Es Kann Beginnen - Vol. 2

di tabata
Per tutta la mia vita ho sempre pensato che la persona più importante, nonché l'unica al mondo, sulla quale potessi sempre contare ero io, e questo mi è servito a salvarmi la pelle un sacco di volte quando ero ragazzino, senza contare che è solo grazie a questo ragionamento che sono arrivato in cima; ho sempre messo me stesso prima di tutto quanto il resto e ho avuto ragione.
L'unica volta che non l'ho fatto e mi sono messo davvero da parte per proteggere qualcosa che consideravo più importante di me, sapete bene com'è andata. Ora, non sto dicendo che la mia storia con Bill e tutto ciò che ne è seguito è stata un fallimento o che abbia provato in via definitiva che è meglio non essere mai altruisti, perché questo non è vero. Anzi, quello che ho fatto sarei pronto a rifarlo anche adesso, altre cento volte se necessario, perché ne è valsa la pena, di amarlo, prima di tutto, e poi anche di vederlo restare vivo nonostante quello che rischiava. Sono orgoglioso di averlo protetto e sono ancora più orgoglioso che sia stato mio; questo però non significa che, nel corso di tutti questi anni – e in special modo nell'ultimo periodo – io non abbia perso di vista chi sono.
Non è stato davvero Bill a cambiarmi, lui ha solo grattato la scorza per rendermi più sopportabile, sono stato io a decidere che volevo qualcosa di diverso per me stesso e che forse, dopo anni passati a guardare il mondo come se mi dovesse qualcosa, era l'ora di concedermi un po' di pace e di ammettere che, in fondo, quello che mi era stato tolto da piccolo, mi era stato tutto restituito con gli interessi.
Quello che non avevo calcolato è che avere qualcosa significa anche rischiare di perderlo e io non ho mai reagito bene di fronte alle situazioni che non posso controllare. Sono stato costretto a sistemare le cose in modo da poter essere io a decidere come dovessero andare, o almeno pensavo.
Probabilmente l'errore si è generato lì, quando ho cercato di comportarmi come un tempo, anche se non ero più la stessa persona. Erano due cose inconciliabili, e ovviamente me ne accorgo solo ora.
Un tempo, quando ero un ragazzo, abbandonare gli oggetti o le persone non era così difficile, non c'era niente al mondo a cui tenessi tanto da volergli stare incollato per sempre. Perfino Fler, che comunque è un pezzo importantissimo della mia vita, l'ho lasciato indietro quando ho voluto farlo. Ogni abbandono era inevitabile e come ogni scelta necessaria la affrontavo con la consapevolezza di non poter fare altrimenti, e che per questo tanto valeva non disperarsi. Con Bill però non poteva essere così, perché io non ero più così e ci tenevo così tanto a lui che era impensabile credere che avrei potuto lasciarmelo alle spalle semplicemente perché pensavo che fosse necessario e lo volevo. Non funzionava più così.
La mia lunga permanenza a Miami ha fatto il resto. Vivere per mesi come se fossi qualcun altro non mi ha trasformato davvero in quella persona, naturalmente, ma ha contribuito a cancellare altri aspetti del mio carattere, tanto che quando sono tornato a Berlino e la situazione mi è sfuggita di mano non ho saputo come gestirla e l'unica soluzione è stata scappare, prima da Bill e poi anche da tutto il resto.
Per tutto questo tempo in cui io e Bill ci siamo fatti del male e ne abbiamo fatto ad altre persone, sarebbe bastato fermarsi e ricordare quello che eravamo. Forse in quel caso avremmo visto quanto eravamo cambiati e avremmo scelto che cosa fare, se ricominciare da capo con un inizio nuovo di zecca o se lasciar perdere; ma con la piena consapevolezza di cosa stava accadendo e non quel gran casino che è stato.
Alla fine, quando tutto è precipitato, non c'era altra soluzione se non quella di non vederci per un po', perché stare da soli era l'unico modo che avevamo per pensare a noi stessi, senza l'impedimento che rappresentavamo l'uno per l'altro. Non puoi davvero farti un esame di coscienza se tutta la tua attenzione è concentrata altrove.
Inoltre, dopo che anche Nyze ci ha mandati tutti a fanculo ed è andato a grattare alla porta di Sido, era chiaro che bisognava facessi qualcosa, ma che non ero in grado di farlo nello stato in cui ero, quindi ho messo i ragazzi in attesa, ho detto loro che potevano fare quello che volevano fino a nuovo ordine e mi sono preso del tempo per me, tanto sapevo che potevamo tutti quanti campare per un po' senza lavorare.
Ho passato gli ultimi sei mesi a ritrovare me stesso e non è stato affatto facile, perché ero sparso tra qui e Miami e ogni pezzo era in un posto diverso.
La prima cosa che ho fatto è stato andare alla mia tomba perché non ci ero mai stato, anche se sembra impossibile. Mi sono portato dei fiori e li ho messi nel vaso con un po' d'acqua, ho anche buttato i mazzi vecchi e ripulito un po' come si fa quando c'è davvero un cadavere.
Poi ho guardato la foto sulla lapide – deve averla scelta mia madre perché sono in giacca e cravatta, e quando mai? – e ho pensato che ero un gran figo quando sono morto e che dovevo tornare ad esserlo, con il beneficio di due anni di esperienza in più. Io rispetto l'esperienza, è quella che ti rende più furbo.
Quindi ho chiamato le onoranze funebri – il loro numero è l'ultima cosa che ho chiesto a Jost prima di salutarlo a chissà quando – e ho preso accordi perché la cassa fosse dissotterrata e la tomba rimossa fino a che non fosse servita di nuovo. Immagino che non gli capiti spesso che uno dei loro clienti non sia soddisfatto, li ho rassicurati che non cercavo alcun rimborso e ho chiuso la chiamata ridendo e sentendomi molto meglio di prima.
A quel punto ho fatto un biglietto per Miami e sono andato a trovare Conrad, che ci ha messo quasi tre giorni a decidere che era incazzato con me – perché me n'ero andato di punto in bianco lasciandolo nella merda – ma non abbastanza per rifiutarsi di salutarmi e offrirmi una birra. E' un brav'uomo e non mi ha chiesto niente, si è bevuto con un sorriso la balla che gli ho rifilato senza avvicinarmi alla verità nemmeno un pochino e ha infilato in tasca l'assegno che gli ho passato per l'officina – o per quel cazzo che gli pare – e non ha domandato da dove venissero quei soldi, né tanto meno perché glieli stavo dando.
Ho sistemato le ultime cose che avevo lasciato in sospeso e l'ultimo giorno sono andato alla marina, a guardare le barche andare e venire dal molo e a sentire i pescatori della domenica parlare quel misto di spagnolo e americano che le prime settimane mi aveva confuso fin quasi all'esasperazione. Era già abbastanza difficile capire l'inglese per dover decifrare anche un'altra lingua.
Marisol ha finto di trovarmi lì e io ho finto di non aver detto a suo cugino dove andavo. Si è seduta sulla mia panchina guardando l'oceano e ha fatto la sostenuta, come se la mia presenza non la toccasse minimamente. Ho sorriso perché lei e Bill si somigliano in molte cose, forse semplicemente perché sono due ragazzini. Le ho detto che ero tornato per l'ultima volta e lei mi ha chiesto se la donna che mi ha portato via da Miami ne vale la pena. Le ho detto di sì, e poi le ho consegnato le chiavi dell'appartamento.
L'ho intestato a lei e potrà andarci a vivere quando sarà maggiorenne, fino ad allora sarà Miguel ad occuparsene e mi sono già messo d'accordo con lui che torno a fargli il culo se non rispetta le mie richieste.
Immagino che Jost non sarà affatto d'accordo su questa mia scelta, ma naturalmente me ne frego. Non volevo vendere quella casa, ed era uno spreco farla andare in rovina.
Dopo aver ucciso definitivamente Tarek ed essere uscito dalla mia tomba, sono di nuovo sparito dalla faccia della terra per qualche settimana, ma questa volta solo per andare in vacanza e quando sono tornato ero pronto a far sapere alla Universal e a Berlino che non ero affatto finito, ma anzi avevo molte più idee dell'ultima volta che mi avevano visto.
Ho scritto un sacco in questi ultimi tempi e ho cominciato a fare telefonate. La Universal mi ha scaricato, è vero, ma la mia etichetta è quasi indipendente e non vedo grossi ostacoli perché non lo diventi completamente, devo solo organizzarmi. Ci sarebbe anche la possibilità di unire l'Ersguterjunge e la Beatlefield, ma al momento non sono ancora sicuro di poter venire a patti con Chakuza, per cui sto cercando vie alternative. Sono lanciatissimo, comunque, e mi sento bene.
La giornata è iniziata bene, se si esclude Karima che prende come scusa una telefonata di mia madre per fare irruzione in camera mia e tirare le tende che è ancora quasi l'alba; lei sostiene che io mi debba alzare presto perché il mattino ha l'oro in bocca ma io sospetto di doverlo fare soprattutto perché i miei cani stanno uggiolando da ore e vogliono attenzioni che lei non gli dà. La sento borbottare qualcosa che non capisco mentre nascondo la testa sotto il cuscino per guadagnare ancora qualche minuto di sonno e Skyline e Sherlee ne approfittano per entrare abbaiando e saltare sul letto, a volte mi sembra di avere due bambini invece che due labrador.
Rido perché mentre Sherlee si accontenta di essere riuscita ad entrare in questo posto proibito e si stende composta ai miei piedi, Skyline si agita come un ossesso, gira in cerchio sul letto, e infila la testa sotto il cuscino per leccarmi la faccia, finché io non gli do retta e non mi alzo. Ha un giardino abbastanza grande per perdersi ma lui è viziato e vuole fare il cane da appartamento, ossia pretende che gli metta il guinzaglio ad orari prestabiliti e che lo porti fuori, così può vedere il quartiere, incontrare gente e farsi fare i complimenti da tutti quanti. Oggi non mi dispiace, comunque, perché ho delle cose da fare e posso portarmelo dietro, fortunatamente lui è anche il cane geloso, quindi se lascio Sherlee a casa troverò ancora intatto il mio paio di mocassini preferiti quando ritorno.
Io e Skyline abbiamo un percorso collaudato che ci piace molto, e lo facciamo da così tanto tempo che dopo aver attraversato il primo grosso stradone posso anche togliergli il guinzaglio perché non si perde più, e non scappa nemmeno. D'altronde non ha motivo di scappare visto che a casa mia mangia quattro volte al giorno, che è una volta in più di quanto faccio io visto che la mia governante dice che devo mangiare più sano.
Ci fermiamo a fare colazione, a comprare il giornale e poi tento disperatamente di farlo salire sul sedile posteriore della macchina, ma lui snobba qualsiasi mio ordine per sedersi sul sedile del passeggero, con il muso rivolto verso i bocchettoni dell'aria condizionata e gli occhi semichiusi e goduriosi di fronte al venticello fresco che gli manda indietro le orecchie. E' agosto e fa molto caldo, sta soffrendo un sacco povera bestia, magari lo porto al mare. Ho voglia di mare, anche se sono tornato nemmeno due settimane fa.
Quando arriviamo agli studi penso distintamente che è una giornata quasi perfetta e che sono particolarmente felice di come stanno andando le cose, questo perché non so che da lì a sei ore qualcuno rapirà Jost e lo aprirà in due come un'arancia. Le giornate troppo belle dovrebbero essere il primo segnale per chiudersi in casa e rimanerci.
Lo studio è chiuso da quando ho mandato tutti a pascolare e, siccome questo non è il club del cucito anche se ce lo hanno detto spesso visti i recenti sviluppi, nessuno si è preso la briga di pulire prima di andarsene, con il risultato che quando apro la porta l'odore che ne esce è nauseante e mi prende in gola fin quasi a farmi lacrimare gli occhi. Skyline si rifiuta di entrare e mi aspetta seduto sullo zerbino finché non ho finito di aprire tutte le finestre e arieggiare la stanza. Volevo mettermi a lavorare subito, ma è evidente che non posso se voglio sopravvivere, quindi decido di dare almeno una ripulita sommaria, giusto per avere una scrivania libera su cui lavorare. In realtà mi lascio prendere la mano, perché rimettere in piedi questo posto ha un che di metaforico, così quando ho finito è già tardissimo e faccio appena in tempo a provare qualche cosa al microfono, prima di dover avvertire in ritardo Karima che non riesco a tornare per cena, sentirla sbraitare che metterà tutto in frigo e dovrò mangiarmelo domani, e dividere mezza pizza ordinata al volo con il mio cane.
Sto per decidere di rimanere un altro paio d'ore, quando mi suona il telefono. Ci metto un po' a trovarlo perché non so dove l'ho lasciato mentre pulivo. Lo recupero al volo da sopra una sedia e bevo l'ultimo sorso di birra mentre premo il bottone. “Pronto?”
Dall'altra parte c'è un lungo silenzio, ma sento respirare, quindi non è caduta la linea. Mi scosto il cellulare dall'orecchio per dare un'occhiata al display; il numero è privato. “Pronto?” Ripeto.
“Bushido?”
La voce è ovattata, vagamente roca, e molto bassa come se chi sta dall'altra parte stesse sussurrando. Aggrotto le sopracciglia. “In persona. Chi parla?”
“Abbiamo preso uno dei tuoi, stanotte,” mi dice.
Smetto di passare il tempo di questa telefonata rimettendo a posto documenti che sono sparsi in giro per la stanza da quasi sei mesi e mi fermo, così all'improvviso che perfino il cane s'incuriosisce e lo sento guaire in un angolo. “Di che diavolo parli?” Chiedo. “Chi cazzo sei?”
“Qualcuno pensa che il tuo ritorno sia inopportuno, Bushido. Questo è solo un avvertimento. Troverai l'uomo in uno dei magazzini fuori città, dicono che li conosci bene” risponde la voce, ignorando la mia domanda.
“Che cosa gli avete fatto?”
Dall'altra parte c'è un sospiro di condiscendenza. “Non posso promettere che lo troverai ancora vivo, ma puoi sempre provare.”
Dieci anni fa Ari ci teneva la roba da quelle parti; ma è un labirinto. Ci sono centinaia di magazzini e la zona si estende per chilometri, mi servono più dettagli. “Dammi l'indirizzo preciso,” ordino, mentre recupero le chiavi della macchina e batto una mano sulla coscia per chiamare Skyline. Aspetto impaziente che esca prima di chiudere la porta.
La voce dall'altra parte bisbiglia, per un secondo sento altre voci. Chiunque sia al telefono, non è lui che prende le decisioni perché si sta consultando; presumo che neanche gli altri ne sappiano di più. “Ti darò l'indirizzo, ma non sperarci troppo,” dice alla fine, con una mezza risata. “Era messo male quando lo abbiamo lasciato.”
Quando la telefonata si chiude di colpo, ho una strada e il numero identificativo di una magazzino, ma non so ancora quale dei miei uomini sta morendo a quasi dieci chilometri da qui. Il mio cervello fatica a mettersi in moto. Doveva essere una serata tranquilla in studio, cazzo, e invece sto guidando a duecento all'ora in pieno centro a Berlino. Faccio mente locale, ma non serve a niente. Un tempo conoscevo a memoria gli spostamenti di tutti, adesso sono sei mesi che non vedo nessuno, i ragazzi potevano essere ovunque stasera. Chiunque può essere finito in quel magazzino.
I nomi sono tanti, ma il primo che mi viene in mente è Bill e il pensiero vaghissimo che mi sfiora il cervello fa così paura che non ci penso, lo chiamo e basta. Ci mette troppo a rispondere, io lo so che è lento e perde sempre tutto, che probabilmente il cellulare ce l'ha in un'altra stanza o, peggio, magari gli è cascato nel water o nel lavandino – ne compra uno al mese perché è un danno ambulante – ma in questo momento tutto questo non me lo ricordo e l'unica giustificazione che mi do per gli squilli a vuoto è che il telefono è perso su qualche marciapiede e Bill non può sentirlo perché è in quel cazzo di magazzino. Per colpa mia.
Quando sento la sua voce, tiro un sospiro di sollievo e faccio uno sforzo enorme per non perdermi nella gioia che provo nel sentirla dopo così tanto tempo. Gli chiedo se sta bene, se c'è qualcuno lì in casa ma lui e Tom sono da soli e questo non va bene. Gli chiedo di farsi portare alla villa, non è esattamente una fortezza impenetrabile, ma di sicuro è più protetta di casa loro e, nel caso succedesse qualcosa, la polizia arriverà prima lì che altrove perché l'allarme è collegato direttamente con la centrale. Per convincerlo ci metto le ore, una cosa che convince me del fatto che sta bene. Mi rendo conto che questa è la prima volta che ci sentiamo dopo il tour e non sto facendo che dargli ordini senza spiegargli nulla, ma non ne ho il tempo e lui dovrebbe arrivarci, ma ovviamente no. E' così orgoglioso che deve sempre dimostrare che non lo si può comandare a bacchetta. Alla fine la spunto, ma sono già sotto casa mia e quando riattacco sto parcheggiando col freno a mano praticamente davanti alla porta.
Prima di andare al magazzino devo recuperare la pistola. Da quando Fler mi ha restituito la Heckler e io l'ho infilata nel cassetto del comodino, non l'ho più tirata fuori. A parte che non ne ho avuto oggettivamente bisogno, so anche che impugnarla è più difficile di quanto non lo fosse prima. Forse perché è l'arma che ha ammazzato Saad, o forse perché c'erano sopra le impronte di Bill, finché Patrick non l'ha tutta ripulita, e questa, nonostante tutto ciò che è successo, è una cosa che ancora mi sorprende.
Quando entro, Karima è già in agitazione ma non posso prestarle attenzione. Salgo in camera e poi riscendo, senza accorgermi che Kenneth è nel mio salotto; allora mi ricordo che mi aveva chiesto in prestito uno dei portatili, perché il suo l'ha fracassato una delle sue donne, l'ultima, Dio solo sa se mi ricordo come si chiama, quando hanno litigato. Gli avevo detto di passare anche se non c'ero e prendersi quello che voleva ma a quanto pare ci sono e lui è vivo e vegeto. Il cerchio si restringe.
Lo ragguaglio su quello che è successo ed è con me quando esco, stavolta diretto al magazzino.
Lungo la strada chiamiamo tutti gli altri. Lo sento parlare con Eko, mentre io aspetto impaziente che Fler risponda a me. Anche lui ci mette un sacco di tempo, tanto che mi chiedo se non sia stato Bill ad attaccargli questo vizio di prendersela comoda quando uno lo chiama. Alla fine risponde, benedetto ragazzo, e sta bene anche lui, per fortuna. Gli do l'indirizzo e gli dico che ci troviamo là, proprio mentre Kenneth chiude la chiamata con l'austriaco, evitandomi di dovergli dimostrare che effettivamente sono preoccupato anche per lui. Non era molto nel giro prima, ma desso direi che ci entrato alla grande, con tutti i rischi oltre che le soddisfazioni. Sono convinto che non ne sia troppo contento.
Mentre brucio un rosso che mi costringe a serrare le dita sul volante e porta Kenneth a stringere forte il sedile, anche se poi non dice una parola, mi rendo conto che abbiamo telefonato a chiunque e che nessuno si trova in pericolo di vita. Pensavo che sarei stato più tranquillo sapendoli tutto al sicuro, ma ora sono più confuso di prima e quindi anche più preoccupato, perché non ho idea di cosa sia successo.
In genere quando ti sembra che le cose siano migliori di quello che credevi, è perché ti sei dimenticato un particolare fondamentale e, per quanto ripassi a memoria la lista di tutti i miei uomini e il conto mi torni sempre, mi chiedo che cosa non ho preso in considerazione e quale casino mi aspetta. Quando non me li aspetto sono sempre giganteschi.
Chi mi ha chiamato non voleva che mi perdessi tra le centinaia di magazzini e di container che ci circondano perché c'è una lampada accesa appena sopra la porta di metallo che corrisponde all'indirizzo di cui sono fornito; è solo un piccolo neon che non attira l'attenzione, sembra solo che qualcuno abbia dimenticato di spegnerlo. Entro per primo nel capannone, la pistola puntata anche se so che non ci sarà nessuno ad attenderci dentro. Questa non è un'imboscata, è un cazzo di avvertimento.
So che gli altri mi hanno seguito, ma non mi sono voltato a guardarli. Li sento camminare piano dietro di me, i nostri passi rimbombano nel magazzino che ha il soffitto altissimo; dall'eco che produciamo, dev'essere quasi vuoto ma non si vede niente, tranne un gruppo di casse al centro, dove la luce dall'esterno arriva ancora. E' per quello che vedo la pozza scura per terra.
Rallento il passo e mi preparo a quello che troverò dietro alle casse, ma Fler mi scosta di lato e mi supera scoprendo per primo perché siamo qui.
Quando lo raggiungiamo, i miei occhi non si abituano subito a quello che stanno vedendo. C'è un sacco di sangue, molto più di quanto ne abbiamo visto entrando; una macchia che si allarga sotto il corpo riverso di un uomo. Sento un imprecazione alle mie spalle, è solo un sussurro ma da voce ai miei pensieri, quindi lo sento chiaro come se venisse urlato. Non ci metto niente a riconoscere quel corpo, perché nella mia vita ci sono solo due persone che indosserebbero quei pantaloni e una l'ho chiusa in casa fino a nuovo ordine.
E' un istante lunghissimo, nel quale tutti ci fermiamo a guardarlo, e io riesco solo a chiedermi perché Jost, che cosa c'entra lui? Poi ripenso a quello che mi è stato detto al telefono. Che il mio ritorno non è opportuno. E se sono qui lo devo soltanto a lui.
Penso che avrei dovuto arrivarci da solo e che anche David è uno dei miei uomini, ormai. Ho ribaltato il mondo per proteggere Bill che è circondato da persone che si ammazzerebbero per salvarlo, e non mi sono reso conto che, per il solo fatto di avermi aiutato, David correva gli stessi pericoli. Qualcuno mi direbbe che devo smetterla di pensare solo in funzione della gente che mi scopo, e in questo momento mi sento di dare ragione a quella voce che arriva dal fondo del canale.
Mi inginocchio accanto al corpo prima ancora di sapere se è un cadavere. Quando lo giro, David geme piano e tiro un sospiro di sollievo, che però dura poco perché lo stomaco gli si apre, letteralmente, e butta fuori un fiotto di sangue che gli cola lungo i pantaloni, già macchiati di quello che si è fatto addosso.
“Jost,” lo chiamo, schiaffeggiandolo leggermente. Lui fatica ad aprire gli occhi, per un momento vedo solo il bianco e poi alla fine mi guarda ma fa fatica a mettere a fuoco. “David, ci sono qui io. Andrà tutto bene. Resta con me, capito? David, resta con me!”
Lo sollevo da terra e lui reclina la testa all'indietro, sul mio braccio teso. Lancio un'occhiata a Fler e lui annuisce mentre io mi faccio strada tra gli altri che sono fermi e guardano il sangue che ricopre ogni cosa, non solo il pavimento, ma anche le casse e perfino le pareti. Vado a sbattere contro un ragazzino biondo che non so chi cazzo sia né perché sia fra le palle ora, e continuo a chiamare Jost, che va e viene dal suo stato d'incoscienza. Non so quanto sia grave, ma dormire non conviene mai.
Quando raggiungo la mia macchina sono passati al massimo due o tre minuti, ma lui si lamenta sempre meno. Lo faccio distendere sui sedili posteriori e gli metto sotto la testa una vecchia maglia che tengo lì dentro per ogni evenienza.
“Jost, rimani con me, cazzo!” Gli dico, prima di chiudere la portiera e raggiungere di corsa il mio posto. Esco in retromarcia e poi accelero non appena arrivo sulla strada principale. Non posso portarlo all'ospedale, troppi occhi indiscreti e poi non mi fido. Voglio un medico da ricoprire di soldi perché lo ricucia e lo rimetta in piedi subito. Recupero il cellulare dalla tasca dei pantaloni e cerco di pensare velocemente, ho bisogno di un posto sicuro e di qualcuno che conosco, a cui non devo spiegare troppe cose.
Non è così difficile trovare entrambe le cose, visto che sono morto e poi resuscitato. La gente come me doverebbe sempre avere un medico di fiducia che la tiri fuori dalla tomba. Il mio è quello che David ha pagato profumatamente e mi ha ricoverato nella sua clinica privata sotto un nome falso per quell'unica settimana che sono rimasto a Berlino appena dopo la mia morte.
Mi chiedo se faccia ancora il medico o se lo abbiamo pagato abbastanza perché andasse in pensione. Lo chiamo e gli dico chi sono, per un attimo sta zitto. Il mio nome al telefono si porta sempre dietro una scia di silenzio al quale comincio lentamente ad abituarmi. Gli spiego che ho un amico ferito e che mi serve un medico pronto per quando arriverò alla clinica, ossia non più di dieci minuti. Lui capisce la mia necessità di riservatezza e capisce ancora di più i soldi che gli prometto.
“Non ti azzardare a crepare, chiaro?” Avverto David, voltandomi per vedere se respira ancora. Lui si lamenta per i fatti suoi, ma io decido di prenderla come una risposta positiva.
Sono stato in quella clinica solo una volta, ma so perfettamente dove si trova perché la strada che mi ha portato da lì all'aeroporto l'ho percorsa con la convinzione che non sarei mai più tornata indietro, così ho fatto in modo di ricordarmela per sempre. E' ironico che io non solo sia tornato a Berlino, ma che adesso ci stia portando di corsa l'uomo che per primo ci ha portato me.
Quando arriviamo, le luci nelle stanze sono quasi tutte spente ma l'entrata del pronto soccorso è ben illuminata. Parcheggio proprio davanti ed esce il mio medico in persona, con le infermier e la barella. Li aiuto a tirare fuori David e gli dico tutto quello che so, cioè praticamente niente, prima che lo portino dentro di corsa. Li seguo ma un'infermiera mi ferma poco prima della sala operatoria; impreco ma non mi ostino, non saprei che farci là dentro. Colpisco con un pugno la prima cosa che mi trovo sotto mano e rompo uno di quei quadretti con i disegni botanici dei fiori che ci sono sempre nei corridoi degli ospedali; così mi ritrovo ad agitarmi incazzato, senza poter davvero urlare e con una mano che gronda sangue. Tra il mio e quello di David sono davvero un bello spettacolo.
Finisco seduto su un lettino a farmi dare quattro punti mentre Jost è sotto i ferri e poi inizio ad aggirarmi come un animale in gabbia nella sala d'attesa perché l'operazione sembra non finire mai e chiunque esca da quella sala operatoria non sa mai un cazzo. Il mio cervello non si ferma un secondo, non riesco nemmeno a rimettere insieme i pezzi di questa giornata, voglio solo una risposta. E voglio sentirmi dire che è vivo.
Quando il medico mi raggiunge, ha la faccia tesa. L'operazione è andata bene, dice. Le incisioni erano profonde, hanno danneggiato degli organi interni – quali non lo so, fa una lista infinita, sembra che ne abbia il doppio di un essere umano normale da quanti sono – ma lo hanno ripreso in tempo. E' arrivato in tempo perché fermassimo l'emorragia. Ma. Mi aspetto un ma, perché quest'uomo non sorride, quindi ci dev'essere un fottuto ma.
David ha perso un sacco di sangue, continua il medico – e io penso che lo so, che i miei ragazzi lo stanno tutto ripulendo quel sangue e che ce n'era un lago di due dita sparso ovunque – e che non sanno se questo avrà delle conseguenze sul suo cervello. Non sanno nemmeno se passerà la notte.
“Possiamo solo aspettare, signor Ferchichi,” conclude. Quest'uomo avrà detto il mio cognome mille volte da quando è arrivato e continua a sbagliarlo. Sento che voglio prenderlo a pugni ed è l'unica cosa a cui voglio pensare. A spaccargli la faccia perché David potrebbe non svegliarsi mai e di qualcuno dovrà pur essere la colpa.
Mi offro di restare, ma lui mi dice che non servirà, che è meglio se vado a riposarmi. Potrei insistere, ma poi penso che devo parlare con i ragazzi. Ci serve una riunione straordinaria che non può aspettare domani.
E poi c'è Bill, naturalmente. Non era esattamente così – all'una di notte e ricoperto di sangue – che mi immaginavo di incontrarlo di nuovo, ma non ho altra scelta.
Lascio il mio numero al medico e praticamente lo minaccio di cose tremende se non mi chiama per qualunque cosa possa accadere. Voglio essere avvisato anche se Jost respira un po' più forte.
Quando arrivo a casa sono quasi le due e nel quartiere c'è un silenzio innaturale. Perfino da casa mia, che di solito è un casino allucinante, non arriva nemmeno un rumore eppure ci sono ancora le luci accese.
Sono tutti in salotto e sento i loro occhi addosso non appena attraverso la porta di casa.
“Anis, finalmente!” La voce di Bill in questa casa non risuonava da non so più nemmeno quanto ed è perfetta. Mi arriva prima che io possa vederlo ma quando mi volto, lo trovo esattamente come l'ho immaginato. Bellissimo, fiero e vagamente arrabbiato. “Come sta?”
Trovo il tempo di lanciare un'occhiata a Patrick il quale indica Eko e tutto mi appare moto più chiaro. Avrei dovuto chiarire bene con Ekram che doveva tenere la bocca chiusa finché non fossi arrivato io. “L'operazione è riuscita, ma ha perso molto sangue,” rispondo. “Deve passare la notte.”
Bill non dice una parola, ma il suo viso parla per lui. E' teso e triste, i suoi lineamenti sono affilati e le labbra tirate, e poi è così stanco che ha già gli occhi cerchiati di nero.
“Che cos'è successo?” Chiede suo fratello, guardandomi con tanta rabbia che è chiaro stia già dando la colpa di tutto a me. Questa volta ha ragione ma, visto che è lui a farlo, la cosa mi dà fastidio.
“Non lo so,” ammetto, passandomi una mano sul viso. Vorrei avere delle novità da dargli.
“Ma chi può avercela con lui in questo modo?” Chiede Bill. “E' solo il nostro manager.”
“Un sacco di gente,” rispondo con una smorfia. “Ma non si tratta di lui, si tratta di me. Jost mi ha aiutato molto negli ultimi due anni e la cosa non è andata a genio a qualcuno. Questo era solo un avvertimento, ecco perché adesso dobbiamo pensare a come affrontare la faccenda.”
“Aspetta un secondo.” Tom si pianta a gambe larghe proprio di fronte a me, le braccia incrociate e la stessa faccia che avevo voglia di prendere a schiaffi anche quando stavo con Bill. “Forse non ti è chiaro che non c'è nessuna faccenda da affrontare. Sporgeremo denuncia alla polizia e pregheremo perché David si riprenda, fine della storia.”
“Non è così semplice,” rispondo.
“Lo è,” ribatte. “Questo è un tuo problema che ci è finito addosso come tutti gli altri tuoi problemi, ma questa volta ci comporteremo come persone normali e non come se fossimo una fottuta banda di strada.”
Io non so perché questo ragazzino debba costantemente farmi venire voglia di fargli del male. Non capisco nemmeno perché si sia messo a blaterare quando stavo parlando, per dire cose che nessuno gli ha chiesto. Poi immagino che abbia arruffato il pelo per difendere suo fratello, ma non vengo investito da nessun moto di tenerezza nei suoi confronti. Voglio comunque buttarlo fuori di casa.
“Se c'è qualcuno là fuori che ce l'ha con me, e sono consapevole che stiamo parlando di un centinaio di persone possibili, al punto da prendere un uomo, incidergli la pelle fin quasi a perforare gli organi interni e farmelo trovare in un magazzino in un lago di sangue, allora forse potrebbe non fermarsi ad un avvertimento. Ti è chiaro, ora, il concetto?” Lui sta zitto e serra solo la mascella, esattamente come fa Bill quando vorrebbe replicare e non può. “Per questo ho bisogno di sapere dove siete, cosa fate e che siete al sicuro.”
“Fantastico,” sibila Tom, scuotendo la testa e lasciandomi libero di guardare suo fratello. “Ricominciamo con queste stronzate.”
Lo ignoro perché non ho voglia di stargli dietro, stasera. “So che avevamo deciso il contrario,” e guardo soprattutto Bill, Patrick e Peter. “Ma è importante che ci teniamo in contatto.”
Lo sguardo di Chakuza non è nemmeno descrivibile. Probabilmente l'unica cosa che lo trattiene dal prendere e andarsene sbattendo la porta è che ha visto David e, per quanto gli giri il culo dover collaborare con me – e credimi, Chaku, non faccio i salti di gioia nemmeno io – sa che non è prudente fregarsene ora.
Patrick mi guarda più o meno allo stesso modo, ma capisce prima. “Dovremo organizzarci,” esclama alla fine con un sospiro. “Programmare gli impegni in modo da non essere mai soli e tenere d'occhio lui,” aggiunge indicando Bill senza guardarlo.
“Cosa? No!” Esclama Tom dal divano dov'è seduto. “Bill ne ha passate abbastanza, non vi sembra? Se ha bisogno di essere protetto ci penseranno le nostre bodyguard.”
“E' solo una cosa di qualche settimana,” gli assicura Fler. “Il tempo di capire con chi abbiamo a che fare. E' solo una precauzione.”
“E' solo questa storia che ricomincia da capo,” replica lui. E poi si rivolge al fratello. “Bill, ti prego.”
La principessa è rimasta in silenzio fino ad ora e quando mi guarda, lo fa con un'espressione seria e rassegnata insieme, ma consapevole. Io non c'ero mentre cresceva in questo modo.
“D'accordo,” accetta alla fine e poi, a beneficio di suo fratello che sta già dando di matto, aggiunge: “Va tutto bene, Tom. Non c'è altro modo.”
“Sì che c'è. Si chiama polizia.”
“Mi fido dei ragazzi,” insiste lui, senza voltarsi a guardarlo. Guarda me, invece, e leggo nei suoi occhi tutto quello che devo sapere, ossia che accetta solo perché si rende conto della situazione e che dobbiamo fare in modo di non rovinare questi sei mesi in cui ci siamo dati da fare per rimetterci in piedi. Io lo capisco questo, e lo condivido anche, ma all'improvviso, ad averlo qui davanti e così vicino da poterlo toccare, ho voglia di sapere che cos'ha fatto in tutto questo tempo, con chi è stato, che cos'ha visto e come si sente. Ho una gran voglia di lui in generale e non è una buona premessa se voglio promettergli che non farò niente per distruggere il delicato equilibrio che sta cercando di recuperare.
“E' deciso,” sentenzia Fler, interrompendo il nostro sguardo e costringendomi a tornare presente in quella stanza. “Ci metteremo d'accordo sui dettagli nei prossimi giorni.”
Lentamente cominciano tutti a recuperare le proprie cose, accennando ad andarsene. Anche Bill cerca Tom con lo sguardo e il gemello ha già in mano la sua borsa e la sua giacca; lo porterebbe via col teletrasporto se ne avesse uno disponibile sotto mano.
“Tu stanotte resti qui,” dico e Bill si gira di scatto con tanto di quel panico negli occhi che un po' mi viene da ridere, perché sono proprio sgranati. “Nella stanza degli ospiti, naturalmente.”
Tom vorrebbe dire qualcosa da là dietro, ma non lo fa perché adesso è indispettito dal fatto che suo fratello non lo ascolta più, così finge che non gliene freghi nulla di quello che Bill farà, anche se il suo agitarsi sul posto come un indemoniato lascia ad intendere benissimo il contrario.
“Perché?” Chiede Bill, con un sospiro.
“Perché al momento questa casa è il posto più sicuro per te,” rispondo e non sto neanche mentendo. Come ho già detto ho un buon allarme e, cosa più importante, ci sono io in casa. Certo è improbabile che qualcuno possa tentare di fargli del male proprio stasera, ma non è necessario che lo sappia. “E' solo per un po', poi cercheremo una soluzione... meno problematica,” aggiungo, quando non lo vedo troppo convinto.
Bill fa un altro sospiro e poi annuisce, restituendo quasi contemporaneamente borsa e giacca a Tom che rimane lì in piedi con tutta la roba in mano e ci guarda sconvolto.
“Bill, non puoi fare sul serio,” esclama, avvicinandosi e girandogli intorno perché lui non accenna a voltarsi nella sua direzione. Gli tocca andargli proprio davanti al viso. “Ragioniamo un attimo, ok? Forse è meglio se chiami il dottor Schillinger prima di decidere. Dovresti sentire che cosa ne pensa lui.”
“Sto bene,” gli dice Bill e poi alza gli occhi al cielo. “Lo chiamerò domattina come prima cosa, d'accordo?”
“Bill...”
La principessa gli sorride e, per quanto sia dolce il modo in cui lo fa, quello è il gesto che chiude la questione. Tom ne è consapevole quanto me, così fa un passo indietro e ci rinuncia.
“Come vuoi tu,” cede. “Ma telefonami se qualcosa non va. Qualsiasi cosa.”
A quel punto Chakuza attraversa a grandi passi il salotto, saluta tutti burbero ed è il primo ad uscire di casa, senza voltarsi indietro nemmeno una volta. Bill finisce a guardarsi i piedi quasi nello stesso istante ma il momento è meno drammatico di quello che potrebbe essere, perché Patrick prende in mano la situazione come al solito e comincia a buttare fuori di casa tutti, come fossero pecore.
“Andiamo, coraggio, non c'è più niente da vedere,” esclama, spingendo Eko, Kay e il suo cane fuori dalla porta. Riesce a recuperare anche Tom e a trascinarlo via, “Vieni tu, e lascialo un po' respirare quel ragazzino. Finirà per crescere viziato, così.”
Tom vorrebbe non ridere ma lo fa e alla fine rilascia tutta la tensione. “Hai ragione, visto che adesso non lo è nemmeno un po',” scherza. Li sento ridere anche dopo che hanno chiuso la porta e mi sento un po' meglio anch'io, così quando mi giro di nuovo verso Bill spero che sia così anche per lui. La sua tensione però è ancora tutta lì. “Non ho niente con me,” sospira. “Dovrai prestarmi almeno un pigiama.”
“C'è ancora qualcosa di tuo, qui,” confesso. Praticamente tutto ciò che ha dimenticato e io non ho mai trovato il tempo né la voglia di restituirgli. “Ti faccio portare da Karima una maglietta e dei pantaloni insieme ad un altro cuscino. La camera degli ospiti sai dov'è, no?”
Lui mi fa un mezzo sorriso, poi sparisce nel corridoio dandomi la buonanotte.
Ripenso a questa serata assurda, ai miei piani che vanno in fumo e a David da solo in ospedale che lotta per restare con noi. Salgo al piano di sopra, lanciando un'occhiata indecisa alla stanza degli ospiti ma in quel momento Bill spegne la luce così scuoto la testa e continuo per la mia strada.
Sono passate meno di dodici ore da quando ci siamo ritrovati e c'è già un ferito grave e così tanto imbarazzo in questa casa che compensa quello che non abbiamo provato nei sei mesi in cui non ci siamo visti.
Questa storia non è ancora iniziata ed è già un casino.

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