Talk Out And Break The Silence

di lisachan
Comincerò col dire che Sido non ce la può fare col fatto che ho quattordici anni. Il che, vi assicuro, lo rende già una persona migliore di tre quarti buoni del resto della gente che ho incontrato nella mia vita, anche se quello che sto per dirvi probabilmente cambierà la vostra opinione in merito. Naturalmente avreste torto. Se ve lo dico io, che è una bella persona, potete crederci, considerato che ci sto insieme.
Vi vedo sbiancare. So che vi chiedo uno sforzo di una certa rilevanza, ma cercate lo stesso di seguirmi. Avete visto di peggio, fra queste pagine. Io, alla fine, vi sto raccontando una storia d’amore del cazzo, quindi mettete un attimo da parte la mia età, la sua e tutto quello che può passarvi per la testa mentre cercate di unire i puntini e capire come sia possibile essere arrivati a questo punto dall’ultima volta che mi avete visto, e statemi semplicemente a sentire.
Che poi è quello che fra poco chiederò di fare anche a Sido, che d’altronde, appunto, come vi dicevo prima, col fatto che ho quattordici anni non ce la può ancora fare, e quindi quando lo approccio in un certo modo sbianca più o meno come voi.
“Dobbiamo parlare,” gli dico, entrando nel suo ufficio e chiudendo la porta. È tardi e grazie a Dio gli studi sono quasi completamente vuoti. A parte Ramon, che fa le pulizie e nonostante il nome è più tedesco di me, ci siamo solo io e lui, qua dentro, ed ecco perché mi sto azzardando a cominciare questo discorso adesso, anche perché, se lo lascio andare via, poi non ci sarà più modo di parlargli fino a domani, e invece questa è una cosa che va discussa subito, perché mi sa che ho rimandato fin troppo a lungo.
“Nyzaad…?” mi fa lui, sollevando da un mucchio di scartoffie quegli occhi castani enormi da zio timido che gli occhiali amplificano a livelli quasi intollerabili – io dico: quando decidi di diventare un rapper del ghetto, uno che racconta le brutture della Germania che nessuno vuole sentire, alcool, droga, criminalità minorile, violenza, devi averci la cazzo di faccia giusta; Bushido ce l’ha, per dire, la faccia di quello che grattugeresti contro una parete molto molto ruvida, d’accordo, ma una faccia con una sua credibilità, quando parla di certe robe. Sido c’ha un faccino che, veramente, alle volte alla gente per strada faccio più brutto io. Poi ci si stupisce che si presenti nei video e nelle occasioni pubbliche solo con la maschera a forma di teschio. “C’è qualche problema?”
“Sì,” rispondo io, onestamente, “Ma prima che te lo dica, baciami.” Non so perché glielo dico. È la sua faccia. Madonna, questa faccia. Io penso che quando esci dal ghetto, o almeno ci provi, che hai visto solo facce da galera per tutta la tua esistenza, non puoi fare a meno di innamorarti di uno che ha la faccia di un imbecille. E infatti eccomi.
Lui, però, diventa bianco come un lenzuolo, e questo perché, come vi accennavo prima, non ce la può fare col fatto che ho quattordici anni. Che, direte voi, poteva pensarci prima di scoparti. Lo so, ma che c’entra. Comunque non è quello il punto.
Insomma, si accascia tutto, il viso fra le mani, le mani sotto gli occhiali, gli occhiali che si suicidano lanciandosi nel vuoto e schiantandosi contro la scrivania.
“Nyzaad...” geme disperato. Io giro attorno alla scrivania perché voglio un bacio e non intendo continuare a parlare prima di averlo ottenuto. Potrebbe succedere di tutto, nei prossimi venti minuti. Quando avrò cominciato a dirgli quello che devo dirgli, non avrò più il controllo su questa situazione, e lui potrebbe, giustamente, buttarmi fuori di qui a calci o farmi ammazzare, se riconoscerà che me lo merito e rappresento un pericolo troppo grosso – cose, queste, entrambe vere. Quindi, voglio un bacio. Lo pretendo. Se fosse l’ultima cosa bella che mi spetta prima di sparire sul fondo del canale come mio padre prima di me, avrò un bacio da quest’uomo del quale mi sono innamorata contro ogni ragionevolezza e istinto di conservazione.
“Baciami,” insisto, afferrando la poltrona dai braccioli e girandola nella mia direzione, “Altrimenti non ti dirò niente.”
“Potrebbe vederci qualcuno. Ti prego, ragiona.”
“Non c’è nessuno, qua dentro.” E poi è evidente che ho smesso di ragionare. Anzi, forse non l’ho proprio mai fatto. Cristo, uno si fa tanto grande, convinto di non essere più un bambino. Io sono ancora una bambina. Sono sempre stata una bambina. E come i bambini, non ragiono.
“Nyzaad, prima o poi dovremo parlare di quello che sta succedendo,” sospira lui, “Parlarne seriamente, dico. Lo sai che...” mi guarda e dentro quegli occhi ci leggo di tutto. Di tutto. Trasparenti come vetro, se mai gli occhi di qualcuno lo sono stati. “Lo sai che ti adoro, ma questa cosa non è normale.”
“Non hai idea di quanto più anormale possa ancora diventare,” dico io, la voce che mi trema, “E sta per succedere. Quindi, prima che io dia di matto e mi metta a urlare, baciami, e poi ti dirò tutto quello che vuoi. Anzi, ti dirò di più di quello che vuoi, ti dirò tanta di quella merda che mi implorerai di stare zitta, e allora--”
“Gesù Cristo, Nyzaad!” lui si alza in piedi e mi stringe le spalle fra le dita, scrollandomi un po’, “Okay! Va bene. Calmati. Vieni qui. Mamma mia… vieni qui,” e mi tira verso di sé, e tre secondi dopo sento le sue labbra sulle mie, e chiudo gli occhi e rispondo al bacio e per altri venti secondi, almeno, posso stare bene.
Poi finisce, però. Come tutte le cose belle, finisce.
Lui si allontana da me, mi sorride e mi chiede se adesso sto meglio, e io mi sento una merda perché fra tutti gli stronzi che avrebbero potuto meritarsi quello che io ho fatto a lui, lui non figura proprio nemmeno nella lista.
Il danno, però, ormai è fatto. I danni. I molteplici danni.
Inspiro. Espiro. Chiudo gli occhi, poi li riapro. Lo guardo fisso e lui mi guarda di rimando ed è evidente che, non sapendo lui niente di buona parte della merda che mi trascino alle spalle, non si aspetta niente di tutto quello che io sto per riversargli addosso. Scusami, Sido. Volevi una cantante, hai incontrato una valanga. Adesso ti tocca rimanerci sepolto sotto.
“Sono incinta,” gli dico. Lui si paralizza e so che una parte del suo cervello è appena esplosa. “E questa è la buona notizia.”
Resta in silenzio così a lungo che comincio a chiedermi se gli sia venuto un ictus. Forse dovrei chiamare un’ambulanza. Poi si riscuote, lo sento che molla la presa sulle mie spalle – fa male in modi incalcolabili – e poi si lascia ricadere sulla poltrona come svuotato. Mi fissa con l’aria di uno che stia contando gli anni che gli toccherà scontare in galera, domandandosi se per un caso come il suo possa essere prevista la condizionale.
“Cosa vuol dire che questa è la buona notizia?” esala. Non perdo tempo a rattristarmi perché non mi abbraccia e non mi chiede della gravidanza. So che non è il momento. Non mi aspettavo niente di meno, da lui. E poi, comunque, questa era ancora la parte facile. Ora inizia quella difficile.
“Ci vorrà un po’ per raccontarti tutto,” dico. Lui annuisce con aria un po’ persa, come se ancora non si rendesse pienamente conto, con ogni fibra del suo essere, del disastro che si sta componendo davanti a lui, ma allo stesso tempo una piccola parte della sua coscienza fosse già in moto per arginare i danni.
“Tu comincia a parlare,” dice.
Io mi seggo sulla sua scrivania, allora. E comincio a parlare.
*
Gli racconto tutto dall’inizio. Un riassunto che a voi risparmio, primo perché sono tutte cose che mi avete già sentito dire e secondo perché penso che nessuno fra di voi stia morendo dalla voglia di riascoltarmi nuovamente mentre descrivo quella scena pietosa dietro la scrivania di Nyze, con lui seduto sulla sua bella poltrona girevole e io in ginocchio sul pavimento. Lasciamo perdere. Vi dico solo che Sido è un uomo abbastanza forte, uno con le palle, nonostante le apparenze, e per quasi tutto quello che gli racconto fino a quel momento si limita a impallidire e deglutire, ma quando arrivo a quel momento lì lo vedo che piega la testa e si copre la faccia con tutte e due le mani e fa “Gesù, Nyzaad,” con un tono di voce talmente annichilito che da solo sarebbe stato in grado di darmi la misura della gravità della cosa, anche se non l’avessi saputa già da me.
Per quello che racconto da quel momento in poi, invece, potete stare a sentire anche voi, così forse almeno l’attacco di questa storia tornerà ad avere un senso.
Comincio col dire che dopo quella volta lì Nyze non mi ha più toccata. D’altronde, che cazzo gliene frega a uno come lui di una ragazzina come me? Non ho mai pensato che il suo interesse nei miei confronti, nonostante mi avesse gentilmente invitato a prenderglielo in bocca, potesse essere di tipo genuinamente sessuale. Non è stato per piacere che si è fatto fare un pompino, ma per esercitare il controllo, per mettermi in una posizione di svantaggio e, soprattutto, per mettermi alla prova, per capire fino a che punto fossi disposta ad andare. Una volta fatto quello, ha avuto su di me tutti gli elementi che potessero aiutarlo a capire cosa farsene della mia persona, e infatti, due giorni dopo avermi detto di levarmi dai piedi e che si sarebbe fatto sentire lui quando avrebbe avuto le idee più chiare, mi ha effettivamente chiamato per dirmi che aveva una missione per me. E io, naturalmente, sono andata, perché giunta a quel punto non avevo nient’altro, nessun’altra forza a parte l’inerzia. Che altro avrei dovuto fare se non lasciarmi cadere e sperare di aggiungerci almeno anche quella di gravità, in modo da fare per lo meno un bello schianto quando finalmente fossi precipitata a terra?
È qui che si fa più difficile raccontare a Sido quello che gli devo dire, anche perché è qui che comincia il suo coinvolgimento in tutta la dannata storia. Nyze mi accoglie negli uffici dell’Aggro Berlin come se fossero i propri, ostenta una sicurezza che non rientra nei suoi diritti perché lui, fra queste mura, è l’ultimo arrivato, e lo sa, ed è proprio per questo che si fa grosso e cattivo e sorridente, perché è la prima cosa che impari alla scuola del ghetto: quando ti senti fuori posto, quando sei fuori dal tuo elemento, la prima cosa da fare è fingere di starci perfettamente a proprio agio. Il ghetto è una creatura viva, respira e si muove, e attacca di notte, e ha artigli costantemente sguainati. Fiuta la tua paura. L’unico modo di sopravviverle è fingere di non averne.
Nyze finge bene. Mi fa accomodare, mi tratta da pari a pari perché tanto mi ha già umiliata nell’unico momento in cui contava, continuare adesso che cerca un’alleata, o per lo meno qualcuno che porti a termine il suo piano, non avrebbe alcun senso. Mi parla di ciò che vuole fare – abbattere Bushido, distruggerne la leggenda fino a quando di lui non sarà rimasto nemmeno un buon ricordo nell’immaginario collettivo – ed è abbastanza intelligente da non stare lì a ribadirmi i motivi per cui vuole farlo. Sa che a me dell’Ersguterjunge non frega un cazzo, sa che non mi tocca minimamente l’idea che si sia trasformata in un baraccone di checche troppo impegnate a volare da un letto all’altro come le api di fiore in fiore per produrre musica, sa che tutto quello che dà fastidio a lui di ciò in cui la sua etichetta si è trasformata non ha per me il benché minimo significato. Sa che c’è una sola cosa che ci lega, in questo momento, ed è l’affetto per un uomo che è morto magari meritandolo ma senza giustizia. E su quella batte. Pronuncia il nome di mio padre più spesso in venti minuti di quante volte l’abbia sentito pronunciare a mia madre in due anni. Ogni volta è una coltellata, perché da un lato mi rendo conto che lo sta usando, sta usando lui, il suo ricordo, per usare me, che sono l’ultima cosa rimasta di lui su questa terra, e dall’altro mi rendo conto che, anche se sono consapevole che mi stia usando, mi sta bene.
Mi sta bene. Perché non ho nient’altro.
Lo dico a Sido e lui si solleva dalla poltrona e mi stringe le spalle con forza. Mi guarda al di là delle lenti degli occhiali e mi dice “Nyzaad”. Solo questo, solo il mio nome. Io mi mordo un labbro e lo invito a sedersi di nuovo. Non ho ancora finito.
Torno da Nyze. Che mi spiega che il suo grande piano non può essere portato a termine a causa di un piccolo intoppo sulla strada. Così lo chiama. Parla di Fler. Mentre lo dico, Sido si tende e gli vedo passare negli occhi la consapevolezza di aver potuto evitare tutto questo, probabilmente, a un certo punto nel recente passato, semplicemente ascoltando la persona giusta. Hai perso quel treno, Sizzy. Lo abbiamo perso entrambi.
La mia voce è troppo debole, mi dice Nyze, e me lo dice da un lato con la falsa umiltà di chi finge modestia per ingraziarsi chi ha davanti, e dall’altro col sorriso spavaldo di chi sa che le cose stanno per cambiare. Ho provato a farmi sentire senza un’etichetta alle spalle, ma è impossibile. Ho bisogno dell’Aggro per trascinare tutti quei froci nella merda. A Sido piace l’idea di qualche diss in un ansage ma non è disposto alla guerra totale, no, la guerra totale ferirebbe Fler e Dio non voglia che blaue augen possa mai soffrire per mano di Paul Würdig.
Ma Fler non fa più parte dell’etichetta, gli dico io, Fler non è più un problema.
Nyze guarda fuori dalla finestra, schioccando la lingua. Negli occhi gli passa un lampo di disgusto assoluto, che oscura tutto il resto. Fler sarà sempre un problema, mi dice. Questa gente è sempre un problema. E se Fler è un problema allora lo è anche Sido. Nyze non vuole ammazzare nessuno, non intende sporcarsi le mani, quello che vuole fare lo vuole fare col rap, vuole riportare indietro il confronto, dice, su un territorio che abbia senso, almeno fino a quando… dice, e lascia sospesa la frase, e io lo so cosa intende dire e non dice, almeno fino a quando tornare in quella direzione avrà senso, se poi ci sarà da imbracciare anche le armi tanto peggio, ma un tentativo di cantarlo, il risentimento che prova, un tentativo di ruggirlo, di farsi sentire, lo vuole fare. E per farlo deve eliminare Sido dalla scena.
E io, mi dice, io sono proprio quello che aspettava per riuscirci, il tassello mancante, l’asso nella manica, tutta un’altra serie di metafore che elenca come se stesse svolgendo un esercizio di comprensione del testo per cercare di farmi sentire più importante di quanto in realtà non sia.
E io ci casco. Perché sono una bambina e perché dopo mio padre nessuno ha mai cercato di farmi sentire importante. E non m’importa, mi dico, che a cercare di farmi sentire importante sia un uomo cattivo. Anche mio padre era un uomo cattivo. Il suo amore mi serviva lo stesso, mi dava linfa, come il sole a un albero.
Dimmi cosa devo fare, gli dico.
E lui mi dice, seduci Sido.
Io lo guardo. Fuori brilla un sole da pubblicità. Berlino è già sveglia e rincorre il tempo che le manca per cercare di riempire la mattinata il più possibile prima della pausa forzata del pranzo, e io non riesco a fare altro che pensare, e difatti glielo dico, “ma io ho quattordici anni”.
Lui ghigna, stringendosi nelle spalle. Se sei brava, mi risponde, non sarà un problema. E a me si ferma il cuore in gola. Come a Sido adesso, mentre glielo racconto.
Tengo gli occhi bassi, aspetto che dica qualcosa come un fervente cristiano aspetterebbe il giudizio universale, con la certezza assoluta di essere condannato all’inferno. Lui non si muove. Seduto com’è, mi guarda, ed io lo so anche se non lo vedo, perché mi sento i suoi occhi addosso, due macigni che mi soffocano. Mi aspetto qualsiasi cosa. Che mi prenda a parolacce, che mi picchi, che mi butti fuori di qui a calci. “Continua,” dice invece. Io continuo.
Comincio a parlargli di lui. Del giorno che ci siamo incontrati. Del fatto che la prima volta che l’ho visto ho pensato distintamente che di lui non me ne fregasse niente, che in fondo se era questo quello che dovevo fare per distruggere Bushido potevo farlo, non sarebbe stato tanto peggio di un mucchio di altre cose che avevo già fatto nella mia vita fino a quel momento. Gli dico che mi ricordo ancora di come sorrideva quel giorno, di quella mezza risata divertita che gli era scappata di bocca quando Nyze gli aveva detto che pensava dovesse darmi una chance. “Ma è una bambina,” aveva detto, e Nyze aveva sorriso e annuito e gli aveva risposto “già, la bambina di Saad.” Gli dico che quando ho visto la sua espressione cambiare al solo sentire il nome di mio padre mi si è smosso qualcosa dentro. Era il primo a cui vedevo fregare qualcosa della mia storia, di quello che avevo passato, delle mie radici. Gli dico che mi ricordo il tocco della sua mano sulla spalla. L’esatta sfumatura di gravità con cui mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: “tuo padre ha fatto un mucchio di cazzate, ma non si meritava di sparire così”. Quanto avevo apprezzato che dicesse “sparire” invece di “morire”, come sentisse il bisogno di essere delicato con me.
Gli racconto cose che già sa, ma aggiungendo particolari che prima non conosceva. Dipingo per lui scene che ha già vissuto, ma da una prospettiva diversa. È come se stessi aggiungendo il senso della profondità ad un disegno a matita, i tratti si espandono nello spazio, le figure diventano tridimensionali. Le cose assumono contorni nuovi, più realistici, e io gli getto in faccia ogni cosa perché non conosco nessun altro modo di parlare.
E così gli spiego che tutte quelle volte che credeva di trovarmi in studio perché mi piaceva lavorare fino a tardi, ossessionata dall’idea di vendicare mio padre con la mia voce arrabbiata, in realtà gli stavo raccontando una favola, la favola che Nyze mi aveva cucito addosso. Che quando si voltava ed ero lì non era mai per caso. Che ogni volta che gli sorridevo stavo rispondendo agli ordini di qualcun altro.
Gli racconto anche cose che non può sapere, come ad esempio di quella volta in cui Nyze mi chiese di parlare un attimo in privato e, una volta che fummo rimasti soli, mi tirò un ceffone tale, in pieno volto, che dieci minuti dopo ancora mi sentivo fischiare le orecchie. Tutto perché secondo lui non ero abbastanza dolce con Sido, non ero abbastanza tenera, non stavo cercando di irretirlo con abbastanza intenzione. E poi, che cazzo sono queste felpe. Come ti aspetti che ti consideri una donna, se non scopri un po’ di pelle?
Lo guardo coprirsi il viso con entrambe le mani e so che dovrei fermarmi. So che gli sto facendo male. Ma è come avere spaccato a martellate una diga – ormai non posso più fermare il lago che si rovescia, trattenuto a stento dagli argini troppo stretti del fiume. Gli dico ti ricordi quella volta?, quella volta che mi hai trovata addormentata sulla consolle? Fingevo. E quando mi hai presa in braccio per portarmi sul divano, non sapendo dove altro mettermi per la notte, e io ti ho allacciato le braccia attorno al collo e ti ho baciato appena appena sulle labbra, per poi tornare ad appoggiarmi a te come non me ne fossi neanche accorta, come se stessi baciando un sogno? Fingevo anche quello.
Le serate passate a chiacchierare? L’abbandono, la fiducia con la quale sembravo consegnarti la mia storia, i miei ricordi, simulando una fragilità che non ho mai conosciuto davvero? Bugie. Cazzate. Balle così grosse che quasi mi ci perdevo dentro da sola. E quel pomeriggio che ho provato a baciarti, sulla terrazza all’ultimo piano dello studio? Con quel tramonto che incendiava il cielo in sottofondo, che si rifletteva con le sue fiamme aranciate iridescenti sugli schermi trasparenti delle tue lenti come alla volte l’arcobaleno si riflette sulle bolle di sapone? Ricordi come mi tremavano le mani? Ricordi la mia espressione affranta quando mi hai allontanato sorridendo appena e ricordandomi che ero solo una bambina? Stronzate pure quelle. Ogni dettaglio della piega delle mie labbra. Ogni traccia di lacrime che ti è sembrato di poter scorgere nei miei occhi. Tutto. Ogni parola. Ogni frammento, ogni minuscolo granello di me che ho provato a lasciarti addosso come polvere sui mobili. Tutto falso.
“Adesso stai zitta,” dice Sido tutto a un tratto. La sua voce suona ovattata attraverso le mani che tiene ancora premute sul volto. “Stai zitta solo per un attimo. Dammi tregua.”
È buffo – da quando ho cominciato a parlare ho desiderato soltanto che trovasse un modo per fermarmi, e lui lo fa proprio nell’istante in cui non voglio più.
Mi chino di fronte a lui, per terra, con le mani sulle sue ginocchia solo per aggrapparmi a qualcosa mentre cerco i suoi occhi. Lui reagisce male – si alza in piedi, si allontana a passi nervosi, va verso la finestra, “Cristo, no,” dice, neanche avessi cercato di prenderglielo in bocca.
Io mi alzo in piedi, gli vado dietro. “Non fermarmi adesso,” lo imploro, “Devo dirti la cosa più importante.”
“Peccato che a me venga già da vomitare,” risponde lui, tetro. Io inghiotto a fatica. Saliva, paura, amarezza. Non so neanche io cos’altro. Mi vedo già per strada, alla fine di questa conversazione. Sola come lo ero prima di tornare qui. Ma se questo deve succedere, voglio almeno che lui sappia tutto, tutta la verità.
Stringo le dita attorno alla sua maglietta, tirando appena. Lui si volta a guardarmi e nei suoi occhi c’è così tanto dolore, e rimpianto, e pentimento. Se gli occhi fossero oceani, starei annegando. Invece sono solo occhi, mi fanno solo venire voglia di piangere.
“Mi odi?” chiedo.
Lui emette un suono a metà fra un ringhio e un lamento. “Non lo so,” risponde, “No. Sono incazzato, Nyzaad, e disgustato.” Solleva una mano e mi sfiora una guancia con il pollice. Mi accorgo che sto piangendo davvero solo perché sento la traccia umida che il suo dito mi lascia sulla pelle quando spazza via una lacrima. “Dimmi che questa storia migliora, ti prego. Dimmi che non sto buttando al cesso la mia vita per niente.”
Mi mordo un labbro e riprendo a raccontare.
Ti ricordi, gli chiedo, della nostra prima volta?, e lui distoglie lo sguardo e i lineamenti del suo volto si tendono. Pallido com’è, non so come faccio a distinguere l’ulteriore strato di cenere che gli si posa addosso, rendendolo quasi cadaverico. È nauseato e si porta una mano alla bocca, il palmo premuto forte contro le labbra, un ultimo tentativo di arginare il vomito. Poi si calma, socchiude gli occhi, annuisce.
“Ti ho fatto ubriacare apposta,” gli dico, “Sapevo che altrimenti non l’avresti mai fatto.” Lui annuisce ancora. Sta pensando a sua moglie, adesso, a come l’ha tradita. A suo figlio, alla loro vita insieme, che inevitabilmente dopo oggi cambierà. E certo, è vero, se perderà tutto questo è anche colpa sua, ma principalmente è colpa mia. Sono io ad averlo spinto, ad essermelo tirato contro di prepotenza. Proprio lui, la persona che meno se lo sarebbe meritato in assoluto. “Però è successo qualcosa,” abbasso lo sguardo, perché paradossalmente, di tutte le cose che gli ho detto, alcune davvero orribili, questa è quella di cui mi vergogno di più. Forse perché è quella che mi espone di più. Ed essere esposta adesso mi fa paura. “Mentre lo facevamo. È successo qualcosa.”
Sido solleva gli occhi su di me. Me li sento addosso, pesano. Vorrei liberarmene e allo stesso tempo non faccio che pensare che se anche dovessi perdere tutto, tutto quel poco che mi resta, il solo pensiero di continuare ad avere i suoi occhi, questi occhi scemi da cane che non ce la può fare, questi occhi onesti, questi occhi trasparenti, questi occhi che in fondo ci leggi il suo cuore perché amplificano i suoi sentimenti fino a urlarteli in faccia, se anche non avessi altro oltre che questi occhi sarei contenta lo stesso.
“Cosa?” mi chiede lui.
Cosa. Vorrei potergli dire che sono diventata una persona migliore. Che la pressione delle sue mani sulla pelle, il fuoco che ho sentito divamparmi nel ventre quando mi è entrato dentro, il tepore diffuso al centro del petto che mi ha causato il suo tocco delicato e gli occhi attenti con cui mi ha osservato mentre piano, dolcemente, mi scopava come se fossi l’unica donna al mondo, siano, da soli, stati in grado di trasformarmi.
Invece, non è stato così. Al contrario, provare tutte queste sensazioni mi ha trasformato in una persona peggiore. Perché improvvisamente mi sono resa conto di volerlo, e che il mio desiderio avrebbe sempre contato, per me, più di qualsiasi senso di colpa avrei mai potuto provare nei confronti delle persone che quel desiderio avrebbe finito per distruggere. Come sua moglie, suo figlio, perfino lui stesso.
“Mi sono innamorata di te,” gli rispondo, che è la cosa più onesta che posso dirgli.
“Nyzaad,” risponde lui, “Vaffanculo.”
Mentre lui si alza in piedi e comincia a vagare nervosamente per la stanza, animato dalla stessa frustrazione degli animali in gabbia, io incasso il colpo, e pure la testa in mezzo alle spalle, come mi fossi schiantata all’improvviso contro il soffitto dopo un decollo da elicottero. E penso che me lo sono meritato, che avrei dovuto aspettarmelo. Ma fa male uguale, e se penso a quello che la vita mi ha tolto non posso fare a meno di pensare anche che qualcosa avrebbe dovuto lasciarmelo.
Io volevo lui. Solo lui. E sarò anche una brutta persona, e non mi meriterò niente, ma qualcosa di mio dovrà pure esserci, in questa cazzo di vita di merda. Speravo fosse lui.
Ma se la vita mi ha insegnato qualcosa è che fa cagare e non dev’esserci per forza un motivo, cioè, un sacco di persone soffrono, passano in mezzo a cose orribili, senza che davvero abbiano fatto niente per meritarselo, ma alle volte sì. Alle volte, come è successo a me, come è successo a mio padre, raccogli quello che semini. E quindi mi preparo. Agli insulti, possibilmente ai ceffoni, sicuramente ad essere buttata fuori da questa stanza a calci.
Mi preparo, stringo i denti, sono pronta.
E poi invece succede qualcosa – mi si ferma quasi il respiro quando sento il profumo di Sido farsi più vicino, e poi il calore della sua pelle contro la mia, e il solletico che il suo pizzetto mi fa strofinandomi contro una guancia. E devo rimettere a fuoco la realtà, e non è mica facile, prima di capire che mi sta abbracciando.
Mi sta abbracciando.
Fra tutte le cose dolorose che poteva farmi, ha scelto di fare l’unica che fa male solo perché il sollievo mi scoppia nel petto come una bomba, che se fossi appena un po’ più fragile mi esploderebbe la cassa toracica e starebbero ancora raccogliendo brandelli di me dai soffitti del cielo fra cent’anni.
Non riesco a impedirmi un singhiozzo e mi copro la bocca con una mano mentre sparisco fra le sue braccia. Strizzo forte gli occhi e piango, e tutta scossa dai singhiozzi come sono sento la sua voce come fosse una melodia in sottofondo, come immagino debbano sentire i neonati le ninne nanne che le mamme cantano loro quando stanno per addormentarsi.
“Adesso calmati, piccina,” mi sussurra, cullandomi piano, “Per favore, non ti disperare così. In qualche modo ne usciamo.”
“Vuoi lasciarmi?” gli chiedo, ed è un lamento che mi gocciola dalla gola in lacrime amare, non ce la faccio a trattenermi, anche se suono come una bambina. Come dicevo prima, io sono una bambina. È vero, ho visto, fatto e subito troppo per conservare la mia innocenza, ma resto una bambina. E sono stanca di fingermi adulta in un mondo che di certo non rende agli adulti le cose semplici. Se dev’essere difficile in entrambi i casi, lo affronterò restando almeno fedele a me stessa.
Sido ride piano, la sua risata vibra su e giù per la mia schiena mentre mi appoggio di spalle al suo petto e io penso che, nella mia vita, fino ad ora ho conosciuto solo adulti che mi hanno mentito, per intenzione come mio padre, per omissione come mia madre e per banale manipolazione come Nyze, ma quest’uomo è sincero. È un uomo buono, incredibilmente buono, ed è onesto, e se davvero, per miracolo, la vita intende lasciarmelo, prometto che farò tutto quanto in mio potere per meritarmelo da questo momento in poi.
“Sei una pazza,” mi sospira addosso. Mi stringe per le spalle e mi fa girare, io mi volto a guardarlo e lui mi solleva il mento con le dita. Baciami, penso, e lui mi bacia come rispondendo per un istinto atavico alla mia richiesta silenziosa. “Sei la cosa più assurda che mi sia mai capitata.”
Mi dispiace di essere stata anche la peggiore.
“Scusa,” biascico. Lui ride ancora e mi stringe forte.
“Non voglio lasciarti,” dice quindi, “Ti amo.”
Mi aggrappo a lui come se stessi per annegare. Un po’ mi sento come se stessi per annegare.
“Ti amo anch’io.”
Credo sia la prima volta in assoluto che pronuncio queste parole. Dirle, da sole, mi sfianca più di quanto non mi abbia sfiancato tutto il resto. Decido che ho detto abbastanza, per oggi, e quindi chiudo la bocca. Mi lascio andare, quando Sido mi bacia ancora, e quando mi appoggia alla scrivania seguo il più naturale degli istinti e schiudo le gambe.
Lui ride e scuote il capo, nascondendomi il viso contro una spalla. “Mi manderai in galera,” dice. Io penso che è probabile, ma non glielo dico. Sarà un problema che affronteremo quando e se si presenterà.
*
Quando ci allontaniamo l’uno dall’altra e lui mi poggia sulla testa la sua felpa in modo che possa indossarla sopra i miei vestiti tutti scombinati, commetto il grave errore di essere felice per un istante. Di pensare che forse il peggio è passato. In qualche modo, mi dico, ne verremo a capo. Se Sido ci crede, posso crederci anch’io. Troveremo una soluzione a questo problema, quale che debba essere – e non mi lascio il tempo di pensare alla peggiore, anche perché, a conti fatti, non lo so nemmeno se abortire sarebbe la soluzione peggiore –, e riusciremo ad andare avanti.
È il lusso di un secondo, me lo concedo perché sono stanca di vivere nel terrore dell’attimo successivo.
Ma poi l’attimo successivo arriva, ed io realizzo che sarebbe stato molto meglio che avessi continuato ad avere paura.
Sido si avvicina alla finestra con aria corrucciata. Chiaramente non sospetta niente, perché lo fa con l’aria rilassata di chi, pur osservando qualcosa di strano, non ritiene di doverlo considerare un pericolo. Recupera una sigaretta dalla tasca posteriore dei pantaloni ancora sbottonati, la porta alle labbra, la accende. La sua bocca, intorno al filtro, si muove appena per mormorare “ma che…?”
Indosso la sua felpa, che anche se sono abbastanza alta mi sta enorme, e lo raggiungo accanto alla finestra. Nella strada, di sotto, c’è un gruppo di persone che parla a voce abbastanza alta da produrre un brusio che passa anche attraverso i vetri doppi del palazzo.
Una delle persone solleva lo sguardo e ci vede. Ci indica puntando il dito, e subito dopo una piccola onda di teste si volta nella nostra direzione.
È allora che cominciano a scattare i flash.
“Merda!” ringhia Sido, afferrandomi per una spalla e spostandomi dalla finestra di peso. Io lascio che mi muova in giro come fossi una bambola perché ho il cuore che mi martella nelle orecchie e pure se fossi una testa di cazzo saprei cosa vogliono dire quei flash in successione. Chiudo gli occhi e li vedo che ancora mi rimbalzano dietro le palpebre, come succede col sole quando ne fissi troppo a lungo il riflesso sulla portiera di una macchina, o sulla canna di una pistola in controluce.
Paparazzi. Deve averli mandati Nyze.
Con le dita che tremano, mentre io respiro affannosamente cercando di difendermi da un attacco di panico incombente che mi ribalta lo stomaco come e più delle nausee che hanno già cominciato a costringermi a piegarmi sulla tazza del cesso ogni mattina, Sido si allunga a schiacciare il pulsante che abbassa le serrande automatiche, ma il danno è fatto. Ci hanno visti. Ci hanno fotografati. E che la situazione è ancora peggiore di quello che pensiamo lo scopriamo pochi istanti dopo, quando il telefono di Sido squilla e lui si allunga ad afferrarlo con ansia. Lo guardo deglutire mentre osserva lo schermo. Poi lo vedo accasciarsi sulla sedia girevole, abbandonando il telefono sulla scrivania e, quasi nello stesso istante, la testa fra le mani.
“Sono fottuto,” rantola.
Io mi avvicino. Prendo il telefono e leggo l’ultimo messaggio arrivato. È un link ad un articolo di rap.de che parla di noi. O meglio, parla di Sido, e di come sia stato beccato da un paparazzo a ficcare la lingua in gola alla ragazzina che da qualche tempo sta producendo per un nuovo Ansage dell’Aggro.
La figlia di Saad.
Io.
Il messaggio è di B-Tight, che ha commentato il tutto con un “Atze, che cazzo?” che non ha bisogno di giustificazioni.
Le tessere del puzzle si legano l’una all’altra senza difficoltà. Il mosaico si compone e l’immagine è chiara. L’immagine che accompagna quest’articolo viene dall’interno di questo edificio. Posso identificarne perfino il momento – doveva essere appena qualche giorno fa. Quello è il cortile interno. Sullo sfondo si vedono le finestre della reception. La foto l’ha scattata qualcuno che, di nascosto, era qui insieme a noi mentre ci baciavamo – e non può essere stato che Nyze.
Quelli là fuori sono lì perché quest’articolo ha già cominciato a girare. Quello che hanno visto basta a confermare qualsiasi sospetto. A breve, questo telefono comincerà a squillare, e nessuna delle telefonate che arriveranno sarà piacevole.
Per buona misura, lo spengo. Poi mi volto a guardare Sido con un movimento meccanico e, dopo aver deglutito così a fatica che mi sembra di aver mandato giù una montagna, mormoro “e adesso cosa facciamo?”.
Pensavo che la vita mi avesse preparata a tutto. Pensavo di aver visto abbastanza merda, nella mia esistenza, da poter affrontare qualsiasi tipo di situazione. Pensavo di essere una per cui non esistesse un problema senza una soluzione, una per cui non esistesse una soluzione che fosse impossibile trovare, ma in questo momento, anche se ci penso e ci ripenso, non mi viene in mente niente che possa risolvere questo gran casino in cui mi sono cacciata perché ho voluto fare l’adulta senza potermelo permettere, prima di restarci incastrata dentro come succede sempre a tutti i bambini.
Sido solleva la testa e mi guarda, e nei suoi occhi c’è il vuoto. Un abisso di niente tanto profondo che mi riesce difficile guardarlo – ho paura di caderci dentro.
“L’hai spento, quello?” mi chiede. Io annuisco. “Riaccendilo,” dice quindi, “Devo chiamare Fler.”
Provo a deglutire ancora, ma stavolta non mi riesce. Non c’è più niente da mandare giù. E poi, ho esaurito le forze.
Muovendomi per inerzia, riaccendo il cellulare e glielo passo. Comincia a squillare da subito, ma lui ignora le telefonate, i messaggi e le notifiche dei social. Digita un numero a memoria, affidandosi agli automatismi del suo corpo. Il corpo sa, diceva sempre mio padre, l’istinto di conservazione è il più basico degli istinti animali. Il corpo sa. Vuole proteggersi. Sa come farlo. Lascialo decidere.
Se la cosa abbia funzionato per lui, io non lo so. Credo di no. Ma non ho molto altro da fare, adesso. Il mio corpo sa di doversi fermare, e quindi, immobile, mi affido al corpo di Sido, che sa di dover chiamare Fler. Spero che il suo corpo, quello di Fler, sappia cosa cazzo fare per tirarci fuori da questo merdaio.
È solo una speranza, lo so. Ma, dal momento che non ho nient’altro, devo farmelo bastare.

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