Cure For The Itch

di lisachan
Una Klosterbräu, una Becks e una Charly Brau. Poi una tequila. Poi dello scotch. Un’altra Klosterbräu e poi ho meditato se ricominciare il giro con un’altra Becks ed un’altra Charly Brau. Alla fine ho preso una Zipfer e sono sicuro all’ottanta per cento che sia a causa della fottuta birra austriaca se adesso sono qui. Avrei dovuto ricominciare il ciclo con la Becks, magari sarei svenuto nel locale. Il proprietario mi trova simpatico, dato che probabilmente gli sto pagando l’università per la figlia, visto quanto spendo lì ogni giorno. È meglio che non sappia che la ragazzina me la sono scopata un paio di volte la settimana scorsa, o finisce che invece di chiamarmi un taxi come ha fatto fino ad ora mi getta lungo disteso sul marciapiedi e lì mi lascia.
Comunque non l’ho presa, la Becks. Ho preso la fottuta Zipfer e mi ha rovinato il sapore in bocca per tutta la serata, che poi è il motivo per cui mi sono alzato e sono andato via e adesso sono qui in questa strada e mi sto dirigendo verso quel portone scassato là sotto.
Sbatto contro un tizio un attimo prima di attraversare la strada, e me ne accorgo solo perché lui mi mette le mani addosso e mi rimette dritto prima che io possa cadere sull’asfalto.
- Vattene a casa, ubriacone! – si lamenta quello, non vedo neanche che faccia abbia, lo ignoro. – Stai barcollando!
- Non sono nemmeno brillo… - rispondo a mezza voce, ma quello naturalmente non può sentirmi perché è già lì che se ne va avvolto in quel suo bel cappotto scamosciato beige e giusto che ci penso sto morendo di freddo, si vede che siamo a novembre, non ci posso più andare in giro in felpa, è meglio che me lo ricordi per il futuro, Dio, mi viene da vomitare.
Attraverso la strada e sbando un po’ di qua e un po’ di là, non tanto, insomma, non tantissimo, ecco, so che crollo sul muro e pesto un po’ di pulsanti a caso sulla placca del citofono. Speriamo di beccare quello giusto, nel mucchio. In questo momento non mi ricordo neanche come fa di cognome Chakuza. Un qualche stupidissimo cognome austriaco come la stupidissima birra austriaca che è quella che mi ha portato qui questa notte.
Mi risponde una voce di donna che decisamente non è Chakuza.
- Chi è? – chiede, per un attimo mi domando se non sia qualcuna che lui s’è portato a casa, ma il tono è quello della signora anziana e non sono ancora tanto ubriaco da pensare credibile un’ipotesi del genere… o magari a Chakuza piacciono vecchie, chissà, è pure possibile.
Okay, forse sono davvero ubriaco.
Non rispondo e premo un altro pulsante a caso, la tipa continua, “chi è? Chi è? Guardi che chiamo la polizia!” e vorrei rispondere che non è la prima volta, ma da un lato ho una nausea che già la metà basterebbe a stendermi se non ci fosse tutto questo fottuto freddo, e dall’altro sento una voce ruvida e profonda che si intreccia con quella acuta e spaventata della vecchina e penso “bingo! L’ho beccato!”, ed in effetti dall’altro lato del citofono c’è Chakuza che mi chiede chi sono.
- Sono Fler… - rispondo, e mi viene da ridere perché il mio nome è comico quando sono ubriaco, si allunga. Fleeeer.
Chakuza non dice nulla, per qualche secondo si prolunga un silenzio stranito e poi la serratura del portone scatta ed io posso rotolare dentro l’ingresso, che è congelato e odora di muffa. Sarei dovuto andare a casa di Sido, casa di Sido è stupenda e c’è il tappeto rosso all’ingresso e lungo tutte le scale, però non posso presentarmi da Sido in queste condizioni. Avrei dovuto andarmene a casa mia, che è congelata e odora di muffa esattamente come qui, ma almeno lì non mi sputtanerei con nessuno.
Arranco sulle scale maledicendo l’assenza di un ascensore, mi aggrappo al corrimano cercando di non scivolare ma ho le dita congelate e non fanno granché presa – peraltro è freddo anche lo stupido metallo, qui. Odio questo posto.
Chakuza mi aspetta sul pianerottolo, ha una mano sulla porta e la tiene aperta mentre si sporge per osservarmi emergere dalla rampa di scale, io lo individuo ed individuo anche una signora avvolta in una vestaglia felpata di un verde smeraldo così brillante che secondo me luccica sul serio, non per colpa della tequila.
- E questo chi sarebbe? – chiede la donna, è quella del citofono.
Chakuza è imbarazzato.
- Non si preoccupi, signora Lotte, è un amico.
- Sono un amico! – confermo annuendo. E tutto all’improvviso vedo il pavimento che si avvicina verso la mia faccia. Così, senza preavviso. Dico, ma dove vive Chakuza? In una casa che si muove per i fatti suoi? Non è una bella cosa.
Mi sento afferrato per le spalle un attimo prima che il pavimento mi dia uno schiaffo e quando sollevo lo sguardo vedo Chakuza che mi fissa allucinato, mentre mi rimette in piedi e cerca la mia vita per stringermi e aiutarmi a camminare.
- Diosanto, ma quanto hai bevuto?! – mi chiede, sconvolto, mentre la signora con la vestaglia fosforescente si rintana preoccupata in casa propria.
- Una birra! – rispondo con un mezzo broncio, nessuno crede che non sono ubriaco, dico, che sta succedendo in questa città?!
Chakuza si chiude la porta alle spalle mentre incespichiamo entrambi su qualcosa che c’è buttato sul suo pavimento, anche se non capisco cos’è… in realtà ci sono tante cose buttate sul suo pavimento, solo che è scuro e non è che riesca ad identificarle proprio tutte… forse quella era una maglietta, comunque. Rido.
- Non sono io che cado, è la tua casa che è piena di trappole, Chakuza! – ha un nome lunghissimo anche lui! Però è spigoloso, il mio è più divertente. – Chakuza, Chakuza… - lo richiamo, a forza di dirlo è carino, - te ne sei mai accorto che ho un nome lunghissimo? – lui mi guarda strano ed io gliene do la prova, - Fleeeer… - cantileno dondolandomi un po’.
- Ma se sono solo quattro lettere… - protesta lui. Evidentemente non sa contare le e! Sono molto deluso, - Cristo, Fler, ma lo sai che ore sono?!
Scrollo le spalle, non ne ho idea.
- Sono le tre del mattino! – mi informa, irritato.
- E tu già facevi la nanna? – lo prendo in giro, mi accorgo solo adesso che ha addosso solo una maglietta e un paio di pantaloncini, non so perché lo trovo divertente. Comunque rido.
Lui arruffa le penne e mi fissa come se mi dovesse rimproverare.
- “Già” è un concetto molto meno relativo di quanto non pensi tu! È oggettivamente tardi!
Mi lascia andare ed io cado su una poltrona. Cioè, prima sbatto col sedere su un bracciolo e poi scivolo con un tonfo sul cuscinone che fa puff e mi scappa un’altra risata perché questa casa sembra viva.
- Parli difficile, Chaku… - borbotto e sbadiglio perché ho sonno. Mi alzo in piedi. – Dov’è il letto?
Lui mi guarda stralunato, tira fuori un paio di occhi enormissimi.
- Il letto?
Mi avvicino e lo fisso male.
- Voglio dormire! – spiego. Perché non mi capisce?! Mi sembra di parlare facile!
- Oh. – prende atto, forse mi ha capito, - Oh, no! – aggiunge, e mi riprende per le spalle, riportandomi indietro neanche fossi un bambino piccolo. E va bene, se vuole che faccia il bambino piccolo farò il bambino piccolo!
Mi metto a piagnucolare.
- Chakuzaaaa… - lui ha un sacco di a. Ma le mie e sono più belle. – Fammi dormire!
- Quello che vuoi, Fler, ma non nel mio letto! – precisa, e mi sa che ha ragione, non si dorme nel letto coi maschi, me lo diceva sempre pure Anis, cioè, me l’ha detto una volta che è rimasto da me per la notte e gli ho detto che se voleva poteva dormire con me, tanto avevo il letto a una piazza e mezzo, ci stavamo, e lui ha riso e ha detto “non ci dormo mica nel letto con un maschio”, ed oggi se fosse vivo mi verrebbe un po’ da tirargli un cazzotto, ad Anis, eh, ma giusto perché è uno stronzo, cioè, era uno stronzo, mica per altro.
Ricado indietro sulla poltrona – sempre prima sul bracciolo, non c’è verso di centrare il cuscino, la bastarda si sposta – e mugolo. Chakuza mi guarda come se avessi le antenne.
- Che vuoi?! – gli tiro dietro un cuscino a caso, lui lo prende in faccia senza muoversi.
- Ma sei la stessa persona con cui ho parlato le altre volte…? – mi chiede sconvolto. Io mi accuccio sulla poltrona.
- No, il gemello cattivo. – rispondo tirando su le gambe, - O buono. Non lo so. A te piacciono i gemelli, eh Chakuuuu? – ha anche un sacco di u.
Scuote la testa e mi sento molto preso in giro, perciò chiudo gli occhi e mi volto dall’altro lato facendomi male ovunque perché la poltrona è dura, accidenti a lei, e proprio mentre sto per addormentarmi mi sento piovere addosso una cosa calda e morbida e apro gli occhi e ci sono cavallucci marini ovunque.
- L’oceano! – rido e batto le mani. Chakuza si è seduto sul divano, volto la testa e lo guardo dal basso verso l’alto, continuando a ridere, - Sono caduto in acqua!
Ride anche Chakuza, e mi dà una pacca sulla fronte.
- Cerca di dormire, sei completamente fuori…
Io annuisco perché, anche se mi tratta come un bambino, è stato tipo un bravo papà. Cioè, io non ce l’ho mai avuto un papà, e quando ho fatto tanto di trovarmene uno ho combinato un disastro, però Chakuza potrebbe essere un bravo papà, forse, ha delle belle coperte morbide con dei disegni carini. Gli dico buonanotte e lo sento ridere ancora prima di tornarsene in camera, e la sua risata un po’ roca è l’ultima cosa che sento e penso che uno a queste cose può anche abituarcisi in fretta.
*
Cristo che mal di testa del cazzo. Io non posso aprire gli occhi, stamattina. Cioè, mi fa male la testa al solo pensiero di aprire gli occhi e fare passare della luce attraverso le palpebre. Già quella che filtra è abbastanza da mandarmi in confusione. Dio mio come mi pulsa il cervello. Cazzo, non ricordo cosa ho bevuto ieri ma deve essere stato qualcosa di davvero disgustoso. Ma davvero tanto.
Faccio per muovere un braccio – non ho ancora aperto gli occhi né intendo farlo a breve – ma lo trovo incastrato. Non capisco cos’è che lo tenga incastrato perché ha perso totalmente sensibilità. Non sono neanche tanto sicuro di avercelo ancora, un fottuto braccio.
Dovrei aprire gli occhi e guardare ma sono terrorizzato dal dolore.
E però a un certo punto sento una risatina provenire da qualche parte alla mia destra e mi spavento al punto che gli occhi li spalanco di scatto.
E morire trafitto da un centinaio di lance sarebbe stato meno doloroso.
- Cristo! – sbotto, e tutto il mio intero corpo scatta e si richiude a riccio. Così scopro che, tanto per cominciare, il mio braccio era incastrato sotto la mia gamba, e non l’ho capito prima perché non è solo il mio braccio ad essere privo di sensibilità, è anche la mia gamba. E probabilmente pure tutto il resto del mio corpo.
Cerco di schermarmi contro la luce del sole che non ne vuole sapere di lasciarmi in pace e riesco perfino a dimenticare la risata che mi ha tanto spaventato. Solo che poi la risata ritorna.
Ed io mi volto lentamente verso la sua fonte.
E scopro altre due cose: primo, sto su una poltrona. Lo scopro perché, come mi giro, casco sul pavimento. Mi accoglie un tappeto peloso mica tanto pulito, ma almeno morbido.
La seconda cosa che scopro è, appunto, di aver comprato un tappeto peloso e sporco.
In alternativa, questa non è casa mia.
Sollevo lo sguardo e c’è Chakuza – no, dico, Chakuza! – che mi fissa.
Ok.
- Dove sono?
Chakuza ride ancora, ma stavolta non è una risatina, è proprio una risata, allegra, tonante, divertita, mi rimbomba nel cervello con una violenza inaudita ed io mi accoccolo sul tappeto, la testa fra le braccia, piagnucolando disperatamente.
- Cristo, pietà… parla piano… - imploro stremato, tornando a fingermi una palla incosciente mentre Chakuza si piega sulle gambe e molleggia un po’, battendomi un paio di pacche sulle spalle.
- Fleeeeer, - mi chiama divertito, - dovevi svegliarti, prima o poi.
Dolore. Perché strascica così il mio nome? Dio mio.
- Che hai da chiamarmi così? – protesto schiudendo un occhio e cercando di metterlo a fuoco con scarsissimi risultati.
- Fleeeeeer! – ripete lui, e ride ancora, sempre più divertito. Rinuncio a capirci qualcosa.
- Ma dove sono? – chiedo, aggrappandomi alla poltrona e rimettendomi in ginocchio mentre medito sulla possibilità di alzarmi perfino in piedi. Mentre io seguo questo logicissimo processo mentale, Chakuza salta in piedi con l’entusiasmo di un bambino di sei anni che va verso l’albero la mattina di Natale, e si dirige verso la cucina.
- A casa mia, naturalmente. – risponde serafico maneggiando la caffettiera.
- Questo è impossibile. – affermo issandomi sulla poltrona e asciando mici ricadere sopra, esausto, - Io non so dove abiti.
Chakuza ride.
- Sì che lo sai.
- Lo sapevo ma l’ho dimenticato! – cerco di spiegare. Non è facile fargli capire che in questo momento, se lui non avesse ripetuto il mio nome cantilenandolo come un deficiente, non ricorderei nemmeno quello. Che poi, Fler non è il mio nome. Non voglio chiedermi come mi chiamo, ho paura di non avere una risposta da darmi.
Chakuza annuisce e mette la caffettiera sul fuoco, appoggiandosi al cucinino con aria navigata mentre torna a guardarmi.
- Dì un po’, quanto hai bevuto ieri?
Imbarazzato, abbasso lo sguardo.
- …non me lo ricordo. – ammetto in un soffio.
- Hai dimenticato anche questo? – mi prende in giro lui, avvicinandosi e sedendosi sul divano qui accanto. Io non torno a guardarlo. – Seriamente, Fler, questa cosa si ripete spesso? Eri mezzo ubriaco pure la prima volta che sei venuto qui, ti ho dovuto riportare in te a cazzotti-
- Tu non mi hai preso a cazzotti per riportarmi in me, la prima volta che sono venuto a casa tua. – preciso con una smorfia colma di disappunto, tornando finalmente a guardarlo. Lo trovo che mi sorride tranquillo. - …succede ogni tanto, comunque. – mi ritrovo controvoglia a rispondere, con un sospiro.
Chakuza annuisce con competenza e mi guarda con compassione.
- Non ti sei ancora ripreso da- - fa per chiedermi, ma non intendo sostenere questa discussione, visto che so già dove va a parare, perciò mi alzo in piedi e combatto contro la mia debolezza, contro il dopo sbornia ed anche contro la forza di gravità per restarci, dritto come sono, e lo guardo dall’alto in basso.
- Non ti preoccupare per me. – ringhio infastidito, - Sono perfettamente in grado di badare a me stesso.
Chakuza inarca le sopracciglia e si solleva a fronteggiarmi da una posizione di svantaggio minore.
- Fler, tu non puoi presentarti a casa mia alle tre del mattino svegliando tutto il palazzo, crollare sulla mia poltrona, svenire, dormire dodici ore e poi dirmi che sei perfettamente in grado di badare a te stesso! È palese che non lo sei!
- L’alcool non mi ha ucciso in ventisei anni, dubito fortemente che comincerà a farlo adesso! – ribatto con veemenza, ed al momento non mi interessa se il discorso in sé non ha senso. Voglio solo ingannare il tempo mentre aspetto che il caffè sia pronto, poi scroccargli una doccia, magari, e tornarmene a casa, riprendere possesso dei miei spazi e fare finta che tutto questo non sia mai avvenuto.
E, già da stasera, ricominciare a sbronzarmi perché non so cosa farmene di me stesso ora che la mia ossessione è morta.
- Fler, potrebbe succederti di tutto! Potresti svenire per strada o sentirti male, che cazzo, vuoi proprio rimetterci la pelle?! – si infuria lui, dirigendosi a grandi passi verso la cucina e spegnendo il fornello per versare il caffè in due tazzine, - Cerca di volerti un po’ bene, Cristo, piantala di bere.
- Ma tu sei un rapper o una suora di carità? – mi lamento avvicinandomi a mia volta ed allungando una mano. Lui mi porge la tazzina senza che neanche io abbia bisogno di chiedergliela. – Grazie.
- Smetterai di bere? – mi chiede lui, invece di rispondere un più che adeguato “prego”.
- Non sei mica il mio frate confessore, eh. – protesto, - Anzi, per la verità non ti ho confessato proprio nulla, stai facendo tutto da solo.
Lui incrocia le braccia sul petto e non beve il suo caffè. Cerco di capire a cosa gli serva l’altra tazzina, ma avviene tutto molto naturalmente quando poso sul ripiano la mia ormai vuota, allungo di nuovo la mano e lui me la porge. Ecco a cosa serviva l’altra, penso, buttandone giù il contenuto amarognolo.
Torno a guardarlo. Adesso almeno sono sveglio.
- Posso farmi una doccia? – chiedo titubante. La domanda successiva è “mi presti qualcosa di pulito da indossare?” e non so perché la cosa mi manda nel panico.
- Intanto puoi dirmi che smetterai di bere. – insiste lui, fissandomi deciso.
- Sì, ma io non voglio dirtelo. – cerco di fargli capire, e quasi mi viene voglia di ticchettargli con le nocche sulla testa per vedere se si sente l’eco del vuoto. – Perché io non voglio smettere di bere.
- Stai facendo il bambino. – mi fa notare lui mentre io roteo gli occhi disapprovando ogni attimo di questa conversazione.
- Veramente, sto solo facendo quello che mi pare e piace. – correggo in uno sbuffo.
- Appunto. – annuisce lui con aria critica, - Fler, hai promesso che mi avresti aiutato a proteggere Bill.
Sibilo fra i denti, infastidito. Era proprio necessario andare a battere sui sensi di colpa? Come fossi un uomo sereno e rilassato, io. Come se mi servisse, tanto per cominciare, mettermi al servizio di un ragazzino che palesemente sta in un posto in cui non dovrebbe stare.
Poi ricordo che sì, mi serve, perché devo chiedere scusa a Bushido, in qualche modo. E questo è l’unico modo.
- Posso farmi una doccia? – ripeto, passandomi una mano sugli occhi.
- Smetti di bere o no?! – ritorce lui, un po’ indispettito, piantandosi mani sui fianchi fra me e il bagno.
- D’accordo, d’accordo! – concedo senza neanche rendermene conto davvero. Voglio solo farmi scorrere addosso un po’ d’acqua calda e tornarmene a casa, penso che direi di sì pure se mi chiedesse di vendergli mia madre per tenersela in salotto come scultura vivente. – Ora posso farmi una doccia?!
Chakuza sorride trionfante.
- Domani sera alle nove. – risponde.
Io lo fisso.
- Devo aspettare domani sera alle nove per farmi una doccia? – chiedo stupito, - E intendi tenermi qui per tutto il tempo?
Chakuza ride e mi tira una pacca sulla spalla. Io potrei anche morire, sento l’eco di quel ciaff in tutto il corpo.
- Domani sera alle nove ti voglio qui a rapporto per farmi vedere che non hai bevuto, Fler. – precisa bonario, - La doccia puoi anche farla ora.
Continuo a fissarlo.
- Come, scusa?
Chakuza annuisce come a rassicurarmi sulla perfetta normalità di ciò che ha detto. Potrei essere d’accordo, se non avesse appena deciso di essere il mio babysitter o qualcosa del genere.
- Hai detto che smetterai di bere, ma non pretenderai mica che ti creda sulla parola. – mi spiega.
- Cioè, cazzo, - sbotto io, allucinato, - mi stai chiedendo più garanzie ora per questa cazzata che non quando ti ho detto di credermi sulla mia innocenza per l’omicidio di Bushido! Hai qualcosa che non va nella testa, tu!
Scrolla le spalle.
- Be’, allora si trattava di una persona già morta. – illustra tranquillo, facendomi strada verso il bagno, - Potevo fidarmi o non fidarmi ma non sarebbe cambiato poi molto. Adesso invece si tratta di te che sei vivo. – sorride, - Quindi, fidarmi o non fidarmi può cambiare un sacco di cose.
Rimango un attimino a fissarlo imbambolato, lo ammetto.
Poi scoppio a ridere e neanche il mal di testa può fermarmi.
- Verrà fuori che sei vegano ed iscritto al movimento per la difesa dei diritti delle donne, io lo so. – lo prendo in giro, piegandomi un po’ sulle ginocchia perché questa risata è soddisfacente ma mi sta sfiancando. – Senti, ce l’hai qualcosa da prestarmi? – chiedo, decisamente più rilassato, mentre lo osservo distogliere lo sguardo imbarazzato. Scommetto che pensava di fare il gran figo, dicendo quella cosa prima. È quasi tenero. – Questi vestiti puzzano ed ho bisogno di un cambio, dopo la doccia. Prometto che poi ti riporto tutto lavato.
Chakuza borbotta qualcosa di indefinito mentre scompare in camera da letto e ne riesce qualche secondo dopo con un paio di asciugamani, una maglietta, un paio di pantaloni, dei calzini e dei boxer.
- Mai prestato roba mia ad un altro essere umano. – ci tiene a precisare porgendomi il tutto, - Ritieniti onorato. E appena domani ti presenti qui sbronzo, ti prendo a cazzotti. Di nuovo.
Rido e m’infilo in bagno senza una parola di più.
*
Aaah, non ricordo cosa ho bevuto. Mi irrita, questa cosa, a me piace fare la conta delle cose che ho bevuto, quando faccio la conta delle cose che ho bevuto vuol dire che riesco ancora a ricordarmele e quindi forse alla fine non ne ho bevute poi così tante, solo un pochino. E invece non riesco a fare la conta quindi mi sa che ho bevuto un tantino troppo.
Però sono in orario! Controllo di nuovo l’orologio al polso, le lancette sono un po’ sfocate però le vedo! La lunga fa “meno cinque”, la corta fa “nove” ed io ho ben cinque minuti per attraversare la strada, raggiungere l’altro marciapiedi e ricordare a che altezza sta il pulsante del citofono di Chakuza! Che si chiama Pangerl. Oggi me lo ricordo! Forse non sono poi così tanto ubriaco!
…o forse sì, l’asfalto è troppo vicino alla mia faccia e mi sa che non è la città che si muove, sono io che cado. Mi sa che non era nemmeno la casa di Chakuza che si muoveva ieri. Ero sempre io che cadevo.
Pianto le mani per terra e mi tiro in piedi mugugnando, c’è la gente intorno che mi dice cose ma io non le capisco. Faccio per guardare una signorina e chiederle cosa c’è, mica sto male!, però la tipa scappa via. Mi offendo, non sono abituato ad avere questo effetto sulle donne.
Attraverso la strada con le macchine che mi sfiorano, fanno woosh passandomi accanto, ed arrivo fino al citofono, suono a caso e mi risponde la vecchina di ieri.
- Chi è? – chiede ed io sospiro, il citofono di Chakuza non lo beccherò mai al primo colpo, è una maledizione.
- Sono Fler… - rispondo direttamente a lei, e mi aspetto un sacco di parolacce, perciò mi appoggio al portone in attesa della sfuriata e mi stupisco non poco quando invece sento solo un sospiro ed il clack della serratura. Comunque non ho tempo di stupirmi troppo, perché la porta si spalanca sotto il mio peso ed io rotolo indietro e faccio una mezza capriola sul pavimento.
Faccio per alzarmi ma ricado seduto. Mi sa che ho bevuto veramente troppo. Sto peggio di ieri. Chakuza si arrabbierà.
Nel frattempo, sopra la mia testa, sento il suono di una porta che si apre e di ciabatte che battono sulle mattonelle ed immagino la signora Lotte che bussa all’appartamento di Chakuza per dirgli che ha visite, ed in effetti poi sento l’eco di un campanello ed un’altra porta che si apre e c’è la voce cupa di Chakuza che probabilmente si aspettava la mia faccia, visto che sono le nove, ed invece vede quella della sua vicina di casa.
- Sono qua sotto… - lo informo, lui mi sente, io sollevo lo sguardo e lo vedo che si affaccia sulla tromba delle scale e mi guarda, sconvolto.
- Fler?
- Non ce la faccio ad alzarmi in piedi… - e sto un po’ piagnucolando perché mi dispiace dare spettacolo così.
Lo sento sospirare – l’eco amplifica pure il sospiro, è molto fastidioso – e poi scende giù per le scale e lo sento che mi afferra da dietro, sotto le ascelle, e mi tira in piedi di peso.
- Ma si può sapere come cazzo hai fatto, Fler? Sono le nove!
Mugolo mentre lui si fa passare un mio braccio sopra le spalle e mi regge con una mano per il polso e con l’altra per la vita, stringendo forte così che non possa cadere ancora.
- Mi sono portato avanti col lavoro… - biascico sperando di suonare divertente.
- Il che vuol dire che già alle sei eri in giro a bere, stronzo? – sbotta lui aiutandomi a salire le scale.
- Alle cinque. – preciso ridendo, - Se cominciavo alle sei non ce la facevo.
- Sei proprio uno stronzo. – la sua voce è cupissima e mi fa un po’ paura. Mi sa che si è arrabbiato davvero. – Avevi promesso.
- Io volevo solo farmi una doccia… - protesto, e manco il gradino successivo. Già mi vedo sbattere la faccia contro lo spigolo e svenire, però Chakuza è forte, stringe il braccio e mi tiene strettissimo, perciò invece di cadere in avanti mi sento tirato su e gli sbatto contro. Solo che non sono esattamente un fuscello, perciò lui finisce pressato contro la ringhiera ed io mi schiaccio contro di lui e decido che è comodo, perciò mi lascio andare e mi appoggio.
- Fler, Cristo santo! – si lamenta lui, cercando di rimettermi dritto, - Avanti, spostati!
- Ho sonno… - vorrei dirgli che è comodo, è per questo che mi addormenterei bene qui, però non trovo le parole, e poi mi sa che qualsiasi cosa, detta in questa situazione, suonerebbe tremendamente gay, che è una cosa che vorrei evitare, perciò non dico altro e mi appoggio meglio.
Lui tira fuori un tono paziente che mi intenerisce.
- Siamo quasi arrivati e poi dormi, ok? Un ultimo sforzo.
Mugolo un assenso e provo a rimettermi dritto. In realtà non ci riesco perché sto veramente crollando di sonno, perciò mi rimette dritto Chakuza e non so, per quanto mi riguarda potrebbe anche muovermi le gambe come un burattinaio per farmi arrivare fino al suo appartamento. Non ho la forza. Dio mio, non berrò mai più così, lo giuro.
Riprendo un po’ conoscenza solo quando sento aleggiarmi sotto il naso l’aroma familiare del caffè. Apro gli occhi e mi accorgo che sto sulla poltrona di Chakuza e lui sta in piedi davanti a me e mi porge una tazzina piena di caffè fino all’orlo. Ho la sensazione che, se non avesse pensato che una dose del genere potesse uccidermi, me ne avrebbe rifilato un bricco intero.
- Non lo voglio… - mi lamento voltandomi di scatto, ho la nausea.
- Tu lo prendi e cerchi di darti una sistemata. – ordina lui, afferrandomi per il mento e riportando i miei occhi su di sé. – Non ricominciare a fare il bambino. Hai quasi trent’anni.
- Anche tu! – protesto offeso. Io non sono vecchio.
- Sì, e infatti mi comporto come tale! Avanti, Fler! – e spinge la tazzina in avanti.
- Okay, okay… - borbotto io, la prendo fra le mani, cosa pure piacevole, perché è calda ed io ho le dita freddissime, e butto giù tutto in un sorso.
Il secondo successivo sono piegato in avanti e sto vomitando come non mi capitava da anni. Come avessi bevuto litri d’alcool, cazzo. Addosso a Chakuza.
- Fler! – è sconvolto e schifato, io comincio ad andare nel panico perché so già che quando l’alcool sarà tutto uscito dal mio corpo vedrò questa situazione con occhi completamente diversi e non mi verrà più tanto da ridere. Odio tornare sobrio. – Fler, cazzo!
Non riesco a fermarmi, mi piego ancora e sto per cadere a terra, sollevo un braccio e mi aggrappo alla sua spalla col terrore che mi prenderà per la mano, mi staccherà da sé e mi lascerà cadere a terra nel mio vomito, ma non lo fa. Posa una mano sulla mia e mi tiene ancorato alla sua spalla in quel modo, mentre con l’altra mano mi regge per il collo.
E se ne frega bellamente se gli sto vomitando addosso, se gli sto sporcando casa, se sto sporcando lui.
Tossisco un po’ e sputo per terra – tanto, peggio di così… - e penso che potrebbe anche lasciarmi andare, a questo punto, non rischio più niente. Ed invece continua a tenermi.
- Stai meglio? – chiede, e non è sarcastico. Cioè, non è come stesse cercando di dirmi “ora che ti sei svuotato sul mio tappeto va meglio, eh?”. È più come si fosse preoccupato davvero.
Annuisco impercettibilmente, con gli occhi chiusi. Mi fa male la testa.
Chakuza si alza in piedi e mi tira con sé, io apro gli occhi e vedo che gli ho veramente sporcato tutta la maglietta ed anche buona parte dei pantaloni. Cristo. Non facevo così neanche a sedici anni. Ma cosa cazzo mi sta succedendo?
- Vieni, ti aiuto a pulirti un po’… - sussurra, accarezzandomi lentamente il collo, che peraltro mi fa un male cane. Ci sa fare con gli ubriachi. O con le persone in generale, forse, non lo so.
Arriviamo in bagno e lui mi fa sedere sul coperchio del water.
- Togliti quella maglietta, avanti. – mi incita mentre apre il rubinetto del lavandino e miscela l’acqua. Vede che io non mi muovo e continuo a fissare il vuoto perciò sospira e mi viene vicino, togliendosi la maglietta lurida e ripetendo lo stesso gesto anche con me. – Coraggio, alzati in piedi, ti aiuto a lavarti. – sbotta, - Cristo, sei in condizioni pietose.
Mi sollevo appoggiandomi al lavandino e cado sopra Chakuza. Sbattiamo l’uno contro l’altro ed io sono congelato e lui è caldissimo, vorrei stargli un po’ più vicino ma non sono più nemmeno tanto ubriaco da concedermi una cosa simile. Mi rimetto dritto con un lamento, Chakuza mi fa passare un braccio attorno alla vita e mi tira vicino.
- Se stai a tre metri non posso lavarti. – spiega ficcando una mano sotto il getto d’acqua.
Poi fa esattamente come faceva mia madre quando mi sporcavo col cioccolato, da piccolo. Mi lava con una certa ruvida tenerezza bonaria, sospirando esattamente come un genitore. Il sapone profuma di lavanda e la sua mano un po’ ruvida mi passa sulla faccia, sul collo, sul petto. Mi riscalda e lava via lo schifo che mi sono gettato addosso.
Quando finisce, mi accompagna direttamente in camera da letto. Io non ho il coraggio di dire niente, non riesco nemmeno a sollevargli gli occhi addosso, mi sento davvero in difetto come un bambino piccolo. È irritante che mi faccia quest’effetto, non è davvero così tanto più grande di me. Questo rapporto dovrebbe essere più equilibrato.
Poi realizzo che questo non è un rapporto. Lo realizzo nel momento esatto in cui Chakuza mi sistema sul letto e mi dice di dormire un po’ e che domattina mi farà una paternale tale da farmi dimenticare perfino come mi chiamo. Socchiudo gli occhi sulla sua figura che si allontana e lo vedo ripassare davanti alla porta con un secchio ed un mocio in mano solo qualche minuto dopo. Mi addormento col suono consolante dello straccio che strofina con forza il pavimento. Mi sembra di avere di nuovo tredici anni. La sensazione non è completamente spiacevole.
*
Alla fine, quella mattina non mi ha rimproverato. Mi sono svegliato in un casino di lenzuola e l’ho trovato che dormiva accucciato sul divano, con il viso completamente affondato in un cuscino rovinatissimo. Mi è venuto da sorridere ed ho fatto un po’ come fossi a casa mia, nel senso che ero completamente sobrio e pure tanto in imbarazzo, visto che gli avevo praticamente rubato il letto da sotto il culo, perciò sono andato in cucina ed ho preparato il caffè. Quando lui ha aperto gli occhi mi ha trovato appollaiato su uno degli sgabelli attorno all’isola con una tazzina in una mano e l’altra mano sollevata a metà in un saluto. Per prima cosa, ho chiesto scusa. Quindi lui ha scosso il capo e si è alzato, ha chiesto un po’ di caffè ed ha detto “okay. Però stasera alle nove sei di nuovo qui”.
Un po’ mi scazza esserci sì, di nuovo qui, ma anche di nuovo ubriaco. Mi scazza perché non sono ubriaco come le altre volte – al secondo scotch qualcosa dentro di me ha detto “no” e non voglio pensare a quanto somigliasse alla voce di Chakuza – e se fossi almeno seriamente ubriaco tutto questo, adesso, sarebbe più facile. E invece sto qui, meno incosciente del solito, arrotolato sulla poltrona mentre Chakuza mi fissa con aria di disapprovazione dietro le braccia incrociate sul petto.
- Non sono ubriaco. – borbotto confusamente, abbassando lo sguardo.
- Ti puzza l’alito a chilometri, Fler. – mi fa notare serio.
- Sono solo un po’ brillo. – nego, tirando su le gambe sulla poltrona.
Lui si china su di me e mi inchioda con le mani alla spalliera, così che sono costretto a sollevare gli occhi e guardarlo.
- Tu l’alcool non lo devi toccare più neanche con un dito, Fler, hai capito? E non perché ti fa male e nemmeno perché in queste condizioni sei inutile, ma perché te l’ho chiesto io e tu hai promesso. Ti fai sempre grande con le questioni di onore ed onestà, quando canti, e poi con me ti comporti così.
Mentre mi rimprovera, penso distratto che Chakuza sa perfettamente che sono meno ubriaco del solito, altrimenti non mi starebbe facendo questo discorso. Non mi parla, se non è certo che io capisca alla perfezione ciò che mi sta dicendo.
Potrebbe almeno apprezzare la buona volontà, mi dico. E poi però ricordo che non c’è nessuna buona volontà dietro al mio essere meno sbronzo: solo la sua voce che mi minaccia e l’immagine tremenda di me stesso che vomita su di lui, sul suo tappeto e sul suo pavimento e che poi, per questo, finisce a dormire nel suo letto.
- Insomma, che cazzo. Mi sembrava di parlare con un adulto, ma sei un ragazzino. – continua lui, ed io torno ad abbassare lo sguardo, ma solo per un secondo: poi mi afferra per il mento e mi tira di nuovo su. – E guardami, quando ti parlo. Guarda che io ho davvero bisogno del tuo aiuto, ma non me ne faccio niente di uno in queste condizioni, d’accordo? Sei inutile.
Mi lascia andare, io torno a guardare in basso con un mugolio di dolore e lui si allontana di qualche passo.
- Se domani devi presentarti di nuovo così, Fler, risparmiati di venire. – annuncia, tirandomi addosso la coperta coi cavallucci marini che è andato a prendere in camera prima di cominciare la paternale. Mi lascia solo il secondo dopo ed io resto lì con la coperta piegata fra le mani. E non ho proprio nessuna voglia di dormire.
*
Lo fisso. Lui mi fissa.
Lo facciamo per un sacco di tempo ed alle mie spalle c’è la signora Lotte che fissa entrambi come fossimo due creature molto strane.
È uscita fuori perché, appena sono arrivato – in ritardo di dieci minuti – ho citofonato a Chakuza e lui mi ha strillato in testa che ero in fottuto ritardo e che per quanto gli interessava potevo pure andarmi a sfondare di tequila per tutto il resto della notte, com’era sicuro avessi fatto fino a quel momento, altrimenti sarei stato in orario. Poi mi ha chiuso il citofono in faccia.
A quel punto, ho citofonato alla signora Lotte ed il dialogo seguente s’è svolto più o meno in questi termini: “Signora Lotte? Sono Fler. Le dispiacerebbe cortesemente aprirmi? Ho litigato con Peter e vorrei risolvere la questione, ma lui non mi lascia entrare.” Silenzio allucinato. “…d’accordo, caro. Entra pure.” Tutto qui.
Quando sono arrivato davanti alla porta lui ha aperto già sul piede di guerra – probabilmente aveva immaginato avessi corrotto qualcuno pur di salire – e si è ritrovato me a fissarlo come sto facendo adesso. Cioè serio e perfettamente lucido. È per questo che anche lui, in questo momento, mi sta fissando.
- …non sei ubriaco. – commenta sinceramente stupito, una mano sullo stipite della porta, l’altra a ciondolare inerme lungo il fianco.
Sorrido trionfante.
- Oggi neanche un goccio. – rispondo tranquillo, - Me la offri tu una birra?
Scoppia a ridere all’improvviso, ed io lo imito poco dopo. Mi trascina dentro continuando a ridere e, fra una pacca sulla spalla e l’altra, mi dico che forse un rapporto c’è. Di quest’uomo posso fidarmi.

*

Non vedo Bill da tre giorni. Da quando ha stretto le chiavi nel pugno ed è andato via dopo avermi fermato, dopo averci fermati, non l’ho più visto né sentito. Sono state settantadue ore di assenza e non mi è mai successo di sentire così tanto la mancanza di qualcuno in vita mia. L’assenza di Bill sa di qualcosa di incompleto. C’era qualcosa, c’era qualcosa che si stava muovendo e che si stava creando e mi è veramente difficile accettare questo pensiero. Ma è molto più difficile accettare che invece possa all’improvviso non esistere più nulla solo perché…
…ho messo le mani dove non dovevo. Ho dannatamente messo le mani dove non dovevo. Cristo.
Questo pensiero non mi dà pace.
- Insomma, non ne posso più, non so perché le ho dato il numero di telefono ma mi sa che adesso mi toccherà cambiarlo perché chiama cinquemila volte al giorno. Mi sono rotto.
Fler sta parlando a macchinetta da circa un quarto d’ora ed io non faccio che pensare che a questa casa manca il chiacchiericcio infinito di Bill. Che manca a me. Che la voce di Fler non è la stessa, non ha gli stessi toni né gli stessi colori, non ha lo stesso entusiasmo e non raggiunge gli stessi picchi di dolcezza quando invece è triste. Per la verità non riesco a riconoscere proprio un cazzo, nella voce di Fler. E invece mi infastidisce da morire che sia quella che ho sentito più spesso, negli ultimi tre giorni, perché davvero, Fler non ne ha saltato uno: è venuto ogni santa sera da quando sono tornato a casa.
- Mhmh. – grugnisco in risposta, perché comunque sentirlo parlare è sempre meglio che sentire silenzio.
- Davvero, se avessi saputo che finiva così avrei dormito in un angolo per strada. – continua a borbottare lui, irritatissimo dal fatto che l’infermiera che ha rimorchiato mentre stavo in ospedale continui a non lasciarlo in pace. Non capisco cos’abbia Fler per la testa: la tipa è chiaramente interessata, lui non se la sarebbe scopata se non lo fosse stato a propria volta… perché non si rilassa e fa come farebbe un qualsiasi altro uomo normale al suo posto?
- Così invece di prenderti il raffreddore avresti preso una polmonite coi controfiocchi, Fler. – gli faccio notare distrattamente, - Ed ora non saresti qui a lamentarti.
- E sarebbe stato meglio! – sbotta lui, fissandomi malissimo. Mi viene un po’ da ridere perché Fler quando vuole sa tirare fuori degli occhi cattivissimi, ma in questo momento sta solo facendo il buffone. È facile vedere quando si arrabbia, gli si oscurano gli occhi. Adesso invece sono di un celeste purissimo e brillano, quindi non è arrabbiato. Non so, quando fa discorsi come questo – quando borbotta contro le stupidaggini – mi sembra sempre che voglia sentirsi solo dire “sì, piccolo, hai ragione”. Come non gliel’avessero detto abbastanza quando piccolo lo era davvero.
In realtà comunque non ho una cazzo di voglia di ridere. In genere le cavolate di Fler mi aiutano un sacco – se non altro perché ne ha sempre una riserva infinita da tirare fuori all’occorrenza – ma stasera sono irritato e di ridere proprio non mi va.
- Ti va una birra? – gli chiedo alzandomi in piedi e dirigendomi verso la cucina senza neanche aspettare la sua risposta.
- Oh, sì, grazie. – risponde comunque lui, annuendo, - In ogni caso se chiama di nuovo giuro che la mando a fanculo. Mi sei testimone tu!
- Sì, Fler, naturalmente. – sospiro annoiato, recuperando le due birre dal frigo e tornando di là per consegnargli la sua.
Fler la prende fra le mani e mi fissa con un broncio amareggiato, stendendosi un po’ contro lo schienale del divano.
- Certo che sei proprio una merda, quando ti ci metti, tu. – commenta con rabbia, attaccandosi alla bottiglia, scazzato.
Io spalanco gli occhi e mi lascio ricadere al suo fianco, fissandolo sgomento.
- Come, scusa?
Scrolla le spalle e posa la birra sul tavolino.
- È da quando sono arrivato che rispondi a monosillabi e grugniti. E quando le tue risposte superano le due sillabe, allora sono acide o comunque si capisce che non te ne frega un cazzo di quello che sto dicendo. – apro la bocca per negare e lui mi ferma con un’occhiataccia, di quelle vere, però, - E non provare a dire di no perché ti prendo a cazzotti!
Poso anche io la bottiglia ed incrocio le braccia sul petto.
- Non è vero! – e un po’ lo sto sfidando. Perché lo so che è vero.
Fler mi guarda per un secondo come volesse staccarmi la testa. Poi guarda altrove e dice una cosa che mi terrorizza. E che mi fa incazzare. Ed un altro milione di cose.
- Non hai visto Bill, oggi, eh?
Lo dice così. Come se sapesse perfettamente l’importanza che ha. Lo dice esattamente con l’importanza che merita. Perdo un respiro e poi due e poi tre ed alla fine mi rendo conto che mi sto impedendo di respirare perché ho paura di cosa mi potrebbe uscire dalla bocca se lo facessi. Sicuramente urlerei. Sicuramente ci andrebbe di mezzo Fler. Insomma, tutte cose che non ho il diritto di far accadere.
- Che cazzo intendi dire? – ritorco con ansia. E so che è la cosa peggiore potessi dire in assoluto, so che suona come una dannata ammissione quando non dovrei sentirmi in diritto neanche di ventilare l’ipotesi, ma al momento non mi interessa.
Fler scrolla le spalle e continua a non guardarmi.
- Niente. – risponde in un soffio, - Ipotizzavo.
- Ipotizzavi cosa, esattamente? – insisto.
Lui torna a guardarmi e lo fa con la stessa rabbia di prima.
- Secondo te sono un deficiente, Chakuza? O un cieco? Che cazzo. Non trattarmi come un bambino.
- Abbiamo già discusso di questo tempo fa. – rispondo con un ghigno incattivito, - Ed abbiamo stabilito che sei un bambino, perché ti comporti come tale. Anche adesso, - spiego con presunzione, - lanci il sasso e nascondi la mano. Butti lì l’insinuazione ma non mi spieghi cosa cazzo ti gira in testa. Dovrei trattarti come un adulto?
Lui volta di nuovo lo sguardo e non c’è verso di tirargli qualcosa fuori dalla bocca.
- Fler? – lo chiamo, già irritato, - Fler!
Stringe le labbra e continua a non guardarmi.
- D’accordo! – sbotto, tirandomi in piedi, - Fai il cazzo che vuoi, continua pure a pensare tutte le cazzate che preferisci-
- Cazzate, eh? – mi interrompe lui con un sorrisino strafottente, - Dio, odio quando mi si prende per il culo!
- Stai rompendo i coglioni, Fler! – gli urlo contro, combattendo l’impulso di buttarlo fuori di qui a calci, - E piantala di rispondere solo quando ti conviene! Sei un cazzo di ragazzino impossibile!
- Non sono un ragazzino! – si alza in piedi da solo, fronteggiandomi direttamente, - E tu sei un vigliacco, Chakuza!
Lo afferro per una spalla e lo sbatto contro la parete, che è molto più vicina di quanto non pensassi. Fler non se l’aspetta, perciò spalanca gli occhi e batte con forza, aggrotta le sopracciglia e si morde un labbro per il dolore e poi fatica un po’ a rimettersi in piedi da solo. Si appoggia con falsa casualità al muro, come non avesse bisogno di alcun supporto per stare dritto e invece ne ha bisogno eccome.
Mi fissa stordito, apre la bocca, so che – cazzo – sta per dire qualcosa e non ho alcuna intenzione di starlo a sentire. È solo per questo che lo afferro di nuovo per la stessa spalla di prima e lo trascino un po’ indietro, prima di spingere con forza ed obbligarlo a rovinare a terra, in ginocchio.
Batte sul pavimento, posso vedere il brivido di dolore correre lungo tutto il suo corpo, lo sento sotto il palmo della mano mentre stringo le dita attorno al suo braccio per torcerglielo dietro la schiena.
- Fanculo. – ringhia lui, fissandomi di sbieco mentre si piega in avanti per assecondare quanto più può il movimento innaturale del braccio, - Se devi pestarmi non fare tante cerimonie.
Non so se voglio pestarlo. So che voglio farlo stare zitto. So che mi dà fastidio che abbia parlato di Bill perché continuo a pensare che Bill dovrebbe essere una cosa mia e so che invece non lo è. E non lo sarebbe neanche se stessimo insieme. E non lo saremmo stati neanche se l’altro giorno mi avesse lasciato continuare, cazzo.
So che, merda, io lo volevo davvero. So che lo voglio davvero. So che mi sta montando una rabbia incredibile e che si sta traducendo in un desiderio indecente perché Fler è qui, arreso sotto le mie dita, e se stringo ancora un po’ posso fargli abbastanza male da farlo urlare.
Voglio sentirlo urlare.
Stringo e ruoto il polso. La spalla di Fler scricchiola un po’ e, come previsto, lui urla. Urla e si piega in avanti, sfiorando con la fronte il pavimento ghiacciato e digrignando i denti.
- Cristo, Chakuza! – ringhia furioso, - Cazzo, lasciami!
Ma non lo lascio. Mi schiaccio contro di lui perché mi piace questa posizione di vantaggio. Mi piace sentirlo debole e mi piace sapere che un minuscolo movimento del mio corpo basta a mandarlo fuori di sé dal dolore. Mi piace perché a Bill basta sbattere le ciglia per mandarmi fuori di me dal dolore. Gli basta respirare. Gli basta esistere, cazzo. Voglio anche io questo potere. Mi piace questo potere. Mi piace anche troppo, lo percepisco io e lo percepisce Fler che, quando sente la mia erezione premere contro la sua gamba, spalanca gli occhi e si irrigidisce, ma non dice una parola.
È una realizzazione improvvisa e un po’ assurda, ma so anche che è assolutamente vero: Fler non dice niente. Fler non dirà niente in ogni caso. Non so se sia sconvolto da ciò che sta succedendo o se dietro questo silenzioso assenso ci sia dell’altro, francamente in questo momento non mi interessa. Fingo di non prendere atto della sua eccitazione mentre lo lascio andare – il suo braccio batte sul pavimento e lui lo usa per tenersi dritto quando riesce a recuperare sensibilità, ma non combatte, non si oppone, non fa nulla – e gli sfibbio la cintura, sfilandola dai passanti dei jeans e lanciandola lontano. Fa un rumore assordante mentre striscia sul pavimento e va a incagliarsi contro la parete qualche metro più in là.
Sbottono i jeans e mi fermo un secondo. Mi sembra impossibile che non cominci a protestare. Ma non comincia, cazzo. È assurdo. D’un tratto mi viene da ridere se penso che fino a mezz’ora fa mi stavo chiedendo cosa ci fosse di strano nella sua testa, per portarlo a rifiutare così l’infermiera che gli muore dietro. Ora mi sa che lo capisco cosa c’è.
Lo vedo che stringe i pugni sul tappeto e socchiude gli occhi. Trattiene il respiro, in attesa. Mi sembra assurdo continuare a stare qui a tergiversare. Cazzo, non posso credere di stare facendo una cosa simile. Tiro giù jeans e boxer tutti assieme, incontro la resistenza della sua erezione e la ignoro ancora, gli faccio male, è palese nel suo ringhio frustrato, ma lui continua a non protestare e questo è assurdo ed eccitante allo stesso tempo. Lo lascio un attimo, non mi chiedo neanche se scapperà, so che non lo farà. Sbottono i miei jeans, mi libero di qualsiasi impedimento ancora esista fra me e lui e poi mi prendo un secondo – solo un fottuto secondo – per darmi ripetutamente del coglione.
È solo un fottuto secondo – e subito dopo spingo e mi dibatto per entrare dentro di lui.
È stretto e chiuso e non dovrei davvero poter entrare qua dentro. Mi chiedo se con Bill sarebbe lo stesso. Se sarebbe la stessa sensazione. Se urlerebbe come sta urlando adesso Fler.
Se sarei così violento, così impaziente, così sconsiderato anche con lui.
Se non baderei alle protezioni, con lui, se me ne fregherei di fargli male.
Mi chiedo se sia un problema del sesso, che faccia così schifo e sia così dannatamente appagante – mentre scavo a fondo nel corpo di Fler, mi ci ricavo un posto e comincio a spingere e lo sento stridere e fremere sotto le mie mani mentre lancia lamenti di cui non capisco il senso e che mi fanno rabbrividire fin dentro allo stomaco. Lo afferro per i fianchi per tenerlo fermo, perché voglio arrivare fino in fondo, perché Dio, la sensazione di calore umido attorno al mio cazzo è veramente irresistibile, e mi rendo conto che sto ansimando e che mi sta piacendo, e vorrei prendermi a cazzotti da solo, vorrei che me li desse anche Fler, i cazzotti, vorrei che si alzasse e se ne andasse ma non lo fa, non dà neanche cenno di volerlo fare. Tutto ciò che fa è chiudere gli occhi e stringere con più forza il tappeto. Non si tocca. Non fa niente. Rimane qui e, cazzo, si fa violentare. Si fa violentare, cazzo.
Mi spingo forte dentro di lui devastandolo fino all’ultimo centimetro e lo sento che si apre sotto di me. È una sensazione di potenza incredibile. È una sensazione meravigliosa, potrei non saziarmene mai. Mi piego sulla sua schiena con un grugnito e lo tengo stretto per la vita mentre vengo dentro di lui e lo sento che sibila di dolore e fastidio, perciò presso con più forza, fino a zittire perfino i lamenti, perché adesso non voglio sentire più niente.
Lo lascio andare solo quando sono certo di essermi del tutto svuotato. Scivolo fuori da lui e resto in ginocchio sui talloni, mentre lui crolla a terra, sfatto ed esausto, distrutto. Si trascina sul tappeto perché il suo corpo è per metà sul pavimento ed immagino senta freddo. Lo vedo strisciare e poi girarsi a pancia in su, una mano sugli occhi, la traccia delle lacrime evidente sulle guance. Distolgo lo sguardo perché non la reggo, questa vista. Il pensiero di essere stato io a ridurlo così è straziante. Non ne avevo alcun diritto.
Cerco di respirare.
- Fler… - lo chiamo debolmente.
- Sta’ zitto. – risponde lui in un rantolo arreso. Non ha neanche la forza di ricoprirsi. Cristo. Cosa ho fatto?
Mi rivesto velocemente mentre lui si asciuga stremato il viso. Quando toglie la mano vedo che ha gli occhi rossissimi. Mi fissa senza parlare. Non riesco a capire cos’è che vorrebbe dirmi e questo mi spaventa.
- Come ti-
- Una merda. – risponde senza neanche farmi finire la domanda, - Tu come cazzo ti sentiresti, Chakuza?
Mi mordo un labbro e mi muovo sulle ginocchia verso di lui.
- Non ti avvicinare. – allungo una mano, - Non mi toccare, Cristo, non ti avvicinare!
- Fler… - poso comunque la mano sul suo braccio, - Fler, ti prego-
- Cristo… - si copre di nuovo gli occhi con una mano ed io so che dovrei stare zitto ma non ci riesco.
- …non piangere… - lui ride amaramente e scuote il capo.
Mi avvicino ancora e mi piego su di lui. Cerco di essere delicato – mi rendo conto di essere in ritardo – mentre gli rassetto i vestiti, provando a coprirlo senza fargli troppo male. Lui si lascia maneggiare come fosse senza vita, non scosta la mano dagli occhi ed io vorrei lasciare stare tutto e scappare. Però allo stesso tempo non voglio. Non voglio affatto lasciarlo qui così.
- Ce la fai a rimetterti in piedi? – chiedo a bassa voce, sfiorandogli il collo con due dita.
Lui si scosta infastidito.
- No. – risponde sinceramente, ma fa comunque forza sulle braccia e si mette a sedere. Rinuncia immediatamente. Torna a distendersi, una ventina di centimetri più in là.
Sul tappeto c’è una macchia larghissima di sangue e sperma mescolati insieme.
Mi viene da vomitare.
- Cristo. – mormora Fler, - Sparisci. – chiede, la voce rotta.
Mi alzo in piedi e faccio per obbedire e nascondermi da qualche parte, magari in bagno, ma faccio solo un paio di passi e poi torno indietro. Mi siedo al suo fianco ed allungo una mano verso la sua. La stringo appena e mi stupisco di non sentirlo ritirarsi di nuovo.
- Mi dispiace. – dico a bassa voce, - Appena riesci a muoverti ti porto in ospedale. D’accordo?
Non mi aspetto che risponda e lui infatti non lo fa. Resto lì a tenergli la mano per tutto il tempo che passa a piangere in silenzio.

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