L'Apostolo della Sfiga

di tabata
Ci sono persone che credono nelle coincidenze, altre che credono nel destino o in una divinità benevola che li osserva dall'alto dei cieli e tira le fila della loro esistenza per fare o non fare accadere determinate cose che potrebbero anche cambiarla per sempre.
Io non sono molto religioso; da piccolo mia madre mi costringeva ad andare in chiesa tutte le domeniche e mia nonna ci faceva pregare prima dei pasti e prima di andare a dormire, per cui mi è rimasto un po' quel vago terrore dell'altissimo che ti viene istigato a forza di raccomandazioni apocalittiche quando sei un ragazzino pestifero com'ero io ma, a parte questo, non è che provi questa spinta mistica; per cui, non lo so, sicuramente Dio avrà cose molto importanti da fare per noi, ma non credo che ci sia proprio Lui dietro agli avvenimenti che sono in grado di cambiarti la giornata.
Questo, però, non significa che io li consideri frutto del caso, perché non credo nemmeno alle coincidenze. Per quanto mi riguarda, due avvenimenti simili ma del tutto slegati fra loro hanno la possibilità di avvenire contemporaneamente, al momento più opportuno e in maniera del tutto casuale quanta ne ho io di dire la cosa giusta al momento giusto, cioè una su un milione; e anche in quell'unico caso, non si tratterebbe comunque di una coincidenza.
Il che ci porta alla conclusione di quest'introduzione infinita, e cioè che io credo fortemente nella sfiga.
Se c'è un energia cosmica, un'entità sovrana o un alieno verde con le antenne seduto all'origine dell'universo con il compito di generare azioni casuali che influiscano sulla tua persona nel bene e nel male – ma soprattutto nel male – quella è la sfiga che, come risaputo, ci vede benissimo al contrario della fortuna.
E io nella sfiga ci credo perché sono il suo primo apostolo, a partire dalla mia calvizie precoce.
Volendo prendere in considerazione esempi più recenti del momento in cui i miei capelli hanno deciso di abbandonarmi per sempre, vi basta pensare che alle dieci di questa mattina ho avuto la possibilità di fare una scelta che poteva avere delle conseguenze negative oppure no. E ovviamente le ha avute.
Mi si potrebbe far notare che tutto è dipeso dal mio libero arbitrio ma così non è, perché io non avevo idea di quali fossero le mie opzioni, la mia scelta non è stata ponderata né consapevole, pertanto non c'entro assolutamente niente. Sono vittima delle circostanze, ma soprattutto della sfiga.
Dopo il tour disastroso, per dimenticare il quale ho fatto una cura di birra che mi ha portato sull'orlo dell'alcolismo, ho deciso che non potevo rimanere a Berlino se volevo sperare di trovare un po' di pace.
Io sono già di natura un tipo portato alla depressione e ho questi momenti di tristezza profonda in cui in sostanza mi accascio in un angolo lamentandomi della mia esistenza, finché un giorno mi sveglio tranquillo e del tutto dimentico di aver pensato di suicidarmi solo il giorno prima; questo fino a che non succede di nuovo, da capo.
Consapevole di ciò, ho fatto le valigie e sono andato in Austria, per altro convinto che ci sarei rimasto per sempre, visto che l'etichetta era andata a puttane e io, in generale, non è che avessi tutta questa voglia di cantare dopo quello che era successo. L'idea originale era di murarmi vivo nella casa di famiglia e lì ritirarmi in solitudine nel mio angolino di disperazione per tutto il tempo necessario e poi, finita la fase depressiva, fare un po' il cazzo che volevo fino a data da destinarsi. Per fare ciò, la casa avrebbe dovuto essere vuota e non c'era motivo per cui non lo fosse, visto che, sfortunatamente per me, i miei genitori e mia sorella vivono a Berlino da anni.
Invece, quando ho infilato il vialetto di casa con la macchina, eccoli lì tutti e tre, seduti in veranda come se nulla fosse. A quanto pare mia madre sentiva la mancanza dei suoi monti, mio padre delle mucche e mia sorella, non lo so, ma sicuramente l'hanno trascinata. Sono rimasto lì con le mie due valige in mano senza sapere cosa fare; ormai mi avevano visto, era impensabile risalire in macchina e scappare. Naturalmente anche loro erano sorpresi di vedermi, così ho dovuto spiegargli a grandi linee perché ero lì, generando così ogni genere di disgrazia possibile. Clara se l'è presa a morte perché non ho cercato di sistemare le cose con Bill prima che diventassero il disastro che sono adesso – addio sorella complice, benvenuta sconosciuta adolescente in lacrime per una popstar – mia madre ha preso il mio ritorno temporaneo come un trasferimento definitivo, ha cominciato a parlare di appartamenti in paese, di un lavoro in improbabili caseifici della valle, e di bellissime figlie di amiche mai sentite nominare che avrei potuto sposare entro l'anno per farle quintali di nipoti. La giustificazione ufficiale per il mio matrimonio combinato con una sconosciuta sarebbe che ormai ho quasi trent'anni ed è quindi ora che generi un erede. Affermazione a seguito della quale, mio padre a ricominciato a parlarmi, dopo aver inteso che non stavo più con un ragazzo e che si era dunque conclusa quella che lui chiama la mia fase omosessuale. A quanto pare sono tornato ad essere il suo prediletto e unico figlio maschio; prima non so cosa fossi diventato, secondo lui, ma sicuramente stava già intestando l'azienda a Clara che ora, immagino, sarà davvero triste di non ereditare più le sue quattrocento mucche pezzate.
Con la prospettiva di dovermi fidanzare con donne inguardabili, consolare l'inconsolabile sorella per la sua – ripeto: sua – preziosa perdita e occuparmi delle mie future mucche, avevo quasi pensato di tornare a Berlino con una scusa qualsiasi, ma visto che mi aspettavano solo un appartamento senza condizionatore e un frigo vuoto che non avrei mai avuto voglia di riempire, sono rimasto. Sei mesi.
Inutile dire che la mia vita è stata alquanto assurda in questo periodo, che sostanzialmente ho trascorso cercando modi per evitare tutti i miei famigliari, improvvisamente impazziti a causa della mia presenza. Se si esclude la mia necessità di nascondermi nel fienile ogni volta che mia madre portava a casa la figlia del panettiere, dell'ortolano, del postino e poi, credo, anche qualche povera disgraziata incontrata per caso per strada, i momenti più disperati sono stati quelli in cui mio padre si è messo in testa di dover rafforzare il nostro rapporto padre-figlio – o la mia virilità, non lo so, una delle due cose – e mi ha costretto a una serie di attività allucinanti e, soprattutto, mai fatte prima, forse convinto che, se me ne avesse fatte fare di più quand'ero ragazzino, tutto questo non sarebbe mai accaduto. La follia. Così mi ha portato a camminare per chilometri nei boschi, che ci siamo persi finendo per dover chiamare la forestale, e poi a tagliare legna con i boscaioli e a pescare, con tanto di sveglia alle quattro del mattino e lui che tenta di affrontare l'argomento maschi e femmine come se avessi sei anni. Quando ho provato a spiegargli che non è la teoria di base a mancarmi, ma che proprio me ne frego del sesso se qualcuno mi piace, mi ha indicato una trota sotto il pelo dell'acqua e mi ha detto “Hai visto? Te l'avevo detto che era pieno” e da quel momento non abbiamo più parlato.
In tutto questo, mia sorella è stata ingestibile per buona parte della mia permanenza a casa – cioè almeno fino a quando lei e papà non sono tornati a Berlino perché lei va ancora a scuola – e se arrivo a dirlo io, che in linea di massima la adoro e nessuno me la può toccare, vuol dire che proprio ha passato ogni limite. Clara era molto felice che io mi fossi messo con Bill; non felice per me, ma per se stessa, naturalmente, visto che è una grande fan dei Tokio Hotel. Mi ha fatto martire finché non gliel'ho fatto conoscere e quest'incontro ravvicinato del terzo tipo tra Bill e Clara un giorno dovrà raccontarvelo perché è stata la prima volta, in vita mia, che ho visto mia sorella imbarazzata fin quasi al mutismo.
Per questo motivo, voleva poi strangolarmi quando ho avuto la faccia tosta di presentarmi a casa dopo essermelo lasciato scappare, come dice lei. Il fatto che io non fossi un mostro e ci stessi pure male non era nemmeno contemplabile. Per calmarla e farla ragionare ho dovuto farle notare che, senza questa pausa forzata, Bill sarebbe probabilmente impazzito finendo per fare qualcosa di irreparabile.
Allora lei ha capito, se n'è fatta una ragione, ha dimostrato per Bill più pietà di quanta ne avesse dimostrata per suo fratello e quindi è tornata quella di sempre, che non so se sia esattamente una buona cosa, ma almeno sapevo cosa aspettarmi.
Dopo sei mesi di questa vita, ne avevo abbastanza anche della mia famiglia, a cui voglio un gran bene ma a volte troppo amore uccide, quindi era meglio che me ne andassi. Stamattina, dunque, ho messo le valige in macchina e, mentre lo facevo, mia madre mi ha chiesto se ero sicuro di voler tornare a Berlino, se magari non volevo restare un altro paio di mesi, che magari era meglio visto che in città sarei stato solo e triste – grazie mamma – e lei non voleva che stessi male. In quel preciso momento, avrei potuto risponderle di no, che non volevo tornare e che sarei rimasto. Non l'ho fatto, però, e dodici ore dopo, cioè adesso, ecco che mi arriva una chiamata di Kay che mi dice di raggiungere un magazzino di periferia perché abbiamo un problema. Coincidenze? Assolutamente no. Sfiga.
Ho guidato tutto il giorno, sono stanco e odio Bushido, percui non mi va affatto di farmi di nuovo tre piani di scale, togliere l'auto da un parcheggio meraviglioso proprio sotto casa per perdermi chissà dove; poi Kay mi riassume in breve il problema e, soprattutto, mi dice che c'è un uomo ferito in quel magazzino e che non sappiamo chi sia, così quando chiudo il telefono sono praticamente già in macchina e lo riapro soltanto per chiamare Fler, che è la prima persona che mi è venuta in mente. Suona subito occupato, così m'incazzo ma, proprio quando sto per richiamarlo, ci riesce prima lui e non importa che mi aggredisca chiedendomi cosa cazzo stessi facendo, perché sta bene e io posso smettere di bruciare tutti i rossi che trovo per il nervoso.
Il magazzino è enorme e male illuminato; quando entriamo non si vede quasi nulla a parte l'ombra di alcune casse al centro della stanza. Bushido è armato, una cosa che non mi mette a mio agio. Nonostante tutto quello che abbiamo passato, non mi sono ancora abituato a certe cose e di sicuro veder esplodere la faccia di Saad due anni fa non mi ha aiutato in questo senso. Ci sono volte in cui mi sembra solo che ci prendiamo tutti troppo sul serio, altre invece ho proprio l'impressione che ci stiamo mettendo nei guai, e questa è una di quelle. Soprattutto quando troviamo David Jost disteso a terra in un lago di sangue.
Io guardo un sacco di film di paura e mi diverto anche a farlo, ma credo che da questo momento in poi smetterò e mi darò per sempre ai cartoni animati. Non riesco a staccare gli occhi dal corpo di David eppure quello che vedo non mi piace. Innanzitutto è legato mani e piedi e sta disteso su un fianco, come probabilmente lo ha lasciato chi gli ha fatto questo, e poi ha la maglia strappata e una scritta incisa con il coltello sullo stomaco. La ferita butta ancora sangue che è di un rosso vivissimo, non sembra nemmeno reale. Poi, forse perché lui si lamenta quando Bushido lo gira, o non lo so, usciamo uno dopo l'altro dalla paralisi di stupore e cominciamo a muoverci, anche se non tutti facciamo qualcosa di utile. Io, per esempio, riesco finalmente a battere le palpebre e mi scosto quando Bushido mi passa accanto con in braccio David.
Rimaniamo a lungo in silenzio, ad ascoltare l'eco della porta del magazzino che si è chiusa e il rombo dell'auto di Bushido che si allontana, poi ci guardiamo in faccia e non abbiamo idea di che cosa fare. Io almeno non ce l'ho, e neanche Kay ed Eko sembrano saperne più di me.
“Dobbiamo sbrigarci,” esordisce Fler, prima ancora che noialtri si sia effettivamente capito di dover agire in qualche modo. Evidentemente lui si accorge dei nostri occhi vacui, perché aggiunge: “Questo posto va ripulito in fretta.”
“Perché?” Non so di aver fatto la domanda finché non sento la mia voce.
“Te lo spiego dopo,” risponde lui, senza nemmeno voltarsi. Si limita ad indicarci tutti quanti con un braccio mentre apre la porta. “Rimanete dove siete e non fate niente finché non torno.”
Ci ritroviamo a fissarci nelle palle degli occhi per la seconda volta in meno di dieci minuti e poi, tutti insieme nemmeno ci fossimo messi d'accordo, ci spostiamo lontano dal sangue ma in un punto che è ancora vagamente illuminato dal neon all'esterno e dal display del cellulare di Eko che lo agita in aria come volesse far atterrare un aereo all'interno del capannone.
“Hai finito?” Gli chiedo, dopo la decima volta che me lo sventola davanti alla faccia.
“Sto facendo luce,” replica lui.
Gli blocco la mano e conto fino a dieci, per evitare di saltargli al collo e stenderlo a suon di sberle. “No, stai dando fastidio.”
Eko borbotta qualcosa e poi va ad agitare il cellulare da un'altra parte. “E allora stai al buio.”
“Deve pur esserci un interruttore da qualche parte,” la voce è nuova, quindi ci giriamo tutti e tre per vedere a chi appartiene e ci rendiamo conto che questo ragazzino biondo, alto in maniera illegale per l'età che deve avere, dev'essere stato qui tutto il tempo e noi non ce ne siamo accorti. Lo guardiamo senza capire bene perché è qui davanti ai nostri occhi e lui scuote la testa con un sospiro, dirigendosi a passo svelto verso l'uscita. A metà strada il buio lo inghiotte, per poi mostrarcelo di nuovo come un'ombra vagamente illuminata qualche metro dopo. Lo vediamo armeggiare con qualcosa che c'è sul muro e alla fine sentiamo un colpo secco, un ronzio e lentamente il magazzino s'illumina, un settore alla volta partendo dal fondo. Le lunghe lampade al neon attaccate al soffitto sfarfallano un po', prima di assestarsi, ma poi si fanno luminosissime.
“Ecco fatto,” dice lui, spolverandosi le mani sui jeans.
“E tu chi saresti?” Domando. Il ragazzino ha una faccia familiare, eppure non so dove potrei averlo visto.
Lui ride e poi torna verso di noi. “Sono Daniel. Daniel Kobler,” risponde, come se il suo nome dovesse in effetti dirmi qualcosa. “Non ti ricordi di me, vero Chakuza?”
Eko si rende finalmente conto che il suo cellulare non serve più, così lo infila in tasca e squadra lo sconosciuto. “Chaku, perché ti porti sempre dietro i ragazzini? Siamo circondati di ragazzini. Non ne avevamo già abbastanza?” Vaneggia, prima di allontanarsi chissà dove e a fare cosa.
Faccio un cenno a Kay perché vada a recuperarlo prima che scivoli sul sangue e si spacchi la testa da qualche parte, mentre io vedo di capirci qualcosa di più. “Tu mi conosci,” dico.
Daniel annuisce. “Ci siamo incontrati quasi due anni fa.”
Io scuoto la testa, non ho la minima idea di cosa stia parlando.
“Tempelhof,” suggerisce. “Tu e Fler cercavate informazioni e io ve le ho date.”
Daniel Kobler. Il nome non mi dice niente, ma l'unica volta che io e Fler siamo andati a Tempelhof insieme è stata la notte di Saad, quindi cerco di fare mente locale. Abbiamo visto un sacco di gente in quell'occasione, ma lui proprio non mi sembra di ricordarlo e sto quasi per arrendermi quando ci arrivo. “Daniel?” Dico. “Il ragazzino che era fan dell'Aggro?”
Lui sorride. “Lo sono ancora.”
“Ma eri alto così!” Protesto, come se fosse colpa sua, se è cresciuto.
Daniel si stringe nelle spalle. “L'adolescenza ha i suoi lati positivi,” commenta.
Non so cosa gli abbia dato sua madre da mangiare, ma vorrei che avesse condiviso quel segreto con la mia. Ad ogni modo, sto perdendo un po' di vista il punto principale della faccenda. “Perché sei qui? Chi ti ha portato?”
“Sono venuto con Fler,” risponde, infilando entrambe le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni.
Io vorrei chiedergli parecchie cose, tipo cosa ci faceva lui con Fler, come mai lo conosce così bene e soprattutto perché lui lo ha portato qui, ma immagino che posso chiederlo direttamente al diretto interessato visto che è appena tornato, con in mano cinque spazzoloni e altrettanti secchi.
“Avete trovato la luce,” esclama, cominciando a distribuire. “Bene.”
Kay guarda gli oggetti come li guardo io, ossia come uno a cui raramente sono capitati in mano prima di quel momento. Eko invece è molto poco interessato al secchio, ma si è appoggiato allo spazzolone come fosse una lancia.
“Dovremo organizzarci, anche se l'area non è grandissima,” continua Fler, individuando un piccolo lavandino e dirigendosi in quella direzione. “Ho preso della candeggina, ma toglieremo prima il grosso con l'acqua.”
Noi lo guardiamo riempire il secchio per metà e poi mettersi a strofinare con forza la grossa macchia al centro del magazzino, non quella che era subito sotto il corpo di David, ma quella più lontana che si è formata con lo scorrere del sangue sul pavimento un po' inclinato. Lo spazzolone bagnato affonda nel sangue che è molto più denso dell'acqua e sembra di vederlo spalmare per terra del caramello filamentoso. E' una cosa disgustosa. “Kay, tu ed Eko occupatevi del posto in cui c'era David,” li istruisce. “Chakuza, tu stai qui con me. Cercate di raschiare forte, perché il sangue è un figlio di puttana. Quando sarà rimasta solo la macchia, passeremo la candeggina.”
Kay ed Eko guardano lo spazzolone e la macchia con aria dubbiosa, e nessuno di noi si muove, in realtà.
“Beh?” Chiede Patrick.
“Si può sapere perché dobbiamo pulire?” Chiedo alla fine, visto che gli altri due seguono il volo di farfalle inesistenti e hanno palesemente lasciato a me il compito di fare ostruzionismo.
Fler smette di pulire il pavimento. “Guardati intorno, Chakuza, ci sono le nostre impronte ovunque,” risponde.
“E allora? Abbiamo salvato un uomo,” gli faccio notare.
“O forse lo abbiamo torturato,” mi corregge lui. “O ucciso, dipende da quanto Jost ha intenzione di resistere.”
“Ma la polizia...”
“Se David muore, l'unica cosa che la polizia saprà con certezza è che noi siamo stati qui,” mi interrompe. “Ci sarebbe un'indagine, degli interrogatori e con tutto quello che io e Bushido abbiamo alle spalle, probabilmente non si fermerebbero a questo magazzino. Pensaci Chakuza, vuoi davvero che qualche ispettore venga a frugare nella tua vita adesso?”
No, l'ultima cosa che voglio è che qualcuno passi al setaccio gli ultimi due anni e magari si ricordi di quel Saad che lavorava con me e che un bel giorno, di punto in bianco, ha misteriosamente deciso di lasciare la moglie e la figlia senza motivo apparente, proprio qualche mese dopo il funerale del suo capo morto ammazzato da ignoti. Certo, Bushido è vivo ma la sua fuga a Miami non giocherebbe a favore di nessuno in questo frangente e apparirebbe ancora più sospetta. Sono sempre convinto che se nessuno ha ancora trovato nel canale il portellone di un'auto che adesso ha tutto un altro aspetto grazie a Fler, è solo perché non l'hanno cercato e di certo gli verrebbe in mente di farlo, prima o poi, se si mettessero in testa di indagare, cosa che non hanno mai fatto solo perché Greta doveva un favore a Bushido e, in memoria sua, non ci ha denunciati per averle ammazzato il marito. Ora che ci penso, visto che Bushido è vivo, quella donna potrebbe anche cambiare idea. Dobbiamo pulire questo sangue, senza dubbio.
Annuisco e vado a riempire il mio secchio. Sulla strada incrocio Daniel che scende da una delle casse su cui stava seduto e si sistema meglio i pantaloni. “E io?” Lo sento chiedere.
“Tu stai buono e aspetti che abbiamo finito,” gli dice Fler.
“Oh andiamo! Voglio dare una mano anch'io!”
Fler sospira, ma continua a pulire mentre Daniel gli gira intorno, per cercare di farsi ascoltare. “No, Danny.”
“Guarda che lo so come si pulisce il sangue,” protesta lui.
Io quasi faccio traboccare il secchio per seguire la scena. Fler lo guarda sospirando e poi annuisce con un cenno quasi impercettibile del capo. “Dai una mano a loro, laggiù” indica Kay ed Eko.
Daniel obbedisce al volo.
“Perché l'hai portato qui?” Inizio in un sussurro, mentre in due puliamo gli stessi cinquanta centimetri di sangue.
Fler non alza la testa, raschia solo più forte. “Era con me quando Anis ha chiamato.”
“E non hai trovato una babysitter?” Chiedo.
Lui sbuffa forte dal naso e si accanisce sul pavimento con particolare violenza. “Non mi fidavo a lasciarlo a casa mia da solo con in giro un pazzo che ammazza la gente.”
“D'accordo, ecco un'altra domanda. Cosa ci fa un ragazzino di Tempelhof che s'intende di spacciatori a casa tua?”
“E' il mio ragazzo,” risponde lui.
Lo spazzolone mi cade di mano e finisce prima sul mio piede e poi nella pozza di sangue. “Merda!” Impreco, recuperandolo con due dita e riuscendo comunque a sporcarmi. Mi pulisco la mano sui pantaloni, schifato. A parte che è sangue, è anche freddo e viscido. Fler, in tutto questo, ha continuato a pulire.
“Il tuo ragazzo?” Sibilo, incredulo.
“Sì, il mio ragazzo,” ribadisce e mi guarda serissimo. “Hai qualche problema con questo, Peter?”
Potrei iniziare ad elencarli adesso, i problemi, e finire domani alla stessa ora ma qualcosa mi dice che sono solo miei e posso pure tenermeli; solo che non posso stare zitto. “Ma se aveva dodici anni nemmeno due anni fa!”
“Ma non dire cazzate,” borbotta lui, infilando lo spazzolone nell'acqua che però ormai è rossa. “Ne aveva sedici, due anni fa, il che fa di lui un diciottenne adesso. Contento?”
Prende il secchio con impeto e va al lavandino a svuotarlo. Io lo seguo. “Ma quando è successo?”
“Sei mesi fa.”
Io faccio un rapido calcolo. “Stavi con Bushido sei mesi fa.”
Fler chiude l'acqua, si gira verso di me e mi fulmina. “Fermo restando che questi non sono cazzi tuoi, Peter...” si ferma, mi agita l'indice davanti alla faccia e poi sospira. “Beh, non sono cazzi tuoi.”
Si allontana velocemente e inizia a spargere candeggina sul pavimento. L'odore pungente mi entra nel naso e mi fa lacrimare gli occhi. Apro la bocca per dirgli qualcosa ma lui mi ferma prima. “Un'altra domanda e ti faccio a pezzi. Tanto sto già pulendo,” mi minaccia. Quindi si volta a controllare gli altri tre e lancia a Daniel il flacone di candeggina. “Ripulite con questa, ora.”
Il ragazzino lo prende al volo e gli fa il saluto militare con due dita. Adesso che lo so, non riesco a guardarlo alla stessa maniera e mi dà fastidio perfino il modo in cui sorride e il fatto che si siano capiti al volo quando Fler gli ha lanciato quell'affare. Torno a strofinare la mia macchia con la candeggina e penso che sono curioso di sapere com'è andata esattamente, se Bushido ne sa qualcosa di questo ragazzino, o se mentre noi affrontavamo i nostri molti problemi in tour, lui, da casa, contribuiva alla follia generale a modo suo.
Io e Fler finiamo prima degli altri tre perché la nostra macchia è più piccola, non è sparsa anche sulle casse circostanti, ma soprattutto non abbiamo Eko che drogato dagli effluvi della candeggina o, molto più probabilmente, così già di suo sta vaneggiando di un film turco che ha visto quando era piccolo a casa di suo zio Idris in cui i protagonisti fanno esattamente quello che stiamo facendo noi ora, ma poi alla fine la mafia li trova e dà i loro cadaveri in pasto ai maiali.
“Adesso sì che mi sento meglio,” sospira Kay, accucciato per terra a togliere macchioline spruzzate sul legno con uno straccio.
“Non ho mai sentito parlare di quel film, Eko,” esclama Daniel, “però ce n'è un altro che è uscito due o tre anni fa in cui gli scagnozzi del boss tentano di fregare il boss e finiscono a farsi un volo di trenta metri dal suo grattacielo.”
“D'accordo adesso basta con i pensieri felici,” li ferma Fler, battendo le mani. “Prima ci leviamo di qui e più probabilità abbiamo di evitare i finali splatter. Chakuza, aiutami a radunare ogni cosa.”
Venti minuti dopo abbiamo avvolto gli attrezzi nel nylon, stipando tutto nel bagagliaio dell'auto di Fler, che ha pensato proprio ad ogni minimo dettaglio. Mi viene da chiedergli quante altre volte gli sia capitato di ripulire un posto dal sangue, ma non lo faccio perché mi ricordo la disinvoltura con la quale ha fatto sparire il corpo di Saad e quanto la cosa mi abbia lasciato sconvolto. C'è sempre un lato di lui di cui non so niente e, per quanto sia brutto, voglio continuare a non sapere niente. Non ho mai pensato di essere in grado di accettarlo, quindi è meglio che ne rimanga all'oscuro. Dimenticherò questa serata come, salvo rari casi, ho dimenticato l'altra. Il mio cervello ha un sacco di difetti, ma in questo caso la sua capacità di rimuovere la quasi totalità di ciò che invece mi converrebbe ricordare torna utile.
Appena fuori dal magazzino, mentre chiudiamo la porta, ci guardiamo l'un l'altro stanchi e disfatti. Siamo ricoperti di sangue dalla testa ai piedi e non sappiamo nemmeno come visto che non abbiamo passato il tempo rotolandoci sul pavimento. Sarà che a differenza di Fler eravamo tutti piuttosto inadeguati e pulire bene una stanza dal sangue non è così facile come sembra, non quando schizza ovunque e si infila appiccicoso tra le piastrelle e non c'è verso di toglierlo. Se anche mi venisse la voglia di uccidere qualcuno, lo avvelenerei o lo strangolerei, comunque niente che coinvolga dello spargimento di sangue.
“D'accordo, andiamo. Ci troviamo a casa di Bushido tra mezz'ora.”
Ne segue un mormorio contrariato. Gli altri non so, ma io volevo farmi una doccia e non sentire Bushido che ci fa uno dei suoi discorsi epici sull'unità del gruppo, la sacralità della vendetta e il codice del ghetto che, a quanto mi pare di capire, stasera è stato violato in molti modi diversi.
Come se ciò non bastasse, vedo Daniel salire sull'auto di Fler e il viso serio e concentrato che ha mi disturba, perché ha lo stesso atteggiamento di Fler, pratico, attento e volto alla soluzione di ogni possibile problema, già presente o previsto. Fottuto ghetto, sempre nel mezzo.
Sbuffo e appoggio per un secondo la fronte al volante; questa notte è stata lunghissima e sembra non avere alcuna intenzione di finire.
Metto in moto e mi dirigo alla villa gialla.

*


Come se trovare un uomo che conosci sventrato a coltellate dentro un magazzino e doverne ripulire il sangue con la candeggina non fosse già abbastanza per una sola notte, a casa di Bushido c'è Bill e io non sono nella condizione di affrontare questa cosa al momento. Speravo che dopo sei mesi a fare l'eremita, sarebbe stato più facile guardarlo negli occhi, ma direi che così non è.
La rabbia che avevo alla fine del tour ce l'ho anche adesso, tale e quale a prima, e se in questi sei mesi non l'ho sentita è stato solo perché non ho visto né sentito lui. Ora che ce l'ho di nuovo davanti, però, è difficile ignorare quello che è successo, soprattutto perché se siamo qui stasera è per colpa di Bushido, che è un po' la causa di tutti i problemi tra noi due. Non sono ancora in quella fase in cui mi dico che era meglio se non tornava e poi mi sento in colpa per averlo pensato. Per ora lo penso e basta.
In tutto questo, la prima volta che io e Bill ci scambiamo due parole, lo facciamo per discutere di Daniel, che non è esattamente un approccio intelligente.
Ad ogni modo, la presenza di Bill è provvidenziale per lo stato in cui ci troviamo. Quando siamo entrati in casa, la governante di Bushido è praticamente impazzita – e non posso darle torto visto che stiamo lasciando sangue ovunque sui mobili di Bushido da cinquecento fantastiglioni di euro – e se non ci fosse Bill ad organizzare le cose, probabilmente saremo ancora in piedi a gocciolare sui tappeti persiani quando lui arriva. E' assurdo pensarlo, ma non ho più alcun ricordo di questa casa senza Bill dentro che dà ordini a destra e a manca, eppure ci venivo anche prima che arrivasse lui. E' come se ci fosse sempre stato. Così mentre ci stipa tutti nel bagno degli ospiti e ci fa lavare e cambiare, non sembra una cosa tanto strana perché c'era un tempo in cui eravamo abituati a passare le giornate qui dentro e c'era anche lui che, quando giocavamo a calcio in giardino, ci spediva uno dopo l'altro a farci la doccia perché non eravamo presentabili. E' quello che ci dice adesso, per altro, e non fa che aumentare questa sensazione di calore che non dovrei affatto provare.
Bill ci fa un sacco di domande e non vorremmo dirgli che si tratta di David Jost senza prima sapere se quell'uomo se la caverà o meno, ma non ne abbiamo veramente discusso e, siccome il cervello di Eko a volte è perfino più scollegato dalla realtà del mio, quello finisce per dirgli che in effetti qualcuno è ferito e a quel, punto, visto che Bill insiste e non ci darà pace finché non rispondiamo, gli dico le cose come stanno.
All'inizio non ci crede e poi va nel panico e Fler è costretto a scuoterlo per farsi guardare mentre gli dice che andrà tutto bene; vorrei essere altrettanto bravo a fingermi sicuro che le cose si sistemeranno, ma non lo sono affatto, anzi ho dei dubbi che David sia anche solo arrivato vivo in ospedale, per questo è meglio che ci pensi lui a rassicurare la principessa.
Alla fine, quando Bushido si presenta, Bill ha chiesto a Karima di preparare del caffè e ci siamo sistemati in salotto dove abbiamo passato un'ora praticamente in silenzio a fissare ognuno un punto diverso della stanza con grandissima attenzione, tranne forse Eko che si è tenuto impegnato a costruire castelli con le zollette di zucchero e Daniel, che dopo aver ficcato il naso dappertutto, si è addormentato sul divano con la testa appoggiata sulle ginocchia di Fler.
Bushido ha sempre cercato di rendere la propria immagine eroica, probabilmente perché, quando dice le sue stronzate, gli piace immaginarsi in cima ad un picco a strapiombo sul mare col vento che gli scombina i capelli – magari prima al particolare dei capelli non ci pensava, ma ora può perché sono lunghi e sembra il protagonista di uno di quei libri da donne, che sulla copertina hanno questi uomini con la camicia aperta e la criniera selvaggia – ecco perché, generalmente, ha sempre quest'aspetto da duro che non deve chiedere mai. Stasera, però, non fa niente per nascondere la spossatezza e quando entra in casa e chiude la porta, lo fa con passo stanco e le spalle curve, è così abbattuto che mi viene da chiedermi se David non sia morto davvero. Glielo chiede anche Bill, così viene subito a sapere che il segreto è stato svelato, ma ne prende atto con un cenno del capo e niente di più.
Fortunatamente David è vivo, ma deve riuscire a superare la notte e al momento mi sembra impossibile, più che altro perché la notte sta andando avanti in eterno; non mi ricordo nemmeno dov'è iniziata e quindi probabilmente non finirà mai. Sono stanco del buio, non ho nemmeno voglia di dormire, vorrei soltanto vedere la luce del sole che segni l'inizio di un giorno nuovo e, si spera, completamente diverso da questo.
La sensazione di deja vu, che mi accompagna da quando ho messo piede in questa casa, si fa ancora più forte quando Bushido annuncia che è necessario restare uniti, vista la situazione, e Tom non la prende affatto bene perché non vuole che suo fratello ci resti invischiato in mezzo.
Ora, sinceramente, io non sto facendo i salti di gioia all'idea di dover collaborare con quest'uomo, ma non posso negare che abbiamo davvero bisogno di tenerci d'occhio l'un l'altro, vista la situazione. E dal momento che la polizia meno s'impiccia e meglio è – penso che ormai sono un uomo che teme le forze dell'ordine, uno di quelli che mia nonna non voleva che frequentassi, povera nonna – allora non c'è altra gente di cui mi fidi se non quella che si trova in questa stanza. Tom però non è d'accordo e comincia a discutere con Bushido come ha sempre fatto, da che lo conosco, ogni volta che parlano di Bill.
Si scornano finché la nostra principessa non li mette a tacere entrambi e ovviamente comprende quello che è necessario fare, anche se non è facile nemmeno per lui, immagino, dover ricominciare con queste cose. Niente di quello che è successo è andato come doveva e, anche quando ci avevamo dato un taglio, qualcuno ha pensato bene di riportarci tutti al punto di partenza. Dopo che abbiamo scavato, toccato il fondo e scavato ancora per arrivare dall'altra parte, mi chiedo che cosa ci aspetti ancora che renderà la nostra vita una roba che non si racconta.
Bushido, naturalmente, si attiva subito per non lasciarmi troppo a brancolare nel buio e decide che se dobbiamo fare dei turni per tenere d'occhio Bill sarà meglio cominciare subito e sarà meglio cominciare da lui medesimo nella sua armatura scintillante e col suo bel sistema di allarme collegato alla Nasa.
Io so che, oggettivamente, questo è il posto migliore in cui tenere Bill per stanotte e per chissà quanto altro tempo ancora, ma so anche che Bushido è molto bravo a nascondere la propria sfacciataggine dietro motivazioni più o meno valide; e quindi sì, forse, questo è il posto migliore ma non sono troppo sicuro che lui avesse esattamente questo in mente quando ha deciso di tenerlo qui.
Quando Bill, alla faccia del tracollo emotivo che lo ha quasi portato a farsi investire su un autostrada sei mesi fa, accetta di restare senza fare una piega, penso che mi convenga uscire e farlo in fretta perché il peso di questa giornata comincia a farsi sentire e io non voglio avere comportamenti di cui poi mi dovrò scusare con lui. So che vede il mio viso mentre gli passo accanto e sa perfettamente come mi sento. Spero che, almeno un po', si senta così anche lui.
Saluto e penso che non vale la pena ricominciare da capo se tutto ciò che si ripete sono gli omicidi.

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