Unter der Sonne
Quando Chakuza apre la porta mi fulmina da capo a piedi con uno sguardo che non sono abituato a ricevere da quegli occhi verdissimi e mi viene subito da guardare altrove. Evidentemente non si aspettava di trovarmi sul pianerottolo, è che il portone l'ho trovato aperto – divelto è la parola giusta. E non posso escludere che sia stato lui.
“Bill”, dice. E stavolta vorrei avere un nome più lungo, così sarebbe costretto a parlare di più invece che zittirsi subito e poi restare immobile a guardarmi, in attesa, suppongo, che sia io a dire qualcosa. E' la prima volta che tocca a me parlare e non ho uno straccio di parola in testa. Con tutte quelle che butto via ogni giorno, dovrei averne in abbondanza e invece niente. Zero.
Ho quest'uomo davanti e non ho idea di come affrontarlo.
“Ciao,” mormoro.
“Cosa ci fai qui?”
La mia borsa si è fatta incredibilmente pesante, neanche ci avessi messo dentro le pietre invece delle solite cose, così me la risistemo su una spalla. “Posso entrare un momento?” Chiedo.
Lui si para davanti alla porta e incrocia le braccia al petto. “Prima dimmi che cosa ci fai qui,” ripete. Vederlo comportarsi così è strano, in generale, non solo in funzione di quello che c'è stato tra noi. Io non ho mai visto Peter così gelido nemmeno prima che ci mettessimo insieme. Lui era quello allegro del gruppo degli uomini di Anis, era facile fare amicizia con lui proprio perché non era mai scostante. Non aveva davanti quel muro da uomo del ghetto che avevano tutti gli altri. E ora invece, eccolo qui. Me lo merito, immagino.
“Voglio solo parlare.”
“Anche perché non puoi fare nient'altro,” commenta lui. “Io comunque non vedo di cosa. Non abbiamo niente da dirci.”
Sospiro. Immagino di dovergli dare la possibilità di dirmi in faccia tutto quello che ha pensato finora, anche se credo che si stia comunque trattenendo. Voglio dire, posso immaginare cosa mi ha detto in queste settimane. “Vorrei che tu mi lasciassi spiegare.”
“Sei stato perfettamente chiaro a casa tua, te lo assicuro.”
“Peter, ti prego,” sospiro. “Soltanto cinque minuti.”
Lui mi guarda e l'immobilità del suo sguardo mi mette a disagio. Io e lui non abbiamo mai litigato così violentemente prima di adesso da costringerlo a guardarmi così. Anis lo faceva spesso, perché io e lui ci prendevamo di continuo, ma con Chakuza è stata un'altra cosa. Anche se avevamo qualcosa da dirci, io e lui, non succedeva mai che ci affrontassimo così. Io perlopiù m'imbronciavo e lui cercava di capire che cosa avessi. E se era lui a scattare, al limite ci rimetteva il salotto. Non io. Ora invece me lo sento addosso che una parte di lui vuole farmela pagare, e così mi guarda come se non gli importasse niente e mi basta quello sguardo per farmi esitare. Anche se volessi entrare di forza in casa sua per piazzarmi nel suo salotto finché non mi ascolta, mi sembra impossibile sotto quegli occhi. Mi sta tenendo a distanza. Sa che mi fa più male che se mi prendesse a ceffoni.
“E' importante,” tento.
“Se hai un problema, immagino che Bushido sarà ben felice di risolvertelo,” mi dice secco. E mi chiedo se gli uomini che conosco non siano davvero tutti rimasti ai loro dodici anni: lui, Tom e perfino Anis. La prima cosa che hanno fatto quando una delle mie decisioni non gli è piaciuta è stata replicare in maniera sarcastica. Tom mi rispediva da Anis ogni volta che anche solo avevo bisogno di aprire un barattolo e Anis non faceva che chiedermi se il mio Peter le faceva meglio di lui le cose, durante le riprese del video. Così adesso, sulla porta del suo appartamento, è naturale che Chakuza non trovi niente di meglio da fare che rispedirmi al mittente, facendo la battuta.
“Io...” evidentemente Tom si sbagliava. Peter non vuole assolutamente sentirmi chiedere scusa, forse non vuole più davvero un bel niente da me e io questo non lo so se sono in grado di sopportarlo, ora come ora. Mi rendo conto che sono venuto fin qui con la speranza inconscia che, facendomi insultare, forse avrei recuperato almeno un po' di quel rapporto che c'era prima dell'enorme casino di morte e resurrezione che è stato Anis. Invece, davanti a questa porta, ci trovo un Chakuza che deve aver chiuso con me quando io credevo di aver chiuso con lui. Credevo, appunto, ma non era così.
E' molto ironico rendersi conto proprio sul pianerottolo di Peter quanto sia difficile tornare sui propri passi e scoprire che gli altri sono andati avanti senza di te. Conoscendolo, so che Anis riderebbe di me, se mi sentisse. “Lascia stare,” dico alla fine. “Non sarei dovuto venire.”
“No, non avresti dovuto,” ripete lui. Così mi giro e inizio a camminare lungo il corridoio, stringendo le dita. Allungo il passo quando mi rendo conto che se non mi muovo, potrei piangere qui dove sono e non voglio che Chakuza abbia di me un'immagine patetica. “Ma ormai sei qui,” aggiunge prima che arrivi alle scale. E io mi fermo, perché inizialmente non sono sicuro di aver sentito davvero quelle parole. “Quindi ok. Entra.”
Quando mi volto lui non c'è: mi ha lasciato la porta aperta, però, e quando lo raggiungo è in cucina e ha già aperto due lattine di birra. Spinge la mia verso di me, poi si appoggia al mobile della cucina e beve un sorso. “Allora?”
Allora non so da dove iniziare. Non ho davvero pensato a questo particolare venendo qui, tanto ero sicuro che non sarebbe servito a niente. La mia priorità impossibile era entrare. Il resto era una fantasia nebulosa nella quale balbettavo qualcosa di incomprensibile. A volte, in questa fantasia, lui mi diceva anche che era tutto ok, ma erano casi rari, in generale ero fuori dalla porta quasi prima ancora di entrarci. Quindi insomma, essere in piedi con una birra in mano è un gran bel traguardo ma da questo punto in poi mi tocca andare alla cieca.
“Potresti... non fare così?” Dico alla fine, quando il suo sguardo quasi mi perfora la testa.
“Così come?”
“Così,” mormoro, appoggiando la lattina sulla penisola, perché non ho alcuna voglia di berla. “Lo so che sei arrabbiato, ma non potresti essere meno scostante?”
“Qualcos'altro?”
Vorrei dirgli che lui non è affatto così e che non ha bisogno di esserlo adesso, che non ne ho bisogno io anche se forse me lo merito e che sarebbe tutto più facile se lui – non dico che mi assecondasse – ma che per lo meno non partisse dal presupposto che sto per dire cazzate. Ma immagino che tutto questo non abbia senso e che in realtà sono solo poco abituato ad essere considerato nel torto. Il che fa di me la diva viziata che mi hanno sempre accusato di essere.
“Ti aiuto io,” esclama alla fine, facendo canestro nel cestino con la lattina. “Sua Maestà ti ha lasciato libero di uscire per un paio d'ore e tu sei venuto qui a scusarti?”
Immagino che questo possa essere un buon inizio come un altro, quindi decido che posso iniziare da qui. “Le cose con Bushido non sono andate come pensavo,” mormoro. Vorrei sedermi ma gli sgabelli della cucina sono scomodi, così rimango in piedi e mi sembra quasi che l'abbia fatto apposta a costringermi qui sulla porta, con ancora il cappotto addosso e tutto il resto. “Mi sentivo a disagio e … in colpa.”
“In colpa,” commenta lui asciutto, sollevando le sopracciglia.
“Non in quel senso, Peter!” Esclamo, alzando gli occhi su di lui. Tra tutto quello che ho pensato in queste settimane, non mi è mai passato per l'anticamera del cervello di scusarmi con Anis per essermi innamorato di Peter. Sospiro. “E' stato un gran casino.”
“Posso immaginare.”
“Davvero,” mormoro. “Pensavo che le cose si sarebbero rimesse a posto in un modo o nell'altro dopo che avevo... preso una decisione e invece non hanno fatto che peggiorare. Finché non è diventato tutto così confuso che non ci ho capito più niente.” Lui non dice niente, ma a questo punto non importa più perché ora che ho iniziato non ho intenzione di smettere, qualunque siano le parole che mi stanno effettivamente uscendo di bocca e che non sono tanto sicuro di seguire nemmeno io. “Le cose non erano più le stesse fra me e lui,” continuo. “E dentro di me lo sapevo, solo che non l'ho ammesso finché non l'ho chiamato col tuo nome.” Mi fermo per riprendere fiato perché non mi sono zittito dal secondo stesso in cui lui mi ha dato il via. “Mi ha mandato via,” concludo poi, con un sospiro. “E' finita.”
Mi rendo conto che è la prima volta che lo dico ad alta voce. L'unico a farlo finora è stato Anis. Non lo so come mi sento, leggero credo. E non perché non significhi niente ma perché dirlo ha messo un punto alla questione, che è sempre tragica ma adesso ha un verso e non devo più affannarmi a capire cosa sta succedendo. E' così che è andata: è finita.
E' finita. E Peter dimmi qualcosa, perché non posso continuare a ripetermelo in testa, non posso neanche ripetertelo a voce, tanto non è che cambi le cose fra me e te, giusto? Io ti ho comunque sempre trattato di merda. Quindi offendimi, urlami, ma dì qualcosa.
“Perché me lo stai dicendo?”
“Non lo so,” lo dico di getto, anche se sono perfettamente consapevole di mentire.
Il fatto è che mi sento sull'orlo di un precipizio. Potrei dirgli perché sono qui e saltare nel vuoto nella speranza di non cadere, oppure non farlo mai – evitare il rischio di sentirmi dire no - e rimanere al sicuro sulla mia roccia. E' un pensiero molto egoista, ma io so di non poter andare avanti senza uno di questi due uomini e visto che il mio corpo mi ha suggerito un nome fra due, allora non posso che pensare che per quanto assurdo sembri un mondo senza me e Anis insieme, è Chakuza che voglio. E ciò che mi ha impedito di capirlo subito era l'abitudine e la convinzione di dover riportare le cose come stavano quand'è evidente che non è possibile, quando Peter è tutto ciò a cui tengo della mia vita nell'ultimo anno.
“Mi dispiace per il modo in cui mi sono comportato,” forse tutte queste scuse sono inutili, ma è la prima volta nella mia vita che le faccio sentendo di volerle fare e non perché devo. “Non sapevo come sistemare le cose e ho fatto un errore. Ti ho ferito...”
“Bill...”
Saltare non è una scelta. E' quello che succede adesso, dopo che è finita. Non è finita perché restassi su una roccia. “Io lo so che non ho alcun diritto di chiedertelo, Peter,” mentre lo dico mi trema la voce e anche le gambe, così stringo i pugni e lascio andare le lacrime, tanto non mi resteranno a lungo dentro. Ho paura di un mucchio di cose: che non voglia più ascoltarmi, che si arrabbi. Che mi mandi via. Ho paura soprattutto che mi mandi via. Ne ho una paura folle e irrazionale e se ci penso il cuore mi si schianta in petto. Penso distintamente tienimi qui mentre alzo lo sguardo. E so che se i suoi occhi saranno gli stessi di qualche istante fa, allora probabilmente non ci sarà più niente a tenermi insieme. “Hai tutte le ragioni di rispedirmi fuori da casa tua a calci ma io ho davvero bisogno di te,” sento il singhiozzo che mi raschia ruvido in gola ed esce con un suono minuscolo. “Ed anche se non me lo merito affatto, vorrei davvero che noi potessimo...”
A fermarmi è la sua mano sulla mia.
Io non alzo la testa perché non voglio guardarlo. Mi dico che se quel muro si trova lì e alzando lo sguardo mi ci schianterò contro, non saprò più come alzarmi da questa sedia. E forse dovrò chiamare qualcuno a portarmi via. MI viene in mente che Tom si era offerto di accompagnarmi fin sotto casa ma io gli ho detto che avrei fatto da solo. Posso farcela, ho pensato. Ora penso che sono un deficiente perché non ho proprio la forza, io, di affrontare questa cosa. Che se l'avessi avuta fin dall'inizio, allora questa cosa non sarebbe proprio successa affatto.
“Ehi, Principessa,” mi chiama lui e mi basta sentirglielo dire per leggere il mezzo sorriso che ha sulle labbra. So a memoria ogni sfumatura della sua voce, quindi lo so che ora mi guarda un po' preoccupato ma non troppo e che sta tentando di oltrepassare il velo delle mie lacrime. So che se alzo la testa, non c'è pericolo e posso guardare. “La smetti di piangere?” Mi chiede, asciugandomi gli occhi quando finalmente mi decido a smettere di fissare il pavimento un po' sporco della sua cucina.
“Scusa.”
“Per le lacrime?” Fa lui, alzando un sopracciglio, ironico.
“Per tutto.”
Chakuza non è bravo con le parole, questo l'ho imparato quasi subito. Anche prima che stessimo insieme.
Lui sa tenerti compagnia e ti fa sentire la sua presenza, ma di consolarti non è veramente capace. Ricordo che le prime volte che Anis lo mandava da me a prendermi o a portarmi da qualche parte e io mi lamentavo di sentirmi un pacco postale da consegnare all'indirizzo giusto, lui non è che mi facesse grandi discorsi per tentare di placarmi o di spiegarmi quali motivazioni stessero dietro alle decisioni del suo capo. Lui lasciava che io gli dicessi tutto quello che avevo da dire, e che generalmente era tanto perché io ho tanto da dire su qualunque cosa, figuriamoci su ciò che veramente mi indispone, e poi sorrideva e mi chiedeva se non mi andava di sbollire la rabbia da qualche parte. Non mi diceva che dovevo avere più pazienza o che invece, magari, avevo proprio ragione e dovevo dirgliene quattro a quel tunisino. Lui mi portava da qualche parte, che di solito era a mangiare il gelato. Ai tempi d'oro in cui all'orizzonte non c'erano ancora i segni della faida imminente che sarebbe scoppiata a causa della mia persona, io e lui ci siamo fatti il giro delle gelaterie più fighe di Berlino, in attesa di Anis che stava lavorando in questo o quello studio e che non si sarebbe liberato prima di qualche ora. Cambiavamo gelateria ogni volta così che i paparazzi non potessero appostarsi la volta dopo e infastidirci o, peggio ancora, inventarsi scandali che sarebbero arrivati solo molti mesi dopo.
Ancora oggi mi dico che siamo stati proprio bravi, noi, a non farci beccare. Né prima né dopo. Anche se non so quale sarebbe stato peggio: se Chakuza che intrattiene la Principessa di Bushido in un noioso pomeriggio di un settembre qualunque, o Chakuza che ha una relazione con la Principessa di Bushido, a tre mesi dalla sua morte. Credo di dover essere grato a noi stessi o alla divinità che ha permesso che ci evitassimo di doverci difendere dalla stampa di pessimo gusto.
Comunque sia, quello che stavo dicendo, parlando di gelaterie, è che Chakuza non è uno di quelli che sa cosa dirti quando c'è qualcosa da dire. Quindi non mi aspetto che lui lo faccia. Però è bravo a far tornare le cose a posto quando, per un motivo o per un altro, quelle sono sottosopra. E noi siamo molto sottosopra, in questo momento, tanto sottosopra che non so esattamente se ci sia un noi di cui parlare.
Lui però mi ha fatto sedere in salotto, che è tornato il casino che era prima che io gli urlassi che non sarei più entrato in casa sua, se non avesse pulito. Per un secondo me lo immagino buttare ogni cosa per terra il giorno in cui l'ho lasciato e riderei, forse, se non tornasse dalla cucina con due fette di torta al limone.
“L'ho fatta ieri,” dice, come per assicurarmi che non stava in frigo da quando ha finito la scuola, tipo. Che poi io avevo nove anni all'epoca. “Mangia.”
“Peter...”
“Mangia,” ripete, appoggiando il piatto davanti a me e mettendomi in mano il cucchiaino.
Quindi mangio, che poi è una cosa a cui sono abituato. Non mangiare, dico, mangiare quando lui mi dice di farlo. E' che lui c'ha questa cosa col cibo che risolve i problemi.
Forse è per questo che ha studiato per diventare cuoco.
Ora, la situazione è che io tutto mi aspettavo tranne questo. Chakuza è una persona facile all'ira, per cui poteva essere che dopo avergli detto quello che avevo da dirgli, mi prendesse su di peso – che sono alto il doppio di lui, ma peso molto meno della metà – e mi sbattesse fuori di casa. O che decidesse di mandarmi via, senza usare la violenza. O che non mi mandasse via, magari.
Ma non che avremmo finito per mangiare torta al limone seduti sul tappeto del salotto, così vicini ma senza toccarci come non facevamo da quando io ero quello che ero e lui doveva starmi a tre passi di distanza. E quando ci penso mi rendo conto che è esattamente a questo che serve mangiare la torta e stare seduti e discutere del più e del meno, che con me che grido il suo nome fra le braccia di Anis non c'entra niente. E non c'entra nemmeno Anis, nemmeno per sbaglio. E' questo il punto.
Peter mi mancava, e Peter è qua. Fine della storia.
“Sai,” dice all'improvviso, buttando giù un sorso di coca. “Credo che sarà dura per te da ora in avanti.”
Lo guardo senza capire. “In che senso?”
“Uno, non ho intenzione di accompagnarti a fare shopping più del legalmente consentito ad un essere umano, quindi due ore ogni quindici giorni,” risponde. “Se... e solo se fai il bravo.”
“Peter, cosa?”
“Due: arrivi in orario,” prosegue e mi ferma prima che dica qualcosa. Sono lì con la bocca aperta e lui alza un dito e mi ferma. “Niente 'cinque minuti, Peter'. Ovunque tu sia, se non ti prepari in tempo, ci rimani.”
Lo guardo e sto zitto, a questo punto perché in fondo al mio stomaco c'è una parte di me che ha capito dove stiamo andando a parare, ma l'altra le dice di stare zitta che porta sfiga dirlo ad alta voce.
“Tre,” va avanti, sventolando le sue tre dita alzate. “Basta con The Notebook.”
“Ma...”
“Lo sai a memoria. Io lo so a memoria,” esclama. “Tom lo sa a memoria e probabilmente chiunque ti conosca da più di due mesi lo sa già a memoria.”
Io incrocio le braccia, con un mezzo broncio. “Sei ingiusto.”
“Sì, sono un uomo tremendo.” Poi però cambia tono ed espressione. “Quarto: stavolta non sarà un segreto che stiamo insieme.”
Fino a questo momento, gli unici a sapere che io e lui siamo stati insieme, siamo noi e tutti quelli che sono a noi più vicini. E questi ultimi solo perché, con il ritorno di Anis, tenere la cosa segreta era un po' impossibile. Nemmeno la Universal lo sa e ringrazio che non lo sappia perché se fosse stato altrimenti, forse ci sarebbe toccato qualcosa di peggio che Prinzessin. Insomma i giornalisti, i media, i fan, nessuno là fuori ha la minima idea di quello che è successo negli ultimi mesi.
Chakuza mi sta chiedendo di uscire allo scoperto e spiegare al resto del mondo cosa è cambiato. E come.
E' il caso di essere sinceri, per la prima volta da quando questo enorme casino ha preso vita e come un golem si è portato via tutto quello che fino a quel momento consideravamo indistruttibile.
Se dobbiamo liberarci di quello che è stato, io, e costruire di nuovo qualcosa, noi, forse allora è il caso di farlo alla luce del sole, dove ci possono vedere. Dove non potrò confondermi a tal punto da incasinare di nuovo le cose. E dove posso riportare entrambe le storie della mia vita sullo stesso livello, certo.
Perché lo so che è anche questo. E glielo devo, perché in fondo sono sempre stato io quello che non voleva dirlo, che aveva paura, che credeva sarebbe stato meglio che...
E il perché lui lo ha capito prima di me.
Così sorrido. “Lo sapranno tutti,” annuisco. “Lo sapranno finché non gli verremo a noia.”
Quando finalmente mi alzo dal nostro divano, dove sono finito ad appallottolarmi per vedere un film – e ordiniamo una pizza, Chaku? – sono quasi le undici e sul mio cellulare ci sono quindici telefonate perse e un numero indecente di messaggi da parte di mio fratello. Da qualche parte in questa città c'è un Tomi che cerca ovunque il mio corpo esanime e privato degli organi interni. Forse sta già anche piangendo.
Sorrido mentre ripongo il telefono. Appena salgo in macchina lo chiamo.
“Tom?” Mi chiede Chakuza, accennando al cellulare con la testa e portando via i nostri piatti.
Annuisco. “Non ha mie notizie da più di sei ore.”
“Sarà affranto,” lo prende in giro.
“Non essere cattivo con lui. Mi vuole solo molto bene.”
Dalla cucina mi arriva il rumore dei piatti mentre carica la lavastoviglie. “Il problema di tutti gli uomini che ti circondano, Bill, è proprio che te ne vogliono troppo.”
Lui forse non si è reso conto di quello che ha detto, perché lo sento continuare a sistemare le stoviglie. Io invece mi fermo per un istante in mezzo al salotto, con in mano il cappotto che avevo intenzione di mettermi prima che lui racchiudesse in una sola frase tutto il disastro della mia esistenza. Mi risveglia lui, tranquillo, raggiungendomi lì dove sono. “Vuoi che ti accompagni?” Mi chiede.
Come pensavo, non si è accorto di quello che ha detto.
“Cosa? No, grazie. Ho la mia macchina.”
“D'accordo.”
Segue un minuto surreale che è l'esatto specchio di quello che è successo quando sono arrivato. Io non muovo un passo, lui neanche mezzo e ci guardiamo senza sapere bene che cosa dovremmo fare ora di fronte alla porta chiusa. “Allora, io vado,” sospiro alla fine.
“Sì,” fa lui, bloccando la porta.
“Puoi...insomma,” indico di fronte a me, “apriresti la porta?” Lui si risveglia di colpo e a me viene da ridere perché il Chaku si perde proprio con niente.
“Certo,” annuisce. “Allora, chiama appena arrivi a casa.”
“Sono grande, la so la strada.”
“E' tardi.”
“Non ho mica sonno,” protesto. E mi scappa uno sbadiglio.
Lui solleva un sopracciglio. “Vedo.”
Ridacchio mentre mi stringo bene nel cappotto, dal corridoio del palazzo arriva l'aria gelida che presumo stia risalendo le scale dal portone dissestato. Ci salutiamo ancora una volta e poi, visto che lui non lo fa, mi volto a lasciargli un bacio piccolo sulle labbra. Vorrei seriamente andarmene così, ma immaginavo che con Peter non sarebbe stato veramente possibile, così lascio che mi prenda per la nuca e mi trascini a sé.
Lascio che mi baci profondamente e permetto alla mia lingua di ricordare il suo sapore.
Con Chakuza non faccio che ricominciare da capo. La nostra storia è un inizio continuo, come in quel film, dove lei non ricorda niente ed ogni giorno lui deve conquistarla di nuovo.
Io e Chakuza siamo al terzo primo bacio e mi auguro di non doverne contare altri quarantasette. Anche se, tanti inizi e nessuna fine non è poi tanto male.
“Che ne è del non preoccuparti Bill, faremo le cose con calma?” Scherzo, quando mi lascia andare e io un po' rimango lì addosso a lui, prima di decidermi a scostarmi, perché mi era mancato più di quello che pensavo. E d'altronde è questo il punto.
Queste sono le parole che mi ha detto quando la porta e la casa erano mie, ed era lui a doversene andare ogni volta che mi riaccompagnava.
“Stavolta la saltiamo quella parte,” commenta. “Che ne dici?”
Dico che va bene. Cominciare sempre da capo può essere romantico, ma non sta scritto da nessuna parte che dobbiamo necessariamente farlo sempre dallo stesso punto.