Missing

di tabata
Io non so come sia stato possibile che io e David, mentre pianificavamo la mia definitiva scomparsa da questo pianeta, abbiamo scelto Miami come luogo in cui farmi sparire.
Non so neanche a chi dei due precisamente sia venuta l’idea. Deve essere stata sua comunque perché mi rendo conto adesso che, se in quel momento fossi stato abbastanza lucido da fermarlo, di certo lo avrei fatto. Valutando tutte le possibili mete, David deve aver pensato che Miami fosse un buon modo per consolarmi della perdita di Berlino, della mia Principessa e – in generale – di trent’anni della mia vita; e, tutto sommato, che fosse anche un buon posto dove ricominciare: belle spiagge, belle donne e, tendenzialmente, la libertà di fare quello che volevo sotto forma di miliardi in dollari americani.
A leggerlo così, questo trasferimento suona più che promettente. Il problema è che a pensarci soltanto un po’ di più, diciamo se David – o anche io – avesse avuto quel po’ di tempo in più per decidere che cosa fare e dove farlo invece di dover scegliere un’opzione fra mille nello spazio di dieci minuti, stando ben attento a non svelare alle persone in sala d’aspetto che ero vivo e non morto come mi piangevano, allora forse anche David si sarebbe accorto che Miami non era affatto la scelta giusta.
Miami non è la città per me, non è la città di uno che viene da Berlino e ama Berlino come la amo io. Non lo è soprattutto il ventitré dicembre, quando sulla mia veranda ci sono trentadue gradi e sono costretto a girare in bermuda e infradito. Tanto per darvi un’idea, mancano due giorni a Natale e gli unici Babbo Natale che vedo agli angoli delle strade sono modelle taglia 42 vestite in bikini. Ora io apprezzo moltissimo le donne seminude e abbronzate, ma il natale scorso c’erano quattro metri di neve nel giardino di casa mia, giravo per strada con un cappotto di montone e nel mio negozio a Dircksenstrasse si vendevano lunghe sciarpe grigio in misto lana con sopra il mio nome. A Natale, per quanto mi riguarda, si sta davanti al caminetto acceso, non in veranda a sudare con un Tequila Sunrise in mano. A Natale fa freddo. Punto. Dovrebbe esserci una qualche legge universale a stabilirlo.
Quando David ha chiamato stamattina – chiama ogni mattina alle dieci spaccate – e gliel’ho detto, lui si è messo a ridere e mi ha risposto che confidava nella mia straordinaria capacità di adattamento e sopravvivenza – testata in vent’anni di vita nel ghetto – per sopportare una vita di stenti su una spiaggia privata da quindicimila dollari. L’ho mandato a fanculo.
In realtà non ho alcun motivo per interessarmi a questa festa. Nessuno a cui fare regali, nessuno che me ne faccia. Dubito fortemente che Conrad si presenterà a casa mia con un pacchetto ben avvolto in carta e porporina, o che se lo aspetti da me. E, considerando che alla domanda di David: “Che cosa vuoi per Natale?” Ho risposto “Templehof” e ne sono seguiti dieci minuti di gelo, immagino che anche lui lascerà perdere l’argomento. Quindi che ci sia il sole, la pioggia o il vento, dovrei poter scrollare le spalle e andare avanti – o meglio fingere di farlo – come ho fatto negli ultimi sei mesi.
La telefonata è andata avanti come proseguono tutte le nostre telefonate, con lui che mi spara una raffica di notizie inutili dietro l’altra per stordirmi e io che lo ascolto una volta su due.
Poi gli ho chiesto come andassero le cose e lui ha accuratamente evitato di scendere nel dettaglio, rifilandomi le tre o quattro cazzate che di solito mi rifila quando faccio questa domanda.
Stanno tutti bene, nessun problema. Stiamo decidendo le date del nuovo tour, ma lo sai no? Sì, lo so, ma non certo perché me lo dice lui. Lo so perché su internet posso recuperare qualunque tipo di informazione. Se i Tokio Hotel fossero un gruppo serio, questo non sarebbe sufficiente a tenermi informato su di loro – su Bill, diciamo – ma essendo il gruppo che sono, viene rilasciata ogni tipo di indiscrezione quindi, se ho voglia e tempo di cercare, spesso so perfino che cos’ha mangiato prima di un concerto. E dal momento che io lo so quello che mangia e non mangia, quello che dice e non dice, so anche distinguere le notizie vere da quelle false, anche se le prime magari sembrano troppo assurde per essere la verità.
Sono le due e mezza del pomeriggio, e io sono in ferie. Da che mi sono svegliato stamattina – un’alba d’afa tremenda, con tre o quattro ragazzini rosolati al sole come costine di maiale che già a quell’ora pattinavano sui rollerblade lungo il vialetto infinito che passa a due metri da casa mia – ho già bevuto più di quanto mi sia consentito e calcolando che non ho nessuna voglia di farmi un giro, né di vedere lo stuolo di artisti di strada che infestano le spiagge e che attirano quintali di turisti con le macchine fotografiche, tanto vale che apra di nuovo il portatile e cerchi quello che David non mi ha detto.
Questo computer, come tutto ciò che possiedo adesso, è ovviamente nuovo ed è così costoso e all’avanguardia che, mentre lo accendo e lui lampeggia informandomi in pochi secondi che non ho nuovi messaggi, ci sono dei nuovi feed rss ed esistono nuovi aggiornamenti, ancora mi stupisco di non trovarlo che mi prepara il caffè quando mi sveglio al mattino.
Non so cosa sia stato del mio vecchio portatile – David non poteva farlo sparire, quindi suppongo lo abbia ripulito e consegnato a mia madre, così che piangesse pure su quello, povera donna – ma ero qui da nemmeno due giorni quando l’UPS me ne ha consegnato uno nuovo di zecca. Mittente: David Jost.
Quando ho alzato la cornetta per protestare per il portatile nuovo che potevo pure comprare da solo e per il fatto che in quello vecchio avevo tutti i miei dati, Cristo, le foto, ogni cosa, David mi ha detto soltanto: “Guardaci dentro.”
E dentro c’era tutto, fino all’ultimo salvataggio di World of Warcraft.
C’erano perfino le fotografie di Bill, che pensavo avrebbe fatto sparire subito. Queste sono foto di lui che non ha nessuno, perché gliele abbiamo fatte noi. Gliele ho fatte io a casa mia, divertendomi a prenderlo di sorpresa, struccato e spettinato, che si arrabbiava da morire; e gliel’hanno fatte i ragazzi all’Ersguterjunge, quando alla fine si erano abituati ad averlo intorno. Ce ne sono un paio che Eko gli ha fatto mentre era casualmente vicino a Saad che mi fanno sempre ridere perché mio cugino sembra un avvoltoio, sempre incazzato. Apro questa cartella di foto ogni giorni e scopro che guardarle non è più facile di quanto lo fosse il giorno prima. Questo mi consola, credo. Non so se sopporterei di percepire che il tempo sta davvero curando ogni cosa. E’ troppo presto. Credo che l’essere umano, per superare il dolore, debba prima lasciarsi avvolgere, affondare e soffocare prima di poterne uscire. E io sto ancora nuotando verso il fondo.
Scorro velocemente le ultime pagine dei forum. Ci sono ancora notizie vecchie di tre giorni fa e qualche apparizione della band ad alcuni discutibili programmi musicali. Ho visto tutte le registrazioni: Bill non sta affatto bene come me lo dipinge David, anzi. E’ stanco e non ha nemmeno un decimo della grinta che aveva prima. Ci sono volte in cui sembra non sforzarsi nemmeno di fingere di cantare dal vivo. E’ uno spaventapasseri appeso all’asta di un microfono e se lo trascinano in giro come se fosse una bambola di pezza. Mi rendo conto che per il nostro ambiente non ha alcuna importanza se io sono morto e lui vorrebbe probabilmente fare altrettanto e che lo spettacolo deve continuare indipendentemente dai suoi sentimenti, per questo non dico niente, perché so che David ha le mani legate e so che il massimo che può fare lo starà già sicuramente facendo; questo però non m’impedisce di desiderarlo lontano dal palco per un po’. Quando sorride non è sincero e se il cuore che gli ho spezzato proprio non si può riparare, vorrei che almeno gli dessero il tempo per raccogliere tutti i pezzi.
Sto guardando una delle foto più recenti, lo screencap di un’intervista in Francia, quando sento bussare alla porta. “E’ aperto,” grido in inglese. Il mio accento violentemente teutonico si sta addolcendo in un più masticato americano della Florida.
Nella situazione in cui mi trovo sono in pochi a farmi visita, quindi non ho bisogno di vedere le sue lunghe gambe abbronzate varcare la soglia della veranda per sapere che si tratta di lei.
“Ma che strano trovarti qui attaccato al computer, “ esordisce ironica. Il suo accento, invece, è velato dallo spagnolo.
“E tu non dovresti essere a qualche festa sulla spiaggia a ballare la salsa e a bere sangria?” Replico, chiudendo il coperchio del pc, mentre lei sistema un piatto coperto sul mio tavolo.
“Solo perché sono portoricana, non significa che io passi il mio tempo a ballare sudamericano.”
Io sollevo un sopracciglio e lei ride.
“Ok, magari un po’ sì,” ammette. “Comunque ti ho portato il pranzo. Non hai mangiato, scommetto.”
Solleva il coperchio dal piatto e, non ho idea di cosa sia, ma è carne, ha un profumo meraviglioso ed è cosparsa di salse diverse. Se non avesse probabilmente un nome che finisce per S, potrebbe tranquillamente passare per un piatto tedesco. “Sembra buono,” dico.
“Lo è,” risponde lei e quindi si siede. “Coraggio mangia. Dio solo sa che quanto hai già bevuto stamattina.”
Mi permetto un sorriso storto, senza nemmeno alzare lo sguardo. So che adesso mi sta guardando con navigata severità, la stessa con la quale guarda i suoi tre fratellini quando fanno qualcosa di male. Se non avesse vent’anni e tutte le curve al posto giusto, mi ricorderebbe Karima.
“Non dovevi.”
“Lo so che non dovevo,” dice impertinente. “Ma se non ci fossi io a portarti da mangiare ogni tanto, finiresti col morire di fame.”
“Esagerata.”
“Mangia.”
Faccio come dice. La carne è deliziosamente tenera e la salsa appena più piccante di quanto in effetti sono abituato, ma è tutto molto buono. Lei accavalla le gambe e finge di non guardarmi mentre guarda il mare poco distante. E’ minuta e olivastra, la sua pelle ha una sfumatura appena più chiara della mia. Ha un visino dolce e rotondo, circondato da lunghi capelli neri che tiene legati in una coda di cavallo alta sulla testa. Porta bigiotteria un po’ pacchiana e colorata, è eccessiva, come tutte le ragazzine della sua età da queste parti. Mastica chewingum di continuo.
Io, lei, l’ho conosciuta nemmeno un paio di mesi fa e per caso, mentre andavo a lavorare al garage, più dentro che fuori dopo aver bevuto sei delle loro birre americane – ci vuole molto di più ad ubriacarsi senza avere a disposizione della buona birra tedesca. Sto scendendo lungo Washington Avenue quando la vedo che tenta di scaricare dal pick-up quattro borse più grosse di lei.
“Vuoi una mano?” Chiedo, avvicinandomi.
Lei si gira con l’intenzione di sbranarmi vivo ma poi, quando mi vede, il suo sguardo si addolcisce di colpo e finisce per gettarmi addosso un’occhiata quasi imbarazzante. Credo che mi abbia fatto una radiografia completa e che, se glielo chiedessi, potrebbe già rispondermi la misura delle mie mutande. “Grazie!” E mi sbatte contro il petto una busta. “C’è anche quella,” dice poi, indicandone un’altra.
Io fingo che entrambe non pesino venti chili. “Da che parte?”
Continua a guardarmi mentre indica a destra con un cenno della testa. Per un po’ camminiamo in silenzio, io calcolo che, ad occhio, non deve avere più di vent’anni anche se è truccata e vestita come se ne avesse molti di più. Non so perché mi sia offerto di aiutarla, forse è colpa della birra.
“Mezz’ora che camminiamo e non mi hai ancora chiesto come mi chiamo,” esordisce lei alla fine, con una risatina.
“Non pensavo fosse necessario, per aiutarti a portare la spesa.”
“No,” si stringe nelle spalle e si morde un labbro mentre mi guarda. “Però sarebbe carino.”
Non dovrei lasciarla flirtare in questo modo, ma oggi è una di quelle giornate che il mondo intero mi sembra una merda quindi, come un bambino, mi concedo ogni genere di capriccio dal momento che mi è proibito fare quello che veramente voglio. Non so chi sia questa ragazzina sconosciuta che mi sta giusto un passo avanti per poter ondeggiare i fianchi ma va bene così.
“E’ Marisol, comunque,” continua lei.
“Marisol,” me lo lascio scivolare sulla lingua, perplesso. “Piacere. Io sono Tarek.” Lei è la prima persona a cui mi presento con il mio nome nuovo di zecca, fa un certo effetto dirlo. Non mi appartiene per niente, è come se gli stessi presentando qualcun altro.
“Sei arabo?” Chiede lei. Non c’è nel suo sguardo il solito pregiudizio.
“Tunisino,” rispondo. Io e David non abbiamo mai deciso il paese di provenienza di Tarek Hassim, ma penso che non sarà un gran danno se salta fuori che è un mio connazionale. In fondo, per quanto ne dica la gente, noi tunisini saremo anche tutti uguali, ma non ci conosciamo tutti quanti. Tranne il fatto che, in effetti, io Tarek Hassim lo conosco. Mi viene quasi da ridere. “O meglio, lo sarei, se avessi mai vissuto là, ecco. I miei si sono trasferiti qui che avevo cinque anni.” Comincia ad essere divertente inventare i particolari di un uomo inesistente. Chissà se David lo aveva immaginato così il suo Tarek.
“Anche io non ricordo niente di Portorico,” si stringe nelle spalle. “E cosa fai da queste parti?”
“Quello che fanno tutti gli altri. Ci vivo.”
Lei ridacchia, prendendomi in giro. “Sei proprio un gran chiacchierone tu, eh?” Poi si ferma. “Comunque io sono arrivata.”
E io mi accorgo che sta davanti al garage di Conrad.
“Qui?” Chiedo incerto.
“Sì, qui,” Marisol si volta a guardarmi solo un secondo, prima di togliersi gli occhiali neri un po’ anni ’80 e infilare la testa nel garage. “Ehi, c’è nessuno?”
Dall’interno arriva musica sudamericana di un qualche tipo sparata a palla da due casse Alpine più grosse della mia testa, montate su una Nissan Skyline GT-R così truccata che stento quasi a riconoscerla. Sono due mesi che non vedo una bella macchina come si deve, e altrettanto tempo che non ascolto musica decente.
Conrad non c'è, è ad una qualche fiera da qualche parte vicino ad Orlando, ecco perché io posso permettermi di arrivare quasi ubriaco e con tre ore di ritardo. Non che non lo faccia anche quando lui è presente, solo che posso saltare tutta la parte delle giustificazioni. Dal minuscolo ufficio ricavato sul retro con due lamiere inchiodate al muro, esce Miguel, uno dei ragazzi. Ha l'espressione contrariata che ti viene in automatico quando stai lavorando a qualcosa che molto probabilmente ti porterà via tutta la mattina quando invece avevi preventivato soltanto poche ore e qualcuno si presenta all'entrata dell'officina con un problema probabilmente più grave e un'urgenza ancora maggiore di quella che hai per le mani.
Quando vede Marisol, però, cambia espressione. Non che diventi più simpatico, ma i suoi lineamenti si tendono in maniera diversa. La conosce perché la accoglie chiamandola per nome, ma poi si mettono a parlare in spagnolo e quindi per dieci minuti non capisco quasi niente. La mia conoscenza della lingua non è ancora arrivata oltre i saluti, anche se credo che mi toccherà impararla se voglio evitare che i miei colleghi, qui, continuino a prendermi per il culo, facendo battute che non posso capire.
Dopo le spiegazioni di Marisol, Miguel non sembra particolarmente soddisfatto, anzi il suo sguardo si posa su di me e lo riconosco perfettamente per quello che è: si chiede so ho o non ho messo le mani sulla sua roba, che in questo caso ha l'altezza, la forma e il viso di Marisol. Io alzo entrambe le mani. “Le ho solo portato la spesa, amico” esclamo.
“Voi due vi conoscete?” Chiede lei, spostando lo sguardo da me a Miguel, incredula.
“Lavora qui,” il portoricano mi lancia un ultimo sguardo, come a dirmi che mi tiene d'occhio. Io non rido, perché qui non è Berlino e questi non sanno chi sono e come sono fatto. C'è un certo limite entro cui puoi fare il coglione, e quel limite lo crei tu, abituando le persone al fatto che – generalmente – non te ne frega un cazzo di quello che dicono e fai sempre come ti pare.
Io Miguel lo conosco poco e per quel poco che lo conosco so che se mi vede ridere adesso, penserà che non lo rispetto e non, come in effetti è, che trovo solo tenero che difenda Marisol, qualunque cosa sia per lui, da me, che, ora come ora, tutto voglio tranne che imbarcarmi in una storia con qualcuno che ha almeno dieci anni meno di me. Lui non le sa queste cose, tirerebbe solo fuori il coltello che tiene incastrato come niente nei pantaloni e io non ho voglia di scatenare una rissa che probabilmente finirei per perdere, alticcio come sono. Quindi mi metto a lavorare sulla Buick che è arrivata qui ieri ed ha un problema al motore. Non so da dove venga, ma Miguel ha limato via il numero del telaio, quindi è un'altra donazione non consensuale. Ne abbiamo avute cinque solo questa settimana. E a me non fa né caldo né freddo.
Marisol decide di andarsene e non manca di lanciarmi un'occhiata che fa incazzare il portoricano alle mie spalle prima di allontanarsi, lasciando lì la spesa. Qualche istante dopo che è sparita lungo la strada, Miguel mi fa sapere tre cose fondamentali: che Marisol è sua cugina secondo un albero genealogico a me totalmente alieno che tocca anche il quarto e il quinto grado di parentela; che non ha vent'anni come credevo, ma diciassette. E che se anche solo la guardo mi farà fare il giro del quartiere legato per le palle al baule della sua auto. Una minaccia, questa, che apprezzo per la fantasia.
In realtà vorrei dirgli che non ne voglio più sapere, che un diciassettenne che mi aspettava ogni giorno sotto casa con la mia cena l'ho già avuto e che è per lui che sono qui adesso, ma poi sto zitto. Mi farebbe delle domande, immagino. E io non voglio dargli nessuna risposta. La verità è che per quanto a volte mi senta così solo da stare male, non voglio affatto parlare di quello che è successo perché non servirebbe a niente se non a farmi ricordare quello che ho deciso di lasciarmi alle spalle. E poi mi sembrerebbe quasi che a svelarlo, questo segreto, si sfalderebbe nell'aria e scomparisse come non fosse mai esistito. Forse è per questo che ti dicono sempre di parlare delle cose che ti fanno soffrire, perché poi spariscono.
Il punto è che non voglio far sparire proprio niente. Mi tengo il dolore, piuttosto. E mentre lo penso, mi viene in mente David che una sera, al telefono, mi ha detto esasperato di darci un taglio, che lo capiva che stavo male ma che dovevo tagliare questo cordone ombelicale. Jost però non ha idea di come mi sento, può solo immaginarlo, come ci sentiamo io e Bill. E siccome io lo so che la mia Principessa non ha ancora accettato l'idea che io sia morto, nemmeno io accetto l'idea di esserlo.
E prendiamo entrambi a testate la realtà.
Ad ogni modo, dopo quasi un'ora di sguardi truci tra un cambio delle ruote e l'altro della Nissan, Miguel ha deciso che mi ha silenziosamente minacciato abbastanza, e io penso che la questione si chiuda lì.
Invece, una settimana dopo, torno a casa e trovo la ragazzina davanti alla porta della mia villetta. Anzi non proprio sulla porta, ma seduta sulla staccionata della veranda, che penzola i piedi scalzi e guarda dalla parte opposta, tenendo in mano un sacchetto di Starbucks. Per un attimo ho come un deja-vu e mi fermo a qualche metro da lei. Una parte del mio cervello sa perfettamente che cosa sto guardando, l'altra invece si sta facendo del male. Vaglio anche l'ipotesi di girarmi e andarmene, ma non faccio in tempo perché lei mi vede e mi sorride, ma non è neanche la metà del sorriso che stupidamente mi aspettavo.
Quella sera parliamo sulla veranda. Il mio indirizzo l'ha trovato tra le carte del garage. Quando le chiedo cosa sia venuta a fare lei si stringe nelle spalle e io penso che così non va e non è neanche giusto. Per lei e per me. Solo che non riesco a mandarla via, forse perché davvero non posso continuare a vivere isolato dal genere umano, forse perché mi ricorda Bill, in qualche modo distorto che non ha niente a che vedere con i suoi diciassette anni, quanto piuttosto con il modo in cui mi tratta, come se noi due fossimo destinati a stare insieme. Non lo siamo, bambina, non lo siamo per niente. Me lo ripeto ogni volta che mi guardo allo specchio e penso che devo farglielo capire prima di frantumare il cuore anche a lei.
Per le settimane che seguono, cerco di non farle varcare neanche la porta di casa. Miguel non sa nulla del fatto che lei si trovi qui e questo è male, molto male. Lei, però, continua a venire quasi ogni giorno e ci fermiamo sulla veranda, seduti a terra sul legno scaldato dal sole. Una sera dopo l'altra inizio a rilassarmi in sua presenza, anche se non le racconto mai veramente niente di me. A lei sembra bastare, quindi va tutto bene. Io mi rendo conto di stare abbassando la guardia ma, come dicevo, evidentemente ho bisogno di farlo, perché non posso davvero pensare di vivere gli anni che mi restano rinchiuso in un prefabbricato americano di legno e sperare di bastare a me stesso.
Quello di cui non mi rendo conto, e nemmeno me ne stupisco, è che lei ha altri piani. Una sera di ottobre si presenta con due pizze e dice che non ha nessuna intenzione di mangiarle seduta per terra. Ho sempre ignorato come si tenessero a bada gli adolescenti con del carattere, ormai mi sembra evidente, per cui finisce che entriamo e lei sta apparecchiando nella mia cucina e rovistando nei miei armadietti quasi vuoti in cerca di stoviglie, quando io vedo quello che sta succedendo a casa mia. A Berlino, intendo.
Ho acceso la televisione pensando che la musica avrebbe creato un'atmosfera troppo intima, e lei mi trova che fisso lo schermo mentre l'ambulanza si porta via Chakuza e Fler, di fronte agli studi di TRL.
David mi ha parlato dello speciale sulla mia vita che sarebbe andato in onda oggi, e so anche che sarebbero stati tutti in studio a testimoniare quanto io sia stato un uomo buono, o quanto io sia stato in realtà un gran bastardo – Sido lo hanno chiamato per quello. Anche Fler, in realtà, ma lui non gli avrà certo detto che sono uno stronzo – solo che a due minuti dall'inizio mi è mancato il coraggio di guardare. Ho il nastro registrato dentro il videoregistratore e l'idea era quella di sbronzarmi abbastanza da vederlo, stasera, prima che Marisol arrivasse con le pizze e spostasse di qualche ora il mio appuntamento con la mia vita come non l'ho mai vista. In ogni caso doveva essere una semplice, cazzo di puntata commemorativa di TRL. Quindi perché adesso ho davanti un'ambulanza e il mio migliore amico accoltellato da dio solo sa chi?
“Che succede?” Chiede lei, ha in mano due bottiglie di birra diverse ed era entrata per domandarmi quale preferissi prima di trovarmi immobile. Non capisce, perché la voce che sta descrivendo la scena è quella di un cronista tedesco: ho sempre il televisore sintonizzato sulla parabola, non guardo quasi mai la televisione americana. Non le rispondo e continuo a guardare senza di fatto ascoltare né lei che continua a chiedere né la voce fuori campo. In basso scorre in continuazione il titolo di quest'edizione straordinaria: Ferito rapper a Berlino. Le riprese sono amatoriali, realizzate probabilmente con un telefonino, e mostrano l'arrivo dell'ambulanza e Fler che organizza i soccorsi. La mano che regge il telefono trema mentre si sposta sulla destra e poi zoomma sul viso in lacrime di Bill, piegato sul corpo di Chakuza. C'è così tanto sangue su entrambi che mi manca il respiro.
“Chi sono?” Chiede ancora Marisol, alle mie spalle. “Capisci il tedesco?”
E' quella domanda a risvegliarmi dallo stato di trance, in qualche modo mi rendo conto che non avrei dovuto dare a vedere che ne sapessi qualcosa, io, di quella gente o anche solo di tedesco. Solo che questa consapevolezza è solo una minuscola parte di me che da qualche parte si fa sentire per poi venir zittita dalla paura. “Marisol, scusami, ma non è la serata giusta, questa,” le dico, mentre con lo sguardo cerco il mio cellulare per la stanza. “Devo fare delle cose.”
Lei rimane ad osservarmi, senza capire. “Posso sapere almeno che cos'è successo?” Chiede. Si volta verso la televisione dove si ripete l'intera sequenza dei paramedici che sotto le direttive di Fler strappano a Bill il corpo di Chakuza. Mi fermo a guardare Tom che afferra suo fratello e se lo stringe addosso con forza, piegandosi tutto intorno a lui per fargli da scudo, per permettersi di baciarlo sulla guancia e calmarlo anche in mezzo alla folla, come ha imparato in anni di allenamento. Non si vede niente, tutto è coperto dalla sua figura, dai dreads, dalla maglia enorme, ma io lo so che le sue labbra sono così vicine alla pelle di Bill che i giornali domani impazzirebbero più per questo che per l'attacco a Chakuza se solo sapessero. Il fatto è che Bill quando sta male o ha paura, lo devi toccare, ti deve sentire. Dirgli che andrà tutto bene non serve a niente, glielo devi trasmettere. Così Tom gli deve stare addosso, anche perché altrimenti, io credo, nessuno potrebbe convincerlo a lasciare andare Chakuza.
Quello che non vedo e quello che mi preoccupa, è che tutto quel sangue potrebbe non essere solo di Peter. Bill non sembra ferito, eppure trema, tiene le mani sollevate e piange. “Vai a casa, “ dico a Marisol, senza nemmeno guardarla. “Ci vediamo domani.”
“Tarek...”
“Domani, Marisol.”
Nei miei occhi affiora il vecchio me stesso e lei annuisce. Sento la porta di casa chiudersi proprio quando trovo il telefono. Il numero di David è l'unico che mi sia rimasto in memoria. Lo sento squillare tre volte, prima che risponda piano. “Sì?” Capisco dal tono nervoso della sua voce che probabilmente lì con lui ci sono anche gli altri. Non ho neanche pensato alla possibilità che fosse rischioso chiamare alla cieca.
“Bill è ferito?” Chiedo.
“No,” il tono con cui risponde è molto controllato, cerca di essere assolutamente normale, come se non fossi io a chiamare dal mio Oltretomba di palme e oceano.
“Gli hanno fatto qualcosa?” Lo incalzo. “Che cazzo è successo a quella trasmissione?”
“No, non preoccuparti. È tutto a posto. Non sappiamo ancora i dettagli, ma è tutto sotto controllo.”
“Sotto controllo il cazzo, David!” Alzo la voce mentre cambio canale. Ogni fottuto telegiornale tedesco riporta la notizia dell'accoltellamento. Ora scopro che l'assalitore era tra la folla, a qualche centimetro da Bill, Cristo Santo. “Dove cazzo era il servizio di sicurezza?”
Jost sta per rispondermi quando sento la voce di Tom intromettersi nella discussione con prepotenza. Chiede con chi cazzo sta parlando e, nonostante in questo momento io stia affibbiando tutta la colpa di un incidente di cui non so neanche i dettagli a lui, Jost reagisce alla grande, come al solito.
“Briegmann,” dice pronto.
“Voglio che tu scopra cosa cazzo è successo e me lo dica,” continuo io. “E' chiaro?”
Lui non risponde perché a Tom la risposta non è affatto piaciuta. Gli grida che non è il cazzo di momento di stare a parlare del cazzo di lavoro e, se fossi in lui, probabilmente la penserei allo stesso modo. Immagino creda che Briegmann abbia chiamato per sfruttare la cosa nel modo migliore possibile, quando lui invece in testa ha solo Bill e il fatto che è rimasto coinvolto in un'aggressione a mano armata. Saprei io dove glielo infilerei a Briegmann il lavoro, e lo sa anche Tom.
Vorrei dire altre cose a David mentre finge di parlare con qualcun altro ma mi fermo quando sento la voce di Bill – una specie di sussurro. Lo sento appena, dice “Tomi, ti prego...” ed è una specie di pugnalata. Un po' perché la sua voce è così piccola e bassa che mi si stringe il cuore, un po' perché queste sono le prime tre parole che gli sento dire in sei mesi al di fuori di un televisore. E siccome, attraverso il cavo del telefono, mi sembra di essere un po' lì con loro, è come se le dicesse a me.
Un attimo dopo, Fler interviene ad arginare una situazione potenzialmente pericolosa, quella di Tom che non si controlla e di suo fratello che scoppia in lacrime come minaccia di fare, a sentire dal tono. Fler è uno che prevede le cose quell'attimo prima utile a non farle succedere in caso siano un problema. “Adesso ci calmiamo, Kaulitz...” dice conciliante. “Non c'è affatto bisogno di-”
Solo che Tom non ti ascolta, generalmente. Se c'è di mezzo suo fratello, tutto ciò che capisce è quello che c'è nella sua testa, indipendentemente dal fatto che sia sensato o meno. E nella posizione in cui mi trovo, cioè quando non ce l'ha direttamente con me, allora finisco anche per dargli ragione, perché – esattamente come prima – anche io la penso nello stesso modo. Cazzo, sono morto per questo. “Te lo dico io di cosa non c'è bisogno! “ Sbraita, infatti. “Non c'è bisogno che mio fratello sia qui, che pianga un amico con un buco in pancia, che tu venga a farmi la predica e che David parli con la fottuta Universal in questo cazzo di preciso momento! Ecco di cosa non c’è bisogno!”
Prima che si avvicini, strappi a David il telefono di mano e io sia costretto a dirgli che sono vivo e che ha ragione - Bill non doveva essere circondato da cose simili - e che è tutta colpa mia riattacco e poi stringo il telefono tra le dita, forte, cercando di calmarmi.
Passo il tempo che mi separa dalla telefonata di David cercando la notizia dell'assalto da un canale all'altro, da un sito all'altro, e quando mi rendo conto di aver già sentito com'è andata quel milione di volte, decido di guardare l'episodio di TRL, portando in salotto quasi tutta la birra che riesco a trovare.
Quando alla fine, verso l'una, David si degna di chiamarmi, io sono ancora abbastanza lucido per essere incazzato con un certo grado di consapevolezza.
“Sono io,” esordisce.
“Mi fa piacere,” replico stizzito. “Ti sei degnato, finalmente.”
Lo sento espirare, stanco. “Ti ho chiamato appena ho messo piede in casa,” spiega pacatamente. “Ho avuto molte cose da sistemare.”
“Come sta Chakuza?”
“Bene,” risponde con una buona dose di sollievo. “Il coltello non è arrivato allo stomaco. Ha solo una brutta ferita, dovuta al coltello che era seghettato. Ora è sotto sedativi, ma è fuori pericolo.”
Mi rendo conto soltanto mentre mi dice il contrario che questa conversazione poteva andare diversamente. David avrebbe anche potuto dirmi che Chakuza era morto e io non lo so come l'avrei presa. Con Bill che occupa tutti i miei pensieri, non ho mai permesso agli altri affetti della mai vita di tornarmi in mente. Quindi non lo so come starei se il mio migliore amico fosse morto, sono solo contento che non lo sia e non indugio troppo oltre sul suo ricordo perché altrimenti inizierà a mancarmi e, se mi manca lui, sarà solo questione di tempo prima che mi manchino tutti gli altri. Non voglio pensare ai prossimi giorni della mia vita se anche solo permetto alla mia testa di sfiorare il pensiero di Fler. “E Bill?” Chiedo, concentrandomi sull'unico dolore per cui sono già abituato a soffrire.
“Sta bene, è solo scosso,” risponde. “Era lì quando è successo.”
“L'ho visto. Avrebbero potuto colpirlo?”
“...”
“David?”
Sospira. “Sì,” ammette. “Il colpo era mirato a lui, solo che Chakuza si è messo in mezzo.”
Sento la rabbia salirmi alla testa. “Merda.” Mirava a Bill, il bastardo. Questo apre uno scenario completamente diverso. Se era lui la vittima designata, voglio sapere chi è il figlio di puttana che ci sta dietro. E perché.
“Sta bene,” ripete David. “Non ha nemmeno un graffio.”
“Ma potevano colpirlo!” Silenzio. “David, poteva morire.”
“Non è successo.”
“Non me ne frega un cazzo se non è successo!” Esplodo. “Poteva succedere e questo è già grave a sufficienza! Perché cazzo Bill era da solo? Dov'erano le guardie del corpo?”
“Un attimo prima è scoppiata una rissa e-”
“Un diversivo,” commento.
“Sì.”
“Il trucco più vecchio del mondo e le tue stramaledette guardie del corpo pagate milioni di euro si fanno fregare come niente.” Sto camminando avanti e indietro per la stanza e le ipotesi che mi attraversano il cervello sono una peggiore dell'altra. Se escludiamo Fler, ma anche Sido – quello è un gran figlio di puttana ma non è il tipo da mandare uno stronzo con un coltello da pane e comunque Fler lo avrebbe impedito. No, Sido non c'entra un cazzo – se escludiamo l'Aggro in toto, allora, chi cazzo poteva volere Bill morto dopo che non aveva più niente a che fare con me? “Chi è stato?”
“Non lo sappiamo.”
“Centinaia di ragazzine pressate le une sulle altre e questo trova il tempo di accoltellare Chakuza e di scappare?”
“Abbiamo pensato a Chakuza prima che all'aggressore.”
“Siete disorganizzati.”
“Ora non metterla su questo piano,” replica lui, stizzito. “Abbiamo fatto quello che dovevamo fare.”
“Avresti dovuto proteggere Bill.”
“L'ho fatto, maledizione!” Grida. “Non ci aspettavamo un assalto armato.”
“Avreste dovuto!”
“Bill ha sempre avuto tutta la protezione adeguata per il lavoro che fa!”
“Ma non per quello che è!” Lo attacco. “Cristo, David, pensavo che a questo punto lo avessi capito che le cose non girano più com'eri abituato tu. Non è più questione di fama! Non è più solo il tuo fottuto frontman! E' il mio compagno!”
“Era il tuo compagno,” mi corregge lui, piano.
Rido, amaramente. “Era, certo,” butto lì. “Questo non cambia il fatto che hanno cercato di farlo fuori.”
“Non è detto che sia per colpa tua.”
“Hai un'idea migliore?”
Resta in silenzio di nuovo.
“Devi portarlo via per un po',” riprendo, cercando di ritrovare lucidità. “Soltanto per i primi tempi, finché non si sarà staccato completamente da quello che sono io. Ci sono un sacco di mitomani in giro, ma dimenticheranno in fretta.”
“Non è possibile, Bushido. Ha delle responsabilità,” risponde. “Non è solo la tua Principessa, forse te lo sei dimenticato ma anche Bill è famoso.”
“Meglio morto sul palco che via per qualche mese?”
“Sai bene cosa voglio dire,” mormora. “Aumenterò il servizio di sicurezza, lo terremo d'occhio.”
“Come hai fatto finora?”
Quasi lo sento stringere i denti. Io lo so che David ha fatto tutto il possibile, me ne rendo conto, ma ho avuto troppa paura per ammettere che non è colpa sua ma della situazione di merda. Un attacco del genere era plausibile, e tutto quello che ho fatto è stato suggerire a Chakuza di tenere d'occhio Bill per me. E' bastato, perché Chakuza ha avuto il coraggio di buttarsi in mezzo, ma non era tenuto a farlo, in caso contrario forse le mie precauzioni del cazzo non sarebbero servite a niente. Non è colpa di nessuno, lo so, maledizione.
“Credi forse che non me ne freghi un accidente?” Esclama incazzato lui. “Credi che non abbia avuto anch'io una paura fottuta quando ho visto Bill ricoperto di sangue? Che non sappia quanto abbiamo rischiato? Lo so che poteva morire, Cristo, lo so meglio di chiunque altro, quindi non fare lo stronzo con me perché non sono disposto ad accettarlo, chiaro? Bill è uno dei miei ragazzi prima ancora che uno dei tuoi, tienilo a mente quando apri la bocca e spari cazzate!”
E' la prima volta che sento David così arrabbiato. Capisco che non si è concesso il lusso di avere paura fino a quando non ha composto il mio numero di telefono, che fino ad ora i suo nervi sono rimasti tesi, pronti a sostenerlo in tutte le faccende di cui si è dovuto occupare ma che di fronte alle mie accuse infondate non hanno retto. Siamo due uomini adulti che hanno rischiato di perdere una cosa importante e ci prendiamo a cornate tra di noi visto che non sappiamo dove sia il vero responsabile. Solo che David può scordarsele le mie scuse. “Cercherete chi è stato?”
“Naturalmente,” risponde, più calmo. “E lo troveremo.”
“Bene.”
Sospira. “Ti terrò informato sugli sviluppi.”
Annuisco. “David?”
“Sì?”
“Tienilo al sicuro,” dico. “E ringrazia Chakuza, anche da parte mia.”
“Lo farò.”
Due settimane dopo David mi informa che sta cercando una guardia del corpo personale solo per Bill e che il sistema di sicurezza è stato migliorato al punto che Tom si lamenta di non poter più andare da solo nemmeno al bagno. Chakuza si è ripreso e Fler, a quanto sembra, non si scolla più da tutti loro per qualche motivo che neanche David ha saputo spiegare. Del tipo che ha assalito Bill non sappiamo ancora niente, ma non ci sono stati altri tentativi. Le cose vanno più o meno bene, mi dice.
Mi piacerebbe che questo non significasse che la vita ha ripreso il suo corso tanto bene che non c'è poi tanto bisogno che io ritorni, come mi ero permesso di sperare.
Mi rendo conto di essermi perso nella mia testa quando Marisol mi sventola davanti una mano. “Terra chiama Tarek,” ride.
Io le sorrido. “Scusa, stavo pensando.”
“E quando mai non lo fai,” dice lei. “Sei l'uomo più incomprensibile che io conosca. Non si capisce mai dove sei con la testa quando decidi di scollegarti dal resto del mondo.”
“Scusa,” ripeto. Metto le posate nel piatto vuoto e mi sistemo sulla sedia. “Allora, che mi racconti?”
Marisol si stringe nelle spalle, i suoi orecchini d'oro tintinnano e catturano uno degli ultimi raggi di sole che entrano dalla finestra. “Tutto ok,” dice e fa un sorrisino che conosco bene perché questa qui è una che ti rigira come vuole e di solito quando lo fa prima ti sorride a quel modo.
Tutto ok. Penso che sembra andar bene proprio da tutte le parti, eppure io non mi sento affatto a posto, troppo lontano da Berlino, troppo inadatto a Miami. In questa città c'è troppo sole anche a Natale, e troppo poco Bill. Lascio che Marisol mi stordisca di chiacchiere mentre il tramonto si allunga sull'asfalto, non le permetterò di innamorarsi di me e non permetterò a me stesso di credere che possa andare bene lasciarglielo fare. Mai. Quindi stacco di nuovo la spina, senza pensare a niente, stavolta.
Dopotutto niente è meglio di qualcosa che non posso avere.

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