There's a time for everyone

di tabata
Avete mai avuto la sensazione che l'universo vi stesse prendendo in giro?
Non parlo di quelle giornate sfigate in cui tutto va storto, dal caffè che non sale la mattina, fino alle chiavi della macchina che non si trovano e al capo che vi dà del lavoro extra solo perché ha le palle girate e la vostra pettinatura gli urtava il sistema nervoso. Parlo di quando ti è toccato gestire una serie di situazioni complicate fino alla follia per un periodo ti tempo apparentemente infinito e, quando finalmente credi che tutto abbia trovato una soluzione accettabile, ecco che ti capita tra capo e collo uno di quei problemi che ti fanno rimpiangere all'istante tutto quello hai appena passato.
E' chiaro che dietro a situazioni come queste dev'esserci il piano diabolico di qualcuno, la mano infernale di un sadico che si è divertito a plasmare la tua vita perché fosse un compendio di disastri accuratamente messi in fila dal meno grave al più catastrofico in un escalation di problematiche destinate a culminare nel dramma più drammatico che possiate immaginare. Non può trattarsi di una coincidenza che proprio tu, in quel preciso momento, ti trovi in una data condizione per la quale le cose precipitano.
Eventi con un certo grado di complessità, ossia che dipendono da altri eventi a loro volta molto complessi, non capitano mai per caso perché hanno palesemente bisogno di pianificazione e il caso non è abbastanza intelligente per questo, esso non pianifica. Il caso capita – non per nulla – a caso.
Qui si tratta, invece, di una situazione più complicata, fatta di azioni e reazioni che provocano conseguenze, una specie di gioco del domino, in cui tu e la gente che ti circonda siete le tessere e l'universo, lassù, con la sua gigantesca mano cosmica, ha passato diversi anni del tuo tempo a mettervi una dietro l'altra ad una certa distanza specifica per poi dare un colpetto alla prima tessera e far cadere tutte le altre. La caduta, il movimento sequenziale, tutti questi fattori non sono per un cazzo casuali. L'ultima tessera non cade per un colpo di vento, ma perché la prima ha colpito la seconda, che ha colpito la terza e così via finché non ha potuto far altro che cadere anche lei, che era stata messa nel punto preciso perché ciò avvenisse.
Ora, questo non è affatto consolante, perché sapere che le tue disgrazie sono architettate da una divinità ultraterrena che ti odia non cambia il fatto che esse avverranno comunque, ma ti dà la possibilità di fare una cosa molto liberatoria, ossia dare la colpa all'evento scatenate e liberarti di ogni responsabilità.
Vorrei che teneste bene in mente questo mentre vi racconto: non è colpa mia, sono vittima degli eventi.
Dunque, fino a questa mattina la mia vita scorre abbastanza tranquilla; non è proprio perfetta ma, se paragonata al delirio che era nemmeno tre o quattro mesi fa, posso considerarmi un uomo soddisfatto. Mio fratello ha smesso di fissare il vuoto vaneggiando di torta ai mirtilli ed è tornato con il grande amore della sua vita – quello che considero il meno peggio fra i due, almeno – e il mio manager è sopravvissuto, per quanto adesso se ne vada in giro con la scritta VENDETTA sulla pancia e stia vivendo una seconda adolescenza di cui nessuno sentiva il bisogno con il suo medico curante. Non abbiamo ancora nessun contratto, ma i Tokio Hotel sono vivi e vegeti; anzi, se vi devo dire la verità, per quanto faccia paura sapere di essere privi di un'etichetta che ci copra le spalle, non ci siamo mai sentiti meglio di così. Per la prima volta in cinque anni stiamo scrivendo canzoni per il gusto di farlo e non perché siamo obbligati. Quello che ne è venuto fuori in poche settimane è strabiliante, e credo che quando finalmente troveremo qualcuno disposto a sostenerci, avremo un sacco di ottimo materiale da presentare.
Per suonare, David ci ha messo a disposizione lo studio di registrazione che si è fatto costruire in casa, così adesso passiamo gran parte del tempo da lui, ci facciamo portare a casa un sacco di schifezze che lui non approva e, finché Bushido non viene a prendere Bill con quel suo lungo macchinone da beccamorto, sembra quasi di essere tornati indietro nel tempo a quando avevamo quindici anni e ci preparavamo a sfondare.
Sono diretto proprio a casa di David quando Cassandra mi chiama. Cassie non è quel tipo di ragazza che vorrebbe sentirmi ad ogni ora del giorno e della notte; anzi, passo la maggior parte del tempo a chiedermi dove sia e cosa stia facendo, e soprattutto se posso chiamarla o meno perché il più delle volte la cosa la infastidisce. Le nostre telefonate sono molto brevi e, generalmente, io non ho ancora finito di salutarla quando lei riattacca. Non che mi dispiaccia avere una donna che mi lascia i miei spazi, devo solo capire che cosa farmene ora che ce li ho perché con Bill sempre in casa del tunisino, una ragazza anche solo leggermente meno autonoma mi farebbe comodo, ecco. Però non mi lamento.
“Ehi, splendore,” rispondo, tenendo il volante con la sinistra.
La sento ridere dall'altra parte della cornetta. “Ehi anche a te,” dice. “Sei allegro. Ti vedi con tuo fratello?”
“Non ti posso nascondere proprio niente,” commento con un sorriso. Mi chiedo se ci sia ancora qualcuno in questa specie di enorme branco che non prende in giro me e mio fratello per il legame che abbiamo. In quanto Principessa Bill dovrebbe fare una legge che lo proibisca. “Sto andando a casa di David a provare. Dimmi tutto.”
“Stai guidando con una mano sola, vero?” Mi rimprovera.
Io rido e metto il telefono in vivavoce. “Saprei guidare anche ad occhi chiusi, ma se ti fa stare più tranquilla, adesso ho entrambe le mani sul volante,” la accontento.
“Oh, ma io stavo tranquilla anche prima. Sei tu che rischi un frontale, mica io. Comunque ho bisogno di parlarti, pensi di riuscire a liberarti per pranzo?” chiede, ma la sua voce non è tesa come ci si aspetterebbe da un discorso simile, che in genere è il preludio ad un monologo infinito in cui la ragazza ti scarica addosso tutti i suoi problemi esistenziali e tu diventi il mostro che ha rovinato il rapporto perché non la ami abbastanza e non le hai dato ciò di cui aveva bisogno. Io, in realtà, non so se preoccuparmi di questo perché Cassandra sembra assolutamente tranquilla.
“E' successo qualcosa?” Chiedo. “Se vuoi possiamo incontrarci anche subito, avverto David.”
“No, non è necessario. E poi ho delle commissioni da fare prima. Ci vediamo all'una al solito ristorante.”
Cassie mi piace perché è molto pratica e, soprattutto non si aspetta mai che io sia a sua completa disposizione, questo perché generalmente non lo è mai nemmeno lei. Non so se sia perché ha quasi dieci anni più di me, ma è molto facile averci a che fare. “D'accordo, a do–“
Vorrei solo che mi lasciasse salutare.

*


Liberarmi di Bill è stato particolarmente difficile, oggi.
Non che di solito si limiti a salutarmi e torni a farsi gli affari suoi, perché non posso mai andare per la mia strada se prima non mi è stato incollato addosso per almeno due ore; solo che questa volta è stato peggio. Con il senno di poi comincio a credere che la donna che vive nel suo corpo abbia captato le vibrazioni che c'erano nell'aria, ma sul momento gli ho chiesto se fosse ubriaco perché non mi faceva nemmeno alzare dal divano, allungando quei due tentacoli che ha al posto delle braccia per allacciarmeli intorno al collo, sotto lo sguardo disapprovante del suo ragazzo, del quale sostanzialmente non mi frega un accidenti. Anzi, mi ha dato una grande soddisfazione fare le coccole a Bill sapendo che lui ci stava guardando e non poteva fare niente per impedirlo. Comunque sia, alla fine – seppur a malincuore, perché ero sicuro che con un altro paio di minuti a disposizione Bushido avrebbe iniziato a fumare dalle orecchie – sono dovuto uscire per non arrivare tardi all'appuntamento con Cassandra che trovo già seduta al nostro solito tavolo.
“E' molto che aspetti?” Chiedo raggiungendola.
Lei chiude il cellulare e lo infila in borsa. “No, tranquillo. Saranno due minuti. Tutto a posto allo studio?”
Do un'occhiata veloce al menù, ma ho voglia di hamburger da stamattina, quindi non ho bisogno di scegliere niente. “Sì, a parte Georg che si lamenta dell'acustica. Ma si lamenterebbe dell'aria che respira se sapesse che c'è qualcuno che può cambiargliela, quindi non fa molto testo.”
“Ma state già registrando?”
“No, per ora facciamo soltanto qualche prova. Siamo a buon punto però. Se trovassimo un'etichetta che ci rappresenti entro la fine dell'anno sarebbe perfetto.”
Cassandra è la prima ragazza del mio stesso ambiente con cui esco, e per me è una cosa nuova. Ho scoperto subito che è tutto diverso quando ti vedi con qualcuno che capisce alla perfezione cosa significa fare questo lavoro e che cosa comporta. E' bello poterne parlare senza che sia solo una discussione in cui io mi vanto di qualcosa e la ragazza che mi sta davanti mi guarda con aria sognante. Con Cassie posso effettivamente discutere di quello che faccio, chiederle pareri, vederla interessata e sapere che lo è per davvero e non perché io sono Tom Kaulitz. “Perché non vi producete da soli?” Chiede, spilluzzicando un pezzo di pane dal cestino.
Penso a David e alla risata che si è fatto quando Georg ha avanzato l'ipotesi. Stavamo cenando nello studio e ci siamo tutti fermati a guardarlo perché rideva proprio di gusto. A ben pensarci è un po' demoralizzante come cosa, ma in quel momento non ci abbiamo fatto caso perché David si è addirittura piegato in due, con le guance paonazze. Quando poi si è calmato, asciugandosi una lacrima, e si è accorto che nessuno di noi stava partecipando, si è schiarito la gola ed è tornato subito serio. “David dice che non siamo ancora pronti per questo,” riferisco a Cassie le sue parole.
Lei fa una mezza smorfia pensierosa. “Potreste chiedere ad Anis,” dice alla fine.
“La Universal ha scaricato anche lui.”
Lei annuisce e ordina al cameriere solo un'insalata e una bottiglia d'acqua. “Sì, ma l'Ersguterjunge ci si appoggiava soltanto. Adesso è totalmente indipendente.”
Sospiro e cerco di farle capire con uno sguardo quello che penso, così non sarò costretto a dirlo e forse questa discussione rimarrà innocente e piacevole com'è stata finora. Bushido che paga di tasca sua per tenere in piedi i Tokio Hotel non sarebbe soltanto un semplice errore, ma una catastrofe. Non oso pensare a cosa succederebbe se dessimo a quell'egocentrico megalomane la possibilità di rinfacciarci vita natural durante che se siamo su un palco è merito suo. No. Non esiste. E poi credo che sia anche conflitto di interessi, o qualcosa del genere, quell'uomo sta con mio fratello. E' come se mio fratello scopasse con lui per mantenere in vita la band. Non potrei mica accettarlo, devo proteggere l'onore di Bill.
“Non fare quella faccia, Tom!” Esclama lei, alzando gli occhi al cielo. “Non sarebbe poi questa gran tragedia, si tratta soltanto di lavoro. Bushido finanzia già la Beatlefield al 60% e dimmi se lui e Chakuza non hanno delle questioni private in sospeso.”
Appunto, quei due nemmeno si parlano. Ci manca solo che mio fratello litiga con Bushido e quello per ripicca ci lascia col culo per terra all'improvviso. Magari mio fratello scappa pure con Chakuza, devastando due etichette in un colpo solo. Bill ne sarebbe capace. “Ci penserò, d'accordo?” Prometto cercando di distrarla con un sorriso e fallendo miseramente. Intanto arrivano le nostre ordinazioni e io mi ricordo perché ci stiamo vedendo a pranzo. “E tu, invece? Di che cosa volevi parlarmi?”
Lei aspetta che il cameriere si sia allontanato, quindi si sistema il tovagliolo sulle ginocchia. “Sono incinta.”
Io mi alzo di scatto e scappo urlando, lasciandomi alle spalle una nuvola di polvere e, quando questa si dirada, di me non è rimasta nemmeno l'ombra, sono già su un aereo per il Sudamerica dove aprirò un bar e mi farò chiamare Pedro. O almeno questo è quello che vorrei fare, ma la verità è che sono pietrificato su questa sedia dalla paura e dagli occhi di Cassandra, che in verità sono gli stessi di sempre ma non è che mi fidi troppo in questa situazione.
“Incinta in che senso?” Chiedo, con la voce che mi si strozza in gola.
Cassie si lascia scappare una risatina, che è tipo l'ultima cosa che mi aspetto da lei. “Nel senso che aspetto un bambino e fra qualche mese partorirò.”
David ha sempre temuto questo momento. Tom, mi diceva, per quanto io ti insegni ad essere responsabile e per quanto tu prenda le dovute precauzioni, prima o poi una di queste ragazze finirà sicuramente col rimanere incinta. E non è sfiducia la mia, ragazzo, è una questione di statistiche e probabilità. E' matematica dei grandi numeri. Una volta capiterà, anche per sbaglio, anzi soprattutto per sbaglio e io dovrò tenermi pronto. Ora, non so esattamente quale piano di salvataggio David abbia messo in piedi nel corso degli ultimi sette anni che ho passato a scopare, ma vorrei tanto che fosse qui a spiegarmelo perché io non so cosa fare.
“E ne sei sicura?”
“Sono stata dal medico. Sono di sei settimane.”
Faccio un rapido calcolo. “Il week end ad Amburgo.”
“Sì, credo di sì.”
Non sono certo di come sia potuto accadere. Ho preso lei, la macchina, e di sicuro anche i preservativi, ma una volta arrivati nella vecchia casa mia e di mio fratello, abbiamo bevuto così tanto per festeggiare l'ultimo lavoro di Cassie che potrei anche non averli usati. Anzi, a questo punto direi che è sicuro.
Non che importi qualcosa, ormai, ma concentrarmi su questi dettagli assolutamente inutili allontana il momento in cui dovrò pensare alle cose serie.
Mi passo una mano sul viso e finisco a massaggiarmi la nuca di fronte al vuoto totale che c'è nella mia testa. So che dovrei dire qualcosa, ma non so esattamente cosa. L'unica questione a cui riesco a pensare è che è davvero un gran casino perché io e lei stiamo a malapena insieme. Nel senso, d'accordo, ci vediamo da più di un anno ma non abbiamo mai fatto progetti – io non voglio fare progetti! – e qui si parla di un bambino. Un neonato. Queste cose capitano alle altre persone, non a me.
“Tu...” sospiro, incerto. “Tu che cosa vuoi fare?”
Lei non ci pensa neanche un istante, ma quando mi risponde la sua voce è calda e tranquilla, come sempre. “Lo tengo,” dice, sorridendo appena. “Ma, Tom... Tom?”
Io non mi rendo conto di essere ridicolo mentre deglutisco e fisso un punto a caso che sta sul pavimento, alle sue spalle. Quando mi chiama, sollevo lo sguardo su di lei ma il mio cervello non sta funzionando e ringrazio che non sia una di quelle donne che non si sente mai ascoltata – come Bill – perché non è affatto vero. La sto ascoltando fin troppo bene, così bene che non vorrei averla sentita affatto.
“Ascolta, mi rendo conto che non lo avevamo affatto previsto ma è successo. Io la trovo una cosa bellissima e ho preso la mia decisione, ma non voglio che tu ti senta in alcun modo obbligato ad accettarla.”
“E' una mia responsabilità,” mormoro, ma sono solo le parole di David che filtrano attraverso i ricordi di un centinaio di discussioni avute con lui sull'argomento.
“No, è una nostra responsabilità,” precisa lei “ma ci sono molti modi di affrontarla. Io vorrei crescere questo bambino con te, ma solo se è quello che vuoi anche tu. Non ha senso che tu faccia il padre se non è quello che vuoi. Io terrò questo bambino in ogni caso, tu devi solo dirmi se vuoi esserci oppure no.”
Sono terrorizzato, e mi rendo conto di non esserlo mai stato veramente prima d'ora. Se il cuore potesse battermi più forte di così, probabilmente esploderebbe, credo. Non lo so.
E non so è anche la risposta alla domanda che lei in realtà non mi ha fatto, esponendomi la questione senza mettere alla fine nessun punto interrogativo che potesse crearmi più ansia di quanto la situazione già non faccia. Io comunque non ho ancora davvero realizzato che si tratta di un bambino reale, che sta dentro la sua pancia proprio mentre parliamo e che potrebbe cambiare per sempre la mia vita. Ho solo una comprensione vaga di un vago disastro e la certezza di dover prendere la decisione più importante della mia vita, lei invece sembra sicura di sé e non so come faccia a non avere paura. Io ce l'ho.
“Io devo andare adesso,” mi dice, recuperando la sua borsa dalla sedia accanto a lei.
“Ma non l'hai nemmeno toccata, quell'insalata.”
Lei fa una mezza smorfia, arricciando il naso. “Tanto non riesco a tenere nello stomaco quasi niente, per adesso,” risponde. “Nausee.”
“Oh,” dico. “Giusto.”
“Prenditi il tempo che ti serve, d'accordo?” Mi dice, sporgendosi sul tavolo per baciarmi. Io mi perdo nell'idea che sospeso sopra i nostri piatti adesso c'è qualcosa che un giorno diventerà un bambino. “Dico sul serio, accetterò qualunque decisione, purché tu la ritenga davvero quella giusta. Se non ne sei convinto, non farai felice nessuno, intesi?”
“Intesi,” sospiro.
Mi bacia di nuovo e poi è sparita.

*


Cassandra è incinta.
Ripeto questa frase da almeno mezz'ora, mentre me ne sto qui a fissare il mio riflesso nello specchio.
A differenza di tutte le parole ripetute all'infinito, queste non stanno affatto perdendo significato. Anzi, sembrano farsi ogni volta più concrete; più le dico, più la pancia di Cassie si fa rotonda, tesa, grossa. Se pronuncio un'altra volta questa frase, forse potrebbe addirittura partorire. Cazzo.
Mi scosto dallo specchio solo perché la mia faccia mi è venuta a noia. Posso stare qui anche tutto il giorno a dirmi che sono un cretino, e che sono nella merda, ma le cose non cambieranno.
Da quando Cassie me lo ha detto, non riesco a pensare a nient'altro, il che credo sia normale visto che questa è una di quelle cose che ti cambiano la vita per sempre.
A tal proposito, dovrei davvero smettere di chiamarla cosa e dargli un nome più preciso che la descriva esattamente per quello che è. Qualcosa come gravidanza. Oppure, mio figlio – che sono due parole molto spaventose e forse è meglio non usarle, per il momento – perché anche se decido di lavarmene le mani, la questione non svanirà in una nuvola di fumo. Non posso dargli un nome provvisorio nell'idea che tanto mi servirà giusto il tempo di decidere che non mi interessa. Tanto più che mi interessa, quindi è un discorso insensato a priori.
Voglio dire, sono terrorizzato, ma non ho perso di vista il quadro generale. Qui non si tratta soltanto di questo bambino – ecco, bambino è un termine preciso ma ancora sufficientemente generico – si tratta anche di Cassandra e di quello che succederà fra noi se io mi tirerò indietro.
In un anno che ci frequentiamo, un vero e proprio noi a voce alta non lo abbiamo mai detto, però c'è. Posso fingere che non sia così – che poi non è che fingo, semplicemente evito il discorso – ma sono consapevole di non provare più il bisogno di cercare qualcun'altra da quando c'è lei e che non mi sento soffocare quando mi sveglio la mattina e la trovo nel letto accanto a me. D'altronde è difficile trovarla troppo asfissiante quando riuscire a vederla per più di tre o quattro giorni di fila senza mandare all'aria almeno metà dei suoi mille appuntamenti settimanali è praticamente impossibile. Cassie non vive per me, e non si aspetta che io lo faccia per lei, ecco perché tra noi funziona.
E ha funzionato fin da subito, il che direi che è quasi un miracolo se penso che in generale le mie storie non hanno mai funzionato nemmeno sulla lunga distanza, quando per lunga distanza s'intendono i tre mesi, naturalmente.
Com'è iniziata già lo sapete, il resto in realtà risulterà ben poco emozionante da leggere in confronto alle strabilianti avventure di Bill e di tutti gli uomini che gli stanno appresso, ma sto cercando di fare un esame di coscienza, una lista dei pro e dei contro, o come la volete chiamare, qui, e mi serve ricordarmi com'è che sono arrivato a questo punto catastrofico in cui ho un figlio in arrivo e non so cosa diavolo fare; che poi mi sembra chiaro che questa è solo l'ultima tessera del domino di cui vi parlavo. Non è caduta mica per caso, lo capite, ora? La perfida mano del destino ha fatto in modo che mio fratello conoscesse Bushido – che intanto si era già lasciato con Cassandra – lo ha fatto, diciamo, uccidere perché Bill potesse struggersi d'amore perduto e io potessi, stando lì a consolarlo, conoscere Cassandra che nel frattempo si struggeva di dolore per l'amico morto. Uniti nello struggimento generale, io e Cassandra abbiamo combinato e visto che combinavamo discretamente bene abbiamo continuato a farlo anche dopo che Bushido è tornato dalla morte, precipitando il proprio regno nella follia, per sfuggire alla quale io e Cassandra - ormai provati – abbiamo perso di vista ogni limite e soprattutto la razionalità, mettendo in cantiere questo bambino.
Era tutto programmato. Questa non è una coincidenza. Risalendo a ritroso la linea degli eventi, la perfida mano del destino è più che evidente. Se Bushido non avesse incontrato mio fratello e non fosse poi morto, io non avrei dovuto consolarlo, Cassandra non avrebbe dovuto struggersi e non avremmo mai concepito.
E dal momento che Bushido è convinto di poter controllare tutto, compresa la rotazione del pianeta, non è difficile credere che controlli anche il resto dell'universo e con esso la gigantesca mano che muove le tessere del domino destinate a cadere secondo il suo specifico disegno. In sostanza se ora io e Cassandra aspettiamo un figlio è senz'altro colpa di Bushido.
D'accordo, sto delirando. Adesso mi farò una birra – una birra mi spetta, sono un uomo sconvolto – e poi cercherò di affrontare questa situazione con razionalità, che poi significa chiamare David.
Alla fine ne bevo tre prima di comporre il suo numero sul cellulare. Sono letteralmente accasciato sul tavolo del soggiorno, con la testa piegata di lato e il telefono appoggiato contro un orecchio quando dall'altra parte David mi risponde ridendo e chiedendo a qualcuno che evidentemente non sono io di tenere giù le mani dal suo sedere per cinque minuti. “Pronto?”
“Le mie orecchie sanguinano, David” borbotto.
“Tom?”
“Sono io. Volevo chiederti educatamente se stavo disturbando, ma non c'è più bisogno che tu mi risponda. E' possibile che tu non faccia altro che scopare?”
Lo sento chiedere a J.J. - che è il nomignolo con cui chiama il suo adorato dottor Schüster di cui ci racconta vita, morte, ma soprattutto miracoli con grande dovizia di particolari – di scusarlo qualche minuto. “Tom,” dice poi, dopo che si è chiusa una porta. “Va tutto bene?”
“Sì, tutto a meraviglia,” poi rido perché forse le birre erano quattro. “Una favola, proprio.”
“Ma sei ubriaco?”
Rido. “Mi sa di sì, David.”
“Sono le tre del pomeriggio, si può sapere che ti prende di metterti a bere così presto?”
“La birra va giù a qualsiasi ora.”
Sospira. “Che cosa succede?”
“Ho qui un problema che non puoi risolvere,” dichiaro. “Per la verità il problema ce l'ho io, ma ci siamo capiti.”
“Di cosa stai parlando?”
“Di una roba enorme,” sospiro.
Lo sento trafficare, anche se non capisco bene cosa stia facendo. “D'accordo, dove sei, a casa? Dammi un quarto d'ora e sono lì.”
Continua a parlare, a dirmi di non muovermi che appena arriva risolviamo tutto, e qui mi rendo conto che l'ho chiamato solo perché è sempre stato lui che ci sbrogliava i casini, ma stavolta non può andare così. Non ho più quindici anni, periodo in cui questa telefonata sarebbe stata giustificata. Questa è una faccenda tra me e Cassie, che si aspetta che io mi comporti come l'adulto che ormai sono anche se non ho idea di quando lo sono diventato. In questo momento, credo. “No, David, non c'è bisogno che tu venga qui,” lo fermo e mi sento incredibilmente più lucido. “Non avrei neanche dovuto chiamarti.”
“Tom...”
“Sto bene,” lo rassicuro. “Cioè, io sto bene, non mi è successo niente.”
“Hai detto di avere un problema.”
Annuisco, passandomi una mano tra i capelli. “Sì, ma non è un vero problema. E' più una questione, che devo capire come affrontare.”
“Se hai bisogno, posso venire lì,” insiste lui. “Qualunque sia questa questione di cui parli, possiamo discuterne insieme.”
“No,” ribadisco. “Devo fare una cosa. Subito. Ma tu non devi preoccuparti, perché io sto bene.”
“Se dici così mi preoccupo per forza,” replica. “Vuoi dirmi almeno che cosa devi fare?”
Io mi scosto dal tavolo con grande fatica perché il cervello sarà lucido ma le gambe non sono ancora state avvertite. Devo farmi una doccia e poi un caffè, o viceversa. “Devo parlare con Cassandra.”
Ne segue un lungo silenzio da parte sua, tanto che riesco a sentire che in sottofondo c'è uno stereo che suona qualche suo cd dell'anteguerra. “Che cos'hai combinato?” Dice alla fine.
“Non è stata colpa mia,” rispondo. “Cioè, all'atto pratico sì, è stata colpa mia, ma in generale è stato il destino e soprattutto il fatto che Bushido sia tornato dalla morte. Ora devo proprio andare, però.”
“Tom...”
“Ti chiamo stasera, promesso.”
Mentre riattacco mi chiede disperatamente di non fare cose che lui non farebbe.
E in qualche modo, il consiglio riesce a darmelo comunque.

*


Da Cassandra ci arrivo quasi due ore più tardi, dopo una doccia e qualcosa come due litri di caffè che di sicuro non mi fanno tanto bene ma almeno mi tengono in piedi e non mi fanno più girare la testa, due cose delle quali ho bisogno per mantenere un po' di credibilità. Sarò, forse, un tantino isterico ma penso sia più accettabile questo dell'alito che sa di birra, per altro scadente, per altro sempre in pieno pomeriggio.
“Ciao Tom.” Mi accoglie aprendo la porta ed osservandomi come una che non si capacita della mia presenza sullo zerbino di casa sua. Io non posso risponderle subito perché ho il fiatone, così lei solleva un sopracciglio perplessa. “Ma hai fatto le scale a piedi?”
Io annuisco, piegato in due e appoggiato al muro con una mano.
“E per quale motivo non hai preso l'ascensore? Sono sei piani!”
Io scuoto la testa. “Non arrivava mai...” rantolo. “C'era troppo da aspettare.” Mi sembra chiaro che la prossima cosa urgente da fare, dopo questa, sia iscrivermi di nuovo in palestra.
“Vuoi entrare? Ti prendo qualcosa da bere,” fa lei, lasciandomi la porta aperta perché possa strisciare senza dignità all'interno mentre lei si dirige in cucina. “O un polmone d'acciaio.”
“Spiritosa,” borbotto, sedendomi sul divano.
Mi passa un bicchiere d'acqua e rimane lì in piedi davanti a me, osservando impietosa che sono uno straccio mentre lei quasi risplende, nonostante sia vestita da casa e abbia i capelli tutti scompigliati. “Se doveva essere un'entrata ad effetto, non ti è riuscita molto bene,” scherza.
“Non esattamente quello che avevo in mente,” ammetto.
“Va un po' meglio?” Mi chiede.
I polmoni non minacciano più di abbandonarmi e il cuore batte forte, ma non come se stesse per venirmi un infarto, quindi direi che sto migliorando. “Più o meno.”
“Come mai questo fuori programma? Pensavo che oggi accompagnassi tuo fratello in giro per negozi.”
“C'è andato Fler,” rispondo, mentre penso alla mia telefonata disperata dell'ultimo minuto quando, con un piede già fuori di casa, mi sono ricordato di Bill e dello shopping del mercoledì.
Fortuna che Fler è un grande e si è offerto di sostituirmi, non sono mai stato tanto contento che Bill sia circondato da uomini asserviti, pronti a passare con lui un pomeriggio intero da Dolce e Gabbana. Spero solo che mio fratello non si arrabbi troppo vedendolo arrivare al posto mio, ma non credo visto che lui e Fler sono due amiche del cuore, tipo.
“Capito. Immagino che si divertirà comunque finché gli funziona la carta di credito.”
Io faccio un mezzo sorriso e poi mi inumidisco le labbra. “Sono venuto a... parlare.”
Cassandra sospira e poi si siede sul divano accanto a me, tirando su le gambe per abbracciarsi le ginocchia e appoggiarci sopra il mento, mentre guarda con aria assente la cucina che s'intravede dalle porte aperte aldilà del corridoio. “Sono passati soltanto tre giorni, Tom.”
Tre giorni che ho trascorso davanti allo specchio a ripetermi che lei era incinta e poco altro. “Ho avuto modo di pensare a questa situazione.”
“Tom...” Il suo tono è pacato, comprensivo, forse anche leggermente accondiscendente. “Prima che continui, voglio dirti che mi aspettavo ti prendessi un po' più di tempo per prendere questa decisione.”
“Lo so,” dico subito. “Lo so! Io stesso pensavo che ci avrei messo delle settimane anche solo per rendermi conto che stava succedendo davvero, credimi.”
Lei passa una mano tra i suoi riccioli e quelli si scostano soltanto un istante per poi tornare esattamente dov'erano prima, al loro posto. “E...?” Sospira.
“E ancora non me ne sono reso conto, anzi probabilmente non lo farò finché questo bambino non sarà arrivato e allora non potrò più negare che sia vero,” rispondo e poi scrollo le spalle. “Ma non importa, è questo il punto.”
“Tom, che cosa stai cercando di dirmi, che non credi all'esistenza dei neonati?”
“No, che non m'importa della situazione,” puntualizzo. “Cioè m'importa, ovviamente, ma non nel senso che debba essere un problema. Insomma sì, è un problema, perché ci sono gli esami e le visite e i vestiti e non so, delle cose da comprare, credo, ed è un bambino, voglio dire un bambino vero o che sarà vero quando sarà qui, ma non è un problema-problema. E' solo... una questione. Ecco sì, una questione.”
Io sono molto orgoglioso di quello che ho detto, anche se non so esattamente di che cosa si tratti. Quando sono uscito di casa avevo una mezza idea di come avrei affrontato il discorso e di come poi questo discorso si sarebbe sviluppato ma, quando sono arrivato sotto casa sua, in testa mi è rimasta solo una manciata di parole che si sono confuse ulteriormente quando poi ho aperto bocca. Ho lavorato con quello che avevo.
“Quindi questo bambino non è un problema ma una questione.”
“Esattamente.”
Lei gonfia una guancia, pensierosa. “Quanto caffè hai bevuto prima di venire qui?”
“Tanto,” annuisco.
“Questo spiega un sacco di cose.”
“Cassie, dico davvero,” esclamo, alzandomi di scatto in piedi perché mi sembra di non essere stato troppo convincente e io invece sono venuto qui per esserlo, perché mi sono già convinto da solo quindi adesso non mi resta che convincere anche lei. “Quando me lo hai detto ero terrorizzato e adesso lo sono ancora di più, ma è giusto che io lo sia, no?”
“Sì, ma...”
“Non avevamo preventivato questa situazione, è vero. E io di sicuro non l'avrei preventivata nemmeno se me l'avessi chiesta, ma è successo lo stesso e tu vuoi tenerlo, quindi la soluzione è semplice. Qualcuno deve cambiare i suoi schemi mentali e quello sono io.”
Lei agita le mani di fronte a sé. “No, è questo che ho cercato di dirti al ristorante. Tu non devi fare niente se non lo vuoi, proprio perché niente di tutto questo era programmato.”
“Io voglio questo bambino.” E quando finalmente lo dico, mi sembra all'improvviso tutto più facile. Non che adesso io sia pronto a diventare padre, a cambiare pannolini e a scordarmi per sempre la mia vita per come la amo e me la ricordo ora, solo che ho preso una decisione e questo mi toglie almeno metà dell'ansia. Mi sono dato un punto di partenza da cui iniziare a lavorare e ora il futuro – per quanto terrorizzante – è piuttosto chiaro. “In questi giorni ci ho pensato e ripensato e l'unica cosa che davvero non voglio è allontanarmi da te. Per la prima volta nella mia vita comincio a credere che potrei davvero stare con qualcuno per sempre e non butterò tutto all'aria solo perché qualcosa che forse avrebbe potuto capitare tra molti anni è invece capitato adesso. La questione è in realtà molto semplice: non voglio perderti Cassie. Ti voglio con me, e quindi voglio anche lui. Le due cose non sono affatto separate.”
Lei rimane pietrificata, o almeno questa è l'impressione che ne ho io quando non dice niente e schiude un po' la bocca, guardandomi fisso.
“D'accordo,” mormoro incerto. “Immagino di aver detto qualcosa di molto sbagliato, ma giuro che non volevo. Quello che intendevo è che...”
Lei mi piazza una mano sulla bocca, costringendomi a buttare fuori in uno sbuffo le ultime due o tre parole che stavo per dire. Mi guarda ancora per qualche istante e poi mi afferra per la nuca e mi bacia. Quando ci allontaniamo, mi sorride sulle labbra. “Certo che ne fai di casino, quando parli.”
“Dovrò smettere di farlo, sono d'accordo,” la bacio di nuovo e me la stringo contro, accarezzandole la testa mentre, ridendo come due cretini, ci sistemiamo meglio sul divano.
Quando ci calmiamo mi concentro sul suo respiro vicino al mio orecchio e sorrido.
Tra nove mesi i Kaulitz di questo branco saranno tre, e che sia colpa del caso, di Bushido o dell'universo, in realtà non importa davvero più.

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