Green Eyed Monster - Vol. 1

di tabata
Qualche mese fa pensavo che per quanto ci avessimo provato, le cose non sarebbero mai tornate alla normalità. Voglio dire, avevamo scatenato un casino di dimensioni talmente epiche da ribaltare lo stato naturale delle cose, quindi mi aspettavo che – per quanto le acque potessero calmarsi – non ci sarebbe mai più stata una vera e propria condizione di normalità a cui tornare. E' quello che succede sempre quando ad un certo punto della tua vita ti rendi conto che tutto quello in cui credevi è andato a farsi benedire e intorno a te ci sono solo cose che non tornano. Sei così angosciato e perso nella tua personalissima e tragica visione delle cose che, in effetti, credi che non esisterà mai più una realtà diversa da quella che vedi in quel momento e che, per altro, ti fa stare malissimo. In realtà, poi, se anche ti sembra che il mondo vada a rotoli, non è detto che quello ci vada davvero. Anzi, non lo fa quasi mai. Tu sei lì che cerchi di rimanere a galla nel mare di problemi in cui stai affogando, e il mondo prosegue fregandosene di te e dei casini che hai per le mani in quel preciso momento. Quindi poi, alla fine, le cose in un modo o nell'altro si sistemano – magari non proprio nel modo in cui speravi tu, ma in qualche modo sì – e tu ritrovi la strada dalla quale ti eri momentaneamente allontanato e riprendi a funzionare con il resto del mondo. E' un po' come riprendere il filo di un discorso dopo che ti sei distratto un attimo. Ti chiedi Dov'eravamo rimasti? E riprendi da lì. Non te ne accorgi neanche, di farlo. Lo fai e basta, perché non dipende esattamente da te, ma da ciò che ti circonda, da quello che fai ogni giorno, dagli impegni e dagli affetti. Ti puoi volontariamente allontanare per un po', ma poi quelli tornano, ti assalgono e non puoi più ignorarli. Devi reagire e quando lo fai, basta, riprendi il via. Un giorno ti chiedi come si possa uscire da una certa situazione e il giorno dopo ti rendi conto che ci sei uscito, che lo volessi o no, che il mondo prima o poi riparte con o senza di te. E a quel punto fai meglio ad esserci perché se non ci sei è peggio.
Quel giorno per me è oggi. Sono disteso sul letto a guardare il soffitto e penso che sono felice. Non mi ricordo quando ho iniziato ad esserlo di preciso, ma non è successo adesso, di questo sono sicuro. Cioè, non è che ho aperto gli occhi e in quel momento sono stato felice. No, io so che lo ero anche mentre dormivo e quando sono andato a letto ieri sera, solo che non ci ho fatto caso. Ora invece è tutto quanto chiaro. Sono qui che guardo il soffitto e non la sento più quella morsa allo stomaco che mi faceva venire la nausea. Sto bene, ecco. Penso che quando capita in questo modo, cioè che passi un lungo periodo in cui sei così infelice da non sapere dove sbattere la testa e poi un giorno ti svegli e non lo sei più, significa che la felicità si è fatta strada piano piano, ha messo radici, è cresciuta e si è presa tutto lo spazio di cui aveva bisogno mentre tu ancora pensavi che niente mai sarebbe più tornato ad essere quello che era. E invece quella, la felicità dico, ora è ben salda dentro di te e ha intenzione di rimanerci il più a lungo possibile. Ha delle basi solide, penso, per rimanere lì ferma dov'è, nel centro esatto dello stomaco a liberare farfalle o a farti sentire leggero, o qualsiasi cosa sia che si sente quando si è veramente ma veramente felici. Insomma, penso che quando non sai com'è arrivata, non è una felicità momentanea, ma una cosa forte e duratura, il tipo di felicità migliore che esista. Lo penso davvero questa mattina.
Decido che questa conoscenza improvvisa vada condivisa così mi giro e cerco di fare più rumore possibile mentre lo faccio, ma Peter non accenna a svegliarsi. L'unica cosa che fa è allungare un braccio nel sonno e agganciarmelo in vita, per poi attirarmi a sé come un camion da rimorchio. Un attimo dopo sono incastrato tra lui e il materasso e ho poche speranze di uscire di lì se lui non decide altrimenti. Se non fosse che gli devo dire quanto sono felice, rimarrei qui dove sono perché non mi capita spesso di svegliarmi prima di lui. In genere quando apro gli occhi lui si sta già aggirando per casa a mettere in disordine o a far da mangiare, una delle due cose, quindi non lo vedo mai tranquillo e abbandonato come adesso.
Lo bacio piano sullo zigomo e sulla guancia e lui borbotta qualcosa di incomprensibile, infilandomi il viso nell'incavo della spalla mentre stringe la presa. Sto ottenendo l'effetto contrario, mi viene da ridere. Il fatto è che è stanchissimo, il mio amore, perché ha partecipato a non so quale manifestazione in Austria ed è tornato a Berlino solo quattro ore fa, l'ho sentito rientrare nel dormiveglia. In pratica non abbiamo neanche parlato perché quando è svenuto sul mio letto, stava già praticamente sonnecchiando e a me non è rimasto altro che accoccolarmi addosso a lui e riprendere a dormire. Quindi forse non dovrei tentare di farlo reagire baciandolo di nuovo, ma glielo devo proprio dire. Al terzo bacio arriccia il naso, ma si rifiuta ostinatamente di aprire gli occhi. “Bill, che c'è?” Mugola. “Ti senti male?”
“No,” rido. “No, affatto.” Lo bacio ancora sul naso e sulle guance. “Ti svegli?”
“Sono già sveglio,” commenta con gli occhi chiusi.
“Allora apri gli occhi.”
Sospira in maniera esageratamente drammatica e poi finalmente li apre. “Che succede?” Mi chiede, passandosi una mano sul viso.
“Sono felice,” dico. Cerco un bacio e lo trovo anche, perché Chakuza può anche dormire, ma è in grado di fare cose, nel mentre.
“No, sei una piaga,” mugola ridendo. “Sei felice di cosa?”
“Di tutto,” specifico. E quando lo spingo sul materasso si lascia stendere e maneggiare perché non ha ancora capito né come si chiama né dove si trovi esattamente, così io posso sedermi sopra di lui senza sforzo. Sbuffa solo un pochino quando atterro sullo stomaco. “Mi sono svegliato ed ero felice.”
Lui si mette a ridere. “Okay, sono felice che tu lo sia,” mi tira giù per la nuca e mi bacia di nuovo.
Io scivolo un po' in avanti e mi sistemo meglio. Gli do un motivo in più per non sgridarmi se l'ho svegliato. “... Ma credo di non avere molta autonomia per continuare questa conversazione.”
“A che ora sei tornato?” Chiedo.
“Le cinque.”
“Le cinque,” ripeto, baciandolo piano sul collo. “Sei un sacco stanco, allora.”
“Molto.”
Quando scendo a baciargli il petto, però, sento il suo respiro cambiare, così è facile capire che non è abbastanza stanco per decidere di non festeggiare questa mia felicità generale in maniera adeguata. Qualche giorno fa David deve avermi accennato ad una riunione, a delle prove, ad un'intervista o qualche altra sciocchezza simile per oggi. E non sono nemmeno tanto sicuro dell'ora, ora che ci penso. Dovrò chiamarlo. Ma al momento non vedo ragione per non rimanere un altro po' in questo letto ad occuparmi di quest'uomo così stanco e assonnato, appena tornato dalla terra straniera dove ha affrontato centinaia di austriaci tutto da solo.
“Credo che dovremmo fare qualcosa a riguardo.”
Sollevo gli occhi su di lui un'ultima volta, prima di scivolare oltre la linea dei suoi addominali. Quando mi chiama è relativamente sorpreso, perché in effetti non capita sempre che io sia così ben disposto. Non di prima mattina e di certo non così di punto in bianco. E' che non dev'esserci un vero e proprio motivo, o non è abbastanza divertente.
Peter a letto è uno a cui piace avere il controllo su qualsiasi cosa, per cui sedurlo è difficile. Voglio dire, non sto parlando di farlo cedere – quello è anche troppo facile. Addirittura non necessario a volte, perché lui parte sempre ben disposto a prescindere – ma di condurre il gioco, farlo impazzire un po', ecco quello è complesso. Farlo stare fermo e buono mentre tu fai il resto certe volte è impossibile perché a lui piace allungare le mani e averti sotto le dita, toccare, accarezzare. Gli piace averti, più di qualunque altra cosa. L'unico modo per coglierlo di sorpresa è fare qualcosa quando non se lo aspetta o quando, come adesso, si aspetta tutto un altro corso di eventi. E magari il fatto che non sia proprio ancora sveglissimo aiuta.
Così mi godo il suo corpo che si inarca sotto le mie labbra, mi godo il controllo che ho guadagnato e attendo con ansia quello che poi mi spetterà, una volta che gli sarà permesso di schienarmi come e quanto vuole. In questo preciso momento, io dovrei davvero fare uno sforzo e chiedermi se David non mi abbia detto qualcosa di importante, ma naturalmente non lo faccio.
Così quando suonano alla porta – non alla prima, non alla seconda, ma alla terza volta sì – sono costretto ad abbandonare i miei sogni di gloria e Peter è costretto a fare altrettanto perché non c'è modo di ignorare la voce insistente di Tom che chiama il mio nome.
Sospiro e lo bacio sul petto. “Mi dispiace,” mormoro e nell'allungarmi su di lui sento contro una coscia la speranza che Tom ha infranto senza pietà.
Chakuza mi prende per la nuca e mi trascina in un bacio profondo. “Ignoriamolo.”
Potrei. In questo momento ne ho molta voglia perché condivido la grossa speranza di cui sopra e mio fratello non rappresenta un ostacolo finché si trova al di fuori del mio appartamento.
“Bill, non costringermi ad aprire con le chiavi,” esclama Tom, alzando la voce. “Sappiamo entrambi che io non voglio vedere quello che stai facendo.”
Rido e piego un po' la testa per impedire a Chakuza di mordermi il collo. Ora che si è attivato, è difficile spegnerlo. “Devo aprire.”
“Scommetto che se lasci che entri per conto suo, poi non ci rompe più.”
“Forse,” mi scosto e gli do un bacio come consolazione. “Ma non vogliamo arrivare a questo.”
“No, non vogliamo,” cerca di convincersi lui, tirandosi su a sedere mentre io corro ad aprire la porta che Tomi minaccia di buttare giù a testate.
Mi do un'occhiata veloce: maglietta, pantaloni, capelli prima di aprire la porta con un sorrisone che inviti alla calma, alla pazienza e soprattutto all'amore fraterno duraturo nei secoli dei secoli, amen.
“Finalmente,” commenta Tomi, che non deve essersi svegliato affatto felice come il sottoscritto.
“Scusa, stavo...” gesticolo ma poi decido che non ho una scusa adeguata. “Ciao Tomi.”
“Ciao,” borbotta lui e si guarda intorno. Fa una scansione completa della casa ogni volta che viene a trovarmi come se si aspettasse di vederla cambiare irrimediabilmente o forse, non so, crede che un giorno sarà costretto ad entrare qui dentro con la forza perché nessuno gli aprirà e la troverà vuota. Non so come fargli capire che non ho nessuna intenzione di trasferirmi in Alaska da un giorno ad un altro senza dirgli niente. “Lui è qui?”
“Sì, sono qui.” Chakuza ci raggiunge e credo che il suo indossare soltanto i pantaloni del pigiama sia una chiara provocazione nei confronti di Tom. Saluta mio fratello con un cenno della testa, quindi ci supera per andare in cucina.
Non è che Tomi lo odi e credo che non lo disapprovi neanche. E' solo che ha sempre recitato la parte del fratello maggiore che deve proteggermi, quindi anche se si è imposto di non sclerare come è successo in passato, non riesce comunque ancora a passare sopra al fatto che Peter dorme da me tutte le volte che può e che, per questo, loro due s'incrociano molto spesso.
Quindi la situazione è questa: Tom non urla e strepita e, in generale si comporta molto bene, ma ha la necessità fisica di fare la faccia seria del Se fai del male a mio fratello, te la vedi con me, e di lanciare a Chakuza un sacco di occhiatacce. Fortuna vuole che Chakuza sia bravissimo ad ignorarlo, per cui in generale, non c'è molto da arginare.
“Beh, che succede?” Chiedo alla fine.
“Succede che David mi ha mandato qui a vedere se ti ricordavi dell'intervista di Bravo e a giudicare dal tuo pigiama e dalla faccia che non commenterò, direi che non te la ricordavi affatto.”
E allora mi torna in mente che in effetti David mi aveva parlato di un'intervista, per altro importantissima, perché è tipo la prima dopo l'uscita del singolo e dopo tutta questa grande rivoluzione. Ora che mio fratello me lo sta dicendo, ricordo perfino dov'eravamo, io e David, mentre mi spiegava per filo e per segno che cosa mi aspettava. Eravamo a pranzo fuori e lui aveva la faccia seria delle grandi occasioni. So che David mi ha chiesto di essere il più vago possibile su quello che riguarda la mia vita privata, anche se ovviamente la metà delle domande riguarderà quella. Sorridi, mi ha detto, ma non dargli corda. E per l'amor del cielo non ti arrabbiare. Come se fosse mai capitato in questi sei anni che per un qualche motivo io dessi di matto e staccassi la testa a morsi in diretta a qualcuno. “Sì, giusto, l'intervista,” cerco di fare mente locale. “Devo ancora farmi la doccia.”
“Allora muoviti,” alza gli occhi al cielo e mi spinge verso il bagno. “Hai mezz'ora per fare ogni cosa, poi ti prendo così come sei e ti porto da David. Io oggi potevo starmene a casa a far niente invece che farti da babysitter!”
“Ti voglio bene anch'io, Tomi.”

*


Tom diceva sul serio quando parlava di trascinarmi fuori di casa così com'ero.
A fare la doccia ci ho messo un po' più del necessario, ma lui non ha voluto sentire ragioni. Mi ha preso per un braccio e mi ha trascinato fuori di casa che avevo ancora da sistemarmi i capelli, così mi tocca farlo in macchina con l'aiuto dello specchio che c'è nell'aletta parasole, niente in confronto al mio specchio a muro. Tomi non mi ha lasciato nemmeno salutare Chakuza come si deve. “Un minuto in più non cambiava niente,” mi lamento.
“I tuoi minuti durano intere mezzore, Bill, dal momento che hai il vizio di trasformare un normalissimo saluto in una scena madre.”
“Esagerato,” mi difendo. “Sono solo affettuoso.”
“Troppo,” sibila lui. “Tra l'altro, sei sicuro che sia il caso di lasciare quell'uomo in casa tua da solo?”
“Quell'uomo,” specifico, “si chiama Peter.”
“Quello che è,” borbotta. “In ogni caso è sempre un estraneo.”
Alzo gli occhi al cielo. “Dobbiamo di nuovo avere questa conversazione?“
“Vorrei solo che tu facessi le cose con calma.”
“Non gli ho chiesto di venire a vivere con me!” Replico senza pensare.
Tom mi guarda e poi torna a guardare la strada. Rimaniamo in silenzio per un po' e siccome non so bene come riprendere il discorso e, a quanto pare, non lo sa neanche lui, accendo la radio e mi fermo sulla prima stazione che non passa la mia voce o quella di qualcuno coinvolto in questa conversazione. Mi sono svegliato felice, stamattina, e sono ben intenzionato a rimanere tale.
“Voglio solo che tu non ci batta il muso, stavolta,” esclama alla fine.
Rimango in silenzio.
“Bill, okay, senti... Io non è che non sia felice per te, okay?” Mi dice mentre cambia marcia, senza voltarsi a guardarmi. “Sono un sacco felice perché sei tranquillo e tutto, ma hai l'abitudine di farti prendere bene dalle cose quando vanno anche solo un minimo per il verso giusto. Ti dico solo di prendere le cose con calma, di non... esagerare.”
“Cassandra dorme da te più di quanto faccia io,” commento.
“Lei non ha le chiavi di casa mia, però.”
Sbuffo e guardo fuori dal finestrino. Il fatto è che sta montando su queste chiavi una storia che non esiste. Ho dato le chiavi a Peter perché in questo periodo è sempre in giro per questo o quell'altro motivo, e torna ad orari improponibili del mattino. Se dovesse andare a casa sua, dormire lì e poi passare da me, perderemmo tutti un sacco di tempo. Invece appena rientra, può venire a dormire a casa mia, così almeno ci svegliamo insieme. Guarda un po' se devo spiegare una cosa del genere a mio fratello che, voglio dire, non fa esattamente l'impiegato per cui lo sa quant'è difficile, alle volte, far coincidere i nostri orari con quelli del resto del genere umano che ha una vita normale. Figurarsi poi se la persona con cui usciamo ha i nostri stessi problemi. Ricordo che con Anis a volte era un disastro, quando io riuscivo finalmente a ritagliarmi un momento libero, lui magari doveva correre all'altro capo della Germania per ritirare un premio. O magari quando io rientravo a casa alle cinque del mattino da un after-party, lui si stava alzando per andare a girare un video in piena Templehof. Tom non ha mai avuto una fidanzata vera, ma aveva David che gli urlava in testa se per assurdo una delle sue groupie rimaneva tra i piedi fino all'ora di pranzo, per dire. Quindi dovrebbe proprio capirle queste cose, solo che il suo cervello si rifiuta di processare il concetto.
Alla fine, dopo cinque minuti di silenzio, Tom decide di mollare l'osso. “Siamo arrivati,” avverte. Generalmente quando veniamo intervistati, ci sono le guardie del corpo e soprattutto c'è David che gestisce tutto fin nei minimi dettagli ma questo è un caso particolare. Innanzitutto il nostro manager è impegnato a stabilire cosa riserva il futuro ai Tokio Hotel e, come se questo non bastasse, sta probabilmente cercando di capire come gestire il singolo che abbiamo appena registrato, nonché fatto uscire sul mercato, il tutto senza che io e Peter incrociassimo Anis. Non è stato facile, immagino, ma David ha compiuto il miracolo; solo che per farlo si è probabilmente complicato la vita, così adesso io e Tom dobbiamo arrivare in redazione da soli. Ci sarà sicuramente parte del nostro staff, là dentro, ma è comunque strano muoverci per conto nostro.
Se continua di questo passo, ha detto David, mi verrà una sincope e dovrete muovervi per conto vostro molto più spesso perché finirò in ospedale con un doppio bypass. Era così petulante che nessuno di noi è rimasto per ascoltare la fine della frase, credo.
Comunque conosco bene la giornalista che mi intervisterà e non sono nervoso nemmeno un po'. Non posso vantare una carriera ventennale, ma in questi casi ti basta essere stato in giro per tre mesi ai nostri livelli per prevedere più o meno che tipo di domande ti arriveranno. Io posso già ragionevolmente prepararmi qualche risposta. Il singolo sta andando benissimo e l'esperienza è stata senza dubbio interessante. Sono molto stanco, ma amo il periodo di promozione. No, la band non è così gelosa di me come sembra...
Gerda è piccolina e bionda, la sua mano sembra quasi sparire nella mia quando ci salutiamo. La prima volta che mi ha intervistato io avevo dodici anni e non vedevo l'ora di raccontarle tutta la mia esistenza. Lei sembrava entusiasta di scoprire cosa avessi da dire. Ora non è esattamente così per nessuno dei due, ma lei non è cambiata per niente e per quanto, forse, se ne freghi di cos'ha da dire Bill Kaulitz, è rimasta comunque molto gentile.
Ci fa accomodare nel suo ufficio e ci offre acqua, tè e caffè dalla macchinetta. Mio fratello coglie l'occasione per fare il galante e si preoccupa lui di recuperare qualcosa per lei. Alzo gli occhi al cielo e penso vagamente che se Cassandra anche solo lo viene a sapere gli stacca braccia e gambe e le usa per picchiarlo. In quest'ultimo periodo sono stato un po' troppo preso dai miei problemi per interessarmi come si deve a questa sua relazione che sta diventando più fissa di quanto lui dia a vedere, ma potrei sempre recuperare il tempo perduto invitandoli entrambi a cena. Credo sia da quando abbiamo tredici anni che mio fratello mi priva della possibilità di fare comunella con la sua ragazza, visto che da allora non ne ha più avuta una. E io non entro in confidenza con le donne di una notte.
Gerda prepara il suo minuscolo registratore e lo mette acceso vicino a me. “Da che cosa vogliamo cominciare,” inizia sorridendo. “Il tuo ritorno sulle scene dopo quasi un anno, il nuovo singolo o i pettegolezzi?”
“Hai detto cominciare, questo significa che posso solo decidere l'ordine ma non gli argomenti?” Scherzo.
Lei annuisce, sullo stesso tono. “Esattamente,” dice convinta.
“Allora iniziamo dal singolo,” scelgo. Se non altro è un terreno di lavoro sul quale sono molto ferrato dopo la conferenza di quattro ore che David ha tenuto solo per me. Grazie al girare furioso delle sue rotelline amburghesi ho già pronta una risposta per ogni plausibile domanda che mi verrà fatta nei prossimi dieci minuti.
“Com'è nata la scelta di una collaborazione con due artisti tanto diversi da te come Bushido e Chakuza.”
Non sono troppo sicuro che questa domanda sia nella categoria giusta. Le lancio una mezza occhiata interrogativa ma rispondo. “C'era da tempo l'idea di una collaborazione simile. Bushido aveva già lavorato in passato con cantanti pop, come Cassandra Steen e voleva ripetere l'esperienza. Prinzessin si prestava bene.”
“Quindi non è stata scritta, diciamo, a causa di certe circostanze.”
“No,” rispondo secco.
“E com'è lavorare con due rapper?” Corregge il tiro, lei. “Ci sono processi diversi tra diversi tipi di musica?”
“Non esattamente. In realtà non abbiamo lavorato insieme. Ognuno di noi ha registrato la sua parte e poi sono state unite insieme. Forse l'unica cosa che lo ha reso diverso è stato il fatto che questa è la prima canzone che canto senza aver messo mano al testo. Mi è stato semplicemente chiesto di interpretarla. Non era mai capitato prima.”
“In questo progetto sei stato coinvolto tu da solo,” prosegue lei. “Dobbiamo forse aspettarci una carriera solista?”
“No, assolutamente no,” esclamo. Mio fratello mi sta guardando come se ci fosse stata anche la più remota possibilità che dicessi di sì. “E' stata un'esperienza che si chiude qui. I Tokio Hotel stanno già lavorando al nuovo album e io sono ancora con loro, a meno che non decidano di buttarmi fuori.”
“Vedremo,” s'intromette Tomi ridendo.
“E del video cosa mi dici?” Continua Gerda. “Ha fatto scalpore. C'erano scene un po' forti.”
“Non esageriamo adesso,” la sminuisco sorridendo e guardandola dritta negli occhi, tant'è che è lei ad abbassare lo sguardo. “Era solo un video che nessuno si aspettava.”
“Un video in cui tu e Bushido-”
“Era un video tipicamente pop per una canzone che è essenzialmente rap,” la interrompo, portando la discussione altrove. Con la coda dell'occhio vedo che mio fratello si è mosso impercettibilmente più vicino a me. “Una cosa nuova. Lavorare con Hans è stato un vero piacere.”
“Potreste...” lei si schiarisce la voce, riordinando i fogli “... potreste lavorare con lui in un futuro. Magari per un video dei Tokio Hotel, stavolta?”
“Certo, perché no?”
Per qualche istante restiamo in silenzio. Tom mi ha portato un bicchiere e una bottiglietta di acqua naturale, così me ne verso un po' e bevo con tutta la calma nel mondo. Ho la chiara sensazione di avere tutto sotto controllo e la cosa mi dà una certa soddisfazione.
“D'accordo, passiamo oltre,” fa lei alla fine e mi rivolge un sorriso che preannuncia già quello che sta per dire, quindi sorrido anch'io. “Chakuza come sta?”
“Bene,” rispondo, ridendo. “Sta molto bene. Vi saluta!”
La notizia di me e di Peter è diventata di dominio pubblico almeno uno o due mesi fa e naturalmente non è successo per caso. Noi per primi abbiamo fatto pressione perché potessimo annunciare che stavamo insieme con una regolare conferenza stampa, in modo da ufficializzare la cosa nel migliore dei modi esattamente come ci eravamo promessi. Ma ovviamente la Universal non ci ha dato il permesso di fare le cose per conto nostro, sedendoci di fronte ad un microfono e ad una telecamera e dire semplicemente “Sì, stiamo insieme,” perché sarebbe stato perderne in qualche modo il controllo e perché, soprattutto, in questo modo non avrebbero potuto montarci sopra metà della promozione dell'album. Io e Peter eravamo contrari, naturalmente, ma David mi ha fatto capire che non avevamo molta scelta. Anzi, che non ne avevamo proprio nessuna. Così, preso atto del fatto che se volevamo rendere pubblica la nostra vita privata, dovevamo anche lasciare che i dirigenti se la inventassero, io mi sono rassegnato, Chaku ha rotto un mobile e poi si è rassegnato anche lui.
Dunque, la versione ufficiale è che durante la presunta morte di Bushido, io e Chakuza ci siamo avvicinati finché fra noi non è nato un sentimento sincero – queste sono le esatte parole del comunicato stampa che David deve aver composto sotto l'effetto di un quintale di zuccheri e molti film di Julia Roberts – la qual cosa, per altro, è l'unica parte vera della faccenda.
E poi da qui, hanno calcato la mano. Volevano poter vendere me e Chakuza come qualcosa che facesse scalpore, ma dal momento che la Universal gestisce principalmente me e non Bushido, hanno fatto in modo che se ci fosse qualcuno da biasimare, quello fosse lui. Così la versione ufficiale è che dopo il suo ritorno non previsto, Anis ha cercato di recuperare non solo il suo regno ma anche il suo rapporto con me, che ero contrario perché già occupato e non disposto a perdonarlo per essersi finto morto. Lo hanno dipinto come un egoista e un prepotente, che ha tentato più volte di imporsi sulla mia persona, così che io e Chakuza ne uscissimo come la rappresentazione dell'amore che trionfa o qualcosa di molto simile.
Non sono fiero di questa cosa, davvero, ma come ho detto, non ho avuto molta voce in capitolo. E possiamo considerarci fortunati che la Universal non abbia fatto circolare la notizia – con l'idea poi di non confermarla mai ufficialmente - che io e Anis fossimo andati per vie legali, che ci fosse di mezzo una restrizione cautelare e cose simili, perché so che la volontà c'era, anche se poi è stato deciso che avrebbe generato più casini che pubblicità.
Così la storia tra me e Chakuza è esplosa come una bomba e ha fatto il giro della Germania praticamente all'istante. La marea umana che ci segue da sempre e che si era ingigantita prima con la storia del Chaku ferito alla puntata di TRL e poi con la presenza costante di Fler nella mia vita, è naturalmente diventata immensa al ritorno di Bushido dal regno dei morti, con conseguente semi-santificazione da parte del suo popolo di fedelissimi, per poi diventare un'onda anomala dopo la mia rottura con Anis e il seguente annuncio del fidanzamento con Chakuza. Un'onda anomala che in un primo momento si è soltanto sollevata ruggendo, e che poi si è divisa e infranta su due scogliere diverse e opposte.
Adesso siamo in mezzo a due schieramenti contrapposti che sostanzialmente si basano sull'atteggiamento che tengono nei confronti di Chakuza e, in base a quello, ne consegue poi quello che pensano di me – che non è sempre bello ma con il quale ho imparato a convivere. David, l'altro giorno, con molta praticità, mi ha detto: finché non ti tirano dietro niente, non preoccuparti. E io l'ho trovata una cosa sensata.
Chi ha preso Chakuza in simpatia, lo fa perché ha un occhio di riguardo per il sottoscritto. Ci vogliono bene insieme, come coppia, e la frangia anti-Bushido più estremista – che poi è la stessa che già gli urlava contro anche prima e che non si era placata nemmeno con la sua morte – ora odia Bushido ancora più furiosamente, come solo certe fan sanno odiare.
Chi invece odia Chakuza, odia anche a me. Questo gruppo è composto soprattutto dalle persone che già odiavano me prima della morte di Anis e che non vedendomi di buon occhio allora, mi ci vedono ancora meno adesso perché ciò che considerano tiene conto soltanto di Anis e non di tutta la situazione. Giusto o meno che sia.
Ad essere onesti, esiste un terzo gruppo di persone, delle quali è più difficile parlare perché sono quelle a cui io e Bushido, insieme, dobbiamo di più. Sono le persone che volevano bene a noi due, come coppia e che ci hanno sempre sostenuti anche quando magari rapper e fan accanite ci davano contro. Loro ci credevano. Quando Bushido è morto hanno sofferto per lui e per me, quando è tornato e le cose non sono tornate com'erano, si sono sentite tradite. Da me, che non l'ho rivoluto e da lui che era sparito per lasciarmi solo e che, quando è tornato, non si è comportato come si aspettavano. Certo, queste erano decisioni che spettavano a me e a lui soltanto e dalle quali non avrebbero dovuto sentirsi così coinvolte, ma l'affetto del pubblico non lo puoi spegnere a comando. Se vuoi che ti supporti e gioisca con te, poi devi sopportare che si arrabbi quando ai suoi occhi fai una cazzata. E io, per loro, l'ho fatta.
“Non vi fate vedere spesso in pubblico, voi due,” la voce di Gerda mi riporta nella stanzetta tutto sommato minuscola in cui ci troviamo.
“Siamo solo molto bravi a far perdere le nostre tracce,” commento, senza mai allontanare lo sguardo da lei. Mi stringo nelle spalle. “E poi Peter non è tipo da feste mondane.”
“Preferisce stare in casa?”
Vedo Tom alzare gli occhi al cielo.
Sorrido, divertito. “Già, ma prometto che alla prima premiazione disponibile me lo porto dietro, così potete vederlo tutti,” uno dei fotografi del giornale da qualche parte alla mia destra mi scatta una foto. “Quindi votate per me se vi capita, così potrà salire sul palco.”
Immagino che Peter mi perdonerà se ho promesso di sfoggiarlo in giro come un trofeo.
Lei ride. “Non mancheremo, Bill,” dice.
E l'intervista si chiude, più facile del previsto.

*


“Che ore sono?” Chiedo a mio fratello, indossando gli occhiali da sole.
Siamo appena in primavera e già il sole picchia troppo forte per i miei gusti. Non che mi dispiaccia il caldo, è solo che se devo sudare preferisco essere su una spiaggia. Mi chiedo se Fler sarebbe disposto a fare un salto ai Caraibi con me, dopo la promozione, anche se quasi mi passa la voglia al pensiero di doverlo mettere su un aereo e tenercelo per otto o nove ore senza che si agiti in preda al panico. Senza contare che se adesso sto via con Patrick per una settimana, è capace che Peter si fa venire una sincope. L'ultima volta che ho provato ad accennargli l'idea, si è messo a fare l'insalata di riso e quella non è mai un buon segno. Ci vorrà ancora del tempo prima che riesca a convincerlo che io e Fler non facciamo niente di male e che ho bisogno di queste vacanze di tanto in tanto.
“Sono quasi le una,” mi dice mio fratello, sistemandosi la fascia sulle treccine.
Tiro fuori il telefono e, come pensavo, ci trovo un messaggio. Generalmente Peter non è mai in ritardo, quindi se adesso non è qui nell'atrio della redazione di Bravo, significa che non può venire.
“Che succede?” Tom inclina la testa di lato, cercando di decifrare l'espressione del mio viso mentre sto leggendo.
“Dovevo pranzare con Peter, ma non ce la fa a liberarsi,” mormoro. Dovrei sapere che queste sono cose che succedono, ma faccio comunque una smorfia. Stamattina mi ero svegliato bene, mi sarebbe piaciuto continuare su questa strada. Sospiro e rimetto a posto il telefono, chiedendomi se riusciremo mai a completare una giornata senza che uno dei due debba necessariamente avvertire l'altro che ha un impegno improrogabile.
“Senti facciamo così, ci vengo io a pranzo con te,” si offre Tom, mentre mette in moto l'auto. Si volta a guardarmi un istante, con un sorriso. “Dimmi dove vuoi andare.”
In questo preciso istante potrei fermare il nastro della mia vita e rimandarlo indietro, aspettare che mio fratello mi ripeta la domanda e quindi, presa coscienza della stupidità del mio subconscio, dare una risposta diversa da quella che invece mi esce dalle labbra. Ma non lo faccio, perché in quel momento non mi rendo conto delle associazioni di idee che dovrebbero essere lampanti.
A mio fratello do l'indirizzo di un piccolo ristorante in periferia. Una specie di locanda vecchio stile, con stoviglie e coperti rustici, cucina famigliare, quelle robe lì. Tom non l'ha mai sentito nominare, naturalmente, ma non fiata. Ci sediamo ad un tavolo d'angolo, un po' nascosto dietro una colonna. Direi che non ci sono gravi rischi di essere riconosciuti, dal momento che l'età media intorno a noi è di novantadue anni, ma non si sa mai.
Lui tira su il menu e guarda un po' me e un po' la lista. “Non fare quella faccia,” finge di essere annoiato e alza esageratamente gli occhi al cielo. “Vi siete visti due ore fa.”
“Lo so,” sbuffo.
“E vi rivedrete tra due ore,” continua.
“Lo so!” Sbuffo di nuovo.
Lui mi guarda. “E allora piantala di sbuffare, Principessa sul pisello. E datti una mossa a scegliere o non mangiamo più.”
Lo vedo che subito si auto-compiace del pessimo gioco di parole che è riuscito a tirare fuori. So che in questo momento vorrebbe avere al suo fianco Georg per condividere l'immensa volgarità del tutto. “Tomi, per favore...”
“Sì?” Fa lui, ancora ridendo, ma lo sento solo vagamente perché la porta si è aperta e Bushido è appena entrato nel locale. Seguito da Fler.
Mi chiedo perché oggi fra tutte le centinaia di migliaia di ristoranti di Berlino io abbia scelto proprio di venire qui. Poi mi do del cretino perché questo è il ristorante dove io e Anis venivamo quando lui piantava in asso la crew da un minuto all'altro e io riuscivo a scappare dalle grinfie di David abbastanza a lungo da mangiare un boccone con lui. E, visto che questo è un posto dimenticato da Dio, era facile incontrarsi qui. In più c'era la storia che Bushido adora questo posto perché, come dice lui, dentro ci lavora gente vera e non pinguini inamidati, che poi è come lui definisce i camerieri dei ristoranti eleganti in cui si fa vedere per dimostrare che anche i tunisini senza padre possono mettersi la cravatta. Evidentemente quando mio fratello mi ha chiesto il ristorante, io ho risposto sovrappensiero e non dovrei mai farlo. Dovrei impormi una regola zen per la quale non posso usare il cervello se non sono totalmente concentrato sull'azione precisa di usarlo.
Appurato questo, però, inizio a chiedermi perché lui, oggi, fra tutte le centinaia di migliaia di ristoranti di Berlino abbia scelto proprio di portare qui Fler. Io ho portato qui Tom, d'accordo. Ma portare qui Fler non è assolutamente come portare qui Tom.
Tom è terreno neutro.
“Bill, ma che ti prende?” Tom alla fine si rende conto che non ho mai iniziato a ridere della sua battuta e, visto che dà le spalle alla porta, non capisce il problema che mi si è appena presentato davanti. “Che diavolo stai guardan-?” Quindi si gira e io gli tiro una forchettata sul dorso della mano.
“Non ti girare!” Sibilo.
“Ahi! Cristo ma sei scemo?”
Io mi tengo dietro il menu e osservo Anis ridere. Si sono seduti ad un tavolo neanche troppo distante dal nostro ma per una volta sono contento di lamentarmi di continuo esageratamente perché, in realtà, questa locanda non è tanto piccola e mi dà la possibilità di stare qui e di non essere visto se proprio non mi metto ad agitare le braccia. Il loro tavolo sta perpendicolare al nostro, così posso vederli entrambi.
“C'è Anis,” mormoro a Tom, mentre intanto i due hanno già praticamente ordinato. Anzi no, è successo che Fler ha aperto bocca e Bushido ha ordinato per tutti e due ma a giudicare dalle fossette sulle guance di Fler, deve aver indovinato l'ordinazione.
“Tanto piacere,” borbotta mio fratello, che scuote ancora la mano ferita. Poi lo sento sospirare e mi costringe a voltare la testa verso di lui. “La pianti?”
“Non dovrebbe essere qui.”
“No?” Fa lui, sollevando un sopracciglio. “Mi sono perso il momento in cui hai comprato il ristorante e ci hai messo sopra il tuo nome.”
“Non è questo,” tento di guardare ancora, ma lui mi recupera tenendomi per il mento. “E' che non dovrebbe essere qui.”
“Molto esplicativo.”
“E' il nostro ristorante,” specifico. “E non può portare nessuno nel nostro ristorante.”
Tom si indica in maniera plateale.
“Tu non sei Fler!” Esclamo estenuato. Possibile che nessuno, né fuori né dentro la mia testa, capisca la gravità rappresentata dal concetto di Fler all'interno di questo preciso ristorante?
Patrick, dal canto suo, brilla di luce propria. Voglio dire, sono abituato a vederlo sorridere ed essere allegro, ce l'ha naturale la capacità di rischiararti l'esistenza quando ti senti uno schifo, ma non l'ho mai visto brillare così. E' quel tipo di luce che ti circonda quando tutte le tessere del tuo puzzle personale sono al loro posto e non hai più niente da chiedere. Quel tipo di luce che era accesa sopra di me stamattina, per dire. A me si è improvvisamente fulminata una lampadina.
“Bill, mi dispiace dirtelo,” esclama mio fratello, “ma voi non avete più un ristorante.”
Io mi volto a guardarlo di scatto perché questa è una di quelle considerazioni che mi coglie immotivatamente di sorpresa. Questo succede con gli avvenimenti che ti sei dimenticato di registrare per bene e poi di archiviare in un bel cassetto dentro la tua testa. Generalmente, quando succede qualcosa di grosso nella tua vita, tu quel qualcosa lo metabolizzi per primo – anche solo per il fatto che è l'avvenimento di proporzioni più grandi – e siccome, per farlo, ci metti un considerevole quantitativo di tempo, spesso tutti i piccoli dettagli che a questo grosso avvenimento sono legati a doppio filo, te li dimentichi. Li hai lasciati da parte per archiviarli in un secondo momento, in modo da avere la mente sgombra per metabolizzare il resto, e quelli sono rimasti in un angolo a prendere la polvere. Poi, mesi dopo, ti vengono in mente, ma l'avvenimento a cui erano collegati mica si fa vivo subito. E' colpa di quel metro e mezzo di filo che non hai ancora tagliato e che ti permette di muoverli in libertà senza dover aprire il cassetto chiuso a chiave.
I primi tempi, dopo la morte di Anis, mi succedeva di continuo. Pensavo “devo fare questo con Anis,” “devo dirlo ad Anis,” “devo chiedere ad Anis se...” e solo dopo mi veniva a mente che Anis era morto. E ci rimanevo di nuovo male, come se fosse morto in quel momento lì.
Adesso è più o meno la stessa cosa. Mio fratello ha ragione, non abbiamo nessun ristorante. Non c'è nessun noi a cui collegare alcunché.
La risata di Fler interrompe i miei pensieri prima che possa farlo Tom, già pronto al salvataggio. Mio fratello non lascia più che io mi estranei dalla realtà da quando Bushido è morto perché è terrorizzato all'idea di non riuscire più a tirarmene fuori. Quando è successo per la prima e unica volta, dopo il funerale, sono rimasto chiuso in casa per settimane e lui è rimasto chiuso con me, nella speranza che la sua sola presenza potesse risvegliarmi dallo stato comatoso in cui mi ero volutamente infilato per non sentire niente, non solo il dolore. Il punto era che avevo bisogno di toccare il fondo prima di dichiararmi pronto a tornare non dico a posto ma almeno un essere umano e, in qualche modo contorto, sapevo di doverlo fare da solo, che se avessi accettato la mano di mio fratello per rialzarmi poi non sarei più stato in grado di camminare senza che lui mi trascinasse. Per questo ho lasciato che se ne stesse lì in piedi senza reagire alla sua presenza.
Tom, però, questa cosa non la sa e quindi, adesso, ogni volta che mi vede un po' perso, parte subito all'attacco perché si sente in debito nei confronti del legame gemellare, visto che la prima volta gli sembra di non essere riuscito un granché bene nel suo compito. Ma Fler, come ho detto, è più veloce di lui. E' la sua risata piena e un po' rumorosa che riempie la sala a scuotermi. Io la conosco questa risata di Fler e, ora che ci penso, saranno mesi che non la sentivo.
Patrick ride in questo modo quando è felice; non che il resto del tempo non rida e se ne stia ingrugnito in un angolino ma i suoi sorrisi sono solo dolci – perché lui è fondamentalmente dolce e non importa quanto incroci le braccia, mostri le mani tese di fronte ad una telecamera o ripeta ossessivamente la parola merda nelle canzoni. E' dolce, punto. – e manca quella nota di tranquillità che invece c'è in questa risata. Io non c'ero quando lui e Anis erano ragazzini ed erano insieme, ma quando li guardo ora mi viene da pensare che fossero esattamente così e che quel tavolo, con loro due seduti e la birra e i panini caserecci, potrebbe benissimo trovarsi nel 2003 o quand'è stato che avevano la mia età e passavano il tempo per strada a taggare i treni delle metropolitane.
Per la prima volta da che li conosco entrambi mi sento tagliato fuori da qualcosa che li riguarda. Nemmeno il ghetto mi ha mai tenuto lontano con questa violenza. Qui non ci sono solo io che sembro stonato in un mondo di rapper, qua ci sono anni di un'amicizia che io non ho mai conosciuto e della quale Anis non parlava e non perché facesse male, come ho sempre pensato, ma per custodirla, perché non potessi farne parte.
E all'improvviso mi rendo conto che non so se non ci sia davvero più un noi, un me ed Anis, ma di certo adesso c'è di nuovo un loro, Fler e Bushido. O Frank e Sonny, come si fanno di nuovo chiamare adesso – cosa che mi manda in bestia perché pensavo che Sonny fosse morto quando Anis ha lasciato l'Aggro Berlin, eppure dovrei essere abituato ormai al fatto che Anis – in qualunque sua forma - non muore mai, si rigenera soltanto.
Sonny stava dormendo da qualche parte dentro di lui. Quello che mi rode, però, è che da me non si è mai fatto vedere. Non è mai stata una cosa mia. Era una cosa di Fler.
E Fler, a quanto vedo, se l'è ripresa.
“Tomi, andiamocene via,” sussurro, allungandomi a prendere la borsa per terra. C'è un'altra porta, proprio dietro di noi, possiamo uscire da lì e lui non ci vedrà.
“Ma non abbiamo nemmeno ordinato,” protesta.
“Non importa. Andiamo.” E visto che mi alzo, alla fine cede e mi segue.
Non mi guardo indietro perché non voglio vedere se si sono accorti o meno di noi.
Non m'importa. Stronzate. E mentre in silenzio saliamo sull'auto di Tom mi chiedo: se Sonny ha preso il posto di Bushido, quanto del mio posto ha preso Fler?

*


Tom non ha chiesto altro, cosa della quale gli sono molto grato perché non avrei saputo che cosa dirgli, esattamente. Qualunque sia la cosa che mi rode in fondo allo stomaco, per spiegarla a me stesso o a lui dovrei dargli un nome e, dal momento che sto fingendo di non vederla né sentirla, non posso farlo. Ho avuto un'ora per calmarmi ma non mi è riuscito tanto bene e ho scoperto che urlare lanciando i cuscini del divano per ogni dove non serve assolutamente a niente, se non a costringermi poi a rimettere in piedi tutto quello che ho buttato giù prima che arrivi Chakuza e mi faccia domande.
Quando arriva sono le sette e io ho fatto appena in tempo a far sparire i resti di un vaso che David mi aveva regalato a Natale e che se ne stava sul primo ripiano della libreria in attesa che trovassi il modo giusto per liberarmene senza dare troppo nell'occhio. A quanto pare è proprio vero che non tutto il male viene per nuocere.
In questo periodo Chakuza sta promuovendo alcune collaborazioni che ha fatto con gente di cui non ricordo mai i nomi e, fra le tante canzoni, c'è anche Prinzessin. Ogni volta che ci penso mi rendo conto che è buffo perché sia io che lui che Bushido ci troviamo in posti diversi della città a raccontare aneddoti sulla stessa canzone, senza per altro mai esserci messi davvero d'accordo su cosa dire o non dire al riguardo. Per quanto tentiamo di non darlo a vedere, dev'essere ben chiaro a tutti quanti che la responsabilità di questa canzone non la vuole nessuno e che ognuno di noi preferirebbe che ne parlassero gli altri due. Purtroppo questo non è possibile.
Chakuza è il meno entusiasta naturalmente, un po' perché è così di carattere e lui e la promozione – fino a prima del mio arrivo – avevano un rapporto che si concludeva con due interviste e un promo, più un video nel caso la canzone fosse cantata con sua maestà. Adesso invece la cosa gli pesa, gli pesa tantissimo: la canzone non gli piace affatto e non gli piace com'è stata modificata, per altro irrimediabilmente, secondo il volere di Anis, quindi non riesce a parlarne con entusiasmo né ad essere oggettivo, e siccome a mentire non è capace, glielo leggi in faccia che vorrebbe poter dire quanto volentieri butterebbe tutto nel cesso. Ma ciò che gli piace meno di tutto è quello che comporta il doverla promuovere, ossia rispondere alle domande su di me e su Bushido.
Per questo, quando la sera finisce di lavorare e poi ci vediamo, è sempre un po' nervoso e io faccio del mio meglio per farlo rilassare perché so che se lo lascio rimuginare, finisce che rompe qualcosa. Stasera, però, quando entra io sto ancora pensando a quello che ho visto nel ristorante e non sono fisicamente in grado – se mai lo sono stato – di interessarmi di qualcosa che non sia la mia persona e l'odio profondo che provo, anche se non so indirizzarlo. Voglio dire, posso odiare Bushido per svariati motivi: per avermi mentito, per non essersi fidato di me, per avermi lasciato e poi preso e poi accusato e per avermi fatto sentire in colpa a causa di Chakuza ben consapevole che mi ci sarei sentito. Posso odiarlo per avermi amato con la stessa intensità con cui l'ho amato io, perché se mi avesse respinto forse non sarebbe dovuto poi andare in America, o forse sarebbe morto davvero, non lo so, ma io e lui non ci saremmo mai fatti così tanto del male. Posso odiarlo per tutto questo, volendo, ma non di certo perché è entrato in quel ristorante in compagnia di Fler. Ne aveva tutto il diritto perché adesso è un uomo libero e non è mio.
Fler ha ancora meno colpe, credo. Fler non ne ha mai avute finora. Io non so neanche cosa l'abbia trattenuto dal restare con noi dopo la morte di Saad. L'avevamo scagionato, avrebbe potuto dire “Ci si vede” e poi sparire, tornare all'Aggro, farsi un'etichetta sua o espatriare, non lo so, ma di certo non aveva l'obbligo di rimanere lì a vegliare su di me al posto di Anis e a rimettere le cose a posto tra me e Peter. Il problema, di fatto, non sono loro singolarmente. Non ce l'ho con Anis, non ce l'ho con Fler, ce l'ho con loro insieme, col loro stupido starsene seduti lì nel mio ristorante a farsi gli occhi dolci. Fino a questo momento non mi ero mai reso conto dell'ammirazione con la quale Fler riesce a guardare Bushido; d'altronde non potevo saperlo se, quando stavo con Anis, quei due nemmeno volevano stare nella stessa stanza e poi, quando Bushido è tornato e hanno fatto pace io non ho mai avuto occasione di vederli davvero insieme. E ora che li ho visti, vorrei uccidere qualcosa di vivo giusto per provare la soddisfazione di sentire un cuore che si ferma sotto le mie dita. In questo preciso momento non mi rendo conto che è orribile pensarlo per finta quando l'ho fatto davvero, non mi ricordo nemmeno che è stato inutile. Voglio solo...
“Tu che cosa ne pensi?”
La voce di Chakuza mi arriva improvvisa, come se avessi riacquistato di colpo l'udito o qualcosa di straordinariamente simile. Mi rendo conto che ho perso il filo di un discorso che Chakuza ha iniziato entrando in casa e mi sento in colpa come se avessi appena fatto qualcosa di male. Lo osservo cercando qualcosa da dire, ma Chakuza apre il frigorifero e mangia un po' del pollo che è avanzato giorni fa, riprendendo a parlare. “Voglio dire, innanzi tutto vorrei sapere chi glielo ha dato il mio numero privato alla Universal,” esclama. “E poi vorrei sapere cos'è questa storia del tour.”
“Quale tour?” Non riesco a trattenermi e spero fortemente che non abbia passato gli ultimi due minuti a spiegarmelo.
“Appunto, quale tour? E' quello che gli ho chiesto anch'io,” mi fa lui, decidendo alla fine che spilluzzicare il pollo non è sufficiente e tirando fuori tutta l'insalatiera che lo contiene. “Da quanto è qui dentro questo pollo?”
“Qualche giorno.”
Peter annuisce e riprende a mangiare. Solo lui potrebbe considerare qualche giorno un quantitativo di tempo accettabile per continuare a mangiare qualcosa che contiene maionese. Io sospiro e mi passo la mano sugli occhi mentre ci sediamo sugli sgabelli. “E lui che cosa ti ha risposto?”
“Che la Universal vuole un tour,” risponde. E quando lo guardo con un'espressione che palesemente gli chiede che cosa sta dicendo, aggiunge: “Per Prinzessin.”
Prima ancora di chiedermi su quali basi la nostra etichetta pensi di mettere in piedi un tour per una canzone sola, mi rendo conto che questo significherebbe noi tre chiusi in uno spazio vitale ridotto, ossia secondo gli ultimi sviluppi delle nostre tre esistenze, significa che finiremmo per ammazzarci. Sento una stretta allo stomaco alla sola idea di dover occupare una cuccetta accanto o anche solo sopra o sotto a quella di Bushido. Non è mai capitato e prima che morisse lo volevamo parecchio – immaginavamo già di chiedere un bus per noi, anche se avremmo dovuto uccidere Tom e gettare il suo cadavere nel fiume per averlo – ma adesso no. Adesso non ci penso nemmeno, sarebbe un disastro di proporzioni apocalittiche anche solo ritrovarsi a giocare a carte la sera.
Per non parlare dei bisogni di Peter. Non gli ho mai chiesto come si regola lui quando è in tour, perché dubito che sopporti l'astinenza con calma ascetica. E visto che è un rapper e non ha un manager isterico e fissato che le ragazze sul bus non vuole vederle nemmeno dipinte, immagino che quando andavano in giro con Bushido, chissà che schifo non c'era in quelle cuccette. Quindi ecco, non lo so come ci comporteremmo tutti quanti, se lui volesse farlo – e vorrebbe, perché è lui e perché Bushido sarebbe lì – e io magari mi sentissi in imbarazzo. O se fosse Bushido a portarsi qualcuno. “No, non se ne parla nemmeno,” esclamo a voce alta, senza nemmeno rendermi conto che Peter non sa niente di ciò che è appena successo nella mia testa.
“Neanche io la trovo una grande idea,” mi dice.
“E poi non ha senso per una sola canzone,” insisto, scuotendo la testa.
Chakuza si schiarisce la voce e butta giù un po' d'acqua, cercando di contare quanti puntolini bianchi e neri ci siano sul piano in marmo della mia penisola, chiaro segno che deve dirmi qualcosa che di fatto non mi piacerà neanche un pochino. Tipo quando abbiamo programmato di fare determinate cose e lui passa a prendermi all'ora prefissata solo per dirmi che non c'è per tutto il resto della giornata a causa di eventi indipendenti dalla propria volontà, che nella maggior parte dei casi è Stickle. O sua madre. Così mi preparo e aspetto che alzi lo sguardo, come se i suoi occhi verdi, oltre ad essere belli, potessero in qualche modo anestetizzarmi prima di una qualsiasi notizia. Purtroppo non funziona così. “Non dovrei dirtela io questa cosa.”
“Perché?”
“Perché a me lo ha detto David e lui mi ha minacciato di morte, se te lo dicevo” commenta lui e nei suoi occhi ci vedo un po' di quello sconvolgimento che compare negli occhi di tutti quando capita loro di vedere il mio manager in una delle sue giornate peggiori. David può far paura.
“Te lo farò dire in un modo o nell'altro,” commento impassibile. “Nel caso dirò che ti ho estorto l'informazione con la forza.”
Chakuza scoppia a ridere in maniera così istantanea che mi sento quasi offeso e l'offesa compare sulla mia faccia talmente bene che lui smette subito, si nasconde dietro un tovagliolo e si scusa. “La Universal ha dei progetti,” dice poi. “Vorrebbe più collaborazioni, questo sarebbe solo un primo esperimento.”
“Collaborazioni?”
“La canzone sta andando bene,” Chakuza si stringe nelle spalle. “Siamo ai primi posti nelle classifiche. Alla gente piace.”
“Alla gente piace per quello che c'è dietro.”
“Lo so. Comunque non è sicuro,” dice Chakuza.
“Se David ti ha detto di non dirmelo, allora è quasi deciso,” replico, infastidito. Ed è un casino enorme se davvero le cose stanno così. Ne segue un silenzio un po' più lungo del normale che quasi ci mette in imbarazzo.
“Beh, Io non ti ci voglio sullo stesso tourbus con lui,” dice alla fine, lo sguardo nervoso e irritato.
Non lo voglio nemmeno io, Peter.
Perché non so come reagirei.

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