Run Around In Circles ('Til I Run Out Of Breath)

di tabata
Fino a qualche giorno fa ero un uomo convinto che sarebbe cambiato, che le cose sarebbero migliorate e che la sua vita, a lungo segnata da una serie di sfighe cosmiche, stesse ora per prendere la giusta piega e diventare, se non perfetta, per lo meno accettabile. Poi abbiamo trovato David in quel magazzino, e allora mi sono ricordato che mi chiamo Patrick Losensky e che la mia vita, da che sono nato, non ha mai preso la piega giusta nemmeno per sbaglio.
La verità è che avrei dovuto andarmene quando ne avevo l'occasione. E visto che la prima volta non mi è riuscito, intendo quando poi Anis è tornato, a maggior ragione avrei dovuto riuscirci alla seconda, quando veramente non mi era rimasto più niente. Nemmeno Sido. Avrei dovuto cambiare aria, magari perfino nazione, provare nuove collaborazioni – in Francia, per dire, fanno un ottimo rap – e solo allora tornare, meglio se dopo anni. Il posto in cui hai vissuto per quasi trent'anni può iniziare a soffocarti se tutto ciò che ha da offrirti sono ricordi di cui faresti a meno. Spesso l'unica soluzione è tagliare i ponti e ricominciare da capo, nuove facce, nuova vita, nuovo posto; tutte cose che probabilmente ti porteranno a soffocare di nuovo, un giorno, ma fino ad allora – e non sai quando sarà, non sai nemmeno se succederà – avrai guadagnato un po' di tranquillità che evidentemente ti mancava se hai sentito il bisogno di fuggire altrove.
Questo è un concetto in cui io credo molto, ma non sono mai riuscito a metterlo in pratica.
Se per chiunque è difficile cambiare vita, per me lo è ancora di più perché il posto da cui provengo non è Berlino, ma il ghetto e quello è un mondo a parte, una cosa viva. Se ti allontani, il ghetto resta comunque dentro di te o, peggio, fa in modo che tu non abbia voglia di andartene.
Per farmi restare, il ghetto mi ha mandato Danny e quando io, notte dopo notte, l'ho strappato a lui, allora ha preso David e se l'è quasi mangiato vivo.
Adesso sono di nuovo al punto di partenza, perché qui non c'è nessuna strada da percorrere, solo un circolo vizioso che non posso far altro che ripetere all'infinito, magari non completamente, ma di certo le sue parti fondamentali non mancano mai. Una di queste è un morto ammazzato. Una di queste, soprattutto, è Chakuza.
Per un momento ho anche sperato che la chiamata a rapporto di Bushido potesse restare un caso isolato, ma questo solo perché sono fondamentalmente ottimista e mi sembra chiaro che dovrei smettere, visto che l'ottimismo non è che mi abbia portato molto lontano. Era anche piuttosto ovvio che messi in condizione di vederci e parlarci una volta, io e Chakuza avremmo voluto farlo di nuovo perché siamo entrambi molto portati a ricadere nei soliti schemi mentali e lui, per altro, non li abbandona nemmeno temporaneamente.
Il suo cervello è un computer in grado di montare tre o quattro sistemi operativi del tutto diversi e anche in palese conflitto tra di loro e usarli tutti contemporaneamente. In un certo senso è un miracolo della tecnologia, peccato sia completamente inutile e, dopo esserti meravigliato di questa sua straordinaria capacità, ti rendi conto di cosa significa.
Quando lo conosci bene, capisci che questa è una parte di lui che non si può cambiare. Se c'è qualcosa che desidera oltre a te, magari non farà di tutto per averla, ma continuerà a volerla con un'intensità tale che dovrai conviverci, perché questa esonda e gli illumina gli occhi, e quando lo guardi la vedi chiaramente.
Io ci sono passato. Lo so cosa vuol dire trascorrere con lui giornate intere in sintonia perfetta e poi perderlo completamente ad un solo battito di ciglia da parte di Bill.
Per questo motivo quando ho incrociato il suo sguardo, nel salutarlo dopo aver lasciato casa di Anis l'altro giorno, ho capito subito dove saremmo andati a parare, magari non dopo due giorni e nemmeno dopo una settimana, ma prima o poi sì. L'unica differenza è che, per una volta, mi è sembrato che il battito di ciglia che l'ha confuso fosse il mio, e quindi forse è stato anche per questo che non sono scappato subito a gambe levate. E perché sono scemo, non c'è altra spiegazione.
Quella sera, prima di risalire ognuno sulla sua macchina, ci siamo detti di tenerci in contatto, ufficialmente per quello che avremmo deciso di fare per la questione di David, e ufficiosamente Dio solo sa perché, ma non avevamo certo fissato una data precisa. Chakuza, però, è sempre Chakuza e quindi si sente perfettamente autorizzato a presentarsi a casa mia alle otto del mattino nemmeno una settimana dopo mentre io, non solo non lo sto aspettando, ma sto anche vivendo un piccolo dramma famigliare che pensavo mi sarebbe toccato soltanto fra una decina d'anni, quando avrei avuto un figlio che lo rendesse plausibile.
Dopo la notte del magazzino – che ora ha un nome e quindi, immagino, va a far compagnia a quella di Saad – Danny ha dormito da me molto spesso, anche durante la settimana, una cosa che non gli avevo mai permesso di fare fino a questo momento. Questo gli ha fatto venire una serie infinita di pessime idee, l'ultima delle quali sarebbe quella di non andare a scuola, oggi, e rimanere a casa con me.
Quando Chakuza suona il campanello, io ho appena bocciato l'ultima proposta di Danny di darmi una mano a fare la spesa visto che il frigo è vuoto.
“Se mi fai restare a casa, potremmo scopare e non dovresti fare da solo in doccia,” urla lui per farsi sentire dalla cucina e io, che sto per premere il bottone del citofono, decido di non farlo e di aprire alla cieca, giusto per non far sapere a tutta la strada gli affari miei.
“Sei minorenne, non posso accettare offerte simili da te,” lo zittisco. “E ora finisci di fare colazione. Ti voglio fuori di qui in tempo per la seconda ora.”
“La seconda ora di cosa?” Dice Chakuza entrando.
Io non realizzo subito che ce l'ho davanti. Sento la voce, vedo spuntare la testa, ma non capisco che cosa sto guardando. Per un momento non c'è nessun nesso logico fra io che apro la porta e lui che entra, perché non mi aspettavo di vederlo e, con Danny e tutto il resto, mi ero pure dimenticato che un giorno, forse, dovevamo sentirci per fissare un altro giorno ancora in cui vedersi.
“Come hai fatto ad entrare?” Gli chiedo, senza rendermi conto di quanto sembri cretino.
Lui si chiude la porta alle spalle come fosse casa sua e mi guarda con diffidenza. “Mi hai aperto tu?”
“Sì, questo è ovvio,” mi correggo. “Intendo, perché sei qui?”
“Dovevamo vederci.”
Lo guardo ed evidentemente sono troppi mesi che non lo vedo perché i miei processi mentali faticano tantissimo ad adattarsi di nuovo ai suoi.
“Un giorno generico, Chakuza.” Gli faccio notare. “Sai come si dice, vediamoci uno di questi giorni.”
“Beh, è un giorno,” sorride lui. Pieno di grandi aspettative per il futuro, immagino.
Io sospiro e mi stropiccio gli occhi, e so già che il mio periodo di pace è finito. Qualunque cosa mi riservi il futuro comincia adesso e sarà tremenda. “Sì, beh,” dico “Il fatto è che in questo momento sono un po' preso, quindi forse è meglio...”
“Senti cosa facciamo,” esclama Danny, raggiungendomi nel corridoio con un biscotto in mano e ancora in mutande. “Entriamo in doccia insieme e poi decidiamo. Oh.”
Oh. Esattamente quello che dico io. Lo sguardo che si scambiano genera una scarica di corrente elettrica che potrebbe illuminare Berlino per tutta la prossima settimana. Chakuza perde il sorriso di colpo, come se fino a due minuti fa avesse avuto un paio di finte labbra sorridenti incollate sulle sue vere e gli fossero cadute per terra per un colpo di tosse. Daniel invece fa una cosa che non gli avevo mai visto fare, forse perché fino a questo preciso momento non ne aveva avuto bisogno: si mette sulla difensiva. “Buongiorno,” saluta, cercando di mostrarsi perfettamente a suo agio, nonostante sia senza vestiti.
“Buongiorno,” risponde Chakuza.
E credo che questo sia il momento più imbarazzante della mia vita. Presentarmi al pronto soccorso e dire ad alta voce di aver bisogno di un proctologo che mi desse dei punti è stato niente in confronto. “Danny, questo è Chakuza,” dico agitando l'indice a destra e a sinistra senza guardarli. “Chakuza, questo è Danny. Vi siete conosciuti l'altra sera.”
“Sì, mi ricordo,” fanno entrambi in coro. “E cosa ci fa qui?”
Daniel solleva un sopracciglio, credo per dargli la possibilità di correggersi prima di saltargli alla gola, e Chakuza stranamente la coglie. E' evidente che l'invasione di territorio lo ha reso ricettivo.
“Voglio dire,” si schiarisce la voce. “Non pensavo che viveste già insieme. Sono... sorpreso.”
Io vedo le magliette e i pantaloni che Daniel ha lasciato ovunque nel corso degli ultimi giorni, e che sono un po' troppe per un semplice cambio del giorno dopo. Per non parlare della pila di libri e quaderni che c'è sul mobile d'entrata, dove di solito fa il cambio dello zaino pochi minuti prima di uscire. Non è così assurdo che Chakuza abbia erroneamente pensato quel che ha pensato.
“No, no, ha solo dormito da me per un po',” mi gratto la nuca e spero di essere fulminato così da non dover proseguire questa discussione.
“Tu non hai risposto alla domanda,” insiste Daniel, con un sorriso omicida.
“Sono qui perché devo parlare con Patrick,” risponde Chakuza.
Continuano a guardarsi dritti negli occhi e io penso che se intanto vado a farmi la doccia e a vestirmi, quando torno lì trovo ancora qui a giocare ad un, due, tre, stella!
Tossisco per richiamare la loro attenzione, in fondo si presume sia per me che si odiano, quindi che mi guardino, per lo meno. “Chaku, perché non vieni dieci minuti in cucina, così mi spieghi?”
Mentre lo spingo nell'altra stanza, mi volto a guardare Daniel che mi lancia un'occhiata indecifrabile ma non commenta. Dice solo “Vado a vestirmi,” prima di sparire in camera.
Chakuza, nel frattempo, mi aspetta appoggiato ad uno dei mobiletti e, a quanto pare, ha ritrovato il sorriso. “E' la prima volta che ti vedo usare questa cucina,” commenta e solleva una mano ad accarezzare il legno dei pensili sopra la sua testa. “Hai tolto perfino la plastica di protezione.”
Io sorrido mentre sparecchio per darmi qualcosa da fare. “Ho avuto modo di usare la casa molto di più, in questo periodo.”
“Io no, per nulla. Sono stato in Austria.”
“Davvero?” Alzo la voce per sovrastare l'acqua che scorre nel lavandino. Potrei caricare la lavastoviglie ma questo mi costringerebbe a sedermi con lui.
“Sì,” dice e me lo ritrovo all'improvviso di fianco, appoggiato al lavandino. Non l'ho sentito arrivare. “Senti, oggi potremmo pranzare insieme e fare quattro chiacchiere. Volevo invitarti a fare colazione fuori, ma sembra che io sia arrivato tardi.”
Mi sta così vicino che mentre mi muovo gli sfioro la pancia con il braccio. Mi vergogno a pensare che la sua presenza ha un effetto su di me, nonostante io sappia che è in quella fase in cui tenta di fare lo splendido ed è ridicolo. Se non ci fossero stati questi sei mesi di mezzo, forse starei ridendo. Ora, invece, la mancanza si fa sentire e voglio solo fare un passo a sinistra, verso di lui. “A pranzo è un casino,” dico.
“A cena, allora,” propone subito lui. “Vengo a prenderti per le nove. Il bambino sarà già a letto, no?”
Gli spruzzo l'acqua in faccia, un po' perché è un cretino e un po' perché devo esorcizzare la sua presenza in qualche modo. “Facciamo invece che ci troviamo direttamente da qualche parte alle otto,” lo correggo, guardandolo in maniera molto significativa.
“Sta bene, vieni da solo. Italiano?” Chiede.
Io annuisco e lui capisce al volo.
“Vada per La Cantina alle otto, allora,” conclude con uno dei suoi sorrisi trionfanti senza motivo. Si scosta dal lavandino con un colpo di reni e mi batte una mano sulla spalla. “A stasera.”
Lo seguo fino alla porta e spero di riuscire a mandarlo via prima che debba uscire anche Danny ma la spirale negativa è già iniziata, e quindi eccolo spuntare dalla camera, appoggiare lo zaino a terra e cambiare velocemente un paio di libri. “Devo andare, sto facendo tardi,” dice sbrigativo, però non si muove. Aspetta che Chakuza sia uscito e abbia salutato prima di fare altrettanto, con un sorriso soddisfatto.
Chiudo la porta e mi ci appoggio sopra con un sospiro, sperando che non tentino di spingersi giù dalle scale a vicenda mentre scendono.

*


La prima cosa che penso mettendo piede nel ristorante è che questa è una follia.
Io so perché ad un certo punto della mia vita ho dovuto smettere di interagire con Chakuza, è un motivo che ho ben chiaro in testa perché se c'è una cosa che ho fatto affrontando lui e i miei sentimenti per lui è stato razionalizzare per avere un minimo di controllo su quello che stava succedendo e non impazzire del tutto. Chakuza è molto lento ad adattarsi alle nuove situazioni, preferisce vivere in quelle vecchie anche se non esistono più o – in certi casi – non sono mai esistite, e tende spesso e volentieri ad ignorare alcuni segnali per concentrarsi o interpretare come preferisce quelli che più gli interessano.
Per questo ad un certo punto è meglio non dargliene nessuno – allontanarsi – piuttosto che cercare di fargli capire le cose. Per questo, soprattutto, sono perfettamente consapevole che per lui non è cambiato niente in questi sei mesi. Il mio problema adesso, è che non è cambiato niente nemmeno per me e me ne accorgo non appena lo vedo lì seduto al tavolo che si guarda intorno spilluzzicando il pane dal cestino. E questo è così grave che dovrebbe bastarmi a decidere di tornare da dove sono venuto e chiudermi in casa a doppia mandata, magari cambiando anche indirizzo.
In quella frazione di secondo che passa tra quando entro e lui mi individua, nemmeno avesse le antenne, io ci penso seriamente a scappare ma poi non lo faccio, anche perché sarebbe oggettivamente inutile visto che sa come rintracciarmi e io non ho i mezzi per fingermi morto e rifarmi una vita in Australia.
Chakuza mi fa la cortesia di non alzarsi quando mi vede avvicinare e di questo sono contento, perché credo che teso come sono metterei da parte il buonsenso e lo massacrerei di botte qui dove siamo.
Ordiniamo del vino e degli antipasti, tanto per cominciare e sono felice che il locale sia strapieno stasera, perché così il proprietario non troverà il tempo di venire qui ad attaccare bottone per quaranta minuti.
“Allora, che mi racconti?” Chiede da dietro il menù.
Che ti racconto Chaku, non è che io abbia fatto granché nell'ultimo periodo. “Mi sono preso un po' di tempo, sai per capire che cosa fare della mia vita.”
Lui solleva gli occhi un attimo solo, giusto per farmi sapere che mi ascolta. “E l'hai capito?”
Rido. “No, non esattamente.”
Il cameriere ci raggiunge con un tagliere che occupa metà del tavolo, gli ordiniamo della pasta che non so esattamente cosa sia ma ho voglia di funghi e lì dentro ci sono, per cui va bene. Per un po' mangiamo in silenzio, e non è quel silenzio tranquillo che ti capita di sentire quando stai bene e la persona che hai davanti sta bene quanto te; è più la sensazione di dover dire qualcosa, di volerlo fare disperatamente, ma di non avere la più pallida idea di come affrontare il discorso. E' che io e lui non abbiamo mai davvero parlato, come persone normali intendo. Non siamo nemmeno mai stati al ristorante, a dire la verità. Ho memoria di un panino quella famosa notte, ma poi tutto il resto dei nostri pranzi e delle nostre cene di cui ho memoria sono fatti di quintali di cibo a casa sua e questo per il semplice fatto che per noi mangiare è sempre stato un modo per occupare il tempo prima di scopare o dopo averlo fatto. Non ho mai conversato seriamente con Chakuza senza che uno dei due pensasse di poter concludere in orizzontale.
“Alla fine non sei partito,” dice lui all'improvviso, ma sembra così tranquillo mentre taglia il suo prosciutto di Parma che mi sento scemo ad essere così nervoso.
“Nah,” scuoto la testa. “Ma il borsone è sempre pronto.” Che è un po' come quando avevo sei anni e dicevo che sarei andato in cantina quando ne avrei avuto tempo, anche se in realtà avevo solo una paura folle e rimandavo l'impresa al giorno del mai.
“Hai ancora idea di andare in tour con Sido?”
“Dubito che lui abbia voglia di portarmi con sé,” sospiro. “Non ha preso bene quella storia di Nyze.”
Percepisco lo sguardo interrogativo ancora prima di alzare gli occhi e vedere la ruga familiare che gli si forma sulla fronte quando è perplesso. “Quale storia di Nyze?”
Gli spiego brevemente come sono andate le cose, e che Sido non ha affatto gradito i miei avvertimenti, buttandomi fuori dall'etichetta a calci nel culo.
“Bel ringraziamento per essere rimasto con loro,” commenta lui dopo un sorso di vino. L'acido che gli cola dai denti mentre lo dice potrebbe corrodere il bicchiere. E' interessante come, nonostante le sue principesche divergenze con Bushido, Chakuza sia comunque ancora convinto di far parte della migliore fra le due etichette, ammesso che una vera etichetta ci sia ancora. Scommetto che, se lo sapesse, Bushido si gonfierebbe tutto come un tacchino e sarebbe perfino disposto a perdonarlo dall'alto del suo enorme trono di platino e basalto per l'enorme insubordinazione che ha compiuto durante la sua assenza. O forse no.
Bill è come il tesoro nella caverna delle meraviglie di Aladino. Una volta toccato, tutto si trasforma in lava e tu sei destinato a morire inghiottito dalle fiamme se non possiedi un tappeto volante. Fortuna che Chakuza ne possiede ancora uno in quello sgabuzzino polveroso.
“A dire il vero, era assurdo pensare che potesse darmi retta,” commento, mentre immagini di Chakuza che sul tappeto macchiato del mio sangue vola via dalla caverna delle meraviglie di Bushido mi balenano in testa, distraendomi per un istante dalla discussione in oggetto. Bevo, che è meglio. “Voglio dire, non è che avessi poi tanta credibilità avendo passato tutto quel tempo con voi.”
“Pensavano che fossi tu a fare il doppio gioco?”
Mi stringo nelle spalle. “Puoi dargli torto? Dopo due anni che praticamente sono stato solo con voi, ecco che torno e la prima cosa che faccio e dare contro a Nyze che, ai loro occhi, ha tutte le ragioni del mondo per essere lì.”
“Prego?”
Sospiro, tagliando la mozzarella. “Chakuza, la scusa ufficiale di Nyze per presentarsi da Sido è stata che ne aveva le palle piene di vedere il capo della sua etichetta e metà dei suoi colleghi mandare a puttane la carriera di tutti per annusare il culo ad un ragazzino. Pensi che là dentro ci fosse qualcuno che non fosse d'accordo?”
Chakuza emette un suono infastidito. “Ecco perché noi siamo i buoni,” borbotta.
Io rido perché lui mentre lo dice ha la faccia seria e tu non puoi davvero essere serio quando dici una cosa simile. “Beh?” Chiede.
“Voi sareste i buoni?”
Noi saremmo i buoni, Fler. Sei compreso anche tu.”
Io appoggio le posate sul piatto in modo che me lo portino via. “Aspetta, fammi capire, da quando sarei uno dei vostri, io?”
Lui solleva lo sguardo interrogativo. “Da quando ci hai aiutato a proteggere Bill?”
“Quello non c'entra, lo dovevo a Bushido, lo sai.”
“Beh, ma sei rimasto anche dopo,” continua lui. “O se non vuoi dire che sei rimasto con noi, di certo non sei nemmeno tornato con loro.”
“Questo fa di me un uomo che agisce da solo,” puntualizzo. “Per favore, non mi mettere in mezzo alle tue bande di super-eroi.”
Lui mi scruta in faccia per capire se sto facendo sul serio, ma gli lascio notare il sorriso, quindi si rilassa. “Guarda che non sono io a metterti in mezzo, mi limito a descrivere i fatti.”
“E i fatti sarebbero che voi siete i buoni e io sto dalla vostra parte?”
“Esatto.”
“Questo lo dici tu, immagino.”
Il cameriere viene a portarci via i piatti mentre Chakuza risponde: “E ho ragione, naturalmente.”
“Naturalmente. E perché quelli dell'Aggro sarebbero i cattivi?”
“Andiamo Fler, ma li hai visti? Sido poi ha pure la maschera a forma di teschio. Nessun eroe ha una roba simile. E' tipo... che ne so, tipo Magneto, degli X-Men.”
“Questo farebbe di Bushido il Dr. Xavier,” commento. “Ma se Bill è palesemente Jean Gray e tu, che il cielo mi perdoni, Wolverine perché siete alti uguali...ci manca un Ciclope. Anis farebbe due parti.”
“Oh andiamo! Hai capito perfettamente quello che intendo.”
“Sì, ho capito che sei pazzo e hai anche cinque anni mentali,” rido.
La pasta arriva mentre lui mi fa notare che allora sono pazzo anch'io perché gli sono andato dietro con una facilità quasi impressionante. Dopo mesi passati in uno spazio ristretto solo con lui, il mio cervello si è impossessato dei sui processi mentali e ora, ogni tanto, questi s'innescano quando gli arriva lo stimolo giusto. La verità è che mi diverto e mi è passata anche l'ansia.
Chakuza naturalmente coglie l'atmosfera rilassata, la sfrutta e come sempre, il fiume in piena della sua inappropriatezza rompe gli argini e straripa diventando deleterio. “E Daniel?” Chiede.
Il mio sfondo pieno di arcobaleni e campi di girasoli si frantuma in mille pezzi, tornando ad essere la landa desolata e inquinata che era stata fino a qualche minuto prima. “E Daniel cosa?”
“Non mi racconti di lui?”
“No?”
Lui sgrana gli occhi e giuro che mi sembra davvero colto di sorpresa dalla mia risposta. “Come sarebbe a dire no?” Mi chiede. “Andiamo! Sono curioso.”
No, Chaku, tu non sei davvero curioso perché il centro del tuo mondo sei tu, e tu non hai niente a che vedere con Daniel, quindi l'unico motivo per cui chiedi è anche l'unico motivo per il quale io non ti vorrei davvero rispondere. Ma lo faccio comunque. “Che cosa vuoi sapere?” Sospiro.
“Tutto.”
“Tutto è una risposta piuttosto ampia,” inizio. “Sii più specifico.”
Chakuza alza gli occhi al cielo, un gesto che non gli dovrebbe essere permesso per legge, dopo tutte le volte che costringe gli altri a farlo per colpa sua. “Cominciamo dalle cose semplici: com'è che un ragazzino incontrato per caso una sera di due anni fa è diventato all'improvviso il tuo ragazzo?”
Io mi butto sulla pasta per prendere tempo e lui fa lo stesso ma con molta più calma, naturalmente; d'altronde non è lui quello che si sente in dovere di giustificarsi per qualcosa che non deve essere affatto giustificato e che, pur consapevole di questo, in ogni caso pensa a come giustificarsi.
“Non era una cosa che avevo previsto, se è questo che vuoi sapere,” inizio. “E' stato lui a presentarsi alla mia porta all'improvviso.”
“E come lo sapeva, lui, dov'era la tua porta?”
Questa è una domanda che mi sono posto anch'io, cioè non subito ma poi mi è venuta in mente e Daniel è stato così candido da dirmi che, sapendomi sempre all'Ersguterjunge per un motivo o per l'altro, mi ha seguito per settimane per scoprire dove abitassi e all'inizio aveva anche sbagliato indirizzo perché passavo più tempo a casa di Chakuza che nella mia. “Mi ha pedinato,” dico. “E' un ragazzino intelligente.”
“No è inquietante. Sai che c'erano gli estremi per denunciarlo per stalking?”
“Sai che tu sei uno stronzo, invece?” Rido. “Non lo conosci nemmeno.”
Lui sorride e non lo so com'è che non m'incazzo se parla in questo modo. Sarà che non mi aspettavo niente di meno della sua presunzione di avere dei diritti; questo più che imbestialirmi mi ricorda che è tornato normale anche lui – la sua normalità, ovvio – e sono felice. Non pensi mai che il vecchio Chakuza possa mancarti finché non te ne capita uno nuovo che è peggiore del precedente da qualsiasi lato tu lo guardi.
Io lo so che lui non ha mai davvero voluto rendersi insopportabile, e che nemmeno se ne è accorto nella maggior parte dei casi, ma non avrei potuto continuare a gestirlo in eterno, non in quello stato in cui il mondo girava non più soltanto intorno a lui e alla sua capa rotonda, ma anche al fragile corpicino della sua principessa che, per altro, era molto confusa a sua volta. Se penso a quanto è girato storto il mondo per tutti quanti io mi chiedo come sia possibile che ora sono al ristorante con Chakuza e sto anche bene. A parte tutto, non doveva essere possibile una cosa del genere, per quanto io voglia bene a quest'uomo, eppure eccoci qua.
“E insomma,” continua lui dopo un po'. “Lui si è presentato alla tua porta e con gli occhi umidi di lacrime ti ha disperatamente chiesto di prenderti la sua verginità?”
“Le lacrime agli occhi? Ma cosa ti sei letto mentre eri via, fumetti giapponesi?” Chiedo sconvolto.
“Allora non è andata così?”
Tossisco cercando di darmi un tono che la risposta mi strapperà di dosso a mani nude. “Non c'erano le lacrime,” borbotto.
Lui scoppia in una risata pienissima, di quelle proprio divertite. “Non posso credere che sia andata davvero così.”
Io lo guardo storto e se fossi cattivo gli direi che lui avrebbe cariato i denti di chiunque nel giro di quaranta chilometri se la sua principessa gli fosse giunta illibata e pronta ad essere deflorata nel letto del tugurio in cui vive – anche se sinceramente dubito che, anche illibato, Bill sarebbe stato impaurito e lacrimevole come una scena del genere vorrebbe – ma io non sono cattivo, io sono un uomo paziente, per cui lo lascio bearsi della convinzione assolutamente immotivata che questa cosa di Daniel sia un sacco divertente.
“Quando hai finito di ridere avvisami, io intanto ordino il dolce,” commento. “E, tanto per la cronaca, pagherò io perché se metti mano al portafoglio sarò costretto ad ucciderti.”
Lui annuisce ma ci vuole un po' prima che smetta di ridere e le sue guance tornino bianche e lentigginose.
Sono indeciso tra un dolce con un nome che non so pronunciare e uno che non sono nemmeno ben sicuro che sia un dolce quando Chakuza torna all'attacco. “Non penserai mica di scamparla, vero?”
“Di cosa stai parlando?”
“Lo sai benissimo.”
“No, non lo so affatto,” biascico, fingendo di leggere con molta attenzione il menù dei dolci, anche se ormai ho deciso che prenderò solo un sorbetto. Sempre che un cameriere passi di qui per sbaglio.
Lui non dice niente per minuti interi, così mi azzardo ad alzare lo sguardo e lo trovo che mi fissa immobile, con l'aria di uno che si aspetta qualcosa. “Beh, cos'hai? E' un ictus?”
“Non fare finta di niente, non è da te. Stavi ancora con Bushido quando il ragazzino ti si è infilato nel letto, non è così?”
“A parte che tu non puoi atteggiarti in questo modo,” gli faccio notare, “io non sto affatto facendo finta di nulla. Ti sto solo tenendo fuori dai cazzi miei, è diverso.”
“Stai cambiando discorso,” mi dice lui e lo fa con quel sorrisetto lì, quello che vorresti prendergli le guance paffute e tirarle fino a deformargli la faccia, giusto per toglierglielo di dosso.
“Cristo, Peter, ma si può sapere che problema hai? Anche se fosse, non sarebbero affari tuoi, te l'ho già detto.”
Lui però non demorde, d'altronde non lo fa mai. Se c'è una cosa che non gli si può proprio dire è che non ha tenacia. “E lui lo sa?”
“Lui chi?” Sospiro, mentre finalmente qualcuno arriva a chiedermi del dolce.
“Bushido,” quel nome lo dice sempre sotto di un tono come se proprio non ne avesse voglia e qualcuno lo costringesse tirandogli un orecchio. E' talmente assurdo a volte, che non sembra davvero una persona possibile.
Ad ogni modo, immagino che sarei dovuto partire da casa con una risposta pronta per questa domanda ma, in realtà, non mi aspettavo che Chakuza fosse tanto curioso a riguardo. Visto che Daniel non gli sta troppo simpatico – diciamo pure che è geloso marcio – speravo che facesse come suo solito e si concentrasse su se stesso, eliminando dalla discussione qualunque argomento non lo riguardi; come se lui fosse uno splendore dal quale non si possono distogliere gli occhi nel momento in cui ce l'hai davanti.
Non avevo calcolato il suo lato pettegolo, mi pare evidente.
Lo guardo, lui mi guarda. “No,” cedo alla fine. “No, non lo sa.”
“Ce n'è abbastanza per farti fuori, lo sai?” Ride divertito. “E alto tradimento, questo.”
“Perché non esplodi?”
Lui continua a ridere anche quando gli tiro una mollica di pane in faccia. E' preso talmente bene che si gonfia come una rana pescatrice, e io non ho nemmeno capito se lo fa ridere la cosa in sé o il fatto che Bushido sia all'oscuro di questa faccenda. Sospetto si tratti della seconda. Dopo quasi cinque minuti che è scosso dalle risate come non so cosa, vivaddio, si calma. “Non che m'interessino i suoi sentimenti,” commenta, “ma si può sapere che cos'è successo esattamente?”
“E' successo che Daniel era lì al contrario di chiunque altro,” confesso alla fine. “Contento?”
Lui si fa serio e io mi rendo conto di quello che ho detto, così sul tavolo cala il silenzio. Chakuza mi osserva con uno sguardo talmente consapevole che un po' mi disturba e finisco per sentirmi a disagio. “Togliti quell'espressione dalla faccia, va bene? Mi è uscita male,” borbotto. “Non è che io sia stato male o altro. Non ho bisogno di compassione.”
“Non era affatto compassione.”
“Qualunque cosa sia non mi piace e non ne ho bisogno,” insisto. So bene di stare facendo lo stronzo e so anche che questo non fa che confermare l'ipotesi che probabilmente gli vortica nel cervello ma la verità è che sì, sono stato di merda. Sì, Daniel mi ha dato molta più attenzione di quanta Bushido e lui me ne abbiano mai data davvero e no, non avevo alcuna intenzione di dirglielo.
“Posso almeno scusarmi?” Chiede.
“E di cosa? Chakuza tu non hai mai capito quando è il momento di farlo,” sospiro. “E in ogni caso servirebbe un'eternità con te ed è già tardi.”
La butto sul ridere e lui, per fortuna coglie; anche se sarebbe stato difficile non farlo dal momento che l'aria è talmente pesante che ci pesa addosso come un macigno. Sorride, ma non dice niente e alla fine decidiamo che è meglio levare le tende.
Mentre mi accompagna alla macchina penso che in fondo non è stata una brutta serata e che di certo poteva andare peggio. Penso che mi aspettavo di essere cambiato o che lo fosse lui, ma in realtà sei mesi lontani ci hanno reso solo più simili a com'eravamo quando passavamo tutto il tempo insieme. L'ho lasciato che era il Peter di Bill e lo ritrovo che è quello mio.
Prima di salutarci mi chiede se con Daniel sono felice.
Fino a stasera ero sicuro di sì.

*


Chakuza non è una persona con la quale io riesca ad intrattenere dei rapporti casuali. Lo sapevo già da prima, naturalmente, ma la conferma mi arriva nei giorni seguenti quando la cena si trasforma in un pranzo al volo e in un paio di birre dopo cena, visto che passava dalle mie parti e allora è salito a fare due chiacchiere. Naturalmente potrei dare la colpa a lui e al suo essere naturalmente invadente, ma la verità è che io gli ho permesso e gli permetto tuttora di esserlo, quindi ho poco da recriminare.
La routine che abbiamo instaurato quando ci siamo conosciuti è così ben radicata dentro di noi che è molto facile ricaderci, forse nemmeno pensiamo di farlo. Succede e basta. Adesso che il periodo di isolamento è finito per forza di cose, mi capita di uscire con lui praticamente ogni giorno, anche se non abbiamo davvero qualcosa da fare visto che nessuno dei due ha più un'etichetta per la quale lavorare. O meglio, lui ce l'ha ma evita Stickle perché si sente ancora in vacanza e perché, sostanzialmente, gli piace questa situazione in cui io e lui siamo buoni amici e usciamo a cazzeggiare, quindi al lavoro nemmeno vuole pensarci, in realtà.
All'inizio fingevamo anche di trovarci per discutere della protezione alla Principessa, ma è una copertura che è saltata quasi subito dal momento che Bill è praticamente sempre rimasto in casa di Bushido dove era più al sicuro; senza contare che non è più possibile tenere il ragazzino e Chakuza nella stessa stanza senza che la temperatura nell'aria si abbassi e Bill pianti gli occhi sul pavimento senza più rialzarli nemmeno per sbaglio.
Dopo le prime quattro volte che andavamo lì per stare a disagio, ho deciso che era meglio trascinarlo il più lontano possibile dalle grazie di sua maestà che non è tornato dalle Maldive con tutte le rotelle al loro posto ed è meglio per tutti se viene lasciato tranquillo.
Chakuza è rientrato nella mia vita con estrema facilità, anche se gran parte del posto che prima occupava era tutto preso da Daniel. Naturalmente non si è fatto più piccolo e non ha chiesto il permesso, è semplicemente tornato, e Daniel di conseguenza ha dovuto stringersi per fargli spazio.
Non è un qualcosa che abbiamo deciso a priori, è successo e basta e, anche se avrei potuto fare qualcosa per impedirlo – non so cosa, ma qualcosa – me ne sono accorto troppo tardi.
Il mattino che ho aperto gli occhi sapendo di doverlo incontrare e ho fatto fatica a capire se Bushido fosse ancora morto oppure fosse già resuscitato, mi sono reso conto che ormai era fatta e non c'era ritorno.
E se in queste settimane, in cui non abbiamo fatto altro che andare in giro a passare il tempo dove capitava, mi sono convinto che questo potesse bastare, non posso farlo adesso che Chakuza è in casa mia.
Io e lui, il divano e due birre ha sempre avuto dei pessimi risvolti in un modo o nell'altro.
“E insomma mio padre mi dice che dobbiamo assolutamente fare qualcosa insieme,” Chakuza mi sta raccontando di cos'è successo mentre era in Austria. Pare che il signor Pangerl abbia accolto con grande felicità la fine della sua storia con Bill, decidendo di dover rinsaldare il suo rapporto con il figlio in maniere virili e approvate dalla comunità etero. “Secondo te dove mi ha portato?”
“Non lo so,” mi stringo nelle spalle.
“Prova ad indovinare,” insiste lui, bevendo un sorso di birra. Noto che tiene ancora la bottiglia in quel suo modo strano, stringendone il collo solo tra l'indice, l'anulare e il pollice.
“Uno strip-club?”
“Magari!” Fa lui, sgranando un po' gli occhi. “Mi ha portato a far legna nei boschi insieme ad una squadra di taglialegna!”
Io scoppio a ridere perché improvvisamente me lo immagino con addosso una camicia a quadri e l'accetta sulla spalla che fischietta mentre conduce una fila di bruti omaccioni muscolosi tra i boschi dell'Austria. Tra l'altro, non so se il signor Pangerl ne è consapevole, questa è più simile ad una fantasia omosessuale maschile che non, per dire, se lo avesse portato a vedere il Lago dei Cigni a teatro. “Non posso crederci!”
“Ti giuro!” ride anche lui. “Ci troviamo io, lui e questi quattro energumeni all'alba sulla cima di un monte. Questo tipo mi guarda, mi piazza in mano un accetta, mi indica un albero e mi dice vai, abbattilo.”
“E tu?”
“Ho passato tutta la giornata con questo cazzo di albero che non ne voleva saperne di cadere,” protesta e io rido più forte. “Eh, ridi! Volevo vedere te al mio posto.”
Vorrei asciugarmi la lacrima virtuale che mi è scesa ridendo al pensiero di un Chaku in miniatura che tenta di abbattere questa enorme sequoia a colpi d'accetta, non ci riesce e quindi strepita mentre piccole nuvolette di fumo nero gli escono dalle orecchie.
“E' servito a qualcosa almeno?”
“Ah non lo so,” scuote la testa. “Ma se questo può rassicurarlo...”
“Che non sei gay?”
Lui scrolla le spalle e beve. “Che non sono il tipo di gay che ha in mente, almeno,” sospira. “Anche se lui si rifiuta di accettare a prescindere il concetto di base, quindi forse non si è mai trattato del fatto che fossi del tipo che fa la maglia o meno.”
Annuisco perché non so bene che cosa dire. Il signor Pangerl avrà l'età di mia madre ma ho sempre pensato che lei sospettasse qualcosa ancora prima che la sospettassi io, quindi forse non vale. E comunque è colpa di Bushido e del suo entrare in camera mia passando dalla finestra, credo.
“C'è dell'altra birra?” Chiede Peter, alzandosi e andando diretto in cucina.
“In frigo. Prendine una anche per me,” mentre aspetto raduno le quattro bottiglie che già ci sono in giro e le metto tutte sul tavolo per buttarle dopo. C'è anche il libro di storia di Danny là sopra e io lo prendo e lo nascondo sotto un paio di riviste senza nemmeno pensarci. Quando me ne accorgo mi chiedo che cazzo sto facendo e vorrei rimetterlo dove l'ho trovato ma Chakuza sta tornando e lascio perdere perché voglio evitare di entrare in argomento.
“Ho cambiato idea,” dice Chakuza, mostrandomi l'unica bottiglia di vino bianco che ho in casa. Tra l'altro l'ha comprata lui quel mezzo secolo fa. “Ti va? Era ancora dove l'avevi messa quando te l'ho portata. Non l'abbiamo mai aperta.”
“Hai intenzione di tornare a casa strisciando, per caso?”
Lui appoggia i bicchieri sul tavolo e stappa la bottiglia con disinvoltura, la stessa che gli ho visto addosso milioni di volte ai fornelli o davanti ad un tagliere. A volte, quando cerco un motivo per il quale sono così attratto da quest'uomo, lo trovo nei ricordi di momenti come questo, dove Chakuza prepara qualcosa. Potrei dire che è il modo in cui muove le mani ad affascinarmi, ma mi fraintendereste.
“Magari non voglio tornare a casa?” Mi dice, prendendo il suo bicchiere e tornando a sedersi.
Io bevo un sorso. “Non cominciare a fare il cretino,” mormoro.
Chakuza mi fa un mezzo sorriso incerto e io vorrei davvero poter distogliere lo sguardo ma non ci sono mai davvero riuscito, non quando mi guarda in questo modo quindi continuo a fissarlo e alla fine sorrido anch'io perché è bello riaverlo qui e far finta che tutti i problemi siano spariti o non ci siano proprio mai stati.
“Che cosa dovevamo festeggiare con questa?” Mi chiede, versando ad entrambi altro vino.
Ci penso un po' e quando me lo ricordo mi viene da ridere. “Le mie due prime settimane di sobrietà,” rispondo. “Sei sempre stato una tragedia come sponsor.”
“Non dovevo farti smettere di bere,” puntualizza lui. “Solo darti una regolata.”
“E detto da te...”
“Però ci sono riuscito,” dice. “Hai smesso di devastarti completamente.”
“Abbiamo bevuto quattro birre e un litro di vino in due, Chakuza!” Sbotto a ridere. “Come fai a dire che ho smesso di devastarmi!”
“E' diverso quando si beve in compagnia.”
Chakuza ha gli occhi lucidi e verdissimi, e io mi ci sto perdendo dentro, per questo mi accorgo quando cambiano espressione e non c'è bisogno che si avvicini di molto perché io capisca che sta per fare qualcosa che non deve. Niente che non voglio, però.
Daniel è il solo motivo che mi costringe a scostarmi ma mi alzo e smetto di pensarci prima che, per i miei capricci, diventi anche un motivo fastidioso. Non voglio che succeda. “E' tardi,” dico frettolosamente, recuperando le bottiglie tutte quante insieme. “Forse è meglio che vai.”
Lui annuisce e si rimette il cappello. “Sì, hai ragione.”
Lo accompagno fino alla porta e all'improvviso ho un disperato bisogno di tenerlo lì ancora un po', anche se gli ho appena detto il contrario. “Sei sicuro di poter guidare? Magari chiamo un taxi e la macchina vieni a prenderla do...”
Mi prende il viso fra le mani prima che possa impedirglielo, ma poi non fa niente. Appoggia solo la fronte contro la mia e in quell'istante mi dice tutto quello che non mi ha detto stasera e anche quello che non gli ho detto io. Poi sorride e mi lascia andare con un sospiro. “Buonanotte Pat, ci vediamo domani.”
“A domani.”

*


Se c'è una cosa che ho imparato in questi due anni, è che le situazioni di questo tipo con Chakuza tendono a degenerare. Forse lo farebbero anche se non si trattasse di Chakuza, ma di sicuro peggiorano quando si tratta di lui, e questo per il semplice fatto che Peter non si rende conto dei disastri che crea e potrebbe creare e quindi tutto il peso del disastro ricade sulle tue spalle; anche se gli fai notare che forse quello che stai facendo con lui non è esattamente la cosa più sensata da fare, lui al massimo ti dice “E che problema c'è? Siamo adulti e vaccinati, no? Tu lo vuoi e lo voglio anch'io. Allora siamo a posto, che altro c'è da considerare?.” In pratica, la possibilità o meno di fare qualcosa dipende solo dalla voglia che ha di farla.
In linea di massima posso anche dargli ragione, due persone dovrebbero poter fare quello che desiderano senza dover rendere conto a nessuno delle scelte che fanno; ma nel caso specifico, cioè questo, cioè noi due, cioè Daniel, questo discorso fa acqua da tutte le parti e noi ci affogheremo dentro.
Io dovrei mantenere il controllo di questa cosa perché sono l'unico a cui importi davvero qualcosa non fare casino, anzi sono l'unico a rendermi conto che un casino, in effetti, si profila all'orizzonte; ma in realtà fallisco su tutta la linea perché il controllo lo perdo quasi immediatamente dopo che Chakuza ha lasciato casa mia quella sera e non lo recupero più.
Il giorno dopo dovrei chiamarlo e mettere subito le mani avanti, dirgli che qualunque cosa sia successa ieri sera ce la dobbiamo dimenticare perché non è vera ed è solo un ricordo di qualcosa che ci sembra di volere solo perché siamo stati divisi sei mesi; invece io lo chiamo e gli chiedo se gli va di uscire. Quando riattacco mi do del cretino, ma non serve a niente perché il giorno dopo ancora e la settimana che segue succede di nuovo, e anche se mi faccio violenza e non lo chiamo, alla fine mi chiama lui e usciamo comunque, oppure lui si presenta a casa mia con la pasta al forno e io non so lasciarlo sullo zerbino come di certo meriterebbe.
Presto il mio tempo si divide tra quello che passo con lui e quello che passo con Daniel, e le due quantità diventano ogni giorno meno equilibrate. Durante la settimana Danny trova sempre nuove scuse per rimanere a dormire da me e io ne trovo altre per poter vedere Chakuza. Soltanto nel fine settimana le cose tornano com'erano prima, e solo perché anche se l'unica cosa che m'importasse davvero in questo momento fosse stare con Peter, non permetterei mai che Danny fosse costretto a dormire a casa sua quando là dentro c'è suo padre, cosa che succede quasi sempre il sabato e la domenica quando torna a casa dopo aver passato la settimana a sfondarsi altrove.
Dal momento che questa situazione va avanti a lungo, un po' mi convinco che possa rimanere così per sempre e che tutto sommato poteva andare molto peggio, perché in fondo non stiamo facendo proprio qualcosa di male. Forse c'è la tentazione, ma se nessuno cede allora va bene così; che è un discorso molto pietoso con il quale cerco di giustificare l'ingiustificabile. Questo risulta palese una sera che Chakuza è a casa mia, siamo soli e non dovremmo affatto esserlo. Lui ha chiamato per invitarmi a cena, e io gli ho detto di venire a cucinare da me che c'è più spazio e si sta meglio; poi mi sono reso conto che sono settimane che io e Peter ci annusiamo a vicenda e non è proprio il caso che si stia da soli in questa casa con un'altra bottiglia di vino pronta all'uso e un tavolo apparecchiato per due, così ho chiamato Eko a farci compagnia. A Chakuza non ho fatto in tempo a dirlo, ma tanto non serve perché quel cretino di un turco mi dà buca all'ultimo, giusto cinque minuti prima che Chakuza annunci che è pronto e si tolga il grembiule.
Così apparecchio per due mentre lui si occupa del vino e di servire quello che ha cucinato. Per un attimo irreale, mentre io sistemo i tovaglioli e lui mi chiede scusa allungandosi sul mio braccio teso per recuperare il cavatappi, mi sembra tutto normale; forse perché sono abituato a vederlo togliere padelle dal fuoco mentre mi chiede se ho già messo i piatti in tavola. Forse perché in effetti io e lui non siamo mai stati diversi da così e questa è la nostra quotidianità ed ha superato un sacco di problemi, rimanendo intatta fino ad ora.
Questo mi fa sentire bene e non dovrebbe; ho delle responsabilità nei confronti di Daniel e mi spaventa che al momento non m'importino affatto. Mi spaventa guardare Chakuza, sapere con certezza in che modo potrebbe concludersi questa serata e non riuscire a trovare da nessuna parte la forza per impedire che questo accada. Potrei limitare il vino e le chiacchiere, potrei fermare Chakuza mentre ci prova dall'altra parte del tavolo – perché lo conosco e so quando lo fa – potrei declinare l'invito a sederci sul divano, potrei perfino mandare all'aria la cena, scusarmi con lui, mettere tutto in contenitori di plastica e rispedirlo a casa sua.
Invece non faccio niente e mi godo quello che ha preparato. Quando si mette a flirtare, lo faccio anch'io. Lo so che non dovrei, che c'è Daniel da qualche parte, ma lo faccio lo stesso perché lo voglio disperatamente e mi convinco che se non vedrà una reazione da parte mia stasera, allora forse lui non ci proverà mai più e io avrò perso un'occasione che in primo luogo non dovrei nemmeno voler cogliere. Non voglio perderla, però.
Sul divano sono teso e cerco di capire come voglio comportarmi, perché come devo lo so già e ho deciso che non mi va bene. Chakuza ha preso altri due bicchieri e si è portato il vino. “Allora,” inizia con un sospiro e un sorriso. “Che cosa festeggiamo stasera?”
“Non lo so,” rispondo. “E' necessario avere un motivo per aprire una bottiglia di vino?”
Lui ride un po'. “Per la prima forse no, ma per la seconda e metà della terza sì. Quando fai cose stupide, è bene avere un motivo per averne bevuto parecchio.”
“Allora siamo a posto. Non abbiamo fatto niente di stupido,” concludo, gettando indietro la testa e bevendo l'ultima goccia rimasta nel bicchiere. Quando abbasso lo sguardo lui è troppo vicino. “Chaku...”
Peter non risponde e continua a guardarmi mentre appoggia una mano sullo schienale del divano e si china su di me. Non è esattamente lui a baciarmi perché io so di essergli andato incontro quando le nostre labbra si trovano. E' un bacio lentissimo, nonostante l'urgenza della sua mano che mi stringe la nuca mentre l'altra mi tiene vicino a sé, tirandomi per la felpa. Appoggio il bicchiere senza guardare, lo sento rompersi e non m'importa, mentre rispondo a quel bacio senza pensare più a nulla.
Mi scosto per riprendere fiato, ma lui non mi lascia allontanare, lo sento ansimare e apro gli occhi chiedendomi se siano persi e annebbiati come i suoi. Quando riprendo a baciarlo, scopro che non ho mai dimenticato che sapore avesse la sua bocca, ma che non avevo idea di quanto mi fosse mancata. E lo bacio, e lo mordo, e lecco dalle sue labbra quello che resta del vino, senza pensare che quando quest'impeto sarà passato dovrò guardarlo negli occhi e decidere che cosa farne di questa serata. Quello che m'importa, ora, è solo la sensazione che non siamo mai stati così noi come adesso, su questo divano.
E' la mano che s'insinua sotto la mia felpa e mi accarezza un fianco a restituirmi quel barlume di lucidità che mi serve a non fare totalmente lo stronzo. “Peter, no...” mormoro, senza staccarmi da lui troppo bruscamente. Intreccio le dita con le sue e le stringo piano.
Lui preme il naso contro il mio e mi parla addosso, le sue parole sono umide e calde contro le mie labbra. “Ti prego, non...”
“Lo so,” mormoro, socchiudendo gli occhi. Leggo il suo bisogno nel modo in cui il suo corpo cerca il mio, nel modo in cui mi si appoggia addosso e la punta delle sue dita mi accarezza la pelle anche se gli tengo ferma la mano. Devo staccarmi e non voglio e penso che ci sia tempo per un altro bacio. “Lo so” – ancora – “Lo so, lo so” – e ancora – “Lo so.” Ad ogni schiocco umido, i nostri volti si fanno più distanti e vedo un po' di più i suoi occhi e l'espressione persa e disperata con la quale mi guarda. “Così no,” mormoro, baciandolo ancora una volta. “Non andrebbe bene. Voglio che vada bene.”
Lui mugola ma annuisce e quando si scosta lo fa lentamente, riprendendo fiato con respiri profondi, guardandosi intorno come facesse fatica a capire dove si trova. Condivido la sensazione, è come se ci fossimo arrivati per caso su questo divano. So solo che lo stavo baciando, tutto il resto è vago e confuso ma so che è molto importante. “E' meglio che ora vada,” dice alzandosi e cercando con gli occhi il cellulare e le chiavi dell'auto.
“Sì,” concordo. Li trovo io, al posto suo e glieli passo mentre lo accompagno alla porta. “Ti chiamo domani.”
Lui annuisce e mi guarda senza muoversi dal pianerottolo.
“Vai,” lo bacio di nuovo ma poi lo spingo, altrimenti non si muove più.
Chiudo la porta e poi ci appoggio la fronte.
Cazzo.

*


Mi sono trovato in questa stessa situazione nemmeno un anno fa e non ho idea di come faccio già a ritrovarmici di nuovo in così poco tempo. Uno può anche fare gli stessi errori per tutta la vita senza mai imparare un accidenti di niente, ma dovrebbero passare almeno degli anni tra l'uno e l'altro, no? Un minimo sindacale in cui illudersi di aver superato qualunque dramma fosse in corso e giurare che non si ripeterà mai più. E invece io niente, quando è stata l'ultima volta con Nicole? Dieci mesi al massimo. Non so se sia il destino che cerca di dirmi qualcosa o se sono io che sono scemo. Nel caso si trattasse della prima ipotesi, direi al destino di cominciare a lasciarmi degli appunti ben chiari invece di sperare che io legga fra le righe del suo mistico operato perché è palese che non ci riesco proprio e non posso andare avanti così in eterno. Non mi sembra proprio di meritarmelo.
Paradossalmente, per risolvere la situazione, basterebbe lasciare le cose come stanno adesso e interrompere così il circolo vizioso. Il problema è che io non ci riesco perché se c'è una cosa a cui davvero tengo è essere corretto, che magari non significa non far soffrire le persone – ci sono situazioni in cui proprio non puoi evitarlo – ma almeno posso dire di aver fatto tutto il possibile per non mancare di rispetto a nessuno.
Il rispetto è importante. Tu puoi fare delle scelte e queste possono ferire le persone che ti stanno intorno, ma finché le fai sulla tua pelle, senza calpestare le promesse che hai fatto, chiudendo le questioni e pagando i tuoi debiti prima di proseguire, allora hai fatto tutto quello che potevi fare. Io non voglio lasciare niente in sospeso, non voglio rischiare di rovinare una cosa bellissima solo perché non so prendermi le mie responsabilità. So che me ne pentirei, così faccio quello che devo fare e basta, quasi ad occhi chiusi e non è vero che non ci penso più, ma quando ci penso, ho almeno il conforto di non aver mentito a nessuno.
Consapevole che si tratta di uno schema, io dovrei aspettarmi quello che viene dopo; e forse lo faccio anche ma, nonostante questo, rimango comunque sorpreso quando succede perché in fondo, neanche troppo, credevo che per chissà quale motivo stavolta sarebbe andata diversamente. Oltre ad essere corretto sono anche ottimista e non posso proprio farci niente. D'altronde quando cresci dove sono cresciuto io puoi fare solo due cose: o ti convinci che la situazione deve migliorare per forza, prima o poi, oppure pensi che non lo farà mai e allora finisci malissimo. Mia madre e Anis non mi hanno mai permesso di scegliere la seconda strada, ecco perché oggi sono qui e guardo Chakuza senza riuscire a credere a quello che mi sta dicendo.
Dovevamo vederci stasera a cena, ma alle undici del mattino già ci stavamo chiamando a vicenda; ufficialmente io volevo farmi confermare l'ora e lui voleva sapere se mi andava bene il menù della serata, perché il mio sms di risposta stranamente non gli è mai arrivato. Quando finiamo di raccontarci balle a vicenda, scoppiamo a ridere come due ragazzini e decidiamo di vederci subito al locale sotto casa mia, tanto non abbiamo niente da fare.
Il posto è carino, niente di ricercato, ed è sempre pieno di gente, per questo possiamo sederci in un angolo e nessuno viene a darci fastidio. Conosco il proprietario, un folle polacco che mi ha subito preso in simpatia quando ha saputo come mi chiamo e che sono più le volte che borbotta nella sua lingua che non quelle in cui parla davvero tedesco, però è simpatico e fa il Bigos più buono che io abbia mai mangiato. Fa un po' troppo caldo per pranzare con lo stufato ma visto che l'aria condizionata di questo posto sta probabilmente contribuendo da sola ad allargare di qualche chilometro il buco nell'ozono, possiamo fingere che sia inverno e mangiarla lo stesso.
“Cazzo, ci saranno due gradi qua dentro,” commenta Chakuza che ha la pelle d'oca sulle braccia. “Quando usciremo di qui ci prenderemo una polmonite. Fuori si soffoca dall'afa.”
“Se vuoi guardo nello zaino e vedo se ho una maglietta della salute da prestarti.”
Lui mi manda a fanculo ridendo e si sistema il tovagliolo sulle ginocchia per la zuppa in arrivo. E' così bravo che quando la cameriera poco più che maggiorenne e con un culo da piangere di gioia si avvicina al nostro tavolo lui non fa una piega ed è come se non la vedesse. E' carino che cerchi di essere così premuroso, peccato che per un dettaglio che cura minuziosamente, trascura un'enormità fondamentale che non sarebbe sfuggita a nessun altro, anche se cieco, muto, sordo o con evidenti problemi mentali. Tipo quello che poi succede.
Dopo pranzo, infatti, ci chiediamo che cosa fare. “Possiamo andare al cinema,” propone. “Non siamo mai stati al cinema.”
“Intendi davvero oppure solo stare nell'ultima fila a limonare?” chiedo, fingendo serietà.
Lui recupera il giornale dal tavolo vuoto di fianco a noi per cercare la pagina degli spettacoli. “Non lo so. A te cosa va di fare?” Mi chiede, senza nemmeno alzare lo sguardo. “A me va bene tutto.”
“Guarda, non avevo dubbi” rido. “Comunque io direi di guardarlo davvero il film, visto che saremmo un po' ridicoli a nasconderci dentro un cinema per limonare a trent'anni suonati.”
“Non si è mai troppo vecchi per limonare.”
Vorrei ribattere che il punto non è l'età, ma il fatto che abbiamo delle case in cui farlo tranquillamente, senza bisogno di pagare il biglietto, ma la sua voce è calata di un tono e si è accigliato all'improvviso. “Che succede?” Chiedo.
Lui gira il giornale a mio favore e poi mi guarda in attesa che io legga. Sulla pagina, accanto alla lista dei cinema, c'è una foto di Bill e Bushido scattata nell'era geologica precedente, durante il primo mandato della coppia reale, quando ancora nessuno era morto ed ero io il pericolo pubblico numero uno per Bushido. Bei tempi. La didascalia annuncia il ritorno di fiamma e l'articolo è un riassunto molto approssimativo degli ultimi due anni – il rapper che ha inscenato la propria morte, bla bla bla, il ragazzino sconvolto, il ritorno, bla bla bla, il crollo psicologico, bla bla bla, l'abbandono della major eccetera eccetera – con un finale melenso sull'amore che travalica ogni cosa e l'annuncio di due possibili album, un libro, e un ritorno sulle scene in grande stile. In pratica il solito, restate con noi e ci assicureremo di vivisezionarli con accuratezza in modo che non possiate perdervi proprio niente.
La notizia non mi stupisce affatto. Dal momento che Bill viveva a casa di Anis da quasi un mese, ormai, era solo questione di tempo perché quei due si ritrovassero. Forse annunciarlo al mondo prima che a noi non è stato particolarmente educato, lo ammetto, ma è molto probabile che non sia stata nemmeno una loro scelta. L'ultima volta che sono andato a trovarli, c'erano almeno dieci fotografi appostati sugli alberi. Se conosco un po' Anis, sarà uscito a minacciarli per farsi dare tutti i rullini e poi immagino che abbia preferito chiarire personalmente la situazione, piuttosto che veder pubblicate foto rubate con l'obiettivo telescopico di lui e Bill che si baciano in camera da letto.
Alla fine questa cosa ce l'aspettavamo tutti; tutti meno Chakuza evidentemente, il quale ora mi sta guardando e non so che cosa si aspetti. Da me, poi, che sono l'ultimo a cui può chiedere comprensione.
“E' assurdo,” mormora, scuotendo la testa. “Non so davvero che cosa dire.”
“Perché non c'è niente da dire, Chakuza,” gli faccio notare. Mi chiedo se ci arriverà mai da solo a capire che questo argomento lui ha il diritto di affrontarlo con chi gli pare ma non con me.
“No, hai ragione. Non c'è proprio un cazzo da dire,” concorda gelido. Chiude il giornale ma la notizia gli rimane negli occhi, posso quasi vedere il viso di Bill e Bushido che sorridenti mi guardano da dentro le sue iridi verdi.
Sospiro infastidito. “Senti, scusami, ma non ho nessuna intenzione di discuterne.”
“Lo sai qual è la cosa assurda?”
“Peter, dico davvero–“
“Che io e Bill non ci siamo mai lasciati,” esclama battendo il dito sul giornale. “Intendo, non ne abbiamo mai discusso chiaramente. Lui è sparito nel nulla e quando è tornato...”
“Vaffanculo.” Lo dico così forte e chiaro che non solo lui finalmente mi guarda, ma suppongo lo faccia tutto il locale, solo che io non vedo perché lo sto fissando negli occhi. “Vaffanculo, okay?”
Lui socchiude gli occhi e sospira di pietà per se stesso, quando all'improvviso, finalmente – Finalmente! – il suo cervello si mette in moto. “Pat, andiamo, non volevo dire che...”
“No, vaffanculo,” ripeto ancora più chiaramente, alzandomi. Mi frugo in tasca e lascio sul tavolo dei soldi a caso, senza sapere nemmeno se bastano. “Mi hai veramente rotto i coglioni.”
“Vuoi aspettare un secondo?”
“No.”
“Patrick!” Mi chiama, correndomi dietro.
Stiamo facendo una scenata ridicola ma al momento non mi interessa, voglio solo che si tolga dai piedi. Davvero non so con che coraggio sia riuscito a tirare ancora fuori l'argomento dopo quello che è successo nelle ultime settimane fra me e lui. Con che faccia di merda può anche solo pensare di essere turbato dal fatto che Bill sia tornato con Bushido quando la prima cosa che lui ha fatto è stato provarci con me. Cazzo!
Arrivo al portone di casa e ce l'ho ancora dietro che mi chiama come se ripetere il mio nome all'infinito potesse servire a qualcosa. “Mi ascolti un momento?” Mi chiede, col fiatone.
“No, e sai perché? Non me ne frega un cazzo di quello che hai da dire.”
“Mi hai frainteso.”
Rido, sarcastico. “No, è questo il punto. Io ti ho capito perfettamente, sei tu che ti pari il culo dicendo che la gente non ti capisce. Io non so che cosa ti passi in quel cervello del cazzo, ma ne ho abbastanza. Quindi ora prendi e non ti fai più vedere. Ti è chiaro il concetto, sì?”
“Patrick, per favore.”
“Per favore il cazzo, vattene prima che ti metta le mani addosso.”
Fa due passi verso di me, ma lo spintono in mezzo al marciapiede. “Chakuza, vattene.”
Lui rimane un po' lì anche dopo che sono salito, lo vedo dalla finestra. Suona il campanello almeno sei volte, e comunque passano altre due ore prima che rinunci del tutto.
Quando finalmente lo vedo allontanarsi, ho alla gola un nodo che non vorrei avere.
La casa è completamente al buio e io, seduto per terra da quando sono rientrato, non ho voglia di alzarmi ad accendere la luce. All'improvviso mi rendo conto che l'appartamento è di nuovo desolatamente vuoto, e anche se dopo Daniel ci ho dormito sempre da solo, adesso non voglio farlo perché so che non ho nessuno ad aspettarmi nemmeno fuori. Così mi alzo di scatto e preparo la borsa.
La luce non l'accendo più.

*



L'ultima volta che io e Sido ci siamo parlati è stato quando mi ha detto di andarmene dal suo ufficio. Lui, però, è un uomo che tiene ben separati il suo lavoro e la sua vita privata, così quando mi presento a casa sua con la valigia, la prima cosa che mi chiede è se sto bene e non cosa cazzo ci faccio lì.
In realtà lo sa benissimo che sono lì perché non voglio stare solo e, se non vado da mia madre, è solo perché avrei troppe cose da spiegarle, gran parte delle quali è meglio che non sappia ancora.
Sido invece ha sempre saputo ogni cosa; sa anche di Chakuza e non l'hai mai approvato. Anzi, di tutte le cose che sono successe, non ha mai approvato soprattutto Chakuza. E non solo perché è un uomo, ma soprattutto per com'è fatto e, sinceramente, io non posso proprio dargli torto perché è palese che l'ostinazione che ci ho messo a riprendermelo anche dopo tutte le stronzate che ha fatto, è stata solo il tentativo di convincermi che non avevo sbagliato nemmeno la prima volta, quando invece avrei dovuto ammazzarlo come minimo.
Quando io, lui e Doreen finiamo a bere birra sul divano, gli racconto quello che è successo così come viene, senza cercare di rendermi meno pietoso di quello che sono; voglio solo parlarne a qualcuno che non ne sia coinvolto in nessun modo e non abbia alcun motivo per non darmi ragione su tutta la linea.
La ottengo, e non mi consola per niente, ma almeno mi fa sentire un po' meno peggio.
Non ho bisogno di chiedere ospitalità. “Lo sai che la tua camera è sempre pronta,” mi dice Doreen, stringendomi una spalla. “Puoi rimanere quanto vuoi.”
Resto perché non so dove altro andare e, anche se ancora non lo so, resto per poi restituirgli il favore.

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