A Beautiful Lie

di lisachan
Quando mi sveglio, come prima cosa allungo il braccio alla mia destra, e cerco il corpo di Danny sul materasso al mio fianco. Non dormiamo mai particolarmente vicini, il che per me è un dettaglio abbastanza nuovo, visto che tutti e due gli altri maschi coi quali ho dormito nel corso della mia esistenza avevano questa tendenza piuttosto spiccata ad arrotolarmisi addosso il più possibile.
Danny non è così. Ha, probabilmente, una visione molto meno romantica, per così dire, del dormire insieme. È capace di starmi vicinissimo durante il giorno, appiccicarmisi addosso in momenti decisamente poco opportuni, saltarmi sulle spalle mentre sto facendo tutt’altro e Dio solo sa quanto gli piace starmi il più vicino possibile quando scopiamo, ma mentre dormiamo? Mentre dormiamo sostanzialmente se ne frega di dove cade il suo corpo appena chiude gli occhi. È incosciente, in ogni caso, per cui perché crucciarsi domandandosi se mi stia abbracciando o si stia facendo abbracciare nel modo giusto, o preoccupandosi della possibilità di rimanere per tutta la notte immobile nella stessa posizione e svegliarsi l’indomani mattina con un braccio o una gamba anchilosati?
Il suo è un ragionamento molto pratico, molto terra terra, incredibilmente concreto e adolescente. Non c’è nessun motivo di dimostrarci niente neanche in generale, ma pretendere di dimostrarci qualcosa stringendoci l’uno all’altro mentre dormiamo è davvero troppo ridicolo, per il suo modo di vedere le cose.
È terribilmente divertente osservarlo mentre mette in pratica questi ragionamenti: quando sarà più grande, quando avrà corso innumerevoli volte il rischio di vedere le persone che avrà amato scivolargli via di mano, stringersele contro durante la notte per evitare di lasciarle volare via sarà l’unico pensiero che lo porterà a chiudere gli occhi serenamente quando dovrà dormire. Ma ora ha diciassette anni, non ha mai amato nessuno né tantomeno ha rischiato di perderlo. È naturale che pretenda i suoi spazi per dormire comodo.
Naturalmente, per me la situazione è un po’ diversa. Io ho amato molte persone e le ho perse praticamente tutte, si sia trattato di amicizia o amori veri, perciò non riesco ad essere spensierato come riesce lui. È più facile non pensarci quando non resta a dormire con me – spesso, probabilmente, lo rimando a casa sua proprio per questo – ma quando rimane qui mi capita spesso durante la notte di svegliarmi di soprassalto solo per verificare che lui ci sia ancora. O svegliarmi presto al mattino, come adesso, ed allungare subito un braccio alla ricerca del suo corpo.
La nota positiva è che non mi è mai capitato di non trovarlo, le volte in cui una cosa del genere è successa. E anche adesso funziona allo stesso modo: il suo corpo è proprio qui, solo apparentemente immobile fra le lenzuola. In realtà Danny tende ad essere molto irrequieto anche quando dorme, perfino quando il suo è un sonno tranquillo, perciò non è che si possa dire, perfino adesso, che lui stia fermo.
Mi rigiro su un fianco e lo osservo attentamente nella luce fioca che passa in rivoli minuscoli attraverso le imposte serrate, e nei pochi secondi in cui lo guardo lui riesce a cambiare posizione, scalciare un paio di volte, tirarsi via metà coperta di dosso perché sente caldo e fare una smorfia e sbuffare per liberarsi da una ciocca di capelli che, mentre si muoveva, è sfuggita al codino e gli è scivolata sul naso. E lo ripeto, oggi, rispetto ad altri giorni, è tranquillo.
Sollevo una mano e scivolo con la punta delle dita lungo il profilo del suo viso, sulla sporgenza ossuta della clavicola giù lungo il petto tonico e magro e sulla pancia piatta, fino all’incavo dell’ombelico proprio sopra la curva un po’ più rotonda e morbida del suo bassoventre. Lui si sposta impercettibilmente, tremando appena sotto il mio tocco, ma non si sveglia. La mia mano risale su seguendo lo stesso percorso all’inverso, e poi si ferma all’altezza del suo naso. Sorrido, stringendo le sue narici fra il pollice e l’indice.
Lui resta tranquillo per un paio di secondi, mentre il sorriso sulle mie labbra si allarga. Poi aggrotta le sopracciglia, le guance cominciano ad arrossarglisi e infine spalanca gli occhi e le labbra all’improvviso, gettando in giro braccia e gambe alla rinfusa nel tentativo di liberarsi del suo assassino misterioso mentre io, avendo ottenuto ciò che volevo, lo lascio finalmente libero di respirare, ritraendo la mano.
- Ma sei pazzo? – sbotta arrabbiato, tirandomi uno schiaffo in piena fronte, - Potevo restarci secco.
- Sì, ti avrei ucciso nel sonno e poi ti avrei fatto a pezzi. – annuisco io, afferrandolo per il polso e torcendogli un po’ il braccio mentre me lo tiro contro, finché non lo sento lamentarsi con una serie di “ahi, ahi, ahi!” di protesta, - Poi parte di te sarebbe finita in fondo al canale. E qualcosa l’avrei tenuta per ricordo, non si sa mai.
- Sei uno stronzo maniaco e sadico. – sentenzia lui, dandomi una testata, - E mi lasci? Mi stai facendo un male cane!
Rido un po’ e lo ribalto sul materasso, sovrastandolo col mio corpo ed impedendogli di muoversi ancora mentre con una mano scivolo lungo il suo fianco, sfiorando una delle numerose cicatrici che segnano la sua pelle.
- Credevo che queste dimostrassero che sei abituato a sopportare ben altri dolori. – dico, guardandolo dritto negli occhi. Lui ha un sussulto e trema non appena le mie dita un po’ ruvide ripercorrono il tratto di pelle ipersensibile sopra l’anca. Lo stesso che ho sfiorato la prima volta che è venuto a casa mia, intenzionato a convincermi a scoparlo. Lo sento sciogliersi sotto la mia carezza e diventare immediatamente duro sotto di me, ed è allora che mi scosto, rotolando sulla schiena e poi giù dal letto. – Ti conviene muoverti, - dico quindi, stiracchiandomi un po’ sotto il suo sguardo confuso e lucido di voglia, - o farai tardi a scuola.
- Non devo andare a scuola! – protesta con veemenza, - Siamo in vacanza dall’altro ieri, e soprattutto non posso credere che mi avresti davvero fatto venire voglia di scopare per poi buttarmi fuori così senza un pensiero!
- Dannazione. – borbotto io, fingendomi estremamente preoccupato, - Era esattamente il mio piano. L’assoluta impreparazione del sistema scolastico tedesco manda a monte tutto, però. Dovrò trovare qualche altro motivo per buttarti fuori di casa.
- Sei. Uno. Stronzo. Maniaco. E. Sadico. – ripete lui, scandendo bene le parole e poi gettando scompostamente le gambe giù dal letto per mettersi in piedi, - Ed io palesemente non voglio più avere a che fare con te per le prossime dieci ore almeno, per cui mi troverò di meglio da fare. – annuisce deciso. – Vado a farmi la doccia, tanto per cominciare. – annuncia dirigendosi speditamente verso il bagno.
Io sorrido, sedendomi sul bordo del letto per fare mente locale e decidendo che quest’operazione può aspettare, dopotutto: lascio passare cinque minuti, giusto per essere certo che Danny sarà già sotto la doccia quando mi sarò mosso, e poi mi alzo in piedi e lo raggiungo, cercando di fare il minor rumore possibile. Serve a poco, comunque: Danny sente spessissimo anche un sacco di suoni minuscoli, una cosa che immagino abbia imparato a fare per preservare per quanto possibile la propria sopravvivenza, motivo per il quale appena scosto la parete scorrevole trasparente ed entro nella doccia al suo fianco lo trovo già sorridente che mi dà le spalle solo per dimostrarmi quanto se lo aspettasse e quanto la cosa non lo colga nient’affatto impreparato.
- In realtà sono io che non potrei stare lontano da te per dieci ore. – gli sussurro sulla pelle, abbracciandolo da dietro mentre lui rilascia il capo contro la mia spalla e chiude gli occhi.
- Infatti era inteso come una vendetta nei tuoi confronti. – mi spiega a bassa voce, mentre le mie mani scivolano giù lungo il suo ventre e prendono a giocare distrattamente con la sua erezione, - Per aver cercato di soffocarmi nel sonno.
- Penso di poter chiedere una riduzione della pena, se prometto di occuparmi di un po’ di servizi sociali adesso. – ipotizzo, stringendolo piano fra le dita e muovendomi lentamente avanti e indietro, finché lui non prende a seguire il mio movimento con spinte regolari del bacino. – Facciamo che stai via cinque ore e poi ci si vede di nuovo?
Lui mi si rigira fra le braccia, schiacciandosi contro di me. Si avvicina abbastanza da fare in modo che le nostre erezioni si tocchino, e poi le avvolge entrambe con una mano, strofinandole contemporaneamente fra le dita e l’una contro l’altra.
- Hai da fare? – mi chiede sulle labbra, mentre io lo spingo contro la parete piantando entrambe le mani sulle piastrelle bagnate ed un po’ scivolose per muovermi con più forza contro di lui, - Perché se sei libero posso anche restare. Annulliamo la pena. Facciamo che invece di stare via cinque o dieci ore la sconti scopandomi cinque o dieci volte.
- Mi vedo costretto a declinare l’offerta. – rido appena, senza fiato, mentre lui passa il pollice sulla punta del mio cazzo facendomi rabbrividire di piacere, - Ho da fare, sì.
- Potrei aspettarti qui. – dice lui, sollevandosi abbastanza per sfiorarmi l’orecchio con le labbra, - Nudo, ad esempio.
- Oppure, - rido ancora, scivolando con le mani lungo la sua schiena ed afferrandogli le natiche con decisione, stringendole fra le dita, - potresti uscire da questa casa e provare ad avere una vita, ogni tanto.
- Ora mi si ammoscia. – mi avverte lui, roteando gli occhi, - Cristo, quanto sei palloso.
- Davvero. – sorrido sul suo collo, mentre le mie dita si avventurano lungo il solco fra le sue natiche, sfiorando decise la sua apertura, - Ho un po’ di cose da sistemare. Preferirei non averti tra i piedi mentre lo faccio.
- Stai peggiorando la situazione. – si lagna, continuando a strusciarsi contro di me, - Voglia di scopare in questo momento uguale a zero, più o meno.
Mi allontano un po’, una cosa praticamente impercettibile, ma è abbastanza perché le sue braccia scattino a stringermi attorno alle spalle per impedirmi di allontanarmi ancora.
Sorrido, poggiando la fronte contro la sua, le punte dei nostri nasi che quasi si sfiorano.
- Stai mentendo. – sussurro prima di baciarlo.
Ovviamente ho ragione, perché nel momento stesso in cui la mia lingua prende ad accarezzare la sua Daniel smette di lagnarsi, e non solo perché adesso ha la bocca occupata. Chiude gli occhi e si abbandona completamente a me, con una fiducia cieca che non manca mai di stupirmi. Con Daniel è tutto molto più incerto e flessibile di quanto non sia mai stato con altre persone, perciò ogni singola cosa che faccio con lui è molto più preziosa, perché non è mai routine. È sempre un qualcosa che è accaduto all’improvviso dopo chissà quanto tempo che non accadeva, e tu non puoi fare a meno di cercare il più possibile di assaporare il momento, perché chissà quando ricapiterà.
E davvero non capita spesso che lui si metta nelle mie mani in maniera così totale. Ci sono volte in cui è tremendamente dispotico, sia che stia sotto sia che stia sopra, ce ne sono molte altre in cui è semplicemente partecipe, gioca con me nello stesso modo in cui io gioco con lui, e poi ci sono volte come questa in cui si lascia andare, stabilisce che può mollare la presa sul suo senso del controllo per un po’ e può lasciar fare a me.
Lo sollevo appena, appoggiandolo contro la parete ed aspettando che abbia stretto le gambe attorno ai miei fianchi prima di cercare in un colpo secco la via per il suo corpo, nel quale affondo senza timore, godendo del sospiro arreso che esala gettando indietro il capo ed allacciandomi al collo. Gli ricopro il petto ed il collo di baci, spingendomi con forza dentro di lui mentre il suo bacino viene incontro al mio in gesti rapidi e fluidi. Mentre lui geme il mio nome e mi accarezza la nuca, io penso al borsone che sto tenendo pieno per metà nello stanzino in fondo al corridoio da ormai una settimana. Penso allo zainetto nuovo che ho comprato l’altro ieri tornando a casa una sera e penso a quel paio di magliette palesemente troppo piccole per me che ho avvolto in un sacchetto di plastica e ho lasciato là dentro. Mi chiedo come farò questo pomeriggio quando sarà tornato a dirgli ciò che devo dirgli, come farò a trovare il coraggio di chiedergli ciò che devo chiedergli, e poi Danny geme ancora, con più forza, ed ogni muscolo del suo corpo si tende sotto le mie dita, ed io smetto di pensare a cosa dovrò fare fra cinque ore per concentrarmi su ciò che devo fare adesso. Voglio che esca sorridendo, da questa casa. Perciò mi impegno a farlo bene.
*
Danny è già uscito da un’oretta abbondante quando mi decido a tirarmi su dal divano e darmi una mossa. La verità è che se ho aspettato così tanto è che non ho la minima idea di cosa dovrei fare. Altre volte, in passato, m’è capitato di desiderare di partire, di andare via. Un anno fa l’ho desiderato così tanto che il pensiero si era radicato in me molto profondamente, al punto che credevo di essermi davvero organizzato per farlo, ma non era così. Il borsone era pronto, è vero, ma è facile infilare qualche vestito e della biancheria in uno zaino e metterlo in un angolo, dove puoi vederlo, di modo che passandoci di fronte tu possa ripeterti che sì, è vero, sei ancora lì, ma ciò non vuol dire che tu non abbia palle per partire, perché visto? I bagagli sono lì, pronti!
Non è così, naturalmente. I bagagli sono lì pronti solo per finta, tu non sei organizzato, non stai davvero pensando a niente e se passasse qualcuno e ti mettesse in mano cinquecento euro dicendoti espressamente che puoi usarli, ma solo per partire, non avresti idea di dove andare. Perché non ci hai pensato, l’unico posto in cui vuoi andare è quello in cui sei, che guardacaso è anche il posto da cui vuoi scappare, il che è veramente un casino.
Perciò sì, un anno fa io stavo spesso a ripetermi che sì, entro un paio di giorni, una settimana al massimo, sarei partito. E avevo il mio borsone pronto proprio accanto al letto, c’inciampavo quasi ogni mattina quando mi svegliavo, perché avevo bisogno di averlo in mezzo ai piedi per ricordarmi che esisteva, non mi bastava tenerlo nell’angolo, dovevo rischiare di spaccarmi l’osso del collo travolgendolo, o lo dimenticavo nel giro di tre minuti. Però non avevo niente di più concreto oltre questo, non avevo un piano, non avevo una destinazione, non avevo delle tempistiche, non avevo un’organizzazione. Tant’è vero che ho atteso che fosse Sido a fornirmela, peccato che poi sia arrivata un po’ in ritardo, ed Anis, per allora, fosse già tornato in vita.
Si sarebbe comunque trattato solo di un tour, un qualcosa di molto breve e con un termine ben preciso, per non parlare del fatto che in realtà poi si sarebbe svolto tutto in Germania, quindi sarebbe un po’ stato come girare attorno al problema senza saper decidere se affrontarlo o allontanarsene definitivamente, quindi, alla fine, suppongo sia stato meglio in quel modo. Allontanarmi dal problema abbastanza per credere che potesse andare meglio e poi ripiombare nel baratro non appena avessi rimesso piede a Berlino non sarebbe stato tanto piacevole, quindi sono quasi certo, anzi, sono proprio certo che sia stato meglio rimanere, osservare la situazione finché non è stata portata alle sue estreme conseguenze e, be’, a quel punto, decidere.
Che poi è quello che ho fatto io adesso.
Abbasso lo sguardo, lanciando un’occhiata ai biglietti aerei per Parigi che tengo in una busta sul palmo della mano. Su un foglietto di carta, che tengo in quella stessa busta, ho l’indirizzo e il numero di telefono dell’albergo nel quale ho prenotato una stanza per un paio di settimane, e salvato sul cellulare ho un altro numero che invece appartiene a un tizio che lavora per la Fédération Nationale de l’Immobilier al centoventinove di rue du Faubourg St. Honoré. Pierre, così si chiama il tizio, è stato molto gentile e carino quando abbiamo parlato al telefono. Ha parlato in inglese e molto lentamente, così che io potessi andargli dietro senza difficoltà eccessive. Jost me l’aveva detto che avrebbe fatto al caso mio. Io ho detto a Jost che lo ringraziavo ma gli sarei stato anche più grato se avesse mantenuto un certo riserbo su tutta la questione. Lui ha inarcato un sopracciglio e mi ha guardato come avessi detto una cosa molto, molto stupida, e la discussione s’è chiusa lì.
In ogni caso, Jost e le sue innumerevoli conoscenze nelle comunità gay di tutta Europa a parte, il succo della questione è che stavolta sono organizzato. Lo sono davvero. Non solo so dove andare, ma ho appuntamenti precisi, date fisse, luoghi in cui devo presentarmi, persone con le quali devo parlare, questioni che dovrò risolvere, prospettive di contratti da firmare. Roba eccezionalmente seria. Roba che se penso alla prima persona che vorrei con me quando sarò lì a dover fare tutte queste cose, il primo nome che mi viene in mente è il nome sbagliato.
Il secondo, però, è il nome di Danny. E non è detto che una domanda non possa avere due risposte giuste, dopotutto.
*
Giugno è già cominciato da un paio di giorni, e in giro per le strade ogni tanto si vedono fare capolino segnali dell’estate imminente. Sono soltanto avvertimenti, perlopiù molto blandi. Ogni tanto il sole ti batte sulla pelle con un po’ di forza in più rispetto a quella con cui s’è fatto sentire fino ad adesso, gli strati di vestiti che la gente si porta addosso si riducono gradualmente, c’è perfino qualche coraggioso che già va in giro in maglietta, con le maniche tirate su fino ai gomiti. Lo vedi rabbrividire appena e poi farsi forza e continuare a camminare con un sorriso smagliante stampato sulle labbra, perché alle volte non è importante che non ci sia freddo, alle volte conta molto di più la consapevolezza di riuscire a gestirlo, di potere andare in giro con le maniche arrotolate e magari non morire di caldo, ma non morire nemmeno congelato. Alle persone, ho scoperto, tenere sotto controllo le cose piccole e insignificanti come queste fa bene. È sistematicamente quando cerchi di controllare le cose più grandi e importanti che ti sfugge tutto di mano. Questa è la lezione che ho imparato negli ultimi due anni, una lezione di cui intendo fare tesoro ora che sto per fuggire dal posto che me l’ha insegnata.
Per prima cosa, vado da Bill. Arrivo fino al suo appartamento, busso più volte e nessuno risponde, per cui chiamo Tom ed è lui a dirmi, abbassando la voce fin quasi a non farsi sentire più, che suo fratello s’è trasferito a casa sua per un po’. Stanno organizzando un viaggio, mi dice, non una cosa breve, e comunque Bill per ora non può stare da solo. Io annuisco e lui mi ringrazia per essermi preoccupato, e sento distintamente che sta per chiudere la conversazione. È allora che gli dico che sto passando per un saluto, e per molti secondi lui nemmeno riesce a rispondermi. Immagino sappia, voglio dire, suo fratello deve avergli spiegato, in qualche modo, che nel lungo elenco di persone dalle quali Bill deve stare lontano al momento figuro anche io, seppure per motivi che col rapporto che io e Bill avevamo prima di tutto questo non c’entrano niente. È per questo motivo che ora Tom vorrebbe dirmi “ma sei matto?” e rispedirmi a casa mia con un paio di metaforici calci in culo, ma non lo fa. Perché è Tom, perché è un ragazzo intimamente molto buono, molto soffice, e perché quando si parla di me la parola soffice non basta nemmeno più a descriverlo. Perciò, si limita ad annuire mestamente e dirmi “ok, ci vediamo fra poco”. Lo dice così frettolosamente che quasi riesco a vedere le rotelle del suo cervello muoversi forsennatamente mentre lui cerca di trovare un modo adatto per comunicare il tutto a suo fratello senza generare un’Apocalisse. Sorrido un po’, anche se non dovrei.
Sono lì in un quarto d’ora circa. Visto che non sono nemmeno le undici e mezza, passo da una pasticceria e compro qualcosa di buono da mangiare. Un intero vassoio di paste assortite. Bill molto probabilmente non avrà alcuna voglia di mangiarle, ma mi sembra poco carino presentarmi per dire che partirò, molto probabilmente per sempre, senza neanche portare un regalo. Quando ci rifletto mi sembra poco carino anche portare un regalo, per la verità, ma ormai il danno è fatto, Tom apre la porta e per un attimo guarda solo me, dopodiché i suoi occhi cascano sul vassoio che tengo in equilibrio sul palmo della mano e il suo viso si illumina di un sorriso festoso.
- Hai portato dei dolci! – constata con entusiasmo, prendendo il vassoio fra le mani e facendomi strada in casa. – Bill è un po’ così. – mi dice subito, come mettendo le mani avanti, poggiando il vassoio sul tavolo e scartandolo. – Oddio, quanta roba buona… - miagola sognante, e prende una pasta alla panna e fragoline prima di tornare a guardarmi, - Non sono sicuro che voglia vederti, ma di sicuro non vuole non vederti. – dice con aria un po’ confusa, staccando un morso dal pasticcino e masticandolo con lenta soddisfazione. – Per cui niente, ora te lo chiamo, però vuole che resti mentre parlate. Per te va bene?
Sorrido ed annuisco, Tom manda giù il pasticcino in un altro morso e ne prende un altro prima di girare sui tacchi e scomparire in corridoio. Quando torna, il pasticcino non è più fra le sue dita, bensì fra quelle di Bill, che lo stringe con disinteresse, stando attento solo a non sporcarsi. Ha le labbra piegate in un sorriso sottile, ma distoglie lo sguardo con ostinazione mentre si siede sul divano. Io mi seggo accanto a lui e Tom si stabilisce dietro al tavolo, su una sedia, avvicinandosi il vassoio e ricominciando a mangiare dolci lanciandoci di tanto in tanto occhiate attente da supervisore.
- Come mai sei qui? – chiede Bill. I suoi occhi sono ancora distanti dai miei, e penso proprio che non riuscirò ad incontrarli per oggi.
Devo dirglielo.
- Sono solo passato a salutare.
Non glielo dico.
- …oh. – sussurra lui, guardando il pasticcino e poi allungandosi a posarlo sul tavolino basso di fronte al divano, facendo attenzione a non rovesciarlo. – È… tutto a posto, sì? In generale, dico.
- Non posso parlare per gli altri, perché non li sento da un po’. – rido appena, grattandomi nervosamente la nuca, - Ma io sto bene, sì.
Bill sorride con più sicurezza, anche se tutto, in lui, in questo momento, ha un che di nostalgico e lontano, quasi antico. Da quale quadro sei sbucato fuori, ragazzino? Da quale passato che io non conosco?
- Anche io sto bene. – mi dice. So che lo fa solo per rassicurarmi, me ne rendo conto subito perché Tom, trangugiando un bignè alla crema, inarca un sopracciglio con aria scettica, pure se fa di tutto per darci a intendere di non stare origliando. – Penso che la scelta che abbiamo fatto sia stata quella giusta. – continua, annuendo a se stesso. Io sorrido e mi alzo in piedi.
- Bene. – dico, spiegando i pantaloni lungo le gambe, - Allora direi che vado. Ho ancora un mucchio di cose da fare, non vorrei non riuscirci.
Bill solleva lo sguardo repentinamente, cambiando espressione all’improvviso. I nostri occhi si incontrano ed io nei suoi leggo la paura riflessa dai miei, quella che dice che guardandomi, adesso, lui possa capire quello che gli ho nascosto nonostante fossi venuto qui proprio per salutarlo un’ultima volta.
- …ma sei appena arrivato. – dice invece soltanto lui, mordendosi appena un labbro subito dopo aver finito di parlare. Io sorrido con indulgenza, mentre Tom tira un inaspettato quanto rumoroso sospiro di sollievo. Gli scompiglio i capelli.
- Volevo solo passare per un saluto, comunque. – dico dolcemente, e poi lancio un’occhiata al pasticcino ancora sul tavolino. – Mangialo qualche dolcetto. – consiglio, - Sono buoni.
- Confermo. – annuisce Tom, ingollando il quindicesimo nel giro di dieci minuti. Io rido per qualche secondo, ed osservo Bill chinarsi verso il pasticcino e poi infilarselo in bocca in un sol gesto, come avesse paura di poter cambiare idea se avesse tentennato troppo. Fa fatica perfino a deglutire, il suo pomo d’Adamo fa su e giù per la sua gola con una lentezza esasperante, a un certo punto mi preoccupo pure, ma alla fine lui apre gli occhi e sorride, e lo fa guardando suo fratello, non me.
- È buono davvero. – dice, e Tom gli ricambia il sorriso. Credo che qui sia appena successo qualcosa che con la mia presenza non c’entra niente, credo di aver aiutato una questione di cui ero completamente all’oscuro a risolversi. – Io torno di là. – riprende Bill, e quando si volta a guardarmi, stavolta, è sereno. – A presto, Patrick. – mi saluta. Passa a prendere un altro pasticcino, prima di allontanarsi nuovamente verso camera propria.
Tom si alza dal tavolo, prende un altro bignè e, visto che ne sono rimasti giusto un paio, conserva il resto. Mangia quello che tiene in mano in un morso solo e mi accompagna alla porta. Sorride, restandovi appoggiato mentre mi osserva chiamare l’ascensore.
- Grazie, eh. – dice, salutandomi con un cenno del capo. Io ricambio con un gesto della mano, so che sta ringraziando per un sacco di cose, molte delle quali non saprò mai, e mi sta bene.
*
Mentre salgo in macchina e m’incammino verso casa di Bushido, mi dico che a lui devo proprio dirlo. Me lo dico con una certa convinzione, del tipo che lo so che non posso abbandonare la Germania per sempre senza quantomeno fargli sapere che sto per farlo. Lo so come si sanno quelle cose certe dell’esistenza, quelle che sono conseguenze immediate delle azioni che compi. Metti il dito sul fuoco, ti bruci. Esci senza ombrello mentre di fuori infuria la tempesta, ti bagni. Vai da Chakuza una sera che è solo e non ti vede da tre o quattro ore, si scopa. Allo stesso modo, se decidi di partire per Parigi lasciandoti dietro tutta la tua vita, lo dici a Bushido. Certo, forse quest’ultima questione è un po’ meno ovvia delle altre, per quanto riguarda tutto il resto del mondo. Un perfetto sconosciuto, se decide di trasferirsi da Berlino a Parigi, non è che deve andare da Bushido a notificarglielo. Io sì, però, perché io sono Fler, non sono un perfetto conosciuto, ed anche quando eravamo in guerra stavamo bene attenti a dire sempre ad alta voce dov’è che stavamo andando, se andavamo da qualche parte, così che l’altro potesse saperlo, potesse tenerci d’occhio.
Per cui adesso che mi fermo davanti al cancello di casa sua, parcheggio la macchina all’esterno e mi avvicino al citofono per suonare, lo faccio pensando che non ci sono cazzi, a Bushido lo devo dire, devo e basta.
Aspetto un po’, e sono talmente preparato a rispondere “Fler” quando lui chiederà “chi è?” che non mi accorgo nemmeno che lui invece non me lo chiede. Probabilmente perché vede che sono io nello schermo del videocitofono, si risparmia la domanda ed apre direttamente il cancello, ed è mormorando un “Fler” perfettamente inutile che io lo spingo e mi avvio per il sentierino ghiaioso che conduce verso la porta di casa, sulla quale lui mi aspetta, una mano sullo stipite e l’altra stretta convulsamente attorno alla maniglia, quasi tutto il corpo proiettato all’esterno, in allarme. Sorrido appena, per cercare di tranquillizzarlo. Gli ho parlato, prima di perdersi di vista, gli ho spiegato perché sarebbe stato meglio tagliare un po’ i fili, quindi è naturale che ora, lui, vedendomi tornare qui così presto, non possa che pensare al peggio.
Nota il mio sorriso sereno, comunque, e si rasserena a propria volta. La presa sullo stipite ed attorno alla maniglia si fa più morbida, e tutti i suoi lineamenti si fanno meno tesi, mentre la sua espressione, da stupita e preoccupata, si fa semplicemente sorpresa, forse anche un po’ curiosa.
- Volevo chiederti se era successo qualcosa, - comincia lui, inarcando un sopracciglio, mentre si scosta dalla soglia per farmi passare, - ma a guardarti non si direbbe.
Io ridacchio un po’, entrando in casa e guardandomi intorno prima di rispondere. L’ultima volta che sono stato qui, c’era Bill che piangeva sul divano ed è stato il momento in cui ho deciso che tutto quello che avevo vissuto negli ultimi due anni non era una motivazione sufficiente per continuare a torturarmi. Ho deciso che dovevo darci un taglio, ed ho costretto tutti a farlo. Alle volte mi chiedo se sarebbe andata allo stesso modo se, invece di parlarne solo con Bill, che in quel momento era evidentemente troppo fragile e perso per contestare ciò che avevo da dire, ne avessi parlato allo stesso tempo anche con Bushido e Chakuza, prima di prendere una decisione definitiva. Probabilmente no, non sarebbe andata allo stesso modo. È una fortuna che invece sia andata così.
- No, non è successo niente, infatti. – dico, aggirandomi per la stanza con aria curiosa. Ricordo bene tutti i particolari di quel giorno, ed ogni cosa è ancora esattamente com’era allora. Sono passati tre mesi, quasi, ed è come se in questa stanza non fosse successo niente da quel giorno fino ad oggi.
- E quindi… - azzarda lui, avvicinandosi con fare circospetto, - …come mai sei qui?
Mi inumidisco le labbra, voltandomi a guardarlo. Devo dirglielo. Coraggio. Adesso glielo dico.
- Sono passato solo per un saluto. – rispondo invece. E non lo dico neanche a lui.
Bushido inarca nuovamente il sopracciglio, stavolta palesemente perplesso. È ovvio che non crede a una parola, mi conosce troppo bene per farlo. Per qualche motivo, però, non si sente abbastanza sicuro del proprio intuito da azzardare un terzo grado. Oh, riuscirebbe a tirarmi fuori di bocca qualsiasi cosa, se solo volesse, ma probabilmente non vuole. O forse non sente più di averne il diritto. Qualche anno fa si sarebbe concesso di spremermi fino al midollo anche solo per divertirsi a vedermi arrabbiato o in difficoltà, ma ora no, ora si trattiene. Abbassa lo sguardo, che è una cosa che non ha mai fatto di fronte a nessuno, tantomeno a me, e sospira.
- Ti va un caffè? – mi chiede distrattamente. Io annuisco. Potrebbe chiederlo a Karima e restare qui mentre prendo posto sul divano e continuo a guardarmi intorno come un ospite casuale, ma il fatto è che lui non vuole restare qui, per cui a preparare il caffè ci va da solo, e questo comporterà il dover bere un caffè orribile solo perché lui si sente a disagio. Quest’uomo non ha smesso di condizionare il buonumore del prossimo suo basandosi sui propri sentimenti, è evidente. La giornata era partita così bene, e invece ora mi tocca bere del caffè disgustoso.
Torna più di cinque minuti dopo, col caffè già nelle tazzine posate su un vassoio circolare in legno chiaro. Lo appoggia sul tavolino e si siede sul divano accanto a me, recuperando la propria tazzina e sorseggiando il caffè in silenzio senza guardarmi, prima di abbandonarsi a un mezzo sorriso.
- Cosa? – chiedo io, sorridendo a mia volta. Lui finalmente mi guarda.
- Mi stai prendendo per il culo. – dice con estrema tranquillità, - Questa cosa non è normale, e se dici che non è successo niente allora lo stai facendo per prendermi per il culo. Cos’è, un test? Volevi verificare che fossi davvero solo e non con Bill o chiuso in uno sgabuzzino a infierire sulle spoglie mortali di Chakuza?
Aggrotto le sopracciglia, allungandomi a recuperare la tazzina e bevendo il caffè tutto d’un fiato prima di tornare a guardarlo.
- Ti giuro che non volevo controllarti. – ribatto pacatamente, - Non mi è mai neanche passato per l’anticamera del cervello. Volevo solo salutarti.
- E perché? – insiste lui, continuando a guardarmi con calma quasi eccessiva.
Perché sto partendo, Anis. Sto partendo, ho un aereo domani mattina alle dieci e non ho prenotato il volo di ritorno, perché un volo di ritorno non ci sarà. Sto partendo e non ci vedremo più e visto che cambierò numero probabilmente non ci sentiremo nemmeno più, e volevo andare via ricordandomi bene come sei e qual è il suono della tua voce, perché non capiterà più che possa passare da casa tua a salutarti semplicemente quando mi va, e pensavo fosse giusto farlo adesso che posso ancora, anche se questo tu non puoi saperlo, e se non tiro fuori le palle al più presto non lo saprai mai.
- Perché mi mancavi. – mento. Non è vero, Anis. Sono stato bene senza averti intorno. Sono stato bene senza avere nessuno di voi intorno. Mi sono concentrato su un mucchio di cose piacevoli e la mia vita è tornata tranquilla, per lo più. Mi dispiace che l’ultima cosa che tu debba sentire da me sia una bugia, proprio tu le bugie le odi. Ma in questo momento sento di dovermi proteggere, e questo è l’unico modo che riesco a pensare.
Lui sorride intenerito, allungando una mano ad accarezzarmi una spalla. Mi ci batte sopra anche un paio di pacche.
- Anche tu mi sei mancato, Frank. – dice con naturalezza, - Magari il peggio è passato. Noi due, dico, potremmo anche ricominciare a vederci. Saltuariamente. – aggiunge giusto per mettere le mani avanti quando, probabilmente, nota il mio sguardo che si incupisce.
Mi sforzo di sorridere, battendo un paio di volte la mia mano contro il dorso della sua e poi alzandomi in piedi.
- Sì, certo. – butto lì, - mi faccio sentire io. – dico, sperando che questo basti a tenerlo ben lontano dal mio numero per almeno un paio di settimane, giusto il tempo di stabilirmi a Parigi e cambiarlo. Lui annuisce subito, precipitosamente, come volesse dare ad intendermi di non aver mai voluto imporre la propria volontà sulla mia.
- Certo. – dice, alzandosi in piedi e seguendomi mentre mi avvicino alla porta, - Certo, naturalmente. Quando vuoi, io sono qui.
Annuisco ancora, aprendo la porta.
- Stammi bene. – dico, salutandolo con un mezzo abbraccio un po’ impacciato. Lui lo ricambia altrettanto goffamente, e poi mi osserva allontanarmi lungo il vialetto, verso il cancello.
- Non sparire! – mi urla, e poi ci ripensa. – Troppo a lungo. – aggiunge. Io rido un po’.
- Non sparisco. – lo rassicuro, ed è una menzogna anche questa. E visto che è proprio l’ultima cosa che gli dico, me ne vado in fretta, per non cedere alla tentazione di tornare indietro, dirgli tutto e poi implorarlo di darmi anche solo un motivo per restare.
*
Chakuza non risponde al citofono, ma contrariamente a Bill non possiede un fratello con una cotta per il sottoscritto che io possa chiamare per informarmi sul suo stato di salute e sulla sua presenza fra gli esseri umani, perciò dopo dieci minuti attaccato al campanello mi rassegno, recupero il cellulare e lo chiamo. L’idea di parlare con lui senza un filtro in mezzo mi spaventa un po’. Voglio dire, quando mi sono presentato da Bill lui sapeva già che sarei arrivato perché avevo parlato prima con Tom, e quando ho visto Bushido lui sapeva già che ero io perché mi aveva visto sul videocitofono, ma il telefono? È una cosa completamente diversa. Quando ti chiamano tu vedi il numero sul display, ma la chiamata è già in atto, hai pochissimi secondi per decidere se vuoi rispondere o meno, e quando a chiamare non è qualcuno che ti aspetti può diventare una paranoia non indifferente.
Immagino che sia per questo che a rispondere Chakuza ci mette le ore. Squilla almeno dieci volte prima che lui si decida a schiacciare il pulsante e sputacchiare un “pronto…?” totalmente confuso e anche un po’ spaventato.
- Ehi. – dico io sorridendo, cercando di suonare il più a mio agio possibile. Chakuza boccheggia per qualche istante.
- Fler? – chiede con sorpresa palese. Ha visto il mio nome, dovrebbe sapere che sono io, dovrebbe saperlo anche senza bisogno che glielo confermi, visto che ormai ha anche sentito la mia voce, ma l’eventualità che potessi chiamarlo doveva essere così remota, nella sua testa, da obbligarlo a domandare ancora, per esserne proprio certo.
- Già. – annuisco, - Ero passato da casa tua, ma non risponde nessuno, perciò immagino tu non ci sia. Dove sei finito?
Lui esita per una buona quantità di secondi, prima di rispondere.
- In Austria. – confessa quindi, - Alla fattoria dei miei.
Esito anch’io, mentre me lo vedo chiarissimo a tenere il cellulare fra l’orecchio e la spalla perché ha le mani impegnate a mungere una vacca.
- …in Austria? – domando sconvolto, - Ma sul serio?
Lui ride un po’, passando il cellulare da un orecchio all’altro e dimostrando perciò di non stare mungendo alcuna vacca.
- Sì. – risponde, sensibilmente più tranquillo rispetto a poco fa, - Ho pensato di prendermela qui, la mia pausa. Si sta bene, c’è un bel tempo, tanto sole e il giusto freschetto. Tu che mi dici?
Per un po’ non dico proprio un bel niente, perché scoppio a ridere. Oggi non l’ho ancora fatto, ed è una sensazione bellissima. Mi prende a tutto il corpo, mi piego in due e rido così tanto che comincia a farmi male lo stomaco, ma non è un dolore fastidioso. Un bel tempo, tanto sole e il giusto freschetto, Chakuza? Oh, Dio.
- Niente di che. – rispondo quindi, mentre lo sento borbottare rumorosamente dall’altro lato della cornetta, - Stavo solo… in Austria, Chaku, ma tu non sei mica a posto con tutte le rotelle! – dico, impossibilitato a trattenermi oltre, e riprendo a ridere come se non avessi mai smesso.
- Di’ un po’, ma lo sai che per prendermi per il culo stai spendendo un sacco di soldi? – mi fa notare lui, sempre con quel borbottio offeso che me lo fa immaginare già vecchio e con un’enorme barba bianca e la pipa in bocca. E la testa lucida, sempre.
- Sì, lo so. – dico, mentre l’accesso di risate comincia piano piano a placarsi. Mi rimetto dritto, asciugo una lacrima dall’angolo dell’occhio e penso che glielo voglio proprio dire, a Chakuza, che sto partendo. Non so perché, ma voglio farlo. – Volevo salutarti, - dico quindi, e per un attimo non riesco a credere che lo sto facendo davvero, - domani parto.
Chakuza si congela all’istante. L’atmosfera era rilassata fino a meno di un secondo fa, ma è bastato dire che sto partendo perché lui cambiasse subito atteggiamento e, immagino, anche disposizione nei confronti della vita in generale. Il fatto è che Chakuza è uno cui non devi mai togliere le sue certezze. Ne ha già poche, e quando gli togli pure quelle è il panico. Perciò lui è fuggito in Austria per non dovere avere a che fare ogni giorno col pensiero di essere a Berlino e non poter posare gli occhi su me o su Bill, ma non gli è mai passata per la mente la possibilità di tornare a Berlino e sapere che io o Bill – o perfino Bushido – non eravamo più lì. È come dirgli “guarda, finché sei là sui monti con Annette dove il cielo è sempre blu il sole continuerà a sorgere pacifico ogni mattina, ma quando sarai tornato a Berlino non aspettarti che continui a farlo, perché qui il sole non sorge più”. È una cosa completamente priva di senso che lui non riesce ad accettare, e probabilmente immagina che non l’avrei chiamato se fosse stato un breve viaggio, e cioè se avessi immaginato che per il suo ritorno sarei già abbondantemente tornato anch’io.
- Come sarebbe a dire che parti? – chiede allarmato, - Dov’è che vai?
All’improvviso, non ho più tanta voglia di parlargliene. Il suo tono apprensivo è di quelli che da soli sarebbero capaci di farmi promettere tutto e il contrario di tutto, pur di non sentirglielo più addosso. Non vado da nessuna parte, Chaku. Da nessuna parte.
- In realtà è una cosa temporanea. – abbozzo distrattamente, - Sono giusto un paio di settimane.
- Dove? – chiede subito lui, insoddisfatto.
- In un posto non lontano da qui, - invento di sana pianta, - un agriturismo. Ho avuto un po’ di problemi con Sido, ultimamente, e quindi abbiamo pensato di andare qualche giorno in vacanza, lui si porta dietro tutta la famiglia e andiamo in questo posto dove mangeremo bene e faremo lunghe passeggiate e la vita ci sembrerà più semplice e potremo risolvere tutti i problemi che abbiamo.
Lui mugugna un assenso indefinito, mentre io penso che non è neanche una cattiva idea, questa dell’agriturismo. Se avessi più tempo, probabilmente correrei all’Aggro adesso per proporglielo. Abbiamo avuto un po’ di scontri per questa questione di Nyze, ultimamente, ma resta uno che mi è sempre rimasto accanto, perfino in momenti in cui nemmeno Bushido ha voluto farlo. Mi dispiace non avere il tempo di salutarlo, mi dispiace che sia già tardi e mi dispiace pensare che in realtà anche questa telefonata è durata fin troppo. Devo darmi una mossa, fra poco Danny sarà a casa. Non ho più tempo davvero per niente, lo sto risparmiando tutto per averne il più possibile da domani in poi, quando il futuro mi si aprirà tutto davanti agli occhi in un posto nuovo e potrò ricominciare da zero. Alle volte sembra una cosa così faticosa da fare, mentre altre volte ancora è l’unica cosa che vuoi davvero. È l’unica cosa che voglio io adesso, almeno, e tanto mi basta.
Faccio per dirgli che, appunto, non ho più tempo, e quindi arrivederci e grazie, ma lui me lo impedisce, mettendosi a parlare all’improvviso.
- Volevi vedermi? – chiede serio, - Se sei passato da casa mia, immagino volessi vedermi. Posso essere a Berlino per domani alle nove, se vuoi.
Mi mordo un labbro. Se gli dicessi di sì adesso, avrei tutto il tempo, domani mattina, per vedere lui e poi partire comunque. Sempre che, dopo averlo visto, voglia ancora farlo. Ci rifletto, ci rifletto a lungo e per tutto il tempo mi dico da solo che non è una cosa veramente fattibile, che non dovrei neanche starci a pensare. Devo lasciare perdere, devo proprio, decisamente lasciare perdere. Alla fine, è solo amore. Quanta gente s’innamora, ogni giorno? Milioni di persone incontrano una persona e si innamorano, continuamente, è una cosa che si ripete all’infinito perché milioni di persone, continuamente, si lasciano anche. Non è niente di che. Me lo ripeto con convinzione. Non è niente di che.
- No, davvero. – sorrido, - Ero solo passato per un saluto. Goditi il tuo bel tempo, il tuo sole e il tuo freschetto, Chaku. Noi ci si becca appena torni.
Lui mugugna qualcosa che non capisco.
- Sarai lì, quando tornerò, giusto? – chiede per esserne certo.
Mento anche a lui. Mi pesa meno di quanto dovrebbe.
*
Danny torna a casa portando con sé due tranci di pizza di dimensioni enormi. Ogni pezzo di wurstel ha un diametro più ampio di quello del mio pollice. Posa il vassoio sul tavolo con un certo orgoglio, guardandomi con evidente soddisfazione mentre si siede e comincia sistematicamente a rubare tutti i wurstel da entrambi i pezzi di pizza.
- E questi? – chiedo, indicando il tutto con perplessità palese. Lui scrolla le spalle.
- Avevo voglia di un pranzo veloce. – risponde.
- E avevi anche soldi da buttare, immagino. – borbotto, mettendo automaticamente mano al portafogli per restituirgli tutto, - Quanto hai pagato?
- Neanche un centesimo. – dice lui, sorridendo candidamente, - Ho fatto addebitare tutto sul tuo conto, non ho neanche chiesto quant’era. Ho preso anche un paio di lattine di Coca, ma quelle le ho bevute entrambe in metro mentre venivo qui. – conclude annuendo, - Avevo sete.
- Ti si sarà bucato lo stomaco. – considero inarcando un sopracciglio, - Bene, quindi domani mattina fra le altre cose dovrò svegliarmi all’alba per passare dal fornaio a saldare il conto, prima di partire.
Daniel si ferma immediatamente, un wurstel ancora fra le dita e lo sguardo un po’ perso.
- Parti? – chiede quindi, simulando indifferenza. Riesco a sentire la tensione sottile nella sua voce, e ne sorrido.
- Aspettami qui. – gli dico, girando attorno al tavolo ed uscendo in corridoio. Vado fino all’ingresso e tiro fuori la busta coi biglietti dalla tasca del giubbotto appeso all’attaccapanni, e quando mi volto per imboccare il corridoio a ritroso lo trovo lì affacciato dalla porta della cucina che mi fissa con curiosità. – Ti avevo detto di aspettarmi lì. – ridacchio avvicinandomi e spingendolo nuovamente all’interno della stanza semplicemente avanzando verso di lui.
- Infatti ti ho aspettato qui. – annuisce lui, sedendosi mentre mi osserva fare lo stesso. – Che c’è in quella busta?
Prendo un gran respiro, aprendola e tirandone fuori i due biglietti per Parigi. Lui me li ruba dalle mani, guardandoli incerto. Nota subito che su uno dei due c’è stampato il suo nome.
- Non ti sto chiedendo niente. – mi affretto a rassicurarlo, - L’ho fatto solo nel caso tu volessi.
Lui resta zitto per qualche secondo, ma è un’esitazioni che sembra durare secoli. Mi sento sfuggire il tempo da sotto le dita mentre aspetto che dica qualcosa, e so che è così solo perché ciò che aspetto di sentirmi dire è la cosa più importante che abbia atteso negli ultimi mesi. È così fondamentale che da questo dipende tutta la mia vita, tutto il mio futuro. Io andrò via comunque, ma sarà diverso farlo da solo o farlo con Danny.
- …non c’è scritta la data di ritorno. – dice quindi, deglutendo forzatamente. Mi guarda dritto negli occhi, solo che non capisco cos’è che vorrebbe sentirsi dire in questo momento, per cui opto per l’unica cosa certa che so, cioè la verità.
- Sì, non c’è una data di ritorno. – dico tutto d’un fiato, - Mi sto trasferendo, Danny. È la prima volta in vita mia che non mi sento a posto con questa città, e non ci voglio più stare. Mi rendo conto di quanto sia infantile, cioè, a volte mi sembra infantile, a volte no, in questo momento sì, ma stamattina no, e nemmeno quando facevo il biglietto, ma non cambia la sostanza dei fatti che io qui non ci voglio stare più, e mi trasferisco. E sarei felice se tu volessi venire con me, ma ti capirò se non vorrai.
Lui fa un’altra pausa, torna a scrutare i biglietti, se li rigira fra le mani.
- Sono per domani alle dieci e mezza… - sussurra incerto.
- Lo so. – annuisco io, - È una cosa improvvisa, ti sto chiedendo di prendere una decisione molto in fretta. Ma ehi, guarda che non c’è niente di definitivo, nella vita, voglio dire, magari arrivo là e i francesi mi stanno tutti sul cazzo a pelle. O magari no, ma se non ti va di venire subito puoi restare e fra una settimana o due o tre o quando vuoi non ci metto niente a farti avere un biglietto per raggiungermi, intendo, non sto mica andando in Patagonia, la Francia non è così lontana da qui, e—
- Non avrò il tempo di tornare a casa a prendere la mia roba. – dice lui, interrompendo il mio fiume di parole confuso ed anche vagamente privo di senso. Lo guardo.
- Cosa? – chiedo.
- Non avrò il tempo di tornare a casa a prendere la mia roba. – ripete Daniel, - È sabato, mio padre starà lì tutto oggi e tutto domani e se mi vede arrivare è capace di rinchiudermi fino a lunedì. Se vado, rischio di non tornare in tempo.
Continuo a guardarlo, perché non sono sicuro di aver capito bene.
- Stai dicendo che vuoi venire? – chiedo per sicurezza. Devo suonare come un perfetto imbecille, in questo momento.
- Sto dicendo che non potrò passare a casa mia a prendere la mia roba. – ripete lui, per la terza volta in meno di cinque minuti, aggrottando le sopracciglia mentre le guance gli si colorano appena. - …immagino che questo implichi che sì, voglio venire. Ma non avrò niente da mettere.
Trattengo il respiro per qualche secondo, alzandomi in piedi. Non gli dico di aspettarmi qui, tanto so che non lo farebbe in ogni caso, ed esco nuovamente in corridoio, dirigendomi stavolta verso lo sgabuzzino. Ne apro la porta e mi chino a recuperare lo zainetto nuovo ancora abbandonato in un angolo. Lo apro, ne tiro fuori le due magliette ancora avvolte nella plastica. Mi volto e Danny è esattamente davanti a me. Mi guarda e i suoi occhi sono macchiati d’incertezza e di un pizzico di paura.
Sventolo le magliette davanti al suo viso.
- Non è molto, ma per un paio di giorni ti dovrebbero bastare. – dico. Non so neanche che espressione dovrei avere in questo momento, è tutto così surreale. – Poi andremo a comprare qualcos’altro.
Daniel mi guarda ancora, a lungo. È palese che nemmeno lui sa che espressione dovrebbe avere. Poi mi afferra il viso fra le mani, così improvvisamente che io quasi indietreggio spaventato, e mi si avvicina, schiacciando le proprie labbra contro le mie. Mentre mi bacia con forza, sorride. E allora sorrido anch’io.
*
Pierre viene a prenderci all’aeroporto, qualcosa che non mi aspettavo ma che dopotutto mi fa piacere. Lo riconosco perché tiene dritto sulla testa un cartello col mio nome sopra, e lo agita elegantemente a destra e a sinistra per farsi notare. Le sue labbra si aprono su due file di denti bianchissimi e perfetti, i capelli ricci che incorniciano il volto dai lineamenti fini ed eleganti e gli occhi scuri ma brillanti danno l’impressione di avere davanti un ragazzo che ci sa fare, tutto sommato. Per qualche ragione, lo immaginavo più o meno così. Forse, avendo ben presente David Jost e gli esseri umani coi quali normalmente si accompagna, non avrebbe potuto essere niente di diverso.
- Ma è un tuo ex? – butta lì Daniel, indicandolo distrattamente. Gli schiaffeggio la mano.
- È maleducato indicare le persone. – lo rimprovero arrossendo, mentre lui borbotta un “ahi” risentito e si massaggia la mano dolente, - Comunque no, non l’ho mai visto prima di questo momento. E sforzati di parlare in inglese, non è carino parlare in una lingua che lui non conosce.
- Se sapevo che ti trasformavi in mio padre appena valicato il confine, me ne restavo a Berlino. – sbotta Daniel, facendomi una linguaccia. Io sospiro e sollevo gli occhi al cielo, e decido saggiamente di ignorarlo.
- Ohilà! – ci saluta Pierre, mettendo via il cartello e sorridendo amabilmente, - È un piacere incontrarvi, finalmente. Davìd mi ha parlato a lungo di voi. A proposito, come sta? Sta ancora con Antonio, quel pizzaiolo che aveva conosciuto a Ibiza? O aspetta, quello era stato prima o dopo Jean-Jacques? – si interrompe un attimo, grattandosi il mento. Parla un inglese simpatico, ha un accento fortissimo ma ogni tanto sembra che lo forzi apposta, è divertente. – Forse però venivano entrambi prima di Samuel, mi sbaglio?
Io ridacchio, stringendomi nelle spalle.
- Non ficco il naso nella vita privata di Jost, usualmente. – rispondo. Danny, accanto a me, studia Pierre con attenzione e a un certo punto indica il cappotto scamosciato beige che indossa e sbotta “ma che razza di colore sarebbe quello?!”. Io sollevo nuovamente gli occhi al cielo.
Pierre inarca un sopracciglio, guardandolo, ma sorride con aria indulgente quando i suoi occhi tornano a posarsi su di me.
- Se sei fuggito dalla Germania per evitare che ti accusassero di molestie su minori palesemente incapaci di intendere e di volere, devo avvertirti che non è che qui in Francia ci si vada giù meno pesantemente, su questo tipo di crimini.
Danny scoppia a ridere, dimostrando di comprendere perfettamente l’inglese e, perciò, di stare continuando a parlare in tedesco solo per sfregio.
- Exactement. – risponde al posto mio. Mi volto a guardarlo con aria palesemente offesa. – Cosa? – chiede lui, candido, - Studiamo francese a scuola.
Pierre ride divertito, battendomi una pacca sulla schiena.
- Spero per te che sia il tuo fratellino minore o un cuginetto che hai portato in vacanza, e non il tuo ragazzo davvero, perché altrimenti… come dire. – ride un’altra volta, stringendosi nelle spalle, - Buona fortuna.
Sospiro, abbattendomi un po’.
- Sì, mi sa che ne avrò bisogno. – brontolo mentre Danny, improvvisamente al settimo cielo, si sporge a lasciarmi un bacio un po’ umido e vagamente appiccicoso su una guancia. Che il cielo mi aiuti.
*
L’albergo è bellissimo, e mi viene un po’ da ridere quando, una volta rimasti soli in camera, Danny mi spinge sul letto. Sento il materasso cedere dolcemente sotto il nostro peso, accoglie i nostri corpi in un abbraccio morbido e tiepido ed al tatto sembra completamente diverso dal mio a casa, che è durissimo e, anche se l’abbiamo usato più spesso, ultimamente, non s’è mai abituato davvero a noi. O a me.
- Senti che buon profumo… - mugola Danny, scivolando oltre il mio collo ed affondando il naso fra i cuscini. Rido avvolgendolo fra le mie braccia e ribaltandolo sul materasso mentre lui ride a sua volta, schiudendo le gambe per farmi posto.
- Concentrati. – lo rimprovero sorridendo, - Siamo nella città dell’amore e tu ti perdi dietro al profumo delle lenzuola?
- Be’, è buono. – scrolla le spalle lui, fingendo indifferenza, ma il sorriso che piega le sue labbra è il riflesso identico di quello che piega le mie. Sollevo un braccio, ridendo come un bambino, come se io e lui avessimo la stessa età e fossimo amici e stessimo giocando, o come se fossimo due stupidi liceali che si piacciono e non sono ancora riusciti a dirselo, e sfilo un cuscino da sotto la sua testa, schiacciandoglielo con forza sul viso.
- È buono? – lo prendo in giro, facendogli il solletico e sentendolo dimenarsi sotto di me in preda agli spasmi e alle risate, - Allora? È buono?
- Lasciami! Lasciami! – dice lui a corto d’aria, sgambettando a casaccio ed agitando le mani alla cieca nel tentativo di allontanarmi. Lo torturo ancora per qualche secondo, prima di togliere di mezzo il cuscino e chinarmi sulle sue labbra. Non aspetto che abbia ripreso fiato, prima di baciarlo, e il risultato è che comincia prestissimo ad ansimare fra le mie labbra, ed i respiri che gli escono dal naso sono affrettati, irregolari, caldi e un po’ affannosi. Mi scorre un brivido lungo tutta la schiena mentre le sue mani trovano spazio fra i nostri corpi e mi afferrano saldamente per la felpa, aggrappandovisi prima e strattonandola con forza subito dopo.
Mi allontano, poggiando la mia fronte contro la sua e guardandolo mentre riprende fiato, le ciglia bionde che tremano appena, la luce gialla e calda dell’abat-jour sul comodino che ne proietta le ombre sulle sue guance un po’ scavate e arrossate dalla fatica e dai movimenti concitati di poco fa. Il cuore gli batte così forte che me lo sento rimbombare nel petto. Ha un suono molto simile al mio. È così felice che le labbra gli si piegano in un sorriso appena accennato, spensierato, irreale. Gli scorre felicità addosso in scariche elettriche che mi fanno bruciare la pelle. Penso che voglio restare qui con lui per sempre.
Lo bacio ancora, stavolta con più calma, e lui mi allaccia al collo, schiacciandosi con forza contro di me e strusciando il bacino contro il mio in movimenti lenti e regolari che mi fanno impazzire. Alle volte, gli capita di riuscire a controllarsi molto meglio di quanto mi controlli io. Sono quei momenti in cui mi rendo conto che in degli istanti precisi io e lui come coppia sfioriamo davvero la perfezione a livello di intesa, e per me sono momenti miracolosi, alle volte quando ci penso mi viene da piangere perché non mi sono mai sentito così con nessuno. Ho avuto delle relazioni meravigliose con quasi tutte le persone con cui sono stato, ma questa è la prima volta che mi capita di pensare all’eternità di una vita insieme come a qualcosa di possibile, qualcosa che sia plausibile da costruire, e non sulla quale si possa a malapena sognare ad occhi aperti, e solo correndo il rischio di sentirsi molto ridicoli una volta tornati alla realtà.
Per Daniel non è niente di speciale: io sono il primo di cui s’innamora, ed è stato fortunato a trovare subito questo tipo di connessione. Se davvero fra noi due non dovesse finire mai, fra quaranta, cinquanta, sessant’anni, morirebbe pensando all’amore come a ciò che l’ha reso completo sempre. Mi riempie di orgoglio, in qualche modo, avere la possibilità di essere l’unica persona che amerà per tutta la sua vita. Mi fa quasi venire voglia di dimenticare tutte le persone che invece ho avuto io, per potermi illudere di avere amato e voluto solo lui allo stesso modo.
Forse è per questo – per compensare, o per cancellare, o perché ci sta con la testa più di me, o magari semplicemente perché sento che ne ha voglia e voglio accontentarlo – che quando si allontana da me e mi sussurra sulle labbra di girarmi obbedisco. Mi stendo sullo stomaco, appoggiando il viso al cuscino e respirando profondamente mentre mi rilasso e lascio che mi spogli, mi accarezzi e mi afferri con urgenza per i fianchi, avvicinandosi a me così tanto che sento tutto il suo corpo aderire perfettamente alla curva della mia schiena. Perde le gambe fra le mie, mi morde con forza una spalla, io chiudo gli occhi e mi permetto di smettere di pensare. Mi fido abbastanza di Danny da lasciargli la responsabilità di farlo per entrambi, almeno per la prossima mezz’ora.
*
Parigi è bellissima, o forse mi sembra bellissima solo perché avevo una gran voglia di scappare da Berlino. Probabilmente, se io e Danny ci fossimo trasferiti in un qualche paesucolo sperduto sull’Appennino italiano, o un qualche borgo marittimo abitato da cento anime sulla costa portoghese, l’avrei trovato meraviglioso lo stesso. In ogni caso non importa, sono minuzie cui posso permettermi di non pensare. È un lusso che sto riscoprendo da quando non vivo più in Germania, e mi piace tantissimo.
Le prime due settimane le passiamo da turisti. Compriamo una cartina e tre guide che ci sembrano diverse ma alla fine scopriamo essere uguali ma edite in tre anni differenti (anche se forse i titoli – Come muoversi a Parigi 2008, Come muoversi a Parigi 2009 e Come muoversi a Parigi 2010 – avrebbero dovuto darci qualche indizio a riguardo), ed andiamo in giro come cani sciolti, un po’ a caso. Finiamo in un sacco di casini perché io non conosco la lingua e anche Danny, nonostante tutto il suo bullarsi, oltre ad exactement sa dire giusto bon jour, bonsoir e bonne nuit, per cui ci perdiamo regolarmente almeno una volta al giorno ed è Pierre a venirci a recuperare in macchina, sempre sorridente e sempre disponibile, indipendentemente dal luogo in cui siamo finiti e da quanto ci siamo allontanati dalle zone in cui lui ci ha consigliato di rimanere.
A mostrarci gli appartamenti è Bertrand, il ragazzo di Pierre. Inizialmente mi stupisce che abbia un ragazzo, un po’ perché l’ho vagamente identificato come un David Jost con la r moscia e David Jost difficilmente ha un ragazzo che possa permettersi di chiamare ragazzo, appunto, o almeno, io non l’ho mai visto andare in giro con nessuno in questo senso, però poi mi rendo conto che mi sto facendo problemi idioti su un qualcosa di idiota, che alla fine sono lì col mio ragazzo anch’io e non dovrebbe stupirmi di sapere che hanno un ragazzo anche il panettiere, il giornalaio e il salumiere all’angolo della strada.
Appartamenti ne vediamo un bel po’, ma nessuno ci convince. Vogliamo un posto bello grande in cui stare, io voglio rimettermi in carreggiata quanto prima, voglio lavorare, voglio uno studio di incisione e lo voglio in casa, ma per un motivo o per l’altro nessuno degli appartamenti che controlliamo sembra quello adatto, almeno fino ad oggi.
Bertrand si sistema gli occhiali dalla montatura spessa e nera sul naso ed appende una mano al fianco, sporgendolo appena mentre, con un ampio cenno della mano libera, ci mostra l’enorme sala rettangolare che sta esattamente al centro dell’appartamento che stiamo visitando. È del tutto indipendente dal corridoio che porta alla cucina ed alla camera da letto, ed ha un’enorme vetrata scorrevole su una parete. Dà sulla strada che si agita trafficata dodici piani sotto di noi, ma è perfettamente insonorizzata, non arriva neanche una minima parte del trambusto di fuori.
- La proprietaria precedente la usava come palestra. – dice, indicando il parquet un po’ ammaccato in qualche punto che ricopre il pavimento, - Era abituata a mettere la musica a volume altissimo durante le lezioni di step che faceva con qualche amica. Nessuno degli altri inquilini della scala s’è mai lamentato della confusione. Mi sembra—
- Perfetta. – conclude Daniel per tutti, lanciando attorno a sé un’occhiata sognante. – Bertie, ci porti a vedere la terrazza? – dice quindi, quasi saltellando sul posto.
Mentre Bertrand – che ormai Danny chiama Bertie perché sono settimane che, poverino, lo costringiamo a girare la città in cerca di appartamenti sempre più belli da mostrarci, e ormai siamo di famiglia, per così dire – ci accompagna lungo il corridoio e fino alla terrazza, Daniel allunga una mano all’indietro ed intreccia le dita con le mie. Sorrido mentre ripenso a quando, un paio di giorni fa, gli ho chiesto se si rendesse conto del fatto che stavamo andando a vivere insieme. Lui mi ha guardato con stupore non simulato, sbattendo un paio di volte le palpebre e inumidendosi le labbra. “Fler,” mi ha detto, “guarda che in pratica noi viviamo insieme ormai già da un paio di mesi.” Ed è vero, ha ragione, e io adoro questa sua praticità così tremendamente infantile, ma c’è una sostanziale differenza fra il fatto che noi vivessimo insieme prima e il fatto che stiamo andando a vivere insieme adesso. Quello è capitato. Questo lo stiamo volendo.
Mentre usciamo in terrazza e Parigi si apre splendente sotto di noi nel sole accecante di fine luglio, penso che mi basta essere custode di questa differenza da solo. Non c’è bisogno che la noti anche Danny. Fra qualche tempo, tutto ciò sarà così naturale che smetterò di pensarci anch’io.
*
Quando, quasi un mese dopo, il mio vecchio cellulare squilla, in un primo momento non lo riconosco nemmeno. Da quando sono partito, nessuno ha mai chiamato a quel numero. Alla fine ho comprato un cellulare nuovo per la scheda francese, e quella vecchia l’ho lasciata in questo, che però è stato quasi del tutto dimenticato. L’ho sempre tenuto acceso, e carico, ma più che altro pensando alla possibilità che mia madre potesse ritrovarsi ad aver bisogno di chiamarmi all’improvviso e non avesse a portata di mano il nuovo numero, che fatica ad imparare. Non ne ha mai avuto bisogno, però, ci siamo sentiti regolarmente e non mi sono mai arrivate chiamate improvvise o inaspettate. E la verità è che ho dimenticato la suoneria, tant’è che quando squilla ipotizzo sia il cellulare di Danny e mi chiedo perché invece l’abbia cambiata lui, visto che va matto per Love The Way You Lie e ha giurato e spergiurato per una settimana intera che l’avrebbe tenuta per sempre. In realtà io sospetto che gli piaccia Rihanna e basta, perché Love The Way You Lie fa schifo e io mi rifiuto di accettare che qualcuno possa apprezzarla e allo stesso tempo apprezzare anche la mia musica o il resto della produzione dell’Aggro. Poi in effetti dovrebbe darmi anche da pensare il fatto che uno che viene a letto con me poi possa farsi piacere anche Rihanna, ma per quanto la questione sia degna di attenzione io non riesco a fornirgliela, perché Daniel, semiaddormentato contro la mia spalla sul divano nella luce azzurrognola che viene dalla televisione, mugugna “che fai, non rispondi?”, e io mi volto a guardarlo con aria sinceramente curiosa.
- Ma non è il tuo? – gli chiedo, e lui si volta e struscia il muso contro il mio braccio, brontolando piano.
- No che non è il mio, coglione. – sbotta quindi, sbilanciandosi dall’altro lato ed accovacciandosi contro il bracciolo, - È il tuo vecchio cellulare. Vai a rispondere, o spegnilo, non riesco a seguire il film.
- Non riesci a seguire il film perché stai dormendo in piedi… - gli faccio notare, mettendomi comunque dritto ed avviandomi verso il corridoio, - Perché non vai a letto?
- Non rompere. – biascica lui, ed è l’ultima cosa che sento prima di avvicinarmi alla suoneria abbastanza da non sentire più nient’altro. La riconosco adesso, è proprio la mia. Il cellulare s’illumina a tratti e vibra, appoggiato sul cassettone d’ebano in camera da letto, davanti a una foto stupida che io e Danny ci siamo fatti scattare da un turista giapponese di fronte a Versailles. È stato più facile comunicare con lui che non con un parigino a caso.
Il display mi dice che è Bushido a chiamarmi, ma deve essere una bugia. Perché dovrebbe farlo? Io sono a Parigi.
E lui però non lo sa.
Rispondo in fretta, allarmato. È la prima volta in due mesi che penso a quello che mi sono lasciato indietro senza aver trovato le palle di dire a nessuno che lo stavo facendo.
- Fler! – mi chiama immediatamente lui, quando mi sente rispondere, - Cristo, ci hai messo i secoli… stai bene?
- Che? – sbotto stupito, - Certo che sto bene. È successo qualcosa?
- Diosanto— ma dove cazzo sei? – continua risentito, - Cazzo, la prossima volta fammi aspettare due ore, d’accordo? Cristo, non hai idea di quello che mi è passato per la testa. Si può sapere dove cazzo sei?!
- Si può sapere cosa cazzo è successo?! – insisto polemico, aggrottando le sopracciglia. Lo specchio rettangolare appeso di fronte a me mi rimanda l’immagine di un uomo teso e sulla difensiva. Mi sento minacciato. Lo riconosco senza difficoltà.
- Ho ricevuto una chiamata anonima. – mi spiega lui, - Qualcuno dei miei è in pericolo, ma non ho ancora capito chi. Almeno adesso so che non sei tu. Muovi il culo e raggiungimi, sto andando nella zona dei vecchi magazzini in periferia. Ci troviamo lì.
Sento che sta per interrompere la conversazione senza che io sia riuscito e dirgli niente di quello che dovrei dirgli, e lo fermo.
- Anis! – lo chiamo all’improvviso, e lui s’interrompe. Scommetto che aveva già il pollice sul pulsante. – Anis, di cosa cazzo stai parlando? – chiedo. Sono via da Berlino e non ho letto né sentito niente a riguardo, nelle ultime settimane. Potrebbe essere scoppiata la guerra e non lo saprei.
Lui inspira profondamente.
- Te lo dico appena ci vediamo. – cerca di tagliare corto.
- No, Anis. – lo interrompo, inspirando profondamente a mia volta. - …io sono a Parigi. – butto fuori in un fiato, stringendo convulsamente il telefono fra le mani. Lui rimane immobile e silenzioso per quasi un minuto. Non sembra neanche respirare. Penso ai soldi che sta spendendo per chiamarmi, non per i soldi in sé ma perché mi irriterebbe se gli restasse il cellulare a secco e la chiamata s’interrompesse proprio adesso. – Anis? – lo chiamo, cercando di riscuoterlo. Vorrei obbligarmi a smettere di chiamarlo per nome, ma non ci riesco.
- Che cazzo vuol dire? – sputa fuori a fatica, - Che ci fai a Parigi?
- …mi ci sono trasferito. – rispondo. Il mio tono di voce è basso e cupo. Colpevole. Mi vergogno molto perché non mi ci sento ma sto controllando la voce in modo da sembrarlo. – Da un paio di mesi. Scusa se non te l’ho detto—
- Scusa se non te l’ho detto?! – ripete lui, sconcertato, - Fler, ma scherzi? – chiede speranzoso. Io deglutisco a fatica. Non riesco a rispondere. – Non scherzi. – si risponde quindi da solo, - Fler, ma come ti è saltato in mente…? – comincia, e poi forse si rende conto anche lui del tempo che passa e dei soldi che vanno via, perché riprende a parlare a macchinetta, per fare più in fretta possibile. – Lascia perdere, - dice, - mi spiegherai quando sarai tornato. Ti voglio sul primo aereo domani mattina, capito, Frank? La situazione è complicata e mi servi qui. D’accordo? A domani.
Sento che prova a interrompere la conversazione una seconda volta, ed una seconda volta io lo chiamo, perché non posso lasciarglielo fare. Non posso dirgli d’accordo, perché non prenderò nessun aereo. Non potrò spiegargli niente quando ci vedremo, perché non accadrà. Io non tornerò in Germania. Sicuramente non adesso e probabilmente mai più.
- Anis… - lo chiamo ancora, e lui ha un fremito. – No. – concludo quindi, - Mi sono trasferito qui per restarci. – accarezzo per un attimo la possibilità di parlargli anche di Danny, ma stabilisco che non è il caso prima di affezionarmi troppo all’idea. Ci sarebbe troppo da dire, troppo da spiegare, e tutto considerato forse è meglio che lui non sappia. – Mi dispiace, - continuo, - ma non torno. Non— hai sicuramente qualcun altro su cui contare, in questo momento. D’altronde, - sorrido appena, - hai fatto a meno di me a lungo. Puoi ricominciare.
- Fler… - comincia lui, con tono polemico, ma si sgonfia quasi subito. Forse è qualcosa nel mio tono di voce, ad abbatterlo. Forse, semplicemente, si rende conto di non poter rispuntare nella mia vita dopo due mesi di silenzio ed aspettarsi che io sia pronto a corrergli dietro come avessi ancora quattordici anni. – Vaffanculo. – conclude quindi. Non sono sicuro se l’insulto sia rivolto a me o alla situazione generale. Per la verità ci rimango un po’ male, e guardo il telefono con aria torva quando lo allontano dall’orecchio.
Il display si oscura dopo qualche secondo, e spegnere il cellulare per me diventa una conseguenza ovvia. Lo spengo, lo apro, ne tiro fuori la scheda, lo richiudo e poi lo conservo nel primo cassetto, sotto i calzini. Non so esattamente perché lo sto facendo. O forse sì ma non voglio dirmelo perché mi sentirei malissimo.
Ritorno in salotto pensando che domattina dovrò chiamare mia madre per avvertirla che ho bloccato la scheda col vecchio numero, perciò si affretti a imparare il nuovo e non faccia troppe storie. Danny è ancora accucciato sul divano, sonnecchiante esattamente com’era quando l’ho lasciato. Si arrotola immediatamente al mio fianco appena mi sente sedermi accanto a lui.
- Chi era? – mormora, la voce impastata di sonno e gli occhi chiusi. Lo stringo a me, mentre sul televisore scorrono i titoli di coda del film che stavamo fingendo di guardare.
- Hanno sbagliato. – rispondo sovrappensiero. So che, se fosse solo un po’ più lucido, mi chiederebbe com’è possibile restare al telefono per più di dieci minuti con qualcuno che ha sbagliato numero. Fortunatamente, lui già dorme. Il dvd s’interrompe e si oscura anche lo schermo della tv. La stanza piomba nel silenzio. Daniel respira quieto al mio fianco, io sto bene ma non ho il coraggio di muovermi.
Mi sa che stanotte dormiamo sul divano.

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