testa perché ovunque sbatta fa troppo male per poterlo tollerare. Perciò non si aspettava che io arrivassi con la mia bella cartellina portandogli nuovo lavoro da fare. Si aspettava che le due realtà – la major e Bushido di nuovo in vita – non si incontrassero mai. Si aspettava una pausa, si aspettava che il resto del mondo in cui ha vissuto fino ad adesso fosse disorientato da quello che è accaduto esattamente come lui.
Non era preparato alle pretese. Non sapeva che sarebbero arrivate. Ed io non ho mai avuto il tempo né il modo di parlargliene, prima. Perciò il suo sguardo smarrito non mi ha stupito. Rattristato, sfiduciato, incupito. Ma non stupito. Bill è decisamente troppo piccolo, per tutto questo. Crescerà in un colpo, o finirà schiacciato dagli uomini troppo adulti che si è sempre ritrovato ad amare.
Ciò che Bill non ha mai tenuto in considerazione, nell’ultimo anno, nonostante sia uno che all’opinione della gente ci tiene eccome, è appunto cosa pensassero le persone di tutto quello che vedevano o sentivano. Nel corso di quest’ultimo anno, a Bill sono stati attribuiti flirt con chiunque gli gravitasse intorno, e perfino con tutta una serie di persone che invece col suo entourage non avevano niente a che fare. Questo perché la stampa scandalistica è un essere vivente e, in quanto tale, ha bisogno di nutrirsi. Il suo cibo è il pettegolezzo. Niente di diverso. Il lutto è stato un argomento di discussione valido per la stampa per un tempo addirittura minore di quanto non lo sia stato per Bill. Dopodiché i giornalisti hanno cominciato a pensare fosse assurdo che questo ragazzino ancora nel fiore degli anni non si concedesse, di tanto in tanto, qualche piccola scappatella. E si sono messi in moto per trovargliene una.
L’unico motivo per il quale non sono mai riusciti a dimostrare niente è che, in effetti, Bill di scappatelle non se n’è concessa nemmeno una. È passato dalla stretta asfissiante del proprio cordoglio a quella morbida e rassicurante di Chakuza, senza mai uscire allo scoperto con qualcosa di diverso. Per dirla in termini chiari, è stato come se fosse passato da una casa all’altra attraversando un sottopassaggio che le collegava. I giornalisti non lo hanno mai visto andar fuori con nessuno, e quando si è trattato di Chakuza è stato mio dovere coprirlo perché la loro storia restasse confinata in quella casa in cui Bill era passato, senza mai attraversare la porta principale ed uscire allo scoperto. Io non fallisco mai, quando mi si dà un incarico del genere. Deve ancora nascere il paparazzo che riuscirà a fregarmi.
Il risultato di tutto ciò, comunque – un risultato cui Bill non aveva dato la minima importanza, perché sì, per lui l’opinione della gente è importante, ma ogni singolo essere umano esistente al mondo è comunque scavalcato da se stesso, nella lista delle priorità – è che le illazioni dei giornalisti, dalla quasi totalità dell’universo intero, sono state prese, appunto, per semplici illazioni. Niente di diverso. E Bill è diventato una specie di vergine di ferro. Per i romantici, un ragazzino triste che non riusciva a liberarsi del fantasma del primo ed unico uomo avesse mai amato; per tutti gli altri, uno che, dopo aver capito quanti soldi poteva fare mostrandosi in giro al fianco di Bushido, ora aveva capito anche che poteva farne molti di più senza mostrarsi al fianco di nessuno. In entrambi i casi, per l’opinione pubblica, durante tutto quest’ultimo anno, Bill non ha mai combinato niente. Mai. Con nessuno.
Ecco perché, nel momento esatto in cui l’opinione pubblica è venuta a sapere della resurrezione di Bushido – pubblicizzata né più e né meno che con le armi che io stesso avevo fornito alla Universal, lasciando che i giornalisti raccontassero della dura vita del ghetto e di un uomo che non ci viveva più ma che, per quanto fosse andato lontano, non era mai riuscito a liberarsene – dopo il momento di smarrimento iniziale, dopo lo sgomento, dopo la realizzazione, dopo le risate per sdrammatizzare e cercare di tirare su milioni di fan che, per quella morte, avevano sofferto genuinamente, è venuta l’ora di pensare a Bill. E Bill, per tutti, era ancora la vedova sofferente di un anno prima.
Delle indagini di mercato che la Universal ha chiesto per organizzare un piano pubblicitario degno di questo nome e dell’evento che il ritorno di Bushido in Germania era, sono stato incaricato io. La Universal mi ha fornito un team di psicologi, sociologi e statistici e mi ha detto di tornare con dei numeri e delle percentuali ragionate. E quelle, naturalmente, non si sono fatte attendere. Ed erano sempre uguali. La gente li rivoleva insieme. Era la favola più romantica dell’ultimo decennio, più di Lady Diana, più di Carlo e Camilla, più di Letizia e Felipe di Spagna, più di chiunque altro.
Avessi dovuto sbrigarmela da solo, andando d’intuito e di supposizioni come ho fatto quando i Tokio Hotel li ho messi sotto contratto, quelli che sembrano milioni di anni fa, avrei raggiunto le stesse conclusioni di questo gruppo di studio, con la differenza che avrei potuto mentire al riguardo. Sarebbe stato pericoloso e folle e probabilmente mi sarebbe costato il posto di lavoro, ma avrei potuto farlo. A queste condizioni, circondato da gente pronta a parlare anche per cifre irrisorie, non potevo trattenere niente. E quindi il mio responso per la Universal è stato molto semplice e molto chiaro: se c’è qualcosa da organizzare, è fra Bill e Bushido che va organizzata.
Ed è fra Bill e Bushido che la organizzano, in effetti. Studiandola fin nel minimo dettaglio, la collaborazione, la promozione, il video, il packaging, un abbozzo di tour ed un mellifluo “stiamo a vedere come si evolve la cosa, prima di optare per qualcosa di più specifico”, come già questo non fosse specifico abbastanza. Ed è toccato a me andare da Bill ed osservarlo nel pieno della sua confusione mentale, per poi ricordargli che è ora di alzarsi e ricominciare a fare il proprio dovere. Che la sua vita non passa solo attraverso le mani dei due uomini che ha amato ed ama ancora, che la sua vita è qualcosa di più grande, che non appartiene a lui ma ad altri milioni di persone. Che l’ha venduta, la sua vita. “Solo quella pubblica”, mi dice lui, ed io annuisco perché è vero, ma gli ricordo anche che se si rifiuta di mostrarla ancora, quella vita pubblica, la gente comincerà a pretendere il privato. Bill ribatte che la gente lo sta già facendo ed io rispondo che non ha nemmeno idea di cosa possono arrivare a pretendere ancora da lui. Rispondo che il fatto sia ancora una stellina sulla cresta dell’onda non lo salva dal rischio di diventare una stellina che l’onda la guarda dal basso, ed alla quale non resta che lasciarsene travolgere. Gli rispondo che non ha idea di cosa ancora possano arrivare a chiedergli i grandi capi, non ha idea di che lavori umilianti siano costretti a fare i dimenticati dal mondo, per tirare su qualche spicciolo. Cantare alle sagre di paese, presenziare alle feste di compleanno dei ricchi rampolli della borghesia tedesca, è questo che vuoi, Bill? È questo che vuoi? No che non lo vuoi. Per cui non costringermi a ripetermi, Bill, alza il culo, oggi si comincia il restauro.
Morale della favola, per convincere Bill a muoversi non sono bastate le minacce, non sono bastati i rimbrotti, non è bastata la razionalità e suppongo non sarebbe bastata nemmeno una richiesta di Bushido o Chakuza in persona – figurarsi quella di un tizio a caso dalle alte sfere della Universal. Ho dovuto costringere al restauro anche Tom, pure se dall’etichetta per i Tokio Hotel adesso non hanno in programma niente. Se la cosa dovesse muoversi bene, è probabile che anche loro saranno coinvolti nel tour, ma per adesso è tutto molto vago e fumoso ed io preferisco di gran lunga non parlarne né con Tom né con Georg o con Gustav, perché Tom è già abbastanza esasperato dalla situazione e gli altri due ne sono già abbastanza infastiditi, senza che peraltro vedano il minimo motivo per sentirsene coinvolti. Posso capirli: un conto è dover faticare ed irritarsi per qualcosa che si sente come propria, per la quale ci si sente in diritto e in dovere di combattere – ed è quello che sta facendo Tom; un altro conto è osservare una situazione dall’esterno, detestarla già così e dover fronteggiare il rischio di sentircisi catapultati dentro senza la benché minima voglia.
Ciò che ho adesso per le mani, comunque, sono due ragazzini confusi e storditi, esattamente come prima, ma con due acconciature diverse. Non un gran guadagno, ma alla Universal sembra bastare. Almeno, è stato abbastanza per contattare Bushido e sottoporgli un ultimatum molto chiaro – ci diamo una mossa con una nuova canzone, o ce la diamo noi per te, una richiesta di fronte alla quale, lo sapevo, Bushido non poteva che cedere – e, subito dopo, contattare me e chiedermi gentilmente ma fermamente di cominciare a muovermi per un video.
Un video.
Confesso che, quando mi è piovuta la richiesta per telefono, fra capo e collo, un po’ m’è venuto da ridere. Finché si trattava di registrare e mandare il singolo in giro per radio, la cosa non era esageratamente problematica. Problematica sì, assolutamente, ma non era la fine del mondo. Ma un video. Un video. Prendere questi tre uomini ed i loro rispettivi entourage e costringerli insieme in un determinato posto. Follia.
Inutile dire che anche l’idea per il video è partita come suggerimento spassionato dagli uffici dei grandi capi. Naturalmente senza specifiche di alcun tipo, ma nel momento in cui ti senti dire “trova qualcuno che faccia al caso nostro, Jost”, e fino a due minuti prima s’è parlato di come sfruttare adeguatamente l’idea di Bill e Bushido come coppia reale dello showbiz tedesco, ancora viva nei cuori di migliaia di fan, chiaro che la prima cosa cui si pensa è portare il testo ad un regista con una certa passione per un determinato tipo di video, uno che sappia come sfruttare la chimica fra due persone, uno che capisca come funzionino queste relazioni, uno che sappia buttarle giù con uno storyboard spendibile sul mercato e tutto il resto.
Uno come Hans, insomma. Non avevo molta scelta.
Io ed Hans ci conosciamo da una vita. Ci siamo incontrati quando io ancora cantavo nei Bed & Breakfast, durante le riprese del video di Get It Right. Allora era appena uscito dall’accademia delle belle arti e non era che un ragazzino un po’ confuso che Herr Winkler aveva assunto da poco e maltrattava, da bravo regista ultracinquantenne con decenni di esperienza nel campo dei video delle boyband. Non ricordo bene com’è che facemmo amicizia, in realtà credo sia successo perché Hans aveva la brutta abitudine di lamentarsi sempre e comunque di qualsiasi cosa, era molto piagnucoloso – non che abbia mai smesso di esserlo – ed allora io ero un tipo dal cuore molto tenero che da queste cose si faceva prendere facilmente, perciò ci caddi con tutte le scarpe e finimmo per avvicinarci parecchio, anche se mai oltre un determinato limite – Hans è troppo checca perfino per il sottoscritto. Non che questo mi porti a volergli meno bene, ma a non desiderarlo sdraiato al mio fianco su un materasso sì, eccome.
Comunque sia, quando ho capito cos’è che volevano quelli della Universal da me, da Bill, da Bushido e da questa produzione, non ho esitato a contattare Hans. Perché è uno che sa il fatto proprio – almeno adesso – perché è bravo, perché sa lavorare e perché è un rompiballe. Che può sembrare una caratteristica poco meritoria, ma lo diventa improvvisamente tantissimo nel momento in cui si deve avere a che fare con gente ancora più rompiballe.
Nel caso di specie, Bushido.
Ora, ci tengo che non si pensi che il mio giudizio su Bushido sia falsato da ciò che provo per lui. D’altronde, puoi provare più o meno qualsiasi tipo di sentimento per un’altra persona, senza che questo oscuri la tua capacità di vederlo per ciò che è. Anzi, spesso è il contrario: quando provi qualcosa di più profondo per qualcuno è proprio perché l’hai visto in ogni sua sfaccettatura – anche le peggiori – e sei riuscito a dirti non che ti piacciono anche quelle – una cosa del genere è buona solo a riempire le bocche dei romantici, ma non può corrispondere alla realtà, non c’è verso per cui una persona sana di mente possa coscientemente amare un difetto – ma che puoi sopportarle, in favore di tutto il resto.
Quindi io lo so che Bushido è un rompiballe. Lo è per un miliardo di cose diverse, peraltro. Lo è per ciò che riguarda se stesso, lo è per ciò che riguarda la sua immensa e variopinta corte e lo è anche nei confronti di tutto il resto del mondo, perché quell’uomo è davvero fermamente convinto che, potesse mettere le mani su tutto l’intero orbe terracqueo per governarlo, sarebbe in grado di fare un lavoro splendido. Perciò tutto deve girare nel verso da lui prestabilito. È Bushido a stabilire l’ordine di rotazione della Terra e di tutti i pianeti circostanti, è lui che piazza il Sole al centro del Sistema Solare, è lui che traccia il tragitto di comete ed asteroidi, accende e spegne le stelle e regola l’espansione delle galassie. C’è poco da fare, quando uno vuole avere un controllo simile su tutto ciò che lo circonda. Non puoi non concederglielo, ed allo stesso tempo non puoi non limitarlo. Perciò io avevo bisogno di Hans. Avevo bisogno di qualcuno che fosse rompiballe tanto quanto lui, perché almeno ci fosse qualcuno pronto a litigarci, con Bushido, per costringerlo a vedere galassie diverse dalla propria. Per ricordargli che non è Dio ma un impiegato, e come tale deve lavorare.
Bushido, al momento, non è il maggiore dei miei problemi ma indubbiamente è un problema. Non può non esserlo anche quando non me lo trovo sotto gli occhi, perché anche quando non è con me, o io non sono con lui, in alcun modo posso dimenticare che al momento Bill e Chakuza stanno praticamente insieme e lui è praticamente solo. C’è una netta differenza fra ciò che il mondo sa – perché è ufficiale – e ciò che invece è vero e sappiamo solo noi. Il mondo sa che fra Bill e Bushido le cose sono tranquille – magari immaginano non siano più come un tempo, ma niente oltre a questo – non sa che Bill, quando dorme, dorme con Chakuza. E non sa che Bushido dorme solo in casa propria, con la compagnia di Fler in una stanza degli ospiti a caso, quando va bene. Ciò che è reale è questo. È ciò con cui dobbiamo fare i conti. Nessun altro oltre noi fa i conti con questo tipo di realtà, per il resto del mondo non esiste. Eppure è tanto vera che non ci si dorme la notte.
Mi sollevo dalla poltrona sulla quale sono stato affossato fino ad ora, poggiando il portatile bollente sul tavolino basso di fronte a me, e mi sgranchisco le gambe e le braccia, stendendo la schiena e mugolando soddisfatto quando sento le ossa crocchiare, i muscoli sciogliersi e i tendini riacquistare una parvenza di elasticità. Lancio una veloce occhiata all’orologio a muro: sono le undici ed io posso ragionevolmente dire di aver fatto quanto dovevo, per oggi. Il singolo è entrato in decima posizione nella classifica dei più venduti della settimana, e contando l’incertezza delle masse, in questo momento, è un risultato più che soddisfacente. Sarebbe qualcosa di cui gioire, se il gruppo per il quale lavoro fosse disposto alla gioia. Così non è, perciò la prendo come una gratificazione personale neanche tanto desiderata e mi chino ad arrestare il sistema, attendendo che il computer si spenga per chiuderlo e cominciare a prepararmi per andare a dormire.
Naturalmente c’è chi ha deciso che non posso. Potrei dare la colpa al buon Dio nel quale non è che abbia mai creduto, in realtà, ma visto che posso dare la colpa al suo più bravo imitatore qui sulla terra è nei confronti di Bushido che ringhio, nel momento esatto in cui rispondo al citofono e lo vedo apparire sul monitor, che guarda dritto in camera, come a ricambiarmi lo sguardo che gli sto lanciando io.
- Che sorpresa. – sbotto acido. Lui grugnisce qualcosa che somiglia a un “apri” ed io obbedisco roteando gli occhi e lasciandogli la porta aperta mentre torno in salotto e mi abbatto esausto contro il divano, preparandomi a quella che sarà sicuramente una discussione sfiancante. Semplicemente perché Bushido non viene a cercarti se non ha qualcosa da dirti, e non ha niente da dire che non sia sfiancante.
Appare sulla soglia della mia porta in jeans e maglietta, come si fosse appena alzato dal letto e si fosse messo addosso le prime cose trovate in giro per casa. Anche le infradito che porta sembrano ciabatte da casa, e nel complesso è molto buffo perché ha i capelli arruffati e si è appena sprecato a raccoglierli in una cosa disordinata, col risultato che un sacco di ciocche sono sfuggite all’elastico nero e sottile e ora gli incorniciano il viso, scendendo scurissime lungo gli zigomi, arricciandosi appena in punta.
È quasi illegalmente bello ed io distolgo lo sguardo.
Lui comunque non sembra della disposizione d’animo di venirmi incontro mentre mentalmente lo imploro di non essere, solo per una sera, se stesso. Perché quando è se stesso io non ragiono, ed in questo periodo ho bisogno di molta lucidità. E invece niente, Bushido non mi ascolta o non vuole farlo, e continua ad essere tragicamente se stesso mentre si lascia andare sulla poltrona al mio fianco e sospira pesantemente, il petto che si alza e si abbassa sotto il cotone sottilissimo della maglietta. È vecchia e usurata, attraverso le maglie un po’ slabbrate si intuisce il colore della sua pelle.
- Niente sonno? – chiedo fingendo disinteresse, sistemandomi sul divano in modo da poterlo guardare senza dovermi necessariamente voltare per farlo.
- No. – scuote il capo lui, guardando invece un punto a caso fra l’enorme vuoto che ha dentro il cervello e quello altrettanto grande che lo circonda. – Ho pensato di passare a vedere se eri sveglio.
Scrollo le spalle.
- Lo sono, come vedi. Ora, visto che è tardi e sono stanco, se-
- Tu non sei stato per niente un bravo collaboratore, David.
Spalanco gli occhi e non posso proprio, davvero, fare a meno di guardarlo. Perché tu, Bushido, non puoi dirmela una cosa simile. Io ho messo in gioco affetti, culo e credibilità, per te. Tu non puoi dirmi una cosa simile.
- Che intendi? – chiedo, glaciale. Ma perfino il mio astio si smorza quando lui solleva gli occhi nei miei ed io dentro ci vedo tanta di quella tristezza che una morsa mi stringe il petto e mi mozza il respiro, comprimendo la cassa toracica con tanta forza che mi sento mancare. Bushido era un uomo del quale si potevano dire moltissime cose, ma che fosse un entusiasta era indubbio. Perché era abituato a guadagnarsi ciò che possedeva, conosceva il brivido della lotta e del fare di tutto per ottenere qualcosa, ogni giorno era una sfida perché ogni giorno c’era qualcosa da rendere proprio o da mantenere tale. Nei suoi occhi adesso c’è solo un uomo che ha perso tutto e non sa né come riprenderselo, né se valga la pena tentare. E quindi forse è vero, Bushido. Forse non sono stato per niente un bravo collaboratore.
- Io credo che avrei fatto meglio a restare a Miami. – lo dice con una certa serenità, come non avesse fatto altro che pensarci per le ultime ore e questa fosse la naturale conclusione del suo naturale ragionamento, cosa che in effetti è anche possibile, considerata la situazione attuale. – Probabilmente, se avessi saputo che Bill era ancora nel giro ma era felice con qualcun altro… - si interrompe un attimo e si morde un labbro, esitando appena. Poi riprende, - Non ci sarebbe stato bisogno di dirmi che era Chakuza. Quello probabilmente non avrei voluto saperlo. Ma se avessi saputo che era semplicemente okay, non sarei tornato. Avrei trovato un altro modo, credo. L’Ersguterjunge è importante, ma guarda cosa ho fatto a Bill. E lui lo era di più, questa è una certezza. Eppure gli ho distrutto la vita, due volte, e non riesco a fermarmi. Continuo a farlo ogni volta che lo vedo. – lo sguardo è di nuovo fisso nel vuoto, sta ragionando fra sé. È insolitamente calmo, e questo vuol dire che sta insolitamente male.
Credo sia una cosa che succede spesso a chi ha la pretesa di gestire le vite altrui come fossero la propria, come fa Bushido. Quando gestisci la tua vita sai cosa aspettarti da te stesso. Se prendi una decisione, sai che gesti far seguire a quel pensiero. Se succede qualcosa, sai di chi è la responsabilità e puoi muoverti nella maniera più opportuna.
Gestire le vite degli altri non è impossibile. Solo che non puoi farlo come fossero pezzi di te stesso. È molto più complicato di così. Devi tenere ben presenti le differenze che separano ogni essere umano dall’altro, perché è solo grazie a quelle – grazie ai piccoli particolari che distinguono le persone – che puoi provare ad immaginare le loro reazioni ad una determinata decisione o ad un determinato evento. Bushido gestisce benissimo se stesso, ma dimentica di tenere a mente i particolari quando prova a gestire gli altri. Perciò, quando la vita gli ricorda che no, per quanto gli piaccia immaginare chi ama come un pezzo di se stesso, quelle persone comunque non lo sono, lui è sempre un po’ stupito, dalla cosa. Potranno passare anni, ma immagino sarà sempre così. Ora lui è qui che parla di Bill che si rifà una vita, di Bill che soffre nel vederlo tornare, di Bill che non sa più chi scegliere fra lui e Chakuza, e lo fa con rassegnazione, ma è una rassegnazione stupita e poco convinta. Perché non se l’aspettava e non riesce ad ammettere che al mondo possano succedere anche cose come queste. Cose che lui non ha previsto.
- Cos’è che dovrei dirti? – chiedo con un mezzo sospiro, massaggiandomi una tempia, - Hai ragione. Avrei dovuto dirtelo. Non l’ho fatto e se fossi stato più chiaro probabilmente tutto sarebbe andato in maniera diversa. Quindi cosa devo fare, adesso? Chiedere scusa?
Bushido resta in silenzio per un po’, prima di rispondermi.
- No. – dice alla fine, - No, non credo di volere le tue scuse. – si stira indietro contro lo schienale della poltrona, poggiando le braccia sui braccioli e continuando a guardare davanti a sé. – “Scusa” è solo una parola, in fondo. Sentirla o meno non mi cambia l’esistenza. Penso che le scuse andrebbero fatte solo quando possono servire a qualcosa. Salvare un rapporto o ricucire qualcosa che si è strappato. – mi guarda con un paio d’occhi indecifrabili, - Non credo che tu debba chiedermi scusa perché non ce l’ho con te e fra noi non è cambiato niente. Credo anche che sentirti in colpa, da parte tua, sarebbe molto stupido. Ci sono cose – continua con un sospiro, - che è difficile o impossibile prevedere. – e poi ghigna, - Se pretendessi delle scuse da te, dovrei pretenderle anche da me stesso. E non è così.
Ghigno un po’, scuotendo il capo.
- Figurarsi. – lo prendo in giro, - Il solo concetto è impensabile.
Lui ride di cuore, spalmandosi contro lo schienale della poltrona e scrollando le spalle. La sua espressione non cambia anche quando riprende a parlare, è sempre fissa nel vuoto ed ancora sorride, fa un po’ paura perché a vederlo così sereno si fatica ad intuire la tempesta che gli passa negli occhi.
- Sto facendo un casino dietro l’altro. – mi informa, come non lo sapessi già, - Patrick vive praticamente con me. Ed è strano, ed io non gli sto parlando come dovrei. C’è qualcosa che mi nasconde ed io non sto insistendo per farmela dire. – aggrotta un po’ le sopracciglia, pensieroso, - C’è qualcosa che vuole dirmi, sta solo aspettando che glielo chieda. E non glielo sto chiedendo, non voglio chiederglielo. – sospira, massaggiandosi la fronte, - Sto facendo così anche con Bill. Bill sta cercando di dirmi qualcosa ed io non glielo sto lasciando fare.
Traggo un respiro profondissimo, grattandomi distrattamente la nuca.
- Evidentemente non sei ancora pronto. – butto lì, scrollando le spalle. E Bushido lascia andare una risata piccolissima.
- Ho trentun anni. – mi fa notare, - Non c’è niente cui io non sia pronto. Se c’è qualcosa alla quale non sono pronto, vuol dire che sono cresciuto male. O non sono cresciuto abbastanza. Ed io non sono niente di queste due cose. Quindi, qualsiasi cosa sia quello che sto cercando di impedire a tutti voi di non-dire… dovrò accettarla e basta, penso. E decidere per conto mio.
- Continui a ripetere sempre gli stessi errori. – ringhio un po’, spostandomi a disagio sul divano, - Tu non stai impedendo niente a nessuno. Vola basso, Bushido, sei importante ma non sei il cazzo di creatore. Se Fler avesse voluto dirti qualcosa, pensi davvero che avrebbe aspettato una tua domanda? Se Bill volesse davvero dirti qualcosa, pensi che aspetterebbe placidamente che sia tu a lasciarlo parlare? L’aria di Miami ti ha stordito, o quello che è tornato in Germania non è più Anis, ma Tarek, perché ti ostini a dimenticare che siamo esseri umani, non marionette, e in quanto tali facciamo il cazzo che vogliamo, Bushido. Se Fler e Bill non ti stanno dicendo niente, vuol dire che non credono tu abbia il diritto o il dovere di sapere. È così che pensano le persone normali, Bushido. “Non lo so? Non me l’hanno voluto dire”. Non “Non lo so? Sto impedendo loro di dirlo.” Chiaro?
- Io non sono una persona normale. – ribatte lui, guardandomi dritto negli occhi.
- Lo sei! – mi agito io, battendo un pugno contro il bracciolo del divano, - Lo sei, Cristo santo, non sei davvero immortale, tu sei morto, Bushido!
- Non sono morto! – urla, alzandosi in piedi. Mi alzo a mia volta. Non che questo mi aiuti a fronteggiarlo da pari, ma almeno non è come continuare a guardarlo da seduto.
- Lo sei, Bushido! – sbotto gesticolando, - Respiri, il tuo cuore batte e rompi ancora i coglioni all’universo creato, ma tu sei morto! Sei un fantasma! E non sei più quello che eri due anni fa, devi venirci a patti!
Ed è così che mi ritrovo a sbattere contro il muro alle mie spalle, l’avambraccio di Bushido pressato contro il collo ed un dolore sordo che parte dalla base della schiena diffondendosi lungo tutta la spina dorsale, mentre respiro a fatica sotto la pressione del suo peso sul mio corpo.
- Io non sono morto. – ringhia a due centimetri dal mio viso, - È l’unica cosa che dovete davvero ficcarvi in testa, tutti quanti, e sulla quale non transigo. Io sono vivo, Jost. Sono vivo. Non sono un fottuto fantasma, sono vivo, cazzo.
Non rispondo perché non saprei che dirgli e perché non ho abbastanza fiato per farlo. In realtà dovrei dirgli che dargli del morto è inesatto tanto quanto dargli del vivo. Bushido è un uomo in bilico. Una parte di ciò che siamo muore giorno dopo giorno, questo è inevitabile. Con ogni persona cui diciamo addio, ogni posto che smettiamo di frequentare, ogni abitudine sulla quale smettiamo di insistere, va via un pezzo più o meno consistente della nostra esistenza. Quel pezzo muore, è irrecuperabile, ed è anche il motivo per cui siamo sempre persone diverse in qualsiasi momento della nostra vita ci si guardi.
Con Bushido, però, la cosa è ben più complicata. Non è un’abitudine, quella che lui ha ammazzato. Non è una frequentazione sporadica, non è una questione di conoscenza marginale o occasionale. Lui ha preso ciò che era, tutto, intero, completo, ci ha aggiunto ciò che era stato fino a quel momento, ed è quello ciò che lui ha ucciso. C’è un limite rispetto a quanto puoi uccidere di te stesso prima di ucciderti del tutto, e lui quel limite l’ha travalicato come travalica ogni limite gli si ponga davanti, perché – assoluto per com’è – doveva esserlo anche morendo. E quindi no, Bushido, tu non sei vivo. Forse non sei nemmeno morto, ma vivo non lo sei di sicuro, perché hai sacrificato troppo per esserlo ancora. Una persona può sacrificare un rene, può sacrificare un polmone, parti di stomaco o di intestino, parti di fegato, qualsiasi cosa. Ma prendere un cuore, asportarlo per intero e pretendere che un corpo continui a vivere è impensabile. Bushido non ha davvero una misura di ciò che ha fatto. E qualcuno dovrebbe dargliela.
Solo che io non sono capace. Perciò resto in silenzio e non riesco neanche a reggergli lo sguardo. Quando mi vede evitare i suoi occhi, mi lascia andare. Io scivolo un po’ contro la parete e fatico a reggermi sulle gambe, mentre mi massaggio distrattamente il collo indolenzito.
- Io non capisco cosa pretendi, Bushido. – dico sfiduciato, sospirando pesantemente, - Cos’è che vuoi? Che la vita riprenda il suo corso a partire dal momento esatto in cui sei andato via? O da qualche giorno prima, così da risparmiarci la visione del tuo corpo in un lago di sangue?
Stringe le labbra finché diventano due linee sottilissime, e lo vedo perché torno a guardarlo. Perché sono triste, per lui e per tutti, e non so cosa fare. Per la prima volta non ho idea di come risolvere questa situazione. Forse avevi torto, Bushido, forse avevamo torto entrambi. Non sono così bravo a sistemare le cose. Nemmeno quando serve.
- Io non so cosa dirti. – esalo alla fine, allargando arreso le braccia, - Non posso ridarti quello che hai perso, non può ridartelo nessuno. Non può ridartelo nemmeno Bill. Tu non hai perso solo lui, lo capisci questo? Te ne rendi conto?
Stavolta lo sguardo lo abbassa lui. Non muove un passo ma solleva una mano a coprirsi gli occhi. Osservo il movimento farsi sempre più stanco mentre massaggia la fronte e poi scivola fra i capelli, districandone nodi inesistenti e ravviandoli all’indietro, liberandoli dall’elastico e trattiene fra due dita e col quale comincia distrattamente a giocare, prima di tornare a guardarmi.
- Io non so cosa devo fare, David. – dice con sincerità così eccessiva da risultare dolorosa, - Io ho bisogno che tu mi dica cosa devo fare qui e adesso. Perché se tu non mi dici cosa devo fare della mia vita in questo preciso istante, penso che ne farò brandelli e la butterò nel canale, al suo posto.
Io sospiro, perché quest’uomo non è veramente gestibile. Continua a mettere la sua vita nelle mie mani, quando le mie mani sono l’ultimo posto in cui dovrebbe stare.
- Lo ami ancora? – chiedo a bassa voce, e lui lascia andare una mezza risata amara.
- Non fosse stato così, non sarei tornato. – ammette senza neanche pensarci su.
Io scrollo le spalle e sistemo la maglietta un po’ stropicciata.
- E allora ti sei risposto da solo. Sai già cosa fare. – lo osservo sbuffare un sorriso incerto, abbassando appena lo sguardo, e mi affretto a precisare, - E se interpreti quello che ti ho appena detto come “smetti di combattere e tornatene a Miami”, allora non hai palle.
Bushido ride e ride davvero, stavolta. Scuote lievemente il capo mentre ravvia i capelli fra le mani e li stringe in una coda piccola e alta dietro la testa, decisamente più ordinati rispetto a quanto non fossero quando è arrivato.
- Tu meriteresti di essere massacrato a legnate, Jost. – annuisce simulando serietà e ficcandosi le mani in tasca, - Ad ogni modo, grazie.
Sbuffo scrollando le spalle.
- Non ringraziare. Sono andato in vacanza alle Bahamas due volte, coi soldi che mi hai lasciato andandotene.
Ride ancora un po’, allontanandosi verso la porta dandomi le spalle e salutandomi con due dita, senza più guardarmi. Resto solo meno di due minuti dopo, ho come l’impressione di avere riaperto qualcosa che stava per chiudersi e non sono sicuro che qualcuno mi ringrazierà per questo. Non sono sicuro neanche che io stesso mi ringrazierò per questo, e peggio ancora non sono per nulla sicuro che lo farà Bushido.
Il portatile è spento, ma io non ho più sonno. Passerò la nottata a giocare a Free Cell.

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All the small things

di tabata
Perché io mi decidessi a parlare di lui, Bushido ha dovuto tornare in vita.
Se ci penso rido, ma in realtà è una cosa molto da lui fare l’impossibile pur di venire amato, se è quello che vuole. E lui di certo, quando ha deciso di farci credere che non lo avevamo più, avrebbe voluto che io dicessi qualcosa. Invece non ho detto una parola.
I giornalisti mi hanno inseguita per settimane e, naturalmente, non si sono risparmiati di invitarmi a TRL o di chiedermi interviste per tutti gli speciali che poi sono andati in onda nel tentativo di rivelare di Bushido anche quello che non esisteva affatto.
Io non ho mai accettato, non avrebbe avuto senso farlo. Io con l’etichetta non c’entro niente e non era mio il compito di ricordarlo.
Quando è morto, una parte di me è morta con lui.
Sembra una frase fatta, ma è la verità. Anis è un uomo che quando ti ama, lo fa in maniera totalizzante e per farlo, ti ruba un pezzo di cuore, così poi tu lo ami per forza, perché ha fra le mani una parte di te. Per questo quando hanno calato la bara, quello che di lui c’era in me ha cominciato a vacillare come la fiamma di una candela e io per proteggerlo, per mantenerlo il più vivo possibile, ho preferito il silenzio.
Avevo paura che si spegnesse.
Poi, anche a me è successo quello che è successo a chiunque altro lo conoscesse e gli volesse bene. Abbiamo iniziato a sentire la sua mancanza, una specie di morsa dietro lo stomaco, la sensazione netta che avesse lasciato un vuoto fisico e che ci stessimo tutti camminando intorno, evitando accuratamente di riempirlo con qualcos’altro. Era una specie di buca in cui evitavamo di cadere ma che non ci azzardavamo a riempire. Per questo abbiamo finito per avvicinarci tutti quanti. Era un modo per sentirlo vicino. Credo che prima o poi tutti abbiamo fatto lo stesso pensiero. Ci siamo detti che se stavamo insieme, se stavamo tutti nello stesso posto, potevamo fingere che non fosse successo niente. Eravamo lì perché stavamo aspettando lui. Non era morto, era solo da un’altra parte e come al solito si faceva desiderare.
Così un giorno sono uscita di casa e mi sono presentata all’Ersguterjunge e nessuno sembrava sorpreso di vedermi. Erano tutti lì, del resto. Perfino Fler, che avrebbe dovuto darmi da pensare e invece niente. I sudditi del re ragionano tutti allo stesso modo.
Per settimane non abbiamo fatto niente, stavamo solo lì. Arrivavamo prestissimo la mattina, ci sistemavamo negli uffici ed era come quando sei un ragazzino e ti trovi a casa di qualcuno. Non hai veramente qualcosa da fare, stai lì e basta. Le prime settimane eravamo soltanto noi, poi anche Bill ha cominciato a venire.
Ricordo quando è arrivato perché eravamo nello studio grande. Eko e Kay avevano trascinato nella stanza i due divani del salottino così che potessimo stare tutti quanti insieme. Avevo portato del cibo fatto in casa perché sapevo che se li avessi lasciati da soli a nutrirsi avrebbero mangiato soltanto pizza, cibo cinese e kebab.
Poi abbiamo sentito la porta aprirsi. Ci siamo guardati. Anzi, ci siamo contati. Ed eravamo tutti lì. Per un attimo abbiamo pensato ad Anis ed è stato un pensiero quasi felice. La scena era perfetta: noi già lì, lui che ci raggiunge ovunque fosse prima. Così quando sentiamo i passi, quando scorgiamo l’ombra, ci tendiamo verso la porta perché ci aspettiamo di vederlo comparire e sorridere dicendo “Cosa ci fate già tutti qui? Non avete una vita?” Invece è Bill. E il ragazzino è a pezzi..
Anis mi ha sempre parlato di lui. Veniva da me a mangiare qualcosa, ogni tanto, e mi raccontava di quello che stava accadendo. Anzi, in realtà veniva lì con quell’intenzione ma non diceva niente finché io non portavo in tavola i piatti e chiedevo per prima. Allora lui sorrideva alla sua maniera, quella che lo guardavi ed era contagioso, e mi diceva che era una gran casino. “E’ un gran casino, Cassie,” diceva proprio così. “Ma è il più bel casino della mia vita.”
Quando ha conosciuto Bill, io l’ho saputo il giorno dopo. Lo avrei saputo la sera stessa se non fossi stata abbastanza intelligente da spegnere il cellulare. Bushido è il tipo che se gli succede qualcosa è convinto che tu voglia saperla immediatamente, anche se – per dire – sono le quattro del mattino e tu stai dormendo. Io però lo conosco benissimo, quell’uomo lì, ci sono passata, li so i suoi colpi di genio di telefonare all’alba o magari presentarsi a casa mia alle tre di notte e offrirsi di cucinare due verdure al volo intanto che mi spiegava cose – che poi finiva che lo mettevo seduto buono e lo facevo parlare mentre gli riscaldavo qualcosa dal giorno prima perché non mi facesse saltare in aria la casa. Comunque ho imparato a spegnere il telefono. Quando la mattina mi sono svegliata avevo un numero illegale di chiamate non risposte e due messaggi. Uno che diceva “Devo parlarti” e l’altro che mi avvisava, “Sto passando da te.” Non ho neanche pensato di prepararmi di corsa, tanto lo sapevo che era già sulla porta, lui non ti avverte mai in tempo utile. E, ad ogni modo, se proprio voleva vedermi, si sarebbe preso anche il mio pigiama e le mie pantofole di pelo rosa.
Me lo ritrovo in casa nemmeno dieci minuti dopo ed è in uno stato di esaltazione tale da essere quasi insopportabile. Anis per certe cose è come un bambino, quando si emoziona o c’è qualcosa di particolarmente fantastico, non sa parlare d’altro e lo fa senza prendere fiato, ti travolge di parole. Entra, mi dà il tempo di chiudere la porta e poi mi bacia sulla guancia. “Non ho mangiato, hai niente?”
“Stavo per fare colazione,” gli dico. Faccio per indicargli la porta della cucina ma lui ci è già entrato e si sta pure già servendo. Non mi resta che raggiungerlo.
“Allora, cos’è questa storia che devi parlarmi?” Mi verso del caffè intanto che lui si fa fuori l’ultimo panino che mi è rimasto in casa. Alla faccia dell’educazione e della galanteria. Il fatto è che lui sa che glielo avrei dato se me lo avesse chiesto, quindi ha saltato un passaggio e se l’è direttamente preso. Ci vuole pazienza, con lui.
“Ieri sera ero da Oliver.”
“Chi?”
“Pocher,” specifica lui, facendomi cenno col mento sollevato, mentre apre il panino e ci spalma sopra il burro. Io annuisco vaga, avrò visto questo tipo un paio di volte ma non ho ben chiaro chi sia. Bushido ci va matto, comunque. Questo lo so. “Insomma, Oliver ha dato questa festa dopo lo spettacolo e c’erano praticamente tutti.”
Tutti quelli che contano, intende. Che poi significa, tutti quelli che non contano ma servono a lui per il suo assurdo piano di conquistare la Germania. Più o meno.
“Dov’è la novità?” Chiedo, sorridendo. “Quand’è l’ultima volta che sei stato in casa tranquillo senza tornare disfatto alle quattro del mattino? Hai dormito stanotte?”
“No, vengo diretto da lì,” mi dice. “Cioè, sono passato da Chaku una mezz’oretta, con i ragazzi, ma poi sono venuto qui.”
Lo guardo. Ha addosso i pantaloni di una tuta da ginnastica nemmeno tanto nuova e una maglietta a maniche corte con il logo dell’EGJ. “Ti sei cambiato?”
“Na-ah,” risponde lui, masticando.
“Ci sei andato così alla festa di Pocher?”
Si stringe nelle spalle. “Comunque, ti stavo dicendo. In mezzo a tutta questa gente c’erano anche i Tokio Hotel. Hai presente no?” Annuisco. Direi che è impossibile accendere la televisione senza vederli. “In realtà c’erano solo i gemelli, comunque fa lo stesso. Non è che gli altri due abbiano tutta questa importanza.”
“Perché loro due sì?”
Lui ride. “In un certo senso si. Per questa storia ce l’hanno, almeno. Comunque, sono due spettacoli, veramente. Tom, il biondo, è uno di quelli che arriva e lo vedi sparire tempo zero dietro alla prima figa con la scollatura ampia. L’altro, Bill è come lo vedi in televisione.”
“Vale a dire?” Chiedo, perché mi vengono in mente un sacco di aggettivi ma non credo siano quelli giusti.
“Pesa si e no quaranta chili ed è perfetto, tipo. Sembra una ragazza, è molto carino. Comunque, il punto non è questo. E’ che mi si è avvicinato, sbattendo gli occhioni. Ed è passato tra Kay e Nyze, educatissimo. Scusate, permesso. Dovevi vedere la faccia dei ragazzi.”
A me sorge il dubbio che ci sia qualcosa che Bushido ancora non ha capito. Lui non ha nemmeno finito di raccontare, non ha nemmeno iniziato anzi, e io già vedo cose che lui non immagina proprio, perché lo so com’è. Dopo che ci siamo lasciati – io ho lasciato lui, perché oggettivamente non era cosa tra me e lui. Quindi va bene che mi depredi la dispensa ma non che stia nel mio letto, grazie – lui ha avuto un sacco di ragazze, tutte ampiamente sotto i venticinque e tutte ampiamente stupide. Anis non è un tipo da relazione stabile – cioè, non lo era al tempo – però è un tipo da innamoramento. Lui delle donne si innamora. E anche con una facilità sorprendente. Questo perché è un uomo innamorato dell’amore. Gli piace l’idea che ci sia nel mondo una donna che è la sua donna, con la quale lui possa darsi una certa importanza e, sostanzialmente, possa fare lo splendido. Bushido le donne le rispetta, anche se purtroppo viene dal ghetto, quindi ha un certo tipo di mentalità – io Tarzan, tu Jane, per intenderci – ma lo si tiene a bada con un po’ di polso. Di solito le donne che si sceglie non ce l’hanno, ma va tutto bene così: lui ha le sue bamboline da riverire come dee e loro hanno una fonte quasi inesauribile di denaro, un bell’uomo con due braccia forti e sono tutti felici. Insomma, di donne ne ha avute dopo di me, e si è innamorato di tutte quante, quindi io li conosco gli occhi di Anis quando va in quella direzione. Ora è qui seduto di fronte a me e per raccontarmi Bill Kaulitz mi ha detto solo quanto pesa e quant’è carino. E io non so se prenderlo per il sedere perché si è lasciato di nuovo affascinare da un bel faccino, o perché il faccino è quello di un maschio.
“Senti un po’ qua, Cassie,” mi dice intanto lui, segno evidente che non ha capito niente di niente di se stesso, ancora. “Mi raggiunge, io lo guardo, l’ho visto solo in tv fino a quel momento. Quindi mi sorride, e mi chiede se mi ricordo di lui, che ci siamo visti a non so che premiazione. E allora me lo ricordo sì, ma non è che ci siamo visti. Ci siamo incrociati un secondo, tipo. Comunque iniziamo a parlare, ed è simpatico. Un ragazzino intelligente.”
Di queste descrizioni di Bill, Bushido me ne fa a centinaia nei mesi successivi. Da ragazzino intelligente, diventa sveglio, poi affascinante. E in fine, Cassandra, Bill è veramente un tipo interessante. Che è l’inizio della fine.
Una sera mi irrompe in casa alle due. Ha gli occhi lucidi, quindi ha bevuto e come entra lo mando a parcheggiarsi sul divano con un caffè, anche perché altrimenti si addormenta e io domani ho qui mia madre e le verrà un infarto se lo vede. Pensa di essersene liberata per sempre. “Cassie, ho un problema.”
Bushido non ha mai problemi, soltanto situazioni da risolvere. Quindi se ti dice che ha un problema, allora ce l’ha. Io sospiro e mi siedo. “Che succede?”
“E’ Bill.”
Negli ultimi tempi, si sono visti moltissimo. Quando il ragazzino non era in giro circondato da adolescenti e Bushido non era chiuso in sala di registrazione a balbettare testi per i quali palesemente non ha abbastanza fiato, erano insieme. Tutto super-segreto perché il bambino d’oro della musica tedesca non può certo incontrarsi in pubblico con il rapper brutto e cattivo, quindi sono stati costretti ad incontrarsi alla Villa Gialla, cosa che ha reso il tutto molto più intimo. “Che cos’ha combinato Bill?”
“Ci ha provato.”
Io lo guardo. “Cosa?”
Bushido annuisce, serissimo. “Eravamo a casa e stavamo guardando un qualche film assurdo che mi ha portato – non ti so dire cosa fosse, non è importante – e abbiamo bevuto un po’.”
“Anis c’è abbastanza materiale per scatenare l’inferno mediatico.”
“Certo, ti vedo andare da Sascha ad avvisarlo che intrattengo nella mia villa minorenni che poi faccio ubriacare per approfittarmene. Ti dispiace farmi continuare?”
“Prego,” lo invito. Voglio proprio vedere dove andiamo a parare.
“Stavamo parlando e stavamo benissimo. Prendevamo in giro LaFee e Bill mi raccontava di quanto sia isterico il suo manager. Poi gli ho detto che era carino-“
“Cosa?” E due.
“Beh lo era!” Si giustifica. “Comunque si è sporto verso di me e mi ha baciato.”
Alzo gli occhi al cielo. Certo poteva arrivarci, dico.
“Ma che ne so!”
“Che ne sai? Anis, ti veniva dietro, era palese.”
“Sì ma io non andavo dietro a lui, era palese anche questo,” mi dice. Io sollevo soltanto un sopracciglio ma poi non parlo. Non spetta a me dire ad un uomo che la sua eterosessualità sta vacillando.
“E che cos’hai fatto?”
“Quello che dovevo fare. L’ho rispedito a casa con un taxi,” sospira lui. E io lo sapevo che di quel sospiro dovevo preoccuparmi, perché è stato quello a portarci alla notte degli hamburger. Bushido, di quella notte, non si è risparmiato un dettaglio. So tutto, so anche troppo e forse Bill non sa quanto so. In ogni caso non lo ripeterò perché, sinceramente, non è che mi interessi molto.
Quello che è importante da dire, è che io c’ero quando Bushido ha davvero capito di essere innamorato di Bill. Si è seduto su quello stesso divano e mi ha guardato con due occhi neri e felici che non glieli vedevo addosso da un sacco di tempo, e mi ha detto che il ragazzino c’era riuscito. Il resto lo sapete.
La notte in cui è morto, io non riesco a ricordarmi dov’ero. E questo particolare, questo non riuscire a focalizzare i dintorni di dove mi trovassi quando Eko mi ha telefonato, mi ha sempre dato fastidio. Nel corso dell’ultimo anno ho superato tutto quanto, la sua morte, il dolore, tutto davvero, ma c’era quel minuscolo particolare che mi rodeva il cervello. E non so perché fosse tanto importante, forse perché mi sembrava che a non ricordarlo, gli mancassi di rispetto. Che a non ricordare il luogo, non avrei ricordato la data.
Quando andavo a trovarlo al cimitero e guardavo la sua foto, me lo immaginavo a chiedermi: Cassie che stavi facendo mentre io morivo? E io non avevo nessuna risposta da dargli. E senza quella risposta, mi dicevo, non avrei potuto contare il tempo che stava passando dal momento in cui si era spento. La sua morte era una specie di esplosione che aveva avuto luogo da qualche parte nel mio passato, chissà dove, chissà quando. Forse avevo paura che sparisse come una data poco importante della mia vita, quelle che ti dimentichi perché non le associ a niente che abbia una qualche rilevanza. Il mio primo appuntamento dal dentista? La prima volta che ho colto un fiore? Non lo so. Quando è morto Bushido? Non lo so. Ma è morto e io non c’ero. Ovunque fossi, non ero con lui.
Ricordo solo la telefonata.
So che Eko si è occupato di avvertire tutti, quella notte. E al sorgere dell’alba nessuno di noi stava più dormendo. Non sono andata all’ospedale.
Mentre sua madre urlava che glielo facessero vedere e Bill aveva smesso anche di muoversi, io ho parcheggiato l’auto di fronte alla Villa Gialla. E ho pianto lì. Mi sembrava che fosse il posto in cui forse potevo trovare ancora qualcosa di lui. Là dentro non ci sono più entrata, nemmeno quando la signora Louise mi ha chiamata perché avevano trovato qualcosa di mio. Ho chiesto a Chakuza di recuperarlo per me.
Da quel momento in poi, che lo volessimo o no, la vita è andata avanti comunque. Noi ci riunivamo agli studi e ci prendevamo cura di Bill che per i primi mesi non ha fatto altro che piangere, provocando le reazioni infastidite di Eko, il quale non è affatto cattivo, ma è molto sensibile su certe cose. E’ abituato a stare fra maschi che si prendono a manate sulle spalle, che sparano cazzate e vivono il dolore in maniera molto chiusa. Lui fa il cretino, e gli altri ridono. Uno così serve sempre, perché se sei felice e ridi è okay. Se sei triste e ti fanno ridere, va ancora meglio. Con Bill però non poteva fare così.
La principessa era fragilissima, viveva in bilico su quella fossa che tutti evitavamo. Mi viene da pensare che ci guardasse spesso dentro nella speranza di veder spuntare il viso di Anis. A volte ce lo vedeva, forse. E vacillava. Dovevi andarci piano con Bill, pesare ogni parola. C’erano giornate in cui sorrideva e mangiava con noi, sembrava star bene quasi. E giocavamo, magari. Poi all’improvviso qualcuno diceva o faceva qualcosa e lui crollava, senza un motivo apparente. E non sapevi nemmeno cosa fosse successo. Si copriva il viso con le mani, si rannicchiava sul divano e non potevi fare niente perché non voleva essere toccato né consolato. Era lì che Eko prendeva la sua roba e se ne andava, non importava che fosse allo studio da cinque minuti o da tre ore. Se Bill piangeva, lui se ne andava, e lo faceva per evitare di fare danni. Non avendo una misura in cui rientrare con le parole o con i gesti, rischiava di fare del male a Bill. Eko è uno buono ed è uno abituato a stare bene con le persone. Con Bill ha fatto una fatica assurda ad entrare in contatto quando Bushido era vivo, e quando è morto della principessa non c’era più traccia. Solo pezzi di Bill da rimettere insieme. E lui non era il tipo. Eko non è quello che ti tira su quando ti frantumi, lui è l’elefante nella cristalleria.
Quindi spariva, prima di sbriciolare del tutto la principessa.
La svolta, nel bene o nel male, l’abbiamo avuta con TRL. La puntata della trasmissione è stata disgustosa, e ve lo dice una che l’ha seguita da casa e ha notato tutte le espressioni falsamente contrite di Patrice e i primi piani strategici sugli occhi di Bill. Era tutto montato nel modo migliore per rifilare al mondo la struggente storia dell’uomo del ghetto che si fa strada nella merda con le unghie e con i denti, e poi incontra la signorina bene che diventa l’amore della sua vita. Zucchero e caramello da copertina patinata e quel pizzico di morboso che fa sempre bene – Quindi tu eri ancora minorenne quando questa storia è cominciata! –, quando invece fra loro era una roba complicatissima. E c’erano volute le palle di entrambi per tenerla in piedi alla faccia di tutti.
Il ferimento di Chakuza è andato in onda praticamente un quarto d’ora dopo, in edizione speciale del telegiornale. Le foto di Bill con le mani sporche di sangue che piange sul corpo di uno degli uomini di Bushido hanno fatto il giro del mondo per mesi. Senza contare Fler che prende in mano la situazione prima ancora di Jost – un fatto più unico che raro – e che agli occhi di milioni di ragazzine si trasforma da “bastardo, traditore, assassino dell’amore della vita di Bill, anche se la polizia lo ha scagionato” a cavaliere in armatura scintillante. L’ascesa di Fler nell’immaginario collettivo adolescenziale femminile delle fan dei Tokio Hotel è un caso da studi sociologici. Per settimane sui forum di queste bambine isteriche non compare nient’altro che la cronaca di come il nemico di Bushido ha caricato Chakuza sull’ambulanza e ha dato direttive mediche che neanche George Clooney in ER.
A questo seguono una serie di teorie, una più strampalata dell’altra in cui queste quindicenni impazzite – che dal pop travestito da rock di Bill sono tracimate come un fiume in piena nel rap dei bassifondi tedeschi di Bushido & co. – tentano di capire le dinamiche che hanno portato due uomini, Bushido e Fler, a mandarsi a fanculo dopo un’amicizia fraterna e come altri due uomini, Fler e Chakuza, si siano trovati a fare da angeli custodi al loro angelo del pop-rock. Come da questo si sia arrivati al Flerkuza non lo so e non lo voglio sapere, ma ci siamo arrivati. Ed Eko che ci insegue ovunque tentando di propinarci gli stampati di centinaia di storie è stato un’esperienza traumatizzante per tutti. Ho anche ben chiara in testa l’immagine di Fler che fugge dalla stanza d’ospedale di Chakuza non appena Eko apre bocca per raccontare l’ultimo capitolo di non so quale dramma umano che lo vedeva coinvolto con Peter. Bei momenti, non c’è che dire.
Ad ogni modo, la trasmissione e l’assalto mancato hanno fatto sì che ci scuotessimo tutti quanti un po’. Era ora che la smettessimo di fingere che Bushido sarebbe entrato da quella porta e recuperassimo le nostre vite da dove le avevamo lasciate andare. Continuavamo, sì, ad andare allo studio ma non così spesso e non tutti quanti insieme, finché alla fine tutto non è tornato come prima: la gente andava e veniva, qualcuno faceva finta di lavorare, ma non eravamo più lì per lui. Ed è anche giusto, da un certo punto di vista. Non puoi oggettivamente smettere di vivere quando muore qualcuno, non puoi e basta perché non sei stato tu a morire. In questo caso non era morto nemmeno lui, ma noi non lo sapevamo. Questo ha fatto bene a noi, ma non ne ha fatto a Bill.
Lentamente, complice il fatto che doveva tornare a lavorare – la Universal ti concede solo una certa quantità di tempo per rimetterti dai tuoi traumi, indipendentemente dal trauma – si è rinchiuso in casa, con l’unica compagnia di Tom e saltuariamente di Fler che per un motivo che poi ho scoperto in seguito, aveva preso il posto dell’onnipresente Chakuza.
E’ stato un brutto periodo, per lui.
In tutto questo, io e Tom siamo finiti insieme. Dunque, la cosa in realtà parte da prima, come sempre del resto. Io Tom l’ho conosciuto quando Bill è entrato a far parte del branco. Diciamo che è stata la conseguenza naturale del conoscere Bill. Questo dopo che lui e Bushido si erano già ampiamente scornati. Ricordo che Anis veniva a casa mia a lamentarsi perché quel ragazzino – no, non il mio Cassie, l’altro – era insostenibile. Insostenibile, così diceva, con un tono molto severo, come si stesse parlando di insubordinazione militare o che so io e non certo di una crisi di gelosia da abbandono. Tom è legatissimo a suo fratello e Bushido ha preso e gliel’ha portato via come ha sempre portato via tutto ciò che voleva. Era normale che Tom lo odiasse, ed era normale che Bushido si sentisse autorizzato a fare tutto quello che aveva fatto e che pretendesse anche che lo lasciassero fare come niente. Per questo lo lasciavo parlare, che tanto non c’era nient’altro da fare.
In questo periodo in cui Bushido usciva con Bill e io mi sorbivo tutte le confidenze di Bushido, improvvisamente tornato tredicenne, Tom non ha fatto niente, se si escludono le occhiate da triglia che mi lanciava ogni volta che ci capitava di incrociarsi. E tanti saluti al dio del sesso. Ogni volta che eravamo nella stessa stanza, faceva lo splendido con discrezione, nel senso che ovunque andassi me lo ritrovavo a portata d’occhiata. Non parlava, mi guardava e basta e, occasionalmente, mi dedicava questi ghigni da gangster, tutti di traverso con i quali, suppongo, avrei dovuto cadergli ai piedi o che so io.
Ad ogni modo, c’è stato questo periodo in cui continuavamo a sorriderci, lui perché è fondamentalmente timido e quindi deve accerchiarti da lontano, non viene lì e la prende di petto, e io perché non avevo motivo di non farlo. Non pensavo davvero che sarebbe finita in questo modo, sinceramente. Poi Bushido è morto, non ci siamo visti per un po’ e lui è finito a tenere suo fratello chiuso in casa, per paura che il mondo là fuori se lo mangiasse pezzo per pezzo. Quando mi è capitato di rivederlo, non gli ho permesso di sorridermi e l’ho baciato. Perché era anche l’ora di finirla.
Questo per spiegare perché adesso sono qui alla Beatlefield. Io sono qui perché aspetto Tom, che è qui perché Fler deve dargli qualcosa e Fler è qui perché c’è arrivato con Chakuza. Se penso che posso chiudere la catena parlando di Bill, mi viene quasi da ridere.
La Beatlefield non è molto grande, sono tipo due stanzette, tre contando quella dove i due proprietari si svaccano a turno quando fanno le ore piccole per stare dietro a qualche beat. Ed è un casino totale. Non perché sia piccola, ma perché è in mano a Chakuza. Quell’uomo ha la capacità di occupare sempre ogni centimetro dello spazio di cui dispone. Suppongo sia un qualche tipo di compensazione per lo spazio che non occupa lui personalmente. Ad ogni modo non c’è spazio per sedersi e non c’è spazio nemmeno per stare in piedi. Tom è entrato e mi ha mollata qui dove sono, cioè nel disimpegno fra una stanza e l’altra dove, in ordine, ci sono un divano che fa le veci dell’attaccapanni, un tavolino con quintali di bottigliette di plastica che sommergono un telefono a disco nero, dell’anteguerra e un non so davvero cosa appeso al muro. Cerco con gli occhi qualcuno da salutare, tanto per fare qualcosa, che poi sono due stanze, mi chiedo dove sia corso così di fretta Tom. Fler non può essere che dietro l’angolo.
Fler non lo trovo, ma trovo Chakuza che è seduto dietro ad un mixer che prende tutto il tavolo a cui è seduto. Sembra impegnato, quindi entro piano. L’altra metà della stanza è divisa da un vetro e dalla sala di registrazione. Là dentro però non c’è nessuno.
Dopo cinque minuti che sono lì, e volendo avrei potuto anche aggredirlo con una chiave inglese e tramortirlo, per dire – la Beatlefield non ha un portone d’entrata. Cioè il portone c’è ma si apre con una carta di credito, c’è riuscito Tom stamattina, perché il campanello non funzionava, e Fler non rispondeva al cellulare, panico!, quindi figurati. Potevo essere io, come poteva essere uno stronzo qualunque e Chakuza era bello che andato – alla fine si rende conto che c’è effettivamente un’ombra scura alle sue spalle.
“Cassie!” Si toglie le cuffie e sorride. Gli si muove la faccia, quando lo fa. E’ rotondo e mobile, quest’uomo qui. “Ciao, come va?”
Mi abbraccia e mi bacia, prendendomi per gli avambracci, quindi sposta le cianfrusaglie che occupano la seconda sedia girevole e mi invita a sedermi. Non si giustifica nemmeno per la confusione che c’è, per lui è un normale stato di cose. Il caos è la sua condizione esistenziale.
“Bene direi, “ commento con un sospiro. Cerco un posto per appoggiare la borsa e poi decido che me la tengo in grembo. “Tu?”
“Alla grande,” sorride. “Vuoi qualcosa da bere? Forse c’è della coca.” Con orrore lo osservo frugare tra un esercito di bottiglie di plastica sul pavimento.
“No grazie,” sparo lì e poi, siccome sono stata brusca sorrido. “Sono a posto così. Tom ha insistito per fare colazione prima di venire qua.”
Lui annuisce e rimette a posto una bottiglia che ha passato probabilmente troppo tempo in quella sala di registrazione. Qualcuno dovrebbe dire a Chakuza che le bibite gassate non vanno fatte invecchiare come vini del ’75. E dire che è un cuoco.
“Come mai siete qui?”
Io alzo gli occhi al cielo. “Fler,” rispondo. Patrick Losensky, per me, è una maledizione. Non lui in quanto lui, per carità. Fler è, tipo, la persona più buona che circoli da queste parti, davvero. E’ uno che se può fare qualcosa per te la fa, anche nelle stronzate. Per dire, è l’unico che se ceniamo tutti quanti insieme, si ricorda che forse quaranta fra piatti e scodelle sarebbe meglio non lasciarli nel lavandino. E lava. Lava i piatti. Per una donna sola circondata da maschi iper-testosteronici che non si azzarderebbero mai a prendere in mano una spugna, Fler è un miracolo divino. Uno così arrivi ad amarlo, capite? Sempre in senso metaforico, s’intende. Anche perché: uno, il berlinese dagli occhi di ghiaccio non è il mio tipo. E due, credo che questo sarebbe l’unico vero motivo per cui Bushido non mi rivolgerebbe mai più la parola.
Ad ogni modo, se, nonostante questo, Patrick Losensky è comunque una maledizione, è colpa di Tom. Tom lo venera in maniera quasi imbarazzante. Se si attacca a parlare di musica, lui non vede né sente nient’altro. Fler. L’Aggro Berlin. L’Aggro Berlin e Fler. Credo che quella che era nata come una semplice adorazione da ragazzino sia diventata una specie di ripicca per suo fratello, o qualcosa di simile. Bill se la faceva con l’Ersguterjunge? Bene, allora lui ascoltava solo l’Aggro, che ci sarebbe stato da fargli notare, ai tempi, che a Bill di chi ascoltasse non gliene importava un tubo. Tantopiù che la connessione tra Bill e il rap finiva làddove iniziava Anis, quindi insomma…
Ad ogni modo, quando poi Patrick è migrato dalle nostre parti, ed è diventato amico di Bill, Tom era già così preso che non poteva rinnegare niente. Anzi, si è fatto prendere ancora di più. Quindi adesso siamo qui perché Fler gli ha promesso – dio solo sa perché – di recuperargli non so quale mixtape che ancora non fa bella mostra di sé nell’altarino a lui dedicato a casa di Tom. E io che gli sto dietro, anche.
“Oh, si certo,” Chakuza annuisce. “Fler me lo ha detto. E’ venuto qui a riversarlo su cd. Era una roba dell’anteguerra, mi aspettavo che venisse a suonarmelo in sala di registrazione col mandolino, non lo so.”
Rido. Quasi me lo immagino Patrick col mandolino.
“Credo che quella cassetta l’abbiano sentita soltanto lui e Bushido, il giorno in cui hanno registrato le canzoni. Poi qualcuno, fortunatamente, ha impedito loro di pubblicarle.”
“Sei un uomo tremendo.”
Lui solleva entrambe le sopracciglia un paio di volte, velocemente. “Me lo dicono in tante,” poi ridacchia. Gli si alzano gli zigomi e gli occhi diventano piccoli, e io mi chiedo da quando ho preso l’abitudine a guardare tutti questi dettagli. Poi capisco che è sempre la solita storia. Quando perdi qualcosa, tutto ciò che resta te lo tieni stretto. Questa gente è il mio mondo, quindi voglio saperlo a memoria. Qualcosa del genere. Magari non conoscerò così bene Chakuza da farmi dire da lui cose che in realtà ho già ben capito da sola, però lo conosco, so come si muove. So che era il braccio destro di Anis, e non c’è altro da sapere, in realtà, su di lui. Poi, nell’attimo esatto in cui penso questo, Stickle urla dall’altra stanza – che presumo sia quella dove si trova anche Tom. Boh.
“Chaku, al telefono!”
“Chi è?”
Stickle ride. “La principessa.”
Chaku a quel punto ci mette meno di niente a tradirsi. Cioè, io oggettivamente, in quel preciso momento della mia vita, non lo so che Chakuza e Bill stanno insieme. Non lo so perché non l’hanno detto e perché, da quando Peter è stato ferito, io li vedo molto meno. Per dire, non passavo dalla Beatlefield da mesi e il tempo che Chakzua passa all’Ersguterjunge gli serve a tentare di convincere gli altri a non cercare un nuovo tunisino che conquisti la Germania, per cui, insomma, non ho avuto molte occasioni di sentirlo o vederlo con Bill.
Ce l’ho ora il tempo, però. E se unisco le immagini mentali che ho di lui prima di TRL e del modo in cui parlava e toccava Bill quando stava male, allora qualcosa mi suona nel cervello.
“Ehi,” quando risponde al telefono, si distende tutto e mette su un sorriso da triglia che è tale e quale quello di Tom poi. Alzo gli occhi al cielo e penso che dev’essere una questione di cromosomi. Lui sta parlando al telefono fisso, ha preso la chiamata da qui, quindi non si può alzare e certo non può chiedere a me di levarmi di torno. Quindi la telefonata la sento tutta. Bill ha la voce squillante, il suo pigolare lamentoso e annoiato da principessa senza niente da fare un po’ arriva anche a me. Bill ce l’ha questa cosa, di fare davvero la principessa a volte. E’ che è circondato da uomini che lo hanno viziato tantissimo, quindi lui se ne approfitta, come farebbe ogni donna, per altro.
E questo uomo qui, in particolare, lo ha sempre viziato in maniera indecente, anche quando non era affatto in odore di tresca.
Chakuza resta sul generico, comunque. Risponde per monosillabi e per ‘stai tranquillo’ e ‘decidi tu’. Ma gli brillano gli occhi tipo. Quando riattacca si schiarisce la voce e cerca di ritrovare un contegno, ma è discretamente difficile se stai camminando a dieci metri dal pavimento.
Io non posso seriamente dirgli quello che penso, perché non sono affari miei e poi potrei sbagliarmi – certo, come no! – però sarebbe bello prenderlo un po’ in giro. Penso che se lo sapesse Anis, lo farebbe a pezzi. Geloso com’era delle sue cose, non permetteva a nessuno di toccarle neanche quando le aveva lasciate andare. Prendete me, per dire. Il primo ragazzo dopo di lui, lo ha minacciato pesantemente. Ho dovuto picchiarlo perché la piantasse di fare il gradasso. Quindi se mi immagino un universo parallelo in cui Bushido ha lasciato Bill e lui si è messo con Chakuza, mi immagino anche Bushido che lo ammazza di botte senza motivo.
E in quel momento non lo so che lo saprà, e che lo pesterà, anche. Non lo so che il mio nome, alla fine, mi si adatta alla perfezione. Il massimo che posso immaginarmi è che Anis sia seduto su una nuvola a mangiare kebab insieme a Dio e che osservi tutto dall’alto. Me lo vedo che vorrebbe scendere e che il sant’uomo lo recupera per il colletto della tunica bianca prima che si butti di sotto senza paracadute.
Voglio dire, è sempre più probabile questo che non Anis che un giorno torna da Miami con venti centimetri di riccioli scuri e dice ‘Scherzo! Non sono morto!’.
Che poi è quello che ha fatto, in realtà.
L’uscita di Bravo con le sue foto sfocate in copertina, le mie urla e Tom che mi dice che è vero – ancora più stranito di me, perché lo ha sentito dalle labbra di suo fratello – però, ve lo risparmio. E’ stata una settimana tremenda, comunque. Provate a rendervi conto che la persona più importante della vostra vita non è morta. Dovete prima capire che quello che vi viene detto è reale. Poi dovete concepire che la persona in questione è fisicamente presente nel mondo. Non è facile, perché l’ultimo anno lo avete passato a farvi una ragione dell’esatto contrario.
Quindi niente, quel giorno, e mancano pochissime – davvero pochissime – ore al ritorno di Anis, io a Chakuza non dico niente. Mi limito a lanciargli un’occhiata allusiva che lui coglie alla prima, perché diventa viola ma poi basta. Tom mi raggiunge, parlando ancora con Fler che lo ascolta solo perché, probabilmente, le sue orecchie si sono autonomamente scollegate dal cervello mezz’ora fa e quindi ce ne andiamo.
Rivedere Anis è stato complicato. Voglio dire, dopo che l’ho schiaffeggiato per la cazzata che aveva fatto, il cuore mi è tipo esploso in petto. Poterlo toccare, accarezzare, poter trovare irritanti le sue battute, era tutto troppo bello. Quando passi mesi a sperare che entri da una porta e non lo fa, quando poi torna e non doveva – non poteva, cazzo! – beh è bellissimo e basta. Solo che quell’uomo è fuori posto, ora. Tutto quello che ho detto fino a questo momento era vero dentro i parametri della sua vita precedente, quando pendevano tutti dalle sue labbra perché le sue labbra c’erano e ti ci potevi appendere.
Nel momento esatto in cui si è finto morto e noi tutti abbiamo creduto che fosse disteso con quella bella faccia da schiaffi sotto due metri di terra, dovevamo trovarci un’altra testa da seguire o non seguirne affatto. Ed è quello che è successo.
Io lo so che Anis questo ragionamento non lo ha fatto. Cioè magari si, in qualche remoto angolo del suo cervello questa discussione con sé stesso è avvenuta ma lui non l’ha veramente ascoltata. La decisione di morire l’ha presa su due piedi e le motivazioni che ci stanno dietro posso anche capirle – forse, non lo so. Io mi sono sforzata in questi giorni di non sentirmi abbandonata e presa per il culo – ma avrebbe dovuto rendersi conto proprio perché perdeva tutto, che tornare non doveva essere un’opzione.
Quando mi si presenta a casa, stasera, è esattamente questo che vorrei dirgli ma non posso perché ad un uomo non puoi dirla una cosa così e allora niente. Lascio che si stenda sul divano e finga di stare bene anche quando è chiaro che non sta bene per niente. Tom mi ha detto cos’è successo.
“Immagino che tu lo sappia,” mi fa lui, mentre prende la bottiglia di birra che gli offro per il collo. Annuisco, ma non dico niente. “Sapevi tutto anche prima?”
“No. Anis-“
Lui sorride. “Non ho bisogno di questa parte del discorso. Ci ha già pensato Patrick,” getta la testa all’indietro per bere un sorso. Lo fa con un certo trasporto, è una scrollata di spalle come a dirmi che non gli importa. “Conosco Bill, conosco Chakuza…”
E adesso non sa cosa fare.
“Ci vorrà un po’ di tempo,” mormoro. E spero che capisca che mi riferisco a lui e non a Bill.
Anis non risponde, continua a bere e a guardare un punto indefinito del mio soffitto dipinto di viola. “Con cosa l’hai dipinta quella parete, con lo sparaneve?” Mi dice.
“L’ho fatto da sola,” mi giustifico, e non so nemmeno perché. E’ casa mia, lo dipingo come voglio il soffitto. E non è stato affatto facile stare lì in piedi sulla scala col secchio in mano. Sono molto orgogliosa di me stessa per esserci riuscita, nonostante la doccia di vernice.
“Si vede, “ commenta lui con aria disgustata. “Guarda le macchie che ci sono. Dovevi tirarlo a gesso prima. Sei sempre la solita casinista. Questo fine settimana vengo qui e lo sistemiamo.”
“Magari io questo fine settimana ho anche degli altri impegni.”
Lui mi guarda e capisco che non devo avere niente da fare questo fine settimana o non so dove lo ritrovo lunedì. Bushido è uno che si sa regolare finché ha qualcosa per cui vale la pena farlo, ma quando non ha più niente, è capace di distruggersi. “Va bene, puoi venire qui sabato mattina.”
“Il rullo ce l’hai?”
Annuisco. “E’ giù in cantina. Credo sia rimasta anche un po’ di vernice.”
Lui beve e annuisce, guardando davanti a sé.
Poi si volta e sul suo viso non c’è assolutamente niente, è l’espressione che più temo su di lui. Il momento in cui gli si spengono gli occhi è quando è difficile riprenderlo. “Ti dà fastidio se dormo qui?”
Scuoto la testa. “Ho ancora un po’ di cose tue,” mi stringo nelle spalle. “Puoi cambiarti con quelle, poi.”
Lui fa un mezzo sorriso sghembo. “Magari cominciamo domani,” mormora. “Con il soffitto, dico.”
“Magari sì.”
So che ieri ha dormito da Fler, perché non era a casa sua e non era nemmeno a casa di sua madre. “Ti prendo una coperta,” mi alzo.
So che da qui non riuscirò a mandarlo via.

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You were always on my mind

di tabata
A volte penso che tutto ciò che è successo fosse già previsto. Non da Anis, ovviamente, ma dal destino, o da Dio, o da qualunque altra entità che se ne stia lì, nell’alto dei cieli, a decidere delle nostre vite senza che noi possiamo metterci bocca. Voglio dire, sarebbe stato già abbastanza difficile gestire la situazione tra me, Anis e Peter per come si era presentata dopo il ritorno di Anis: con me in mezzo a loro senza poter decidere; ma essere costretto a girare un video con Anis, e peggio ancora, doverlo girare insieme ad entrambi e costringere Peter ad assistere mentre fingevo di fare sesso con Anis è stato decisamente troppo.
Nessuno di noi tre ha colpa in questo senso, e nelle scelte fatte per questa collaborazione la Universal ha dimostrato una quantità di sadismo involontario tale che c’è da chiedersi se questo Dio, davvero, non si stia divertendo, e in tal caso bisognerebbe dirgli di smetterla, perché io sinceramente non credo di poter andare avanti ancora per molto. Anzi lo so. E so anche che lui, il Dio intendo, non la smetterà affatto, perché non ha smesso neanche dopo la fine del video; se lo avesse fatto, io adesso non sarei qui a fare quello che sto facendo. Quindi mi chiedo quanto altro ancora voglia giocare, questo Dio, se siamo arrivati a questo e ancora non ci fermiamo.
Potrei anche dire che quest’entità ha smesso di operare sulle nostre vite giusto un secondo prima che iniziassimo a rovinarcele da soli, che poi è più o meno adesso, ma visto il casino che siamo, è più facile pensare di non aver avuto grosse alternative. Io lo sto pensando adesso mentre parlo con Peter, l’ho pensato quando Anis ha parlato con me. Quindi in qualche modo è vero, o è stato vero per un certo periodo di tempo.
Le riprese del video sono state il periodo più orribile che io abbia mai trascorso, se si escludono i mesi successivi alla morte di Anis. In quattro giorni di riprese – tanti ce ne sono voluti per gestire tutto, perché Hans è diventato isterico a metà storyboard e noi non eravamo da meno – Anis non si è mai risparmiato di mettermi addosso le mani, e Peter non ha fatto che incazzarsi e alternativamente prendere la macchina e andarsene per ore, oppure urlarmi addosso quand’eravamo soli e io non avevo neanche modo di rispondergli, perché in fondo aveva ragione e dirgli che ero confuso sarebbe servito a poco, quando tutto ciò che vedeva era Anis che mi toccava e io che non lo allontanavo abbastanza deciso. Ho rischiato di perderlo in un paio di occasioni, ed era quando mi accorgevo che non volevo affatto che il guaio ricominciava daccapo. C’era Anis da una parte e Peter dall’altra e io non volevo lasciare andare nessuno dei due.
Dopo le scene sul letto, Hans ha voluto girare le scene tra me e Bushido. Peter ha voluto comunque essere presente, e di nuovo è stato un disastro. Se il regista non sentiva abbastanza intimità tra noi due, dava di matto; se ce ne mettevamo la quantità sufficiente per il regista, dava di matto Peter e io non sapevo più come riprenderlo quando non mi voleva neanche parlare.
Durante le pause era un delirio, e nel camerino non era da meno. E la stessa cosa è successa quando è toccato a Chakuza girare le sue scene. Ho chiesto a Bushido di andarsene, ma figurarsi se ha voluto, e così loro non hanno mai veramente smesso di litigare, e io di ritrovarmi in mezzo, senza sapere che accidenti fare quando ci mancava poco che mi tirassero per un braccio per trascinarmi a casa entrambi.
Il fatto è che Bushido è insofferente alle regole imposte da qualcun altro che non sia lui, quindi tu non puoi dargliene una e sperare che la segua davvero. Avevo chiesto una tregua, ma sapevo che non l’avrebbe rispettata perché lui non rispetta niente se crede che fare qualcosa gli spetti di diritto. Io ero suo prima che morisse, ero suo mentre era morto e sono suo adesso che è tornato. Nel suo ragionamento non c’è spazio per tutti quei diritti che io ho dato a Chakuza e che Chakuza, per altro, meritava e non si è preso di prepotenza. Per certi versi io capisco Anis, perché lo conosco e so com’è che mi vede lui – mi lusinga il modo in cui mi vede – ma non per questo posso cancellare quello in cui credo oltre a lui. Non è così che funziona. E lui lo sa, me l’ha insegnato lui che quando prendi le tue decisioni e fai le tue scelte, devi farlo col cuore e, quando lo fai, devi essere conscio di ciò che significa. Se ti rimangi la parola con niente, le tue scelte non valgono un cazzo. Lui lo sa, lo sa benissimo, è per questo che insiste solo fino al limite e non oltre. Quello che vuole è che io pensi, scelga, e decida; ma che lo faccia col fottuto cuore.
Solo che il mio cuore, al momento, è impegnato a non esplodere, quindi non ce la fa a decidere. Ho chiesto una tregua e sapevo che lui non l’avrebbe rispettata, speravo almeno lo facesse Chakuza, perché lui alle regole ci sta. Solo che non avevo fatto i conti con la territorialità e col fatto che si sente giustamente minacciato. Quindi ha rotto la tregua nel momento in cui Bushido l’ha rotta, e in due – come i due arieti che sono – hanno immediatamente smesso di pensare a me, per concentrarsi su come prendersi a cornate l’un l’altro.
Quello che ne è seguito, ovviamente, è stato Bushido che mi attaccava al muro, io che ci perdevo la testa. Chakuza che mi sentiva l’odore di Anis addosso, e si riprendeva quello che era suo, riportandomi la testa dove stava prima. Questo finché Fler e Tom, che si sono beccati tutti i miei sfoghi, non hanno preso a portarmi via con loro e con le ragazze, ogni volta che finivamo di girare, di qualunque cosa si trattasse. Fossero dieci minuti o venti, mi permettevano di respirare un po’.
Dopo il video, in effetti, pensavo che le cose si sarebbero sistemate almeno un po’, che avremmo avuto di che calmarci e capire. Ho chiesto a David una pausa prima della promozione che, sapevo, ci avrebbe portato via un sacco di tempo e di energie e ci avrebbe di nuovo rimessi tutti nella stessa situazione perché questa canzone – questa stupida Prinzessin – non era altro che il primo passo della Universal verso questo delirio che ci comprendeva tutti e tre e avrebbe portato delle ospitate, e delle interviste, ci avrebbe portati in tour e non volevo che succedesse senza averci capito qualcosa. David mi ha concesso solo una settimana, intanto che montavano il video e lui si metteva d’accordo per tutto ciò che poi avremmo dovuto fare.
Chakuza mi ha chiesto di stare con lui in questi giorni e io non gli ho detto di no, perché volevo e perché lui sembrava amareggiato, per come si era comportato e per come mi ero comportato io. Così ho pensato che forse, stando da solo con lui per un po’, come avevamo fatto prima di questo immenso casino, avrei capito qualcosa. Chakuza voleva che andassimo in montagna, ha una casa di famiglia in Austria, ma David non voleva che lasciassi lo stato – forse aveva paura che fuggissi con lui, vallo a sapere – così ci siamo chiusi in un albergo appena fuori città.
Peter non ha mai davvero fatto lo stronzo con me durante questi nove mesi. Voglio dire, quando ci siamo messi insieme, io ero abituato ad Anis, che ha uno strano modo di dimostrare considerazione. Non è gentile, non è delicato. E’ molto brusco in quasi tutti i suoi aspetti, quindi capitava a volte che ci scontrassimo anche violentemente e che lui, pur di vincere lo scontro, diventasse cattivo. Ecco, Chakuza queste cose non le ha mai fatte, non è mai stato brusco con me, mai nemmeno lontanamente ironico. Durante le riprese, però, il suo atteggiamento era diventato simile a quello di Bushido, mi ha rinfacciato qualunque cosa, per questo si sentiva in colpa, e gliel’ho letto negli occhi quando mi ha chiesto di stare con lui.
Quella settimana l’abbiamo passata insieme, ed è tornato ad essere Peter. E io ho ripreso a pensare che andava bene così. Lo pensavo davvero. Lontano dal palco, lontano da tutti, con la possibilità di stendermi su un divano e non sentirmi le mani di Anis addosso, o le urla di Chakuza poco prima che si pestassero, mi sembrava che la soluzione fosse quella. E poi era bello poterlo abbracciare senza che mi annusasse il collo e mi guardasse con quell’espressione. Senza dovergli nascondere i morsi di Anis. Era semplicemente tutto giusto e tutto al suo posto.
Quando ho bisogno di stabilità, o di capire qualcosa, io ignoro qualunque problema mi si ponga davanti, non importa di che dimensione sia. Per affrontarli ho bisogno di non interessarmene finché non sono loro a farsi pressanti e inevitabili. E’ un meccanismo di difesa, del quale puntualmente mi servo quando non ho alternative. Anis però non te lo dimentichi semplicemente ignorandolo, e io questo tendo a non ricordarlo mai.
Non lo ricordo nemmeno oggi quando il campanello suona e lui è lì davanti alla pulsantiera. Attraverso il bianco e nero della telecamera, la sua pelle ha un tono grigio e compatto e i suoi occhi sembrano ancora più neri e profondi. Guarda dritto verso l’obbiettivo, e mi sorride un po’, come fa lui, che sembra sempre che nasconda qualcosa. “Mi fai salire, Principessa?”
“Anis…” mi lamento, mordendomi un labbro, con la cornetta del citofono in mano.
Lui solleva entrambe le mani. “Vengo in pace, promesso.”
Mentre lo dice, comunque, io ho già aperto il portone. Mi guardo intorno, e quando mi rendo conto che lo faccio con ansia, mi sento anche infinitamente stupido perché nessuno può vedermi.
La casa è vuota, sono solo e so che non dovrei farlo salire perché quando siamo soli, io e lui, facciamo sempre danno. Dovrei sentirmi un po’ in colpa. Chakuza ha dormito qui stanotte, ed era qui stamattina e io non dovrei, davvero… d’altronde, mi dico, non è detto che succeda niente. E so che mi sto mentendo in maniere che un’altra persona nemmeno riuscirebbe ad immaginare.
Con Bushido succede sempre qualcosa, che non significa necessariamente che finiremo a letto, è una questione più sottile. Basta che mi guardi, o che anche solo mi dica qualcosa – basta la voce, a volte. Un tempo succedeva al telefono, quando magari eravamo in due città diverse. Lui mi parlava e bastava quello perché la magia si ripetesse, ed era come averlo lì. Quindi se adesso entra nel mio appartamento mentre sono solo e potenzialmente potrebbe succedere di tutto, magari non succede ma è uguale, perché lui su di me ha un potere enorme.
Fino ad oggi non ci siamo visti e non ci siamo neanche sentiti, sono nervoso perché non so come reagirò quando uscirà da quell’ascensore, anzi lo so. Per questo sono nervoso. Sento lo stomaco che si contorce e l’energia isterica che mi attraversa da capo a piedi costringendomi ad andare avanti e indietro sulle punte dei piedi mentre aspetto di vederlo. Non faccio altro che questo da quando è tornato, ondeggiare tra le punte e i talloni. Tra Peter e Anis. Se mi fermo sulle punte, finirò per sporgermi in avanti, se mi fermo sui talloni, perderò l’equilibrio all’indietro. E’ per questo che rimango nel mezzo, è l’unico modo che ho per non cadere.
Anis è bellissimo nel suo maglioncino di cotone azzurro. Dal colletto spunta una camicia bianca inamidata che sembra quasi brillare contro la sua pelle color nocciola. Mi sorride, ma rimane sulla porta, in attesa di un qualche cenno da parte mia. Ed è una cosa così insolita per lui che qui c’è sempre entrato come fosse casa sua.
Io mi sento a disagio con addosso i vestiti peggiori che ho nell’armadio e i capelli tutti arruffati. Non dovrei affatto preoccuparmi di come sono conciato di fronte a lui, eppure mi sento i suoi occhi addosso e mi dà fastidio che mi trovino così in disordine. Mi sistemo una ciocca di capelli cercando di dissimulare tutto: il disagio, l’irritazione e la voglia che ho di baciarlo sulle labbra che so essere calde e morbidissime. “Che cosa ci fai qui?”
“Non esattamente l’inizio che mi aspettavo,” commenta lui, e quel sorriso non cede di un millimetro, “ma va bene anche questo. Mi inviti ad entrare?”
“Non credo sia il caso.”
Lui guarda oltre la mia spalla, scruta il mio salotto che è un disastro. La signora delle pulizie non viene da una settimana, e io non ho mai rimesso a posto in vita mia. “Lui è qui?” Mi chiede, tranquillo.
Non so che effetto mi faccia sentirlo pronunciare quelle tre parole con un tono senza inflessione, che non so se sia naturale o abilmente falsificato. So solo che sento un brivido al pensiero che Chakuza potesse essere qui e che questi due potessero incontrarsi di nuovo. Che Chakuza potrebbe pure rientrare, prima o poi ed è meglio che non s’incontrino. “No,” mormoro.
“Allora è il caso,” conclude lui. Io però non mi muovo, così lui china un po’ il capo e mi guarda da sotto in su. “Bill?”
Sospiro e mi scosto. “Entra,” borbotto.
Lui ridacchia e passa oltre. “Grazie,” risponde, mentre io chiudo gli occhi contro il suo profumo.
Lo seguo mentre fa qualche passo nel salotto e si guarda intorno. “Hai spostato il divano,” commenta.
Io mi stringo nelle spalle. “Mi ero stancato della disposizione.”
Ho costretto Tom ad aiutarmi tre volte nel giro di quattro giorni, è stato a settembre dell’anno scorso, poco prima della trasmissione. Avevo bisogno di qualcosa da fare che mi tenesse impegnato il cervello e combattesse la mia insonnia; per un po’ spostare mobili è stata la soluzione. Anis non commenta, si affaccia nel corridoio che dà alla camera. “Posso?” Chiede.
Io gli faccio cenno di andare e mi stacco dal muro solo qualche secondo dopo che lui si è mosso. Lo trovo sulla porta della mia stanza che guarda fisso davanti a sé, verso la finestra. E allora mi rendo conto che l’ultima volta che è stato in questa casa è morto.
Lui guarda la stanza, e io guardo lui. Lo vedo tendersi in maniera impercettibile, e stringere le dita intorno allo stipite. Posso immaginare come si senta, anche se non posso saperlo esattamente. Io ricordo il suo corpo immobile sulla barella, e come tutto sembrasse immerso nel sangue. Non so come si sentisse lui, cosa sentisse lui ma forse le nostre sensazioni sono gemelle perché ci sono morto anche io, per qualche istante, in questa stanza.
Entra piano, un passo dopo l’altro, delicatissimo come se ci fossero ancora i sigilli della polizia, e tutti i loro cerchi col gesso intorno ai frammenti più grossi della finestra; mentre Anis raggiunge il letto mi sembra quasi che intorno a lui si muovano sfocati ed evanescenti i paramedici e gli agenti di polizia. L’ispettore che il giorno dopo è venuto a parlarmi. Si spostano tutti intorno a lui, e per la prima volta sono loro ad attraversarlo come fantasmi. Non conto più le volte che ho immaginato lui ad aggirarsi per questa stanza trasparente e impalpabile.
“Che cosa ti ricordi?” Chiede all’improvviso, sfiorando con due dita il cassettone.
“Tutto.”
“Che cosa, di preciso?” Insiste. Non mi guarda, fissa i mobili della mia stanza come se non fossero veramente gli stessi che erano qui quando gli hanno sparato. I suoi occhi guardano il legno dell’armadio e gli infissi come se fossero riproduzioni di ciò che nella sua testa sta di nuovo prendendo forma.
“Tutto quanto, qualsiasi cosa,” rispondo. Improvvisamente questa stanza torna ad essere la stanza in cui lui è morto e io non riesco a fare più di due passi all’interno. Mi sembra di vedere il letto pieno di sangue e la finestra rotta. Mi sembra anche di vedere il suo corpo disteso tra i cuscini, quindi chiudo gli occhi e sto fermo contro lo stipite della porta mentre lui si aggira piano tra le mie cose e tocca ogni oggetto, senza mai staccare le dita dalle superfici. Il cassettone, la parete, il mio armadio nero e lucido, di nuovo la parete e poi il vetro della finestra.
“L’ho fatto cambiare,” dico stupidamente. Come se fosse possibile vivere per un anno con la finestra fatta a pezzi da due proiettili calibro nove. E questo è il segno di quanto tempo è passato e di come mi ha cambiato, il calibro l’ho imparato dopo che ho sparato a Saad con la pistola di Anis, che usa gli stessi proiettili.
“Dimmi quello che ricordi,” Anis sembra non avermi nemmeno sentito, guarda fuori, oppure guarda il vetro, anzi non guarda nessuna delle due cose. E’ perso dentro se stesso. “Io non ricordo quasi niente.”
“Davvero?”
Si stringe nelle spalle. “Ho solo immagini confuse. Ero qui, giusto?”
Annuisco, e mi avvicino. “Appena un po’ più in là.” Ricordo veramente ogni particolare, fino a quello più insignificante. Se fosse vestito com’era vestito allora sarei in grado di riprodurre anche le pieghe della sua maglietta e la disposizione delle macchie di sangue sulla spalla che Patrick aveva colpito. Lo sposto piano, lascio che le mie mani si modellino sui suoi fianchi. “Ed eri girato verso di me, mi guardavi e avevi paura.”
“C’era qualcuno là fuori,” risponde e guarda in terra. S’incupisce e gli si forma sulla fronte quell’unica ruga profonda. Sollevo una mano e lo sfioro appena, gli accarezzo una guancia e lascio che mi stringa per i polsi.
“Hai visto…?”
“No,” scuote la testa. “Sapevo che c’era qualcuno, ma non avevo idea che fosse Saad. E Fler era dall’altra parte della strada, che mi fissava dal marciapiede. L’ho capito subito che non aveva intenzione di sparare.”
Gli volto il viso perché mi guardi e lui ci mette un po’ a spostare gli occhi nei miei. Ha lo stesso sguardo di allora, come se giù in strada ci fosse ancora suo cugino pronto a sparargli. “Ti sei girato verso di me…” Per mesi mi sono costretto a rivivere questo momento preciso, e mi sono sempre chiesto se non fosse stata colpa mia. Io sono la debolezza di Anis. Sono il suo sbaglio, quella notte. L’errore umano su cui si può sempre contare.
“Eri troppo vicino alla finestra,” mormora. “Quando mi sono girato pensavo solo a questo, che eri troppo vicino alla finestra e potevano colpirti.”
“Hanno colpito te, però,” appoggio la mano dove so che c’è ancora la cicatrice, sento la sua pelle calda sotto il maglione e la camicia. “E poi c’è stato il secondo colpo.”
“Alla gamba,” annuisce lui.
“Anche attraverso la mia,” dico e sorrido leggermente, quasi a scusarmi. Lui sgrana un po’ gli occhi. Non lo sapeva, i miei quattro punti e la mia cicatrice che ha la forma vaga di una piccola farfalla…fa tutto parte del dopo. Dopo i paramedici, dopo l’ospedale. Dopo di lui e il suo funerale.
Lui scende ad accarezzarmi la coscia, e io gli fermo la mano là dove in effetti c’è quel piccolo segno. “Non è niente, non ha mai fatto davvero male.”
Anis stringe le dita, ma poi mi lascia andare. “Dopo so che ti ho guardato finché ho potuto. C’è stata la tua voce per un po’ ma non ho visto niente per minuti interi.”
“Ti ho parlato a lungo.”
“Non lo ricordo.”
“Ti sei come spento, pianissimo,” e lo vedo come l’ho visto un anno fa. Non si muoveva, né mi sembrava che respirasse. I suoi occhi hanno perso la luce come le sue mani il calore. E non mi riusciva di trattenerlo. Parlavo, parlavo, parlavo nella speranza che per la necessità di ascoltarmi non se ne andasse.
Anis esita sui miei fianchi e sul polso che ancora stringe fra le dita. Mi guarda e so che vorrebbe dirmi più parole di quante in realtà siano necessarie. Ha bisogno di parlare perché in queste settimane non ha fatto che toccarmi, non ha fatto che lasciarmi segni addosso e possedermi nei limiti in cui davvero poteva, senza sconfinare troppo al di fuori del territorio. Ha premuto quei limiti come spinge tutte le sue linee di confine, ossia finché non cedono. Finché la sua zona di appartenenza non si fa più ampia. Mi accarezza il braccio fino alla spalla, e io piego la testa quando le sue dita mi toccano il collo e la guancia. Il suo calore mi è stato addosso per mesi dopo che lo avevano portato via da questa stanza, era come una presenza fisica sulla mia pelle e m’impediva di ricordare che ero solo. Quando è svanito e ho cominciato a sentire freddo, è stato allora che ho realizzato che era morto e che non potevo più tenerlo stretto a me. Non c’era più niente a cui aggrapparmi, e dovevo andare avanti. Ora quel calore è di nuovo qui e io a volte voglio che mi avvolga, a volte vorrei impedirglielo solo per punirlo di avermi lasciato a gelare.
“Volevo soltanto proteggerti,” dice all’improvviso, come se mi avesse letto nel pensiero. Non mi stupisco, Anis non può sentire quello che penso ma può leggerlo attraverso il mio corpo. Così risponde a domande che non ho mai fatto e anticipa i miei desideri, mi abbraccia prima ancora che io capisca di volerlo. Non gli rispondo, non voglio farlo. Io lo so che lo ha fatto per me, e so anche che non voleva farmi soffrire ma è successo e c’è una parte di me che non lo perdonerà mai per questo. Io non ce l’ho con lui perché se n’è andato, ma perché non ha avuto nessuna fiducia in me e in quello che potevo affrontare. E adesso che gli ho dimostrato di poter tornare tutto intero, mi manda in pezzi di nuovo. Provo così tanto odio insieme all’amore che non riesco a scindere le due cose, a volte, e questo mi confonde perché io lui non l’ho mai odiato nemmeno quando glielo urlavo in faccia perché mi faceva incazzare. Non l’ho mai pensato. E invece in questi giorni è successo, le sue mani erano troppo belle e troppo sbagliate su di me perché non lo odiassi furiosamente pur di allontanarlo. Stammi lontano, eppure toccami. Non ho pensato altro.
Quando si avvicina, sapevo che lo avrebbe fatto e non ho la forza di fermarlo, o non ho la voglia, in ogni caso il suo profumo è aspro e fortissimo e io chiudo gli occhi contro le labbra che mi preme sul collo. Non dovrei, non dovrei proprio – lo so, cazzo. Sono mesi che lo so – ma il mio cervello continua a ripetermi cose che il resto del corpo non ha assolutamente voglia di ascoltare e allora lascio che mi accarezzi piano la schiena e che mi sfiori la guancia con le labbra. “Mi manchi da morire, Bill.” Mi chiama per nome soltanto quando si tratta di qualcosa di serio, per tutto il resto del tempo sono Principessa. E non c’è niente di più serio di me e di lui che ci siamo persi per strada. Aldilà di tutto, questa cosa non sarebbe mai dovuta succedere, e invece è successa – che io e Anis ci crediamo o no. Ed è per questo e per le conseguenze che ha portato – conseguenze a cui tengo e che si chiamano Peter – che tutta questa situazione mi fa incazzare. Non voglio decidere, non voglio avere questa responsabilità.
“Anche tu,” e non penso di parlare, lo faccio e basta. Sposto il viso finché le nostre labbra non si sfiorano, la scossa elettrica che mi attraversa tutto mi dice anche che non lo fermerò.
Vorrebbe baciarmi piano ma non c’è mai veramente riuscito. I baci di Anis sono violenti in una maniera particolare perché ha bisogno di imprimersi addosso alle persone che ama, ha questa necessità di farsi sentire.
“Dammi questa possibilità, Bill,” mi sussurra tra le labbra.
“Cosa?”
“Sono tornato, tu sei mio e lo sai,” parla, mi bacia, e parla ancora. E io non so veramente niente, e mi sento piccolissimo. Dopo un anno, ecco che torna e annienta tutto quello che sono, tranne ciò che sono diventato per merito suo. “Dammi la possibilità che mi spetta.”
Socchiudo gli occhi, mi sento le sue mani addosso ovunque e mentre mi lamento “Anis…” lui si sposta su di me: è un’ombra scura con due occhi ancora più neri.
Mi bacia e poi si allontana un po’, mi guarda così intensamente che mi sento in imbarazzo. Nel suo sguardo non c’è la fierezza che c’è di solito, sono velati da qualcos’altro. Sono gli occhi che avevo io quando cercavo di fargli capire che eravamo fatti per stare insieme e lui ancora non lo sapeva. Era una verità che avevo dentro di me, lui doveva ancora arrivarci. E ora lui sembra avere la stessa sensazione, lì, piantata nel cuore. “Vieni a vivere con me,” mormora.
Sono parole assurde. Ma sembra assurdo anche che io non sia suo, che lui sia morto e tornato dalla morte, che sia su questo letto, che sia sopra di me e sotto la mia maglia, quindi in realtà niente è veramente assurdo. Non penso, perché se pensassi non lo farei. Chiudo gli occhi e provo a sentire il suo corpo sul mio, il suo respiro e il cuore che mi batte ad una velocità che non è affatto normale. Dopo un anno, siamo di nuovo qui sopra insieme e lui è vivo, respira e mi tocca.
Ricordo quanto ho voluto che accadesse e mi viene quasi da piangere ma non lo faccio, mi stringo a lui e basta. Ed è in questa stanza e su questo letto la ragione per cui dico di sì. Non è soltanto in lui o in me. E’ in quello che questo luogo significa per noi. Nel momento in cui quel proiettile lo ha quasi ferito a morte c’eravamo solo io e lui a guardarci dritti negli occhi. A vederlo morire, io. E a sapere che mi stava abbandonando per sempre, lui. Nessun altro può capire.
Se dico sì è per quello che siamo, è per la sua morte, è per quello che io ho perso e lui ha lasciato. E’ perché non ci siamo mai davvero divisi, e non posso veramente allontanarlo senza prima aver dimostrato che quel dannato proiettile ci ha resi ormai così diversi per poterci ancora completare.
Per questo dico di sì. Sto spezzando il cuore a Peter, e lui nemmeno lo sa.
So che non è giusto, ma non era giusto nemmeno quel proiettile. Eppure ne è bastato uno per rovinare quello che avevo allora, e basta il suo ricordo per rovinare quello che ho adesso.
Mi dispiace, Peter. Mi dispiace davvero.

*


Ho buttato Bushido fuori di casa, e lui ha avuto l’accortezza di non ridere di trionfo anche se so che avrebbe voluto farlo. Quando lascerò questa casa per entrare nella sua, lo farò con la mia auto e senza di lui. Ci sono delle cose che devo sistemare, e non voglio che lui sia qui mentre lo faccio.
Quello che è successo fra noi nelle ultime ore, avrebbe dovuto aspettare. In queste cose, suppongo, ci sono delle procedure da seguire perché quando hai intenzione di frantumare il cuore di una persona che ti ama come mi ama Peter, tu dovresti avere il buon senso di fare le cose per bene; ma Bushido è uno che non ti permette di fare le cose secondo le regole se lui non vuole seguirle. Ho rifatto il letto e mi sono fatto una doccia, ma mi sento così in colpa che ho paura mi si legga in faccia ogni cosa, o forse ci spero perché così quando Peter sarà qui, sarà più facile iniziare il discorso e finirlo anche.
Quando suona il campanello, io sto facendo le valige. O meglio, non proprio, le ho soltanto tirate fuori dall’armadio e ne sto vagliando l’interno vuoto, come se potessero contenere le parole che dovrò dire. Sto tremando e sono nervoso, so che in qualunque modo pronuncerò questo discorso, non andrà bene, perché nessuno vorrebbe sentirlo e perché in realtà non è giusto, non così in fretta e non così all’improvviso. Solo che io lo so che devo farlo adesso, oppure non lo farò mai più o lo farò troppo tardi. E non lo so cosa mi spaventa di più, se aver preso una decisione o dover lasciare che Chakuza si arrabbi. Lo farà – giustamente – e con me non lo ha mai fatto. Ho paura di sentire la sua rabbia addosso, perché non so come sia e, nonostante questo, dovrò sopportarla perché ha tutti i diritti di provarla.
Peter è felice, e questo non fa che peggiorare la mia situazione. Soltanto ieri le cose fra noi andavano bene, anche se lui sapeva che la presenza di Anis era troppo pesante per non costituire una minaccia. In questi casi, però, quando vivi in bilico per giorni e giorni, senza che niente davvero cambi, finisci per adattarti a quella situazione come non ce ne fossero mai state di diverse prima, e ti lasci dondolare, sicuro che non cadrai mai da una parte e dall’altra perché non è mai successo. Riacquisti un barlume della felicità precedente, anche se non è la stessa ma solo una pallida imitazione. Adesso arrivo io, con la mia nuova consapevolezza, ed elimino ogni incognita che possa farci rimanere in equilibrio; ma sarò solo io a farlo, e lui ne subirà passivamente le conseguenze. E lo farò senza che fra noi ci siano problemi oggettivi: noi stiamo bene, lui mi ama e nonostante tutto, lo amo anche io. Quindi lasciarlo, senza discuterne, senza dargli la possibilità di difendersi è un colpo così basso che mi vergogno e mi sento male.
Lo aspetto sulla porta, stringendo forte lo stipite. Lui mi sorride in maniera tanto dolce che mi viene naturale rispondere, e poi penso che non dovrei farlo. O forse sì, non lo so.
“Ti ho preso questo,” mi dice, passandomi un sacchettino di carta bianca e lasciandomi un bacio sulle labbra prima ancora che io possa pensare di fermarlo.
“Che cos’è?” Chiedo, guardandoci dentro. Lui entra mentre io scopro che è passato dal mio negozio preferito e che tra questo momento e la nostra rottura ci sono due etti di vermi gommosi. Non riesco comunque a trattenere un gridolino e a metterne uno in bocca. “Grazie!”
Lui sorride e si toglie il cappotto. “Prego,” dice. “Scusa il ritardo, ma Stickle mi ha tenuto due ore inchiodato al mixer. Avevo un po’ di demo arretrate.”
Chakuza ha sempre demo arretrate, tanto che verrebbe da pensare che non fa niente dalla mattina alla sera e che il suo lavoro si accumula in grosse pile sulla sua scrivania. In realtà ha solo troppe cose per le mani e, in generale, preferisce comporre piuttosto che smistare decine di nuove proposte quando soltanto una su cento è vagamente passabile.
“Non fa niente,” mormoro.
“Hai cenato?” Mi chiede, inclinando un po’ la testa, ed entrando in cucina prima ancora di sapere la risposta.
“No,” ammetto. E d’altronde non ne ho avuto il tempo.
“Allora direi che è il momento di farlo,” esclama saggiamente. “Siediti lì, preparo qualcosa veloce.”
“Anis è stato qui.”
Lui si ferma per un istante, ma non si volta. Stringe la mano intorno al manico della padella che ha appena tirato fuori con sicurezza dal mio armadietto, poi ricomincia a muoversi. Recupera gli ingredienti e si aggira per la cucina scattando, senza mai guardarmi. “Sì?” Dice, c’è una nota aspra e sarcastica nella sua voce che mi fa già star male. Non voglio pensare a come sarà fra qualche istante.
“Noi… abbiamo parlato,” continuo. Sono in piedi, aldilà dell’isola della cucina e mi passo l’unghia dell’indice sul pollice, cercando il dolore. Penso a quale significato ha questo verbo nella mia vita, a quello che abbiamo davvero fatto – io e Anis – in quella stanza e mi ritrovo ad odiare una canzone che per un certo periodo della mia vita mi sono anche divertito a cantare.
Chakuza non risponde, si limita ad annuire mentre taglia un pezzetto di burro e lo fa sciogliere nella pentola, come se tutto fosse perfettamente normale. Vedo i suoi nervi tendersi lungo le braccia anche da qui, però. “Mi ha chiesto una cosa e io ci ho riflettuto e…”
“Che cosa ti ha chiesto?” Salta su lui. Lascia andare il coltello che fa un rumore metallico sul piano di marmo della mia cucina. Spegne il fuoco e si volta di scatto, il suo sguardo è così severo che faccio un passo indietro. “Avanti Bill, dimmelo e facciamola finita. Cosa ti ha chiesto e cosa gli hai risposto. Piantala di indorare la pillola, tanto non sei capace.”
Deglutisco. “Vuole che vada a vivere con lui.”
“Fantastico,” sibila Peter, neanche mezzo secondo dopo che gliel’ho detto. Si toglie il grembiule e lo getta con rabbia in terra. “Immagino che io ti abbia trovato in casa per sbaglio allora, com’è che non sei già in macchina con le valige nel bagagliaio?”
Vorrei poter correre in camera e rimettere a posto le valige aperte che sono sul letto, neanche Chakuza lo avesse detto perché le ha viste. Incasso il colpo e mi mordo un labbro. “Peter, è complicato..”
“No, non lo è, Bill,” mormora lui. “Tu vuoi stare con lui, fine del problema. Ed è sempre stato così, sempre, da quando questo schifo di situazione è iniziata.”
“Questo non è vero!”
“Sì che lo è,” mi aggredisce lui. “Tu la risposta la sapevi un mese fa, quando è tornato. Non c’è mai stata nessuna possibilità che tu rimanessi con me.”
Scuoto la testa e caccio indietro le lacrime perché vorrei parlarci con lui, non piangere. E poi so che stavolta non lo intenerirei né mi consolerebbe, e non voglio che succeda. Non voglio che rimanga immobile se ho bisogno di un abbraccio, è un’esperienza che non mi sento di affrontare adesso. “Non è così, Peter. Dav-.”
“Ti sei fatto scopare il giorno stesso che lo hai visto!” Urla senza lasciarmi finire.
Era dalla cena a casa di Anis che non lo ripeteva. Nonostante il gran casino che c’è stato in questi giorni non aveva più accennato al fatto che sapesse. Era un dettaglio scomodo che non pronunciava per il bene di entrambi, ma adesso gli leggo in faccia che sta troppo male per non ferirmi. Ne ha bisogno. E nonostante questo, io tento lo stesso. “Non…”
“Non ci provare nemmeno, Bill,” mi rimprovera subito. “Non dire che non è vero, cazzo. Almeno questo!”
Così sto zitto e guardo il pavimento, perché non riesco a sostenere il suo sguardo e per la prima volta da quando lo conosco, i suoi occhi non sono affatto buoni e gentili. Sono freddissimi, come non fossero più i suoi. C’è una buona parte di cattiveria, e di rabbia. Tutto il resto è delusione, e vorrei potermi rimangiare quello che ho detto. “Lo sapevi già,” ripete alla fine, dopo qualche istante e le sue parole, dopo questo silenzio, mi si conficcano dentro, fanno un male cane. “E avresti potuto dirlo invece di tirarmi scemo fino adesso.”
“Io non…” sospiro un mezzo singhiozzo, mentre mi passa accanto. D’istinto allungo un braccio per fermarlo ma lui si scosta con uno scatto talmente rabbioso che mi ritraggo. La sento quasi fisicamente la sua volontà di non volere avere più niente a che fare con me. “Mi dispiace, Peter,” mormoro.
“Non me ne faccio niente delle tue scuse,” è l’ultima cosa che mi dice, senza guardarmi, mentre si mette il giubbotto. Le lacrime riesco a trattenerle finché la porta non si chiude con uno schianto e non sento l’ombrelliera fuori sul pianerottolo finire a terra con un clangore metallico e poi rotolare lungo il corridoio. Peter è un grosso pezzo del mio cuore che si stacca e che con ogni probabilità non recupererò mai più.
Tra le lacrime, penso che ognuno di loro si è preso un pezzo di me e che non potrò mai più riaverlo indietro. Peter mi ha avuto a metà, e adesso Anis mi troverà ancora più incompleto di quanto non fossi quando mi ha lasciato; mi sgretolo e mi ricompongo come sabbia su una spiaggia, ma ogni volta ci sono meno granelli. Mentre chiudo le valige mi chiedo se alla fine di questa storia, qualunque sia, rimarrà abbastanza di me da riempire un bicchiere.
Spengo le luci e infilo le borse nell’ascensore, mentre guardo il portaombrelli a terra penso distintamente che dovrei essere più felice di così, ma dietro all’idea di me e di Anis riesco solo a vedere ciò che ho interrotto e mi dispiace. Solo questo.
Mi dispiace.

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Your Love Alone Is Not Enough

di lisachan
Mi piacerebbe poter dire che la mia vita fino a questo momento, nelle ultime settimane, abbia fatto schifo. Se fosse vero, non aspetterei con tanta ansia l’arrivo di Chakuza, stasera. Anzi, lo aspetterei come una specie di benedizione. Una cosa di cui ho bisogno. Se il mio rapporto con Nicole facesse schifo, non vedrei l’ora di rivedere Chakuza, perché so quello che Chakuza mi fa, e sentirmelo addosso – o anche sentirlo vicino – sarebbe l’unica cosa che vorrei, e la vorrei senza rimpianti, anche perché sarebbe un’ottima scusa per mettere fine al mio rapporto con lei.
La verità, purtroppo, è che a Nicole voglio bene, e con Nicole sto bene. Questo rende tutto molto più difficile, e sfortunatamente non cancella il problema: io continuo ad aspettare Chakuza con la stessa ansia, come fosse una benedizione, anche se so perfettamente che è quanto di più lontano esista da una cosa simile, soprattutto per me e soprattutto in questo momento.
A peggiorare una situazione già catastrofica, si aggiunge il fatto che io conosco Chakuza e so prevederlo. Il che non significa che sappia anche prevenirlo, perché purtroppo quella è una malattia che non riesco a farmi passare, ed anche quando mi sembra di essere guarito il contagio torna sempre a farsi sentire, ed è ogni volta un po’ più forte. Però, insomma, prevederlo sì. Quindi, quando apro la porta e me lo ritrovo di fronte che mi guarda con aria colpevole e un po’ abbattuta, tutto ciò che riesco a pensare è “me lo aspettavo”. Mi viene un po’ voglia di prenderlo a calci per il pianerottolo e buttarlo giù dalle scale, a dire la verità, ma a voler essere ancora più sinceri in realtà sono stato qui dentro da solo ad aspettarlo per qualcosa come sei ore e non ne posso più di sentire i miei stessi pensieri che rimbombano fra le pareti, perciò lascio perdere i propositi violenti e mi limito a guardarlo.
Era semplicemente ovvio che, dopo la questione fra Bill e Bushido, sfumata la rabbia, il Chaku mi si sarebbe rattristato in questo modo. Ed anche volendo, io non sarei per niente riuscito a mollarlo da solo nel casino del suo cervello, ed è questo il motivo per cui cinque o sei ore fa ho salutato Nicole, l’ho portata a casa sua e me ne sono tornato nel mio appartamento – nel quale non mettevo piede da settimane, avendo vissuto da Anis quando ancora Bill stava con Chakuza, e da Nicole quando poi il ragazzino s’è trasferito.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi. L’altroieri, però, mi ha mandato un messaggio sul cellulare. E oggi mi ha chiamato. Nel messaggio s’è limitato a salutarmi e chiedermi come stavo. Quando mi ha chiamato, abbiamo parlato della pioggia che ultimamente martella incessante Berlino, a ricordarci che ormai siamo in pieno autunno e fra poco saremo in inverno, sarà finito un altro anno e noi siamo ancora nello stesso identico punto in cui eravamo un anno fa, persi e senza voglia di fare niente.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi, ma gli ho sentito la voglia nella voce – l’ho sentita in come vibrava bassa contro la cornetta, scivolandomi lungo il collo in brividi – ed è stato più chiaro in quel modo, salutandomi appena dopo avermi ricordato di portare l’ombrello, se uscivo, di quanto non sarebbe stato chiaro se mi avesse comunicato l’orario in cui sarebbe passato di qua.
- Sei in ritardo di dieci minuti sulla tabella di marcia. – lo prendo in giro, lasciandogli libero l’ingresso ed addentrandomi all’interno dell’appartamento, verso la cucina. Cristo, quest’appartamento a volte mi sembra enorme. I chilometri, ci sono, fra l’ingresso e tutto il resto. – Dovresti già stare piagnucolando perché non ti senti abbastanza amato.
- Stronzo. – borbotta lui, entrando con un po’ d’imbarazzo e richiudendosi la porta alle spalle, - Cazzo, fra te e Bushido non so chi sia peggio.
- Lui, è ovvio. – scrollo le spalle, riemergendo dalla cucina con due bottiglie di birra, - Io sono un santo martire.
Chakuza lascia andare una mezza risata amara e si gratta lentamente la nuca, accettando la birra e seguendomi mentre mi lascio andare sul divano con un tonfo scazzato.
- Scusa se- - comincia, ma non ho intenzione di ascoltarlo mentre si dispiace di qualcosa di cui non è dispiaciuto, perciò lo fermo con un cenno della mano libera, scuotendo il capo prima di prendere una sorsata di birra.
- È ok. Immaginavo che non avresti voluto startene per conto tuo. Basta che sia chiaro che possiamo distrarci come vuoi tranne che facendo a botte, perché proprio non ho voglia di violenze oggi. D’accordo?
Lui annuisce ed abbassa lo sguardo, a disagio.
Io sospiro. Okay, mi sto comportando come una merda fatta e finita. Chaku è stato mollato, c’è qualcosa di ingiusto in tutto questo – per quanto non riesca a sentirmi triste neanche sforzandomi, se ci penso – e dovrei essere comprensivo e di supporto. In fondo, qualsiasi cosa sia successa fra me e lui, fra lui e Bill, fra Bill e Bushido e fra Bushido e me, io e Chakuza siamo comunque amici. Voglio dire, prima di tutto lo eravamo. Quello che sento adesso – qualsiasi cosa sia, Nicole o meno – oltre a non avere ragione di esistere, non dovrebbe impicciarmi mentre cerco di consolarlo. Perciò conto fino a dieci e mi modero un po’.
- Dunque… - riprendo più conciliante, grattandomi distrattamente la fronte, - è tremendo vederti così, Chakuza. Vuoi smadonnare un po’? Prometto che non ti prenderò a testate, se cominci a dare della troia alla signora Luise Maria.
- Sinceramente, - borbotta lui, poggiandosi stancamente contro lo schienale del divano, - l’unica persona cui vorrei dare della troia adesso non è nemmeno una donna. – e questo, assieme ai suoi occhi improvvisamente cupi ed alla linea tesa e nervosa delle sue labbra, mi basta a capire che non è di Bushido che sta parlando, ma del ragazzino.
Un po’ vorrei fargli una carezzina sulla testa – come a un bambino di dodici anni, sì – e dirgli che è troppo facile prendersela con Bill, in una situazione simile, solo perché non riesce a gestirsi. Chakuza non capisce che, per quanto Bill possa sembrare adulto e maturo, resta comunque un ragazzino. Con tutta la sua immaturità, Chakuza ha sempre quasi dieci anni più di lui. C’è qualcosa che non torna, in quest’equazione, nessuno dovrebbe aspettarsi da un bambino che agisca come un adulto. Io non me lo sono mai aspettato, da Bill. Bill lo prendi con le caramelle e gli abbracci teneri, e se ti sta bene questo deve starti bene anche che poi, di fronte ad Anis, non sappia controllarsi. Non sono due cose diverse, è solo che è piccolo. Non può piacerti quando ti fa comodo e darti fastidio quando improvvisamente ti pesta i piedi.
Però mi rendo conto che cose simili a Chakuza non posso mica dirle. Sarebbe come se, chessò, Nyze fosse venuto da me dopo che lui ed Anis erano andati via dall’Aggro, e mi avesse detto “sì, be’, però è facile prendersela con Bushido adesso”. Cazzo, era facile sì e non desideravo altro. So che Chaku non desidera altro, adesso, perciò lo lascio fare.
- Ti va di parlarne? – chiedo a bassa voce, mettendomi comodo sul divano e voltandomi verso di lui.
- Sai cosa? – sbotta lui, mandando giù un’altra sorsata di birra, - Mi andrebbe sì di parlarne, se solo riuscissi a capire cosa dire al riguardo!
Mi lascio andare ad un mezzo sorriso divertito, perché la sua espressione – gli occhi spalancati, le labbra arricciate in una smorfia stupita e le sopracciglia inarcate verso l’alto – è molto buffa.
- Intendi?
- Intendo che non ho ancora neanche capito cosa cazzo è successo, Fler. – sospira, tornando ad abbattersi fra i cuscini, - Voglio dire, stavamo… okay, non bene, d’accordo? Non bene. Con Bushido fra i piedi, come vuoi stare bene?, è impossibile. Però stavamo insieme. Capisci? Insieme e basta.
Capisco sì. Mi inumidisco le labbra e cerco di focalizzarmi sull’immagine appagante di lui che ruzzola giù dalle scale rotolando per strada attraverso la porta a vetri spaccata del mio palazzo. Che è una cosa alla quale nemmeno dovrei pensare, perché io sto con Nicole e adesso non dovrei essere geloso, ma tant’è.
- E all’improvviso, boh, tutto ciò che so è che vanno a vivere insieme. Motivo? Perché lui è Bushido. Ti pare un motivo, questo?
Rido un po’, sistemandomi più comodamente.
- Io l’ho quasi fatto fuori, perché lui era Bushido, ricordi? – ghigno indicandomi, - Mi pare un motivo eccome.
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, prima di mollarmi una spinta parecchio risentita contro la spalla.
- Non mi piace quando ne parli così. – sbuffa poi, ingollando in un sorso mezza bottiglia di birra.
- Così come? – lo prendo in giro io, giocando con la mia.
- Come una cosa importante. – spiega lui, tornando a guardarmi con quella strana aria cupa che, quando gliela vedo addosso, mi dà sempre i brividi.
- Chakuza, ma lui è importante. – gli faccio presente, e continuerei tranquillamente su questa china, come ho sempre fatto quando chiunque, amici o giornalisti che fossero, mi ha dato il la per cominciare a parlare di Anis, se solo non notassi le sue sopracciglia corrugarsi ulteriormente e il suo broncio farsi più marcato. - …e tu non ci tieni affatto a sentirtelo ripetere adesso, mh? – chiedo con un mezzo sorriso, chinandomi appena per cercare i suoi occhi.
- No, per niente. – annuisce lui, senza fuggire il mio sguardo, - Anzi, ti sarei grato se riuscissi per una volta a non essere così dannatamente palese, quando parli di lui, visto che in questo momento la sua esistenza sulla terra già basta a farmi uscire di testa.
Rido un po’, anche perché quando mi rendo conto quanto sia in effetti palese, come dice Chaku, il modo in cui mi rivolgo a Bushido, mi sento sempre in imbarazzo. È una questione di immaturità, credo; intendo, a lui è legato un pezzo di me che probabilmente non è mai cresciuto. Quindi, quando c’è lui di mezzo, penso ed agisco come un ragazzino. È ovvio che, quando Bill mi dice che non sa più dove sbattere la testa, io lo capisco senza nemmeno sforzarmi. È semplicemente ovvio.
- Scusami. – biascico, adocchiando la sua bottiglia ormai vuota, - Senti, vado a prendertene un’altra e poi ricominciamo. Accendiamo la tv e mentre guardiamo qualche cagata mi dici tutto per bene, d’accordo?
Mi alzo in piedi, ma Chakuza mi imita, ed io mi fermo a guardarlo con aria un po’ contrariata.
- Be’? – chiedo, - Non mi serve aiuto per-
- No, - mi interrompe lui, scuotendo il capo, - venire qui è stata una pessima idea. – borbotta, muovendosi un po’ incerto intorno al divano, come faticasse a trovare l’uscita. Eppure è lì a due metri. Forse non fatica a trovare l’uscita, forse fatica a trovare la voglia di uscire. – È meglio se vado e-
- Ehi, ehi, Chaku… - lo fermo, recuperandolo per le spalle e tenendolo fermo, mentre torno a cercare i suoi occhi, - Sta’ un po’ calmo, eh? Ti ho detto che mi dispiace, ero sovrappensiero e l’ho presa a ridere. Lo so che è una cosa seria. Se stai un po’ tranquillo ne parliamo, mh? Sul serio.
- No, davvero. – insiste lui, cercando di sottrarsi alla mia stretta, - Lo sto realizzando adesso. Non è il caso, non voglio nemmeno dirtele, queste cose. Tu sei… l’ultima persona dalla quale dovessi andare, e non dovresti nemmeno essere solo, perciò...
Non so perché m’impunto. Probabilmente perché, in fin dei conti, a lasciarlo andare proprio non ci riesco.
- Però lo sono. E mi fa piacere che tu sia venuto qui. – tiro fuori in un fiato, quasi a fatica, stringendolo più forte, - Io e te, ultimamente… abbiamo proprio fatto un sacco di casini, me ne rendo conto, però tu, Chaku, voglio dire, non sei così male, come persona. E dai, mi sembra assurdo perdersi così in un bicchiere d’acqua. – sospiro. – Resta un po’, ti va?
Lui sospira e mi alza addosso uno sguardo vagamente confuso.
- Senza fare altri casini? – mi chiede, sorridendo appena.
- Senza fare altri casini. – confermo annuendo, - Facciamo i bravi, per una volta. Tu mi parli delle tue pene di cuore e io ti somministro dell’alcool per dimenticare. È così che funziona fra la gente normale, giusto?
Lui annuisce a sua volta, distogliendo lo sguardo e massaggiandosi la fronte con una mano.
- Noi due non siamo normali per niente. – mi fa notare in un soffio, - Questo potrebbe essere un problema.
- Basterà tenere a bada l’uccello. – annuisco compostamente, tirandogli una pacca sulla spalla, - Credi di esserne capace?
- Che domanda del cazzo. – grugnisce lui, - In tutti i sensi, poi. Sei uno stronzo.
Sospiro un po’, allontanandomi da lui e dirigendomi lentamente verso il divano.
- Questo l’hai già detto entrando. Almeno rinnova il campionario d’insulti, se proprio devi.
- Be’, non sono io l’esperto di diss, qui dentro. – protesta, tirandomi uno scappellotto dietro la nuca.
Io lancio un lamento palesemente fasullo e mi massaggio il collo che non duole affatto.
- Tieni a posto le mani! – borbotto contrariato, lanciandogli un’occhiataccia colma di un risentimento non più vero di tutto il resto.
Chakuza sospira e mi lascia scivolare addosso uno sguardo che non promette nulla di buono. Anche se dipende dalla prospettiva in cui lo si guarda. Se la prospettiva da cui dovessi guardarlo adesso fosse semplicemente quella di me e lui in una casa vuota mentre fuori si fa buio, prometterebbe cose stupende. Il problema è che devo per forza guardarla dalla prospettiva in cui oltre a noi due in questa casa ci sono altre due persone là fuori. C’è un ragazzino che sta giocando col fuoco e c’è un uomo che si sta perdendo in un danno. E c’è anche una donna, la mia, a casa da sola, che aspetta domani solo per rivedermi. Quindi no, l’occhiata di Chaku non promette niente di buono, a livello generale. Anche se mi piacerebbe potermi fermare alla prospettiva semplice delle cose, per una volta.
- Non puoi chiedermi di tenere a posto troppe cose. – rincara, inumidendosi le labbra, - Faccio già abbastanza fatica.
“E ci risiamo”, mi viene da pensare mentre arrossisco come una liceale. Cristo santo, ci sono volte in cui, prima ancora che infilarlo in una cintura di castità e legargli le mani così che non possa più muoverle, avrei voglia di prendere dello scotch – quello spesso e largo, tipo da imballaggio – e tappargli la dannata bocca. I danni maggiori che fa quest’uomo, non li fa quando ti tocca. Quando arriva a toccarti è perché il danno l’ha già fatto parlando. Perché dice cose senza capire cosa sta dicendo, o se lo capisce è abbastanza stronzo o stupido o sincero – e non so quale sia la cosa peggiore – da dirlo lo stesso, e tu ci perdi la testa.
- Piantala di dire cazzate. – sbuffo, distogliendo lo sguardo, - Piantala prima ancora di cominciare, per favore. Avevamo detto di non fare altri casini.
- Non sto facendo niente. – mi rassicura lui, alzando entrambe le mani e mantenendo perfino la distanza di sicurezza, - Non siamo nemmeno vicini.
- E cerchiamo di mantenere la situazione il più a lungo possibile, ok? – chiedo con tono un po’ allarmato. Anche troppo. – Davvero, Chakuza, farlo è proprio l’ultimo degli errori possibili, okay? Non ce lo possiamo permettere.
Chakuza sbuffa contrariato, tornando a rilasciare le mani lungo i fianchi.
- Non voglio mica prenderti a calci. – si giustifica in un mugugno, - E d’altronde non capisco quale potrebbe essere il problema, se anche lo facessimo. Io non sto più con Bill, giusto?
- Giusto. – ringhio io, per tutta risposta, - Ma io sto con Nicole, nel caso tu non te ne sia accorto, e non sono la parete contro cui puoi rimbalzare quando ti pare, okay? Se non vuoi farti definitivamente mandare a fanculo come avresti meritato già da qualche mese, tieni a freno la lingua, il cazzo e anche tutto il resto. È un consiglio da amico.
Lui sospira e, ovviamente, fa l’ultima cosa che dovrebbe venirgli in mente di fare. Scommetto che invece è stato tipo il suo primo pensiero. Mi si avvicina lentamente, io sospiro a mia volta e mi appoggio già esausto contro lo schienale del divano, piegando un po’ le gambe e cercando di recuperare uno stato d’animo meno isterico ripescandolo da quando ero ancora tranquillo e sereno e Chakuza non voleva ancora scopare. Se mai c’è stato un momento in questa serata in cui non ha voluto farlo.
Quando arriva ad un passo da me, solleva le braccia e mi accarezza il collo, risalendolo tutto e poggiandomi le mani sulle guance, obbligandomi a sollevare lo sguardo per trovare i suoi occhi.
- Stiamo sbagliando di nuovo tutto. – mi avverte con un mezzo sorriso.
- No, tu stai sbagliando di nuovo tutto. – lo correggo contrariato, ma lui sorride ancora ed io mi mordo un labbro.
- E tu mi stai di nuovo lasciando fare. Perché continui a lasciarmi fare?
- Perché sei uno stronzo. – ed è l’unica risposta che si merita.
Lui ride e si piega un po’ a sfiorarmi le labbra.
- È vero. – mi sussurra addosso, - Però non è per questo che mi lasci fare.
- Se speri – ringhio di frustrazione, cercando con poca convinzione – e quindi poco successo – di farmi mollare, - se speri che ti dica qualcosa in questa situazione del cazzo, dico, se speri che te lo dica adesso, tu sei proprio fuori strada, pezzo di merda.
- Fler, ssh. – mi zittisce, baciandomi appena, - Non voglio che tu mi dica niente. Sul serio. Cristo, non sono tanto stronzo da venire a cercare una cosa simile da te se Bill non riesce a darmela perché c’è Bushido di mezzo.
Socchiudo gli occhi. Sta dicendo cose tremende. Non lo posso ascoltare.
- Chakuza, mi lasci andare?
Lui sospira.
- Quante volte me l’hai chiesto, da quando ci conosciamo?
- Tante… - sussurro stremato, - Troppe.
- Ed io l’ho mai fatto?
Rido amaramente, scuotendo il capo per quanto lui mi permette.
- Non è mai troppo tardi per cominciare, non credi?
Chakuza segue il profilo del mio viso con le labbra e poi esita solo qualche secondo, prima di baciarmi. E nei secondi in cui la sua bocca non è pressata sulla mia e le nostre lingue non si stanno cercando a vicenda, lui parla. E come al solito fa danni.
- Credo di sì, invece. – confessa piano, - Fler, noi due non ci perdiamo in un bicchiere d’acqua. Se questo fosse un bicchiere d’acqua, non ci perderemmo affatto. Il problema è che non lo è.
Dopodiché, mi bacia. Ed io, quando lui mi bacia, non capisco più niente. Giuro, nessuno mi ha mai baciato come mi bacia Chakuza, e la cosa allucinante è che all’inizio non era per niente così. Voglio dire, baciava bene ma non esattamente come piaceva a me, questa è una cosa che è venuta dopo, col tempo. E gliel’ho insegnata io. Gliel’ho insegnato io come e dove toccarmi, e questa cosa mi fa impazzire. Non saprei nemmeno dire come, mi fa impazzire e basta.
- Questo è… - ansimo quando mi lascia andare per tirarmi in piedi e cominciare a trascinarmi verso la camera da letto. Incredibile come ricordi ancora dov’è, qui c’è stato solo una volta. Evidentemente ha un talento per sviluppare planimetrie istantanee delle case, per ogni evenienza, - Questo è stato molto scorretto. Non le dovresti dire, queste cose.
- Non lo direi, se non fosse vero. – risponde lui, spingendomi sul materasso e salendomi a cavalcioni addosso, - Te ne dico poche cazzate, ormai…
- Già che tu ammetta di dirmene qualcuna… - gli faccio notare con un broncio che lui non si risparmia di mordere nemmeno per un attimo, - E comunque certe volte è anche peggio, quando sei sincero.
Si ferma solo un secondo. Che poi non è neanche vero, perché non si ferma per niente. È solo un po’ meno frenetico. Continua ad accarezzarmi un fianco con una mano ed a slacciarmi i pantaloni con l’altra, ma si solleva a guardarmi negli occhi e si prende un secondo, prima di parlare ancora.
- Se ti offrissi qualcosa di meno… - comincia serio, - intendo, se cominciassi a mentirti e basta, tu ci staresti? – sospira, - Sarebbe bello e sarebbe facile, ma tu non sei facile neanche per un cazzo. Probabilmente, già alla quarta stronzata prenderesti la tua roba e cambieresti città.
Annuisco, sollevando una mano ad accarezzargli la nuca.
- E infatti ci sono andato vicinissimo.
Annuisce anche lui, sollevandosi appena per sfilare la felpa.
- Sono contento che ci sia tu qui, adesso. – mi dice, continuando a guardarmi negli occhi, - Non so dove sarei, altrimenti.
- In qualche bordello, Chaku. – rido io, ma lui mi toglie il respiro spingendosi lentamente contro di me.
- Sono contento di essere con te, invece. – ribadisce, tornando a baciarmi, - Cristo, dimmi che non mi fermerai, stavolta. Mi sto scordando di cosa sai.
- Stronzate… - ansimo, piegando il capo per lasciargli campo libero sul mio collo, - mi hai baciato anche troppo spesso.
- Ti baciavo ogni giorno, fino a nove mesi fa. – intrufola un ginocchio fra le mie gambe e lo strofina contro la mia erezione da sopra il tessuto pesante dei jeans, - Ti scopavo ogni giorno. Non ti manca?
- Fanculo. – sibilo, seguendo i suoi movimenti col bacino, - Chaku, stai proprio parlando troppo stasera.
Mi bacia lentamente, lasciando scivolare la lingua sulla mia per dei secondi infiniti, e quando si separa dalle mie labbra si appoggia su di me, fronte contro fronte.
- Lo sai che oggi è diverso, vero? – cerca di convincermi, gli occhi scuri di voglia che cercano i miei nel buio della camera da letto, - Non è come quando ho portato Bill da Bushido. Oggi non sono fuori di testa come quel giorno. Sono lucido.
Scuoto il capo e finisco per sfiorare le sue labbra con le mie nel movimento.
- Non lo sei affatto. – gli faccio notare con un mezzo sorriso, - Lo vedi perché dico che parli troppo? Se stessi zitto, avresti un mucchio di problemi in meno.
- Fler… - mi chiama lui, riprendendo a strusciarsi contro di me, - Dico sul serio. – e mi bacia ancora, - Mi piace il tuo sapore.
Mi ci perdo dentro un secondo. Nella sua voce, nei suoi movimenti, nella frizione deliziosa della fibbia dei suoi pantaloni che striscia contro la mia erezione attraverso il cotone sottile dei boxer.
Mi ci perdo dentro un secondo. Un secondo solo.
- È per Bill che lo stai facendo. – gli sussurro all’orecchio mentre scioglie la cintura, - È per lui. Vero? È perché non hai lui che sei qui.
E lui si ferma. Trattiene anche il respiro, per un po’. Poi mi si spinge contro con una certa violenza, tant’è che io ho il tempo di sentirlo tutto – eccitato, frustrato, arrabbiato – e vedere le stelle, e poi mi ringhia sulle labbra.
- È per lui. – conferma, - Sì. Contento, adesso?
Subito dopo, smetto di sentire il calore e la pressione del suo corpo, e quando riprendo a guardarmi lucidamente intorno lo vedo seduto sul bordo del letto, le spalle curve e l’espressione corrucciata che non riesco a cogliere nei dettagli. Ma non ne ho bisogno, li ricordo comunque a memoria.
Tutto quello che riesco a pensare, in questo momento, è che Chakuza ora come ora non ci sta con la testa. Che, per questa situazione, la testa potrebbe perderla del tutto e definitivamente. Che non voglio che succeda. E che voglio essere io quello che gl’impedirà di perdersi dentro se stesso. Voglio essere io e non m’interessa di nient’altro. Non so nemmeno perché, forse da Anis ho ereditato anche questa stupida spinta pseudo eroica per la quale non riesco a stare bene se non so che è tutto a posto e che lo è perché io ho voluto così, non lo so. Fatto sta che mi sollevo a sedere, puntellandomi sul materasso con le mani, e sospiro profondamente. Mi avvicino a lui e sento il suo respiro, vedo la sua sagoma scuotersi appena nell’ombra e mi chino sulla sua spalla, lasciando un bacio sulla sua pelle calda.
Chakuza si volta a cercare i miei occhi. E li trova perché io non scosto lo sguardo.
- Fler- - mi sporgo in avanti e gli tappo la bocca, baciandolo piano.
- Piantala di parlare così tanto. – ordino mordendogli un labbro, - Cristo, piantala, per favore. Lo so, okay? So tutto, Chaku. E non me ne frega un accidenti, in questo momento.
- No, non lo sai! – insiste lui, agitandosi tutto e voltandosi verso di me, cercando di tenermi fermo per le spalle, - Tu sei convinto che io per te-
Lo fermo ancora, baciandolo più profondamente e più a lungo. Più lentamente, anche, così che possa perdercisi dentro e dimenticare che prima stava parlando.
- Lo so. – dico in un sussurro, quando mi allontano da lui, - Lo so che abbiamo una cosa, Chaku. Lo so.
Lui ride appena, è una risata amara.
- “Una cosa”… - ripete, e le virgolette che ci mette sono così evidenti che scappa da ridere anche a me.
- Esiste un altro modo di chiamarla? – lo prendo in giro, cercando le sue labbra. Lui mi accontenta, sporgendosi in avanti e stendendomi nuovamente sul materasso.
- Sì, penso che esista. – confessa, respirandomi addosso e sfilandomi i boxer, - Ma ho paura che se lo facessi poi mi si rivolterebbe il mondo sotto ai piedi.
Ed io annuisco e non parlo più. E lo lascio fare, mentre si inumidisce le dita e mi accarezza fra le natiche, mentre torna a baciarmi e mentre scende a mordermi sul collo, mentre mi masturba senza che debba chiederglielo, mentre si spinge contro di me e dentro di me, lento e preciso, fino a farmi perdere il controllo di ciò che penso dico e faccio, lo lascio fare e non dico una parola perché so che è vero, so che certe cose vanno tenute sotto silenzio, non le espliciti certe situazioni, restano non dette. Ed è meglio così, perché ci sono cose che a dirle scompaiono. Se, quando avevo sedici o diciassette anni, io avessi detto ad Anis quello che mi passava per la testa, oggi un noi – un me e lui, un Patrick ed Anis – non esisterebbe. Certe cose le conservi fino al momento giusto, per certe altre il momento giusto non arriva mai.
Chakuza non è mio. Noi il nostro momento giusto non l’avremo mai.
A questo punto, si tratta soltanto di farci l’abitudine.
*
Farci l’abitudine, comunque, richiede tempo. Per abituarsi a qualcosa, quella cosa deve ripetersi due, tre, quattro, cinque, infinite volte, così tu puoi scrivertela dentro, addosso e attorno, e non dimenticarla più. Invece, svegliarmi accanto a Chakuza – svegliarmi così vicino a lui, il naso affondato nell’incavo del suo collo e le sue gambe intrecciate con le mie – è una cosa completamente nuova, perciò non ci sono per nulla abituato. Quando apro gli occhi, fatico a riconoscere le mie lenzuola, il mio letto e la mia stanza, perché c’è Chakuza che rende tutto diverso. L’armadio a muro sulla parete di fronte a me non è più uguale a prima perché c’è la curva della sua spalla a tagliarlo in due, e le coperte non hanno più la stessa forma perché qui sotto ci siamo io e lui insieme, e io tutto questo non l’ho mai visto così, perciò in un primo istante non capisco dove sono né cosa sto facendo, e mi irrigidisco tutto fra le sue braccia, così repentinamente che, nonostante stia dormendo – e so bene che quando dorme svegliarlo è praticamente impossibile – lui mi sente, e si sveglia a propria volta.
- Pat…? – mugola confuso, sciogliendo il nodo delle sue dita dietro la mia schiena, - Che?
Mi imbarazzo subito ed abbasso lo sguardo, scuotendo il capo.
- Niente. – biascico, - Fa caldo.
- Ma non è vero per niente. – si lamenta lui, stringendomisi contro ed affondando il viso per metà contro il cuscino e per metà contro il mio collo, - È l’alba, torna a dormire.
- Mi sporgo un po’ oltre la sua testa per controllare la radiosveglia sul comodino, e realizzo che non è per niente l’alba. Anzi, l’abbiamo saltata da un pezzo.
- Sono quasi le undici e mezza. – lo informo, - Possiamo anche pensare direttamente al pranzo, altroché.
Si scosta da me con uno sbuffo risentito, guardandomi con attenzione, come volesse rendersi proprio conto del fatto che io sia qui in questo momento, così vicino a lui da dividere il suo stesso calore e il suo stesso odore ed anche il suo stesso respiro.
- Avevi programmi, per oggi? – mi chiede, senza particolari inflessioni nella voce.
Io sospiro, prima di rispondere, perché mi sento a disagio.
- Nicole. – ammetto in un soffio, - Dovevo vederla, ovviamente.
Lui annuisce, un po’ indispettito.
- Ovviamente. – commenta acido. Io lo guardo, inarcando un po’ le sopracciglia. – E non fissarmi in questo modo. – borbotta lui, e poi sospira a sua volta, ugualmente a disagio. - …io non posso chiederti niente.
Rido contro la sua spalla, scuotendo lievemente il capo.
- Scelta mia, insomma. – esplicito, cercando i suoi occhi. Lui ricambia il mio sguardo e mi bacia lievemente, prima di annuire.
- Scelta tua.
La mia scelta è molto semplice e non può che essere una sola. Io magari non lo realizzo chiaramente mentre mi lavo, mi vesto ed esco di casa, ma è l’unica cosa cui riesco a pensare quando arrivo all’appartamento di Nicole e suono al citofono per farmi aprire. Voglio sbrigarmi qui, voglio che sia una cosa breve perché voglio tornare da Chakuza che mi sta aspettando nel mio appartamento, dato che mi ha detto che si sarebbe preso l’intera giornata di riposo per dormire, visto quanto si sentiva stanco. Non puoi stare con una donna quando il tuo primo pensiero è che vorresti stare altrove con un’altra persona, sia essa maschio o femmina, perciò la mia scelta quella è, e quella resta. Devo lasciare Nicole.
Mi aspetta sulla soglia di casa, asciugandosi le mani sul grembiule bianco e un po’ vecchio che indossa sopra la tuta da casa. Ha i capelli raccolti dietro la nuca. È carina. Per un momento mi chiedo “ma perché lo sto facendo?”, e resto in attesa di una risposta che non arriva. Non so più nemmeno se è davvero Chaku il motivo per cui la lascio, forse alla fine l’avrei lasciata lo stesso, per una scusa o per l’altra. Forse l’unico merito di Chakuza è che questo momento sia adesso, adesso che per lei non è ancora così doloroso. Forse. Non lo so, se sarà doloroso. Per me non lo è, in questo momento, e per questo forse dovrei sentirmi in colpa. Ma non ci riesco.
- Oggi ho fatto un sogno assurdo. – ridacchia, sollevandosi sulle punte per baciarmi lievemente sulle labbra, - C’era questo cane enorme che stava a guardarmi da dentro la mia valigia, ed era pelosissimo e morbidissimo, e a un certo punto il cane si metteva a parlare e lo faceva con la tua voce. Non mi ricordo cosa diceva, ma mi veniva da ridere, forse perché era strano sentire parlare un cane con la tua voce!
Rido a mia volta, seguendola all’interno dell’appartamento. Il tavolo è ancora sgombro, forse ha appena cominciato a cucinare. Magari riesco perfino a non farle sprecare cibo.
- Non sei mica tanto carina a sognarmi come se fossi un cane, eh. – le faccio notare invece, e mi do dell’idiota da solo, subito dopo, perché sto perdendo tempo. Non dovrei voler perdere tempo. Forse un po’ in colpa mi ci sento, dopotutto, perché è vero che questa situazione è colpa mia.
- Non è che ti abbia dato del cane, Pat… - mi prende in giro lei, tornando a smanettare con le pentole di fronte ai fornelli. Io la seguo fino in cucina e la guardo muoversi tranquilla per un po’. Poi capisco che devo fermarla, e visto che non so come fare mi allungo a chiudere il gas girando una delle manopole.
- Scemo. – mi rimprovera lei, ridacchiando, e poggia la mano sulla manopola, pressando un po’ per riaccendere il fornello, solo che non ci riesce, perché io la fermo prima, posando una mano sulla sua e risalendo fino al polso, tirandola un po’ per costringerla a girarsi.
- Pat? – mi chiama, incerta, inarcando le sopracciglia verso il basso.
- Devo parlarti. – sputo fuori d’un fiato, guardandola dritta negli occhi.
Lei non dice niente e nemmeno si muove, in realtà. Non so se vi è mai capitato di dover dire qualcosa a qualcuno e arrivare a quel momento preciso, guardare quella persona negli occhi e sapere che già sa che cosa dovete dire. A rigor di logica dovrebbe rendere tutto più facile, perché è un po’ come se non ci fosse davvero niente da dire davvero, si tratta solo di sbrigare la formalità del dirlo ad alta voce, ma il concetto è già noto e magari l’altra persona dovrebbe pure aver fatto in tempo a prepararsi, visto che già lo sa. Però in realtà non è così. In realtà quando tu sai una cosa non hai ancora risolto un cazzo. Tu la sai, sì, è dentro di te, ma questo non ti solleva di niente dal dolore che provi quando poi quella stessa cosa la senti. È come sapere che un tuo parente o un tuo carissimo amico è malato terminale e sta in ospedale collegato a una macchina. Lo sai che morirà, cazzo, ovvio che lo sai, passano i mesi e tu ti prepari, ma quando poi lui muore lo stesso tu scopri che non eri pronto davvero perché nessuno te l’ha detto davvero. È una cosa complicata. È più facile dire la verità quando nessuno sa niente, è più gestibile. Quando ti dicono una cosa che già sai stai male il doppio, perché sei stupido e perché ti senti tale.
- Forse sarebbe il caso che noi due non ci vedessimo più, per un po’.
Lo dico perché è la prima cosa che mi viene in mente, e solo dopo che l’ho detto mi rendo conto che ho saltato tutta la parte in mezzo. Quella che fa più o meno non ti amo, credo di essere innamorato di un altro, credo che dovremmo lasciarci perché non è giusto per nessuno dei due restare in questa situazione, e solo dopo avrei dovuto dire anche il resto, sarebbe il caso di non vedersi più per un po’. Ma, forse perché volevo sbrigarmi in fretta, forse perché le palle per dire “ti lascio” non ce le ho, non l’ho detto.
Nicole sgrana gli occhi e mi guarda, annichilita.
- Pat- - prova a chiamarmi, ma io le lascio andare il polso e la interrompo.
- Scusa. – scollo a fatica, - Non volevo dirtelo così, è… ho fatto casino. – ammetto in un sospiro, - Il problema è che… - la guardo e non so se voglio davvero dirglielo. Non so se voglio davvero. Non… - sono innamorato. Di un’altra persona. – mi interrompo, prendo fiato, - Che è maschio. Ed è Chakuza.
Nicole schiude le labbra. Non come nel gesto di chi si prepara a dire qualcosa, eh. È solo stupita. Le sue labbra formano una o praticamente perfetta, mentre continua a guardarmi.
- Pat? – chiede. Magari si aspettava di essere lasciata, ma non per un uomo, ok.
- È complicato. – mi gratto la nuca, imbarazzato, - Va avanti da un po’.
- Mentre noi…
- No! – mi affretto a negare, - No, assolutamente, intendo, c’era prima di te. Poi non c’è stato per molto tempo, ed io ho pensato che… insomma, che potesse andare, fra noi due. Non ti ho mai tradita con lui. – preciso, guardandola dritta negli occhi. Non so cosa possa farsene, di questa precisazione, ma tant’è. – Né con nessun altro, ovviamente. – aggiungo in un mezzo sospiro esausto, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi.
Lei annuisce lentamente, respirando così piano che non riesco nemmeno a vedere il suo petto alzarsi ed abbassarsi. Tortura con le mani l’orlo del grembiule già stropicciato, mentre un paio di ciocche bionde sfuggono al mollettone dietro la testa, ricadendole ai lati del viso quando lo china per spostare lo sguardo sulla punta delle pantofole che indossa.
- Mi dispiace. – aggiungo. Non so cosa possa farsene anche delle mie scuse, in realtà mi sembra di starle riempiendo la testa per evitare che mi stia davvero a sentire. Io le ho detto che sono innamorato di un uomo, di Chakuza!, e poi ho continuato ad aggiungere particolari idioti e inutili, soltanto per deviare l’attenzione verso qualcosa che fosse meno scomodo rispetto alle immagini che sicuramente si staranno formando nella sua testa mentre io sono qui a dire e pensare e anche fare assurdità.
- Potresti… - dice con difficoltà poco dopo, inumidendosi confusamente le labbra, - …intendo, andare? Non… non me la sento di parlare adesso. – conclude in un mezzo singhiozzo. Io annuisco lentamente, allontanandomi a ritroso, senza voltarle le spalle.
- Non subito, ok? – mi raccomando, - Ma quando ti senti… più tranquilla, ecco, chiamami. Ne parliamo. Sono quasi sicuro che non serva a niente, ma-
- Non servirebbe a niente, infatti. – taglia corto lei, voltando lo sguardo altrove, - …ma ti chiamerò. Fra… qualche tempo.
E finisce così, con me che me la lascio alle spalle, chiudo la porta e scendo al piano terra, per poi mettermi a camminare tranquillo per le strade di Berlino, verso casa. Mentre svuoto la testa da tutto – tutto quanto – quasi non mi accorgo che i piedi, da soli, stanno andando verso casa di Chakuza. Quando lo capisco mi scappa una risata, perché sarebbe allucinante andare lì adesso, contando che Chaku è già dove dovrei andare, e cioè nel mio appartamento. Ricomincio a guardare le strade, cerco la via più breve per tornare a casa e quando torno – apro con le chiavi, non voglio disturbare, e poi è casa mia, che diamine – lo trovo che dorme sul divano. Ha perfino fatto la fatica di alzarsi dal letto, commovente.
- Chaku. – sbotto risentito, - Oh, guarda che quel divano costa quanto tutta casa tua intera, sai?
- Mmhn…? – apre gli occhi lui, stiracchiandosi per quant’è lungo – cioè poco – e puntando i piedi sul bracciolo, a rischio di scardinarlo, - Già tornato? – sbadiglia, - Fatto presto.
- Avevo poco da fare. – sospiro crollando sul divano accanto a lui, che tira indietro le gambe per farmi posto e poi si mette seduto, grattandosi distrattamente la pancia.
- È andata bene?
- Quando mai vanno bene queste cose?! – sbotto irritato, e lui ride, ma è una risata triste.
- Hai ragione. – annuisce distratto, cercando a tentoni coi piedi le pantofole che mi ha ovviamente rubato per affrontare l’impervio e lungo tragitto che lo separava dal letto al divano – tipo, cinque metri, comprensivi di corridoio ricoperto di moquette.
- Comunque, - sospiro, rilassando la schiena e il collo, - insomma, quello che dovevo fare l’ho fatto.
- Anche io. – dice improvvisamente lui saltando in piedi, sistemandosi le pantofole e muovendosi spedito verso la cucina neanche conoscesse già tutto l’appartamento a menadito, - Insalata di riso. Ne ho fatta un po’ tanta, ma si può sempre conservare. Ci ho messo l’olio così tiene di più, volendo ci si potrebbe mettere anche la maionese ma non ne avevi in casa. Comunque hai gli stipetti pieni di roba, me le sogno io ‘ste cose a casa mia, facciamo cambio di appartamento?
Sollevo la testa per guardarlo di sbieco mentre torna dalla cucina con una ciotola enorme piena di riso fino a scoppiare e due cucchiai in mano.
- Hai preparato da mangiare? – chiedo, - Ma funziona la mia cucina? Non la uso da secoli…
- No, non l’avevi mai usata. – ride lui, - Almeno, ho dovuto togliere io lo scotch dal fornello grande, quindi quello di sicuro non l’hai mai toccato.
Rido anch’io, vagamente imbarazzato.
- Ti sei subito messo a tuo agio. – commento, mentre lui si siede accanto a me e posa la ciotola sul divano, fra di noi, incurante di quanto enormemente potrebbe macchiarsi la fodera.
- Odio perdere tempo. – mi risponde, cercando a tentoni il telecomando mentre mi passa il mio cucchiaio. Accende la televisione, fa un po’ di zapping, si ferma su un programma scemo e poi mi fa un mezzo sorriso idiota.
- Buon appetito. – dice.
- Buon appetito. – rispondo.
E poi comincio a mangiare.
*
Se questa fosse una situazione normale – voglio dire, se io e Chakuza vivessimo una vita da persone normali, non ci sarebbero problemi di sorta. So come funzionano le relazioni, in genere quando t’innamori di una persona nuova – o ti innamori di nuovo della stessa persona per la centesima volta – attraversi un periodo in cui vedi esclusivamente solo quella persona e tutto ciò che fai, pensi e dici lo rivolgi idealmente a quella persona lì, come se nell’universo intero non esistesse nessun altro. A prescindere da quanto profondo sia l’affetto che stai provando, eh, perché può essere il vero amore così come una semplice cotta, funziona sempre allo stesso modo. Perciò io e Chakuza ci ritroviamo da un lato a non voler fare altro che starci intorno – non è nemmeno una cosa sessuale, il che mi sconvolge più di quanto dovrebbe – e dall’altro lato a renderci conto che comunque non è così che possiamo fare.
Almeno, non è così che può fare lui, dato che, al di là di tutto, c’è ancora un album da ultimare e definire, in uscita fra pochissimo e con un tour da preparare.
Quando mi sveglio, lo trovo già vigile, il che mi preoccupa. Chakuza raramente riemerge dal mondo dei sogni prima che lo faccia io, e quando lo fa è quasi sempre perché ha qualcosa di ingombrante e complicato che gli ingolfa la testa. Oltretutto, in genere quando si sveglia prima di me si alza anche prima di me. Si alza, prepara la colazione, si lava e comincia a vestirsi, semplicemente perché, come tutte le cose piccole, è uno che deve scaricare l’energia in fretta, perché poi non ci mette molto a ricaricarsi. Voglio dire, è come quando riempi d’acqua un vaso e un bicchiere contemporaneamente: il bicchiere si riempie subito, il vaso ci mette più tempo. Chakuza è un bicchiere, quindi è svelto nell’autoricarica.
Oggi invece niente, è sveglio e fissa il soffitto con aria contrita e seria, le sopracciglia aggrottate e le labbra così strette da sembrare disegnate. Mi sollevo sugli avambracci, piantando i gomiti sul materasso, e lo guardo.
- Posso sempre contare su di te quando si tratta di cominciare la giornata nel modo giusto, mh? – scherzo, e sento la tensione sciogliersi su di lui tutta in un colpo: rilassa i lineamenti e la sua mano, che prima mi stringeva un braccio con forza, allenta la presa e mi accarezza lentamente, come a scusarsi in caso mi avesse fatto male. Naturalmente non me ne aveva fatto, figurarsi, ma è carino che mi accarezzi, perciò lo lascio fare e sorrido anch’io, mentre lui sospira e si stiracchia un po’ a fatica. – Qual è il problema? – chiedo, e quando lo vedo partire in quarta per dirmi che non c’è proprio alcun problema lo fermo nel modo più efficace che conosco, baciandolo a fondo. – E non mi dire cazzate, ci metto due secondi a mandarti ko, austriaco.
Lui ride ancora, scuotendo il capo.
- Mi tocca andare in studio, oggi. – dice in un sospiro stanco, - Ti lascio immaginare quanto ne abbia voglia.
Sollevo gli occhi al cielo, esasperato.
- Abbiamo presentato la regressione infantile odierna di Peter Pangerl. – sbuffo, - Andiamo, Chaku. È il tuo lavoro, non fare il ragazzino.
- Ma ci sarà Bill… - mi fa notare in una mezza lamentela, e io vorrei tirargli un pugno sul naso e dargli del cretino, perché il fatto che io conosca a memoria il suo cervello non dovrebbe dargli l’impressione di avere il diritto di prendermi a coltellate come e quando gli pare, ma lascio perdere, preferendo un altro sbuffo e accasciandomi stancamente sul cuscino.
- Sensibile come al solito, vedo. Mi stupisci ogni giorno di più.
Lui mi si arrotola contro, nascondendo il viso nell’incavo del mio collo e respirando direttamente sulla mia pelle per qualche secondo, prima di parlare ancora.
- Scusa. – dice. Dovrei trasalire – Chakuza s’è appena scusato. Voglio dire, non so se ci si può rendere conto di quanto questa cosa sia assurda. Me lo sarò mica sognato? – ma lui non me ne dà il tempo. – Vieni con me? – chiede. Quando mi allontano un po’ per cercare i suoi occhi, lo trovo già lì pronto a ricambiarmi lo sguardo con una serietà ed una tranquillità che mi stupiscono profondamente.
- Perché? – chiedo un po’ incerto. Lui non distoglie lo sguardo.
- Perché ne ho bisogno. – risponde sinceramente. E poi lo ripete, ma stavolta non è una domanda. – Vieni con me.
E visto che non è una domanda, io non ho nemmeno bisogno di rispondere.
*
Non ho idea di come Chakuza potesse pensare che la mia presenza in questa stanza potesse risolvere le cose o renderle meno pesanti. Allo stato attuale dei fatti, probabilmente non fa che peggiorarle, perché io in questo gruppo di persone non c’entro neanche per sbaglio, perché Jost mi sta guardando come se fossi un folle – nei suoi occhi c’è qualcosa di molto simile a un “ma sei fuori a infilarti di tua iniziativa in questa guerra fredda?” – perché Anis non riesce a capire in che veste io sia qui al momento, perché Bill vorrebbe piangere e sento le sue lacrime come se mi stessero scorrendo sulla pelle anche se non ne ha ancora versata nemmeno una e soprattutto perché Chakuza si sta comportando in maniera talmente pessima che io per primo avrei voglia di prenderlo per la nuca e spaccargli la faccia contro una parete. La mia presenza qui non è semplicemente inutile, no, è deleteria.
Da quando siamo arrivati, Chakuza non ha rivolto a Bill nemmeno un saluto. Il che è idiota ed è irritante ed è ridicolo, perché io so che vorrebbe sollevare lo sguardo e cercare quantomeno di sorridergli, lo sa Bushido, lo sa Bill, lo sa Jost, tutti qui dentro sappiamo che dentro la testa di Chakuza c’è di tutto ma di sicuro non lo stimolo di ignorarlo. Ed è frustrante e imbarazzante osservarlo mentre fissa ostinatamente lo sguardo sul programma che Jost sta proiettando sulla parete di fronte – una sequela di date di cui prendo nota solo distrattamente, dato che so già che non avrò una parte nemmeno marginale in tutto questo – quando tutti sappiamo che di quel programma non gli frega un accidenti, quando tutti sappiamo che l’unica cosa che vorrebbe guardare è appena lì alla sua destra e sta smaniando per avere quegli occhi addosso almeno un’altra volta, anche solo per un attimo.
L’atmosfera non ci impiega niente a tendersi come un elastico, in queste condizioni. E, dopo qualche minuto, come un elastico scatta anche, e Chakuza deve solo ringraziare che Bushido ami Bill al punto da desiderare di non deluderlo mai, perché altrimenti l’ultimo saluto di Anis, prima di uscire, non sarebbe stato “a domani”, ma un pugno sul naso.
Quando la sala s’è svuotata quasi totalmente, i Tokio Hotel sono sfilati come una corte al seguito della Principessa che accompagnava il Sovrano e gran parte dello staff ha seguito l’illuminato esempio, Jost ci guarda a lungo, a me e a Chakuza, e poi solleva entrambe le braccia in un gesto di resa.
- Io non ne voglio sapere niente. – borbotta, e il secondo dopo è fuori anche lui. Lo osservo uscire ed anche se non vedo Chakuza e non lo sento muoversi, so che sta tremando di rabbia sotto la superficie della sua calma apparente, e vorrebbe devastare questa stanza facendone a pezzi ogni singolo mobile e buttando giù le pareti a testate. L’unica cosa che lo frena è che non è a casa sua e non è un vandalo, perché vivaddio i suoi genitori almeno l’hanno educato per bene, altrimenti in pochi minuti la Universal si ritroverebbe rasa al suolo per la furia di un solo uomo.
Mi volto a guardarlo sospirando anticipatamente. Lo faccio adesso, tanto so che dovrò ripetermi in futuro.
- Non dire una parola. – dice Chakuza, alzandosi in piedi di scatto e cominciando a vagare per la sala riunioni come una tigre in gabbia, - Nemmeno una parola.
- Non sto fiatando. – gli faccio notare, inarcando un sopracciglio e restando seduto dove sono, - E comunque sei tu quello che dovrebbe parlare.
- E per dire cosa, di grazia?! – sbotta lui, voltandosi repentinamente a guardarmi. Io scrollo le spalle.
- Per motivare il tuo comportarti come un ragazzino di due anni, magari? – ipotizzo, fingendo di rifletterci su, - O per ammettere di essere stato un coglione.
- Fler, vaffanculo. – taglia corto lui. Io sospiro ancora, come volevasi dimostrare, e mi alzo in piedi.
- Naturalmente. – annuisco, - Questo è il momento in cui io comincio con l’elenco puntato delle cose che ho sbagliato fino ad adesso, giusto? A partire da quando ti ho lasciato mettermi le mani addosso un secolo fa fino a quando te l’ho permesso per l’ennesima volta ieri, mh? – lo prendo in giro con un sorriso stronzo, - Oggi non mi va. – concludo con una scrollata di spalle, - Perciò a fanculo ti ci mando io, e visto che non sei abbastanza uomo da trovare le palle per muovere il culo e andare dal ragazzino per scusarti di esserti comportato come un idiota, lo faccio io. – lo osservo spalancare gli occhi e la bocca nel tentativo di dirmi qualcosa che probabilmente suona come un altro vaffanculo, anche se ben più risentito, ma non gli do il tempo di tradurre questa espressione scioccata in lingua tedesca, perché gli volto le spalle e mi dirigo tranquillamente verso la porta. – Comunque stasera porto la pizza, se ti trovo a imbrattare la cucina con qualche schifezza delle tue giuro che ti lascio a pulire da solo fino a domattina. – concludo. Mi volto solo sulla soglia, e guardandolo gli sorrido. – A più tardi.
Lui solleva una mano, punta un dito come a chiedere la parola e poi le sue spalle si rilassano in un sospiro stremato.
- …a più tardi. – si rassegna. Io sorrido ancora, uscendo dalla sala riunioni. Prendere nota: con Chakuza, litigare non serve. Potrebbe tornarmi utile in futuro.
*
Anis mi accoglie sulla porta con le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a due fessure. Conosco quell’espressione, è quella che, se noi si vivesse in un’altra epoca e ci si vestisse di raso e velluto con le armature al posto dei panciotti che comunque non usiamo ed enormi pantaloni a sbuffo che si fermano appena sotto il ginocchio, farebbe da preavviso al suo puntarmi contro il viso un indice e strillare “traditore!”. Visto che invece viviamo nel ventunesimo secolo e ci vestiamo in jeans e maglietta, lui comunque mi punta un indice contro il viso e comunque apre la bocca per darmi del traditore, ma l’effetto non è lo stesso, non c’è lo stesso pathos, perciò mi basta sbuffare platealmente, afferrare il suddetto dito e allontanarlo spiccio dalla mia persona, per intrufolarmi in casa sua e guardarmi intorno, riprendendo confidenza con l’ambiente circostante.
- Potrei denunciarti per violazione di proprietà privata. – mugugna Anis, massaggiandosi il dito come gliel’avessi lussato. Io sbuffo ancora, agitando una mano con aria disinteressata.
- Non cominciamo col giochino dell’elenco delle malefatte, perché sai che perderesti, okay? – taglio corto, tornando a guardarlo con le mani sui fianchi. – Bill?
Lui incrocia le braccia sul petto.
- È di sopra. – risponde burbero, - E non hai il permesso di andare a trovarlo.
- È una vera fortuna che non te l’abbia chiesto, allora! – esclamo con entusiasmo, dandogli le spalle e dirigendomi verso le scale, - E tu non hai il permesso di salire a interromperci, comunque.
- È una vera fortuna- - comincia lui, ma lo interrompo con una risata, saltando gli scalini a due a due per far prima, motivo per cui lui lascia perdere e si dirige in cucina con un “bah!” esasperato.
Bill – in camera del quale entro senza bussare – sta ascoltando musica con gli auricolari ben piantati nelle orecchie. È steso sul letto, i capelli sparsi sul cuscino e le gambe intrecciate. Ultimamente è così magro che sotto i pantaloni – che si allargano in sbuffi sul materasso sotto di lui – sembra non abbia niente a parte due stampelle per tenersi dritto.
Bill è un’ulteriore prova di quello che dicevo prima riguardo i contenitori piccoli che si riempiono più in fretta, mentre i contenitori grandi hanno bisogno di più tempo. Lui sarà sottile, ma è così incredibilmente lungo che per forza, quando succede qualcosa che lo drena e lo svuota del tutto, ha bisogno di lunghi periodi di nullafacenza, per potersi ricaricare per bene.
Solleva appena le palpebre ancora pesanti di trucco, e mi saluta con due dita.
- Stanco? – chiedo, lasciandomi andare di peso al suo fianco con tanta forza che il suo corpo, leggerissimo, saltella sul materasso e poi torna giù in uno sbuffo sommesso.
- Mmh-mh. – annuisce lui, è un gesto impercettibile. Lo noto solo perché ormai lo conosco abbastanza bene da non aver bisogno di gesti plateali, per comprenderlo. È anche questo, che lo stanca così tanto: non è facile capire Bill, per questo è costretto a esprimersi sempre in maniera chiassosa, o nessuno gli dà retta. Bill non è mai pacato, non è mai silenzioso, è sempre in qualche modo violento in ogni sua manifestazione. Però quando si scarica è in questi termini che si riduce. Esprimersi diventa una questione di millimetri, e tu devi imparare a misurarli correttamente, se vuoi continuare a stargli dietro.
- Lo immaginavo. – dico, accomodandomi meglio accanto a lui, - Chakuza è stato un coglione, puoi anche dirlo, sai?
Lui scuote il capo, due millimetri a destra, altri due a sinistra. Pressa appena il pollice contro il pulsante di spegnimento del lettore mp3, e poi mi guarda con l’aria di un cucciolo bastonato, gli occhi enormi su quel visino sfilato tanto umidi da stringermi il cuore. Spalanco le braccia, e lui si fionda su di me esaurendo probabilmente in un unico colpo tutta l’energia che era stato in grado di recuperare con l’immobilità che aveva tenuto fino a quel momento. Singhiozza contro il mio petto, macchiandomi la maglietta, e non me ne frega niente. Fosse qualsiasi altra persona in una qualsiasi altra situazione, ricorderei quanto questa maglietta di merda costi in realtà e sarei pronto a staccare più di una testa a morsi, come punizione. Ma è Bill e sta male, e quindi tutto il resto – maglietta di merda compresa – non vale un cazzo. Ed io lo lascio piangermi addosso.
Non dice niente per un sacco di tempo, un po’ perché sa che non c’è molto da dire, un po’ perché sa perfettamente anche di non aver bisogno di dire niente proprio a me, e così tutto quello che risuona per la stanza, per molti minuti, è il suo pianto sommesso. Non fa rumore perché non vuole che Anis lo senta, io lo trovo tenero ma mi annoda lo stomaco, perciò cerco di tranquillizzarlo abbastanza da farlo smettere, almeno un pochino. Gli accarezzo le spalle, lentamente, e lui mi si stringe contro, nascondendo il musetto contro di me, risalendo su fino alla spalla e al collo. Si lascia dietro una traccia scura che faticherò a giustificare a Chakuza – fa niente.
- Ehi… - lo chiamo dopo un po’, quando sento i suoi singhiozzi affievolirsi almeno un po’, - Meglio?
Scuote il capo, le sue spalle si scuotono con lui.
- È tutto… - singhiozza, la voce gli muore in gola, - Non ci capisco più niente, Patrick.
- Ma non c’è niente da capire. – cerco di sorridere, abbracciandolo stretto, - È solo un momento un po’ confuso, vedrai che lasciando al tempo fare il suo mestiere tutto andrà al suo posto.
Lui solleva gli occhi. Mi guarda con aria persa, le guance rigate di lacrime e le labbra che ancora tremano un po’.
- Ci credi davvero a questa cosa? – chiede debolmente.
Io scrollo le spalle.
- Il tempo ti ha guarito, quando credevi che Anis fosse morto. Ti guarirà anche adesso, in special modo perché non è morto nessuno.
Lo osservo abbassare lo sguardo per un attimo, e poi tornare a rifugiarsi nell’incavo del mio collo.
- Io non sono mai guarito da quel dolore. – sussurra sulla mia pelle, - È per questo che quando l’ho visto sono impazzito di gioia, nonostante tutto. Perché non mi ero mai veramente rassegnato. E se non l’ho fatto per lui, anche se ero convinto fosse morto… come pensi che potrei rassegnarmi adesso, sapendo che Peter invece è vivo?
Questo è il punto in cui dovrei stringermelo contro e rassicurarlo. Dirgli che presto questo dolore sordo che sente continuamente nel fondo del petto si affievolirà e passerà del tutto, dirgli che dimenticherà – anche se non è vero, perché nella vita non si dimentica mai, ed io ne sono la prova vivente, è che ti abitui, tutto qua, alla fine il dolore diventa una parte di te, mette radici o qualcosa del genere, come le radici degli alberi penetrano la terra fino a sconquassarla del tutto, e ne diventano parte, il dolore fa la stessa cosa col tuo corpo, e alla fine smetti anche di notarlo. Vorrei dirgli che è normale, è così per tutti, è perfino giusto sentirsi in questo modo, per certi versi, ma non posso. Non posso perché, uscito da questa casa, con la traccia del suo mascara ancora sulla maglietta, io prenderò la mia macchina e passerò in pizzeria, recupererò due pizze e due bottiglie di birra e nel giro di un’altra mezz’ora sarò a casa di Chakuza, e lì mangeremo metà pizza ciascuno, butteremo giù la birra in due minuti netti e il minuto successivo saremo già schiacciati contro una qualsiasi superficie a morderci ovunque come se dovessimo divorarci a vicenda. E quindi non ce la faccio, adesso, a guardare questo ragazzino disperato e dirgli che è giusto che soffra. Non ce la faccio.
- Si sistemerà tutto. – gli sussurro fra i capelli, e lui mi stringe al collo con tanta forza da togliermi il respiro, - Ti prometto che si sistemerà tutto. – ripeto, cingendolo alla vita.
Lui annuisce. Lo fa con forza, con l’ostinazione dei bambini, e so che non ci crede ma vuole provarci. Ce lo faremo bastare, ragazzino. Tu provaci. Proviamoci entrambi.

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Walls fall down

di tabata
Quando Karima pulisce, non passa soltanto lo straccio. Lei prende in consegna tutta la casa ed è come se in qualche modo riuscisse a buttarla giù e poi a ricostruirla in toto per poi riconsegnartela che è una casa nuova. Ho visto il salotto tornare alla vita dopo certe feste in cui la cosa più carina l'aveva fatta Saad vomitando nel vaso del Ficus Benjamin. E questo avveniva su base giornaliera. Potete immaginare quello che ha fatto quando oltre alla casa, David mi ha restituito anche lei. Non che ci fosse sempre rimasta dentro, ovviamente, ma nel momento esatto in cui ho ripreso possesso dei miei beni immobili, ho anche fatto in modo che David recuperasse questa donna, che immobile non è, e la facesse tornare qui, perché tra cani e il sottoscritto, nessuna delle stanze era più vivibile. E poi mi sembrava un passo ottimistico, in previsione di ristabilire anche tutto quanto il resto. Karima – esattamente come mi aspettavo - non ha fatto molte domande. Si è presentata sullo zerbino di casa mia due giorni dopo la convocazione di David, mi ha toccato per vedere se ero vivo come si diceva in giro, quindi mi ha detto che ero sciupato e che mi avrebbe preparato qualcosa. Dopodiché si è messa il grembiule e mi ha ribaltato la villa fino a che ogni singolo granello di polvere non è sparito e i pavimenti non hanno ripreso a brillare. I cani, che si erano felicemente abituati a dormire nella mia stanza, sono stati banditi in giardino e per quanto Skyline mi guardi tutt'ora in cerca di pietà attraverso la finestra del mio studio, non c'è niente che possa fare per lui perché in questa casa, in fatto di igiene e pulizia, comanda quella donna e io sono troppo felice di averla intorno che mi prepara soffritti di cipolla per un reggimento per discutere con lei sull'educazione dei miei labrador. Per il momento lascio che faccia come le sembra meglio.
L'unico momento in cui davvero mi preoccupo è quando le do la notizia che Bill verrà a stare con me. Lei mi chiede soltanto “E dove lo metto a dormire?” che è una domanda retorica, perché lei lo sa benissimo che Bill dorme con me. Quindi mi lancia un'occhiata disapprovante e se ne torna in cucina, borbottando che ci sarà il doppio da fare per lei. Ho quasi paura che finirà per spedire in giardino anche lui.

*


Quando penso a me e a Bill mi rendo conto che io e lui non abbiamo mai davvero seguito le regole. Più che corteggiarci, ognuno di noi ha costretto l'altro ad accettare la propria presenza. Siamo due manipolatori, anche se di due razze diverse, e a nessuno dei due in realtà, piace fare la preda, nemmeno a Bill che ama, sì, che il mondo gli giri intorno, ma vuole essere lui a decidere la direzione.
Era bello scommettere su chi ogni giorno avrebbe ceduto per primo, se io al modo in cui piegava le ciglia, o lui al modo in cui io piegavo le dita.
E' sempre stato un gioco di trucchi, fra di noi, non certo di avances. Una rete sottile di trappole che ci divertivamo ad imbastire, ma in cui era ancora più divertente fingere di cadere. Ora, però, mentre lo guardo pettinarsi rannicchiato ai piedi del letto, mi chiedo se quest'ultima trappola gli sia sfuggita e ci sia caduto davvero. Se a questo gioco, alla fine, sto giocando da solo.
Quando David ha saputo quali erano state le conseguenze dei suoi lungimiranti consigli, ha dato di matto né più né meno di quanto mi aspettassi. D'altronde, sapevo perfettamente che nel dirmi che dovevo tirare fuori le palle, non intendeva che io trascinassi Bill a vivere con me ma che, molto più sportivamente, mi rimettessi in gioco e gareggiassi con Chakuza per riprendermi la mia Principessa. C'erano dettagli che non aveva preso in considerazione, però. E sapevo anche che non lo avrebbe fatto perché David è uno che sa organizzarti il funerale, la fuga e la resurrezione, ma di come funzionano queste cose, c'ha sempre capito un po' poco, ne è un esempio il fatto che alla fine si sia innamorato del sottoscritto, che altro non può fargli che del male.
Prima di tutto, io non sono sportivo. Il mio codice d'onore prevede una serie di divieti ma non quello di giocare sporco - io vengo dalla strada, non conosco altro modo di giocare.
Secondo, se avessi seguito le regole non sarei stato io, e non trovando me, Bill avrebbe certamente scelto Peter che a comportarsi bene è sempre stato più bravo del suo capo. D'altronde era con me per questo, ricordiamolo.
Così ho fatto l'unica cosa che so fare, ho giocato a mio favore. Quando me ne sono andato, la domanda che non avevo mai fatto era rimasta nell'aria. Avevo avanzato l’ipotesi che si potesse vivere insieme, io e Bill, e al tempo quella non era un’esca quanto il tentativo di sondare il terreno, di vedere se il mio ragazzino si sarebbe spaventato di fronte ad un passo così significativo. Passare la notte con una persona è una cosa da grandi, viverci insieme è una cosa da adulti e se avevo qualche dubbio che Bill fosse mai uscito dall’adolescenza, di certo non ne avevo sul fatto che non fosse ancora un adulto. Quindi quella domanda l’avevo buttata lì vaga e per caso, giusto per annusare la reazione e, in caso fosse stata negativa e spaventata, deviarla come una granata prima che potesse esploderci addosso. Bill prima della mia morte non aveva risposto. Mi aveva solo guardato, cercando nei miei occhi una spiegazione più precisa, come a rassicurarsi di aver capito bene. Poi sono morto e quella possibilità che aveva apparentemente messo da parte ci è sfuggita tra le dita. Molte volte, nel corso dell’ultimo anno, mi sono chiesto come sarebbe stato vivere con lui, averlo sempre in giro per casa, come sarebbe stato fare la spesa, perfino! Tutto sembra stupendo quando non hai più la possibilità di farlo, né la paura di doverlo fare davvero.
Così, quando gliel’ho chiesto, nella sua stanza, tra i ricordi del mio assassinio e di tutto il sangue che c’era, a lui come a me è sembrato di poter tornare indietro e mettere a posto le cose, che forse significa una cosa diversa per ognuno di noi, ma non importa. Il discorso è sempre quello. C’eravamo noi, e possiamo esserci ancora e se per farglielo capire ho dovuto calcare la mano, va bene così.
O almeno pensavo che andasse bene così. Con Bill è sempre andata bene così: non ha mai voluto veramente il guanto di velluto. Una volta si annoiava ad essere solo accarezzato, bisognava fargli sentire un po’ di forza, giusto perché lui potesse fingere di doversi lamentare. E invece adesso lo guardo e non lo so più che cosa vuole.
Bill si è presentato a casa mia la sera stessa dell’invito, quasi tre settimane fa, con due valige e gli occhi nascosti dietro alle lenti scure dei sui Gucci nuovi di zecca. Per il suo rientro ufficiale in casa mia non mi aspettavo niente di elaborato, né niente di troppo epico. Mi sarebbe bastato vederlo felice di rimettere piede nel suo regno che senza di lui non era più lo stesso. Viverci con Fler è stato interessante, ma l’ho passata da tempo l’età della convivenza con i miei simili, e in più quando qui c’è stato Patrick io non ci stavo con la testa – non ci sto neanche ora – non me la sono goduta nemmeno questa rimpatriata fra me e lui. La verità è che queste pareti racchiudono molto di me e un po’ di Bill, e senza me o lui, questa casa manca di qualcosa.
Comunque, non mi aspettavo grandi cose, anche perché il punto della questione non era affatto che Bill varcasse la soglia di casa mia, ma che ci restasse, che me lo fossi ripreso. Non era una cosa così scontata. Difatti non sembrava neanche lui. Quando gli ho aperto la porta mi ha fatto solo un sorriso stanco mentre lo baciavo piano sulle labbra e poi mi ha chiesto “Mi aiuti a portarle su?”
Non mi aspettavo che le cose andassero bene da subito, capite? Sono un uomo in grado di realizzare l’impossibile – ho portato l’omosessualità nel rap, sono morto e sono risorto – ma sono anche uno disposto a fare le cose con calma, se necessario. Quindi non immaginavo un rientro allegro, con Bill che tornava all'istante quello che era stato mesi fa senza un solo problema al mondo.
Sapevo che non si sarebbe lasciato alle spalle Chakuza come una cosa da niente e, per com’è fatto lui, gli ci sarebbero voluti mesi per dimenticarlo e per non averne tutto quel bisogno che di solito prova verso le persone che ama. Mi bastava pensare a quanto fosse legato a Tom e a quanto tempo avevo impiegato a convincerlo che non sarebbe rimasto senz’aria se solo si allontanava di un passo da lui. Bastava pensare a com’era stato legato a me – a come volevo credere che fosse ancora legato – e a come si era disfatto nel momento in cui io non ero più stato accanto a lui.
In base a tutto questo, mi aspettavo che la conseguenza di una rottura tra lui e Chakuza avrebbe portato ad un lungo periodo di confusione da parte sua.
Quello che avevo previsto, però, non è neanche lontanamente paragonabile a quello che in effetti è, ossia l’ombra di Bill che si aggira per casa mia senza nessuno scopo apparente e con lo sguardo sempre perso altrove, in un punto in cui non riesco mai a raggiungerlo.
Io non ho mai avuto dei veri problemi a capire Bill, nonostante tutti i tentativi che ha sempre fatto di nascondersi dietro mura di irritazione, di contegno e di fragilità, io ci ho sempre visto attraverso, come fosse stato fatto di vetro. Ci ho visto attraverso fino a poche settimane fa, quando non mi ci è voluto niente ad averlo ai miei piedi toccandolo appena. Ora, però, faccio fatica a ritrovare quella stessa trasparenza, è offuscata, grigia, come se mancandomi un pezzo della sua vita, la sua persona non fosse più tanto limpida. E anche se me la raccontassero – me lo hanno raccontato, in effetti, che cos’è successo – non servirebbe a niente, perché quella macchia scura, ormai, per me, non si pulisce più. Devo tenermi questo Bill così com’è e sperare che col tempo, a furia di raschiare, torni un po’ più limpido.
In questi giorni fra me e lui c’è stato soltanto un barlume di tenerezza. Non che non lo desideri o che, se per questo, non lo faccia lui. E’ solo che fra di noi c’è un muro e quel muro è Chakuza. Paradossalmente è stato più facile toccarsi mentre Bill stava ancora con lui. Quando c’incontravamo, il nostro cervello si limitava ad escludere ogni dettaglio che non fossimo noi. Creavamo uno spazio in cui amarci indipendentemente da quello che era il presente, tirando in causa tutto ciò che era stato. Non serviva nient’altro. E se c’era Chakuza là fuori, poco importava. Una volta spezzata la bolla, la Principessa sarebbe tornata dritta tra quelle braccia. Io lo prendevo in prestito e lui, per così dire, si lasciava prestare, certo che niente sarebbe cambiato davvero. Era un’illusione.
Adesso però, non è così. Adesso se lui mi bacia, se io lo tocco, dobbiamo fare i conti con ciò che Bill ha deciso di lasciarsi alle spalle e, se a me il pensiero non provoca né il minimo rimorso né la minima preoccupazione, lui invece si frena e si tira indietro.
Non lo fa coscientemente, ma succede. Se lo abbraccio, sento il suo corpo irrigidirsi tra le mie braccia e anche se mi bacia e mi accarezza, c’è una distanza che non riesce a colmare. Posso andargli incontro fino ad un certo punto ma il resto della strada deve farla lui e non riesce. Abbiamo passato le notti abbracciati nel mio letto, lui guardava il cielo di Berlino fuori dalla finestra, come un anno fa, prima di addormentarsi dopo aver fatto sesso, ma la differenza che ho sentito è così grande che mi ha quasi dato alla testa. Vorrei scuoterlo, vorrei smetterla di accarezzarlo in punta di dita e poter premere le mani tra le sue cosce senza che l’abbandonarsi del suo corpo sia meccanico e dovuto.
Vorrei riavere Bill indietro e mi sforzo di non chiedermi dove esattamente l’ho lasciato perché credo di sapere la risposta e non mi va di dirla ad alta voce.
Oggi, dopo settimane di convivenza, una riunione alla Universal ci ha di nuovo costretto tutti insieme nella stessa stanza. Io, lui e Chakuza. Ormai siamo tre nomi che pronunciati tutti insieme presagiscono catastrofi e David lo sa tanto bene che ci fa sedere ognuno ad un lato diverso del tavolo così che almeno, se dobbiamo saltarci alla gola, dobbiamo prima fare tutto il giro della stanza e lui magari ha il tempo di fermarci. Ha installato un maxischermo in fondo alla sala, credo nella speranza di ipnotizzarci tutti con filmati in powerpoint ed evitare la rissa, quindi ha preteso silenzio e ha ignorato le occhiate che io ho lanciato a Chakuza e quelle ancora più rumorose che lui non ha lanciato a Bill. Ha ignorato la tensione e la presenza di Fler che, devo essere sincero, non ha ancora una spiegazione nemmeno per me. Non ho trovato il tempo di chiederglielo e, anche se ce l'avessi, dubito di conoscere un modo carino per chiedergli per quale fottuto motivo si è presentato al fianco di Chakuza quando avrebbe dovuto per ovvie ragioni guardarsi bene dal prendere una posizione diversa dalla mia. Ma non ho tempo, appunto, perché ora la mia priorità è Bill.
Comunque, Bill ha passato gran parte del suo tempo a fregarsene di ciò che David stava dicendo prevalentemente per lui – è lui quello che ha bisogno di programmi talmente dettagliati che ci manca solo gli dicano quando deve andare in bagno – per fissare Chakuza nella speranza che lo guardasse. Il solo fatto che lo facesse in maniera così plateale da essere quasi imbarazzante avrebbe dovuto essere un buon motivo per incazzarmi, ma conosco Bill, come dicevo. Lo so come si muovono i pensieri nella sua testa, come nascono e muoiono le sue paranoie e quanto profondo può essere il baratro della sua angoscia se, per qualche motivo, si dispiace per qualcosa. E l'aver scaricato Chakuza da un giorno ad un altro dev'essere stato un motivo bello grosso per dispiacersi. Dal suo punto di vista, naturalmente. Non ho idea dei termini esatti con cui questi due si sono lasciati, ma è evidente che Chakuza non gliel'ha perdonata e ha deciso per la via della punizione, il che dice molto sull'idea infantile che ha di Bill. Solo che Bill sta male, e vederlo cercare lo sguardo di Peter con tutta quella disperazione senza ottenere nemmeno un'occhiata mi ha fatto più che altro incazzare con quell'uomo che è tanto pronto a dirti che accetterà le scelte della sua Principessa quanto poi è bravo a renderle la vita una merda, non degnandola neanche di uno schifoso sguardo, come se non valesse più un cazzo. Solo per prendersi la rivincita dei bambini. Se in questo momento non è in giro con un altro occhio nero è solo perché Bill non avrebbe voluto, come non vuole tante altre cose. Per esempio non vuole che Chakuza stia male – come evidentemente sta –, non vuole perderlo come amico – come forse, di questo passo, potrebbe succedere – e non vuole questa situazione. Non vuole le conseguenze negative, perché di fatto non c'è ancora abituato del tutto. Lo abbiamo protetto tutti quanti un po' troppo; la colpa è di suo fratello, di David, mia e sì, anche di Chakuza che, a quanto posso immaginare, deve averlo tenuto come una cosina in cristallo di Boemia, attento che non si scheggiasse nemmeno. Anche prima di tutto questo casino era così. Se qualcosa andava storto, poi si raddrizzava. Qualunque cosa fosse. Nella sua testa si dev'essere formato a livello inconscio il concetto che tutto avesse una soluzione pacifica. Cristo, se ci pensate, nemmeno la morte è stata definitiva nel suo mondo di favola: mi ha perso, ha pianto, s'è disperato... ma sono tornato. La sua percezione della negatività nella sua esistenza dev'essere un completo disastro.
Da quando sono morto Bill ha fatto dentro e fuori dalla sua bella campana di vetro: io muoio – fuori – l'amicizia di Chakuza – dentro – l'uccisione di Saad – fuori – Chakuza che se lo scopa – dentro di nuovo. E ora ecco che si ritrova buttato fuori a calci, perché non puoi scaricare un uomo come ha fatto lui, metterti col suo fottuto rivale e pensare che quello rimanga il tuo amico del cuore. Anche se quell'uomo riesce a recuperare quel tanto che basta per esserti amico, non ci sarà un attimo della sua esistenza che, quando gli siedi accanto, non penserà rabbioso a com'era averti e a come avrebbe potuto essere continuare a farlo. E' così e basta.
Quindi lo so perché adesso se ne sta ai piedi del letto ed è tutto concentrato su quella spazzola e sul movimento, dall'alto verso il basso, che gli stira lentamente le lunghe ciocche nere e bianche. Ha bisogno di tenersi insieme, in qualche modo, perché in questo momento è una statua andata in frantumi e ricomposta alla meno peggio, ma senza colla. I pezzi sono solo appoggiati gli uni sugli altri e basta una folata di vento per mandarli tutti all'aria di nuovo. Il pianto che si è fatto con Fler, qualche ora fa, non è bastato a calmarlo. E non importa che abbia tentato di nasconderlo e che faccia finta non si sia lasciato andare ai singhiozzi, perché tanto io le cose gliele leggerei in faccia anche se non avesse gli occhi rossi e lucidi, e le labbra non tremassero di tanto in tanto, quando perde il controllo della sua testa e i suoi pensieri tornano a questo pomeriggio, a Chakuza, alla situazione e a Dio solo sa che cosa che non so e che probabilmente lo far star peggio di tutto il resto.
Il sospiro enorme che ha tirato prima di voltarsi e sorridermi mentre entravo nella stanza è stato il suo tentativo di lasciarsi tutta questa tristezza alle spalle, ma non lo so se gli è riuscito poi tanto bene.
Speravo che Fler potesse aiutare dal momento che sembra saperci fare con Bill e in più, a quanto pare, conosce anche Chakuza ma immagino che, dopotutto, i miracoli non riescono neanche a lui, se non riescono a me. Ci vorrà un po' più di tempo perché Bill impari a conciliare noi due con le conseguenze del nostro stare insieme.
Poso una mano sulla sua e lo fermo.
Solleva lo sguardo, senza capire. “Sei già bellissimo così,” mormoro con un mezzo sorriso, togliendogli la spazzola di mano e posandola sul comodino. “Adesso basta.”
Lui si lascia maneggiare come ha fatto per tutte queste due settimane e non oppone resistenza quando me lo tiro contro, anzi si accoccola contro di me e mi nasconde il viso nel collo. E' una cosa che mi rende felice, perché questo, invece, è la prima volta che lo fa da quando è tornato. Mi si sistema seduto in grembo e mugola quando lo abbraccio e poso le mani sui suoi fianchi.
“Stanco?” Chiedo.
Lui si stringe nelle spalle e intreccia le braccia dietro il mio collo, appoggiando la fronte alla mia. “Un po',” ammette.
“Evidentemente, Altezza, non siete più abituata a lavorare,” lo prendo in giro. Gli premo il naso col mio e lui lo arriccia un po'.
Mi fa un sorriso piccolo. “Se sono la Principessa, allora forse non dovrei mai lavorare.”
“Lo sai che nel mio regno, nessuno sta con le mani in mano,” gli ricordo. “Non mi piacciono i sudditi che vivono di rendita.” Quando ho Bill tra le braccia, è difficile trattenermi. Ho dato ampia prova di questo durante le riprese per il video di Prinzessin. Quindi adesso che siamo soli nella mia stanza, non mi trattengo dal lasciar scorrere le mani lungo la sua schiena e le labbra lungo il profilo del suo viso perfetto. Sento le sue ciglia che mi accarezzano.
“La principessa non è un suddito,” mi mormora tra le labbra. Lo assaggio appena e mi ritraggo quel tanto che basta per vedere che mi cerca. “Ha la corona.”
Chiudo gli occhi e lo bacio senza rispondergli. Si scioglie morbido quasi subito e lo sento sistemarsi bene sopra di me, puntando le ginocchia sul materasso, mentre serro la presa sui suoi fianchi e me lo spingo addosso. La frizione che ne segue è deliziosa, ma il mugolio che gli strappo di bocca è soltanto un assaggio di ciò che voglio davvero sentire.
In un anno che sono stato lontano, non ho mai dimenticato che sapore avesse Bill o che profumo avesse la sua pelle quando lo spogliavo. L'immagine del suo corpo tra le lenzuola non mi ha mai abbandonato, così come la sensazione di averlo tra le dita. Quindi adesso, mentre gli tolgo la maglia, non è una sorpresa, ritrovo solo quello che già ricordavo. E' un regno conosciuto, Bill. Il mio.
Sono passati mesi dal giorno assurdo in cui ci siamo ritrovati e lui mi è caduto tra le braccia, dimenticandosi di dirmi come stavano le cose. Da allora, però, l'ho soltanto sfiorato e Bill è consapevole che non è stato sufficiente. Le mie incursioni sul suo corpo non erano né più né meno che saluti innocenti, se si pensa che sul suo corpo io ho sempre avuto il controllo totale, che lo toccavo anche mentre dormiva. E lui se lo ricorda.
Io e lui non abbiamo mai avuto misura, stando insieme.
Ci amavamo facendoci male, a volte. Io non ho mai pensato che quel poco che pesa potesse essere un buon motivo per usargli cortesia quando avevo voglia di sbatterlo da qualche parte; lui non si è mai preoccupato quando mi ficcava le unghie nella schiena, mentre perdeva contatto con la terra e per lui restavo solo io, dentro di lui. Aggredirsi pur di sentirsi vicini era un bisogno e la mia priorità adesso è recuperare quella nostra violenza, così gliela cerco addosso mentre lo stendo tra le coperte e lui mi fa spazio, obbediente, le mani perse tra i miei capelli che ha subito sciolto perché gli ricadessero addosso. La facilità con la quale si perde subito tra le mie carezze, m'impedisce di preoccuparmi di come spogliarlo o di dove siano finiti i nostri vestiti dopo che l'ho fatto. La sua pelle sotto le dita è l'unica cosa che voglio sentire, in questo momento. Chiudo gli occhi e percorro tutto il suo corpo con le labbra, potrei tracciarne ogni singola curva anche senza guardarlo. Le sue mani seguono lo stesso itinerario su di me, scivolano lungo il mio petto e si aggrappano alle mie spalle quando lo sfioro appena. Il suo essere così falsamente arrendevole mentre si lascia aprire le gambe e la bocca, mentre si lascia esplorare, non fa che eccitarmi di più. Un po' ride e un po' geme quando ringhio, tirandomelo addosso. Se entro in lui quasi subito e quasi senza aspettare è perché lo sa che lo avrei fatto e il suo stringersi a me un attimo prima che lo faccia ne è la prova. Il respiro che mi lascia andare nell'orecchio è incredibilmente caldo e liquido, mi scivola lungo il collo e non so più cosa sto ascoltando se la mia voce o la sua che scandisce i miei movimenti. Ogni mia spinta, ogni suo tendersi e assecondarmi, torna automatico come se in questi nove mesi non fosse cresciuto lontano da me e il suo corpo non avesse conosciuto un altro piacere, un altro corpo, un altro uomo. Io non lo sento che è cambiato. Ad ogni spinta, Bill si stringe intorno a me e mi guarda con gli occhi scurissimi e velati della stessa voglia che c'è nei miei. Così lo spingo sul materasso e gli blocco i polsi contro il cuscino, lui sorride, sollevando i fianchi come a sfidarmi e quello che faccio dopo è strappargli di bocca un urlo, quando mi spingo in lui con più forza e mi lascio annegare nella soddisfazione di vederlo reclinare la testa, di sibilare e perdere quel poco di contatto con la realtà che gli è rimasto.
Ho sempre pensato che fra di noi ci fosse un'armonia quasi magica, un connessione così perfetta e casuale da non poter essere replicata che da noi due. Le magie, però, hanno un prezzo come ogni altra cosa. E il loro è che s'infrangono, prima o poi, per non tornare uguali mai più. Per non tornare affatto, a volte.
La nostra magia si spezza tra le sue labbra, quando mi respira addosso un nome non mio. Gli scivola sulla lingua e non è neanche completo. Pronuncia soltanto le prime lettere e il resto si scioglie in un gemito profondo e deliziato che esce dalla sua bocca e gli scivola addosso, sul corpo fino alle mani tra le sue gambe. Si sta toccando perché io mi sono fermato e per un attimo, uno solo, quando lo guardo vedo Bill com’è tra le braccia di Peter, e non più tra le mie.
Per un lungo istante penso che non so cosa fare né cosa dire. Se quella che ho fra le braccia fosse una persona qualsiasi, forse mi basterebbe incazzarmi e la cosa finirebbe nel giro dei dieci minuti che ci ho messo a sentire quello che ho sentito e a mandare a fanculo tutto. Ma si tratta di Bill. Qualunque cosa io decida di fare nei prossimi dieci minuti, non risolverà affatto la situazione. In realtà mi sorprende essere così lucido dopo una cosa del genere, mentre sono ancora dentro di lui, per altro. E' solo che per quanto uno si sforzi di pensare a come reagire in una situazione del genere, poi non può sapere come ci si sente quando capita davvero.
Io non provo niente. Lo guardo soltanto, mentre si stiracchia come fa sempre dopo aver scopato; si snoda tutto per quanto e lungo, le mani a pugno vicino al viso e i gomiti in alto sul cuscino. Ne segue un respiro soddisfatto e mentre mi stendo con lui e lo accolgo meccanicamente tra le braccia, il mio cervello elabora le parole senza che io possa davvero prima pensarle.
La mia stessa voce che rompe il silenzio mi sorprende. “Deve mancarti molto,” dico, serio.
Lui si volta ed è ancora così in estasi per l'orgasmo che apparentemente si è fatto dare da qualcun altro che non capisce cosa sto dicendo. Mi sorride e forse m'incazzo di più a pensare che sembra sincero in questa sua totale ignoranza. “Chi?” Chiede, sbattendo le ciglia lunghissime.
Avrebbe potuto chiedermi cosa, ma non lo ha fatto. “Come sapevi che stavo parlando di una persona?”
Bill si stringe nelle spalle, spaesato. “Anis, non capisco. ”
Potrei decidere di passarci sopra e andare avanti, che in fondo è una cosa da niente. Una confusione momentanea. Solo che non lo è. E io non sono mai passato sopra a questi due nemmeno quando avevano l'attenuante della mia presunta morte, non posso certo farlo adesso che sono vivo e che ero presente, un minuto fa, quando Bill ha detto il fottuto nome di Chakuza mentre erano le mie mani quelle che aveva addosso.
“Chakuza,” chiarisco. “Deve mancarti molto. “
Lo guardo dritto negli occhi perché la sua reazione è l'ultimo vero ricordo che avrò di noi due in questo letto e voglio che rimanga nella mia testa il più chiaramente possibile.
Lui sgrana gli occhi. Sento il suo cuore accelerare i battiti visto che è schiacciato contro il mio, che sospetto ormai si sia fermato. Davvero, stavolta.
Bill sembra continuare a non capire, ma il movimento impercettibile del suo corpo è una risposta sufficiente. Non vuole sentirlo nominare, perché non è in grado di affrontare le conseguenze dell'effetto che quel nome ha su di lui. Lo avevo notato nelle settimane appena trascorse, ma adesso è tutto così dolorosamente chiaro.
Mi guarda e si scosta una ciocca di capelli dal viso. “Che cosa c'entra Peter?” Chiede, incerto.
“Hai detto il suo nome.”
“Io non...”
S'interrompe perché nel mio sguardo legge tutto ciò che deve; che la mia non era una domanda, per esempio. E che non mi aspetto da lui nessuna giustificazione perché qualsiasi cosa sia avvenuta poco fa, non ce l'ha. Ed è mentre realizzo questo che capisco finalmente come stanno le cose e che posizione occupiamo noi – tutti quanti noi – in quest'universo nuovo di zecca dove io avrei dovuto essere morto e non lo sono.
Sono sempre stato abituato ad ottenere quello che pensavo fosse mio e mi spettasse di diritto, ma questo succedeva quando facevo parte della vita delle altre persone. Quando ho smesso di farlo, questo potere l'ho perso. L'ombra scura che ho visto intorno a Bill non è altro che l'impronta di Chakuza che ha spazzato via la mia nell'anno che è appena trascorso. E per quanto io mi sia sforzato di cancellarla, è ancora lì. Forse perché certe cose possono cambiare solo fino ad un certo punto, o forse perché Bill non ha voluto davvero che lo facessero. In ogni caso siamo arrivati a questo. A me che lo prendo e a lui che s'immagina quello che il suo cervello ormai considera la normalità. Una normalità che non sono più io.
All'improvviso mi rendo conto che se voglio recuperare il mio posto nell'universo, non posso farlo da un punto a caso, mettendo le mani dove non era previsto che le mettessi più. Non è una regola che posso infrangere, è logica. E quella non la posso cambiare. Bill, la nostra storia, perfino Chakuza, erano tutte cose mie. Ma quando muore, del morto, rimangono solo le cose che possedeva. Così loro sono rimasti, mentre io no.
Rimaniamo a lungo in silenzio. Io sto aspettando che lui dica qualcosa anche se non so cosa possa dire e credo che Bill sia cercando di capire quanto sia grave la situazione dal mio punto di vista. “Possiamo almeno parlarne?” Chiede alla fine, sedendosi e portandosi addosso quel poco di lenzuolo che riesce a recuperare dal casino di questo letto.
“Per dire cosa?”
Lu si stringe un po' nelle spalle. “Che mi dispiace,” esclama. “Non volevo. Non me ne sono neanche reso conto.”
“Appunto.” Scendo dal letto e recupero i pantaloni. Avrei voluto che fosse perfettamente consapevole di aver aperto la bocca e aver gridato in estasi il nome dell'uomo che se lo scopava fino a tre settimane fa, anche se non riesco ad immaginare uno scenario in cui la possibilità di Bill che lo grida consapevolmente possa avere una qualche logica. Il fatto che si sia trattato di un automatismo lo rende solo peggio. Chiami e vuoi le persone senza renderti conto di farlo solo quando ce le hai piantate in testa così profondamente che da lì non le sradichi più. Ed evidentemente in quella sua testolina mora, ora come ora, c'è ancora Peter Pangerl.
“Anis, per favore guardami.” Lo faccio e lui mi punta addosso quegli occhi castani e profondi. “E' stata una cosa involontaria, non stavo davvero pensando a lui.”
“E a cosa pensavi?”
“Non pensavo affatto!” Esclama. “Ero un tantino preso, tu che dici?”
Non dico niente, Bill. Che cosa dovrei dirti? Che io invece pensavo a te, a noi e al fatto che eri bellissimo, sul punto di disfarti tra le mie coperte? Non ti dico niente. “Credo sia meglio che tu non resti qui, stanotte,” mormoro e mi costa più di quando mi sia costato lasciare per sempre Berlino. O la mia vita intera, se è per questo. “Né mai più.”
Per un po' l'unico rumore nella stanza sono io che mi rivesto. Lui mi fissa attraverso lo specchio mentre mi sto mettendo la camicia e sembrerebbe tutto normale fra noi, se lui non stesse disperatamente cercando in me una soluzione che dovrebbe darmi lui. Fino a questo momento ho sempre pensato a tutto io, Bill. Avevo una risposta ad ogni domanda e, anche se non ce l'avevo, fingevo così bene che sembrava l'avessi. Mi sono occupato di ogni singolo dettaglio, ora però tocca a te. Non puoi pretendere che risolva anche questa. “Ti lascio la stanza fin quando hai bisogno,” dico, sistemandomi il colletto. “Solo non metterci troppo.”
Bill si stringe al petto il lenzuolo. La principessa ha l'aria persa come non l'ha mai avuta nemmeno le prime volte che è stato qui e gli sembrava assurdo che nonostante tutti gli sforzi che faceva per intrufolarsi nel mio letto, io non gli dessi affatto il permesso di rimanerci. Mi guarda come mi guardava allora, con quell'ostinazione infantile che tre anni fa mi faceva quasi tenerezza ma ora mi fa solo incazzare. “Che cosa non ti è chiaro, Bill?” Chiedo.
Lui sospira a fondo e lo conosco abbastanza bene per sapere che non è per darsi coraggio che lo fa, ma per ritrovare la pazienza, una cosa che non dovrebbe avere nemmeno perso, figuriamoci se deve cercarla. “Anis, ti preg-”
Sbatto sul letto una delle valige che si è premurato di svuotare ma non di rimettere a posto. Apro tutti i cassetti e le ante che contengono cose sue. “Prendi quello che ti serve,” scandisco lentamente, così che la situazione gli sia ben chiara. “Il resto tornerai a prenderlo in seguito.”
Aspetto immobile e in silenzio che scivoli fuori dal letto e che si vesta, stando ben attento a rimanere quanto più possibile nascosto nel lenzuolo. Non mi muovo neanche quando è costretto a girarmi intorno per recuperare delle maglie e dei pantaloni da dentro i cassetti. Getta le cose quasi a caso e ogni tanto mi lancia un'occhiata dal basso verso l'alto ed è un misto di rabbia ed imbarazzo quello che gli leggo negli occhi, un'emozione di cui può essere capace solo lui.
Alla fine riempie la valigia fino a farla esplodere ma la chiude abilmente con un po' di forza. Sospira mentre la tira giù dal letto. “Anis, non dovrebbe finire così,” mormora.
“No, non dovrebbe,” annuisco, aprendo la porta.
Lui esita ma ha sempre avuto un problema a oltrepassare i muri che costruivo quando per un motivo o per l'altro non ritenevo opportuno che mi si avvicinasse. Era così abituato ad avere libero accesso con me, che quando chiudevo la porta ci sbatteva contro senza neanche vederla. E adesso è la stessa cosa. Se ne sta lì e non sa che farci con questa nuova serratura di cui non possiede più la chiave. “Potremmo almeno parlare quando...non lo so, quando vuoi,” mormora.
“E' meglio che tu vada.”
Chiudo la porta un attimo prima che pianga, cedendo all'impulso che ha avuto fin'ora, e un attimo prima che io ci ripensi anche se non sono sicuro che questa volta lo farei davvero. Solo che non voglio rischiare.
Se c'è un limite ai tentativi che una persona può fare di recuperare qualcosa, io di certo l'ho superati da un pezzo e quello che è successo stanotte ne è la prova.
Recupero il rum dal mobile bar, l'unico souvenir che mi sono portato da Miami e non mi scomodo a versarlo in un bicchiere. Guardo il letto sfatto e penso a quello che avevo costruito, a quello che ho distrutto e pensavo di poter recuperare ma è evidente che anche il muro più solido, quando lo colpisci forte e lo mandi in mille pezzi, non puoi ricostruirlo con le stesse pietre.
Sento le gomme della sua auto scricchiolare sul viale d'ingresso e Skyline e Sherlee corrergli dietro finché il rombo del motore non si affievolisce fino a sparire e restano solo i loro latrati. Domattina dovrò spiegare a Karima perché il ragazzino non abita più qui. Lo sguardo che mi lascerà addosso mentre sparecchia il posto di Bill posso già immaginarlo, così bevo e mi rifilo la solita puttanata che domani starò meglio e che non mi importerà niente di dove starà facendo colazione il ragazzino.
Solo che è una puttanata, appunto. E io non ho abbastanza rum.

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The Way Things Go

di lisachan
Quello che dico io è: se muori, muori. C’è un motivo per cui ognuno può morire una volta sola, e non è una questione fisica, cioè, voglio dire, è anche una questione fisica, ma è che principalmente morire è una rottura di palle. Nel senso, c’è da prendersi cura del cadavere, c’è da affidarlo all’impresa di pompe funebri giusta, c’è da tenere d’occhio i preparativi del funerale, la veglia, la cena, e poi naturalmente c’è da avere a che fare col fatto che la gente è triste, eh, e non le viene mica voglia di sorridere, perché uno fa tanto di dire “per il mio funerale, voglio che ridiate e balliate nudi sui tavoli!”, e i suoi migliori amici in genere stanno lì a dire “ma sì, vedrai, rideremo, racconteremo barzellette e la danza delle odalische del ghetto sui tavoli non ce la farà mancare nessuno!”, ma poi, quando la disgrazia accade, non c’è tanta voglia di ridere, e se per caso ti azzardi a tirare fuori la faccenda delle odalische gli altri ti guardano come se fossi una specie di mostro assassino, perciò meglio lasciare perdere.
Insomma, quello che intendo è che non è che tu puoi morire e costringere tutta la tua famiglia e i tuoi amici a tutta questa serie di operazioni deprimenti, per poi venirtene fuori fresco come una rosa con un codino assurdo e i capelli morbidi e lucidi, vestito di bianco come Gesù Cristo dopo la resurrezione, e dire “be’, eccomi qui, in realtà non ero morto, sono tornato, amatemi come prima”. Voglio dire, è scorretto, non sono cose che si fanno.
Quando Bushido è morto, naturalmente sono successe un mucchio di cose. E parlo del mucchio di cose che sono successe subito, immediatamente dopo la sua morte, non di tutto il casino altrettanto incasinato che è venuto giù dopo con Fler infermiere, Fler e Chaku agenti speciali nella notte di Tempelhof e Saad traditore e assassino. Quello poi è stato l’apice. No, parlo delle cose immediatamente successive, tutto quello che abbiamo dovuto dire, e fare, e sopportare, la Principessa in pezzi, il Principino confuso, il Cavaliere del Re che quasi ci rimette lo stomaco se non peggio e il Senzatetto che passa più tempo intorno a noi che in casa sua. Voglio dire, sono stati sacrifici di una certa entità, roba che abbiamo tutti tollerato perché credevamo di avere un motivo per farlo, e quel motivo era che, in fondo, eravamo tutti uniti dalla perdita di quest’uomo insopportabile che però era il nostro capo e lo sarebbe rimasto comunque, anche dopo, indipendentemente da tutto.
Insomma, ci siamo fatti forza e siamo andati avanti, tutti insieme. Almeno fino a quando è stato possibile, poi ovviamente è venuta fuori quella roba di Saad e quindi “tutti insieme” ha un po’ cambiato la sua conformazione, nel senso che quello che stava apprestandosi a diventare il cardine della nuova Ersguterjunge naturalmente è venuto a mancare, per dirla così in termini blandi, quindi le maglie della nostra rete si sono un po’ sfaldate. Per dire, chi lo vede più Nyze, da un po’? Lui e Saad avevano un buon rapporto, deve esserci rimasto di merda quando ha scoperto che era stato lui ad ammazzare Bu. Oppure Kay, per dire. Lui bazzica ancora perché a parte il fatto che comunque siamo tutti affezionati l’uno all’altro – e vorrei dire, è anche ovvio, ti affezioni per forza alle persone con le quali ti sei scattato una foto in collant e mutande – lui con Bill e Tom si diverte parecchio, perché sono vicini come età, quindi sta ancora da queste parti, ma non è mica più come prima, con tutto questo fatto della fidanzata e della nuova casa in centro a Berlino e tutto il resto.
Insomma, ci siamo un po’ persi l’uno con l’altro, che non è stato proprio bello – anche perché eravamo tipo abituati a vivere in simbiosi tutti assieme, la Villa Gialla era un po’ la nostra tana… non so se avete presente, ci sono dei roditori glabri, da qualche parte nel mondo, che vivono tutti sotto terra e per non sentire freddo si spiaccicano l’un l’altro e vivono tutti assieme… okay, forse non erano roditori glabri, ma comunque mi è rimasta impressa questa foto di questo topo senza peli, rosa e cieco che… no, ma comunque non è questo il fulcro del discorso – insomma, non è stato bello ma ci abbiamo guadagnato in tranquillità. Voglio dire, quando le cose sono più tranquille lo capisci perché improvvisamente riesci ad organizzarti la vita senza che questo rappresenti un problema per il prossimo. Per dire, prima, subito dopo la morte di Bushido, c’era il problema-Principessa, e quindi, se a me saltava in testa di ordinare al ristorante un’impepata di cozze e mangiarmela – ora non so se si possa ordinare al ristorante un’impepata di cozze e farsela portare a casa, ma non è importante – insomma, non potevo farlo, perché alla Principessa l’impepata di cozze non piace ed io dovevo mettere in conto che se Bill mi si presentava a casa di umore piagnucoloso, dovevo nutrirlo, che poi è magro e mi deperisce, perciò la mia impepata di cozze non la potevo avere. Dovevamo tutti nutrirci con alimenti Bill-approvati, se no era un dramma.
La cosa è andata avanti per un bel po’, con alti e bassi di varia natura, almeno fino a quando Saad non è morto. Che poi vuol dire che Bill l’ha ucciso, ma questo è un segreto che non deve sapere nessuno, quindi state attenti con chi parlate, quando uscite di qui. Insomma, dopo quel momento sono successe svariate cose, non è che noi si sia tornati esattamente alla normalità – suppongo che una delle varie controindicazioni della morte, a parte il fatto che muori, sia che niente torna più come prima – però almeno abbiamo cominciato a risparmiarci le visite a sorpresa di Bill, che può sembrare una cosa banale, ma è invece una cosa importantissima, perché è importante sapere che puoi tornare a casa e svaccarti sul divano, alla sera, sapendo anche che nessuna Principessa parata a lutto si presenterà alla tua porta in cerca di coccole che non sei sicuro di essere in grado di darle, e che ti guarderà peraltro malissimo prendendo possesso del tuo divano e dormendoci anche, se non sarai in grado di soddisfarla pienamente. Almeno, non so se era così che Bill si comportava anche con gli altri, ma di sicuro era così che si comportava con me.
Insomma, questa situazione ha continuato ad essere più o meno pseudo pacifica per una buona quantità di tempo. Non so cosa facesse Bill, più che altro mi limitavo a pensare che fosse tornato una normale ragazzina della sua età e perciò, che ne so, avesse ricominciato a giocare con le bambole e via discorrendo. L’importante era che non mi importunasse e che, se volevamo vederci perché io potessi offrirgli da mangiare da qualche parte, fosse perché entrambi lo volevamo e non solo perché lui aveva voglia di rendermi il suo cuscino del pianto preferito per una notte.
Tutto ciò era evidentemente troppo bello per poter durare, e perciò Bushido – che non è uno che possa vantare di migliorare la qualità della vita della gente, in genere – ha pensato di mandare tutto a puttane risorgendo.
Insomma, io sono là che aspetto la mia pizza, no? Sono tornato a casa stanco dopo una giornata di registrazioni con Sentino – che non so se lo conoscete, ma è un fuori di testa più fuori di testa di me, eh. È uno che ti si presenta in studio cantando di aver visto trifogli rosa crescere lungo il battistrada del marciapiedi, perché prima di uscire s’è sparato una canna grossa quanto una bottiglietta d’acqua. Insomma, dopo una giornata passata con un tipo simile, che ogni tanto ti guarda con gli occhi vacui e le pupille dilatate, che tu ti chiedi se per caso una colonia di folletti non sia appena spuntata dal nulla sulla tua testa, tu hai voglia solo di tornartene a casa, abbatterti sul primo divano che incontri e muoverti solo per sollevare la cornetta del telefono, ordinare la pizza e poi andarla a recuperare sulla soglia della porta, punto.
Quindi è quello che faccio: mi getto sul divano, decido di ordinare una quattro formaggi perché voglio qualcosa di pesante che mi mandi in coma fino a domani mattina, e poi resto lì a rigirarmi i pollici, godendo del silenzio che mi rimbomba nella testa, fino a quando non suona il campanello.
Io lì non lo so che la mia vita sta per cambiare, perciò mi alzo tranquillo e sono pure felice perché penso “pizza!” e tutto ciò che voglio è soffocare nel formaggio e morire felice. Solo che quando apro la porta non mi trovo davanti il ragazzo delle pizze. No. Io mi trovo davanti Bushido.
E quindi, naturalmente, lo investo di testa e scappo.
Mentre scendo per le scale cercando di stare attento a non ruzzolare giù di testa, che sarebbe un po’ una conclusione eccessiva anche per una giornata tanto brutta come quella, l’unica cosa che riesco a pensare con chiarezza è che tutto ciò deve essere colpa di Chakuza. Cioè, per forza. Penso “magari Saad non c’entrava niente e Chaku e il Senzatetto hanno preso un abbaglio, inducendo in errore anche la Principessa” – penso così, “inducendo in errore”, perché mi viene in mente una volta che Bill s’è presentato a casa mia, Bushido era ancora vivo, ai tempi, e io gli faccio “Principessa, ma che cazzo ci fai qui?” e lui chiama Bushido e fa “Ani-iiis, sono a casa di Eko ma tu non ci sei!” con tono piagnucoloso e Bushido gli fa “passamelo” e io faccio a Bushido “pronto?” e lui mi fa “Bill credeva che ci saremmo visti da te”, e io giustamente rispondo “Bill ha sbagliato” e lui, tranquillissimo, mi ribatte “Bill con voi non sbaglia mai, tienilo a mente. Circostanze confuse l’hanno indotto in errore”, quindi è questo che mi viene in mente, circostanze confuse che poi sono Chakuza e il Senzatetto, che magari non sono circostanze ma confusi lo sono di certo, hanno indotto la Principessa a credere che fosse opportuno fare fuori Saad mentre così non era, e ora Bushido è tornato dal mondo dei morti per vendicare l’ingiusta scomparsa del cugino innocente. Solo che magari qualche circostanza confusa ha indotto in errore anche lui, e quindi lui, invece di prendersela con Chaku e il Senzatetto, che sono i diretti responsabili, se la prende con me.
Proprio per questo motivo, appena arrivo giù in strada e mi rovisto nelle tasche dei jeans trovando il telefonino, la prima cosa che faccio è chiamare lui.
- Pro- - mi fa, ma io non gli lascio il tempo di concludere.
- Chakuza, Cristo santo, ho un fantasma in casa! – dico tutto d’un fiato. E, voglio dire, nel momento in cui lo dico io ci credo, perché pensare che Bushido sia risorto dalle sue ceneri come la tunisina fenice è molto più sensato di una qualsiasi alternativa che la mia mente possa propormi, tipo che ha vissuto sotto un sasso dietro casa mia per tutti questi mesi, salvo poi rispuntare lindo e pinto come non fosse successo niente perché aveva finito il sale nella sua casa di pietra, per dire.
- Tu hai cosa dove, Eko? – fa Chaku con voce stridula, come non capisse minimamente cosa sto dicendo. Eppure, sto parlando in tedesco. Non può mica aspettarsi che tiri fuori dal cappello qualche dialetto alpino che conosce solo lui, la sua famiglia e qualche capra.
- Cristo santo! – ripeto io per buona misura, - Il cazzo di fantasma! È tornato perché abbiamo fatto qualcosa di sbagliato! Cristo santo, Cristo santo! – e, siccome lui sembra ancora non capire, mi spiego meglio: - Chakuza, quando hai fatto fuori Saad – dico sbrigativamente, dando a lui la colpa perché non mi va di ripetere il complesso processo mentale dell’indurre in errore la Principessa, - tu eri sicuro che fosse lui l’assassino, vero? Perché se non era lui e quell’altro è tornato per vendicare il cugino morto, Cristo, giuro che ti appendo per le palle in Alexanderplatz, Chakuza!
- Eko… - sospira lui, e lo fa con quel tono come a dire “ah! La santa pazienza che ho!”, mentre io vorrei dirgli “vola basso, austriaco, che tanto per cominciare sei anche più spostato di me, tu, e comunque sei un nano di merda”, - È una serata di merda. – sì, ma anche a me cosa me ne frega, - Seriamente. – ma puoi pure giurarmelo su tua madre! – Ma proprio di quelle che vorresti non fossero mai iniziate.
- Dillo a me! – esplodo gesticolando, - Apro la porta mentre aspetto il ragazzo delle pizze e mi trovo davanti il cazzo di fantasma che-
- Una serata di merda, dicevo, - riprende lui interrompendomi e facendo sfoggio di grande maleducazione, come se chiamarsi come l’amichetto preferito di Heidi lo esonerasse dal lasciar finire gli altri prima di cominciare a blaterare idiozie che non interessano a nessuno, - perciò… - lo sento che si interrompe un attimo e poi cambia argomento all’improvviso, che è una cosa che capisco bene perché pure io lo faccio, sono gli unici momenti in cui il cervello mio e quello di Chakuza funzionano in sintonia. - …Eko, ‘cazzo chiedi la pizza a mezzanotte passata, scusa?! – mi fa, solo che questo non è il momento di pensare alla pizza, naturalmente, e glielo dico pure.
- Ma non è la pizza il punto fondamentale, Chakuza! – gli faccio, - Ti hai dei problemi seri! Il punto è che io ho aperto la porta e mi sono trovato davanti Bushido. Bushido, capisci?
Lui si prende una pausa per realizzare.
- Eko…? – mi chiama. Io roteo gli occhi.
- Un cazzo di fantasma, capito? Un fantasma. Cristo. – e la pausa me la prendo io, per cercare di respirare di nuovo. – Io non ci rientro in casa, quindi tu ora mi passi a prendere e mi porti da te. – decido arbitrariamente, - E domani torno con un estintore bello pesante o qualcosa di più adatto. Come si uccidono i fantasmi, Chakuza?
- …dubito che la schiuma chimica funzioni. – sospira, - Eko, senti. Ora vengo da te e poi saliamo insieme. – mi fa con aria rassicurante, come se io potessi sentirmi rassicurato dalla sua presenza! – Così ti faccio vedere che non c’è nessun fantasma, in casa tua. Soprattutto non quello di Bushido.
- Fa’ un po’ quel cazzo che credi. – rispondo annuendo compitamente, perché Bushido buon’anima me lo diceva sempre, puoi dire tutte le parolacce che vuoi, ma la tua espressione dev’essere sempre quella di uno che sta dicendo le cose più educate del mondo, così la gente ti prende sul serio. E poi mi guardava a lungo, con aria comprensiva, e mi diceva “e Dio sa se hai bisogno di essere preso sul serio tu, Ekram”, me lo diceva proprio col mio nome, Dio l’abbia in gloria. – Comunque sono sicuro quasi al cento per cento che il fantasma sul pianerottolo sia colpa tua, in qualche modo contorto. Sei la fonte di tutti i mali. Magari – realizzo all’improvviso, e ancora lì non so quanto ho ragione, - dall’alto dei cieli ha saputo che vuoi chiudergli l’Ersguterjunge ed ora ci perseguiterà a vita.
- Eko, ti prego! – si lagna lui, e io scrollo le spalle.
- Comunque il succo è: vieni perché sennò scappo da Kay. E tu non vuoi che io scappi da Kay, perché Kay vive in un porcile peggio di casa tua, e se sarò costretto a stare da lui poi vorrò le tue palle su un piatto d’argento.
Lui mi chiede se intendo mangiarmele, e tutto ciò che rispondo io è un vaffanculo irritato, decidendo poi di restare lì in attesa perché di rimettere piede nel mio appartamento da solo non se ne parla nemmeno sotto tortura, nossignore: quando salirò nuovamente per quelle scale, sarà solo con un’adeguata vittima sacrificale di nome Chakuza al mio fianco.
La serata, comunque, procede in maniera abbastanza assurda, e se lo dico io potete fidarvi. Tra Chakuza che arriva e, come prima cosa, quando vede Bushido, decide di chiamare Fler, e Bushido che poi si mette a parlarmi di donne che fanno cose strane con le noci di cocco, anche quando poi rimaniamo soli perché lui ha deciso di dormire a casa mia per chissà che assurdo motivo, rischio di perderci la testa numerose volte, e sto evitando di parlare del momento tremendo in cui Bushido e il Senzatetto si sono messi a flirtare sul mio tavolino da caffè, perché sarebbe troppo da ripercorrere adesso per la mia povera psiche stanca, ecco.
Comunque, da una partenza del genere non si può certo migliorare, e da allora, appunto, le cose non hanno fatto che degenerare verso il fondo del fondo. Ripeto: c’è un motivo per cui si muore una volta sola e dalla morte non si torna. La gente ci mette tanto a ricostruirsi quando perde una parte così importante di sé, e tu non puoi tornare e mandare all’aria tutti gli sforzi che le persone che ti amavano hanno fatto per andare avanti. Bushido mi sa che non l’ha messa in conto, questa cosa, tornando. Non so esattamente cosa si aspettasse, ma di sicuro non si aspettava di trovare tutto sbagliato come poi è stato – lui non è uno cui piaccia mettersi in mezzo alle cose quando sa di non poterle rivoltare a proprio favore. Probabilmente si aspettava davvero che la Principessa tornasse ad essere sua e anche tutti noi riprendessimo i posti che avevamo prima che morisse. Non lo so. Un po’ mi dispiace che niente di quello che pensava si sia avverato, d’altro canto però mi dico che è stato lui a decidere di morire ed altrettanto ha fatto quando ha deciso di risorgere. Bushido non è mai stato uno da rifiutare le proprie responsabilità, e gli toccherà farlo anche adesso, che voglia o meno.
Il che ci riporta – non senza difficoltà, mi rendo conto, ma cercate lo stesso di seguirmi – a parecchie settimane dopo. Le signorine che fanno cose con le noci di cocco non sono che un vecchio ricordo, nelle menti di noi tutti, perché negli ultimi tempi è successo un putiferio: il mondo ha scoperto della resurrezione di Bushido e, cosa ancora peggiore, la Principessa ha scoperto della resurrezione di Bushido, cosa che ha portato con sé tutta una serie di drammi di varia entità e portata che hanno raggiunto il loro culmine nel momento in cui alla Universal hanno deciso che a loro non importa quanto male possa essere conciata una situazione, ciò che importa loro è la possibilità di ricavarne dell’utile. Ora, seguitemi: un rapper muore durante uno scontro a fuoco lasciando a casa una vedova affranta e peraltro appena maggiorenne; meno di un anno dopo, quello stesso rapper risorge dicendo di essere stato nascosto in America fino a quel momento e di essere appena tornato in Germania camminando probabilmente sulle acque, e quella stessa vedova affranta è apparentemente lì per lui, pronta a farsi riaccogliere nella regale dimora con gli occhi pieni di devoto amore.
Ciò che la Universal non sa è che, mentre loro facevano i loro calcoli, in mezzo è successo di tutto – cioè Bill e Bushido hanno consumato il loro amore, si sono apparentemente rimessi insieme e poi, dal nulla, è venuto fuori che Bill in realtà stava con Chakuza e aveva dimenticato di rendere noto il particolare a tutti noi – che va be’, non è importante – ed a Bushido stesso – che invece di importanza ne ha eccome.
Tanto per cominciare, già tutti dovremmo avere dei problemi col fatto che Chakuza stia con la Principessa. Questo perché la Principessa, checché ne dica il suo titolo onorifico – e il suo aspetto e tutto il resto – è un maschio. E Chakuza è Chakuza. E sì, lo so che dopo Bushido praticamente nulla dovrebbe più stupirmi e nulla dovrebbe essere automaticamente considerato eterosessuale fino a prova contraria, ma!, intendo, è di Chakuza che stiamo parlando, insomma, si dovrebbe avere almeno un po’ di raffinatezza, credo, per essere gay, quindi Chakuza dovrebbe essere tipo l’antitesi dell’omosessualità, lui, i suoi prosciutti stagionati del 1980 e le sue muffe nel frigorifero. E invece toh, viene fuori che è gay. Che è gay e che sta con la Principessa di qualcun altro, a rendere le cose ancora peggiori. Non so se vi rendete conto dell’enormità del tutto.
La cosa veramente grave è che Bushido si rende subito conto dell’enormità del tutto, e così – dopo aver buttato fuori di casa la sua Principessa privandola della sua corona e dell’anello nuziale che sanciva la sua sovranità – prende la spada e monta in groppa al suo cavallo arabo bianco, diretto a casa del suo personalissimo Lancillotto e fermamente intenzionato a lavare l’onta del tradimento col sangue. Che poi è un’altra cosa che mi turba molto, perché io ho studiato poco, nella mia vita, ma una cosa la so, e cioè che Lancillotto era un gran figo, altrimenti Ginevra col cazzo che mollava Artù per un paio di braccia forti a caso. Quindi il mio sconvolgimento è ancora maggiore, se penso che, se dovessi indicare tutta una serie di Lancillotti fra le persone che conosco, il Chaky, con tutto il rispetto, sarebbe l’ultimo della lista, sotto perfino al Senzatetto, quindi figurarsi.
A Bushido, però, non interessano questo tipo di discorsi. Lui vuole il sangue di Chakuza che ha messo le mani addosso a roba che non gli apparteneva, e quel sangue ottiene, spargendosene un po’ sulle mani e un po’ sulle pareti di casa del Chaky. Chakuza però non muore, come tutte le erbe cattive è parecchio resistente, da quel punto di vista; e forse è meglio, perché se fosse morto tanto per cominciare non so come avrebbe potuto reagire la Principessa, e tanto per continuare chi mi assicura che poi non sarebbe risorto anche lui, magari fra altri nove mesi, tornando dalla Lapponia o dall’Australia o che so io e generando ancora più caos di quanto già non ne abbia generato il sovrano sperimentando la propria immortalità ai danni di noi tutti?
Insomma, Chakuza non muore, Chakuza si rimette con Bill. Come, non lo so e non voglio nemmeno saperlo. Immagino sia stata una questione regolare, capito come?, Bill torna a casa, lo trova con l’occhio nero, bla bla, fetta di carne, bacio appassionato e via così, solo che Bushido non è mica uno che prende e molla l’osso per una minuzia simile – perché per lui i no delle persone tendenzialmente sono minuzie, soprattutto quando sa di avere le armi adatte per trasformarli in sì – no, lui è più il tipo che all’osso ci si attacca con tutta la sua bellissima chiostra di denti nuovi di zecca fino a quando non lo stacca dal resto del corpo, e quindi resta lì, attaccato a Bill come una patella sul suo scoglio; e uno magari si dice “eh, lui è ostinato, ma il karma saprà punirlo”. E invece no! Il karma non lo punisce mai, quest’uomo, gli è asservito come noi tutti, tant’è che cosa fa la Universal? Gli organizza un video in cui lui può molestare sessualmente la Principessa mascherando il tutto con le esigenze di copione! Se non è fortuna questa – per lui, sfortuna per tutto il resto del mondo – non so cosa possa esserlo.
Se c’è una cosa che Bushido sa fare, comunque, è usare il suo corpo. Anche perché lui non è uno che canta, è uno che si esibisce, e c’è una bella differenza, fra le due cose. Lui quel corpo è abituato a venderlo giornalmente – in senso puramente platonico, almeno credo – a migliaia di ragazzine, ragazzini, uomini adulti e puzzolenti e in sovrappeso e casalinghe in ansia da ribellione, nonché ad un altro svariato centinaio di tipologie umane, perciò nessuno di noi aveva veramente dei dubbi su chi sarebbe uscito vincitore dallo scontro fra titani. Che poi titani non sono, perché Chakuza al massimo può essere il cugino sfigato e sottomisura dei titani, per dire.
Insomma, fatto sta che: Bushido continua a girare intorno alla sua Principessa – e questo io lo so non perché vado in giro spiandoli, per carità, spiarli è l’ultimo dei miei desideri, lo era in passato, lo è adesso e lo sarà per sempre, come le cose che non cambiano mai tipo le muffe del frigo di Chaky che ormai le conosciamo per nome e i gerani degli studi dell’Ersguterjunge che non possono cambiare posizione sennò Bushido si indispone e non canta più a tempo nemmeno se lo minacci di infilargli il metronomo su per il culo – e la Principessa cede, perché è la Principessa e perché lui è Bushido.
E in fondo, io penso, il fulcro del tutto è un po’ questo. Io non sono bravo a trovare i nodi fondamentali delle questioni, perché come avrete potuto notare in realtà mi perdo spesso. Nella mia testa ma anche nel mondo che mi circonda. Ma questo punto è così fondamentale, così primario, così assoluto nella mia vita degli ultimi tre anni, che non posso proprio mancarlo. Come il mio nome o che ne so. È lì, c’è da tanto, c’è da troppo, non penso andrà più via. Il punto è che Bushido e Bill potranno anche smettere di amarsi come prima, amare altre persone, fare altro, trasferirsi in America o in Russia o in Papuasia, ma resteranno sempre quello che sono stati fino ad adesso, Bushido il Re e Bill la Principessa. Bill non smette di essere la Principessa di Bushido uscendo da quella porta. Ed altri uomini – io, il Chaky, chiunque altro – possono rivolgersi a lui utilizzando quello stesso nome, ma non sarà mai la stessa cosa, perché quel nome ha un senso preciso solo se usato da Bushido. È così che funziona, è così che gira, questa cosa non finirà mai. Io lo so che è così, e so che è vero che anche se la maggior parte dei punti fissi rappresentano delle garanzie – perché sono in quel modo e non cambiano mai e quindi, anche se tutto si distrugge, sempre da loro puoi ripartire – so anche che a volte sono degli ostacoli insormontabili. Perché a volte vuoi distruggere tutto. E i punti fissi te lo impediscono.
È questo che penso adesso, in questo preciso istante. Davanti a me – e davanti a un sacco di altra gente che queste cose non dovrebbe vederle, anche – ci sono Bill, Bushido e Chakuza. Bill piange, e continua a farlo stretto a suo fratello, per molto tempo. Bushido e Chakuza si guardano negli occhi e parlano di Bill come se non ci fosse. Esprimono una proprietà su qualcosa che non dovrebbe essere di proprietà di nessuno e sulla quale sentono entrambi di avere dei diritti. Guadagnati col tempo, con la fatica, con l’amore che hanno investito in questo ragazzino che più che altro, a me, sembra solo troppo piccolo e confuso per decidere qualcosa – qualsiasi cosa. E io questo penso. Le cose, purtroppo, vanno in un modo, e quando vanno in quel modo poi tornare indietro è impossibile. È per questo che non si torna dalla morte. Ma è anche per questo che la Principessa resterà Principessa funerali o meno.
È così che gira, e non è rassicurante pensarlo. Ma io queste cose non dovrei pensarle. E nemmeno dovrei dirvele. Quindi voi ricordatevi di dimenticarvele, prima di andare.

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By his side

di tabata
Se vi ricordate, io in questa storia non volevo entrarci. Anzi, a voler essere precisi, non volevo entrarci io e, soprattutto, non volevo che ci entrasse mio fratello che è forte, testardo e dotato di una grande forza di volontà – come dicono le biografie non autorizzate sui forum di mezzo mondo – ma che ha anche dei limiti. La morte dell'uomo che amava, per dire, era uno.
Il problema di Bill è proprio la sua sensibilità che, per quanto lo faccia sembrare carino, è ben lontana dall'essere un bene per lui. Se fosse stato anche solo un po' più stronzo di com'è, si sarebbe risparmiato un sacco di rogne. Per esempio, forse avrebbe avuto il coraggio di mandare Bushido a fanculo quand'è tornato da Miami; non sarebbe stata la cosa più giusta da fare, forse – quell'uomo aveva perso tutto per lui, si meritava un po' di pietà – ma gli avrebbe impedito di fare altri casini o almeno ne avrebbe fatti di meno. Non lo so. Se fosse stato un po' meno sensibile, lasciare Chakuza non lo avrebbe fatto precipitare nello sconforto in cui poi invece si è trovato. Prendete me, per esempio. Io quando lascio una ragazza per un'altra non ne faccio un caso di stato perché, quasi sicuramente, non è che ci tenessi molto ad un noi qualsiasi che poteva esserci prima e ora non c'è più. Siamo stati insieme, tanti saluti e grazie. Ma io non sono Bill. Io non scopo solo per amore. Io scopo per scopare, che è sostanzialmente diverso e ci riporta alla questione in oggetto.
Bill si è ritrovato in una di quelle situazioni in cui la gente come Bill non si dovrebbe mai trovare, per nessuna ragione al mondo. Dovrebbe essere una sorta di legge universale.
Seguitemi. Bill un giorno ha visto Bushido e se n'è innamorato. E non una cottarella da spiaggia – che poi neanche c'è il mare in Germania – l'amore della sua vita, proprio: annuncio pubblico, sentore di convivenza e direi profumo di fiori d'arancio e figli se questo fosse possibile, ma mi fermerò qui per decenza.
Insomma, Bushido era quello giusto. Io non ero tanto d'accordo, come del resto sapete, ma quello che penso io conta poco quando il cuoricino di mio fratello si mette in moto, quindi...
Quindi si amano – per altro molto rumorosamente – per ben tre anni. Poi arriva un libanese del cazzo e glielo ammazza per una questione d'onore o qualche altra cazzata del ghetto che non capisco e non capirò mai. Mio fratello ne esce devastato. E non esagero quando dico che abbiamo avuto tutti quanti paura che si lasciasse andare, decidendo che non valeva più la pena di vivere in un mondo privo del suo tunisino.
Lo abbiamo tenuto d'occhio peggio di un pazzo psicotico in manicomio, roba folle. E questo vi dice molto sulla capacità di osservazione mia, della mia famiglia e degli amici miei e di Bill, se pensate che nessuno di noi si è accorto che Bill usciva con Chakuza, ma lasciamo perdere.
Poi, appunto, Bill si rende conto che lui e l'austriaco non sono più soltanto amici e s'innamora... di nuovo. Ed essendo che mio fratello è eccessivo in ogni cosa e non fa mai un accidente che sia uno con misura, s'innamora peso di Peter Pangerl, il rapper col nome da supereroe, e decide che è il nuovo amore della sua vita, in assenza più che giustificata del primo.
Dal momento che mio fratello crede che io non accetti a prescindere nessuna delle sue relazioni omosessuali, io, come al solito, non c'ero mentre lui e Chakuza consumavano questa relazione – anche ampiamente, immagino, visto che so quanto può essere impegnativo mio fratello e mi sono arrivate certe voci di corridoio sulla malattia piuttosto grave che affligge Chakuza – ma posso intuire con quanta forza e quanto impegno Bill si sia gettato tra le braccia di quest'uomo alto la metà di lui perché, anche se mio fratello non mi dice le cose, io comunque lo conosco e lo so com'è quando è innamorato. Principalmente una piaga, d'accordo, ma è anche incondizionatamente dedito alla persona che ha scelto.
Nel suo caso l'amore è una cosa totalizzante. Non vede, non sente, non respira altro. E' una malattia invalidante. Quindi la posso immaginare la serietà con la quale si è messo insieme a Chakuza, anche se quando lo ha fatto ha pensato bene di tenerselo per sé e di scappare a casa del suo uomo rifilandomi una scusa dietro l'altra.
Ad ogni modo, le cose sarebbero anche potute andare bene così. In fondo Bill ha vent'anni, non poteva certo passare il resto della sua vita vestito a lutto sulla tomba di un uomo che, per altro, aveva undici anni più di lui già in partenza e prima o poi lo avrebbe comunque lasciato da solo a piangere la sua morte. Quindi andava bene. Io prima o poi avrei scoperto che mio fratello si scopava un altro rapper, avrei probabilmente avuto un'altra crisi isterica da paura ma l'avrei superata. In qualche modo ci saremmo rifatti tutti quanti una vita e la grande ruota cosmica della nostra esistenza avrebbe ripreso a girare per il verso giusto, quale che fosse. E invece no, col cazzo.
Il tunisino è tornato dal regno dei morti e la nostra bella ruota cosmica l'ha presa direttamente a calci, l'ha staccata dall'albero motore e ci ha mandato tutti quanti a culo all'aria. Non ha avuto nemmeno la decenza di tornare in stato di putrefazione avanzata, dopo un anno. No, è tornato abbronzato e col capello lungo e lucido, che dalle parti di mio fratello c'è stata un'impennata ormonale che nemmeno ai tempi d'oro della sua pubertà. Ora, sorvolando su quello che Bill non ha detto a Bushido appena lo ha rivisto e quello che ha fatto – e no, non prenderò posizione. Non voglio prenderla, non lo farò – c'è da dire che mio fratello si è comunque ritrovato scomodamente a stare in mezzo a due uomini che amava con la stessa intensità, tipica dei sensibili come lui. Ora, una persona come me, in una situazione del genere, può cavarsela bene o di striscio, dipende dalla faccia tosta che ha, ma trovarsi nei casini? No, mai. Nel senso che se io mi ritrovassi con due donne che mi amano e che sanno l'una dell'altra e magari si menano pure tra di loro per avermi... sarei estremamente contento. No, non è questo il punto. Il punto è che se mi trovassi in una situazione del genere sarebbe perché ho fatto il coglione e mi ci sono ficcato da solo, tipo che stavo con entrambe contemporaneamente o cose simili. Insomma come ci sono entrato, ne uscirei pure. Non avrei probabilmente nessun problema morale a sceglierne una o a piantarle tutte e due. Cose così. Ma Bill non ha fatto niente del genere. D'accordo, forse non è stato del tutto sincero e ha sbagliato le tempistiche in due o tre casi, ma non si è tirato addosso da solo questo casino. Non l'ha ammazzato lui Bushido e di certo non l'ha fatto resuscitare. Se avesse saputo che quell'uomo era vivo da qualche parte nel mondo, sarebbe rimasto in virginale attesa che gli prendesse la fregola e tornasse da lui o, molto più probabilmente, avrebbe rotto i coglioni a tutti quanti perché gli dicessero dov'era e potesse così partire, riducendo la virginale attesa di cui sopra al minor tempo possibile. Ma era morto, Cristo Santo. Se si è guardato intorno, non lo si può biasimare. Si potrebbe forse fargli qualche appunto sul fatto che ha messo il cuore in mano al nano malefico, fra tutti gli uomini che popolano il mondo – per dire, c'era Fler, due passi più avanti. Non sarebbe stato meglio darlo a lui il suo cuoricino da Principessa? Io per dire, avrei benedetto quest'unione nata direttamente in paradiso. Tanto per cominciare, Fler è l'erede naturale di Bushido. Un buon motivo perché fosse lui a prendersi cura della cosa più preziosa che quell'uomo aveva. Secondo motivo, da quando Bushido è morto, mio fratello si è attaccato a Fler come una cozza. Una cosa veramente indecente. C'erano pomeriggi in cui passavo a casa sua e trovavo quest'uomo – Fler – spalmato sul divano e mio fratello spalmato addosso a lui come fosse normale farsi trovare dal proprio gemello in atteggiamenti intimi al limite dell'erotismo con quello che si suppone sia solo un tuo amico. Che poi io lo so che, in questi casi, il sesso è l'ultimo dei pensieri di mio fratello e che è solo molto fisico con le persone a cui vuole bene – io ne sono l'esempio principale, per dire, ma ce ne sono tanti altri: Andi, Georg, Gustav, non ce ne uno che non abbia sofferto e ancora non soffra del monopolio che Bill è capace di prendersi sulla tua vita quando è in vena di coccole. Quindi, insomma, sono perfettamente consapevole che, se entravo in casa di Bill e lo trovavo drappeggiato addosso a Fler con il viso nascosto nel suo collo, non aveva affatto intenzione di farci alcunché, ma il primo impatto, quando ti ritrovi davanti una scena così, è sempre un po' forte. Fler però – e questo gli va riconosciuto, d'altronde io l'ho sempre detto che è un grande - non è mai scattato in piedi, gettando Bill dall'altra parte della stanza, millantando la propria innocenza e le proprie buone intenzioni. Niente. Neanche un fremito. Mi salutava con un cenno della testa e le sue mani rimanevano lì dov'erano, ben piantate sulla schiena di mio fratello, a qualche non riprovevole centimetro dal suo culo. Che poi vuol dire, in soldoni, che il culo non glielo toccava e quindi io non avevo un vero motivo per fare il fratello maggiore e protettivo che si preoccupa per l'onore del fratellino. Che poi, anche lì, se il fratellino decide di dar via... l'onore, non è che io abbia davvero i mezzi per fermarlo. Mi pare che Bill ve ne abbia dato ampiamente prova.
Comunque mi sono perso. Dicevo, l'unico appunto che posso fare a Bill è di aver scelto Chakuza, ma d'altronde se tutto il buon gusto che Madre Natura gli ha donato si limita all'inutile capacità di saper scegliere
tra un paio di stivali Jimmy Choo da 795 euro e uno da 950 euro apparentemente identici fra loro, non è colpa né mia né sua, insomma. A torto o a ragione, mio fratello in questo casino c'è finito e non gli riesce per niente di tirarsene fuori. Prendete, ad esempio, quando ha deciso di andare a vivere con Bushido. Io lo so perché quell'uomo gli ha chiesto una cosa simile – perché è furbo e conosce Bill, principalmente – e so perché Bill ha risposto di sì. Non ha seriamente pensato a ciò che sarebbe successo una volta aperta la boccuccia di rosa e dato a Chakuza il ben servito. Lui non ha pensato proprio. In generale nella vita.
A me questa cosa succede con lui, del tipo che se per qualche motivo non lo vedo per tantissimo tempo – se va in vacanza quindici giorni con Fler, per dire, che è una cosa illogica e io la disapprovo tantissimo – e quando torna mi chiede una cosa assurda, tipo di andare a fare shopping o magari, peggio, che lo accompagni a farsi i capelli, la ceretta, i massaggi tailandesi o qualsiasi altra follia abbia letto su qualche giornale da donna che non dovrebbe leggere, qualsiasi cosa sia, io gli dico di sì. E non penso a cosa significhi in pratica ciò a cui ho acconsentito. Per questo poi mi ritrovo in centri estetici ai limiti della follia, con massaggiatori rumeni alti due metri che mi snodano la spina dorsale vertebra per vertebra, sordi alle mie richieste di pietà mentre mio fratello, nell'altra stanza, viene ricoperto di fango e si diverte pure.
Alle conseguenze non ci penso mai perché, quando Bill mi chiede queste cose, io ho passato quindici giorni senza vederlo e anche arruolarci nella legione straniera mi andrebbe bene, pur di passare un po' di tempo insieme a lui. E per Bill è stato lo stesso. Non vedeva il tunisino da un anno, credeva che non lo avrebbe più rivisto, e quello non solo torna, non solo lo ama ancora come se si fossero visti fino al giorno prima, ma gli chiede pure di andare a vivere insieme che era, tipo, il coronamento del sogno d'amore di mio fratello che è sostanzialmente una Barbie nelle mani di una bambina di cinque anni: il re e la principessa che mettono su un castello circondato da rose rampicanti e animali della foresta, nel quale copulare felici e dare ordini agli uomini del re, ecco, una roba simile. E' ovvio e matematico che Bill gli abbia detto di sì. E non sto dicendo che Bill lo abbia fatto solo per questo, voglio dire, lo so che ama profondamente Bushido, ma se non avesse il cervello che ha – cioè un cervello selettivo in grado di innamorarsi perdutamente di un'idea ignorandone totalmente le conseguenze – non avrebbe detto sì e immediatamente dopo “Addio Chaku”, senza pensare che sarebbe stata dura convivere con Bushido dopo che, molto prevedibilmente, Chakuza lo avrebbe anche un po' mandato a cagare. Capite cosa intendo?
Ed è andata esattamente così. Io non c'ero ma lo so perché in un mondo assurdo in cui io sono gay, amo Bushido come non ho amato mai nessuno in vita mia e lui torna dalla morte dopo un anno, farei la stessa identica cosa. Ma ora vorrei che tutti noi ci dimenticassimo di quest'immagine raccapricciante che ho appena evocato e tornassimo immediatamente a parlare di mio fratello.
Nelle ultime settimane, dunque, Bill è tornato al castello e ha dormito nel letto del re. Devo ammettere che ero ancora discretamente infastidito dal fatto che non mi avesse parlato di Chakuza per non punirlo leggermente e dedicargli solo la metà dell'attenzione di cui aveva bisogno. Per questo quello che è successo, vengo a saperlo solo adesso che mi piomba in casa senza avvisarmi e mi trova, per altro, anche nel bel mezzo del primo vero tentativo di organizzare con Cassandra un'uscita seria, che non comprenda soltanto una pizza da me e poi letto fino al mattino dopo. Ho appena finito di parlare al telefono con il proprietario del ristorante che ho affittato intero per sabato prossimo quando la porta di casa mia si apre e spuntano le lunghe trecce di mio fratello.
“Il fatto che tu abbia le chiavi di questo posto,” dico posando il telefono e osservandolo mentre entra come fosse casa sua e chiude la porta, “non ti autorizza ad entrarci senza permesso. Non abiti più qui, ti ricordi?”
“Scusa,” mormora e mi alza addosso gli occhiali scuri di Prada. Le scuse insieme agli occhiali di marca significano grossi guai in vista. E se ancora avessi dei dubbi a riguardo, c'è anche l'enorme borsa nera di Gucci che è vecchia e dell'anno scorso, ma capiente abbastanza per infilarci dentro un cambio per passare la notte fuori. Visto che ormai è fuori moda, Bill la usa soltanto in caso di fuga di emergenza.
“Che cos'è successo?” Chiedo. “Non eri in luna di miele con sua maestà?”
E sono estremamente fuori luogo, me ne rendo conto subito quando non mi manda a quel paese e – cosa ancora più tremenda – non piange nemmeno. Rimane in silenzio e si rannicchia sul divano. Ok, è stata un'uscita infelice alla luce degli ultimi fatti, ma capitemi: io in quel momento penso che i due abbiano ripreso a litigare come litigavano prima, cioè per delle cazzate, non che Bill si sia confuso su chi se lo stesse facendo. Io che potevo saperne? Generalmente succedeva che Bill desse di matto per un'idiozia qualunque e la pazienza di Bushido raggiungesse il limite. I due si urlavano addosso cose improponibili e quindi Bill se ne andava sbattendo la porta e giurando che non sarebbe mai più tornato da quell'uomo abbietto che non se lo meritava. A quel punto si trascinava da me e mi ripeteva tutto quello che era successo, parlandomi di Bushido in modi tremendi. Io finivo per dargli ragione e allora lui si metteva a difenderlo, concludendo che in realtà, in effetti, era inutile litigare per delle sciocchezze. A quel punto prendeva armi e bagagli e se ne tornava a casa del re dove, con ogni probabilità, ogni cosa veniva presto dimenticata in modo sui quali tutti noi sorvoleremo. Ed è questo che mi aspetto adesso, che si sieda, mi chieda di bere qualcosa di altamente calorico del quale poi si lamenterà e che inizi ad insultare il tunisino. Invece niente.
Mi trovo un po' spiazzato. Di solito mio fratello parla anche più del legalmente consentito, non sono abituato a vederlo zitto. Anche quando l'hanno operato alle corde vocali si è fatto dare una lavagnetta per poterci affliggere tutti con la sua logorrea. Così mi siedo accanto a lui, indeciso sul da farsi. “Non parli, quindi dev'essere una cosa seria,” provo ad andare per logica.
“Tomi,” mormora, “Ho fatto una cazzata enorme.”
L'ultima volta che mi ha detto questa frase, Bushido era appena tornato da Miami, anche se in quel momento io pensavo che la cazzata enorme fosse che Bill aveva scopato con lui senza farsi dare nessuna spiegazione. Non che avesse scopato con lui senza farsi dare nessuna spiegazione mentre stava con Chakuza. Quindi un po' mi preoccupo se me la ripete su questo divano, mentre fa di tutto per non incontrare il mio sguardo.
“Scommetto che non è niente di irreparabile,” dico con un mezzo sorriso incoraggiante. In realtà sto mentendo, perché quello che penso è che quasi tutto quello che mio fratello fa è irreparabile, in tutti i modi in cui questo aggettivo può essere interpretato. Prendete, ad esempio, quello che ha fatto a Bushido e Chakuza. Non li ha fatti soltanto innamorare di lui, quei due per lui ci hanno perso la testa. Un danno irreparabile, appunto. Quindi se adesso lui è qui, non parla e dovrò evidentemente cavargli di bocca quello che è successo parola per parola, allora sì è un danno irreparabile.
“Questa volta davvero,” insiste.
Così sospiro e gli sistemo una ciocca di capelli dietro l'orecchio. “D'accordo. Allora spiegami cos'è successo. Hai litigato con Bushido?”
Vedo che serra le labbra e poi deglutisce prima di fissare lo sguardo sul mio bel pavimento di mattonelle di marmo bianco. “E' finita,” dice.
Ora, se avessi tenuto sul serio il conto di tutte le volte che ha detto che con Bushido era finita, a questo punto avremmo sicuramente superato i numeri a cinque cifre, quindi prendo l'informazione con le pinze. “E perché sarebbe finita?”
“E' finita, Tomi,” scatta lui. “Non sarebbe.”
“D'accordo, ma perché?”
“Ho detto il suo nome.”
Per qualche vergognoso istante l'unica cosa alla quale penso è che deve essermi senz'altro sfuggita la postilla al primo comandamento: Non nominerai il nome di Dio invano. E nemmeno quello di Bushido. Fortunatamente mi fermo prima di aprire bocca e dirlo. “Che significa?”
“Quello di Peter,” specifica. “Io e Anis stavamo... sì insomma, e l'ho detto,” nasconde il viso nelle mani e mugugna anche qualcos'altro che non so decifrare perché sono troppo occupato a sedare il moto di empatia che provo nei confronti di quest'uomo che mentre era impegnato a dare il meglio di sé, ha sentito mio fratello dare il merito di tutti i suoi sforzi a qualcun altro. Non oso nemmeno immaginare la sensazione che si provi in casi simili. Questa è un'onta che io personalmente laverei col sangue.
“Tomi...” si lamenta mio fratello e poi si contorce tutto per finire a spaccarmi la milza nel tentativo di farsi avvolgere in un abbraccio. Lo accontento e lui mi infila il muso nel collo.
Non so nemmeno che cosa dirgli. “Ma come diavolo hai fatto?”
“Non l'ho fatto apposta!” Mi sbraita lui nell'orecchio. “Io non me ne sono neanche accorto!”
E li il quadro che si è dipinto da solo nella mia testa va peggiorando. Immagino Bushido che lo avverte di quello che ha detto e mio fratello che cade dal pero come se invece di gemere il nome del suo ex-ragazzo, avesse indicato fuori dalla finestra durante una giornata di sole e avesse detto: Guarda Bu, che bel cielo azzurro! Questo non è un errore irreparabile, è una catastrofe. C'è di che spezzare per sempre l'ego di un uomo.
“Hai provato a parlarci?” Chiedo, anche se non immagino cosa si possa dire in casi simili. Non c'è una giustificazione che io accetterei, per dire.
Ed evidentemente non ne esiste nemmeno una che Bushido accetterebbe, perché mio fratello mi risponde: “Non ha voluto. Ha solo detto che non era il caso che dormissi più a casa sua.” Le sue dita mi stringono la maglia e lo sento premere forte la fronte contro la mia pelle. E' talmente impegnato nel tentativo di non piangere che ha tutti i muscoli tesi.
“Forse ha solo bisogno di un po' di tempo per digerire la cosa.”
Lui scuote la testa. “Mi ha fatto fare le valige,” mormora.
Questa è la seconda volta che Bushido bandisce Bill da casa sua in meno di due mesi e forse questo dovrebbe dare sia a me che a lui un'idea della situazione. Solo che non vorrei essere io a dirgli che magari le cose sono cambiate e che quando cambiano troppo, a volte è anche inutile rompersi la testa per riportarle com'erano perché non si può. Mentre gli accarezzo piano la testa penso a come formulare questo concetto senza che sembri troppo pesante, ma è lui ad anticiparmi. “Ti è mai successo?” Mi chiede.
“Che cosa?”
“Che una ragazza dicesse il nome di qualcun altro.”
Scuoto la testa. Se fosse successo forse non sarei andato a letto con l'elevato numero di donne con cui sono andato. La mia autostima è una creatura estremamente sensibile.
“E tu? Hai mai confuso i nomi?”
“Sì,” ammetto. “Ma non li sapevo già in partenza, quindi non è la stessa cosa.”
Lui si scosta da me e mi osserva. Pianta quei due occhioni castani nei miei e mi osserva, neanche stesse cercando tutte le risposte che gli servono direttamente sulla mia corteccia cerebrale. “Credi che significhi davvero qualcosa?” Chiede poi. “Credi che ci sia un motivo perché ho gridato il nome di Peter?”
Ah, l'ha pure gridato, penso. Tra qualche minuto salterà fuori che ci ha fatto anche tutto un dialogo con il Chakuza immaginario che era a letto con lui. Se c'è un Dio, e immagino che ci sia perché situazioni di questa portata devono essere pilotate da qualcuno più in alto di noi comuni mortali, beh quel Dio sicuramente mi odia perché ad un certo punto ha deciso arbitrariamente che io non dovessi più essere il confidente primario di mio fratello – DNA del mio DNA – e me lo ha portato via per tre lunghi anni facendolo accoppiare ripetutamente con un uomo tunisino di dubbio gusto prima e con un uomo austriaco di ancora più dubbio gusto poi, ma quando il filo degli eventi si è incasinato a tal punto che mio fratello ha confuso gli uomini di dubbio gusto, allora il buon Dio me lo ha restituito e con un sorriso gioviale ha esclamato bonario: Ecco, Tom, risolvi pure la questione. Mai che una volta mi si desse la possibilità di impedire il problema prima che si presenti. Se, per dire, quando mio fratello ha ricevuto dal capomafia l'offerta che non poteva rifiutare di trasferirsi a casa sua, Bill fosse venuto da me a parlarne, forse io avrei cercato di capire se nella sua testolina tutta lacca e treccine ci fosse ancora Chakuza. E invece no, il buon Dio dal sorriso bonario ha pensato bene di lasciare che mio fratello decidesse tutto da solo finché, chiaramente, il disastro non si è compiuto e ora io ce l'ho qui sulle ginocchia a pretendere risposte impossibili.
“Tu credi che significhi qualcosa?” Gli chiedo.
Lui si stringe nelle spalle. “Anis mi ha chiesto se Peter mi manca,” dice poi dopo qualche istante, torturandosi le dita.
“E la risposta qual è?”
Bill resta in silenzio a lungo prima di dire qualcosa. Anche se il solo fatto che lo faccia è già una risposta sufficiente. Da quando ho scoperto che lui e Chakuza stavano insieme, ho cominciato a ricordare il modo in cui Bill guardava quell'uomo le poche volte che passavo a casa sua un momento e lo trovavo lì seduto sul divano con lui. Mi ero convinto che fossero sguardi un po' annoiati, forse perché io ero certo che uno come Chakuza non potesse rappresentare un'attrattiva per Bill in nessun caso. Poi sono entrato in possesso dei particolari che mi mancavano, tipo che forse un attimo prima che suonassi il dannato campanello di mio fratello quei due ci stavano limonando sul divano e allora le occhiate non erano affatto annoiate ma impazienti. Che io me ne andassi, naturalmente, non che se ne andasse lui. E sono occhiate che non hanno smesso neanche dopo il ritorno di Bushido, neanche quando evidentemente mio fratello non sapeva più da che parte girarsi. Ed è stato lì che è successo casino, non tanto perché gli uomini fossero due ma perché mio fratello non aveva i mezzi per sceglierne uno. Che fosse Bushido a mettergli le mani addosso, o fosse Chakuza che se lo riprendeva, lui ci perdeva la testa. E quando non hai neanche un momento per fermarti a pensare davvero a quello che ti sta succedendo e a quello che vuoi, poi finisci per fare danni. E mio fratello è andato a vivere da Bushido, per dire.
“Io non lo so, Tomi,” Bill si affloscia, come se un sacco vuoto. “Mi manca, sì. Forse amo ancora Chakuza.”
Io sollevo un sopracciglio perché questo è il più bell'eufemismo che mi sia mai capitato di sentire dalle sue labbra ricoperte di gloss. Alcun dei migliori sono stati: ogni tanto mangio delle caramelle gommose. Apprezzo Nena e il doppio A volte parlo un pochino troppo. Questo di Chakuza, però, li batte tutti.
Forse?” Chiedo.
Lui si morde un labbro. “Okay, lo amo ancora,” ammette lui.
“Perché lo hai mollato allora?”
“Perché amo anche Anis,” esclama lui e lo fa con una rassegnazione terrificante. Come se questo discorso nella sua testa fosse avvenuto così tante volte che lui non ne potesse più di sentirlo. E con ogni probabilità è così. E' un po' come dire: le cose stanno così, e allora? Non posso farci niente. In realtà Bill poteva fare una cosa sola: sceglierne uno. Il problema è che quando ha tentato di farlo, ha scelto quello sbagliato. Ora non è che io dica che Chakuza sia l'uomo della sua vita, ma era sicuramente la scelta da fare se poi, quando si è trovato tra le braccia di Bushido, Bill ha fatto il suo nome. Se la scelta fosse stata giusta fin dall'inizio, niente di tutto questo sarebbe successo. Almeno credo. In realtà è un bel casino stare qui a sentenziare su quello che gira nel cuore di mio fratello, anche perché io non ho un granché voglia di avere la responsabilità di indicargli l'uomo giusto. Meno che mai di indicargli Chakuza.
Alla fine, però, sospiro e dico esattamente quello che so di dover dire. Anzi, quello che avrei dovuto dirgli prima che si trasferisse da Bushido, se solo il Dio bonario di cui sopra non avesse pensato bene di fargli fare tutto di testa sua. “Devi capire che cosa cerchi e... lo so che non vuoi sentirtelo dire, ma è così!” Gli prendo le mani e lo costringo a smettere di guardare il mio salotto come se tra una mano di bianco e l'altra mi fossi preso la briga di metterci dentro la risposta che gli serve. “Bill non guardati intorno, dannazione” lo riprendo. “La risposta la sai. E' da qualche parte in quella testa,” gli batto con un dito sulla fronte.
Lui mi scosta la mano. “E piantala!”
“Dico sul serio.”
Alla fine decide di drappeggiarmisi addosso come una copertina di lana e io decido di lasciarlo fare perché ne so abbastanza di lui per sapere che le sue rotelline si sono messa a girare. Posso solo sperare che gli ingranaggi non si inchiodino, stavolta. Restiamo in silenzio per un tempo talmente lungo che rischio quasi di addormentarmi, che è la cosa più sbagliata in casi come questo. Soprattutto se si tratta di Bill, che non ha mai pietà se per caso mi addormento nel bel mezzo di una delle sue lunghissime pause riflessive da film cinese. Alla fine, quando ormai sto contando con intenso fervore quante mattonelle ha il mio pavimento, lui si muove appena e lo sento che mi appoggia il mento sulla spalla e guarda dietro di me.
“Mi dispiace non averti detto di Peter,” mormora.
“Perché non lo hai fatto?” E' una cosa che mi chiedo da quando sono venuto a saperlo. Per quale assurdo motivo Bill ha pensato che fosse sensato tenermi all'oscuro della sua seconda relazione importante, quando tenermi all'oscuro della prima aveva prodotto le conseguenze che tutti sappiamo. “Ti avrei capito, lo sai.”
“Non ne ero sicuro.”
“Come prego?” Me lo scosto di dosso e lo costringo a guardarmi negli occhi. “Cristo Bill! Ma che ti è preso, si può sapere? Prima di questo tuo enorme casino di uomini, l'unico uomo di cui ti fidavi veramente ero io! Te lo ricordi?”
“Tom, non è questo,” sospira ancora lui e poi si disincastra dal groviglio di arti che eravamo e sospira.
“E allora cos'è?” Come io sia passato dal discutere con lui su quale sia la soluzione più giusta da prendere, al discutere quello che è prevalentemente il mio problema personale con lui, io non lo so. So solo che questa cosa mi rode dentro da quattro lunghi anni e visto che non c'è mai verso di inchiodarlo in un angolo senza che spuntino fuori gangster a salvarlo da tutte le parti, ne approfitto ora che siamo entrati in argomento e tutti i suoi amici sono o incazzati con lui o lontani, molto lontani da qui.
“A te Anis non è mai andato a genio,” risponde, le gambe incrociate e i piedi pianta contro pianta.
“Direi che è un bel modo ottimistico di metterla,” commento con un'alzata di sopracciglia. “Ma non vedo che cosa c'entri.”
Lui mi guarda storto perché ovviamente l'ho interrotto e non potevo. “Dicevo,” riprende, “che a te Anis non era mai andato a genio, ma alla fine ti eri abituato. E sei stato meraviglioso con me quando... “ fa un sospiro enorme, come a cercarla in fondo allo stomaco l'aria che gli serve. “... quando è morto. Così quando io e Chakuza abbiamo iniziato a frequentarci, ho pensato che avresti pensato...”
“Che non doveva importarti poi molto del tuo tunisino se avevi trovato il rimpiazzo nemmeno tre mesi dopo,” concludo io per lui.
“Già,” sospira.
E ti pareva che, alla fine, nonostante tutto, io non avessi capito come funziona il cervello di mio fratello? D'altronde il mio è della stessa marca mica per niente. “Grazie della fiducia,” commento.
“Tomi lo sai che non è questione di fiducia!”
“Sì che lo è,” insisto. “Come ti è saltato in testa che non avrei capito come stavano le cose?”
Lui si stringe nelle spalle. “Non avevi capito Anis.”
“Perché ci eri già andato a letto quando me lo hai presentato, senza per altro che io sapessi neanche che eri gay,” puntualizzo.
“Io non sono-”
“Bill piantala,” lo ignoro. Stasera non posso oggettivamente risolvere il suo problema sentimentale con Bushido e Chakuza, il mio problema di fiducia con lui e anche il suo problema ad ammettere apertamente che è omosessuale. “Pensavo che al secondo giro, magari, ti sarebbe venuto in mente di parlarmi di Chakuza prima di infilarti nel suo letto.”
“Non è esattamente andata così.”
Alzo gli occhi al cielo. “Bill non m'importa com'è andata! Non importa se prima di portarti a letto, ti ha giurato eterno amore in ginocchio fra i petali di rose! Qualunque cosa abbia fatto quel nano da giardino per convincerti che era cosa buona e giusta darglielo, a me sarebbe piaciuto che mi dicessi che ti eri innamorato!”
Ecco, gliel'ho detto ed esattamente come l'ho sempre pensato, anche, cosa che mi fa passare per un gran deficiente. Tendenzialmente dovrei fregarmene di quello che fa mio fratello, perché è appunto mio fratello e non la mia giovane sorellina adolescente in balia di uomini concupiscenti che vogliono da lei cose di cui lei non si rende neanche lontanamente conto. Bill si rende conto eccome, l'ha passato il tempo dell'innocenza, se mai c'è stato. Sa perfettamente che ci sono uomini concupiscenti là fuori nel mondo che venderebbero le loro madri per mettere le mani su di lui. E lui non è da meno, per altro. Lui se li cerca o scuri e pericolosi o.... beh, con due spalle enormi. Insomma, non è che devo star qui a difendere le vergini, io. Non ce ne sono. Solo che io non posso farci niente se ogni volta che qualcuno gli si avvicina a me viene da mordere. Prima di essere la Principessa del ghetto, Bill è mio fratello. E se proprio gli si deve mettere le mani addosso, a questa Principessa, che lo si chieda a me.
Mentre mi perdo in tutta questa metafora di principesse vergini che la danno via comunque dalle loro torri, mio fratello si è messo a ridere. “Non dovresti chiamarlo così,” mi fa, tirandomi una botta. “Non è carino.”
“Beh, ma è vero. Quando uscite sembri Biancaneve,” protesto. “Non sai quante volte volevo chiederti se gli altri sei te li eri mangiati.”
Lui mi tira un altro spintone. “Quanto sei stupido,” ride.
Rido anch'io, ma poi quando ci calmiamo glielo dico di nuovo. “Avresti dovuto dirmelo,” mi stringo nelle spalle. “Lo avrei capito che per te era importante com'era stato lui.”
Bill si stringe nelle spalle minuscole. “Hai ragione,” ammette. “Scusa.”
E qui io tipo potrei alzarmi e fare la danza della vittoria di Georg, che è una cosa raccapricciante e quando la fa tutti tentiamo di atterrarlo per evitarci la visione. Però, per dire, io che in piedi sul divano agito il culo e muovo in cerchio le braccia renderei abbastanza l'idea del mio trionfo interiore. Non lo faccio solo perché risolto questo piccolo problema ne abbiamo uno esageratamente più grosso, tipo che Bill ha detto quello che ha detto nell'impeto del momento... e che il Dio bonario mi tolga dalla testa l'immagine di mio fratello che geme, grazie. C'è un limite alle cose che anch'io posso sopportare.
“Ad ogni modo, non posso fare niente,” esclama Bill, risvegliandomi dalla mia danza mentale. “Peter non vuole parlarmi.”
“Direi che ha le sue buone ragioni,” commento. E lungi da me prendere le parti del nano malefico, ma in questo caso è oggettivamente impossibile non farlo. Quell'uomo ha ricevuto uno dei due colpi più mortali che un uomo può ricevere dalla... persona che si porta a letto. L'altro lo ha ricevuto Bushido. Mio fratello ha fatto una strage, Dio mio.
“Lo so.”
E qui faccio un gran sospiro perché quello che sto per dirgli mi costa tantissimo. Ora che Bushido ha pensato saggiamente di mandarlo via di casa prima di dire – o peggio, fare! - qualcosa di pessimo e che Chakuza non ne vuole sapere di lui, speravo di riaverlo per me. Magari anche di allontanarlo da tutto il Ghetto in generale. Ammetto di avercelo fatto un pensiero. Solo che non sarebbe giusto. Questo mondo si è preso una parte di Bill che rimarrà sempre qui, che io lo porti via o meno. Come tutti questi uomini non lo hanno avuto per intero, perché un po' era anche mio, così io non posso averlo tutto, perché è un po' anche loro. E mi rendo conto che con Bill è sempre una questione di pezzi regalati. Quando ti vuole bene e tu ne vuoi a lui, Bill ti consegna un pezzo di sé da conservare e tu, anche se per qualche motivo arrivi ad odiarlo, magari quel pezzettino te lo metti in tasca, ma a buttarlo via non ci pensi proprio.
Forse potrei mentirgli e dirgli che quel nome detto a sproposito non significa niente, ma poi mi toccherebbe fare i conti con la mia coscienza ogni giorno, mi toccherebbe doverlo guardare e sapere che a quegli occhi tristi un po' ho contribuito anch'io, perciò no. “Forse dovresti fare un altro tentativo,” dico. “Anzi, dovresti fare il primo vero tentativo. Non parli con lui da quando lo hai avvertito che andavi a vivere da Bushido.”
“Non vuole parlarmi,” ripete lui. “Lo hai visto anche tu alla riunione!”
“Forse non vuole parlarti lui,” ipotizzo. “Ma vuole che lo faccia tu.” E mentre lo dico mi sembra anche estremamente sensato. In fondo l'ultima cosa che Chakuza si è sentito dire da mio fratello, è che lo mollava. Non fosse altro che per sentirlo chiedere scusa, secondo me lo farà parlare. E se poi da lui vorrà soltanto questo, vorrà dire che sarò pronto a raccogliere col cucchiaino quello che a quel punto resterà di Bill. Ma se non fa un tentativo, anche disperato, quell'unica possibilità di salvare qualcosa, da qualche parte, la perdiamo in partenza. Peggio di così non può andare, no?
“E se non vuole?”
“Allora sarà andata così e non ci sarà nient'altro da fare,” concludo.”Ma devi almeno provare e fare chiarezza in quel casino di testa che ti ritrovi.”
Lui fa un sospiro gigante e non mi guarda, così gli sollevo il mento e gli sorrido. “Tu la risposta la sai già,” gli ripeto. “Solo che dirla ad alta voce ti fa paura.”
“No, non mi fa paura,” mi corregge lui. “Mi terrorizza.”
Sorrido. “Vai da lui, parlaci e stai a vedere.”
E mentre mio fratello si fa offrire una pizza in nome delle coccole che secondo lui gli devo per una qualche regola universale di gemellitudine e che io puntualmente gli faccio, perché io ci vivo seguendo questa regola universale nemmeno fosse un codice divino portato in Terra da profeti pre-cristiani, lo abbraccio e spero di non averlo appena spedito a fare la cosa più sbagliata fra le cose sbagliate di questo mondo.
Dio bonario, se mi senti, daccela buona almeno stavolta.

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Unter der Sonne

di tabata
Parlare con mio fratello potrebbe sembrare una cattiva idea. Generalmente quando lo guardi, non vedi in lui una persona in grado di sbrogliarti le situazioni e darti dei consigli sensati perché lui fa di tutto, ma proprio di tutto, per sembrare un cretino. L'idea che la gente si è fatta di lui, in generale, è che il suo unico pensiero siano le donne, il che non è affatto vero. Mio fratello è uno che s'interessa di tutto e a cui, generalmente, riesce qualunque cosa. Qualcuno potrebbe commentare che l'unica cosa che dovrebbe davvero riuscirgli, e cioè suonare la chitarra, non gli riesce poi tanto bene, ma quel qualcuno non sarebbe affatto originale e io non lo ascolterei. Insomma a parte tutto, mi ha sempre dato dei buoni consigli, quando gliel'ho chiesti, e siccome negli ultimi tempi sono stato così idiota da non farlo per le mie stupide paranoie, questo che mi ha dato lo seguo eccome. Ci metto solo tre giorni a decidermi a farlo.
Quando Chakuza apre la porta mi fulmina da capo a piedi con uno sguardo che non sono abituato a ricevere da quegli occhi verdissimi e mi viene subito da guardare altrove. Evidentemente non si aspettava di trovarmi sul pianerottolo, è che il portone l'ho trovato aperto – divelto è la parola giusta. E non posso escludere che sia stato lui.
“Bill”, dice. E stavolta vorrei avere un nome più lungo, così sarebbe costretto a parlare di più invece che zittirsi subito e poi restare immobile a guardarmi, in attesa, suppongo, che sia io a dire qualcosa. E' la prima volta che tocca a me parlare e non ho uno straccio di parola in testa. Con tutte quelle che butto via ogni giorno, dovrei averne in abbondanza e invece niente. Zero.
Ho quest'uomo davanti e non ho idea di come affrontarlo.
“Ciao,” mormoro.
“Cosa ci fai qui?”
La mia borsa si è fatta incredibilmente pesante, neanche ci avessi messo dentro le pietre invece delle solite cose, così me la risistemo su una spalla. “Posso entrare un momento?” Chiedo.
Lui si para davanti alla porta e incrocia le braccia al petto. “Prima dimmi che cosa ci fai qui,” ripete. Vederlo comportarsi così è strano, in generale, non solo in funzione di quello che c'è stato tra noi. Io non ho mai visto Peter così gelido nemmeno prima che ci mettessimo insieme. Lui era quello allegro del gruppo degli uomini di Anis, era facile fare amicizia con lui proprio perché non era mai scostante. Non aveva davanti quel muro da uomo del ghetto che avevano tutti gli altri. E ora invece, eccolo qui. Me lo merito, immagino.
“Voglio solo parlare.”
“Anche perché non puoi fare nient'altro,” commenta lui. “Io comunque non vedo di cosa. Non abbiamo niente da dirci.”
Sospiro. Immagino di dovergli dare la possibilità di dirmi in faccia tutto quello che ha pensato finora, anche se credo che si stia comunque trattenendo. Voglio dire, posso immaginare cosa mi ha detto in queste settimane. “Vorrei che tu mi lasciassi spiegare.”
“Sei stato perfettamente chiaro a casa tua, te lo assicuro.”
“Peter, ti prego,” sospiro. “Soltanto cinque minuti.”
Lui mi guarda e l'immobilità del suo sguardo mi mette a disagio. Io e lui non abbiamo mai litigato così violentemente prima di adesso da costringerlo a guardarmi così. Anis lo faceva spesso, perché io e lui ci prendevamo di continuo, ma con Chakuza è stata un'altra cosa. Anche se avevamo qualcosa da dirci, io e lui, non succedeva mai che ci affrontassimo così. Io perlopiù m'imbronciavo e lui cercava di capire che cosa avessi. E se era lui a scattare, al limite ci rimetteva il salotto. Non io. Ora invece me lo sento addosso che una parte di lui vuole farmela pagare, e così mi guarda come se non gli importasse niente e mi basta quello sguardo per farmi esitare. Anche se volessi entrare di forza in casa sua per piazzarmi nel suo salotto finché non mi ascolta, mi sembra impossibile sotto quegli occhi. Mi sta tenendo a distanza. Sa che mi fa più male che se mi prendesse a ceffoni.
“E' importante,” tento.
“Se hai un problema, immagino che Bushido sarà ben felice di risolvertelo,” mi dice secco. E mi chiedo se gli uomini che conosco non siano davvero tutti rimasti ai loro dodici anni: lui, Tom e perfino Anis. La prima cosa che hanno fatto quando una delle mie decisioni non gli è piaciuta è stata replicare in maniera sarcastica. Tom mi rispediva da Anis ogni volta che anche solo avevo bisogno di aprire un barattolo e Anis non faceva che chiedermi se il mio Peter le faceva meglio di lui le cose, durante le riprese del video. Così adesso, sulla porta del suo appartamento, è naturale che Chakuza non trovi niente di meglio da fare che rispedirmi al mittente, facendo la battuta.
“Io...” evidentemente Tom si sbagliava. Peter non vuole assolutamente sentirmi chiedere scusa, forse non vuole più davvero un bel niente da me e io questo non lo so se sono in grado di sopportarlo, ora come ora. Mi rendo conto che sono venuto fin qui con la speranza inconscia che, facendomi insultare, forse avrei recuperato almeno un po' di quel rapporto che c'era prima dell'enorme casino di morte e resurrezione che è stato Anis. Invece, davanti a questa porta, ci trovo un Chakuza che deve aver chiuso con me quando io credevo di aver chiuso con lui. Credevo, appunto, ma non era così.
E' molto ironico rendersi conto proprio sul pianerottolo di Peter quanto sia difficile tornare sui propri passi e scoprire che gli altri sono andati avanti senza di te. Conoscendolo, so che Anis riderebbe di me, se mi sentisse. “Lascia stare,” dico alla fine. “Non sarei dovuto venire.”
“No, non avresti dovuto,” ripete lui. Così mi giro e inizio a camminare lungo il corridoio, stringendo le dita. Allungo il passo quando mi rendo conto che se non mi muovo, potrei piangere qui dove sono e non voglio che Chakuza abbia di me un'immagine patetica. “Ma ormai sei qui,” aggiunge prima che arrivi alle scale. E io mi fermo, perché inizialmente non sono sicuro di aver sentito davvero quelle parole. “Quindi ok. Entra.”
Quando mi volto lui non c'è: mi ha lasciato la porta aperta, però, e quando lo raggiungo è in cucina e ha già aperto due lattine di birra. Spinge la mia verso di me, poi si appoggia al mobile della cucina e beve un sorso. “Allora?”
Allora non so da dove iniziare. Non ho davvero pensato a questo particolare venendo qui, tanto ero sicuro che non sarebbe servito a niente. La mia priorità impossibile era entrare. Il resto era una fantasia nebulosa nella quale balbettavo qualcosa di incomprensibile. A volte, in questa fantasia, lui mi diceva anche che era tutto ok, ma erano casi rari, in generale ero fuori dalla porta quasi prima ancora di entrarci. Quindi insomma, essere in piedi con una birra in mano è un gran bel traguardo ma da questo punto in poi mi tocca andare alla cieca.
“Potresti... non fare così?” Dico alla fine, quando il suo sguardo quasi mi perfora la testa.
“Così come?”
“Così,” mormoro, appoggiando la lattina sulla penisola, perché non ho alcuna voglia di berla. “Lo so che sei arrabbiato, ma non potresti essere meno scostante?”
“Qualcos'altro?”
Vorrei dirgli che lui non è affatto così e che non ha bisogno di esserlo adesso, che non ne ho bisogno io anche se forse me lo merito e che sarebbe tutto più facile se lui – non dico che mi assecondasse – ma che per lo meno non partisse dal presupposto che sto per dire cazzate. Ma immagino che tutto questo non abbia senso e che in realtà sono solo poco abituato ad essere considerato nel torto. Il che fa di me la diva viziata che mi hanno sempre accusato di essere.
“Ti aiuto io,” esclama alla fine, facendo canestro nel cestino con la lattina. “Sua Maestà ti ha lasciato libero di uscire per un paio d'ore e tu sei venuto qui a scusarti?”
Immagino che questo possa essere un buon inizio come un altro, quindi decido che posso iniziare da qui. “Le cose con Bushido non sono andate come pensavo,” mormoro. Vorrei sedermi ma gli sgabelli della cucina sono scomodi, così rimango in piedi e mi sembra quasi che l'abbia fatto apposta a costringermi qui sulla porta, con ancora il cappotto addosso e tutto il resto. “Mi sentivo a disagio e … in colpa.”
“In colpa,” commenta lui asciutto, sollevando le sopracciglia.
“Non in quel senso, Peter!” Esclamo, alzando gli occhi su di lui. Tra tutto quello che ho pensato in queste settimane, non mi è mai passato per l'anticamera del cervello di scusarmi con Anis per essermi innamorato di Peter. Sospiro. “E' stato un gran casino.”
“Posso immaginare.”
“Davvero,” mormoro. “Pensavo che le cose si sarebbero rimesse a posto in un modo o nell'altro dopo che avevo... preso una decisione e invece non hanno fatto che peggiorare. Finché non è diventato tutto così confuso che non ci ho capito più niente.” Lui non dice niente, ma a questo punto non importa più perché ora che ho iniziato non ho intenzione di smettere, qualunque siano le parole che mi stanno effettivamente uscendo di bocca e che non sono tanto sicuro di seguire nemmeno io. “Le cose non erano più le stesse fra me e lui,” continuo. “E dentro di me lo sapevo, solo che non l'ho ammesso finché non l'ho chiamato col tuo nome.” Mi fermo per riprendere fiato perché non mi sono zittito dal secondo stesso in cui lui mi ha dato il via. “Mi ha mandato via,” concludo poi, con un sospiro. “E' finita.”
Mi rendo conto che è la prima volta che lo dico ad alta voce. L'unico a farlo finora è stato Anis. Non lo so come mi sento, leggero credo. E non perché non significhi niente ma perché dirlo ha messo un punto alla questione, che è sempre tragica ma adesso ha un verso e non devo più affannarmi a capire cosa sta succedendo. E' così che è andata: è finita.
E' finita. E Peter dimmi qualcosa, perché non posso continuare a ripetermelo in testa, non posso neanche ripetertelo a voce, tanto non è che cambi le cose fra me e te, giusto? Io ti ho comunque sempre trattato di merda. Quindi offendimi, urlami, ma dì qualcosa.
“Perché me lo stai dicendo?”
“Non lo so,” lo dico di getto, anche se sono perfettamente consapevole di mentire.
Il fatto è che mi sento sull'orlo di un precipizio. Potrei dirgli perché sono qui e saltare nel vuoto nella speranza di non cadere, oppure non farlo mai – evitare il rischio di sentirmi dire no - e rimanere al sicuro sulla mia roccia. E' un pensiero molto egoista, ma io so di non poter andare avanti senza uno di questi due uomini e visto che il mio corpo mi ha suggerito un nome fra due, allora non posso che pensare che per quanto assurdo sembri un mondo senza me e Anis insieme, è Chakuza che voglio. E ciò che mi ha impedito di capirlo subito era l'abitudine e la convinzione di dover riportare le cose come stavano quand'è evidente che non è possibile, quando Peter è tutto ciò a cui tengo della mia vita nell'ultimo anno.
“Mi dispiace per il modo in cui mi sono comportato,” forse tutte queste scuse sono inutili, ma è la prima volta nella mia vita che le faccio sentendo di volerle fare e non perché devo. “Non sapevo come sistemare le cose e ho fatto un errore. Ti ho ferito...”
“Bill...”
Saltare non è una scelta. E' quello che succede adesso, dopo che è finita. Non è finita perché restassi su una roccia. “Io lo so che non ho alcun diritto di chiedertelo, Peter,” mentre lo dico mi trema la voce e anche le gambe, così stringo i pugni e lascio andare le lacrime, tanto non mi resteranno a lungo dentro. Ho paura di un mucchio di cose: che non voglia più ascoltarmi, che si arrabbi. Che mi mandi via. Ho paura soprattutto che mi mandi via. Ne ho una paura folle e irrazionale e se ci penso il cuore mi si schianta in petto. Penso distintamente tienimi qui mentre alzo lo sguardo. E so che se i suoi occhi saranno gli stessi di qualche istante fa, allora probabilmente non ci sarà più niente a tenermi insieme. “Hai tutte le ragioni di rispedirmi fuori da casa tua a calci ma io ho davvero bisogno di te,” sento il singhiozzo che mi raschia ruvido in gola ed esce con un suono minuscolo. “Ed anche se non me lo merito affatto, vorrei davvero che noi potessimo...”
A fermarmi è la sua mano sulla mia.
Io non alzo la testa perché non voglio guardarlo. Mi dico che se quel muro si trova lì e alzando lo sguardo mi ci schianterò contro, non saprò più come alzarmi da questa sedia. E forse dovrò chiamare qualcuno a portarmi via. MI viene in mente che Tom si era offerto di accompagnarmi fin sotto casa ma io gli ho detto che avrei fatto da solo. Posso farcela, ho pensato. Ora penso che sono un deficiente perché non ho proprio la forza, io, di affrontare questa cosa. Che se l'avessi avuta fin dall'inizio, allora questa cosa non sarebbe proprio successa affatto.
“Ehi, Principessa,” mi chiama lui e mi basta sentirglielo dire per leggere il mezzo sorriso che ha sulle labbra. So a memoria ogni sfumatura della sua voce, quindi lo so che ora mi guarda un po' preoccupato ma non troppo e che sta tentando di oltrepassare il velo delle mie lacrime. So che se alzo la testa, non c'è pericolo e posso guardare. “La smetti di piangere?” Mi chiede, asciugandomi gli occhi quando finalmente mi decido a smettere di fissare il pavimento un po' sporco della sua cucina.
“Scusa.”
“Per le lacrime?” Fa lui, alzando un sopracciglio, ironico.
“Per tutto.”

*



Chakuza non è bravo con le parole, questo l'ho imparato quasi subito. Anche prima che stessimo insieme.
Lui sa tenerti compagnia e ti fa sentire la sua presenza, ma di consolarti non è veramente capace. Ricordo che le prime volte che Anis lo mandava da me a prendermi o a portarmi da qualche parte e io mi lamentavo di sentirmi un pacco postale da consegnare all'indirizzo giusto, lui non è che mi facesse grandi discorsi per tentare di placarmi o di spiegarmi quali motivazioni stessero dietro alle decisioni del suo capo. Lui lasciava che io gli dicessi tutto quello che avevo da dire, e che generalmente era tanto perché io ho tanto da dire su qualunque cosa, figuriamoci su ciò che veramente mi indispone, e poi sorrideva e mi chiedeva se non mi andava di sbollire la rabbia da qualche parte. Non mi diceva che dovevo avere più pazienza o che invece, magari, avevo proprio ragione e dovevo dirgliene quattro a quel tunisino. Lui mi portava da qualche parte, che di solito era a mangiare il gelato. Ai tempi d'oro in cui all'orizzonte non c'erano ancora i segni della faida imminente che sarebbe scoppiata a causa della mia persona, io e lui ci siamo fatti il giro delle gelaterie più fighe di Berlino, in attesa di Anis che stava lavorando in questo o quello studio e che non si sarebbe liberato prima di qualche ora. Cambiavamo gelateria ogni volta così che i paparazzi non potessero appostarsi la volta dopo e infastidirci o, peggio ancora, inventarsi scandali che sarebbero arrivati solo molti mesi dopo.
Ancora oggi mi dico che siamo stati proprio bravi, noi, a non farci beccare. Né prima né dopo. Anche se non so quale sarebbe stato peggio: se Chakuza che intrattiene la Principessa di Bushido in un noioso pomeriggio di un settembre qualunque, o Chakuza che ha una relazione con la Principessa di Bushido, a tre mesi dalla sua morte. Credo di dover essere grato a noi stessi o alla divinità che ha permesso che ci evitassimo di doverci difendere dalla stampa di pessimo gusto.
Comunque sia, quello che stavo dicendo, parlando di gelaterie, è che Chakuza non è uno di quelli che sa cosa dirti quando c'è qualcosa da dire. Quindi non mi aspetto che lui lo faccia. Però è bravo a far tornare le cose a posto quando, per un motivo o per un altro, quelle sono sottosopra. E noi siamo molto sottosopra, in questo momento, tanto sottosopra che non so esattamente se ci sia un noi di cui parlare.
Lui però mi ha fatto sedere in salotto, che è tornato il casino che era prima che io gli urlassi che non sarei più entrato in casa sua, se non avesse pulito. Per un secondo me lo immagino buttare ogni cosa per terra il giorno in cui l'ho lasciato e riderei, forse, se non tornasse dalla cucina con due fette di torta al limone.
“L'ho fatta ieri,” dice, come per assicurarmi che non stava in frigo da quando ha finito la scuola, tipo. Che poi io avevo nove anni all'epoca. “Mangia.”
“Peter...”
“Mangia,” ripete, appoggiando il piatto davanti a me e mettendomi in mano il cucchiaino.
Quindi mangio, che poi è una cosa a cui sono abituato. Non mangiare, dico, mangiare quando lui mi dice di farlo. E' che lui c'ha questa cosa col cibo che risolve i problemi.
Forse è per questo che ha studiato per diventare cuoco.
Ora, la situazione è che io tutto mi aspettavo tranne questo. Chakuza è una persona facile all'ira, per cui poteva essere che dopo avergli detto quello che avevo da dirgli, mi prendesse su di peso – che sono alto il doppio di lui, ma peso molto meno della metà – e mi sbattesse fuori di casa. O che decidesse di mandarmi via, senza usare la violenza. O che non mi mandasse via, magari.
Ma non che avremmo finito per mangiare torta al limone seduti sul tappeto del salotto, così vicini ma senza toccarci come non facevamo da quando io ero quello che ero e lui doveva starmi a tre passi di distanza. E quando ci penso mi rendo conto che è esattamente a questo che serve mangiare la torta e stare seduti e discutere del più e del meno, che con me che grido il suo nome fra le braccia di Anis non c'entra niente. E non c'entra nemmeno Anis, nemmeno per sbaglio. E' questo il punto.
Peter mi mancava, e Peter è qua. Fine della storia.
“Sai,” dice all'improvviso, buttando giù un sorso di coca. “Credo che sarà dura per te da ora in avanti.”
Lo guardo senza capire. “In che senso?”
“Uno, non ho intenzione di accompagnarti a fare shopping più del legalmente consentito ad un essere umano, quindi due ore ogni quindici giorni,” risponde. “Se... e solo se fai il bravo.”
“Peter, cosa?”
“Due: arrivi in orario,” prosegue e mi ferma prima che dica qualcosa. Sono lì con la bocca aperta e lui alza un dito e mi ferma. “Niente 'cinque minuti, Peter'. Ovunque tu sia, se non ti prepari in tempo, ci rimani.”
Lo guardo e sto zitto, a questo punto perché in fondo al mio stomaco c'è una parte di me che ha capito dove stiamo andando a parare, ma l'altra le dice di stare zitta che porta sfiga dirlo ad alta voce.
“Tre,” va avanti, sventolando le sue tre dita alzate. “Basta con The Notebook.”
“Ma...”
“Lo sai a memoria. Io lo so a memoria,” esclama. “Tom lo sa a memoria e probabilmente chiunque ti conosca da più di due mesi lo sa già a memoria.”
Io incrocio le braccia, con un mezzo broncio. “Sei ingiusto.”
“Sì, sono un uomo tremendo.” Poi però cambia tono ed espressione. “Quarto: stavolta non sarà un segreto che stiamo insieme.”
Fino a questo momento, gli unici a sapere che io e lui siamo stati insieme, siamo noi e tutti quelli che sono a noi più vicini. E questi ultimi solo perché, con il ritorno di Anis, tenere la cosa segreta era un po' impossibile. Nemmeno la Universal lo sa e ringrazio che non lo sappia perché se fosse stato altrimenti, forse ci sarebbe toccato qualcosa di peggio che Prinzessin. Insomma i giornalisti, i media, i fan, nessuno là fuori ha la minima idea di quello che è successo negli ultimi mesi.
Chakuza mi sta chiedendo di uscire allo scoperto e spiegare al resto del mondo cosa è cambiato. E come.
E' il caso di essere sinceri, per la prima volta da quando questo enorme casino ha preso vita e come un golem si è portato via tutto quello che fino a quel momento consideravamo indistruttibile.
Se dobbiamo liberarci di quello che è stato, io, e costruire di nuovo qualcosa, noi, forse allora è il caso di farlo alla luce del sole, dove ci possono vedere. Dove non potrò confondermi a tal punto da incasinare di nuovo le cose. E dove posso riportare entrambe le storie della mia vita sullo stesso livello, certo.
Perché lo so che è anche questo. E glielo devo, perché in fondo sono sempre stato io quello che non voleva dirlo, che aveva paura, che credeva sarebbe stato meglio che...
E il perché lui lo ha capito prima di me.
Così sorrido. “Lo sapranno tutti,” annuisco. “Lo sapranno finché non gli verremo a noia.”

*


Quando finalmente mi alzo dal nostro divano, dove sono finito ad appallottolarmi per vedere un film – e ordiniamo una pizza, Chaku? – sono quasi le undici e sul mio cellulare ci sono quindici telefonate perse e un numero indecente di messaggi da parte di mio fratello. Da qualche parte in questa città c'è un Tomi che cerca ovunque il mio corpo esanime e privato degli organi interni. Forse sta già anche piangendo.
Sorrido mentre ripongo il telefono. Appena salgo in macchina lo chiamo.
“Tom?” Mi chiede Chakuza, accennando al cellulare con la testa e portando via i nostri piatti.
Annuisco. “Non ha mie notizie da più di sei ore.”
“Sarà affranto,” lo prende in giro.
“Non essere cattivo con lui. Mi vuole solo molto bene.”
Dalla cucina mi arriva il rumore dei piatti mentre carica la lavastoviglie. “Il problema di tutti gli uomini che ti circondano, Bill, è proprio che te ne vogliono troppo.”
Lui forse non si è reso conto di quello che ha detto, perché lo sento continuare a sistemare le stoviglie. Io invece mi fermo per un istante in mezzo al salotto, con in mano il cappotto che avevo intenzione di mettermi prima che lui racchiudesse in una sola frase tutto il disastro della mia esistenza. Mi risveglia lui, tranquillo, raggiungendomi lì dove sono. “Vuoi che ti accompagni?” Mi chiede.
Come pensavo, non si è accorto di quello che ha detto.
“Cosa? No, grazie. Ho la mia macchina.”
“D'accordo.”
Segue un minuto surreale che è l'esatto specchio di quello che è successo quando sono arrivato. Io non muovo un passo, lui neanche mezzo e ci guardiamo senza sapere bene che cosa dovremmo fare ora di fronte alla porta chiusa. “Allora, io vado,” sospiro alla fine.
“Sì,” fa lui, bloccando la porta.
“Puoi...insomma,” indico di fronte a me, “apriresti la porta?” Lui si risveglia di colpo e a me viene da ridere perché il Chaku si perde proprio con niente.
“Certo,” annuisce. “Allora, chiama appena arrivi a casa.”
“Sono grande, la so la strada.”
“E' tardi.”
“Non ho mica sonno,” protesto. E mi scappa uno sbadiglio.
Lui solleva un sopracciglio. “Vedo.”
Ridacchio mentre mi stringo bene nel cappotto, dal corridoio del palazzo arriva l'aria gelida che presumo stia risalendo le scale dal portone dissestato. Ci salutiamo ancora una volta e poi, visto che lui non lo fa, mi volto a lasciargli un bacio piccolo sulle labbra. Vorrei seriamente andarmene così, ma immaginavo che con Peter non sarebbe stato veramente possibile, così lascio che mi prenda per la nuca e mi trascini a sé.
Lascio che mi baci profondamente e permetto alla mia lingua di ricordare il suo sapore.
Con Chakuza non faccio che ricominciare da capo. La nostra storia è un inizio continuo, come in quel film, dove lei non ricorda niente ed ogni giorno lui deve conquistarla di nuovo.
Io e Chakuza siamo al terzo primo bacio e mi auguro di non doverne contare altri quarantasette. Anche se, tanti inizi e nessuna fine non è poi tanto male.
“Che ne è del non preoccuparti Bill, faremo le cose con calma?” Scherzo, quando mi lascia andare e io un po' rimango lì addosso a lui, prima di decidermi a scostarmi, perché mi era mancato più di quello che pensavo. E d'altronde è questo il punto.
Queste sono le parole che mi ha detto quando la porta e la casa erano mie, ed era lui a doversene andare ogni volta che mi riaccompagnava.
“Stavolta la saltiamo quella parte,” commenta. “Che ne dici?”
Dico che va bene. Cominciare sempre da capo può essere romantico, ma non sta scritto da nessuna parte che dobbiamo necessariamente farlo sempre dallo stesso punto.

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A Wound Unhealing

di lisachan
Io sono una persona molto paziente. Lo sono perché da piccolino non ero paziente per niente, e questo mi ha insegnato molte cose. L’episodio più emblematico della mia esistenza, in questo senso, risale ai miei… dovevano essere quindici, da poco passati, o una cosa del genere. Anis – che allora era solo Sonny e andava in giro rattoppato e malconcio come l’immigrato che non è mai stato anche se avrebbe dovuto – aveva deciso di mostrarmi la sua fantastica moto, una roba di cui si parlava da mesi e della quale lui favoleggiava cose assurde tipo che potesse scalare i palazzi e cazzate simili ovviamente false ma alle quali io credevo ciecamente perché ero un ragazzino e la mia testa era tutto un concentrato di ammirazione per questo tipo assolutamente folle che poi in un modo o nell’altro mi avrebbe cambiato irrimediabilmente la vita.
Comunque sia, io ero molto emozionato per questo grande evento che mi coinvolgeva e che palesemente doveva aprirmi le porte di un futuro più luminoso e splendente che mai, ed ero così emozionato che, nel momento in cui vidi la saracinesca del garage dietro casa sua cominciare a sollevarsi, mi ci fiondai contro neanche fosse stata un materasso e io un uomo provato da dodici ore di lavoro continuativo in fabbrica.
In sunto, andai a sfracellarmi contro la saracinesca sollevata a metà e caddi a terra all’indietro, tagliuzzandomi peraltro i palmi delle mani sulle pietruzze che ricoprivano il vialetto là davanti e piagnucolando come un deficiente mentre Anis mi passava accanto a mi guardava allibito, tirando su quel che restava da tirare su sia della saracinesca che di me, ed aiutandomi a scrollarmi di dosso un po’ di terriccio bianco e polveroso.
- Guarda che tu devi calmarti. – mi disse allora, una mano sul fianco e il capo lievemente inclinato, - Facendo le cose di corsa, non arriverai da nessuna parte. Devi riflettere, con calma, segui il ritmo del tuo cervello. Non sei tanto lento da diventare un pericolo, se ti ascolti un po’. Hai un buon ritmo. – il che era palesemente il più bel complimento mi fosse mai stato fatto dopo “aaaw, Patty, che begli occhioni che hai, bello della mamma!”, detto da mia madre quando dovevo avere qualcosa come cinque anni.
Comunque sia, da quel momento – anche per non ripetere figuracce tipo la saracinesca presa di naso – ho cercato di fare tesoro di quell’insegnamento, e riflettere sempre. Che è una cosa che quando stai per strada ti aiuta molto, se non sei stupido. Cioè, se sei stupido è meglio che tu non rifletta, rischi di prenderti troppo tempo e non è il caso. Ma se il cervello si muove bene, se hai un buon ritmo, come mi ha detto Anis, allora è ok. E io ho cominciato a seguire il mio ritmo, e in effetti da quel momento le cose in generale per me hanno cominciato a girare in un verso lievemente migliore rispetto a quello che avevano imboccato prima.
Comunque, per spiegare quanto infinita e profonda sia la mia pazienza, basta osservare l’evoluzione del mio rapporto con Chaku nei secoli. Dico “nei secoli” un po’ perché fa ridere, e qua se non la si prende con simpatia è un dramma, e un po’ perché a volte davvero mi pare che siano passati centinaia d’anni da quando l’ho visto da vicino – più o meno, visto che ero nascosto dietro un mausoleo – durante il funerale di Anis.
Comunque sia, di strada ne abbiamo fatta un casino. Non è stato sempre semplice – in realtà non lo è stato mai – e non è stato sempre divertente – anche se spesso in realtà sì – eppure mi gloriavo, fino a qualcosa come due minuti fa, di essere riuscito comunque sempre a mantenerlo una costante della mia vita nell’ultimo anno, un qualcosa cui potessi affidarmi. Non a lui in quanto Chaku, per carità, non gli affiderei manco una pianta grassa, ma alla sua presenza in quanto tale, quello sì.
In questo momento, però, guardo il Chaku – lo vedo qui seduto sul mio divano che si torce le mani in grembo e fissa il vuoto con aria pallata cercando di trovare le parole per dirmi ciò che mi deve dire – e mi rendo conto che le costanti, in realtà, sono una stronzata enorme con cui gli esseri umani si divertono a illudersi di poter avere qualcosa di incrollabile nella propria esistenza, quando invece non esiste proprio un bel niente che sia incrollabile. Questa è l’ultima cosa che mi ha insegnato Anis, povero stronzo, che credeva di poter giocare con la vita e la morte ed uscirne vittorioso comunque, e invece ha perso, eccome se ha perso.
- Io… - comincia Chakuza, e a me viene voglia di dargli un buffetto su una guancia e mandarlo a mangiare gelati, che ne so. Davvero, Chaku non ha quasi mai problemi a dirti le cose che deve dirti, anche perché sono quasi sempre cose che riguardano problemi di ordine pratico. “S’è intasato il cesso” o “non funziona più il frigorifero”. Insomma, lui ti presenta un problema per il quale è sicuro che in due riuscirete a trovare una soluzione, questo è quanto. È così evidente che, adesso, sta cercando di trovare le parole per farmi un discorso completamente diverso, che davvero mi viene voglia di fargli due coccole e dirgli che non importa, suvvia, qualsiasi cosa sia andrà a posto da sola, non preoccuparti, Chaku.
Tra l’altro in tutto questo mi viene in mente – così dal nulla – che da quando è entrato non mi è ancora saltato addosso, e questo dovrebbe preoccuparmi. Mi viene in mente all’improvviso perché ormai quando ho il Chaku intorno ho imparato ad autosettarmi in una modalità di ricezione dati che sia Chaku-friendly, e siccome quest’uomo ha tempistiche tutte proprie devo anche adattarmici, o rischio di combinare casini. Mi viene anche da pensare che lui non si preoccupa di generare disastri quando si muove, lui si muove e basta devastando l’ambiente circostante, un po’ come Anis, ma questo non è davvero un problema, al momento. Io sono uno che a queste cose ci sta attento.
Comunque, è strano che non abbia già trovato una scusa random per espletare quella che è la sua funzione primaria nel mondo, ovvero disperdere il seme, per cui mi viene da pensare “cazzo, sarà davvero preoccupato per qualcosa di serio, il Chaku, o non sarebbe qui a rigirarsi i pollici invece di usarli in modo decisamente più proficuo”, e mi siedo al suo fianco sul divano, cercando di guardarlo negli occhi per provare a intuire cosa confonda ulteriormente il suo cervello già confuso a livello base.
Insomma, lui si gira e mi guarda. Solo per una frazione di secondo, e io lì, in quella frazione di secondo, leggo tutto quello che mi serve sapere: il senso di colpa. Parliamone. Quest’uomo non s’è mai – mai mai mai – sentito in colpa nei miei confronti anche quando ha fatto cose per le quali una persona normale sarebbe andata di gran carriera a costituirsi alla prima centrale di polizia disponibile. E, Dio mio, non oso immaginare cosa possa aver combinato questa volta per avere stampata in faccia un’espressione così colpevole da essere tanto palese, nella sua colpevolezza, da lasciarmi turbato.
- Chaku? – lo chiamo, un po’ incerto, - Togliti quella roba dalla faccia, se non è indispensabile che tu ce la tenga.
- …uh? – chiede lui, confuso, passandosi un dito su una guancia come ci fosse rimasto sopra uno sbuffo di panna o che so io, - Di che-
- Che cos’hai? – taglio corto io, anche perché non mi va di spiegargli che ormai lo leggo come un libro aperto e non è il caso che faccia tanto il misterioso, - Avanti, parla, o la testa ti diventerà così calda che ti prenderà fuoco il berretto.
Il Chaku inspira ed espira profondamente. Si gonfia tutto come un palloncino e poi si risgonfia, mi sembra improvvisamente molto piccolo, a guardarlo adesso, anche perché è tutto curvo e abbacchiato e non mi guarda e invece io sto qua con la schiena bella dritta e lo fisso perché mi piacerebbe anche avere una risposta entro il prossimo trentennio, Chaku, non è che posso restare qui in attesa del momento in cui ti sentirai pronto a svelare i misteriosi e oscuri segreti della tua psiche.
- Senti, io e te dovremmo parlare. – mi dice, e già il fatto che sia lì a usare condizionali a sproposito mi urta. Voglio dire, sei venuto fin qui, hai preso possesso del mio divano e sei qui a inspirare ed espirare teatralmente da mezz’ora, mi pare chiaro che dobbiamo parlare e non dovremmo parlare, quindi parla. – A proposito di una cosa molto importante.
Comincio a subodorare qualcosa, perché Chaku non ha molte cose veramente importanti, nella sua vita. Il suo lavoro, la sua famiglia. Bill. E siccome per lavorare lavora e lutti in famiglia non ce ne sono ancora stati, almeno che io sappia, mi sa che il problema qui è anche più grave di quanto non avessi immaginato. Ed ecco che si spiega il senso di colpa nei suoi occhi.
Mi alzo in piedi e mi dirigo verso la cucina, perché non voglio stare qui seduto mentre lui mi dice ciò che mi deve dire. Voglio avere le mani e la testa occupate. Prendo a montare la moka con una precisione quasi malata, stando bene attento a non versare caffè ed asciugare con un panno ogni singola gocciolina d’acqua sulla superficie metallica.
- Fler… - mi chiama lui, dalla soglia della porta, avvicinandosi a disagio. – Mi dispiace. – dice solo, abbassando lo sguardo. E io vorrei – anzi, voglio, stavolta voglio – fargli notare che non può dare sempre per scontato che io lo capisca a prescindere. Non può pretendere che lo scusi, non può pretendere che lo perdoni, se non trova neanche le palle di dirmi come stanno le cose. Io non posso farlo, se lui non si prende almeno la responsabilità di impedirmi di capirle da solo.
- Per cosa ti dispiaci? – chiedo, continuando a preparare il caffè e ripulendo il ripiano con una pezza umida. Il mobile in legno laccato bianco torna subito immacolato. Ho una bella casa, cazzo, la vivo così poco. Sono un cretino.
- …lo sai. – biascica lui, incapace di sollevarmi gli occhi addosso.
- No, non lo so. – continuo io, e mi rendo conto di essere odioso, e anzi, in un’altra situazione sicuramente a guardarmi agire con un atteggiamento simile mi prenderei a cazzotti da solo, ma qui ed oggi Chaku non può veramente pretendere della bontà da me, ed io in ogni caso non sono disposto a concedergliela.
Chakuza sospira, si avvicina e io faccio uno scatto indietro, perché non voglio che mi tocchi. Non voglio neanche che mi sfiori o che le sue mani possano arrivare ad una distanza tale da poterglielo permettere anche se poi non lo farà. Lui mi guarda come se l’avessi appena accoltellato alla schiena, e recupera la caffettiera, poggiandola sul fornello e accendendo il fuoco.
- Bill è venuto da me, qualche giorno fa. – comincia. Io comincio a contare i giorni in cui non l’ho visto, recentemente, e mi do dell’idiota. – Lui e Bushido hanno rotto. – comincio a contare anche i giorni in cui Anis ha chiamato, sempre più spesso, intrattenendosi in conversazioni sempre più lunghe, e mi do della testa di cazzo. – Bill dice di volerci provare. Dice di essere serio, stavolta.
E io mi mando a fanculo da solo e basta, davvero, perché certe cose puoi non vederle solo se non vuoi farlo.
Mi volto verso di lui con una lentezza che stupisce per primo me stesso. È come se il mio corpo stesse cercando di fermarmi per impedirmi di fare qualche pazzia. Ma io la voglio fare, questa pazzia. Cazzo, se la voglio fare, Dio, ora che lo guardo con quell’espressione colpevole ancora addosso ho come l’impressione di non aver mai voluto qualcosa così tanto, nella mia vita. È perché volevo te, Chaku. Ti ho voluto con una forza che tu non t’immagini nemmeno, ti ho voluto con una forza che nemmeno Bill può immaginare, perché io il ragazzino lo adoro, ma quello che ha voluto l’ha sempre ottenuto senza sforzare niente più dei suoi occhioni e delle sue labbra a sbattere un po’ più lentamente e piegarsi in un sorriso appena più triste. Cazzo, Chaku. Cazzo.
Il primo pugno non lo realizzo in maniera cosciente. Mi fanno male le nocche della mano e anche il dorso, quindi non posso fare a meno di realizzarlo a livello fisico, ma nella mia testa? io non sto picchiando nessuno. Se la mano mi fa male è perché la congiunzione astrale che proietta i suoi influssi su di noi ha evidentemente degli effetti negativi sul mio karma, effetti che poi si ripercuotono sotto forma di dolori ossei sparsi qua e là e concentrati sulla mia mano destra.
Il secondo pugno lo realizzo per forza, perché il Chaku comincia a sanguinare. Mi macchia di rosso il pavimento cadendoci a terra, e la cosa più assurda di tutte, la cosa più triste, è che non si difende. Non lo so, probabilmente starà pensando qualcosa del tipo “ora lo lascio sfogare, magari mi spezza qualche osso ma alla fine lascia perdere”. Chaku, guarda che ti stai sbagliando, e anche parecchio. Io sono fuori di me, non ci vedo più e tutto quello a cui riesco a pensare in questo momento è come inchiodarti meglio a terra per prenderti a cazzotti fino a quando a sporcare il mio pavimento non sarà solo il tuo sangue ma anche il tuo cervello spappolato. Per ciò, Chaku, alzati e reagisci, almeno prova a malmenarmi, se ti riesce, perché sennò da qui vivo non esci.
Lo afferro per i polsi e li tengo stretti tra le dita con più forza di quanta non vorrei utilizzarne – molta più di quanta ne serva, peraltro, perché Chakuza, d’accordo, non è esattamente esile come un preadolescente anoressico, ma la sua forza non è neanche paragonabile alla mia quando sono infuriato. Lui devasta le case? D’accordo, ma io pestavo gli spacciatori marocchini trentenni a sedici anni nei vicoli di Tempelhof. Misurati con questo, austriaco.
Stringo tanto forte che sento le ossa scricchiolare sotto i polpastrelli. Penso che potrei spaccargli i polsi e sarebbe divertente osservare la sua faccia stravolta mentre si rende conto che non ho intenzione di lasciarlo andare, ma poi capisco che sarebbe troppo netto, come avviso, che se davvero voglio fargli capire quali sono le mie intenzioni prima di portarle a termine e ucciderlo senza pietà come merita, devo andarci con mano più leggera. Perciò i polsi non li spacco, li tengo stretti e li imprigiono sotto le ginocchia, schiacciandolo contro il pavimento. Lui si dibatte per un po’, ma cazzo, non sono certo un peso piuma, e lui non riesce a muoversi. Voglio sentirti implorare, Chakuza, voglio che tu mi chieda sanguinando di lasciarti andare, perché ho come l’impressione che questo sarà l’unico modo in cui riuscirò a dirti addio davvero.
Certe relazioni che si aprono nel sangue, non possono fare altro che chiudersi nello stesso modo. È per questo motivo che avrei dovuto capire immediatamente che la mia relazione con Anis non avrebbe mai potuto chiudersi nel modo in cui pensavo si fosse chiusa, col nostro sangue mescolato su un marciapiede sporco e solitario in una strada secondaria persa nel nulla in mezzo a Berlino: la mia relazione con Anis non è cominciata nel sangue, quindi non poteva chiudersi lì. La nostra sì, Chakuza, quindi vediamo di chiuderla adesso.
All’inizio non sento che mi sta chiamando. Preso come sono a sbattergli addosso i pugni fra il viso e il petto, non riesco a trovare abbastanza concentrazione in più per mettere in funzione le orecchie e percepire la sua voce. Poi la sua voce – ridotta a un rantolo sottile e vischioso come i rivoletti di sangue che gli colano giù dalle labbra e dal sopracciglio – riesce a farsi strada fra i thud compatti delle mie nocche contro le sue ossa, e io lo sento. Per un secondo, più o meno, riesco a ignorare i complimenti interiori che gli rivolgo per essere sopravvissuto più a lungo di quanto altri esseri umani al suo posto non sarebbero stati capaci di fare, perché sentirlo gemere di dolore sotto i miei colpi è troppo soddisfacente, è una cosa che ho represso senza darle sfogo per troppo tempo per non apprezzarla in maniera assoluta e totale. Continuo a pestarlo, un cazzotto dopo l’altro, e ascolto la sua voce generalmente così profonda diventare sempre più sottile e mi compiaccio, davvero, perché quest’uomo nell’ultimo anno per me è stato una montagna concettualmente insormontabile, nonostante le sue dimensioni tutto sommato ridotte, e adesso sono io che l’ho messo giù, sono io che gli sto facendo del male, sono io che comando, sono io che decido, Chakuza, la tua vita è nelle mie mani e credimi, non sta facendo male un terzo di quanto non abbia fatto male a me lasciare il mio cuore nelle tue.
Mi fermo – del tutto all’improvviso e senza neanche volerlo – quando mi rendo conto che non sta più protestando. Non è facile, in realtà, perché sono molto più attratto da particolari scemi tipo la macchia di sangue che si allarga sulle piastrelle sotto di lui, o il modo in cui strizza le palpebre nel tentativo di proteggere almeno gli occhi. Quindi in un primo momento niente, il pensiero di poter essere andato un po’ oltre neanche mi sfiora, e per un po’ continuo a pestarlo come fosse ancora tutto a posto – in un certo senso – e questa fosse ancora una colluttazione normale in cui io attacco e lui si difende.
Poi, finalmente, capisco che non è così. Che lui è immobile, non parla, non si agita, e pure il respiro in realtà s’è fatto un tantino faticoso, che potrebbe essere perché gli sto seduto sullo stomaco, ma anche perché gli ho sfondato la testa a cazzotti, non essendo io medico non lo posso capire subito. Perciò, la prima cosa che faccio – dopo, naturalmente, aver frenato le mani, prima di devastarlo del tutto – è cercare di sincerarmi che sia ancora vivo.
- …Chaku? – chiamo piano, e voglio dire, mi viene anche un po’ da ridere perché io non posso pestare un uomo fino a fargli diventare il cranio ovale e poi chiamarlo Chaku, c’è qualcosa che non va. – Chaku, stai bene?
Dico, deficiente che non sei altro, non sta bene no. Ti pare – mi dico, sempre da solo, che tanto il Chaku non può parlare e sono quasi sicuro che, anche se potesse, non sarebbe un compagno di conversazione adatto – che uno può passare un’intera mezz’ora della propria vita sdraiato su un pavimento a farsi cambiare i connotati da un pazzo isterico cui non va giù di essere stato appena mollato?, che poi è questo che è successo, eh?, niente di meno e niente di più, io sono stato mollato e quindi gli sono saltato addosso con la chiara intenzione di ammazzarlo. Voglio dire, avevo i miei motivi, ma non si fanno, queste cose. Quindi no, chiaro che non sta bene, che cazzo gli chiedo?, che se potesse rispondermi mi tirerebbe uno dei suoi soprammobili oblunghi sul naso. Certo, sempre se fossimo a casa sua.
Comincio ad essere un po’ confuso.
- Chaku. – lo chiamo ancora, più seriamente, scendendogli di dosso così magari evito di ucciderlo definitivamente, e sollevandogli piano la testa per rendermi conto del fatto che no, non gliel’ho spaccata contro il pavimento, è ancora lì, perfettamente sferica, giusto un po’ bozzuta dove ha battuto, e la chiazza di sangue che c’è sotto tanto per cominciare non è così ampia come l’esaltazione di prima mi faceva pensare, e tanto per concludere, cosa ancora migliore, è giusto il sangue che è uscito dalle ferite sul viso, non è che gli ho bucato il cranio ed è scivolato fuori dalle orecchie quel po’ di cervello che gli era rimasto. È ancora integro, intendo, più o meno.
- Ok… - cerco di scandirmi il tempo da solo, nel silenzio surreale in cui è immersa la mia casa da quando ho smesso di picchiare Chakuza, - Vediamo di capire… - biascico, ma parlo senza neanche sapere cos’è che sto dicendo, perché in realtà voglio solo sentire qualcosa, dato che il vuoto un po’ mi spaventa. Non mi sento in grado di controllarlo, specialmente in questo momento. – Ora ti metti in piedi. – suggerisco, ma naturalmente il Chaku da solo non lo fa mica, anche se sento che ora respira meglio, quindi magari si sta riprendendo. Lo sollevo cercando di fare piano, me lo carico in spalla e lui si lascia dietro una scia di sangue neanche stessi trascinando un cadavere, sporcandomi tutta la maglietta.
Mi mugola qualcosa addosso mentre lo trascino verso il divano e poi lo sistemo fra i cuscini cercando di usare la maggior delicatezza possibile. Quando torno a guardarlo, lui ha gli occhi aperti. Cioè, non proprio aperti, diciamo meno chiusi di prima. E guarda il mondo con aria del tutto disinteressata. Probabilmente il cervello tutto a posto proprio non è, dev’essersi staccato dalle pareti della scatola cranica e ora galleggia lì in mezzo a liquidi non ben definiti con tutte le sinapsi scollegate, e già mi figuro il resto della vita di quest’uomo costretto a rimanere sul divano mentre Bill lo nutre con minestrine varie cercando di impedirgli di sbrodolarsi sul bavaglio. Oddio, conoscendo il ragazzino non reggerà neanche due mesi, ma d’altronde anche io probabilmente lascerei perdere dopo un periodo non tanto più lungo, perciò è meglio che lo rimetta in sesto o qua è un disastro.
- Cosa… - mormora lui, incerto, e io evito di restare lì in attesa mentre lui riprende coscienza di ciò che è e di cosa gli sta succedendo, e vado in bagno, nella speranza di avere lì una cassetta del pronto soccorso. È ridicolo, so dov’è la cassetta del pronto soccorso in casa del Chaku, so dov’è in casa di Bill, so dov’è in casa di Anis e so dov’era in casa di Nicole, ma non ho idea di dove sia qui in casa mia. Non so neanche se ci sia.
Fortunatamente c’è, quindi quando torno indietro non lo faccio a mani vuote come un cretino, ma con il disinfettante e un vario campionario di cerotti di diverse dimensioni fra le mani. Chakuza mi guarda senza capire cosa ci faccia io lì, probabilmente.
- Mi dispiace. – butto lì giusto per dire qualcosa, - Spero non faccia troppo male.
- Uh? – chiede lui, senza dimostrare particolare presenza a se stesso, - Male? Non direi, ma non lo so, sono un po’ intorpidito…
Fortuna che sei intorpidito, penso io, se eri vigile e attento probabilmente stavi giù urlando in preda al dolore desiderando la morte piuttosto che subire ancora questa tortura infinita. Mi seggo accanto a lui sul divano, imbevo un po’ di cotone idrofilo nel disinfettante – l’alcool che non brucia, quello dei bimbi piccoli, non ricordo nemmeno quando l’ho comprato ma ero sicuro che, se dovevo avere del disinfettante, sarebbe stato questo, perché odio il bruciore dell’alcool normale. Ne odio anche il colore, per la verità.
- Stai buono, - dico, passando il batuffolo sulle ferite, cercando di fare piano, - Ti do una sistemata.
Lui annuisce ed io mi metto lì buono a fare qualcosa che non so fare, perché quando andavo in giro pestando gente per strada e ricevendo da loro lo stesso quantitativo di botte che somministravo, era mia madre a rimettermi a posto. Poi, le varie fidanzate di Anis, donne che avevano imparato l’arte standogli accanto. E anche l’ultima volta, è stato Chakuza a prendersi cura di me.
Io non sono per niente capace, ma visto che sono stato io a ridurlo in questo stato pietoso, è giusto che mi prenda le mie responsabilità e lo rimetta in sesto. D’altronde, qualcuno dovrà pur farlo. Uno qualsiasi di tutti noi.
Restiamo in silenzio così a lungo che riesco, per un po’, a crogiolarmi nella piacevole sensazione che Chakuza si lascerà ripulire e poi andrà via sempre restando zitto. Sarebbe una bella cosa, da parte sua, almeno dimostrerebbe di aver capito quanto cazzo ci sto male, e di non voler rigirare ulteriormente il dito nella piaga.
Purtroppo, però, è di Chakuza, che stiamo parlando. Lui il dito nella piaga te lo rigira non perché non voglia, ma perché non arriva a capire che non è il caso.
- Fler, - comincia, - io non vorrei che tu pensassi—
- Io vorrei che tu non dicessi niente, adesso. – lo interrompo, riponendo tutto al proprio posto nella cassetta del pronto soccorso ed ammucchiando il cotone idrofilo sporco di sangue di lato, per gettarlo via, - Ho capito l’antifona. E, credimi, vorrei poterti dire che sono felice per te e che possiamo rimanere amici, ma non posso farlo. – vedo qualcosa spezzarsi nei suoi occhi. Schiude le labbra e so che vorrebbe provare a fermarmi, ed è proprio il caso che io non glielo permetta, perché stavolta non ce la posso fare, Chaku. Stavolta proprio no. – Non guardarmi così. – cerco di sorridere, - Sarai felice, anche senza avermi intorno. Probabilmente andrà anche meglio. – e poi torno serio, e il sorriso scompare. – Non cercarmi. Non mi lascerei trovare comunque.
Il nostro addio è molto più impersonale, impacciato e meno sentito di quanto non abbia mai pensato immaginandomelo. Lo accompagno alla porta con tranquillità, cercando di non dargli a vedere che mi reggo appena sulle gambe anche se so che lui se ne accorge. Lui mi saluta con un ciao dimesso, cercando di non darmi a vedere che gli tremano le mani anche se sa che io me ne sono accorto. Quando la porta si chiude alle sue spalle, il suo profumo resta nell’aria di casa mia appena il tempo di essere mangiato dall’odore dei mobili ancora troppo nuovi, e poi io scrollo le spalle, vado in cucina e comincio a ripulire per terra.
*
Da quando Chakuza è uscito da quella porta, nient’altro c’è passato. Nemmeno io, che sono chiuso in casa da cinque giorni. Non è che abbia chissà che paranoie in mente, paura di incontrarlo o chissà che – Berlino è grande e “frequentare lo stesso giro” ha perso senso da quando Bill e Bushido sono due giri diversi a sé stanti – è solo che non mi è venuta voglia. In casa avevo tutto ciò che poteva servirmi, ho dovuto raschiare un po’ il fondo del barile, ma tra scatolette e cibi precotti vari sono sopravvissuto dignitosamente a questa quasi-settimana di solitudine senza rimpiangere il mondo di fuori neanche per il calore del sole sulla pelle. Ti scalda altrettanto anche attraverso i vetri delle finestre.
Quando Bushido arriva, ovviamente senza prima preannunciarsi, mi trova con una pezza umida fra le mani e le maniche del maglione tirate su fino ai gomiti. Stavo lavando i piatti dopo un lauto pasto a base di fagioli in scatola riscaldati a bagnomaria. Ora sono le undici e mezza di sera, lui è sulla soglia della mia porta, è il primo essere umano che la attraversa da giorni ed è ubriaco.
- Anis…? – lo chiamo, ma lui non risponde. Mi fa un sorriso idiota e mi si scaraventa fra le braccia, si vede proprio che si lascia andare, che non ne può più di stare in piedi. Siccome è leggero come un materassino di gommapiuma, lo tengo dritto e lo accompagno verso il divano, chiudendomi la porta alle spalle e cercando di sistemarlo fra i cuscini cercando di impedire che rotoli a terra. – Anis, ma che cazzo—
- Sono ubriaco. – dice lui, come a volermene informare nel caso non l’avessi capito.
- Sì, l’avevo afferrato. – gli faccio presente con una smorfia, - Puzzi tanto che ti sentirei pure a due isolati di distanza, cazzo, ma quanto hai bevuto?
- A sufficienza. – risponde lui, annuendo come se servisse un tono professionale per parlare di una roba simile. Sospiro e roteo gli occhi, sedendomi accanto a lui sul divano e tirandogli un’ancata per costringerlo a spostarsi un po’ e farmi spazio.
- Sì, a sufficienza per farti esplodere il fegato. – ribatto, e lui subito scoppia a ridere come avessi fatto la battuta del secolo, e mi tira uno scappellotto sulla nuca. Solo che poi la mano resta là, e siccome di tenerla immobile non gli va, perché mai nulla nel suo corpo è immobile, prende a farmi delle carezzine minuscole, quasi impercettibili, neanche fossi un cane o un qualche altro animale domestico. – Che è successo? – chiedo con un sospiro, e sospiro perché già lo so cosa è successo, e so anche che sentirmelo ripetere non mi farà bene, perché ciò che Anis mi dirà ha delle implicazioni che lui non conosce e delle quali vorrei parlargli, ma non posso farlo. Tutto ciò che posso fare è restare in silenzio ed ascoltarlo mentre, fissando la parete di fronte a sé, in un punto vuoto defilato rispetto al televisore e ai quadri astratti che erano già qui quando ho preso l’appartamento, mi racconta quanto fa schifo la sua vita al momento, e perché.
La cosa sorprendente è che mi parla di tutto. Principalmente di Bill, com’è ovvio, ma in realtà non tralascia niente. Mi parla dell’etichetta a puttane, di tutta la rete di amicizie che aveva intessuto e che ora è scomparsa quasi del tutto, ma anche di sua madre e di quanto faticosamente abbia accettato tutto ciò e provi comunque a stargli accanto, seppur con difficoltà. Mi parla di suo padre che mentre lui era a Miami è morto e del fatto che non mi sa dire se gli dispiaccia non essere andato al suo funerale e non aver saputo a lungo neanche che un funerale ci fosse stato. Mi parla del vuoto nel petto che sente quando ci pensa e mi parla del freddo che c’è in casa, che è enorme, e mi parla del profumo di Bill che ogni tanto sente ancora quando apre l’armadio o schiaccia il naso contro un cuscino. E mi parla dello spazzolino della sua principessa che è ancora lì nel bicchierino in bagno, dei suoi asciugamani, di tutte le cose che non ha portato via perché erano oggettivamente troppe e in gran parte inutili, decorazioni stupide con cui rinforzavano entrambi la sensazione dello stare insieme. E che ora restano lì solo a testimoniare che insieme non esiste più.
Anis tutte queste cose può dirmele solo perché ora sta così. Perché non ce la fa più a tenersele dentro e l’alcool lo sta usando come scusa per tirarle fuori. Perché prima Bushido era la parte più grande di lui ed ora invece è solo il nome che usa per lavorare. E sarebbe bello vederlo ritornare Bushido davvero, non perché non mi piaccia Anis, ma perché Bushido è tutto ciò per cui Anis ha combattuto. È tutto ciò che si è guadagnato. Ed è orribile vederlo gettare via una parte così enorme e significativa di lui, indipendentemente dal fatto che sia colpa sua o meno se quella parte è morta.
Sollevo una mano, un po’ incerto, e gliela batto sulla spalla in un paio di pacche che spero siano consolatorie. Mi fa schifo dirgli cose banali quando lui invece fino a questo momento mi ha detto cose tremende e bellissime aprendosi il cuore in due e lasciandone venire fuori tutto il sangue, per capirci, ma non è che possa fare poi molto altro.
- Cerca di stare tranquillo. – gli dico, forzando un sorriso bugiardo anche più delle parole che pronuncio, - È probabile che sia solo un momento di confusione. Bill è piccolino, lo sai, è solo un ragazzino. Vedrai che… - deglutisco, prima di andare avanti. Mi chiedo “ma ci credi davvero?”, e rispondermi “no” non basta a fermarmi. – Vedrai che alla fine tornerà da te, e andrà tutto a posto.
Anis, che fino ad ora non mi ha guardato per niente, si volta nella mia direzione. Ha gli occhi lucidi e i capelli scompigliati che gli cadono sulla fronte e sulle tempie. La barba è un po’ più lunga del solito, ma il disegno è rimasto intatto. I suoi lineamenti dritti e fieri sono gli stessi che mi perdevo ad ammirare da ragazzino, quando cercavo di trattenere in corpo più alcool di quanto non potessi fisiologicamente lasciarmi scorrere nelle vene, solo per cercare di dimostrargli quanto fossi grande, quanto potesse ritenermi un suo pari, quanto potesse fidarsi di me.
- Per quanto mi riguarda, - risponde, il tono molto più lucido di quanto entrambi non vorremmo, - può restare dov’è per sempre. Se Chakuza lo rende felice, ci resti. Io… - sospira, cercando di rilassare i muscoli e gettando indietro il capo, poggiandolo sullo schienale e fissando il soffitto, - non ti dico che ho sbagliato. Ho fatto ciò che ho ritenuto opportuno in quel momento, ma purtroppo le cose non sono andate come avevo pensato. In questo momento non saprei neanche dirti se è vero che sono tornato solo per l’etichetta, o se forse non ero semplicemente arrabbiato perché non riuscivo più a tollerare di non avere più niente quando prima avevo tutto. Il punto è che mi sono stancato. – torna a guardarmi, la sua mano pressa ancora contro la mia nuca ed io non so se dovrei averne paura, - Ci ho provato, a rimettere le cose a posto. Ma non ci sono riuscito. Ed ora sono stanco. E non mi va più di tentare. Per cui, che vada come deve andare. Abbasso le armi, il re ha perso. Qualcuno ne sarà felice.
Mi verrebbe voglia di abbracciarlo, ma allo stesso tempo ho paura di cosa potrei fare se mi lasciassi andare a questo punto. Stringo un po’ la presa sulla sua spalla, come a cercare di rassicurarlo con maggiore convinzione. Lui mi guarda con un pizzico di delusione negli occhi e io distolgo lo sguardo.
- Vado a preparare un po’ di caffè. – dico dopo essermi schiarito la voce, alzandomi in piedi e liberandomi della sua mano ancora ferma e pesante sulla nuca, - Vediamo se posso rimetterti in sesto abbastanza da rimandarti a casa tua… altrimenti, c’è il divano. – dico, con una mezza risatina imbarazzata.
Scappo in cucina con la coda fra le gambe, mi sento una merda e non ci sto con la testa. L’agitazione che mi ha preso guardandolo negli occhi per quella frazione di secondo non è spiegabile se non con tutta l’interezza del nostro vissuto. Che è una cosa in cui pesano tanto le parole che ci siamo detti, ma ancora di più quelle che nessuno di noi ha mai avuto il coraggio di pronunciare ad alta voce.
Non so quanti secoli ci metto a preparare la dannata moka. Lo faccio con metodo perché voglio tempo e non voglio pensare, e questo mi ricorda Chakuza, ed al fatto che questa moka la stavo preparando così anche mentre lui cercava di mollarmi fallendo per principio, e questa cosa mi mette addosso ancora più agitazione. Ho paura per quello che potrebbe succedere questa notte in questa casa – ci sono cose che non dovrebbero mai accadere. Ci sono cose che è meglio se restano ipotesi. Io ci credo fermamente, in questa cosa. E so che Anis riuscirebbe a gettare in terra tutto quello che ho costruito con fatica in tutti questi anni senza la minima difficoltà. Io non ho quasi mai paura fino al punto da tremare, ma sto tremando come una foglia. E me ne accorgo solo quando le mani di Anis si posano sulle mie spalle, stringendo e mollando impercettibilmente la presa mentre sento il suo respiro caldissimo sulla nuca.
- Forse avevi ragione tu fin dall’inizio. – parla pianissimo, sulla mia pelle. Non riesco a ricordare molte occasioni in cui ho sentito il suo respiro così vicino da confonderlo col mio. – Sarei dovuto rimanere con te.
Mi cade la caffettiera dalle mani. Fa un baccano infernale andandosi a schiantare sul fondo del lavandino. Si apre in due, ne viene fuori tutto il caffè. Avevo appena pulito. Non riesco a voltarmi e nemmeno a parlare, mi sento di ghiaccio. Non so nemmeno se respiro ancora e sono ancora vivo, o se a tenermi in piedi è solo la tensione.
Lui si china appena in avanti, sento le sue labbra calde e un po’ umide sul mio collo e lascio andare un gemito involontario che è di pura sorpresa.
- Pat. – mi chiama lui, pianissimo, - Guardami.
Io non lo voglio guardare, ma quando entra in gioco Bushido volere e non volere sono cose indipendenti dalla tua volontà, per quanto tutto ciò possa sembrare assurdo. Quindi il punto non è se io voglio o meno, perché vuole lui, e tanto basta per costringermi a girarmi e obbedire.
Nei suoi occhi non lo capisco cosa c’è. Sono tristi, però. Sollevo una mano e gli accarezzo una guancia, lui si appoggia contro il mio palmo con un gesto esausto. Siamo vicinissimi, sento tutti gli spigoli e le curve del suo corpo addosso. Sento cose che preferirei non sentire. Mi viene da ridere se penso che lui di me e Chakuza non sa niente, in teoria dovrebbe ancora credermi etero – se mai gli è sorto il dubbio sul punto. Odio pensare a Chakuza anche in questo momento, vorrei poterlo buttare fuori dalla mia testa a calci, ma non ci sono mai riuscito in tutto quest’anno e mi spaventa, sinceramente, che non ci stia riuscendo neanche Anis adesso.
Poi si sporge in avanti e poggia le labbra sulle mie. È una cosa così stupida, siamo grandi, abbiamo superato l’adolescenza da abbastanza tempo per evitare i baci a stampo, soprattutto quando non è il caso di perdersi in cazzate simili, eppure all’inizio sono solo le sue labbra. Sanno di lui mischiato a tutto l’alcool che ha mandato giù prima di venire qui. Hanno esattamente lo stesso sapore che potevano avere dieci anni fa. Mi sembra di stare chiudendo un cerchio e mi fa paura anche questo perché i cerchi, per loro natura, sono ciclici. Chiuderne uno non vuol dire interromperlo.
La sua lingua mi accarezza piano dopo un po’, ed io esito solo un attimo, prima di lasciarla passare. E quando ci sfioriamo davvero, quando il bacio comincia a diventare una cosa seria, bagnata e calda, lo sento sporgersi in avanti con più decisione. Pianta le mani sul lavello, ai lati del mio corpo, e mi si schiaccia addosso. Io allaccio le braccia dietro la sua nuca e lo stringo con tanta forza che mi fanno male le spalle, le dita e i polsi. E tutto comincia a diventare più confuso, se non altro perché io mi rompo le palle di pensare, di farmi domande, di riflettere su quanto ci faremo schifo domani e quanto tutto ciò sarà stato inutile perché nella merda siamo e sempre lì resteremo indipendentemente da quanto a lungo e con quanta forza anche inconsciamente abbiamo atteso questo momento. C’è Anis che mi accarezza ovunque spingendosi contro di me, ho un suo ginocchio fra le gambe e le sue labbra che mollano le mie solo per permettermi di respirare, ma siccome non riescono ad abbandonarmi del tutto scendono lungo il mio collo, mentre le sue dita afferrano l’orlo del maglioncino e lo tirano violentemente verso l’alto per liberarsene.
Potrei cercare di fermarlo, ma non voglio. Il pensiero che sia ubriaco dovrebbe obbligarmi a cercare di interrompere tutto questo, ma me ne frego. C’è questo momento bellissimo in cui mi slaccia i pantaloni e me li lascia scivolare lungo le gambe, e prende ad accarezzarmi guardandomi negli occhi. Mi vanno a fuoco le guance e sono imbarazzato come mai in vita mia, ma non riesco a smettere di guardarlo a mia volta. Ansimo sulle sue labbra, quasi silenziosamente, e lui mi bacia solo ogni tanto, è come se aspettasse di sentirsi scivolare il mio sapore via dalla lingua e poi tornasse subito a cercare di catturarlo ancora, per vedere quanto a lungo riesce a trattenerlo. E poi gli afferro un polso per fermarlo e, quando riesco a farmi lasciare, faccio per voltarmi e dargli le spalle, ma lui mi ferma.
- No. – dice semplicemente, e quando io torno a guardarlo mi aiuta a issarmi sul ripiano della cucina. Quando lo sento duro fra le gambe, due secondi dopo, capisco cosa vuole, e lo bacio con foga, stringendo il suo viso fra le mani. Mi ci perdo del tutto, lui mi stringe per i fianchi e subito dopo sta già spingendosi con forza dentro di me. Non credo che si stia chiedendo qualcosa a riguardo, e mi sta bene così. Voglio che questo momento sia solo nostro, che non ci sia spazio per nient’altro.
Tremo quando ricomincia ad accarezzarmi fra le cosce, e chiudo gli occhi con tanta forza che vedo bianco. Lo sento ridere appena vicino al mio orecchio, con la mano libera torna a stringermi possessivamente il fianco.
Non mi dice nulla, anche se potrebbe dirmi qualsiasi cosa. Avrebbe davvero il potere di devastarmi la vita, in questo momento, se solo dicesse quelle tre parole che non so se gli siano mai girate per la testa in relazione a me, ma che per quanto mi riguarda sono state un pensiero fisso molto a lungo, tra un momento in cui cercavo di nascondermelo e l’altro. Però lui non lo dice. Forse ce l’ha lì, sulla punta della lingua, ma capisco chiaramente che preferirebbe staccarsela a morsi pur di non farmi del male adesso, e quindi non lo dice. Ed io vengo fra le sue dita con un gemito liberatorio, e me lo stringo forte contro mentre lui continua a spingere dentro di me finché non lo sento venire a sua volta, stringendomi forte i fianchi e mordendomi la spalla abbastanza forte da lasciarmi il segno ma non altrettanto da farmi male.
Restiamo immobili giusto il tempo di riprendere fiato, e quando ci allontaniamo, nell’attimo che passa fra il momento in cui fa un passo indietro e quello in cui torniamo a guardarci negli occhi, mi faccio assalire dalla paura irrazionale che guardandoci non ci riconosceremo, ci vedremo come due estranei e ci chiederemo che cazzo abbiamo fatto.
E invece, quando ci guardiamo, scoppiamo a ridere. Come due imbecilli. Io mi piego in due così tanto che cado dal ripiano e rotolo sul pavimento. Mi faccio un male cane ma non riesco a smettere di ridere, e Anis che mi guarda in queste condizioni non può fare altro che ridere più forte. Ed è un dramma quando succede così, perché le risate si alimentano di altre risate, perciò finisce che rimaniamo lì a rotolare sul pavimento della mia cucina dove cinque giorni fa ho pestato Chakuza fino a fargli uscire il cervello dalle orecchie, e ridiamo come deficienti per mezz’ore intere, non so nemmeno io quanto, tant’è che alla fine siamo del tutto senza fiato ed ansimiamo come se, invece di scopare e ridere, avessimo corso la maratona di New York. Una roba surreale.
- Ho fame. – dice lui, rimettendosi in piedi e risistemandosi sommariamente i vestiti, prima di porgermi la mano per aiutarmi ad alzarmi, - Che hai in casa?
- Ma io ho già cenato! – gli faccio notare, indicando le stoviglie pulite messe a scolare, - Dai, che palle, mi devi far rimettere a cucinare?
Lui scrolla le spalle ed apre il frigorifero. Osserva con attenzione tutto ciò che ha davanti, poi lo richiude, torna a guardarmi e risponde.
- Sì, perché non c’è niente di già pronto.
Ciò detto, apre tutti gli stipetti, tira fuori una serie di cose a caso che io a stento riconosco e probabilmente non ho neanche comprato, ed erano già qui quando ho comprato l’appartamento, assieme ai quadri astratti, e poi mi sorride trionfante.
- E che dovrei farci io con… - sollevo un barattolino a caso, - del brodo granulare di pesce?
Lui sorride ancora, più apertamente.
- Comincia a mettere l’acqua a bollire. – risponde, - Non so cucinare, ma ricordo a memoria il ricettario di Karima.

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Green Eyed Monster - Vol. 1

di tabata
Qualche mese fa pensavo che per quanto ci avessimo provato, le cose non sarebbero mai tornate alla normalità. Voglio dire, avevamo scatenato un casino di dimensioni talmente epiche da ribaltare lo stato naturale delle cose, quindi mi aspettavo che – per quanto le acque potessero calmarsi – non ci sarebbe mai più stata una vera e propria condizione di normalità a cui tornare. E' quello che succede sempre quando ad un certo punto della tua vita ti rendi conto che tutto quello in cui credevi è andato a farsi benedire e intorno a te ci sono solo cose che non tornano. Sei così angosciato e perso nella tua personalissima e tragica visione delle cose che, in effetti, credi che non esisterà mai più una realtà diversa da quella che vedi in quel momento e che, per altro, ti fa stare malissimo. In realtà, poi, se anche ti sembra che il mondo vada a rotoli, non è detto che quello ci vada davvero. Anzi, non lo fa quasi mai. Tu sei lì che cerchi di rimanere a galla nel mare di problemi in cui stai affogando, e il mondo prosegue fregandosene di te e dei casini che hai per le mani in quel preciso momento. Quindi poi, alla fine, le cose in un modo o nell'altro si sistemano – magari non proprio nel modo in cui speravi tu, ma in qualche modo sì – e tu ritrovi la strada dalla quale ti eri momentaneamente allontanato e riprendi a funzionare con il resto del mondo. E' un po' come riprendere il filo di un discorso dopo che ti sei distratto un attimo. Ti chiedi Dov'eravamo rimasti? E riprendi da lì. Non te ne accorgi neanche, di farlo. Lo fai e basta, perché non dipende esattamente da te, ma da ciò che ti circonda, da quello che fai ogni giorno, dagli impegni e dagli affetti. Ti puoi volontariamente allontanare per un po', ma poi quelli tornano, ti assalgono e non puoi più ignorarli. Devi reagire e quando lo fai, basta, riprendi il via. Un giorno ti chiedi come si possa uscire da una certa situazione e il giorno dopo ti rendi conto che ci sei uscito, che lo volessi o no, che il mondo prima o poi riparte con o senza di te. E a quel punto fai meglio ad esserci perché se non ci sei è peggio.
Quel giorno per me è oggi. Sono disteso sul letto a guardare il soffitto e penso che sono felice. Non mi ricordo quando ho iniziato ad esserlo di preciso, ma non è successo adesso, di questo sono sicuro. Cioè, non è che ho aperto gli occhi e in quel momento sono stato felice. No, io so che lo ero anche mentre dormivo e quando sono andato a letto ieri sera, solo che non ci ho fatto caso. Ora invece è tutto quanto chiaro. Sono qui che guardo il soffitto e non la sento più quella morsa allo stomaco che mi faceva venire la nausea. Sto bene, ecco. Penso che quando capita in questo modo, cioè che passi un lungo periodo in cui sei così infelice da non sapere dove sbattere la testa e poi un giorno ti svegli e non lo sei più, significa che la felicità si è fatta strada piano piano, ha messo radici, è cresciuta e si è presa tutto lo spazio di cui aveva bisogno mentre tu ancora pensavi che niente mai sarebbe più tornato ad essere quello che era. E invece quella, la felicità dico, ora è ben salda dentro di te e ha intenzione di rimanerci il più a lungo possibile. Ha delle basi solide, penso, per rimanere lì ferma dov'è, nel centro esatto dello stomaco a liberare farfalle o a farti sentire leggero, o qualsiasi cosa sia che si sente quando si è veramente ma veramente felici. Insomma, penso che quando non sai com'è arrivata, non è una felicità momentanea, ma una cosa forte e duratura, il tipo di felicità migliore che esista. Lo penso davvero questa mattina.
Decido che questa conoscenza improvvisa vada condivisa così mi giro e cerco di fare più rumore possibile mentre lo faccio, ma Peter non accenna a svegliarsi. L'unica cosa che fa è allungare un braccio nel sonno e agganciarmelo in vita, per poi attirarmi a sé come un camion da rimorchio. Un attimo dopo sono incastrato tra lui e il materasso e ho poche speranze di uscire di lì se lui non decide altrimenti. Se non fosse che gli devo dire quanto sono felice, rimarrei qui dove sono perché non mi capita spesso di svegliarmi prima di lui. In genere quando apro gli occhi lui si sta già aggirando per casa a mettere in disordine o a far da mangiare, una delle due cose, quindi non lo vedo mai tranquillo e abbandonato come adesso.
Lo bacio piano sullo zigomo e sulla guancia e lui borbotta qualcosa di incomprensibile, infilandomi il viso nell'incavo della spalla mentre stringe la presa. Sto ottenendo l'effetto contrario, mi viene da ridere. Il fatto è che è stanchissimo, il mio amore, perché ha partecipato a non so quale manifestazione in Austria ed è tornato a Berlino solo quattro ore fa, l'ho sentito rientrare nel dormiveglia. In pratica non abbiamo neanche parlato perché quando è svenuto sul mio letto, stava già praticamente sonnecchiando e a me non è rimasto altro che accoccolarmi addosso a lui e riprendere a dormire. Quindi forse non dovrei tentare di farlo reagire baciandolo di nuovo, ma glielo devo proprio dire. Al terzo bacio arriccia il naso, ma si rifiuta ostinatamente di aprire gli occhi. “Bill, che c'è?” Mugola. “Ti senti male?”
“No,” rido. “No, affatto.” Lo bacio ancora sul naso e sulle guance. “Ti svegli?”
“Sono già sveglio,” commenta con gli occhi chiusi.
“Allora apri gli occhi.”
Sospira in maniera esageratamente drammatica e poi finalmente li apre. “Che succede?” Mi chiede, passandosi una mano sul viso.
“Sono felice,” dico. Cerco un bacio e lo trovo anche, perché Chakuza può anche dormire, ma è in grado di fare cose, nel mentre.
“No, sei una piaga,” mugola ridendo. “Sei felice di cosa?”
“Di tutto,” specifico. E quando lo spingo sul materasso si lascia stendere e maneggiare perché non ha ancora capito né come si chiama né dove si trovi esattamente, così io posso sedermi sopra di lui senza sforzo. Sbuffa solo un pochino quando atterro sullo stomaco. “Mi sono svegliato ed ero felice.”
Lui si mette a ridere. “Okay, sono felice che tu lo sia,” mi tira giù per la nuca e mi bacia di nuovo.
Io scivolo un po' in avanti e mi sistemo meglio. Gli do un motivo in più per non sgridarmi se l'ho svegliato. “... Ma credo di non avere molta autonomia per continuare questa conversazione.”
“A che ora sei tornato?” Chiedo.
“Le cinque.”
“Le cinque,” ripeto, baciandolo piano sul collo. “Sei un sacco stanco, allora.”
“Molto.”
Quando scendo a baciargli il petto, però, sento il suo respiro cambiare, così è facile capire che non è abbastanza stanco per decidere di non festeggiare questa mia felicità generale in maniera adeguata. Qualche giorno fa David deve avermi accennato ad una riunione, a delle prove, ad un'intervista o qualche altra sciocchezza simile per oggi. E non sono nemmeno tanto sicuro dell'ora, ora che ci penso. Dovrò chiamarlo. Ma al momento non vedo ragione per non rimanere un altro po' in questo letto ad occuparmi di quest'uomo così stanco e assonnato, appena tornato dalla terra straniera dove ha affrontato centinaia di austriaci tutto da solo.
“Credo che dovremmo fare qualcosa a riguardo.”
Sollevo gli occhi su di lui un'ultima volta, prima di scivolare oltre la linea dei suoi addominali. Quando mi chiama è relativamente sorpreso, perché in effetti non capita sempre che io sia così ben disposto. Non di prima mattina e di certo non così di punto in bianco. E' che non dev'esserci un vero e proprio motivo, o non è abbastanza divertente.
Peter a letto è uno a cui piace avere il controllo su qualsiasi cosa, per cui sedurlo è difficile. Voglio dire, non sto parlando di farlo cedere – quello è anche troppo facile. Addirittura non necessario a volte, perché lui parte sempre ben disposto a prescindere – ma di condurre il gioco, farlo impazzire un po', ecco quello è complesso. Farlo stare fermo e buono mentre tu fai il resto certe volte è impossibile perché a lui piace allungare le mani e averti sotto le dita, toccare, accarezzare. Gli piace averti, più di qualunque altra cosa. L'unico modo per coglierlo di sorpresa è fare qualcosa quando non se lo aspetta o quando, come adesso, si aspetta tutto un altro corso di eventi. E magari il fatto che non sia proprio ancora sveglissimo aiuta.
Così mi godo il suo corpo che si inarca sotto le mie labbra, mi godo il controllo che ho guadagnato e attendo con ansia quello che poi mi spetterà, una volta che gli sarà permesso di schienarmi come e quanto vuole. In questo preciso momento, io dovrei davvero fare uno sforzo e chiedermi se David non mi abbia detto qualcosa di importante, ma naturalmente non lo faccio.
Così quando suonano alla porta – non alla prima, non alla seconda, ma alla terza volta sì – sono costretto ad abbandonare i miei sogni di gloria e Peter è costretto a fare altrettanto perché non c'è modo di ignorare la voce insistente di Tom che chiama il mio nome.
Sospiro e lo bacio sul petto. “Mi dispiace,” mormoro e nell'allungarmi su di lui sento contro una coscia la speranza che Tom ha infranto senza pietà.
Chakuza mi prende per la nuca e mi trascina in un bacio profondo. “Ignoriamolo.”
Potrei. In questo momento ne ho molta voglia perché condivido la grossa speranza di cui sopra e mio fratello non rappresenta un ostacolo finché si trova al di fuori del mio appartamento.
“Bill, non costringermi ad aprire con le chiavi,” esclama Tom, alzando la voce. “Sappiamo entrambi che io non voglio vedere quello che stai facendo.”
Rido e piego un po' la testa per impedire a Chakuza di mordermi il collo. Ora che si è attivato, è difficile spegnerlo. “Devo aprire.”
“Scommetto che se lasci che entri per conto suo, poi non ci rompe più.”
“Forse,” mi scosto e gli do un bacio come consolazione. “Ma non vogliamo arrivare a questo.”
“No, non vogliamo,” cerca di convincersi lui, tirandosi su a sedere mentre io corro ad aprire la porta che Tomi minaccia di buttare giù a testate.
Mi do un'occhiata veloce: maglietta, pantaloni, capelli prima di aprire la porta con un sorrisone che inviti alla calma, alla pazienza e soprattutto all'amore fraterno duraturo nei secoli dei secoli, amen.
“Finalmente,” commenta Tomi, che non deve essersi svegliato affatto felice come il sottoscritto.
“Scusa, stavo...” gesticolo ma poi decido che non ho una scusa adeguata. “Ciao Tomi.”
“Ciao,” borbotta lui e si guarda intorno. Fa una scansione completa della casa ogni volta che viene a trovarmi come se si aspettasse di vederla cambiare irrimediabilmente o forse, non so, crede che un giorno sarà costretto ad entrare qui dentro con la forza perché nessuno gli aprirà e la troverà vuota. Non so come fargli capire che non ho nessuna intenzione di trasferirmi in Alaska da un giorno ad un altro senza dirgli niente. “Lui è qui?”
“Sì, sono qui.” Chakuza ci raggiunge e credo che il suo indossare soltanto i pantaloni del pigiama sia una chiara provocazione nei confronti di Tom. Saluta mio fratello con un cenno della testa, quindi ci supera per andare in cucina.
Non è che Tomi lo odi e credo che non lo disapprovi neanche. E' solo che ha sempre recitato la parte del fratello maggiore che deve proteggermi, quindi anche se si è imposto di non sclerare come è successo in passato, non riesce comunque ancora a passare sopra al fatto che Peter dorme da me tutte le volte che può e che, per questo, loro due s'incrociano molto spesso.
Quindi la situazione è questa: Tom non urla e strepita e, in generale si comporta molto bene, ma ha la necessità fisica di fare la faccia seria del Se fai del male a mio fratello, te la vedi con me, e di lanciare a Chakuza un sacco di occhiatacce. Fortuna vuole che Chakuza sia bravissimo ad ignorarlo, per cui in generale, non c'è molto da arginare.
“Beh, che succede?” Chiedo alla fine.
“Succede che David mi ha mandato qui a vedere se ti ricordavi dell'intervista di Bravo e a giudicare dal tuo pigiama e dalla faccia che non commenterò, direi che non te la ricordavi affatto.”
E allora mi torna in mente che in effetti David mi aveva parlato di un'intervista, per altro importantissima, perché è tipo la prima dopo l'uscita del singolo e dopo tutta questa grande rivoluzione. Ora che mio fratello me lo sta dicendo, ricordo perfino dov'eravamo, io e David, mentre mi spiegava per filo e per segno che cosa mi aspettava. Eravamo a pranzo fuori e lui aveva la faccia seria delle grandi occasioni. So che David mi ha chiesto di essere il più vago possibile su quello che riguarda la mia vita privata, anche se ovviamente la metà delle domande riguarderà quella. Sorridi, mi ha detto, ma non dargli corda. E per l'amor del cielo non ti arrabbiare. Come se fosse mai capitato in questi sei anni che per un qualche motivo io dessi di matto e staccassi la testa a morsi in diretta a qualcuno. “Sì, giusto, l'intervista,” cerco di fare mente locale. “Devo ancora farmi la doccia.”
“Allora muoviti,” alza gli occhi al cielo e mi spinge verso il bagno. “Hai mezz'ora per fare ogni cosa, poi ti prendo così come sei e ti porto da David. Io oggi potevo starmene a casa a far niente invece che farti da babysitter!”
“Ti voglio bene anch'io, Tomi.”

*


Tom diceva sul serio quando parlava di trascinarmi fuori di casa così com'ero.
A fare la doccia ci ho messo un po' più del necessario, ma lui non ha voluto sentire ragioni. Mi ha preso per un braccio e mi ha trascinato fuori di casa che avevo ancora da sistemarmi i capelli, così mi tocca farlo in macchina con l'aiuto dello specchio che c'è nell'aletta parasole, niente in confronto al mio specchio a muro. Tomi non mi ha lasciato nemmeno salutare Chakuza come si deve. “Un minuto in più non cambiava niente,” mi lamento.
“I tuoi minuti durano intere mezzore, Bill, dal momento che hai il vizio di trasformare un normalissimo saluto in una scena madre.”
“Esagerato,” mi difendo. “Sono solo affettuoso.”
“Troppo,” sibila lui. “Tra l'altro, sei sicuro che sia il caso di lasciare quell'uomo in casa tua da solo?”
“Quell'uomo,” specifico, “si chiama Peter.”
“Quello che è,” borbotta. “In ogni caso è sempre un estraneo.”
Alzo gli occhi al cielo. “Dobbiamo di nuovo avere questa conversazione?“
“Vorrei solo che tu facessi le cose con calma.”
“Non gli ho chiesto di venire a vivere con me!” Replico senza pensare.
Tom mi guarda e poi torna a guardare la strada. Rimaniamo in silenzio per un po' e siccome non so bene come riprendere il discorso e, a quanto pare, non lo sa neanche lui, accendo la radio e mi fermo sulla prima stazione che non passa la mia voce o quella di qualcuno coinvolto in questa conversazione. Mi sono svegliato felice, stamattina, e sono ben intenzionato a rimanere tale.
“Voglio solo che tu non ci batta il muso, stavolta,” esclama alla fine.
Rimango in silenzio.
“Bill, okay, senti... Io non è che non sia felice per te, okay?” Mi dice mentre cambia marcia, senza voltarsi a guardarmi. “Sono un sacco felice perché sei tranquillo e tutto, ma hai l'abitudine di farti prendere bene dalle cose quando vanno anche solo un minimo per il verso giusto. Ti dico solo di prendere le cose con calma, di non... esagerare.”
“Cassandra dorme da te più di quanto faccia io,” commento.
“Lei non ha le chiavi di casa mia, però.”
Sbuffo e guardo fuori dal finestrino. Il fatto è che sta montando su queste chiavi una storia che non esiste. Ho dato le chiavi a Peter perché in questo periodo è sempre in giro per questo o quell'altro motivo, e torna ad orari improponibili del mattino. Se dovesse andare a casa sua, dormire lì e poi passare da me, perderemmo tutti un sacco di tempo. Invece appena rientra, può venire a dormire a casa mia, così almeno ci svegliamo insieme. Guarda un po' se devo spiegare una cosa del genere a mio fratello che, voglio dire, non fa esattamente l'impiegato per cui lo sa quant'è difficile, alle volte, far coincidere i nostri orari con quelli del resto del genere umano che ha una vita normale. Figurarsi poi se la persona con cui usciamo ha i nostri stessi problemi. Ricordo che con Anis a volte era un disastro, quando io riuscivo finalmente a ritagliarmi un momento libero, lui magari doveva correre all'altro capo della Germania per ritirare un premio. O magari quando io rientravo a casa alle cinque del mattino da un after-party, lui si stava alzando per andare a girare un video in piena Templehof. Tom non ha mai avuto una fidanzata vera, ma aveva David che gli urlava in testa se per assurdo una delle sue groupie rimaneva tra i piedi fino all'ora di pranzo, per dire. Quindi dovrebbe proprio capirle queste cose, solo che il suo cervello si rifiuta di processare il concetto.
Alla fine, dopo cinque minuti di silenzio, Tom decide di mollare l'osso. “Siamo arrivati,” avverte. Generalmente quando veniamo intervistati, ci sono le guardie del corpo e soprattutto c'è David che gestisce tutto fin nei minimi dettagli ma questo è un caso particolare. Innanzitutto il nostro manager è impegnato a stabilire cosa riserva il futuro ai Tokio Hotel e, come se questo non bastasse, sta probabilmente cercando di capire come gestire il singolo che abbiamo appena registrato, nonché fatto uscire sul mercato, il tutto senza che io e Peter incrociassimo Anis. Non è stato facile, immagino, ma David ha compiuto il miracolo; solo che per farlo si è probabilmente complicato la vita, così adesso io e Tom dobbiamo arrivare in redazione da soli. Ci sarà sicuramente parte del nostro staff, là dentro, ma è comunque strano muoverci per conto nostro.
Se continua di questo passo, ha detto David, mi verrà una sincope e dovrete muovervi per conto vostro molto più spesso perché finirò in ospedale con un doppio bypass. Era così petulante che nessuno di noi è rimasto per ascoltare la fine della frase, credo.
Comunque conosco bene la giornalista che mi intervisterà e non sono nervoso nemmeno un po'. Non posso vantare una carriera ventennale, ma in questi casi ti basta essere stato in giro per tre mesi ai nostri livelli per prevedere più o meno che tipo di domande ti arriveranno. Io posso già ragionevolmente prepararmi qualche risposta. Il singolo sta andando benissimo e l'esperienza è stata senza dubbio interessante. Sono molto stanco, ma amo il periodo di promozione. No, la band non è così gelosa di me come sembra...
Gerda è piccolina e bionda, la sua mano sembra quasi sparire nella mia quando ci salutiamo. La prima volta che mi ha intervistato io avevo dodici anni e non vedevo l'ora di raccontarle tutta la mia esistenza. Lei sembrava entusiasta di scoprire cosa avessi da dire. Ora non è esattamente così per nessuno dei due, ma lei non è cambiata per niente e per quanto, forse, se ne freghi di cos'ha da dire Bill Kaulitz, è rimasta comunque molto gentile.
Ci fa accomodare nel suo ufficio e ci offre acqua, tè e caffè dalla macchinetta. Mio fratello coglie l'occasione per fare il galante e si preoccupa lui di recuperare qualcosa per lei. Alzo gli occhi al cielo e penso vagamente che se Cassandra anche solo lo viene a sapere gli stacca braccia e gambe e le usa per picchiarlo. In quest'ultimo periodo sono stato un po' troppo preso dai miei problemi per interessarmi come si deve a questa sua relazione che sta diventando più fissa di quanto lui dia a vedere, ma potrei sempre recuperare il tempo perduto invitandoli entrambi a cena. Credo sia da quando abbiamo tredici anni che mio fratello mi priva della possibilità di fare comunella con la sua ragazza, visto che da allora non ne ha più avuta una. E io non entro in confidenza con le donne di una notte.
Gerda prepara il suo minuscolo registratore e lo mette acceso vicino a me. “Da che cosa vogliamo cominciare,” inizia sorridendo. “Il tuo ritorno sulle scene dopo quasi un anno, il nuovo singolo o i pettegolezzi?”
“Hai detto cominciare, questo significa che posso solo decidere l'ordine ma non gli argomenti?” Scherzo.
Lei annuisce, sullo stesso tono. “Esattamente,” dice convinta.
“Allora iniziamo dal singolo,” scelgo. Se non altro è un terreno di lavoro sul quale sono molto ferrato dopo la conferenza di quattro ore che David ha tenuto solo per me. Grazie al girare furioso delle sue rotelline amburghesi ho già pronta una risposta per ogni plausibile domanda che mi verrà fatta nei prossimi dieci minuti.
“Com'è nata la scelta di una collaborazione con due artisti tanto diversi da te come Bushido e Chakuza.”
Non sono troppo sicuro che questa domanda sia nella categoria giusta. Le lancio una mezza occhiata interrogativa ma rispondo. “C'era da tempo l'idea di una collaborazione simile. Bushido aveva già lavorato in passato con cantanti pop, come Cassandra Steen e voleva ripetere l'esperienza. Prinzessin si prestava bene.”
“Quindi non è stata scritta, diciamo, a causa di certe circostanze.”
“No,” rispondo secco.
“E com'è lavorare con due rapper?” Corregge il tiro, lei. “Ci sono processi diversi tra diversi tipi di musica?”
“Non esattamente. In realtà non abbiamo lavorato insieme. Ognuno di noi ha registrato la sua parte e poi sono state unite insieme. Forse l'unica cosa che lo ha reso diverso è stato il fatto che questa è la prima canzone che canto senza aver messo mano al testo. Mi è stato semplicemente chiesto di interpretarla. Non era mai capitato prima.”
“In questo progetto sei stato coinvolto tu da solo,” prosegue lei. “Dobbiamo forse aspettarci una carriera solista?”
“No, assolutamente no,” esclamo. Mio fratello mi sta guardando come se ci fosse stata anche la più remota possibilità che dicessi di sì. “E' stata un'esperienza che si chiude qui. I Tokio Hotel stanno già lavorando al nuovo album e io sono ancora con loro, a meno che non decidano di buttarmi fuori.”
“Vedremo,” s'intromette Tomi ridendo.
“E del video cosa mi dici?” Continua Gerda. “Ha fatto scalpore. C'erano scene un po' forti.”
“Non esageriamo adesso,” la sminuisco sorridendo e guardandola dritta negli occhi, tant'è che è lei ad abbassare lo sguardo. “Era solo un video che nessuno si aspettava.”
“Un video in cui tu e Bushido-”
“Era un video tipicamente pop per una canzone che è essenzialmente rap,” la interrompo, portando la discussione altrove. Con la coda dell'occhio vedo che mio fratello si è mosso impercettibilmente più vicino a me. “Una cosa nuova. Lavorare con Hans è stato un vero piacere.”
“Potreste...” lei si schiarisce la voce, riordinando i fogli “... potreste lavorare con lui in un futuro. Magari per un video dei Tokio Hotel, stavolta?”
“Certo, perché no?”
Per qualche istante restiamo in silenzio. Tom mi ha portato un bicchiere e una bottiglietta di acqua naturale, così me ne verso un po' e bevo con tutta la calma nel mondo. Ho la chiara sensazione di avere tutto sotto controllo e la cosa mi dà una certa soddisfazione.
“D'accordo, passiamo oltre,” fa lei alla fine e mi rivolge un sorriso che preannuncia già quello che sta per dire, quindi sorrido anch'io. “Chakuza come sta?”
“Bene,” rispondo, ridendo. “Sta molto bene. Vi saluta!”
La notizia di me e di Peter è diventata di dominio pubblico almeno uno o due mesi fa e naturalmente non è successo per caso. Noi per primi abbiamo fatto pressione perché potessimo annunciare che stavamo insieme con una regolare conferenza stampa, in modo da ufficializzare la cosa nel migliore dei modi esattamente come ci eravamo promessi. Ma ovviamente la Universal non ci ha dato il permesso di fare le cose per conto nostro, sedendoci di fronte ad un microfono e ad una telecamera e dire semplicemente “Sì, stiamo insieme,” perché sarebbe stato perderne in qualche modo il controllo e perché, soprattutto, in questo modo non avrebbero potuto montarci sopra metà della promozione dell'album. Io e Peter eravamo contrari, naturalmente, ma David mi ha fatto capire che non avevamo molta scelta. Anzi, che non ne avevamo proprio nessuna. Così, preso atto del fatto che se volevamo rendere pubblica la nostra vita privata, dovevamo anche lasciare che i dirigenti se la inventassero, io mi sono rassegnato, Chaku ha rotto un mobile e poi si è rassegnato anche lui.
Dunque, la versione ufficiale è che durante la presunta morte di Bushido, io e Chakuza ci siamo avvicinati finché fra noi non è nato un sentimento sincero – queste sono le esatte parole del comunicato stampa che David deve aver composto sotto l'effetto di un quintale di zuccheri e molti film di Julia Roberts – la qual cosa, per altro, è l'unica parte vera della faccenda.
E poi da qui, hanno calcato la mano. Volevano poter vendere me e Chakuza come qualcosa che facesse scalpore, ma dal momento che la Universal gestisce principalmente me e non Bushido, hanno fatto in modo che se ci fosse qualcuno da biasimare, quello fosse lui. Così la versione ufficiale è che dopo il suo ritorno non previsto, Anis ha cercato di recuperare non solo il suo regno ma anche il suo rapporto con me, che ero contrario perché già occupato e non disposto a perdonarlo per essersi finto morto. Lo hanno dipinto come un egoista e un prepotente, che ha tentato più volte di imporsi sulla mia persona, così che io e Chakuza ne uscissimo come la rappresentazione dell'amore che trionfa o qualcosa di molto simile.
Non sono fiero di questa cosa, davvero, ma come ho detto, non ho avuto molta voce in capitolo. E possiamo considerarci fortunati che la Universal non abbia fatto circolare la notizia – con l'idea poi di non confermarla mai ufficialmente - che io e Anis fossimo andati per vie legali, che ci fosse di mezzo una restrizione cautelare e cose simili, perché so che la volontà c'era, anche se poi è stato deciso che avrebbe generato più casini che pubblicità.
Così la storia tra me e Chakuza è esplosa come una bomba e ha fatto il giro della Germania praticamente all'istante. La marea umana che ci segue da sempre e che si era ingigantita prima con la storia del Chaku ferito alla puntata di TRL e poi con la presenza costante di Fler nella mia vita, è naturalmente diventata immensa al ritorno di Bushido dal regno dei morti, con conseguente semi-santificazione da parte del suo popolo di fedelissimi, per poi diventare un'onda anomala dopo la mia rottura con Anis e il seguente annuncio del fidanzamento con Chakuza. Un'onda anomala che in un primo momento si è soltanto sollevata ruggendo, e che poi si è divisa e infranta su due scogliere diverse e opposte.
Adesso siamo in mezzo a due schieramenti contrapposti che sostanzialmente si basano sull'atteggiamento che tengono nei confronti di Chakuza e, in base a quello, ne consegue poi quello che pensano di me – che non è sempre bello ma con il quale ho imparato a convivere. David, l'altro giorno, con molta praticità, mi ha detto: finché non ti tirano dietro niente, non preoccuparti. E io l'ho trovata una cosa sensata.
Chi ha preso Chakuza in simpatia, lo fa perché ha un occhio di riguardo per il sottoscritto. Ci vogliono bene insieme, come coppia, e la frangia anti-Bushido più estremista – che poi è la stessa che già gli urlava contro anche prima e che non si era placata nemmeno con la sua morte – ora odia Bushido ancora più furiosamente, come solo certe fan sanno odiare.
Chi invece odia Chakuza, odia anche a me. Questo gruppo è composto soprattutto dalle persone che già odiavano me prima della morte di Anis e che non vedendomi di buon occhio allora, mi ci vedono ancora meno adesso perché ciò che considerano tiene conto soltanto di Anis e non di tutta la situazione. Giusto o meno che sia.
Ad essere onesti, esiste un terzo gruppo di persone, delle quali è più difficile parlare perché sono quelle a cui io e Bushido, insieme, dobbiamo di più. Sono le persone che volevano bene a noi due, come coppia e che ci hanno sempre sostenuti anche quando magari rapper e fan accanite ci davano contro. Loro ci credevano. Quando Bushido è morto hanno sofferto per lui e per me, quando è tornato e le cose non sono tornate com'erano, si sono sentite tradite. Da me, che non l'ho rivoluto e da lui che era sparito per lasciarmi solo e che, quando è tornato, non si è comportato come si aspettavano. Certo, queste erano decisioni che spettavano a me e a lui soltanto e dalle quali non avrebbero dovuto sentirsi così coinvolte, ma l'affetto del pubblico non lo puoi spegnere a comando. Se vuoi che ti supporti e gioisca con te, poi devi sopportare che si arrabbi quando ai suoi occhi fai una cazzata. E io, per loro, l'ho fatta.
“Non vi fate vedere spesso in pubblico, voi due,” la voce di Gerda mi riporta nella stanzetta tutto sommato minuscola in cui ci troviamo.
“Siamo solo molto bravi a far perdere le nostre tracce,” commento, senza mai allontanare lo sguardo da lei. Mi stringo nelle spalle. “E poi Peter non è tipo da feste mondane.”
“Preferisce stare in casa?”
Vedo Tom alzare gli occhi al cielo.
Sorrido, divertito. “Già, ma prometto che alla prima premiazione disponibile me lo porto dietro, così potete vederlo tutti,” uno dei fotografi del giornale da qualche parte alla mia destra mi scatta una foto. “Quindi votate per me se vi capita, così potrà salire sul palco.”
Immagino che Peter mi perdonerà se ho promesso di sfoggiarlo in giro come un trofeo.
Lei ride. “Non mancheremo, Bill,” dice.
E l'intervista si chiude, più facile del previsto.

*


“Che ore sono?” Chiedo a mio fratello, indossando gli occhiali da sole.
Siamo appena in primavera e già il sole picchia troppo forte per i miei gusti. Non che mi dispiaccia il caldo, è solo che se devo sudare preferisco essere su una spiaggia. Mi chiedo se Fler sarebbe disposto a fare un salto ai Caraibi con me, dopo la promozione, anche se quasi mi passa la voglia al pensiero di doverlo mettere su un aereo e tenercelo per otto o nove ore senza che si agiti in preda al panico. Senza contare che se adesso sto via con Patrick per una settimana, è capace che Peter si fa venire una sincope. L'ultima volta che ho provato ad accennargli l'idea, si è messo a fare l'insalata di riso e quella non è mai un buon segno. Ci vorrà ancora del tempo prima che riesca a convincerlo che io e Fler non facciamo niente di male e che ho bisogno di queste vacanze di tanto in tanto.
“Sono quasi le una,” mi dice mio fratello, sistemandosi la fascia sulle treccine.
Tiro fuori il telefono e, come pensavo, ci trovo un messaggio. Generalmente Peter non è mai in ritardo, quindi se adesso non è qui nell'atrio della redazione di Bravo, significa che non può venire.
“Che succede?” Tom inclina la testa di lato, cercando di decifrare l'espressione del mio viso mentre sto leggendo.
“Dovevo pranzare con Peter, ma non ce la fa a liberarsi,” mormoro. Dovrei sapere che queste sono cose che succedono, ma faccio comunque una smorfia. Stamattina mi ero svegliato bene, mi sarebbe piaciuto continuare su questa strada. Sospiro e rimetto a posto il telefono, chiedendomi se riusciremo mai a completare una giornata senza che uno dei due debba necessariamente avvertire l'altro che ha un impegno improrogabile.
“Senti facciamo così, ci vengo io a pranzo con te,” si offre Tom, mentre mette in moto l'auto. Si volta a guardarmi un istante, con un sorriso. “Dimmi dove vuoi andare.”
In questo preciso istante potrei fermare il nastro della mia vita e rimandarlo indietro, aspettare che mio fratello mi ripeta la domanda e quindi, presa coscienza della stupidità del mio subconscio, dare una risposta diversa da quella che invece mi esce dalle labbra. Ma non lo faccio, perché in quel momento non mi rendo conto delle associazioni di idee che dovrebbero essere lampanti.
A mio fratello do l'indirizzo di un piccolo ristorante in periferia. Una specie di locanda vecchio stile, con stoviglie e coperti rustici, cucina famigliare, quelle robe lì. Tom non l'ha mai sentito nominare, naturalmente, ma non fiata. Ci sediamo ad un tavolo d'angolo, un po' nascosto dietro una colonna. Direi che non ci sono gravi rischi di essere riconosciuti, dal momento che l'età media intorno a noi è di novantadue anni, ma non si sa mai.
Lui tira su il menu e guarda un po' me e un po' la lista. “Non fare quella faccia,” finge di essere annoiato e alza esageratamente gli occhi al cielo. “Vi siete visti due ore fa.”
“Lo so,” sbuffo.
“E vi rivedrete tra due ore,” continua.
“Lo so!” Sbuffo di nuovo.
Lui mi guarda. “E allora piantala di sbuffare, Principessa sul pisello. E datti una mossa a scegliere o non mangiamo più.”
Lo vedo che subito si auto-compiace del pessimo gioco di parole che è riuscito a tirare fuori. So che in questo momento vorrebbe avere al suo fianco Georg per condividere l'immensa volgarità del tutto. “Tomi, per favore...”
“Sì?” Fa lui, ancora ridendo, ma lo sento solo vagamente perché la porta si è aperta e Bushido è appena entrato nel locale. Seguito da Fler.
Mi chiedo perché oggi fra tutte le centinaia di migliaia di ristoranti di Berlino io abbia scelto proprio di venire qui. Poi mi do del cretino perché questo è il ristorante dove io e Anis venivamo quando lui piantava in asso la crew da un minuto all'altro e io riuscivo a scappare dalle grinfie di David abbastanza a lungo da mangiare un boccone con lui. E, visto che questo è un posto dimenticato da Dio, era facile incontrarsi qui. In più c'era la storia che Bushido adora questo posto perché, come dice lui, dentro ci lavora gente vera e non pinguini inamidati, che poi è come lui definisce i camerieri dei ristoranti eleganti in cui si fa vedere per dimostrare che anche i tunisini senza padre possono mettersi la cravatta. Evidentemente quando mio fratello mi ha chiesto il ristorante, io ho risposto sovrappensiero e non dovrei mai farlo. Dovrei impormi una regola zen per la quale non posso usare il cervello se non sono totalmente concentrato sull'azione precisa di usarlo.
Appurato questo, però, inizio a chiedermi perché lui, oggi, fra tutte le centinaia di migliaia di ristoranti di Berlino abbia scelto proprio di portare qui Fler. Io ho portato qui Tom, d'accordo. Ma portare qui Fler non è assolutamente come portare qui Tom.
Tom è terreno neutro.
“Bill, ma che ti prende?” Tom alla fine si rende conto che non ho mai iniziato a ridere della sua battuta e, visto che dà le spalle alla porta, non capisce il problema che mi si è appena presentato davanti. “Che diavolo stai guardan-?” Quindi si gira e io gli tiro una forchettata sul dorso della mano.
“Non ti girare!” Sibilo.
“Ahi! Cristo ma sei scemo?”
Io mi tengo dietro il menu e osservo Anis ridere. Si sono seduti ad un tavolo neanche troppo distante dal nostro ma per una volta sono contento di lamentarmi di continuo esageratamente perché, in realtà, questa locanda non è tanto piccola e mi dà la possibilità di stare qui e di non essere visto se proprio non mi metto ad agitare le braccia. Il loro tavolo sta perpendicolare al nostro, così posso vederli entrambi.
“C'è Anis,” mormoro a Tom, mentre intanto i due hanno già praticamente ordinato. Anzi no, è successo che Fler ha aperto bocca e Bushido ha ordinato per tutti e due ma a giudicare dalle fossette sulle guance di Fler, deve aver indovinato l'ordinazione.
“Tanto piacere,” borbotta mio fratello, che scuote ancora la mano ferita. Poi lo sento sospirare e mi costringe a voltare la testa verso di lui. “La pianti?”
“Non dovrebbe essere qui.”
“No?” Fa lui, sollevando un sopracciglio. “Mi sono perso il momento in cui hai comprato il ristorante e ci hai messo sopra il tuo nome.”
“Non è questo,” tento di guardare ancora, ma lui mi recupera tenendomi per il mento. “E' che non dovrebbe essere qui.”
“Molto esplicativo.”
“E' il nostro ristorante,” specifico. “E non può portare nessuno nel nostro ristorante.”
Tom si indica in maniera plateale.
“Tu non sei Fler!” Esclamo estenuato. Possibile che nessuno, né fuori né dentro la mia testa, capisca la gravità rappresentata dal concetto di Fler all'interno di questo preciso ristorante?
Patrick, dal canto suo, brilla di luce propria. Voglio dire, sono abituato a vederlo sorridere ed essere allegro, ce l'ha naturale la capacità di rischiararti l'esistenza quando ti senti uno schifo, ma non l'ho mai visto brillare così. E' quel tipo di luce che ti circonda quando tutte le tessere del tuo puzzle personale sono al loro posto e non hai più niente da chiedere. Quel tipo di luce che era accesa sopra di me stamattina, per dire. A me si è improvvisamente fulminata una lampadina.
“Bill, mi dispiace dirtelo,” esclama mio fratello, “ma voi non avete più un ristorante.”
Io mi volto a guardarlo di scatto perché questa è una di quelle considerazioni che mi coglie immotivatamente di sorpresa. Questo succede con gli avvenimenti che ti sei dimenticato di registrare per bene e poi di archiviare in un bel cassetto dentro la tua testa. Generalmente, quando succede qualcosa di grosso nella tua vita, tu quel qualcosa lo metabolizzi per primo – anche solo per il fatto che è l'avvenimento di proporzioni più grandi – e siccome, per farlo, ci metti un considerevole quantitativo di tempo, spesso tutti i piccoli dettagli che a questo grosso avvenimento sono legati a doppio filo, te li dimentichi. Li hai lasciati da parte per archiviarli in un secondo momento, in modo da avere la mente sgombra per metabolizzare il resto, e quelli sono rimasti in un angolo a prendere la polvere. Poi, mesi dopo, ti vengono in mente, ma l'avvenimento a cui erano collegati mica si fa vivo subito. E' colpa di quel metro e mezzo di filo che non hai ancora tagliato e che ti permette di muoverli in libertà senza dover aprire il cassetto chiuso a chiave.
I primi tempi, dopo la morte di Anis, mi succedeva di continuo. Pensavo “devo fare questo con Anis,” “devo dirlo ad Anis,” “devo chiedere ad Anis se...” e solo dopo mi veniva a mente che Anis era morto. E ci rimanevo di nuovo male, come se fosse morto in quel momento lì.
Adesso è più o meno la stessa cosa. Mio fratello ha ragione, non abbiamo nessun ristorante. Non c'è nessun noi a cui collegare alcunché.
La risata di Fler interrompe i miei pensieri prima che possa farlo Tom, già pronto al salvataggio. Mio fratello non lascia più che io mi estranei dalla realtà da quando Bushido è morto perché è terrorizzato all'idea di non riuscire più a tirarmene fuori. Quando è successo per la prima e unica volta, dopo il funerale, sono rimasto chiuso in casa per settimane e lui è rimasto chiuso con me, nella speranza che la sua sola presenza potesse risvegliarmi dallo stato comatoso in cui mi ero volutamente infilato per non sentire niente, non solo il dolore. Il punto era che avevo bisogno di toccare il fondo prima di dichiararmi pronto a tornare non dico a posto ma almeno un essere umano e, in qualche modo contorto, sapevo di doverlo fare da solo, che se avessi accettato la mano di mio fratello per rialzarmi poi non sarei più stato in grado di camminare senza che lui mi trascinasse. Per questo ho lasciato che se ne stesse lì in piedi senza reagire alla sua presenza.
Tom, però, questa cosa non la sa e quindi, adesso, ogni volta che mi vede un po' perso, parte subito all'attacco perché si sente in debito nei confronti del legame gemellare, visto che la prima volta gli sembra di non essere riuscito un granché bene nel suo compito. Ma Fler, come ho detto, è più veloce di lui. E' la sua risata piena e un po' rumorosa che riempie la sala a scuotermi. Io la conosco questa risata di Fler e, ora che ci penso, saranno mesi che non la sentivo.
Patrick ride in questo modo quando è felice; non che il resto del tempo non rida e se ne stia ingrugnito in un angolino ma i suoi sorrisi sono solo dolci – perché lui è fondamentalmente dolce e non importa quanto incroci le braccia, mostri le mani tese di fronte ad una telecamera o ripeta ossessivamente la parola merda nelle canzoni. E' dolce, punto. – e manca quella nota di tranquillità che invece c'è in questa risata. Io non c'ero quando lui e Anis erano ragazzini ed erano insieme, ma quando li guardo ora mi viene da pensare che fossero esattamente così e che quel tavolo, con loro due seduti e la birra e i panini caserecci, potrebbe benissimo trovarsi nel 2003 o quand'è stato che avevano la mia età e passavano il tempo per strada a taggare i treni delle metropolitane.
Per la prima volta da che li conosco entrambi mi sento tagliato fuori da qualcosa che li riguarda. Nemmeno il ghetto mi ha mai tenuto lontano con questa violenza. Qui non ci sono solo io che sembro stonato in un mondo di rapper, qua ci sono anni di un'amicizia che io non ho mai conosciuto e della quale Anis non parlava e non perché facesse male, come ho sempre pensato, ma per custodirla, perché non potessi farne parte.
E all'improvviso mi rendo conto che non so se non ci sia davvero più un noi, un me ed Anis, ma di certo adesso c'è di nuovo un loro, Fler e Bushido. O Frank e Sonny, come si fanno di nuovo chiamare adesso – cosa che mi manda in bestia perché pensavo che Sonny fosse morto quando Anis ha lasciato l'Aggro Berlin, eppure dovrei essere abituato ormai al fatto che Anis – in qualunque sua forma - non muore mai, si rigenera soltanto.
Sonny stava dormendo da qualche parte dentro di lui. Quello che mi rode, però, è che da me non si è mai fatto vedere. Non è mai stata una cosa mia. Era una cosa di Fler.
E Fler, a quanto vedo, se l'è ripresa.
“Tomi, andiamocene via,” sussurro, allungandomi a prendere la borsa per terra. C'è un'altra porta, proprio dietro di noi, possiamo uscire da lì e lui non ci vedrà.
“Ma non abbiamo nemmeno ordinato,” protesta.
“Non importa. Andiamo.” E visto che mi alzo, alla fine cede e mi segue.
Non mi guardo indietro perché non voglio vedere se si sono accorti o meno di noi.
Non m'importa. Stronzate. E mentre in silenzio saliamo sull'auto di Tom mi chiedo: se Sonny ha preso il posto di Bushido, quanto del mio posto ha preso Fler?

*


Tom non ha chiesto altro, cosa della quale gli sono molto grato perché non avrei saputo che cosa dirgli, esattamente. Qualunque sia la cosa che mi rode in fondo allo stomaco, per spiegarla a me stesso o a lui dovrei dargli un nome e, dal momento che sto fingendo di non vederla né sentirla, non posso farlo. Ho avuto un'ora per calmarmi ma non mi è riuscito tanto bene e ho scoperto che urlare lanciando i cuscini del divano per ogni dove non serve assolutamente a niente, se non a costringermi poi a rimettere in piedi tutto quello che ho buttato giù prima che arrivi Chakuza e mi faccia domande.
Quando arriva sono le sette e io ho fatto appena in tempo a far sparire i resti di un vaso che David mi aveva regalato a Natale e che se ne stava sul primo ripiano della libreria in attesa che trovassi il modo giusto per liberarmene senza dare troppo nell'occhio. A quanto pare è proprio vero che non tutto il male viene per nuocere.
In questo periodo Chakuza sta promuovendo alcune collaborazioni che ha fatto con gente di cui non ricordo mai i nomi e, fra le tante canzoni, c'è anche Prinzessin. Ogni volta che ci penso mi rendo conto che è buffo perché sia io che lui che Bushido ci troviamo in posti diversi della città a raccontare aneddoti sulla stessa canzone, senza per altro mai esserci messi davvero d'accordo su cosa dire o non dire al riguardo. Per quanto tentiamo di non darlo a vedere, dev'essere ben chiaro a tutti quanti che la responsabilità di questa canzone non la vuole nessuno e che ognuno di noi preferirebbe che ne parlassero gli altri due. Purtroppo questo non è possibile.
Chakuza è il meno entusiasta naturalmente, un po' perché è così di carattere e lui e la promozione – fino a prima del mio arrivo – avevano un rapporto che si concludeva con due interviste e un promo, più un video nel caso la canzone fosse cantata con sua maestà. Adesso invece la cosa gli pesa, gli pesa tantissimo: la canzone non gli piace affatto e non gli piace com'è stata modificata, per altro irrimediabilmente, secondo il volere di Anis, quindi non riesce a parlarne con entusiasmo né ad essere oggettivo, e siccome a mentire non è capace, glielo leggi in faccia che vorrebbe poter dire quanto volentieri butterebbe tutto nel cesso. Ma ciò che gli piace meno di tutto è quello che comporta il doverla promuovere, ossia rispondere alle domande su di me e su Bushido.
Per questo, quando la sera finisce di lavorare e poi ci vediamo, è sempre un po' nervoso e io faccio del mio meglio per farlo rilassare perché so che se lo lascio rimuginare, finisce che rompe qualcosa. Stasera, però, quando entra io sto ancora pensando a quello che ho visto nel ristorante e non sono fisicamente in grado – se mai lo sono stato – di interessarmi di qualcosa che non sia la mia persona e l'odio profondo che provo, anche se non so indirizzarlo. Voglio dire, posso odiare Bushido per svariati motivi: per avermi mentito, per non essersi fidato di me, per avermi lasciato e poi preso e poi accusato e per avermi fatto sentire in colpa a causa di Chakuza ben consapevole che mi ci sarei sentito. Posso odiarlo per avermi amato con la stessa intensità con cui l'ho amato io, perché se mi avesse respinto forse non sarebbe dovuto poi andare in America, o forse sarebbe morto davvero, non lo so, ma io e lui non ci saremmo mai fatti così tanto del male. Posso odiarlo per tutto questo, volendo, ma non di certo perché è entrato in quel ristorante in compagnia di Fler. Ne aveva tutto il diritto perché adesso è un uomo libero e non è mio.
Fler ha ancora meno colpe, credo. Fler non ne ha mai avute finora. Io non so neanche cosa l'abbia trattenuto dal restare con noi dopo la morte di Saad. L'avevamo scagionato, avrebbe potuto dire “Ci si vede” e poi sparire, tornare all'Aggro, farsi un'etichetta sua o espatriare, non lo so, ma di certo non aveva l'obbligo di rimanere lì a vegliare su di me al posto di Anis e a rimettere le cose a posto tra me e Peter. Il problema, di fatto, non sono loro singolarmente. Non ce l'ho con Anis, non ce l'ho con Fler, ce l'ho con loro insieme, col loro stupido starsene seduti lì nel mio ristorante a farsi gli occhi dolci. Fino a questo momento non mi ero mai reso conto dell'ammirazione con la quale Fler riesce a guardare Bushido; d'altronde non potevo saperlo se, quando stavo con Anis, quei due nemmeno volevano stare nella stessa stanza e poi, quando Bushido è tornato e hanno fatto pace io non ho mai avuto occasione di vederli davvero insieme. E ora che li ho visti, vorrei uccidere qualcosa di vivo giusto per provare la soddisfazione di sentire un cuore che si ferma sotto le mie dita. In questo preciso momento non mi rendo conto che è orribile pensarlo per finta quando l'ho fatto davvero, non mi ricordo nemmeno che è stato inutile. Voglio solo...
“Tu che cosa ne pensi?”
La voce di Chakuza mi arriva improvvisa, come se avessi riacquistato di colpo l'udito o qualcosa di straordinariamente simile. Mi rendo conto che ho perso il filo di un discorso che Chakuza ha iniziato entrando in casa e mi sento in colpa come se avessi appena fatto qualcosa di male. Lo osservo cercando qualcosa da dire, ma Chakuza apre il frigorifero e mangia un po' del pollo che è avanzato giorni fa, riprendendo a parlare. “Voglio dire, innanzi tutto vorrei sapere chi glielo ha dato il mio numero privato alla Universal,” esclama. “E poi vorrei sapere cos'è questa storia del tour.”
“Quale tour?” Non riesco a trattenermi e spero fortemente che non abbia passato gli ultimi due minuti a spiegarmelo.
“Appunto, quale tour? E' quello che gli ho chiesto anch'io,” mi fa lui, decidendo alla fine che spilluzzicare il pollo non è sufficiente e tirando fuori tutta l'insalatiera che lo contiene. “Da quanto è qui dentro questo pollo?”
“Qualche giorno.”
Peter annuisce e riprende a mangiare. Solo lui potrebbe considerare qualche giorno un quantitativo di tempo accettabile per continuare a mangiare qualcosa che contiene maionese. Io sospiro e mi passo la mano sugli occhi mentre ci sediamo sugli sgabelli. “E lui che cosa ti ha risposto?”
“Che la Universal vuole un tour,” risponde. E quando lo guardo con un'espressione che palesemente gli chiede che cosa sta dicendo, aggiunge: “Per Prinzessin.”
Prima ancora di chiedermi su quali basi la nostra etichetta pensi di mettere in piedi un tour per una canzone sola, mi rendo conto che questo significherebbe noi tre chiusi in uno spazio vitale ridotto, ossia secondo gli ultimi sviluppi delle nostre tre esistenze, significa che finiremmo per ammazzarci. Sento una stretta allo stomaco alla sola idea di dover occupare una cuccetta accanto o anche solo sopra o sotto a quella di Bushido. Non è mai capitato e prima che morisse lo volevamo parecchio – immaginavamo già di chiedere un bus per noi, anche se avremmo dovuto uccidere Tom e gettare il suo cadavere nel fiume per averlo – ma adesso no. Adesso non ci penso nemmeno, sarebbe un disastro di proporzioni apocalittiche anche solo ritrovarsi a giocare a carte la sera.
Per non parlare dei bisogni di Peter. Non gli ho mai chiesto come si regola lui quando è in tour, perché dubito che sopporti l'astinenza con calma ascetica. E visto che è un rapper e non ha un manager isterico e fissato che le ragazze sul bus non vuole vederle nemmeno dipinte, immagino che quando andavano in giro con Bushido, chissà che schifo non c'era in quelle cuccette. Quindi ecco, non lo so come ci comporteremmo tutti quanti, se lui volesse farlo – e vorrebbe, perché è lui e perché Bushido sarebbe lì – e io magari mi sentissi in imbarazzo. O se fosse Bushido a portarsi qualcuno. “No, non se ne parla nemmeno,” esclamo a voce alta, senza nemmeno rendermi conto che Peter non sa niente di ciò che è appena successo nella mia testa.
“Neanche io la trovo una grande idea,” mi dice.
“E poi non ha senso per una sola canzone,” insisto, scuotendo la testa.
Chakuza si schiarisce la voce e butta giù un po' d'acqua, cercando di contare quanti puntolini bianchi e neri ci siano sul piano in marmo della mia penisola, chiaro segno che deve dirmi qualcosa che di fatto non mi piacerà neanche un pochino. Tipo quando abbiamo programmato di fare determinate cose e lui passa a prendermi all'ora prefissata solo per dirmi che non c'è per tutto il resto della giornata a causa di eventi indipendenti dalla propria volontà, che nella maggior parte dei casi è Stickle. O sua madre. Così mi preparo e aspetto che alzi lo sguardo, come se i suoi occhi verdi, oltre ad essere belli, potessero in qualche modo anestetizzarmi prima di una qualsiasi notizia. Purtroppo non funziona così. “Non dovrei dirtela io questa cosa.”
“Perché?”
“Perché a me lo ha detto David e lui mi ha minacciato di morte, se te lo dicevo” commenta lui e nei suoi occhi ci vedo un po' di quello sconvolgimento che compare negli occhi di tutti quando capita loro di vedere il mio manager in una delle sue giornate peggiori. David può far paura.
“Te lo farò dire in un modo o nell'altro,” commento impassibile. “Nel caso dirò che ti ho estorto l'informazione con la forza.”
Chakuza scoppia a ridere in maniera così istantanea che mi sento quasi offeso e l'offesa compare sulla mia faccia talmente bene che lui smette subito, si nasconde dietro un tovagliolo e si scusa. “La Universal ha dei progetti,” dice poi. “Vorrebbe più collaborazioni, questo sarebbe solo un primo esperimento.”
“Collaborazioni?”
“La canzone sta andando bene,” Chakuza si stringe nelle spalle. “Siamo ai primi posti nelle classifiche. Alla gente piace.”
“Alla gente piace per quello che c'è dietro.”
“Lo so. Comunque non è sicuro,” dice Chakuza.
“Se David ti ha detto di non dirmelo, allora è quasi deciso,” replico, infastidito. Ed è un casino enorme se davvero le cose stanno così. Ne segue un silenzio un po' più lungo del normale che quasi ci mette in imbarazzo.
“Beh, Io non ti ci voglio sullo stesso tourbus con lui,” dice alla fine, lo sguardo nervoso e irritato.
Non lo voglio nemmeno io, Peter.
Perché non so come reagirei.

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Bedtalking

di tabata
Capitano quelle volte che anche io e Bill facciamo soltanto sesso.
Voglio dire, il sentimento c'è e tutto ma è diverso da quando invece magari lo stendo sul letto e lo facciamo piano e ci guardiamo negli occhi. Ci sono delle volte che proprio non ci penso e non ci pensa nemmeno lui, e queste volte capitano più spesso di quanto si possa pensare perché scopiamo tantissimo, quindi, anche volendo, non potremmo davvero sempre metterci lì a spargere petali di rose sulle coperte e bere champagne da flute di cristallo, cosa che per altro non abbiamo mai fatto perché io e cristallo nella stessa frase ci stiamo solo se si tratta di quella metafora dell'elefante nella cristalleria. Comunque avete capito che intendo.
Io con Bill ho una cosa che non avevo mai avuto in vita mia. Ne sono consapevole da tempo e ne sono consapevole soprattutto ora che le cose sono quello che sono e qualsiasi cosa ci stia succedendo di certo non è positiva. Insomma, io lo amo e parecchio anche, quindi forse per questo mi aspettavo che sarebbe andata diversamente, che saremmo stati romantici sempre, forse, non lo so. Di certo è ancora più frustrante avere avuto questa convinzione e poi ritrovarsi in questo modo, a volerlo ma senza poter evitare questo scazzo che mi è preso e che non se ne va nemmeno quando sto con lui. Anzi che con lui cresce.
Se ci penso, era una cosa molto stupida da parte mia, pensare che – indipendentemente dagli ultimi avvenimenti – sarebbe stato sempre un mondo da favola, visto che Bill sarà sì la mia storia più importante, ma non è ancora quella più lunga, quindi ero perfettamente consapevole che dopo un po' – per quanto tu ami qualcuno alla follia – le cose prendono un'altra piega e quel romanticismo un po' mieloso lo perdi e ci sta che certe volte ti dimentichi di fare l'amore e fai sesso, per dire.
E' successo anche con Bill, che non vuol dire che ad un certo punto abbiamo smesso di fregarcene del sentimento e amen, ma, come ho detto prima, capita che una sera entri in casa e vuoi farlo e non hai né il tempo né la voglia di costruire dei preliminari accettabili e quello che ne viene fuori è che fai tutto sul divano, o per terra, o dove capita, basta farlo.
Io questa cosa la sapevo benissimo perché prima di lui, saltando tutte le mie storielle, c'è stata Silvia che se ci ripenso, un po' ci assomiglia a Bill. Hanno avuto le stesse dinamiche.
A me lei piaceva tantissimo, ma tanto proprio, che quando l'ho vista la prima volta mi sono bloccato dalla testa ai piedi come un ragazzino.
L'ho conosciuta che faceva la commessa nell'alimentari sotto casa mia, posto in cui per altro non ero mai entrato perché io compro tutto al supermercato, a parte frutta e verdura che le prendo più volentieri al mercato la mattina. Quella volta lì che l'ho conosciuta, invece, nel negozio ci sono andato per mia madre che era venuta a trovarmi con Clara, che doveva avere tipo undici anni all'epoca, e aveva deciso di preparare il pranzo. Quello che mia madre non capiva e si rifiuta di capire ancora adesso è che io so cucinare, ma non lo faccio se non ne vedo il motivo. Mangiare non è una motivazione sufficiente, perché per quello posso sempre ordinare una pizza. Per cucinare devo aver bisogno di scaricare la tensione o di far piacere a qualcuno, o cose così. In quel periodo lì, che poi sono all'incirca tre anni fa, non avevo niente per cui stressarmi – Bushido lo conoscevo ma nessuno gli aveva mai sparato o lo aveva chiamato a regolare i conti nei vicoli, per dire. Non pensavo che avrei mai buttato un cadavere in un fiume per vendicarlo, ecco – ero relativamente felice. E in quanto al far piacere a qualcuno, non c'era nessuno. Avevo delle donne, ma non del tipo che gli cucini la colazione la mattina dopo e avevo imparato immediatamente che meno cibo dai ai tuoi colleghi e meno probabilità ci sono che quelli vengano a casa tua a romperti i coglioni ad ogni ora del giorno e della notte. Un po' come gli orsi nei parchi naturali. Non date da mangiare ai rapper. Insomma, il punto è che ai tempi – ora un pochettino meno perché sono molto stressato e sono circondato di persone a cui in effetti mi va di cucinare cose – il frigo era sostanzialmente vuoto, così mia madre mi spedì all'alimentari sotto casa con una lista lunga un chilometro. Non mi andava, lo dico subito. Cioè io entro in quel negozio e sono già incazzato a prescindere perché non ho alcuna voglia di fare la spesa, però una volta dentro vedo lei e mi passa l'incazzatura. Mi passa tutto, mi passa anche di mente che a casa ho mia madre e mia sorella che aspettano dei viveri per potersi nutrire. Solo che mi blocco e non è una cosa che a me succeda spesso. Insomma, non dico che le donne mi cadano ai piedi con uno schiocco di dita, ma almeno ci so parlare. E invece con lei niente, salivazione zero, cervello pieno di ovatta e, presumo, anche occhi a cuore. Non so. Il pacchetto completo, comunque. Le cose tra me e lei sono cominciate come in una commedia romantica e sono continuate in quel modo perché per me lei era tipo una cosa delicatissima, che non vuol dire che fosse intoccabile – sapete quelle cose tipo che ti basta guardarla? Ecco a me proprio no – però la trattavo in un certo modo. Il sesso con lei era una cosa che doveva essere bella, oltre che appagante. Ci tenevo proprio. Quindi i primi tempi c'erano i petali di rose e lo champagne, sempre per dire, mica davvero. Poi, le cose hanno preso il loro ritmo e pur continuando a fare le nostre cose, era tutto un po' meno una commedia romantica e più un levarsi i vestiti di corsa e saltarsi addosso. Più io che lei, ma questa è la costante della mia vita.
E ho perso il filo. Ah sì, dicevo all'inizio che con Bill mi è successa la stessa cosa. Quando ho capito che provavo qualcosa per lui – ed è stata tipo una rivelazione devastante perché non è che ho capito che mi piaceva e basta, ma che era mio amico, gli volevo bene, volevo proteggerlo, volevo che fosse mio tutto quanto insieme – ci ho perso la testa. E visto che per me lui era un sacco delicato, anche fisicamente, ci andavo piano. Cioè lo guardavo e pensavo che sicuramente gli avrei fatto del male in qualche modo perché non c'era verso che a stringerlo un po' più forte non gli si spezzasse qualcosa, per non dire di peggio. E' minuscolo, che quando lo abbracci ti sparisce tra le mani, e mentre sei lì le prime volte, ti viene da pensare che con lui non sia possibile, che magari la verità sulla Principessa è che è bellissima ma ha delle limitazioni oggettive, come se fosse di vetro.
Bill non è affatto di vetro, né di qualsiasi altro materiale che gli sia mai stato attribuito e che per definizione si rompe solo guardandolo, ciò permette senza gravi danni il passaggio dalla fase uno – il flute e le rose – alla fase due, che è quella in cui siamo in questo momento.
Anche se forse la situazione è leggermente diversa, ed è per questo che sono girato male. Il problema non è aver perso di romanticismo, il problema è averlo perso in questo momento che vorrei ammazzare qualcosa. Aver voglia di cospargergli il letto di petali di rose e prenderlo come la prima volta, ecco, avrebbe aiutato a placarmi, forse. Ma le cose non vanno mai come vuoi e d'altronde nemmeno lui mi aiuta visto che è nervoso ad ogni ora del giorno e della notte.
Fino a due ore fa eravamo in un locale, lui a bere forse anche troppo e io ad annoiarmi mentre lui andava in giro a fare vita mondana, perché è così che l'ha tirato su David ed è così che me lo devo sopportare quando dobbiamo andare a queste feste organizzate. Di natura, crisi isteriche a parte, Bill è un esserino delizioso, ma quando deve affrontare la stampa, le telecamere o le pubbliche relazioni si trasforma e, come nel caso della seconda identità dei supereroi, diventa una persona totalmente diversa. Tira fuori le unghie, si mette di tre quarti e risplende perché sa che quello che vuole la gente da lui è solo che sia bellissimo ed affabile. E lui sa esserlo. L'unica volta che non l'ho visto comportarsi così è stato dopo la morte di Bushido, ma in quel caso nemmeno lui aveva la forza di tenere su questo teatrino.
Alla fine del suo giro era già parecchio alticcio e come me assurdamente annoiato, così la prima cosa che ha fatto quando è tornato da me è stato montarmi addosso per farsi portare subito a casa. Non è che io sia scemo e non mi renda conto di quando fa determinate cose per aver qualcosa in cambio – cioè innamorato perso sì, coglione no – è solo che decido deliberatamente di lasciarlo fare, dal momento che quello che fa per convincermi mi piace, quindi è uno scambio alla pari. Lui sa che non ha veramente bisogno di strusciarmisi addosso se vuole tornare a casa ora, subito, immediatamente ma sa che io dimentico subito di essermi quasi ammazzato di noia tutta la sera se lo fa. E un Chaku non annoiato è un Chaku molto più disposto alla comprensione e alla sopportazione dei suoi momenti di scazzo, come quello che palesemente si appresta ad avere vista la sua faccia adesso.
“Mi porti a casa?” Chiede infatti, due secondi dopo avermi morso il collo e avermi strusciato il naso un po' ovunque, giusto per ribadire il concetto di cui sopra. E io che non ho un cervello ma una sorta di comando centrale posizionato a sud dell'equatore, per un attimo mi chiedo quanto davvero coprano le tende che circondano il nostro privé e quanto tempo ci vorrà a tornare e stenderlo sul letto o su una qualche superficie liscia e abbastanza comoda senza che a lui passi la voglia. Siamo un sacco lontani da casa. Una qualsiasi.
“Ti ci avrei portato anche mezz'ora fa. E un'ora fa,” commento mentre lo bacio e gli stringo i fianchi, così che non gli venga in mente di smettere di muoversi come sta facendo. “Non mi sarei neanche mosso di casa, volendo.”
Lui ride, in quel modo strano di quando è ubriaco che a me non piace per niente. Non è tenero come quando è sobrio e non è la risata che fa quando ha deciso di schienarti da qualche parte e si prospetta una serata divertente. E' la risata da diva dello spettacolo, quella un sacco finta che mi irrita perché mi ricorda che a me il Bill del pubblico non piace per niente.
Così gli accarezzo i fianchi di fretta. “Andiamo, allora,” borbotto mentre faccio per alzarmi, così lui è costretto a tirarsi in piedi. “Prendi il cappotto.”

*


Sto guardando il soffitto della stanza di Bill che è dipinto di bianco panna mentre i muri sono viola, una cosa che se me l'avessero fatta vedere un anno e mezzo fa avrei pensato ridendo che fosse troppo esageratamente gay. E, prima che me lo diciate, no, non è come il fucsia del mio MySpace – che c'è ancora gente che mi prende per il culo – che era una roba fighissima. Il fucsia è una roba figa, okay? Il viola è da femmine. Sono due colori diversi e non è colpa mia se la metà della gente che conosco riesce a pensare solo in 16 bit. Comunque sia, questa stanza ha il soffitto bianco panna e i muri viola e a distanza di un anno e mezzo io sono cambiato così tanto da pensare che non sia gay, sia solo da Bill. Che è gay, d'accordo, ma non è questo il punto del mio discorso. Il viola delle pareti sta bene con il nero dei mobili, il panna del soffitto con le coperte. E non importa se sono colori assurdi che a me non sarebbe mai passato nemmeno per il cervello di usare per camera mia – che è bianco neutro, così non devo pensare a come abbinare le tende, quando non dimentico di metterle – tutto è rilassante, avvolgente ed ordinato. E' esattamente come uno che conosce Bill può immaginarsi la sua camera.
Ci sono i miei vestiti in fondo al letto, mentre quelli di Bill sono sparsi nel corridoio, dalla porta di casa a qui e penso vagamente che spero la sua borsa non si sia rovesciata quando l'ho scaraventata a terra perché se quando ci alziamo le sue cose sono sparse in salotto, poi dovrò riportarlo qui per farlo smettere di blaterare isterico. E forse, dico forse, non sarò in grado di farlo. Comunque non ho ancora ripreso bene fiato, in realtà, è per questo che mi sto concentrando sui dettagli che mi circondano. E questo mi fa venire in mente che Bill non ha ancora parlato: una cosa stranissima dal momento che, generalmente, aspetta solo quei due istanti che gli ci vogliono a drappeggiarsi addosso a me subito dopo. Una cosa a cui ho faticato ad abituarmi perché dopo aver fatto sesso sono un uomo inerme, mi si potrebbe uccidere, quindi non ho la forza materiale di sollevare una mano, appoggiarla delicatamente sulle sue labbra e impedirgli di raccontarmi quella parte della sua esistenza che non ha avuto il tempo di spiegarmi mentre gli saltavo addosso. L'unica cosa che posso fare è rimanere disteso a fissare il soffitto, sperando di rimanere sveglio abbastanza a lungo da capire il succo del discorso nel caso mi chiedesse di ripeterglielo. Lo ha fatto, perciò ho dovuto imparare a difendermi.
Lo guardo con la coda dell'occhio per vedere se sta dormendo ma è sveglio e i suoi occhi fissano un punto imprecisato del cassettone di fronte a noi. Se glielo avessi mai chiesto saprei che stiamo entrambi guardando il punto esatto in cui Bushido si è preso la prima pallottola e poi la seconda, che ha lasciato una cicatrice sulla coscia che Bill mi tiene addosso. Ma io, appunto, non gli ho mai chiesto veramente cos'è successo quella notte perché quando potevo lui era distrutto e quando poi si è ripreso, noi due eravamo una cosa ancora troppo fragile per tirare di nuovo in mezzo Bushido e rischiare che ci distruggesse. Perciò lui forse sta guardando il punto da cui tutti noi – i noi di adesso – siamo partiti ma io sto solo guardando un cassettone e non posso davvero sapere quello che gli sta passando per la testa. In realtà, forse, il cassettone non c'entra e non c'entra quello che non so perché tanto i processi mentali di Bill non sono prevedibili, come non lo sono i miei per cui il mio cervello e il suo nella stessa stanza sono una cosa meravigliosa e incomprensibile come i cerchi nel grano. Fatto sta che quando alla fine parla, io preferirei non lo avesse fatto, ma non come faccio di solito, di più perché lo fa per dire una cosa che so porterà danni.
Gli accarezzo la testa e lui parla, così quasi penso che magari era spento e l'ho acceso. Una cosa stupida ma è andata proprio così. Io ho appoggiato la mano aperta sulla sua testa e lui ha detto “Peter?” nello stesso istante. Non può essere, tipo, una coincidenza.
“Sì?”
Lui non si gira come mi sarei aspettato e non mi pianta entrambe le mani sullo sterno per tirarsi su, complice una grazia che sua madre non gli ha dato in dotazione col suo bel faccino, come fa di solito. Rimane lì disteso dov'è e continua a guardare quel punto. “Posso farti una domanda?” Mormora.
“Spara,” rispondo, anche se non mi sento tanto pronto perché lo faccia perché capisco che sta per arrivare una domanda importante o potenzialmente disastrosa. Anche una persona tendenzialmente impermeabile ad ogni tipo di avvisaglia come il sottoscritto, in questi casi se ne rende conto.
“Con quante persone sei andato a letto nella tua vita?”
Io non vado d'accordo con la matematica, Bill. Che razza di domande mi fai? Rimango come un ebete a fissare la sommità della sua testa. Lui non si gira, continua a guardare davanti a sé in attesa di una risposta e io invece contemplo l'universo nella speranza che egli – sotto forma di tornado – scoperchi questa stanza e ci costringa a fuggire, lasciando la domanda priva di risposta.
La verità è che la risposta non la so. Cioè, anche se mi mettessi qui – dati alla mano – a contare tutte le donne con cui sono stato, probabilmente perderei il conto o non ne ricorderei qualcuna perché non ho avuto una storia con ognuna di loro e di alcune nemmeno ricordo il nome. E in ogni caso il numero non sarebbe uno di quelli che farebbe felice Bill o chiunque altro al suo posto. Quando ti fanno una domanda del genere non vuoi sentirti rispondere un numero che supera abbondantemente la trentina. Così vado nel panico, più che altro perché, più tempo passa e meno la risposta sembrerà naturale. Cerco di prendere tempo e dico la prima cosa che mi passa per il cervello. “Devo contare solo le fidanzate o anche le storie di una notte?” Chiedo. E poi penso che se già prima la risposta alla domanda era pericolosa adesso mi sono scavato una fossa da solo e mi ci sono ficcato dentro con un saltello anche piuttosto atletico.
“Hai avuto storie di una notte?” Chiede lui e mi sembra che la sua voce sia sprofondata di due toni, come se mi stesse parlando dall'oltretomba. Ovviamente non è successo niente del genere e probabilmente la sua voce è anche la stessa di un minuto fa, sono io che mi sento sotto giudizio e ne sono anche pienamente consapevole.
Mi chiedo quanto manchi all'arrivo del tornado, mi sembrava piovesse qualche minuto fa e tirava anche vento. “E'... è capitato,” dico. Non lo so perché dirlo mi dia tanto fastidio, non è che mi vergogno o cose simili. Forse è che è palese che lui non se l'aspettasse da me, credo. Non so. Cioè, il tono con cui me lo ha chiesto era... incredulo, tipo.
“Che cosa vuol dire? Queste cose non capitano,” fa lui.
Io vorrei dirgli che queste cose capitano eccome. Perfino io e lui siamo capitati quel pomeriggio dopo l'ospedale perché a me lui piaceva e a lui piacevo io, ma nessuno dei due si era svegliato quella mattina con l'idea di provarci. Per non parlare di Fler, come ci siamo capitati io e lui, Bill non può nemmeno immaginarlo. E a ben pensarci, dopotutto, lui stesso è il primo ad essere capitato a tutti noi, in un modo o nell'altro. E' lui il tornado, in realtà, che ad un certo punto è passato a fare disastri nelle esistenze di tutti. Quindi è inutile che aspetti che questa stanza si scoperchi per opera delle forze della natura comandate dall'universo e mi lasci scappare, il tornado ce l'ho addosso quindi posso solo soccombere.
“Capita che la sera dopo un concerto, ci sia qualche ragazza che riesce ad intrufolarsi nel backstage e una cosa tira l'altra. D'altronde tu lo sai che loro sono lì per quello, chi vuole gli autografi fa la fila con tutti gli altri o ha il culo di beccarti per strada mentre fai la spesa.”
“Capisco,” mi dice. Che vuol dire che non gli torna per niente ma non ha la voglia o la forza di dirmelo e di scatenare una discussione. Questa cosa Bill ce l'ha in comune con un sacco di altre donne della mia vita e non tanto con quelle che ho trovato nei backstage, ma con quelle che significano qualcosa. Tipo Klaudia, appunto, che quando si arrabbiava per qualcosa che avevo detto o fatto – il che succedeva un giorno sì e l'altro pure – non mi guardava e annuiva e diceva 'capisco' e l'unica cosa che poi aveva capito era quello che voleva lei. Era così che litigavamo, perché lei non mi diceva niente e io non tentavo di capire, pur sapendo che qualcosa c'era.
E mi rendo conto, all'improvviso, che cose come questa le impari solo quando stai insieme alla gente davvero e se Bill mi avesse fatto questa domanda, questa precisa, il numero sarebbe stato molto più basso e molto più importante. E gran parte di quel numero sarebbe stato composto da persone che anche lui conosce.
Ad ogni modo, questa discussione ci sta portando in posti in cui non voglio andare. Non voglio spiegare com'è che in passato – che poi significa prima di lui, che si è portato via un anno pieno della mia vita tra alti e bassi – io sia andato a letto anche con gente che non conoscevo, giusto per farlo. D'altronde è una cosa che con me non dovrebbe nemmeno necessitare di una spiegazione. Io sono io e Bill lo sa com'è che sono io, quindi... e poi sarò mica il solo? Il suo Bushido non ha mai fatto niente di diverso, gliel'ho spiegato più volte che prima che arrivasse lui, il camerino di Bushido era un puttanaio assurdo. Vorrei cambiare discorso, appunto e vorrei anche togliermi di impaccio, ma non lo faccio perché dal mio cervello confuso esce solo l'ennesima domanda pessima. “E tu?” Chiedo. “Con quante persone sei stato?”
Che è una cosa che non si chiede. Mai. Soprattutto a chi ti ha fatto la stessa domanda nemmeno un minuto prima e tu consideri quella domanda una violazione del tuo diritto a scoparti quante persone vuoi prima di quella che te l'ha chiesto, che è un diritto sacrosanto a cui io mi aggrappo sempre con le unghie e con i denti. E in questo caso, in questo caso specifico che comprende me – che sono un coglione – e Bill – che guarda dritto davanti a sé e c'ha qualcosa che non viene fuori per niente e non so cosa sia – la situazione è ancora più critica perché non solo non dovevo fare la domanda per una questione di violazione del diritto di cui sopra, ma so anche già pure la risposta.
“Due,” risponde infatti.
Due, quale altro cazzo di numero poteva mai essere, Cristo Santo, quando so perfettamente che non è mai stato con una donna, che il suo primo uomo è stato Bushido e che dalla morte di quel rompicoglioni fino a questo momento di merda in cui io faccio domande ancora più di merda, ci sono stato solo io per lui in qualsiasi forma possibile? Bravo Peter, sei un genio. Sento proprio la voce che me lo dice. “Bill, io...” inizio, anche se non so cosa dire, che novità.
Lui però sembra non avermi nemmeno sentito. “Vado a farmi la doccia,” esclama all'improvviso, come se avesse già cancellato tutta questa discussione, ma non l'ha cancellata affatto o forse sì e si è fatto di nuovo rapire da quel qualcosa che ha in testa e non mi vuole dire. “Dopo ci mangiamo qualcosa, magari.”
Sono le quattro del mattino e vorrei tanto che questa frase non suonasse così disperatamente di circostanza. “Preparo qualcosa mentre ti lavi,” mi offro. Non ho voglia di rimanere in questa stanza da solo. Lui sparisce oltre la porta senza dire altro.
Forse non ho voglia nemmeno di restare in casa.

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Green Eyed Monster - Vol. 2

di lisachan
La mia settimana è cominciata molto male. Che non è come per dire che lunedì mi sono svegliato dopo un incubo e come prima cosa, per esempio, ho infilato le pantofole e dentro c’ho trovato uno scorpione ed ho sentito umido e mi sono accorto di avere la casa allagata scoprendo poi che s’erano rotte contemporaneamente tutte le tubature dell’appartamento a causa di un ingorgo del cesso del tipo del piano di sopra che tra l’altro ha fatto marcire tanto le travi del soffitto da costringerle a crollare e riversare liquami nel centro del mio salotto. No, quello sarebbe stato un brutto inizio di settimana, ma tutto sommato imputabile alle sfighe e ai casi della vita, le classiche cose di cui in genere ti fai una ragione rimboccandoti le maniche e scrollando le spalle prima di metterti al lavoro per rimettere tutto a posto.
No, il mio inizio di settimana è stato di gran lunga peggiore, ed è coinciso con un risveglio orribile, sì, ma per motivi molto più gravi di quelli che ho indicato sopra. D’altronde, Eko Fresh che si attacca al campanello di casa tua per mezz’ora alle sette del mattino è peggio di un incubo, uno scorpione, un allagamento e un chilo di liquami di dubbia origine, tutti assieme e centrifugati in un’unica, enorme Apocalisse. Eko Fresh è Eko Fresh, se non lo conosci non puoi capire, e se lo conosci lo eviti.
Comunque sia, immaginatemi. O se non volete immaginare me immaginate qualcun altro, non importa, in ogni caso: mi alzo, grugnisco come un orso ingiustamente svegliato dal proprio legittimo letargo, vado alla porta e spero almeno sia Bill, che pressa il campanello a ripetizione perché non mi vede da ben quattro ore e vuole assolutamente recuperare il tempo perduto chiudendosi a doppia mandata con me in camera da letto fino a domenica, e invece niente, è appunto Eko che mi guarda come gli avessero appena ucciso la madre, stringendo al petto un giornale con una mano e tenendo un pacchettino un po’ unto di olio nell’altra.
- Eko. – constato, e mi chiedo se magari posso trovare una scusa per mandarlo via, solo che lui non mi dà il tempo neanche di mettere in moto i meccanismi del cervello, perché mi scosta di lato, entra in casa e si chiude la porta alle spalle. Rigirando la chiave nella serratura. – Eko?! – chiedo, vagamente inquietato dal fatto che sia arrivato qui di corsa portando del cibo e segregandosi con me all’interno di un appartamento neanche tanto grande le cui pareti hanno visto troppo per potersi turbare ancora.
- È successa una cosa terribile. – esordisce lui, tetro, e io penso che sì, eccome se è successa una cosa terribile, siamo chiusi nel mio appartamento! Non vedo cosa potrebbe esistere di più terribile di questo. – Forse è meglio che ti siedi. – continua, annuendo pensieroso.
- Sto bene in piedi. – dico, vagamente preoccupato. Già sono in posizione svantaggiosa così, figurarsi se mi siedo. Cerco anche di dirmi che è del tutto irrazionale, da parte mia, pensare che Eko sia venuto qua e si sia chiuso con me qui dentro perché voleva approfittare del mio corpo, ma i meccanismi cerebrali di cui sopra sono ancora spenti e l’omino del cervello sta ancora passando ad oliarli tutti per bene prima di attivarli, perciò continuo a pensare che, appena mi sarò seduto, Eko mi ribalterà sull’isola della cucina e si prenderà la mia verginità, e per evitare tutto ciò resto in piedi.
- Credimi. – insiste lui, spingendomi verso l’isola della cucina – lo sapevo, io! – e forzandomi a sedere su uno sgabello, - E già che ci sei, prendi il krapfen.
- Che krapfen? – chiedo io, tirando su i pantaloni del pigiama fino ad altezze ascellari e pentendomi di non aver provveduto a comprare una cintura di castità per premunirmi rispetto ad eventualità simili.
- Quello che ti ho portato. – continua lui, perfettamente tranquillo, indicando il pacchetto unto che ha poggiato sul ripiano, - Mangia. Ne avrai bisogno.
- Senti, Eko! – mi ribello a quel punto io, saltando in piedi, - Non ho fame e non mi voglio sedere! Ora, mi spieghi qual è il tuo problema, prima che mi venga voglia di afferrarti per la collottola e buttarti fuori di casa dalla finestra?!
Eko mi guarda male e sbuffa, evidentemente indispettito dal mio comportamento, e con tutta la calma del mondo prende e mi srotola davanti agli occhi il giornale. È una rivista scandalistica di quelle che costano uno sputo ogni dieci, roba che gli edicolanti te le tirano dietro per quante gliene avanzano arrivati a domenica, e in prima pagina, proprio al centro, c’è una gigantografia di Fler e Bushido beccati da un paparazzo dentro un ristorante. Fronte contro fronte.
- …ah. – sillabo io, a corto d’aria, sedendomi istintivamente sul primo sgabello che trovo tastando con la mano dietro di me e mandando la mano non impegnata nelle ricerche ad afferrare il krapfen dentro il sacchetto. – Ah.
- “Ah” mi pare una reazione eufemistica. – commenta lui, e mentre io sono qua che stacco un morso di krapfen e spero che cioccolato e zucchero mi invadano le vene ed intontiscano il cervello, e mi chiedo quando abbia imparato il significato della parola “eufemistico”, lui si lancia in una dissertazione dissennata delle sue. – No, ma dico, ti rendi conto? Cioè, da Bushido non mi sconvolge, visti i precedenti, anche se forse dovrebbe sconvolgermi pure questo perché, voglio dire, Bill almeno sembrava femmina, potevamo dire che era confuso, - ma dire a chi, Eko? – ma il senzatetto? Voglio dire, Fler, gay? Ma te lo saresti mai aspettato?
- Io… - comincio, deglutendo a fatica. Il pezzo di krapfen è duro come marmo e non scivola giù per la gola manco morto. Rifletto brevemente sulla mia salivazione del tutto azzerata e mi rassegno a morire soffocato dal krapfen di Eko. - …non lo so.
- Ma poi! – continua lui, evidentemente scioccato da questa rivelazione, - Tu c’hai vissuto praticamente insieme per un millennio, ew! Non è che ti ha allungato mani addosso nel sonno? Tipo che ti ha ubriacato e mentre eri lì in coma etilico ti ha ribaltato sul materasso e ti si è fatto di nascosto? Hai controllato?
- No, Eko! – quasi sbotto io, fissandolo allucinato, - Non ho controllato e non— Fler non ha fatto niente del genere, andiamo, non è che siccome uno è gay… o quello che è… - inspiro ed espiro a fatica, - sente il bisogno di metterti le mani addosso e violentarti o cose simili! – spiego. E poi mi viene voglia di appendere una corda alle travi del soffitto e impiccarmi, perché… Dio mio. No, Eko, Fler non ha approfittato di me nel sonno, è più probabile che sia avvenuto l’esatto contrario, ma non è il caso che tu lo sappia.
- Bah! – conclude lui, allargando le braccia lungo i fianchi e sedendosi sullo sgabello di fronte a me, allargando la rivista sul ripiano per guardarla ancora, come volesse cogliere sfumature che non era riuscito a notare prima. – Che schifo, comunque.
- Ma che schifo cosa?! – esplodo io, irrazionalmente irritato da questa cosa, - Devo ricordarti che io sto con Bill?! Se vuoi venire a fare moralismo, vai a farlo in una casa in cui non si scopa abitualmente fra uomini!
Lui solleva gli occhi scuri e vacui e mi fissa a lungo, come non capisse dove voglio andare a parare.
- Ma che c’entra? – chiede infatti, - Bill è una cosa diversa. Lui è praticamente una donna.
E io vorrei rispondergli che no, semmai Bill è teoricamente una donna, ma praticamente è decisamente maschio, solo che poi ricordo l’indiscutibile verità nella testa di Eko – indiscutibile non perché sia esatta, ma perché è quella che vede lui e che non è disposto a cambiare neanche per tutto l’oro del mondo, visto che è l’unico universo in cui riesce a vivere senza traumi – e questa indiscutibile verità nella sua testa dice che Bill sì, potrà pure avere l’uccello, ma è comunque una femmina. Per cui per lui è ormai perfettamente normale che vada a letto coi maschi, o che un maschio abbia voglia di andare a letto con lui. Lei. Quel che è.
La cosa che mi turba davvero è che io lo so che Eko vede Bill in questi termini. E quindi, forse, se m’incazzo per quel “che schifo”, non è per Bill.
Il discorso muore lì, anche perché Eko quello che doveva fare – rovinarmi la giornata – l’ha fatto, e io due minuti dopo resto solo a darmi del coglione e pensare che tanto, peggio di così non potrà andare. Naturalmente mi sbaglio, perché due ore dopo incontro Bill e lui è taciturno ed evidentemente scazzato, e c’è un enorme problema quando Bill è sia taciturno che scazzato, perché Bill si scazza spesso ma ci tiene sempre a far sapere al mondo perché, visto che adora farlo sentire in colpa. Quando Bill si scazza e non sa dirti perché, il motivo è che non vuole farlo.
Da quando sta con me, è capitato una volta sola. Poi è venuto fuori che era per una litigata a caso con suo fratello, ma naturalmente io mi sono sempre preoccupato perché, prima che stessimo insieme, questi momenti di scazzo cronico gli venivano solo quando qualcosa gli ricordava Bushido. E allora lui era morto, quindi, insomma, non era il caso di immischiarmi. Ancora oggi, ci sono momenti come questo, in cui Bill è arrabbiato e, per continuare ad arrabbiarsi in pace, vola fino ad un altro pianeta – un pianeta sul quale io non posso raggiungerlo, dal quale mi sento distante.
Bill è rimasto su quel pianeta per tutta la settimana fino ad ora, e questo, sommato al fatto che Bushido sta con Fler e, Dio solo sa perché, questa cosa mi manda in bestia, ha reso la mia vita impossibile nell’ultima settimana.
Stamattina, comunque, dopo che ieri sera mi ha chiamato dicendomi che non sarebbe passato da casa perché era stanco e preferiva andarsene a letto a dormire – dichiarazione che in genere mi fa capire a che punto sia arrivata la sua malinconia – mi ha richiamato, per chiedermi se potevo passare a prenderlo dagli studi dell’Ersguterjunge, visto che aveva da fare qui per qualcosa. Dopo una settimana passata a vederci poco e male, e dopo l’ultima notte trascorsa senza di lui, mollarlo all’EGJ senza un passaggio per andare ovunque volesse, per quanto potessi essere irritato dalla sua distanza e dall’EGJ in generale, non era davvero un’opzione, perciò mi sono schiaffeggiato un paio di volte davanti allo specchio, mi sono dato un contegno, mi sono vestito e sono saltato in macchina.
Gli studi dell’EGJ, da quando Bushido è tornato, non sono più gli stessi che erano prima che morisse. Io ho dei ricordi stupendi, di questo posto. Serate passate ad ubriacarsi mangiando schifezze e parlando di cazzate finendo per dormire sui divani, giornate passate ad inseguire un’idea di Bushido e un beat particolarmente figo, voce su voce, in un’improvvisazione continua. Le feste, il cazzeggio, i giorni fantastici in cui il lavoro andava alla grande, tutto funzionava alla perfezione e sembravamo tutti ingranaggi minuscoli di un più grande meccanismo che una volta avviato andava avanti da sé senza dover più spingere niente.
Poi lui è morto, e gli studi sono diventati una grande camera ardente perenne. Anche senza la sua salma esposta in bella mostra in una bara col coperchio di vetro, era qui che ci riunivamo tutti per struggerci un po’, quando ne sentivamo il bisogno. Dopo il funerale, Saad ce l’aveva messa tutta per far riprendere i lavori, ma un po’ perché alcuni di noi – io per primo – non eravamo d’accordo, un po’ perché la Germania era ancora troppo scossa per pensare al rap, niente era mai ripartito per bene, perciò entrare qua dentro più che altro era riappropriarsi di quel pezzo di Bushido che avevamo perso tutti e che tutti potevamo ritrovare fra queste stanze, come se parte del suo spirito fosse rimasto intrappolato fra le molecole dell’aria, dell’intonaco grattato via dai muri, delle poltrone malandate.
Quando lui è tornato, poi, è stato anche peggio: la Universal ha preteso di colonizzare tutto, mandare emissari cui sono stati affidati uffici, e che hanno avanzato pretese, che hanno chiamato ditte di operai che hanno ristrutturato, ridipinto, rimodernato, riarredato, rinfrescato. Hanno preso tutto quello che c’era e l’hanno spazzato via, e adesso passare in mezzo a questi corridoi non mi dà più nessuna bella sensazione. Non c’è nessun ricordo legato alla moquette nuova o al divano impeccabile in pelle bianca. Non c’è nessun ricordo sulle porte girevoli o su quelle a vetri, automatiche e sempre lucide. Ora tutto ciò che mi resta camminando qua dentro è la rabbia per tutto quello che c’era e che nessuno di noi riuscirà mai più a ritrovare, perché è stato gettato via da troppe persone.
Comunque, nel momento in cui io sto qui che guardo il divano e mi chiedo se sedermi o meno, che tanto sta vicino all’ingresso e quindi, uscendo, Bill deve passare per forza di qui, in un modo o nell’altro, la voce di Fler mi impedisce di muovermi oltre.
- Che ci fai tu qui? – mi chiede, e non c’è cattiveria, nella sua voce, solo stupore e incredulità, come se si fosse immaginato tante volte la possibilità di trovarmi qui davanti a questo divano ed ogni singola volta si fosse detto “ma no, che cazzata, non accadrà mai”. È accaduto.
Mi volto lentamente, abbozzando un mezzo sorriso.
- Ciao. – comincio imbarazzato, - Scusa.
Lui sgrana gli occhi, fissandomi sempre più sconvolto.
- Di che ti scusi? – chiede giustamente. Di che mi scuso? Me lo chiedo anch’io. Mica è casa sua, questa, non sono entrato dalla finestra per svaligiargli l’appartamento. Perché non posso semplicemente dirgli “Bill mi ha chiesto di passarlo a prendere, lo sto aspettando”? Perché non posso avere una conversazione – o un rapporto – normale, con quest’uomo?
- Non lo so. – ammetto, ed è una risposta sia alla sua domanda che alle numerose che mi sono posto io negli ultimi trenta secondi. – Come stai?
Lui continua a fissarmi come fossi un alieno o sa Dio cos’altro.
- Bene, immagino. – risponde restando sulla difensiva, a qualche metro di distanza.
- Immagini? – chiedo io, inarcando un sopracciglio, - Stai bene o no?
- Sì! – sbotta lui, e poi si massaggia le tempie, sospirando profondamente. Quando torna a guardarmi negli occhi, è visibilmente più tranquillo. Invidio Fler per la capacità che ha di mettere ordine all’istante nella propria testa. Immagino sia una delle numerose eredità del ghetto, motivo per il quale non averla non è che mi deprima più di tanto, ma ammetto che è una capacità che sarebbe comodo possedere, di tanto in tanto. – Sì, sto bene, Chaku.
- Quella cosa che hai fatto… - sorrido un po’, accennando il movimento di lui che solleva le braccia ai lati della testa, - sembri un’altra persona, adesso. Funziona sempre?
Inspiegabilmente, lui capisce subito a cosa mi sto riferendo.
- Sì. – ride a bassa voce, - Stavi pensando che servirebbe anche a te?
- Esatto. – rido anch’io, e nel tempo che impiego a concedermi questa risata liberatoria, chiudendo anche gli occhi, lui si avvicina e mi posa due dita sulle tempie, massaggiando piano. Quando riapro gli occhi, la pressione delle sue dita e i suoi occhi assurdamente vicini sono le uniche cose vere in tutto l’universo. Perciò mi sembra il caso di dire qualcosa di altrettanto vero, e anche in fretta. – Mi sei mancato.
Lui smette subito di toccarmi, naturalmente, e si allontana di un paio di passi.
- Io dovrei- - comincia, ma naturalmente io gli impedisco di finire.
- È che non ci siamo più visti né sentiti! – comincio a blaterare, gesticolando come faccio solo quando non ho idea di cosa sto dicendo e spero che i miei movimenti possano distrarre dal contenuto delle mie parole, - Ero un po’ preoccupato, sai, per come ci eravamo lasciati. – realizzo solo mentre parlo che in realtà quello che è uscito da casa sua coperto di sangue ed ematomi, alcuni dei quali sono qui ancora oggi nonostante le lunghe settimane di mancata frequentazione, ero io, quindi forse dovrebbe essere lui quello che s’è preoccupato per me. Che ne sapeva, lui, di cosa mi succedeva nel mentre? Potevo uscire da casa sua e accasciarmi al primo angolo morendo per un’emorragia interna, per dire. Certo, poi i giornali in qualche modo gliel’avrebbero fatto sapere, e quindi – visto che sulle prime pagine di tutte le riviste scandalistiche non ci sono foto del mio cadavere all’obitorio bensì foto di me che passeggio con Bill, vado a cena con Bill, vado al parco con Bill e faccio un altro mucchio di cose con Bill – lui probabilmente non ha avuto motivo per preoccuparsi né nient’altro, però boh, è abbastanza assurdo che io adesso gli stia dicendo che ero preoccupato per lui. E peraltro ho continuato a parlare anche adesso che nel mentre mi stavo parlando nella testa, quindi non ho idea di cos’ho detto negli ultimi dieci minuti. Ma dev’essere qualcosa di assurdo, se mi sta guardando con quella faccia lì, come se stessi imprecando in latino mentre la testa mi ruota sul collo di trecentosessanta gradi e fiotti di vomito verde escono a fontana da ogni orifizio del mio corpo.
- Chaku… - mi chiama lui, un sorriso divertito appena accennato sulle labbra, - Chaku! – e io mi interrompo a metà di una parola che non ho pensato e non saprò mai di aver detto. – Mi sei mancato anche tu. – sorride più serenamente, appoggiandosi di spalle alla parete, - Sono contento che le ferite vadano meglio. Almeno non sei più inguardabile. – ridacchia.
E io non lo so cosa mi prende. Probabilmente la stessa cosa che mi è presa mentre Eko blaterava di lui e Bushido lunedì mattina in casa mia, ingozzandomi di krapfen e sperando bastassero per non sconvolgermi troppo. Probabilmente la stessa cosa che mi è presa tutte le volte in cui ero consapevole di doverlo lasciare andare, o doverlo quantomeno aiutare a staccarsi, o di dover rispettare la sua scelta di non volermi più rivedere. Probabilmente la stessa cosa che mi prende sempre, insomma, quando c’è di mezzo lui. Una cosa che non so e non posso fermare, una cosa a riguardo della quale mi fa paura ammettere che non voglio cercare di fermare.
Neanche me ne accorgo, quando mi avvicino, perché è un movimento talmente collaudato che ce l’ho tipo inciso nelle ossa. La forma del suo petto contro il mio, le sue spalle sotto le mie mani, le sue labbra pressate sulle mie. Il suo sapore che è sempre lo stesso.
Io non me ne accorgo, lui sì. Mi pianta addosso le mani e mi spinge indietro con forza, schiacciandosi contro la parete come se servisse a difendersi, e mi dà l’impressione che, se potesse, sfonderebbe il muro e indietreggerebbe ancora. Non può, ed è l’unico motivo per cui sto continuando a guardarlo negli occhi. Posso quasi vedermici riflesso dentro. La mia espressione confusa, come se io per primo non avessi capito cosa stavo facendo.
Lo capivo, Fler. Stavo sbagliando lo stesso, ma lo capivo.
*
Ho bisogno di appoggiarmi da qualche parte, e scelgo la parete perché sembra abbastanza rigida, dopotutto, anche se a volte ho come l’impressione che i muri all’EGJ siano fatti di cartone, tanto sono sottili, che se uno parla un po’ più ad alta voce dall’altro lato senti tutto.
Guardo Chakuza e vorrei potergli leggere nella sua testa con la disinvoltura con la quale in genere lo faccio quando non sono così confuso e turbato e minacciato – da cosa, neanche lo so – ma non ci riesco. Respiro profondamente, mi rendo conto che non mi basta, respiro ancora.
- Non- - comincio, incerto, - Non intendevo questo.
Lui mi guarda e non risponde. Ha le labbra dischiuse, gli occhi persi, e io non so che dirgli di più. Non so neanche se avergli detto quello che gli ho appena detto sia stato corretto, perché non è vero. Non lo è del tutto, almeno. Mi piacerebbe che lo fosse, ma non può esserlo se mi basta così poco per non capire più niente.
- Scu- - comincia lui, ma io mi agito subito, mi stacco dal muro e comincio a muovere le braccia per fermarlo.
- Non scusarti. – lo blocco, scuotendo il capo, - Mi sono fatto fraintendere io. Insomma, mi manchi, sì, ma non in quel senso. E poi sto con-
- Lo so con chi stai. – mi interrompe lui. Ho perso il conto delle volte in cui ci siamo parlati addosso, interrompendoci a vicenda, solo oggi. È un gioco che abbiamo condotto dalla prima volta che ci siamo visti, la verità è che io e Chakuza siamo due teste troppo dure perché dai nostri scontri possa davvero uscire qualcosa di buono. Motivo in più per cui è necessario chiuderla adesso. Sarebbe stato meglio chiuderla prima, ma se adesso è tutto ciò che resta, è adesso che dobbiamo chiuderla.
- Sto con Anis. – dico comunque. E lo dico scandendo bene ogni lettera, parlando chiaro e ad alta voce. Così che lui possa sentirlo, sentirlo davvero, e non possa ignorarlo.
Chakuza non mi guarda. Annuisce sbrigativamente, poi borbotta qualcosa sull’aspettare in macchina, che è meglio, e poi si dilegua in un batter d’occhio. Mentre lo osservo attraversare la porta per uscire dagli studi, colgo l’occhiata di sfuggita che mi lancia attraverso lo specchio accanto all’appendipanni, e nei suoi occhi – ora che sono lievemente più calmo – leggo chiaramente che sta già per dimenticare quello che gli ho appena detto, perché non c’è niente che Chakuza possa impedirsi di scordare, se gli fa comodo.
Sospiro pesantemente, riprendendo il corridoio e ricominciando a muovermi verso l’ufficio di Anis come stavo facendo prima di incontrare Chakuza di fronte al divano. Mentre busso alla porta, più per abitudine che perché Anis abbia mai richiesto da me un simile riguardo, penso che è altamente presuntuoso, e anche altamente stupido, da parte nostra, pensare di poter chiudere qualcosa che non abbiamo ancora nemmeno aperto. È il problema della nostra esistenza tentare di chiudere cose non aperte e tentare di convivere con cose mai chiuse come se lo fossero. E io ne so qualcosa.
Quando entro nell’ufficio, Anis si sta palesemente annoiando, e a me viene da ridere. Me lo ricordo ai tempi dell’Aggro, lui era uno capace di darsi alla macchia per giorni e comparire agli studi in tempo per la registrazione, fare la sua cosa e poi sparire ancora fino a chissà quando. Ora è diverso, ora c’è la Universal di mezzo, e la Universal ha tabelle con orari prefissati, appuntamenti programmati giorni prima, giornate di lavoro scandite nel minimo dettaglio. Il classico lavoro da impiegato statale dal quale Anis è sempre fuggito da che è nato, insomma, eppure ora è costretto a sottoporsi a cose simili, cose delle quali nemmeno comprende l’utilità, perché giustamente lui cosa ci sta a fare dietro a una scrivania se non ha canzoni da scrivere, demo da ascoltare o rapporti di vendita da visionare compiaciuto?
- Come va? – chiedo divertito, chiudendomi la porta alle spalle ed avvicinandomi. Lui smette di fingere di scorrere con gli occhi incartamenti inutili e si stende tutto sullo schienale della sedia, che è di quelli a molla e quindi segue la sua spinta, piegandosi all’indietro e permettendogli di stiracchiarsi come può con un grugnito di soddisfazione un po’ frustrata.
- Secondo te? – ribatte lui, tornando dritto e grattandosi distrattamente la fronte, - Voglio tornarmene a casa e non posso.
- Perché? – rido, appoggiandomi alla scrivania, - Aspetti che suoni la campanella?
- Devo incontrare un tipo… - borbotta lui, lanciandomi un’occhiata indispettita, - Un manager, cazzo ne so. Fra mezz’ora. Cristo, ma chi me l’ha fatto fare? Potevo stare sdraiato in una spiaggia a bere latte di cocco mentre le turiste mi guardavano come una specialità locale, adesso. E invece, guardami.
- E invece sei tornato nell’ostile Germania, il cui trono era stato usurpato dal tuo vigliacco fratellastro pelato, e hai combattuto per riconquistare regno e principessa.
- Per poi perderli entrambi. – sorride lievemente. Nei suoi occhi c’è una traccia di tristezza che è solo un’ombra. La scaccia via battendo le palpebre, e poi torna a guardarmi. – Cos’hai? – mi chiede, scrutandomi incuriosito.
Io distolgo lo sguardo, perché non voglio che veda. Alle volte, però, mi sembra quasi che non ne abbia bisogno. Mi sembra che i miei turbamenti li percepisca nell’aria, come quando dal niente ha capito che ero tornato a casa dopo aver scopato con Nicole. È una libertà di lettura che gli ho lasciato io e della quale pagherò per sempre le conseguenze.
- Niente. – biascico, - È tutto ok.
Lui non mi risponde, si vede lontano un miglio che non mi crede manco per niente. Resta un po’ seduto sulla propria poltrona, rigirandosi i pollici e guardandomi. Lo so perché, anche se sto fissando la parete come se stesse affiorando Gesù Cristo in persona da sotto l’intonaco, mi sento addosso i suoi occhi, e mi fanno sentire a disagio.
Poi lo sento alzarsi e fare il giro della scrivania, raggiungendomi, e solo allora torno a guardarlo e lo vedo che mi sorride. Faccio per dirgli qualcosa, ma lui si sporge in avanti e mi bacia leggerissimo sulle labbra. Sta ancora sorridendo.
Non devo dirgli niente. Chiudo gli occhi e sporgo appena le labbra. Lui ride, mi ride proprio addosso, e poi mi si stringe contro, facendosi spazio fra le mie gambe mentre io mi sollevo e mi seggo sulla scrivania, lasciandogli tutto il posto che gli serve. Piego il capo e lui approfondisce il bacio, attirandomi a sé con una mano sulla nuca. E non gli importa che la porta non sia chiusa a chiave, perché se per caso qualcuno la aprisse e ci vedesse, lui non avrebbe alcun problema a dirgli di andarsi a fare un giro mentre lui finisce di scoparmi. E questo può succedere perché lui mi porta a cena fuori, perché usciamo insieme, perché se gli chiedono se stiamo insieme, pure come una battuta, lui risponde di sì con tutta la serietà del mondo. Non perché stia legandosi a me per sempre come fossimo sposati, semplicemente perché sa che non c’è motivo di mentire a riguardo.
Non c’è niente di nascosto, di quello che siamo. È la prima volta che mi sento così in tutta la mia vita. Anis è stato l’unico a farmi sentire in questo modo. E io gli sono grato mentre lo aiuto a scostarmi i vestiti di dosso e piegarmi sul tavolo, prendendolo dentro con un gemito che gli spengo sulla spalla, prima di tempestarla di baci e morsi.
Quando vengo fra le sue dita, mi lascio sfuggire un gemito più forte degli altri, e lui sorride soddisfatto sul mio collo.
- Visto? – mi dice. Il suo respiro è pesante e sorrido anch’io. – Qualsiasi cosa fosse, ora è passata.
Lo abbraccio stretto, solo per qualche secondo. Non l’ho mai fatto con lui, non così, ma oggi mi sento piccolo, e l’ufficio all’improvviso mi sembra la cameretta in cui dormivo da ragazzino, nella casa con mamma, a Tempelhof. Adesso mia madre non ci vive più, là. La prima cosa che ho fatto, quando ho cominciato a vedere soldi veri, è stata comprarle una bella villetta in un bel quartiere pieno di verde dove passano i ragazzi a portare il giornale e il latte al mattino.
- È passata. – confermo, anche se forse non è del tutto vero. – Grazie.

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I don't wanna miss a thing

di tabata
Quando tutto va storto, diceva mia madre quando ero piccolo, devi pensare alle cose belle.
All'epoca a me sembrava una cosa un po' stupida per ben due motivi: il primo era che non mi sembrava possibile pensare a qualcosa di bello se in quel momento qualcosa non andava – che fosse una sbucciatura al ginocchio o il pensiero che non avevo un padre perché quello aveva mollato mia madre incinta senza una spiegazione. Il secondo era che, per quanto forse mi avrebbe aiutato, trovavo incosciente pensare ad altro quando avevo un problema, perché non è che sarebbe sparito se non ci pensavo, il che vi dà la misura di che tipo di bambino io fossi. Uno di quelli che ragionano un sacco, e stanno anche le ore a fissare il paesaggio mentre rimuginano su ciò che gli è successo durante la giornata o nella vita in generale. Io ero così e i problemi mi piaceva risolverli quando c'erano – o almeno prenderne coscienza – e non infilarli in un cassetto pensando a quanto mi piacesse lo zucchero filato che non mangiavo quasi mai ed era buonissimo.
Poi ho imparato che in certi casi, magari non in tutti ma in certi sì, la teoria di mia madre è vera ed è anche l'unico modo per rimanere a galla quando la merda ti ha ricoperto fin sopra la punta dei capelli e tu hai una gran voglia di morirci dentro soffocato e non puoi.
Questo è uno di quei momenti. Ho appena picchiato Chakuza come non avevo mai picchiato nessuno in vita mia; e non parlo delle ferite inferte – per quello no, al confronto di certe risse in cui mi sono trovato coinvolto, a Peter non ho fatto praticamente niente – ma per la quantità e la natura delle sensazioni che ho provato mentre lo facevo. E' straniante essere consapevoli che una persona si merita i calci e i pugni che le stai tirando ma, allo stesso tempo, provare un affetto così totalizzante da spingerti a curarla dopo che hai finito. Con Bushido, se ci penso, è stata un po' la stessa cosa la notte della sua morte. Io volevo ammazzarlo, lo volevo con tutto me stesso perché era un bastardo, perché mi aveva incasinato la vita più di quanto avrebbe dovuto essergli possibile nonostante quella faccia di merda che si ritrova, eppure una parte di me non pensava che ci sarei mai riuscito o che potessi anche solo provarci. Da una parte pensavo che avrei affondato la lama così a fondo da spezzargli a metà il cuore, e dall'altra volevo soltanto abbracciarlo. Ma in quello scontro mancava qualcosa – non il sentimento, immagino – ma una certa intensità che, Dio solo sa perché, io provo solo per Chakuza. Così l'ho picchiato, e so che se lo meritava – lo sa anche lui, stavolta! – perché è un coglione e avrebbe fatto tanti meno danni se, anche per una sola volta nella sua vita, si fosse fermato un secondo a pensare con il cervello invece che con il cazzo e avesse poi agito di conseguenza. Gli bastava un secondo solo. D'altronde il pensiero coerente non è mai stato il suo punto di forza, e io non sono qui a pretendere questo da lui, ma quello che avrei voluto non era nemmeno la coerenza, quanto un minimo di istinto di sopravvivenza.
Lui Bill l'ha sempre voluto; voluto quasi come se gli fosse dovuto e questo perché, per certi versi, è sempre stato suo e non sono io che dovrei dirvelo, dal momento che sono arrivato molto dopo che si conoscessero, ma l'ho capito tempo un secondo quando li ho visti insieme la prima volta e dopo che gli altri mi hanno raccontato com'era la vita quando Bushido era vivo e a morire non ci pensava minimamente, a quanto pare. Bill è sempre stato guardato con diffidenza da tutti quanti, perché non si capiva cos'era, perché era piccolo e perché, fondamentalmente, è strano forte e bisogna un po' seguirlo per capire di cosa parla o come si sente. Avevano tutti dei problemi, tranne Chakuza; probabilmente perché il cervello di Peter naviga nell'assenza di senso, e Bill in quelle acque ci sguazza bene anche lui. Così questi due si sono trovati fin da subito. E all'inizio non si piacevano nemmeno, io posso pure immaginarlo questo, perché Bill adorava il suo tunisino come un Dio personale e Chakuza era del tutto ignaro della propria apertura sessuale, per cui il meccanismo che in genere lo porta a non capire più un cazzo quando annusa la possibilità – anche vaga – di fare sesso non era ancora scattato. Poi Bushido è morto, e l'improvvisa assenza della sua luminosità accecante ed esagerata ha permesso a Bill di vedere che dietro la statua del Dio tunisino, c'era un nano pelato un po' meno luminoso, forse, ma che aveva per lui praticamente la stessa dedizione. E da lì la scintilla: il bacio, l'allontanamento, il cercarsi ma-anche-no e tutta quella tortura a cui sono stato sottoposto, nella totale ignoranza di Bill ma nella completa consapevolezza di Chakuza. Per questo vi dico che è un coglione.
Se lui semplicemente, ad un certo punto – uno qualsiasi, cazzo! - di questa maledetta storia di gente che si lascia e si riprende, si fosse fatto un esame di coscienza e avesse constatato che la cosa che più di tutte voleva al mondo, sopra ogni cosa, era Bill – perché così è e anche una creatura di intelligenza limitata come lui lo capirebbe se solo si fermasse a pensare –, io non sarei qui appoggiato a questa stramaledetta cazzo di porta, dopo che l'ho pestato e curato, a chiudere le mani a pugno per impedirmi di riaprirla e tirarmelo dentro perché uno di noi due deve chiuderla e siccome lui non ne è capace davvero, devo farlo io.
Così chiudo gli occhi e aspetto pazientemente di sentire i suoi passi lungo le scale; ci mette una vita a muoversi, tipo minuti interi, non so cosa stia facendo ma, conoscendolo, se ne sta lì immobile a cercare di capire da che parte è girato, cosa dovrebbe fare ora e come, perché Peter è così: non capisce mai niente di cosa ci si aspetti da lui, nemmeno dopo che viene pestato a sangue e buttato fuori di casa. D'accordo, ammetto di essere stato vagamente ambiguo per i suoi standard, visto che non l'ho preso di peso e gettato nell'androne del mio palazzo – che sarebbe stato piuttosto esplicito – e dopo averlo pestato, l'ho curato – due azioni che si annullano in qualche modo a vicenda – ma viste le motivazioni che ci stavano dietro, forse dovrebbe aver afferrato la situazione; ciò non significa che lui reagisca automaticamente come farebbe ogni essere umano, ossia eclissandosi per il malessere che prova, ma probabilmente se ne sta lì e fissa il vuoto mentre nel suo cervello due ingranaggi casuali cercano invano di incastrarsi tra loro.
E sorrido perché nella testa ne ho a migliaia di immagini simili di lui che macina pensieri come se non ci fosse un domani senza cavarne niente. Non so perché, fra tutte le possibilità che ho a disposizione, mi torna in mente di quella volta che si ritrovò per le mani il volantino che ci aveva consegnato il dottorino la notte che Chakuza si è girato male e ha fatto la grande cazzata, quella che ha aperto la strada a tutte le altre. Come episodio non è neanche uno di quelli più indicativi dell'assurdità che quest'uomo può rappresentare, ma è uno di quelli più felici e forse è per questo che mi torna in mente; anche se in questo momento ho forse abbastanza motivi per ucciderlo e venire assolto da una giuria di miei pari, io voglio ricordarmi soprattutto perché ho permesso a questa persona di entrare di prepotenza nella mia vita con il suo metro e quaranta scarso e ribaltarmela.
Dunque, se ben ricordo, quel giorno ero stato a farmi un giro in città, perché avevo delle commissioni da fare e, già che c'ero, ne avevo approfittato per fare un salto a Tempelhof e cominciare a fare due chiacchiere con un paio di persone che conoscevo; per la questione di Saad, ovviamente, anche se al tempo era ancora solo la questione di Bushido. Sapevo che, ad un certo punto, avrei avuto bisogno di Chakuza – e Dio solo sa se non temevo quel momento – ma pensavo che fosse meglio coinvolgerlo nelle indagini solo quando non avrei avuto altra alternativa; cosa che poi è stato molto più tardi e abbiamo scoperto quello che io già sapevo e lui si immaginava, e cioè che avrebbe dovuto uscire da quella scuola per cuochi solo per entrare in un ristorante e lì restare per tutto il resto della sua vita.
Ad ogni modo decido che dopo aver fatto tutto ciò che ho da fare, posso presentarmi a sorpresa a casa di Chakuza perché non lo faccio mai e quindi lui non se lo aspetta per niente. Chakuza è uno incasinato a livelli improponibili a livello personale – il cervello soprattutto – ma ha una rigida organizzazione per quanto riguarda tutto il resto, ossia per le cose totalmente inutili. Del tipo che piega le magliette in un certo modo, quando entra in casa deve fare una certa sequenza di azioni e, più importante di tutti, quando vuoi vederlo o vuoi fare qualcosa con lui è meglio se ti prendi la briga di avvertirlo almeno tre o quattro giorni prima con una richiesta in carta bollata perché piombargli in casa come io sto per fare ha su di lui effetti imprevedibili. Ed è proprio per questo che lo faccio: sono di buon umore e ho voglia di rompergli le palle.
Sfortunatamente per me, lui è talmente preso dalla sua follia del giorno che non se la prende quando mi presento bello come il sole sulla porta di casa sua senza prima farmi annunciare da una telefonata. Naturalmente i suoi riflessi sono sempre i soliti per cui mi lascia lì sulla soglia come un coglione per almeno due minuti e mi fissa, con l'occhio da triglia, come se indossassi un costume da coniglio rosa o fossi completamente nudo. Per un istante spero solo che non mi stia vedendo nudo con solo qualche particolare del suddetto costume da coniglio addosso perché sarebbe molto da lui e io non voglio far parte di questa fantasia. Comunque poi salta fuori che dal ciarpame che tiene sparso per tutta quanta la casa secondo un ordine dettato dal caos primordiale dal quale anche lui dev'essere uscito in forma di ameba, è riuscito in qualche modo a recuperare questo volantino di cinquanta pagine che ci è stato consegnato come le tavole della legge sul sacro monte del pronto soccorso. Quando ciò è avvenuto io ero molto impegnato a non farmi saltare via i punti sedendomi male, per cui non ci ho fatto molto caso, ma lo riconosco immediatamente non appena glielo strappo di mano per vederlo meglio, anche perché non si può veramente scordare un volumetto con sopra un paio di tette. Lui naturalmente fa finta di non essere stato impegnato a leggerne ogni riga con grande dedizione fino al minuto prima di aprirmi la porta, anche se poi si è fatto trovare sulla soglia a leggerlo. L'incoerenza, Chaku ce l'ha. Il fatto è che si sente mortalmente in colpa – e fa bene – ma si sente anche mortalmente in imbarazzo – e questo è divertente – all'idea di doversi istruire meglio se vuole rifarlo. E lui vuole rifarlo, su questo nessuno ha dubbi, perciò non ha molta scelta. Per aumentare ulteriormente il suo desiderio di sotterrarsi per essere stato colto in flagrante a studiare per l'esame di omosessualità applicata che sicuramente darà tra poco e del quale io sarò l'esaminatore, decido che posso commentare questo vademecum per checche insieme a lui. Ci sistemiamo contro la penisola, lui dietro e io davanti, come del resto succede sempre, dal momento che Peter Pangerl è ufficialmente a favore del sesso con un uomo, purché sia lui ad infilare l'attrezzatura. Chiamalo scemo.
L'opuscolo ci informa che un uomo può essere tentato da un altro nei parchi o nelle saune – conosco persone che dopo aver letto queste pagine probabilmente vivrebbero murate vive in casa o non andrebbero mai più in palestra convinte che in tali luoghi di perdizione si annidino uomini concupiscenti pronti a rubarsi la loro verginità anale saltando fuori da ogni angolo oscuro – ma soprattutto in misteriose altre occasioni.
Noi, altra occasione; anche se dubito che gli autori di questa guida abbiano preso in considerazione uno stupro con vittima semi-consenziente – sempre che esista come figura – e stupratore semi-involontario. In quel momento, ma anche adesso, e per sempre temo, penso che la gente non mi crederebbe se gli raccontassi cos'è successo; un po' perché Chakuza che stupra qualcuno alto un metro e novanta non sembra fisicamente possibile finché effettivamente non lo fa e un po' perché, anche se fosse, magari uno pensa che qualche tempo dopo siamo finiti io in tribunale e lui in galera, non che siamo qui a fare i cretini immaginando come sarà che divorzieremo litigandoci il cane senza mai, di fatto, esserci sposati nemmeno per finta. Noi non siamo normali.
Sfogliando trovo anche due pagine di un marrone che più schifoso non lo potevano fare, nelle quali ci spiegano come indossare un preservativo, attraverso chiare e semplici illustrazioni. Lui ovviamente sa farlo, voglio dire, il sesso è anche un po' l'unico campo in cui abbia del talento per cui mi sembra il minimo che sappia le basi, ma è impagabile la faccia che fa quando gli chiedo: “Questo lo sai fare, mi auguro, avrai pure scopato nella tua vita, in generale!”
Lui si gonfia tutto come un tacchino alle fiere di paese, come se avesse raggiunto risultati mai visti e quindi riconosciuti a livello interplanetario dalla comunità scientifica internazionale. “Credo di superarti di gran lunga in quantità, Fler.” Non stento a crederlo. Un metro e venti di sesso puro, guarda.
Mi rendo conto di parlare bene e razzolare male, soprattutto se poi permetto all'ottavo nano, qui, di fare di me ciò che vuole; è che in effetti è piacevole. L'unico problema è poi arginare tutto l'egocentrismo di cui dispone e che tracima fuori da ogni orifizio visto il poco spazio in cui è contenuto, se solo si prova a dire che sì, in effetti, è capace di soddisfarti anche in maniera interessante. Per ogni complimento che gli si fa, bisogna buttarlo giù dal piedistallo due o tre volte, giusto per riequilibrare la bilancia cosmica su cui sta seduto col suo bel capoccione luccicante.
“Sei mica l'unico che abbia mai scopato, sai?” Gli faccio notare, perché è evidente che a volte si dimentica di non essere l'unico uomo sulla terra in grado di soddisfare sessualmente altri esseri umani; anche perché, a ben guardare, sarebbe alquanto agghiacciante se lui solo sull'intero pianeta custodisse il segreto dell'orgasmo. Immaginate cosa non sarebbe quest'uomo se davvero avesse questa posizione.
Innanzi tutto si creerebbe subito un culto, penso, e lui se ne starebbe tutto il giorno seduto su un trono molto alto, con il suo cappellino in testa mentre donne nude gli sventolano intorno foglie di palma. E le donne – e gli uomini – farebbero la fila fino ai suoi piedi per avere la dimostrazione pratica del suo potere. Chakuza eliminerebbe alla radice il concetto di atto di fede, elargendo i propri miracoli con atti pratici. Nessuno potrebbe mettere in dubbio la sua esistenza quando se ne andrebbe in giro con l'arnese in mano per farlo provare a tutti. La sola idea – ma anche la sola immagine – mi disturba in maniere che non so spiegare, forse perché nella mia follia per quest'uomo in scala io so che, per assurdo, sarebbe possibile. E quindi mi fa paura. “Guarda che a me mi venivano dietro a centinaia!”
Sbuffa una risata. “Non le hai nemmeno viste cento donne tutte insieme.”
“Perché tu sì?” Commento, quando fa così sarebbe da prendere a sberle. “Che tu sia uno che ha bisogno di passare metà del suo tempo a scopare, siamo tutti d’accordo. Che tu poi lo faccia davvero, è tutto un altro discorso.”
“Devo darti dimostrazione pratica?”
Io mi sistemo meglio su di lui, perché anche se fa il disinvolto, in realtà è già partito per la tangente e me ne accorgo perché contro il mio sedere ci sono sporgenze che prima non c'erano. “Lo farai fra meno di dieci minuti a giudicare da quanto sei diventato scomodo.” Nel sistemarmi guardo bene di strusciarmi come si deve, e lui fa una specie di grugnito a metà tra il sorpreso e l'infastidito; una cosa che gli esce di bocca tutte le volte che l'uccello gli si sveglia prima che le condizioni ambientali gli permettano di dargli retta. “E ricorda, una piccola scorta di preservativi – al posto giusto – è ideale, indipendentemente dal fatto che servano oggi o no."
Parlare di piccola scorta con Chakuza è riduttivo. In questa casa ci sono preservativi dappertutto e quando dico dappertutto, intendo in ogni luogo umanamente concepibile e non. E' piuttosto logico trovarli nei cassetti del comodino, naturalmente, o nell'armadietto del bagno ma lo è un po' meno trovarli dentro il pouf del salotto, nella cassettiera del corridoio ma, soprattutto, nel mobile della cucina. Tu quando entri nella cucina di qualcuno pensi che sia un luogo relativamente sicuro in quel senso: ci sono i fornelli – potresti inciamparci sopra e prendere fuoco – e c'è il temibile coltello elettrico – che io odio, mi fa paura e naturalmente il nano ce l'ha, anzi ne ha quattro, tipo, perché forse deve tagliare quintali di carne umana che ne so – e tu puoi avere paura di venir fatto a fette o cose simili, ma di certo non varchi la soglia della cucina pensando che qualcuno sia attrezzato per scoparti lì sul ripiano che sta usando per impastare la pasta della pizza. Seguitemi, non sto dicendo che non si possa scopare in cucina – uno può un po' scopare dove gli pare, ci mancherebbe – dico solo che non si può davvero essere preparati per l'evenienza spargendo preservativi nel cassetto sotto a quello dove si tengono le forchette. Andiamo! E' anche una questione pratica. Metti che viene a trovarti tua madre, per Dio, che cosa le dici? Che pratichi l'arrosto sicuro? Quest'uomo ha una sorellina piccola, e va bene che i ragazzini di adesso sono avanti anni luce rispetto a noi – rispetto a lui poi non ne parliamo – ma io non vorrei che mia sorella, cercando un cucchiaino per mangiare il gelato davanti ai cartoni animati, se ne venisse fuori con un preservativo. Lui però non si fa di questi problemi, anzi non lo vede nemmeno il problema, per lui è una questione di praticità, no?, gli servono spesso, quindi è meglio tenerli a portata di mano. E' un po' come per quelli che soffrono gravemente di asma e che quando hanno un attacco non possono superarlo senza l'inalatore e, allora, per evitare di stramazzare al suolo prima di poterlo raggiungerle, ne tengono uno in ogni stanza. Non si sa mai.
“Oh…questa è buffa,” lo fermo perché lo sento che si agita come un'anguilla, ma io non ho intenzione di darglielo fino a che non ho finito questo volumetto. “Ogni anno in Svizzera si vendono oltre 18 milioni di preservativi… Ma la Svizzera è uno sputo di terra. Devono scopare un sacco, fra le vacche e il cioccolato!”
“Beh quando intorno hai solo i monti e la neve, non hai un cazzo da fare, eh!” Commenta lui.
“Sento dell’empatia nei confronti degli svizzeri da parte tua.”
Lui tiene le mani intrecciate sul mio stomaco da quando abbiamo iniziato, che è una cosa un sacco carina; per questo quando inizia a baciarmi il collo chiudo l'opuscolo e sorrido. “Dieci minuti esatti, spacchi il minuto.”
Al che lui mi sbuffa addosso, sento proprio la nuvoletta d'aria che mi solletica il collo. “Devo fermarmi?” Chiede ridendo. E lo chiede perché sa che non ho intenzione di dirgli di sì – lo sa perché sono ben disposto e lui è molto bravo a capire la buona disposizione. Ha problemi solo quando gli dici di no, perché non concepisce che glielo si dica – altrimenti eviterebbe di chiedermelo, e andrebbe avanti.
“No,” piego il collo e ascolto il suo respiro mentre infilo una mano nei suoi pantaloni. “Vedi di fare lo Svizzero.”
“Sono Austriaco,” mi ricorda, anche con una punta di stizza. Chakuza tiene alla sua patria quasi quanto Bushido ci tiene a sottolineare che viene da Tempelhof, e non so quale dei due sia più ridicolo visto che il primo parla di uno sputo di terra che ha, sì, dato i natali ad un grande della musica classica come Mozart ma, dopo quello, è rimasta un po' lì a campare di rendita; il secondo, invece, parla di un quartiere lurido in cui la gente muore accoltellata e i ragazzini si fanno già a dodici anni come se, alla fine, fosse un bel posto in cui crescere perché ne esci fuori – se ne esci – duro e cazzuto; che, voglio dire, io adoro Tempelhof, per carità, ma non ne parlerei come il nuovo paradiso in terra dove tutti i genitori dovrebbero crescere i propri figli perché non vengano su dei pappamolla come succede quando invece uno vive in un quartiere dove nessuno spacciatore lo minaccia con un coltello a serramanico tutte le mattine all'uscita della scuola.
Mi spingo contro di lui e appoggio l'opuscolo sul tavolo, dove rimane poco perché lui mi stringe solo un istante prima di ribaltarmi sull'isola. “Ingegnati,” lo prendo in giro, lasciandolo fare mentre mi slaccia la cintura e fa praticamente tutto da solo. E' comodo, alle volte. “Li avete anche voi i monti e la neve, no?”
“Ovvio,” fa lui, tornando in fase-tacchino. “Abbiamo i monti più belli e molta più neve.”
“E poco altro, aggiungerei,” dico, agitandomi appena, tra le sue dita. Mi morde una spalla, e io mi piego indietro per ridere di lui, ma non me ne dà il tempo, ovviamente, perché mi bacia, io ci sto e perdo un attimo il filo. Tanto che quando si scosta, mi da un bacio a stampo sulle labbra e riprende a trafficare con i miei calzoni nemmeno ci volesse la laurea a toglierli, io ci metto quei due o tre secondi a capire dove mi trovo. “Gli Svizzeri, almeno, hanno la cioccolata!” Esclamo alla fine, fiero di non essere del tutto ignaro di cosa stessi dicendo.
Lui strattona la cintura e strattona anche tutto il resto, e non è contento finché non mi si pressa contro, neanche dovesse testare gli incastri. “Noi abbiamo le Palle di Mozart!” Esclama infine tronfio, e dal momento che – non so quelle di Mozart – ma io ho le sue premute contro il sedere, la cosa è molto comica.
“Questo spiega un sacco di cose,” rido, godendomelo finché è ancora lucido, prima che perda del tutto la cognizione di se stesso. Due secondi dopo, tipo. Ovviamente, se vai lì e lo scuoti ti dà retta, non è che è caduto in crisi mistica o robe simili, però ci vuole già uno scossone bello forte o un rompimento di coglioni di proporzioni notevoli – tipo il campanello che continua a squillare per minuti interi, o la suoneria di sua madre sul cellulare – per convincerlo a staccarsi da me e ad avere un qualche tipo di interazione col mondo esterno.
Così lo sento grugnire qualcosa di incomprensibile, mentre le sue mani s'infilano oltre l'elastico dei pantaloni e quello delle mutande, con la velocità che è quella del momento d'urgenza, quindi so già che se voglio dei preliminari dovrò aspettare il secondo round. Non rimango neanche particolarmente deluso perché con Chakuza è così che funziona e una volta che lo hai capito, vivi più sereno: tranne casi particolari, quando ti salta addosso la prima volta non puoi pretendere niente di vagamente tenero con lui perché mira dritto al punto e non vede nient'altro. Va alla cieca, come i pipistrelli e le talpe.
Poi dopo – perché c'è sempre un dopo, ed è un'altra cosa da imparare subito se si vuole sopravvivere – ti da tutto quello che vuoi e anche di più. Così mi sistemo meglio, pianto i piedi bene in terra e mi allungo sul tavolo. “La maglietta,” fa subito lui, che mi sta mordendo il collo e mi sta accarezzando, anche, così tira la stoffa a caso, che tipo non me la toglierebbe nemmeno per sbaglio, così.
Faccio io, che è meglio, e tocca a me mugolare quando me lo sento addosso con più chiarezza.
Peter appoggia appena le labbra sulla pelle della mia schiena, ma sento ogni singolo bacio che mi piove addosso mentre scivolo giù ancora una volta, seguendo il movimento della sua mano che dalla spalla mi accarezza il braccio fino al polso, fino a distenderlo e intrecciare le dita con le mie sul piano della cucina.
Appoggio la fronte al legno mentre i miei pantaloni cadono da qualche parte e quando li calcio me ne frego di dove siano finiti. Lui è agitato, credo perché si è preso bene, così mi molla le dita e si spoglia, ma non mi lascia. In qualche modo lo sento sempre, che sia perché mi si appoggia contro quando si toglie le scarpe, o perché mi bacia, mentre si toglie i pantaloni. E io in qualche modo mi perdo, perché è bello sapere quello che sta facendo anche se lo fa dove non posso vederlo e sono anche ad occhi chiusi.
Le sue mani calde che mi scendono lungo la schiena e fino alle natiche hanno smesso di essere un elemento estraneo in un giorno indefinito delle scorse settimane, non so inquadrare il momento ma so che è successo. Ad un certo punto mi sono reso conto che non era più strano sentire le sue dita scendere ad accarezzarmi, entrare pieno ed allargarsi per prepararmi. Mi chiedo quando ho cominciato a fidarmi di lui e capisco che è successo molto prima che questo significasse andarci a letto, anzi che siamo andati a letto – che lui non è finito in galera, soprattutto! – proprio perché mi sono fidato di lui il giorno stesso che mi sono offerto di dargli una mano a difendere il ragazzino.
Mi si appoggia addosso, spingendo le dita ancora più a fondo e, quando mi giro a cercare un bacio, lui è lì a darmelo. Penso distintamente che è una bella giornata. E ci mugoliamo addosso perché lui sa come muovere le dita e a me piace baciarlo, per cui forse potremmo rimanere così per qualche minuto in più del necessario.
Mi stupisco di come il suo corpo si adatti contro il mio, ed è una sorpresa tutte le volte, come se fosse sempre la prima, forse perché lui è talmente sgraziato e irruento nella sua vita di tutti i giorni, che quando sento la linea dritta dei suoi fianchi battere contro le mie anche e ci incastriamo senza sforzi, mi sembra impossibile. Anche quando appoggio la fronte sul tavolo e seguo la pressione della sua mano alla base della schiena che mi tiene giù mentre mi apre, mentre entra, mentre lo accolgo e sospiriamo insieme, mi sembra che tutto ciò sia così palesemente impossibile, che forse stiamo sfidando qualche legge suprema, che ne so. Il punto è che non è come quando ti capita di stare bene con una donna, perché una parte del tuo cervello pensa che la natura ti ha fatto così proprio per questo, per cui non dovresti stupirti troppo che funzioni; ma con lui, no. Con lui è un miracolo se ci riusciamo, e che sia così bello, sopratutto, perché quando si spinge – e non sento più solo la spinta, sento lui fino in fondo, che è una cosa che se mi fermo a pensarci forse mi spavento anche ma, siccome non sto già più pensando, è bella da morire – è una scossa elettrica lungo la schiena, nella pancia, fino alla punta delle dita dei piedi che mi si arricciano e ho voglia di mordere qualcosa.
Lo sento che ansima, Chakuza non parla, sono io quello che chiede. Di più, Peter, cazzo, più in fondo e lui esegue, perché quello della mia voce è l'unico canale che sente al momento.
Stringe la presa sui miei fianchi e mentre io mi spingo indietro, lui mi tira a sé, così che ogni volta che spinge, arriva più in fondo, più forte, è più bello e io potrei morire qui ed ora per quanto mi esplode il cuore, e per il fatto che ve lo racconto anche, e non dovrei.
E' una cosa nostra, cazzo, ma è bella e voi dovete saperla. Dovete saperlo voi e devo ricordarlo io mentre in piedi contro quella porta, con le mani strette e gli occhi serrati, cerco di tenere a mente che in passato io e Chakuza siamo stati bene, che c'è stato un momento – quello – in cui non eravamo solo un fottuto casino.
In quella cucina, su quel piano di legno, io volevo lui e lui voleva me in un modo che comprendeva anche Bill, forse, ma non ancora così tanto da farmi del male. Eravamo felici, cazzo. Lo eravamo, io lo so, ed è il motivo per cui non posso davvero odiarlo. Non odi la persona che ami, nemmeno quando quella viene a casa tua a dirti che tutte le speranze che avevi riposto in lei non sono bastate a farla restare.
Vedo l'opuscolo a terra, prima di gettare gli occhi al soffitto perché Chakuza ha fatto una roba che, non lo so, non so nemmeno cos'era, ma si è mosso in un modo che ha toccato cose che non pensavo di avere, “Peter, qualunque cosa sia, rifalla,” chiedo, serrando le dita sotto le sue sul tavolo.
Lui si tira fuori per rientrare e quando lo fa vedo le scintille. Non mi accorgo che mi lascia la mano, non mi accorgo nemmeno che mi accarezza tra le gambe, sono stordito. La natura ha tolto a quest'uomo molte cose, ma adesso mi è chiaro cosa gli ha lasciato. Devo ricordarmelo quando lo offendo la prossima volta.
Chakuza mi accarezza per tutta la lunghezza come se non ci fosse un domani e io sento quello, ma sento anche lui che si muove, la sua voce e il respiro caldo che mi sfiora la schiena e il collo, il tutto un po' confuso dalla beatitudine che mi avvolge come una nube.
Chiudo gli occhi e non c'è niente che non vada. La cucina, la morte di Bushido, le informazioni sul suo assassino che ancora non mi è riuscito di trovare, tutto sparisce nel movimento delle spinte di Chakuza, nel rumore di noi due che cerchiamo di non fare l'uno più rumore dell'altro perché fare sesso sì, ma urlare anche no. Gli vengo fra le dita e mi perdo l'attimo in cui viene lui. Ora che ci penso, un po' mi dispiace non avere memoria di quell'istante. So che mi piacerebbe averla.
Quando apro gli occhi sono di fronte alla mia porta e dall'altra parte non sento più niente. Mi sono perso anche il momento in cui se n'è andato; forse è un bene, forse davvero l'avrei fermato e non posso permettermelo. Mi passo una mano sugli occhi e rimango lì ancora un po', immobile perché sento l'eco di noi due che ridiamo accasciati sull'isola della cucina in casa di Chakuza dandoci dei cretini per essere in piedi, ansimanti e svestiti in mezzo alle patate e ai pomodori.
L'unica cosa che mi consola, e forse è per questo che alla fine non piango, che alla fine stringo ancora il pugno e a quel pensiero felice mi aggrappo come se ne andasse della mia vita, è che se non ha funzionato, non dipende da me. Forse non dipende nemmeno da lui, però, perché s'è solo innamorato e io lo sapevo già da prima che era un gran coglione e che due cose insieme, la sua testa, non le avrebbe sapute gestire. Ho provato lo stesso, però – perché se non provi non puoi mai sapere – e questo è quello che mi resta.
Un ricordo felice.

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Black Eyed

di tabata
La prima volta che ho fatto a botte avevo quattordici anni.
Non mi ricordo bene per cosa, ma quasi sicuramente c'era di mezzo una donna. All'epoca sarà stata una fidanzatina o qualcosa del genere, ma vale comunque. Quando due uomini decidono di mettersi le mani addosso, generalmente è perché uno dei due si è preso troppe libertà con la donna dell'altro, di qualunque donna si tratti: fidanzata, madre o sorella. Si può fare a botte per un centinaio di altri motivi diversi, naturalmente, ma non le tiri mai a qualcuno con la stessa convinzione, la stessa rabbia e la stessa violenza come quando pesti uno perché ti ha toccato la donna. E' matematico.
E' una questione di istinto primordiale, credo. Un qualcosa di legato alla funzione protettiva del maschio del branco o robe simili; o forse, in realtà, è perché la roba tua non deve toccarla nessuno e, anche se ovviamente poi fai di tutto per convincere la tua donna che sei uno di mentalità aperta e che sei per l'indipendenza e che certo, sì, lei è un individuo capace di prendere le sue decisioni e palle varie, poi alla fine – scava, scava – se qualcuno ti chiede perché hai menato quello che le ha fatto un complimento più pesante degli altri, la tua risposta è che lei è tua, in un modo che di romantico – del tipo “sei la donna della mia vita” – non ha proprio niente, ed è più un fatto di possessione. E da questa cosa non si scampa mai, nemmeno quando sei uno ragionevole che generalmente prima di prendere a sberle qualcuno magari ci parla.
Io, per dire, non amo fare a pugni, non mi è mai piaciuto, però le poche volte che l'ho fatto è stato per colpa di una donna; o meglio, visti i recenti sviluppi, di una persona che amavo. Non si è mai trattato di altre motivazioni, perché in altri casi, a mio avviso, non ne vale la pena. Magari m'incazzo; anzi, m'incazzo di sicuro perché io m'incazzo sempre, ma a quel punto distruggo mobili, non persone. Io sono fatto così. Se però di mezzo c'è una donna, allora la credenza si salva e sei tu quello che le prende. Non guardo in faccia nessuno. Ricordo che una volta, ero ancora in Austria, all'uscita di una discoteca nella quale ero stato trascinato contro la mia volontà e con la sola, palese, sicurezza che dopo avrei scopato, un tipo, uno di quei ragazzetti deficienti e pieni di soldi che il fine settimana vengono a farsi belli sulle piste da sci con i soldi di papà, ha preso per il culo prima me – e già mi giravano i coglioni – e poi ha detto qualcosa alla mia ragazza. Qualcosa che non ricordo, e che forse non ho neanche sentito completamente, ma siccome c'entravano lei e lui insieme e non era gentile, lui è finito in terra un attimo dopo. Io sono piccolo, ma non sono un fuscello e non ho fatto palestra per farmi bello davanti allo specchio da solo. E' una questione di sopravvivenza, la mia, e di spaccarti la faccia se ti azzardi a mancare di rispetto a me o alla donna che mi porto dietro. Peggio ancora se fai entrambe le cose nello stesso momento. Di quella serata so solo che al tipo ho spaccato il naso e che gli avrei spaccato molto di più se i miei amici non mi avessero portato via di peso. E non c'entra che poi con quella tipa io abbia rotto si e no quarantotto ore dopo, perché il sentimento che ti lega alla donna in questione aumenta solo, magari, la rabbia che ci metti nel reagire, ma che si tratti di una relazione di due ore o di nove mesi, reagisci comunque.
Ecco perché quando quattro mesi fa Bushido ha suonato alla mia porta, io l'ho aperta e lui mi ha massacrato di botte, ho capito perfettamente le sue motivazioni. Non che per questo non mi sia difeso – visto che le sue motivazioni erano motivazioni di merda – però le ho capite, cioè posso immaginare il ragionamento che ci stava dietro, ecco. E la sensazione che ho provato dopo che ci eravamo pestati senza di fatto risolvere nulla, era una sensazione che conoscevo bene e che, in un certo senso, mi aspettavo e volevo. Quando Bushido è tornato dalla morte, io lo sapevo che prima o poi saremmo arrivati a pestarci, perché io avevo Bill e lui pensava che Bill fosse ancora suo. Era logico che ci saremmo affrontati in questo modo perché parlare non era concepibile in una situazione simile. E poi chi voleva parlare? Lui no di sicuro e io nemmeno. Così quando ha chiuso quella porta con un labbro spaccato e io mi sono tamponato l'occhio nero, ero perfettamente consapevole di ciò che era successo, di come mi sentivo in quel momento e di come mi sarei sentito nei giorni a seguire perché anche questo rientra nell'istinto primordiale di prima. Ci eravamo sfogati, avevamo chiarito le nostre posizioni – le avevamo anche un po' ufficializzate – e ora potevamo pure cominciare a pensare a come finire questa storia una volta per tutte. Che poi, da lì alla fine – che nemmeno vediamo ancora, per altro – ce n'è di strada da fare, ma non importa. Importa però che ci siamo pestati, è una questione d'orgoglio, no?, qualcosa del tipo che lui voleva farmi sapere che quella era roba sua e io volevo fargli sapere che col cazzo che lo era. Ma poi non è che la questione si è chiusa, mi seguite?
Con Fler, adesso che sono appena uscito da casa sua, bendato e dolorante, la cosa è un po' diversa. Non è che non mi aspettassi le botte – anche per uno che ha difficoltà a capire al volo i sentimenti altrui come il sottoscritto era piuttosto prevedibile che Fler si sarebbe incazzato – quello che non mi aspettavo è come mi sento, che non ha niente a che vedere con come mi sono sentito quando, il giorno di Bushido, ho visto la porta chiudersi e solo allora mi sono permesso di perdere i sensi. E non so, esattamente, quale delle due sensazioni sia la peggiore. Bushido mi ha pestato per difendere qualcosa che, secondo lui, gli apparteneva; Fler perché quel qualcosa che, secondo lui, mi apparteneva l'ho lasciato andare.
E lo capisco ora che la porta si è chiusa e lui ci si è appoggiato senza fare un rumore, ma facendola tremare un po', così che l'ho sentito. E vorrei appoggiarci sopra la mano, sperare che ne senta il calore ma non lo faccio, perché questo è esattamente uno di quei momenti in cui devo evitare di fare un danno sull'altro, come mio solito. Chakuza, mi dice sempre, tu hai due problemi: non solo crei casini, ma poi nel tentativo di rimediare, ne crei degli altri, e per rimediare a quelli ne crei ancora così che il danno rappresentato dalla tua persona si moltiplica in maniera esponenziale all'infinito e nessuna radice quadrata di scuse potrà mai completamente estinguere il danno originale. E' un'esclamazione complicata, ma Fler ne tira fuori spesso quando parla di me perché in effetti io sono una persona complicata per gli altri. Così se io adesso appoggio la mano sul legno della porta e lui per caso la sente, sicuramente peggioro la situazione. Non so come, ma la peggioro. Mi allontano dalla porta e anche da casa sua, un passo alla volta perché non mi reggo in piedi e perché non riesco a fare di più. Forse spero che se vado piano, lui avrà il tempo di spalancare la porta e fermarmi, anche se sarebbe una scena da romanzetto rosa che non so se davvero voglio e, comunque, anche se mi fermasse, che cosa mi direbbe? Che cosa potrei dirgli io? Forse è proprio questo che mi fa sentire strano, che abbiamo chiuso una questione e quindi pestarci – anzi farmi pestare ancora – non servirebbe a molto perché poi dovrebbe di nuovo mettermi dei cerotti e poi dirmi di andare e io andrei, mi fermerei sulla porta ancora un po' a sperare che la riapra e a chiedermi che cosa cambierebbe se lo facesse. La verità è che non c'è niente da cambiare. Non è che pestandomi potesse o volesse cambiare le cose, mi ha pestato perché me lo meritavo. Punto. Fine. E non c'è più niente.
C'è che abbiamo avuto una cosa, io e lui, e poi Bill è tornato e quella cosa andava chiusa perché sennò ci avremmo perso la testa tutti, e andava chiusa con la mia faccia piena di lividi. Era l'unica soluzione possibile, penso. Non era una questione di orgoglio, né di chiarimenti, né di mio, tuo o che so io. Il suo pestarmi non era un modo di fare il punto della situazione e continuare, era metterci un punto e basta. Il che significa che per un po' io e Fler è meglio se non ci vediamo, forse è meglio se non ci vediamo per molto più di un po' perché non ci pesteremmo, né faremmo proprio niente, ed è questo che è agghiacciante: che io e Fler qualcosa abbiamo sempre fatto, ma chiusa questa cosa, non c'è più niente da fare per me e per lui. Per questo mi sento strano, perché non si è sfogato nessuno – non mi sento più leggero e di sicuro non ci si sente lui, io credo – e tutto è rimasto uguale a prima, solo che lui sta un po' più male e io sono un po' più solo.
Mentre scendo le scale ripenso a questa situazione di merda e a come ci siamo finiti. Voglio dire, come ci siamo finiti tutti, dal primo all'ultimo, non solo io e Patrick. E' una di quelle situazioni degenerative che tu non ti accorgi davvero che ti ci trovi in mezzo e che sta peggiorando, e quando (o se) lo fai, è già troppo tardi per rimediare e non puoi fare altro che startene lì in piedi ad osservare l'onda che monta, diventando sempre più alta, ed aspettare che si abbatta da qualche parte, così almeno avrai un'idea dei danni che farà; magari non potrai riparare niente, ma almeno tutto ti sembrerà più chiaro. 400.000 morti, per dire. Un numero preciso. Ora siamo proprio a questo punto, a quando cioè l'onda si è schiantata sulla costa, spargendo casette di legno e palme e morti da tutte le parti. Un sacco di corpi, per altro. E tu sei lì in piedi sulla spiaggia, dopo che l'onda si è ritirata, e pensi: ok, era questa la conseguenza, ma che diavolo avremmo potuto fare tutti quanti?
Quando Bushido è morto, e lo capisco soltanto adesso – magari mancavo solo io all'appello, magari è una roba che tutti gli altri hanno capito il giorno dopo ma io ovviamente no –, a noi è venuto a mancare qualcosa, che non era nemmeno lui ma quello che lui rappresentava. Eravamo tutti quanti uniti perché lui faceva da collante, il che non vuol dire che senza di lui ci siamo stati tutti sulle palle, ma solo che una volta lasciati a noi stessi, ci siamo guardati intorno e ci siamo chiesti che cavolo dovevamo fare tra di noi, senza di lui a credersi Dio sceso in terra di Germania. Non lo sapeva nessuno. Però ci abbiamo provato, a rimanere noi, intendo, noi come gruppo, noi come persone, a ricreare quello che era stato anche se Bushido era morto e Saad pure. Sembrava che da un momento all'altro quello che eravamo dovesse disperdersi solo perché questi due non c'erano e invece non potevamo lasciare che succedesse perché eravamo tutti parte di un gruppo e distruggere il gruppo probabilmente avrebbe distrutto noi. Ci siamo ripresi per non crepare con il re, ed è stato questo a dare il via alla reazione a catena.
Se non ci fossimo intestarditi nel tenerci insieme, nell'aggrapparci tutti a quello straccio di noi stessi che era rimasto e non s'era perso con il cadavere di Bushido, ci saremmo allontanati. Se non ci fossimo voluti bene – e cazzo, è vero, ci vogliamo bene. E non solo io e Bill, io e Fler, Fler e Bill e tutte le combinazioni principali di questa cazzo di lotteria, ma anche Eko e Cassandra e Tom e tutti. Ci vogliamo bene tutti, per proprietà transitiva e per colpa di Bushido, anche –, senza tutto questo affetto generale, io e Bill saremmo stati capaci di dimenticarci a vicenda dopo quel pomeriggio, o almeno sarebbe stato più facile tenersi lontani e non passare le giornate a guardare lo schermo del cellulare, chiedendosi se mandare un messaggio oppure no. E Fler non sarebbe rimasto con me, sia per me che per spingermi tra le braccia della principessa dove non avevo il coraggio di andare. E può sembrare una buona cosa perché io senza Bill significa Bushido con Bill. Significa Fler in tour con Sido, e cioè non con me, significa niente ripensamenti, niente bugie e io che forse torno a casa e me ne sbatto di questa città di merda. Significa Bushido che torna e trova meno di quanto ha trovato adesso – non ci sarebbe stato più nessuno – ma anche nessuno tsunami e nessun morto, che forse era meglio, non lo so. Noi però non lo sapevamo. A raccontarlo così sembra semplice e sembra assurdo che nessuno di noi immaginasse, dico dopo il ritorno di Bushido, non certo prima – nessuno poteva immaginarsi il ritorno dal regno dei morti –, ma in realtà non è così. Quando Bushido è tornato e io avevo Bill, e avevo Fler, non mi sono reso conto di dove tutti stavamo andando a parare. Quando ho visto Bushido ho pensato, sì, che ce le saremmo tirate, ma non cosa significasse. Quando Bill mi ha mollato e poi è tornato, doveva saperlo che era un gran casino questo qui, ma non sapeva quanto fosse enorme e non lo sapevo nemmeno io, che pur avevo più informazioni di lui. Insomma, quello che sto cercando di dire, mentre le scale di questo palazzo sembrano non finire mai e a me fa male tutto quanto, anche ossa che non pensavo di avere, è che per quanto sia immensamente ovvio che a furia di lasciarci e prenderci, ci saremmo fatti del male, non è stato chiaro e lampante finché in effetti non ci siamo trovati per terra con un labbro rotto e sanguinante – metaforicamente parlando e non. Mentre scendo l'ultimo gradino di questa scala infernale e penso a dove ho messo la macchina, mi viene anche in mente che in tutto questo casino, il maggior numero di vittime lo abbiamo fatto io e Bill. Diciamo che io occupo la prima posizione e lui la seconda, anche se lui annovera pure me fra i suoi cadaveri. Il punto è che con tutti i se e i ma che potrei elencarvi uno ad uno: se non ci fossimo baciati, se Fler non ci avesse fatti tornare insieme, se non avessimo avuto una storia, se lo avessi lasciato andare quando Bushido è tornato, se non me lo fossi ripreso quando lui è tornato da me, se, se, se... non cambia un cazzo, perché è tutto successo, quindi non serve nemmeno pensarci. Siamo in una situazione di merda e ce la teniamo.

*


Adesso vorrei solamente tornare a casa, buttarmi sul letto e rimanerci finché non mi sembrerà insopportabile starmene lì disteso. Allora forse darò fondo al frigorifero e cucinerò per ore mentre ragiono su quello che è successo e, soprattutto, su come girerà il mondo da qui in avanti, che è una cosa che naturalmente ho già intuito ma ho bisogno di pensarci a lungo prima di afferrarla. Non riesco ad immaginare la mia vita senza determinate possibilità, tipo quella di telefonare a Patrick se mi gira di uscire, per dire.
E' quello che mi succede sempre quando qualcosa cambia o deve cambiare, io non riesco ad immaginarmi cosa succederà finché in effetti non succede. Non sono particolarmente creativo, in questo senso, anche se è brutto da dire per uno che fa musica e, se non la facesse, di certo farebbe il cuoco. Non è ovviamente una questione di concetto: lo so che cosa cambierà nella mia vita ora, solo che non so come. E' una sensazione strana perché il mio cervello è consapevole del cambiamento ma non lo ha metabolizzato; Patrick che non fa più parte della mia vita è un'informazione di cui dispongo ma che non ho esattamente archiviato per quella che è. Qualche anno fa avrei scrollato le spalle, in attesa che la consapevolezza prima o poi arrivasse. Ora so che cosa succede quando poi arriva, so che un giorno alzerò la testa, capirò e dovrò ricomprare i mobili del salotto, so che starò male rendendomi conto di tutto quanto insieme. Quindi mi preoccupo, e non voglio, vorrei aver realizzato tutto già mentre scendevo le scale di casa di Patrick, ma non era possibile. Sono troppo stordito e sono anche troppo me stesso.
Naturalmente di tornare a casa non se ne parla, però. Non arrivo neanche a metà strada che Bill mi chiama sul cellulare ed è in una di quelle serate in cui è andato tutto storto, anche se probabilmente non stiamo parlando nemmeno della metà di cosa è successo a me. Contrariamente a quanto si pensa, Bill non è così difficile da gestire in generale; funziona a coccole, quindi fintanto che gliene fai, lui non è un problema. A volte basta davvero telefonargli – come quando sta lavorando lontano da casa – e lasciarlo parlare per delle ore. Gli piace raccontarti la sua vita, gli piace essere ascoltato e renderti partecipe, come se dovesse sostituire con la sua voce l'assenza della sua presenza fisica. Così quando è lontano e gli telefoni prima che lo faccia lui, Bill è contento, si sente cercato. In realtà non gli basta altro. Tranne che in giornate come questa, dove magari ha avuto da ridire con David o è andato storto qualcos'altro e allora non importa cosa gli dici, quali problemi tu abbia o se tenti di consolarlo: lui ha bisogno che tu sia proprio lì dov'è lui, che lo abbracci, lo baci e che tu sia fisicamente partecipe della sua disperazione. Così cerco di spiegargli che potremmo vederci domani mattina – mi serve almeno il tempo di far sgonfiare i lividi, – anche prima di colazione, se vuole, anzi, gliela preparo io, ma neanche la prospettiva di essere svegliato con i waffle riesce a convincerlo che non è il momento di farmi andare di corsa là. Che poi, se fosse la diva capricciosa che tutti si immaginano, sarebbe anche più semplice mandarlo a quel paese e dirgli: “No, Bill, guarda, stasera proprio no. Vengo domattina appena ti svegli,” perché sicuramente, piagnucolando, mi irriterebbe molto di più. Il problema, invece, è che non lo fa. Alla fine, dopo averci provato un po', mi dice solo “Okay”, ma con una voce che mi fa credere gli sia successo veramente qualcosa di brutto e siccome io sono da una parte asservito come non sono mai stato per nessuno e dall'altra traumatizzato da quel tono – perché era quello che usava i primi mesi dopo la morte di Bushido e non sapevo mai se, riattaccando la cornetta, avrei trovato il suo nome nei necrologi del mattino dopo – rinuncio al mio proposito di andare a morire sul letto di casa mia. Probabilmente lui lo fa apposta e io sono un cretino, ma non mi riesce davvero mai dirgli di no. Anche se in questo caso non so cosa inventarmi per questi lividi.
Il punto è che quando poi mi dice che mi aspetta e lo sento letteralmente saltellare dall'altra parte della cornetta, io mi dimentico che nemmeno dieci minuti prima volevo soltanto murarmi vivo tra le pareti della mia cucina e invece di svoltare a destra ad un isolato da casa mia, faccio inversione e mi dirigo praticamente dall'altra parte della città.
Quando apre la porta di casa, Bill è pronto a saltarmi in braccio e vomitarmi addosso tutte le ingiustizie della sua esistenza, lo so perché lo conosco e perché d'altronde mi ha chiamato per questo, ma si ferma sulla soglia non appena mi vede. Mi sono dato un'occhiata nello specchietto retrovisore: ho un occhio viola e gonfio, il labbro spaccato in due punti e quello che credo sia un ematoma sulla guancia. Poi naturalmente c'è il cerotto che Fler mi ha messo in fronte e che è grande abbastanza da prendermi parte della testa sotto al cappellino.
“Peter, che diavolo ti è successo?” Esclama sconvolto, sgranando gli occhi.
E io non so esattamente cosa rispondergli, perché venendo qua ci ho pensato e qualsiasi scusa mi sia venuta in mente non reggeva nemmeno nella mia testa.
“Fammi entrare,” dico soltanto ed entro prima che sposti il braccio. Lui si scosta e chiude la porta, seguendomi con lo sguardo finché non mi lascio andare sul divano e mi scappa un sospiro, come se non stessi seduto da ore, quando invece ho guidato fino a qui. Ho voglia di stendermi, mi gira la testa.
“Ma stai bene?” Mi chiede lui e mi si avvicina, guardandomi per dritto e per rovescio, come se non credesse che sono davvero in questo stato. “Vuoi che prenda la cassetta del pronto soccorso? Ti sei disinfettato?”
Io socchiudo gli occhi alla scarica di domande e intanto gli indico il mega-cerotto e in generale anche il fatto che non sanguino, sono solo a pezzi.
Lui si sistema meglio per terra e mi accarezza il viso, in quei due o tre centimetri in cui Fler ha avuto la grazia di non pestarmi. Sento la pelle che tira ovunque e vorrei dirgli di non toccarmi ma sto zitto perché se parlo c'è il rischio che voglia delle spiegazioni – che vorrà, naturalmente, ma magari finché non parlo io, non parla nemmeno lui –, così faccio solo una piccola smorfia quando sfiora appena uno dei lividi e, quando la faccio, mi viene automatico farne un'altra perché qualsiasi movimento è drammatico. Mi fanno male anche le dita dei piedi e non so bene perché.
Quando guardo Bill, mi rendo conto che non dev'essere affatto facile nemmeno per lui, perché questa situazione precisa scatena ricordi che non gli hanno mai fatto del bene. Potrei ripetere a memoria tutte le volte che mi ha raccontato di come Bushido arrivasse piegato in due a casa sua a spargere sangue sui divani da migliaia di euro e come ha imparato a fare cose che non si sarebbe mai sognato di dover fare. Lo vedo dai suoi occhi che nel cervello gli sta passando ogni genere di scenario, sono gli stessi occhi che aveva quando è passato a trovarmi il giorno che è stato Anis a pestarmi, e mi ha trovato con la borsa del ghiaccio in testa. “E' stato di nuovo lui?” Mi chiede alla fine.
Per una volta mi domando cosa succederebbe se mentissi, e poi capisco che sarebbe una cazzata. Innanzi tutto perché Bill lo scoprirebbe nel giro di un paio d'ore – anche se non parlasse con Bushido, cosa di cui dubito fortemente, parlerebbe con David che si sente talmente in colpa per avergli mentito finora che sarebbe capace di immolarsi personalmente. E anche se il manager non sa che è stato Patrick a menarmi, sa sicuramente che non è stato Bushido perché sa sempre ogni cosa che lo riguarda, ormai – e poi perché non ha senso fargli pensare che a Bushido ha dato di nuovo di volta il cervello ed è venuto fino da me a pestarmi: Bill ha fatto la sua scelta, e Bushido sa perfettamente che in questa decisione contavo quanto lui. Non avrebbe motivo di pestarmi come la prima volta. Di motivi per picchiarmi Patrick ne aveva, invece, ma Bill questo non può saperlo e io non me la sento di dirglielo adesso. Forse perché avrei dovuto farlo prima, e adesso e tardi; o forse perché ho appena perso qualcosa, e quel che ne resta voglio tenermelo per me, finché posso, che ad aprire bocca e raccontare mi sembra di darlo via. Saperlo, tanto, non gli serve, perché non l'ho mai tradito, perché mentirgli non lo danneggia, e con Patrick io non ho mai tolto niente a lui.
“No, non è stato lui,” ammetto.
“E allora chi?”
Medito se dire che sono caduto dalle scale, ma dovrei essere rotolato giù da un tempio Maya per essermi fatto così tanto male. Potei dirgli che mi hanno pestato per strada, anche, ma non ci riesco. Un conto è omettere la verità, un conto è guardarlo in faccia e dirgli che un branco di strafatti mi ha pestato a sangue per i cinquanta euro che ho nel portafoglio.
Lui mi guarda, e forse un po' spera che gli racconti com'è andata, ma non insiste.
E qui mi torna in mente una cosa che mi ha detto Fler il giorno che abbiamo lasciato il ristorante elegante dopo aver incontrato Greta. Secondo lui le donne del ghetto non sono donne come tutte le altre, ma hanno una consapevolezza tutta diversa del loro ruolo. Quando me lo ha detto, io gli ho risposto che era una cosa sessista e anche un po' retrograda pensare che le donne abbiano un certo ruolo e che devono pure mantenerlo con certi atteggiamenti. Lui quel giorno mi ha guardato e poi mi ha detto “Tu non capisci proprio un cazzo, Chakuza” e me lo ha detto in un modo totalmente diverso dal solito, tanto che ho intuito che stavolta era serio. Quello che voleva dire quando mi ha spiegato questa cosa, io lo capisco adesso qui con Bill. Apro bocca per rispondergli – non so cosa, ma ormai ci sono abituato – ma ho un colpo di tosse e allora mi ricordo che ho la gola secca da far paura.
“Ti prendo qualcosa da bere,” sospira lui alla fine, e i suoi occhi cambiano espressione proprio lì davanti a me. Un attimo prima sperava che rispondessi, l'attimo dopo ha rinunciato a sapere. Ma non è arrabbiato, più rassegnato direi. Come se in fondo in fondo una risposta non se l'aspettasse proprio, come se fosse un percorso collaudato quello di me che arrivo con un segreto evidente e lui che prova a chiedere ma non ottiene niente. E' una cosa che, per altro, mi sembra non riguardi soltanto me e lui o lui e Bushido, ma anche altra gente che io non conosco e non conosce nemmeno lui. Una specie di tradizione, memoria storica, retaggio culturale. Non lo so. Fatto sta che forse io non sono un gangster e sono fuori posto, ma Bill il suo ruolo ce l'ha, gliel'ha dato Bushido; e forse è con Bushido che Bill ha imparato ad essere una donna del ghetto, ma quel ruolo, quel modo di essere, gli è rimasto incollato addosso al punto che anche se arrivo io – che canto, che sono anche un cuoco, magari, ma di certo non sono un gangster – lui comunque si comporta come deve.
“Aspetta.” Prendo Bill al volo mentre si alza e me lo tiro addosso. Lui non fa nessuna resistenza, si lascia andare tra le mie braccia e mi appoggia la testa su una spalla, nascondendo il viso. “Non ho molta voglia di parlarne. Possiamo rimandare questa discussione?” Gli chiedo, posandogli un bacio sulla testa.
“Non importa, non devi dirmelo per forza,” fa lui. E non è davvero arrabbiato, né triste. E' qualcosa che non è mai stato fino a questo preciso momento perché non lo abbiamo mai avuto un momento così, e non so definirlo. Non alza la testa, sento solo le sue labbra muoversi contro il mio collo mentre si stringe nelle spalle. “Anche Anis non mi diceva mai niente.”
Ecco cosa voleva dire Fler; che il ghetto lascia un'impronta ben precisa su tutte le persone che vi sono coinvolte, e sulle sue donne l'impronta è che loro sanno esattamente come rimettere insieme i pezzi degli uomini che si scelgono, anche quando questi tornano in stato pietoso e non vogliono raccontare cos'è successo. Bill con me l'aveva fatto anche la prima volta, ora me ne rendo conto. Mi ricordo come ha recuperato la cassetta del pronto soccorso, come sapesse già esattamente che cosa fare, come sapesse già esattamente che era stato Bushido. Aveva già capito tutte le meccaniche o tutte quelle che gli serviva sapere. Anche adesso, anche se gli mancano dei particolari. Eppure non chiede, perché sa di non doverlo fare. Forse con Bushido questa cosa aveva più senso, perché lui forse avrebbe avuto da nascondere cose che col ghetto c'entravano davvero, ma non è questo il punto.
Questo ruolo, questo di raccogliere i pezzi una volta che gli altri si sono mossi, hanno fatto e disfatto, non impedisce a queste donne – non impedisce a Bill – di avere più forza di tutti gli uomini messi insieme. In fondo questo ragazzino ha superato la morte di un uomo che amava più della sua stessa vita e ha sparato in fronte ad un altro essere umano. Pensare che le donne del ghetto abbiano un certo ruolo potrà anche sembrare sessista, retrogrado e anche stupido considerando che Bill non è una donna, ma lui ha capito più cose di questo schifo di situazione di quante ne abbia capite io. E ne sa più di me, sempre, perché lui è nel posto giusto e io invece non so nemmeno dove sono. Forse è lui che dovrebbe fare a botte per me, forse finirebbe anche per uscirne vivo.
Me lo stringo addosso e lui mugola un po', nascondendo il viso con un sospiro. “Dimmi solo che non c'è di mezzo qualcosa di grosso,” mormora esasperato. Che immagino significhi qualcosa come Saad, quindi posso ragionevolmente rispondere di no.
Ho fatto un gran casino, senza dubbio, ma di cadaveri nel fiume, stavolta almeno, io e Fler non ne abbiamo buttati.

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All I Know Isn't Always The Truth

di lisachan
Sono solo, triste e mi sto annoiando. Se avessi ancora dieci anni – o se qui con me ci fosse Tomi, che in qualche modo il miracolo lo fa sempre e riesce a riportarmi a quando ero piccolissimo solo standomi accanto – metterei il broncio e piagnucolerei un po’, attaccandomi alla prima maglietta con dentro qualcuno che incontro e cominciando a strattonarla per farmi portare fuori ed offrire un gelato, una caramella o comunque qualcos’altro di altrettanto dolce che possa ingannare i miei sensi fino a farmi credere che sia tutto a posto e stia andando tutto bene, anche se poi non è vero, fosse solo per una mezz’ora.
Purtroppo non ho più dieci anni e qui in casa di Peter non c’è Tomi, quindi non posso neanche fingere di averli. Tra l’altro, anche se decidessi comunque di mettere il broncio in barba all’età ed ai passi avanti che dovrei aver fatto negli ultimi due anni – perché tutti si aspettano da me che sia cresciuto, e io non posso certo deluderli – non ci sarebbe nessuna maglietta da strattonare e nessuno che mi ricoprirebbe di attenzioni, perché come dicevo prima sono completamente solo. E triste. E mi sto annoiando.
Il motivo per cui sono solo è che apparentemente oggi Peter fatica a restare nello stesso ambiente ristretto con me per più di dieci minuti consecutivi. E il fatto che non ci riesca, peraltro, è il motivo per cui sono triste. Io e Chaku abbiamo forse avuto dei problemi di comprensione, in passato, col ritorno di Anis e tutto il resto che ci ha mandato entrambi fuori di testa, ma mai, mai l’ho visto tremare nella sua stessa pelle, come desiderasse uscirne e scappare il più lontano possibile com’era mentre, in macchina, mi portava qui dopo essere passato a prendermi dagli studi dell’EGJ.
Il motivo io non lo so. E fatico ad ammettere che è colpa mia se non lo so, è colpa mia se io e Peter ci stiamo allontanando, perché ultimamente sono stato così perso dentro di me per cercare di capire cos’è che mi stesse succedendo – il tremore quando pensavo ad Anis con qualcun altro, la paura ridicola per questa cosa che nemmeno dovrebbe riguardarmi, l’immagine del suo sorriso rilassato riproposta dentro la mia testa come in una telecamera a circuito chiuso senza che io potessi fare niente per scacciarla via o nasconderla, almeno per un po’ – da dimenticarmi completamente di tutto il resto. Fatico ad ammettere che è colpa mia perché non voglio ammettere di aver considerato Peter esattamente uguale a tutto il resto. E fatico ad ammettere di averlo considerato così perché in nessun caso mi va di dire che è vero, quando Anis entra nel mio campo visivo mi ruba il cervello, tutto, non ne lascia libero un centimetro. Cambia il ritmo cui batte il mio cuore, cambia i colori e le forme di ciò che vedo, tutto diventa sfumato e indistinto e scuro mentre lui è l’unica cosa chiara e precisa che riesco a mettere a fuoco.
Mi fa rabbia che abbia questo potere ancora adesso. Mi fa rabbia che non l’abbia mai perso, mi fa rabbia non essere mai stato in grado di toglierglielo, perché non l’ho mai davvero voluto. Mi fa rabbia essere ancora il ragazzino che ero quando mi sono innamorato ed ho cominciato ad assillarlo perché mi considerasse. Mi fa rabbia non essere mai cresciuto davvero. Perché tutti se lo aspettavano da me, perché io volevo farlo, e non ci sono mai riuscito. E vorrei poter dare ad Anis la colpa anche di questo, ma non posso. Posso dargli tante colpe – avermi spezzato il cuore andandosene, aver distrutto i miei sogni restando lontano, avermi devastato la vita tornando – ma dopo un anno io non posso incolparlo perché la mia vita non va avanti. La mia vita ha avuto un mucchio di occasioni per muoversi. E credevo lo stesse facendo. E invece è ancora lì, concentrata sul palmo della sua mano. Come sempre, gli basterebbe stringere per togliermi il fiato. E, forse, fino a un paio di settimane fa io mi crogiolavo nel pensiero che la nostre situazione fosse ancora in bilico. Che io fossi ancora lì, minuscolo, su quel palmo grandissimo, e che prima o poi lui avrebbe stretto la presa.
Vederlo sorridere con Patrick mi ha fatto capire che non sono più fra le sue mani da tempo, ormai. Mi ha poggiato da qualche parte ed è andato avanti e io nemmeno me ne sono accorto, perché stavo lì con gli occhi serrati terrorizzato ed emozionato ad aspettare che le sue dita si chiudessero attorno al mio corpo, e non ho visto che invece lui a stringere la presa non ci pensava più. Non con me, almeno.
Anche il fatto che io qui, adesso, stia a pensare ad Anis ed al fatto che non rappresento più una parte della sua esistenza, è una cosa profondamente sbagliata. Peter mi ha portato qui, a casa sua, è rimasto dieci minuti in casa con me e poi ha detto che aveva voglia di cucinare, ma visto che non c’era niente in casa sarebbe uscito a comprare qualcosa. Ed è scappato due secondi dopo senza neanche darmi un bacio perché si vedeva che faceva fatica perfino a starmi accanto, e io dovrei preoccuparmi di questo, questo dovrebbe essere al centro di tutti i miei pensieri, adesso, e invece io sto qui, solo, triste e annoiato, e penso ad Anis. C’è qualcosa di sbagliato, in me. Qualcosa che io non voglio raddrizzare. E mi sento in colpa a fare una cosa del genere proprio a Peter, perché lui è sempre stato sincero con me – be’, forse magari a parte la questione di quel pestaggio di cui alla fine non mi ha spiegato niente – e dovermi tenere dentro questa cosa perché mi vergogno a dirgliela e perché in realtà non è giusto neanche provarla, è devastante. Io non sono abituato a fare così, io— con Anis io non dovevo mai trattenermi, potevo dire tutto quello che mi passava per la testa. Ed invece ora non posso e non è neanche colpa di Peter. Vorrei qualcuno accanto che potesse dirmi di non preoccuparmi, che non è nemmeno colpa mia, ed allo stesso tempo non lo voglio, perché so che è colpa mia e non voglio sentirmi rifilare balle solo nel tentativo di farmi stare tranquillo, ma Dio mio, non sono sereno da così tanto, così tanto che mi esplode il cuore se ci penso, e voglio un po’ di pace, voglio smetterla di pensare, voglio— basta, non voglio più niente, non ce la faccio a volere qualcosa, sperare nelle soluzioni comporta troppa fatica emotiva. Non ho più energia, in quel senso. Né in nessun altro.
Mi passo una mano sulla fronte e fra i capelli, sospirando. Sono lì che mi stendo contro lo schienale del divano e getto indietro il capo, chiudendo gli occhi e chiedendomi se non potrei, magari, addormentarmi ora e svegliarmi domani scoprendo di aver sognato tutto e che durante la notte Chaku mi ha messo addosso una copertina, così potrei aprire gli occhi e chiedergli “ma che ci faccio qui?”, e lui potrebbe rispondermi “ti sei addormentata mentre chiacchieravamo, Principessa. Bushido è appena tornato da Monaco, dai che ti porto a casa sua”, quando sento la serratura della porta scattare e mi risollevo di scatto, fissando l’ingresso.
Peter si richiude la porta alle spalle con un calcetto, e tiene fra le braccia due sacchi di carta di quelli di un supermercato che non è il solito, segno che probabilmente ha preso la macchina e s’è fatto un giro, già che c’era. Forse per recuperare tempo perché non gli andava di tornare. Mi mordo l’interno di una guancia e provo a sorridergli un po’. La guancia tira, ancora stretta fra i denti, e fa male. Mi si riempiono gli occhi di quelle lacrime minuscole che pungono e bruciano, quelle tipiche di quando ti fai male da solo come uno scemo.
Lui, comunque, del mio sorriso neanche si accorge. La sua testa appare solo a tratti dietro i sacchetti, e in ogni caso non credo mi stia guardando.
- Ehi… - lo chiamo quindi. La voce mi viene fuori affaticata e debole, e me la schiarisco con un paio di colpetti di tosse. – Ehi, vuoi una mano? – chiedo, e faccio per alzarmi, puntando le mani sul divano. Lui si affaccia da sopra le buste e mi guarda come se gli avessi chiesto se per caso non ha visto dove stesse andando il coniglio col panciotto.
- No, faccio da me. – mi dice quindi, tornando a nascondersi là dietro e muovendosi spedito verso la cucina. Io resto lì a molleggiare sul divano per un po’, fino a quando non mi decido a scattare in avanti e mettermi in piedi. Muovo qualche passo incerto di fronte al divano, attorno al tavolino, ed osservo Peter poggiare i pacchi sull’isola e tirarne fuori di tutto, mentre posa alcune cose sul ripiano della cucina e ne conserva altre in frigo.
Mi avvicino piano, quasi con circospezione, guardandolo da sotto in su, che in pratica vuol dire che chino la testa e sollevo gli occhi e spero che lui si giri a guardarmi, lo spero insistentemente per un sacco di minuti, ma lui non lo fa. Perciò io mi avvicino sempre di più, progressivamente, e non mi accorgo che sta tremando, o meglio, me ne accorgo solo all’ultimo momento, che lui stringe la mano attorno a una confezione di panna da cucina e quella si deforma tutta e per poco non scoppia, e poi la sbatte sul ripiano, e sento il ringhio che gli esce dalla gola anche se lui prova a nasconderlo in tutti i modi. E continua a non guardarmi.
- Bill. – mi chiama, la sua voce è dura e tesa come i lineamenti del suo volto, - Che c’è?
- Volevo solo… - balbetto un po’, stropicciandomi l’orlo della maglia, una cosa che in una situazione normale non farei mai neanche sotto tortura, - chiederti se era tutto a posto, e se ti servisse una ma—
- Non mi serve una mano. – taglia corto lui, riprendendo sistemare roba tutta in fila come per una parata dell’esercito e poi voltandosi a recuperare una terrina dallo scaffale dietro, - Te l’ho già detto prima.
- Mh… - annuisco io. Lo guardo un po’, poi guardo qualcos’altro perché guardare lui fa male. – Ed è tutto a posto o no?
Lui resta zitto per qualche secondo, e durante questo periodo di tempo recupera due uova, le rompe e le versa nella terrina. Si volta a cercare una forchetta con cui sbatterle e io continuo a guardarlo e semplicemente lui non è il mio Chaku. Che è una cosa molto stupida e infantile, da dire, quelle cose cui in genere si risponde con un ghigno storto e un “evidentemente non mi conosci abbastanza”, ma è vero, in fondo, mi sento davanti ad uno sconosciuto, in questo momento.
Penso di sfuggita che dev’essere successo qualcosa, per forza, perché lo strappo fra com’era prima e com’è adesso è troppo netto per non essere il risultato di uno strattone di quelli forti. Ma è un pensiero che mi sfiora soltanto, perché poi mi prende l’ansia, che se non ritrovo Chaku – il mio Chaku – e non lo riporto indietro subito, perderò anche lui, e non me lo posso permettere, perché voglio ancora almeno una mano cui aggrapparmi, quindi mi avvicino ancora, e non ci penso se lui trema di nuovo e stringe convulsamente le dita attorno alla forchetta, muovendo la mano quasi con violenza, non m’interessa, lo vedo e non me ne curo, e quando gli poggio la mano sulla spalla e poi mi chino a strusciare il naso contro il suo collo lo sento che c’è qualcosa di sbagliato e che stiamo per fare un errore enorme, ma non riesco a fermarmi perché ho troppa paura che se lo facessi perderei l’attimo, e lui, per sempre.
- Bill. No. – mi dice lui. Ma è orribile sentirsi dire no proprio da Peter, lui che a me non lo dice quasi mai per nessun motivo, figurarsi per il sesso, perciò chiudo gli occhi così forte che vedo le macchie bianche ovunque e mi fanno male le tempie, e lo bacio piano lungo tutto il collo, fino alla mascella, allo zigomo, e poi ridiscendo e cerco le sue labbra, - No. – dice ancora lui, ma è più incerto, Peter è facile, da questo punto di vista, lui è facile ed io sono uno stronzo irresponsabile infantile e viziato e mi odio mi odio mi odio, e quando trovo le sue labbra lui non si tira indietro, mi bacia forse un po’ troppo incerto, sicuramente con meno voglia di quanta non vorrei ne provasse, perciò scivolo fra lui e l’isola, gli accarezzo il viso, gli allaccio le braccia dietro la nuca, approfondisco il bacio, ed è allora che le sue labbra si schiudono del tutto e la sua lingua corre a cercare la mia e mi si schiaccia addosso, e io non sento differenze finché non percepisco la stretta delle sue mani attorno alla mia vita, molto più forte e decisa del solito. E quando apro gli occhi e guardo dentro i suoi e li trovo annebbiati e stanchi e cupi e distanti, capisco che l’ho perso davvero.
Un attimo dopo, la terrina vola sul pavimento ed io sono semisdraiato sull’isola, i gomiti piantati sul ripiano per evitare di cadere all’indietro e Peter che mi si spinge contro e mi si tira addosso baciandomi con forza, mordendomi le labbra quando faccio tanto di allontanarmi per riprendere fiato, mentre una sua mano risale lungo la mia schiena e il mio collo per poi affondare fra i miei capelli e tirare, per costringermi a piegare il capo come preferisce.
Quando poggia entrambe le mani sulle mie ginocchia e mi costringe a spalancare le gambe, sobbalzo appena, spaventato. Lui si tira indietro per impedirmi di mordergli la lingua e gli vedo sulle labbra un’ombra di sorriso un po’ ghignante e un po’ sicuro di sé che non gli riconosco. Sento le sue mani che risalgono lungo le mie cosce ed ho i brividi ovunque quando mi afferra per l’orlo dei pantaloni e li strattona verso il basso. Me li tira via di prepotenza, ed io mi distraggo troppo facilmente con le sue labbra che scivolano lungo il profilo del mio collo, perciò non mi accorgo che sta rinsaldando la presa contro i miei fianchi – e fa quasi davvero male, scommetto che domani avrò due lividi spaventosi e dovrò mettere qualche maglietta lunghissima per evitare che si scoprano quando alzo le braccia – e quando me ne accorgo comunque è troppo tardi, gemo di sorpresa e un po’ anche di dolore perché Peter mi ribalta sul ripiano, costringendomi carponi, e mi tocca attaccarmi al bordo dell’isola per non ruzzolare di faccia per terra. Sbatto un’anca, sono i momenti in cui odio essere così magro. Me ne accorgo solo ora perché non mi ha mai trattato così. Mai.
Mi mordo un labbro e, quando mi accorgo che, nello stare carponi sul tavolo, c’è qualcosa che mi pressa contro una gamba, schiacciata fra il ginocchio e il piede dell’isola, per un attimo fatico a capire cos’è. Però fa male, quindi non riesco a smettere di farci caso, ed è allora che realizzo che è la cinghia della cintura. Che i miei pantaloni sono stati abbassati il minimo indispensabile. Che insomma, sono ancora del tutto vestito, e avrei dovuto capirlo prima perché non sento freddo né il legno plastificato del ripiano contro la pancia, e insomma, era ovvio. Peter non mi ha spogliato.
Peter non mi vuole. Vuole solo sfogarsi. Potrei essere qualsiasi persona, qualsiasi cosa, e per lui non farebbe differenza. Mi viene spontaneo chiedermi se non sia così anche per me. Potrebbe essere chiunque. Voglio solo spegnere il cervello. Perché sono triste, e sono solo, e sono annoiato. Anche adesso.
L’unica cosa che mi distoglie dal dolore della cinghia contro la gamba, è il dolore più acuto che sento quando Peter mi tiene per le ginocchia e, dopo avere indossato il preservativo, entra dentro di me. Senza perdere poi neanche tutto questo tempo a prepararmi. Lancio un mezzo grido fra il sofferente e il sorpreso e getto indietro il capo, inarcando la schiena per reazione. Lui mi tiene fermo per un fianco e si spinge a fondo dentro di me, e prima che io abbia la possibilità di tornare ad accasciarmi sul ripiano mi afferra di nuovo per i capelli e mi tira indietro, con forza, costringendomi ad inarcarmi ancora di più, tanto da farmi quasi male.
Scivolo all’indietro lungo il ripiano e la maglietta mi si alza. La pancia sfrega contro la superficie liscia dell’isola e l’attrito è così forte che si sente un suono scricchiolante e sinistro coperto appena dal mio gemito di fastidio mentre torno a poggiare i piedi a terra e Peter approfitta della mia nuova stabilità per spingere più forte. Mi viene da piangere e ho le ginocchia molli.
Solo quando appoggio i gomiti contro il ripiano e nascondo il viso fra le braccia, lasciandomi andare un singhiozzo strozzato, Peter forse si ricorda che dopotutto sta scopando un essere umano. Le sue dita mi corrono fra le cosce, ma non c’è niente da masturbare. Lui si incaponisce, comunque, perché è testardo – fa male – perché deve avere sempre ragione – fa male che faccia male – perché non vuole arrendersi al fatto che sta facendo una cosa orrenda – fa male volerlo da impazzire – e continua ad accarezzarmi, stringendo la presa ed insistendo così tanto che, alla fine, fosse anche solo per sfregamento meccanico, può gloriarsi di tenere stretta in mano la mia erezione.
Scoppio a piangere fra i gemiti di piacere che germogliano sulle mie labbra, lievi e strozzati. Faccio fatica a respirare, Peter non si ferma, non vuole fermarsi, e non so se, anche volendo, ci riuscirebbe. Tengo gli occhi serrati perché ho la netta impressione che, se li aprissi, mi vedrei crollare il mondo davanti. E sto già abbastanza male così.
Vengo per inerzia, che è lo stesso principio fisico per il quale suppongo venga anche lui. Che non geme, ringhia e basta. Arrabbiato come non l’ho mai visto. Mi si accascia addosso subito dopo, stremato, e non si preoccupa di pesarmi sulla schiena e quindi anche sul petto, impedendomi di respirare agevolmente. Resto lì ad affannarmi, cercando di gonfiare i polmoni e tenermi quanto più possibile sollevato dal tavolo – per chi mi hai preso, Peter? Cazzo, non ti reggo – ma non ce la faccio a chiedergli di spostarsi. E non solo perché sono tutto dolorante. Non ci riesco e basta.
Non so per quanto rimaniamo in questo modo. So che il legno plastificato sotto di me ha tutto il tempo di intiepidirsi e inumidirsi un po’ a contatto con la mia pelle accaldata e sudata, e che solo dopo aver cominciato a trovarlo fastidioso mi accorgo che il ritmo del battito del cuore di Peter è cambiato, s’è fatto più ansioso. Lo sento sollevarsi piantando le mani sul tavolo, ai lati del mio corpo, ed uscire da me con un movimento lento, quasi premuroso. Il primo della serata.
- Dio… - mormora, la voce persa, - Dio, Bill. – mi accarezza piano la schiena, i capelli, il collo, guardandomi da tutti i lati mentre io faccio leva sulle braccia per rimettermi in piedi e non riesco nemmeno a stare dritto, finendo per crollargli addosso un secondo dopo. Lui mi regge per le spalle e continua a mormorare imprecazioni, agitatissimo. – Bill, mi dispiace. Dio, mi dispiace tantissimo, come— cazzo, come stai?
- Non lo so… - biascico, tirando su col naso. Chino il capo perché ho pianto tutto il tempo e devo essere un mascherone orrendo. Non voglio che mi veda. Gli resto appoggiato addosso, però, perché non ce la faccio proprio a reggermi da me, e lui mi sistema tutto, mi ripulisce, mi tira su i pantaloni, mi maneggia come fossi fatto di porcellana, e io mi chiedo dove cazzo eri, Chaku? Dove cazzo eri dieci minuti fa, quando mi servivi così e invece eri un altro?
Mi porta fino al divano, e non mi prende in braccio solo perché suppongo voglia verificare che sono ancora in grado di camminare. Mi aiuta a sedermi comodo, poi si siede al mio fianco, e quando mi allungo a cercare un abbraccio lui mi stringe subito a sé, lasciandomi sistemare contro il suo petto ed accarezzandomi dolcemente i capelli. Piango un altro po’, silenziosamente. Non sono più nemmeno triste, lo faccio perché non sento nulla. C’era qualcosa, dentro di me— c’erano un sacco di cose, dentro di me. Non ho mai pensato di essere una bella persona, ma c’è stato un tempo in cui ero almeno una persona piena. Ora non resta nemmeno quello. Mi sono svuotato, e tiro fuori altre lacrime solo perché sto raschiando il fondo del barile. Finiranno anche quelle, prima o poi. O almeno lo auguro, perché i miei occhi sono stanchi, e bruciano, e non ne possono più nemmeno loro.
- Va un po’ meglio? – mi chiede qualche minuto dopo. Non ha mai smesso di accarezzarmi i capelli. Io annuisco lentamente, strusciando il viso contro il suo petto. Schiudo le labbra e me le inumidisco, prima di parlare.
- Ora me lo dici cos’è successo? – chiedo piano, e lui si irrigidisce subito. Si ferma anche la sua mano, e questa è la conferma definitiva che qualcosa deve per forza essere successo.
Deglutisce, il cuore gli batte forte. Resta immobile e quasi non respira – il suo petto non si alza né si abbassa, o se lo fa io non me ne accorgo, perché è un movimento impercettibile, appena accennato, come avesse paura di farmi scappare respirando troppo profondamente. Resto in silenzio, e in attesa.
- Bill. – sospira quindi lui, - …io devo dirti un po’ di cose.
Sollevo lo sguardo e trovo subito il suo, molto più limpido di quanto non fosse prima. Anche molto più carico, però, e questo mi fa paura. Mi allontano appena e lui non mi trattiene, perciò mi metto dritto e mi siedo più compostamente al suo fianco. Solo per un attimo, perché non ce la posso fare a reggere questa situazione senza darmi un po’ di conforto, almeno da solo, perciò finisce che due secondi dopo ho già sfilato le scarpe e tirato su le gambe sotto il corpo, rannicchiandomi accanto a lui.
Peter mi guarda e si vede che non sa come dirmi quello che vuole dirmi. Vorrei sapergli leggere nella testa per risparmiare ad entrambi questo momento.
- Io e Fler… - comincia abbassando lo sguardo e grattandosi nervosamente la nuca. Cosa c’entra Patrick? – Io e Fler abbiamo avuto una storia, Bill.
In un primo momento, credo di non aver capito bene. Lo guardo con aria interrogativa e lui non fa una piega, ed è lì che comincio a preoccuparmi.
- Cosa stai dicendo? – chiedo quindi, perché mi sembra una follia. E ora voglio che mi dica che scherzava. Pesce d’aprile. Puoi dirmelo, Chaku? Anche se non siamo in aprile.
- Io e Fler abbiamo avuto una storia. – ripete lui, e il suo tono è così colpevole che mi si secca la gola e devo per forza chiedergli se—
- Mentre io e te…?
- No! – torna subito a guardarmi lui, quasi oltraggiato, - No, Bill, no! Voi non… - esita appena, - non vi siete mai accavallati, te lo assicuro. Io e lui siamo stati molto vicini l’anno scorso, prima che tu… intendo, dopo che io e te abbiamo deciso di non vederci più. E, insomma, è durata. Un po’.
- Un po’ quanto? – chiedo, deglutendo a fatica, - Giorni, settimane, mesi?
- Praticamente… - scolla quasi con dolore, aggrottando le sopracciglia, - Praticamente fino a poco prima che io e te ricominciassimo a frequentarci e… sì, be’, insomma. Dopo la morte di Saad.
Faccio un rapido calcolo mentale e mi stupisco da solo di quanto giri bene la mia mente, di quanto sia lucido in questo momento. Comunque stiamo parlando di un sacco di tempo.
- E-- - comincio, ma non ho tempo né modo di finire perché lui mi interrompe con un cenno della mano.
- E poi, - riprende, - anche dopo. Quando è tornato Bushido e tu sei andato a vivere con lui, Bill, io e Fler ci siamo ritrovati di nuovo. E – dice tutto d’un fiato, quasi volesse liberarsi la coscienza il più in fretta possibile. Come quando tiri su scatoloni per interi piani, e gli ultimi gradini te li fai di corsa anche se non ce la fai più a muovere nemmeno un passo. Proprio perché non ce la fai più a muovere nemmeno un passo. – E l’ho lasciato io, Bill, quando tu sei tornato da me. È stato lui… lo so che mi hai detto che non c’è alcun bisogno di dirtelo, ma è stato lui a picchiarmi, quando sono tornato ricoperto di lividi.
Vorrei potergli dire qualcosa, giusto per fargli capire che sono ancora vivo. Il fatto è che non ne sono tanto sicuro nemmeno io.
- Ecco… - balbetto a disagio, scostando lo sguardo, - io—
- Io non ho finito. – mi interrompe lui, e il suo tono torna a farsi duro. Serro le labbra e aspetto. – Non ti ho detto tutto questo per capriccio, Bill. – sospira, i tratti del viso che tornano più dolci, più simili a come li amo, - Ma perché oggi l’ho rivisto, e quel qualcosa che ci ha tenuto insieme prima di te, era ancora lì. Anzi, non credo… non credo si sia mai davvero spento del tutto.
Non respiro nemmeno, per una quantità di secondi che non riesco a calcolare.
- Cosa stai cercando di dirmi? – gli chiedo. Vorrei che la mia voce potesse suonare stanca come mi sento, ma temo suoni solo gelida e urtata. Come, d’altronde, mi sento.
Peter mi fronteggia a muso duro, per un po’. Non che la sua espressione si incattivisca, solo che sta cercando di tirare fuori tutto il coraggio che ha. E io lo so che è tanto, solo che fino ad ora l’ha sempre usato per proteggermi, mai per ferirmi.
- Ho provato a baciarlo. – confessa atono, - Lui mi ha rifiutato. Io però ci penso. E non riesco a smettere di pensarci. Io ti amo, Bill, ma— non lo so. Forse amo anche lui. – si prende una pausa, inspira ed espira, si passa una mano sugli occhi, sulla fronte, sulla nuca e sul collo. È palesemente esausto e io mi sento in colpa e non capisco da dove venga questo sentimento. – A te non succede? – mi chiede poi, e mi si stringe il cuore perché ho paura che lo stia guardando, che mi stia spiando nel petto, e che per questo il mio cuore stia cercando di nascondersi, facendosi minuscolo per non farsi vedere. Solo che fa male, e io così non riesco nemmeno a respirare. – Non ti succede di pensare le stesse cose con Bushido?
E io ripenso ai tremori, e al sorriso di Anis, e a quanto facesse male guardarlo con Fler, e al palmo della sua mano, e alle volte che tornava da qualche viaggio promozionale in Svizzera o Austria, o quando mi veniva a prendere all’aeroporto, e penso a quando veniva a trovarmi a casa, a quando abbiamo preso l’appartamento, agli scatoloni, al sangue sulle lenzuola, a quanto era bello coi capelli lunghi vestito di bianco nella penombra di quel salotto in quell’appartamento sconosciuto, al suo profumo, agli hamburger di McDonald’s, alle ricettario di Karima, alla villa gialla enorme e bellissima che profumava di casa, a Tomi pieno di lividi, alla sua discografia in frantumi sotto l’Escalade, alle serate con la crew e le ubriacature e restare svegli fino all’indomani mattina e andare a Tempelhof solo io e lui e i progetti le vacanze la paura di perderlo quando non mi diceva qualcosa il suo odore il suo sapore la consistenza della sua pelle la sua voce il suo nome – e guardo Chakuza e ho gli occhi pieni di lacrime, e sono le lacrime più pesanti che ho versato da quando Anis è tornato a casa. Oltre il velo delle lacrime, io Chakuza lo vedo appena. Come sempre, la sola idea di Anis basta ad offuscarmi la vista.
- Sì. – ammetto. Perché non posso fare altrimenti, e non per le lacrime, ma perché quello che mi ha appena colpito al petto ricordando è troppo importante per poterlo tradire mentendo. – Sì. Cerco di fare di tutto per non pensarci, ma sì. Dio… - singhiozzo più forte, mi piego su me stesso, - Dio, sì. – e il Chaku è lì, com’è sempre stato lì quando io e Anis eravamo ancora il re e la principessa, e litigavamo ed io avevo bisogno di una spalla su cui piangere. Come allora, mi accartoccio come in mezzo alle fiamme e mi appoggio contro la sua spalla, e piango, piango tantissimo, e lui mi stringe a sé e ricomincia ad accarezzarmi i capelli.
Dovrei venire a patti col pensiero che abbiamo appena confessato l’uno all’altro di essere innamorati di altri uomini. Ma potrò farlo in un secondo momento.

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I Can't Hurt You Anymore

di lisachan
Bill mi guarda fisso, i suoi occhi brillano. Cova una rabbia che lo scuote tutto, il suo corpo è così sottile che trema sotto le ondate di livore che gli arrossano le guance. So che in questo momento potrebbe uccidermi, se solo avesse l’arma con cui farlo. I capelli scompigliati gli ricadono lungo il collo, il suo respiro è pesante e mi sfiora il viso in carezze quasi violente mentre lo schiaccio contro il muro, un avambraccio pressato sopra il collo e una mano a stringerlo con forza alla spalla. Mi guarda come se lo stessi torturando, come se il mio comportamento fino ad ora fosse stato quello di un despota, e lui stesse affrontando il martirio con orgoglio, coraggio e fierezza, e mentre presso il mio avambraccio con più forza contro la sua gola, mozzandogli il respiro e osservandogli inghiottire la preghiera di lasciarlo andare che è tanto forte da non lasciarsi sfuggire neanche per una sillaba, cerco di ricordargli che qui non ci sono vittime né carnefici, che ciò che ha fatto è sbagliato e che dovrebbe tornarsene a casa.
E poi lo bacio.
*
Il mio risveglio, stamattina, non sembrava preannunciare niente di speciale, figurarsi qualcosa di disastroso come Bill che irrompe nel mio ufficio rovesciando il mondo come ormai ha imparato a fare – e se sa farlo bene, pochi cazzi, è colpa mia, che nel ribaltamento dei mondi altrui sono un campione – costringendomi prima a schienarlo contro un muro, poi a tentare di soffocarlo, quindi a baciarlo sa Dio perché.
Stamattina mi sono svegliato col russare debole e regolare di Pat piantato nelle orecchie, e all’improvviso mi sono sentito addosso dieci anni di meno, ed ho borbottato “Frank, siamo in ritardo”. Al che lui ha aperto un occhio e mi ha guardato come se non capisse un accidenti di ciò che stavo dicendo, giustamente, e a quel punto ho riso perché non so cosa avessi pensato di preciso ma era evidente che mi stavo riferendo a qualcosa successo uno sproposito di anni prima, probabilmente una delle mille volte che mi sono fermato a casa sua perché il giorno dopo dovevamo andare presto da qualche fornitore prima dell’apertura dei negozi – prima che Tempelhof, o almeno la parte onesta di Tempelhof, quella che non viveva di notte, cominciasse a risvegliarsi. Era una scusa che usavo spesso, “resto da te così domani facciamo prima e non devo passarti a prendere”, ma la verità era che intanto adoravo i bignè che sua madre faceva in casa, e poi adoravo anche passare la notte con lui davanti alla tv parlando di cose assurde e fumando uno spinello fino a stordirci al punto di dire e vedere cose veramente allucinanti, crollare addormentati esausti alle cinque del mattino e poi, naturalmente, svegliarci in ritardo. Il che mi riporta alla prima frase che ho detto stamattina, e che comunque, non so, non è una cosa che parla solo di ritardi a un appuntamento o cose simili che poi scompaiono nel giro di pochi giorni, quanto più una cosa generale. Io e Patrick siamo in ritardo, è vero. È verissimo.
- Anis, vaffanculo. – mi fa lui, e si rigira a pancia sotto mentre io non riesco a smettere di ridere, - Ma perché cazzo mi dovevi svegliare… e piantala di ridere! – sbotta, e mi tira un cuscino sulla faccia mentre contemporaneamente cerca di scalciarmi via dal letto e anche di nascondersi sotto due chilometri di lenzuola per cercare di tornare a dormire. Io però a quel punto ormai sono sveglio, quindi niente, mi avvicino e me lo stringo contro, un po’ anche per la questione del ritardo, appoggiandogli il mento su una spalla e sorridendogli contro una guancia. – ‘Cazzo fai? – mi chiede lui, che sta ancora palesemente dormendo, e io rido e lascio scivolare una mano lungo la sua schiena, sotto le lenzuola.
- Suono la sveglia. – dico con una risatina, accarezzandolo distrattamente fra le natiche, al che lui solleva la testa dal cuscino come se solo ora avesse cominciato a capire cosa stia esattamente succedendo, mi guarda con gli occhi enormi e poi mi scoppia a ridere in faccia.
- Ma vaccagare. – ride come un demente, e poi salta in piedi e, nudo com’è, che io mi preoccupo pure che Karima possa vederlo e non sarebbe il caso – non perché Karima non sappia, quanto più perché poi partirebbe con la millecentesima tirata sui costumi discinti di questa casa, cosa che decisamente mi rovinerebbe il risveglio – insomma, nudo com’è mi informa che va a preparare il caffè e mi lascia tutto il tempo di suonarmela da me, la sveglia. Voglio dire. Ma chi me l’ha fatto fare di tirarmi in casa quest’individuo – ripetute volte negli ultimi dieci anni, peraltro – io non lo so.
Comunque, mi sono messo in piedi, anche perché era evidente che, a meno che non volessi accoppiarmi coi cuscini o col materasso mentre coperte e pareti ci spiavano libidinosi, lì nel letto non c’era trippa per gatti, dal momento che tutta la trippa e anche tutti i gatti s’erano spostati in cucina per preparare la colazione. Sono rotolato giù dal materasso, mi sono infilato la prima cosa che ho trovato così da poter urlare “ma è Fler che va in giro nudo, io no!” se Karima si fosse improvvisamente palesata in cucina prima delle nove ed ho infilato il corridoio. Fler fischiettava maneggiando la moka con mani esperte, ed io ho sorriso.
- Perché tutta questa fretta? – ho chiesto, guardandomi intorno per assicurarmi che Karima non ci fosse ancora e poi appendendomi alle sue spalle e sfiorandogli il collo con la punta del naso.
- Io non ho nessuna fretta. – ha risposto lui, serafico, continuando a maneggiare la moka, - D’altronde, mia madre non mi aspetta prima di mezzogiorno. Sei tu che devi essere all’Ersguterjunge fra tipo dieci minuti.
- Che? – ho sbottato con una smorfia infastidita, subito mitigata dall’odore penetrante del caffè in polvere che si è diffuso nell’aria in cucina non appena Fler ne ha aperto il barattolo, - Non vieni con me?
- No, te l’ho detto ieri che sono a pranzo da mia madre. – ha sbuffato lui, roteando gli occhi ed accendendo il fornello sotto la caffettiera, - È una settimana che mi chiama ogni giorno chiedendomi quando vado a trovarla. Scommetto che mentre ne parlavo non mi hai sentito.
- Dipende. – ho mormorato abbattuto, tornando a nascondere il naso contro il suo collo, - Stavamo facendo qualcosa, mentre me ne parlavi?
- Guardavamo la tv, Anis. – ha ridacchiato lui, asciugandosi le mani umide contro un panno.
- E allora è ovvio che non ti stessi ascoltando, non ero abbastanza concentrato su di te! – ho ribattuto, spingendomi verso di lui, - Provi a ripetermi i concetti base adesso? – ho proposto speranzoso, ma lui ha riso e si è divincolato senza fatica dalla mia stretta, dirigendosi tranquillo verso il bagno.
- Vatti a fare una doccia. – mi ha suggerito, - E per punizione, vai in bagno al piano di sopra.
In quel momento, naturalmente, Karima è uscita dalla sua stanza, vestita di tutto punto e perfettamente in ordine, pronta a cominciare le grandi pulizie che ogni mattina organizza e che si protraggono puntualmente fino a sera, ed ha osservato – non senza un certo turbamento – il sedere di Fler mentre, ondeggiando tranquillo, spariva dietro la porta del bagno, proprio nel momento in cui lui, sereno come un bambino appena sveglio di domenica mattina, tirava su una mano e la salutava col più serafico dei “buona giornata, Karima”. Al che lei, naturalmente, sopraffatta dalla perfezione di Fler – che è l’unico essere umano che riesce a gestire pure le situazioni più improbabili senza mai andare in imbarazzo, che mi viene da ridere se solo provo a ricordarmi com’era quando aveva quattordici anni e si scioglieva andando nel panico ogni volta che lo guardavo – non poteva guardarlo con disapprovazione, anche perché si sarebbe trovata a guardare con disapprovazione una porta chiusa, e pertanto si è voltata a guardare me con l’occhio torvo presagio di sventura.
- Che c’è? – ho sbottato, mentre lei scendeva dal piano di sopra carica di disapprovazione e severità, - Sono vestito!
Naturalmente non ha attaccato.
- Il signor Losensky non lo era. – ha risposto lei, tetra, passandomi davanti senza guardarmi, come se non mi meritassi ulteriore attenzione da parte sua.
- Potresti anche cominciare a chiamarlo Patrick, immagino. – ho borbottato, mentre lei passava davanti ai fornelli, sbirciava il caffè già uscito nella moka e spegneva il fuoco.
- Il nostro grado d’intimità – ha detto, sollevando un singolo sopracciglio da madre puritana di svariati secoli fa, - non è ancora tale da giustificare simili prese di confidenza. Inoltre, vorrei ricordarle che non mi ha ancora comunicato quando il signor Losensky ha deciso di tornare a stabilirsi definitivamente nel proprio appartamento, signor Ferchichi.
Forse perché di buttarlo fuori non ho la minima intenzione, ho pensato io guardandola con l’occhio pallato.
- Be’, per ora è qui, comunque. – ho concluso, scrollando le spalle, - Quindi sii gentile con lui, ha avuto un’infanzia difficile.
- E non fatico a immaginare di chi possa essere la colpa. – ha commentato lei, versando il caffè in due tazzine e cominciando ad armeggiare in giro con l’obbiettivo di raccoglie latte e biscotti in quantità industriale nel minor tempo possibile e poi, probabilmente, iscriversi al Guinness dei primati.
- Che cosa vorresti dire, con questo? – ho sbottato io, incrociando le braccia sul petto e mettendo il broncio come quando avevo tredici anni, che peraltro è una cosa che Karima non può sapere perché quando avevo tredici anni ancora non la conoscevo. Ogni tanto ho l’impressione che, siccome mi ha conosciuto già adulto, abbia dimenticato che un tempo sono stato un bambino anch’io, e che posso ricadere in quello stato infantile quando voglio, peraltro. Altre volte, invece, mi sembra che, anche se mi ha conosciuto che ero già grande, in realtà non abbia poi fatto mai molto affidamento sulla mia maturità.
In ogni caso, non mi ha risposto – probabilmente perché non ero degno della sua voce come non lo ero stato dei suoi occhi poco prima – e quando Patrick è uscito dal bagno lavato e vestito di tutto punto e lui e Karima si sono messi a confabulare strigliandomi perché ero ancora in pigiama e ovviamente in ritardo ho sbuffato “d’accordo, d’accordo, datemi tregua tutti e due!” e sono fuggito al piano di sopra, grandemente deluso dai miei sudditi indisciplinati e colmo di disappunto per la mia regale autorità violata.
Solo che, quando mezz’ora dopo sono uscito di casa, nonostante il pensiero delle ore infinite di noia che mi attendevano all’Ersguterjunge, sorridevo come un cretino. E questo non posso proprio negarlo.
*
Per dire, ero così felice che neanche la vista dell’Ersguterjunge è riuscita a deprimermi. E dire che in genere mi basta entrare in questo posto per sentirmi crollare addosso tutto. Voglio dire, io non dico che queste pareti le ho tirate su col sudore della mia fronte – perché così non è. Forse i soldi per comprarle li ho tirati su col sudore della mia fronte, ma le pareti decisamente no – però erano comunque una cosa mia, e in quanto cosa mia erano stati inglobati dalla mia persona e rimessi al mondo marchiati. Come tutto ciò che tocco, perché odio che ciò che tocco, ciò che amo, mi venga portato via, e l’unico modo che si ha per assicurarsi la paternità a vita di qualcosa è lasciargli addosso un segno. Nessuno vuole una macchina graffiata, nessuno vuole un motorino pieno di adesivi, nessuno – nessuno mentalmente sano, almeno – dovrebbe volere un corpo che ha addosso il sapore e l’odore di un altro. Poi non sempre va a finirti bene, però intanto tu il tuo marchio lo lasci. Almeno così hai più possibilità di tenerti stretto ciò che vorresti portarti dietro fin nella tomba.
Ora io mi guardo intorno e queste pareti non le riconosco. Il mio ufficio era pieno di poster. Miei poster, ovviamente. Quando hanno ritinteggiato, me li sono fatti mettere da parte perché volevo riappenderli subito dopo, solo che poi lo scatolone in cui avrebbero dovuto conservarli non s’è più ritrovato. E quindi io avevo una stanza che ero io, rappresentava me, una stanza in cui mi sentivo a mio agio, e ora invece mi sento un impiegato delle poste in uno stanzino bianco e anonimo che odio e che mi dà la nausea dal momento in cui ci metto piede al momento in cui ne esco. È una cosa devastante.
Eppure, ero così di buon umore che, entrando qua dentro e fissando le pareti bianchissime, non ho pensato “che schifo, dov’è finita la mia vita?” come faccio sempre, bensì “più tardi a casa devo ricordarmi di chiedere a Pat se gli è rimasto qualche poster vecchio, magari qualcosa dell’Aggro”, visto che dubito fortemente che si sia messo a collezionare poster delle mie uscite discografiche comprando Bravo travestito da quindicenne infoiata mentre passavamo le nostre giornate a insultarci da una parte all’altra di Berlino.
Questa sensazione di beatitudine interiore è durata naturalmente fino a quando la segretaria piccola e carina che si occupa di accogliere gli ospiti all’ingresso e smistarli nelle varie aree del palazzo in cui devono andare non è spuntata sulla soglia della mia porta e, con aria un po’ colpevole e un po’ impacciata, mi ha detto che il signor Kaulitz era all’Ersguterjunge e desiderava vedermi.
In un primo momento ho pensato “ma non esiste”. Ho anche rimandato a memoria la tabella degli orari e dei giorni lavorativi di Bill per essere proprio certo che no, oggi non avrebbe dovuto trovarsi qui, non a quest’orario né in nessun altro orario, ed avrei voluto guardare la segretaria negli occhi e dirle “dev’essersi sbagliata”, solo che poi mi sono reso conto di quanto sarebbe stato assurdo ed ho deglutito forzatamente, cercando di ricompormi.
- Sono molto impegnato. – le ho detto. Lei ha guardato la mia scrivania sgombra, il computer ancora spento e la generale aria di nullafacenza che si respirava nella stanza, e poi è tornata a guardare me, con occhi sempre più tristi e colpevoli, probabilmente chiedendosi quanto ci avrei messo a licenziarla, al punto che avrei voluto darle una pacca sulla spalla e rassicurarla, che tanto ormai non ho più potere neanche sui dipendenti in questa cazzo di etichetta.
- Ecco… - ha proseguito lei, incerta, - Il signor Kaulitz ha molto insistito. – ha detto, e io cosa potevo ribattere, a quel punto? “Digli di andarsene a fanculo e, se continua a insistere, insisti anche tu e defenestralo”? Ho sospirato tanto profondamente che mi ha fatto male il petto, ed ho annuito.
- Fallo passare.
Lei ha annuito come a volersi scusare ed è sparita in un secondo. Il secondo successivo, al suo posto c’era Bill, e io avevo smesso di respirare. Ho pensato distrattamente “è tremendo che il mio ultimo respiro sia stato così doloroso”, e poi non ho avuto spazio neanche per i pensieri. Bill stava già occupando tutto.
- Scusa se ti disturbo. – ha mormorato, gli occhi nascosti dietro un paio di giganteschi occhiali da sole a mascherina e i capelli tirati indietro e stretti in una coda alta a imprigionare le ciocche bionde, come a cercare di tenere a bada lui domando i suoi capelli. Come fosse possibile, l’una cosa o l’altra.
- Fa niente. – ho sputato con una difficoltà estrema, sperando che lui non la notasse. Lui ha abbassato appena gli occhiali sul naso, lanciandomi una lunga occhiata scrutatrice prima di sfilarli del tutto e riporli nella borsa a braccio in un gesto fluido e abitudinario. – Ti serviva qualcosa?
Lui si è guardato intorno con aria un po’ confusa, penso non fosse mai entrato qua dentro e deve aver fatto una certa fatica a riconoscere l’ambiente come familiare.
- Posso sedermi? – ha chiesto, al termine del giro di studio. Io ho piantato le mani sulla scrivania e mi sono alzato in piedi.
- A dire la verità preferirei di no. – ho detto in un fiato, osservando i suoi occhi macchiarsi della consapevolezza di non essere una presenza gradita, una cosa che aveva spesso osservato negli occhi di molti, ma mai nei miei. – Cosa ci fai qui, Bill?
- Volevo solo parlarti. – ha sbottato offeso, incrociando le braccia sul petto.
- Potevi prendere un appuntamento, come fanno tutti gli altri. – gli ho fatto notare.
- Tutti gli altri…? – ha spalancato gli occhi lui, incredulo, - Anis, capisco tutto, ma—
- Sono molto impegnato, Bill. – ho detto, battendo con una certa forza le mani sul tavolo e sperando che questo bastasse ad intimorirlo, o a farmi mandare a quel paese, raggiungendo comunque l’effetto desiderato, ovvero buttarlo fuori da questa stanza il prima possibile, per evitare di perdere il controllo di me stesso.
- Impegnato a fare cosa? – mi ha chiesto lui, senza cedere di un passo, fissandomi con gli occhi brillanti di rabbia, offesa, tradimento e tutte quelle altre piccole cose che è in grado di mettere in un solo sguardo quando vuole farti sentire una merda fatta e finita, - Impegnato a— a fare cosa, Anis? Cos’è che ti tiene tanto impegnato da non lasciarti neanche un minuto libero per stare a sentire me?
- Quali diritti speciali dovresti avere tu? – ho sbottato io, alzando la voce e sollevando le braccia come ad invitarlo ad andare oltre ed affondare il coltello, se ne era capace, - Sentiamo, Bill! Quali diritti che non ti sia già fottuto da solo nonostante io te li avessi ridati tutti in mano appena ti ho posato gli occhi addosso? Eh?
Lui ha spalancato gli occhi, le labbra gli tremavano.
- Non so, Anis. Quelli che si riservano a un normale essere umano quando ti chiede due minuti per parlare?
- Tu non chiedi, Bill! – ho tuonato io, esasperato, - Tu non chiedi, è questo che ti sfugge! Tu ti presenti e pretendi!
- Io non ho preteso niente! – s’è difeso lui, quasi stringendosi nelle spalle, - Io ti ho chiesto—
- Tu ti sei presentato qui come se riceverti da parte mia fosse una cosa ovvia! – gli ho fatto notare, allargando le braccia ai lati del corpo, - L’idea che a me non andasse di vederti non ti è mai passata neanche per l’anticamera del cervello! Tu agisci come se tutto ti fosse dovuto e te ne sbatti il cazzo di quello che il resto dell’universo possa pensare, perché tanto i sentimenti degli altri non sono importanti come i tuoi! Nessuno soffre come te, vero Bill? Nessuno è in una situazione peggiore della tua, giusto?
I suoi occhi si sono fatti liquidi all’improvviso, le guance arrossate e il respiro accelerato. Ho avuto paura che si sentisse male, ma non ho smesso di guardarlo duramente neanche per un secondo.
- Sei ingiusto. – ha esalato con un filo di voce, - Credi che per me sia facile, Anis? – mi ha strillato contro, - Pensi che per me vederti ritornare dopo un anno e tutto il resto sia stato semplice? Pensi che mi diverta, cazzo, che sia felice della situazione in cui siamo? Se pensi questo di me, allora non mi conosci, perché—
Gli sono saltato addosso prima che potesse concludere la frase. L’ho spinto contro il muro, mi sono schiacciato contro di lui, ho piantato un braccio contro il suo collo e l’ho guardato.
- Smettila di parlarmi come se fossi il primo stronzo cui puoi rifilare tutte le tue cazzate preimpostate da diva del cinema muto, Bill. – gli ho ringhiato addosso, - Vuoi sapere cosa penso? No, non penso che per te sia facile. Però penso che ti piaccia complicarla. Non penso che tu sia felice, però penso che il dolore ti faccia sentire al sicuro, perché non sei felice da tanto di quel tempo che provare della felicità vera ti spaventa. Non penso che tu ti diverta, ma penso che tu ti senta meglio quando mi trascini nel tuo cazzo di baratro di tristezza, Bill, questo penso. E non dirmi che non ti conosco. Perché sai che non è vero, come sai che invece è vero tutto quello che ho detto adesso.
E ora Bill mi guarda fisso, i suoi occhi brillano. Cova una rabbia che lo scuote tutto, il suo corpo è così sottile che trema sotto le ondate di livore che gli arrossano le guance. So che in questo momento potrebbe uccidermi, se solo avesse l’arma con cui farlo. I capelli scompigliati gli ricadono lungo il collo, il suo respiro è pesante e mi sfiora il viso in carezze quasi violente mentre lo schiaccio contro il muro, un avambraccio pressato sopra il collo e una mano a stringerlo con forza alla spalla. Mi guarda come se lo stessi torturando, come se il mio comportamento fino ad ora fosse stato quello di un despota, e lui stesse affrontando il martirio con orgoglio, coraggio e fierezza, e mentre presso il mio avambraccio con più forza contro la sua gola, mozzandogli il respiro e osservandogli inghiottire la preghiera di lasciarlo andare che è tanto forte da non lasciarsi sfuggire neanche per una sillaba, cerco di ricordargli che qui non ci sono vittime né carnefici, che ciò che ha fatto è sbagliato e che dovrebbe tornarsene a casa.
E poi lo bacio. Lo bacio perché è troppo vicino, lo bacio perché mi manca, lo bacio perché – cazzo – io questo ragazzino lo amo tanto che mi scoppia la testa se solo ci penso, che il mio corpo non mi sembra robusto a sufficienza per sostenerlo, lo bacio perché l’ho perso, perché voglio lasciarlo andare ma non ci riesco, lo bacio perché voglio il suo sapore sulla lingua e quando lui solleva le mani e mi stringe alla nuca, graffiandomi la pelle del collo fino a che sento il sangue scorrere in un rivolo lento e sottilissimo giù fino al colletto della maglietta, sento che lo vuole anche lui, sento che tutto il casino che c’è dentro la mia testa c’è uguale anche nella sua.
Lo allontano dalla parete schiacciandomelo contro, lo stringo fra le braccia e lui aderisce perfettamente al mio corpo come non si fosse mai allontanato nemmeno di un millimetro dal mio fianco. Siamo due universi paralleli e perfettamente distinti io e lui, adesso, eppure alle volte basta così poco e Bill è ancora lì, è ancora mio, e non capisco come tutto questo non possa essere vero e reale – so che non lo è, lo so, ma adesso che siamo così vicini mi sembra l’unica verità possibile. E quindi, ciò che invece è vero, lui con Chakuza, io con Patrick, deve essere una bugia.
Torniamo a dirci la verità, piccolo, vuoi?
È nel momento in cui lo penso – che poi è lo stesso momento in cui lo appoggio sulla scrivania sgombra e mi allontano appena dalle sue labbra per riprendere fiato – che mi rendo conto di quanto tutto questo sia assurdo, di quanto il mio cervello prenda a sragionare per vie incomprensibili quando ho Bill intorno. Cos’è che voglio dare a bere a questo ragazzino? Che non importa niente di quello che siamo diventati, che possiamo tornare com’eravamo prima che tutto questo accadesse dimenticando gli ultimi mesi e andando avanti per una strada che nemmeno esiste se non nelle nostre fantasie quando escludiamo dai pensieri tutto il resto del mondo che non siamo noi due? Che storia voglio raccontare a Bill, a me stesso? Che cosa cazzo sto facendo?
Lui schiude le palpebre quando non mi sente tornare a baciarlo. Sotto le sue ciglia, che tremano in un battito sottile come quello delle ali di una farfalla, passa la consapevolezza che è cambiato qualcosa rispetto a un secondo fa. Poso le mani sulle sue, allontanandole dal mio collo e posandogliele in grembo. Lui, seduto sulla scrivania, le spalle un po’ curve e l’espressione corrucciata, le labbra arricciate in una smorfia delusa e triste, mi guarda e mi implora di non farlo, non fermarmi, dargli mezz’ora di tregua dalla realtà.
Non posso farlo, piccolo, io ti amo troppo per mentirti così spudoratamente.
- Vai via. – gli sussurro sulle labbra. Stringo le mani attorno alle sue e ne accarezzo il dorso coi pollici.
Lui sospira stremato. La sua testa si piega in avanti in cerca di appoggio e la sua fronte trova il mio petto con una naturalezza che mi smuove qualcosa dentro. È sempre la stessa storia, queste piccole cose riaccendono la scintilla, ma è dura tenerla accesa quando il fuoco non prende.
- Non è come se mi stessi dicendo “vai, non ci vedremo più”… - mugola, strusciando la fronte contro la mia maglietta, - Fra poco comincia il tour… mi dici come faremo? Perché io non lo so.
- In qualche modo faremo. – sorrido appena, lasciando una delle sue mani per sciogliergli la coda ed accarezzargli lentamente i capelli, ravviandoglieli sulle tempie, dietro le orecchie, sul collo. – Tu però devi starmi lontano, piccolo. Io prometto che starò lontano da te.
Bill deglutisce a fatica, prendendosi un secondo prima di parlare.
- E se io non volessi starti lontano? – pigola a voce bassissima, e scommetto che gli è servita più forza per dirmi questa singola frase di quanta non gliene sia servita per presentarsi qui e mettersi a strillarmi contro. E già per fare quello gliene è servita parecchia.
Mi allontano da lui, lasciandolo andare. Sto ancora sorridendo, quando lui si rimette in piedi.
- Non vuoi nemmeno starmi vicino, però. – gli faccio notare. È straniante essere così tranquillo adesso. Mi sembra di stare facendo la prima cosa giusta in assoluto da quando sono tornato in Germania.
Lui non mi risponde. Si morde un labbro e nemmeno annuisce, abbassa lo sguardo e si ricompone in fretta prima di sgattaiolarmi alle spalle, oltre la porta, fuori dall’Ersguterjunge, fuori dalla mia vita spero almeno per la prossima settimana. Il tempo di prepararmi alla tortura che mi aspetta. Te lo prometto, piccolo, sarà tutto più facile, da ora in poi. Farò in modo che lo sia.

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Break The Circle

di lisachan
Sto gironzolando per casa annoiandomi terribilmente da quasi mezz’ora, quando Anis finalmente rientra. Ho passato il tempo giocando con Skyline e Sherlee, principalmente, rotolandomi nell’erba e sporcandomi al punto che, quando sono entrato in casa, a Karima è bastato uno sguardo per farmi capire che non avrei potuto muovere un altro singolo passo all’interno della villa senza prima andare a darmi una ripulita nella doccia. La doccia in giardino, ovviamente.
Non mi è pesato, dopotutto: ho buttato via i vestiti e mi sono infilato sotto il getto d’acqua gelida, magari un po’ esagerato visto che non è ancora precisamente estate, ma mi andava di fare le cose così, un po’ a caso. Mi sono sciacquato per bene, ho salutato i fotografi appostati dietro i cespugli intorno alla villa, ho evitato gli attacchi dei cuccioli che avrebbero visto di buon occhio la possibilità di saltarmi nuovamente addosso e rendere vana la mia doccia per giocare ancora un po’ e sono tornato dentro, dove Karima mi aspettava praticamente sulla soglia di casa con un accappatoio pulito in mano.
L’ho ringraziata indossandolo, e lei invece di rispondermi s’è espressa in una specie di sbuffo supponente che è un po’ il suo marchio di fabbrica ogni volta che le faccio notare che è stata carina a comportarsi gentilmente con me. È un po’ come volesse dirmi che non dovrei aspettarmi niente di diverso, visto che in fin dei conti si tratta del suo lavoro, ma visto che mi diverte continuo a ringraziarla. E lei continua a sbuffare.
Quando Anis si chiude la porta alle spalle, capisco subito che c’è qualcosa che non va, come l’ho capito sempre, fin da quando ero ragazzino. L’abitudine mi ha insegnato a tradurre i suoi gesti, i piccoli sospiri che rilascia gradualmente, per non farsi sentire mentre sospira in maniera troppo profonda o agitata, così come i gesti brevi e decisi, che danno sempre l’impressione che stia molto attento a controllare al massimo il proprio corpo, come lo percepisse come l’unica cosa della quale possa davvero decidere il destino. Suppongo sia normale, per uno come lui, da sempre abituato a tenere le redini di numerose vite, oltre che della sua, sentire con forza la paura di poter perdere il controllo da un momento all’altro. Ecco, quando lui sente questa paura, riparte sempre dalle basi, per ricordarsi che è ancora perfettamente in grado di gestire tutto. E le basi sono le facoltà motorie. La respirazione, i gesti, i movimenti degli occhi. Parecchi, quando sono nervosi e spaventati, perdono il controllo del proprio corpo. Per Anis è esattamente il contrario. È quando smette di sciogliersi che lo riacquista. Solo che quando smette di sciogliersi lo fa perché ha paura.
- Ehi. – lo saluto sorridendo. Un sorriso piccolo, niente di troppo entusiasta. A volte gli dà fastidio che gli si mostri della gioia quando lui non è felice. Ma d’altronde è così un po’ per tutti, suppongo. – Successo qualcosa? – mi informo con aria casuale, passandomi una mano sulla nuca per verificare che i capelli si siano asciugati.
Lui grugnisce qualcosa di poco convinto, appendendo la giacca all’ingresso e poi raggiungendomi in salotto attraversando tutto il corridoio senza fare nemmeno un rumore. Gli vado incontro, non so cos’è che voglio, un bacio forse. È una situazione strana perché da quando stiamo insieme, o qualsiasi cosa sia questa cosa in cui siamo invischiati adesso, insomma, non mi è mai successo di vederlo rincasare così cupo. In genere, tornando a casa mettermi le mani addosso è non dico il primo dei suoi pensieri, ma quasi. Non mi sono mai dovuto avvicinare io per salutarlo, è sempre stato lui a cercarmi, perciò mi sembra strano farmi avanti per primo.
Ed è ancora più strano quando lui mi ignora, passandomi oltre e mormorando un distratto “cosa c’è per cena?”, come non mi avesse nemmeno visto.
La cosa veramente grave, comunque, non è questa. La cosa veramente grave è che quando mi passa accanto io sento l’odore di Bill. Lo sento con forza, perché gli sono stato tanto vicino che ormai un po’ di quel profumo dolciastro così suo s’è aggrappato alle molecole che compongono le mie cellule, e lo riconosco con una facilità quasi dolorosa. Come l’ho sempre riconosciuto addosso a Chakuza, lo riconosco adesso addosso ad Anis, e mi tremano le mani. Mi tremano le mani perché non ne posso più di questo ragazzino che tocca e sporca tutto quello che voglio, tutto quello che amo. Lo odio, non lo sopporto, e poi ricordo che il problema non è suo, il problema è mio. Lui c’era prima. Sono io quello che s’è infilato in mezzo ad un gioco che non gli appartiene, e che non è ancora riuscito ad uscirne.
- Che ti prende? – mi volto a cercare i suoi occhi, seguendolo mentre si muove verso il divano. Vedo solo le sue spalle, non si volta a ricambiarmi lo sguardo.
- Niente. – risponde distrattamente, mettendosi a sedere ed accendendo la televisione. Sta mentendo.
- È successo qualcosa? – chiedo avvicinandomi. Mi siedo sul divano accanto a lui, ma non vicino come tutte le altre volte. Non addosso, nemmeno ci sfioriamo, in realtà. Sa che sta correndo un rischio enorme. Sa che posso fiutargli addosso la paura e l’incertezza e questo dannato odore dolce e infantile. Sa di avere sbagliato tutto, perché se solo avesse agito come se avere quell’odore addosso fosse naturale, io non mi sarei preoccupato. Avrei pensato che si fossero incontrati, salutati, abbracciati, che fossero andati a prendere un caffè insieme. Ma lui sta negando, io so che mente, e so che se lo fa ne ha motivo. – Qualcosa tipo Bill? – chiedo alla fine in un sospiro affranto, perché, seriamente, non ne posso più.
Tutti i lineamenti del suo viso si tendono all’istante. Cambia faccia all’improvviso, sembra una persona diversa. Il movimento con cui si volta a guardarmi è innaturalmente lento, tanto che ne ho quasi paura.
- Ma cosa ti salta in mente? – quasi ringhia, aggrottando le sopracciglia, - Non—
- Non vi siete visti. – dico, e sento tutto il mio corpo bruciare per la rabbia, - Né toccati. – mi avvicino appena, inspiro il suo odore a qualche centimetro dal suo corpo, così profondamente da farmi dolere i polmoni. – Né baciati. – concludo. E poi lo guardo dritto negli occhi. – Pezzo di merda.
- Pat—
- No, pezzo di merda! – ribadisco con maggiore convinzione, alzandomi in piedi e girando attorno al divano come se la sua sola vicinanza fosse sufficiente a mandarmi fuori di testa, cosa che in effetti è vera. – Ma cosa cazzo hai in testa? Ma cosa cazzo avete in testa tutti?! Ma per cosa cazzo mi avete preso?!
- Pat? – mi chiama lui, vagamente accigliato. È evidente dai suoi occhi che non capisce di che diavolo sto parlando, ed è evidente che non può, perché io non gliel’ho mai detto. Perché non l’ho mai detto a nessuno, cazzo, e sarà questa la cosa che mi farà andare fuori di testa, più di tutto il resto. Che io sto così male per una cosa che, agli occhi della quasi totalità delle persone che compongono il mio universo, non esiste nemmeno.
- Lascia perdere. – dico cupo, uscendo dal salotto ed infilando le scarpe da tennis abbandonate accanto alla porta una volta arrivato all’ingresso. Sento i suoi occhi addosso, so che mi ha seguito. Non voglio voltarmi a guardarlo.
- Pat. – mi chiama ancora, - Che problema c’è?
La sua voce è più seria, somiglia a quella che usava quando, da ragazzino, combinavo qualche guaio di cui non mi andava di fargli sapere. In qualche modo, riusciva sempre a sgamarmi e tirarmi fuori le parole di bocca. E tutto partiva sempre da questo tono qui.
Sorrido stancamente, schiudendo la porta e guardando di fuori il cielo che si fa più scuro dopo il tramonto.
- Nessun problema. – rispondo prima di allontanarmi. Non ce n’è mai, d’altronde.
*

Quando arrivo a casa di Chakuza, non realizzo che potrebbe essere in compagnia – in compagnia di Bill, ovviamente – fino a quando non ho già premuto il dito contro il bottone del citofono. È troppo tardi per scappare e non posso certo rimandare indietro il tempo, per cui resto là e riesco in qualche modo a non strillare quando sento la sua voce chiedermi chi sono.
- Fler. – rispondo. Sono evidentemente nervoso, e lui pure. Sento movimenti strani e la sua voce si abbassa di svariati toni quando parla ancora.
- Ma che… - comincia incerto, - È successo qualcosa? – chiede con una punta di preoccupazione.
- No… - rispondo io, grattandomi confusamente la nuca, - Ma c’è Bill? – chiedo quindi, e poi sospiro. – Scusa, mi tolgo dalle palle. Fingiamo che tutto questo non sia mai avvenuto.
- No! – mi ferma, la voce che torna alta e poi, neanche tanto sorprendentemente, si riabbassa, - No, dico… cioè, sì, c’è Bill, ma… - lo sento trafficare con qualcosa di indefinito, e solo dopo capisco che s’è infilato la giacca e, per farlo, ha poggiato la cornetta del citofono sulla consolle. – Scendo subito. – dice deciso, - Non te ne andare.
Non me ne vado. Mi appoggio al muro, proprio lì accanto al portone, e aspetto. Quando Chaku esce non si aspetta di trovarmi da qualche parte che non sia esattamente di fronte a lui, perciò si guarda intorno un paio di secondi buoni prima di voltarsi indietro e notarmi lì appoggiato con le mani nelle tasche. Sorrido appena e ne sfilo una, agitandola per salutarlo in silenzio.
- Ciao. – mi dice lui, avvicinandosi. Ha gli occhi un sacco preoccupati. Mi si scalda lo stomaco tutto insieme. – Che cos’hai? C’hai una faccia strana.
Evito i suoi occhi perché non voglio dirglielo, o almeno non così presto.
- Sto bene. – rispondo scrollando le spalle, - Avevo solo voglia di—
- Non raccontarmi balle. – mi interrompe lui, e mentre parla mi guarda e inarca un sopracciglio come a chiedersi quanto devo essere cretino per averci anche solo provato.
Io mi mordo un labbro, incerto su cosa fare. Facciamo qualche passo in silenzio, Berlino intorno a noi si agita tutta e nessuno sembra notarci. È completamente diverso rispetto a quando cammino accanto a Bushido, la sua presenza da sola basta ad attirarci addosso un mucchio di sguardi indiscreti, ma passeggiare accanto al Chaku è una cosa tranquilla e rilassante. C’è anche una temperatura piacevole, tiepida, un po’ incerta fra estate e primavera e mitigata appena da un venticello fresco e debole, per nulla fastidioso anche se ci viene contro.
Ci sediamo ad un tavolino fuori da un bar semivuoto e anche un po’ sfigato, sempre restando in silenzio. Non so quanto tempo passi – senza che nessuno venga a prenderci l’ordinazione, peraltro – prima che Chakuza parli ancora.
- Dimmi cosa ti è successo. – insiste, le mani appoggiate mollemente sul tavolo e gli occhi fissi su di me.
Mi inumidisco le labbra, guardandomi un po’ intorno.
- Mi mancavi. – dico, scrollando le spalle, - Non mi è consentito? Tutti quanti potete sentire nostalgia di tutto quello che volete e andare a prendervi tutto quello che volete senza pensare alle conseguenze, ma io no? Io non posso? E chi l’ha stabilito?
- …woah. – commenta lui, incerto, inarcando le sopracciglia, - Capisco. Cioè, in realtà no— cosa cazzo ti prende? – chiede, piegandosi un po’ in avanti, - Con chi hai parlato?
- Ma con nessuno! – insisto io, gesticolando animatamente e stabilendo poi che non è seduto a quel tavolino che voglio stare. – Ma quale cazzo è il vostro problema? – protesto ricominciando a camminare per la strada, mentre lui mi segue dubbioso, - Perché cazzo dovrei essere io quello che non sta bene? Ma vi siete guardati?! Siete un branco di disperati ed io sono il più sano di mente in mezzo, il che francamente è tutto dire. Eppure state tutti lì a chiedermi cos’ho. Io non ho niente, chiaro? Siete voi che vi comportate da pazzi, io cerco solo di tirare avanti, e sto benissimo!
- No, Fler, - sbotta lui, scuotendo il capo, - a parte il fatto che non ci sto capendo un cazzo, voglio dire, di chi stai parlando? Ma comunque, - e gesticola, come a voler mettere da parte questa prima considerazione in favore della successiva, di gran lunga più importante, - è palese dal fatto che stai straparlando che tu non stai bene. Ma tipo per niente.
- Be’, scusami se sono venuto a disturbare la tua vita perfetta e felice per farmi solo una chiacchierata. – sbuffo, allontanandomi di qualche passo, - Ma non ti preoccupare, mi tolgo subito dai coglioni. Non c’è problema. – non ce ne sono mai, di problemi. Non ce ne sono mai.
- La mia vita non è perfetta. – dice lui, cupo, ancora dietro di me. S’è fermato, perciò mi fermo anch’io, perché non volevo davvero allontanarmi. Lo guardo in silenzio, e lui sembra veramente stanco e un po’ sbattuto, come l’avessero preso a cazzotti e lui non fosse ancora riuscito a riprendersi. – La mia vita non è perfetta e non è felice, o almeno, sicuramente non è più felice o perfetta della tua, perciò piantala di dire stronzate e non cercare di farmi sentire in colpa per cose di cui non ho la responsabilità.
- Be’, se dobbiamo fare l’elenco delle responsabilità-- - comincio, ma non riesco a finire. Lui mi interrompe.
- Ti prego. – dice soltanto, sospirando profondamente, - Ti prego.
Io mi mordo un labbro e mi avvicino. Ci guardiamo negli occhi ed è così palese che questa cosa non funziona che mi viene voglia di pestarlo a sangue – di nuovo – e non vederlo mai più – sul serio – solo che so che non ci riuscirei, a fare nessuna delle due cose, peraltro, perciò sollevo le braccia e lo afferro per il colletto e lo strattono e non lo so.
- Peter. – lo chiamo. Lui respira e me lo sento addosso. Siamo in mezzo alla strada ed è tutto così strano e stupido e sbagliato e sconnesso. Mi sembra di stare sognando e non sono nemmeno ubriaco. Forse è l’effetto della rabbia, rende tutto ovattato e diverso, come se non lo stessi facendo davvero. Ma lo sto facendo.
- No. – dice, quando si rende conto di cosa gli stanno dicendo i miei occhi, - No, non— non esiste. – si allontana da me con uno strattone deciso e mi guarda come non mi avesse mai visto prima. – Io non sarò la persona da cui vieni quando ti girano.
- Tu l’hai fatto, con me! – urlo, e mi fa male il petto, - Tu— stronzo, tu l’hai fatto con me!
- Lo so! – urla anche lui. Ed io mi congelo sul posto, perché è la prima volta che lo ammette. – Lo so. – ripete a voce più bassa, - Ed è per questo che non posso farlo adesso. Fler, ma non capisci? Cazzo, sono quasi due anni che ci facciamo del male perché non siamo abbastanza forti da pensare prima di fare qualcosa. È un circolo vizioso e qualcuno deve pure venirne fuori per primo.
- Non adesso. – mi sto lamentando come un bambino e lo so. Mi avvicino di nuovo, lo allaccio al collo, me lo tiro contro e lui non si allontana, mi appoggia le mani sui fianchi e le nostre fronti si sfiorano. – Per favore. – dico con un filo di voce. Chakuza chiude gli occhi, inspira ed espira e so che gli sto facendo male.
- No. – insiste lui, deciso. – No, Pat. È il periodo, io ti capisco. È tutto confuso, e stanno cambiando delle cose, e… devi solo avere pazienza, poi andrà tutto a posto. – ed io non capisco cosa cazzo stia dicendo, e lui deve leggermelo negli occhi, perché sorride appena, spiegandosi meglio. – Andrà meglio. Le cose si calmeranno e potremo tornare tutti a pensare lucidamente. È solo che questo momento qui deve passare, perché è evidente che sennò usciremo tutti fuori di testa. Lo capisci cosa intendo?
E sì, lo capisco. Non del tutto, forse, c’è qualcosa che mi sfugge, ma al momento non posso pensare anche a questo, perciò chiudo gli occhi anch’io, cercando di adattare il ritmo del mio respiro al suo nella speranza che questo possa darmi un po’ della sua calma, per lo meno apparente, ma funziona poco. Però lo capisco.
Mi allontano, e lui non mi trattiene.
- Cosa sta succedendo? – chiedo. Lui distoglie lo sguardo. – Cosa è successo?
- Non è il caso di parlarne adesso. – risponde con un sospiro stanco. – Ma ti giuro che—
- Lasciamo perdere. – mi rassegno, abbassando gli occhi. Mi passa per la mente in un lampo la consapevolezza che il problema fondamentale che ci trasciniamo dietro da ormai quasi due anni è quest’assoluta incapacità che abbiamo di immaginarci a vivere una vita gli uni senza gli altri, e che se non superiamo questo scoglio non riusciremo mai a risolvere neanche la metà dei casini che ci rendono difficile l’esistenza.
Lui, comunque, annuisce. Quando mi volto per tornarmene a casa, non mi chiama. Mi lascia andare, e credo lo faccia con la consapevolezza che lasciandomi andare potrebbe anche non rivedermi più, ma da qualche parte dentro di sé la sente come la cosa giusta da fare, e io so che probabilmente è così. Perciò lo lascio andare anch’io, sperando che il Chaku abbia ragione. E cerco di non pensarci troppo.

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Chaosteorie

di tabata e lisachan
Nell'ultimo periodo le cose sono state un po' movimentate; anche se forse questo non è esattamente l'aggettivo giusto per descrivere il tumulto sentimentale-lavorativo che ci ha travolti tutti quanti, che lo volessimo o meno. Il problema di lavorare con una persona come Bushido – e devo averlo già detto da qualche altra parte – è che non puoi davvero aspettarti di passare il tempo facendo quello per cui sei pagato e di rispettare, quindi, un contratto con dei punti ben precisi secondo i quali sei tenuto a comportarti tu e anche i tuoi datori di lavoro. Attualmente, io sono ancora sotto contratto con la Universal – che sebbene sia composta da una manica di schiavisti, sarebbe comunque un bel posto in cui lavorare – ma questo non sembra fregare a nessuno, né ai dirigenti dell'etichetta, né soprattutto a Bushido che da quando è risorto e mi ha chiesto una mano per farlo, ha deciso che io lavorassi per lui. Dal momento che questo non contrasta, ma anzi favorisce, gli affari della Universal, l'etichetta non ha alcun problema a lasciarglielo credere. Così io, in sostanza sono pagato dalla Universal per stare dietro a lui come un bambino ed evitare che faccia cose di cui tutti noi ci pentiremmo. Certo sarebbe tutto più facile se i problemi che Bushido è in grado di causare fossero scandali di medio livello – Anis Ferchichi trovato in possesso di droga – o uscite pubbliche di dubbio gusto – Anis Ferchichi chiede sesso orale in diretta televisiva al frontman dei Tokio Hotel, no aspetta, questa l'ho passata davvero –, cose per le quali basta una sana scrollata di spalle, o al più una bella conferenza stampa o un'azione legale per rimettere le cose a posto; ma Bushido no, lui è in grado di smuovere le montagne, generare valanghe e, con ogni probabilità, deviare l'orbita del pianeta.
Così, dopo essersi reso conto che allungare le mani su Bill questa volta non gli sarebbe servito a niente, perché ad allungare le mani sul mio cantante erano in due e, a meno di non dividerlo a metà, uno dei due doveva lasciare la presa, si è fatto prendere dalla depressione, si è probabilmente sfondato d'alcol come fa sempre quando il primo tentativo non gli riesce come dovrebbe e quindi ha fatto l'unica cosa che poteva fare dopo che la sbronza gli è passata e si è ritrovato nella stessa situazione di prima: ha fatto irruzione in casa mia nonostante io volessi rimanere fuori dall'intera faccenda.
Finché c'è stato da organizzare voli transoceanici ed inscenare la sua morte, non ho avuto grandi problemi ma le loro questioni di cuore sono un'altra faccenda; che può sembrare strano, ma è così che stanno le cose. Io sono il manager di una band musicale e il mio lavoro consiste sostanzialmente nell'organizzare: la vita dei miei ragazzini, i concerti, le conferenze stampa. Quando si parla di organizzazione, non c'è molta differenza tra sistemare le cose perché dopo il concerto ci sia una stanza pronta secondo i desideri di un artista, e oliare le persone giuste perché fingano che qualcuno sia sparito dalla faccia della terra. Si tratta solo di calcolare i dettagli e di mentire. Alcune persone sono geneticamente impossibilitate a farlo, io invece sono bravissimo. Io mento continuamente, mento alle fan quando i concerti vengono ritardati, mento all'etichetta quando Bill dovrebbe aver finito di scrivere una canzone e invece ha passato l'intera settimana a prendere il sole su una spiaggia caraibica con il fratello o con uno dei suoi svariati cavalieri, fa parte del mio lavoro e, in un certo senso, è giusto che io lo faccia. Certo mentire a Bill è stato doloroso, ma di sicuro non complesso, era una cosa che potevo gestire e organizzare. Questa situazione però, no.
Non rientrava nei miei compiti sistemare le cose fra Bushido, Bill e Chakuza. Non spettava a me e non volevo che mi spettasse perché, ad essere del tutto sincero, non avrei saputo da che parte prenderli, nemmeno se, per analizzare la situazione, avessi preso in considerazione cosa fosse meglio per Bill il quale, per quanto possa sembrare un'interpretazione troppo materna, è l'unica vera vittima di questo casino.
Si fa presto a condannare quando non si è stati costretti a vedere le persone soffrire o non si ha avuto paura di perderle da un momento all'altro. Io con Bill questa paura l'ho provata fortissima e ringrazio il cielo che ora sono qui a raccontarvi di come sta facendo un casino dietro l'altro, piuttosto che a parlare al passato di come lo abbiamo seppellito accanto alla bara vuota di Bushido. Com'era logico, la gente si sta permettendo di giudicarlo – lui, ma anche Bushido e Chakuza – ma senza sapere effettivamente che cosa ci sia dietro a tutta questa storia.
Io sono nove anni che mi prendo cura di lui e so di che pasta è fatto. So come si comporta, come ragiona e di cos'è capace. Immagino che cosa deve essergli passato per il cervello nei mesi in cui è rimasto improvvisamente solo e se si guardava intorno non sapeva come fare a rialzarsi o quale motivazione darsi per continuare anche lui a vivere quando l'unica che aveva era appena stata seppellita. Una ragione gliel'ha data Chakuza e lui ci si è attaccato con le unghie e con i denti. Il sentimento che li ha legati, ad un certo punto di questa storia, era così forte che perfino io ho tirato un sospiro di sollievo; mi sono permesso di sperare che un po' di quella felicità ritrovata potesse tenerlo al sicuro dalle mie menzogne. Non mi sorprende, quindi, che sia andato in pezzi quando Bushido è tornato e lui si è trovato nella condizione di dover scegliere fra due uomini ai quali, per un motivo o per l'altro, aveva legato la sua vita. Il suo cuore si è spezzato a metà e nella consapevolezza di non poter trovare una soluzione che non fosse dolorosa, è andato in confusione. Io la trovo una cosa comprensibile, o forse la penso così perché so quanto Bill sia fragile nonostante tutta la forza che possiede. Ho visto quella forza crescere nel corso del tempo e poi frantumarsi sotto un peso troppo grande per lui da sopportare. L'ho sentito cedere di colpo e non è stato facile nemmeno per me; non quando era anche colpa mia.
Quando l'ho incontrato la prima volta, Bill era un cosino spettinato, convinto che avrebbe spaccato il mondo con la sola imposizione della sua persona. Allora io ridevo, pensando che tuttalpiù sarebbero stati famosi per qualche anno e poi forse ci sarebbe stato spazio per farli diventare qualcos'altro e invece sono diventati un fenomeno su scala internazionale. Aveva ragione, a quanto pare, perché il mondo si è piegato al suo volere quasi quanto adesso tutti noi ci pieghiamo a quello di Bushido, ed è per questo che quei due si sono trovati, naturalmente. Hanno una forza di volontà così potente che tu non puoi fare a meno di stargli dietro, anche se uno è viziato e l'altro è assolutamente irragionevole.
Quando Bill e Bushido si sono incontrati, io sono andato dal mio naturopata e gli ho chiesto di prescrivermi qualcosa che mi aiutasse a suicidarmi nel sonno ma lui mi ha detto che non era necessario e che mi sarebbero bastate due gocce giornaliere in più di guaranà per sostenere i miei nuovi impegni. Naturalmente sarebbe stato più facile suicidarmi, ma alla fine ho superato anche questa, e guardate che non è stato affatto facile perché questi due hanno avuto una storia piuttosto travagliata, della quale per altro voi non sapete un accidente perché ciò che vi è stato raccontato – per bocca del re, dei suoi uomini o per la boccuccia santa della loro principessa – è solo ciò che è successo dopo quei due benedetti proiettili. Niente, se non qualche accenno e qualche sporadico episodio, vi è stato riferito di ciò che in effetti abbiamo passato prima che Bill e Bushido diventassero quello che erano quando poi Bushido è morto. Del fatto che la reazione della stampa non fu affatto rosea, ad esempio, per non parlare di quella della crew di Bushido, di Tom e – in misura minore – anche di quelle due anime disperate di Georg e Gustav che ancora mi meraviglio non abbiano preso armi e bagagli e si siano trovati un'altra band che non prevedesse un frontman impegnato nella scalata al trono del ghetto.
In qualche modo, però, ci siamo sistemati e sono consapevole che in gran parte è stato merito mio che ho impedito ai giornalisti di mangiarsi vivo Bill e ho impedito a Tom di togliere per sempre il saluto a quella diva di suo fratello mandando a peripatetiche anni di duro lavoro. Bill, durante tutto questo processo, in cui si è trovato nell'occhio del ciclone, è stato bravissimo, è stato forte e siccome ha la testa dura come il cemento mi ha aiutato a portare avanti la carretta della sua band semplicemente volendo con tutte le sue forze entrambe le cose: la sua carriera e anche Bushido che, diciamocelo, con lui sembrava non azzeccarci assolutamente niente.
E' stato quando è morto che Bill ha perso tutta la sua forza. Si è svuotato completamente come se, morendo, quell'uomo si fosse portato via tutto quello che era e non è più stato lo stesso da quel momento; anche quando Bushido è tornato. Chakuza non lo ha certo rimesso in piedi com'era prima, non poteva dargli quello che aveva perso, così ne ha fatto un Bill nuovo che non sapeva più da che parte andare, perché era un po' dell'uno e un po' dell'altro. E io una cosa del genere non la posso sistemare. Non c'è niente che io possa organizzare per far tornare le cose a posto. E non posso nemmeno mentire, anche se poi in realtà l'ho fatto quando appunto Bushido ha fatto irruzione in casa mia a dirmi che non ero stato un bravo collaboratore e, naturalmente a volere l'impossibile. Come fa sempre.
Lui da me voleva la chiave per risolvere le cose, visto che la sua non aveva sortito un grande effetto. Bushido non è abituato a non ottenere quello che vuole con i propri metodi, non ci arriva proprio che a volte le cose non vanno come vorresti. E' un concetto totalmente estraneo alla sua mentalità. E siccome l'ultima volta che aveva avuto bisogno di un miracolo, l'ho fatto io per lui, pensava, immagino, di poter ripetere l'esperienza; solo che io potevo farlo morire di nuovo, ma non potevo convincere Bill a scegliere lui.
Prima che mi si venga a dire che in realtà tutto quello che è successo dopo è colpa mia, io vorrei far presente che Bushido mi ha frainteso; anzi, meglio, ha finto di fraintendermi e nelle mie parole – per altro chiarissime – ha letto esattamente solo quello che voleva sentirsi dire, giusto per fare quello che pensava di fare fin dall'inizio ma avere anche il mio supporto, in qualche modo.
Quando gli ho detto che, secondo me, l'unica cosa che poteva fare era lottare per il grande amore della sua vita, intendevo dire che si rimboccasse le maniche e riprendesse a corteggiare Bill, non che gli mettesse le mani addosso ad ogni occasione favorevole portando sia lui che Chakuza sull'orlo della follia. Ma ovviamente non potevo davvero aspettarmi che Bushido si comportasse come una persona normale, quindi scemo io che l'ho anche solo pensato. E, aggiungerei, scemo anche Bill che il massimo che sia mai riuscito a fare per allontanarlo in questi mesi è stato dare di matto in mezzo ad un corridoio, rischiando di scatenare la rissa fra lui e Chakuza e dire candidamente al mondo che avevamo per le mani un triangolo.
Da lì le cose sono ovviamente precipitate – d'altronde mi sarei alquanto stupito se uno qualsiasi dei due uomini bruti si fosse fatto da parte con buona pace di tutti – ma io me ne sono tirato fuori, e di questo non mi vergogno. Quando Bill ha mollato Chakuza per rimettersi con Bushido per poi scoparci, chiamarlo Peter e farsi buttare di nuovo fuori di casa, io ho gettato la spugna. Sono un manager, mi sono detto, quando torneranno a cantare mi troveranno pronto ad accoglierli a braccia aperte.
Quindi di come siano andate poi effettivamente le cose per cui la Universal ha finito per dover gestire non solo l'outing di Chakuza, ma pure quello di Fler, io non lo so perché non c'ero e quando c'ero cercavo di non entrare in argomento, di non ascoltarli quando ci entravano loro e di tapparmi anche le orecchie emettendo suoni stupidi se necessario; tanto più che conosco Bill e so che è capace di covare l'inimmaginabile per periodi di tempo non umani e che per questo una soluzione semplice che prevedesse lui e Bushido felicemente fidanzati con altra gente a lavorare insieme di buon grado nella stessa etichetta senza tentare di schienarsi a vicenda o mandarsi a quel paese non era nemmeno ipotizzabile.
Io tutto volevo tranne che cercare di farlo capire all'uno all'altro, perché – nonostante si pensi il contrario – ho anch'io una vita, degli affetti e anche delle cose personali di cui occuparmi, pertanto li ho lasciati lì a fare qualunque cosa volessero fare per rovinarsi l'esistenza e ho dedicato questo periodo a me stesso. Nello specifico sono stato impegnato ad incanalare la quasi totalità della mia energia positiva nella ristrutturazione del mio appartamento ad Amburgo. Nella fattispecie, ho buttato giù la camera degli ospiti e mi sono regalato un salotto più grande, cosa che mi ha permesso non solo di ricomprare l'intero arredamento della stanza – quella di acquistare articoli di design è una gioia che mi concedo troppo poco spesso –, ma anche di pagare degli uomini che girassero per casa seminudi senza per questo venir arrestato. E mi hanno anche ridipinto le pareti! Adoro ristrutturare.
Uno di essi, che ieri ha finito di posare il parquet, ha deciso di trattenersi quando abbiamo scoperto un interesse comune, nel senso che a me piaceva lui e a lui piacevo io, così stanotte ne abbiamo discusso parecchio e siamo giunti ad una conclusione estremamente soddisfacente. Non mi svegliavo così rilassato forse da anni e sto seriamente pensando di fuggire con quest'uomo massiccio, ruvido e meravigliosamente straniero e di non fare mai più colazione su niente che non siano i suoi addominali scolpiti. Sono un uomo commosso; anche se il suddetto muratore, che poi a quanto pare sarebbe un piastrellista, al momento sta curiosando in mezzo alla mia collezione con quelle mani enormi che sono adatte a fare un mucchio di cose tranne che toccare i miei vasi Matti Klenell. Se non gli urlo, è solo perché al momento il suo nome mi sfugge.
Quando torna a posarlo sul mobile, il vaso ondeggia per due lunghi istanti durante i quali io trattengo il fiato mentre lui nemmeno se ne accorge e continua l'ispezione della mia camera, nudo e impunemente tale.
Mi ricorda Bushido, e anche se lo fa in maniera inappropriata, mi aiuta ad alzare il fondoschiena dal letto e ad accettare la dura realtà: la mia vacanza è finita e, che lo voglia o no, devo tornare ad occuparmi della mia carriera, o di quello che ne resta mentre, in mia assenza, Bill e Bushido ne hanno probabilmente decretato la rovina con azioni che non posso prevedere ma che sicuramente sono irreversibili, come quasi tutto ciò che fanno. In questi giorni io ho vissuto un'esistenza beata, privandomi volontariamente di qualsiasi notizia li riguardasse, consapevole che se fosse successo qualcosa di grosso, con ogni probabilità qualcuno sarebbe venuto a prelevarmi direttamente a casa; ciononostante non ho potuto evitare di ricevere la notizia peggiore, perché in sostanza riguarda me e tutto il lavoro che ho fatto anche se ero in vacanza: il tour.
Io spero che sia ben chiaro a tutti – soprattutto a chi sta pagando e pagherà questo progetto – che cosa andremo a fare e come finirà, perché in tutta onestà è meglio se partiamo preparati, piuttosto che credere che questa cosa funzionerà anche solo la metà di quello che si pensava e poi vederla frantumarsi come un castello di carte quando non girerà nemmeno per sbaglio, ve lo assicuro. Non ci vuole la sfera di cristallo per capire che sarà un disastro, basta un minimo di buon senso; ma dal momento che questo è esattamente ciò che manca a tutti quanti, immagino che possiamo soltanto prepararci al peggio.
Ad ogni modo, tragedie sentimentali a parte, c'era anche il problema pratico di mettere insieme dei brani da far cantare ai ragazzi nel corso ci questo mini-tour. Far lavorare le due parti era impensabile perché, aldilà di tutto, non ce n'era proprio materialmente il tempo, e poi Bill ci mette gli anni a buttare giù due righe, quindi anche a mettergli in mano un blocco, allontanarlo dai suoi uomini e costringerlo a pane ed acqua finché non avesse prodotto qualcosa, ci avremmo messo dei mesi. Così il blocco lo hanno dato a me e io ho fatto quello che ho potuto. Ho pensato che potevamo riciclare delle canzoni che i Tokio Hotel canteranno da soli e altre dell'Ersguterjunge che Bushido e Chakuza potranno riadattare a modo loro, e ne ho unita qualcuna su cui i rapper possano fare freestyle, in modo che sembri organizzata – non lo è, ma spero che siano abbastanza professionisti da riuscirci. In fondo è il loro lavoro no? E poi, naturalmente, Prinzessin, che per quanto sia effettivamente carina è il motivo per cui alla fine di questo mese infernale io ammazzerò qualcuno e probabilmente mi ritroveranno coperto di sangue mentre ancora tremo di rabbia repressa.
Il mio piastrellista senza nome mi guarda mentre decreto la fine del nostro proficuo incontro. Ci scambiamo dei biglietti da visita con dei numeri di telefono che non chiameremo mai, ma quasi mi dispiace quando lo accompagno alla porta e lui sorridendo mi dice “Se si alza, chiamami” e io rimango lì a guardarlo per qualche istante prima di capire che sta parlando del parquet.
Due giorni dopo sono di nuovo a Berlino, ho con me l'agenda e il programma da seguire, sono pronto a tornare a lavorare e ho pregato Madonna perché mi aiuti. Un tour che parte a metà ottobre senza quasi nessun tipo di promozione potevamo farlo solo noi, immagino; ma a quanto pare ha funzionato. Il giorno della partenza, ossia oggi, le date non sono ancora sold-out ma molto probabilmente lo saranno e, anche se tutti quanti sappiamo che questa incredibile fortuna è legata al fatto che Bushido è tornato dal regno dei morti per contrastare la relazione della principessa con il suo migliore amico, ringraziamo lo stesso perché poteva andarci molto, molto peggio. Poi mi torna in mente che Justin Bieber sta spopolando senza alcuna ragione logica e quindi mi rendo conto che, tutto sommato, anche noi avevamo delle speranze.
Quando partiamo siamo tanti, troppi, e sembra quasi che l'intera casa di produzione abbia deciso di partire per questo tour lasciando vuoti gli uffici. L'unico che resta sul marciapiede quando i tourbus si allontanano è Fler, che onestamente non so perché sia sempre in giro anche quando lavoriamo perché dovrebbe, non so, andare da Sido e lavorare anche lui; comunque non importa perché, contrariamente alle mie aspettative, siamo partiti davvero e Bushido e Chakuza non si sono ancora ammazzati. Se non lo fanno entro i prossimi venti minuti avrò perso duecento euro, certo, e Georg e Gustav saranno un po' più ricchi ma io sarò un uomo senza dubbio meno stressato e questa è una bella cosa nell'ottica dell'infarto mortale che sicuramente mi aspetta. Sento una spinta di ottimismo, finché non incrocio lo sguardo di Fler oltre il finestrino e all'improvviso vorrei che avessero lasciato sul marciapiede anche me.

*


La teoria del caos, o meglio una parte di essa, dice che ogni piccolo evento, ogni piccola variazione in uno stato iniziale, per quanto apparentemente innocua, provoca variazioni sempre più grandi mano a mano che lo stato iniziale si evolve. Sono perfettamente consapevole del fatto che l’effetto farfalla sia solo una parte di un concetto ben più ampio e articolato, ma punto primo io non ho studiato – o meglio, ho studiato solo fin dove è stato necessario, e non perché mi servisse ma perché lo diceva la legge, per cui tutta la mia cultura sul punto viene da The Butterfly Effect e poco altro, comprendetemi – e punto secondo a me non serve il concetto complesso, per spiegare ciò che voglio dire, e cioè che questa è una teoria assolutamente validissima, ma palesemente incompleta. Nel senso, un battito d’ali di una farfalla può sì generare un uragano in Cina, ma questo posto che ai venti cinesi freghi qualcosa del fatto che, chissà dove, una farfalla ha battuto le ali.
Non sto personificando i venti e gli uragani cinesi, se è quello che vi state chiedendo, e non sto nemmeno impazzendo, perché so che la vostra seconda domanda sarebbe stata questa: sto contestualizzando. A volte non basta che la farfalla e l’uragano siano parte di uno stesso sistema, perché il secondo venga influenzato dalla prima. A volte ai venti cinesi non frega un accidenti che la farfalla abbia spiccato il volo in Papuasia o chessò io, perciò se ne stanno quieti, e starebbero quieti anche se tutte le dannate farfalle del dannato mondo decidessero di spiccare il volo nello stesso dannato momento, tutte assieme, solo per cercare di provocarli.
Nelle ultime settimane, io ho smesso di interessarmi alla vita di mio fratello. Il che non significa che abbia smesso anche di volergli bene, ma solo che la mia sopravvivenza nell’ultimo periodo non ha potuto prescindere dalla mia ignoranza riguardo qualsiasi cosa gli fosse capitata. E sono convinto che, dalle parti di mio fratello, sia capitato ben più di una semplice farfalla che svolazza in giro. Eppure, i miei venti sono calmi.
Bill è sempre stato troppo, fin da quando era piccolo. La sua mania di protagonismo è sempre stata tale da offuscarmi, quasi, e la cosa non poteva che peggiorare mettendo su una band insieme. Da quando esistono i Tokio Hotel – da prima, da quando ne esisteva l’abbozzo – siamo sempre stati “Bill e il suo gemello Tom”. Il problema è che per me è sempre andato bene così, non mi sono mai lamentato, ho sempre trovato plausibile e normale che la mia vita dovesse girare attorno a quella di mio fratello, esserne in un certo senso la conseguenza. Ho sempre pensato di essermi arrabbiato tanto per la faccenda di Bushido perché Bill non me ne aveva parlato prima, ma la pura e semplice verità era che, trovandosi un uomo, Bill stava strappando dalla mia vita quel pezzo consistente che girava sempre e solo attorno a lui. Sarebbe stata la stessa cosa se si fosse trattato di un altro uomo o di una donna qualsiasi, avrei reagito in maniera identica.
Ci ho messo troppo tempo a capire che dovevo semplicemente riappropriarmi di quella parte di me che non gli era mai appartenuta ed aiutarla a crescere, ma quando finalmente l’ho capito è stato tutto molto più semplice. È la vita, uno deve saper crescere. Bill non è mai stato tanto bravo in questo, e il suo problema è che s’era innamorato di un uomo a cui stava bene così, e che perciò per qualche motivo s’è aspettato che, scomparendo, Bill sarebbe comunque rimasto lo stesso, immutabile come una fotografia.
Mio fratello è cresciuto controvoglia, ecco perché non riesce ad accettare di averlo fatto. Se n’è accorto troppo tardi, ecco perché per lui smettere di amare Bushido non è un’opzione. Non sarebbe soltanto smettere di amare un uomo, sarebbe arrendersi agli anni e ad una maturazione che non ha voluto. E questa cosa io la capisco, nei suoi meccanismi, perché conosco mio fratello, ma non sono sicuro di poterla reggere, in nessun modo. Ed ecco perché non ho fatto domande. Non ho chiesto informazioni. E fondamentalmente non so nulla.
In questo senso, essere sistemato nel tourbus con Bushido mi aiuta molto. Non mi aiuta in nessun altro senso, ovviamente, perché a me Bushido sta ancora sul cazzo – nel senso che anche se ora lo conosco meglio e per certi versi lo capisco più facilmente di quanto non lo capissi due o cinque anni fa, mi è rimasto addosso quello strascico di odio infantile che mi ha portato a distruggerne l’intera discografia investendola – e quindi sarei stato molto più felice di organizzarmi sul tourbus di Georg e Gustav, ma d’altronde, come mi ha detto David guardandomi con l’aria di uno assillato da una serie infinita di problemi irrisolvibili, “non possiamo mica lasciarlo da solo”. E no che non possiamo, per cui niente. E comunque, come appunto stavo cercando di dire, meglio qui che con Bill, perché non avrei proprio saputo come affrontarlo, il suo sguardo. Non avrei neanche saputo cosa aspettarmi, se aspettarmi che mi saltasse addosso annegandomi nel tragico racconto degli ultimi mesi della sua vita, o piuttosto che continuasse ad ignorarmi lasciandomi nella mia beata ignoranza. Me lo sono chiesto, prima che David mi esponesse il capolavoro progettuale della sua idea dei tre tourbus da spartire fra noi sei, ed ho concluso che è una delle numerose domande di cui non voglio la risposta. La vita è piena di domande di questo tipo, e io ho imparato a conviverci da tempo.
David ha preso molto sul serio questa faccenda del tour. Io sono convinto che sappia che questa cosa non potrà che essere un drammatico fallimento, ma sono anche convinto del fatto che purtroppo, da qualche parte dentro di lui, in fondo sta sperando che qualche mese di contatti ravvicinati e obbligati possa aiutarci a rimettere insieme quello che c’era prima, a ricucire gli strappi. David sta battendo le ali, ma ignora – volutamente o meno, questo non lo so – che ai nostri venti cinesi la possibilità di rimettere a posto le cose non interessa. Siamo troppo impegnati ad agitarci per i fatti nostri.
A me dispiace per lui, intendo, è un uomo molto pratico, conosce il suo mestiere e sa cosa aspettarsene, ma è anche un uomo molto romantico, in fondo, perciò probabilmente si sta illudendo riguardo qualcosa che non arriverà probabilmente mai, e sicuramente non adesso, non su questo tourbus né su nessuno degli altri che seguono questa carovana depressa che dovrebbe pensare a lavorare ed invece è troppo logora per pensare anche soltanto a cosa vuole. Ed è normale che sia così, intendo, l’organizzazione perfetta di David impedisce a Bushido e Chakuza di prendersi a pugni, questo è ovvio, ma ha anche delle implicazioni non esattamente piacevoli, e non è semplice sentirsi a proprio agio quando Georg e Gustav sono relegati in un tourbus come a rimarcare ulteriormente che con tutta questa situazione c’entrano solo per caso, Bill e Chakuza fingono di fingersi una coppia felice in un altro tourbus a caso e io e Bushido condividiamo il terzo perché almeno fra noi due David non deve aspettarsi che succeda niente di troppo grave.
Non mi si può certo biasimare se io, con tutta questa situazione, ho cercato di non avere niente a che fare il più a lungo possibile. Anche perché non c’è niente che io possa fare per risolverla, l’unico che possa prendere la decisione adatta – ed io non saprei nemmeno suggerire un’ipotesi – è Bill, ma Bill non vuole decidere. Bill vuole fingersi piccolissimo e aspettare che qualcun altro decida per lui, che degli uomini si prendano a cazzotti sul naso per la sua virtù, che un cavaliere arrivi in groppa al suo cavallo bianco e lo salvi. E questo non perché Bill, contrariamente al suo nomignolo, abbia mai avuto qualche fantasia alla Raperonzolo o alla Bella Addormentata nel Bosco, ma semplicemente perché mio fratello non ha mai saputo come tirarsi fuori dai guai da solo, ha sempre aspettato che fosse qualcun altro a salvarlo. Bushido forse pensava di averlo cambiato in tal senso, ma si sbagliava. Mio fratello cambia solo alle proprie condizioni, e pur crescendo non matura. Varia e basta, come i colori sullo spettro visibile, dal violetto al rosso, ma resta sempre la medesima cosa. Il suo cambiare è una questione di intensità, non di sostanza. Qualcuno prima o poi dovrà capirlo, e cercare qualcosa di utile da fare con questa consapevolezza, visto che io non ci sono riuscito.
La parte più razionale di me mi spiega che per Bill è più difficile di quanto non lo sia per tutti noi, il che è motivato appunto dal fatto che lui una soluzione non prova nemmeno a trovarla, si lascia naufragare fra i problemi, che è il modo peggiore per affrontarli, ma è sempre questa stessa parte razionale che, ogni volta che mi guardo allo specchio, mi ripete che a me non importa. Ed è vero, sapete?, indipendentemente da quanto assurdo possa sembrare. La mia spalla sarà sempre pronta ad accogliere le lacrime di Bill. Sempre. Sempre. Ma solo quando sarà lui a decidere che è da me che vuole venire a piangerle. Io non posso continuare a corrergli dietro, ha già sufficienti uomini che lo fanno, per un motivo o per un altro, e io non voglio e non posso essere uno di loro. Sono suo fratello, lui sa che ci sono, o almeno lo saprà quando deciderà di uscire dal tunnel del “nessuno mi capisce, nessuno può aiutarmi”, non ho alcun bisogno né motivo di comportarmi come se fossi il suo ragazzo. A lui non serve, e nemmeno a me.
Il disastro totale del primo concerto del tour stupisce solo David, e non riesco a capire perché. Se stava cercando di appellarsi alla nostra presunta professionalità perché tutto andasse nel migliore dei modi, mi sembra evidente che aveva fatto affidamento sul nulla. Ma poi David ci conosce, via, sa che Bushido è di un’irresponsabilità perfino irritante, sa che per Bill la professionalità è solo l’ultima delle note a fondo pagina del libro mentale in cui ha imparato a comportarsi da diva e sa che fondamentalmente Chakuza è uno che volendo è anche un gran lavoratore, ma Bill nella sua testa ha la priorità perfino sull’aria che deve ricordarsi da respirare. Da un simile manipolo di imbecilli – e non lo dico nemmeno con affetto – non poteva davvero aspettarsi un comportamento razionale. E così lui, come tutti, ha dovuto rassegnarsi di fronte allo spettacolo agghiacciante del rap svogliato di Bushido, degli attacchi fuori tempo e fuori tono di un Bill troppo impegnato a compiangersi per notare la folla di ragazzine adoranti ai suoi piedi proprio di fronte al palco, e di un Chakuza che ci prova ma non riesce a concludere niente di concreto perché morso da chissà che preoccupazioni e sensi di colpa, mentre Georg e Gustav sospirano, si danno da fare, non ricevono supporto e io strimpello la chitarra solo perché m’hanno detto che è questo ciò che devo fare.
A metà concerto, durante la pausa, Bill decide arbitrariamente di scorciare la scaletta. Nessuno protesta. Io guardo altrove. David prova a dire qualcosa e lascia perdere il secondo successivo. Torniamo sul palco e facciamo quattro canzoni a fronte delle dieci che in teoria dovevamo ancora proporre al pubblico, e quando torniamo dentro, una volta finito, da fuori non ci chiedono neanche il bis. È una cosa che non mi è mai capitata da quando ho cominciato a suonare, e mi rendo conto all’improvviso che un po’ fa male. La fama non è mai stata una certezza, nella mia vita, ma l’amore del pubblico che ci seguiva sì. Sentirlo scemare così improvvisamente – e solo per colpa della nostra evidente incuria – mi ferisce. Vorrei prendere tutti a ceffoni, riportarli in sé, strillare loro che c’è gente che ha pagato, di fuori, e che tutto ciò che possiamo e dobbiamo fare è tornare sul palco e fornir loro uno spettacolo che valga tutti i soldi che hanno speso, ma mi basta lanciare uno sguardo in giro per capire che parole simili non sortirebbero il minimo effetto. Temo che non riuscirei a scuotermi nemmeno da solo, figurarsi gli altri, perciò sospiro e seguo gli altri in una fila scomposta e lenta, finché non torniamo tutti a rifugiarci nei nostri tourbus, divisi per gruppo di appartenenza perché così quantomeno non dobbiamo guardarci negli occhi e odiarci.
Bushido si rintana nella sua cuccetta non appena mette piede all’interno del tourbus. Io resto sveglio, vago in giro senza sapere cosa farmene di me stesso mentre la carovana si mette in moto e fuori dai finestrini la notte si fa più buia che mai. Ci muoviamo verso la prossima città, verso il prossimo disastro annunciato, e io non trovo niente di meglio da fare che accendere il portatile e passare le ore a fare solitari. Ogni tanto cambio il mazzo di carte giusto per ravvivare un po’ il tutto e non vedere sempre le stesse identiche cose. Perché sono stufo di non veder cambiare mai niente. Perché mi fa rabbia non avere il potere di cambiare niente, tranne queste cose minuscole.
Il tourbus si ferma verso le quattro del mattino, ancora neanche albeggia. Io sono sveglio come quattro ore fa, e appena ci fermiamo scendo immediatamente. Siamo nella piazzola di una stazione di servizio, ci sono tutte le luci accese e c’è in giro un sacco di gente. Tutti gli autisti, tanto per cominciare, anche se molti stanno dandosi il cambio, quindi si aggirano sonnolenti per la piazzola bevendo solo un po’ d’acqua e rifiutando con un sorriso terrorizzato ogni offerta di caffè. Agitano pure le mani. Li adoro gli autisti di notte, li vedi che si tengono su solo per forza di volontà, sono creature da cui c’è sempre da imparare.
Anche tutti i membri dello staff sono svegli. Alcuni bevono un po’ di birra, sono per lo più riuniti a gruppetti e chiacchierano del più e del meno. Qualcuno prova a commentare l’esibizione di oggi, qualcun altro lo ferma immediatamente dicendo “guarda, non parliamone nemmeno”. Mi sale addosso una gran rabbia. Non contro di loro, in generale.
David se ne sta per i fatti suoi, seduto su una specie di ringhiera in ferro. Sorseggia un caffè annacquatissimo e probabilmente disgustoso e fissa il vuoto come se non capisse cosa ci stia a fare lì in quel momento. Mi avvicino e cerco di sorridergli. Mi riesce male, ma tanto lui non mi sta guardando.
- Dovresti essere a dormire. – mi dice atono, e manda giù un po’ di caffè.
- Non ho sonno. – rispondo io, appoggiandomi al suo fianco sulla ringhiera. – Come stai?
David ride amaramente, sbuffando un po’.
- Non lo so. – risponde sinceramente, - Ma la cosa importante dovrebbe essere come state voi.
Rido anch’io, dondolandomi un po’ avanti e indietro.
- Mi sa che non è importante nemmeno questo.
David sospira e mi guarda di sfuggita, prima di tornare a fissare il vuoto di fronte a sé.
- È solo qualche mese, Tom. – mi dice con aria rassicurante, - Portiamo a casa il lavoro e poi prometto che avrete un po’ di vacanza. Vi farà bene.
Io annuisco – anche se è un gesto più che altro istintivo, non è che davvero ci creda – e mi inumidisco le labbra.
- Chissà se ce la facciamo, a portare a casa il lavoro. – dico a mezza voce, allontanandomi di qualche passo. David mi guarda con gli occhi spalancati, come non potesse credere alle mie parole. È evidente che non aveva tenuto conto del fatto che il suo battito d’ali avrebbe potuto creare un uragano che, in qualche modo, gli si sarebbe ritorto contro.



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A Sad-Eyed Lie

di lisachan
Mi lascio ricadere sul divanetto in fondo al tourbus con un sospiro stremato, e resto lì seduto a fissare il vuoto per qualche secondo, troppo stanco per provare a fare qualsiasi altra cosa, finché non mi sento letteralmente cedere e mi rassegno a stendermi lì per una decina di minuti, prima di trovare la forza di rimettermi in piedi, farmi una doccia e trascinarmi nella mia cuccetta. Lontano anni luce da me, sento Tom augurare la buonanotte a qualcuno e poi chiudere con forza lo sportello. Lo sento girare in tondo per qualche minuto, calmo, come stesse prendendo le misure dell’ambiente circostante, e poi sento i suoi passi avvicinarsi.
Apro un occhio.
- Sei vivo? – mi chiede. Sta dritto accanto a me, le mani sui fianchi, le fronte libera dalla solita bandana e la camicia aperta per metà sul petto.
- Chiedimelo di nuovo fra una decina di minuti. – rispondo a mezza voce. Lui si lascia sfuggire una mezza risata divertita.
- Stanotte esco. – m’informa poi, come fossi il suo cazzo di padre o chessò io. – Arriviamo a Magdeburgo verso le due. La notte, per allora, sarà ancora giovane, e ho tutta l’intenzione di riallacciare i rapporti con qualche vecchio amico.
- Amica è il termine esatto, Tom. – lo correggo aggrottando le sopracciglia. Se fossi solo un po’ meno stremato, salterei in piedi e lo prenderei a pugni su quel suo muso pulitino da Don Giovanni delle ragazzine, ricordandogli che sta con una delle mie donne, e in quanto tale le deve rispetto, ma sono veramente troppo, troppo stanco, e peraltro conosco Cassandra, so che non è una stupida ed immagino che il discorso del sesso in tour l’abbiano affrontato, prima che Tom partisse, per cui mi limito ad aggrottare le benedette sopracciglia e disapprovarlo silenziosamente.
- Sì, forse. – ride lui, malizioso.
- Jost te lo lascia fare? – chiedo, rassegnandomi a tirarmi su ed aggrappandomi al divano come ne andasse della mia vita.
- David è la tua balia, non la mia. – mi fa notare con un sorriso furbo. La cosa, purtroppo, è anche fin troppo vera. Purtroppo, Jost è umano. Se stringe la presa da una parte, deve mollarla dall’altra. E Dio solo sa quanto forte debba essere la presa, se si vuole avere a che fare con me. – E comunque al momento ha altro cui pensare. Il che mi fa molto comodo, visto che io, invece, non voglio pensare a niente.
Si allontana senza aggiungere una parola, e d’altronde non che ce ne sia davvero bisogno. Lui è, se possibile, quello che l’ha presa peggio, tutta questa storia del tour. Forse perché come noi non ne capisce il senso, ma differentemente da noi prima di imbarcarcisi stava bene. Io, Bill, Chakuza e per certi versi anche David, non è che fossimo sereni, prima di partire. Non è che ringraziassimo Allah ogni volta che aprivamo gli occhi al mattino, per dire. Tom invece no. Anzi, più precisamente, Tom invece chissà, perché chi l’ha visto, ultimamente? Chi ha visto lui o Cassie? Chi li ha visti ricostruirsi una vita mentre ancora noi vaghiamo sperduti e senza meta fra le macerie della vecchia?
Quindi, insomma, posso solo immaginare quanto doversi mettere in viaggio con noialtri possa averlo scazzato, soprattutto visti i risultati gloriosi che non facciamo che affastellare l’uno sull’altro da quando siamo partiti. Sono abbastanza sicuro che la macchia sulla mia reputazione, dopo questo tour, non andrà più via. C’è differenza fra l’improvvisare una piccola produzione e magari fare qualche spettacolo così alla buona ma con tanta passione, come quelli che facevamo io e Patrick da ragazzi, e l’avere a portata di mano una produzione potenzialmente perfetta, con tanto di scenografia del ghetto e robaccia simile – roba che se io e Bill avessimo avuto per le mani una proposta del genere un paio d’anni fa ne sarebbe venuto fuori un tour che la popolazione mondiale avrebbe ricordato nei secoli a venire, garantito – e buttare tutto nel cesso perché un po’ non ce la fai, e un po’ nemmeno vuoi provarci.
Io, per dire, non ce la faccio e nemmeno voglio provarci. Sono stanco, frustrato e voglio tornarmene a casa mia, come quando da piccolo mamma mi portava a cena la domenica dai nonni, e loro erano sempre rigidi e silenziosi come sputassi nei loro piatti. Non vedevo l’ora di potermene tornare a casa mia, non perché ci fosse chissà che ad attendermi – a conti fatti, ad attendermi non c’era proprio un bel niente – ma perché semplicemente casa era un posto sicuro. Avevo la mia cameretta col mio letto e i miei poster e i miei cd pirata e le mie cuffie enormi e il mio lettore cd gigantesco e vecchissimo e perennemente impolverato, e chiudevo gli occhi e smettevo di pensare. Adesso vorrei fare la stessa cosa, solo tornarmene a casa, chiudermi a doppia mandata nel mio studio e metter su della musica. Qualsiasi musica. Chiudere gli occhi e spegnermi, solo per un po’.
La parte peggiore del tutto, poi, non è nemmeno che il tour stia andando male dal punto di vista lavorativo. Un sacco di cose, nel corso della mia carriera, sono andate male da quel punto di vista, e lo dimostra il fatto che una roba che la gente comincia a fare quando ha meno di diciott’anni io ho cominciato a farla solo quando ne avevo ventuno, e neanche tanto seriamente – per la serietà, ho dovuto aspettare i venticinque. Solo che, quando le cose andavano male, io comunque andavo sempre bene. E quindi le cose potevano anche crollare tutte assieme come i castelli di carta che erano, perché tanto le mie spalle erano sempre abbastanza forti da reggere la frana.
Adesso è diverso. Adesso io sono troppo stanco per reggere alcunché. Tutto crolla e io non riesco a sopportarlo bene come avrei fatto dieci o cinque o anche un anno fa, ed a complicare tutto, naturalmente, c’è Bill. Che è la parte peggiore di cui parlavo, perché Bill può essere solo due cose, considerato ciò che è e ciò che fa e come lo fa, può essere la parte peggiore, o la parte migliore. Non ha mezzitoni, in questo senso, ed ha smesso di essere la parte migliore, per me, tanto di quel tempo fa che ogni tanto fatico perfino a ricordare com’era.
Sono rintanato nella mia cuccetta da almeno un’ora, quando sento il tourbus fermarsi. C’è silenzio, tutto intorno, ed è evidente che siamo nella piazzola di una stazione di servizio poco lontana dalla città, perché a quanto ho capito il servizio di sicurezza ha sconsigliato a Jost di entrare materialmente nelle città ed insediarci negli alberghi prima dei concerti. La pressione dei paparazzi e della critica su tutto quello che sta succedendo, la fame con cui ci strappano di dosso segreti misti a brandelli di carne è veramente esagerata, e sistemarci in un albergo, anche il più sicuro, sarebbe un suicidio. Perciò rimaniamo fuori, dove è più difficile che ci trovino. Il che non sarebbe un male nel complesso, se poi m’impedisse vie di fuga quando invece ne ho bisogno.
- Ohi. – dice Tom, sollevando la tenda e fissandomi. La sua è solo una sagoma nel buio, illuminata parzialmente dalle luci dei lampioni disseminati nella piazzola, di fuori. – Uno della security ci accompagna giù in città. – esita qualche secondo, mordicchiandosi un labbro. È così simile a suo fratello, certe volte. – Non è che ti va di venire?
Quello che vorrei chiedergli adesso è non è che a te va di restare?, ma lascio perdere.
- Vai tranquillo. – borbotto senza neanche sollevare la testa dal cuscino, - Sono stanco morto, nemmeno ti sentirò rientrare. Starò dormendo come un sasso entro dieci minuti al massimo.
Lui scrolla le spalle e non insiste.
- Come vuoi. – dice, lasciando andare la tenda. Sento i suoi passi pesanti allontanarsi lentamente lungo il corridoio e poi sparire, nel momento stesso in cui lo sento salutare giovialmente Schäfer e Listing ad alta voce, facendo qualche battuta sugli occhiali del primo e sui capelli del secondo.
Io mi tiro a sedere, dimenticando i propositi di sonno immediato, e piego le gambe, appoggiando gli avambracci alle ginocchia. Fisso il buio così a lungo che ad un certo punto riesco a distinguere le pieghe delle lenzuola stropicciate ed ammonticchiate ai piedi del materasso, ed è allora che sento lo sportello del tourbus aprirsi discretamente e poi richiudersi con un sottilissimo click.
Indossa le Adidas, riconoscerei quello scricchiolio infantile ovunque. So che strascica i piedi perché vuole che lo senta, e mi mordo con forza un labbro quando vedo le sue dita spuntare nella fessura fra le due tende che mi separano dal resto dell’universo, un secondo prima che lui le scosti. Lo guardo, mi guarda. Per un solo secondo, ci chiediamo entrambi che senso abbia tutto questo. Poi, lui mi sorride – un sorriso minuscolo, che sembra voglia scusarsi perfino di esistere – e si siede sul bordo della mia cuccetta, dandomi quasi le spalle. Lancia un’occhiata fuori dalla finestrella chiusa, sulla strada. La piazzola è già deserta, chi doveva andare in città c’è andato, gli altri si stanno riposando o sono all’interno della stazione di servizio per rifocillarsi o prendere un caffè.
- Ti andrebbe di andare a fare una passeggiata? – mi chiede a mezza voce, quasi trasognato. Inarco un sopracciglio, lui non lo vede ma precisa comunque, - Non ti ho chiesto di venire con me a passeggiare di fuori. Mi chiedevo… se io ti invitassi, tu verresti?
Sospiro profondamente, gettando le gambe giù dal letto e sedendomi accanto a lui.
- Perché vuoi rendere tutto più difficile, Bill? – gli chiedo a bassa voce. Lui sorride appena.
- Perché non c’è un modo facile per fare andare avanti tutto questo. Sapere che sei così vicino mi… - si interrompe, come cercando le parole. È probabile che non riesca a trovarle, comunque, perché lascia la frase sospesa. – Avevo voglia di vederti. – conclude quindi, come se questo potesse bastare a giustificare la sua presenza qui, ora, mentre il suo uomo presumibilmente dorme un tourbus più in là.
- Bill… - dico con un altro sospiro, grattandomi la fronte, - Sei un bimbo grande, ormai. Certe giustificazioni valgono sempre meno, man mano che cresci.
Lui ride piano, stringendosi nelle spalle.
- Il problema è questo qui, sai? Che sono cresciuto. – risponde, voltandosi a guardarmi. Anche nel buio, i suoi occhi brillano. Li sento addosso come fossero di fuoco.
- Forse non abbastanza, però. – obbietto io, - Ti stai comportando esattamente come quando eri un ragazzino e ti appostavi fuori da casa mia pregandomi di farti entrare per un po’. Continui a tornare.
Bill ride ancora, con maggiore convinzione.
- Questo forse dovrebbe dirci qualcosa. – commenta, - Anche perché continui a tornare pure tu. Torni anche dalla morte.
- Io non ero morto, Bill. – lo dico con durezza, severamente. Lui si volta a guardarmi come l’avessi offeso personalmente.
- Tu eri morto. – dice convinto, - Tu non annullerai il mio lutto solo perché sei risorto. Tu eri morto, Anis, tu sei stato morto per un sacco di tempo. Ora sei tornato, ma prima eri morto comunque.
Annuisco piano, guardando altrove. Sorrido, anche se solo un po’, quando riprendo a parlare.
- Fatico ancora a realizzare pienamente quanto male ti ho fatto. – confesso in un fiato, - Devi capire che la decisione che ho preso l’ho presa in un momento molto particolare, in cui la ritenevo necessaria. Ero convinto che sarebbe stata la cosa migliore da fare ed ho accettato l’eventualità che tu potessi soffrire perché riuscivo a vedere, in prospettiva, che prima o poi saresti stato nuovamente felice.
È la prima volta che riesco a dirgli una cosa simile esattamente come la penso e in maniera serena. È un po’ assurdo che noi si abbia avuto bisogno di sfiancarci, letteralmente, sia a livello fisico che a livello emotivo che a livello mentale, prima di poter parlare come persone civili. Intavolare questo discorso due o tre mesi fa avrebbe portato inevitabilmente ad un litigio in cui ci saremmo sputati addosso le cattiverie più indegne per il solo gusto di farci del male a vicenda. Oggi posso guardare il suo profilo nel buio del tourbus e dirgli tutto questo con tranquillità perché sono consapevole del fatto che se provassi a cercare dentro di me un briciolo di forza per attaccarlo, non ci riuscirei, e per lui vale lo stesso.
Se ci penso, facevamo così anche allora, quando tutto era più facile ed eravamo solo io e lui. Avendo sempre avuto i caratteri forti che abbiamo, ogni litigio era una guerra che poteva durare dei giorni, poteva essere logorante per davvero, ed era solo alla fine, quando entrambi eravamo stanchi di non poterci più toccare senza un velo di rabbia a coprire tutto il resto, che riuscivamo a riappacificarci, perché solo alla fine riuscivamo a ricominciare a parlare.
- Perché sei tornato? – mi chiede piano. Ho l’impressione che mi abbia già fatto questa domanda, in passato. Lui, o il lui che ho sempre avuto nella testa mentre stavo a Miami, che fossi ubriaco o meno. L’istinto mi direbbe di ripetere a lui quello che ho già detto agli altri, più e più volte. Il messaggio preimpostato per le riviste e i vecchi amici. L’Ersguterjunge stava crollando, l’unica cosa del tutto mia che mi rimaneva al mondo si stava sfaldando perché non avevo considerato troppi dettagli. Per una mia incuria, in definitiva.
Potrei farlo, potrei dirgli questo adesso, e so che in qualche modo questo porrebbe fine alle sue visite continuative in questo tourbus, ai discorsi sciocchi e privi di senso che facciamo sul cielo della notte, sul caffè dei distributori automatici e sullo scarico del cesso che nel suo tourbus funziona male, so che porrebbe fine anche a quello che in genere segue questi discorso, il vero problema principale che mi impedisce di accettare la sua presenza qui come qualcosa di positivo, ma so che, se voglio essere completamente sincero, io non voglio che questo finisca.
E non voglio che lui creda che sia solo per l’Ersguterjunge che ho deciso di rovinargli la vita, o ciò che ne restava dopo esserci passato sopra con un carro armato.
- Perché ti rivolevo indietro. – rispondo senza guardarlo, - Perché da qualche parte sentivo ancora che eri mio e non prendevo neanche in considerazione l’idea di potermi sbagliare. – inspiro ed espiro profondamente, voltandomi a guardarlo. Lui sta già guardando me. – Ti rivolevo indietro. – ripeto, - Tu sei il motivo per cui me ne sono andato, quello per cui sono tornato, e quello per cui continuerei ad andarmene e tornare all’infinito, se fosse necessario.
Bill smette di respirare. Per molti secondi non sento più aria passare attraverso le sue labbra, e lui resta immobile, come gli avessi sparato a bruciapelo nel centro del petto. Realizzo la portata di ciò che gli ho detto solo quando lui si sporge verso di me e poggia le proprie labbra sulle mie. Mi bacia in modo tenero, quasi infantile, come avesse dimenticato come si fa e stesse cercando sul mio corpo le tracce per imparare nuovamente a farlo. Allunga le braccia e me le allaccia al collo, mi scavalca con una gamba e si sistema impacciato sul mio grembo, pressandosi contro di me, ed io ho appena il tempo di lasciar scivolare le mani lungo la linea dritta della sua vita, sentendo la consistenza ossuta dei suoi fianchi sotto i polpastrelli quando scivolo appena sotto la maglietta leggera che indossa, che devo subito allontanarlo.
- No. – dico piano.
- Non dirlo, non dirlo, non dirlo. – mugola lui, disperato, - Ti prego, non dopo quello che mi hai detto. Fingi che tutto il resto non esista, ti scongiuro, sono stato così bene…
- No, Bill. – insisto, afferrandolo più decisamente per i fianchi e spostandolo di nuovo sul materasso, - Io ho voluto essere sincero, con te, ma fingere che tutto il resto non esista vuol dire tornare a mentirti, di nuovo. Ho deciso tempo fa che non l’avrei più fatto. Abbiamo entrambi due vite diverse, adesso, e—
- Io non ce l’ho! – strilla lui, fra le lacrime, - Io non ce l’ho una vita, tantomeno una vita diversa! Io ho uno schifo e sto male, Anis, e tu… - si abbatte quasi su se stesso, stremato, - Tu mi stai facendo impazzire. – dice in una serie di singhiozzi privi di forza, - Dici che mi vuoi, ma poi non mi vuoi mai. Dici che mi ami, ma fai di tutto per farmi credere che di me non t’importi niente. Io arrivo al punto che me ne frego del mondo, Anis, me ne frego di chi c’è e chi non c’è, me ne frego di Peter, me ne frego di Patrick, di Tom, di David, <>io non ce la faccio, non ce la faccio più…
- Io non posso salvarti da questa cosa, Bill! – dico ad alta voce, afferrandolo per le spalle e scuotendolo con forza, - C’è stato un tempo in cui io e te ci appartenevamo ed io potevo salvarti da questa e da un mucchio di altre cose, ma tu ora non sei mio, Bill, e se non sei mio e non sei di Chakuza non sei di nessuno. – lo lascio andare, alzandomi in piedi e scostando in una mossa le tende ancora un po’ basse della cuccetta. – E questo significa che devi salvarti da solo, perché nessun altro può farlo.
I suoi occhi si accendono di rabbia. Umidi come sono per via delle lacrime, sembrano quasi lampeggiare nel buio. Indietreggio per lasciargli spazio, e Bill scatta subito in piedi, fronteggiandomi furioso.
- Tu non hai mai potuto salvarmi da niente. – dice velenoso, - Tu non mi hai mai salvato da niente. Quando ti è sembrato di farlo, in realtà stavi solo preparando il terreno per farmi del male ancora, e ancora, e ancora. – si allontana di qualche passo, le braccia rigide lungo i fianchi, i pugni ostinatamente serrati, come quelli di un bambino. – Non capisco davvero perché continuo a pensare a te come la soluzione di tutti i miei guai, quando evidentemente ne sei la causa.
Non gli rispondo perché l’unica risposta che potrei dargli è che ha ragione. E ciò che dice vale anche per me. Ed anche io non riesco a capirne il motivo. Resto solo pochi secondi dopo, perché lui fugge via subito dopo aver pronunciato quelle poche parole, come l’aria del tourbus si fosse fatta improvvisamente irrespirabile. Cerco di trovare lo stimolo per tornare a stendermi, magari dormire un po’, ma la verità è che sono troppo nervoso. Mi tremano le mani.
Sospirando, lascio la zona notte e mi dirigo nella zona relax. Mi seggo ad un tavolo, osservo il portatile, lo guardo per un po’, poi lascio perdere ed accendo la Playstation. Molto meno impegnativa.
Tom rientra meno di un’ora dopo. Appena mette piede nel tourbus, lo vedo tirare su il naso come un segugio, e poi i suoi occhi si spostano su di me. Sembra considerare la possibilità di chiedermi direttamente se Bill è stato qui o meno, ma alla fine evita, e ripiega su qualcosa di meno compromettente.
- Tutto a posto? – chiede incerto, - Non avevi sonno?
Scrollo le spalle.
- Passato. – mento. Vuoi restare un po’ con me?, ma no, questo non posso chiederglielo.
- D’accordo. – risponde lui, scrollando le spalle, - Buonanotte. – dice disinteressato, scalciando le scarpe in giro ed infilandosi direttamente nella propria cuccetta. Avrei bisogno, un bisogno serio, di qualcuno con cui parlare. Quando una persona che non parla quasi mai con nessuno sente il bisogno quasi fisico di farlo, vuol dire che è molto, troppo vicina al punto di rottura.
Continuo a giocare. In silenzio.
*

Che qualcosa sia cambiato non c’è bisogno che nessuno lo dica. Si sente nell’aria, si avverte nella tensione nervosa che ci avvolge tutti l’indomani mattina, si legge negli occhi sfuggenti di Chakuza e nella linea tesa della sua mascella, nelle pupille dilatate di Bill che s’è fatto scopare nel bagnetto della toilette della stazione di servizio sapendo benissimo che noialtri saremmo stati qui davanti ai lavandini per sciacquarci il viso e lavarci i denti.
Quando lui e Chakuza sono usciti dal bagno, scarmigliati e arrossati e ancora ansimanti, Chakuza s’è teso come una corda di violino, ed è andato a sciacquarsi frettolosamente il viso al lavandino più distante possibile rispetto a quelli che stavamo usando noialtri. Listing e Schäfer hanno cercato di far finta di niente – so bene che è una situazione sulla quale in un momento diverso avrebbero ironizzato, ma in un momento diverso Bill non avrebbe mai fatto una cosa simile per vendetta, per cui è facile spiegare il loro imbarazzo – ma la cosa che mi colpisce di più, dopo la sfacciataggine di Bill che continua ad aggirarsi per il bagno come non avesse proprio un bel niente da farsi rimproverare, è come al solito una caratteristica di Tom: la sua incredulità.
Guarda suo fratello come non riuscisse proprio a credere a ciò che le sue orecchie hanno appena sentito, e io non so che idea avesse Tom di Bill prima che tutto questo gran casino scoppiasse, ma è evidente che, qualunque fosse, è stata devastata fino all’ultimo granello di purezza che conservava. Tom non sa, non ha idea di cosa Bill sia capace. Non ha idea di cosa io l’abbia reso capace di fare. Non insegnandogli a comportarsi in un certo modo – figurarsi: Bill, poi, non ha mai avuto bisogno che nessuno gli insegnasse alcunché – ma semplicemente mostrandogli un tipo di relazione diversa, più dura, in cui ottieni ciò che dai ma non prima di aver pagato pegno. Io non ne ho mai fatto passare una a Bill. Tanto ero accondiscendente coi suoi capricci più futili, tanto più m’incaponivo sulle questioni importanti.
Questa, per Bill, è una questione dannatamente importante. Ed è palese che non intende farmi passare niente.
L’argomento non esce con noi da quel bagno. Resta intrappolato lì, fra quelle quattro mura piastrellate di bianco. Nessuno ha voglia di parlarne, una volta fuori, comprensibilmente, e chi invece dovrebbe voler discutere la situazione sa che farlo, in fondo, sarebbe inutile. Jost ci osserva entrare ognuno nel proprio tourbus con gli occhi bassi e un imbarazzo generico a tendere i tratti del viso, e già sa che andrà male anche stasera. Come cazzo fai a lavorare con gente che non riesci nemmeno a guardare negli occhi?
Tom sta seduto sul divanetto davanti a me. Batte nervosamente un piede per terra ed appoggia una guancia al palmo della mano, reggendosi il capo col gomito ben piantato sul tavolino, in una posizione tale da impedirgli di incrociare il mio sguardo anche se io faccio di tutto per catturarlo. Non so con chi dovrei parlare, Tom mi sembra la soluzione migliore, ma io questo ragazzino in fondo non lo conosco, e non posso farlo.
La serata, naturalmente, va di merda. Ci rimettiamo in viaggio fra i fischi della folla che ci ha seguito fino a schiacciarsi tutta lungo le transenne. Qualcuno tira qualcosa – pezzi di carta arrotolati, per lo più – e noi ci rifugiamo ognuno al proprio posto con la testa bassa, vergognandoci come cani. Tom, seduto al proprio posto, incassa la testa fra le spalle e si lascia scivolare lungo la seduta del divanetto fino a che solo la sommità della sua testa spunta dal finestrino.
- Che schifo. – sussurra disgustato, - Che schifo. Vi odio tutti, stronzi irresponsabili di merda. Bambini del cazzo. Siete solo bambini del cazzo. Ma cosa stracazzo c’entravo io con questa merda, cosa.
Il suo è un mormorio continuo, somiglia vagamente allo sciabordio dell’acqua di quelle fontane zen che ti spacciano come perfette per dormire. Il mio ufficio ne è pieno, quello nuovo, dico. In quello vecchio non ce n’era bisogno. Comunque, il suono è simile. riesco ad ascoltarlo abbastanza a lungo – lui mormora abbastanza a lungo – da permettermi di scivolare in un sonno agitato e leggerissimo. Continuo a svegliarmi per ogni scossone e ad ogni singola curva. Quando mi sveglio definitivamente, è perché ci siamo fermati, e Tom mi sta scuotendo energicamente per una spalla.
- Io esco. – mi dice, - Ci fermiamo una ventina di minuti ed io non ne posso più di stare qua dentro.
Mi sollevo abbastanza da guardare il buio pesto della notte, fuori dal finestrino. Si vedono le luci di un paese, non troppo distante, ma sembra un buco minuscolo e non so cosa si aspetti di trovarci Tom alle quattro del mattino.
- Siamo in mezzo al nulla, Tom. – provo a dire.
- Sì, be’, è un miglioramento. – taglia corto lui, uscendo di corsa.
Io resto lì immobile per un paio di minuti, giusto il tempo di ascoltarlo chiedere ad una guardia del corpo a caso se lo accompagna giù in paese e di sentire il rombo del motore acceso subito dopo, dopodiché mi alzo in piedi e muovo un paio di passi incerti in giro. Mi sento a pezzi. Ho una voglia matta di un buon caffè, ma non so quanto distante da qui sia la stazione di servizio.
Mi affaccio al finestrino per controllare, ma non riesco davvero a vedere niente perché immediatamente il mio intero campo visivo si riempie della figura di Bill. Il tourbus che divide con Chakuza è parcheggiato proprio accanto al mio, il suo finestrino è alla stessa altezza di quello dal quale lo sto guardando. Vedo solo metà del suo corpo, ma quel che vedo è splendido, ed è nudo, ed è sporco e sbagliato. Appoggiato contro il finestrino, sta piegato in avanti, un avambraccio sollevato a reggere il peso del suo corpo e la fronte che lo sfiora lentamente ad ogni spinta. Si muove ritmicamente avanti e indietro, le sue labbra sono dischiuse ed umide, la lingua che ogni tanto saetta ad inumidirle, piccola e rosa come quella di un gattino.
Ha le palpebre abbassate, ancora bistrate di nero, e deglutendo a fatica riesco quasi a convincermi della casualità del tutto quando Bill si volta all’improvviso ed i suoi occhi incontrano i miei. Non sorride, ma so che vorrebbe. I suoi ansiti aumentano di volume e d’intensità ed io resto lì fino a che qualcuno non mi afferra per il colletto della maglietta, da dietro, e mi scaraventa sulla panca dalla parte opposta del tourbus.
- Cristo! – strilla David, tirando giù la tenda sul finestrino, - Cristo, Bushido! – e non aggiunge altro, prima di allontanarsi di nuovo ed uscire.
Decido che per oggi ne ho avuto abbastanza, e mi rintano nella mia cuccetta.
*

La sera successiva, Bill si fa più sfacciato. Tom esce con la solita fretta, complice il fatto che stasera siamo di nuovo vicini a un centro abitato che rischia perfino di essere ancora vivo verso le quattro del mattino, e io resto un po’ nel tourbus a non fare niente, guardandomi intorno e provando a sentirmi per capire come sto. A Miami avevo molto tempo per stare da solo a pensare, e questo tempo mi è stato quasi del tutto tolto, da quando sono tornato, e soprattutto da quando abbiamo ripreso a lavorare. Resto seduto con gli occhi chiusi, sento tutti i rumori che vengono da fuori. Il chiacchiericcio della corte di tecnici e guardie del corpo che ci accompagna, gli sbadigli degli autisti che danno il cambio a quelli che invece hanno dormito per tutto il pomeriggio in previsione del loro turno, le macchine che passano accanto a noi sfrecciando sull’autostrada.
Sento tutto, e poi sento anche qualcuno che bussa allo sportello.
Forse perché starmene un po’ tranquillo per i fatti miei mi ha messo di buon umore, mi alzo senza problemi e mi affaccio, cercando di mostrarmi sereno e rilassato. Naturalmente, fallisco nel momento esatto in cui vedo che, sulla strada, vestito solo con una maglietta larghissima, c’è Bill.
Non so a che gioco stia giocando. Non ha bisogno di bussare, per entrare. Avrebbe dovuto farlo sempre, ma dal momento che non l’ha fatto mai mi sembra soltanto un modo per stuzzicarmi. Ed il fatto che non abbia praticamente niente addosso peggiora le cose.
Sento qualche gocciolina di sudore scivolarmi lungo la schiena, e non capisco se sia solo caldo.
- Posso entrare? – mi chiede a bassa voce, - Non riesco a dormire.
- Bill. – cerco di interromperlo io, riducendo la fessura aperta dello sportello, - No. Che cazzo di ore sono? Tornatene a dormire.
- Ma non riesco! – insiste lui, sporgendosi verso di me e stringendo le mani al petto. Nel movimento, la maglietta gli si solleva sulle cosce, mostrando centimetri di pelle morbida e bianca. Ne ricordo il profumo, ricordo quando potevo affondarci il naso ed inspirare e mordere e leccare ovunque, perché tutto quel biancore e quella morbidezza erano miei. Miei e di nessun altro. – Ti prego, - mugola scontento, - voglio solo chiacchierare. Non sono venuto qui di nascosto, non voglio fare niente di male. Per favore.
- No, Bill, sono io che te lo chiedo per favore. – dico a corto di fiato, passandomi una mano sugli occhi con forza, - Tornatene a letto. Non darmi modo di fare cose di cui poi mi pentirei.
- Non faremo niente di cui potresti pentirti! – ribatte lui, mettendo un piede sul primo gradino della scaletta per salire, - Per favore, solo dieci minuti, giuro che me ne vado subito, e poi—
- Ma cosa cazzo stai facendo?!
La voce di Tom rimbomba nella piazzola silenziosa come il primo tuono di un temporale. Nessuno di noi se l’aspetta, perché nessuno l’ha sentito tornare. David stava sonnecchiando seduto su una panchina davanti ad un’aiuola alberata, poco più in là, gambe e braccia incrociate e capo chino sul petto, e si tira subito in piedi quando lo sente urlare così all’improvviso.
Bill si volta a guardare suo fratello e sbianca. Diventa così incredibilmente pallido che ho paura di vederlo scomparire.
- Tomi. – mormora terrorizzato. Suo fratello resta per qualche secondo a qualche metro di distanza da lui, le braccia rigide lungo i fianchi. Poi qualcosa nella sua espressione cambia, si accende, e divora lo spazio che li separa in pochissimi passi. Quando lo raggiunge, è troppo veloce perché io possa mettermi in mezzo.
Lo afferra per un polso e lo trascina lontano dal tourbus. Bill cade un paio di volte, i piedi e le gambe nude che si graffiano sull’asfalto ogni volta che scivola, e quando si sono allontanati abbastanza Tom lo costringe a rimettersi in piedi strattonandolo con violenza e poi lo schiaffeggia in pieno volto, con la mano bene aperta. La sua guancia, quando si rimette dritto, è tutta arrossata. So già che ne verrà fuori un livido di quelli enormi.
- Cosa cazzo stavi facendo?! – strilla Tom, tenendolo per il polso e schiaffeggiandolo ancora. Stavolta Bill è più preparato, e per quanto ancora scosso riesce a coprirsi col braccio libero. Tom s’infuria, e prende a picchiarlo con più decisione, contro quello stesso braccio con cui Bill cerca invano di difendersi. Altri lividi, posso quasi già vederli, anche se non spunteranno prima di domattina. – Cosa cazzo facevi là davanti nudo, brutto stronzo?! Coglione! – lo insulta e lo picchia, Bill si accascia per terra senza forze, scosso dai singhiozzi, e Tom lo prende a calci sugli stinchi e nello stomaco. – Sei una troia! Cosa cazzo vai in giro in quel modo?! Ma cosa cazzo vai a fare da Bushido?! Troia!
- Tom, cosa diavolo stai facendo?! – tuona Jost, avvicinandosi minaccioso.
- Stanne fuori, cazzo! – strilla Tom di rimando, afferrando suo fratello per i capelli e tirando finché non si rimette in piedi. Bill grida di dolore, il viso arrossato e gonfio rigato di lacrime. – Questa cazzo di cosa deve finire, Bill! Deve finire, è chiaro?!
- Basta! Tom! Lasciami andare! – piange Bill, e il suo grido è così forte che qualcosa, nelle coscienze di tutte le persone che stanno guardando questa scena, si risveglia. Chakuza, che non avevo visto uscire dal proprio tourbus ma che evidentemente deve averlo fatto mentre non guardavo, si precipita fra i due, stringe Bill in un abbraccio che lo nasconde tutto dagli occhi del mondo intero e lo porta via, mentre lui fatica perfino a camminare a causa delle botte e dei singhiozzi che lo scuotono tutto. David, nel mentre, si lancia in avanti, afferrando Tom per le spalle e stringendolo con forza mentre lui si dimena e urla, lasciandolo andare solo una volta che Bill e Chakuza sono ritornati a chiudersi nel loro tourbus. Tom si libera della sua stretta con uno strattone e un urlo da bestia ferita, aggirandosi per la piazzola in preda al nervoso per un paio di minuti prima di imprecare ad alta voce e dirigersi a passo spedito verso di me.
Mi spinge all’interno del tourbus, entra a propria volta e si chiude lo sportello alle spalle, superandomi mentre io resto immobile e prendendo posto su una delle panche.
- Siediti. – ordina a bassa voce, indicando il posto di fronte a sé con un cenno del capo. Io obbedisco. – Da quanto va avanti questa storia?
Scrollo le spalle e provo a ricordarmi quanto assurdo sia questo momento.
- Un po’. – rispondo quindi, espirando sconfitto.
- Perché non me l’hai detto? – chiede duramente, fissandomi negli occhi.
- Perché avrei dovuto farlo? – ritorco, inarcando le sopracciglia. Lui batte un pugno contro il tavolo, digrignando i denti.
- Perché stiamo parlando di mio fratello. – risponde, - Ti basta? Se non ti basta, fattelo bastare.
Sospiro, abbassando lo sguardo sulle mie dita intrecciate sul tavolo.
- Pensavo di poterlo gestire. – confesso stentatamente.
- Sì, è un errore che avete fatto in molti. – ringhia lui, - Ma la verità è che lo amate troppo per farlo. Tutti quelli che gli stanno intorno in questo momento lo amano troppo per farlo. E questo lo sta rovinando, te ne rendi conto?
- Abbiamo dei doveri, Tom. – ribatto serio, - Questo tour non l’abbiamo deciso perché ci divertiva l’idea.
- Dei doveri! – ride amaramente lui, guardandomi incredulo, - Ma ti sei accorto di come sta andando questo tour, Bushido? Ti pare di stare lavorando come uno che abbia dei doveri?
Abbasso nuovamente lo sguardo. Ha ragione, non c’è che dire.
- Io ci sto provando, Tom. – sospiro pesantemente, - Non è facile.
- Non lo è per nessuno di noi. – risponde lui, impassibile, - Cristo, - sbotta impaziente, - io non posso davvero crederci. Forse non avete capito che Bill è a tanto così dall’andare fuori di testa. Dico, ma l’hai guardato negli occhi? Ma cosa cazzo ci sei stato a fare per anni se poi non capisci nemmeno queste cose così elementari?
Mi mordo un labbro, ferito più di quanto non mi vada di ammettere.
- È così diverso da quando l’ho lasciato. – considero a bassa voce, - A volte lo guardo e non riesco a riconoscerlo. Eppure è lui, dentro di me lo sento ancora come prima. Questo è… - trattengo appena il fiato, - è peggio di morire e basta. Sono vivo e sto perdendo tutto.
Tom mi guarda a lungo – riesco a sentire i suoi occhi addosso anche se non ricambio il suo sguardo – e mi rassegno a sollevare il viso solo quando lo sento sospirare pesantemente e sistemarsi più comodamente sulla panca.
- Ti va una partita a PES? – chiede distrattamente, adocchiando la Playstation abbandonata in un angolo.
- Resti con me, stanotte? – chiedo io a bassa voce, senza rispondere.
Lui nemmeno annuisce, chinandosi a raccogliere i joystick da terra e passandomene uno, dopo aver tenuto il proprio per sé.
- Accendila, dai. – dice alla fine. Giochiamo fino all’alba. Quella sera, Bill va sul palco con gli occhiali da sole. Canta cinque canzoni. Poi si mette a piangere e dice a David che non ce la fa. Sono le nove e mezza di sera, quando impazzisce del tutto. E nessuno di noi se ne accorge.
*

- Vado a prendere un paio di birre, ti va? – chiede Tom, gettando via il volante della Wii e sollevando entrambe le braccia verso il soffitto, - Affoghiamo nell’alcool i dispiaceri della giornata di oggi. Se ne prendo quattro, magari ci affoghiamo anche quelli della giornata di ieri.
- Vuoi solo scappare perché il tuo Luigi non può nulla contro il mio Mario. – lo prendo in giro, agitando il mio volante in aria come un trofeo.
- Facciamo così, io vado a prendere la birra e poi sputo dentro alla tua. – ritorce lui, guardandomi malissimo, - Come ti va?
Rido ad alta voce, di cuore, e realizzo che mi è capitato di farlo più spesso nelle ultime ventiquattro ore con lui di quanto non si possa dire di tutto il resto del tempo da quando sono tornato in Germania.
- Vai, vai. – dico alla fine, - Nel mentre cerco un altro gioco, questo non mi va più. – dico. Lui mi osserva tirare fuori Mario e Sonic ai Giochi Olimpici, unico gioco al quale sia fino ad adesso stato in grado di battermi, e sorride uscendo. So che mi sto comportando in modo molto stupido, quasi da fratello maggiore, nei confronti di un ragazzino che ieri ha dimostrato di essere più che in grado di comportarsi da fratello maggiore nei confronti miei, ma non riesco a impedirmelo. È divertente, genuinamente divertente, in un modo che pensavo non mi sarebbe stato più accessibile. E invece eccolo qui.
Lo sportello si riapre nemmeno due minuti dopo. Mi volto per dire a Tom che ha fatto presto, ma sulla soglia del tourbus non c’è Tom. C’è suo fratello.
- Che ci fai qui? – chiedo a mezza voce, pietrificato. Non lo vedo da giorni. Dopo il crollo a Monaco sono già saltate due date, e Bill non è quasi mai uscito dal suo tourbus.
- Sei sorpreso? – mi chiede. La sua voce è soffice, sottilissima. Lo guardo e vedo che non si tratta del Bill degli ultimi giorni, e nemmeno di quello che è partito con noi per il tour. È un Bill diverso, più antico, ma non propriamente simile a quello che era mio. O forse sì, solo più ferito.
- Sì. – rispondo sinceramente, voltandomi ed alzandomi in piedi per guardarlo dritto in viso, - Non dovresti essere qui?
- E dove dovrei essere? – chiede lui con una risatina vuota, - Trovami un posto nel mondo e sistemamici. Un tempo era al tuo fianco. Adesso sono fuori posto dovunque vado. Dovunque mi metto. Sono sempre fuori posto. Fuori luogo. O fuori posto? Come si dice, Anis?
- …cosa? – chiedo incerto, - Bill, ti senti bene?
- Ma sì! – risponde lui, con una risata così tonante che lo piega in due, costringendolo a stringersi il ventre con entrambe le braccia, - Come potrei mai stare male? La mia vita è meravigliosa, vero? Non lo è? Tu sei tornato, e sei vivo!, e non sei il mio ragazzo, ma ho un ragazzo bellissimo che mi ama tanto e che per me farebbe di tutto! Ed ho un fratello così premuroso, lo vedi quant’è premuroso Tomi? – ridacchia, indicando un livido ancora enorme sullo zigomo, - È così premuroso che vuole che tutti lo vedano, perché tutti devono sapere quanto bene si prende cura del suo sciocco fratellino.
- …Bill. – sollevo entrambe le braccia e lo stringo alle spalle, cercando, non so, di calmarlo. Anche se a prima vista sembra abbastanza calmo, in realtà. I suoi occhi sono torbidi, però, non riesco a leggervi dentro. – Bill, tu non stai bene.
- Ma a te non importa. – si lagna lui, forzando la mia stretta per abbracciarmi alla vita, poggiando il capo contro il mio petto, - Non t’importa di niente, non t’importa di me. Ho fatto tante cose per capire se t’importasse, volevo vedere se era vero che te ne fregavi, ma non ci ho capito niente. Non ci capisco niente di un sacco di cose, ormai.
- Sì, di te stesso in primo luogo. – sospiro, - Bill, devi andartene. Tuo fratello sarà qui fra poco e non è il caso di—
- Oh, posso sopportare qualcun’altra delle sue tenerezze, se è per questo. – dice con un sorrisino storto, adocchiando il piazzale fuori dal finestrino, - I bambini crescono più forti quando li si picchia costantemente. Si fanno la pelle dura. Tomi ha cominciato a crescermi un po’ tardi, ma siccome sono già grande gli effetti non tarderanno ad arrivare. Vuoi provare? – chiede, tornando a guardarmi, - Picchia forte, dove fa male, dove ho ancora lividi e ferite aperte. Non piangerò nemmeno una lacrima, te lo giuro.
- Smettila subito! – dico inorridito, provando ad allontanarmi. Lui serra le dita attorno alla mia maglietta.
- Allora è vero che non te ne frega più niente! – quasi grida, improvvisamente sull’orlo delle lacrime, - Non vuoi neanche più farmi male! Cosa mi resta di te, me lo dici? Perché se è solo indifferenza, allora non la voglio, non ti voglio, tornatene all’inferno! – strilla, tempestandomi il petto di pugni.
- Bill, calmati. – dico piano, stringendogli i polsi fra le mani. Sono così sottili che, anche se cerco di fare piano, sento le sue ossa quasi scricchiolare sotto la presa salda delle mie dita. – Devi riposarti un po’.
- Mi riposo da giorni e non cambia mai. – dice lui, abbattendosi stremato contro di me, - Penso sempre le stesse cose, sempre le stesse cose. – solleva un braccio, accarezzandomi il viso con la punta delle dita, - A te importa ancora di me, vero Anis? Ti importa ancora.
- Mi importa, piccolo. – cedo. La voce mi esce fuori in un mugolio così addolorato che mi sento spezzare qualcosa dentro. Non ho mai parlato con questo tono, con nessuno. – Tu ti stai facendo del male, adesso, e devi smetterla.
- Sei tu che mi stai facendo del male. – insiste lui con un sorriso quasi sereno, come se avesse già sentito troppo dolore per poterne provare ancora, - Come fai a non accorgertene? È incredibile. È così evidente, eppure non lo noti.
Sospiro profondamente, ravviandogli una ciocca di capelli dietro un orecchio.
- Bill, non so cosa dirti. – ammetto sfiduciato, - Ti stai torturando. Vuoi darmene la colpa? D’accordo. Ma stammi lontano.
Lui sorride, sento le sue labbra tendersi attraverso il tessuto leggero della maglia che indosso.
- Te l’avevo detto che sarebbe successo, Anis. – dice a bassa voce, quasi cantilenando, - Io non voglio starti lontano, e non posso, e non ci riesco. Una sua mano scivola fra le mie. Le nostre dita si intrecciano, lui mi guarda e i suoi occhi sono pieni di lacrime, e vuoti di tutto il resto. – Vieni con me, per favore. – dice piano, tirandomi verso l’uscita del tourbus.
Non è abbastanza forte da trascinarmi, se oppongo resistenza. Il problema è che non la oppongo. Mi lascio accompagnare dolcemente fuori, sulla piazzola aranciata dalla luce del sole che tramonta dietro le montagne all’orizzonte, e Bill mi conduce fino all’entrata del proprio tourbus. Da dentro vengono i rumori di Chakuza che si affaccenda attorno ai fornellini elettrici… starà preparando il caffè. Immagino abbia una voglia smodata di cucinare, ma non potendo questa è l’unica cosa sulla quale possa ripiegare.
Bill si volta a guardarmi con un sorriso minuscolo a increspare le labbra pallide.
- Ora ho bisogno che tu resti qui, Anis. – dice sottovoce, dondolando un po’ il peso da un piede all’altro, - Ho bisogno di sapere che resterai qui, che non te ne andrai di nuovo. Resterai, vero? Me lo prometti?
Mi sento mancare il respiro ed ho paura di ciò che questa promessa potrebbe significare. Non voglio restare. Non voglio restare, Bill.
- Te lo prometto.
Bill sorride.
- Tornerò da te, quando avrò finito. – sussurra, sporgendosi fino a raggiungere il mio orecchio con le labbra, - Così potrai dirmi se t’importa ancora o meno.
Resto lì come pietrificato mentre lui risale in due saltelli la scaletta del tourbus, scomparendo oltre la soglia. Lascia la porta aperta e io fisso l’interno, incapace di spostarmi. Posso vedere perfettamente uno dei tavolini della sala relax, da questo punto. Non so ancora cosa mi aspetta, ma qualsiasi cosa sia ne ho paura. E io non ho mai paura di niente. Non ho mai paura di niente, ma Bill mi terrorizza.
Il tourbus è parcheggiato in un angolo riparato della piazzola, lo sportello dà su un muretto oltre il quale si estende un praticello che si sfuma alle pendici di una collina rocciosa. Nessuno verrà a cercarmi qui, se non sa dove sono. Chissà se Tom potrebbe immaginarlo. Chissà se ha già comprato la birra, chissà se è già tornato, chissà se si sta chiedendo dove posso essere sparito.
Sento dei mormorii dall’interno. Non riesco a capire una parola di ciò che Bill e Chakuza si stanno dicendo, ma è evidente che stanno parlando. Chakuza sembra stanco. Bill ridacchia come un ragazzino senza neanche un pensiero per la testa.
Il primo gemito lo sento con una forza tale che mi sembra di percepire la terra tremare sotto i piedi. Vorrei gridare, ma non ho voce abbastanza. Non ho forza abbastanza. Quando Chakuza adagia Bill sul tavolino, dandomi le spalle e insinuandosi fra le sue cosce mentre Bill si abbandona alle sue braccia e getta indietro il capo, sento il desiderio di piangere, ma non scende neanche una lacrima. Non riesco più a fare niente, a pensare a niente. C’è solo la figura di Bill che invade tutto il mio campo visivo, c’è il suo corpo che si muove contro quello di Chakuza, in sincronia perfetta con le sue spinte. Ci sono le sue braccia abbandonate sulle sue spalle, c’è la frenesia con cui serra le cosce attorno ai suoi fianchi e intreccia le gambe dietro la sua schiena, mentre il suo bacino si muove ritmicamente per accogliere la sua erezione più profondamente possibile. E io vedo tutto. Vedo tutto. Ed è un’immagine che non riuscirò più a levarmi dalla testa. E questo Bill lo sa. È per questo che l’ha fatto.
Quando Bill viene, le sue labbra si piegano in un sorriso minuscolo che è lo stesso in cui si piegavano quando erano le mie mani ed il mio corpo a portarlo all’orgasmo. Mi chiedo se Bill sia mai cambiato o se non si sia per caso trattato di un’illusione. Forse volevo credere con tutte le mie forze che non fosse più la persona di un tempo, semplicemente perché ammettere che fosse rimasto lo stesso ed avesse semplicemente smesso di amarmi era impensabile. Adesso non lo so più. Adesso lo guardo, completamente abbandonato contro il corpo di Chakuza, che respira con forza sulla sua pelle e lo stringe fra le braccia come fosse troppo piccolo e troppo prezioso e volesse proteggerlo da tutti i mali del mondo, e non so più niente.
Mi allontano lentamente, indietreggiando, senza mai dare le spalle al tourbus. Bill mi osserva andare via spalancando gli occhi, le sue mani si serrano attorno alle spalle di Chakuza in un gesto improvviso e nervoso. Qualcosa dentro di lui si sta spezzando. Anche dentro di me. È la promessa che ho fatto.
Accelero il passo, e quando esco sulla piazzola c’è Tom sull’uscio del nostro tourbus che mi cerca con gli occhi.
- Sei qui. – dice, scendendo celermente i gradini e venendomi incontro, - Dov’eri finito? – chiede curiosamente. Poi nota il mio sguardo ed aggrotta le sopracciglia, incerto. – Che ti prende? – domanda con evidente preoccupazione, - Che è successo?
Io faccio per aprire la bocca e dire qualcosa, ma gli occhi di Tom si spostano immediatamente a guardare un punto imprecisato dietro di me. Non ho bisogno di voltarmi, per capire che dove Tom sta fissando c’è Bill.
- Anis. – mi chiama debolmente, la voce rotta. Non riesco a voltarmi. Non voglio farlo.
- …andiamo dentro. – mi dice Tom, tornando a guardarmi e poggiandomi una mano sulla spalla, - Ho preso la birra.
Annuisco e lo seguo. Non so cosa faccia Bill o per quanto resti lì in mezzo alla piazzola. Del tutto irrazionalmente, però, so che sta piangendo. E non riesce ad importarmene.

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Overfired

di tabata
L'idea di un mini-tour per un singolo è venuta alla Universal che della nostra situazione non sa niente, e questo è evidente. Se anche uno solo dei dirigenti si fosse preso la briga di staccare il culo dalla sua bella poltrona in pelle e si fosse fatto un giro all'Ersguterjunge negli ultimi mesi prima di prendere qualunque decisione, avrebbe capito che la brillante idea di un tour non era poi così brillante e che, anzi, era una grande stronzata. Se lo avessero fatto, avrebbero visto che all'Ersguterjunge in questi mesi c'è stato solo Bushido e alle volte non c'è stato nemmeno lui; che io, Bushido e Bill abbiamo fatto accuratamente in modo di non vedersi mai, nemmeno per sbaglio e che l'intera organizzazione di questo tour è stata affidata ad un uomo – David – che ben consapevole di questa cosa, ha preso delle decisioni basandosi sul proprio buon senso, senza aver testato, in effetti, quello che sarebbe potuto succedere.
Ma nessuno dei grandi capi si è fatto vivo e questo qui, adesso, è il risultato.
Il punto è che alla Universal non frega un cazzo se noi tre non possiamo vederci, se David ha tentato di mettere le cose a posto e non c'è riuscito o se Bill è andato fuori da ogni controllo.
Quello che loro vogliono è un tour che abbia successo. Quello che noi dobbiamo dargli è un tour di successo. Tutto quello che sta nel mezzo, sono solo problemi nostri e loro non ne vogliono sapere.
Per questo quando saremo tornati a Berlino e ci chiameranno tutti nei loro mega-uffici all'ultimo piano per chiedere conto e ragione di quest'ultimo mese, ci faranno un gran culo: perché noi non stiamo riuscendo a finire una serata che sia una, questo tour fa decisamente schifo e con ogni probabilità, che sia sul palco oppure dietro le quinte, finiremo per massacrarci di botte.
A questo punto noi potremmo fare due cose, la prima sarebbe rimboccarsi le maniche, fingere che possiamo ancora sopportarci e tirare avanti fino alla fine, dare ai capi quello che vogliono e poi disperderci, giurando di non vedersi mai più. E questo sarebbe sensato. Oppure potremmo mandare a fanculo tutto fin da subito, perderci noi e far perdere alla casa discografica un mare di soldi ma toglierci il problema. E anche questo, a suo modo, avrebbe un senso.
Noi però non stiamo facendo né l'una né l'altra cosa. Noi continuiamo a trascinarci giorno dopo giorno, a fare concerti di merda e quindi a rintanarci nei nostri tourbus dove le cose, se possibile peggiorano ulteriormente e questo perché nessuno di noi ha le palle per fare quello che dev'essere fatto.
Questo è quello che penso stamattina quando apro gli occhi e la prima cosa che vedo è il dannato soffitto della cuccetta. Così mi torna in mente che se stanotte ho dormito in questo loculo invece che nel letto è perché Bill mi ha fatto girare i coglioni, e se c'è riuscito è per colpa della situazione, di Bushido e poi via a ritroso fino alla Universal e alla sua cazzo di decisione.
Mentre sto qui a chiedermi se non mi convenga rimanere esattamente dove sono e lasciare che il disastro si compia smettendo anche di fingere che me ne freghi lontanamente qualcosa di questo tour, sento Bill che si alza e si trascina nel cucinino con i passi strascicati con cui si sposta da quando siamo partiti. Dai rumori che mi arrivano so che si sta facendo il caffè, che probabilmente dimenticherà di mettere l'acqua nella caffettiera – o anche il caffè – e che imprecherà più volte non capendo per quale motivo la stupida macchinetta gli sta impedendo di assumere la sua dose giornaliera di caffeina, così mi alzo con un sospiro.
Quando mi vede arrivare s'irrigidisce tutto e poi finge che le dita non gli tremino mentre smonta la caffettiera. La parte superiore gli scivola dalle mani e finisce nel lavello facendo un gran casino, Bill impreca di nuovo. In questi giorni lo ha fatto di continuo e io ancora devo abituarmi. Ricordo che quando l'ho conosciuto mi prendeva in giro perché mi stupivo che anche lui dicesse le parolacce e la verità è che ancora adesso, a distanza di un anno, non riesco a concepire che lo faccia. Non mi piace, mi da fastidio. Sarà che lo fa solo quando è fuori di sé e quindi sentirlo imprecare mi ricorda che stiamo cadendo a pezzi, non lo so.
“Lascia, faccio io,” gli tolgo la caffettiera dalle mani e gli do le spalle perché non voglio che ci sentiamo entrambi in obbligo di parlare, come succede quasi sempre ormai quando ci guardiamo negli occhi. E' che una volta questo non succedeva. Non c'era niente da nascondere e guardarci e basta non significava aver paura di parlare. Adesso invece quello che sta succedendo lo sappiamo tutti e due, solo che lui non vuole dirmelo e io l'ho già fatto per lui una volta e non trovo il coraggio di farlo di nuovo.
Si appoggia alla parete, le braccia incrociate. Lo sento sospirare incerto. “Senti Chaku, ieri sera...”
“Ieri sera era ieri sera,” lo fermo. “Lascia perdere.”
L'aria è così pesante che faccio fatica a respirare e così anche lui. Quando prende fiato e lo inghiotte, sembra quasi che per un attimo gli sia rimasto incastrato in gola. Annuisce ad occhi bassi mentre gli passo la caffettiera pronta da mettere sul fuoco e vado a sedermi al tavolo. La cosa peggiore di questo pullman è che non c'è nessun posto dove andare, così anche quando hai l'istinto di allontanarti e scappare il più lontano possibile, finisci sempre a fare tre passi e a rimanere lì dove sei, che è una tragedia perché l'ansia di andartene si fa ancora più insopportabile a quel punto. Mi ostino a guardare fuori dal finestrino dove non c'è niente perché siamo in autostrada e intorno a noi sfrecciano solo campi e una sequenza infinita di fabbriche, ma se mi volto so che il mio sguardo cercherà automaticamente lui e io non voglio, perciò fisso la strada, anche se mi fa lacrimare gli occhi.
Dovrei distrarmi, magari cercare di concentrarmi per la data di stasera, ma come ho già detto non me ne frega niente se alla fine saliremo su quel palco a fare scena muta o peggio, a mandare a puttane una canzone dietro l'altra come è successo alla prima data; non m'importa se ci fischieranno o se ci tireranno qualcosa dietro. Non m'importa di niente, perché ogni volta che mi permetto di lasciare che mi importi, poi penso che in realtà il lavoro non conta veramente un cazzo, che sto perdendo qualcosa di importante, che ci stiamo perdendo noi e allora forse sarebbe meglio pensare a tutto il resto che non al lavoro.
Così finisce che non so di cosa preoccuparmi davvero e m'incazzo anche per questo, come se non fossi già incazzato abbastanza.
Bill si aggira per i due metri che abbiamo a disposizione ancora un po' e poi alla fine si rassegna a sedersi di fronte a me, visto che non può andare di là se deve controllare la caffettiera. Deglutisce così forte che fa rumore e so che mi sta guardando perché, nonostante tutti gli sforzi che sto facendo per distrarmi, vedo il suo viso riflesso nel vetro. Ha le guance un po' scavate e gli occhi cerchiati di nero, non ha dormito un cazzo, lo so, perché l'ho sentito agitarsi e poi passare accanto alle mie tende chiuse un paio di volte. Non ha avuto il coraggio di entrare però e io ho tenuto le mani in tasca per non tirarlo dentro, perché non volevo dargliela vinta, il che è stupido perché questa non è una ripicca e io non dovrei essere solo offeso, ma così incazzato da urlargli addosso finché ho voce, ma non mi riesce. E poi non posso nemmeno dire che non capisco quello che sta facendo e che mi sta tirando scemo perché non è così. Lui può anche far finta di non avere secondi fini quando mi salta addosso in un bagno pubblico ben sapendo che tutti gli altri possono sentirci, ma io non posso essere così stupido da non capire che i suoi gemiti sono più forti del necessario. Sfortunatamente per me lo conosco bene e c'è stato anche un tempo, in questa relazione, in cui non dovevo analizzare i suoi comportamenti quand'era con me perché non ne avevo motivo, così lo so quando mente, quando esagera, quando non lo sta facendo per me; ma se, nonostante questo, lo lascio fare, non posso dargli la colpa anche del fatto che non mi piace quello che siamo adesso perché, a modo mio, sto contribuendo a realizzarlo.
Prendiamo ad esempio quello che è successo ieri sera. Dopo i precedenti del bagno nella stazione di servizio, ho capito che cosa Bill avesse in mente nel momento esatto in cui mi si è avvicinato, perché Bill è sempre molto chiaro quando si tratta dei propri desideri, soprattutto quelli sessuali. Non ti manda mai segnali ambigui, per questo siamo sempre andati molto d'accordo sull'argomento. Così quando è rientrato sul tourbus e mi si è spalmato addosso con insistenza, l'ho capito che non faceva così perché aveva tanta voglia di farlo, ma solo perché gli serviva che io me lo scopassi e che possibilmente Bushido lo venisse a sapere, il che immagino sia successo visto che Bill ha fatto di tutto per appoggiarsi ad un finestrino e l'altro tourbus c'era parcheggiato proprio davanti. L'unica cosa che mi sono risparmiato è di guardare Bushido mentre lui guardava noi perché è un livello a cui al momento è sceso solo Bill e io vorrei non essergli complice almeno in questo.
Il caffè è pronto e Bill si trascina rumorosamente fuori dalla panca, così io mi rendo conto che mi sono perso nei miei pensieri un'altra volta, che non è una novità di per sé, ma mi fa perdere le speranze di trovare un attimo di pace in cui Bill o quello che fa non mi occupino la testa tutto il tempo quando sono sveglio e anche gran parte della notte, visto che arrivo perfino a sognarlo. Io che non mi sono mai ricordato un accidente di niente quando aprivo gli occhi al mattino, ora ho ricordi nitidissimi di lui che nei miei sogni mi dice tutto ciò che non voglio sentirmi dire. Tutto ciò che io non voglio dire a lui, per altro.
E' una specie di persecuzione e mi ricorda di quando ci siamo lasciati – anzi di quando mi ha lasciato – e io volevo soltanto poterlo mandare a fanculo e poi dimenticare che fosse anche solo esistito o, almeno, che fossimo mai esistiti io e lui insieme. Solo che non mi riusciva. Non mi riusciva nemmeno offenderlo come si deve, perché in fondo lo capivo e forse mi faceva più male l'idea che quel suo comportamento avesse un qualche cazzo di senso, da qualche parte, che non il fatto che avesse scelto lui alla fine.
Bill era confuso e io capisco la confusione, la capisco fin troppo bene. So cosa significa volere intensamente qualcosa e avere una piccola parte di te che tende tutta da un'altra parte. Pensi che se ragioni per grandezze, allora puoi stare tranquillo, la scelta è facile e quel pezzo di te che non ragiona in comune col resto si convincerà poi, sarà solo un piccolo strappo e via. Come togliere un cerotto. Solo che mentre si strappa, capisci che quella parte era più grande di quel che sembrava, che ci mette di più a staccarsi e allora rimani lì e non ti muovi, perché sai già quanto forte sarà il dolore e non vuoi sentirlo più. Pensi che magari, se non fai niente, la situazione rimarrà così per sempre e non ci sarà bisogno di scegliere, o lo farà qualcun altro al posto tuo. Per me, in fondo, è stato esattamente così: ha scelto Bill e a me non è rimasto che accettare; ha fatto male lo stesso ma in maniera diversa. Eppure so che gli è costato. Lo sapevo anche allora, nonostante tutto. Era comprensibile.
Adesso, invece, non lo capisco e se non reagisco come dovrei forse è perché credo non lo capisca nemmeno lui. Io lo so che Bushido ha ancora un posto speciale nel suo cuore, forse perfino più grande del mio, ma qualunque cosa sia che Bill vuole da lui – attenzione, riconoscimento, riaverlo indietro – la vuole disperatamente e sta passando sopra perfino a se stesso per ottenerla. E, non lo so, mi spaventa.
Le cose, comunque, vanno peggiorando perché mentre il resto del mondo conosce alla perfezione e mette in pratica il concetto per cui quando tocchi il fondo non ti resta che risalire, noi ci siamo specializzati nel prendere una vanga e scavare il più possibile, fino ad uscire dall'altra parte dell'universo dove le cose sono a rovescio, i morti risorgono e le persone che ti amano arrivano ad assecondarti anche quando il tuo più grande desiderio è scopare con loro solo per far ingelosire qualcun altro.
Ed è questo che in realtà io spero, è questo il pensiero a cui ogni giorno mi aggrappo con tutte e dieci le dita, e cioè che noi si sia già scavato e si sia già anche dall'altra parte di questo tunnel infinito, così tutto ha più senso e se proprio non ci piace, possiamo sempre infilarci di nuovo in questo buco e tornare indietro e vedere di risalire dall'altra parte. Il punto è che più passa il tempo e più ho l'impressione che siamo solo in fondo ad un burrone e invece di trovare la forza di risalire ce ne stiamo qui ad aspettare un aiuto che non arriverà mai, e intanto che stiamo qui ad aspettare, ci diamo l'un l'altro la colpa dell'essere caduti e questo, ovviamente, non ci aiuta affatto a risalire. Anche il mio aiutare Bill in questo suo assurdo tentativo di attirare l'attenzione di Bushido non è che un trattenerlo con forza a terra. Con me.
Dopo la caffettiera non c'è molto altro di cui parlare. Io bevo in silenzio e lui gioca con il liquido che ha nella tazza senza davvero l'intenzione di farci qualcosa di utile. Bill non va pazzo per il caffè, non so nemmeno perché lo abbia preparato, forse perché fare cose normali lo fa sentire normale. A me capita spesso, quando le cose vanno a puttane, di prendere il grembiule e cucinare, perché cucinare è una cosa che fanno le persone normali, non quelle come me e chi mi sta intorno, a cui succedono cose assurde. A volte hai solo bisogno di essere una persona noiosa, il cui più grande problema è che non si bruci il pollo nel forno e basta. Niente faide, niente storie d'amore tra mille persone diverse. Solo tu, la cucina e magari una vita normale.
Quella sera le cose fra me e lui non cambiano molto. Non ci diciamo niente perché non sappiamo di cosa parlare, ma continuiamo a starci intorno e io spero che Bill lo faccia per lo stesso motivo per cui lo faccio io, e cioè che ho paura che non ci sarà mai più modo di avvicinarmi se decido volontariamente di stargli lontano anche per un minuto. Ho la sensazione che se invece di andargli incontro, tiro e strappo dalla parte opposta, poi i due lembi non combaceranno mai più. Abbiamo già ricucito troppo, credo; anche mia nonna diceva che ad un certo punto gli stracci non si rammendano più.
Io e Bill però non siamo affatto abituati a stare in tensione, uno contro l'altro intendo. Questa sensazione di frustrazione e d'impotenza, io l'ho provata forte soltanto con Fler. C'erano volte in cui litigavamo, avevo voglia di pestarlo e lui aveva voglia di pestare me, e un attimo prima che ciò avvenisse, uno di noi due finiva per uscire e andarsene. Con Bill mi sembra strano provare la stessa cosa, probabilmente perché non è mai stato così fra di noi, e mentre con Fler era solo un momento di rabbia, una cosa quasi collaudata, adesso mi sembra che abbiamo passato un limite ben preciso, uno per cui se anche volessi rimediare non saprei come fare. Ci provo e lo prendo al volo, tirandomelo addosso sul divano mentre passa di lì. Lo stringo e gli premo il naso contro una guancia, provo un sorriso, ne provo due, tre, finché anche lui non risponde. Nessuno di questi sorrisi è vero, nemmeno il mio, ma in questo momento fingere di essere rilassati è meglio della tensione, della frustrazione o di qualsiasi altra cosa sto provando. Resistiamo si e no cinque minuti, lui prova ad accoccolarsi contro di me e io provo a stringerlo ma non funziona, come se durante la giornata che abbiamo passato senza toccarci avessimo cambiato forma e ora la sua schiena contro il mio petto non s'incastrasse più tanto bene. Sono consapevole del mio disagio e della sua smania, che gli fa muovere le mani e i piedi in continuazione come non trovasse pace.
Alla fine si alza. E' uno scatto il suo, come si fosse trattenuto fino a quel momento e ora proprio non ce la facesse più. “Esco un attimo,” dice in un sospiro, come se gli mancasse l'aria. Non si prende nemmeno la briga di mettersi addosso qualcosa, tanta è la fretta che ha di andarsene.
So che finirà per andare da Bushido perché lo vuole e perché anche se non lo volesse finisce sempre per orbitargli intorno, ma io non ho la forza di fermarlo e forse neanche la voglia.
Ho bisogno che qualcuno esca da questa stanza, e sono contento che ci riesca almeno lui.

*


Non so quanto tempo passa ma quello che succede dopo è evidentemente un grosso segnale che noi tutti sottovalutiamo. Io so che Bill sta male, lo so perché nessuno lo guarda più attentamente di me, nemmeno Bushido che si sforza di non prestargli attenzione – come si fa con i fantasmi. Non sei vero, non sei qui, io non ti vedo – solo che sto male anch'io, tanto, e non riesco a gestirci entrambi, non stavolta. I miei riflessi sono rallentati dalle mie sensazioni e per ogni cazzata che Bill fa devo mettere da parte la voglia che ho di mandarlo a fanculo prima di andare a recuperarlo e cercare di rimettere insieme quello che rimane di lui dopo che qualsiasi cosa fosse non è andata come voleva. Immagino che non dovrei farlo, che dovrei effettivamente mandarlo a fanculo, solo che non lo capisco in questo momento e comunque, anche capendolo, non lo farei perché corro il rischio di perderlo e questo, anche con la rabbia e la frustrazione e la voglia che ho di spaccare ogni singolo oggetto che mi trovo davanti, non è ancora un'opzione che riesco a prendere in considerazione.
Ad un certo punto devo essermi addormentato perché mi svegliano le grida, dapprima confuse, poi sempre più chiare, appena fuori dal tourbus. Ci metto un po' a realizzare che si tratta davvero di una rissa e che le voci che sento sono quelle di Bill e di suo fratello.
Li vedo dal finestrino e non è difficile capire cos'è successo, nemmeno per me che ho il cervello ancora intorpidito dal sonno. Bushido è in piedi sui gradini del suo tourbus e Bill ha addosso solo una maglietta, suo fratello deve averlo trovato così e dev'essere esploso, come del resto minaccia di fare da giorni.
E' stanco di Bill, siamo tutti stanchi di Bill, però lui in qualche modo è autorizzato a fare quello che sta facendo. E lo fa.
Vedo Tom trascinare suo fratello sull'asfalto della piazzola, tenendolo per un polso. Lo vedo alzare le mani su di lui vedo Bill che cerca di proteggersi con il braccio alzato. Mi si stringe lo stomaco perché Bill lo implora di smettere e quando lui non lo fa, gli occhi gli si riempiono di lacrime e lo so che non è per il dolore o per i calci ma perché è Tom che ha perso la pazienza. Bill è più consapevole ora di aver passato ogni limite di quanto non lo sia mai stato in questi giorni. Vedo solo questo e poi sono fuori perché non riesco a sopportare altro. Gli strappo Bill dalle mani mentre David tira via lui, e me lo stringo addosso più forte che posso.
Quando Bill mi affonda il viso nella maglia, per una volta, mi chiama per nome perché ha bisogno proprio di me e non importa che lo faccia adesso, dopo che chissà cos'ha combinato con Bushido. Non m'importa, per il momento mi basta sentirmi chiamare e sapere che non lo sta facendo a vuoto.
Sussurra anche che gli dispiace, ma a quello non credo. Fingo semplicemente di non aver sentito e lo accompagno verso il tourbus, piano perché trema e non si regge in piedi.
Mentre ci allontaniamo, sento alle mie spalle Tom che continua ad imprecare e sono quasi certo che Bushido sia ancora lì sui gradini del bus e stia guardando tutto con la stessa aria di rassegnazione che aveva a volte quando tentava di parlare con Fler e non ci riusciva, perché lui si chiudeva a riccio e attaccava per difendersi, facendo di tutto per non ascoltarlo. Sembra siano passati due secoli. E' buffo che me ne ricordi adesso, è buffo che il ricordo che ho di Fler sia completamente compromesso dall'immagine recente che ho di lui mentre l'immagine che ho di Bushido sia tornata ad essere il ricordo che mi sono portato dietro per mesi finché non è resuscitato per rovinarmi la vita.
E' tutto confuso, perfino il tempo. Se non mi concentro potrei anche perdermi. Bill mi piange addosso come se Bushido fosse morto e Bushido ci guarda senza sapere più cosa fare, come quando era ancora vivo. E' un casino, un grande e fottuto casino.
Faccio entrare Bill nel nostro tourbus, lui singhiozza ancora e continua a chiamarmi e poi a scusarsi ogni volta che io rispondo di essere lì. Mi guardo indietro un attimo prima di chiudere la porta e quello che vedo è così deprimente che provo pena per come siamo ridotti e per la prima volta ho la chiara sensazione che se non facciamo qualcosa, questa situazione sarà costretta a risolversi per conto suo e lo farà malissimo.
Raggiungo Bill che si è raggomitolato sul nostro letto e si tappa la bocca per nascondere i singhiozzi che però sono così forti e isterici che lo scuotono completamente. Mi stendo dietro di lui e lo abbraccio; ci mette un'eternità a calmarsi, sembra non debba smettere mai. Torniamo a passare le ore in silenzio, ma almeno lo facciamo vicini. Mentre guardo il soffitto penso che ad un certo punto le cose dovrebbero smettere di andare male, che tu risalga o che tu decida di scavare, non importa. Dovrebbe esserci un limite alle stronzate che le persone possono fare, al male che possono infliggersi a vicenda.
Deve esserci, o non so come cazzo faremo.

*


Sono ormai arrivato al punto che se la mattina mi sveglio e le cose non sono peggiorate dal giorno prima, lo considero già un notevole miglioramento, stamattina però Bill sembra stare meglio.
Quando mi siedo sul letto con la colazione, sorride e io quasi sospiro di sollievo perché con tutte le lacrime che ha versato, quasi non mi aspettavo più di vederglielo fare. Ha gli occhi rossi e gonfi, ma ha dormito un po' e spero che le frittelle facciano il resto.
Lo guardo mangiare e penso che dovrei chiedergli cosa c'è che non va e cosa cerca, qualunque sia la risposta che deve darmi, ma non ne ho il coraggio. Soprattutto in questo momento che mi sembra di riavere avuto indietro il Bill che faceva colazione a casa mia il sabato mattina, dopo essere scappato di nascosto da suo fratello, il quale sapeva che era con me e mi tartassava di telefonate minacciose che ci facevano ridere entrambi.
Lo guardo e spero che magari durerà. Magari non serve tirare di nuovo fuori l'argomento. Magari le cose tornano a posto.
Bill, però, è un castello di carte e io non so prevedere quale sarà il soffio di vento che lo farà crollare di nuovo. E' per questo che il concerto di quella sera è un vero disastro.
Nessuno di noi è concentrato come dovrebbe, ma Bill è totalmente fuori di sé e io credo che non sia neanche del tutto lucido. Il massimo che riesce a fare sono cinque canzoni, poi crolla e scoppia in lacrime. E' così isterico che singhiozza fino a togliersi il respiro e David è costretto a cancellare il resto della serata e mandare tutti a casa, fra i fischi del pubblico e le imprecazioni di Tom che non si trattiene nemmeno di fronte a suo fratello e gli dice in faccia che si è rotto i coglioni di questa situazione e che se stiamo tutti di merda è colpa sua. Bill piange solo più forte e lo fa per tutto il tragitto di ritorno, non riusciamo a farlo smettere ed è doloroso che si calmi solo quando alla fine cedo alle sue richieste quasi deliranti e scosse dai singhiozzi e gli metta le mani addosso, è doloroso che smetta di soffocare solo quando lo bacio e le sue dita possono stringersi intorno alla maglia che non mi ha dato nemmeno il tempo di togliere. Mi si è aggrappato addosso e mi ha cercato con le mani e con le labbra finché non abbiamo scopato e solo allora ha smesso di piangere, come se avesse bisogno di farlo per ritrovare il controllo. E' doloroso perché so che non sta davvero cercando consolazione, ha solo bisogno di non venire respinto anche da me.
Mi fa schifo che ci siamo ridotti a questo, perché questo non siamo noi. Dovrei spingerlo via invece di accarezzarlo, allontanarmi invece di affondare in lui ma tutto quello che riesco a fare è abbracciarlo e baciarlo e stringerlo perché non voglio perderlo. Non voglio e basta. Non è giusto.
Questo è il motivo per cui scopo con lui dopo il concerto e lo faccio anche la sera dopo quando rientra sul tourbus e l'ombra di Bushido si allunga oltre la porta mentre Bill si fa stendere sul tavolino.
Come se non mi fossi accorto che lui è lì, come se a Bill importasse qualcosa di questo.
Faccio l'amore con lui, anche se lui non lo fa con me.
Lo lascio fare perché lo amo. Sbaglio, perché lo amo.
E' questa la giustificazione che mi do – l'amore – quando David chiama e noi non siamo stati in grado di fermarlo in tempo.

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Let Your Fingers Do The Walking

di lisachan
Spengo la televisione quando le Crispy News di Mtv mi fanno capire che intendono mostrarmi altre immagini esclusive del tour dei Tokio Hotel con l’Ersguterjunge per la cinquecentesima volta circa nell’arco delle ultime ventiquattro ore. Quello che sta succedendo dall’altro lato della Germania, mi ripeto alzandomi in piedi e gettando il telecomando sul divano mentre mi dirigo speditamente verso il frigorifero nella speranza di trovarci qualcosa dentro, non mi riguarda. Non è che mi senta tagliato fuori, è solo che mi rendo conto che ci sono cose che Anis, Bill e Chakuza condividono, e delle quali io non faccio parte, semplicemente perché la mia presenza qui è il risultato di una combinazione di eventi che non esiterei a dire sfortunata e totalmente casuale. Professionalmente parlando, io non sono legato a nessuno di loro. Io ho l’Aggro – per quanto ormai Sido mi mandi a fanculo ogni volta che mi vede, e non fatico ad immaginare perché, visto che la mia faccia e quella di Anis campeggiano affiancate su ogni fottuta copertina del paese – ed è lì che voglio restare. Quella è famiglia, per me. Ed è del tutto diverso da ciò che invece lega quei tre disperati.
Non posso dire che non mi dispiaccia per loro, naturalmente. Voglio dire, Anis è stato la mia intera esistenza per una quantità di tempo spropositata, Chakuza è un pezzo esageratamente grande della mia vita recente – esageratamente soprattutto calcolate le sue dimensioni – ed il ragazzino, voglio dire, è il ragazzino, come si fa a non dispiacersi per lui per principio?, basta guardarlo in faccia. Per cui sì, mi dispiace, ma non posso negare che nell’ultimo periodo in cui sono stati lontani la mia vita abbia subito radicali cambiamenti in positivo, dannazione. È molto vero quello che dicono alcuni, occhio non vede, cuore non duole. Io ho una vaga idea di quanto stia succedendo da quelle parti, naturalmente, ma non esserci rende tutto incredibilmente meno pesante. Ci rifletto seriamente, mentre bevo la birra ghiacciata direttamente dalla bottiglia, a piccoli sorsi, e mi dico che forse la chiave per risolvere il problema è questa, in fondo. Esserci. Se ci sei stai male, se non ci sei soffri lo stesso, ma il dolore diventa sordo, un sottofondo cui puoi abituarti, non è lancinante come dover rivedere quegli stessi volti ogni giorno, e volerli, e non poterli avere, e doverti accontentare, e sentirti in colpa perché ti stai solo accontentando ed invece vorresti essere semplicemente felice con ciò che hai e basta.
Perso come sono nei miei pensieri, non sento il campanello squillare. O meglio, lo sento, ma è un’eco lontana, come se stesse squillando quello del vicino, o quello dello scapolo del piano di sopra, che in effetti riceve visite ad orari della notte veramente improbabili, orari come questo, in cui la gente per bene dorme ed i cretini come me bevono birra per alleggerirsi la coscienza, quindi non ci faccio nemmeno caso. Peraltro, è incredibile: non avendo mai veramente vissuto in questo palazzo, inconsciamente e stupidamente credevo anche che il palazzo non avesse mai veramente vissuto senza di me. In qualche modo, nella mia testa, questa era una scatola rettangolare e tridimensionale piena di vuoto in cui l’unico piano occupato da un appartamento, vuoto o pieno che fosse, era il mio. Da quando, invece, ci passo più tempo, ho scoperto che è un posto un sacco vivo. C’è questo tizio qui, e c’è la signora del primo piano che ha due gemelline deliziose, avranno quattordici anni e vanno sempre in giro vestite con colori combinati, tipo che se una è in nero con qualche dettaglio bianco, l’altra è in bianco con qualche dettaglio nero. Poi c’è la studentessa universitaria dell’ammezzato che fa la dogsitter ed ha sempre casa piena di cani non suoi che abbaiano continuamente e sporcano ovunque, e c’è una coppia di anziani signori all’ultimo piano che sono tipo la cosa più pimpante mai esistita e non prendono mai l’ascensore anche se è fondamentalmente per loro che il condominio l’ha fatto installare, robe da matti.
Insomma, per questo posto c’è un andirivieni continuo, e siccome io non aspetto visite fatico proprio a ricondurre il suono del campanello con la possibilità che sia il mio. Lo realizzo tipo al terzo squillo. Io li ho sentiti, quegli squilli, ma quando mi accorgo che è proprio il mio campanello che sta squillando la sensazione è di quelle che provi quando stavi sognando che stava accadendo qualcosa e quella cosa in un certo qual modo sta accadendo davvero, tipo che un boa constrictor ti stava staccando la testa a furia di stringerti fra le proprie spire, e invece magari era solo il lenzuolo, ma a staccarti la testa ci stava provando comunque. È un suono flebilissimo, all’inizio, e poi si fa via via più intenso, e alla fine stacco le labbra dalla bottiglia, guardo la porta e mi rendo conto che dovrei andare ad aprire, o quantomeno a vedere chi è.
Spalanco la porta senza neanche guardare attraverso lo spioncino chi ci sia dall’altro lato, e quando mi appare davanti questo tizio biondissimo con gli occhi azzurri e un visino che sarebbe pulitissimo se non avesse un labbro spaccato ed un sopracciglio messo non tanto meglio, naturalmente non lo riconosco.
- Sì? – chiedo, piegando appena il capo e illudendomi che a guardarlo di sbieco possa assumere una forma conosciuta, - Chi sei?
- Sono Daniel. – risponde lui, e lo fa con ovvietà, come se il suo semplice nome dovesse aprire chissà che bauli colmi di ricordi nella mia testa. Ma il tipo qui ha presente quanti Daniel esistano nel mondo, e quanti ne abbia incontrati nella mia vita? Per quanto ne so, potrebbe essere D-Bo accidentalmente finito in una macchina del tempo e tornato alla sua giovinezza, che ora cerca me per chiedermi aiuto solo perché Bushido non c’era in quanto impegnato a dannarsi la vita in tour col proprio ex e l’attuale fidanzato del suo ex che, per un’assurda combinazione di fattori, è anche l’ex del suo attuale fidanzato.
- A-ha. – annuisco poco convinto, - E io sono Patrick, piacere di conoscerti, Daniel. Farai così con tutto il resto del palazzo?
Lui gonfia le guance ed irrigidisce le braccia lungo i fianchi, offesissimo. Arriccia perfino le labbra in un broncio incredibilmente goffo, ma desiste subito, forse per il dolore. Ha un brutto taglio, lì, andrebbe disinfettato.
- Noi ci conosciamo già! – mi fa presente, - Non ti ricordi?
Cerco di riportare alla memoria una qualsiasi occasione in cui possa aver conosciuto un ragazzino della sua età. Mi vengono in mente solo i concerti, ed ultimamente non è che ne abbia fatti tanti. Ma cosa sta pretendendo questo essere assurdo da me?
- No, temo di no. – scuoto il capo, - Dovrei?
- Dovresti, sì. – dice lui, piantandomi una mano nel mezzo del petto e scostandomi letteralmente di lato per entrare in casa, - Ho rischiato la vita per te, un anno fa. – sbuffa, voltandosi a guardarmi.
Io chiudo la porta e gli ricambio un’occhiata incerta. Dev’essere successo qualcosa che non ricordo. Ero ubriaco? Mi sono perso e il moccioso qui mi ha riportato a casa in spalla, per quanto io possa faticare a credere ad una cosa simile? Ma allora perché avrebbe dovuto rischiare la vita?
- Senti. – sospiro, massaggiandomi stancamente le tempie, - È un po’ tardi per perdere tempo con misteri e indovinelli, ti pare? Dimmi chi sei e facciamola finita. Poi, se hai anche qualcos’altro da dirmi a parte il tuo nome, bene, sennò grazie della visita e buonanotte.
Lui si prende qualche secondo, prima di rispondere. Gira un’occhiata curiosa tutto intorno alla stanza e poi pianta una mano sul fianco con fare teatrale.
- E dire che dovresti essere un amico che conta. – sbotta, tornando a guardarmi, - Quanto valgono le tue promesse, Fler?
Improvvisamente, realizzo chi ho davanti. La mia memoria torna a un anno fa, ad una notte ghiacciata, a Tempelhof, alla ricerca di un uomo che credevo colpevole della morte di Anis. Ad un ragazzino che ci ha indicato la strada, a me e a Chakuza, quando credevamo di esserci completamente persi.
- Tu… - balbetto, indicandolo maldestramente, - Tu sei quel ragazzino. Daniel. Sì, certo, ora ricordo.
Sul suo volto si apre un sorriso spontaneo e repentino, come quello dei bambini, mentre il suo intero corpo si tende verso di me.
- Davvero? – chiede, gli brillano gli occhi. Poi torna a cercare di darsi un tono, altrettanto velocemente rispetto a quando l’ha perso. – Cioè, finalmente. – borbotta schiarendosi la voce con un paio di colpi di tosse. – Non c’è niente da bere in questa casa?
- Niente che possa dare a un palese minorenne. – rispondo inarcando le sopracciglia, - A parte l’acqua.
- Oh, andiamo! – sbotta lui, pestando un piede per terra, - E poi sono maggiorenne. Ho compiuto diciott’anni quest’anno.
- Sì, certo. – rido io, - Farò finta di crederci. Mi fa piacere rivederti, comunque. Almeno so che non hai gettato al vento la tua fortuna e non sei finito in galera, mentre non guardavo. – gli lancio un’occhiata incerta, - Non ci sei finito, vero?
- No. – risponde lui con una mezza risata, - Non ne avrei avuto il tempo, comunque. Ho avuto un anno piuttosto pieno.
- Ah, non dirlo a me. – alzo gli occhi al cielo, passandogli accanto per recuperare la birra che ho abbandonato sul tavolino prima di andare ad aprirgli, - E cos’è che ti porta qui stasera, Daniel? Ti annoiavi? Avevi finito i cerotti a casa? – chiedo, indicando distrattamente il labbro gonfio e il sangue che gli scivola lungo una tempia.
Lui si passa velocemente una mano sul viso, come a sincerarsi delle proprie stesse condizioni, e poi esita per un minuto buono, incerto sulle gambe – non fa che spostare il peso del corpo da un piede all’altro – e palesemente sul punto di scoppiare.
- Voglio che sia tu. – dice quindi, tutto d’un fiato, come se anche solo mettere in fila quelle quattro parole gli sia costato una fatica immane.
- …vuoi che sia io. – ripeto, indicandomi mollemente, - A fare cosa? A disinfettarti le ferite?
- Ma no! – sbotta lui, esasperato, e pesta di nuovo il piede per terra. È ridicolo che lo faccia, sembra ancora più ragazzino di quanto non sia. – Voglio che sia tu il primo!
- Ma il primo a fare che?! – insisto, allargando le braccia ai lati del corpo, - Non ti sai mettere un cerotto e sei venuto dal tuo guru del gangsta rap perché sia lui a mostrarti i misteri della cassetta del pronto soccorso?! Sii più chiaro!
- Sei… un idiota! – strilla lui, irrigidendosi tutto come un pezzo di legno, - Voglio che sia tu il primo a… - deglutisce a fatica, e io sento un brivido caldissimo scorrermi lungo tutta la schiena. È paura. – il primo a fare l’amore con me. – conclude, guardando fisso il pavimento. Vorrei poter riavvolgere il nastro e rimandarlo da capo, perché non sono proprio sicuro di aver capito bene.
- Come, scusa? – chiedo istintivamente. Mi rendo conto dell’idiozia della domanda, ma non riesco proprio ad impedirmelo, non riesco a fermarmi. Lui arrossisce fino alla punta delle orecchie, e volta il capo così velocemente che finisce per nascondersi dietro una tenda di capelli scarmigliati e che necessiterebbero decisamente di uno shampoo.
- Cos’è, te lo devo ripetere? – sputa fuori lui, acido.
- No. – rispondo immediatamente io, sollevando le braccia come di fronte a una pistola puntata contro. Mi arrendo, Daniel. Però prima parliamone cinque minuti. – È solo che, capisci, non è che mi capiti tutti i giorni di vedermi spuntare alla porta minorenni che—
- Non sono minorenne! – scatta lui. Si morde il labbro inferiore, quello spaccato. Gli fa così male che ha gli occhi pieni di lacrime.
- No, ok, ok. – annuisco io, cercando di calmarlo, - Quello che intendo dire è che la situazione è un po’ spinosa, non ti pare? Cosa ti aspetti che faccia?
- Ma non lo so! – sbuffa lui, abbattendosi sul mio divano e prendendosi la testa fra le mani, - Dovresti essere tu quello esperto, no? Senti, - sospira, - ho avuto una serata difficile, e ho davvero bisogno di—
- Di farti scopare? – chiedo, gli occhi enormi. Lui mi guarda e arrossisce ancora, perfino più intensamente di prima.
- No! – strilla, - Cioè, sì, ma per come la metti tu sembra una cosa di uno squallore tremendo! Era meglio come l’ho detta io prima.
- D’accordo, ma – insisto io, - …non ti capisco. – rinuncio subito dopo, abbattendomi sul divano al suo fianco. – Ti va di parlarne?
- Se avessi avuto voglia di parlarne, sarei andato dallo psicologo dei servizi sociali, ti pare?! – sbotta lui, immediatamente sulla difensiva. Poi sospira, accomodandosi meglio ed appoggiandosi indietro sullo schienale. – Ho fatto coming out sei mesi fa. – racconta a bassa voce, ed io mi sconvolgo, perché, voglio dire, ce li avrà diciassette anni?, eppure ha già avuto più coraggio di me, che alla sua età avrei dovuto e voluto dire cose che invece mi sono tenuto dentro fino ad ora, praticamente, - E se prima potevo dire di avere una vita di merda, era perché non immaginavo minimamente cosa sarebbe diventata dopo una cosa del genere.
- Immagino che non debba essere facile. – commento con un mezzo sorriso. Lui mi guarda malissimo.
- È un inferno. – mi corregge, usando una parola senza dubbio più adatta, - Non mi aspettavo che mio padre capisse, naturalmente, ma che almeno i ragazzi della banda mi stessero vicini… è gente che conosco da una vita.
- Evidentemente, loro non conoscevano te. – gli faccio notare.
- Nemmeno io conoscevo me stesso. – ribatte lui, - È… è solo capitato, cazzo. E non posso farci niente, non è che l’abbia deciso, “oh, sì, diventiamo gay, scommetto che dopo sarà tutto una figata, andrò a vivere a Beverly Hills ed indosserò solo pantaloni e camicie bianche con cinture e scarpe di pelle nera”… è solo capitato. – insiste, occhi bassi e sguardo cupo.
Ridacchio un po’ per l’immagine mentale che la sua descrizione oggettivamente strampalata della società gay americana mi offre, ed allungo una mano a sfiorargli i capelli. Sono di un bel biondo chiaro, molto tedesco. Scommetto che dopo una bella doccia saranno morbidissimi, al tatto.
- Danny, devi anche capire che vivi in mezzo a ragazzini che hanno sempre avuto un solo modo per guardare alle cose. Non puoi pretendere che capiscano.
- Va bene, ma che bisogno avevano di picchiarmi?! – sbotta lui, indicandosi il viso, - Il labbro è un gentile omaggio di mio padre, ma il resto no. Ci conoscevamo fin da piccolissimi, alcuni di loro sono parte della banda dalle medie, e io li ho visti arrivare quasi tutti. Ma non hanno esitato un secondo a prendermi a bastonate, quando l’ho detto, e anche molte volte dopo. Che cazzo.
Sospiro, passando le dita fra i suoi capelli e sciogliendone i nodi.
- Perché non te ne vai, da lì? – propongo, - Sono sicuro che—
- Che stai facendo? – chiede lui, voltandosi a guardarmi con aria sinceramente stupita.
- Cosa? – ribatto io, distrattamente. La mia mano non si ferma, e lui la indica con un dito. – Ah, questo. – registro come fosse una cosa normalissima, - Non lo so. Pensavo avessi bisogno di una qualche rassicurazione.
Lui sospira pesantemente, torcendosi le mani in grembo.
- Senti… - dice a mezza voce, - Tu mi piaci veramente tantissimo. – e lascia il concetto lì sospeso, come se l’idea di spogliarlo e prenderlo magari su questo stesso divano dovesse essere una diretta conseguenza di questa confessione. Non esiste niente che potrebbe giustificare me e te a scopare su questo divano adesso, ragazzino confuso che non ha ben chiaro praticamente niente riguardo a se stesso, alla vita e al mondo in generale.
- Io sono impegnato, Daniel. – gli faccio presente. Potrei partire con una lunga digressione sul mio impegno al momento, ma me la tengo da parte per momenti in cui leggerò meno voglia chiara e limpida nei suoi occhi azzurri e grandi. Questa situazione va arginata. Mi chiedo se ne sono in grado.
- Non importa! – dice, con la sicurezza avventata di chi immagina io gli stia dicendo una cosa del genere solo per fargli presente che per noi non potrebbero mai esserci e vissero tutti felici e contenti con castelli e principi azzurri in groppa a splendidi cavalli bianchi. Lo guardo dritto negli occhi, nella sua testa ci sono un mucchio di favole.
- Importa a me. – insisto, - I rapporti di coppia si basano sulla fiducia. Anis deve sapere che io non lo tradirò, mentre lui è via.
Ed io lo so, che Anis non mi tradirà mentre sono qui. Lo so. Lo so?
- Dimmi almeno che posso restare qui da te, per la notte. – mormora lui, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore.
- Cosa? – rido io, sbigottito, - No che non puoi.
- Non posso tornare a casa! – insiste Daniel, - Non subito, almeno. Dubito che mio padre abbia smesso di bere, quando me ne sono andato, e non voglio stare da solo con lui in una casa traboccante di bottiglie. Di solito le butto tutte via mentre dorme.
Lo guardo inarcando un sopracciglio, incerto.
- Perché le bottiglie? – chiedo. Daniel mi guarda fisso per qualche secondo, poi si allunga verso il tavolino, afferra repentinamente la bottiglia di birra vuota posata sul ripiano e la spacca contro il bordo. Fa un rumore frastornante, si spargono schegge di vetro per tutto il pavimento, e prima che possa capire cosa sta succedendo davvero lui è sulle ginocchia, così vicino che sento l’odore del suo sangue come se fosse il mio, e mi punta la bottiglia spaccata alla gola, tenendola per il collo.
- Per questo. – dice. Uno dei cocci di vetro mi punge con forza la pelle, fa male quasi come dovesse trapassarla. Daniel, però, mette subito via la bottiglia, appoggiandola sul tavolino e ritraendosi mentre io mi accarezzo la gola per verificare che non ci siano tagli. Nel mentre, lo osservo afferrare la felpa che indossa dagli orli inferiori e tirarsela via da sopra la testa. Non indossa nient’altro, sotto, a parte un tappeto di lividi. Non ci sono tagli recenti, almeno, ma lui non intende mostrarmi i segni superficiali delle violenze più nuove, no, vuole mostrarmi i segni indelebili di quelle più vecchie. Si volta e mi mostra un fianco, torcendosi come solo un ragazzino della sua età che sia così magro può fare. – Guarda qui. – dice, indicando una lunga cicatrice un po’ sformata che gli taglia in due la pelle proprio sopra l’anca, - Questo me l’ha fatto per il mio quindicesimo compleanno. – racconta a bassa voce, - Volevo uscire con i miei amici, ma a lui non stava bene. Alla fine, sono dovuto uscire per forza per andare al pronto soccorso. Mentre lui dormiva, perché prima non ha voluto lasciarmi andare.
Deglutisco a fatica, sollevando una mano e tracciando quella linea incerta e chiara con due dita. È liscissima sotto i miei polpastrelli, e il gemito che sfugge dalle labbra di Daniel, più che sentirlo con le orecchie, lo percepisco sottopelle. È un brivido che mi scuote fino alle punte dei piedi. Ho sentito donne gemere più forte e con più voluttà, e quello che non è altro che il gemito sgomento di un ragazzino impaurito che probabilmente soffre solo un po’ di solletico – perché lo so che non era un gemito programmato, quando ne senti tanti impari a capire cosa è simulato e cosa no – riesce a scuotermi più di quanto non abbia mai fatto nient’altro di simile fino ad ora.
- Mi dispiace. – dico a mezza voce. Sono sincero.
- A me no. – risponde lui con una risatina, avvicinandomisi impercettibilmente, - La pelle è ancora sensibilissima, in quel punto. Ho scoperto che mi faceva quest’effetto quando una delle tipe con cui andavamo per locali il sabato me lo ha succhiato. Le sue mani non facevano che sfiorarmi i fianchi e quello mi piaceva già da solo più della sensazione di sentire l’uccello nella sua bocca.
Deglutisco ancora, o almeno ci provo, ma stavolta non mi riesce. Una delle mani di Daniel scende a posarsi sulla mia, se la schiaccia con forza addosso.
- Daniel— - provo a chiamarlo. Lui mi sorride e io m’interrompo subito.
- Quando sono nel letto da solo e mio padre non mi ha picchiato troppo forte, - dice lui a bassa voce, - cioè, quando posso ancora muovermi senza che mi faccia male tutto, a volte, sollevo la maglietta che uso per dormire e la accarezzo. – porta la mia mano a muoversi su e giù contro il suo fianco, - E basta quello da solo per farmelo venire durissimo.
- Smettila. – dico senza fiato, ma la mia presa si stringe attorno al suo fianco senza che possa nemmeno provare a controllarla. La sua mano resta lì. Calda e un po’ sudata. È così agitato, Dio mio. Glielo vedo negli occhi che ha una paura folle.
- Ti prego. – dice lui, avvicinandosi ancora. Le sue labbra sfiorano le mie, ma non osa farsi più avanti di così. – Solo una volta. Non mi vedrai mai più, dopo, te lo giuro.
Resto immobile e non dico niente, ma il problema è che continuo a restare immobile e a non dire niente anche quando lui alla fine si fa avanti e copre i pochi centimetri di spazio che ancora ci separano, poggiando le labbra sulle mie. Non sa come muoversi e probabilmente anche se lo sapesse gli farebbe troppo male per farlo, sento in bocca il sapore del suo sangue ed è lo stesso sapore che sentivo quando per le strade di Tempelhof picchiavano me. È il sapore del mio sangue, non solo del suo.
Chiudo gli occhi e sollevo un braccio, poggiandoglielo sulla nuca e traendomelo contro. Lui sbuffa un lamento sorpreso che si trasforma in un gemito un po’ perso quando forzo le sue labbra con la mia lingua, accarezzandogli lentamente il fianco e sottolineando i contorni della cicatrice. Si scioglie sotto le mie dita con una semplicità disarmante, ed è tutto così semplice, il suo corpo magro è così duttile, si adatta al mio come una coperta di quelle sottili e fresche che ridisegnano le sagome di ciò che nascondono senza riuscire a nasconderlo davvero agli occhi di nessuno.
- Allora… - mormora, quando mi allontano abbastanza da dargli tempo e modo di riprendere fiato, - Vuoi davvero—
- Shh. – lo interrompo io, sorridendo appena. Sfioro le sue labbra con le mie, accarezzo il taglio su quello inferiore con la lingua e lui rabbrividisce con tanta forza che lo sento scuotersi fra le mie braccia come stesse tremando dal freddo. – Non parlare. Rischi grosso, a farlo.
- Non fa più tanto male. – insiste lui, sistemandomisi in grembo. Lo sento eccitato dentro i jeans larghi e spessi e sorrido perché con i ragazzini di quest’età basta davvero pochissimo. – Il labbro, dico. E tutto il resto, anche.
- Ne sono felice. – annuisco, stringendolo da sotto le cosce ed alzandomi in piedi con un colpo di reni. È così leggero, dannazione. Nel movimento, i nostri bacini collidono e poi strisciano l’uno contro l’altro. Daniel mi si aggrappa con forza alle spalle e mugola sul mio collo, la voce rotta in un singhiozzo di paura.
- Farà male? – chiede pianissimo, tanto che lo sento appena. Non lo chiede come uno che stia verificando che opportunità ha per scegliere la migliore, lo chiede come uno che di opportunità ne ha una sola, e vuole essere preparato per affrontarla al meglio.
- Dipende. – rispondo sinceramente io, entrando in camera da letto. Mi serve un secondo per ricordare dove sono tutte cose, letto compreso, nel buio. Alla fine, ci riesco.
- Da cosa? – chiede lui in un mormorio sommesso, mentre lo adagio sul letto ancora rifatto e mi sistemo fra le sue gambe dischiuse, sbottonandogli i jeans.
- Da un sacco di cose. – sorrido io, anche se lui nel buio non può vedermi, chinandomi a baciarlo lievemente su una guancia, e poi giù lungo il collo, sul petto ossuto e sulla pancia morbida, - Da quanto lo vuoi. Da come si muove la persona con cui lo fai. Da quanto pensi al dolore.
- Io non voglio pensarci. – sussurra lui. Mi puntello sul materasso col gomito e sfioro il profilo del suo viso con le labbra. Ha gli occhi chiusi, sento le sue palpebre battere lievissime, come le ali di una farfalla. – Non voglio pensare al dolore.
Sorrido, accarezzandogli nuovamente il fianco.
- E allora non farà male per niente. – lo rassicuro, baciandolo piano. – Sei proprio sicuro di essere maggiorenne, tu, vero? – chiedo un’altra volta. Lui si mette paura, anche se è evidente che non potrei mai mollarlo, giunti a questo punto. Spalanca gli occhi e mi fissa con terrore palese, sollevando le braccia e stringendo i pugni attorno alle maniche della maglia che indosso.
- Certo che sono maggiorenne. – ribadisce, annuendo con sicurezza, - Te lo giuro, per favore—
- Calmati! – rido divertito, allontanandomi abbastanza da costringerlo a mollare la presa e sfilandomi i vestiti di dosso lentamente, così che i suoi occhi, che ormai dovrebbero essersi abituati al buio, possano intuire i miei movimenti, e capire che ci siamo vicini. – Era solo per scrupolo. Giuri di non essere stato mandato qui da qualche losco figuro che poi userà la tua testimonianza su come ti ho picchiato e violentato per estorcermi chissà che somma di denaro?
- No, non… - fa per rispondermi lui, poi si interrompe e pare rendersi conto di qualcosa di molto importante. Si azzarda perfino a tirarmi uno schiaffo su una spalla, e io rido di gusto. – E smettila di prendermi in giro! Cazzo, sei odioso.
- Cos’è, tu puoi fare il fascinoso parlandomi di come ti diventa duro quando solo ti si sfiora la cicatrice sul fianco, - rido io, appoggiando una mano sopra i suoi boxer e stringendo la sua erezione fra le dita attraverso il tessuto in cotone sottile, - e io non posso prenderti in giro? Questo non è un rapporto paritario.
- Non lo sarebbe comunque. – borbotta lui, voltando il capo. So che lo fa perché vuole sottrarsi al mio sguardo, ma tutto quello che vedo in questo momento è il suo collo, perciò è su quello che mi chino, lo assaggio piano in punta di lingua e sento i suoi respiri tremare sotto la pelle ed uscire a fatica dalle sue labbra, mentre muovo la mano che ancora gli tengo fra le cosce, accarezzandolo lento come se la notte non dovesse mai finire.
- Questo lo fai, dopo esserti accarezzato la cicatrice…? – chiedo a bassa voce, direttamente sulla sua pelle, stringendolo con maggiore decisione fra le dita mentre le sue mani corrono veloci all’orlo dei boxer, per tirarli giù.
- Non avevi detto di smetterla di parlare? – chiede a fatica, ansimando pesantemente. Io gli sorrido addosso.
- Avevo detto che tu dovevi smetterla di parlare. – rispondo, lasciandolo andare così che lui possa togliersi di dosso la biancheria, così svelto che pare gli stia prendendo fuoco addosso. Mi si schiaccia contro subito dopo, lasciandosi sfuggire un respiro genuinamente stupito quando mi sente già duro contro una coscia.
- Non avevo idea che fossi così. – borbotta confusamente.
- Dovrei prenderlo per un complimento? – chiedo divertito, e lui sbotta un lamento esasperato.
- Non parlavo di questo… - si lagna, il petto che si alza e si riabbassa più velocemente quando riprendo ad accarezzarlo pelle contro pelle, - Dicevo come persona. Cioè, non so nemmeno com’è che ti immaginassi, in realtà, cambiavi spesso. Dipendeva dalla serata che avevo avuto, o da cosa mi stuzzicava di più in un determinato momento… ma questa è tutta un’altra storia.
- Sì, perché questo è vero. – annuisco in una mezza risata, strusciandomi lentamente contro di lui perché possa sentirlo, - Finché ti piace, comunque, non è detto che sia un male.
Inspira ed espira profondamente, sollevando le braccia ed allacciandomi al collo mentre schiude le gambe e m’invita a prendervi posto in mezzo, prima di rispondere.
- Mi piace. – dice in un fiato, spingendosi appena contro di me e ritraendosi all’ultimo momento, quando mi sente pressare contro la sua apertura in un incastro che tutto dovrebbe essere meno che naturale, e invece viene ad entrambi così spontaneo da fare quasi paura.
- Allora è tutto a posto. – sorrido, inumidendomi due dita con un po’ di saliva ed accarezzandolo piano fra le natiche. Lui rabbrividisce e si tira indietro quasi all’istante, mosso dalla paura. – Calmati. – gli sussurro sulle labbra, - Ti ho detto che non farà male, no?
- Sì, ma era la verità? – chiede giustamente lui, ed io rido a bassa voce.
- Dipende anche da te, ricordi? – dico baciandolo ancora, - Sei tu il primo che non deve pensarci. Il resto verrà da sé.
Lui annuisce – si rassegna, forse – e lo sento rilassarsi sotto di me mentre le mie dita umide tornano a sfiorarlo, facendosi strada dentro al suo corpo una alla volta. Lo sento trattenere il fiato così a lungo che poi, quando è costretto a tornare a respirare, lo fa tutto in una volta, sbuffando come una teiera ed ansimando pericolosamente. Rido un po’, e piego le dita come ho imparato a fare solo recentemente – uno dei numerosi regali di Anis, suppongo per scusarsi di tutto ciò che mi ha fatto e di tutto ciò che, indubbiamente, continuerà a farmi in futuro, perché io sono uno che, se solo gli dai tanto, ti permette di fare questo ed altro – ottenendo in risposta da lui un gemito acuto e prolungato, un po’ ridicolo, ma che mi agita qualcosa nel petto e nel fondo dello stomaco.
- Ti prego. – mormora stentatamente lui, muovendosi un po’ alla cieca nel tentativo di spingere le mie dita abbastanza in fondo da toccare nuovamente quel punto che, anche se solo per un secondo, gli ha fatto perdere la testa. Io ritraggo la mano, prendendolo da sotto le ginocchia e portando le sue gambe fin sopra le mie spalle, dove le appoggio, piegandolo in una posizione un po’ innaturale che lo costringe a schiudere gli occhi e guardarmi incerto nel buio, in cerca di una risposta per ottenere la quale non ha abbastanza coraggio da farmi una domanda.
Mi sistemo meglio contro di lui, inumidendomi di nuovo le dita e poi accarezzandomi velocemente per tutta la lunghezza, preparandomi ad entrare dentro il suo corpo. E succede tutto in un attimo, così veloce che io a stento me ne accorgo, come quando ha spaccato la bottiglia e poi me l’ha puntata alla gola. C’è lo stesso potenziale di pericolo in quello che ha fatto lui poco fa e in quello che sto facendo io adesso. Solo che lui non ha avuto il coraggio di affondare. Io invece sì.
Quando mi scavo a fatica un posto dentro di lui, che è stretto e caldissimo tanto da costringermi ad annaspare senza fiato, Daniel inarca la schiena e geme. C’è del dolore, forse, da qualche parte, ma lui non ci sta pensando. Ed è molto bravo a farlo, tanto che per un secondo quasi penso a lui con una punta di irrazionale orgoglio, perché ciò che ha reso forte lui è esattamente ciò che ha reso forte me. Siamo incredibilmente simili, anche se lui non se ne accorge, ed è questo che lo spinge a cercare proprio me, a volere proprio me, con tutti quelli che potrebbe cercare e volere nel mondo, anche se in questo momento è convinto di volermi solo perché io sono uno che ce l’ha fatta, uno cui guardare con ammirazione e rispetto. Siccome lui è piccolo, cerca qualcuno che possa ricordargli se stesso, solo un po’ meno sofferente. Quando sarà grande, ricorderà i sentimenti che sta provando adesso con un imbarazzo infinito. E questo lo so perché per me è lo stesso, e ci convivo ogni giorno. Quello che Anis prova per me è così diverso da quello che io provo per lui. Ed il fatto di pensarci e realizzarlo proprio ora è così ridicolo che mi viene da ridere.
Non lo faccio, naturalmente. Mi muovo piano, perché davvero voglio che non faccia male, e dopo un po’ sento Daniel cominciare a muoversi in sincrono con me, le sue spinte che vanno incontro alle mie, i nostri bacini che si scontrano sempre più spesso sul sottofondo quasi musicale del fruscio lievissimo delle lenzuola ancora perfettamente composte sotto i nostri corpi sudati, come se questo letto non fosse mio, come se nemmeno questa casa fosse mia e noi fossimo semplicemente entrati da una finestra per prendere possesso di qualcosa che non ci appartiene, solo per venti minuti di serenità.
Stringo la presa sulla sua erezione e mi muovo più velocemente solo quando la via all’interno del suo corpo è abbastanza aperta da permettergli di ansimare non più solo per il senso di pienezza inevitabile e quasi nauseante che è normale ti prenda quando qualcosa di così estraneo da te sfiora la tua intimità in maniera così invadente, ma anche per la sensazione piacevole delle mie labbra che lo sfiorano ovunque, delle mie mani che gli accarezzano i fianchi, delle mie dita che passano insistentemente lungo la linea irregolare della sua cicatrice, tirandogli via il respiro a tratti ed a tratti restituendoglielo all’improvviso. E rallento le spinte, aumentando solo il ritmo delle carezze, aspettando che lui sia venuto prima di riprendere a pompare più velocemente, abbandonandomi poco dopo ai brividi dell’orgasmo che mi portano inevitabilmente a franargli addosso in pochi secondi. Per un attimo, penso distrattamente che ho paura di schiacciarlo, restandogli così addosso. Lui, però, mi regge bene. Non si lamenta neanche. All’inizio respira a fatica, ma poi si calma ed il suo respiro assume un ritmo meno frenetico. E per riflesso mi rassereno anch’io.
- Ehi. – dico piano, rotolando sulla schiena e rimanendo al suo fianco. Una mia mano è rimasta sulla sua coscia. A me non dà fastidio lasciarla lì, a lui non dà fastidio che ci sia, per cui è lì che la lascio. – Dimmi la verità, non sei maggiorenne, vero?
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, perdendosi in un flusso di parole apparentemente privo di senso fino a quando, finalmente, non sbotta in un “tecnicamente no” che mi fa scoppiare a ridere.
- Ma lo sarò fra poco. – si giustifica con voce lamentosa, rovistando sotto di sé per disfare le coperte e nascondercisi sotto, - E poi ti ho promesso che non ti denuncerò, smettila di insistere sul punto, no?
Io rido ancora, mi volto su un fianco e gli accarezzo la frangia con la mano libera, ravviandogliela sulla fronte.
- Era solo per saperlo. – lo rassicuro, - Non devi giustificarti di niente.
- Ovvio che non devo, sarai tu a doverti giustificare davanti a un giudice, quando spiattellerò tutto al tipo che mi ha assoldato per venire a letto con te. – dice lui con naturalezza. Lo fisso, spalancando gli occhi. – Scherzo. – borbotta tirando fuori la lingua. Rido e mi sporgo a mordergli le labbra in un gesto che è un po’ una punizione e un po’ un complimento sincero. – Quindi… - biascica lui quando mi allontano, - Questa è stata la prima e l’ultima volta, mh? Non ci rivedremo più.
Sorrido, girandogli un braccio attorno alle spalle e tirandomelo contro.
- Invece magari domattina intanto ti porto a fare colazione in qualche bel posto, - propongo, - e poi per il resto vediamo col tempo. Che ne dici? Ti piace come idea?
Non lo vedo sorridere, ma sento le sue labbra tendersi contro la mia pelle, e le sue braccia chiudersi attorno alla mia vita.
- Mi piace. – risponde annuendo.
Io sorrido ancora.
- Allora è tutto a posto.

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Pictures

di lisachan
Io non sto bene, è evidente. Cioè, è già un chiaro segno di squilibrio il fatto che io abbia acconsentito a continuare a vedere Daniel, decidendo di ignorare il fatto che è palesemente minorenne solo per quieto vivere e perché non ho nessuna voglia di ritornare a pensare a quanto potrebbe fare schifo la mia vita in prigione se questa faccenda saltasse fuori – sempre ammesso che Anis possa decidere in coscienza di lasciarmi lì a marcire senza ricoprirmi di avvocati come ermellino sul mantello di un re, nel caso succedesse, ma potrebbe, se scoprisse che l’ho tradito col minorenne di cui sopra, o almeno credo, e quello che sto dicendo manca evidentemente di senso compiuto, me ne accorgo da solo, non c’è bisogno di farmelo notare, grazie mille.
Comunque, il succo del discorso è che devo stare proprio male, cioè, proprio fuori di testa se, oltre a tutto questo, io Danny prendo e me lo porto anche in casa del Chaku. Perché l’ho fatto? Il mio letto è più comodo del suo, c’è il materasso ortopedico mentre qui non sono neanche sicuro che il materasso ci sia. E casa mia puzza di meno, i rubinetti non perdono, non devi effettuare un corso preparatorio di introduzione alle lingue morte degli scarafaggi della tribù dello scaldabagno orientale prima di entrare nel cesso, e voglio dire, genericamente le condizioni di abitabilità del mio appartamento sono molto migliori rispetto a quelle di questa topaia disastrata che neanche il tocco magico di Bill – riassumibile in “no, Chaku, devi pulire, perché sennò io non posso poggiare il tacco dei miei stivali Armani da millecinquecento euro sulla tua moquette” – è riuscito a rendere un luogo abitabile da esseri umani veri, esseri umani che non siano Chakuza, intendo.
Mentre ricado sul letto accanto a Daniel e la mia schiena urla pietà, realizzo che è evidente che il materasso sotto di noi è solo un’illusione: vogliamo fortemente credere che un materasso ci sia, perciò ci sembra di stare sul morbido quando così non è. No, scherzavo. In realtà realizzo che se ho portato Daniel qui è perché, nonostante tutto, il paragone fra casa mia e casa del Chaku non regge nemmeno. Non è che l’ho portato qui per una sorta di ripicca, a-ha!, non ci sei e io scopo con un altro nel tuo letto, no, è che da quando le cose con Danny si sono fatte più intime – e non sto parlando solo di una scopata o due, ovviamente – ho davvero sofferto l’impossibilità di renderlo un pezzo della mia vita vera. Presentarlo ai miei amici, portarlo in giro, portarlo in un appartamento che per me potesse significare qualcosa in più della scatola in cui dormo quando non ho nessun altro posto dove andare. E questa casa, per me, rappresenta tutto questo. Scusami, Chaku, non è per te che lo faccio. È per me.
Daniel non aspetta nemmeno di riprendere fiato – o meglio: lui il suo l’ha già recuperato, è il mio che ancora si fa rincorrere, ma questo naturalmente ci riporta al problema dell’età già frettolosamente affrontato prima e sul quale non intendo soffermarmi ancora – e mentre io sono ancora qui che cerco di capire chi sono, cosa faccio al mondo e che nome m’abbia dato quella povera donna di mia madre, lui scatta a sedere e si piega oltre il bordo del letto, riemergendo mezzo secondo dopo col proprio zainetto, che appoggia in grembo ed all’interno del quale comincia immediatamente a rovistare come in cerca della pillola del giorno dopo come rimedio estremo dopo una notte di sesso non protetto che naturalmente non ha avuto luogo, non fatevi strane idee.
- Non puoi rimanere incinto, sai? – lo avverto, seguendo il filo dei miei pensieri e rendendomi conto del fatto che si tratta di pensieri prevedibilmente solo miei nel momento in cui lui mi lancia un’occhiata vagamente allucinata e poi ritorna a ficcare la testa nello zaino, riemergendo qualche secondo dopo con una macchina fotografica in mano.
- Ah, eccoti qua. – dice soddisfatto, stringendola fra le mani per accenderla e verificare le impostazioni.
- Che sarebbe quella roba? – chiedo, inarcando un sopracciglio. È ovvio che so che si tratta di una macchina fotografica, ma mi aspetto una risposta ben più esauriente, nonostante la domanda poco centrata.
- Una macchina fotografica. – risponde invece lui, pacifico come un putto addormentato su una nuvola col suo gonnellino bianco e la sua arpa in miniatura sotto il cuscino.
- Sì, lo so cos’è, Danny. – mi lagno io, inarcando anche l’altro sopracciglio, - Intendevo cos’è che vorresti farci?
- Be’, allora avresti dovuto chiedermi quello, tanto per cominciare. – ride lui. E poi, semplicemente, solleva la macchina fotografica in modo da centrarmi all’interno dell’obbiettivo e poi scatta.
- No, dai! – mi lagno io, ricadendo sul mio cuscino con un tonfo rassegnato, - Per favore, sono uno straccio.
- Ti prego, sei stupendo. – ride lui, scattandomi un’altra foto, - Vuoi sapere quando sembravi uno straccio? Quando ti sei fatto quella foto pseudo-MySpace con la canottiera bianca. Dio mio, che roba squallida.
- Dio mio, quanto sei gay. – sospiro, gettando uno sguardo implorante al soffitto.
- Oh, da che pulpito. – ride ancora Danny, stendendosi accanto a me e scattando una foto a entrambi. Lui sorride come il ragazzino che è, io lo guardo male come il vecchio scarpone brontolone che sono.
- Le foto sono l’ultimo dettaglio prima di mettere in atto il piano per denunciarmi alle autorità? – chiedo schermandomi con un braccio. Lui ride divertito, e stavolta rido anch’io, gli rubo la macchina fotografica dalle mani e gli salgo addosso, sovrastandolo e costringendolo a restare steso sul materasso senza pesargli troppo sopra, anche se so che mi regge più che bene. Non riesco a impedirmele, queste premure, per quanto sia sciocco.
- Che fai? – mi chiede, guardandomi dal basso. Il modo in cui i suoi occhi scorrono lungo tutta la superficie del mio corpo mi dà i brividi. Mi mordo un labbro, puntandogli addosso la macchina fotografica e scattandogli una foto.
- Sei fotogenico. – commento, osservando il risultato sul display, - Anzi, in realtà sei proprio bello. – continuo, guardandolo con sincero interesse. Lui arrossisce subito. – Hai mai pensato di fare il modello? Pagano bene, se arrivi a certi livelli.
- Non è roba per me, quella. – borbotta lui, aggrottando le sopracciglia, vagamente offeso. Io rido un po’.
- E cos’è roba per te? – chiedo curiosamente, restando dove sono e scattandogli un’altra foto. Lui guarda altrove, le labbra appena piegate in una smorfia addolorata. L’obbiettivo cattura i suoi lineamenti affilati, ne sembra inspiegabilmente attratto. È qualcosa che posso capire. – Non oso nemmeno immaginare dove vivi.
- Ehi, casa mia è a posto, ok? – sbuffa, incrociando le braccia sul petto e tirandosi un po’ su, per fronteggiarmi da una posizione meno svantaggiosa, - È mio padre che la rende una merda, ma la casa è ok.
- Avanti, vuoi farmi credere che il tuo sogno è restare a Tempelhof? In quel posto di merda? – sospiro, sdraiandomi al suo fianco e mettendo via la macchina fotografica.
- Non ho detto questo. – risponde lui, duro, - Ho solo detto che fare il modello non è la mia cosa. Io voglio rappare.
Non riesco a trattenere una risata.
- Sì, è una frase che ho già sentito, questa. – commento, scompigliandogli i capelli. Lui si sottrae dal mio tocco con uno scatto da bambino offeso, ma prima che possa cominciare a protestare il mio cellulare, poggiato sul comodino accanto al letto, si mette a squillare, e lui si zittisce immediatamente. È una cosa così automatica che un po’ mi spaventa, non dovrebbe essere così naturale per lui farlo. Non così presto, almeno.
Mi allungo a recuperare il telefono. Sul display, lampeggia il nome di Bill. Sono un po’ stupito – non lo sento da quando è partito in tour coi ragazzi – ma rispondo.
- Pronto? – dico, e per molti secondi nessuno risponde. È come se Bill si fosse addormentato col telefono in mano mentre il telefono squillava. – Pronto? – ripeto, perché non voglio chiamarlo per nome di fronte a Danny. Non che sia possibile pensare che ignori le mie frequentazioni col ragazzino, ma insomma.
- …scusa. – risponde finalmente Bill, il tono trasognato, la voce flebilissima. – Come stai?
- …dovrei chiederlo io a te. – rispondo incerto, - Ragazzino, è tutto a posto? Ti sento strano.
- Strano? – chiede lui, un po’ confuso, - No, perché dovrei?
- Non lo so, era un’impressione, sei… non lo so. – rispondo sinceramente, - Ma c’è qualche problema?
Bill si prende qualche altro secondo, prima di rispondere.
- Sai che ho tagliato i capelli? – mi dice quindi, - O forse devo ancora farlo, non ricordo. O forse l’ho già fatto, ma tantissimo tempo fa, e sono già ricresciuti.
…ok, c’è decisamente qualcosa che non va.
- Bill? – lo chiamo, rinunciando a qualsiasi forma di pudore e discrezione ancora residue nella mia testa e mettendomi immediatamente a sedere, come se il fatto di cambiare posizione potesse rendermi più agile, pronto a scattare nel caso dovesse dirmi che ha bisogno d’aiuto. – Bill, ma stai male?
- Male? – chiede lui, e ride. La sua risata è talmente vuota che se ci urlasse dentro si sentirebbe l’eco. – Ma no. Sto bene. Non devi preoccuparti. – e posso immaginare il sorriso sulle sue labbra, e mi dà i brividi. Deglutisco a fatica. – Ora devo andare. – riprende subito, impedendomi di insistere ancora per farmi dire cosa diavolo ha, - Mi sa che è proprio ora di tagliare i capelli.
Interrompe la telefonata subito dopo. Io resto seduto, osservando il suo nome che ancora lampeggia sul display finché non cade la linea e lo schermo torna ad oscurarsi del tutto.
- Problemi? – chiede Daniel, piantando il gomito sul cuscino ed appoggiando il mento al palmo della mano aperta. Io faccio per rispondergli, ma il telefono squilla di nuovo. Spero sia Bill che mi dice che si è trattato di uno scherzo. Ti permetto di prendermi in giro perché ci sono cascato, ragazzino. Ci sono cascato con tutte le scarpe.
Invece è Anis. Non riesco a nascondere la delusione nello sguardo e nella piega delle labbra. Daniel se ne accorge, sicuro come la morte. È un bene che Anis non sia qui, così almeno potrà evitare di accorgersene lui.
- Ehi. – rispondo, e cerco di forzare un sorriso.
- Con chi eri al telefono? – chiede subito lui, senza nemmeno salutarmi. Mi passa subito la voglia di provare ad essere conciliante.
- …sto bene, Anis, qui le cose vanno alla grande, non preoccuparti. – sbuffo, e mi rendo conto di quanto suoni ridicolo, soprattutto considerato che c’è Danny qui accanto che inarca un sopracciglio e sta pensando tutta una serie di cose poco carine, a ragione, peraltro, ma mi viene spontaneo. Anis inspira ed espira lentamente, dovunque si trovi in questo momento, e quando torna a parlare lo fa con un tono di voce completamente diverso.
- Mi dispiace. – sospira, - Avevo— davvero bisogno di sentirti, ecco, e quando ho provato a chiamarti trovare occupato mi ha infastidito.
- Sì, be’, ho una vita, sai? A parte te e il vostro carrozzone di pazzi scriteriati, intendo. – continuo a borbottare. Daniel mi guarda malissimo, o forse sono solo io che voglio sentirmi rimproverato dai suoi occhi azzurri e un po’ assonnati. Sospiro. – Scusa. Giornata difficile.
- Dillo a me. – ridacchia lui, espirando profondamente. – Successo qualcosa in particolare?
Lancio un’altra occhiata a Danny. S’è sdraiato tranquillo sotto le coperte e s’è messo a scorrere le foto che abbiamo scattato stasera, osservandole tutte con interesse nonostante gli occhi che già si chiudono. Dormirà fra pochi secondi. Sorrido un po’.
- Niente di che. Da voi?
Anis sospira così profondamente che mi chiedo se i suoi polmoni siano abbastanza grandi da contenerla, tutta quell’aria.
- È tutto un gran casino. – risponde a bassa voce, - Se fossi qui sarebbe diverso.
- No, non credo. – rido piano. Danny sta già praticamente russando quando stringe una delle mie mani fra le proprie e la porta ad accarezzarsi i capelli.
- Io ne sono sicuro, invece. – insiste Anis, - Se tu fossi qui, Bill avrebbe almeno un po’ di pudore.
Mi mordo un labbro, sistemandomi meglio sul materasso nonostante possa sentire le doghe della rete premermi contro la spina dorsale.
- Senti, se posso darti un parere spassionato, Anis, - sospiro appena, - la tua principessa non sta un cazzo bene.
Anis sospira a propria volta, e sarà almeno il millesimo sospiro che ci concediamo da quando abbiamo cominciato a parlare.
- La mia principessa non sta un cazzo e basta, Pat. – risponde con un sorriso amaro, - Non sta e basta.
Se fosse qui, lo abbraccerei. Ma non è qui, qui c’è solo Danny, perciò abbraccio lui. Gli passo un braccio attorno alle spalle e me lo tiro contro. Nel dormiveglia, lui mugola appena, così a bassa voce che Anis nemmeno lo sente, e si sistema contro il mio petto.
- Mi dispiace, Anis. – rispondo, sperando che la mia voce sia abbastanza dolce da farlo sentire compreso davvero. – Lo sai che mi dispiace.
- Sì, lo so. – risponde lui. Il suo sorriso, lo sento dal tono, è già meno teso e più sincero. – Vado a riposarmi un po’. – dice quindi, la voce improvvisamente carica di stanchezza, come non potesse più farcela a reggere il proprio stesso peso dopo essersi scaricato tanto. – Buonanotte.
- Buonanotte. – rispondo piano. Ascolto la voce del telefono e della conversazione interrotta per qualche secondo, prima di rassegnarmi a chiudere la telefonata ed impostare la vibrazione. Poso nuovamente il cellulare sul comodino e mi stendo più comodamente. Daniel mi si stringe contro, si appoggia del tutto sopra di me e quella del suo corpo così caldo e così vicino è la sensazione più bella che ho provato negli ultimi mesi della mia vita.
Quando il suono della vibrazione contro il legno del comodino si diffonde fastidiosamente nell’aria, per prima cosa penso di nuovo a Bill. Poi mi rendo conto che è molto più probabile che sia Chakuza. Infine, capisco che dovrei lasciare quel telefono squillare e ignorarlo, ed invece mi allontano lentamente da Daniel e, sperando di fare in tempo, recupero il cellulare e mi trasferisco in salotto.
- Chaku. – lo chiamo piano, e il respiro che rilascia quando sente la mia voce lo sento quasi sulle mie stesse labbra. – Ehi, tutto a posto?
- A posto? – ride un po’ lui, e posso sentire che è in un ambiente piccolo e isolato, forse nella sua cuccetta dentro il tourbus. La sua voce è bassissima, ma c’è così tanto silenzio che la sento comunque con una chiarezza impressionante. – Per dirti se le cose sono a posto, dovrei ricordarmi com’è che erano quando ci stavano. – risponde con un’altra risata un po’ disillusa.
- Ma insomma, me lo spieghi cosa cazzo sta succedendo? – borbotto io, lasciandomi ricadere sul divano e tirando su le gambe per stendermi, - Che cazzo, la chiarezza sicuramente non è un vostro dono.
- Nostro di chi? – chiede subito lui, stupito. Io mi mordo un labbro.
- …degli austriaci. – invento io, - Intendo, sembri preoccupato ma non mi spieghi perché. Parla, no? – dico, sperando di essere stato sufficientemente convincente. Sono quasi sicuro di non esserlo stato e sento ancora gli occhi azzurrissimi di Daniel addosso mentre silenziosamente mi lasciano credere che mi stanno disapprovando, ma dal modo in cui Chakuza risponde è palese che la mia prova come attore di teatro dell’improvvisazione non era importante per farlo sentire libero di parlare: ne ha così tanto bisogno che le parole gli escono dalla bocca come un fiume in piena, travolgendomi.
- Sta andando tutto di merda, Pat. – comincia, talmente ansioso di dirmi tutto che le parole inciampano l’una sull’altra, si confondono, si intralciano a vicenda, - Bill sta dando di matto e io non so come aiutarlo. Perché sto dando di matto anch’io. E Bushido non riesce a fare niente perché non ci può riuscire nessuno, e se anche le cose non stessero andando poi così male questo tour rimarrebbe comunque un errore enorme, e so che quando torneremo a casa questa cosa ci avrà scombinato talmente tanto che rimetterci a posto sarà impossibile, ed ho pensato spesso a te, perché tu sei bravo a rimettere a posto le cose, ma mi sa che davvero, davvero, Pat, avrai vita dura quando saremo tornati.
La franchezza con cui ammette di aspettarsi che, quando saranno tornati a casa, io sarò lì armato di cerotti e pronto a rimetterli insieme, mi turba più di quanto non facciano le sue stesse parole, le cose che mi racconta, il disagio che esprime. Non riesco ad identificare un momento nella mia vita in cui ho permesso a questi uomini di farmi questo. Qualsiasi cosa questo sia. Perché qualsiasi cosa sia è dolorosa, ed io non voglio sentirmi così.
- Direi… - mi sforzo di rispondere, schiarendomi la voce, - Direi che potremo pensarci quando sarete tornati, no? – dico con una mezza risata incerta, alzandomi in piedi e prendendo a girare lentamente attorno al divano giusto per darmi qualcosa da fare. – Che ne dici?
- Dico che non ho granché altro da scegliere, ti pare? – ride anche lui, incerto tanto quanto me. Vorrei chiedergli perché ha sentito il bisogno di chiamarmi, ma so che la risposta a questa domanda è una risposta che in questo momento non voglio sentire. È una risposta che mi farebbe piacere, in qualsiasi altro momento, ma non qui, non ora. Non così.
- Hai ragione. – annuisco. E per la prima volta, stasera, sono io a chiudere la questione. – Buonanotte, Chaku.
Lui non mi risponde perché non vorrebbe chiudere la telefonata, lo sento nel modo in cui respira, come se stesse solo aspettando di trovare le parole giuste per dirmi di non riattaccare. Le parole non arrivano, comunque, e dopo qualche secondo di speranzosa e stupida attesa, io riattacco.
Torno in camera da letto, e Danny sta ancora dormendo, tutto raggomitolato nella stessa posizione in cui l’ho lasciato. Scosto le lenzuola e mi stendo al suo fianco. Il suo corpo trova il mio al primo contatto, e ci riannodiamo come prima così facilmente da darmi l’impressione di non essermi mai mosso da qui. È una sensazione che riconosco subito. Perché non mi muovo da tanto di quel tempo che se solo ci penso mi manca l’aria per respirare.
Nonostante questo, me lo stringo contro, affondo il naso fra i suoi capelli e chiudo gli occhi. Non mi accorgo del momento in cui mi addormento, ma il calore del suo corpo resta lì, legato al mio, per tutto il tempo, e quando mi sveglio, l’indomani mattina, c’è ancora.

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Beautifully Broken

di lisachan
Stamattina mi sono guardato allo specchio e non mi sono riconosciuto. Non come dice la gente di solito nel senso di “non mi riconosco più”, che è la cosa più stupida che si possa dire al mondo, perché non è altro che una scusa, in fondo, no? Uno fa un sacco di stronzate e poi, quando qualcun altro glielo fa notare, ecco subito la risposta pronta: “lo so, non mi riconosco più”. Non ti riconosci più un cazzo. Vorresti non riconoscerti, vorresti poterti guardare allo specchio e dire che quella faccia coperta di errori e dolore e pezzi di vita buttati via non è la tua, invece ti riconosci eccome, ed è questo quello che ti fa male. Riuscire ancora a riconoscerti, nonostante tutto, nonostante il fango che ti sei buttato addosso. Essere ancora lì, sempre identico a te stesso, facilissimo da ritrovare se solo ti azzardi o qualcun altro si azzarda a grattare via la sottilissima patina di menzogne con cui ti mascheri il viso al mattino, giorno dopo giorno, come il trucco di scena, quello che io ho sempre voluto portare anche nella vita di tutti i giorni, perché per me i confini sono sempre stati troppo labili, troppo sfumati, ed andavo in scena ogni volta che aprivo gli occhi al mattino.
No, io mi sono svegliato, da solo nel mio letto, ed ho ascoltato a lungo il suono un po’ ovattato del respiro di Peter, ancora addormentato da qualche parte in questo tourbus, troppo lontano da me perché potessi sentire il calore del suo corpo e aggrapparmici come se me ne importasse ancora qualcosa, e poi semplicemente mi sono alzato, sono andato in bagno, mi sono fermato davanti allo specchio ed ho guardato il mio riflesso, e quello non ero io. È stata la sensazione più straniante che avessi mai provato prima di quel momento, mi sono sentito come incatenato ad una sedia, costretto ad osservarmi nello specchio mentre mi strappavano di dosso la pelle per mostrarmi il mio vero volto, al di sotto. Solo che la pelle non veniva via – ho sfregato, ho sfregato, non veniva via – ed io ho dovuto continuare a sopportare di guardarmi nello specchio e non riconoscermi, mentre sapevo già di avere una faccia diversa sottopelle.
E questo è stato il dolore più grande che abbia provato in quest’ultimo periodo. Un periodo che di dolori non è stato certo avaro, eppure mentre Anis mi strappava via il cuore e Chakuza si rifiutava di rimettermelo a posto lasciandolo sul pavimento come un soprammobile inutile da scansare con un calcio se intralciava il passaggio, e mentre io mi premuravo di devastarmi la dignità e mio fratello si assicurava di pestarne i resti sotto le scarpe di modo che nessuno mai potesse più ricomporla, e mentre nessuna delle persone che ho imparato a riconoscere come amiche ha mai dato un fottuto istante del proprio tempo per cercare di capire come cazzo fosse possibile che io stessi così male, di una cosa ero sempre stato sicuro, la mia identità. Il mio viso. Chi ero.
E poi mi guardo nello specchio e scopro che invece non lo so più. Mi guardo nello specchio e quello non sono io. E in un solo istante di me non resta più niente, riesco a vedere i miei occhi farsi vuoti e so che non sono i miei, i lineamenti del mio viso si stendono in una maschera priva di espressione ed io so che non mi appartengono. Non so più chi sono, ma so cosa decisamente non sono, ed io non sono quella faccia, quegli occhi, quelle labbra. Non ho più un nome, non sono più nulla, di me, di ciò che sono stato, non rimane neanche un frammento.
Allora mi sono alzato e sono uscito dal bagno. Non sono passato accanto a Peter per non svegliarlo, perché non dovesse vedermi così, qualunque fosse la cosa in cui mi ero trasformato senza che nessuno se ne accorgesse. Sono semplicemente uscito dal tourbus e mi sono guardato intorno. Il sole era ancora freddo e basso sull’orizzonte, tutto ciò che la sua luce poteva fare era gettare ombre lunghe sulla piazzola della stazione di servizio desolatamente vuota, tutta intorno a me. Il mondo sembrava identico a se stesso, ero cambiato io soltanto. Mancava così poco al momento in cui tutti avrebbero aperto gli occhi, e a quel punto nessuno avrebbe potuto evitare di vedermi. Ed io non volevo che accadesse. Perciò sono tornato all’interno del tourbus, cercando di fare il minor rumore possibile, ed ho preso un post-it da uno di quei cassetti pieni di cianfrusaglie vicini all’angolo cottura. Ho preso una penna, mi sono seduto al tavolo ed ho cercato un modo carino per dire a tutti quanti che avevo bisogno di un po’ di tempo solo per me. Non ne ho trovato uno, perciò ho scritto solo quello. Ho bisogno di un po’ di tempo solo per me. L’ho appiccicato sullo sportello del frigorifero, ho preso la borsa, ho spento il telefono e l’ho infilato in tasca. Poi sono uscito, ho scelto una direzione a caso e l’ho seguita.
Ho camminato per un sacco di tempo. Io sono un pigrone, in genere non mi muovo se non sono obbligato a farlo, ed anche quando sono obbligato spero sempre che arrivi qualcuno a prendermi in braccio perché sia lui a trascinarmi da un posto all’altro. Il pensiero di muovermi alle volte mi dà fastidio fisico. Però stavolta camminare non mi è pesato. Almeno un’ora di cammino a piedi, cercando di ignorare i fischi dei camionisti quando per caso qualcuno passava per la strada ancora deserta, e senza nemmeno stancarmi. Ed ecco che all’improvviso i contorni delle cose oltre il guardrail che costeggia l’autostrada cambiano. Fisso il paesaggio mutare sotto i miei occhi, e dove prima non c’era niente cominciano ad apparire delle cose. Enormi campi pieni di spighe tanto alte da fare il solletico al cielo, e case colorate, di mattoni veri, coi tetti rossi e i comignoli e le porte di legno. Non riesco ad impedirmi di sorridere, mentre stringo emozionato la presa attorno al manico della borsa, e per un attimo mi chiedo se ciò che sto guardando esista davvero o non sia uno scherzo che mi sta facendo la mia mente, perché di recenti me ne ha fatti davvero troppi perché io riesca ancora a distinguerli dalla realtà.
Decido che non m’importa se quello che vedo è vero o no: mi piace, e tanto basta. È molto più di quanto abbia potuto dire della mia vita recentemente. Quella era vera, e lo sapevo, ma faceva schifo. Perciò va bene anche se questo posto non esiste davvero, fintanto che io continuo a vederlo ed a sentirne il profumo.
Scavalco il guard-rail ed affondo fra le spighe. Mi fanno il solletico al naso, sento il bisogno di starnutire ma anche se prendo fiato per due volte lo starnuto proprio non viene fuori, perciò mi metto a ridere e comincio ad avanzare in quel mare dorato che si muove in onde discontinue guidate dal vento. Le spighe ogni tanto mi sbattono addosso con forza, dovrebbero darmi fastidio, irritarmi la pelle, ma riesco a trovarle solo stranamente piacevoli, tanto che quando spunto fuori e metto il naso dall’altra parte, di fronte a un paio di casette minuscole una accanto all’altra, quasi mi dispiace.
Le case somigliano un po’ a come ho sempre immaginato la casetta di marzapane della strega di Hansel e Gretel. E poi sono tutte uguali. Mi avvicino sorridendo allegro e solo all’ultimo secondo noto una vecchina che sta semisdraiata su una sedia a dondolo di fronte alla porta di una delle due case, e ondeggia avanti e indietro facendo la maglia.
- Signora Lotte! – la chiamo, anche se so che non è lei. La vecchina sorride, smettendo per un attimo di ricamare e poggiando saldamente i piedi per terra per fermare la sedia.
- Mi chiamo Ena. – mi corregge, e io annuisco. – Nonna Ena. – precisa lei, e io sorrido.
- Di chi sei nonna? – chiedo, guardandomi intorno e sperando di vedermi spuntare intorno nipotini come se piovessero. Non ne spunta nessuno. Quindi forse tutto ciò sta succedendo davvero.
- Di tutti e di nessuno. – risponde nonna Ena, enigmatica. E io penso che forse in realtà non sta succedendo niente. – Anche tua. – insiste lei, - Come ti chiami, bella bambina?
- Bill. – rispondo tranquillo. Lei sorride imperterrita.
- Che strano nome per una bambina. – commenta divertita.
- Mamma pensava che fosse carino. – le spiego io, - Ho anche un fratello che si chiama Tom. Puoi essere nonna anche per lui?
- Certo che posso. – annuisce nonna Ena, e io sorrido più sinceramente. – Siediti qui accanto a me, Bill. – dice, indicandomi con un cenno del capo la sedia a dondolo spuntata dal nulla accanto a lei, mentre io penso che sì, è molto probabile che tutto ciò non stia accadendo davvero, - Aiutami. Reggi il gomitolo.
Io mi allungo a recuperare il gomitolo da terra e lo stringo fra le mani. La lana è morbida, calda e un po’ grezza, mi pizzica i polpastrelli e le unghie rimangono impigliate lì in mezzo ogni volta che me la rigiro fra le dita. Quindi forse sta accadendo davvero.
Nonna Ena è quasi cieca. Oltre gli occhiali dalle lenti spessissime, i suoi occhi talmente chiari da sembrare trasparenti s’intuiscono appena, tanto sono piccoli. Non so come faccia ad intrecciare la lana per disegnare meraviglie come quella che sta facendo adesso, una specie di maglia traforata che sembra decorata da cristalli di neve enormi e morbidissimi, ma evidentemente dev’essere una cosa che ha fatto così spesso, nel corso della sua vita, da non avere bisogno di vederla per replicarla ancora. Una cosa che ormai s’è scritta dentro. Io pensavo che per me i concerti fossero così, pensavo che davvero, qualunque cosa fosse successa nella mia vita avrei comunque potuto continuare a salire sul palco ogni sera ed essere la parte più meravigliosa di me stesso, dimenticando tutti i dolori per cantare e sentirmi amato e basta. E invece no, forse perché sono ancora troppo giovane. Forse, quando avrò l’età di nonna Ena, cantare sarà per me automatico come fare la maglia per lei. Però allora non ci sarà più nessuno che avrà voglia di ascoltarmi, mentre la maglia di nonna Ena è così bella che me la metterei addosso anche subito, incompleta per com’è.
- Come si chiama questo posto? – chiedo guardandomi intorno. Ci sono degli uomini che indossano solo un cappello di paglia ed una salopette di jeans scura, riesco ad intravederli nei campi più lontani. E poi c’è una piazza, a qualche decina di metri da noi, e in mezzo a quella piazza c’è una fontana attorno alla quale si affollano donne che indossano vestiti lunghi e scuri con disegni floreali dai colori più disparati. Alcune di loro hanno il capo coperto da un foulard annodato nulla nuca, e quasi tutti i foulard hanno le stesse decorazioni degli abiti, come fossero accessori obbligatori da usare per accompagnare il vestito.
- È troppo piccolo per avere un nome. – risponde nonna Ena, riprendendo a dondolare, - Però è bello, vero?
- È bellissimo. – annuisco freneticamente io, osservando un gruppo di bambini sporchissimi, scalzi e scarmigliati che ci passa davanti correndo e ridendo. – Quanta gente ci abita?
- T’importa? – chiede nonna Ena con una scrollatina di spalle. E in effetti non è che m’importi davvero. – Joseph! – urla poi, guardando all’indietro verso la casa. Il portone è socchiuso, e da dentro giunge un “eh?” un po’ lontano. – La bambina ha fame, - continua, - portale una fetta di torta!
Io batto entusiasticamente le mani, appoggiandomi il gomitolo sulle ginocchia mentre la porta si schiude e sulla soglia appare un uomo pelato e panciuto, con un paio di occhiali e un paio di occhi identici a quelli di nonna Ena.
- Nonno Joseph! – lo chiamo allegro, - È quella coi mirtilli?
Nonno Joseph annuisce e a me viene voglia di chiedergli se per caso è austriaco, ma poi lascio perdere. Poso il gomitolo per terra e metto il piatto con la torta sulle ginocchia al suo posto. Poi mi ricordo di David, penso che dev’essere già ora di pranzo e tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans per accenderlo e avvertirlo che non posso ancora tornare.
Lui risponde subito, appena lo chiamo, non mi lascia completare nemmeno uno squillo.
- Bill! – grida, e poi lo sento allontanarsi repentinamente verso un posto meno affollato. – Bill. – ripete a voce più bassa, come per lasciarmi intendere che adesso siamo soli e posso parlare liberamente, - Ma dove diavolo sei?
- Ad una stazione di servizio, - mento, evitando lo sguardo di nonna Ena, - sull’autostrada.
- Se mi dici a che altezza, mando subito qualcuno a prenderti. – suggerisce David, professionale come sempre. Io sbuffo un sorriso un po’ abbattuto.
- No, voglio restare qui per un po’. – rispondo, - È un posto simpatico.
- Un posto simpatico, Bill? – chiede lui, sconvolto, - Ma dove diavolo sei?!
- David, per favore, dammi un po’ di respiro! – sbotto io, e lui si zittisce immediatamente. Mi sento subito in colpa, mi si stringe lo stomaco in una morsa talmente stretta da darmi quasi i crampi, perciò mi mordo un labbro per distrarmi da quel dolore e faccio di tutto perché, quando riprendo a parlare, la mia voce sia molto più dolce di quanto sia stata fino ad ora. – Faccio in tempo per il concerto di stasera, promesso. Qui fanno una torta buonissima. La mangio e torno subito a casa, d’accordo?
Lui fa per rispondermi, sicuramente vuole dirmi che non devo tornare a casa ma semplicemente ai tourbus, e farlo anche il più in fretta possibile, ma alla fine lascia perdere, sospira profondamente e mormora un “d’accordo” stentato, prima di chiedermi di non spegnere il cellulare. Io dico ok, ma lo spengo immediatamente, subito dopo avere interrotto la chiamata.
- Bambina, il tuo papà sarà preoccupato. – mi dice nonna Ena, corrucciata, mentre io addento la torta e mugolo di piacere nel sentire quanto è buona.
- Non è il mio papà. – borbotto fra un morso e l’altro, - È solo uno che si prende cura di me.
- E qual è la differenza? – mi chiede nonna Ena. Io non riesco a rispondere.
- Dici che dovrei tornare? – chiedo in un bisbiglio sommesso, posando la torta e guardando per terra, - Ma io voglio restare qui. Potrei aiutarvi, anche se non sono tanto bravo con i lavori domestici o… l’agricoltura e l’allevamento o qualsiasi altra cosa facciate qui per vivere. So solo cantare, a volte sospetto neanche tanto bene. Ma potrei cantare per voi! – propongo illuminandomi, - Ti va, nonna Ena? Posso cantare mentre ti reggo il gomitolo e tu lavori a maglia!
Nonna Ena sorride ed annuisce. Io batto ancora le mani, recupero il gomitolo e poi chiudo gli occhi, mettendomi a canticchiare qualche canzone a caso. Di quelle vecchissime, quelle che scrivevo nella mia cameretta da piccolo, quelle che a far parte del repertorio dei Tokio Hotel non ci hanno nemmeno provato. Roba orribile che solo Tom può vantare di avermi sentito cantare. Eppure le ricordo ancora, e per qualche secondo, mentre resto lì a dondolare con gli occhi chiusi e il gomitolo di nonna Ena mi si svolge fra le dita poco a poco, mi sembra quasi di aver ritrovato quell’automatismo che mi rendeva così facile salire sul palco e cantare senza pensare a nient’altro.
E poi, del tutto inaspettatamente, nonna Ena mi sussurra all’orecchio che sono stonato. Solo che non è nonna Ena, è una signora di mezza età magra, appuntita e spigolosa, con un mascherone di trucco sul volto, seduta al tavolino accanto al mio. La stazione di servizio è affollata perché ormai sono quasi le due, la zona ristorante è piena di automobilisti e famiglie in pausa dal viaggio. Quando eravamo piccoli, mamma e Gordon ci portavano spesso a fare di queste scampagnate. Saltavamo in macchina e ci allontanavamo solo di qualche chilometro, giusto per dire di averlo fatto. Raggiungevamo il lago, magari, ed andavamo in barca. Era divertente.
- Mi scusi. – biascico, imbarazzato fino all’inverosimile.
- Non preoccuparti, tesoro, non tutti siamo nati con una voce da usignolo. – dice lei, scrollando le spalle, del tutto disinteressata alla gravità di quanto ha appena detto. Evidentemente non mi conosce, o se anche ha sentito parlare di Bill Kaulitz non riesce a vedere quel nome in questo me stesso così diverso. Non capisco perché la cosa dovrebbe stupirmi, d’altronde: se stamattina io per primo non sono stato in grado di riconoscermi guardandomi allo specchio, come posso pretendere che ci riesca questa donna adesso?
Guardo in basso, verso il mio piatto. C’è ancora mezza fetta di torta ai mirtilli, ma sapere che non è stato davvero nonno Joseph a prepararla mi toglie improvvisamente tutta la voglia che avevo di finirla. La lascio dov’è, passo sbrigativamente alla cassa per pagare e poi esco, stringendomi un po’ nella giacca perché il sole sta cominciando a tramontare e in aperta campagna a quest’ora fa già freddo. Era così anche quando io e Tom eravamo piccoli. Attorno a Loitsche non c’era niente tranne, appunto, campagne sterminate. Io odiavo uscire anche allora, avevo sempre paura che un’ape potesse pungermi, ma Tomi in qualche modo riusciva sempre a convincermi ad accompagnarlo dovunque volesse, perciò finivamo sempre a passare un sacco di tempo all’aperto, nonostante a me facesse abbastanza schifo. E ricordo che Tomi non sentiva freddo quasi mai – più che altro perché s’era convinto che sentire freddo fosse una roba da femminucce, per cui magari congelava ma non rinunciava mai ad andare in giro in canottiera – ma portava con sé la felpa apposta per potersela sfilare ed appoggiarmela sulle spalle quando io, puntualmente, verso il tramonto, mi accucciavo da qualche parte e mi raggomitolavo come un riccio, tremando per il freddo.
Non mi manca quel periodo della mia vita, però mi mancano quei momenti in cui potevo dire di non avere altro che pensieri sul mio glorioso futuro da star in testa. Momenti in cui chiudevo gli occhi e, mentre Tomi blaterava al mio fianco, seduto su un sasso con gli occhi fissi sul sole che tramontava all’orizzonte oltre i campi arati di fresco, io mi concedevo una rara mezz’ora di silenzio dalla mia usuale logorrea e restavo lì, avvolto nella sua felpa enorme, col cappuccio calato sulla testa, e mi immaginavo cantare su un palco, felice come non ero mai stato e in altro modo non avrei mai potuto essere. E mi mancano quei momenti, perché allora nella mia mente era tutto chiaro. Avevo una strada da percorrere e non poteva essere altro che luminosa e splendida. Ora, dalla piazzola di una stazione di servizio persa nel niente nel bel mezzo della Germania, guardo l’autostrada verso sinistra e verso destra e non saprei nemmeno che direzione imboccare per tornare al tourbus.
Così, faccio quello che ho sempre fatto ultimamente in tutte le altre occasioni in cui mi sembrava di essere troppo confuso per decidere qualcosa da me. Tiro fuori il cellulare dalla tasca, lo accendo, ignoro chiamate perse ed sms cui non risponderò mai e compongo a memoria il numero di Fler.
- Pronto? – dice lui, e nel momento stesso in cui sento la sua voce prendo una direzione a caso e comincio a camminare con passo spedito lungo il ciglio dell’autostrada, radente al guard-rail. – Pronto? – ripete. Io deglutisco, guardando dritto di fronte a me.
- …scusa. – rispondo piano, - Come stai?
- …dovrei chiederlo io a te. – risponde Patrick, il tono talmente preoccupato che riesco quasi a immaginarlo qui con me mentre mi gira intorno e mi guarda da ogni parte per assicurarsi che sia ancora tutto intero. – Ragazzino, è tutto a posto? – insiste, - Ti sento strano.
- Strano? – chiedo io, mentre poco a poco, man mano che il paesaggio torna a farsi familiare ai miei occhi, mi rendo conto di aver fatto all’andata molta meno strada di quanto avessi immaginato, - No, perché dovrei?
- Non lo so, - risponde subito lui, - era un’impressione, sei… non lo so. – si interrompe appena, giusto il tempo di cui ho bisogno per capire che il modo in cui sono cambiato è così radicale ed evidente che se mi si conosce abbastanza bene non c’è nemmeno bisogno di guardarmi in viso per capire che è successo. Patrick lo capisce anche solo sentendomi parlare, e di questa cosa ho talmente tanta paura che chiudo gli occhi e proseguo per molti metri senza guardare niente, a rischio di ammazzarmi, terrorizzato dall’idea di ammettere che in fin dei conti la prospettiva non mi spaventa più di tanto. Fra le numerose cose che Anis ha devastato entrando, uscendo e poi rientrando nella mia vita a proprio piacimento, c’è anche la concezione di morte come qualcosa di irreversibile. In qualche modo, perfino adesso, sto pensando che se mi lasciassi scivolare sotto un camion e morissi, poi qualcuno arriverebbe a risvegliarmi dal mio sonno baciandomi sulle labbra. Il bacio del vero amore. Almeno, forse una cosa simile riuscirebbe ad indicarmi chi sia. – Ma c’è qualche problema? – chiede Fler, e io mi prendo qualche secondo, prima di rispondere.
- Sai che ho tagliato i capelli? – gli chiedo, e nel mentre mi passo una mano fra le ciocche scure e bionde che mi scivolano lungo il collo e sulle spalle, - O forse devo ancora farlo, non ricordo. O forse l’ho già fatto, ma tantissimo tempo fa, e sono già ricresciuti.
- Bill? – mi chiama subito lui, e sento l’ansia nella sua voce, - Bill, ma stai male?
- Male? – chiedo, e mi viene da ridere. Male, no, non sto male. Avrei potuto dire di stare male quando ancora ero in grado di sentire qualcosa, ma quando ogni centimetro del tuo corpo è già stato preso a bastonate più di quanto tu non sia in grado di sopportare, il dolore sfuma e non esiste più. Non lo so nemmeno cos’è che potrebbe farmi male adesso. – Ma no. – rispondo sorridendo, - Sto bene. Non devi preoccuparti. – inspiro profondamente e sollevo lo sguardo. Ad una decina di metri da me ci sono i tourbus, fermi dove li ho lasciati. Nessuno si accorge di me che arrivo, nessuno guarda nella mia direzione. – Ora devo andare. – dico a Fler, - Mi sa che è proprio ora di tagliare i capelli.
Interrompo la conversazione immediatamente, senza dargli il tempo di ribattere, o di fermarmi. Oltrepasso il cavalcavia e faccio qualche metro sulla terra brulla che anticipa il sollevarsi delle colline poco più avanti. Giro attorno ai tourbus, passo dal retro, m’infilo all’interno del mio senza che nessuno mi veda, e scivolo silenzioso in bagno. Il tourbus dev’essere vuoto, perché non si sente volare una mosca. Da fuori, sento l’eco un po’ bassa e distante di alcune persone che parlottano nella piazzola. Non riesco a capire chi sono, né cosa dicono. Me ne disinteresso.
Mi allungo a recuperare il beauty case, frugo un po’ all’interno e trovo il necessario per la manicure. E le forbicine. Non sono adatte per ciò che voglio fare, ma forbici grandi qui non ce n’è, perciò dovrò accontentarmi.
Taglio via una ciocca dopo l’altra. Quelle scure, quelle chiare. Le taglio prima verso là metà della lunghezza, irregolari e storte, e si spelacchiano tutte. Mi guardo allo specchio. Non sono ancora io. Taglio più in alto, un po’ qui e un po’ là. Cerco un me stesso più piccolo e più sorridente, un me stesso che poteva passare ore davanti allo specchio armato solo di una confezione di gel per capelli, per poi uscire dal bagno con un’acconciatura tale da far commentare ai passanti “ma non hai ancora imparato a non mettere le dita nelle prese elettriche, Kaulitz?”. Sorrido ripensando a quel bambino, e mi metto a piangere quando continuo a non trovarlo nonostante tutto. Dovrebbe essere ancora qui, sepolto sotto le macerie, in fin di vita ma col cuore ancora forte che batte nel petto, e invece è sparito. Non l’ho solo sepolto vivo, l’ho nascosto agli occhi del mondo, così profondamente e tanto a lungo da averlo perso per sempre.
Sto ancora sorridendo e piangendo insieme quando sento il click familiare della serratura della porta del bagno. Mi volto verso la porta che si apre e quando incontro gli occhi di David non mi chiedo neanche per un secondo come sia possibile che sia stato proprio lui a trovarmi. La mia vita è cominciata quando sono stato trovato da quest’uomo. Non sarebbe mai potuta andare diversamente adesso.
- Bill… - dice lui, senza fiato, i lineamenti del viso tesi in una maschera di apprensione e sconforto, - Quando… quando sei tornato?
Mi stringo nelle spalle e nello stesso istante in cui lo faccio il pianto silenzioso che mi ha accompagnato fino ad adesso si fa lentamente sempre più rumoroso. Gemo e singhiozzo e comincio a respirare male, perciò David entra in bagno, chiude la porta alle proprie spalle, si allunga a sbarrare la finestrella aperta in alto sopra la mia testa e poi si china su di me e mi stringe fra le braccia. Io sono talmente stanco che sento ogni fibra del mio corpo sciogliersi e perdere consistenza, mentre mi nascondo sul suo petto e stringo la sua maglietta tanto forte da farmi male alle dita. E continuo a piangere.
- Non so cosa sto facendo. – dico piano, a fatica, schiacciandomi con forza contro di lui perché non voglio vedere me stesso e non voglio vedere neanche nient’altro. – Non mi riconosco. Quando mi guardo in faccia, David, dico davvero, non sono io. Quello non sono io.
- Io ti riconosco. – mormora David, cullandomi lentamente, - Io lo so chi sei, Billi. Sei solo un po’ opaco, ma sei sempre tu. Guarda. – aggiunge con un mezzo sorriso, prendendomi per le spalle e facendo girare lo sgabello su cui sono seduto abbastanza da permettermi di guardarmi allo specchio, - Come fai a non vederti? Chi altri potrebbe essere così bello anche dopo essersi tagliato i capelli con gli occhi palesemente bendati ed avere poi pianto per mezz’ora?
- Sono orribile! – dico, distogliendo lo sguardo e coprendomi il viso con entrambe le mani. David le scosta, accompagnandole finché non le abbasso, e poi mi prende il mento fra le dita, obbligandomi a tornare a fissare il mio riflesso nello specchio.
- Sei bellissimo. – dice con sicurezza, - Anche se in effetti sono costretto ad ammettere che il lavoro che hai fatto con questi capelli è davvero raccapricciante, tesoro. – aggiunge con tono frivolo, gesticolando un po’ mentre si china a recuperare le forbicine dal lavandino, - Dico davvero, Bill, che delusione, sei un disonore per la tua intera razza. L’autorità costituita dell’Ordine Mondiale degli Omosessuali nel Mondo dello Spettacolo non sarà per niente contenta di tutto questo. A maggior ragione visto che sei il mio figlio spirituale, voglio dire, non ti ho insegnato niente in tutti questi anni? Si può soffrire, ma con grazia. – annuisce compitamente.
Io mi appoggio di schiena al suo petto e lo osservo mentre mi maneggia con una cura che non riesce a stupirmi nemmeno in parte. Lo ascolto mormorare rassicurazioni prive di senso e continuare a blaterare a caso su questo fantomatico Ordine Mondiale Gay che a suo dire dovrebbe strapparmi di dosso il distintivo di Vero Gay che nemmeno posseggo perché non sono stato in grado di tagliarmi decentemente i capelli mentre non riuscivo a vedere a due centimetri dal mio naso, tante erano le lacrime che mi offuscavano la vista. Lo guardo mentre pareggia il taglio ai lati della mia testa e sistema le ciocche di capelli più lunghi che sono rimasti in cima, osservando il tutto con aria critica fino a quando gli si illuminano gli occhi e lo vedo girare su se stesso con una piroetta entusiasta, spalancando sportelli in dieci centimetri di spazio per recuperare il rasoio elettrico prima di invitarmi a chiudere gli occhi e rilassarmi, che quando li avrò riaperti allora sì che riuscirò a riconoscermi.
Li riapro almeno mezz’ora dopo. Non sono sicuro di non essermi addormentato. Schiudendo le palpebre, i miei occhi incontrano il riflesso della mia immagine, nello specchio. David sta accarezzando i miei capelli con l’attenzione e l’affetto di un padre. Sulle sue labbra s’è aperto un sorriso distratto e lieve, mentre non lo guardavo. Passa le dita fra le ciocche scure, sistemandole sopra la mia testa con cura, e sembra sereno. Così sereno.
Riporto lo sguardo sullo specchio. Quello continuo a non essere io. Non riesco nemmeno a sentire le sue carezze, o il calore del suo petto che si alza e si abbassa sollevandomi ad ogni respiro, proprio dietro di me. Non c’è niente. Non c’è più niente.
Chiudo gli occhi e ricomincio a piangere. Silenziosamente. Non voglio dare fastidio a nessuno.
David finisce di sistemare il taglio e poi mi abbraccia piano, come avesse paura di disturbarmi.
- Ti lascio un po’ tranquillo, ok? – mi sussurra all’orecchio. Io annuisco e lui sorride ancora, stringendomi una spalla con fare rassicurante prima di uscire dal bagno. Pochi secondi dopo lo sento abbandonare anche il tourbus, e la mia testa comincia a girare in un modo nuovo. È una sensazione che non ho mai provato, come stare a guardare mentre le cose che decido e che faccio semplicemente accadono, una dietro l’altra. Non ho davvero una parte, in tutto questo. Sono attore e spettatore, ma quasi nemmeno mi muovo.
Esco dal bagno. Prendo uno zaino. Lo riempio di roba a caso. Dove sto andando, niente di tutto questo mi servirà, eppure per qualche motivo l’idea di muovermi senza niente mi disturba. Prendo il beauty case. Una maglietta. Un paio di calzini ed uno di mutande. Due merendine ed una bottiglietta d’acqua dal frigo. Il portafogli. Infilo la giacca ed esco all’esterno. Ritorno dentro, mi avvicino al tavolo e prendo un post-it dal cassetto del cucinino. Scrivo sopra che avevo sonno e mi sono infilato nella cuccetta. Prego di non svegliarmi fino a domani. Saluto Peter disegnando un cuore nell’angolo in basso. Lascio il post-it dov’è e torno fuori. Mi guardo intorno, non c’è nessuno nelle vicinanze. C’è un bel po’ di gente assiepata di fronte all’entrata dell’autogrill. Alcuni si agitano, guardano verso uno schermo. Probabilmente stanno seguendo qualche partita. Quando stavo con Anis ero sempre al corrente delle partite che si giocavano, ogni settimana. Dovevo, visto che lui il calcio lo adora. Era carino stare sdraiati sul divano la domenica sera. Lui guardava la tv, io guardavo lui e mi ripetevo quanto fossi fortunato.
Sorrido un po’, sperando che Anis sia dentro l’autogrill con gli altri. Sperando che stia guardando la partita e si stia divertendo e non stia pensando a niente. Giro attorno ai tourbus e scavalco il guardrail. Percorro a ritroso la stessa via che ho fatto tornando qui non più di un paio d’ore fa, e raggiungo la stazione di servizio della torta ai mirtilli in meno di venti minuti. Mi rendo conto di quanto abbia dilatato il tempo all’andata e anche al ritorno, e realizzo coscientemente per la prima volta che non c’era nessun villaggio perso in mezzo ai campi di grano, nessuna nonna Ena, nessun nonno Joseph.
Entro nell’autogrill, chiedo una fetta della stessa torta che ho mangiato prima e me la faccio mettere in una confezione da asporto. Dopodiché spiego che ho bisogno di raggiungere Berlino al più presto, ma il tipo oltre il bancone mi guarda come fossi completamente pazzo per qualche secondo, ed allora aggiungo che andrà bene anche una stazione ferroviaria, che poi da lì mi organizzerò da solo. Mi si avvicina una signora con un bimbo in braccio e mi dice che lei e suo marito stanno giusto tornando in città, e per loro non è un problema accompagnarmi fino alla stazione, se per me non è un problema viaggiare con estranei. Sorrido e la ringrazio, assicurandole che non c’è proprio nessun problema. Come potrebbe? Se non volessi viaggiare con un estraneo, non potrei viaggiare nemmeno con me stesso.
In macchina resto più che altro in silenzio. La signora e il signore mi fanno un sacco di domande, ed io rispondo a tutte, per quello che posso, ma senza aprirmi troppo. Il bimbo, ancorato al seggiolino sul sedile posteriore, proprio qui al mio fianco, ad un certo punto si mette a piangere, forse a causa di un po’ di mal d’auto. Afferro uno dei sonaglini sparsi in giro per la macchina e comincio a distrarlo. Il bambino mi segue, dopo un po’ smette di piangere. Continuo a farlo giocare facendo smorfie e agitando il sonaglio, e vedo i suoi genitori sorridere e sorridersi nel riflesso dello specchietto retrovisore. Mi viene un po’ da piangere, ma non cedo.
Arriviamo in stazione che è già buio, ma siccome non è tanto tardi c’è un sacco di gente in giro, e treni che arrivano e ripartono ad ogni binario. La stazione è tutta illuminata, c’è un McDonald’s aperto nel quale ho paura di entrare. Cerco sul tabellone il primo treno per Berlino. È un treno notturno e parte fra mezz’ora. Mi dico che sono stato fortunato anche stavolta, lo sono spesso e senza nessun motivo. Compro un biglietto e poi mi seggo in sala d’aspetto, tenendo sempre d’occhio il tabellone degli arrivi. Ho fame e mi annoio. Tiro fuori la fetta di torta ai mirtilli dalla sua confezione e la mangio con piacere immenso, chiudendo gli occhi ed assaporandola lentamente.
Quando finisco, è già ora di muoversi. Esco dalla sala d’aspetto, salgo sul treno, prendo posto in uno scompartimento quasi vuoto – c’è solo un uomo seduto dal lato opposto, e dorme profondamente – e mi appoggio al finestrino, guardando la notte e la città e la campagna mentre scorre davanti ai miei occhi diventando una macchia scura priva di contorni distinguibili, con qualche luce che appare all’improvviso e altrettanto all’improvviso scompare, lasciando solo una traccia sulla mia retina. Ogni traccia resiste per qualche secondo, sia che io tenga gli occhi aperti sia che io li chiuda, perciò a un certo punto li chiudo e resto lì appoggiato, inspirando ed espirando profondamente l’aria ghiacciata che entra dentro dallo spiraglio del finestrino appena abbassato.
Mi sembra di chiudere gli occhi solo per dieci minuti, o qualcosa del genere, ma quando li riapro è già mattina. Sono stanco esattamente come ieri, ma mi tiro in piedi e cerco di stare ben dritto sulle gambe quando il treno, dopo un millennio da quando ha cominciato a rallentare in prossimità della stazione, si ferma. Recupero il mio zaino e scendo barcollando, reggendomi a qualsiasi cosa incontri per strada e sia ancorata abbastanza saldamente al suolo. Dio, sono così stanco.
Controllo il cellulare che durante la notte, in modalità silenziosa, ha squillato di continuo. Trenta chiamate solo da Peter, non molte di meno da David, cinque o sei da Tom, un paio perfino da Anis. Il mio biglietto non deve averli convinti molto.
Sospiro, cancellando l’elenco delle chiamate e spegnendo il cellulare. Chiamo un taxi e, quando il tassista mi chiede dove voglio andare, per un secondo non ho idea di cosa rispondergli, perché non voglio andare da nessuna parte. Se nessuna parte esistesse, sarebbe lì che andrei. Sarebbe sicuramente un posto come quello che ho visto mentre sognavo, o comunque non ero in me, alla stazione di servizio. Poche case, una piazza, un pozzo, campi di grano ovunque, bambini, donne, persone anziane, lavoratori lontani come miraggi. Ma quel posto non esiste, e io ho bisogno di sentirmi al sicuro, e negli ultimi anni c’è solo un posto in cui sia riuscito a sentirmi così.
Do al tassista l’indirizzo della Villa Gialla, e sorrido man mano che le strade che percorriamo si vanno facendo sempre più familiari e rassicuranti. Riesco a rivedermi imboccare queste stesse strade sulla mia macchina, o su quella di Tomi, quando riuscivo a rubargliela o a convincerlo ad accompagnarmi lui, non perché ne avessi bisogno ma semplicemente perché mi piaceva l’idea. Perché quello era un periodo in cui potevo fare le cose anche solo perché mi andava. E mi manca.
Della Villa Gialla ho ancora le chiavi. Non le ho mai ridate ad Anis. Le tengo assieme a tutte le altre nel mazzo, un mazzo enorme con cinquecento portachiavi e che pesa più di me. Pago il tassista ed aspetto che il taxi sia sparito dietro il primo angolo prima di tirarlo fuori. Apro il cancello e sento i cani abbaiare. Sono aggressivi, all’inizio, tirano le catene tanto forte che mi viene quasi da pensare che riusciranno a muovere perfino le cucce, come nei cartoni animati, ma quando si allungano abbastanza da vedere che sono io il loro abbaiare si fa meno aggressivo e più festoso, smettono di tirare e cominciano a saltellare. Mi avvicino piano e mi chino davanti a loro, che subito si accoccolano davanti a me per un po’ di carezze. Gratto Skyline sulla pancia e Sherlee dietro le orecchie, poi mi rimetto in piedi ed entro in casa. È tutto buio e c’è silenzio ovunque. I cani riprendono ad abbaiare per qualche minuto, ma quando si rendono conto che non li farò entrare smettono, e tornano ad accucciarsi all’interno delle loro pittoresche casette di legno. Io spalanco le imposte di una sola finestra in salotto. La luce investe il divano ed è lì che mi vado a sedere, poggiando lo zaino sul pavimento e fissando un punto imprecisato nel vuoto.
È anche qui che mi trova Patrick quando entra in casa, non so quante ore dopo. Abbastanza perché il sole sia tanto alto nel cielo da colpire la stanza per intero, illuminandola tutta. Ho osservato i raggi farsi più ampi, li ho sentiti farsi più caldi, e smetto di guardarli solo quando sento la chiave girare nella toppa e la porta aprirsi su di lui, che mi individua subito, dall’ingresso, e spalanca gli occhi.
- Bill? – mi chiama. È talmente incredulo che gli trema la voce. – Bill, ma che cazzo ci fai qui?
Mi rannicchio un po’ sul divano, sorridendo debolmente. Sono così stanco, mi si chiudono gli occhi.
- Sono scappato. – ammetto, troppo stanco per inventare balle, - Non ce la facevo più.
- Sei— sei scappato? – sillaba lui, sconvolto, sedendosi sul divano e sporgendosi tutto verso di me, come avesse paura di vedermi crollare all’improvviso e dovesse tenersi pronto ad allungarsi per recuperarmi prima che mi schianti a terra.
- Sì. – biascico io, trovando non so dove la forza per annuire, - Patrick, non capisco più niente di quello che succede. Io credo di essere impazzito. – rido un po’, ma è una risata talmente debole e stanca che fa più paura a me di quanta ne faccia a lui. Ed a lui già ne fa tanta, lo vedo dal brivido che gli scorre per tutta la schiena, costringendolo a tremare impercettibilmente.
- Come sarebbe a dire che credi di essere impazzito? – mi chiede, strisciando sul divano fino ad avvicinarsi abbastanza perché il mio corpo possa reagire come fa sempre quando non ce la fa più a sostenersi da solo. Mi perdo fra le sue braccia, abbandonandomi contro il suo petto e chiedendomi se questo non sia poi il motivo principale per cui sono pieno di guai. Per la vita che mi sono scelto, io dovrei essere molto più forte di così. Però non lo sono, e questo mi porta a causare un sacco di guai a me stesso ed agli altri. Questa cosa è così ingiusta. Però io sono così stanco.
- Non sono più io. – mugolo confusamente, cercando di non piangere nonostante gli occhi siano così carichi di lacrime da bruciare, - Non mi riconosco. Sto un sacco male, Patrick.
Patrick mi stringe e mi accarezza i capelli e il collo, cullandomi col ritmo dei suoi respiri.
- Stai bene, così. – dice a bassa voce, passando le dita fra le punte cortissime dei miei capelli. Io ringrazio così piano che lui nemmeno mi sente. – Bill, - mi chiama, ed io istintivamente so che sta per dirmi qualcosa che non sono sicuro di voler sentire, - tu lo sai perché le cose vanno così male.
Stringo i denti, aggrottando le sopracciglia e stringendo un lembo della sua maglietta fra le dita.
- No che non lo so. – rispondo con tono lamentoso.
Lui mi stringe più forte, cullandomi lentamente.
- Alle volte le cose vanno fatte anche se ci fanno stare male. – dice, e gli trema la voce. E so che sta parlando per me, in questo momento, ma anche per se stesso.
- Non voglio. – piagnucolo. Non riesco più a trattenere le lacrime che nel mentre si sono gonfiate così tanto da cadere a gocce enormi sulla sua maglietta, sui suoi pantaloni e sulle mie mani.
- Bill, tu… - sospira e riprende ad accarezzarmi la nuca, senza smettere un secondo di ondeggiare avanti e indietro, - …tutti noi, in realtà. Ci siamo tutti persi. Abbiamo bisogno di ritrovarci, ma non possiamo farlo finché—
- Non dirlo.
- Finché non riusciamo a concentrarci solo su noi stessi. – conclude lui, stringendomi fortissimo perché sa che se non lo facesse scapperei. Ci provo, a divincolarmi, ma sono così stanco che non riesco. Trattengo il fiato così a lungo che mi sembra di potere esplodere, e poi lo rilascio e scoppio a piangere più forte di quanto non facessi prima, mugolando che non voglio, non voglio lasciarli, sono tutto il mio mondo, sono la ragione per cui sono qui, tutti loro, tutti e tre, in modo diverso ma ugualmente importante, e non ce la faccio proprio a metterli da parte, non ci riesco, non voglio. E mentre piango sempre più forte, e la mia voce si fa sempre più stridula e lagnosa, Fler mi stringe sempre con meno convinzione ed io realizzo che questa persona che piange e si lagna e non ha coraggio né forza di volontà non sono io. Ed è questo il motivo per cui mi guardo allo specchio e non mi riconosco. Questo stupido ragazzino impotente non sono io. Io non avevo ancora diciott’anni quando mi sono innamorato sul serio ed ho deciso che avrei conquistato l’uomo che amavo. Non avevo ancora diciott’anni quando ho ascoltato ciò che quest’uomo aveva da dirmi ed ho deciso di accettare tutto, di lui, perfino il suo passato, perché era ciò che serviva per averlo. Ed ero ancora più piccolo quando ho deciso cosa dovevo fare della mia vita, ero ancora più piccolo quando ho cominciato a lavorare, ad un’età in cui i ragazzini normali ancora si svegliano alle sette e si lamentano o inventano scuse per non andare a scuola.
Ora sono qui che piango e strepito e faccio i capricci come uno di quei ragazzini che non sono mai voluto essere. E questo non sono io. Non è così che mi voglio. E se è vero che mi sono perso, devo assolutamente ritrovarmi.
Mi allontano da lui, raddrizzando le spalle e passandomi una mano sugli occhi per asciugare le lacrime. Patrick mi osserva farlo e non ha bisogno di chiedermi niente per capire che finalmente ci sono arrivato anch’io.
Mi alzo subito in piedi, non perché voglia scappare, ma perché voglio fare qualcosa. Una cosa qualsiasi. Anche soltanto alzarmi in piedi e girare attorno al divano per sgranchirmi le gambe. Improvvisamente, sono molto meno stanco di quanto non fossi prima. Forse ero solo così pieno di tristezza da non riuscire a muovermi come volevo. Forse dovevo soltanto piangerla via.
- Partirò. – dico annuendo. Guardo fuori dalla finestra, le strade piene di persone e il sole altissimo nel cielo azzurro macchiato appena da qualche sbuffo bianco semitrasparente. – Me ne andrò in qualche bel posto con Tomi. Alle Maldive, magari. Io e lui dobbiamo dirci tante cose.
Patrick annuisce, sorridendo debolmente ed affiancandomisi per abbracciarmi ancora.
- Sarebbe meglio non sentirsi. Nemmeno noi. – dice, quasi per assicurarsi che abbia capito bene il concetto.
- Sì. – rido io, - Lo so perfettamente. Parlerò con David. Risolverò questa situazione.
Patrick si allontana, guardandomi con aria un po’ incerta ma profondamente divertita.
- Chi sei tu? – chiede ridacchiando, - Non ti ho mai visto così.
- Tu non mi hai mai conosciuto. – rispondo con un sorriso più dolce, allungandomi ad abbracciarlo a mia volta, - Quando sarò tornato, quando starò meglio, vorrò che tu mi conosca. Partiremo insieme, e stavolta sarà diverso da tutte le altre volte. Credimi.
Mi allontano ancora e frugo nelle tasche dei jeans, tirandone fuori il mazzo di chiavi. Lo guardo per qualche secondo, facendolo tintinnare sul palmo della mano, e poi stacco le chiavi del cancello e di questa villa, e le do a Fler.
- …sono…? – chiede lui con aria incerta. Io annuisco.
- Non le ho mai ridate ad Anis. – confesso, - Puoi fargliele avere tu?
Patrick annuisce, prendendo le chiavi in mano e conservandole subito in tasca. Lo saluto con un bacio sulla guancia, recupero il mio zaino e mi avvio lungo il corridoio.
- Stammi bene, ragazzino. – mi saluta lui, sbuffando un sorriso incerto. Gli faccio un cenno con una mano, prima di sparire oltre la soglia e lasciarlo in salotto. Sono ancora qui, ma non vedo l’ora di essere fuori. Chiamerò Tomi appena arrivato a casa. Gli dirò tutto. Sistemeremo tutto. Posso già sentire il calore del sole sulla pelle, la consistenza dei granelli di sabbia fra le dita, l’acqua ghiacciata che mi scivola fra i capelli e sul viso.
Attraverso tutto il corridoio e, quando arrivo a un passo dalla porta, mi volto verso lo specchio alto e largo sopra la consolle, e mi sorrido. Sento che sto sorridendo proprio a me stesso, e capisco che la direzione, stavolta, è quella giusta.

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Where do we go from here

di tabata
Ci sono momenti in cui non so davvero da che parte cominciare a raccontarvi le cose.
Non è una questione di come presentarvele perché so già che le capireste in qualsiasi modo io ve le proponga e non ho quel tipo di pudore nei vostri confronti che mi spinge a dipingere gli avvenimenti in maniera diversa per farli sembrare meno gravi, meno ridicoli o incredibilmente meno stupidi di quello che sono. Vi ho raccontato io stesso quasi tutte le parti più imbarazzanti della mia relazione con Chakuza, quindi direi che non c'è niente che non vi racconterei per vergogna.
Il punto è che mi trovo di fronte il problema di dovervi spiegare quello che è successo dall'ultima volta che qualcuno di noi vi ha parlato – era Bill ed era sconvolto, quindi fate voi – e si tratta di così tante questioni tutte insieme che in pratica è come quando la signora Lotte si presentava a casa di Peter con mezzo chilo di lana in una borsa e ci chiedeva di aiutarla a farne tanti gomitoli separati. Noi guardavamo questa matassa amorfa di fili colorati senza né capo né coda e ci chiedevamo da che parte esattamente dovessimo cominciare ad arrotolare. D'altronde è per questo che il compito è toccato a me, perché quando c'è da tirare le somme tutti si danno alla macchia e chi rimane sono sempre io. Il sottoscritto ha fatto il punto della questione quando Bushido è morto, quindi va da sé che debba farlo anche per la resurrezione. Per me non era così automatico, voglio dire, la metà di quello che sto per dirvi nemmeno mi riguarda!, ma non ho mai avuto voce in capitolo quindi direi che possiamo anche sederci e cominciare.
Io e Peter con la lana eravamo due disastri e ricordo che la signora Lotte lasciava ogni volta che la tirassimo fuori dalla borsa e che poi, nel tentativo di sbrogliarla, finissimo per annodarci; quindi sorrideva benevola e trovava in un secondo il capo che ci serviva, come se avesse sempre saputo che era là o come se ai suoi occhi quello brillasse per farsi individuare da lei più facilmente. Non so come facesse, ma le bastava guardarci per capirlo. Ora io non sono altrettanto bravo mentre guardo metaforicamente Chakuza, Bushido e Bill annodati tra i fili di lana con i quali hanno tentato per quasi un anno intero di legarsi e poi strangolarsi a vicenda, ma se guardo attentamente la questione e cerco di non pensare a come mi sento al riguardo, il capo lo vedo abbastanza bene. E quel capo, manco a dirlo, è Bill.
Non voglio certo dire che sia stato il ragazzino a scatenare la sequenza di disgrazie più o meno gravi degli ultimi mesi, ma di certo lui è il primo minuscolo sassolino che ha poi generato la valanga, e tutto, come sempre, senza muovere nemmeno un dito. E' un talento di Bill quello di essere involontariamente un guaio per il solo fatto di starsene lì come un piccolo sole al quale tutti orbitiamo intorno.
Ma stavo parlando di lana, di fili e di reazioni a catena. Lo so. Non sono Chakuza, io, non mi perdo, cerco solo di prendere tempo per riordinare le matasse.
Dunque, innanzitutto Bill ha deciso, per la prima volta nella sua vita, di seguire il consiglio di qualcuno e quando gli ho spiegato che forse la soluzione che ci serviva per sopravviere era separarci, mi ha dato ragione e ha fatto l'unica cosa che poteva fare: ha preso suo fratello e con il favore delle tenebre è sparito dalla faccia della terra, lasciando David Jost a coprire le sue tracce e, probabilmente, a farsi spettinare dai grandi capi della Universal che per colpa degli ormoni iperattivi del suo enfant prodige hanno perso non so nemmeno quanti miliardi. Lo stesso consiglio, che mi sono prodigato a dare a chiunque perché ero stanco e perché davvero ero e sono ancora convinto che fosse quello giusto, lo hanno seguito anche Bushido e Chakuza, il che paradossalmente ha creato più confusione, forse perché nel loro caso non c'era un manager gay pronto a deviare gli attacchi nemici a colpi di organizer. Chissà.
In pratica è andata così e vi avviso che non è stata una sopresa per nessuno. La Universal Music Deutschland ha pensato che l'esperimento con i non-morti fosse da considerarsi concluso e ha mandato a Bushido una bella lettera in cui scaricava lui, l'etichetta e tutti gli uomini trainati nel bene o nel male dal suo grande carretto dorato. Allo stesso tempo, ha perso la pazienza anche nei confronti dei quattro ragazzini e dopo aver permesso a David di mentire un'ultima volta su tutto ciò che era successo e chiedere del tempo per far riprendere Bill, ha scaricato anche i Tokio Hotel con un gran sorriso e l'augurio sincero che l'imminente periodo di vacanza potesse in effetti fargli bene.
Cos'abbia fatto esattamente David a quel punto io non lo so, perché avevo i miei problemi a cui pensare e perché non appena si è sparsa la voce che il contratto dei quattro era stato annullato, l'invasione mediatica delle supposizioni e degli avvoltoi si è fatta talmente pesante tra televisioni, radio e giornali da spazzare via totalmente anche la mia voglia di informarmi o di chiamare il ragazzino e chiedergli come stava.
So però cos'è successo all'Ersguterjunge perché ero ancora lì quando Bushido ha dato agli altri la notizia e c'ero solo perché Anis mi ha chiesto di esserci prima di perderci di vista per un po'.
Dal momento che il colossale fallimento del suo tour con l'uomo più odiato e quello più amato della sua vita era noto a chiunque, Bushido avrebbe potuto non dico chiedere perdono per aver lasciato che l'etichetta andasse allo sbando e per essersi fatto palesemente buttare fuori a calci da chi lo finanziava, ma almeno presentarsi agli studi con la vaga consapevolezza di essere nella merda e di averci trascinato una decina di uomini, giusto per dare l'impressione che gliene fregasse qualcosa; ma ovviamente lui non l'ha fatto perché è Bushido e invece di prendere atto della disastrosa situazione e poi inizire a raccogliere i pezzi, ha finto che non ci fosse nessun problema ed è entrato da quella porta spavaldo come se il mondo gli dovesse qualcosa. Ha preso il fatto di aver perso Bill, la sua casa di produzione e in generale tutta la sua vita in un colpo solo e lo ha ficcato da qualche parte in fondo allo stomaco, per avere la forza di vestirsi ed uscire di casa perché non sopporta di soffrire. Il fatto è che stavolta non c'era nessuno pronto a sopportare la sua spavalderia difensiva, tranne forse me e Chakuza che oscillava per gli stessi motivi tra la sua rabbia furiosa e uno di quegli attacchi di depressione che lo porta ad accasciarsi per non muoversi ipoteticamente mai più. E così l'Ersguterjunge ha subito la sua prima scissione.
A parer mio, Nyze è uno che non ha capito un cazzo della vita o della gente che gli sta intorno; da che sono qui non ho mai avuto una grande opinione di lui, se non quella di uno che voleva far parte di un gruppo di duri da film e si è ritrovato con intorno delle persone reali, senza contare che se davvero si trovasse in mezzo alla gente che vuole lui, probabilmente gli farebbe un gran culo. Così quando ha iniziato ad aggirarsi come un leone in gabbia, menando le mani in aria e imprecando al solo sentir nominare un'altra volta il ragazzino, non mi ha sorpreso proprio per niente perché è quello che vedi nei film, no? Il fratello di strada si agita quando spari cazzate e dice più cazzo possibile, per averlo in bocca nell'unico modo consentito, mica come facciamo noi.
Bushido ha provato ad essere conciliante, gli ha detto di calmarsi e che avrebbe sistemato tutto, che la Universal poteva pulircisi il culo con la lettera di recissione, ma Nyze non lo stava nemmeno a sentire, perché quello era il suo grande momento e voleva solo che lo guardassimo tutti mentre dava a Bill della troia, a noi dei froci e poi se ne andava sbattendo la porta. Una scena di una tristezza sconfinata. Se proprio voleva andarsene, che trovasse le palle di farlo prima invece di continuare a far parte di un'etichetta su cui aveva iniziato a sputare merda due anni prima.
Immagino che il teatrino fosse chiaro a tutti perché nessuno si è preso la briga di fermarlo, nemmeno Bushido, ma per come stavano le cose, con il re incapace di convincere perfino se stesso, l'apatia di Chakuza e davanti agli occhi la fine dei soldi di tutti quanti, nessuno ha avuto la forza di battersi le mani sulle cosce e far vedere che era ottimista. Forse sarebbe servito, ma d'altronde è difficile pensare che tutto andrà bene quando hai scritto in faccia il contrario.
A quel punto Peter si è alzato in piedi e se n'è andato, dando così il permesso a tutti gli altri di farlo.
Bushido si è seduto sulla sua scrivania ed è rimasto immobile finché nella stanza non c'eravamo solo io e lui, quindi con un gesto secco ha buttato giù tutto quello che c'era sul tavolo.
Sono rimasto a contemplare quel disastro finché lui non mi ha detto di andare.
Lo ha fatto senza nemmeno voltarsi e io ho solo annuito, perché me lo sono ricordato a diciotto anni fare la stessa cosa quando un affare andava in merda e Arafat poteva anche incazzarsi peso.
Mi teneva lì finché poteva, finché la rabbia non arrivava all'orlo e poi mi mandava via.
Mentre scendevo le scale ho sentito il vetro dei suoi quadri che andava in frantumi, mi è venuto in mente Chakuza e quasi ho sperato di trovarlo per strada anche se gli avevo detto che era meglio non vedersi per un po'.
Ho scosso la testa e ho come avuto l'impressione che non stessimo migliorando affatto.

*


Che io non so stare in casa da solo ve l'ho già detto così tante volte che ho la nausea perfino io.
Il punto è che finora, quando non volevo stare in casa mia a guardare i miei bei mobili mai usati, c'era sempre un altro posto in cui potevo andare. Quando ero un ragazzino era casa di Anis, poi c'è stata quella di Chakuza, poi lo studio dell'Ersguterjunge e dopo quella notte terribile in cui ho impacchettato Chakuza e l'ho spedito alla Principessa, c'era anche la casa di Nicole.
Ora invece non c'è un bel niente e quindi sto seduto qui di fronte al televisore a chiedermi se non dovrei vendere tutto e, non lo so, cominciare a vivere in albergo. Una stanza diversa ogni sera, così da non sentirmi a disagio se per caso mi guardo intorno e mi rendo conto che in quel posto non ci vivo, che a parte il letto tutto è ordinato, intoccato, come se fosse uscito giusto ora dal negozio.
Sono passati quasi due mesi da quando il casino è successo e in tutto questo tempo non ho fatto molto altro se non starmene seduto qui come sto adesso a chiedermi se invece non dovrei fare qualcos'altro senza poi farlo.
Gli unici momenti in cui effettivamente non sono immobile e non sto contemplando l'universo, sono quelli in cui Danny fa irruzione in casa mia e, come l'adolescente che è, m'impedisce fisicamente di occuparmi di qualsiasi cosa che non sia lui. Ascoltarlo e stargli dietro mi portano via tempo, che è esattamente ciò di cui ho bisogno, ma l'entusiasmo che ha per noi due – qualunque cosa siamo – è drenante e deleterio perché mi lascia più triste di come mi ha trovato quando poi Danny prende il suo zainetto sbrindellato e torna a casa, e mi ritrovo di nuovo qui a guardare il divano in pelle, con l'aggiunta che a quel punto ho in mente lui e mi ricordo che è piccolo, che non dovrei dargli corda e che lui è solo un altro casino in cui mi sono subito infilato quando ancora non ero uscito da quello prima. Solo che è un casino nuovo, sa di fresco e sembra ancora risolvibile, non come tutti gli altri.
Oggi è una di quelle giornate, anche se non vedo Danny da quattro giorni. O forse è una di quelle giornate proprio per questo, perché non so esattamente dove sia e, visto l'ambiente in cui vive, non sono tranquillo e finisco a pensare. A tutto. A lui, a me e a questa casa in cui non mettevo piede da così tanto che quando ho aperto la porta c'era un puzzo di chiuso che ti prendeva alla testa.
Mi chiedo se c'è stato un tempo nella mia vita in cui non ero così incasinato in questo modo perché ormai mi sveglio la mattina e mi sembra di essere sempre stato così e che in realtà non trovo una soluzione al mio problema perché il problema non c'è e dovrei semplicemente prendere le cose così come sono e continuare a vivere come presumibilmente vivevo anche prima, ma so che non è vero.
E se ci penso, so anche che una volta il mondo non andava a rovescio; mi viene da ridere quando mi rendo conto che quel tempo era quando stavo all'Aggro Berlin ed ero ancora incazzato con Anis. Avrei dovuto continuare a sputargli addosso, così questa distorsione spazio temporale in cui io sono l'ombra di me stesso non esisterebbe e sarei felice. Forse.
A quel tempo, Anis era vivo e io lo volevo morto, il che è ridicolo se si pensa che poi ho passato un anno in cui era morto e lo volevo vivo – quell'uomo è palesemente il più grande generatore di confusione nella storia dell'umanità – e mi viene in mente che allora, in effetti, c'era un altro posto in cui stavo quando non volevo entrare in casa mia: l'appartamento di Sido.
Non vedo Sido da uno sproposito di tempo, ormai, e lui ha anche rinunciato a minacciare di licenziarmi al decimo sms a cui non ho risposto. Forse mi ha anche licenziato senza dirmelo; ma in questo momento non ci penso perché il solo ricordo della sua casa mi fa stare bene. Non penso che magari lui ce l'ha a morte con me, non penso nemmeno che non posso presentarmi alla sua porta dopo non so quanti mesi di silenzio con una borsa in mano e aspettarmi di essere ospitato.
Il fatto è che tolti tutti i posti in cui vorrei andare e non posso, casa sua è l'unica in cui mi sembra di poter scappare ora che casa mia è tornata a soffocarmi, e non vedo motivo per non tentare.
La valigia la preparo così di corsa che non so esattamente cosa mi sto portando dietro perché apro i cassetti e li ribalto, scegliendo le cose che cadono nella borsa da sole e scartando quelle che finiscono sul pavimento. Mentre rovescio il cassetto dei calzini, però, mi fermo perché l'occhio mi cade sul peluche a forma di aragosta che c'è sul letto e del quale mi ero dimenticato.
L'ho portato via dalla casa di Chakuza l'ultima volta che sono stato lì con Danny.
Non so esattamente perché l'ho fatto, era lì sul divano e mi è sembrato di dover allungare una mano e prenderlo. Lui si è fatto prendere senza fare storie.
Quando è ubriaco, ma anche quando non lo è, Peter se lo mette su una spalla e ci parla. Alle sue domande Hummer Kummer risponde con una voce ancora più roca della sua perché Chakuza non è un cazzo bravo a fare le voci, però ci prova e l'unica cosa che gli riesce di fare è parlare di gola. Diceva che era un'aragosta da guardia. E lo diceva di continuo perché Peter si dimentica le cose e te le ripete decine di volte, convinto di non avertele dette mai. Metto in valigia anche Hummer Kummer perché è un pezzetto di casa e non si parte mai senza e perché qui da solo non può stare. Questa casa non va bene per lui.
Mando un sms a Danny e lo avverto che non sono più a casa mia e che mi chiami quando può, quindi chiudo la porta e già mi sembra di respirare meglio.

*


Quasi cinque settimane dopo quel giorno, cioè adesso, vivo ormai in pianta stabile da Sido, che non vuol dire che io mi sia trasferito da lui e dalla sua famiglia ma che passo lì da loro molto tempo. Torno a casa mia quando ho voglia, cioè quando c'è Danny, o quando devo fare le lavatrici perché, anche se Doreen laverebbe volentieri i miei vestiti, mi scoccia farglielo fare e così ogni tanto metto tutto nel mio borsone e faccio un salto a casa, che poi è un bene perché una casa non puoi davvero lasciarla così a perdersi per niente.
Sto facendo dei salti temporali enormi, mi rendo conto. Il fatto è che sono successe molte cose importanti ma che tra l'una e l'altra sono passati mesi di nulla e io non posso davvero stare qui a raccontarvi il nulla, mi sembra chiaro. Quindi sto cercando di darvi un'idea di tutto, ma senza soffermarmi sui singoli dettagli e voi stavolta dovete fare uno sforzo e starmi dietro perché, vi giuro, è un casino ed è un casino che finisce col botto. Voi non volete perdervi nella mia vita, adesso, ve lo assicuro.
Vi basta sapere che quando sono arrivato a casa di Sido, lui non voleva nemmeno aprirmi. O meglio, mi ha aperto ma quando ha visto che ero io, mi ha subito richiuso la porta in faccia, lasciandomi sullo zerbino. Ad aprirmi ed invitarmi in casa quasi mezz'ora dopo è stata in realtà sua moglie Doreen che si è scusata perché Paul era un po' nervoso. Io avrei voluto dirle che più che altro era incazzato nero, ma Doreen è così dolce e bionda e ammantata di brillantini che non me la sono sentita di farlo e ho solo annuito, ringraziando.
La prima a venirmi incontro è stata la bambina che mi è saltata addosso strangolandomi in un abbraccio da orso, come se la mia presenza lì fosse perfettamente normale, cosa che non ha fatto che confermare la mia sensazione e aumentare le rughe sulla fronte di suo padre che si era seduto sul divano fingendo come al solito di essere un uomo rilassato.
Ora, io conosco Sido da un sacco di tempo, quindi lo so com'è fatto. E' uno che si incazza un casino, ma poi alla fine è buono, per cui dopo aver mandato via la bambina e Doreen e dopo avermi urlato che ero uno stronzo, che tornavo qui perché quel bastardo di Bushido mi aveva lasciato di nuovo a piedi e che ero pazzo se pensavo di avere ancora un lavoro all'Aggro Berlin, mi ha indicato una poltrona e mi ha detto “Cazzo ci fai lì in piedi come un cretino? Stasera resti qui a cena, non vedo l'ora di sentirti mentre ti arrampichi sugli specchi per giustificarlo.”
Dopo cena sono rimasto a dormire e poi a colazione, pranzo e di nuovo cena finché la loro bellissima mansarda non è tornata ad essere camera mia e io mi ci sono installato dentro come due anni fa, con la vecchia playstation della bambina, lo stereo e Doreen che mi chiede se voglio fare merenda con il latte e i biscotti.
A questo punto dovrei stare bene. Dico, casa di Sido è un posto che mi fa stare tranquillo, Daniel è sempre un danno ma riesco a tenerlo sotto controllo, non vedo le altre tre piaghe da così tanto tempo che magari riesco pure a dimenticarmi le parti peggiori di loro e sto pure scrivendo, il che significa che ho ancora il mio vecchio posto e, se tutto va bene, riesco pure ad incidere qualcosa entro l'anno.
Quando le cose iniziano ad andare straordinariamente bene dopo che avevano passato un sacco di tempo ad essere così schifose che ti veniva da piangere, non te le godi per niente perché non ti sembrano reali. Generalmente, però, è solo una tua sensazione che dopo un po' di tempo si esaurisce lasciandoti soddisfatto e certo che la tua esistenza stia di nuovo prendendo la piega giusta. Ecco, a me queste cose non capitano.
Se mi sembra che qualcosa non vada, quel qualcosa non va.
Uno di questi giorni io sto cercando di mettere insieme tre note, approfittando dello studio vuoto dell'Aggro Berlin. Qua non è come da Bushido, nessuno viene in ufficio prima delle undici, perché nessuno va a letto prima delle quattro, così se vengo qui di buon'ora sono sicuro di essere da solo. Una cosa che mi permette di lavorare e di non sorbirmi le occhiate pesanti di tutti gli altri che non hanno preso affatto bene il mio ritorno. Non li biasimo, ma preferisco evitarli. La mia vita viaggia sul filo del disastro già abbastanza così com'è per doverci aggiungere anche le accuse di sodomia, tradimento e stronzaggine generalizzata.
Sono lì da qualche ora quando sento la porta aprirsi e rimango sorpreso perché non mi aspettavo nessuno così presto. Resto ancora più sorpreso quando, dopo Sido, vedo entrare Nyze che, per l'occasione sembra più cattivo del solito. Pantaloni più costosi, canotta più aderente, ha perfino la catena. Una roba così pacchiana che in confronto quella che avevo io sulla copertina di Neue Deutsche Welle era un gingillo dell'uovo di Pasqua. Quasi me lo immagino mentre davanti allo specchio si veste a festa per venire qui, come se qui fosse un posto diverso dall'Ersguterjunge e i rapper non fossero persone come lui. Credo non gli sia ben chiara la distinzione fra personaggio pubblico e privato. Nemmeno Sido porta la maschera al gabinetto, qualcuno gliel'ha detto?
Visto che qui dentro sono più a casa mia io di lui, non mi pongo il problema di farmi da parte e lo guardo dritto in faccia. Lui sostiene il mio sguardo e ci prova anche a mostrare disprezzo per la mia presenza qui, ma poi evidentemente ricorda che io sono soltanto tornato e che lui, invece, sta facendo una cosa pessima perché non è certo qui in visita e lo sappiamo tutti e due.
Sido mi fa un cenno con la mano mentre continua a discutere con lui di cose che non sento aldilà del vetro e poi entrambi spariscono nell'ufficio di Sido.
Nyze torna sempre una volta in più di quanto mi piacerebbe vederlo e i ragazzi dell'etichetta lo accolgono a braccia aperte e con grandi pacche sulle spalle. Nessuno parla di contratto, ma nessuno poggia il culo sulla poltrona in pelle di Sido così a lungo senza mettere una firma. La pelle si consuma, dice lui, e in qualche modo va ripagata.
Credo che gli altri vedano Nyze come una grande conquista, la bandiera avversaria sul campo di battaglia, o una roba altrettanto epica. Se sperano di cavare da Nyze qualcosa di utile, si sbagliano di grosso.
Lui ne sa quanto loro sulla sua etichetta. Quello che c'è da sapere su Bushido, lo sa solo Bushido.
Chiederlo a me, naturalmente, poteva essere un'idea ma una parte di questi uomini pensa che io sia in missione segreta per conto del re e l'altra è abbastanza intelligente da sapere che non gli direi niente nemmeno se con Bushido ci avessi litigato di nuovo.
In realtà, quello che mi preoccupa di più non è quello che vogliono fare loro di Nyze, ma quello che Nyze pensa di poter fare qui. Mi chiedo, infatti, cosa lo abbia spinto a presentarsi proprio all'Aggro Berlin, quando c'erano altri porti più amichevoli in cui andare. L'intera scena rap tedesca poteva andar bene con il casino mediatico che anche per vie traverse si porta dietro. Avrebbero fatto la fila per averlo tra i ranghi e poter raccontare cazzate sulle divergenze di opinioni con Bushido, con me, con chiunque tornasse comodo. Ma presentarsi all'Aggro Berlin con il rischio di essere prima mandato a fanculo e poi deriso fino alla terza generazione nei successivi dieci ansage che sarebbero usciti, non ha molto senso. A meno che non si abbia in mente di fare lo stronzo, e guarda caso è proprio quello che io penso di lui.
Ogni volta che cerco di parlargli in privato, Nyze trova il modo di evitarmi e devo dire che non è molto difficile in un posto in cui tutti più o meno lo fanno. Parlarne con Sido è quasi altrettanto impossibile. Se sono allo studio, generalmente ormai c'è anche Nyze – il che non fa che confermare i miei dubbi sul suo contratto – e Sido ha una regola per cui non parla di lavoro a casa, per cui una volta varcata la porta, l'etichetta magicamente scompare e lui è soltanto un padre di famiglia con una moglie bionda e bellissima che a sua volta torna ad essere cantante solo fuori da quelle quattro mura. Ed è una regola fondamentale, questa, e Sido la fa rispettare così duramente che alle volte ho paura che mandi in mansarda senza cena anche me, oltre che la bambina.
La questione mi irrita più di quanto dovrebbe.
Le cose non sono più quelle che erano e per quanto ne so, l'Ersguterjunge potrebbe non esserci già più e Nyze potrebbe davvero avere le migliori intenzioni del mondo. Magari Bushido è perfino tornato a Miami a fare il meccanico, l'idraulico o qualsiasi altra cosa facesse laggiù.
Questo discorso me lo ripeto spesso e ogni volta ci credo meno di quella prima. E non ci credo perché, anche se non mi sto volutamente informando su di lui o sulla sua etichetta, io semplicemente so che Bushido è ancora a Berlino e che, visto cos'è successo la prima volta, non si azzarderà a prendere un altro fottutissimo aereo senza prima averci avvertiti tutti quanti, magari con una bella cena di commiato durante la quale, ovviamente, noi finiremmo per legarlo da qualche parte impedendogli di prendere il volo, che poi è esattamente il motivo per cui farebbe quella cena, nel caso. Per farsi amare collettivamente, una cosa che non abbiamo esattamente fatto quando è tornato dalla morte. Scusaci Anis, se eravamo sconvolti.
In quanto all'etichetta, credo che Bushido preferirebbe darle fuoco e raderla al suolo con le sue stesse mani piuttosto che abbandonarla, chiuderla o venderla e siccome non mi è arrivata alcuna notizia di un incendio in Ritterstrasse, direi che quel posto è ancora in piedi e il suo proprietario è probabilmente barricato in casa per evitare di scendere in strada e prendere a testate qualche giornalista che lo perseguita.
Per qualche settimana decido di stare zitto, anche perché mi dico che forse sono paranoico e trovo pure il tempo di addossare le colpe di questa paranoia a Bushido che ogni tanto ce li aveva di questi momenti da perseguitato politico, in cui qualsiasi angolo giravamo c'era qualcuno che voleva fargli le scarpe, portargli via il posto o cose simili. In realtà io credo che si divertisse soltanto a fare il cretino, mentre tirava su la cornetta del telefono per controllare la conversazione che avveniva dall'altra parte o teneva sott'occhio le targhe delle auto che sostavano di fronte a casa sua per vedere se una tornava più spesso delle altre. E quando succedeva, mi diceva “Ecco la vedi quella? La vedi, ragazzino? Sono settimane che è ferma lì, è sicuramente uno di quegli spacciatori turchi. Quello ci tiene d'occhio.” E poi magari era il lattaio e lui lo sapeva, ma si divertiva a farmi cagare sotto o a fingere che la situazione fosse diversa da com'era.
Per un po' smetto di perseguitare Sido, anche perché vedo che medita di prendere me, il suo materasso e tutte le mie cianfrusaglie e di trasferire tutto sul marciapiede di fronte a casa sua e io non me la sento di tornare a casa, non vedo perché devo tornarci visto che è buia e vuota. Per un momento ho anche pensato di farci stare Daniel, ma poi sono arrivato alla conclusione che lui potrebbe mal interpretare il perché dell'invito e ho lasciato perdere.
Nyze continua a venire allo studio sempre più spesso e comincia anche a lavorarci; se c'è un contratto nell'aria, e come ho detto c'è, non è stato ancora annunciato. Non ho una buona motivazione per prendere quell'uomo e scaraventarlo fuori dalla porta, eppure lui continua a non piacermi. E' solo una sensazione, ma mi dico che Bushido la capirebbe. Lui le capisce sempre queste cose.
Potrei disinteressarmi della faccenda, naturalmente, perché la presenza di Nyze, in realtà, ha distolto l'attenzione dal sottoscritto e, sebbene io non sia più quello con cui farsi una birra, di certo non sono più il frocio che è tornato da Bushido per farsi fare cose che ora non starò qui ad elencarvi perché non sono mai stato così scurrile. A quanto pare, non sono nemmeno la talpa che certa gente pensava che fossi perché, guarda un po', non faccio che passare dallo studio a casa di Sido e da casa di Sido allo studio. Non ho una vita sociale al di fuori di Danny e i loro pedinamenti – sì, no, dico, vi sembra normale? - non devono aver fruttato molto altro che un sacco di avvistamenti di me e di lui che entriamo a casa mia con una pila di pizze e un film.
Potrei, dunque, disinteressarmi della faccenda ma, ovviamente, non lo faccio perché, come dice mia madre, ho la testa dura come il cemento e quando mi convinco di una cosa dev'essere quella per forza, anche se magari non è così, finché non ci sbatto la testa e allora capisco che potevo starmene buono ed evitare di farmi venire il bernoccolo.
Così un giorno faccio irruzione nello studio di Sido e lo trovo seduto sulla sua poltrona di pelle che guarda Berlino attraverso la grossa vetrata che si è fatto costruire dietro la scrivania. Gli manca solo il gatto e una risata malefica e poi sarebbe un cattivo perfetto per un film di James Bond.
Solo che, appunto, è Sido e io lo vedo uscire in mutande a righine ogni mattina dalla camera da letto, mentre sua figlia corre per casa recitando a memoria la sigla di Sailor Moon, per cui solo guardandolo gli tolgo tutta l'epicità che potrebbe mai possedere. Tra l'altro, sono lì con il sincero intento di salvare lui e la sua etichetta da una minaccia che, d'accordo, non so quale sia, ma la percepisco, quindi non penso nient'altro che a quello e mi sfugge il fatto che poteva non volere più avere niente a che fare con me e che io, a ben guardare, non avrei voce in capitolo anche se decidesse di vendere tutto a Nyze e andare in pensione, per dire. Insomma, faccio esattamente quello che non dovrei fare: mi getto contro il muro di testa a duecento chilometri orari.
Invece di partire dal principio e di fargli più o meno il discorso che ho fatto a voi, la prima cosa che gli dico è che Nyze è uno stronzo che non cercava altro che una buona occasione per dare addosso a Bushido e farci su anche dei soldi e che quell'occasione l'ha trovata all'Aggro Berlin, servita su un piatto d'argento.
“Credi che non lo sappia?” Mi dice lui. “Quello è qui a cercare qualcuno che possa sostenerlo in questa crociata contro il tunisino. Ho tutto sotto controllo, Fler.”
“No, non ce l'hai sotto controllo,” dico e sbaglio. Dio mio, se sbaglio. Se c'era una cosa sbagliata da dire l'ho appena detta. La cosa peggiore da fare quando ti sembra che chi ti sta davanti non abbia capito un cazzo è dirgli che non ha capito un cazzo. Ora puoi stare sicuro che non farà mai quello che dici tu.
“Lo hai sentito dire qualcosa?”
“No.”
“Lo hai visto fare qualcosa?”
“No, ma non mi piace.” Fa talmente schifo come risposta che non me ne accorgo solo ora che ve lo sto dicendo ma me ne accorgo subito, che ancora l'eco delle mie parole non si è spenta.
Sido mi guarda, gonfiando una guancia. “Quindi fammi capire, io dovrei mandare via questa persona che potenzialmente ci farà guadagnare un sacco di denaro semplicemente essendo dei nostri perché tu ti sei svegliato stamattina con l'acidità di stomaco?”
Mi gratto la fronte e poi una guancia. “Senti, okay. Ricominciamo da capo, va bene? Cerca di seguire il mio ragionamento.” E provo a dirgli quello che ho detto a voi, ma a quel punto è tardi perché Sido non sente altro che unghie sugli specchi e quello che ne viene fuori è in effetti una paranoia basata sul nulla più assoluto, tranne forse la gelosia.
“Cos'è che non ti va a genio, Fler?” Mi dice lui. “Che Nyze sia qui o che tu non sia più la punta di diamante di questo posto?”
Questo fa male. Cioè, lo sapevo, ma non me l'aveva detto chiaramente e quindi era tutta un'altra cosa. E comunque fa male, non sono abituato. Okay, forse sono un po' geloso ma ho ragione io. Vi ricordo che tutto questo è già successo, quindi quello che dico lo dico con cognizione di causa.
Io so di aver ragione.
“Senti, non stiamo parlando di me. Dico solo che quello non mi piace.”
“E non sai quanto la notizia mi spezzi il cuore,” risponde lui, sarcastico. “Ora, per favore, esci da questo ufficio e torna quando avrai qualcosa di utile da dirmi.”
“Quello ha qualcosa in mente.”
Sido inspira ed espira, quindi mi osserva. “Lo spero vivamente perché non ho intenzione di tenerlo sotto contratto a grattarsi il culo davanti alla tv.”
“Lo hai scritturato?” Chiedo. Lui annuisce. “Non ti è passato per il cervello che potrebbe essere tutto calcolato?”
“Da chi?” Esclama lui. “Da chi, Fler? Se lo ha mandato Bushido, allora dovrò dubitare anche di te perché sei stato tu a dirmi che si sono mandati a fanculo. Se invece c'è venuto da solo per rovinare Bushido, ben venga. Io non aspetto altro. Sarò ben lieto di dargli una mano.”
Sospiro e mi passo una mano sulla testa. “Quell'uomo è incazzato per un motivo ben preciso e io--”
“E guarda caso quel motivo sei tu,” mi interrompe lui. “Tu, Bushido e tutti gli altri froci che hanno smembrato l'Ersguterjunge fino a farla a pezzi.”
“Potresti evitare di usare quella parola?” Mi sto irritando.
“Ma dico, ti senti?” Esclama lui. “Io non so cosa ti sia successo e cosa.... cosa ti passi per il cervello ma non puoi venire qui a dirmi chi posso o non posso scritturare.”
“C'è qualcosa che non va.”
“Beh, lo credo anch'io,” dice lui, alzandosi in piedi. Mi guarda a lungo e poi sospira. Sento arrivare anche questa, perché vibra nell'aria un attimo prima di avvenire. “E' stato un grande errore farti tornare.”
“Cosa?”
“E' chiaro che tu non sei più quello che eri.” Almeno non sorride. Non credo avrei sopportato anche la presa per il culo con il doppio senso. “Non rappresenti più l'etichetta e io non credo che sia il caso tu rimanga qui.”
Scaricato. Cerco di avvertirlo. Cerco di parargli il culo, e lui mi scarica. Se la gente non la smette di farlo, potrei cominciare ad incazzarmi.
“Fa' il cazzo che vuoi,” dico, recuperando il cappotto. “Quando questo posto cadrà a pezzi, non venire a piangere da me. Io ti ho avvertito.”
Infilo la porta prima di ripensarci. Le scene epiche sono prerogativa di Bushido, è lui quello che parla come se leggesse un copione, ma come uscita di scena non è andata poi tanto male.
Sarei fiero di me se sul marciapiede appena fuori dallo studio non mi rendessi conto che non ho un posto dove andare; cioè, a parte casa mia.
Mentre mi avvio a piedi, perché la macchina ce l'ho da Sido, comincia a piovere e penso che a questo punto, almeno io, ho toccato il fondo. E invece, naturalmente, no.
La sfiga ha sempre un pala in più da prestare.
Nel nostro caso, ne ha una scorta intera.

*


Conoscendovi, vi starete chiedendo quando ho intenzione di raccontarvi com'è andata a finire. E dire che dovreste essere abituati al fatto che qui le cose non capitano mai in due pagine e che ci vogliono intere serie per raccontare di com'è morto un uomo o di come sia resuscitato. Abbiate pazienza.
Come vi ho già detto, io non sono Chakuza e se c'è una cosa che non mi è rimasta attaccata addosso di quell'uomo è proprio la sua tendenza a perdersi nel suo cervello per non riuscire più ad uscirne. Con la sua pazzia mi ci ha affogato mentre stavamo insieme ma, grazie a Dio, le sue acque acquitrinose si sono ritirate non appena l'ho perso di vista.
Dunque, cos'è successo? Dopo che Sido mi ha buttato fuori dall'etichetta e anche da casa sua, rifiutandosi per altro di avere a che fare con me vita natural durante – una cosa della quale tra qualche anno, in un posto e in una situazione molto diversi da questa, riderò così tanto che quasi finirò per soffocarmi – non ho avuto altra scelta che tornarmene davvero a casa mia, anche perché l'alternativa era mia madre e, per quanto io la ami, preferisco trascinarmi come un relitto umano nel mio appartamento che passare anche solo due giorni da lei senza sapere come spiegarle perché io non ho una fidanzata carina e non mi sistemo come il cugino Karl, che per altro ha un nome di merda e non lo vediamo mai più di due volte l'anno.
Okay, sì, forse un po' mi sto perdendo ma ci arrivo.
E' passato un mese dalla storia di Sido e circa sei da quando ho trovato Bill che vaneggiava in casa di Bushido e ho consigliato a tutti che fosse meglio andare ognuno per la sua strada. In tutto questo tempo, come ho già detto, ho finto che non fossero mai esistiti, ben sapendo che se avessi acconsentito ad accettarne anche solo la presenza nel mondo avrei finito per ricaderci e questo non era assolutamente concepibile, non dopo quello che avevamo passato tutti quanti.
Certo non è stato facile, voglio dire tu non puoi davvero scordarti dell'esistenza di una persona che conosci, figurati di una persona come Bushido che generalmente occupa anche fin troppo spazio nel cervello altrui, o di Chakuza – che Dio ce ne scampi – che è invasivo in tanti di quei modi che avrei bisogno di una lobotomia per dimenticarmelo, ma ho tirato avanti e non ho ceduto a nessuna tentazione che, nella maggior parte dei casi, consisteva nel numero di Peter che componevo sulla tastiera del cellulare fingendo come un cretino di fare numeri a caso. Una cosa di cui un po' mi vergogno, in effetti.
La mia vita l'ho trascorsa sostanzialmente continuando a scrivere le canzoni su cui avevo cominciato a lavorare e ho ripreso anche a disegnare, una cosa che potrebbe tornarmi utile per un progetto che ho già in mente da un po' e che forse è l'ora di mettere in pratica. Ho spostato quasi tutti i mobili del salotto per avere una parete libera e poterci dipingere su con le bombolette se ne ho voglia. Quando mi gira, prendo il rullo, do una mano di bianco e ricomincio tutto da capo. E' liberatorio.
Danny è stato piuttosto contento di sapere che lasciavo “Casa di mia madre Sido”, come la chiama lui, per tornare in pianta stabile nel mio appartamento perché questo gli ha permesso di riprendere la sana abitudine di comparire a casaccio sul mio pianerottolo con la valigia e decidere arbitrariamente del mio fine settimana, di me e della mia vita.
Cosa che io gli lascio fare anche oggi, che è la giornata peggiore in cui potesse capitare qui.
Naturalmente io questo non lo so quando mi sveglio al suono di lui che bussa alla porta.
E non lo so nemmeno quando gli apro, lui mi bacia incurante dei miei vicini e poi entra senza chiedere il permesso, occupando contemporanemente la poltrona con il suo zaino e il divano con il suo corpo. Ha fatto tutto in un lasso di tempo così breve che non ho nemmeno reagito e, quando mi chiama ridendo, io sto ancora lì davanti alla porta a stropicciarmi un occhio e a chiedermi se me lo sono sognato o cosa.
“Ti muovi a venire qui o no?” Mi dice, mentre si toglie la maglia e nel farlo si agita e ci si incastra dentro un paio di volte, spettinandosi tutto. Danny muore sempre di caldo, la prima cosa che fa quando entra in un posto è togliersi la felpa, anche se magari è inverno e ci sono quattro gradi. Il termosifone è il suo nemico naturale e lui gli ha giurato guerra.
Quando finalmente lo raggiungo in salotto, lui si è già tolto le scarpe, ha acceso il televisore e ha parcheggiato i piedi sul tavolino, allungando braccia e gambe da tutte le parti. E' tutto sproporzionato ancora e io mi chiedo se il suo mucchietto di ossa avrà mai davvero un senso.
Piega la testa sul divano e mi guarda sottosopra. “Ma sei vivo?” Chiede ridendo. “Hai una faccia da schifo!”
Mi passo una mano sul viso come se potessi far scomparire le occhiaie. “Mi sono svegliato adesso,” dico, guardando di sfuggita la tv senza capire cosa sto vedendo. “E poi che vuol dire faccia da schifo? Che modo di parlare è?”
“Adesso si dice così,” commenta lui, tornando a fissare lo schermo. “C'è qualcosa da mangiare?”
Sospiro. “Guarda in cucina, cavalletta. Io vado in bagno.”
Quando torno ricordo almeno come mi chiamo e lo trovo con un panino più grosso di lui e gli occhi incollati al televisore. La playstation è il grosso monolite nero e lui una delle scimmie di quel film di fantascienza.
“Che cosa ci fai qui?” Chiedo, adocchiando il suo enorme zaino da trasferta. “E' giovedì, domani non dovresti andare a scuola?”
Lui si gira a guardarmi solo un secondo e poi torna a farsi ipnotizzare dal suo videogioco. O meglio dal mio. “A parte che è venerdì, Fler,” mi dice col tono paziente di uno che queste cose le dice spesso. “E poi ho due settimane di vacanza.”
“Venerdì?” Alzò lo sguardo sull'orologio, che per altro mi informa che sono anche le sette di sera.
Lui mette in pausa, recupera il suo panino e si volta, inginocchiandosi sul divano. “Venerdì, sì,” ride, masticando. “Sei proprio fuori come un citofono, ma quanto hai dormito?”
A volte quando parla, mi sento vecchissimo. “Non lo so,” ammetto. “Sono stati due giorni un po' confusi.”
“Perché?”
Mentre mastica, sbriciola sul pavimento, una cosa che mi rende irrazionalmente nervoso. Così, mentre gli racconto di come mi è preso questo guizzo artistico e ho portato su dalla cantina quattro secchi di vernice da usare proprio col pennello, roba che non facevo da anni, vado in cucina e gli recupero un tovagliolo che gli spalmo in faccia. Lui ride, ci si pulisce la bocca e poi ci avvolge con cura quello che resta del panino.
“Devo aver perso il senso del tempo” gli dico mentre cerco anch'io di trovare una spiegazione. Quando ero più piccolo mi capitava spesso di farmi prendere dalla foga di un'idea per un disegno o una tag e non pensare più a nulla finché non l'avevo finita. Era un modo come un altro per staccare completamente il cervello dallo schifo che mi circondava. Mi davo qualcos'altro a cui pensare.
Danny si guarda intorno, finché non individua il telo che ho tirato dal soffitto fino a terra. E' il vecchio telo di una tenda di mia madre, tutto macchiato. L'ho usato per qualunque cosa, ce l'ho tipo da sempre. Lui mi fa un cenno col capo. “Leva, fai vedere.”
Per un momento ho paura di farlo perché se ho perso due giorni della mia vita, non sono nemmeno troppo sicuro di sapere che cosa ci sia disegnato l'ha sotto. Magari è uno schifo.
Tiro via il telo con uno strattone e Danny si butta giù dal divano e mi scosta per guardare meglio. La parete è lunga quasi quattro metri e io l'ho riempita completamente. Gran parte del disegno, ovviamente, è ancora solo abbozzato, ma ho cominciato a colorare l'angolo a destra dove c'è la fiancata di un vagone della metropolitana. Non è il mio solito stile spigoloso, volevo provare qualcosa di completamente diverso, più morbido e più fluido, qualcosa che riempisse gli spazi in maniera meno netta. Mi allontano e guardo il treno perdere colore e quasi svanire in prospettiva, delinato solo dalle mie linee a carboncino. Nel mezzo c'è una caricatura di Berlino, con la porta di Brandeburgo tozza e schiacciata e dietro la torre della tv che ondeggia. Sulla sinistra c'è un gruppo di personaggi ancora senza volto, hanno vestiti che sono una via di mezzo fra i nostri e un qualche tipo di super-eroe. Quello al centro, ovviamente è Anis, perché incrocia le braccia impettito. E poi ha alle spalle un cavallo bianco meccanico con un'espressione così fiera di sé che può essere soltanto suo. Mi viene voglia di continuarlo non appena ci poso gli occhi sopra.
“Ma è una figata!” Danny lo guarda passandoci sopra le dita, piano. Sono un po' orgoglioso di me stesso per essere riuscito a catturare la sua attenzione quanto Lara Croft. “E' gigantesco e lo hai fatto in due giorni?”
“Sì, solo il disegno però,” annuisco. “Ci vorranno settimane a colorarlo.”
Osservo la mia opera e ora che sono un po' più sveglio e un po' meno intriso dal sacro fuoco dell'arte – che poi più che altro era mezza bottiglia di Jack Daniel's – mi rendo conto di quanto sia effettivamente grande. Era da tanto tempo che non dipingevo legalmente su una superficie. Come ogni volta che non devo stare attento a correre via al minimo rumore e lasciare le cose non finite o fatte di fretta, penso che se avessi studiato avrei anche ottenuto dei risultati.
“Potrei aiutarti,” mi dice Danny, che ora sta ammirando il murales dal fondo della stanza, con la testa piegata di lato. Mi guarda. “Se ti va, ovvio.”
Penso: perché no? Qualche tempo fa mi ha trascinato in giro a vedere qualcuno dei suoi lavori e non se la cava male. Attraversare i luoghi dove io e Anis andavamo a taggare mi ha anche messo un sacco di nostalgia, perché adesso mi guardo intorno e ci sono tutte firme che non conosco. Se ci fosse stato lui, con me, invece di Daniel, sarebbe entrato nel primo negozio di fai da te disponibile e si sarebbe armato di bombolette per riprendersi il suo territorio. Quell'uomo è pazzo, del resto.
“Certo,” rispondo. “Domani cominciamo.”
E quelle, evidentemente, sono le parole esatte che la sfiga stava aspettando per entrare in scena. Se mi concentro la immagino anche, spietata e col visore sugli occhi per prendere meglio la mira, seduta dietro le quinte delle nostre esistenze in attesa che io pronunci la battuta che si aspettava.
Mi suona il cellulare e inizio subito a preoccuparmi, un po' per il mio sesto senso e un po' perché quella suoneria non la sento da sei mesi e qualsiasi cosa voglia da me Bushido, se non è dannosa fin da subito, sicuramente lo diventerà nel giro di qualche giorno. E' passato troppo poco tempo per considerarci tutti di nuovo a posto.
Ad ogni modo rispondo comunque perché lui continua a far squillare e ormai Daniel mi guarda con aria interrogativa. “Pronto?”
“Cristo, ma quanto ci hai messo a rispondere?”
Sollevo un sopracciglio. “Ciao anche a te, Anis.”
“Stai bene?” Il tremolio che sento nella sua voce mi fa passare la voglia di scherzare.
Passo il cellulare da un orecchio all'altro e cambio stanza. Con la coda dell'occhio vedo Daniel tendersi, ma non mi segue. “Sì, sto bene. Perché? Che succede?”
Chiudo la porta mentre dall'altra parte cala il silenzio.
“Anis?”
“Dobbiamo vederci,” mi dice. “Sto chiamando gli altri.”
Inspiro e penso che non è ancora il momento. “Io non credo che sia una buona idea, sono passati solo-”
“Ho ricevuto una chiamata anonima,” m'interrompe subito, sbrigativo, come se sapesse con assoluta certezza che lo avrei detto. “Dicono che uno dei miei è in fin di vita.”
Il mio cervello inizia a correre furiosamente come fa sempre quando sono sotto pressione. Nel giro di qualche istante ho già in mente almeno quattro scenari possibili, e il nome di Peter che continua a balenarmi in testa anche se lo scaccio via. “Chi?” Chiedo alla fine, dopo che ho deglutito un groppo in gola grosso quanto il mio pugno.
“Non lo so, non l'ha detto,” risponde. E poi, mi anticipa. “La voce era falsata. Non ho idea di chi cazzo fosse.”
Di nuovo una pausa e questa volta sento un ronzio vago e il suono di un clacson.
“Sei in auto? Dove stai andando?”
“Ho un indirizzo. Raggiungimi là.”
Copio l'indirizzo sul primo pezzo di carta che trovo e poi dico a Daniel di chiudersi in casa e di non aprire per nessuna ragione. Spero che non mi dica che sa badare a se stesso, ma ovviamente lo fa, così gli ripeto di non muoversi dall'appartamento con la faccia più seria.
Lui invece di obbedire mi chiede cos'è successo e, prima ancora di ottenere risposta, si offre di venire con me e di darmi una mano; io a quel punto faccio prima a portarmelo dietro che a cercare di convincerlo a restare. E poi non mi fido a lasciarlo da solo.
Mentre saliamo in macchina gli faccio un riassunto veloce e poi chiamo Chakuza.
Suona subito occupato, così m'incazzo, lo insulto e poi chiamo di nuovo. Quando risponde, tiro un sospiro di sollievo. “Che cazzo stavi facendo?”
“Ti stavo chiamando,” fa lui. “Stai bene?”
“Sì, a posto,” mi scappa un mezzo sorriso. “Dove sei?”
“Per strada. Ho l'indirizzo.”
“Ci vediamo lì, allora.”
Bushido mi ha dato il nome di una strada fuori mano, in piena zona industriale.
Quando ci arriviamo sono quasi le nove e mentre parcheggio come capita, lo vedo scendere di corsa dalla sua auto e indicarmi un capannone qualche centinaio di metri più in là.
Siamo arrivati quasi contemporaneamente: con lui c'è Kay e Chakuza sta parcheggiando accanto all'auto di Eko proprio adesso. Ci siamo tutti, non capisco.
Bushido ci fa strada, con la Heckler stretta in pugno. Mentre entriamo, tengo Daniel dietro di me e inpugno la pistola. E' una strana sensazione averla tra le mani dopo tanto tempo, è un sacco pesante e io sono troppo nervoso.
So cosa state pensando e, dal momento che non ho ancora parlato con Bushido, lo sto pensando anch'io.
Se in questo capannone c'è il ragazzino, io non so cosa faccio. Ho volutamente scansato l'idea fino ad ora, non ho nemmeno provato a contattarlo: se si trattasse di Bill, penso, Bushido me lo avrebbe detto. Lo avrà di certo chiamato prima di tutti quanti noi. Invece magari lo ha chiamato e Bill non ha risposto, ma Anis non me lo ha detto perché se lo dice è vero e quindi sta zitto.
Ad ogni passo mi chiedo che cazzo facciamo, noi, se il ragazzino è ferito.
Che cazzo facciamo, noi, se il ragazzino invece è morto.
Penso che se Bill è morto, forse è meglio che Bushido stia indietro.
La pozza di sangue inizia al centro del capannone e gira dietro una pila di casse marchiate di nero. Nel tempo che ci avviciniamo me ne convinco e penso solo è morto. Il ragazzino è morto.
Scosto Anis e passo prima di lui. Cristo, Bill.
Ma non è Bill.
E' David.
Ed è così assurdo che sia lui che per un attimo nessuno si muove. Lo guardiamo come se non avesse senso, forse il corpo di Bill ne avrebbe avuto di più. Non lo so. So che gli altri negli occhi hanno la mia stessa espressione ed è assurdo. C'è sangue ovunque, sulle casse, per terra, perfino sulle pareti.
Daniel arretra e si schiaccia non so dove dietro di me ma non mi volto, guardo Anis chinarsi e ribaltare piano il corpo. Quando ci riesce, lo stomaco di David si apre. Gli hanno inciso la parola VENDETTA da un fianco all'altro e il fiotto di sangue che ne esce mi fa salire la nausea. Prego che quelli non siano intestini.
In realtà prego che abbia ancora un senso il nostro essere qui.
Una volta Chakuza ha detto che la gente normale quando tocca il fondo risale.
Ma noi non siamo gente normale.
Quando Bushido solleva di peso il corpo di David, mi rendo conto che abbiamo appena ripreso a scavare.













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The things we do for love

di tabata
I miei rapporti con le ragazze non sono mai stati troppo complicati.
Voglio dire, non ho mai avuto veramente dei problemi a trovarmi una donna, nemmeno da ragazzino, nonostante uno sia portato a pensare il contrario, non essendo io il classico tipo che qualunque donna adora - non sono alto, non sono esattamente bellissimo e, di certo, non mi si apprezza per la pettinatura. Ho sempre avuto un certo ascendente, però. O forse sono solo testardo e quindi se m'impunto, non mollo la presa tanto facilmente. So rendermi interessante, ecco.
Ad ogni modo, non era delle mie tecniche di conquista che volevo parlare. Quello che stavo pensando è che, tutto sommato, le mie relazioni sono sempre state piuttosto superficiali. Silvia esclusa. Ma lei è una parte della mia vita che preferisco non riportare alla luce. Anche con Klaudia, che a tutt'oggi è ancora la mia relazione più lunga, il rapporto che c'era non è mai stato davvero profondo. C'eravamo io e lei e c'erano le volte - tante - che facevamo sesso. Non c'era molto altro. Uscivamo poco e non parlavamo quasi mai, e non posso certo dare la colpa alla mia carriera. Era appena iniziata e ad ogni modo, non ho mai avuto impegni tanto pressanti da non permettermi di occuparmi della mia vita privata. A ripensarci adesso, credo che quella relazione - come tutte quelle precedenti - non fosse molto profonda perché io non ho davvero mai cercato di avere una relazione. Non che evitassi coscientemente di averne una, è che pensavo mi bastasse stare insieme a qualcuno per averla. Come se fosse automatico, in un certo senso. Ed è curioso che io abbia scoperto soltanto adesso, con un ragazzo, che così non è. Del resto, sarebbe impossibile relazionarsi con Bill come mi sono sempre relazionato con le donne che ho avuto. Innanzi tutto perché fra me e lui le cose sono iniziate in un certo modo: non ci siamo incontrati in una discoteca e lui non è venuto da me ancheggiando con uno scopo preciso. Con Bill non è partito tutto dal sesso e, trattandosi di me, questa è una differenza di discrete proporzioni. Io non ero abituato a conoscere una persona pima di andarci a letto e, a dirla tutta, non ero abituato a conoscerla nemmeno dopo. Voglio dire, non è che Klaudia fosse un'estranea ma delle sue piccole abitudini, di come ragionava o di quello che voleva non ero un granché esperto, nè volevo esserlo. O meglio, pensavo che non fosse necessario. Eravamo due entità ben distinte. Io. Lei. Fine della storia.
Io e Bill, invece, siamo iniziati molto prima del momento in cui ci siamo baciati la prima volta, che è, tipo, una roba stranissima, ogni volta che ci penso. E non sto dicendo che ci fosse chissà cosa tra me e lui, prima di quel bacio, anzi non c'era proprio niente, però eravamo amici, potevi dire Bill e Chakuza e voleva già dire qualcosa. Quando Bill è entrato a far parte della mia vita, io non ci pensavo neanche alla possibilità che potesse piacermi. In quel senso dico. Era un maschio, tanto per cominciare - indipendentemente da quello che poi sembrava, guardandolo. E io non pensavo che potessero piacermi i maschi. E poi, ovviamente, quando Bill è entrato nella mia vita, era una Principessa innamorata del Re, il che significava che non parlava d'altro e non vedeva altro che non fosse Bushido. Portarlo a spasso era come guardare una puntata speciale di Mtv Rap, ma nella sua variante "Fidanzati a Berlino." Il punto preciso della questione, però, è che non mi importava un accidenti di cosa parlasse, perché averlo intorno era una cosa bella comunque, anche se mi stendeva a furia di chiacchere, anche se si fermava ad ogni negozio, se provava quintali di pantaloni e se fra un gelato e una confezione gigante di caramelle, doveva rendermi partecipe di una vita sessuale di cui avrei fatto volentieri a meno. Soprattutto perché coinvolgeva il capo della mia etichetta e uno non vuole mai veramente sapere com'è il proprio capo a letto.
La cosa tremenda di Bill è che il cuore me lo ha portato via piano piano, un pezzo alla volta e io nemmeno c'ho fatto caso. All'inizio ero solo curioso di capire che tipo fosse uno che era riuscito a far mettere la testa a posto a Bushido. Poi, tra una cosa e un' altra, ero diventato quello che stava con Bill quando Bushido non c'era. Un po' perché era stato Bushido a decidere così, un po' perché Bill - parole sue - preferiva stare con me che con gli altri, perché gli altri non erano esattamente amichevoli nei suoi confronti. Alla fine, quando Bushido è morto e Bill si presentava senza preavviso a casa mia, con del cibo cinese comprato di corsa, io lo guardavo e mi stupivo di trovarlo bellissimo quando sorrideva arrossendo. In realtà non avrei dovuto stupirmi affatto, perché Bill aveva avuto un sacco di tempo per prendersi tutto, cuore e testa, ero io a non averlo capito.
Quando per tutta la vita stare con una persona ha sempre significato farci del buon sesso e trovarti bene con lei in maniera molto generica, è un po' spiazziante scoprire di volere una persona nella maniera totalizzante in cui io, ad un certo punto, ho capito di volere Bill. Ho già detto altre volte che non mi sono mai posto domande sulla mia omosessualità che ad un certo punto è venuta fuori tutta insieme, l'unica cosa che mi ha stupito, in realtà, è stata l'intensità del mio desiderio, la quantità di cose che mi sarebbe piaciuto fare con lui e quante di queste, stranamente, non implicassero il sesso.
E' stato sconcertante, davvero, anche se quando lo dico la gente normale ride. D'altronde, su questo punto, io non sono mai stato tanto normale. Lo so, ecco.
La questione è, alla fine, che tutte queste cose che volevo - uscire, passeggiare, andare al cinema, comprargli il gelato al parco, magari, e vederlo che come al solito ci si sporca da capo a piedi, che è una cosa che fa anche in casa, per dire, ma è diverso, tirarmelo dietro per mano, portarlo da qualche parte, noi due soli, che sono anche un mucchio di cose gay, ora che ci penso - tutte queste cose, dico, le facciamo molto raramente perché nessuno sa di noi e non è così facile organizzare qualcosa. Io odio questa situazione. Odio non poter dire a nessuno che Bill è mio, ora. Odio l'idea che se lo dicessimo scatenerremmo un putiferio e che solo Bill, alla fine, ci andrebbe veramente di mezzo per mille motivi diversi. E odio che per tutti questi fottuti motivi io non posso fare niente di ciò che voglio. E' frustrante, ed è anche insopportabile, soprattutto quando Bill mi telefona e ha quella vocina che mi stringe lo stomaco.
"Ehi," rispondo sempre così quando mi chiama, sorridendo. E poi so che non devo dire pronto perché, stando ad un ragionamento estemamente contorto per capire il quale ho dovuto seguire un'ora di lezione sull'argomento, tenuta da lui medesimo, devo sempre rispondere come se sapessi che è lui ancora prima che squilli. E l'unico modo che ho di farlo è guardare prima il display. Ricapitolando, guardo il display, vedo che è lui e faccio finta di saperlo già da prima che suonasse. Quindi, Ehi.
"Chaku..." Quello che mi arrva dall'altra parte del telefono è una specie di lamento strascicato e un po' capriccioso. Me lo immagino istantaneamente appallottolato da qualche parte, probabilmente sul divano.
"Che succede?" Chiedo, e mi passo il telefono da un orecchio all'altro mentre guardo tutti i panni lavati che mia madre mi ha riportato stamattina e che adesso io dovrei rimettere a posto. Sono tutti ben impilati sul letto rifatto, da lei naturalmente, e io non ho altra alternativa che riporli se stanotte voglio dormire.
Bill mugola qualcosa di incomprensibile.
"Eh?"
Bill mugola di nuovo, con un'intonazione diversa.
Recupero i miei maglioncini. "Hmn... fammi indovinare," dico, mentre li ripongo su un ripiano assolutamente casuale dell'armadio, che ancora cigola dal giorno in cui provammo a spostarlo. "Sei a casa da solo e non sai cosa fare."
Il mugolio di Bill è affermativo ma mi lascia intendere che c'è dell'altro.
"Ti stai annoiando e..." recupero le maglie e le incastro da qualche parte tra i pantaloni e le due camice che possiedo "... in questo momento vorresti essere con il tuo affascinante fidanzato austriaco, che è l'unico essere umano sulla faccia della Terra capace di renderti felice, dico bene?"
Bill ride, divertito. "Più o meno sì. Sei bravo ad interpretare."
"Questione di sopravvivenza," scherzo. I calzini li lancio nel cassetto e lo richiudo velocemente, prima che escano di nuovo tutti quanti.
"Mi manchi," pigola. Lo sento trafficare e poi mi arriva il rumore della stagnola. Se siamo arrivati ai biscotti, il livello di noia è grave. Divano, biscotti, gelato. The Notebook. Voglio fermarlo prima.
"Mi manchi anche tu," dico e poi mi viene un'idea. Così all'improvviso che mentre ci penso, mi fisso a guardare la signora nella casa di fronte che sta innaffiando un Ficus morto almeno quattro settimane fa. Non è che la guardo davvero, non del tutto almeno, con metà del cervello sto ragionando su quello che mi è venuto in mente. "Senti, ho un'idea. Ti va di venire qui, domani? Ti preparo una sorpresa."
"Che sorpresa?" Chiede subito lui. L'euforia istantanea di Bill.
"Se te lo dico che sorpresa è?" Intanto, mentre faccio lo splendido, mi rendo conto che gli ho appena promesso una sorpresa che comprende il mio salotto e del cibo, ma questa casa fa schifo e non vedo il pavimento del mio salotto da almeno una settimana. Mi ci vorrà un miracolo per rimettere a posto. "Riesci a scappare qui da solo o devo venirti a prendere?"
"Calerò delle lenzuola annodate dalla finestra," risponde lui, convinto. E poi ride tutto contento. E anche stavolta ho salvato la giornata.
La mia giornata, invece, l'ha salvata Fler il giorno dopo, cioè oggi. Come al solito, del resto. E' arrivato che ero chinato in terra a cercare di smacchiare le piastrelle da Dio solo sa cosa. Fler quando arriva ti telefona sempre prima, quindi lo sapevo che stava arrivando, ma mentre litigavo con le mie macchie me ne sono dimenticato. Stavo maledicendo quattro generazioni di santi quando è entrato. "Ma lasci sempre la porta aperta, tu?" Mi ha detto. E poi si è guardato intorno. "Beh, è anche vero che non hai molto da rubare qua dentro. Comunque ti ho portato il detersivo per i piatti."
La porta era aperta per far asciugare il pavimento della cucina e, già che veniva qui, gli ho chiesto di portarmi il detersivo visto che nel lavandino ho una settimana di piatti incrostati da far sparire entro stasera. L'ho guardato, mi ha guardato. Quindi ha sospirato e si è rimboccato le maniche. "Ti dò una mano, eh," mi ha detto. "Sennò chissà quando finisci."
Per questo adesso Fler sta pelando patate nella mia cucina mentre io cerco di non far impazzire la maionese, che è una cosa delicatissima visto che la signora Lotte mi ha insegnato a farla solo la settimana scorsa e questa è la prima volta che ci provo tutto da solo. Ho tutte le sue istruzioni appese sulla lavagna di sughero sopra i fornelli. Fler mi ha costretto a comprarla e me l'ha pure inchiodata al muro perché dice che non posso andare avanti ad attaccare fogli con lo scotch che si rovina la vernice.
"E tua mamma quando arriva?" Mi chiede fler, all'improvviso. Non gli ho detto di Bill, non gli ho detto nemmeno a cosa mi serve tutto questo cibo. Gli ho detto che mia madre ha deciso di farmi visita dopo essere passata a trovare sua sorella. Ovviamente lui lo sa che mento e quando parla di mia madre lo fa con la faccia di chi sta parlando di Bill. Le ho viste le sue sopracciglia che formavano le virgolette intorno alla parola mamma. Funziona così da mesi. Lui sa. Io so che lo sa. Lo so perché conosco lui e lo so perchè conosco Bill che passa con lui troppo tempo per non avergli già raccontato tutta la sua esistenza. Ecco... solo che a lui non riesco a dirlo e lui non me lo chiede. Quindi finisce che ho mia madre a cena stasera.
"Verso le otto," rispondo. La maionese sembra sana di mente.
"A-ah," annuisce lui. Poi guarda le patate che ha sbucciato con aria critica. "Com'è che dovevo tagliartele?"
"Devo farle arrosto," rispondo.
"Tanto piacere," fa lui. "Com'è che devo tagliartele però?"
Infilo in bocca un pezzo di mozzarella e mi pulisco le dita sul grembiule. "Prima in due e poi di nuovo in due," rispondo, tagliandone una per lui.
"In due e poi in due," ripete, osservando. Fler, quando gli spieghi una cosa, qualsiasi cosa sia, sta sempre attentissimo. Punta quei due fari azzurri su quello che gli stai mostrando e immagazzina l'informazione. Gli basta guardare per imparare, è una cosa che gli invidio molto. E' un sacco intelligente, Fler. Non fa fatica per niente a capire le cose. Lo lascio a tagliare in due e poi in due e recupero il pollo, per condirlo prima di infilarlo in forno. Questa cucina è minuscola ma siamo così abituati a muoverci in due qua dentro che non ci diamo mai fastidio. Quando apro il forno, non ho neanche bisogno di guardarmi intorno: Fler, appollaiato su uno degli sgabelli dell'isola, mette le ginocchia nell'inclinazione giusta per non farsi male con lo sportello.
I due movimenti - io che apro e lui che si sposta - sono calcolati al millimetro. La sua gamba e il mio sportello non si sfiorano nemmeno.
"Sai che ho scritto roba?" Fa lui, sopra il rumore della teglia che scivola sul piano del forno.
"Dai?"
Fler annuisce, con un mezzo sorriso. "Non che sia ancora pronto, ma è qualcosa. Contavo di lavorarci un po' e vedere cosa ne esce."
Maionese. Pollo. Il dolce al cioccolato con la glassa che si sta indurendo in frigo. E Fler che si è rimesso a lavorare. "Fai sentire," dico, sedendomi di fronte a lui e aiutandolo con le patate.
"Ma neanche per idea." Fler diventa, tipo, viola. Neanche gli avessi detto di spogliarsi. Anzi, in quel caso non l'ho mai visto arrossire.
"Andiamo!"
"No, non è ancora pronto," insiste. E quando faccio per aprire bocca e chiedergli di nuovo di cantarmi qualcosa mi agita contro il coltello. "Tu non vuoi che si mangi niente fino a cottura ultimata."
"Ma non è la stessa cosa!"
"Piuttosto," cambia discorso. "Raccontami un po' di questa Ingrid."
Alzo gli occhi al cielo. "E tu che ne sai?" Chiedo.
"Ho i miei informatori, cosa credi?" Ride. "Comunque sono profondamente offeso. Ti trovi una donna fissa e non lo dici a me. Male, molto male, Pangerl."
Ingrid è una groupie a capo di un gruppo di altre groupie che, secondo Bill, allietano le mie notti quando lui non c'é. Non so come gli sia nata nel cervello questa cosa, Bill ne ha spesso di uscite del genere, ad ogni modo, è stato una notte che era qui e avevamo appena finito di fare sesso. Di solito Bill sta zitto appena due minuti, giusto quelli che gli servono per riprendere fiato, poi attacca di nuovo a parlare. Io invece starei zitto le ore dopo nottate del genere. Ad ogni modo, quella notte deve aver pensato che mi ero isolato anche troppo - due minuti, ricordiamolo - e dal suo cuscino è rotolato sul mio, spalmandomisi addosso tutto. "Dovresti proprio smetterla di pensare a quella Ingrid," mi ha detto, con un'occhiata disapprovante. E quando ho chiesto spiegazioni su una donna sconosciuta a cui evidentemente stavo pensando, Bill mi ha dato tutte le informazioni del caso, perché lui le cose quando le inventa, le inventa bene. La fantasia non gli manca. Di volta in volta ha aggiunto sempre più particolari, al punto che adesso la conosco così bene che vorrei quasi incontrarla, questa Ingrid.
"Bill ti ha parlato di lei?" Chiedo, recuperando le patate per friggerle.
Fler dondola un po' la testa. "Diciamo che l'ha molto offesa, ecco," ride.
"Stando alle ultime notizie, è una ragazza bellissima e poco più che maggiorenne... no aspetta," cerco di ricordare. "Se non mi sbaglio, deve fare i diciotto quest'anno e ha deciso che li festeggerà nel mio letto."
"Ah, però. E com'è?"
"Bionda, mi pare. Sì, bionda, con i capelli lunghi, tipo, fino a qua," indico appena sopra le spalle, che poi è dove li ha Bill, mi rendo conto. Ma a parte questa somiglianza, Ingrid è l'esatto opposto di lui. "E ha gli occhi verdi."
"Seno?"
"Una quarta," annuisco compiaciuto, sistemando le patate fritte nel forno. "E due bei fianchi rotondi."
"Sembra carina."
Richiudo il forno e guardo l'ora. Sono in tempo, miracolo. "Bill dice che è anche bravissima a letto e che a me piace tantissimo."
"Davvero?"
"Io non lo sapevo, mica, me lo ha detto lui l'altro giorno."
Fler ride, mentre si alza. "Chiedile se ha un'amica magari."
"Ha una sorella," pulisco l'isola con uno strofinaccio. "Si chiama Lara, interessa?"
Lui sembra valutare l'informazione e poi si stringe nelle spalle. "Perchè no? Ora è meglio che vada, però." Prima di chiudere la porta, mi fa un sorriso triste. "Chiedi a tua madre se mi fa avere il numero."

*


Non ho veramente il tempo di pensare a quanto questa storia sia un casino.
Al fatto che con Fler ho questa cosa e che questa cosa non se ne va neanche se amo Bill. Tra l'altro è difficile sentirsi in colpa quando il mio cervello li percepisce come due compartimenti stagni. Bill e Patrick non si tolgono spazio a vicenda, nella mia testa.
Sospiro e raccolgo due soprammobili che ho gettato a terra, quindi mi dò una sistemata e io e il pollo siamo pronti un secondo prima che Bill suoni alla porta.
Ieri era tutto preoccupato perché non sapendo cos'andavamo a fare, non sapeva come vestirsi. Mi ha chiamato centinaia di volte e alla fine gli ho detto di vestirsi come voleva e sarebbe andato benissimo. Così lui si è vestito come ha voluto, ed evidentemente mi conosce bene perché quei pantaloni ce li ha incollati addosso e la camicia ha l'ultimo bottone sganciato, quindi la stella fa capolino.
Si tira su gli occhiali da sole e li incastra tra i capelli liscissimi. "Spero per te che io sia vestito adeguatamente. Non mi hai detto dove andavamo e non sarebbe carino se-"
Zitto. A volte lo penso proprio. Bill, zitto. Poi mentre lo bacio mi dimentico che a volte parla così tanto che ti snerva, mi dimentico proprio tutto perché impazzisco quando mi bacia. Impazzisco quando fa qualunque cosa. E il modo in cui fa tutto che mi fa impazzire. Ora per dire mi sta abbracciando e mi si è stretto addosso. E se da una parte è tenerissimo, dall'altra sto già valutando se non sia il caso di mangiarla dopo la cena.
Poi mi dico che gli ho chiesto di venire qui per fare una cosa carina. Prima la cosa carina, assolutamente. "Sei bellissimo," dico. "E molto adeguato per il mio salotto."
Lui mi guarda con gli occhioni, io gli porgo la mano e lui la stringe, così posso tirarmelo dieto per due-metri-due di corridoio fino al salotto.
A parte l'aver pulito, ho spostato il tavolo e il televisore e ho steso un plaid al centro della stanza. Sopra c'ho apparecchiato e, anche se gli uccideranno l'appetito - io lo so - e rovinano l'ordine di portate che ho accuratamente preparato, accanto al suo piatto c'è un cestino di caramelle gommose, che con lui è un po' come regalargli un mazzo di fiori.
"Chaku, ma è un picnic in casa!" Esclama e unisce le mani sulle labbra.
"A quanto pare," mi stringo nelle spalle.
Emette un urletto, uno di quelli che fa quando regredisce ai cinque anni, che non è esattamente il tipo di età che mi conviene, anche se poi, così felice, Bill è bello comunque. Batte le mani. "Sono caramelle quelle? Non te le dimentichi mai! Ma è bellissimo! Chaku, vieni qui!" Lui è già seduto e intanto che mastica caramelle gommose, sbircia anche nei vassoi. "Le hai fatte tutte tu queste cose? Hai fatto la torta!"
"Sì, si, Principessa, calmati però," rido. Lui diventa tutto rosso.
"E' bellissimo," ripete più piano.
Io sorrido.

*


Dunque, esattamente non lo so come ci siamo arrivati a questo punto, però devo dire che per me non è insolito ritrovarmi in queste situazioni. So sempre cosa sto facendo, cioè quando mi perdo, dico, lo so che mi sono perso e faccio cose magari non coscentemente, ma le faccio e lo so che le sto facendo. Quello che non so mai è come ci arrivo. Ricordo che io e Bill stavamo mangiando la torta un attimo fa, ora però sono seduto in terra, con la schiena contro il divano, e ho Bill seduto addosso che fa cose con la lingua lungo il mio collo. Ho una mano tra i suoi capelli e l'altra infilata sotto la sua camicia, che comunque non è più neanche agganciata e gli pende dalle spalle abbastanza storta perché abbia voglia di togliergliela del tutto.
Lo bacio, stringendolo alla nuca. Ha le labbra rossissime e mi guarda in un modo che potrei anche dimenticarmi che pesa quaranta chili e che non posso oggettivamente sbatterlo in terra come effettivamente vorrei. Mentre lo spoglio, lo sento armeggiare con i miei pantaloni; lo bacio di nuovo non appena mi sfiora con le dita, aprendo un bottone. Mi muovo e lui mi sorride sulle labbra.
E' una posizione scomoda, questa. Lui mi si schiaccia contro quando si accorge che, così come siamo, non riesce ad infilare le dita, e io lo stringo ai fianchi, me lo tiro addosso e mugoliamo ma non è abbastanza.
"Aspetta..." me lo sussurra all'orecchio, perchè io alla fine continuo comunque e le mani da lui, se potessi, non le staccherei mai. Mi bacia di nuovo, e un'altra volta perché alla prima non l'ho lasciato andare. "Toglili," mi tira via i pantaloni, stando in ginocchio lì di fianco. E poi fa lo stesso con i propri. Seduto in terra, si leva tutto scalciando e lo troverei buffo se in questo momento la parola buffo non fosse l'ultima che mi viene in mente. Voglio toccarlo. Voglio sentire di nuovo l'odore della sua pelle mentre mi tocca lui. Si sta spogliando e mi sembra che ci stia mettendo troppo. Ho un'immagine ben chiara di me stesso che affondo tra le sue cosce da stamattina e potrei non rispondere di me se non la realizzo ora e subito.
Nella testa di Bill devono passare più o meno gli stessi pensieri perché è più ansioso del solito. Non è lui quello che vuole tutto e subito, di norma; sono io che vorrei riuscire sempre a fargli tutto il possibile perché non so decidermi sull'ordine delle mie azioni.
Finisce che mi rendo conto di quanto sia morbido il divano mentre spingo piano Bill e ce lo piego contro, baciandogli le vertebre una dopo l'altra . Quando appoggia la testa sull'avambraccio, la sua schiena forma un arco per seguire le mie labbra e apro appena gli occhi per vedere la luce che gioca con la sua pelle.
Mi premo contro di lui e Bill si spinge indietro con forza, ma lento, dal basso verso l'alto. Mi piace il movimento del suo corpo quando lo fa, il modo in cui sembra cercarmi, mentre mi allungo sulla sua schiena e lo stringo tra le dita.
"Peter..." sussulta e il mio nome gli scivola tra le labbra dischiuse.
Lascio scorrere la mano lungo il fianco, e intorno alle sue natiche. L'uggiolio dolce e basso che sento è la sua risposta alle dita leggermente umide che si fanno spazio dentro di lui. Sorrido leggermente tra i suoi gemiti, consapevole del fatto che mi vuole e che più aspetto più sarà straordinario sentire che si scioglie sotto le mie mani, che chiama il mio nome con quei suoi sospiri lunghi e tronchi, che finiscono quasi sorpresi. L'eco dei suoi orgasmi mi accompagna sempre anche quando se ne va perché Bill, quando fai l'amore con lui, è una cosa bellissima e io non ho neanche le parole per descriverlo. "Peter, ora..." mugola e cerca le mie labbra. Lo bacio per un po', lo assaggio a lungo, perché mi piace di cosa sa Bill. Mi piace perdermi sulla sua lingua e fra le sue labbra, anche perché bacia bene, la Principessa.
Gli basta niente per avermi ai suoi piedi.
Gli mordo una spalla e lo sento sospirare esattamente come faccio io quando alla fine entro dentro di lui, piano, stringendogli i fianchi. Cerco di non farlo troppo forte, perché è facile lasciargli il segno, ma non è che abbia più molta coerenza arrivato a questo punto. E' già tanto se ricordo come ci chiamiamo, tutti e due.
Le sue spinte e le mie si armonizzano dopo un secondo. Ci siamo imparati in poco tempo, io e Bill ed è una delle cose che di lui mi mandano fuori di testa. Non c'è voluto niente a trovarsi. Lui tra le mie braccia ci stava bene, quando ci si è infilato la prima volta non mi è sembrato strano che lo facesse. Ecco perché lo amo, credo. Perchè è la prima volta nella mia vita che mi sembra di essere perfetto insieme a qualcuno.
Mi chiama di nuovo e si spinge tra le mie dita con meno controllo, sento i suoi respiri spezzarsi e so che c'è vicino. Anche io.
Lo bacio sotto l'orecchio e quindi lo accarezzo un po' di più e angolo i fianchi un po' di più finché non so che dovrò lavare il divano. Un attimo dopo gli ringhio sul collo mentre vengo e lo sento stringersi intorno a me, piano.
Gli lascio baci sulle spalle ed è il massimo che posso fare, al momento. Lo abbraccio mentre gli cedono le ginocchia e poi scivoliamo di lato e mi si accascia contro, con un mezzo sorriso soddisfatto. Allungo un braccio a recupare la coperta sul divano e l'avvolgo intorno a noi, baciandogli la testa.
Sono ancora in piena beatitudine angelica quando lui ritova la voce, la forza e la fame. E non credo siano i suoi diciannove anni a dargli tutto questo vigore, è proprio una roba sua questa. Allunga un braccio e infila un dito nella torta, per poi infilarselo in bocca.
"E' buona la torta, te l'avevo detto?"
Sbuffo una risata e appoggio la testa alla seduta del divano, guardandolo. "Hmn, non so. Non mi ricordo. Forse no."
Lui recupera una fetta. Cucchiaino, piattino. Tutto. Quindi si accoccola tra le mie gambe, mangia e, sì, parla. Io gioco con le ciocche nere dei suoi capelli e sospiro: se non altro, mentre mi racconta le sue ultime due settimane, avrò il tempo di riprendere fiato.

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Il Giorno In Cui Sono Morto

di lisachan
Se dieci anni fa, quando ho cominciato ad interessarmi di produzione e composizione di canzoni, mi avessero detto “guarda che questo mestiere sarà il motivo per cui, in un giorno non molto lontano e ancora nel fiore dei tuoi anni, tirerai le cuoia”, ci avrei riso su. Davvero. Tutti i mestieri che avevo fatto, perfino il breakdancer e il cantante in una boyband, sembravano decisamente più pericolosi di quanto non potesse sembrare restare dietro le quinte a comporre canzoni per gente varia ed eventuale. Perfino svegliarsi al mattino, scendere dal letto e prepararsi il caffè sembrava più pericoloso. Potevi scivolare sulle ciabatte, per dire. O scottarti con la caffettiera. A scrivere canzoni e produrle cosa poteva accaderti? Potevi pungerti con la penna? Poteva venirti un crampo alla mano dopo aver passato ore al computer a modulare voci stonate per farle sembrare meno raccapriccianti di quanto fossero al naturale? Che gran pericoli! Che rischi!
Nel tempo, naturalmente, le cose sono un po’ cambiate, come alla fine cambia tutto, che tu gliene dia la possibilità o meno. Quello del cambiamento è un deprimente destino che ci accomuna tutti, l’unica cosa nella quale in effetti la vita non faccia differenza a seconda di chi va a colpire. Vedete il mio viso, ad esempio? Vedete queste piccole rughe attorno agli occhi, segni del tempo che non è stato possibile cancellare neanche a furia di badilate di creme molto più costose di quanto non possa per decenza rivelare? Ecco, queste stesse rughe assumeranno magari meno fascino su qualcun altro, ma ci saranno. Ci saranno sul viso di un ragazzino che per ora ha tredici anni, e quando arriveranno saranno uguali a quelle dell’uomo sul viale nel tramonto che magari ne ha sessantacinque. E quindi, come è cambiata la mia fisionomia, la grana della mia pelle, il colore dei miei capelli, è cambiato anche il modo che avevo di vedere determinate cose. Più che altro, c’è da ammetterlo, a causa dei Tokio Hotel.
Cinque, ormai quasi sei anni fa, io e Dave, che è un uomo che ormai mi sopporta da molto tempo, nonché l’esempio perfetto di come dovrebbe essere un omosessuale al giorno d’oggi, quando invece io sono circondato solo da checche in mezzo al gruppo delle quali certe giornate sento di poter prendere posto con fin troppa disinvoltura, fummo mandati dalla Universal a Loitsche. Le prime reazioni – di entrambi, peraltro, ai tempi giovani e pieni di possibilità – furono di sconforto. Perché ci mandavano a Loitsche? Cosa c’era, a parte i campi di patate, la campagna e il vuoto cosmico?
Saltò fuori che invece in quel buco dimenticato da Dio c’era un diamante grezzo dal valore inestimabile. Quattro ragazzi che si volevano bene, erano amici davvero, suonavano insieme e volevano divertirsi. Quattro ragazzi in mezzo ai quali si trovava Bill Kaulitz, e Bill era già Bill allora, credetemi. Forse un po’ più spettinato, coi denti un po’ più storti e con addosso vestiti meno costosi, ma Bill comunque.
È stato allora che tutto ha cominciato a cambiare. Improvvisamente la questione non era più circoscritta allo scrivere canzoni o a produrle o ad avere un rapporto di tipo lavorativo con un cantante, no. Io avevo quattro ragazzini da gestire, quattro ragazzini che mi erano stati affidati dalle rispettive madri apprensive e, in certi casi – in tutti i casi, cioè, che non fossero Simone – anche piuttosto diffidenti, e dovevo gestirli in casa mia, a stretto contatto con me, all’interno di spazi che, fino a quel momento erano stati solo miei.
Improvvisamente, il pericolo del mio lavoro mi si palesava in tutta la sua raccapricciante serietà. Si correva il rischio di svegliarsi al mattino e inciampare in Gustav, ad esempio, che ha sempre avuto la passione per la sveglia molto mattiniera ma, quando era molto piccolo, molto goloso e molto tondo, tendeva ad addormentarsi sul pavimento ai piedi del divano verso le otto del mattino, dopo essere sorto col sole alle sei. Si correva il rischio in incappare inaspettatamente nelle mutande sporche di Georg abbandonate nei posti più impensabili, e quando dico impensabili intendo davvero impensabili, come quando una volta lo scarico del lavandino in bagno cominciò a vomitare liquami puzzolenti e scoprimmo che in realtà tutto questo avveniva perché un paio dei suoi boxer più vecchi e sbrindellati ci era finito dentro. Il come, tutt’oggi, è ancora un mistero. Si correva il rischio di irritare Tom, che giuro, è un ragazzo di una bontà infinita, praticamente un santo martire, ma quando gli girano è la fine, soprattutto se gli girano a causa tua, perché poi riconquistarlo è un delirio paragonabile solo a certe quest impossibili coinvolgenti draghi, fuoco e cespugli di rovi per chilometri e chilometri, e di questo fatto Bill è la prova vivente, perché pur amandolo a livelli veramente indegni Tom con suo fratello, per molti mesi, ha chiuso in modi così definitivi da lasciarmi basito.
E poi, naturalmente, si correva il rischio di Bill, un essere umano che, nella sua interezza, ha sempre rappresentato un problema. Bill è una creatura incredibilmente affascinante, e come tutte le creature incredibilmente affascinanti è perennemente in bilico, geneticamente instabile, un disastro, insomma. Vivere con lui era come vivere con una bomba a tempo a ricarica continua in casa. Sapevi che sarebbe esplosa, non sapevi quando ma sapevi che sarebbe successo, e la cosa veramente devastante era sapere allo stesso modo che una sola esplosione non sarebbe bastata, non sarebbe stata definitiva come tutte le esplosioni sono, perché avevi la certezza che alla prima, chissà quando, chissà perché, prima o poi ne sarebbe seguita un’altra, e un’altra ancora, senza mai fine. E poteva essere per qualsiasi cosa, il motivo più stupido o quello più fondamentale, o solo perché magari era sotto stress e sentiva il bisogno di scaricare, ed allora dovevi solo sperare di non essere tu la vittima designata a fargli da sfogatoio proprio in quel momento, oppure rassegnarti in silenzio al tuo destino e subire finché non fosse stato soddisfatto.
Anche quello, comunque, non era niente in confronto al pericolo che mi sarei ritrovato a subire poi, ma in un certo senso partire da quel punto era importante, e non perché volessi far vedere quanto Bill in realtà sia la fonte primaria e unica dei miei guai – cosa anche possibile, ma non completamente vera, visto che magari Bill mi ha offerto molte possibilità di mettermi nei guai, ecco, ma i guai in cui sono incappato poi me li sono scelti tutti da solo. A partire da una vasta gamma, ma li ho scelti da solo – bensì perché solo quando cerco di ripensare a tutto fin dall’inizio mi rendo conto di quanto in realtà la catena di azioni che mi ha portato fino a qua sia stata comunque un percorso che avrei scelto di rifare anche se per questo avrei dovuto farmi sventrare altre trenta volte. Si parla della mia vita, qui. Della mia fortuna, di ciò che ho amato fare, di persone a cui ho voluto bene, ma bene davvero.
Se nel giorno in cui ho conosciuto Bill lui mi avesse guardato negli occhi e mi avesse detto “io ti ho visto nei miei sogni, so chi sei e so che finirai ammazzato in un magazzino vuoto, sporco e puzzolente, dimenticato ai confini di Berlino, e questo solo perché io mi innamorerò dell’uomo più giusto e più sbagliato in assoluto”, avrei detto “va bene, Bill”, avrei detto “portami da questa gente che mi farà a pezzi, ma portamici tu”. Era quello che volevo. È stato quello che ho ottenuto.
Il fatto è che a questi ragazzi io voglio troppo bene. Quando vuoi bene a qualcuno in maniera così totalizzante, non ti curi del dolore che, per sbaglio o di proposito, ti infligge. Bill non ha chiesto di innamorarsi di un uomo problematico come Bushido – se è per questo, non l’ho chiesto neanch’io. È successo, e non c’è uomo al mondo che possa capire Bill, in questo o in altri momenti della sua vita negli ultimi tre anni, come l’ho capito io. Non c’è uomo al mondo che possa dire di aver sentito dentro il suo dolore come l’ho sentito io, e non solo perché condividiamo certi aspetti della nostra esistenza, ma perché lui è mio. Io l’ho voluto così tanto che alla fine è stato un po’ come l’avessi generato da me. È stato, è e sarà sempre la cosa più vicina ad un figlio che abbia mai avuto, e ciò che vale per lui vale esattamente allo stesso modo per suo fratello, per Georg e per Gustav. In questi ultimi anni ho dovuto subire molte cose, nel tentativo di preservare la felicità di questi ragazzi. Non sempre ci sono riuscito, ma posso dire di averci sempre provato.
È stato con l’intenzione di provarci ancora che, un mesetto fa, sono andato alla Universal, divorato dall’ansia ma cercando di restare lucido e presente a me stesso. La situazione era in stallo da un po’, Bill aveva abbandonato la Germania già da un bel pezzo ma nessuno dei pezzi grossi mi aveva chiamato. Erano rimasti in attesa, e questo raccontavano i loro sogghigni carichi di pietà quando mi hanno visto entrare nel loro ufficio, minuscolo di fronte a loro, molti di più, molto più ricchi, molto più importanti. I loro sorrisi dicevano “finalmente le hai trovate le palle per presentarti, eh, Jost?”. Finalmente le avevo trovate, sì.
In realtà non c’era molto da discutere. Se anche avessi giurato e spergiurato loro che Bill sarebbe tornato nel giro di due giorni già pronto per rimettersi al lavoro, immagino mi avrebbero buttato fuori comunque. Si sono mostrati pazienti e magnanimi – “abbiamo fatto tutto il possibile, David, abbiamo cercato di sfruttare questa cosa con Chakuza, vi abbiamo dato i vostri tempi e i vostri spazi, e con cosa ci troviamo in mano, adesso?” – ed io sapevo perfettamente che dovevo già ringraziare se si limitavano a rescindere il contratto senza trascinarci tutti in tribunale per inadempienza, perciò l’incontro è durato poco. Loro hanno espresso le loro ragioni. Io ho concordato. Venti minuti dopo ero per strada e, per prima cosa, chiamavo Tom.
- È andata male, vero? – mi ha detto subito lui, non appena ha risposto, prima ancora di sentire il mio tono di voce. La sensibilità di Tom in molti aspetti della sua vita è strabiliante. Suppongo sia perché, quando vivi in simbiosi con uno come Bill, i tremiti nella forza devi imparare a percepirli prima che diventino scossoni di terremoto, per provare quantomeno ad arginarli. Lui in questo riesce benissimo, e perciò quando l’ho chiamato, dalla Germania alle Maldive, lui non ha nemmeno dovuto ascoltare il suono della mia voce per sapere che sì, era andata male davvero.
- Mi dispiace. – ho detto io, piano, sospirando profondamente. Tom s’è lasciato andare ad una risatina quasi liberatoria. L’ho immaginato restare in tensione fino a quel momento e mi è dispiaciuto per lui al punto che mi sono sentito stringere il cuore in una smorfia fisicamente dolorosa.
- L’hai già detto ai ragazzi? – s’è informato, una punta di preoccupazione viva nella voce.
- Non ancora. – ho ammesso con una certa vergogna, - Conto di farlo appena chiuso con te. – e poi ho preso un respiro enorme, perché per chiedere di Bill, di questi tempi, mi serve sempre una dose extra di coraggio. – Tuo fratello?
Tom ha lasciato passare qualche secondo, prima di rispondere. Ho sentito qualcosa frusciare, lì, da qualche parte, e ho immaginato subito si fosse sporto ad accarezzargli dolcemente i capelli, un gesto che gli ho sempre visto fare quando Bill gli si addormentava addosso, per un motivo o per l’altro.
- Adesso dorme. – mi ha risposto lui, la voce ridotta a un sussurro quasi eccessivamente dolce, - Ti spiace se a lui ne parlo fra qualche tempo? Non è ancora il momento.
Mi sono sempre fidato ciecamente della profondità con la quale Tom conosce Bill, perciò non ho avuto da ridire in quel caso, così come non avevo avuto da ridire in tanti altri casi durante la nostra storia insieme. Così tanti altri casi, così tanti momenti… ho chiuso la telefonata con un groppo in gola quasi soffocante, e mi sono preparato al peggio. Per non scappare, mi sono ripetuto che era mio dovere dare a quei ragazzi la notizia da me, prima che arrivasse loro la notifica dello studio legale. E per evitare di mostrarmi troppo sconvolto di fronte all’inevitabile furia che mi avrebbe travolto, ho cercato di immaginare tutti gli scenari possibili, dal più pacato al più violento, ma nulla, nulla avrebbe potuto prepararmi a quella mezz’ora passata in compagnia di Georg e Gustav agli studi. Adesso la mia vista è offuscata, così come la mia memoria, ma non dimenticherò mai più lo sguardo profondamente deluso di Gustav, così come non dimenticherò più le parole di Georg, così secche e lucide, incredibilmente dolorose. “Avete giocato con la nostra vita”. Aveva ragione. Nessuno di noi l’aveva voluto, ma alla fine era ciò che era successo. A furia di giocare a fare dio, uccidere persone per poi riportarle in vita e via così, io per primo ho dimenticato quanto altro ci fosse in ballo oltre a Bill, Bushido e il mio affetto per loro.
La vita, comunque, va avanti. È una frase fatta, ma la sua ragione d’esistenza si riflette nel fatto che è vero. A Georg e Gustav ho detto di non perdersi di vista, perché i Tokio Hotel non erano morti, erano solo in stand-by. Gustav s’è lasciato andare ad una risatina afflitta e Georg mi ha guardato con una rabbia in quantificabile.
- Non ti preoccupare, - mi ha detto astioso, - non ci perderemo di vista, ma non certo per i Tokio Hotel.
Io ho incassato e ho lasciato perdere, me ne sono tornato a casa mia, mi sono spogliato, mi sono fatto una doccia, ho indossato il pigiama, ho riscaldato una tazza di latte di soia, ci ho messo dentro un cucchiaino di miele, ho acceso il portatile, mi sono seduto in poltrona, ho fissato lo schermo con una foto di noi cinque insieme come wallpaper e poi mi sono messo le mani nei capelli e ho pianto per ore. La mia vita m’era scivolata via di mano mesi prima, era rimasta intrappolata fra le dita di un tunisino triste e poi era scivolata via anche da lì, perdendosi da qualche parte nell’oscurità come i rivoli di pioggia lungo le strade. E io me ne stavo accorgendo solo in quel momento, quando era troppo tardi per riportare tutto indietro.
Non so se vi è mai capitata una cosa del genere, ma alle volte la vita è come un labirinto. C’è solo una via che può portarti all’uscita, ma di mezzo ce ne sono tante altre che invece ti portano solo verso un vicolo cieco. Alcune di queste altre non ti prendono in giro, fai qualche passo, svolti un paio di volte a destra e a sinistra e subito ti parano un muro davanti alla faccia, e tu allora puoi darti del cretino, concederti un sorriso triste e poi tornare indietro per imboccarne un’altra. Ma ce ne sono di differenti che invece non ti aiutano. Si inerpicano per vie e viottoli costringendoti a decine di cambi di direzione, a destra, a sinistra, dritto, torna indietro, vai avanti per tre metri, fai un giro su te stesso e poi imbocchi la prima porta a destra, e quando tu sei lì che cammini per anni e senti che ormai l’uscita è vicina ecco che invece di fronte a te c’è una parete vuota. E tu ti ritrovi in mano la consapevolezza di dover tornare indietro e ripartire da zero, ma la verità è che non sai nemmeno se ci riusciresti, a ritrovare il punto di partenza, perché sono passati secoli dall’ultima volta che l’hai visto e chi si ricorda se al tale incrocio eri andato a destra o a sinistra? Chissà.
Su quella poltrona, di fronte a quella foto, io ho realizzato che per anni – molto più di tre, in realtà, perché queste cose, quando succedono, poi ti portano a riconsiderare tutto, pure situazioni in cui credevi di essertela cavata bene davvero – avevo percorso una strada che credevo fortemente fosse quella giusta. E lei mi aveva illuso procedendo per tanto, tanto tempo senza il minimo intoppo, salvo poi piazzarmene uno di fronte proprio adesso. Quella notte lì io mi sono detto “cazzo”, mi sono detto, “cazzo, David, e ora cosa fai?”, perché seriamente, mi sembrava di non avere più soluzioni. Non sapevo più che fare, capite, avevo perso tutto. I Tokio Hotel erano la mia vita e si stavano sfaldando senza che potessi fare niente per fermarli, era il più grande fallimento della mia esistenza, non ero stato in grado di prevederlo e non ero più in grado di fermarlo. E mi sono chiesto “e ora come ci torno indietro? Da dove parto, dove ho speranza di arrivare?”, e mi sono visto girare per anni e anni e anni in questo labirinto vuoto cercando l’entrata per ripartire da lì senza riuscire ad uscire mai da quei tre corridoi in croce che avevo percorso girando in tondo negli ultimi mesi.
Poi mi sono addormentato. Lì, in poltrona, tutto piegato su me stesso, col portatile ancora acceso che s’è andato scaricando per tutta la notte fino a spegnersi. E quando l’indomani mattina ho aperto gli occhi e non avevo nemmeno mal di testa, l’ho fatto con stupore. È così che la vita ti stupisce più spesso, d’altronde, non con le cose veramente meravigliose, ma con quelle più brutte: può accaderti la cosa peggiore del mondo, puoi piangere fino a sfinirti e ripeterti che è troppo da sopportare, non puoi più farcela, e sono quelle occasioni in cui sei così depresso, ma così depresso che arrivi a pensare che morire sarà una cosa naturale. Chiuderai gli occhi sentendoli bruciare per via delle lacrime, continuerai a singhiozzare fino a farti dolere i polmoni e poi perderai conoscenza, e l’ultima cosa che pensi è che in qualche modo, intimamente, dentro di te, sai che non ti risveglierai mai più. Ti fa paura ammetterlo, ma è così. Il tuo corpo e la tua mente sono così devastati che implorano solo il riposo eterno, e tu ti abbandoni al buio con la speranza segreta di concederglielo. È stato così, per me, quand’è morto mio padre.
Ma allora come adesso, il giorno dopo ho riaperto gli occhi. Li ho riaperti davvero e mi sono detto “sono ancora vivo”, e il pensiero mi ha irritato, mi ha stancato e mi ha portato a scattare in piedi e darmi una sistemata, lavarmi, vestirmi ed uscire, perché tollerare una tale dose di tristezza con la consapevolezza di essere vivo e sentirne ogni spigolo premere dolorosamente contro tutti i punti deboli del tuo corpo non è davvero possibile. Te la scrolli di dosso, e lo fai per proteggerti, perché non puoi fare altrimenti.
Quando è morto mio padre, il giorno dopo sono andato da mia madre, l’ho abbracciata e le ho sorriso. E lei ha sorriso a me. È così che sopravvivi al dolore. Mettendolo da parte.
L’ho messo da parte anche stavolta, e per molti giorni ho vissuto la mia vita normale, semplicemente senza il lavoro. Per alcuni potrà sembrare folle, soprattutto pensando ad uno che praticamente non smette mai di lavorare come me, ma in realtà è stato piuttosto semplice ed anche alquanto divertente. Ho semplicemente rimosso dall’agenda tutto ciò che poteva avere a che fare con la mia professione e mi sono concesso tutte quelle cose che avevo trascurato in favore del resto. Ho letto bei libri, mangiato buon cibo, sono tornato in palestra e lì ho avuto un incontro ravvicinato del terzo tipo col sospensorio di uno schermidore fascinoso dall’aspetto vagamente italianeggiante di nome Bruno ed ho colto un assaggio perfino di ciò che conteneva, con estrema soddisfazione da parte di entrambi. Poi mi sono goduto la mia casa, un appartamento che adoro e che ho arredato con amore direi quasi maniacale. Le sue poltrone bianche ergonomiche, la cucina in acciaio, il letto col materasso in latex, la vasca a idromassaggio nell’ampio bagno piastrellato in nero e bianco. Mi sono preso del tempo per me perché avevo bisogno di sentirmi coccolato e nessuno a parte il sottoscritto sembrava disposto a farlo. Mi sono arrangiato con ciò che avevo e non è stato affatto male. Stavo solo aspettando di trovare una nuova ragione per ricominciare a vivere in maniera più piena, e puntualmente questa ragione è arrivata qualche settimana dopo per via aerea, sotto forma di Bill Kaulitz, come spesso accade. Magari non a tutti, ma a me sì.
Tornati Bill e Tom in patria, la mia vita è cambiata di nuovo. Ho cercato di tenere un posto per palestra, yoga, cibo biologico e menate varie, ma i gemelli hanno semplicemente ripreso ad occupare la quasi totalità delle mie giornate, ed è stato stupendo. Era bello vedere che in qualche modo loro continuavano ad affidarsi a me quasi totalmente, come se non fosse cambiato niente rispetto a prima. Avevo perso Georg e Gustav, ma avevo ancora loro. Egoisticamente, non potevo che essere felice di questo, anche se sapevo che, se Georg e Gustav si erano allontanati, era stato solo perché erano cresciuti bene, per la strada giusta, ed avrei dovuto augurarmi la stessa cosa anche per i gemelli, ma non ci riuscivo. Era splendido averli di nuovo in giro, ritrovarmeli in casa senza un perché, portarli a mangiare fuori perfino quando questo voleva dire entrare in un McDonald’s. E poi c’è stato da dare a Bill la notizia – perché in tutto questo era saltato fuori che no, Tom non gli aveva detto niente, benedetto ragazzo, sarà un padre perfetto, totalmente succube di sua moglie – e maneggiarlo con cura, e tenerlo d’occhio, accertarsi che mangiasse, coccolarlo un po’. Ho ripreso contatto con la parte di me che cercava di far funzionare le cose con dei ragazzini in casa, e mi sono accorto che alla fine il punto di partenza l’avevo ritrovato. Ci ero finito quasi per caso, ma adesso era lì, e da lì potevo provare a ricostruire qualcosa, se volevo. E volevo.
Da quel momento, la mia vita ha imboccato una spirale tantrica ascendente, e tutto ha ripreso a luccicare. Alle volte basta così poco, devi solo scendere in basso, tanto in basso, che lì ti ritrovi di sicuro, soprattutto se stai solo con te stesso abbastanza a lungo da riuscire nuovamente ad ascoltarti, e poi è una passeggiata. Ho cominciato a guardarmi intorno, a sondare il terreno, a vedere se per i Tokio Hotel potesse esserci qualche altra possibilità. Sono tornato da Georg e Gustav e loro erano ancora lì esattamente dove sapevo che sarebbero stati, pronti a rimontare in sella. Ho lasciato che Bill li incontrasse, li ho tenuti da soli in una stanza per il tempo sufficiente e, quando ne sono venuti fuori, sapevo che la via della ricostruzione era stata imboccata, bastava percorrerla, e in quel momento non m’interessava che fosse un altro potenziale vicolo cieco, anche perché non potevo saperlo in anticipo. Ho affrontato il cammino col sorriso sulle labbra, ed effettivamente è anche col sorriso sulle labbra che, questa sera, sono uscito da casa di Bill.
Mi guardo intorno e la strada è deserta ma bene illuminata, spazzata dall’aria calda di inizio agosto. Ho la schiena imperlata di goccioline di sudore perché in casa di Bill si muore di caldo visto che la sua gola sempre sull’orlo di una crisi di nervi ci impedisce di accendere l’aria condizionata, e di sicuro spostare scatoloni per le ultime tre ore non mi ha aiutato a mantenere la mia temperatura corporea ad un livello accettabile, ma in fin dei conti mi ha fatto piacere dare una mano, e poi il dottor Schillinger giustamente dice che non è possibile sistemare la testa di qualcuno se quel qualcuno vive nel caos, perciò il caos che casa di Bill è sempre stata va riordinato. Ne va della sua sanità mentale, qualcosa alla quale tutti, inspiegabilmente, teniamo moltissimo. Forse perché lui, invece, non se ne cura affatto.
Insomma, soddisfatto di me stesso attraverso la strada e mi avvicino alla mia macchina. Splende nella notte, nera come la pece. La accarezzo con lo sguardo ed infilo le mani in tasca per recuperare le chiavi. Mi chino appena per inserirle nello sportello ed aprirlo, ed è allora che spuntano. Da dove, non so. Non li vedo arrivare, appaiono. Prima non ci sono e all’improvviso invece sì.
Capisco subito il pericolo – una cosa che ti abitui a fare quando per lavoro tieni d’occhio quattro ragazzini costantemente circondati da fanciulle isteriche in delirio ormonale – e faccio per spalancare la bocca e gridare, ma non ci riesco perché qualcuno mi schiaccia qualcosa sulla faccia. È gonfio e punge, capisco al primo tocco che si tratta di un maglione di lana decisamente scadente, sicuramente misto acrilico. Faccio una smorfia, schifato, e il tipo ne approfitta per spingere il maglione con più forza, facendomi male, mentre uno dei suoi compari mi afferra per le braccia e mi tiene fermo. Mi dimeno e scalcio, ma qualcuno mi afferra anche per le gambe, ed il tipo che tiene il maglione lancia un’imprecazione e dice ad un altro di fare in fretta con lo scotch, perché sono un indemoniato e non mi si tiene più. Puoi scommetterci, stronzo, lascia solo che mi liberi e ti strapperò l’uccello a morsi, e poi vedremo chi è che non si tiene più.
Continuo a dimenarmi come un ossesso. Non posso più parlare e, dopo qualche secondo, quando mi legano polsi e caviglie, non posso più nemmeno muovermi. Cado a terra come un sacco di patate, le palle che, per la frustrazione, vorticano al punto che, se non fossero al sicuro dentro le mutande, farebbero da eliche e mi permetterebbero di librarmi in volo. Cosa che, peraltro, al momento sarebbe piuttosto utile.
Impreco e insulto chiunque, anche se non si capisce una singola parola di quelle che mi escono dalla bocca. I tipi, ignorando la mia ira funesta, mi sollevano e mi caricano in una jeep che arriva qualche secondo dopo, una roba scalcinatissima che deve aver visto almeno dieci estati come quella che, fra meno di un mese, volgerà al termine anche quest’anno. Mi tirano di malagrazia sul sedile posteriore, due si sistemano alla mia sinistra, uno alla mia destra e il quarto sul sedile passeggero accanto all’autista.
- Fatelo stare zitto. – dice quest’ultimo. Non riconosco nessuna delle loro voci, e la cosa mi inquieta, perché se qualcuno ha pagato dei professionisti per rapirmi in primo luogo questo qualcuno deve essere bene organizzato, ed in secondo luogo deve volermi parecchio male.
Sudo freddo, nonostante l’afa, e mi zittisco immediatamente.
- Bravo. – mi dice il tizio alla mia destra. Quello sul sedile del passeggero guarda l’autista con preoccupazione e si morde il labbro inferiore.
- Ha fatto un sacco di schiamazzi, là fuori… - comincia. L’uomo lo zittisce con una scrollata di spalle.
- Nessuno ha visto né sentito niente. – lo rassicura, - Procediamo come stabilito.
- Klaus, facciamolo adesso. – insiste quello, ed il fatto che lo chiami per nome mi dà una chiara idea di quanto non stia pensando alla possibilità che io possa riuscire a vedere la luce del giorno, domani mattina. – E molliamolo al primo angolo di strada. Lo troveranno di certo. Aspettiamo un paio d’ore per essere sicuri che crepi e poi avvisiamo del punto in cui l’abbiamo lasciato. L’importante è che il messaggio arrivi, no?
- Procediamo come stabilito. – insiste l’uomo al volante. Deve trattarsi del capo, perché il tizio al suo fianco si zittisce immediatamente, dopo aver mormorato un “d’accordo” stentato. Continuo a rimanere immobile, sono pietrificato dalla paura. Restano tutti in silenzio mentre usciamo dal centro ed anche dalla periferia, ritrovandoci in aperta campagna. Non c’è nulla, sulla strada che percorriamo, per moltissimo tempo. Poi, ad una ventina di metri di distanza da dove ci troviamo, nella notte più profonda vedo sorgere una specie di baraccone che dev’essere abbandonato da moltissimo tempo. La jeep si ferma proprio lì davanti, i tipi scendono dalla macchina e mi trascinano con loro, tenendomi ben stretto. Riprendo a dimenarmi perché sento che il momento è vicino e so con certezza che, se mi lasceranno qui, morirò. Qualsiasi cosa vogliano farmi, se anche io dovessi riuscire a non morire sul colpo, col passare delle ore morirei comunque. E non voglio che succeda. Cazzo, non voglio che succeda.
Niente di ciò che faccio è utile alla mia causa, comunque. Quelli mi lasciano cadere per terra di faccia, e poi due di loro mi afferrano per i piedi e mi trascinano per il ciottolato che porta all’ingresso del baraccone. La maglietta mi si solleva tutta, esponendo la pancia alle pietruzze taglienti. Riesco a tenere il viso sollevato, anche grazie al maglione che mi è stato legato attorno alla testa, ma la pancia e i fianchi proprio no. Più tardi, ringrazierò per il dolore che sto provando in questo momento, perché le ferite già aperte diminuiranno l’intensità del male che mi procureranno quelle nuove, ma in questo preciso istante non ringrazio proprio per un bel niente. Fa male e sono terrorizzato. Voglio tornarmene a casa mia. E non voglio morire.
Entriamo nel baraccone ed i tizi chiudono subito la porta. Non la sprangano. Lo noto e mi chiedo se potrei fare qualcosa, sfuggire alle loro mani e saltellare fino a lì… e poi correre a piedi uniti nella notte fino alla prima stazione di polizia? Non sembra granché fattibile, come cosa. Smette di esserlo del tutto quando i tipi mi risollevano in piedi e poi mi scaraventano contro un mucchio di casse accatastate in un angolo. Sento distintamente qualche osso scricchiolare, ma sono troppi contemporaneamente perché possa identificarli uno per uno. So solo che fa un male fottuto, fa tanto male che mi metto a piangere. Non piangevo di dolore da decenni, da quella volta in cui sono cascato di testa durante uno spettacolo e mi sono serviti sei punti di sutura per richiudere la ferita.
- La checca piange. – dice uno dei cinque, ridendo divertito. Uno degli altri gli tira uno schiaffo contro la nuca e gli intima di tacere. Non posso saperlo con certezza, perché i loro volti sono coperti, ma immagino sia l’uomo che ha guidato la jeep fino a qui. L’atteggiamento da capo, almeno, è lo stesso.
- Niente di personale, Jost. – dice accucciandosi davanti a me e tirando fuori dalla tasca dei jeans neri un coltellino a serramanico. Spalanco gli occhi e quello che gli sento dire dopo non fa che sconvolgermi ancora di più. Tuttavia, non ho il tempo di pensarci troppo, perché subito dopo l’uomo mi solleva la maglietta e comincia a incidere. Un taglio, poi un altro. Tutti abbastanza profondi, ma precisi. Millimetrici. Vorrei poter dire che il dolore è tale da costringermi a non sentire più niente, ma purtroppo non è così che va. Nonostante le ferite ancora fresche, il dolore è lancinante. E infinito.
Quando si allontana nuovamente da me, sento il mio intero corpo bruciare. Sono rovesciato per terra ed esausto. Non riesco a respirare. Il maglione mi si è infilato in bocca e non riesco a spingerlo fuori perché non ho più forze. È palese che non sopravvivrò. Lo stronzo di merda mi ha scritto qualcosa addosso, ma non riesco a capire cosa. Non lo capirò mai, non ne avrò il tempo né il modo.
I tipi escono in fretta. L’ultimo, il capo, resta a guardarmi finché da fuori non vengono a richiamarlo. Immagino gli piaccia vedere la vita che mi scivola via dagli occhi. Io la sento che se ne va e non è piacevole per niente. Sto di nuovo piangendo e non so neanche dove ho preso la forza per farlo.
- Niente di personale. – mi ripete ancora, prima di uscire. E poi rimango solo, sento la jeep allontanarsi lungo la strada e il tempo perde senso, perché non riesco a misurarlo. Non ho un orologio con me, ed anche se l’avessi non riuscirei a guardarlo. Naturalmente, non ce ne sono intorno, appesi alle pareti. Non ho idea di quanto tempo passi sdraiato per terra a ridosso delle casse. Sento il sangue uscire dalle ferite in grossi rivoli, così tanto non ne ho mai visto tutto assieme. Si allarga attorno a me come una pozzanghera, impregnando i miei vestiti e gonfiando le assi di legno.
Passano minuti, forse ore. Non lo so. So che a un certo punto sento dei rumori intorno a me, ma sono come un’eco lontana. Non riesco a credere che stia succedendo davvero, che qualcuno mi abbia trovato, e non riconosco nessuna delle facce che ho davanti, anche se sono abbastanza sicuro che dovrei.
E poi, all’improvviso, i miei occhi incontrano quelli di Bushido. Un attimo prima di chiudersi.

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Es Kann Beginnen - Vol.1

di tabata
In questi mesi non sono stato tanto bene.
Se c'è un modo di iniziare a raccontarvi questa storia, credo sia proprio dirvi questo.
Era una cosa che si vedeva, naturalmente; la vedevano un po' tutti, tranne forse io perché quando stai veramente male non è che te ne rendi conto sul serio. Tu sei lì e sei consapevole di non essere felice, perché la mattina ti svegli e hai voglia di piangere – anzi hai voglia di piangere a tutte le ore del giorno e della notte – ma hai perso da tempo una visione chiara di te e di come stiano le cose, per cui alla fine tutto ciò che capisci è che sei infelice e cominci a dire e a fare cose che non hanno alcun senso o non sono per niente connesse con la realtà. Io avevo la testa così incasinata che ho camminato per due chilometri su una statale rischiando di farmi mettere sotto, convinto di stare andando lontanissimo e di essere finito chissà dove. Ho incontrato persone inesistenti e ci ho anche parlato, e ho fatto cose reali alle persone che amavo che faccio fatica ad accettare perché un po' me ne vergogno e un po' fanno ancora male se ci penso.
Questo finché non sono crollato completamente ed è lì che ha cominciato ad andare un po' meglio, anche se so che sembra strano da dire.
Il fatto è che non sempre i problemi sono insormontabili come crediamo; anzi, il più delle volte non siamo così sopraffatti da loro come ci sembra ma conserviamo un po' di lucidità che poi ci aiuta a superarli, prima o dopo a seconda di quanto siamo pratici e disfattisti. In quel caso, bene o male, tutto si risolve senza grossi danni e spesso succede ancora prima che ce ne accorgiamo.
Ci sono volte però, in cui il meccanismo s'inceppa, la lucidità va a farsi benedire e tutto ciò che facciamo è rimuginare sullo stesso problema o sullo stesso dolore, senza tentare di superarlo ma alimentandolo finché non diventa così forte che il cervello è costretto a spegnersi e riavviarsi, solo per non andare in sovraccarico ed esplodere, o qualcosa del genere. Ed è quello che è successo a me quando ho deciso di prendere il treno e senza saperlo sono andato dritto a casa di Anis. Non ricordo il momento in cui ho preso quella decisione, né perché proprio quella e non un'altra, ma so che è successo mentre il mio cervello ricominciava tutto da capo e, nel caricare i suoi bei dati ha rimesso tutto abbastanza a posto da farmi ragionare con lucidità quando poi Fler mi ha detto che dovevamo starcene tutti per conto nostro. Me lo avessero detto il giorno prima o due settimane prima, non l'avrei accettato perché tutto ciò che capivo era ciò che mi faceva star male, per quanto fosse una cosa che amavo.
Tutto ciò naturalmente non è che l'ho capito da solo per intervento divino, sono andato in analisi e mentre vi parlo non sono nemmeno vicino a finire perché, come dice il dottor Schillinger, ho la testa un sacco scombinata e ci vorrà del tempo per rimetterla a posto.
Prima di andare in analisi, comunque, ho fatto quello che avevo promesso a Patrick e sono andato alle Maldive con mio fratello, il quale si è trovato immediatamente d'accordo sul fatto che dovessi cambiare aria. Una volta che gli ho detto dov'ero e che aveva bisogno di andarmene, lui mi ha raggiunto a Berlino, dove siamo rimasti giusto il tempo di fare le valigie e avvertire nostra madre, poi siamo saliti sul primo aereo disponibile e non ci abbiamo pensato più. Mi sono accorto che il mio cuore ha ricominciato a battere regolarmente quando eravamo in volo e alla prima telefonata di David, al nostro arrivo, stavo già meglio di quando ero partito ed è stato più semplice accettare ciò che mi stava dicendo, e cioè che ci avrebbe pensato lui a sistemare ogni cosa ma che non mi aspettassi di ricevere comprensione dalla casa discografica, perché quella potevamo scordarcela tutti quanti.
Tutta la comprensione di cui avevo bisogno in quel momento, comunque, era quella di Tom e lui non mi ha deluso nemmeno per un momento. Non che mi aspettassi il contrario, ovvio, ma dopo tutto quello che gli ho fatto passare sarebbe stato anche logico che mi stesse vicino senza necessariamente buttarsi anima e corpo nell'impresa, e invece lui l'ha fatto e di questo gli sarò sempre grato.
In pratica mi ha preso in consegna su suolo straniero e mi ha liberato solo quando abbiamo di nuovo toccato suolo tedesco quasi tre settimane dopo, attaccandomisi addosso come una patella per diritto della sua condizione di gemello omozigote; e io, per la prima volta da tre anni a questa parte, sono stato felice di vederglielo fare per più di due giorni di seguito. Non chiedevo altro che di poter passare ogni singolo istante della mia giornata con lui, il quale ha la capacità di eliminare qualunque bolla di spazio vuoto in cui avrei rischiato, anche solo per sbaglio, di farmi venire la nostalgia dei tormenti che mi ero lasciato a casa.
I primi giorni sono stati molto difficili perché non puoi passare dall'essere costantemente circondato da determinate persone al non averle più accanto senza sapere se o quando ti capiterà di riaverle con te, e pensare di abituartici in un istante. Io, per esempio, non riuscivo proprio ad accettare l'idea, anche forse perché ero convinto che la decisione di dedicare del tempo a se stessi senza però fissare un momento preciso in cui ci saremmo rivisti fosse un modo come un altro per dirsi che andavamo ognuno per la sua strada con la speranza, forse, un giorno, di rincontrarsi in un altro momento della nostra esistenza.
E questa cosa non mi andava giù.
Ci saremmo rivisti un giorno, ma quando? Dove? Come? Non riuscivo a pensare ad altro, come se non ci fosse mai stato un tempo in cui io vivevo benissimo anche senza Bushido, Chakuza o Fler. In realtà, anche adesso, non riesco a ricordarmi di quel tempo perché prima di Chakuza c'era solo Bushido e prima di lui la mia testa è solo un gran vuoto, per cui capisco che avevo bisogno di staccare un po', ma non credo per niente al fatto di stare bene senza di loro. Del resto se sono ancora in analisi c'è un motivo, immagino.
Ad ogni modo, durante la mia prima settimana non ho avuto nessuna reazione, stavo lì dove Tom mi trascinava e fissavo il vuoto, a volte piangevo, e lui è stato un sacco paziente con me, non mi ha mai sgridato, neanche quando mi rifiutavo di uscire dal letto. Non ricordo niente di quello che mi diceva per cercare di distrarmi, mi ricordo solo che mi abbracciava spesso e non parlava mai di loro.
A pensarci adesso sembrava che fossi tornato indietro a quando Bushido era morto e non mi riusciva di trovare un buon motivo per cui dovessi continuare ad alzarmi al mattino e vivere la mia vita come prima; succede sempre un po' questo quando ti tolgono in un colpo solo tutto quello che è importante per te.
Poi, ogni giorno ha cominciato ad andare un po' meglio di quello prima finché una mattina non mi sono alzato e mi sono accorto di avere voglia di uscire e fare qualcosa.
Tomi mi ha portato sulla spiaggia a prendere il sole e, per la prima volta da quando eravamo arrivati, ho passato una giornata intera senza pensare ai miei due uomini, lo so perché mi sono venuti in mente solo la sera, quando siamo tornati in albergo ridendo, e la magia della giornata si è un po' spezzata.
Il dottor Schillinger dice che è un bene che io sia arrivato al punto in cui il pensiero di una cosa cambia il mio umore in peggio, significa che fino all'attimo prima di pensarci ero felice e questo è un miglioramento rispetto al mio stato di fissazione precedente, quello che mi ha fatto riavviare il cervello per intenderci.
Io non credo a tutto quello che dice il dottor Schillinger – per esempio lui sostiene che non dovrei chiamarli i miei due uomini, che il mio cervello è già abbastanza confuso così, però io lo faccio lo stesso perché non so come altro chiamarli – ma credo che questa cosa sia vera. Quando penso a Bushido e Chakuza e torno a stare male, mi aiuta sapere che l'attimo prima stavo bene anche se non me ne rendevo conto; posso almeno credere che prima o poi ricapiterà.
Ora, credo, si tratta solo di imparare a gestire quest'infelicità che salta fuori a momenti e che forse svanirà o forse diventerà solo più sopportabile, non lo so. Io propendo per la seconda perché so per esperienza che Bushido non se ne va mai dalla tua testa una volta che ci è entrato e Chakuza è uguale o non sarei qui a cercare di liberarmi anche di lui. Comunque ci vorrà un sacco di tempo e visto quello che sta succedendo in questo momento, forse ce ne vorrà molto più del previsto e torneremo anche indietro di qualche passo, una cosa che non va mai bene ma che succede sempre.
Alla fine, io e Tom alle Maldive ci siamo rimasti un sacco di tempo e ci saremmo rimasti anche tutta la vita, volendo, se David non avesse chiamato per avvertirci di tornare a Berlino il prima possibile. Immagino che avrei potuto appellarmi al mio crollo nervoso, aggrapparmi ostinatamente ad una sdraio e rifiutarmi di partire, ma a quel punto Tom non me l'avrebbe permesso perché lui capisce sempre quando merito del sostegno e quando invece vado preso a ceffoni, e credo che ormai lo sappiate benissimo.
Così abbiamo fatto le valige e abbiamo preso un volo verso casa, con la consapevolezza che non ci aspettava niente di buono laggiù ma che almeno lo avremmo affrontato un po' più serenamente e soprattutto insieme, dal momento che Tomi è stato tanto bravo da non ricucire solo me, ma anche noi due che a dire il vero in questi ultimi tempi ci eravamo un po' strappati.
David è venuto a prenderci direttamente in aeroporto con la sua macchina e come mi ha visto mi ha abbracciato strettissimo e allora mi sono reso conto che non mi vedeva da quando ero scappato dal tourbus. So che chiamava Tom per sapere come stavo ma immagino che finché non mi ha visto scendere dall'aereo sulle mie gambe non è stato davvero tranquillo. Da lì siamo andati a prenderci un caffè, ma la notizia non ce l'ha data subito, il che è indicativo di quanto anche lui sia fuori fase.
Quando c'erano dei guai, David non ce li ha mai tenuti nascosti, preferendo renderci partecipi fin da subito della gravità delle situazioni in modo che imparassimo a gestire gli imprevisti invece di farci prendere dal panico – questo naturalmente se si esclude che mi ha mentito per quasi un anno sul fatto che Bushido non era morto, naturalmente – stavolta invece ci è andato con i piedi di piombo, forse perché non avendomi avuto sott'occhio nei giorni immediatamente successivi al disastro, non aveva idea di come potevo reagire.
Premetto che mentre eravamo in vacanza, Tomi mi ha vietato di guardare la televisione o di leggere le notizie in rete, e io non avevo la testa per ipotizzare quanto potessimo essere nei guai per colpa mia, quindi, quando David mi ha dato la notizia, io non sapevo niente di niente e, per certi versi, nemmeno me lo aspettavo, dopo aver passato un tempo così lungo del tutto sconnesso non solo dalla ma vita ma dalla realtà in generale.
A quanto pare, mentre noi non c'eravamo, David ha tentato l'impresa disperata di spiegare alla casa discografica quale fosse il problema e che ci serviva del tempo per risolverlo, ma i grandi capi non sono stati per niente d'accordo e hanno annullato il nostro contratto. Questa, naturalmente, è la notizia in breve; in realtà David ha fatto un discorso di quasi un'ora cercando di indorare la pillola in modi quasi teneri finché non è stato costretto ad ammettere che eravamo tutti in mezzo ad una strada.
Se devo essere sincero, non so esattamente come mi ha fatto sentire. Qualche anno fa, probabilmente, avrei dato di matto se mi avessero detto una cosa del genere, ma d'altronde allora questo non sarebbe mai potuto succedere, perché la Universal vendeva noi quattro e noi eravamo lì per farci vendere, non ci saremmo mai sognati di fare casino e perdere la possibilità di cantare. Negli ultimi mesi, però, l'unica cosa che è stata davvero pubblicizzata siamo io e Bushido, e noi due non siamo mai stati in vendita. Per questo, forse, quando David mi ha detto che la Universal ci ha scaricato, io ho pensato subito che fosse meglio così, almeno non avrebbe più sfruttato le mie relazioni a suo piacimento. Poi ovviamente mi sono venuti in mente i ragazzi e ho chiesto di loro.
Nel rispondermi, David era molto teso, esattamente come mio fratello, il che mi ha fatto pensare che avessero già parlato in precedenza e non mi ha stupito affatto. D'altronde sono ben consapevole che loro debbano aver discusso del sottoscritto mentre io non ci stavo con la testa.
Gustav e Georg sono due persone estremamente pazienti e mi vogliono bene, per questo durante gli ultimi due anni in cui non solo la mia vita è stata un inferno ma ha condizionato anche la loro, sono stati comprensivi e non mi hanno fatto pesare niente. In questi due anni, però, avevamo ancora un contratto. David me lo ha riferito esattamente così e io ho capito che le due G non erano affatto disposte ad essere comprensive, stavolta. Vorrei poter dire che questo mi ha fatto disperare, ma non è stato così, per il semplice fatto che al momento sono ancora così stanco per ciò che ho passato da non avere la forza mentale di preoccuparmi di qualcos'altro. Non ho voglia di lottare, per niente.
Il dottor Schillinger dice che alla fine dovrò reagire, ma non ho ancora cominciato. Immagino che prima dovrò imparare ad accettare completamente quello che è successo e poi, forse, potrò pensare di rimettermi in carreggiata.
David però lo aveva previsto, lui prevede sempre tutto, quindi mi ha subito rassicurato che non appena la Universal ha ufficializzato il benservito, lui si è messo alla ricerca di un'altra casa discografica che potesse occuparsi di noi. Senza che io gli chiedessi niente, mi ha fatto un elenco infinito di nomi possibili e mi ha fatto sapere che sono in molti ad essere interessati. Gli ho detto che non ne dubitavo, ma non ho chiesto altro. Una cosa che invece volevo fare, anche se mio fratello non era molto d'accordo, era parlare con Gustav e Georg. Tomi non voleva perché, evidentemente, ci aveva già parlato lui e le due G non dovevano esserci andate troppo per il sottile; aveva paura che potessero non essere il massimo della gentilezza e che questo potesse essere un problema per me. Tomi è buffo perché non si fa nessun problema a trattarmi male personalmente ma sta ben attento che non lo faccia nessun altro. E' convinto di sapere solo lui quando e come sarò in grado di sopportare una sfuriata. In generale, per altro, ha anche ragione, ma credo che in questo caso non ci fosse molto da scegliere, io dovevo parlare con Gustav e Georg per forza perché non lo facevo da una vita e perché non poteva farlo lui al posto mio, che mi urlassero contro o meno.
Per cui l'ho fatto. Hanno urlato un po'. Tanto. Ma alla fine era solo di questo che avevano bisogno. A volte quando sei molto arrabbiato con una persona a cui vuoi bene, che sai che non potresti mai davvero odiarla, l'unica cosa che ti serve è urlarle contro tutta la tua frustrazione, in modo che anche lei sappia che la tua pazienza è finita e che è bene tu non la sfidi ulteriormente. Io questa possibilità a loro l'avevo tolta, perché tra una cosa e un altra non c'ero mai, e che non passavo un po' di tempo con loro in una stanza erano mesi, così quando mi hanno visto, hanno dato sfogo ad un bel po' di rabbia ma poi basta. E quando mi sono scusato – e so che mio fratello mi ha guardato sconvolto, perché io scusa non lo chiedo mai e invece questa volta ho cominciato con lui alle Maldive – Georg mi ha anche abbracciato. Mi ha detto che andava tutto bene e che ci saremmo ripresi, perché noi siamo dei grandi e non ci ferma nessuno. Perfino Gustav, che è emotivamente stitico, si è avvicinato per darmi il bentornato e, in uno slancio di megalomania, ha dichiarato che faremo un ritorno col botto tale, che la Universal tornerà in ginocchio piangendo, così potremmo sbatterle la porta in faccia e ridere.
Ora, mentre vi parlo sono passati mesi da quella rimpatriata e non abbiamo ancora notizie di nuovi contratti o anche solo di vaghe idee per un accordo, ma tutti gli altri sono ottimisti, anche David lo è e, secondo il mio psicologo, è bene che lo sia anch'io. Quindi lo sono.
Nello specifico, mi sto impegnando ad essere ottimista nella vasca da bagno.
Disteso sul fondo, guardo il soffitto e inseguo una melodia che dev'essermi comparsa in testa ieri notte e si è fatta trovare pronta quando ho aperto gli occhi questa mattina. E' tutto il giorno che cerco di tenerla a mente e spero che Tom abbia voglia di aiutarmi a metterci delle parole, è così tanto che non lo faccio che mi sento un po' arrugginito. Ho deciso che glielo chiederò dopo aver fatto il bagno, quindi voglio essere pronto per ripetergliela correttamente quando sarò uscito dalla vasca; ho assegnato ad ogni macchiolina sul muro una nota e le ripeto tutte in ordine all'infinito per paura che mi scappino e non tornino più.
Sono qui dentro da non so quanto tempo, ho le dita delle mani tutte raggrinzite.
Mi piace stare con la testa sott'acqua perché è tutto ovattato e mi aiuta a pensare, però così non sento niente. Per questo quando alla fine mi arriva la voce di mio fratello, non so bene da quant'è che stia urlando il mio nome aldilà della porta. Dev'essere parecchio, comunque, perché fa irruzione nel bagno con aria allarmata e si getta a fianco della vasca proprio mentre io ne riemergo di colpo.
“Che diavolo stavi facendo?” Mi accusa subito, spaventato. “Perché non rispondevi?”
Strizzo un po' gli occhi e mi tiro indietro i capelli. “Ero sotto l'acqua,” mi giustifico, lì per lì mica lo capisco che cosa gli è passato nel cervello. “Che succede?”
Lui si lascia andare seduto a terra e fa un sospirone sollevato. “Mi hai fatto prendere un colpo,” mormora, deglutendo. Poi si butta giù lungo disteso sul pavimento e guarda le macchioline del soffitto senza sapere che sta osservando la nostra nuova canzone. “Credevo...” si appoggia una mano sulla fronte e mi guarda. Da quella prospettiva i suoi occhi sono due linee sottili mentre scuote la testa. “Lasciamo perdere. Ma non farlo mai più, chiaro? Rispondimi la prossima volta.”
Io sorrido e mi appoggi al bordo della vasca. “Non mi suiciderò nella vasca da bagno,” prometto.
“Tu non ti suiciderai e basta, cretino,” replica e mi tira in faccia la prima cosa che gli capita sotto mano e che, purtroppo per me, sono i calzini sporchi che ho gettato a terra prima di entrare in vasca.
Faccio una smorfia mentre li lancio nel posto in cui si meritano di stare, ossia il cesto dei panni sporchi, mancandolo di quel mezzo metro standard con cui manco qualsiasi cosa in cui devo fare centro. “Allora, perché mi chiamavi? Se volevi vedermi nudo ti bastava guardarti allo specchio,” lo prendo in giro.
Tom appoggia di nuovo la testa in terra. “Ti suonava il cellulare.” Solleva il mio telefono in aria e se lo rigira tra le dita, senza guardarlo. Quando si volta verso di me è molto serio. “Bill, se ti faccio una domanda mi risponderai sinceramente?”
“Sì.”
Non me la fa subito, prima guarda di nuovo il soffitto. “Hai chiamato Bushido in questi giorni?”
Sono quasi sicuro di sussultare quando lo dice, perché quel nome non me lo aspetto proprio. Io non ci stavo pensando e, come ho detto, quello per lui è un argomento proibito. “No, perché?”
“Sicuro?” Mi guarda attentamente adesso. Non è arrabbiato, ma se per caso gli stessi mentendo e lui venisse a saperlo, sarebbe molto deluso di me. Riesco a leggere tutto questo dentro ai suoi occhi e sono molto felice di stare dicendo la verità.
“Sì.”
Mi sta ancora fissando quando il telefono, all'improvviso, si mette a squillare. Tomi legge il nome sul display e si mastica l'interno di una guancia. “E' lui,” dice e si vede lontano un miglio che la cosa non gli va a genio per niente.
Io guardo il cellulare che continua a squillare e mi sembra che lo faccia sempre più forte solo perché non premo il pulsante di risposta. Penso distintamente che non sono pronto a sentire la sua voce, ne ho paura ed è quasi come avere in mano una bomba ad orologeria che non smetterà di ticchettare finché non taglio il filo giusto. Potrei buttare il telefono in acqua.
“Non devi rispondere se non vuoi,” mi dice Tomi. “Non sei obbligato.”
“Potrebbe essere importante.” Quando premo il pulsante, non ho pensato davvero di farlo, è un gesto che mi viene automatico dopo che ho detto quella frase. Mi rendo conto solo vagamente che è appena scattato in me uno di quei meccanismi che Anis mi ha lasciato addosso.
Due anni fa, prima che Bushido morisse, prendevo molto sul serio le sue telefonate fuori programma perché erano quelle con cui mi comunicava di essere nei guai; che fossero le quattro del mattino, o stessi facendo altro, io rispondevo sempre perché poteva essere una cosa seria.
“Pronto?”
Anis non risponde subito, lo sento prima tirare un sospiro di sollievo. “Bill, stai bene?”
Per un attimo mi chiedo se anche lui era preoccupato che mi stessi suicidando nella vasca da bagno, ma poi mi rendo conto che questo non ha senso. “Sì, sto bene. Perché?”
“Dove sei?”
Io non mi stupisco del fatto che abbia chiamato dopo sei mesi e, senza nemmeno salutarmi, si stia impicciando dei fatti miei. Mi sarei preoccupato del contrario. “A casa di Tom,” rispondo.
Mio fratello è ancora a terra e guarda il soffitto fingendo disinteresse, ma da come si sta mangiando le unghie capisco che ci sta ascoltando ed è nervoso per questa telefonata, ma non si sente abbastanza in diritto di fare qualcosa al riguardo. Vorrei dirgli che sono nervoso anch'io, se la cosa può consolarlo.
“C'è qualcuno lì con voi?” Mi chiede ancora Anis. “Jost, magari? O una guardia del corpo.”
“No, siamo solo noi due. Perché che succede?”
Dall'altra parte è di nuovo silenzio e comincio a preoccuparmi, non fosse altro che perché l'ultima telefonata del genere che ci siamo scambiati è finita con lui morto sul mio letto. Vorrei evitare di ripetere l'esperienza, per qualche motivo ho la sensazione che ricomincerebbe tutto da capo.
“Chiedi a tuo fratello di portarti a casa mia,” riprende Anis, ignorando completamente la mia domanda.
“Cosa? Perché dovrei?”
Tom si solleva sui gomiti e mi fa cenno col mento verso il telefono. Io guardo nella sua direzione ma non sto davvero guardando lui mentre aspetto la risposta di Bushido.
“Non è sufficiente che te lo dica io?” Chiede Anis, alzando un po' la voce; ma non è arrabbiato, solo teso e preoccupato. E' per questo che non mi arrabbio.
“No, Anis, non è più sufficiente,” mormoro piano. Poi sospiro perché non è vero. “Dimmi che cosa sta succedendo, per favore.”
Tom è così bravo che capisce al volo quello che voglio fare, alzandosi in piedi per venirmi incontro con l'accappatoio prima ancora che io abbia finito di tirarmi fuori dalla vasca. L'acqua si sta freddando e non è più piacevole stare a mollo, e poi so che in qualche modo mi sto già preparando ad uscire di casa.
“Ho bisogno di saperti in un posto sicuro,” mi dice lui.
“Questa casa è sicura,” protesto.
Questa volta la pausa la fa perché vorrebbe rispondermi male e sa di non poterlo fare. “Preferirei che tu venissi da me,” si corregge, alla fine. “La villa è protetta e sarei più tranquillo se ti avessi lì.”
Sposto la cornetta da un orecchio all'altro per infilarmi l'accappatoio. “Te lo chiedo di nuovo, Anis. Si può sapere che cos'è successo? Tu dove sei?”
“In giro,” risponde. “Devo controllare una cosa.”
E a me non piace che sia così vago, né che ci siano delle fantomatiche questioni che richiedono il suo controllo in qualche parte della città, che poi scommetto è Tempelhof perché Berlino gli piace tanto ma poi, a conti fatti, tutto con lui si riduce sempre e solo al ghetto.
“Che senso ha che venga a casa tua, se tu non ci sei?” Gli faccio notare.
“Bill, te lo chiedo per favore,” insiste lui e la sua voce è così piena di apprensione che un po' mi dispiace non avergli obbedito subito. “Vai alla Villa. Appena arrivo ti spiegherò tutto, te lo prometto.”
Sospiro e guardo Tom che non ha sentito niente della telefonata ma ha già capito che qualcosa non va e che io ci sono finito in mezzo. D'altronde ho risposto, non poteva succedere che questo.
“Non ho più le chiavi,” dico alla fine, rassegnato.
“C'è Karima in casa, ci penserà lei ad aprirti.”
Io frugo fra la roba che ho sul letto per mettere insieme qualcosa di decente da mettermi, ma non parlo. Ascolto il suo respiro e il rumore vago che sento in sottofondo, anche se non so decifrare che cosa sia.
“Bill, sei ancora lì?”
“Sì,” sbuffo, cercando di infilarmi i pantaloni mentre tengo il telefono incastrato tra la testa e la spalla.
“Fai come ti ho detto, d'accordo? Entra in casa e chiuditi dentro, e non muoverti finché non arrivo. Sarò lì il prima possibile.”
Sospiro. “Ho capito.”
Esita un attimo. “D'accordo,” dice poi.
E chiude la telefonata.

*



La villa di Anis non è la fortezza che potrebbe essere, volendo, viste le dimensioni.
A volte si sente di queste case di attori famosi che, in quanto a sistemi di sicurezza, fanno concorrenza alle banche Svizzere e che per entrare là dentro – se per caso ti sei dimenticato le chiavi – ti ci vuole la scansione della retina, le impronte digitali e qualche codice supersegreto.
Ad Anis un sistema di sicurezza simile non servirebbe a molto, a parte a far vedere che è ricco e può permettersene uno, perché poi il più delle volte, se qualcuno gli suona il campanello, scende lui in ciabatte ad aprire il cancello, con i labrador che fanno già le feste prima ancora di vedere chi è l'ospite. Nonostante questo, però, un sistema di sicurezza c'è ed è comunque molto più avanzato del mio videocitofono, che è la sola cosa che s'interporrebbe tra me e un ipotetico malintenzionato, a parte la porta.
Innanzitutto c'è un sistema di telecamere che funziona. Sono ovunque, non solo sopra il cancello, ma anche lungo tutto il perimetro del giardino. Le porta di entrata è blindata, con doppia serratura, e la casa è protetta con un sistema d'allarme elettronico che si attiva e disattiva solo attraverso un codice a tempo collegato direttamente con la polizia, una cosa che i primi mesi ha fatto accorrere pattuglie su pattuglie finché non l'ho costretto a segnarsi le sei cifre che gli servivano su un pezzetto di carta da tenere nei pantaloni.
Quando arriviamo con la macchina di fronte al cancello, quello è chiuso e non si apre nemmeno quando sono costretto a scendere per inserire il codice a mano, segno che Bushido lo ha cambiato o ha bloccato tutto per sicurezza e che davvero mi toccherà suonare il campanello, una cosa che odio non per il campanello in sé, naturalmente, ma perché a rispondermi sarà Karima. E io odio quella donna.
La sua voce gracchiante esplode dall'interfono qualche secondo dopo che ho suonato. “Chi è?” Urla, come se non ci fosse un microfono e io dovessi sentirla parlare da dentro la casa, a duecento metri da lì e con le finestre chiuse.
“Sono Bill,” rispondo.
Lei sembra pensare un attimo. “Il signore Ferchichi non è in casa, signor Kaulitz,” mi risponde dopo un po', con il suo forte accento straniero. A volte quando parla nemmeno capisco quello che sta dicendo; per esempio, adesso, ha pronunciato il cognome di Anis in un modo in cui non lo pronuncia nemmeno lui e mi sembra che quasi lo faccia apposta.
“Lo so, mi ha chiesto lui di venire e di aspettarlo qui.”
Altro silenzio e poi sento il ronzio della telecamera sopra la mia testa che gira, così mi metto a favore e mostro i denti. “Sono io per davvero,” commento. E il cancello scatta.
Se fossi stato in pericolo, probabilmente avrebbero potuto farmi fuori semplicemente aspettando che scendessi a provare alla cameriera che non sono un impostore davanti alla telecamera a circuito chiuso.
Tom aspetta che io risalga, quindi oltrepassa il cancello che ha appena finito di aprirsi e già viene richiuso.
Parcheggiamo sul retro e appena chiudo la portiera ecco che Skyline e Sherlee mi vengono incontro abbaiando felici. Skyline si getta addirittura a terra per farsi grattare la pancia da mio fratello e poi guaisce come un invasato, dimostrando la sua natura di cane da guardia.
Karima ci aspetta sulla porta, un po' per vedere se davvero sono io, immagino, ma soprattutto per ricordarci immediatamente di pulirci le scarpe sullo zerbino, perché chissà quando ha piovuto e fuori c'è fango. Anis ha speso non so quanti milioni per fare ovunque vialetti in cemento, ma per lei la gente porta sempre fango in casa. Tra le altre cose non capisco come Bushido possa desiderare di tenerla con sé, quando palesemente gli sarebbe bastato vivere con sua madre che si sarebbe comportata allo stesso modo.
Io mi pulisco diligentemente i piedi, ma faccio entrare anche Skyline e Shrlee, che sono sicuro lei ha buttato fuori non appena Bushido si è allontanato, e la prima cosa che quei due fanno è urtare di corsa il tavolino e buttare in terra il vassoietto con le caramelle.
Karima non dice niente, ma mi guarda malissimo e io la ignoro mentre Skyline cerca di riparare ai suoi stessi danni mangiandosi le mentine che ha fatto cadere.
“Che cosa dovremmo fare, adesso?” Mi chiede Tom, quando finalmente riesce a trascinare via Skyline, tirandolo per il collare, in modo che Karima sia libera di pulire in terra senza che lui lecchi anche la scopa.
E' cresciuto un sacco in fretta, questo cane, non so cosa Anis gli dia da mangiare ma è enorme e massiccio, e ha la testa grossa come la mia.
Io mi siedo sul divano e Sherlee mi appoggia il muso sulle ginocchia. “Non ne ho idea,” faccio una smorfia. “Aspettare, credo.”
Skyline abbaia due volte, come a sostenere la mia tesi e allora faccio una carezza anche a lui, ora che si è messo buono accucciato ai piedi di Tom del quale è perdutamente innamorato da quando era un cucciolo, anche se l'ha visto si e no sei volte perché non è che mio fratello abbia passato molto tempo da queste parti da quando Bushido ha comprato i cani, se non per passare a prendermi e riportarmi.
Siamo lì da dieci minuti che ci guardiamo intorno quando all'improvviso Skyline scatta in piedi e si getta in corsa dall'altra parte della stanza scodinzolando e muovendo le orecchie, senza dimenticare di travolgere qualunque cosa si trovi sulla sua strada. “Skyline!” Lo chiamo, ma lui non mi ascolta e allora mi accorgo che nascosto in un angolino, dietro le tende, c'è un cagnolino minuscolo che trema e guarda Skyline terrorizzato, anche se quello in realtà abbaia e sbava solo perché è felice e vuole giocare.
“E tu che cosa saresti?” Chiede Tom, tirandolo su da terra e lontano dalle effusioni esagerate di Skyline, che allora si solleva su due zampe per piantargli quelle anteriori sui pantaloni nel tentativo di attirare l'attenzione e farsi dare il cucciolo.
“E' il motivo per cui quel mostro era fuori in giardino,” risponde Karima, finendo di ripulire le mentine con un colpo secco della scopa. Skyline sembra capire di essere stato offeso ingiustamente, perché uggiola e si mette seduto. “Il cane del signor Glöckler ha paura di Skyline.”
“Il signor Glöckler?” Chiede Tom, allontanando per un attimo l'attenzione dal cucciolo che ne approfitta per arrampicarglisi su una spalla e guardare Skyline, laggiù in basso, con aria sollevata.
“Kay One,” suggerisco. Nemmeno io sono abituato ad usare il nome e il cognome di Kenneth, mi sembra sempre strano perché il suo soprannome sembra già un nome proprio, non è come Fler, Bushido o Chakuza. “Non sapevo che avesse un cane. Come si chiama?”
“Chico,” risponde Karima con un sospiro. Poi alza gli occhi al cielo e scuote la testa, prima di scomparire in cucina.
Ridacchio mentre Chico fa conoscenza con mio fratello. Nonostante la propria generale scemenza, Skyline capisce al volo che dovrà dividere l'oggetto del proprio amore col piccoletto, e abbaia per farsi guardare.
Non invidio Tom neanche un pochino, non è facile stare nel mezzo.
Ad ogni modo, se Kay ha lasciato qui il suo cucciolo, significa che Bushido deve aver chiamato anche lui e che sono andati insieme, ovunque dovessero andare. Mi chiedo chi altro ci sia dei ragazzi e sopratutto che cosa sia successo. La voce di Anis era tesa e non aveva il solito tono un po' sbruffone che ha di solito in ogni altro momento, anche quando legge la lista della spesa. Era nervoso e preoccupato, e con ben poca voglia di scherzare, quindi deve trattarsi di qualcosa di grosso e non mi piace per niente.
Quello che più di tutto mi dà da pensare è che non ha preso la BMW ma l'altra auto, quella che non ha mai visto una premiazione o un concerto e che di solito sta parcheggiata sul retro sotto un telo. Questo significa una cosa soltanto e cioè che si tratta di una questione che vuole o deve risolvere da solo, una questione nella quale è possibile che abbia ragione ma, molto più probabilmente, ha torto perché, quando è dalla parte del giusto, Anis non si scomoda ad uscire di casa. Fa qualche telefonata e mette in campo il suo esercito di avvocati, assicurandosi che quelli gli riportino in tasca un mare di soldi anche per la minima idiozia. Quindi deve trattarsi di qualcos'altro e, mentre osservo la BMW e l'auto di Kenneth parcheggiate sul vialetto, mi chiedo dove sia e quanto grave è il guaio in cui si è andato a cacciare.
Mio fratello, naturalmente, è ignaro di tutti gli scenari tremendi che mi stanno passando per la testa in questo momento e se ne sta sul divano a giocare con i cani; non so esattamente che cosa pensi del fatto che siamo qui.
“Quando pensi che tornerà?”
Mi scosto dalla finestra e rimetto a posto le tende. “Non ne ho idea, non mi ha detto nemmeno dov'era.”
Sento Tom sbuffare. “Si ricomincia.”
Non posso arrabbiarmi con lui se non è contento, d'altronde non lo sono nemmeno io. Aspettare per chissà quanto in casa sua senza sapere dov'è o quando tornerà non è esattamente l'idea che mi ero fatto di un nostro ipotetico incontro dopo mesi, se mai ci fosse stato. Nella mia testa era qualcosa più sullo stile di me e lui che ci sediamo in un bar a parlare e sorridiamo perché io finalmente riesco a guardarlo in faccia senza che il cervello mi si scombini tutto di nuovo. Invece sono qui e non so come reagirò quando attraverserà quella porta, non so nemmeno in che stato sarà quando lo vedrò e se la questione che lo ha tenuto lontano da casa stasera sarà così grave da annientare qualunque altro problema avessimo.
Non mi piace non sapere niente; questo, per altro, è anche l'unico motivo per il quale abbiamo sempre litigato e per il quale è morto, anzi si è finto morto. Non ha mai capito che questa sua costante necessità di tenermi lontano da tutto ciò che lo riguarda per proteggermi non faceva altro che mettermi in ansia. Io voglio il controllo delle cose esattamente come lo vuole lui; e invece sono qui che mi aggiro per il suo salotto, dopo mesi che non ci mettevo piede, senza sapere perché.
Emetto un ringhio frustrato che fa girare i cani e mio fratello, e poi provo a chiamarlo sul cellulare. Squilla a vuoto non so quante volte prima che mi decida a riattaccare.
“Niente?” Chiede Tom.
“No,” sbuffo e torno a sedermi accanto a lui che mi passa un braccio intorno alle spalle e non dice una parola mentre gli appoggio la testa sulle ginocchia anch'io, come Chico e Skyline.
Karima compare sulla porta con un vassoio largo il doppio di lei e i cani si gettano alla carica immediatamente. Lei non si scompone come mi aspetto, li guarda dritti negli occhi e poi dice loro qualcosa in tunisino. Quelli si fermano e Skyline abbassa pure le orecchie, per buona misura, così lei può riprendere ad avanzare verso di noi con tranquillità.
“Scommetto che non avete mangiato niente,” dice apparecchiando per me e Tom direttamente lì sul tavolino da caffè, ben sapendo che altrimenti io, almeno, le risponderei di non aver voglia di arrivare fino al tavolo per mettere in bocca qualcosa. Questa donna mi conosce troppo bene. “Volete un po' di pasta al forno?”
Qualunque cosa io voglia, come al solito, non ha importanza perché lei mi sta già servendo, quindi sarà bene che accetti prima che cominci ad accusarmi di essere una cattiva persona perché non voglio mangiare quando in Tunisia i bambini muoiono di fame.

*


Alla fine io e Tom aspettiamo almeno tre ore prima che qualcuno si faccia vivo e, visto che suona il campanello, posso mettermi l'anima in pace e capire fin da subito che non si tratta di Anis.
Quello che non mi aspetto, però, è di vedere i ragazzi – tutti quanti – attraversare la porta di casa ricoperti di sangue dalla testa ai piedi. Mentre, uno dopo l'altro, cercano disperatamente di limitare i danni con due o tre strusciatine di scarpa sullo zerbino e poi si raggruppano in un angolo del salotto stretti stretti per sporcare il meno possibile, non riesco a pensare davvero a qualcosa. Quello che sto guardando non ha senso ed è peggio di qualsiasi cosa avessi pensato. Mi alzo in piedi e sento il calore di Tom subito dietro di me, ma solo quando mi tocca un braccio, forse nel debole tentativo di tenermi lì, ricomincio a pensare e a sentire tutto quanto, soprattutto le urla orripilate di Karima che un po' grida, un po' si lamenta, un po' minaccia di buttarli tutti fuori dalla finestra se sporcano il tappeto persiano e quelli, spaventati dal suo tedesco fantasioso, si spostano un po', cercando di non calpestarsi a vicenda.
“Che cos'è successo?” Mi avvicino e li guardo tutti, preoccupato. “Dov'è Anis?”
Fler si pressa i palmi delle mani sulle tempie, come se avesse l'emicrania. “Sta arrivando, ragazzino,” mi risponde con uno sbadiglio. “E' tutto a posto. E' ancora vivo.”
“Ancora?” Chiedo.
“E' vivo,” precisa Fler, col suo solito sorriso. Quello che mi rifila quando mi preoccupo inutilmente; eppure non mi sembra di essere così fuori dal mondo se sono in ansia vedendoli ricoperti di sangue. “E' dovuto andare... in un posto, ma sta tornando.”
Continuo a guardarlo diffidente e lui tira un sospiro più grosso degli altri. “Sta bene, Bill,” insiste. “Te lo giuro.”
Non sono convinto, anche perché lui non è qui, e questa è l'unica cosa che mi darebbe l'assoluta certezza che sta bene, però non posso fare altro che credere a Fler e poi, al momento, sono loro la priorità.
Sono una visione disturbante per come sono conciati, hanno sangue perfino nei capelli e in faccia. Mentre li guardo li conto, perché c'è qualcosa di strano. Sono cinque anche senza Anis, così mi rendo conto che c'è una faccia nuova. Squadro il ragazzo biondo da capo a piedi ma sono sicuro di non averlo mai visto, nemmeno in una delle tante occasioni in cui Anis o gli altri hanno ricevuto visite da qualche altro rapper. Si conoscono tutti e, quando non si vogliono morti per qualche motivo, vanno a trovarsi per chiedersi favori a vicenda, questo però avrà la mia età, se non è addirittura più piccolo, di certo non può venire dal passato di Anis o da quello di chiunque altro. “E lui chi è?” Chiedo, indicandolo. Lui prima mi guarda e poi guarda Fler, così guardo Patrick anch'io, in attesa di una risposta che evidentemente tocca a lui.
“Si chiama Daniel,” mi dice.
“Ed è il suo ragazzo,” s'intromette Chakuza con uno sbuffo irritato dal naso.
Io mi giro verso di lui un po' sorpreso perché quella possibilità non l'avevo nemmeno contemplata, e per un attimo ci guardiamo condividendo un vago senso di sconvolgimento prima di renderci conto che quella è la prima volta che ci diciamo qualcosa in sei mesi, e lo facciamo per parlare di una cosa del genere.
Chakuza tossisce e inchioda lo sguardo per terra e, mentre anch'io faccio lo stesso, so che finirà per passarsi una mano sugli occhi come se fosse stanco, perché è quello che fa sempre quando è imbarazzato.
In realtà, mi piacerebbe continuare questo interrogatorio e possibilmente trarne qualcosa di più soddisfacente di un nome e di una notizia incomprensibile, ma non posso perché Karima, alle mie spalle, si sta ancora lamentando del tappeto e della striscia di impronte rosse che i ragazzi si sono lasciati alle spalle; nel farlo, per altro, sta agitando i cani che si sono messi ad abbaiare e non smettono nemmeno quando Tom cerca di calmarli. Il piccolino è così spaventato che guaisce e indietreggia fino a tornare dietro la sua tenda. “D'accordo, adesso basta!” Esplodo. “Karima, perché non la smetti di urlare e vai a prendere gli asciugamani e dei vestiti puliti? E voi cinque filate in bagno a darvi una lavata, siete impresentabili.” Mi sorprendo anch'io quando mi obbediscono tutti, perfino Karima. “Il bagno degli ospiti!” Preciso poi, quando li vedo già pronti a salire al piano di sopra.
Cambiano direzione e borbottano molto perché il bagno di Anis è una reggia e la doccia è gigantesca, ma non esiste che io li faccia entrare là dentro in quello stato. Mi piange il cuore al solo pensiero che possano macchiare qualcosa, senza contare che Bushido mi ammazzerebbe.
Mio fratello mi osserva con la faccia di uno che vorrebbe dire molte cose ma sceglie di non dirle per il quieto vivere e io, in questo momento, apprezzo molto la sua decisione. Ho cinque uomini che sembrano usciti da un mattatoio e un uomo scomparso che dovrebbe tornare da non so dove, non so quando; per non parlare del fatto che sto pensando e parlando come farebbe Anis e questa cosa mi fa più paura di tutto quanto il resto. Io non ho nessun uomo, tanto per cominciare. E se anche lo avessi non dovrei dovermi preoccupare di fargli portare dei vestiti nuovi dalla cameriera.
Socchiudo gli occhi, respirando per calmarmi e poi raggiungo i ragazzi, appoggiandomi alla cornice della porta del bagno, che sembra l'unica cosa che sono riusciti a non sporcare.
Eko, che si è appena tolto la maglia, sta girando su se stesso nel tentativo di capire che farsene. “Mettila pure in terra, Ekrem,” sospiro. “Tanto dovremo buttarla quella roba.”
Eko esegue, ma poi si rende conto che sono stato io a parlare, si volta e mi guarda con gli occhi sgranati. L'attimo dopo ha afferrato la tenda della doccia e ci si è nascosto dietro. Faccio per spiegargli che non ce n'è alcun bisogno ma poi penso che non ho voglia di finire a parlare di noci di cocco, lo so che succederebbe, quindi lascio perdere. “Adesso volete dirmi che cos'è successo?” Chiedo, incrociando le braccia al petto.
Fler si sfrega la testa con l'asciugamano e poi mi guarda attraverso lo specchio sul lavandino. “Abbiamo avuto una piccola questione da sistemare,” risponde.
“Sistemare in che senso?” Chiedo.
“Eravamo in un magazzino a dieci chilometri da qui, ordini di Bushido,” la voce di Chakuza è ferma ed è tesa, e io mi accorgo che inconsciamente ho fatto di tutto per non guardare più nella sua direzione. Quando mi giro lui non mi sta guardando, impegnato a recuperare una maglietta dalla pila che Karima ha lasciato sul mobile. Se anche lui ha risposto ad una chiamata di Anis, ci sono due possibilità: o hanno fatto pace o questo è un gran casino. E di sicuro non è la prima.
“Di chi è questo sangue? Siete feriti?” Chiedo, quando il suo viso spunta di nuovo dal colletto della maglia.
“Nessuno è ferito,” mi assicura.
“Non in questa stanza per lo meno,” commenta Eko che, nel tentativo di nascondermi le quattro ossa decisamente poco attraenti che si ritrova, si sta annodando nella tenda della doccia.
“Che significa?”
“E' tutto a posto,” s'intromette subito Fler, mentre Kay colpisce Eko alla testa, confermandomi così che stanno mentendo tutti quanti.
“No, non è tutto a posto, Patrick. Anis mi ha chiamato spaventato e ha voluto che venissi qui a tutti i costi. E dopo quattro ore che aspetto senza uno straccio di notizia, voi arrivate coperti di sangue non vostro e lui non c'è. Quindi ora mi fate la cortesia di piantarla con questa stronzata del tutto a posto e mi dite che cosa cazzo è successo, chiaro?”
Kay si schiarisce la gola, quindi afferra una maglietta e si dilegua, praticamente inseguito da Eko che, dopo aver fatto il danno, se la dà a gambe senza ritegno. Io mi sposto solo per farli passare e poi mi rimetto dov'ero, guardando Fler e Chakuza in attesa di una risposta. Fler gonfia le guance e poi butta fuori l'aria tutta d'un colpo. “C'è stata un'aggressione,” inizia. “E qualcuno è stato ferito.”
“Chi?”
Fler mi ha sempre detto che è meglio non mentire mai, che poi è quello che sostiene anche Bushido, però entrambi sono bravi ad omettere la verità quando è necessario, ossia quando fa male. Per questo più passano i minuti e più mi preoccupo.
“Chi?” Ripeto, quando si ostinano a non rispondermi. “Chi è stato ferito?”
“Jost,” Chakuza è il primo a mormorarlo. Dice anche qualcos'altro, ma il mio cervello smette di ascoltare non appena dice quel nome.
“Cosa?” Quando sento qualcuno ridere ci metto un secondo di troppo a capire che sono io. “Che cosa c'entra David? Lui non ha niente a che fare con voi.”
Lo dico come se David facesse parte di un altro mondo, ma ha aiutato Bushido a fuggire e lo ha tenuto nascosto per un anno intero, quanto può essere diverso dagli altri? Chiunque entra nella vita di Bushido diventa una cosa di Bushido, dovrei saperlo bene. E le cose di Anis hanno la tendenza a rischiare grosso.
“Bill, ascolta....”
“No, lui non c'entra con queste cose,” insisto. “E perché siete andati tutti là? Come faceva Bushido a saperlo?”
“Una chiamata anonima,” mi spiega Fler. “Volevano che lo trovassimo lì.”
Scuoto la testa, tutto questo continua a non avere senso. David è il mio manager, uno che organizza concerti. La gente come lui non dovrebbe finire ferita nei magazzini.
“Come sta?” Chiedo.
Né lui né Chakuza mi guardano in faccia, e penso che non so nemmeno se David è ancora ferito o se è morto e la ferita risale a prima che lo trovassero. O magari anche alla telefonata. Non ho il coraggio di chiederglielo, non ce l'ho proprio. “Non ci credo...” mormoro. “L'ho visto poche ore fa e stava bene.”
Quando mi stacco dalla porta e mi allontano ce li ho subito dietro tutti e due.
“Anis lo sta portando in ospedale,” E' Fler che mi prende al volo prima che arrivi in salotto, mi afferra per un polso e mi tiene lì. Non guardo Patrick anche se ce l'ho proprio davanti, lo vedo muovere le labbra ma smetto di sentire la sua voce. Penso solo che, da qualche parte, stanotte David è stato aggredito e potrebbe morire.
“Bill, mi senti?” Fler mi scuote, e urla più forte finché non lo guardo. “C'è Anis con lui. Andrà tutto bene.”
Sono passati due anni e sei mesi, e io pensavo di aver chiuso con queste cose.
Il dottor Schillinger non sarà affatto contento.

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Es Kann Beginnen - Vol. 2

di tabata
Per tutta la mia vita ho sempre pensato che la persona più importante, nonché l'unica al mondo, sulla quale potessi sempre contare ero io, e questo mi è servito a salvarmi la pelle un sacco di volte quando ero ragazzino, senza contare che è solo grazie a questo ragionamento che sono arrivato in cima; ho sempre messo me stesso prima di tutto quanto il resto e ho avuto ragione.
L'unica volta che non l'ho fatto e mi sono messo davvero da parte per proteggere qualcosa che consideravo più importante di me, sapete bene com'è andata. Ora, non sto dicendo che la mia storia con Bill e tutto ciò che ne è seguito è stata un fallimento o che abbia provato in via definitiva che è meglio non essere mai altruisti, perché questo non è vero. Anzi, quello che ho fatto sarei pronto a rifarlo anche adesso, altre cento volte se necessario, perché ne è valsa la pena, di amarlo, prima di tutto, e poi anche di vederlo restare vivo nonostante quello che rischiava. Sono orgoglioso di averlo protetto e sono ancora più orgoglioso che sia stato mio; questo però non significa che, nel corso di tutti questi anni – e in special modo nell'ultimo periodo – io non abbia perso di vista chi sono.
Non è stato davvero Bill a cambiarmi, lui ha solo grattato la scorza per rendermi più sopportabile, sono stato io a decidere che volevo qualcosa di diverso per me stesso e che forse, dopo anni passati a guardare il mondo come se mi dovesse qualcosa, era l'ora di concedermi un po' di pace e di ammettere che, in fondo, quello che mi era stato tolto da piccolo, mi era stato tutto restituito con gli interessi.
Quello che non avevo calcolato è che avere qualcosa significa anche rischiare di perderlo e io non ho mai reagito bene di fronte alle situazioni che non posso controllare. Sono stato costretto a sistemare le cose in modo da poter essere io a decidere come dovessero andare, o almeno pensavo.
Probabilmente l'errore si è generato lì, quando ho cercato di comportarmi come un tempo, anche se non ero più la stessa persona. Erano due cose inconciliabili, e ovviamente me ne accorgo solo ora.
Un tempo, quando ero un ragazzo, abbandonare gli oggetti o le persone non era così difficile, non c'era niente al mondo a cui tenessi tanto da volergli stare incollato per sempre. Perfino Fler, che comunque è un pezzo importantissimo della mia vita, l'ho lasciato indietro quando ho voluto farlo. Ogni abbandono era inevitabile e come ogni scelta necessaria la affrontavo con la consapevolezza di non poter fare altrimenti, e che per questo tanto valeva non disperarsi. Con Bill però non poteva essere così, perché io non ero più così e ci tenevo così tanto a lui che era impensabile credere che avrei potuto lasciarmelo alle spalle semplicemente perché pensavo che fosse necessario e lo volevo. Non funzionava più così.
La mia lunga permanenza a Miami ha fatto il resto. Vivere per mesi come se fossi qualcun altro non mi ha trasformato davvero in quella persona, naturalmente, ma ha contribuito a cancellare altri aspetti del mio carattere, tanto che quando sono tornato a Berlino e la situazione mi è sfuggita di mano non ho saputo come gestirla e l'unica soluzione è stata scappare, prima da Bill e poi anche da tutto il resto.
Per tutto questo tempo in cui io e Bill ci siamo fatti del male e ne abbiamo fatto ad altre persone, sarebbe bastato fermarsi e ricordare quello che eravamo. Forse in quel caso avremmo visto quanto eravamo cambiati e avremmo scelto che cosa fare, se ricominciare da capo con un inizio nuovo di zecca o se lasciar perdere; ma con la piena consapevolezza di cosa stava accadendo e non quel gran casino che è stato.
Alla fine, quando tutto è precipitato, non c'era altra soluzione se non quella di non vederci per un po', perché stare da soli era l'unico modo che avevamo per pensare a noi stessi, senza l'impedimento che rappresentavamo l'uno per l'altro. Non puoi davvero farti un esame di coscienza se tutta la tua attenzione è concentrata altrove.
Inoltre, dopo che anche Nyze ci ha mandati tutti a fanculo ed è andato a grattare alla porta di Sido, era chiaro che bisognava facessi qualcosa, ma che non ero in grado di farlo nello stato in cui ero, quindi ho messo i ragazzi in attesa, ho detto loro che potevano fare quello che volevano fino a nuovo ordine e mi sono preso del tempo per me, tanto sapevo che potevamo tutti quanti campare per un po' senza lavorare.
Ho passato gli ultimi sei mesi a ritrovare me stesso e non è stato affatto facile, perché ero sparso tra qui e Miami e ogni pezzo era in un posto diverso.
La prima cosa che ho fatto è stato andare alla mia tomba perché non ci ero mai stato, anche se sembra impossibile. Mi sono portato dei fiori e li ho messi nel vaso con un po' d'acqua, ho anche buttato i mazzi vecchi e ripulito un po' come si fa quando c'è davvero un cadavere.
Poi ho guardato la foto sulla lapide – deve averla scelta mia madre perché sono in giacca e cravatta, e quando mai? – e ho pensato che ero un gran figo quando sono morto e che dovevo tornare ad esserlo, con il beneficio di due anni di esperienza in più. Io rispetto l'esperienza, è quella che ti rende più furbo.
Quindi ho chiamato le onoranze funebri – il loro numero è l'ultima cosa che ho chiesto a Jost prima di salutarlo a chissà quando – e ho preso accordi perché la cassa fosse dissotterrata e la tomba rimossa fino a che non fosse servita di nuovo. Immagino che non gli capiti spesso che uno dei loro clienti non sia soddisfatto, li ho rassicurati che non cercavo alcun rimborso e ho chiuso la chiamata ridendo e sentendomi molto meglio di prima.
A quel punto ho fatto un biglietto per Miami e sono andato a trovare Conrad, che ci ha messo quasi tre giorni a decidere che era incazzato con me – perché me n'ero andato di punto in bianco lasciandolo nella merda – ma non abbastanza per rifiutarsi di salutarmi e offrirmi una birra. E' un brav'uomo e non mi ha chiesto niente, si è bevuto con un sorriso la balla che gli ho rifilato senza avvicinarmi alla verità nemmeno un pochino e ha infilato in tasca l'assegno che gli ho passato per l'officina – o per quel cazzo che gli pare – e non ha domandato da dove venissero quei soldi, né tanto meno perché glieli stavo dando.
Ho sistemato le ultime cose che avevo lasciato in sospeso e l'ultimo giorno sono andato alla marina, a guardare le barche andare e venire dal molo e a sentire i pescatori della domenica parlare quel misto di spagnolo e americano che le prime settimane mi aveva confuso fin quasi all'esasperazione. Era già abbastanza difficile capire l'inglese per dover decifrare anche un'altra lingua.
Marisol ha finto di trovarmi lì e io ho finto di non aver detto a suo cugino dove andavo. Si è seduta sulla mia panchina guardando l'oceano e ha fatto la sostenuta, come se la mia presenza non la toccasse minimamente. Ho sorriso perché lei e Bill si somigliano in molte cose, forse semplicemente perché sono due ragazzini. Le ho detto che ero tornato per l'ultima volta e lei mi ha chiesto se la donna che mi ha portato via da Miami ne vale la pena. Le ho detto di sì, e poi le ho consegnato le chiavi dell'appartamento.
L'ho intestato a lei e potrà andarci a vivere quando sarà maggiorenne, fino ad allora sarà Miguel ad occuparsene e mi sono già messo d'accordo con lui che torno a fargli il culo se non rispetta le mie richieste.
Immagino che Jost non sarà affatto d'accordo su questa mia scelta, ma naturalmente me ne frego. Non volevo vendere quella casa, ed era uno spreco farla andare in rovina.
Dopo aver ucciso definitivamente Tarek ed essere uscito dalla mia tomba, sono di nuovo sparito dalla faccia della terra per qualche settimana, ma questa volta solo per andare in vacanza e quando sono tornato ero pronto a far sapere alla Universal e a Berlino che non ero affatto finito, ma anzi avevo molte più idee dell'ultima volta che mi avevano visto.
Ho scritto un sacco in questi ultimi tempi e ho cominciato a fare telefonate. La Universal mi ha scaricato, è vero, ma la mia etichetta è quasi indipendente e non vedo grossi ostacoli perché non lo diventi completamente, devo solo organizzarmi. Ci sarebbe anche la possibilità di unire l'Ersguterjunge e la Beatlefield, ma al momento non sono ancora sicuro di poter venire a patti con Chakuza, per cui sto cercando vie alternative. Sono lanciatissimo, comunque, e mi sento bene.
La giornata è iniziata bene, se si esclude Karima che prende come scusa una telefonata di mia madre per fare irruzione in camera mia e tirare le tende che è ancora quasi l'alba; lei sostiene che io mi debba alzare presto perché il mattino ha l'oro in bocca ma io sospetto di doverlo fare soprattutto perché i miei cani stanno uggiolando da ore e vogliono attenzioni che lei non gli dà. La sento borbottare qualcosa che non capisco mentre nascondo la testa sotto il cuscino per guadagnare ancora qualche minuto di sonno e Skyline e Sherlee ne approfittano per entrare abbaiando e saltare sul letto, a volte mi sembra di avere due bambini invece che due labrador.
Rido perché mentre Sherlee si accontenta di essere riuscita ad entrare in questo posto proibito e si stende composta ai miei piedi, Skyline si agita come un ossesso, gira in cerchio sul letto, e infila la testa sotto il cuscino per leccarmi la faccia, finché io non gli do retta e non mi alzo. Ha un giardino abbastanza grande per perdersi ma lui è viziato e vuole fare il cane da appartamento, ossia pretende che gli metta il guinzaglio ad orari prestabiliti e che lo porti fuori, così può vedere il quartiere, incontrare gente e farsi fare i complimenti da tutti quanti. Oggi non mi dispiace, comunque, perché ho delle cose da fare e posso portarmelo dietro, fortunatamente lui è anche il cane geloso, quindi se lascio Sherlee a casa troverò ancora intatto il mio paio di mocassini preferiti quando ritorno.
Io e Skyline abbiamo un percorso collaudato che ci piace molto, e lo facciamo da così tanto tempo che dopo aver attraversato il primo grosso stradone posso anche togliergli il guinzaglio perché non si perde più, e non scappa nemmeno. D'altronde non ha motivo di scappare visto che a casa mia mangia quattro volte al giorno, che è una volta in più di quanto faccio io visto che la mia governante dice che devo mangiare più sano.
Ci fermiamo a fare colazione, a comprare il giornale e poi tento disperatamente di farlo salire sul sedile posteriore della macchina, ma lui snobba qualsiasi mio ordine per sedersi sul sedile del passeggero, con il muso rivolto verso i bocchettoni dell'aria condizionata e gli occhi semichiusi e goduriosi di fronte al venticello fresco che gli manda indietro le orecchie. E' agosto e fa molto caldo, sta soffrendo un sacco povera bestia, magari lo porto al mare. Ho voglia di mare, anche se sono tornato nemmeno due settimane fa.
Quando arriviamo agli studi penso distintamente che è una giornata quasi perfetta e che sono particolarmente felice di come stanno andando le cose, questo perché non so che da lì a sei ore qualcuno rapirà Jost e lo aprirà in due come un'arancia. Le giornate troppo belle dovrebbero essere il primo segnale per chiudersi in casa e rimanerci.
Lo studio è chiuso da quando ho mandato tutti a pascolare e, siccome questo non è il club del cucito anche se ce lo hanno detto spesso visti i recenti sviluppi, nessuno si è preso la briga di pulire prima di andarsene, con il risultato che quando apro la porta l'odore che ne esce è nauseante e mi prende in gola fin quasi a farmi lacrimare gli occhi. Skyline si rifiuta di entrare e mi aspetta seduto sullo zerbino finché non ho finito di aprire tutte le finestre e arieggiare la stanza. Volevo mettermi a lavorare subito, ma è evidente che non posso se voglio sopravvivere, quindi decido di dare almeno una ripulita sommaria, giusto per avere una scrivania libera su cui lavorare. In realtà mi lascio prendere la mano, perché rimettere in piedi questo posto ha un che di metaforico, così quando ho finito è già tardissimo e faccio appena in tempo a provare qualche cosa al microfono, prima di dover avvertire in ritardo Karima che non riesco a tornare per cena, sentirla sbraitare che metterà tutto in frigo e dovrò mangiarmelo domani, e dividere mezza pizza ordinata al volo con il mio cane.
Sto per decidere di rimanere un altro paio d'ore, quando mi suona il telefono. Ci metto un po' a trovarlo perché non so dove l'ho lasciato mentre pulivo. Lo recupero al volo da sopra una sedia e bevo l'ultimo sorso di birra mentre premo il bottone. “Pronto?”
Dall'altra parte c'è un lungo silenzio, ma sento respirare, quindi non è caduta la linea. Mi scosto il cellulare dall'orecchio per dare un'occhiata al display; il numero è privato. “Pronto?” Ripeto.
“Bushido?”
La voce è ovattata, vagamente roca, e molto bassa come se chi sta dall'altra parte stesse sussurrando. Aggrotto le sopracciglia. “In persona. Chi parla?”
“Abbiamo preso uno dei tuoi, stanotte,” mi dice.
Smetto di passare il tempo di questa telefonata rimettendo a posto documenti che sono sparsi in giro per la stanza da quasi sei mesi e mi fermo, così all'improvviso che perfino il cane s'incuriosisce e lo sento guaire in un angolo. “Di che diavolo parli?” Chiedo. “Chi cazzo sei?”
“Qualcuno pensa che il tuo ritorno sia inopportuno, Bushido. Questo è solo un avvertimento. Troverai l'uomo in uno dei magazzini fuori città, dicono che li conosci bene” risponde la voce, ignorando la mia domanda.
“Che cosa gli avete fatto?”
Dall'altra parte c'è un sospiro di condiscendenza. “Non posso promettere che lo troverai ancora vivo, ma puoi sempre provare.”
Dieci anni fa Ari ci teneva la roba da quelle parti; ma è un labirinto. Ci sono centinaia di magazzini e la zona si estende per chilometri, mi servono più dettagli. “Dammi l'indirizzo preciso,” ordino, mentre recupero le chiavi della macchina e batto una mano sulla coscia per chiamare Skyline. Aspetto impaziente che esca prima di chiudere la porta.
La voce dall'altra parte bisbiglia, per un secondo sento altre voci. Chiunque sia al telefono, non è lui che prende le decisioni perché si sta consultando; presumo che neanche gli altri ne sappiano di più. “Ti darò l'indirizzo, ma non sperarci troppo,” dice alla fine, con una mezza risata. “Era messo male quando lo abbiamo lasciato.”
Quando la telefonata si chiude di colpo, ho una strada e il numero identificativo di una magazzino, ma non so ancora quale dei miei uomini sta morendo a quasi dieci chilometri da qui. Il mio cervello fatica a mettersi in moto. Doveva essere una serata tranquilla in studio, cazzo, e invece sto guidando a duecento all'ora in pieno centro a Berlino. Faccio mente locale, ma non serve a niente. Un tempo conoscevo a memoria gli spostamenti di tutti, adesso sono sei mesi che non vedo nessuno, i ragazzi potevano essere ovunque stasera. Chiunque può essere finito in quel magazzino.
I nomi sono tanti, ma il primo che mi viene in mente è Bill e il pensiero vaghissimo che mi sfiora il cervello fa così paura che non ci penso, lo chiamo e basta. Ci mette troppo a rispondere, io lo so che è lento e perde sempre tutto, che probabilmente il cellulare ce l'ha in un'altra stanza o, peggio, magari gli è cascato nel water o nel lavandino – ne compra uno al mese perché è un danno ambulante – ma in questo momento tutto questo non me lo ricordo e l'unica giustificazione che mi do per gli squilli a vuoto è che il telefono è perso su qualche marciapiede e Bill non può sentirlo perché è in quel cazzo di magazzino. Per colpa mia.
Quando sento la sua voce, tiro un sospiro di sollievo e faccio uno sforzo enorme per non perdermi nella gioia che provo nel sentirla dopo così tanto tempo. Gli chiedo se sta bene, se c'è qualcuno lì in casa ma lui e Tom sono da soli e questo non va bene. Gli chiedo di farsi portare alla villa, non è esattamente una fortezza impenetrabile, ma di sicuro è più protetta di casa loro e, nel caso succedesse qualcosa, la polizia arriverà prima lì che altrove perché l'allarme è collegato direttamente con la centrale. Per convincerlo ci metto le ore, una cosa che convince me del fatto che sta bene. Mi rendo conto che questa è la prima volta che ci sentiamo dopo il tour e non sto facendo che dargli ordini senza spiegargli nulla, ma non ne ho il tempo e lui dovrebbe arrivarci, ma ovviamente no. E' così orgoglioso che deve sempre dimostrare che non lo si può comandare a bacchetta. Alla fine la spunto, ma sono già sotto casa mia e quando riattacco sto parcheggiando col freno a mano praticamente davanti alla porta.
Prima di andare al magazzino devo recuperare la pistola. Da quando Fler mi ha restituito la Heckler e io l'ho infilata nel cassetto del comodino, non l'ho più tirata fuori. A parte che non ne ho avuto oggettivamente bisogno, so anche che impugnarla è più difficile di quanto non lo fosse prima. Forse perché è l'arma che ha ammazzato Saad, o forse perché c'erano sopra le impronte di Bill, finché Patrick non l'ha tutta ripulita, e questa, nonostante tutto ciò che è successo, è una cosa che ancora mi sorprende.
Quando entro, Karima è già in agitazione ma non posso prestarle attenzione. Salgo in camera e poi riscendo, senza accorgermi che Kenneth è nel mio salotto; allora mi ricordo che mi aveva chiesto in prestito uno dei portatili, perché il suo l'ha fracassato una delle sue donne, l'ultima, Dio solo sa se mi ricordo come si chiama, quando hanno litigato. Gli avevo detto di passare anche se non c'ero e prendersi quello che voleva ma a quanto pare ci sono e lui è vivo e vegeto. Il cerchio si restringe.
Lo ragguaglio su quello che è successo ed è con me quando esco, stavolta diretto al magazzino.
Lungo la strada chiamiamo tutti gli altri. Lo sento parlare con Eko, mentre io aspetto impaziente che Fler risponda a me. Anche lui ci mette un sacco di tempo, tanto che mi chiedo se non sia stato Bill ad attaccargli questo vizio di prendersela comoda quando uno lo chiama. Alla fine risponde, benedetto ragazzo, e sta bene anche lui, per fortuna. Gli do l'indirizzo e gli dico che ci troviamo là, proprio mentre Kenneth chiude la chiamata con l'austriaco, evitandomi di dovergli dimostrare che effettivamente sono preoccupato anche per lui. Non era molto nel giro prima, ma desso direi che ci entrato alla grande, con tutti i rischi oltre che le soddisfazioni. Sono convinto che non ne sia troppo contento.
Mentre brucio un rosso che mi costringe a serrare le dita sul volante e porta Kenneth a stringere forte il sedile, anche se poi non dice una parola, mi rendo conto che abbiamo telefonato a chiunque e che nessuno si trova in pericolo di vita. Pensavo che sarei stato più tranquillo sapendoli tutto al sicuro, ma ora sono più confuso di prima e quindi anche più preoccupato, perché non ho idea di cosa sia successo.
In genere quando ti sembra che le cose siano migliori di quello che credevi, è perché ti sei dimenticato un particolare fondamentale e, per quanto ripassi a memoria la lista di tutti i miei uomini e il conto mi torni sempre, mi chiedo che cosa non ho preso in considerazione e quale casino mi aspetta. Quando non me li aspetto sono sempre giganteschi.
Chi mi ha chiamato non voleva che mi perdessi tra le centinaia di magazzini e di container che ci circondano perché c'è una lampada accesa appena sopra la porta di metallo che corrisponde all'indirizzo di cui sono fornito; è solo un piccolo neon che non attira l'attenzione, sembra solo che qualcuno abbia dimenticato di spegnerlo. Entro per primo nel capannone, la pistola puntata anche se so che non ci sarà nessuno ad attenderci dentro. Questa non è un'imboscata, è un cazzo di avvertimento.
So che gli altri mi hanno seguito, ma non mi sono voltato a guardarli. Li sento camminare piano dietro di me, i nostri passi rimbombano nel magazzino che ha il soffitto altissimo; dall'eco che produciamo, dev'essere quasi vuoto ma non si vede niente, tranne un gruppo di casse al centro, dove la luce dall'esterno arriva ancora. E' per quello che vedo la pozza scura per terra.
Rallento il passo e mi preparo a quello che troverò dietro alle casse, ma Fler mi scosta di lato e mi supera scoprendo per primo perché siamo qui.
Quando lo raggiungiamo, i miei occhi non si abituano subito a quello che stanno vedendo. C'è un sacco di sangue, molto più di quanto ne abbiamo visto entrando; una macchia che si allarga sotto il corpo riverso di un uomo. Sento un imprecazione alle mie spalle, è solo un sussurro ma da voce ai miei pensieri, quindi lo sento chiaro come se venisse urlato. Non ci metto niente a riconoscere quel corpo, perché nella mia vita ci sono solo due persone che indosserebbero quei pantaloni e una l'ho chiusa in casa fino a nuovo ordine.
E' un istante lunghissimo, nel quale tutti ci fermiamo a guardarlo, e io riesco solo a chiedermi perché Jost, che cosa c'entra lui? Poi ripenso a quello che mi è stato detto al telefono. Che il mio ritorno non è opportuno. E se sono qui lo devo soltanto a lui.
Penso che avrei dovuto arrivarci da solo e che anche David è uno dei miei uomini, ormai. Ho ribaltato il mondo per proteggere Bill che è circondato da persone che si ammazzerebbero per salvarlo, e non mi sono reso conto che, per il solo fatto di avermi aiutato, David correva gli stessi pericoli. Qualcuno mi direbbe che devo smetterla di pensare solo in funzione della gente che mi scopo, e in questo momento mi sento di dare ragione a quella voce che arriva dal fondo del canale.
Mi inginocchio accanto al corpo prima ancora di sapere se è un cadavere. Quando lo giro, David geme piano e tiro un sospiro di sollievo, che però dura poco perché lo stomaco gli si apre, letteralmente, e butta fuori un fiotto di sangue che gli cola lungo i pantaloni, già macchiati di quello che si è fatto addosso.
“Jost,” lo chiamo, schiaffeggiandolo leggermente. Lui fatica ad aprire gli occhi, per un momento vedo solo il bianco e poi alla fine mi guarda ma fa fatica a mettere a fuoco. “David, ci sono qui io. Andrà tutto bene. Resta con me, capito? David, resta con me!”
Lo sollevo da terra e lui reclina la testa all'indietro, sul mio braccio teso. Lancio un'occhiata a Fler e lui annuisce mentre io mi faccio strada tra gli altri che sono fermi e guardano il sangue che ricopre ogni cosa, non solo il pavimento, ma anche le casse e perfino le pareti. Vado a sbattere contro un ragazzino biondo che non so chi cazzo sia né perché sia fra le palle ora, e continuo a chiamare Jost, che va e viene dal suo stato d'incoscienza. Non so quanto sia grave, ma dormire non conviene mai.
Quando raggiungo la mia macchina sono passati al massimo due o tre minuti, ma lui si lamenta sempre meno. Lo faccio distendere sui sedili posteriori e gli metto sotto la testa una vecchia maglia che tengo lì dentro per ogni evenienza.
“Jost, rimani con me, cazzo!” Gli dico, prima di chiudere la portiera e raggiungere di corsa il mio posto. Esco in retromarcia e poi accelero non appena arrivo sulla strada principale. Non posso portarlo all'ospedale, troppi occhi indiscreti e poi non mi fido. Voglio un medico da ricoprire di soldi perché lo ricucia e lo rimetta in piedi subito. Recupero il cellulare dalla tasca dei pantaloni e cerco di pensare velocemente, ho bisogno di un posto sicuro e di qualcuno che conosco, a cui non devo spiegare troppe cose.
Non è così difficile trovare entrambe le cose, visto che sono morto e poi resuscitato. La gente come me doverebbe sempre avere un medico di fiducia che la tiri fuori dalla tomba. Il mio è quello che David ha pagato profumatamente e mi ha ricoverato nella sua clinica privata sotto un nome falso per quell'unica settimana che sono rimasto a Berlino appena dopo la mia morte.
Mi chiedo se faccia ancora il medico o se lo abbiamo pagato abbastanza perché andasse in pensione. Lo chiamo e gli dico chi sono, per un attimo sta zitto. Il mio nome al telefono si porta sempre dietro una scia di silenzio al quale comincio lentamente ad abituarmi. Gli spiego che ho un amico ferito e che mi serve un medico pronto per quando arriverò alla clinica, ossia non più di dieci minuti. Lui capisce la mia necessità di riservatezza e capisce ancora di più i soldi che gli prometto.
“Non ti azzardare a crepare, chiaro?” Avverto David, voltandomi per vedere se respira ancora. Lui si lamenta per i fatti suoi, ma io decido di prenderla come una risposta positiva.
Sono stato in quella clinica solo una volta, ma so perfettamente dove si trova perché la strada che mi ha portato da lì all'aeroporto l'ho percorsa con la convinzione che non sarei mai più tornata indietro, così ho fatto in modo di ricordarmela per sempre. E' ironico che io non solo sia tornato a Berlino, ma che adesso ci stia portando di corsa l'uomo che per primo ci ha portato me.
Quando arriviamo, le luci nelle stanze sono quasi tutte spente ma l'entrata del pronto soccorso è ben illuminata. Parcheggio proprio davanti ed esce il mio medico in persona, con le infermier e la barella. Li aiuto a tirare fuori David e gli dico tutto quello che so, cioè praticamente niente, prima che lo portino dentro di corsa. Li seguo ma un'infermiera mi ferma poco prima della sala operatoria; impreco ma non mi ostino, non saprei che farci là dentro. Colpisco con un pugno la prima cosa che mi trovo sotto mano e rompo uno di quei quadretti con i disegni botanici dei fiori che ci sono sempre nei corridoi degli ospedali; così mi ritrovo ad agitarmi incazzato, senza poter davvero urlare e con una mano che gronda sangue. Tra il mio e quello di David sono davvero un bello spettacolo.
Finisco seduto su un lettino a farmi dare quattro punti mentre Jost è sotto i ferri e poi inizio ad aggirarmi come un animale in gabbia nella sala d'attesa perché l'operazione sembra non finire mai e chiunque esca da quella sala operatoria non sa mai un cazzo. Il mio cervello non si ferma un secondo, non riesco nemmeno a rimettere insieme i pezzi di questa giornata, voglio solo una risposta. E voglio sentirmi dire che è vivo.
Quando il medico mi raggiunge, ha la faccia tesa. L'operazione è andata bene, dice. Le incisioni erano profonde, hanno danneggiato degli organi interni – quali non lo so, fa una lista infinita, sembra che ne abbia il doppio di un essere umano normale da quanti sono – ma lo hanno ripreso in tempo. E' arrivato in tempo perché fermassimo l'emorragia. Ma. Mi aspetto un ma, perché quest'uomo non sorride, quindi ci dev'essere un fottuto ma.
David ha perso un sacco di sangue, continua il medico – e io penso che lo so, che i miei ragazzi lo stanno tutto ripulendo quel sangue e che ce n'era un lago di due dita sparso ovunque – e che non sanno se questo avrà delle conseguenze sul suo cervello. Non sanno nemmeno se passerà la notte.
“Possiamo solo aspettare, signor Ferchichi,” conclude. Quest'uomo avrà detto il mio cognome mille volte da quando è arrivato e continua a sbagliarlo. Sento che voglio prenderlo a pugni ed è l'unica cosa a cui voglio pensare. A spaccargli la faccia perché David potrebbe non svegliarsi mai e di qualcuno dovrà pur essere la colpa.
Mi offro di restare, ma lui mi dice che non servirà, che è meglio se vado a riposarmi. Potrei insistere, ma poi penso che devo parlare con i ragazzi. Ci serve una riunione straordinaria che non può aspettare domani.
E poi c'è Bill, naturalmente. Non era esattamente così – all'una di notte e ricoperto di sangue – che mi immaginavo di incontrarlo di nuovo, ma non ho altra scelta.
Lascio il mio numero al medico e praticamente lo minaccio di cose tremende se non mi chiama per qualunque cosa possa accadere. Voglio essere avvisato anche se Jost respira un po' più forte.
Quando arrivo a casa sono quasi le due e nel quartiere c'è un silenzio innaturale. Perfino da casa mia, che di solito è un casino allucinante, non arriva nemmeno un rumore eppure ci sono ancora le luci accese.
Sono tutti in salotto e sento i loro occhi addosso non appena attraverso la porta di casa.
“Anis, finalmente!” La voce di Bill in questa casa non risuonava da non so più nemmeno quanto ed è perfetta. Mi arriva prima che io possa vederlo ma quando mi volto, lo trovo esattamente come l'ho immaginato. Bellissimo, fiero e vagamente arrabbiato. “Come sta?”
Trovo il tempo di lanciare un'occhiata a Patrick il quale indica Eko e tutto mi appare moto più chiaro. Avrei dovuto chiarire bene con Ekram che doveva tenere la bocca chiusa finché non fossi arrivato io. “L'operazione è riuscita, ma ha perso molto sangue,” rispondo. “Deve passare la notte.”
Bill non dice una parola, ma il suo viso parla per lui. E' teso e triste, i suoi lineamenti sono affilati e le labbra tirate, e poi è così stanco che ha già gli occhi cerchiati di nero.
“Che cos'è successo?” Chiede suo fratello, guardandomi con tanta rabbia che è chiaro stia già dando la colpa di tutto a me. Questa volta ha ragione ma, visto che è lui a farlo, la cosa mi dà fastidio.
“Non lo so,” ammetto, passandomi una mano sul viso. Vorrei avere delle novità da dargli.
“Ma chi può avercela con lui in questo modo?” Chiede Bill. “E' solo il nostro manager.”
“Un sacco di gente,” rispondo con una smorfia. “Ma non si tratta di lui, si tratta di me. Jost mi ha aiutato molto negli ultimi due anni e la cosa non è andata a genio a qualcuno. Questo era solo un avvertimento, ecco perché adesso dobbiamo pensare a come affrontare la faccenda.”
“Aspetta un secondo.” Tom si pianta a gambe larghe proprio di fronte a me, le braccia incrociate e la stessa faccia che avevo voglia di prendere a schiaffi anche quando stavo con Bill. “Forse non ti è chiaro che non c'è nessuna faccenda da affrontare. Sporgeremo denuncia alla polizia e pregheremo perché David si riprenda, fine della storia.”
“Non è così semplice,” rispondo.
“Lo è,” ribatte. “Questo è un tuo problema che ci è finito addosso come tutti gli altri tuoi problemi, ma questa volta ci comporteremo come persone normali e non come se fossimo una fottuta banda di strada.”
Io non so perché questo ragazzino debba costantemente farmi venire voglia di fargli del male. Non capisco nemmeno perché si sia messo a blaterare quando stavo parlando, per dire cose che nessuno gli ha chiesto. Poi immagino che abbia arruffato il pelo per difendere suo fratello, ma non vengo investito da nessun moto di tenerezza nei suoi confronti. Voglio comunque buttarlo fuori di casa.
“Se c'è qualcuno là fuori che ce l'ha con me, e sono consapevole che stiamo parlando di un centinaio di persone possibili, al punto da prendere un uomo, incidergli la pelle fin quasi a perforare gli organi interni e farmelo trovare in un magazzino in un lago di sangue, allora forse potrebbe non fermarsi ad un avvertimento. Ti è chiaro, ora, il concetto?” Lui sta zitto e serra solo la mascella, esattamente come fa Bill quando vorrebbe replicare e non può. “Per questo ho bisogno di sapere dove siete, cosa fate e che siete al sicuro.”
“Fantastico,” sibila Tom, scuotendo la testa e lasciandomi libero di guardare suo fratello. “Ricominciamo con queste stronzate.”
Lo ignoro perché non ho voglia di stargli dietro, stasera. “So che avevamo deciso il contrario,” e guardo soprattutto Bill, Patrick e Peter. “Ma è importante che ci teniamo in contatto.”
Lo sguardo di Chakuza non è nemmeno descrivibile. Probabilmente l'unica cosa che lo trattiene dal prendere e andarsene sbattendo la porta è che ha visto David e, per quanto gli giri il culo dover collaborare con me – e credimi, Chaku, non faccio i salti di gioia nemmeno io – sa che non è prudente fregarsene ora.
Patrick mi guarda più o meno allo stesso modo, ma capisce prima. “Dovremo organizzarci,” esclama alla fine con un sospiro. “Programmare gli impegni in modo da non essere mai soli e tenere d'occhio lui,” aggiunge indicando Bill senza guardarlo.
“Cosa? No!” Esclama Tom dal divano dov'è seduto. “Bill ne ha passate abbastanza, non vi sembra? Se ha bisogno di essere protetto ci penseranno le nostre bodyguard.”
“E' solo una cosa di qualche settimana,” gli assicura Fler. “Il tempo di capire con chi abbiamo a che fare. E' solo una precauzione.”
“E' solo questa storia che ricomincia da capo,” replica lui. E poi si rivolge al fratello. “Bill, ti prego.”
La principessa è rimasta in silenzio fino ad ora e quando mi guarda, lo fa con un'espressione seria e rassegnata insieme, ma consapevole. Io non c'ero mentre cresceva in questo modo.
“D'accordo,” accetta alla fine e poi, a beneficio di suo fratello che sta già dando di matto, aggiunge: “Va tutto bene, Tom. Non c'è altro modo.”
“Sì che c'è. Si chiama polizia.”
“Mi fido dei ragazzi,” insiste lui, senza voltarsi a guardarlo. Guarda me, invece, e leggo nei suoi occhi tutto quello che devo sapere, ossia che accetta solo perché si rende conto della situazione e che dobbiamo fare in modo di non rovinare questi sei mesi in cui ci siamo dati da fare per rimetterci in piedi. Io lo capisco questo, e lo condivido anche, ma all'improvviso, ad averlo qui davanti e così vicino da poterlo toccare, ho voglia di sapere che cos'ha fatto in tutto questo tempo, con chi è stato, che cos'ha visto e come si sente. Ho una gran voglia di lui in generale e non è una buona premessa se voglio promettergli che non farò niente per distruggere il delicato equilibrio che sta cercando di recuperare.
“E' deciso,” sentenzia Fler, interrompendo il nostro sguardo e costringendomi a tornare presente in quella stanza. “Ci metteremo d'accordo sui dettagli nei prossimi giorni.”
Lentamente cominciano tutti a recuperare le proprie cose, accennando ad andarsene. Anche Bill cerca Tom con lo sguardo e il gemello ha già in mano la sua borsa e la sua giacca; lo porterebbe via col teletrasporto se ne avesse uno disponibile sotto mano.
“Tu stanotte resti qui,” dico e Bill si gira di scatto con tanto di quel panico negli occhi che un po' mi viene da ridere, perché sono proprio sgranati. “Nella stanza degli ospiti, naturalmente.”
Tom vorrebbe dire qualcosa da là dietro, ma non lo fa perché adesso è indispettito dal fatto che suo fratello non lo ascolta più, così finge che non gliene freghi nulla di quello che Bill farà, anche se il suo agitarsi sul posto come un indemoniato lascia ad intendere benissimo il contrario.
“Perché?” Chiede Bill, con un sospiro.
“Perché al momento questa casa è il posto più sicuro per te,” rispondo e non sto neanche mentendo. Come ho già detto ho un buon allarme e, cosa più importante, ci sono io in casa. Certo è improbabile che qualcuno possa tentare di fargli del male proprio stasera, ma non è necessario che lo sappia. “E' solo per un po', poi cercheremo una soluzione... meno problematica,” aggiungo, quando non lo vedo troppo convinto.
Bill fa un altro sospiro e poi annuisce, restituendo quasi contemporaneamente borsa e giacca a Tom che rimane lì in piedi con tutta la roba in mano e ci guarda sconvolto.
“Bill, non puoi fare sul serio,” esclama, avvicinandosi e girandogli intorno perché lui non accenna a voltarsi nella sua direzione. Gli tocca andargli proprio davanti al viso. “Ragioniamo un attimo, ok? Forse è meglio se chiami il dottor Schillinger prima di decidere. Dovresti sentire che cosa ne pensa lui.”
“Sto bene,” gli dice Bill e poi alza gli occhi al cielo. “Lo chiamerò domattina come prima cosa, d'accordo?”
“Bill...”
La principessa gli sorride e, per quanto sia dolce il modo in cui lo fa, quello è il gesto che chiude la questione. Tom ne è consapevole quanto me, così fa un passo indietro e ci rinuncia.
“Come vuoi tu,” cede. “Ma telefonami se qualcosa non va. Qualsiasi cosa.”
A quel punto Chakuza attraversa a grandi passi il salotto, saluta tutti burbero ed è il primo ad uscire di casa, senza voltarsi indietro nemmeno una volta. Bill finisce a guardarsi i piedi quasi nello stesso istante ma il momento è meno drammatico di quello che potrebbe essere, perché Patrick prende in mano la situazione come al solito e comincia a buttare fuori di casa tutti, come fossero pecore.
“Andiamo, coraggio, non c'è più niente da vedere,” esclama, spingendo Eko, Kay e il suo cane fuori dalla porta. Riesce a recuperare anche Tom e a trascinarlo via, “Vieni tu, e lascialo un po' respirare quel ragazzino. Finirà per crescere viziato, così.”
Tom vorrebbe non ridere ma lo fa e alla fine rilascia tutta la tensione. “Hai ragione, visto che adesso non lo è nemmeno un po',” scherza. Li sento ridere anche dopo che hanno chiuso la porta e mi sento un po' meglio anch'io, così quando mi giro di nuovo verso Bill spero che sia così anche per lui. La sua tensione però è ancora tutta lì. “Non ho niente con me,” sospira. “Dovrai prestarmi almeno un pigiama.”
“C'è ancora qualcosa di tuo, qui,” confesso. Praticamente tutto ciò che ha dimenticato e io non ho mai trovato il tempo né la voglia di restituirgli. “Ti faccio portare da Karima una maglietta e dei pantaloni insieme ad un altro cuscino. La camera degli ospiti sai dov'è, no?”
Lui mi fa un mezzo sorriso, poi sparisce nel corridoio dandomi la buonanotte.
Ripenso a questa serata assurda, ai miei piani che vanno in fumo e a David da solo in ospedale che lotta per restare con noi. Salgo al piano di sopra, lanciando un'occhiata indecisa alla stanza degli ospiti ma in quel momento Bill spegne la luce così scuoto la testa e continuo per la mia strada.
Sono passate meno di dodici ore da quando ci siamo ritrovati e c'è già un ferito grave e così tanto imbarazzo in questa casa che compensa quello che non abbiamo provato nei sei mesi in cui non ci siamo visti.
Questa storia non è ancora iniziata ed è già un casino.

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L'Apostolo della Sfiga

di tabata
Ci sono persone che credono nelle coincidenze, altre che credono nel destino o in una divinità benevola che li osserva dall'alto dei cieli e tira le fila della loro esistenza per fare o non fare accadere determinate cose che potrebbero anche cambiarla per sempre.
Io non sono molto religioso; da piccolo mia madre mi costringeva ad andare in chiesa tutte le domeniche e mia nonna ci faceva pregare prima dei pasti e prima di andare a dormire, per cui mi è rimasto un po' quel vago terrore dell'altissimo che ti viene istigato a forza di raccomandazioni apocalittiche quando sei un ragazzino pestifero com'ero io ma, a parte questo, non è che provi questa spinta mistica; per cui, non lo so, sicuramente Dio avrà cose molto importanti da fare per noi, ma non credo che ci sia proprio Lui dietro agli avvenimenti che sono in grado di cambiarti la giornata.
Questo, però, non significa che io li consideri frutto del caso, perché non credo nemmeno alle coincidenze. Per quanto mi riguarda, due avvenimenti simili ma del tutto slegati fra loro hanno la possibilità di avvenire contemporaneamente, al momento più opportuno e in maniera del tutto casuale quanta ne ho io di dire la cosa giusta al momento giusto, cioè una su un milione; e anche in quell'unico caso, non si tratterebbe comunque di una coincidenza.
Il che ci porta alla conclusione di quest'introduzione infinita, e cioè che io credo fortemente nella sfiga.
Se c'è un energia cosmica, un'entità sovrana o un alieno verde con le antenne seduto all'origine dell'universo con il compito di generare azioni casuali che influiscano sulla tua persona nel bene e nel male – ma soprattutto nel male – quella è la sfiga che, come risaputo, ci vede benissimo al contrario della fortuna.
E io nella sfiga ci credo perché sono il suo primo apostolo, a partire dalla mia calvizie precoce.
Volendo prendere in considerazione esempi più recenti del momento in cui i miei capelli hanno deciso di abbandonarmi per sempre, vi basta pensare che alle dieci di questa mattina ho avuto la possibilità di fare una scelta che poteva avere delle conseguenze negative oppure no. E ovviamente le ha avute.
Mi si potrebbe far notare che tutto è dipeso dal mio libero arbitrio ma così non è, perché io non avevo idea di quali fossero le mie opzioni, la mia scelta non è stata ponderata né consapevole, pertanto non c'entro assolutamente niente. Sono vittima delle circostanze, ma soprattutto della sfiga.
Dopo il tour disastroso, per dimenticare il quale ho fatto una cura di birra che mi ha portato sull'orlo dell'alcolismo, ho deciso che non potevo rimanere a Berlino se volevo sperare di trovare un po' di pace.
Io sono già di natura un tipo portato alla depressione e ho questi momenti di tristezza profonda in cui in sostanza mi accascio in un angolo lamentandomi della mia esistenza, finché un giorno mi sveglio tranquillo e del tutto dimentico di aver pensato di suicidarmi solo il giorno prima; questo fino a che non succede di nuovo, da capo.
Consapevole di ciò, ho fatto le valigie e sono andato in Austria, per altro convinto che ci sarei rimasto per sempre, visto che l'etichetta era andata a puttane e io, in generale, non è che avessi tutta questa voglia di cantare dopo quello che era successo. L'idea originale era di murarmi vivo nella casa di famiglia e lì ritirarmi in solitudine nel mio angolino di disperazione per tutto il tempo necessario e poi, finita la fase depressiva, fare un po' il cazzo che volevo fino a data da destinarsi. Per fare ciò, la casa avrebbe dovuto essere vuota e non c'era motivo per cui non lo fosse, visto che, sfortunatamente per me, i miei genitori e mia sorella vivono a Berlino da anni.
Invece, quando ho infilato il vialetto di casa con la macchina, eccoli lì tutti e tre, seduti in veranda come se nulla fosse. A quanto pare mia madre sentiva la mancanza dei suoi monti, mio padre delle mucche e mia sorella, non lo so, ma sicuramente l'hanno trascinata. Sono rimasto lì con le mie due valige in mano senza sapere cosa fare; ormai mi avevano visto, era impensabile risalire in macchina e scappare. Naturalmente anche loro erano sorpresi di vedermi, così ho dovuto spiegargli a grandi linee perché ero lì, generando così ogni genere di disgrazia possibile. Clara se l'è presa a morte perché non ho cercato di sistemare le cose con Bill prima che diventassero il disastro che sono adesso – addio sorella complice, benvenuta sconosciuta adolescente in lacrime per una popstar – mia madre ha preso il mio ritorno temporaneo come un trasferimento definitivo, ha cominciato a parlare di appartamenti in paese, di un lavoro in improbabili caseifici della valle, e di bellissime figlie di amiche mai sentite nominare che avrei potuto sposare entro l'anno per farle quintali di nipoti. La giustificazione ufficiale per il mio matrimonio combinato con una sconosciuta sarebbe che ormai ho quasi trent'anni ed è quindi ora che generi un erede. Affermazione a seguito della quale, mio padre a ricominciato a parlarmi, dopo aver inteso che non stavo più con un ragazzo e che si era dunque conclusa quella che lui chiama la mia fase omosessuale. A quanto pare sono tornato ad essere il suo prediletto e unico figlio maschio; prima non so cosa fossi diventato, secondo lui, ma sicuramente stava già intestando l'azienda a Clara che ora, immagino, sarà davvero triste di non ereditare più le sue quattrocento mucche pezzate.
Con la prospettiva di dovermi fidanzare con donne inguardabili, consolare l'inconsolabile sorella per la sua – ripeto: sua – preziosa perdita e occuparmi delle mie future mucche, avevo quasi pensato di tornare a Berlino con una scusa qualsiasi, ma visto che mi aspettavano solo un appartamento senza condizionatore e un frigo vuoto che non avrei mai avuto voglia di riempire, sono rimasto. Sei mesi.
Inutile dire che la mia vita è stata alquanto assurda in questo periodo, che sostanzialmente ho trascorso cercando modi per evitare tutti i miei famigliari, improvvisamente impazziti a causa della mia presenza. Se si esclude la mia necessità di nascondermi nel fienile ogni volta che mia madre portava a casa la figlia del panettiere, dell'ortolano, del postino e poi, credo, anche qualche povera disgraziata incontrata per caso per strada, i momenti più disperati sono stati quelli in cui mio padre si è messo in testa di dover rafforzare il nostro rapporto padre-figlio – o la mia virilità, non lo so, una delle due cose – e mi ha costretto a una serie di attività allucinanti e, soprattutto, mai fatte prima, forse convinto che, se me ne avesse fatte fare di più quand'ero ragazzino, tutto questo non sarebbe mai accaduto. La follia. Così mi ha portato a camminare per chilometri nei boschi, che ci siamo persi finendo per dover chiamare la forestale, e poi a tagliare legna con i boscaioli e a pescare, con tanto di sveglia alle quattro del mattino e lui che tenta di affrontare l'argomento maschi e femmine come se avessi sei anni. Quando ho provato a spiegargli che non è la teoria di base a mancarmi, ma che proprio me ne frego del sesso se qualcuno mi piace, mi ha indicato una trota sotto il pelo dell'acqua e mi ha detto “Hai visto? Te l'avevo detto che era pieno” e da quel momento non abbiamo più parlato.
In tutto questo, mia sorella è stata ingestibile per buona parte della mia permanenza a casa – cioè almeno fino a quando lei e papà non sono tornati a Berlino perché lei va ancora a scuola – e se arrivo a dirlo io, che in linea di massima la adoro e nessuno me la può toccare, vuol dire che proprio ha passato ogni limite. Clara era molto felice che io mi fossi messo con Bill; non felice per me, ma per se stessa, naturalmente, visto che è una grande fan dei Tokio Hotel. Mi ha fatto martire finché non gliel'ho fatto conoscere e quest'incontro ravvicinato del terzo tipo tra Bill e Clara un giorno dovrà raccontarvelo perché è stata la prima volta, in vita mia, che ho visto mia sorella imbarazzata fin quasi al mutismo.
Per questo motivo, voleva poi strangolarmi quando ho avuto la faccia tosta di presentarmi a casa dopo essermelo lasciato scappare, come dice lei. Il fatto che io non fossi un mostro e ci stessi pure male non era nemmeno contemplabile. Per calmarla e farla ragionare ho dovuto farle notare che, senza questa pausa forzata, Bill sarebbe probabilmente impazzito finendo per fare qualcosa di irreparabile.
Allora lei ha capito, se n'è fatta una ragione, ha dimostrato per Bill più pietà di quanta ne avesse dimostrata per suo fratello e quindi è tornata quella di sempre, che non so se sia esattamente una buona cosa, ma almeno sapevo cosa aspettarmi.
Dopo sei mesi di questa vita, ne avevo abbastanza anche della mia famiglia, a cui voglio un gran bene ma a volte troppo amore uccide, quindi era meglio che me ne andassi. Stamattina, dunque, ho messo le valige in macchina e, mentre lo facevo, mia madre mi ha chiesto se ero sicuro di voler tornare a Berlino, se magari non volevo restare un altro paio di mesi, che magari era meglio visto che in città sarei stato solo e triste – grazie mamma – e lei non voleva che stessi male. In quel preciso momento, avrei potuto risponderle di no, che non volevo tornare e che sarei rimasto. Non l'ho fatto, però, e dodici ore dopo, cioè adesso, ecco che mi arriva una chiamata di Kay che mi dice di raggiungere un magazzino di periferia perché abbiamo un problema. Coincidenze? Assolutamente no. Sfiga.
Ho guidato tutto il giorno, sono stanco e odio Bushido, percui non mi va affatto di farmi di nuovo tre piani di scale, togliere l'auto da un parcheggio meraviglioso proprio sotto casa per perdermi chissà dove; poi Kay mi riassume in breve il problema e, soprattutto, mi dice che c'è un uomo ferito in quel magazzino e che non sappiamo chi sia, così quando chiudo il telefono sono praticamente già in macchina e lo riapro soltanto per chiamare Fler, che è la prima persona che mi è venuta in mente. Suona subito occupato, così m'incazzo ma, proprio quando sto per richiamarlo, ci riesce prima lui e non importa che mi aggredisca chiedendomi cosa cazzo stessi facendo, perché sta bene e io posso smettere di bruciare tutti i rossi che trovo per il nervoso.
Il magazzino è enorme e male illuminato; quando entriamo non si vede quasi nulla a parte l'ombra di alcune casse al centro della stanza. Bushido è armato, una cosa che non mi mette a mio agio. Nonostante tutto quello che abbiamo passato, non mi sono ancora abituato a certe cose e di sicuro veder esplodere la faccia di Saad due anni fa non mi ha aiutato in questo senso. Ci sono volte in cui mi sembra solo che ci prendiamo tutti troppo sul serio, altre invece ho proprio l'impressione che ci stiamo mettendo nei guai, e questa è una di quelle. Soprattutto quando troviamo David Jost disteso a terra in un lago di sangue.
Io guardo un sacco di film di paura e mi diverto anche a farlo, ma credo che da questo momento in poi smetterò e mi darò per sempre ai cartoni animati. Non riesco a staccare gli occhi dal corpo di David eppure quello che vedo non mi piace. Innanzitutto è legato mani e piedi e sta disteso su un fianco, come probabilmente lo ha lasciato chi gli ha fatto questo, e poi ha la maglia strappata e una scritta incisa con il coltello sullo stomaco. La ferita butta ancora sangue che è di un rosso vivissimo, non sembra nemmeno reale. Poi, forse perché lui si lamenta quando Bushido lo gira, o non lo so, usciamo uno dopo l'altro dalla paralisi di stupore e cominciamo a muoverci, anche se non tutti facciamo qualcosa di utile. Io, per esempio, riesco finalmente a battere le palpebre e mi scosto quando Bushido mi passa accanto con in braccio David.
Rimaniamo a lungo in silenzio, ad ascoltare l'eco della porta del magazzino che si è chiusa e il rombo dell'auto di Bushido che si allontana, poi ci guardiamo in faccia e non abbiamo idea di che cosa fare. Io almeno non ce l'ho, e neanche Kay ed Eko sembrano saperne più di me.
“Dobbiamo sbrigarci,” esordisce Fler, prima ancora che noialtri si sia effettivamente capito di dover agire in qualche modo. Evidentemente lui si accorge dei nostri occhi vacui, perché aggiunge: “Questo posto va ripulito in fretta.”
“Perché?” Non so di aver fatto la domanda finché non sento la mia voce.
“Te lo spiego dopo,” risponde lui, senza nemmeno voltarsi. Si limita ad indicarci tutti quanti con un braccio mentre apre la porta. “Rimanete dove siete e non fate niente finché non torno.”
Ci ritroviamo a fissarci nelle palle degli occhi per la seconda volta in meno di dieci minuti e poi, tutti insieme nemmeno ci fossimo messi d'accordo, ci spostiamo lontano dal sangue ma in un punto che è ancora vagamente illuminato dal neon all'esterno e dal display del cellulare di Eko che lo agita in aria come volesse far atterrare un aereo all'interno del capannone.
“Hai finito?” Gli chiedo, dopo la decima volta che me lo sventola davanti alla faccia.
“Sto facendo luce,” replica lui.
Gli blocco la mano e conto fino a dieci, per evitare di saltargli al collo e stenderlo a suon di sberle. “No, stai dando fastidio.”
Eko borbotta qualcosa e poi va ad agitare il cellulare da un'altra parte. “E allora stai al buio.”
“Deve pur esserci un interruttore da qualche parte,” la voce è nuova, quindi ci giriamo tutti e tre per vedere a chi appartiene e ci rendiamo conto che questo ragazzino biondo, alto in maniera illegale per l'età che deve avere, dev'essere stato qui tutto il tempo e noi non ce ne siamo accorti. Lo guardiamo senza capire bene perché è qui davanti ai nostri occhi e lui scuote la testa con un sospiro, dirigendosi a passo svelto verso l'uscita. A metà strada il buio lo inghiotte, per poi mostrarcelo di nuovo come un'ombra vagamente illuminata qualche metro dopo. Lo vediamo armeggiare con qualcosa che c'è sul muro e alla fine sentiamo un colpo secco, un ronzio e lentamente il magazzino s'illumina, un settore alla volta partendo dal fondo. Le lunghe lampade al neon attaccate al soffitto sfarfallano un po', prima di assestarsi, ma poi si fanno luminosissime.
“Ecco fatto,” dice lui, spolverandosi le mani sui jeans.
“E tu chi saresti?” Domando. Il ragazzino ha una faccia familiare, eppure non so dove potrei averlo visto.
Lui ride e poi torna verso di noi. “Sono Daniel. Daniel Kobler,” risponde, come se il suo nome dovesse in effetti dirmi qualcosa. “Non ti ricordi di me, vero Chakuza?”
Eko si rende finalmente conto che il suo cellulare non serve più, così lo infila in tasca e squadra lo sconosciuto. “Chaku, perché ti porti sempre dietro i ragazzini? Siamo circondati di ragazzini. Non ne avevamo già abbastanza?” Vaneggia, prima di allontanarsi chissà dove e a fare cosa.
Faccio un cenno a Kay perché vada a recuperarlo prima che scivoli sul sangue e si spacchi la testa da qualche parte, mentre io vedo di capirci qualcosa di più. “Tu mi conosci,” dico.
Daniel annuisce. “Ci siamo incontrati quasi due anni fa.”
Io scuoto la testa, non ho la minima idea di cosa stia parlando.
“Tempelhof,” suggerisce. “Tu e Fler cercavate informazioni e io ve le ho date.”
Daniel Kobler. Il nome non mi dice niente, ma l'unica volta che io e Fler siamo andati a Tempelhof insieme è stata la notte di Saad, quindi cerco di fare mente locale. Abbiamo visto un sacco di gente in quell'occasione, ma lui proprio non mi sembra di ricordarlo e sto quasi per arrendermi quando ci arrivo. “Daniel?” Dico. “Il ragazzino che era fan dell'Aggro?”
Lui sorride. “Lo sono ancora.”
“Ma eri alto così!” Protesto, come se fosse colpa sua, se è cresciuto.
Daniel si stringe nelle spalle. “L'adolescenza ha i suoi lati positivi,” commenta.
Non so cosa gli abbia dato sua madre da mangiare, ma vorrei che avesse condiviso quel segreto con la mia. Ad ogni modo, sto perdendo un po' di vista il punto principale della faccenda. “Perché sei qui? Chi ti ha portato?”
“Sono venuto con Fler,” risponde, infilando entrambe le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni.
Io vorrei chiedergli parecchie cose, tipo cosa ci faceva lui con Fler, come mai lo conosce così bene e soprattutto perché lui lo ha portato qui, ma immagino che posso chiederlo direttamente al diretto interessato visto che è appena tornato, con in mano cinque spazzoloni e altrettanti secchi.
“Avete trovato la luce,” esclama, cominciando a distribuire. “Bene.”
Kay guarda gli oggetti come li guardo io, ossia come uno a cui raramente sono capitati in mano prima di quel momento. Eko invece è molto poco interessato al secchio, ma si è appoggiato allo spazzolone come fosse una lancia.
“Dovremo organizzarci, anche se l'area non è grandissima,” continua Fler, individuando un piccolo lavandino e dirigendosi in quella direzione. “Ho preso della candeggina, ma toglieremo prima il grosso con l'acqua.”
Noi lo guardiamo riempire il secchio per metà e poi mettersi a strofinare con forza la grossa macchia al centro del magazzino, non quella che era subito sotto il corpo di David, ma quella più lontana che si è formata con lo scorrere del sangue sul pavimento un po' inclinato. Lo spazzolone bagnato affonda nel sangue che è molto più denso dell'acqua e sembra di vederlo spalmare per terra del caramello filamentoso. E' una cosa disgustosa. “Kay, tu ed Eko occupatevi del posto in cui c'era David,” li istruisce. “Chakuza, tu stai qui con me. Cercate di raschiare forte, perché il sangue è un figlio di puttana. Quando sarà rimasta solo la macchia, passeremo la candeggina.”
Kay ed Eko guardano lo spazzolone e la macchia con aria dubbiosa, e nessuno di noi si muove, in realtà.
“Beh?” Chiede Patrick.
“Si può sapere perché dobbiamo pulire?” Chiedo alla fine, visto che gli altri due seguono il volo di farfalle inesistenti e hanno palesemente lasciato a me il compito di fare ostruzionismo.
Fler smette di pulire il pavimento. “Guardati intorno, Chakuza, ci sono le nostre impronte ovunque,” risponde.
“E allora? Abbiamo salvato un uomo,” gli faccio notare.
“O forse lo abbiamo torturato,” mi corregge lui. “O ucciso, dipende da quanto Jost ha intenzione di resistere.”
“Ma la polizia...”
“Se David muore, l'unica cosa che la polizia saprà con certezza è che noi siamo stati qui,” mi interrompe. “Ci sarebbe un'indagine, degli interrogatori e con tutto quello che io e Bushido abbiamo alle spalle, probabilmente non si fermerebbero a questo magazzino. Pensaci Chakuza, vuoi davvero che qualche ispettore venga a frugare nella tua vita adesso?”
No, l'ultima cosa che voglio è che qualcuno passi al setaccio gli ultimi due anni e magari si ricordi di quel Saad che lavorava con me e che un bel giorno, di punto in bianco, ha misteriosamente deciso di lasciare la moglie e la figlia senza motivo apparente, proprio qualche mese dopo il funerale del suo capo morto ammazzato da ignoti. Certo, Bushido è vivo ma la sua fuga a Miami non giocherebbe a favore di nessuno in questo frangente e apparirebbe ancora più sospetta. Sono sempre convinto che se nessuno ha ancora trovato nel canale il portellone di un'auto che adesso ha tutto un altro aspetto grazie a Fler, è solo perché non l'hanno cercato e di certo gli verrebbe in mente di farlo, prima o poi, se si mettessero in testa di indagare, cosa che non hanno mai fatto solo perché Greta doveva un favore a Bushido e, in memoria sua, non ci ha denunciati per averle ammazzato il marito. Ora che ci penso, visto che Bushido è vivo, quella donna potrebbe anche cambiare idea. Dobbiamo pulire questo sangue, senza dubbio.
Annuisco e vado a riempire il mio secchio. Sulla strada incrocio Daniel che scende da una delle casse su cui stava seduto e si sistema meglio i pantaloni. “E io?” Lo sento chiedere.
“Tu stai buono e aspetti che abbiamo finito,” gli dice Fler.
“Oh andiamo! Voglio dare una mano anch'io!”
Fler sospira, ma continua a pulire mentre Daniel gli gira intorno, per cercare di farsi ascoltare. “No, Danny.”
“Guarda che lo so come si pulisce il sangue,” protesta lui.
Io quasi faccio traboccare il secchio per seguire la scena. Fler lo guarda sospirando e poi annuisce con un cenno quasi impercettibile del capo. “Dai una mano a loro, laggiù” indica Kay ed Eko.
Daniel obbedisce al volo.
“Perché l'hai portato qui?” Inizio in un sussurro, mentre in due puliamo gli stessi cinquanta centimetri di sangue.
Fler non alza la testa, raschia solo più forte. “Era con me quando Anis ha chiamato.”
“E non hai trovato una babysitter?” Chiedo.
Lui sbuffa forte dal naso e si accanisce sul pavimento con particolare violenza. “Non mi fidavo a lasciarlo a casa mia da solo con in giro un pazzo che ammazza la gente.”
“D'accordo, ecco un'altra domanda. Cosa ci fa un ragazzino di Tempelhof che s'intende di spacciatori a casa tua?”
“E' il mio ragazzo,” risponde lui.
Lo spazzolone mi cade di mano e finisce prima sul mio piede e poi nella pozza di sangue. “Merda!” Impreco, recuperandolo con due dita e riuscendo comunque a sporcarmi. Mi pulisco la mano sui pantaloni, schifato. A parte che è sangue, è anche freddo e viscido. Fler, in tutto questo, ha continuato a pulire.
“Il tuo ragazzo?” Sibilo, incredulo.
“Sì, il mio ragazzo,” ribadisce e mi guarda serissimo. “Hai qualche problema con questo, Peter?”
Potrei iniziare ad elencarli adesso, i problemi, e finire domani alla stessa ora ma qualcosa mi dice che sono solo miei e posso pure tenermeli; solo che non posso stare zitto. “Ma se aveva dodici anni nemmeno due anni fa!”
“Ma non dire cazzate,” borbotta lui, infilando lo spazzolone nell'acqua che però ormai è rossa. “Ne aveva sedici, due anni fa, il che fa di lui un diciottenne adesso. Contento?”
Prende il secchio con impeto e va al lavandino a svuotarlo. Io lo seguo. “Ma quando è successo?”
“Sei mesi fa.”
Io faccio un rapido calcolo. “Stavi con Bushido sei mesi fa.”
Fler chiude l'acqua, si gira verso di me e mi fulmina. “Fermo restando che questi non sono cazzi tuoi, Peter...” si ferma, mi agita l'indice davanti alla faccia e poi sospira. “Beh, non sono cazzi tuoi.”
Si allontana velocemente e inizia a spargere candeggina sul pavimento. L'odore pungente mi entra nel naso e mi fa lacrimare gli occhi. Apro la bocca per dirgli qualcosa ma lui mi ferma prima. “Un'altra domanda e ti faccio a pezzi. Tanto sto già pulendo,” mi minaccia. Quindi si volta a controllare gli altri tre e lancia a Daniel il flacone di candeggina. “Ripulite con questa, ora.”
Il ragazzino lo prende al volo e gli fa il saluto militare con due dita. Adesso che lo so, non riesco a guardarlo alla stessa maniera e mi dà fastidio perfino il modo in cui sorride e il fatto che si siano capiti al volo quando Fler gli ha lanciato quell'affare. Torno a strofinare la mia macchia con la candeggina e penso che sono curioso di sapere com'è andata esattamente, se Bushido ne sa qualcosa di questo ragazzino, o se mentre noi affrontavamo i nostri molti problemi in tour, lui, da casa, contribuiva alla follia generale a modo suo.
Io e Fler finiamo prima degli altri tre perché la nostra macchia è più piccola, non è sparsa anche sulle casse circostanti, ma soprattutto non abbiamo Eko che drogato dagli effluvi della candeggina o, molto più probabilmente, così già di suo sta vaneggiando di un film turco che ha visto quando era piccolo a casa di suo zio Idris in cui i protagonisti fanno esattamente quello che stiamo facendo noi ora, ma poi alla fine la mafia li trova e dà i loro cadaveri in pasto ai maiali.
“Adesso sì che mi sento meglio,” sospira Kay, accucciato per terra a togliere macchioline spruzzate sul legno con uno straccio.
“Non ho mai sentito parlare di quel film, Eko,” esclama Daniel, “però ce n'è un altro che è uscito due o tre anni fa in cui gli scagnozzi del boss tentano di fregare il boss e finiscono a farsi un volo di trenta metri dal suo grattacielo.”
“D'accordo adesso basta con i pensieri felici,” li ferma Fler, battendo le mani. “Prima ci leviamo di qui e più probabilità abbiamo di evitare i finali splatter. Chakuza, aiutami a radunare ogni cosa.”
Venti minuti dopo abbiamo avvolto gli attrezzi nel nylon, stipando tutto nel bagagliaio dell'auto di Fler, che ha pensato proprio ad ogni minimo dettaglio. Mi viene da chiedergli quante altre volte gli sia capitato di ripulire un posto dal sangue, ma non lo faccio perché mi ricordo la disinvoltura con la quale ha fatto sparire il corpo di Saad e quanto la cosa mi abbia lasciato sconvolto. C'è sempre un lato di lui di cui non so niente e, per quanto sia brutto, voglio continuare a non sapere niente. Non ho mai pensato di essere in grado di accettarlo, quindi è meglio che ne rimanga all'oscuro. Dimenticherò questa serata come, salvo rari casi, ho dimenticato l'altra. Il mio cervello ha un sacco di difetti, ma in questo caso la sua capacità di rimuovere la quasi totalità di ciò che invece mi converrebbe ricordare torna utile.
Appena fuori dal magazzino, mentre chiudiamo la porta, ci guardiamo l'un l'altro stanchi e disfatti. Siamo ricoperti di sangue dalla testa ai piedi e non sappiamo nemmeno come visto che non abbiamo passato il tempo rotolandoci sul pavimento. Sarà che a differenza di Fler eravamo tutti piuttosto inadeguati e pulire bene una stanza dal sangue non è così facile come sembra, non quando schizza ovunque e si infila appiccicoso tra le piastrelle e non c'è verso di toglierlo. Se anche mi venisse la voglia di uccidere qualcuno, lo avvelenerei o lo strangolerei, comunque niente che coinvolga dello spargimento di sangue.
“D'accordo, andiamo. Ci troviamo a casa di Bushido tra mezz'ora.”
Ne segue un mormorio contrariato. Gli altri non so, ma io volevo farmi una doccia e non sentire Bushido che ci fa uno dei suoi discorsi epici sull'unità del gruppo, la sacralità della vendetta e il codice del ghetto che, a quanto mi pare di capire, stasera è stato violato in molti modi diversi.
Come se ciò non bastasse, vedo Daniel salire sull'auto di Fler e il viso serio e concentrato che ha mi disturba, perché ha lo stesso atteggiamento di Fler, pratico, attento e volto alla soluzione di ogni possibile problema, già presente o previsto. Fottuto ghetto, sempre nel mezzo.
Sbuffo e appoggio per un secondo la fronte al volante; questa notte è stata lunghissima e sembra non avere alcuna intenzione di finire.
Metto in moto e mi dirigo alla villa gialla.

*


Come se trovare un uomo che conosci sventrato a coltellate dentro un magazzino e doverne ripulire il sangue con la candeggina non fosse già abbastanza per una sola notte, a casa di Bushido c'è Bill e io non sono nella condizione di affrontare questa cosa al momento. Speravo che dopo sei mesi a fare l'eremita, sarebbe stato più facile guardarlo negli occhi, ma direi che così non è.
La rabbia che avevo alla fine del tour ce l'ho anche adesso, tale e quale a prima, e se in questi sei mesi non l'ho sentita è stato solo perché non ho visto né sentito lui. Ora che ce l'ho di nuovo davanti, però, è difficile ignorare quello che è successo, soprattutto perché se siamo qui stasera è per colpa di Bushido, che è un po' la causa di tutti i problemi tra noi due. Non sono ancora in quella fase in cui mi dico che era meglio se non tornava e poi mi sento in colpa per averlo pensato. Per ora lo penso e basta.
In tutto questo, la prima volta che io e Bill ci scambiamo due parole, lo facciamo per discutere di Daniel, che non è esattamente un approccio intelligente.
Ad ogni modo, la presenza di Bill è provvidenziale per lo stato in cui ci troviamo. Quando siamo entrati in casa, la governante di Bushido è praticamente impazzita – e non posso darle torto visto che stiamo lasciando sangue ovunque sui mobili di Bushido da cinquecento fantastiglioni di euro – e se non ci fosse Bill ad organizzare le cose, probabilmente saremo ancora in piedi a gocciolare sui tappeti persiani quando lui arriva. E' assurdo pensarlo, ma non ho più alcun ricordo di questa casa senza Bill dentro che dà ordini a destra e a manca, eppure ci venivo anche prima che arrivasse lui. E' come se ci fosse sempre stato. Così mentre ci stipa tutti nel bagno degli ospiti e ci fa lavare e cambiare, non sembra una cosa tanto strana perché c'era un tempo in cui eravamo abituati a passare le giornate qui dentro e c'era anche lui che, quando giocavamo a calcio in giardino, ci spediva uno dopo l'altro a farci la doccia perché non eravamo presentabili. E' quello che ci dice adesso, per altro, e non fa che aumentare questa sensazione di calore che non dovrei affatto provare.
Bill ci fa un sacco di domande e non vorremmo dirgli che si tratta di David Jost senza prima sapere se quell'uomo se la caverà o meno, ma non ne abbiamo veramente discusso e, siccome il cervello di Eko a volte è perfino più scollegato dalla realtà del mio, quello finisce per dirgli che in effetti qualcuno è ferito e a quel, punto, visto che Bill insiste e non ci darà pace finché non rispondiamo, gli dico le cose come stanno.
All'inizio non ci crede e poi va nel panico e Fler è costretto a scuoterlo per farsi guardare mentre gli dice che andrà tutto bene; vorrei essere altrettanto bravo a fingermi sicuro che le cose si sistemeranno, ma non lo sono affatto, anzi ho dei dubbi che David sia anche solo arrivato vivo in ospedale, per questo è meglio che ci pensi lui a rassicurare la principessa.
Alla fine, quando Bushido si presenta, Bill ha chiesto a Karima di preparare del caffè e ci siamo sistemati in salotto dove abbiamo passato un'ora praticamente in silenzio a fissare ognuno un punto diverso della stanza con grandissima attenzione, tranne forse Eko che si è tenuto impegnato a costruire castelli con le zollette di zucchero e Daniel, che dopo aver ficcato il naso dappertutto, si è addormentato sul divano con la testa appoggiata sulle ginocchia di Fler.
Bushido ha sempre cercato di rendere la propria immagine eroica, probabilmente perché, quando dice le sue stronzate, gli piace immaginarsi in cima ad un picco a strapiombo sul mare col vento che gli scombina i capelli – magari prima al particolare dei capelli non ci pensava, ma ora può perché sono lunghi e sembra il protagonista di uno di quei libri da donne, che sulla copertina hanno questi uomini con la camicia aperta e la criniera selvaggia – ecco perché, generalmente, ha sempre quest'aspetto da duro che non deve chiedere mai. Stasera, però, non fa niente per nascondere la spossatezza e quando entra in casa e chiude la porta, lo fa con passo stanco e le spalle curve, è così abbattuto che mi viene da chiedermi se David non sia morto davvero. Glielo chiede anche Bill, così viene subito a sapere che il segreto è stato svelato, ma ne prende atto con un cenno del capo e niente di più.
Fortunatamente David è vivo, ma deve riuscire a superare la notte e al momento mi sembra impossibile, più che altro perché la notte sta andando avanti in eterno; non mi ricordo nemmeno dov'è iniziata e quindi probabilmente non finirà mai. Sono stanco del buio, non ho nemmeno voglia di dormire, vorrei soltanto vedere la luce del sole che segni l'inizio di un giorno nuovo e, si spera, completamente diverso da questo.
La sensazione di deja vu, che mi accompagna da quando ho messo piede in questa casa, si fa ancora più forte quando Bushido annuncia che è necessario restare uniti, vista la situazione, e Tom non la prende affatto bene perché non vuole che suo fratello ci resti invischiato in mezzo.
Ora, sinceramente, io non sto facendo i salti di gioia all'idea di dover collaborare con quest'uomo, ma non posso negare che abbiamo davvero bisogno di tenerci d'occhio l'un l'altro, vista la situazione. E dal momento che la polizia meno s'impiccia e meglio è – penso che ormai sono un uomo che teme le forze dell'ordine, uno di quelli che mia nonna non voleva che frequentassi, povera nonna – allora non c'è altra gente di cui mi fidi se non quella che si trova in questa stanza. Tom però non è d'accordo e comincia a discutere con Bushido come ha sempre fatto, da che lo conosco, ogni volta che parlano di Bill.
Si scornano finché la nostra principessa non li mette a tacere entrambi e ovviamente comprende quello che è necessario fare, anche se non è facile nemmeno per lui, immagino, dover ricominciare con queste cose. Niente di quello che è successo è andato come doveva e, anche quando ci avevamo dato un taglio, qualcuno ha pensato bene di riportarci tutti al punto di partenza. Dopo che abbiamo scavato, toccato il fondo e scavato ancora per arrivare dall'altra parte, mi chiedo che cosa ci aspetti ancora che renderà la nostra vita una roba che non si racconta.
Bushido, naturalmente, si attiva subito per non lasciarmi troppo a brancolare nel buio e decide che se dobbiamo fare dei turni per tenere d'occhio Bill sarà meglio cominciare subito e sarà meglio cominciare da lui medesimo nella sua armatura scintillante e col suo bel sistema di allarme collegato alla Nasa.
Io so che, oggettivamente, questo è il posto migliore in cui tenere Bill per stanotte e per chissà quanto altro tempo ancora, ma so anche che Bushido è molto bravo a nascondere la propria sfacciataggine dietro motivazioni più o meno valide; e quindi sì, forse, questo è il posto migliore ma non sono troppo sicuro che lui avesse esattamente questo in mente quando ha deciso di tenerlo qui.
Quando Bill, alla faccia del tracollo emotivo che lo ha quasi portato a farsi investire su un autostrada sei mesi fa, accetta di restare senza fare una piega, penso che mi convenga uscire e farlo in fretta perché il peso di questa giornata comincia a farsi sentire e io non voglio avere comportamenti di cui poi mi dovrò scusare con lui. So che vede il mio viso mentre gli passo accanto e sa perfettamente come mi sento. Spero che, almeno un po', si senta così anche lui.
Saluto e penso che non vale la pena ricominciare da capo se tutto ciò che si ripete sono gli omicidi.

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E Il Giorno In Cui Sono Risorto

di lisachan
Apro gli occhi senza crederci, perché giuro che quando li ho chiusi ero convinto che non ce l’avrei fatta. La cosa che sento maggiormente, più ancora del dolore un po’ sordo, un po’ attutito, all’altezza dello stomaco, è un gran senso di confusione e, al contempo, vuoto in testa. È come se avessi il cervello ingombro di cose che però non riesco a vedere, come una vecchia soffitta riempita di antichità tutte coperte da veli bianchi e polverosi. Sai che sotto dev’esserci qualcosa, ma appena ci metti piede non hai idea di cosa. Quindi è come se non ci fossi niente, tu guardi questa distesa di bianco ingrigito e ti dici “oddio, ma cosa c’è qui dentro? Non c’è nulla”, quando magari hai sotto il naso un originale di Mirò, solo che non lo sai perché non puoi vederlo. Ecco, la mia testa è come se fosse questa enorme stanza piena di roba coperta di cui mi sembra di non sapere niente. Ho un po’ paura di sollevare i teli, però, perché magari se quei teli ci sono, in primo luogo, c’è un motivo. Uno non va in giro coprendo opere d’arte a caso, se lo fa dev’esserci una buona ragione.
- Signor Jost…? – la prima voce che sento non mi è nota. È una voce femminile un po’ acuta, piuttosto dolce, e non ricordo di averla mai sentita. – Oddio, s’è svegliato… dottor Schüster! – la sua voce si fa più alta e più fastidiosa, mi pizzica il timpano con violenza e per qualche secondo, mentre serro gli occhi infastidito dalla luce che entra dalla finestra, mi chiedo quanto tempo abbia passato qui a dormire se luci e suoni anche moderati mi sembrano così insopportabili.
Sento un frusciare di vestiti al mio fianco e mi forzo ad aprire almeno un occhio, per sbirciare cosa stia accadendo. Vedo poco, comunque, la mia vista è ancora annebbiata. Spero sia qualcosa di temporaneo.
- Abbassate le luci… - borbotto, e la mia voce suona aliena alle mie stesse orecchie. È gracchiante e ruvida, come non la usassi da mesi. Ho la gola secca. Comincio a preoccuparmi davvero: da quant’è che sono qui?
- Signor Jost, ricorda perché è qui? – chiede una voce maschile profonda ma calda, che immagino appartenga al dottor Schüster.
- Non proprio… - rispondo. Cerco di identificare la sua figura, ma la luce del sole si riflette sul biancore candido del suo camice e mi abbaglia, impedendomi di riconoscere la sua fisionomia. – Abbassate le luci, per favore.
- Infermiera. – dice immediatamente il dottor Schüster, e in pochi secondi la luce diventa più fioca. Sbatto le palpebre un paio di volte e poi, finalmente, apro gli occhi, trovandomi di fronte un uomo alto e abbronzato, con lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle e vagamente arricciati sulle punte e un pizzetto perfetto ad incorniciare labbra ugualmente perfette, mentre occhi azzurri dal taglio elegante mi scrutano con apprensione e partecipe benevolenza. Penso di essermi innamorato. – Signor Jost, sono il dottor Schüster, il medico di turno. Il dottor Neuer l’ha affidata alle mie cure. Mi dica come si sente.
- Ora molto meglio. – ammetto, ma tralascio di aggiungere “perché ho potuto posare gli occhi su di te, o divina creatura. Sfila il camice e mostrami i tuoi pettorali, li cospargerò di unguenti profumati e ti nutrirò coi frutti della terra. Infermiera! Spalanchi le finestre, che la luce entri e investa questo figlio dei cieli”. Mi sovviene all’improvviso che ancora non so da quanto sono qui. Guardo il dottor Schüster e cerco di non lasciar trasparire quanto voglio che butti fuori chiunque ci sia in questa stanza oltre noi, si denudi e mi prenda qui su questo letto. – Quanto tempo è passato da quando sono arrivato? – chiedo con finta serietà, mentre lo immagino sollevarmi tra le proprie possenti braccia e invitarmi a ballare la Lambada.
- Una settimana. – risponde lui, sedendosi sul bordo del letto. Oh, sì, dottor Schüster, perfino il cigolio delle molle del materasso sotto il tuo dolce peso è musicale. – È arrivato privo di conoscenza e quasi del tutto dissanguato. È un miracolo che siamo riusciti a prenderla in tempo, ed è ancora più miracoloso che lei sia riuscito a svegliarsi. È un uomo molto coraggioso, signor Jost.
No, vorrei dirgli, se fossi un uomo molto coraggioso mi solleverei, ti guarderei dritto negli occhi e ti direi di possedermi con forza, tanto da far sbattere la testiera del letto contro la parete fino a sfondarla. Lui però mi sorride all’improvviso, e il cielo si apre mostrando cori di angeli che cantano a festa per celebrare il momento, mentre il mondo diventa più bello, le guerre finiscono, la fame e la povertà nel mondo vengono sconfitte e putti alati coi sederini tondi suonano l’arpa volteggiando attorno a noi, leggeri come bolle di sapone. Mi sposi, dottor Schüster. Lei è l’uomo della mia vita.
- Che cosa mi è successo? – chiedo, ma non sono sicuro se gli sto chiedendo di spiegarmi com’è che sono finito qui o se piuttosto non voglio sapere se per caso nella mia flebo sia disciolta qualche sostanza stupefacente, o del viagra, o comunque qualcosa che possa giustificare le condizioni mentali pietose in cui mi trovo adesso guardando quest’uomo che riluce come una stella e sprizza testosterone da ogni poro della pelle caramellata e del tutto priva di imperfezioni.
- Per la verità, speravamo potesse dircelo lei. – dice lui, stringendosi appena nelle spalle, - Il dottor Neuer ha mantenuto il più stretto riserbo, sulla sua condizione, su esplicita richiesta del signor Ferchichi. Perciò immagino che se lei non ricorda cosa le è successo l’unica soluzione sia aspettare che il signor Ferchichi venga qui, non appena l’avremo avvertito, e possa spiegarglielo in prima persona.
Mi basta sentir parlare di Bushido perché nella mia testa improvvisamente tutto ritorni chiaro. Osservo quest’uomo stupendo entrare nella soffitta nascosta dentro al mio cervello e, invece di prendermi sul divano polveroso disteso sopra il quale io lo attendo nudo e con le gambe già spalancate e issate fin sopra le spalle, mettersi a sollevare tutti i teli da tutte le cose che coprono. Vengono fuori i tizi che mi hanno rapito, viene fuori l’incisione sul mio stomaco, che non ho ancora nemmeno visto, viene fuori il mio sangue, il magazzino buio e sporco, le casse accatastate in un angolo ed io che mi spacco qualcosa finendoci sopra. Viene fuori la storia degli ultimi mesi della mia vita, e non solo della mia, ma di quella di un’etichetta della quale non dovrebbe interessarmi niente, e che invece mi sta a cuore, perché ormai ne sono parte.
Soprattutto, comunque, vengono fuori le ultime parole che ho sentito prima di essere torturato fin quasi a morte. E sono parole che devo riferire a chi di dovere.
Sollevo gli occhi sul dottor Schüster e mi mordo un labbro per non pensare niente di sconveniente.
- Lo chiamo io. – dico. Lui inarca un sopracciglio perfettamente curato. Da ciò – dal sopracciglio e dal modo in cui lo inarca, dico – deduco che è gay, ma riprenderò la questione in seguito.
- Signor Jost, - mi informa, - non è la prassi.
Sorrido serenamente.
- Lo chiamo io. – ripeto. Il dottor Schüster sospira, solleva la cornetta, digita un codice sulla tastiera e poi mi appoggia il telefono in grembo, alzandosi in piedi ed uscendo dalla stanza dopo aver fatto cenno all’infermiera di seguirlo. Il telefono squilla un paio di volte, e poi Bushido risponde.
- Pronto? – dice, col tono casuale di chi non aspetta una telefonata importante. Io prendo un bel respiro, prima di parlare.
- Muovi il culo. – dico quindi, - Devo parlarti.
A lui il respiro manca del tutto, per qualche secondo.
- David? – annaspa. Sento accanto a lui un urletto agitato. È con Bill. – David, stai bene?
- Be’, sono ancora vivo. – rispondo scrollando le spalle. – E ora muoviti e vieni qui. Abbiamo un problema.
Bushido esita ancora per qualche secondo, e poi probabilmente intuisce di cosa sto parlando. Arriva meno di mezz’ora dopo, e con lui, come avevo immaginato, c’è anche Bill.
Nel tempo che passa fra il momento in cui la nostra chiamata s’interrompe e quello in cui lui arriva, io faccio mente locale e cerco di trovare un senso alle ultime parole che l’uomo col volto coperto mi ha sussurrato prima di cominciare ad aprirmi in due. Sono parole che in un mondo normale non dovrebbero avere senso, ma vivere a stretto contatto con Bushido, sapere che il suo uomo migliore, il più vicino a lui, voleva vederlo morto mi ha dato un’idea molto precisa di cosa significhino i legami fra uomini nel mondo da cui Bushido proviene, e che ha trascinato di forza nello show business tedesco perché voleva metterci le mani sopra, e poteva farlo solo conoscendolo bene. Ha dovuto portare il suo mondo nel nostro per stravolgerne le regole e riuscire a governarle, manipolarle come ha sempre fatto, in proprio favore, e quindi, sapendo questo, le ultime parole che ho sentito quando credevo sarei morto non solo assumono senso, ma assumono improvvisamente anche un peso non indifferente. Mentre aspetto, spero che Bushido porti con sé un paio di uomini di scorta in più, per lasciarmeli, perché ora che sono vivo si saprà in giro, ed è evidente che non posso restare da solo.
Vorrei chiederglielo subito, appena lo vedo spuntare, ma appunto noto che c’è Bill, con lui, perciò mi trattengo.
- David! – strilla Bill immediatamente, avanzando verso di me così velocemente che ho l’impressione che, se non avessi la flebo e fili che mi collegano a svariati macchinari da tutte le parti, mi salterebbe addosso e mi si siederebbe in grembo. Cosa che sono felice lui non possa fare, in parte perché oddiolamiapancia e in parte perché i segni del passaggio del dottor Schüster sono ancora evidenti sul mio corpo. Ciò che non può evitare di fare, comunque, è portare con sé un enorme cesto di frutta. Naturalmente non lo porta lui, anche perché deve pesare un quintale, e naturalmente non lo porta nemmeno Bushido, perché figurarsi, motivo per il quale due poveri infermieri un po’ sfigati, di cui uno con pancetta che tende il camice fino a sollevarlo e scoprire un po’ i fianchi, sono stati reclutati ad uso e consumo della sua tranquillità, e nel momento in cui lui fa il suo ingresso in questa stanza loro lo seguono con aria mesta, posano il cesto sul mio comodino e poi escono borbottando che la loro laurea non doveva servire a questo.
- Bill. – gli sorrido io, - Ma cos’è questa roba?
- Frutta. – risponde lui, annuendo compitamente ed aspettando che Bushido gli avvicini la sedia di plastica al mio letto per sedersi compostamente, la schiena dritta e le mani in grembo. – Mi hanno detto che fa bene.
- Ti hanno detto, eh? – rido io, e non appena lo faccio il dolore mi scoppia dentro così forte e improvviso da costringermi a piegarmi in due. Non riesco nemmeno a lamentarmi, ho il terrore che qualsiasi suono esca dalla mia bocca lo renda più forte, e voglio soltanto che smetta. Bill mi si piega addosso, poggiandomi una mano sulla spalla.
- Dada, stai bene? – chiede con aria preoccupata.
Mi volto a guardarlo per un secondo, e tra le lacrime – lacrime di dolore: di nuovo – riesco a vedere che sono pieni di lacrime anche i suoi occhi. Cerco di riprendermi, mi metto dritto, appoggio la schiena al cuscino sollevato dietro di me e respiro lentamente.
- Starò meglio quando le ferite si saranno richiuse, suppongo. – rispondo in un borbottio basso. Bill si morde un labbro, stringendosi nelle spalle.
- Che cosa ti hanno fatto? – mi chiede. Io esito, lancio un’occhiata a Bushido. Lui si schiarisce la voce e poggia entrambe le mani sulle spalle di Bill, in un gesto collaudato e paziente che mi fa inarcare un sopracciglio. Quant’è che ho dormito? Come ha detto il dottor Schüster? E cosa mi sono perso, nel mentre?
- Bill, forse è meglio se esci un attimo. – dice quindi. Bill si gira a guardarlo, oltraggiato.
- Cosa? – strilla, - No! Non esco affatto, stiamo parlando di David, qui, voglio sapere che gli è successo!
Mi allungo a stringere una delle sue mani fra le mie, e lui torna immediatamente a posarmi gli occhi addosso. Ha le sopracciglia inarcate verso il basso e l’espressione di chi sa già di dover cedere.
- Ti racconterò tutto dopo, Bill. – dico condiscendente, - Ora lasciaci da soli per un paio di minuti, vuoi?
Non vuole, naturalmente, ma lo fa. Se ho capito cosa sta succedendo – e l’ho capito – è solo una di tante cose che, per certi versi, riprenderanno a funzionare come un meccanismo ben oliato. La situazione è quella che è, e tutti noi non possiamo che affidarci alle mani di quest’uomo morto e risorto e sperare che non gli si aprano delle stimmate enormi sui palmi mentre noi cerchiamo di trovare posto per tutti fra le sue dita lunghe e proporzionate.
Sono ancora convinto che ci sia del viagra nella mia flebo.
Quando restiamo soli, l’atmosfera è tesa. Lui sa che ho qualcosa da dirgli, qualcosa di grave, e sta pensando che la situazione gli sembra già abbastanza brutta adesso che non la sa, perciò si chiede se sia effettivamente opportuno peggiorarla ulteriormente aggiungendo dettagli al quadro. Io, però, sono un manager. Sono uno che risolve i problemi. I dettagli sono il mio pane quotidiano. Quando Bushido è morto, si è affidato a me perché non poteva morire da solo. Ora gli toccherà fare lo stesso, se non vuole che capiti qualcosa di peggio.
- Chi è il medico? – gli chiedo quindi, - Lo conosci?
- Ma di chi parliamo? – chiede lui, preso alla sprovvista, spalancando gli occhi e sedendosi dove stava seduto Bill fino a poco fa, - Neuer?
- No. – rispondo io, scuotendo il capo, - Schüster. È lui che mi ha visitato quando mi sono svegliato.
- Ah. – annuisce Bushido, - È uno bravo. Lo conosco poco, ma sembra affidabile. Perché me lo chiedi?
- Perché voglio sposarlo. – annuisco compitamente, - È bellissimo. Dammelo. Me lo sono meritato. Sarà il mio indennizzo per essermi quasi fatto sventrare a causa tua.
Bushido ride di gusto, mentre io mi limito ad un sorriso divertito, visto che ho scoperto che da ora fino a chissà quando le risate rientreranno nella lunga lista di cose che non potrò fare.
- Mi dispiace. – dice quindi. Sta ancora sorridendo ed è bello come il sole. Io palesemente non potrò farcela a lungo. Medito di far causa all’ospedale. – Non ho mai voluto che ti succedesse una cosa simile.
- Ma sei venuto a salvarmi. – dico quindi, sistemandomi meglio contro il cuscino.
Lui mi lancia un’occhiata intensa, facendosi subito serio.
- Non ti avrei mai lasciato lì. Se anche mi fossi morto fra le braccia per strada— Non voglio nemmeno pensarci. Ti avrei portato in ospedale comunque e lo avrei messo sottosopra finché non ti avessero ricoverato.
Sorrido appena, piegando un po’ il capo.
- Anche se ciò avrebbe significato far ricoverare un cadavere? – chiedo a bassa voce.
- Sarebbe stato un cadavere a cui tenevo. – chiude il discorso lui. Io sorrido ancora.
- Grazie. Ma spero tu abbia pensato alle guardie del corpo da lasciarmi, perché ora che sono vivo—
- C’erano anche mentre eri morto. – mi interrompe lui. Alle volte, quando parlo con Bushido mi rendo conto che, quando siamo insieme, usiamo i termini vivo e morto con una naturalezza disturbante, come se entrambi stessero ad indicare due condizioni passeggere e semplicemente reversibili. Questa cosa mi dà i brividi. Per un lungo periodo, non sono riuscito a capire perché Bushido riuscisse ad usare espressioni tipo “quando sono morto” invece di “quando ho finto di morire”. Adesso che, fosse anche solo per una settimana, sono morto anch’io, riesco a capirlo meglio. Alla fine, l’unica conseguenza che ha la morte sul morto è quella di togliergli pezzi di vita. E questo è capitato a Bushido come pure a me, anche se nessuno di noi due è morto davvero, nel senso definitivo del termine.
Scivolo un po’ lungo il materasso, digrignando i denti quando sento i punti tirare. Devono essere un’infinità. Dio mio, la mia pancia sarà sfigurata per sempre. La mia bellissima, piattissima pancia. Sto soffrendo così tanto che il solo pensiero che Bushido possa rifiutarsi di regalarmi il dottor Schüster per il mio compleanno mi sembra un’eresia, un’ingiustizia bella e buona. Guarda cosa hai fatto alla mia pancia, Bushido. Dammi la mia ricompensa.
Lui mi aiuta, comunque. Scosta le lenzuola dal mio corpo e le tiene sollevate mentre io sollevo il camicione patendo le pene dell’inferno. Finalmente riesco a vedere quello che mi hanno scritto addosso.
Bushido schiude le labbra e spalanca gli occhi. Allunga una mano e sfiora i contorni delle lettere con la punta di un dito, così lieve che nemmeno lo sento. È come se si rendesse conto di quello che è successo per la prima volta, e probabilmente è davvero così dato che, per come mi avevano aperto e per tutto il sangue che dovevo avere addosso, non doveva essere semplice capire che forma avessero le mie ferite quando mi hanno trovato.
- Vendetta. – mormora pianissimo, deglutendo a fatica. Poi mi solleva gli occhi addosso, e il suo sguardo è pieno di timore. – Tu sai chi è stato. – dice, e gli trema la voce.
Io annuisco e inspiro. Moderatamente, però, sennò fa male.
- Nyze. – dico in un soffio, e vedo gli occhi di Bushido tornare indietro di mesi mentre ripensa all’etichetta che ha lasciato sprofondare nel nulla e agli uomini che ha perso e a Nyze, Nyze soprattutto, che non riusciva ad arrendersi al fatto che l’Ersguterjunge sarebbe affondata assieme al suo signore e padrone, e che ha piantato su un casino epocale prima, durante e dopo essersene andato. E mentre Bushido ricostruisce pezzi di storia e si rende conto di ciò che ci aspetta, io mi dico per un attimo che sono quasi morto per una lite fra rapper e poi mi correggo da solo. No, io non sono quasi morto per una lite fra rapper, io sono morto per una guerra del ghetto. Perché in qualche modo assurdo il ghetto è casa mia, anche se non ci ho mai messo piede. Perché Bushido l’ha portato di forza nella mia vita, perché qui non stiamo parlando di due rapper che si insultano a caso, qui stiamo parlando di fratelli che fanno giuramenti e si uniscono e fanno fronte comune contro sa Dio solo cosa, perché il problema del rap è che per farlo bene devi essere arrabbiato, ma arrabbiato davvero, e questa gente, in un modo o nell’altro, lo è, lo è tutta. E io non ho rischiato la vita per un’etichetta, ma per una famiglia. Una famiglia spaccata i cui membri adesso sono sparsi in giro per la città, e Nyze ne faceva parte, ma ora vuole solo distruggerla. E Dio solo sa fino a che punto.
Bushido deglutisce, annuendo lentamente. Ha le mani posate sulle ginocchia, adesso, e sono talmente in tensione che posso vedere le linee di tutti i tendini. I polpastrelli sono bianchi, tanta è la forza con cui li affonda contro il tessuto ruvido e spesso dei jeans scuri.
- Ho capito. – dice quindi, alzandosi in piedi. – Non preoccuparti di niente. Pensa solo a rimetterti. Riusciremo a gestire la cosa in maniera congrua.
- Qual è la maniera congrua? – chiedo stancamente, abbassando nuovamente il camicione e sistemandomi addosso il lenzuolo, - Rapirai uno dei suoi e gli scriverai addosso “marameo”?
Bushido ride un po’, grattandosi nervosamente la nuca.
- No, penso che—
- Non fare niente finché non sarò uscito da qui. – dico serio, - Aspettami, prima di prendere una qualsiasi decisione. Non fare niente di avventato.
La sua espressione un po’ stupita dall’interruzione si trasforma in un sorriso carico di tenerezza, mentre si avvicina e mi accarezza con una mano bene aperta la testa e il collo, prima di chinarsi a lasciarmi un bacio sulla fronte.
- Stavo appunto dicendo: “penso che aspetterò che tu sia uscito da qui”. E poi vedremo insieme, Jost. Per risolvere i problemi mi serve uno che sia capace di farlo.
Sorrido, tirando su un angolo della bocca con aria spavalda.
- E io, sfigurato o no, sono capace eccome.
- Appunto. – ride ancora lui. Poi mi volta le spalle, salutandomi con un cenno della mano. – Non addormentarti subito. – mi dice quindi, e io non capisco che intenda fino a quando, un paio di minuti dopo, il dottor Schüster mi raggiunge in camera.
- Il signor Ferchichi mi ha detto che aveva bisogno di me. – dice con un sorriso affabile, avvicinandosi e maneggiandomi con premura. – Sente fastidio da qualche parte?
Sorrido con estrema soddisfazione, mentre mi appresto a spiegargli esattamente dove il fastidio sia più pressante e come aiutarmi ad estinguerlo.

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Will You Release Me With A Kiss?

di lisachan
Ricordo di aver già vissuto una situazione simile, anche se a parti invertite. Stiamo parlando di molti anni fa, di un periodo in cui io e Bill stavamo insieme da forse un annetto e non c’erano nubi sul nostro orizzonte. O forse c’erano già e io mi rifiutavo di prenderle in considerazione. Sì, sicuramente era così. E tra l’altro è terribile ripensare già a quel periodo come “molti anni fa”. Faccio una gran fatica a star dietro allo scorrere del tempo, da quando sono morto. Probabilmente perché per i morti il tempo non ha un valore granché fondamentale, ed io, chiuso nella mia bara di sole e mare a Miami, non lo sentivo scorrermi addosso. Vivevo in un presente immutabile in cui ogni giorno si susseguiva al precedente per inerzia, senza cambiamenti di alcun tipo se non in dettagli insignificanti che dimenticavo subito dopo aver notato, sempre che riuscissi a notarli.
Comunque, erano molti anni fa, ed io andavo spesso a trovare Bill nell’appartamento che condivideva con suo fratello. Fu durante una di quelle occasioni che Bill si decise una volta per tutte a comprare un appartamento tutto per sé, anche se alla fine non ci ha trascorso tanto tempo, finché sono stato in vita. In ogni caso, allora era molto facile osservare me e Tom mentre ci scrutavamo dubbiosi sulla porta, lui dall’interno dell’appartamento, io dal pianerottolo. Era divertente, perché Tom era molto più piccolo ed era molto più facile e più divertente prenderlo in giro. Da allora sono cambiate troppe cose, anche – assurdamente – nel rapporto fra me e lui, e non è più così semplice fronteggiare i suoi occhi limpidi e sinceri. Per qualche strano motivo, è ancora meno semplice adesso che sul pianerottolo c’è lui, e io invece sono al sicuro dentro casa mia.
- Ho portato il cambio per domani. – dice Tom, dubbioso, e mentre lo dice io so che si sta ripetendo per la cinquecentesima volta da quando questa routine è cominciata che tutto ciò non ha senso. E io so che ha ragione, e so anche che non dovrei vivere in maniera tanto comoda la permanenza di Bill in questa casa, che si protrae ormai da un paio di settimane, soprattutto perché peraltro si basa su regole ridicole e assurde, come ad esempio il fatto che Karima non debba lavargli la biancheria perché “tanto è una cosa provvisoria”, e quindi Bill abbia bisogno del cambio portatogli da suo fratello ogni giorno. Tuttavia, è una routine alla quale ho fatto in fretta ad abituarmi. Perché sono un uomo molto più debole di quanto non abbia mai pensato.
- Grazie. – rispondo annuendo e recuperando il sacchetto di plastica dalle sue mani. – Vuoi entrare? – chiedo risollevando lo sguardo sul vuoto, perché mentre io controllavo che dentro il sacchetto ci fosse tutto ciò di cui Bill aveva bisogno Tom, sottile com’è, è scivolato attraverso la fessura della porta e s’è già introdotto in casa mia senza che io avessi bisogno di invitarlo. – Tom? – domando chiudendo la porta e inarcando un sopracciglio, - Cosa stai facendo?
Lui si guarda intorno come se non conoscesse questa casa a memoria, e scruta ogni angolo con attenzione, neanche si aspettasse di veder saltare fuori assassini ninja mimetizzati con la carta da parati da dietro ogni vaso.
- Controllo che tu tenga mio fratello in un ambiente consono alla sua persona. – risponde lui, gettandosi dietro le spalle le treccine nere.
- E ti sembra consono, quest’ambiente? – chiedo, posando il sacchetto su un divano e incrociando le braccia sul petto. Tom si lascia andare ad un ghigno che ho imparato a vedergli addosso solo di recente, e del quale inizialmente non conoscevo il significato. Figurarsi, sono andato fino da Jost in clinica, disturbandolo mentre, come mi ha detto, “si faceva visitare dal dottor Schüster” (qualcosa che penso non mi perdonerà mai. Più ancora dell’essere la causa del suo sventramento, lui mi odierà per sempre perché ho interrotto la sua sessione pomeridiana di petting selvaggio col suo medico curante. E questo è l’uomo che ci gestisce. E ho detto tutto), e gli ho chiesto che cosa diavolo stesse ad indicare questo sorriso un po’ sghembo ed esageratamente indisponente, e lui ha sorriso trionfante ed ha detto “è tornato?”, e poi mi ha spiegato che si tratta del sorriso che affiora spontaneamente sulle labbra di Tom quando sta pensando che in ogni caso, nella lotta per il cuore del proprio fratello, fra tutti i partecipanti ha vinto ancora una volta lui. E Jost ha riso, spiegandomelo, perché è la prima volta che io ho a che fare coi gemelli Kaulitz come gemelli, e non come fratelli in rotta perché uno dei due ha deciso di sposarsi contro il parere dell’altro. Per dire.
Questa cosa è tragicamente vera, e devo dire che se c’è una cosa che mi dà veramente sui nervi, al momento, del tutto irrazionalmente, è la consapevolezza che non esista essere umano che abbia influenza sul pensiero di Bill più di suo fratello, ora come ora. Naturalmente, Bill fa sempre di testa sua, come ha fatto per ogni minuto della propria esistenza da quando è nato, ma le parole di suo fratello molto spesso bastano a cambiargli l’umore o a condizionarlo a sufficienza da fargli cambiare idea su certe cose. Per dire, io so che se Tom avesse approvato incondizionatamente la permanenza di Bill in questa casa, Bill non avrebbe avuto alcun problema a stabilirvisi in maniera un po’ più onesta, magari continuando a dormire nella stanza degli ospiti, ovviamente, ma facendosi lavare la roba sporca da Karima, quantomeno. E invece no, Tom non gradisce, quindi Bill resta qui lo stesso perché è quello che vuole, o si rende conto che è la cosa migliore da fare, ma lo fa cercando di dargli l’impressione di essere sempre sul punto di andarsene.
Probabilmente è così solo perché si sono persi per tanto di quel tempo che, ora che si sono ritrovati, Bill si farà strappare il cuore dal petto prima di rassegnarsi a perderlo di nuovo, e quindi magari è una cosa provvisoria. Peraltro, so che non dovrei essere geloso di tutto questo, in nessun caso e in nessun senso, ma lo sono. Non posso dirlo a Bill, né a nessun altro, ma lo sono.
- Mio fratello? – chiede a un tratto lui, e sono sicuro che, per tutto il tempo, mentre io mi perdevo in questi pensieri molesti, è rimasto a guardarmi con quel ghigno insopportabile stampato sulla faccia. Ne sono sicuro anche perché poteva benissimo chiedermi di Bill, e invece mi ha chiesto di suo fratello, lo stronzetto indisponente. Cerco di ricordarmi che non posso prendere a sberle il suo bel visino da copertina di Bravo, e cerco di ribattere con un sorriso ugualmente odioso, tirando su solo un angolo della bocca.
- E se io non volessi lasciartelo vedere? – chiedo sfidandolo, ed è a quel punto, naturalmente, che Bill appare dietro le spalle di suo fratello, uscendo dal corridoio con un sorriso beato sulle labbra ed entrambe le mani sui fianchi.
- Da quando sono segregato? – chiede inarcando un sopracciglio. Karima sceglie quel momento per urlarmi che Skyline s’è introdotto in camera mia e ha sventrato a morsi il mio cuscino preferito. Ho capito di non essere stato un uomo buono, nella mia vita precedente, ma penso di aver già pagato per tutti i miei peccati. E invece no, sono lo zimbello del karma.
- Billi. – dice Tom, voltandosi a guardarlo. Nel movimento, il suo sorriso si addolcisce immediatamente, petali di rosa avvolgono la sua persona e una musica melensa si diffonde nell’ambiente.
- Tomi. – risponde lui, intrecciando virginalmente le dita sotto al mento e guardandolo con occhi colmi d’amore e gratitudine. Io mi appoggio con una mano allo schienale del divano e li osservo, trattenendo a stento i conati di vomito. Hanno dei momenti in cui diventano di un romanticismo esagerato, roba che uno poi non può neanche chiedersi perché le fangirl si facciano certe idee e le mettano pure su carta, perché la risposta è lì, davanti ai suoi occhi, palese come il sole a mezzogiorno. – Prego, accomodati. – dice quindi. Le loro mani si stringono e restano strette mentre si siedono entrambi sul divano, proprio sotto i miei occhi, e vorrei alzare un dito e dire che questa è ancora casa mia, ma Bill si volta verso il corridoio e strilla a Karima di portare del tè, ed io sento a pelle la consapevolezza che le mie convinzioni non sono altro che menzogne: questa casa non è più mia da quando Bill ne ha preso possesso. Devo rivedere le regole di questo gioco, perché così come sono non mi piacciono.
- Come stai? – chiede Tom, i pollici che accarezzano in gesti circolari il dorso delle mani di Bill. Sta bene, Tom, sta bene. Viene servito, riverito e protetto ventiquattro ore su ventiquattro, come vuoi che stia?
- Così così. – risponde naturalmente lui, con un gran sospiro, - Sono molto afflitto, Tomi.
- Bushido non ti tratta bene? – chiede subito lui, premuroso.
- Bushido è qui e vi osserva. Ma soprattutto vi ascolta. – mi intrometto io, ma vengo ignorato, cosa che mi fa dubitare di ciò che ho detto. Forse Bushido non è davvero qui, forse sono ancora morto e sono un fantasma, e sto raccontando questa storia sotto forma di spirito incorporeo che può vedere e sentire tutto ma non può essere visto né sentito da nessuno.
Mi fermo un attimo. Mi osservo nell’enorme specchio parietale di fronte a me. Che sciocchezze vado cianciando?
- No, Anis mi tratta bene. – risponde Bill, abbassando teatralmente lo sguardo. Io lascio perdere le rimostranze, vedo Karima apparire col tè e ne sono felice, fino a quando non noto che ci sono solo due tazze sul vassoio. Sono annichilito da quanto sta accadendo. La mia casa si ribella contro di me, il mio cane mangia il mio giaciglio, la mia cuoca mi affama, la mia donna mi ignora e il di lei fratello mi massacra dieci a zero in casa mia. Miami ritorna improvvisamente un’ipotesi plausibile. – Sono angosciato da questa storia. David è ancora in ospedale, sai?
- Sì, sono stato a trovarlo ieri. – ride Tom, - Non preoccuparti troppo per lui, si sta dando molto da fare per tornare in forma, se capisci cosa intendo. – È evidente che perfino Jost, un uomo che è stato sventrato ed è quasi morto due settimane fa, si diverte più di quanto non mi diverta io. Questa cosa è estremamente ingiusta. – A parte questo, Bill, credo che non sia più il caso, per te, di restare qui. – dice quindi, risoluto, allungandosi a recuperare la propria tazza di tè. Io aggrotto le sopracciglia. Non dico una parola ma sento il bisogno quasi fisico di buttarlo fuori di casa. Bill, però, mi lancia un’occhiata repentina e profonda, di quelle con le quali a volte sembra studiarmi. Prende un paio di zollette di zucchero e le immerge nel tè bollente, lo mescola meticolosamente e poi prende la tazza con tutto il piattino, e me la passa con un mezzo sorriso. Mi basta questo per calmarmi. Mi basta davvero, solo sapere che ogni tanto mi guarda ed è consapevole del fatto che io sono qui, che c’è anche lui, che siamo qui insieme, adesso. Mi basta così tanto che a volte è quasi troppo.
- Non è ancora sicuro. – dice Bill, sorridendo teneramente, tornando a guardare suo fratello. – Preferirei restare qui ancora un po’, per ogni evenienza. Solo qualche giorno ancora. Almeno finché David non esce dalla clinica.
Tom rotea gli occhi, alzandosi in piedi.
- Ti rendi conto di quanto è assurdo? – dice quindi, guardandolo dall’alto in basso. Bill non risponde, perché sa che suo fratello ha ragione. Ciò che Tom sta dicendo, implicitamente, è che è ormai chiaro al mondo intero che Bill non corre alcun pericolo, ma non ha la minima intenzione di andarsene. Non so se voglia restare semplicemente perché vuole farlo o perché ha l’impressione che se mollerà anche solo di qualche centimetro, se retrocederà di un passo soltanto dal ruolo che ha silenziosamente accettato di ricoprire ancora una volta restando al mio fianco in questa situazione complicata, allora gli scivolerà tutto via dalle mani. E sospetto che la mia principessa abbia qualche problema molto serio con tutto ciò che le scivola via dalle mani senza il suo esplicito consenso.
- Tomi, voglio solo— - prova a ribattere, ma suo fratello non gliene lascia il tempo. Disperde le sue parole nell’aria agitando una mano con fare disinteressato e dirigendosi a grandi passi verso la porta. Bill si alza in piedi e gli va dietro, le sopracciglia incurvate verso il basso e un accenno di broncio già nascente sulle labbra.
Io sorseggio il mio tè con noncuranza, e lo faccio solo perché ancora non so che fra qualche secondo mi toccherà sputacchiarlo.
- Almeno combinaste qualcosa. – borbotta infatti Tom, guardandoci entrambi malissimo. Bill impallidisce e diventa bianco come un lenzuolo. Io, appunto, sputacchio il tè. – E invece niente, siete— siete quasi frustranti, nella vostra assurdità. Lo sareste, se me ne fregasse qualcosa di voi due come esseri coinvolti in una relazione interpersonale, dico. – sospira ancora, scuotendo il capo. – Va be’, come non detto. – dice quindi. Come non detto il cazzo, Tom. – Bill, - lo chiama, allungandosi a baciarlo su una guancia, - fatti sentire quando hai bisogno. A presto. – lo saluta, e poi esce, chiudendosi da sé la porta alle spalle. Ormai non ho più nemmeno diritto a buttare la gente fuori da casa mia. Si butta fuori da sola.
Quando restiamo soli, l’aria è così pesante che entrambi facciamo fatica a respirare. Lo facciamo in silenzio, inspirando boccate lunghe e lente. La sensazione di tensione che ci avvolge è così fisica che ho l’impressione di percepirla stringermi realmente all’altezza della gola. Bill si porta una mano al collo e lo massaggia un po’, come volesse liberarlo da qualcosa di troppo stretto che vi sta annodato attorno, e il mio cuore manca un battito.
Sento Karima entrare e portare via il vassoio con le tazze in perfetto silenzio, e poi uscire, lasciandoci nuovamente soli. Bill deve avere racimolato abbastanza coraggio, nel mentre, perché finalmente si volta a guardarmi. Ha le labbra piegate in un sorriso mesto e imbarazzato.
- Scusalo. – dice a bassa voce, stringendosi nelle spalle, - Non la sta prendendo bene.
- Già. – ridacchio nervosamente io, - L’ho notato. – e poi deglutisco a fatica, - Bill, lo sai che puoi andartene quando vuoi, vero?
Lui mi solleva addosso un paio d’occhi sgranati e un po’ smarriti, e per molti secondi non risponde perché non sa che cosa dirmi. Schiude le labbra, le muove un po’, cerca di modellare parole che abbiano senso, ma non ne trova. Perciò finisce per abbassare nuovamente lo sguardo e sorridere appena, massaggiandosi nervosamente la nuca.
- Penso che andrò di là ad ascoltare un po’ di musica. – conclude, passandomi accanto e scomparendo in corridoio. Io resto immobile fino a quando Karima non appare alle mie spalle chiedendomi se può procedere a rimpiazzare il cuscino in camera da letto o voglio prima dargli un’occhiata. A che dovrebbe servire dare un’occhiata ad un cuscino fatto a pezzi adesso, Karima?, vorrei chiederle. Qui nessuno mi interpella per le cose importanti, ma tutti hanno sempre pronta una qualche domanda sciocca da rifilarmi quando mi sento troppo ignorato, per farmi credere che in realtà non sia così.
Per un attimo, accarezzo l’idea di andare in camera di Bill, spegnere la musica e provare a fargli sentire quanto ci sono per davvero. Ma poi lascio perdere, e seguo Karima in camera da letto.
*
Io e Bill ci alziamo di buon mattino. Lo facciamo sempre e lo abbiamo sempre fatto, quando stavamo insieme. È una cosa buffa, perché sia io che lui, quando siamo da soli, siamo incredibilmente pigri. Mi capitava di chiamarlo e trovarlo ancora assonnato alle undici del mattino, quando non si fermava a dormire da me e per un motivo o per l’altro era costretto a tornarsene al proprio appartamento. E nonostante questo, quando poi la sera successiva o due sere dopo tornava a dormire qui alla villa, al mattino avevamo entrambi già gli occhi spalancati per le otto massimo, senza che dovesse tirarci su di forza la sveglia, o Karima. Non so perché succedesse, forse il pensiero di essere insieme e dormire quando avremmo potuto fare altro – una qualsiasi altra cosa – era abbastanza per costringerci a spalancare gli occhi, forse semplicemente era un’abitudine che avevamo preso per chissà che motivo, comunque accadeva sempre.
Accade anche oggi, com’è accaduto per ogni giorno durante le ultime settimane. Mi sveglio, mi metto in piedi, indosso la vestaglia ed esco in corridoio. Mi dirigo istantaneamente verso il bagno, ma quando sento la porta della stanza in cui dorme Bill aprirsi tiro dritto e mi infilo in cucina, così che possa andarci lui per primo. Karima mi attende con una tazzina di caffè fumante in mano, ed io l’accetto volentieri, ringraziandola con un cenno del capo.
- Quali sono i suoi programmi per oggi, signor Ferchichi? – chiede lei con aria austera. Come al solito, non parla come se riconoscesse Bill come parte integrante di questa casa. Si è inserita alla perfezione fra le regole sbilenche che Bill ha stabilito per questa convivenza, perciò nella sua visione delle cose Bill è solo un ospite, un ospite che con i miei normali programmi quotidiani non ha niente a che fare, come fosse un cugino venuto a passare qualche settimana di vacanza a casa mia e che approfitta di trovarsi qui per visitare tutta Berlino. Qualcuno, insomma, i cui programmi non debbano coincidere con i miei come invece i programmi di Bill, in barba a tutte le regole, finiscono spesso per fare.
- Quando saremo pronti, - rispondo, usando volutamente il plurale perché lei capisca che Bill resterà con me, - andremo a trovare David in clinica. Passeremo lì qualche ora, non credo che sia il caso di preparare il pranzo.
Karima annuisce, prendendo nota del fatto senza fare una piega.
- Allora, - dice, - se il signor Ferchichi non ha più bisogno di me, io comincerei a rassettare il piano di sopra.
Io annuisco, e lei prepara la colazione per Bill – una tazza di latte bianco e cereali – prima di uscire dalla cucina ed andare verso lo stanzino per recuperare ciò che le serve.
La principessa arriva pochi minuti dopo, i capelli tutti scompigliati sulla fronte e la testa un po’ ciondolante, ma i suoi occhi sono svegli e attenti, e so che se cominciassi a parlargli all’improvviso di qualcosa di fondamentale riuscirebbe a seguirmi senza la minima difficoltà. Lo lascio in pace, comunque. Sa già che dopo colazione dovrà prepararsi e poi seguirmi da David, non è necessario che io glielo ripeta adesso, perciò mi limito a sorridergli e ad augurargli il buongiorno. Lui ricambia sia il sorriso che il buongiorno, e poi affonda il naso nel suo latte e cereali, concentrandosi solo ed esclusivamente su quello con una devozione quasi commovente.
Io giro sui tacchi e vado in bagno, cercando di fare mente locale sulla situazione. L’ultima volta che siamo stati da David, abbiamo discusso a lungo sulla prima possibilità che avevamo, ossia quella di vuotare il sacco con la polizia. Per molti sarebbe stata non solo la cosa più ovvia, ma anche l’unica da fare davvero. Correre alla prima stazione di polizia – ma non due settimane dopo, il mattino dopo – e denunciare l’accaduto. Per molte ragioni, per noi non poteva essere così.
David mi ha chiesto subito se al magazzino fossero rimaste tracce di quanto accaduto. Gli ho risposto di no, naturalmente. Non sapevamo se se la sarebbe cavata e non potevamo correre il rischio di restare con un cadavere sfregiato e zero testimoni su cui fare affidamento. Lui ha annuito, comprendendo perfettamente. La cosa mi ha un po’ turbato, ma immagino che quando riesci a manipolare l’universo per fargli credere che un uomo sia morto quando invece così non è, più o meno sei pronto a manipolarlo ancora per fargli credere qualsiasi altra cosa, perciò in quel momento Jost stava semplicemente prendendo informazioni in vista del proprio prossimo compito. Qualcosa che ho sempre ammirato in lui, peraltro.
In ogni caso, tutto ciò che sappiamo è che Nyze ha voluto mandarci un messaggio. Gli sono già andate storte le cose quando David è sopravvissuto – cosa che credo non avesse previsto, e d’altronde quell’enorme vendetta inciso in profondità nel ventre di David sarebbe bastato a indirizzarmi verso la risposta esatta anche se lui, risvegliandosi, non me l’avesse detta a viva voce – e di questo dobbiamo considerarci fortunati, ma è tutto ciò che abbiamo. Non sappiamo chi sia la gente che ha mandato, dove l’abbia pescata, ed andare a cercare informazioni a Tempelhof adesso sarebbe una condanna a morte. David non saprebbe riconoscere chi l’ha attaccato neanche sotto tortura, naturalmente, e quando ho preso contatto con qualche amico dei tempi andati per chiedere discretamente in giro se Nyze avesse un alibi per quella serata è spuntato fuori che sì, ce l’aveva, e che dal momento che stava cantando ad un concerto di gruppo con l’Aggro Berlin ci sarebbero stati non solo fior di testimoni, ma anche biglietti pagati pronti a dimostrare che lui era davvero lì quella sera.
“Con la credibilità che ho,” ha aggiunto David, lo sguardo basso e venato di rabbia, “non posso pretendere che qualcuno si basi sulla mia testimonianza di quella notte. Tutti sanno in che rapporti siamo io e te, se facessi il nome di Nyze potrebbero pensare ad una montatura con la complicità di una clinica privata pagata fior di quattrini, solo per mettere in cattiva luce un rivale.”
Ho concordato, immaginando che se era ormai chiaro per tutti che David fosse stato capace di farmi sparire per quasi un anno agli occhi del mondo, chiunque l’avrebbe creduto perfettamente in grado anche di farsi apparire degli sfregi sospetti sullo stomaco, all’occorrenza. Non che la cosa avesse un vero senso, ma si sa come funzionano gli scandali, e io lo so meglio di tutti perché quando ero ancora un rapper all’apice del proprio successo gli scandali li cavalcavo tutti come le onde su una tavola da surf. Queste situazioni ci mettono pochissimo a diventare televisive, soprattutto nel nostro mondo, ed una volta che lo diventano è la fine, perché alle persone piacciono le spiegazioni semplici, vogliono un colpevole che sia facile da individuare, possibilmente il più debole, quello con le spalle più fragili e tanti, tanti motivi per cui essere disprezzato, ed è meglio tenerci il più lontano possibile da una prospettiva del genere, perché ho idea che la situazione ci sfuggirebbe di mano molto facilmente. E non è qualcosa che possiamo permetterci, ora come ora.
Il discorso s’è chiuso con una serie di puntini di sospensione, perché il dottor Schüster è entrato in camera ed ha avvertito giovialmente David di prepararsi per il suo trattamento quotidiano a base di creme ed unguenti lenitivi, e a quel punto David ci ha buttato fuori col desiderio di non vedere più i nostri brutti musi per almeno un paio di giorni, motivo per cui io e Bill, ridendo divertiti, siamo usciti ed abbiamo stabilito di lasciargli qualche giorno per riposare.
Bill è estremamente preoccupato per David, anche ora che è fuori pericolo. Fosse per lui, gli risparmierebbe anche queste visite estemporanee che ogni tanto gli facciamo per discutere la situazione, ma sa bene non solo che la situazione va discussa, ma anche che David, nonostante quanto si lagni, desidera essere informato su ogni svolta, ogni particolare ed ogni cosa che decidiamo di fare. Posso capirlo, peraltro: se io e Bill siamo tanto arrabbiati per ciò che gli è successo, posso solo immaginare quanto debba esserlo lui stesso.
Mi lavo e mi vesto piuttosto velocemente. So che Bill si prenderà più tempo di quanto già usualmente non faccia perché ci tiene ad essere perfetto, quando David poserà gli occhi su di lui. Non vuole dargli più preoccupazioni di quante ne abbia già, dice, e a me viene un po’ da sorridere perché se David si preoccupa per Bill non sarà certo un filo di trucco in più a dargli motivo di smettere. Alle volte Bill si perde del tutto nel provare in ogni modo a fare ammenda per la grave colpa che s’è addossato nascendo gay e destinato a innamorarsi di me, solo che non capisce che non sono colpe davvero, e che non c’è modo per cui potrebbe farsi perdonare per essere semplicemente com’è. E siccome anche lui, a qualche livello inconscio dentro di sé, lo capisce, non riesce a trovare il modo corretto per porgere le proprie scuse, e lo fa nei modi più disparati. Offrendomi il proprio tè per non farmi sentire invisibile, ad esempio. O truccandosi come dovesse diventare la prova vivente dell’esistenza dell’orgoglio gay quando va a trovare David. Non ne sono sicuro, ma credo che ci sia fra loro un qualche discorso sospeso speciale su questa questione dell’omosessualità. La trovo una cosa divertentissima.
Bill, come preventivato, è pronto solo tre quarti d’ora abbondanti dopo. È splendido, avvolto in una felpa sottilissima con un cappuccio enorme che gli cade sulla testa e attorno al viso come un velo. Gli occhiali da sole a mascherina coprono gli occhi il cui trucco sgargiante ed eccessivo sono appena riuscito ad intravedere, ed è, come al solito, talmente pieno di gioielli addosso che tintinna ad ogni passo. Conto almeno tre collane di diversa lunghezza sovrapposte e qualcosa come sei bracciali per polso. Dovrei trovarlo ridicolo, e in ogni caso dovrebbe essere quanto di più lontano possa esistere dalla mia idea di bellezza. Lo è, in realtà. Eppure lo guardo e mi manca il fiato, e quando lo vedo lanciarmi un’occhiata da dietro le lenti scure mi precipito ad aprirgli la portiera della macchina.
Lui inarca un sopracciglio che fa capolino da sopra la montatura nera, e le sue labbra si piegano appena in un mezzo sorriso divertito.
- Non devi farlo, sai? – mi dice, sedendosi comunque al proprio posto. Io non rispondo subito. Aspetto di aver fatto nuovamente il giro della macchina ed essermi seduto al suo fianco. Poso le mani sul volante e guardo dritto davanti a me mentre il cancello automatico in fondo al garage si apre.
- Tu non devi davvero restare a casa mia. – ribatto. Lo sento tendersi tutto accanto a me, ma dura solo per un attimo. Poi si scioglie in un sorriso intenerito, me lo sento addosso, e so che sa dove voglio andare a parare.
- Già. – risponde quindi. Si sistema sul sedile e, nello spostarsi, si avvicina impercettibilmente. Ogni volta che cambio marcia, le nocche della mia mano sfiorano appena il suo ginocchio. Non diciamo altro per tutto il tragitto fino alla clinica, ma d’altronde non ne sentiamo il bisogno, per cui va bene così.
*
Quando arriviamo, David e il dottor Schüster stanno pomiciando allegramente, ma non in modo normale, nel modo in cui ti aspetti che un medico e un paziente possano pomiciare – se è lecito aspettarsi che un medico e un paziente pomicino – col paziente steso sulla propria branda e il medico chinato premurosamente sulle sue labbra, no: David si è alzato, portando con sé la sua flebo con tutta l’asta come fosse un bastone da passeggio, ed è arrivato fino al davanzale della finestra in fondo alla stanza, sul quale s’è appoggiato con una posa molto tragica da diva del cinema muto – ogni tanto mi basta guardare lui per capire che Bill non avrebbe potuto essere diverso da com’è nemmeno in un universo parallelo – e addossato al quale ha probabilmente aspettato che il dottor Schüster lo raggiungesse guardandolo con aria severa ma al contempo indulgente, rimproverandolo perché tornasse a letto, salvo poi avventarsi su di lui dimenticando che quest’uomo meno di tre settimane fa è stato sventrato ed avrebbe bisogno di molte cose, ma decisamente non del proprio medico che lo ribalta e lo denuda di fronte alla finestra per scoparselo in favore di luce naturale, che gli fa risaltare l’incarnato.
Bill, al mio fianco, stringe convulsamente le mani attorno all’enorme mazzo di girasoli e gerbere che ha voluto fermarsi a comprare mentre eravamo per strada, e lancia un urletto fra il pudico e il sorpreso, sollevando il mazzo stesso fino a coprirsi metà del viso, lasciando saggiamente scoperti gli occhi. Sollevo uno sguardo pietoso al cielo perché la teatralità è palesemente un vizio di famiglia, e lo faccio pensando che in realtà è molto teatrale in sé anche questo sguardo supplice che sto lanciando al paradiso, se c’è, perché mi venga in aiuto.
- Oh. – dice il dottor Schüster, allontanandosi da David come uno che non ha per niente voglia di allontanarsi dalla cosa con la quale stava intrattenendosi così piacevolmente. Il suo camice è aperto ed abbassato sulle spalle, e la maglietta verde che indossa al di sotto è sollevata fino al petto, e lascia scoperti sia la pancia piattissima che i pettorali prominenti, dai quali sporgono con aria quasi di sfida i capezzoli piccoli e appuntiti. Si risistema sommariamente, mentre David si stringe nel proprio pigiama e ci lancia un’occhiata estremamente disapprovante.
- Salve. – dico io, con un sorriso incoraggiante, agitando una mano nella loro direzione. Bill capisce che coprire tutta la metà inferiore del viso lasciando scoperta quella superiore non è un atteggiamento abbastanza pudico, e solleva ulteriormente le mani. I fiori frusciano nel movimento, e lui si stringe nelle spalle così tanto che diventa minuscolo, e al mio fianco com’è quasi scompare. – Non volevamo disturbare.
- Avreste potuto restarvene a casa, dunque, così non avreste corso il rischio di farlo. – sbotta Jost, roteando gli occhi e tornando velocemente a letto, trascinandosi dietro la flebo. Mi chiedo velocemente per quale motivo sto continuando a pagare questa stanza quando è evidente che quest’uomo resta qui non perché sta male ma perché vuole dei figli dal suo medico. Cosa che, per inciso, non riuscirebbe ad ottenere in modo naturale neppure in un milione di anni.
- Non avete disturbato. – sorride angelico Schüster, i lunghi capelli biondi che gli incorniciano il viso, - Avevo giusto finito di somministrare al signor Jost la sua terapia giornaliera.
Bill abbassa il mazzo di fiori, ma in compenso solleva un sopracciglio.
- Per via orale? – domanda curiosamente. Il dottor Schüster sorride con molta convinzione, mentre io cerco di non soffocare dalle risate e David si stampa sul viso un’espressione oltraggiata che, considerate le condizioni in cui l’abbiamo trovato, penso sia del tutto fuori luogo.
Alla fine, Schüster abbandona la stanza riuscendo in qualche modo a non perdere nemmeno un pizzico della sicurezza di sé che io e Bill, trovandolo a fare cose decisamente inopportune col proprio paziente, avremmo dovuto abbattere a sprangate con la nostra sola presenza. Così non è, brillava come il sole quando siamo entrati e continua a brillare quando esce. Posso quasi sentire l’eco di stuoli di infermiere che svengono aprendosi come il mar Rosso al suo passaggio. Quelle donne non sanno che in realtà è gay e il suo cuore selvaggio, sotto la pelle abbronzata, batte solo per David Jost. E forse è meglio che non lo sappiano.
Quando riporto lo sguardo su David, lui è seduto a gambe incrociate sul proprio letto e sul viso non porta più i segni della furia che l’ha preso poco fa, quando l’abbiamo interrotto. Sta abbracciando Bill e si sta lasciando sommergere dal solito flusso infinito di parole in libertà col quale la principessa usa stordirti – non solo lui, proprio in generale – quando non vuole essere rimproverata.
Io mi avvicino, trascinandomi dietro una sedia abbandonata in un angolo. La sedia già posizionata accanto al letto di David sarà quella sulla quale si accomoderà Bill quando avrà finito di sistemare il mazzo di fiori nel vaso che David ha sul comodino. Lo osservo togliere i fiori vecchi nonostante non siano nemmeno un po’ avvizziti e cambiare l’acqua facendo la spola fra il frigorifero e il bagno privato sulla parete opposta, e il suo viso in questo momento è il ritratto della serenità. Sa che non sta facendo qualcosa di particolarmente utile, ma almeno sta facendo qualcosa per David, e questo gli è sufficiente perché sente che a David fa piacere.
- Come stai? – chiedo a David quando i miei occhi riescono a staccarsi dalla figura di Bill.
- Benone! – risponde impulsivamente lui, e poi lo vedo accartocciarsi un po’ su se stesso, tossicchiando. – Cioè, abbastanza bene. Intendo, miglioro. Naturalmente miglioro. Ma non sono ancora—
- Non vuoi uscire da questo posto neanche se ti puntano una pistola alla tempia, sbaglio? – rido io, e David ride con me, grattandosi distrattamente la nuca.
- Sto tranquillo, qui. – risponde quindi, stringendosi nelle spalle, - Ho bisogno di stare un po’ tranquillo. E poi ho la certezza che, almeno finché starò chiuso qua dentro, tu non potrai fare niente di stupido, visto che mi hai dato la tua parola. Quindi è un accordo vantaggioso per tutti.
- Per la verità… - comincio io, cogliendo la palla al balzo, - è proprio per questo che siamo venuti a interrompere il tuo rituale di accoppiamento, oggi. Dobbiamo parlare.
Lui aggrotta le sopracciglia, sedendosi immediatamente in maniera più composta.
- È successo qualcosa? – chiede allarmato, mentre Bill si siede al proprio posto e giunge le mani in grembo.
- No. – scuoto il capo io, - È proprio questo il punto. Ormai sono passate quasi tre settimane, e non ci siamo mossi in nessuna direzione. C’è qualche possibilità che la gente che ti ha aggredito sia stata reclutata e Tempelhof, se non altro perché lì ce n’è di gente disposta a tutto per incasinarmi l’esistenza, ma se non ci muoviamo adesso rischiamo di perdere anche quel po’ di tracce che devono essere rimaste ancora in giro. Ora, non so bene chi potrei mandare a farsi un giro nel ghetto, quando si trattò della questione della mia morte mi hai detto che il giro se lo sono fatti Fler e Chakuza, ma con tutta la visibilità che hanno avuto recentemente non mi sembra il caso di mandarli in un posto dove rischierebbero grosso. – sospiro profondamente, non mancando di notare il brivido che ha percorso tutto il corpo sottile di Bill mentre parlavo della visibilità che Fler e Chakuza hanno acquistato con gli ultimi avvenimenti. – Qualche suggerimento? – concludo infine, tornando ad alzare lo sguardo su David.
Lui riflette per qualche secondo, incrociando le braccia sul petto. Il suo sguardo si fa cupo, visibilmente preoccupato, ed improvvisamente l’atmosfera della stanza, fino a qualche secondo fa gioviale e serena, si appesantisce tutta insieme, al punto che me la sento gravare addosso, tutta sulle mie spalle.
- Io penso—
- Se posso… - lo interrompe Bill, la voce bassa ma decisa. Entrambi ci voltiamo a guardarlo con più stupore di quanto il momento non lo richiederebbe. Io, soprattutto, dovrei essere abituato a vederlo intervenire in una discussione come questa, considerato il fatto che lo faceva spesso, quando stavamo insieme. A volte anche del tutto a sproposito. Ma da quel periodo sembrano passati decine d’anni, secoli addirittura, e quindi la sua voce suona quasi stonata, alle mie orecchie, come provenisse da un tempo diverso, arrivando al presente sotto forma di un’eco lontana e un po’ irreale. – Se ho capito bene, vorresti provare a capire qualcosa di quanto è accaduto, magari raccogliendo informazioni sparse per il ghetto, e poi… poi? Andare da Nyze e chiedergli conto e ragione di ciò che hai scoperto?
Scrollo appena le spalle, annuendo brevemente.
- Almeno così lo metteremmo alle strette. Sarebbe più facile cavargli qualcosa di bocca, se riuscissimo a trovare le informazioni giuste.
Bill riflette per qualche secondo. Non noto il sorriso divertito sulle labbra di David. Lo vedo, ma non ne prendo atto, non capisco che quest’uomo sa già cosa uscirà dalla bocca di Bill adesso e sta già ridendo in anticipo. Avendo tutte le ragioni per farlo, peraltro.
- Mi sembra una stronzata. – dice quindi Bill, e per poco non cado giù dalla sedia.
- Cosa…? – boccheggio, mentre David lascia andare la risata che ha trattenuto fino ad adesso. Bill si concede una smorfia, incrociando le braccia sul petto.
- Rifletti un attimo… - mi invita, pensieroso, - Se anche qualche informazione dovesse venire fuori, chi ti dice che sarebbe sufficiente a inchiodarlo? Ma poi… - sospira, - …due anni fa la situazione era diversa. Quello che abbiamo fatto Peter, Patrick ed io… quello che è successo quella notte non possiamo ripeterlo adesso. – abbassa un po’ lo sguardo, - Non puoi ripeterlo tu, è pericoloso, e… Dio, Anis, non sei stufo marcio di tutte queste pose da ghetto? – solleva nuovamente gli occhi, cercando i miei e trovandoli all’istante, - David è vivo per miracolo. Non posso dirti che… se fosse morto, ecco, forse anche io sarei con te, adesso, e vorrei soltanto vedere Nyze aperto in due come un vitello in macelleria, ma… - sospira ancora, socchiudendo gli occhi e stringendosi nelle spalle, - Se provassimo a lasciar perdere? Possiamo almeno provarci? A non sollevare un polverone ancora più grosso?
Schiudo le labbra, giusto perché mi pare il caso di informare la principessa che questa non è una questione che dipende solo da noi, che c’è un’altra parte, in gioco, e che quella parte potrebbe ritorcerci contro il nostro silenzio, attaccandoci di nuovo per indebolirci ancora di più, ma David mi interrompe prima ancora che io possa iniziare, schiarendosi la voce ed aspettando di avere la mia completa attenzione prima di cominciare a parlare.
- Io penso che Bill abbia ragione. – dice quindi, - Magari non funziona, e fra un paio di mesi verrà sventrato qualcun altro al posto mio… o magari tornano indietro e concludono il lavoro con me ricalcando quello che hanno già fatto. – aggiunge, deglutendo a fatica, - Ma magari invece va bene e riusciamo a smorzare la vicenda prima che diventi troppo ingombrante. Sai cosa vorrebbe dire? Vorrebbe dire lasciare in pace il mondo perché il suo tempo scorra come natura comanda, senza imporsi stile deus ex machina sull’universo, e vedere se si può tornare ad uno stato di normalità. – sorride con convinzione non simulata, quando mi appoggia una mano sulla spalla, - Il rischio è grosso, ma lo sarebbe anche mandando qualcuno dei ragazzi a Tempelhof. E le prospettive in questo secondo caso sono quelle di guerra aperta, mentre se funziona come suggerisce Bill… be’, la prospettiva è di pace. Non ti alletta l’idea?
Sospiro, già sconfitto in partenza. Il discorso di David fila, se non si tiene conto delle probabilità che avvenga una delle due cose piuttosto che un’altra. Probabilità che nel mondo del rap arrivi infine la pace e tutti ci si sieda attorno ad una tavola rotonda brindando alla nostra salute ed augurandoci vicendevolmente una vita prospera e serena? Zero. Probabilità che Nyze si senta incoraggiato a farmi trovare una testa di cavallo nel letto stasera appena mi ritiro a casa? Magari un numero piccolo, ma comunque superiore allo zero.
Lascio perdere, comunque, perché alla fine non è solo della mia vita che stiamo parlando qui, ma anche delle loro, e di quella di persone alle quali siamo tutti affezionati, e che nessuno di noi vuol vedere spegnersi sul pavimento sporco di un altro magazzino, che sia ora o fra un mese. Posso decidere di mettere a repentaglio la mia incolumità, se voglio, ma non posso giocare con quella degli altri. È per questo che sono morto due anni fa, perché mettere a rischio Bill non era un’opzione contemplabile. Quella deve essere la mia unica priorità, adesso, con la differenza che purtroppo le cose sono cambiate al punto che non si parla più solo di proteggere Bill, ma anche un sacco di altra gente. Non so se sarò in grado di proteggerli tutti— al diavolo. Certo che lo so. E certo che lo sarò.
Mentre usciamo dalla camera di David, una mezz’ora dopo, lasciandolo sul letto a stiracchiarsi fintamente sonnacchioso per darci ad intendere che si metterà immediatamente a dormire dopo che saremo andati via quando invece attenderà Schüster per due minuti e, quando non lo vedrà arrivare di sua spontanea iniziativa, si attaccherà al telecomando che ha appeso al letto premendo il tasto di chiamata finché il suo eroe non sarà giunto a salvarlo in risposta al suo grido d’aiuto, io penso che posso accettare questa improvvisa svolta nella politica interna del mio regno, ma forse non sono pronto ad accettarne le conseguenze. Prima fra tutte il fatto che, se voglio imporre la pace, non posso comportarmi come se fossi ancora in guerra.
E quindi, giocoforza, la principessa dovrà abbandonare la fortezza reale.
*
Faccio a pugni col pensiero per tutta la settimana successiva. Bill se ne accorge, naturalmente, perché è impossibile non vedere quanto diversamente mi comporto nei suoi confronti. Anche il fatto che cerchi il più possibile di non stare con lui nella stessa stanza, o il fatto che, alla fine, per la gioia di Karima i nostri programmi giornalieri abbiano cominciato a non coincidere più, se non nelle volte in cui siamo andati a trovare David, deve suggerirgli che qualcosa è cambiato, e quel qualcosa è il bisogno di trovarsi in questa casa. Riesco perfettamente ad immaginarmelo al mattino, nel bagno che mi sono premurato di lasciargli usare per primo come sempre, guardarsi nello specchio e chiedersi cosa stia facendo ancora in questa villa, perché non se ne sia tornato nel proprio appartamento, come sarebbe stato forse più giusto. Ieri Tom è venuto a trovarlo per portargli il cambio, e ha insistito ancora per convincerlo dell’opportunità di andare a stare altrove. “Puoi venire anche da me, se vuoi,” gli ha detto, mordicchiandosi incerto il labbro inferiore e giocando distrattamente col piercing, “Ma stare qui è… davvero poco conveniente, Bill, per un sacco di motivi.” E ha ragione, Tom, ha ragione da vendere.
Tanta ragione che ho visto Bill vacillare, nell’ascoltarlo, e non mi ha stupito. Così come non mi stupisce oggi entrare in camera sua e trovarlo con lo zainetto sul letto, intento a rassettare le proprie cose. Fuori dalla finestra, agosto finisce e si appresta a diventare settembre, e lo fa discretamente. Sembra che niente sia cambiato da quando Bill ha messo piede in questa casa, ma in realtà è passato un mese. Un mese sono un sacco di giorni. Non saprei dire se siano giorni persi.
- Bill? – lo chiamo piano. Lui non deve avermi sentito entrare, perché raddrizza la schiena all’improvviso e fa un passetto indietro mentre si volta a guardarmi, sussultando visibilmente.
- Sei tu. – dice con un piccolo sorriso, tornando a rilassarsi e lanciando un’occhiata imbarazzata al proprio zainetto. Probabilmente avrebbe preferito che non lo vedessi prepararlo. L’avrei preferito anch’io.
- Cosa fai? – gli chiedo, e glielo chiedo anche se lo so benissimo, perché spero che gli manchi il coraggio di rispondermi. Forse, se non sarà in grado di dirmi che va via, resterà. Penso a quanto mi sono lamentato, all’interno della mia testa, ovviamente, delle stupide regole che Bill aveva stabilito per far durare indeterminatamente questa convivenza, ed ora mi sento ridicolo nell’aggrapparmi a quelle stesse ridicole regole, arrivando a dirmi che forse se non sento qualcosa quella cosa non accadrà, pur di concedermi una speranza. Una sola. Di poterlo avere qui un po’ più a lungo. Fossero anche solo un paio di giorni.
Bill schiude le labbra, e vedo la fatica che fa nel provare a parlare. Lo capisco lì, che non vuole farlo davvero. Prima ancora che lui possa dirmi qualcosa a voce, il suo corpo mi sta già dicendo che se ci fosse anche solo un altro motivo per cui restare, resterebbe, perché i motivi che ha utilizzato fino ad oggi hanno perso validità giorno dopo giorno, e lui ha fatto di tutto per rimanere attaccato ai fili sottilissimi che erano diventati, ma ormai deve mollare la presa. E che se voglio che resti, devo dargli un motivo nuovo per farlo. Qualcosa di reale, con una fibra forte. Qualcosa che non si consumerebbe col tempo, che gli darebbe motivo di restare a lungo senza dover accampare pretesti e scuse uno dietro l’altro.
- Io penso… - esala stancamente, distogliendo lo sguardo e fissandolo insistentemente su un punto a caso nella parete dietro di me, - Anis, penso che dovrei—
- Non farlo. – lo interrompo, stringendo i pugni lungo i fianchi. Lui serra istantaneamente le labbra, tornando a guardarmi. I suoi occhi sono spalancati e colmi di paura ed emozione allo stesso tempo. Ricordo di aver visto una luce simile in questi stessi occhi, tanti, tanti, tanti anni fa. Lui era molto più piccolo, io molto più stupido. Entrambi eravamo molto più felici. Improvvisamente, quei giorni sembrano lontanissimi e incredibilmente vicini insieme. Impalpabili come sogni, ma straordinariamente reali. Non me ne accorgo consciamente, ma semplicemente escono dalla dimensione di incertezza in cui li avevo racchiusi chiedendomi per lungo tempo se fossero stati veri o meno, e ridiventano ricordi. Qualcosa di concreto, qualcosa che è successo davvero. Qualcosa a cui aggrapparmi.
Mi avvicino cautamente, perché il suo corpo trema impercettibilmente e ho paura di vederlo scattare di lato per evitarmi e fuggire attraverso la porta ancora aperta alle mie spalle. Un passo alla volta, sento il suo calore farsi più intenso, i suoi occhi più grandi, il suo profumo più forte, le sue labbra più invitanti. Mi sto lasciando guidare dall’istinto e non sto riflettendo su ciò che sto facendo. Non so se questo mi renda più o meno colpevole circa il baratro nel quale sto per ripiombare entrambi.
Bill, in ogni caso, non si muove. Non si muove mentre mi avvicino e non si muove nemmeno quando mi fermo, ad un paio di centimetri da lui. Basterebbe che mi dondolassi appena in avanti per sfiorare le sue labbra con le mie, ma non voglio che sia un movimento casuale a riunirci adesso. Non c’è mai stato praticamente niente di casuale in ciò che ci ha uniti, è sempre stata una nostra scelta. Impulsiva a volte, ben ponderata in altri casi, ma consapevole.
Sollevo le braccia e prendo il suo viso fra le mani. Accarezzo i suoi zigomi coi pollici mentre lui respira profondamente e si inumidisce appena le labbra. I suoi occhi non si staccano dai miei neanche per un secondo, almeno fino a quando, con un sospiro liberatorio, li chiude. Mi si stringe lo stomaco in una morsa di desiderio ed impazienza, e mi chino su di lui, poggiando le mie labbra sulle sue ed assaporandolo lentamente prima di bussare appena con la punta della lingua, implorandolo nella mia testa perché mi lasci passare. E lui si aggrappa con forza alla maglietta che indosso, ne strattona l’orlo con violenza e con rabbia, e quando accoglie la mia lingua nella sua bocca la cerca immediatamente con la propria, allacciandomi repentinamente al collo per tirarmi il più possibile contro di sé mentre le mie mani scivolano lungo il profilo del suo viso e del suo corpo, stringendosi attorno ai suoi fianchi.
E poi mi confondo, perché non so più dove sono, e per dove non intendo solo il luogo fisico, intendo anche il quando. Il tempo, il punto della mia vita in cui mi trovo adesso.
Le sue labbra che si muovono contro le mie sono affamate e cariche di desiderio bruciante, sono bollenti e dolci e sue, sue in un modo che mi ricorda quello che era un tempo, ma più profondo, sue come se quel pezzo di lui, quel pezzo che era stato mio e che è rimasto sepolto dentro di lui per tutto il tempo da quando me ne sono andato, stesse lentamente riaffiorando. È un Bill più piccolo e ingenuo, stropicciato e malconcio, che è stato male da morire e s’è consumato a furia di piangere, e per smettere di soffrire s’è conservato in un cassetto così da non dover più pensare di esistere e stare male anche solo per quello. E ora fa capolino, coi capelli scompigliati – e sono le mie mani che li scompigliano perdendocisi dentro, anche se ora sono molto più corti di quanto non fossero allora – e le guance arrossate – e sono i miei baci ad arrossarle, a dare loro quel colore acceso e brillante che tanto amavo – e si guarda intorno e mi chiede se può venire fuori, se adesso è sicuro, se non c’è qualche altro motivo per piangere.
E io me lo stringo contro e lo faccio con dolcezza, piano, perché è già abbastanza fragile e non voglio rischiare di spezzarlo. Voglio solo rassicurarlo. Sì che puoi venire fuori. Salta giù da dove ti sei nascosto. Io sono proprio qui sotto. Ti prendo al volo.
- Resta. – sussurro sulle sue labbra, mentre lo sollevo appena e lui stringe le cosce attorno al mio bacino. I suoi occhi sono persi nei miei, il suo respiro è affannoso e so che in questo momento, per lui, in tutto il mondo non esiste altro che sia degno di tutta l’attenzione che sta concentrando su di me.
- Mi viene da piangere. – mi confessa in un rantolo soffocato, - Dio, Anis. Mi viene da piangere.
Indietreggio appena, tenendolo stretto per la vita mentre chiudo la porta con un colpo secco e poi lo conduco verso il letto. Lo stendo sulle coperte e, appena si ritrova su una superficie morbida, lui si mette seduto e poi in ginocchio, sfila la maglietta, sbottona i jeans e poi allunga le braccia, cercando il mio corpo. Mi avvicino subito, puntando un ginocchio sul materasso mentre lui afferra la mia maglietta e la solleva fino a farmela passare sopra la testa, avventandosi immediatamente sul mio collo quando riesce a tirarla via, per poi lanciarla lontano.
Si lascia andare supino sul materasso e schiude le gambe per farmi posto. Io gli sfilo i pantaloni, prima di sistemarmi su di lui, e nel movimento lo zainetto rotola per terra, e mi rendo conto che era ancora vuoto. Sorrido mentre mi chino sul suo collo, riempiendolo di baci e succhiandone piano la pelle morbida e profumata, mentre lui prima getta indietro il capo in un ansito perso e poi affonda i denti sulla mia spalla, stringendo forte senza preoccuparsi di quanto male mi fa. Sa che posso sostenerlo, ed è così davvero, così come io so che nonostante tutti i mugolii sofferenti che mi sta propinando adesso, lui può sostenere un po’ di lentezza, perciò mi prendo il mio tempo per entrare nuovamente in confidenza col suo corpo, con le sue forme, col suo profumo. Sento le ossa appuntite del suo bacino premere contro la mia carne quando, ormai nudi, ci strofiniamo l’uno contro l’altro, e sento la morbidezza della sua pancia contro la punta della mia erezione quando, strusciandomi su di lui, salgo abbastanza in alto da sfiorargli l’ombelico.
Lui geme con una forza nuova, afferrandomi sotto le orecchie ed inarcando la schiena mentre mi spinge verso il basso, ed io percorro in punta di lingua tutto il suo corpo, baciando a lungo la stella sul suo inguine e riscrivendo con le dita il tatuaggio che gli ricopre il fianco sinistro, mentre sfioro con le labbra la punta della sua erezione e poi la prendo appena in bocca, accarezzandola per tutta la lunghezza con la lingua ed accogliendola il più profondamente possibile dentro di me.
Bill lancia un mezzo grido, affondando le dita fra i miei capelli e percorrendoli dalla radice alle punte mentre muove lentamente il bacino, aumentando il ritmo delle proprie spinte pian piano. E capisco che trova difficile fermarsi quando all’improvviso mi chiama per nome, la voce spezzata dagli ansiti di piacere.
Mi allontano da lui, risalendo un bacio dopo l’altro la stessa scia che mi ha portato verso il basso. Appena torno all’altezza del suo viso, Bill pretende le mie labbra, e mi stringe al collo con tanta forza che mi sento quasi mancare l’aria.
- Non lasciarmi andare più. – mi sussurra addosso mentre premo piano contro la sua apertura, - Mai più.
In qualche modo sento che mi sta dicendo che se lo voglio adesso mi impegno a volerlo per tutto il resto della mia vita. Ci stiamo legando in questo momento più di quanto non ci sia mai capitato in passato, ci stiamo legando ora più di quanto ci abbia stretti insieme il momento in cui il nostro sangue s’è mescolato sul letto del suo appartamento il giorno in cui sono morto. Ci stiamo dicendo adesso che dopo tutto quello che abbiamo vissuto, dopo tutto quello che è successo, siamo ancora disposti a prenderci e stringerci fra le dita per tutti i giorni che ci separano dal momento in cui moriremo davvero.
Bill mi sta dicendo di non fare l’amore con lui se non ci credo quanto ci sta credendo lui adesso.
Ma non è solo per fare l’amore con lui che annuisco e lo bacio per sancire la promessa prima di entrare dentro il suo corpo e riprendermi un posto che non ha mai smesso di essere mio di diritto.
*
È molto facile e molto naturale, poi, ricadere sdraiati sul letto nella nostra solita posizione. È molto più faticoso, per la verità, andare a ripescare nella memoria prove tangibili che questa fosse davvero la nostra posizione, perché sto parlando di un periodo che sembra troppo lontano perfino per esistere davvero, come quando a scuola ti parlano della preistoria, dell’uomo di Neanderthal e tutto. Ora, io non ho passato molto tempo fra i banchi di scuola a lasciare che il sapere venisse a me, ma ricordo la sensazione che provavo quando da ragazzino stavo seduto sulla mia seggiola ed ascoltavo la maestra parlare di cose avvenute centinaia e centinaia di anni fa, e non riuscivo a sentirle reali. Era come se mi stesse raccontando belle favole, forse realistiche, ma del tutto prive di concretezza. Fino a ieri, quando pensavo a me e Bill felici e insieme, mi sentivo allo stesso modo. Era una cosa che sapevo essere esistita. Potevo credere al fatto che fosse esistita. Ma non la percepivo più come mia. E anche se l’ultima mezz’ora ha ribaltato passato e presente rendendo reali tutte le cose che credevo di aver soltanto sognato, è difficile rientrare da subito in quell’ordine di idee.
Proprio per questo, in qualche modo, è straniante la facilità con la quale io mi sistemo disteso sul materasso e Bill si sistema disteso su di me. Passa le dita sul mio petto disegnando ghirigori invisibili e privi di senso, e io faccio lo stesso arrotolandomi fra le dita le ciocche un po’ più lunghe sulla sua nuca. Restiamo in silenzio a lungo, lo sento sorridere debolmente sulla mia pelle e guardo il soffitto perché ho paura di guardare in basso e non trovarlo lì. So che sentirei la voce della mia vecchia maestra cominciare immediatamente a parlare di quel periodo storico in cui centinaia di anni fa il re e la sua principessa vivevano felici nel loro prospero regno, e so che non riuscirei più a crederci. Perciò evito, e non voglio guardarlo, anche se me lo sento addosso e questo dovrebbe bastarmi a rassicurarmi. Non ci riesce. Perciò non lo guardo finché, all’improvviso, non si mette a parlare.
- Quando ho deciso che era meglio non vedersi per un po’… - la sua voce è un po’ impastata, incerta, come stesse cercando di raccontarmi un sogno essendo ancora in dormiveglia, - ero molto lucido. Presente a me stesso, dico. Ma non era sempre così, in quel periodo. Sia prima che dopo.
Lo osservo dall’alto, vedo le sue spalle sottili muoversi appena al ritmo del suo respiro. Appoggio una mano sul suo braccio pallido e magro, me lo stringo contro. Lui mugola un po’.
- Com’era quando non eri lucido? – chiedo a bassa voce. Sento il suo corpo vibrare ad ogni mia parola. È così sottile, Dio. Così piccolo, nonostante tutto. La ragione mi chiede uno sforzo, mi chiede di trattarlo da uomo, ma per me resterà sempre un ragazzino infreddolito in piedi accanto alla porta di casa mia mentre la notte oltre i lampioni che costeggiano la strada si fa scura e senza stelle.
- Pauroso. – risponde lui, continuando a giocherellare con le dita sul mio petto, - Non riconoscevo le cose. O le persone. Alle volte… - ride appena, nervosamente, - Una volta mi sono svegliato dopo aver dormito tipo per quattordici ore consecutivamente, e non ho riconosciuto Tomi. L’ho guardato e non sapevo chi fosse. Sapevo solo che era uno con la mia faccia ma un po’ diversa, e mi sono spaventato così tanto, Anis, così tanto che ho creduto che sarei morto. Ti è mai successo? Il mio cuore stava battendo troppo forte, avevo troppa paura, mi mancava troppo il respiro. Avrei potuto morire davvero.
Stringo la presa sul suo braccio, e lui sorride ancora un po’.
- Succedeva spesso?
Bill scrolla appena le spalle.
- Ogni tanto. – risponde, - Non ti saprei dire ogni quanto, perché per lo più non… non ero in me, capisci? Facevo cose che poi… non è che le dimenticassi, era come se non fossero successe davvero. Non ero io. – inspira ed espira a fatica, muovendosi un po’ fra le mie braccia per trovare una posizione più comoda. Glielo lascio fare, e torno ad adattarmi a lui non appena ha finito. – Il mio corpo, Anis, alle volte agiva in maniera completamente scoordinata rispetto alla mia mente. Puoi immaginare cosa significhi? – solleva una mano e la guarda con aria un po’ malinconica. La gira e la rigira, ne studia la forma. Lo faccio anch’io. Non posso immaginare cosa significhi, piccolo. Io ho sempre avuto il controllo del mio corpo. Ho perso il controllo di tante cose, ma mai di me stesso. – Non avevo più nulla. E non avevo più nemmeno un’identità. L’avevo uccisa, l’avevo uccisa da solo. Non avevo idea di come uscirne, mi sentivo così solo, Anis, e inutile, e senza speranza. – lo sento muoversi con un po’ di difficoltà. Si rigira, pianta una mano sul materasso ed una suo mio petto e si solleva un po’. Mi accorgo solo dopo qualche secondo che sta cercando i miei occhi, e quando lo capisco gli concedo all’istante la mia completa e totale attenzione. – Anis, noi stiamo facendo una cosa molto pericolosa. – mi dice. È incredibilmente lucido, fa quasi paura. – Io però la voglio fare, perché ti amo. Tu però— tu devi esserci. Perché io ho paura che potrei non esserci, ogni tanto. E quando io non ci sarò, devi esserci tu. Devi tenermi qui. – si stende nuovamente su di me, così che il suo corpo possa aderire completamente al mio, ma non smette di guardarmi negli occhi. È un contatto che non ha nulla di sessuale, questo. Credo voglia solo sentirmi addosso. Per me è la stessa identica cosa. – Devi tenermi con te quando mi perdo. Ho bisogno che tu lo faccia. Puoi farlo per me? Per noi?
Mi inumidisco le labbra, sollevando una mano ed accarezzandogli una guancia, dallo zigomo fino al mento. Gli sorrido il più serenamente che posso, e non posso dirgli che non ho paura, perché ce l’ho. Mi sta consegnando la sua vita in mano, di nuovo, come tanti anni fa. Ma ora è più grande, lo sta facendo con una consapevolezza maggiore. Questo aumenta anche la mia responsabilità. Ma se mi chiede se sono disposto a prendermela, la mia risposta non può essere che una.
- Lo farò.

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Der Chef

di lisachan
DER CHEF

Io purtroppo non ho avuto il tempo fisiologico di abituarmi a Daniel.
Se Fler me l’avesse presentato nella giusta maniera – poco a poco, intendo, dandomi modo di capire esattamente di cosa si trattava e tutto il resto – probabilmente non proverei per lui tutto questo fastidio insopportabile. Magari sì, ok, mi farebbe rabbia l’idea di averlo ancora fra i piedi – e chi ci pensava, due anni fa, in quel vicolo, a Tempelhof? – però potrei tollerarlo, ecco.
E invece no.
Daniel per me era una cosa dispersa nella memoria di una notte da incubo, e poi è diventato d’improvviso “quello che era stato con Fler mentre io ero via”. E lo è diventato di botto, senza preavviso. E non è bastato neanche che Fler lo lasciasse, come mi ha poi confessato di aver fatto dopo la famosa cena in casa di Sido alla quale tutt’oggi non sono certo di essere sopravvissuto, no: Daniel è rimasto fuori dai piedi per qualche giorno, probabilmente rintanato a casa sua ad ascoltare i Cure o qualche altra variante sul tema e leccarsi le ferite, da bravo adolescente deluso e incazzato col mondo, e dopodiché, come nulla fosse successo, è tornato. Ha ricominciato a ronzare attorno a Fler, peraltro senza nascondere minimamente né l’astio che prova nei miei confronti – perché per lui è evidente che se Fler l’ha lasciato è stato per colpa mia, non perché era stufo di cambiargli i pannolini e nutrirlo col biberon otto volte al giorno – né tantomeno il suo essere ancora interessato all’uomo che al momento tra le altre cose oltre a non volerlo più sta con me. E non c’è stato verso di convincerlo a piantarla.
Da quel momento in poi, non ricordo un giorno in cui Daniel non ci sia stato tra i piedi o non sia stato fonte di inenarrabili guai. L’ultima volta, Fler ha fatto irruzione in casa mia tipo alle quattro del mattino, spingendo in avanti questa specie di cencio semovente che si è poi rivelato essere, appunto, Daniel avvolto in una felpa grande il doppio di lui e allegramente imbrattata di sangue. Al mio sguardo allucinato, sconvolto, stordito e pure un po’ assonnato, la risposta è stata “l’hanno inseguito con le spranghe, Chaku, non potevo lasciarlo lì nell’angolo dove l’ho trovato”. Al che, giustamente, io mi sono pure chiesto punto primo: che diavolo ci faceva Fler in giro per Tempelhof a quell’ora?, e punto secondo: spranghe?!, ma chiaramente non potevo mettermi lì a lamentarmi mentre il dannato moccioso perdeva sangue sullo zerbino.
E con Daniel è sempre così, peraltro. È sempre un ripetersi di “andiamo, Chakuza, non vorrai mica fregartene e lasciarlo sulla porta?”. Quando Fler pronuncia il mio nome a quel modo so sempre che, in caso di risposta affermativa – e Dio sa se ogni tanto non vorrei sbottare “sì, Fler, proprio lì sulla porta” – partirà una rappresaglia dalla quale difficilmente verrò fuori illeso. Perciò sono cose che cerco di evitare. Fler sa essere dannatamente convincente, quando vuole. Inoltre, effettivamente, il moccioso si presenta solo quando è davvero malconcio, ecco.
Il dramma è che gli capita anche troppo spesso.
Fino a due minuti fa io e Fler stavamo discutendo le possibilità della giornata. Visto che non è ancora nemmeno mezzogiorno, stavo cominciando a pianificare di andare a fare la spesa, cucinare qualcosa da mangiare e poi, non so, chiuderci in camera da letto fino a domattina anche se fuori c’è un bel sole e tira un bel venticello fresco – chissenefrega, insomma – e Fler stava giusto protestando in quel modo tipico di lui in cui continua a ripetere “no” intendendo “sì”, e quindi io ero pieno di buone speranze. E poi lo stupido campanello s’è messo a trillare.
Ovviamente io stavo illustrando a Fler il programma nel modo più pratico possibile – che poi è il motivo per cui continuava a dire “no”… ha dei problemi quando gli metto le mani addosso al mattino, dice sempre cose assurde tipo “dammi il tempo di svegliarmi”… non è necessario che sia proprio sveglio, mi piace quando è ancora semi-incosciente, fa dei bei suoni – comunque, in sostanza stavo cercando la via per la felicità e Fler invece non stava cercando che un pretesto per fermarmi, e lo stupido campanello è arrivato come una cazzo di ciliegina sulla cazzo di torta. Proprio a fagiolo, veramente.
Fler è corso ad aprire la porta scivolandomi dalle mani ed ora eccoci qua, inorriditi, che fissiamo questo mucchietto d’ossa pesto e livido che ci guarda oltre la soglia della porta. Sento Fler teso come una corda di violino, al mio fianco.
- Ciao. – borbotta Daniel, sollevando lentamente una mano per salutarci. Il braccio si ferma a metà. - …deve avermi slogato una spalla, stavolta.
Faccio per sbottare in un “Daniel!” che non so nemmeno cosa voglia dire – perché a un ragazzino così conciato, cosa gli dici? Davvero… - ma Fler mi anticipa, e la sua voce risuona secca e agitata per tutto l’appartamento.
- Daniel, Cristo! – lo richiama, avvicinandoglisi e sporgendosi a controllarlo da tutti i lati, - Ma che cazzo è successo? Sono stati di nuovo quei-
- No. – lo ferma lui, abbassando lo sguardo. Gli occhi azzurri si annebbiano appena, mentre si inumidisce incerto le labbra, - …mio padre. – confessa alla fine, sospirando pesantemente.
Fler si fa di ghiaccio per un secondo. Poi si allontana, tira un’imprecazione irripetibile e molla un calcio sconvolgente alla poltrona. Io lo fisso, allucinato, e Daniel continua a tenere gli occhi bassi, come si vergognasse.
- Fler…?
- Porca puttana! – urla ancora, afferrando un soprammobile a caso e gettandolo per terra. Quello rimbalza e s’infila sotto il divano con un suono sordo. – Fanculo a questa merda! – grida. Poi si ferma ancora, ed io riprendo a respirare.
- Pat. – lo chiamo a bassa voce. Lui solleva una mano.
- Un secondo, Chaku. – mi ferma, forzando un tono tranquillo nella voce. Io annuisco e lo aspetto. Vedo la tensione accumularsi nei muscoli delle sue spalle, sotto la maglietta leggera, ed i tendini tirarsi e scattare a chiudere e riaprire il pugno, come a cercare di scaricare la rabbia. – Daniel, entra.
Il ragazzino annuisce, fa un passo e casca. Allungo le braccia appena in tempo per recuperarlo, prima che si schianti contro il pavimento.
- Cristo… - borbotto, cercando di tenerlo dritto. Fler è ancora lì immobile e sospetto che, se si muovesse, tremerebbe il pavimento.
- Ce la fai? – mi chiede, la voce che trema. Io annuisco e lo porto verso il divano, dove cerco di stenderlo senza fargli male.
Ci inginocchiamo lì accanto e restiamo in attesa che si muova. Che è sveglio lo capiamo subito, perché apre le palpebre e ci guarda come volesse trovarsi da tutt’altra parte. Come volesse scusarsi. C’ha le scuse piantate negli occhi, questo ragazzino. Chiede perdono sempre, anche quando non fa niente. È una cosa che si vede solo quando lo si frequenta da un po’, perché la nasconde bene. Ora, io non è che lo frequenti da una vita, ma qualche settimana da quando gli ho posato gli occhi addosso è passata, ormai, perciò posso parlare con una certa cognizione di causa.
Comunque non si muove per un sacco di tempo. Solo dopo un bel po’ di minuti solleva un braccio lievemente meno malconcio per strofinarsi gli occhi.
- Mi ha pestato per bene, - dice poco dopo, un sorriso sghembo a deformare i tratti ancora infantili del viso, - ha scoperto la roba e ha dato di matto.
- Non c’entra un cazzo la droga. – trema Fler al mio fianco, - Quello dà di matto un po’ troppo, per i miei gusti. – si china su di lui e gli ravvia i capelli sulla fronte. C’è un taglio enorme proprio nel centro, sembra che gli abbiano tirato una cazzo di bottigliata. Mi dà i brividi. – Danny, io ne ho prese a pacchi, di legnate. Ma tu ne prendi il doppio, cazzo. Sei… guardati. – e sfiora appena il profilo dello zigomo violaceo e tumefatto. Deglutisco.
- …vado a prendere la cassetta del pronto soccorso. – mugugno alzandomi in piedi.
Fler asserisce senza nemmeno guardarmi, continuando a misurare i lividi sul suo viso, sul collo, sulle braccia.
- Ce la fai a sfilarti la maglia? – lo sento chiedere mentre, in bagno, recupero la valigetta.
Daniel dice che sì, certo che ce la fa, ma appena Fler prova a fargliela passare su per la testa comincia a lamentarsi in una maniera straziante.
- Fler… - lo chiamo avvicinandomi, la cassetta stretta in pugno, - Gliela tagliamo via, la maglietta? Così non-
- Ce la faccio. – ansima Daniel, liberandosi lentamente dell’ingombro di abiti, - Ce la… Cristo che male.
Il petto, il ventre e i fianchi sono una mappa di escoriazioni e lividi. Macchie rosse, giallastre e viola ovunque. Fler le fissa inorridito, le labbra dischiuse e gli occhi spalancati, ed io, credo, per la prima volta realizzo pienamente quanto schifo faccia la vita di questo ragazzino. Fler ha provato almeno una cinquantina di volte a dirgli per lo meno di piantarla di spacciare, che può dargli una mano lui, ma ogni volta Daniel gli ha risposto bruscamente di farsi i fatti suoi. È in questi piccoli dettagli che si vede quanto piccolo sia ancora, quanto disperatamente voglia che Fler si prenda cura di lui e al contempo quanto senta il bisogno di dimostrargli che ce la fa benissimo da solo.
- Cristo santo. – dice Fler, ed è appena un sussurro la voce non sembra neanche sua, tant’è debole e sconvolta.
Daniel deglutisce.
- …non guardarmi così. – chiede in una preghiera senza inflessioni. Lui e Fler si guardano a lungo, probabilmente si stanno anche dicendo qualcosa. Discretamente, senza parlare. Poi Fler si alza in piedi, facendo leva sul divano con entrambe le mani, come non avesse la forza di sollevarsi senza aiuto.
- Chaku. – mi chiama, tirandomi appena per la manica, - Posso parlarti di là un secondo?
Annuisco e mi sollevo, molleggiando un po’ sulle gambe. Guardo Daniel e lui mi fa cenno di andare senza neanche aspettare che gli chieda se possiamo lasciarlo qui da solo.
Fler mi anticipa in camera da letto muovendosi velocemente. Non ce la fa a restare in quella stanza, l’ho capito. Appena ci chiudiamo la porta alle spalle capisco subito che, se avesse qualcosa in mano, la stritolerebbe fino a distruggerla. Mi allungo a sfiorargli la spalla e lo sento tesissimo, un fascio di nervi sotto le dita.
- Pat, dai…
- Sono fuori di me, Chaku. – dice tutto d’un fiato, afferrando la mano e stringendola fra le sue, - Lo ammazzo, quel figlio di puttana. Lo ammazzo, Cristo.
So che ne sarebbe capace.
Mi avvicino, cerco di essere paziente anche se odio questa situazione ed odio le attenzioni di Fler nei confronti di Daniel.
Non so che dire, quindi mi limito a lasciar scorrere la mano libera lungo il suo braccio e poi stringerlo per una spalla, tirandomelo contro. Fler mi sfiora il collo col naso, una volta, due volte. Aspetto in silenzio e poi lo sento inspirare, ed allora mi rilasso: lo percepisco fare avanti e indietro lentamente, da sotto l’orecchio alla spalla, respirando piano, profondamente. Ogni tanto gli basta questo, il mio odore lo calma. Continuo a tenerlo stretto.
- Possiamo tenerlo un po’ qui? – mi chiede, proprio contro la pelle. Ed è un po’ buffo che me lo chieda, perché teoricamente lui sta ancora a casa sua. Ha un appartamento, a qualche isolato da qui, e ogni tanto ci dorme ancora. Però, invece di dirmi “lo porto a casa con me”, mi chiede se possiamo tenerlo qua.
- Non lo so, Pat. – lui mi lascia andare la mano e stringe appena le dita contro i miei fianchi. Resta lì per un po’, indeciso. Poi si rassegna e mi abbraccia. Io gli respiro addosso e lo stringo per le spalle. Siamo così vicini che non riesco a capire dove finisco io e dove comincia lui. Siamo intrecciati. – Ti sembra il caso?
- Non ce lo rimando, da quello. Lo ammazza, se continua così. – ripenso al torace stretto e magro di Daniel, tutti quei lividi, le ferite. È vero che finirà male, se non facciamo qualcosa. Ed è vero che, nonostante tutto, non voglio che finisca male. Perdio, è solo un ragazzino.
- Possiamo vedere di chiedere a Bushido se-
- Non c’entra un cazzo Bushido con questa storia! – mi ringhia addosso lui, stringendo la presa attorno alla mia vita, - Daniel è una cosa che non gli compete. Non è affare di nessuno.
Aggrotto le sopracciglia e provo l’irrefrenabile e improvviso desiderio di devastare qualcosa. Solo che l’unica cosa che posso toccare adesso è Fler e non ho alcuna intenzione di devastare lui – è già successo, so che non mi piace. So che non posso e non voglio farglielo – perciò mi trattengo, mi limito a stringerlo più forte.
- …va bene. – annuisco, - Okay, lo teniamo.
Lui si allontana un po’ e mi guarda. Ha gli occhi incredibilmente liquidi. Non credo riuscirò mai a capire davvero cosa leghi tanto Fler a questo ragazzino. Forse dipende dal fatto che ci sono ancora miriadi di cose che non so, sul suo conto. Su Fler, dico. Mi mancano dei tasselli enormi. Interi pezzi della sua vita. Forse, se li conoscessi, capirei. Ma ho sempre paura di capire troppo di lui. Non saprei quando fermarmi, me ne accorgerei in ritardo. Questa cosa che abbiamo ha rischiato di distruggersi troppo spesso perché io possa concedermi errori di questo tipo.
Si sporge a baciarmi ed io me lo tiro contro, baciandolo ed affondando dentro di lui perché adesso voglio sentire il suo sapore e voglio che sia quello a ricordarmi che è mio e non andrà da nessuna parte, Daniel o non Daniel. Fler mi lascia fare e risponde carezza su carezza; ora è lui che deve tranquillizzarmi. E lo fa.
- Grazie. – sussurra appena ci separiamo, - Lo sai che non succederà niente, vero? – e mi sfiora appena con la punta del naso.
- No? Davvero? – chiedo sarcastico, inarcando un sopracciglio.
- Davvero. – annuisce sicuro lui, - Io ti—
-Ok. – lo fermo, baciandolo prima che possa dirlo. Lo fermo perché odio che lo dica adesso, visto che lo fa come fosse un ringraziamento. E lo fermo perché io non gliel’ho ancora detto, mentre lui l’ha già fatto in svariati modi non so quante volte, non solo a parole, come ogni tanto gli è capitato in quest’ultimo periodo, ma anche con i fatti. Rispondere ad una cosa del genere è un problema, quando associato a quelle parole, per abitudine o per altro, c’è un altro volto, un altro sapore, un altro odore. – Ti credo. Non succederà niente.
Fler mi guarda e sembra un po’ deluso dal fatto che non gliel’abbia lasciato dire. Mi innervosisco perché così sembra volesse usarlo per ripulirsi la coscienza. So che non è veramente così, intendo, cazzo, so che quando lo dice lo pensa. Lo so che è vero. Sono ormai più di due anni che me lo dimostra, ogni giorno in cui torna, ogni volta che si fa toccare ed ogni volta che non mi manda a fanculo anche quando me lo merito ampiamente. Il problema non è quello.
Sono nervoso. C’è Daniel ricoperto di lividi di là ed ho appena accettato di tenerlo in casa per non so nemmeno quanto, e Fler sembra intenzionato a non togliergli le mani di dosso finché campa. In senso platonico o meno, mi scazza comunque.
È che Fler è una bella persona. Finisce per avere rapporti speciali con tutti. Non lo so. Non mi piace che… vorrei che non fosse così, ecco. Non so neanche se quello che penso ha un senso.
Quando torniamo di là, Fler mi sta ancora stringendo la mano – è successo quando abbiamo sciolto l’abbraccio, io ho lasciato scivolare la mano lungo il fianco e lui ha intrecciato naturalmente le dita con le mie, e là sono rimaste, senza un perché. Daniel lo troviamo impegnatissimo a sistemarsi da sé. S’è già bendato la testa ed ha spiaccicato cerotti e pomate un po’ ovunque. Nel momento in cui entriamo nella stanza, lo troviamo intento a coprire con un cerotto enorme un taglio sul mento. Si volta a guardarci, individua le mani strette e per un secondo io rafforzo la presa attorno alle dita di Fler. Poi non posso fare a meno di sentirmi in colpa – ed anche stupido: faccio il gradasso con un ragazzino, Dio mio – e lo lascio andare. Patrick non s’è accorto di niente perché sta guardando fisso il corpicino martoriato, facendo la conta dei danni.
- Lascia fare, ragazzino. – borbotta sedendosi al suo fianco e controllando la fasciatura attorno alle tempie. È troppo lenta. – Chaku… - mi chiama, ed io sospiro e mi avvicino, sciogliendo le garze per sistemargliele meglio ed andando alla ricerca di una retina da mettergli come cuffia, per tenerle ferme. Nel mentre, Patrick controlla i cerotti e asciuga gli sbuffi di pomata in eccesso con una pezzuola un po’ umida. La scena è surreale. Daniel resta immobile, arreso nelle nostre mani, per tutto il tempo.
Quando finiamo, sono ancora quasi convinto che il moccioso dovrebbe andare all’ospedale, ma sono anche ragionevolmente certo che, pur non andandoci, sopravvivrà; perciò sono soddisfatto così e non mi metto a fare storie. Anche perché so che ora arriverà la parte peggiore della giornata e voglio riservarmi di ringhiare per dopo.
- Danny, io e Chakuza abbiamo parlato e siamo d’accordo sul fatto che puoi restare qui, per un po’. – lo avverte lui, sfiorandogli un braccio, - Almeno fino a quando non ti troviamo un altro posto in cui andare. Comunque tu in quel posto di merda non ci torni.
- …ho una consegna a—
- No. – scuote il capo Fler, - Non hai capito. Te ne tiri fuori. Molli.
Il ragazzino digrigna i denti e si muove sul divano, agitato.
- Devo almeno andare ad avvertire i—
- No, cazzo, Daniel! – urla lui, battendo una mano contro il bracciolo del divano, - Cosa pensi, che queste cose si mollino salutando cordialmente quelli che ti hanno pestato e sfruttato negli anni? Credi che io sia andato casa per casa a porgere scuse e omaggi, quando Sido mi ha tirato fuori da quel merdaio? Cazzo! Te ne vai senza guardarti indietro, o non te ne andrai mai davvero.
Daniel incassa la testa nelle spalle e guarda per terra. Io resto qui in piedi e Fler resta lì seduto a guardarlo severamente, per una lunghissima serie di minuti che si conclude solo quando lo sento sospirare e passargli una carezza affettuosa sulla retina che ha sulla testa. Un gesto lento e tranquillo, per evitare di scombinarla.
- Riposati. – gli dice, adesso più dolcemente, - Io vado a casa tua a prendere la tua roba. Tornerò in un paio d’ore.
Ho appena il tempo di farmi passare per la mente la possibilità di restare da solo con Daniel, che lui subito la manda a puttane. Solleva una mano e la stringe attorno alla maglietta di Fler, tirando il tessuto leggero fino a deformare la scollatura.
- Resta qui. – dice a bassa voce, senza dimostrare di accorgersi della mia presenza, - Per favore.
Fler serra la mascella e lo guarda. Io stringo i pugni e guardo lui. Così intercetto l’occhiata che mi lancia ed ho tutto il tempo di cominciare ad incazzarmi furiosamente prima che esprima ad alta voce quello che già so mi dirà.
- Chaku, puoi—
- E va bene, Cristo! Va bene! – sbraito, agitando un braccio e dirigendomi a passi svelti verso l’ingresso, passando a strappare letteralmente la giacca dall’appendiabiti, - Fanculo.
Fler mi viene dietro due secondi dopo. Mi ferma sulla porta afferrandomi per le spalle e riportandomi indietro prima che imbocchi le scale.
- Aspetta, Chaku, non sai neanche dove andare… - mi ricorda, guardandomi con aria platealmente colpevole. Se spera che questo smorzi l’incazzatura, è del tutto fuori strada. Comunque ha ragione, non saprei dove andare a sbattere la testa, perciò resto lì zitto e buono a immagazzinare le indicazioni che sforna con una dovizia di particolari che mi fa venire voglia di demolire l’intero quartiere, vaffanculo a lui, perché sa così bene come arrivare da qui a casa di Daniel? C’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo. – Hai capito bene? – mi chiede alla fine, guardandomi dritto negli occhi come a cercare di leggerci dentro.
- Sì, certo. – borbotto io, - Quello che è.
Lui aggrotta le sopracciglia, irritato.
- Chakuza, ti ho solo chiesto un favore.
Rispondo afferrandolo per una spalla e schiacciandolo tra me e il muro. Gli sono addosso in meno di un secondo e lui neanche prova a fare resistenza. Non che la cosa mi stupisca, d’altronde. Non ricordo volte in cui sia successo.
- Il favore, se non te ne sei accorto, implica che io ti lasci qui da solo col tuo fottuto amante. – gli faccio notare, ringhiandogli a due centimetri dalle labbra. – Quindi non è solo un favore, Fler.
- Fanculo. – respira forte lui, cercando di liberarsi e riuscendo soltanto a strusciarmisi addosso, - Daniel non è il mio amante.
- Però te lo sei scopato. – sibilo sulla sua pelle, e se scendo ad annusare lungo il profilo della sua mascella posso quasi sentire l’odore di pomata e disinfettante, l’odore di Daniel. – Più di una volta. E ti è piaciuto.
Rabbrividisce sotto le mie dita e mi guarda. Non fa altro. Le labbra dischiuse e gli occhi spalancati su di me. Non li evito, mi avvicino ancora di più, fino a sentire la forma del suo corpo pressata contro la mia in maniera quasi dolorosa.
- Se tu lo tocchi, - lo avverto, sfiorandogli le labbra con le mie ad ogni parola, - io ti ammazzo. Se lui ti tocca, io ti ammazzo. Se succede qualcosa… - respiro forte e mi spingo un po’ contro di lui, - se succede una cosa qualsiasi, Fler, io ti… ti ammazzo. – e lui geme ad alta voce, senza nemmeno cercare di controllarsi.
Continuo a guardarlo e lo faccio finché Fler non mi dà quello che voglio. Quello che voglio arriva quasi subito, quando lo vedo annuire confusamente.
- Okay… - ansima, muovendosi a ridosso della parete e strofinandosi contro di me, - va bene, Chaku… va bene… - e mi guarda solo per un attimo, prima di socchiudere gli occhi ed abbassare lo sguardo mentre solleva le braccia a stringermi alle spalle, per muoversi più facilmente. Lo lascio fare per un po’, reggendogli il gioco finché non lo sento affondare le dita e trattenere il respiro, e poi mi allontano, guardandolo freddamente.
Resta talmente sbilanciato che deve aggrapparsi al muro, per non cadere. Ed a guardarlo così mi viene voglia di ribaltarlo contro la parete e scoparmelo adesso, un attimo prima di uscire, col ragazzino ancora di là sul divano. Gli occhi pesanti, le labbra umide, i pantaloni che tirano sull’inguine, la maglietta scomposta e il respiro affannoso. Cristo, Fler. Ma scuoto il capo e mi faccio indietro, infilando la giacca ed aprendo la porta.
- Non me ne fare pentire. – dico gelido.
Quando mi chiudo la porta alle spalle, sul pianerottolo, impreco contro un po’ di santi. Chi cazzo me l’ha fatto fare di avvicinarmi in quel modo? Ora palesemente non riuscirò nemmeno a camminare.
*
Quando Daniel si affaccia dal corridoio, mi trova ancora lì contro il muro che cerco di riprendere a respirare senza fare fatica. Mi guarda con aria un po’ incerta, come non sapesse minimamente cosa fare. Siamo in due, vorrei dirgli, io ho difficoltà anche a muovermi, al momento.
Cerco comunque di rimettermi dritto e mi schiarisco la voce con un paio di colpi di tosse, camminando lentamente verso di lui e riemergendo dalla penombra dell’ingresso di malavoglia. Ho addosso l’odore di Chakuza, ovunque, e questa cosa al momento mi sfianca.
- Non dovevi alzarti dal divano. – lo rimprovero, rimettendolo seduto con una spintarella.
Lui scrolla una sola spalla perché l’altra è ancora fuori uso. Non ha rimesso la maglietta ed è uno spettacolo angosciante.
- Le gambe stanno bene. – mi informa con una mezza risatina, - Le ho tenute nascoste sotto il corpo come mi hai—
- D’accordo. – lo fermo. Non riesco a liberarmi degli occhi di Peter e quando chiudo le palpebre mi sento addosso il suo corpo. Devo… cazzo. L’ha fatto apposta. Devo cercare di… devo assolutamente cercare di riprendermi. – Hai mangiato? Hai fame? – chiedo distrattamente, concentrandomi più sul tentativo di respirare con un ritmo meno affannoso, che non su quello che sto dicendo.
Lui risponde qualcosa che io non sento perché mi risuona ancora nelle orecchie la voce di Chakuza. Così non funziona, non ne esco. Forse avrei fatto meglio a non venire, oggi. Aspetta. Non ricordo da quant’è che sono qui. Di sicuro ieri ho dormito con lui e… forse anche l’altroieri e… è tutto troppo confuso da quando ho ricominciato a lasciare qui qualche vestito, non devo quasi più tornare periodicamente a casa mia e perdo il senso del tempo. Così non va per niente.
Vado verso il frigorifero e comincio a rovistare all’interno, magari trovo della roba con cui imbottire un panino. D’altronde Daniel i diciotto anni deve ancora compierli – e mi sa che, se non risolviamo la questione al più presto, festeggerà la maggiore età con una scarica di legnate non dissimile da quella di oggi, cazzo – perciò deve avere fame. A quell’età hanno sempre fame.
- Ma mi ascolti? – mi chiede piano, e la sua voce è troppo vicina per provenire dal divano, - Ti ho detto che non mi va di mangiare. – s’è alzato ancora.
Mi volto e sospiro. Parto con l’intenzione di rimproverarlo e me lo trovo a due centimetri dal viso che mi guarda incuriosito. Ormai è alto quasi più di me, nell’ultimo anno è cresciuto un sacco. Non so come ce l’abbia fatta. Insomma, intendo, ogni tanto lo guardo e mi chiedo come possa essere ancora vivo, addirittura. Poi ricordo che in fondo sono vivo anch’io e torna tutto.
Io però avevo Anis accanto, quando rischiavo di prendere botte ad ogni angolo di strada.
Daniel non ha mai avuto nessuno, prima di me.
- Dovresti andare a stenderti. – sospiro ancora, guardandolo dall’alto in basso, - …e rivestirti, anche.
Tira fuori un ghignetto che nelle intenzioni dovrebbe essere un concentrato di malizia ma, visto quanto è pesto e malconcio, in realtà fa solo ridere. E neanche poi così tanto.
- Cos’è, problemi? – chiede con aria strafottente. Io lo spintono verso il divano.
- Io no, Danny, ma se tu alle botte aggiungi la polmonite non sono sicuro di cosa potrebbe farti Chakuza quando tornerà a casa.
Lui cade sui cuscini con un tonfo e un mezzo lamento, e mi fissa con aria offesa.
- Lo lasceresti fare? – chiede in un sussurro, - Se mi mettesse le mani addosso, dico… lo lasceresti fare?
Sospiro, sedendomi sulla poltrona al suo fianco.
- Devo proprio rispondere a questa domanda?
Lui annuisce.
Io sospiro ancora.
- Sono il suo uomo, Danny.
Lui aggrotta le sopracciglia e fa per incrociare le braccia sul petto. Rinuncia appena si accorge che fa male.
- Tu non sei suo! – sbotta astioso, puntando le mani sui cuscini.
Io sorrido sarcastico.
- No? – chiedo, scrollando le spalle.
- Assolutamente no! – insiste lui.
- E sarei tuo, invece?
Lui abbassa lo sguardo e sulle sue guance il rossore si nota nonostante i lividi.
- Tu… potresti… - deglutisce e guarda altrove, - Io lo sono. Non sono di nessun altro. Solo tuo.
Sospiro ancora e scuoto il capo. Non so cosa dirgli, anche se so esattamente cosa si prova in situazioni come queste. Quando sai di appartenere a qualcuno ma non è quel qualcuno ad appartenere a te. Mi è successo abbastanza spesso da potermi dichiarare un veterano nel campo. So che fa schifo. So che si fanno assurdità. So che non ci si dà pace. Ma a questo ragazzino senza speranza io, davvero, non so cosa dire.
- Mi dispiace, Danny. – cerco di consolarlo, accarezzandogli una guancia, - Prima o poi ti passerà.
- Oppure insisterò fino a quando non cederai. – sbotta, appoggiandosi sulla mia spalla e strusciando il viso contro la maglietta, - Tu con Chakuza hai fatto così, in fondo…
Rido a bassa voce.
- No, Danny, non esattamente.
- Però più o meno.
Roteo gli occhi ed annuisco.
- Più o meno, sì. Ma non funziona sempre.
Solleva una mano – quella del braccio ancora a posto – e mi stringe alla vita.
- E come fai a sapere che non funzionerà fra noi?
Me lo stringo contro, coccolandolo un po’. Lui mugola subito e si attacca come un cucciolo di koala. Lo fa sempre. È una delle pochissime cose che gli concedo, da quando io e Chakuza abbiamo ripreso a frequentarci. È divertente, perché quando stavamo insieme non aveva bisogno di coccole, praticamente mai. Era molto estroverso ed espansivo, ma queste cose da femmine non gli interessavano per nulla. Ora che è l’unica parvenza di intimità che possiamo permetterci, le cerca come aria per respirare meglio.
So che la sto gestendo male, questa cosa. So che dovrei smettere di vederlo e basta, perché è l’unico modo per dimenticare davvero. Però non voglio. Non voglio prenderlo e cancellarlo dalla mia memoria. Non voglio prenderlo e cancellarlo nemmeno dal mio presente.
- Non funzionerà perché c’è Chakuza di mezzo, piccolo. – dico, facendogli scorrere una mano lungo il braccio e massaggiando piano, - Ci sono persone che ti colonizzano la testa. Quando ci entrano, non ne escono più. Chakuza l’ha fatto con me, io non riesco a immaginare di svegliarmi un domani e non averlo. Capisci cosa vuol dire questo?
Le sue ciglia si muovono appena contro la pelle del mio collo e mi fanno un po’ di solletico.
- Sì, lo capisco. – esala in un soffio.
Sorrido.
- Se lo capisci, dovresti anche rassegnarti.
Sorride anche lui, e mi sbuffa addosso.
- Non è la stessa cosa. E poi, scusa, se a te avessero detto “lascia perdere e rassegnati”, tu l’avresti fatto?
Ridacchio, scuotendo il capo.
- Daniel, Chakuza mi spingeva contro il muro ogni volta che ne aveva l’occasione. Rassegnarsi a quelle condizioni era molto molto difficile. Però ci ho provato.
Lui respira forte.
- E tu non… - comincia, cercando di insinuare la mano sotto la mia maglietta.
Lo fermo.
- No. – rispondo. – Io non voglio. D’accordo? Quindi no.
Daniel sbuffa, infastidito, e si separa da me con uno scatto secco.
- D’accordo. – borbotta in un mugolio di dolore, - Tanto mi fa tutto troppo male per scopare. – ammette, guardando altrove.
Io sorrido e torno a stringerlo piano, ondeggiando avanti e indietro.
Daniel è fondamentalmente un cretino ostinato e masochista.
Se Chakuza non capisce cosa c’è fra noi, vuol dire che ricorda poco dei miei primi mesi con lui.
Mi chino a baciarlo su una guancia e poi lo lascio andare.
- Ti prendo una coperta. – annuncio muovendomi verso la camera da letto, - Ma non dire a Chaku che ci siamo toccati, o finiamo entrambi sullo zerbino stasera, sai?
- Aaah, ma non posso dormire nel letto con voi? – borbotta agitandosi e mugolando come un bambino di tre anni.
Io rido.
- Assolutamente no! – e quando mi chiudo la porta alle spalle mi ritrovo nel buio della camera da letto e sospiro pesantemente. Sarà una giornata difficile. Sollevo un braccio ed annuso piano. L’odore di Chakuza è ancora lì. È più forte dell’odore del disinfettante. Sorrido ed apro l’armadio alla ricerca della coperta.
*
Poso i piedi sulla moquette che riveste il pavimento del corridoio e mi guardo intorno. Dunque, la casa è questa, c’era scritto Kobler sul cancelletto di fronte e la via non l’ho sbagliata. E questo nonostante questa sia una parte di Tempelhof in cui non sono mai stato, sono molto fiero di me.
Certo, sono un po’ meno fiero se penso che sto entrando in casa di sconosciuti per andare a mettere le mani nei cassetti della biancheria di un ragazzino che è stato col mio uomo e che, probabilmente, tra le mura di questo edificio ha visto solo legnate da quando è venuto al mondo. Ma comunque ormai ci sono, quindi basta lagnarsi e passiamo all’azione.
Tiro su le maniche fino a metà avambraccio e mi guardo intorno. Il posto non è tanto grande, è più corridoio che stanze, in realtà. Da qui si vede il bagno, la porta è socchiusa e il rubinetto perde. Faccio qualche passo girando gli occhi qui e là. In casa non c’è nessuno, a parte le gocce che si infrangono sulla ceramica non sento niente. Vago in giro e trovo una cucina sporca e piccola con un chilo di piatti ancora da lavare ammonticchiati nel lavabo, ed una specie di salottino con un divano e una tv. Sopra la tv c’è un’antenna tenuta insieme con lo scotch da imballaggio, quello marrone che lascia tracce ovunque quando lo tiri via. Ci sono tracce di scotch pure nei pezzi di antenna non incollati fra loro.
Ed io che pensavo di vivere in un porcile.
I gradini di legno scricchiolano mentre salgo al piano di sopra. Non me ne curo e, quando mi si apre davanti il corridoio del primo piano, mi salta il cuore in gola: dalla porta spalancata in fondo si intravede lo scorcio di una camera da letto ingombra di vestiti ammucchiati per terra e bottiglie rovesciate accanto al comodino. Sul letto – appena uno spicchio di materasso, è tutto quel che posso vedere da qui – c’è un uomo che dorme e russa. Una mano sulla pancia, l’altra pende verso il pavimento e sfiora la moquette.
Deglutisco forzatamente, muovendomi lento, in punta di piedi. Il respiro dell’uomo è pesante e rumoroso, ricorda quello di Fler quando collassava sulla poltrona, completamente ubriaco. Sospiro: è completamente ubriaco anche lui, e dev’essere il padre di Daniel. Non mi stupisce che la casa sia il casino che è.
Apro una porta a caso cercando di non fare rumore e mi meraviglio della mia fortuna. La camera non può che essere questa, le pareti sono tappezzate di poster e credo di non aver mai visto così tante immagini di Fler tutte insieme in vita mia. Questo ragazzino è palesemente una groupie.
Mi guardo intorno. Qui dentro, a parte un letto sgangherato, una scrivania in disordine ed un po’ di vestiti ammucchiati su una sedia, non c’è niente. Si può tranquillamente dire ci siano più poster attaccati alle pareti che non mobili nella stanza. Mi colpisce un manifesto pubblicitario enorme, sulla testiera del letto. È una vecchia pubblicità di un sampler dell’Aggro Berlin. Vecchia davvero, poi: c’è perfino Bushido. O almeno, dovrebbe esserci. La sua faccia è coperta quasi per intero da un’enorme x fatta col pennarello nero.
Mi lascio sfuggire una risata, senza pensare all’uomo addormentato nell’altra stanza, e quando mi ricordo della sua esistenza presso forte le dita contro le labbra, cercando di calmarmi, ma è molto difficile. La sola idea di Daniel che appende il poster al muro, lo squadra insoddisfatto e poi decide di eliminare la faccia di Bushido dalla superficie spennellandoci sopra è semplicemente troppo divertente perché io possa liberarmene.
Continuo a pensarci mentre vado in giro per la stanza raccogliendo i vestiti, che sinceramente non danno granché l’idea di essere puliti o altro. Cerco anche di pensare ad un modo per rifilarli a mia madre senza che si accorga che sono decisamente troppo piccoli per essere miei o di Fler. Peraltro, il fatto che mia madre ormai non trovi più nulla di strano nel lavare la mia roba assieme alla sua dovrebbe turbarmi, immagino. Certe volte ho l’impressione che il mondo intero abbia accettato l’idea di me e Fler come coppia prima di quanto non l’abbia accettata io. Mettiamoci di mezzo il fatto che ogni tanto faccio fatica ad accettarlo anche adesso, ecco.
Cerco in giro uno zainetto e ne prendo uno a caso in un angolo. È pieno di bustine di cui voglio ignorare il contenuto. Neanche faccio un tentativo con un altro zaino, mi limito a svuotare questo e riempirlo dei vestiti e della biancheria che sono riuscito a raccogliere.
Dopodiché tiro un enorme sospiro e comincio a staccare i poster dalle pareti. Immagino che, dovunque andrà a vivere Daniel dopo che l’avrò finalmente buttato fuori da casa mia, ne sentirà la mancanza, se non li avrà.
Comunque faccio un mezzo pensierino sul tenere io il poster della copertina di Deutscha Bad Boy. Mi frenano solo due cose: primo, non posso mica rubare un poster a un ragazzino così sfacciatamente innamorato; secondo… se anche lo tengo, dove cavolo lo metto? E non è un “dove cavolo lo metto” e basta, è un “dove cavolo lo metto per nasconderlo a Fler, dato che quando deve cercare cose rovista ovunque e, se mai dovesse avere la fortuna sfacciata di trovarlo, poi la mia vita sarebbe palesemente finita”.
Infilo tutto nello zainetto cercando di eliminare i pensieri molesti – tutti, in blocco, compresi i ricordi di Fler schiacciato contro il muro all’ingresso che mi hanno assalito appena mi sono distratto un attimo dall’obiettivo – e vengo fuori dalla stanza. Il signor Kobler ancora dorme ed io un po’ me ne dispiaccio: visto che quest’uomo è l’origine di tutti i miei mali, mi piacerebbe fargli capire cosa penso esattamente di lui e di tutti quelli come lui – ma soprattutto di lui, che cresce i figli in modo che poi quelli debbano sentirsi autorizzati ad infilare le mani nelle mutande degli uomini altrui. Comunque dorme ed immagino che Fler, quando mi ha mandato qui a recuperare le cose, non intendesse anche “ed uccidi quel bastardo”. Cioè, non sono proprio sicuro che Fler lo preferisca vivo. Comunque non è un mio diritto toglierlo di mezzo e francamente non ci tengo più di tanto, in realtà se anche ci tenessi non saprei da che parte cominciare, e comunque non voglio!, perciò scivolo al piano di sotto e poi oltre la finestra nel modo più veloce e furtivo possibile, e prendo a respirare serenamente solo quando mi ritrovo nuovamente immerso nell’aria fresca sul finire dell’estate di Tempelhof.
Mi guardo intorno.
Okay, un attimo di smarrimento.
Questa zona è, diciamo, la zona più “residenziale” del quartiere. Il che significa, in poche parole, che sto immerso in un quadrato di casette tutte uguali, con cancelli tutti uguali, giardinetti incolti tutti uguali, porte sgangherate tutte uguali e cassette delle lettere mezze abbattute tutte uguali. Non cambiano nemmeno i colori. Grigio e verde, grigio e verde, tutto grigio e verde. Così per chilometri, il quartiere è enorme.
Arrivare è stato un conto.
Andare via sarà più difficile.
Zaino sulle spalle e cappuccio calato sul volto, mi avvio in una direzione casuale di fronte a me. Prima o poi ne uscirò, immagino. O finirò per passare il confine, chissà. In ogni caso tutto voglio meno che restare qui. Sono quasi certo che la mia macchina non sia da quella parte, ma se mi toccherà uscire da questa merda di posto a piedi, allora lo farò. Verrò a recuperarla successivamente. Questo posto mi mette ancora i brividi.
Giro a vuoto per un po’. Un bel po’. Quando sono solo il tempo tende a passare sempre troppo lentamente perché io possa quantificarlo, quindi non saprei dire per quanto abbia girato, comunque sia quando mi infilo in una via e mi ritrovo di fronte alla casa del vicino del signor Kobler ho due scelte: o vado nel panico e mi siedo qui, afferro il cellulare e imploro Fler di venirmi a ripescare, o chiedo a un passante.
Visto che non ho la benché minima intenzione di implorare nessuno, e visto che sono uscito di casa mantenendo un certo tono e non ci tengo a fare la parte del cagnetto uggiolante proprio adesso, la scelta può essere una sola.
Mi avvicino al primo tizio che incontro. Avrà una ventina d’anni – per com’è vestito, con quei pantaloni aderentissimi di pelle nera e il vuoto sotto il chiodo borchiato, non più di venticinque – ma ha una faccia talmente sfatta che ne dimostra quasi il doppio. Occhiaie e rughe comprese. Al confronto io e Fler – ma anche Bushido, volendo – sembriamo ragazzini. Cammina ciondolando e nella tasca dei jeans si intravede chiarissima la forma di un serramanico ripiegato. Mi rendo conto che non si tratta della persona più affidabile cui chiedere delle indicazioni, ma non c’è nessun altro in giro e non mi pare di avere molta scelta. A parte quella scartata a priori del panico e di Fler che mi viene a riprendere neanche avessi dodici anni.
-Ehm… scusa? – chiedo, picchiettandogli con due dita sulla spalla perché si accorga di me.
Lui mi alza addosso un paio d’occhi celesti trasparenti come pezzi di vetro ma arrossati in maniera quasi allarmante. Non ho idea di cosa abbia mandato giù ma di sicuro non dev’essere stata roba buona.
- ‘Cazzo vuoi? – mi sbotta in faccia, e l’alito puzza di birra. Perfetto. Sono fottuto.
- Senti, ho bisogno di un’informazione… - comincio, nel modo più pacato possibile.
Lui mi guarda come fossi una merda pesticchiata sul marciapiedi.
- Li conosco gli sbirri come te. – mi accusa, tirando su col naso, - Stronzi figli di puttana, sbirri in borghese. Non so un cazzo.
- Ma io voglio solo—
- Non so un cazzo, ti dico, sbirro di merda.
Ringhio e cerco di mantenere la calma.
- Non sono un cazzo di sbirro. – grugnisco, le mani sui fianchi, - Se proprio vuoi saperlo, l’unica cosa certa della mia vita è che in mezzo alla manica di matti coi quali vivo io sono solo il fottuto chef. Ma non se lo ricorda mai nessuno!
Quello mi guarda per tutta una serie di secondi che non riesco a quantificare. La strada è immersa in un silenzio surreale, ci siamo solo io e lui e non riesco a sentire neanche i rumori delle macchine che sono quasi sicuro circolino ancora dalle parti del canale.
Mi schiarisco la voce.
- Ora… posso chiedere—
- Lo chef, dice lui… - mi interrompe il tipo, i lineamenti del volto deformati da un ghigno sghembo semplicemente terrificante, - Conosco una persona che non sarebbe per niente d’accordo. – ed ho appena il tempo di realizzare di aver detto una solenne cazzata, che lui ha già estratto il serramanico e me lo sta puntando alla gola. Faccio per indietreggiare e dire qualcosa, ma lui sfiora la pelle del collo con la lama appuntita e tagliente ed io deglutisco e rimango in silenzio. – Puoi chiedere dove ti porterò adesso? – mi fa il verso, continuando a ghignare, - No. Però puoi seguirmi senza fare storie.
- …non fare pazzie, amico, non—
- A-ha! – mi ferma, incidendo appena sotto la mascella, ed io trattengo perfino il respiro, - Senza fare storie, ho detto. Ci siamo capiti?
Annuisco. E lo seguo, che altro posso fare?
La prossima volta, giuro, vado nel panico e mi faccio venire a riprendere.
*
Sono passate sei ore quando comincio a preoccuparmi. La parte più razionale di me mi dice che non dovrei, che d’accordo, magari il Chaku è a Tempelhof, ma è pieno giorno. Cosa mai può succedergli in quel posto, per quanto pericoloso, alle due del pomeriggio? E poi in che guai può essersi cacciato dovendo semplicemente andare ad un indirizzo ben preciso per prelevare qualcosa prima di fuggire per sempre?
Devo stare calmo, mi dico. Calmo e rilassato. Fra qualche minuto mi chiamerà, si scuserà per non essersi fatto sentire per sei fottute ore e poi confesserà mugugnando che s’è perso, e mi implorerà di andarlo a recuperare in qualche angolo dimenticato da Dio che non saprà nemmeno descrivermi correttamente.
- Ho faaame. – miagola Danny, sbuffando platealmente, tutto arricciato sul divano, - Non si mangia?
- Aspettiamo Chakuza. – rispondo io, lanciando un’altra occhiata all’orologio. Sei ore e dieci minuti. Chakuza, Cristo, dove sei finito?
- Perché non lo chiami? – mi chiede lui, sporgendosi dal divano ed allungando un braccio verso il tavolino, per cercare di recuperare il telecomando poggiato sul ripiano, - Magari sta perdendo tempo da qualche parte e s’è dimenticato che lo stai aspettando. – suppone, la lingua fra le labbra e l’espressione concentrata mentre con un breve scatto si allunga abbastanza da afferrare il telecomando, per poi tornare ad abbattersi contro i cuscini sistemati con cura dietro la sua schiena, uggiolando di dolore.
- Non posso chiamarlo, Danny. – espiro in uno sbuffo contrariato, andando a sedermi sulla mia poltrona giusto per staccarmi dalla finestra prima che rimanga impressa sul vetro l’impronta indelebile del mio naso. – Magari ci sono stati problemi a casa tua. – gli spiego, lanciandogli un’occhiata risentita. Io ti adoro, Danny, ma tu non puoi mettere il mio uomo a rischio. Egli non è adatto. In generale. – Magari tuo padre s’è svegliato e lui ha dovuto nascondersi da qualche parte. Che faccio, lo chiamo rischiando che il cellulare riveli dov’è?
Daniel inarca un sopracciglio, guardandomi con aria scettica.
- Tutti sanno che quando si fanno cose simili il cellulare va tenuto silenzioso. – dice con naturalezza. E sì, certo, Daniel. Tutti lo sanno. Io lo so, tu lo sai. Se avessi mandato Anis a recuperare la tua roba potrei avere la certezza che lo sa anche lui. Ma Chakuza?
- Lascia che io ti dica che non hai capito niente del Chaku. – annuisco con aria professionale, - Come minimo non solo ha il cellulare con la suoneria attivata, ma pure al massimo volume. E personalizzata di modo che lo chiami per nome. – sospiro profondamente.
Daniel ride, incredibilmente divertito, ed accende la tv.
- Ma che ci fai con uno così? – mi chiede, con aria apparentemente distratta, concedendosi un po’ di zapping prima di fermarsi su un cartone animato a caso. La domanda è cosa ci faccio qui con te, semmai, Danny. – Cosa c’entri?
- Non ricominciamo. – borbotto, e in quel momento il cellulare vibra nella tasca posteriore dei miei pantaloni. Mi alzo in piedi all’istante, lo estraggo e lo guardo. Chakuza mi ha mandato un messaggio. – Era anche ora… - borbotto risentito, mentre mi affretto a premere il pulsante per leggerlo.
Ciò che i miei occhi vedono, comunque, è non affatto soddisfacente. Nel messaggio c’è scritto solo aiuto.
- Che ti prende? – chiede Danny, spegnendo istintivamente la televisione e lanciandomi un’occhiata preoccupata, - Sei sbiancato.
- Chakuza è in pericolo. – dico d’un fiato, girando sui tacchi e dirigendomi speditamente verso la porta d’ingresso, - Devo andare a cercarlo.
- Ehi— aspetta! – cerca di fermarmi lui, saltando giù dal divano e piegandosi immediatamente su se stesso per il dolore. Capisce che non ho tempo da perdere, comunque, e si rimette in piedi piuttosto alla svelta, tenendosi la pancia fra le mani e seguendomi. – Come sarebbe a dire che è in pericolo? Cos’è successo?
- Cosa vuoi che ne sappia! – urlo, voltandomi a guardarlo con rabbia. Lui arretra di un passo, serrando le labbra finché non diventano sottilissime e pallide. – Scusa. – cerco di calmarmi. Cazzo, non è colpa sua se Chakuza è in pericolo. Sapevo che avrei dovuto andarci io. Cazzo. – Mi ha mandato un messaggio, guarda. – dico, sollevando il cellulare per mostrarglielo. Daniel lo legge velocemente e i suoi occhi si fanno più cupi per qualche secondo, mentre annuisce sommessamente.
- Vengo con te. – dice quindi, tornando al divano per infilare le scarpe.
- Neanche per idea. – ribatto io, ignorandolo platealmente.
Lui mi passa davanti ed apre la porta, uscendo di casa prima di me.
- Non era una domanda. – conclude, cominciando a scendere le scale. Roteo gli occhi, correndogli dietro.
- Piccolo, torna in casa, dai. – dico dolcemente, accarezzandogli una spalla. Stavolta è lui a ignorare me.
- Potrei esservi utile. – dice. Ma esserci a chi? Io intendo andare da solo.
- Daniel, - sospiro, - sei ferito e dolorante, sei un rottame, dovresti essere in ospedale, che cazzo me ne faccio di te, me lo spieghi?
Lui mi lancia un’occhiata risentita, aggrottando le sopracciglia.
- Qualsiasi cosa. – risponde di getto, - È anche colpa mia se è nei guai.
- Danny, non—
- Sta’ zitto. – mi interrompe. Siamo già a piano terra. – Sai già a chi chiedere?
Lo guardo per qualche secondo, confuso.
- Che intendi? – gli chiedo, inarcando un sopracciglio. Lui sbuffa platealmente, roteando gli occhi.
- Dubito che sia stato mio padre a causargli guai. – spiega, - Se anche si fosse svegliato, nelle condizioni in cui era quando l’ho lasciato poteva sicuramente pestare me, ma non uno come Chakuza. Cioè, uno che possa rispondergli come merita. – sospira un po’, abbassando lo sguardo, e a me si stringe il cuore. – Deve aver fatto casino mentre era per strada. Magari ha preso uno dei miei zainetti speciali, quelli con la roba dentro. Hanno tutti una toppa particolare, così la gente del ghetto li riconosce e sanno che possono chiedermi. Se qualcuno l’ha vista, forse ha pensato che fosse del giro.
Non fatico a immaginare che, a partire da uno scenario simile, Chakuza possa essere finito in guai molto più catastrofici di quelli che riesco a immaginare in questo momento senza avere una crisi isterica. Inspiro ed espiro profondamente, cercando di razionalizzare. Potrei sbrigarmela da solo, andare a Tempelhof e perdere le ore partendo da zero, senza il minimo aggancio, per cercare di tirare fuori qualche informazione a qualche sconosciuto.
Oppure posso andare da Bushido, e chiedergli di contattare Arafat.
Vista la situazione, e visto soprattutto che una cosa so per certo, ed è che non voglio lasciare Chakuza da solo a Tempelhof troppo a lungo, faccio in fretta a decidere per il meglio. Daniel sorride soddisfatto, salendo in macchina e mettendosi comodo.
- Togliti quell’espressione dalla faccia. – mugugno io, talmente infastidito che per un attimo non faccio caso a quello che dico, - Sarai tu responsabile, se gli succede qualcosa.
Gli occhi di Daniel s’incupiscono un’altra volta, mentre lui si torce le dita in grembo, nervoso. È evidente che riesce a ragionare in maniera perfettamente lucida quando si parla di pianificare il salvataggio di qualcuno di cui tutto sommato gli importa pure poco, ma impazzisce d’ansia quando pensa anche solo per sbaglio che io potrei cominciare ad odiarlo per qualche motivo.
- Andrà tutto bene. – dice, più per rassicurare se stesso che per rassicurare me, anche perché io al momento non posso essere rassicurato.
Sospiro, allungando una mano ad accarezzargli piano la nuca.
- Sì, andrà bene. – confermo mettendo in moto.
Da Bushido ci arriviamo in tempo record, bruciando anche un paio di rossi. Per tutto il tempo, Daniel resta tranquillo al mio fianco, senza neanche muoversi in avanti quando freno o schiacciarsi indietro contro lo schienale quando accelero. Non ha nemmeno messo la cintura di sicurezza, cosa che suppongo dovrei trovare sconveniente al punto da fermarmi e cercare di convincerlo a metterla, ma non c’è nemmeno il tempo di razionalizzare il pensiero che la mia macchina si ferma perfettamente parallela al marciapiedi appena fuori dal cancello di casa di Bushido, ed a quel punto fargli indossare la cintura non avrebbe più molto senso.
Esco di gran fretta, e Daniel, per quanto le sue ossa peste glielo permettano, fa lo stesso, per cercare di non intralciarmi troppo. Karima ci mette troppo a rispondere al citofono, e quando sento la sua voce domandarmi chi sono e cosa voglio – è una donna d’altri tempi che non ha mai imparato ad usare il video nella parola videocitofono – rispondo sgarbatamente di farmi entrare e non perdere altro tempo. Lei rimane in silenzio per un altro paio di secondi, e io batto con forza una mano contro le grate del cancello, così improvvisamente che Daniel, al mio fianco, sobbalza lanciandomi una lunga occhiata colma di preoccupazione.
- Karima! – la chiamo, - Datti una mossa!
La serratura scatta il secondo successivo. Il cancello si apre sotto le mie mani e Skyline e Sherlee mi vengono incontro, saltellando ed abbaiando festosi. Io non ho tempo di star loro dietro, perciò passo in mezzo ai loro musi senza fermarmi neanche ad accarezzarli, e se non mi vengono dietro continuando ad abbaiarmi alle spalle è solo perché Danny, visibilmente più lento di me, non riesce a tenere il mio passo e non può sfuggire alla loro rumorosa richiesta di attenzioni, cedendo perciò a metà del vialetto e grattando entrambi dietro le orecchie in una sorta di pedaggio in seguito al pagamento del quale i due cuccioli lo lasciano libero di seguirmi.
Sulla soglia della porta non c’è Karima, probabilmente tanto oltraggiata dal mio comportamento da essersi già rintanata a pelare cipolle in cucina come fa sempre quando qualcosa non rientra nel ristretto campo delle sue approvazioni, perché, come ama dire, un po’ di cipolla tritata serve sempre ed è meglio averne un po’ di scorta per ogni evenienza. Quali evenienze improvvise potrebbero giustificare la presenza di terrine piene di cipolla già tritata nascoste in frigorifero io non lo so, ma tant’è, lei non è sulla porta ad attendere il nostro arrivo come dovrebbe essere. Ci sono sia Bushido che Bill, invece, e faccio appena in tempo a notare l’occhiata infastidita di Bill quando vede Danny alle mie spalle – a Bill non va granché giù che Danny sia tornato a ronzarmi intorno da quando io, invece, sono tornato a ronzare intorno a Chakuza – che quell’occhiata subito scompare, tramutandosi in qualcosa di diverso. I suoi occhi si spalancano, mentre porta una mano a coprirsi la bocca dischiusa in una smorfia inorridita.
- Ma che gli è successo? – chiede sconvolto, mentre Bushido prende atto delle condizioni del ragazzino con molta più praticità, osservandolo in lungo e in largo con aria concentrata, - Sta bene?
- Non è lui quello in pericolo, al momento. – rispondo seccamente io, spingendomi abbastanza in avanti per far sì che Bill e Bushido si scostino dall’uscio, lasciandomi entrare. – Chakuza è finito nei guai. – dico quindi, mentre Bushido aspetta che anche Danny sia entrato all’interno della villa, prima di chiudersi la porta alle spalle, - A Tempelhof. Da solo.
Bushido aggrotta le sopracciglia, i lineamenti del suo volto che si tendono repentinamente mentre irrigidisce le braccia lungo i fianchi.
- Cosa?! – strilla Bill, sconvolto, - Che c’è andato a fare lì da solo?
Bella domanda, ragazzino.
- Ne parliamo dopo. – taglio corto, - Anis, dobbiamo fare qualcosa. – tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e mostro alla coppia reale il messaggio che ho ricevuto ormai quasi venti minuti fa. Dio, venti minuti. Sono milleduecento secondi. Per uccidere un uomo ne basta uno.
Bill si lascia scivolare fra le labbra un gemito addolorato che gronda preoccupazione. Bushido non ha ancora aperto bocca, continua a studiare la situazione in silenzio, incrociando le braccia sul petto.
- Che ci fa lui con te? – chiede quindi Bill per riempire il vuoto che sente pesargli sul petto. Ci metto un po’ a capire che parla di Daniel, in parte perché non sono concentrato e in parte perché Bill non si prende nemmeno il disturbo di indicarlo. – Perché deve stare qui? Guarda quant’è pesto, mi rovina l’arredamento. – sbuffa infastidito.
- Bill. – scatto io, aggrottando le sopracciglia, - Non è il momento.
- Ah, non lo è? – ribatte lui, le mani sui fianchi e un’espressione di insopportabile superiorità sul volto, - Intanto lui è qui e il tuo uomo è nel ghetto da solo. – ribadisce, come se non ne fossi già insopportabilmente cosciente.
- Bill, sai che ti voglio bene, - dico, mordendomi con forza l’interno una guancia per forzarmi a ripetere queste parole, perché so che è una cosa vera ma in questo momento non mi sembra affatto, - ma fatti i cazzi tuoi. – concludo con un’occhiataccia.
Bill spalanca gli occhi, oltraggiato. Apre le labbra e fa per dire qualcosa, ma non riesce. Bushido è più svelto.
- Taci. – dice guardandolo, - E anche tu. – aggiunge guardando me. Io mando giù un blocco d’aria che pesa come il granito, mentre lui si volta a guardare Danny. – In che zona è andato? – chiede a lui, e per un secondo penso che l’abbia fatto perché ha già capito tutto, e trattandosi di Bushido la cosa non mi stupirebbe affatto. Poi razionalizzo, e capisco che ha chiesto a lui solo perché Danny a Tempelhof ancora ci vive, contrariamente a tutti noi. Afferro solo vagamente quanto deve essere costato a Bushido ammettere una cosa del genere, pur se implicitamente, e forzarsi a chiedere a un ragazzino un’informazione simile per salvare Chakuza. Mi riservo di ringraziarlo dopo per questo, visto che so per certo che nessuno a parte me può comprenderlo, e nessun altro lo ringrazierà.
Daniel si mordicchia il labbro inferiore, pensoso.
- È nella zona residenziale, - dice, - quella coi prefabbricati. Ma lì intorno ci sono i vecchi magazzini del mercato ortofrutticolo, e non sono più usati per frutta e verdura da tempo.
- Che rischi ci sono che l’abbia preso qualcuno di pericoloso? – chiede ancora, avvicinandosi al tavolino basso e recuperando il cellulare posato sul ripiano di vetro.
Daniel sospira profondamente.
- Per tutta una serie di ragioni, potrebbe essere finito nei guai con qualche corriere, credo.
- Con qualche corriere?! – strilla Bill, incapace di trattenersi oltre, - Cosa diavolo l’avete mandato a fare?!
- Bill, sta’ zitto. – ribadisce Bushido, digitando velocemente un numero a memoria e portando il cellulare all’orecchio.
- Lo stai chiamando? – chiedo io, a corto di fiato, fissandolo speranzoso.
- Sta’ zitto anche tu, ho detto. – dice lui, lanciandomi un’occhiata indecifrabile. Poi sospira, inumidendosi le labbra. – Sì. – dice quindi. Mi si annoda lo stomaco finché resta in silenzio, e poi sento un click sommesso ed una voce dal passato che risponde chiedendo festosamente a Bushido come sta, perché è da un sacco di tempo che non lo sente. – Ari. – dice Anis, il tono grave e lo sguardo concentrato mentre fa segno a Bill di recuperare un pezzo di carta ed una penna, - Mi servono un paio di indirizzi.
*
Naturalmente non riesco a parlare, ma visto che sono state le mie parole a generare tutto questo gran casino da una parte è meglio così. Sì, mi sta bene tacere, quello che non mi sta bene è che per farmi stare zitto mi abbiano legato questa robaccia attorno alla testa, e mi abbiano infilato due chili e mezzo di polistirolo in bocca. A parte che il sapore fa schifo, e a parte che mi sto cagando sotto perché, voglio dire, chi cazzo è questa gente?, a parte tutto questo, lo scotch sulle guance tira e fa un male fottuto, e non riesco a muovermi perché ho le braccia legate dietro la sedia in una posizione innaturale che mi fa dolere le spalle, e le gambe legate strettissime con delle vecchie corde sporche ai piedi della sedia.
In generale, sono finito proprio in una bella situazione di merda. E mi piacerebbe poter dare la colpa a Daniel, perché almeno così non dovrei stare seduto qui a soffrire, ascoltare stronzate e dovere avere a che fare in aggiunta con la consapevolezza che a trascinarmi in questo magazzino abbandonato con le finestre inchiodate non è stato il ragazzino, non è stata la richiesta di Fler, no, sono state la mia ostinazione a non voler chiedere aiuto e la mia boccaccia del cazzo.
- Allora. – riprende l’uomo che mi ha ricoperto di cazzate da quando sono stato portato al suo cospetto un paio d’ore fa. È vestito con una tuta integrale in pelle bianca, aperta fino allo stomaco rotondo e prominente. Indossa un paio di occhiali da sole dei quali in questa penombra non dovrebbe avere il minimo bisogno ed i suoi capelli sono acconciati in un ciuffo che si protende contemporaneamente in avanti e verso l’alto. I tacchi dei suoi stivali bianchi a punta producono un suono che mi snerva, ticchettando sul pavimento pieno di crepe mentre lui gira intorno alla sedia, guardandomi circospetto. – Mi dicono che ti piace andare per strada facendoti grande agli occhi dei passanti. – dice, - Lo chef, mi dicono, è così che ti fai chiamare. Ma oh, hai fatto i conti senza l’oste, mio caro amico pelato.
Io mugugno qualcosa, ma non riesco a farmi uscire dalle labbra niente che abbia un senso. In realtà tutto quello che vorrei strillare è “ma sei cretino?! Ti sei completamente bevuto il cervello?! Da quale epoca sei venuto fuori, scherzo della natura?! Santo Dio!”, quindi forse è meglio che io sia obbligato a tacere. Cristo, è passata quasi un’ora da quando sono riuscito a mandare quello scampolo di messaggio a Fler, e tutto ciò che ho ottenuto in cambio è stato che mi portassero via il cellulare e lo spaccassero in due sotto i miei occhi sofferenti. Quando e se tornerò a casa, comprare un cellulare nuovo sarà drammatico. Non mi abituerò mai al tastierino nuovo, non riuscirò mai a memorizzare il nuovo menu e dovrò fare i salti mortali per trovare qualcosa che non possieda la parola touch nel nome o nella descrizione delle caratteristiche principali. Che odio. Fler, dove cazzo sei finito?!
- Cos’è che hai detto? – chiede il tipo, chinandosi su di me e tendendo un orecchio, - Non ti ho sentito! Forse perché sei imbavagliato. – si rimette dritto, grattandosi pensosamente il mento. – Dovremmo forse lasciarti libero? – chiede retorico, lanciando un’occhiata ai due che stanno alla sua sinistra e alla sua destra. Uno è quello che mi ha portato qui, e l’altro un suo degno compare. Anche lui indossa un giubbotto di pelle senza niente sotto, ed un paio di jeans chiari con più buchi che brandelli di stoffa. – No che non dovremmo. – si risponde da sé Elvis, tornando a guardarmi severamente. – Hai capito perché sei qui, nano? – mi chiede quindi, e io mi dimeno perché con questi nomignoli del cazzo mi ha veramente frantumato le palle.
- Attento a come ti muovi, sbirro di merda. – dice il tizio che mi ha portato qui, puntandomi il serramanico alla gola, - Rispondi alle domande e fa’ il bravo, e se te lo meriterai potrai uscire di qui sulle tue gambe, quando ti lasceremo libero.
Io smetto di muovermi ed inspiro profondamente, cercando di ritrovare una calma che ho in realtà perso troppo tempo fa per poterle chiedere di venire in mio soccorso adesso. Provo a mugugnare qualcos’altro, qualcosa a caso, tanto è evidente che non riuscirei a farmi capire anche se dicessi qualcosa di sensato, ma Elvis mi ascolta con attenzione, annuendo partecipe. Dio santo, ma dove sono finito?
- Certo, certo, hai ragione. – dice annuendo ancora, - Quindi forse dovremmo proprio lasciarti libero, ma sai, c’è una cosa a cui tengo molto, una lezione che penso tu debba imparare prima di andare via, e penso che le condizioni in cui sarai quando uscirai da questo magazzino dipenderanno molto da quanto bravo sarai ad apprendere. Ci siamo capiti?
Io abbasso lo sguardo. Odio cedere, ma odierei anche morire in questo posto lugubre senza aver cucinato un’ultima volta, senza aver salutato i miei genitori e mia sorella, senza aver rivisto Bill, senza aver rivisto Fler. Senza aver toccato Fler, senza avergli detto che—
- Ci siamo capiti? – ripete Elvis, strattonandomi per una spalla. Io annuisco freneticamente. Ci siamo capiti, Elvis, ci siamo capiti. – Bene. – sorride compiaciuto. – Ora voglio che tu te lo ficchi bene in testa, mio buon amico: - dice a bassa voce, - c’è un solo chef, in questo quartiere, soprattutto da quando io e i miei compari abbiamo cominciato a studiare un piano per ammazzare tutti gli altri. – inarco un sopracciglio. Un piano? Che cazzo sta dicendo? – Be’, sì, non ci siamo ancora riusciti! – strilla istericamente, come leggendomi nel pensiero, o forse semplicemente leggendo l’incredulità nell’espressione del mio viso, - Ma prima o poi li faremo fuori tutti, ed allora resterò solo io! Per cui, impara bene la lezione fin d’ora, nano: chi è l’unico chef di Tempelhof…?
È a quel punto che succede. Inizialmente non ci capisco molto, perché non vedo niente. Sento, quello sì, un botto terrificante e il fischio di qualcosa di incredibilmente veloce che passa da qualche parte alla mia sinistra prima di andarsi a schiantare contro il pavimento a pochi centimetri dall’anfibio dell’altro compare di Elvis, quello che non ha ancora aperto bocca, e che la apre adesso per la prima volta per strillare “merda!” con quanto fiato ha in gola, saltando repentinamente all’indietro.
- Cosa cazzo succede?! – strilla a propria volta il tipo che mi ha portato qui, occhieggiando spaventato il buco sul pavimento e la pallottola che vi si è conficcata dentro. – Cazzo!
- Chi c’è?! – grida Elvis, parandosi in mezzo alla stanza con le braccia spalancate e le gambe piegate in una posa ridicola, - Chi osa?!
Un altro sparo parte da un punto totalmente opposto del magazzino, piantandosi sulla parete alla mia destra. Sobbalzo sulla sedia perché non ho una cazzo di idea di cosa stia succedendo. E se fossi finito in mezzo a una guerra fra bande? E se quelli che Elvis minaccia di volere uccidere avessero scelto proprio questo momento per impedirglielo ponendo fine alla sua triste e misera esistenza da sfigato nato con vent’anni di ritardo?
Non ho modo di capirlo, perché per qualche secondo, dopo l’urlo che Elvis ha lanciato in seguito al secondo sparo, il magazzino ripiomba nel silenzio. Magari è stato solo un avvertimento, mi dico. Non so bene come funzionino queste cose, Fler saprebbe spiegarmelo ma lui non c’è, probabilmente è impegnato a spargere pomata sulle ferite del suo ex e di me se ne strafrega, per cui aggrotto le sopracciglia e decido che me ne strafregherò anch’io, ma i miei propositi reggono pochissimo perché il secondo successivo dieci cento o forse anche mille pistole si mettono a sparare tutte contemporaneamente, l’aria diventa incandescente, fischia attorno a me, ne sento il rombo fin dentro le orecchie, e ci sono proiettili che volano impazziti dappertutto e io me la sto facendo sotto, cazzo, e prego soltanto che nessuno di questi fottuti proiettili mi prenda perché voglio tornare a casa, stasera, voglio riportare a Danny la sua roba, voglio vedere Fler, voglio abbracciarlo e dirgli che lo so che non ci andrà a letto col ragazzino, lo so che non mi tradirà, lo so che mi ama, voglio dirgli tutte queste cose e non è vero per un cazzo che me ne strafrego di lui. Non è vero per un cazzo.
Chiudo gli occhi con forza, cercando di incassare il più possibile la testa nelle spalle, e prendo nota solo confusamente dei tre uomini che mi tengono prigioniero mentre danno di matto, confusi dai rumori degli spari e dalle pallottole che soffiano minacciose ovunque attorno a loro. Mi pare di sentire un “no!” strozzato provenire da dietro un mucchio di vecchie casse in fondo al locale, ma non ho modo di badarci troppo perché oltre ai rumori degli spari l’aria è piena delle urla dei miei aguzzini. Li sento urlare, muoversi in cerchio, urlare ancora e poi trovare un’uscita. Le loro voci si fanno sempre più deboli e distanti, e così gli spari, che diminuiscono d’intensità e poi si spengono del tutto. Io sono ancora vivo e non ho male da nessuna parte, e sono profondamente convinto che questo sia un miracolo.
Apro prima un occhio e poi un altro, guardandomi confusamente intorno. Il pavimento e tutte le pareti sono pieni di segni dove i proiettili sono andati a schiantarsi. Sudo freddo a pensare che se uno a caso di queste decine di proiettili avesse deciso di non andare a conficcarsi per terra o sui muri ed avesse preferito conficcarsi nella mia testa, sarei morto. Ci penso insistentemente per un paio di secondi e poi Bill – no, ripetiamolo perché non riesco nemmeno a crederci: Bill! – spunta fuori da dietro le casse dalle quali mi era sembrato di sentir provenire quel “no!” e mi si avvicina, affrettandosi a chinarsi davanti a me e sciogliere tutte le corde che mi tengono legato.
Non appena sono libero, scivolo giù dalla sedia , esausto, e Bill mi accoglie fra le proprie braccia reggendo il mio peso abbandonato e floscio con una forza che non gli riconosco. Mi chiedo quando sia arrivata, tutta questa forza, perché proprio non c’era quando i nostri corpi stavano vicini spesso e molto più a lungo di adesso, ed è allora che Bushido esce da un angolo in ombra alla mia sinistra e Fler fa lo stesso dall’angolo opposto, accompagnato da Danny che zoppica ed ha la faccia contratta in un’espressione di dolore continua.
Il tempo riprende a girare e io e Bill ci allontaniamo contemporaneamente. La forza di adesso, quella che guida le sue braccia e le sue gambe e rende i suoi occhi brillanti e presenti nonostante siano pieni di lacrime, è una forza che non gli ho dato io.
- Dimmi solo che stai bene. – mi sorride mentre mi libera dallo scotch. Mi giro appena per sputare la palla di polistirolo ormai tutta masticata, e mi asciugo la bocca col dorso della mano prima di offrirgli un sorriso stanco ed annuire lentamente.
Bushido butta lì un paio di colpi di tosse e Bill si alza in piedi. Vedo nell’espressione rilassata del suo viso che non lo fa perché deve o perché si sente in colpa, ma soltanto perché vuole e sa che è giusto così. Io mi alzo in piedi, guardo Fler ma lui non mi ricambia l’occhiata. Fissa la propria pistola accarezzandola con lo sguardo e, sbrigativamente, anche con due dita, prima di riporla in una tasca interna della giacca. Non gli dico niente, né d’altronde lui dice niente a me mentre usciamo o mentre, con la sua macchina, riportiamo Bill e Bushido a casa loro, prima di tornare da me. Io resto seduto sul lato del passeggero a guardarlo guidare in silenzio, gli occhi fissi sulla strada, mentre Daniel prova a fare un po’ di conversazione e rinuncia al terzo tentativo andato a vuoto. Si sistema con la schiena contro il sedile di dietro, anche perché suppongo sia tutto un dolore e non ce la faccia proprio più a reggersi dritto con le sue sole forze, e nel farlo gli cade l’occhio sul suo zainetto gettato in un angolo. Lo solleva e lo guarda da ogni lato, spalancando la bocca in segno di stupore prima di riuscire veramente a parlare.
- Ma non è uno di quelli speciali! – sbotta, - Non c’è la toppa! È uno di quelli che tengo a casa per nascondere la roba! – si sporge in avanti, agitandomi lo zainetto davanti al naso, - Chakuza, mi dici come hai fatto a metterti nei casini se non è stato il mio zaino ad attirare quel malato mentale in tuta di pelle?
Io prendo atto dell’espressione assolutamente allucinata che mi lancia Fler ed incasso la testa nelle spalle, aggrottando le sopracciglia e fissando la strada che scorre lenta sotto la macchina al di là del parabrezza. Spiego quello che mi è capitato, partendo dal principio e ammettendo che, fondamentalmente, non c’ho capito un cazzo. Ma cos’è? Ora non si può più andare in giro dicendo di essere un cuoco che finisci catturato da un trio di decerebrati che si sono messi in testa per chissà che motivo che vuoi essere tu il new kid on the block? Ma anche no, è profondamente ingiusto. Mi premuro di dire anche questo a Daniel e Fler, che nel mentre mi guardano con aria sempre più sconcertata, spalancando occhi e bocche lentamente ma progressivamente, finché non scorgo nel fondo delle loro pupille azzurre inquietantemente simili che forse non lo faranno a voce alta, ma nella loro testa mi stanno deridendo. Ampiamente.
Naturalmente, l’unico a risparmiarsi di prendermi per il culo a voce alta è Fler, e solo perché suppongo fosse realmente preoccupato: stringe le mani attorno al volante e torna ad osservare cautamente la strada, mordicchiandosi l’interno di una guancia; Daniel, invece, si dà alla pazza gioia, rovesciando il capo sullo schienale del sedile e tenendosi la pancia mentre rotola qua e là in preda alla crisi di riso più devastante di tutti i tempi, talmente devastante, in effetti, che a un certo punto le sue risate cominciano a diventare rantoli seriamente addolorati.
- Oddio, - piagnucola, incapace di trattenersi, - ma non lo sai che chef sta per capo, nel ghetto? Oddio, sto soffocando! – uggiola, le lacrime agli occhi, - Mi fa male tutto e non riesco a smettere, Chakuza! – protesta, come se fosse colpa mia o potessi farci qualcosa, poi.
- Sì, be’, potresti sempre provare cominciando a tapparti la bocca. – suggerisco con un’occhiataccia, alla quale Daniel risponde intensificando volume e frequenza delle risate. Roteo gli occhi, inspirando profondamente e tornando a guardare la strada.
- Sei stato uno stupido. – dice Fler a bassa voce. Non mi guarda neanche e il suo tono è gelido, quasi preoccupante.
- Mi dispiace. – ammetto abbassando lo sguardo, - Non credevo che—
- Avresti dovuto essere più prudente. – insiste lui. Noto solo adesso che ha le nocche bianchissime, tanto sta serrando le dita attorno al volante. – Mi sono molto preoccupato, Peter.
Annuisco piano. L’eco delle risate di Daniel si fa sempre più distante. Lui sta ancora ridendo, ma Fler è molto arrabbiato, più di quanto non mi stia lasciando intendere mentre mi parla, e questo rende tutto automaticamente molto meno importante, o degno d’attenzione.
- Scusami. – dico mesto, - Non lo farò più.
Se mi comporto come un bambino che si sente rimproverato dallo sguardo severo di suo papà, è solo perché mi ci sento.
*
Daniel crolla addormentato sul divano nel momento esatto in cui io e Chakuza glielo copriamo con un lenzuolo ed un paio di coperte. È esausto, devastato, e chiaramente non ce la fa più a reggersi in piedi.
- Dio, mi fa male tutto. – ripete in un mormorio straziante, mentre appoggia la testa contro il cuscino. Non è tipo da lamentele continue, ma questa frase l’avrà ripetuta almeno dieci volte negli ultimi venti minuti, è come se non riuscisse a dire altro, o non riuscisse nemmeno a formulare nella mente parole differenti. Forse è in questi istanti, mentre gli sistemo addosso la coperta e lui si lascia sfuggire un mugolio sofferente prima di chiudere gli occhi ed espirare a fatica, che decido quello che farò. Lo decido tutto, seguo un filo che mi porta fino all’uscita del labirinto e vedo dov’è che andrà a finire, quali conseguenze comporterà questa mia decisione, e forse, in qualche modo, inconsciamente le sto già accettando tutte. Ma solo inconsciamente, e questo non è il momento di parlarne: mi limito a rimboccargli le coperte trattenendo a stento un’imprecazione e una smorfia addolorata quando sento il suo corpo magro tremare sotto le mie dita, e poi mi rimetto dritto e vado in cucina.
Chakuza sta armeggiando con la caffettiera, anche se l’orario non è proprio adatto per un caffè, soprattutto considerato il fatto che siamo entrambi a stomaco vuoto da stamattina.
- Dorme? – mi chiede nervosamente, - Pensavo di mettermi a cucinare qualcosa.
- Dorme, sì, e credo che continuerà a farlo fino a domani mattina. – rispondo io, inarcando un sopracciglio, - Che è la stessa cosa che dovresti fare tu.
- Non sono stanco. – ribatte lui, posizionando la caffettiera sul fornello ed accendendo il fuoco.
- Chaku, - sospiro, - hai appena detto di volerti mettere a cucinare qualcosa. Sei uscito da un magazzino all’interno del quale per cinque minuti siamo stati tutti trasportati in un episodio speciale di Walker Texas Ranger, non più di un’ora fa. Se il tuo desiderio di metterti ai fornelli adesso non è un chiaro segno di squilibrio mentale, non so davvero cos’altro potrebbe essere.
Chakuza sospira a propria volta, spegnendo il fuoco ed appoggiandosi al ripiano, lo sguardo basso, tutti i muscoli ancora tesi. Lo osservo a lungo, aspettando che decida cosa fare. Alla fine, lo sento sospirare un’altra volta, e lo vedo annuire lentamente.
- Hai ragione, sono un po’ scosso. – ammette, - Magari mi riposo una mezz’ora.
- Magari vai a letto e ti svegli quando sarai in grado di andare in giro senza sentire ancora il fischio dei proiettili dentro le orecchie, che ne dici? – chiedo piano. Lui mi solleva addosso un’occhiata sconvolta, sembra stia chiedendosi quando sono entrato nella sua testa e come ho fatto a riuscirci senza che lui se ne accorgesse. – Mi è capitato, qualche volta, di trovarmi in mezzo ad una sparatoria. – rispondo, scrollando le spalle e distogliendo lo sguardo, - Quando ero più piccolo.
Chakuza resta per qualche secondo in silenzio, come a digerire l’informazione.
- Eri molto simile a lui? – chiede dopo un po’, tornando a guardarmi negli occhi. Io scrollo le spalle ancora una volta.
- Avevo la stessa convinzione di poter riuscire a risolvere tutto con le mie sole forze. – rispondo, - Che è il motivo per il quale molto spesso ci riuscivo davvero. Io sono stato più fortunato, però. Non ultimo perché almeno mio padre non mi picchiava, anche se suppongo fosse solo perché non c’era.
Chakuza annuisce, restando appoggiato al ripiano.
- Intendi prenderti cura di lui, vero? – chiede quindi. Io annuisco. – D’accordo. – dice, e io non faccio in tempo a dirgli che non mi serve la sua approvazione, perché lui mi sorride, un sorriso dolce, vagamente colpevole, ma più di ogni altra cosa complice. – Voglio starti accanto.
Io sbatto le palpebre un paio di volte, incredulo.
- In che senso? – chiedo confuso.
- Quanti sensi esistono per una frase simile? – ride lui, - Io ti amo. – spiega quindi, e quando mi guarda riesco a leggergli dentro che è vero, che lo pensa e che lo pensa sempre, anche quando fa o dice una cazzata, anche quando sa di stare per farmi incazzare eppure non riesce ad impedirselo, so che è il pensiero fisso che lo accompagna senza ossessionarlo da quando si sveglia a quando va a dormire, indipendentemente da quanti altri pensieri gli ruotino intorno, e so che è giusto così.
Gli sorrido, sentendo tutti i muscoli del mio viso sciogliersi in un solo istante.
- Ti amo anch’io. – rispondo piano. Lo accompagno a letto e lo osservo addormentarsi standogli semplicemente sdraiato accanto. Lui mi si spalma addosso istantaneamente e per una volta è palese che lo fa solo per sentire il mio corpo contro il suo, perciò gli circondo il collo con le braccia e lo lascio fare, ascoltando il ritmo del suo respiro mentre rallenta e poi si stabilizza. Dalla stanza accanto proviene il russare sommesso di Danny, che ha il naso troppo pesto per respirare bene e quindi fa un sacco di piccoli rumori che usualmente non farebbe. Sorrido. Penso che mi piace quello che sento, e ripenso a Chakuza che mi chiede se intendo prendermi cura di lui.
Intendo farlo, Chaku. Intendo davvero farlo.

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A code of conduct in escapology

di tabata
Vi guardo – si fa per dire – e mi chiedo perché sono ancora qui a parlarvi, io, e, soprattutto, perché siete ancora qui ad ascoltarmi voi. Onestamente pensavo di aver finito di raccontare, semplicemente perché cose che avesse un senso raccontare avevano smesso di accadere; insomma, parliamoci chiaro, a parte quell'unica notte in cui tutto è ricominciato – quella in cui abbiamo trovato David mezzo sbudellato e la nostra tregua personale si è così conclusa, riportando le cose esattamente, o quasi, come stavano prima – la nostra vita è stata solo un susseguirsi di coppie che si formavano, matrimoni di dubbio gusto, feste per festeggiare le coppie che si formavano e i matrimoni di dubbio gusto, e naturalmente l'annuncio dell'arrivo di un infante, che a pensarci un attimo potevamo pure aspettarcelo, a dire il vero. Poteva l'unica coppia in grado di generare autonomamente la vita – Tom e Cassandra – non generarla in un momento delicatissimo quale questo è, facendo tremare le fondamenta stesse del regno che Bushido ha, non senza fatica, rimesso di recente in piedi? Ve lo dico io, ma dovreste già saperlo, la risposta è no. Niente di ciò che ci accade, quando accade, lo fa al momento appropriato e, se anche lo fa, di solito finisce male. Quindi, ovviamente, proprio quando Bushido ha finalmente sentito di aver di nuovo ripreso in mano la situazione – la principessa era di nuovo la sua principessa e tutti i suoi sudditi erano nuovamente riuniti intorno al suo trono e asserviti alla di lui persona – ecco che Tom gli fa presente che può controllare tutto quello che vuole ma non le ovaie di Cassandra, e questo lo costringe a realizzare molto più velocemente piani che nella sua testa avrebbero preso – e dovevano prendere – anni. E quindi, case. Case per tutti, in cerchio intorno ad un parco privato, come le tende di un campo scout. Dateci ancora un po' di tempo e ci troverete a cantare kumbaya vestiti di lino e a mangiare radici ringraziando la Madre Terra.
Comunque, vedete, non è che si sia proprio fatto vita da ghetto, da queste parti, ultimamente e io pensavo che dopo quasi due anni di morti ammazzati, cadaveri nei canali e sangue grattato via dal pavimento di magazzini fatiscenti con la candeggina a notte fonda, fosse arrivato anche per me il momento di smettere di raccontare incessantemente la mia esistenza e quella di chi mi sta intorno; anche perché, diciamocelo, ne ho di cose da metabolizzare in privato – tipo che mi sono sposato con un uomo e che sono il tutore legale di un ragazzino, per dirne due tra le più importanti – e mi avrebbe fatto comodo potermi ritirare in silenzio. Ma quando c'è calma è perché deve ancora montare il vento. Sono trent'anni che campo in questo modo, tra un uragano e l'altro, e dovrei saperlo. Diciamo che ultimamente mi sono lasciato distrarre.
Come dicevo, l'ultimo uragano ci ha restituito David Jost inciso come un'antica tavoletta sumera e, dal ritirarsi delle onde di uno dei più grossi tsunami psicofisici della nostra esistenza, è nata la NEGJ – un'etichetta sorta dalle ceneri di un disastro per arginarne un altro ancora più grosso, cosa mai potrebbe andare storto? – e per un po', dopo, abbiamo avuto la calma, solo che non ce ne siamo proprio accorti perché, tanto per cominciare, noi non sappiamo nemmeno esattamente come sia fatta, la calma, come la si vive, come la si riconosce. Voglio dire, c'è sicuramente stato un tempo in cui noi tutti vivevamo vite normali, ma è un tempo lontanissimo, che sa di leggenda. Nessuno di noi ha veramente memoria di com'era alzarsi al mattino e andare a letto la sera senza che nel tempo che divideva un'azione dall'altra fosse successo qualcosa di assurdo.
Abbiamo passato due anni in cui un giorno sì e l'altro pure la gente moriva o rischiava di farlo, veniva accoltellata o perdeva la testa, finendo a farsi una passeggiata sull'autostrada in preda alle allucinazioni. Ad un certo punto eravamo tutto così fuori dal mondo che tra uscire insieme per una pizza e uscire insieme per far sparire un cadavere, ci sembrava più logica la seconda opzione. Quando abbiamo iniziato a fare cose normali da gente normale, eravamo tutti così stanchi di vivere che non ci abbiamo ragionato sopra. Forse una parte di noi pensava anche sì, ora sto lavando i piatti dopo aver pranzato, ma vedrai se tra cinque minuti non devo correre a picchiare qualcuno da qualche parte. E' che non eravamo abbastanza lucidi per sentirla quella vocina nella testa che ci diceva vedrai, vedrai...
Poi, lentamente, ci siamo acclimatati alla nuova situazione ed è diventata normale quella – cioè, non proprio normalissima perché comunque Bushido tende un po' a rendere assurdo tutto quello che tocca – ma più nella norma, ecco. Il cervello le fa queste cose, ti aiuta ad abituarti alla situazione in cui ti trovi e spesso, se è molto diversa da quella di prima, ti fa dimenticare qual era la tua vita precedente in funzione di quella attuale, così tu vivi più sereno. Ora, a grandi linee io me lo ricordo com'era nei due anni passati e anche in quelli precedenti, me lo ricordo com'era prima che Bushido morisse e poi com'era quando Bushido è tornato – ormai gli eventi sono a.B, Avanti Bushido, o d.B, Dopo Bushido – ma sono i dettagli che mi sfuggono, è la routine, ecco, quella non me la ricordo. O forse nemmeno ce l'avevo una routine, perché tutto succedeva a caso, ecco perché non me la ricordo.
Per dire, io, onestamente, non ve lo so più dire cosa facevo tre anni fa la sera prima di andare a convivere con un nano pelato che vive l'interezza della sua esistenza cercando di copulare con me. Forse uscivo a bere. Sì, probabilmente bevevo. Adesso faccio solo due cose prima di andare a letto. La prima è costringere Danny ad andare a dormire, così magari la mattina si sveglia in tempo e non devo poi costringerlo anche ad alzarsi per andare a scuola. La seconda è tentare – e quindi fallire – di non dare il culo a Chakuza, che lo pretende come il mio culo fosse un'offerta votiva e lui fosse un qualche dio azteco pelato. E se la prima potrebbe anche essere la verità, la seconda di certo non lo è. E' questa la mia vita adesso; sveglia al mattino, defletti Chakuza, manda Danny a scuola, vai a lavorare, pranza con Chakuza, defletti Chakuza, torna a lavorare, cena con Chakuza e Danny, spedisci Danny a dormire, dai il culo a Chakuza. E alle volte non mi riesce di defletterlo durante il giorno, quindi insomma.
Ma nel mio mondo – che suona epico, mi rendo conto, ma è vero, ve lo assicuro, voi non vivete nello stesso mondo in cui vivo io, non sapete nemmeno com'è fatto davvero il mio mondo – non si dimentica mai davvero un bel niente, perché dimenticare equivale a non sopravvivere. Ricordi le regole, ricordi gli errori, soprattutto gli errori, ricordi di chi fidarti e di chi invece no, il tuo stesso corpo ha memoria: delle botte, delle carezze, dei corpi toccati e di quelli persi, delle reazioni. La memoria muscolare è un requisito fondamentale per stare per strada, dove basta l'esitazione di un attimo per non avere mai più attimi in cui esitare. E questo vale anche quando tu per strada non ci vivi più – come io adesso – perché questa, come decine di altre cose che impari sulla tua pelle quando per strada ci sei nato e cresciuto e pensi che ci resterai per sempre – perché ci resti o lei resta dentro di te – è una cosa che ti rimane incollata addosso e prima o poi, ci puoi contare, ti torna utile. E infatti succede anche a me, e un po' muoio dentro nel dirlo perché, ripeto, un po' ci speravo che invece no.
Quando Sido chiama sono le sei del pomeriggio, non esattamente l'orario in cui cominciano le tragedie. Non è notte fonda, non piove, non ci sono le sirene della polizia ad accompagnare o seguire qualcosa andato storto, perciò non mi aspetto quello che sta per dirmi né quello che, ovviamente, succederà poi; ma sto correndo e non va bene. La sua voce, però, quella è sufficiente, prima ancora che mi dica tutto, a farmi capire che la vita – la mia, la nostra, ormai non c'è differenza – è appena cambiata. E' un po' come quel film con Gwyneth Paltrow in cui il corso degli eventi dipende da dove lei decide di andare o non andare, se è più lenta o più veloce, se fa una cosa piuttosto che un'altra. Ecco, io ormai ho risposto al telefono, quindi non c'è niente che io possa fare per fermare la catena di eventi che ho scatenato involontariamente premendo il tasto verde sul mio cellulare. E infatti il mio corpo si prepara all'impatto. Capisco che prima ero rilassato solo perché ora mi tendo e sono improvvisamente un fascio di nervi.
“Patrick?” dice lui e io ho già capito che qualsiasi tregua stessi vivendo è finita e oggi si ricomincia. In parte è anche il fatto che il mio nome in bocca a lui è sinonimo di sventura. Sido è uno che si è occupato di me in un momento della mia vita in cui nessun altro lo faceva – anzi in svariati momenti della mia vita in cui sono stato abbandonato a me stesso – e quando mi chiamava per nome io sapevo che la sua pazienza era finita e dovevo riprendermi, che qualunque momento no io stessi attraversando non era più un momento, ma una situazione e le situazioni andavano affrontate. “Sono nella merda.”
Questa, mi rendo conto, è una situazione.
Infatti, chiedo subito, “Cos'è successo?”
Con quella domanda si attiva anche Chakuza. Lo vedo che si immobilizza in mezzo al salotto, sull'attenti come un pastore tedesco. Avesse le orecchie in cima alla testa, sarebbero dritte per captare il minimo suono. Sarei pure orgoglioso delle sue capacità di reazione se non sapessi che l'unica cosa che lo preoccupa in questo momento – o sempre, a dire il vero – è Bill. Esplodesse la NEGJ con tutti noi dentro, l'unica cosa che chiederebbe ai soccorritori una volta arrivato sul posto sarebbe “Ma Bill come sta?” Che, voglio dire, anche io voglio bene al ragazzino, mica lo voglio morto, per carità, ma abbi un minimo di prospettiva, ma neanche, non lo so, pensa prima a tuo marito, magari? Ogni tanto mi piacerebbe sapere che, messo di fronte alla tragedia della mia possibile dipartita, avrebbe prima un pensiero per me e poi forse per il suo amante platonico perito al mio fianco, ma non posso contare nemmeno su questo. Mi giro e gli do le spalle, che continui a interrogarsi sulle sorti della sua principessa mentre io mi occupo di cose serie.
Sido, nel mentre, è a metà tra lo stupito e l'incredulo. “Ma non ci vai su internet?” Mi chiede. “Ti ho lasciato che eri una persona normale. Un anno con quella gente e sei diventato una bestia.”
Vorrei spezzare una lancia a mio favore e dire che, di solito, sono uno che si informa sulle cose ma, ultimamente, la stampa – quella che può riguardare noi e quindi Sido, intendo – è pesante da digerire. Quando va bene, i giornalisti di settore ci guardano con condiscendenza e rassegnazione, come si fa con i bambini un po' indietro sul programma, e si aspettano di vederci finire a gambe all'aria ancora una volta. Quando va male, ci criticano aspramente o intervistano qualcuno che lo faccia al posto loro, alimentando il mercato delle diss contro di noi, il cui numero, al momento, raggiunge ampiamente le due cifre. Ci ha ricoperti di merda chiunque, non scherzo, e noi ad una certa ci siamo stancati di visitare rap.de e farci venire il sangue amaro. Se anche gli ordini dall'alto – da una parte quelli di Bushido, che ci ha messo la museruola, e dall'altra quelli di David, che gestisce la stampa su di noi esattamente come gestisce quella dei Tokio Hotel, e cioè calibrando con precisione quanto rispondere a chi e quando – non ci avessero imposto di voltarci dall'altra parte e ingoiare momentaneamente il rospo, avremmo smesso di leggere comunque. Quindi, se non ho idea di cosa stia succedendo esattamente al di fuori degli uffici della NEGJ, ho le mie motivazioni.
Ad ogni modo mi rendo conto che se Sido mi ha chiamato in seguito a qualcosa che lo riguarda e di cui si parla su internet, la faccenda è più seria di quanto pensassi. Spero solo che sia qualcosa che posso risolvere senza dover smontare il portellone posteriore di un'auto, stavolta. “Facciamo che me lo dici tu e risparmiamo tempo,” gli dico.
“Cristo,” lo sento imprecare sottovoce. “Hai presente Nyzaad?”
Devo fare mente locale, ma il nome mi dice qualcosa. Poi mi ricordo che è la ragazzina che Sido ha scritturato poco dopo essersi preso in casa Nyze. Quando lo ha saputo, Bushido è scoppiato a ridere e non ha smesso per dieci minuti buoni. Quando gli abbiamo chiesto che cosa ci trovasse di tanto esilarante, ci ha risposto che Sido doveva proprio essere disperato per prendersi i suoi scarti di seconda mano e poi scritturare una minorenne, che se voleva fare a gara di ragazzini, la NEGJ lo avrebbe stracciato anche su quello. Ora, io non lo so se sulla nostra scena musicale abbia più peso Bill o una sconosciuta che però, a differenza di Bill, fa rap, ma è pur sempre vero che scritturare adolescenti è sempre una mossa azzardata, a meno che tu non abbia per le mani il nuovo Tupac che, però, onestamente, non credo sia questo il caso. “Il tuo nuovo acquisto?” Chiedo. “Che cos'ha combinato?”
“Lei niente, ma Nyze ha fatto in modo che i giornalisti ci vedessero insieme.”
Resto in silenzio per qualche secondo, do il tempo a lui di riformulare la frase o al mio cervello di accettare quella che ha detto e, visto che lui non riformula, io mi schiarisco la voce. “In che senso?”
“Secondo te in che senso?!” Scatta lui nervosamente. “Patrick, cazzo, ma cosa sei, rincoglionito!?”
“Ma avrà sì e no tredici anni!” Mi riscuoto.
“Quattordici. Quasi quindici in realtà, ma ho problemi peggiori in questo momento.”
“Eh, non lo so se ce li hai, sai?” Commento, scettico. Dovrei informarmi meglio, ma sono quasi certo che l'età del consenso sia molto più alta. E lo so che io dovrei stare zitto perché neanche Danny era maggiorenne, ma mi piace pensare che fosse un po' più vicino alla maggiore età di questa cosina qua che, a stento, deve aver cominciato la scuola secondaria. Che cazzo, Sido!
“E' incinta,” fa lui, che evidentemente, mentre non guardavo, ha deciso che a questo punto della sua vita doveva suicidarsi professionalmente – ma anche letteralmente – e, a parte farsi esplodere in Alexanderplatz in nome della razza ariana o di quella sinti – non so esattamente quale delle due senta più vicina –, lo ha fatto nel modo più spettacolare.
“Va bene, hai vinto, hai problemi più gravi,” ammetto.
“L'etichetta mi sta già scaricando, questa cosa non può saltare fuori adesso,” fa lui.
“Per quello abbiamo tempo,” dico, cercando di fare il punto della situazione. Potremmo anche rimediare prima ancora che qualcuno lo scopra. No, anzi, dobbiamo rimediare prima che qualcuno lo scopra perché questa cosa non è assolutamente accettabile.
Lui, nel mentre, si perde dietro alla situazione di merda che dev'essere la sua vita in questo momento. “Doreen avrà sicuramente già visto le foto,” sospira. “Tornerà a casa giusto il tempo di prendermi a schiaffi, fare le valige e portarsi via la bambina.”
“Che altro cazzo ti aspetti che faccia?” Gli dico. “Che ti batta una mano sulla spalla e ti faccia i complimenti per la grandissima testa di cazzo che sei?”
“C'è dell'altro,” continua. E io apprezzo il fatto che sappia prendersi le offese quando se le merita – d'altronde non mi aspettavo niente di meno da lui – ma vorrei che non mi dicesse le cose a pezzi. “E' la figlia di Saad.”
Perfetto. A posto. Almeno adesso so perché questo è anche un problema mio. “Dove sei?”
“Barricato in studio, qua fuori è pieno di giornalisti.”
“E lei?”
Silenzio. E poi, “E' qui,” dice.
Bene, penso. L'ultima cosa che ci serve è un'adolescente nel panico braccata dai giornalisti. Sarebbe una mina vagante e le mine vaganti sono sempre pericolose; ma questo è tutto quello che so riguardo a situazioni del genere. Quando ero ragazzino e Arafat aveva un problema, di solito era un problema che andava fatto sparire, perciò sono ferratissimo su quel tipo di risoluzione, ma qui la situazione è diversa e ci vuole un tipo di tatto che non sono sicuro di avere. Mi serve un esperto di micromanagement che abbia esperienza con i media. Fortunatamente – tra tutte le sfighe – ne conosco uno. “Dammi dieci minuti,” dico a Sido. “Ti richiamo.”
Quando mi volto, trovo Chakuza che mi guarda con apprensione e, da come stringe le dita intorno alla bottiglia d'acqua che tiene in mano, sospetto non si sia mosso dall'ultima volta che l'ho guardato, circa un quarto d'ora fa. “Lui sta bene,” gli dico, ponendo fine alle sue inutili sofferenze. E vi giuro che vorrei prenderlo a schiaffi quando vedo tutto il suo corpo rilassarsi. Non ho nemmeno specificato chi, ma io so che lui sa che io so di chi gli interessava sapere. “Era Sido.”
La sua faccia si accartoccia in una smorfia fuori luogo in qualunque situazione, ma soprattutto adesso. “E cosa voleva?”
“E' nella merda.”
“E quindi?” Fa lui.
“E quindi ora chiamo Jost,” rispondo.

*

Chakuza impiega dieci minuti per decidersi a parlare e io apprezzo che abbia almeno prima tentato di stare zitto, sebbene senza riuscirci. Sono progressi che accolgo con la gratitudine che di solito si riserva ai miracoli del divino. “Non capisco perché dobbiamo farlo,” mi dice, mentre rallento al semaforo.
“Perché è una nostra responsabilità,” rispondo.
“Perché?” Insiste lui.
Si è voltato a guardarmi, così lo guardo anche io. “Perché è la figlia di Saad,” rispondo. Dovrebbe essere una ragione sufficiente per chiunque fosse coinvolto nella questione, ma non lo è per lui, evidentemente.
“E allora? Non l'abbiamo mica messa incinta noi.”
E meno male, penso. Almeno questa l'abbiamo scampata. Per una volta, essere tutti omosessuali ci torna utile. Le gravidanze indesiderate non ci appartengono. “Ma che c'entra?! Non è per questo che stiamo andando a prenderla.”
Quando ho chiamato David, lui non ha fatto domande, ha solo preso atto della situazione. A trovare soluzioni in breve tempo ha imparato facendo il manager, ma a farlo qualunque siano il problema e la situazione glielo ha insegnato Bushido. E' incredibile con quanta elasticità mentale sia passato dalla sua vita precedente a questa e poi le abbia unite diventando, non lo so, l'assistente definitivo. Ad ogni modo, mi ha detto che in nessun modo possiamo lasciare che la stampa abbia modo di vedere – e meno che mai parlare con – Nyzaad. Nelle prossime ore, mi ha spiegato, l'Aggro Berlin farà di Nyzaad una martire e userà Sido come capro espiatorio, prendendo le distanze da lui – lo ha detto con la sicurezza di uno che ha già visto il futuro e io non so se è perché gli è già capitato altre volte o se questa è la prassi standard per le etichette quando il nome di punta che le rappresenta si porta a letto una minorenne – il che significa che Sido si ritroverà molto solo e molto in fretta. Qualsiasi dichiarazione ufficiale da parte sua dovrebbe essere gestita con attenzione. Posso farlo io, mi ha detto, ma non senza il consenso di Bushido, e il solo fatto che abbia pensato a questo dettaglio vi dà la misura di quanto ne capisca, David, di tutto quanto. Gli ho detto che ovviamente capivo e poi abbiamo concordato che, in ogni caso, intanto possiamo occuparci di far sparire la ragazzina. E con sparire intendo mettere in un posto sicuro, ha specificato. Pensa come sarebbe stato se, per dire, avessimo avuto una di quelle incomprensioni linguistiche da film sulla mafia di serie Z.
“Tra l'altro,” prosegue Chakuza dopo un'altra preziosa parentesi di silenzio, “quanti anni hai detto che ha questa?”
“Quattordici o quindici.”
“Ecco, quindi stiamo anche andando ad aiutare un delinquente,” continua. “Ci manca solo che ci accusino di favoreggiamento.”
“Certo, perché se non fosse per quello che stiamo andando a fare, saremmo due persone che non hanno mai fatto niente di illegale in vita loro,” commento.
Lui incrocia le braccia al petto, diventando sostanzialmente una palla. “Almeno non siamo pedofili,” borbotta.
E' difficile dargli torto, ma non mi va di discutere su questo punto specifico, quindi cerco di spostare la sua attenzione altrove. “Vedila così,” gli dico. “Lascia perdere Sido, pensa a lei, a noi due, e forse anche a qualcun altro, conviene darle una mano. Non fosse altro che per il karma, tu cosa dici?”
Questo, ovviamente, lo zittisce per tutto il resto del viaggio.
Sido ha uno studio privato che comprò quando all'Aggro c'era ancora Bushido. Ai tempi, prima di Doreen, lo usava principalmente per portarci le groupie. Poi, quando è arrivata Doreen, ha cominciato ad andarci a lavorare davvero perché in casa c'era la bambina e agli studi dell'etichetta c'era troppo casino. Sarebbe stato perfetto se, ora che siamo tornati alle groupie, avesse ripreso ad usarlo, almeno non dovremmo eseguire questa manovra strategica di estrazione direttamente dagli studi dell'Aggro Berlin. L'unica cosa buona di questo posto è che è all'interno di un palazzo che ha un parcheggio sotterraneo. Le poche gioie che sto collezionando stamattina me le tengo strette. Faccio il giro del palazzo e vedo che qualcuno dei fotografi ci segue con lo sguardo, ma sia io che Chakuza siamo irriconoscibili sotto la tesa del cappellino e il cappuccio della felpa, perciò tornano tutti immediatamente a fissare le finestre del secondo piano che sono chiuse e con le tende tirate.
Sido ci accoglie con la faccia di uno che ha perso il controllo della propria vita ormai da giorni e non ha la minima idea di come recuperarlo. Le mani gli tremano così forte che a stento riesce a tenere in mano la tazza di caffè che ogni tanto si porta alla bocca. Non sono abituato a vederlo in questo stato. Lui mi fa un cenno mentre attraversiamo la porta e poi si acciglia quando riconosce Chakuza. “Lui cosa ci fa qui?”
“Me lo sto chiedendo anche io,” borbotta lui. “Quindi facciamoci un favore ed evitiamo l'argomento.”
Sido annuisce. Sospetto che, in questo momento, gli andrebbe bene qualunque cosa che possa in qualche modo tirarlo fuori dalla merda in cui si è infilato.
Io mi guardo intorno, come sono abituato a fare quando entro in un posto nuovo. All'inizio era una questione di sopravvivenza – quando avevi in spalla uno zaino pieno di droga che non ti apparteneva, non mettevi piede in una stanza senza avere idea di quanta gente ci fosse dentro e chi fosse quella gente – poi questa cosa mi è rimasta addosso, come tutte le altre, e ho cominciato a farla per abitudine. Entro in posta, al supermercato, in banca, e conto i cassieri, le guardie armate, le vie di fuga. In questo momento, però, mi sembra che questa abilità che ho sviluppato e affinato negli anni sia tornata al suo scopo originario. E infatti, appena metto piede nello studio, mi passa per il cervello il pensiero che forse è una trappola e ci siamo cascati con tutte le scarpe. Magari non c'è nessuna ragazzina incinta e volevano solo farci fuori. Se vogliono ammazzare me, penso, è per colpire Bushido perché lui, sì, uscirebbe di testa se io morissi. Mi rendo anche conto che sono da solo perché Chakuza io lo amo, ma lui è utilissimo solo se ti serve una cena per dieci persone pronta in un paio d'ore, ma in uno scontro armato è come portarsi dietro un bambino. Di buono, si fa per dire, c'è che sarebbe uno scontro armato molto breve, comunque, perché io non ho una pistola.
Nello studio, però, non c'è nessuno a parte Sido, che sta già facendo strada a Chakuza, il quale naturalmente non ha nemmeno pensato all'eventualità che questa potrebbe essere la nostra tomba. Mi rilasso leggermente e do un'ultima occhiata, tanto per stare tranquillo, e sto per chiedere dove sia la ragazzina, quando una porta di cui non mi ero accorto in fondo al corridoio si apre – bravo, Fler, penso, bella ricognizione – e ne esce questo esserino biondo che si pulisce la bocca con il dorso della mano.
Anche se non sapessi chi è, la riconoscerei comunque perché la guardo e vedo sua madre nella delicatezza del suo viso e nei suoi capelli dorati – non biondi, dorati proprio – come quelli di Greta. Ma soprattutto la guardo e vedo suo padre nella rabbia violenta con cui mi sta fissando. E' la sintesi esatta dei suoi genitori, e un po' ne ho paura, perché so che a spingerla è il rancore di Saad e a tenerla in piedi è la dignità di sua madre, e queste due cose insieme sono pericolose.
“Che cosa ci fai tu qui?” Mi ringhia addosso. Poi la vedo che sposta lo sguardo dietro di me, perché Chakuza, evidentemente, si è avvicinato. “Ah, siete venuti entrambi, vedo. Vi ha mandato lui, immagino. Perché è così che funziona, no? Lui ha un problema, voi vi sporcate le mani.”
E io lì capisco con orrore cose che avrei preferito non sapere. Che questa ragazzina sa tutto, per esempio. E non ho alcun dubbio che lo sappia e che non stia fingendo perché glielo leggo in faccia e perché so – semplicemente lo so, perché è una cosa che avrei fatto anche io – che sua madre le ha detto tutto quando ha reputato che fosse il momento giusto. Solo che, Greta, Cristo, Greta, non voglio dirti come crescere tua figlia, ma era troppo piccola per sapere. E' troppo piccola perfino adesso. Mi scambio uno sguardo con Chakuza che, miracolosamente, è al passo con la situazione; sarà che lo spettro della galera lo rende reattivo.
“Siamo qui per aiutarti,” le dico.
“Nessuno vi ha chiesto niente!” Sibila Nyzaad, che si pianta in mezzo al corridoio con aria di sfida. Sono sicuro di poterla sollevare con un braccio solo – peserà quaranta chili bagnata – ma sono anche certo che prima di permettermi di farlo troverebbe il modo di prendermi a calci e pugni finché non ci ripenso.
“Li ho chiamati io,” si intromette Sido, avvicinandosi.
“Beh, nessuno ha chiesto niente neanche a te, Paul!” Fa lei.
Mi fa strano sentirla chiamare Sido per nome perché non lo faccio nemmeno io. Lo fa solo Doreen. E allora capisco un'altra cosa importante, che il livello di intimità fra questi due è molto più profondo di quello che mi aspettavo e questo complica le cose.
“Ci serve una mano per uscire da questa situazione,” le spiega pazientemente lui.
“E la chiedi a loro?” Fa lei.
Lui sorride amareggiato. “Al momento sono un po' a corto di amici,” commenta.
“Loro non sono tuoi amici.”
Sido si stringe nelle spalle con la rassegnazione di qualcuno che fa fatica a vedere tutto o bianco o nero come fa lei che è una ragazzina e, sicuramente, divide il mondo in amici e nemici, dove i nemici sono quelli che le hanno ammazzato il padre e gli amici sono quelli che la aiuteranno ad ammazzare noi, suppongo. Il mondo non va quasi mai così, ovviamente, però lo capisci solo quando cresci. “Questo passa il convento,” commenta Sido. “Fatteli bastare. Ti prendo qualcosa da bere.”
Quando lui sparisce nel cucinotto, lei ci guarda e le sue intenzioni nei nostri confronti sono così chiare che io davvero non so bene come finirà questo stallo alla messicana nel corridoio.
“Non ho bisogno del vostro aiuto,” ci informa, superandoci entrambi e guidandoci nel corridoio. “Mi basta uscire di qui e dire quello che so al primo giornalista che incontro.”
“Non hai nessuna prova,” le faccio notare. Lo so che è un azzardo – le prove non ci sono adesso, ma il cadavere salterebbe fuori a dragare il canale e io non lo so se non ce ne sarebbero su di lui – ma non ho molta altra scelta.
“Mia madre potrebbe confermare.”
“Tua madre conosce le regole,” le dico seriamente.
Lei mi guarda con una tale quantità di oltraggio negli occhi che mi sentirei in colpa se mantenere questa recita non fosse di vitale importanza per me e Chakuza, principalmente, ma per tutti quelli che ci stanno intorno. “Non venirmi a parlare di regole!” Mi dice. “Avete ucciso mio padre per niente!”
“Tuo padre aveva ucciso Bushido.”
“Bushido non è mai morto!”
Ed è sempre quello il problema, mi dico, che Bushido non è morto. La quantità di casini che ci sono capitati tra capo e collo nell'ultimo anno dipende tutta, ma proprio tutta, da questa semplice constatazione: Bushido doveva essere morto e non lo è. Quando se n'è andato, noi abbiamo perso un pezzo e ci abbiamo costruito intorno e quando è tornato, lui si è ficcato a forza nel posto che aveva lasciato libero, ma c'è qualcosa che non va. E' come quando guardi un muro con un mattone che è leggermente più chiaro degli altri : è un mattone, è nel posto giusto, ma lo noti subito, lo noti troppo, come qualcosa di sbagliato. E così torniamo sempre lì: se Bushido fosse rimasto morto, ora...
“E' stato un regolamento di conti,” insisto. “Noi non potevamo sapere.”
“Questo non è un mio problema.”
Ho questa ragazzina davanti e non posso darle torto – non sono Bushido, non riesco a pormi di fronte al mondo credendo fermamente di avere sempre ragione – ma è difficile convincerla a fare come dico io quando è chiaro che la cosa più ragionevole da fare è quella che dice lei. Con Bushido in vita, Saad è morto inutilmente: l'unica soluzione è pareggiare i conti. “Nyzaad, questo non riporterebbe in vita tuo padre.”
“Però quando vi siete vendicati di mio padre, Bushido è tornato in vita,” dice lei.
“Solo perché non era mai morto,” le faccio notare.
Lei alza gli occhi al cielo. “Lo so, idiota, non sono mica ritardata,” mi dice, disgustata dal fatto che non colgo il suo frizzante senso dell'umorismo. “Ma a me non importa se questa volta non funzionerebbe, io voglio solo che la morte di mio padre venga vendicata e che la feccia che siete finisca dove merita. Una volta tolti di mezzo voi, anche il regno del re dei re avrebbe finalmente fine come è giusto che sia. Queste sono le regole. Mia madre non le ha capite per niente.”
Non è così facile, penso. Se lo fosse, Nyzaad, le nostre faide non durerebbero anni. Non ci lasceremmo per poi riprenderci per poi odiarci per poi trovarci ancora e perderci il giorno dopo. E quando arrivi ai coltelli, prima, e alle pistole poi, le cose si fanno ancora più complicate perché i limiti fanno presto ad essere oltrepassati. E io lo capisco che, occhio per occhio, tu vuoi giustizia per un cadavere – l'unico che è rimasto per terra alla fine della storia – ma non te la posso concedere, e io credo che non lo farebbe nemmeno tuo padre perché lui saprebbe che abbiamo agito com'era giusto per quello che sapevamo allora. Lui saprebbe che in qualche modo contorto siamo pari, noi e lui, perché abbiamo tutti guadagnato qualcosa – poco – e perso qualcosa – tanto, troppo. Ma come lo spiego a te, che ci hai solo rimesso?
Sto per aprire bocca, anche se non so bene cosa dire, ma Chakuza mi precede e io mi preoccupo perché se c'è una possibilità di peggiorare la situazione esprimendo un pensiero, lui di solito lo fa. E qui ce ne sono parecchie; e invece. “Avresti potuto farlo in qualunque momento,” dice, con una calma che non gli ho mai sentito nella voce. Si gira lei e mi giro io, e lo guardiamo. “Parlare con i giornalisti, intendo, ma non lo hai fatto. Sei qui da ore.”
Lei guarda altrove arrabbiata, incrociando le braccia al petto. “Potrei farlo adesso.”
“Certo,” annuisce lui. Chakuza, non ti seguo, dimmi che hai un piano. “Ma ci sarebbe un processo e tu non potresti sparire. Indagherebbero su questa storia delle foto, scoprirebbero la tua situazione e Sido ci andrebbe di mezzo.”
Lei pianta gli occhi sul pavimento. “Potrebbe non esserci nessuna situazione da scoprire.”
“A meno che tu non voglia farlo in casa, troveranno la tua cartella clinica, te lo garantisco,” le dice Chakuza, come se lo sapesse con assoluta certezza. “Sido ha quasi trent'anni e tu sei minorenne, finirebbe nella cella accanto alla nostra e butterebbero via la chiave. Ma non te lo devo dire io, questo, vero?”
Lei non risponde, ma sa che è la verità; e mentre lei si appoggia al muro sbuffando come l'adolescente che è, io guardo Chakuza e sono pieno di meraviglia, perché quest'uomo sostanzialmente quasi sempre inutile sa essere pieno di sorprese, a volte. O forse è solo che Nyzaad è una ragazzina – ancora più piccola della nostra illuminata sovrana – ed evidentemente a mio marito, quando si tratta di adolescenti e preadolescenti, scatta qualcosa nella testa e diventa un'altra persona. D'altronde avrei dovuto saperlo perché l'ho visto con sua sorella, ma soprattutto l'ho visto con Danny: nonostante sia geloso di lui, gli prepara tre pasti al giorno ed è riuscito, con un polso di ferro che non ha neanche per se stesso, a dargli una routine, neanche fosse sua madre. Forse abbiamo trovato un posto per lui in questo circo che siamo diventati: lui si occuperà delle pubbliche relazioni con chiunque sia sotto i vent'anni.
Sido sceglie quel momento per rientrare con una tazza di tè fumante. “Ecco, tieni,” le dice, porgendogliela. Dopo la discussione che abbiamo appena avuto questa scena è surreale, ma poi mi rendo conto che siamo tutti – ma proprio tutti – così spostati che a quanto pare stiamo recitando nella prima commedia romantica sulle gang di strada mai prodotta. Gang's Anatomy, o qualcosa del genere.
Nyzaad prende la sua tazza di tè e si stacca dal muro. “Vado con loro,” annuncia poi, prima di sparire nel corridoio.
Sido guarda prima lei e poi noi. “Come l'avete convinta?” Chiede, e c'è del sollievo ma anche della meraviglia nei suoi occhi stanchi.
“Non senza difficoltà,” commenta Chakuza, che mentre non lo tenevo d'occhio si è seduto su divano e sta facendo zapping come se nulla fosse. Lo conosco abbastanza da sapere che si è già scaricato. Qualsiasi tipo di tensione lo tenesse sull'attenti finora si è esaurita nel momento in cui ha capito che siamo riusciti ad ottenere quello per cui siamo venuti. “Fortunatamente è più sveglia di te e ha capito la situazione.”
Sido gli lancia un'occhiata storta nella quale riesco a vedere l'eco dell'uomo che era solo qualche mese fa quando sono tornato a vivere a casa sua perché Chakuza mi aveva fatto infuriare. Ricordate quando Chakuza poi è venuto a prendermi? Ecco, quella volta lì. Ma a quanto pare per lui era una vita fa. La conosco bene questa sensazione di ere geologiche che si susseguono all'interno di brevissimi periodi di tempo. Io, per dire, sono alla quarta.
Comunque sia, Sido mi afferra per un braccio e mi tira da parte in un angolo dello studio dove né Chakuza né Nyzaad possano sentirci e mi guarda serio. “Ascolta, io lo so quello che sa Nyzaad,” mi dice senza girarci intorno. “Lo so perché me lo ha detto lei, ma lo avevo intuito anche prima perché Saad di certo non aveva lasciato Berlino di sua spontanea iniziativa e a farlo sparire non potevi essere stato che tu.”
“Sido—“
“No, ascoltami. L'ho capito appena ha cominciato a girare la voce e non mi interessa. Quello che avete fatto è una questione vostra e io non voglio entrarci,” mi interrompe prima che possa anche solo provare a spiegargli le mie motivazioni o, non lo so, a giustificarmi perché a dirgli la verità è stata una ragazzina di quattordici anni che voleva rovinarmi e non io, dopo tutto quello che lui ha fatto per me. “Voglio solo che tu sappia che non le avrei mai permesso di trascinarti nella merda ed è per questo che siamo in questo casino.”
“Sido, non so di che cazzo stai parlando.”
Lui mi guarda con determinazione e poi mi abbraccia. “Avremo modo di parlarne, ora portala via,” mi dice, senza chiarire assolutamente niente.
Vorrei fargli delle domande, ma Nyzaad è appena tornata trascinandosi dietro uno zainetto grande abbastanza per contenere appena un cambio e poco altro. Chakuza si fa avanti per prenderlo – il suo animo da cavaliere servente si è acceso come un fiammifero, lui stesso d'altronde lo sembra, – ma lei non ci pensa neanche a lasciarlo andare. Se lo sistema meglio sulla schiena e incassa le spalle, quasi sparendo sotto una felpa che è il triplo di lei. “Come ci muoviamo?” Chiede.
Ci muoviamo che devi diventare invisibile, bambolina.

*

Ad un certo punto della mia esistenza – quando ho cominciato a cantare, per la precisione – ho giurato a me stesso che non avrei mai più fatto il corriere per qualche signore della droga. Il mio intento era trovarmi un lavoro vero, cantare possibilmente, non iniziare a contrabbandare esseri umani. Ma, come dice sempre mia madre, al proprio destino non si sfugge mai. Sarebbe solo carino, per una volta, non avere un destino di merda. Così, per cambiare. Invece eccomi qua, mentre due ali di folla si aprono al passaggio della mia auto che avanza a due chilometri orari per non mettere sotto nessuno. Nella mezz'ora – contata, giuro – che siamo stati nello studio di Sido, il numero dei giornalisti è triplicato. Sanno che si trova nello studio e sanno che prima o poi dovrà anche uscirne, perciò aspettano. Tutto sta nel vedere chi si stancherà prima, loro o Sido.
Io cerco di non apparire rigido al volante mentre qualcuno di loro – troppo, troppo vicino – sbircia dentro l'auto per capire se siamo interessanti. Sto sudando come se nel bagagliaio avessi dieci chili di coca appena arrivata dalla Colombia e invece ho soltanto una ragazzina distesa sul pavimento dell'auto, sotto una vecchia coperta. Non che sia meglio della droga, ma insomma.
“La vedranno,” sussurra Chakuza, o la statua di sale con le sue sembianze che mi è seduta accanto in questo momento. Era tranquillo finché eravamo nel parcheggio sotterraneo, si è pure occupato di nascondere Nyzaad personalmente, mentre io chiamavo Jost per tenerlo informato. Era talmente sicuro di sé che sembrava avesse passato la vita a nascondere minorenni, ma quando ha visto la folla che ci aspettava davanti agli studi, si è irrigidito e non si è più mosso. Colpa mia che gli ho detto di comportarsi normalmente per non destare sospetti. Cosa vuoi che ne sappia, Chakuza, di cosa sia la normalità.
“Non la vedranno,” rispondo, guardando dritto davanti a me, un po' per evitare di investire qualcuno e un po' perché sto cercando di mantenere la calma e lui non è famoso per avere su di me un effetto rilassante.
“Ci stanno addosso,” insiste lui.
“Ma non sanno chi siamo né che cosa trasportiamo,” dico. E poi Nyzaad è così minuta che, rannicchiata, riesce ad occupare solo lo spazio dietro al mio sedile. E' quasi come se sotto quella coperta non ci fosse niente. O forse questo è quello che vorrei, che nel tragitto dal parcheggio dello studio a qui fosse sparita, come un leprecauno.
Il leprecauno, però, parla. “Potrebbero chiederselo se non ti dai una mossa,” dice infastidita. “Se rallentiamo ancora un po', torniamo indietro nel tempo.”
Chakuza ride e io gli lancio un'occhiata che lo avvisa di quanto non scoperà stasera. Vedo la vita abbandonare i suoi occhi mentre perde il sorriso. “Silenzio, i mucchi di coperte non parlano.”
“Ti odio,” fa lei.
“Come farò a vivere d'ora in poi?” Commento, suonando il clacson perché si spostino. Va bene passare inosservato, ma di questo passo non ce ne andremo mai. Tutte le occhiate che riceviamo a quel punto me le sento addosso quasi fisicamente. Ora qualcuno ci riconosce, penso. Uno di questi giornalisti guarderà dentro la macchina e vedrà il sole riflettersi sulla fronte lucida di Chakuza. Siamo perduti. E invece no, la divinità che protegge i delinquenti ancora una volta ci arride. La gente si sposta, premo sull'acceleratore, siamo liberi.
Non appena siamo fuori dalla visuale dei giornalisti e ben avviati verso la nostra destinazione, mi permetto di tirare un sospiro di sollievo, che lo so che porta sempre male – questa volta no, però, giuro – ma ne ho bisogno, praticamente sto trattenendo il fiato da quando siamo arrivati. “Puoi venire fuori,” dico.
Percepisco Chakuza al mio fianco liberarsi dall'incantesimo e tornare un bambino vero e poi vedo la testa bionda di Nyzaad fare capolino dal sedile posteriore attraverso lo specchietto retrovisore. I suoi capelli sono un casino spettinato sopra la sua testa e quella felpa la fa sembrare ancora più piccola – non ci voglio pensare – mi sembra di portare in giro il mio cuginetto di quattro anni, se ne avessi uno e fosse femmina e fosse in realtà adolescente e incinta di uno dei miei più vecchi amici. Faccio due conti e penso se siamo ancora in tempo per scaricarla nel primo consultorio disponibile e poi andarci a gettare anche noi nel canale con tutta la macchina.
Nyzaad si sistema comoda e guarda fuori dal finestrino. Siamo già fuori da Tempelhof e nei quartieri alti dove un tempo – la sua era geologica precedente, immagino – viveva anche lei. Anzi, non siamo lontani da casa sua, se non ricordo male. Se se ne accorge, non lo dà a vedere. “Dove stiamo andando?” Mi chiede.
“Perché, hai delle preferenze?” Rispondo.
“Magari sì,” fa subito lei. “Fosse per me, gireresti la macchina e torneresti da dove siamo venuti. Da queste parti c'è solo gente con la puzza sotto al naso e i soldi che le escono dal culo.”
“Uscivano dal culo anche a te,” faccio presente.
“Da quello di mia madre,” precisa. “Ti sembro una che ne ha approfittato?”
No, penso. Poteva essere una ragazzina viziata che finge di fare la dura, ma dopo due giorni passati a dormire al freddo del ghetto torna indietro dalla mamma piangendo e invece lei si è trasformata. Ha lasciato indietro la sua vecchia pelle quando ha messo piede a Tempelhof ed è diventata qualcos'altro, anche se non so ancora cosa. E' coriacea, però. Fatta per resistere, come noi.
“Tempelhof non è un bel posto dove passare il tempo nascosti,” le dico.
Lei sbuffa. “Ma se non ci credi nemmeno tu?” Mi dice. “Comunque non hai risposto. Se fossi al mio posto non vorresti sapere dove stai andando?”
“Certo, ma sono al mio posto e non ho bisogno di chiederlo perché lo so.” Mi volto appena per sorriderle, ma lei non ricambia. Tutta quella rabbia che le vortica dentro senza un posto dove andare io me la ricordo, la provavo anche io e faceva male. Io, però, almeno non ero costretto a viaggiare dentro una macchina in compagnia degli assassini di mio padre. Io non ce l'avevo neanche un obbiettivo su cui scaricare la rabbia – l'universo, lo stato, il sistema? – ero arrabbiato e basta, quindi a lei deve fare ancora più male. Siamo qui, le mani macchiate di sangue, e lei non può farci niente.
Ad ogni modo, la sto portando a casa di Bushido, come mi ha detto di fare David. Quando gli ho fatto presente che poteva non essere la scelta migliore perché lei lo odia, David mi ha detto che ne era consapevole – Come? Che ne sai tu di questa ragazzina quando io la conosco da malapena due ore? Quanti occhi hai? Ti servi di un sistema di spionaggio di cui non siamo a conoscenza? Bushido lo sa? – ma che non abbiamo altra scelta. Serve una casa in cui possa sparire e nessuno di noi ne ha una sufficientemente grande che possa servire allo scopo. Ancora, per lo meno. Ho visto i progetti delle case che Bushido sta facendo costruire e, onestamente, non so se fra me e Chakuza abbiamo abbastanza mobili per riempire metà delle stanze. Quando litigheremo là dentro l'eco delle nostre urla andrà avanti per mesi e mesi.
Inoltre, e questa in realtà è una cosa fondamentale, da e verso la dimora reale c'è un costante via vai di auto ogni giorno, quasi a tutte le ore. Quando arriveremo e quando, una volta sistemata la faccenda, lei se ne andrà, nessuno noterà la differenza. Non sarebbe stato altrettanto facile se avessimo cominciato a fare avanti e indietro da una casa presa in affitto o da una delle nostre attuali case.
Non so quanto sia informata lei sulla Villa Gialla, o se ci sia mai stata quando era più piccola, ma spero onestamente che non capisca dove siamo diretti finché ormai non siamo dentro, non vorrei che decidesse di fare una botta di testa, aprisse lo sportello e si gettasse in strada. Anzi, va, fammi mettere la sicura alle portiere. Chi se ne accorge, naturalmente, è Chakuza – neanche lui era al corrente della destinazione – e lo vedo che si innervosisce subito perché non era pronto. Forse sta anche pensando che è uscito di casa con i primi vestiti che ha trovato, che non è pulito o sbarbato come dovrebbe, non è nella condizione appropriata, insomma, per presentarsi al cospetto della principessa. Peccato, Chakuza, il ragazzino dovrà accettarti per quello che sei: un nano impresentabile dal quale si è fatto entusiasticamente scopare per più di un anno. Non so se sarà in grado di affrontare la realtà. So per esperienza personale che ci vuole parecchio tempo.
Apro il cancello con il nuovo codice che Bushido mi ha dato e parcheggio accanto alla sua BMW e alla nuova Ford Lincoln che, a quanto pare, ha attraversato l'oceano atlantico per raggiungerlo. La terza, quella delle occasioni che ufficialmente non sono mai avvenute, è tornata sotto il telo fino a quando non servirà di nuovo. I cani ci vengono incontro abbaiando e scodinzolando. Nyzaad ride per la prima volta da quando l'abbiamo incontrata e accarezza la testa a Skyline, questo temibile e ferocissimo cane da guardia che si mette subito disteso e agita la pancia per farsela grattare.
“Togliamoci da qui”, le dico. Vorrei farla giocare con il cane, ma ho fretta di portarla dentro. Questo giardino ha i muri molto alti, ma non sarò tranquillo finché non la saprò in un posto dove nessuno può vederla.
Karima ci apre e ci fa accomodare nel salotto buono dove Bill ci raggiunge pochi minuti dopo, il viso serio e preoccupato perché ci siamo presentati senza preavviso. “E' successo qualcosa?” Chiede subito. “Stanno tutti bene?”
“Sì, tranquillo,” risponde Chakuza e si fanno questo mezzo sorriso che mi fa sempre prudere le mani perché, per un momento, si isolano e non c'è nient'altro per loro. E il modo che hanno trovato per gestirsi a vicenda senza fare danni, credo, ma i ceffoni che mi leverebbero dalle mani, se solo mi permettessi di perdere il controllo come a volte fanno loro due, inizierebbero a contarli ora e andrebbero avanti per i prossimi sei mesi.
“Siamo qui per un altro motivo,” informo la nostra principessa col pisello, così che possa pelare via gli occhi dal mio uomo e tornare a ricomporsi. “Bushido c'è?”
“No, mi ha chiamato poco fa. Torna più tardi, perché?”
“Vieni qua,” lo prendo per un braccio e lo tiro da parte mentre Chakuza spinge gentilmente Nyzaad verso il divano e le dice di accomodarsi. I cani, entrati in casa con noi, sono impazziti di gioia per la presenza di una persona nuova e fanno su e giù dal divano e dalle poltrone, abbaiando e cercando di attirare la sua attenzione.
“Chi è quella?” Bisbiglia Bill, lanciando un'occhiata alla ragazzina.
“La figlia di Saad,” rispondo. Si ricomincia.
Lui si volta di nuovo a guardarla, ma Nyzaad è troppo presa dai cani per accorgersene. Bill si volta di nuovo verso di me, gli occhi sgranati. “E cosa ci fa qui?” Bisbiglia ancora.
“E' nei guai e ha bisogno di un posto dove stare,” gli spiego molto semplicemente. “Solo per un po', finché non capiamo che cosa fare di lei.”
“Nel senso...?” Lui resta sul vago, confuso. “Ma l'avete rapita?”
“Cosa? No!” Lo prendo per una spalla e lo trascino ancora più lontano. “Ma se ti ho appena detto che ha un problema? Ma per chi ci hai preso, si può sapere? Quando mai abbiamo rapito la gente?”
“Che ne so di cosa fate! Magari era un corso di azione possibile!”
“No che non è un corso di azioni possibile! Insomma sì, ma no!” Poi mi rendo conto che questa discussione ha preso una piega surreale che neanche se mi impegnavo a farlo di proposito sarebbe venuta fuori così, perciò sospiro e mi calmo. “Bill, per favore, cerca di ragionare.”
“Sto ragionando. Non potete presentarvi qui e portarmela in casa,” mi dice, e ci prova a sostenere il mio sguardo, ma più che altro guarda per terra, una cosa che di solito è carina, ma ora in questo momento non tanto perché – strano a dirsi dopo tutti i nostri trascorsi – ora la persona fragile da proteggere in questa stanza non è lui ma lei, e io ho bisogno che Bill si tolga per un po' di dosso i panni di Raperonzolo e diventi il ragazzino cazzuto che sa essere quando vuole.
Io lo so che se Bushido dovesse arrivare e decidere che Nyzaad deve essere buttata in mezzo di strada e in pasto alla stampa, ci toccherebbe farlo, ma la realtà è che io so che Bushido non lo farà e non lo farà perché sarebbe contro le regole. E' sempre una questione di regole non scritte, di equilibri da rispettare, di comportamenti da tenere. Non saremo gente dell'alta società, ma ce li abbiamo anche noi i nostri non si fa e non sta bene, solo che ci sono tante di quelle sfumature che io non posso mettermi qui a spiegarle tutte a Bill una per una. Le imparerà vivendoci in mezzo, queste cose.
L'ospitalità, per dire, è sacra nei confronti degli amici, negata ai traditori e dovuta per onore ai nemici in difficoltà. Per questo David ha bisogno del permesso di Bushido per accollarsi le dichiarazioni ufficiali di Sido, ma non per decidere di scaricare Nyzaad a casa sua. Perché l'ospitalità gliela deve, tutto il resto no. Fosse solo per la sacralità del gesto, Bill non dovrebbe neanche fare discussioni, ma se anche il dettaglio gli dovesse sfuggire, dovrebbe rendersi conto di quanto pesi Nyzaad sulla sua vita. Questa è un'altra cosa che deve imparare e che gli posso insegnare subito. “Bill, ascoltami, questa cosa non è in discussione,” gli dico, così magari chiariamo subito che non gli sto chiedendo niente. “Le azioni hanno delle conseguenze e lei è la conseguenza delle tue.”
A quel punto lui sembra comprendere che non stiamo parlando soltanto di una ragazzina di quattordici anni parcheggiata in casa sua – nella casa del suo uomo, in realtà – che gioca con i suoi cani. Stiamo parlando di una notte a Tempelhof, di un colpo di pistola e di quello che ne è seguito che, per un po', è stato il suo senso di sollievo, la consapevolezza che aveva avuto la vendetta che gli spettava, e ora, invece, è questa cosina bionda qua, avvolta in una felpa più grande di lei.
Annuisce piano e sospira. “Che cosa dovrei fare?”
“Niente. Tienila qui,” gli dico. “Non farla uscire né affacciare alle finestre. Virtualmente lei non è mai stata qui e, se per una volta nella nostra esistenza abbiamo un po' di fortuna, la manderemo via prima che qualcuno si accorga che ci sia mai stata.”
Lui annuisce di nuovo e spero vivamente che quello sguardo vuoto con il quale guarda un punto non meglio precisato alla mia destra sia il segno che sta valutando la situazione e pensando a come procedere e non, come un po' sembra, che si stia dissociando dalla realtà come ha già fatto in passato. “Bill? Mi stai ascoltando?”
“Sì,” si riscuote lui e torna a guardarmi. Negli occhi è sparito il ragazzino ed è ricomparsa la donna del capo, quella determinata e dura come il cemento. Bravo, Bill, bravo. Lo so che speravi di rimandare il momento ancora un po' perché sei appena tornato. Noi stavamo prendendo le cose con calma, giuro, ma ci hanno forzato la mano. E' di nuovo un casino, bimbo, lo so, ma ne hai visti di molto peggio, no? Questa è una passeggiata. “Che cos'ha fatto?” Mi chiede.
Opto per la versione breve, anche perché è l'unica che so. “Si è trovata un uomo molto più grande di lei e la stampa lo ha saputo quattro anni prima che fosse legale.”
Lui mi guarda con la faccia di uno che ha già tratto le sue conclusioni e non gli piacciono. “Quanto più grande?”
“Diciamo Sido-più grande,” lo informo.
Bill fa una faccia disgustata. “Quell'uomo avrà quarant'anni!” Protesta.
“Quasi trenta, in realtà. Meno del tuo.”
“La mia situazione è completamente diversa,” fa lui, testardo. “Io sono maggiorenne ed ero comunque più grande di lei quando è cominciata.”
“E non eri nemmeno incinta,” sgancio la bomba e lui si gela, però fingo che questo pezzo di informazione non sia né più né meno grave di quelli che gli ho dato finora. Gli batto una pacca sulla spalla. “Conto su di te, Bill.”
E lui forse non lo sa che questo era un rito di passaggio che lui doveva attraversare prima o poi. Lo so che non ha scelto lui di rientrare nel gruppo delle donne del ghetto – che per quanto ci riguarda al momento sono molto, molto poche –, che a poter decidere, forse, avrebbe voluto essere qualche altra cosa, ma è andata così e ci sono cose che per questo gli sono dovute – il rispetto, ovviamente, fra tutte – e cose che invece lui deve al clan. Alcune di queste cose sono l'accoglienza, la cura, la comprensione incondizionate. Le donne del ghetto hanno tutte questo compito qui: sono porti sicuri a cui tornare o nei quali andare a nascondersi e riposare, a leccarsi le ferite. Gli uomini sono fiumi in piena in questo posto, si gonfiano, tracimano e distruggono. Le donne sono argini senza le quali ci spargeremmo ovunque. Cassandra è così. La madre di Anis è così. Mia madre è così. Io me lo ricordo che di quello che facevamo non voleva sapere niente, ma quando un paio degli uomini di Arafat si presentarono sotto casa di mia madre a cercare Bushido, non so nemmeno più per cosa, lei scese in pantofole e si piazzò in mezzo di strada, con le mani sui fianchi. Non era figlio suo e non gli doveva niente, ma era amico mio, perciò glielo doveva. E gli uomini di Arafat tornarono indietro, perché sarebbero stati uomini senza onore a fare altrimenti. E quando Anis si presentò due giorni dopo con il labbro spaccato e l'occhio viola – perché alla fine l'avevano beccato da un'altra parte – lei non fece domande. Lo fece sedere, lo curò e gli dette da mangiare, e poi lo rimandò fuori perché tanto era lì che lui voleva e doveva stare. E lo so che Bill non è una donna, ma so che è questo lo spazio che si è ritagliato da solo e quello, per altro, in cui si trova a suo agio. Non è proprio una questione di sesso, davvero. D'altronde, non ha saputo subito che cosa fare quando ci siamo presentati ricoperti di sangue l'ultima volta?
“Chakuza, stiamo andando,” informo la mia metà peggiore, che si sistema subito il berretto e fa un cenno a Bill, tenendosi a debita distanza. Le due enormi calamite legate dietro le loro schiene cercano di attirarli l'uno verso l'altro, ma la mia presenza da un lato e le notizie che ho appena scaricato addosso a Bill dall'altro li tengono ben ancorati a terra.
Lancio le chiavi a Chakuza, così si distrae. Benché le auto su di lui non abbiano più fascino di ciò in cui può infilare il cazzo, l'idea di essere lui a guidare e, quindi, a portarmi in giro, riesce sempre a fargli dimenticare quello che sta facendo in quel momento. Chakuza è un uomo dai ragionamenti complicati ma dagli automatismi semplici. Ci sono cose di lui che, se le capisci, riesci ad usarle per muoverlo come un burattino.
I cani ci accompagnano scodinzolando e abbaiando. Mentre saliamo in auto chiamo David.
Vorrei che fosse l'ultima volta che abbiamo faccende da sistemare, ma siamo solo all'inizio.

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