Es Kann Beginnen - Vol.1

di tabata
In questi mesi non sono stato tanto bene.
Se c'è un modo di iniziare a raccontarvi questa storia, credo sia proprio dirvi questo.
Era una cosa che si vedeva, naturalmente; la vedevano un po' tutti, tranne forse io perché quando stai veramente male non è che te ne rendi conto sul serio. Tu sei lì e sei consapevole di non essere felice, perché la mattina ti svegli e hai voglia di piangere – anzi hai voglia di piangere a tutte le ore del giorno e della notte – ma hai perso da tempo una visione chiara di te e di come stiano le cose, per cui alla fine tutto ciò che capisci è che sei infelice e cominci a dire e a fare cose che non hanno alcun senso o non sono per niente connesse con la realtà. Io avevo la testa così incasinata che ho camminato per due chilometri su una statale rischiando di farmi mettere sotto, convinto di stare andando lontanissimo e di essere finito chissà dove. Ho incontrato persone inesistenti e ci ho anche parlato, e ho fatto cose reali alle persone che amavo che faccio fatica ad accettare perché un po' me ne vergogno e un po' fanno ancora male se ci penso.
Questo finché non sono crollato completamente ed è lì che ha cominciato ad andare un po' meglio, anche se so che sembra strano da dire.
Il fatto è che non sempre i problemi sono insormontabili come crediamo; anzi, il più delle volte non siamo così sopraffatti da loro come ci sembra ma conserviamo un po' di lucidità che poi ci aiuta a superarli, prima o dopo a seconda di quanto siamo pratici e disfattisti. In quel caso, bene o male, tutto si risolve senza grossi danni e spesso succede ancora prima che ce ne accorgiamo.
Ci sono volte però, in cui il meccanismo s'inceppa, la lucidità va a farsi benedire e tutto ciò che facciamo è rimuginare sullo stesso problema o sullo stesso dolore, senza tentare di superarlo ma alimentandolo finché non diventa così forte che il cervello è costretto a spegnersi e riavviarsi, solo per non andare in sovraccarico ed esplodere, o qualcosa del genere. Ed è quello che è successo a me quando ho deciso di prendere il treno e senza saperlo sono andato dritto a casa di Anis. Non ricordo il momento in cui ho preso quella decisione, né perché proprio quella e non un'altra, ma so che è successo mentre il mio cervello ricominciava tutto da capo e, nel caricare i suoi bei dati ha rimesso tutto abbastanza a posto da farmi ragionare con lucidità quando poi Fler mi ha detto che dovevamo starcene tutti per conto nostro. Me lo avessero detto il giorno prima o due settimane prima, non l'avrei accettato perché tutto ciò che capivo era ciò che mi faceva star male, per quanto fosse una cosa che amavo.
Tutto ciò naturalmente non è che l'ho capito da solo per intervento divino, sono andato in analisi e mentre vi parlo non sono nemmeno vicino a finire perché, come dice il dottor Schillinger, ho la testa un sacco scombinata e ci vorrà del tempo per rimetterla a posto.
Prima di andare in analisi, comunque, ho fatto quello che avevo promesso a Patrick e sono andato alle Maldive con mio fratello, il quale si è trovato immediatamente d'accordo sul fatto che dovessi cambiare aria. Una volta che gli ho detto dov'ero e che aveva bisogno di andarmene, lui mi ha raggiunto a Berlino, dove siamo rimasti giusto il tempo di fare le valigie e avvertire nostra madre, poi siamo saliti sul primo aereo disponibile e non ci abbiamo pensato più. Mi sono accorto che il mio cuore ha ricominciato a battere regolarmente quando eravamo in volo e alla prima telefonata di David, al nostro arrivo, stavo già meglio di quando ero partito ed è stato più semplice accettare ciò che mi stava dicendo, e cioè che ci avrebbe pensato lui a sistemare ogni cosa ma che non mi aspettassi di ricevere comprensione dalla casa discografica, perché quella potevamo scordarcela tutti quanti.
Tutta la comprensione di cui avevo bisogno in quel momento, comunque, era quella di Tom e lui non mi ha deluso nemmeno per un momento. Non che mi aspettassi il contrario, ovvio, ma dopo tutto quello che gli ho fatto passare sarebbe stato anche logico che mi stesse vicino senza necessariamente buttarsi anima e corpo nell'impresa, e invece lui l'ha fatto e di questo gli sarò sempre grato.
In pratica mi ha preso in consegna su suolo straniero e mi ha liberato solo quando abbiamo di nuovo toccato suolo tedesco quasi tre settimane dopo, attaccandomisi addosso come una patella per diritto della sua condizione di gemello omozigote; e io, per la prima volta da tre anni a questa parte, sono stato felice di vederglielo fare per più di due giorni di seguito. Non chiedevo altro che di poter passare ogni singolo istante della mia giornata con lui, il quale ha la capacità di eliminare qualunque bolla di spazio vuoto in cui avrei rischiato, anche solo per sbaglio, di farmi venire la nostalgia dei tormenti che mi ero lasciato a casa.
I primi giorni sono stati molto difficili perché non puoi passare dall'essere costantemente circondato da determinate persone al non averle più accanto senza sapere se o quando ti capiterà di riaverle con te, e pensare di abituartici in un istante. Io, per esempio, non riuscivo proprio ad accettare l'idea, anche forse perché ero convinto che la decisione di dedicare del tempo a se stessi senza però fissare un momento preciso in cui ci saremmo rivisti fosse un modo come un altro per dirsi che andavamo ognuno per la sua strada con la speranza, forse, un giorno, di rincontrarsi in un altro momento della nostra esistenza.
E questa cosa non mi andava giù.
Ci saremmo rivisti un giorno, ma quando? Dove? Come? Non riuscivo a pensare ad altro, come se non ci fosse mai stato un tempo in cui io vivevo benissimo anche senza Bushido, Chakuza o Fler. In realtà, anche adesso, non riesco a ricordarmi di quel tempo perché prima di Chakuza c'era solo Bushido e prima di lui la mia testa è solo un gran vuoto, per cui capisco che avevo bisogno di staccare un po', ma non credo per niente al fatto di stare bene senza di loro. Del resto se sono ancora in analisi c'è un motivo, immagino.
Ad ogni modo, durante la mia prima settimana non ho avuto nessuna reazione, stavo lì dove Tom mi trascinava e fissavo il vuoto, a volte piangevo, e lui è stato un sacco paziente con me, non mi ha mai sgridato, neanche quando mi rifiutavo di uscire dal letto. Non ricordo niente di quello che mi diceva per cercare di distrarmi, mi ricordo solo che mi abbracciava spesso e non parlava mai di loro.
A pensarci adesso sembrava che fossi tornato indietro a quando Bushido era morto e non mi riusciva di trovare un buon motivo per cui dovessi continuare ad alzarmi al mattino e vivere la mia vita come prima; succede sempre un po' questo quando ti tolgono in un colpo solo tutto quello che è importante per te.
Poi, ogni giorno ha cominciato ad andare un po' meglio di quello prima finché una mattina non mi sono alzato e mi sono accorto di avere voglia di uscire e fare qualcosa.
Tomi mi ha portato sulla spiaggia a prendere il sole e, per la prima volta da quando eravamo arrivati, ho passato una giornata intera senza pensare ai miei due uomini, lo so perché mi sono venuti in mente solo la sera, quando siamo tornati in albergo ridendo, e la magia della giornata si è un po' spezzata.
Il dottor Schillinger dice che è un bene che io sia arrivato al punto in cui il pensiero di una cosa cambia il mio umore in peggio, significa che fino all'attimo prima di pensarci ero felice e questo è un miglioramento rispetto al mio stato di fissazione precedente, quello che mi ha fatto riavviare il cervello per intenderci.
Io non credo a tutto quello che dice il dottor Schillinger – per esempio lui sostiene che non dovrei chiamarli i miei due uomini, che il mio cervello è già abbastanza confuso così, però io lo faccio lo stesso perché non so come altro chiamarli – ma credo che questa cosa sia vera. Quando penso a Bushido e Chakuza e torno a stare male, mi aiuta sapere che l'attimo prima stavo bene anche se non me ne rendevo conto; posso almeno credere che prima o poi ricapiterà.
Ora, credo, si tratta solo di imparare a gestire quest'infelicità che salta fuori a momenti e che forse svanirà o forse diventerà solo più sopportabile, non lo so. Io propendo per la seconda perché so per esperienza che Bushido non se ne va mai dalla tua testa una volta che ci è entrato e Chakuza è uguale o non sarei qui a cercare di liberarmi anche di lui. Comunque ci vorrà un sacco di tempo e visto quello che sta succedendo in questo momento, forse ce ne vorrà molto più del previsto e torneremo anche indietro di qualche passo, una cosa che non va mai bene ma che succede sempre.
Alla fine, io e Tom alle Maldive ci siamo rimasti un sacco di tempo e ci saremmo rimasti anche tutta la vita, volendo, se David non avesse chiamato per avvertirci di tornare a Berlino il prima possibile. Immagino che avrei potuto appellarmi al mio crollo nervoso, aggrapparmi ostinatamente ad una sdraio e rifiutarmi di partire, ma a quel punto Tom non me l'avrebbe permesso perché lui capisce sempre quando merito del sostegno e quando invece vado preso a ceffoni, e credo che ormai lo sappiate benissimo.
Così abbiamo fatto le valige e abbiamo preso un volo verso casa, con la consapevolezza che non ci aspettava niente di buono laggiù ma che almeno lo avremmo affrontato un po' più serenamente e soprattutto insieme, dal momento che Tomi è stato tanto bravo da non ricucire solo me, ma anche noi due che a dire il vero in questi ultimi tempi ci eravamo un po' strappati.
David è venuto a prenderci direttamente in aeroporto con la sua macchina e come mi ha visto mi ha abbracciato strettissimo e allora mi sono reso conto che non mi vedeva da quando ero scappato dal tourbus. So che chiamava Tom per sapere come stavo ma immagino che finché non mi ha visto scendere dall'aereo sulle mie gambe non è stato davvero tranquillo. Da lì siamo andati a prenderci un caffè, ma la notizia non ce l'ha data subito, il che è indicativo di quanto anche lui sia fuori fase.
Quando c'erano dei guai, David non ce li ha mai tenuti nascosti, preferendo renderci partecipi fin da subito della gravità delle situazioni in modo che imparassimo a gestire gli imprevisti invece di farci prendere dal panico – questo naturalmente se si esclude che mi ha mentito per quasi un anno sul fatto che Bushido non era morto, naturalmente – stavolta invece ci è andato con i piedi di piombo, forse perché non avendomi avuto sott'occhio nei giorni immediatamente successivi al disastro, non aveva idea di come potevo reagire.
Premetto che mentre eravamo in vacanza, Tomi mi ha vietato di guardare la televisione o di leggere le notizie in rete, e io non avevo la testa per ipotizzare quanto potessimo essere nei guai per colpa mia, quindi, quando David mi ha dato la notizia, io non sapevo niente di niente e, per certi versi, nemmeno me lo aspettavo, dopo aver passato un tempo così lungo del tutto sconnesso non solo dalla ma vita ma dalla realtà in generale.
A quanto pare, mentre noi non c'eravamo, David ha tentato l'impresa disperata di spiegare alla casa discografica quale fosse il problema e che ci serviva del tempo per risolverlo, ma i grandi capi non sono stati per niente d'accordo e hanno annullato il nostro contratto. Questa, naturalmente, è la notizia in breve; in realtà David ha fatto un discorso di quasi un'ora cercando di indorare la pillola in modi quasi teneri finché non è stato costretto ad ammettere che eravamo tutti in mezzo ad una strada.
Se devo essere sincero, non so esattamente come mi ha fatto sentire. Qualche anno fa, probabilmente, avrei dato di matto se mi avessero detto una cosa del genere, ma d'altronde allora questo non sarebbe mai potuto succedere, perché la Universal vendeva noi quattro e noi eravamo lì per farci vendere, non ci saremmo mai sognati di fare casino e perdere la possibilità di cantare. Negli ultimi mesi, però, l'unica cosa che è stata davvero pubblicizzata siamo io e Bushido, e noi due non siamo mai stati in vendita. Per questo, forse, quando David mi ha detto che la Universal ci ha scaricato, io ho pensato subito che fosse meglio così, almeno non avrebbe più sfruttato le mie relazioni a suo piacimento. Poi ovviamente mi sono venuti in mente i ragazzi e ho chiesto di loro.
Nel rispondermi, David era molto teso, esattamente come mio fratello, il che mi ha fatto pensare che avessero già parlato in precedenza e non mi ha stupito affatto. D'altronde sono ben consapevole che loro debbano aver discusso del sottoscritto mentre io non ci stavo con la testa.
Gustav e Georg sono due persone estremamente pazienti e mi vogliono bene, per questo durante gli ultimi due anni in cui non solo la mia vita è stata un inferno ma ha condizionato anche la loro, sono stati comprensivi e non mi hanno fatto pesare niente. In questi due anni, però, avevamo ancora un contratto. David me lo ha riferito esattamente così e io ho capito che le due G non erano affatto disposte ad essere comprensive, stavolta. Vorrei poter dire che questo mi ha fatto disperare, ma non è stato così, per il semplice fatto che al momento sono ancora così stanco per ciò che ho passato da non avere la forza mentale di preoccuparmi di qualcos'altro. Non ho voglia di lottare, per niente.
Il dottor Schillinger dice che alla fine dovrò reagire, ma non ho ancora cominciato. Immagino che prima dovrò imparare ad accettare completamente quello che è successo e poi, forse, potrò pensare di rimettermi in carreggiata.
David però lo aveva previsto, lui prevede sempre tutto, quindi mi ha subito rassicurato che non appena la Universal ha ufficializzato il benservito, lui si è messo alla ricerca di un'altra casa discografica che potesse occuparsi di noi. Senza che io gli chiedessi niente, mi ha fatto un elenco infinito di nomi possibili e mi ha fatto sapere che sono in molti ad essere interessati. Gli ho detto che non ne dubitavo, ma non ho chiesto altro. Una cosa che invece volevo fare, anche se mio fratello non era molto d'accordo, era parlare con Gustav e Georg. Tomi non voleva perché, evidentemente, ci aveva già parlato lui e le due G non dovevano esserci andate troppo per il sottile; aveva paura che potessero non essere il massimo della gentilezza e che questo potesse essere un problema per me. Tomi è buffo perché non si fa nessun problema a trattarmi male personalmente ma sta ben attento che non lo faccia nessun altro. E' convinto di sapere solo lui quando e come sarò in grado di sopportare una sfuriata. In generale, per altro, ha anche ragione, ma credo che in questo caso non ci fosse molto da scegliere, io dovevo parlare con Gustav e Georg per forza perché non lo facevo da una vita e perché non poteva farlo lui al posto mio, che mi urlassero contro o meno.
Per cui l'ho fatto. Hanno urlato un po'. Tanto. Ma alla fine era solo di questo che avevano bisogno. A volte quando sei molto arrabbiato con una persona a cui vuoi bene, che sai che non potresti mai davvero odiarla, l'unica cosa che ti serve è urlarle contro tutta la tua frustrazione, in modo che anche lei sappia che la tua pazienza è finita e che è bene tu non la sfidi ulteriormente. Io questa possibilità a loro l'avevo tolta, perché tra una cosa e un altra non c'ero mai, e che non passavo un po' di tempo con loro in una stanza erano mesi, così quando mi hanno visto, hanno dato sfogo ad un bel po' di rabbia ma poi basta. E quando mi sono scusato – e so che mio fratello mi ha guardato sconvolto, perché io scusa non lo chiedo mai e invece questa volta ho cominciato con lui alle Maldive – Georg mi ha anche abbracciato. Mi ha detto che andava tutto bene e che ci saremmo ripresi, perché noi siamo dei grandi e non ci ferma nessuno. Perfino Gustav, che è emotivamente stitico, si è avvicinato per darmi il bentornato e, in uno slancio di megalomania, ha dichiarato che faremo un ritorno col botto tale, che la Universal tornerà in ginocchio piangendo, così potremmo sbatterle la porta in faccia e ridere.
Ora, mentre vi parlo sono passati mesi da quella rimpatriata e non abbiamo ancora notizie di nuovi contratti o anche solo di vaghe idee per un accordo, ma tutti gli altri sono ottimisti, anche David lo è e, secondo il mio psicologo, è bene che lo sia anch'io. Quindi lo sono.
Nello specifico, mi sto impegnando ad essere ottimista nella vasca da bagno.
Disteso sul fondo, guardo il soffitto e inseguo una melodia che dev'essermi comparsa in testa ieri notte e si è fatta trovare pronta quando ho aperto gli occhi questa mattina. E' tutto il giorno che cerco di tenerla a mente e spero che Tom abbia voglia di aiutarmi a metterci delle parole, è così tanto che non lo faccio che mi sento un po' arrugginito. Ho deciso che glielo chiederò dopo aver fatto il bagno, quindi voglio essere pronto per ripetergliela correttamente quando sarò uscito dalla vasca; ho assegnato ad ogni macchiolina sul muro una nota e le ripeto tutte in ordine all'infinito per paura che mi scappino e non tornino più.
Sono qui dentro da non so quanto tempo, ho le dita delle mani tutte raggrinzite.
Mi piace stare con la testa sott'acqua perché è tutto ovattato e mi aiuta a pensare, però così non sento niente. Per questo quando alla fine mi arriva la voce di mio fratello, non so bene da quant'è che stia urlando il mio nome aldilà della porta. Dev'essere parecchio, comunque, perché fa irruzione nel bagno con aria allarmata e si getta a fianco della vasca proprio mentre io ne riemergo di colpo.
“Che diavolo stavi facendo?” Mi accusa subito, spaventato. “Perché non rispondevi?”
Strizzo un po' gli occhi e mi tiro indietro i capelli. “Ero sotto l'acqua,” mi giustifico, lì per lì mica lo capisco che cosa gli è passato nel cervello. “Che succede?”
Lui si lascia andare seduto a terra e fa un sospirone sollevato. “Mi hai fatto prendere un colpo,” mormora, deglutendo. Poi si butta giù lungo disteso sul pavimento e guarda le macchioline del soffitto senza sapere che sta osservando la nostra nuova canzone. “Credevo...” si appoggia una mano sulla fronte e mi guarda. Da quella prospettiva i suoi occhi sono due linee sottili mentre scuote la testa. “Lasciamo perdere. Ma non farlo mai più, chiaro? Rispondimi la prossima volta.”
Io sorrido e mi appoggi al bordo della vasca. “Non mi suiciderò nella vasca da bagno,” prometto.
“Tu non ti suiciderai e basta, cretino,” replica e mi tira in faccia la prima cosa che gli capita sotto mano e che, purtroppo per me, sono i calzini sporchi che ho gettato a terra prima di entrare in vasca.
Faccio una smorfia mentre li lancio nel posto in cui si meritano di stare, ossia il cesto dei panni sporchi, mancandolo di quel mezzo metro standard con cui manco qualsiasi cosa in cui devo fare centro. “Allora, perché mi chiamavi? Se volevi vedermi nudo ti bastava guardarti allo specchio,” lo prendo in giro.
Tom appoggia di nuovo la testa in terra. “Ti suonava il cellulare.” Solleva il mio telefono in aria e se lo rigira tra le dita, senza guardarlo. Quando si volta verso di me è molto serio. “Bill, se ti faccio una domanda mi risponderai sinceramente?”
“Sì.”
Non me la fa subito, prima guarda di nuovo il soffitto. “Hai chiamato Bushido in questi giorni?”
Sono quasi sicuro di sussultare quando lo dice, perché quel nome non me lo aspetto proprio. Io non ci stavo pensando e, come ho detto, quello per lui è un argomento proibito. “No, perché?”
“Sicuro?” Mi guarda attentamente adesso. Non è arrabbiato, ma se per caso gli stessi mentendo e lui venisse a saperlo, sarebbe molto deluso di me. Riesco a leggere tutto questo dentro ai suoi occhi e sono molto felice di stare dicendo la verità.
“Sì.”
Mi sta ancora fissando quando il telefono, all'improvviso, si mette a squillare. Tomi legge il nome sul display e si mastica l'interno di una guancia. “E' lui,” dice e si vede lontano un miglio che la cosa non gli va a genio per niente.
Io guardo il cellulare che continua a squillare e mi sembra che lo faccia sempre più forte solo perché non premo il pulsante di risposta. Penso distintamente che non sono pronto a sentire la sua voce, ne ho paura ed è quasi come avere in mano una bomba ad orologeria che non smetterà di ticchettare finché non taglio il filo giusto. Potrei buttare il telefono in acqua.
“Non devi rispondere se non vuoi,” mi dice Tomi. “Non sei obbligato.”
“Potrebbe essere importante.” Quando premo il pulsante, non ho pensato davvero di farlo, è un gesto che mi viene automatico dopo che ho detto quella frase. Mi rendo conto solo vagamente che è appena scattato in me uno di quei meccanismi che Anis mi ha lasciato addosso.
Due anni fa, prima che Bushido morisse, prendevo molto sul serio le sue telefonate fuori programma perché erano quelle con cui mi comunicava di essere nei guai; che fossero le quattro del mattino, o stessi facendo altro, io rispondevo sempre perché poteva essere una cosa seria.
“Pronto?”
Anis non risponde subito, lo sento prima tirare un sospiro di sollievo. “Bill, stai bene?”
Per un attimo mi chiedo se anche lui era preoccupato che mi stessi suicidando nella vasca da bagno, ma poi mi rendo conto che questo non ha senso. “Sì, sto bene. Perché?”
“Dove sei?”
Io non mi stupisco del fatto che abbia chiamato dopo sei mesi e, senza nemmeno salutarmi, si stia impicciando dei fatti miei. Mi sarei preoccupato del contrario. “A casa di Tom,” rispondo.
Mio fratello è ancora a terra e guarda il soffitto fingendo disinteresse, ma da come si sta mangiando le unghie capisco che ci sta ascoltando ed è nervoso per questa telefonata, ma non si sente abbastanza in diritto di fare qualcosa al riguardo. Vorrei dirgli che sono nervoso anch'io, se la cosa può consolarlo.
“C'è qualcuno lì con voi?” Mi chiede ancora Anis. “Jost, magari? O una guardia del corpo.”
“No, siamo solo noi due. Perché che succede?”
Dall'altra parte è di nuovo silenzio e comincio a preoccuparmi, non fosse altro che perché l'ultima telefonata del genere che ci siamo scambiati è finita con lui morto sul mio letto. Vorrei evitare di ripetere l'esperienza, per qualche motivo ho la sensazione che ricomincerebbe tutto da capo.
“Chiedi a tuo fratello di portarti a casa mia,” riprende Anis, ignorando completamente la mia domanda.
“Cosa? Perché dovrei?”
Tom si solleva sui gomiti e mi fa cenno col mento verso il telefono. Io guardo nella sua direzione ma non sto davvero guardando lui mentre aspetto la risposta di Bushido.
“Non è sufficiente che te lo dica io?” Chiede Anis, alzando un po' la voce; ma non è arrabbiato, solo teso e preoccupato. E' per questo che non mi arrabbio.
“No, Anis, non è più sufficiente,” mormoro piano. Poi sospiro perché non è vero. “Dimmi che cosa sta succedendo, per favore.”
Tom è così bravo che capisce al volo quello che voglio fare, alzandosi in piedi per venirmi incontro con l'accappatoio prima ancora che io abbia finito di tirarmi fuori dalla vasca. L'acqua si sta freddando e non è più piacevole stare a mollo, e poi so che in qualche modo mi sto già preparando ad uscire di casa.
“Ho bisogno di saperti in un posto sicuro,” mi dice lui.
“Questa casa è sicura,” protesto.
Questa volta la pausa la fa perché vorrebbe rispondermi male e sa di non poterlo fare. “Preferirei che tu venissi da me,” si corregge, alla fine. “La villa è protetta e sarei più tranquillo se ti avessi lì.”
Sposto la cornetta da un orecchio all'altro per infilarmi l'accappatoio. “Te lo chiedo di nuovo, Anis. Si può sapere che cos'è successo? Tu dove sei?”
“In giro,” risponde. “Devo controllare una cosa.”
E a me non piace che sia così vago, né che ci siano delle fantomatiche questioni che richiedono il suo controllo in qualche parte della città, che poi scommetto è Tempelhof perché Berlino gli piace tanto ma poi, a conti fatti, tutto con lui si riduce sempre e solo al ghetto.
“Che senso ha che venga a casa tua, se tu non ci sei?” Gli faccio notare.
“Bill, te lo chiedo per favore,” insiste lui e la sua voce è così piena di apprensione che un po' mi dispiace non avergli obbedito subito. “Vai alla Villa. Appena arrivo ti spiegherò tutto, te lo prometto.”
Sospiro e guardo Tom che non ha sentito niente della telefonata ma ha già capito che qualcosa non va e che io ci sono finito in mezzo. D'altronde ho risposto, non poteva succedere che questo.
“Non ho più le chiavi,” dico alla fine, rassegnato.
“C'è Karima in casa, ci penserà lei ad aprirti.”
Io frugo fra la roba che ho sul letto per mettere insieme qualcosa di decente da mettermi, ma non parlo. Ascolto il suo respiro e il rumore vago che sento in sottofondo, anche se non so decifrare che cosa sia.
“Bill, sei ancora lì?”
“Sì,” sbuffo, cercando di infilarmi i pantaloni mentre tengo il telefono incastrato tra la testa e la spalla.
“Fai come ti ho detto, d'accordo? Entra in casa e chiuditi dentro, e non muoverti finché non arrivo. Sarò lì il prima possibile.”
Sospiro. “Ho capito.”
Esita un attimo. “D'accordo,” dice poi.
E chiude la telefonata.

*



La villa di Anis non è la fortezza che potrebbe essere, volendo, viste le dimensioni.
A volte si sente di queste case di attori famosi che, in quanto a sistemi di sicurezza, fanno concorrenza alle banche Svizzere e che per entrare là dentro – se per caso ti sei dimenticato le chiavi – ti ci vuole la scansione della retina, le impronte digitali e qualche codice supersegreto.
Ad Anis un sistema di sicurezza simile non servirebbe a molto, a parte a far vedere che è ricco e può permettersene uno, perché poi il più delle volte, se qualcuno gli suona il campanello, scende lui in ciabatte ad aprire il cancello, con i labrador che fanno già le feste prima ancora di vedere chi è l'ospite. Nonostante questo, però, un sistema di sicurezza c'è ed è comunque molto più avanzato del mio videocitofono, che è la sola cosa che s'interporrebbe tra me e un ipotetico malintenzionato, a parte la porta.
Innanzitutto c'è un sistema di telecamere che funziona. Sono ovunque, non solo sopra il cancello, ma anche lungo tutto il perimetro del giardino. Le porta di entrata è blindata, con doppia serratura, e la casa è protetta con un sistema d'allarme elettronico che si attiva e disattiva solo attraverso un codice a tempo collegato direttamente con la polizia, una cosa che i primi mesi ha fatto accorrere pattuglie su pattuglie finché non l'ho costretto a segnarsi le sei cifre che gli servivano su un pezzetto di carta da tenere nei pantaloni.
Quando arriviamo con la macchina di fronte al cancello, quello è chiuso e non si apre nemmeno quando sono costretto a scendere per inserire il codice a mano, segno che Bushido lo ha cambiato o ha bloccato tutto per sicurezza e che davvero mi toccherà suonare il campanello, una cosa che odio non per il campanello in sé, naturalmente, ma perché a rispondermi sarà Karima. E io odio quella donna.
La sua voce gracchiante esplode dall'interfono qualche secondo dopo che ho suonato. “Chi è?” Urla, come se non ci fosse un microfono e io dovessi sentirla parlare da dentro la casa, a duecento metri da lì e con le finestre chiuse.
“Sono Bill,” rispondo.
Lei sembra pensare un attimo. “Il signore Ferchichi non è in casa, signor Kaulitz,” mi risponde dopo un po', con il suo forte accento straniero. A volte quando parla nemmeno capisco quello che sta dicendo; per esempio, adesso, ha pronunciato il cognome di Anis in un modo in cui non lo pronuncia nemmeno lui e mi sembra che quasi lo faccia apposta.
“Lo so, mi ha chiesto lui di venire e di aspettarlo qui.”
Altro silenzio e poi sento il ronzio della telecamera sopra la mia testa che gira, così mi metto a favore e mostro i denti. “Sono io per davvero,” commento. E il cancello scatta.
Se fossi stato in pericolo, probabilmente avrebbero potuto farmi fuori semplicemente aspettando che scendessi a provare alla cameriera che non sono un impostore davanti alla telecamera a circuito chiuso.
Tom aspetta che io risalga, quindi oltrepassa il cancello che ha appena finito di aprirsi e già viene richiuso.
Parcheggiamo sul retro e appena chiudo la portiera ecco che Skyline e Sherlee mi vengono incontro abbaiando felici. Skyline si getta addirittura a terra per farsi grattare la pancia da mio fratello e poi guaisce come un invasato, dimostrando la sua natura di cane da guardia.
Karima ci aspetta sulla porta, un po' per vedere se davvero sono io, immagino, ma soprattutto per ricordarci immediatamente di pulirci le scarpe sullo zerbino, perché chissà quando ha piovuto e fuori c'è fango. Anis ha speso non so quanti milioni per fare ovunque vialetti in cemento, ma per lei la gente porta sempre fango in casa. Tra le altre cose non capisco come Bushido possa desiderare di tenerla con sé, quando palesemente gli sarebbe bastato vivere con sua madre che si sarebbe comportata allo stesso modo.
Io mi pulisco diligentemente i piedi, ma faccio entrare anche Skyline e Shrlee, che sono sicuro lei ha buttato fuori non appena Bushido si è allontanato, e la prima cosa che quei due fanno è urtare di corsa il tavolino e buttare in terra il vassoietto con le caramelle.
Karima non dice niente, ma mi guarda malissimo e io la ignoro mentre Skyline cerca di riparare ai suoi stessi danni mangiandosi le mentine che ha fatto cadere.
“Che cosa dovremmo fare, adesso?” Mi chiede Tom, quando finalmente riesce a trascinare via Skyline, tirandolo per il collare, in modo che Karima sia libera di pulire in terra senza che lui lecchi anche la scopa.
E' cresciuto un sacco in fretta, questo cane, non so cosa Anis gli dia da mangiare ma è enorme e massiccio, e ha la testa grossa come la mia.
Io mi siedo sul divano e Sherlee mi appoggia il muso sulle ginocchia. “Non ne ho idea,” faccio una smorfia. “Aspettare, credo.”
Skyline abbaia due volte, come a sostenere la mia tesi e allora faccio una carezza anche a lui, ora che si è messo buono accucciato ai piedi di Tom del quale è perdutamente innamorato da quando era un cucciolo, anche se l'ha visto si e no sei volte perché non è che mio fratello abbia passato molto tempo da queste parti da quando Bushido ha comprato i cani, se non per passare a prendermi e riportarmi.
Siamo lì da dieci minuti che ci guardiamo intorno quando all'improvviso Skyline scatta in piedi e si getta in corsa dall'altra parte della stanza scodinzolando e muovendo le orecchie, senza dimenticare di travolgere qualunque cosa si trovi sulla sua strada. “Skyline!” Lo chiamo, ma lui non mi ascolta e allora mi accorgo che nascosto in un angolino, dietro le tende, c'è un cagnolino minuscolo che trema e guarda Skyline terrorizzato, anche se quello in realtà abbaia e sbava solo perché è felice e vuole giocare.
“E tu che cosa saresti?” Chiede Tom, tirandolo su da terra e lontano dalle effusioni esagerate di Skyline, che allora si solleva su due zampe per piantargli quelle anteriori sui pantaloni nel tentativo di attirare l'attenzione e farsi dare il cucciolo.
“E' il motivo per cui quel mostro era fuori in giardino,” risponde Karima, finendo di ripulire le mentine con un colpo secco della scopa. Skyline sembra capire di essere stato offeso ingiustamente, perché uggiola e si mette seduto. “Il cane del signor Glöckler ha paura di Skyline.”
“Il signor Glöckler?” Chiede Tom, allontanando per un attimo l'attenzione dal cucciolo che ne approfitta per arrampicarglisi su una spalla e guardare Skyline, laggiù in basso, con aria sollevata.
“Kay One,” suggerisco. Nemmeno io sono abituato ad usare il nome e il cognome di Kenneth, mi sembra sempre strano perché il suo soprannome sembra già un nome proprio, non è come Fler, Bushido o Chakuza. “Non sapevo che avesse un cane. Come si chiama?”
“Chico,” risponde Karima con un sospiro. Poi alza gli occhi al cielo e scuote la testa, prima di scomparire in cucina.
Ridacchio mentre Chico fa conoscenza con mio fratello. Nonostante la propria generale scemenza, Skyline capisce al volo che dovrà dividere l'oggetto del proprio amore col piccoletto, e abbaia per farsi guardare.
Non invidio Tom neanche un pochino, non è facile stare nel mezzo.
Ad ogni modo, se Kay ha lasciato qui il suo cucciolo, significa che Bushido deve aver chiamato anche lui e che sono andati insieme, ovunque dovessero andare. Mi chiedo chi altro ci sia dei ragazzi e sopratutto che cosa sia successo. La voce di Anis era tesa e non aveva il solito tono un po' sbruffone che ha di solito in ogni altro momento, anche quando legge la lista della spesa. Era nervoso e preoccupato, e con ben poca voglia di scherzare, quindi deve trattarsi di qualcosa di grosso e non mi piace per niente.
Quello che più di tutto mi dà da pensare è che non ha preso la BMW ma l'altra auto, quella che non ha mai visto una premiazione o un concerto e che di solito sta parcheggiata sul retro sotto un telo. Questo significa una cosa soltanto e cioè che si tratta di una questione che vuole o deve risolvere da solo, una questione nella quale è possibile che abbia ragione ma, molto più probabilmente, ha torto perché, quando è dalla parte del giusto, Anis non si scomoda ad uscire di casa. Fa qualche telefonata e mette in campo il suo esercito di avvocati, assicurandosi che quelli gli riportino in tasca un mare di soldi anche per la minima idiozia. Quindi deve trattarsi di qualcos'altro e, mentre osservo la BMW e l'auto di Kenneth parcheggiate sul vialetto, mi chiedo dove sia e quanto grave è il guaio in cui si è andato a cacciare.
Mio fratello, naturalmente, è ignaro di tutti gli scenari tremendi che mi stanno passando per la testa in questo momento e se ne sta sul divano a giocare con i cani; non so esattamente che cosa pensi del fatto che siamo qui.
“Quando pensi che tornerà?”
Mi scosto dalla finestra e rimetto a posto le tende. “Non ne ho idea, non mi ha detto nemmeno dov'era.”
Sento Tom sbuffare. “Si ricomincia.”
Non posso arrabbiarmi con lui se non è contento, d'altronde non lo sono nemmeno io. Aspettare per chissà quanto in casa sua senza sapere dov'è o quando tornerà non è esattamente l'idea che mi ero fatto di un nostro ipotetico incontro dopo mesi, se mai ci fosse stato. Nella mia testa era qualcosa più sullo stile di me e lui che ci sediamo in un bar a parlare e sorridiamo perché io finalmente riesco a guardarlo in faccia senza che il cervello mi si scombini tutto di nuovo. Invece sono qui e non so come reagirò quando attraverserà quella porta, non so nemmeno in che stato sarà quando lo vedrò e se la questione che lo ha tenuto lontano da casa stasera sarà così grave da annientare qualunque altro problema avessimo.
Non mi piace non sapere niente; questo, per altro, è anche l'unico motivo per il quale abbiamo sempre litigato e per il quale è morto, anzi si è finto morto. Non ha mai capito che questa sua costante necessità di tenermi lontano da tutto ciò che lo riguarda per proteggermi non faceva altro che mettermi in ansia. Io voglio il controllo delle cose esattamente come lo vuole lui; e invece sono qui che mi aggiro per il suo salotto, dopo mesi che non ci mettevo piede, senza sapere perché.
Emetto un ringhio frustrato che fa girare i cani e mio fratello, e poi provo a chiamarlo sul cellulare. Squilla a vuoto non so quante volte prima che mi decida a riattaccare.
“Niente?” Chiede Tom.
“No,” sbuffo e torno a sedermi accanto a lui che mi passa un braccio intorno alle spalle e non dice una parola mentre gli appoggio la testa sulle ginocchia anch'io, come Chico e Skyline.
Karima compare sulla porta con un vassoio largo il doppio di lei e i cani si gettano alla carica immediatamente. Lei non si scompone come mi aspetto, li guarda dritti negli occhi e poi dice loro qualcosa in tunisino. Quelli si fermano e Skyline abbassa pure le orecchie, per buona misura, così lei può riprendere ad avanzare verso di noi con tranquillità.
“Scommetto che non avete mangiato niente,” dice apparecchiando per me e Tom direttamente lì sul tavolino da caffè, ben sapendo che altrimenti io, almeno, le risponderei di non aver voglia di arrivare fino al tavolo per mettere in bocca qualcosa. Questa donna mi conosce troppo bene. “Volete un po' di pasta al forno?”
Qualunque cosa io voglia, come al solito, non ha importanza perché lei mi sta già servendo, quindi sarà bene che accetti prima che cominci ad accusarmi di essere una cattiva persona perché non voglio mangiare quando in Tunisia i bambini muoiono di fame.

*


Alla fine io e Tom aspettiamo almeno tre ore prima che qualcuno si faccia vivo e, visto che suona il campanello, posso mettermi l'anima in pace e capire fin da subito che non si tratta di Anis.
Quello che non mi aspetto, però, è di vedere i ragazzi – tutti quanti – attraversare la porta di casa ricoperti di sangue dalla testa ai piedi. Mentre, uno dopo l'altro, cercano disperatamente di limitare i danni con due o tre strusciatine di scarpa sullo zerbino e poi si raggruppano in un angolo del salotto stretti stretti per sporcare il meno possibile, non riesco a pensare davvero a qualcosa. Quello che sto guardando non ha senso ed è peggio di qualsiasi cosa avessi pensato. Mi alzo in piedi e sento il calore di Tom subito dietro di me, ma solo quando mi tocca un braccio, forse nel debole tentativo di tenermi lì, ricomincio a pensare e a sentire tutto quanto, soprattutto le urla orripilate di Karima che un po' grida, un po' si lamenta, un po' minaccia di buttarli tutti fuori dalla finestra se sporcano il tappeto persiano e quelli, spaventati dal suo tedesco fantasioso, si spostano un po', cercando di non calpestarsi a vicenda.
“Che cos'è successo?” Mi avvicino e li guardo tutti, preoccupato. “Dov'è Anis?”
Fler si pressa i palmi delle mani sulle tempie, come se avesse l'emicrania. “Sta arrivando, ragazzino,” mi risponde con uno sbadiglio. “E' tutto a posto. E' ancora vivo.”
“Ancora?” Chiedo.
“E' vivo,” precisa Fler, col suo solito sorriso. Quello che mi rifila quando mi preoccupo inutilmente; eppure non mi sembra di essere così fuori dal mondo se sono in ansia vedendoli ricoperti di sangue. “E' dovuto andare... in un posto, ma sta tornando.”
Continuo a guardarlo diffidente e lui tira un sospiro più grosso degli altri. “Sta bene, Bill,” insiste. “Te lo giuro.”
Non sono convinto, anche perché lui non è qui, e questa è l'unica cosa che mi darebbe l'assoluta certezza che sta bene, però non posso fare altro che credere a Fler e poi, al momento, sono loro la priorità.
Sono una visione disturbante per come sono conciati, hanno sangue perfino nei capelli e in faccia. Mentre li guardo li conto, perché c'è qualcosa di strano. Sono cinque anche senza Anis, così mi rendo conto che c'è una faccia nuova. Squadro il ragazzo biondo da capo a piedi ma sono sicuro di non averlo mai visto, nemmeno in una delle tante occasioni in cui Anis o gli altri hanno ricevuto visite da qualche altro rapper. Si conoscono tutti e, quando non si vogliono morti per qualche motivo, vanno a trovarsi per chiedersi favori a vicenda, questo però avrà la mia età, se non è addirittura più piccolo, di certo non può venire dal passato di Anis o da quello di chiunque altro. “E lui chi è?” Chiedo, indicandolo. Lui prima mi guarda e poi guarda Fler, così guardo Patrick anch'io, in attesa di una risposta che evidentemente tocca a lui.
“Si chiama Daniel,” mi dice.
“Ed è il suo ragazzo,” s'intromette Chakuza con uno sbuffo irritato dal naso.
Io mi giro verso di lui un po' sorpreso perché quella possibilità non l'avevo nemmeno contemplata, e per un attimo ci guardiamo condividendo un vago senso di sconvolgimento prima di renderci conto che quella è la prima volta che ci diciamo qualcosa in sei mesi, e lo facciamo per parlare di una cosa del genere.
Chakuza tossisce e inchioda lo sguardo per terra e, mentre anch'io faccio lo stesso, so che finirà per passarsi una mano sugli occhi come se fosse stanco, perché è quello che fa sempre quando è imbarazzato.
In realtà, mi piacerebbe continuare questo interrogatorio e possibilmente trarne qualcosa di più soddisfacente di un nome e di una notizia incomprensibile, ma non posso perché Karima, alle mie spalle, si sta ancora lamentando del tappeto e della striscia di impronte rosse che i ragazzi si sono lasciati alle spalle; nel farlo, per altro, sta agitando i cani che si sono messi ad abbaiare e non smettono nemmeno quando Tom cerca di calmarli. Il piccolino è così spaventato che guaisce e indietreggia fino a tornare dietro la sua tenda. “D'accordo, adesso basta!” Esplodo. “Karima, perché non la smetti di urlare e vai a prendere gli asciugamani e dei vestiti puliti? E voi cinque filate in bagno a darvi una lavata, siete impresentabili.” Mi sorprendo anch'io quando mi obbediscono tutti, perfino Karima. “Il bagno degli ospiti!” Preciso poi, quando li vedo già pronti a salire al piano di sopra.
Cambiano direzione e borbottano molto perché il bagno di Anis è una reggia e la doccia è gigantesca, ma non esiste che io li faccia entrare là dentro in quello stato. Mi piange il cuore al solo pensiero che possano macchiare qualcosa, senza contare che Bushido mi ammazzerebbe.
Mio fratello mi osserva con la faccia di uno che vorrebbe dire molte cose ma sceglie di non dirle per il quieto vivere e io, in questo momento, apprezzo molto la sua decisione. Ho cinque uomini che sembrano usciti da un mattatoio e un uomo scomparso che dovrebbe tornare da non so dove, non so quando; per non parlare del fatto che sto pensando e parlando come farebbe Anis e questa cosa mi fa più paura di tutto quanto il resto. Io non ho nessun uomo, tanto per cominciare. E se anche lo avessi non dovrei dovermi preoccupare di fargli portare dei vestiti nuovi dalla cameriera.
Socchiudo gli occhi, respirando per calmarmi e poi raggiungo i ragazzi, appoggiandomi alla cornice della porta del bagno, che sembra l'unica cosa che sono riusciti a non sporcare.
Eko, che si è appena tolto la maglia, sta girando su se stesso nel tentativo di capire che farsene. “Mettila pure in terra, Ekrem,” sospiro. “Tanto dovremo buttarla quella roba.”
Eko esegue, ma poi si rende conto che sono stato io a parlare, si volta e mi guarda con gli occhi sgranati. L'attimo dopo ha afferrato la tenda della doccia e ci si è nascosto dietro. Faccio per spiegargli che non ce n'è alcun bisogno ma poi penso che non ho voglia di finire a parlare di noci di cocco, lo so che succederebbe, quindi lascio perdere. “Adesso volete dirmi che cos'è successo?” Chiedo, incrociando le braccia al petto.
Fler si sfrega la testa con l'asciugamano e poi mi guarda attraverso lo specchio sul lavandino. “Abbiamo avuto una piccola questione da sistemare,” risponde.
“Sistemare in che senso?” Chiedo.
“Eravamo in un magazzino a dieci chilometri da qui, ordini di Bushido,” la voce di Chakuza è ferma ed è tesa, e io mi accorgo che inconsciamente ho fatto di tutto per non guardare più nella sua direzione. Quando mi giro lui non mi sta guardando, impegnato a recuperare una maglietta dalla pila che Karima ha lasciato sul mobile. Se anche lui ha risposto ad una chiamata di Anis, ci sono due possibilità: o hanno fatto pace o questo è un gran casino. E di sicuro non è la prima.
“Di chi è questo sangue? Siete feriti?” Chiedo, quando il suo viso spunta di nuovo dal colletto della maglia.
“Nessuno è ferito,” mi assicura.
“Non in questa stanza per lo meno,” commenta Eko che, nel tentativo di nascondermi le quattro ossa decisamente poco attraenti che si ritrova, si sta annodando nella tenda della doccia.
“Che significa?”
“E' tutto a posto,” s'intromette subito Fler, mentre Kay colpisce Eko alla testa, confermandomi così che stanno mentendo tutti quanti.
“No, non è tutto a posto, Patrick. Anis mi ha chiamato spaventato e ha voluto che venissi qui a tutti i costi. E dopo quattro ore che aspetto senza uno straccio di notizia, voi arrivate coperti di sangue non vostro e lui non c'è. Quindi ora mi fate la cortesia di piantarla con questa stronzata del tutto a posto e mi dite che cosa cazzo è successo, chiaro?”
Kay si schiarisce la gola, quindi afferra una maglietta e si dilegua, praticamente inseguito da Eko che, dopo aver fatto il danno, se la dà a gambe senza ritegno. Io mi sposto solo per farli passare e poi mi rimetto dov'ero, guardando Fler e Chakuza in attesa di una risposta. Fler gonfia le guance e poi butta fuori l'aria tutta d'un colpo. “C'è stata un'aggressione,” inizia. “E qualcuno è stato ferito.”
“Chi?”
Fler mi ha sempre detto che è meglio non mentire mai, che poi è quello che sostiene anche Bushido, però entrambi sono bravi ad omettere la verità quando è necessario, ossia quando fa male. Per questo più passano i minuti e più mi preoccupo.
“Chi?” Ripeto, quando si ostinano a non rispondermi. “Chi è stato ferito?”
“Jost,” Chakuza è il primo a mormorarlo. Dice anche qualcos'altro, ma il mio cervello smette di ascoltare non appena dice quel nome.
“Cosa?” Quando sento qualcuno ridere ci metto un secondo di troppo a capire che sono io. “Che cosa c'entra David? Lui non ha niente a che fare con voi.”
Lo dico come se David facesse parte di un altro mondo, ma ha aiutato Bushido a fuggire e lo ha tenuto nascosto per un anno intero, quanto può essere diverso dagli altri? Chiunque entra nella vita di Bushido diventa una cosa di Bushido, dovrei saperlo bene. E le cose di Anis hanno la tendenza a rischiare grosso.
“Bill, ascolta....”
“No, lui non c'entra con queste cose,” insisto. “E perché siete andati tutti là? Come faceva Bushido a saperlo?”
“Una chiamata anonima,” mi spiega Fler. “Volevano che lo trovassimo lì.”
Scuoto la testa, tutto questo continua a non avere senso. David è il mio manager, uno che organizza concerti. La gente come lui non dovrebbe finire ferita nei magazzini.
“Come sta?” Chiedo.
Né lui né Chakuza mi guardano in faccia, e penso che non so nemmeno se David è ancora ferito o se è morto e la ferita risale a prima che lo trovassero. O magari anche alla telefonata. Non ho il coraggio di chiederglielo, non ce l'ho proprio. “Non ci credo...” mormoro. “L'ho visto poche ore fa e stava bene.”
Quando mi stacco dalla porta e mi allontano ce li ho subito dietro tutti e due.
“Anis lo sta portando in ospedale,” E' Fler che mi prende al volo prima che arrivi in salotto, mi afferra per un polso e mi tiene lì. Non guardo Patrick anche se ce l'ho proprio davanti, lo vedo muovere le labbra ma smetto di sentire la sua voce. Penso solo che, da qualche parte, stanotte David è stato aggredito e potrebbe morire.
“Bill, mi senti?” Fler mi scuote, e urla più forte finché non lo guardo. “C'è Anis con lui. Andrà tutto bene.”
Sono passati due anni e sei mesi, e io pensavo di aver chiuso con queste cose.
Il dottor Schillinger non sarà affatto contento.

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