Sleeping With Ghosts

di lisachan
Chaku è appena andato di là a dormire. So che non voleva perché di solito aspetta che io mi sia addormentato, così può posarmi una coperta sulle spalle, augurarmi una buona notte silenziosa e scivolare calmo nel suo letto ripetendosi che anche per stasera ha salvato la Principessa dal tracollo emotivo.
Stasera però il sonno non arriva. Sono già le quattro del mattino e Chaku è andato a letto solo perché ho insistito nel fargli notare che la sveglia alle sette sarebbe passata del tutto inosservata se non fosse andato immediatamente a riposarsi. Non che in genere la cosa basti a farlo rassegnare, di solito quando dico cose simili mi rimpinza di birra e a quel punto il sonno viene come conseguenza naturale, ma stasera i miei occhi erano troppo vispi e svegli, credo, per dargli ad intendere ci fosse una possibilità di mandarmi in stand by.
Non ce n’è. Lo so. Stasera non sono proprio riuscito a salvarmi dal tracollo emotivo.
Il salotto – o almeno, questa stanzetta minuscola che Chaku fa passare per salotto, cosa che mi fa ridere molto se penso alla villa gialla di Anis ed alle mille sale che la componevano come una reggia – è scuro e silenzioso attorno a me. Il plaid scozzese che mi sono tirato su fino al naso non è fisicamente in grado di scaldarmi ed io non so se sia perché c’è freddo o perché lo sento e basta.
Alla fine, immagino non faccia molta differenza. Le sensazioni sono quelle, il corpo non mente mai. Se alla mia pelle manca il calore di un abbraccio, se mi manca la pressione di dita che conoscevo a memoria e che non potrei mai confondere con quelle di nessun altro, allora è semplicemente così che sto ed è quella la mia verità. L’unica che conti. Poco importa se in genere dopo tre settimane dalla chiusura di un rapporto si ha già dimenticato tutto e si va alla ricerca di un altro.
Il mio rapporto non s’è chiuso. Il mio rapporto è morto.
Anis è morto.
A volte questo pensiero non c’è. O c’è ed io non me ne rendo conto. Ma se non lo vedo posso almeno fingere che non ci sia, perciò diciamo che non c’è. A volte la realtà è più forte dei miei ricordi, perché comunque la realtà è un po’ così: fastidiosa ed invasiva. E c’è David che mi dice cosa devo fare e mi chiede come sto, e c’è Tomi che mi spintona qua e là per negozi e poi mi piazza davanti al DVD di The Notebook dandomi un motivo valido per piangere ancora, e ci sono Georg e Gustav che fanno i pagliacci e c’è Andi che mi chiama per descrivermi la nuova sfumatura di platino dei suoi capelli e c’è mamma che mi compra i regali e me li manda via posta o me li porta di persona, e naturalmente quando sono tanto triste da non farcela più c’è Chaku che non mi rifiuta mai una birra ed un posto sul divano, perciò sì, il più delle volte ce la faccio e provo pure a dirmi che sono forte e non sto affatto male.
Di notte, però, capita che mi ritrovi senza niente da fare e con nessuna voce nelle orecchie. Nessuno che mi distragga, nessuno che mi indichi dove andare a sbattere la testa per mandare la memoria in coma e staccarle definitivamente la spina. Perciò resto così, come adesso, avvolto da una coperta inutile che non è calda la metà dell’abbraccio che non avrò più, e fisso il soffitto come se da lì dovesse venire una qualche risposta, e mi ritrovo terrorizzato all’improvviso quando comprendo che la risposta che aspetto non arriverà, semplicemente perché non esiste.
E perché i morti non parlano, ovviamente.
Tranne che nella mia testa. L’ultimo luogo dove sono sicuro di poter ritrovare la voce di Anis sempre, e non nelle sfumature metalliche di un lettore musicale, ma nella sua completezza. In tutto lo splendore dei toni cupi di quando era triste, di quelli più acuti della sua risata da bambino mai cresciuto e in quelli ruvidi e caldi di quando era eccitato e mi sussurrava nell’orecchio sapendo che mi avrebbe ridotto ad un mucchietto di voglia da rigirarsi fra le mani.
La cosa peggiore è che non sono davvero memorie, non sono cose riconducibili a momenti ben precisi. Di quelli ne ho pieno il cervello. Di lui esausto buttato sul divano dopo una giornata intensa che mi chiede per piacere di parlare a bassa voce, per fare un esempio. O di lui che squittisce – e lo faceva davvero, un suono acuto e pungente come la risata dei bambini insopportabili, ma che sulle sue labbra era dolce tanto quanto tu eri impreparato a sentirlo – di fronte a qualcosa di particolarmente buono da mangiare. Aprire gli occhi e trovarlo addormentato al mio fianco con le braccia e le gambe larghe fino ad avermi rubato tanto di quel materasso da costringermi a rotolargli addosso. E dargli una gomitata in pieno petto mugugnando che proprio non sa dormire in coppia, mentre lui mi chiude le braccia attorno alle spalle e mormora “dormi e basta” direttamente sul mio collo. Che poteva esserci freddo da morire o un caldo intollerabile ma fra quelle braccia si stava bene comunque, regolavano la temperatura dell’aria attorno a me.
Questi sono ricordi. Sono contestualizzabili. Mi basta chiudere gli occhi e non guardare divani cibi letti eccetera, per non pensarci. Mi basta concentrarmi abbastanza su un foglio di carta e su tutto lo schifo che ci voglio gettare sopra, per dire.
Con le sensazioni è più difficili, perché le sensazioni non sono contestualizzabili. Quelle, bastarde, strisciano sopra e sotto la pelle, ed una volta che le hai provate diventano parte di te, ti scorrono dentro e non hanno neanche bisogno di azionare un interruttore per risalire a galla.
Soprattutto, quando ce la fanno, non le puoi fermare. Non basta chiudere gli occhi. Restare da solo le amplifica. Circondarsi di voci rumori e suoni le rende solo più urgenti. Non scappi. Che tu sia solo su un divano o in mezzo a una folla vociante, sei solo tu e l’eco della tua voglia che ti si arrampica addosso e ti colonizza il cervello.
Anis è una sensazione. I ricordi non contano, ma la sua presenza resta. Ce l’ho sempre qui, attaccata alla pelle, come fosse una cosa viva. Come se lui fosse ancora vivo. E non me lo sono tatuato addosso ma lui c’è rimasto lo stesso. Lì, dove non l’ho mai messo. Dove è arrivato da solo. Nel posto che s’è guadagnato in mezzo al mio petto. In realtà, andandosene non ha lasciato un buco: perché non è mai andato via.
La coperta scivola via alla terza volta che mi rigiro sul cuscino del divano di Chaku che ormai ha preso la mia forma. Mi ci sono scavato una tana a forza di premerci contro le ossa, è diventato un po’ il mio posto qua dentro. È strano che casa di Chaku mi ricordi tanto Anis, perché casa di Anis era un palazzo maestoso e questo è un trilocale che sembra una topaia, ma a pensarci capisco subito che il collegamento è diverso: non è una questione di ricordi, sono appunto le sensazioni. Qui c’è l’odore di Anis. C’è l’odore della sua presenza, che è rimasta attaccata alle pareti. Chissà quante volte è venuto qui a passare una serata in compagnia, o per recuperare Chaku prima di andare da qualche parte o chissà che altro. E il suo odore s’è imposto su queste pareti, su questi cuscini e pure sulle particelle di ossigeno, tanto che lui ora è ovunque.
Un po’ ho paura di realizzare che potrebbe essere uscito da me. Potrei avercelo portato io respirando, muovendomi, rigirandomi sul divano.
Chino il capo ed annuso la pelle della mia spalla.
Anis è ancora lì, lo sento. È denso e scuro com’era da vivo. Se chiudo gli occhi abbastanza forte sento la pressione dei suoi polpastrelli, ed è calda e dolce, premurosa. Me lo vedo che si china su di me e borbotta “Ma perché ti sei addormentato sul divano?”, e per un attimo mi chiedo che cosa ci faccia qui, visto che teoricamente non dovrebbe – potrebbe – esserci, ma poi guardo la curva apprensiva delle sue labbra serrate e scuoto lentamente il capo. “Non lo so”, rispondo, “guardavo la tv”, ed è una bugia ma mi secca rispondergli che pensavo a lui, lo so che gli dispiacerebbe sapermi ancora triste e debole.
Lui scuote il capo rassegnato e si china, è in ginocchio proprio qui accanto, se mi sporgo solo un po’ lo sfioro con le labbra, ed ho davvero voglia di farlo ma mi sento stanco e pesante, perciò mi limito a guardarlo, così è lui che deve chinarsi. Lo fa dondolandosi appena sui talloni, un movimento oscillatorio un po’ infantile, si china e me lo sento sulle labbra. Si allontana quasi subito ed io assaggio il suo sapore, o ciò che ne resta, direttamente dalla mia bocca. D’improvviso mi rammarico di non averlo baciato più a fondo.
“Torna qui…”, mugolo pietosamente, ma Anis si rimette in piedi facendo leva sulle ginocchia e guida la mia mano a recuperare la coperta da terra.
“Mi fai spazio?”, mi chiede poi, ed io mi raggomitolo tutto diventando un pallina minuscola, così lui, che a dormire in due non ha mai imparato, può prendersi tutto lo spazio che vuole.
Crolla accanto a me ed i cuscini sbuffano, fanno puff, si gonfiano e si sgonfiano sotto di noi. Anis ride divertito ed io mi sciolgo. Mi sciolgo da me stesso e mi sciolgo su di lui, ed è una sensazione così nostalgica e liberatoria che mi viene quasi da piangere, perciò pigolo un lamento a caso mentre mi adatto nuovamente alla superficie dura del suo petto e del suo ventre.
“Che c’è, piccolo? Cos’è che ti manca?”, chiede, e mi prende in giro. Mi manchi tu, stupido, mi manchi da morire. Mi uccide non poterti seguire. Ma tu ora sei qui, quindi va bene.
Mi sollevo pressando le mani sulle sue gambe. Lui tende i muscoli per non farsi male ed io li sento gonfiarsi sotto di me e per un secondo vorrei ricadergli addosso e basta, ma so che me ne pentirei, perciò finisco di mettermi seduto e lo bacio. Cerco le sue labbra con una voracità che credevo di avere perduto, e lui mi risponde con un’ansia che non credevo possibile, sento la pressione delle sue braccia forti attorno alla vita, mi tira verso di sé ed è tutto un concentrato di calore e fermezza mentre io sono debole e mi arrendo una dieci cento mille volte ai tocchi della sua lingua e delle sue dita, mentre s’insinua sotto la maglietta leggera ed oltre l’orlo dei pantaloni ed io mi ricordo che lo faceva sempre, non sopportava di avermi così vicino e tollerare i vestiti, erano di troppo, sempre, sono di troppo anche i suoi ma per qualche motivo non riesco a trovare abbastanza lucidità mentale da toglierglieli e basta, perciò lascio che sia lui a guidarmi, come ha sempre fatto, e va bene così.
Si separa da me con una risatina divertita ed io me la sento trillare nelle orecchie. Rispondo con un sorriso perché mi fa felice vederlo felice. Tutto qua.
“Sei morbido…” mi dice contro un orecchio.
“Sei tu.”, rispondo io in un singhiozzo, e lui ride ancora. Non credo che capisca. Non credo che realizzi.
Nemmeno io credo di capire o di realizzare. È lui. Dio, è lui.
Scende a sbottonarmi i jeans ed io ridacchio.
“Non sei cambiato affatto”, lo apostrofo, baciandolo sulla punta del naso.
“E perché avrei dovuto?”, borbotta lui, aiutandomi a sollevarmi un po’ per liberarmi dai pantaloni il minimo indispensabile per mettermi le mani addosso, “Non ho mica fatto niente, di recente. Una noia mortale”. E mi viene voglia di prenderlo a pugni ed invece mi abbatto contro di lui e rido, rido, rido piano per non svegliare Chaku e per non svegliarmi neanche io, presso il naso contro la sua spalla e sento l’odore pulito e fresco del cotone – conosco questa maglietta, la B rossa sul davanti, non dovrei pensarci, la ignoro – Anis mi fa scorrere una mano lungo la schiena e l’altra davanti s’infila oltre l’orlo dei boxer e prende a giocare col mio corpo, che risponde subito. Dio, ne ho sentito così tanto la mancanza… così tanto…
Stringo le braccia attorno al suo collo e mi lascio solleticare dalla barba un po’ ispida, ansimando forte sulla sua pelle.
“Ti piace, piccolo?”, bisbiglia lui baciandomi sotto l’orecchio.
“Sì…”, sì che mi piace, vorrei di più ma mi piace, faccio per muovermi e scendere giù, cercando a tentoni la zip dei suoi jeans perché lo voglio davvero, non mi sembra possibile poterlo toccare ancora ed allora lo voglio tutto, ma non capisco perché quando tocco non tocco niente, le mani vagano a vuoto, c’è solo aria; apro gli occhi e lui è ancora qui che mi sorride e mi accarezza, ed io stringo i denti e contraggo i muscoli sperando di non venire ancora, non ancora, non ancora, ti prego, lo voglio sentire dentro, prima, ma lui bisbiglia “lascia perdere, piccolo, lascia perdere” e mi bacia ancora, ed io lo sento che è fisico e vero, non è solo aria, ma le mie mani non toccano più nulla, non c’è più nulla da toccare e non c’è più nulla da sentire, eppure le labbra sono lì, le mordo con forza mentre mi libero contro la sua mano, ed è allora che riesco a toccare qualcosa, qualcosa che è duro e consistente ed umido – umido? – e nudo – nudo? – ed apro gli occhi e lui non c’è.
Lui non c’è.
Ed io non sono seduto, sono ancora disteso.
E la coperta è ancora per terra.
E le mie mani stanno toccando me stesso.
Ho il fiatone e mi sanguina un labbro. Mordevo me stesso. Toccavo me stesso. Lui non c’era. Non c’è mai stato. Dormivo o sognavo ad occhi aperti o qualsiasi cosa fosse – lui non c’era. Non c’era. Non c’è.
Mi alzo in piedi di scatto e non so come faccio ad arrivare fino al bagno senza inciampare nei pantaloni che cascano o nella coperta aggrovigliata sul pavimento. Arrivo fino al bagno e mi abbatto contro il water, stringo forte le dita attorno al bordo della mezza vasca che lo fiancheggia e svuoto il niente che mi tengo dentro, perché stasera non ho neanche mangiato. La bile è acida e amara contro il palato, ha un sapore orrendo che mi fa venire voglia di vomitare ancora di più.
Sono amare pure le lacrime, vaffanculo a loro. Perché? Perché lo faccio? Perché mi prendo in giro? Perché non posso semplicemente mandare via o buttare giù o lasciare indietro o tirare avanti o qualunque sia la banale espressione che si usa per dire che rivoglio la mia vita, merda, la rivoglio sana, non voglio guardarmi allo specchio e ritrovarmi ogni volta disperso in un milione di pezzi…
Io non so come fare a ricompormi, non ne ho la più pallida idea… ho sempre lasciato che fosse Tomi a rimettermi insieme, e non capisco perché non ci riesce proprio stavolta che ne avrei più bisogno in assoluto…
- Bill? – la voce di Chaku è assonnata e confusa, all’inizio, ma poi lo sento muoversi dietro di me e capisco che sta cominciando a ragionare. La seconda volta che mi chiama, infatti, è più deciso. – Bill. – ripete, raggiungendomi in due passi ed accucciandosi accanto a me, - Che hai? Stai male?
Annuisco perché non ho la forza neanche di mentire.
- Cos’è? Lo stomaco? – chiede lui, lanciando un’occhiata poco convinta all’acqua torbida nel water, - Vuoi che ti prenda qualcosa? – ma tanto non c’è niente che possa farmi bene. – Bill?
Mi trascino sul pavimento verso di lui e mi schiaccio contro il suo petto. Che è caldo e si muove un po’ ansiosamente al ritmo del suo respiro.
- Bill…?
- Ho bisogno… - faccio fatica a parlare e mi nascondo contro di lui perché mi sento terribilmente in imbarazzo, - …posso stare un po’ così?
Lui annuisce appena e mi circonda con un braccio, mentre con la mano libera recupera un pezzo di carta igienica e si sporge verso la vasca, aprendo il rubinetto ed inumidendolo per poi passarmelo sulle labbra.
- Non riuscivi a dormire? – mi chiede, palesemente perché il silenzio s’è fatto insopportabilmente pesante.
Scuoto il capo. Dormivo ed il mio corpo andava fuori controllo. Vorrei non dormire mai più. Vorrei che non calasse più il sole.
- Sicuro di non volere usare il mio letto? – chiede ancora lui, imbarazzato e a disagio. – È davvero più comodo ed ho… - esita, - ho cambiato le lenzuola stamattina, se questo ti preoccupa e-
- Non sono preoccupato. – mando giù un po’ di saliva. Mi brucia la gola. – Non possiamo rimanere un po’ così e basta?
Chakuza si arrende. Smette, probabilmente, di cercare di scavarmi nella testa. Tanto sa che, se volessi dirgli qualcosa, gliela direi.
Restiamo immobili finché alla luce artificiale del bagno non si aggiunge quella del primo sole che filtra dalla finestra in alto. Non sembra meno artificiale dell’altra, ma io non sono neanche più tanto sicuro che riuscirei a distinguerle.

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