Beautifully Broken

di lisachan
Stamattina mi sono guardato allo specchio e non mi sono riconosciuto. Non come dice la gente di solito nel senso di “non mi riconosco più”, che è la cosa più stupida che si possa dire al mondo, perché non è altro che una scusa, in fondo, no? Uno fa un sacco di stronzate e poi, quando qualcun altro glielo fa notare, ecco subito la risposta pronta: “lo so, non mi riconosco più”. Non ti riconosci più un cazzo. Vorresti non riconoscerti, vorresti poterti guardare allo specchio e dire che quella faccia coperta di errori e dolore e pezzi di vita buttati via non è la tua, invece ti riconosci eccome, ed è questo quello che ti fa male. Riuscire ancora a riconoscerti, nonostante tutto, nonostante il fango che ti sei buttato addosso. Essere ancora lì, sempre identico a te stesso, facilissimo da ritrovare se solo ti azzardi o qualcun altro si azzarda a grattare via la sottilissima patina di menzogne con cui ti mascheri il viso al mattino, giorno dopo giorno, come il trucco di scena, quello che io ho sempre voluto portare anche nella vita di tutti i giorni, perché per me i confini sono sempre stati troppo labili, troppo sfumati, ed andavo in scena ogni volta che aprivo gli occhi al mattino.
No, io mi sono svegliato, da solo nel mio letto, ed ho ascoltato a lungo il suono un po’ ovattato del respiro di Peter, ancora addormentato da qualche parte in questo tourbus, troppo lontano da me perché potessi sentire il calore del suo corpo e aggrapparmici come se me ne importasse ancora qualcosa, e poi semplicemente mi sono alzato, sono andato in bagno, mi sono fermato davanti allo specchio ed ho guardato il mio riflesso, e quello non ero io. È stata la sensazione più straniante che avessi mai provato prima di quel momento, mi sono sentito come incatenato ad una sedia, costretto ad osservarmi nello specchio mentre mi strappavano di dosso la pelle per mostrarmi il mio vero volto, al di sotto. Solo che la pelle non veniva via – ho sfregato, ho sfregato, non veniva via – ed io ho dovuto continuare a sopportare di guardarmi nello specchio e non riconoscermi, mentre sapevo già di avere una faccia diversa sottopelle.
E questo è stato il dolore più grande che abbia provato in quest’ultimo periodo. Un periodo che di dolori non è stato certo avaro, eppure mentre Anis mi strappava via il cuore e Chakuza si rifiutava di rimettermelo a posto lasciandolo sul pavimento come un soprammobile inutile da scansare con un calcio se intralciava il passaggio, e mentre io mi premuravo di devastarmi la dignità e mio fratello si assicurava di pestarne i resti sotto le scarpe di modo che nessuno mai potesse più ricomporla, e mentre nessuna delle persone che ho imparato a riconoscere come amiche ha mai dato un fottuto istante del proprio tempo per cercare di capire come cazzo fosse possibile che io stessi così male, di una cosa ero sempre stato sicuro, la mia identità. Il mio viso. Chi ero.
E poi mi guardo nello specchio e scopro che invece non lo so più. Mi guardo nello specchio e quello non sono io. E in un solo istante di me non resta più niente, riesco a vedere i miei occhi farsi vuoti e so che non sono i miei, i lineamenti del mio viso si stendono in una maschera priva di espressione ed io so che non mi appartengono. Non so più chi sono, ma so cosa decisamente non sono, ed io non sono quella faccia, quegli occhi, quelle labbra. Non ho più un nome, non sono più nulla, di me, di ciò che sono stato, non rimane neanche un frammento.
Allora mi sono alzato e sono uscito dal bagno. Non sono passato accanto a Peter per non svegliarlo, perché non dovesse vedermi così, qualunque fosse la cosa in cui mi ero trasformato senza che nessuno se ne accorgesse. Sono semplicemente uscito dal tourbus e mi sono guardato intorno. Il sole era ancora freddo e basso sull’orizzonte, tutto ciò che la sua luce poteva fare era gettare ombre lunghe sulla piazzola della stazione di servizio desolatamente vuota, tutta intorno a me. Il mondo sembrava identico a se stesso, ero cambiato io soltanto. Mancava così poco al momento in cui tutti avrebbero aperto gli occhi, e a quel punto nessuno avrebbe potuto evitare di vedermi. Ed io non volevo che accadesse. Perciò sono tornato all’interno del tourbus, cercando di fare il minor rumore possibile, ed ho preso un post-it da uno di quei cassetti pieni di cianfrusaglie vicini all’angolo cottura. Ho preso una penna, mi sono seduto al tavolo ed ho cercato un modo carino per dire a tutti quanti che avevo bisogno di un po’ di tempo solo per me. Non ne ho trovato uno, perciò ho scritto solo quello. Ho bisogno di un po’ di tempo solo per me. L’ho appiccicato sullo sportello del frigorifero, ho preso la borsa, ho spento il telefono e l’ho infilato in tasca. Poi sono uscito, ho scelto una direzione a caso e l’ho seguita.
Ho camminato per un sacco di tempo. Io sono un pigrone, in genere non mi muovo se non sono obbligato a farlo, ed anche quando sono obbligato spero sempre che arrivi qualcuno a prendermi in braccio perché sia lui a trascinarmi da un posto all’altro. Il pensiero di muovermi alle volte mi dà fastidio fisico. Però stavolta camminare non mi è pesato. Almeno un’ora di cammino a piedi, cercando di ignorare i fischi dei camionisti quando per caso qualcuno passava per la strada ancora deserta, e senza nemmeno stancarmi. Ed ecco che all’improvviso i contorni delle cose oltre il guardrail che costeggia l’autostrada cambiano. Fisso il paesaggio mutare sotto i miei occhi, e dove prima non c’era niente cominciano ad apparire delle cose. Enormi campi pieni di spighe tanto alte da fare il solletico al cielo, e case colorate, di mattoni veri, coi tetti rossi e i comignoli e le porte di legno. Non riesco ad impedirmi di sorridere, mentre stringo emozionato la presa attorno al manico della borsa, e per un attimo mi chiedo se ciò che sto guardando esista davvero o non sia uno scherzo che mi sta facendo la mia mente, perché di recenti me ne ha fatti davvero troppi perché io riesca ancora a distinguerli dalla realtà.
Decido che non m’importa se quello che vedo è vero o no: mi piace, e tanto basta. È molto più di quanto abbia potuto dire della mia vita recentemente. Quella era vera, e lo sapevo, ma faceva schifo. Perciò va bene anche se questo posto non esiste davvero, fintanto che io continuo a vederlo ed a sentirne il profumo.
Scavalco il guard-rail ed affondo fra le spighe. Mi fanno il solletico al naso, sento il bisogno di starnutire ma anche se prendo fiato per due volte lo starnuto proprio non viene fuori, perciò mi metto a ridere e comincio ad avanzare in quel mare dorato che si muove in onde discontinue guidate dal vento. Le spighe ogni tanto mi sbattono addosso con forza, dovrebbero darmi fastidio, irritarmi la pelle, ma riesco a trovarle solo stranamente piacevoli, tanto che quando spunto fuori e metto il naso dall’altra parte, di fronte a un paio di casette minuscole una accanto all’altra, quasi mi dispiace.
Le case somigliano un po’ a come ho sempre immaginato la casetta di marzapane della strega di Hansel e Gretel. E poi sono tutte uguali. Mi avvicino sorridendo allegro e solo all’ultimo secondo noto una vecchina che sta semisdraiata su una sedia a dondolo di fronte alla porta di una delle due case, e ondeggia avanti e indietro facendo la maglia.
- Signora Lotte! – la chiamo, anche se so che non è lei. La vecchina sorride, smettendo per un attimo di ricamare e poggiando saldamente i piedi per terra per fermare la sedia.
- Mi chiamo Ena. – mi corregge, e io annuisco. – Nonna Ena. – precisa lei, e io sorrido.
- Di chi sei nonna? – chiedo, guardandomi intorno e sperando di vedermi spuntare intorno nipotini come se piovessero. Non ne spunta nessuno. Quindi forse tutto ciò sta succedendo davvero.
- Di tutti e di nessuno. – risponde nonna Ena, enigmatica. E io penso che forse in realtà non sta succedendo niente. – Anche tua. – insiste lei, - Come ti chiami, bella bambina?
- Bill. – rispondo tranquillo. Lei sorride imperterrita.
- Che strano nome per una bambina. – commenta divertita.
- Mamma pensava che fosse carino. – le spiego io, - Ho anche un fratello che si chiama Tom. Puoi essere nonna anche per lui?
- Certo che posso. – annuisce nonna Ena, e io sorrido più sinceramente. – Siediti qui accanto a me, Bill. – dice, indicandomi con un cenno del capo la sedia a dondolo spuntata dal nulla accanto a lei, mentre io penso che sì, è molto probabile che tutto ciò non stia accadendo davvero, - Aiutami. Reggi il gomitolo.
Io mi allungo a recuperare il gomitolo da terra e lo stringo fra le mani. La lana è morbida, calda e un po’ grezza, mi pizzica i polpastrelli e le unghie rimangono impigliate lì in mezzo ogni volta che me la rigiro fra le dita. Quindi forse sta accadendo davvero.
Nonna Ena è quasi cieca. Oltre gli occhiali dalle lenti spessissime, i suoi occhi talmente chiari da sembrare trasparenti s’intuiscono appena, tanto sono piccoli. Non so come faccia ad intrecciare la lana per disegnare meraviglie come quella che sta facendo adesso, una specie di maglia traforata che sembra decorata da cristalli di neve enormi e morbidissimi, ma evidentemente dev’essere una cosa che ha fatto così spesso, nel corso della sua vita, da non avere bisogno di vederla per replicarla ancora. Una cosa che ormai s’è scritta dentro. Io pensavo che per me i concerti fossero così, pensavo che davvero, qualunque cosa fosse successa nella mia vita avrei comunque potuto continuare a salire sul palco ogni sera ed essere la parte più meravigliosa di me stesso, dimenticando tutti i dolori per cantare e sentirmi amato e basta. E invece no, forse perché sono ancora troppo giovane. Forse, quando avrò l’età di nonna Ena, cantare sarà per me automatico come fare la maglia per lei. Però allora non ci sarà più nessuno che avrà voglia di ascoltarmi, mentre la maglia di nonna Ena è così bella che me la metterei addosso anche subito, incompleta per com’è.
- Come si chiama questo posto? – chiedo guardandomi intorno. Ci sono degli uomini che indossano solo un cappello di paglia ed una salopette di jeans scura, riesco ad intravederli nei campi più lontani. E poi c’è una piazza, a qualche decina di metri da noi, e in mezzo a quella piazza c’è una fontana attorno alla quale si affollano donne che indossano vestiti lunghi e scuri con disegni floreali dai colori più disparati. Alcune di loro hanno il capo coperto da un foulard annodato nulla nuca, e quasi tutti i foulard hanno le stesse decorazioni degli abiti, come fossero accessori obbligatori da usare per accompagnare il vestito.
- È troppo piccolo per avere un nome. – risponde nonna Ena, riprendendo a dondolare, - Però è bello, vero?
- È bellissimo. – annuisco freneticamente io, osservando un gruppo di bambini sporchissimi, scalzi e scarmigliati che ci passa davanti correndo e ridendo. – Quanta gente ci abita?
- T’importa? – chiede nonna Ena con una scrollatina di spalle. E in effetti non è che m’importi davvero. – Joseph! – urla poi, guardando all’indietro verso la casa. Il portone è socchiuso, e da dentro giunge un “eh?” un po’ lontano. – La bambina ha fame, - continua, - portale una fetta di torta!
Io batto entusiasticamente le mani, appoggiandomi il gomitolo sulle ginocchia mentre la porta si schiude e sulla soglia appare un uomo pelato e panciuto, con un paio di occhiali e un paio di occhi identici a quelli di nonna Ena.
- Nonno Joseph! – lo chiamo allegro, - È quella coi mirtilli?
Nonno Joseph annuisce e a me viene voglia di chiedergli se per caso è austriaco, ma poi lascio perdere. Poso il gomitolo per terra e metto il piatto con la torta sulle ginocchia al suo posto. Poi mi ricordo di David, penso che dev’essere già ora di pranzo e tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans per accenderlo e avvertirlo che non posso ancora tornare.
Lui risponde subito, appena lo chiamo, non mi lascia completare nemmeno uno squillo.
- Bill! – grida, e poi lo sento allontanarsi repentinamente verso un posto meno affollato. – Bill. – ripete a voce più bassa, come per lasciarmi intendere che adesso siamo soli e posso parlare liberamente, - Ma dove diavolo sei?
- Ad una stazione di servizio, - mento, evitando lo sguardo di nonna Ena, - sull’autostrada.
- Se mi dici a che altezza, mando subito qualcuno a prenderti. – suggerisce David, professionale come sempre. Io sbuffo un sorriso un po’ abbattuto.
- No, voglio restare qui per un po’. – rispondo, - È un posto simpatico.
- Un posto simpatico, Bill? – chiede lui, sconvolto, - Ma dove diavolo sei?!
- David, per favore, dammi un po’ di respiro! – sbotto io, e lui si zittisce immediatamente. Mi sento subito in colpa, mi si stringe lo stomaco in una morsa talmente stretta da darmi quasi i crampi, perciò mi mordo un labbro per distrarmi da quel dolore e faccio di tutto perché, quando riprendo a parlare, la mia voce sia molto più dolce di quanto sia stata fino ad ora. – Faccio in tempo per il concerto di stasera, promesso. Qui fanno una torta buonissima. La mangio e torno subito a casa, d’accordo?
Lui fa per rispondermi, sicuramente vuole dirmi che non devo tornare a casa ma semplicemente ai tourbus, e farlo anche il più in fretta possibile, ma alla fine lascia perdere, sospira profondamente e mormora un “d’accordo” stentato, prima di chiedermi di non spegnere il cellulare. Io dico ok, ma lo spengo immediatamente, subito dopo avere interrotto la chiamata.
- Bambina, il tuo papà sarà preoccupato. – mi dice nonna Ena, corrucciata, mentre io addento la torta e mugolo di piacere nel sentire quanto è buona.
- Non è il mio papà. – borbotto fra un morso e l’altro, - È solo uno che si prende cura di me.
- E qual è la differenza? – mi chiede nonna Ena. Io non riesco a rispondere.
- Dici che dovrei tornare? – chiedo in un bisbiglio sommesso, posando la torta e guardando per terra, - Ma io voglio restare qui. Potrei aiutarvi, anche se non sono tanto bravo con i lavori domestici o… l’agricoltura e l’allevamento o qualsiasi altra cosa facciate qui per vivere. So solo cantare, a volte sospetto neanche tanto bene. Ma potrei cantare per voi! – propongo illuminandomi, - Ti va, nonna Ena? Posso cantare mentre ti reggo il gomitolo e tu lavori a maglia!
Nonna Ena sorride ed annuisce. Io batto ancora le mani, recupero il gomitolo e poi chiudo gli occhi, mettendomi a canticchiare qualche canzone a caso. Di quelle vecchissime, quelle che scrivevo nella mia cameretta da piccolo, quelle che a far parte del repertorio dei Tokio Hotel non ci hanno nemmeno provato. Roba orribile che solo Tom può vantare di avermi sentito cantare. Eppure le ricordo ancora, e per qualche secondo, mentre resto lì a dondolare con gli occhi chiusi e il gomitolo di nonna Ena mi si svolge fra le dita poco a poco, mi sembra quasi di aver ritrovato quell’automatismo che mi rendeva così facile salire sul palco e cantare senza pensare a nient’altro.
E poi, del tutto inaspettatamente, nonna Ena mi sussurra all’orecchio che sono stonato. Solo che non è nonna Ena, è una signora di mezza età magra, appuntita e spigolosa, con un mascherone di trucco sul volto, seduta al tavolino accanto al mio. La stazione di servizio è affollata perché ormai sono quasi le due, la zona ristorante è piena di automobilisti e famiglie in pausa dal viaggio. Quando eravamo piccoli, mamma e Gordon ci portavano spesso a fare di queste scampagnate. Saltavamo in macchina e ci allontanavamo solo di qualche chilometro, giusto per dire di averlo fatto. Raggiungevamo il lago, magari, ed andavamo in barca. Era divertente.
- Mi scusi. – biascico, imbarazzato fino all’inverosimile.
- Non preoccuparti, tesoro, non tutti siamo nati con una voce da usignolo. – dice lei, scrollando le spalle, del tutto disinteressata alla gravità di quanto ha appena detto. Evidentemente non mi conosce, o se anche ha sentito parlare di Bill Kaulitz non riesce a vedere quel nome in questo me stesso così diverso. Non capisco perché la cosa dovrebbe stupirmi, d’altronde: se stamattina io per primo non sono stato in grado di riconoscermi guardandomi allo specchio, come posso pretendere che ci riesca questa donna adesso?
Guardo in basso, verso il mio piatto. C’è ancora mezza fetta di torta ai mirtilli, ma sapere che non è stato davvero nonno Joseph a prepararla mi toglie improvvisamente tutta la voglia che avevo di finirla. La lascio dov’è, passo sbrigativamente alla cassa per pagare e poi esco, stringendomi un po’ nella giacca perché il sole sta cominciando a tramontare e in aperta campagna a quest’ora fa già freddo. Era così anche quando io e Tom eravamo piccoli. Attorno a Loitsche non c’era niente tranne, appunto, campagne sterminate. Io odiavo uscire anche allora, avevo sempre paura che un’ape potesse pungermi, ma Tomi in qualche modo riusciva sempre a convincermi ad accompagnarlo dovunque volesse, perciò finivamo sempre a passare un sacco di tempo all’aperto, nonostante a me facesse abbastanza schifo. E ricordo che Tomi non sentiva freddo quasi mai – più che altro perché s’era convinto che sentire freddo fosse una roba da femminucce, per cui magari congelava ma non rinunciava mai ad andare in giro in canottiera – ma portava con sé la felpa apposta per potersela sfilare ed appoggiarmela sulle spalle quando io, puntualmente, verso il tramonto, mi accucciavo da qualche parte e mi raggomitolavo come un riccio, tremando per il freddo.
Non mi manca quel periodo della mia vita, però mi mancano quei momenti in cui potevo dire di non avere altro che pensieri sul mio glorioso futuro da star in testa. Momenti in cui chiudevo gli occhi e, mentre Tomi blaterava al mio fianco, seduto su un sasso con gli occhi fissi sul sole che tramontava all’orizzonte oltre i campi arati di fresco, io mi concedevo una rara mezz’ora di silenzio dalla mia usuale logorrea e restavo lì, avvolto nella sua felpa enorme, col cappuccio calato sulla testa, e mi immaginavo cantare su un palco, felice come non ero mai stato e in altro modo non avrei mai potuto essere. E mi mancano quei momenti, perché allora nella mia mente era tutto chiaro. Avevo una strada da percorrere e non poteva essere altro che luminosa e splendida. Ora, dalla piazzola di una stazione di servizio persa nel niente nel bel mezzo della Germania, guardo l’autostrada verso sinistra e verso destra e non saprei nemmeno che direzione imboccare per tornare al tourbus.
Così, faccio quello che ho sempre fatto ultimamente in tutte le altre occasioni in cui mi sembrava di essere troppo confuso per decidere qualcosa da me. Tiro fuori il cellulare dalla tasca, lo accendo, ignoro chiamate perse ed sms cui non risponderò mai e compongo a memoria il numero di Fler.
- Pronto? – dice lui, e nel momento stesso in cui sento la sua voce prendo una direzione a caso e comincio a camminare con passo spedito lungo il ciglio dell’autostrada, radente al guard-rail. – Pronto? – ripete. Io deglutisco, guardando dritto di fronte a me.
- …scusa. – rispondo piano, - Come stai?
- …dovrei chiederlo io a te. – risponde Patrick, il tono talmente preoccupato che riesco quasi a immaginarlo qui con me mentre mi gira intorno e mi guarda da ogni parte per assicurarsi che sia ancora tutto intero. – Ragazzino, è tutto a posto? – insiste, - Ti sento strano.
- Strano? – chiedo io, mentre poco a poco, man mano che il paesaggio torna a farsi familiare ai miei occhi, mi rendo conto di aver fatto all’andata molta meno strada di quanto avessi immaginato, - No, perché dovrei?
- Non lo so, - risponde subito lui, - era un’impressione, sei… non lo so. – si interrompe appena, giusto il tempo di cui ho bisogno per capire che il modo in cui sono cambiato è così radicale ed evidente che se mi si conosce abbastanza bene non c’è nemmeno bisogno di guardarmi in viso per capire che è successo. Patrick lo capisce anche solo sentendomi parlare, e di questa cosa ho talmente tanta paura che chiudo gli occhi e proseguo per molti metri senza guardare niente, a rischio di ammazzarmi, terrorizzato dall’idea di ammettere che in fin dei conti la prospettiva non mi spaventa più di tanto. Fra le numerose cose che Anis ha devastato entrando, uscendo e poi rientrando nella mia vita a proprio piacimento, c’è anche la concezione di morte come qualcosa di irreversibile. In qualche modo, perfino adesso, sto pensando che se mi lasciassi scivolare sotto un camion e morissi, poi qualcuno arriverebbe a risvegliarmi dal mio sonno baciandomi sulle labbra. Il bacio del vero amore. Almeno, forse una cosa simile riuscirebbe ad indicarmi chi sia. – Ma c’è qualche problema? – chiede Fler, e io mi prendo qualche secondo, prima di rispondere.
- Sai che ho tagliato i capelli? – gli chiedo, e nel mentre mi passo una mano fra le ciocche scure e bionde che mi scivolano lungo il collo e sulle spalle, - O forse devo ancora farlo, non ricordo. O forse l’ho già fatto, ma tantissimo tempo fa, e sono già ricresciuti.
- Bill? – mi chiama subito lui, e sento l’ansia nella sua voce, - Bill, ma stai male?
- Male? – chiedo, e mi viene da ridere. Male, no, non sto male. Avrei potuto dire di stare male quando ancora ero in grado di sentire qualcosa, ma quando ogni centimetro del tuo corpo è già stato preso a bastonate più di quanto tu non sia in grado di sopportare, il dolore sfuma e non esiste più. Non lo so nemmeno cos’è che potrebbe farmi male adesso. – Ma no. – rispondo sorridendo, - Sto bene. Non devi preoccuparti. – inspiro profondamente e sollevo lo sguardo. Ad una decina di metri da me ci sono i tourbus, fermi dove li ho lasciati. Nessuno si accorge di me che arrivo, nessuno guarda nella mia direzione. – Ora devo andare. – dico a Fler, - Mi sa che è proprio ora di tagliare i capelli.
Interrompo la conversazione immediatamente, senza dargli il tempo di ribattere, o di fermarmi. Oltrepasso il cavalcavia e faccio qualche metro sulla terra brulla che anticipa il sollevarsi delle colline poco più avanti. Giro attorno ai tourbus, passo dal retro, m’infilo all’interno del mio senza che nessuno mi veda, e scivolo silenzioso in bagno. Il tourbus dev’essere vuoto, perché non si sente volare una mosca. Da fuori, sento l’eco un po’ bassa e distante di alcune persone che parlottano nella piazzola. Non riesco a capire chi sono, né cosa dicono. Me ne disinteresso.
Mi allungo a recuperare il beauty case, frugo un po’ all’interno e trovo il necessario per la manicure. E le forbicine. Non sono adatte per ciò che voglio fare, ma forbici grandi qui non ce n’è, perciò dovrò accontentarmi.
Taglio via una ciocca dopo l’altra. Quelle scure, quelle chiare. Le taglio prima verso là metà della lunghezza, irregolari e storte, e si spelacchiano tutte. Mi guardo allo specchio. Non sono ancora io. Taglio più in alto, un po’ qui e un po’ là. Cerco un me stesso più piccolo e più sorridente, un me stesso che poteva passare ore davanti allo specchio armato solo di una confezione di gel per capelli, per poi uscire dal bagno con un’acconciatura tale da far commentare ai passanti “ma non hai ancora imparato a non mettere le dita nelle prese elettriche, Kaulitz?”. Sorrido ripensando a quel bambino, e mi metto a piangere quando continuo a non trovarlo nonostante tutto. Dovrebbe essere ancora qui, sepolto sotto le macerie, in fin di vita ma col cuore ancora forte che batte nel petto, e invece è sparito. Non l’ho solo sepolto vivo, l’ho nascosto agli occhi del mondo, così profondamente e tanto a lungo da averlo perso per sempre.
Sto ancora sorridendo e piangendo insieme quando sento il click familiare della serratura della porta del bagno. Mi volto verso la porta che si apre e quando incontro gli occhi di David non mi chiedo neanche per un secondo come sia possibile che sia stato proprio lui a trovarmi. La mia vita è cominciata quando sono stato trovato da quest’uomo. Non sarebbe mai potuta andare diversamente adesso.
- Bill… - dice lui, senza fiato, i lineamenti del viso tesi in una maschera di apprensione e sconforto, - Quando… quando sei tornato?
Mi stringo nelle spalle e nello stesso istante in cui lo faccio il pianto silenzioso che mi ha accompagnato fino ad adesso si fa lentamente sempre più rumoroso. Gemo e singhiozzo e comincio a respirare male, perciò David entra in bagno, chiude la porta alle proprie spalle, si allunga a sbarrare la finestrella aperta in alto sopra la mia testa e poi si china su di me e mi stringe fra le braccia. Io sono talmente stanco che sento ogni fibra del mio corpo sciogliersi e perdere consistenza, mentre mi nascondo sul suo petto e stringo la sua maglietta tanto forte da farmi male alle dita. E continuo a piangere.
- Non so cosa sto facendo. – dico piano, a fatica, schiacciandomi con forza contro di lui perché non voglio vedere me stesso e non voglio vedere neanche nient’altro. – Non mi riconosco. Quando mi guardo in faccia, David, dico davvero, non sono io. Quello non sono io.
- Io ti riconosco. – mormora David, cullandomi lentamente, - Io lo so chi sei, Billi. Sei solo un po’ opaco, ma sei sempre tu. Guarda. – aggiunge con un mezzo sorriso, prendendomi per le spalle e facendo girare lo sgabello su cui sono seduto abbastanza da permettermi di guardarmi allo specchio, - Come fai a non vederti? Chi altri potrebbe essere così bello anche dopo essersi tagliato i capelli con gli occhi palesemente bendati ed avere poi pianto per mezz’ora?
- Sono orribile! – dico, distogliendo lo sguardo e coprendomi il viso con entrambe le mani. David le scosta, accompagnandole finché non le abbasso, e poi mi prende il mento fra le dita, obbligandomi a tornare a fissare il mio riflesso nello specchio.
- Sei bellissimo. – dice con sicurezza, - Anche se in effetti sono costretto ad ammettere che il lavoro che hai fatto con questi capelli è davvero raccapricciante, tesoro. – aggiunge con tono frivolo, gesticolando un po’ mentre si china a recuperare le forbicine dal lavandino, - Dico davvero, Bill, che delusione, sei un disonore per la tua intera razza. L’autorità costituita dell’Ordine Mondiale degli Omosessuali nel Mondo dello Spettacolo non sarà per niente contenta di tutto questo. A maggior ragione visto che sei il mio figlio spirituale, voglio dire, non ti ho insegnato niente in tutti questi anni? Si può soffrire, ma con grazia. – annuisce compitamente.
Io mi appoggio di schiena al suo petto e lo osservo mentre mi maneggia con una cura che non riesce a stupirmi nemmeno in parte. Lo ascolto mormorare rassicurazioni prive di senso e continuare a blaterare a caso su questo fantomatico Ordine Mondiale Gay che a suo dire dovrebbe strapparmi di dosso il distintivo di Vero Gay che nemmeno posseggo perché non sono stato in grado di tagliarmi decentemente i capelli mentre non riuscivo a vedere a due centimetri dal mio naso, tante erano le lacrime che mi offuscavano la vista. Lo guardo mentre pareggia il taglio ai lati della mia testa e sistema le ciocche di capelli più lunghi che sono rimasti in cima, osservando il tutto con aria critica fino a quando gli si illuminano gli occhi e lo vedo girare su se stesso con una piroetta entusiasta, spalancando sportelli in dieci centimetri di spazio per recuperare il rasoio elettrico prima di invitarmi a chiudere gli occhi e rilassarmi, che quando li avrò riaperti allora sì che riuscirò a riconoscermi.
Li riapro almeno mezz’ora dopo. Non sono sicuro di non essermi addormentato. Schiudendo le palpebre, i miei occhi incontrano il riflesso della mia immagine, nello specchio. David sta accarezzando i miei capelli con l’attenzione e l’affetto di un padre. Sulle sue labbra s’è aperto un sorriso distratto e lieve, mentre non lo guardavo. Passa le dita fra le ciocche scure, sistemandole sopra la mia testa con cura, e sembra sereno. Così sereno.
Riporto lo sguardo sullo specchio. Quello continuo a non essere io. Non riesco nemmeno a sentire le sue carezze, o il calore del suo petto che si alza e si abbassa sollevandomi ad ogni respiro, proprio dietro di me. Non c’è niente. Non c’è più niente.
Chiudo gli occhi e ricomincio a piangere. Silenziosamente. Non voglio dare fastidio a nessuno.
David finisce di sistemare il taglio e poi mi abbraccia piano, come avesse paura di disturbarmi.
- Ti lascio un po’ tranquillo, ok? – mi sussurra all’orecchio. Io annuisco e lui sorride ancora, stringendomi una spalla con fare rassicurante prima di uscire dal bagno. Pochi secondi dopo lo sento abbandonare anche il tourbus, e la mia testa comincia a girare in un modo nuovo. È una sensazione che non ho mai provato, come stare a guardare mentre le cose che decido e che faccio semplicemente accadono, una dietro l’altra. Non ho davvero una parte, in tutto questo. Sono attore e spettatore, ma quasi nemmeno mi muovo.
Esco dal bagno. Prendo uno zaino. Lo riempio di roba a caso. Dove sto andando, niente di tutto questo mi servirà, eppure per qualche motivo l’idea di muovermi senza niente mi disturba. Prendo il beauty case. Una maglietta. Un paio di calzini ed uno di mutande. Due merendine ed una bottiglietta d’acqua dal frigo. Il portafogli. Infilo la giacca ed esco all’esterno. Ritorno dentro, mi avvicino al tavolo e prendo un post-it dal cassetto del cucinino. Scrivo sopra che avevo sonno e mi sono infilato nella cuccetta. Prego di non svegliarmi fino a domani. Saluto Peter disegnando un cuore nell’angolo in basso. Lascio il post-it dov’è e torno fuori. Mi guardo intorno, non c’è nessuno nelle vicinanze. C’è un bel po’ di gente assiepata di fronte all’entrata dell’autogrill. Alcuni si agitano, guardano verso uno schermo. Probabilmente stanno seguendo qualche partita. Quando stavo con Anis ero sempre al corrente delle partite che si giocavano, ogni settimana. Dovevo, visto che lui il calcio lo adora. Era carino stare sdraiati sul divano la domenica sera. Lui guardava la tv, io guardavo lui e mi ripetevo quanto fossi fortunato.
Sorrido un po’, sperando che Anis sia dentro l’autogrill con gli altri. Sperando che stia guardando la partita e si stia divertendo e non stia pensando a niente. Giro attorno ai tourbus e scavalco il guardrail. Percorro a ritroso la stessa via che ho fatto tornando qui non più di un paio d’ore fa, e raggiungo la stazione di servizio della torta ai mirtilli in meno di venti minuti. Mi rendo conto di quanto abbia dilatato il tempo all’andata e anche al ritorno, e realizzo coscientemente per la prima volta che non c’era nessun villaggio perso in mezzo ai campi di grano, nessuna nonna Ena, nessun nonno Joseph.
Entro nell’autogrill, chiedo una fetta della stessa torta che ho mangiato prima e me la faccio mettere in una confezione da asporto. Dopodiché spiego che ho bisogno di raggiungere Berlino al più presto, ma il tipo oltre il bancone mi guarda come fossi completamente pazzo per qualche secondo, ed allora aggiungo che andrà bene anche una stazione ferroviaria, che poi da lì mi organizzerò da solo. Mi si avvicina una signora con un bimbo in braccio e mi dice che lei e suo marito stanno giusto tornando in città, e per loro non è un problema accompagnarmi fino alla stazione, se per me non è un problema viaggiare con estranei. Sorrido e la ringrazio, assicurandole che non c’è proprio nessun problema. Come potrebbe? Se non volessi viaggiare con un estraneo, non potrei viaggiare nemmeno con me stesso.
In macchina resto più che altro in silenzio. La signora e il signore mi fanno un sacco di domande, ed io rispondo a tutte, per quello che posso, ma senza aprirmi troppo. Il bimbo, ancorato al seggiolino sul sedile posteriore, proprio qui al mio fianco, ad un certo punto si mette a piangere, forse a causa di un po’ di mal d’auto. Afferro uno dei sonaglini sparsi in giro per la macchina e comincio a distrarlo. Il bambino mi segue, dopo un po’ smette di piangere. Continuo a farlo giocare facendo smorfie e agitando il sonaglio, e vedo i suoi genitori sorridere e sorridersi nel riflesso dello specchietto retrovisore. Mi viene un po’ da piangere, ma non cedo.
Arriviamo in stazione che è già buio, ma siccome non è tanto tardi c’è un sacco di gente in giro, e treni che arrivano e ripartono ad ogni binario. La stazione è tutta illuminata, c’è un McDonald’s aperto nel quale ho paura di entrare. Cerco sul tabellone il primo treno per Berlino. È un treno notturno e parte fra mezz’ora. Mi dico che sono stato fortunato anche stavolta, lo sono spesso e senza nessun motivo. Compro un biglietto e poi mi seggo in sala d’aspetto, tenendo sempre d’occhio il tabellone degli arrivi. Ho fame e mi annoio. Tiro fuori la fetta di torta ai mirtilli dalla sua confezione e la mangio con piacere immenso, chiudendo gli occhi ed assaporandola lentamente.
Quando finisco, è già ora di muoversi. Esco dalla sala d’aspetto, salgo sul treno, prendo posto in uno scompartimento quasi vuoto – c’è solo un uomo seduto dal lato opposto, e dorme profondamente – e mi appoggio al finestrino, guardando la notte e la città e la campagna mentre scorre davanti ai miei occhi diventando una macchia scura priva di contorni distinguibili, con qualche luce che appare all’improvviso e altrettanto all’improvviso scompare, lasciando solo una traccia sulla mia retina. Ogni traccia resiste per qualche secondo, sia che io tenga gli occhi aperti sia che io li chiuda, perciò a un certo punto li chiudo e resto lì appoggiato, inspirando ed espirando profondamente l’aria ghiacciata che entra dentro dallo spiraglio del finestrino appena abbassato.
Mi sembra di chiudere gli occhi solo per dieci minuti, o qualcosa del genere, ma quando li riapro è già mattina. Sono stanco esattamente come ieri, ma mi tiro in piedi e cerco di stare ben dritto sulle gambe quando il treno, dopo un millennio da quando ha cominciato a rallentare in prossimità della stazione, si ferma. Recupero il mio zaino e scendo barcollando, reggendomi a qualsiasi cosa incontri per strada e sia ancorata abbastanza saldamente al suolo. Dio, sono così stanco.
Controllo il cellulare che durante la notte, in modalità silenziosa, ha squillato di continuo. Trenta chiamate solo da Peter, non molte di meno da David, cinque o sei da Tom, un paio perfino da Anis. Il mio biglietto non deve averli convinti molto.
Sospiro, cancellando l’elenco delle chiamate e spegnendo il cellulare. Chiamo un taxi e, quando il tassista mi chiede dove voglio andare, per un secondo non ho idea di cosa rispondergli, perché non voglio andare da nessuna parte. Se nessuna parte esistesse, sarebbe lì che andrei. Sarebbe sicuramente un posto come quello che ho visto mentre sognavo, o comunque non ero in me, alla stazione di servizio. Poche case, una piazza, un pozzo, campi di grano ovunque, bambini, donne, persone anziane, lavoratori lontani come miraggi. Ma quel posto non esiste, e io ho bisogno di sentirmi al sicuro, e negli ultimi anni c’è solo un posto in cui sia riuscito a sentirmi così.
Do al tassista l’indirizzo della Villa Gialla, e sorrido man mano che le strade che percorriamo si vanno facendo sempre più familiari e rassicuranti. Riesco a rivedermi imboccare queste stesse strade sulla mia macchina, o su quella di Tomi, quando riuscivo a rubargliela o a convincerlo ad accompagnarmi lui, non perché ne avessi bisogno ma semplicemente perché mi piaceva l’idea. Perché quello era un periodo in cui potevo fare le cose anche solo perché mi andava. E mi manca.
Della Villa Gialla ho ancora le chiavi. Non le ho mai ridate ad Anis. Le tengo assieme a tutte le altre nel mazzo, un mazzo enorme con cinquecento portachiavi e che pesa più di me. Pago il tassista ed aspetto che il taxi sia sparito dietro il primo angolo prima di tirarlo fuori. Apro il cancello e sento i cani abbaiare. Sono aggressivi, all’inizio, tirano le catene tanto forte che mi viene quasi da pensare che riusciranno a muovere perfino le cucce, come nei cartoni animati, ma quando si allungano abbastanza da vedere che sono io il loro abbaiare si fa meno aggressivo e più festoso, smettono di tirare e cominciano a saltellare. Mi avvicino piano e mi chino davanti a loro, che subito si accoccolano davanti a me per un po’ di carezze. Gratto Skyline sulla pancia e Sherlee dietro le orecchie, poi mi rimetto in piedi ed entro in casa. È tutto buio e c’è silenzio ovunque. I cani riprendono ad abbaiare per qualche minuto, ma quando si rendono conto che non li farò entrare smettono, e tornano ad accucciarsi all’interno delle loro pittoresche casette di legno. Io spalanco le imposte di una sola finestra in salotto. La luce investe il divano ed è lì che mi vado a sedere, poggiando lo zaino sul pavimento e fissando un punto imprecisato nel vuoto.
È anche qui che mi trova Patrick quando entra in casa, non so quante ore dopo. Abbastanza perché il sole sia tanto alto nel cielo da colpire la stanza per intero, illuminandola tutta. Ho osservato i raggi farsi più ampi, li ho sentiti farsi più caldi, e smetto di guardarli solo quando sento la chiave girare nella toppa e la porta aprirsi su di lui, che mi individua subito, dall’ingresso, e spalanca gli occhi.
- Bill? – mi chiama. È talmente incredulo che gli trema la voce. – Bill, ma che cazzo ci fai qui?
Mi rannicchio un po’ sul divano, sorridendo debolmente. Sono così stanco, mi si chiudono gli occhi.
- Sono scappato. – ammetto, troppo stanco per inventare balle, - Non ce la facevo più.
- Sei— sei scappato? – sillaba lui, sconvolto, sedendosi sul divano e sporgendosi tutto verso di me, come avesse paura di vedermi crollare all’improvviso e dovesse tenersi pronto ad allungarsi per recuperarmi prima che mi schianti a terra.
- Sì. – biascico io, trovando non so dove la forza per annuire, - Patrick, non capisco più niente di quello che succede. Io credo di essere impazzito. – rido un po’, ma è una risata talmente debole e stanca che fa più paura a me di quanta ne faccia a lui. Ed a lui già ne fa tanta, lo vedo dal brivido che gli scorre per tutta la schiena, costringendolo a tremare impercettibilmente.
- Come sarebbe a dire che credi di essere impazzito? – mi chiede, strisciando sul divano fino ad avvicinarsi abbastanza perché il mio corpo possa reagire come fa sempre quando non ce la fa più a sostenersi da solo. Mi perdo fra le sue braccia, abbandonandomi contro il suo petto e chiedendomi se questo non sia poi il motivo principale per cui sono pieno di guai. Per la vita che mi sono scelto, io dovrei essere molto più forte di così. Però non lo sono, e questo mi porta a causare un sacco di guai a me stesso ed agli altri. Questa cosa è così ingiusta. Però io sono così stanco.
- Non sono più io. – mugolo confusamente, cercando di non piangere nonostante gli occhi siano così carichi di lacrime da bruciare, - Non mi riconosco. Sto un sacco male, Patrick.
Patrick mi stringe e mi accarezza i capelli e il collo, cullandomi col ritmo dei suoi respiri.
- Stai bene, così. – dice a bassa voce, passando le dita fra le punte cortissime dei miei capelli. Io ringrazio così piano che lui nemmeno mi sente. – Bill, - mi chiama, ed io istintivamente so che sta per dirmi qualcosa che non sono sicuro di voler sentire, - tu lo sai perché le cose vanno così male.
Stringo i denti, aggrottando le sopracciglia e stringendo un lembo della sua maglietta fra le dita.
- No che non lo so. – rispondo con tono lamentoso.
Lui mi stringe più forte, cullandomi lentamente.
- Alle volte le cose vanno fatte anche se ci fanno stare male. – dice, e gli trema la voce. E so che sta parlando per me, in questo momento, ma anche per se stesso.
- Non voglio. – piagnucolo. Non riesco più a trattenere le lacrime che nel mentre si sono gonfiate così tanto da cadere a gocce enormi sulla sua maglietta, sui suoi pantaloni e sulle mie mani.
- Bill, tu… - sospira e riprende ad accarezzarmi la nuca, senza smettere un secondo di ondeggiare avanti e indietro, - …tutti noi, in realtà. Ci siamo tutti persi. Abbiamo bisogno di ritrovarci, ma non possiamo farlo finché—
- Non dirlo.
- Finché non riusciamo a concentrarci solo su noi stessi. – conclude lui, stringendomi fortissimo perché sa che se non lo facesse scapperei. Ci provo, a divincolarmi, ma sono così stanco che non riesco. Trattengo il fiato così a lungo che mi sembra di potere esplodere, e poi lo rilascio e scoppio a piangere più forte di quanto non facessi prima, mugolando che non voglio, non voglio lasciarli, sono tutto il mio mondo, sono la ragione per cui sono qui, tutti loro, tutti e tre, in modo diverso ma ugualmente importante, e non ce la faccio proprio a metterli da parte, non ci riesco, non voglio. E mentre piango sempre più forte, e la mia voce si fa sempre più stridula e lagnosa, Fler mi stringe sempre con meno convinzione ed io realizzo che questa persona che piange e si lagna e non ha coraggio né forza di volontà non sono io. Ed è questo il motivo per cui mi guardo allo specchio e non mi riconosco. Questo stupido ragazzino impotente non sono io. Io non avevo ancora diciott’anni quando mi sono innamorato sul serio ed ho deciso che avrei conquistato l’uomo che amavo. Non avevo ancora diciott’anni quando ho ascoltato ciò che quest’uomo aveva da dirmi ed ho deciso di accettare tutto, di lui, perfino il suo passato, perché era ciò che serviva per averlo. Ed ero ancora più piccolo quando ho deciso cosa dovevo fare della mia vita, ero ancora più piccolo quando ho cominciato a lavorare, ad un’età in cui i ragazzini normali ancora si svegliano alle sette e si lamentano o inventano scuse per non andare a scuola.
Ora sono qui che piango e strepito e faccio i capricci come uno di quei ragazzini che non sono mai voluto essere. E questo non sono io. Non è così che mi voglio. E se è vero che mi sono perso, devo assolutamente ritrovarmi.
Mi allontano da lui, raddrizzando le spalle e passandomi una mano sugli occhi per asciugare le lacrime. Patrick mi osserva farlo e non ha bisogno di chiedermi niente per capire che finalmente ci sono arrivato anch’io.
Mi alzo subito in piedi, non perché voglia scappare, ma perché voglio fare qualcosa. Una cosa qualsiasi. Anche soltanto alzarmi in piedi e girare attorno al divano per sgranchirmi le gambe. Improvvisamente, sono molto meno stanco di quanto non fossi prima. Forse ero solo così pieno di tristezza da non riuscire a muovermi come volevo. Forse dovevo soltanto piangerla via.
- Partirò. – dico annuendo. Guardo fuori dalla finestra, le strade piene di persone e il sole altissimo nel cielo azzurro macchiato appena da qualche sbuffo bianco semitrasparente. – Me ne andrò in qualche bel posto con Tomi. Alle Maldive, magari. Io e lui dobbiamo dirci tante cose.
Patrick annuisce, sorridendo debolmente ed affiancandomisi per abbracciarmi ancora.
- Sarebbe meglio non sentirsi. Nemmeno noi. – dice, quasi per assicurarsi che abbia capito bene il concetto.
- Sì. – rido io, - Lo so perfettamente. Parlerò con David. Risolverò questa situazione.
Patrick si allontana, guardandomi con aria un po’ incerta ma profondamente divertita.
- Chi sei tu? – chiede ridacchiando, - Non ti ho mai visto così.
- Tu non mi hai mai conosciuto. – rispondo con un sorriso più dolce, allungandomi ad abbracciarlo a mia volta, - Quando sarò tornato, quando starò meglio, vorrò che tu mi conosca. Partiremo insieme, e stavolta sarà diverso da tutte le altre volte. Credimi.
Mi allontano ancora e frugo nelle tasche dei jeans, tirandone fuori il mazzo di chiavi. Lo guardo per qualche secondo, facendolo tintinnare sul palmo della mano, e poi stacco le chiavi del cancello e di questa villa, e le do a Fler.
- …sono…? – chiede lui con aria incerta. Io annuisco.
- Non le ho mai ridate ad Anis. – confesso, - Puoi fargliele avere tu?
Patrick annuisce, prendendo le chiavi in mano e conservandole subito in tasca. Lo saluto con un bacio sulla guancia, recupero il mio zaino e mi avvio lungo il corridoio.
- Stammi bene, ragazzino. – mi saluta lui, sbuffando un sorriso incerto. Gli faccio un cenno con una mano, prima di sparire oltre la soglia e lasciarlo in salotto. Sono ancora qui, ma non vedo l’ora di essere fuori. Chiamerò Tomi appena arrivato a casa. Gli dirò tutto. Sistemeremo tutto. Posso già sentire il calore del sole sulla pelle, la consistenza dei granelli di sabbia fra le dita, l’acqua ghiacciata che mi scivola fra i capelli e sul viso.
Attraverso tutto il corridoio e, quando arrivo a un passo dalla porta, mi volto verso lo specchio alto e largo sopra la consolle, e mi sorrido. Sento che sto sorridendo proprio a me stesso, e capisco che la direzione, stavolta, è quella giusta.

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