Something about us

di tabata
Sono triste, credo.
Non saprei dirlo con certezza perché in questo preciso momento non riconosco nessuna delle sensazioni che provo. Forse non ci sono neanche sensazioni. E’ che sono seduto al buio sul divano da ore e non mi sono mai mosso. Ad un certo punto ho anche pensato distintamente che se non mi fossi mosso subito, sarei rimasto in quella posizione per sempre. Così ho fatto l’unica cosa che mi andava di fare, battere le ciglia.
Sul divano ci sono finito per sbaglio. Non avevo intenzione di fermarmici sopra, stavo solo passando per andare a prendere lo smalto in bagno, ma poi mi è tornato in mente quello che è successo e allora mi sono seduto. E dà lì più niente.
Il problema, quando cerchi di tirare avanti ignorando le cose che ti fanno soffrire, è che le puoi tenere nascoste solo per un certo periodo di tempo, non per sempre. Quelle poi saltano fuori quando meno te l’aspetti e ti lasciano a fissare il vuoto sul divano, al buio.
E’ come quando non vuoi rimettere a posto la stanza e continui a ficcare uno dietro l’altro tutti vestiti nell’armadio e quello poi alla fine si spalanca all’improvviso mentre stavi facendo altro, riversando ogni cosa sul pavimento.
Io le parole di Anis e l’espressione che aveva sul viso quando mi ha cacciato di casa, non posso dimenticarmele ma non posso neanche seriamente conviverci. Non subito, almeno. A dire il vero vorrei dire che non potrò conviverci mai, ma so che se ha deciso così e non cambia idea, allora sarà così e basta e io dovrò convicerci per forza, perché posso fargli cambiare idea solo se non è colpa mia, ma lo è quindi sta a lui decidere.
Non voglio allontanarmi da lui, l’idea che sia lui a non volermi vicino mi disorienta. E lì capisco che alla fine, come sempre, la pensiamo uguale. Lui è tornato senza neanche prendere in considerazione l’idea che potessi essere di qualcun altro – io lo so che non gli è passato nemmeno per l’anticamera del cervello perché altrimenti lo avrei visto nei suoi occhi – e adesso che l’ha capito, e che ha regito, io non riesco nemmeno a concepire l’idea di non potergli stare vicino, o di non mettere più piede in casa sua.
Se penso razionalmente a quello che è successo negli ultimi giorni, io dovrei sapere che aldilà del ritorno di Anis, niente è stato davvero una sorpresa. Quello che voglio dire è che io non mi aspettavo la sua resurrezione, naturalmente, ma certo potevo aspettarmi che una volta tornato in vita avrei dovuto dirgli di Chakuza e potevo aspettarmi che il non dirglielo subito, che l’avergli permesso di toccarmi nonostante tutto, lo avrebbe fatto infuriare; solo che non c’è stato il tempo reale per pensare a queste cose.
Quando ho posato gli occhi su di lui, dopo un anno che guardavo soltanto le sue foto, lui è riuscito immediatamente ad occupare tutto lo spazio che c’era nella mia testa. Ha pigiato in fondo in fondo tutto quanto il resto e si è allungato tutto, allargando braccia e gambe per tenere lontano qualsiasi altro pensiero. E lì è rimasto quel tanto che bastava perché avessi bisogno di lui addosso e soltanto di lui, ignorando tutto il resto. Lo aveva sempre fatto, d’altra parte, invadere i miei spazi, finché non vedevo altro che la sua persona.
Solo che poi gli altri pensieri sono tornati al loro posto, lo hanno sommerso e costretto a farsi più piccolo ed occupare meno spazio, che poi è la metà intera di me. Solo una metà, però. Che non è assolutamente ciò che aveva prima.
Ora, nonostante io sappia razionalmente che la situazione in cui mi trovo non è altro che la conseguenza naturale del suo ritorno e del mio amare Chakuza, è difficile per me accettarla quando nessuna voce in fondo alla testa mi dice che questo è esattamente quello che doveva succedere. E non lo fa perché farlo vorrebbe dire accettare cose che per me sono inconcepibili da sempre, non solo da questo preciso momento in cui tutto va a rotoli e io non so come fermarlo. Io e Anis non siamo mai stati divisi volontariamente. Non c’è mai stato un momento in cui io o lui non volessimo stare insieme. Anche quando litigavamo e ci tiravamo le cose, anche quando io gli davo dello stronzo e me ne andavo e lui mi urlava dietro che ne aveva piene le palle di me, se poi io tornavo ed entravo in casa sua con il mio mazzo di chiavi, lui non faceva una piega, perché poteva essere incazzato con me, ma mi voleva lì; che è un po’ il suo modo di vedere me e tutto ciò che gli appartiene. Quindi adesso che mi ha detto di andarmene, io non voglio ammettere che questo sia possibile, per quanto stupido possa sembrare.
Sto seduto su questo divano, guardo il vuoto e mi chiedo come sarà possibile da qui in avanti, se davvero Anis non cambia idea, che io sopravviva ai giorni che passano senza la possibilità di avere addosso il suo sguardo; che non è come è stato nell’ultimo anno dove dovevo imparare a non averlo intorno perché era morto. In questo caso dovrei imparare a stare senza di lui perché lui non vuole.
Sarebbe senza dubbio tutto molto più semplice se Peter non facesse parte della mia vita con la stessa prepotenza con cui ne ha sempre fatto parte Anis. Se fosse una cosa da niente fra me e lui potremmo scrollare le spalle e amici come prima, ignorando gli ultimi nove mesi. Il punto è che non si è mai trattato di questo. Tutto questo casino è successo perché io Peter lo amo e lui ama me e, a parte quell’unico istante in cui nel tornare Anis mi ha ribaltato la testa, io non me lo dimentico che sono una cosa di Peter adesso, che voglio essere una cosa sua. E’ questo il dannato, schifosissimo punto.
Non voglio che Anis mi mandi via, perché è tornato adesso e sembra assurdamente ingiusto che non si stia insieme perché mi è mancato, perché mi manca e perché, cazzo, lo so che gli mancavo anche io. Eppure non voglio neanche restituirgli la metà del cuore che ho dato a Chakuza, perché io e lui siamo fantastici insieme, e andava tutto benissimo prima che Anis tornasse. Avevo una vita, prima che lo facesse. Ne avevo una anche prima che morisse. E allora mi viene da mandarlo a fanculo perché entrambe le vite che ho, alla fine, me le ha date lui, che ci fosse o meno, e adesso che mi ha tolto la prima, vuole togliermi anche la seconda. Lui decide, sempre, ma sono io che poi sto male.

*


Sono di fronte al palazzo di Bill da quasi venti minuti e non sono nemmeno sceso di macchina. Il fatto è che sono partito con un sacco di buone intenzioni ma nessuna idea di cosa dirgli, cosa fare o come affrontare la questione. Voglio dire, non sapevo nemmeno se venirci, qui, anzi a dire il vero avevo già deciso che non avesse senso, quindi mi chiedo come potessi sperare che qualcosa mi venisse in mente per strada. Col cazzo, per strada il vuoto assoluto. E ora che sono qui mi rendo conto che non so niente.
Non so nemmeno se in realtà Bill abbia deciso che con me non vuole più starci ora che Bushido lo ha praticamente mandato a fanculo, magari gli è anche passato per il cervello che non vuole più avere niente a che fare con nessuno dei due. Magari il fatto che non sia rimasto a casa mia, stasera, era già un chiaro segno evidente di quello che gli passa per la testa. Se fosse rimasto, non c’erano problemi. Ma non ne ha voluto sapere, quindi forse… che ne so. Non lo capisco mai quando fa così, quando non mi dice le cose e poi si aspetta che le capisca, intendo. Io non leggo fra le righe, le righe da sole mi danno già abbastanza problemi per avere anche il tempo di frugarci in mezzo.
La luce in salotto è accesa, ma non è un granché indicativo. Bill è un sacco distratto, lascia tutto acceso e aperto dove passa. E’ già tanto se vivendo da solo non ha fatto saltare in aria la casa col gas. Non sarebbe la prima volta che se ne va a letto lasciando accesa la luce del salotto – che è la stanza che vedo da qui. Questo a voler sperare nella cosa migliore, perché magari è proprio uscito dimenticandola accesa. Oppure c’è l’ipotesi peggiore di tutte: non è andato a letto da solo. Magari quello stronzo prima si è fatto pestare, poi è andato dove cazzo gli è parso, quindi ha fatto in tempo a incrociare Bill mentre tornava a casa. Che ci sta pure, voglio dire.
Solo che se io salgo nel suo appartamento e dentro ci trovo Bushido, non lo so quello che succede. Al momento non me ne frega un cazzo se quell’uomo prima di crepare era l’amore della vita di Bill. E me ne frega ancora meno se è tornato dal regno dei morti. Lo abbiamo pianto, lo abbiamo seppellito, e sono pure pronto a sopportare la sua faccia di culo se ha deciso di restare, ma col cazzo che gli lascio Bill per niente.
Io gli lascio Bill solo se Bill vuole essere lasciato.
Ecco perché mentre suono il campanello, già ci sto ripensando.
E se Bill vuole essere lasciato davvero?

*


Quando il campanello suona, non me lo aspetto per niente. Sono le undici, e non ho idea di chi possa essere. Penso a Tomi, ma è fuori con Cassandra e poi credo che ce l’abbia con me perché non gli ho detto di Peter; ho sbagliato, forse. Anzi no, ho sbagliato di sicuro con lui, ma avevo paura che non capisse. Avevamo litigato così violentemente per Anis che non volevo farlo di nuovo per Peter. Non lo so. Non sapevo come spiegargli che mi ero innamorato di nuovo, dopo che sembrava non ci fosse per me modo di innamorarmi più. Per un po’ anche io ho pensato di non averne il diritto, quindi magari anche lui pensava la stessa cosa.
Quando alla fine mi alzo, e hanno già suonato due volte, lo faccio solo perché almeno ho una scusa per smettere di pensare anche a mio fratello, e a come si senta tradito. Anche lui. Sembra che io non faccia altro che deludere gli uomini che mi stanno intorno.
Alzo la cornetta del citofono e la telecamera inquadra Peter davanti alla griglia dei campanelli. Io rimango a guardarlo perché ho un po’ paura che appena parleremo, finiremo per litigare. E’ il motivo per cui non sono rimasto da lui stanotte, mi avrebbe chiesto di Anis e io avrei dovuto dirgli che non lo so. A Peter che io non sappia non può bastare.
“Peter?”
Lui si gira a favore di telecamera.”Ti va se salgo un attimo?”
Non gli rispondo, gli apro solo la porta. Che poi è quello che ho fatto quando è venuto a prendermi la primissima volta e mi ha trascinato fuori casa. Ricominciamo sempre da capo, io e lui. Lo aspetto sulla porta e quando esce dall’ascensore, è un po’ teso ma mi sorride. Mi fa bene che sorrida. Non lo so se mi aspettavo di trovarlo arrabbiato, oggi pomeriggio lo era – nervoso e irritato – ma non mi aspettavo la tenerezza, quindi lo lascio fare quando mi accarezza piano la testa e mi posa un bacio sulla fronte. “Stavi dormendo?” chiede mentre entriamo.
Stavo contemplando il vuoto, in realtà. Questa è la prima volta che mi alzo in non so quante ore, Peter. Ma non te lo posso dire, quindi… “No, stavo…” scuoto la testa e cerco una risposta sul pavimento. Non c’è un granché da trovare sul parquet lucido, lui comunque non chiede. “Come va il viso?”
“Sopravviverò,” risponde. Lo guardo spingere la porta con la mano fasciata e non so cosa dovrei fare. Offrirgli qualcosa come se fosse un ospite sembra assurdo quando fino a qualche settimana fa girava in mutande per la mia cucina a prepararmi la colazione, quindi ritorno sul divano e tiro su le gambe, mi guardo le dita dei piedi in attesa che faccia qualcosa anche lui. Si siede, ma non troppo vicino. Tipo che potrei sfiorarlo con la punta del piede se volessi. Voglio, in realtà, così allungo appena le dita, solo per sentire la stoffa morbida dei suoi pantaloni. Lo faccio sempre, e lui di solito mi accarezza i piedi e si passa le mie dita minuscole tra le sue enormi della mano.
Lo fa anche adesso mentre mi chiede, “Tu come stai?”
Non ho idea di quale sia la risposta a questa domanda, e me ne rendo conto adesso che me la sta facendo. Sono triste, ma sono anche stanco e confuso. E sono felice che lui sia qui. Che cosa devo dirgli?
“Non preoccuparti.”

*


Se c’è una cosa che ho capito di Bill in questi mesi è che quando ti chiede di non preoccuparti, in realtà ti sta urlando di farlo, perché è in uno stato di depressione tale che non sa come uscirne e non ha neanche la forza di cercare le coccole su di te, come invece fa sempre quando è felice e gli piace farlo per il semplice gusto di avere qualcuno che si occupi di lui. Quando le cose si fanno serie Bill si concentra a tal punto per non andare in pezzi che poi non gli rimane la forza di chiederti aiuto.
In realtà io credo che debba ancora davvero sfogarsi. Pensavo lo avesse fatto con Patrick – io lo so che in queste cose Fler è bravissimo, che ti capisce al volo e ti toglie di dentro tutto, in un modo o nell’altro – ma evidentemente no.
Provo per un istante a dimenticare che il ritorno di Bushido potrebbe aver rovinato tutto fra me e lui, e che niente potrà mai più essere come prima dal momento che quell’uomo non è morto e Bill non ha mai smesso di amarlo in tutto questo tempo.
Mi sforzo di pensare a come debba sentirsi ora che Bushido ha detto di non volerlo più vedere. Io non lo so cosa farei se lui lo dicesse a me. E’ un casino pensare sia all’una che all’altra cosa, però, perché io non ci so fare in questi casi, non capisco mai nemmeno me stesso, figuriamoci gli altri. Non so come comportarmi. Di solito vado per istinto, di solito lo tocco, in realtà, perché mi faccio capire meglio così, ma non so se voglia e non ho intenzione di farlo innervosire.
In realtà non credo affatto che Bushido manterrà fede alle sue parole, perché quell’uomo non ha mai mollato niente in vita sua e di certo non mollerà lui. Io lo so, cazzo, che non lo farà nemmeno stavolta. Non lo farò nemmeno io. Però è normale che Bill ci stia male, e anche se mi fa incazzare e in questo momento vorrei urlare, non posso farlo. Non ne ho nemmeno il diritto, in realtà. E per quanto posso fingere che sia il contrario, è così e basta.
Quello che provo io devo lasciarlo da parte, e devo lasciare da parte anche quello che penso stia provando Bushido, perché ora è Bill l’unico che non sa dove andare. Io e Bushido lo sappiamo benissimo.
“C’è qualcosa che posso fare?” Chiedo e cerco il suo viso con gli occhi.
Lui tiene la testa piegata e scuote il capo, così mi allungo ad accarezzargli una guancia, con un sospiro.
“Io ci sono, lo sai, si?”
Bill solleva lo sguardo su di me e ha gli occhi rossi e gonfi, gli stessi che aveva nove mesi fa. Non mi piace ricordarlo com’era allora, perché ci sono stati dei momenti in cui non sapevo come riprenderlo quando si perdeva nel suo dolore. Ora non è così, lo so, è una tristezza tutta diversa, ma è profonda uguale e io non voglio rischiare di vederlo chiudersi di nuovo in sé stesso senza poter far niente. Gli accarezzo piano una guancia, la mia mano la prende praticamente tutta, e lui la segue.
Bill mi si avvicina gattonando. Lo vedo snodare le gambe, e le dita dei suoi piedi smettono di stringere la stoffa dei miei pantaloni. Mi si appoggia addosso soltanto un po’ e struscia il naso contro il mio. “Sono contento che tu sia qui,” mormora, prima di baciarmi piano sulle labbra.

*


Sono contento davvero che ci sia, anche se avevo insistito io per andarmene questo pomeriggio. Il fatto è che credevo di dover stare da solo – forse devo davvero stare da solo, in realtà – ma non ne sono capace. Mi perdo nella mia testa quando sono da solo e non voglio, perché tra i miei pensieri fa un freddo cane e non c’è niente. Niente di niente, solo un gran casino, e non mi serve un gran casino in questo momento.
Ho bisogno di qualcosa a cui aggrapparmi, e le spalle di Chakuza sono perfette. Sono le sue braccia ad avermi sostenuto fino a questo momento, io avevo solo mollato la presa un istante. Loro sono sempre lì, però, e io posso tornare a stringerle.
Lo bacio perché voglio baciarlo, ma piano perché non so cos’altro voglio. Per ora è il suo calore che mi manca, mi manca che mi stringa e che mi coccoli. Quindi va bene così. E poi mentre mi perdo nel suo sapore e nel modo gentile che ha di stringermi le labbra tra le sue, mi rendo conto che Chakuza non è la soluzione ad un problema. Lui è la mia vita adesso, è quello che ho voluto finché Bushido non è tornato dalla morte e io ci tengo a Peter, quindi non lo so come sto, non so come farò se Anis non vuole neanche vedermi, non so un cazzo di niente; però so che amo Peter, e questo è sufficiente a farmi ricordare cosa siamo io e lui e quanto contiamo per me. Non è la soluzione al casino di cose che ho nella testa, ma lui non è il problema. Ed è più di quanto possa dire di tutto il resto.

*


Bill mi sembra sempre fragilissimo quando ce l’ho fra le mani.
Lo so che non si rompe con niente, lo so perché è stato capace di farsi sbatacchiare quando voleva, però non posso fare a meno di pensarlo. E’ una conseguenza, credo, del fatto che quando gli stringo i fianchi quasi riesco a toccarmi le dita, che quando lo abbraccio ci sta tutto tra le mie braccia. Come adesso, mentre ci baciamo e penso che queste cose qui – questo tipo di coccole, coccole e basta per il momento – non le facevo da quando avevo tredici anni. E da adulto le ho fatte solo con lui.
Bill ogni tanto ne ha bisogno, di iniziare così piano, intendo, che quasi sembra che non si inizi per niente. Di baciarmi che quasi non lo sento, di strusciare il naso contro il mio collo per minuti infiniti. Lo fa spesso se siamo stati lontani a lungo, e lui ha bisogno di riappropriarsi di me. Io ho imparato a lasciarlo fare, e non ero per niente abituato. All’inizio facevo anche fatica, per dire, perché a me lui piace da morire e quando ce l’ho vicino voglio toccarlo. Aspettare è un sacco difficile. Ma è lui che decide, quindi io aspetto.
Gli passo una mano tra i capelli, e lungo il collo, sento il suo corpo muoversi contro il mio e registro il suo respiro che cambia, i suoi occhi che si chiudono appena.
Alla fine mi stringe le dita intorno alla maglia e quando torna a baciarmi, lo fa in maniera tutta diversa. Schiude le labbra, così posso sentire il suo sapore e perdermici, sono giorni che non lo bacio, giorni che non lo vedo nemmeno per altro, e non so quanto controllo posso davvero tirare fuori, anche se non esiste che non sia lui a dettare il ritmo di questa cosa. Stasera, più di ogni altra sera, si fa come vuoi tu, Bill.
Lui si scosta solo un istante e mi guarda dritto negli occhi mentre si toglie la maglietta e io lo guardo allo stesso modo, la sua pelle che lentamente si scopre la intuisco soltanto e la sento sotto le dita prima ancora di vederla. E’ caldo e morbidissimo. Bill mi spoglia mentre gli accarezzo l’ombelico e lascio scivolare le dita sulle poche curve che ha e che poi si perdono nei suoi angoli e nelle linee dritte del suo busto.
Aspetto che si distenda e che mi tiri verso di sé, allargando leggermente le ginocchia, prima di sistemarmi con attenzione su di lui. Il divano è grande ma non abbastanza per farci stare comodi. Lui non mi dà il tempo di pensare esattamente a come stare in bilico qua sopra perché riprende a baciarmi e io decido che in qualche modo faremo.

*


Le mani di Chakuza scendono a togliermi i pantaloni. Mi sfiora appena coi pollici quando sgancia i bottoni e io mugolo, voglio che lo faccia ancora. “Peter…”
“Sono qui,” mi morde piano il collo, sento la sua lingua sulla pelle nel momento esatto in cui le sue dita si chiudono intorno a me. Stringo le ginocchia intorno ai sui fianchi e mi muovo come si muove lui. Socchiudo gli occhi, la testa appoggiata al cuscino e al bracciolo del divano, ogni tanto vedo il soffitto buio ma ci sto già perdendo la testa. E’ la mia pelle contro la sua e le sue mani, e in generale è lui. Lo voglio adesso, ma voglio anche che continui. Con Chakuza è sempre così, voglio un sacco di cose. E me le dà sempre tutte, ma devo aspettare. Ci muoio quando mi tratta in questo modo, perché mi sento un sacco speciale ma poi è difficile trattenermi.
Torna a baciarmi, io torno a perdermi e lo stringo a me quando sento il suo peso che si sistema bene tra le mie gambe.

*


Non ho niente con me ed è tutto esageratamente lontano per interrompere questo momento. Non voglio smettere di baciarlo, né di accarezzarlo, non voglio che smetta di muoversi sotto il mio corpo, mi piace proprio tutto, è tutto perfetto. Così faccio piano, anzi pianissimo. Quando il respiro gli si ferma in gola, trattengo il fiato anche io e finché non deglutisce, finché non mi fa segno, io sto fermo.
Bill è bellissimo così disteso, segue col corpo i movimenti del mio polso e con le labbra le mie labbra. Non smetto di baciarlo neanche quando mi chiama. “Peter, ora…” mi prega e io faccio ancora più piano, entro appena e lo vedo mordersi il labbro.
“Amore…?” Solo lui, questa parola.
“E’ tutto okay,” risponde e mi si struscia contro, lo fa lentamente, sollevando i fianchi dai cuscini, invitandomi a seguirlo ad ogni singola spinta. Quindi lo faccio, il gemito che ci scappa dalle labbra ci si scioglie in bocca, e non so più se è il mio suono o il suo che sto respirando adesso.
Lo sollevo leggermente, tenendolo per un fianco, e lui si aggrappa un po’ alle mie spalle con un mugolio delizioso. Serra gli occhi quando lo trovo e lo sento tremare anche sotto le dita. “Peter…” Lo so, Bill. Ti sento. Anche io.
Mi muovo più svelto dentro di lui, Bill mi bacia e mi geme in bocca, prima di reclinare la testa e scuotersi tra le mie dita, esalando il mio nome in un respiro che è tipo la cosa più eccitante del mondo. Le mie mani lo stringono forse un po’ troppo forte, quei lividi li bacerò via con cura più tardi, nel suo letto, ora c’è soltanto lui che mi si chiude intorno al ritmo perfetto delle mie spinte. Bill e quanto lo voglio, sono le uniche cose a cui riesco a pensare mentre mi si annebbia la vista e il cervello. Quando mi appoggio sulla sua spalla, mi accoglie con un bacio alla tempia e sorride. Lo dice.
E lo dico anch’io.

*


Più tardi, quando abbiamo di nuovo fiato, Peter mi porta a letto di peso.
Mi lascia cadere sul materasso e rido, un po’. Mi fa il solletico e penso che quando facciamo gli stupidi, io non mi sento mai così piccolo.
Facciamo l’amore ancora due volte, poi Peter mi bacia finché non mi si chiudono gli occhi, così mi addormento col suo sapore sulle labbra e mi risveglio che so ancora di lui.
Lui non c’è però. La sua metà di letto, che poi è anche la mia perché mi piace dormirgli addosso il più possibile, è fredda. Mi sollevo a sedere, arrotolato come sono nelle lenzuola azzurre e mi guardo intorno. Ricordo molte belle cose di stanotte, ma non le so mettere in fila. E comunque voglio un bacio.
Vado alla ricerca dei pantaloni del mio pigiama e sento i rumori dalla cucina. Peter non può fare a meno di cucinare quando trova un frigo pieno, e il mio lo è perché mia madre è terrorizzata all’idea che muoia di fame.
Lo raggiungo e strofino il muso contro il suo collo.
Il primo bacio del mattino sa tanto di noi e un po’ di caffè.

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