You were always on my mind

di tabata
A volte penso che tutto ciò che è successo fosse già previsto. Non da Anis, ovviamente, ma dal destino, o da Dio, o da qualunque altra entità che se ne stia lì, nell’alto dei cieli, a decidere delle nostre vite senza che noi possiamo metterci bocca. Voglio dire, sarebbe stato già abbastanza difficile gestire la situazione tra me, Anis e Peter per come si era presentata dopo il ritorno di Anis: con me in mezzo a loro senza poter decidere; ma essere costretto a girare un video con Anis, e peggio ancora, doverlo girare insieme ad entrambi e costringere Peter ad assistere mentre fingevo di fare sesso con Anis è stato decisamente troppo.
Nessuno di noi tre ha colpa in questo senso, e nelle scelte fatte per questa collaborazione la Universal ha dimostrato una quantità di sadismo involontario tale che c’è da chiedersi se questo Dio, davvero, non si stia divertendo, e in tal caso bisognerebbe dirgli di smetterla, perché io sinceramente non credo di poter andare avanti ancora per molto. Anzi lo so. E so anche che lui, il Dio intendo, non la smetterà affatto, perché non ha smesso neanche dopo la fine del video; se lo avesse fatto, io adesso non sarei qui a fare quello che sto facendo. Quindi mi chiedo quanto altro ancora voglia giocare, questo Dio, se siamo arrivati a questo e ancora non ci fermiamo.
Potrei anche dire che quest’entità ha smesso di operare sulle nostre vite giusto un secondo prima che iniziassimo a rovinarcele da soli, che poi è più o meno adesso, ma visto il casino che siamo, è più facile pensare di non aver avuto grosse alternative. Io lo sto pensando adesso mentre parlo con Peter, l’ho pensato quando Anis ha parlato con me. Quindi in qualche modo è vero, o è stato vero per un certo periodo di tempo.
Le riprese del video sono state il periodo più orribile che io abbia mai trascorso, se si escludono i mesi successivi alla morte di Anis. In quattro giorni di riprese – tanti ce ne sono voluti per gestire tutto, perché Hans è diventato isterico a metà storyboard e noi non eravamo da meno – Anis non si è mai risparmiato di mettermi addosso le mani, e Peter non ha fatto che incazzarsi e alternativamente prendere la macchina e andarsene per ore, oppure urlarmi addosso quand’eravamo soli e io non avevo neanche modo di rispondergli, perché in fondo aveva ragione e dirgli che ero confuso sarebbe servito a poco, quando tutto ciò che vedeva era Anis che mi toccava e io che non lo allontanavo abbastanza deciso. Ho rischiato di perderlo in un paio di occasioni, ed era quando mi accorgevo che non volevo affatto che il guaio ricominciava daccapo. C’era Anis da una parte e Peter dall’altra e io non volevo lasciare andare nessuno dei due.
Dopo le scene sul letto, Hans ha voluto girare le scene tra me e Bushido. Peter ha voluto comunque essere presente, e di nuovo è stato un disastro. Se il regista non sentiva abbastanza intimità tra noi due, dava di matto; se ce ne mettevamo la quantità sufficiente per il regista, dava di matto Peter e io non sapevo più come riprenderlo quando non mi voleva neanche parlare.
Durante le pause era un delirio, e nel camerino non era da meno. E la stessa cosa è successa quando è toccato a Chakuza girare le sue scene. Ho chiesto a Bushido di andarsene, ma figurarsi se ha voluto, e così loro non hanno mai veramente smesso di litigare, e io di ritrovarmi in mezzo, senza sapere che accidenti fare quando ci mancava poco che mi tirassero per un braccio per trascinarmi a casa entrambi.
Il fatto è che Bushido è insofferente alle regole imposte da qualcun altro che non sia lui, quindi tu non puoi dargliene una e sperare che la segua davvero. Avevo chiesto una tregua, ma sapevo che non l’avrebbe rispettata perché lui non rispetta niente se crede che fare qualcosa gli spetti di diritto. Io ero suo prima che morisse, ero suo mentre era morto e sono suo adesso che è tornato. Nel suo ragionamento non c’è spazio per tutti quei diritti che io ho dato a Chakuza e che Chakuza, per altro, meritava e non si è preso di prepotenza. Per certi versi io capisco Anis, perché lo conosco e so com’è che mi vede lui – mi lusinga il modo in cui mi vede – ma non per questo posso cancellare quello in cui credo oltre a lui. Non è così che funziona. E lui lo sa, me l’ha insegnato lui che quando prendi le tue decisioni e fai le tue scelte, devi farlo col cuore e, quando lo fai, devi essere conscio di ciò che significa. Se ti rimangi la parola con niente, le tue scelte non valgono un cazzo. Lui lo sa, lo sa benissimo, è per questo che insiste solo fino al limite e non oltre. Quello che vuole è che io pensi, scelga, e decida; ma che lo faccia col fottuto cuore.
Solo che il mio cuore, al momento, è impegnato a non esplodere, quindi non ce la fa a decidere. Ho chiesto una tregua e sapevo che lui non l’avrebbe rispettata, speravo almeno lo facesse Chakuza, perché lui alle regole ci sta. Solo che non avevo fatto i conti con la territorialità e col fatto che si sente giustamente minacciato. Quindi ha rotto la tregua nel momento in cui Bushido l’ha rotta, e in due – come i due arieti che sono – hanno immediatamente smesso di pensare a me, per concentrarsi su come prendersi a cornate l’un l’altro.
Quello che ne è seguito, ovviamente, è stato Bushido che mi attaccava al muro, io che ci perdevo la testa. Chakuza che mi sentiva l’odore di Anis addosso, e si riprendeva quello che era suo, riportandomi la testa dove stava prima. Questo finché Fler e Tom, che si sono beccati tutti i miei sfoghi, non hanno preso a portarmi via con loro e con le ragazze, ogni volta che finivamo di girare, di qualunque cosa si trattasse. Fossero dieci minuti o venti, mi permettevano di respirare un po’.
Dopo il video, in effetti, pensavo che le cose si sarebbero sistemate almeno un po’, che avremmo avuto di che calmarci e capire. Ho chiesto a David una pausa prima della promozione che, sapevo, ci avrebbe portato via un sacco di tempo e di energie e ci avrebbe di nuovo rimessi tutti nella stessa situazione perché questa canzone – questa stupida Prinzessin – non era altro che il primo passo della Universal verso questo delirio che ci comprendeva tutti e tre e avrebbe portato delle ospitate, e delle interviste, ci avrebbe portati in tour e non volevo che succedesse senza averci capito qualcosa. David mi ha concesso solo una settimana, intanto che montavano il video e lui si metteva d’accordo per tutto ciò che poi avremmo dovuto fare.
Chakuza mi ha chiesto di stare con lui in questi giorni e io non gli ho detto di no, perché volevo e perché lui sembrava amareggiato, per come si era comportato e per come mi ero comportato io. Così ho pensato che forse, stando da solo con lui per un po’, come avevamo fatto prima di questo immenso casino, avrei capito qualcosa. Chakuza voleva che andassimo in montagna, ha una casa di famiglia in Austria, ma David non voleva che lasciassi lo stato – forse aveva paura che fuggissi con lui, vallo a sapere – così ci siamo chiusi in un albergo appena fuori città.
Peter non ha mai davvero fatto lo stronzo con me durante questi nove mesi. Voglio dire, quando ci siamo messi insieme, io ero abituato ad Anis, che ha uno strano modo di dimostrare considerazione. Non è gentile, non è delicato. E’ molto brusco in quasi tutti i suoi aspetti, quindi capitava a volte che ci scontrassimo anche violentemente e che lui, pur di vincere lo scontro, diventasse cattivo. Ecco, Chakuza queste cose non le ha mai fatte, non è mai stato brusco con me, mai nemmeno lontanamente ironico. Durante le riprese, però, il suo atteggiamento era diventato simile a quello di Bushido, mi ha rinfacciato qualunque cosa, per questo si sentiva in colpa, e gliel’ho letto negli occhi quando mi ha chiesto di stare con lui.
Quella settimana l’abbiamo passata insieme, ed è tornato ad essere Peter. E io ho ripreso a pensare che andava bene così. Lo pensavo davvero. Lontano dal palco, lontano da tutti, con la possibilità di stendermi su un divano e non sentirmi le mani di Anis addosso, o le urla di Chakuza poco prima che si pestassero, mi sembrava che la soluzione fosse quella. E poi era bello poterlo abbracciare senza che mi annusasse il collo e mi guardasse con quell’espressione. Senza dovergli nascondere i morsi di Anis. Era semplicemente tutto giusto e tutto al suo posto.
Quando ho bisogno di stabilità, o di capire qualcosa, io ignoro qualunque problema mi si ponga davanti, non importa di che dimensione sia. Per affrontarli ho bisogno di non interessarmene finché non sono loro a farsi pressanti e inevitabili. E’ un meccanismo di difesa, del quale puntualmente mi servo quando non ho alternative. Anis però non te lo dimentichi semplicemente ignorandolo, e io questo tendo a non ricordarlo mai.
Non lo ricordo nemmeno oggi quando il campanello suona e lui è lì davanti alla pulsantiera. Attraverso il bianco e nero della telecamera, la sua pelle ha un tono grigio e compatto e i suoi occhi sembrano ancora più neri e profondi. Guarda dritto verso l’obbiettivo, e mi sorride un po’, come fa lui, che sembra sempre che nasconda qualcosa. “Mi fai salire, Principessa?”
“Anis…” mi lamento, mordendomi un labbro, con la cornetta del citofono in mano.
Lui solleva entrambe le mani. “Vengo in pace, promesso.”
Mentre lo dice, comunque, io ho già aperto il portone. Mi guardo intorno, e quando mi rendo conto che lo faccio con ansia, mi sento anche infinitamente stupido perché nessuno può vedermi.
La casa è vuota, sono solo e so che non dovrei farlo salire perché quando siamo soli, io e lui, facciamo sempre danno. Dovrei sentirmi un po’ in colpa. Chakuza ha dormito qui stanotte, ed era qui stamattina e io non dovrei, davvero… d’altronde, mi dico, non è detto che succeda niente. E so che mi sto mentendo in maniere che un’altra persona nemmeno riuscirebbe ad immaginare.
Con Bushido succede sempre qualcosa, che non significa necessariamente che finiremo a letto, è una questione più sottile. Basta che mi guardi, o che anche solo mi dica qualcosa – basta la voce, a volte. Un tempo succedeva al telefono, quando magari eravamo in due città diverse. Lui mi parlava e bastava quello perché la magia si ripetesse, ed era come averlo lì. Quindi se adesso entra nel mio appartamento mentre sono solo e potenzialmente potrebbe succedere di tutto, magari non succede ma è uguale, perché lui su di me ha un potere enorme.
Fino ad oggi non ci siamo visti e non ci siamo neanche sentiti, sono nervoso perché non so come reagirò quando uscirà da quell’ascensore, anzi lo so. Per questo sono nervoso. Sento lo stomaco che si contorce e l’energia isterica che mi attraversa da capo a piedi costringendomi ad andare avanti e indietro sulle punte dei piedi mentre aspetto di vederlo. Non faccio altro che questo da quando è tornato, ondeggiare tra le punte e i talloni. Tra Peter e Anis. Se mi fermo sulle punte, finirò per sporgermi in avanti, se mi fermo sui talloni, perderò l’equilibrio all’indietro. E’ per questo che rimango nel mezzo, è l’unico modo che ho per non cadere.
Anis è bellissimo nel suo maglioncino di cotone azzurro. Dal colletto spunta una camicia bianca inamidata che sembra quasi brillare contro la sua pelle color nocciola. Mi sorride, ma rimane sulla porta, in attesa di un qualche cenno da parte mia. Ed è una cosa così insolita per lui che qui c’è sempre entrato come fosse casa sua.
Io mi sento a disagio con addosso i vestiti peggiori che ho nell’armadio e i capelli tutti arruffati. Non dovrei affatto preoccuparmi di come sono conciato di fronte a lui, eppure mi sento i suoi occhi addosso e mi dà fastidio che mi trovino così in disordine. Mi sistemo una ciocca di capelli cercando di dissimulare tutto: il disagio, l’irritazione e la voglia che ho di baciarlo sulle labbra che so essere calde e morbidissime. “Che cosa ci fai qui?”
“Non esattamente l’inizio che mi aspettavo,” commenta lui, e quel sorriso non cede di un millimetro, “ma va bene anche questo. Mi inviti ad entrare?”
“Non credo sia il caso.”
Lui guarda oltre la mia spalla, scruta il mio salotto che è un disastro. La signora delle pulizie non viene da una settimana, e io non ho mai rimesso a posto in vita mia. “Lui è qui?” Mi chiede, tranquillo.
Non so che effetto mi faccia sentirlo pronunciare quelle tre parole con un tono senza inflessione, che non so se sia naturale o abilmente falsificato. So solo che sento un brivido al pensiero che Chakuza potesse essere qui e che questi due potessero incontrarsi di nuovo. Che Chakuza potrebbe pure rientrare, prima o poi ed è meglio che non s’incontrino. “No,” mormoro.
“Allora è il caso,” conclude lui. Io però non mi muovo, così lui china un po’ il capo e mi guarda da sotto in su. “Bill?”
Sospiro e mi scosto. “Entra,” borbotto.
Lui ridacchia e passa oltre. “Grazie,” risponde, mentre io chiudo gli occhi contro il suo profumo.
Lo seguo mentre fa qualche passo nel salotto e si guarda intorno. “Hai spostato il divano,” commenta.
Io mi stringo nelle spalle. “Mi ero stancato della disposizione.”
Ho costretto Tom ad aiutarmi tre volte nel giro di quattro giorni, è stato a settembre dell’anno scorso, poco prima della trasmissione. Avevo bisogno di qualcosa da fare che mi tenesse impegnato il cervello e combattesse la mia insonnia; per un po’ spostare mobili è stata la soluzione. Anis non commenta, si affaccia nel corridoio che dà alla camera. “Posso?” Chiede.
Io gli faccio cenno di andare e mi stacco dal muro solo qualche secondo dopo che lui si è mosso. Lo trovo sulla porta della mia stanza che guarda fisso davanti a sé, verso la finestra. E allora mi rendo conto che l’ultima volta che è stato in questa casa è morto.
Lui guarda la stanza, e io guardo lui. Lo vedo tendersi in maniera impercettibile, e stringere le dita intorno allo stipite. Posso immaginare come si senta, anche se non posso saperlo esattamente. Io ricordo il suo corpo immobile sulla barella, e come tutto sembrasse immerso nel sangue. Non so come si sentisse lui, cosa sentisse lui ma forse le nostre sensazioni sono gemelle perché ci sono morto anche io, per qualche istante, in questa stanza.
Entra piano, un passo dopo l’altro, delicatissimo come se ci fossero ancora i sigilli della polizia, e tutti i loro cerchi col gesso intorno ai frammenti più grossi della finestra; mentre Anis raggiunge il letto mi sembra quasi che intorno a lui si muovano sfocati ed evanescenti i paramedici e gli agenti di polizia. L’ispettore che il giorno dopo è venuto a parlarmi. Si spostano tutti intorno a lui, e per la prima volta sono loro ad attraversarlo come fantasmi. Non conto più le volte che ho immaginato lui ad aggirarsi per questa stanza trasparente e impalpabile.
“Che cosa ti ricordi?” Chiede all’improvviso, sfiorando con due dita il cassettone.
“Tutto.”
“Che cosa, di preciso?” Insiste. Non mi guarda, fissa i mobili della mia stanza come se non fossero veramente gli stessi che erano qui quando gli hanno sparato. I suoi occhi guardano il legno dell’armadio e gli infissi come se fossero riproduzioni di ciò che nella sua testa sta di nuovo prendendo forma.
“Tutto quanto, qualsiasi cosa,” rispondo. Improvvisamente questa stanza torna ad essere la stanza in cui lui è morto e io non riesco a fare più di due passi all’interno. Mi sembra di vedere il letto pieno di sangue e la finestra rotta. Mi sembra anche di vedere il suo corpo disteso tra i cuscini, quindi chiudo gli occhi e sto fermo contro lo stipite della porta mentre lui si aggira piano tra le mie cose e tocca ogni oggetto, senza mai staccare le dita dalle superfici. Il cassettone, la parete, il mio armadio nero e lucido, di nuovo la parete e poi il vetro della finestra.
“L’ho fatto cambiare,” dico stupidamente. Come se fosse possibile vivere per un anno con la finestra fatta a pezzi da due proiettili calibro nove. E questo è il segno di quanto tempo è passato e di come mi ha cambiato, il calibro l’ho imparato dopo che ho sparato a Saad con la pistola di Anis, che usa gli stessi proiettili.
“Dimmi quello che ricordi,” Anis sembra non avermi nemmeno sentito, guarda fuori, oppure guarda il vetro, anzi non guarda nessuna delle due cose. E’ perso dentro se stesso. “Io non ricordo quasi niente.”
“Davvero?”
Si stringe nelle spalle. “Ho solo immagini confuse. Ero qui, giusto?”
Annuisco, e mi avvicino. “Appena un po’ più in là.” Ricordo veramente ogni particolare, fino a quello più insignificante. Se fosse vestito com’era vestito allora sarei in grado di riprodurre anche le pieghe della sua maglietta e la disposizione delle macchie di sangue sulla spalla che Patrick aveva colpito. Lo sposto piano, lascio che le mie mani si modellino sui suoi fianchi. “Ed eri girato verso di me, mi guardavi e avevi paura.”
“C’era qualcuno là fuori,” risponde e guarda in terra. S’incupisce e gli si forma sulla fronte quell’unica ruga profonda. Sollevo una mano e lo sfioro appena, gli accarezzo una guancia e lascio che mi stringa per i polsi.
“Hai visto…?”
“No,” scuote la testa. “Sapevo che c’era qualcuno, ma non avevo idea che fosse Saad. E Fler era dall’altra parte della strada, che mi fissava dal marciapiede. L’ho capito subito che non aveva intenzione di sparare.”
Gli volto il viso perché mi guardi e lui ci mette un po’ a spostare gli occhi nei miei. Ha lo stesso sguardo di allora, come se giù in strada ci fosse ancora suo cugino pronto a sparargli. “Ti sei girato verso di me…” Per mesi mi sono costretto a rivivere questo momento preciso, e mi sono sempre chiesto se non fosse stata colpa mia. Io sono la debolezza di Anis. Sono il suo sbaglio, quella notte. L’errore umano su cui si può sempre contare.
“Eri troppo vicino alla finestra,” mormora. “Quando mi sono girato pensavo solo a questo, che eri troppo vicino alla finestra e potevano colpirti.”
“Hanno colpito te, però,” appoggio la mano dove so che c’è ancora la cicatrice, sento la sua pelle calda sotto il maglione e la camicia. “E poi c’è stato il secondo colpo.”
“Alla gamba,” annuisce lui.
“Anche attraverso la mia,” dico e sorrido leggermente, quasi a scusarmi. Lui sgrana un po’ gli occhi. Non lo sapeva, i miei quattro punti e la mia cicatrice che ha la forma vaga di una piccola farfalla…fa tutto parte del dopo. Dopo i paramedici, dopo l’ospedale. Dopo di lui e il suo funerale.
Lui scende ad accarezzarmi la coscia, e io gli fermo la mano là dove in effetti c’è quel piccolo segno. “Non è niente, non ha mai fatto davvero male.”
Anis stringe le dita, ma poi mi lascia andare. “Dopo so che ti ho guardato finché ho potuto. C’è stata la tua voce per un po’ ma non ho visto niente per minuti interi.”
“Ti ho parlato a lungo.”
“Non lo ricordo.”
“Ti sei come spento, pianissimo,” e lo vedo come l’ho visto un anno fa. Non si muoveva, né mi sembrava che respirasse. I suoi occhi hanno perso la luce come le sue mani il calore. E non mi riusciva di trattenerlo. Parlavo, parlavo, parlavo nella speranza che per la necessità di ascoltarmi non se ne andasse.
Anis esita sui miei fianchi e sul polso che ancora stringe fra le dita. Mi guarda e so che vorrebbe dirmi più parole di quante in realtà siano necessarie. Ha bisogno di parlare perché in queste settimane non ha fatto che toccarmi, non ha fatto che lasciarmi segni addosso e possedermi nei limiti in cui davvero poteva, senza sconfinare troppo al di fuori del territorio. Ha premuto quei limiti come spinge tutte le sue linee di confine, ossia finché non cedono. Finché la sua zona di appartenenza non si fa più ampia. Mi accarezza il braccio fino alla spalla, e io piego la testa quando le sue dita mi toccano il collo e la guancia. Il suo calore mi è stato addosso per mesi dopo che lo avevano portato via da questa stanza, era come una presenza fisica sulla mia pelle e m’impediva di ricordare che ero solo. Quando è svanito e ho cominciato a sentire freddo, è stato allora che ho realizzato che era morto e che non potevo più tenerlo stretto a me. Non c’era più niente a cui aggrapparmi, e dovevo andare avanti. Ora quel calore è di nuovo qui e io a volte voglio che mi avvolga, a volte vorrei impedirglielo solo per punirlo di avermi lasciato a gelare.
“Volevo soltanto proteggerti,” dice all’improvviso, come se mi avesse letto nel pensiero. Non mi stupisco, Anis non può sentire quello che penso ma può leggerlo attraverso il mio corpo. Così risponde a domande che non ho mai fatto e anticipa i miei desideri, mi abbraccia prima ancora che io capisca di volerlo. Non gli rispondo, non voglio farlo. Io lo so che lo ha fatto per me, e so anche che non voleva farmi soffrire ma è successo e c’è una parte di me che non lo perdonerà mai per questo. Io non ce l’ho con lui perché se n’è andato, ma perché non ha avuto nessuna fiducia in me e in quello che potevo affrontare. E adesso che gli ho dimostrato di poter tornare tutto intero, mi manda in pezzi di nuovo. Provo così tanto odio insieme all’amore che non riesco a scindere le due cose, a volte, e questo mi confonde perché io lui non l’ho mai odiato nemmeno quando glielo urlavo in faccia perché mi faceva incazzare. Non l’ho mai pensato. E invece in questi giorni è successo, le sue mani erano troppo belle e troppo sbagliate su di me perché non lo odiassi furiosamente pur di allontanarlo. Stammi lontano, eppure toccami. Non ho pensato altro.
Quando si avvicina, sapevo che lo avrebbe fatto e non ho la forza di fermarlo, o non ho la voglia, in ogni caso il suo profumo è aspro e fortissimo e io chiudo gli occhi contro le labbra che mi preme sul collo. Non dovrei, non dovrei proprio – lo so, cazzo. Sono mesi che lo so – ma il mio cervello continua a ripetermi cose che il resto del corpo non ha assolutamente voglia di ascoltare e allora lascio che mi accarezzi piano la schiena e che mi sfiori la guancia con le labbra. “Mi manchi da morire, Bill.” Mi chiama per nome soltanto quando si tratta di qualcosa di serio, per tutto il resto del tempo sono Principessa. E non c’è niente di più serio di me e di lui che ci siamo persi per strada. Aldilà di tutto, questa cosa non sarebbe mai dovuta succedere, e invece è successa – che io e Anis ci crediamo o no. Ed è per questo e per le conseguenze che ha portato – conseguenze a cui tengo e che si chiamano Peter – che tutta questa situazione mi fa incazzare. Non voglio decidere, non voglio avere questa responsabilità.
“Anche tu,” e non penso di parlare, lo faccio e basta. Sposto il viso finché le nostre labbra non si sfiorano, la scossa elettrica che mi attraversa tutto mi dice anche che non lo fermerò.
Vorrebbe baciarmi piano ma non c’è mai veramente riuscito. I baci di Anis sono violenti in una maniera particolare perché ha bisogno di imprimersi addosso alle persone che ama, ha questa necessità di farsi sentire.
“Dammi questa possibilità, Bill,” mi sussurra tra le labbra.
“Cosa?”
“Sono tornato, tu sei mio e lo sai,” parla, mi bacia, e parla ancora. E io non so veramente niente, e mi sento piccolissimo. Dopo un anno, ecco che torna e annienta tutto quello che sono, tranne ciò che sono diventato per merito suo. “Dammi la possibilità che mi spetta.”
Socchiudo gli occhi, mi sento le sue mani addosso ovunque e mentre mi lamento “Anis…” lui si sposta su di me: è un’ombra scura con due occhi ancora più neri.
Mi bacia e poi si allontana un po’, mi guarda così intensamente che mi sento in imbarazzo. Nel suo sguardo non c’è la fierezza che c’è di solito, sono velati da qualcos’altro. Sono gli occhi che avevo io quando cercavo di fargli capire che eravamo fatti per stare insieme e lui ancora non lo sapeva. Era una verità che avevo dentro di me, lui doveva ancora arrivarci. E ora lui sembra avere la stessa sensazione, lì, piantata nel cuore. “Vieni a vivere con me,” mormora.
Sono parole assurde. Ma sembra assurdo anche che io non sia suo, che lui sia morto e tornato dalla morte, che sia su questo letto, che sia sopra di me e sotto la mia maglia, quindi in realtà niente è veramente assurdo. Non penso, perché se pensassi non lo farei. Chiudo gli occhi e provo a sentire il suo corpo sul mio, il suo respiro e il cuore che mi batte ad una velocità che non è affatto normale. Dopo un anno, siamo di nuovo qui sopra insieme e lui è vivo, respira e mi tocca.
Ricordo quanto ho voluto che accadesse e mi viene quasi da piangere ma non lo faccio, mi stringo a lui e basta. Ed è in questa stanza e su questo letto la ragione per cui dico di sì. Non è soltanto in lui o in me. E’ in quello che questo luogo significa per noi. Nel momento in cui quel proiettile lo ha quasi ferito a morte c’eravamo solo io e lui a guardarci dritti negli occhi. A vederlo morire, io. E a sapere che mi stava abbandonando per sempre, lui. Nessun altro può capire.
Se dico sì è per quello che siamo, è per la sua morte, è per quello che io ho perso e lui ha lasciato. E’ perché non ci siamo mai davvero divisi, e non posso veramente allontanarlo senza prima aver dimostrato che quel dannato proiettile ci ha resi ormai così diversi per poterci ancora completare.
Per questo dico di sì. Sto spezzando il cuore a Peter, e lui nemmeno lo sa.
So che non è giusto, ma non era giusto nemmeno quel proiettile. Eppure ne è bastato uno per rovinare quello che avevo allora, e basta il suo ricordo per rovinare quello che ho adesso.
Mi dispiace, Peter. Mi dispiace davvero.

*


Ho buttato Bushido fuori di casa, e lui ha avuto l’accortezza di non ridere di trionfo anche se so che avrebbe voluto farlo. Quando lascerò questa casa per entrare nella sua, lo farò con la mia auto e senza di lui. Ci sono delle cose che devo sistemare, e non voglio che lui sia qui mentre lo faccio.
Quello che è successo fra noi nelle ultime ore, avrebbe dovuto aspettare. In queste cose, suppongo, ci sono delle procedure da seguire perché quando hai intenzione di frantumare il cuore di una persona che ti ama come mi ama Peter, tu dovresti avere il buon senso di fare le cose per bene; ma Bushido è uno che non ti permette di fare le cose secondo le regole se lui non vuole seguirle. Ho rifatto il letto e mi sono fatto una doccia, ma mi sento così in colpa che ho paura mi si legga in faccia ogni cosa, o forse ci spero perché così quando Peter sarà qui, sarà più facile iniziare il discorso e finirlo anche.
Quando suona il campanello, io sto facendo le valige. O meglio, non proprio, le ho soltanto tirate fuori dall’armadio e ne sto vagliando l’interno vuoto, come se potessero contenere le parole che dovrò dire. Sto tremando e sono nervoso, so che in qualunque modo pronuncerò questo discorso, non andrà bene, perché nessuno vorrebbe sentirlo e perché in realtà non è giusto, non così in fretta e non così all’improvviso. Solo che io lo so che devo farlo adesso, oppure non lo farò mai più o lo farò troppo tardi. E non lo so cosa mi spaventa di più, se aver preso una decisione o dover lasciare che Chakuza si arrabbi. Lo farà – giustamente – e con me non lo ha mai fatto. Ho paura di sentire la sua rabbia addosso, perché non so come sia e, nonostante questo, dovrò sopportarla perché ha tutti i diritti di provarla.
Peter è felice, e questo non fa che peggiorare la mia situazione. Soltanto ieri le cose fra noi andavano bene, anche se lui sapeva che la presenza di Anis era troppo pesante per non costituire una minaccia. In questi casi, però, quando vivi in bilico per giorni e giorni, senza che niente davvero cambi, finisci per adattarti a quella situazione come non ce ne fossero mai state di diverse prima, e ti lasci dondolare, sicuro che non cadrai mai da una parte e dall’altra perché non è mai successo. Riacquisti un barlume della felicità precedente, anche se non è la stessa ma solo una pallida imitazione. Adesso arrivo io, con la mia nuova consapevolezza, ed elimino ogni incognita che possa farci rimanere in equilibrio; ma sarò solo io a farlo, e lui ne subirà passivamente le conseguenze. E lo farò senza che fra noi ci siano problemi oggettivi: noi stiamo bene, lui mi ama e nonostante tutto, lo amo anche io. Quindi lasciarlo, senza discuterne, senza dargli la possibilità di difendersi è un colpo così basso che mi vergogno e mi sento male.
Lo aspetto sulla porta, stringendo forte lo stipite. Lui mi sorride in maniera tanto dolce che mi viene naturale rispondere, e poi penso che non dovrei farlo. O forse sì, non lo so.
“Ti ho preso questo,” mi dice, passandomi un sacchettino di carta bianca e lasciandomi un bacio sulle labbra prima ancora che io possa pensare di fermarlo.
“Che cos’è?” Chiedo, guardandoci dentro. Lui entra mentre io scopro che è passato dal mio negozio preferito e che tra questo momento e la nostra rottura ci sono due etti di vermi gommosi. Non riesco comunque a trattenere un gridolino e a metterne uno in bocca. “Grazie!”
Lui sorride e si toglie il cappotto. “Prego,” dice. “Scusa il ritardo, ma Stickle mi ha tenuto due ore inchiodato al mixer. Avevo un po’ di demo arretrate.”
Chakuza ha sempre demo arretrate, tanto che verrebbe da pensare che non fa niente dalla mattina alla sera e che il suo lavoro si accumula in grosse pile sulla sua scrivania. In realtà ha solo troppe cose per le mani e, in generale, preferisce comporre piuttosto che smistare decine di nuove proposte quando soltanto una su cento è vagamente passabile.
“Non fa niente,” mormoro.
“Hai cenato?” Mi chiede, inclinando un po’ la testa, ed entrando in cucina prima ancora di sapere la risposta.
“No,” ammetto. E d’altronde non ne ho avuto il tempo.
“Allora direi che è il momento di farlo,” esclama saggiamente. “Siediti lì, preparo qualcosa veloce.”
“Anis è stato qui.”
Lui si ferma per un istante, ma non si volta. Stringe la mano intorno al manico della padella che ha appena tirato fuori con sicurezza dal mio armadietto, poi ricomincia a muoversi. Recupera gli ingredienti e si aggira per la cucina scattando, senza mai guardarmi. “Sì?” Dice, c’è una nota aspra e sarcastica nella sua voce che mi fa già star male. Non voglio pensare a come sarà fra qualche istante.
“Noi… abbiamo parlato,” continuo. Sono in piedi, aldilà dell’isola della cucina e mi passo l’unghia dell’indice sul pollice, cercando il dolore. Penso a quale significato ha questo verbo nella mia vita, a quello che abbiamo davvero fatto – io e Anis – in quella stanza e mi ritrovo ad odiare una canzone che per un certo periodo della mia vita mi sono anche divertito a cantare.
Chakuza non risponde, si limita ad annuire mentre taglia un pezzetto di burro e lo fa sciogliere nella pentola, come se tutto fosse perfettamente normale. Vedo i suoi nervi tendersi lungo le braccia anche da qui, però. “Mi ha chiesto una cosa e io ci ho riflettuto e…”
“Che cosa ti ha chiesto?” Salta su lui. Lascia andare il coltello che fa un rumore metallico sul piano di marmo della mia cucina. Spegne il fuoco e si volta di scatto, il suo sguardo è così severo che faccio un passo indietro. “Avanti Bill, dimmelo e facciamola finita. Cosa ti ha chiesto e cosa gli hai risposto. Piantala di indorare la pillola, tanto non sei capace.”
Deglutisco. “Vuole che vada a vivere con lui.”
“Fantastico,” sibila Peter, neanche mezzo secondo dopo che gliel’ho detto. Si toglie il grembiule e lo getta con rabbia in terra. “Immagino che io ti abbia trovato in casa per sbaglio allora, com’è che non sei già in macchina con le valige nel bagagliaio?”
Vorrei poter correre in camera e rimettere a posto le valige aperte che sono sul letto, neanche Chakuza lo avesse detto perché le ha viste. Incasso il colpo e mi mordo un labbro. “Peter, è complicato..”
“No, non lo è, Bill,” mormora lui. “Tu vuoi stare con lui, fine del problema. Ed è sempre stato così, sempre, da quando questo schifo di situazione è iniziata.”
“Questo non è vero!”
“Sì che lo è,” mi aggredisce lui. “Tu la risposta la sapevi un mese fa, quando è tornato. Non c’è mai stata nessuna possibilità che tu rimanessi con me.”
Scuoto la testa e caccio indietro le lacrime perché vorrei parlarci con lui, non piangere. E poi so che stavolta non lo intenerirei né mi consolerebbe, e non voglio che succeda. Non voglio che rimanga immobile se ho bisogno di un abbraccio, è un’esperienza che non mi sento di affrontare adesso. “Non è così, Peter. Dav-.”
“Ti sei fatto scopare il giorno stesso che lo hai visto!” Urla senza lasciarmi finire.
Era dalla cena a casa di Anis che non lo ripeteva. Nonostante il gran casino che c’è stato in questi giorni non aveva più accennato al fatto che sapesse. Era un dettaglio scomodo che non pronunciava per il bene di entrambi, ma adesso gli leggo in faccia che sta troppo male per non ferirmi. Ne ha bisogno. E nonostante questo, io tento lo stesso. “Non…”
“Non ci provare nemmeno, Bill,” mi rimprovera subito. “Non dire che non è vero, cazzo. Almeno questo!”
Così sto zitto e guardo il pavimento, perché non riesco a sostenere il suo sguardo e per la prima volta da quando lo conosco, i suoi occhi non sono affatto buoni e gentili. Sono freddissimi, come non fossero più i suoi. C’è una buona parte di cattiveria, e di rabbia. Tutto il resto è delusione, e vorrei potermi rimangiare quello che ho detto. “Lo sapevi già,” ripete alla fine, dopo qualche istante e le sue parole, dopo questo silenzio, mi si conficcano dentro, fanno un male cane. “E avresti potuto dirlo invece di tirarmi scemo fino adesso.”
“Io non…” sospiro un mezzo singhiozzo, mentre mi passa accanto. D’istinto allungo un braccio per fermarlo ma lui si scosta con uno scatto talmente rabbioso che mi ritraggo. La sento quasi fisicamente la sua volontà di non volere avere più niente a che fare con me. “Mi dispiace, Peter,” mormoro.
“Non me ne faccio niente delle tue scuse,” è l’ultima cosa che mi dice, senza guardarmi, mentre si mette il giubbotto. Le lacrime riesco a trattenerle finché la porta non si chiude con uno schianto e non sento l’ombrelliera fuori sul pianerottolo finire a terra con un clangore metallico e poi rotolare lungo il corridoio. Peter è un grosso pezzo del mio cuore che si stacca e che con ogni probabilità non recupererò mai più.
Tra le lacrime, penso che ognuno di loro si è preso un pezzo di me e che non potrò mai più riaverlo indietro. Peter mi ha avuto a metà, e adesso Anis mi troverà ancora più incompleto di quanto non fossi quando mi ha lasciato; mi sgretolo e mi ricompongo come sabbia su una spiaggia, ma ogni volta ci sono meno granelli. Mentre chiudo le valige mi chiedo se alla fine di questa storia, qualunque sia, rimarrà abbastanza di me da riempire un bicchiere.
Spengo le luci e infilo le borse nell’ascensore, mentre guardo il portaombrelli a terra penso distintamente che dovrei essere più felice di così, ma dietro all’idea di me e di Anis riesco solo a vedere ciò che ho interrotto e mi dispiace. Solo questo.
Mi dispiace.

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