There Won't Be A Dry Eye In The House Tonight

di lisachan
Io ho la testa nascosta dentro il frigorifero, quando accade. Non ho neanche tempo di capirne un accidenti, in realtà, perché sto raschiando il fondo dei cassetti e dei ripiani per cercare qualcosa di commestibile da preparare per cena. Qualcosa che non sia riuscito ad evolversi fino allo stadio anfibio, almeno. Ci sono delle olive, in un barattolo. Cerco di ricordarmi se ho anche del sugo in bottiglia per fare po’ di pasta, ma poi guardo meglio le olive e sono quasi certo di vedere degli occhi, da qualche parte, perciò lascio perdere. Accanto a me, c’è la presenza costante di Daniel, che si aggira nei pressi della mia persona infastidendomi e giudicandomi. Ha le braccia incrociate sul petto, una delle quali ancora bendata e appesa al collo, in quanto slogata, e mi guarda con evidente pietà.
- Non c’è proprio niente, qua dentro, eh? – chiede disgustato, - Non so se hai presente che vita facevo io a casa mia, ma almeno il cibo non mancava mai.
- Adesso trovo qualcosa. – borbotto io, alzandomi in piedi e chiudendo lo sportello del frigorifero, che tanto è evidente che non ci troverò nulla. – Sto solo cercando nel posto sbagliato.
- Quale posto più sbagliato del frigorifero per cercare del cibo commestibile, d’altronde. – rotea gli occhi lui, seguendomi mentre mi sposto verso gli stipetti sopra il piano cottura e comincio ad aprirli tutti insieme, per poterne avere un quadro generale completo.
- Non tutta la roba da mangiare deve stare per forza conservata a quattro gradi centigradi. – gli faccio notare, aggrottando le sopracciglia. Scatolette di tonno! Ecco come vincerò questa battaglia. Mi sollevo sulle punte dei piedi per raggiungere le tre confezioni di tonno sott’olio stipate sull’ultimo ripiano in alto, pensando trionfante che, se il sugo al quale pensavo prima c’è davvero, nascosto da qualche parte in questa cucina, farò una pasta col tonno talmente buona che questo ragazzino impertinente piangerà di gioia, scusandosi per essere stato una piaga ed asservendosi al mio volere finché vivrà, acconsentendo a farsi buttare fuori da casa mia per non farsi mai più rivedere.
Stringo le scatolette fra le mani e rigiro la confezione per pura formalità. Non dovrebbe essere scaduto.
…e invece lo è.
Sento fisicamente il sopracciglio di Daniel inarcarsi sulla sua fronte, produce quasi un suono percettibile, come di unghie su una lavagna.
- Vedo che anche quelli conservati a temperatura ambiente non fanno una gran vita, da queste parti. – commenta, sporgendosi appena per prendere nota della scadenza che indica una data oggettivamente troppo lontana nel tempo per poter essere mascherata con un blando “va be’, tanto è ancora buono”.
- Senti, se tutto quello che intendi fare è girarmi intorno come un avvoltoio senza darmi neanche una mano d’aiuto, tornatene a poltrire sul divano! – sbotto offeso, lanciandogli un’occhiata infastidita. Dove diavolo è Fler quando mi serve? Perché non torna a casa e trascina questa piaga sociale a prendere un gelato o a sparare ai piccioni con una fionda o qualsiasi cosa facciano per divertirsi quando stanno insieme senza dover necessariamente spogliarsi nudi?
- Ti aiuterei anche, - sospira Daniel, inarcando le sopracciglia in quella che pare davvero un’espressione contrita e amareggiata, al punto che io spalanco gli occhi e lo fisso e mi sento perfino in colpa. Io. In colpa. Parliamone. – Ma purtroppo con questo braccio qui… - sospira ancora, indicando il braccino infermo con un breve gesto del capo.
Mi gratto nervosamente la nuca, distogliendo lo sguardo. Dannato ragazzino.
- Io—
- No, a ben pensarci – m’interrompe lui, arricciando le labbra in una smorfia riflessiva, - non ti aiuterei neanche se avessi il braccio sano, è vero. Preferisco romperti le palle girandoti intorno come un avvoltoio, sì.
- …Daniel! – tuono, mentre lui mi fissa inespressivo e tira fuori la lingua con aria saputa. Non ho il tempo di dirgli niente, o anche solo di organizzare ciò che vorrei dirgli, perché sento la chiave girare nella toppa e questo mi riporta improvvisamente alla realtà. Fler è tornato. – Alla buon’ora! – sbraito, le mani sui fianchi, - Ma si può sapere dov’eri finito?
Per un secondo gli occhi di Fler sono persi e confusi. È come se, fino ad un momento prima di arrivare, fosse preso da ben altri pensieri, molto più gravi e seri, e trovarsi di fronte me che legittimamente mi lagno delle pene che sto patendo fosse una possibilità che lui non aveva nemmeno preso in considerazione, perché troppo impegnato a pianificare chissà cos’altro. È una luce diversa che gli illumina gli occhi e getta ombre scure e misteriose sul resto del suo viso e sulla sua espressione, ma dura solo un attimo. Lo osservo sorridere ironicamente, mentre posa le chiavi sulla consolle e si chiude la porta alle spalle.
- Forse non te lo ricordi, ma io non vivo qui. – mi fa presente, - Per cui queste tue proteste mi sembrano decisamente fuori luogo.
- Fuori luogo, sì. – concordo aggrottando le sopracciglia, - Esattamente come la presenza del tuo amante in casa mia. Mi spieghi perché deve vivere qui?
- Guarda che sono a due centimetri da te e non sono il suo amante. – mi ricorda Daniel, incrociando nuovamente le braccia sul petto da qualche parte alla mia sinistra. – Anche se posso diventarlo, se proprio ci tieni.
- Preferiresti che vivesse nel mio appartamento e potessi sgattaiolare lì ogni volta che voglio per incontrarlo di nascosto mentre tu non guardi? – mi chiede Fler, lanciandomi un’occhiata divertita.
- Io preferirei! – ammette Daniel, sollevando il braccio sano con enfasi.
- Tu resti qui. – ringhio io, allungandomi a recuperare il cucchiaio di legno sul tavolo e tirandogli una cucchiaiata sulla testa.
- Ahi! – si lagna lui, massaggiando il punto dolente e perdendo una mano in quella enorme matassa di capelli biondi che continua a crescere inesorabilmente in sfregio palese alla mia persona, - Potrei denunciarti per maltrattamenti, sai? – mi minaccia, facendomi un’altra linguaccia. Io roteo gli occhi, lasciandolo perdere, e torno a cercare Fler con lo sguardo, ma lui è sparito.
- Fler? – lo chiamo, aggirando l’isola ed incamminandomi per il corridoio, raggiungendolo in camera da letto ed osservandolo infilarsi velocemente una maglietta pulita e la giacca subito sopra, - Che diamine stai facendo?
Lui sistema il colletto della giacca, distogliendo lo sguardo.
- Siete a posto qui, no? – chiede, ignorando platealmente la mia domanda, - Non vi serve niente?
- …no, non ci— Fler, che succede? – gli chiedo con insistenza, avvicinandomi di un passo. Lui forza un sorriso, tornando finalmente a guardarmi negli occhi.
- Ho un affare da sbrigare. – dice, prima di aggirarmi ed imboccare il corridoio.
- Fler! – lo inseguo io, fermandomi subito quando vado quasi a sbattergli contro, - Ma che diamine…? – borbotto, sporgendomi a guardare oltre il suo corpo. C’è Daniel, immobile davanti a lui, che lo guarda con curiosità evidente.
- Dove vai? – gli chiede. Fler non risponde subito.
- Ho un affare da sbrigare. – ripete poi, reggendo il suo sguardo. L’espressione tranquilla di Daniel resta tale ancora per qualche secondo, prima di incrinarsi all’improvviso.
- No. – dice a fatica, muovendo un passo verso di lui, - Fler—
Ma lui non lo ascolta, evitando il suo corpo e dirigendosi speditamente verso la porta. Io li guardo e non capisco niente. Guardo gli occhi di Fler, due macchie azzurre perfettamente serene, tranquille, concentrate, perse nel mare scomposto dei suoi lineamenti contratti e preoccupati. E non ci capisco niente.
- Farò tardi, stanotte. – dice, la sua voce è lontanissima. – Non aspettatemi svegli.
Scompare oltre la porta il minuto successivo, e io non ho ancora idea di cosa sia successo.
- Che…? – azzardo, lanciando un’occhiata incerta a Daniel. Lui si volta a guardarmi, smettendo finalmente di fissare la porta chiusa con l’espressione di uno che sta aspettando di scoppiare a piangere da un momento all’altro. Stringe le labbra e trattiene il respiro, e quando sembra che stia per dirmi qualcosa, invece non mi dice niente.
- No. – balbetta incerto, prima di andare a rinchiudersi nella prima stanza disponibile. Che poi è anche l’unica. Camera mia.
Si fa vivo solo verso ora di cena. Io esco a far la spesa nel primo pomeriggio e poi passo non so quanto tempo dietro ai fornelli, mi distraggo come posso, cucino per un esercito, e quando lui esce dalla stanza, tutto stropicciato e teso e con gli occhi talmente rossi che, se non sapessi che ha pianto, gli ordinerei un test antidroga immediatamente, entra in cucina strascicando i piedi e grattandosi la testa e si ferma sulla soglia, osservando lo spettacolo dell’isola apparecchiata e piena di cibo mentre io mi ci agito intorno, sistemando ogni cosa con maniacalità quasi patologica.
- Ehi. – gli sorrido nervosamente, - Ti sei svegliato. Ho preparato qualcosina da mangiare.
- …noto. – commenta lui, la voce impastata e un po’ rauca. – Non si è fatto sentire, vero? – domanda timorosamente, rifiutandosi di incontrare il mio sguardo.
- No. – rispondo io, scostando uno sgabello e battendo un paio di volte il palmo della mano contro la seduta, per invitarlo ad accomodarsi. Vorrei chiedergli se sa davvero dove Fler sia andato, o cosa sia andato a fare, ma è evidente che Daniel non vuole parlarne, e forse, se è una cosa di cui Daniel non vuole parlare, ci sono alte probabilità che sia anche una cosa che io non voglio sentire. Per questo motivo, cerco di sorridergli e mi seggo sullo sgabello al suo fianco. – Non pensarci, ora. – scuoto il capo, sollevando l’insalatiera e servendogli una consistente porzione di broccoletti lessi, - mangia la tua cena. Quelli per Fler li ho già messi da parte, mangerà quando sarà tornato.
Lui osserva la verdura con aria allucinata, punzecchiandola con la forchetta per qualche secondo prima di decidersi a lasciarla stare e tornare a guardare me.
- Chakuza, tu mi odi molto? – chiede quindi, ed a me va un broccoletto di traverso. Strabuzzo gli occhi, tossisco con forza, mando giù un’abbondante sorsata d’acqua e mi pulisco col tovagliolo, prima di schiarirmi la voce e ricambiare la sua occhiata serena con una colma di sconcerto.
- Come, scusa? – chiedo a mia volta, inarcando le sopracciglia, - Guarda che i broccoli ti fanno bene. Tu sei troppo magro per quanto sei alto, non è che sto cercando di avvelenarti. – borbotto risentito. Lui ride, e la sua risata è completamente diversa da quelle che gli ho sempre sentito addosso quando si trattava di ridere di me. È una risata dimessa, un po’ triste. Mi stringe il cuore, credo, se questo senso di colpa assolutamente immotivato che mi prende quando lo vedo meno che contento può essere paragonato a un’espressione simile. Il mio rapporto con Daniel, in questo senso, è un po’ confuso. Mi arrabbio quando è felice, perché il più delle volte lo è solo quando può stare appiccicato a Fler. Ma sono triste quando non lo è, perché il più delle volte non lo è solo quando deve stargli lontano.
- Non sto parlando dei broccoli. – si stringe nelle spalle, seguendo con la punta di un dito i disegni quadrettati della tovaglia, - Stavo solo pensando che… non lo so. – ride ancora, cambiando lievemente posizione come se stesse scomodo, - Posso riuscire a capire perché Fler mi tiene ancora con sé. Ma tu? Tu dovresti odiarmi. Credo.
Mando giù ancora un po’ d’acqua, inspirando profondamente.
- L’odio è un sentimento enorme, Daniel. – gli spiego, - Troppo enorme, e troppo sporco, ingestibile. Odiare qualcuno ti porta via pezzi di te stesso, pezzi che cedi alla rabbia, al risentimento, all’invidia, al desiderio di vendetta e chissà cos’altro. – sospiro, scrollando le spalle, - Io non ragiono in questi termini. Tutto sommato, io ho una bella vita. Sono un uomo felice. Sono stato triste, in passato, ed ho provato del risentimento verso qualcuno, ma non ho mai lasciato che questi cattivi sentimenti prendessero il controllo su di me e si trasformassero in odio. L’odio non ti porta da nessuna parte, se non ad altro odio. Non è un modo saggio di vivere la propria vita. Chiunque possa dire di essere felice, difficilmente può odiare. O almeno così penso io. – concludo distogliendo lo sguardo.
Daniel annuisce lentamente, gli occhi azzurri persi su qualcosa che non riesco a identificare. Sono così simili a quelli di Fler… non solo per il colore. È qualcosa di più intimo, di più profondo. E forse capisco cos’è quando Daniel schiude le labbra e parla, poco dopo.
- Io non devo essere granché felice, allora. – dice piano, - Perché odio mio padre. Lo odio così tanto che ho sognato non so quante volte di trovarmi da solo con lui immobilizzato da qualche parte, per poterlo prendere a pugni e calci fino a lasciargli addosso gli stessi segni che lui ha lasciato a me. E allo stesso tempo… - lascia andare un sospiro che è quasi un gemito, mentre appoggia entrambi i gomiti al tavolo, come non riuscisse più a reggersi dritto sullo sgabello con le sue sole forze, - Allo stesso tempo penso che anche mio padre non dev’essere granché felice, se odia se stesso al punto da farsi ciò che si fa, ed odia me al punto da picchiarmi da prima di quanto riesca a ricordare.
Intreccio le dita sul tavolo, inumidendomi le labbra mentre cerco le parole migliori per continuare. Che è una cosa che io non faccio mai, voglio dire, io che cerco di filtrare i pensieri e non mi butto subito sul primo che mi passa per la mente per esprimerlo esattamente com’è stato formulato negli anfratti oscuri del mio cervello? Sono così fuori dal personaggio che quasi mi denuncerei da solo. Ma ho qui davanti un ragazzino di una fragilità impossibile, che poi è la cosa che ho capito e che accomuna lui e Fler. Possono essere incredibilmente forti, hanno entrambi corazze infrangibili che sanno usare bene, ma scavalcando quelle, il loro nucleo è rimasto morbido e vulnerabile. Solo a scorgerlo ti metti paura per quello che potresti fare toccandolo male.
- Io credo che sia Tempelhof. – dico a bassa voce, annuendo con convinzione, - Avvelena le persone. Pensa a me, ci ho messo piede due ore e quasi ne uscivo con più buchi di una forma di groviera! – sdrammatizzo scrollando le spalle e gesticolando, e pregando Dio che me la mandi buona, e lui fortunatamente lo fa, perché Daniel lascia andare una mezza risata un attimino più sentita di tutte quelle che ha fatto da quando ci siamo seduti qua a discutere di vita, morte e botte nel ghetto, tutte cose di cui assolutamente non mi va di parlare nemmeno quando sono tranquillo e sereno, figurarsi quando ho un uomo disperso nella notte di Berlino e non so neppure se tornerà a casa tutto intero, e io posso tirare un sospiro di sollievo.
- Può darsi. – conclude, alzandosi in piedi, - In ogni caso, dubito che avrà importanza, da ora in poi. – aggiunge in un mezzo sussurro, e poi torna a sorridermi, sollevando lo sguardo su di me. – Senti, non ho molta fame, - confessa stentatamente, - però questi broccoletti vorrei mangiarli, domani. Me li conservi?
Annuisco, alzandomi a mia volta e svuotando entrambi i nostri piatti ancora praticamente pieni nell’insalatiera. I broccoletti che avevo distribuito tornano a fare compagnia ai loro fratelli mentre Daniel esce dalla cucina e scompare dalla mia vista. Io ripongo tutto in frigo e penso che, quando Fler sarà tornato a casa, lo ingozzerò al punto da impedirgli di avere fame per tutto il resto della settimana. Così, solo perché posso.
Quando finisco di rassettare, vado verso il divano convinto di trovarci sopra Daniel che guarda la tv, e sono così ben disposto nei suoi confronti che faccio per chiedergli se non lo vuole lui, il letto, magari solo per stanotte. Ma non faccio in tempo, perché lo trovo che già dorme profondamente, steso per lungo sul divano e coi piedi che penzolano oltre il bracciolo, sfiorando quello della poltrona lì accanto. Sorrido appena, tornando in cucina e stabilendo di far passare un po’ il tempo lavando i piatti e sistemando roba che non avrei mai pensato di mettermi a sistemare in una situazione normale, tipo le confezioni di cibo in scatola negli stipetti, o la collezione di spezie sulla mensola sopra il piano cottura.
Finisco che la mezzanotte è già passata da un pezzo, ma di Fler ancora non c’è traccia. Sospiro e recupero il cellulare, provo a chiamarlo e sento squillare la suoneria da qualche parte in camera da letto. È così raro che Fler non porti con sé il telefono che inizialmente faccio fatica a credere a ciò che sentono le mie orecchie. Vado fino in camera e vedo il cellulare che squilla e vibra leggermente sul comodino, e solo allora, di fronte alla prova visiva, mi rassegno, e chiudo la chiamata. Mi lascio andare seduto sul letto, chiedendomi cosa dovrei fare. Quando sono sparito io, Fler ha quasi rivoltato la città per ritrovarmi. Ma io non sarei capace di farlo, perciò mi limito ad aspettarlo. Mi stendo sul letto, dal suo lato, che è una cosa che non faccio quasi mai, ma oggi sì. Oggi anche un po’ chi se ne frega delle cose che non faccio quasi mai.
Mi accorgo di essermi addormentato solo quando mi sveglio, non so quante ore dopo. La notte è ancora buia fuori dalla finestra, ma vedo il profilo di Fler seduto sul bordo del letto. Mi dà le spalle ed è curvo e silenzioso come non l’ho mai visto. Sembra abbattuto, ed è una cosa che mi stringe il cuore.
- Fler…? – lo chiamo, la voce impastata dal sonno, mentre mi sollevo sui gomiti. Lui non si muove, e in realtà non dà neanche l’impressione di avermi sentito. Resta lì, immobile come una statua di sale. Lo sento respirare, ma è un soffio lievissimo, che non ha la minima ripercussione sul suo corpo. Non gli gonfia il petto, non gli scuote le spalle, mi chiedo se sia sufficiente da tenerlo in vita.
Mi raddrizzo meglio e striscio sul materasso fino a lui, sporgendomi oltre la linea curva delle sue spalle per lanciargli un’occhiata allarmata. C’è qualcosa di strano nella sua figura, forse nei suoi abiti, ma è buio e non riesco a vederlo bene.
- Fler? – lo chiamo ancora, più decisamente. Lui continua a non muoversi, guarda fisso di fronte a sé. Il suo profilo, nel buio, cambia forma solo per un secondo, quando si inumidisce le labbra. Le accarezza con la lingua in un gesto sbrigativo, che si esaurisce subito dopo quando la ritrae, con tanta velocità da dare l’impressione di essersi lasciato impressionare dal suo stesso sapore, per quanto questa cosa possa suonare assurda. – Non ti va di parlare? – domando. Lui naturalmente non risponde. Io sospiro. Sono arrabbiato, mi dà fastidio che continui a restare in silenzio anche se è evidente che sono preoccupato e mi basterebbe una sua mezza parola per tranquillizzarmi e tornare a dormire sereno, ma decido di non lasciarmi sopraffare dalla rabbia, e scrollo le spalle. – D’accordo, - annuisco, - va bene se non ti va di parlare. Almeno vieni a letto e riposati. Non so che ore sono ma dev’essere tardi. – suggerisco, e nello stesso momento torno a strisciare verso l’altra metà del letto, che poi è sempre la sua ma per stanotte ho deciso che è mia, che lui dorma al mio fianco o no.
È in quel momento che lui si muove. Il suo braccio si allunga lentamente nell’oscurità della stanza, ombra nera profondissima sullo sfondo dell’ombra appena più chiara della parete di fronte, illuminata fiocamente dalla luce azzurrognola della notte, e le sue dita si chiudono attorno all’interruttore dell’abat-jour, accendendolo. La stanza viene investita dalla luce gialla e calda della lampadina, e così il suo corpo. Un corpo a chiazze, come quello di un dalmata. Solo che le macchie che lo ricoprono sono rosse e scure e dense come sangue. Sono sangue.
- Fler! – lo chiamo, tornandogli vicino e mettendogli subito le mani addosso. Getto le gambe giù dal letto e, seduto sulla sponda accanto a lui, lo giro e lo rigiro per controllare da dove venga tutto quel sangue. La sua espressione, però, non sembra addolorata. O meglio, lo sembra, ma non come se fosse ferito. Il dolore nei suoi occhi è di quelli sfuggenti che non lasciano cicatrici visibili sulla pelle. Su di lui, ormai sono abituato a riconoscerlo. – Fler, cos’è successo?
- Non è mio. – dice lui. Sono le prime parole che gli sfuggono alle labbra da quando ho riaperto gli occhi. Escono fuori ruvide, incerte, mi sembra di vederle muoversi a tentoni, infastidite dalla luce, per correre a rifugiarsi nei coni d’ombra degli angoli della stanza. – Il sangue. – precisa dopo aver brevemente tirato su col naso, - Non è mio.
- Hai fatto a botte? – domando aggrottando le sopracciglia. Lui abbassa lo sguardo sulle sue mani. Sono abbandonate in grembo, sporche di sangue incrostato.
- Sono entrato in casa sua. – mi dice, e io mi paralizzo. Mi si ghiaccia l’aria nei polmoni, il sangue nelle vene, la saliva sulla lingua. Lo fisso con orrore e vorrei trovare abbastanza voce per dirgli che non voglio saperne niente, ma resto in silenzio. – Lui dormiva. – prosegue, - Era talmente ubriaco che non si era accorto di avere vomitato, nel sonno, o se se n’era accorto se n’era fregato, ed era rimasto lì immerso nel suo vomito a dormire e russare. Non puoi immaginarti lo schifo di doverlo toccare, Chaku.
- Fler—
- Sono sceso di sotto e sono andato in cucina, - continua lui, come se non mi avesse sentito, - e ho cercato un bicchiere pulito. L’ho cercato a lungo, - ride amaramente, - ma alla fine l’ho trovato, e l’ho riempito d’acqua. Allora sono tornato di sopra, in camera da letto. L’ho afferrato e l’ho ribaltato sul materasso, supino. E poi gli ho gettato l’acqua in faccia perché volevo che fosse cosciente, Chaku. Capito? Volevo che fosse sveglio e che sapesse quello che gli stava succedendo.
- …Fler, - deglutisco a fatica io, togliendogli le mani di dosso e lasciandomele ricadere inerti in grembo, - di chi stai parlando?
Lui mi guarda a lungo, e alla fine decide di non rispondermi. Non so se lo faccia perché vuole proteggermi o perché ritiene la domanda così stupida, e la risposta così ovvia, da non doverla nemmeno prendere in considerazione. Fatto sta che non dice niente, ma in qualche modo, in quel momento, nella luce grave dei suoi occhi io ritrovo il silenzio triste e spaurito di Daniel, e tutto prende senso.
- Si è svegliato con un grugnito animalesco. – riprende, tornando ad abbassare lo sguardo, - E io mi sono detto “questo non è un uomo, questo è una bestia”. Non so perché l’ho pensato, forse perché così era più facile. – scrolla le spalle, - Gli ho stretto le mani intorno al collo, ma volevo solo tramortirlo e fargli paura. Non volevo ammazzarlo in quel modo, sarebbe stato gentile. Lo sai cosa ti succede quando soffochi? – si volta a guardarmi, i suoi occhi traboccano di qualcosa di tenero e infantile che mi dà i brividi. – È dolce, - spiega a bassa voce, - l’aria si esaurisce poco a poco ed è come addormentarsi, in un certo senso. Certo, naturalmente è più violento, - dice, lasciandosi sfuggire una mezza risata nervosa che stride fastidiosamente nel silenzio della stanza, spezzato solo dalla sua voce, - però è tranquillo. Otello, ce l’hai presente Otello? Io non ho studiato granché, a scuola, ma mia madre adorava Shakespeare, da piccolo me ne riempiva le orecchie. Ecco, Otello, quando fa fuori Desdemona, la soffoca. Perché la ama, e sa che così soffrirà meno che con un coltello in pancia. – sorride appena, in uno sbuffo di fiato esausto. – Io non volevo che fosse dolce. Volevo che facesse male.
Deglutisco ancora, e poi un’altra volta quando mi rendo conto che il blocco che sento all’altezza della gola semplicemente non viene giù. Mi rassegno, passandomi una mano sugli occhi, e quando parlo ancora è solo per dire quello che avrei dovuto dire fin dall’inizio, la domanda che Fler sta aspettando da quando mi sono svegliato, quella alla quale continua a rispondere senza che io l’abbia ancora posta, ma che lui vuole comunque sentirsi dire.
- Fler, che hai fatto? – chiedo a bassa voce, un sussurro appena udibile. Fler mi riversa addosso una cascata di parole senza freno, e suppongo che non gli importasse nemmeno di sentire la mia voce pronunciare quelle parole, voleva semplicemente sapere che avevo capito bene cosa mi stava raccontando, perché finché fingevo di non averne idea lui semplicemente non poteva dirmi tutto.
- L’ho tenuto in piedi, era pesante ma sembrava leggerissimo. Mi guardava ed era spaventato, così spaventato. L’ho picchiato per ore, non lo so… per giorni. – faccio per dirgli che è stato via molto meno di una giornata, ma lui riprende subito a parlare. – Era irriconoscibile appena ho finito, una maschera di sangue. L’ho lasciato cadere a terra quando ha perso i sensi, ma ho continuato a pestarlo anche se non reagiva più, non solo non cercava di difendersi, ma non riusciva nemmeno a gemere di dolore, che ne so, darmi un segno di vita. Me ne sono fregato. Mi sono messo dritto e l’ho guardato, gli ho sputato in faccia e poi gli ho schiacciato la testa sotto il piede. – si interrompe e spalanca gli occhi, fissando la parete mentre io, rigido come un blocco di marmo, fatico a tenere a freno i conati. Ha usato un’espressione che con gli esseri umani non ha niente a che fare. Tu schiacci gli scarafaggi, i ragni, le formiche, i topi al massimo. Non le persone. – Gli ho schiacciato la testa. – ripete, sottolineando l’espressione. Ho pestato e pestato e pestato finché non ho sentito che si rompeva e la scarpa affondava nel— Cristo. – si piega su se stesso, nascondendo il volto fra le mani, e io sono così paralizzato che ho paura di muovermi, perché sono teso e potrei anche andare in pezzi, ma quando lo vedo incurvarsi in quel modo mi sporgo verso di lui, perdo l’equilibrio, gli cado addosso ma in qualche modo riesco a tenermi su, lo stringo e lo sento sciogliersi in una marea di singhiozzi fra le mie braccia, mentre piange e si lamenta come un bambino e trema come una foglia e io non so, non ho minimamente idea di come dovrei risolvere questa situazione.
- Che cosa pensi di fare? – chiedo dondolandolo un po’, e lui, fra le lacrime, si lascia sfuggire una risatina isterica.
- Non ne ho idea. – risponde, stringendosi nelle spalle, - Non è che il bastardo mancherà a qualcuno, perciò non credo di correre rischi… - spiega, mentre io mi sento ghiacciare di nuovo il sangue nelle vene, - però dovrò fare pulizia. – sospira, - Non lo so, domani chiamerò Sonny e vedremo cosa— - si interrompe all’improvviso, scuotendo il capo, - Chiamerò Bushido, - si corregge, - e vedremo cosa fare. – si ferma ancora per qualche istante, inspirando ed espirando un po’ a fatica. – Scusa. – dice quindi, - Sto parlando nella lingua di un altro mondo.
Mi scosto appena, tornando a sedermi al suo fianco ma lasciandogli una mano sulla spalla. Le sue guance sono ancora rigate di lacrime, ma i suoi occhi, per quanto arrossati, sono asciutti.
- È il tuo mondo. – accenno, rafforzando la presa sulla sua spalla. Lui scuote il capo.
- No, è questo il guaio. – sussurra, - Non è il mio mondo, non più, almeno, e io non posso fingere che uccidere una persona adesso sia uguale ad ucciderla sei o sette anni fa.
Mi inumidisco le labbra, deglutendo a fatica.
- L’avevi già fatto? – chiedo senza fiato. Lui si volta a guardarmi e schiude le labbra, ma le serra subito dopo, scuotendo il capo.
- Ho bisogno di dormire un po’, Chaku. – dice piano, forzando un sorriso stanco che sembra più una ferita, - Ti dispiace se mi metto giù qualche ora?
- No… - rispondo io, - Certo che no. – mi alzo in piedi, lasciandogli spazio e rimboccandogli le coperte appena si distende, appoggiando il capo al cuscino con un sospiro stremato e chiudendo immediatamente gli occhi. Lo osservo un po’ restando in piedi accanto al letto mentre ascolto il suo sospiro tranquillizzarsi piano piano, e poi spengo la luce. Non ho più sonno, se mai l’ho avuto. Esco dalla stanza e mi basta fare un passo in corridoio per sentire il pianto soffocato di Daniel.
Mi affaccio dalla porta e lancio un’occhiata al divano. Sotto il mucchio di coperte che vedo c’è Daniel che affonda il viso nel cuscino. Lui e Fler hanno perfino lo stesso modo di piangere, è inquietante. Suppongo che, quando cresci in un posto che non ti permette di farlo quando ne hai bisogno, ad un certo punto piangere diventa un po’ come esplodere. Ti trattieni finché puoi, ma arrivi ad un punto in cui devi lasciarti andare per forza, e non può essere una cosa silenziosa.
- Danny. – mormoro avvicinandomi.
- Sto bene. – mi ferma immediatamente lui, nascondendosi sotto la coperta così che non possa vedere il suo viso, - Resta lì. Sto bene, è solo un momento. Ora passa.
Inspiro ed espiro, scuotendo il capo. Mi avvicino lo stesso, posando una mano sullo schienale del divano e sporgendomi appena verso di lui.
- Senti, - dico, - io non ho sonno. Pensavo di prendere un po’ di gelato e guardare un film, se non hai sonno nemmeno tu. Ma se vuoi dormire me ne torno in camera.
Lui singhiozza ancora per qualche secondo e poi si arrischia a tirare il naso fuori dal groviglio di coperte in cui s’è annodato. È paonazzo e gonfio e un po’ screpolato. Chissà da quanto piange. Probabilmente da quando Fler è rientrato.
- Che film? – mi chiede incerto, - E il gelato a che gusto?
Io cerco di sorridere.
- Puoi scegliere tu entrambe le cose. – rispondo stringendomi nelle spalle.
Daniel esita ancora un paio di secondi, ma alla fine viene fuori, si mette in piedi e mi segue in cucina. Anche i suoi occhi si asciugano subito, ed anche le sue guance, invece, restano bagnate. E mentre lo osservo riempirsi una coppa di gelato alla nocciola e poi trascinarsi nuovamente di là per mettere mano alla colonna di dvd accanto al televisore, capisco che questo ragazzino ha smesso di essere un problema solo di Fler, ed è diventato un problema anche mio.

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