Break The Circle

di lisachan
Sto gironzolando per casa annoiandomi terribilmente da quasi mezz’ora, quando Anis finalmente rientra. Ho passato il tempo giocando con Skyline e Sherlee, principalmente, rotolandomi nell’erba e sporcandomi al punto che, quando sono entrato in casa, a Karima è bastato uno sguardo per farmi capire che non avrei potuto muovere un altro singolo passo all’interno della villa senza prima andare a darmi una ripulita nella doccia. La doccia in giardino, ovviamente.
Non mi è pesato, dopotutto: ho buttato via i vestiti e mi sono infilato sotto il getto d’acqua gelida, magari un po’ esagerato visto che non è ancora precisamente estate, ma mi andava di fare le cose così, un po’ a caso. Mi sono sciacquato per bene, ho salutato i fotografi appostati dietro i cespugli intorno alla villa, ho evitato gli attacchi dei cuccioli che avrebbero visto di buon occhio la possibilità di saltarmi nuovamente addosso e rendere vana la mia doccia per giocare ancora un po’ e sono tornato dentro, dove Karima mi aspettava praticamente sulla soglia di casa con un accappatoio pulito in mano.
L’ho ringraziata indossandolo, e lei invece di rispondermi s’è espressa in una specie di sbuffo supponente che è un po’ il suo marchio di fabbrica ogni volta che le faccio notare che è stata carina a comportarsi gentilmente con me. È un po’ come volesse dirmi che non dovrei aspettarmi niente di diverso, visto che in fin dei conti si tratta del suo lavoro, ma visto che mi diverte continuo a ringraziarla. E lei continua a sbuffare.
Quando Anis si chiude la porta alle spalle, capisco subito che c’è qualcosa che non va, come l’ho capito sempre, fin da quando ero ragazzino. L’abitudine mi ha insegnato a tradurre i suoi gesti, i piccoli sospiri che rilascia gradualmente, per non farsi sentire mentre sospira in maniera troppo profonda o agitata, così come i gesti brevi e decisi, che danno sempre l’impressione che stia molto attento a controllare al massimo il proprio corpo, come lo percepisse come l’unica cosa della quale possa davvero decidere il destino. Suppongo sia normale, per uno come lui, da sempre abituato a tenere le redini di numerose vite, oltre che della sua, sentire con forza la paura di poter perdere il controllo da un momento all’altro. Ecco, quando lui sente questa paura, riparte sempre dalle basi, per ricordarsi che è ancora perfettamente in grado di gestire tutto. E le basi sono le facoltà motorie. La respirazione, i gesti, i movimenti degli occhi. Parecchi, quando sono nervosi e spaventati, perdono il controllo del proprio corpo. Per Anis è esattamente il contrario. È quando smette di sciogliersi che lo riacquista. Solo che quando smette di sciogliersi lo fa perché ha paura.
- Ehi. – lo saluto sorridendo. Un sorriso piccolo, niente di troppo entusiasta. A volte gli dà fastidio che gli si mostri della gioia quando lui non è felice. Ma d’altronde è così un po’ per tutti, suppongo. – Successo qualcosa? – mi informo con aria casuale, passandomi una mano sulla nuca per verificare che i capelli si siano asciugati.
Lui grugnisce qualcosa di poco convinto, appendendo la giacca all’ingresso e poi raggiungendomi in salotto attraversando tutto il corridoio senza fare nemmeno un rumore. Gli vado incontro, non so cos’è che voglio, un bacio forse. È una situazione strana perché da quando stiamo insieme, o qualsiasi cosa sia questa cosa in cui siamo invischiati adesso, insomma, non mi è mai successo di vederlo rincasare così cupo. In genere, tornando a casa mettermi le mani addosso è non dico il primo dei suoi pensieri, ma quasi. Non mi sono mai dovuto avvicinare io per salutarlo, è sempre stato lui a cercarmi, perciò mi sembra strano farmi avanti per primo.
Ed è ancora più strano quando lui mi ignora, passandomi oltre e mormorando un distratto “cosa c’è per cena?”, come non mi avesse nemmeno visto.
La cosa veramente grave, comunque, non è questa. La cosa veramente grave è che quando mi passa accanto io sento l’odore di Bill. Lo sento con forza, perché gli sono stato tanto vicino che ormai un po’ di quel profumo dolciastro così suo s’è aggrappato alle molecole che compongono le mie cellule, e lo riconosco con una facilità quasi dolorosa. Come l’ho sempre riconosciuto addosso a Chakuza, lo riconosco adesso addosso ad Anis, e mi tremano le mani. Mi tremano le mani perché non ne posso più di questo ragazzino che tocca e sporca tutto quello che voglio, tutto quello che amo. Lo odio, non lo sopporto, e poi ricordo che il problema non è suo, il problema è mio. Lui c’era prima. Sono io quello che s’è infilato in mezzo ad un gioco che non gli appartiene, e che non è ancora riuscito ad uscirne.
- Che ti prende? – mi volto a cercare i suoi occhi, seguendolo mentre si muove verso il divano. Vedo solo le sue spalle, non si volta a ricambiarmi lo sguardo.
- Niente. – risponde distrattamente, mettendosi a sedere ed accendendo la televisione. Sta mentendo.
- È successo qualcosa? – chiedo avvicinandomi. Mi siedo sul divano accanto a lui, ma non vicino come tutte le altre volte. Non addosso, nemmeno ci sfioriamo, in realtà. Sa che sta correndo un rischio enorme. Sa che posso fiutargli addosso la paura e l’incertezza e questo dannato odore dolce e infantile. Sa di avere sbagliato tutto, perché se solo avesse agito come se avere quell’odore addosso fosse naturale, io non mi sarei preoccupato. Avrei pensato che si fossero incontrati, salutati, abbracciati, che fossero andati a prendere un caffè insieme. Ma lui sta negando, io so che mente, e so che se lo fa ne ha motivo. – Qualcosa tipo Bill? – chiedo alla fine in un sospiro affranto, perché, seriamente, non ne posso più.
Tutti i lineamenti del suo viso si tendono all’istante. Cambia faccia all’improvviso, sembra una persona diversa. Il movimento con cui si volta a guardarmi è innaturalmente lento, tanto che ne ho quasi paura.
- Ma cosa ti salta in mente? – quasi ringhia, aggrottando le sopracciglia, - Non—
- Non vi siete visti. – dico, e sento tutto il mio corpo bruciare per la rabbia, - Né toccati. – mi avvicino appena, inspiro il suo odore a qualche centimetro dal suo corpo, così profondamente da farmi dolere i polmoni. – Né baciati. – concludo. E poi lo guardo dritto negli occhi. – Pezzo di merda.
- Pat—
- No, pezzo di merda! – ribadisco con maggiore convinzione, alzandomi in piedi e girando attorno al divano come se la sua sola vicinanza fosse sufficiente a mandarmi fuori di testa, cosa che in effetti è vera. – Ma cosa cazzo hai in testa? Ma cosa cazzo avete in testa tutti?! Ma per cosa cazzo mi avete preso?!
- Pat? – mi chiama lui, vagamente accigliato. È evidente dai suoi occhi che non capisce di che diavolo sto parlando, ed è evidente che non può, perché io non gliel’ho mai detto. Perché non l’ho mai detto a nessuno, cazzo, e sarà questa la cosa che mi farà andare fuori di testa, più di tutto il resto. Che io sto così male per una cosa che, agli occhi della quasi totalità delle persone che compongono il mio universo, non esiste nemmeno.
- Lascia perdere. – dico cupo, uscendo dal salotto ed infilando le scarpe da tennis abbandonate accanto alla porta una volta arrivato all’ingresso. Sento i suoi occhi addosso, so che mi ha seguito. Non voglio voltarmi a guardarlo.
- Pat. – mi chiama ancora, - Che problema c’è?
La sua voce è più seria, somiglia a quella che usava quando, da ragazzino, combinavo qualche guaio di cui non mi andava di fargli sapere. In qualche modo, riusciva sempre a sgamarmi e tirarmi fuori le parole di bocca. E tutto partiva sempre da questo tono qui.
Sorrido stancamente, schiudendo la porta e guardando di fuori il cielo che si fa più scuro dopo il tramonto.
- Nessun problema. – rispondo prima di allontanarmi. Non ce n’è mai, d’altronde.
*

Quando arrivo a casa di Chakuza, non realizzo che potrebbe essere in compagnia – in compagnia di Bill, ovviamente – fino a quando non ho già premuto il dito contro il bottone del citofono. È troppo tardi per scappare e non posso certo rimandare indietro il tempo, per cui resto là e riesco in qualche modo a non strillare quando sento la sua voce chiedermi chi sono.
- Fler. – rispondo. Sono evidentemente nervoso, e lui pure. Sento movimenti strani e la sua voce si abbassa di svariati toni quando parla ancora.
- Ma che… - comincia incerto, - È successo qualcosa? – chiede con una punta di preoccupazione.
- No… - rispondo io, grattandomi confusamente la nuca, - Ma c’è Bill? – chiedo quindi, e poi sospiro. – Scusa, mi tolgo dalle palle. Fingiamo che tutto questo non sia mai avvenuto.
- No! – mi ferma, la voce che torna alta e poi, neanche tanto sorprendentemente, si riabbassa, - No, dico… cioè, sì, c’è Bill, ma… - lo sento trafficare con qualcosa di indefinito, e solo dopo capisco che s’è infilato la giacca e, per farlo, ha poggiato la cornetta del citofono sulla consolle. – Scendo subito. – dice deciso, - Non te ne andare.
Non me ne vado. Mi appoggio al muro, proprio lì accanto al portone, e aspetto. Quando Chaku esce non si aspetta di trovarmi da qualche parte che non sia esattamente di fronte a lui, perciò si guarda intorno un paio di secondi buoni prima di voltarsi indietro e notarmi lì appoggiato con le mani nelle tasche. Sorrido appena e ne sfilo una, agitandola per salutarlo in silenzio.
- Ciao. – mi dice lui, avvicinandosi. Ha gli occhi un sacco preoccupati. Mi si scalda lo stomaco tutto insieme. – Che cos’hai? C’hai una faccia strana.
Evito i suoi occhi perché non voglio dirglielo, o almeno non così presto.
- Sto bene. – rispondo scrollando le spalle, - Avevo solo voglia di—
- Non raccontarmi balle. – mi interrompe lui, e mentre parla mi guarda e inarca un sopracciglio come a chiedersi quanto devo essere cretino per averci anche solo provato.
Io mi mordo un labbro, incerto su cosa fare. Facciamo qualche passo in silenzio, Berlino intorno a noi si agita tutta e nessuno sembra notarci. È completamente diverso rispetto a quando cammino accanto a Bushido, la sua presenza da sola basta ad attirarci addosso un mucchio di sguardi indiscreti, ma passeggiare accanto al Chaku è una cosa tranquilla e rilassante. C’è anche una temperatura piacevole, tiepida, un po’ incerta fra estate e primavera e mitigata appena da un venticello fresco e debole, per nulla fastidioso anche se ci viene contro.
Ci sediamo ad un tavolino fuori da un bar semivuoto e anche un po’ sfigato, sempre restando in silenzio. Non so quanto tempo passi – senza che nessuno venga a prenderci l’ordinazione, peraltro – prima che Chakuza parli ancora.
- Dimmi cosa ti è successo. – insiste, le mani appoggiate mollemente sul tavolo e gli occhi fissi su di me.
Mi inumidisco le labbra, guardandomi un po’ intorno.
- Mi mancavi. – dico, scrollando le spalle, - Non mi è consentito? Tutti quanti potete sentire nostalgia di tutto quello che volete e andare a prendervi tutto quello che volete senza pensare alle conseguenze, ma io no? Io non posso? E chi l’ha stabilito?
- …woah. – commenta lui, incerto, inarcando le sopracciglia, - Capisco. Cioè, in realtà no— cosa cazzo ti prende? – chiede, piegandosi un po’ in avanti, - Con chi hai parlato?
- Ma con nessuno! – insisto io, gesticolando animatamente e stabilendo poi che non è seduto a quel tavolino che voglio stare. – Ma quale cazzo è il vostro problema? – protesto ricominciando a camminare per la strada, mentre lui mi segue dubbioso, - Perché cazzo dovrei essere io quello che non sta bene? Ma vi siete guardati?! Siete un branco di disperati ed io sono il più sano di mente in mezzo, il che francamente è tutto dire. Eppure state tutti lì a chiedermi cos’ho. Io non ho niente, chiaro? Siete voi che vi comportate da pazzi, io cerco solo di tirare avanti, e sto benissimo!
- No, Fler, - sbotta lui, scuotendo il capo, - a parte il fatto che non ci sto capendo un cazzo, voglio dire, di chi stai parlando? Ma comunque, - e gesticola, come a voler mettere da parte questa prima considerazione in favore della successiva, di gran lunga più importante, - è palese dal fatto che stai straparlando che tu non stai bene. Ma tipo per niente.
- Be’, scusami se sono venuto a disturbare la tua vita perfetta e felice per farmi solo una chiacchierata. – sbuffo, allontanandomi di qualche passo, - Ma non ti preoccupare, mi tolgo subito dai coglioni. Non c’è problema. – non ce ne sono mai, di problemi. Non ce ne sono mai.
- La mia vita non è perfetta. – dice lui, cupo, ancora dietro di me. S’è fermato, perciò mi fermo anch’io, perché non volevo davvero allontanarmi. Lo guardo in silenzio, e lui sembra veramente stanco e un po’ sbattuto, come l’avessero preso a cazzotti e lui non fosse ancora riuscito a riprendersi. – La mia vita non è perfetta e non è felice, o almeno, sicuramente non è più felice o perfetta della tua, perciò piantala di dire stronzate e non cercare di farmi sentire in colpa per cose di cui non ho la responsabilità.
- Be’, se dobbiamo fare l’elenco delle responsabilità-- - comincio, ma non riesco a finire. Lui mi interrompe.
- Ti prego. – dice soltanto, sospirando profondamente, - Ti prego.
Io mi mordo un labbro e mi avvicino. Ci guardiamo negli occhi ed è così palese che questa cosa non funziona che mi viene voglia di pestarlo a sangue – di nuovo – e non vederlo mai più – sul serio – solo che so che non ci riuscirei, a fare nessuna delle due cose, peraltro, perciò sollevo le braccia e lo afferro per il colletto e lo strattono e non lo so.
- Peter. – lo chiamo. Lui respira e me lo sento addosso. Siamo in mezzo alla strada ed è tutto così strano e stupido e sbagliato e sconnesso. Mi sembra di stare sognando e non sono nemmeno ubriaco. Forse è l’effetto della rabbia, rende tutto ovattato e diverso, come se non lo stessi facendo davvero. Ma lo sto facendo.
- No. – dice, quando si rende conto di cosa gli stanno dicendo i miei occhi, - No, non— non esiste. – si allontana da me con uno strattone deciso e mi guarda come non mi avesse mai visto prima. – Io non sarò la persona da cui vieni quando ti girano.
- Tu l’hai fatto, con me! – urlo, e mi fa male il petto, - Tu— stronzo, tu l’hai fatto con me!
- Lo so! – urla anche lui. Ed io mi congelo sul posto, perché è la prima volta che lo ammette. – Lo so. – ripete a voce più bassa, - Ed è per questo che non posso farlo adesso. Fler, ma non capisci? Cazzo, sono quasi due anni che ci facciamo del male perché non siamo abbastanza forti da pensare prima di fare qualcosa. È un circolo vizioso e qualcuno deve pure venirne fuori per primo.
- Non adesso. – mi sto lamentando come un bambino e lo so. Mi avvicino di nuovo, lo allaccio al collo, me lo tiro contro e lui non si allontana, mi appoggia le mani sui fianchi e le nostre fronti si sfiorano. – Per favore. – dico con un filo di voce. Chakuza chiude gli occhi, inspira ed espira e so che gli sto facendo male.
- No. – insiste lui, deciso. – No, Pat. È il periodo, io ti capisco. È tutto confuso, e stanno cambiando delle cose, e… devi solo avere pazienza, poi andrà tutto a posto. – ed io non capisco cosa cazzo stia dicendo, e lui deve leggermelo negli occhi, perché sorride appena, spiegandosi meglio. – Andrà meglio. Le cose si calmeranno e potremo tornare tutti a pensare lucidamente. È solo che questo momento qui deve passare, perché è evidente che sennò usciremo tutti fuori di testa. Lo capisci cosa intendo?
E sì, lo capisco. Non del tutto, forse, c’è qualcosa che mi sfugge, ma al momento non posso pensare anche a questo, perciò chiudo gli occhi anch’io, cercando di adattare il ritmo del mio respiro al suo nella speranza che questo possa darmi un po’ della sua calma, per lo meno apparente, ma funziona poco. Però lo capisco.
Mi allontano, e lui non mi trattiene.
- Cosa sta succedendo? – chiedo. Lui distoglie lo sguardo. – Cosa è successo?
- Non è il caso di parlarne adesso. – risponde con un sospiro stanco. – Ma ti giuro che—
- Lasciamo perdere. – mi rassegno, abbassando gli occhi. Mi passa per la mente in un lampo la consapevolezza che il problema fondamentale che ci trasciniamo dietro da ormai quasi due anni è quest’assoluta incapacità che abbiamo di immaginarci a vivere una vita gli uni senza gli altri, e che se non superiamo questo scoglio non riusciremo mai a risolvere neanche la metà dei casini che ci rendono difficile l’esistenza.
Lui, comunque, annuisce. Quando mi volto per tornarmene a casa, non mi chiama. Mi lascia andare, e credo lo faccia con la consapevolezza che lasciandomi andare potrebbe anche non rivedermi più, ma da qualche parte dentro di sé la sente come la cosa giusta da fare, e io so che probabilmente è così. Perciò lo lascio andare anch’io, sperando che il Chaku abbia ragione. E cerco di non pensarci troppo.

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