Crash Into Me

di tabata e lisachan
Io sono un tipo piuttosto abitudinario, nonostante il lavoro che faccio. O forse proprio per il lavoro che faccio. Quando passi periodi lunghissimi a dormire in una città diversa ogni notte, ti attacchi alle piccole cose pur di ricreare un minimo di atmosfera di casa. Per questo quando sono in tour faccio colazione con una certa marca di cereali, e solo con quella, che poi è la stessa che uso quando sono a casa. Voglio oggetti per il bagno precisi, voglio camerini che contengano più o meno tutti le stesse cose e il mio tour bus, per quanto è umanamente possibile, contiene tutto ciò che possa farmi dimenticare che mi trovo su un mezzo semovente. Nella mia cuccetta ho una specie di versione da viaggio della mia camera vera: stesse foto, stesse creme, stessi oggetti sul comodino.
Tom dice che sono quasi maniacale, io dico solo che questo è il mio modo di non alienarmi. Ci si perde facilmente senza punti fissi. Dopo due settimane di tour, per dire, già ti senti un po' fuori fase. Tre mesi lontano da casa, dormendo su un camion, possono avere delle conseguenze non indifferenti sul cervello umano. Mio fratello ovviamente non condivide i miei metodi. Lui per combattere l'alienazione ci entra dentro con tutte le scarpe. Dice che ha due vite diverse, una quando è a casa e una quando invece a casa non c'è. La differenza sostanziale tra le due vite è che in tour si permette di cambiare ragazza ogni notte e di scopare come se non ci fosse un domani, cosa che non fa quando è a Berlino perché quando è a Berlino non ha bisogno di scaricare nessuna tensione, né tantomeno di farsi bello raccogliendo donne come la rete per la pesca a strascico perché non abbiamo i giornalisti attaccati al sedere così spesso come invece uno pensa. Perché la verità su mio fratello, alla fine, è che fa sesso perché gli piace, certo, ma lo fa anche perché non fa nessuno sport e quello è il modo che gli rimane per scaricare lo stress. Beh, quello e la Wii, ma diciamo che preferisce la prima opzione per ovvie ragioni. Questo, tra le altre cose, mi fa venire in mente che Chakuza è uguale. Lui farà anche sport, credo, a dire il vero non lo so, ma quelle due spalle lì deve averle per qualche motivo, comunque il fatto è che Chakuza fa sesso per lo stesso motivo. E al momento la cosa mi riguarda da vicino perché, insomma, lo fa con me e questo significa che non c'è momento che passiamo insieme senza che lui mi spalmi su qualche superficie, così, senza nemmeno grandi discorsi a volte. Alché c'è da chiedersi se non sia molto, molto stressato ma credo di no. Credo che nel suo caso oltre allo stress, ci sia anche il fatto che gli piace proprio. E a me piace che a lui piaccia perché piace anche a me. E comunque mi sono perso.
Dicevo che io sono un tipo piuttosto abitudinario quando sono in tour, e anche a casa non scherzo. Se sono nel mio appartamento, e quindi non ho niente da fare, e quindi posso fare più o meno tutto quello che voglio, di solito non faccio assolutamente niente; che per uno che di solito lavora dalle sei del mattino alle tre di notte con l'obbligo di sorridere a chiunque, è la vacanza migliore del mondo.
Mi sveglio, faccio colazione e telefono a Peter per parlargli essenzialmente di nulla e distogliere la sua attenzione da qualunque cosa stia facendo per farlo concentrare su di me, che mi sono appena svegliato e ho assoluto bisogno di sentirmi amato. Lui di solito la mattina è un amore - Peter è sempre un amore, in realtà, tranne quando s'incazza per qualcosa, che di solito non sono io, però, quindi, in sostanza, per me è sempre un amore - e sta a sentire tutto quello che gli dico e ride. Ed è un bel suono il Chaku che ride al mattino. Quindi, di solito, dopo averlo tenuto un tempo indecente al telefono, telefono a mio fratello, che si ingelosisce se non faccio perdere almeno quaranta minuti anche a lui. A quel punto mi faccio la doccia, scelgo i vestiti e raggiungo Peter a casa sua, o lui viene qui. A volte vado alla Beatlefield se sono sicuro che Stickle non c'è. Ma di solito c'è, perché lui lavora.
In queste ultime settimane, però, la mia routine è stata ampiamente devastata dalle paranoie di David. Mentre ero a Disneyland con Peter mi ha fatto promettere che per un po' ci saremmo visti di meno, io e lui, e con più attenzione perché i giornalisti stanno cercando lo scoop. Averglielo promesso, in realtà, un po' mi scoccia perché quando prometto, poi mantengo anche e questo significa che per vedere Peter devo fare delle acrobazie che nemmeno il Cirque du Soleil, tipo che devo uscire di casa struccatissimo e con il viso tutto coperto e devo prima andare da qualche parte che con la casa di Peter non c'entra niente, qualcosa di poco interessante per i giornalisti nel caso fossero appostati, tipo, non lo so, il supermercato o un negozio qualunque - anche se poi non è vero che non gli interessa perché si inventano storie su qualunque cosa. Tipo vado al mercato, compro due mele, e all'improvviso sto seguendo una nuova dieta di qualche guru indonesiano che prevede solo due frutti al giorno. Vado in farmacia, e sono sicuramente sotto anti-depressivi. Entro in un negozio di animali e voglio comprare un chihuaua come Paris Hilton. In sostanza ovunque vada, se loro mi stanno dietro, uscirà un articolo. Però questo serve, li depista. Dopo un po' che compro mele, anti-depressivi e chihuaua torno a casa, loro si stufano e quindi io esco e vado da Peter.
Peter di questi problemi non ne ha, a lui non lo segue nessuno. A lui basta arrivare in macchina e lasciarla nel parcheggio interno del complesso residenziale. Lì dentro i paparazzi non possono entrare, per cui lui può anche scendere dall'auto con una freccia sulla testa e la scritta al neon - CHAKUZA - che lampeggia, tanto non lo vede nessuno. Comunque, dicevo, per via della paranoia di David, ho promesso di non andare di continuo da Peter. Quindi stamattina, dopo la mia colazione, dopo aver chiamato il mio amore e aver saputo che è a casa, si annoia, gli manco - e se fossi lì faremmo l'amore tipo ovunque, tipo in ogni modo, tipo che è meglio se non ci penso perché sono tre giorni che non lo vedo e non ho nemmeno la testa impegnata a preparare concerti e quindi lo voglio. Uffa. - dopo tutto questo, anche dopo Tom, la doccia, i vestiti e David che mi telefona per farmi promettere di fare il bravo - d'altronde lo fa solo quelle quattro o cinque volte al giorno - non ho niente da fare. Quindi mi accoccolo sul divano e decido che posso anche dare un'occhiata a quel mezzo quintale di riviste che mi arrivano per posta e che di solito ammucchio tutte insieme per leggerle quando proprio non riesco a cazzeggiare in altro modo. Ci sono un sacco di cataloghi di moda, qualche rivista del settore e tutta la stampa che per un motivo o per un altro possa contenere articoli che mi riguardano. Mi piace sapere cosa dicono su di me e tenere il conto delle volte che sono diventato anoressico, ho tentato il suicidio, oppure ho litigato con il mio manager per qualche motivo da diva. E poi, visto che sono chiuso in casa perché qualcuno cerca di capire con chi me la faccio, allora voglio sapere quanto ci sono andati vicino. L'ultima volta che abbiamo avuto un allarme del genere avevano puntato su Jimi Blue. Andiamo! Ma vi pare? Quando l'ho detto a Chakuza ha riso così forte che non riuscivo nemmeno a farlo smettere. Quando poi lo ha incontrato ad una serata, una settimana dopo, poca ci mancava che riprendesse a ridergli in faccia.
Se hanno pensato a Jimi Blue allora stanno seriamente pescando a caso, non sono davvero preoccupato. Tolgo di mezzo le riviste di moda, recupero le altre e ci do un'occhiata per vedere da quale partire. Di solito le metto in ordine di interesse, prima le notizie o gli articoli più noiosi, poi quelle che davvero vorrei leggere, così mi godo di più l'attesa. Solo che questa volta non funziona, perché mentre sto impilando le riviste, l'occhio mi cade sulla copertina di Bravo e mi congelo.
Chiunque ci sia dietro a tutto questo, ha un pessimo senso dell'umorismo e se solo riuscissi a staccare gli occhi da quello che vedo, allora starei già chiamando la redazione, David e chiunque in questo momento meriti le mie urla.
La foto in copertina mostra l'entrata della Unversal Music Deutschland, e un uomo che sta uscendo dal portone. E' alto e indossa un cappotto elegante, nero a tre quarti ma questo non importa, per certi versi non lo guardo nemmeno. E' il titolo che mi fa incazzare, perché Bravo ne ha dette tante, ma adesso ha passato ogni limite.
Sono tornato, dice il titolo. Chi sono? E poi i suoi due nomi. Sono le parole di Wer Ich bin e io voglio ammazzare qualcuno.
All'interno l'articolo è semplicemente disgustoso. Ci sono solo due foto, prese da angolazioni diverse, ma le tre pagine che compongono l'articolo le riportano all'infinito: ingrandite, speculari, sgranatissime, nel dettaglio. E ogni didascalia è peggio di quella che la precede, e sono così arrabbiato che mi viene da piangere. E piango, cazzo, perché non ne avevano il diritto. Dicono che Bushido è tornato, come se fosse andato - che cazzo ne so, in America! - e ora fosse di nuovo qui. Anis è morto, stronzi, non può tornare. L'articolo non lo leggo tutto, perché non ne ho bisogno. Già alla prima pagina sono nauseato e non m'importa neanche delle loro congetture. Vaffanculo.
Dicono che lo hanno visto, che era lui, giocano con un uomo che è morto un anno fa e con i sentimenti miei e di tutti gli altri. E non riesco nemmeno ad immaginare come si possa essere così stronzi da sfruttare un dolore simile pur di vendere.
Tornato un cazzo, se fosse tornato - come poi? COME? E' morto, lo sanno bene - se fosse tornato, in qualunque modo, è da me che sarebbe venuto. E invece lo abbiamo seppellito e sono stato a guardare ogni singolo grammo di terra che gli abbiamo versato sulla bara fin a ricoprire tutto per bene. E' morto e questi non riescono a lasciarlo in pace nemmeno dopo il suo funerale. Vaffanculo.
Sono in piedi e recupero il cappotto un attimo dopo. Al diavolo le paranoie di David, ho bisogno di vedere Peter. E ne ho bisogno adesso.
Se mi seguono, almeno scriveranno qualcosa di vero.
*
A casa di Peter ci sono arrivato con la mia auto, ignorando la guardia del corpo che ho sempre fra i piedi. Non ho nemmeno sentito cosa diceva, l'ho evitata e basta. Mi hanno anche fotografato, mentre uscivo, ho visto i flash e me ne sono fregato anche di quelli. Venitemi dietro, nessun problema. Se non capite con chi scopo, siete liberi di inventarvelo, venirmelo a chiedere, pedinarmi. Ma giocare con i morti, no.
Parcheggio di traverso, male e di fretta, in mezzo alla strada perché Peter si ostina ad abitare in un palazzo popolare, tipo, non lo so. C'è un sacco di gente nel suo condominio, alla faccia dell'anonimato. E non c'è portiere, il portone fa schifo. Mi attacco al campanello perché le chiavi di casa sua le ho nella borsa. E la borsa è a casa, col mio cellulare, per cui non ho nemmeno avuto modo di chiamare David ed urlargli contro mentre venivo qua.
"Chi è?"
"Bill. Apri."
Sono dentro praticamente mentre il portone scatta e mi faccio le scale a piedi, che tanto l'ascensore non funziona mai. Arrivo su che sto già imprecando e non so nemmeno che cosa dico, in realtà. "Ehi, che sorpresa, non ti... aspettavo." Lui mi guarda perché sono un disastro, sono tipo in tuta e sto urlando da solo. E piango. "Che succede?"
Chakuza si allarma subito se io sono sconvolto. O meglio, i primi tempi si agitava tutto perché - in effetti - non era abituato al fatto che io faccio un dramma di qualunque cosa, per cui era sempre in agitazione. Poi un po' ha imparato. Solo che ora sto piangendo e sono visibilmente fuori di me, quindi è preoccupato.
"Io non posso crederci!" Sbraito e lui mi fa entrare e chiude la porta. Mi guarda con gli occhioni rotondi sgranati. "I redattori di Bravo sono esseri ignobili sono la... la feccia dell'umanità. Io non capisco come si possano fare cose del genere e poi tornare a casa a dormire, cazzo! Ci sono cose su cui non si può scherzare, non si deve! Ma che cazzo di gente è, questa? Eh? Me lo spieghi?"
"... non lo so?" Poi mi ferma per le spalle. "Bill, non capisco niente se fai così. Mi dici che cos'è successo, per favore?"
E io tiro su col naso e poi annuisco. Quindi gli passo il giornale. "Sono dei bastardi," dico soltanto. E aspetto che anche lui legga il titolo e veda la foto. E s'incazzi. E lo voglio proprio il Chaku incazzato.
Aspetto. Lui legge. E io aspetto e non esplode.
"Quando è uscito questo numero?" E' la prima cosa che chiede quando finalmente alza gli occhi dalla rivista. Si è letto tutto l'articolo.
Mi stringo nelle spalle. "Non lo so, ieri credo. Non lo so! Chi se ne frega!" Replico. "Hanno preso le foto di uno che ci assomiglia e hanno messo su questa... questa cosa! Non è giusto! Non dovrebbero avere il permesso di fare cose del genere, loro-"
"Bill."
Io lo guardo per due motivi: il primo perché mi ha chiamato con un tono preciso, che mi mette una gran paura anche se non so perché. Il secondo è che mi rendo conto che non è affatto inorridito da tutta la faccenda. E dovrebbe. Chakuza riesce ad inorridirsi per molto meno. Quindi mi chiedo perché sia sbiancato, perché mi guardi e dentro i suoi occhi io ci veda un senso di colpa che non ha senso di trovarsi lì.
"E' meglio se ti siedi, vuoi?"
"Sedermi? No, non voglio sedermi, Peter," sbraito. "Voglio che andiamo da David, lo carichiamo in macchina e quindi andiamo a spaccare la faccia al direttore di Bravo. Ecco cosa voglio." Non mi risponde. Guarda me, guarda il giornale e non capisco cos'abbia da stare tranquillo. "Chakuza, questi bastardi usano Anis per aumentare le ven-"
"E' lui."
Per un istante io non registro esattamente le parole che dice, il concetto, di per sé, è già troppo da sopportare. La prima cosa che penso è che non ho capito, o che è impazzito, insomma che è assurdo. "Che cosa stai dicendo?" Chiedo. "Anis è morto." E non mi trema nemmeno la voce mentre lo dico perché è una cosa che non dovrei dirgli, dovrebbe già saperla. E' come dirgli che la Terra gira.
Chaku, vienimi incontro, Cristo.
"Bill, ti prego, siediti."
"No," insisto. "Si può sapere che ti prende?"
Lui si gratta la nuca, a disagio. Si siede lui al posto mio, sul bracciolo di una poltrona, posa la rivista sul tavolo e quella si arriccia tutta perché non abbiamo fatto che stropicciarla e tenerla arrotolata. "Bushido non è morto," mormora.
"Che cazzo stai dicendo?"
"Bill, ascolta."
"No! Che.Cazzo.Stai.Dicendo!" E urlo, perché sembra un incubo. Da una parte mi dicono che è tornato, dall'altro vengo qui e lui non trova niente di meglio da fare che prendermi per il culo. "Lo trovi divertente? Credi che sia divertente startene lì con la faccia seria e dirmi che è vivo? Non sei spiritoso!"
"Non sto scherzando!" E grida anche lui per sovrastare la mia voce, e forse anche i suoi pensieri. E la situazione, lo capisco dopo.
Sto zitto e lo guardo. Gli occhi di Peter sono bellissimi, di un verde non troppo chiaro e sono screziati. Bisogna stargli vicino per vederli bene e io li ho guardati così tanto in questo ultimo anno che li so leggere. Hanno paura, adesso, e sono occhi un po' tristi. E quel senso di colpa è sempre lì. C'è tutto questo, là dentro, ma non c'è nessuna bugia.
"Non è possibile," dico. Faccio un passo indietro, inconsciamente diretto alla porta e lui si alza di corsa e mi viene vicino, mi prende per i polsi.
"Bill, calmati, ti prego!"
"No!" Sbraito. "Ero al suo funerale, c'eri anche tu, cazzo, la bara! L'hai vista! E i proiettili e tutto quel sangue, Peter. Che cosa stai dicendo?" Scuoto la testa e piango senza rendermi conto di farlo. Lo so quando sento il sale sulle labbra mentre lui mi stringe le mani intorno ai polsi ancora più forte.
"Non abbiamo mai visto il corpo, Bill."
"Era là dentro," singhiozzo.
"No, non c'era," insiste lui. "Ricordi che volevi vederlo e non te lo hanno permesso?"
Ho urlato quel giorno e urlo adesso. "Non è possibile! Dov'era se non è morto? Dov'è stato? Perché? Peter, non dire cazzate!"
Lui non dice niente, mi guarda e basta. E io semplicemente so che è vero perché in realtà Chaku scherzi di merda come questi non me ne farebbe mai e perché ora sono sull'orlo della crisi isterica e lui piuttosto che ridurmi così si fa investire, quindi no. E' tutto vero. "Tu come lo sai?" Realizzo all'improvviso. "Tu lo sapevi da quanto?"
"Da poco," mi risponde subito lui. "Molto, molto poco."
"Perchè non me l'hai detto?"
"Bill, come facevo?"
"Come hai fatto adesso!" Replico. "Voglio vederlo. Dov'è?"
Scuote la testa. "Non lo so."
"Cazzate, Peter. Dimmelo."
"Io-"
"Dimmelo!" Stavolta urlo e lo spingo indietro, colpendolo al petto.
"Bill, è la verità!"
"Dimmi dov'è!" Urlo ancora, alzo le braccia, lo colpisco forte, e lui un po' si difende, un po' cerca di bloccarmi. "Tu lo sai dov'è e non vuoi dirmelo!"
"NON LO SO!" La voce di Chakuza rimbomba per tutta la stanza e mi zittisce, come sempre. Lui non lo sa. Bushido è vivo. E se è vivo la Terra può anche smettere di girare. Non so neanche cosa significhi davvero tutto questo. Singhiozzo mentre lui mi stringe a sé, forte, come volesse avvolgermi tutto, e la mia voce si sostituisce alla sua, nell'eco della stanza. "L'ho visto una sola volta. Non so dove sia adesso. Non pensavo nemmeno che fosse... ancora qui, Bill."
"Voglio vederlo," gli nascondo il viso addosso. "Peter, ti prego, dimmi chi lo sa."
Alla fine cede. "Fler," mormora e io non penso al perché Fler lo sappia, penso solo che lo sa e che sono già due persone che lo sapevano mentre io ero all'oscuro di tutto. Chakuza recupera il cellulare e mi trascina sul divano.
Io non voglio stendermi, voglio urlare, ma non ho la forza, così ascolto gli squilli mentre mi accoccolo contro di lui e penso che da qualche parte, in questo momento, Bushido è vivo. E respira. E penso che non sia possibile.
La voce di Fler è un borbottio, non sento cosa dice. Lo sento fare una pausa quando Chakuza gli dice che io so. E io trattengo il fiato, Fler conosce il posto. Penso solo questo. Peter gli dice che va bene, annuisce.
"Dov'è?" Chiedo subito.
Lui mi guarda, sempre a disagio. "E' meglio chiamare David," risponde.
"David? Il mio David?" Mi sollevo e mi scosto, sedendomi sul divano.
"Bill..."
"Non chiamarmi per nome!" Esclamò e lo sguardo oltraggiato che gli lancio lo costringe a guardare altrove. "Tu, Fler, David, qualcun altro a parte me? Il mondo intero, forse, visto che Bravo gli fa pure le foto come se fosse normale?" Mi ripeto che questa cosa non è possibile ma anche che se esiste una possibilità surreale che tutto ciò sia vero, allora sono così incazzato, oltre che sconvolto, che farò del male a qualcuno.
Lui espira, piano. "Solo noi tre," dice. "Ed Eko."
"Perfetto!" Ho già il telefono in mano. "Anche lo scemo del villaggio lo sapeva. Questa cosa è... è... vaffanculo!"
"Gli telefono," si offre lui.
"Non ti azzardare nemmeno," lo congelo sul posto. "David è roba mia."
Il cellulare di David è sempre occupato. A volte con gli altri ragazzi lo prendiamo in giro dicendo che, evidentemente, tutte le linee telefoniche dell'universo devono passare da lui perché a qualunque ora lo chiami, alla prima non ti risponde mai. E nemmeno alla seconda o alla terza. Finisce che devi riattaccare e riprovare in un secondo momento e ancora finché non hai il culo di beccarlo tra una telefonata e l'altra.
Io sono furioso, però, quindi non mi fermo. Compongo il numero, attendo e quando sento il segnale di occupato, riattacco, ricompongo il numero e ricomincio.
"Bill, calmati, per favore." Peter si è alzato e mi gira intorno come un condor. Sa che non deve neanche provare a toccarmi adesso, non può fare niente. Può solo sperare che mi tranquillizzi ma non ho intenzione di farlo perché Bushido è vivo. Penso con rabbia che mi deve delle spiegazioni. E poi, proprio mentre riattacco per richiamare David ancora una volta, mi rendo conto che se è vivo anche io ne dovrò una a lui.
"Pronto?"
"Dov'è?"
Mi sembra quasi di vederlo, David che aggrotta le sopracciglia. "Bill?"
"Lo so come mi chiamo," dico spiccio. "Dov'è?"
"Dov'è chi?" Fa lui. "Cosa stai dicendo? Hai per caso bevuto?"
Mi alzo perché non riesco a stare fermo, quasi mi scontro contro Chakuza che non sta fermo nemmeno lui. "Anis. Bravo lo ha fotografato."
"Bill," risponde piano e io so che sta per dirmi che è morto. "Bushido è morto."
"Già, questo è quello che credevo anche io ma quello nella foto è lui e Chakuza lo conferma. Quindi adesso tu mi dici dov'è."
Dall'altra parte della cornetta il silenzio è pesantissimo. Non lo sento nemmeno respirare. So che è ancora lì perché non è caduta la linea. "Sei a casa di Peter?"
"Sì."
"Fatti accompagnare da me. Ci andiamo insieme," la sua voce è professionale, quasi gelida. Ha una paura fottuta. E fa bene perché sono incazzato.
"Bushido è vivo e tu lo sapevi," dico. "Ti conviene avere un buon motivo per tutto questo David, perché giuro su Dio che me la paghi."
Quello che dice non lo sento, ho già riattaccato.
Io e Peter siamo fuori di casa l'attimo dopo ma in quel momento neanche mi rendo conto di quanto immenso sia il disastro che ho per le mani.
Io voglio solo vedere Anis.
*
Per tutto il tragitto in macchina di Peter, io non faccio che stringere un labbro tra i denti così forte che sento il sapore del sangue sulla lingua. Mi accorgo a malapena di quello che succede intorno a me. Colgo i lineamenti tesi e lo sguardo ansioso di Peter, colgo la calma surreale di David – che poi mi irrita oltremodo, perché è la calma con la quale in genere affronta le grane sul lavoro. Il fotografo è in ritardo? È con questa faccia che cerca di rintracciarlo al telefono. Le camere in albergo non sono ancora pronte? È con questa faccia che invita il consierge a darsi una mossa. Un giornalista fa una domanda eccessivamente personale? È con questa faccia che lo minaccia di trascinarlo in giudizio alla prima occasione favorevole. Qui, però, non si parla di lavoro. Si parla della mia vita. Della vita di Anis. David non dovrebbe avere quest’espressione addosso, e io riesco a tollerarla solo perché, appunto, in realtà tutto mi sta passando vicino senza sfiorarmi, come fossi fatto d’aria.
Sto guardando fisso davanti a me, vedo quello che mi passa davanti agli occhi – per dire, riconosco i quartieri, le strade, so che nei paraggi abita Eko – ma ne prendo nota come di particolari marginali. In realtà sto ripercorrendo a memoria gli ultimi nove mesi della mia esistenza e sto cercando il punto dal quale cominciare per parlare con Anis. Sto cercando di capire se dovrei cominciare picchiandolo perché mi ha spezzato il cuore fingendo di essere morto, o se forse sarebbe meglio cominciare spezzando il suo, confessandogli che sto con Chakuza.
E la cosa più assurda, la cosa più incredibile, è che sto dando per scontate così tante cose che, se solo penso di fermarmi a rifletterci e contarle tutte, mi viene quasi da ridere. Do per scontato che voglia rivedermi, do per scontato che provi ancora qualcosa per me, do per scontato anche di provare ancora io qualcosa per lui. Io amo Peter. Lo amo, no? Dio, sì che lo amo. L’ho aspettato per tanto di quel tempo, e sono così felice, Cristo, certo che lo amo. Ma la sola idea di rivedere adesso Anis mi confonde al punto che non so se le farfalle ce le ho nello stomaco o nella testa. O se quello che mi agita sia una folata di vento o un dannato uragano.
La macchina si ferma davanti al portone di un palazzo che non conosco. Mi sembra perfino di non averlo mai visto, il che è surreale, perché questa è Berlino, la Berlino di Anis, ed io con lui questa città l’ho vista tutta. Mi ha portato ovunque, me l’ha insegnata metro dopo metro, “la mia città sono io, principessa,” mi diceva, “se non conosci lei, non conosci me” ed io lo seguivo senza fare storie e mi perdevo nella sua voce mentre mi parlava delle cose più stupide, di come contava i metri per ricordare dove fossero posizionati i vicoli sicuri quando scappava dalla polizia in servizio la notte, di come avrebbe potuto girare senza sbagliare strada perfino ad occhi chiusi, dei locali che frequentava, dei posti in cui si nascondeva, delle case in cui dormiva quando si riduceva stremato al mattino dopo una notte di lavoro e cazzeggio. Dovrei ricordarmelo, questo posto, devo necessariamente esserci passato davanti, almeno una volta. Dovrei ricordare tutto, di quello che mi ha detto Anis. Ogni cosa che mi ha mostrato ed ogni parola con cui l’ha accompagnata. Ma ho il vuoto nel cervello, adesso, e questo posto non lo riconosco per niente.
- È qui.
Sento la voce di David come un’eco lontana. Peter non parla, e gliene sono grato, in questo momento. Vorrei voltarmi e dire a David che ha poco da fare l’epico, lui, ora come ora. Che è qui lo so, perché è qui che mi ha portato e lui sa perfettamente che, se solo avesse osato prendermi in giro e portarmi da qualche altra parte, gli avrei cavato gli occhi con le mie stesse mani. Che è qui lo so, anche perché me lo sento sotto la pelle. Guardo in alto, scorro tutto il palazzo – non ho idea di quale sia il piano in cui sta – e so che è lì dentro. So che è a qualche metro da me. So che fra meno di un minuto lo rivedrò. E mi copro di brividi, al punto che comincio a tremare.
Peter mi si avvicina. È discreto, lo è quasi sempre quando sa che a toccarmi male potrei esplodere. E invece non esplodo perché, come al solito, lui mi tocca benissimo. Allunga una mano e stringe la mia. La accarezza un po’, solo lievemente, sa che, se in questo momento si comportasse in maniera eccessivamente tenera, lo allontanerei. E invece non è eccessivo, è solo giusto, mi sfiora, mi stringe ed io mi calmo un po’. Abbastanza da voltarmi verso David e seguirlo con gli occhi senza ucciderlo mentre tira fuori dalla tasca dei jeans un mazzo di chiavi ed apre il portone, tenendolo dischiuso mentre mi fa cenno di entrare alla svelta. Obbedisco non perché me lo sta ordinando, ma perché la voglia di vedere Anis mi sta facendo bruciare da dentro.
Il tempo sta scorrendo a rilento. Vorrei poter essere più veloce, vorrei potermi muovere prima, vorrei essere già dov’è lui e vorrei averlo già sotto gli occhi. Ho paura che potrebbe andarsene di nuovo – ne ho paura e non l’ho ancora nemmeno rivisto – ho paura che, ad aprire quella porta in ritardo, Anis potrebbe non esserci. Non posso continuare a sopravvivere in questo stato ancora a lungo, perciò devo sbrigarmi e non mi riesce. Non mi riesce di essere più svelto e non mi riesce di essere già lì, cerco di divorare le scale di corsa e invece mi sento paralizzato.
David non so dove sia. È rimasto indietro, suppongo. Peter è sempre qui accanto a me. Continua a stringermi ed è d’aiuto davvero. Se mi lasciasse andare, probabilmente mi metterei a correre. E non posso correre, perché le mie gambe sono troppo rigide. Se solo mi muovessi nel modo sbagliato, penso che mi spezzerei. Sono un fascio di nervi e sento dolore ovunque, sudo freddo e sto male. Sto malissimo, cazzo. Forse mi sto già spezzando. Forse Peter non può aiutarmi anche stavolta.
Mi fermo quando Peter mi tira. Peter mi tira perché David gli ha indicato la porta giusta. Io seguo il cenno di David e fisso il legno fino ad impararne a memoria le venature. Poi David suona al campanello e sento i passi.
Non sono di Anis.
E infatti, quando la porta si apre, di fronte a me c’è Patrick. Che mi guarda come se fosse perfettamente normale. Tutto, poi. Che lui sia lì, che io sia lì, che Anis sia lì, da qualche parte. Neanche avessimo tutti avvisato per tempo e questa fosse una cordiale cena di famiglia. Non lo è, cazzo. Mi sta esplodendo il cuore. Non riesco nemmeno a respirare.
Patrick non parla. Però mi sorride. È intenerito, o forse no, i sorrisi di Fler sono sempre molto morbidi e questo è perfettamente uguale a tutti gli altri. Non so se sia sempre intenerito quando mi sorride, o se sia proprio il suo sorriso così. Dovrei chiedere a qualcuno che lo conosca meglio di me. Non mi viene in mente neanche un nome a parte Anis, e di decifrare i sorrisi di Patrick col suo aiuto, al momento, non mi interessa per nulla.
Mi faccio avanti di un solo passo, Fler tiene entrambe le mani sugli stipiti della porta ed ingombra l’entrata per intero. Potrei spostarlo solo a testate, e non sono sicuro che ci riuscirei davvero, anche provandoci. Comunque, nel movimento mi tiro dietro Peter, gli occhi di Patrick scendono sulle nostre mani ancora strette insieme e gli passa un lampo scuro negli occhi. I suoi lineamenti si tendono tutti e so che sta pensando che non dovrei stringere questa mano con Anis così vicino a noi. Lo so che lo sta pensando. Lo sto pensando anch’io. Ma se lascio Peter adesso vado in pezzi, perciò la mano resta dov’è.
La mano resta dov’è, sì, ma si irrigidisce anche lei, come i lineamenti di Fler. Sento le scintille nel punto in cui dovrebbe esserci Peter. Questa cosa la capisco meno, ma in realtà sto capendo pochissimo di quello che sta succedendo. Continuo a prendere nota dei particolari come dovessi riutilizzarli più tardi per ricostruire la scena di un crimine. Quello che vedo ora non sono che tasselli sparsi di qualcosa che non riesco a realizzare nella sua completezza. Vedo solo pezzi di cose. La mano di Peter, gli occhi di Fler, quel poco che si intravede oltre le sue spalle dell’appartamento illuminato poco e male. Nient’altro.
Mi inumidisco le labbra, prima di parlare.
- Voglio vederlo.
Fler inspira profondamente e poi trattiene il fiato per un secondo, prima di rispondermi.
- Lui vuole vedere te. – dice a bassa voce. E poi si scosta.
Forse perché sono un bambino, forse perché sono uno stupido, mi aspetto di trovarmi subito Anis davanti agli occhi come dovesse apparire per una qualche ragione. Non lo so, ci resto male quando non lo vedo. Resto fermo per un sacco di tempo. Lui lì all’ingresso non c’è.
- Dov’è? – chiedo, voltandomi a guardare Fler. Ho gli occhi pieni di lacrime, Patrick è una macchia sfocata che sbuffa una risata e mi precede. Seguo l’oscillare incerto delle mie lacrime che si colorano delle tinte della sua felpa, è una felpa ridicola che gli ho regalato io, bianca con le stelline verdi. Non posso credere che la indossi sul serio, è assurdo.
Gli vado dietro e Peter mi segue, continua a stringermi la mano ma è da quando ho messo piede nell’appartamento che ho perso sensibilità su tutto il corpo. So che le lacrime stanno scendendo – perché erano troppo pesanti perché le ciglia potessero tenerle intrappolate ancora a lungo – ma non me le sento scorrere addosso. So che mi sto muovendo, ma non sento i piedi toccare terra. So che Peter mi stringe, ma non sento il calore della sua pelle. Non sentirò più niente per tutto il resto della mia vita, lo so. Non ci riuscirò più. Però almeno ho smesso di sentire male. Anche se non posso dire di stare meglio così.
Patrick apre una porta senza bussare prima. Il mio cuore esplode. Di nuovo. E ancora.
Resta sulla soglia e si scosta per farmi passare. La mano è ancora lì. La stringo fortissimo, so che lo sto facendo. La stringo talmente forte che non posso evitare di accorgermene, quando la sento scivolare via.
Me ne accorgo e non vedo più niente, in un solo attimo.
Anis è lì. Sta in piedi davanti ad una poltrona, come si fosse appena alzato. Mi guarda dritto negli occhi ed ha quell’espressione buffissima che non si capisce mai se diventerà uno sorriso o uno sbuffo ironico. Ha i capelli lunghi – Dio mio, sono lunghissimi – ma li tiene stretti in un codino che spunta da dietro e gli solletica la nuca.
Sto piangendo, lo so. Devo essere un disastro. Ci stiamo vedendo adesso dopo un anno e sono tremendo.
Non riesco a spiccicare una parola, ho paura perfino ad aprire le labbra perché non so che mugolio in frantumi potrebbe venirne fuori. Parla Anis per me. Mi si avvicina piano, un passo dopo l’altro, e quando arriva tanto vicino che devo per forza sollevare lo sguardo per continuare a tenerlo piantato nei suoi occhi, si inginocchia. Così che lo sguardo posso fare a meno di alzarlo, e lo abbasso. Le lacrime scendono in goccioloni enormi. Le vedo e non le sento.
Ma ricomincio a bruciare nel momento esatto in cui la mano che prima stringeva quella di Peter finisce stretta fra le dita lunghe e forti di Anis. La tiene con una delicatezza che è solo sua, neanche fossi fatto di porcellana. La stringe appena. La bacia piano.
- È bello rivederti, principessa.
Ed io mi sento sciogliere. Non mi reggo più, gli frano addosso, non so come faccio a reggermi al suo collo mentre piango e mi lamento e lo stringo e non capisco più niente, ed è un bene che avesse un ginocchio piegato e sollevato da terra, o sarei caduto sbattendo contro pavimento così forte che avrei avuto un motivo molto più stupido per piangere. E invece sto piangendo per lui. Perché lo sto sentendo sotto le dita. Perché è vivo, perché è qui, perché sento il suo sorriso tenero contro il collo, perché sento il suo profumo, perché posso seguire con le labbra il profilo del suo viso e posso perdermici, posso farlo perché è vivo ed è tornato da me, ed al momento non mi interessano i motivi, non mi interesserebbe neanche se fosse morto davvero e poi risorto, anche se so che non è possibile: sarebbe comunque tornato da me, ed è tutto ciò che conta ora.
Sento solo distrattamente la porta che si chiude alle nostre spalle, ho gli occhi semichiusi e quel po’ che riesco a vedere resta filtrato dalle lacrime. Anis è una macchia scura con un buon profumo e un buonissimo sapore. Lo assaggio piano sulle labbra e in punta di lingua quando lui prova a baciarmi. E ci prova davvero, per la prima volta nella sua intera esistenza – comunque per la prima volta da quando mi tocca – non sta pretendendo niente. Mi sta solo dicendo che è qui e se lo voglio è ancora mio. Ed io lo voglio. Voglio che sia mio perché io non ho mai smesso di essere suo.
La sua fronte sfiora la mia e non si allontana dalla mia bocca, quando parla.
- Dovrei dirti un milione di cose, piccolo. – mi sussurra addosso, una mano che scivola contro il mio fianco, sotto la maglia.
Lo bacio lentamente.
- Dovresti. – annuisco senza schiudere gli occhi. Il suo naso sfiora il mio e mi solletica appena. Mi viene un po’ da ridere e lo faccio. È una risatina così piccola che mi stupisco che lui riesca a sentirla. Comunque la sente e ne fa una un sacco simile. Mi scoppia il cuore di gioia, cazzo.
Si tira in piedi, mi tiene saldamente per la vita e finisco per rimettermi dritto anch’io. Cerco di stringerlo forte al collo, o cadrò di nuovo.
- Ce la fai? – chiede a bassa voce, scivolandomi addosso lungo una guancia, il mento, il collo, - Ti tengo, se non ce la fai.
- Non ce la faccio. – ammetto spossato. Lui sorride e mi tira su di peso, allacciandomi sotto le gambe. Stringo le cosce così forte attorno alle sue anche, che quasi mi faccio male da solo.
Anis mi spinge contro una parete ed io piego il capo mentre bacia e morde ovunque riesca ad arrivare, sussurrandomi addosso cose stupende, o magari sono cazzate, però è la sua voce, e se la sento dire che gli sono mancato, se la sento dire che so ancora di buono, se la sento dire che sono esattamente come mi ricordava, anche se non è vero, anche se fa male, è bellissimo. È talmente bello che continuo a piangere, continuo a piangere anche se ormai sto ansimando e non faccio che agitarmi contro di lui perché non ce la faccio più, voglio sentirmelo contro e voglio sentirmelo dentro, e se non lo avrò immediatamente comincerò a piangere così forte che mi faranno male i polmoni.
Anis spoglia me e se stesso in un arco di tempo che non riesco a quantificare. Il suo calore e la sua forma pressati sulla pelle già da soli bastano a farmi mugolare di piacere. Non ricordo quando, sono riuscito a infilare due dita fra le maglie dello stupido elastico che gli teneva stretti i capelli, perciò ho sciolto la coda. Ora le mie dita passano attraverso le sue ciocche scure e mosse, le sento morbidissime sotto i polpastrelli e sorrido. Non li avevo mai potuti accarezzare così, i suoi capelli. Mi piacciono così tanto, spero che non li tagli più.
Lo chiamo pianissimo e stringo le dita sulle sue spalle, affondando quasi le unghie nella sua pelle. Lui ringhia e mi bacia con maggiore convinzione. Fa bene, ha ragione, gli ho detto che può farlo, voglio che lo faccia.
- Ti prego… - mugolo stremato, e lui non perde neanche un altro minuto prima di spingersi lentissimo contro di me. Si fa sentire appena, si tira subito indietro, - Ti prego! – ripeto, mordendogli le labbra, e l’attimo dopo è lì dentro di me. Esattamente al suo posto.
Si muove piano, così piano che a stento lo riconosco. Non è il suo ritmo questo, non è il suo modo di toccarmi. Questo continuo esitare e chiedersi se può – glielo leggo negli occhi, lo vedo oltre le ciglia lunghissime ed oltre la nebbia del piacere che prova – questo continuare a stringermi appena, questo non è lui. Io lo ricordo, com’era. Ricordo come mi sentivo a sbattere di schiena sulla testata del letto perché mentre mi scopava mi aveva tirato su di peso e mi ci aveva appoggiato contro per spingersi con più forza dentro di me. Ricordo com’era sentirlo affondare fino al limite, finché quasi faceva male, e ricordo com’era forte e salda la stretta delle sue mani contro i miei fianchi. Ricordo la sua lingua insinuarsi fra le mie labbra e giocare a rincorrere la mia senza chiedere per favore. È questo che voglio. Rivoglio il mio Anis. Lo rivoglio com’era. So che c’è ancora, lo rivoglio con me.
Lo chiamo pianissimo, gli mordo le labbra, gli chiedo di andare più veloce. Glielo chiedo, lo imploro, la voce spezzata dagli ansiti, le sue mani mi scorrono lungo i fianchi e così fanno anche i suoi occhi. Non mi ha ancora nemmeno accarezzato ed il solo modo in cui si muove dentro di me, colpendo tutti i punti giusti come se non avesse fatto altro fino al giorno prima, mi sembra già abbastanza per urlare e gemere ed ho paura di poter venire anche solo così, senza l’aiuto delle sue mani. Ne ho paura perché sarebbe stupendo – c’è riuscito solo lui – e ne ho paura perché sarebbe assurdo.
Lo sento sorridere contro il mio collo, sbuffando appena.
- Un tatuaggio nuovo… - commenta scivolando con le dita sulla scritta che si arrotola su se stessa fino alla mia anca, - È recente?
- È fra le cose di cui possiamo parlare dopo. – mi lamento cercando le sue labbra.
Lui si tira indietro apposta per non concedermele.
- È una B. – ride appena, e mi prende in giro sporgendosi un po’ solo per poi ritirarsi.
Lo tengo fermo chiudendo le mani a coppa sui suoi zigomi, e tirandomelo contro.
- Sei tu scritto addosso. – confesso, ed allora lui mi bacia. E ricomincia a spingere. Ed è duro, è forte, è veloce e impetuoso. È lui.
Smetto di trattenere la voce anche se fra noi e tutto il resto del mondo c’è solo una porta. Qui dentro siamo solo noi due, quindi – per quanto mi riguarda – anche in tutto il resto del mondo ci siamo solo noi due. Ci sono solo le dita di Anis, c’è solo il suo cazzo che si fa strada di prepotenza dentro di me, c’è solo lui che ricorda il mio corpo centimetro per centimetro, ci sono io che cerco il suo sapore ovunque, c’è solo il momento in cui mi stringe e trattiene il fiato, c’è solo il momento in cui una spinta più forte e mirata delle altre colpisce proprio il punto che mi fa urlare di piacere, c’è il momento in cui vengo, c’è il momento in cui viene lui, c’è un momento perfetto in cui esiste solo questo ed io non ho bisogno di nient’altro.
Ed è solo un momento. Purtroppo, dannazione, è solo un momento. Esito – le dita perse fra i suoi capelli – solo qualche secondo, il tempo di riprendere fiato, prima di cominciare a realizzare cosa è successo. Cosa ho lasciato succedesse, meglio. Ricomincio a fare la conta delle persone che popolano il mio mondo. Ricordo David – e che voglio pestarlo. Ricordo Patrick – e che voglio parlargli, anche se non so nemmeno di cosa.
Ricordo Peter.
Cristo.
Ricordo Peter. E non ho idea di come farò a guardarlo negli occhi quando sarò uscito da qui e lo troverò ad aspettarmi.
Anis mi poggia a terra ed ho di nuovo paura che mi cedano le gambe. Mi aggrappo con forza alle sue spalle, uso le unghie e lui si lamenta un po’.
- Fai piano, principessa… mi hai devastato abbastanza, ti pare?
Schiudo gli occhi – bruciano da impazzire per quanto ho pianto e per quanto forte li ho strizzati – e tutto quello che vedo, per un lungo periodo di tempo, è la pelle di Anis. Mi ci perdo come fosse un paesaggio di un nuovo mondo, annego nei suoi colori caldi e nel suo profumo aspro e forte, lo sfioro piano con la punta del naso e poi gli pianto le mani sul petto. E lo allontano.
Il mio movimento è molto più violento e repentino di quanto non volessi. Questo perché sento fisicamente che se non me lo allontano di dosso il prima possibile potrebbe succedere qualcosa di irreparabile.
Poi ci rifletto. E capisco che qualcosa di irreparabile è già successo.
Sollevo lo sguardo e trovo gli occhi di Anis. Mi fissano con un misto di confusione ed incredulità, e lui è tenerissimo, in questo momento: le labbra semidischiuse sono ancora umide dei baci che ci siamo scambiati e i capelli sono arruffati perché ci ho perso le mani dentro così a lungo che hanno perso il senso che la coda aveva loro imposto prima che la sciogliessi. Ha gli occhi grandi, il mio Anis, e li sta usando per chiedermi cosa mi prende. Perché non lo capisce. E mi viene di nuovo da piangere e mi dispiace che non capisca, e so che non potrebbe neanche volendo, perché io non ho la forza di dirgli cosa mi passa per la testa. Non ho la forza neanche di dirgli cosa è passato per la mia vita nell’ultimo anno. Non ho la forza di fare niente perché non ce la faccio a pensare che a solo pronunciare il nome di Peter affiancato al mio, come sarebbe giusto, potrei perdere Anis. Perderlo adesso dopo averlo ritrovato… io non posso farcela. Io non ho abbastanza sangue in corpo, non sono abbastanza forte e non ho altre lacrime da versare. Perciò faccio l’unica cosa che posso fare senza rischiare troppo.
- Stronzo. – sibilo astioso, e lo faccio perché ho ragione, perché voglio litigare e perché i litigi sono una cosa che io e Anis conosciamo bene. Sono una cosa dalla quale sappiamo come uscire. Ogni volta che litigavamo, prima che morisse, era come subire gli scossoni di un terremoto. Crollava la casa e dopo, con una serie interminabile di scosse di assestamento durante le quali lui concedeva qualcosa a me ed io concedevo qualcosa a lui, ricominciavamo ad andare d’accordo. Era tutto davvero così semplice. Voglio che torni ad essere tutto semplice com’era allora. – Stronzo. Tu… come hai potuto, Anis?
Lui inspira profondamente e le sue labbra diventano sottili come linee, mentre tutti i suoi lineamenti si tendono. Gli vedo passare negli occhi qualcosa che suona più o meno come un “ecco, ci siamo”, e stringo forte i pugni.
- Era necessario, piccolo. – risponde seccamente, - Eri in pericolo.
- Ero… - annaspo, stringendomi nelle spalle e cominciando a cercare in giro i miei vestiti, - Ti avevano sparato! Eri tu quello in pericolo! Cos’è, appena hai visto che eri riuscito a salvare la pelle, piuttosto che tornare da me dove saresti stato di nuovo in pericolo, hai preferito andartene?!
Gli passa sul volto un’ombra di offesa, la vedo nel modo caratteristico in cui aggrotta le sopracciglia, ma non ho il tempo materiale di soffermarmi su quello che gli ho detto – non ho modo di realizzare quanto sto essendo cattivo in questo momento – perché lui prova a fermarmi con un “Bill” stentato ed io non voglio lasciarglielo fare. Perché potrebbe consolarmi, e non voglio che sia lui a farlo. Perché voglio urlargli di tutto e non voglio lasciare che lui me lo impedisca.
- Tu… tu sei vivo, Cristo santo! Da quanto? Dove cazzo sei stato, Anis, nascosto qui dentro per tutto l’ultimo anno? Ti sei divertito, qui da solo? Come le hai passate le giornate, spiandomi? Mandando… mandando David a… il mio manager, cazzo, Anis, tu… non avevi il diritto di farlo!
- Piccolo, - cerca di avvicinarmisi, mettendo le mani avanti come avesse paura che potessi scattare improvvisamente a morderlo al collo, - non sai cos’è successo. Noi non dovremmo litigare, dovremmo parlare.
- No, sei tu che non sai cos’è successo! – urlo spintonandolo lontano, - Io sono quasi morto di dolore, stronzo! Ho pensato che non ce l’avrei fatta, mi sono sentito finito! Io ho ucciso un uomo per te! Lo sai questo? Te l’ha detto David? Ho ucciso un uomo perché quell’uomo aveva ucciso te, e tu non eri morto! – mi fermo a riprendere fiato ed Anis è lì fermo che mi guarda. Non c’è più traccia di offesa nella sua espressione, adesso è solo triste. Non riesco a capire se avergli detto queste cose fa di me una persona ingiusta o se semplicemente dovessi farlo e basta. Io non ho torto. Io non ho torto, cazzo. Io non posso pensare di avere torto, perché se ammettessi di aver sbagliato tutto fino ad ora, con questo litigio, con quello che abbiamo fatto prima, col modo in cui ho vissuto l’ultimo anno… se ammettessi di aver sbagliato tutto, io non saprei più da dove ricominciare. Anis non potrebbe aiutarmi. Non potrebbe aiutarmi Peter. Non potrebbe aiutarmi Tomi, non potrebbe aiutarmi Patrick, non potrebbe aiutarmi nemmeno David. E io non potrei farcela comunque. Sarei una persona finita. Non voglio. Io non ho torto. Io ho ragione. – Noi possiamo solo litigare, Anis. – dico infine, distogliendo lo sguardo e finendo di rivestirmi, - Perché non ho nient’altro di cui parlare con te.
E non aggiungo nient’altro. Non lo fa neanche lui. Restiamo a guardarci a lungo e io vorrei fare una cosa che, quando stavamo insieme prima, facevo spesso, dopo le litigate. Anis non è mai stato davvero morbido, con me, se mi meritavo di essere mandato a fanculo ci andavo anche. Nel senso che mi ci mandava senza problemi. Ed io ero sempre troppo cocciuto e arrabbiato e isterico e tutto per capire che quel “vaffanculo” era un “riprenditi, Bill, perché io non posso avere a che fare con un sedicenne, ne ho le palle piene”. E quindi sì, urlavo “d’accordo, come preferisci!”, ma prima di uscire sbattendo la porta dicevo sempre “a più tardi!”. Ed era una cosa carina perché succedeva sempre che dopo un paio d’ora, quando sentiva che la mia rabbia era sbollita ed ero di nuovo pronto al dialogo, Anis mi raggiungeva dovunque fossi – dovesse anche essere casa di mia madre a Loitsche – e veniva a riprendermi. Era il suo modo silenzioso di chiedermi scusa. Tornare a casa con lui era il mio modo silenzioso di chiedere scusa a lui.
Ora non posso farlo. Non posso dirgli “a più tardi!”, non posso dirgli proprio un bel niente. Non posso neanche permettermi di sperare che lui venga a riprendermi comunque, fra un paio d’ore. Posso solo tacere, finire di rimettermi a posto ed uscire dalla stanza. Perciò lo faccio. Anis non cerca nemmeno di fermarmi.
Il mondo, di fuori, mi sembra ghiacciato. Volto in giro lo sguardo alla ricerca di Peter e Patrick e non trovo nessuno dei due. Non fatico ad immaginare cosa possa essere successo: Peter avrà cominciato a devastare un appartamento non suo e Patrick, per evitare che lui si ritrovasse nei confronti di Bushido con più debiti di quanti non ne abbia già, l’avrà trascinato via. Ora starà probabilmente cercando di calmarlo a suo modo. Non ho mai capito in che modo Patrick calmasse Peter, ma è straordinariamente efficace. D’altronde non mi stupisce, Patrick è straordinariamente efficace nel calmare chiunque. Vorrei che fosse qui, adesso, così potrebbe calmare me. E poi potrei mandarlo a calmare anche Anis.
Mi accorgo di David solo quando lui si accorge di me. E non succede subito, visto che si era palesemente perso nella propria testa mentre osservava il vuoto, appollaiato sul bracciolo di una poltrona. Solleva lo sguardo chiarissimo su di me e non me la sento di urlare anche contro di lui. Però se lo meriterebbe.
- …sono esausto. – dico in un mezzo singhiozzo, e il secondo successivo David è accanto a me e mi stringe fra le braccia. E so che dovrei avercela a morte con lui e odiarlo furiosamente e tutto, ma mi concedo di rimandare. Non ce la faccio, voglio rimandare. Mi appoggio contro di lui e nascondo il viso nell’incavo del suo collo. Piango solo un altro po’. – Voglio andare a casa.
David annuisce piano, la sua guancia ruvida struscia lentamente contro la mia, infastidendo la pelle già irritata dalle lacrime, ma non lo allontanerei per niente al mondo.
- Ti ci riporto. Vuoi andare da Tom?
- No. – mi lamento, - Voglio andarmene a casa mia. Voglio… voglio andare a dormire. Mi porti al mio appartamento, per favore?
Lui annuisce ancora, e mi resta vicino mentre mi allontano ed asciugo le lacrime. Non diciamo una parola. Restiamo in silenzio fino a casa, ed anche lì l’unica cosa che sento è un saluto a bassa voce ed una richiesta, “fatti sentire quanto prima, Bill. Quando vuoi, ma quanto prima”. Annuisco e basta. Ho detto delle cose tremende, oggi. Voglio dimenticarmi che rumore fa la mia voce. Non lo tollero più.

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