I Can't Hurt You Anymore

di lisachan
Bill mi guarda fisso, i suoi occhi brillano. Cova una rabbia che lo scuote tutto, il suo corpo è così sottile che trema sotto le ondate di livore che gli arrossano le guance. So che in questo momento potrebbe uccidermi, se solo avesse l’arma con cui farlo. I capelli scompigliati gli ricadono lungo il collo, il suo respiro è pesante e mi sfiora il viso in carezze quasi violente mentre lo schiaccio contro il muro, un avambraccio pressato sopra il collo e una mano a stringerlo con forza alla spalla. Mi guarda come se lo stessi torturando, come se il mio comportamento fino ad ora fosse stato quello di un despota, e lui stesse affrontando il martirio con orgoglio, coraggio e fierezza, e mentre presso il mio avambraccio con più forza contro la sua gola, mozzandogli il respiro e osservandogli inghiottire la preghiera di lasciarlo andare che è tanto forte da non lasciarsi sfuggire neanche per una sillaba, cerco di ricordargli che qui non ci sono vittime né carnefici, che ciò che ha fatto è sbagliato e che dovrebbe tornarsene a casa.
E poi lo bacio.
*
Il mio risveglio, stamattina, non sembrava preannunciare niente di speciale, figurarsi qualcosa di disastroso come Bill che irrompe nel mio ufficio rovesciando il mondo come ormai ha imparato a fare – e se sa farlo bene, pochi cazzi, è colpa mia, che nel ribaltamento dei mondi altrui sono un campione – costringendomi prima a schienarlo contro un muro, poi a tentare di soffocarlo, quindi a baciarlo sa Dio perché.
Stamattina mi sono svegliato col russare debole e regolare di Pat piantato nelle orecchie, e all’improvviso mi sono sentito addosso dieci anni di meno, ed ho borbottato “Frank, siamo in ritardo”. Al che lui ha aperto un occhio e mi ha guardato come se non capisse un accidenti di ciò che stavo dicendo, giustamente, e a quel punto ho riso perché non so cosa avessi pensato di preciso ma era evidente che mi stavo riferendo a qualcosa successo uno sproposito di anni prima, probabilmente una delle mille volte che mi sono fermato a casa sua perché il giorno dopo dovevamo andare presto da qualche fornitore prima dell’apertura dei negozi – prima che Tempelhof, o almeno la parte onesta di Tempelhof, quella che non viveva di notte, cominciasse a risvegliarsi. Era una scusa che usavo spesso, “resto da te così domani facciamo prima e non devo passarti a prendere”, ma la verità era che intanto adoravo i bignè che sua madre faceva in casa, e poi adoravo anche passare la notte con lui davanti alla tv parlando di cose assurde e fumando uno spinello fino a stordirci al punto di dire e vedere cose veramente allucinanti, crollare addormentati esausti alle cinque del mattino e poi, naturalmente, svegliarci in ritardo. Il che mi riporta alla prima frase che ho detto stamattina, e che comunque, non so, non è una cosa che parla solo di ritardi a un appuntamento o cose simili che poi scompaiono nel giro di pochi giorni, quanto più una cosa generale. Io e Patrick siamo in ritardo, è vero. È verissimo.
- Anis, vaffanculo. – mi fa lui, e si rigira a pancia sotto mentre io non riesco a smettere di ridere, - Ma perché cazzo mi dovevi svegliare… e piantala di ridere! – sbotta, e mi tira un cuscino sulla faccia mentre contemporaneamente cerca di scalciarmi via dal letto e anche di nascondersi sotto due chilometri di lenzuola per cercare di tornare a dormire. Io però a quel punto ormai sono sveglio, quindi niente, mi avvicino e me lo stringo contro, un po’ anche per la questione del ritardo, appoggiandogli il mento su una spalla e sorridendogli contro una guancia. – ‘Cazzo fai? – mi chiede lui, che sta ancora palesemente dormendo, e io rido e lascio scivolare una mano lungo la sua schiena, sotto le lenzuola.
- Suono la sveglia. – dico con una risatina, accarezzandolo distrattamente fra le natiche, al che lui solleva la testa dal cuscino come se solo ora avesse cominciato a capire cosa stia esattamente succedendo, mi guarda con gli occhi enormi e poi mi scoppia a ridere in faccia.
- Ma vaccagare. – ride come un demente, e poi salta in piedi e, nudo com’è, che io mi preoccupo pure che Karima possa vederlo e non sarebbe il caso – non perché Karima non sappia, quanto più perché poi partirebbe con la millecentesima tirata sui costumi discinti di questa casa, cosa che decisamente mi rovinerebbe il risveglio – insomma, nudo com’è mi informa che va a preparare il caffè e mi lascia tutto il tempo di suonarmela da me, la sveglia. Voglio dire. Ma chi me l’ha fatto fare di tirarmi in casa quest’individuo – ripetute volte negli ultimi dieci anni, peraltro – io non lo so.
Comunque, mi sono messo in piedi, anche perché era evidente che, a meno che non volessi accoppiarmi coi cuscini o col materasso mentre coperte e pareti ci spiavano libidinosi, lì nel letto non c’era trippa per gatti, dal momento che tutta la trippa e anche tutti i gatti s’erano spostati in cucina per preparare la colazione. Sono rotolato giù dal materasso, mi sono infilato la prima cosa che ho trovato così da poter urlare “ma è Fler che va in giro nudo, io no!” se Karima si fosse improvvisamente palesata in cucina prima delle nove ed ho infilato il corridoio. Fler fischiettava maneggiando la moka con mani esperte, ed io ho sorriso.
- Perché tutta questa fretta? – ho chiesto, guardandomi intorno per assicurarmi che Karima non ci fosse ancora e poi appendendomi alle sue spalle e sfiorandogli il collo con la punta del naso.
- Io non ho nessuna fretta. – ha risposto lui, serafico, continuando a maneggiare la moka, - D’altronde, mia madre non mi aspetta prima di mezzogiorno. Sei tu che devi essere all’Ersguterjunge fra tipo dieci minuti.
- Che? – ho sbottato con una smorfia infastidita, subito mitigata dall’odore penetrante del caffè in polvere che si è diffuso nell’aria in cucina non appena Fler ne ha aperto il barattolo, - Non vieni con me?
- No, te l’ho detto ieri che sono a pranzo da mia madre. – ha sbuffato lui, roteando gli occhi ed accendendo il fornello sotto la caffettiera, - È una settimana che mi chiama ogni giorno chiedendomi quando vado a trovarla. Scommetto che mentre ne parlavo non mi hai sentito.
- Dipende. – ho mormorato abbattuto, tornando a nascondere il naso contro il suo collo, - Stavamo facendo qualcosa, mentre me ne parlavi?
- Guardavamo la tv, Anis. – ha ridacchiato lui, asciugandosi le mani umide contro un panno.
- E allora è ovvio che non ti stessi ascoltando, non ero abbastanza concentrato su di te! – ho ribattuto, spingendomi verso di lui, - Provi a ripetermi i concetti base adesso? – ho proposto speranzoso, ma lui ha riso e si è divincolato senza fatica dalla mia stretta, dirigendosi tranquillo verso il bagno.
- Vatti a fare una doccia. – mi ha suggerito, - E per punizione, vai in bagno al piano di sopra.
In quel momento, naturalmente, Karima è uscita dalla sua stanza, vestita di tutto punto e perfettamente in ordine, pronta a cominciare le grandi pulizie che ogni mattina organizza e che si protraggono puntualmente fino a sera, ed ha osservato – non senza un certo turbamento – il sedere di Fler mentre, ondeggiando tranquillo, spariva dietro la porta del bagno, proprio nel momento in cui lui, sereno come un bambino appena sveglio di domenica mattina, tirava su una mano e la salutava col più serafico dei “buona giornata, Karima”. Al che lei, naturalmente, sopraffatta dalla perfezione di Fler – che è l’unico essere umano che riesce a gestire pure le situazioni più improbabili senza mai andare in imbarazzo, che mi viene da ridere se solo provo a ricordarmi com’era quando aveva quattordici anni e si scioglieva andando nel panico ogni volta che lo guardavo – non poteva guardarlo con disapprovazione, anche perché si sarebbe trovata a guardare con disapprovazione una porta chiusa, e pertanto si è voltata a guardare me con l’occhio torvo presagio di sventura.
- Che c’è? – ho sbottato, mentre lei scendeva dal piano di sopra carica di disapprovazione e severità, - Sono vestito!
Naturalmente non ha attaccato.
- Il signor Losensky non lo era. – ha risposto lei, tetra, passandomi davanti senza guardarmi, come se non mi meritassi ulteriore attenzione da parte sua.
- Potresti anche cominciare a chiamarlo Patrick, immagino. – ho borbottato, mentre lei passava davanti ai fornelli, sbirciava il caffè già uscito nella moka e spegneva il fuoco.
- Il nostro grado d’intimità – ha detto, sollevando un singolo sopracciglio da madre puritana di svariati secoli fa, - non è ancora tale da giustificare simili prese di confidenza. Inoltre, vorrei ricordarle che non mi ha ancora comunicato quando il signor Losensky ha deciso di tornare a stabilirsi definitivamente nel proprio appartamento, signor Ferchichi.
Forse perché di buttarlo fuori non ho la minima intenzione, ho pensato io guardandola con l’occhio pallato.
- Be’, per ora è qui, comunque. – ho concluso, scrollando le spalle, - Quindi sii gentile con lui, ha avuto un’infanzia difficile.
- E non fatico a immaginare di chi possa essere la colpa. – ha commentato lei, versando il caffè in due tazzine e cominciando ad armeggiare in giro con l’obbiettivo di raccoglie latte e biscotti in quantità industriale nel minor tempo possibile e poi, probabilmente, iscriversi al Guinness dei primati.
- Che cosa vorresti dire, con questo? – ho sbottato io, incrociando le braccia sul petto e mettendo il broncio come quando avevo tredici anni, che peraltro è una cosa che Karima non può sapere perché quando avevo tredici anni ancora non la conoscevo. Ogni tanto ho l’impressione che, siccome mi ha conosciuto già adulto, abbia dimenticato che un tempo sono stato un bambino anch’io, e che posso ricadere in quello stato infantile quando voglio, peraltro. Altre volte, invece, mi sembra che, anche se mi ha conosciuto che ero già grande, in realtà non abbia poi fatto mai molto affidamento sulla mia maturità.
In ogni caso, non mi ha risposto – probabilmente perché non ero degno della sua voce come non lo ero stato dei suoi occhi poco prima – e quando Patrick è uscito dal bagno lavato e vestito di tutto punto e lui e Karima si sono messi a confabulare strigliandomi perché ero ancora in pigiama e ovviamente in ritardo ho sbuffato “d’accordo, d’accordo, datemi tregua tutti e due!” e sono fuggito al piano di sopra, grandemente deluso dai miei sudditi indisciplinati e colmo di disappunto per la mia regale autorità violata.
Solo che, quando mezz’ora dopo sono uscito di casa, nonostante il pensiero delle ore infinite di noia che mi attendevano all’Ersguterjunge, sorridevo come un cretino. E questo non posso proprio negarlo.
*
Per dire, ero così felice che neanche la vista dell’Ersguterjunge è riuscita a deprimermi. E dire che in genere mi basta entrare in questo posto per sentirmi crollare addosso tutto. Voglio dire, io non dico che queste pareti le ho tirate su col sudore della mia fronte – perché così non è. Forse i soldi per comprarle li ho tirati su col sudore della mia fronte, ma le pareti decisamente no – però erano comunque una cosa mia, e in quanto cosa mia erano stati inglobati dalla mia persona e rimessi al mondo marchiati. Come tutto ciò che tocco, perché odio che ciò che tocco, ciò che amo, mi venga portato via, e l’unico modo che si ha per assicurarsi la paternità a vita di qualcosa è lasciargli addosso un segno. Nessuno vuole una macchina graffiata, nessuno vuole un motorino pieno di adesivi, nessuno – nessuno mentalmente sano, almeno – dovrebbe volere un corpo che ha addosso il sapore e l’odore di un altro. Poi non sempre va a finirti bene, però intanto tu il tuo marchio lo lasci. Almeno così hai più possibilità di tenerti stretto ciò che vorresti portarti dietro fin nella tomba.
Ora io mi guardo intorno e queste pareti non le riconosco. Il mio ufficio era pieno di poster. Miei poster, ovviamente. Quando hanno ritinteggiato, me li sono fatti mettere da parte perché volevo riappenderli subito dopo, solo che poi lo scatolone in cui avrebbero dovuto conservarli non s’è più ritrovato. E quindi io avevo una stanza che ero io, rappresentava me, una stanza in cui mi sentivo a mio agio, e ora invece mi sento un impiegato delle poste in uno stanzino bianco e anonimo che odio e che mi dà la nausea dal momento in cui ci metto piede al momento in cui ne esco. È una cosa devastante.
Eppure, ero così di buon umore che, entrando qua dentro e fissando le pareti bianchissime, non ho pensato “che schifo, dov’è finita la mia vita?” come faccio sempre, bensì “più tardi a casa devo ricordarmi di chiedere a Pat se gli è rimasto qualche poster vecchio, magari qualcosa dell’Aggro”, visto che dubito fortemente che si sia messo a collezionare poster delle mie uscite discografiche comprando Bravo travestito da quindicenne infoiata mentre passavamo le nostre giornate a insultarci da una parte all’altra di Berlino.
Questa sensazione di beatitudine interiore è durata naturalmente fino a quando la segretaria piccola e carina che si occupa di accogliere gli ospiti all’ingresso e smistarli nelle varie aree del palazzo in cui devono andare non è spuntata sulla soglia della mia porta e, con aria un po’ colpevole e un po’ impacciata, mi ha detto che il signor Kaulitz era all’Ersguterjunge e desiderava vedermi.
In un primo momento ho pensato “ma non esiste”. Ho anche rimandato a memoria la tabella degli orari e dei giorni lavorativi di Bill per essere proprio certo che no, oggi non avrebbe dovuto trovarsi qui, non a quest’orario né in nessun altro orario, ed avrei voluto guardare la segretaria negli occhi e dirle “dev’essersi sbagliata”, solo che poi mi sono reso conto di quanto sarebbe stato assurdo ed ho deglutito forzatamente, cercando di ricompormi.
- Sono molto impegnato. – le ho detto. Lei ha guardato la mia scrivania sgombra, il computer ancora spento e la generale aria di nullafacenza che si respirava nella stanza, e poi è tornata a guardare me, con occhi sempre più tristi e colpevoli, probabilmente chiedendosi quanto ci avrei messo a licenziarla, al punto che avrei voluto darle una pacca sulla spalla e rassicurarla, che tanto ormai non ho più potere neanche sui dipendenti in questa cazzo di etichetta.
- Ecco… - ha proseguito lei, incerta, - Il signor Kaulitz ha molto insistito. – ha detto, e io cosa potevo ribattere, a quel punto? “Digli di andarsene a fanculo e, se continua a insistere, insisti anche tu e defenestralo”? Ho sospirato tanto profondamente che mi ha fatto male il petto, ed ho annuito.
- Fallo passare.
Lei ha annuito come a volersi scusare ed è sparita in un secondo. Il secondo successivo, al suo posto c’era Bill, e io avevo smesso di respirare. Ho pensato distrattamente “è tremendo che il mio ultimo respiro sia stato così doloroso”, e poi non ho avuto spazio neanche per i pensieri. Bill stava già occupando tutto.
- Scusa se ti disturbo. – ha mormorato, gli occhi nascosti dietro un paio di giganteschi occhiali da sole a mascherina e i capelli tirati indietro e stretti in una coda alta a imprigionare le ciocche bionde, come a cercare di tenere a bada lui domando i suoi capelli. Come fosse possibile, l’una cosa o l’altra.
- Fa niente. – ho sputato con una difficoltà estrema, sperando che lui non la notasse. Lui ha abbassato appena gli occhiali sul naso, lanciandomi una lunga occhiata scrutatrice prima di sfilarli del tutto e riporli nella borsa a braccio in un gesto fluido e abitudinario. – Ti serviva qualcosa?
Lui si è guardato intorno con aria un po’ confusa, penso non fosse mai entrato qua dentro e deve aver fatto una certa fatica a riconoscere l’ambiente come familiare.
- Posso sedermi? – ha chiesto, al termine del giro di studio. Io ho piantato le mani sulla scrivania e mi sono alzato in piedi.
- A dire la verità preferirei di no. – ho detto in un fiato, osservando i suoi occhi macchiarsi della consapevolezza di non essere una presenza gradita, una cosa che aveva spesso osservato negli occhi di molti, ma mai nei miei. – Cosa ci fai qui, Bill?
- Volevo solo parlarti. – ha sbottato offeso, incrociando le braccia sul petto.
- Potevi prendere un appuntamento, come fanno tutti gli altri. – gli ho fatto notare.
- Tutti gli altri…? – ha spalancato gli occhi lui, incredulo, - Anis, capisco tutto, ma—
- Sono molto impegnato, Bill. – ho detto, battendo con una certa forza le mani sul tavolo e sperando che questo bastasse ad intimorirlo, o a farmi mandare a quel paese, raggiungendo comunque l’effetto desiderato, ovvero buttarlo fuori da questa stanza il prima possibile, per evitare di perdere il controllo di me stesso.
- Impegnato a fare cosa? – mi ha chiesto lui, senza cedere di un passo, fissandomi con gli occhi brillanti di rabbia, offesa, tradimento e tutte quelle altre piccole cose che è in grado di mettere in un solo sguardo quando vuole farti sentire una merda fatta e finita, - Impegnato a— a fare cosa, Anis? Cos’è che ti tiene tanto impegnato da non lasciarti neanche un minuto libero per stare a sentire me?
- Quali diritti speciali dovresti avere tu? – ho sbottato io, alzando la voce e sollevando le braccia come ad invitarlo ad andare oltre ed affondare il coltello, se ne era capace, - Sentiamo, Bill! Quali diritti che non ti sia già fottuto da solo nonostante io te li avessi ridati tutti in mano appena ti ho posato gli occhi addosso? Eh?
Lui ha spalancato gli occhi, le labbra gli tremavano.
- Non so, Anis. Quelli che si riservano a un normale essere umano quando ti chiede due minuti per parlare?
- Tu non chiedi, Bill! – ho tuonato io, esasperato, - Tu non chiedi, è questo che ti sfugge! Tu ti presenti e pretendi!
- Io non ho preteso niente! – s’è difeso lui, quasi stringendosi nelle spalle, - Io ti ho chiesto—
- Tu ti sei presentato qui come se riceverti da parte mia fosse una cosa ovvia! – gli ho fatto notare, allargando le braccia ai lati del corpo, - L’idea che a me non andasse di vederti non ti è mai passata neanche per l’anticamera del cervello! Tu agisci come se tutto ti fosse dovuto e te ne sbatti il cazzo di quello che il resto dell’universo possa pensare, perché tanto i sentimenti degli altri non sono importanti come i tuoi! Nessuno soffre come te, vero Bill? Nessuno è in una situazione peggiore della tua, giusto?
I suoi occhi si sono fatti liquidi all’improvviso, le guance arrossate e il respiro accelerato. Ho avuto paura che si sentisse male, ma non ho smesso di guardarlo duramente neanche per un secondo.
- Sei ingiusto. – ha esalato con un filo di voce, - Credi che per me sia facile, Anis? – mi ha strillato contro, - Pensi che per me vederti ritornare dopo un anno e tutto il resto sia stato semplice? Pensi che mi diverta, cazzo, che sia felice della situazione in cui siamo? Se pensi questo di me, allora non mi conosci, perché—
Gli sono saltato addosso prima che potesse concludere la frase. L’ho spinto contro il muro, mi sono schiacciato contro di lui, ho piantato un braccio contro il suo collo e l’ho guardato.
- Smettila di parlarmi come se fossi il primo stronzo cui puoi rifilare tutte le tue cazzate preimpostate da diva del cinema muto, Bill. – gli ho ringhiato addosso, - Vuoi sapere cosa penso? No, non penso che per te sia facile. Però penso che ti piaccia complicarla. Non penso che tu sia felice, però penso che il dolore ti faccia sentire al sicuro, perché non sei felice da tanto di quel tempo che provare della felicità vera ti spaventa. Non penso che tu ti diverta, ma penso che tu ti senta meglio quando mi trascini nel tuo cazzo di baratro di tristezza, Bill, questo penso. E non dirmi che non ti conosco. Perché sai che non è vero, come sai che invece è vero tutto quello che ho detto adesso.
E ora Bill mi guarda fisso, i suoi occhi brillano. Cova una rabbia che lo scuote tutto, il suo corpo è così sottile che trema sotto le ondate di livore che gli arrossano le guance. So che in questo momento potrebbe uccidermi, se solo avesse l’arma con cui farlo. I capelli scompigliati gli ricadono lungo il collo, il suo respiro è pesante e mi sfiora il viso in carezze quasi violente mentre lo schiaccio contro il muro, un avambraccio pressato sopra il collo e una mano a stringerlo con forza alla spalla. Mi guarda come se lo stessi torturando, come se il mio comportamento fino ad ora fosse stato quello di un despota, e lui stesse affrontando il martirio con orgoglio, coraggio e fierezza, e mentre presso il mio avambraccio con più forza contro la sua gola, mozzandogli il respiro e osservandogli inghiottire la preghiera di lasciarlo andare che è tanto forte da non lasciarsi sfuggire neanche per una sillaba, cerco di ricordargli che qui non ci sono vittime né carnefici, che ciò che ha fatto è sbagliato e che dovrebbe tornarsene a casa.
E poi lo bacio. Lo bacio perché è troppo vicino, lo bacio perché mi manca, lo bacio perché – cazzo – io questo ragazzino lo amo tanto che mi scoppia la testa se solo ci penso, che il mio corpo non mi sembra robusto a sufficienza per sostenerlo, lo bacio perché l’ho perso, perché voglio lasciarlo andare ma non ci riesco, lo bacio perché voglio il suo sapore sulla lingua e quando lui solleva le mani e mi stringe alla nuca, graffiandomi la pelle del collo fino a che sento il sangue scorrere in un rivolo lento e sottilissimo giù fino al colletto della maglietta, sento che lo vuole anche lui, sento che tutto il casino che c’è dentro la mia testa c’è uguale anche nella sua.
Lo allontano dalla parete schiacciandomelo contro, lo stringo fra le braccia e lui aderisce perfettamente al mio corpo come non si fosse mai allontanato nemmeno di un millimetro dal mio fianco. Siamo due universi paralleli e perfettamente distinti io e lui, adesso, eppure alle volte basta così poco e Bill è ancora lì, è ancora mio, e non capisco come tutto questo non possa essere vero e reale – so che non lo è, lo so, ma adesso che siamo così vicini mi sembra l’unica verità possibile. E quindi, ciò che invece è vero, lui con Chakuza, io con Patrick, deve essere una bugia.
Torniamo a dirci la verità, piccolo, vuoi?
È nel momento in cui lo penso – che poi è lo stesso momento in cui lo appoggio sulla scrivania sgombra e mi allontano appena dalle sue labbra per riprendere fiato – che mi rendo conto di quanto tutto questo sia assurdo, di quanto il mio cervello prenda a sragionare per vie incomprensibili quando ho Bill intorno. Cos’è che voglio dare a bere a questo ragazzino? Che non importa niente di quello che siamo diventati, che possiamo tornare com’eravamo prima che tutto questo accadesse dimenticando gli ultimi mesi e andando avanti per una strada che nemmeno esiste se non nelle nostre fantasie quando escludiamo dai pensieri tutto il resto del mondo che non siamo noi due? Che storia voglio raccontare a Bill, a me stesso? Che cosa cazzo sto facendo?
Lui schiude le palpebre quando non mi sente tornare a baciarlo. Sotto le sue ciglia, che tremano in un battito sottile come quello delle ali di una farfalla, passa la consapevolezza che è cambiato qualcosa rispetto a un secondo fa. Poso le mani sulle sue, allontanandole dal mio collo e posandogliele in grembo. Lui, seduto sulla scrivania, le spalle un po’ curve e l’espressione corrucciata, le labbra arricciate in una smorfia delusa e triste, mi guarda e mi implora di non farlo, non fermarmi, dargli mezz’ora di tregua dalla realtà.
Non posso farlo, piccolo, io ti amo troppo per mentirti così spudoratamente.
- Vai via. – gli sussurro sulle labbra. Stringo le mani attorno alle sue e ne accarezzo il dorso coi pollici.
Lui sospira stremato. La sua testa si piega in avanti in cerca di appoggio e la sua fronte trova il mio petto con una naturalezza che mi smuove qualcosa dentro. È sempre la stessa storia, queste piccole cose riaccendono la scintilla, ma è dura tenerla accesa quando il fuoco non prende.
- Non è come se mi stessi dicendo “vai, non ci vedremo più”… - mugola, strusciando la fronte contro la mia maglietta, - Fra poco comincia il tour… mi dici come faremo? Perché io non lo so.
- In qualche modo faremo. – sorrido appena, lasciando una delle sue mani per sciogliergli la coda ed accarezzargli lentamente i capelli, ravviandoglieli sulle tempie, dietro le orecchie, sul collo. – Tu però devi starmi lontano, piccolo. Io prometto che starò lontano da te.
Bill deglutisce a fatica, prendendosi un secondo prima di parlare.
- E se io non volessi starti lontano? – pigola a voce bassissima, e scommetto che gli è servita più forza per dirmi questa singola frase di quanta non gliene sia servita per presentarsi qui e mettersi a strillarmi contro. E già per fare quello gliene è servita parecchia.
Mi allontano da lui, lasciandolo andare. Sto ancora sorridendo, quando lui si rimette in piedi.
- Non vuoi nemmeno starmi vicino, però. – gli faccio notare. È straniante essere così tranquillo adesso. Mi sembra di stare facendo la prima cosa giusta in assoluto da quando sono tornato in Germania.
Lui non mi risponde. Si morde un labbro e nemmeno annuisce, abbassa lo sguardo e si ricompone in fretta prima di sgattaiolarmi alle spalle, oltre la porta, fuori dall’Ersguterjunge, fuori dalla mia vita spero almeno per la prossima settimana. Il tempo di prepararmi alla tortura che mi aspetta. Te lo prometto, piccolo, sarà tutto più facile, da ora in poi. Farò in modo che lo sia.

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