That's the way it is

di tabata
Quando ho lasciato il suo appartamento, Bill era sul divano e stava guardando i cartoni animati, con in grembo una ciotola di cereali senza latte – perché pesa quaranta chili ma mangia come quattro persone, quindo dopo le frittelle e i waffle amorevolmente cucinati dal sottoscritto ha voluto anche i cereali –, il che significa che, ad occhio e croce fra un paio d’ore, mi telefonerà chiedendomi che cos’ho fatto in tutto questo tempo che non mi ha visto e se penso di passare a trovarlo nel pomeriggio, e magari restare per la cena, e la notte, e la colazione del giorno dopo.
Bill quando non deve lavorare è onnipresente, non puoi dimenticarti della sua esistenza perché lui non te lo permette. E a me sta bene, perché non ho nessuna intenzione di dimenticarlo. Non ho neanche alcuna intenzione di cederlo a nessuno, quindi quella telefonata la voglio. E ne voglio anche altre dieci al giorno se questo significa avere Bill.
Ad ogni modo sono le undici e mezza del mattino, e io sono tipo nel peggior ritardo della storia dei Pangerl. Mio padre ha una visita dal cardiologo all’ora di pranzo e mia madre non può accompagnarlo dal momento che mia sorella Clara non ha trovato di meglio da fare che farsi sospendere per quattro giorni, quindi lei deve parlare con i professori.
In tutto questo, io devo passare in studio a portare a Stickle le demo che stavo controllando, e se non lo faccio quell’uomo mi farà a pezzi, quindi lui e Raf mi ricopriranno di cemento e mi getteranno nel canale. Ho circa un’ora di tempo per passare da casa, farmi la doccia, portare i cd a Stickle e quindi andare dall’altra parte della città a recuperare mio padre per riportarlo vicino allo studio della Beatlefield perché il suo cardiologo è lì. Non ce la posso fare. Certo potrei anche dirgli di andarci da solo dal medico, ma quel dolore che sente al petto ogni tanto non mi piace per niente. Il suo cuore comincia a perdere colpi, temo, e siccome lui tende a non dare nessuna importanza a quello che gli dicono i medici liquidando il tutto con un assurdo “mio padre è campato cent’anni senza averne mai visto uno”, quando non si ricorda che per l’appunto nonno è morto d’infarto, allora forse sarà il caso che lo accompagni.
Per qualche miracolo non trovo traffico. Casa di Bill non è lontanissima dalla mia ma se dice di esserci gente per strada ci metto anche un’ora. Quando arrivo, parcheggio e faccio le scale stando attento a non farmi sentire dalla signora Lotte che la mattina non ha niente da fare e quindi si apposta sulla porta per braccarmi con qualche nuova ricetta che ha scovato sul giornale mentre era dalla parrucchiera, che poi mi fa anche piacere – che mi dia una ricetta nuova, non che vada dalla parrucchiera – ma oggi proprio no.
Quando entro in casa, non è casa mia. Cioè lo è: l’ingresso, la cucina, il salotto è tutto dove deve essere, solo che è pulito e il lavello non emana quell’odore di vaga putritudine che di solito ti accoglie quando apri la porta. Entro e mi guardo intorno circospetto. Sembra uno di quei film in cui un uomo sta via per qualche ora e quando torna nessuno lo riconosce, in casa sua vive altra gente, a lavoro non lo hanno mai visto e tutti convengono che lui non è chi dice di essere. Ecco, io adesso mi aspetto che dal salotto, per dire, esca uno e mi chieda cosa ci faccio in casa sua. Magari se chiamo Stickle quello mi dice che Peter è già lì a lavorare dalle sei – e lì già avrebbe dovuto capire che non ero davvero io, perché io non mi alzo prima delle nove.
Poi però vedo sul divano la coperta con i cavallucci marini e allora capisco che di qui è passato Fler. Quando arrivo in camera, capisco che non solo c’è passato ma che c’è anche rimasto, perché sta dormendo nel mio letto. Mi viene da sorridere, e non mi sconvolgo neanche. Insomma, forse dovrei, perché non ha senso che quest’uomo sia nel mio letto, ma so anche che quando sono uscito da qui era tardi e Fler odia casa sua, quindi è normale che abbia preferito restare qui. E’ normale perfino che abbia dormito nel letto e non sul divano. Il divano è scomodo e non è la prima volta che usa quel letto, quindi ha tutto perfettamente senso. E non so se il fatto che abbia senso ha un senso, ma alla fine chissene frega. Vado a farmi la doccia.
Quando esco con l’asciugamano in vita e un ritardo che si accumula, lui dorme ancora ed è uno spettacolo. Fler non dorme per niente composto, quando riesce allarga sia le braccia che le gambe e siccome è lungo, occupa un sacco di spazio, quasi tutto il letto da una diagonale all’altra. Ora però è anche più scomposto del solito: è disteso supino a gambe large, e si copre gli occhi con l’avambraccio perché ieri sera non ha chiuso le tende e c’è una luce assurda in questa stanza. L’altra mano la tiene sulla pancia ma come sempre si è grattato, quindi la maglia è tutta sollevata. Mentre sono li che apro e chiudo i cassetti per trovare una maglia, lo sento che si muove e chiama sua madre nel dormiveglia. Io rido e lui spalanca subito gli occhi. “Ben svegliato,” dico.
“Sei tornato adesso…?” Mugola e cerca di dissimulare il fatto che sia in imbarazzo. Si stropiccia anche un occhio, e sembra un bambino.
Rido. “Veramente da un paio d’ore,” il che probabilmente mi pone nella posizione di dover chiamare Stickle e dirgli che non gli porterò le demo e che se mi vuole cementare i piedi dovrà aspettare che abbia portato mio padre dal medico. Trovo la maglietta in fondo al cassetto, alla fine, e la infilo. “Ma dormivi così bene che non mi è sembrato il caso di svegliarti. Ti hanno sfrattato da casa tua?”
Lui mugola e basta e si stira fra le coperte, anche se più che stendersi ci si incastra dentro perché ha parte del lenzuolo intorno ad una gamba e il resto gli passa dietro la schiena fino ad imprigionargli una mano. Difatti tira e strattona, ma è tutto legato. “Piuttosto,” dico, sistemandomi per bene davanti allo specchio, “si può sapere perché cazzo mi hai ripulito casa?” Chiedo divertito. “Mi è preso un colpo, quando sono entrato!”
Lui scrolla le spalle e alla fine riesce a liberarsi dal boa constrictor di coperte, mettendosi seduto. “Non lo so,” borbotta, “Era il solito bordello, ho sistemato qualcosa e mi sono fatto prendere la mano.”
“L’ho visto!” Rido di nuovo, non è una spiegazione per niente logica. Casa mia è sempre un casino, non ti metti a sistemarla a chissà che ora della notte. Io dovrei prenderlo da una parte e farci due chiacchere. E lui dovrebbe fare lo stesso con me. O forse qualcun altro, uno bravo, dovrebbe parlare con entrambi. Soprattutto perché alla nostra follia non cè limite, soprattutto alla mia. “Aspetta un secondo,” lo avverto, prima di scomparire nell’altra stanza. Dico, io non lo so perché prima, mentre dormiva, gli ho preparato latte e caffè e non ho idea del perché sto mettendo la tazza e la brocca sul vassoio in questo momento. Sostanzialmente, però, non me ne frega neanche. Mi va di farlo. Forse mi sono preso bene stamattina. O forse a Bill l’ho preparata perché mi fa piacere farlo felice, e se ho potuto farlo è grazie a Fler, quindi la colazione la faccio anche a lui.
Quando torno indietro col vassoio, e con la minaccia di Stickle che mi pende sulla testa, lui mi sgrana tanto d’occhioni azzurri. “Che cazzo è, Chakuza?” Chiede, sconvolto.
Io rido mentre gli poso addosso il vassoio e mi siedo. “La colazione. Non sapevo che avevi dormito qui, altrimenti mi sarei fermato a comprare qualcosa fuori… comunque ti ho fatto il caffellatte ed ho riesumato delle merendine…” indico delle robe un po’ ammaccate e chiuse nella plastica che ho trovato per puro caso. “Erano nella credenza da un po’ ma dovrebbero essere ancora commestibili.”
“… Chakuza,” mi ferma lui, con quel tono che sta a metà tra il rimprovero e la rassegnazione di uno che mi deve spiegare le cose semplici del mondo. Fler lo usa di continuo con me, e di solito comincia col mio nome e si pinza la radice del naso. Difatti ecco che lo fa, si pinza la radice del naso. “Perché mi hai portato la colazione a letto?”
Io mi chiedo perché mi debba necessariamente chiedere cose di cui sa perfettamente che io non conosco la risposta. Insomma, mi conosce, lo sa come faccio le cose io. Cosa chiedi? Sospiro. “Beh…” mi stringo nelle spalle, “Ho fatto la doccia, tu continuavi a dormire, non avevo niente da fare e-“
Non avevo niente da fare? Sono consapevole di non avere il cervello collegato alla bocca. Forse non ce l’ho collegato con niente, in realtà. E’ un organo a se stante che non comunica con nessun’altra parte di me.
“Chakuza!” Mi richiama lui, il tono passa dal rassegnato al severo. Credo che se avesse dei figli, Fler li farebbe scattare sugli attenti con quella voce lì.
Io un po’ ragazzino mi ci sento adesso, per dire. Afferro una merendina per darmi qualcosa da fare e ne inghiotto un pezzo duro e insapore come il cemento, poi sospiro e decido di dirla come viene. Tanto lo sa perché, me lo ha letto in faccia. “E’ andata… bene, con Bill,” rispondo, e non riesco a guardarlo negli occhi. Voglio dire, in questo momento io sono felice perché non ho perso Bill e i miei vestiti sulla cesta in bagno hanno ancora il suo odore, e io quando sono felice lo vedi a chilometri perché non tengo dentro niente. Però credo che non dovrei stare così di fronte a Fler. Dovrei, non lo so, contenermi, credo, boh. Il fatto è che se io sto in un modo, in quel modo sto, non è che posso fare diversamente. “… perciò credo di doverti ringraziare.”
Lui beve il suo caffellatte. “Non ringraziare,” mormora con una voce tremenda.
Fler quando è arrabbiato, oppure sta per esserlo, te ne accorgi subito. E’ come quando sta per arrivare un temporale, e vedi le nuvole grigie un sacco di tempo prima.
Ciononostante, per il discorso di cui sopra, io non riesco mai a fermare la bocca.
“… ma è merito tuo, se…”
“Lo so,” taglia corto. “Non ringraziare.”
Io non ringrazio, e mangio un altro po’ di questa merendina tremenda, che probabilmente è andata davvero a male in chissà quale era geologica. Forse era già qui quando ho comprato la casa, vai a sapere. Ora, questa situazione è davvero imbarazzante.
Voglio dire, io sono qui che come apro bocca sbaglio, però non posso semplicemente alzarmi e andarmene via a fare quello che ho da fare.
Il punto è che niente di ciò che posso dire migliorerà la situazione. Quindi cosa lo dico a fare? Cosa posso dire a lui che mi ha praticamente spedito da Bill quando non lo voleva affatto, e lo ha fatto perché io invece lo volevo? Grazie non vuole, quindi niente. Non gli dico niente. Forse dirà qualcosa lui. Mi avvicino e gli passo un braccio intorno alle spalle. “Ti va di parlarne?” Mormoro piano contro la sua tempia. E’ così vicino che sento il suo profumo.
“No, cazzo,” si lamenta subito lui, sconvolto. Si agita per liberarsi ma non mollo la presa. Lo so come fa lui, che quando si sente a disagio inizia a divincolarsi e poi o non ti guarda o lo fa con l’occhio da uomo del ghetto, che è quella specie di occhiata intensa che dovrebbe metterti un sacco di paura e invece è un sacco ridicola se pensi che la sta facendo per darsi un tono ed evitare di sfuggirti dalle dita. “Lasciami,” mugugna.
“Piantala. Ti va di mandarmi a fanculo?”
Forse è questa la soluzione, che non è che mandarmi a cagare possa risolvere tutti i problemi del mondo ma di solito aiuta. Visto che la mia persona fa più danni di quanti sia in grado di ripararne io devo sottostare a questa pratica per cui, ad intervalli regolari, vengo mandato a fanculo. E tutto torna più o meno come prima. Che non sembra, ma a qualcosa serve.
Lui infatti sospira. “Sì.”
“E allora fallo,” lo invito. Sono pronto, con le braccia aperte.
“Fanculo, Chaku.” E non è che lo dica granché convinto.
Rimane mogio così com’era, quindi ne seguono due minuti di silenzio dove lui non parla e io non so cos’altro accidenti fare. “Ti senti meglio?” Chiedo.
“Per nulla.”
Rido piano contro di lui, è ancora caldo di sonno. Fler è una creatura termoregolante. Se fa caldo, è fresco. Se fa freddo, scalda. Quindi stamattina che in casa comincia a fare fresco, lui trattiene il calore del letto ed è piacevole stargli accanto. “Dovevi dirlo con più convinzione.” Per me la tensione si sta allentando. In realtà quando questo accade per il sottoscritto, non è così per il resto del mondo. E’ per questo che poi sparo cazzate, la gente ci resta di merda e devo quindi essere mandato a fanculo di nuovo. Il fatto è che a me non piace stare in tensione, non lo sopporto proprio. Mi stanco. Percui ci sto per un po’, poi, indipendentemente da chi abbia iniziato, o di chi sia la colpa, basta, smetto. E tendenzialmente il mio cervello sarebbe portato a pensare che tutti dovrebbero fare la stessa cosa. Ovviamente così non è, per questo alla fine l’unica cosa sensata da fare da parte mia è lasciare che la gente mi gridi addosso.
“Non mi andava e oh, insomma Chakuza mi lasci andare?” Lui si lamenta ma non si scosta proprio per niente, e quindi io lo prendo per un segno positivo. Quando Fler non vuole veramente qualcosa, mugugna ma poi non si attiva per ottenerla. E infatti mi si appoggia anche un po’ contro mentre mi dice che dovrei proprio scostarmi. Alla fine sospira e si rimette dritto. Solo allora lo lascio andare, questa volta un po’ di tensione sta scivolando via davvero. O magari la sta facendo scivolare.
“Va meglio adesso?” Riprovo.
“Un po’,” ammette lui alla fine. E poi si siede a gambe incrociate sul letto e mi dice questa cosa spiazzante. “Io non lo capirò mai cosa vuoi da me, Chakuza.”
Per me è semplicissimo. Cioè, non è che io coscientemente abbia una risposta a questa domanda. Io coscientemente non ho risposta a nessuna domanda che non siano quelle base, che mi puoi fare nella quotidianità: C’è del latte? Hai preso le chiavi? Dove hai parcheggiato l’auto?... per tutto quanto il resto io rispondo d’istinto, che non vuol dire che mento, vuol dire che quella è la risposta ma non l’ho pensata prima di esprimerla. Tutto lì. Quindi io lo so cosa voglio da lui, ed è qualcosa di estremamente semplice e lineare. Nella mia testa. “Da te voglio te,” rispondo piano. “Non saprei metterla in un altro modo. Cerca di capirmi e basta.” E’ la pura e semplice verità.
E in realtà non c’è proprio niente da capire in questa frase. Fler è Fler, e tutto quello che lui è e rappresenta ed è stato con me e anche senza di me, a me piace. Lo voglio. Che poi al momento questo concetto è indipendente dal sesso, ed è molto più generale.
Io non riesco proprio a concepire che Fler non ci sia nella mia vita; non comprendo nemmeno le parole una in fila all’altra quando le pronuncio in testa. E’ come togliere l’ingranaggio centrale ad un meccanismo e sperare che funzioni lo stesso. Girerà a vuoto. Quindi a me non passa neanche per l’anticamera del cervello di togliere il Patrick-ingranaggio. Deve stare lì. Con tutti i suoi denti ad incastrarsi con i denti di tutti gli altri ingranaggi che compongono la mia vita. Se tu me lo togli, non funziono più nemmeno io. Quindi da Patrick voglio Patrick, quello che è. Lui.
“… insomma,” borbotta, azzardandosi a mangiare anche lui una merendina della prima guerra mondiale. “Non è che sia proprio facile starti dietro, Chakuza.”
“Lo so,” rido piano perché è una cosa che mi dicono da quando sono piccolo, credo.
Non c’è soluzione purtroppo, questa è la testa che mi hanno dato. Mio zio Albert, il fratello maggiore di mio padre, dice sempre che quando Dio distribuiva la logica, io dovevo essere al gabinetto.
Fler a quel punto sospira di nuovo, uno di quei sospiri che riesce a scuotergli anche quelle spalle enormi che si ritrova, quindi si toglie il vassoio di dosso e si sistema i vestiti il meglio possibile. E’ tutto a grinze, sembra uscito dalla lavatrice. Quindi si mette le scarpe e se ne esce da casa mia con un “Ci si sente, eh?” Gettato così, un po’ a caso.
Lo saluto allo stesso modo. Io comunque devo andare. Mentre recupero le chiavi della macchina da sopra il tavolo di cucina, e non lo so perché le ho lasciate lì quando sono entrato, getto le stoviglie della colazione di Fler nel lavello. Il telefono squilla un secondo dopo, ed è Bill naturalmente. Ci parlo mentre salgo in macchina. Si è finalmente svegliato del tutto, che con lui è un processo lentissimo come dicevo, ed è euforico perché ha scoperto un sacco di cose che dobbiamo assolutamente fare – indipendentemente dal fatto che ci sia il tempo e la possibilità di farle, naturalmente – e per dirmele lui non può aspettare nemmeno che finisca di mettermi la cintura e calcoli mentalmente il percorso che devo fare. Io già lo so che mio padre è fuori dalla porta di casa ad aspettarmi con venti minuti d’anticipo quando io ne ho quaranta di ritardo.
Bill vuole uscire, e ce lo porto fuori. Mi vuole a cena, come previsto. Prima delle sei non sono lì nemmeno se mi teletrasporto, Bill. Lo sento che mette il broncio, e questo semaforo è sempre rosso. Facciamo che ci provo, va bene. Lo prometto, sì, Bill.
E c’è la coda naturalmente. Quando ride però, rido anche io. Quanto entusiasmo.
Ora ti lascio che sono arrivato. Sì, anch’io.
Mio padre mi fa notare il ritardo e l’auto ricoperta di polvere – non la lavo da mesi – non appena faccio tanto di accostarmi al marciapiedi. E mentre gli tolgo le cianfrusaglie dal sedile davanti, buttandole su quello dietro, lui ancora parla.
Conto fino a dieci e sospiro. E’ inutile che me la prenda, tanto non ho avvertito Stickle, quindi il mio destino è segnato.
Il canale. Il cemento.
Mi accompagnerà la voce di mio padre che mi chiede perché non ho la cravatta.
Papà, la cravatta sulla maglietta?

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