L'anatomia federale del Chaku

di tabata
Fra tutti i difetti che si possono trovare al sottoscritto, fra i quali vale la pena di menzionare che sono un delinquente, che ho spacciato, che ho gettato il cadavere di un uomo nel canale di Tempelhof e, naturalmente che non metto mai i calzini sporchi nel cestone, non si può dire che io non sia un uomo paziente. Ho sopportato cose per le quali un qualsiasi altro essere umano normale avrebbe dato di matto, e l’ho fatto per così tanto tempo che dovrebbero darmi un riconoscimento al valore. Oppure studiarmi, non lo so. Di sicuro non ho precedenti e sono quasi certo di essere un caso patologico. Potrei riscrivere interi manuali di psicologia.
Nel corso degli ultimi tre anni, l’uomo che vi sta parlando è stato in grado di passare sopra ad ogni genere di sopruso, e quando dico ogni genere, intendo proprio qualsiasi cosa. Chakuza ha collezionato un numero incalcolabile di cazzate perpetrate ai danni della mia persona e io ho sempre lasciato correre, perché quell’uomo mi fa cose che non so nemmeno spiegare e in virtù di queste cose inspiegabili io gli perdono veramente tutto.
Chakuza mi ha preso e lasciato almeno quattro volte, come e quando voleva lui e senza per altro mostrare nessun tipo di rimorso, e fra una volta e l’altra – se non lo avessi fermato – mi avrebbe anche usato come diversivo; perché Peter è così, caratterizzato da un’anatomia federale – tutte le zone del suo corpo ragionano autonomamente – per cui se decide di pensare con lo stomaco, mangia fino a schiantare. Se ragiona con l’uccello, vi lascio immaginare. Che ragioni con la testa è raro, per cui lasciamo perdere. Ad ogni modo, dicevo, quello ragiona per compartimenti stagni e di quello che fanno le sue singole parti, il suo cervello generalmente non sa mai niente per cui lui può anche essere un uomo buono – cosa che in effetti è, per l’amor di Dio – ma magari le sue mani, o le sue gambe, o altro – che è peggio – buoni non lo sono affatto. E allora fa cose. Questo per dire che anche quando non stava con me, mi sarebbe saltato addosso non so quante volte perché in quel momento aveva la libido distratta, non focalizzata sull’oggetto dei desideri giusto, e quindi gli bastava sentire l’odore che impazziva come un cavallo. E io lì a fermarlo, perché poi io oltre che paziente sono anche buono – buono tutto, per altro, perché la mia è un’anatomia repubblicana – e al ragazzino volevo bene per cui non mi sembrava proprio giusto fargli una carognata simile, dal momento che lui si fidava di entrambi.
E sono anche rimasto ampiamente sul trascurabile, rendiamoci conto; perché alla fine questo è niente se si pensa che fra me e lui è cominciata con un tappeto sporco di sangue – il mio – di cui, fra le altre cose, ho dovuto anche sbarazzarmi di recente, perché era ancora lì, nello sgabuzzino, recante il marchio dell’infamia; che io dico, almeno fallo lavare, se proprio devi tenerlo.
E’ che lui deve ricordare, ecco cosa. Solo, che si facesse una cura di fosforo, perché io queste reliquie non ce le voglio in casa mia.
Ma Chakuza non si è fermato lì, no, perché il mio uomo è uno che ti sorprende. Così non solo si è lasciato ampiamente guidare dagli istinti primordiali della specie, facendo a meno della decenza, della morale e del buon senso, ma quando pensavo che si fosse toccato il fondo, quando proprio pensavo che peggio di così non si potesse andare, ecco che lui peggiora. Chakuza può cose che voi nemmeno vi immaginate.
C’è da dire che da quando le cose sono tornate alla normalità, vale a dire da quando la coppia reale si è di nuovo riunita per spargere amore sul popolo tutto, e noialtri abbiamo smesso di scopare e basta e siamo tornati a cantare e scopare – che sono due attività da tenere assolutamente separate ma da portare avanti in contemporanea – Chakuza ha trovato un suo equilibrio interiore. Leggendo una frase simile, uno sarebbe portato a credere che tutti i miei problemi abbiano infine trovato una soluzione, che ora io e lui si viva felici in questo trilocale fatiscente ma pieno di teneri ricordi, copulando e cantando, benedetti nell’armonia celeste. No.
No, assolutamente. Punto primo, questo trilocale non ha teneri ricordi, ma tutt’al più scarafaggi grossi come noci che vengono giù dai rubinetti. Ed è fatiscente al punto che ogni giorno qualcosa si sfascia in maniera irreparabile, e allora ecco che la caldaia va presa a colpi di chiave inglese per farla partire, ecco che sul soffitto del bagno c’è una crepa enorme e quando fa brutto tempo piove in casa. Ecco che il vecchio fornello a gas non si accende se prima non ci batti contro forte col fianco, che sembra sempre che balliamo sudamericano anche per farci un caffè.
Punto secondo, noi non copuliamo. Copulare sarebbe senz’altro la definizione di due esseri umani normali che, provando del desiderio l’uno verso l’altro, consumano fino ad estinzione dello stesso. Io e Chakuza no. No, perché se dovessimo farlo finché a Chakuza passa la voglia, io non farei nient’altro nella vita, anzi forse non avrei una vita. Sarei morto due anni fa. Questo perché Chakuza non ha un limite, un tetto massimo da raggiungere, un punto d’arrivo in cui finalmente si dichiara soddisfatto. La sua soddisfazione dura il tempo che ci mette a riprendere fiato, poi se non lo fermi ricomincia. O anche se non lo fa subito, lo farà dopo un numero di ore eccessivamente basso per qualunque altro essere umano sulla faccia della terra. Io lo temo, a volte.
Quindi no, noi non copuliamo nel nostro nido d’amore, noi facciamo sesso ovunque, su ogni superficie disponibile dove io possa essere steso e anche no, finché non ho più fiato neanche per respirare e a quel punto fuggo. E lui mi insegue. Io quando canto lo faccio per non scopare, capite cosa intendo? Perché quando canto, posso dire di lavorare, quindi Chakuza si fa delle remore e non si avvicina almeno per le prime due ore. E io ho due ore di respiro. Sono un uomo che lavora per non scopare. Rendetevi conto.
L’armonia celeste che tiene in equilibrio i bioritmi di Chakuza non è quindi la pace dei sensi, mi sembra chiaro. E’ un’altra cosa, e di questa cosa – nonostante la sequela di torti che ho subito potesse già sembrare sufficiente – io ne ho piene le palle.
Chakuza non si è mai posto il problema di essere un maschio a cui piacevano i maschi, e di questo siamo tutti contenti. Io per primo, perché è sicuramente più facile tentare di stabilire una relazione con qualcuno che non si pone la questione. Il punto è che per Chakuza il fatto che io sia un uomo non è un problema fintanto che rientro nei suoi schemi, che in altre parole significa che lui non ha alcun problema finché sto sotto io; ma questo alla fine non è molto importante se riesci a godertela anche in altro modo, e io riesco, quindi a posto. Voglio dire, ogni tanto ci provo a ribaltare la situazione perché sono curioso di sapere come sarebbe, ma Chakuza è irremovibile quindi, niente. Ora, fino a qualche mese fa, e cioè fino a quando io – per motivi che al momento esulano dalla mia comprensione ma che sono sicuramente legati alla birra – mi sono trasferito in casa sua, noi eravamo assolutamente perfetti e Chakuza viveva questa relazione con una naturalezza sconcertante, nel senso che era un uomo che scopava con un altro uomo e se ne fregava di quello che diceva la gente – parenti a parte naturalmente, ma suo padre ha settantadue anni e viene da un infarto, diciamo che Chakuza ha le sue ragioni se vuole aspettare il momento propizio per dirglielo.
Evidentemente io, varcando la porta di casa sua – fate attenzione, perché il segreto di tutto è racchiuso qui: io che varco la sua porta – ho innescato un meccanismo mentale di cui ignoravo totalmente l’esistenza. In pratica, dal momento in cui mi sono trasferito, questa casa è diventata la nostra casa, che però inizialmente era la sua, quindi lui è automaticamente il capofamiglia. Ed è anche pazzo, per altro.
In pratica quest’uomo e il suo cervello hanno litigato quando lui era probabilmente ancora in fasce, e crescendo separatamente hanno sviluppato due identità distinte che hanno portato conseguenze disastrose. La più grave delle quali sono evidentemente io.
Chakuza non ha nessun problema con il mio essere maschio, perché lui fa una netta distinzione fra il sesso e tutto quanto il resto. Il sesso guida la sua intera esistenza come un faro, non c’è niente – niente! – che lui ponga al di sopra del sesso, che è sempre giustificato, anche quando lo fa con uomo, cioè non si pone nemmeno il problema. Nella sua testa non ci sono distinzioni di alcun genere. E’ sesso, punto. Per tutto il resto invece sì. Per tutto il resto lui è un convinto eterosessuale.
Secondo questo processo mentale, che avviene a livello assolutamente inconscio e seguendo il quale lui si comporta senza effettivamente rendersene conto, io sarei la sua donna. Che non vuol dire, attenzione!, che lui pensi a me come ad una donna – voglio dire, lo sa che sono un uomo – ma nell’ordine delle cose del suo universo, io occupo il posto della fidanzata. E non importa che io mi faccia la barba, pisci in piedi o possieda un pene. Sono comunque la fidanzata. Il suo cervello ha un meccanismo di autoconservazione tale da semplificare i processi logici, togliendo al ruolo di donna qualsiasi connotazione sessuale. E quando mi rendo conto di questi dettagli, rimango a guardarlo e mi chiedo se ho davanti l’evoluzione della specie umana – una creatura superiore, capace di auto-generare illusioni mentali tali da vivere felice per sempre – o se piuttosto si tratta di un’involuzione, e Chakuza non è altro che l’anello mancante tra l’essere umano e il bonobo.
La cosa ancora più inquietante, per altro, è che per lui non solo sono una donna, ma non sono nemmeno emancipata. Sono una signorina dell’alta società dei primi del novecento, tipo; che io dico, se proprio devo essere la tua fidanzata, immaginami almeno come una femminista coi controcoglioni, non lo so. Cazzo, se fossi donna sarei a bruciare i reggiseni in piazza, io. Mica mi farei aprire la porta o avvitare le lampadine. E invece lo fa, che Dio lo perdoni.
E io, se non sapessi con assoluta certezza che Chakuza non si rende davvero conto, lo ammazzerei, perché la mia dignità ha un limite molto elastico, ma ha un limite. Voglio dire, se scopiamo e io sto sotto, va bene. E’ necessario, qualcuno deve starci e ci sto io. Va bene. E comunque mi piace perché ci guadagno qualcosa, che ve ne rendiate conto o no. Ma se voglio mangiare qualcosa, posso ben aprirmelo da solo il fottuto barattolo dei fottuti sottaceti.
E’ per questo che adesso io sono qui in cucina ad agitare cetriolini e lui è in salotto, e ci urliamo addosso come la coppia di checche isteriche che evidentemente siamo, perché non c’è altra spiegazione. Non c’è voluto niente a passare da una mattinata assolutamente idilliaca in cui lui aveva scopato due volte – ed era felice – e io ero felice perché gli erano bastate due volte, all’inferno in cui siamo in questo momento. Io non ho fatto altro che aprire il frigorifero, appoggiare il mio barattolo sull’isola, girarmi per recuperare anche del prosciutto, e lui mi stava già aprendo il barattolo. No, Chakuza. No. Che cazzo! Che poi uno non si può davvero incazzare così per dei cetriolini, è che questa non è che l’ultima di una lunga serie di assurdità sulle quali sono passato sopra per non passare sopra a lui. Con l’Escalade. E adesso basta, sono esploso.
"Si può sapere che cazzo ti prende?” Fa lui, con l’occhio rotondo, che nemmeno mi fossi messo a ballare nudo sui tavoli.
"Mi prende che mi sono rotto le palle, Peter,” rispondo. “Non sono la tua fottuta ragazza.”
"Questo lo so, mi sembrava piuttosto chiaro fino a due minuti fa.”
E il cazzo, che ti era chiaro Chakuza. “No, non ti era chiaro prima e non ti è chiaro nemmeno adesso. E molla quel barattolo, cazzo!”
Glielo strappo praticamente di mano, il tappo vola per terra e gran parte dell’aceto si rovescia, così impreco io, impreca lui e iniziamo davvero ad urlarci addosso. “Tu non hai ancora capito come funziona,” gli dico, mentre sbatto di nuovo il barattolo sul tavolo. “Tu non hai capito un cazzo.”
"Ho solo aperto un barattolo.”
"E mi apri le porte, avviti le lampadine… non mi lasci fare mai niente,” replico. E l’aceto finisce per terra, goccia dopo goccia. Questo pavimento non può veramente sopportarlo.
"Cerco solo di essere gentile!”
"Fai il gentile con tua sorella, o con tua madre, non con me, chiaro?”
Il suo cervello fatica a seguirmi, e lo so perché il movimento delle sue rotelline appare chiarissimo sul suo viso, sempre. Quando ha quell’espressione indecifrabile è perché sta cercando di capire cosa gli sto dicendo, ma il mio ragionamento non trova nessuna logica nella sua testa. Questo perché il mondo ha un senso solo se gira secondo le sue regole, quando gliene proponi altre va completamente in tilt. “Che cosa ti dà fastidio esattamente?”
"Tu,” strepito. “Tu e il tuo stupido atteggiamento da sano maschio etero!”
"Da sano… “ sbuffa una mezza risata. “Fler cosa cazzo stai dicendo! Stavamo scopando un minuto fa, e stavamo a posto. Ho solo aperto un dannato barattolo!”
"No!” Sbraito. “Tu non hai aperto solo un dannato barattolo. Tu…. Tu fai cose! Cazzo! Mi tratti come una donna!”
“Non è assolutamente vero!”
"Devo farti una lista?” Chiedo, ironico. “Porti da solo le casse dell’acqua dal supermercato, vuoi occuparti tu di qualunque cosa e saresti asfissiante pure se fossi una donna, Cristo santo! Sai dirmi quand’è stata l’ultima volta che non ti sei quasi spezzato il collo pur di corrermi dietro e accompagnarmi con la fottuta macchina da qualche parte?”
Lui prende fiato e si gonfia tutto nemmeno fosse sul punto di esplodere. “Io non ti capisco,” che è poi il suo mantra giornaliero per qualsiasi cosa. Come se fosse lui quello normale e dovesse capire me. “Cerco soltanto di—”
"Non dirlo, okay? Non dirlo,” sibilo, pulendomi le mani col primo asciughino che trovo e poi passandolo pure sull’isola perché qua è un disastro. “Non voglio che tu cerchi di fare niente, tu non devi fare un bel niente.”
"Sei isterico.”
"E tu sei stronzo,” replico. E ringrazio che ci sia il tavolo a dividerci perché altrimenti qualcuno domattina dovrà avvertire Stickle che ha ereditato tutta la casa di produzione. “Uno stronzo e un pezzo di merda. E forse non ti è chiaro che anche se sei tu ad usare l’uccello in questa casa, questo non significa che tu sia il capobranco.”
"Fler—”
"Stai zitto!” Gli urlo in faccia, una cosa che non ho mai fatto. Una cosa che in genere non faccio mai a prescindere, perché è da bestie. “Finché non te lo ficchi in testa, con me hai chiuso. E ora levati dalle palle.” Faccio il giro della cucina e mi faccio spazio a spallate tra lui e la porta. Quindi m’infilo addosso le prime due cose che trovo e poi esco di casa. Lo sento buttare giù roba in cucina, e non me ne frega una sega. Stavolta se la sbriga da solo.

*



Io quando sono incazzato vado da Bushido. Anzi, entrambi quando siamo incazzati andiamo da Bushido – in realtà Chakuza va da Bill, ma questo è irrilevante – e quindi abbiamo creato questo flusso migratorio tra casa nostra e la Villa Gialla, che per altro non è proprio vicinissima, per cui ci facciamo i chilometri avanti e indietro come niente. Quasi mi verrebbe da accettare l’offerta che Bill ci fa da mesi, ormai, di trasferirci tutti nella villetta che Anis sta facendo costruire accanto alla sua; che poi, Bill ce lo sta chiedendo per ordine del re. E mi preoccupa che Anis la stia già costruendo, come se sapesse già da adesso che prima o poi cederemo. E non è così scemo, d’altronde se manda la principessa a fare gli occhi dolci a Peter, è praticamente matematico che quel coglione ci cada con tutte le scarpe. Tra l’altro io lo so perché Bushido ci tiene così tanto ad averci tutti lì intorno – non solo noialtri due, ma anche Tom e Cassandra e, se riesce a convincerlo con ingenti somme di denaro, anche Eko con la sua donna – e sono spaventato all’idea che davvero ci riesca.
Lui vuole la corte. Quand’era un ragazzino ce l’aveva, e quando poi è cresciuto si è costruito l’EGJ a suo piacimento, così che gli saltellavano tutti intorno come caprette innamorate. Poi ci ha tirato dentro Bill, e – per quanto io apprezzi, per ovvie ragioni, che il ragazzino voglia stare con lui e solo con lui – è stato il più grande errore della sua vita sotto questo particolare punto di vista.
Tra la sua morte e l’onda ormonale scatenata dalla Principessa, la sua bella corte di fedeli seguaci è andata a farsi benedire e una volta passato lo scandalo della nostra illuminata sovrana che scappa con l’usciere di corte, ecco che non c’è più una corte ma una sequela infinita di coppie da romanzetto rosa che litigano sui barattoli di cetrioli sottaceto. Ognuno a casa propria, per altro, e la reggia è deserta. Anis deve averla trovata una cosa inaccettabile.
Così ha preso tutto il terreno assolutamente inutile che aveva acquistato insieme alla villa, tanto per far vedere che aveva i soldi, e invece di tirarci sopra una colata di cemento o di dedicarlo al pascolo degli agnelli per farsi il kebab in casa, ha deciso di farci costruire tre case e di trascinarci dentro con la forza i suoi sudditi con famiglia. Quest’uomo però non si rende conto del disastro che sarà quando le case saranno pronte, quando ci vivremo dentro e quando la distanza fra noi non supererà i duecento metri. Lui crede, da sovrano assoluto qual è, che sotto il suo regno vivremo in armonia, secondo le sue regole e seguendo i suoi ordini. Le palle, dico io.
Innanzi tutto, tu non puoi mettere Chakuza e Bill nella condizione di potersi vedere senza prendere l’auto. Già adesso, ogni minuto della loro esistenza che non sia da una parte occupato da me e dall’altra occupato da Bushido, quei due lo passano insieme. L’unica cosa che li ferma dal vedersi di più è che a volte, complice il caldo, la poca voglia di vestirsi e in generale il culo peso, ad uno dei due fa fatica salire in auto e all’altro fa fatica salirci lui al suo posto. Quando avranno i giardini confinanti, passeranno tutto il tempo a struggersi d’amore non consumato appoggiati alla siepe, al cancelletto o a quello che sarà a dividerli.
Punto secondo, tu non puoi mettere Tom nella condizione di affacciarsi alla finestra e vedere me. Quel ragazzino è già abbastanza asfissiante ora che vive a quasi quattro chilometri di ostinato traffico da me, non oso immaginare che cosa sarà la mia vita quando gli basterà attraversare la strada per stabilirsi nel mio salotto e riempirmi di chiacchiere fino a stordirmi.
Punto terzo, per proprietà transitiva, tu non puoi mettere Bill e Tom nella condizione di devastarci tutti con la potenza della loro gemellitudine. Da soli sono due piaghe sociali, insieme sono una pestilenza e Bushido dovrebbe saperne qualcosa dal momento che ha fatto una guerra per separarli, e si è pure tenuto quello peggiore. Che poi, dico io, bisogna volersi male per trascinarsi vicino gli unici due uomini per i quali il suo ragazzino farebbe follie; se crede di esercitare un qualche controllo su di loro semplicemente facendogli ombra con la sua enorme villa, è fuori strada.
Comunque sia, ho il telecomando del suo cancello, perché parcheggiare e poi scendere al di fuori delle mura della reggia è praticamente impossibile. Qua ci sono paparazzi nascosti ovunque e non è pensabile suonare il campanello e farlo scendere, da quando lui come un pirla lo ha fatto davvero e a suonare era stato il presentatore di un qualche programma televisivo. Entro e parcheggio sul retro, stando ben attento a non investire le begonie di Karima. Un secondo dopo quei due grandi cani da guardia di Skyline e Sherlee mi corrono incontro scodinzolando. Anis dice che non attaccano solo perché riconoscono il motore dell’auto, io dico che anche se qualcuno tentasse di entrargli in casa, questi due finirebbero per leccare la faccia al ladro. E’ anche possibile che essendo Bushido amico di metà della delinquenza di questa città, i cani abbiano smesso di abbaiare quando hanno capito che ogni topo di fogna che passa da queste parti è benvenuto. Io comunque non sono un topo di fogna, e ho pure dei biscottini in tasca, quindi glieli lancio al volo mentre faccio il giro della villa e trovo Bill in piedi sulla porta di casa.
La principessa sporge l’anca tutta da un lato e, per i suoi standard, ha addosso solo uno straccetto qualsiasi, forse tirato a caso fuori dall’armadio.
"Hai riconosciuto anche tu il motore dell’auto?” Lo prendo in giro. “Sono solo, mi dispiace.”
"Cretino,” mi sibila subito lui, infastidito. “Ti ho visto dalla finestra e, dal momento che hai preso il cancello a velocità sostenuta, ne deduco che hai litigato con Chakuza.”
"Deduci bene, posso entrare?” Lui si fa da parte e mi indica l’interno con un gesto annoiato della mano. “Ma non c’è nessuno?”
"Karima,” sputa lui come se fosse un boccone disgustoso. “Anis è nello studio, sta lavorando, e ha detto che delle vostre beghe non ne vuole sapere e se ti azzardi a disturbarlo, stacca l’uccello sia a te che a Peter, così risolve due problemi. Parole sue.”
"Sempre gentilissimo,” commento. In quel momento Karima ci viene incontro con un cesto di panni da lavare più grosso di lei e io le faccio un sorriso da pubblicità del dentifricio per ingraziarmela, che già la vedo poco propensa a prepararmi la camera degli ospiti. “Karima! Daresti da bere ad un povero tedesco assetato?”
Bill mi segue con le braccia incrociate e la sua collaudata espressione di disappunto. In questo momento mi disapprova perché sto essendo educato e amichevole con la governante che odia, e perché, quasi sicuramente, nella sua testa sono stato io a fare qualcosa a Chakuza e non viceversa. Peter nella testa della Principessa non ha mai colpe.
"Che cosa le porto signor Losensky?”
Io quando fa così la sposerei. Nessuno mi chiama mai col mio cognome, mi sento un sacco importante quando succede. E tremo all’idea di quando finiranno per darmi del Pangerl come niente. “Una coca andrà bene,” rispondo. “Ghiacciata.”
"Anche per me,” si aggiunge Bill. “E portacele in veranda, grazie.”
"Subito, signor Kaulitz.”
Il ragazzino è insopportabile quando dà ordini a quella donna, ma non ho voglia di tirare fuori la questione ancora una volta. Sono qui per lamentarmi, quindi non gli darò modo di iniziare per primo e farmi sommergere dal racconto della sua vita infernale con un uomo pieno di soldi, in una villa bellissima, servito e riverito da una cameriera. Mi faccio invece trascinare in veranda, dove Bill ha fatto piastrellare tutto in cotto. Dove prima ci svaccavamo su delle sedie un po’ rustiche in paglia intrecciata, adesso c’è un tavolino da giardino di design con le sue belle sedie ergonomiche in poliestere che costano ognuna come un rene sul mercato nero. A Bill piace fare la padrona di casa e ricevere i suoi ospiti qui o nel salotto interno se fa molto freddo.
"Allora, che cosa gli hai fatto?” Mi chiede, guardandomi male.
Karima ci porta i bicchieri, con anche la fettina di limone e l’ombrellino.
"Perché devo essere stato io? Il tuo adorabile principe azzurro non è così adorabile come credi. E non è nemmeno azzurro, per altro.”
Bill beve dalla cannuccia, ma continua a guardarmi. “Quando litigate è quasi sempre perché tu non capisci quello che vorrebbe dirti.”
"In questo caso non mi dice proprio un bel niente,” replico. Io voglio parlare con Anis: sono entrambi schifosamente di parte, ma almeno lui è da quella giusta.
"Che cos’è successo?”
"E’ successo che mi tratta come una femmina,” replico. “Ed è una cosa intollerabile.”
Lui solleva un sopracciglio. “In che senso?”
Io sbuffo, odio dover spiegare le cose, che poi non mi piace nemmeno venirle a raccontare qui, è che ho bisogno di sfogarmi o lo ammazzo, l’austriaco, quindi per forza di cose non ho alternativa. Faccio a Bill un breve riassunto della mia vita negli ultimi mesi, e man mano che gli racconto quello che Chakuza mi fa e che è umanamente inconcepibile, mi rendo conto che sto parlando alla persona sbagliata per due motivi. Uno, dire male di Chakuza di fronte a Bill è un buon modo per non farsi proprio ascoltare. Bill non concepisce l’ipotesi che Peter possa essere insostenibile, testardo e testa di cazzo come in effetti è. Non ho idea di come si comportasse con lui, probabilmente era uno zucchero perché sia mai che Bill ci resti male per qualcosa, ma con me a volte è tremendo. E la Principessa naturalmente non ci crede.
E due, forse questa è anche peggio, Bill viene trattato come una femmina tutti i giorni e la cosa non sembra dargli granché fastidio. Bushido gli apre le porte, lo aiuta col cappotto, sta dietro ai suoi capricci e un milione di altre cose che davvero, ora che ci penso, mi convinco che non ha senso parlarne con lui.
"Io non capisco,” mi dice infatti. “E’ molto gentile, perché sei arrabbiato?”
"No, Bill. Non è affatto gentile,” protesto. “Io non sono una femmina. E lui non dovrebbe trattarmi come tale.”
"Ma aprirti i barattoli non significa trattarti da femmina,” commenta lui. “E’ una questione di gentilezza.” Gioca con la cannuccia, gli occhi appena socchiusi. A volte si dà un’importanza che lo prenderei a sberle; ma in questo momento prenderei a sberle chiunque, quindi suppongo che non sia propriamente colpa di Bill.
"Bill, ti sembra che io abbia bisogno che qualcuno mi apra i cetriolini sottolio?” Chiedo, e aspetto che mi guardi per bene dalla testa ai piedi, che veda i quasi due metri di altezza per più di ottanta chili di peso, che veda uno dei miei polsi grande quanto entrambi i suoi. Veda e capisca che un barattolo di cetriolini sottolio non sono poi questa grande impresa per il sottoscritto.
"Ma che c’entra? Sai aprire da solo anche le porte ma se qualcuno-“
"No.”
"Patrick…”
"No,” ripeto. “No, nella maniera più assoluta.”
Lui rimane un po’ interdetto dal fatto che l’ho interrotto. Bill odia quando succede. Il flusso delle sue parole dev’essere costante e fermarsi per sua volontà, e comunque solo per qualche istante, giusto per prendere fiato. L’interruzione per cause esterne non è nemmeno contemplata. “D’accordo,” ammette alla fine, molto lentamente. “Magari questa cosa dei barattoli è eccessiva per te, ma devi capire anche lui.”
"Che cosa c’è da capire su di lui, a parte che è uno stronzo, testone, gay ancora convinto di essere etero?”
"A parte che non è stronzo,” mi corregge lui, che non se ne lascia mai sfuggire una. “E’ appunto questo. E’ molto… maschile.”
"Ti sembro femminile, io?”
Lui sospira, alzando gli occhi al cielo. “Non maschile nel senso che sembra un maschio, maschile di testa, Fler. Lui dev’essere il capo. Ognuno ha un ruolo, no? Tu hai il tuo.”
"Cosa?” Mi esce così forte che Skyline, appisolato ai nostri piedi, tira su di scatto la testa per capire cosa sta succedendo. Peccato lo faccia con quei due, tre secondi di scarto. Come cane da guardia non vale niente.
"Cerca di seguirmi, okay? Non dico che debba davvero comandare, è ovvio che siate sullo stesso piano, solo che ha bisogno di avere il controllo, capisci? Dev’essere l’istinto primordiale del cacciatore, del capobranco, chi se ne frega, insomma, quelle cose lì. Anche Bushido è così. Se vivessimo nella preistoria, sarebbe Anis ad uscire dalla caverna ed abbattere dinosauri.”
"E tu staresti in casa a dipingerti le unghie con il succo di bacca, certo!” Replico ironico. “Bill, ti rendi conto di quello che stai dicendo?”
"Sì,” fa lui candido. “Ed ho anche ragione.”
"No che non ce l’hai!”
"Invece sì,” insiste. “E guarda caso, Chakuza ti apre le porte, ti svita i barattoli ed è sempre lui l’attivo.”
Io divento tipo di marmo, e probabilmente divento anche color ciliegia perché, pur non volendo, è sempre così che finisce. Io non avevo citato questo piccolo particolare. “E cosa te lo fa pensare?”
"Il fatto che sei esageratamente arrabbiato,” risponde, giocando col ghiaccio nel suo bicchiere ormai vuoto. “E il fatto che conosco Chakuza e so com’è a letto.”
Gradirei che Bill non me lo ricordasse ogni volta che può, dal momento che la sua presenza fra le lenzuola del letto mio e di Chakuza non s’è ancora vista e ciò un po’ mi consola. Bill in casa nostra c’è sempre, è ovunque Chakuza posi gli occhi e ricordi qualcosa che hanno fatto insieme, io la Principessa gliela leggo addosso quando lui ce l’ha in testa.
Quando scopa con me, però, non c’è. In quei momenti, Peter è un posto solo mio. Quindi non sopporto che Bill mi ricordi che sono stati insieme, anche se lo so che non lo fa con cattiveria. E’ che non sono razionale quando lo dice, e finisco per leggerci dentro la presunzione di sapere che rimane comunque lui quello più importante. Forse quella presunzione non c’è, non lo so. Ma è sempre meglio che Bill non ne parli.
"Com’è Chakuza a letto non c’entra niente,” replico secco, mentendo spudoratamente per altro, perché, come dicevo, ciclicamente si ripropone in casa nostra il teatrino di me che provo a schienarlo e lui che piuttosto si taglia le vene col coltello da pane. “C’entra però che io non sono una donna e lui deve ficcarselo in testa.”
"Io non capisco quale sia il problema.”
"Il problema è che è umiliante,” replico.
Bill mi punta addosso due occhi sgranati e oltraggiati. “Umiliante? Credi che essere quello di cui ci si prende cura sia umiliante?”
Mi sfida a concludere quel ragionamento, che messo in questi termini non può che suonare come un’offesa, io però ne so più di lui. Con Bill sono io quello più grande. “Penso solo che sarebbe carino se potessi anche io prendermi cura di lui.”
Lui finisce per ridere, che fra tutte le reazioni che potevano seguire la mia affermazione, era l’ultima che mi aspettavo.
"Che c'è da ridere?"
"C'è che sei assurdo," mi dice e poi piega la testa un po' di lato. "Tu non puoi davvero aver creduto di stare con lui e di prendertene cura."
"E tu non puoi davvero pensare che sia normale che lui mi apra i barattoli," ritorco subito, perché a me davvero sembra assurdo che qui quello assurdo debba essere io, quando è chiaro che l'unica cosa che vorrei è comportarmi come ogni essere umano che sta con un altro essere umano. Voglio dire, lasciamo perdere la divisione uomini e donne. Prendiamo gli esseri umani. C'è quest'essere umano, no? Questo austriaco che mi arriva alle costole e che io, per qualche assurdo motivo voluto dal fato o dal divino - o da qualsiasi cosa vi sembri appropriata - amo. Non gli voglio bene, non mi sta a cuore, non mi ci trovo bene. Io lo amo, che è un concetto che comprende tutti quelli precedenti: visto che lo amo io mi trovo bene con Peter, quindi gli voglio bene e pertanto mi sta a cuore. Ora, a causa di questa mia situazione di indigenza, mi sembra anche abbastanza plausibile volermi occupare di lui, no?
Bill sbuffa perché giocare alla signora della piantagione che dà buoni consigli alle giovani figlie delle sue amiche lo diverte soltanto fino ad un certo punto, soprattutto quando i suo consigli non sono accettati all'istante. "Ma insomma, tu cosa vuoi esattamente? Aprirgli anche tu i barattoli?"
"No che non voglio aprirgli i barattoli!"
"E allora cosa?" Fa lui. "Perché non ho capito che cosa pretendi da uno come Peter."
"Sarebbe troppo sperare che facesse la persona normale e non mi trattasse da femmina?"
Bill annuisce. Io all'inizio nemmeno ci credo, voglio dire, lo vedo annuire ma non ci credo davvero. E invece lui lo fa sul serio. "Non sarebbe molto più semplice se gli lasciassi fare quello che vuole? In fondo si tratta solo di cose minuscole."
"Qui si tratta del mio amor proprio," gli faccio notare. "E comunque perché lui può fare quello che vuole e io no?"
"Che cosa vorresti fare?"
"Io..." apro bocca e rimango in quella posizione per parecchi secondi, finché non mi rendo conto che in effetti non lo so. Non posso rispondere che vorrei aprirmi le porte e i barattoli, cioè sì che vorrei ma a dirlo suona assurdo e all'improvviso, ora che Bill me lo fa notare con questa calma pacifica come se fosse una cosa stupida, mi sembra una cosa effettivamente stupida. Insomma Chakuza è un coglione, ma io che cosa voglio esattamente se non il coglione in questione?
In ogni caso è lui in persona, dentro al suo catorcio, che mi salva dal dover rispondere. Difatti in quel momento il cancello della villa reale si apre e Skyline e Sherlee vanno a saltellare abbaiando festosi intorno alla macchina di Chakuza che parcheggia accanto alla mia.
"Ecco che arriva anche l'altro," mugugna Bushido, passando come un'ombra dentro casa, diretto in cucina per un panino fra un beat e l'altro. "Devo cambiare i codici del telecomando."

*

Di tutti i modi possibili in cui pensavo che sarebbe finita l'ennesima discussione, certo non avevo pensato a questo. Primo, perché non era una soluzione che io potessi prevedere. Secondo, perché non è una soluzione, è solo una cosa senza definizione che sta portando me e lui a fare qualcosa che non ci aiuterà a risolvere il problema primario ma ne creerà altri quasi peggiori. Forse, a pensarci bene, non era poi così imprevedibile, come cosa, visto che Chakuza ha sempre di queste grandi idee. Ora, ricapitolando, io e lui abbiamo litigato perché Peter è convinto di essere il capobranco e di avere verso di me delle responsabilità prettamente maschili quali difendere me e il territorio, procacciare il cibo e decidere il periodo di migrazione.
Per questo motivo, io mi sono notevolmente incazzato e sono andato a parlare con l'unica vera femmina del branco, che naturalmente ha appoggiato il grosso lupo nero che potrebbe averla quando vuole, e figurarsi se era il contrario. Ora, dopo questa sequenza di azioni assolutamente inutili, si potevano verificare due conseguenze: io che non sono disposto ad accettare questa situazione e me ne vado - molto improbabile a giudicare dai precedenti degli ultimi tre anni. Oppure Chakuza che si dichiara disposto a tentare di cambiare, io che fingo di credere che ci riuscirà, e noi due che scopiamo per il resto della giornata - estremamente probabile.
E invece no. Ma proprio per niente, no. Roba che se mi fermo un attimo a pensare non capisco nemmeno come sia potuto succedere che io ieri bevevo una coca con Bill e cercavo di spiegargli un ragionamento perfettamente razionale, e ora io sia qui, così, come se fosse normale. Parliamone!
In questo momento sono seduto sul sedile del passeggero dell'Escalade, sto andando in Austria e i biscotti che sto mangiando li ha comprati Chakuza. Con buona pace della mia fottuta questione di principio, quest'uomo qui accanto ha fatto tutto quello che ha voluto: protezione, cibo e migrazione. E non so come ci sia riuscito. Non lo so, e non riesco nemmeno a concentrarmi per capirlo perché i biscotti sono, tipo, svedesi o danesi, insomma chi se ne frega, del nord ecco, ma c'è una crema dentro che mi fa impazzire e mi confondo. Ogni tanto, quando ho un barlume di lucidità tra un biscotto e l'altro, mi rendo conto che in un certo senso è anche rapimento e che forse, non so, dovrei scrivermi 'AIUTO' sulle mani e poi appiccicarle al finestrino, così che alla prossima coda sull'autostrada tra Berlino e Linz qualcuno lo veda e mi salvi.
La verità è che Chakuza mi ha preso alla sprovvista e invece di cercare di spiegarmi il suo punto di vista, mi ha dato ragione - cioè, più o meno. Ha detto che gli dispiaceva, che è una cosa che non fa quasi mai, neanche ci si prendessero delle malattie veneree a chiedere scusa, e poi ha detto "Ho un'idea."
A questo punto della mia esistenza, io dovrei aver imparato che le idee di Chakuza non sono mai buone idee, che vanno temute e che - in generale - la prima reazione dev'essere la fuga in un posto lontano e per lui inaccessibile, fosse anche in cima ad un armadio. Ma è chiaro che a questo punto della mia esistenza io non mi voglio affatto bene, per cui quando mi ha detto di avere un'idea gli ho anche lasciato il tempo di espormela. Nel cervellino che riempie le rotondità della sua scatola cranica, la soluzione a tutti i miei mali era riempire due borsoni, caricarli sulla mia auto - che ha le sospensioni migliori e avrebbe retto in montagna - e trascorrere il fine settimana in Austria. Dai suoi. Come per lui guidare, comprare le provviste e portarmi dalle sue parti fosse un modo per scusarsi della sua grave mancanza di rispetto nei confronti della mia virilità, io in quel momento non l'ho capito. So però che quando mi ha guardato e mi ha detto "Ti va di conoscere i miei?" Il mio cervello si è scollegato. Ho sentito proprio la spina che si staccava, il calo di corrente e poi il lieve ronzio che precede il riavvio del sistema operativo.
Dopo l'analisi di sistema, sono arrivato finalmente a comprendere anche il ragionamento faticosamente elaborato dal microchip di Chakuza. Quest'uomo, questo qui che mi è seduto accanto e impreca in maniera brutale contro chiunque stia guidando una macchina nel raggio di venti metri intorno a lui - Chaku è un sacco violento alla guida - si è reso conto di comportarsi in maniera assurda, ma non può fare altrimenti, e lo capirò meglio quando avrò conosciuto tutti i Pangerl e mi renderò conto che sono tutti assurdi e che l'assurdità è una condizione genetica dell'essere un Pangerl. Quindi lui lo sa, e sapendo anche di non avere la soluzione giusta - tipo iniziare a comportarsi da essere umano - ha cercato quella che ci si avvicinava di più: il coming out con la sua famiglia. Quale modo migliore di trattarmi da uomo se non rivelare ai suoi parenti che è omosessuale? C'è del mistico nella testa di Peter, non mi stancherò mai di ripeterlo.
La casa di famiglia dei Pangerl è una baita di legno grande abbastanza per contenere tutte le famiglie che vivevano nel mio palazzo quando avevo quindici anni e Bushido si arrampicava su per la grondaia per venirmi a recuperare. Quando parcheggia sul prato così verde che sembra quello finto di plastica delle piscine, io scendo con la bocca aperta come un bambino, perché le baite come questa le ho sempre viste solo nei film, e in ogni caso erano piccoline e con una stanza sola, questo è una specie di albergo. Solo al piano di sopra conto quattro finestre.
E poi c'è la veranda e una specie di recinto, e sento lo scampanellio delle mucche, da qualche parte. Lascio che Chakuza scarichi la macchina, non me ne frega niente che sia lui a fare i lavori pesanti ora, devo assolutamente guardare tutto quello che mi si para davanti, perché è, tipo, spettacolare. Se sposto lo sguardo un po' più indietro c'è una vallata che scende morbida e rotonda, piena di fiori e penso che se osservo molto attentamente vedrò scendere Heidi, con cane, nonno e tutto il resto.
Ci sono altre decine di case così qui intorno, forse solo un po' più piccole, ma nessuna attaccata. Si vedono tutte, perché siamo nella vallata, ma sono abbastanza distanti che se guardi da una certa prospettiva ti sembra di essere solo in mezzo alle montagne.
In quel momento la porta della baita si spalanca con un tonfo e rompe l'idillio o, peggio, lo rende reale, perché sulla soglia c'è Heidi. Non proprio quella del cartone animato, ma quasi.
Questa qui avrà si e no quindici anni, e non ho bisogno che Chakuza mi dica che è sua sorella per capirlo, visto che sono praticamente due gocce d'acqua. Okay, lei è più carina, ma i colori e le forme sono quelli. E' biondo-rossiccia, come credo sarebbe Peter a giudicare dalle sfumature della barba, e ha due guance rosse come due mele, e non è un modo di dire, sono proprio tonde e rosse, cosparse di efelidi. E poi gli occhi, stesso colore, stesso taglio.
"Sei arrivato, ci hai messo una vita!" Fa lei, e gli si getta addosso di peso. Lui la prende al volo e per poco non cadono a terra tutti e due. Rimango lì a fissarli e mi viene da sorridere, Chakuza è tipo tenerissimo.
"Scusa," ride lui, rimettendosi dritto e aiutando la sorella. "C'era un sacco di traffico."
Lei si spolvera un po' la minigonna a pieghe e quindi si accorge della mia presenza lì di fianco. "E lui chi è?" Chiede.
"Lui è Patrick, passerà il fine settimana con noi," risponde. So che vuole dirglielo a cena, quindi non mi sorprende che non abbia specificato esattamente cosa sono. "Patrick, lei è Clara, mia sorella."
Clara non è solo fisicamente uguale a suo fratello, ma sospetto ne abbia anche la mentalità perché mi sorride nello stesso modo in cui lo fa Peter un attimo prima di saltarmi addosso, quindi sbatte gli occhioni truccati pesantemente come vanno di moda da quando la Principessa imperversa nelle TV di tutto il mondo. "Piacere Patrick senza un cognome," ride divertita. "Anche se immagino sia Losensky, dico bene?"
"E tu come lo sai?"
Clara si stringe nelle spalle. "Sui giornali non si parla d'altro che di te e di mio fratello," risponde.
"Cosa?" Esclamiamo in coro.
"Ma si che lo sai, Peter, dai!" Fa lei, un po' lagnosa, buttando gli occhi al cielo come se fosse una sciocchezza. "Il fatto che Bushido voglia rinnovare l'EGJ, sfruttando le collaborazioni con te e anche con lui, vista la riappacificazione e bla bla bla..."
Tiro un involontario sospiro di sollievo. Qua stiamo parlando di lavoro, per un attimo ho pensato che nelle sei ore che abbiamo trascorso in autostrada ci fossimo persi lo scandalo di qualche foto. "Quelle sono tutte speculazioni dei giornali," le dico afferrando il mio borsone prima che Peter si azzardi a farlo al posto mio.
Lei si stringe nelle spalle. "Non se le inventano mai del tutto," mi dice con un sorrisetto saccente. "Quindi immagino che ci sia davvero sotto qualcosa ma, visto che sei nostro ospite, non ti costringerò a dirmelo subito. Lo scoprirò a cena."
Entra in casa sculettando, e sapendo più o meno com'è fatto nel dettaglio il filamento del suo DNA, non posso non pensare che lo stia facendo apposta.
"Non lo metto in dubbio," sospira Chakuza al mio fianco.

*

Se da fuori la casa di Peter sembrava appunto la vera casa di Peter, il pastorello di Heidi, dentro è anche peggio. Non che ci sia un nonno barbuto e un sottotetto bassissimo – o forse quella è la casetta di Heidi e io sto confondendo i personaggi – ma è tutto di legno. Ma tutto davvero. E per un attimo mi chiedo quante volte sia andata a fuoco e se, da queste parti, magari non costa niente rimettere in piedi una casa visto che vanno a fuoco spesso. M'immagino queste vallate immense di sconfinato verde che ogni tanto si accendono di una fiammata improvvisa e l'attimo dopo, solo cenere. M'immagino anche delle squadre speciali che arrivano l'attimo ancora successivo a pulire tutto e poi rimontarci sopra una casa nuova. Magari uno esce la mattina per andare a lavorare, torna e la casa è andata a fuoco ed è stata ricostruita in un nano-secondo, tanto sono tutte uguali. Si differenziano per il numero dei gerani sui davanzali ma, anche lì, magari ci sono diverse case standard tra cui scegliere a due, tre o magari quattro vasi di gerani per terrazzo. Uno, penso, sceglie il modello che vuole e quando va a fuoco poi gli riportano lo stesso. Così il tipo di prima che è andato a lavoro e tornato, non si accorge del cambio.
La madre di Peter ci accoglie prima che io possa chiedermi a che numero di Pangerl-casa siamo, perché non ci credo che un tipo come Chaku non abbia mai lasciato cadere un fiammifero o agitato l'accendi-gas troppo vicino al tavolo in noce quand'era piccolo. Ma anche quand'era grande. Quindi questa casa non può essere in piedi da quando l'hanno costruita, con lui in casa.
"Patrick, che piacere vederti!” Esclama. Io le tendo la mano ma lei, dal suo metro e venti, tipo, non so, comunque dal quel poco che è alta, riesce a tirarmi in un abbraccio.
"Salve, signora Pangerl,” riesco a tirar fuori. Mi sento un po' a disagio perché io e lei ci siamo visti qualche volta, prima che si trasferisse definitivamente quassù fra i monti col marito dopo l'infarto, e mi ha anche lavato un paio di maglie perché le ha tirate su insieme alla roba sporca di suo figlio – non so nemmeno cosa, di preciso, ci abbia trovato su quelle maglie – ma tra quei momenti di beata ignoranza ed ora c'è che suo figlio si è fatto un sacco gay. E non lo so se mi abbraccerà così anche quando saprà che la nostra non è una sana amicizia virile. Se si escludono casi come l'esercito o la marina. In quel caso, ecco, forse il parallelismo calza a dovere.
"Avete fatto buon viaggio?” Prosegue lei, cercando di guardarci entrambi contemporaneamente. E' una cosa che fanno le madri, tutte, anche la mia. Quando portavo a casa Anis lei ci parlava e guardava un po' me e un po' lui e ci scrutava per capire se c'era qualcosa che potesse fare. “Volete mangiare qualcosa? Vi preparo due cose al volo.”
“No, mamma stiamo bene così. Possiamo aspettare la cena.”
"Allora perché non gli fai vedere la camera. L'ho già preparata,” e poi si gira verso di me con questi occhi verdi che sono proprio quelli del Chaku. “E' la stanza di quando lui era piccolo.”
Mi verrebbe da farle notare che c'è rimasto piccolo, ma sto zitto.
Peter era piccolo e la stanza, ovviamente, è a misura. Quando ci entriamo ho come un attacco di claustrofobia, il soffitto mi sembra vicinissimo e sono certo che i muri si avvicineranno fino a schiacciarmi. Morirò tra i monti austriaci e mi seppelliranno nel giardino dei Pangerl. O forse il signor Pangerl mi userà come concime per le sue mucche – chissà se hanno le mucche? - quando saprà che mi sono preso il suo unico erede maschio.
Mentre io mi figuro la mia morte per mano di mio suocero, o per mano dell'altissimo, che qui dev'essere più vicino senza dubbio, la signora Pangerl mi ha già spiegato l'ubicazione di tutto ciò che potrebbe essermi necessario nei prossimi giorni, comprese coperte, asciugamani, attrezzatura per l'alpinismo e anche dei vecchi calzini dismessi di non so quale parente che potrebbero servirmi in caso avessi freddo – perché qui, sai, Patrick la notte fa freddo. Anche a Berlino fa freddo, signora. Lo so gestire abbastanza.
Dopo ciò la donna ci lascia da soli e io vorrei trattenerla, vorrei prenderla per le cocche del grembiule e chiederle di raccontarmi com'era Chakuza da piccolo e com'era questo posto dimenticato da Dio, com'era nel '40 durante la guerra. Mi racconti la caduta del muro, signora, la prego. E lei mi farebbe notare che quando è caduto il muro io avevo sette anni e dovrei ricordarmelo e allora io le direi che vorrei sentire la voce di una persona che all'epoca era già adulta. O le chiederei di raccontarmi come si allevano le mucche, i maiali, le oche, qualsiasi cosa e questo perché alle mie spalle ho sentito lo sguardo del Chaku.
E quello sguardo promette sventure.
Alla signora Pangerl non chiedo niente, le cocche del suo grembiule spariscono oltre la porta chiusa e quando mi volto, lui è lì con l'occhio da triglia. Già pronto.
Chi non conosce Peter non può davvero credere a quello che è in grado di fare. E' un po' come essere amico di un supereroe e conoscerne all'improvviso i poteri, tipo che ha la super-forza, che è ignifugo o che sa volare. Ti spaventi e cerchi di dire a tutti che l'hai visto alzare una macchina a mani nude, saltare nel fuoco e prendere il volo. La gente naturalmente, quando lo fai, ti ride in faccia. E non ci crede. Come potrebbe? Così se io spiegassi che il Chaku non conosce tempi di ripresa, mi guarderebbe con aria di superiorità e mi accuserebbe di aumentare le doti dell'uomo che mi si porta a letto per vanteria. E invece non sto aumentando niente e non lo faccio per vantarmi, lo faccio per paura. La mia è una muta richiesta di aiuto che nessuno coglie. Io sono una persona disperata.
Se Chakuza fosse ignifugo, super-forte e sapesse volare, sarebbe meno inquietante di come invece è: pazzo e sesso-dipendente. Che poi detta così sembra che sia malato, in realtà credo che la situazione sia anche peggiore di così, sebbene io non abbia dei veri studi medici che lo dimostrano. Voglio dire, se fosse malato, se questa fosse una devianza, uno potrebbe vedere di curarlo, di trovare una profilassi da seguire, di farlo diventare un monaco amanuense dedito all'astinenza, sebbene Chakuza non sappia disegnare neanche un omino stilizzato senza che questo sembri di tutto tranne un omino stilizzato. Cioè, seguitemi, se questa sua particolare condizione derivasse da un malfunzionamento di qualche sua cellula neuronale o da uno stato della mente guaribile con la meditazione, ecco allora potremmo fare qualcosa. Farlo visitare, fargli ingerire delle pillole o, appunto, spedirlo in Tibet vestito di arancione. Invece le cose non stanno affatto così. Questo suo bisogno di fare sesso e rilasciare endorfine è naturale. Nel senso che fa parte della sua struttura fisica. C'è chi ha fisicamente bisogno di scaricare continuamente lo stress, c'è chi deve dormire molto, chi dorme oggettivamente poco. E lui fa sesso. Cioè, non è una degenerazione di qualche parte di lui che improvvisamente ha deciso che il sesso era la soluzione. Lui è così. E' questo che è agghiacciante.
Dall'ultima volta che lo abbiamo fatto sono passate sei ore, anzi no tre, perché a metà viaggio ci siamo fermati all'autogrill, che non è che sia successo proprio roba, ma ho deciso che con lui conta anche quella, perché è sfiancante. E insomma, stavo dicendo che non è che potesse mancargli l'aria dopo sole tre ore e invece eccolo lì che già smania. “Non ci pensare neanche,” dico. “Devo disfare la valigia.”
Prima mi arrivano le sue mani sul culo e poi dice: “Puoi farlo dopo.”
"Non posso farlo dopo, le magliette fanno le grinze.”
E questa è così gay che non avrebbe funzionato in nessun caso, figuriamoci in questo. Difatti si prende il tempo di chiudere giusto la porta e mi è addosso l'attimo dopo. Io ho provato a tirare fuori qualcosa, per vedere se lo fermavo, ma niente. Non ha alcun rispetto per la proprietà altrui e le grinze che finirà per causarci sopra.
Mi ritrovo disteso sul letto prima di poter effettivamente pensare a qualcosa di veramente sensato da dirgli per scostarmelo di dosso. E' questo il mio problema: a lui il cervello si spegne e si attiva una sorta di pilota automatico che prosegue qualunque sia la situazione contingente. Il suo obbiettivo è uno solo e avanza per raggiungerlo. Io, quando lui sta così, vorrei spegnerlo ma non so dove si trovi esattamente il pulsante – o se ci sia un pulsante – e, in ogni caso, non posso farlo perché quando mi tocca mi confondo e i miei tempi di reazione si allungano. Il suo pilota automatico si approfitta del mio momentaneo ritardo mentale. Insinua quelle sue zampette là dove non batte il sole e tanti saluti, non c'è più modo di fermarlo.
Così mi agito, cercando di farlo cadere ma niente. Uno potrebbe pensare che essendo lui com'è ed essendo io come sono, ci metto niente a lanciarlo dall'altra parte della stanza e invece, con lui, è come cercare di spostare un masso di granito. Quello che perde in altezza, lo guadagna in massa, è una roba che non ci si crede. “Peter, c'è tua madre di là.”
"Non ci sentirà.”
Io dico che ci sentirà se continua ad accarezzarmi come sta facendo, ma lui mi ferma anche lì perché m'infila la lingua in bocca e io dimentico che se sua madre ha la cattiva idea di spalancare la porta all'improvviso, poi ci toccherà portarla d'urgenza all'ospedale. Chakuza butta in terra qualcosa che credo fosse la mia valigia, quindi si prende il suo spazio, felice come può esserlo solo un uomo che nelle ultime tre ore non ha pensato a nient'altro. Ed è mentre mi morde il collo che la sua felicità si disintegra sotto i colpi alla porta della sua camera.
La successiva sequenza di azioni è che io riesco a ribaltarlo e a mettermi in piedi in una sola abile mossa mentre lui rotola a terra malamente, mancando con la testa lo spigolo di un comodino per una frazione di centimetro. Io penso che l'ho quasi ammazzato per non farmi trovare a letto con lui, forse questo significa qualcosa se lo analizziamo. Comunque sia bussano di nuovo. “Peter, posso entrare?”
Io generalmente non faccio una piega se mi punti una pistola in faccia, se mi minacci con un coltello o se, per dire, rischio di prendere tante di quelle botte che nemmeno mia madre mi riconoscerebbe. In quei casi freddo e impassibile, è la scuola di Bushido.
Alla scuola di Bushido, però, quell'uomo non mi ha mai insegnato come reagire a sangue freddo di fronte alle sorelline di quindici anni che rischiano di entrarti in camera mentre tu e il tuo uomo avete i pantaloni slacciati, il letto è già un casino ed è chiaro come il sole che stavate per scopare. O se Anis l'ha mai insegnata questa cosa qui, evidentemente io ho saltato la lezione. Intimo a Chakuza con lo sguardo di fare qualcosa e lui annuisce quasi annoiato. No dico, austriaco, è tua sorella, vorrai mica farti trovare in questo stato?
Quando alla fine Clara entra io sono seduto sul rientro della finestra e guardo i monti in maniera molto ispirata. Chakuza, invece, è assolutamente a suo agio. Come non avesse un pudore. E in effetti non ce l'ha.
"Che c'è?” Chiede, mentre apre la sua sacca da viaggio e ne estrae cose a caso, per dimostrarsi un uomo intento a disfare le sue valige con molta cura. Il mio povero borsone invece giace a terra riverso, innocente vittima di quell'uomo.
"Mamma dice che intanto che prepara potresti portare Patrick a conoscere la nonna,” fa lei. E si guarda intorno come solo una fangirl può fare. Io non avevo una grande esperienza con questo genere particolare di ragazze prima che la mia vita fosse devastata dalla nostra illuminata sovrana, ma ora sono quasi un esperto. Il fatto è che tu non puoi vivere a stretto contatto con Bill Kaulitz – e noi tutti ci viviamo, come sapete, perché egli regola la vita di noi tutti in un modo o nell'altro – senza dover fare i conti con le fangirl. Così ora, mentre Clara scandaglia la stanza, so per certo che in una frazione di secondo ha già preso nota di ogni dettaglio potenzialmente succoso che essa contiene. E anche tutti gli altri, che la sua fantasia si preoccuperà di rendere altrettanto fraintendibili. In questa stanza c'è un letto disfatto, due uomini palesemente impegnati a fingersi tranquilli – okay, un uomo, io, ma suppongo che conosca suo fratello abbastanza da decifrarne i segnali – e soprattutto ci sono i nostri anelli. Che sono diversi, ma io lo so che lei li ha già notati. Così m'infilo una mano in tasca, che è tipo la cosa più losca del mondo.
"Perché dovrei portarlo da nonna?”
Clara fa spallucce. Quando si gira la sua gonnella svolazza in giro. “Immagino voglia che tu faccia le cose per bene stavolta,” commenta con noncuranza.
Io mi congelo sul posto e mi sembra di avere sulla testa un cartello che lampeggia, avvisando il mondo che sono gay e sto con quest'uomo pelato al mio fianco.
Prima di sparire, Clara mi lancia un'occhiata che non sono effettivamente sicuro di capire, una via di mezzo fra la smorfia libidinosa del Chaku nella sua forma migliore e la sicurezza del ricattatore quando ti avvisa che sa cos'hai fatto l'estate scorsa.
E io adesso non sono più sicuro se questa ragazza mi salterà addosso o deciderà di chiedermi dei soldi per stare zitta.
Al momento, il fatto che saremo noi a parlare per primi a cena è del tutto irrilevante, anzi, forse peggiora solo la situazione. Prima potevo pensare che magari, all'ultimo, avremmo lasciato perdere. Ora ho quest'immagine mentale di noi che decidiamo di stare zitti e Clara che, candidamente, rivela la verità.
Un attimo dopo il signor Pangerl mi colpisce in fronte con un'accetta da taglialegna che teneva casualmente legata al fianco. Io non ce la posso fare.

*


La nonna di Peter è effettivamente la nonna di Peter, quello vero.
Quando arriviamo alla sua casetta, io non so davvero se ridere o se farmi prendere dal panico. Questa donna avrà duecento anni, ha la testa avvolta in un foulard azzurro probabilmente fatto a mano dalla nonna della nonna di sua madre e siede sulla veranda della sua casa a sbucciare piselli.
"Nonna?” Urla Chakuza, anche se siamo a, tipo, due metri di distanza.
Lei solleva la testa e ci guarda a lungo prima di riconoscere l'amato nipote. “Peter,” lo chiama, allungando le braccia. E io non posso davvero farcela. Adesso, ne sono certo, arriveranno Nebbia e anche gli agnellini a scodinzolare festosi intorno al pastorello.
La nonna più che centenaria lo abbraccia stretto mentre io sto lì in piedi come un cretino, in attesa che qualcuno mi faccia entrare nel cartone animato.
"E questo bel giovanotto chi è?” Chiede e poi, prima che qualcuno possa risponderle e dirle chi sono, lei si illumina tutta e le sue duemila rughe sulla fronte si distendono in un colpo. “Non dirmi che è Franz! Quanto sei cresciuto!”
"No, non è Franz. Questo è Patrick,” la corregge Chakuza, con un tono di voce altissimo. “E' un amico di Berlino.”
Un amico che casualmente ha sposato a Las Vegas, signora, ma non voglio confonderla troppo. “Salve signora,” faccio io, lì, un po' così. Di solito ci so fare con le anziane signore che ci circondano – la signora Lotte mi adora, per dire – ma al momento sono molto concentrato ad evitare di impazzire pensando che è, tipo, mia parente ora. O una cosa simile. Anche se lei non lo sa. Le tendo la mano ma lei mi tira giù in una morsa letale da montanaro. Le donne in questo posto fanno paura.
"Ecco perché eri sparito!” Mi fa, urlandomi nell'orecchio come fossi sordo anch'io. “Eh, voi giovani finite tutti per andarvene via. Questo non è un paese per voi!”
"Eh già.”
"E tua madre come sta? Me la ricordo quand'era piccola e veniva da me a comprare il latte!”
Signora, mia madre non è mai uscita da Tempelhof, figurarsi venire sui monti a comprare il latte della sua mucca.
"Nonna, questo non è Franz,” ripete Chakuza, con un sospiro. “Si chiama Patrick, capito?”
Lei lo guarda fisso e annuisce, poi si volta verso di me e mi fa questo sorriso mono-dentale raccapricciante. “E la tua sorellina? Quanti anni ha adesso?”
Appunto. Sospiro. “Sei,” sparo a caso.
Chakuza mi fa cenno di no con la testa. Indica in alto.
"Ehm, no. Quindici.”
Chakuza mi fa segno di tagliarsi la gola.
"E' morta,” concludo addolorato.
Vedo Chakuza accasciarsi con le mani sugli occhi, dietro sua nonna. Lei però non sembra aver capito un accidenti nemmeno stavolta. “Come passa in fretta, il tempo,” biascica in un tedesco oscuro di cui capisco solo due parole su tre e non sono sicuro nemmeno di quelle.
"Eh già,” commento.
Mi fa una carezza sulla guancia, guardandomi con questi occhi velati di bianco. “E ci andate ancora nei boschi tu e il mio Peter?”
Sollevo un sopracciglio, ghignando nella sua direzione. “Nei boschi, Peter? Ci andiamo ancora nei boschi?”
"Non facevate altro da ragazzini. Sempre nei boschi, sempre sporchi di fango.”
"Ah, però,” commento ridendo in direzione di Chakuza che credo voglia morire in questo momento. Devo indagare su questo Franz.
"Ora sarà meglio che andiamo, nonna,” fa subito lui, recuperandomi prima che io e sua nonna possiamo sviscerare i più reconditi segreti della sua adolescenza con Franz, suppongo. “E' quasi ora di cena.”
La nonna mi batte amorevolmente sulla guancia una mano ruvida come carta vetrata e annuisce a Dio solo sa cosa. “Andate, andate.”
"Franz?” Chiedo, mentre torniamo verso casa sotto un cielo che si sta scurendo.
"Era un compagno di scuola,” mi risponde.
"Con il quale ti rotolavi nell'erba fra i boschi?”
"No, deficiente,” commenta ridendo. “Nel bosco ci passavamo perché era più facile raggiungere il villaggio dall'altra parte della vallata, dove c'erano un paio di ragazze che ci piacevano.”
"E sua sorella?”
"Con lei ci sono stato, invece” mi fa, prima ancora di dirmi il nome e l'età. Io non so se essere incredibilmente affascinato dall'assoluto mistero del suo cervello o se dargli semplicemente dell'uomo schifoso come dovrei. “E tanto per la cronaca non è morta.”
"Che ne so io se mi fai il segno di tagliarti la gola!”
"Era per dirti di piantarla.”
"Allora ti do un suggerimento, la prossima volta—”
"Quando avete finito di litigare,” commenta Clara, in piedi sulla porta di casa con le mani sui fianchi e quell'espressione da giovane mafiosa, “la cena è in tavola.”
Forse se mi giro e corro molto veloce, posso arrivare alla macchina e fuggire prima che sia troppo tardi. Una volta varcato il confine sarei salvo.

*


Non appena vedo la cena della signora Pangerl capisco tante cose di Chakuza. Una fra tutte, la sua incapacità di dosare le misure. Per lui, una cena per due persone consiste in sei portate più la frutta e il dolce. Vi lascio immaginare che cosa prepara quando ceniamo tutti insieme, e soprattutto quando inizia a farlo. Ci sono volte in cui Bushido annuncia la data di una cena e poi mette in conto che per i tre giorni precedenti Chakuza non sarà reperibile per lavorare perché sarà impegnato a preparare fondi, pane ed elaborati piatti indonesiani la cui preparazione si aggira sempre intorno alle 25-30 ore. Ogni volta che dobbiamo riunirci con gli altri, casa nostra diventa la cucina di un albergo, ci sono pentole ovunque ad ogni ora del giorno e della notte e io non posso aprire il frigorifero senza che lui mi assalga urlando di non toccare niente perché ci ha messo dentro non so cosa ad addensarsi e, quando gli dico che ho sete, comincia a passarmi ciotole su ciotole che devo tenere in equilibrio sulle braccia mentre lui recupera il mio succo di frutta dal fondo, quindi mi rispedisce da dove sono venuto – generalmente il salotto – dove ho l'ordine di restare circondato di tartine senza poterne mangiare nemmeno una.
A quanto pare, con sua madre è la stessa cosa. La tavola che ha apparecchiato prende praticamente tutta la stanza, ma i piatti per noi cinque ne occupano solo una metà perché l'altra è ricoperta di cibo; e siccome vedo solo antipasti, primi e secondi, non so quali e quanti dolci siano nascosti in cucina.
"Siediti pure dove vuoi, caro,” mi dice la signora Pangerl con questo sorriso luminoso e pieno di speranza verso il futuro. Io sono qui per dirle che non avrà mai una nuora, signora, lei non dovrebbe sorridermi così.
Io lascio il posto di capo tavola al padre di Chakuza e intimo con lo sguardo a lui di sedersi alla sua destra in modo che, per uccidere me, quell'uomo debba prima uccidere suo figlio. In fondo sarebbe giusto così, è colpa sua se io mi trovo in questa situazione.
Clara mi si siede davanti e mi fa ancora quello strano sorriso che io ricambio, in automatico, con solo metà della bocca mentre cerco di non strozzarmi con la mia saliva nel deglutire. Esito a sedermi, perché sento l'enorme peso del destino sulle spalle e so che, una volta appoggiato il sedere su questa sedia, io non mi rialzerò mai più. Morirò qui, seduto a questa tavola. Sarà così che mi ricorderanno; forse avrei dovuto passare a salutare mia madre per l'ultima volta.
A farmi sedere ci pensa il signor Pangerl, semplicemente comparendo sulla soglia vestito come un uomo d'altri tempi, col pantalone con la riga, la camicia e il maglioncino con la cravatta dentro. Ha un viso serio e un'espressione così severa che il bastone con il quale si aiuta per camminare non gli toglie affatto vigore, anzi sembra più distinto e anche più pericoloso. Io lo guardo fisso, come i gatti di notte abbacinati dai fari delle auto, ma lui non mi degna di uno sguardo mentre si siede nel posto che gli ho lasciato.
"Siamo pronti!” Cinguetta la signora, cominciando a servire gli antipasti e facendo il giro di tutti i commensali, posizionando su ognuno dei piccoli piattini un tondino di pane con sopra una salsa e un'oliva, dei piccoli bignè riempiti di salsa tonnata e un'altra tonnellata di cose che basteranno a riempirmi fino a domattina, probabilmente. Ne segue un momento di silenzio in cui tutti aspettiamo che la signora Pangerl sia tornata a sedere e ci mettiamo il tovagliolo sulle ginocchia.
“Allora,” esordisce la mamma di Peter. “Che cosa ci racconti? Ci sono novità?”
Da dove cominciare, signora? Dall'ultima volta che io e lei ci siamo visti, io e suo figlio abbiamo avuto una tormentata storia di sesso, cominciata con un mezzo stupro da parte sua, che fra alti e bassi e altri uomini da ambo le parti, ci ha portati a vivere insieme. Siamo appunto venuti qui questo fine settimana per darvi la notizia non solo della nostra omosessualità ormai certa ma anche del nostro matrimonio, avvenuto a Las Vegas qualche settimana fa mentre eravamo entrambi ubriachi. “Ma, non molto,” rispondo, cercando di apparire disinvolto. “Tutto procede molto bene, per fortuna.”
"Sai, mamma, che forse lui e Peter lavoreranno insieme?” Esclama Clara, guardandomi con quell'aria da Pangerl che mi mette ansia. E poi, sarò paranoico, ma mi sembra che ammicchi e dica parole precise.
"Davvero?” Chiede la signora.
"Per ora è solo un'idea,” rispondo. “Non sappiamo ancora se riusciremo a realizzarla.”
Il signor Pangerl mangia in silenzio, tagliando con attenzione meticolosa tutto il cibo che poi porta alla bocca sotto due enormi baffi rossicci. “Come hai detto che ti chiami?” Chiede all'improvviso e, visto che ora mi guarda, io comincio a sudare freddo, come se ce lo avessi scritto in faccia che sono il ragazzo di suo figlio. Forse sì, ma insomma. “Patrick,” rispondo, deglutendo.
Lui annuisce tra sé e sé. “E che lavoro fai?”
"Sono un cantante.”
"Lavora anche lui per l'etichetta per cui lavora Peter,” chiarisce Clara.
Il signor Pangerl non sembra particolarmente impressionato, continua ad annuire, mentre si pulisce la bocca e si versa un bicchiere di vino. “Ne vuoi un po'?”
"Grazie,” gli porgo il bicchiere anche se in genere non vado matto per il vino. Non ci penso nemmeno a questo piccolo particolare. Eseguo e basta.
"Da quanto vi conoscete tu e Peter?”
Io cerco di fare il conto, ma non ci riesco perché per farlo devo prendere dei punti di riferimento e tutti quelli che ho mi ricordano perché sono qui. “Saranno—”
"Due anni, forse un po' di più,” dice Chakuza. “E' successo quando pensavamo che Bushido fosse morto, ricordate?”
"Sì, mi ricordo,” commenta lui senza particolare entusiasmo. Lascia che la moglie gli porti via il piatto degli antipasti, mentre Clara ci serve il primo. Queste dinamiche sono così disastrosamente antiquate con il capofamiglia e la moglie che sparecchia, che io non so come faremo a passarla liscia con una notizia del genere.
Chakuza si schiarisce la voce, “Patrick mi ha aiutato a sistemare certe questioni in quel periodo ed è stato molto vicino a me e a tutti gli altri ragazzi.”
La signora Pangerl ha fatto della pasta con le patate buonissima, così penso che posso spostare il discorso su territori più neutri parlandole di cucina. “Ora capisco da chi ha preso Peter. E' lui che cucina,” commento. “Per l'etichetta, intendo.”
Clara ridacchia mentre spilluzzica dal suo piatto di pasta.
"Ha preso tutto da me e da sua nonna,” risponde lei fiera, “Avrebbe dovuto fare il cuoco.”
"Ma lui doveva cantare,” commenta suo padre.
Chakuza sospira. “Potremmo non ricominciare con questa discussione? Riesco a mantenermi benissimo anche cantando.”
"Solo che se avessi fatto il cuoco, non rischieresti la vita come fai ora,” puntualizza lui, guardandolo dritto negli occhi, al che capisco che è una questione aperta da tempo fra loro due e, nonostante questo, non riesco comunque a stare zitto.
"Non deve preoccuparsi, il pericolo non è così reale,” dico con un mezzo sorriso incoraggiante. “Cantiamo, principalmente. Il resto è immagine.”
"Se non ricordo male,” fa subito lui, posandosi il tovagliolo sulle gambe e appoggiandosi allo schienale della sedia, “quel Bushido è stato colpito da due colpi di pistola e un vostro collega, un certo Saad qualcosa, è morto ammazzato due anni fa.”
Sì, ora però non sottilizziamo, signor Pangerl, e poi questi sono casi limite. Bushido se n'era tirati addosso parecchi di motivi per farsi ammazzare.
"Non mi succederà niente, papà,” commenta Peter, cercando di chiudere il discorso. “Passo la maggior parte del tempo in studio a creare basi, la gente non ha interesse a farmi saltare la testa.”
A quel punto Clara prende la parola per affogarci in un mare di chiacchiere sulla sua scuola e su mille attività che non so dove trovi il tempo di fare. Mi viene in mente la sua controparte maschile, le cui uniche attività sono il sesso e la cucina, che tenta di combinare per non dover far fatica due volte. Quando arriviamo al dolce io sono già così pieno che potrei esplodere, ma la signora Pangerl porta in tavola questa immensa torta alla panna e io non posso dirle di no perché sarebbe blasfemia. Chakuza, però, è nato per rovinarmi l'esistenza, perché decide che proprio questo è il momento perfetto per dirlo. La donna che mi sta di fronte, e che ora mi porge una torta meravigliosa e all'apparenza soffice e dolcissima, deve averlo generato perché un giorno egli mi impedisse di godermela, anche se non so esattamente il perché.
Chakuza mi guarda per avvisarmi che sta per farlo e io immagino di scuotere la testa al rallentatore mentre dico qualcosa che però esce fuori distorto per l'effetto cinematografico. In realtà mi limito a deglutire e a trattenermi dall'alzarmi in piedi e fuggire agitando le braccia.
"Devo dirvi un cosa,” esordisce, tirando indietro la sedia e appoggiando il tovagliolo sul tavolo accanto al piatto con la torta intoccata. Visto il tono che ha usato, tutti capiscono che si tratta di qualcosa di serio, quindi gli prestano attenzione e a me sale l'ansia. Forse speravo che lui aprisse bocca e che nessuno lo trovasse abbastanza interessante da ascoltarlo.
La signora Pangerl posa il coltello con cui stava tagliando la torta e si siede composta, stringendo le labbra con un sospiro e lo sguardo preoccupato. “Che cosa succede, Peter? E' qualcosa di grave?”
"No, al contrario, direi che è una cosa molto bella,” dice. E mi guarda. No, non mi guardare Peter, ti prego, tuo padre è un uomo dell'ottocento, falla almeno sembrare una cosa da uomini e non da checche innamorate che litigano sui barattoli dei cetriolini sottolio e subito scappano dalle loro migliori amiche gay a farsi consolare. “Io e Patrick stiamo insieme.”
L'Austria in questo periodo ha una temperatura piuttosto mite e oggi c'è il sole, un cielo azzurro che viene voglia di sorridere e non un filo di vento; ma in questa stanza ci saranno due gradi, adesso.
Il quadretto famigliare con la torta di panna e la madre di famiglia con il grembiule si è ormai frantumato in mille pezzi e l'immobilità delle tre persone che mi stanno davanti è inquietante. Osservo quell'assenza di movimento con molta attenzione e mi sembra di avere davanti tre manichini; ho la stessa sensazione che mi prende ogni tanto quando mi capita di entrare in un negozio quando sta per chiudere e sembra che i manichini siano pronti a strangolarti appena volterai lo sguardo. Il manichino della signora Pangerl sembra addolorato e non so dire quanto mi dispiaccia di non aver avuto nemmeno il tempo di mangiare la sua torta e dirle quant'era buona prima di distruggere tutte le sue speranze in questo modo. Il manichino del signor Pangerl, invece, non ho il coraggio di guardarlo direttamente, lo faccio con la coda dell'occhio e lo trovo nella stessa posizione di prima. Non so decifrarne l'espressione del viso, ma di sicuro non è amichevole. Clara invece, se potesse, sarebbe già esplosa urlando, ma immagino che aspetti di avere almeno il via libera di sua madre, per non rischiare di assecondare il fratello mentre quella muore d'infarto ecco.
"Spero che possiate accettarlo perché facciamo sul serio,” continua Chakuza, credo per dare il colpo di grazia ai suoi genitori ed ereditare le mucche e tutta la baracca. “Viviamo insieme da un po' e,” fa un pausa e io vorrei strangolarlo prima che lo dica, ma so già che lo farà perché è lui e perché è scemo “in realtà qualche tempo ci è capitato di sposarci a Las Vegas.”
Sua madre emette un versetto incomprensibile e si accascia sulla sedia, ma è suo padre quello che fa più rumore scostandosi con forza dal tavolo e allontanandosi senza dire una parola.
"Papà!” Peter cerca di fermarlo ma quando si alza, suo padre ha già lasciato la stanza e Clara si è sentita in diritto di saltarci addosso squittendo come un'invasata.
"Lo sapevo! Lo sapevo! Passavate troppo tempo insieme e poi le foto alle premiazioni? E tutti quei messaggi su Facebook? Si vedeva lontano chilometri, non so come siete riusciti a tenerlo nascosto finora.”
Io mi chiedo di che foto e messaggi stia parlando. Io e Chakuza avremo in totale due foto pubbliche insieme, e per l'appunto mentre ritiravamo dei premi. E in quanto ai messaggi, Chakuza scrive per informare delle sue sbornie e del mal di testa, lo avrò al massimo preso per il culo. Non so cosa ci abbia visto lei.
Ad ogni modo non le presto più di tanta attenzione per il semplice fatto che la signora Pangerl si è alzata e mi si sta avvicinando molto lentamente, con le braccia tese di fronte a sé e io non so se voglia picchiarmi o cosa ma rimango immobile perché è piccola e fragile e se vuole scassarmi la faccia a sganassoni può farlo, perché un po' me lo merito. E invece lei mi abbraccia; o meglio si appende alle mie spalle finché io non mi chino un po' e allora lei mi stringe fra le braccia teneramente. “Benvenuto,” mi dice. “L'importante è che siate felici.”
E io le voglio già molto bene.

*


Dopo cena mi sono offerto di lavare i piatti e la signora Pangerl e stata con me ad asciugarli, chiedendomi mille cose fra cui tutti i dettagli di un matrimonio di cui non mi ricordo assolutamente niente se non che avevo bevuto fino a sfondarmi e che, da qualche parte accanto a me, Chakuza stava facendo lo stesso. Lei però sembrava così interessata che ho un po' abbellito i dettagli e poi ho cercato di distrarla con la mia fede e con la serie di aneddoti assurdi che ho collezionato vivendo in casa con suo figlio bene o male tre anni. Lei ha riso molto e mi ha raccontato di com'era lui da bambino, promettendo di selezionare qualche foto significativa dagli album di famiglia senza sottopormi alla tortura dello sfoglio completo, cosa che ho molto apprezzato.
In tutto questo, Peter si è chiuso nello studio con suo padre e ora che è quasi mezzanotte e io sono disteso sul letto in camera sua a guardare il soffitto, non è ancora rientrato.
Provo a mettermi nei panni di quell'uomo e a capire cosa prova. Non dev'essere facile riporre certe aspettative su un figlio e vederle infrante in questo modo. Per lui già sognava una carriera che Chaku non ha intrapreso, magari sperava che avrebbe avuto almeno una bella moglie e dei bambini e invece ci sono solo io e direi che questo è tutto il massimo che quell'uomo si può aspettare.
Peter si presenta quasi mezz'ora dopo, richiudendo piano la porta, convinto che io stia dormendo visto che me ne sto qui con la luce spenta.
"Peter,” lo chiamo piano, voltando la testa.
Lui mi sorride e mi si stende addosso, socchiudendo gli occhi. “Ehi.”
"Com'è andata?” Gli tolgo il cappellino e lui si sistema meglio sul mio petto, mettendosi comodo.
"Come pensavo,” risponde. “Non ne vuole sapere. Ha ricominciato a parlare di fasi, poi mi ha accusato di farlo apposta e infine si è solo lamentato, chiedendosi dove ha sbagliato con me. Ci sono già passato.” Trattengo il fiato e lui sospira. “Scusa. Era solo per dire che—”
"Non importa,” sorrido perché ha capito da solo ed è un grande traguardo per lui. Gli faccio i cerchiolini sulla testa per punizione, però. “Quindi?”
"Non lo so, vediamo domattina. O smetterà di parlarci, oppure fingerà che la cena non sia mai avvenuta e che io non gli ho detto assolutamente niente.”
"C'è speranza che ci ripensi?”
Lui mugola contrariato e quindi comincia a muoversi, una cosa che mi aspettavo già qualche secondo fa ma si vede che la chiacchierata con suo padre gli ha sconvolto le tempistiche. “Non credo che succederà in tempi brevi, è piuttosto testardo.”
"Chissà da chi hai preso,” rido, mentre mi bacia il collo. “Io devo ancora disfare i bagagli, comunque.”
"Lo farai domani,” annuisce lui, aprendomi le gambe con un ginocchio e una pratica ormai collaudata. Mi sconvolge ogni volta la naturalezza con cui passa da uno stato mentale all'altro senza passare dal via, anche se il primo magari non è proprio il massimo per scopare. Tipo quando tuo padre ti ha appena ripudiato perché sei gay, ecco.
Quando allunga le mani le intercetto e le stringo, guardandolo con un mezzo sorriso. “Tu non vuoi davvero farlo su questo letto,” dico. “E' quello di quando eri piccolo.”
Lui cerca di liberarsi senza convinzione, ma io lo tengo stretto, per cui ci ritroviamo semplicemente a muovere le mani intrecciate. “Scherzi?” Dice, interrompendo per un istante il suo lavoro da certosino sul mio collo, solo per brillare di luce propria direttamente da dietro le orecchie. “E' uno dei miei sogni erotici.”
"Farlo nel letto di quando eri bambino?”
Lui annuisce e mi si siede sulle gambe, liberando finalmente le mani. “Quindi ora ti spogliamo,” dice tirandomi via la maglietta. “E tu mi aiuti a realizzare questo sogno.”
"Potrebbero sentirci,” tento di nuovo, mentre lui è già passato ai pantaloni.
Chakuza mi si stende addosso del tutto incurante delle proteste che ho già esternato e riesce a bloccare anche quelle successive semplicemente perché sa dove mettere le mani. Alla fine cedo, come se ritrovarsi in mutande sotto di lui non fosse già un silenzio assenso sufficiente, e siamo già molto presi quando lo scricchiolio inizia, dapprima debole per poi diventare sempre più forte, al punto che ogni volta che Chakuza prova a spingersi un po' più forte qua traballa tutto e il letto geme così forte che ho seriamente paura che qualcuno corra a vedere se non è successo qualcosa. Lui naturalmente finge che la cosa non gli interessi, si concentra ma lo gniko gniko che ci accompagna nel movimento distrugge la poesia a randellate e io non posso fare a meno di scoppiare a ridergli in faccia e poi accasciarmi sulla sua spalla e continuare a farlo, costringendo lui a fermarsi.
Rimane spiaggiato su di me ancora un po', finché non finisco di ridere, forse nella vana speranza che riprenderemo se aspetta abbastanza, ma poi si rassegna e borbotta qualcosa di incomprensibile fino ad affondare la faccia nel cuscino di fianco a me.
"Voglio scopare,” piagnucola dopo un po'.
Non c'è niente di più catastrofico per lui che non farlo. Già l'astinenza totale lo destabilizza fino a farlo diventare un'altra persona – una con la quale io generalmente non voglio avere a che fare – ma quando inizia e qualche fattore esterno gli impedisce di finire, il suo mondo va in pezzi lasciandolo solo in una valle di tenebra senza via d'uscita.
Così sospiro e gli accarezzo la schiena. “Lo faremo molto presto,” gli dico e di questo non ho alcun dubbio. Non so come e non so quando, ma lui troverà il modo di schienarmi senza che rumori molesti di alcun genere mi distraggano dal nostro obbiettivo primario.
Lui mugugna e nasconde la testa sotto al cuscino, spostandosi a disagio perché il suo corpo non si è ancora accorto che non abbiamo intenzione di combinare. “Un massaggio?” Mi offro.
"Grazie, ma la situazione potrebbe solo peggiorare.”
A me scappa da ridere, ma sono tanto bravo che non lo faccio. Non so se intenerirmi o scuotere la testa di fronte alla sua totale incapacità di gestire il proprio corpo. So che non è facile mettere il freno quando hai preso il via – sono un uomo anch'io e siamo qui per dimostrarlo – ma non ha più quindici anni, quindi dovrebbe essere in grado di tornare a controllarsi se la situazione lo richiede. E invece no, lui può solo soffrire in silenzio.
Rimango nella mia metà del letto e mi rimetto i pantaloni, tornando a guardare il soffitto che ha ancora attaccate delle stelle fosforescenti che adesso brillano un po'. Alla fine, lui un po' si riprende, striscia fuori dalla sua tana e torna ad abbracciarmi, sistemandosi comodo e senza rischi contro il mio fianco. “Dormiamo?” Mi chiede e sembra più stanco di quanto non sarebbe se avessimo effettivamente concluso qualcosa. Io annuisco e chiudo gli occhi.


*


La prima cosa che noto, aprendo gli occhi la mattina dopo, è una ciocca di capelli. In un primo momento mi rimetto a dormire perché sono stanchissimo, ma poi nel mio cervello si fa strada il pensiero che non ho più famigliarità con i capelli al mattino da almeno due anni, se si esclude la parentesi di Danny che comunque dorme con il codino, quindi i suoi capelli non si spargono in giro. Chakuza non ne ha e io continuo a tagliarli così spesso che a volte il parrucchiere mi manda via quando mi vede entrare, perché dice che non ha niente da tagliare e lo sto prendendo in giro.
A quel punto sono costretto a svegliarmi davvero se voglio risolvere il mistero dei capelli in questo letto e lo faccio sbattendo le palpebre più volte e cercando di stirarmi, per scoprire che non posso farlo perché il mio corpo è pressato tra altri due. E questo è inquietante.
Alle mie spalle Chakuza continua a dormire pacifico e mi tiene un braccio intorno alla vita, russandomi direttamente nelle scapole, tanto che il rumore me lo sento rintronare anche nella pancia. Fin qui tutto normale.
Davanti a me, però, dove ho paura di guardare, c'è una cascata di capelli biondo rossicci, una maglietta rosa aderente e la curva morbida di un fianco, tutti appartenenti a Clara.
Resto fermo e mi fingo morto.
Qualunque cosa sia successa ieri sera dopo la cena in famiglia, io non c'entro, signor Pangerl, glielo giuro. Sono sicuro che i suoi figli mi hanno drogato per poi abusare di me. La prego non mi uccida.
Nella situazione contingente il sonno mi passa del tutto, all'improvviso sono fresco come una rosa e devo capire cos'è successo. Quello che so per certo è che io non mi sono mosso da questo letto da quando abbiamo dovuto rinunciare a copulare perché scricchiolava e, a meno che uno di noi due non sia sonnambulo e sia andato a prendere Clara in camera sua – cosa altamente improbabile – allora è lei che si è intrufolata in questa stanza e, ancora più importante, in questo letto. Tra l'altro, ora che ci penso, se lei è entrata vuol dire che la porta era aperta, e se era aperta significa che ieri sera stavamo per scopare senza aver chiuso a chiave in casa dei suoi genitori. Io questo nano lo ammazzo.
Potrei continuare a fare ipotesi per ore, pur di rimanere immobile e non toccare la ragazzina nemmeno per sbaglio – che è una cosa difficile visto che è rannicchiata contro il mio corpo – ma lei decide di svegliarsi e lo fa allungandomi le braccia e le gambe addosso, fino a spalancarmi due occhi verdi identici a quelli del fratello direttamente davanti alla faccia. “Buongiorno,” mormora.
"Cosa ci fai tu qui?”
Lei ridacchia, prima di sbadigliare. “Perché?” Mi chiede, come se fosse normale che la sorella di mio marito dormisse nel letto con noi dopo che ha ormai passato da tempo i quattro anni d'età che l'avrebbero giustificata a farlo. “Non hai mai dormito con una ragazza?”
Questa è come Peter, ma uguale proprio.
"Sì, e potevano tutte votare,” ritorco. “Ora vuoi rispondermi e uscire da questo letto, per favore?”
"In quest'ordine, sei sicuro?”
"Clara,” sibilo, voltandomi a controllare Chakuza che però continua a dormire come se niente fosse. La tragedia di ieri sera gli ha tolto ogni forza.
"Stai tranquillo che non lo svegli con niente quando è in questo stato,” sussurra lei divertita. Poi alla fine disincastra le gambe dalle mie e non si dimentica di agitarle in aria prima di scendere dal letto. Cosa ne sa lei in che stato è lui, poi. “Comunque ieri sera sono andata a ballare, ho bevuto qualcosa, devo aver sbagliato stanza. Sono abituata collassare sul primo letto disponibile che generalmente è questo. Camera mia è al piano di sopra,” aggiunge con una faccia che è tutto un programma. “Così, in caso volessi saperlo.”
Sono allucinato di fronte alla sua faccia tosta. Sono sicuro che se Chakuza fosse nato donna sarebbe esattamente così; anche lei, come suo fratello, parte dal presupposto che io accetterò questo tentativo di seduzione adolescenziale, anche se sostanzialmente l'ho buttata fuori dal letto e la sto spingendo fuori dalla camera. Non legge i segnali che le mando, tanto è convinta di far centro con i suoi. La cosa più preoccupante è che, se davvero condivide con Peter questa parte di codice genetico, significa anche che non prenderà mai in considerazione un no come risposta e io non posso davvero sopportare due Pangerl. La metto nel corridoio quasi di peso. “Resta lì!” ordino, nemmeno fosse un cucciolo di cane a cui non è permesso entrare nella stanza. Sono disposto a legarla fuori se necessario. Richiudo la porta che lei sta ridacchiando e mi ci appoggio, tirando un sospiro di sollievo.
Questa casa è un inferno, ci sono Chakuza da tutte le parti.
Dopo un po' che sono lì in piedi, riapro la porta e mi sorprendo di non trovare Clara in mezzo al corridoio dove l'ho lasciata. Guardo a destra e a sinistra ma di lei non c'è più traccia e allora posso convincermi che l'ho sognata e che niente di ciò che ho vissuto in questi dieci minuti è mai avvenuto davvero.
"Che stai facendo?” La voce di Chakuza mi arriva che sono ancora mezzo dentro e mezzo fuori.
Rientro di scatto e chiudo la porta. “Niente! Ho sentito dei rumori e sono andato a controllare.”
Lui, che fino ad un secondo prima dormiva a pancia sotto e si era tirato su solo quel tanto che bastava a girare la testa e a guardarmi, come una foca, per intenderci, mi squadra con un occhio chiuso e uno aperto. Non sono nemmeno tanto sicuro che sia veramente sveglio. Alla fine scuote la testa e torna ad infilare la testa tra i cuscini, distendendo quell'enorme tatuaggio che ha sulla schiena. “Torna a letto. E' l'alba, cazzo.”
In realtà la sua sveglia di Superman sul comodino segna le nove meno un quarto, ma immagino che non sia il caso di farglielo notare. Salgo sul letto e, come mi stendo, lui mi avvolge un braccio intorno allo stomaco, tirandomi un po' più vicino.
"Che programmi abbiamo per oggi?” Chiedo, notando che le stelle sul soffitto sembrano sparire quando le inghiotte la luce del mattino che filtra appena dalle finestre. Sono troppo poetico per questa stanzetta e per lui che grugnisce di nuovo. “Alba” e poi “Dormi.”
L'alternativa sarebbe aggirarmi per casa in cerca di cibo con il rischio di incontrare suo padre o sua sorella, così mi stendo buono accanto a lui e, anche se non avevo più sonno, tra il suo calore e il generale senso di sicurezza che provo adesso che siamo di nuovo da soli io e lui, mi riaddormento come un bambino.

*

Quando dico che quest'uomo è pazzo, non lo dico tanto per dire. Io lo conosco, lo so come funzionano i suoi processi mentali e come s'incastrano le sue mille rotelline in rame. Dopo anni di frequentazione e numerosi sbagli, ora posso osservare il caos che lo governa e comprenderne a fondo i profondi abissi di tenebra. Sfortunatamente, questo mio fenomenale potere cosmico non mi aiuta ad impedire le sciocchezze che fa, ma solo a comprenderle una volta che le ha compiute. Così quando, finalmente, verso le undici si sveglia, io lo so già che il suo obbiettivo della giornata sarà una superficie che non cigoli, glielo leggo negli occhi a tavola, mentre sua madre ci riempie fino a scoppiare di qualsiasi cosa abbia in casa, scusandosi perché la torta si è bruciata e non ha fatto in tempo a farne un'altra.
Quello che non sapevo, e lo so ora, è che il posto perfetto per dare sfogo ai suoi istinti animali ce l'aveva già in mente – forse perfino da ieri sera – e che se me l'avesse detto in anticipo non ci saremmo mai mossi per raggiungerlo.
In pratica, dopo aver lasciato che sua madre mi mettesse all'ingrasso, mi dice di mettermi un paio di scarpe da ginnastica e poi mi trascina su per questa collina erbosa che da sotto non sembra, ma appena ci metti un piede sopra diventa ripida.
"Dove andiamo?” Chiedo, cercando con gli occhi un cartello per orientarmi ma qui c'è solo prato per chilometri a perdita d'occhio, quei prati verde smeraldo che sembrano di plastica da quanto sono perfetti e brillanti. E case, naturalmente, centinaia di case sparse come se una mano gigantesca avesse fatto cadere sulla valle una manciata di segnalini del Monopoli.
"Ti porto a vedere il pascolo,” fa lui, con le mani in tasca come fosse un vecchio montanaro navigato, quando fa fatica pure a salire le scale. “Da lassù si vede tutta la valle.”
"Che cosa romantica,” lo prendo in giro. “Scommetto che ci porti tutti i tuoi fidanzati.”
Lui soffia dal naso, che non vuol dire che è arrabbiato ma solo stanco di vivere, una condizione in cui si trova spesso. Ci sono momenti in cui è euforico oltre il sopportabile e momenti, come questo, in cui si guarda intorno e vede solo desolazione, anche se magari siamo in mezzo al verde, il cielo è azzurro ed è tutto perfettamente stupendo.
"Solo quelli che ho fatto conoscere a mia madre,” mi risponde mentre arriviamo in cima e imbocchiamo un sentiero minuscolo che serpeggia fino ad insinuarsi dentro un boschetto. In giro non c'è nessuno e io mi chiedo dove siano tutti gli altri austriaci.
“E sono molti?”
"Solo uno”, replica lui. Bill, beccati questa.
Sono così preso a bearmi virtualmente con la Principessa per essere arrivato dove lei non è riuscita, che non mi accorgo di lui che si è fermato e gli vado a sbattere contro. E' fortunato ad avere due spalle enormi perché io sono il triplo di lui e lo cappotterei se non fosse tanto sproporzionato. Il quasi tragico incidente, comunque, non sembra scuoterlo per nulla. Anzi, continua a scrutare non so bene cosa di preciso e io prima guardo lui, poi nella direzione generale del suo sguardo, poi di nuovo lui e non riesco a capire che cosa ci sia di tanto interessante da vedere. Quando sto per chiedergli perché, di grazia, siamo in piedi come due scemi in mezzo ad un bosco, lui stende un braccio e dice: “Là!” partendo in quarta.
Io lo seguo, più per evitare che si faccia del male che per vera e propria curiosità e quando lo trovo che sorride come un ebete sotto non so quale albero, non so bene cosa fare perché non aveva mai mostrato segni di demenza prima di adesso. “Qui è perfetto,” mi spiega, sollevando le fronde più basse che strisciano quasi a terra e mostrandomi il nascondiglio che esse racchiudono.
"Avevi detto che c'era un pascolo,” protesto, quando capisco dove stiamo andando a parare. “Io voglio vedere le mucche. Dove sono le mucche?”
"Sono qui intorno,” dice vago. E per intorno immagino intenda quei duemila chilometri di campi che ci circondano, dove se una mucca poco poco si allontana per fare una giratina, può anche sentirsi molto sola. “Vieni?”
Lo guardo, lì seduto a terra che mi tende le mani, e penso che mio marito mi ha mentito per attirarmi in un cespuglio e approfittare di me, questo matrimonio è un disastro.
"Voglio il divorzio,” protesto ancora mentre mi lascio stendere a terra, dove non è scomodo come pensavo perché l'erba è alta e morbidissima.
"Perché non ti faccio vedere le mucche?” Chiede lui ridendo e salendomi addosso con disinvoltura, come se in un momento non meglio precisato tra casa sua e questa tana da conigli gli avessi detto che non vedevo l'ora di farmi possedere sul terriccio umido, fra le braccia stesse della sacra madre terra d'Austria. Vorrei sapere quand'è successo perché io non me lo ricordo.
Come ho già detto e come ormai già sapete, perché questa lunga saga è moltissime cose fra cui un documentario sui nostri riti di accoppiamento, Chakuza, quando sa di poter andare a segno, perde la cognizione di quello che gli sta intorno, così che se, per assurdo, fossimo colti da un terremoto nel bel mezzo di un amplesso, lui prima concluderebbe e poi forse – se ha ancora abbastanza forza – si farebbe prendere dalla preoccupazione che ci si aspetterebbe da lui in un caso simile. Ci è successo di tutto mentre scopavamo, ma lui niente, dritto per la sua strada come se nulla fosse. Una volta la lavatrice ha cominciato a perdere, ma lui non se n'è accorto nonostante tentassi di avvisarlo da dieci minuti e lui stesso fosse immerso nell'acqua fino alle ginocchia.
Questa volta non è da meno, perché la sua volontà di interagire con me a parole si esaurisce nel momento stesso in cui riesce a stendermi ed infilarmi una mano sotto la maglia. In questo posto mi è più facile lasciarlo fare, soprattutto perché nessuno della sua famiglia può sentirci e questo è un bene, anche di fronte all'ipotesi che a scoprirci sia invece la forestale che ci metterebbe in galera e butterebbe via la chiave. Qualunque cosa è meglio dell'idea che suo padre capiti per caso in una stanza e trovi me piegato a novanta sul suo tavolo da biliardo dell'800 e suo figlio che manda in buca la palla numero otto con un colpo di fianchi.
Gli accarezzo un braccio e risalgo fino alla spalla e alla nuca, dove la mia presa si fa più salda.
Io sono un tipo che si perde nei baci, ma non in tutti quanti, solo quelli a misura mia e Chakuza ha imparato alla grande anche se non era partito esageratamente bene, così lo tengo lì a baciarmi finché non mi fanno quasi male le labbra e poi lo lascio andare e rilasso i muscoli delle spalle e anche tutti gli altri mentre lui si scosta per armeggiare con la sua cintura e lascia a me il compito di pensare alla mia.
Così, visto che dopo questo sarà probabilmente una cosa molto sbrigativa, perché Chakuza sta contando le ore e non avrà la forza mentale di rendere il tutto un momento particolarmente intenso, decido di prendermela comoda almeno nel denudarmi, nella speranza che il troll della foresta, qui, non si faccia venire un attacco di rabbia e mi strappi i vestiti a morsi per poi scuotere la testa in preda alla furia del momento come un un dobermann impazzito o che so io. Chakuza si trattiene, fa il bravo, ma mi infila le mani nelle mutande il secondo che ho finito di togliermi la cintura. Comunque non mi lamento perché le sue carezze sono più lente di quello che mi aspettavo e posso godermi il momento in cui mi prepara, con tutta la calma del mondo.
Il problema è che le sue mani sono così calde e lui così bravo che evidentemente non sento il rumore e di certo non lo sente lui, ormai perso nel suo mondo alla ricerca dell'orgasmo perduto, così non me l'aspetto proprio quando, aprendo gli occhi in preda all'estasi, mi ritrovo davanti due narici gigantesche e un naso rosa e tondo che occupa tutta la mia visuale.
Tiro uno strillo così acuto che mi vergognerei di me stesso se non fossi terrorizzato e faccio un salto di mezzo metro, sgroppando Chakuza che rotola via non so dove mentre io mi allontano correndo e tirandomi su i pantaloni di corsa. “Che cazzo è?” Urlo, senza nemmeno voltarmi. Mi fermo a venti metri di distanza solo quando sento il muggito un po' contrariato.
Chakuza scosta le fronde dell'albero con una mano ma resta dov'è, tanto che dietro alla rotondità della sua testa nuda vedo anche parte della mucca che agita le orecchie.
Mi schiarisco la gola, un po' imbarazzato. “E' una mucca,” dico in tono casuale, cercando di darmi un contegno.
"Che cosa pensavi che fosse?” Chiede contrariato. Ha lo sguardo di quando succede qualcosa che proprio non doveva succedere. Per esempio Bushido.
"Non lo so, ma è spuntata dal nulla.”
La mucca muggisce di nuovo e agita la coda.
Chakuza espira scuotendo la testa, ma non sembra convinto; un po' come quando lui dice qualcosa che oggettivamente non ha alcun senso e tu non puoi fare nient'altro che fissarlo allucinato mentre ti rendi conto che crede davvero di avere ragione. Ecco, ora lui mi sta guardando così, ma non ha alcun diritto di farlo, innanzitutto perché è lui e poi perché non ho detto una cosa assurda. Non è colpa mia se sono stato vittima di un agguato.
"Voleva mangiarmi la faccia,” concludo.
"Le mucche sono erbivore,” dice Chakuza, prima di rientrare nel suo talamo di verdura.
Lo seguo, ma con cautela. “Sei sicuro?” Chiedo, affacciandomi. Come metto la testa dentro, la mucca si gira verso di me e muove le orecchie.
"Sono quasi sicuro di sì,” commenta ironico, raccogliendo le nostre maglie e passandomi al volo la mia. “D'altronde hai mai sentito di uomini sbranati da un branco di pezzate?”
Io non ho idea di che cosa stia parlando, ma sto zitto e guardo la mucca mentre mi metto la maglia. Lei se ne sta pacifica lì dove l'ho lasciata e mastica erba con una lentezza che mi ricorda Eko quando mangia davanti alla TV. “Non ne avevo mai visto una da vicino.”
Chakuza si sistema la maglia e, con un gesto del tutto inutile, si passa una mano sulla testa prima di mettersi il cappellino. Lo fa di continuo e non ne vedo il motivo, visto che non ha capelli da sistemare. Temo che sia uno di quei gesti automatici che, imparati ad un certo punto della vita, poi non te li levi più. Tipo, avevo un amico che ha portato per anni gli occhiali da vista e quando finalmente si è messo le lenti, continuava a rimettere a posto la stanghetta come se l'avesse avuta ancora sul naso. “Come non hai mai visto una mucca?”
"Da vicino. Insomma viva, che non fosse in televisione oppure morta dal macellaio.”
Lui sembra sconvolto. “Non sei mai stato in una fattoria, da piccolo?”
“No, Chaku,” sbotto, anche un po' infastidito. “Non andavo da nessuna parte da piccolo perché non avevo soldi per farlo e nessuno dei miei vicini aveva una mucca.”
“Scusa,” sospira e, come ho già detto, è tipo un miracolo equiparabile solo alla comparsa della Madonna. “E' solo che mi è capitato di sentirlo dire solo dai bambini dell'asilo.”
"Stai peggiorando la situazione.”
"No, non volevo dire—Dico solo che quando porto le persone a vedere le mucche, generalmente le hanno già viste e vengono a vederle solo perché non è che ci sia molto altro da fare da queste parti e passano il tempo così. A meno che non siano bambini piccoli, allora è tutta un'altra storia perché è molto facile che quella sia la prima volta che vedono una mucca dal vivo.”
“Con quanti bambini hai avuto a che fare in vita tua, Chaku?” Sputo acido. Poteva fermarsi alle scuse, invece di perdersi a raccontare banalità varie ed eventuali.
"In realtà un sacco,” dice lui, accarezzando la mucca sulla testa. “Quando ero più piccolo e vivevo qui, venivano spesso le scolaresche a fare il giro dell'allevamento e a vedere gli animali e la produzione del latte. A volte capitava che mio padre avesse da fare, così il giro nei recinti lo facevo io.”
All'improvviso mi si forma in testa quest'immagine di Chakuza a petto nudo con la salopette di jeans e il cappello di paglia in testa – forse a quel tempo era ancora biondo platino – che spiega le mucche ai bambini affascinati, masticando una spiga di grano. Ho bisogno di tornare alla civiltà e allo smog, mi sembra evidente.
"Forza, vieni qui,” mi invita lui, incoraggiante. “E' una delle nostre, vedi?”
Per vedere il cartellino attaccato all'orecchio della mucca, che lui mi sta indicando, mi tocca avvicinarmi, ma me ne accorgo troppo tardi. E' subdolo, ora capisco come faceva ad ingannare i bambini. Comunque, a quel punto sono a due passi da lei, la mucca dico, quindi tanto vale restare. Scruto il cartellino ma ci sono sopra un sacco di numeri e timbri, quindi prendo per buono quello che mi dice lui.
"Quindi la conosci,” commento, squadrandola.
Chakuza ridacchia, grattandola dietro le orecchie. “Non siamo proprio amici amici, ma l'ho già vista da queste part. Qualcuno deve avermi detto che si chiama Carolina.”
Lo guardo storto. “Ti rendi conto che non ho cinque anni, vero?”
"Sì, è divertente per questo,” confessa lui, sorridendo con una tale faccia da schiaffi che i suoi zigomi rotondi si sollevano e diventano di un rosso acceso.
Quando è così allegro è anche molto dispettoso e io non so mai se baciarlo perché è bello o se picchiarlo perché è insostenibile. Alla fine decido per la via di mezzo e gli tiro un pugno non troppo forte.
Io e Carolina facciamo amicizia senza troppi drammi; anzi, lei non sembra neanche particolarmente interessata alla mia presenza. Se ne sta lì a masticare mentre le accarezzo la testa e il naso, finché non mi stanco e decido che le mucche sono animali molto noiosi.
Mentre torniamo verso casa, Peter continua ad essere felice e questa cosa mi preoccupa perché non ha scopato e dovrebbe essere talmente incazzato da attirare sulla valle grossi nuvoloni neri che portino nubifragi, perché se lui soffre anche gli altri devono farlo. E invece niente, cammina tranquillo lungo il sentiero e mi prende anche per mano. Sì, sbandieriamo il nostro orgoglio fra queste montagne, che se ci vede tuo padre ci brucia vivi.
Non che mi dispiaccia vederlo così rilassato e affettuoso, ma non è normale, potrebbe essere shock postraumatico, non devo sottovalutarlo; anche perché, se è solo l'effetto della campagna, ricopro il salotto di erba finta, compro una mucca e quando gli prende brutta lo chiudo lì dentro. Chissà quanto costa una mucca? Magari ne prendo due.

*

Il pranzo a casa Pangerl sarebbe esattamente come la cena a casa Pangerl, se ieri non avessimo dato la lieta novella del nostro matrimonio. Così sua madre mi trova deperito e mi riempie di cibo anche oggi, sua sorella mi guarda masticando con l'aria di una che ha in mente di fare cose diaboliche e Chakuza viviseziona l'arrosto per scoprirne i segreti, solo che il tutto avviene nel silenzio pesantissimo del capofamiglia che mangia senza guardare niente e nessuno.
Io so che non dovrei sentirmi in colpa, perché di sicuro non è colpa mia se mi sono innamorato del figlio di quest'uomo e di certo lui non può sapere quanto ho sopportato per questo nano da giardino che ha generato trent'anni fa. Di certo non è per dispetto che abbiamo deciso di stare insieme, però lo capisco e so anche che non dev'essere facile accettarlo. In fondo non è il primo e non sarà l'ultimo che, alla notizia, non ci abbraccia festoso. Ci è andata anche bene che non ci ha buttato fuori di casa a calci in culo, e questo Chakuza non lo capisce. Forse pensava che sarebbe bastato dirlo e – siccome lui non ha problemi – non ne avrebbe avuti nemmeno suo padre. Il problema di Chakuza è che è incapace di vedere le cose dal punto di vista degli altri e questo gli capita sempre, sia quando ha torto che, come in questo caso, quando ha ragione e, in entrambe le occasioni, la sua reazione è di chiudersi a riccio e non volerne sapere di risolvere la questione. Così adesso taglia la carne con gli occhi inchiodati al piatto e la mascella serrata. Fa uno strano effetto vederlo così dopo che era entrato così contento. Immagino che tutto il suo buonumore sia andato a farsi benedire nel momento in cui suo padre ha a malapena notato la nostra presenza quando lo abbiamo salutato. Il punto è che conosco Chakuza e so che è testardo come un mulo, di questo passo non farà mai pace con suo padre, ammesso che si possa.
Mi schiarisco la gola e quando parlo mi spavento da solo perché siamo in silenzio da un po' e, in confronto al tintinnio delle posate, la mia voce è molto più forte. “Sa, signor Pangerl, oggi siamo stati a vedere l'allevamento.”
D'accordo, più che altro abbiamo visto una mucca particolarmente curiosa e invadente, ma io avevo bisogno di un argomento di conversazione che potesse interessarlo, e non ne conosco altri. Se gli dico che ho una mezza idea di dare il via ad una linea di vestiti potrei solo peggiorare la situazione.
Lui rimane in silenzio ma almeno dimostra di avermi sentito, ondeggiando la testa su e giù.
“Peter mi ha detto che organizzate anche visite scolastiche,” continuo incerto, visto che la grande idea non ha sortito l'effetto sperato.
“Facciamo molte cose sì,” commenta lui vago.
“E' un'azienda molto grande, da quanto mi pare di capire.”
“Non aveva mai visto una mucca dal vivo prima d'ora,” s'intromette Peter, che forse c'è arrivato a capire quello che vorrei fare.
Suo padre rimane in silenzio per un tempo infinito e, quando poi parla, avrei preferito che non lo facesse. Nel progettare questo tentativo di fare quattro chiacchiere innocenti mi sono dimenticato di un particolare fondamentale, ossia che ho davanti la versione precedente del Chakuza. E' un Chakuza 1.0 e se già la versione aggiornata fatica a stare al passo, posso solo immaginare di cosa sia capace di non afferrare il prototipo. “L'azienda ha una secolare tradizione di famiglia,” m'informa, pulendosi i baffi rossicci con il tovagliolo. “Il mio bisnonno la passò a mio nonno, che la passò a mio padre che l'ha passata a me. E io, naturalmente, la passerò a Peter quando si sposerà.”
Trattengo il fiato e sento la signora Pangerl fare lo stesso.
”Papà,” sbuffa Clara.
“Allora sarà meglio cominciare a preparare i documenti,” commenta Chakuza. Io gli stringo un ginocchio da sotto il tavolo ma lui va avanti lo stesso. “Ti ho detto ieri che ci siamo sposati.”
Suo padre appoggia gli avambracci al tavolo e lo guarda dritto negli occhi. “Parli di un matrimonio che non ha nessun valore qui in Europa.”
“Questo non è un problema mio,” commenta lui.
I lineamenti del signor Pangerl si fanno ancora più duri. “Ne discuteremo in un secondo momento, quando questa cosa ti sarà passata.”
Provo un improvviso moto di rabbia, il primo da quando sono qui, quando lo sento dire che si tratta di una cosa. Io e Chakuza abbiamo una cosa, è vero, ma nessuno è autorizzato a definirla tale tranne me e lui, soprattutto chi non ne sa assolutamente niente.
“Ne abbiamo già discusso. Non ho più quindici anni, questa non è una fase,” esclama Chakuza, severo. “E a dire la verità non è neanche una scelta. E' così e basta. Fossi in te mi abituerei all'idea, perché questo sarà l'unico matrimonio che otterrai da parte mia.“
“Prendo il dolce?” Si intromette la signora Pangerl, con una nota nervosa nella voce. Siamo tutti impegnati a guardare intensamente cose di nessuna importanza e nessuno le risponde, così lei si risponde da sola. “Prendo il dolce,” dice, alzandosi, suppongo, per allontanarsi il più velocemente possibile da tavola. Quando torna con lo strudel c'è un silenzio tombale, Chakuza se n'è andato da tavola e io non so cosa fare.
Clara, la signora Pangerl e io ci guardiamo, mi fanno un mezzo sorriso incoraggiante.
Almeno il dolce, penso, è buono.

*


Alla fine riesco a lasciare la tavola senza dare l'impressione di darmela a gambe, nonostante lo sguardo severissimo del signor Pangerl che mi guarda come se fossi la causa di tutti i mali del mondo, quando, invece, Chakuza sarebbe sicuramente più adatto a ricoprire il ruolo; ma immagino di non poter pretendere che lo riconosca, visto che è suo figlio.
Cerco Peter praticamente per tutta la casa senza trovarlo e mi prende anche l'ansia che abbia preso la macchina e sia tornato a Berlino, dimenticandomi qui. Una persona normale non lo farebbe, ma lui non è normale, quindi nemmeno mi stupirebbe alla fine.
L'auto però è sempre fuori dove l'abbiamo parcheggiata, quindi lui dev'essere qui da qualche parte e, piccolo com'è, potrebbe trovarsi davvero ovunque.
Dopo la terza volta che apro la porta del ripostiglio per scoprire che Chakuza non è comparso magicamente sugli scaffali delle marmellate, Clara ha pietà di me e, annunciando la sua presenza con una risatina, mi dice che suo fratello quando è furioso si barrica nel fienile e rimane lì per delle ore. “E' molto probabile che lo trovi là dentro.”
Io ringrazio e quindi esco, saluto la nonna di Peter che riesce a vedermi, non so come, anche a duecento metri di distanza con un occhio cieco e quindi individuo il fienile appena dietro la casa. E' una costruzione gigantesca e, sinceramente, non so cosa se ne fanno visto che le mucche non stanno lì. Smetto di chiedermelo quando apro la porta e vedo che il Chaku sta praticamente prendendo a pugni e calci tutto ciò che si trova per le mani. E' ricoperto di paglia e fieno dalla testa ai piedi e ringhia un'imprecazione dopo l'altra mentre se la prende con una povera scala di legno. “Ehi,” lo chiamo, ma lui mi ignora, si abbatte con tutto il peso sulla scala che cade a terra facendo un gran fracasso. Immagino che se non corrono qui a vedere cosa sta succedendo, sia solo perché ci sono abituati.
“Peter,” lo chiamo di nuovo, avvicinandomi. Lui tira un calcio alla scala a terra, ma poi si ferma e sbuffa dal naso, irrequieto. “Non c'è bisogno che tu distrugga questo posto.”
“Invece sì,” sbraita lui. “Devo spaccare qualcosa.”
Ha accumulato un sacco di rabbia in questi due giorni e adesso deve scaricarla da qualche parte, così non ha pace nemmeno da fermo. Gli prendo il viso fra le mani e lo costringo a guardarmi negli occhi. “Ehi, va tutto bene,” dico sorridendo.
“No che non va tutto bene,” borbotta lui. “Non vuole capire.”
“Dagli tempo, non è facile nemmeno per lui.” Poi rido. “Non ci sei nemmeno andato leggero. Gli hai detto anche che siamo sposati.”
Lui sgrana gli occhi verdi, quasi oltraggiato. “Beh è vero.”
“Lo so, ma in questi casi si preferisce dire le cose per gradi, sai?” Rido ancora. “Non, ciao papà sono gay e mi sono sposato.”
Lui mi guarda storto, ma un po' sorride. “Mi piace dirlo,” mormora alla fine, in uno di quei momenti spiazzanti in cui dice cose bellissime senza averne la minima idea.
“A me piace sentirtelo dire,” appoggio la fronte alla sua e chiudo gli occhi, quando lui mi stringe un po' i fianchi. Rimaniamo lì in piedi per qualche minuto e lo sento calmarsi, anche il suo cuore contro il mio rallenta. “Dicevi sul serio sul matrimonio?”
“Uh?”
“Hai detto che questo è il tuo unico matrimonio." Improvvisamente mi sento in imbarazzo.
Lui solleva lo sguardo e, nel farlo, le sue labbra sfiorano le mie, così si prende del tempo per baciarmi molto lentamente, prima di rispondere. “Non lo so, dipende.”
Nel cono d'ombra tra i nostri volti lo vedo sorridere appena. “Da cosa?”
“Da cosa vuoi tu. Non posso rimanere sposato un'eternità da solo, ti pare?”
Divento rosso, credo. Ovviamente non lo so, ma ho le guance calde quindi è probabile. E' frustrante come niente mi imbarazza come lui con due parole. Immagino che anche questo voglia dire qualcosa. “Ho un anello bellissimo,” scherzo, pensando alle nostre fedi pacchiane e disuguali. “Credo che lo terrò ancora per un sacco di tempo.”
“Era quello che speravo.”
Quello che succede subito dopo è praticamente da manuale – il nostro, intendo; ma stavolta non è solo lui ad averne voglia. Mentre mi tira per la maglia verso un cumulo di fieno, spero distrattamente di aver chiuso bene la porta, quando sono entrato, ma ci sono poche speranze che l'abbia fatto perché quando sono arrivato non avevo idea di cosa aspettarmi e di certo non sapevo che avremmo finito per scopare in un fienile come nei peggiori romanzetti rosa per casalinghe disperate. Onestamente, però, non trovo il tempo di preoccuparmene mentre ci spogliamo. Per una volta, Chakuza fa le cose con calma e gli riesce talmente bene che si fa perdonare per tutte le volte che non l'ha fatto.
Ci accarezziamo guardandoci negli occhi e mi piace vedere i suoi che lentamente si fanno più torbidi mentre si perde nello stesso istante in cui mi perdo io.
Ripenso al motivo per cui siamo venuti fin qui e mi sembra che non abbia più nessuna importanza, e non perché Chakuza mi sta baciando per distrarmi da quel leggero fastidio che provoca entrando, ma perché mi rendo conto che voglio quest'uomo indipendentemente da chi di noi due aprirà i barattoli dei sottaceti. E lo voglio perché in mezzo al mare di cazzate che fa, ci sono cose di lui che adoro e di cui non posso fare a meno.
Passandogli le braccia al collo, cerco le sue labbra mentre lui si muove e lo fa con la dolcezza che di solito gli appartiene solo quando ormai è notte fonda e siamo così stanchi che quasi ci addormentiamo. Mi godo ogni singola spinta, ogni bacio, ogni carezza con la quale si sta ostinatamente impegnando a farmi venire prima di lui e non mi oppongo a questa decisione, gli permetto di spingere e baciarmi e accarezzarmi quanto vuole perché è riuscito di nuovo a creare uno spazio in cui ci siamo solo noi e non m'importa nient'altro, ed questo il motivo per cui potrà aprire tutte le porte, i barattoli e le portiere che vuole, perché a conti fatti nella mia vita solo lui c'è riuscito, lui e nessun altro. E questo basta. Dovrebbe bastare a tutti, come spiegazione.
Mentre reclino la testa e vengo tra le sue dita, ascolto il suo respiro farsi più concitato e poi aspetto quel suono un po' più forte degli altri, quel mugolio incerto e soddisfatto che accompagna tutti i suoi ultimi tremiti. Lo accolgo tra le braccia prima che si faccia da parte, me lo stringo addosso e non gli permetto di allontanarsi.
Non voglio ora, probabilmente non vorrò mai.

*


Quando alla fine ripartiamo, e siamo almeno sei ore in anticipo sulla tabella di marcia, a salutarci sulla porta di casa ci sono tutti tranne suo padre.
“Sei sicuro di non voler entrare in casa a salutarlo?” Chiedo, infilando i nostri borsoni nel bagagliaio.
“Sì,” dice.
“E' tuo padre,” insisto, inseguendolo mentre fa il giro della macchina per togliere qualche foglia caduta tra i tergicristalli.
“Appunto,” commenta, irremovibile.
In questo momento vorrei che Chakuza e suo padre non fossero due identiche teste di cazzo, perché io non posso proprio pensare che ce ne stiamo davvero andando da qui senza che questi due si salutino. Però succede. Chakuza saluta sua madre, che lo abbraccia più a lungo del dovuto, forse per scusarsi del marito, e sua sorella che lo stringe un po', prima di gettarsi tra le mie braccia e pretendere un abbraccio anche da me. Chakuza mi sorride e io allora mi sento abbastanza autorizzato a ricambiare. Le spettino i capelli come si fa con i bambini di cinque anni, però, nella speranza che riceva il messaggio. Mentre ci dirigiamo verso l'auto, lui tende la mano e io lo guardo con aria interrogativa.
“Le chiavi,” esplicita.
“Forse mi sbaglio,” esclamo, fermandomi lì dove sono mentre lui non si fa nessun problema ad arrivare fino alla portiera del guidatore. “Ma non siamo venuti qui in Austria proprio per confutare la teoria secondo la quale io sarei la tua ragazza?”
Chakuza quando lo cogli in flagrante fa come i bambini: sguardo a terra e orecchie rosse. “Pensavo che avessimo risolto,” borbotta.
Visto che l'Escalade è un'auto enorme, di lui vedo solo la sommità della testa e poco anche di quella. Così mi abbasso a guardarlo dai finestrini. “E vogliamo ricominciare?”
Chakuza sbuffa. “Lo sai che non mi piace fare il passeggero.”
Questa è la prima giustificazione sensata che mi dà da quando questo problema è saltato fuori e io la prendo per quello che è: il tentativo di avere comunque la macchina senza per questo urtare i miei sentimenti di fidanzato ferito. E' un grande sforzo da parte sua.
Gli lancio le chiavi da sopra il tettuccio.
“Ma ci fermiamo a mangiare dove dico io,” decido, aprendo la portiera.
Chakuza sorride e accetta la proposta. “Ma niente messicano, Pat.”
“Oh andiamo! Il messicano è buono. Ti piace il messicano.”
Suo padre non si fa vivo nemmeno mentre saliamo in auto e accendiamo il motore. Ammetto che un po' ci speravo di veder comparire i suoi baffi sulla porta all'ultimo minuto, come nei film. Dovrei averlo imparato, ormai, che i film non raccontano mai davvero cose reali.
Come noi due, per dire. Siamo così incasinati che in un film non funzioneremmo mai.
Rido da solo e mi chino a baciarlo sulla tempia.
Prima dei titoli di coda.

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