Der König Persönlich

di tabata
Quando ripenso a Miami - al sole, alle spiagge, alle ragazze in bikini a qualsiasi ora del giorno e della notte - penso che sia bella com'è sempre bella una città da cartolina, che tu la guardi attraverso la carta patinata e vorresti essere lì, seduto su quel bagnasciuga a bere un cocktail, con il braccio intorno alle spalle di una figa da urlo con due tette da telefilm.
Quando però ti ci ritrovi dentro per un periodo più lungo di una settimana di ferie, ti rendi conto che è un posto come un altro, anche un po' più vuoto se vogliamo. Il mare, la sabbia, le donne, è tutto bellissimo ma anche incredibilmente finto e lontano da ciò che hai sempre conosciuto. O forse è stato così soltanto per me che avevo deciso di far diventare Miami la mia nuova casa e non ci sono riuscito.
Quando penso alle cause, non me ne viene che una in mente. Berlino. Berlino che mi ha cresciuto e che mi ha lasciato andare temporaneamente solo tenendosi il mio cuore in pegno. Berlino che mi rivoleva indietro già mesi fa e che non mi ha avuto solo perché avevo delle promesse da mantenere.
Miami mi ha accolto con estrema facilità e nascondersi è stato semplice. Alla fine, essermi sempre ostinato a non uscire dai miei confini nazionali quando avrei potuto farlo mi ha ripagato con l'anonimato più completo nel momento in cui più mi serviva. Ho sempre pensato che andare a raccontare di come si vive male nel ghetto di Berlino fuori da Berlino fosse una cazzata. Ne sono ancora più convinto adesso, dopo che negli ultimi 12 mesi sono stato tranquillamente Tarek Hassim, senza che nessuno - non un'anima - riconoscesse la mia faccia. A Berlino, però, non posso tornarci come Hassim. Lui appartiene a Miami. Così, mentre salgo sull'aereo che mi riporterà in Germania, scavo nella mia stessa tomba, trafugo il mio cadavere e mi riprendo il mio nome. Almeno per qualche giorno. Almeno finché non sistemo. Tocca a Tarek morire un po', adesso. E mi viene da ridere al pensiero che, pur cambiando vita, non faccio altro che avere per le mani gente che muore.
Come io sia finito ad abitare in una casa appena schizzata di giallo, fra due palmizi in riva all'Oceano Atlantico non lo sa nessuno a parte me e David Jost, al quale ho chiesto così tanto durante questa storia, che probabilmente dovrò ricoprirlo d'oro per ringraziarlo.
Le hostess dell'American Airline sono quanto di più delizioso mi sia capitato di vedere. Sono ben pettinate, quasi tutte bionde, sempre sorridenti e hanno un completo così aderente che sembra disegnato. Il viaggio è gradevole, senza dubbio. Una delle quattro, che ronza come un'ape nella prima classe, mi sorride e mi chiede se voglio qualcosa da bere. Si chiama Brittany - che, in assenza di neuroni, è il nome più comune qui negli Stati Uniti - e quando apre bocca ha una voce così squillante che un po' m'inquieta. Sorrido, comunque, e le dico che sono a posto così. E' graziosa, non avrà più di vent'anni. Come Bill, adesso.
"Qualcosa non va?" Brittany è premurosa e vedermi intristire di colpo, come mi capita sempre quando perdo il controllo dei miei pensieri, deve averla preoccupata.
Scuoto la testa. "No, è tutto a posto. Sono solo un po' stanco."
"Vuole che le porti un cuscino?"
Sorrido di nuovo. "Sarebbe fantastico."
Seduta accanto a me c’è una signora minuscola, con i capelli corti e candidi e gli occhi di un azzurro inquietante. Guarda fuori dal finestrino, stiamo prendendo quota. “Ha un accento strano,” mi dice. “Lei non è di Miami.”
“Non sarebbe bastata la faccia, per quello?” Chiedo, divertito.
Lei sorride. “Ci sono molti tunisini da queste parti.”
“Come fa a sapere che sono tunisino?”
“Mio marito lo era,” mi risponde. Poi mi tende la mano. “Sono Susan, comunque.”
Ha la pelle così fragile mentre le stringo la mano che ho quasi paura di romperla. “Anis, piacere.”
Il suo sorriso si fa più ampio e più caldo. “Il suo accento non è tunisino, però.”
“Vengo da Berlino.”
“Non ci sono mai stata. Questa sarà la mia prima visita.”
“Le piacerà,” annuisco convinto. “E’ la città più bella del mondo.”
“Ognuno lo dice della propria città,” commenta lei.
“Ma solo io ho ragione.”
Mi ripaga con una risata cristallina che mi mette di buon umore. “Sta tornando a casa, dunque?”
“Non proprio. Ho solo delle questioni da sistemare.”
Il mio cuscino arriva e cerco di sistemarmi sul sedile meglio che posso senza poter allungare le gambe. “Si tratterrà molto?” Susan è una di quelle anziane signore che ha bisogno di stordirti di parole per non rimanere sola con i propri pensieri. Si gira nervosamente una grossa fede intorno all’anulare e io penso che quel marito non ci sia più da un sacco di tempo.
“Solo qualche giorno,” rispondo. Nemmeno io voglio rimanere solo con i miei pensieri.
Susan beve coca cola dal suo bicchiere e riprende a guardare fuori. C’è un letto di nuvole come panna montata. “Di cosa si occupa a Miami?”
“Sono un meccanico.”
Si volta a guardarmi e lo fa con un’espressione talmente dubbiosa che mi viene quasi da ridere. D’altronde non dev’essere facile per lei credermi dal momento che indosso un maglione, una camicia e un paio di pantaloni che costano complessivamente come il biglietto per questo viaggio. E si vede. Un meccanico non si veste così. Eppure sono un meccanico, lo sono stato per quasi un anno e lo sarò ancora una volta che avrò sistemato la questione.
Quando sono arrivato a Miami la prima volta, un anno fa, avrei potuto benissimo sistemare la mia villetta sulla quinta strada, trovarmi un hobby e vivere di rendita. Ero arrivato lì con alle spalle due conti in Svizzera e l’Ersguterjunge ancora mia che mi portava soldi – beh, mi avrebbe portato i soldi se avessero lavorato – attraverso una serie di avvocati di cui David si occupava per me. Avrei potuto ma sono un uomo che si annoia molto facilmente e per quanto io possa passare ore a giocare al computer, non posso passarci una vita. Dovevo darmi qualcosa da fare per passare il tempo e, soprattutto, per dimenticarmi che ero morto e che avevo abbandonato per sempre la persona che amavo di più al mondo. Ricordo che la prima notte a Miami l’ho passata completamente ubriaco. Sono sceso dall’aereo, ho appoggiate le chiavi sul tavolo di una cucina che era la metà di quella che avevo a Berlino – non puoi avere una villa da mezzo miliardo di euro se vuoi passare inosservato – quindi sono uscito di nuovo, ho infilato l’entrata del primo club che ho trovato e mi sono messo a bere perché sapevo che altrimenti avrei ripreso l’aereo e sarei tornato indietro.
Quando decidi di fare una cosa così radicale come quella che ho fatto – fingere di morire, lasciarmi tutto alle spalle, non cambiare semplicemente aria ma tagliare tutti i ponti. In pratica, decidere di rimanere solo nel mondo di mia spontanea volontà – ti ritrovi a dubitare delle tue scelte molto in fretta. La mia prima notte a Miami è stata orribile. Mi sono chiesto che cosa cazzo stessi facendo, per quale motivo lo stessi facendo, e se fosse la cosa giusta. Questo nonostante ci avessi pensato sopra per mesi. Per questo ho capito all’istante che dovevo stordirmi e costringermi a passare la notte in quel posto per rendere il trasferimento reale e tangibile prima di cedere alla paura e scappare a casa. Era necessario che rendessi le cose definitive nella maniera più brutale possibile. Dovevo convincermi che era la cosa giusta da fare, oppure togliermi fisicamente la forza di muovermi da quella città. E ho scelto la seconda. La mattina dopo mi sono svegliato disteso sul pavimento del salotto della mia nuova casa con sei bottiglie della peggior birra che avessi mai assaggiato.
Quella cura forzata è durata molti giorni. La mattina mi svegliavo convinto di potercela fare. Ero rimasto un altro giorno, potevo rimanerci una settimana, un mese, un anno. Era perfetto. La sera mi prendeva la nostalgia, pensavo che fosse una cazzata, così prima di prendere un taxi e poi un aereo, mi imbottivo di birra. O di qualunque altra cosa potesse sortire lo stesso effetto. Questo prima che David mi trovasse al telefono completamente fuori dalla grazia di Dio e incapace perfino di stare in piedi. Lui non poteva vederlo, ma poteva ben sentire io che mi fracassavo un ginocchio contro la fottuta cucina americana nel tentativo di stare diritto. Prima mi ha aiutato ad ammazzarmi, poi mi ha aiutato a rifarmi una vita oltre l’Oceano, stando dall’altro capo di una cornetta. Quell’uomo merita l’oro che gli devo.
Il mio lavoro da meccanico è venuto subito dopo. Cercavano gente proprio in fondo alla strada, in uno di quei garage microscopici con il posto sufficiente per un paio di macchine e un capo meccanico così lurido di morchia che ti viene da chiederti se non si lavi dal giorno in cui ha iniziato, nel ’59. C’è sempre un individuo del genere in posti simili, spesso affiancato da un ragazzino di colore appena uscito – oppure ancora dentro – qualche banda e magari un altro paio di ragazzotti grossi come armadi che perlopiù grugniscono. Quando mi presento sul posto, il capo dell’officina, un tipo sbilenco di nome Conrad, mi squadra da capo a piedi e si fa affiancare da quattro portoricani che fingono di pulire i pezzi di una vecchia Dodge Charger RT del ’68 issata sulle nostre teste.
Partiamo subito male perché a me non piace lui e a lui, evidentemente, non piace la mia faccia da arabo che dopo le Torri Gemelle equivale a dire che sto per fargli saltare l’officina per il solo fatto che siamo in America. Gli espongo la mia situazione e lui mi dice che non cercano personale anche se il cartello fuori sul muro dice esattamente il contrario. Io ne ho conosciuti di pezzi di merda, lui non conosce me.
Non discuto, perché sarebbe inutile. Il signor Conrad, qui, ha accettato i portoricani solo perché dal 2001 sono improvvisamente diventati meno pericolosi degli arabi, e anche perché le bande di portoricani possono farti il culo se non fai come dicono loro.
Entro nell’officina nonostante i quattro armadi e nonostante il vecchio mi sbraiti dietro e mi chieda se io, arabo del cazzo, non ci sento da un orecchio. Sono due settimane che lavorano sulla Dodge e ogni volta che la tirano fuori e provano a far andare il motore quello non parte. Recupero una chiave inglese e me la faccio saltare in mano mentre faccio scendere l’auto come fossi a casa mia. Io non mi intendo di auto americane, ma il tipo per cui spacciavo la droga a sedici anni aveva una macchina come questa e il motore si ingolfava sempre allo stesso modo. Mi basta metterci le mani un secondo, ho imparato da lui. E’ una questione di sensibilità, Anis, diceva sempre. E’ come con le donne. Tutti sanno dove mettere l’uccello, il problema è come.
Uno dei cani di Conrad si avvicina con una faccia poco simpatica, io mi allontano con entrambe le mani sollevate. “Ora è a posto, amico,” dico.
“Che cazzo dici?” Fa lui.
“Prova.”
Mette in moto l’auto, quella parte. Io sono il loro nuovo meccanico.
E questa è l’America.

*


Susan è un’anziana signora molto simpatica.
Suo marito è morto l’anno scorso e siccome era a Berlino che dovevano andare per le loro nozze d’argento, adesso lei ci sta andando da sola. A brindare vestita a festa in Alexanderplatz, mi ha detto.
“Pensi che sia una vecchia pazza, non è vero?”
“No, assolutamente,” le sorrido. Siamo passati al tu durante le ultime due ore. “La trovo una cosa molto romantica. Devi averlo amato molto.”
“E’ stato l’uomo della mia vita,” conferma lei. “Fidanzati al liceo, sposati all’università. Tre figli, tanti nipoti. Una coppia da manuale, insomma,” sorride un po’. “Tu invece, nessuna principessa che aspetta il tuo ritorno?”
Non credo potesse scegliere parole più inadeguate. E l’onda di tristezza e di nostalgia che mi prende alla gola per un attimo mi impedisce di fare qualunque cosa. A Berlino una principessa c’è, ma il mio ritorno non lo aspetta più e, ironico a dirsi, questa è la prima volta in un anno che io sono davvero in cielo dove Bill mi pensa, credo.
“C’era, sì,” rispondo e guardo le nuvole. Abbiamo guardato molto le nuvole io e Susan, e comincio a credere che ci vediamo dentro le stesse cose.
“E’ un brutto argomento. Scusa.”
“No, no!” Scuoto la testa. Bill non è mai un brutto argomento. Bill è l’argomento che preferisco anche se adesso non è più come prima e quando ne parlo fa male e mi si crepa il cuore. A furia di crepe suppongo che andrà in frantumi come i laghi ghiacciati d'inverno che bisogna stare attenti a pattinarci sopra. Ma non importa. Ho sempre pensato che se il mio cuore doveva rompersi lo avrebbe fatto così, sotto i graffi di Bill. “E’ tutto okay,” ribadisco a Susan. “Va bene se ne parliamo.”
“Che tipo è?”
“La mia principessa è bellissima,” dico. “Ha i capelli neri, lunghi e lisci, due occhi meravigliosi e un culo da ragazzina.”
Rido e ride anche Susan. “Non c’è male come descrizione,” beve di nuovo. Si è fatta portare del tè stavolta e i suoi orecchini a cerchio tintinnano quando porta il bicchiere alle labbra.
“A parte gli scherzi,” lentamente smetto di ridere. “E’ un tipo forte e deciso, con un gran bel caratterino. Ci scontravamo spesso, ma eravamo fantastici insieme.”
“Perché è finita?”
Per quei due o tre secondi me lo chiedo anche io.
La mia testa fa sempre fatica a razionalizzare la paura che mi ha spinto ad allontanarmi. Non c’è nessun motivo, Susan. Io amavo Bill, Bill amava me. Eravamo perfetti. Ma nel posto sbagliato. Al momento sbagliato. Forse ero sbagliato io e quello che avevo fatto prima che lui mi conoscesse. Non potevo rischiare che me lo portassero via con un fottuto colpo di pistola. Così l’ho lasciato prima io. “Non ero quello giusto,” rispondo.
“A volte le donne hanno solo paura,” dice lei, dolce.
A volte anche gli uomini.

*


L’aereo arriva a Berlino con dieci minuti di ritardo. Io e Susan abbiamo parlato di molte cose, ho saputo che ha fatto la pittrice per molti anni e che alloggerà in un albergo non lontano dalla casa gialla dove ovviamente io non posso mettere piede neanche per sbaglio. E’ diventata oggetto di pellegrinaggio da parte dei fan, nemmeno fosse Graceland e io fossi Elvis Preasley. David non mi permetterà nemmeno di avvicinarmi.
“C’è qualcuno che ti aspetta, qui in aeroporto, Anis?” Mi chiede, mentre l’aiuto a recuperare l’enorme valigia dal tapis roulant.
Ho indossato gli occhiali da sole che mi coprono gran parte del viso. Il resto dovrebbero dissimularlo i capelli che adesso sono lunghi fino alle spalle e hanno il mosso naturale che avrebbero sempre avuto se li avessi lasciati crescere. Mi stanno da Dio e di certo non mi si riconosce a colpo d’occhio. “Sì, un amico,” rispondo, mentre recupero anche la mia valigia che è palesemente troppo grossa per qualche giorno soltanto. E David mi chiederà.
“Allora ti lascio in buone mani,” il suo sorriso è sempre splendido. Scommetto che era bellissima trent’anni fa, quando ballava il walzer col suo tunisino.
Le prendo la mano e le sfioro la pelle di carta velina con le labbra. “E’ stato un piacere conoscerti Susan,” le dico. “Buon anniversario.”
“Grazie,” arrossisce un po’. “Spero che tu e la tua principessa ci ripensiate.”
La vedo allontanarsi con il suo bagaglio e provo ad immaginarla, vestita di lustrini, che gira su stessa in Alexanderplatz con un bicchiere di champagne in mano. Immagino anche la mia principessa e mi chiedo cosa stia facendo, dove sia e con chi.
E mi viene voglia di vederlo.
Mi viene voglia di restare quando non posso.

*


David mi è sempre piaciuto, come persona intendo. Per quanto sembrasse poco adeguato fisicamente e caratterialmente al suo ruolo - un manager è rampante, intransigente e spesso così pratico da distruggerti l'esistenza solo per non farti prendere un aereo in più e pagare di meno - lui non si è mai fatto mettere i piedi in testa da quelle quattro scimmie che rappresentava.
Se l'è trovate, ha deciso che per qualche motivo valevano la pena, ha dato loro un senso e le ha cresciute come farebbe un padre, ma soprattutto come farebbe un manager. Se Bill è arrivato dov'è arrivato nonostante tutto, perché io lo amo - ben inteso - e trovo che abbia una bellissima voce, ma con i testi , che Dio ci scampi, è una piaga sociale, se è arrivato dov'è arrivato, dunque, lo deve a David.
Quando io l'ho conosciuto, David era molto diffidente nei miei confronti, anche se non era così palese nel darlo a vedere, ed aveva le sue ragioni.
Bill era una cosa preziosa, e lui doveva proteggerlo, aveva delle responsabilità nei suoi confronti, insomma, che fossero affettive o di tipo lavorativo non importava.
Io che arrivavo, con i miei ventinove anni, le mie denunce per rissa, le notti in galera e tutto quanto il resto, non devo avergli fatto una bella impressione. Escluso che per Bill si aspettasse una donna - tranne Bill stesso, per un certo confuso periodo di tempo, nessuno si è mai aspettato una donna per lui - immagino avesse sperato in un qualche ragazzino della stessa età di Bill, che lo aiutasse a montare su un coming out tenero che la gente non potesse prendere a male parole. I due ragazzini, che carini, insomma si vogliono bene, non li si può giudicare etc...
Io che in diretta televisiva chiedo a Bill un pompino non sono stato nè tenero, nè ragazzino, e mi si poteva pure giudicare, ecco. A David, arrivando, io ho scombinato i piani. E di certo non glieli ho rimessi in ordine andandomene. Nella vita di quest'uomo, come in quella di Bill, sono passato come un tornado, in entrata e in uscita, eppure a fanculo non mi ci ha mai mandato. E Dio solo sa perché.
Probabilmente la motivazione ha qualcosa a che vedere con lui che vola fino a Miami e finisce nel mio letto, senza né se né ma, e anche col feticismo che ha per le mie camice sotto i maglioncini - due cose che sto indossando per farmi dire da lui che, toh, le sto indossando - ma queste cose è meglio lasciarle lì dove sono, relegate a quell'unica notte, che c'era un caldo d'inferno, e a quell'unica volta, che ho avuto lui per non impazzire e lui è impazzito, perché voleva me.
Lo vedo che mi aspetta, appoggiato ad un'auto che vorrebbe essere anonima ma che, così nera e così lucida, è la cosa più visibile nel raggio di due chilometri. Lui è lì, contro la portiera con un paio di occhiali da sole che potrebbe tranquillamente aver rubato a Bill; a volte penso che se lo sia preparato a sua immagine e somiglianza, nel corso del tempo. Tiro fuori uno dei miei sorrisi d'ordinanza, quelli che lo stendono sul posto nemmeno gli avessi infilato la lingua in bocca. La totale paresi di David di fronte alla mia persona che fa cose per lui è lusinghiera, ed è ridicola.
Si toglie gli occhiali e li fissa tra le ciocche castano scure, per darsi un tono. E ora so che cercherà qualcosa da dire e, non trovandola, ripiegherà sull'analisi del mio vestiario. "Ma lo fai apposta a mettere sempre questi maglioncini qua, quando devi incontrarmi?"
Eccolo lì. Rido ad alta voce, parcheggiando il trolley rosso che mi tiro dietro e che è enorme, è meglio che dissimuli con un'altra occhiata delle mie prima che faccia domande.
"Ti sono mancato, Jost?"
"Meno ti vedo, più felice sono. Questo mi sembrava fosse chiaro," confessa lui e non mente neanche, credo. Oggettivamente, finché sono rimasto a Miami, la sua vita dev'essere stata piuttosto tranquilla. Ad ogni modo, mi sento in dovere di fingere disperazione per tanta schiettezza. Mi tolgo anche io gli occhiali da sole e gli somministro il mio sguardo da cucciolo, con l'occhio un po' languido da bastardino sull'autostrada. Il mio maestro è un artista, in questo senso, non so quanti vestiti si è fatto comprare con quest'occhio qui. "Ma mi hai fatto tornare tu!" Mi lamento e lui sospira. Questo, comunque, non è proprio vero. Quando lui mi ha detto che forse era il caso che tornassi, io già stavo facendo le valige. Lo sapevo da me, di dover tornare.
"Sì," ammette, "Ti ho chiamato io. L’ho fatto per un motivo serio, comunque, e lo sai perfettamente. E invece, come al solito, stai facendo il deficiente."
"Sdrammatizzo, Jost." Io sto facendo il deficiente proprio perché il motivo è serio, altrimenti farlo sarebbe assolutamente fuori luogo. Ho sempre pensato che quando la situazione è problematica sia meglio riderci su, che tanto andare nel panico non aiuta. Certo ci sono dei limiti ma in linea di massima è un buon modo di procedere. E quella in oggetto è una situazione che va oltre il problematico. La quasi totalità dei miei introiti, al momento, proviene dall'Esguterjunge che, dopo la mia morte, è passata automaticamente agli avvocati e , attraverso di essi, a dei prestanome che, per vie traverse, fanno capo a David Jost. E quindi a me.
L'idea era quella di continuare a produrre ma i miei ragazzi non sono stati dello stesso parere. In effetti, la situazione aveva iniziato a degenerare con la mia morte. So per certo che Saad stava cercando di rimettere in moto le cose, magari sedendosi sulla mia sedia, già che c'era ma Chakuza non è stato d'accordo. Quei due, del resto, non si sono mai potuti davvero vedere e, ad essere sincero, non ho mai capito perché. Era un'irritazione a pelle, la loro, ma sono stati tanto bravi da tenersela dentro finché ci sono stato io, in modo da non costringermi a buttarne fuori uno - non avrei saputo quale scegliere tra mio cugino e il mio braccio destro. Una volta morto Saad pensavo che le conseguenze sarebbero state inevitabili, e non mi dispiacevano neanche, devo dire. Con la Beatlefield come referenza, Chakuza si sarebbe fatto avanti e avrebbe preso il comando dell'EGJ, conoscendolo avrebbe fatto casino per sapere chi diavolo ci fosse dietro, ma a tranquillizzarlo ci avrebbe pensato David. Insomma, uno scenario del genere sarebbe stato perfetto. Chakuza è uno che ci sa fare, non me l'avrebbe mica portata alla rovina, ero tranquillo.
E invece Chakuza doveva tenere alla mia persona più di quanto ci tenessi io perché dopo la mia morte, ha montato su un casino per chiudere l'etichetta, sostenendo che non avesse senso tenerla aperta quando mancava il rapper che la rappresentava.
Ora, mettere davvero mano alle carte e chiudere baracca non poteva, ma convincere gli altri a partecipare alla crociata sì. Quindi al momento l'EGJ è ferma, e nessuno ci lavora per rispetto. In pratica, se non avessi un conto in banca già di per sé molto sostanzioso, sarei a Miami a fare la fame perché loro mi amano troppo per sostituirmi.
Mi viene da ridere ogni volta che ci penso, è per questo che tra essere incazzato o lusingato, alla fine, scelgo la seconda. Comunque, in dodici mesi, l'EGJ non ha prodotto un disco che fosse uno, e siamo praticamente campati sulle mie ristampe post-mortem. Quindi direi che, per quanto buone fossero le intenzioni del Chaku, è anche un po' l'ora di finirla.
David, comunque, sta aprendo il portabagagli e io ci carico dentro la mia valigia. "Allora," inizio. "Cos’è cambiato, mentre ero via? A parte il fatto che la gente non ascolta più buona musica perché il Chaky mi chiude l’azienda, ovviamente. "
La butto lì così, come se fosse una cosa da niente, ma non è così, e lui lo sa.
E' la prima volta, da quando me ne sono andato, che faccio questa domanda. Nonostante l'enorme mole di telefonate transoceaniche che ci siamo fatti, io mi sono sempre impedito di chiedere che cosa succedesse in Germania. Non che non abbia seguito le notizie via internet, naturalmente, ma c'è differenza tra cercare informazioni sulle uscite pubbliche di Bill e sentire dalla voce di David che, sul tourbus, vuole ancora i cereali al cioccolato per colazione. Ora è diverso, però, sono qui.
"Be’, fa più freddo," mi dice lui. E nella sua voce leggo ancora la solita vena di protezione che ha nei miei confronti. "Sicuro di aver portato abbastanza roba pesante?"
Scrollo le spalle, scivolando sui sedili comodi dell'auto. "Non ho lasciato niente lì," rispondo senza pensarci troppo. Quando si siede al posto del guidatore ha un viso così palesemente sconvolto che è meglio che non gli dica che sono serio, stavolta. Cerco di regolare il tiro. "… tranne i soprammobili, ovviamente. E qualche vestito che-"
" Bushido… " mi chiama severo. Riesce a non essere per niente divertente quando ti guarda come mi sta guardando adesso. "Ne abbiamo già discusso, di questa cosa, e-"
"Tranquillo, Jost," lo interrompo con uno sbuffo infastidito. Non voglio sentirglielo ripetere di nuovo. "Non ho intenzione di restare più del necessario."
Questa discussione l'abbiamo fatta troppe volte perché io possa ricordare esattamente il numero. E' il nostro tormentone, la regola numero uno: non tornerai sui tuoi passi. Quando da un letto d'ospedale gli ho detto che volevo fingermi morto, David mi ha guardato a lungo con quegli occhi azzurrissimi e prima di qualsiasi altra questione, prima ancora di capire come avremmo fatto e soprattutto perché lo volessi fare, mi ha detto una cosa soltanto: se lo fai, non torni indietro. Né fra un mese, né fra un anno, mai. Se ti faccio uscire da questo paese come un cadavere, non ci rientrerai mai più.
Non contento me lo ha ridetto mentre mi accompagnava all'aeroporto all'andata, e mentre ero a Miami ogni volta che anche solo mi sfiorava l'idea di un ritorno - sembrava mi leggesse nel pensiero, non so come facesse! - Il suo più grande terrore era che tornassi, ed ha finito per chiamarmi lui, posso immaginare cosa gli passi per quella testa. Lo vedo da quanto è teso, da come stringe il volante di prepotenza fingendo di essere tranquillo, che vorrebbe avere una soluzione per tutto quanto che non comprendesse me qui.
Vorrei potergli giurare che non ho nessuna intenzione di restare più di quanto sia strettamente necessario.
"Sarà," borbotta mentre mette in moto. L'auto fa le fusa e quasi mi struggo sul suono del motore. E' evidente che la mia nuova vita si sta prendendo un po' troppo spazio. Devo rimettere mano su un paio di beat, tanto per riequilibrare la bilancia. "Comunque sia-"
"Non mi farò vedere da anima viva," lo interrompo mentre m'infilo la cintura e guardo le strade di Berlino. Le ricordo così bene che noto qualsiasi particolare nuovo, anche quelli minuscoli, compresi i negozi sostituiti da altri negozi, o quei lavori lì, che quando sono partito non c'erano. "Briegmann a parte, naturalmente, altrimenti come faccio a riprendermi l’EGJ?"
"Sì… quello lo do per scontato, Bushido. Comunque sia, stavo dicendo, " sbuffa e guarda fuori dal finestrino, per non guardare me, immagino. Questo tipo di imbarazzo un po' adolescenziale lo ha sempre provato con me, il che è buffo visto che ho ben sette anni meno di lui. Dovrei sentirmici io, in imbarazzo, di fronte ad un uomo che palesemente mi vuole. Del resto, io non mi sono mai davvero sentito in imbarazzo con nessuno. Recupero il cellulare e digito sulla tastiera, a caso, non ho nessuno a cui spedire messaggi. Lo faccio solo per vederlo agitarsi. Non lo chiamo Bill, David, tranquillo. Il suo numero ho dovuto cancellarlo dalla rubrica appena messo piede a Miami, perché la prima cosa a cui pensavo, quando stavo male, era sentire la sua voce. Il numero lo so a memoria ma quando sei ubriaco perso è più facile non usarlo quando non ce l'hai registrato in automatico da qualche parte.
" …Bentornato, ecco."
Rido senza sollevare gli occhi dallo schermo del cellulare. Evito tutti i vecchi messaggi, leggo solo - e fingendo anche grande interesse - le promozioni del mio gestore telefonico al quale non ho mai richiesto tale servizio. Lui mi dà due pacche sulla spalla, veloci e molto impacciate.
"Anche io sono contento di rivederti, Jost. Mi sei mancato anche tu."

*


Il viaggio prosegue in silenzio per un po’, il che è strano perché io e lui siamo abituati a parlare. Non ci vedevamo, ci sentivamo al telefono, parlare era necessario. Per molti mesi David è stata la mia unica fonte di distrazione: a Miami ero solo. Lui, dall’altra parte dell’Oceano, era la persona più vicina che avessi intorno. Così adesso, mentre ci allontaniamo dall’aeroporto, è un po’ strano stare in silenzio. E’ un’assenza di dialogo che mi pesa addosso tantissimo perché è come se mi stesse dicendo che non sa cosa dirmi ora che sono qui. Non dovrei esserci, lo so.
Per un po’ mi distraggo col cellulare. Ogni tanto David mi lancia delle occhiate e, quando sono stufo di premere tasti a casaccio e infilo il telefono nella tasca dei jeans, lo vedo che segue con gli occhi i miei movimenti. Sono stanco, il viaggio è stato un po’ sfiancante, nonostante i sedili in pelle e le belle hostess in divisa. Sollevo le braccia e le stendo all’indietro, appoggiando i palmi delle mani contro il tettuccio sopra i sedili di dietro.
“Allora,” alla fine è lui a rompere il silenzio mentre accende l’autoradio e mette su un cd anonimo, senza nemmeno una scritta. La musica che sto ascoltando non la consoco. Di artisti tedeschi, in America, ne arrivano pochi. “In quale casa devo portarti?”
Oltre alla Villa Gialla, alla quale tenevo ma alla quale ho dovuto rinunciare, perché non c’era modo di tenerla, quella, senza far capire qualcosa agli altri, ho alcuni appartamenti di cui nessuno sa nulla. Li ho comprati più di un anno fa, quando il piano era totalmente diverso. Alcuni sono fuori città, ma la maggioranza è a Berlino ed è ad uno di essi che voglio mi porti. Il fatto che sia a due isolati soltanto dalla casa di Eko Fresh è un dettaglio che spero David non si ricordi.
Jost, però, ha buona memoria. “Proprio quello, ne sei sicuro?” Mi chiede, infatti, con un sopracciglio sollevato.
“Ti risulta che quando decido qualcosa, io non lo sia?”
Lui potrebbe arrabbiarsi, una persona normale lo farebbe, voglio dire, sono indisponente. Lui però sospira e basta, pronto a farmi ragionare più che smontarmi pezzo per pezzo come invece dovrebbe e avrebbe ragione di fare. “E’ questo quello che mi preoccupa,” dice. “Perché invece non ti stabilisci fuori città, sarebbe tutto più semplice.”
“Perché ho delle cose da fare,” rispondo. “E non posso fare il pendolare avanti e indietro come se niente fosse. Sono morto.”
David svolta a destra, non c’è quasi per niente traffico. “Tu non hai proprio niente da fare. Mi occuperò io di farti la spesa e di qualsiasi altra cosa. Devi solo entrare in quella casa e rimanerci. L’unico viaggio che farai, e ti ci porterò io, sarà quello per andare alla Universal.”
Lui ha ragione, io lo so. E soprattutto lo sa lui. E quando qualcuno sa di aver ragione è un po’ più difficile convincerlo del contrario. Così lo guardo, finché il mio sguardo non gli pesa addosso e lui è costretto a girarsi. “Ho delle cose da fare,” ripeto.
David si sgonfia. Non è che non abbia le palle per dirmi che non posso fare il cazzo che voglio, è solo che a me delle sue palle – metaforicamente parlando – non me ne frega niente. Quindi sarebbe inutile tentare di convincermi a non fare quello che ho già deciso di fare. Può solo scegliere di strapparmi due o tre promesse che poi sa manterrò, perché quelle le mantengo sempre. Quando posso.
“E va bene,” dice infatti. “Ma se solo ti azzardi a fare qualche cazzata enorme delle tue, tipo morire di nuovo o farti vedere da qualcuno, ti impicco. Sappilo.”
Rido e penso che il suo metro per definire le cazzate è di certo diverso dal mio. “Non farò troppi danni, Jost, davvero.”
“Troppi?” Strilla lui. “Tu non devi farne nessuno, Anis. Nessuno, mi hai capito? Hai una vaga idea di cosa ho dovuto fare per tenere in piedi questa recita?”
Ne ho una vaga idea, sì. Ha mentito a chiunque e lo ha fatto da solo. Mentre io vomitavo nel cesso del mio nuovo bagno in Florida, lui si occupava del mio funerale, della mia etichetta, del mio ragazzo e in generale, metteva un punto alla mia vita per poi darmene un’altra nuova di zecca. E lo ha fatto per amicizia, per amore, per dio solo sa cosa. Qulunque cosa sia, comunque, dovrei fare meno lo stronzo, me ne rendo conto. “Sì, lo so, ora calmati però,” sorrido di nuovo. “O ti salirà la pressione. Te l’ho detto, ho solo delle questioni da sistemare.”
“Perché io non ne so niente?”
“Perché non sono affari tuoi,” rispondo, fingendomi oltraggiato. “Che domande. Il fatto è che me ne sono andato un po’ di corsa da qui, e sono cose che non potevo chiederti di fare.”
“Quali cose?” Insiste lui.
Sospiro. “Cose, e stai attento, è rosso,” indico il semaforo.
Lui si ferma appena un po’ sulle strisce, ma la pausa gli serve solo per girarsi verso di me e cercare di cavarmi di bocca le cose. “Vuoi almeno dirmi se è il caso di chiuderti in casa a doppia mandata?”
Rimango in silenzio, non glielo dico, tanto lo sa. E da quando ho messo piede a Berlino, anzi no, è da quando ho messo piede fuori da casa, a Miami, che l’ho decisa questa cosa. Se devo passare qui qualche giorno, non voglio farlo chiuso in casa. Voglio rivedere ogni cosa, da lontano magari. E’ che ho sognato di tornare così tante volte che, adesso che ci sono, non posso semplicemente passare di qui, come un fantasma, e poi tornarmene di nuovo via.
“Anis non costringermi davvero a chiuderti in casa,” dice lui e lo fa col panico negli occhi. E’ un po’ come quando stai riparando il rubinetto del lavandino che perde acqua e sai che a girare troppo la chiave inglese potresti riparlarlo ma anche rischiare di romperlo del tutto. Lui ha un po’ paura di aver fatto il danno, ora che sono qui, non sa come fermarla l’acqua che scende. “Devi muoverti con coscienza.”
“Come ho sempre fatto, Jost.”
David alza gli occhi al cieo. “Oh, certo, come se tu e la coscienza non foste due strade parallele che non si incontrano mai,” esclama e ha il tono dell’auto-commiserazione. Quello che usa quando parte a lamentarsi di tutte le disgrazie della sua vita. Lo stesso che aveva la prima volta che ho viaggiato con loro sul bus, durante un piccolo tour dei Tokio Hotel, e ovviamente la mia presenza ha generato l’impossibile. Ricordo che mentre Tom mi gridava che era tutta colpa mia se suo fratello non rendeva sul palco, perché era stanco e ovviamente a stancarlo ero io – e non l’ho mai toccato Bill, prima di un concerto, perché suono anche io e lo so cosa vuol dire -, David ha cominciato a vaneggiare per conto suo, chiedendosi perché si fosse lasciato convincere a tenermi lì. Un po’ come sta facendo adesso. “Chi me lo fa fare di fidarmi, dico io? Chi me l'ha fatto fare di ficcarmi in questo danno! Bill mi ucciderà.”
E’ la prima volta che lo nomina da quando siamo saliti in macchina e la domanda mi esce di bocca prima ancora che abbia pensato di farla. “Hai intenzione di incontrarlo in questi giorni?” Mentre io sono qui, per la precisione.
“Come sempre,” mi dice lui. “Ti ricordo che ci lavoro, con lui. Canta ancora, sai?”
“Lo so, vi ho seguiti,” lo liquido. “Ad ogni modo, se gli hai mentito fin’ora, non avrai problemi a farlo anche in questo caso.”
David non sta affatto prendendo la strada per uscire dalla città, il che significa che mi sta portando esattamente dove voglio, questo anche se è impegnato a ripetermi che non posso fare come dico io. Quest’uomo mi vuole bene. “Non mi preoccupa la mia capacità di mentire, sono un manager, mi pagano per raccontare balle. Mi preoccupa che tu non sia capace di stargli lontano, però.”
E come dargli torto. Lui lo sa che se anche solo Bill è nei paraggi ho bisogno di metterci le mani sopra. Se non le mani, perlomeno gli occhi. “Forse vorrò vederlo, ma non gli parlerò.” Non gli mento, tanto sarebbe inutile, e poi non l’ho mai fatto e non ho perso l’abitudine sul suolo americano.
“Non se ne parla neanche,” David si agita. Mi aspetto che da un momento all’altro faccia inversione, mi riporti all’aeroporto e mi rispedisca a Miami a calci nel culo. Forse dovrebbe. “Devi stargli lontano. Andiamo, Bushido, ti ho stordito per settimane con questa storia. E’ pericoloso, non puoi vederlo!”
“E’ lui quello che non deve vedermi,” dico. “E non mi vedrà.”
“Certo, perché tu sei Batman!” Sbraita lui, e mi fa ridere. “No, non c’è niente da ridere. Non sei mai stato capace di non fare casino tu. Tu passi e travolgi, di muoverti con cautela non se ne parla neanche con te.”
Sospiro. “Senti ti ho promesso che non gli parlerò e non interferirò con.... la sua vita. Solo che voglio vederlo. Voglio vedere se sta bene.” E com’è, cosa fa e con chi. Che ne è della sua vita senza di me, perché la mia senza di lui fa schifo. “Ne ho bisogno.”
David non risponde subito, anche se la risposta ce l’ha già scritta addosso molto prima che la dica. Lo vedo nel modo in cui stringe e poi rilascia il volante, nella rassegnazione che ha negli occhi, che fa a pugni con la tensione del suo corpo. Anche se la ragione – perfino la mia! – sa perfettamente che la cosa logica da fare sarebbe negarmi quello che chiedo, lui fisicamente non può dirmi di no, perché mi conosce e perché lo sa quanto amo Bill. Lo sa che se anche mi racconta di lui e mi dice che è felice, io ho bisogno di vederlo con i miei occhi, di scrutarlo tutto e poi decidere se è davvero così, perché io il corpo di Bill lo so leggere. E lo so quando sembra felice e invece non lo é. Non posso farmelo raccontare da qualcun altro.
“E va bene,” concede alla fine. “Farò in modo di organizzare la cosa ma, sia ben chiaro, che lo vedrai e basta. Niente alzate di genio, intesi?”
Annuisco come il bravo bambino che non sono e rimaniamo di nuovo in silenzio per quella mezz’ora che ci separa da casa. Alla fine David parcheggia sul retro, la zona è residenziale, ma non troppo, quindi nessuno si fa davvero gli affari suoi. Scendo dall’auto a testa bassa e recupero la valigia mentre lui apre la porta di casa e poi mi consegna la chiave. All’interno la casa è buia e fredda, sui mobili ci sono ancora i teli, ma l’aria non è troppo viziata. “Sono passato un attimo ieri, ho arieggiato un po’ le stanze ma non ho avuto il tempo di fare nient’altro,” si giustifica David. “E non mi fidavo a lasciarci venire nessuno.”
“Non importa, va bene così.” Mi guardo intorno e mi rendo conto che in questo posto non c’è niente. Non sono mai stato qui da quando l’ho acquistato.
“Ci sono delle coperte e delle lenzuola, negli armadi,” sta dicendo David, che preme interruttori e gira manopole come niente. Mi ronza intorno come un’ape, è iperattivo. “Nel frigo e nella dispensa c’è qualcosa, un po’ d’acqua, del pane, il resto te lo porto domani con la spesa.”
“Resti a cena?” Glielo chiedo perché non voglio stare qui dentro da solo. Mi sembra di essere tornato indietro di un anno, fuori non ci sono le palme, ma è uguale.
La casa è vuota e io non so cosa ci faccio qui.
“Sì, certo,” annuisce, mentre si fruga in tasca alla ricerca del cellulare. “Compro qualcosa fuori, cosa ti va?”
“Kebab,” rispondo.
“Kebab, chiaro. Non so nemmeno perché te l’ho chiesto,” sorride ed è il primo sorriso sincero che gli vedo fare da quando sono tornato. “Faccio un salto a comprarlo, tu intanto sistemati.”
“D’accordo.”

*



David se ne è andato da cinque minuti e mi ritrovo a non sapere che farmene di me stesso. E’ una brutta sensazione. Chissà per quale motivo, forse per via del bambino che sono ancora, avevo immaginato che una volta liberatomi del manager avrei fatto di tutto. Quando poi lui ha chiuso la porta e mi sono guardato intorno, ho visto i teli, il frigo semi-vuoto, alla finestra una Berlino diversa da quella che si vedeva dalle vetrate della villa Gialla, mi sono detto che non posso fare proprio niente a parte svuotare la valigia. Ho tolto il telo ad una delle poltrone del salotto e mi ci sono lasciato andare sopra. Il soffitto è buio perché i lampioni fuori sono ancora spenti e io sono entrato nella stanza senza accendere la luce.
Quando ho deciso di andarmene, non pensavo di tornare. Dico davvero. Come ogni scelta fatta su due piedi, cogliendo il momento, era irreversibile. E non pensava alle conseguenze. Quindi no, quando ho detto a David che mi sarei finto morto, l’ho fatto con la convinzione che mai – per nessuna ragione al mondo – avrei preso e sarei tornato sui miei passi.
Ovviamente non potevo sapere che Chakuza avrebbe difeso il mio ricordo tanto da rischiare di rovinarmi, non potevo sapere che per convincere la Universal ci sarebbe stato di nuovo bisogno della mia persona. Queste sono cose che non puoi prevedere. O forse sì, forse sono cose che non sarebbero mai successe se fossi morto davvero. Per dire, se fossi morto, l’EGJ sarebbe morta con me perché l’avvocato avrebbe avuto disposizioni diverse da quelle che invece ha ricevuto. Chakuza non avrebbe avuto nessuna guerra da portare a termine in mio nome. E via così.
In realtà, la mia unica preoccupazione, quando ho preso la decisione, era Bill. Ho pensato solo a lui, l’etichetta, gli appartamenti, i conti in banca, è venuto tutto dopo. Io in testa avevo solo lui, e la paura che attraverso me potessero fargli del male. Non certo Fler, di lui non ho mi sono mai davvero preoccupato in quel senso, lui ce l’aveva con me, e il suo codice è il mio, quindi non avrebbe mai toccato Bill. Era tutto il resto a preoccuparmi, anche se – devo essere sincero – di Saad non sospettavo. Il suo atteggiamento mi faceva girare le palle, questo sì, ma di lui mi fidavo. E invece le mie due pallottole in corpo le ho prese da lui. Cristo, non so neanche se quella notte abbia voluto finire il lavoro che Fler aveva finto di iniziare, oppure se sapesse già che Patrick non poteva farmi fuori, e si fosse già organizzato per conto suo. E’ un gran peccato che me lo abbiano ammazzato prima che potessi mettergli le mani addosso.
Io quella notte Saad non l’ho visto. Quando ho sentito il fischio e mi sono avvicinato alla finestra, l’unica persona che c’era in strada era Patrick, appoggiato al muro che guardava in alto verso di me. L’attimo dopo io mi volto e il primo colpo mi prende all’addome – ha evitato il fegato di qualche millimetro, diranno i medici – e fortunatamente esce dall’altra parte. Il secondo colpo, che mi arriva quando ho Bill già quasi addosso, mi trapassa soltanto una gamba, ma sto perdendo i sensi.
Sul letto di Bill io ci svengo, anche se a me sembra di morire. Gli occhi li chiudo su di lui e poi assolutamente più nulla. Quando li riapro la prima cosa che vedo è il tettuccio di un’ambulanza, ma è sfocato e traballante. Di quelle ore non ricordo che immagini confuse, che si sovrappongono le une alle altre. So che quando ho aperto gli occhi in ambulanza qualcuno mi ha detto di resistere e io ho pensato di farlo, perché avevo qualcosa da dire. Ho afferrato la tuta del paramedico, l’ho stretta tra le dita forte. “Voglio che chiamate David Jost,” ho detto. “Solo lui.” Mi hanno detto di stare tranquillo e io ho ripetuto che dovevano avvertire lui e nessun altro. Poi sono svenuto di nuovo.
La consapevolezza che quella potesse essere l’occasione buona per fare ciò che avevo in mente, non lo so quando mi sia venuta di preciso, se quando mi hanno colpito, quando ero in ambulanza oppure quando mi sono svegliato dopo un’operazione dalla quale non avrei dovuto uscire. Il medico, alla fine, ha detto che è stato un miracolo, che non avrei dovuto nemmeno arrivare vivo all’ospedale, per il colpo che era. Saad aveva una mira di merda, oppure io ho un culo infinito. Non lo sapremo mai.
Ad ogni modo, io in ospedale ci sono arrivato che respiravo ancora – anche se poco – e sono finito sotto i ferri per due ore, durante le quali – mi dicono – Tom è stato meraviglioso.
E’ stato lui ad occuparsi di Bill, che era completamente fuori di sé e a chiamare David, che nel cercare di capirci qualcosa, già me lo vedo, col primario dell’ospedale, “Sono David, Jost, che cos’è successo?” si è visto tirare dentro, nel reparto di terapia intensiva.
Avevo chiesto a David cose ben precise, prima che la mia morte avvenisse, in previsione che avvenisse ma senza saperlo davvero, e David - come l'uomo di parola che è - quando è venuto il momento ha tenuto fede a tutte le richieste che gli avevo fatto e che lui aveva accettato di soddisfare. Tom lo ha chiamato mentre lui e Bill seguivano l'ambulanza e lui si è fatto trovare lì, già pronto ad istruire medici ed infermiere. In pratica, quando i gemelli hanno raggiunto l'ospedale, lui era già dentro con i medici che gli hanno riferito le mie parole.
Quando mi sono svegliato, ce lo avevo accanto, seduto su una sedia che era scomoda anche solo a guardarla e lui guardava me con un viso che non so nemmeno come descrivere. Era preoccupato, credo, e pieno d'ansia. "Il messaggio ti è arrivato, a quanto pare," parlo che ancora non l'ho nemmeno messo a fuoco. E lui trattiene il respiro.
"Hai la pellaccia dura," dice alla fine.
"Ne dubitavi?"
"Stavolta sì, cazzo," ed è la prima volta che lo sento imprecare. Mi fa un certo effetto, e non so se sia bello o brutto. So solo che l'ho sempre visto composto, mai una vera parolaccia, e questa che mi dice adesso non può che essere indicativa dello spavento che si è preso. "Ti davano per morto."
"Mi davo per morto anche io," rido e mi fa male qualunque cosa. Il dolore è all'addome ovviamente, ma sono tutto a pezzi, neanche ci fossi caduto dalla finestra. Immagino stia finendo l'effetto dell'anestesia totale.
David si solleva dalla sedia e beve da una bottiglietta semivuota poggiata sul mio comodino. "Vado ad avvertire gli altri, da quando sono arrivato, nessuno ha detto loro nulla."
"No," lo fermo con il primo fiato che riesco a tirare fuori per bene e mentre lui si volta con aria interrogativa, ne trovo dell'altro per aggiungere, "Aspetta, devo parlarti prima."
"Ma Bill..."
Il nodo in gola si forma lì e non se ne andrà più via. "Bill aspetterà," dico.
David torna a sedersi e si predispone ad affrontare il problema, qualunque esso sia. E' così abituato a ritrovarsi davanti ogni genere di intoppo che vi si prepara fisicamente. Le braccia sono incrociate, le gambe piegate e tutto il corpo è teso verso di me, pronto a percepire ogni singola parola. Più capisce, meglio sarà in grado di risolvere. E' un concetto che condivido. "Ricordi quello che ti ho detto qualche tempo fa? Che se fossi morto avresti dovuto sistemare le cose in un certo modo?"
Lui annuisce.
"Bene, facciamo così," gli dico. "Sono morto."
David è un uomo che le cose le capisce al volo e, anche questa volta, non mi delude, lo vedo dall'occhiata che mi lancia. Solo che gli sembra una cosa folle, percui non crede nemmeno alla sua brillante deduzione. "Che cosa stai dicendo, di preciso?"
Per abitudine tento di tirarmi su seduto, ma tra i punti, l'anestesia e il resto riesco a malapena ad alzare la testa. Impreco notevolmente. "Aiutami," ordino e lui mi dà una mano a tirarmi un po' su. Mi gira la testa. Scommetto che i medici vorrebbero io stessi disteso ma sto cercando di crepare, qui, e devo farlo da seduto.
"La situazione in questi ultimi mesi è degenerata," riprendo. "Stanotte hanno colpito me, ma potevano colpire Bill. Non è al sicuro."
"Bushido," comincia lui.
"No, aspetta," sollevo una mano e respiro forte. "Lasciami finire. Se gli dicessi come stanno le cose, che deve starmi lontano, non funzionerebbe. Bill è testardo, lo sai, vuole sempre fare di testa sua. Le cose bisogna imporgliele o non le fa. "
Lui non parla, scuote solo la testa.
"E' l'unica soluzione," dico. "Gli dirai che sono morto, David. Devo uscire da quest'ospedale con un cartellino attaccato al piede."
"No."
"David, ascoltami."
Lui scuote di nuovo la testa. "E che cosa vorresti fare? Sparire dalla faccia della terra? Niente più Bushido? Dove credi di poter stare mentre sei morto? Come... come pensi di vivere e poi dove?"
"Devo lasciare il paese."
"Certo, lasciare il paese," ripete lui, ironico. "Non posso crederci. Non ha senso."
"Si che ce l'ha," insisto. "Io muoio, Bill è libero di tornare ad essere quello che era, fuori dal mio mondo."
David ha preso a camminare su e giù per la stanza, apre e chiude le mani e mi sembra quasi di vederle le sue rotelle che girano furiosamente. "No, Bill sarà libero di cadere a pezzi. Tu non hai visto in che stato è."
"E' necessario."
"Cazzata," commenta lui. E di nuovo un pessimo linguaggio. Avanti. Indietro.
"Avevi promesso che mi avresti aiutato."
Lui mi guarda. Indietro. Avanti. Indietro. Sta facendo i solchi nel pavimento e quando i suoi occhi incontrano i miei capisco che ha deciso. "Ne sei sicuro?"
"Sì."
"Non c'è ritorno," mi avverte, forse nell'ultimo tentativo di farmi desistere. Come del resto non sapessi che una volta morto, morto rimango. Non posso andare e tornare come niente fosse. L'ho pensata per mesi questa cosa, non di morire, intendo, ma di andarmene. Lasciare Bill e sparire - perché lo so che l'unico modo che ho di staccarmi da lui e di staccarlo da me è tagliare ogni contatto. Partire, però, e lasciarlo con la convinzione che sono da qualche parte, nel mondo, non funzionerebbe. Uno dei due finirebbe per cercare l'altro e ci troveremmo, in un modo o nell'altro. Per questo è meglio che muoia. Certo, se fossi morto davvero sarebbe tutto più semplice, stanotte. David non dovrebbe mettere su un miracolo per coprirmi. Forse un po' ci speravo che Fler mi facesse fuori, per mano sua sarebbe stata tutta un'altra storia. Certo, come ho detto, lo conosco e so che di ammazzare me non aveva davvero intenzione, ma era rabbioso, incazzato. Le coltellate vengono bene anche se non vuoi, quando stai così.
"Lo so che non c'è ritorno," gli dico."E' per questo che voglio così."
Da quel momento in poi, è una bugia dopo l'altra. Parliamo di molti zeri col medico, e lui è solo il primo di una lunga serie. David prende i miei conti e la mia vita in mano praticamente da subito. Si occupa lui di avvertire gli altri della mia morte - non l'ho mai chiesto che reazioni abbiano avuto tutti, cos'abbia fatto Bill. Non voglio saperlo. Mi sento in colpa, non mi serve sapere che rumore abbia fatto il suo cuore quando si è spezzato -, e riesce a convincere mia madre che non può vedermi, la sento strillare devastata appena fuori dalla porta e lui che le sussurra qualcosa, non sento cosa. Lei piange e io stringo i pugni. Ringrazio Dio di non aver sentito Bill. Sarei corso ad abbracciarlo, lo so, perché non sopporto di sentirlo piangere.
Nemmeno due giorni dopo, David organizza il mio trasferimento in una clinica privata. Il mondo là fuori non sa niente della sparatoria, della mia morte, di Fler - che mi dicono - non si trova. Il mio mondo, invece, - ufficialmente per bocca della Universal, ufficiosamente per bocca mia, - ha l'ordine di non dire una parola sulla notte in cui mi hanno sparato. Non so come David ci riesca, ma non c'è fuga di notizie. D'altronde non dovrei stupirmi. Ai tempi è riuscito a nascondere la mia presenza quando passavo la notte con Bill e le fan non dovevano saperlo. Perché non dovrebbe saper nascondere con la stessa abilità anche la mia improvvisa assenza? Io rimango chiuso in clinica per una settimana, durante la quale David sistema le ultime cose per me e, contemporaneamente, partecipa al dolore per la mia perdita con tutti gli altri. Io intanto guarisco. Due giorni dopo il mio funerale, prendo un aereo per Miami, per non fare più ritorno. Fino ad oggi.
Sospiro e continuo a guardare il soffitto, dove ora ci sono striscie di luce gettate dai lampioni fuori dalla finestra. David non torna, non so se sia andato a prendermelo in Tunisia, il kebab.
Dev'essere stata dura, per lui, tenere ogni cosa sotto controllo. Quell'uomo ha dei nervi tremendi, anche se a guardarlo - lui, le sue insalate e la sua soya - non è che si direbbe molto. Alla fine, la benedetta porta di entrata che sto fissando da non so nemmeno quanto, si apre e mi accorgo di essere stato immobile fin'ora, mi sembra quasi di tornare a respirare ora che c'è lui in casa. Il problema è che questo appartamento non è mio, l'ho solo pagato, mi sento fuori posto. La mia casa, la mia gente, le mie cose non sono più mie e questo era tollerabile solo lontano da qui. A Berlino, no, però. Questa città è mia. Ed è evidente che tornare è stato un grosso errore. Devo, è un'esigenza fisica prima ancora che mentale, riappropiarmi dei miei spazi. Solo quello che serve per non impazzire. Solo gli spazi.
“Ce ne hai messo di tempo. Hanno dovuto uccidere anche il vitello?” Chiedo.
Lui mi lancia un’occhiata. “C’era coda,” dice, passandomi l’involto di carta, nel quale affondo i denti con grande piacere.
“Tu che cos’hai fatto mentre non c’ero?”
“Niente di che. Ho chiamato tutti i miei amici e ho dato una festa, ma abbiamo ripulito tutto prima che tornassi,” rispondo.
David ride e accende la luce. “Si può sapere perché te ne stavi qua dentro al buio? Non ti ricordi più come funzionano le vecchie case tedeshe? Sai, gli interruttori, le lampade..” scherza, togliendo il telo da un’altra poltrona e lasciandosi andare seduto.
“Volevo soltanto riposarmi un po’.”
“Bravo,” e addenta il suo panino, che sicuramente è senza carne. Si sta mangiando un kebab senza il kebab. Così come mangia i panini del McDonald senza l’hamburger. E’ un uomo senza. “Ti aspetta una settimana faticosa.”
Una settiman sembra un tempo infinitamente piccolo.
E io devo sistemare un sacco di cose.

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