Wahrheit

di tabata
Io pensavo che morire sarebbe stato complicato.
Cancellare tutto quello che ero – passato, presente e soprattutto futuro –, la mia intera esistenza, e sparire per diventare qualcun altro. Per diventare Tarek Hassim. Avrei dovuto costruire la sua persona da zero, dargli dei ricordi, un passato, una persona che lo avesse amato e che lui avesse lasciato altrove, nel paese da cui proveniva. Avrei dovuto dargli un carattere, mentire per mesi.
Mentre David mi imbarcava su un aereo per Miami, ricordo distintamente di aver pensato a tutte queste cose e di aver concluso che sarebbe stato così difficile da perderci la testa, che non puoi davvero smettere di essere quello che sei per diventare un altro, che una parte di te resta sempre, in fondo allo stomaco e che – conoscendomi – sarebbe saltata fuori anche troppo spesso. Con troppa forza.
In realtà non è stato così. Essere Tarek Hassim è stata la parte più facile. Ad uccidere Anis Moahmed Youssef Ferchichi sul pavimento di una casa di Miami non c’è voluto niente. Farlo risorgere dalla tomba, invece, si sta rivelando molto più complicato.
Quando ho messo piede a Berlino, due settimane fa, non l’ho fatto con l’idea cosciente di rimanerci. Davvero. Volevo sistemare le cose all’Ersguterjunge e, sì, d’accordo, volevo vedere Bill, assicurarmi che stesse bene. Volevo poggiare gli occhi su di lui tanto per avere un’immagine nitida della sua persona da riportare a casa. Stavo dimenticando com’era lasciar scivolare lo sguardo sulla sua pelle e la cosa mi faceva paura. Volevo sentire la sua voce dal vivo, sentire il suo profumo anche se da lontano. Non volevo davvero fare casino. Non coscientemente almeno.
David aveva organizzato l’incontro con i grandi della Universal con la maggior segretezza possibile. Tra me coperto fin sopra i capelli e loro che, fino all’ultimo istante, non sapevano chi stesse arrivando, quella riunione aveva i toni di un film di spionaggio. Ricordo che David ha portato l’auto fin sotto la sede dell’etichetta. Io ho fatto solo due metri, avvolto nel cappotto, dietro gli occhiali, con i capelli legati. Di corsa.
Nessuno sapeva che ero io. Nessuno lo ha saputo finché in quella stanza praticamente sigillata, di fronte a quattro uomini incazzosi che stavano perdendo soldi per i capricci di un manager isterico, non mi sono tolto gli occhiali e il cappotto e non ho detto “Salve signori,” e li ho visti sbiancare.
In quel preciso momento – devo ammetterlo – Tarek era già scomparso e io, come Bushido, ho dovuto trattenermi dal ghignare perché ci vuole del talento per sconvolgere quattro uomini adulti semplicemente salutandoli. E io sono uno che si autocompiace.
La discussione è stata surreale e sfiancante. Prima il naturale sconvolgimento di quattro persone che un anno fa si sono perse la gallina dalle uova d’oro e ora se la vedono tornare indietro, bella, sana e in salute a recuperare ciò che era suo. Poi si sono ripresi – e gente come loro si riprende in fretta, anche se risorgi e tendenzialmente non dovresti. Non mi hanno nemmeno chiesto perché ero morto, mi hanno solo snocciolato con disinvoltura sconcertante tutto ciò che poteva essere fatto, adesso, per sfruttare la mia ressurezione. Ovviamente erano inclusi un nuovo cd, apparizioni televisive, apparizioni pubbliche – non so se volessero anche farmi apparire in tunica scintillante sopra la cima di un monte con due tavole di leggi in mano – e un’altra sequela di cazzate di fronte alle quali ho riso di gusto. Finché non hanno nominato Bill.
Negli ultimi mesi prima che Saad mi sparasse la relazione mia e di Bill cominciava a dare i suoi frutti anche a livello economico. Ovunque fossimo, eravamo insieme. Bravo ci marciava così tanto sopra da avere una specie di conto alla rovescia – non ho mai ben capito – per il giorno in cui saremmo andati a vivere insieme, senza sapere, per altro, che io a Bill lo avevo già chiesto e Bill aveva sempre fatto in modo di non rispondere perché era – è, ancora – piccolo e spaventato e io non ci tenevo a tirarmelo in casa se non se la sentiva. Prima che io morissi, stavamo diventando una – anzi no, la – coppia dello showbiz e devo dire che ne sarei stato orgoglioso se in quei mesi già non fossi stato intento a preparare la mia fuga, che non era ancora morte, ma ci si avvicinava. Quindi è chiaro che nel momento in cui io mi sono presentato in quella stanza, vivo e vegeto, loro hanno subito pensato che tra le apparizioni televisive e il cd ci stesse anche un bel ritorno di fiamma, magari con Bill in lacrime in diretta Tv. E invece no. Non gli farei mai toccare Bill in questo modo, neanche se mi ricoprissero d’oro.
Quando hanno fatto il suo nome ho sollevato una mano, ho zittito David che stava per aprire bocca e ho fatto notare loro che non c’era nessuna possibilità che io tornassi in vita per il resto del mondo e che, se anche lo avessi fatto, nessuno avrebbe usato il mio ritorno e Bill per fare denaro. E ci credevo – ci credo anche adesso – solo che allora non sapevo che qualcuno avrebbe agito contro la mia volontà. Prima che morissi, non era mai accaduto. E’ stato lì che ho capito che non è difficile morire. E’ difficile tornare indietro.
David non ha detto quasi niente perché io non gliel’ho permesso. La mia intenzione non era quella di essere diplomatico, non era nemmeno quella di discutere a dire il vero. Ero lì per dire come stavano le cose, l’opinione della Universal al riguardo era del tutto irrilevante.
L’Ersguterjunge era aperta perché David si era opposto alla chiusura, ma era inattiva perché Chakuza era stato notevolmente convincente con gli altri ragazzi. Ora però, la Universal voleva far rientrare i costi di un’etichetta aperta che non produceva niente. E questo era assolutamente fuori discussione.
L’Ersguterjunge è una cosa mia, non è soltanto un’etichetta. E chiunque sa che se una cosa è mia, nessuno può metterci sopra le mani. Con David avevo discusso a lungo su come procedere, più che altro perché io sono uno che fa le cose a modo suo, ma in questo caso non si poteva perché c’erano di mezzo una morte, un quintale abbondante di avvocati e questi quattro uomini che adesso mi guardavano indecisi tra l’ascoltarmi e mandarmi a fanculo una volta per tutte. Il primo problema era convincere loro a non chiudere l’etichetta. Il secondo era convincere Chakuza a lavorare senza farmi vedere.
Per il primo problema, la soluzione era piuttosto semplice. L’etichetta era mia, loro si occupavano della distribuzione. Se volevano tenerla aperta e prendersi la loro percentuale, andava bene. Se volevano chiuderla, andava bene lo stesso avrei fatto a meno della loro distribuzione. Naturalmente non c’era alcun modo per cui io potessi mantenere aperta l’EGJ, occupandomi anche della distribuzione, tutto questo da Miami e senza la mia roba a fare da traino per tutti gli altri ma – come mi ha sempre detto Saad, pace all’anima sua – io ho la faccia come il culo. Quindi se ti dico che posso farlo, a te viene il dubbio che io possa davvero. Il dubbio è venuto anche a loro, soprattutto quando ho fatto notare che sotto la mia etichetta avevo persone in grado di rendere bene, che si trattava solo di sistemare la faccenda con i diretti interessati e che – a patto che non si facesse mai il mio nome – avrei rimesso in moto le cose. In fondo ero tornato per quello.
Risolto questo, si prensentava il problema di convincere Chakuza.
Ricordo che sono tornato in auto con una serie di idee e che David me le ha smontate una per una, scuotendo la testa e ripetendo fino alla noia che non era possibile. Per una settimana ho cercato di dargli torto e poi ho dovuto ammettere che Chakuza ha la testa di un’ariete e quando decide una cosa dev’essere quella e solo quella, non capisce né vede né ascolta nient’altro. Era impensabile che io lo costringessi a fare qualcosa senza incontrarlo di persona. Per questo ho dovuto farmi vedere. E David non voleva, ben inteso. David voleva rispedirmi a Miami con il primo aereo e pensarci lui. Il che voleva dire, con ogni probabilità, parlare con Chakuza per la milionesima volta e per la milionesima volta sentirsi rispondere di no.
Io lo so come fa Chakuza. Lo so perché quando mi ha inseguito per settimane con quella sua cazzo di demo, non mi ha lasciato in pace un minuto. Ho dovuto ascoltarla. E gli ho pure dovuto dire che era buona, perché lo era. E lui lo sapeva. Quindi se riteneva rispettoso non lavorare in onore dell’uomo morto, non potevi fargli cambiare idea se non dicendogli che l’uomo era vivo.
Così ho fatto quello che c’era da fare. Ho distratto David spedendolo a farmi la spesa, sono uscito di casa e sono andato da Eko.
Andare a casa del turco equivaleva a scatenare una reazione a catena, e lo sapevo. Il punto era che non avevo scelta. Se fossi andato direttamente da Chakuza, che abita a casa di Dio perché nonostante possa permettersi di meglio, è in qualche modo affezionato a quella topaia in cui si è rintanato, Dio solo sa perché – credo che il tutto sia legato al fatto che quella è la prima casa che si è pagato da solo, lontano dal tetto austriaco di suo padre o una roba simile -, se fossi andato da lui, avrei dovuto farmi mezza Berlino a piedi visto che David aveva preso la macchina e qualcuno mi avrebbe sicuramente visto. Se avessi saputo che qualche stronzo alla Universal aveva deciso di fare davvero lo stronzo vendendo la mia presenza a Bravo probabilmente sarei andato direttamente da Chakuza. Ma d’altronde se avessi saputo un sacco di altre cose probabilmente sarei andato da Chakuza e lui non avrebbe più avuto alcun motivo di farsi convincere a fare niente.
Io so che Eko ha tante buone qualità ma fra queste non c’è la sanità mentale. Da che lo conosco, e si parla del 2006, non è mai stato veramente normale. Non è che sia stupido, anzi, tutto il contrario, ha una mentalità molto pratica che si basa sostanzialmente sul fatto che lui vorrebbe vivere senza che gli dessero fastidio – il che è un po’ assurdo visto che alla fine, per finta o per davvero, fa il rapper e qui ci si sfancula come niente - ma vive in un mondo suo. A volte penso che quando Kool Savas lo ha portato via da quel negozio di scarpe, lui non se ne sia accorto del tutto. Quindi con la testa sta un po’ qui e un po’ là e questo, a volte, crea un po’ di problemi.
D’altra parte, immagino che anche una persona mentalmente stabile non avrebbe reagito bene a me che mi presento alla sua porta dopo che mi ha seppelito. Quindi, insomma, non posso biasimarlo. La faccia che fa, quando mi apre la porta, non credo di potermela dimenticare. Innanzi tutto sbianca. Il sangue gli va visibilmente tutto nei piedi, mi sembra quasi di vederlo scivolare lungo la sua faccia e lungo il collo per poi perdersi sotto la maglia. E mi guarda fisso, con gli occhi rotondi. Io sorrido e gli accenno un saluto ma come alzo la mano lui scatta e fa per chiudere la porta, ma ci infilo un piede in mezzo.
“Eko, sono io,” dico.
Lo sento trafficare ma non riesce a chiudere la porta. “Non è possibile. Tu sei morto. E se sei morto non puoi essere nel corridoio del mio palazzo.”
“Ma come vedi ci sono. Posso spiegarti, se mi fai entrare.”
“Ah!” Sbotta, convintissimo. “Non pensare che ci caschi. Lo so che non puoi entrare se non ti invito!”
Sollevo un sopracciglio. “Si chiama buona educazione, in effetti.”
“No, è che sei un fantasma,” precisa lui. E per farlo apre la porta. “Quelli non possono entrare se… o forse erano i vampiri?”
Se ne sta lì sulla soglia e rimugina, con una mano sotto il mento. E si è evidentemente dimenticato di me. O si è dimenticato che sono morto. Comunque devo schioccare le dita per riportarlo al presente. “Eko, ti spiace? Non dovrei essere qui, preferirei non farmi vedere dai tuoi vicini.”
Faccio un passo in avanti verso di lui e lui va nel panico, mi si getta contro di testa, costringendomi a tornare indietro e quindi prosegue correndo per il corridoio, gridando che lui non c’entra niente e ha sempre pensato che fosse una pessima idea. Di cosa stia parlando non lo so. Comunque ha lasciato la porta aperta, quindi entro e mi accomodo. Avevo intenzione di chiedergli di chiamare Chakuza ma a quanto pare dovrò prima aspettare che si calmi. E magari che rientri in casa.
La casa di Eko è un posto che non ti aspetti da uno come lui. Innanzi tutto è enorme per uno che ci vive da solo e poi, nel suo piccolo, è ordinatissima. Il problema è che l’arredamento di Eko non è un vero arredamento. Diciamo che quando si è trovato nella condizione di dover mettere dei mobili per riempire lo spazio ha comprato le cose che gli piacevano, indipendentemente dal colore e dallo stile, quindi il salotto ha un bellissimo divano in pelle nera, ma c’è anche un pouf muccato e un intero set da tè turco. Il frigorifero della cucina è ricoperto di calamite e nel corridoio c’è un’intera parete tappezzata di cianfrusaglie. Per il mio bene non sono entrato nella sua camera da letto. Non voglio sapere.
Quando Eko torna, io sono nel suo bagno blu. Sento un’altra voce oltre alla sua e quando esco dal bagno, asciugandomi le mani, ci trovo Chakuza, il quale non ha un aspetto migliore di Eko, quando mi vede. Anche nella penombra della stanza vedo che diventa color cenere. “Chaky,” gli dico sorridendo. “Ho saputo che stai cercando di mandarmi in bancarotta.”
Spero che abbia il buon senso di non scappare anche lui. Non so con chi potrebbe tornare. Alle sue spalle vedo spuntare Eko, venuto a vedere se me lo sono mangiato, o cosa.
“Chaku…” dice, tenendomi d’occhio nel caso mi facessi spuntare coda e artigli. “Perché non stai scappando?”
“Credo che chiamerò Fler,” Chakuza dice soltanto questo.
E io penso che non voglio affatto fermarlo. Dovrei, dovrei dirgli che sono qui per lui e che sarò qui soltanto per un breve periodo di tempo, che nessun altro deve vedermi, che ho uno scopo e questo scopo è spiegare a lui che non può chiudermi l’etichetta, ma quando nomina Fler e penso che può portarmelo qui e ora, non me ne frega niente di quante persone mi vedranno.
David mi ha detto che Patrick fa ormai parte della squadra, non ufficialmente certo – non credo che Sido mi perdonerebbe se glielo portassi via, anche se sapeva che volevo e che se non fossi morto ci sarei riuscito prima o poi -, che è diventato di casa e che tra lui e Chakuza si sono presi cura di Bill quando nessun altro ci riusciva. Io devo dirgli grazie. Quindi Chakuza fa bene a chiamarlo.

*


Eko sembra aver superato la fase di panico e adesso mi gironzola intorno, anche se si tiene sempre a debita distanza. Io sono seduto sul divano e mangio pistacchi. Adoro la casa di Eko perché è sempre piena di cibo; Eko mangia quando è nervoso e siccome lo è sempre, dissemina cibo ovunque in modo da averne sempre a disposizione. Alla sede dell’EGJ ha colonizzato tutti i cassetti, riempiendoli con merendine da sgranocchiare. Negli ultimi tempi non era affatto raro vedere lui e Bill che si aggiravano tra le stanze dello studio, raziando le loro riserve di cibo.
“E fa caldo all’inferno?” Mi chiede. Non so quante domande simili mi ha già fatto.
Rido. “Non so all’inferno, ma a Miami faceva caldo” gli rispondo. “Le donne girano in bikini a novembre.” Donne e bikini nella stessa frase sembrano accendergli qualcosa nel cervello ma non riesce ad elaborarlo, così mi dice che sono uno stronzo perché non sono tornato prima.
“Non era mia intenzione tornare, Eko,” gli faccio notare. “Ho dovuto.”
Eko non mi chiede perché me ne sono andato, né perché non avessi intenzione di tornare. Non può saperlo, non credo che lo sappia almeno, però si fida delle mie motivazioni, qualunque esse siano. Solo che è un tipo semplice e quindi rispetta le mie decisioni ma ci tiene a farmi sapere che gli è dispiaciuto.
“Sei stato uno stronzo comunque. Qua è stato un casino.”
Si mette a mangiare pistacchi anche lui e io sospiro. “Me lo merito.”
“Certo che te lo meriti. Sei uno stronzo,” annuisce con convinzione quindi inchioda immediatamente Chakuza di ritorno dalla cucina. “Lo stronzo sta a due isolati da qua. Ci puoi pensare?” Gli chiede. “Da due settimane. E indovina dov’è stato prima, per tutto questo tempo.”
Vedo Chakuza scuotere la testa. Quando dice: “…non ne ho idea. Sotto terra?” guardandomi allucinato, mi viene da ridere.
“A Miami!” Sbotta Eko, allargando le braccia.
Chakuza continua a guardare me e so che nella sua testa c’è un giudizio molto più feroce di quello di Eko. Tutte le emozioni di Peter sono violente, non ha mezze misure. E se la sua felicità di norma è incontenibile e contagiosa, le cose si fanno problematiche quando s’incazza. Io e lui siamo sempre andati molto d’accordo, solo che io non sono mai morto e lui non è mai stato costretto a combattere per la mia memoria, quindi forse devo aspettarmi che voglia smantellarmi pezzo per pezzo.
“Bushido, tu eri morto,” mi dice. E lo fa in maniera diversa rispetto ad Eko.
Chakuza sta cercando di trovare un senso alla mia persona perché in effetti lui non crede ai fantasmi, lui crede agli esseri umani. Solo che se sono seduto qui di fronte a lui significa che non sono mai morto e forse sta cercando di capire cosa deve farsene di questa informazione perché è bella grossa, e io lo so che lo é. Sono morto, Chaku, e sono risorto. Una cosa per volta. “È complicato da spiegare, Chaky,” mormoro. “Ma vi dirò tutto, piano piano. Prima, però, ho delle questioni da risolvere.”
In realtà mi sto chiedendo come posso spiegargli tutto quanto e come posso risolvere la situazione. Mi chiedo anche come riuscirò a lasciare questa città dopo questa giornata. O come farò ad affrontare David che, dopo aver messo il burro in frigo, scoprirà che non sono in casa, che sono uscito a piedi e che ho combinato questo casino. Forse morirò di nuovo, quindi alla fine risolverò il problema così. In quel momento suona il campanello e io cambio istintivamente il modo in cui guardo le cose. Non sono più qui con Eko e Chakuza. Sono qui e dietro quella porta c’è Fler.
“Mbe’?” Sbotta Eko, senza muoversi. “È il tuo uomo, tu l’hai chiamato, vai ad aprirgli.”
Io rido ma il suono che esce dalle mie labbra non è quello che vorrei. Non ho pensato nemmeno per un attimo che a suonare il campanello possa essere stato il ragazzo delle pizze che Eko sta aspettando. Io so che si tratta di Fler. Mi pare quasi di vederlo, alto e un po’ sgraziato – come siamo sempre stati io e lui perché siamo troppo alti e muoverci eleganti non è mai stato il nostro punto di forza. Non so in che modo Chakuza lo abbia chiamato qui, se sa che ci sono o se vuole dirglielo quando arriva, però non vedo l’ora che lo faccia.
Chaku spunta di nuovo in salotto dopo qualche istante. “Atze,” mi dice, un po’ confuso. “Senti, c’è Fler.”
Patrick non ha bisogno di essere annunciato.
“Non ho mica bisogno del permesso, per ricevere udienza, io.Ho il lasciapassare automatico.”
E lo sa.

*


Io non mi sono alzato. Seduto com’ero l’ho solo guardato come ho sempre fatto e lui ha reagito come volevo che facesse. Si è seduto sul tavolino, così vicino che ho dovuto spostare le gambe. L’ultima volta che siamo stati a questa distanza ci siamo tirati due coltellate e adesso abbiamo la possibilità di ricominciare tutto da capo. Di stare seduti, guardarci e dire quello che dovevamo dirci quella notte, prima che sentissi il suo sangue sulle dita, prima che lui sentisse il mio e poi tutto precipitasse. Non aver detto a Fler che quello sguardo alla finestra l’avevo capito era uno dei miei due rimpianti.
“Ero lì, quella notte, perché volevo dirti che eravamo a posto, Atze.” Me lo dice, ma lo so. C’era un gioco che facevamo quando Templehof non era ancora del tutto nostra e stavamo svaccati le ore su un muretto che Fler aveva appena taggato. Quando gli capitava qualcosa, bella o brutta che fosse, era raro che io non lo venissi a sapere. Così quando ci annoiavamo lui cercava di sorprendermi, dicendomi qualcosa che non sapevo. Se era stato con una donna, se aveva recuperato del denaro, se aveva comprato, rubato o sistemato qualcosa. Io lo sapevo sempre e lui si intestardiva. Alla fine, quando capiva che non c’era niente di lui che non sapessi, sospirava. A volte sembra quasi che se non le sai tu, le cose non siano successe per davvero, diceva.
E io ridevo. Ora che mi sta dicendo questo, capisco che è lo stesso gioco. “Ero lì sotto per questo,” ripete ancora, guardandomi dtritto negli occhi. “Non sono stato io. Volevo dirtelo. Non sono stato io. E siamo a posto.”
Io sorrido. “Lo so,” mormoro.
E se io lo so, allora è successo davvero. Mi chino in avanti, gli sfioro quasi la fronte. L’ultima volta che mi è capitato di farlo è stato molto tempo fa. Lui era molto piccolo e a me sembrava di essere troppo grande. Lo penso anche adesso che non è più un bambino e non trema più. “…non so come chiamarti,” rido alla fine. “Ragazzino, Frank, Fler…”
“Patrick andrà bene, Anis,” sorride lui.
Patrick va benissimo. Patrick era lui quando l’ho conosciuto. Era lui quando si metteva nei casini e allora doveva ricordarsi che Frank White e Fler erano nomi che doveva meritarsi. Erano nomi senza cazzate. Patrick è come lo chiamavo quando le cose erano importanti. Quindi, Patrick andrà bene perché c’è stato un tempo in cui per le strade solo lui mi chiamava Anis.
“Io comunque non sono tornato dall’altro mondo per una rimpatriata,” alla fine mi alzo perché Fler sa già tutto quello che doveva sapere. Con o senza parole. Lo lascio su quel tavolino e vado verso Chakuza che si è tenuto in disparte quasi quanto Eko. Sono ben consapevole di essere inopportuno con certe persone della mia vita. E’ che sostanzialmente me ne frego. “Potrà sembrarti assurdo, Chaky, ma sono venuto per parlare con te.”

*


Quello che è successo dopo, non ho bisogno di spiegarlo di nuovo.
Bravo ha pubblicato le mie foto, Bill le ha viste e ha voluto incontrarmi. Da quel momento in poi, le cose non hanno fatto che peggiorare. David, già furioso perché avevo parlato con Chakuza, ha seriamente rischiato di uccidermi dopo che ho incontrato Bill. La Universal ha cominciato a fare pressione per riavermi sul palco e sono ossessionato dai giornalisti che non mi fanno quasi uscire di casa. In tutto questo, Bill è praticamente sparito. Non l’ho sentito, non ha risposto al telefono e David non ha voluto darmi informazioni. So di avergli rovinato la vita per la seconda volta, ma non ho capito che cos’ho fatto, di preciso, in quella stanza, dopo che abbiamo fatto l’amore. Vorrei capire perché l’ho fatto piangere.
Per questo mi sembra assurdo trovarmi qui, adesso, nella cucina di casa mia, a tagliare verdure insieme a Fler, in attesa che l’Ersguterjunge tutta – al gran completo – si presenti a cena.
Una settimana dopo il mio incontro con Bill, cioè sette giorni di silenzio, con il Bild incollato al culo e David che ostinato non mi spiegava niente – Fler ha aggiunto pettegolezzo a pettegolezzo presentandosi a casa mia senza uno straccio di copertura. Io torno in vita e lui bussa alla porta di casa mia come niente. Come se non ci fossimo mandati a fanculo per anni. Bussa, saluta con la mano i paparazzi ed entra.
“Anis,” mi dice togliendosi il giubbotto e svaccandosi sul mio divano come lo avessi invitato a farlo, cosa che non ho fatto. E comunque non capisco nemmeno perché è qui. “Ho un’idea bellissima.”
“Ti rendi conto che chiunque ti ha visto entrare qua dentro?”
Lui annuisce.
“E non ti sembra strano?”
Lui mi guarda e ride divertito. “Più strano di te che torni dal regno dei morti? No, non direi,” commenta. “Dirò che volevo sincerarmi che fossi tu. In fondo sei un Atze, ti devo rispetto. E’ sempre stata una cosa così. Ora mi fai parlare?”
Sospiro e mi lascio andare seduto sulla poltrona, stavo scaricando i nervi sul sacco della palestra ma non è servito a granché. “Forza parla, allora. Quale idea?”
“Ci vuole,” mi dice sollevando il braccio per puntualizzare le sue parole. “Una cena.”
“Una cena?”
“Sì, per festeggiare il tuo ritorno,” spiega lui.
Ora che sono qui a tagliare verdure nella mia cucina - che non è la cucina della casa gialla perché qua è ancora tutto troppo un casino per poter recuperare la mia villa, ma lo farò, sia chiaro. Visto che rimango qui, voglio farlo nella mia casa – non ho idea del perché gli ho dato retta. L’ultima volta che ho visto Bill, mi ha mandato a fanculo. E gli altri non mi hanno ancora mai visto da vivo.
Come può una cena a casa mia essere auspicabile?
Fler però ne sembra convinto. L’ho messo a pelare patate, come ce lo mettevo quando di anni ne aveva quattordici, mia madre non c’era e lui veniva a stare da me. Anche da ragazzino sapevo che non si poteva vivere di solo kebab, quindi ogni tanto preparavamo qualcosa noi.
Io non amo cucinare e non sono nemmeno capace. Karima aveva preparato delle piccole guide per quando lei non c’era ed ero in casa da solo. Non ho mai capito come decifrarle. Nel corso dell’ultimo anno però, per forza di cose, ho imparato qualcosa. Certo avrei potuto vivere di take away ma non so quanto avrei resistito prima che mi si rivoltasse lo stomaco.
Così adesso sto cucinando. Io. Con Fler che pela patate per una cena che non ha senso.
“Sono arrivati,” esclama, saltando giù dallo sgabello e lasciando andare coltello e patate. “Vado ad aprire.”
Io ho quasi la tentazione di fermarlo. Mi sembra più sensato spedirli tutti quanti a cena fuori a spese mie che non farli accomodare nel soggiorno apparecchiato. Qualunque cosa io voglia, comunque, sono in ritardo per ottenerla. Fler ha già aperto la porta e sento la voce nasale di Eko che chiede cosa c’è per cena.
“Ora lo vedi,” risponde Fler.
“Hai cucinato tu?” Esclama Eko. E sembra inorridito, ma non in modo fastidioso. In quel modo che tu sai che sta scherzando anche se probabilmente fa la faccia schifata. E Fler ride di gusto. Mi rendo conto che non so esattamente cosa sia successo mentre ero via se Eko e Fler – Eko e Fler! – sono arrivati al punto di giocare così.
Sto ascoltando il casino che fanno nel corridoio. Parlano tutti insieme come ragazzine e io distinguo con esattezza ogni singola voce. Quella allegra di Kay, il suono basso e roco di Bizzy e quello ancora più basso e più roco di Chakuza che li sovrasta tutti anche quando sussurra. In mezzo ai miei ragazzi i saluti di Bill sono ancora più chiari e squillanti perché la sua voce viaggia su tutt’altro tono. Dietro di lui, la voce di suo fratello Tom – chi ha chiamato Tom? – e Cassandra.
“Lui dov’è?” Chiede Nyze.
“In cucina. I cappotti vanno nell’altra stanza,” risponde Fler. “Non c’è l’attaccapanni in questo buco.” Finisce di parlare mentre rientra in cucina. Ha la testa ancora rivolta verso il corridoio quando lo afferro. “Tom e Cassandra?” Chiedo. E mi rendo conto che i due nomi insieme suonano come … che ne so, David e Kitty Kat.
Fler fa un sorriso che sembra una smorfia, più che altro. “Nemmeno questa ti era arrivata, vero?”
“Questa cosa?”
“Sei vivo davvero.”
Cassandra parla gettandomisi addosso, quindi non posso chiedere delucidazioni a Fler perché sono troppo impegnato a non soffocarmi tra i riccioli di questa donna. “A quanto pare,” e mi concedo anche un sorriso fascinoso.
Lei mi osserva per qualche secondo, intensamente. “Stai bene?”
Io annuisco, intenerito. “Tutto intero.”
Cassandra mi tira una sberla disumana e finisco per frustarmi da solo con i capelli.
“Stronzo,” sibila.
“Ma sei impazzita?”
“E ringrazia che non te ne dia di più,” replica lei, mentre tutti gli altri ridono. Poi mi getta di nuovo le braccia al collo e mi stringe forte. “Ci sei mancato, cretino.”

*


La cena non è stata il disastro che doveva essere, anzi, a dirla tutta non è stata niente di particolarmente eclatante se si esclude che siamo uno sproposito intorno ad un tavolo inadatto allo scopo, in una stanza ancora più inadatta. Sembrano i pranzi a casa di Raf Camora quando c’è anche solo metà della sua famiglia. Italiani. Comunque sia, a parte la tensione sugli antipasti ed Eko che mi chiede di nuovo se le donne di Miami giocano con le noci di cocco – non so perché abbia questa fissazione. A me la sola idea inquieta – tutto è filato liscio.
Mi hanno fatto ogni genere di domanda ma sono stati tutti ben attenti a non chiedermi le motivazioni. Ho descritto Miami meglio di una guida turistica e per tutto il resto, Fler ha tenuto banco. Ancora mi stupisco che nessuno a quel tavolo abbia avuto da ridire sulla sua presenza. A quanto ho capito, fra una cosa e l’altra, passa il suo tempo libero all’Ersguterjunge. Eko lo chiama il Senzatetto e a volte di lui dice cose che non capisco, a differenza degli altri. Fler ha riso, lo ha mandato a fanculo. Ci sono battute che mi sfuggono e che nessuno spiega.
Bill ha sorriso un paio di volte, ma non a me. E non ho avuto il tempo e il modo di chiedergli come sistemare le cose o anche solo se vuole sistemarle. La distanza che ci separa da una parte all’altra del tavolo un po’ mi pesa ma direi che non posso pretendere niente. Mi rendo conto che sono tutti quanti andati avanti senza di me. Devo recuperare più di dodici mesi di vita, tra cazzate e cose serie e di certo non potevo sperare di aggiornarmi con una cena.
Mentre lo guardo senza rendermi conto di farlo, Bill si alza e inizia a radunare i piatti.
“Aspetta, Principessa,” lo chiama Eko. “Facciamo dopo.”
Bill sorride ed è incredibilmente adorabile. Ha addosso solo un paio di jeans e una maglietta ma, come al solito, splende lo stesso. “Non preoccuparti, non è un problema,” dice.
“Ti do una mano,” si offre Chakuza. E li vedo sparire entrambi in cucina.

*


Io ho pensato che questa potrebbe essere l’occasione buona per parlare un po’ con Bill, dal momento che non credo di potergli chiedere di fermarsi dopo cena. So che è venuto con Tom e Cassandra – e ancora non mi sono abituato a questi due. Tom deve rendermi conto – e so che il biondo non lo lascerebbe qui. So che Bill non vuole restare, quindi se voglio parlargli forse posso farlo adesso. Ho recuperato qualcosa da portare di là e mentre percorro il corridoio ho ancora addosso l’occhiata di Fler, una delle poche della mia vita che non ho capito.
In cucina, però, non ci entro nemmeno.
“… magari dovremmo parlarne,” Chakuza sussurra ma non può farlo davvero con quella voce. Le parole vibrano su frequenze assurde. “Non ti sembra?”
Io mi fermo appena fuori dalla porta perché il tono che sta usando e quello con cui Bill gli risponde, non mi piacciono affatto. C’è qualcosa che non va.
“Non so che cosa dirti, Peter.” Bill risponde altrettanto piano.
“Allora direi che abbiamo un problema.”
Sento la tensione nella stanza. E’ una cosa quasi fisica che riempie tutto lo spazio della cucina e mi arriva di riflesso. Sento Bill tendersi anche solo dal modo in cui inspira. “E’ complicato,” dice.
“No, Bill, non è affatto complicato,” protesta Chakuza. “Non è una notte, non sono due. Sono nove fottutissimi mesi.”
“Lo so.”
“E allora se lo sai forse sarebbe il caso di agire di conseguenza,” insiste Chakuza. Ne segue un silenzio di qualche istante e io non so se entrare. Chakuza decide per me. “Tu non vuoi dirglielo,” esclama alla fine, e lo sta evidentemente capendo adesso. “Tu non gli vuoi dire che stiamo insieme!”
“Non ho detto questo!” Bill alza la voce e dice anche qualcos’altro ma io non sento niente a parte il sangue che mi va alla testa. Non so cosa mi trattenga dall’entrare in cucina. Probabilmente il fatto che stanno parlando, che voglio capire. Che se devo ammazzare qualcuno voglio farlo con cognizione di causa. O forse, molto più probabilmente, mi trattiene il fatto che so perfettamente di non avere diritto su niente. Anche se Bill è mio.
“Allora dimmi cosa devo fare!”
“Dobbiamo parlarne adesso?” Bill ha alzato la voce, lo sento che si muove per la cucina. Sposta oggetti che tintinnano e mi chiedo se non sia il caso che me ne vada. Invece resto, appoggio la testa al muro e li ascolto.
“Sì dobbiamo parlarne adesso perché è una settimana che non ti fai sentire,” protesta Chakuza e sbatte i piatti così forte sul tavolo che non mi sorprenderebbe se li avesse rotti. “Quindi, visto che non rispondi al telefono e non ti fai trovare, sì, dobbiamo parlarne adesso.”
“Ho solo bisogno di tempo.”
“Per cosa?” Insiste Chakuza. “Per buttarti di nuovo tra le sue braccia come due settimane fa?”
“Io non…”
“No?” Chiede ironico. “Lo hai baciato e non ti sei nemmeno accorto che ero ancora lì.”
Stringo i pugni e non so nemmeno per quale dei mille motivi lo sto facendo. Odio il tono con cui lo sta trattando e odio che abbia ragione. Odio che Bill gli abbia dato un motivo per avere ragione. Odio che siano in questa cucina, che abbiano qualcosa da dirsi e che io non abbia una buona motivazione per incazzarmi, anche se lo sto facendo comunque.
“Peter…”
“Bill.” E’ ancora silenzio. E io vorrei vederli. Vorrei vedere Bill che non risponde e Chakuza, perché me lo immagino vicino a lui. “Non prendermi per il culo, okay?”
“Non lo sto facendo.”
“A me sembra di sì. Pensavo che ci fosse qualcosa a questo punto.”
“C’è qualcosa, “ sospira e rotea gli occhi. So che lo fa. “Peter c’è qualcosa. Lo sai. C’è molto più di qualcosa. E’ solo che… lui è Anis. Ed è vivo.”
“Quindi?” Chakuza lo incalza e lo so cosa sta facendo. Lo farei anche io. Bill tende a non parlare quando qualcosa di strano gli passa per il cervello, così è meglio tirarsele addosso le cose, farsele dire. “C’è qualcosa ma tanti saluti e grazie, Peter?”
“No!” Il primo è forte e chiaro, il secondo è dolce. “No. Ho solo bisogno di tempo, d’accordo? Peter, ascoltami. Peter! Devo .. devi lasciarmi il tempo di sistemare le cose. Non è facile, che tu ci creda o no.”
Chakuza è a due passi dalla porta, vedo l’ombra che attraversa la soglia. “E’ stato più facile farsi scopare, immagino.”
Io lo ammazzo.
“Spero che tu non stia pensando quello che credo.”
“Dimmelo tu cosa devo pensare, allora,” replica Chakuza. Tra un attimo lo vedrò spuntare dalla porta. Vedrò spuntare anche Bill, quindi mi sposto.
“Hai almeno una vaga idea di cosa significhi tutto questo per me?”
“Vorrei solo che ti rendessi conto che non puoi semplicemente fare finta che non esistiamo, cazzo!”
“Abbassa la voce,” la Principessa ha un tono autoritario. Un tono al quale anche Chakuza si piega. Il picco di tensione aumenta di botto, come un’ondata. E schifosamente elettrico, poi scema, esattamente come un’onda, sulla voce di Chakuza. “Bill…”
Bill sospira. “Non rendermi le cose più difficili, Peter,” mormora. “Sistemerò tutto. Solo…dammi il tempo.”
Vedo l’ombra della mano di Chakuza accarezzare la testa di Bill e non rimango abbastanza a lungo perché sul pavimento resti un’ombra soltanto. Lascio il vassoio sulla prima superficie disponibile. Fler m’incrocia sulle scale che portano al piano superiore ma qualunque cosa mi chieda non gli rispondo. “Manda via tutti,” dico. “Pensaci tu.”
In testa ho il vuoto perché mi rifiuto di pensare.
Mi rifiuto di vedere le cose come stanno, di accettare che neanche due settimane fa Bill è entrato in questa casa e non ha parlato, che abbiamo fatto l’amore e lui stava con Chakuza. Che Chakuza si è permesso di mettergli le mani addosso. Che io abbia sentito quei due parlare.
Fino a qualche minuto fa, niente di tutto questo era mai successo.
Ma ora che lo so, adesso che lo so io, allora è vero.

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