Natural Disaster

di lisachan
La casa di Anis mi ha sempre messo un po’ di paura.
Prima di tutto perché, oltre ad essere spaventosamente gialla, è anche spaventosamente grande. La odio proprio concettualmente, perché è una stupida casa da single straricco. Una casa da rimorchio, ecco. Quella che, quando la ragazza di turno si avvicina, provoca gridolini isterici e oh, mio dio, hai anche la terrazza? E me lo vedo lui, che sorride e risponde non è una terrazza, e poi le porta su, all’ultimo piano, e c’è la serra con il soffitto in vetro completamente apribile, come un’enorme finestra sul cielo.
No, dico, una serra.
Che se ne fa un rapper di una serra?
Neanche la cura lui!
Però gli piace, dice che dentro ci si trova bene e che ogni tanto gli piace fare crescere le cose. Vallo a capire.
Comunque sia, odio questa casa e ne ho pure paura. Poco da fare.
Ogni tanto, però, mi ritrovo a passarci giornate intere completamente da solo. Non è neanche così inusuale: ultimamente, poi, col fatto che passiamo a Berlino la quasi totalità del nostro tempo, è questione quasi quotidiana. Non ce la faccio a stare tutto il giorno appresso a Tom, non ce la faccio perché per Tom ogni occasione è buona per ricordarmi che odia il mio uomo ed odia il fatto che io ci stia insieme.
Visto che, per quanto mi riguarda, parlerei di Anis tutto il giorno, le occasioni per Tom si moltiplicano all’infinito, e la cosa è… frustrante.
Perciò, visto che non ci vuole niente ad afferrare Saki e strillare “scortami”, lo faccio spesso. Di solito qui c’è sempre Karima ad attendermi. Anche se ha sempre qualcosa da fare – e ci credo: questa casa è enorme e lei la governa praticamente da sola – trova sempre un po’ di tempo per farmi il tè al gelsomino, ed è una cosa fantastica. Anche perché di solito poi ci mettiamo a parlare e vengono fuori cose meravigliose tipo “quella volta che il signor Ferchichi si ritrovò un gatto in balcone e per poco non si ammazzò cadendo di sotto nel tentativo di recuperarlo prima che s’infilasse nella serra”, o altre amenità simili.
Il mio uomo, ovviamente, non si degna di farsi vedere prima delle otto di sera, minimo. Mi chiedo cosa se ne faccia di questa casa – cosa se ne faccia di tutti i suoi appartamenti, in genere – se poi ne usa solo le camere da letto, per dormire o altro, dipende. Dovrebbe imparare ad usare gli ambienti in maniera più creativa. Che so… dormire in salotto, o sul tavolo della cucina. Così tutte le stanze avrebbero un loro perché.
Oggi, quando sono arrivato, la casa era desolatamente vuota. Ho lasciato scivolare le chiavi sulla consolle all’ingresso, ho buttato in un angolo la borsa ed ho improvvisamente realizzato che è venerdì: ciò significa giornata libera di Karima e… per Anis non lo so, lui è sempre pieno di impegni, non ha un giorno libero neanche a pagarlo. Che poi lo pagano per tenersi impegnato, quindi mi pare pure normale.
Mi sono aggirato con aria da zombie per le stanze che conosco – vale a dire l’ingresso, il salotto e la cucina – poi sono andato a spalmarmi sul suo letto in camera, ho rotolato fra le lenzuola, ho disfatto tutto, combinato un casino epocale e poi, sorridendo come un bambino, sono tornato nella sala e mi sono gettato sul divano a peso morto, andando alla ricerca del telecomando per accendere la tv e vedere se per caso beccavo qualcosa di interessante – lui. Me. Nena. E così via.
Alla fine, mi sono rassegnato. Il vuoto regnava incontrastato ovunque e l’unica cosa interessante che ho scoperto dalla televisione è che VIVA non ci passa più spesso quanto prima. In compenso, ha i Killerpilze in rotazione continua, e ciò è oltremodo irritante. Dovrò parlarne con David.
Rimango accucciato sul divano, le adidas a strisciare con una certa crudele lentezza sulla pelle nera e – precedentemente – immacolata del cuscino, e proprio quando mi sembra di cominciare a sentire le voci nella testa per la noia – tipo: c’è mio fratello che continua a ripetermi “te l’avevo detto, che ti avrebbe trascurato!” – ricordo un particolare fondamentale e importantissimo che potrebbe cambiare la mia giornata.
Ultimamente, Karima s’è fatta prendere da una certa mania salutista che non so sinceramente da chi abbia preso – posso solo pensare all’unica, singola e mai ripetuta volta in cui David è passato di qui per riportarmi a casa ed Anis l’ha invitato a restare per cena.
No, la cosa va raccontata. A parte il fatto che mi sono sentito enormemente orgoglioso del mio uomo, per come in due-sorrisi-due sia riuscito a stregare David al punto che dopo cena ha accettato anche di andarsene a mani vuote, cioè senza il sottoscritto. Ma poi quest’uomo che in teoria mi ha quasi cresciuto ha fatto in dieci minuti più capricci di quanti ne faccia io in una settimana intera. E non vuole mangiare carne, e la salsa è troppo piccante, e nella pasta non ci saranno mica dei fegatini, perché io non li posso mangiare!
Insomma, la povera Karima gli ha dato da mangiare una ciotola di biada, tipo, e lui le ha fatto un sorriso talmente enorme e grato che credo l’abbia turbata nel profondo.
Perciò ha deciso che in questa casa si mangia solo lattuga.
Ora, se qui ci vivesse David, la cosa sarebbe pacifica: lui e Karima continuerebbero a ruminare erbacce e si amerebbero per tutto ciò che resta delle loro vite. Purtroppo, però, in questa casa orribile ci vive Anis, che è tutto meno che vegetariano, e quando torna a casa in genere è così affamato che bisogna ringraziare non ci mangi me e la cameriera crudi e vestiti per come siamo.
Si può immaginare bene che per un uomo impegnato come lui tornare a casa e trovare una vasca di roba verdognola e umidiccia non sia esattamente il ritratto di una cena perfetta. Certe volte guarda Karima con occhio triste, chiedendosi dove sia finita la brava cuoca tunisina cipolla-friendly che credeva di conoscere.
E poi, una o due notti fa, me l’ha confessato. Stavamo arrotolati sul suo letto, io stavo cercando di convincerlo a scoparmi ancora ma con scarsi risultati – anche Anis ha i suoi limiti, c’è da dirlo – e lui ha grugnito un dissenso random e poi ha detto “Ho fame. Mi mangerei un vitello. Karima mi affama. Voglio del kebab”. Così, tutto di seguito. I punti neanche c’erano, li aggiungo io per facilità di pensiero, perché mi dà fastidio ammettere che qualcuno oltre me possa pensare senza punteggiatura.
Ed ecco che ogni mio problema si risolve. So cosa fare!
Balzo in piedi senza spaccarmi in due per un motivo che posso imputare solo al sacro fuoco dell’amore che mi sostiene – altrimenti la mia schiena non avrebbe retto, posso giurarlo – e mi fiondo in cucina. Questo posto che mi è totalmente alieno. Io non cucino mai. Io faccio cucinare mio fratello, e non perché sia bravo, ma perché non voglio prendermi responsabilità in questo senso.
Vengo colto da un momento di panico.
Cosa sto facendo? Non voglio veramente farlo.
Poi mi torna in mente il mio Bu senza virgole e con tanta fame e sospiro.
Dunque, il manuale delle ricette di Karima dev’essere qui da qualche parte. Lei lo tira fuori solo in occasioni speciali, per piatti inusuali o che comunque non prepara da tempo, ma fortunatamente ha appuntato anche un sacco di ricette più semplici, più che altro perché quando è solo Anis lo usa per cucinare le uova coi piselli in tegame, per dire. Ha bisogno delle spiegazioni passo dopo passo.
Mi guardo intorno. La mensola. Ci sono tutta una serie di gioiosi libri. Mi avvicino con aria sprezzante e godo internamente nel non aver bisogno dello sgabello su cui Karima si arrampica di continuo, per arrivare a vedere i titoli sulle costine. In mezzo a un sacco di roba inutile, una copertina in pelle marrone un po’ logora mi colpisce, ed io sorrido. Ecco qua la mia Bibbia per le prossime due ore.
Tiro giù il volume e lo apro sul tavolo con una certa sacralità. Non posso credere che ci sia la ricetta per il latte e biscotti – comprensiva di conteggio preciso dei secondi per i quali il singolo biscotto può stare a mollo senza sfaldarsi – o quella per montare la moka, eppure ci sono. Se non fosse ridicolo sarebbe tenero. Prendo nota mentalmente di sfottere Anis fino alla morte per tutto ciò e passo avanti.
La ricetta del kebab ovviamente c’è. È verso la fine – ricette di livello avanzato, leggo scritto sulla pagina che le precede – e già ad una prima occhiata so che non le sopravvivrò. Intanto, già qua mi dice che ho bisogno di una cinquantina di fette di carne. Ora, non esiste. Sarò già fortunato a trovarne due. Facciamo che cerco di moderare le quantità degli ingredienti, ecco.
Corro verso il frigorifero giallo come la casa che domina incontrastato la cucina dall’alto dei suoi quasi tre metri d’altezza, e mi fiondo nel reparto carne – che poi è un cassetto accanto al reparto salumi, che è un altro cassetto.
In effetti, sono piuttosto fortunato: ben tre bistecche attendono solo che io le trasformi in qualcosa di commestibile.
Per un attimo mi chiedo se le bistecche vadano bene, come tipo di carne. Non ne sono proprio sicuro, qua la figura – sì, ci sono le foto, fissate alla pagina con le puntine da disegno rosse a pallini neri, come le coccinelle – sembra completamente diversa, ma comunque. Scrollo le spalle: in fondo è l’unica carne che c’è.
La ricetta ora dice che devo insaporirla con le spezie e marinarla.
Marinare non so nemmeno cosa significhi, sinceramente. Dovrei metterla a mollo in acqua salata?
Be’, le spezie, prima. Apro uno stipetto e tiro fuori tutto ciò che mi sembra possa corrispondere alla descrizione. Origano, menta, peperoncino, cannella… coriandolo? Che razza di nome è coriandolo, per una spezia? Ma poi, dovrò metterle tutte insieme?
La ricetta non è così specifica. Forse Karima sapeva che Anis non ci avrebbe mai messo su le mani, perciò non l’ha resa Bushido-friendly.
Mi piace questo modo di appellarmi alle cose.
Questa ricetta non è Bill-friendly, comunque. Ma è ciò che Anis vuole, perciò lo preparerò.
Dunque, afferro un pentolone da uno dei ripiani sotto il lavello, lo riempio d’acqua, spargo un po’ di sale e ci butto dentro le tre fette di carne. Fanno splash e si posano sul fondo senza ribellarsi. Annegano, ed io spargo sopra le ceneri di questo funerale. Origano, menta, peperoncino, cannella e pure coriandolo, che in realtà me l’aspettavo più simpatico, e invece e una roba fatta di palline inquietantissime.
A questo punto, suppongo vada cotta. Lancio un’occhiata a caso al ricettario e vedo un “un’ora e mezza circa” che immagino sia il tempo di cottura. Sinceramente, il tutto mi fa un po’ senso, perciò decido che basta così: accendo il fuoco sotto la pentola, ci metto su un bel coperchio e chiudo il tappo in alto, così il vapore non fugge via, e poi abbandono la cucina. Tornerò a controllare quando sarà scaduto il tempo.
Nel mentre, vagolo un po’ per casa. Questo posto è noiosissimo, quando non c’è nessuno in giro. Tanto per cominciare, c’è un silenzio di tomba, e questa cosa è inquietante. Continuo ad aspettarmi che salti fuori qualcuno random da un angolo, brandendo un coltello o qualcosa di peggio. È spettrale. Il fatto che qui intorno sia tenuto d’occhio da qualcosa come dieci o quindici guardie del corpo non mi rassicura minimamente.
Saltello in salotto e mi riapproprio del divano. Il telefono, dal tavolino alto qui a fianco, mi guarda e mi fa l’occhiolino. Potrei chiamare Tom, ma suppongo che litigheremmo. Potrei chiamare Anis, ma poi capirebbe che sono qui e vorrei fargli una sorpresa. Magari chiamo Chaku. No, e se poi è con lui e glielo dice? Be’, potrei sempre aprire la telefonata strillando “Non dirgli assolutamente che sono io!”, ma poi succederebbe come l’ultima volta, che lui sarebbe costretto a rintanarsi in un angolo e tutti si metterebbero a sfotterlo dicendogli che se ha una donna deve presentarla alla crew come tutti gli altri. E così poi lui dovrebbe dire che ero io e, a parte rovinare la sorpresa, Anis s’incazzerebbe pure, perché quando va in modalità è-mio-e-nessuno-lo-tocca io posso anche dirgli che Chaku è adorabile ma non ci combinerei mai niente, lui non mi ascolta comunque.
Insomma, non mi resta che annoiarmi. Annoiarmi e aspettare che il mio kebab – che, visto l’amore che ci ho messo nel prepararlo, non potrà che risultare buonissimo – sia pronto.
Un’ora e mezza.
Magari, se metto la sveglia nel cellulare, posso farmi una dormita…
*
Mi sveglio presto. Nel senso che la suoneria del cellulare non è ancora suonata. Lo so perché l’orologio piccolo tondo e giallo che fa da indicatore è ancora lì sul display. Quando suona, scompare. E invece è ancora lì. E io sono già sveglio. Il mio orologio biologico è molto ingiusto, nei miei confronti.
Poi realizzo di botto che il mio orologio biologico sta cercando di salvarmi la vita. Lo realizzo nel momento stesso in cui sento un fischio dannatamente spaventoso provenire dalla cucina e svegliarmi del tutto.
Salto giù dal divano e corro verso il mio povero kebab. Il tappo della pentola salta – è come un’esplosione, batte contro il soffitto e poi cade a terra, io strizzo gli occhi terrorizzato.
- Cristo! – rantolo in un impeto di frustrazione, mentre cerco di avvicinarmi alla pentola senza finire ustionato dagli schizzi d’acqua o abbrustolito dal fumo. Acqua, per la verità, ne è rimasta ben poca, e s’è trasformata in una brodaglia rappresa e schifosa che fa un puzzo infernale. La carne s’è carbonizzata quasi tutta, e le uniche cose che riesco davvero a distinguere sono le palline di coriandolo, ancora perfettamente sferiche, solo un po’ tostate, mescolate a granelli e fogliette di ogni tipo di schifezza.
Mi viene da vomitare.
Allungo una mano e faccio girare la manopola del fornello, spegnendo il fuoco.
Oddio, non so che fare.
Provo a prendere la pentola dalle maniglie, ma mi rendo conto anche a qualche centimetro di distanza che sono incandescenti. Dio, farò del male a Karima per tutto ciò. La sua ricetta era tutta sbagliata e troppo complicata da seguire, e vaffanculo!
Non so come mettere a raffreddare questa cosa.
Dio, è così calda che ho paura si possa sciogliere.
Ma l’acciaio inossidabile sarà pure… inscioglibile? Ma esiste, la parola?
Dio. Dio, dio, dio. Mi odio così tanto, cazzo.
Rifletto un po’. Mi viene da piangere, merda. Non ci riesco, a riflettere.
Penso solo al frigo. È mezzo vuoto, il giorno della spesa è domani, non c’è quasi più niente. Ci sarà lo spazio per una pentola. Apro lo sportello e vedo che, in effetti, c’è un ripiano completamente vuoto. È quello dei dolci, sta in alto, più vicino al freezer. Magari è pure più freddo. Magari, se la metto lì, si rinfresca più in fretta, ed avrò pure il tempo di pulire tutto questo disastro prima che Anis torni. Magari la scampo.
Dio. Voglio piangere.
Prendo la pentola con due strofinacci umidi e la metto là in alto. È una cosa tremenda. Stavo per morire! Stavo anche per fargli esplodere la casa, ma soprattutto stavo per morire! Già me lo vedo, tutto in nero al mio funerale, con un completo sobrio e semplice, le scarpe nere e lucide ed una camicia scura, senza cravatta, un cappello a tesa larga calato sul viso. Bellissimo! Ed io in una stupida bara a farmi mangiare dai vermi. Non posso credere di avere quasi privato il mio Bu della mia presenza, è una cosa indecente.
Piagnucolo un po’ mentre esco dalla cucina e vado di nuovo verso il telefono. Ho dannatamente bisogno di parlare con qualcuno. Accarezzo l’idea di chiamare comunque Tom, senza un perché, non m’interessa che mi rimproveri o mi prenda in giro, ho voglia di sentire un essere umano che mi parla. Potrei chiamare Anis e dirgli di venire subito, ma fare la solita figura del cretino che non sa come risolvere i guai in cui si caccia, e sinceramente non voglio che sia questa l’idea che ha di me. Non voglio che pensi di non potermi lasciare solo a casa senza che io combini qualche danno, anche se è vero che se mi lascia solo a casa ne combino.
Mentre sto qui ad accarezzare la cornetta di questo stupido e vecchio telefono d’epoca che non sono neanche sicuro funzioni, perché quando è in casa Anis va in giro col cordless ed usa solo quello, sento uno strano frizz frizz proveniente dalla cucina. Ho appena il tempo di sollevare il capo e dirmi “oddio, ancora no, ti prego”, che sull’intera villa cala un buio pesto e sconvolgente.
- Oddio… - mugolo terrorizzato, portandomi una mano sul petto, - Oddio… - cerco di muovermi senza urtare niente, ma non è facile perché i mobili non ricordo esattamente dove sono, sono troppi, perciò sbatto un po’ ovunque e domani avrò tanti di quei lividi che cominceranno tutti a pensare Anis mi picchi, ne sono sicuro.
Raggiungo la cucina e cerco di capire se sia successo qualcosa di irreparabile o se sia solo un guasto momentaneo, quando poso il piede su qualcosa di umido e scivoloso e casco a terra di schiena.
- Merda… - cerco di muovermi. Sono praticamente immerso in una pozza d’acqua. Mi sono infradicito tutto. Mi fa male la schiena ed anche il sedere, vaffanculo. Non so cosa sia successo ma di sicuro è una cosa tremenda, qui è tutto bagnato ed io non so più dove sbattere la testa, e la voglia di piangere non è più nemmeno una voglia, perché sto piangendo davvero. Coi singhiozzi e tutto. È tremendo. Sono un cretino.
Mi sollevo sui gomiti e, già che ci sono, mi bagno pure lì. Questo fottuto frigorifero non voglio neanche provare ad aprirlo. Che esploda pure, se vuole. Fanculo lui e tutto il resto.
Mi trascino stancamente fino all’angolo più lontano della cucina, e se non divento un disgustoso ammasso di schifezze devo ringraziare solo Karima che passa lo straccio due volte al giorno. Mi raggomitolo contro la parete e chiudo gli occhi, perché tanto non vedo niente ed in ogni caso, anche se vedessi qualcosa, non mi andrebbe di guardarla.
Resto così non so per quanto tempo. Posso sentire solo i miei singhiozzi e i miei respiri strozzati. Sono esattamente il bambino per cui mi piace farmi passare. Non esiste un Bill Kaulitz più maturo, sono una stupida maschera da palcoscenico. Non c’è niente di maturo o di adulto, in me, e non ho la minima idea del perché Anis mi trovi attraente o possa desiderare di stare con me, difendermi o mettersi nei casini mentre lo fa. Non me lo merito. Non mi merito niente. Faccio schifo.
Quando sento le chiavi girare nella toppa e la porta aprirsi e poi richiudersi, vorrei davvero chiamarlo. Ma un po’ mi vergogno, un po’ ho paura di ciò che potrebbe dire, un po’ proprio non mi riesce di smettere di piangere, perciò rimango qui a singhiozzare come un deficiente e neanche mi muovo, anzi, stringo ancora più le ginocchia al petto, fino a scomparirmi dentro.
Un interruttore scatta a vuoto. Una volta, due volte.
- Ma che…?
La voce di Anis mi fa saltare in cuore in gola. Mi sento soffocare e tossisco un po’.
- Chi c’è? – chiede lui, il tono fermo e deciso col quale immagino sia pronto ad affrontare qualsiasi devastazione.
Ma eri pronto per una devastazione simile, Anis…?
- Sono io… - piagnucolo disperato, stringendomi nelle spalle, - Sono in cucina…
La gomma delle suole delle sue scarpe da tennis striscia sulle piastrelle in marmo misto e si muove velocemente nella mia direzione.
- Bill? – chiede dolcemente, - Piccolo, ma dove sei? Da quando se n’è andata la luce?
- Non se n’è andata… - continuo a piangere, mentre lui prova a far scattare l’interruttore della cucina, anche stavolta senza successo, - L’ho fatta andare via io… - motivo confusamente, raggomitolandomi a palla.
Lui ridacchia, un po’ incerto.
- Non sei affatto così brutto. – cerca di consolarmi, - Ma mi dici dove sei?
- Qua in fondo! – strillo istericamente, sollevando il capo e battendolo forte contro qualcosa che non voglio identificare. – Ahi… - mugolo, - Mi va tutto storto, è un disastro…
- Okay, senti, calmati. – dice lui, conciliante, - Vado a prendere una torcia. Non ti muovere.
E chi ci pensa. Rimango in silenziosa attesa del suo ritorno, e sollevo lo sguardo solo quando sento la luce giallastra e calda della torcia scivolarmi curiosamente sul corpo.
- Cazzo, piccolo, ma che è successo…? – chiede lui, fissandomi sgomento dalla porta della cucina, - Ma stai bene?
- No. – rispondo a bassa voce, tornando ad abbassare lo sguardo.
La torcia mi abbandona. Vaga intorno al mio corpo, davanti al frigo, sui fornelli.
- Non dirmi che hai provato a cucinare… - esala lui, senza fiato e senza muoversi.
Io non rispondo.
- Bill, dai. – mi richiama pazientemente, - Vieni qui. Su.
- No! – ripeto ancora, più deciso.
Non so cosa sto facendo. Mi sento una merda e basta.
Anis sospira ed evita la pozzanghera, raggiungendomi ed accucciandosi al mio fianco, stringendomi immediatamente fra le braccia. Mi ci sciolgo senza pensare, affondando nella felpa che ha il suo profumo ed è morbidissima, al contrario della merda che mette Tom e che mi irrita sempre il viso.
- Mi dici cosa è successo? – chiede dolcemente.
- Tu volevi il kebab! – rispondo ansioso, aggrappandomi con forza alla sua maglia.
- Aha. – annuisce, - Okay, è colpa mia?
- …vaffanculo.
Anis ride fra i miei capelli. Capisco che stava scherzando. Non è che non lo sapessi, ma la sua risata mi conforta, un po’.
- Senti, è tutto okay. Ci sarà stato un corto circuito. Adesso tu mi reggi la torcia e lo sistemiamo, d’accordo?
È carino che abbia usato il plurale. Voglio dire, io non sarò mai e poi mai in grado di riparare un guasto all’impianto elettrico, non so neanche cambiare le lampadine, voglio dire, non sono nato per fare cose simili!, ma è lo stesso carino che lui provi a farmi sentire parte di questa cosa.
- Ti tengo la torcia… - annuisco piano, rimettendomi in ginocchio e poi in piedi, mentre lui continua a sorreggermi come avesse paura di vedermisi sfaldare fra le mani.
Lascia la cucina e torna qualche secondo dopo con una cassetta degli attrezzi.
No, vorrei ripeterlo: una cassetta degli attrezzi.
C’è qualcosa che non sappia fare?
- Vieni qui, dai. Diamoci una mossa. – dice spiccio, afferrando quei millemila quintali di frigorifero e spostandoli come niente.
- Ma… è pesante… - commento annichilito.
- Ha le rotelle, sotto. – risponde lui con un mezzo sorriso, chinandosi sul pavimento. – Aspetta. – borbotta, - La maglia è nuova, non la posso distruggere così. – la tira via con un gesto accorto e immediato, e me la tende educatamente, - Reggi?
Prendo la maglia e gli pianto la torcia addosso.
- Sì, ma non negli occhi. – sorride lui, riparandosi dalla luce - Tanto vuoi guardare più in basso, no?
Arrossisco e gli punto effettivamente la torcia sul petto.
- Ma la smetti di fare il cretino? – ride ancora, ed io non posso fare altro che seguirlo. – Puntamela qui sulla presa. – ordina poi, tornando serio. Io ubbidisco e lo sento mugugnare. – Eh, infatti, guarda, è perché s’è bagnato tutto. Magari dentro non s’è neanche bruciato. Il salvavita in teoria dovrebbe scattare prima. Mi passi il cacciavite a croce?
- Il che…? – chiedo, un po’ disorientato. Mi fa stranissimo sentirlo parlare così. L’uomo del ghetto, voglio dire. Ma com’è che non lo prendono a calci dalla mattina alla sera, quelli della crew? Io lo farei. Chakuza, che è un peluche, in confronto mi sembra un vero uomo di strada, al momento.
- Lo riconosci subito. – dice lui senza scomporsi, - Ha il manico rosso e giallo, è praticamente fosforescente.
Facilmente individuabile al buio. Sono ufficialmente sconvolto.
Lui stacca la presa, la apre, la tasta un po’.
- Sì, è bagnato ma non è andato in corto. – si volta e mi sorride. Io non lo vedo, perché la torcia è di nuovo puntata altrove, visto che la presa e gli addominali sono troppo vicini per puntare una ed ignorare gli altri, però lo sento lo stesso. – Siamo stati fortunati. – decreta alla fine, - Questa la lasciamo asciugare tranquilla ed ora riattacchiamo la luce. – annuisce e si rimette in piedi. Io me lo ritrovo improvvisamente a due centimetri dal mio corpo, mezzo nudo, lievemente sudato e coi pantaloni fradici d’acqua.
Non so come faccio a resistere alla tentazione di schienarlo e farmi scopare ora e subito.
- Passato lo spavento? – chiede, inclinando lievemente il capo.
Io annuisco senza neanche respirare.
- Perfetto. – annuisce anche lui, - Aspetta qui, vado a riattaccare l’interruttore principale.
Fa per muoversi e lasciare la cucina. Lo afferro per la cintura e lo tengo fermo.
La torcia cade a terra, per un qualche miracolo non si rompe e rotola oltre il suo corpo, proiettando le nostre ombre sulla parete di fronte.
Non dico niente. Socchiudo gli occhi. La sua ombra si china sulla mia e poi mi sento addosso le sue labbra.
- La luce può aspettare. – sussurra contro il mio collo.
Sorrido e mi lascio sollevare sul tavolo.

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